La gloria e l'addio

di Aledileo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo: Post-mortem ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo: Una vita insieme ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo: Prima di partire. ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto: Il giorno dell'ira ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto: L'ultima guerra. ***
Capitolo 7: *** Capitolo sesto: Ombre dal passato. ***
Capitolo 8: *** Capitolo settimo: Primo interludio. Fuoco. ***
Capitolo 9: *** Capitolo ottavo: Vecchi amici, nuovi nemici. ***
Capitolo 10: *** Capitolo nono: Ruggiti di guerra. ***
Capitolo 11: *** Capitolo decimo: La tempesta si scatena ***
Capitolo 12: *** Capitolo undicesimo: Eroi di mille battaglie. ***
Capitolo 13: *** Capitolo dodicesimo: Caccia furiosa. ***
Capitolo 14: *** Capitolo tredicesimo: Missione impossibile. ***
Capitolo 15: *** Capitolo quattordicesimo: Secondo interludio. Aria. ***
Capitolo 16: *** Capitolo quindicesimo: Vendetta. ***
Capitolo 17: *** Capitolo sedicesimo: L'amico di un tempo. ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciassettesimo: Bronzo, Argento e Oro. ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciottesimo: Alle porte della notte. ***
Capitolo 20: *** Capitolo diciannovesimo: La danza dei demoni. ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventesimo: Mio fratello. ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventunesimo: Terzo Interludio. Acqua. ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventiduesimo: Eterna beatitudine ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventitreesimo: La lama e lo scudo. ***
Capitolo 25: *** Capitolo ventiquattresimo: Frammenti di guerra. ***
Capitolo 26: *** Capitolo venticinquesimo: Un'altra vita. ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventiseiesimo: Chimaira. ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventisettesimo: Le ali di Icaro. ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventottesimo: Quarto interludio. Terra/Ombra. ***
Capitolo 30: *** Capitolo ventinovesimo: La progenie del mostro. ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentesimo: Uomini, Dei e mostri. ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentunesimo: Stretta finale. ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentaduesimo: Uniti contro l'ombra. ***
Capitolo 34: *** Capitolo trentatreesimo: La fine dell'alta casta. ***
Capitolo 35: *** Capitolo trentaquattresimo: Nessun riposo. ***
Capitolo 36: *** Capitolo trentacinquesimo: Quinto interludio. Luce. ***
Capitolo 37: *** Capitolo trentaseiesimi: Il secondo avvento. ***
Capitolo 38: *** Capitolo trentasettesimo: Il suo nome è Caos! ***
Capitolo 39: *** Capitolo trentottesimo: E pluribus unum! ***
Capitolo 40: *** Capitolo trentanovesimo: Una stirpe di eroi. ***
Capitolo 41: *** Capitolo quarantesimo: Verso un nuovo mondo. ***
Capitolo 42: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

 

Il Gran Maestro del Caos rideva soddisfatto.

 

Sghignazzava da ore, chiuso negli androni del Santuario delle Origini, in sotterranei così lugubri e oscuri che neppure Erebo e Nyx amavano frequentare, preferendo lasciarlo ai suoi deliri solitari.

 

Dopo aver saputo che Caos aveva ucciso Avalon, distruggendo al tempo stesso l’Isola Sacra e colpendo il cuore di quella ridicola alleanza di uomini e Dei minori, era scoppiato a ridere, in maniera martellante e fastidiosa, crogiolandosi in quello che gli era parso il suo trionfo, la sua personalissima vittoria, sebbene al riguardo non avesse merito alcuno, come Erebo non aveva perso occasione di fargli notare.

 

“Hai trascorso quanti anni, secoli dovrei dire, su questa Terra, nascondendoti dietro molteplici identità, e quali risultati hai ottenuto?” –Gli aveva rinfacciato. Ma Anhar non l’aveva neppure udito, sopraffatto dal rumore delle sue stesse risa, che rimbombavano cupe attraverso la bizzarra armatura che rivestiva il suo spirito oscuro.

 

“Morto! Avalon sei morto infine! I tuoi progetti falliti, la tua attesa vanificata, la tela che con alacrità hai tessuto adesso si disferà! Ah ah ah! Oh quanto godo! Grazie, mio Signore, grazie per questo momento di goduria sfrenata!”

 

Erebo aveva rinunciato a fargli capire alcunché, non provando alcun interesse nei suoi confronti. Era una pedina in fondo, proprio come lui, in una scacchiera che ormai era pronta.

 

E Caos ha appena mangiato il re avversario! Commentò il Tenebroso, in piedi sul bastione più alto di quella roccaforte oscura, che si stagliava vivida al centro di un deserto di desolazione. Un deserto che si sarebbe presto espanso. Sogghignò, dietro la maschera terribile che gli copriva il volto, percependo l’infinita potenza del creatore di mondi fuoriuscire dalle mura del Primo Santuario e riversarsi, simile a un fiume di tenebra, nelle lande attorno, fino a saturarle della sua mortifera oscurità.

 

Quella che fino ad allora era parsa come una concentrazione di nubi nere, forse portatrici di qualche tempesta, adesso, anche agli occhi degli uomini comuni, si rivelò per quel che era davvero. L’ombra della fine del mondo. L’ultimo cielo che i viventi avrebbero visto prima di sprofondare nel vuoto atemporale.

 

Ovunque, nel continente asiatico, la gente tremò, travolta da un gelo improvviso, che nessun inverno aveva mai portato. Un gelo che pareva insinuarsi nelle loro vene, spegnendo ogni alito di vita, confinandoli nella paura di un giorno che non sarebbe mai sorto e condannandoli a un’eterna notte.

 

Le Nazioni Unite inviarono una task force a verificare quel che stava accadendo nel cuore del deserto del Gobi, laddove i satelliti non riuscivano a penetrare, al di là di quella cortina d’ombra che i vari Stati della Terra iniziarono ad accusarsi di aver generato. Ne vennero additate varie cause, dall’inquinamento agli esperimenti nucleari, ma la verità non fu mai scoperta, e nessuno dei Caschi Blu fece ritorno, né gli aerei inviati in ricognizione, e presto ogni governo ebbe altro di cui occuparsi. Gestire il malcontento interno, la diffusione del panico, le improvvise insurrezioni di una popolazione che pareva aver perso ogni fiducia nel futuro, stimolata e sospinta da millantatori e profeti che annunciavano la fine del mondo.

 

Che sia davvero così? Si chiese la Dottoressa Hasegawa, osservando il cielo nero dai finestrini di un taxi in corsa. Dopo essere stata scortata alla sua base in India dai soldati di Horus, aveva ricevuto una chiamata da un collega giapponese, un certo Professor Rigel, che la invitava ad allontanarsi quanto prima dal subcontinente, mettendole a disposizione un jet privato che la attendeva all’aeroporto di Bombay.

 

La studiosa sarebbe voluta rimanere ad aiutare la popolazione in difficoltà, per offrire il proprio aiuto a uomini che non sapevano più in cosa o in chi credere. Ma l’ansia della fine di tutto e le accorate parole di Rigel la spinsero a lasciarsi tutto alle spalle e a correre a perdifiato attraverso le hall del Chhatrapati Shivaji International Airport. Arrivò giusto in tempo, mentre l’aereo con le insegne della Fondazione Thule scaldava i motori in pista, pronto per decollare e mettere quante più miglia possibile tra loro e quell’immensa nube nera, sebbene molti temessero che fosse pura utopia.

 

A bordo, dopo essere stata fatta accomodare da Robert Brunch, il distinto assistente di volo, la Dottoressa trovò un giovane sui trent’anni, che indossava un giubbotto di pelle e un paio di occhiali scuri, per nascondere lo sguardo stanco dovuto alle ultime notti insonni, e altri quattro occupanti. Due ragazzi rivestiti di quelle che alla donna parvero bizzarre armature metalliche, simili al design dei robot dei fumetti, ridevano tra loro, complimentandosi per la celerità con cui avevano portato a termine la missione, davanti a due fanciulle dallo sguardo smarrito. Mora la prima, con deliziosi occhi a mandorla, sedeva composta con le mani giunte, quasi stesse mormorando una preghiera, per sé o per qualcuno che aveva caro. Castana la seconda, con un’espressione indecifrabile sul volto. Tristezza, certo, si disse la studiosa, ma anche speranza. In cosa non seppe dirselo, poté solo ascoltare il giovane seduto di fronte a lei, che si toglieva gli occhiali e si presentava.

 

“Il mio nome è Cliff O’Kents, incaricato dalla Dea Atena di una missione di salvataggio e lei, Dottoressa Hasegawa, era l’ultima persona da recuperare. Adesso possiamo andare!”

 

“Andare dove?!” –Chiese la donna, non comprendendo le parole del ragazzo.

 

“In un luogo sicuro.” –Si limitò a commentare quest’ultimo, calandosi i Rayban sugli occhi. –“Se mai un posto possa dirsi tale adesso!”

 

La stessa domanda se la posero tutti coloro che in quel momento avevano alzato la testa, fissando lo sterminato orizzonte oscuro.

 

Se la posero Elena, Elisa e Olga, mentre camminavano nelle vie dello shopping di Nuova Luxor, pensando ai souvenir che avrebbero riportato agli amici in Italia.

 

Se la pose Lamia, uscendo fuori nel cortile dell’orfanotrofio Saint Charles, sistemandosi il grembiule sporco di sugo, e chiamando i bambini a gran voce.

 

Se la posero Sancho e Smarty, e tutti i loro amichetti, chiudendosi attorno alla ragazza dai simpatici codini, in cerca di parole di conforto.

 

Sospirando, e cercando di infondere loro quella sicurezza che solo una madre avrebbe potuto offrire ai figli, Lamia li cullò, mentre Daisy andava a sedersi poco distante, accennando un sorriso. Timido e preoccupato.

 

Ricordavano entrambe le parole di quel giovane dal giubbotto di pelle, al servizio della Fondazione Thule, che le aveva invitate a seguirlo, affinché fossero protette, come era desiderio di Atena e dei suoi Cavalieri. Ma Lamia aveva insistito di voler rimanere, e Daisy era rimasta con lei.

 

“Questa è la mia casa! Qua, accanto ai miei fratellini!” –E l’aveva ringraziato, incitandolo ad andare, a portare in salvo la ragazza che Pegasus aveva tanto cercato.

 

“Non abbiamo niente da temere!” –Ripeté adesso, carezzando le chiome arruffate dei bambini. –“Pegasus ci salverà! Lui lo ha sempre fatto! Abbiate fede!” –Aggiunse, carezzando la croce che portava attorno al collo e levando lo sguardo al cielo tetro.

 

Pegasus, salvaci! Salvaci tutti!

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo primo: Post-mortem ***


CAPITOLO PRIMO: POST-MORTEM.

 

La proposta di Amon Ra non fu facile da accettare, ma tutti i presenti al concilio delle ultime Divinità del pianeta dovettero concordare sulla veridicità delle sue parole. Crude ma efficaci. Avevano già visto quel che Caos era in grado di fare, quel che solo il suo ritorno aveva risvegliato. Ombre e demoni che riposavano in tetri abissi in attesa solo della sua chiamata. In attesa del secondo avvento.

 

“Più il tempo passa, maggiore energia Caos e i Progenitori accumulano! Se aspettiamo ancora, se ci nascondiamo dietro le nostre non più imprendibili roccaforti, per leccarci le ferite e consolarci l’un l’altro rivangando i bei tempi passati, in cui eravamo giovani e invincibili, diamo soltanto loro il tempo e i mezzi necessari per estirpare dalla Terra la nostra civiltà e sterminare tutti coloro che in noi ripongono fede!” –Aggiunse il Pastore dell’Universo, spostando lo sguardo su tutti i presenti alla riunione.

 

I Cavalieri dello Zodiaco, Zeus, Nettuno, Atena ed Eracle, per gli Olimpi, Ascanio e gli altri Cavalieri delle Stelle, Vidharr, figlio di Odino, Flare di Polaris e i tre Angeli ancora vivi. Fu proprio uno di questi, dall’impetuoso cosmo rossastro, ad annuire, sbattendo con foga il pugno nel palmo dell’altra mano, dichiarandosi d’accordo con il Nume del Sole d’Egitto.

 

“Verrò con te, Amon Ra! Andremo in quel santuario oscuro e porteremo loro un po’ delle nostre fiamme! Chissà che non riescano a rischiararne i tenebrosi androni, annientando quel che silente vi giace!”

 

A quelle parole Febo rabbrividì, ricordando le torture subite da lui e Marins per mano di Algea. Pur tuttavia non poteva tirarsi indietro, non voleva farlo, non adesso che aveva l’opportunità di lottare fianco a fianco con il padre che aveva a lungo sperato di ritrovare e con cui poco tempo, alla fin fine, aveva trascorso. Se tutto deve finire, che finisca così! Si disse, facendosi avanti, fino a incrociare lo sguardo ammirato del genitore.

 

“Dicono che una stella brilli lucentissima prima di spegnersi! Se così sarà, che spettacolo dovrà essere, padre, quando la luce del Sole d’Egitto abbaglierà quel tenebroso deserto!”

 

Marins, senza neanche attendere un secondo, fu subito al suo fianco, affiancato da Reis e Jonathan. Matthew guardò Elanor, gli occhi arrossati dalle troppe lacrime versate nelle ultime ore, prima di stringerle forte una mano e dichiarare che anche loro avrebbero seguito il loro destino. Per onorare Avalon e Selene, che in loro avevano riposto fiducia. Fino alla fine.

 

“Non avete certo bisogno della mia risposta!” –Commentò Ascanio.

 

“Né della nostra!” –Intervenne allora Pegasus, voltandosi poi verso i quattro compagni. –“Eh, amici? Non è così?!”

 

Per un interminabile momento nessuno rispose e gli sguardi di tutti i presenti si appuntarono su di loro. Sapevano, Zeus, Amon e gli Angeli, che qualunque azione avessero deciso di scatenare, non poteva precludere il coinvolgimento di coloro che avrebbero potuto avere una possibilità di vittoria. Coloro che avrebbero guidato la riscossa degli uomini contro gli Dei Ancestrali. I nuovi pende sophoi. I cinque saggi della loro epoca.

 

Fu Sirio infine a prendere la parola, rivolgendosi direttamente agli Angeli.

 

“Che cosa ci aspetta, al Santuario delle Origini? Voglio dire… quella nube nera che ha distrutto l’Isola Sacra… era lui, non è così? Era Caos, vero?”

 

Andrei e Alexer si scambiarono un’occhiata veloce, prima di annuire mestamente e spiegare cosa avevano visto davvero poche ore prima.

 

“Quella è la forma in cui Caos si presenta! Non che lo avessimo mai visto prima, nessuno che è ancora vivo lo ha mai incontrato in passato! Eppure, per quel veloce sguardo che gli ho rivolto quando sono giunto a salvarvi, ho potuto percepire l’immensità del suo cosmo, la sua vastezza. Anzi no, è termine sbagliato, ben più adatto sarebbe parlare di vacuità. Sì, un nulla sterminato. Un colossale spazio vuoto ove nessuna luce può brillare sufficientemente intensa!”

 

“Eppure… una volta fu vinto.” –Lo interruppe il Cavaliere della Natura. –“Io l’ho visto! Lo so, perché ero là!” –Quindi, incurante delle espressioni stranite e stupefatte dei compagni, Ascanio continuò, narrando quel che il Primo Saggio gli aveva trasmesso, durante la trasmigrazione della sua anima. –“È come avete detto voi, Principe Alexer! Caos è un’immensa nube nera, priva di forma! Un abisso infinito che contiene l’origine della vita e la sua fine.”

 

“Caos è un Dio diverso da quelli che conoscete, Cavalieri dello Zodiaco e voi Cavalieri delle Stelle.” –Riprese a parlare l’Angelo d’Aria. –“Non è un Dio come Atena o Zeus, né come Nyx o Erebo, che, per quanto oscuri e deformi, tendono ad avvicinarsi alle Divinità dall’aspetto umano a voi così tanto familiari. Caos è il Deus Otiosus, creatore degli Dei e dell’umanità, uscito dal vuoto atemporale, dall’inattività cui fu costretto da coloro che gli si ribellarono contro, per decretare la fine di questo tempo cosmico. Egli è il serpe oscuro che insegue il sole, il veleno che ha fatto appassire Yggdrasill!”

 

“Anche Avalon ci disse qualcosa del genere… prima di… beh, prima di morire…” –Disse Cristal, mentre anche Andromeda al suo fianco annuiva. –“Una verità cruda ma sensata, in fondo. Se Caos ha generato la vita, siamo tutti figli suoi, anche noi, gli esseri umani. Anche in noi, proprio per questo, sopravvive un frammento di oscurità, un lato oscuro, che serve per apprezzare la luce, per capirne appieno l’importanza e bilanciare la perfezione di un mondo luminoso.”

 

“Yin e yang.” –Chiosò Sirio. –“Il lato in ombra della collina e il lato soleggiato. Su quale lato siederemo noi, domani?”

 

“Sul lato che vincerà!” –Lo rassicurò Pegasus, battendogli una mano su una spalla. –“Io non ho dubbi al riguardo! Non con voi, amici, al mio fianco!”

 

A quelle parole, Andromeda sorrise, abbracciando il compagno di tante battaglie, prima che anche Cristal facesse lo stesso. Persino Phoenix si avvicinò, stringendo la mano del Primo Cavaliere di Atena, mentre prendevano la loro decisione. La decisione di andare fino in fondo alle loro vite, dando completezza a esistenze vissute in funzione di quel momento.

 

Vedendoli sorridere, vedendoli rincuorarsi a vicenda, Zeus sospirò, ripensando a quando, millenni addietro, aveva provato la stessa determinazione, la stessa sicurezza per un futuro che i Titani avrebbero voluto portare loro via. All’epoca aveva lottato, guidando una coalizione di fresche e giovani Divinità alla conquista del loro posto al sole, e aveva trionfato. Sarebbe stato in grado, adesso, di fare altrettanto?

 

Quella domanda risuonò nell’animo di tutti i partecipanti al concilio ristretto, prima che Alexer riassumesse le decisioni prese, dando ordine ai presenti di radunare tutte le truppe che fossero riusciti a mettere insieme, coordinandosi poi per un’azione congiunta.

 

“Dobbiamo avvisare tutti i regni divini! Anche il più piccolo contributo potrebbe rivelarsi fondamentale per nutrire una qualche speranza di vittoria!”

 

“Invierò Ermes e Euro a portare ovunque il nostro messaggio!” –Concordò Zeus, subito imitato da Eracle.

 

“Nesso farà altrettanto! È il più celere tra i miei incursori!”

 

“Molto bene! Appuntamento nel deserto del Gobi quindi!” –Esclamò Alexer, passando in rassegna tutti i membri di quell’assemblea che aveva appena deciso le sorti del mondo. Gli altri Dei e Cavalieri annuirono, preparandosi a lasciare il Salone del Fuoco, con mille pensieri in testa. –“Approfittate di queste ore che ci rimangono per riposarvi e curare le vostre ferite, riparare le armature e… fare i vostri saluti! Fateli adesso e tirate fuori quel che volete davvero dire. Potreste non avere un’altra occasione!” –E, nel dir questo, scambiò una veloce occhiata con Andrei, che sospirò, scocciato e impacciato, prima di voltarsi verso Jonathan.

 

“Dobbiamo parlare!” –Gli disse.

 

***

 

“L’aria è tranquilla quest’oggi. Immobile. Stantia.” –Rifletté Neottolemo, sollevando la Nave di Argo nel cielo sopra la fortezza di Asgard. Per quanto danneggiata dagli attacchi dell’Armata delle Tenebre e dall’esplosione del cosmo di Erebo, il Nocchiere di Tirinto era riuscito a ripararla in fretta, aiutato dall’operosità di alcuni carpentieri della cittadella, grati ad Eracle per averli soccorsi il giorno prima, ponendo fine all’assedio.

 

“Non è un bene, Hero del Vascello?” –Gli domandò Atena, ritta al suo fianco, sulla poppa della nave volante.

 

“No.” –Si limitò a rispondere il fedele di Eracle. –“Non lo è affatto. È la calma prima della tempesta. Una calma innaturale, a queste latitudini. Persino il vento ha smesso di mugghiare, persino il gelo pungente sembra ritirarsi di fronte a questa caliginosa marea che satura l’atmosfera. Vedo nero, Dea della Guerra! E non solo adesso, di fronte a noi, ma nel lungo periodo!”

 

“Comprendo le tue ansie e le giustifico. Pur tuttavia, cos’altro potremmo fare se non lottare per la terra che amiamo e coloro che la abitano?” –Lo consolò Atena, sfiorandogli un braccio e sorridendo, prima di stringersi nel mantello che Flare le aveva donato e scendere sul ponte di comando.

 

Con un cenno veloce, Iro di Orione la salutò. Dismessa la corazza danneggiata, il Primo tra gli Heroes camminava avanti e indietro sulla coperta, tenendosi la gamba dolorante per lo scontro con Grendel. Nonostante le cure veloci di Eir, ancora fiacca per le ferite causatele da Erebo, non riusciva a poggiare bene il piede a terra, reprimendo un gemito a ogni passo, ma non poteva stare a sedere, a lasciar le ore passare, bisognoso di aria e di tenersi in allenamento costante.

 

Anche Chirone avrebbe voluto imitare il compagno, ma le sue condizioni erano peggiori, così era stato forzato da Eracle a un riposo coatto sottocoperta. Il Vindice dell’Onestà era quindi da solo, nella cabina a lui riservata, a osservare un arazzo affisso alla parete su cui erano dipinti un centinaio di simboli.

 

“I tuoi Heroes, suppongo.”

 

La delicata voce di Atena lo rubò ai suoi pensieri, portandolo a volgere lo sguardo verso l’entrata della cabina, ove la donna dai capelli viola era appena apparsa. Non ebbero bisogno di dirsi altro, che entrambi capirono. Atena capì. Del resto, quello sguardo che il figlio di Zeus e Alcmena aveva addosso, quel misto di consapevolezza e tristezza, le aveva infettato l’anima per secoli, dalla prima Guerra Sacra che si era trovata a combattere e in cui aveva dovuto mandare a morire gli uomini che in lei credevano. Gli uomini che la amavano.

 

Ad Eracle era successo lo stesso. In tutte le sue vite.

 

“Faremo il nostro dovere!” –Esclamò il Campione di Tirinto, avvicinandosi alla Dea. –“Siamo soldati, in fondo.”

 

“Sì, di fatto siamo soldati, fratello mio!” –Gli sorrise Atena, lasciandosi abbracciare. –“E combatteremo! Anche per onorare coloro che non ci sono più!”

 

“Non sei cambiata affatto!” –Disse Eracle, staccandosi da lei. –“Sì, il corpo è diverso, più giovane rispetto alla donna dai mossi capelli castani che mi accolse sull’Olimpo, qualche millennio fa. Ma lo spirito è sempre il solito. Indomabile e generoso. Mai nessuna Divinità è riuscita ad amare più di te, Atena. Non posso che essere fiero di combattere al tuo fianco!”

 

“Come fratelli.”

 

“Sì, come fratelli.” –Concordò Eracle.

 

La Nave di Argo scivolò nei cieli bigi d’Europa, fino a raggiungere il Grande Tempio nel pomeriggio. O, quantomeno, quel che ne rimaneva. Fu atroce, per Atena, osservare dall’alto la devastazione portata da Atlante, Emera e Etere. Atroce e doloroso, al pensiero dei caduti, che ancora non aveva potuto onorare di un degno rito di sepoltura. Ricordava bene le parole di Pegasus, dopo che gli Dei di Luce se ne erano andati.

 

“Non crucciatevi, mia Dea! Ricostruiremo tutto e il prossimo Santuario sarà magnifico! Un nuovo Santuario per un nuovo millennio in procinto di iniziare!”

 

Atena gli aveva sorriso, grata ai suoi continui tentativi di sollevarle il morale e certa che, pur di recarle piacere, Pegasus avrebbe trasportato da solo ciascuna colonna o lastra di marmo per ricostruire il Grande Tempio.

 

“Non degli edifici mi preoccupo, Cavaliere. Quelli possono essere ricostruiti. Sono le persone che non torneranno, i nostri amici. Quei cuori spezzati che nessun artificio potrà riparare!”

 

Eracle comprendeva i tormenti di Atena, avendo provato la stessa sensazione due secoli addietro, contemplando le rovine di Tirinto e del futuro utopico che avrebbe voluto donare all’umanità. Le strinse una mano, incitandola a farsi forza, e la osservò svanire in un lampo di luce, diretta verso quello che restava della Collina della Divinità. Senza neanche planare, diede ordine a Neottolemo di modificare la rotta. Verso occidente.

 

Verso Tirinto.

 

***

 

Le fresche acque dell’Olimpo scivolavano sul suo corpo scolpito, pulendolo dalla stanchezza dello scontro con Erebo, scontro di cui portava ancora i segni. Tastandosi un braccio indolenzito, Zeus sfiorò i tagli e i lividi che ne avevano deturpato la pelle, i primi dopo un’eternità trascorsa nel lusso e nell’ozio. Per quanto tempo non aveva più stretto la folgore olimpica? Da quanto non provava l’ebbrezza di una battaglia contro un nemico potente come lui, anzi superiore? Da secoli ormai, da quando la Titanomachia era giunta a conclusione. Certo, pochi mesi addietro aveva affrontato Crono e Tifone, ma nessuno di quei duelli era stato paragonabile alla furia scatenata da Erebo, all’impegno richiesto al Signore del Fulmine per averne ragione.

 

Anzi no, si disse, emergendo dai vapori caldi della vasca. Non è stato per vincerlo che ho combattuto. Ma per sopravvivere! Rabbrividì, nonostante il calore delle acque termali, scuotendosi e uscendo infine dalla piscina.

 

“Siete pronto, mio Signore? Vi siete ristorato a sufficienza?” –Esclamò una giovane voce maschile, la stessa che da secoli si preoccupava di non fargli mancare niente. Per essere un ragazzo che aveva ricevuto in dono l’immortalità soltanto per la sua bellezza esteriore, il figlio di Troo aveva sempre dimostrato grande riconoscenza. –“Sedete ancora, vi prego! Ho preparato un infuso di quercia, vi sarà utile per contrastare la sudorazione!”

 

“Ti ringrazio, Ganimede, ma non credo di averne il tempo! E, tra poche ore, sudare sarà l’ultimo dei miei pensieri!”

 

“Ne convengo, Zeu Pater!” –Annuì il giovane dai folti ricci castani. –“Pur tuttavia… ho saputo cosa avete fatto con il broma theon! Un gesto nobile e generoso farne dono a Toma, Nikolaos e agli altri Dei, considerando quanto poco ne è rimasto! Lasciate che anch’io mi occupi di voi, come voi vi siete premurato di non far mancare niente a tutti coloro che hanno dimorato nella vostra magione!”

 

“Non credo di aver fatto molto, al riguardo! Ma fa’ pure, solo fai in fretta, ti prego!” –Scosse la testa Zeus, sedendo infine su una panca di marmo e lasciando che il coppiere degli Dei gli passasse un panno caldo sul corpo, dal forte odore rinvigorente. –“Sai come mi chiamavano un tempo? Quando edificavano santuari in mio nome in tutta la Grecia, e non soltanto? Zeus Erceo! Il protettore della casa! O Zeus Soter!”

 

“Il salvatore dell’umanità!” –Gli sorrise Ganimede. –“Un epiteto meritato, mio Signore. È quello che siete infatti!”

 

“Lo credi davvero? Puoi smetterla di compiacermi, se vuoi! Ti dispenso da ogni obbligo!”

 

“Certo che lo credo! Non avete forse glorificato la mia vita, strappandomi dalle spoglie mortali e donandomi l’eterna giovinezza? E non avete accolto presso questa magnifica magione legioni di Cavalieri Celesti e seguaci delle Divinità a voi fedeli, condividendo assieme lo stesso pasto e dando loro uno scopo per cui vivere e morire? Li ricordate, mio re? Ricordate i loro nomi? Molti erano figli di Dei, altri erano grandi eroi e altri ancora gente comune, ma tutti hanno beneficiato di poter essere al vostro servizio! Dubito vi fosse qualcosa che Giasone, Castore o Oreste avessero desiderato di più! E neppure io!”

 

Zeus assentì con il capo, ringraziando Ganimede per la premura e la dimostrazione di affetto, invitandolo a prepararsi e a presentarsi nella Sala del Trono entro breve.

 

Non erano molti i presenti a quell’ultimo concilio che il Cronide convocò. Solo cinque Divinità, di cui una neppure appartenente ai Dodici Olimpi.

 

“Queste sono tutte le armi che ho potuto recuperare!” –Esclamò Efesto, gettando a terra un mucchio di lame, scudi e placche di armature riparate alla bell’e meglio. –“Buona parte della fucina è rimasta sepolta sotto l’Etna! Avessi della buona manodopera, magari qualche Ciclope, potrei spostare tutti quei massi e quella lava e dare una ripulita!”

 

“Temo che le pulizie d’autunno debbano aspettare, figlio mio! Ma non crucciarti, presto avremo molto tempo libero! Un’eternità, tutta per noi!” –Commentò Zeus, poggiandogli una mano su una spalla, prima che la squillante voce di Ermes lo distraesse.

 

Efesto ha fatto comunque un ottimo lavoro, riparando le nostre Vesti Divine! Anche la vostra, Sommo Zeus, è tornata come nuova! E il Cibo degli Dei che ci avete offerto ci ha ridato un po’ di forze!”

 

“I tuoi modi garbati servono solo a nascondere la cruda verità, Messaggero Olimpico! Il mithril è finito, e anche gli altri materiali scarseggiano; questo senza considerare le ferite subite, la mia schiena a pezzi…” –Ma Zeus pregò il Fabbro degli Dei di tranquillizzarsi, certo che avesse fatto ben più di quanto possibile.

 

“Notizie di Demetra?” –Chiese allora Nettuno, temendo la risposta.

 

“Nessuna!” –Parlò infine Ermes, dopo un istante di silenzio generale. –“Ho provato a localizzarla, ma non… la sento più!”

 

“Neppure i venti mi parlano!” –Intervenne allora Euro. –“Tacciono, in attesa dello scatenarsi della bufera nera!”

 

Umpf! Non dovranno attendere a lungo!” –Grugnì Efesto, prima che Zeus riprendesse la parola.

 

“È viva! Percepisco la sua energia! Debole, un fioco bagliore lontano, ma reale! È probabile che Caos se ne stia servendo per nutrirsi, prosciugandola pian piano del suo cosmo divino!”

 

“Quale orrore!” –Mormorò il figlio di Eos, offrendosi volontario per una missione di recupero. –“Assieme ad Ermes potremmo penetrare nel Primo Santuario e liberarla…”

 

“Vi scoprirebbero ancor prima di varcare la soglia e fareste la sua stessa fine! Siete Divinità, non dimenticatevi di cosa si nutre il Generatore di Mondi!” –Chiosò Zeus, mentre i passi decisi di alcuni uomini in armatura si avvicinavano. –“In quanto all’incursione… è un’idea che ho già considerato!”

 

“Siamo pronti a servirvi, Zeus Oratrios!” –Esclamò Toma, entrando nella Sala del Trono, affiancato da Shen Gado, Nikolaos e da Ganimede, tutti rivestiti delle loro Armature Celesti, e inchinandosi di fronte alle cinque Divinità. –“Icaro, l’Ippogrifo, l’Eridano e la Coppa celesti, per servirvi!”

 

“I miei Cavalieri Celesti!” –Sorrise il Nume supremo, inorgoglito. –“In questi anni, a volte mi sono chiesto se sia stato giusto o meno strapparvi alle vostre vite e relegarvi qua, al mio servizio, perché quell’investitura, che all’epoca poteva apparirvi gloriosa, oggi vi vincola in maniera indissolubile! Ma, appurato il vostro valore, umano e sul campo di battaglia, non posso che essere fiero di lottare assieme a voi in quest’ora più nera! Perciò, innalzate i vostri cosmi, Cavalieri Celesti, e voi fate altrettanto, figli e fratelli miei! E combattete! Combattete per coloro che non ci sono più, per i Cavalieri vostri compagni, per i fedeli che vi hanno servito e che hanno sacrificato tutto, affidandoci il futuro! Combattete con me! Siate il braccio che sorreggerà la folgore divina!” –E, nel dir questo, espanse il proprio cosmo, sollevando una mano ove vivido rilucette un fulmine di celestiale bagliore. Vi fu una violenta esplosione e il tetto della reggia andò in frantumi, anticipando il sorgere di una colonna di luce dentro cui gli ultimi Olimpi e i loro servitori scomparvero.

 

***

 

Una clava cinta da una corona d’alloro, simbolo di forza e vittoria. Questo il simbolo che Eracle aveva scelto secoli addietro e che aveva fatto scolpire sul portone d’accesso a Tirinto, la Porta del Leone; un simbolo in grado di riassumere la sua esistenza e guidare le legioni di Heroes. Adesso, di tutti quei giovani giunti a Tirinto dall’intero Mediterraneo, ne erano rimasti otto, condannati a vivere una seconda vita e a morire di nuovo in quell’ultima disperata fatica. E quegli otto erano lì, in piedi alle sue spalle, tra le rovine della cittadella ove avevano dimorato per un periodo troppo breve delle loro vite.

 

Aveva scelto di radunarli lì, per ricordare il loro passato, i giorni in cui avevano indossato la prima volta le Armature degli Eroi, forgiate da un frammento della Glory divina di Eracle. Uno sguardo indietro e un passo in avanti. Del resto, indietro non c’era niente che potesse trattenerli, non in quell’epoca almeno, in cui vagavano come naufraghi fuori dal tempo.

 

Massi franati e sterpi, un fossato ricolmo di fango e resti di troppe guerre. Questo rimaneva della fortezza di Tirinto. Eppure tra quelle rovine pulsava ancora la vita, una fiamma alimentata dai ricordi delle imprese degli Heroes, dagli ideali che li avevano sostenuti, dall’amicizia che li aveva legati anche dopo la morte. E come era stata ricostruita una volta, Tirinto poteva esserlo di nuovo. Di questo il Vindice dell’Onestà era certo, come certo era che non l’avrebbe fatto lui.

 

Forse morirò, nel Gobi dove soffiano venti mortiferi, ma la mia fede non morirà, perdurerà, nell’animo degli uomini che hanno creduto in me!

 

“Figli miei!” –Esordì, voltandosi verso di loro, riuniti attorno a un fuoco di bivacco, come amava radunarli nelle sere d’estate, nella corte sul retro di Tirinto, a raccontarsi storie di eroi e aneddoti dei tempi antichi. –“Qua sorgeva la grande rocca! Qua, proprio da qua, si oltrepassava la Porta dei Leoni, rivolta, come ricorderete a oriente, nella direzione del sole nascente! Guardate là invece! Potreste attendere per ore e tutto vedreste fuorché i primi raggi dell’alba! No, figli miei, quest’oggi da oriente nasce un’ombra immensa, un’ombra in grado di ricoprire la Terra tutta! Tutto quello contro cui abbiamo combattuto è là, nel deserto del Gobi, a offrirci un’ultima occasione! Di vittoria? Di gloria? Di morire come gli eroi che ci vantavamo di essere? Ognuno risponda per sé, io non parlerò per voi. Vi dirò soltanto… no, non vi dirò niente, le parole non avrebbero valore adesso! Venite qua, datemi la mano, fatemi sentire di essere pronti a viverla intensamente!” –E, nel dir questo, allungò un braccio avanti a sé, a pugno chiuso, osservando in volto gli Heroes sopravvissuti della Legione dei Migliori.

 

Marcantonio dello Specchio e Nestore dell’Orso, come sempre ai suoi lati, angeli guardiani che mai lo avrebbero lasciato da solo, disposti a morire e morire ancora per lui. Alcione della Piovra e Nesso del Pesce Soldato, reduci dalle battaglie nell’Avaiki. Tiresia dell’Altare, che aveva aiutato i Cavalieri di Atena nel disperato tentativo di contenere l’avanzata di Atlante. Iro di Orione e Chirone del Centauro, che avevano trovato inaspettati nemici in grado di tener loro testa nelle gelide lande di Asgard. E infine Neottolemo del Vascello, il più riposato degli otto, essendo stato impegnato soltanto come nocchiero.

 

Eracle aveva distribuito il Cibo degli Dei, fornitogli da Zeus, consentendo agli Heroes di recuperare le forze, ma la stanchezza era ancora evidente nei volti di tutti loro, come pure la risolutezza a non mollare.

 

Uno dopo l’altro, gli Heroes appoggiarono una mano sul pugno del Protettore degli Uomini, sorridendo e dichiarandosi pronti a seguirlo in quell’ultima perigliosa impresa, anche con i loro corpi a pezzi.

 

“Un patto è un patto!” –Commentò Iro, strusciandosi il naso divertito.

 

“Parli tu che sei zoppo!” –Ironizzò Nestore, dandogli una pacca sulla schiena, accompagnata da una sonora risata.

 

“Se tu vai in Asia, bestione, perché noi non dovremmo venire?” –Intervenne Chirone, prima che la voce profonda di Eracle le sovrastasse tutte.

 

“Un tempo avevo tre figli. Alessiare, Aniceto e Alessiroe! Ma la guerra e la mala sorte me li hanno portati via, o forse la mia incapacità a comportarmi da padre? Non so rispondervi, so soltanto che il destino me ne ha dati altri, che adesso mi stanno di fronte! Uniti dallo stesso afflato, nello stesso respiro, inspiriamo e gridiamo a gran voce, compagni! Gridiamo per cosa stiamo combattendo! Morte!!!”

 

“Morte!!!” –Urlarono gli Heroes tutti assieme. –“Morte!!!”

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo secondo: Una vita insieme ***


CAPITOLO SECONDO: UNA VITA INSIEME.

 

Il Salone del Fuoco era deserto, ed era strano vederlo così. Sentirlo vuoto e silente, dopo il chiacchiericcio che vi aveva regnato nelle ultime ore. Il chiacchiericcio che aveva accompagnato la sua vita fin da quando era bambina. Ricordava ancora, la Regina di Asgard, le feste a palazzo che ogni tanto suo padre, l’allora Celebrante di Odino, organizzava, accogliendo ospiti dai castelli vicini, quando le intemperie e la tenuta delle strade lo permettevano. E ricordava poi le udienze che sua sorella era solita concedere al popolo, ascoltando con attenzione le richieste dei postulanti in fila. C’era sempre stata vita in quella sala, nel cuore della fortezza di Asgard, sebbene l’ombra l’avesse invasa, in tempi recenti, portandovi la morte.

 

Prima sotto forma di un anello che aveva circuito la volontà di una nobile e fiera regina, e poi segnando l’avvio dell’apocalisse. E adesso, guardando il fuoco che crepitava nel braciere al centro del salone, Flare non poteva fare a meno di rivedervi Enji, che urlava e si dimenava, mentre le fiamme maceravano il suo corpo ferito. E Bard, poco distante, che si ergeva a sua difesa, incurante di qualsiasi pericolo. Per loro, per proteggerla, per farla arrivare fin lì, tutti erano morti. Ilda, i Cavalieri di Asgard, i suoi amici e servitori, e adesso anche l’uomo che amava se ne sarebbe andato, a combattere una guerra persa in partenza in una terra lontana da cui mai avrebbe fatto ritorno.

 

Questo, quantomeno, era quel che la gente diceva, sussurrandolo tra le strade di una città che ormai era divenuta una base militare. Ed era quel che una parte del suo cuore paventava. Che avrebbe dovuto dire un altro addio.

 

“Tornerò!” –Le disse Cristal, carezzandole i mossi capelli biondi e cullandola in un tenero abbraccio. –“So quello che provi, e che temi, e vorrei poter fugare i tuoi timori. Vorrei poterti dire di aver fede, di pregare Odino e gli Dei a cui sei devota, vorrei poterti garantire che domani, quando ti sveglierai, non vedrai più quest’oscura caligine ma il cielo azzurro, limpido come ghiaccio, che segnerà l’inizio di una nuova era. Vorrei poterti dire tutto questo e molto di più, eppure…”

 

“Lo so…” –Sospirò Flare, seduta in braccio a Cristal, sul trono che era stato di sua sorella e di suo padre prima di lei.

 

“Vorrei dirti molte cose, ma preferisco che tu sappia questo! Io tornerò! E allora, tutto il resto, tutti i brutti pensieri, saranno acqua passata, che scivolerà fuori dalle mura del nostro cuore!”

 

“Ho la tua parola, Cavaliere?”

 

“Hai ben più della mia parola! Hai il mio cuore!” –Le sorrise il ragazzo, prendendole la testa tra le mani e baciandola sulle labbra. Flare lo lasciò fare, bisognosa di un contatto umano, bisognosa di sentirlo lì, accanto a lei, a ricordarle di non avere paura.

 

Le parole di Alexer erano vere. Dovevano dirsi tutto, e farlo in fretta, prima che il corno di Mani chiamasse gli eserciti del nord a raccolta e le togliesse ogni possibilità. Eppure, turbarlo adesso, le sembrava così ingiusto, così lontano da quanto aveva sognato un tempo, fantasticando su quell’occasione.

 

“Vorrei che tu andassi via da qui, che tu fuggissi dove l’ombra non possa trovarti!” –Le disse infine Cristal, ricordandole che Atena aveva dato mandato a un suo collaboratore di mettere al sicuro le persone importanti per i suoi Cavalieri. –“Se falliremo, la ritorsione dei Progenitori non tarderà ad arrivare e Asgard è troppo esposta! Sarà uno dei primi luoghi che colpiranno, per spezzarne l’antico potere, come l’attacco di Erebo ha già dimostrato!”

 

“Non temere per me, né per la nostra città! Pensa a vincere e a tornare da me! Io e queste solide mura saremo ancora qui, ad aspettarti!”

 

“Sarei più tranquillo se ti sapessi al sicuro…” –Ma Flare bloccò ogni obiezione.

 

Se voi fallirete, non vi sarà posto in cui l’umanità sarà al sicuro!”


Detto questo si alzò, camminando a piedi nudi fino ad avvicinarsi alle grandi finestre rivolte a sud, i cui vetri aveva distrutto durante lo scontro con Reidar. Tirò un’occhiata fuori, alla cittadella su cui imperava, cercando le mura dove amavano passeggiare assieme, prima di indicare un punto, al centro del camminamento di ronda, da cui era possibile ammirare l’intera vallata digradare verso il  basso.

 

“Là. Ti aspetterò là, all’ingresso della città su cui governeremo insieme! Il popolo ha bisogno di me, qui, di una regina che gli dia conforto, di una celebrante che sappia ascoltarne le paure, di una donna che, come tante, si strugga in attesa del ritorno del suo amato! Perciò, sbrigati a tornare, Cavaliere! Noi saremo qua ad accoglierti!” –Chiarì Flare, sfiorandosi la pancia con una mano e sorridendogli, con tutta la forza che poté trovare, per reprimere le lacrime e l’angoscia che avrebbero voluto traboccar fuori.

 

***

 

Sirio sedeva nell’erba, in ginocchio di fronte a una lapide di marmo grezzo, su cui la mano di Mur aveva scolpito poche parole. Dohko, Cavaliere di Libra. Nient’altro. Del resto, nessuno sapeva quando fosse nato, o dove; quantomeno, nessuno che fosse ancora vivo.

 

Mettendosi in piedi, il Cavaliere del Dragone sfiorò la rozza pietra messa appena due giorni prima, dopo un veloce rito di saluto a uno dei più fedeli sostenitori di Atena, caduto nel cuore del Santuario per mano di un demonio senza pari. Un demonio che aveva allevato una serpe in seno, come lo scontro con Tiamat aveva dimostrato.

 

Era stato un tipo semplice, Dohko, essenziale nel suo modo di vivere e di essere, eppure Sirio avrebbe voluto donargli qualcosa di più. Com’è strana la vita! Si disse. Anni addietro, quando ero ancora un ragazzo e mi allenavo sotto il suo sguardo attento, sognavo un futuro in cui sarei divenuto Cavaliere, avrei sposato Fiore di Luna e combattuto mille battaglie, uscendone sempre vincitore. Tornato a casa, avrei baciato la donna che amavo e reso grazie al mio mentore, al cui fianco sarei rimasto finché l’estrema vecchiaia non se lo fosse portato via. Questo, quantomeno, l’avevo pensato fino a poco tempo fa. Prima di Ade, prima del ritorno delle costellazioni demoniache e di scoprire la verità sul maestro. Adesso, mi contenterei di tornare a casa e trovarlo lì ad aspettarmi.

 

Una mano amica si poggiò sulla sua spalla, facendolo voltare e sorridere a Pegasus, che l’aveva raggiunto nel cimitero del Grande Tempio, l’unico luogo in cui, in quel concitato momento, aveva potuto trovare un po’ di pace. Ioria e Tisifone stavano radunando tutti i soldati e i Cavalieri di Atena, sbraitando ordini in lungo e in largo, e presto sarebbero partiti, per un’altra guerra, che tutti, soprattutto coloro che l’avevano scatenata, non esitavano a definire l’ultima. Li capiva, Sirio; ne comprendeva la solidità del pensiero, basata su certezze che, agli occhi dei Progenitori, erano granitiche. Come potevano non esserlo, in fondo? Erano i creatori dell’universo, chi mai avrebbe potuto opporsi loro?

 

Sospirando, e seguendo Pegasus in silenzio, tra tombe divorate dall’erica e lapidi dimenticate, ricordò il breve scontro con Polemos, e il fallimento di ogni sua tecnica, persino di quella giudicata risolutiva. E se con il Demone della Guerra, che in fondo era soltanto un demone, personificazione di un istinto, non era riuscito a mettere a segno un colpo, cosa avrebbe potuto fare contro Erebo o Nyx? Se neppure le forze unite di Pegasus, Andromeda, Cristal, Eir, Atena, Zeus e Alexer erano riuscite a impensierire un Progenitore, cosa stavano facendo realmente?


“Stiamo andando a morire!”

 

Pegasus gli tolse ogni dubbio, schietto come sempre. E gli strappò un sorriso, perché la franchezza, assieme all’onestà e alla determinazione, era quel che aveva sempre apprezzato in lui, in quel ragazzo con cui si era scontrato per caso, su un ring di Nuova Luxor, e che era divenuto in breve tempo il suo migliore amico.

 

“Lo abbiamo sempre fatto, in fondo, non siamo dei novellini in questo, no?” –Continuò il ragazzo. –“Correggimi se sbaglio, Sirio, tu certo hai una memoria migliore della mia, ma da bambini fummo mandati in giro per il mondo, nei posti più disparati, soli e costretti a faticare come dannati (e quando dico dannati intendo proprio quelli che i nostri amici Minosse e Lune si divertivano a precipitare nei loro maledetti gironi!), sottoposti a un massacrante addestramento sotto l’occhio attento di perfetti sconosciuti sempre pronti a castigarci alla minima defezione! Certo, qualcuno di noi è stato fortunato, tu per esempio, ma a qualcuno è andata peggio! Phoenix, per citarne uno, ma anche gli altri orfani che non sono tornati! Poi, rientrati a Nuova Luxor e speranzosi di ricominciare una vita normale, siamo stati buttati su un ring, a rischiare la vita per un cofanetto d’oro, che, ti dirò la verità, all’inizio avevo persino creduto fosse placcato! Insomma, chi mai poteva creare una corazza d’oro? Pensavo che sarebbe stata scomoda da indossare, no?”

 

“Pegasus…”

 

“Fammi finire. Poi ci sono stati gli scontri con i nostri doppioni neri, i Cavalieri d’Argento e, dulcis in fundo, la scalata delle Dodici Case contro avversari infinitamente superiori! Tralascio tutto il resto che è storia recente, anche per la mia difettosa memoria! Quello che voglio dire, Sirio, è… abbiamo sempre rischiato la vita, ci siamo sempre messi in gioco! E non venirmi a dire che era diverso, che prima una speranza ce l’avevamo, che una possibilità di vittoria c’era, perché non è così! Non c’è mai stata! Dal momento in cui ci hanno portato via dall’orfanotrofio e gettato in questo mondo di guerra, saremmo potuti morire in qualsiasi istante, sconfitti da qualcosa che era più grande di noi! Eppure abbiamo sempre trovato la forza di superare ogni ostacolo, anche il più insormontabile, e uscirne vincitori! Malconci, mal ridotti, ma vincitori!”

 

“Hai ragione, Pegasus. Eppure, stavolta…”

 

“Stavolta…” –Concordò l’amico, rimanendo in silenzio per lunghi istanti, senza che nessuno potesse aggiungere altro. C’erano scogli che neppure l’ironia di Pegasus e la sua determinazione potevano scalfire. Inoltre, se Sirio avesse saputo, se avesse visto quel che l’amico aveva visto…

 

Pegasus scosse la testa. A quella visione non doveva pensare. Odino era morto e le profezie di Frigg con lui. Era meglio pensare ad altro, dedicare quegli ultimi minuti, prima della partenza, a pensieri felici. Le tragedie, le lacrime e le morti, in fondo, non sarebbero mancate, a breve.

 

“Hai parlato con Fiore di Luna?”

 

“Purtroppo no. Atena mi ha detto che i Cavalieri d’Acciaio l’avevano già recuperata. Adesso sarà in volo verso l’Isola del Riposo!”

 

“Già, anche Patricia!” –Annuì Pegasus. –“Patricia… Un nome che mi ha perseguitato per anni, per tutta la durata dell’addestramento e anche dopo, finché, guarito dalla ferita della Spada di Ade, non riaprii gli occhi, trovandola lì, al mio capezzale, assieme ad Atena e a voi, amici miei. Eppure, da quando ci siamo ritrovati, da quando è tornata nella mia vita, ci siamo visti così poco, siamo stati così poco insieme! Giusto quei mesi in cui la Pozione della Dimenticanza ci aveva privato delle nostre memorie di Cavalieri!”

 

“Vale lo stesso per me e Fiore di Luna. Tanto amore, tanto desiderio di stare assieme, ma così poco tempo per farlo!”

 

“Rimpiangi qualcosa?”

 

“No! Non l’ho mai fatto, fin dalla prima volta in cui l’ho lasciata per venire a Nuova Luxor e partecipare al torneo! E tu?”

 

“Nemmeno io! I rimpianti non si addicono a coloro che vivono la vita al massimo!”

 

“Loro sanno che le amiamo, Pegasus. Sanno quello che stiamo facendo, e che lo facciamo anche per loro! Per garantire un futuro all’umanità!” –Chiosò Sirio, fermandosi infine.

 

“Così è.” –Commentò Pegasus, prima che un delicato frusciare di vesti distraesse entrambi, spingendoli a voltare lo sguardo verso l’ingresso al cimitero, dove Atena era appena apparsa.

 

Rivestita di un abito bianco, la vergine dallo sguardo scintillante sorrise ai suoi Cavalieri, esitando su Pegasus un attimo di più. Sirio comprese e accennò un inchino.

 

“Con permesso!” –E si allontanò, lasciando la Dea e il suo Primo Cavaliere da soli, forse per l’ultima occasione.

 

Per qualche minuto nessuno dei due parlò. Da quando erano tornati dal Reame della Luna Splendente, non erano mai stati da soli, costretti a fronteggiare le minacce dei Progenitori. Pegasus non aveva avuto modo di dirle altro, dopo quel bacio. Ma in fondo cosa doveva dirle che Isabel già non sapesse? No, non Isabel. Atena. Si disse, chiudendo una mano a pugno e voltandosi infine verso la Dea che aveva giurato di difendere, la Dea che aveva mosso i fili di tutta la sua vita, anche quando ancora non ne era consapevole.

 

“Milady… io… se vi ho mancato di rispetto, vi chiedo di perdonarmi…”

 

“Pegasus…” –Ma il ragazzo non la fece finire, avvicinandosi e prendendole le mani con le proprie, fissandola negli occhi, deciso a togliersi ogni pensiero.

 

“Forse non avrei dovuto, forse è sbagliato questo amore. Un Cavaliere dovrebbe proteggere la propria Dea, non innamorarsi di lei, soprattutto una Dea come voi, che ha sempre regalato un sorriso a tutti i suoi fedeli.”

 

“Apprezzo le tue parole, Pegasus, generose e oneste. E sì, probabilmente hai ragione. Questo amore è sbagliato.” –Sospirò Atena, scansando lo sguardo del ragazzo. –“Ho cercato di combatterlo per secoli, di togliermi dalla mente, e dal cuore, l’immagine e il ricordo di Bellerofonte, per quanto continuassi a rivederlo, e a riprovare le stesse emozioni, ad ogni mia incarnazione, in ogni Cavaliere di Pegasus che si ergeva a mia difesa. E allora ho capito, grazie a te l’ho capito. Che non posso combattere per sempre, non posso farlo, non contro me stessa! E se davvero l’ombra della fine di tutto si sta allungando su di noi, che venga e mi trovi così, vinta dall’amore ma felice! Perché così mi fai sentire, Pegasus!” –Concluse, accennando un sorriso.

 

Il Cavaliere non disse altro, limitandosi a sollevarle il mento e a poggiare le labbra sulla sua bocca, lasciando tutto il resto fuori. Per un momento, per un istante solo, Atena e Pegasus non furono più là, all’ingresso di un cimitero di martiri per la giustizia, ma altrove, in un’altra vita. Per un momento non furono più la Dea della Guerra e il suo Primo Cavaliere, ma due ragazzi come tanti, cresciuti in una città del Giappone, con tutti i problemi degli adolescenti. Si videro così, per un istante appena, con le uniformi di un liceo e i libri sottobraccio, lui con l’aria scanzonata dello studente che meditava di saltare le lezioni per andare in spiaggia, a suonare la chitarra, lei con lo sguardo accusatore e malizioso, tentata dal ribelle senza causa che ogni notte strimpellava fuori dal suo palazzo.

 

Un’altra vita. Mormorò Pegasus, staccando le labbra e chiedendosi se mai l’avrebbero vissuta. Forse non noi. Forse il prossimo Cavaliere di Pegasus e la futura incarnazione di Atena. Sorrise, pensando che sarebbe andata così, proprio così. Perché pensarlo significa che Caos sarà stato sconfitto e noi avremo vinto, salvando l’umanità!

 

“E allora saremo insieme! Per sempre!”

 

Atena annuì, prima di prendere il Primo Cavaliere per mano e incamminarsi con lui verso le Dodici Case. Prima di raggiungere l’esercito nell’arena, doveva occuparsi di un’ultima cosa.

 

***

 

Phoenix stringeva forte i pugni, così forte che le unghie gli si conficcarono nel palmo, facendolo sanguinare. Ma la vista di quello spettacolo, della devastazione a cui Atlante si era abbandonato, gli aveva fatto perdere il controllo. Aveva già saputo qualcosa, dalle acerbe parole che Pegasus gli aveva rivolto poco prima, ma vedere con i propri occhi quel che rimaneva del Grande Tempio tolse valore a ogni parola.

 

Era strano, si disse il ragazzo, avere così tanto a cuore un mucchio di case di marmo e pietra dove aveva trascorso solo poche ore, quasi sempre combattendo. Eppure, per lui che era un orfano, ma soprattutto un viaggiatore solitario, quel luogo era una specie di casa, un surrogato della famiglia che lui e suo fratello avevano perduto. Era un posto in cui sapeva di poter tornare e in cui sarebbe sempre stato accettato.

 

Andromeda, alle sue spalle, guardava da tutt’altra parte, avendo già visto, nelle immagini esplose nella sua mente poco prima di lasciare Asgard, quel che avrebbero trovato. Un anticipo della rovina cui l’intero pianeta era destinato.

 

Erano in piedi sul muro meridionale, su quel che rimaneva dell’antico confine abbattuto dalla progenie di Giapeto. Tra la polvere e i calcinacci, ancora impregnati del sangue di chi vi aveva trovato la morte, Phoenix fissava la Collina della Divinità, dal profilo ben diverso rispetto alla prima volta in cui l’aveva ammirata. Molte case erano state danneggiate o distrutte negli scontri del giorno prima, persino le stanze di Atena erano state annientate, e un’ampia fenditura spaccava la parte alta del colle, come una pugnalata al cuore della Dea.

 

Ma c’era un edificio che resisteva ancora, che ancora si ergeva a manifestare la superiorità della sua funzione rispetto a tutti gli altri. E Phoenix credette di sapere perché. Incurante delle guerre e dei pericoli del mondo, la Meridiana dello Zodiaco sembrava ridere di tutti, ricordando agli uomini, con il divampare delle sue fiamme, il tempo che mancava alla fine di tutte le cose.

 

Basteranno dodici fiaccole per salvare il mondo? Sospirando, e rilassando i pugni, il Cavaliere della Fenice si mise infine a sedere assieme ad Andromeda, tirandolo a sé e incitandolo ad essere forte.

 

“Siamo ancora insieme! E insieme affronteremo anche quest’ultima minaccia!”

 

Il ragazzo dai capelli verdi annuì, ancora triste per i gesti di cui si era macchiato, sia pur involontariamente, nel Ponto. Aveva tentato, prima di lasciare Themyskira, di riappacificarsi con Pentesilea, ma lo sguardo torvo dell’Amazzone lo aveva fatto desistere. Persino i monaci indiani si erano tenuti a distanza, stringendosi nelle loro tuniche fangose, intimoriti dal suo potere e dalla possibilità di subirne gli effetti.

 

“Grazie!” –Mormorò infine, abbracciato al fratello. –“Per non avermi abbandonato! Mai, in tutti questi anni! Anche quando ero un peso, anche quando piangevo e tutti mi deridevano!”

 

“Non avrei mai potuto farlo, Andromeda. Qualunque cosa accada, io ci sarò sempre per te, come te ci sei stato per salvarmi dall’ombra e dall’odio della Regina Nera! Siamo fratelli e saremo sempre insieme!”

 

***

 

Era la prima volta che Atena entrava nella Sala del Sigillo, per lo meno durante quell’incarnazione. Per molto tempo, fin da quando aveva preso consapevolezza della sua identità, non aveva avuto completo accesso ai ricordi delle sue vite passate, delle battaglie sostenute fin da quando era nata da Zeus. Era stato solo l’incontro con Avalon a risvegliare in lei la sua antica coscienza, che dai tempi di Bellerofonte si era trasferita in ogni nuovo corpo che l’aveva ospitata.

 

Anche a loro, alle fanciulle di cui si era servita per tornare in vita ogni volta in cui le tenebre si allungavano sul pianeta degli uomini, avrebbe dovuto chiedere scusa. Per averle strappate al futuro e a una serenità familiare di cui non avevano goduto.

 

Ma lo farò in un modo solo! Si disse, fissando le massicce porte istoriate da un glifo a forma di ramo di ulivo. Nell’unico modo che conosco! Combattendo! Aggiunse, voltandosi verso il Cavaliere d’Oro che la accompagnava, per fargli cenno di procedere.

 

Virgo si fece avanti, spalancando il portone e permettendo infine alla Dea di varcare la soglia di una stanza dove, fino a una decina di anni addietro, era stata custodita la suprema arma del Signore dei Titani. Là, al termine della prima Titanomachia, dopo che l’ultimo suo figlio l’aveva sconfitto, era stata riposta la Megas Drepanon, sigillata con fulmini che, nelle intenzioni del giovane Zeus, sarebbero dovuti durare un’eternità. Una delle tante illusioni di cui ci siamo riempiti il cuore troppo a lungo! Commentò Atena, osservando il misero arredo di quella sala.

 

Dopo che Crono aveva recuperato la sua divina arma, la stanza era caduta in disuso. Gemini non se ne era più curato, troppo impegnato a raccogliere energie e soldati per scatenare la sua crociata di conquista del pianeta. Così facendo, aveva permesso al giovane archivista di nascondervi il tesoro segreto del Santuario, in una nicchia scavata nel muro, di cui solo lui era a conoscenza. Un segreto che aveva conservato fino a pochi giorni prima, quando ne aveva parlato con Atena, offrendole una possibilità per vincere quella guerra.

 

“È incredibile!” –Commentò Castalia, affiancando Virgo e la Dea. –“Le mura della sala sono intonse! Non sono neppure state scalfite dalla devastazione condotta da Etere e da Atlante, nonostante si trovino sotto la statua di Atena!”

 

“I primi Sacerdoti scelsero bene l’ubicazione di questo luogo! Nel cuore della montagna sacra!” –Annuì il Custode della Sesta Casa.

 

“E proprio da qua partirà la nostra rivincita!” –Completò Atena, giungendo infine davanti a quel che cercava, a quel che Nicole le aveva detto di recuperare.

 

Una grande anfora a due becchi che, entrambi i Cavalieri lo percepirono chiaramente, pulsava di vivida energia.

 

“Meraviglioso!” –Mormorò la Sacerdotessa dell’Aquila.

 

Annuendo mesta, Atena si avvicinò, sfiorò la ruvida superficie del vaso e ringraziò il Cavaliere dell’Altare per quell’ulteriore dono che le aveva fatto. Ricordò le sue parole, la modestia con cui si era inginocchiato di fronte al trono, neppure un mese addietro, per confessarle quello che, all’epoca, gli era parso un crimine ma che adesso avrebbe potuto rappresentare la loro possibilità di vittoria.

 

“Perdonatemi, Vergine Dea!” –Aveva esordito, senza osare guardarla in volto. –“Per aver nascosto il vostro tesoro! L’ichor che versaste ai tempi del mito e che i Grandi Sacerdoti hanno conservato in un’anfora!” –Così le aveva raccontato quel che era accaduto quasi vent’anni addietro, quando era solo un ragazzino.

 

Il suo maestro era partito per l’Africa ed egli era rimasto solo, a servire un anziano ministro prossimo alla tomba. Ma se Arles non aveva avuto modo di insegnargli granché, lo aveva comunque incaricato di un nobile ma gravoso compito. Quello di custodire il sangue della Dea, in attesa di tempi migliori. Tempi in cui quell’ombra che il Cavaliere dell’Altare percepiva addensarsi sul Santuario sarebbe svanita.

 

Dopo che un apprendista aveva tentato di rubare l’anfora sacra, il Sacerdote aveva incaricato Arles di trovarle una più sicura collocazione ed egli si era affidato a Nicole, ma nessuno dei due era vissuto abbastanza per conoscerla. Così il giovane archivista era diventato depositario di quel segreto, che aveva nascosto nella Biblioteca del Santuario e poi nella Sala del Sigillo, dove era rimasto fino ad oggi.

 

“L’ichor di Atena!” –Mormorò Virgo. –“Il sangue miracoloso in cui si concentra l’essenza di una Divinità, in grado di curare qualsiasi ferita o malattia!”

 

“Proprio così, miei Cavalieri! E sarà con questo ichor, che versai all’epoca della mia prima incarnazione sulla Terra, che lenirò i vostri affanni! Con questo sangue puro, vi darò la possibilità di combattere ancora! Un’ultima volta!”

 

“Mia Signora, volete forse… dare fondo a tutto il vostro ichor, che per secoli è rimasto immacolato alle intemperie e alle guerre del mondo?!”

 

“Per cos’altro dovrei tenerlo, Cavaliere di Virgo, se non per quest’oggi, in cui i destini del mondo che conosciamo e amiamo saranno decisi?” –Gli sorrise la Dea. –“Se perderemo, tutto sarà inutile e non ci sarà un’altra occasione!”

 

L’ultima guerra era iniziata e avrebbero dovuto usare qualsiasi risorsa per combatterla.

 

***

 

Anhar si era calmato. Passata l’euforia iniziale per la morte di Avalon, la sua mente aveva iniziato a elaborare strategie possibili, frammenti di un futuro che adesso sentiva decisamente a portata di mano. Non che vi fossero dubbi al riguardo, del resto con Avalon erano morte anche le speranze dei Cavalieri e delle Divinità loro amiche.

 

Cosa mai potranno fare? Si chiese, sogghignando sotto quell’oscuro scafandro che fungeva da elmo. Rinchiudersi dietro le mura dei loro regni. Karnak, la cittadella di Asgard, forse l’Olimpo. E poi? Quanto ancora credono di poter resistere? Le loro forze sono ridotte al lumicino, mentre il potere di Caos cresce sempre più. Nutritosi delle Divinità minori di questo continente antico, il Creatore dell’Universo sta tornando a essere l’entità suprema in grado di generare la vita e la morte con un semplice soffio. Sta ricordando quella sensazione, e quest’armatura che indosso ne è la dimostrazione. Come lo saranno le altre che seguiranno. Ghignò, spaziando con lo sguardo in quel tetro androne ove si era rintanato, di sua sponte, per compiacere il generatore di mondi.

 

Sembrava una fucina, sebbene non ordinata come quelle di Efesto o dei nani di Svartálfaheimr. Per Anhar era soltanto lo studio ove mettere in pratica arcane e maledette conoscenze, che aveva tentato di apprendere e migliorare durante gli anni di apprendistato ad Avalon, ma che il Primo Saggio gli aveva precluso.

 

“Quel vecchio stolto! Brindo alle sue ossa!” –Ridacchiò l’Angelo Oscuro, sollevando un calice vuoto. Un calice da cui comunque non avrebbe potuto bere, non possedendo più corpo alcuno.

 

Soffermandosi su quel macabro particolare, scosse la testa, prima di gettar via la coppa, nella fornace ardente dove un’oscura lega stava fermentando, pronta ormai per essere battuta e temprata. La stessa lega di cui era composta la sua corazza.

 

Sei morto, Tegel! Tu che mi rifiutasti alla guida dell’Isola Sacra, preferendomi quel bieco burattinaio, sei morto! E anche il tuo pupillo ti ha seguito nella sventura! E presto stessa sorte incontreranno i suoi tre fratelli! Ahu ahu ahu! Mentre io ancora vivo! Io ancora esisto!

 

La cupa risata echeggiò ancora per qualche istante nel silenzioso sotterraneo, senza che nessuno si complimentasse con lui. Era solo, come in fondo era sempre stato, sebbene donne mortali e inconsueti alleati avessero a volte mitigato la sua solitudine. C’era stata quella tipa, come si chiamava? Quella che gli aveva tenuto compagnia sull’Isola delle Ombre. Cassiopea? Cassandra? Sì, doveva chiamarsi così. Una parte di sé ancora la ricordava, sogghignando compiaciuto al piacere provato giacendo assieme. Un piacere momentaneo, di certo non paragonabile all’apoteosi che avrebbe provato a breve. Che importava se l’Ape Nera non fosse lì per celebrare con lui?

 

Anche il suo allievo pareva averlo abbandonato. Dopo il fallimento della missione nell’Avaiki, non lo aveva ancora incontrato, sapendo soltanto che riposava in uno dei piani superiori, curando le ferite che Ascanio gli aveva inflitto. Le ultime, poiché anche l’erede dei Pendragon presto sarebbe morto. E il Talismano che con orgoglio aveva custodito, celandolo al suo occhio avido, sarebbe morto con lui. 

 

A cosa servivano quei manufatti, in fondo? Certo, erano armi potenti, intrise del cosmo dei Sette Saggi, ma niente che i Progenitori non avrebbero potuto affrontare. Di fatto, senza Avalon e la possibilità di unirli, erano inutili. Su questo, sia lui che il fratello avevano fallito. Lui, perché aveva sprecato anni a cercarne traccia nei regni divini, senza capire cosa fossero davvero (aveva persino assaltato la Biblioteca di Alessandria, convinto di trovarvi una mappa sui loro nascondigli!), e Avalon, perché era morto prima di passare ad altri le istruzioni sul rito finale, quello che avrebbe evocato la Coppa di Luce. La troppa segretezza ti ha sconfitto, fratello!

 

Ricordava ancora, Anhar, la sorpresa che l’aveva invaso quando, scrutando a fondo nell’animo di Tegel, aveva scoperto cosa fossero i Talismani. Dei cristalli di energia, residui del cosmo dei primi saggi, che un giorno, in occasione del secondo avvento, si sarebbero posati sul cuore di sette nuovi giovani, guidandoli verso l’ultima guerra.

 

Appurato questo, c’era ancora una cosa che lo turbava. Anzi, soltanto quella, dato che ormai niente più poteva essere un problema. Né Andrei, che per quanto impavido e potente sarebbe stato spento da un soffio dell’Unico. Né Alexer, i cui fulmini mai avrebbero potuto rischiarare l’oscurità del nuovo mondo. Né tantomeno Asterios, dei Quattro colui che meno amava combattere, avendo preferito rifugiarsi in un mondo lontano, a contemplare il disfacimento di quello che avrebbe dovuto difendere.

 

Eppure…, si disse Anhar, stringendo i pugni. Cos’era quel ricordo? Cos’era quel muro oltre il quale non sono stato in grado di andare?

 

Infervorato al ricordo di quell’ostacolo, il Gran Maestro del Caos bruciò il proprio cosmo, generando un’onda di energia che squassò l’intero stanzone, distruggendo tavoli e sedie di pietra. Detestava ammetterlo, e a Nyx ed Erebo non aveva fatto parola, eppure non era riuscito a penetrare a fondo i segreti di Tegel. Era comprensibile che l’ultimo sopravvissuto alla Prima Guerra avesse sviluppato solide difese mentali, per proteggere segreti che avevano dato un senso alla sua esistenza. Anhar aveva visto qualcosa; aveva percepito che c’era ancora qualcosa, nascosto nei meandri della sua mente, oltre alla verità sui Talismani e sulla Coppa di Luce. Qualcosa che riguardava gli Angeli, e quindi anche lui. Ma Avalon e Andrei lo avevano sconfitto prima che potesse carpire quell’ultimo segreto, poi Tegel era morto, rendendo impossibile tentare una seconda possessione.

 

Non capiva cosa fosse, di certo qualcosa che andava al di là dei suoi schemi mentali, qualcosa che nelle sue ipotetiche costruzioni di futuro non trovava posto, poiché niente poteva impensierire Caos e i Progenitori. Eppure, doveva essere importante per aver spinto Tegel a sollevare barriere mentali così potenti da celarlo.

 

Ma cosa?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo terzo: Prima di partire. ***


CAPITOLO TERZO: PRIMA DI PARTIRE.

 

“Volevate vederci, Comandante?” –Esclamò Jonathan, il biondo ciuffo mosso dal gelido vento di Asgard.

 

Ascanio, di fronte a lui, annuì, spostando lo sguardo sugli altri Cavalieri delle Stelle. Dopo tanti anni trascorsi ad ascoltare Avalon parlare dei Talismani e dei loro mirabolanti poteri, adesso erano finalmente tutti riuniti. C’era curiosità nello sguardo di ognuno di loro, soprattutto da parte dei primi ad aver risvegliato i manufatti. Reis, Jonathan e Marins scrutavano Elanor incuriositi, non avendo mai immaginato che l’ultimo Talismano fosse nascosto proprio sulla Luna. In verità, nessuno di loro aveva visto nemmeno il Calderone dei Misteri, sebbene nessuno avesse mai avuto dubbi sul ruolo di Ascanio.

 

Egli era il glorioso Comandante dell’ordine scelto da Avalon per fronteggiare la minaccia dei Progenitori e tutti gli tributavano il giusto rispetto. Anche Matthew, che non aveva mai avuto simpatia per le autorità, e la stessa Elanor, appena strappata al Reame Beato in cui aveva sospirato per anni attendendo di vivere intense emozioni, ne avevano subito accettato il ruolo, percependo in lui qualcosa di più.

 

Non era soltanto dotato di un cosmo vasto e vigoroso, non era solo il discendente dei Pendragon e il custode dei misteri di Albion. Ascanio era l’erede di Avalon, ne aveva le capacità e la flemma necessaria. A volte, scherzando, Jonathan diceva che aveva persino la stessa espressione dell’Arconte Supremo, quella maschera di imperturbabilità che nascondeva una mente dall’attento acume indagatore. Egli, come Avalon, avrebbe fatto di tutto pur di raggiungere il proprio obiettivo.

 

“Avete fatto medicare le vostre ferite da Eir? La Asinna della Medicina è un’esperta guaritrice, sebbene lo scontro con Erebo l’abbia fiaccata. Ecco, tenete! Ristoratevi con questa!” –Disse Ascanio, allungando una borraccia ai Cavalieri suoi compagni. –“Quando sono stato ad Avalon, poche ore addietro, tutto era in rovina. Dei meli sotto i quali amavano leggere o meditare, non era rimasto niente. Solo tronchi ischeletriti e crateri sparsi, resi fangosi dalle acque che zampillavano dalle profondità sventrate. In mezzo a quella devastazione, un luccicore ha attirato la mia attenzione. Per quanto il Pozzo Sacro sia stato distrutto, ho ricostruito il percorso delle acque sotto la collina, seguendole fino alla sorgente ai piedi del Tor, e lì ho raccolto quest’acqua, di cui conoscete le forti proprietà rigenerative! Sorseggiatela piano, assaporandola con gusto! Lasciate che la sapienza dell’antica Albion fluisca in voi e vi guidi in quest’ora buia!”

 

Uno dopo l’altro, i Cavalieri delle Stelle bevettero l’acqua di Avalon, sentendo una nuova energia scuotere il loro corpo, un pizzicore che infuse loro determinazione e speranza. Per quanto Alexer avesse detto il vero, nessuno di loro aveva qualcuno da salutare. A differenza dei Cavalieri dello Zodiaco, che avevano amici e parenti che aspettavano il loro ritorno, Jonathan e gli altri erano soli, avendo consacrato l’intera esistenza a prepararsi per quel momento. E le poche persone a cui erano legati sarebbero venute con loro nel Gobi.

 

Jonathan aveva soltanto il suo mentore, che poc’anzi gli aveva rivolto un veloce discorso di incoraggiamento, e i Guerrieri di Inti, che aveva contribuito ad addestrare e con cui condivideva le origini e i tratti somatici. Ma, a parte questa somiglianza di facciata, il ragazzo non aveva nessuno a Isla del Sol. Soltanto dolorosi ricordi della notte in cui aveva perso sua madre, e del senso di colpa che aveva a lungo dimorato nel suo animo, accusandosi per essere stato troppo debole, troppo inesperto, per poterla salvare. Era stato ad Avalon, meditando e viaggiando dentro le sue debolezze, che era riuscito a superarlo e ad andare avanti.

 

Anche Reis, da piccola, aveva affrontato un percorso simile, rivivendo molte volte il giorno dell’alluvione nel Galles, uscendone presto vincitrice, grazie alla sua forza di volontà e a un carattere forte, che le aveva permesso di risvegliare per prima il Talismano da lei custodito. C’era solo una persona con cui avrebbe voluto stare, per parlargli e dargli un ultimo bacio, ma in quel momento era ad Atene. Sorrise, riflettendo che presto lo avrebbe ritrovato in battaglia, dove lo aveva incontrato la prima volta e dove avevano trascorso la maggior parte del loro tempo insieme. è questo, in fondo, che fanno i guerrieri. Si disse, sospirando e sperando che il vento portasse a Ioria i suoi pensieri.

 

Marins apriva e chiudeva le dita della mano artificiale, allenandosi a impugnare e a lanciare il Tridente dei Mari Azzurri, realizzando di averne ormai completa padronanza, sebbene a volte rimpiangesse di non aver più quella vera. Concedendosi un sorriso, si chiese cosa avrebbe pensato la zia Susy di lui, vedendolo adesso, vent’anni dopo, con una protesi e cicatrice sparse sul corpo. Sei tutto tuo padre! Probabilmente avrebbe detto così. E non era un pensiero incoraggiante, per un uomo che era morto solo, per un errore umano e dopo essere stato lasciato dalla moglie.  Febo gli poggiò una mano sulla spalla in quel momento, rubandolo ai suoi pensieri e costringendolo a voltarsi verso il suo migliore amico. No, si disse Marins scuotendo la testa. A differenza di suo padre, lui non sarebbe morto solo.

 

La stessa cosa sembrò pensarla il Cavaliere del Sole, il cui animo era ancora turbato dalle parole crude, ma veritiere, di Lissa. Non aveva dovuto faticare molto, la Dea del Furore Cieco, per tramutare la colpevolezza di Febo in pazzia. Aveva soltanto dovuto ripercorrere la sua esistenza e le perdite che essa aveva comportato. Hannah, morta nel darlo alla luce, gli Dei d’Egitto, che avevano abbandonato Amon per aver giaciuto con una sacerdotessa greca, Osiride e Iside, rei di averlo amato troppo. Che a uguale sorte fossero destinati anche suo padre e suo fratello? Quel pensiero lo fece avvampare, portandolo a chiudere le dita a pugno e a giurare a se stesso che mai nessuno più sarebbe dovuto morire a causa sua. Costi quello che costi.

 

Matthew era forse il più tranquillo, non avendo nessun legame con il mondo per il quale stava per andare a morire. L’unico che sentiva adesso, e che gli solleticava il cuore spingendolo a cercare il suo sguardo e a fissarla anche quando lei gli voltava le spalle, era per la ragazza dagli occhi verdi al cui fianco aveva combattuto sulla Luna. Era strano, dopo Miha, pensare a un’altra. Eppure non si sentiva in colpa, né provava vergogna per quel sentimento nascente, poiché certo che saperlo felice fosse tutto quel che Miha avrebbe voluto per lui.

 

Elanor, dal canto suo, camminava avanti e indietro nel piazzale retrostante la fortezza di Asgard, dove Ascanio li aveva convocati, le mani giunte di fronte alla bocca, recitando un’antica litania che il Selenite di Giove le aveva insegnato. Una preghiera di pace che rivolse ai suoi genitori, soprattutto a sua madre, una donna che troppo tardi aveva imparato ad ammirare. Troppo tempo aveva passato a volersi allontanare da lei, convinta che fosse soltanto una vigliacca, che aveva abiurato agli impegni che ogni Divinità dovrebbe avere verso i propri fedeli, nascondendosi sull’altra faccia di un mondo lontano da guerre e tempeste. E solo ieri, quando Selene si era eretta di fronte a Nyx, per permettere alla primogenita di mettersi in salvo, aveva compreso quel che la Dea della Luna aveva cercato di fare per tutto quel tempo. Proteggerla e darle la possibilità di vivere. E lei, adesso, quella possibilità non l’avrebbe sprecata.

 

“Comandante Ascanio?!” –Esclamò infine. –“Potrei far visita alle mie sorelle? Vorrei salutarle prima della partenza!”

 

Il Cavaliere della Natura annuì, rimanendo ad osservarla mentre la ragazza rientrava dentro il palazzo. Quindi, vedendo che Matthew non le aveva tolto gli occhi di dosso, gli si rivolse a bassa voce. –“Tienila d’occhio! È necessario che impari a obbedire!”

 

“È un po’ ribelle, è vero! Lo siamo stati tutti i primi tempi, no?” –Ironizzò il Cavaliere dell’Arcobaleno. Ma Ascanio non sorrise affatto.

 

“La libertà è un lusso che ormai non possiamo permetterci!”

 

Quei pensieri albergavano anche nella mente di Elanor, che non aveva smesso di sentirsi in colpa nemmeno per un momento per la morte di Mur dell’Ariete. Di fatto, con la sua bravata, non era riuscita a salvare sua madre né a proteggere il Cancello Orientale del Grande Tempio, fallendo sia in ciò che voleva che in ciò che doveva fare. Le si stringeva ancora il cuore al ricordo dell’espressione addolorata di quel bambino, stretto tra le braccia della Sacerdotessa di Atena, che cercava di cullarlo, regolarizzandone il respiro. Era stata colpa sua, c’era poco da fare. Avalon le aveva dato un ordine e lei non lo aveva rispettato e aveva trascinato Matthew con sé.

 

Per la verità, è stato Matt a portarmi con sé, indicandomi come raggiungere la Luna! Si disse, percorrendo i corridoi della cittadella di Asgard. E lo ha fatto perché

 

Perché teneva a lei e non voleva che si perdesse. Era quasi morto, per lei, e se fosse accaduto avrebbe avuto sulla coscienza anche la sua vita, oltre che la perdita di un Talismano. Doveva smetterla di comportarsi così, di agire come una bambina ribelle. Era un Cavaliere delle Stelle adesso, insignita dal ricordo di una madre che si era sacrificata per lei. Una madre che sperava adesso fosse in pace, magari con il suo amato Endimione, qualunque posto attendesse le Divinità dopo la morte.

 

“Siate forti!” –Disse alle sue sorelle, le altre quarantanove figlie che Selene aveva portato sulla Terra per l’assemblea dei regni divini. Con la distruzione del Reame Beato, avevano perso la loro casa e adesso non sapevano dove andare. –“Flare vi ha offerto la sua ospitalità! Rimarrete qua, fino al mio ritorno, e poi decideremo insieme cosa fare!”

 

“Fa freddo, ad Asgard!” –Commentò Talisa, una delle ragazze più giovani, stringendosi sotto un mantello.

 

“La Regina di Asgard è stata molto generosa a permetterci di restare qua!” –La rimproverò bonariamente un’altra. –“Cercheremo di essere utili! Tu, piuttosto, vedi di sbrigarti a salvare il mondo! Ci mancherai!” –Aggiunse, abbracciando Elanor, che si ritrovò in breve circondata da una moltitudine di braccia che volevano stringerla a sé.

 

Quasi senza pensarlo, si ritrovò a salutarle tutte, con le lacrime agli occhi, quelle stesse sorelle che per anni non aveva sopportato, considerandole vanitose, sciocche e superficiali.

 

“Anche voi! Anche voi!”

 

Aveva sempre detestato l’immobilismo del Reame Beato, quell’eterna apatia in cui niente sembrava accadere, eppure adesso che lo aveva perso, e con esso i genitori che l’avevano amata, una parte di lei sarebbe voluta tornare indietro. Per dire a sua madre che aveva capito, che quella volontà di isolarsi dal tempo e dal mondo era il suo modo di proteggere tutte loro, la sua famiglia.

 

“Pregheremo per voi e per i nostri genitori, e il nostro canto infonderà pace e speranza alla genti del nord!”

 

“Ne avremo tutti bisogno!” –Concluse Elanor, prima di allontanarsi.

 

***

 

Non c’era voluto molto, ad Alexer, per radunare le forze di Asgard.

 

Come ogni altro regno divino, anche l’ultima propaggine della civiltà del nord aveva sofferto grandi perdite durante l’attacco di Erebo. Un terzo dei Blue Warriors che l’Angelo d’Aria aveva personalmente addestrato era caduto nel crollo del castello, o giaceva ferito in brande da cui difficilmente si sarebbe rialzato. L’Asinna della Medicina aveva fatto il possibile, facendosi aiutare anche da Idunn e dalle sue portentose mele che, sebbene non donassero la giovinezza come gli scaldi avevano cantato nei loro poemi, possedevano preziose virtù curative. Ma anche Eir era stanca, avendo subito la violenza del Tenebroso, e il numero di feriti era così elevato che alla fine, crollando in ginocchio, con le lacrime che le deturpavano il pallido volto, era stata costretta ad ammettere di non essere in grado di salvarli tutti. E quell’ammissione l’aveva ferita più di una daga di Erebo.

 

Idunn l’aveva aiutata ad alzarsi, mormorandole parole di conforto, e anche Alexer le aveva detto di non sentirsi in colpa, pensando invece a quanti aveva curato, salvandoli dalla morte. Non un grande risultato, si disse, uscendo nell’aria fredda del piazzale retrostante la fortezza, considerando che stiamo tutti andando a morire! E stavolta per davvero! Contro la grande ombra che sorge da est, non vi potrà essere rimedio! Vittoria o morte, per tutti noi. Luce o tenebra. Nessuna sfumatura di grigio.

 

L’Arconte Azzurro parve intuire i suoi pensieri e le accennò un sorriso, mentre scambiava qualche parola con Asterios e Andrei. Alle loro spalle i Cavalieri delle Stelle attendevano gli ordini degli Angeli, allineati in una riga perfetta di fronte al resto delle truppe: i Blue Warriors ancora in vita e un centinaio di Guerrieri del Nord, armati di asce, lance e archi a lunga gittata. Li accompagnavano Vidharr, Eir, Idunn e il Selenite di Saturno.

 

Proprio Mani stava parlando con la Regina di Asgard in quel momento, tenendole le mani tra le proprie e ringraziandola per aver accettato di prendersi cura dei suoi figli.

 

“Bil e Hjúki non le causeranno problemi! Sono irrequieti, è vero, ma sono dolci e giudiziosi! Inoltre potranno aiutarvi nella ricostruzione della cittadella!” –Spiegò il Selenite, prima di arruffare i capelli dei due bambini, pregandoli di comportarsi bene.

 

“Ma noi vogliamo venire con te! Possiamo combattere, lo sai!” –Esclamò Bil, abbracciando una gamba del padre.

 

“Con Sǿgr e Símul?! Difficile che qualche nemico si intimorisca di fronte a un secchio e a un bastone!” –Rise Mani, prima di baciare i figli in fronte e invitarli a obbedire agli ordini della Regina di Asgard.

 

“Sarò lieta di averli al mio fianco!” –Rispose Flare compita, sebbene quei due ragazzetti, così vispi e gagliardi, non poterono che ricordarle un altro giovane andato incontro a un tragico destino.

 

“Vogliate accettare questo dono, Celebrante di Odino!” –Disse infine il Selenite di Saturno, offrendole un bastone di legno nodoso. –“Non possiedo ricchezze né posso riportare indietro il tempo, a giorni felici! Posso però contribuire a creare un futuro migliore, ed è quello che faremo oggi, dando fondo a tutte le nostre forze! Voi… tenete questo, Regina! È quel che rimane di Yggdrasill, l’Albero Cosmico!”

 

“Nobile Mani, mi onorate di un grande dono!”

 

“Un dono per l’umanità e per chi la protegge!” –Rispose lui, prima di voltarsi verso est. –“Ecco, guardate là! Quando vedrete il sole spuntare dietro quella caligine oscura, saprete che avremo vinto e allora pianterete il bastone nel terreno, permettendo al Frassino dell’Universo di germogliare e tornare a crescere! Quel momento, la sconfitta dell’ombra, sancirà l’inizio del nuovo tempo cosmico!”

 

“Lo farò!” –Annuì Flare decisa, stringendo a sé la preziosa reliquia.

 

“È ora di andare, dunque!” –Esclamò il Principe Alexer. –“Amon Ra, Zeus e Atena stanno per muoversi anche loro! Appariremo ai margini meridionali della vasta piana dove sorge il Santuario delle Origini! Stando ai resoconti di Horus, il cosmo di Caos rende impossibile arrivare a ridosso delle mura della fortezza, per cui ci incontreremo sui Monti Kunlun con i nostri alleati, valutando la consistenza di quest’eventuale barriera d’ombra e come penetrarla!”

 

“I Monti Kunlun, eh?!” –Mormorò Andrei, strusciandosi la barbetta incolta. –“Per i taoisti, sono il paradiso! Speriamo che per noi non siano l’inferno!”

 

Asterios non disse alcunché, limitandosi a espandere il proprio cosmo, al pari dei fratelli, avvolgendo l’intero piazzale e tutti i suoi occupanti. Vi fu un lampo di luce, che obbligò Flare e i figli di Mani a tapparsi gli occhi, e poi tutto fu deserto. Erano rimasti soli.

 

***

 

Tra le rovine dell’anfiteatro era riunito quel che restava dell’esercito di Atena.

 

Su ordine di Ioria e Tisifone, tutti i soldati, gli apprendisti e i fedeli della Dea erano accorsi all’ultima assemblea che quel tempo cosmico avrebbe visto. In settecentododici si erano presentati, una cifra che l’Unicorno giudicò enorme, alla luce delle forti perdite subite nel corso dell’ultimo anno, ma che, come tutti ben sapevano, era a malapena sufficiente per spingere il portone d’accesso al Santuario delle Origini. Di fronte a tutti, con l’armatura danneggiata e una fasciatura al braccio sinistro, Patrizio fissava Atena con onore, fiero di essere lì, a offrirle i suoi servigi, come i suoi avi avevano fatto da tempi immemori, forse dall’Età Classica.

 

Atena ricambiò il suo sguardo, e quello di tutti gli uomini mortali che le avevano affidato la vita. Giovani e giovanissimi, sacerdotesse e apprendisti Cavalieri, persino le arrefore e le ergastine, tutti avevano risposto al richiamo della Dea e adesso ascoltavano attenti le parole di Tisifone, che, in piedi sui gradoni spaccati, stava illustrando loro quel che sarebbe accaduto.

 

“Marceremo contro il Primo Santuario, ove Caos e i Progenitori dimorano, tentando di infliggere un colpo mortale alle loro ambizioni! È un’impresa disperata, forse persa in partenza, un’impresa per cui resistere a un drago fiammeggiante o a un gigantesco guerriero è stata una bagatella! Ma lo faremo senza esitare, perché da quest’impresa dipende il nostro futuro e quello di tutti gli abitanti della Terra!”

 

Asher, al suo fianco, annuì, prima di voltarsi verso il palco dove si ergeva Atena, circondata dai Cavalieri dello Zodiaco. Di fronte a lui, ai piedi della gradinata distrutta, aspettavano Ioria e Virgo, mentre, poco sotto, mescolati ai soldati e al popolo di fedeli, l’Unicorno scorse i volti preoccupati di Reda e Salzius e quelli inespressivi delle Sacerdotesse: Castalia, Nemes, Yulij e Kama. Non ebbe bisogno di toglier loro la maschera per notarne l’espressione inquieta, gli bastò soffermarsi sul battito accelerato del proprio cuore, e inghiottire in silenzio.

 

“Miei Cavalieri, miei fedeli! Le parole del Serpentario sono crude ma vere! Questo è quanto si prospetta all’umanità, e a noi che ne siamo i difensori! Accettare l’ombra o combatterla, e poiché alla fine ne saremmo comunque sopraffatti allora io decido di oppormi ad essa, e lo farò con la luce del mio cosmo, resa ancora più grande dall’amore e dalla fede di chi crede in me e nei miei ideali! Non vi obbligherò, sappiatelo, nessuno di voi deve sentirsi obbligato a seguirci né temere il marchio dell’infamia! Comprendo le vostre paure, le reticenze nel fronteggiare questo pericolo, e benedirò chi decida di rimanere! Ma se qualcuno tra voi volesse lottare per dare un futuro all’umanità, io sarò onorata di averlo al mio fianco!”

 

Per una manciata di interminabili secondi nessuno fiatò, nessuno osò spostare lo sguardo, poi Patrizio mosse un passo avanti, carezzandosi la barba grigia e accennando quello che alla Dea parve un sorriso.

 

“L’onore sarà reciproco, oh Atena Promachos! Guidaci ancora una volta, guidaci nell’ultima guerra!”

 

“Sì, guidaci!” –Disse una donna sulla trentina, avanzando anch’ella. Tisifone la riconobbe: era stata un’ergantina, una di quelle che aveva tessuto il peplo per le Panatenee volute da Shin quindici anni addietro, ma l’innocenza nei suoi occhi aveva lasciato il posto alla determinazione.

 

Dopo di che fu una cacofonia di suoni. Tutti i soldati e i fedeli della Dea fecero un passo avanti, chiamando a gran voce il nome di Atena Promachos. I guerrieri sollevarono le spade e le lance, facendole cozzare sugli scudi, le donne agitavano i pepli, gli apprendisti scalpitavano e chiedevano un’armatura, persino le anziane sacerdotesse diedero il loro assenso. Sarebbero venute anche loro nel Gobi, a costo di essere trasportate su un mulo, e il loro canto e le loro preghiere avrebbero rischiarato l’animo dei combattenti al cui fianco sarebbero morte.

 

“La nostra risposta già la conoscete, Atena!” –Esclamò allora Ioria, trovando Asher e gli altri concordi. –“Noi tutti Cavalieri d’Oro, d’Argento e di Bronzo rimasti vi seguiremo fino alla fine!”

 

“Grazie!” –Mormorò Atena, con gli occhi lucidi di lacrime, prima di scendere i gradoni dell’arena, aiutata da Pegasus, e raggiungere il suo esercito, mentre Phoenix e Sirio, alle sue spalle, trascinavano una grossa anfora. –“Come voi mi avete donato il vostro amore, lasciate che io faccia altrettanto!” –E sollevò il coperchio della giara, liberando l’acre odore del suo antico sangue divino.

 

Uno dopo l’altro, in ordinate file, tutti i Cavalieri, di qualunque rango, e i fedeli della Dea vennero bagnati dall’ichor e benedetti della protezione di Atena. Ne bastò una goccia per lenire le loro ferite, donando loro nuove sicurezze e speranze. Ce ne volle più d’una invece per riparare le danneggiate corazze dell’Unicorno, del Serpentario e dell’Aquila, della Poppa e del Camaleonte, del Pastore e di Cassiopea, del Leone e della Vergine, e dei Cavalieri Divini, le cui corazze riforgiate da Efesto già erano state messe a dura prova.

 

Fu con le ultime gocce rimaste che Atena bagnò la propria Veste Divina, ricordando il sacrificio delle sue amiche, le Dee che credevano in lei e che le avevano affidato la salvezza dell’umanità. L’Egida tornò integro e la Lancia di Nike rilucette nel meriggio ateniese, prima che Atena la impugnasse, guardando dentro l’anfora sacra.

 

Vuota.

 

Avevano dato fondo a ogni risorsa. Dovevano vincere, per forza. Ormai si erano spinti troppo oltre e indietro non sarebbe stato possibile tornare più.

 

“Radunateli in gruppi! L’ora è giunta! Dobbiamo andare!” –Disse, cercando con lo sguardo il Cavaliere della Vergine, che l’avrebbe aiutata nel trasferimento.

 

“Pegasus!!! Ragazzi!!! Aspettatemi!!!” –La squillante voce di Kiki li raggiunse in quel momento, facendoli voltare verso l’ingresso dell’anfiteatro, da cui il ragazzino arrivò correndo. Aveva indossato un elmo troppo grande e pezzi sparsi di una cotta di rame che doveva aver trovato per la via e adesso stringeva in mano una lancia dal manico spezzato.

 

“Ehi, piccoletto, dove pensi di andare?!” –Lo chiamò Pegasus, ponendosi di fronte a lui, subito circondato dagli amici.

 

“Vengo con voi! Al Santuario delle Origini! Voglio combattere… Io… posso farlo!”

 

“Non ne dubito, Kiki, non ne dubito!” –Commentò il Primo Cavaliere di Atena. –“Ma nel luogo in cui andiamo dimora il male nella sua forma più pura!”

 

“Rimani qua, tieni il Grande Tempio per noi e prepara la festa per il nostro ritorno!” –Intervenne Asher, ma Kiki non lo ascoltò, agitando la lancia infervorato.

 

“Non trattarmi come un bambino! Sono un soldato come voi!”

 

“Il tuo valore è indubbio e l’hai provato più volte!” –Parlò allora Andromeda. –“Ma il Gobi non è posto per te!”

 

“Lo è diventato quando hanno ucciso mio fratello!” –Pianse il ragazzino, piantando la lancia a terra e pulendosi poi gli occhi dalle lacrime.

 

“Kiki…” –Mormorò Pegasus, mentre la delicata sagoma di Yulij del Sestante si faceva avanti, portandosi quieta alle spalle di Kiki e stringendolo in un tenero abbraccio. Gli disse qualcosa, che i Cavalieri dello Zodiaco non capirono, e sulle prime il fratellino di Mur si agitò, cercando di liberarsi della sua presa, ma poi cedette, ascoltando le parole della Sacerdotessa, quasi rapito da quella che, alle orecchie di tutti, appariva sempre più come una cantilena.

 

Yulij lo cullò per qualche istante ancora, vincendone la resistenza, mentre la testa del bambino ciondolava di lato e l’elmo gli si sfilava, cadendo a terra e lì rimanendo. In un attimo chiuse gli occhi, sprofondando in un sonno sereno, in cui, ancora bambino, aiutava Mur a riparare le armature dei Cavalieri, imparando i trucchi del mestiere e seguendolo nelle esplorazioni nelle montagne dello Jamir. Non c’era voluto molto, al Cavaliere del Sestante, per capire cosa volesse davvero e a quell’immagine felice si era aggrappata per ricreare il mondo onirico in cui l’aveva precipitato.

 

“Abbi cura di lui!” –Le disse allora Pegasus, assieme al quale, poco prima, aveva concordato la mossa. Del resto tutti conoscevano la testardaggine del piccolo Ariete e si erano detti certi che avrebbe voluto seguirli anche quella volta, come li aveva seguiti ad Asgard e nel Regno Sottomarino, persino sull’Olimpo.

 

“Ci sei sempre stato! In tutti i momenti importanti!” –Commentò allora Dragone, scombinando i capelli del bambino e ricordando il loro primo incontro, al palazzo di Mur, quando aveva finto di essere il fratello, divertendosi alle spalle dell’allievo di Libra. –“C’eri ad Asgard, a soffrire lo stesso freddo di Atena! C’eri nel Regno Sottomarino, quando correndo da un pilastro all’altro, portasti l’armatura della Bilancia in nostro aiuto, incurante del pericolo!”

 

“Incurante anche degli attacchi nemici!” –Intervenne Cristal, che aveva ancora in mente le botte che Kiki aveva preso da Abadir.

 

“Per noi! Solo per noi, per aiutarci, per restarci accanto! Per dimostrare di essere un Cavaliere anche tu, e non un’appendice!” –Concluse Andromeda, con occhi lucidi.

 

“Ma tante volte non avresti dovuto esserci! Non avresti dovuto vivere così! Chissà, forse da domani potrai davvero vivere una vita diversa!” –Gli sussurrò Pegasus, baciandolo in fronte e dicendogli addio.

 

Yuliji si sollevò, tenendo il ragazzetto in braccio e avvolgendolo in un mantello, per tenerlo caldo. Guardò un’ultima volta Pegasus e i Cavalieri dello Zodiaco, augurando loro buona fortuna, e poi si incamminò verso il porto, dove una barca la aspettava per condurla all’Isola del Riposo.

 

“Noi non torneremo, Kiki! Ma tu vivrai anche per noi!” –Disse Pegasus.

 

I cosmi di Atena e di Virgo lo raggiunsero in quel momento, invadendo l’intera arena dei combattimenti, avvolgendo tutti i presenti in un abbraccio di luce, che aumentò sempre più di intensità, fino ad esplodere in un lampo abbagliante. Yulij, che correva verso il mare, non ebbe bisogno di voltarsi indietro per capire che al Grande Tempio non era rimasto più nessuno.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo quarto: Il giorno dell'ira ***


CAPITOLO QUARTO: IL GIORNO DELL’IRA.

 

Visto dall’alto il Santuario delle Origini sembrava un’enorme montagna nera, che risaltava nettamente su uno sfondo arido come il deserto al centro del quale si ergeva. Il deserto della morte.

 

Guardandolo meglio, Neottolemo si accorse che più che un monte assomigliava a un insieme di scoordinate figure geometriche ammassate le une sulle altre, dandogli una forma rigonfia e massiccia. Di fatto, il Nocchiero di Tirinto non avrebbe saputo descriverlo meglio poiché non aveva mai visto una costruzione simile, totalmente diversa da ogni castello o roccaforte che avesse visitato in passato o di cui avesse letto al riguardo. E, a giudicare dai commenti di Nesso e di Horus, in piedi sulla poppa della Nave di Argo, il pensiero era unanime.

 

Eracle li aveva scelti per una veloce ricognizione, confidando sull’acuto sguardo del Pesce Soldato, e il Dio Falco si era offerto di guidarli, essendovi stato pochi giorni addietro. Eppure, osservando dall’alto quella grezza costruzione in roccia nera, Horus non poté fare a meno di ripensare alle parole di Naveed, quando l’aveva descritta come un organismo vivente. Nella pratica, il giovane egizio non aveva avuto torto, poiché il santuario sembrava davvero espandersi di continuo, mutando la sua struttura e creando bastioni là dove prima vi era soltanto deserto.

 

Cresce con l’aumentare del cosmo di Caos! Rifletté, chiedendosi cosa sarebbe potuto diventare se non fossero riusciti a fermare i Progenitori in tempo. Avrebbe forse fagocitato l’intero pianeta, estirpando l’enorme varietà dei suoi ambienti? Quella prospettiva lo fece rabbrividire, voltandosi verso il fedele di Eracle e ordinando di tornare indietro. Ormai avevano visto ciò di cui avevano bisogno.

 

Fu in quel momento che Nesso urlò. Un attimo prima che una folgore nera si schiantasse sull’albero maestro della Nave di Argo, spezzandolo e incendiando le splendide vele che illustravano le imprese di Eracle nel Mondo Antico. Un secondo fulmine e anche la prua fu scheggiata e la polena lignea avvampò.

 

“Ci hanno individuato!!!” –Gridò Horus, tentando di farsi udire nel frastuono che la pioggia di folgori aveva provocato. –“Siamo sotto attacco!”

 

“Portaci via da qui, Neottolemo!” –Incalzò Nesso, spinto indietro dallo scuotersi dell’intero vascello.

 

“Io… non ci riesco… Non riesco più a controllarlo!”

 

Un terzo fulmine spezzò in due metà la Nave di Argo, assieme alle speranze del timoniere di riportarli indietro. Fu lesto Horus ad afferrare Nesso, prima di scattare verso Neottolemo, prenderlo per un braccio e saltare fuori dalla carcassa del vascello in fiamme, che ormai stava precipitando verso terra. Un attimo dopo le ali della sua Veste Divina si aprirono, mentre il figlio di Osiride cercava di mantenere la rotta, evitando al qual tempo di essere incenerito da quella torma di folgori nere che aveva saturato il cielo all’improvviso.

 

Un vento amico parve spingerli più in fretta, gonfiando le sue ali e aiutandoli a uscire dalla tempesta, giusto in tempo per vedere Euro venir loro incontro, i luminosi bagliori delle sue ali colorate che rischiaravano il cielo. Afferrò Nesso con entrambe le braccia, togliendo peso al Falco d’Argento, prima di dirigersi verso i Monti Kunlun, dove le forze dell’alleanza divina li stavano attendendo.

 

Un caleidoscopio di colori indicò loro l’accampamento provvisorio, installato in una vallata interna poco distante dal luogo in cui i soldati egizi si erano posizionati prima di attaccare il Santuario delle Origini. In quell’occasione erano stati vittoriosi, ma il risultato era stato ottenuto con perdite altissime. Che anche stavolta sarebbe dovuta andare così? Dovevano per forza morire tutti pur di aver ragione del Neter?

 

A questo pensava Horus, mentre planava verso la zona riservata ai soldati egizi. Amon Ra lo stava aspettando, e Febo era al suo fianco, tutto quel che rimaneva della sua famiglia.

 

“Horus! Fratello, stai bene?” –Gli corse incontro il Cavaliere del Sole.

 

“Siamo stati fortunati! Il potere oscuro che permea quel luogo è enorme! Superiore a quanto ricordassi!”

 

“Devi riferire tutto al consiglio! Vieni, siamo attesi!” –Intervenne Amon Ra, invitando il Dio Falco a seguirlo. Febo e Neottolemo andarono con loro assieme a Nesso, appena depositato a terra da Euro.

 

Su una terrazza naturale, che chiudeva la vallata a nord, aspettavano i condottieri di tutte le forze in campo, osservando preoccupati lo scatenarsi dell’oscura tempesta. Gli Angeli, gli Olimpi, gli Asi, i Cavalieri dello Zodiaco e delle Stelle.

 

“Ci ha visti!” –Sospirò Alexer.

 

“Potrebbe anche non sapere che siamo tutti qua!” –Gli rispose Andrei, ma non convinse nessuno, neppure se stesso. –“Bene, allora non perdiamo tempo! Horus, guerrieri di Eracle, quali nuove?”

 

“La fortezza è inespugnabile!” –Esordì il figlio di Osiride, zittendo i presenti. –“Se anche non vi fosse questa barriera oscura e fossimo tutti riuniti fuori dalle mura, faticheremmo non poco ad abbatterle! Sono intrise del cosmo di Caos, che è in continua espansione! Ogni ferita che gli infliggeremo, lui saprà rimarginarla! Gli basterà volerlo, per farlo!”

 

“Qualcos’altro che già non sappiamo? Di più confortante, possibilmente!” –Sbuffò l’Arconte Rosso.

 

“Il santuario sembra avere una struttura irregolare, espandendosi in ogni direzione con casualità! Baluardi spigolosi, torri nere, mura serpentiformi. Eppure… per quel poco che abbiamo potuto osservare prima che le folgori si schiantassero su di noi…”

 

“C’è uno schema!” –Intervenne Nesso. –“Quattro angoli, disposti ai quattro punti cardinali, attorno ai quali si sviluppa la costruzione. Quelli sembrano rimanere fissi!”

 

“Ottima analisi!” –Concluse Horus, concordando con il fedele di Eracle.

 

“Quattro angoli…” –Mormorò Alexer, cercando i fratelli con lo sguardo. –“Quattro porte per quattro Progenitori! Ma certo! Quattro ingressi al Primo Santuario, ognuno presidiato da un’antica Divinità! Ricordate anche in che ordine sono disposti?” –Ma Nesso e Horus scossero la testa, non avendo avuto modo di verificarlo.

 

L’Angelo di Aria fece cenno di non preoccuparsi, riportando la conversazione sulla dislocazione delle truppe, quando una voce atona, che sembrava provenire da un mondo lontano, li distrasse tutti, portandoli a voltarsi verso un uomo dalla lunga chioma nera seduto su una roccia a breve distanza. Gli occhi chiusi, le mani giunte in posizione meditativa, il cosmo impegnato a vedere lontano.

 

“Tiresia!” –Esclamò Eracle, capendo quel che l’uomo stava facendo.

 

“Quattro porte io vedo disposte, quattro entità alla loro difesa preposte. A est, da cui sorge il sole, la Porta del Giorno che morir non vuole. A sud risplende la Porta della Luce, il cui custode di chiarore riluce. A ovest, la Porta della Notte vi attende e Nyx la torbida colei che la difende. A nord, nel freddo dell’inferno nascituro, la Porta delle Tenebre di Erebo l’oscuro.”

 

“Quattro porte presidiate dai più potenti servitori di Caos! Come avrete sentito, i Progenitori sono opposti, come ruoli e come significato! Erebo e Etere corrispondono infatti alle forme estreme della tenebra e della chiarezza: il primo rappresenta un buio perenne, opaco alla luce, che regna nelle profondità abissali e ai confini dello spazio; il secondo è il fulgore di un cielo eternamente illuminato, che non conosce l'ombra delle nuvole né quella della notte. Allo stesso tempo Emera, il giorno, è l’antitesi di Nyx, la Notte, in un perfetto equilibrio che sussiste dall’alba dei tempi.” –Spiegò Alexer, prima di ringraziare Tiresia per le preziose informazioni.

 

Per un momento sembrò che l’Hero dell’Altare Sacro avesse qualcos’altro da aggiungere, poi il suo corpo fu preda di violente convulsioni, che lo piegarono in avanti, facendolo cadere a terra, avvolto in un tetro bagliore.

 

“Tiresia!!!” –Gridò Eracle, correndo verso di lui, ma venne afferrato per un braccio da Zeus, che lo invitò a calmarsi.

 

“Non puoi fare più niente per lui!” –Chiosò, osservando l’uomo tentare di rialzarsi, gli occhi sgranati, in un’espressione di puro terrore, la bocca spalancata, da cui una mortifera ombra nera stava fuoriuscendo. Se anche Tiresia tentò di urlare, le sue grida furono inghiottite dalla marea oscura, mentre il suo corpo iniziava a sgretolarsi.

 

“Per gli Dei! È atroce!” –Balbettò Horus, e prima ancora che avesse terminato di parlare del fedele di Eracle non era rimasto niente, solo una manciata di cenere scura che un vento freddo stava già spazzando via.

 

“Aaargh!!!” –Ringhiò il Vindice dell’Onestà, chiudendo la mano destra a pugno e caricandola di tutto il suo cosmo. –“Dannati Progenitori!!!”

 

“Avrai la tua vendetta, Divino Eracle! Tutti noi oggi avremo la nostra!” –Intervenne allora l’Arconte Azzurro, invitando il Nume greco a mantenere la calma, ancora per pochi minuti. –“Poi potrai liberare tutta la tua rabbia, tutto il tuo furore cosmico! E altrettanto faremo noi!”

 

***

 

“Ti sei divertita, non è vero?”

 

La voce cavernosa di Erebo la distrasse, portandola a volgere lo sguardo verso l’ingresso del salone in cui stava riposando, nella più completa oscurità. Non c’erano finestre né candele in quella stanza, solo un vasto vuoto oscuro che le ricordava le caverne di Morea in cui era rinata, crescendo pian piano grazie ai giganti di Ebdera e ai sacrifici che le avevano offerto in dono.

 

“Sei stata gentile, in fondo, a concedergli una morte rapida! Io lo avrei fatto soffrire di più!” –Continuò il Tenebroso.

 

“Sei un discolo!” –Ridacchiò Nyx.

 

“Punizione meritata per aver osato guardare dove agli uomini è proibito porre lo sguardo! Piuttosto, perché glielo hai permesso? Perché non l’hai annientato non appena hai percepito la sua presenza?”

 

“Perché?! Proprio tu lo chiedi?! Per divertirmi! Lascia che guardino, lascia che vengano! Credi forse che Lord Caos non lo sapesse? Che non avesse intuito i piani di quella ridicola fratellanza di mortali e Dei minori? Per rubare una frase a mio figlio Moros, era già tutto stabilito! Stanno per arrivare e noi siamo pronti ad accoglierli nel migliore dei modi!”

 

“Sarò ben lieto di occuparmene! Del resto, sei Nefari di Polemos sono già stati uccisi, stessa sorte ha incontrato il Demone che della Guerra si proclamava figurazione! E non vorrei lasciare a te e a quel borioso di Chimera tutto il divertimento!”

 

“A noi due?! Dove hai trascorso le ultime ore, Signore delle Tenebre? Negli inferi che vorresti trasbordare sul pianeta?” –Rise Nyx sguaiatamente, invitando Erebo a seguirla negli oscuri corridoi del Primo Santuario, fino a raggiungere un’ampia sala dall’alto soffitto a volta, poco distante dal nucleo ove Caos riposava. La luminosità era minima, come nel resto della struttura, ma gli occhi di Erebo erano abituati a fendere le tenebre, per cui non ebbe problemi nell’individuare le molteplici figure che gli si pararono davanti. Un esercito terribile come mai ne aveva visto uno prima.

 

Schiere di demoni, creature mostruose, Divinità oscure e malvagie. Pareva che tutte le ancestrali entità avessero risposto alla chiamata di Caos, e più il tempo passava e più numerosa la sua armata sarebbe divenuta. Sogghignando sotto la maschera che gli copriva il volto, il Signore delle Tenebre infernali spostò lo sguardo nell’ampio stanzone, individuando i Nefari sopravvissuti alle campagne d’Egitto e del Ponto, i Lestrigoni, un gruppo di Mannari che si stava contendendo i resti maciullati di chissà quale sventurato avversario, demoni dagli occhi gialli di cui non conosceva il nome, grifoni, viverne, serpi mostruose, cani e volpi nere e altri abomini nati nell’ombra nel corso di millenni di storia. Millenni che presto sarebbero stati cancellati.

 

“I nostri ospiti sono puntuali, a quanto pare!” –Commentò una viscida voce, mentre una figura usciva da una galleria laterale, trascinando qualcosa di inerte, quasi fosse un sacco.

 

“Gran Maestro del Caos, è pronta la sorpresa?” –Chiese subito Nyx, riconoscendolo.

 

“Naturalmente! Non c’è voluto poi molto a fare, una volta scoperto come!” –Sghignazzò l’Angelo Oscuro, prima di sollevare ciò che aveva appena tirato fuori dagli oscuri sotterranei. Guardando meglio, Erebo vide una donna dal fisico gracile, rivestita di una tunica strappata e macchiata di sangue in più punti. Una donna dai lineamenti asiatici, con le sopracciglia rasate a formare due nei. –“Sei stata gentile, mia cara, a condividere con noi il tuo sapere! Ora, purtroppo, sei inutile, e le cose, quando perdono utilità, sai che fine fanno? Vengono gettate via! Oooh, sì!” –Aggiunse, scagliando il corpo massacrato della donna in mezzo alla massa di demoni e creature mostruose, che subito si avventarono su di lei, sventrandolo, trapassandolo con zanne aguzze e nutrendosi di quel poco cosmo che le rimaneva. L’unica cosa di cui Anhar si dispiacque fu la breve durata delle sue grida. Ma, del resto, si disse, ritornando nel suo laboratorio, dalla vita non si può avere tutto!

 

***

 

Con un disegno nel terreno, Andrei aveva stilizzato al meglio la struttura del Primo Santuario e adesso tutti ascoltavano l’acuto stratega ordinare la disposizione delle truppe, dando nel qual tempo ordini ai soldati di prepararsi a partire.

 

“La rinascita di Caos in quest’esatto punto non è casuale! Nel deserto di Taklamakan passa infatti una delle linee di energia che percorrono la superficie terrestre, di cui certo il Generatore di Mondi si è servito per attingere forza, proprio come altre orride creature hanno fatto o tentato di fare! Inoltre, proprio qua avvenne la battaglia finale che concluse la Prima Guerra, quando i Sette Saggi scaraventarono Caos nell’intermundi!”

 

“L’ho visto!” –Commentò Ascanio. –“Per essere un’entità ancestrale, possiede un macabro senso di vendetta!”

 

“La roccaforte è circondata dal deserto, non vi sono insediamenti nel raggio di miglia, per cui avremo campo libero per combattere! Questo significa però che non vi saranno barriere naturali ad aiutarci! Saremo noi e coloro che dimorano nell’ombra, gli uni contro gli altri, a fronteggiarci fino all’estinzione di una delle due parti!”

 

Per un momento tutti rimasero in silenzio, a riflettere sulle parole dell’Angelo di Fuoco. Per quanto fossero combattenti esperti e avvezzi alle battaglie, compresero l’enormità di quella dichiarazione. Quella non era una guerra di difesa o di conquista, no, era uno sterminio di massa basato su un’unica considerazione. Noi o loro. Luce o ombra. Il completamento di un rituale che aveva dominato tutte le culture fin dal Mondo Antico. La fine di un ciclo cosmico. Quel che sarebbe venuto dopo, nessuno poteva saperlo, nemmeno le Moire, le Norne o i veggenti più attenti. Anche chi possedeva la Vista oltre non poteva andare, poiché oltre non c’era niente.

 

“Il futuro è ancora tutto da scrivere!” –Rifletté Pegasus, cercando di rincuorarsi e infondere fiducia ai compagni, prima di tornare ad ascoltare l’Arconte Rosso.

 

“Poiché vi sono quattro entrate al Santuario delle Origini, attaccheremo su quattro fronti, impegnando tutte le nostre forze! Io guiderò l’assalto alla Porta del Giorno, a Est, portando con me Phoenix, Febo, Marins e le forze dell’Egitto!” –Al che Amon Ra annuì, accennando un breve sorriso al figlio.

 

“Verremo anche noi!” –Esclamò allora una decisa voce femminile, mentre i membri del concilio si aprivano di lato, per far passare una guerriera alta e fiera, con un fisico mascolino e corti capelli viola. –“Non vorrete fare tutto voi maschi? E tu, hai parecchi conti in sospeso con me! Non pensare di morire prima di averli saldati!” –Aggiunse, indicando il Cavaliere della Fenice.

 

“Molto bene! Il contributo delle Amazzoni sarà prezioso!” –Riprese Andrei, scambiando un cenno di intesa con Pentesilea. –“Da sud invece attaccheranno le forze di Asgard e di Avalon, guidate da Alexer, Sirio e Ascanio, con il contributo dei discendenti di Mu! La Porta della Notte, a ovest, dove il sole tramonta, sarà assediata invece dagli Areoi, dai Seleniti e dai Guerrieri di Inti. Pegasus e Asterios guideranno la compagine, con l’aiuto degli altri Cavalieri delle Stelle.”

 

“Le fauci dello Squalo Bianco domandano giustizia per il popolo libero!” –Commentò il Comandante Toru, in piedi alle spalle di Asterios.

 

“Infine la Porta delle Tenebre, difesa da Erebo! Temo che sarà il nostro ostacolo principale, per questo vi ho concentrato più forze! Gli eserciti di Grecia caleranno da nord al gran completo, riuniti finalmente sotto un’unica bandiera! La folgore di Zeus, il tridente di Nettuno, la clava di Eracle, l’Egida di Atena e lo sfavillante cosmo dei loro Cavalieri avranno l’onere di impegnare il più diabolico dei Progenitori! Non fidatevi di lui, nemmeno per un momento! Non dategli mai tregua!”

 

Il Signore dell’Olimpo annuì pensieroso, ricordando lo scontro con Erebo del giorno prima. Lo avevano affrontato in sette e a malapena lo avevano ferito. Che fossero davvero necessari tutti gli Olimpi per averne ragione? Ah, fato, ti sei preso gioco di noi! Ci hai spinto in guerre continue, uno contro l’altro, per futili contese, portandoci ad addii prematuri! Rifletté, riferendosi ai tentativi di dominio di Apollo e Ade, al tradimento di Ares e alle perdite di Dioniso, Estia, Artemide e infine Era. O forse no! Forse il fato non è responsabile della nostra caduta, imputabile solo a noi stessi, alla nostra incapacità di vedere più in là delle nostre esigenze e far fronte comune contro il più grande nemico di tutti i tempi. La fine del tempo stesso.

 

“Ci siamo, infine!” –Lo riscosse una voce armoniosa, mentre una mano si poggiava sulla sua spalla. –“La battaglia finale, l’apocalisse di tutti gli Dei!”

 

“Sarà un onore combattere al vostro fianco, possente Amon Ra!” –Esclamò Zeus, strappando un sorriso al Sole d’Egitto, a cui presto si affiancò Vidharr, rimasto silente, come sua abitudine, durante il concilio. A lui si rivolse subito il Signore del Fulmine. –“Vorrei che anche Odino fosse qua, quest’oggi, a cavalcare assieme a noi, con Gungnir in mano!”

 

“In un certo senso, egli è con noi! Dentro ognuno dei suoi fedeli!” –Rispose placido l’Ase. –“Wotan sjálfr er með oss!”

 

“Forse, se avessi agito diversamente, se fossi intervenuto nel Ragnarok, egli sarebbe con noi!”

 

“Tutti dobbiamo morire, in fondo!” –Chiosò Vidharr. –“Cambia solo il giorno e il modo in cui accadrà! Voi come volete morire, Signore della Folgore?”

 

“Combattendo!!!” –Avvampò Zeus. –“Combattendo!!!” –E chiamò a raccolta i Cavalieri Celesti e tutte le forze di Grecia, avvolgendole nel suo adamantino cosmo. Amon Ra, Vidharr e gli Angeli fecero altrettanto, prima di scomparire e darsi appuntamento all’interno del Primo Santuario. Là, ai piedi del trono di Caos, si sarebbero ritrovati. Con quella promessa, gli eserciti di tutti i regni divini presero posizione.

 

Da nord, verso la Porta delle Tenebre Infernali, avanzavano tutte le forze di Grecia, quel che restava dello splendore olimpico. Davanti a tutti, con la Glory nera riparata da Efesto alla bell’e meglio e una robusta clava in mano, marciava il Vindice dell’Onestà, attorniato dagli Heroes della Legione dei Migliori. Marcantonio dello Specchio, Alcione della Piovra, Nesso del Pesce Soldato e Neottolemo del Vascello alla sua destra, Iro di Orione, Chirone del Centauro e Nestore dell’Orso Bruno sull’altro lato.

 

Dietro di lui venivano Titis della Sirena e i Cavalieri di Atena: Asher dell’Unicorno, Castalia dell’Aquila, Tisifone del Serpentario, Reda del Pastore, Salzius di Cassiopea, Kama della Poppa e Nemes del Camaleonte. Alle loro spalle camminavano Cristal il Cigno e Andromeda, nelle loro magnifiche Vesti Divine, seguiti dagli Olimpi sopravvissuti: Zeus, avvolto da un etereo bagliore, affiancato da Nettuno, che stringeva in mano il suo tridente, e da Efesto e Atena. A fare da scorta ai quattro Olimpi, i Cavalieri Celesti ancora vivi: Nikolaos dell’Eridano Celeste, Toma di Icaro, Shen Gado dell’Ippogrifo e Ganimede della Coppa Celeste, rivestiti delle loro cotte scintillanti. Nelle retrovie quel che restava dell’esercito di Atena: i soldati del Grande Tempio, guidati da Patrizio, gli apprendisti, le sacerdotesse e tutti i fedeli della Dea, protetti da Ioria del Leone e da Virgo, che procedevano ai loro lati. Sopra il gruppo, svolazzavano Euro, ultimo figlio di Eos, con le ali spalancate dell’armatura, e Ermes, grazie ai suoi magici calzari, che osservavano attenti e preoccupati le rozze mura di fronte a loro, sormontate da irti speroni aguzzi e bastioni neri. Non vi erano vedette, per quel che poterono scorgere, ma convennero entrambi che sarebbero state inutili. Caos, di certo, aveva già percepito il loro arrivo.

 

Uguale certezza avvampava negli animi degli Angeli, che si erano divisi in modo che ognuna delle altre porte avesse uno di loro alla guida delle schiere divine, affiancato da un Cavaliere dello Zodiaco.

 

Da est, in onore all’astro solare che l’indomani avrebbero voluto veder sorgere, procedevano le forze di Karnak, guidate dal magnifico Amon Ra, la cui Veste Divina, arancione con rifiniture dorate, rischiarava l’aria torbida di quel pomeriggio. Al suo fianco, la fedelissima Bastet, decisa a vendicare la caduta della sua maestra, e Horus, il Dio Falco. Sull’altro lato, suo figlio e il migliore amico di lui, seguiti dall’Angelo di Fuoco, da Phoenix e dalle Amazzoni, il cui marciare deciso, in perfetto stile militare, risuonava nel vasto deserto di fronte alla Porta del Giorno, scandendo l’avanzata di quella fiammeggiante armata. Dietro di loro i Soldati del Sole d’Egitto, le lame pronte a irradiare la sfolgorante potenza della loro stella guida.

 

A sud, invece, le schiere di Asgard erano già pronte, schierate davanti alla Porta della Luce, fin dove l’oscura energia aveva permesso loro di arrivare. Alexer e Vidharr osservavano il massiccio portone in roccia nera, chiedendosi cosa sarebbe uscito da quel varco, quali orrori ancora non avevano ammirato, per quanto molti fossero scorsi davanti ai loro occhi. Sirio il Dragone e Ascanio li affiancavano, calmi e a mente sgombra, come Dohko aveva insegnato loro ad essere prima di una battaglia. Alle loro spalle i Blue Warriors sopravvissuti, rivestiti dalle loro cotte azzurrine, avevano già sfoderato le lance a energia congelante, precedendo la guarnigione dei soldati di Asgard, i pochi combattenti che i discendenti di Mu avevano inviato e i superstiti al massacro operato da Caos sull’Isola Sacra. Druidi anziani ma coriacei, giovani sacerdotesse e novizi che avevano appena scoperto il Formhothú, decisi a onorare chi li aveva istruiti. Chiudevano il gruppo le Asinne scampate al crollo dei mondi: Idunn e Eir, pronte a difendere gli uomini del cui valore non avevano più dubbio alcuno.

 

Di quello era certo anche Pegasus, aggrappatosi a quel pensiero in quel momento cupo. Determinazione, passione e fedeltà a una causa giusta e nobile li avrebbero sostenuti nell’ora estrema. Questo era quel che si ripeteva, in piedi, a mille passi di distanza dalla Porta della Notte. Conosceva colei che ne sarebbe uscita, la torbida Divinità che aveva assalito la Luna giorni addietro, impegnandoli più di quanto avesse fatto fino ad allora nessun’avversario. Scosse la testa, per non pensare alla spiacevole sensazione che l’aveva invaso fin da quel loro incontro, concentrandosi sull’esercito che era chiamato a comandare. L’Angelo che lo affiancava, il più silente dei tre, ben poco lo conosceva. Il suo nome era Asterios e, da quel che Sirio gli aveva raccontato, parlava di rado, preferendo destinare le energie alla battaglia. Una caratteristica che il ragazzo apprezzava.

 

Alle loro spalle, in attesa, tre gruppi ben distinti, provenienti da tre regni divini. Il primo, il più numeroso, era costituito da circa quattrocento guerrieri rivestiti da una tunica colorata, con un sole dipinto sul petto. Jonathan ne era al comando e li aveva descritti come Guerrieri di Inti, una Divinità solare andina. Reis lo affiancava, la mano già pronta sull’elsa della Spada di Luce. Alla loro destra aspettavano gli Areoi sopravvissuti alla distruzione dell’Avaiki, e quelli che Toru era riuscito a richiamare da isole e colonie minori disseminate nell’Oceano Pacifico. Non erano molti, neppure duecento, e qualcuno era armato solo di un giavellotto energetico, ma erano risoluti a avere giustizia per coloro che avevano perduto. Facendogli un cenno con la testa, Pegasus ammirò lo sguardo truce, quasi sanguinario, dell’Areoi dello Squalo Bianco, felice di non doverne assaggiare le fauci.

 

Sul lato opposto c’erano i Seleniti superstiti: Avatea, della Terra, Divinità lunare presso i popoli polinesiani; Hubal, l’arciere della Luna, venerato dalle popolazioni arabiche, e Mani, Ase della Luna. Un’attempata signora, un vecchio muto e un padre dalla mente distratta al pensiero dei figli. Pegasus storse la bocca, chiedendosi che contributo avrebbero potuto offrire, ma poi si rischiarò alla vista dell’ultimo Selenite rimasto, di cui Andromeda parlava con un certo timore. All’apparenza era un ragazzo di vent’anni, dai folti capelli blu, come Phoenix, ma lo sguardo bastardo rivelava una volontà bellica che nessun’ombra avrebbe facilmente piegato. Sin degli Accadi gli strizzò un occhio, rimarcando che l’ala destra dello schieramento non sarebbe stata sfondata finché lui l’avesse difesa. Dietro di loro si era aggiunta una piccola delegazione di santoni indiani, uomini più dediti alla meditazione e alla cura della natura che non alla guerra, accompagnati da Tirtha, ultimo discepolo di Virgo ancora in vita, che tanto aveva insistito per prendere parte a quella campagna militare, in onore a Pavit, Dhaval e agli altri amici perduti.

 

Da qualche parte, alle sue spalle, c’erano anche Matthew ed Elanor, i più giovani Cavalieri delle Stelle. Lui era l’allievo di Gemini, per quanto poco gli somigliasse, lei la figlia indisciplinata di Selene. Pegasus li trovò, intenti a parlottare tra loro ai margini del gruppo, e, sebbene non potesse udire la conversazione, sembrava che il biondino fosse contrariato da un qualche atteggiamento della ragazza. Adolescenti in calore! Ironizzò il Cavaliere di Atena, sperando che non combinassero guai.

 

Proprio in quel momento un cigolio attirò la sua attenzione, e quella di tutti gli assedianti, portandoli ad osservare i portoni davanti a loro. Con un unico movimento, le quattro porte del Santuario delle Origini si aprirono, spalancandosi verso l’esterno, mentre un’oscura marea ne fluiva fuori. Così densa, così tetra, così compatta che per qualche istante nessuno capì cosa stessero osservando.

 

Fu Zeus il primo a notare da cosa era composta. E, nel farlo, fu travolto da una fitta al costato che, se l’avesse lasciata vincere, lo avrebbe piegato in due, facendogli vomitare tutte le sue certezze. Resistette, dando ordine a Ermes di suonare la carica.

 

Il giorno dell’ira era arrivato.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo quinto: L'ultima guerra. ***


CAPITOLO QUINTO: L’ULTIMA GUERRA.

 

Quando la Porta della Notte si aprì, Pegasus si sarebbe aspettato di trovarsi di fronte qualche abominevole creatura risvegliata dagli abissi del tempo, con cui Nyx pensava magari di intrattenerli, giusto il tempo di stancarli e mangiucchiare qualcuno di modo che poi lei potesse intervenire e far fuori i sopravvissuti. Invece si trovò di fronte un fiume nero, che dilagò al tempo stesso da ciascun portone del Santuario delle Origini, dirigendosi verso gli attoniti Cavalieri e Dei che, sulle prime, non riuscirono a capire cosa fosse quell’oscura marea.

 

Erano soldati, così parve a Pegasus e ad Asterios, ma non sembravano umani. Di umano avevano soltanto la sagoma, una forma sfumata, simile a una nera evanescenza, rivestita di un’orrida corazza e equipaggiata con armi di ogni genere. Fu solo quando il primo di questi guerrieri ombra si lanciò verso di lui che Pegasus lo riconobbe. O, quantomeno, riconobbe la sua tecnica segreta.

 

Una sfera infuocata di cosmo oscuro che il nemico generò sollevando entrambe le braccia sopra la testa, incrociando i polsi, prima di abbassarle di colpo.

 

Il Fuoco della Corona! Mormorò Pegasus, spostandosi in tempo da evitare l’attacco. Il colpo segreto di Atlas, Cavaliere di Apollo. Ma che diavolo?! Non ebbe il tempo di chiedersi altro che migliaia di fili neri si allungarono verso di lui, avvolgendolo in un resistente abbraccio e strattonandolo avanti, fino a fargli perdere l’equilibrio. A terra, tra la polvere che l’avanzata di quell’armata oscura stava sollevando, distinse infine i suoi avversari.

 

Atlas, Berenice e Jao. E altri che indossavano armature simili.

 

Sono davvero loro? Ma che ci fanno i servitori di Apollo tra le file di Caos? Si chiese, mentre l’ombra del guerriero noto come Jao spiccava un balzo, espandendo il cosmo e preparandosi per precipitare su Pegasus con gli incandescenti artigli pronti a sventrarlo. Eh no! Si riprese il ragazzo, scansandosi giusto in tempo e lasciando che l’affondo incendiasse i fili di Berenice, liberandosi dei rimanenti con un’improvvisa apertura delle ali dell’Armatura Divina. E ora…

 

Fulmine di Pegasus!!!” –Esclamò, scattando avanti e travolgendo i tre guerrieri, spingendoli contro la fiumana alle loro spalle. –“Vediamo di capirci qualcosa! Che sta succedendo, Asterios? Perché vedo le facce dei nemici affrontati un tempo? Che scherzo è mai questo? Una qualche illusione demoniaca?!”

 

“Purtroppo no, Cavaliere di Pegasus!” –Rispose la voce calma dell’Arconte Verde, i cui occhi spaziavano attenti sull’intero campo di battaglia, trovando conferma ai suoi tristi pensieri. –“Ciò che vedi lo vedo anch’io e non solo noi, temo!”

 

“Ma com’è possibile?”

 

“Non dimenticare chi stiamo affrontando! Il Generatore di Mondi, in grado di creare e annientare la vita! Credi che sia stato difficile per Caos evocare gli spiriti dei morti, lui che ha divorato persino le anime degli Dei? Eccoli qua, tutti i caduti nelle Guerre Sacre che hanno violentato il mondo in questi secoli! Sono tutti riuniti di fronte a noi, a darci il benvenuto!”

 

“Maledizione! Vuoi dire che questi sono…” –Ma le riflessioni di Pegasus vennero interrotte da un violento attacco, portato da un guerriero oscuro alto e robusto, con cui il Cavaliere si era confrontato al Cancello dell’Olimpo. –“Ma quello… Bronte del Tuono! Persino tu! Che fai? Ti schieri contro il tuo signore Zeus?!”

 

L’ombra di colui che un tempo aveva difeso l’accesso al Monte Sacro portò avanti il braccio destro, liberando una violenta detonazione che investì Pegasus in pieno, spingendolo indietro, nel mucchio di Guerrieri di Inti, mentre Jonathan e Reis tentavano di mantenere unita la formazione, evitando al quale tempo gli attacchi nemici.

 

“Non può essere!” –Esclamò il Custode dello Scettro d’Oro. –“Questo guerriero… è Bode del Monte Menalo! E quello era il suo amico, Gienah della Croce di Sant’Elena! Ricordi, Reis? Li affrontammo a Smirne!”

 

La compagna annuì, evitando l’affondo di una guerriera agile e precisa nel colpire, la cui corazza demoniaca la identificava chiaramente come una sfinge. Alle sue spalle, un uomo alto e robusto, armato da una lancia da combattimento, cercava di approfittare della situazione per colpirla a tradimento.

 

“Pare che le schiere di Caos siano formate dagli spiriti dei caduti negli eserciti divini di tutto il mondo. E, a giudicare dal loro altissimo numero, di tutti i tempi!”

 

“Il Cavaliere di Luce ha ragione!” –Intervenne Asterios, spingendo indietro un gruppetto di Satiri Guerrieri. –“Caos ha risvegliato le anime dei morti, volgendole contro di noi! Guardati intorno, Pegasus! Ci sono guerrieri di ogni culto e nazionalità! Cavalieri della Corona, baccanti, Spettri di Ade, berseker, Guerrieri del Nord, Savanas africani, Areoi oscuri! Vedo persino Cavalieri Celesti, Faraoni del Deserto e… Cavalieri di Atena!”

 

“Cavalieri di Atena?! Non è possibile, Asterios! Nessuno di noi tradirebbe la Dea e i suoi ideali, nemmeno per la promessa di una nuova vita! Io non ci…” –Gridò il ragazzo, abbattendo un’altra schiera di nemici con il suo colpo segreto e ritrovandosi faccia a faccia con coloro che aspettavano nelle retrovie. –“Orfeo!” –Balbettò, frenando per un momento il suo pugno di fronte all’ombra del Cavaliere della Lira, che lo aveva aiutato ad attraversare indenne le prigioni di Ade. Dietro di lui, i volti deformi degli spiriti oscuri del Maestro dei Ghiacci, di Docrates e di Orion. Il grande e nobile Orion di Asgard. –“No!!!”

 

“Non mal giudicarli, Pegasus! Osserva i loro occhi spenti! Sono marionette nelle mani del giudice di tutte le cose! Le loro coscienze sono prigioniere, come lo fu quella di Ilda di Polaris! Credimi, Cavaliere, preferirebbero essere morti e dimenticati per l’eternità, piuttosto che sentire una così tremenda e ancestrale oscurità divorare quel che rimane del loro spirito, piegandolo ai suoi fini di dominio!” –Sentenziò Asterios, prima di liberare una raggiera di lance di energia acquatica, che trafisse tutti i guerrieri oscuri che lo attorniavano. Senza neanche guardarli in faccia.

 

“Tu… fai presto a parlare! Non li hai conosciuti! Non hai parlato con loro, confrontando i propri ideali e scoprendo quanto fossero simili!” –Esclamò Pegasus, sollevando il pugno destro, carico di scintillante energia cosmica. –“Io… mi sento come se dovessi ucciderli una seconda volta!”

 

“Purtroppo è quello che stiamo facendo! Non sono illusioni, sono davvero loro, gli amici e i nemici con cui già ti sei confrontato, mescolati a migliaia di altri che hanno affrontato i Cavalieri tuoi predecessori e i loro antenati, fin dalla Prima Guerra Sacra!”

 

“Quale orrore!” –Commentò il Primo Cavaliere di Atena, mentre nuove oscure sagome lo circondavano.

 

Lo stesso pensiero fu espresso da tutti gli Dei e i Cavalieri dell’alleanza divina, che mai avrebbero immaginato di dover combattere contro simili avversari, la cui forza, subito lo notarono, era la stessa del momento della morte, adesso priva di qualsivoglia restrizione morale o affettiva. Erano spiriti combattivi, resi tali dall’oscurità che li sorreggeva.

 

“Maledetto Caos! Pagherai per tutto questo!” –Ringhiò Ascanio, liberando i Draghi Bianchi di Albion, che fecero strage di una ventina di avversari di fronte alla Porta della Luce. –“Pagherai per il disonore che hai recato a uomini giusti, caduti in nome di un ideale di pace e speranza!”

 

Sirio, alle sue spalle, condivideva lo stesso pensiero. Aveva riconosciuto, tra i nemici che lo avevano accerchiato, troppi volti noti: Dragone Nero, alcuni Cavalieri di Bronzo e d’Argento, berseker, Cavalieri delle costellazioni dimenticate, persino elfi e nani, a giudicare dai lineamenti delle sagome. E adesso Iemisch, la Tigre Nera.

 

Ricordava ancora il loro scontro sull’Isola delle Ombre, sulle rive di quella pozza d’acqua dove il Capitano dell’Ombra avrebbe voluto consacrare il suo trionfo e dove invece aveva avuto solo la morte. Lui, un uomo che, per senso dell’onore, avrebbe potuto far parte delle legioni di Atena e che invece, per scelte di vita sbagliate, era finito a servire l’Angelo Oscuro. Adesso Sirio se lo ritrovò di fronte, le zanne della fiera sudamericana pronta a ghermire, e anche se dal giorno del loro scontro i suoi poteri erano cresciuti, l’impatto degli artigli nemici sullo scudo del Dragone fu comunque tale da spingerlo indietro, facendogli scavare solchi nel terreno con i piedi.

 

Anche lui, adesso, avrebbe confermato la teoria di Asterios sull’assenza di qualsivoglia sentimento, di qualsivoglia umanità, in quello spirito bellicoso retto solo dall’oscurità di Caos. E, di conseguenza, ancor più pericoloso.

 

Le fauci della Fiera di Sangue scattarono su Sirio, evitandogli il polso per un soffio, mentre questi scartava di lato, muovendo la gamba destra a spazzare e colpendo l’avversario con un calcio in pieno petto. Fu un rumore strano quel cozzare, metallico ma sordo, ovattato avrebbe detto. Come se sotto quella piastra di materia nera non vi fosse niente, solo un’evanescenza nera.

 

“Che siano ombre? Come quelle che Flegias ci rivolse contro tempo addietro?”

 

Ascanio, poco distante, annuì, giunto anch’egli alla stessa conclusione.

 

“Quello che non capisco è come possono indossare queste armature! Non credevo fosse possibile vestire uno spirito! All’epoca Anhar non ci riuscì e infatti le ombre fluttuavano libere nell’aere!”

 

In quella, Iemisch caricò di nuovo, affiancato dal Capitano dell’Ombra sconfitto da Andromeda sull’isola delle Andamane: Iaculo, il Serpente Giavellotto. Sirio dovette concentrarsi al massimo, liberando un devastante Drago Nascente per aver ragione di quell’attacco combinato, prima di travolgere entrambi e scaraventarli indietro. Fu mentre il dragone di luce svaniva, e il Cavaliere osservava i corpi caduti di Iemisch e Iaculo, che lo notò, inorridendo.

 

“Non… può essere! Ascanio, guarda!!!”

 

Il Cavaliere della Natura si voltò, giusto in tempo per vedere i cadaveri smembrati dei due Capitani delle Ombre ricomporsi e i loro oscuri spiriti ricompattarsi all’interno delle corazze nere. Un attimo dopo, Iemisch e Iaculo erano di nuovo in piedi, come tutti gli avversari che Ascanio e gli altri avevano abbattuto fino a quel momento.

 

“Ma sono invincibili?! Credevo che, distruggendole, queste ombre scomparissero!”

 

“Anhar deve aver trovato un modo per perfezionare la formula, o forse è stato Caos stesso! E osserva come le nere evanescenze rimangano contenute all’interno delle armature!” –Notò il Comandante di Avalon. –“Deve significare qualcosa!”

 

Shia!” –Mormorò una voce all’improvviso.

 

“Co… come?!” –Esclamarono Sirio e Ascanio, cercando di capire chi, in quella mischia che era diventato il campo di battaglia, avesse appena parlato.

 

Shia!” –Ripeté una voce maschile, e Sirio notò che proveniva da uno dei discendenti di Mu, sopravvissuto al crollo della Montagna Bianca. L’uomo, all’apparenza non più vecchio di Ascanio, piagnucolava tremando, indicando con un braccio i corpi abbattuti dei nemici, che subito si rialzavano.

 

“Cosa vuol dire Shia?” –Gli chiese, incitandolo a calmarsi.

 

Shia!” –Disse questi. –“Le hanno carpito il segreto!” –Aggiunse infine, proprio mentre una lancia di oscura energia gli trapassava la schiena, spuntando fuori dal suo stomaco e stridendo contro l’armatura di Dragone, tra le cui braccia il ragazzo si accasciò. Alle sue spalle, Iaculo ghignava soddisfatto, sebbene la sua soddisfazione fosse destinata a durare poco, travolto dall’improvviso attacco di Ascanio che lo sventrò, disperdendone l’oscuro spirito ai quattro venti.

 

“Quanto meno impiegherà qualche minuto in più a ricomporsi, voglio sperare!” –Chiosò il Cavaliere di Avalon, raggiungendo Sirio. –“Che ti ha detto?”

 

“Ho capito! Ora ho capito perché hanno attaccato la colonia di Mu e perché Polemos ha rapito la madre di Mur!” –A quelle parole anche Ascanio comprese, digrignando i denti e abbandonandosi a un paio di improperi, mentre attorno a loro la guerra continuava.

 

Hvárt eru þat svik ein re k sjá þykkjumk? Eða Ragnarök? Ríða menn dauðir!” –Mormorò Vidharr, non troppo distante, osservando l’esercito di spiriti resuscitati avanzare. –“Sono solo illusioni quelle che credo di vedere? O la fine del mondo? Uomini morti cavalcano verso di noi! E tra loro mi pare di scorgere vecchi amici! Freyr, Viceré di Asgard, sei davvero tu?”

 

Il guerriero ombra di fronte a lui non rispose, limitandosi a sollevare la spada al cielo e a liberare un ventaglio di devastante energia oscura. Asi o Vani, poco importava adesso delle antiche distinzioni. Erano divenuti tutti loro nemici.

 

***

 

“Mi congratulo con te, Gran Maestro del Caos!” –Esclamò Nyx, osservando il frenetico affaccendarsi dell’Angelo Oscuro nel sotterraneo adibito a laboratorio. –“Avevo dei dubbi sul tenerti in vita, ma a quanto pare il nostro signore e padrone ha scelto per il meglio, ben sapendo che saresti potuto essere ancora utile!”

 

“Il nostro signore vede lontano! Dall’alto della sua generosità mi ha permesso di essere qua, quest’oggi, ad ammirare la fine di coloro che si autoproclamano eroi e Divinità di un pianeta prossimo a scomparire!”

 

“Non credere però che questo tuo tardivo successo cancelli i precedenti fallimenti! Quanti secoli hai trascorso, libero, in questo mondo, incapace di comprendere cosa fossero i Talismani e come neutralizzarli? È dovuto intervenire Caos in persona per debellare quella minaccia! Vedi di tenere sotto controllo il calderone, che la fiamma dell’oscurità non cessi mai di ardere!” –Declamò, allontanandosi e lasciando Anhar da solo.

 

“Ai vostri ordini!” –Sibilò, genuflettendosi. Quindi, non appena Nyx se ne fu andata, si ritirò su, voltandosi verso l’oscura fornace. Se avesse avuto ancora un volto, la sua espressione si sarebbe indurita, le sue labbra torte in un ghigno serafico. Invece aveva soltanto la sua autostima, schizzata alle stelle, e la certezza che, entro la fine di quella giornata, avrebbe avuto quel che bramava. Quel che Caos gli aveva promesso.

 

Di certo i Progenitori non sono a conoscenza dei miei accordi con l’Unico! Rifletté, pavoneggiandosi al pensiero di superarli in importanza. Per quanto le loro aure cosmiche fossero abnormi, erano niente rispetto a chi le aveva generate e a chi avrebbe potuto spegnerle in qualsiasi momento. Come già accaduto! Puntualizzò, ricordando la fine della Prima Guerra Sacra. E come accadrà di nuovo.

 

Quale corpo Caos gli avrebbe concesso ancora non lo sapeva, ma avrebbe accettato ogni sua decisione. In fondo, nel corso dei secoli, si era servito di ogni ricettacolo possibile: il figlio di Ares, il Cavaliere di Virgo, il Primo Saggio. Mai una donna però! Sogghignò, chiedendosi come sarebbe stato vestire i panni di Nyx o di quell’angelica creatura di Emera. Si eccitò, al pensiero di sporcarne il candore con la sua anima corrotta, concedendosi una sonora sghignazzata, che risuonò nei cavernosi androni deserti. Solo allora gli venne in mente di non aver mai visto Erebo, protetto sempre da quell’armatura integrale che lasciava intravedere soltanto i suoi occhi. Un tipo riservato! Si disse, prima di tornare al lavoro.

 

Davanti a lui, in un grosso calderone, ribolliva una melma oscura che si sollevava in sbuffi continui, vaporizzandosi in nere evanescenze che venivano risucchiate verso l’alto dai condotti che costituivano l’ossatura del Primo Santuario.

 

Le sue intuizioni si erano rivelate giuste. La madre di Ariete, discendente dell’antico popolo che fuggì da Mu dopo l’inabissamento del continente, conosceva i segreti della costruzione delle armature. Forse non ne aveva mai forgiata una, ma questo poco contava. Di vitale importanza era sapere come, conoscere il modo in cui creare un contenitore atto a trattenere l’ombra di un guerriero caduto, permettendogli di agire, di muoversi, di rimanere integro anche dopo una ferita. Un’armatura per anime erranti, così l’aveva definita esponendo il suo progetto a Lord Caos e ricevendo il beneplacito per quell’operazione.

 

C’era voluto  un po’ a leggerle nella mente, vincendo le sue difese mentali, ma contro l’Angelo Oscuro non aveva potuto resistere molto. Con il volto pallido e rigato dal sangue che le colava dal naso e dagli occhi, per l’enorme sforzo, aveva tossito due volte, rivolgendo ai figli il suo ultimo pensiero.

 

In quel modo Caos aveva potuto generare le armature in grado di coprire le ombre dei guerrieri caduti nelle Guerre Sacre che avevano insanguinato il mondo. Un esercito infinito che Anhar aveva contribuito a incrementare con le sue subdole strategie e che adesso sarebbero stati piegati sotto un’unica bandiera. Sogghignando, l’Angelo Oscuro pensò alle facce attonite dei Cavalieri dello Zodiaco e di tutti i loro amichetti, immaginandone il tormento nel trovarsi di fronte amici di vecchia data o nemici già affrontati. Godette di quel momento, del dispiacere del loro cuore, del dolore di dover affondare il pugno nel petto di un compagno.

 

Chissà, si disse, crogiolandosi in quel godimento, qualcuno potrebbe persino trattenere i propri colpi! Vada come vada, contro quest’esercito infinito non hanno speranza! Finché la fiamma oscura del calderone brucerà, le ombre torneranno sempre e presto saranno incrementate dagli spiriti di coloro che qua, alle porte del Primo Santuario, cadranno! È la legge dell’eterno ritorno! L’uroboro del caos! Ah ah ah!

 

***

 

Pegasus era irritato. Per ogni nemico abbattuto, altri due prendevano il suo posto, in attesa che l’ombra disgregata si ricomponesse, tornando a mietere vittime. Già era doloroso doverli uccidere una volta, ma continuare a farlo, rivivendo ogni volta quel momento, e tutti i ricordi che portava con sé, cominciava a infastidirlo, rendendo lenti i suoi riflessi e più deboli i suoi pugni. E il braccio, che Erebo aveva infettato con la sua oscurità, stava ricominciando a dolergli, nonostante le cure di Zeus e Atena.

 

Aveva fatto fuori un’intera legione di nani oscuri, prima di ritrovarsi circondato da massicce figure simili a giganti, che impugnavano rozze aste di quello che sembrava ghiaccio nero. Stava per verificarne la consistenza quando lance di energia acquatica erano spuntate dallo stomaco dei colossi, distruggendoli in un lampo di luce.

 

“Stai bene, Cavaliere?” –Esordì Asterios, apparendo tra gli ombrosi frammenti degli Hrimthursar.

 

Pegasus annuì, con un cenno quasi meccanico, prima di darsi un’occhiata attorno e notare di essere al centro di quella che ormai era divenuta una vera e propria mischia. L’ordinato schieramento iniziale era crollato, per quanto impegno Jonathan e Reis ci avessero messo nel mantenerlo unito, quando le ombre avevano iniziato ad apparire in mezzo ai soldati, disorientati dal loro aspetto mostruoso e al tempo stesso attratti da un perverso senso di familiarità che non sapevano spiegare. Sembrava quasi che le anime dei caduti sapessero dove dirigersi, verso persone conosciute in passato, fossero amiche o nemiche. Secondo Pegasus, era indice di un barlume di coscienza ancora attivo, cui forse avrebbero potuto fare perno per risvegliarli, ma Asterios aveva subito smontato la sua teoria.

 

“È Caos che li manovra! Niente è casuale! Lui ci conosce, ci ha osservato per anni, secoli addirittura, e sa come colpirci! Al cuore! Poc’anzi mi hai criticato per non avere legami, per non comprendere cosa si prova a rivedere persone amate perse da tempo sul fronte opposto di questa guerra. Non è del tutto vero, Pegasus! Non dimenticare chi hai di fronte, una creatura immortale che sta tra gli uomini e gli Dei, una creatura che ha vissuto su questa Terra per migliaia di anni, vedendo vite fiorire e appassire nel breve arco di un istante! Quante persone ho incontrato, quante ne ho amate, di quante conservo ancora un ricordo! Ma a tutte ho dovuto dire addio! Persino a mio fratello! Non credere che l’immortalità sia un dono, a volte può essere una maledizione, quando vedi gli altri scomparire e tu rimanere!”

 

Qualcosa del genere era successo anche a Pegasus e ai suoi compagni, all’inizio dei semplici Cavalieri di Bronzo. Cresciuti e migliorati col tempo e con le esperienze vissute, avevano visto cadere guerrieri di ogni casta e culto, anche più forti di loro. Cavalieri d’Argento e d’Oro, difensori di Asgard e Generali degli Abissi, Spectre e Cavalieri Celesti, entità che, solo pochi anni prima, non sarebbero riusciti nemmeno a immaginare. Eppure ce l’avevano fatta, li avevano vinti tutti, ed erano andati avanti, forti del loro valore e di ciò che da loro avevano appreso. Dovevano solo essere degni di quell’eredità.

 

Fu un fruscio a farlo voltare, lo strisciare di fili oscuri nell’aria, che si avvolsero attorno alle sue gambe, chiudendole in una morsa ferrea e gettandolo poi a terra, di faccia. Prima ancora di riuscire a voltarsi, un calcio in pieno volto lo spinse di lato, facendogli perdere l’elmo dell’Armatura Divina, permettendogli infine di distinguere i suoi aggressori. Deglutendo a fatica, Pegasus cercò di rimettersi in piedi, mentre nuovi fili saettavano verso di lui, al comando silenzioso di una cetra che suonava un requiem di morte.

 

Mime!” –Mormorò il ragazzo, riconoscendo le corazze del Nord. –“Mizar e Alcor! E…”

 

Un affondo rapido e preciso lo raggiunse su un fianco, mentre scariche di energia sfrigolavano contro il pettorale della corazza e gli occhi vacui di un volto simile a un lupo selvaggio incrociavano i suoi.

 

“Luxor…” –Capì, spingendolo indietro con un’onda di energia e preparandosi, nel qual tempo, alla carica dei due fratelli. Velocissimi, Mizar e Alcor sfrecciarono verso di lui, uno su ogni fianco, mentre l’intensità della melodia di Mime raggiungeva il culmine e tutte le corde vibrarono, trasmettendo una poderosa energia oscura che fece tremare l’intero corpo di Pegasus.

 

Aaargh!!!” –Strinse i denti il ragazzo, bruciando il cosmo e riuscendo a liberare le braccia, sui cui pugni già scintillava un’azzurra energia. –“Fulmine di Pegasus!!!” –Esclamò, portando entrambi gli arti avanti e liberando, per la prima volta, un doppio attacco. Migliaia di sfere energetiche bombardarono Mizar e Alcor, frenando la loro corsa, ma la repentinità dell’assalto e la sua partizione lo resero meno incisivo, permettendo ai gemelli di portarsi ai fianchi di Pegasus.

 

Allora spalancò le ali dell’armatura, aiutandosene per balzare in alto e trascinare Mime con sé. Roteò su se stesso, portandosi in posizione verticale, e colpì il musico con un pugno al petto, che lo scagliò a terra, contro Mizar, assieme alla sua cetra. Con un’esplosione di energia, Pegasus incendiò le corde che gli bloccavano le gambe, piombando poi su Alcor con il pugno pronto a colpire. Ma non s’avvide di una rapida mossa di Luxor, con cui questi balzò sulla schiena della Tigre Bianca, servendosene per saltare in alto, sopra Pegasus, e affondare le zanne del lupo nella sua schiena, schiantandolo a terra.

 

“Maledizione!” –Rantolò il ragazzo, rialzandosi all’istante e constatando che i denti dell’armatura oscura fortunatamente non erano riusciti a penetrare il mithril o avrebbe potuto ritrovarsi paralizzato. –“Non appena mi libero di uno, eccone un altro! Stanno diventando… troppi!” –Aggiunse, mentre due braccia robuste lo afferravano da dietro, impedendogli di muoversi e stritolandolo sempre più.

 

Torcendo a malapena il collo, Pegasus trovò conferma ai suoi sospetti, riconoscendo la massiccia sagoma di Thor e percependone di nuovo la poderosa forza.

 

“Pure tu, amico mio! Quale destino… immondo!!!”

 

In quel momento Mizar, Alcor e Luxor si lanciarono contro di lui, liberando i loro colpi segreti. Artigli di oscura energia e zanne affilate gli graffiarono l’armatura, raggiungendolo ovunque, persino sul volto.

 

Sentendosi la bocca impastata dal sangue che gli colava da un taglio sulla fronte, Pegasus bruciò al massimo il cosmo, mettendo da parte ogni remora. Li conosceva, e sapeva che i loro veri spiriti mai avrebbero accettato di sottomettersi all’oscuro potere di Caos. Anche per loro, per onorarne la memoria, doveva vincerli.

 

Aaargh!!!” –Gridò, espandendo il cosmo e liberandolo con una violenta fiammata azzurra, che ustionò le braccia di Thor, distruggendone l’armatura e obbligandolo ad allentare la presa. Subito Pegasus ne approfittò, afferrando il gigante per un arto e servendosene come leva per ribaltarlo, schiacciando Luxor nell’impatto. Quindi, con il pugno già carico di energia e le lacrime che gli rigavano il volto, liberò la Cometa Lucente, da distanza ravvicinata, che per la seconda volta trapassò il costato del nobile Thor, continuando poi la sua corsa e travolgendo Mizar e Alcor.

 

C’era rimasto solo Mime, adesso. Mime che non voleva combattere, Mime che odiava la guerra, madre di dolore, e che alla guerra era stato costretto a piegarsi. Di nuovo.

 

Prima che potesse occuparsi di lui, il musico oscuro venne spinto di lato, gettato a terra in malo modo da una figura imperiosa spuntata alle sue spalle. Pegasus non ebbe bisogno di guardarlo in faccia per capire chi fosse, gli bastò notare il coprispalla a forma di testa di drago, ricordando il loro scontro nel piazzale retrostante la cittadella di Asgard, la sua dolorosa accettazione di una perversa realtà e infine la sua dipartita.

 

“Orion!” –Mormorò il Cavaliere di Atena, mentre il suo avversario sollevava l’indice destro, su cui lampeggiava un’oscura iridescenza. Ben sapendo quel che sarebbe accaduto, Pegasus spalancò le ali dell’Armatura Divina, librandosi in avanti, oltre il cerchio di energia appena apparso sul terreno attorno a lui. Ma un braccio lo afferrò all’improvviso, un braccio sorse dal mucchio di corpi che credeva di aver vinto, forse di Luxor o di un altro, e lo gettò indietro, dentro il perimetro esplosivo, esponendolo alla violenza della Spada di Asgard.

 

L’attacco graffiò ulteriormente la sua corazza, pur senza recarle danno, ma gli fece perdere tempo prezioso, di cui Orion approfittò per portarsi vicino a lui, gonfiando il petto e tirando all’indietro entrambe le braccia piegate. Fu un attimo e la potenza degli Occhi del Drago esplose, abbattendosi su Pegasus e scaraventandolo molti metri addietro, contro un gruppo di giovani Areoi impauriti. Orion, invece, non si faceva problemi nel falciare chiunque gli si ponesse davanti, deciso a sconfiggere il Primo Cavaliere della Dea Atena.

 

“Se è me che vuoi, allora mi avrai!” –Ringhiò il ragazzo, rimettendosi in piedi, avvolto nella sua scintillante aura cosmica. Incrociò le braccia davanti al viso, contenendo la furia del colpo segreto del Cavaliere di Asgard, per poi rimandargli indietro il suo stesso attacco, sbattendolo a terra. Prima ancora che Orion potesse rimettersi in piedi, già Pegasus galoppava verso di lui, uno sciame di meteore azzurre in volo per coprire la breve distanza tra di loro. –“Perdonami amico mio! Fulmine di Pegasus, donagli la paceee!!!” –E liberò il potente colpo segreto, che disintegrò Orion e altre ombre radunate attorno a lui.

 

Non ebbe tempo di gioire, che già nuovi nemici si erano fatti avanti e ovunque, nella piana del Taklamakan, risuonavano grida di guerra e di dolore.

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo sesto: Ombre dal passato. ***


CAPITOLO SESTO: OMBRE DAL PASSATO.

 

Prima ancora di voltarsi, Andromeda sapeva chi gli si sarebbe parato davanti. Non ebbe neanche bisogno di ricorrere alla chiaroveggenza, gli bastò tendere l’orecchio e ricordare. Aveva riconosciuto la melodia di flauto del più pericoloso Generale degli Abissi, ma anche del più onesto e nobile, l’unico che aveva capito e li aveva aiutati a mettere fine a quella folle guerra.

 

“Syria!” –Mormorò, voltandosi e osservando la demoniaca figura di fronte a lui.

 

I suoi begli occhi viola, un tempo brillanti di fede e di pace, erano adesso neri, come l’armatura che indossava e il flauto che stringeva tra le mani, su cui le dita correvano frenetiche. Caos poteva pure aver annullato il suo spirito, ma non la sua maestria.

 

Quella, purtroppo, è rimasta immutata! Commentò Andromeda, notando come il musico si facesse largo tra i soldati di Atena, costretti a portarsi le mani ai timpani, crollando in ginocchio urlanti e deliranti, vittime di una malia che l’oscurità aveva reso ancora più temibile. Fu mentre Syria sollevava il braccio destro, per calarlo sul collo di Asher, ansimante ai suoi piedi, che la catena di Andromeda saettò nell’aria, avvolgendosi attorno al polso del Generale degli Abissi.

 

“Allontanati da lui!” – Gridò il Cavaliere, mentre Kama trascinava via l’Unicorno, lasciando i due antichi avversari uno di fronte all’altro.

 

Gli bastò scuotere il braccio, a Syria, per far oscillare la catena, liberandosi e portando di nuovo il flauto alle labbra. Ma la determinazione di Andromeda quella volta non vacillò. Ormai, giunti a quel punto, aveva imparato la lezione e fu certo che anche il vero musicista dalla dolce melodia avrebbe compreso.

 

Catena…” –Fece per liberare di nuovo l’arma quando si sentì afferrare da dietro da due braccia ossute, che gli bloccarono gli arti. Voltò a malapena lo sguardo per riconoscere i tratti albini di Lemuri, deformati, adesso, dal sottile strato di tenebra spalmato sul corpo di tutti i guerrieri.

 

Il morso di qualcosa lo raggiunse al collo, facendogli spruzzar fuori sangue, mentre la sagoma di Kira di Scilla, con l’indice destro intriso di energia, entrava nel suo campo visivo, assieme a un Generale degli Abissi che non aveva incontrato. Si stava ancora chiedendo chi fosse quando venne sollevato da terra e scaraventato molti metri in aria, da quelli che gli parvero poderosi flussi d’acqua nera. Una melma che travolse e sballottolò anche Lemuri, precipitandolo di sotto, addosso ad altri spiriti erranti.

 

Andromeda cercò di stabilizzarsi, in quella precaria situazione, quando sentì le onde di energia acquatica scomparire, lasciarlo sospeso in aria per una frazione di secondo e poi cadere verso terra. In quel breve istante ebbe una fugace visione di un guerriero alto e robusto, dalla carnagione scura, che sorpassava Kira e il suo compagno, lanciandosi su di lui, con una lunga lancia dalla lama affilata su cui il Cavaliere si sarebbe impalato a breve.

 

“Eh no!” –Esclamò, bruciando il cosmo e dandosi una spinta con le ali dell’armatura, quel tanto che gli bastò per evitare l’affondo dell’arma tagliente, afferrarla e usandola per balzare alle spalle dell’avversario, atterrando proprio sopra di lui. Srotolò la catena e gliela passò attorno al collo, torcendolo all’indietro, travolto da scariche di energia che presto fecero vibrare l’intera corazza. –“Se ci sei ancora, sotto questo strato di tenebra che ti lorda l’anima, ti chiedo perdono, Generale degli Abissi. Un tempo eri fedele al tuo Dio. Per rispettare il tuo credo, devo combatterti!” – Sospirò, mentre assieme all’uomo precipitava verso terra, in una nube di folgori energetiche.

 

Fu lesto a balzar via prima di toccar terra, a evitare una nuova bestia che Kira gli aveva diretto contro e il fendente energetico di Syria, che scavò un solco nel terreno, abbattendosi sul già ferito Generale alle sue spalle. Ma non poté evitare, al nemico che lo aveva sollevato poc’anzi, e che per esclusione intuì essere Cavallo del Mare, di liberare di nuovo i poderosi flussi che lo avevano spinto in alto.

 

Quella volta, però, si lasciò trascinare, senza opporre resistenza, sfruttando l’onda di pressione per darsi la spinta, liberare le catene e avvolgerla in una spirale che, per un momento, rischiarò il cielo con il suo bagliore adamantino. Quindi, mentre balzava a terra, strattonò l’arma e trascinò la corrente con sé, abbattendola sugli sbalorditi avversari. I flutti abissali travolsero Kira, Cavallo del Mare e altri guerrieri attorno a loro, di ambo gli schieramenti, e persino Andromeda venne spinto indietro.

 

Cristal, poco distante, sollevò lesto un muro di ghiaccio per frenarne l’avanzata e dirigerli verso l’esercito avversario, guadagnando un sorriso da parte dell’amico, che si era intanto rimesso in piedi, per trovarsi di fronte l’unico nemico che in quel pantano sembrava a suo agio.

 

Come le rocce su cui sedevano le sirene, stagliandosi perigliose sulle rotte delle navi, allo stesso modo Syria aveva resistito alla corrente, avvolgendosi in un globo di energia oscura che lo aveva mantenuto asciutto. E adesso, senza neppure staccare le labbra dal flauto, si limitò a incrociare lo sguardo di Andromeda con gli occhi indemoniati e ad aumentare l’intensità della sonata.

 

Subito, dalla melma attorno a lui, il Cavaliere vide sorgere migliaia di figure deformi, le vide nascere, formarsi, quasi stessero uscendo da un bozzolo, e poi spalancare le ali, mostrare i denti sottili e aguzzi e scattare verso di lui. In un refolo, la Catena di Andromeda si dispose a difesa del suo padrone, lasciando fuori quella torma di sirene oscure, che continuavano a protendere le mani artigliate su di lui, venendo falciate e spinte indietro, ma costrette ad andare avanti da una melodia implacabile. La dolce melodia di flauto divenuta un requiem di morte.

 

Inspirando e radunando energia e forza di volontà, Andromeda socchiuse gli occhi, cercando di non ascoltarla, di estraniarsi da quel mondo di guerra in cui la sua vita era immersa. Avrebbe dovuto imparare, ormai, eppure continuava a dispiacersi. Ogni volta. Era parte di sé, in fondo, quella reticenza a ferire, una parte che lo aveva reso quello che era. Un Cavaliere della Speranza.

 

Doveva solo ricordarlo.

 

Catena di Andromeda!” –Gridò, avvolto in un arcobaleno di luci. –“Vai!” – E aumentò il vorticare dell’arma, che si espanse a raggiera, travolgendo le immonde sirene, moltiplicandosi in un numero di copie impossibili da contare a occhio umano.

 

Persino Syria sembrò sbalordito, staccando per un momento le labbra dal flauto. Forse, una parte della sua coscienza si era appena ricordata di aver già visto quel cosmo scintillante portato al parossismo? A quella possibilità Andromeda si aggrappò mentre dirigeva la schiera di catene contro di lui, trapassandolo e disperdendone lo spirito oscuro al vento del Gobi.

 

Si appoggiò sulle gambe, rifiatando per lo sforzo e scosse la testa, quasi volesse liberare i timpani dall’oscuro influsso della melodia. Fu per quello, forse, che non s’avvide di un movimento alle sue spalle. Sentì solo il dolore quando la lancia di Crisaore lo trafisse alla coscia destra, strappandogli un grido allucinante.

 

La catena schizzò subito ad afferrare l’arma, schiantandola tra le sue spire, prima di stritolare anche il corpo del Generale indiano. Una volta, Phoenix gli aveva detto che in battaglia gli sembrava sempre di combattere contro un altro se stesso. In quel momento Andromeda convenne che fosse la verità, ma non era da solo, vi erano tanti, molti altri se stesso in quella piana.

 

***

 

Il ghiaccio della Siberia si abbatté su una decina di Spectre, rivestendo le loro scure corazze di un azzurro limpido, quasi irreale per quel giorno. Durarono un attimo, quelle rozze statue in pose innaturali, prima che altri, dalle retrovie, le sfondassero, passandoci sopra o in mezzo, agitando le armi alla volta del Cavaliere del Cigno.

 

Una frusta nera scivolò nell’aria, passandogli a una fiatata di distanza. Cristal fu in grado di vedere persino l’alone lasciato dal suo respiro sull’arma, prima che si riavvolgesse, e lui la afferrasse. Volse la testa in direzione dello Spectre, ricambiandone il gelido sguardo, mentre il suo cosmo congelava la verga e, un istante più tardi, colui che la impugnava.

 

“Attento, Cristal!” –Gridò Euro, dall’alto, intento a fronteggiare quella che, al Cigno, era parsa un’oscura riproduzione di sé. Forse uno dei fratelli caduti durante l’attacco di Eos al Grande Tempio? Riuscì comunque a destreggiarsi e a liberare una corrente d’aria che spinse indietro il vigliacco che, approfittando della distrazione del Cavaliere di Atena, si era portato alle sue spalle, mulinando un lungo remo nero, per calarlo sull’indaffarato combattente.


“Grazie!” –Esclamò il ragazzo, scattando avanti e strappando l’asta di mano allo Spectre, usandola per percuoterlo a un fianco, poi a un altro, facendolo ballare come una marionetta, prima che un colpo più potente non lo schiantasse indietro, con la corazza in frantumi. In tempo per essere calpestato da tre ben più robusti guerrieri.

 

Cristal non li aveva mai visti, ma l’aura oscura che li sovrastava non aveva niente da invidiare a temibili avversari affrontati nel tempo. Non rimase ad attendere gli eventi ma cercò di anticiparli, roteando il remo e piantandolo poi nel terreno, usandolo per infondervi il suo cosmo congelante, con cui rivestì il suolo di ghiaccio, sperando di imprigionarvi anche i tre Spectre.

 

Con uno ci riuscì ma il secondo fu lesto a spalancare le ali dell’armatura e a balzare in alto, quasi fosse un rapace infernale. Il terzo si limitò ad aprire le braccia di lato, infuse di cosmo, e a Cristal parve di vedere un gigantesco fiore nero sbocciare e tenere a distanza i ghiacci siberiani.

 

Non ebbe modo di notare altro che dovette fronteggiare l’assalto del primo avversario, che stava piombando su di lui, sospinto da una fetida corrente d’aria. Con il braccio destro, il Cavaliere sollevò un muro di ghiaccio, lasciando che il vento vi si abbattesse, concentrando il cosmo sull’indice dell’altra mano e liberando gli Anelli del Cigno, che bloccarono lo Spectre a mezz’aria, congelando le sue ali e precipitandolo a terra.

 

Prima ancora di rifiatare, Cristal venne distratto dal rumore di passi in corsa e, un attimo dopo, vide il proprio muro andare in frantumi e la figura di un guerriero oscuro piombare su di lui, colpirlo con una spallata e spingerlo indietro, proprio tra le braccia di un quarto Spectre che, fino a quel momento, non aveva notato.

 

Ce ne erano troppi. E se anche singolarmente non lo impensierivano, messi tutti assieme, in una schiera che poteva riprodursi ogni volta che i suoi membri venivano sconfitti e dispersi, lo stavano stancando. Aveva visto Andromeda venire trafitto dalla lancia di un guerriero poco prima e Euro costretto a ripiegare, incalzato dai venti avversi scatenati contro di lui da ben tre nemici. Tutti eventi che, in uno scontro individuale, avrebbero potuto gestire. Ma non così.

 

Ancora vittima di quel pensiero, quasi non s’avvide che lo Spectre lo aveva liberato dalla sua stretta, unendo le braccia sopra la testa e scaraventandolo in aria, in un turbinio di energia oscura che lo fece roteare, disorientandolo per qualche secondo, dando il tempo agli altri guerrieri di Ade di lanciarsi su di lui. Una rozza spada e una ghigliottina gocciolante sangue oscuro piovvero su di lui, che riuscì a evitarle sbattendo le ali dell’armatura e deviando gli assalti, prima di allontanarsi dal mulinello energetico e avvolgersi nel suo cosmo bianco.

 

Per primo travolse il robusto guerriero che aveva creduto di aver imprigionato nel ghiaccio, poi il suo compagno, le forme della cui armatura gli fecero quasi credere che fosse una donna, sebbene non avesse mai avuto notizia di donne nelle legioni del Signore degli Inferi. Per ultimo si lasciò lo Spectre che lo aveva scagliato in cielo, la cui aria tronfia gli fece quasi sospettare che non tutti fossero così dispiaciuti di dover servire Caos e affrontare di nuovo i Cavalieri di Atena, sobillati forse da un mai sopito desiderio di vendetta per tutte le sconfitte subite nelle Guerre Sacre.

 

Uno spostamento d’aria alle sue spalle lo avvisò di un pericolo incombente, permettendogli di spostarsi giusto in tempo per vedere un’agile sagoma guizzare di lato, con gli artigli sguainati e pronti ad affondare nel suo collo. Lo riconobbe non appena si voltò, ricordando come avesse atterrato sia lui che Sirio alla Quarta Prigione.

 

“Licaone!” –Mormorò, mentre lo Spectre si univa all’altro ed entrambi liberavano i loro colpi segreti. –“Non stavolta. Polvere di Diamanti!” –Tuonò, scatenando la furia delle nevi eterne, che travolsero l’energia oscura dei due guerrieri, abbattendosi poi su di loro e divorandoli nella sua morsa letale.

 

Qualcuno, da qualche parte nella mischia, applaudì e Cristal si voltò di scatto, il pugno destro già sfrigolante gelida energia, ma non trovò nessuno. Quantomeno nessuno che, in quel momento, fosse interessato a lui. Fece per avviarsi in aiuto dei Cavalieri di Bronzo e Argento quando avvertì un fruscio alle sue spalle, il tocco leggero di un filo che si avvolse a un suo dito, tirandolo indietro. Un filo leggero, quasi impalpabile, ma resistente.

 

“Minosse!” –Strinse i denti e si girò, congelando al qual tempo l’oscuro filamento.

 

A pochi passi da lui, il Giudice del Grifone sogghignava divertito, affiancato da altri due robusti Spectre. Uno, Cristal lo conosceva, avendo combattuto contro di lui al castello di Ade in Germania e venendo sconfitto in malo modo. L’altro non l’aveva mai visto, ma non dubitava che fosse il terzo caporione dell’Inferno.

 

“Minosse, Eaco e Radamante!” –Esclamò, spalancando le braccia e lasciando che la gelida corrente della Siberia lo rivestisse. I tre Giudici Infernali espansero i loro cosmi e si gettarono su di lui.

 

***

 

Alla vista del Giudice della Viverna, Ioria avrebbe voluto correre in aiuto di Cristal, per affrontarlo per la terza volta, ma i Giganti di Crono gli sbarravano il passo. Ne aveva già abbattuti un paio, di cui neppure ricordava il nome, ma gli immani guerrieri parevano spuntare da ogni lato, muovendosi con un’agilità sorprendente.

 

Erano così lesti di gambe e pronti a colpire anche quando il Signore dei Titani li aveva risvegliati, anni addietro? O era l’ancestrale volontà di Caos ad animarli, dando loro una vigoria maggiore? Se lo stava ancora chiedendo quando un gigante lo afferrò, chiudendo le dita su di lui, per poi sbatterlo al suolo. Ma prima che potesse calare di nuovo il pugno una fiamma dorata gli incendiò la mano, costringendolo ad aprirla e a ritrarsi di scatto, con la corazza fumante e traforata da migliaia di buchi.

 

Per il Sacro Leo!” –Gridò il Custode della Quinta Casa, balzando in alto, sulla stessa mano incidentata e servendosene per portarsi di fronte agli occhi del gigante. –“Lava Rossa!” –Lo riconobbe infine, mentre le fauci del leone dorato gli trapassavano un occhio, defluendo poi nel resto del corpo e facendolo divampare.

 

Con ginnica grazia, Ioria atterrò alle sue spalle, toccando terra proprio mentre il Gigante di Crono esplodeva. Neppure si voltò, focalizzandosi sul nuovo avversario.

 

Alto, robusto e rivestito da una corazza nera che impediva persino di vederne il volto, impugnava una grossa mazza ferrata, che mulinò verso il basso, costringendo Ioria a scartare di lato per non essere schiacciato. L’impatto dell’arma contro il suolo fu devastante e sollevò una nube di polvere che annebbiò la visibilità del Cavaliere d’Oro per una manciata di secondi, costringendolo alla difensiva. Attorno a lui, in quei brevi attimi, l’aria si riempì di grida disperate e quando la nuvola si diradò Ioria ne comprese il motivo, rammentando chi fosse il suo nemico.

 

“Ferro Cremisi!”

 

Se lo era trovato davanti una volta, alle porte del Labirinto di Crono, ma Fish era giunto in suo aiuto, neutralizzandolo in fretta. I fusti delle sue rose, in quel momento, si erano rivelati arma efficace per impedire che l’enorme mazza toccasse il suolo. Perché, quando ciò accadeva, le vibrazioni potevano fare a pezzi gli esseri umani.

 

Come era appena accaduto.

 

Con un rapido colpo d’occhio, Ioria abbracciò i morti che lo attorniavano, troppi per essere racchiusi in un unico sguardo. Vide anche Virgo, non molto distante, alle prese con tre guerrieri inquietanti e maestosi, gli ultimi Giganti di Crono. Imprecò, preoccupato per il compagno, prima che l’avanzare rumoroso di Ferro Cremisi lo costringesse a riportare l’attenzione su di lui.

 

Di nuovo il gigantesco nemico mulinò la mazza ferrata, per schiacciare quel fastidioso insetto dorato, ma Ioria, quella volta, non si mosse, concentrando il cosmo sulle braccia e sollevandole, afferrando la sfera chiodata nell’istante in cui calò su di lui. Stringendo i denti per lo sforzo, il Cavaliere resistette, deciso a impedire che toccasse terra, mentre un gruppo di soldati, vicino a lui, iniziò a lanciare lance e frecce contro il gigante, senza impensierirlo minimamente.

 

Fu la loro presenza, e il loro genuino coraggio, a infiammare il suo cosmo, assieme alle ali di suo fratello, che in tante battaglie lo avevano sostenuto.

 

Micene, ti prego, assistimi un’ultima volta! Mormorò, spingendo sempre più verso l’alto, fino a ritrovarsi a qualche metro da terra, sollevato dalle rassicuranti ali del Sagittario. Con un ultimo strattone, tolse la mazza dalle mani di Ferro Cremisi, scaraventandola quanto più vicino poté alla Porta delle Tenebre, prima di piombare sul gigante avvolto in una sfera di fuoco dorato.

 

Lo trafisse al costato proprio mentre la Mazza di Rubino si schiantava in mezzo al fiume di ombre, schiacciandone una decina. Atterrato alle spalle del servitore di Crono, lo sentì barcollare, prima di esplodere, dilaniato dai fulmini d’oro. Si rialzò, barcollando per lo sforzo, avviandosi verso Virgo, ormai nel pieno dello scontro, ma una figura in armatura nera planò di fronte a lui.

 

Sollevando lo sguardo, Ioria inorridì nel riconoscere l’oscura nebulosa su cui l’avversario stava camminando. Un tappeto di tetre stelle che pareva ribollire della sua energia.

 

“Siderius…” –Commentò, alla vista del suo unico allievo.

 

Dietro di lui apparve Micene.

 

***

 

Virgo era in difficoltà.

 

Gli era successo poche volte in passato e non era la paura di morire a preoccuparlo. Con quella aveva imparato a convivere da tempo, forte degli insegnamenti del Buddha. Era l’impotenza che lo infastidiva, un sentimento già provato di fronte al Muro del Pianto quando, pur con tutto il cosmo che aveva lasciato fluire, non era riuscito a causargli nemmeno una crepa. Un sentimento tornato adesso a farsi sentire, di fronte ai tre Giganti di Crono.

 

Li conosceva e sapeva che erano ben più pericolosi degli altri sei fratelli, al punto che il Signore dei Titani li aveva scelti come guardia personale. E adesso, sostenuti dall’ancestrale cosmo di Caos, il loro lato animalesco pareva essere emerso del tutto.

 

Belva d’Ambra era un enorme leone nero, composto di tenebra e di un materiale sconosciuto, sufficiente per proteggerlo dagli attacchi energetici che gli aveva rivolto contro. Saltellava attorno a lui, sparando raggi e sfere incandescenti, che all’inizio Virgo aveva evitato spostandosi alla velocità della luce, ma poi, quando anche Armatura di Giada aveva affiancato il fratello, raddoppiando gli assalti, aveva dovuto cambiare tattica e trincerarsi dietro il Kaan.

 

L’onda d’urto scatenata dal secondo gigante era stata devastante e, per un momento, Virgo aveva temuto che il globo dorato si schiantasse, esponendolo alla mercè dei suoi avversari, proprio come era accaduto ai soldati che lo circondavano. Avrebbe voluto salvarli, proteggerli da quella devastazione, ma nel farlo avrebbe dovuto esporsi al nemico e, così facendo, perdere l’opportunità di vincerlo e mettere tutti quanti, non solo i più arditi che lo affiancavano, in salvo.

 

Una scelta difficile, ma una scelta che andava fatta.

 

Adesso, mentre Armatura di Giada si risollevava, dopo aver piantato i suoi robusti pugni metallici nel terreno, e mentre Belva d’Ambra, balzellon balzelloni, tornava ad affiancare il fratello, Virgo agì. Concentrò il cosmo tra le mani, prima di aprire gli occhi e liberare un ventaglio di energia che rischiarò il cielo caliginoso del deserto, per poi abbattersi sui tre Giganti.

 

O, per meglio dire, sulla barriera che li aveva improvvisamente rivestiti.

 

Inarcando un sopracciglio, il Cavaliere notò il rapido guizzare di una lunga coda nera alle spalle di Armatura di Giada, prima che il terzo membro della guardia scelta si facesse avanti, infilando il lungo muso serpentiforme tra i corpi dei fratelli e torreggiando su tutti loro.

 

L’ultimo, e il più temibile, dei tre. Rifletté Virgo, ricordando lo scontro tra lui e Scorpio e Acquarius. Drago di Perla, custode di arcana sapienza.

 

Pur rimanendo in silenzio, il Custode della Porta Eterna lo vide sogghignare, fiero di quel risultato, riparato da un velo sottile che pareva composto di tante minuscole gocce di acqua oscura. Una barriera di magia nera.

 

La stava ancora osservando, quando Drago di Perla si chinò in avanti, eruttando un soffio di energia acquatica dalla bocca, che costrinse Virgo a balzare indietro, lasciando che il raggio devastasse ulteriormente il suolo attorno a lui, ormai uno scoordinato ammasso di buche e avvallamenti ove giacevano i resti dei soldati di Atena. Fu mentre saltava all’indietro che Belva d’Ambra scattò su di lui, sparando nuove bombe energetiche, e Armatura di Giada, affacciandosi da un lato del compagno, mulinò un’enorme ascia di cosmo.

 

Virgo la schivò, ma la grazia dei primi movimenti aveva ceduto il passo a una stanchezza improvvisa, dovuta non soltanto alla debolezza degli ultimi giorni, seguita alla possessione da parte di Anhar, ma a qualcosa che l’aveva fiaccato fin da quando si era trovato di fronte i tre guardiani supremi. La detonazione di una bomba di fuoco, a pochi passi da lui, lo distrasse, spingendolo indietro e mandandolo schiena a terra, proprio mentre Armatura di Giada avanzava soddisfatto, calando l’ascia su di lui.

 

Kaan!” –Gridò Virgo, generando una mezza cupola di cosmo dorato a sua difesa, su cui l’arma si conficcò, in un’esplosione di luce e ombre. Il Cavaliere sollevò le braccia, infondendo alla barriera tutta la sua energia, con il gigante che, dal canto suo, pareva deciso a sfondarla, presto affiancato da Belva d’Ambra, che liberò una nube di fuoco, e da Drago di Perla, che gli scagliò contro una tempesta di aculei che si conficcarono nel Kaan, costringendo Virgo alla massima concentrazione.

 

Un paio riuscirono persino a sorpassare la difesa luminosa, piantandosi nel corpo del Cavaliere, ma questo non lo fece cedere, dandogli bensì l’impulso per reagire. Fu una riflessione veloce, la sua. Del suo ristretto parco di colpi segreti, ve ne era solo uno, in fondo, che poteva essere efficace in quel momento. Un attacco diretto.

 

E tale fu.

 

Abbassando le braccia al petto, e chiudendo gli occhi, in un gesto che i Giganti interpretarono come debolezza, Virgo radunò tutta la sua energia. E quando già i tre pregustavano la vittoria, ecco che un’esplosione di luce li abbagliò, spingendoli indietro, con le armature in frantumi.

 

Abbandono dell’Oriente!” –Esclamò il Cavaliere della Sesta Casa, aprendo gli occhi solo per una frazione di secondo, a causa dall’innaturale debolezza che l’aveva invaso, per vedere Belva d’Ambra e Drago di Perla disintegrarsi in un’esplosione di luce.

 

Sorrise, prima che un dubbio lo invadesse, forzandolo a rimettersi in piedi e ad avanzare nella nube di polvere che sormontava il suolo devastato, cercando con sensi attenti l’ultimo nemico. Lo sentì, prima ancora di vederlo, avanzare a passo strascicato verso di lui. Udì lo spostamento d’aria, mentre sollevava l’ascia di cosmo oscuro, e, se i Giganti avessero parlato, ne avrebbe udito persino la sghignazzata.

 

Ma lui era il Custode della Porta Eterna, e se anche non poteva scaraventarlo in alcuno dei sei mondi, certo che Caos lo avrebbe riportato subito qua, poteva ridurlo a essere quello che era. Minutaglia senza importanza di fronte alla celeste pienezza di un Cavaliere di Atena.

 

Ohm!” –Mormorò, sollevando un braccio al cielo, sul cui palmo riluceva vivida una sfera di energia dorata. La stessa che Armatura di Giada colpì poco dopo con la punta della lama, la stessa che esplose in una spirale di luce dilaniando l’arma stessa e riducendola in pulviscoli, prima di intaccare il corpo dell’ultimo guardiano di Crono e sbriciolarlo.

 

Affaticato e ansimante, Virgo mosse qualche passo, ma la gamba destra lo tradì, piegandolo di lato. Sarebbe caduto a terra, se qualcuno non lo avesse afferrato.

 

Il Cavaliere della Vergine mosse le labbra per ringraziare il suo soccorritore, quasi credendo che si trattasse di Ioria, quando vide i colori violacei dell’armatura, il volto maschile e sporco, la barba incolta e i capelli arruffati, che spuntavano dall’elmo danneggiato. Non ne ricordava il nome, ma era uno degli Heroes.

 

“Riesci a stare in piedi?” –Gli disse l’uomo, cui Virgo rispose con un veloce cenno d’assenso, prima di puntellarsi sulle gambe e recuperare salda postura. –“Bene, perché ho altri nemici da affrontare. Hai gestito bene la situazione con quei tre. Ti ho visto in difficoltà e sarei voluto intervenire, stavo per farlo, in effetti. Avrei afferrato quel serpente per la coda e poi gli avrei mozzato la testa, come Eracle fece con l’idra, ma non sarebbe stato onorevole. No, un compagno non deve interferire con gli scontri di un altro. Io ne proverei vergogna!” –Aggiunse, muovendosi per allontanarsi.

 

“Adesso ti riconosco, e ti ringrazio, Iro di Orione!” –Commentò Virgo, abbassando per un momento il capo.

 

“Non ringraziarmi, togliti quella sozzura di dosso, piuttosto!” – Quindi, vedendo che il Cavaliere non aveva compreso, gli indicò il viso, su cui uno strato di polvere scura si era depositata. –“Residui di qualche sostanza che quella fiera ha sputacchiato in giro. Credo fosse tossica. Ho visto alcuni soldati morire soffocati o grattarsi il volto fino a scavarselo. Forse quello ti ha indebolito! Fortuna che li hai eliminati o saremmo stati…” –Ma Iro non terminò la frase che un clangore metallico distrasse entrambi, costringendoli a riportare lo sguardo sulla marea oscura che li circondava.

 

In mezzo a quel fiume nero, tre alti guerrieri sorsero a torreggiare sugli altri. Iro e Virgo si guardarono attoniti e, se il Cavaliere d’Oro mugghiò infastidito, il fedele di Eracle sbatté un pugno nel palmo dell’altra mano.

 

“A quanto pare, stavolta tocca a me!” –Esclamò, osservando Belva d’Ambra, Armatura di Giada e Drago di Perla ricompattarsi di fronte ai loro occhi.


 

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Capitolo 8
*** Capitolo settimo: Primo interludio. Fuoco. ***


CAPITOLO SETTIMO: PRIMO INTERLUDIO.

 

FUOCO

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: duecentocinquantaquattro anni prima del Secondo Avvento.

Spazio: Biblioteca di Alessandria.

 

“Sono lieto che siate potuti intervenire. La situazione è drammatica!” –Esordì Galen, andando incontro ai suoi ospiti.

 

“Con il pessimismo non si risolvono i problemi. Con l’azione diretta, invece, sì.” –Chiarì Andrei, entrando a passo svelto nella struttura celata tra le sabbie del grande deserto africano.

 

“Trattieni la tua furia, Andrei. È opportuno conoscere il nostro nemico prima di agire e sono certo che Galen disponga di tutte le informazioni necessarie per garantire un intervento discreto e efficace!” –Lo redarguì Alexer, seguendo il fratello nei corridoi rischiarati da decine di torce, fino a ritrovarsi in un’ampia sala centrale, dal soffitto alto e realizzato in vetro, che gli permise di individuare subito la luna sopra di loro. Pallida, come se stesse condividendo le loro stesse ansie.

 

È davvero così? Si chiese l’Arconte Azzurro, prima che un servitore lo raggiungesse, aiutandolo a togliersi la pelliccia, poco adatta al clima mite egiziano. Recuperato anche il mantello di Andrei, l’uomo scambiò due parole con Galen, fece un inchino e si congedò, lasciando i tre da soli. O, quantomeno, così credettero i due fratelli.

 

“Ecco, lasciate che vi mostri la dislocazione degli schieramenti!” –Commentò l’ospite, aprendo su un tavolo un’ampia mappa del pianeta. A giudicare dalla carta ingiallita, ai bordi quasi consunta, Andrei ritenne che avesse almeno qualche secolo. O forse l’aveva dipinta lo stesso Galen quando ancora girovagava per il mondo, incuriosito dalle sue meraviglie, prima di rinchiudersi in un volontario esilio? –“Questa è l’ubicazione del complesso templare di Uuc Yabnal, nel nord della penisola che i conquistadores chiamarono Yucatàn.”

 

Umpf, i conquistadores? Gli scagnozzi di Anhar, vorrai dire.” –Bofonchiò Andrei, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Alexer. Fingendo di non aver udito, Galen continuò.

 

“Sappiamo che Anhar ha conquistato la Chiocciola e il tempio del Dio della Pioggia, Chaac, sconfiggendolo, o peggio, e adesso il suo esercito sta assediando la piramide di Kukulkan, ove il Dio si è asserragliato, inviando un accorato appello a tutte le potenze del mondo.”

 

“Ma nessuno, immagino, ha risposto. Non è così?” –Sbuffò Andrei. –“Non fraintendermi, Galen, io sono sempre pronto per menar le mani con quella carogna di mio fratello ma vorrei che, ogni tanto, anche le altre Divinità muovessero il culo. E non guardarmi con quello sguardo torvo, Alex, tu per primo dovresti capire le mie parole. Da quanti secoli ormai tieni d’occhio quello scoglio tra i ghiacci, sperando che un giorno Odino scenda dal suo bel regno oltre le nuvole e venga a visitare il Recinto di Mezzo? E tu, Galen? Hai mai incontrato Amon Ra, il signore di queste terre che, secoli addietro (quanti ormai? Scommetto che li hai dimenticati!), ti concesse di insediarti qua? No, vero? La verità, che nessuno vuole ammettere, è che delle sorti di questo mondo non frega niente a nessuno, nemmeno agli uomini che lo abitano, sempre a scannarsi tra di loro per qualche futile motivo. Ricchezze, religione o potere. Non c’è da meravigliarsi che gli Dei lo abbiano abbandonato. Forse dovremmo fare lo stesso anche noi? Lasciare che Anhar ottenga quello che voglia, che distrugga questa Terra e dia inizio a un nuovo ciclo.”

 

“Stolto!” –Lo schiaffeggiò Galen, prima di ritirare la mano tremante, sconvolto, più dei due fratelli, per quell’atto di violenza commesso. –“Ti chiedo perdono, Arconte Rosso, ma noi… non abbiamo combattuto per questo. Per arrenderci.”

 

“Perdono? E che dovrei perdonarti?” –Esclamò Andrei, prima di scoppiare a ridere. –“Dovresti farlo più spesso e magari insegnare anche al nostro serioso fratello a sbottonarsi un po’. A proposito dov’è Avalon? Come mai non è presente al concilio? Da Asterios non mi aspetto niente, lui ormai vive fuori dal mondo. Letteralmente. Ma l’assenza dell’Arconte Supremo è sospetta.”

 

“Vostro fratello ha molte cose di cui occuparsi, Angelo di Fuoco!” –Parlò allora una voce proveniente da un angolo in ombra del salone, costringendo Andrei e Alexer a voltarsi e a trovarsi di fronte un vecchio alto e snello che avanzava a passo lento verso di loro. –“Dalla Guerra di Britannia non ha più abbandonato l’Isola Sacra, perciò ha invitato me a rappresentarlo. Ma non temere, di certo ci sta guardando in questo momento, come osserva tutti gli eventi del mondo nelle acque del Pozzo Sacro. E terrà in considerazione le tue… osservazioni.”

 

“Primo Saggio, quale onore!” –Esclamò l’Angelo Azzurro, chinando il capo, prima che Tegel gli facesse cenno di rialzarsi.

 

“Già, un grande onore. Adesso che siamo tutti riuniti, come un’allegra famiglia felice, possiamo prendere una decisione? O dovremo aspettare che altri muoiano a causa del nostro immobilismo?” –Si infervorò Andrei.

 

“Hai qualcosa da obiettare, Angelo di Fuoco?”

 

“Ho molto da obiettare! Se mi aveste lasciato agire, a suo tempo, avrei impedito ai conquistadores di conquistare Cuzco. Mi sarebbe bastato poggiare il culo su una delle cime della Sierra e far piovere una pioggia di fuoco su di loro, ma no. Avalon ha detto di no e tutti noi dobbiamo obbedire!”

 

“Quello che Andrei vuole dire…” –Intervenne Alexer, con tono conciliatorio.

 

“E che sa dire benissimo da solo, è che sto per andarmene a Uuc Yabnal o Chichén Itzá, che dir si voglia, quale che sia la vostra, e quella di Avalon, opinione!”

 

“Allora siamo tutti concordi!” –Esclamò il Primo Saggio, sorprendendo lo stesso Andrei. –“Avrai il comando della missione, Angelo di Fuoco. Qualunque cosa ti serva, devi solo chiedere. Sono certo che Kukulkan e i suoi sacerdoti ti accoglieranno con i giusti onori!”

 

Andrei rimase un attimo stordito, dalla facilità con cui aveva ottenuto l’assenso, chiedendosi se non vi fosse qualche tranello nascosto. Ma poi scosse la testa, eccitato all’idea di scendere sul campo.

 

“Parto!” –Disse soltanto, avviandosi verso l’uscita della biblioteca, solo per voltarsi dopo pochi passi. –“Non vieni?”

 

“Se tu non avessi monopolizzato il concilio con irrequiete farneticazioni, ti avrei informato che ho questioni importanti di cui occuparmi a nord. Bestie immonde e streghe sono tornate a popolare la Foresta di Ferro, i miei esploratori sono inquieti e voci (che ho ragione di ritenere fondate) riferiscono di un complotto in atto per destituire l’attuale Celebrante di Odino e porre sul trono di Midgard un regnante noto per le sue politiche belligeranti.” –Chiarì Alexer.

 

“Un membro del casato dei Megres, suppongo.” –Disse il Primo Saggio, strusciandosi la lunga barba. –“Se ciò accadesse, e se ci fosse l’ombra dell’Ingannatore dietro tutti questi eventi, potremmo perdere un importante alleato in vista dell’Ultima Guerra. È tuo dovere assicurarti che il complotto non vada a buon fine. Midgard deve restare regno di uomini, non l’avamposto da cui attaccare Asgard il giorno di Ragnarok!”

 

“Ho capito ben poco, ma arguisco che non verrai con me. Neanche stavolta!” –Commentò Andrei, voltandosi e allontanandosi, incurante dei richiami del fratello. Non fece caso neppure al servitore che lo inseguiva porgendogli la mantella e quasi rischiando di essere incendiato dall’improvviso accendersi del suo cosmo. Vi fu un lampo di luce rossastra e poi l’Arconte di Fuoco già sfrecciava lontano, oltre il deserto e l’oceano.

 

“Primo Saggio, vogliate scusarlo. Conoscete Andrei, la schiettezza è nella sua natura!” –Esclamò Alexer, cui Tegel rispose scuotendo la mano davanti al viso.

 

“Una dote che sempre apprezzo. Purché non diventi fretta e scelleratezza. Non che abbia tutti i torti, ma siamo garanti dell’equilibrio, sebbene questo ruolo, a volte, possa andare stretto.”

 

Galen, seduto al tavolo, annuì, intingendo la piuma nell’inchiostro e iniziando a trascrivere il resoconto di quel fugace incontro.

 

***

 

Fu con una cascata di fuoco che Andrei apparve di fronte al tempio di Kukulkan.

 

Atterò su una piattaforma rialzata da cui, guardando a destra, poteva ammirare la piramide dedicata al Serpente Piumato, sui cui gradoni i fedelissimi del Dio stavano combattendo, mentre a sinistra intravedeva le colonne perimetrali del Tempio dei Guerrieri. Quantomeno quelle che la furia degli invasori non aveva ancora abbattuto.

 

Ovunque, nella piana erbosa che si apriva nel cuore del complesso templare, uomini combattevano contro bizzarre creature che non riuscì subito a definire, armi calavano e sprazzi di cosmo e sangue rischiaravano quello che poteva essere l’ultimo tramonto di Uuc Yabnal. Un nome che gli uomini non sarebbero mai riusciti a tradurre correttamente ma che Andrei ben sapeva cosa significasse.

 

La casa dei Sette Grandi.

 

Una casa che era stata violata.

 

Fu mentre prendeva la decisione di avviarsi in quella direzione che notò un’ombra volteggiare su di lui. Quasi non l’aveva udita avvicinarsi, tanto silenzioso era il battito delle sue ali nere, al punto che, fosse stata notte fonda, avrebbe potuto persino assalirlo. Invece, adesso, riuscì a scansarsi in tempo per evitare l’affondo di artigli rossicci che gli passarono a un soffio dalla gola e, prima che il letale avversario potesse ritirare il braccio, Andrei glielo afferrò.

 

“Chi sei?” –Esclamò, fissandone il volto esangue, senza riuscire a trattenere un moto di disgusto.

 

Era una donna, o così gli apparve quella figura snella, quasi rachitica, rivestita da una corazza vischiosa che aderiva perfettamente al suo corpo, ornata da larghe ali scure simili a quelle dei pipistrelli. Ed in effetti, a guardarla meglio, al chiarore del cosmo che Andrei fece avvampare, anche il suo viso non sembrava molto umano, con quelle orecchia sottili e a punta e quei… canini aguzzi?

 

Prima ancora di ottenere risposta, Andrei dovette scansare la testa, che già la figura femminea allungò la bocca verso di lui, digrignando i denti quasi volesse azzannarlo. E si dimenò, scalciando e agitando il braccio libero, aiutandosi con le ali che non smisero un attimo di sbattere.

 

“E finiscila!” –Disse l’Angelo di Fuoco, liberando una vampa incandescente che ustionò l’arto prigioniero, distruggendo la protezione e rivelando l’esile osso al di sotto. Ma anziché piegarla per il dolore, quel gesto la eccitò ancora di più.

 

La donna-pipistrello si diede una spinta verso l’alto, sollevando le gambe e sgusciando sotto la presa di Andrei, fino a chiuderle attorno al suo collo. Sorpreso dalla sua destrezza, e sentendosi soffocare, l’Arconte Rosso dovette lasciare la presa, mentre la sua avversaria si lasciava cadere in avanti, facendo una capriola e trascinandolo con sé e gettandolo a terra, nell’erba macchiata dal sangue dei seguaci di Kukulkan.

 

“Ora mi hai fatto infuriare, donna!” –Esclamò Andrei, rimettendosi prontamente in piedi, con il cosmo amaranto che scintillava attorno a sé.

 

“Non sono una donna. Non più, adesso che ho abbracciato l’onnipotenza!” –Sibilò lei, aprendo le braccia di lato e allungando le unghie delle mani. –“Il mio nome è Camazotz e sono il Pipistrello della Morte! Della tua morte, Andrei di Isla del Sol!”

 

“Mi conosci? Dovrei sentirmi onorato?”

 

“Tutt’altro, perché non sarà una morte veloce la tua. No, ti sevizierò, aprendo quel bel corpo atletico che ti ritrovi, avendo cura di non ucciderti subito. Voglio gustarmelo il tuo sangue. Huay Chivo dice che è molto buono, il migliore che potrei bere. Il sangue degli antichi. Sei davvero così vecchio? Più di Kukulkan?”

 

“Ci siamo appena conosciuti e già mi chiedi l’età. Piuttosto scortese da parte tua. E dimmi, questo Huay Chivo che ti ha parlato di me, è per caso una carogna infame con gli occhi neri che, quando si adira, lanciano fiamme?”

 

“Non deridere il sommo sacerdote! Egli mi ha reso quello che sono!” –Avvampò Camazotz, scattando avanti. Evitò un paio di sfere di fuoco che Andrei le diresse contro, servendosi delle ali per portarsi sopra di lui, e poi calò il braccio, rivelando un pugnale dalla lunga lama, che ancora grondava il sangue delle precedenti vittime.

 

“Non così in fretta!” –Esclamò Andrei, afferrandole il polso e impedendo all’arma di raggiungerlo. Fece per torcerglielo quando si accorse che la lama si stava allungando, quel tanto che bastò per piantarsi nel suo collo e abbeverarsi del suo sangue.

 

Fu una ferita leggera ma fastidiosa, che fece barcollare l’Arconte Rosso, e Camazotz ne approfittò per roteare su se stessa e colpirlo al petto con un calcio, gettandolo di nuovo a terra. Soddisfatta, la donna-pipistrello leccò la punta del coltello, godendo del sapore acre del sangue di Andrei, a sentir lei delizioso. Subito la ferita al braccio si rimarginò, le ustioni scomparvero e anche la corazza si riparò, tornando a rivestirla interamente.

 

“Una Divinità vampiro!” –Notò l’Angelo di Fuoco, rimettendosi in piedi, una mano premuta sulla ferita. –“Gli esperimenti di Anhar scivolano sempre più nel macabro!” –Per un attimo gli sembrò di vedere doppio, poi sfumato, infine credette che la terra tremasse sotto i suoi piedi, prima di capire di essere stato avvelenato.

 

“Oh no, nessun veleno. Non potrei mai rovinare quel corpo perfetto. Dormirai solo un pochino e quando ti sveglierai… beh, potresti non svegliarti affatto, in verità! Ih ih ih!” –Esclamò Camazotz, scattando di nuovo avanti.

 

In quel momento una violenta esplosione fece voltare entrambi verso la piramide di Kukulkan, il cui tempio sulla sommità saltò in aria in un’esplosione di pietre e fumo. Anhar, a quanto pareva, aveva deciso di non risparmiarsi.

 

Fu quel pensiero, assieme all’immagine di centinaia di morti, forse migliaia, che quel bastardo si sarebbe lasciato alle spalle, a farlo reagire, proprio mentre la lama di Camazotz puntava alla sua gola. Si scansò, lasciando che la Dea gli scivolasse davanti, travolta dalla sua stessa carica, e poi la afferrò da dietro, chiudendole le braccia con le proprie, in un ferreo abbraccio.

 

“Stupido. La viscosità della mia corazza mi permetterà di liberarmi!” –Si agitò subito lei, strusciandosi per uscire dal basso, ma bastò che Andrei espandesse il proprio cosmo per fermarla. E farla preoccupare.

 

“Lo so bene. Ma tu sai cosa succede alla torba quando vi si avvicina una fiamma?” –Disse il Signore del Fuoco, prima di liberare tutto il suo potere.

 

Camazotz non riuscì neppure a urlare, divorata da una vampata che incenerì corazza e corpo, lasciando Andrei ad abbracciare un mucchio di ossa carbonizzate. Solo il pugnale si salvò, cadendo e conficcandosi nel terreno. L’Arconte Rosso lo sollevò, carezzandone la lama e chiedendosi cosa avrebbe provato nel nutrirsi del sangue di un altro Angelo, molto più oscuro.

 

***

 

“Portami alle tombe!” –Tuonò lo stregone, avvolto in sontuosi abiti cerimoniali neri.

 

“Ma io… non so… non saprei dove…” –Balbettò il sacerdote in ginocchio di fronte a lui.

 

Tut tut…” –Lo stregone agitò l’indice, spostando lo sguardo sulle figure che lo accompagnavano e che, a quel gesto, subito si lanciarono sull’uomo, azzannandone la carne e sventrandolo, tra gli strepiti che presto sfumarono d’intensità. –“Il prossimo!” –E si avvicinò al successivo sacerdote, dal viso più giovane, e forse più inesperto, sebbene egli per primo sapesse che le apparenze a volte potevano ingannare. –“Spero che tu sarai più accondiscendente. Per la tua salvezza, lo dico, ovviamente!”

 

“Perché fate questo?”

 

“Non hai sentito? Voglio le tombe dei Grandi!”

 

“Non è quel che vi ho chiesto!” –Esclamò il celebrante di Kukulkan, dal viso pesto e logoro, faticando nel rimettersi in piedi, mentre attorno a lui si radunavano le mostruose creature che avevano sventrato gli altri officianti, pronte a sbranarlo a un cenno del loro padrone. –“Perché avete attaccato il Tempio sacro del Serpente Piumato, scatenando questo bagno di sangue?”

 

“Oh, a quello ti riferivi? La risposta è semplice, perché vedi, sfrontato ragazzino, io sono un servitore del caos e a nient’altro anelo se non a sprofondare questo pianeta in una guerra senza fine. Non che debba sforzarmi molto, grazie alla ben poca sagacia degli esseri umani, ma a volte è necessario dare una dimostrazione di potere!”

 

“A chi dovete darla? A noi? Siamo un popolo pacifico, gli ultimi discendenti dei Maya e degli Aztechi. Non meritiamo questo!”

 

“Imparerai a tue spese che nessuno merita la propria rovina!” –Commentò lo stregone, quasi stesse parlando con se stesso. –“Io prima degli altri! E ora portami alla cripta o chiuderò quel che rimane del tuo ridicolo popolo in questo vetusto tempio e vi brucerò vivi tutti quanti! A Cuzco ho fatto così, sai? Prima ho bruciato i bambini, poi le madri in lacrime, infine i padri. È stato divertente, oh sì! Ah ah ah!”

 

“Che mostruosità…”

 

“Sono Huay Chivo, potrei essere diverso?” –Sghignazzò lo stregone, prima di fare un cenno alle creature.

 

Huay Chivo? Presuntuoso come sempre, caro fratello!” –Esclamò una voce, risuonando per i corridoi della piramide. –“A Cuzco ti spacciasti per Villac Umo, il Sacerdote Supremo, spingendo il Qhapaq Inca ad accogliere i conquistadores, anziché a difendersi. In Africa ti hanno visto cavalcare un mamba nero, fomentando disordini tra tribù un tempo amiche. Cosa sceglierai di essere, un giorno? Il consigliere di un Dio? O forse un Dio stesso?”

 

“Io sono un Dio. Consapevole delle mie infinite possibilità.” –Sibilò colui che si faceva chiamare Huay Chivo. –“A differenza dei miei fratelli che hanno rifiutato il loro lato divino. Tu invece cosa sei, Andrei? Il burattino di Avalon o il soldato da sacrificare in guerra, mentre egli complotta e attende riparato dalle sue nebbie?”

 

“Nessuno dei due!” –Disse Andrei, apparendo infine nel cuore del tempio, avvolto in una torma di fiamme rossastre. –“Io sono il Signore del Fuoco e, come tale, ardo!”

 

Prima ancora che finisse di parlare, sinuose vampe incandescenti si allungarono lungo il pavimento di pietra, dirette verso la mostruosa schiera che accompagnava Anhar. Sembravano piccoli orsi, con una cresta di aculei che dalla coda saliva lungo la schiena, fino a sormontare il cranio, la cui pelle pareva quella di un ramarro. Ma non erano orsi, soltanto Chupacabra.

 

“Uccidetelo, vermi!” –Ringhiò Anhar, scatenando le immonde creature contro il fratello, che non ebbe alcun problema a incenerirle tutte, saturando l’aria dell’edificio di un nauseabondo odore di carne bruciata. –“Sembra che, per ottenere qualcosa, debba occuparmene io. Vedi, ragazzo?” –Aggiunse, strattonando il sacerdote e portandoselo davanti al petto. –“Impari oggi una grande lezione. Mai fidarsi di nessuno, se non vuoi rimanere deluso.”

 

“Oh povero piccolo Anhar. I tuoi fratelli ti hanno deluso? Forse avrebbero dovuto ucciderti quando ancora ti avevano sott’occhio, anziché lasciarti libero di portare caos e morte nel mondo. Se vuoi saperlo, da questo punto di vista, Avalon ha deluso anche me! Io ti avrei ammazzato subito anziché riporre speranza in un tuo futuro pentimento!”

 

“Abbiamo più cose in comune ti quanto tu creda, Andrei! Come me, anche tu sei un guerriero. Anche tu rifuggi l’anacronistica immobilità a cui il Gran Tessitore ti ha consegnato. Anche tu aneli a qualcosa di più che fare da balia a un’umanità corrotta che non ha imparato, e mai imparerà, dai propri errori. Se comprendi le mie parole, unisciti a me. Insieme troveremo i Talismani e li useremo per instaurare un nuovo ordine, dimostrando ad Avalon quanto si è sbagliato!”

 

“Sembra un bel progetto!” –Commentò Andrei, avanzando di qualche passo, mentre Anhar arretrava fino a ritrovarsi schiena al muro, il collo del sacerdote ancora stretto nella sua mano sinistra. –“Ho solo una domanda: dopo che ti avrei aiutato a riunire i Talismani, esattamente… come mi uccideresti? I tuoi metodi sono sempre brutali e sono certo che, per me, imbastiresti una cerimonia spettacolare, non è così, fratello?”

 

“La tua diffidenza mi ferisce!”

 

“Tanto quanto il tuo tradimento? Ne dubito! Lascia quel ragazzo e combatti con me!”

 

“Oppure potrei sgozzarlo davanti ai tuoi occhi, sull’altare dove ho immolato Kukulkan! Una Divinità a forma di Serpente Piumato, ridicola nevvero?” –E, nel parlare, indicò un lato del tempio, dove, su un’ara di pietra, giaceva scomposta una sagoma per metà umana, per metà animale.

 

“Sei un abominio!” –Ringhiò Andrei, mentre Anhar, approfittando di quel momento, aveva sfoderato una lunga spada dalla lama infuocata, sollevandola sopra la testa.

 

“E tu uno sciocco sentimentale!” –E fece per calarla sul sacerdote, ma Andrei fu lesto a scagliargli il coltello contro, infilzando il polso e bloccandolo al muro. –“Aaargh!!!” –Gridò Anhar, perdendo la presa sulla spada, mentre l’officiante ne approfittava per sgusciare via e allontanarsi, lasciando le due potenze del mondo ad affrontarsi.

 

“Ora dimmi, fratello, cosa si prova ad assaporare la propria medicina?” –Rise Andrei, espandendo il cosmo e radunandolo attorno alle braccia. –“Aurora infuocata!”

 

Anhar riuscì infine a togliersi il pugnale dal polso, barcollando e scuotendo la testa, un istante solo, di cui ebbe bisogno per riprendersi e sollevare un muro di fiamme nere a sua difesa, su cui l’attacco di Andrei impattò, spingendolo indietro.

 

“Maledetto! Non mi fermerai, non adesso, a un passo dalla vittoria! Apocalisse…”

 

“Quale vittoria? Credi davvero che i Talismani siano stati nascosti tutti assieme nelle tombe dei saggi? Un pensiero troppo ingenuo persino per te!” –Lo zittì Andrei.

 

Taciii!!!” –Avvampò Anhar, generando un’onda di fuoco nero che disperse l’attacco del fratello, annerendo le pareti attorno e divorando i cadaveri dei Chupacabra e degli officianti di Kukulkan. –“Avalon si è mosso nell’ombra ma li ha recuperati, i corpi dei Sette Saggi. Beh, di cinque almeno. Oh, prima o poi troverò un modo per arrivare a Galen! Usa le sabbie per ingannarmi e celare la sua posizione, ma un giorno appiccherò il fuoco a quella maledetta Biblioteca e al suo custode!”

 

“La tua rabbia nasconde l’incertezza! La verità è che non sai dove cercare, né cosa! Se tu fossi stato furbo, se tu avessi aspettato che Avalon condividesse con noi il sapere dei Sette Saggi, non avresti bisogno di lanciarti in inutili campagne di guerra nei più disparati luoghi sacri del mondo! Cosa conti di fare? Visitarli tutti, finché non avrai trovato i Talismani?”

 

“È quello che farò! Dovessi metterci tutti i giorni che ci separano dal Secondo Avvento!”

 

“Non ne restano poi molti. Sbrigati, allora, o il tuo nuovo padrone potrebbe non apprezzare il tuo operato!” –Ironizzò Andrei, prima che un rinnovato assalto di Anhar lo costringesse a proteggersi con un muro di fuoco.

 

“Un giorno anche il tuo padrone sarà deluso da te. Un giorno l’anelito alla libertà che ti divora il cuore ti porterà a violare i dettami di Avalon. Ne sono certo, Andrei. E riderò quel giorno. Oh sì, riderò fino a star male! Ah ah ah!” –Esclamò Anhar, prima di emettere un lungo fischio. Subito un’ombra gigantesca oscurò la luna, planando sulla distrutta sommità della piramide e permettendo all’Angelo di Fuoco di distinguere un gigantesco uccello.  –“Ammiri il mio cuccioletto? Presto ne avrò un esercito, Andrei. Per adesso mi accontento di Vucub Caquix!” –Disse, balzando sopra i resti di un muro e poi sulla schiena del grosso pennuto. –“Ti lascio il campo, per oggi, ma tornerò. E non mi accontenterò di queste rovine senza Dio. Prenderò tutto, anche la tua cara Isla del Sol, proprio quando sarai felice e convinto di poter avere la tua bella vita terrena, e ti ricorderò chi siamo veramente. Gli angeli guerrieri che stanno sopra gli uomini. Sopra! Porta i miei saluti anche ad Avalon e ai due saggi ancora vivi. Neppure loro sfuggiranno alla mia vendetta, ma tu, Andrei, per avermi ostacolato, pagherai il prezzo più alto! Te lo prometto, fratello!” –E stese le labbra in un ghigno divertito, prima di sollevare Vucub Caquix e scomparire nella notte.

 

Andrei rimase qualche istante in silenzio, a guardare la devastazione che lo circondava. Nella piana attorno al tempio i guerrieri ancora vivi di Kukulkan stavano scacciando i Chupacabra rimasti illesi alle fiamme con cui li aveva travolti poco prima, mentre sull’altare di pietra bruciavano ancora i resti del Dio adorato in quel santuario, forse l’ultimo della sua stirpe. Come missione, non era andata poi così bene, ma almeno…

 

Bacab?” –Mormorò una voce alle spalle di Andrei, che si voltò, osservando il sacerdote emergere dalle rovine, sotto le quali aveva trovato riparo.

 

“Ancora vivo, ragazzo? Coriaceo e combattivo!” –Esclamò, mentre il giovane si avvicinava circospetto, guardando il cadavere di Kukulkan con tristezza. –“Mi dispiace per il tuo Dio, so che era una guida per voi. Mi auguro abbia trovato pace!”

 

Kukulkan non è morto! Egli vive, davanti a me. Un ciclo del mondo è finito oggi, un altro è iniziato. Tu sei un Dio, non è così? Ho udito le parole di Huay Chivo!”

 

“Non sono un Dio. Nessuno di noi lo è. Siamo Arconti, gli Angeli Guerrieri inviati sulla Terra per proteggerla in vista del ritorno dell’ombra!”

 

Bacab!” –Annuì l’officiante, ma Andrei non capì. –“Quattro fratelli che il grande Izamna, Dio creatore, inviò sulla Terra, piazzandoli ai quattro angoli del mondo, affinché la sorreggessero, permettendo agli uomini di vivere e prosperare.”

 

“Qualcosa del genere.” –Sorrise l’Arconte Rosso, prima di voltargli le spalle e incamminarsi fuori dal tempio.

 

“Cosa c’è nei sotterranei? Huay Chivo ha parlato di sette tombe!”

 

“Per la verità, ve ne sono solo cinque, per adesso. Un giorno, spero lontano, saranno sette. Le tombe dei Sette Saggi che hanno salvato questo mondo dal caos, tanto tempo addietro, e che, quando l’ora del Secondo Avvento suonerà, risorgeranno per combattere con noi.”

 

“Le tue parole sono criptiche, ma non desidero sapere oltre. Ti ringrazio per il tuo aiuto, Arconte di Fuoco. Se c’è qualcosa che posso fare per onorarti, chiedilo e io lo farò. Sono il tuo umile servo!” –Disse il sacerdote, inchinandosi.

 

“Come ti chiami?”

 

“Il mio nome è Axayacatl!”

 

“Sii un buon Sacerdote, insegnante e guida per il tuo popolo.” –Esclamò Andrei, avvampando nel suo cosmo, prima di sollevarsi e squarciare il cielo, come un’ardente cometa rossa, diretto verso il lago Titicaca.

 

Axayacatl sorrise, ripensando alle parole del Signore del Fuoco. In effetti, mai come in quel momento i superstiti alle purghe contro i Maya e gli Aztechi avrebbero avuto bisogno di un faro per rischiarare il loro incerto e oscuro presente. Poteva essere lui? Avrebbe avuto bisogno di discepoli, cui insegnare e su cui fare affidamento, e questo gli ricordò suo nipote, Antioco. Se era sopravvissuto a quella lunga notte, poteva essere un buon allievo.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: duecentocinquantaquattro anni prima del Secondo Avvento.

Fine.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo ottavo: Vecchi amici, nuovi nemici. ***


CAPITOLO OTTAVO: VECCHI AMICI, NUOVI NEMICI.

 

Con un balzo, Sirio evitò la carica delle cavalle di Diomede, che, di pura tenebra composte, sfrecciarono ringhiando alle sue spalle, abbattendosi sui soldati di Asgard. Spade e lance vennero sollevate, scudi infranti e grida di uomini coraggiosi accompagnarono la veloce corsa con cui il Cavaliere del Dragone azzerò la distanza dal suo avversario, investendolo con un attacco energetico.

 

Lo colpì sul mento, scagliandolo in alto, ricordando quanto il figlio di Ares si fosse divertito con lui, durante la scalata ai Templi dell’Ira. Un divertimento che stavolta non si era ripetuto. Non era passato molto tempo, in verità, ma le esperienze vissute avevano fortificato il suo spirito guerriero.

 

Colpo segreto del Drago nascente!” –Gridò Sirio, liberando la possente bestia di Cina che dilaniò il corpo di Diomede, disperdendolo nel cielo di fronte alla Porta della Luce.

 

Quale ironia! Rifletté il giovane, atterrando a gambe unite, già in posizione di combattimento. La chiamano Porta della Luce ma non è altro che una fortezza d’ombra. Non è stato forse il suo custode a devastare il Grande Tempio di Atene? E, una volta varcata la soglia, cosa mai troveremo, se non ulteriore tenebra?

 

Immerso in cupi pensieri, s’avvide solo all’ultimo di un movimento alla sua destra. Fu lesto a spostare lo scudo, su cui una rozza clava nera impattò, spingendolo indietro. Un rapido roteare dell’arma e Sirio venne colpito alle gambe, costretto a piegarsi di lato.

 

Per essere tarchiato, si muove con indiscussa agilità! Notò il Cavaliere, osservando il nuovo avversario. Silenzioso e letale, come tutti i berseker affrontati fino ad allora.

 

Durante la Grande Guerra, aveva avuto modo di confrontarsi solo con un paio di loro e sembrava che adesso Ares cercasse la sua vendetta. Ares! Mormorò, stringendo i denti al ricordo della Divinità che aveva voltato le spalle ai suoi consanguinei, scegliendo di schierarsi dalla parte di Caos. Pegasus gli aveva raccontato del loro scontro sulla Luna, di quanto avesse dovuto sudare pur di aver ragione della sua furia battagliera. Parole che Sirio adesso ben comprendeva, ritrovando, nei berseker che lo circondavano e con cui stava guerreggiando fin da quando la Porta della Luce si era aperta, lo stesso demoniaco furore del padre che li aveva generati.

 

A quanto pare la berserksgangr è un tratto di famiglia! Ironizzò, evitando il nuovo affondo del guerriero dotato di clava. Ma, nel farlo, offrì il fianco a un altro berseker che gli scagliò contro una palla chiodata, arrotolandola attorno al suo braccio destro.

 

Un terzo, in quel momento, sbucò fuori da dietro il compagno, lanciandosi su Sirio e tempestandolo di pugni, in rapida sequenza, uno dopo l’altro, destro e sinistro, le aguzze zanne che ornavano i bracciali della sua nera corazza dirette verso il suo viso.

 

Con uno strattone, Sirio liberò il braccio prigioniero, proteggendo il volto con lo scudo, prima di espandere il cosmo e investire il berseker più vicino con la sua aura luminosa. Bastò quel contatto a disintegrarlo, mentre la marea color verde smeraldo assumeva la forma di maestosi dragoni che sfrecciarono in ogni direzione, travolgendo, squarciando e annientando tutti gli oscuri figli di Ares.

 

Fu allora che percepì due presenze alle sue spalle, due cosmi ben più evidenti e ostili dei guerrieri affrontati fino ad allora. Si voltò, sollevando lo scudo, quasi temesse un assalto immediato, solo per trovarsi di fronte due giovani (o tali gli apparvero) dai lineamenti simili, al punto che ritenne fossero gemelli.

 

Alti e ben fatti, i fisici scultorei evidenti nonostante il velo di tenebra che li rivestiva, indossavano due armature dai tratti inquietanti, simili a leggendari mostri così antichi che dei loro nomi si era persa memoria. Ai fianchi, entrambi portavano una spada, dalla lama lunga e sottile, completamente avvolta da fiamme nere.

 

Bastò quel particolare a fargli capire chi aveva di fronte e la conferma gli arrivò quando, torcendo le labbra fasulle in un ghigno, i due guerrieri scattarono su di lui, da direzioni diverse, muovendosi in perfetta sincronia. Sirio evitò lesto il piano di energia infuocata che uno dei due gli diresse contro, muovendo al qual tempo il braccio destro per parare il calare della lama dell’altro. Quindi lo spinse indietro con un veloce colpo dello scudo, proprio mentre il fratello balzava su di lui, sfiorandogli i già scorciati capelli con il soffio letale della sua spada.

 

Portandosi a qualche passo di distanza, Sirio tremò, liberando il respiro trattenuto in quella breve schermaglia. Cos’era quell’ansia che l’aveva invaso all’improvviso, quel freno che stava limitando il fluire dei suoi movimenti? Cautela? Studio attento dell’avversario? O forse pura e semplice paura?

 

No, si disse, stringendo i pugni, non è paura. È qualcosa di più. è terrore? Possibile?

 

Non ebbe tempo di porsi altre domande che i due berseker sfrecciarono verso di lui, mulinando le spade infuocate e generando continui piani di energia, affondi e vampe che piovvero sul Cavaliere da ogni direzione, obbligandolo a un balletto forzato per non essere travolto. Persino lo scudo non riusciva a parare tutti i loro attacchi incrociati e più volte Sirio sentì il tocco dell’oscura fiamma sulla corazza. E a ogni toccò rabbrividì, temendo che l’Armatura Divina cedesse.

 

“Non pensarlo!” –Esclamò una voce all’improvviso, mentre Sirio muoveva un passo indietro. –“È questo che vogliono! Distruggere le tue certezze e sprofondarti nella paura di una terribile sconfitta!”

 

Per un attimo, quelle parole gli fecero pensare al Vecchio Maestro che spesso, in quegli anni di guerre, era intervenuto in suo aiuto, anche solo con una frase di supporto. Ma Dohko era morto e la sua anima, Sirio lo sperava, aveva trovato pace oltre i confini del Lete, dove l’ombra di Ade non era giunta. O forse vagava raminga nell’intermundi, destinata allo stesso tragico oblio cui Caos e i Progenitori erano incorsi?

 

Una fitta improvvisa lo rubò ai suoi pensieri, mentre uno dei due avversari gli piantava la lama in un fianco scoperto. Grazie alla sapienza di Efesto e all’ichor, il danno fu contenuto, ma sufficiente per incrinare la sempre più misera fiducia di Sirio nella vittoria. Della sua esitazione approfittò l’altro guerriero, piombando su di lui e riempiendogli la faccia di pugni, senza fermarsi mai, fino a scaraventarlo a terra, privo dell’elmo e con il naso massacrato.

 

A terra. Dove finiremo tutti quest’oggi. Rifletté.

 

Pegasus glielo aveva detto, nel cimitero del Grande Tempio. Stavano andando a morire. Che cosa aveva pensato in quel momento, che il suo amico scherzasse? O forse, nell’ironia con cui aveva mascherato per anni le sue insicurezze, aveva voluto nascondere la verità?

 

Con quel dubbio in testa, Sirio faticò nel rimettersi in piedi, pulendosi il sangue che gli imbrattava il volto, di fronte agli sguardi divertiti dei due berseker. Scambiandosi una veloce occhiata, i figli di Ares si lanciarono di nuovo all’assalto, con un impeto che travolse il Cavaliere, portandolo ad arretrare un’altra volta. E a sentire di nuovo la voce nella testa.

 

“Mai arretrare, Sirio! Vai sempre avanti! Ricorda gli insegnamenti di Libra!”

 

Ora la riconobbe, voltandosi verso la mischia poco distante, proprio mentre i berseker piombavano su di lui, a lame sguainate. Lo vide, con il volto teso e sudato, avvolto nella sua aura luminosa, mentre incitava i druidi di Avalon e i discendenti di Mu a resistere, e trovava anche il tempo per venire in suo aiuto.

 

“Non cedere alla paura! Non fare il gioco di Phobos e Deimos!” –Esclamò Ascanio, prima che un assalto nemico lo obbligasse a rivolgere altrove la sua attenzione.

 

“Non lo farò!” – Si disse il Cavaliere di Atena, nello stesso istante in cui uno dei berseker calava la spada su di lui. Anziché fuggire, come l’istinto lo stava chiamando a fare, Sirio rimase al suo posto, immobile nella tempesta, sollevando le braccia e fermando la lama con i palmi delle mani. Prima ancora di dargli tempo di stupirsi, lo colpì con un calcio allo stomaco, gettandolo a terra e strappandogli l’arma, di cui si servì per parare l’affondo del fratello. Un attimo dopo e la mano destra del figlio di Ares cadeva a terra, mozzata di netto, sfaldandosi in una nube di vapore nero.

 

Infuriati, Phobos e Deimos si riunirono tra loro, portando avanti le braccia e liberando un attacco congiunto, che Sirio contrastò con lo splendore del suo cosmo. Un drago, due, tre, alla fine cento ne liberò, dirigendo lo sfavillante luccicore avanti a sé.

 

Colpo dei Cento Draghi!” –Tuonò, osservando le loro fauci disperdere l’Ira di Ares e i corpi di coloro che l’avevano scatenata. Senza neppure rifiatare, fece per voltarsi verso la mischia, cercando Ascanio per ringraziarlo quando vide migliaia di frecce nere solcare il cielo, dirette proprio verso la zona in cui il Glorioso Comandante stava lottando. –“Ascanio!!!” –Gridò Sirio, lanciandosi avanti, tentando di farsi strada tra le orde di berseker che lo attorniavano.

 

Ma i discendenti di Mu furono più lesti, sollevando uno scudo mentale sopra di loro, su cui i neri dardi andarono a schiantarsi… perdendo le piume.

 

Osservandoli meglio, Dragone notò che non erano frecce bensì corvi. Neri, brutti, selvaggi, piovevano a centinaia, anzi no a migliaia, sul campo di battaglia, mirando ai crani dei combattenti dell’alleanza. Tiravano loro i capelli, pizzicavano occhi e pelle, ma soprattutto li distraevano, mentre gli avversarsi ne approfittavano per caricare.

 

La cantilena del popolo della Montagna Bianca aumentò d’intensità e la barriera da loro eretta crebbe, giungendo a proteggere anche altri soldati e spingendo indietro quello stormo impazzito di corvi, che, senza curarsi del dolore, presero a picchiettarla e a piantarvi le zampe, prima di essere annientati da un’onda di luce.

 

“Che strano!” –Rifletté Sirio, chiedendosi cosa potesse averli attratti. Forse la morte in cui alcuni combattenti dell’alleanza erano già incorsi? Troppo pochi, per il momento, per aver già saturato l’aria di nefasti effluvi. Eppure quelle bestiacce sembravano sapere esattamente dove andare, quasi fossero attratti da qualcosa. O forse spinti?

 

Fu mentre se lo chiedeva che vide un uccello più grande degli altri scivolare proprio sopra la barriera di luce e allungare gli artigli. Gli bastò sfiorarla per distruggerla, mandando i sacerdoti di Mu a gambe all’aria, travolti da un’ondata di cosmo nero. Subito i corvi sfrecciarono su di loro, i becchi assetati di sangue, ma due gigantesche sagome serpentiformi, irroranti luce bianca e rossa, si posero a difesa dei coraggiosi abitanti del Dhaulagiri.

 

Double Dragon Attack!” –Esclamò Ascanio, disperdendo lo stormo assassino in uno svolazzar di piume. Solo un rappresentate di quella bizzarra stirpe rimase, il grosso uccello nero che planò proprio di fronte al Comandante dei Cavalieri delle Stelle, mutando le sue forme e rivelandosi per quello che era.

 

Una donna. Notò Sirio, ricordando le parole con cui Pegasus l’aveva descritta, dopo averla incontrata sulla Luna. Un terribile uccello nero.

 

“Ascanio! Attento! È Nyx!” –Gridò, mentre i berseker attorno a lui lo attaccavano.

 

Il seguace di Avalon volse lo sguardo verso la donna, dovendo ammettere di non riconoscerla affatto, ma di non percepire in lei quell’abisso di oscurità che invece la Primogenita doveva emanare.

 

“E infatti non sono la Signore della Notte, sebbene nelle terre in cui regno mi considerino altrettanto pericolosa!” –Ridacchiò lei, scuotendo il lungo mantello in piume di corvo che le permetteva di volare. Alta e ben fatta, con un fisico che avrebbe fatto invidia a un’Amazzone, la guerriera si passò una mano tra i corti capelli viola, togliendo una piuma che vi era rimasta incastrata, prima di annusarla, inebriandosi di quell’odore. –“Sono i miei figli che hai attaccato, Ascanio Pendragon, e pagherai per la tua insolenza!”

 

“Parole che in molti mi hanno rivolto e tali sono rimaste!” –Disse il Comandante.

 

“Parole che non hai mai udito dalla mia bocca!” –Sogghignò la donna, espandendo la propria aura oscura. Anche da lontano, Sirio la percepì; questa non era un’anima errante che Caos aveva risvegliato, asservendola al suo volere. Questa era una Divinità. –“Fatti avanti, Pendragon! Ho un conto in sospeso con un tuo antenato, l’unico che riuscì a ferirmi. L’unico che riuscì a ferire la Morrigan!”

 

***

 

“La Dea Corvo è scesa in battaglia!” –Commentò Nyx, raggiungendo Chimera nell’ampio salone ove il grosso degli eserciti di Caos si stava radunando.

 

“Non siamo riusciti a trattenerla!” –Si limitò a rispondere il guerriero delle tre bestie. –“Sapete come è fatta. Non le piace rimanere in attesa!”

 

“Oh la conosco bene! Potrei quasi dire di essere sua madre!” –Sghignazzò la Notte. –“Mi chiedo solo perché non mi abbia aspettato. Non voleva forse combattere al mio fianco?”

 

“Non si tratta di questo…” –Mormorò Chimera, abbassando leggermente il capo.

 

“Cos’altro c’è? Parla, suddito!”

 

“I vostri figli, mia Signora. Sono, come dire? Restii a impiegare questi… soldati! Per questo è uscita dalla Porta della Luce.” –Spiegò, spostandosi in modo da permettere a Nyx di abbracciare l’intero salone con lo sguardo.

 

Erano aumentati rispetto a poche ore prima e il loro numero era destinato a crescere ulteriormente, mentre Caos si risvegliava e riprendeva coscienza di sé, attirando, dagli abissi del mondo (di tutti i mondi!), le ancestrali creature che lo popolavano. Sconfitte e confinate nel limbo dai combattenti della luce, anelavano adesso alla giusta vendetta.

 

Sfregandosi le mani soddisfatta, Nyx ammirò un gruppo di cani neri contendersi con le Empuse i resti di una qualche Divinità sconfitta (forse gli Atua della Polinesia? Non seppe dirselo, non ricordando le loro fattezze). Un cane rabbioso, che avrebbe potuto essere il figlio di Cerbero, azzannò una vacca oscura, sventrandola e saziandosi della sua linfa, mentre le altre, ringhiando, si radunavano attorno a lui, solo per essere allontanate dal colpo di coda portato da una donna alta e elegante.

 

Poco oltre undici volpi oscure aspettavano composte ai piedi di una figura indistinta, che, osservandola, a volte si presentava come una ragazza dal maliardo sguardo, a volte come una volpe. Dietro di loro Cagnazzo radunava le Malebranche, mentre i Nefari superstiti si erano inginocchiati non appena Nyx era entrata nel salone, con i Lestrigoni rimanenti, allineati alle loro spalle, e altre mostruose creature che il cosmo di Caos stava destando.

 

“Vedo con piacere che uno dei Nefari è già entrato in azione. Molto bene! Voialtri, con me! Smettetela di divertirvi! Adesso banchetterete con ben più prelibati bocconcini! Carne fresca di Cavalieri e Divinità! Carne ricca di sangue e cosmo, di cui potrete nutrirvi, rendendo grazie al Generatore di Mondi che ha permesso la vostra rinascita!”

 

Un coro di grida animalesche e versi che non riuscì a comprendere fece seguito alle sue parole, mentre Nyx si incamminava verso il bastione della fortezza a lei riservato, seguita dall’Armata delle Tenebre e da Chimera, che si affrettò a tenere il passo, quasi volesse rimarcare la sua distanza da quell’esercito di bestialità.

 

“Percepisco diffidenza verso l’operato di Lord Caos, Vaughn!” –Disse la Notte, divertita. –“Oh perdonami, solo il tuo amato Polemos poteva chiamarti per nome, non è così?”

 

“Potete chiamarvi come vi aggrada, mia Signora. Ma Vaughn era solo un uomo…”

 

“Chimera invece cos’è? Un abominio? Nel caso, non molto diverso da quelli che ci seguono, non è così?”

 

Il biondino non disse nulla e Nyx ne approfittò per rincarare la dose.

 

“A volte i flussi del tempo possono snodarsi lungo percorsi a noi inimmaginabili. Polemos avrebbe dovuto comprenderli, così forse avrebbe evitato di chiamarsi come la personificazione della Guerra, lui che in guerra è stato sconfitto.”

 

“Ancora mi chiedo come sia potuto accadere!” –Esclamò prontamente Chimera. –“La colpa è certamente del mancato intervento di Forco!”

 

“Colpa? Niente avviene per caso in questo mondo. È stata la volontà di Caos a determinare tutti gli eventi, volontà che non spetta a noi questionare. Egli ha un piano per tutti, anche per gli esseri insignificanti come te. Perciò vedi di non deluderlo un’altra volta!”

 

“No, mia Signora!” –Disse Chimera, fermandosi infine, al centro del Primo Santuario, e muovendosi per dirigersi verso nord, lieto di allontanarsi da quell’orda.

 

“Che ne è dei gemelli di luce? Sono già scesi in battaglia?” –Lo richiamò Nyx.

 

“Non direttamente. Siete la prima, mia ardita Signora!” –Ripose il giovane, prima di inchinarsi e congedarsi.

 

Nyx rimase un attimo a riflettere sulle sue parole, mentre l’Armata delle Tenebre le passava di fronte, avviandosi verso il cortile alle spalle della Porta della Notte. Tese i sensi, per percepire traccia delle due Divinità in abito bianco, e li trovò chiusi nei loro bastioni, uno a sud e l’altra ad est. Li sentì mormorare, una litania in un linguaggio che gli uomini avevano dimenticato (o forse non erano ancora nati quando gli Dei comunicavano in quel modo?), e capì cosa stessero facendo. Quegli infingardi stavano soltanto prendendo tempo.

 

Sbuffando, Nyx superò le sue truppe, uscendo all’aperto e recuperando la forma che più preferiva, quella con cui Caos l’aveva generata. Con un grido stridulo, che spaventò persino i suoi abominevoli servitori, la Dea Primordiale spiccò il volo, sollevandosi sopra il cortile, sopra la Porta della Notte e, presto, sopra l’intero Primo Santuario.

 

Volteggiò fuori dalle mura, piombando sull’esercito di ombre e incitandolo, con un sol battito d’ali nere, ad avanzare. Ovunque passasse, i guerrieri sconfitti parevano riaversi, le forme ricomporsi, le armature forgiarsi di nuovo, rispondendo a un unico silenzioso e letale richiamo. Servire, generare e ovunque portare il caos.

 

Rise, e alle orecchie dei suoi nemici quelle risate parvero i lamenti dei dannati, così acuti da sfondare i timpani, costringendoli a terra, mani alla testa. Rise di nuovo, divertita, eccitata e innamorata della possibilità di volare. Lord Caos non l’aveva soltanto messa al mondo, aveva scelto la forma migliore per lei, quella che sempre l’aveva fatta sentire libera, quella di cui, nell’intermundi, aveva maggiormente sentito la mancanza. Là, oltre i confini del tempo e dello spazio, non c’erano terre che potesse sorvolare, nemici da cacciare o cieli verso cui issarsi. Poteva soltanto stare ferma, a deprimersi, a fissare il vuoto che diveniva materia, senza riuscire a sfiorarla. Irraggiungibile, come il passato che aveva perduto e il futuro così lontano a venire.

 

Diede un nuovo colpo d’ali e virò a destra, passando un’ultima volta sopra il campo avversario, mentre qualche sprovveduto scagliava frecce e lance che neppure la sfiorarono e un ragazzo imberbe dai capelli color cenere sollevava uno scettro dorato, da cui partì un fastidioso raggio di luce.

 

Che noia! Commentò, evitandolo e sbattendo le ali, sì da generare una tempesta d’aria che investì il coraggioso Cavaliere, scaraventandolo contro la compagna, prima di allontanarsi da quel fronte che non pareva offrire niente di interessante. Cosa avranno questi stolti da agitarsi tanto per un po’ di luce? Come possono preferire di vedere gli orrori e le ipocrisie di questo mondo, anziché coprirli sotto un velo di tenebra? Là, nella notte più profonda, tutte le differenze vengono azzerate, gli odi sopiti e le passioni estinte e ciò che rimane è solo una quiete infinita.

 

Con quel pensiero in mente, la convinzione che la propria missione fosse giusta e sacra, volteggiò nell’ampia piana di fronte alla Porta delle Tenebre, prima di andare ad abbarbicarsi su uno dei suoi torrioni. Cercò Erebo con un veloce colpo d’occhi, ma non lo trovò, e allora le tornarono in mente le parole di Chimera di poco prima. Era la prima, a suo dire, a scendere in campo.

 

Possibile? Da Etere e Emera non si era aspettata niente più di una difesa passiva, come infatti stavano facendo, avvolgendo i cancelli da loro presieduti in una barriera che impediva a chiunque, uomo o Dio, di superarla senza essere annientato. Forzando l’esercito di ombre ad avanzare o a morire nel tornare indietro. Subdoli, a modo loro.

 

Ma Erebo? Dov’era finito il Signore delle Tenebre?

 

***

 

L’apparizione di Nyx sul campo di battaglia non era passata inosservata.

 

Elanor era stata la prima a percepirne la presenza, sollevando il capo e distraendosi, offrendo il collo alla lama del suo nemico. Ma Matthew, con un agile balzo, l’aveva gettata a terra, prima di calciare via l’avversario.

 

“Si combatte a terra, non nei cieli!” –Le disse, aiutandola a rimettersi in piedi.

 

La ragazza fece per divincolarsi, sfuggendo al suo sguardo indagatore, prima di accorgersi di un’ombra alle spalle del compagno. Non voleva crederci, eppure era lì, che saltava con quei grossi piedoni da un santone indiano all’altro, atterrandoli e lasciando ai due che lo accompagnavano l’onere di finirli.

 

Tecciztecatl…” –Mormorò, per poi riconoscere anche i Seleniti di Nettuno e di Plutone.

 

“Non più!” –Commentò Matthew. –“Ricordalo. Non più!” –E si voltò, accendendo la cintura dell’armatura di bagliori colorati e dirigendo verso di loro lucenti raggi di energia.

 

Chandra e Tsukuyomi vennero investiti e spinti indietro, con le corazze traforate dai fasci di luce, ma Tecciztecatl fu lesto a balzare in alto, preparandosi per piombare su Matthew a gamba tesa. Fu Elanor ad intercettarlo, ponendosi di fronte al compagno con lo Scudo di Luna sollevato, su cui il Selenite oscuro impattò, cadendo a terra e lì rimanendo. Solo allora la ragazza si accorse della figura che li stava osservando e che adesso stava sfrecciando nella loro direzione, avvolta in un gelido cosmo nero.

 

Thot…” –Disse, a denti stretti, incapace di ammettere che quel concentrato di ombra e rabbia, che stava per travolgerli, era il sapiente Dio che non le aveva mai fatto mancare sorrisi, cultura e protezione. Matthew, alle sue spalle, percepì la sua esitazione e si preparò per levare il pugno, concentrandovi tutta l’energia che riuscì a radunare, ma prima che potesse agire un’enorme sagoma di energia sfrecciò accanto a loro. Un maestoso predatore bianco che azzannò Thot, riducendolo in una vaporosa poltiglia.

 

Fauci dello Squalo Bianco!” –Tuonò una possente voce maschile, prima che Toru, campione degli Areoi, entrasse nel loro campo visivo, proseguendo l’assalto e investendo qualunque avversario si trovasse nella sua traiettoria.

 

Matt si voltò per osservarlo, realizzando di non averlo mai visto riposare da quando erano giunti nel Taklamakan. Il guerriero polinesiano pareva non conoscere la stanchezza, liberando di continuo le fauci del predatore dei mari. Lo ringraziò con un sorriso, cui Toru rispose con un rapido cenno del capo, prima che la sua attenzione venisse attirata da qualcos’altro.

 

A pochi passi da lui una legione di Areoi oscuri si era infatti radunata, guidata da un uomo alto e snello, rivestito da una corazza sinuosa che sprigionava scintille violacee.

 

Tawhiri della Torpedine!” –Esclamò, mentre l’altro sfrecciava avanti, fagocitando il terreno tra loro in un oceano di scariche di energia.

 

Toru non riuscì a evitare di essere raggiunto a un fianco, la bianca corazza che sfrigolava al contatto col fuoco di colui che le armi degli Areoi aveva ideato. Ma piantò le gambe nel terreno, resistendo e, quando Tawhiri lo sorpassò, lo afferrò per un braccio, incurante della scossa energetica, tirandolo avanti e sbattendolo contro il suolo, più e più volte, finché la sua sagoma non si disintegrò.

 

In quel momento gli altri guerrieri oscuri si lanciarono su Toru, ma un ventaglio di energie luminose piovve su di loro, frenandone l’avanzata, mentre un gruppetto di sagome in armature bianche si disponeva a difesa del loro comandante.

 

“Ci siamo anche noi!” –Gridò un ragazzino, di sedici anni scarsi, liberando il proprio attacco. –“Soffio della Balenottera!”

 

Altri Areoi lo affiancarono, investendo gli antichi compagni e i loro antenati, tra le lacrime che quello scontro aveva cacciato fuori. Di certo nessuno, abbandonando il solitario ma pacifico Avaiki, aveva pensato di ritrovarsi ad affrontare gli aumakuas. Che fosse la punizione per aver disonorato il kapu e non aver saputo proteggere le Conchiglie?

 

Toru non seppe dirselo, ma si promise che un giorno, quando si fosse trovato di fronte agli antenati, glielo avrebbe chiesto, avrebbe chiesto loro cosa avevano tanto da lamentarsi, mentre loro rischiavano la vita per difendere un mondo da cui per troppo tempo erano stati lontani. Un mondo per cui giovani Areoi stavano morendo.

 

Quel pensiero lo infervorò, spingendolo ad affiancare Waku della Balenottera Azzurra e i suoi compagni, un gruppo di ragazzetti che mai avrebbero dovuto scendere in guerra. Ma i soldati più esperti erano caduti e se il popolo libero voleva fare la sua parte, dimostrando di meritare la libertà che tanto aveva cara, allora anche Waku, Parò, Aitu e gli altri dovevano combattere. Avevano curato le loro ferite nelle acque della Waiora, la fonte miracolosa, prima di unirsi agli eserciti di Grecia, Asgard, Avalon e dell’Egitto. Solo uno di loro era stato esonerato, il più giovane (e forse anche il più coraggioso) di tutti, di modo che, se nessuno di loro avesse fatto ritorno, la stirpe dell’Avaiki sarebbe continuata.

 

Un sibilo lo distrasse, spingendolo a scartare di lato, un attimo prima che una lunga lancia di corallo nero si piantasse nel terreno e l’atletica sagoma del suo possessore si facesse avanti, la estraesse e gliela puntasse.

 

Inorridendo, Toru riconobbe il suo più vecchio e caro amico.

 

Maru…”

 

L’Areoi del Narvalo scattò avanti, mulinando la lancia con maestria, la punta diretta al cuore di Toru, che fu costretto a spostarsi di continuo per non essere infilzato. Ma Maru era di gran lunga più agile di lui, e fresco di forze, per cui, alla fine, la lancia trovò uno spazio libero tra le vestigia dello Squalo Bianco e colpì. Poco sotto l’inguine.

 

Trattenendo un grido di dolore, Toru tese i muscoli, trattenendo l’arma, mentre radunava il cosmo attorno al braccio destro. Di tutti gli scontri sostenuti fino ad allora, quello gli fece piangere il cuore, ma forse anch’esso avrebbe dovuto rimanere sepolto in profondità, negli abissi oceanici, assieme alla Conchiglia e a tutti i suoi ricordi.

 

“Perché quei giorni non vadano perduti!” –Mormorò, prima di liberare il predatore dei mari, che sfrecciò verso Maru a fauci aperte. Poco prima di azzannarlo, però, si scontrò con una bestia altrettanto imponente, generando un’esplosione di luce che spinse il Comandante indietro, disintegrando la lancia di corallo nero.

 

Quando Toru tornò a vedere, notò che il numero dei suoi avversari era aumentato. In un altro momento avrebbe riso, stimolato da quella sfida, ma non nel trovarsi di fronte, oltre a Maru, anche Tara di Diodon, Moeava, il suo maestro Afa dello Squalo Tigre e persino la grande Hina del Lactoria.

 

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo nono: Ruggiti di guerra. ***


CAPITOLO NONO: RUGGITI DI GUERRA.

 

Quelle corazze sembravano Surplici. O forse nemmeno le Surplici erano così nere! Si disse Phoenix, evitando l’affondo del primo avversario. Prive dei riflessi violacei delle corazze dei servitori di Ade, queste sembravano composte di pura oscurità, al punto che, per quanto il Cavaliere ne avesse riconosciuto le fattezze, non riusciva a notare i fini dettagli e il lavoro di intarsio che le contraddistinguevano, rendendole le più eleganti e le più desiderate tra le vesti dei difensori di Atena.

 

Adesso, dello splendore delle armature d’oro, cos’è rimasto? Bofonchiò il ragazzo, concentrando il cosmo attorno al pugno destro e scattando avanti, mirando al nemico che, di fronte a lui, aveva appena fatto altrettanto. La detonazione energetica spinse entrambi indietro ma Phoenix fu lesto a balzare in alto, per evitare i sottili raggi di energia nera che un agile guerriero (o l’ombra dell’eroe che era stato un tempo?) gli aveva rivolto contro. Atterrò alle sue spalle, sbattendo le ali e scaraventando l’avversario in alto in una tempesta di fuoco.

 

L’elmo, con la lunga coda appuntita, venne scagliato poco distante, mentre l’antico Cavaliere d’Oro si schiantava a terra, finendo calpestato dai suoi stessi compari che, in massa, stavano avanzando verso Phoenix.

 

Così muoiono gli Scorpioni. Rifletté il giovane. Nel deserto della morte. Auguriamoci di non fare la loro fine. Aggiunse, concedendosi un attimo per rifiatare. Un attimo soltanto, prima che una nuova linea di ombre lo cingesse d’assedio. L’attimo di cui l’Arconte Rosso abbisognò per lasciar esplodere il proprio cosmo fiammeggiante.

 

Una corona di fuoco circondò Phoenix, tenendo a bada i servi di Caos, prima di divampare verso l’esterno, travolgendoli, afferrandoli, divorandoli nel breve arco di un istante. Come aveva fatto finora con tutti coloro che avevano ardito avvicinarsi.

 

Voltandosi, la Fenice vide Andrei strizzargli un occhio, prima che scattasse verso nuovi avversari. Instancabile, implacabile e decisamente inesauribile. Del resto, aveva atteso una vita intera per quel momento. Poteva non essere pronto a viverlo intensamente, consumandosi come le fiamme che padroneggiava con maestria?

 

Stringendo i pugni, Phoenix capì quel che provava. Non era poi così diverso per lui, no? Piegò la testa all’indietro, evitando un fascio di energia oscura, e si preparò per sollevare il braccio, proprio mentre un Cavaliere d’Oro, di chissà quale precedente generazione, lo caricava. Lo colpì al centro del petto, scagliandolo indietro, con la corazza fumante e una nube di fumo nero che ne fuoriusciva. Cosa fosse, Phoenix preferì non saperlo. Tutto quel che sapeva, tutto quel che ognuno di loro doveva sapere era che doveva continuare a combattere.

 

Per gli uomini, per coloro che amavano, e anche per loro stessi. Ognuno poteva avere il suo motivo, ma non importava più.

 

Non importa più niente ormai! Disse, espandendo il proprio cosmo e liberando le possenti ali di fuoco dell’uccello immortale, che sbaragliarono un’intera linea nemica. Un’intera linea di coloro che, prima di lui, avevano adorato e servito la Dea Atena e per lei erano morti. Che macabra ironia divenire scagnozzi del Caos!

 

Aveva cercato, nel mare di elmi che lo circondavano, di riconoscere qualche volto ma aveva desistito dopo un fugace colpo d’occhio. Cosa importava, in fondo, chi fossero quei Cavalieri? A quale, delle tante generazioni di santi e suicidi che si erano succedute per proteggere la Vergine Dea, appartenessero? Ormai erano anime erranti asservite al Caos.

 

Eppure, per un momento, si era chiesto cosa avrebbe provato se, tra loro, avesse riconosciuto i volti di Mur o Gemini, del saggio Dohko o di Toro.

 

“Farebbe differenza?”

 

La voce di Andrei quasi tagliò in due i suoi pensieri, mentre l’Arconte appariva accanto a lui. Un massiccio Cavaliere del Toro lo caricò in quel momento, a testa bassa, puntando le corna al cuore dell’Angelo che, divertito, le afferrò in corsa, dandosi lo slancio per saltare sulla sua schiena, il pugno che già sfrigolava energia fiammeggiante. Fu un attimo, un movimento così rapido che Phoenix nemmeno lo vide, e già il pugno sventrava l’armatura nera e il fuoco dilagava all’interno della massa di sostanza sconosciuta.

 

Con agilità, Andrei atterrò di nuovo accanto a lui, scoccando una rapida occhiata al gruppo di neri Cavalieri d’Oro che ancora li asserragliavano. La presenza dell’Arconte Rosso pareva averli rallentati, forse quei pochi istanti di cui Caos doveva aver bisogno per istigarli ad avanzare ancora.

 

“No!” – Rispose Phoenix, fissando il guerriero negli occhi e strappandogli un sorriso d’assenso.

 

“In questo momento, in questo preciso momento del tempo cosmico, non esiste più alcuna differenza all’interno della marea d’ombra che fuoriesce dal Primo Santuario. Non sono uomini, non più. È solo tenebra, ricordalo, Phoenix! Ricordalo, se vuoi sopravvivere. Perché se non lo farai, se tu dovessi incorrere nell’errore di fermare il pugno o di voler conoscere i tuoi avversari, questo deserto terrà fede al suo nome!” – Aggiunse, voltandogli le spalle e scattando avanti.

 

Un gruppo di neri Cavalieri d’Oro tentò di sbarrargli il passo ma venne risucchiato dentro un vortice di fiamme, che roteò sul posto per qualche secondo prima di venir diretto verso il cuore dell’esercito avverso. Pareva che Andrei provasse gusto a essere lì, nella mischia, che la cercasse la mischia stessa, incurante di possibili reazioni dei Progenitori.

 

O forse è proprio questo che vuole fare? Forzare loro la mano e farli scendere in campo?

 

Non sarebbe una cattiva idea. Realizzò il ragazzo, mentre una corrente d’acqua oscura lo investiva, spingendolo indietro, e iniziava a solidificarsi attorno alle sue gambe. Stiamo soltanto perdendo tempo e energie con i tirapiedi di Caos, mentre gli Dei Primordiali aspettano dietro quella barriera di luce. Rifletté, bruciando il proprio cosmo ardente e liberandosi da quell’effimera prigionia di ghiaccio nero. Quanti compagni sono già morti? Quanti si sono specchiati nei volti degli amici o dei soldati al cui fianco avevano combattuto prima di venire proprio da loro uccisi?

 

Soltanto di fronte alla Porta del Giorno, il Cavaliere della Fenice aveva sentito spegnersi una decina di cosmi, appartenenti alle Amazzoni e ai pochi Faraoni delle Sabbie che rimanevano. Senza contare i soldati semplici caduti, di cui, preso dalla battaglia in atto, non aveva potuto percepire la fine. E ovunque, di fronte alle altre porte, la situazione era identica. Pegasus, Sirio, Cristal e suo fratello stavano vivendo lo stesso incubo.

 

Chissà come Andromeda sta affrontando la cosa! Si chiese, mentre scattava in avanti, le braccia avvolte nel fuoco, investendo un Cavaliere dell’Acquario. Chissà cosa ha provato nel ritrovarsi di fronte vecchi nemici! Chi avrà incrociato nel suo intralciato avanzare verso la Porta delle Tenebre? Mime, Sirya, Orfeo? Distendendo le labbra in un fugace sorriso, Phoenix si disse che avrebbe voluto sapere anche lui chi erano questi suoi avversari; così, per diletto o forse per conciliare le ruvide parole di Andrei con il cuore che gli ricordava che quegli automi erano stati esseri umani, finse che il Fantasma Diabolico funzionasse. Finse che vi fossero menti da scandagliare, abissi dell’animo in cui avrebbe potuto affacciarsi per carpirne i segreti e dare un nome a coloro cui stava strappando, di nuovo, la vita.

 

Ecco allora che l’Acquario Nero di cui aveva disciolto i ghiacci prendeva il nome di Tristano e il Toro furioso, che Andrei aveva atterrato, era forse il colossale guerriero che aveva impedito a Phobos e Deimos di invadere il Santuario di Atena durante la prima Guerra Sacra contro Ares? Si dispiacque di non ricordare il suo nome e, nel farlo, piombò su una Vergine Nera, che di virgineo non aveva più niente, sporca, nel profondo del cosmo, di una volontà aliena che ne aveva deturpato il candore.

 

Era lui Asmita della Vergine, l’indagatore dei misteri della vita? O era forse Shijma, l’eroe che salvò Atena dal male annidatosi nel Santuario? Troppi nomi, troppe vite, troppe storie che si incrociavano, confondendosi e annerendo l’unica verità. Tutti loro erano stati Cavalieri d’Oro di Atena e come tali avrebbe dovuto trattarli.

 

Come tali avrebbe dovuto affrontarli.

 

Balzò via dalla schiena distrutta della Vergine Nera, il cui corpo andava dissolvendosi in cineree nubi d’odio, e radunò quanto più cosmo poté, mentre la fiumana d’oro nero si chiudeva su di lui.

 

“Adamant del Leone! Ascanus dello Scorpione! Shin dell’Ariete! Alla vostra anima devota al bene mi rivolgo. Per purificarla!” – Esclamò, prima di portare avanti i pugni, in un turbinar di fiamme. –“Ali della Fenice!!!” –E li spazzò via.

 

***

 

Poco oltre, Febo e Marins lottavano schiena contro schiena contro una massa confusa di avversari. Per primi avevano respinto i Savanas africani; era stato il figlio di Amon a riconoscerne le tozze vestigia, ammirate in gioventù (un tempo che persino per gli Dei era lontano) durante un viaggio nel cuore dell’Africa con suo padre. Là si erano imbattuti in tribù di guerrieri dotate di cosmo, là, per la prima volta, Febo aveva imparato che il mondo era un posto ben più grande di quanto avesse creduto fino ad allora, di quanto suo padre gli aveva spiegato. Soltanto secoli dopo aveva compreso la reticenza del genitore, mossa dalla volontà di saperlo al sicuro.

 

Sorridendo al suo infinito affetto, quasi non s’era avveduto dell’affondo di un’agile figura, le forme della cui corazza richiamavano un pericoloso mamba nero. Era stato Horus a interporsi tra loro, piombando dall’alto sull’avversario e colpendolo al petto col tacco teso, mille e più volte, frantumando l’armatura e quel che stava là sotto. Una poltiglia nerastra che a Febo e Marins aveva subito ricordato gli esperimenti di Anhar. Era incredibile che, dopo tutte quelle battaglie, quel bastardo rinnegato fosse ancora vivo e non si fosse stancato di inquinare il mondo con la sua mala genia.

 

Solo allora gli sovvennero le parole di Ascanio, quelle che il Glorioso Comandante aveva condiviso con tutti loro prima di lasciare Asgard. Avalon aveva davvero avuto la possibilità di porre fine all’esistenza del fratello traditore? E, in tal caso, perché aveva esitato? Credeva davvero che Anhar fosse recuperabile? O il Signore dell’Isola Sacra aveva in mente qualcos’altro?

 

Quali che fossero le sue ragioni, ormai non avrebbero più potuto chiederglielo. Avrebbero soltanto potuto continuare a lottare, per vanificare i tentativi dell’Angelo Oscuro e onorare la memoria del mentore di tutti loro. Anche di Febo, che ad Avalon aveva trascorso una quindicina d’anni, imparando, crescendo e soprattutto trovando un amico.

 

Il ragazzo dagli occhi azzurri che stava faticando accanto a lui, difendendogli le spalle. Un uomo e un semi-Dio, amici. Aveva dovuto aspettare quanti secoli per vivere un miracolo simile? Tanti. Ma ne è valsa la pena!

 

Sorrise, mentre Marins scatenava gli azzurri flutti di energia contro un gruppetto di guerrieri oscuri. Febo sollevò il braccio al cielo, lasciando che una sfera di cosmo rossastro divampasse sul palmo della sua mano, prima di riconoscere le armature di chi li aveva appena circondati.

 

Un tempo erano corazze rosse, gialle e arancioni, qualcuna persino marrone, colori che, scherzando, Febo aveva associato al fango e alla monotonia delle sabbie del deserto, invitando il padre a scegliere ben più variegati colori. Ma la risposta di Amon Ra gli aveva tolto ogni dubbio.

 

“Siamo quello che siamo. Non dobbiamo mai dimenticare le nostre origini! Noi siamo i signori del deserto, non di montagne, foreste o cieli lontani.”

 

Febo se lo ripeté in quel momento, mentre i Faraoni delle Sabbie scattavano in avanti, i pugni tesi per colpire il figlio del Dio per cui erano morti.

 

“Perdonatemi!” –Mormorò Febo, socchiudendo gli occhi, mentre l’intenso bagliore del suo cosmo dipartiva dal globo energetico, allungandosi in migliaia di giavellotti rossastri. –“Lancia del sole!” –Tuonò, colpendo, con un unico attacco, tutti i guerrieri attorno a loro e guadagnandosi anche un’occhiata sorpresa, quasi divertita, da parte di Marins.

 

“Un attacco a raggiera!” –Analizzò questi. –“Fai progressi in fatto di tattica. Hai imparato da me?”

 

“Il giorno in cui vorrò perdere una mano, ti chiederò lezioni di strategia!” –Ironizzò Febo, strappando una risata all’amico, prima che l’avvicinarsi di nuovi avversari li distraesse. Eppure Marins aveva ragione: era cresciuto, anche come guerriero, l’ultimo ruolo che, anni addietro, avrebbe pensato di occupare. Era stato un bastardo, per alcuni, un principe per altri, un sognatore per Iside e un fratello per Horus. Quando aveva pensato al futuro, nelle interminabili giornate trascorse nell’isolamento di Karnak, si era visto come un musicista, che avrebbe girato il mondo, scoprendone i segreti e allietando gli animi inquieti dei suoi abitanti, suonando il sistro.

 

La vita lo aveva portato su strade diverse ma, per quanto costretto a combattere, non aveva mai avuto lo spirito del guerriero e forse, una parte di sé, quella che attingeva alla sua origine divina, non ne aveva avuto bisogno.

 

“Sei il figlio di un Dio!” –Gli aveva detto Marins una volta ad Avalon, mentre si allenavano sulle rive del lago. –“Non hai bisogno di esercitare il cosmo, basta che pensi qualcosa e si avvera. Io, invece, se voglio far sollevare queste maledette acque, devo sforzarmi!”

 

Aveva ragione. Ma solo in parte. Contro i Progenitori e i loro servitori, essere un semidio non era abbastanza. Febo lo aveva capito col tempo, come aveva capito cosa voleva dire sudare e lottare per qualcosa. Così si era immerso nelle acque del lago di Avalon e aveva iniziato ad allenarsi con Marins, uno a sollevarle, l’altro a deviarle.

 

“Attento!” –Gridò il Cavaliere dei Mari Azzurri, sbattendolo a terra, mentre un fascio di energia scura sfrecciava sopra le loro teste. –“Riporta indietro i tuoi pensieri. Siamo in guerra, se non l’hai notato!” –Gli disse, rialzandosi e fronteggiando l’uomo che li aveva assaliti. Un uomo che aveva visto morire nemmeno due giorni addietro, di fronte alla pozza sacra a Iside.

 

“Ermanubi…” –Mormorò Febo, rimettendosi in piedi a sua volta. –“Faraone dello Sciacallo!” –E alle sue spalle c’erano anche Osorkon del Falco, Tutmosis dell’Ibis e altri caduti a difesa di Karnak.

 

“Me ne occupo io!” –Intervenne Marins.

 

“No!” –Lo fermò Febo, facendosi avanti, mentre già il cosmo rossastro lo avvolgeva. –“Come hai detto poc’anzi, siamo in guerra. A ognuno i suoi nemici!”

 

Prima ancora che terminasse di parlare, i tre Faraoni erano già schizzati in avanti, mescolando i loro assalti in una fiera di energia che, in un gioco di ombre, pareva assumere i tratti di uno sciacallo, di un falco o di un ibis reale. Senza perdersi d’animo, Febo levò di nuovo il braccio, evocando una sfera di cosmo rossastro, da cui scaturirono due lance di energia, che si piantarono nell’assalto avversario, separandolo e permettendogli di individuare i tre contendenti. Quindi espanse la sfera, allungandola di lato fino a generare un occhio.

 

Anche se ormai il loro animo era avvelenato da Caos, Febo vide il terrore comparire su quei volti smunti, mentre l’occhio di Ra si apriva e l’immensa luce del sole ne usciva, disintegrandoli. Avesse avuto il tempo, il Cavaliere di Avalon avrebbe cantato, uno dei tanti inni ai morti che Osiride gli aveva insegnato, ma il tempo era un lusso che nemmeno gli Dei, e la loro progenie, potevano permettersi più.

 

Fu allora che la sentì.

 

Una puntura.

 

Alla base del collo, sulla schiena, dove i capelli biondi non giungevano a coprirla.

 

Sollevò una mano per capire cosa lo avesse colpito e si ritrovò ad afferrare una viscosa creatura che si dibatteva, ancorata alla sua pelle da quelli che, convenne, erano denti.

 

“Quale orrore è mai questo?” –Esclamò, riuscendo infine a strapparla via dalla ferita, ritrovandosi a osservare una bestia composta di energia violacea, con il muso da topo, zanne da cui ancora colava il suo sangue, e larghe ali che continuava a sbattere.

 

La stava ancora osservando quando la creatura spiccò il volo, fiondandosi su una vena del suo collo e affondando di nuovo i sottili denti, costringendo Febo a liberare una vampata di cosmo, annientandola. Scosse la testa, ritrovandosi a barcollare, fino a essere afferrato da due braccia amiche.

 

“Stai bene?” –Gli chiese Horus, con aria preoccupata, strappandogli un cenno d’assenso.

 

“Quella bestia… quella specie di pipistrello… credo che si stesse nutrendo…”

 

“Guarda!” –Annuì il Dio Falco, indicando i soldati d’Egitto attorno a loro.

 

Tutti erano intenti, oltre che a combattere l’Armata delle Tenebre che non accennava a ridurre l’intensità degli attacchi, anche a fronteggiare quelle bizzarre creature volanti, che si fiondavano sui corpi dei soldati, affondando nella pelle nuda, distraendoli, ferendoli e, in alcuni casi, persino piegandoli a terra.

 

“Maledizione! Una tattica per deconcentrarci?”

 

“Molto di più, temo!” –Commentò Horus, proprio mentre una bestia gli passava di fronte, per precipitarsi sulla ferita ancora aperta di Febo. La afferrò per un’ala, strattonandola, ma questa si liberò di scatto, piantando i denti in un dito del figlio di Osiride, dove la corazza non lo copriva più, costringendolo a scuotere la mano per togliersela di dosso.

 

“Mmm… sangue divino… quale delizia!” –Esclamò allora una voce.

 

Febo e Horus si guardarono attorno, per capire da quale, dei tanti guerrieri in corazza nera che li circondavano, provenisse, salvo ritrovarsi ad ammettere che sembrava provenire proprio dalla bestia volante che, staccatasi dal dito del Nume egizio, era rimasta a volteggiare di fronte a loro. Dalla bestia volante e da tutte le altre che avevano invaso il campo di battaglia, quasi fossero una sola entità.

 

“Adesso capisco le abitudini alimentari di Lord Caos e dei Progenitori!” –Continuò la voce atona. –“Dopo aver assaggiato una simile squisitezza, difficile tornare a bere il sangue dei normali Cavalieri!”

 

“Che razza di mostro sei?” –Ringhiò Horus, scandagliando i nemici alla ricerca di colui che li stava deridendo.

 

“Mostro? Soltanto un uomo che, in questo scontro tra titani, cerca di sopravvivere. Niente di più. E, per farlo, ho bisogno di energia che tu, figlio di Osiride, mi fornirai. Attaccate, strigi!” –Gridò, mentre centinaia di bestie volanti si diressero verso Horus, mirando al volto, al collo, alle parti del corpo scoperte dalla Veste Divina, forzandolo a dimenarsi e ad agitare le braccia, cariche di energia cosmica, per tenerli a distanza. –“Continua così, mio buon amico, continua a darmi quello che voglio. Ih ih ih!”

 

“Horus!” –Esclamò Febo, osservando terrorizzato la scena. Quindi, senza perdersi in dubbi, sollevò una sfera di cosmo rossastro sopra la testa, liberando decine e decine di lance energetiche, che colpirono i pipistrelli violacei con precisione millimetrica, senza sfiorare il corpo del Dio.

 

Solo uno ne rimase, uno che fluttuò in aria, schivando l’affondo di Febo e andando a posizionarsi proprio sopra la sua testa. Il figlio di Amon si mosse per colpirlo ma una mano d’argento fu più veloce, chiudendosi proprio sulla bestia e schiacciandola tra le dita, fino a percepire una leggera detonazione.

 

“Marins?!” –Si voltò Febo, mentre l’amico si faceva avanti, il Tridente dei Mari Azzurri saldamente nell’altra mano.

 

“Vampiri succhia energia? Mossa intelligente, ma inutili su chi possiede una mano artificiale.” –Commentò, prima di individuare il suo avversario che si faceva spazio tra la massa di guerrieri neri. Alto e snello, con un viso cereo e chiazzato di efelidi, l’uomo indossava una corazza pressoché integrale, simile a una tuta priva di orpelli, di colore viola scuro, lo stesso delle creature alate. –“Ancora vivo?”

 

“Lo conosci?”

 

“Lo avevo individuato fuori da Karnak. Mi aveva colpito quello stormo di bestiacce di cui si circondava, ma non ero riuscito a investigare oltre.”

 

“Quelle che definisci bestiacce sono le mie figlie, le strigi, Cavaliere! E le figlie fedeli difendono sempre il padre!” –Esclamò l’uomo, fermandosi infine di fronte a Marins. –“Come in Egitto così adesso!”

 

“Vedo che Caos si è deciso a mandar fuori qualche guerriero vero. Cominciavo a stufarmi di combattere contro dei fantasmi, ma tu, amico, non mi offri di certo un vero scontro. Vampiri di puro cosmo? E poi dicono che noi americani siamo trash!”

 

“Qual è il tuo nome, lingua lunga?”

 

“Marins Aircetlam!” –Disse il Cavaliere dei Mari Azzurri, espandendo il proprio cosmo azzurro. –“E il tuo? Dracula?”

 

“Del possente Vlad sono ammiratore devoto, ma io sono Eogan, il Nefario delle Strigi, e posso assicurarti, Marins Aircetlam, che sono molto più spietato di lui!”

 

***

 

Lo svegliò una brezza leggera, il che era strano dato che si trovava nelle profondità oceaniche. Eppure non raro.

 

Una volta, quando era bambino e non aveva ancora affrontato la prova, sua madre gli aveva raccontato che, di tanto in tanto, poggiando l’orecchio sulle pareti delle Conchiglie, era possibile ascoltare il mare, sentirne il respiro sulla pelle, come fossero venti oceanici. Poi sua madre era morta, l’Avaiki era stato invaso e distrutto e adesso era un esule in terra straniera, lasciato indietro dal Comandante che lo considerava un peso morto e dai suoi compagni, di poco (quanti mesi?) più grandi di lui.

 

Perché Toru gli aveva fatto questo? Se l’era chiesto fin da quando aveva riaperto gli occhi ma la stanchezza, le ferite riportate e forse anche qualche droga che gli era stata messa nel cibo lo avevano fatto sprofondare di nuovo in un sonno che ben poco lieto era stato.

 

Ogni volta in cui chiudeva gli occhi, Kohu continuava a vedere la distruzione dell’Avaiki, le grandi onde che si abbattevano sulle Conchiglie, nascondendole per sempre a occhio umano. Se anche la guerra fosse finita, se anche fossero riusciti a vincere i Progenitori, gli Areoi ne sarebbero comunque usciti sconfitti.

 

Con quel pensiero in mente, si alzò dal giaciglio su cui da ore riposava. Da quante? Nemmeno riusciva a ricordarlo. A stento riusciva a ricordare le parole di Toru, quando lo aveva preso da parte, prima di partire, mentre si allacciava gli spallacci dell’armatura, e aveva biascicato qualcosa sulla necessità di garantire un futuro al loro popolo. Così, distratto dalle attenzioni dello Squalo Bianco, non aveva neppure sentito il tocco delle sirene sulle sue spalle, né la cantilena che avevano inscenato per stordirlo.

 

Eccolo qua, il valoroso Kohu dell’Istioforo, sopravvissuto all’inabissamento dell’Avaiki per poi svenire ai piedi di quattro fanciulle dalle gambe a pinna di pesce. Quale guerriero! Degno di essere cantato dagli aumakuas!

 

Cacciando via quei foschi pensieri, indossò degli abiti messi a sua disposizione e uscì fuori dalla stanza in cui si trovava, incamminandosi a piedi nudi nei tortuosi corridoi del palazzo di Euribia. A differenza delle precise, quasi squadrate, costruzioni di sabbia che costellavano le Conchiglie, quell’edificio sembrava sorto per caso, sviluppandosi come una pianta di corallo in decine di ramificazioni diverse. Per un attimo, pensò che si sarebbe perso ma poi percepì il canto, simile a quello che l’aveva addormentato.

 

Lo seguì, ritrovandosi in un’ampia sala, dal pavimento di sabbia e dalle mura in puro corallo, che si riunivano sopra la sua testa a creare una griglia oltre la quale, lontano, poteva ammirare l’oceano. Euribia era lì e si pettinava i capelli, canticchiando, seduta di fronte a un grosso specchio rotondo.

 

Incuriosito, Kohu si fermò a studiarlo, capendo subito che non era un semplice utensile casalingo. Lui, infatti, non riuscì a vedersi riflesso. Vide Toru invece. Lo vide combattere e digrignare i denti, lo vide abbattersi tra i nemici e sbranarli con le fauci dello Squalo Bianco. Infine lo vide esitare, mentre un guerriero con una lunga asta di cosmo scattava su di lui, mirando al suo cuore.

 

“Non è possibile! Ma quello è… Maru?!”

 

“Ben svegliato!” –Esclamò Euribia, voltandosi e facendogli cenno di avvicinarsi.

 

“Che sta succedendo? Perché Toru sta combattendo contro Maru? E perché…?”

 

“Maru? Era dunque quello il suo nome da vivo?”

 

Kohu annuì, prima che la sposa di Crio gli spiegasse quel che stava accadendo, quello che, in quei pochi minuti, era riuscita a carpire osservando il campo di battaglia. Le costava molto usare la Vista e temeva che, forzando troppo la mano, Caos avrebbe potuto individuarla e giungere a loro. Non che temesse per la sua vita, che in fondo durava da fin troppo tempo, ma per quella di coloro che vivevano nell’ultimo paradiso perduto negli oceani. Gli Areoi feriti, gli abitanti dell’Avaiki che avevano perso tutto, le sirene, i tritoni e tutti i membri di un ecosistema che aveva contribuito a mantenere intatto nel corso di secoli. Perciò, alzandosi, sfiorò lo specchio e chiuse le sue visioni, strappando a Kohu un moto di disappunto.


“Devo andare ad aiutarli! I miei compagni… stanno combattendo anche per me!”

 

“Non solo per te, giovane Istioforo. Loro combattono per tutti noi, per la salvezza della Terra!”

 

“Motivo in più per dare loro aiuto!”

 

“E violare i dettami del tuo Comandante? Non prevede forse il kapu il rispetto per l’autorità costituita?”

 

“Io… non lo so. Non so più niente, ormai!” –Esclamò Kohu, accasciandosi a terra, gli occhi pieni di lacrime. –“Non so nemmeno perché mi abbiano lasciato indietro. Ero un peso per il Comandante? Non sono all’altezza di Parò e degli altri?”

 

“Oh, piccolo Kohu, non per questo Toru non ti ha portato con sé. Lo ha fatto per salvarti, per tenerti lontano da una guerra dove tutti moriranno e garantirti un futuro. Sei il più giovane degli Areoi, sulle tue spalle ricade il peso di fondare una nuova colonia e Toru ritiene tu possa farlo. Sai quali sono state le sue ultime parole? Le ricordi?”

 

Kohu scosse la testa, mentre Euribia gli sfiorava la fronte, infondendogli calore. E riportando alla mente immagini recenti.

 

“Ho già visto morire troppi amici. Il sangue di Maru e Tara macchia ancora le mie mani. Impazzirei se ti vedessi cadere. Sei come un figlio per me. Riposa, Kohu. Riposa. Quando ti sveglierai, potrai tornare a girare il mare. Te lo prometto.”

 

“Comandante…” –Mormorò il giovane Istioforo.

 

“Lo ha fatto per proteggerti. Non essere adirato con lui. A volte le persone che amiamo mettono in atto strani rituali per tenerci al sicuro, rituali che non capiamo di primo acchito ma che poi, soltanto in seguito, comprendiamo essere nati dall’enorme amore che nutrivano per noi.” –Sospirò Euribia. –“Non posso trattenerti, se vuoi andare. Ma pensa alle parole del tuo Comandante e fa’ la tua scelta. Non gettare via la vita, nessuno dei tuoi amici lo vorrebbe!”

 

“Non lo farò!” –Esclamò Kohu, rimettendosi in piedi. –“Combatterò per tenere alto il valore della vita! Per gli aumakuas vecchi e nuovi! Per il futuro!”

 

 

 

 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo decimo: La tempesta si scatena ***


CAPITOLO DECIMO: LA TEMPESTA SI SCATENA.

 

Asher era circondato.

 

Ovunque guardasse, una marea nera pareva sul punto di travolgerlo. C’era voluto poco per rompere le ordinate righe che i Cavalieri d’Oro avevano tentato di dare all’esercito di Atena, il tempo di rendersi conto chi fossero gli avversari che erano costretti ad affrontare. Costretti, era questo il termine adatto! Aveva pensato l’Unicorno, evitando l’affondo degli artigli dell’Idra, per poi colpire il redivivo Aspides con un calcio tra le gambe e un altro in piena faccia, scaraventandolo addosso a Ban e Black.

 

Non sono loro! Se lo stava ripetendo da quando aveva visto i vecchi compagni farsi avanti tra la ressa di neri Cavalieri di Atena che li avevano circondati. Di molti, Asher non aveva neppure riconosciuto le corazze, forse appartenenti a qualche costellazione dimenticata, ma le forme di quelle quattro armature di bronzo le conosceva bene. Stringendo i pugni, aveva radunato il cosmo e si era lanciato avanti. Come sempre.

 

E ora era lì, con la corazza danneggiata, su cui risaltava il lucido elmo, l’unico pezzo che Kiki era riuscito a ricostruire durante la notte. Troppo stanco e addolorato per fare altro, solo offrire una minima protezione ai Cavalieri suoi amici.

 

Ripensare al bambino dai capelli fulvi gli diede la carica per lanciarsi di nuovo all’assalto, sfondando, come un fulmine d’argentei bagliori, le linee nemiche, mentre Castalia e Tisifone, alle sue spalle, abbattevano i guerrieri disorientati dal rapido attacco dell’Unicorno. Pegasus gliel’aveva sempre detto, scherzando, che era una testa dura; forse quello era il momento di usarla per qualcosa. Meglio essere un ariete da sfondamento che il cavallino di una principessa viziata, no?

 

La frusta del Camaleonte frusciò nell’aria, afferrando un braccio che reggeva una picca mirata alla schiena del ragazzo e torcendolo di colpo, prima che un’onda di energia lanciata da Kama travolgesse il nemico, permettendo a Nemes di ritirare l’arma. Asher ringraziò le due Sacerdotesse, mentre le danneggiate catene di Reda e Salzius vorticavano in aria, cercando di respingere quanti più avversari possibile.

 

Ma tenerli a distanza, a cosa sarebbe servito? Era chiaro a tutti, fin da quando avevano visto ricompattarsi i corpi dei nemici appena sconfitti, che quel gioco non avrebbe visto la loro vittoria. Eppure resistere era l’unica cosa che potevano fare, per tenere l’orda oscura a distanza, da Atena soprattutto, che comunque non si risparmiava nel liberare continui fasci di energia dalla Nike, al pari di Zeus e degli altri Olimpi che avevano fatto terra bruciata attorno a loro. Anche Andromeda e Cristal erano impegnati in battaglia, il primo contro i Generali degli Abissi, il secondo contro gli Spectre di Ade. Ioria e Virgo, invece, stavano affrontando dei guerrieri colossali; che fossero i fratelli di Atlante? E Euro non aveva smesso di rigirarsi in aria, come stesse giacendo in un sonno inquieto, travolto da, e travolgendo, i tre dispettosi venti oscuri che lo avevano assalito.

 

L’Unicorno li aveva riconosciuti. Erano quelli che avevano sconfitto lui e i suoi amici durante l’attacco al Grande Tempio guidato da Eos: Austro, Zefiro e Borea. L’ultimo, in particolare, li aveva quasi massacrati e, non fosse stato per Pegasus, anche lui adesso avrebbe ingrossato le fila degli scagnozzi di Caos.

 

“Asher! Attento!” –Gridò Tisifone, balzando su di lui e portandolo fuori dalla traiettoria di una freccia che andò invece a conficcarsi nel collo di un altro guerriero oscuro alle sue spalle. Rialzandosi, il ragazzo vide la Sacerdotessa irrigidirsi, avendo riconosciuto coloro che li avevano appena circondati.

 

Erano un gruppetto compatto di arcieri che, oltre alla solita corazza nera, indossavano un collo di pelliccia di qualche bestia che Asher non volle sapere cosa fosse. Tutti, inoltre, avevano già incoccato una freccia, mirando verso i Cavalieri di Atena.

 

“Atteone…” –Ringhiò Tisifone, fissando, in particolare, uno nel gruppo.

 

Proprio in quel momento l’uomo lasciò la corda e il dardo metallico sfrecciò verso la Sacerdotessa, che fu lesta a spostarsi di lato, afferrandolo per la coda mentre le sfiorava una spallina. Solo allora comprese l’errore commesso, quando un fuoco oscuro le divorò la mano, distruggendo quel che rimaneva del guanto metallico dell’armatura e strappandole un grido di dolore e sorpresa.

 

“Tisifone! Che succede?” –Esclamò Asher.

 

“Veleno…” –Riuscì soltanto a mormorare la ragazza, prima che anche i compagni di Atteone scoccassero i loro dardi.

 

Asher ne evitò alcuni, ma altri gli sfiorarono la corazza e la pelle scoperta, finché uno non gli si piantò nel bicipite, prostrandolo a terra. Quale fosse l’oscura tossina in cui erano state intrise, erano bastati pochi tagli per stordirlo e rendere lenti i suoi movimenti. Rialzando il capo, vide gli arcieri pronti per colpirli di nuovo e capì che nessuno sarebbe giunto in loro aiuto.

 

No! Si disse, tirandosi su e aiutando Tisifone a fare altrettanto. Non ho bisogno che qualcuno venga a soccorrermi. Ho le mie gambe per camminare, la testa per alzare lo sguardo e il corno… per infilzare i miei avversari! Aggiunse, bruciando il proprio cosmo, che si espanse attorno a loro sotto forma di una corona di cerchi concentrici che deviò le frecce appena scoccate, spezzandole poco dopo, prima di abbattersi sui Cacciatori e spingerli indietro, con le corazze danneggiate.

 

Oltre non riuscì a fare, accasciandosi ai piedi di Tisifone, ma bastò per permettere al Serpentario di radunare il cosmo e balzare tra gli arcieri, ferendone alcuni con il morso incandescente del suo cobra. Castalia la raggiunse proprio in quel momento, piombando dal cielo su altri soldati.

 

Volo dell’Aquila!” –Gridò, abbattendoli, per poi voltarsi e caricare il pugno di energia cosmica, piantandolo nel pettorale di un guerriero e distruggendolo. –“Sono i Cacciatori di Artemide!” –Aggiunse, ricordando quando l’avevano catturata nella foresta dell’Olimpo.

 

“E quello è il loro capo!” –Esclamò Tisifone, indicando un uomo, più alto degli altri, che si stava facendo largo verso di lei, con una lama nera in mano. –“Atteone, il favorito della Dea della Caccia! Ho evitato di essere la sua preda una volta, riuscirò a farlo anche stavolta!”

 

“Fa’ attenzione!” –Mormorò Castalia, liberando una nuova Cometa Pungente, che spianò la strada all’amica verso il Cacciatore di Artemide.

 

Asher avrebbe voluto seguirla ma venne afferrato per la gola da una strana frusta che lo sradicò da terra, trascinandolo molti metri avanti a sé, fino a costringerlo a osservare in faccia (o, in quella che, un tempo doveva essere stata una faccia e adesso era solo una fumosa maschera di odio e tenebra) il suo compagno d’addestramento.

 

“Lukas?” –Esclamò, mentre un’altra figura, a lui tristemente nota, lo affiancava. –“Ma… Maestro Regor?!”

 

A quelle parole, anche Kama si voltò, impegnata con Nemes poco distante a tenere a distanza alcuni Cavalieri delle Costellazioni Dimenticate. Quella distrazione quasi le fu fatale, venendo colpita a un braccio dall’incrociarsi di due spade oscure, che stavano per mozzarle la testa. Spinse indietro il proprio agile avversario, intimandosi di rimanere fredda. Qualunque cosa fosse, quello non era l’uomo che aveva amato un tempo e con cui avrebbe voluto creare un futuro, era solo un’ombra creata da Caos per torturarla. Per torturare tutti loro.

 

Di questo si disse convinta mentre caricava il pugno e fronteggiava Avel delle Spade Incrociate, lasciando il Camaleonte a difendersi da due tizi con l’armatura a forma di capretto. Reda e Salzius, al contrario, erano stati aggrediti dagli altri discepoli di Albione, cresciuti anch’essi sull’Isola di Andromeda.

 

“Spia… spiacente, ma non ho intenzione di farmi sconfiggere da te!” –Ringhiò intanto Asher, affannando nel liberarsi dalla cordicella con cui Lukas lo aveva catturato e venendo travolto da una scarica di energia.

 

Anche se la faccia era deforme, gli parve comunque di vedere l’ombra di un ghigno comparire sul volto del ragazzo che, anni addietro, gli aveva fatto compagnia a Orano, salvo poi fallire e divenire un galoppino di Flegias. E quel pensiero, quella derisione gratuita, non poteva sopportarla. Così bruciò il cosmo più di quanto fatto finora, incendiando la Cordicella dei Pesci Oscuri e balzando indietro, colpendo al tempo stesso l’avversario con una scarica di calci, non troppo potenti ma sufficienti per scheggiare la sua corazza e farlo barcollare. Un attimo dopo Asher già schizzava avanti, il corno d’argento che riluceva di fulgida energia.

 

“Per Atena!” –Gridò, trapassando il corpo di Lukas, tra le lacrime del passato e quelle del presente.

 

Regor delle Vele, poco distante, spalancò allora le braccia, generando una corrente d’aria fredda che travolse l’Unicorno, scaraventandolo in alto, come i possenti marosi dell’oceano a cui i marinai non potevano opporsi. Stanco, quasi spossato, ferito dal veleno e dai ricordi, Asher si ritrovò a precipitare verso terra. Senza raggiungerla.

 

Venne afferrato al volo da mani sicure e depositato a terra poco oltre la linea difensiva dei Cavalieri di Atena. Faticando nel rimettersi in piedi, riconobbe la snella sagoma dell’Eridano Celeste scambiare qualche parola con le apprendiste incaricate di medicarlo, rivolgergli un sorriso e poi tornare in guerra. Asher avrebbe voluto seguirlo ma la vista lo tradì, rendendo tutto sfuocato, le gambe cedettero e si ritrovò a sbattere la faccia sul terreno sabbioso.

 

Quando rinvenne, si specchiò in una maschera inespressiva, scheggiata in basso e macchiata di sangue, che copriva il volto di una donna dai capelli rosa, sulle cui gambe era adagiato.

 

“Stai bene, Asher?” –Esclamò Kama, aiutandolo a sollevarsi lentamente.

 

Il ragazzo annuì, chiedendo perché lo avesse lasciato dormire, perché non l’avesse subito svegliato e trascinato in guerra e tempestandola di altre mille domande, prima di porre quella più sensata.

 

Per.. quanto?”

 

Kama sospirò, alzandosi a sua volta e riportando lo sguardo sulla mischia in atto.

 

“A esagerare? Cinque minuti.”

 

Sembrava trascorsa una vita, eppure erano ancora lì, in quell’immensa distesa desertica ai piedi della roccaforte oscura che pareva ridere di loro e continuare a crescere. Quel pinnacolo, ad esempio, c’era sempre stato o era appena sorto?

 

Scosse la testa, infastidito, prima di muovere qualche passo avanti, assieme a Kama, per ritrovarsi a pochi passi da dove Nemes, Reda, Salzius, Castalia e Tisifone continuavano a combattere, incoraggiando Patrizio e i soldati di Atena. Un lampo di luce rischiarò il cielo per un momento, seguito dal ruggito di un tuono che si abbatté sulla marea nera attorno a loro, disintegrandola completamente.

 

Forzato a chiudere gli occhi, al pari dei compagni, quando li riaprì Asher vide, per la prima volta, una striscia di terra (un paio di metri, non di più) separare le forze dell’Alleanza dall’Armata delle Tenebre, prima che i membri di questa si ricompattassero e riprendessero ad avanzare. Un attimo di sollievo, questo era quanto Zeus era riuscito a ottenere in quel reiterato intervento.

 

Chiuse la mano destra a pugno, preparandosi per affiancare i compagni quando udì per la prima volta le grida. A parte qualche caso isolato, i combattimenti si erano svolti finora nel massimo silenzio, eccezion fatta per i rumori delle armi e degli scontri corpo a corpo. Le anime possedute dei guerrieri di Caos erano infatti mute. Eppure adesso qualcosa aveva rotto quel silenzio.

 

Voltandosi, cercò di individuare la fonte di quelle risa, di quelle sghignazzate che presto furono sormontate da strilli di terrore. Anche Castalia si era bloccata, con la mano stretta attorno al collo di un soldato nero e l’energia cosmica che sfrigolava sulla sua tetra corazza, schiantandola e disperdendone il macabro contenuto.

 

“Cosa diavolo…?” –Si chiese, prima di vedere una linea di soldati semplici di Atena retrocedere di colpo, gettando via le armi e… scappando indietro.

 

Il rischio che accadesse c’era stato fin dall’inizio, fin da quando si erano chiesti di quali orrori avrebbero dovuto essere testimoni una volta che la Porta delle Tenebre si fosse aperta. Eppure, vederlo accadere gli spezzò il cuore.

 

Travolse un paio di guerrieri neri e sfrecciò verso il gruppo di difensori greci in rotta, seguito da Kama e Castalia. Vide Patrizio, nella ressa, che si stava sgolando per incitare all’ordine, tentando di mantenere le fila, travolto, quasi gettato a terra, dai suoi stessi compagni in fuga. Cosa poteva averli spaventati tanto, loro, gli anonimi eroi del Grande Tempio, che mai avevano arretrato, neppure di fronte alla furia degli Dei?

 

La risposta gli arrivò sotto forma di una zaffata acida, accompagnata da un rumore di mandibole. Si fece avanti e vide l’orrore che aveva sconvolto i soldati di Atena.

 

A pochi passi di distanza, una schiera di fedeli di Caos, ben diversa dagli spiriti erranti fronteggiati finora e dai Cacciatori di Artemide, stava massacrando i difensori del Santuario, sventrandoli con spade dalle lame incurvate, simili a scimitarre. Asher le aveva viste, a volte, in mano ai corsari che facevano scalo a Orano, ma mai di quel tipo. E soprattutto non aveva mai visto i corsari sbranare i loro avversari.

 

Inorridito, mosse un passo indietro, mentre quei demoni affondavano i denti nei corpi degli sconfitti, strappando pelle e budella, nutrendosi del sangue e dei loro organi interni, divertendosi, ridendo e passandosi i resti di nemici attoniti e sopraffatti.

 

“Che orrore!” –Mormorò infine. –“Demoni della peggior specie! Io… ve la farò pagare!” –E si mosse per scattare avanti, venendo però afferrato a un polso da Castalia, che lo intimò alla prudenza.

 

“Sento un cosmo oscuro sostenerli, oscuro e potente. Queste non sono marionette nelle mani di Caos, questi sono veri e letali combattenti.”

 

“Motivo in più per sconfiggerli!”

 

“Sconfiggerci?” –Tuonò una voce maschile, proveniente dal mucchio di cannibali. –“Un’ipotesi mai prospettata prima, tanto più se ad avanzarla è un ragazzetto imberbe a cui prestò falcerò le gambe, e la vita!”

 

“Chi diavolo sei? Fatti vedere, demone!”

 

“E un demone in effetti sono. E dei più crudeli!” –Rise il nuovo arrivato, rivelandosi infine. Alto e muscoloso, rivestito da una nera corazza ornata da ben dieci teste scolpite nell’atto di gridare, l’uomo aveva lunghi capelli violacei e magnetici occhi verdi. Ma non furono quelli ad attirare l’attenzione di Asher, bensì la lunga scimitarra che reggeva in mano e che grondava ancora il sangue dei soldati di Atena. –“Ammiri la spada di luna, giovane moribondo? Non temere, la vedrai da vicino, perché con questa ti taglierò la testa e appenderò quel bel corno d’argento nella mia sala dei trofei.”

 

“A parole sei bravo, vediamo nei fatti!” –Disse Asher, strappando una risata all’uomo, che si spostò i capelli dietro le spalle, con un plateale gesto di noncuranza, prima di presentarsi.

 

“Il mio nome è Ravana , Imperatore dei Tre Mondi e capo di questa turpe ciurma di demoni. In Asia, nelle terre dove imperiamo, ci chiamano Rakshasa. Voi potete chiamarci come fanno nel Bengala, gli ingordi o i mai sazi, oppure, nel linguaggio comune, i mostri.”

 

***

 

Poco distante, a non più di duecento passi dalla Porta delle Tenebre, gli Heroes di Eracle stavano cercando di forzare il blocco. Guidati dal Campione di Tirinto, che mulinava la clava a destra e a manca, si erano disposti a forma di cuneo, sventrando le linee nemiche. Marosi spumeggianti, frecce di luce e violente bombe di energia avevano coperto l’avanzata del figlio di Zeus, ma al portale d’accesso neppure loro riuscirono ad arrivare.

 

Marcantonio credette fosse un’illusione quella che ingannava i suoi occhi, che gli mostravano, ogni volta in cui si distraeva dal combattimento, un profluvio continuo di guerrieri neri fuoriuscire dalle porte accostate del Primo Santuario. Ma Nesso gli tolse ogni dubbio; quel che vedeva era realtà.

 

Avevano fatto fuori un intero esercito di Cavalieri Sirena, e i Generali degli Abissi loro superiori, poi delle legioni inca e adesso era il turno dei loro vecchi compagni. Già una volta avevano dovuto assistere a una guerra civile tra gli Heroes, sobillata dai servitori di Era, ma stavolta gli Shadow Heroes erano molto più numerosi. Erano tutti gli Heroes morti nel Diciottesimo Secolo e quelli che, rinati giorni addietro, erano di nuovo caduti. Ovverosia tutti tranne sette.

 

Il pugno di Polifemo del Ciclope si fermò a pochi passi da lui, schiantandosi contro lo Specchio delle Stelle che aveva innalzato a sua difesa. Dinaste di Anteus tentò di spaccarlo con un’onda di energia psichica e Mistagogo di Tifone lo affiancò, generando un turbine di cosmo nero che diresse verso Marcantonio, ma bastò che questi sbattesse le palpebre per rimandarglielo contro, travolgendo i tre guerrieri e distruggendone le oscure vestigia.

 

Nesso e Alcione, alla sua destra, avevano appena respinto Lica della Seppia e Proteus della Razza, per poi trovarsi di fronte Gerione del Calamaro. O l’ombra del loro vecchio amico. La discepola di Linceo sollevò i marosi schiumeggianti ma esitò nello scatenarli, permettendo all’avversario di srotolare lunghe fruste nere e dirigerle verso di lei. Fu lesto, Nesso, ad afferrarne una con la mano, lasciando che si arrotolasse attorno al suo braccio, incurante delle scariche energetiche, prima di afferrare l’altra con l’arpione estraibile del suo bracciale. La strattonò, costringendo Gerione a guardarlo in faccia e a lui di trovare conferma ai suoi pensieri.

 

“È lui.” –Si limitò a commentare, mentre Alcione, alle sue spalle, scatenava infine la furia dei marosi, travolgendolo. –“Credevo fossero copie ideate ad arte, che magari Caos riusciva a materializzare sfruttando i nostri sentimenti o i nostri ricordi. Invece sono proprio loro, gli spiriti dei nostri compagni, volti adesso al male e forse anche consapevoli di commetterlo!”

 

“Parli troppo, ragazzo!” –Intervenne Chirone del Centauro, sollevando un muro di magma ardente di fronte a loro, su cui la carica di un gruppetto di Shadow Heroes trovò la sua macabra fine. –“Qualunque aspetto abbiano, sono solo ombre. Ficcatelo in testa!” –Aggiunse, prima che un guerriero alto e robusto si facesse avanti, brandendo due rozze clave. –“Guarda un po’ chi si rivede! Non mi ricordo il nome, non è quell’idiota che mi rinchiuse in un dipinto, spacciandosi poi come il Comandante della Legione Furiosa? Sporco traditore, ti spacco la faccia, adesso!”

 

Quasi avesse potuto udirlo, l’altro uomo sollevò le clave, incrociandole e liberando una quadriglia di folgori violacee che dilaniarono il terreno tra loro, costringendo Chirone a ripararsi il viso con le braccia. Schegge d’armatura schizzarono in aria, tra i mugugni indispettiti del combattente di Eracle, prima che questi espandesse il proprio cosmo, scatenando una pioggia di lava.

 

Le clave del suo avversario si sciolsero in un istante e, prima che si riavesse dallo stupore, già Chirone lo aveva colpito in pieno petto con una bomba di magma, che lo liquefece poco dopo.

 

“Ificle…” –Esclamò infine, sputando sui suoi resti disciolti. –“Ora ricordo! Sei sempre stato grosso e idiota!”

 

“Cerca di non strafare, Centauro!” –Lo richiamò Nestore, impegnato a sbattere le teste di due Shadow Heroes l’una contro l’altra. –“Non ho intenzione di portarti in braccio fino a Tirinto!”

 

“Nemmeno io voglio starti tanto vicino, cosa credi? Puzzi come un orso!”

 

Nestore esplose in una grossa risata, prima di polverizzare i due avversari e riportare lo sguardo su altri che, nel frattempo, lo avevano circondato. A giudicare dalle ali sugli schienali delle armature, doveva trattarsi della Prima Legione, il che significava che anche Adone era tra loro. Adone al cui fianco aveva combattuto sull’Etna, Adone che era morto divorato dalle fiamme nere di Erebo, lo stesso Nume che li stava aspettando oltre la soglia e che magari, nell’attesa, sorseggiava sangue di Dei dal cranio di chissà quale sventurata vittima.

 

“Erebo!!!” –Ringhiò Nestore, ancora furioso, con sé più che con il Progenitore, per la bruciante sconfitta del giorno prima. –“Ho un motivo per veder aprire quella porta e nessuno di voi, tormentati spiriti di amici morti, me lo impedirà!” –Aggiunse, liberando una zampata d’energia che travolse alcuni Shadow Heroes, ma gli altri continuarono ad avanzare, dirigendogli contro i loro attacchi, costringendolo a una mossa definitiva. Chiuse gli occhi, radunando ogni stilla del suo potere, e quando li riaprì brillarono di una luce dorata, che anticipò il ruggito della sua trasformazione. –“Ursus Arctos middendorffi!” –Gridò, mentre la sua massa corporea si dilatava a dismisura, divenendo quella di un gigantesco orso Kodiak, e la corazza mutava forma, rivestendolo.

 

Quell’apparizione bloccò l’avanzata dei nemici, su cui Nestore si abbatté, agitando le braccia avvolte in un turbinare di energia cosmica. Ne fece fuori a manciate, afferrandone altri e stritolandoli tra le grosse dita artigliate. Anche Nesso e gli altri non poterono fare a meno di guardare a bocca aperta la spettacolare mutazione del compagno.

 

“Megalomane!” –Commentò Chirone, scatenando un oceano di lava incandescente contro un gruppo di avversari e chiedendosi, al qual tempo, come sarebbe stato mutare nel proprio simbolo. –“Un gigantesco centauro? Umpf, molto meglio un sano scontro alla vecchia maniera!” –Si disse, sbattendo un pugno nel palmo dell’altra mano, mentre la marea di magma si ritraeva lasciando una distesa di cadaveri liquefatti dietro di sé. –“O di corazze liquefatte. O di ombre… può un’ombra sciogliersi?”

 

Se lo stava ancora chiedendo quando udì gli ululati.

 

Che divennero presto ringhi furiosi, mentre le linee nemiche si aprivano e una ventina di grosse fiere feroci, cavalcate da Shadow Heroes, caricavano i fedeli di Eracle.

 

“Attenti!” –Gridò Nesso, gettandosi a terra e trascinando Alcione con sé, proprio mentre un paio di quei grossi animali sfrecciava sopra le loro teste.

 

“Sono i Warg!” –Disse Chirone, riconoscendo le bestie che avevano attaccato Asgard.  –“Ovvero dei gatti troppo cresciuti!” –Aggiunse, scartando di lato e evitando che le fauci di un gigantesco lupo si chiudessero sulla sua testa. Concentrò una sfera di magma sulla mano destra e gliela scagliò in un occhio, godendo dell’agonia in cui lo sprofondò. Tra guaiti di dolore, il warg si impennò, facendo cadere il guerriero che lo cavalcava proprio ai piedi di Nestore, che ne calpestò il cranio, piantandolo nel terreno.

 

Nesso, rimessosi in piedi, scagliò il suo rampino, incastrandolo nella sella di un warg che lo stava caricando, evitandolo e venendo trascinato via e scagliato in aria. Con un’agile piroetta, atterrò proprio sulla schiena del lupo, sbalzando via il guerriero che lo cavalcava. Nel tentativo di azzannarlo, il warg torse il proprio muso, aprendo e chiudendo le grosse fauci, offrendo a Nesso l’opportunità per colpirlo al cuore. Bastò una sola freccia di energia, diretta in fondo alla gola, per farlo esplodere, proprio mentre il ragazzo abbandonava l’improvvisato mezzo di trasporto, atterrando con compostezza sul suolo.

 

“Ben fatto, Nesso!” –Gli disse allora una ruvida voce maschile, poggiandogli una mano su una spalla.

 

Stanco e sudato per gli scontri continui, Eracle riusciva comunque a sorridergli. Con la clava che Efesto aveva forgiato per lui millenni addietro aveva sgominato un’intera legione di soldati Inca, estirpato le fiamme oscure dei loro sacerdoti e forse anche vinto una Divinità minore dalle fattezze di un enorme pipistrello. Era il figlio di Zeus, in fondo; da giovane non aveva compiuto imprese altrettanto epocali?

 

“Mio Signore? Posso fare qualcosa per voi?”

 

“Non proprio, non per me soltanto, almeno.” –Esclamò Eracle, avvicinando la testa all’orecchio del ragazzo e sussurrando. –“Mio padre vuole vedervi. Subito.”

 

Solo allora Nesso si accorse che Iro di Orione aspettava alle spalle del Nume.

 

***

 

Euro era infine riuscito a sbarazzarsi dei suoi fratelli. Era stato un incubo rivederli, un incubo ritrovarli, come nemici, nel culmine del loro delirio. Non poteva dire di aver sempre avuto ottimi rapporti con loro, del resto uno era pazzo, l’altro guerrafondaio e Borea era il più pericoloso tra tutti. Lui era un fanatico, fortemente convinto della superiorità degli Dei su qualunque altra forma di vita. Eppure erano i suoi fratelli e, a modo loro, li aveva amati. Era persino giunto a sacrificarsi per Borea, secoli addietro, sul colle di Larissa, quando ancora gli Dei potevano permettersi di morire e rinascere, quando ancora il loro tempo cosmico non era giunto alla fine.

 

Non fosse stato per l’intervento di Ermes, la sua sarebbe arrivata pochi attimi prima, quando il Vento del Nord l’aveva afferrato per il collo, rivestendo la sua armatura di un lurido strato di ghiaccio nero. Poi il Caduceo lo aveva trapassato da un fianco all’altro, distruggendolo e permettendo a Euro di rifiatare.

 

“Stai bene, ragazzo?”

 

L’ultimo figlio di Eos annuì, bruciando il cosmo e sciogliendo lo strato di ghiaccio, spalancando poi le ali e concedendosi un veloce volo su tutto il campo di battaglia, seguito dal Messaggero degli Dei. Non che vi fosse molto da vedere: ovunque posassero lo sguardo c’erano scontri in atto e, a giudicare dalle energie cosmiche che percepirono, compresero che i primi servitori di Caos erano scesi in battaglia.

 

Ermes indicò un punto in basso, dove un pugno di soldati di Atena si era chiuso a riccio attorno a delle vecchie sacerdotesse, per proteggerle dall’assalto di grossi lupi corazzati. Senza esitare, il Dio dei Mercanti e dei Commerci piombò su di loro, liberando dardi di luce e dilaniando le orripilanti bestie. Poco distante, Euro vide gli Heroes affrontare dei guerrieri neri altamente equipaggiati, le cui corazze sembravano formate da scaglie di drago. Li riconobbe subito, avendoli visti combattere nel Mondo Antico.

 

Erano gli Sparti.

 

Caos aveva dunque timore che l’esercito di ombre non riuscisse a tenere a bada le forze dell’Alleanza? O forse voleva soltanto far svagare i suoi tirapiedi?

 

Stava per tornare a terra per esporre i suoi dubbi al sommo Zeus quando lo vide entrare in una nube di nebbia, di certo creata dal fratello al suo fianco. Nikolaos lo seguì poco dopo. Non li avesse notati, non sarebbe riuscito a percepirli, poiché quella vaporosa coltre di energia pareva in grado di schermare i suoi sensi. Un attimo dopo arrivò anche Eracle, che accompagnava due Heroes, che lesti entrarono nella cortina di nebbia.

 

Di qualunque cosa stessero parlando, doveva trattarsi di qualcosa di serio per strapparli ai combattimenti in corso e Euro si augurò avessero trovato la chiave per aprire le porte del Primo Santuario.

 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo undicesimo: Eroi di mille battaglie. ***


CAPITOLO UNDICESIMO: EROI DI MILLE BATTAGLIE.

 

L’assalto degli Sparti prese gli Heroes alla sprovvista, sfondando la prima linea dell’Alleanza. Alcione venne spinta a terra e una lancia la trapassò a un fianco, inchiodandola sul suolo macchiato di sangue. Marcantonio corse subito in suo aiuto, sollevando lo Specchio delle Stelle, che venne tempestato da migliaia di affondi, simili a una pioggia di intensa e rovinosa grandine, finché non si schiantò, gettando indietro il virtuoso comandante.

 

“Maledetto Cadmo e il suo drago!” –Esclamò, affannando nel rialzarsi, mentre tutto attorno la pioggia di lance continuava furiosa.

 

Ci riuscì Neottolemo a disperderla per qualche istante, liberando un turbine d’acqua e vento, permettendo a Marcantonio e ad Alcione di rimettersi in piedi, stringere i denti e prepararsi a fronteggiare la seconda ondata.

 

“Dov’è finito Nesso?” –Chiese Alcione, guardandosi attorno.

 

“Anche di Iro nessuna traccia!” –Commentò cupo Marcantonio. –“Che siano…? No, non voglio pensarlo. Di certo si staranno adoprando, in qualche altro loco di questo caotico campo di battaglia, per vincere l’oscura sfida cui siamo sottoposti!”

 

“E noi? Ci tireremo indietro adesso?”

 

Marcantonio sorrise alla discepola di Linceo, prima di voltarsi verso gli Sparti che, dopo essere stati separati dalla tempesta di Neottolemo, si erano già riorganizzati, in una perfetta formazione d’assalto. Durò un attimo, quell’ordine perfetto, il tempo in cui i Figli del Drago mossero un passo avanti, abbassando le lance in direzione degli Heroes, che un urlo rabbioso li distrasse, anticipando la comparsa di una grossa sagoma pelosa.

 

Nestore si era appena lanciato su di loro, incurante del loro soverchiante numero o dei tagli sul suo corpo, mulinando le robuste braccia in ogni direzione e sventrando le righe degli Sparti, afferrandoli, lanciandoli in aria, sbattendoli a terra, staccando loro le teste e usandole come proiettili per colpire gli altri guerrieri.

 

Approfittando del loro sbandamento, Marcantonio e Nestore seguirono il compagno, liberando i colpi segreti e recuperando le posizioni perdute dall’improvviso assalto. Anche Alcione avrebbe voluto unirsi alla carica ma, mosso qualche passo, si accasciò, una mano sulla ferita aperta al fianco, la vista che pareva ovattarsi, la testa che non smetteva di dolerle.

 

Che fosse avvelenata, quella lancia? Si chiese, imponendosi di reagire e rialzarsi. Da soli, i suoi compagni non avevano speranze contro l’esercito di guerrieri nati dai denti del drago ucciso da Cadmo nel Mondo Antico, e contro i Warg che, per quanto Chirone ne avesse fatti fuori una decina, continuavano a imperversare in lungo e in largo sul campo di battaglia. Quanto ci sarebbe voluto prima che uno di quei mannari le azzannasse il collo? O prima che le anime disperse degli Shadow Heroes acquisissero nuove oscure fattezze e ricominciassero ad attaccarli?

 

“Posso aiutarti?” –Esclamò allora una voce maschile, mentre un uomo in armatura azzurra entrava nel suo campo visivo, allungando una mano verso di lei.

 

“Nesso?!” –Prima ancora di riuscire a ricordare a chi appartenesse quella voce, o di mettere a fuoco la snella sagoma che con un balzo fu su di lei, Alcione si sentì sollevare da lunghe dita sottili chiuse a tenaglia sul suo collo e torcere in modo da poterlo guardare in faccia.

 

L’espressione che sfoderò dovette essere di vera sorpresa a giudicare dalla risata del suo avversario, il bastardo, velenoso e disonesto combattente che le aveva tenuto testa nelle profondità dell’Avaiki e che sperava vi fosse crepato.

 

“Spiacente di deluderti, ci vuol ben altro che un po’ d’acqua per vincere il Turso eterno!” –Commentò, stringendo fino a schiantare la protezione dell’armatura di Alcione, affondando le unghie affilate nella sua pelle. –“Oh tranquilla, a differenza del mio sangue, in quella lancia non c’era veleno. Gli Sparti non ricorrerebbero a simili mezzucci, sono veri guerrieri, loro, di quelli che amano il sangue e la mischia. Andrebbero a braccetto con quel barbaro dal nerboruto petto che chiami Signore. Toh, eccolo che arriva, Eracle l’impetuoso. Eracle il Campione dei Due Mondi.” –Aggiunse, torcendo il collo dell’allieva di Linceo in modo da permetterle di vedere il figlio di Zeus piombare, come una meteora infuocata, tra le linee dei Figli del Drago, portando manforte ai suoi Heroes. –“Annienterò anche lui. Più tardi. Adesso voglio divertirmi con te, che ti sei permessa di sopravvivere, mettendomi in cattiva luce di fronte all’Imperatore dei Mari. Non che abbia importanza la sua opinione, adesso che è morto e che sono salito di grado, divenendo il secondo tra i Forcidi. Ma non vorrei che si diffondano idee sbagliate, che qualcuno pensi che al Dio delle Nove Malattie si possa sopravvivere…”

 

“Tu… non sei… un Dio…” –Rantolò Alcione, cercando di liberarsi dalla sua algida presa.

 

“Ah no? E cosa sarei, dunque? Ti prego, non chiamarmi mostro, mi spezzeresti il cuore!” –Ironizzò l’Iku-Turso, espandendo il cosmo e sollevando il braccio sinistro, preparandosi per colpire.

 

In tutta risposta, Alcione gli sputò in faccia, costringendolo a spostare lo sguardo, disgustato. Di quell’attimo approfittò l’eroina, tirando su le gambe e piegandole, per poi colpirlo al petto, dandosi lo slancio per balzare all’indietro, solo pochi passi, ma sufficienti per sollevare un muro di schiumosi flutti.

 

“Sei un vile, e come tale destinato alla sconfitta. Alti flutti…” –Esclamò Alcione, ma la voce dell’Iku-Tursu la sovrastò.

 

Tuonen härkä!” –Gridò, liberando la devastante carica dei Buoi della Morte, che sfrecciarono tra i cavalloni di energia, senza esserne affatto destabilizzati, travolgendo la combattente e schiantando la sua corazza in più punti, là dove le corna la raggiunsero. –“Hai dimenticato chi hai di fronte, o forse nell’acculturata Grecia non vi hanno insegnato a leggere i poemi finnici? Tu avessi sfogliato il Kalevala, ti saresti sbrigata a scappar via, trovandoti un più debole avversario, poiché vedi, gambe lunghe, sarai anche la Piovra degli Heroes, ma io sono un mostro ben più pericoloso!” –Sibilò, espandendo il proprio cosmo oscuro, simile a una nube nera su cui presto Alcione credette di vedere volti umani. Deformi, terrorizzati, ma pur sempre umani. –“E sì, chiamami mostro! Perché questo sono! Io sono l’Iku-Turso, il figlio dell’età dell’oro!” –Gridò, travolgendo l’avversaria con un’onda di potenza. –“Il mostro oceanico! Il signore dei mari del nord!” –Aggiunse, liberando un secondo assalto, che di nuovo travolse Alcione, per quanto cercasse di difendersi. –“Emerso dall’azzurro mare, sotto i flutti tumultuosi, con l’intento di annientare gli eroi. Tutti gli eroi!” –Ghignò, sollevando le braccia al cielo, mentre tutte le facce di cosmo attorno a lui sembravano gridare, schizzando in avanti, in ogni direzione. –“Muori, Alcione! Tuhatpää!”

 

Con un disperato sforzo, la Comandante della Legione dei Mari riuscì a sollevare i propri flutti di energia acquatica, ma anziché scagliargli contro l’impetuoso attacco avverso, ben sapendo che a niente sarebbero serviti, li usò per ricoprirsi, creando una rozza difesa attorno al proprio corpo. Sballottata e trascinata per parecchi metri, Alcione arrestò la rovinosa corsa in mezzo a un gruppo di soldati di Atena, e lì rimase, senza fiato neppure per rialzarsi.

 

Sfregandosi le mani soddisfatto, l’Iku-Turso si avviò verso di lei, a passo lento, quasi incurante del resto dei combattimenti. Che gli Sparti vincessero o cadessero sotto la clava di Eracle, che i Warg venissero sterminati, a lui cosa importava? In fondo, la sua battaglia l’aveva già vinta. Con la caduta di Ozena e dell’Isonade, era asceso al ruolo di secondo di Tiamat e, se le parole del Primo Forcide erano vere, quella guerra, che tutti si ostinavano a definire l’ultima, non lo era affatto. Giurandogli fedeltà, e vedendo le proprie ferite rimarginate e la sua corazza riparata, aveva ottenuto molto più di quel che Forco gli aveva promesso.

 

Anche Kelpie avrebbe dovuto pensarci, invece di obbedire a quella stupida richiesta di Chimera, che, dalla morte di Polemos, si atteggia a gran comandante dell’Armata delle Tenebre! Rifletté, mentre un gruppo di soldati scattava su di lui. Soldati di Atena, dedusse, osservandone le misere protezioni in rame e cuoio. Ridicoli. Aggiunse, liberando i possenti Buoi della Morte di Tuoni, Signore dell’Oltretomba, e sbaragliandoli.

 

Passò tra i loro corpi feriti, mentre ancora si dibattevano, soffocando, tossendo, gorgogliando parole che non ebbe interesse alcuno ad ascoltare, poiché sapeva cosa stessero dicendo. Stavano soltanto pregando Atena di salvarli, quell’insulsa Divinità dalla faccia da brava ragazza che li aveva portati a morire in un maledetto deserto. Una fine terribile, ammise. Una fine che nessun Forcide avrebbe desiderato, così lontano dal mare che tanto amavano e dava loro potenza.

 

Concedendosi una risata, prima di arrivare a pochi passi dal corpo esausto di Alcione, dovette constatare che la guerriera era coriacea. Di questo gliene andava dato atto, di quanto sopperisse con strategia e fede quel che le mancava in forza, quella forza che le Nove Malattie, con cui l’aveva infettata, le avevano tolto.

 

“Addio, gambe lunghe. Sai, in un’altra vita avresti potuto essere un Forcide. Magari il Sesto. Credo che a Kelpie riusciresti a tener testa, in fondo. Ah ah ah!” –Rise l’Iku-Turso, sollevando un braccio al cielo e caricandolo di energia cosmica. –“Se incontrerai il mio Signore, Tuoni, nell’Oltretomba, portagli i miei rispetti. Sempre che Caos non l’abbia già divorato.” –Ironizzò, prima di calare il braccio.

 

Fu allora che Alcione scattò, rotolando sul terreno e evitando l’affondo nemico, che distrusse il suolo e sollevò ciottoli e polvere, nascondendo il sibilare di un tentacolo che afferrò il Forcide per un polpaccio, prima che la combattente lo strattonasse, facendolo cadere a terra.

 

“Ma cosa…?”

 

“Conosco il Kalevala!” –Si limitò a rispondere Alcione, espandendo il cosmo, tutto quello che era riuscita a radunare nei pochi attimi concessasi per riprendere fiato. –“E so anche quel che dice Väinämöinen all’Iku-Turso!”

 

Quelle parole fecero infuriare il Forcide, che tentò di rialzarsi, mentre il tentacolo stringeva sempre più, liberando guizzanti scariche di energia.

 

Iku-Turso, figlio dell’età dell’oro, non emergere mai più dall’oceano! Non permettere che gli eroi vedano il tuo viso sopra il mare! Mai più emerga dal livello dell’oceano, mai più debbano i marinai vedere la testa di questo mostro marino!” –Esclamò Alcione, mentre le folgori azzurre danneggiavano la corazza del Forcide, che comunque riuscì a rimettersi in piedi, fissandola con uno sguardo di controllata rabbia.

 

“Parli bene, gambe lunghe. Ma non basteranno le parole a frenare la carica dei Buoi della Morte! Tuhatsarvi!” –Gridò, spalancando le braccia e lasciando che migliaia di corna di energia distruggessero il tentacolo della Piovra, liberandosi infine.

 

“Non con le parole ti vincerò, perché so già che sarebbero inutili. Ma con il colpo segreto appreso dal mio maestro, che lo ereditò da Eracle, nostro Signore!” –Disse Alcione, mentre attorno a sé sembrava sbocciare un oceano improvviso, costellato di stelle luminose, un’apparizione che straniò l’Iku-Turso per un momento, prima che raccogliesse il cosmo e portasse entrambe le mani avanti.

 

Tuonen härkä!”

 

Esplosione dei Silenti Abissi!” –Gridò l’allieva di Linceo, dando fondo a tutte le sue energie, anche alla vita stessa, traendo forza dal ricordo del maestro, dei suoi compagni, di Gerione che aveva ritrovato e di nuovo perso e infine dalla speranza che un giorno, in quegli splendidi abissi, sarebbe tornata a nuotare, purificati dall’oscurità che li aveva invasi.

 

La collisione tra i due attacchi generò un contraccolpo che scaraventò entrambi indietro, con le corazze distrutte e insanguinate e i corpi dilaniati da così tante ferite da risultare impossibile, a occhio umano, contarle. L’Iku-Turso tossì, sdraiato a faccia in su, sull’arido suolo, lo sguardo volto verso il cielo oscuro, e quella cappa nera fu l’ultima cosa che vide, prima di spirare. Alcione, poco distante, avrebbe voluto sorridere ma il solo stirare le labbra le causava spasimi di dolore. Con la morte del loro creatore, anche le Nove Malattie l’avrebbero lasciata?

 

Se lo stava ancora chiedendo, quando chiuse gli occhi.

 

***

 

Quando Eracle gli sfrecciò accanto, piombando tra le linee degli Sparti, Chirone era schiacciato sotto il peso di un Warg, cercando di tenere le sue fameliche e bavose zanne a distanza. A fatica, riuscì a calciarlo via, colpendolo con una bomba di lava mentre era ancora in volo, tra i guaiti della bestia e del guerriero del Caos che ricadde a terra… perdendo i pezzi.

 

Chiunque fosse, lo Shadow Hero che aveva occupato quell’involucro, stava cercando di riformarsi, assemblando le parti dell’armatura attorno a un’orrida nube nera. Per un momento, a Chirone sembrò di vedere suo fratello (o forse suo padre?) fissarlo con disprezzo, deriderlo per quel che era diventato (un soldato stanco e zoppo che si era fatto infettare da uno gnomo irlandese!), prima che la celata dell’elmo si chiudesse. Allora lo travolse con un’esplosione di energia e ne cancellò ogni traccia.

 

“Dunque anche tu sei sopravvissuto!” –Esclamò una voce acuta, distraendo il furioso Centauro. –“Non mi stupisce, avevi dimostrato fin dall’inizio una coriacea resistenza alle Piaghe dei Fomori!”

 

Voltandosi, Chirone vide una sagoma smilza discendere dal cielo, proprio sui resti di un warg abbattuto, atterrando sulla testa pelosa e fissandolo divertito. Riconobbe la corazza rossastra e le lunghe ali che si aprivano sotto le braccia del Nefario dai capelli viola.

 

Alu della Tempesta…” –Mormorò.

 

“Ricordi il mio nome, sono onorato!”

 

“Ricordo anche di averti spennato come un pollo. Magari stavolta ti tiro anche il collo, gallinaccio volante!”

 

“O magari lo taglio io a te!” –Ironizzò l’uomo, con un sorriso bieco.

 

In tutta risposta, Chirone si lanciò avanti, avvolgendosi nel suo cosmo rossastro, assumendo la forma di una cometa incandescente che dilaniò e incendiò la carcassa del warg, e anche Alu, se non fosse stato lesto a sollevarsi, spalancando le ali. Deciso a inseguirlo, il fedele di Eracle fece per balzare in alto, ma il Nefario lo sorprese, sollevando entrambe le braccia e abbassandole di colpo.

 

Piede del cielo!” –Strillò, liberando il proprio cosmo violaceo, che assunse la forma di un gigantesco piede d’uccello che schiacciò Chirone al suolo. Un piede che, per quanto fosse costituito di pura energia, pareva lacrimare, sudare o comunque perdere acqua.

 

“Che diavoleria è mai questa?”

 

“Ih ih ih! Non hai mai sentito parlare degli Utukku accadici, mio infuocato amico, non è così? Beh, io sono uno di loro. O meglio, lo ero prima che Caos li mangiasse tutti. Quei birichini non riuscivano a decidersi se essere contro o al suo fianco ed egli ha tolto loro ogni dubbio. Io, invece, dubbi mai ne ho avuti. So sempre da dove soffia il vento, e come potrei non saperlo, io che sono il Signore delle Tempeste?”

 

“Ma non farmi ridere!” –Avvampò Chirone, espandendo il cosmo che esplose sotto forma di violente fiammate, che intaccarono il piede di energia acquatica, iniziando a liquefarlo.

 

“Non è nei miei piani farti… ridere!” –Sibilò Alu, ancora sospeso in volo sopra di lui. Sollevò il braccio destro, avvolto in turbinare di vapore energetico, e comandò al cosmo di mutare forma. E il piede divenne un grosso bovino infuriato. –“Toro di Anu!” –La bestia, inarcando la schiena, scagliò Chirone in alto, tra le risate sguaiate di Alu, che lo osservò contorcersi a mezz’aria prima di precipitare verso la sua creatura, che lo aspettava con le corna tese. –“Muori, eroe!”

 

Ma Chirone fu svelto a evitare la perigliosa punta, afferrando il corno mentre scivolava lungo il rozzo corpo del toro e strattonando con tutte le sue forze, fino a sollevare quella figura di cosmo e scagliarla contro lo sbalordito Nefario, che venne investito dal suo stesso attacco. Precipitando a terra, Alu sbatté la faccia, troncandosi il naso e lamentandosi per il dolore. Si stava ancora controllando le ferite quando Chirone lo raggiunse e lo afferrò per un braccio, tirandolo in piedi di peso.

 

Il Nefario si dimenò, ma la stretta del Centauro era possente e il cosmo fiammeggiante già iniziava a sopraffarlo, obbligandolo a un gesto estremo.

 

Toro di Anu!” –Esclamò, sollevando al qual tempo l’altro braccio e anticipando, di una frazione di secondo, il sorgere di un bovino di cosmo dal suolo che scaraventò entrambi in aria. –“Alu, era questo il nome del toro che il possente Anu scagliò contro Gilgamesh per vendicarlo dell’oltraggio subito da sua figlia, da lui rifiutata. Percepisci la sua rabbia, Centauro?”

 

“Percepisco soltanto che la carne di bovino è ottima. Alla griglia.” –Commentò Chirone, avvolto nel suo cosmo rossastro. –“Magma ardente!” –Tuonò, unendo le mani e generando una sfera di energia che crebbe in pochi istanti, prima di esplodere e distruggere l’attacco avverso, sbattendo di nuovo Alu a terra, per il contraccolpo. –“Sembra che i tuoi poteri non funzionino con me, a dispetto di quel che mi dicesti ad Asgard.”

 

“Lo dissi e lo ripeto. Fuoco e acqua si equivalgono, ostacolandosi a vicenda.” –Ringhiò il Nefario, il volto deformato dall’ira e dalla stanchezza, mentre l’altro atterrava compostamente al suolo.

 

“E allora perché sei venuto a cercarmi? Perché non scegliere un avversario più alla tua… bassezza?” –Disse Chirone, avanzando a passo deciso verso di lui.

 

“Perché sono Alu, il demone della tempesta, e porto morte ovunque io posi lo sguardo. Cosa ti faceva credere di essere diverso?”

 

“Il fatto di essere più forte!” –Ancora una volta Chirone lo sollevò, afferrandolo adesso per quei mossi capelli viola, ai suoi occhi ridicoli, mentre già il suo cosmo ardente ne bruciava qualcuno. Concentrò una sfera di magma sul palmo dell’altra mano e fece per sbattergliela contro il petto.

 

“Ma non il più furbo!” –Sibilò Alu, muovendo lesto il braccio destro, portandolo avanti… e sfondandogli la cassa toracica.

 

“Co… cosa?!” –Balbettò Chirone, incredulo, senza allentare la presa. Abbassò lo sguardo e vide un grosso guanto di metallo argentato con le dita conficcate nel suo sterno. –“Il guanto di… Grendel?”

 

“L’ho recuperato prima di lasciare Asgard. Poteva sempre essermi utile.” –Ghignò Alu, affondando sempre più il mithril nel corpo del Centauro, costretto infine a lasciargli i capelli bruciacchiati. –“E ora… addio, eroe!”

 

“Sì…” –Ripeté Chirone, rialzando lo sguardo. –“Addio!” –E lo afferrò con entrambe le braccia, bloccandolo da dietro, mentre il suo cosmo ardeva e ardeva, senza accennare a calare d’intensità. –“Addio compagni miei! Magma… ardente!!!” –Ed esplosero.

 

***

 

La lettera era sul tavolo di legno, sotto la tazza che Yulij gli aveva appena portato, e che lui non aveva neanche toccato, lasciandola freddare, come la zuppa di un’ora prima.

 

Non voleva mangiare, non voleva bere, non voleva vedere nessuno di loro, soprattutto lei che lo aveva imbrogliato, lei che lo aveva tenuto tra le braccia, offrendogli consolazione e dandogli solo l’ennesimo tradimento. Quanti altri, nella sua giovane vita, l’avevano già tradito e abbandonato? Sua madre, suo fratello, i suoi amici, persino la Dea che aveva giurato di proteggere. Perché volevano tutti lasciarlo indietro? Era grande, adesso, grande abbastanza da sapere per cosa combattere e per cosa morire.

 

Morire. Già, come suo fratello, spirato davanti ai suoi occhi, macellato come un…

 

No, doveva smettere di pensare a Mur o sarebbe impazzito.

 

Afferrò la lettera, mettendosela nella tasca posteriore dei calzoncini e uscì fuori dalla casetta di pietra. Quel posto neppure gli piaceva; anche quando Atena vi si recava per fare visita agli abitanti dell’isola, Kiki la accompagnava mal volentieri. Troppo caldo, troppo vapore, troppa nebbia e ogni tanto qualche scossa a ricordare a tutti i poveri abitanti che il vulcano incombente sul villaggio non era mera presenza ma attiva realtà.

 

L’isola di Kanon, mormorò, osservando l’imponente sagoma della montagna fumante ergersi proprio sopra di lui. Detta anche l’isola del riposo, in virtù dei corroboranti fumi in grado di guarire ogni ferita, persino i danni delle armature. Mur gliene aveva parlato, anni addietro, dichiarandosi incuriosito da quel luogo, ipotizzando che un giorno, qualora ne avessero avuto il tempo, avrebbe voluto visitarlo per studiarlo. Ma quel giorno, come altri, non l’avevano vissuto assieme e adesso si trovava proprio su quell’isola dove suo fratello voleva tanto venire e che lui invece avrebbe voluto inabissare nel tentativo di sbollire la rabbia.

 

“Kiki? Ti sei svegliato!” –Esclamò una voce femminile, che il bambino subito riconobbe, prima ancora di voltarsi.

 

Ci aveva passato molto tempo assieme ai Cinque Picchi, apprezzandone la compagnia e la buona cucina, ricordandogli forse la mamma da cui troppo presto era stato separato. Eppure, anche Fiore di Luna, in quel momento, gli risultava fastidiosa.

 

“Già!” –Si limitò ad annuire, mentre la ragazza lo raggiungeva, prendendolo per mano.

 

Si ritrasse, tentato di allontanarla, ma poi ricordò che anch’ella era una vittima delle scelte di altri. Cos’altro era stata, in fondo, quella povera fanciulla che aveva trascorso la vita in una casa di bambù su uno sperone roccioso, ad aspettare l’uomo che amava e che ogni giorno rischiava la vita in qualche strambo combattimento, se non una vittima impossibilitata a vivere realmente?

 

Cacciò quei pensieri. Non doveva avercela con lei. Non con Fiore di Luna. Era impossibile adirarsi con lei.

 

Così si lasciò condurre per mano, lungo le strade del paesino, diretti verso il molo, la lettera di Pegasus ancora nella tasca dei pantaloni. Ne aveva letto soltanto le prime righe, riconoscendone la calligrafia, e già aveva provato il tentativo di distruggerla, mangiarla o inzupparla nella minestra. Qualunque cosa pur di non leggere le loro scuse. Perché, ai suoi occhi, tali apparivano, anche se forse motivate da qualcosa di più profondo. Proteggerlo, magari, e ricordargli che gli volevano bene.

 

Lo sapeva. Per questo faceva male essere lasciato indietro.

 

Fiore di Luna gli strinse la mano quando arrivarono al piccolo porto, dove, da una nave ormeggiata poco distante, due ragazzi e un uomo stavano trafficando, scaricando casse e maneggiando apparecchiature elettroniche.

 

“Fate attenzione! Dean, ti prego, con grazia! Appoggiala piano, ecco così!” –Stava dicendo l’uomo più adulto.

 

“Quante storie! Mica esploderanno? No?”

 

L’altro ragazzo, più slanciato, gli diede una botta in testa, intimandolo di seguirlo sulla nave per prendere le ultime cose. Kiki strinse gli occhi, cercando di ricordarsi i loro nomi, avendoli incontrati solo in un paio di occasioni: Dean e Sal? O forse Sam? Boh, aveva importanza? Erano solo i suoi carcerieri, assieme al bulletto dal giubbotto di pelle e dall’accento scozzese che, seduto su uno scoglio, mordicchiava una mela guardando il mare. Cosa aveva da guardare, poi? Il cielo era in tempesta e pareva che, da un momento all’altro, un temporale dovesse scatenarsi sull’isola, o forse sull’intero Mediterraneo, e quell’idea gli ricordò gli scontri in atto nel deserto del Gobi.

 

“Vorresti essere là, non è così?” –La voce gentile di Fiore di Luna lo rubò ai suoi pensieri, portandolo a sollevare lo sguardo e a incrociare i suoi occhi luccicanti. Non riuscì a pronunciare parola, soltanto ad annuire. –“Anch’io!”

 

Quelle parole lo stupirono, strappando un sorriso alla ragazza, che si mise a sedere sul muricciolo del molo, osservando Sam e Dean scaricare le ultime casse sotto gli occhi attenti del Professor Rigel, passare loro davanti, carichi come muli, uno ridendo l’altro borbottando, prima di tornare al porto e ripetere il percorso decine di altre volte.

 

“Rifornimenti per gli abitanti dell’isola!” –Spiegò Rigel, rispondendo alla muta domanda del bambino, per poi allontanarsi dietro ai due fratelli per controllare che non mancasse nulla.

 

“Vorrei essere con Sirio!” –Fiore di Luna ricominciò a parlare, distraendo Kiki dalla sua rabbia. –“A volte mi è capitato di pensare che, se fossi stato un Cavaliere anch’io, come Pegasus e Andromeda, avrei potuto essere al suo fianco sempre, in ogni battaglia. Avrei potuto soccorrerlo, dargli forza, essergli d’aiuto come lui lo è stato per l’umanità. Poi però mi sono chiesta cosa sarebbe successo se fossi caduta? Una volta, dopo la scalata delle Dodici Case, Sirio mi disse che uno dei motivi per cui aveva lottato così tanto era per tornare ai Cinque Picchi, da me. Ma se io non ci fossi stata, se fossi morta in una delle altre Case dello Zodiaco, che ne sarebbe stato della sua fede? Anche l’uomo più pio può essere spezzato, amava ripetere il Vecchio Maestro. E noi siamo la differenza, Kiki, noi siamo coloro che fanno la differenza per Sirio e per i suoi amici, quelli che, vivi o morti, possono renderli marmo indistruttibile o semplici rametti. Noi e tutti coloro che Atena ha salvato, radunando su quest’isola.” –Aggiunse, spostando lo sguardo verso la banchina del molo, dove due ragazze erano appena arrivate.

 

Una era Yulij, con indosso la cotta di cuoio degli allenamenti, l’altra era la ragazza dai capelli rossicci che Pegasus aveva cercato a lungo e che Kiki aveva protetto, l’anno addietro, dall’assalto di Thanatos. Assieme a Rigel e ai nuovi Cavalieri d’Acciaio, erano tutti gli affetti dei Cavalieri dello Zodiaco, Lamia esclusa.

 

Da quel che aveva sentito dire, Cliff O’Kents aveva cercato di portarla via da Luxor ma la ragazza era stata inamovibile. E lui allora? La sua volontà valeva forse meno?

 

Fiore di Luna si alzò in quel momento, avviandosi verso Patricia e Yulij e lasciando il bambino da solo. Raggiungere il Gobi con il teletrasporto era improponibile: era la prima cosa che aveva tentato appena rinvenuto, ma non aveva ottenuto altro che ricomparire nella strada dietro la casa. A quanto pareva la cappa di tenebra che stava inondando la Terra, intrisa del cosmo di Caos, avrebbe richiesto uno sforzo abnorme solo per rientrare in Grecia, per cui avrebbe dovuto pensare ad altro, magari rubare una barchetta, corrompere un pescatore oppure minacciare lo scozzese con la telecinesi per rimediare uno strappo fino alla costa.

 

O semplicemente accettare di voler essere protetto dai propri amici.

 

Sorridendo, gli occhi umidi di lacrime, Kiki balzò a terra, tirando fuori la lettera che Pegasus aveva vergato in fretta, prima di lasciare Atena, e che recava le firme di tutti loro, persino quella di Phoenix.

 

“Mio caro Kiki, dire addio non è mai facile, soprattutto dirlo a chi vogliamo bene e con cui vorremmo continuare a scherzare. Ma il tempo dei giochi è finito, per noi come per te, il tempo in cui ridevamo felici, convinti che Arles fosse il nostro maggior incubo, e il pericolo peggiore dell’umanità. All’epoca era vero, poi siamo cresciuti e i pericoli sono cresciuti con noi. Ma credimi, credi a tutti noi, io ti prometto che giustizia sarà fatta e che, sconfitto questo nemico, questa fantomatica nube di Caos, il sole tornerà a splendere e non combatteremo più. Il tuo futuro, amico mio, sarà grandioso. Ricordati soltanto di viverlo. Pegasus, Sirio, Cristal, Andromeda e Phoenix.”

 

Quando terminò di leggerla, e sollevò gli occhi per cercare Fiore di Luna e le ragazze, la carta si era inumidita dalle lacrime che non era riuscito a trattenere.

 

“Lo farò, Pegasus. Lo farò, ragazzi!” –Giurò a se stesso l’apprendista di Mur.

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo dodicesimo: Caccia furiosa. ***


CAPITOLO DODICESIMO: CACCIA FURIOSA.

 

“Umpf! Parassiti!” –Mormorò scocciato Amon Ra, liberando un’onda di cocente energia che annientò le migliaia di pipistrelli energetici che stavano ronzando sopra l’esercito del Sole. Qualcuno era già riuscito ad affondare i denti nella pelle di qualche soldato e un paio di Amazzoni giacevano stramazzate a terra, i corpi in preda a violente convulsioni, marcati di striature violacee che convergevano dove le bestie avevano morso.

 

Marins aveva capito subito quel che stavano facendo, notando quanto, a ogni nuova succhiata, Eogan recuperasse il vigore perduto combattendo. Le strigi non si limitavano a portar via l’energia della vittima ma la trasferivano al Nefario.

 

“Acuto!” –Esclamò questi, evitando l’affondo del Tridente dei Mari Azzurri, balzando in alto e correndoci sopra, quasi senza sfiorarlo, tanto leggeri erano i suoi passi e aggraziati i movimenti. Pareva quasi che l’aria stessa si spostasse per lasciarlo passare.

 

Infastidito, Marins mosse l’arma, ponendola a difesa del viso, mentre Eogan cercava di raggiungerlo con un calcio deciso, fallendo e sfruttando poi lo slancio per fare una capriola completa e atterrare a piedi uniti a pochi passi dal ragazzo.

 

“Ti diverti?” –Borbottò il Cavaliere delle Stelle.

 

“Molto!” –Sogghignò il Nefario, umettandosi le labbra con un rapido colpo di lingua. Da qualche parte, nello sterminato campo di battaglia che si apriva di fronte alla Porta del Giorno, le strigi stavano ancora mietendo vittime.

 

Era impossibile, per Amon come per chiunque altro, riuscire a distruggerle tutte senza ferire anche i propri compagni. Inoltre, a giudicare dalla bestia immonda che lo aveva appena caricato, il Sole d’Egitto aveva trovato un degno avversario.

 

Inorridendo, Marins ricordò di aver visto una rappresentazione di quel demone nella Piramide di Karnak, quindici anni addietro, tra i progetti a cui quel bastardo di Anhar stava lavorando. Rivederla adesso, con quel corpo tozzo e le lunghe fauci dentate, lo fece rabbrividire, rammentandogli il nome.

 

“Ammit. La Divoratrice.” –Commentò Eogan, intuendo i suoi pensieri. –“Non sono venuto solo, se è questo che stavi pensando. La divina Emera ancora non si accinge ad abbandonare il bastione da dietro il quale ha eretto la barriera che vi impedisce di avanzare, ma non ha avuto da ridire se le preziose creature nate dal Caos si fanno avanti. In verità, sospetto che niente la turbi. L’ho vista solo di sfuggita, un’ombra bianca in un oceano di tenebra, ma credo che sia proprio così. Eterea e sfuggente, indifferente alle questioni del mondo. Di certo ben diversa da me.”

 

“Oh lo vedo bene, a te piace divertirti, Eogan, non è vero?”

 

“Esatto. A me piace godere!” –Ridacchiò il Nefario, espandendo per la prima volta il cosmo e obbligando Marins a fare altrettanto. –“Mi piace assaporare fino in fondo i sapori di questo mondo, finché esiste. Mi mancherete, voi Cavalieri e le stupide Divinità che servite, quando tutto questo sarà finito e cesserete di esistere. Il vostro sangue, lo ammetto, è buono. Troppo dolce, a volte, stucchevole persino, ma pregno di vita.”

 

“Sei disgustoso!” –Avvampò Marins, tentando un affondo con il Tridente dei Mari Azzurri, che Eogan prontamente evitò balzando indietro, atterrando compostamente e poi scivolando all’indietro con una gamba, mentre il corpo si fletteva in avanti e le mani artigliavano il suolo.

 

“Tutt’altro.” –Ghignò lui. –“Sono un tipo piacente. E tu, Mano d’Argento, non mi piaci!”

 

“Il sentimento è recipro…” –Bofonchiò il Cavaliere, prima di essere costretto a mulinare il Talismano per difendersi dall’attacco improvviso del Nefario, che era scattato su di lui, artigli in bella mostra e zanne sporgenti. Con un colpo a spazzare, gli impedì di morderlo al collo, ma Eogan sgusciò via con agilità, gettandosi a terra e scivolando di schiena tra le gambe di Marins, superandole e portandosi alle sue spalle. Prima ancora di riuscire a voltarsi, il Cavaliere delle Stelle venne colpito in basso con un calcio secco, che lo portò a piegare le gambe all’interno, mentre Eogan, da dietro, lo mitragliava con una pletora di calci, scaraventandolo avanti, faccia a terra, facendogli perdere la presa sul Talismano.

 

Rantolando, Marins cercò di rialzarsi, allungando la mano verso il Tridente, ma il Nefario gliela calpestò e, non fosse stato per la protezione dell'Armatura delle Stelle e del metallo della protesi, gli avrebbe spezzato un paio di dita. Con un balzo, Eogan fu su di lui, avvinghiandosi attorno al suo corpo, abbracciando, strusciandosi e stringendo, mentre l'americano si agitava per toglierselo di dosso, senza successo, scoprendo che la corazza del nemico disponeva di qualche strana ventosa che le permetteva di appiccicarsi su superfici lisce.

 

“Piantala di dimenarti, non siamo in una sala da ballo!” –Ironizzò Eogan, avvicinando la testa al suo orecchio. Gli spostò i capelli castani e scrutò il collo con attenzione, finché, soddisfatto, non vide una bella vena pulsante, su cui si avventò.

 

A quel punto Marins urlò, concentrando in quel grido tutta la disperazione che non aveva mai provato, rendendolo, di fatto, un dolore molto più forte di quel che era.

 

Ovunque, i suoi compagni, sentirono il suo cosmo vacillare e tutti avrebbero voluto correre in suo aiuto, sebbene nessuno poté liberarsi del proprio avversario. Febo, il più vicino, era anche il più angosciato di tutti, ma la Divinità della Vendetta che gli aveva sbarrato il passo era decisa a fare a pezzi Horus e tutta la sua stirpe, per vendicare le Erinni sterminate da Osiride. Anche Reis e Jonathan udirono il grido di dolore dell'amico, per quanto si trovassero dall'altro lato del Primo Santuario, di fronte all'opposta porta, intenti a contenere l'ultima avanzata dei Lestrigoni, e certo anche Matthew se ne accorse, nonostante le sue attenzioni, in quel momento, fossero volte a ritrovare l'irrequieta Elanor.

 

Soltanto Ascanio poté fermarsi un momento, rivolgere una preghiera al Cavaliere dei Mari Azzurri, incitandolo a non mollare, a non lasciare che il passato lo soverchiasse, prima che la Morrigan lo richiamasse alla realtà della guerra.

 

Se anche Marins la udì, la voce del Comandante dovette perdersi nel turbinio di pensieri che lo aveva invaso fin da quando Eogan lo aveva morso. Li aveva sentiti, tutti, affastellarsi uno ad uno nella sua mente, mentre il sangue si muoveva, in balia del desiderio del Nefario, che non aveva smesso di compiacersi della prelibatezza di quella materia prima.

 

“Il sangue è vita, e dove c'è vita c'è un cosmo. E il tuo, amico mio, è fresco e dissetante.” –Aveva bofonchiato, prima di affondare di nuovo i sottili canini e ristorarsi.

 

E non era la sua presenza opprimente sulla schiena, né la perdita del fluido corporeo a preoccuparlo, quanto quel che accompagnava il prosciugarsi della sua energia. Pareva che, assieme alla vita, se ne stessero andando i suoi ricordi.

 

“Ethan! Ethan! Ma non hai ancora finito i compiti?”

 

“Corri, Ethan! Corri più veloce o non la prenderai!”

 

“Oggi andiamo a caccia, figliolo!”

 

“Papà? Dove sei!”

 

Uno sparo.

 

Uno stadio.

 

Un uomo con il berretto dei Mets che gli sorride.

 

Marins accetta e tutto scompare e l'immagine cambia di nuovo e si ritrova in una casa, solo, circondato da mucchi di libri, scatole di puzzle e cibo per gatti. Una donna lo chiama, gli parla della cena che prepareranno insieme, ma lui non ricorda il suo nome, persino il volto, adesso, gli risulta difficile da disegnare. Chi era lei? E soprattutto chi era lui?

 

Per un interminabile momento non vide niente e temette che Eogan gli avesse già portato via tutti i suoi ricordi, poi, capì, quell'oscurità sfumò e divenne una cortina di nebbia. Così, del resto, aveva sempre visto Avalon. Un'isola verde in un oceano grigio.

 

“Stanco di correre?” –Gli chiese qualcuno.

 

“Io sono Reis, lui è Jonathan, e tu? Come ti chiami?”

 

Già, come mi chiamo? Io sono...

 

“Ma che razza di nome è Marins? Cosa sei, una sirenetta?”

 

Faceva fatica a riordinare i ricordi, andavano e venivano e non tornavano più, per quanto tentasse di richiamarli, e questo rendeva ancora più difficile incastrare gli altri, dare loro un ordine e un senso alla propria vita. Se mai l'abbia avuto.

 

Proprio in quel momento una voce gli invase la mente, una voce melodiosa e senza età, raccontandogli la storia di Tantalo e di tutte le meraviglie che aveva a portata di mano e che non poteva raggiungere. Era forse lui, Tantalo? Era quello il suo nome?

 

Oppure era Aircetlam, la Mano d'Argento? E perché aveva quella stupida mano di metallo poi? Forse l'intero suo corpo era di metallo?

 

Pensare alla mano gli diede la spinta per concentrarsi su un evento preciso, indirizzando tutte le sue risorse mentali in un'unica direzione. E alla fine di quel percorso, mentre Eogan continuava a succhiare, ridere e godere sopra di lui, trovò una torma di fiamme scure che parevano cingerlo d'assedio. Ferito, sanguinante e mutilato, era accasciato sul pendio erboso di una collina, reggendosi il moncherino e contando i secondi che lo separavano da morte certa. Di fronte a sé, il suo carnefice avanzava, l'oscura lama di fiamme che mirava al cuore del ragazzo. Ma, anziché sentirla, anziché rivivere il momento del trapasso, vide un giovane dai capelli biondi ergersi in sua difesa, venendo ferito al posto suo e continuando a combattere, fino all'esaurirsi dell'ultima stilla di energia.

 

“Amici...” –Gli sentì dire, con un sorriso stanco, mentre si accasciava su di lui, moribondo.

 

Amici.

 

Strana parola, quella. Voleva dire tutto e niente. Per il biondino, era sufficiente per sacrificarsi. E per lui? Che valore aveva? Lo aveva dimenticato o non lo aveva mai avuto?

 

“Febo...” –Mormorò, riprendendo a muovere le dita della mano ferita.

 

“Sì, sì, dopo mi occuperò anche del tuo amichetto. Sono certo che il suo sangue regale sarà un ottimo dessert! Ma ora sta' fermo e lasciami finire! Non che manchi molto ormai, visto lo stato in cui versi!” –Ridacchiò Eogan, ma il ragazzo nemmeno lo ascoltò, limitandosi a chiudere la mano a pugno e a ripetere quell'unica parola.

 

“Febo! Febooo!” –Gridò, mentre il suo cosmo azzurro divampava, come fiamme sorte dal mare, incendiando l'armatura del Nefario e costringendolo a staccarsi da lui con un balzo improvviso.

 

Da qualche parte, in quel marasma chiamato guerra, il Cavaliere del Sole dovette rispondergli perché Marins vide un raggio di luce puntare verso il cielo tetro. Durò un attimo ma bastò per ricordargli chi fosse.

 

Non era Tantalo, non era Aircetlam, non era neppure Ethan. A quel nome aveva detto addio quando suo padre era morto e la vita aveva smesso di avere senso.

 

“Il mio nome è Marins, Custode del Talismano di Elmas e Cavaliere dei Mari Azzurri!” –Esclamò, rialzandosi a fatica. –“Puoi anche aver preso i miei ricordi, ma la mia fede non l'hai intaccata, né l'amicizia che mi lega a Febo. Quello è il ricordo più grande che mi sostiene, un ricordo che è un eterno presente che viviamo assieme da quindici anni, e tu, lurida sanguisuga, non sei degno neppure di sfiorarlo!”

 

“Farneticanti ciance!” –Sghignazzò Eogan, spalancando le braccia e richiamando migliaia di pipistrelli di energia. –“Debole come sei, basteranno pochi morsi per porre fine all'agonia della tua esistenza. Chissà, Caos potrebbe persino premiarmi per aver vinto uno dei Sette, concedendomi qualche Divinità di cui nutrirmi! Ih ih ih! Accorrete, mie adorate creature della notte, e asportate l'ultimo barlume di cosmo che fioco scintilla in quel corpo stanco! Andate, mie strigi adorate!” –Gridò, indirizzando le bestiacce voltanti verso Marins, che, nient'affatto intimorito, si limitò a sollevare un braccio al cielo, aprendo il palmo della mano su cui una sfera di energia azzurra rilucette all'istante, mentre ovunque, attorno a sé, sorgevano colonne d'acqua di mare.

 

Maremoto dei Mari Azzurri!!!” –Esclamò, comandando le colonne di convergere sulla sfera, roteando attorno a lui, in una spirale di blu e oro, fino a generare un vortice di energia acquatica che attrasse le strigi, travolgendole, risucchiandole, dilaniandole, liberando infine la strada verso Eogan.

 

“Maledetto!” –Ringhiò il Nefario, abbassandosi e preparandosi per scattare su Marins come aveva fatto in precedenza, ma quest'ultimo lo anticipò, scatenando la furia del maremoto contro di lui.

 

Con agilità, e scivolando sul terreno, Eogan riuscì comunque ad evitarlo, osservandolo disperdersi alle sue spalle, contro qualche servitore di Caos di cui poco gli caleva. Si appoggiò al suolo con una mano, per darsi lo slancio per balzare sul Cavaliere, quando riconobbe l'arma dalle tre punte che stava per sfondargli il torace.

 

Sputò, incredulo, mentre Marins lo trapassava con il Tridente dei Mari e lo inchiodava a terra, appoggiandosi stanco alla lunga asta dorata.

 

“Mi hai... imbrogliato...” –Rantolò, realizzando che quel poderoso assalto il ragazzo lo aveva scagliato solo per distrarlo, e coprirsi mentre il Talismano tornava nelle sue mani ed egli scattava avanti. –“Vile!” –Aggiunse, prima di spirare.

 

In quel momento tutte le strigi rimaste si dissolsero in un baluginio fiacco, liberando il cielo della loro mostruosità. Soddisfatto, Marins rimase ancora un minuto, o forse due, appoggiato al Tridente dei Mari, spossato dalla perdita di sangue e cosmo. Avrebbe voluto correre da Febo, per ringraziarlo per l'aiuto indiretto, per avergli rammentato quel che avevano sempre significato l'uno per l'altro. Ricordi che nessuno gli avrebbe mai portato via, poiché facevano parte del suo presente.

 

“Bel lavoro!” –Esclamò una ruvida voce, mentre una pacca sulle spalle lo fece sobbalzare, trovandosi di fronte il Sole d'Egitto.

 

“Mio Signore... state bene? Ammit, la divoratrice...?”

 

“Oh, lei è morta.” –Commentò Amon, scuotendosi le mani impolverate. E, notò Marins, anche macchiate di sangue. –“Di nuovo. Pensavo di andare a vedere come se la cava Febo contro quell'Alastore, ma immagino voglia occupartene tu.”

 

Sorridendo, Marins annuì. Estrasse il Tridente dal cadavere di Eogan e si avviò in direzione di Febo e Horus, salvo essere distratto da uno sbatter d'ali. Quando si voltò, vide il Messaggero Olimpico discendere dal cielo e inginocchiarsi di fronte ad Amon.

 

“Quali nuove dal fronte settentrionale?” –Chiese subito il Signore di Karnak.

 

“Il possente Zeus vi prega di attaccare in massa la Porta del Giorno. Noi, alla Porta delle Tenebre, faremo altrettanto e così accadrà a ogni angolo del Primo Santuario!”

 

“Stringere la presa. Lo farei volentieri, se avessi un esercito più numeroso e queste canaglie dall'animo oscuro non risorgessero in ogni momento.”

 

“Proprio per scongiurare questo secondo punto, il diversivo è necessario.” –Esclamò Ermes, alzandosi in piedi. –“Quanto al primo punto... sembra che un vecchio amico sia giunto ad aiutarci. Lo conosci, immagino, Cavaliere.” –Aggiunse, voltandosi verso Marins e strizzandogli un occhio, prima di spalancare di nuovo le ali e volare via.

 

Solo in quel momento il ragazzo si accorse della confusione che regnava sul campo di battaglia. L'intera area di fronte alla porta del Giorno, dove finora si erano ammassate le ombre dei guerrieri caduti nelle Guerre Sacre, era in pieno scompiglio, dilaniata in ogni direzione da scie bianche, verdi e marroni, che correvano, tornavano indietro e... latravano.

 

Incuriosito, anche Amon si avvicinò, rilassando poi il volto nel riconoscere i nuovi arrivati. Migliaia di levrieri bardati scorrazzavano tra le linee nemiche, creando scompiglio e azzannando chiunque tentasse di accalappiarli, incitati da un uomo basso, con ricciuti capelli castani, rivestito di pelli di animale, che sedeva su un cane più grande degli altri. Al suo fianco una donna bellissima, con indosso un broccato di seta d'oro, cavalcava un magnifico stallone, seguiti da una schiera di cavalieri in bianche armature sopra destrieri color panna. Tutto, in loro, sembrava trasudare luce e purezza, persino la postura e il loro approccio calmo e metodico alla carneficina.

 

Solo quando si avvicinarono, Marins notò l'aura che li avvolgeva, intuendo che si trattasse di anime erranti, vincolate a un giuramento fatto in vita.

 

“Ci rivediamo, giovane yankee!” –Esclamò una voce ben nota, anticipando l'arrivo di Arawn in groppa al levriero più grosso.

 

“Lieto di rivederti, guardiano dell'oltretomba celtico!” –Lo salutò Marins, cui l'altro rispose con un lieve inchino.

 

“E questa è mia moglie, la splendida Rhiannon! Spero non vi dispiaccia se ci uniamo alla festa! Avevo un vecchio debito da scontare con il Signore dell'Isola Sacra e non lo considererò assolto finché non l'avrò pagato. Ho pensato fosse l'occasione per far correre i miei levrieri. Sapete, non c'è molta carne viva da azzannare negli inferi!” –Ridacchiò, prima di piantare i talloni nei fianchi del levriero e lanciarsi di nuovo alla carica. –“Cwn Annwn!” –Gridò, e la schiera furiosa lo seguì.

 

Solo quando l'ultimo dei Bianchi Cavalieri di Glastonbury si fu allontanato, Marins si chiese se, tra loro, non vi fosse anche il leggendario antenato di Ascanio: Arthur Pendragon.

 

 ***

 

Non appena Nesso varcò la soglia percepì di non essere entrato in una nube di nebbia, ma in un’altra dimensione. Lo spostamento lo fece vacillare per un momento, prima che la presa di Iro lo agguantasse, intimandolo di stare su.

 

Attorno a loro non c’era niente, solo un’oscurità più fitta persino del cielo che stava ricoprendo il Gobi, e in quell’oscurità brillava un’unica luce adamantina, proveniente dal Sommo Zeus, che li aspettava pochi passi più avanti, affiancato dal Cavaliere d’Oro della Vergine e da uno dei suoi Cavalieri Celesti.

 

“Dove siamo?” –Chiese Nesso, guardandosi attorno incuriosito.

 

“In uno dei sei mondi di cui sono guardiano.” –Rispose la voce calma del Cavaliere di Atena. –“Ma ti prego di non chiedere altro, abbiamo poco tempo e dobbiamo usarlo nel migliore dei modi.”

 

“Virgo ha ragione, Heroes di Eracle, perdonate questa brusca convocazione ma ho bisogno dei vostri servigi!” –Parlò allora il Signore dell’Olimpo. –“E solo qua posso esporvi i miei piani, qua dove l’ombra di Caos non si è ancora allungata!”

 

“Lui… non ci percepirà qua dentro?”

 

“Il tempo scorre in maniera diversa in ogni dimensione, per cui, quando uscirete, saranno trascorsi solo pochi secondi.” –Spiegò Virgo.

 

“E in quei secondi Nettuno, Efesto e Eracle avranno scatenato la furia dell’Olimpo contro la Porta delle Tenebre. Ho dato ordine a tutte le forze dell’Alleanza di attaccare in massa, per distrarre i Progenitori. Ma anche in questo modo il tempo stringe, per cui sarò franco. Mia sorella langue in chissà quale androne di quel santuario bastardo e Caos se ne sta cibando, un pezzo alla volta, sorseggiando il suo ichor e beandosi della sua forza. Non posso più permetterlo! Né posso permettere che questo massacro continui! Il fiume di ombre deve terminare o moriremo prima ancora di aver varcato la soglia della roccaforte!”

 

“Mio Signore, voi… avete qualche idea di come quest’eterno ritorno dei combattenti delle guerre sacre sia possibile? È un uroboro di puro caos che, se non lo spezziamo…”

 

“Crediamo sia frutto di qualche esperimento condotto da Anhar!” –Intervenne il Cavaliere Celeste rimasto silente a fianco di Zeus. –“Lo conosciamo bene e sappiamo che ama trafficare con pericolose alchimie. Di certo c’è lui dietro tutto questo.”

 

“Quale ne sia l’origine, quel fiume non deve più scorrere. Per questo servite voi. Eracle mi ha parlato delle vostre capacità!” –Riprese Zeus, fissando entrambi gli Heroes. –“Tu, Nesso del Pesce Soldato, il più abile incursore di Tirinto e tu, Iro di Orione, Primo Comandante, simbolo di forza, tattica e sapienza. Uniti alle doti del mio Luogotenente, siete il tridente perfetto per penetrare nella roccaforte di Caos! Scoprite cosa sta tramando e ponete fine a questo delirio! È una pazzia quella che vi chiediamo, lo so, anzi no è un sacrificio. Eppure… se non interveniamo…”

 

“Moriremmo tutti.” –Concluse Nesso, strappando un cenno d’assenso anche a Iro.

 

“Noi, in fondo, siamo già morti. Possiamo morire una seconda volta. Ma solo con onore!”

 

“Vi ringrazio, nobili eroi! Le vostre gesta non saranno dimenticate, permarranno, nella memoria imperitura di coloro che verranno dopo di noi. Gli Dei di domani. Chissà se anche noi Olimpi saremo tra loro?!”

 

“Non crucciatevi, mio Signore!” –Parlò Nikolaos dell’Eridano Celeste.

 

“Non lo farò. Fin troppo mi sono crogiolato in se e ma che non ho saputo vincere. Ora è tempo di agire!” –Disse il Nume, aprendo il palmo della mano. Allungò un’unghia e se la piantò in un polpastrello, lasciando che si macchiasse di rosso, quindi versò alcune gocce sul talismano che il Luogotenente gli porse. –“Ecco qua, il dono che ti fece Demetra anni addietro! Mai come adesso vi sarà utile per entrare, non visti, nel Primo Santuario. Bagnato con il mio ichor, vi coprirà agli occhi dei Progenitori. Per quanto? Non so dirvelo! Forse già quando sarete all’interno avrà smesso di funzionare di fronte agli sconfinati poteri di Caos. Eppure… non abbiamo altro.”

 

“Faremo tutto ciò che è in nostro potere per adempiere alla missione!” –Tuonò Iro, battendosi una mano chiusa a pugno sul cuore. –“Non falliremo! Spezzeremo l’uroboro del caos e vi riporteremo vostra sorella!”

 

“Le tue parole vi fanno onore, Primo Comandante, ma mi permetto di offrirvi un altro aiuto.” –Disse Zeus, mentre Nikolaos mostrava un oggetto avvolto in un panno rosso. Nel vederlo, persino Virgo trasalì. –“Questa potrebbe esservi utile. L’ha recuperata il mio fido Ermes dalla cripta in cui avete dormito per due secoli!”

 

***

 

“Stai andando a combattere?”

 

La voce cavernosa del suo mentore lo raggiunse mentre varcava la soglia della sala grande, costringendolo a fermarsi.

 

“Dove altro dovrei andare?”

 

“So cosa stai facendo, ciò che vai cercando!”

 

“Oh, davvero?” –Quella frase lo irritò, ma si costrinse a sfoderare un’espressione di sorpresa che, sul suo volto deforme e maciullato dall’odio e dalla guerra, dovette risultare grottesca persino al Maestro di Ombre.

 

Avesse avuto una faccia, Tiamat l’avrebbe visto annuire e forse avrebbe notato le labbra piegarsi in un ghigno divertito, lo stesso che aveva rimarcato, negli anni, il concretizzarsi dei suoi piani. O forse il fallito concretizzarsi degli stessi.

 

“È lui che cerchi, non è così? Conosco bene quel sentimento.” –Riprese a parlare Anhar. –“La vendetta!”

 

“Lo credo bene. Me lo hai instillato nel sangue quando mi hai ridato la vita. Io sono te, più di quanto tu creda, e provo quel che hai provato, maestro. Vendetta contro i fratelli. Tu hai avuto i tuoi, gli angeli bastardi che ti hanno abbandonato, io ho avuto il mio. E non avrò pace finché…”

 

“Pace?! Parola vuota e priva di ogni significato. La pace è un’illusione di cui gli stolti si riempiono la bocca per costringersi a scendere in guerra, troppo ipocriti per ammettere che la guerra è tutto ciò che vogliono. Io lo so bene, io che per averlo ammesso sono stato cacciato dalla gilda degli angeli, bandito da Avalon e confinato sulla Terra in attesa della sua venuta. Agli occhi dei miei fratelli, io sono il Caduto, eppure Caos non ha esitato a porre la mano sulla mia spalla, investendomi dell’onore di essere il suo araldo e invitandomi a rimettermi in piedi.”

 

“C’è una morale, in questo discorso?” –Lo interruppe Tiamat.

 

“Irriverente e smanioso. Tutto il tuo maestro!” –Sghignazzò Anhar, avvicinandosi e trovandosi a pochi passi da lui. Il Primo Forcide ne scrutò l’inespressiva maschera nera che gli copriva il volto, senza lasciare spazio né agli occhi né alla bocca; come facesse a parlare o anche solo a vederlo era un mistero che non intendeva approfondire, ben conoscendo l’oscura alchimia dell’Angelo Caduto.

 

“Qualche consiglio prima di salutarci? Eviterei discorsi di incoraggiamento, non ne ho bisogno!”

 

“Oh, lo so bene. Te lo leggo negli occhi l’ardore bellico che ti domina. È nutriente, sì, corroborante per lo spirito. Ma non sottovalutare il tuo nemico e quel suo maledetto calderone. Io, purtroppo, l’ho fatto.”

 

“Non accadrà!” –Esclamò Tiamat con decisione, muovendosi per allontanarsi, venendo richiamato dopo qualche passo.

 

“Sei guarito in fretta. Anche la tua corazza. Era messa piuttosto male dopo lo scontro con Ascanio. Chi te l’ha riparata?”

 

“Nessuno. Ho fatto tutto da me!” –Disse il Forcide, voltandosi e fissando l’Angelo con rinnovata determinazione. –“Ti ho osservato, spesso, anche quando giacevo in silenzio, invaso dai miei pensieri di rabbia, e ho preso da te quel che mi serviva!”

 

“Ti ho insegnato bene, allora!”

 

“Molto, e te ne sono grato. Sei e sarai sempre il mio maestro.”

 

“Spero di averti insegnato anche la lezione principale!” –Sogghignò Anhar, prima di andarsene. –“Sopravvivere!”

 

Oh sì! Commentò Tiamat soddisfatto. È l’insegnamento che ho appreso meglio.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo tredicesimo: Missione impossibile. ***


CAPITOLO TREDICESIMO: MISSIONE IMPOSSIBILE.

 

Il piano di Zeus era decisamente interessante, ma riuscire a tradurlo in concrete azioni che sfondassero la Porta delle Tenebre, o che attirassero l’attenzione dei Progenitori e dei loro sgherri, era tutto un altro paio di maniche. Neottolemo lo aveva capito subito, fin da quando Eracle li aveva riuniti, che la testa di ariete che gli Heroes avrebbero dovuto rappresentare non avrebbe fatto che pochi passi, travolta, assediata, quasi inglobata da quella marea nera che non accennava a calare di intensità.

 

Per ogni avversario che facevano fuori, altri due, a volte tre, giungevano a prendere il suo posto e, sebbene le ombre non avessero la capacità tattica di combattimento dei guerrieri che erano stati un tempo, alla lunga li avrebbero stancati, e sopraffatti. Com’era accaduto ad Alcione e a Chirone.

 

No. Non doveva pensare a loro o, se proprio doveva, era per immaginarli al loro fianco, avvolti negli schiumeggianti marosi e nelle bolle di lava che avrebbero scaricato sugli avversari. Inorgoglito dalla loro presenza, il Nocchiere di Tirinto sollevò le braccia al cielo, liberando un turbinar di nuvole, vento ed energia acquatica che disperse gli Shadow Heroes attorno a lui. Marcantonio, poco distante, aveva sfondato la prima riga degli Sparti con un cuneo di energia, aprendo la strada a Eracle, che, mulinando la sua clava, sbaragliò i rimanenti, mentre il grosso orso in cui Nestore era mutato impediva ai compagni di riunirsi a loro.

 

Ma era solo l’effimera illusione di una vittoria, perché, Neottolemo lo sapeva bene, non appena gli Heroes rallentavano nel loro avanzare, nuove legioni di Figli del Drago, di Shadow Heroes e persino di warg parevano riversarsi su di loro. E ovunque, nel campo di battaglia, la situazione era la stessa.

 

Un boato lo riscosse, portandolo a sollevare lo sguardo verso la roccaforte dei Progenitori, al pari dei compagni e, inaspettatamente, degli stessi Sparti, che confabularono qualcosa prima di muovere qualche passo indietro. Un illuso avrebbe creduto si stessero ritirando, in realtà stavano solo riformando le fila, lasciando un ampio spazio tra le due formazioni.

 

Per cosa?

 

La risposta Neottolemo la ebbe quando la Porta delle Tenebre terminò di aprirsi, per far uscire una gigantesca sagoma. Nonostante la sua vista acuta, non l’avrebbe neppure notata, una bestia nera su sfondo nero, non fosse stato per gli sbuffi di fuoco che, di continuo, eruttava dalle fauci, simili a sibilanti fruste incandescenti che si allungavano e ritraevano, fendendo l’aria tetra, mentre la creatura avanzava a grandi falcate verso di loro.

 

Per la sua stazza, si muoveva con straordinaria velocità, divorando in pochi attimi la distanza che la separava dall’Armata delle Tenebre… e piombando in mezzo al fiume nero, che subito si spostò ai lati lasciandola passare. Gli Sparti cominciarono a battere al suolo le lunghe lance affamate di sangue e guerra, prima di puntarle verso gli Heroes e prepararsi per quel nuovo assalto. E allora Neottolemo capì chi fosse la bestia che Caos aveva vomitato, il celebre drago ucciso da Cadmo nel Mondo Antico, genitore di tutti quei guerrieri.

 

“Drakon…” –Mormorò.

 

“In posizione!” –Gridò Eracle, richiamando il Nocchiere e Marcantonio a sé. Persino Nestore parve arretrare, portandosi alle spalle del Campione di Tirinto con una calma innaturale, anch’egli intimorito dall’enorme rettile che li aveva raggiunti.

 

Alto e grosso, con un rozzo cranio squamato e due occhi giallastri pregni di odio, era ornato da minuscole ali sulle spalle, che di certo non gli permettevano di volare. A quello, del resto, pensava la schiera infernale che si era portato dietro, una vera e propria squadriglia di mostri che iniziò a seminare il caos tra le fila dell’Alleanza.

 

Viverne, grifoni, arpie e altri rettili volanti circondavano Drakon, piccole rispetto al padre, ma non per questo meno letali. Una dopo l’altra, le creature alate piombarono sui soldati, evitando la pioggia di frecce e lance e gli attacchi energetici diretti contro di loro, ghermendoli, squarciandoli o divertendosi a sollevarli in aria per poi lasciarli precipitare a terra. In quella pletora di mostri, che parevano usciti dalle rappresentazioni delle imprese giovanili di Eracle che ornavano la sala grande di Tirinto, Neottolemo ne vide alcuni di cui non aveva mai sentito parlare.

 

Per metà lupi e per metà corvi, planavano sul campo di battaglia in cerca di morti. Di qualunque schieramento. Famelici, si avventavano sui cadaveri, affondando gli affamati becchi tra le viscere dei caduti.

 

“Che orrore!” –Mormorò, mentre Marcantonio le identificava come valravn, i corvi della morte. Uno di questi, poco distante, era appena planato sulla carcassa di Chirone, beccandogli il cuore, mentre un altro, poco distante, si stava nutrendo dei resti del Nefario sconfitto. –“Andate via, carogne!” –Esclamò, avvolgendosi nel suo turbinante cosmo, che subito diresse verso di loro, abbattendole.

 

Ma altre ne arrivarono, da qualunque direzione in cui volgesse lo sguardo.

 

Drakon caricò in quel momento, anticipato dalla folle corsa degli Sparti e attorniato da migliaia di mostruosità alate. L’ululato dei warg risuonò tra le fila nemiche, mescolato allo starnazzare, al ghignare e a chissà quale altro verso di quelle bestie.

 

Ali del Mito!” –Tuonò, facendo fuori una decina di viverne, mentre Marcantonio ne teneva altre a distanza con lo Specchio delle Stelle. La lancia di uno degli Sparti lo raggiunse a una gamba, frantumando la sua corazza e strappandogli un gemito di dolore, prima che Nestore gli staccasse la testa con una zampata.

 

“Per gli Dei, sono troppi!” –Esclamò Marcantonio, spinto indietro dall’offensiva dei Figli del Drago.

 

Fu allora che migliaia di strali d’argento sfrecciarono tra loro, falciando gli Sparti e le bestie ad altezza suolo. Solo fissandoli con attenzione notò che erano catene.

 

Quando si voltò, il Cavaliere di Andromeda era davanti a lui, stanco, sudato, con graffi e aloni sull’armatura, ma con lo sguardo consapevole della propria missione.

 

Un vento gelido gli solleticò la pelle, soprattutto là dove era stato ferito, prima che l’agile sagoma di un biondino avvolto in un cosmo bianco come la neve lo sorpassasse, balzando sulla groppa di una viverna e afferrandola per il collo, costringendola a cambiare la sua direzione, puntando dritta verso il grande drago.

 

Polvere di Diamanti!” –Gridò il ragazzo, dirigendo un getto di energia fredda verso le fauci aperte di Drakon, che fu lesto a contrastarlo con una violenta fiammata.

 

Rapido, il Cavaliere del Cigno abbandonò l’improvvisata cavalcatura, spalancando le ali della corazza e servendosene per planare a terra, mentre la viverna veniva divorata dalle fiamme del genitore.

 

“Vi ringrazio, Cavalieri di Atena!” –Esclamò allora Neottolemo, cui i due ragazzi risposero con un sorriso. Tirato, quello del biondino, più caloroso quello dell’altro.

 

“Mi occupo io degli Sparti. La mia arma è l’ideale per affrontare numerosi nemici!” –Disse quest’ultimo, facendosi avanti e schivando l’ondata di lance che i Figli del Drago gli scagliarono contro.

 

“Quindi a me tocca il lucertolone troppo cresciuto.” –Sbuffò Cristal. –“Di nuovo.”

 

“Molto bene. Nestore vi darà una mano.” –Intervenne allora Eracle. –“Neottolemo, tieni a bada quelle carogne volanti. Fatti aiutare dai Cavalieri Celesti, se necessario. Noi… attacchiamo!”

 

Prima ancora che terminasse di parlare, un soffio di vento gli scombinò i capelli, mentre tre sagome avvolte nei loro cosmi divini sfrecciarono sulla testa di tutti, dirette verso la Porta delle Tenebre, che ormai si era richiusa. La folgore di Zeus, il tridente di Nettuno e la lava dell’Etna si riversarono sulla fortezza del Caos, sostenute dai venti di Euro, dal caduceo di Ermes e dai cosmi di Atena e Eracle che si unirono ai loro familiari. E ovunque, su tutti gli altri fronti, gli Dei e i loro Cavalieri attaccarono. Ma a niente servì, solo a spazzar via la marea nera ammucchiatisi di fronte alle mura, permettendo all’Alleanza di guadagnare qualche minuto. Secondi, nel peggiore dei casi.

 

Tirando un’ultima occhiata alla Porta delle Tenebre, prima di tornare a concentrarsi sulla battaglia, a Neottolemo sembrò di vedere due occhietti rossi lampeggiare sinistri sulla sua cima, fissarli, sorridere e poi scomparire.

 

E allora arrivò il contraccolpo. O la ritorsione.

 

“Attenti!!!” –Fece appena in tempo a gridare Zeus, prima che un’onda oscura di immani dimensioni si abbattesse sulla pianura a nord della Porta delle Tenebre.

 

I tre Olimpi vennero travolti mentre erano ancora sospesi in aria, le loro corazze danneggiate, le loro ali spezzate, per poi precipitare tra la polvere e il sangue degli uomini che non erano in grado di proteggere. Le stesse schiere di viverne e grifoni vennero decimate, dalla noncuranza con cui il Tenebroso guardava il mondo. Euro ed Ermes incontrarono simile destino, schiantandosi a terra.

 

Atena, rimasta indietro durante l’assalto, circondata da Ioria e Virgo, piantò la Nike, sollevando una cupola dorata, nel disperato tentativo di coprire quanti più fedeli potesse, sostenuta dall’indebolito cosmo dei Cavalieri d’Oro. Eracle, notando il suo tentativo, si unì alla sorella, gridandole di creare un cuneo, con il vertice rivolto a sud, per sopportare meglio la violenza dell’assalto.

 

Quando l’onda lo travolse, il Campione di Tirinto stava ancora gridando, sordo alle sue stesse parole. Marcantonio aveva appena fatto in tempo ad afferrare Neottolemo e a portarlo dietro di lui, che udirono il devastante ruggito di Nestore, rimasto nella mischia, dilaniato da migliaia di daghe color ebano. Il muro di ghiaccio creato da Cristal, lo Specchio delle Stelle, persino il Kaan, tutto andò in frantumi e, quando la tempesta finì, rimase solo uno sconfinato silenzio.

 

“Iro, Nesso. Non credo che riuscirò a congratularmi con voi, ma mi auguro che la vostra missione abbia successo!” –Mormorò Neottolemo, prima di crollare al suolo e perdere i sensi.

 

***

 

Iro non vedeva niente.

 

Stava seguendo Nesso e l’Eridano in quel maledetto labirinto da qualche minuto (quanti? A saperlo! Tutto sembrava distorto nel Primo Santuario, persino la concezione stessa di tempo. Cos’era, in fondo, il tempo per chi l’aveva creato?), chinandosi di continuo, piegandosi, per evitare sporgenze o improvvisi abbassamenti del soffitto, addirittura strisciando sul pavimento, quasi temendo di soffocare e venire fagocitati da quell’ammasso di pietra nera che sembrava un organismo vivente, plasmato da Caos stesso.

 

Come potesse non avere ancora percepito la loro presenza, Iro di Orione non seppe spiegarselo, anche se, a giudicare dagli scossoni del suolo e dal continuo esplodere di cosmi alle sue spalle, pensò fosse questione di tempo, quei pochi istanti che l’attacco congiunto alle mura sarebbe durato.

 

Ma finché dura… Mormorò, continuando ad avanzare.

 

Ricordando le indicazioni del soldato egizio, Nesso li aveva condotti a un lato delle mura, approfittando della mischia scatenatasi di fronte alla Porta delle Tenebre e del Talismano di Demetra, che permetteva loro di muoversi senza essere adocchiati, mescolandosi, quasi entrando in simbiosi, con la natura stessa del luogo in cui si trovavano. Un gioco di specchi, lo aveva definito Iro, quando l’Eridano gliene aveva spiegato il funzionamento, sufficiente appena per farci entrare. E poi?

 

A quella domanda nessuno dei tre aveva saputo rispondere.

 

Era abbastanza chiaro, a Zeus come a loro, che nessuno sarebbe uscito. In ogni caso, morire per morire, tanto valeva tentare. Aveva trascorso secoli a nascondersi tra le montagne, mera rappresentazione del senso di colpa e del disgusto che spesso, dopo aver abbandonato Eracle, l’aveva invaso. Adesso aveva l’opportunità di dimostrargli che non si era sbagliato quando lo aveva nominato Comandante della Primissima Legione di Heroes. La Legione Leggendaria.

 

“Ci siamo…” –Mormorò Nesso, che apriva la fila.

 

Giovane e snello, i suoi sensi acuti erano affinati al punto da permettergli di udire il benché minimo movimento a miglia di distanza, complice il vento, suo buon amico, che il ragazzo sapeva ascoltare. Sebbene, più che di vento, il Primo Santuario fosse pregno di una fetida aria, opprimente come la sua conformazione.

 

Spingendo con forza, il Pesce Soldato fece cadere un mattone all’esterno, affacciandosi poi cauto in quella che sembrò loro una piccola corte, poco a sud-est rispetto alla Porta delle Tenebre. Uno dopo l’altro, i tre compagni sgusciarono fuori dal passaggio, riposizionando il mattone (che a Iro sembrò semplicemente una grossa pietra grezza!), sfrecciando attraverso il piccolo cortile che li separava dalla costruzione di fronte a loro. Definire dove si trovassero era improponibile, non avendo, nessuno, idea alcuna sulla struttura interna del Santuario delle Origini, che pareva modificarsi di continuo.

 

“Come troveremo Demetra?” –Bisbigliò infine Iro.

 

“Il Talismano ci aiuterà. In sua presenza si illuminerà.” –Chiarì l’Eridano.

 

“Grandioso. Accenderemo un falò nella fortezza nemica.”

 

Nesso, pochi passi avanti a loro, li intimò di fare silenzio e si schiacciò contro il muro, subito imitato dai compagni. Un attimo dopo sette creature demoniache passarono loro di fronte, marciando compatte lungo il corridoio. Alti come uomini adulti, avevano i piedi di volatili e la testa di leone, con la criniera che, lungo la schiena, diveniva una folta peluria.

 

“Utukku.” –Disse il Cavaliere Celeste, dopo che se ne furono andati. E ringraziò l’assenza di correnti d’aria in quel luogo.

 

“Da questa parte.” –Li chiamò Nesso. –“Sembra che il Talismano abbia individuato Demetra!”

 

Avanzarono per corridoi contorti, che sembravano non avere logica, passarono per sale di dimensioni diverse, quasi tutte con poche finestre, alte per lo più, fino a ritrovarsi in una stanza più grande delle altre che, giudicarono, doveva essere il cuore del Primo Santuario. Là, la luce del Talismano brillava intensa, al punto che, temettero, qualcuno l’avrebbe notata.

 

“Ehi, voi!” –Sentirono infatti urlare, immobilizzandosi sul posto.

 

Si voltarono nello stesso momento, mentre un giovane atletico, dai mossi capelli biondi, avanzava a passo spedito nella loro direzione, rivestito da una corazza verde e marrone. Il coprispalla a testa di capra e la lunga coda serpentiforme permisero loro di capire chi fosse, preparandosi al qual tempo alla battaglia. Ma il giovane non li considerò affatto, passando in mezzo ai tre e inveendo contro un gruppo di donne di varia età che si stava allenando in un angolo in ombra del salone.

 

“Maledette volpi nere, perché non siete ancora scese in battaglia? Non avevate seguito Nyx alla Porta della Notte? Vi siete già tirate indietro?”

 

“È stata la Signora a ordinarcelo. I Pitua, le Malebranche e i Lestrigoni infestano il campo di battaglia, in quanto a noi Nyx ha preferito che aspettassimo all’interno delle mura, come ultima difesa. Non che vi sia il rischio che qualcuno possa entrare, adesso che lei sta combattendo.”

 

“Combattendo? La Notte non combatte. La Notte miete soltanto vittime.” –Ridacchiò Chimera. –“Per cui fuori di qui! L’Unico ha richiesto la presenza di tutte le forze in campo!” –E si allontanò, assieme alle dodici donne.

 

“Ritiro quel che ho pensato su quel ninnolo. Funziona realmente!” –Esclamò infine Iro, rilassando i muscoli in tensione.

 

“E brilla come non l’ho mai visto brillare per prima.” –Disse l’Eridano, guardandosi attorno sorpreso e sospettoso. –“Non capisco. Dove dovrebbe trovarsi Demetra? Forse in una delle stanze attigue? Non riesco neppure a percepirla tanto soverchiante è l’oscurità che impregna questo luogo.”

 

Fu in quel momento che il suolo tremò, e i tre incursori credettero che Zeus e le forze dell’Alleanza stessero attaccando di nuovo. Ma quando il sisma aumentò d’intensità, distruggendo le rozze pietre del pavimento e aprendo faglie sotto i loro piedi, capirono che ben più perigliose forze erano in movimento.

 

Iro scattò subito verso l’uscita più vicina, seguito da Nikolaos, mentre Nesso puntò un arpione verso il muro, conficcandocelo e lasciandosi trascinare in alto. Ma il muro si sbriciolò assieme al pavimento, precipitando gli Heroes e il Cavaliere Celeste in sotterranei ancora più oscuri, in una nube di detriti, polvere e senso di pericolo.

 

Per prima cosa percepirono una risata profonda, quasi ovattata, come un suono prigioniero di una gabbia, destinato a crescere in un’eco infinita fino a distruggere la gabbia stessa in una devastazione sonora.

 

“Non fatevi problemi! Usate pure il cosmo per liberarvi da quei detriti!” –Esclamò una voce. –“Tanto Caos sa benissimo che siete qua dentro.”

 

Dopo quelle parole, l’ammasso confuso di pietre andò in frantumi, permettendo ai tre compagni di rimettersi in piedi e rendersi conto della trappola in cui erano precipitati.

 

Letteralmente.

 

Per essere un sotterraneo vi era anche troppa luce, che proveniva da un’enorme fornace accesa, sul finale dello stanzone, sulle cui braci era posizionato un pentolone ribollente di putrida schiuma nera. Di fronte ad esso, quasi stesse controllando i tempi di cottura, sedeva un uomo, o tale parve loro, poiché altro non era se non una sagoma anonima rivestita da un’integrale corazza nera. Persino l’elmo, triangolare, sembrava murato al pettorale e ai coprispalla, al punto che, non l’avessero visto alzarsi e muoversi, avrebbero potuto scambiarlo per un blocco di roccia.

 

“Ci incontriamo di nuovo, Eridano!” –Parlò l’uomo dalla voce resa cavernosa dall’elmo. –“A quanto pare, è destino che tu muoia per mia mano! Ahr ahr ahr!”

 

“Questa voce… non è possibile… Anhar?!”

 

“Gran Maestro del Caos, per la precisione. Ma per questa volta non baderò ai titoli. Non è il caso di essere puntigliosi con i morenti.”

 

“Dunque sei tu, l’Angelo Caduto che ha tradito i suoi fratelli, scegliendo il caos all’ordine. Avevo sentito dire che i Cavalieri di Atena ti avevano sconfitto. Lieto che non sia così!” –Commentò Iro, sbattendo il pugno destro nel palmo dell’altra mano e muovendo un passo avanti, mentre già il suo cosmo violetto lo avvolgeva.

 

“Orione! Aspetta!” –Lo afferrò Nikolaos, prima di tornare a rivolgersi ad Anhar. –“Sapevi che stavamo arrivando?”

 

“È naturale! Avete idea di chi siete venuti a sfidare? Il Generatore di Mondi! Davvero pensavate che quel ridicolo amuleto bastasse a proteggervi? Ho percepito il vostro tanfo non appena avete messo piede nella fortezza e vi ho invitato a venirmi a trovare. Perché è lei che stavate cercando, non è così?” –Esclamò l’Angelo Oscuro, accostandosi a un tavolo di pietra su cui un esile corpo giaceva rannicchiato.

 

“Demetra?!” –Mormorò Nikolaos, cercando di riconoscere, in quella figura minuta, raggomitolata in posizione fetale, la splendida e generosa Dea che aveva sempre aiutato la natura e coloro che la proteggevano.

 

“Già, già. Proprio la Contadina.” –Sghignazzò Anhar.

 

“È viva?” –Chiese allora Nesso. –“Non riesco a percepire il suo battito.”

 

“Non è morta, mettiamola in questi termini. Il mio Signore è stato molto generoso. Chissà, forse perché era una donna o forse per ringraziarla per aver cercato di conservare il pianeta che egli stesso creò all’alba dei tempi?”

 

“Che cosa le avete fatto? Anhar, sei un mostro!”

 

“Argina la bile, fiumiciattolo celeste. Caos si è semplicemente nutrito di lei, come di tutte le Divinità catturate ed estirpate in questi giorni, ma ha voluto lasciarle qualche goccia di cosmo, affinché Zeus la percepisse e venisse a liberarla. Per la verità, speravo che venissero gli Olimpi, i capi di questa ridicola rivolta che avete messo su, sì da finirla in fretta. Con voi, ahimè, non sarà la stessa cosa. Sarà veloce, sarà una strage, e sarà anche divertente, non per voi ovviamente.” –Ghignò, mentre i tre compagni sollevavano le braccia, ponendosi in posizione d’attacco. –“Uccideteli tutti!” –Sibilò, dando loro le spalle.

 

In quel momento una ventina di figure comparvero ai bordi della fossa in cui erano precipitati, gettandosi dentro tra grida sguaiate e divertite. Quando atterrarono, tra le rovine della sala, qualcuna era in forma di donna, armata di lancia o spada, altre invece erano mutate in grosse vacche corazzate, con le gualdrappe nere e le corna affilate, desiderose di intingerle in un cuore umano.

 

“Le Empuse!” –Commentò Nesso, radunando il cosmo attorno al pugno destro.

 

“Ci conoscete? Quale onore!” –Ridacchiò una vacca, scattando avanti. –“Noi invece no e smaniamo dalla voglia di conoscervi da vicino. Da molto vicino.” –Aggiunse, mirando al petto del ragazzo.

 

Frecce del Mare!” –Gridò il fedele di Eracle, dirigendo gli strali luminosi verso i punti lasciati scoperti dalla corazza, ma la corsa dell’Empusa non accennò a diminuire e, un attimo dopo, Nesso si ritrovò le corna di fronte, costretto ad afferrarle e venendo spinto indietro, col muro alle sue spalle, su cui si appoggiò con i piedi, facendo forza per resistere.

 

“Non servirà. Ben più robusti avversari abbiamo massacrato, ragazzo!” –Rise la vacca, cercando di sollevare il muso e addentarlo. Ma venne afferrata per la coda e sradicata da terra da Iro, che la roteò in aria per qualche istante prima di scaraventarla addosso alle compagne in arrivo, che la infilzarono. E divorarono.

 

“Quale coincidenza! Lo stesso vale per me!” –Esclamò il Primo Comandante, lasciando che le Empuse si avvicinassero ancora un po’, mentre tutto attorno a sé risplendeva la costellazione di Orione.

 

Una dopo l’altra, le grosse vacche si schiantarono su un’invisibile protezione a sua difesa, che le loro corna, zanne e zoccoli non riuscirono a penetrare, per quanto smaniassero, scalciassero e si azzuffassero l’una sull’altra. Stirando le labbra in un ghigno soddisfatto, Iro liberò il suo colpo segreto, facendo strage di tutte loro. Si voltò verso l’Eridano e il Pesce Soldato che, fianco a fianco, stavano cercando di arginare la carica delle Empuse, poi verso Anhar, che si era appena messo in spalla la Dea delle Messi, avviandosi verso la fornace.

 

“La missione!” –Gridò il Luogotenente dell’Olimpo. –“Salva Demetra!”

 

Iro annuì, scattando dietro all’Angelo Oscuro, che si voltò, immobilizzandolo sul posto con un cenno impercettibile della mano, prima di riprendere ad avanzare, incurante della frenesia con cui il guerriero stava tentando di liberarsi.

 

“Pensi che basti dirmi di stare a cuccia per fermarmi? Non sono uno degli schiavetti docili di cui ti sei servito per anni! Io sono Orione. Io sono il Cacciatore Leggendario!” –Esclamò, mentre il cosmo violaceo avvampava attorno a sé, fino a schiantare la gabbia mentale di Anhar. –“E questo è il mio richiamo di caccia! Tuono del Cacciatore!” –Gridò, scatenando il colpo segreto appreso da Eracle.

 

Il Gran Maestro del Caos non se ne curò troppo, contrastandolo con un’ondata di cosmo nero su cui l’attacco impattò, rimanendo in equilibrio per qualche istante. Una posizione sfiancante e precaria, per Iro, quanto divertita per Anhar.

 

Ma quando vide che l’assalto non accennava a scemare d’intensità, l’Angelo Oscuro mugugnò qualcosa, lasciando cadere Demetra a terra e portando anche il secondo braccio avanti, evocando le ombre di cui era signore, maestro e ormai fratello. Subito una torva di tetre evanescenze fluttuarono in aria, avvoltolandosi attorno alla massa di energia e premendo per destabilizzarla, mentre altre si strusciavano sul corpo di Iro, facendo vibrare la corazza degli Eroi, annerendola, cercando di smuoverlo da quell’algida posizione, pur senza riuscire a raggiungere la sua pelle.

 

“Uhm…” –Anhar bofonchiò infastidito, mentre tre stelle bianche si accesero sul ventre del fedele di Eracle, generando un’esplosione di luce che dilaniò le ombre attorno, prendendo lo stesso Angelo di sorpresa, costretto a spostare lo sguardo tanto intenso era quel bagliore. Di quella frazione di secondo approfittò il Primo Comandante, liberando una seconda ondata del proprio canto di caccia, che smosse la massa di energia, in direzione di Anhar, costretto infine a prendere sul serio quel combattimento.

 

“Nesso! L’arpione!” –Gridò Iro, distraendo il Pesce Soldato che, sulle prime, non capì cosa intendesse. Poi vide il corpo di Demetra disteso a terra, e l’attenzione di ciascun contendente rivolta all’altro, così prese la sua decisione, mentre Nikolaos si occupava di tenere le Empuse a distanza. Prese la mira e scagliò l’arpione, che si arrotolò attorno a una gamba ossuta della Dea, prima di ritirare il cavo, e il corpo ad esso attaccato.

 

“Portatela fuori! Mi occuperò io di Anhar e del suo pentolone di ombre!” –Esclamò Iro, mentre Nesso si caricava Demetra su una spalla, sorpreso di sentirla leggera come un mucchio di stracci.

 

“Stai scherzando?”

 

“Ho smesso di scherzare molto tempo addietro! La missione prima di tutto! Per questo siamo qui!” –Concluse il Primo Comandante, portando il cosmo al parossismo. Sollevò le braccia al cielo, dirigendo in alto la massa di energia violacea e tutte le ombre annesse e connesse, abbattendo quel che restava del soffitto e delle mura attorno.

 

Nesso sfrecciò nella pioggia di detriti e rocce nere, cercando di evitarle e di evitare al qual tempo le Empuse spaventate e imbizzarrite che correvano in ogni direzione, accalorandosi, arrampicandosi e accatastandosi l’una sull’altra per non essere sommerse. Nikolaos le travolse con un gorgo di energia acquatica, prima di raggiungere il compagno e fiondarsi sotto un’arcata di pietra, accucciandosi per proteggere Demetra.

 

Quando il crollo terminò, l’Eridano aiutò Nesso a uscire dalle macerie e assieme si arrampicarono, con la Dea sempre in spalla, fino a ritrovarsi in una sala attigua a quella in cui avevano incrociato Chimera. Di Orione e di Anhar nessuna traccia, ma dal pavimento parevano sollevarsi sbuffi di fumo nero e rovente.

 

Per un interminabile secondo nessuno parlò, finché Nesso non si avviò verso l’esterno.

 

“Ehi! Non possiamo andarcene così… Iro… lui…” –Lo richiamò Nikolaos.

 

“La missione prima di tutto.” –Commentò l’altro, senza voltarsi. –“Inoltre, il Cacciatore possiede un’arma che potrebbe impensierire persino Anhar. Un’arma deicida.”

 

Sospirando, Nikolaos annuì.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo quattordicesimo: Secondo interludio. Aria. ***


CAPITOLO QUATTORDICESIMO: SECONDO INTERLUDIO: ARIA.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Ventesimo anno prima del Secondo Avvento.

 

Anche per quel giorno la lunga fila dei postulanti era stata smaltita e il Principe della Valle di Cristallo poté raggiungere i suoi alloggiamenti privati, togliersi la pesante cappa di pelliccia e prepararsi per un bagno caldo. Ore e ore seduto su quel trono di ghiaccio, ad ascoltare le più svariate suppliche del suo popolo, gli avevano fatto intorpidire le membra e adesso desiderava soltanto…

 

Un colpetto alla porta lo distrasse, mentre terminava di slacciarsi la camicia. Prima ancora che potesse chiedere chi fosse, la porta si aprì e l’esile sagoma di Natassia entrò, reggendo un mucchio di asciugamani caldi.

 

“Perdonatemi, mio Signore. Immagino che sarete stanco dopo tutte quelle chiacchiere.”

 

“Non sono mai stanco di ascoltare il mio popolo.”

 

“Questo lo so!” –Mormorò, abbassando gli occhi. –“Quello che volevo dire è che magari avreste bisogno di un massaggio, di qualcuno che si prenda cura della vostra schiena. Vi ho mai detto che mia madre era un’erborista? Conosceva tutte le erbe e i loro usi medicamentosi. Oh ma non era una strega, sia chiaro!”

 

“Non lo penserei mai!” –Sorrise Alexer. –“Difficilmente una strega avrebbe partorito una così leggiadra creatura.” –Aggiunse, suscitando un rossore improvviso sulle guance della domestica. –“Narrano gli scaldi di nascite miracolose di cui il Grande Ingannatore si sarebbe reso protagonista. Lupi, Serpi del Mondo, persino un cavallo a otto zampe avrebbe generato. Ma nemmeno Balder lo Splendente sarebbe riuscito a mettere al mondo così tanta bellezza, riunendola in una sola aggraziata figura.”

 

“Mio Signore… Voi mi confondete.”

 

“Perdona le mie parole, Natassia. Come hai detto, sono molto stanco. Gradirei riposare, adesso. Scenderò per la cena.” –Commentò Alexer, voltandosi e lasciando la fanciulla, a mani giunte, in imbarazzata attesa.

 

“Come desiderate. Darò ordini ai cuochi di preparare la zuppa che vi piace tanto. Con permesso.” –Sollevò a malapena la gonna e se andò, lasciando il Principe della Valle di Cristallo da solo.

 

Principe… Mormorò, chiedendosi quanto ridicolo, a volte, gli sembrava quell’epiteto. Principe di cosa? E per volere di chi? Essere un principe dovrebbe voler dire poter fare tutto quel che uno vuole, invece quello che faccio, da secoli, è aspettare. E se i tempi stessero cambiando? Se potessi infine prendere quel che mi guarda e sorride, a pochi passi di distanza? Sarebbe una violazione delle regole?

 

Infastidito da pensieri che non gli appartenevano, Alexer terminò di spogliarsi, prima di entrare nella grande vasca piena d’acqua calda, che Natassia aveva diligentemente riempito. Doveva ammetterlo, da quando quella ragazza era arrivata, la vita in quel castello tra i ghiacci gli era parsa più piacevole.

 

“Una piacevole distrazione.” –Gli aveva detto un giorno il maniscalco, strappandogli una risata e dicendo quel che tutti pensavano. Con quella chioma bionda e gli occhi verdi, con il sorriso caldo che non mancava di riservare a chiunque la salutasse, Natassia aveva davvero portato un po’ di sole nella gelida valle.

 

“Al tuo posto non mi affezionerei troppo!” –Esclamò allora una voce, facendo sobbalzare Alexer dal torpore in cui stava sprofondando. Sollevò la testa dalla nube di sapone e guardò verso la porta che dava sulla terrazza a settentrione, da cui era solito ammirare il panorama fino alla cittadella di Asgard. Là, tra le tende che a malapena si mossero, una figura ammantata era appena apparsa. Come avesse aperto la porta, senza farsi udire, e come avesse fatto ad apparire sulla più alta terrazza del castello senza farsi individuare dalle guardie gli fu chiaro solo quando si avvicinò, lasciando che la luce del caminetto rivelasse per un momento il suo volto austero.

 

Anche se erano passati anni dal loro ultimo incontro, Avalon non era cambiato.

 

Avalon, del resto, non cambiava mai.

 

“Fratello!” –Mormorò, accennando ad alzarsi, ma l’altro lo pregò di rimanere nella vasca.

 

“Goditi il tuo bagno caldo, Alexer, il tepore di momenti che presto verranno meno. Mi tratterrò per poco. Ben più lontano luogo richiede la mia attenzione. Pur tuttavia, poiché di rado abbandono l’Isola Sacra, ho ritenuto doveroso portarti i miei saluti, soprattutto adesso.”

 

“Adesso?!”

 

“Adesso che l’ombra è prossima al risveglio e, presto, lambirà anche le bianche distese di Asgard. O Midgard, come la chiamarono i primi uomini.”

 

“Dunque ci siamo? I Progenitori stanno per risvegliarsi.” –Rifletté cupo Alexer, pensando d’improvviso ai suoi sudditi, a quel popolo rude ma generoso che aveva sopportato i lupi, il freddo, la scarsità di cibo. Avrebbe retto a un’invasione? Un’invasione scatenata dagli Dei Antichi?

 

“Ho avvertito qualcosa.” –Confessò Avalon, passeggiando attorno alla grande vasca. –“Una vibrazione. Minima, quasi impercettibile. Come se un seme d’ombra fosse stato piantato nelle catene montuose del Pindo.”

 

“In Grecia? È là che stai andando?”

 

“No! Ho mandato il mio discepolo a controllare. Pare che gruppi di giganti si dilettino ad assaltare villaggi e viandanti, un problema che Micene ha portato all’attenzione del Grande Sacerdote di Atena. Saranno loro a occuparsene. Io sto andando in America a prendere uno dei Sette.”

 

“Uno dei Sette? L’hai trovato quindi?”

 

“Non sono io a trovarli, Alexer, ma loro stessi a rivelarsi, quando il mondo ne ha bisogno.”

 

“Il secondo in due soli anni.” –Mormorò il Principe, trovando Avalon concorde. –“Il terzo, con Reis. Hai ragione, l’ora del Secondo Avvento si sta avvicinando.”

 

“Per questo dobbiamo essere pronti. Nel corpo e nell’anima. Niente deve distrarci dal compito supremo per cui siamo nati e vissuti.”

 

“Naturalmente.” –Annuì subito Alexer. Quindi, notando che Avalon non aveva risposto, si voltò e vide che lo stava fissando, con i suoi magnetici occhi argentati che luccicavano pur nell’ombra del cappuccio. –“Qualcosa ti turba?”

 

“Molte cose mi turbano. La paura del fallimento, per prima. Abbiamo aspettato tanto. Quanto? Neppure lo ricordo. Neppure ricordo cosa vi fosse nella vita prima del tempo, prima che la nostra coscienza si formasse e venissimo al mondo come Angeli. Tu sai come siamo nati, fratello?” –A quelle parole, l’Arconte d’Aria scosse la testa, stranito. –“Io sì e temo di essere l’unico a ricordarlo. L’unico a ricordare il suo volto. Comunque, non con storie di famiglia voglio tediarti, solo rammentarti chi siamo e quel che siamo destinati a compiere. Noi siamo l’inizio e la fine, Alexer. Noi siamo l’Alfa e l’Omega. Abbiamo aperto e chiuderemo quest’era del tempo cosmico.”

 

“Sono consapevole della nostra missione, fratello, e sai che potrai sempre contare su di me. Per qualunque richiesta.”

 

“Ne sono certo.” –Esclamò Avalon, in quello che ad Alexer parve un sorriso tirato. –“Dei Cinque, sei colui che non mi ha mai deluso, che è sempre rimasto al mio fianco, solido come la pietra più antica che neppure secoli di intemperie hanno scalfito. Anhar mi ha tradito e Asterios se ne è andato sulla Luna. Sì, protegge il Talismano che là è celato, ma è davvero per quello che ha lasciato la Terra? A volte penso che niente gli interessi se non suonare la sua cetra in pace, cantando un tempo mitico che non ha mai vissuto. La nostalgia del tempo prima del tempo è molto forte in lui. A volte temo che vi sia troppo ancorato e dimentichi che, come Angeli, noi siamo al di sopra di tutto ciò che ci lega a un qui e ora.”

 

“E Andrei? Lui ti è fedele. Brama, arde direi, all’idea di combattere!”

 

“Conosco bene il suo valore guerriero e la sua fedeltà non è in dubbio, come non lo è la tua o quella di Asterios. Pur tuttavia vivere tra gli uomini, con gli uomini, può avvicinare alcuni di noi al loro lato più possessivo.” –Spiegò infine Avalon, accostandosi alla vasca e sfiorando la mano del fratello. Bastò quel contatto per guardargli dentro e trovare conferma ai suoi timori.

 

Alexer avrebbe voluto dire qualcosa ma seppe di non avere niente da dire, incapace di spiegare sentimenti che non aveva mai creduto di poter provare. Incapace di spiegarli a qualcuno che non li avrebbe mai compresi. Temette, per un momento, che Avalon lo folgorasse con lo sguardo, e forse anche con una scarica di energia, ma questi si limitò a voltargli le spalle, sospirando.

 

“Non affezionarti a lei.” –Disse, avviandosi verso la terrazza. –“L’affetto conduce alla possessione, all’attaccamento materiale di cui gli uomini sono schiavi. Noi siamo Angeli, noi siamo oltre tutto questo. Persino oltre questo mondo che è solo la nostra dimora temporanea. Un giorno, quando rinasceremo per una nuova missione, ne avremo perso perfino il ricordo.”

 

“Eppure Andrei si è unito a una donna, e anche Asterios. Perché io non dovrei?”

 

“Asterios non ha avuto una donna. Ne ha avute molte, se vuoi saperlo. Ma non erano donne, erano le colonne portanti dell’Avaiki dove i discendenti di Antalya trovarono riparo. A nient’altro è servita la loro esistenza se non al mantenimento di quell’equilibrio. Non figlie, ma mezzi per raggiungere uno scopo. In quanto ad Andrei, l’ho sgridato all’inizio, ma poi, per ironia, quel bambino si è rivelato uno dei Sette. In che modo bizzarro opera il destino!” –Disse Avalon. –“In un modo che difficilmente si ripete.” –Aprì la porta e se ne andò, lasciando Alexer ai suoi pensieri, con un’ultima frase che gli rimbombava nella mente.

 

“Siamo Angeli. Possediamo il mondo, ma in realtà non possediamo niente.”

 

Era vero.

 

L’Arconte d’Aria l’aveva sempre saputo sebbene solo in quei giorni avesse iniziato a pesargli. Ma era ancora in tempo per impedire che accadesse.

 

Uscì dalla vasca, si asciugò e indossò i suoi abiti da viaggio. Quando discese nel salone del castello, avvolto nel suo mantello di pelliccia, nessuno dei servitori fece domande, apprestandosi a tenere in caldo la cena. Non gli servì neanche un cavallo, gli bastò fissare un punto imprecisato a nord, chiudere gli occhi e scomparire.

 

Quando riapparve era di fronte al Cancello dei Grifoni.

 

***

 

“A cosa devo l’onore di questa visita, Principe Alexer?” –Esordì il Celebrante di Odino, non appena l’uomo ebbe varcato la soglia della grande sala. Gli andò incontro, inchinandosi al suo cospetto. –“Inaspettata ma di certo gradita. Posso offrirvi qualcosa? Abbiamo dell’ottima birra…”

 

“Sto bene così, ma vi ringrazio, Altan. So bene che la vostra ospitalità è a dir poco squisita e sarò lieto di approfittarne in futuro. Ma sono qui per un altro motivo.” –Disse l’Arconte d’Aria, avvicinandosi all’uomo, che prontamente si alzò, scrutandolo interessato. A bassa voce, Alexer proseguì. –“Il passaggio. Vorrei che me lo indicaste.”

 

“Il… passaggio?!”

 

Alexer annuì, fissando il sacerdote con profondi occhi azzurri che mai come in quel momento sembravano freddi come la neve.

 

“Mi è proibito farne menzione… sapete bene che nessuno può raggiungere la reggia di Odino se non è lui stesso a convocarlo.”

 

“Non al Valhalla sono diretto. Ma dalle risposte che troverò ad Asgard potrebbe dipendere la sorte di questo mondo e di tutti gli altri.”

 

Altan di Polaris rimase un attimo pensieroso, strusciandosi la folta barba, prima di annuire, dando voce alle guardie rimaste sulla soglia. –“Fate chiamare Daeron!” –Quindi, voltandosi verso Alexer, lo invitò a seguirlo fino al trono. –“A nessun uomo è mai stato concesso un onore simile ma voi mi avete aiutato spesso, Principe. Ogni volta in cui Midgard ha avuto bisogno. Ci avete mandato cibo, sebbene, ben lo sappia, neppure la vostra valle ne immagazzini tanto, ci avete difeso dalle orride creature della Foresta di Ferro, e ci avete sostenuto nella guerra contro Isung. Guerra che avete, con la massima diplomazia possibile, tentato di scongiurare fino alla fine. Nessuno ha mai fatto tanto per queste terre dimenticate dagli Dei.”

 

“Non ditelo! Odino ascolta. Gli Dei ascoltano. Sono solo troppo preoccupati per ricordarsi di rispondere.”

 

“Preoccupati da cosa?” –Mormorò Altan, trattenendo a stento una risata.

 

“Dalla fine di tutte le cose.”

 

L’arrivo frettoloso di un ragazzo in armatura blu tolse il sacerdote da quello scomodo silenzio, mentre, alle sue spalle, una bambina dai lunghi capelli argentati, in vestaglia da notte, si affacciava incuriosita.

 

“Oh Daeron, eccoti! Grazie per essere arrivato così celermente e… Ilda? Ma cosa fai qua? Dovresti essere nelle tue stanze! Se tua madre ti scopre in giro per il castello… e scalza per di più!” –Esclamò il celebrante, andando incontro alla bambina e chinandosi per prenderla in braccio, mentre lei gli si aggrappava forte.

 

“La mamma è malata. Continua a tossire. I cerusici dicono…”

 

“Lascia stare quello che dicono quei portascalogna. Tua madre starà bene, vedrai. E quando l’inverno passerà, ti porterà a giro per la Valle di Cristallo. Vuoi vedere la Valle di Cristallo, Ilda? È bellissima. Il Principe Alexer te lo può confermare.”

 

L’Arconte d’Aria rimase in silenzio per qualche secondo, ricambiando lo sguardo incuriosito della bambina. Quindi, stringendosi nel manto di pelliccia, si limitò a poche parole.

 

“L’inverno non passerà. È appena iniziato.” –E si avviò fuori dal palazzo di Asgard, subito seguito dal ragazzo convocato dal sacerdote.

 

“Mio Signore, siete certo di voler scalare la Montagna Sacra? È buio ormai. Non sarebbe prudente aspettare l’alba?”

 

“Non sono il tuo signore, né sei legato da alcun giuramento, per cui, se non vuoi seguirmi, sei libero di restare. Io devo andare o questa Terra rischia di non vedere un’altra alba.”

 

La determinazione negli occhi di Alexer spinse il ragazzo a non porre ulteriori domande. Si strinse nel mantello a sua volta, tappandosi la gola con una sciarpa, e fece strada, inoltrandosi lungo il sentiero che si inerpicava nel cuore della montagna alle spalle della cittadella, proprio a picco sul mare. A volte, le nebbie che la circondavano erano così fitte che gli abitanti di Asgard non riuscivano a vederne la cima e, forse, dicevano, era la volontà di Odino, che non voleva farsi notare dai mortali, lui che li osservava dalle dimore nel cielo. Quei pochi, arditi, curiosi e stolti, che avevano tentato di raggiungerle, si erano smarriti tra le nevi eterne o erano rimasti vittima di valanghe improvvise o precipitati in celati crepacci noti come le Tombe dei Viandanti.

 

Alexer ne era al corrente ma si augurò che, almeno per quella notte, gli Asi lo risparmiassero. In fondo, era anche nel loro interesse contrastare l’ombra.

 

“Sei silenzioso!” –Disse al ragazzo, mentre salivano di quota.

 

“Non volevo turbare i vostri pensieri, mio Signore. Inoltre, in posti come questi, è meglio non parlare. La montagna potrebbe essere in ascolto.”

 

“Silenzioso e saggio.”

 

“Sono un lupo, mio Signore. Questo è il simbolo della mia armatura. E, come tale, devo controllare il terreno prima di andare a caccia. Eccoci, comunque. Dopo quella curva siamo arrivati. La terrazza che cercate è proprio là dietro.” –Esclamò Daeron, fermandosi e indicando un leggero rilievo avanti a sé. –“Con tutto il rispetto, io mi fermo qua.”

 

“Hai fatto anche troppo per me, ti ringrazio Daeron del Lupo.” –Gli sorrise Alexer, poggiandogli una mano su una spalla.

 

Fu un attimo, ma sufficiente per riempirgli la mente di sangue, dolore e morte.

 

Barcollò, e sarebbe persino caduto se il Cavaliere di Asgard non lo avesse afferrato.

 

“Principe Alexer? State bene?”

 

L’Arconte annuì, ringraziandolo e invitandolo a tornare alla cittadella. Quindi, senza attendere risposta alcuna, si avviò verso l’ultima tappa, col vento freddo che gli sferzava la faccia, sollevandogli il mantello e spazzandogli i capelli castani.

 

Che diavolo gli era preso alla Vista adesso? Aveva deciso di fargli uno scherzetto? E poi cos’era tutto quel sangue? E quel… quell’orso?! Voltandosi, cercò Daeron con lo sguardo, per chiedergli qualche informazione, ma il ragazzo aveva obbedito all’ordine e si era già avviato verso casa. Qualunque cosa avesse visto, Alexer non seppe se apparteneva al suo passato o al suo futuro. O forse a uno dei tanti futuri possibili, sebbene, con l’ormai prossimo avvento dell’ombra, di futuri ne rimanesse soltanto uno.

 

Superò l’ultima curva e raggiunse la terrazza scavata sul fianco della Montagna Sacra. Sotto, là in basso, il Mar Glaciale Artico rombava maestoso e violente correnti d’aria fredda parevano scontrarsi nel cielo attorno. Nient’affatto intimorito, Alexer concentrò i sensi e chiuse gli occhi, lasciando che il suo cosmo azzurro scivolasse lungo l’intero pendio. Raggiunse Daeron, riscaldando le sue ossa intirizzite dal freddo. Raggiunse Altan, che stava mettendo a letto Ilda, e sua moglie, guarendola dalla tosse cattiva che l’aveva tormentata per giorni. Felice, la donna capì di essere stata miracolata dagli Dei, che le stavano permettendo di portare avanti la seconda gravidanza. Infine raggiunse Natassia, che stava rassettando la cucina del castello, ringraziandola per l’amore che gli aveva dimostrato. Un amore che avrebbe però dovuto rivolgere a qualcun altro.

 

“Oh Heimdall, Guardiano del Ponte Arcobaleno, ti invoco! Concedimi udienza, te ne prego!” –Esclamò, e la sua voce spezzò il silenzio di quei ghiacci eterni, fermando il turbinare dei venti e placando la furia del mare. Per un attimo il tempo sembrò fermarsi e, da qualche parte, forse sulla luna che risplendeva placida all’orizzonte, risuonò la corda di una cetra.

 

Alexer tese l’orecchio ma non udì altro. Lo vide semplicemente comparire, allungandosi verso di lui in un tripudio di colori.

 

Bifrost. Il Ponte Arcobaleno. Al centro del quale stava in piedi il suo Guardiano.

 

“Arconte d’Aria!” –Parlò Heimdall, le braccia incrociate al petto, il corno dorato appeso a un fianco dell’armatura. –“Odino non era al corrente del tuo arrivo o mi avrebbe avvisato.”

 

“Non sono qua per conferire con il Padre delle Schiere, a cui mando comunque i miei omaggi.”

 

“Allora cosa ti porta ad Asgard? Siamo ospitali, certo, ma anche piuttosto riservati. Comprenderai la mia reticenza a farti passare, quando, solo poco tempo addietro, un Arconte tuo pari ha liberato l’Ingannatore dalla prigionia sull’Isola Lyngi, sobillando una rivolta tra città fedeli a Odino.”

 

“Sono al corrente dei danni provocati da Anhar. Per questo sono qui. Per impedire che nuovi debbano compiersi. Ti prego, possente Heimdall, concedimi di entrare e comprendere il mio destino.”

 

“Il tuo destino? Combattere l’ombra non è abbastanza per te, Arconte d’Aria? Ognuno ha la sua missione nel creato, credevo tu conoscessi la tua.”

 

“In questo momento non mi basta più.”

 

Heimdall lo scrutò per qualche istante e Alexer fu certo che stesse ascoltando ogni rumore del suo corpo, decifrandone i segni per comprendere se rappresentasse o meno una minaccia per la città degli Asi. Solo quando si spostò di lato, invitandolo a passare, il Principe tirò un sospiro di sollievo.

 

“Fa’ in fretta!” –Gli disse, quando gli passò davanti. –“Yggdrasill freme. E quando freme…”

 

Alexer annuì, incamminandosi lungo il Ponte Arcobaleno. Non degnò d’uno sguardo i magnifici palazzi di Asgard né la maestosa reggia del Valhalla, ove di certo Odino era riunito, attorniato dai fedeli einherjar, e magari lo stava proprio osservando dall’alto di Hliðskjálf. Erano secoli che non gli faceva visita, da quando l’Ase supremo aveva innalzato quel mondo sopra il mondo, distanziandosi da Midgard. Avalon aveva cercato di farlo desistere, invitandolo a mantenere i contatti con gli uomini, a dare loro un motivo per credere ancora.

 

“Perché dovrei farlo? Non vedi come sono?” –Aveva bofonchiato il Padre di Tutti. –“Falsi, bugiardi, spergiuri. Ladri, violenti, assassini. Non riescono a far passare giorno senza odiare, ferire o uccidere. Gli uomini non meritano la nostra benevolenza.”

 

“Forse no.” –Aveva risposto il Signore dell’Isola Sacra. –“Ma sono poi così diversi dagli Dei? Non hai anche tu, Signore degli Asi, massacrato i tuoi stessi fratelli per ascendere al Trono degli Spazi? Non hai, perdonami se lo ricordo, guidato gli Asi in una guerra millenaria contro i Vani? Per cosa poi? Per dirimere questioni che, di certo, avete dimenticato dopo tutto quel tempo? Infine, mi risulta che i servigi di un certo Ingannatore siano stati apprezzati, da te come da molti abitanti della tua corte, non è così?”

 

In tutta risposta, Odino aveva sputato ai suoi piedi, rinchiudendosi nel Valhalla e chiudendogli la porta in faccia. Una delle cinquecentoquaranta della fortezza.

 

Concedendosi un sorriso all’impertinenza del fratello, Alexer continuò ad avanzare, circumnavigando la roccaforte e raggiungendo il luogo dove le radici di Yggdrasill si piantavano nel terreno, sprofondando poi verso altri mondi. Là, alla fonte di Udhr, trovò coloro che stava cercando. O forse colei?

 

Si fermò, a pochi passi dalle tre figure, snelle e giovani, che stavano spalmando le radici del Grande Frassino d’argilla, con la stessa cura che una madre dedicherebbe ai suoi figli. Neppure si voltarono quando si avvicinò, continuando metodiche nel loro lavoro, costringendo l’Arconte d’Aria ad osservarle. Solo quando reputarono che avesse aspettato a sufficienza, le Norne si voltarono, ma non dissero alcunché, lasciando che fosse Alexer a parlare.


“Perché avete quest’aspetto?”

 

“La forma è solo un’ombra.” –Disse la prima.

 

“L’ombra è passeggera.” –Le fece eco la seconda.

 

“Tutto, in fondo, passa, ma noi restiamo. Come te, Arconte d’Aria.” –Concluse la terza.

 

A modo loro, gli avevano risposto. E capì perché si fossero presentate in quel modo, con quella treccia di capelli biondi che ricadeva sulla loro schiena, con quei vestiti mal messi, sporchi di sugo e fatica, e quel viso candido, così poche volte baciato dal sole. Non aveva dovuto sforzarsi troppo, Alexer, per ritrovarvi Natassia.

 

“Sappiamo perché sei qui.”

 

“Noi sappiamo tutto.”

 

“Tu, piuttosto, davvero vuoi sapere?”

 

“Io… voglio vedere. Solo una volta. Ma ho bisogno di capire.” –Spiegò il Principe. –“Avalon e Anhar possiedono la Vista. Loro possono vedere. Perché io no? Perché, a volte, ho questi sprazzi di visione, senza riuscire a distinguere se si tratti del passato o del futuro?”

 

“Tu non sei la luce.” –Chiarì la prima figura.

 

“Né l’ombra.”

 

“Tu sei l’aria.”

 

Alexer rimase in attesa che dicessero qualcos’altro, ma dopo qualche secondo le Norne parvero tornare alle loro occupazioni, costringendolo a farsi avanti.

 

“È vero, sono l’aria. E sono sempre stato così. Etereo, freddo, distante dai drammi del mondo. Anche quando i miei fratelli si sono uniti a donne mortali, contravvenendo gli insegnamenti di Avalon, io sono rimasto al mio posto. Ho addestrato una legione di Guerrieri del Ghiaccio, per essere pronto alla guerra. Io sono pronto. Sono il braccio che Avalon ha allungato sul Nord-Europa… eppure…”

 

“Se vuoi vedere, a qualcosa devi rinunciare.” –Parlò una delle Norne.

 

“Odino ha rinunciato al suo occhio, alla Fonte di Mimir, per avere la saggezza.”

 

“Avalon ha rinunciato all’amicizia degli Dei. Tu a cosa sei disposto a rinunciare, Arconte d’Aria?”

 

Stringendo i pugni, Alexer deglutì. Ripensò a Natassia, al suo bel sorriso, a quanto avrebbe voluto chiudersi nel suo castello con lei, amarla e giacere assieme, guardando il sole sorgere e morire, per tutta la vita. Forse Avalon aveva ragione. Forse la loro esistenza sarebbe ricominciata, un giorno, nel tempo che verrà dopo il tempo, ma in quell’epoca aveva una missione e ad essa si sarebbe attenuto.

 

“Rinuncio all’amore.” –Esclamò infine, mentre le Norne si avvicinavano e lo prendevano per mano, trascinandolo avanti. –“Rinuncio a Natassia e al futuro che avremmo potuto avere. Le troverò un marito e la manderò via dalla valle, verso terre meno inospitali. Un marinaio russo, magari, uno di quelli che approdano al porto di Murmansk, che la porti via da queste gelide terre, verso un destino più felice. Ma… questa scelta, servirà a qualcosa? Che frutti darà?”

 

Verdandi, la Norna del Futuro, lo invitò a osservare nelle acque di Urðarbrunnr, dove il volto di un giovane dai capelli biondi era appena apparso. Alle sue spalle, limpida, riluceva la costellazione del Cigno.

 

Alexer annuì, comprendendo le parole di Avalon. Loro erano l’Alfa e l’Omega, ma per arrivare alla fine avevano bisogno di alleati e quel biondino avrebbe potuto portare la speranza agli uomini. Avrebbe soltanto avuto bisogno di essere addestrato, ma di questo il Principe poteva occuparsi.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Ventesimo anno prima del Secondo Avvento.

Fine.

 

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Capitolo 16
*** Capitolo quindicesimo: Vendetta. ***


CAPITOLO QUINDICESIMO: VENDETTA.

 

Dei sette Cavalieri delle Stelle, Matthew era quello che maggiormente si trovava a suo agio in quella mischia. Avendo ricevuto l’investitura da poco, al termine di un lungo e burrascoso periodo di addestramento, minato da ripensamenti e accuse verso se stesso, aveva avuto modo di affrontare solo pochi avversari, tutti dichiaratamente ostili: Flegias, quando ancora si serviva dell’identità del figlio di Ares, le Makhai e infine Nyx; per cui non conosceva la quasi totalità delle ombre che lo circondavano.

 

Per lui erano ombre e basta. E forse era uno dei pochi ad avere quel privilegio.

 

Aveva visto, poc’anzi, il possente Squalo Bianco tentennare di fronte ad alcuni avversari, a uno in particolare, un guerriero alto e snello con una lancia di energia in mano, che quasi gliel’aveva piantata nel petto. E anche Pegasus, il Primo Cavaliere di Atena, che non aveva esitato a fronteggiare gli Dei, incurante del peccato di hybris, avrebbe volentieri frenato il pugno se fosse esistita un’altra soluzione, una qualsiasi, per non dover combattere, e uccidere, i compagni d’arme di un tempo.

 

Ma soluzioni, per adesso, non ve ne erano. Potevano solo continuare a menar pugni, e in quello Matthew non se la cavava male. Con quell’ampia scelta di avversari, poteva concedersi il lusso di sparare nel mucchio, dirigendo i raggi del suo arcobaleno in ogni direzione, senza pensare chi fossero (state) quelle oscure marionette. Triste, ma pratico. Si disse, evitando che due dischi affilati gli mozzassero la testa, prima di contrattaccare con un diretto dal basso, su quella che, in un uomo, avrebbe dovuto essere la mandibola, ma che, in quel caso, non produsse schiocco alcuno. Solo un disperdersi di vapore nero.

 

Cacciando via dubbi e disgusto, il Cavaliere di Avalon sfiorò il cristallo giallo sulla sua cintura, liberando un fascio di luce che dilaniò l’avversario, e quelli dietro di lui.

 

Una parte di sé avrebbe voluto sapere chi fossero quei guerrieri. Quando la Porta della Notte si era aperta, Reis aveva detto che si trattava dei caduti nelle Guerre Sacre di tutti i tempi, per cui dovevano appartenere a ogni ordine gli Dei avessero istituito per difendere i loro santuari. Di certo erano stati grandi eroi, cantati dai loro discendenti e onorati con statue, poemi o tombe sontuose. Qualche donna aveva dato nome ai figli pensando a loro e questi erano cresciuti con l’idea, la speranza, persino l’ambizione, di divenire come i paladini a cui tutto dovevano, anche la vita stessa.

 

A lui non era capitato così. Suo padre era figlio di un pescatore e lui avrebbe dovuto seguire il mestiere di famiglia, non fosse stato troppo sfaticato persino per quello; così, dopo la morte della madre, era scappato di casa, ritrovandosi ad Atene a inseguire sogni di gloria, svaniti quando la guerra tra la Grecia e l’Egitto era scoppiata e l’uomo che gli aveva fatto da mentore era divenuto un traditore, un assassino e il nuovo Sacerdote. Era dunque quello il volere degli Dei?

 

Ricordava di averlo pensato il giorno in cui aveva abbandonato il Grande Tempio, un dubbio che, a distanza di anni, non si era ancora fugato. Del resto, era proprio contro i genitori di tutti gli Dei che stavano combattendo.

 

La lancia di un guerriero nero lo colpì di striscio sul braccio destro, riportandolo nella mischia, prima che la gliela strappasse di mano e la usasse per colpirlo. Una volta, due, al terzo affondo il nemico esplose e la nera evanescenza svanì.

 

Ecco come finiscono gli eroi cantati dai poemi! Rifletté, trovando poca soddisfazione nel pensare che, non avesse trovato un motivo per reagire, anch’egli, forse, sarebbe finito dall’altra parte della barricata. C’era stata Miha, certo, a ricordargli di vivere, e Avalon, che aveva terminato il suo addestramento, aiutandolo a concentrarsi. Ma era da quando aveva incontrato Elanor che poteva dire di vivere davvero.

 

Gliel’aveva vista nello sguardo, durante il loro primo burrascoso incontro al Cerchio di Giove, quella voglia di vivere intensamente e scoprire i misteri del mondo, stufa della gabbia dorata in cui era costretta a vivere. Una gabbia dorata per cui, fino a pochi mesi prima, Matthew avrebbe invece dato il sangue. E forse era per questo che le piaceva tanto, perché era impicciona e sognatrice e anelava al movimento mentre tutto quel che lui avrebbe voluto era una casetta sul mare, anche da ristrutturare, e un pezzo di terra da coltivare. Un giardino in cui avrebbe saputo essere felice.

 

Sorrise, mulinando la lancia di metallo nero e respingendo l’assalto di un paio di guerrieri, prima di caricarla di energia e liberare una raffica di strali che abbatterono e distrussero i suoi avversari. Chissà come avrebbe reagito Elanor se, alla fine di tutto quel caos in cui erano immersi, gliel’avesse proposto?

 

“Elanor…” –Mormorò, guardandosi attorno, senza trovarla.

 

Scagliò la lancia nell’occhio di un guerriero nero, evitò l’affondo di un altro e travolse i loro compari con un tappeto di energia colorata, prima di sollevare quello stesso tappeto per avere una visuale maggiore. Avalon gliel’aveva detto subito, che lui aveva ottimi riflessi, sebbene fosse troppo pigro per farne uso. Ripensarci gli strappò una fitta allo stomaco, al ricordo del (secondo) maestro perduto, il secondo a credere in lui. Anche una ragazza gli era già stata strappata via; cosa voleva il destino? Ripetersi anche in questo caso?


“Dove diavolo si è cacciata?” –Mormorò, abbracciando con lo sguardo l’intero campo di battaglia. Senza accorgersene, travolto dalla concitazione dello scontro, si era allontanato dal nucleo della formazione, dove Pegasus e Asterios stavano combattendo. Vide le loro auree cosmiche scintillare e squarciare il cielo con fulmini azzurri e verdi, diretti, nel primo caso, contro tre robusti guerrieri, alti ben più di due metri, e nel secondo caso contro una schiera di demoni dal volto dipinto. Maori, a giudicare dai tratti del viso.

 

Jonathan, invece, stava fronteggiando una nuova carica dei Lestrigoni che, radunatisi tra loro, avanzavano in formazione serrata, formando una vera e propria muraglia. Imponenti e rivestiti da cotte integrali di metallo nero (mithril modificato da Anhar, forse?), che non permettevano nemmeno di intravedere la pelle al di sotto (se mai, della pelle, ci fosse stata!), parevano fregarsene dei raggi di energia con cui il Cavaliere dei Sogni li stava tempestando. Matthew avrebbe voluto urlargli di fare attenzione, e magari unirsi a lui, quando una cascata di fiamme si riversò sui Lestrigoni, così intense che le loro corazze iniziarono a fondere. Strizzando gli occhi, Matthew vide un ragazzo dai folti capelli blu camminare a qualche metro dal suolo, fissare gli avversari con sguardo corrucciato, prima di muovere l’indice davanti al volto, quasi li stesse sgridando. Anche se non poté udire le sue parole, immaginò che non fossero accondiscendenti.

 

Del resto Sin degli Accadi, in battaglia, non lo era mai.

 

Qualcuno lo afferrò per una caviglia all’improvviso, tirandolo giù e facendolo ruzzolare sul terreno; schivò lance e picche, finché non riuscì ad aggrapparsi a una di esse e a sollevarsi, con il cosmo che già scintillava sulle sette pietre.


Arcobaleno incandescente!” –Esclamò, liberando una spirale di energia colorata che travolse tutti gli scagnozzi di Caos.

 

Proprio in quel momento Asterios e Pegasus radunarono quanti più membri dell’Alleanza poterono, scattando avanti tutti assieme, avvolti in una miriade di cosmi. Lance e fulmini, spade e scettri, fiamme e onde d’energia acquatica. Tutto quel che gli Dei e i loro Cavalieri furono in grado di produrre lo riversarono contro l’Armata delle Tenebre e la Porta della Notte alle sue spalle.

 

Matthew si trovava proprio nel mezzo, schiacciato tra le due formazioni che premevano l’una sull’altra, mentre ombre svanivano, guerrieri cadevano e nuovi cadaveri andavano ad aggiungersi ai precedenti. Approfittando della mischia, il ragazzo si gettò a terra, facendosi strada strisciando verso la propaggine orientale del campo di battaglia, quella terra di nessuno che lo separava dalla Porta della Notte.

 

Là, poco prima che lo trascinassero a terra, aveva individuato Elanor.

 

***

 

Lo scontro con Maru lo aveva fiaccato.

 

Non tanto nel corpo, quanto nello spirito. Se mai fosse stato possibile fiaccarlo ancora dopo gli orrori a cui aveva assistito negli ultimi giorni. Ma se veder morire gli amici con cui era cresciuto, gli anziani che ammirava, i bambini che avrebbe voluto preparare alla prova per divenire futuri Areoi, e infine veder crollare il proprio mondo non fosse stato abbastanza, Pō l’oscuro aveva pensato di torturarlo ancora, mandandogli contro proprio i suoi vecchi amici.

 

Sputando sangue e un dente rotto, Toru dello Squalo Bianco controllò lo stato della sua schiera. Una legione di giovani, inesperti, immaturi Areoi che non potevano definirsi soldati, ma che facevano tutto il possibile per non essergli di peso e offrire il loro contributo.

 

Accennando un sorriso, il discepolo di Afa si avvicinò a Waku della Balenottera, che stava fasciando alla bell’e meglio la gamba della giovane Parò (per cui Toru sospettò avesse sempre avuto una cotta), per tamponare una ferita che comunque non le impedì di rimettersi, zoppicando, in piedi quando udì quell’abbaiare improvviso.

 

Annusando l’aria, Toru si voltò giusto in tempo per vedere una mandria di grossi cani neri correre loro incontro, ciascuno cavalcato da un Guerriero del Caos. A differenza degli spiriti erranti fronteggiati finora, questi sembravano uomini in carne e ossa, ma di stazza superiore alla media. O forse era solo l’altezza media, piuttosto bassa, del suo popolo a farli apparire come giganti?

 

Quale fosse la madre che li aveva partoriti, lo Squalo Bianco sapeva che non li avrebbe rivisti, perché lui li avrebbe uccisi tutti. Era una promessa. Aveva resistito fin quando aveva potuto ma l’odore di sangue che impregnava l’aria gli rendeva difficile concentrarsi e, forse, adesso, poteva permettersi di lasciarsi andare.

 

“Io del Barracuda!” –Esclamò, rivolgendosi a un tipo smilzo con sottili occhi neri. –“Sei il più anziano sul campo. Proteggi i giovani Areoi!”

 

“Ma… Comandante?! Non capisco…” –Balbettò questi.

 

“Proteggili! Da qualunque nemico!” –Ripeté Toru, avanzando verso i cani neri avvolto nella sua aura biancastra. Non ne aveva mai visti di quelle dimensioni, sebbene ben poco conoscesse gli animali del mondo di sopra. Solo a volte, da piccolo, il maestro Afa gliene aveva descritti alcuni, a lui e agli altri apprendisti Areoi, stupiti nell’apprendere che fossero dotati di quattro zampe e di ali. Per lui, e per tutti gli abitanti degli Avaiki, gli animali erano i pesci, o al massimo i molluschi e le altre forme di vita che popolavano i fondali oceanici. Immaginare un delfino camminare sulla terraferma lo aveva sempre stranito.

 

“Ma questi non sono animali.” –Scosse la testa, mentre la schiera latrante si avvicinava ed egli poteva notare gli artigli sfoderati, il pelo irsuto e i grossi occhi tondi, iniettati di sangue. No, erano solo bestie figlie di Pō e nell’oscurità sarebbero tornate. –“Fauci dello Squalo Bianco!” –Tuonò, scaricando il proprio colpo segreto contro un gruppo di cani, dilaniandoli e sventrando anche coloro che li guidavano. Fece per attaccare un’altra mandata quando udì le grida di Waku.

 

Voltandosi, vide che i giovani Areoi erano già stati circondati, da un’altra mandria di bestie sbucata da sud. Io, Arohirohi e Perè stavano combattendo per tenerli a distanza, mentre Waku trascinava la giovane Parò della Conchiglia fuori dalla ressa. Un cane la agguantò per la gamba già ferita, strappandogliela con forza, tra le grida della ragazza, mentre altri ancora ne stavano arrivando. Stringendo i pugni, Toru capì che se non avesse sfondato adesso la catena, prima che si chiudesse, li avrebbero tagliati fuori dal resto dell’Alleanza.

 

Soffio della Balenottera!”

 

Fu la vocina di Waku a fugare ogni suo dubbio e l’impeto con cui il sedicenne corse contro il cane nero, investendolo con un’onda di energia acquatica. Nel vederlo agire, anche i compagni parvero riaversi, liberando i loro colpi segreti, e Toru fece altrettanto con i cani che li assediavano dal suo lato.

 

Ma erano tanti. Troppi. E lui aveva già dimostrato la sua incapacità nel proteggere il suo popolo. Quanti ancora dovevano morire prima che liberasse la furia del predatore dei mari? Se lo chiese mentre afferrava le fauci di un cane, girando la testa disgustato dal fetore, e le spalancava, schiantandole; quindi, con un pugno, maciullò anche la testa del guerriero che lo cavalcava.

 

Afa lo aveva avvisato dei rischi insiti nell’accedere a un simile potere e lui sapeva di cosa stava parlando.

 

“Uno squalo non è un pesce da tenere in una vasca.” –Gli aveva detto, in una delle ultime lezioni, per completare la sua formazione. –“Uno squalo è la forza primordiale degli oceani. Puoi pretendere tu, giovane Toru, di controllarla? Io no. Eppure i nostri antenati ci riuscirono. Gli aumakuas lo sanno. Non ci avrebbero donato così tanto potere senza la possibilità di imbrigliarlo per qualcosa di buono, non credi?”

 

“Sì!” –Esclamò deciso Toru, sollevando il pugno, avvolto nel proprio cosmo bianco. –“Lo credo, maestro Afa!”

 

***

 

“Che diavolo pensi di fare?” –Esclamò Matthew, raggiungendo Elanor a pochi passi dalla Porta della Notte. Aveva il respiro affaticato, per la corsa e gli scontri continui a cui aveva dovuto abbandonarsi nel seguire la scia di cadaveri e cocci di armature nere che la ragazza si era lasciata dietro.

 

“Va’ via, Matt!” –Si limitò a rispondere quest’ultima, sollevando lo scudo e parando l’affondo di un ultimo guerriero che, a giudicare dalla corazza, doveva essere stato un Cavaliere di Asgard. Matthew lo travolse con un arcobaleno di energia, schiantandolo contro l’enorme portone, prima di ripeterle la domanda, ottenendo la stessa risposta. –“Ti ho detto di andartene!”

 

“Dove mai dovrei andare? Siamo in guerra, Elanor. E combattiamo assieme!”

 

“Non stavolta.” –Commentò lei, scansando lo sguardo preoccupato del ragazzo.

 

“Ah no? E perché? Perché stai andando a cercarla? Cosa credi, che non abbia capito?”

 

“Matt, ti prego! Vattene! Non posso… non voglio che ti succeda niente di male! Non a te!”

 

“Qualunque cosa ci succeda, la affronteremo insieme!” –Le disse lui, prendendole le mani tra le proprie.

 

“Ma che belle parole! Toccanti e proprio adatte al momento!” –Esclamò una voce di donna, distraendoli e portandoli a guardarsi attorno. –“Voi umani mi sorprendete di continuo. Anche adesso, nel pieno dell’ultima guerra che deciderà le sorti del vostro mondo, che cosa fate? Trovate il tempo per una dichiarazione d’amore! O siete stupidi o completamente innamorati. Il che, a pensarci bene, è la stessa cosa.” –Ridacchiò, mentre una spirale di energia nera circondava i due Cavalieri delle Stelle, avviluppandoli e separandoli dal resto della battaglia.

 

Matthew credette di sentire voci che lo chiamavano e cosmi amici che si avvicinavano. Forse Pegasus o Asterios? Chiunque fosse, rimase fuori dalla voluta di cosmo oscuro che, quando si dissipò, si riunì assumendo una sagoma vagamente umana. Quel che era mutato, nel frattempo, era l’ambiente.

 

Sgranando gli occhi, il Cavaliere dell’Arcobaleno realizzò di non essere più all’esterno del Santuario delle Origini. –“Siamo… dentro…” –Mormorò, osservando lo spiazzo che separava la Porta della Notte dalla vera e propria fortezza, un cortile immenso come dieci arene del Grande Tempio. E proprio di fronte al portone stesso una donna dai lunghi capelli viola li fissava sogghignando, scuotendo il lungo mantello nero che, a ogni movimento, gli ricordava le ali di un enorme rapace. –“Nyx…” –Solo a pronunciarne il nome, un brivido improvviso gli tagliò la schiena in due. –“Niente sciocchezze, Elanor. Possiamo fronteggiarla ins…” –Ma la ragazza non era più accanto a lui. Correva, avvolta nel proprio cosmo, incontro alla Notte.

 

“Muori, strega!!!” –Gridò. –“Croci di luna!!!”

 

“Ahr ahr!” –I fasci di energia sfrecciarono attorno a Nyx senza sfiorarla, troppo deboli e lenti di fronte all’oscurità soverchiante del suo cosmo, che subito si levò, sotto forma di un uccello nero, divorando l’attacco luminoso e piombando sul Cavaliere della Luna, stramazzandola al suolo.

 

“Elanor!!!” –Esclamò Matthew, su cui Nyx posò lo sguardo poco dopo, smuovendo la gigantesca ombra del suo cosmo. –“Corona di luce!” –Gridò, generando una cupola di energia attorno a sé, a cui l’uccello nero si avvinghiò, piantandovi le unghie delle zampe e prendendola a beccate. Ne bastarono due per mandarla in frantumi e prostrare il ragazzo in ginocchio, e una terza per ferirlo alla spalla, penetrando l’armatura di mithril e inondandola di sangue. Agonizzando, Matthew crollò al suolo.

 

“Ecco fatto. I due sventurati amanti uniti nello stesso tragico destino.” –Disse Nyx, ritirando il cosmo e ammirando compiaciuta la veloce conclusione di uno scontro deciso a priori. –“Quale ironia. Non è forse allo stesso modo che i tuoi genitori sono morti, Principessa della Luna? Pensavi forse che non ti avessi riconosciuta?”

 

“Non… sono… una principessa!” –Rantolò Elanor, sforzandosi di rialzarsi.

 

“Non ne hai lo spirito, in effetti. Una principessa è beneducata, pulita e soprattutto caritatevole con i suoi sudditi. Tu, proprio, non lo sei. Guarda là, hai condannato il tuo ragazzo a morte certa!”

 

Elanor avrebbe voluto rispondere ma bastò che Nyx sollevasse una mano per schiacciarla a terra con la pressione del suo cosmo oscuro, mentre le passava accanto e si accostava al corpo inerme di Matthew.

 

“Che… fai? Lascialo stare!!!”

 

“Credevo che voleste stare insieme per l’eternità. Oh beh, per quel tanto che l’eternità durerà ancora.” –Ridacchiò Nyx, afferrando il ragazzo per i capelli e tirandolo su, mentre famelico il rapace d’ombra piantava il becco nella sua ferita aperta, facendolo strillare. –“Onestamente? A me non piace. È biondo, magro e debole. E per i deboli non c’è futuro nel mondo che Caos sta forgiando!” –Chiarì, scaraventandolo in aria, sospinto da ali di tenebra. Quindi fece apparire il tridente, impugnandolo e mirando all’indifesa sagoma, martoriata dal suo cosmo, che stava precipitando a terra.

 

“Noo!!!” –Gridò Elanor, rialzandosi con un veloce scatto e balzando in alto, di fronte a Matthew, con lo Scudo di Luna davanti a sé. L’impatto con l’arma la scagliò indietro, assieme al ragazzo, facendoli ruzzolare per una decina di metri, fino a sbattere contro il portone, mentre, per tutto quel tempo, Nyx non smetteva di ridere.

 

Elanor odiava la sua risata. Aveva riso anche quando aveva massacrato suo padre, povero martire, che non aveva commesso un solo peccato in tutta la sua vita immortale, se non forse quello di dare sempre ragione a Selene? Quel pensiero la fece bruciare dentro, spingendola a rimettersi in piedi, incurante dei lividi e del sangue che le imbrattava il viso. Niente, a confronto della lesione alla spalla di Matt, che continuava a sanguinare da sotto l’armatura. Come? Elanor non seppe spiegarselo, ma ritenne dipendesse dal cosmo di Nyx, per cui, sconfitta lei, anche Matt sarebbe stato salvo.

 

Glielo doveva, in fondo. A causa sua era stato ferito, di nuovo. Perché l’aveva seguita, anche quella volta, come sulla Luna. Avrebbe dovuto perdere anche lui?

 

“No!” –Avvampò nel suo cosmo adamantino, tirando una rapida occhiata oltre Nyx. Oltre il Primo Santuario. Oltre il Gobi. Da qualche parte, in cielo, la luna li fissava ancora, ricordandole la sua vita passata e gli affetti perduti. Per un momento, le sembrò che un raggio di luce trapassasse la cortina di tenebre, baciandole la fronte, come quando sua madre le pettinava i capelli e suo padre leggeva poemi del Mondo Antico e le sue sorelle ridevano, cantavano e danzavano al suono della cetra di Asterios. L’aveva disgustata così tanto quel mondo da volerlo a ogni costo lasciare? –“No!” –Ripeté, mentre il cosmo le turbinava attorno, sempre più velocemente, sempre più ribollente. Di rabbia, di odio verso Nyx, di sogni di vendetta.

 

Una mano le sfiorò un piede, attirando la sua attenzione verso Matthew, che giaceva agonizzante nella polvere di un santuario dove presto sarebbe morto, quasi a dirle che esistevano anche altri motivi per combattere. E allora fu come averli lì, tutti quanti: Selene (non la madre ansiosa che le impediva di scendere sulla Terra a giocare, ma la possente Dea, figlia del Titano Iperione, che aveva contrastato Nyx finché aveva avuto una stilla di cosmo in corpo), Endimione (l’uomo che le aveva insegnato ad amare), le sue sorelle e Matthew. Per loro avrebbe lottato, fino alla fine.

 

“In nome tuo, madre! Selenaios Vortex!” –Il gigantesco turbinio di cosmo, sabbia e luce divorò lesto il terreno che la separava dalla Prima Dea, che, meravigliata, sollevò un sopracciglio, prima di torcere le labbra in un ghigno di sfida.

 

“Tale madre, tale figlia. E tale sorte vi accomunerà!” –Aggiunse, spalancando le braccia e sollevando un muro di tenebra così fitta che Elanor non riuscì a vedere altro alle sue spalle. Solo il mulinare imperterrito del Vortice Lunare che cercava di sfondare quella mastodontica linea di difesa. –“Nocturniae Tenebrae!” –Parlò infine Nyx, spingendo in avanti la muraglia di ombre e disperdendo l’attacco della ragazza, che fu travolta da una forza impressionante, sradicata da terra e schiantata contro la Porta delle Tenebre, assieme a Matthew, sottoposti a una pressione indicibile, che fece tremare la stessa struttura difensiva.

 

“È… un potere soverchiante… Pe… Perdonami, Matt! Non riesco a contrastarlo!” –Pianse il Cavaliere della Luna, ma la violenza del muro d’ombra era tale da impedire persino alle lacrime di scivolarle sulle guance.

 

“Non… non devi…” –Mormorò l’allievo di Gemini. Una voce persino più bassa dello scricchiolare sinistro delle loro corazze. –“Non devi affrontarla da sola. Tu… non sei sola. Non l’hai ancora capito?” –Aggiunse, riuscendo ad afferrarle una mano.

 

Anche senza vederlo, Elanor fu certa che il ragazzo stesse sorridendo. Lei fece altrettanto ed entrambi bruciarono i loro cosmi, nel nome di tutto quel che di bello era rimasto nelle loro vite spezzate.

 

“Talismani!!!” –Gridarono, mentre sette fasci di luce colorata trapassavano la cortina di tenebra e uno scudo di energia argentea sorgeva a proteggerli, respingendo quella marea nera, quel tanto che bastò loro per scivolare giù lungo il portone e atterrare al suolo. Zoppicando, Mattew si aggrappò a Elanor per non cadere, si scambiarono uno sguardo d’intesa e rinnovarono il loro attacco. –“Arcobaleno incandescente, risplendi! Selenaios Vortex, travolgila!”

 

“Stolti! Che siate uno, due o tutti e sette, incontrerete qui la fine del vostro lungo penare, la meta finale del vostro viaggio! La morte! Addio! Marea d’ombra!” –Esclamò Nyx, spalancando le braccia e liberando una devastante fiumana di tenebra che si abbatté sull’assalto congiunto, fagocitandolo e impedendogli di proseguire, decisa a estirpare ogni stilla di luce.

 

“Dobbiamo… resistere…” –Disse Matthew, a denti stretti. –“Per i nostri compagni! Per gli uomini!”

 

“Gli uni e gli altri perir dovranno sotto il manto oscuro della notte. Nessuno più uscirà a riveder le stelle! Ahr ahr!” –Ghignò Nyx, travolgendo i Cavalieri delle Stelle e schiantandoli contro la porta occidentale, incrinando le loro corazze, distruggendo gli elmi e piegando i loro arti in posizioni innaturali. Un’ultima pressione e…

 

“Ora basta!” –Tuonò una voce imperiosa, distraendo la Primogenita.

 

Cinque grosse lance di cosmo spuntarono dal portone, facendolo poi saltare in aria. L’esplosione disperse la marea di tenebra, forzando Nyx a coprirsi gli occhi e ad abbassarsi, per evitare l’enorme pezzo della porta da lei difesa che le sfrecciò sopra la testa, rischiando di mozzargliela. Quando si rialzò, vide una magnifica armatura intarsiata farsi avanti nella nube di polvere, brillando di un intenso bagliore verde acqua, quasi fosse composta di scaglie di oceano.

 

“Correggimi se sbaglio, ma abbiamo iniziato uno scontro sulla Luna; credo sia l’ora di terminarlo, non credi?”

 

Riconoscendolo, l’espressione della Dea oscillò tra sorpresa e fastidio, stabilizzandosi poi in un ghigno divertito. –“Morto il fratello, se ne fa avanti un altro!”

 

“In suo nome combatto!” –Esclamò Asterios, mentre altri due uomini, alle sue spalle, si facevano avanti. Uno corse a sincerarsi delle condizioni dei Cavalieri delle Stelle, l’altro, rimasto al suo fianco, tirò un’occhiata alle snelle sagome che stavano scivolando giù lungo i bastioni e le mura del Santuario delle Origini al silenzioso comando della loro Signora. Ne contò otto, tra quelle visibili, ma furono almeno una decina quelle che si inginocchiarono ai piedi di Nyx.

 

“Nogitsune! Tu e le tue volpi occupatevi dei Seleniti. Ma l’Angelo è mio!” –Sentenziò la Dea. Le Volpi Nere annuirono, schizzando avanti, mentre già Mani aveva espanso il suo cosmo glaciale e Shen Gado, poco distante, spalancava le ali.

 

***

 

Gli Areoi stavano combattendo bene, ma la furia dei cani neri era inarrestabile e loro erano pochi e stanchi, e i compagni dell’Alleanza lontani, separati da un fiume nero di ombre e bestie che in breve li circondò, lasciando loro uno spazio ovale ove si raggrupparono. Toru, a occidente, cercava di contrastare l’ondata maggiore, grondando sangue da numerose ferite, mentre, alle sue spalle, Io, Perè, Arohirohi, Atanea e Aitu, disposti a ventaglio, faticavano a fare altrettanto, con Waku che singhiozzava in ginocchio sul cadavere di Parò.

 

“Sterminateli!” –Esclamò allora una voce cavernosa. –“Ho voglia di pesce stasera!”

 

Toru vide i cani fare spazio a una bestia più grossa delle altre, simile ai cetacei perigliosi che popolavano l’oceano, ma con quattro zampe e occhi demoniaci, cavalcata da un guerriero alto e robusto rivestito da una corazza rossastra. Il primo tocco di colore nelle schiere del Caos. O forse un macabro tentativo di ironia nel richiamare il colore del sangue.

 

Sangue. Mugugnò Toru, piantandosi le dita nel palmo della mano per restare concentrato.

 

“Chi sei, cane?”

 

“Non un cane, ma un bufalo.” –Esclamò il nuovo arrivato, fermandosi al limitare dello spazio che gli Areoi avevano tenuto combattendo con i denti. –“Yama del Bufalo Nero, Nefario del Caos.”

 

“E io sono Toru dello Squalo Bianco, Comandante degli Areoi.”

 

“So chi sei, per questo sono qua. Mi interessava uno scontro tra noi, uno scontro tra bestie!” –Quindi, senz’altro aggiungere, abbaiò alla schiera di avanzare. Alcuni cani balzarono sugli Areoi, che tentarono di respingerli con fasci di luce, spire e onde d’energia acquatica. Aitu venne gettato a terra, con una ferita sul fianco, e Io evitò a stento che una bestia gli portasse via una mano. Toru avrebbe voluto correre in loro aiuto ma Yama lo caricò in quel momento, forzandolo a dirigere l’assalto su di lui.

 

Le Fauci dello Squalo Bianco divorarono il cane che cavalcava ma, quasi lo avesse previsto, il Nefario si era già lanciato in alto e adesso stava piombando, a gamba tesa, su Toru, che non ebbe il tempo di muoversi. Poté solo alzare le braccia, caricandole di cosmo, e prepararsi all’impatto, che fu più violento di quanto si aspettasse, al punto da scaraventare entrambi indietro, lui con i bracciali crepati, l’altro con un piede che fumava, ma, a parte ciò, il Nefario non sembrava affatto impensierito.

 

Guardandolo meglio, Toru vide che la sua corazza aveva già subito dei danni, forse in scontri precedenti, e questo lo consolò, convincendolo che non era invincibile. Ma quanto avrebbe impiegato a vincerlo? Ogni secondo di ritardo era una ferita in più ai danni dei suoi compagni.

 

Quasi intuendo le sue preoccupazioni, Yama sogghignò, portando le braccia avanti e liberando una carica di bufali di energia, che si abbatterono su Toru con una forza simile a quella delle bestie che avevano tentato di abbattere la Conchiglia. Non gli restò altro che contrattaccare con il suo colpo segreto, frenandone l’avanzata e rimanendo in una situazione di stallo, entrambi decisi a sopraffare l’avversario.

 

“Aaah!” –Gridò una giovane voce, che Toru riconobbe come quella di Aitu. –“Maledizione, resistete! Perè, attenta a destra!” –Questo, invece, era Io. Grande nuotatore, forse persino più veloce di lui, ma carente nel corpo a corpo; del resto, nei fondali oceanini, con chi mai dovevano guerreggiare? Un’altra colpa che doveva assumersi per non averli martellati con allenamenti più pesanti. –“Waku, vieni via da lì! Waku!!!” –Lo strillo di Perè quasi lo fece vacillare e Yama ne approfittò per ordinare a un gruppo di cani di sbranarli.

 

Toru temette che, da un momento all’altro, il sangue degli amici gli sarebbe piovuto addosso, invece l’unica cosa che lo raggiunse fu un raggio di sole. E una voce di donna.

 

Flashing sword!”

 

Girandosi quel tanto che poté, per non perdere la concentrazione, vide un’agile figura schizzare tra le fila dei cani, mulinando una scintillante spada che pareva composta di pura luce. Trapassò le bestie, le falciò, e tagliò pure qualche testa, prima di atterrare a piedi uniti di fronte agli Areoi sopravvissuti, la lama stretta nella mano destra e rivolta verso i cani che, pur ringhiando, sembravano meno desiderosi di avanzare.

 

“Brucia vero? Voi Gytrash non siete abituati alla luce delle stelle, solo alle ombre dell’oltretomba in cui vi ricaccerò!” –Esclamò fiera, prima di voltarsi verso Toru e dirgli di non preoccuparsi. –“I tuoi compagni sono in buone mani.”

 

Il Comandante annuì, mentre il Cavaliere di Luce si lanciava di nuovo verso i cani. Lui fece altrettanto e lo Squalo Bianco azzannò un paio di bufali, prima di farsi strada verso un fianco di Yama. Fu lesto quest’ultimo a bloccargli il polso un attimo prima che gli sfondasse l’armatura, con una presa ferrea, e torcerglielo fino a schiantargli l’osso. Non contento, il Nefario lo capovolse, sbattendolo a terra e montandogli sopra, le mani che affannavano alla ricerca del suo collo.

 

Lo sfrigolare dei loro cosmi annerì e scheggiò le corazze, con Toru che si dimenava per liberarsi, faticando con un solo braccio. Riuscì ad afferrargli un corno del coprispalla, esercitandovi una decisa pressione e lottando per non perdere i sensi mentre Yama lo strangolava; lo schiantò e glielo piantò nel ventre, sfruttando una crepa già esistente nell’armatura.

 

Il Nefario barcollò ma non mollò la presa, costringendo Toru a conficcargli il corno in profondità, facendolo sussultare e sputare sangue e bava. Lesto, il Comandante rotolò di lato, abbandonandosi a affannati respiri che aumentarono d’intensità quando l’odore del sangue nemico giunse alle sue narici. Lo fissò, con occhi che dovettero spaventarlo se Toru lo vide muovere un malfermo passo indietro, prima di avventarsi su di lui, il pugno carico di energia cosmica, e sfondargli la cassa toracica.

 

Restò a guardarlo mentre crollava a terra, il sangue e i liquidi interni che colavano dal suo braccio destro. Avesse ascoltato la fame, si sarebbe avventato sulla carcassa e nutrito, ma Afa lo aveva messo in guardia sullo spirito del predatore che, a volte, non riusciva a distinguere chi fossero gli amici e chi fossero le prede. Quasi immaginasse di sentire una mano poggiarsi su una spalla, Toru si voltò e sorrise. Anche se l’ombra l’aveva invaso e ne aveva inquinato le fattezze, il suo mentore non l’avrebbe mai abbandonato e un giorno, molto presto, si sarebbero ritrovati, assieme a Maru, Tara e a tutti i compagni perduti. Un giorno, nell’Avaiki oltre la fine del mondo.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo sedicesimo: L'amico di un tempo. ***


CAPITOLO SEDICESIMO: L’AMICO DI UN TEMPO.

 

L’assalto alla Porta della Luce non era servito a niente, neppure a farne vacillare lo splendore. La barriera che la proteggeva era ancora lì, palese agli occhi di chiunque vi volgesse lo sguardo, quasi volesse, il suo creatore, manifestare la sua superiorità, e annesso disprezzo, per quei variopinti ratti che ardivano raspare al suo ingresso.

 

Pegasus gli aveva parlato di lui, definendolo un ipocrita di bianco vestito con la bocca impastata di odio e sangue. Un fanatico. E come tale pericoloso.

 

Ma quale avversario non lo è stato? Rifletté Sirio. Tutti coloro che scatenano una guerra sono fortemente convinti di essere nel giusto, e che il loro agire sia sacro. Crisaore glielo aveva detto, di fronte alla Colonna dell’Oceano Indiano, che il mondo doveva essere purgato, e questa era la missione degli Dei. Si chiamassero Nettuno, Ade, Ares o Caos, cosa cambiava in fondo? A modo loro, avevano tutti cercato di sterminare il genere umano e forse solo adesso Sirio ne comprendeva il motivo.

 

La verità è che ci temono! Annuì, evitando l’affondo dell’avversaria. Temono quel che possiamo fare, il sole che possiamo divenire! Aggiunse, piroettando su se stesso e portandosi di lato, per poi sollevare il braccio e liberare le zanne del Drago di Cina, che dilaniarono Babd, aprendo squarci sul suo corpo robusto e facendola vacillare. Sirio ne approfittò per tagliarle la testa con Excalibur.

 

Ansimando per lo sforzo continuo, il Cavaliere di Atena si guardò attorno. Quel poco che avevano ottenuto lanciandosi contro la Porta della Luce, come suggerito da Zeus, era stato spazzar via la fiumana di ombre, dilaniata dai fulmini di Alexer, dai draghi di Cina e Britannia e dai gelidi cosmi degli Asi. Ma la Morrigan si era salvata, librandosi in aria con ali di corvo e evitando l’assalto, per poi chiamare in aiuto le sue sorelle: Babd, la Gigantesca, affrontata da Sirio, e Nemain, la Lamentosa, presto vinta da Alexer. Soltanto la Dea Corvo resisteva, stoica, intenta in una danza di morte con Ascanio. Dragone avrebbe voluto portargli aiuto ma l’Angelo d’Aria l’aveva fermato, riconoscendo che c’era qualcosa, in quel duello, che pareva trascendere il tempo.

 

Osservandoli, e osservando le loro aure turbinare in un arcobaleno di colori, Sirio dovette dargli ragione e vedere Ascanio per quello che di fatto era. Non soltanto il Glorioso Comandante dei Cavalieri delle Stelle, ma il figlio di quella stessa Isola Sacra, che pareva rivivere in lui.

 

Narrano le antiche cronache che, dopo la morte a Mount Badon, il corpo di Arthur Pendragon, l’Unificatore delle tribù di Albion, venne portato ad Avalon da sua sorella. Chissà che non sia stato proprio l’Angelo di Luce ad addestrarlo, sperando magari di farne il suo erede?

 

In quel momento la Morrigan attaccò di nuovo, liberando una sfilza di piume di cosmo nero, taglienti come lame, che Ascanio schivò, scattando di lato in lato, e distruggendo, con i pugni, quelle che non riuscì a evitare. Ma una infine lo raggiunse, nell’interno coscia, strappandogli un gemito, sufficiente per rallentare la sua corsa.

 

“Muori, Pendragon!” –Ringhiò la Dea Guerriera, spalancando le ali e piombando su di lui, il naso aquilino simile a un becco aguzzo, le mani tese in un affondo mortale. Ascanio non tentò neppure di difendersi, limitandosi a distogliere lo sguardo mentre la carica bianca la travolse.

 

Sirio faticò a capire cosa stesse accadendo, cosa fosse quel fiume latteo che aveva appena investito la Morrigan, intrappolandola tra le sue spire, calpestandola con forza e afferrandola ogni volta in cui tentava di librarsi in alto. Solo sforzando la vista riuscì a distinguere le sagome dei cavalieri.

 

Erano un esercito e sfrecciavano su bianchi destrieri, dello stesso colore delle loro armature, le spade in pugno e le lance abbassate. Ai lati delle file garrivano gli stendardi dei Pendragon, con i due draghi, bianco e rosso, attorcigliati assieme.

 

“Che siano…?” –Mormorò, e Alexer, poco distante, annuì.

 

“I bianchi Cavalieri di Glastonbury! Le legioni dei Pendragon che difesero Albion nel Quinto Secolo dagli invasori venuti da oltremare e dall’ombra. Fu un’epica battaglia, proprio come questa. La rammento ancora e rammento la determinazione di Arthur nel difendere la propria terra, una luce non dissimile da quella che brilla negli occhi di Ascanio!” –Aggiunse, mentre la bianca marea proseguiva la sua corsa, travolgendo qualche Guerriero del Caos appena uscito dalla Porta della Luce e poi proseguiva verso ovest, per portare aiuto ai combattenti di fronte al cancello presieduto da Nyx.

 

“Da est a ovest.” –Analizzò Sirio. –“Stanno girando attorno al Primo Santuario seguendo l’orbita solare.”

 

“E quando torneranno alla Porta del Giorno la loro esistenza terminerà. Ma non piangerli, non ce n’è motivo. Il re in eterno rinascerà, assieme ai suoi Cavalieri, ogni volta in cui le tenebre minacceranno la Terra.”

 

Passata la bianca schiera, Ascanio si rialzò, incurante del sangue che colava lungo la gamba destra. Aveva notato, mentre gli sfrecciava davanti, l’uomo che apriva la fila, la corona di luce sui capelli biondi, il sorriso accennato nella sua direzione. Anche per onorare la sua memoria, il Cavaliere della Natura avrebbe combattuto ancora.

 

Un lamento lo raggiunse, portandolo a volgere lo sguardo verso la Morrigan.

 

Pesta e contusa, il corpo traforato da centinaia di lame e lance, la Dea aveva perso ogni traccia della bellezza selvaggia sfoderata all’inizio, somigliando adesso a una vecchia stanca e gobba, dalla bocca storta, quasi deforme, e dalle orbite vuote. Eppur si muoveva ancora.

 

“Non per molto.” –Esclamò Ascanio, espandendo il proprio cosmo, che si sollevò sotto forma di due maestosi dragoni, uno bianco e uno rosso, la vita e la morte, che si inseguirono e avvitarono l’uno all’altro nel cielo nero, prima di saettare a fauci aperte verso la Dea Corvo. –“Nel nome dei Pendragon che qui rappresento, io ti sconfiggo, Signora della Guerra! Double Dragon Attack!”

 

“Stolto!” –Sibilò lei, mentre le zanne affondavano nel suo corpo distrutto. –“Puoi sconfiggermi quest’oggi ma io ritornerò, come i miei simili, fintantoché gli uomini alimenteranno la nostra fiamma. La guerra è una malattia incurabile, Pendragon. Dovresti saperlo, tu che ne soffri quanto me.” –Nient’altro disse, prima di svanire.

 

“Ascanio! Stai bene?” –Si preoccupò subito Sirio, correndo da lui.

 

Il giovane annuì, ringraziandolo, prima di volgere lo sguardo alla Porta della Luce, ancora rivestita da quel maledetto velo che impediva loro di andare oltre. Osservandone i tratti del viso tesi e inquieti, Dragone comprese i suoi timori.

 

“Dobbiamo entrare.”

 

Proprio in quel momento un urlo di donna li riscosse, lanciandoli di corsa dietro ad Alexer attraverso il campo di battaglia, costellato di cadaveri di soldati di Asgard, Blue Warriors, discendenti di Mu, druidi e sacerdotesse dell’Isola Sacra. Era stata propria una di queste a strillare, prima di venir sradicata da terra e risucchiata in una forma ovoidale, di colore nero, apparsa nel cielo sopra di loro. Altri compagni, di qualunque schieramento fossero, stavano sperimentando la stessa tragica sorte.

 

“Quale diavoleria è mai questa?” –Esclamò Alexer, notando come, attorno a loro, stessero sorgendo sottili sagome ovali di cosmo nero che risucchiavano le persone al loro interno. Da alcune, invece, quelle ai lati del campo di battaglia, stava fuoriuscendo una sbobba nera, che presto assunse la forma di servitori del Caos.

 

“Le ombre… i caduti nelle Guerre Sacre… stanno tornando!” –Disse Sirio. –“E si servono di quei varchi dimensionali…”

 

“Non sono varchi. Sono dei buchi neri!” –Chiosò Ascanio, chiudendo le mani a pugno ed espandendo il proprio cosmo. –“Dove sei, bastardo?” –Ringhiò, scattando avanti. Afferrò un druido prima che venisse risucchiato in un buco nero, dirigendo un rabbioso attacco verso l’alto, che però si perse nell’oscuro varco.

 

“Sta’ attento, Ascanio!!!” –Gli gridò dietro Sirio, scagliando un fendente di Excalibur che ugualmente non ottenne risultato.

 

“Lui… è qui…”

 

“Parli di me, fratello?” –Esclamò una voce all’improvviso, risuonando nell’intera spianata di fronte alla Porta della Luce, quasi fosse l’aria stessa a parlare. –“Oh, cos’è? Non siamo più fratelli adesso? Eppure un tempo mi consideravi così. Quando ti ho salvato dalla febbre e dalla fame, quando ti sono stato accanto, entrambi allievi dello stesso maestro. Ovviamente prima che tu mi abbandonassi, ferito e sanguinante, e te ne andassi a cercare gloria e fortuna sull’Olimpo! Non sei cambiato, in questo, Ascanio, continui a puntare in alto, in cerca di una gloria sempre maggiore, incapace di accettare quello che hai. Quante persone dovranno ancora morire a causa della tua insoddisfazione esistenziale?”

 

“Mostrati!” –Mormorò il Cavaliere della Natura, a denti stretti, spostando lo sguardo attorno a sé, i pugni ribollenti di energia cosmica. Per un momento i buchi neri sembrarono placarsi e tutti i soldati e i fedeli degli Dei si affrettarono ad allontanarsi, sostenendosi l’un l’altro, in rigoroso, e confuso, silenzio. Ma la voce riprese a parlare.

 

“Mostrarmi? Non mi vedi forse? Io… sono… qui…” –Sillabò, prima di scoppiare a ridere, mentre i buchi neri tornavano ad attirare gente a sé. –“Io sono ovunque, Ascanio! E presto, tutte queste persone, che ingenuamente ti hanno seguito in guerra, precipiteranno nell’abisso oscuro e mi apparterranno!”

 

“Precipiterò te nell’abisso se non ti fai avanti, Tebaldo!”

 

“Non… chiamarmi… così!” –Ringhiò la voce, prima che un buco nero si aprisse sotto i piedi del Comandante di Avalon. Allarmato, Ascanio cercò un appiglio, un modo qualunque per frenare la sua discesa, ma afferrò soltanto polvere e ciottoli.

 

Quando Sirio lo agguantò per una mano era già sprofondato fino al petto. –“Resisti! Ti tengo!” –Gridò, puntando i piedi e cercando di sollevarlo, senza riuscirci. –“La sua forza d’attrazione è enorme, superiore a quella mostrata nell’Avaiki!”

 

“Superiore?!” –Riprese la voce, con tono divertito. –“È abbastanza ovvio, non credi, ultimo allievo di Dohko? Qui, nel deserto del Taklamakan, dimora il Primo Abisso, il Caos primordiale da cui nacque l’universo. A un tale potere nessuno può resistere, nemmeno gli Dei!” –Continuò, ma Sirio non lo ascoltava più, tutto preso dal cercare di tirar fuori Ascanio da quel pozzo maledetto. Attorno a loro, tutti i buchi neri parevano aver intensificato la loro forza attrattiva, mentre Alexer e gli Asi tentavano di distruggerli e salvare il resto dell’esercito.

 

“Io… non… riesco…” –Mormorò Sirio, con gli occhi rossi di frustrazione e dolore, mentre il corpo di Ascanio sprofondava sempre più nell’abisso, al punto che solo la testa e il braccio con cui lo teneva erano rimasti all’esterno. Anzi no, anche la testa stava scivolando nell’oscurità, impedendogli di udire quel che il ragazzo gli stava dicendo. Impotente, Sirio poté solo fissarlo negli occhi e interpretare quello sguardo di supplica. –“Non posso… Non posso farlo! Io non ti abbandonerò, Ascanio!”

 

“Tanto amore mi commuove!” –Sghignazzò la voce. –“Sai, Sirio? Vorrei aver avuto te come compagno d’addestramento, anziché quell’arrogante egoista che mi ha lasciato a marcire sotto il sole! Ma non credere che gli permetterò di morire così facilmente! Oh no, Ascanio Pendragon soffrirà le pene di tutti gli inferni del mondo! E, se ti ostinerai a difenderlo, tu con lui!” –Aggiunse, prima che un’onda di tenebra scaraventasse entrambi gli allievi di Libra in alto, scheggiando le loro corazze.

 

Quando ricaddero a terra, il buco nero era sparito e Ascanio era di nuovo libero di rialzarsi, aiutare Sirio a fare altrettanto e voltarsi per trovarsi di fronte il loro nemico. Colui che un tempo era stato suo compagno d’addestramento. Suo amico. E fratello.

 

“Tebaldo…”

 

“Devo ripetermi?!” –Sbuffò questi, sollevando un braccio e lasciando che una torma di folgori nere danzasse attorno al pugno destro. Ma non fece altro e Sirio approfittò di quel momento per osservarlo, notando come la sua armatura azzurra, dalle accese tonalità blu notte, fosse tornata integra dopo i danneggiamenti subiti nella Conchiglia Occidentale. Il volto, invece, non l’aveva riparato, o forse non voleva farlo, di modo che tutti vedessero la sua deformità. Cicatrici fresche, residui di vecchie ustioni, il naso mozzato e le cavità orbitali disallineate spiccavano su una pelle biancastra e glabra. Persino i pochi capelli che costellavano il cranio deforme erano spariti ma il Primo Forcide non sembrava curarsene, tenendo l’elmo sotto braccio, senza interesse.

 

“Sapevo che ti saresti salvato…”

 

“Non grazie a te, che di nuovo mi hai lasciato a morire, motivo per cui ho deciso di ricambiare la tua gentilezza uccidendoti per ultimo.” –Ghignò, espandendo il cosmo. –“Sì, Ascanio, tu resterai a guardare mentre io sterminerò questi innocenti e voglio che sappiano, tutti quanti, che muoiono a causa tua! Bocca dell’Abisso, spalancati!”

 

“No!!!” –Sirio scattò in avanti, liberando un devastante Drago Nascente, che il Forcide intercettò posizionando il buco nero davanti a sé, dentro cui il ragazzo quasi infilò a causa della sua stessa velocità, non fosse stato per uno scudo di cosmo comparso improvvisamente a sua difesa.

 

Hlif!” –Esclamò una voce femminile, mentre un’esile sagoma spuntava a destra del Cavaliere di Atena, affiancata da un uomo dai tratti nordici e da una donna formosa.

 

“Per Odino!”

Mele d’oro!”

 

“Umpf, gli ultimi Asi?” –Bofonchiò il Forcide, osservando Eir, Vidharr e Idunn farsi avanti e attaccarlo. –“Ceto è stata ben poco perigliosa se non è riuscita a vincere una guaritrice, una contadina e un figlio che da Odino non ha certo ereditato la furia in battaglia! Se Forco avesse inviato me, avrei sprofondato la cittadella e tutti i suoi occupanti nell’oceano artico e i vostri cuori sarebbero finiti a far compagnia a quelli di Apakura, Ika Tere e degli Aitu!”

 

“Anche se la guerra non è la nostra vocazione, rimaniamo pur sempre degli Dei e tu…” –Esclamò l’Ase silente.

 

“Puoi essere il Dio più forte di questo mondo ma quando una forza irresistibile ti risucchia in un buco nero sei morto come tutti gli altri disgraziati!” –Ghignò Tiamat, spalancando la Bocca dell’Abisso di fronte alle tre Divinità, che tentarono di opporsi a quella forza d’attrazione combinando le loro aure per potenziare lo scudo di Eir.

 

“Chissà che stavolta non sia tu a finirci dentro!” –Avvampò Ascanio, mentre i draghi di Britannia lo avvolgevano, con le squame rilucenti puro cosmo. –“Con me, Sirio!”

 

Il Cavaliere di Atena annuì, sfrecciando avanti e unendo il proprio colpo segreto a quello dell’amico. Nient’affatto preoccupato, il Forcide stirò le labbra rinsecchite in un sorriso sghembo, prima che un buco nero apparisse a sua protezione, risucchiando i draghi energetici.

 

“Incredibile! Riesce a controllarne più d’uno con estrema facilità!”

 

“E con la stessa estrema facilità rivolgervi contro i vostri attacchi!” –Declamò il potente avversario, spalancando le braccia e liberando un’esplosione di cosmo nero. Due marosi di energia oscura traboccarono dalle Bocche dell’Abisso, investendo Sirio e Ascanio e schiantando, al tempo stesso, lo scudo di Eir, travolgendo i tre Asi.

 

“Tanta forza devastante… com’è possibile?!”

 

“Cosa credevate? Che gli insegnamenti di quella vecchia prugna rinsecchita valessero per sempre? Che cosa conosceva in fondo Dohko del mondo? Tutto quel che ha visto è stata una Guerra Sacra in cui ben misero ruolo ha avuto, limitandosi a sopravvivere. E allo stesso credo si è aggrappato per due secoli, rimanendo lì, a vegetare e a dispensare perle di saggezza non richiesta. Se avesse girato il mondo, se avesse scoperto e sondato i più profondi misteri, avrebbe potuto renderci guerrieri migliori. Avrebbe potuto renderci più forti, insegnandoci che il potere è inesauribile, se scaturisce dalla giusta fonte, che il potere non ha limiti!” –Esclamò l’uomo un tempo chiamato Tebaldo, avviandosi a passo lento verso Sirio e Ascanio, che faticavano a rimettersi in piedi. –“Cosa vuoi che sia scagliare due colpi segreti contemporaneamente se non la dimostrazione della mia inconfutabile tesi?”

 

“Non puoi farlo…”

 

“Oh, siete rimasti indietro. Io posso! Io sono oltre le vostre ridicole restrizioni. Io sono Tiamat, l’Invalicabile, e vi assicuro che nessuno di voi varcherà la soglia del Primo Santuario, perché vi sterminerò tutti qui, uomini e Dei!” –Esclamò, muovendo il braccio a spazzare e generando un’onda di cosmo oscuro, cui gli allievi di Libra tentarono di opporsi con le loro aure. –“I miei poteri, grazie alla vicinanza al mio Signore, sono triplicati, mentre i vostri, eh eh, sono addirittura calati!” –Ghignò Tiamat, scaraventando indietro i due Cavalieri.

 

“Interessante!” –Esclamò una voce rimasta fino a quel momento silenziosa, forzando il Primo Forcide a girarsi di scatto, mentre una torva di folgori azzurre si schiantava su di lui. –“Perché, come vedi, anche noi siamo in tre! Fulmini siderali!!!”

 

L’attacco dell’Arconte Azzurro prese Tiamat di sorpresa, obbligandolo a sollevare una raffazzonata difesa, con cui non riuscì comunque a evitare che qualche folgore lo colpisse, scheggiandogli la corazza e strappandogli più di un gemito. Non fosse stato un temibile nemico, Sirio ne avrebbe persino ammirato la tempra e la capacità di sopportazione di quei fulmini che avrebbero vinto qualunque guerriero.

 

Ma lui non è un guerriero qualunque. Rifletté, mentre anche Ascanio si rimetteva in piedi, il bavero e i coprispalla danneggiati. Lui… che cos’è? Ripensando alle sue parole, per un momento lo invase la terribile sensazione che fosse un ricettacolo, come Andromeda era stato per Ade, e che forse un Dio (un Progenitore?) lo stesse manovrando. Ma il ricettacolo di chi? Sirio non li aveva ancora incontrati ma sapeva che i quattro Dei Primordiali si erano già rivelati. Che sia, dunque, solo ingiustificata paura quella che mi attanaglia l’animo? O forse… No! Caos non poteva servirsi di lui, mandandolo così, allo sbaraglio, da solo in mezzo al campo nemico.

 

Eppure, notando la facilità con cui Tiamat aveva spezzato le forze dell’Alleanza, respinto gli Asi e tenuto testa all’Arconte d’Aria, il dubbio non accennò ad andarsene.

 

“Sirio!” –Lo richiamò Ascanio, proprio mentre un nuovo scontro tra i cosmi del Forcide e di Alexer spingeva entrambi indietro. –“Ricordi come l’abbiamo vinto nell’Avaiki? Sovraccaricando il buco nero! Dobbiamo espandere il nostro cosmo sì da ricreare, e forse da superare, l’energia del Nono Senso!”

 

Il Cavaliere di Atena annuì, socchiudendo gli occhi e richiamando alla mente gli insegnamenti di Libra; Ascanio, al suo fianco, fece altrettanto. Calma imperturbabile era la condicio sine qua non.

 

“Oh, ma quella non è gambe lunghe?” –Esclamò Tiamat all’improvviso. –“Ma sì, la guerriera vestita da piovra che vi ha fatto compagnia nella Conchiglia? Qual era il suo nome? Arcione?”

 

Sirio e Ascanio si guardarono attorno, non capendo cosa intendesse, finché non videro alcune sagome tra le ombre che le Bocche dell’Abisso stavano vomitando fuori. Una, dovettero ammetterlo, somigliava proprio ad Alcione. O forse era solo l’idea malata di Tiamat a fargliela apparire in quel modo?

 

“Sono stato scorretto, lo ammetto. Avrei dovuto dirvi che tutti i guerrieri che stanno morendo qui, oggi, in realtà stanno tornando in vita. Come ombre, ovviamente, al servizio di Caos. Un gran vantaggio per noi. Un flusso che si arresterà soltanto quando sarete tutti morti!” –Ridacchiò il Primo Forcide. –“Ehi, tenete d’occhio la marea nera, potreste riconoscere qualche vostro amico!”

 

“Bastardo!” –Ringhiò Ascanio, scattando avanti, il braccio destro avvolto in un’intensa luce rossastra. –“Attacco del Drago di Sangue!”

 

“Attento, Ascanio!” –Gridò Sirio, mentre già Tiamat, sogghignando, aveva aperto un buco nero di fronte a sé, dentro cui si perse l’attacco del Cavaliere. Approfittando di quel momento, Idunn bombardò il Forcide con centinaia di dorate mele di cosmo, che neppure lo fecero voltare, aspirate, come la padrona, in una nuova Bocca dell’Abisso.

 

“Idunn!!!” –Vidharr la afferrò in tempo e Eir interpose uno scudo di energia tra loro e l’oscuro abisso, ma la sua forza d’attrazione era tale da mandarlo in frantumi. Fu ancora una volta Alexer a venire in loro aiuto, tempestando il buco nero con una selva di fulmini azzurri, così intensi da creparlo, di fronte agli occhi, per la prima volta turbati, di Tiamat. Un secondo assalto e la Bocca dell’Abisso venne distrutta.

 

“Inammissibile!” –Ringhiò il Forcide, mentre l’Arconte Azzurro si avvicinava al figlio di Odino, mettendogli una mano su una spalla.

 

“Ci occuperemo noi di lui. Voi prestate aiuto ai soldati e ai nostri fedeli, vi prego!”

 

Gli Asi annuirono, sparpagliandosi nel campo di battaglia, mentre Alexer continuava ad avanzare verso Tiamat, che lo fissava con sguardo rabbioso.

 

“Neppure gli Angeli sono immuni alla fine! Quel che vi attende oltre la soglia è lo stesso abisso degli uomini! Temilo, Alexer! Temi il fallimento di un’intera esistenza!”

 

“Non pavento di condividere la sorte con chi così coraggiosamente ha lottato per difendere la propria Terra!” –Replicò l’Arconte, avvolto in una luminosa aura azzurra. –“Ma non è ancora il tempo.”

 

“E invece il tuo tempo è scaduto!” –Declamò Tiamat, spalancando le braccia. –“Apocalisse oscura!” –L’onda di energia nera si allargò in ogni direzione, obbligando sia Alexer che Sirio e Ascanio a espandere i loro cosmi per contrastarla.

 

Sottoposti a una violenta pressione, con le braccia tese avanti e la marea d’ombra che pareva assediarli da ogni lato, i tre dovettero restare a guardare mentre il Forcide generava nuove Bocche dell’Abisso, attorno e sopra di loro. Sirio strinse i denti, cercando un modo per divincolarsi, per ancorarsi a terra, ma capì di non riuscire a contrastare l’onda di energia e i buchi neri allo stesso momento. In quel momento, mentre la forza d’attrazione iniziava a sollevarlo, pensò a Fiore di Luna e si augurò che fosse sana e salva. Pegasus, in qualche modo, avrebbe sconfitto i Progenitori e allora l’umanità sarebbe stata al sicuro. Con quel pensiero in mente, e una lacrima a bagnargli gli occhi, Dragone venne sradicato da terra, assieme ad Ascanio, e sollevato… sollevato… fino a sbattere contro un muro.

 

Sbalordito, il Cavaliere tentò di voltarsi, di toccare quell’improvvisa barriera, ma si ritrovò ad afferrare l’aria. Un attimo dopo, lui e Ascanio cadevano di nuovo a terra.

 

“Ma cosa?!” –Balbettarono, osservando il defluire della marea nera, che pareva strisciare indietro verso Tiamat, il cui volto deformato dall’ira era ancora più orribile a vedersi. Ira che in quel momento stava dirigendo verso l’Arconte Azzurro.

 

“Come osi opporti all’avvento dell’ombra?”

 

“Oso da molto tempo prima che tu venissi al mondo, ragazzino insolente. Puoi anche essere stato benedetto da qualche oscura Divinità ma rimani pur sempre una presenza insignificante al mio cospetto. Non dimenticarti chi hai canzonato!” –Disse Alexer, levitando sopra di lui, in una bolla di cosmo azzurro. –“Io sono l’Angelo d’Aria! Io sono l’essenza stessa dell’aria, le correnti siderali che spazzano pianeti che tu, miserrimo mortale, nemmeno riesci a immaginare nella tua limitata mente. Io sono l’Arconte Azzurro e questo è il mio canto di guerra! Tempesta siderale!!!” –Gridò, sollevando un braccio al cielo e generando un fulmine bluastro che squarciò il cielo.

 

Il primo di una lunga serie.

 

Decine, forse centinaia, di migliaia di folgori azzurre piovvero sul campo di battaglia, evitando gli uomini e colpendo soltanto le Bocche dell’Abisso. Per un momento, sembrò a Sirio che la coltre di tenebra fosse passata e un nuovo giorno fosse sorto. Ovunque volgesse lo sguardo i buchi neri erano tempestati dai fulmini di Alexer, crepandosi e schiantandosi, sovraccaricati da una quantità abnorme di energia.

 

“A voi, adesso!” –Parlò l’Angelo Azzurro, mentre Ascanio già bruciava il proprio cosmo, portando avanti entrambe le braccia. –“Double Dragon Attack!!!” –Gridò, e Sirio subito lo affiancò. –“Colpo dei Cento Draghi!!!”

 

“Sia quel che sia!” –Mormorò Tiamat, volgendo loro contro il palmo della mano ed evocando una nuova fosca marea, su cui i draghi di Albion e Cina andarono a impattare –“Apocalisse oscura!”

 

“Per Dohko!!!” –Urlarono assieme i discepoli del Vecchio Maestro.

 

“Se così tanto lo amate, ve lo farò rivedere. Magari è tra quelle ombre che stanno massacrando i soldati a voi fedeli!”

 

“Piantala con i tuoi trucchi! Non ci distrarrai stavolta!” –Ringhiò Ascanio, cercando di concentrarsi sullo stallo in atto, dovuto al bilanciamento dei loro poteri.

 

In quel momento sentì svanire i cosmi dei Cavalieri di Glastonbury.

 

Probabilmente dovevano aver terminato il loro giro, tornando alla Porta del Giorno, o forse erano stati annientati, eppure, di questo Ascanio fu certo, almeno uno era riuscito a completare il percorso che si erano ripromessi. E lui sapeva chi fosse.

 

D’improvviso, al Comandante delle Stelle sembrò di sentire un’ondata di fresca energia guizzare dentro sé, come se un secondo cosmo si fosse unito al suo, poi un terzo e un altro e così via, finché tutti i Bianchi Cavalieri di Glastonbury non ebbero reso omaggio all’erede del re. E adesso erano lì, a combattere con lui, a galoppare impavidi verso qualunque morte li avrebbe attesi, guidati da Arthur e da Ascanio.

 

“Questa è la stirpe del drago!” –Gridò il Cavaliere della Natura. –“Danza di draghi!”

 

Il poderoso assalto ruppe l’equilibrio, traforando la tempesta d’ombra e abbattendosi su uno sbigottito Tiamat. Uno dopo l’altro, le bestie sacre di Britannia e di Cina si cibarono della sua corazza e del suo corpo, fino a schiantarlo a terra, in una pozza di sangue. Ma questo non bastò a vincere la sua sete di vendetta, che di nuovo lo portò a puntellarsi su un ginocchio per rimettersi, a fatica e sputando bava e sangue, in piedi.

 

“Non affaticarti!” –Lo chiamò Ascanio, avvicinandosi. –“Resta, te ne prego. Mi faciliterai il lavoro!” –Aggiunse, costringendo Tiamat a guardare quel che stava facendo. Si era sfilato l’elmo e adesso vi stava infondendo il suo cosmo, rinvigorito da quello di Arthur, portandolo a ingrandirsi e ad assumere la forma di un pentolone che, per quanto non l’avesse mai visto, Tiamat subito riconobbe, spalancando gli occhi inorridito. –“Ne hai sentito parlare, a quanto pare. Mi fa piacere, così non dovrò spiegarti come funziona. È molto semplice, in verità: tu entri e l’ombra esce.”

 

“Maledetto Ascanio! Tu e la tua stirpe…”

 

Calderone dei Misteri!” –Declamò il giovane a gran voce, mentre una nube di cosmo ne fuoriusciva. –“Possa il grembo della Grande Dea Madre donarti pace!” –Disse, e Tiamat venne trascinato verso il Talismano da una potente forza invisibile e costretto a immergersi nel calderone stesso. –“Sono curioso: come ci si sente ad essere risucchiati, a veder piegata la propria volontà?”

 

“Tu…” –Rantolò il Forcide, sprofondando nella nube di bianca energia, che ribollì attorno a lui, sollevandosi in una colonna di luce che bucò il cielo nero. E all’interno di quella colonna la corazza azzurrina di Tiamat andò in frantumi, rivelando il corpo ferito al di sotto, un corpo che andava facendosi sempre più rachitico.

 

“Il potere del calderone sta scavando a fondo, per ripulirti da ogni goccia d’ombra abbia inquinato il tuo cuore e la tua anima. Eppure…” –Ascanio scostò la testa, dispiaciuto, mentre il corpo del Forcide si sgretolava. –“Pare che, oltre all’ombra, non sia rimasto altro di te, amico mio.”

 

“Non sono più… tuo amico!”

 

Con quella triste verità, Tiamat morì.

 

***

 

Quando aprì gli occhi, vide soltanto buio e per un momento credette di essere cieco. Poi, spostando lo sguardo, capì che quello era il mondo del suo Signore.

 

L’oscurità.

 

A fatica, si sollevò, toccando il proprio corpo nudo e percependo ancora la pelle, e le ossa al di sotto.

 

No, non era morto, non del tutto almeno. Il suo Signore l’aveva salvato. Com’era buono e misericordioso lui. Aveva capito che poteva servirlo, che voleva servirlo, che a nient’altro avrebbe anelato se non servirlo, però, per favore, doveva dargli un corpo più forte, quello ormai era vecchio e stanco e allo scopo era servito. Magari avrebbe potuto dargli il corpo della sorella che Ascanio aveva perduto; oh sì, quello sarebbe stato davvero un colpo basso per…

 

Una voce risuonò improvvisa nella sua mente, prostrandolo in ginocchio, costretto a portarsi le mani alle tempie per farla smettere. Ma non ci riuscì; poté solo crollare a terra, rannicchiandosi in posizione fetale, mentre il suo Signore continuava a parlargli.

 

“Riposa, servo dell’ombra. Questa non è l’ora della sconfitta. Non la tua, né la mia!”

 

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Capitolo 18
*** Capitolo diciassettesimo: Bronzo, Argento e Oro. ***


CAPITOLO DICIASSETTESIMO: BRONZO, ARGENTO E ORO.

 

Asher e gli altri erano rimasti indietro. E questo li aveva salvati.

 

Intenti a guerreggiare contro i demoni antropofagi, non avevano partecipato all’assalto contro la Porta delle Tenebre, venendo raggiunti di striscio dall’onda di vendetta scatenata da Erebo. L’Unicorno avrebbe voluto correre in aiuto di Atena, per sincerarsi delle sue condizioni, ma l’uomo con la lunga lama incurvata non aveva intenzione di farlo scappare. Anzi, non voleva far scappare nessuno di loro.

 

Sebbene fossero ai margini settentrionali del deserto davanti al Primo Santuario, Asher, i suoi compagni e la guarnigione di soldati rimasti con loro erano di fatto prigionieri dei Rakshasa. Ovunque si muovessero, i demoni li inseguivano, falciandoli con le loro spade; qualunque mossa pensassero, quei mostri riuscivano ad anticiparla, portando l’Unicorno a chiedersi se non leggessero nella mente. Ma non erano soltanto le loro capacità tattiche a intimorirlo, quanto l’orrore a cui si abbandonavano dopo la vittoria.

 

Deglutendo a fatica, Asher spostò lo sguardo dai cadaveri massacrati, su cui i Rakshasa si erano appena tuffati, al nemico di fronte a sé. Il nemico di tutti loro.

 

Alto, robusto, sorprendentemente piacente di viso, vestiva un’armatura nera di pregiata fattura, con delle decorazioni in oro che sembravano realizzate a mano. Sarebbe stata una bella corazza, non fosse stato per le dieci teste, catturate nel momento di gridare in preda a chissà quale terrore, che la ornavano. Due sulle ginocchia, due sul petto, due sui bracciali, due ai lati dell’elmo, persino due sulla schiena. Quasi fossero un monito per chiunque tentasse di assalirlo.

 

A noi Cavalieri piace violare certi divieti, superando i nostri limiti e quelli che altri ci hanno imposto! Rifletté l’Unicorno, bruciando il proprio cosmo e scattando avanti, proprio mentre il massiccio guerriero si liberava di Reda e Salzius, sbattendoli a terra. Con un colpo secco della sua spada, trinciò le loro catene e uguale sorte avrebbero incontrato le loro teste se non fosse stato distratto dall’attacco di Asher.

 

Corno d’argento!” –Gridò, fiondandosi su di lui, con il braccio destro teso.

 

“Lento!” –Commentò l’avversario, spostandosi di lato, mentre il pugno dell’Unicorno gli passava accanto, lui lo afferrava e se ne serviva per ribaltare il ragazzo, schiacciandolo a terra. –“Sei lento per me!”

 

Asher tentò di liberarsi ma la presa dell’uomo era così ferrea che sentì persino la corazza scricchiolare. Fece per rialzarsi ma già l’altro stava mulinando la pericolosa scimitarra, mirando al suo collo e costringendolo a chinarsi. E a far sì che la lama gli mozzasse il corno.

 

“Uah ah ah! Che magnifico trofeo!” –Esclamò il suo avversario. –“Degno di un re! Degno di me!”

 

“Bastardo! Ridammelo!” –Avvampò Asher, rialzandosi con uno scatto, ma venendo colpito da una ginocchiata allo sterno, che lo piegò in avanti, facendogli sputare sangue. Proprio in quel momento la faccia urlante sulla gamba del guerriero azzannò il ragazzo, strappandogli via un pezzo di armatura, maglietta e carne al di sotto. –“Aaargh!” –Rantolò il Cavaliere, prima di essere spinto indietro e ruzzolare per diversi metri, fino a fermarsi ai piedi di Kama e Castalia.

 

“Asher!” –Mormorò la Sacerdotessa della Poppa, chinandosi su di lui, per esaminare la ferita, mentre l’Aquila si rivolgeva al loro avversario.

 

“Pare che tagliare il corno di un unicorno sia fonte di sventura! Non lo sapevi?”

 

“Uah ah ah! Non credo a simili dicerie popolari!” –Disse il guerriero, rigirando l’argentea punta tra le mani. –“Inoltre… sventura per chi? Certo non per me!” –Ghignò, scagliandola di colpo avanti e conficcandola nel ventre della Sacerdotessa.

 

Sputando sangue, Castalia barcollò, venendo afferrata al volo da Kama, proprio mentre il guerriero si lanciava su di loro, la spada stretta in pugno. Atterrò Asher con un calcio, ributtandolo al suolo, per poi voltarsi verso le donne e calare la lama, che le mancò solo perché le due inciamparono l’una nell’altra, cadendo a terra di schiena, tra le risate del demone.

 

“Magro banchetto si offre al possente Ravana!” –Disse, alzando la spada al cielo. Di quell’attimo approfittarono Reda e Salzius, portandosi ciascuno su un lato del nemico, liberando le catene ancora integre e afferrandogli il polso.

 

“Lo teniamo! Colpiscilo, Asher!” –Gridò Reda, mentre il malconcio Unicorno si rimetteva in piedi a fatica. –“Ora, coraggio!”

 

“Vi dirò un segreto. Uno soltanto. Ma vi basterà per accedere all’inferno con la consapevolezza del vostro fallimento. Che io sia libero o prigioniero, che sia in piedi o sdraiato, non cambia niente. La mia spada mieterà comunque la sua vittima.” –Disse Ravana, prima che la lama si illuminasse di un intenso bagliore dorato. –“Siva Tandava Strota!” –Gridò, mentre migliaia di fendenti energetici sorgevano dall’arma, diretti tutt’attorno a sé. Distrussero le catene, trapassarono le corazze dei Cavalieri di Atena, sbriciolarono le loro carni, fino a prostrarli a terra sanguinanti.

 

“Aaargh!” –Rantolò Salzius. –“Credo… che mi abbia perforato un polmone…”

 

“Re… resisti!” –Mormorò Reda, sforzandosi per rimettersi in piedi, senza riuscire neppure a piegare le ginocchia per tirarsi su. Fu Ravana ad aiutarlo, afferrandolo per la chioma rosa e portandogli la faccia all’altezza del proprio petto, dove i due volti urlanti lo fissavano sgomenti. Bastò che il demone lo desiderasse e le bocche si allungarono, azzannando la carne viva, una al collo, l’altra gli portò via un orecchio.

 

“Per Atena!” –Esclamò l’Unicorno, aiutato da Kama a rialzarsi. –“È disgustoso! Credo che potrei vomitare!”

 

“Trattieniti!” –Gli suggerì la Sacerdotessa della Poppa. –“In Africa credevo di aver visto il male: morbi che io e il mio maestro non siamo stati in grado di curare, tribù massacrarsi a vicenda per il traviato volere di qualche Divinità, ragazzini maneggiare un fucile e sterminare la propria famiglia. Ma questo… questi demoni…”

 

“Rakshasa! Ci chiamiamo Rakshasa! Gli ingordi!” –Disse Ravana, voltandosi verso di lei. Gettò a terra Reda, rinfoderando la spada, e si avviò verso i due Cavalieri, avvolto in una nube di cosmo oscuro, su cui Asher credette di vedere auree striature. –“Oh, quei glifi che vedi? Non sei pazzo, esistono davvero! Sono un sigillo!”

 

“Un… sigillo?”

 

Ravana annuì, spostando per un momento lo sguardo, quasi stesse rivivendo giorni lontani. Attorno a loro, nel frattempo, i demoni continuavano a massacrare i soldati di Atena, cibandosi poi dei loro corpi. Asher vide Patrizio crollare sotto le lame di due di loro, prima che un terzo gli tirasse indietro la testa, conficcandogli i denti nel collo… e strappando tutto quel che c’era da strappare.

 

“Opera di mio fratello, il garbato e regale Principe Rama. Non apprezzava le mie scorribande per le giungle e le città dell’India, a capo di quella che definì una banda di malfattori degni di essere affogati nel Gange. Così, incapace di uccidere il sangue del suo sangue, timoroso di incorrere in chissà quale anatema divino, sigillò i miei poteri, i nostri poteri, costringendoci a vivere in quest’unico e immodificabile corpo.”

 

“Unico… intendi dire… sei un mutaforma?”

 

Di nuovo, Ravana annuì.

 

“Lo ero. E lo sarò di nuovo.” –Chiosò, fissando Asher con brillanti occhi verdi che parvero ghignare alle parole del demone. –“Caos me lo ha promesso! E voi mi aiuterete a ritrovare me stesso! Sentitevi orgogliosi della vostra generosa morte!” –Aggiunse, afferrando il ragazzo e Kama per il collo e iniziando a stringere.

 

I due si dibatterono ma la stanchezza e le ferite rendevano deboli i loro colpi, carezze sulle robuste braccia di Ravana.

 

“Muori tu, invece, mostro!” –Esclamò una voce femminile, facendolo voltare, proprio mentre Castalia gli piantava il corno, che si era tolta dal ventre, nell’omero sinistro, caricandolo di tutto il cosmo che era riuscita a radunare in quei brevi istanti. Non fu molto ma bastò per fargli mollare la presa sui due Cavalieri e spingerlo a un passo indietro. Ravana, nel qual tempo, mosse il braccio ferito, sbattendolo contro il cranio della donna, nel punto ornato dalla faccia urlante, che azzannò l’elmo e i capelli di Castalia, scheggiandogli il primo e strappandole decine dei secondi. Un gancio sul seno la spinse poi indietro, mozzandole il respiro e gettandola accanto ad Asher e Kama.

 

“Divertente. Hai animato questo tedioso combattimento. Grazie!” –Disse Ravana, sfoderando di nuovo la spada e muovendosi per calarla su di lei, che lesta rotolò di lato, lasciando che spaccasse il suolo. Kama liberò allora una sfera di energia, che il demone tagliò a metà con la lama, rimandandogliene una parte contro, mentre Asher si rimetteva in piedi e cercava di colpirlo con un diretto al mento. Il movimento di ritorno del braccio destro di Ravana, con cui reggeva la spada, lo raggiunse poco prima che riuscisse a ferirlo, scheggiando la sua corazza e spingendolo indietro. –“Sei fortunato! Qualche arcano potere protegge la tua armatura o sarebbe bastato un colpo della Spada di Luna per distruggerla.”

 

Asher ricordò il momento in cui Atena li aveva bagnati con il suo ichor. Solo un paio di gocce a testa, ma sufficienti per donargli momentaneo ristoro e rinnovare la sua sconfinata fede in lei. Persino in quei momenti disperati, la Dea riusciva sempre a pensare prima agli uomini che così tanto amava, poi a se stessa.

 

Non poteva deluderla.

 

“Non lo farò! Atenaaa!!!” –Gridò, espandendo il proprio cosmo al massimo. Kama e Castalia fecero altrettanto, imitate da Reda e Salzius, che barcollando riuscirono a rialzarsi, formando un pentagono attorno a Ravana.

 

Quasi divertito da quell’ultimo sprazzo di autorevolezza che i Cavalieri della Dea greca parevano dimostrare, il demone sollevò la Spada di Luna al cielo, irrorandola con il suo cosmo oscuro. –“Siva Tandava Strota!” –E un ventaglio di fendenti energetici si aprì attorno a lui, dilaniando i corpi dei cinque coraggiosi, distruggendo le loro corazze e gettandoli a terra, nella polvere macchiata di sangue.

 

Quando tutto finì, Ravana cercò i Rakshasa, intenti a massacrare gli ultimi soldati di Atena, in un tripudio di grida sguaiate, prima di riportare lo sguardo sugli sconfitti. Da chi avrebbe iniziato? Forse dall’Unicorno, il cui organismo doveva essere colmo di adrenalina, una sensazione che degustava sempre con piacere.

 

Fece per avventarsi su di lui quando vide un muro di piante rosse sbarrargli la strada. No, non sono piante. Si disse, osservando quei rami intrecciarsi sempre più, protendendosi nella sua direzione.

 

“Ridicolo!” –Sibilò, mulinando la Spada di Luna e tranciandoli. –“Corallo?”

 

Cobra incantatore!!!” –Esclamò una voce alle sue spalle, costringendolo a voltarsi, mentre un serpente di cosmo, avvolto in folgori incandescenti, sfrecciava verso di lui. Con un rapido colpo di mano, roteò la spada in aria, sollevando un cilindro di energia dietro il quale si difese, lasciando che l’attacco vi si schiantasse, disperdendosi.

 

Solo allora vide le tre donne, due bionde e una terza dai bizzarri capelli verdi, che correvano verso di lui, pronte per dargli nuovamente battaglia.

 

“Deve essere la giornata dei capelli colorati e delle aspiranti Amazzoni!” –Sghignazzò, impugnando la lama e liberando un piano di energia, che sfrecciò tra le tre compagne, forzandole a separarsi. Come si aspettava.

 

Abbatté la prima bionda con una spallata, strappandole la frusta di mano e usandola per afferrare la seconda per il collo e sbatterla a terra, prima di scagliare la spada contro la donna dai capelli verdi, conficcandogliela nelle scapole.

 

“Aaah…” –Rantolò Tisifone, mentre il cosmo di Ravana la aggrediva con violenza, facendo vibrare il suo corpo.

 

“Che il fuoco di Chandrahas ti divori, donna!” –Esclamò il demone, osservando compiaciuto l’esplodere della corazza del Serpentario e l’inerme avversaria crollare a terra, con chissà quante ossa rotte. Sogghignando, richiamò la Spada di Luna, che tornò nelle sue salde mani, dicendosi che, quasi quasi, non gli sarebbe dispiaciuto scoprirlo, toccando quel corpo femminile che in un altro momento avrebbe gustato volentieri. Ma prima doveva portare a termine la sua missione.

 

Caos gli aveva dato un ordine e lui lo avrebbe eseguito. Non che avesse scelta, in verità, se voleva tornare a essere il grande Imperatore dei Tre Mondi, flagello dell’India e sterminatore di principi. Questo, al ragazzino dal corno spezzato, non lo aveva detto, ma dubitava fosse interessato a conoscere la storia della sua famiglia, i segreti e le trame che nessun poema epico aveva cantato. Rama lo aveva ferito, ma non era riuscito a ucciderlo. Lui, invece, dubbi non ne aveva avuti.

 

Ma la morte del fratello non era servita a niente. L’incantesimo con cui aveva sigillato i suoi poteri non era svanito.

 

“Aaah… Cavalieri… amici…” –La voce di quell’adolescente irrequieto lo distrasse, voltandosi e osservando con quanta ostinazione, fatica e dolore tentasse di rimettersi in piedi, quando il massimo che riuscì a ottenere fu di puntellarsi sulle mani e sulle ginocchia, gocciolando sangue dai cento tagli che Chandrahas gli aveva aperto sul corpo. –“Rialzatevi! Bruciate… il vostro cosmo, come non avete mai fatto! Noi… dobbiamo… fermarlo!”

 

“Non affaticarti!” –Rise Ravana. –“Non hai più nessuno da salvare! I vostri soldati sono stati sconfitti, i loro corpi smembrati sono cibo per i Rakshasa! E più ci nutriamo, più diventiamo potenti! Quando avremo finito con voi, con tutti voi…” –E, nel dirlo, spostò il braccio destro, indicando con la spada l’intera spianata di fronte alla Porta delle Tenebre. –“…ritorneremo ad essere gli Dei di un tempo, gli Asura del nuovo mondo!”

 

“I deliri di un folle sanguinario non potranno vincere la luce di speranza che dimora nei nostri cuori. La luce che illuminerà il mondo.”

 

“Uah ah ah! A malapena illuminereste una caverna, ragazzo!”

 

“Taci, mostro!” –Esclamò Asher, scattando avanti, con il pugno destro ribollente di energia cosmica. Ma di nuovo Ravana si spostò di lato, trapassandolo al ventre con la mano tesa, facendolo sputare sangue e accasciarsi sul braccio stesso.

 

“Asher!!!” –Gridò Castalia, affannando nel rialzarsi e spingendo gli altri a fare altrettanto.

 

“Moriresti comunque, per il veleno che le mie unghie ti hanno appena iniettato, ma sei stato un coraggioso avversario e un imperatore sa riconoscere il valore di chi osa sfidarlo. Eri un niente, una nullità cosmica, eppure hai avuto l’ardire di combattermi! Guerrieri ben più grossi di te sono fuggiti via, squittendo disperati alla sola vista di Chandrahas! Perciò meriti una morte rapida!” –Disse Ravana, depositando Asher a terra, sulle gambe che a stento lo reggevano, acciuffandolo per i capelli, mentre l’altra mano reggeva la Spada di Luna. –“Addio!” –E la mosse per mozzargli la testa, ma una figura scattò verso di lui, afferrandogli il braccio e tentando di tenerlo a distanza dal ragazzo.

 

“Donna audace. È forse il tuo amante che con tanto ardore difendi?”

 

“N… No!” –Mormorò Kama, piegata sotto la forza di Ravana, la cui lama si faceva sempre più pericolosamente vicina al suo volto. –“Ma è l’allievo di colui che ho amato e ho giurato che l’avrei protetto. Sempre.”

 

“Un giuramento d’amore? Credevo che in quest’epoca immersa nel materialismo non se ne facessero più!” –Ridacchiò il demone. –“Beh, sentiti appagata, donna. Tra poco rivedrai il tuo amato e gli dirai di averci provato, con tutte le tue poche forze!” –Detto ciò, Ravana la spinse a terra, colpendola all’addome con il taglio di Chandahas.

 

“Smettila, bastardo!” –Si riprese Asher, dandosi la spinta verso l’alto e mitragliando il petto del demone con una sventagliata di calci. Infastidito, Ravana lo investì con una vampata del suo cosmo, scaraventandolo a terra, prima di notare che quel suo attacco gli aveva distrutto le facce sul pettorale. Stirando le labbra in un ghigno, urlò.

 

“E sia! Vi siete dimostrati degni di cadere per mia mano! Non bestie da macello, ma valorosi avversari! Pur tuttavia, il tanto coraggio a cosa giova, quando non c’è la forza?” –E, nel parlare, si voltò in modo da osservare in faccia gli otto combattenti che gli stavano attorno, feriti, sanguinanti e indifesi, ma ancora decisi a provare. –“Può un roditore aver ragione della possente Tigre del Bengala? Non può. È l’ordine naturale delle cose a decretarne la sconfitta. Il più forte vince e il più forte sono io!” –Disse, roteando la Spada di Luna e generando una corrente di energia che lo avvolse, crescendo a spirale attorno a sé, fino a concentrarsi sulla lama. –“Addio, Cavalieri di Atena! Che il taglio di Chandrahas ponga fine alle vostre sofferenze!”

 

Migliaia di fendenti energetici sfrecciarono in ogni direzione, massacrando gli otto combattenti, distruggendo le loro corazze, portandogli via pezzi di pelle e ossa, fino a schiantarli a terra, in pozze di sangue, dolore e sconfitta. Solo allora Ravana ripose la Spada di Luna. Solo allora tornò il silenzio.

 

Tirando un rapido sguardo verso la Porta delle Tenebre, il demone vide gli scontri ancora in atto. Un Cavaliere dall’armatura rosacea e dalle mille saettanti catene stava abbattendo i Figli del Drago mentre la pelle della gigantesca bestia che li aveva partoriti era chiazzata di macchie biancastre, simili a strati di ghiaccio, che rendevano pesanti i suoi movimenti. A breve, entrambi sarebbero stati sconfitti, ma i loro avversari sarebbero usciti affaticati dallo scontro. E un avversario stanco è un avversario debole! Sogghignando, Ravana si avviò verso il gruppo di demoni ai suoi comandi, per dare loro nuovi ordini, quando, passando accanto a uno dei corpi dei moribondi Cavalieri di Atena, si accorse che respirava ancora.

 

Era il ragazzo dai capelli castani, le cui dita (quante? Un paio forse gli erano state mozzate?) raspavano sul suolo per trovare la forza di piegarsi e stimolare il resto del corpo a sollevarsi. Tanta ostinazione, tanta inutile risolutezza Ravana non l’aveva mai incontrata nemmeno nelle prede più coriacee. Nemmeno suo fratello aveva lottato così tanto durante il loro scontro finale, scoppiando in lacrime quando i Rakshasa avevano iniziato a sbranarlo.

 

“A… Atena…” –Mormorò l’Unicorno, il cui cosmo si accese di una flebile luce.

 

“Che vai cianciando, ragazzino? Pensa a morire!” –Ribatté Ravana, irato, colpendolo sulla schiena con il tacco dell’armatura, più e più volte, mentre Asher sputava sangue e continuava a rantolare. –“Ti avevo onorato di una morte veloce ma hai rifiutato il mio dono! Nessuno offende l’Imperatore dei Tre Mondi! Nessuno offende Ravana dalle Dieci Teste! Vuoi vedere la mia faccia violenta? Eccola!” –E continuò a calpestarlo, mirando alle ossa, premendo fino a sentirle rompersi.

 

“Asher!!!” –Esclamarono Tisifone e Castalia, bruciando quel che restava dei loro cosmi. –“Siamo… con te…”

 

Le loro aure si sollevarono e, d’un tratto, ai tre Cavalieri non sembrò neppure di trovarsi lì, a lottare per la propria vita di fronte alla dimora degli Dei Ancestrali. Né in quel tempo. Fosse un gioco perverso di Caos o un ricordo riemerso solo adesso non seppero spiegarselo, ma lo assecondarono, navigando indietro con la memoria.

 

Asher si rivide di fronte al portone di Villa Thule, dopo sei anni trascorsi ad Orano. Era irrobustito, era persino abbronzato e, dalle parole di Mylock, capì di essere stato il primo a tornare dall’addestramento, il primo a portarlo a termine. Quelle parole lo inorgoglirono ma quando Lady Isabel fece il suo ingresso, col suo bell’abito bianco, al ragazzo parve di trovarsi di fronte a una Dea. La sua Dea.

 

Tisifone correva nei boschi attorno ad Atene, assieme alle altre aspiranti sacerdotesse. Saltava sui rami, dandosi la spinta per raggiungere l’albero successivo, poi atterrava nell’erba, con grazia, avendo cura di non insospettire l’ignara preda che si abbeverava a un ruscello. Eccola, adesso l’avrebbe catturata, con mani che, da quelle di una bambina, erano divenute le mani di un maschio. Le stesse che, si augurava, un giorno avrebbero di nuovo stretto sua sorella.

 

Castalia amava nascondersi nei gonnelloni del Primo Ministro, quando gli faceva visita, ma anziché ascoltare le lezioni di storia, arte e medicina, avrebbe voluto essere fuori a giocare. Perché non poteva giocare? Con quel ragazzo dai riccioli castani che sedeva sui leoni di pietra, fuori dalla Quinta Casa di Leo. Le aveva detto di essere un Cavaliere d’Oro ma era troppo giovane, di certo si era burlato di lei. Incuriosita, avrebbe voluto saperne di più, di lui e di suo fratello, così forse avrebbe smesso di pensare a Toma, che l’aveva abbandonata. Toma, che non avrebbe più rivisto.

 

“Atena!!!” –Gridarono Asher, Castalia e Tisifone, ormai avvolti in una sfolgorante nube di cosmo iridescente che presto assunse sfumature dorate. In quel momento tre comete bucarono il cielo nero, precipitando sui Cavalieri della Dea della Guerra e rivelando tre scrigni d’oro massiccio.

 

“Incredibile!” –Rantolò Kama, riconoscendoli. Anche Ravana dovette allarmarsi, muovendo la Spada di Luna in direzione di Asher, deciso a tagliargli la testa prima che potesse usare quella nuova arma giunta in suo aiuto.

 

“Non ti permetterò di fargli del male!” –Avvampò la Sacerdotessa della Poppa, interponendosi tra loro, proprio mentre il demone affondava la lama e gli scrigni dorati si aprivano, riverberando la loro tonificante luce aurea.

 

“Ma quelle sono…” –Balbettò Titis, ancora sdraiata a terra, vicino all’amica Tisifone che ormai fluttuava in aria, sostenuta da una corrente di cosmo dorato.

 

“Scorpio, Cancer e Fish combattono con noi!”

 

L’armatura del Cancro apparve di fronte a lei, scomponendosi e andando poi a rivestire lo stanco corpo della Sacerdotessa Guerriera, già protetta durante la Scalata all’Olimpo. Poco distante l’armatura dei Pesci si mostrò in tutto il suo splendore, entrando in sintonia con Castalia e ricoprendola all’istante. Terza apparve la corazza che aveva difeso il custode dell’Ottava Casa e che adesso avrebbe prestato aiuto al giovane Unicorno. Così, rivestiti delle armature dei Cavalieri d’Oro, Tisifone, Castalia e Asher si ersero di nuovo attorno a Ravana, solo per rendersi conto che Kama giaceva nella polvere, con la Spada di Luna ancora conficcata nel petto.

 

“Kama!!!” –Esclamò subito Asher, muovendosi per soccorrerla, ma lo sguardo che lei gli rivolse lo fermò.

 

“Ho tenuto fede alla mia promessa! Adesso rivedrò Regor e assieme a lui, a Nicole e al nostro maestro Magellano veglieremo su di voi. Addio giovani Cavalieri di Atena, voi siete la nuova generazione. Voi siete la salvezza della Terra!” –Disse, con le lacrime agli occhi, prima di lasciar esplodere tutto il suo cosmo. La detonazione spinse persino Ravana indietro, costringendolo a coprirsi gli occhi, per poi scoprire, quando la luce scemò d’intensità, che la donna era scomparsa, assieme alla sua lama.

 

“Maledetta! Me l’hai portata via!”

 

“Oh, povero mostro! Hai perso il tuo giocattolo preferito?” –Lo apostrofò Asher, sforzandosi di dare alla voce un tono più spavaldo di quanto non si sentisse.

 

“Tu non capisci, miserabile mortale!” –Ringhiò l’altro, scattando avanti, a pugni tesi, e scontrandosi con il Cavaliere di Atena. –“Quella era l’ultima reliquia! Tutto quel che mi restava dei tempi in cui ero il Terrore dell’India! Prima che Rama sigillasse i miei poteri, privandomi dello status divino! E vi massacrerò per avermela portata via!” –Pugno contro pugno, affondo contro affondo, Ravana e Asher danzarono su loro stessi, uno parando e l’altro colpendo e viceversa, finché il demone non lo spinse via con un’onda di energia ma, anziché opporsi, l’Unicorno si lasciò trascinare, facendo una capriola in aria e atterrando a piedi uniti, a debita distanza.

 

“Quale inimmaginabile potere nascondo le Armature d’Oro!” –Analizzò, sentendosi come se fosse appena uscito da una lunga malattia.

 

“Un potere di cui non dobbiamo abusare!” –Precisò Castalia. –“Nemmeno loro possono rimediare a tutto.”

 

“Ce lo faremo bastare!” –Chiosò Tisifone. –“Insieme! Adesso!” –E bruciò il cosmo, sollevando il braccio destro, avvolto in una moltitudine di scariche di energia. –“Cobra incantatore! Mordi la tua preda!” –Ma l’assalto della donna, per quanto potenziato, Ravana riuscì comunque a evitarlo, spostandosi più veloce del guizzare del serpente energetico. Afferrò Castalia per un piede, mentre piombava su di lui a gamba tesa, roteandola e scagliandola sulla compagna e schivò infine il calcio volante di Asher.

 

“Non… funziona!” –Mormorò quest’ultimo, a cui la smania per l’eccitazione iniziale stava passando, realizzando che le parole di Castalia erano vere. –“Le armature d’oro… da sole non bastano a rendere grande chi le indossa!”

 

“E voi siete soltanto insetti! Non ho bisogno di Chandrahas per schiacciarvi!” –Disse Ravana, sbattendo un pugno nel palmo dell’altra mano e spalancando poi le braccia, mentre tutte le teste deformi sulla sua corazza iniziavano a gridare, allungandosi rapaci verso gli avversari. –“Dasamukha! Divorateli, dieci facce di Ravana!”

 

“No!!!” –Gridò allora Titis, sfiorando il suolo e infondendovi tutto il cosmo che poté, facendo sorgere, ovunque attorno a sé, fusti di corallo che si avvitarono attorno alle dieci facce allungate del demone, tentando di frenarne la furia. –“Siamo con te!” –Si rialzarono Nemes, Reda e Salzius, iniziando a prenderle a pugni, per distruggerle.

 

Vedere i ben più deboli e indifesi compagni lottare fino alla fine infiammò l’animo di Asher, Castalia e Tisifone, portandoli a bruciare i loro cosmi oltre ogni limite avessero mai creduto di avere. Quale senso avessero raggiunto non seppero dirselo, ma seppero che in quell’impresa gloriosa non erano soli, bensì sostenuti dai cuori ardenti di chi credeva in loro.

 

“Geki! Aspides! Ban! Black! Per voi combatto!” –Esclamò l’Unicorno, levando il pugno guantato d’oro. –“Mylock! Kama! Maestro Regor! E anche per te, Lukas!”

 

“Cassios! Guardami dal firmamento ove riposi in pace! Guarda la tua maestra che mai ti ha dimenticato!” –Avvampò Tisifone. –“E anche tu, Artemide, so che vegli su di me, guarda la guerriera che avevi fronteggiato nella foresta! Iaiii!!!”

 

“A differenza vostra, io non ho perso nessuno. Coloro che amo sono tutti qua e io ho intenzione di rivederli! Toma, Nikolaos, Ioria! Aspettatemi!” –Concluse Castalia, mentre i loro cosmi salivano verso il cielo, unendosi in una corona di luce che piovve poi su Ravana, distruggendo le dieci facce intrappolate nel corallo e la sua corazza.

 

“Non… può essere! Sono un demone divoratore! Non posso essere sconfitto da tre ratti di fogna! Dasamukha!”

 

“Non da ratti, ma da un cobra reale!” –Esclamò Tisifone, spuntando dietro di lui, il braccio teso e avvolto da migliaia di scariche di energia, che scossero il corpo di Ravana, schiantando la sua armatura oscura.

 

“E da un’aquila!” –Aggiunse Castalia, colpendolo sul ventre con una miriade di calci, simili alle beccate di un maestoso predatore alato, fino a costringerlo indietro, a piegarsi e a tenersi le viscere che gli fuoriuscivano dalla ferita.

 

“E da un unicorno!” –Disse infine Asher, galoppando su di lui a una velocità che, a tutti, parve quella della luce. –“Per Atena e per i nostri amici!” –E lo trapassò con il pugno teso, scaraventandolo in alto, con il corpo a pezzi. –“Qui giace Ravana, il demone che non fu mai davvero un re!”

 

Ansimando, i Cavalieri si riunirono tra loro, per verificare le ferite di Reda e Salzius. “Sei stata bravissima! Eri ancora debole per lo scontro con Atteone ma non hai esitato a lottare per la causa. Ti ammiro!” –Disse Titis all’amica. –“Ma la guerra è lungi dal terminare!” –Aggiunse, mentre la schiera famelica dei Rakshasa li circondava, in cerca di vendetta. Asher mostrò il pugno, ma si accorse che la luce del suo cosmo non era più poi così dorata. Se anche sono forti la metà di Ravana… rifletté, cercando di non farsi vincere dallo sgomento.

 

Prima che potesse anche muovere un solo passo sentì un soffio di vento lambirgli le gambe, una corrente che turbinò attorno ai sei combattenti travolgendo i Rakshasa e sollevandoli poi in una vera e propria tromba d’aria.

 

“Soffia, Vento di Levante!” –Esclamò una voce cristallina, mentre una sagoma cinta da un manto di variopinti colori scendeva su di loro. Anche se ferito e con la Veste Divina danneggiata, l’ultimo figlio di Eos riuscì comunque a sorridere ai Cavalieri di Atena mentre il suo cosmo esplodeva, disintegrando i demoni antropofagi.

 

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Capitolo 19
*** Capitolo diciottesimo: Alle porte della notte. ***


CAPITOLO DICIOTTESIMO: ALLE PORTE DELLA NOTTE.

 

Asterios si chinò su Matthew, sfiorandogli la spalla ferita e mormorando qualche parola in una lingua così antica che, udendola, Elanor pensò fosse la Prima Lingua, quella parlata dagli Angeli. Quindi si sfilò il guanto dell’armatura, di fronte allo sguardo incuriosito di Nyx, piantandosi le unghie nel palmo della mano e lasciando che alcune gocce di sangue piovessero sul ragazzo.

 

Indispettita, la Notte si fece avanti, puntando il suo tridente, solo per accorgersi di star sprofondando nel suolo, divenuto improvvisamente fangoso.

 

“Uno dei tuoi trucchetti magici?” –Sibilò. –“Oh, so quanto vi piaccia, a voi Angeli, intrattenere il pubblico, nelle rare occasioni in cui ne avete uno. Ricordo come ti sei pavoneggiato delle tue farfalline sulla Luna! Ma qua non siamo nel Reame Beato, Asterios! Qua siamo alle porte di Caos, ove regna l’oscurità!” –Avvampò, facendo esplodere il suo cosmo e creando un cratere tutto attorno a sé.

 

Con un balzo, e l’oscillare inquieto del suo mantello, Nyx tornò di nuovo ad altezza suolo, proprio mentre Elanor si rimetteva in piedi, avvolta nella sua aura cosmica, e le dirigeva contro un assalto energetico.

 

“Non ti permetterò di far del male a Matt! Falce di luna!!!”

 

Nyx torse il tridente, parando l’affondo, prima di muoverlo bruscamente a destra, strusciandolo contro la sua corazza e gettando la ragazza a gambe all’aria. Un attimo dopo già stava piombando su di lei, le tre punte dell’arma dirette al suo ventre.

 

“Non avevo detto… basta così?!” –Intervenne Asterios, portandosi con un lampo di luce di fronte ad Elanor e afferrando la punta centrale con la mano guantata, in uno stridio di metallo e cosmi.

 

“Credi che sia sufficiente guardarmi per mettermi in castigo? Non sono una delle tue schiave, Arconte d’Acqua! Oh, non guardami così! Mi sono documentata e ho saputo come hai sfruttato la tua progenie! Eri geloso delle cinquanta figlie di Endimione, da generarne una dozzina?”

 

“Bastarda! Non parlare di mio padre!” –Esclamò Elanor, rialzandosi, ma Asterios le ordinò di stare indietro, prendere Matthew e trovare un riparo. –“Ma io… combatterò al vostro fianco! Io voglio combatterla!”

 

“Ciò che vuoi tu è qualcosa che nessuno può concederti, neppure gli Angeli!” –Disse Asterios con tristezza. –“Ritrovare quel che è stato perduto va al di là dei dettami della nostra esistenza. Per ironia, l’unico che potrebbe aiutarti è proprio Caos, ma dubito che ti piacerebbe la versione con cui resusciterebbe i tuoi genitori! Perciò allontanati, Elanor! Aiuta Shen Gado con quelle Volpi Nere!”

 

“Nessuno si allontana dalla Corte della Notte se non sono io stessa a volerlo!” –Sussurrò la Dea, espandendo il proprio cosmo. Ritirò il tridente e lo roteò sopra la testa, generando una spirale di cosmo nero che poi diresse contro Asterios e i Cavalieri delle Stelle. –“Nocturniae Tenebrae!”

 

“Indietro!” –Gridò l’Arconte Verde, spingendo via Elanor mentre con l’altra mano sollevava una barriera di energia acquatica su cui l’assalto della Notte impattò. –“Non posso farti da tutore, Principessa della Luna, né ne ho la benché minima voglia. Ti proteggerò, per rispetto a tua madre che mi ha ospitato nel Reame Beato, ma non essermi di peso in battaglia!” –Aggiunse, tornando a concentrarsi sull’attacco di Nyx, la cui oscurità stava corrodendo la muraglia azzurrognola.

 

Elanor rimase a osservare lo scontro per qualche secondo, indecisa sul da farsi. Con poche parole l’Arconte l’aveva messa al suo posto e, per quanto crude fossero, le comprendeva; al suo posto, non avrebbe voluto far da balia a una ragazzina irrequieta. Tirò un’occhiata oltre il cratere generato da Nyx e vide Shen Gado e Mani fronteggiare una decina di guerriere, dalle corazze simili a volpi nere, agili e veloci nel colpire. Forse avrebbe potuto essere loro d’aiuto.

 

Il tossire raschiato di Matthew la riscosse, facendola voltare verso il ragazzo che, grazie al sangue sacro di Asterios, stava recuperando colore e forze. Il ragazzo che, un’altra volta, non aveva esitato a correre a salvarla, come i Cavalieri del bel Mondo Antico di cui le sue sorelle amavano cantare e recitar poemi. E lei? Quanto ancora avrebbe dovuto recitare la parte della principessa in pericolo, dell’indifesa fanciulla che deve continuamente essere salvata? E quando sarebbe invece diventata il guerriero in grado di proteggere chi ama?

 

Prese la sua decisione nel momento in cui Nyx rinnovò il suo attacco, vaporizzando le Lance d’Acqua di Asterios. Si portò di fronte all’Arconte con il cosmo concentrato sullo Scudo di Luna e gridò. –“Talismani!” –Subito la croce celtica si illuminò di un bagliore argenteo, simile all’affiorare di uno scoglio in un mare in tempesta.

 

“Elanor…” –Mormorò Asterios, osservando quanta determinazione ed energia la ragazza stava infondendo al manufatto, per contrastare la marea d’ombra. Gli venne da sorridere, prima di poggiare una mano sulla sua spalla e lasciar fluire il suo cosmo color verde acqua attraverso di lei, potenziando l’effetto dello Scudo di Luna.

 

Migliaia di falene acquatiche sorsero attorno a loro, tuffandosi nell’oscura fiumana e costellandola di sprazzi di colore, che vennero comunque tutti inghiottiti, estinguendosi poco dopo. A quanto pareva le parole di Nyx erano vere. Alle porte della Notte tutte le luci perdevano intensità, anche quella degli Angeli.

 

“Insieme…” –Disse allora una terza voce, facendo voltare Asterios e Elanor, in tempo per vedere Matthew avvicinarsi, malconcio ma sorridente, e afferrare il braccio con cui la ragazza reggeva lo scudo, donandole la propria energia.

 

“Ben detto, ragazzo!” –Esclamò Asterios, approfittando di quel momento per portare il cosmo al parossismo. –“A voi la difesa, a me l’onore dell’offesa! Turbinate, Spiriti d’Acqua! Portate il nettare della vita anche qua dove sembra non esistere!”

 

“Vani e patetici tentativi, Asterios! Caos ha estirpato ogni forma di vita da questo deserto! Il tuo potere non attecchirà!” –Gridò Nyx, rinnovando il proprio assalto. –“La Marea d’Ombra vi sbaraglierà!” 

 

“O forse saremo noi a sbaragliarla…” –Commentò l’Arconte Verde, sibillino, prima di portare entrambe le braccia avanti, liberando gli Spiriti d’Acqua. Migliaia di sagome di energia acquatica, di ogni forma e dimensione, sfrecciarono nell’oscura melma, nuotando, annaspando, risalendo l’ostile corrente. Con coraggio, puntiglio e fede avanzarono finché riuscirono, purificando la nera marea con la loro presenza, che pareva accompagnarsi a un canto lontano, dai toni malinconici.

 

Strabuzzando gli occhi, Matthew vide sirene, ninfe e tritoni farsi strada nell’ombra, figure per metà umane e per metà pesci, conchiglie enormi, farfalle d’acqua e cavallucci marini. L’intero pantheon oceanino avanzò verso Nyx e qualcuno giunse pure a circondarla, aggrappandosi alle sue veste e bagnandole, prima di essere disintegrato, tirandole i capelli e zampettando sulla sua testa, fino a infilarsi nelle cavità auricolari, strappandole un moto di fastidio che crebbe fino a divenire un urlo.

 

“Come osi?!” –Avvampò, spalancando le braccia e generando un immenso maroso di tenebra che fluì in ogni direzione, riempiendo il cratere generato poc’anzi, travolgendo persino Shen Gado, Mani e le volpi nere, fino a fuoriuscire dalla Porta della Notte. –“Io sono Nyx, la Prima Dea! Nata dal Caos agli albori del mondo, quando nient’altro il mondo era se non una notte infinita, di cui mi nominò signora. Come può lo sfarfallio della tua misera luce anche solo pensare di contrastarmi? È follia! Anzi no, è derisione voluta nei miei confronti! Preparati, Arconte Verde, a subire la mia vendetta!”

 

“Ti aspetto, Nyx!” –Si limitò a rispondere Asterios, spinto indietro, assieme a Matt e a Elanor, dall’esplosione del cosmo della Dea. –“Tenetevi pronti!” –Aggiunse, cui i Cavalieri delle Stelle risposero con un veloce cenno del capo, espandendo le loro aure cosmiche. Un arcobaleno di luci circondò Matthew, turbinando attorno a lui in cerchi concentrici, mentre la sagoma di una luna di cosmo appariva alle spalle della ragazza, ritratta nella sua fase nascente.

 

“Principessa, dovresti ringraziarmi, ti donerò la stessa fine dei tuoi amati genitori!” –Sibilò Nyx, mentre il suo cosmo assumeva la forma di un gigantesco rapace oscuro, che subito sfrecciò verso il trio, sbattendo ampie ali nere. –“Questa, della Notte è la vittoria! Nox Invictus!”

 

Di fronte a quella gigantesca sagoma di oscurità, Matthew e Elanor rabbrividirono, travolti dall’improvviso ricordo della strage perpetrata da Nyx sulla Luna. Ma proprio quel ricordo diede a entrambi la forza per reagire.

 

“Cercherò di rallentarlo!” –Gridò Matthew, sfiorando le gemme della cintura. –“Arcobaleno incandescente!” –E diresse sette intensi raggi luminosi contro l’uccello dalle ali nere che stava per piombare su di loro, gli artigli pronti a ghermire ogni stilla della loro luce. –“Non riesco a fermarlo!”

 

Scudo di Luna!” –Tuonò Elanor, portandosi di fronte al ragazzo, con il braccio destro carico di energia e la croce celtica che riluceva di tutta la sua determinazione. –“Madre! Padre! Sorelle mie! Thot, Tecciztecatl e voi tutti Seleniti che mi avete considerato la vostra Principessa, anche quando non mi ci sentivo affatto! Anche per voi combatto!”

 

Il Nox Invictus li avvolse in quel momento, spingendoli indietro, cingendoli da ogni direzione, mentre le loro corazze scricchiolavano e la luce stessa dei Talismani pareva non bastare più. Ma resistettero, incuranti dei pezzi delle armature che andavano in frantumi, degli elmi che si spezzavano, del sangue che iniziò a schizzare dalle loro vene gonfie. Resistettero finché Asterios non parlò.

 

“Adesso!” –E un vortice di energia acquatica li sollevò, assieme all’oscura marea che li assediava, risucchiandola e disperdendola. –“Trionfo d’Acqua!” –Tuonò l’Arconte, il braccio levato al cielo, indirizzando il gorgo verso Nyx, attonita e furiosa per il fallimento della sua tecnica segreta.

 

“Non basterà!” –Sibilò, puntando il tridente e lanciandosi incontro all’assalto, sfondandolo e scagliando avanti l’arma. Asterios liberò tutta la potenza del Trionfo d’Acqua in quel momento, investendo la Dea e scaraventandola molti metri addietro, fino a farla schiantare contro un bastione del Primo Santuario, di fronte agli sguardi sbigottiti delle Volpi Nere e dei Seleniti.

 

Ma neppure l’Arconte uscì indenne dallo scontro, venendo raggiunto al ventre dal tridente di Nyx e costretto ad accasciarsi su un ginocchio, presto raggiunto dagli stanchi Matthew ed Elanor.

 

“Asterios? State bene?”

 

“Puoi anche smetterla con queste formalità, Elanor! Non sono il Principe della Luna tanto quanto tu non ne sei mai stata la Principessa!”

 

“Da un lato non mi dispiace. Quando mia madre ci introdusse, temevo che avesse combinato un matrimonio alle mie spalle. Conoscendola, ne sarebbe stata capace!” –Rise la ragazza, per la prima volta in quell’ombrosa giornata.

 

“Lo credo anch’io.” –Sorrise l’Angelo Verde, guardandola negli occhi, mentre con la mano destra afferrava l’arma e la estraeva, imbrattando l’Ars Magna di sangue.

 

“Potete curarla?” –Chiese allora Matthew. –“Come avete fatto con la mia ferita.”

 

“Potrei. Ma in tal caso non avrei forze abbastanza per affrontarla!”

 

In quel momento le macerie crollate vennero disintegrate da un’esplosione e un grosso uccello dalle ali nere spuntò tra la polvere, sollevandosi inferocito in aria. Fissò i tre compagni con occhi violacei, prima di scendere in picchiata su di loro.

 

***

 

Dominion of light!!!”

 

Con un solo attacco, Shen Gado mise subito in chiaro che la superiorità numerica delle avversarie non lo preoccupava affatto.

 

Ovunque si trovassero, le Volpi Nere vennero raggiunte da una pioggia di lame di luce, fitta e penetrante, che scheggiò le loro corazze, trovando persino spazio per ferire la loro carne. Ringhiando, le dodici donne ripararono dietro le rozze e disorganiche mura del Primo Santuario, confabulando tra loro in una lingua che il Capitano dei Seleniti non seppe decifrare, sebbene chiaramente asiatica.

 

“È giapponese!” –Intervenne Mani, affiancandolo. –“A volte, nei giorni di primavera, quando ancora ero ben poco esperto dei deliri del mondo, camminavo lungo le gelide terre dell’Asia settentrionale, osservando i ghiacci sciogliersi e lasciare spazio al fiorire blando della natura. Di rado, poteva capitare di incontrare qualche mercante o qualche esploratore dell’Estremo Oriente. È una bella lingua, il giapponese, molto musicale. A Hjúki sarebbe piaciuto impararla.”

 

“Tuo figlio?”

 

Mani annuì, riportando lo sguardo sulle dodici donne che si stavano lanciando di nuovo su di loro. Agili e leggiadre, sembravano davvero le volpi che le loro corazze rappresentavano, e di certo avevano gli stessi denti, pronti ad azzannarli.

 

Shen Gado sollevò di nuovo il braccio al cielo, liberando la sua pioggia di lame lucenti, mentre Mani radunava il cosmo attorno a sé, in una turbinante tempesta di cristalli di ghiaccio, con cui tentò di rallentare l’avanzata delle Volpi Nere. Qualcuna ne subì gli effetti, ma altre continuarono la loro corsa, saltando sui corpi delle sconfitte compagne e dandosi la spinta per raggiungere i Seleniti.

 

Una caterva di zanne nere piovve su Mani, dilaniando la sua bufera di ghiaccio e raggiungendo l’armatura, spingendolo di lato in lato fino a farlo barcollare. Quando riuscì a recuperare una solida postura, già un paio di Volpi Nere erano su di lui, i pugni diretti al suo ventre. Il Selenite riuscì ad afferrarne uno, torcendolo e scaraventando la donna all’indietro, ma un altro lo colpì con la forza di un macigno.

 

Agili, leggiadre ma forti come uomini.

 

“Ne sei sorpreso?” –Disse colei che l’aveva colpito, ritirando il braccio dalla corazza crepata. –“Non esserlo! O morirai con lo stupore in volto!” –Aggiunse, preparandosi per colpirlo di nuovo, ma Mani reagì portando avanti il braccio destro, il palmo aperto e rivestito di gelida energia, su cui il pugno della donna impattò, rimanendoci bloccato. –“Che fai? Lasciami, idiota!”

 

“Idiota era un nome che mi mancava, in effetti!” –Commentò Mani, mentre il suo cosmo cresceva e uno strato di ghiaccio rivestiva la mano e l’arto della Volpe Nera. –“I miei compagni, ad Asgard, mi chiamavano il rossastro, in Hel ero noto come Ruota che Gira. Per i Giganti ero Spinta, per i nani Chiarore. Per gli uomini di Midgard ero soltanto Mani, il Dio della Luna. Un Dio, donna volpe, hai capito? E anche se ho deposto le armi molto tempo addietro, quando ancora eri nel ventre di tua madre, non ho dimenticato come si combatte. Sono un figlio dell’inverno e il mio cosmo ne è la prova!” –Aggiunse, osservando il corpo dell’avversaria ricoprirsi di ghiaccio, di fronte al suo sguardo terrorizzato. Una manciata di secondi e quella grezza statua azzurra esplose.

 

“Uomo bastardo!” –Ringhiò allora la nemica che aveva abbattuto poco prima. –“Hai osato uccidere una delle mie sorelle? Non sai cosa attende chi taglia una delle nostre code? Sciagura, sofferenza e morte!” –E scattò avanti, liberando una raffica di pugni, che tempestarono il corpo del Selenite di Saturno fino a spingerlo indietro, tra le braccia di un paio di Volpi Nere che, nel frattempo, si erano avvicinate in silenzio.

 

“Infide e guardinghe. Proprio come le volpi.” –Disse Mani, espandendo il cosmo.

 

“Siamo quello che siamo. Le Kitsune Oscure. E ora conoscerai il nostro potere.”

 

“Le dodici sorelle, vergogna della loro stirpe, che tradirono Inari, abbandonando le Zenko e divenendo…?”

 

“Nogitsune!” –Sibilò l’altra, portando avanti il pugno destro, colpendolo a un fianco e crepando la sua corazza con quelle che, a Mani, non sembrarono più dita bensì lame affilate. –“Le code della volpe possono tagliare qualsiasi metallo, anche il più resistente. È solo questione di tempo, e noi ne abbiamo a sufficienza per giocare con te!” –E continuò a colpirlo, mentre le sue sorelle facevano altrettanto, mirando alla schiena, al cranio coperto dall’elmo, che presto distrussero, imbrattandogli di sangue faccia e orecchi, alle braccia robuste ma lente. Infine al cuore.

 

Fu quando la volpe mirò all’organo principale che percepì il cambiamento climatico, quasi l’adrenalina dello scontro non gliel’avesse fatto avvertire. Adesso, invece, notò con quanta lentezza il suo braccio si muoveva, ricoperto da uno strato di brina che, quando impattò sulla corazza del Selenite, era già divenuto ghiaccio. Lo stesso elemento che aveva bloccato anche le braccia delle sue sorelle, solidificandole in una massa confusa e, adesso, urlante.

 

“Tanta potenza d’attacco e una così misera difesa.” –Disse Mani, espandendo il proprio cosmo azzurro e liberando un’esplosione di luce e cristalli di ghiaccio che scaraventò indietro le Kitsune Oscure. Ma anziché schiantarle a terra, con le corazze distrutte e la pelle e le ossa divorate dal gelo di Asgard, la tempesta di cristalli le sollevò da terra, aspirandole in una spirale che crebbe fino a perdersi nell’oscurità del cielo. –“Ultimo inverno!” –Gridò il Selenite di Saturno, spazzando via le bellicose avversarie e crollando poi a terra.

 

Si toccò la ferita al fianco e sentì il sangue mescolarsi alle schegge dell’armatura. Il suo gelido cosmo ne aveva contenuto la fuoriuscita, ma adesso era debole e stanco. Shen Gado, poco distante, stava affrontando le restanti Volpi Nere, una delle quali sembrava particolarmente agguerrita, mentre l’Arconte d’Acqua e i Cavalieri di Avalon si erano trincerati in difesa, esposti agli artigli d’ombra della Notte. Forse avrebbe dovuto portare loro aiuto.

 

Inspirò più volte, lasciando che il proprio cosmo cicatrizzasse le ferite, prima di tirarsi su e avviarsi verso l’ingresso della Corte della Notte, quando udì le grida.

 

Le possibilità di riconoscere una voce tra le migliaia dei soldati dell’Alleanza e dei Guerrieri del Caos erano minime, eppure Mani non ebbe alcun dubbio. Quel tono allarmato, quello squittio acuto, poteva appartenere soltanto ai suoi figli.

 

“Hjúki? Bil?”

 

Le grida si ripeterono e il Selenite vide una figura muoversi furtiva sotto le arcate che chiudevano la Corte della Notte a oriente, collegandola con la fortezza di Caos. Senza pensarci due volte, Mani si lanciò in quella direzione.

 

***

 

Pegasus stava cercando di raggiungere Asterios.

 

Con una velocità che persino per un Dio sarebbe stata sorprendente, l’Arconte Verde era scivolato nella marea nera che li circondava, portandosi di fronte alla Porta della Notte. L’aveva sfiorata e… era saltata in aria.

 

Quel gesto aveva galvanizzato le forze dell’Alleanza che adesso stavano premendo per raggiungere l’Angelo d’Acqua, convinti che la possibilità di vittoria fosse reale. Il Cavaliere di Atena non ne era troppo convinto, lui che aveva affrontato Nyx e che ancora ne portava i segni, sul corpo e nell’anima, temendo che qualche oscuro inganno fosse all’opera, motivo per cui a ogni occasione scandagliava il campo di battaglia con tutti i sensi.

 

I suoi compagni stavano ancora combattendo.

 

Reis era intervenuta in aiuto degli Areoi, massacrando i Gytrash e i demoni che li cavalcavano, e Toru doveva aver vinto il Nefario del Bufalo di Sangue, ma erano rimasti indietro e adesso stavano lottando per farsi strada nella marea di ombre che sbarrava loro la strada. Poco oltre le fiamme di Sin degli Accadi e i fasci di luce di Jonathan stavano respingendo l’ultima offensiva dei Lestrigoni, ma di nemici da fronteggiare ne rimanevano fin troppo. E le ombre dei guerrieri caduti continuavano a riversarsi su di loro, con una ripetitività che Pegasus trovò sfiancante.

 

Aveva perso il conto degli avversari che aveva affrontato e vinto, solo per doverli affrontare di nuovo poco dopo. Tredici Cavalieri di Asgard, dodici Cavalieri della Corona e una quantità indefinita di Satiri Guerrieri e soldati dell’Olimpo, fino ad arrivare ai Ciclopi Celesti. Gli faceva ancora male la guancia, là dove il cazzotto di Bronte del Tuono lo aveva raggiunto, e forse gli aveva spaccato persino un dente. E, non fosse stato per Balmung, avrebbe avuto difficoltà ad opporsi alla spada di Arge lo Splendore.

 

Sospirando, mosse il braccio destro, aprendo e chiudendo le dita della mano più volte, indolenzite non soltanto dalla stanchezza, anche dall’ombra di Erebo che non l’aveva più lasciato. Un fruscio lo fece voltare, giusto in tempo per osservare un guerriero del Caos piombare su di lui, montando un mostruoso cavallo di fuoco fatuo.

 

“Belzebù?” –Mormorò, mentre lo scagnozzo di Lucifero liberava migliaia di strali di energia, che Pegasus evitò passando in mezzo ad essi, prima di darsi lo slancio per balzare in alto e travolgerlo con un pugno di luce. L’attacco, comunque, non dissuase i compari di Belzebù, che si radunarono attorno a lui per balzargli addosso. Ma non appena si mossero vennero investiti da un rigurgito di fiamme, così calde da spingere indietro lo stesso Cavaliere di Atena.

 

“Perdonami se ti ho arrecato danno, ma è difficile addomesticare il fuoco, soprattutto nel cuore di una mischia!” –Parlò una voce atona che, non fosse stata troppo giovane, Pegasus avrebbe scambiato per quella di Avalon. Si voltò e dovette alzare la testa per incontrare lo sguardo soddisfatto, e un po’ volpino, del Selenite di Marte. –“Il fuoco è vita e la vita è libertà!”

 

“Sin degli Accadi! Quali nuove mi porti?”

 

“I Lestrigoni hanno cessato di esistere. Jonathan di Dinasty sta abbattendo gli ultimi in rotta. Questo finché Caos non li riporterà in vita, ma immagino detesti ricorrere a chi già una volta è stato sconfitto. Io, quantomeno, di simili falliti non mi servirei più!”

 

Pegasus annuì, continuando ad osservare quel ragazzo dai capelli blu che camminava a dieci passi da terra, quasi rifiutasse di toccare il suolo ove dimorano gli umani, ricordandosi che tutto era meno che un semplice ragazzo. Più di una volta, nel corso di quell’interminabile giornata, si era detto contento che fosse dalla sua parte e, di certo, avrebbe continuato a ripeterselo fino alla fine.

 

Notando che il Selenite sembrava essersi incantato ad osservare lo squarcio aperto dove prima si ergeva la Porta della Notte, Pegasus gli chiese a cosa stesse pensando.

 

“L’Arconte di Acqua è nel pieno dello scontro, lo sento, e altri focolai di lotta si sono accesi all’interno del Primo Santuario. L’attenzione di Nyx sembra essere rivolta altrove. Io credo…” –Spiegò, voltandosi infine verso il Cavaliere di Atena. –“Credo che possiamo varcare la soglia. Se la Notte sta affrontando Asterios, non avrà modo di mantenere una protezione solida a difesa del cancello. Quel velo che ci separa da loro lo estinguerò con una sola fiammata!”

 

“Pensa piuttosto a non farti mozzar via la testa!” –Disse una terza giovanile voce, mentre una sagoma dorata si gettava su Sin, afferrandolo e trascinandolo a terra con sé. Un istante dopo un gigantesco rostro fendeva l’aria sopra di loro, anticipando la carica di un’intera legione di ombre guerriere.

 

Osservandole, Pegasus riconobbe i tratti spigolosi delle armature, riportando alla mente le lezioni di Castalia. Noiose, all’epoca, ma di cui col tempo aveva saputo raccogliere i frutti.

 

“Per quanto strano sembri, Ares non è stato il primo a dichiarare guerra ad Atena. Tutt’altro. La prima Divinità contro cui Atena lottò fu sua sorella, Pallas.” –Gli aveva detto la Sacerdotessa dell’Aquila.

 

“Pallas? Non sapevo che Atena avesse una sorella!” –Aveva risposto Pegasus, incuriosito.

 

“In effetti, nessuno ne parla mai, nemmeno le antiche cronache, poiché Pallas è la Dea dimenticata, colei che per prima, dopo la fine della Titanomachia, si macchiò dell’orrendo crimine di attaccare un congiunto, venendo per questo condannata da Zeus a sprofondare nell’oblio.”

 

“Sono Pallasite!” –Esclamò Pegasus, osservando la schiera di guerrieri in arrivo, tutti con un’arma in mano. –“I leggendari servitori della Dea obliata.”

 

“Siamo forse noi meno leggendari?” –Bofonchiò Sin, rialzandosi e spolverando l’armatura, prima di voltarsi verso Jonathan, come se lo guardasse per la prima volta. –“A questo punto dovrei ringraziarti, immagino. Facciamo così, ti coprirò le spalle. Ed è il miglior ringraziamento tu possa ottenere!” –Aggiunse, librandosi in aria, avvolto nel suo cosmo rossastro.

 

Jonathan lo fissò a occhi aperti, prima di scuotere la testa, impugnare lo Scettro d’Oro e scattare avanti, affiancato da Pegasus.

 

Cometa d’oro!”

Fulmine di Pegasus!”

 

Gli attacchi energetici travolsero la prima linea di Pallasite oscuri, distruggendo le loro corazze, ma altri, ben più coriacei, presero il loro posto, liberando sfere di cosmo nero, fruste di energia e gigantesche mazze ferrate.

 

“Giù!” –Disse Pegasus al compagno, strattonandolo per una spalla e togliendolo dalla traiettoria di una lancia, prima di contrattaccare con la sua pioggia di meteore.

 

“Quanti sono? Continuano ad arrivarne!” –Ringhiò Jonathan, rialzandosi e levando lo Scettro d’Oro di modo che tutti potessero vederne il fiore, sulla punta, che si spalancava, inondando il mondo di un fiume dorato. –“Luce dello Scettro!”

 

Un’altra fila di Pallasite fu disintegrata, ma ormai Pegasus e Jonathan erano stati circondati e costretti spalla a spalla. –“Pronto?” –Esclamò il Cavaliere di Atena, strappando un grugnito al biondino, ma prima che potessero scattare avanti un oceano di fuoco luminoso si riversò sui Pallasite, costringendo entrambi a coprirsi il volto.

 

È-kish-nu-gal!” –Tuonò la voce di Sin degli Accadi, in piedi, sopra di loro, con un braccio teso al cielo su cui ancora risplendeva una fiamma amaranto. –“Cadete, deboli creature del Caos, nella Casa della Gran Luce!”

 

“Che fine orribile!” –Mormorò Jonathan, osservando le nere evanescenze, e le corazze che le rivestivano, liquefarsi sotto la pioggia di fuoco divino.

 

“Non dispiacertene!” –Commentò Sin, planando accanto ai due. –“Loro non lo farebbero, se i nostri posti fossero invertiti.”

 

Proprio in quel momento li raggiunsero anche Reis, Toru e i pochi Areoi ancora vivi, lasciandosi alle spalle un sentiero di cani macellati.

 

“State bene?” –Chiese subito Pegasus.

 

Il Comandante dell’Avaiki non disse niente, limitandosi a un fugace cenno d’assenso, per quanto fosse chiaro, dal suo volto teso, dalle ferite aperte e dai danni sulla corazza, che non fosse così. Gli Areoi che lo accompagnavano dovevano avere più o meno l’età sua, di Sirio e degli altri ma, forse per la loro scarsa altezza, il volto glabro o lo spirito fanciullesco che li aveva fatti vivere in un eden sottomarino, sembravano nettamente più giovani. Reis dovette intuire i suoi pensieri, accennandogli un sorriso, prima di indicare, con la Spada di Luce, una nuova marea d’ombra in arrivo.

 

“Siamo tagliati fuori!” –Commentò Pegasus. –“Se continuiamo ad affrontare i caduti non usciremo mai da questo labirinto tattico in cui Caos ci ha sprofondato.”

 

“Sono preoccupato!” –Aggiunse Jonathan, attirando l’attenzione di Reis. –“I cosmi di Matt e Elanor… alternano picchi di espansione a momenti in cui fatico a percepirli.”

 

“Nyx…” –Mormorò la ragazza.

 

“Sembra che tutti vogliate raggiungere la Dea della Notte, saltando la parte migliore.” –Intervenne Sin, guadagnandosi un’occhiata di sbieco dai Cavalieri delle Stelle.

 

“Che sarebbe?”

 

“Combattere!” –Rispose il Selenite di Marte, avvampando nel fuoco divino. –“Ora, ci sono due modi per arrivare dalla Primogenita. Restiamo qua e continuiamo a subire, passivi, la strategia dell’Unico, impantanando le nostre risorse in un conflitto che, come il Primo Cavaliere di Atena ha ben evidenziato, è solo un labirinto senza via d’uscita. Oppure… iniziamo a condurre lo scontro.”

 

Pegasus, Reis, Jonathan e Toru lo ascoltarono interessati, mentre anche altri membri dell’Alleanza li raggiungevano: Tirtha e i santoni indiani ancora vivi, Avatea, Hubal e una decina di guerrieri inca.

 

“Dobbiamo farli stare dove vogliamo noi, unendo le nostre forze e lasciando che ognuno di noi dia il massimo del suo potenziale.” –Spiegò Sin, per poi indicare i due fedeli di Avalon. –“Voi batterete il perimetro, sistemandovi ai lati e falciando con i vostri Talismani tutte le ombre che cercano di allontanarsi. Mettetevi lì, uno a destra, l’altro a manca. Pellegrina, tu e i tuoi santoni rimarrete qua, dovrete generare dei muri mentali che tengano la marea d’ombra all’interno dell’aria delimitata dai Cavalieri delle Stelle. Potete farcela?”

 

Tirtha prontamente annuì, ma Jonathan ribatté.

 

“Non sarà facile!”

 

“Nessuna guerra lo è mai stata. Ma così abbiamo una possibilità.”

 

“E una volta che li abbiamo bloccati nel mezzo?” –Disse Pegasus, strappando a Sin un gran sorriso.

 

“Saranno proprio dove noi li vogliamo!”

 

 

 

 

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Capitolo 20
*** Capitolo diciannovesimo: La danza dei demoni. ***


CAPITOLO DICIANNOVESIMO: LA DANZA DEI DEMONI.

 

L’Armata delle Tenebre era su di loro.

 

I santoni indiani stavano facendo il possibile per mantenere unita quella nera fiumana, creando scudi psichici che li incanalassero in un’unica direzione. Reis e Jonathan si erano già disposti ai lati di quello che sarebbe stato il loro spazio d’azione, un cunicolo di trenta metri di larghezza colmo di oscurità, protetti rispettivamente dagli Areoi e da Hubal e Avatea.

 

Al suo fianco, Sin fremeva di torrida impazienza, mentre Toru si stava stirando i muscoli del collo. Tutti avevano ricevuto un compito ed erano pronti a eseguirlo, consapevoli che, in caso di fallimento, nessuno di loro avrebbe avuto una seconda possibilità.

 

Pegasus sfoderò Balmung e la sollevò, dando il segnale.

 

Subito Reis e Jonathan liberarono la luce dei Talismani, plasmandola in modo da creare un piano di energia che sfrecciò in verticale, verso le mura del Santuario delle Origini. Tirtha e i santoni, alle loro spalle, iniziarono a cantilenare, espandendo le loro aure e generando una bolla di contenimento che andò a chiudere, dall’alto, le pareti di cosmo, rinchiudendo i Guerrieri del Caos al suo interno. Quelli che provarono a forzare il blocco, dirigendo assalti contro le mura dorate, vennero spinti indietro da invisibili onde mentali.

 

“Non resisteranno a lungo.” –Notò subito Pegasus.

 

“Motivo in più per correre, cavallo alato!” –Esclamò Sin, avvolgendosi nel proprio cosmo rossastro. –“Vediamo chi raggiunge per primo la Corte della Notte!” –Non aggiunse altro e scattò avanti, piombando in mezzo alla marea nera come una cometa infuocata e divorando tra le fiamme chiunque toccasse.

 

Pegasus lo seguì all’istante, le ali dell’armatura sollevate per darsi lo slancio, roteando la spada di Odino in ogni direzione, affondando, squarciando, tagliando e infine usandola per catalizzare il proprio cosmo e liberare migliaia di meteore lucenti.

 

Toru, infine, alla destra del Cavaliere di Atena, si fece strada a fauci spalancate, senza risparmiarsi. Adesso che i suoi giovani compagni erano al sicuro, anche dalla sua sete di sangue, poteva liberare la furia del predatore sopita nel suo animo.

 

È-kish-nu-gal!” –Esclamò Sin.

Cometa lucente!” –Gli andò dietro Pegasus.

Fauci dello Squalo Bianco!” –Gridò il Comandante degli Areoi.

 

In questo modo riuscirono a percorrere metà della distanza che li separava dalla Porta della Notte, falcidiando tutti coloro che incontrarono lungo la strada. Quei pochi fortunati da evitare gli assalti dei tre caddero sotto i colpi dei guerrieri inca che li seguivano, chiudendo loro, a ovest, ogni possibilità di fuga.

 

“Sta funzionando!” –Disse Pegasus, nel pieno della mischia, piantando Balmung nel ventre di un Pallasite.

 

“Avevi dubbi? Sono un Signore della Guerra, non un ragazzino impavido che si lancia in battaglia senza una strategia!” –Commentò Sin, lasciando che una vampata di fuoco divino divorasse un’intera legione di Cavalieri di Asgard.

 

“Ti piace proprio combattere, eh?”

 

“A dir poco. Io amo combattere. La guerra è la mia vita, senza di essa mi è sembrato di dormire per secoli.”

 

“Se la ami così tanto che ci facevi sulla Luna? Il Reame Beato non era certo posto per gli spiriti bellicisti come te!”

 

A quelle parole Sin sollevò il braccio al cielo, mormorando parole che Pegasus non riuscì a comprendere, parole di una lingua che non aveva mai sentito e che, non dubitava, nessuno forse parlava più.

 

“Sin degli Accadi, eh? Chi diavolo sono gli Accadi? Non erano un popolo della Mesopotamia, o qualcosa del genere?” –Esclamò, facendosi strada in un altro gruppo di Pallasite.

 

“Sei tanto forte quanto ignorante! Comunque dici il vero, eravamo un popolo. Il passato è corretto.”

 

“Cos’è successo?”

 

“Quello che succede ai deboli. Vengono vinti e sopraffatti. La storia funziona così e qualunque tentativo di riscriverla incontra sempre lo stesso destino. Fallisce.” –Chiosò Sin, generando una barriera di fiamme amaranto che poi spinse avanti, per carbonizzare tutto quel che incontrò. –“Dopo la caduta di Akkad, capitale del nostro regno, me ne andai, deluso dalla mia gente che non aveva saputo resistere all’invasore e che aveva invece cercato la pace. Vagai per il mondo, scoprendo che, in ogni sua parte, vigeva la stessa legge, che gli uomini ancora non hanno imparato. Così finii sulla Luna e all’inizio fu divertente osservarli continuare a farsi la guerra l’un l’altro, per ragioni che alla fine si riconducevano sempre a una sola: potere.

 

Seppi solo in seguito che i discendenti dei primi Accadi avevano cercato di ricreare una civiltà, mescolandosi con gli altri popoli mesopotamici. Fondarono una città e la chiamarono Nuova Babilonia, dove tutti gli Dei potevano essere venerati. Fu in questo modo che lo scoprii, udendo le loro preghiere, nel tempio che avevano innalzato in mio onore. Ammetto che ne fui colpito, credendo che nessuno si ricordasse più di me, ma la mia ammirazione durò poco e presto mutò in rabbia, quando circa cento anni addietro quegli stessi popoli, che avevano fondato quella città per vivere in pace, iniziarono a combattere tra di loro. Annunaki contro Annumaki, Appalaku contro Igigi. Stirpi che erano sopravvissute a disastri, carestie e guerre finirono per sterminarsi a vicenda, apparentemente senza motivo. Sarei voluto intervenire, urlai contro Selene per chiederle di andare ma lei rifiutò. Ero un Selenite ormai e come tale non avrei mai più dovuto combattere o sarei stato bandito per sempre. Ricordo che la odiai e fui tentato persino di allontanarmi senza il suo permesso; chi era in fondo lei, quella stupida e impaurita Divinità minore, per contrastare il volere di un Signore della Guerra?” –Avvampò Sin, fissando Pegasus con uno sguardo indemoniato che lo impaurì per un momento, prima che il Nume dirigesse tutto quell’odio represso verso i Guerrieri del Caos, falcidiandone una dozzina. –“Pur tuttavia aveva ragione. Avevo giurato e i giuramenti hanno ancora valore, almeno per me. Rimasi al mio posto e guardai Nuova Babilonia sprofondare nel sangue, nella polvere e nella dimenticanza. Nessuno si salvò, solo un’ombra che, di notte, vidi sgusciare via dalla grande piramide di Anduruna e scomparire nei deserti africani, dove ne persi le tracce. Scommetto che sai di chi si trattava.”

 

“Flegias…”

 

“Niente di nuovo sotto il sole.” –Chiarì Sin.

 

“Mi dispiace. Quel demone ha distrutto ogni civiltà su cui ha poggiato lo sguardo.”

 

“O potremmo dire che ogni civiltà su cui ha poggiato lo sguardo si è fatta distruggere, troppo debole, cieca o irretita dalle sue lusinghe per comprendere l’erroneità delle proprie azioni. Chi è il peccatore?”

 

“Flegias! O Anhar o come diavolo si fa chiamare adesso! Noi lo fermeremo e vendicheremo gli innocenti a cui ha strappato la vita!” –Esclamò Pegasus con fermezza, di fronte allo sguardo attento di Sin, che per un momento non si mosse.

 

“È interessante scoprire che c’è ancora chi combatte per proteggere gli altri. Sei una mosca bianca, Cavaliere.”

 

“Non è per questo che sei qui? Non vorrai soltanto vendetta?”

 

“Quella è una metà della mela. L’altra metà, la verità, è che amo inebriarmi di questa sensazione, la furia della battaglia, il sudore dei corpi che lottano, il fluire del sangue dei nemici e, su tutto, l’odore carbonizzato delle carni degli sconfitti. Vedi, Cavaliere di Pegasus, io sono qui per un motivo molto semplice: impedire la vittoria di Caos, poiché in un mondo dominato da un unico padrone, forte da sottomettere qualunque voce fuori dal coro, nessuna guerra verrebbe più combattuta, mancando la possibilità di vittoria. E senza speranza nessuno combatte. Nemmeno io!”

 

“Hai il tuo modo di vedere le cose…” –Commentò Pegasus, prima che una serie di lampi alla parete meridionale, quella innalzata da Jonathan, li distraesse. Voltandosi, osservarono la fiumana nera concentrare gli attacchi in quella direzione, mentre gli scudi psichici dei santoni iniziavano a ondeggiare, incapaci di fronteggiare tutta quella pressione. –“Che diavolo sta succedendo?”

 

“Qualunque cosa sia, non va affatto bene.” –Disse Sin, tirando uno sguardo verso l’abbattuta Porta della Notte. Non mancava molto, forse una ventina di metri. Sarebbero riusciti a resistere a sufficienza?

 

***

 

Dei quattro Seleniti superstiti, Hubal era quello con l’udito più fino.

 

Avendo fatto voto di silenzio, molto tempo addietro, aveva sviluppato gli altri sensi, soprattutto vista e udito, in un modo che persino per degli Dei aveva dell’incredibile. Tutti conoscevano la sua abilità con arco e frecce al punto che una volta, scherzando, Sin gli aveva proposto di scoccare un dardo dalla luna mirando a un uccello appollaiato sul tetto di una casa in Italia, per vedere se l’avrebbe colpito. Ma, a parte un costante allenamento, il Selenite di Venere non aveva mai avuto occasione di mostrare sul campo le sue abilità.

 

Fino a quel momento.

 

Per prima cosa percepì il sudore; gli arrivò alle narici come il tanfo di una vallata piena di cadaveri in putrefazione. Poi la sghignazzata, il ridere raschiato e forse anche lo sputacchiare di qualcuno. Infine udì lo stridere degli arti contro l’aria stessa, mentre i demoni li caricavano, con gli artigli sguainati e pronti a uccidere.

 

Si voltò, e in quell’attimo incoccò una freccia, scagliandola e trapassando al collo il primo di quella folta schiera di creature orrende. Avatea, presa alla sprovvista, fu costretta a indietreggiare per evitare il guanto uncinato dell’avversario e, nel farlo, urtò Jonathan, che stava mantenendo la barriera con lo Scettro d’Oro, facendola oscillare.

 

“Chi sono questi mostri?” –Domandò l’anziana Selenite della Terra, osservando i nuovi arrivati, una schiera di dodici guerrieri di aspetto grottesco, rivestiti da corazze nere striate di rosso, sebbene, più che vernice, quel colore sembrasse lava bollente. I volti irsuti e deformi, gli occhi grandi e diversi tra loro e quelle braccia lunghe, che cadevano fino ai loro piedi, con le dita sottili e incurvate, a creare uncini.

 

“Tra’ti avante, Alichino, e tu Calcarina!” –Cominciò a parlare uno di loro, indicando i compagni. –“E tu Cagnazzo, e Barbariccia, guidi la decina!”

 

Più alto degli altri, il demone aveva una lunga coda biforcuta, che i Seleniti non seppero se facesse parte dell’armatura o fosse reale, e si presentò come Malacoda. Fece un inchino, mandò un bacio alla Dea della Luna, scusandosi per la poca educazione che avrebbero dimostrato (ma, d’altronde, disse loro, erano in guerra e in guerra non c’era tempo per tante manfrine!) e poi riprese ad abbaiare ordini al resto della truppa.

 

“Nessun di voi sia fello!” –Disse, in un gergo antiquato, incitandoli a tornare all’attacco. La poco organizzata schiera scattò di nuovo avanti e, seppur d’aspetto assai grottesco, impegnò i Seleniti in una strenua difesa. Affondi precisi e mirati di mani artigliate che, non appena stridevano sulle corazze, graffiavano e incidevano, tagliavano e scheggiavano, e certo avrebbero ben potuto mozzar loro la testa.

 

Ratto, Hubal liberò decine di frecce, abbattendo un paio di demoni, ma nella fretta non riuscì a raggiungere nessun punto vitale. Avatea, al suo fianco, scagliò bolle di energia acquatica contro di loro, ma, più che impensierirli, quell’attacco li disgustò, portandoli a scansarsi e a cacciar via quella nociva entità.

 

“Piuttosto bizzarri i nostri avversari! Sembra che non facciano un bagno da secoli!” –Commentò la Selenite, prima che Malacoda si facesse avanti, distruggendo le sue sfere di energia con il mulinare frenetico della coda.

 

“Non bizzarri siamo, le Malebranche dall’uncin di sagne!” –Esclamò, balzando su di lei, a braccio teso, e mirando al collo.

 

D’istinto Jonathan intervenne, allungando l’asta dello scettro e intercettando l’affondo, lasciando che gli unghioni ne scheggiassero la dorata fattura, prima di sbatterglielo sul cranio e spingerlo indietro. Fasci di luce scheggiarono la sua corazza, ma Malacoda continuò ad avanzare, finché la sua lunga coda non afferrò l’arma, strappandola via dalle mani del ragazzo e gettandola a terra, in mezzo ai demoni suoi compagni.

 

Preso alla sprovvista, il Cavaliere dei Sogni seguì con lo sguardo il percorso dello scettro, avvedendosi all’ultimo che Malacoda s’era portato davanti a lui, allungando una mano e afferrandolo per il collo. Sputando sangue, il giovane roteò gli occhi, capendo cosa aveva consentito a quella sconclusionata torma di arrivare così vicino a loro.

 

“L’aura…” –Balbettò, strappando un ghigno compiaciuto al capo delle Malebranche.

 

Anche Avatea allora lo notò, quell’alone che li attorniava, come fumo da un vulcano acceso, e che li rendeva, a volte, indistinguibili a occhio nudo, quasi si nascondessero nell’aria stessa, con il corpo e con il cosmo.

 

“Libicocco vegn'oltre! E Draghignazzo, Ciriatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo!” –Strepitò Malacoda, incitando i compari alla lotta.

 

Le Malebranche si avventarono su Hubal e Avatea, strappando l’arco dalle mani del Selenite di Venere e graffiandogli il viso, mentre l’aura fumosa che li sovrastava si allargava e avvolgeva i tre combattenti dell’Alleanza. Strano potere, rifletté Jonathan, mentre le forze sembravano venirgli meno, questa nube di cosmo. Li inebetiva, li indeboliva e li rendeva goffi, ma soprattutto rendeva difficile respirare, quasi fosse una nube di cenere e vapori sulfurei dopo un’eruzione vulcanica.

 

Avatea venne spinta a terra, la corazza della Terra scheggiata in più punti, i suoi capelli tirati e strappati, le sue gote rugose strappate dagli uncini delle Malebranche. Hubal, accanto a lei, si dimenò furioso, fintantoché le forze glielo permisero, cercando di resistere a quel demoniaco torpore che appesantiva le membra e rallentava i sensi. Colpito a un braccio, gli venne torto dietro la schiena, mentre un demone dal volto ispido lo afferrava per la testa e lo forzava a inginocchiarsi e un terzo gli solleticava il collo, affondando un’unghia di tanto in tanto e succhiando poi il sangue dalle dita, sghignazzando.

 

“Vuo’ che ‘l tocchi in sul groppone?” –Chiese a Malacoda. –“Che gliel’accocchi?”

 

“Posa, posa, Scarmiglione! Se li metti l’unghioni a dosso, sì che lo scuoi!” –Disse un altro, facendosi largo e abbarbicandosi per afferrare anch’egli la sua parte di bottino, prima che il capo li richiamasse entrambi, incitandoli ad affrettarsi, non a divertirsi, poiché altre prede li attendevano.

 

Detto questo, Malacoda sbatté Jonathan a terra, piantandogli quattro dita in un fianco, dove l’armatura era già stata danneggiata dai pugni dei Lestrigoni, ma non gli strappò neppure un grido, tanto intontito era stato dalla sua emanazione cosmica. Solo una goccia di sudore sulla fronte, che si incagliò in una ruga d’apprensione.

 

Se le Malebranche avessero avuto poteri mentali, forse avrebbero potuto decifrare i pensieri del Cavaliere di Avalon, che stavano viaggiando nel tempo, inseguendo una voce che lo chiamava, senza che riuscisse a individuarla. Una voce che in passato lo aveva cullato, accompagnandolo, ogni sera, verso sogni sereni.

 

“Svegliati, Jonathan! Reagisci!” –Continuò la voce femminile, permettendogli infine di ricordare.

 

“Madre?”

 

La donna sorrise o, almeno, così Jonathan interpretò l’ondata di calore che lo invase in quel momento, come la fiamma del serpente piumato Quetzalcoatl, come la stella del mattino in grado di dissipare le ombre e i timori della notte.

 

“Svegliati, figlio mio! C’è ancora bisogno di te!”

 

Di scatto, Jonathan aprì gli occhi, proprio mentre Malacoda calava la mano artigliata sul suo viso, afferrandogliela e troncandogli il polso, per poi spingerlo via. Richiamò lo Scettro d’Oro, che si illuminò di vivida luce, roteando su stesso e tenendo a distanza tutti coloro che osarono afferrarlo, bruciando loro le mani e le corazze, prima di saettare verso il suo legittimo possessore, che lo afferrò, servendosene per rialzarsi, bruciando il proprio cosmo. Subito, le Malebranche si affrettarono su di lui ma bastò che Jonathan sollevasse il Talismano che uno sciame di comete si liberò dal fiore aperto sulla punta, avvolgendosi attorno al suo corpo prima di sfrecciare verso gli avversari, travolgendoli e distruggendoli uno dopo l’altro.

 

Alcuni furono lesti a portarsi indietro, guidati da Cagnazzo che, avendo visto cadere Malacoda, si era nominato capo della schiera e adesso stava incitando i compagni a un’azione congiunta e risolutiva.

 

“Ugualmente risolutivo sarà il mio assalto!” –Esclamò il biondino, espandendo il cosmo, che divenne una vera e propria nebulosa di luce, che lambì i corpi svenuti di Hubal e Avatea, risvegliandoli. –“Se uno sciame di comete non è bastato, affacciatevi dunque nella loro dimora! Mirate lo splendore della Grande Nube di Oort!” –Disse, mentre le Malebranche scattavano all’attacco, gli artigli intrisi di energia cosmica.

 

L’ondata di luce e polvere di stelle li travolse, disintegrando corpi e corazze, costringendo persino i Seleniti a coprirsi gli occhi, tanto intenso era quel lucore. Quando li riaprirono, videro che di Cagnazzo, Scarmiglione e dei loro compari non era rimasto niente e Jonathan, stanco per lo sforzo, si stava accasciando a terra, reggendosi allo Scettro d’Oro, quasi fosse la sua ancora di salvezza.

 

“Madre… grazie! Anche dopo tutti questi anni, siete venuta in mio aiuto.”

 

Proprio in quel momento la rozza e acciaccata sagoma distesa accanto al Cavaliere delle Stelle si risollevò, lo sguardo ribollente d’ira, la mano sinistra tesa a spada diretta alla gola del ragazzo.

 

“Malacoda!” –Lo riconobbe Avatea, mentre anche Jonathan voltava l’affaticato sguardo verso gli uncini che, entro un attimo, gli avrebbero strappato la carotide.

 

Vi fu un fruscio, poi un sibilo e il grido soffocato del demone che crollò riverso al suolo, la gola trapassata da un dardo. Voltandosi verso il parigrado, la Selenite della Terra sorrise. A quanto pareva, Hubal era davvero un grande tiratore.

 

***

 

Il Professor Rigel aveva provato più volte a capire cosa stesse accadendo nel deserto del Gobi, ma ogni apparecchiatura elettronica sembrava non funzionare. Di certo la colpa era di quella nube nera che stava saturando la Terra e che ostacolava persino la trasmissione di dati via satellite. Sbuffando preoccupato, si tolse gli occhiali da lavoro e uscì sul ponte della nave della Grande Fondazione.

 

L’Isola del Riposo era una località piacevole ma, per uno scienziato quale lui era, fin troppo arretrata tecnologicamente. Magari, al suo ritorno, avrebbe chiesto a Lady Isabel il permesso di installare qualche ripetitore, per traghettarla verso il nuovo millennio, ma quel pensiero gli provocò una fitta allo stomaco. No, non doveva pensar male, Lady Isabel, anzi Atena, se la sarebbe cavata. C’erano tutti i suoi Cavalieri a proteggerla, e tutti gli Dei del creato. Come potevano essere sconfitti?

 

Se lo ripeté più volte, camminando avanti e indietro sulla plancia, prima che la voce squillante di Cliff O’Kents lo chiamasse. Erano a malapena le sei del pomeriggio ma, a quanto pareva, anche per i pasti la cittadina aveva i suoi orari.

 

“Arrivo, arrivo!” –Esclamò lo scienziato, affacciandosi dal parapetto e salutando lo scozzese, in piedi sul pontile del porto, con il piccolo Kiki accanto a sé. Recuperò una valigetta dalla cabina e poi uscì… barcollando e ruzzolando a terra. –“Che… sta succedendo?” –Si chiese, intontito, affannando nel rimettersi in piedi, appoggiandosi alla parete della cabina. Era la sua immaginazione o la nave stava oscillando?

 

“Aaah!!!” –L’urlo di Kiki lo scosse, spingendolo a proseguire, aggrappandosi a tutti gli appigli che poté trovare, fino a tornare sul ponte. Adesso, con maggior chiarezza, vide la nave traballare, scossa da qualcosa che non seppe definire, finché non scorse i lunghi tentacoli spuntare dal mare e avvinghiarsi alle paratie e al ponte della Nike.

 

“Per tutti i transistor!” –Borbottò, pensando a come cavarsela. Aveva soltanto una pistola taser con sé, che dubitava sarebbe bastata contro quell’animale, qualunque cosa fosse, a meno che non ne avesse decuplicato il dosaggio. L’idea sembrò stuzzicarlo ma una nuova oscillazione lo fece cadere di nuovo a terra, perdendo la presa sulla valigetta, che scivolò sul pavimento della nave, finendo fuori coperta. –“Oh no!!!”

 

Colpi di pistola echeggiarono nel tramonto, attirando la sua attenzione e anche quella della bestia, forse raggiunta da qualche proiettile, che staccò qualche tentacolo, lasciando la Nike in parte libera. Correndo al parapetto, il professore vide Cliff che scaricava il caricatore mirando a una grossa sagoma scura che schiumava nell’acqua sotto di loro.

 

“Attento!!! Via! Andate via!” –Gridò, notando i movimenti sotto il pontile, che esplose poco dopo in un profluvio di schegge di legno, sbalzando lo scozzese in aria. Subito un tentacolo saettò nella sua direzione, ma prima che riuscisse ad afferrargli un calcagno Kiki apparve, sfiorò Cliff e sparì di nuovo, lasciando la vischiosa protuberanza ad agguantare l’aria. Rigel li vide ricomparire sulla terrazza di pietra che dava sul porticciolo, con il bambino dai capelli rossicci che respirava a fatica, di certo per lo sforzo dovuto al teletrasporto.

 

Contento nel saperli al sicuro, e approfittando del disorientamento della bestia, il professore corse nel suo laboratorio, recuperando un’arma su cui stava lavorando, per dare alle Armature d’Acciaio un maggior potere offensivo. La afferrò, controllando il colpo in canna, e uscì, solo per accorgersi che la bestia (un calamaro gigante?) stava distruggendo la Nike, stritolandola con i tentacoli. Evitando di precipitare di sotto, Rigel cercò di portarsi più in alto possibile, raggiungendo il tetto della cabina del comandante, da cui ebbe una visione d’insieme della creatura. Era davvero un calamaro gigante e sembrava seguire i suoi movimenti con due grossi, e inquietanti, occhi rotondi.

 

Un nuovo grido lo scosse, portandolo a voltarsi verso il promontorio, sulle cui rocce delle bizzarre creature si stavano arrampicando, uscendo in gran numero dal mare. Strizzando gli occhi, il professore cercò di identificarle ma non assomigliavano ad alcuna specie animale di cui avesse mai sentito parlare. Simili a uomini, si inerpicavano agili con i loro arti robusti, ma la testa… quella non era di un uomo, bensì di un cavallo, ed equina era pure la criniera folta, di colore nero, che scendeva dal retro del cranio giù lungo la schiena. In un attimo furono su Cliff e Kiki, che cercarono di tenerli lontani con gli ultimi colpi del caricatore e qualche sfera di energia cosmica.

 

In quel momento la nave traballò di nuovo e qualcosa dovette spezzarsi perché Rigel la sentì oscillare e imbarcare acqua, mentre i tentacoli del calamaro abbrancavano, spezzavano, trituravano tutto quel che incontravano. Il rombo di un motore lo distrasse, accorgendosi soltanto allora della figura che stava solcando il cielo per venire a recuperarlo.

 

“Resista professore!” –Gridò un ragazzo, le ali dell’armatura aperte di lato, con i razzi in funzione. –“Sono da lei! Ma guarda là che bestia! E io che detesto l’insalata di mare!”

 

“Dean, fai attenzione!” –Esclamò Rigel, indicando la creatura, che subito allungò un tentacolo in direzione del Cavaliere d’Acciaio, che fu lesto a spostarsi, schivandone un altro e giungendo quasi a recuperare lo scienziato, quando fu afferrato per una gamba da una lunga coda vischiosa e strattonato all’indietro, schiantandosi in malo modo tra i resti del ponte della Nike. –“Dean!!! Dietro di te!”

 

Altri tentacoli si sollevarono per agguantarlo, ma il ragazzo li colpì con dei raggi di energia emessi dal bracciale destro, tenendoli a bada. I propulsori delle ali però erano danneggiati e non accennavano a riattivarsi. Una protuberanza sinuosa si allungò verso le sue gambe ma venne raggiunta dall’antenna che Rigel, dall’alto, gli scagliò contro, invitando il ragazzo ad arrampicarsi fin da lui. Tremando, lo scienziato impugnava il fucile su cui stava lavorando ma, consapevole di avere solo una possibilità, non voleva sprecarla. Dean lo raggiunse, sparando raggi di energia in ogni direzione, mentre il professore, alle sue spalle, armeggiava per ripristinare almeno un motore e la nave scricchiolava sempre più, oscillando e imbarcando acqua. Pochi minuti, forse attimi, e sarebbe affondata, trascinando i suoi ospiti con sé.

 

“Adesso!” –Gridò Rigel, riavviando il sistema di volo e permettendo a Dean di librarsi in aria, afferrarlo e portarsi in alto a sufficienza da non venire raggiunti dai tentacoli del mostro. –“Stai fermo qui! Ecco, bravo, non muoverti!” –Mormorò, puntando il fucile verso gli occhi della creatura. Sparò, ordinando a Dean di allontanarsi il più possibile, e la centrò proprio in un bulbo oculare. Due secondi dopo il calamaro gigante esplose, schizzando acqua, pezzi di nave e materia organica.

 

“Bel colpo!” –Gridò il Cavaliere d’Acciaio.

 

“Peccato che fosse l’unico. Non ho altri proiettili.” –Mormorò Rigel, tirando un’ultima occhiata alla nave che affondava, assieme al suo laboratorio e alle sue ricerche. Stava ancora pensando a tutto quel che aveva perso, quando raggiunsero la terraferma con gli ultimi borbottii dei propulsori dell’armatura.

 

Il professore respirava a fatica mentre Dean, al contrario, era esaltato, quasi divertito, dall’esperienza vissuta, la sua prima vera battaglia. Colpi di arma da fuoco ed esplosioni li fecero subito drizzare in piedi, portandoli a correre verso la terrazza di pietra. Sam era intervenuto in aiuto di Cliff e Kiki, e i tre si erano abbarbicati in un angolo della terrazza di pietra, in un’ultima disperata resistenza contro quelle creature, per metà umane, per metà equine.

 

“Ehi, che diavolo sono? Cavalli mannari?” –Esclamò Dean, raggiungendo il fratello, giusto in tempo per evitare che una di quelle bestie gli azzannasse un braccio. Con un calcio la spinse indietro, mentre Sam liberava frecce di energia dalla balestra impiantata sul bracciale dell’armatura.

 

Rigel aiutò Kiki e Cliff a rialzarsi e questi lo tempestarono di domande.

 

“Cosa sono queste bestie? Credete che siano state inviate da Caos? Come fa a sapere che siamo qui? Le ragazze sono al sicuro?”

 

“Troppe domande a cui non so rispondere!” –Mormorò Rigel, sentendosi la fronte calda, quasi febbricitante.

 

“Se volete posso farlo io!” –Esclamò una voce all’improvviso, costringendoli a voltarsi verso il limitare della terrazza, dove la sagoma di un guerriero era appena apparsa. La sua armatura azzurrognola risaltava evidente in mezzo al gruppo di creature dalla pelle e dal pelo nero. Non doveva avere più di vent’anni, minuto e con un viso da bambino su cui risaltavano due occhi grigi. A dispetto dell’aria cordiale, il cosmo che lo sosteneva però era oscuro e si concentrò attorno alle sue braccia. Con un movimento rapido che sfuggì agli occhi di tutti, tranne che di Kiki, le portò avanti a sé, generando neri cavalli di energia acquatica. –“Bäckahästen!” –Gridò.

 

E li travolse.

 

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Capitolo 21
*** Capitolo ventesimo: Mio fratello. ***


CAPITOLO VENTESIMO: MIO FRATELLO.

 

Alastore aveva messo subito in chiaro il motivo per cui combatteva. Vendicare le Erinni, uccise da Osiride. Per questo aveva attaccato Horus, atterrandolo mentre era in volo e crivellandogli la schiena con una raffica di pugni. Nel travolgerlo con una bomba di energia incandescente, anche Febo era stato chiaro.

 

“Mio fratello non si tocca!” –E lo aveva colpito, e colpito ancora, fino a ucciderlo, e più combatteva più sentiva il suo cosmo crescere, la sua vera natura risvegliarsi e divenire quel che di fatto era. Il figlio di un Dio.

 

Sebbene non avesse mai dato troppa importanza a quell’aspetto, era innegabile che tale discendenza gli permetteva di resistere meglio dei suoi compagni. E lo portava sempre più spesso in prima linea, ad affiancare il Cavaliere di Phoenix, l’Arconte Rosso e la Dea Gatta nell’avanzata verso la Porta della Luce.

 

Emera era stata l’unica, tra i Progenitori, a non rispondere all’assalto congiunto della forze dell’Alleanza. Anzi, non fosse stato per il luccicoso velo che rivestiva la fortezza, Febo avrebbe persino potuto credere che lei non fosse presente.

 

Dei quattro Dei Ancestrali, era quella di cui sapevano meno. Poco incline a esporsi e a rivelare i suoi pensieri, la Dea del Giorno pareva semplicemente osservare e attendere, limitandosi a una difesa passiva. Difesa che, comunque, le aveva permesso, finora, di tenere l’esercito dell’Alleanza a distanza. Sarebbero riusciti, in qualche modo, a colmare quel divario o erano destinati a rimanere lì, ad annaspare in una polvere ben più sterile e tetra di quella che ricopriva il Sahara?

 

Una mano amica gli sfiorò la spalla, interrompendo i suoi pensieri e costringendolo a fermarsi. Infervorato, si era spinto ben oltre la posizione mantenuta dai compagni, al vertice più esterno di un quadrilatero rappresentato da Phoenix, Andrei e Bastet.

 

“Riposa, ogni tanto, figlio mio!” –Commentò Amon Ra, spuntando al suo fianco. –“Riposa quando puoi, perché non puoi sapere quando avrai modo di farlo di nuovo.”

 

“Padre, io…”

 

“So cosa stai facendo!” –Chiarì il nume, voltandosi e tirando una rapida occhiata alla schiera di soldati che li seguiva. I Guerrieri del Sole d’Oro, gli ultimi Faraoni delle Sabbie, le poche Amazzoni superstiti, l’implacabile Pentesilea, e il caro Marins, che aveva appena neutralizzato la minaccia delle Strigi. –“Rischi tutto te stesso pur di non far combattere gli altri. Sei generoso e nobile, com’era tua madre, prodigo nell’aiutare i più deboli.”

 

“Non è quello che dovrebbe fare un Dio? Essere il sole in grado di riscaldare i cuori di chi soffre il freddo del mondo?”

 

Sorridendo, Amon Ra annuì.

 

“Cerca di non morire troppo presto. I Sette sono destinati a riunirsi un’ultima volta.”

 

“Lo so” –Disse Febo, prima che una ridda di grida catturasse la loro attenzione. Poco oltre, nella torma di ombre che Phoenix e Andrei stavano combattendo, delle rozze figure, più grosse degli uomini, si stavano facendo strada, travolgendo e divorando gli stessi Guerrieri del Caos. –“Cos’è questo nauseabondo odore?”

 

“Il fetore dei demoni e della morte che portano seco!” –Mormorò Amon Ra, individuando l’orda di creature mostruose che stava avanzando contro la prima linea dell’Alleanza, senza riuscire a trattenere un moto di disgusto.

 

C’erano bestie di cui aveva sentito parlare solo nei testi sacri conservati a Karnak, figli che soltanto Apopi avrebbe potuto partorire, tanto orridi e deformi si presentavano loro. C’era un grosso mostro alato dal corpo di leone ma con la testa d’aquila, che faticava a sollevarsi sulle sue stesse ali, agitando le zampe artigliate e squarciando chiunque gli sbarrasse la strada. E c’era un altro mostro che sembrava un leopardo, sebbene avesse la testa e il collo di un serpente, con gli occhi giallastri intrisi di veleno. E un animale simile a un’antilope, nel corpo, ma dalla testa di uccello e sopra di essa tre cobra che sibilavano e un paio di ali. E un’altra creatura che non seppe definire, tanto assurda sembrava in quel corpo per metà simile a un leone, per metà a un cavallo, con la testa di falco e la coda che terminava con un ciuffo di peli. E quelle mammelle (otto, Amon Ra ne contò) da cui sembrava colare un liquido putrido che intaccava il suolo, sciogliendolo, e un collare nero attorno al collo. Ah, guardando meglio, il Nume d’Egitto vide che tutte avevano quel collare, su cui erano stati incisi dei numeri.

 

Fu quello a fargli capire chi fossero quelle creature.

 

“Esperimenti di Anhar. Come i licantropi e il custode delle sabbie del Sahara.”

 

“L’ombra di Anhar è sempre più lunga, anche quando il sole ha smesso di brillare.” –Sospirò Febo, prima che Amon lo tranquillizzasse.

 

“Il sole non smetterà mai di brillare! Ricordalo, Febo! Può essere oscurato dalle tenebre ma mai si spegnerà!” –Nel farlo, il Pastore dell’Universo espanse il proprio cosmo, che raggiunse tutti coloro che lottavano di fronte alla Porta del Giorno. Li confortò, li sostenne, lenì un po’ delle loro ferite, prima di parlare e prepararli per quella nuova battaglia. –“Andrei! Phoenix! Occupatevi della marea d’ombra! Io vi porterò aiuto! Dobbiamo contenere la sua avanzata! Bastet! Tu, Horus e Febo terrete a bada la progenie di Apopi!” –E scattò avanti, in un lampo di luce amaranto.

 

Febo lo osservò piombare in mezzo ai Guerrieri del Caos, prima di liberare tutto il suo potere e fare piazza pulita di chiunque lo stesse circondando. Phoenix e Andrei, ai suoi lati, stavano facendo altrettanto.

 

“Giù!” –Esclamò un’agile figura, afferrandolo e ruzzolando a terra assieme, evitando l’artigliata di una bizzarra creatura. –“Maledetti figli di Neter!” –Ringhiò, rialzandosi all’istante e balzando sul dorso della bestia che sembrava un’antilope. Subito i tre cobra sulla sua testa guizzarono verso di lei, ma Bastet mosse il braccio di scatto e li mozzò, prima di piantare quegli stessi artigli felini nella schiena della creatura, liberando il suo cosmo divino. –“Questo è per la mia maestra, la leonessa d’Egitto!” –E la bestia esplose.

 

“Credo fosse un akhekh!” –Commentò Febo, mentre Bastet, con grazia e agilità, atterrava di nuovo accanto a lui.

 

“Un che? Ah già, la tua passione per la lettura.” –Gli sorrise, non troppo convinta. –“Io non ho mai amato leggere. Stanca troppo la vista. Preferisco i passatempi più… d’azione. Vieni con me, ragazzo?”

 

“Dove?”

 

“A caccia!” –Ghignò Bastet, divertita, prima di scattare avanti, le braccia distese lungo i fianchi, gli artigli da gatta sfoderati. Un’altra delle creature del Caos le corse incontro ma lei scartò all’ultimo istante, evitandola e agguantandola per la coda, dandosi lo slancio per balzare sulla sua schiena, quasi stesse montando un cammello.

 

Febo l’avrebbe osservata per ore, invidiando la sua freschezza e la sua sempiterna agilità che le permettevano di cadere sempre in piedi. Un brusio lo distrasse, prima che l’ombra di un insetto gli passasse davanti al viso.

 

“Ancora strigi?” –Si chiese, prima di riconoscere la creatura volante che gli si era appena posata su una spalla e che stava cercando di insinuarsi tra le placche dell’armatura per raggiungere una ferita aperta. –“Cavallette? Disgustose!” –Aggiunse, schiacciandola tra le dita.

 

Solo allora, levando lo sguardo al cielo, notò che la nube di tenebra sembrava picchiettata di verde. Ma non il verde luminoso di cui, da piccolo, credeva fossero ricoperte le pianure dell’Europa, quel bei prati bagnati dal sole dove avrebbe voluto correre. Questo era un verde pallido, smorto, simile al corrosivo veleno che aveva visto zampillare dalle mammelle di quella bestia pochi minuti prima. Ed era un verde che, avvicinandosi, diventava sempre più grande.

 

“Per gli Dei!” –Esclamò Febo, rabbrividendo.

 

Anche Amon, Andrei e gli altri combattenti si fermarono un istante per osservare l’orrido sciame che planava su di loro. Sembravano insetti, sebbene fossero di taglia ben superiore alla media. Grosse come cavalli, erano cavallette bardate per la guerra, con placche di ferro a coprire i loro ventri, una corona d’oro nero sul capo e una lunga criniera pelosa simile ai capelli di una donna. I denti poi, giallastri, erano aguzzi e affamati e il rombo delle loro ali corazzate ricordò a Febo il rumore di tutti i carri che affollavano le strade di Karnak nei giorni di festa.

 

“Quale aberrante mostruosità è mai questa?”

 

“Non le riconosci, figlio di Amon?” –Parlò allora una voce femminile, che a Febo parve nota, sebbene sul momento non riuscisse ad abbinarla a una figura precisa. –“Eppure dovresti, sono le Locuste dell’Abisso, le portatrici dell’Apocalisse! Carine vero? Ti somigliano, in fondo. Anch’esse sono delle bastarde, nate per diletto dal Gran Maestro del Caos!”

 

“Adesso ti riconosco…” –Sospirò il Cavaliere del Sole, cercando la sua avversaria nella marea d’ombra contro cui Amon e gli altri stavano affrontando.

 

“Eh no, alza lo sguardo, bel biondino! Sei più carino quando mostri il mento!”

 

In quel momento lo sciame di locuste si abbatté sulle stanche forze dell’Alleanza, mentre Marins cercava di riunire i Guerrieri del Sole, impedendo che fuggissero in preda al panico, e Pentesilea strigliava le sue fedelissime. I fasci di luce rossastra delle Spade del Sole ne abbatterono a decine ma quelle cavallette erano veloci, e fastidiose da colpire. Oltre che letali nel loro saltare da un corpo all’altro, dopo averlo infilzato con la punta velenosa della coda.

 

Voltandosi, Febo vide che Marins ne aveva travolte una dozzina con un gorgo di energia acquatica, mentre le Amazzoni le stavano bombardando di frecce. Avrebbe voluto correre a combattere con l’amico ma l’ombra di una locusta, ben più grande di tutte le altre (grande forse come un coccodrillo del Nilo?), lo sovrastò, costringendolo a scattare indietro appena in tempo. Il pungiglione venefico saettò verso di lui ma Febo fu lesto ad afferrarlo prima che lo infilzasse alla gola, liberando il cosmo incandescente che divampò lungo la coda, aggredendo la bestia infame sul cui dorso una donna, in tenuta da battaglia, sghignazzava soddisfatta.

 

Alta, bella, con labbra carnose e mossi capelli rossicci simili ai tentacoli di una piovra, la Dea della Morte Violenta lo fissava divertita, battendo i tacchi sui fianchi della locusta e incitandola ad avanzare, incitandola a divorarlo.

 

Keres…” –Strinse i denti Febo, ricordando il loro scontro alla Pozza di Iside, dove la Dea che le aveva fatto da madre (la Dea che lui aveva considerato come una madre per tutta la sua vita) era morta tra le sue braccia e lui quasi aveva rischiato di perdere il senno e ferire Marins, a causa del furore instillatogli da Lissa.

 

No, si disse, balzando indietro ed espandendo il cosmo. Non instillato. Soltanto risvegliato. Per quanto aspre fossero le parole che Lissa mi ha rivolto, non erano poi così errate. Io ho davvero portato il caos in Egitto. Con la mia nascita tutto è cambiato, per Amon, per i membri dell’Enneade, per il popolo stesso di Karnak.

 

Che fosse cambiato in meglio o in peggio, questo Febo non lo aveva ancora capito. O forse non voleva rispondersi, per non ricadere nei turbinosi drammi che già lo avevano piegato lungo le sponde del lago sacro.

 

Raggi gamma!” –Tuonò, sollevando il braccio destro e dirigendo una raffica di fasci di luce rossastra contro la bestia, trafiggendola e precipitandola a terra, dove andò squagliandosi poco dopo in una nube di fetore. Keres, nel qual tempo, era stata svelta a lanciarsi indietro e, con un’agile capriola, ad atterrare a piedi uniti, le braccia già alzate in posizione da combattimento.

 

Da quel che ricordava del loro scontro, quel poco che i fumi di rabbia di Lissa non avevano coperto, la Dea della Morte Violenta era forte e letale e aveva impegnato parecchio Marins, che credeva di averla sconfitta facendole cadere mezzo tempio sulla testa.

 

“Sei sopravvissuta, a quanto pare…”

 

“Lo dici come se ti dispiacesse.” –Ridacchiò Keres, gettandosi i capelli dietro le spalle con noncuranza. –“Ricordo che hai apprezzato, da buon maschio, la compagnia mia e di mia sorella. Ma dov’è il tuo amichetto? Forse è già morto?”

 

“Stai lontana da Marins!”

 

“Peccato. Lo avrei ammazzato volentieri. Pazienza, vorrà dire che prima ucciderò te e poi mi godrò la sua espressione sofferente alla vista della tua testa mozzata!” –Ghignò la Dea, mentre le dita delle sue mani si gonfiavano, divenendo rozzi artigli ornati di unghioni affilati. –“Cadi, bastardo d’Egitto! Che i demoni inferi ti sbranino! Furia dei Cerberi!” –Gridò, portando avanti il braccio destro e liberando la deforme sagoma energetica di un enorme cane con tre teste, che si replicò in infinite copie.

 

Febo tentò di frenarne l’avanzata con fasci di energia ardente, ma si ritrovò a sforacchiare l’aria, costretto a incrociare le braccia davanti al volto per difendersi. L’impatto lo spinse indietro, ustionando la corazza delle stelle, ma quando fece per abbassare gli arti, convinto di averlo parato, qualcosa guizzò davanti ai suoi occhi, colpendolo al fianco destro. Non fece in tempo a lamentarsi per il dolore che già un nuovo colpo lo raggiunse al collo, portandogli via un pezzo di carne.

 

“Ma cosa…?” –Balbettò, crollando a terra, una mano premuta sullo squarcio, mentre Keres avanzava verso di lui.

 

“Bastardo e ignorante se neppure conosci il guardiano degli inferi.” –Disse la Dea, raggiungendolo e colpendolo con un calcio in faccia, che lo spinse indietro, facendolo ruzzolare nella polvere. –“Vuoi un altro assaggio? Ma sì, perché dovrei privartene! Furia dei Cerberi, travolgilo ancora!” –Gridò, liberando l’assalto energetico, che di nuovo investì Febo, veloce e preciso, colpendolo in tre diversi punti del corpo, prima di lasciarlo a terra ferito e sanguinante. –“Un vero peccato che tuo padre non sia qui a vederti morire. Non che starete separati a lungo. L’ombra di Caos è ormai troppo oscura che nessuna luce potrà più penetrarla.”

 

“Ti sbagli.”

 

“Non mi sbaglio!” –Chiarì lei, avvicinandosi e chinandosi sul Cavaliere di Avalon, afferrandogli il mente e costringendolo a guardarla negli occhi. –“Sono la Dea della Morte Violenta, bastardo, l’Astrazione che presiede al fato ineluttabile degli uomini. Non sono Moros, questo è vero, ma lui era solo un messaggero indolente, che sedeva e meditava, meditava e sparava idiozie sulla sorte degli esseri umani, senza esserne minimamente coinvolto. Io, al contrario, sono molto coinvolta. Io, della vostra morte, ne godo!” –E si sollevò, trascinando Febo con sé, ancora prigioniero della sua morsa.

 

“Perché? Che ti hanno fatto gli uomini?”

 

“Fatto? Oh niente. A parte avermi adorato e scelto come simbolo della loro esistenza. Perché vedi, bastardo, non esiste Dio al mondo più venerato di me. Io sono tutto quello che gli uomini cercano, il fulcro della loro esistenza.”

 

“Menti! Gli uomini non potrebbero mai venerare una Divinità malvagia come te!”

 

“Davvero? Gli uomini non sono dunque malvagi? Non odiano? Non complottano? Non si uccidono a vicenda? Oh, Febo, mio bel biondino dal dolce sguardo, tuo padre ti ha tenuto troppo a lungo fuori dal tempo, e dal mondo. Avresti dovuto camminare per le strade di una qualunque città d’Africa per vedere come vivono davvero gli uomini, e come muoiono. Violentemente. Nessun’altra morte può attendere quelle bestie che anelano ad azzannarsi l’un l’altra, scatenando passioni e istinti primordiali che li portano a vivere una guerra di tutti contro tutti. E quegli istinti, quel cercare la morte, degli ideali, dei corpi e delle anime, è ciò che mi rende potente, è ciò che mi rende la più potente delle Astrazioni! L’ultima della mia stirpe! Colei che renderà grande il nome di Nyx, la Primogenita! Addio, bastardo! Sentiti onorato di cadere per mia mano!” –Esclamò Keres, scagliando Febo in alto e preparandosi per colpirlo con un nuovo attacco energetico.

 

Ma le fauci di Cerbero non lo raggiunsero, perdendosi nel cielo plumbeo, mentre una figura rivestita d’argento afferrava il Cavaliere del Sole e lo portava fuori dal raggio d’azione della Dea. Gli carezzò il volto, senza soffermarsi sulla ferita alla base del collo, e lo incitò a resistere, quei pochi minuti di cui, a sentir lui, aveva bisogno per vincere la figlia di Nyx.

 

Horus, il Dio Falco. Riconosco le tue vestigia. Hai le ali danneggiate e il cuore a pezzi, eppure mostri ancora la forza per volare?”

 

“Ho la forza per fare molte cose, maledetta!” –Avvampò il Nume, espandendo il proprio cosmo. –“Vendicare mia madre, per esempio. O i miei figli.”

 

“Oh, era tua madre, Iside, è vero? Si chiamava così quella donnetta timorata uccisa da un suo guerriero? Ho percepito la sua paura, il suo dolore, e me ne sono nutrita. Oh sì, di quella morte violenta ho davvero gioito.”

 

“Non quanto gioirò io dopo averti strappato quel falso sorriso dalla faccia!” –Gridò Horus, scattando avanti, avvolto nel suo cosmo argenteo. –“Artigli del Falco, ghermite!” –I fendenti di energia sfrecciarono verso Keres, che, ridacchiando, balzò indietro, capovolgendosi e atterrando sulle mani, dandosi la spinta per balzare ancora più indietro, mentre un muro di locuste si accumulava tra loro.

 

Quasi in risposta a un silenzioso richiamo, le Locuste dell’Abisso scesero su Horus e Febo, accerchiandoli, mentre ovunque attorno a loro imperversava quell’orribile minaccia. Puntellandosi su un gomito, il figlio di Amon si sollevò quel tanto che gli bastò per vedere la fine dell’esercito del Sole. Distratti dalle cavallette di piccole dimensioni, che ronzavano loro intorno, insinuandosi nelle ferite aperte, negli orecchi, nel naso, persino nelle bocche aperte, i soldati vennero trafitti dai pungiglioni avvelenati, oppure azzannati, travolti e schiacciati. Anche Naveed, che aveva guidato Horus nella missione di salvataggio, venne divorato da una gigantesca Locusta dell’Abisso, spingendo Febo a bruciare il cosmo e a rialzarsi.

 

“Bestie infami, mai più nessuno morir dovrà a causa vostra!” –Esclamò, sollevando il braccio al cielo, proprio mentre le cavallette piombavano su di lui. Sul palmo della sua mano comparve una sfera di energia ardente, da cui subito sortirono migliaia di strali luminosi. –“Lancia del sole!!!” –Gridò, dilaniando le locuste.

 

“Febo…” –Mormorò Horus, avvicinandosi in tempo per afferrarlo, prima che le ferite e la stanchezza lo facessero crollare di nuovo. –“Sei debole. Hai fatto anche troppo. Riposa adesso, mi occuperò io di Keres.”

 

Horus, no! Voglio combattere con te!”

 

“Non ce n’è bisogno.”

 

“Lei ha ucciso mia madre. Nostra madre!” –Gli disse, con gli occhi lucidi. –“Concedimi di lottare al tuo fianco per onorarla, fratello!”

 

A quelle parole, Horus sorrise, realizzando di non aver perso ancora tutto.

 

“Se avete finito con questi sciocchi sentimentalismi, ho una guerra da portare avanti e tante morti di cui godere!” –Intervenne Keres, costringendoli a voltarsi per fronteggiarla. Con un balzo, l’Astrazione fu su di loro, con entrambe le braccia avanti per ghermirli, ma Febo e Horus furono svelti a evitarle. Rapida, la Dea scagliava colpi in ogni direzione e, dovettero dargliene atto, era precisa e coordinata nei movimenti, quasi non sentisse neppure la fatica di dover contrastare due avversari nello stesso momento.

 

Con un’artigliata distrusse quel che restava delle ali di Horus, già lese nello scontro con Alastore, piegandolo a terra, ma prima che potesse spaccargli il cranio venne afferrata per un polso da Febo, le cui dita già sfrigolavano di ardente energia.


“Ahia!” –Bofonchiò la Dea, cercando di ritrarsi, ma il Cavaliere di Avalon non mollò la presa, nemmeno quando lei iniziò a tempestarlo di pugni. Sul ventre già ferito, sul petto, persino sul volto. Gli spaccò il naso con un ultimo colpo, prima di fermarsi e scoppiare in un grido di dolore. Guardando il polso, vide che l’armatura si era liquefatta, e stessa cosa stava accadendo alla pelle e alle ossa al di sotto.

 

“Hai infangato troppo a lungo il potere del sole.” –Commentò Febo, liberando una fiammata di pura energia che travolse la Dea, spingendola indietro. Subito Keres strusciò il braccio destro sul terreno, per spegnere quel maledetto fuoco che sembrava divorarla, ma non ci riuscì e la mano bruciò, consumandosi e sbriciolandosi in una rivoltante poltiglia, strappandole un nuovo strillo. –“Prova un po’ della tua medicina, Dea della Morte Violenta!” –Disse il figlio di Amon, il volto pieno di lividi e macchie di sangue.

 

Vomitando rabbia, Keres si rimise in piedi, sventolando il moncherino davanti agli occhi, incredula che qualcuno (il bastardo figlio di un Dio che aveva preferito uscire dal tempo cosmico piuttosto che combattere!) avesse osato tanto, ferendo proprio lei, la più potente delle Astrazioni. Cos’erano in fondo gli altri? Dei falliti degni solo di disprezzo! Oizys, Apate, Momo, Geras, Momo, persino gli Oneiroi. Per non parlare di Philotes e delle Esperidi. L’unica che aveva dato qualche soddisfazione alla loro madre era stata Discordia, ma anch’ella era caduta. Restava soltanto lei a tenere alto il nome della progenie di Nyx. Poteva fallire?

 

No, avvampò, chiudendo a pugno le dita del braccio ancora intonso.

 

“La Morte Violenta non può essere sconfitta. È nella natura degli uomini desiderarla. Per loro e per la loro stirpe. E forte di questa certezza, io vi ucciderò! Furia dei Cerberi, travolgili!!!” –Gridò, scatenando il suo colpo segreto.

 

“Attento!” –Disse Febo, mentre i cani infernali sfrecciavano su di loro. –“È un attacco in tre parti. L’ho scoperto a mie spese. Prima morde una testa, poi un’altra.”

 

“Ed è impossibile prevedere dove colpiranno!” –Ringhiò Keres.

 

Horus si mise davanti a Febo, liberando il falco d’argento, che disperse parte della carica dei Cerberi, prima di essere travolto e spinto indietro, azzannato in varie parti del corpo, di fronte allo sguardo stupito della Dea.

 

“Folle suicida, così tanto piangi la scomparsa dei tuoi genitori e dei tuoi figli da desiderare riunirti a loro?” –Mormorò, prima di accorgersi che la carica dei suoi cani infernali era stata frenata. Spostando lo sguardo su Febo, vide che aveva un braccio teso avanti a sé, in cima al quale splendeva una luce così intensa che Keres dovette pararsi gli occhi con l’arto ancora sano. –“Come hai potuto fermare i cerberi?”

 

“Mostrando loro quello che sono e facendoli inorridire.” –Si limitò a rispondere il Cavaliere di Avalon, mentre il suo cosmo brillava sempre più intenso, pregno di sfumature palesemente divine. –“E per farlo vi era un solo modo. Grazie, Horus, per avermi dato il tempo di evocarlo.”

 

Poco distante, pesto e sanguinante, il Dio Falco annuì.

 

“Siamo fratelli. Combattiamo assieme quest’ultima guerra.”

 

“Talismani!” –Gridò allora Febo, mentre un ventaglio di energia rossastra si chiudeva davanti a sé, inglobando e distruggendo i mastini infernali e ferendo persino la figlia di Nyx, che infine riconobbe quel che il giovane stringeva in mano e spalancò gli occhi impaurita. –“Lo Specchio del Sole! Custodito per millenni nella Biblioteca di Alessandria, esposto al caldo sole d’Egitto, ha accresciuto la sua potenza, nutrendosi di quell’energia che così tanto hai disprezzato e che adesso ti vincerà! Addio, Keres!”

 

“Bastardo, non mi avrai!” –Ringhiò la Dea, scattando avanti. Ma già Febo le aveva rivolto contro il vetro dello specchio, chiudendo il ventaglio energetico su di lei e distruggendo la sua corazza e il suo corpo. Fu una morte violenta, è vero, e forse, considerando il soggetto in questione, non così inadatta.

 

Sospirando stanco, il figlio di Amon Ra cadde in ginocchio. Horus lo raggiunse in quell’istante, prendendogli le mani tra le proprie e guardandolo in faccia.

 

“Iside sarebbe fiera di te!”

 

“Di noi!” –Sorrise Febo.

 

***

 

“Siete due incompetenti!”

 

La voce cavernosa di Erebo riscosse i fratelli di luce, intenti a parlare tra loro nel cuore del Santuario delle Origini.

 

“Qualcosa ti inquieta, Primo Nato?”

 

“Mi inquieta e mi irrita la vostra incapacità nel portare a termine un obiettivo, nascondendovi dietro un bel faccino!” –Sibilò il Tenebroso, avvicinandosi a passo deciso e portandosi proprio di fronte a Etere, al punto da potersi fissare negli occhi. Se Erebo avesse avuto degli occhi, anziché due luci rossastre che parevano eruttare fiamme a ogni movimento.

 

“Misura le tue parole o potrei rendere la tua oscurità un po’ più chiara!” –Disse Etere.

 

“È una minaccia? Sarei felice di sentirtela dire, così forse, dietro quella maschera di supponenza, riveleresti qualcos’altro, magari i sentimenti umani che tanto aborri!”

 

“E tu, allora? Credi di esserne immune? Tra i Progenitori, sei quello che più di ogni altro è vittima dei turbamenti del proprio carattere irrequieto. Rabbia, violenza, perversione, a volte anche un perfido godimento. Tratti ben lontani dalla freddezza con cui dovremmo guardare la fine di questo mondo.”

 

“E chi li ha mai negati? Io no di certo. Tutt’altro. Me ne servo e me ne glorio, perché provo piacere nel recare la distruzione agli uomini e agli Dei che hanno venerato. Dovresti ammettere anche tu questi sentimenti, ti renderebbero più forte.”

 

“Ma imperfetto!” –Chiosò Etere, distogliendo lo sguardo.

 

“Esattamente cosa hai fatto di così perfetto, a parte fallire nel distruggere Atena e il Santuario a lei dedicato? Non era un’impresa difficile, considerando che eravate in due, oltre ad Atlante! Due Progenitori e il Titano che sorresse il Cielo! Avete contribuito a edificare il mondo, generando la luce del cielo e del giorno, e non siete stati in grado di uccidere quell’insulsa Divinità minore?! Emera! Cos’hai da dire a vostra discolpa?”

 

“Atena è tutt’altro che una Divinità minore. Io credo…” –La Dea del Giorno esitò per un istante, valutando le parole. –“Credo che sia molto più forte di quanto pensassimo, e di quanto lei stessa immagini. Da quello che ho potuto capire, ascoltandola e osservandola combattere, osservando quanto temesse per la vita dei suoi Cavalieri, la sua forza non deriva dal suo essere figlia di Zeus, quanto dalla fede indiscussa che il suo popolo prova per lei. È l’amore degli uomini che la rende potente, lei che ha vissuto e vivrà ancora, ogni vita che le sarà concessa, tra gli uomini.”

 

Umpf! Parli come se Atena abbia un futuro!” –Ringhiò Erebo. –“Voglio ricordarti che nessuno di loro lo avrà! È il Generatore di Mondi a desiderarlo. Non lo avrete dimenticato, spero?” –Nessuno rispose, così il Primo Nato continuò, afferrando Etere per il collo e sollevandolo di peso. –“Credo che vi siate fatti incantare dalle belle parole di Atena, sottovalutando il vostro nemico, un errore che un guerriero come me non avrebbe mai commesso. Dovrei lasciar correre, dato che non siete dei guerrieri, o punirvi io stesso per l’inadempienza alle vostre funzioni?”

 

“Silenzio!” –Esclamò una voce all’improvviso. Una voce che nessuno dei tre aveva mai udito. –“Tante chiacchiere e così poca azione mi infastidiscono.”

 

Subito Erebo lasciò libero il Dio della Luce, voltandosi verso la porta che conduceva alle stanze private dell’Unico, dove un’alta e robusta sagoma era appena apparsa, rivestita da un’armatura violacea ornata di spuntoni aguzzi. Nella penombra era difficile individuarne i tratti del volto, ma nessuno ebbe dubbi sulla sua identità.

 

Del resto, Nyx stava combattendo alla Porta della Notte, Chimera coordinava le operazioni sul fronte settentrionale e nessun’altra Divinità o creatura avrebbe potuto avere la stessa aura di imperio, la stessa ancestrale energia che sentirono pulsare a pochi passi da loro.

 

“Mio…” –Balbettò Erebo, non sapendo cosa dire.

 

“Non è il momento di perdersi in quisquilie. Le forze dell’Alleanza stanno stringendo il cerchio sulla nostra dimora. Sembra che le ombre e le bestie infernali che ho richiamato non bastino a placare la loro fama di guerra, o la volontà di porre fine alla loro esistenza.” –Parlò la figura, con tono perentorio. –“Pertanto è necessario che prendiate voi stessi la situazione in mano e insegnate loro quale posto occupano nel grandioso disegno delle cose che l’Unico Dio ha progettato. Emera! Etere! La passività con cui avete fronteggiato i nemici finora è mortificante per Divinità par vostro! Mi aspetto che rimediate quanto prima!”

 

“Sì, Sommo Creatore! Siamo ai vostri ordini!” –Esclamarono i fratelli di luce, inchinandosi e poi avviandosi ognuno verso la propria porta.

 

“E tu, Tenebroso, fai assaggiare a quei miseri mortali un po’ dell’oscurità di cui sei padrone! Se c’è qualcuno che può sterminarli, e compiacermi, sei tu.” –Non aggiunse altro, ritirandosi nei suoi alloggi e lasciando Erebo al centro del salone, a fissare la sua sagoma che scompariva nell’ombra. La sagoma di un’entità talmente potente da potersi permettere di generare un proprio corpo, sufficientemente resistente e atto a ospitare la sua infinita essenza.

 

Quella considerazione fece vacillare per un momento lo spirito guerriero del Primo Nato, che mai avrebbe immaginato di trovarsi di fronte il Generatore di Mondi. Per un periodo così lungo che lo stesso Erebo faticava a ricordare per intero, Caos era stato un vuoto infinito, dove ogni idea poteva nascere e svanire, dove i concetti stessi di tempo e di spazio non avevano valore, dove i colori, i suoni, gli odori e qualunque concretezza corporea erano inesistenti. Caos era tutto e niente al tempo stesso. E adesso, da quel niente era nato un corpo. Il suo corpo.

 

Se Caos è riuscito in quest’impresa, se ha potuto creare un simulacro atto a contenere la sua infinita potenza, significa che la sua rinascita è completa. Egli ha imparato tutto ciò che doveva imparare, egli adesso può tutto. Per l’umanità, per la Terra, persino per il tempo stesso, non vi è altro destino. Rifletté, incamminandosi verso la Porta delle Tenebre, senza capire se gioire o esserne rattristato.

 

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Capitolo 22
*** Capitolo ventunesimo: Terzo Interludio. Acqua. ***


CAPITOLO VENTUNESIMO: TERZO INTERLUDIO.

 

ACQUA.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: quindici secoli prima del secondo avvento.

Spazio: Britannia.

 

I vessilli del Pendragon sventolavano sull’erba bagnata di sangue, spinti dal vento freddo che accompagnava l’odore della morte. Arthur, splendido, nella sua corazza dai riflessi argentati, sedeva sul suo cavallo bianco, bardato anch’esso per la guerra, circondato dai suoi compagni. La storia, e chi l’avrebbe scritta, li avrebbe chiamati i Cavalieri della Tavola Rotonda, per l’usanza di riunirsi attorno a un grande tavolo rotondo, ma lui sapeva bene chi fossero. Come lo sapeva il suo mentore, in piedi accanto al destriero, intento a fendere l’aria con sensi aguzzi e ad ascoltare il vento.

 

“Stanno arrivando!” –Disse, voltandosi verso l’unificatore delle tribù di Britannia, il fondatore del primo grande regno di Albion.

 

Questi annuì, sollevando alta la spada Excalibur, che rifletté i raggi del sole nascente, espandendoli e generando una pioggia di lame di luce che fendette l’aria mattutina, abbattendosi sulla prima linea dei nemici in arrivo. Fu un attimo e già la schiera dei Bianchi Cavalieri di Glastonbury sfrecciava giù dall’alto colle di Mount Badon, contro l’Armata dell’Inverno e contro gli invasori giunti dalla lontana Grecia.

 

Avalon, rimasto immobile al proprio posto, sospirò.

 

Un suono di cetra lo scosse dai propri pensieri, portandolo a voltarsi verso le retrovie, dove suo fratello lo attendeva, seduto su una cassa di legno, con le mani che correvano sulle corde dello strumento.

 

“Sei vestito leggero…” –Commentò il Signore dell’Isola Sacra.

 

“Fa caldo nel Mondo di Sopra.” –Si limitò a rispondere Asterios. –“Nelle profondità abissali il clima è molto più freddo. Anche se freddo non è la parola adatta. Io credo che sia semplicemente diverso.”

 

“Perché sei qua, Asterios?”

 

“Forse perché me lo hai ordinato?” –Disse l’Arconte Verde, smettendo di suonare e fissando il fratello, che non rispose. –“Al riguardo, potrei sapere il motivo di tale convocazione? Non mi sembra una battaglia per cui sia necessario l’intervento degli Angeli, Angeli che finora, in quanti millenni?, non sono mai intervenuti, per inciso.”

 

“Stavolta è diverso. Questa guerra è diversa.” –Mormorò Avalon, dando le spalle ad Asterios e avviandosi tra l’erba calpestata dai destrieri bianchi, osservando la mischia in atto nella piana antistante. –“Non lo senti? L’ombra si è svegliata. Anhar l’ha svegliata. Non ha rinunciato ai suoi progetti di vendetta e dominio, tutt’altro, sta cercando nuovi alleati. E già due (per quel che ne sappiamo, soltanto due) hanno risposto ai suoi richiami, e non due Divinità qualsiasi.”

 

“Uno dei tanti figli bastardi di Zeus e una vecchia strega?”

 

“Non sottovalutare il potere del sole, né quello degli antichi riti di questa terra! La Cailleach riesce a incanalare l’energia distruttiva della natura, energia che, se priva di controllo, potrebbe distruggere il mondo.”

 

“Quello di superficie, quantomeno.”

 

“Non fa differenza!” –Si voltò Avalon, alzando per la prima volta il tono della voce e strappando una ruga di stupore al fratello. –“Non capisci? Presto i mondi così come sono adesso smetteranno di esistere e diverranno un unico mondo. E quando lui tornerà, allora quel mondo dovrà essere unito sotto una sola bandiera di decisione o soccomberà! Perpetuare stupide divisioni, alimentare o riaccendere ostilità tra i regni divini, chiudersi in un passivo quanto inutile isolazionismo, a cosa servirà? A favorire l’avvento dell’Unico. Ed è proprio questa la strategia di Anhar, io temo! Strategia che, a ben vedere, sta funzionando!” –Aggiunse, liberando un sospiro.

 

In quel momento un astro di luce rossastra rilucette in cielo, scendendo fino a portarsi sopra il campo di battaglia, e da quel piccolo sole tre comete sfrecciarono fuori, abbattendosi sulle fila dei Cavalieri di Glastonbury e sterminandone a decine.

 

“Dunque è arrivato!”

 

“Febo Apollo? Quel ragazzetto imberbe?” –Ironizzò Asterios.

 

“Credo che tu abbia trascorso troppo tempo nel Mondo di Sotto da aver dimenticato quanto potente sia l’energia sprigionata dall’astro solare, energia che il figlio di Zeus sa come imbrigliare! Forse dovresti guardare la Terra da un’altra prospettiva.” –Rifletté Avalon, scomparendo e riapparendo accanto ad Arthur, sollevando un manto protettivo sull’intera compagine del Pendragon. Una barriera che venne subito tempestata da una raffica di folgori oscure che una vecchia, ingobbita sotto un mantello nero, gli diresse contro, facendosi spazio tra le fila del suo esercito.

 

Solo adesso, osservandolo con attenzione, Asterios vide che i membri dell’Armata dell’Inverno non erano uomini (non che lo fossero neppure i Cavalieri di Glastonbury, ma almeno ne avevano l’aspetto), bensì bizzarre creature figlie della notte e delle foreste. Alle spalle della Cailleach ringhiavano infatti Cani Neri, alseidi e driadi oscure (forse sue figlie?), degli esseri per metà uomini e per metà lupi (che Asterios intuì trattarsi dei Wulver), e poi spiriti dei boschi, le temibili banshee, le cui urla potevano far sanguinare il cervello di un uomo, e cavalli neri con sopra scheletri di guerrieri che reggevano ancora le loro armi, decisi a seguire in corteo la Regina dell’Inverno anche dopo la morte. Era dunque quello il potere della Cailleach?

 

Anhar si è scelto proprio una bella compagna!

 

Dall’altro lato, i tre scagnozzi di Apollo continuavano a imperversare contro i Bianchi Cavalieri rimasti fuori dalla protezione di Avalon, aggredendoli con violente fiammate di energia. Se Andrei fosse qua, sarebbe già sceso in guerra! Commentò Asterios, immaginando il Signore del Fuoco mostrare a quei tre damerini in gonnella metallizzata l’ardore intenso della sua fiamma. E tu? Si chiese, in un immaginario dialogo con te stesso. Perché ti trattieni? Avalon ha ragione. Il Secondo Avvento arriverà comunque, ma i regni divini potrebbero essere preparati oppure no. Non è forse per questo che hai messo al mondo le tue figlie, obbedendo a un ordine di Avalon? Non è stato un desiderio carnale o una forma d’affetto; tutt’altro. È stata pura necessità di servizio. Andava fatto. E allo stesso modo questa guerra va vinta!

 

Asterios scosse la testa. Rispondersi da solo era decisamente troppo. Forse aveva passato fin troppo tempo nella silenziosa solitudine degli abissi oceanici. Chiuse la mano a pugno, espandendo il proprio cosmo, e quando la riaprì centinaia di falene azzurre, composte di pura energia acquatica, sorsero dal suo palmo, librandosi in aria, dirette verso i Cavalieri della Corona. Richiamate dall’energia dell’Arconte Verde, altre migliaia di falene nacquero dalla terra, sfruttando le sorgenti sotterranee e la rugiada del mattino, abbattendosi sui fedeli di Apollo senza dare neppure loro modo di capire cosa stesse accadendo. Li circondarono, in massa, riducendo le loro fiamme, fino a spegnerle, anzi no, assorbendole e disintegrandosi nel farlo. Era su questo, in fondo, che si reggeva l’universo. Sul principio dell’equilibrio.

 

Avalon gliel’aveva insegnato, tempo addietro. Un tempo che persino per gli Angeli era lontano. O forse era una cognizione che faceva già parte di loro, inserita nella loro coscienza da colui che li aveva generati. E che non sapevano chi fosse.

 

Ad Andrei e ad Alexer stava bene così, e questa era anche la posizione ufficiale di Avalon (per quanto, tutti concordavano, avesse di certo indagato, a modo suo), ma lui, tra i Quattro, era quello che soffriva di più per quella mancanza di conoscenza, sentendo di essere legato al Tempo prima del Tempo, a ciò che esisteva prima della loro creazione. Per questo aveva iniziato a suonare, non per diletto ma perché la musica lo aiutava a concentrarsi, a navigare tra i flussi del tempo, cercando di ritrovare il momento in cui la loro coscienza si era svegliata, e magari scoprire il modo per andare ancora più indietro. Ma ogni volta falliva, ritrovandosi a sbattere, ostinato e imperterrito, contro il muro di una consapevolezza che si chiamava inizio, o alfa, come la definiva Avalon. L’inizio della loro esistenza.

 

Sospirando, Asterios dovette ammettere che il Signore dell’Isola Sacra aveva ragione. Loro esistevano per un motivo e a quel mandato dovevano attenersi. Richiuse la mano a pugno e lasciò esplodere il suo cosmo, che disintegrò i Cavalieri della Corona, di fronte allo sguardo indispettito di Febo Apollo.

 

***

 

“Che cosa state guardando, padre?” –Domandò una voce femminile, anticipando il passo leggero di una donna adulta all’interno della caverna, le vesti che a malapena frusciavano contro le rocce attraverso cui si snodava il sentiero.

 

“Ricordi…” –Mormorò Asterios, toccando le acque della Pozza Sacra e lasciando che le immagini si disgregassero. Per poi ricomporsi, nuove e al tempo stesso antiche.

 

***

 

Con una vampata di fiamme nere, Anhar fece la sua comparsa, circondando Avalon e bruciando la sua bella veste color argento. Indossava la sua Ars Magna (come le aveva chiamate lui), ma oltre al tradizionale nero, aveva aggiunto dei riflessi scarlatti, a richiamare il sangue che, a causa sua, sarebbe colato. Su questo, già secoli addietro, era stato chiaro.

 

“Ben trovato, fratello!” –Sghignazzò, avvolgendo Avalon in una torma di fiamme oscure e sollevandolo, prima di scaraventarlo contro Mount Badon, piantandolo nelle sue profondità. Ma Avalon fu lesto a venirne fuori, guizzando nel cielo come una cometa dalla coda d’argento e abbattendosi sul Caduto, mentre l’Armata dell’Inverno e i Bianchi Cavalieri di Glastonbury si allontanavano, lasciandoli combattere.

 

Con la coda dell’occhio, il Principe Supremo degli Angeli aveva visto Arthur impegnare battaglia con la Cailleach, che nel frattempo aveva atterrato alcuni suoi compagni, mentre Asterios, sulla cima del colle, stava fronteggiando Febo Apollo in persona. Un triplice attacco che, per le forze di Albion, poteva rivelarsi fatale.

 

Anhar dovette intuire i suoi pensieri, sbeffeggiando il fratello per quella che stava per rivelarsi la sua prima sconfitta. –“Prima Albion, poi l’Europa. Non vedo l’ora di calare sul Mediterraneo con l’Armata dell’Inverno. Credi che sia la stagione adatta?” –Esclamò, espandendo il proprio cosmo oscuro e costringendo Avalon a fare altrettanto.

 

“Questa è la stagione della tua sconfitta, Anhar, e della tua riflessione. Pensa, fratello, pensa a ciò che eri, prima di andartene dall’Isola Sacra. Ricorda i dettami della nostra esistenza, lo scopo ultimo per cui siamo stati generati.”

 

“Oh, lo ricordo bene! Lo ricordo ogni giorno e a quel pensiero mi aggrappo per andare avanti, in vista del mio obiettivo ultimo.”

 

“Obiettivo che hai tradito.”

 

“Preferisco dire che l’ho adattato alle mie esigenze.” –Ironizzò Anhar, spingendo indietro Avalon con un’onda di energia nera. –“E tu, fratello, sai bene che sono piuttosto esigente!”

 

“So che sei molte cose. Arconte della Terra, Angelo Caduto, alchimista e indagatore dei segreti del creato, inseguitore di leggende, millantatore, sobillatore e consigliere dotato di grandi capacità persuasive. E il fatto che una parte del piccolo popolo ti stia seguendo, e che persino un Dio ti stia seguendo, mi fa preoccupare. Motivo per cui ho deciso di fare come te.”

 

“Che intendi dire?” –Chiese subito Anhar, ma Avalon si limitò a sorridergli, disperdendo le vampe energetiche e sollevando la mano destra, sul cui indice risplendeva un’intensa luce adamantina. Fu un attimo e il raggio di energia lo spinse indietro, gettandolo a terra, con l’elmo distrutto e il sangue che gli imbrattava la faccia. Rabbioso, si rialzò, gridando ai suoi seguaci di attaccare, ma nessuno obbedì.

 

Imprecando, Anhar fece per ripetere l’ordine, quando si accorse che tutti stavano guardando il cielo, ove una tempesta di fulmini era iniziata. Una tempesta che si stava spostando su di loro, falcidiando l’Armata dell’Inverno e disperdendone le fila.

 

“Dove andate, codardi? Tornate subito qui! Cailleach! Raduna immediatamente il tuo esercito o li sgozzerò uno ad uno!” –Imperò il Caduto, prima di accorgersi che anche la Regina dell’Inverno sembrava impallidita. E allora lo vide, splendido, scintillare di luce propria al centro della tempesta di folgori, tempesta da lui di certo scatenata.

 

Biondo era e bello, con quella Veste Divina immacolata, che non aveva più indossato dai tempi della Titanomachia, stringeva in mano il dono ricevuto da Ceo del Lampo Nero, il potere deicida con cui poté abbattere i figli di Urano e Gea.

 

Zeusss…” –Sibilò Anhar, avvampando, mentre il Signore degli Dei di Grecia planava sull’Angelo. Fece per avventarsi su di lui ma qualcosa di così veloce da sembrargli soltanto un’ombra azzurra gli saettò davanti, facendolo persino barcollare. Un attimo dopo gli ripassò di nuovo davanti, e un’altra volta ancora, iniziando a sfrecciare attorno a lui fino a generare un turbine d’aria che lo sollevò, tra le risate divertite del suo creatore.

 

“Dove devo spedirlo, mio Signore?” –Esclamò una voce cristallina.

 

“Perché non in Africa, caro Ermes? Ho sentito che il clima, di questi tempi, è magnifico!” –Parlò allora Zeus, mentre il Messaggero degli Dei plasmava il vortice d’aria attorno ad Anhar, scaraventandolo lontano, verso sud, ben oltre la loro vista. Quantomeno ben oltre la vista di quasi tutti loro.

 

“Lieto di vedervi, Signore del Fulmine!” –Intervenne Avalon, inchinandosi. –“E lieto soprattutto che abbiate accettato il mio invito!”

 

“Apollo è anche un mio problema. Avevi ragione.” –Ammise Zeus, prima di voltarsi e far avanzare la legione dell’Olimpo. La guidava Atena in persona, rivestita dalla sua Veste Divina e affiancata da due Cavalieri d’Oro. A seguire una cinquantina di Cavalieri Celesti, rilucenti nelle loro armature che, di certo, Efesto doveva aver equipaggiato per l’evento. –“Portate aiuto ai Cavalieri di Glastonbury, ma lasciate Apollo a me!”

 

“A noi!” –Aggiunse Avalon, affiancando il Re dell’Olimpo nella battaglia contro il figlio ribelle.

 

***

 

“Non mi hai ancora chiesto il motivo della mia visita!” –Commentò Asterios, incamminandosi, a braccetto con la donna, lungo la via principale della Conchiglia Madre.

 

“Un padre non può forse avere desiderio di vedere sua figlia?” –Ironizzò lei, strappando un sorriso anche all’Arconte Verde. –“Sono soltanto… duecento anni che non scendevi tra noi?”

 

Duecentododici. Dalla morte di tua madre, e all’epoca eri soltanto una bambina. Vorrei aver avuto più tempo da passare insieme. Non fraintendermi, sono fiero di quello che hai portato avanti, qua nell’Avaiki, continuando la politica di pace e isolamento delle tue antenate.”

 

“Una politica che risale ad Antalya, la nostra fondatrice!”

 

“La conosco bene e, a volte, mi pare di rivederla in te. Le somigli. Le siete somigliate tutte, in verità.” –Mormorò Asterios, lasciando il braccio della figlia e allontanandosi di qualche passo, fino a portarsi al centro esatto della Conchiglia Madre. Sollevò lo sguardo e vide l’immensa cupola di madreperla lambita dalle acque dell’oceano e, più oltre, una luce lontana. Forse il sole del meriggio? O la luna che lo aspettava?

 

“Mi odi, e lo capisco. Anch’io ho odiato i miei genitori, chiunque essi siano stati. Mi hanno messo al mondo e mi hanno lasciato lì, con un elenco di doveri fissati in testa e la prospettiva terribile che, se non li avessi rispettati, il mondo sarebbe finito, e sarebbe stata colpa mia. Con te, Kira, e con le tue dieci antenate, io ho fatto altrettanto. Vi ho generato per sorreggere questa struttura, per dare energia all’Avaiki. In un certo senso, vi ho condannato a una lunga prigionia fuori dal mondo!”

 

“Prigionia?” –Gli sorrise Kira, avvicinandosi. –“Una parola piuttosto inusuale per definire la felicità, padre mio. Quello che vedete, il frutto del mio lavoro, è stato possibile solo grazie a voi, al cosmo che avete infuso in me. Come avrei potuto aiutare la mia gente e proteggerla dai pericoli dell’oceano, senza i miei poteri? Guardate là, quei piccoli Areoi che si allenano. Guardate come sono felici, qua, in pace, senza preoccupazioni! Diverranno esploratori, seguendo le orme di Tawhiri della Torpedine, oppure sacerdoti o coltivatori di alghe. E ciò che saranno sarà ciò che vorranno essere. Tutto questo grazie a voi.”

 

“Le tue parole mi rallegrano ma non rendono più lieve il peso da sopportare. Né per me, né per te.” –Le disse Asterios, carezzandole il volto. –“Sai perché sono qua, non è vero? Il tuo ciclo sta per chiudersi, Kira. È tempo… di pensare al futuro della tua comunità, e del mondo.”

 

A quelle parole la Somma Sacerdotessa dell’Avaiki annuì, prendendo la mano del padre e avviandosi con lui verso il Palazzo di Corallo. Là, nel cuore del tempio, una nuova vita sarebbe stata concepita, una nuova guida per gli Areoi, e, sfiorando la pancia della figlia, Asterios ritenne che sarebbe stata l’ultima. Gli aumakuas glielo avevano detto e i calcoli di Avalon lo avevano confermato.

 

“Benvenuta al mondo, Hina!” –Le sussurrò, baciando la pelle della madre.

 

***

 

Quando la battaglia ebbe termine, la piana erbosa di fronte a Mount Badon era macchiata di sangue e costellata da cadaveri; di Cavalieri (a qualunque schiera appartenessero), animali e altre creature.

 

Anhar non era riapparso. Avalon non nutriva dubbi che fosse ancora vivo, e che avesse ancora una parte da giocare negli eventi futuri, proprio come tutti loro. Non c’era bisogno di interrogare il Pozzo Sacro, né di usare la Vista; quella certezza accomunava tutti gli Angeli, persino il più restio Asterios.

 

Scuotendo le mani inzaccherate, l’Arconte Verde recuperò la cetra, dimenticata, all’inizio dello scontro con Apollo, nelle retrovie e, ahi-lui, calpestata dagli zoccoli di cavalli in fuga o dall’impeto di qualche scontro. Era ancora intonsa ma alcune corde si erano strappate. Ironizzando, Asterios si disse che, non l’avessero eliminato, avrebbe potuto chiedere ad Apollo di riparargliela.

 

“Posso aiutarti, Signore dell’Avaiki?”

 

La voce leggera di Ermes prese l’Arconte alla sprovvista, che non era abituato a tutte quelle formalità. Per quanto chiunque riconoscesse la sua autorità, nelle Conchiglie lo chiamavano semplicemente Asterios. Qualcuno, i più giovani spesso, o anche i più anziani (quelli che non smettevano di stupirsi per la sua eterna giovinezza), lo chiamavano Ao, la luce, il padre di tutti gli antenati. Qualcun altro gli si rivolgeva come Roua, padre di tutte le stelle, qualcuno addirittura credeva che fosse Ukupanipo, il Signore dei Pesci. Asterios sorrideva e li lasciava credere in ciò che volevano, poiché credere significava avere fede e la fede avrebbe permesso loro di andare avanti.

 

“Servirebbe del budello di pecora!” –Commentò il Messaggero Olimpico, osservando lo strumento danneggiato. –“E in questa verde terra, le pecore non mancano.”

 

Solo allora Asterios si rinvenne. Oltre che essere il galoppino di Zeus, Dio dei Mercanti, dei Viandanti, dei Commerci, dei Pesi e delle Misure, dell’Allevamento del Bestiame, dell’Ospitalità e di molte altre cose, Ermes era stato anche un grande appassionato di musica, nonché creatore della lira, ricavata da un guscio di tartaruga dentro cui aveva fissato sette corde fatte di budello di pecora. Lira che, in seguito, aveva regalato proprio ad Apollo.

 

“Ti ringrazio, Divino Ermes. Per il tuo consiglio ma anche per aver donato la musica agli uomini. E non soltanto a loro. Cosa saremmo, in fondo, senza musica? Saremmo il guscio di quella tartaruga, ma vuoti e inutili. Non credi?”

 

Ermes sorrise, accennando un breve inchino, prima di spalancare le ali della Veste Divina e librarsi alto, per un’ultima ricognizione sul campo di battaglia. Con la sua vista acuta, avrebbe di certo individuato subito eventuali superstiti.

 

Con la cetra sotto braccio, Asterios si incamminò lungo la piana devastata, tra buche nel terreno e ampi spazi divorati dalle fiamme e dall’esplosione dei loro cosmi. I Cavalieri Celesti stavano radunando i loro feriti, che, comunque, non erano stati molti; ai Bianchi Cavalieri di Glastonbury era andata peggio. Soprattutto al loro re.

 

Arthur giaceva moribondo sopra il suo scudo, avvolto nel vessillo dei Pendragon. Avalon, chino su di lui, gli stava sistemando i biondi capelli sudaticci e macchiati di terra e sangue rappreso, mentre uno dei pochi compagni sopravvissuti (Lancelot? Non ricordava il nome di quel moretto, ma gli pareva fosse imparentato con una delle sacerdotesse dell’Isola Sacra) cercava la sua corona, smarrita chissà dove nella mischia.

 

Zeus e Atena aspettavano in rispettoso silenzio a qualche passo di distanza.

 

“Lascia stare la corona! Non è quella a fare di un uomo un re. Tanto più nel caso di Arthur!” –Disse infine Avalon, alzandosi in piedi. Fece un cenno e alcuni servitori apparvero, sollevando il corpo dell’Unificatore e adagiandolo su una lettiga in legno di quercia, incamminandosi verso occidente. –“Lo porterò ad Avalon e lì riposerà, finché il mondo non avrà di nuovo bisogno di lui e dei suoi Cavalieri. Molti credono che la guerra sia una sciagura e che i guerrieri, o i Cavalieri come a volte li chiamiamo, siano espressione del male. Orbene in che altro modo dovremmo opporci alle forze scatenate da Anhar se non con altrettanta risoluzione?”

 

“Signore dell’Isola Sacra, ti chiedo perdono! Mia è la responsabilità per la caduta del Pendragon! Mia e del ritardo con cui ti ho prestato aiuto!” –Esclamò Zeus, e Atena, al suo fianco, annuì. Ma Avalon, avvicinandosi, mosse il braccio a spazzare, pregandoli di non darsi colpe che non gli appartenevano.

 

“Grande è stato l’aiuto che ci avete offerto quest’oggi, e né io né Albion lo dimenticheremo! È stata solo una battaglia, questo è vero, ma la prima di una lunga serie, io temo, e mi auguro che, in quelle che verranno, saremo di nuovo insieme per combatterle. L’ombra è scaltra, mio Signore Zeus, l’ombra è subdola, e cercherà, a qualunque costo, di oscurare la luce. Si insinuerà, non vista, tra le colonne di marmo bianco dell’Olimpo, inaridendo i bei prati in fiore e gli stagni dove gaie sguazzano le ninfe, e crescerà, fagocitando la primavera del mondo in attesa del Giorno dell’Ira.”

 

“Avalon?” –Mormorò Zeus, certo di non aver compreso del tutto le sue parole. Ma il Signore dell’Isola Sacra sorrise, esponendogli la sua idea.

 

“Per concretizzare quest’alleanza tra Albion e la Grecia, ho una proposta per te. Una proposta che potrebbe riguardare alcuni tra i tuoi Cavalieri Celesti, una legione di eroi destinata a trascendere il tempo.” –E gliela espose, di fronte allo sguardo interessato di Zeus, che, alla fine, assentì. Diede le spalle ad Avalon e ad Atena e si avviò verso la sua schiera. –“Ho un dono anche per te, Atena Promachos!” –Le si rivolse infine il Signore dell’Isola Sacra. –“Non ho potuto fare a meno di notare il valore dei tuoi Cavalieri d’Oro: Lorac del Sagittario e Ewen del Capricorno. Il secondo, immagino, sia nato su quest’isola.”

 

“Viene da un paesino della Cornovaglia, mio Signore. È uno dei miei più giovani, ma non per questo meno valenti, condottieri.”

 

“Non ne dubito. Ho notato come vi ha difeso, strenuamente, per tutta la durata dello scontro con la Cailleach, rimediando un’ustione sul volto. Allo stesso modo in cui Arthur ha difeso il suo popolo. Come un re.” –Aggiunse, tirando fuori, da sotto le vesti, una lunga lama argentata. –“Excalibur. La spada di Avalon. Possa essere per il giovane Ewen la spada della giustizia!”

 

“Mio Signore, io… questo è troppo. Non meritiamo…”

 

“Tutt’altro, Atena. Meritate questo onore. I vostri Cavalieri lo meritano. E verrà un giorno, io credo, in cui le sorti del mondo saranno proprio nelle mani di giovani come Ewen e Lorac, determinatori della nostra speranza.”

 

“Hai un regalo per tutti, fratello!” –Commentò Asterios, dopo che Zeus, Atena e i loro seguaci se ne furono andati, lasciandoli soli, sulle rovine di Mount Badon. –“Niente per me?”

 

“Per te ho qualcosa di più di un dono materiale.” –Gli disse, sfiorandogli la fronte e irrorandola col suo cosmo. –“Una nuova vita.”

 

Asterios, sulle prime, non capì, ma poi un flusso di immagini gli invase la mente, ricordi recenti di Avalon e dei suoi studi. Nessuno sapeva che fine avesse fatto Kloten, il Custode dello Scudo di Luna. Era andato in Grecia, divenendo Primo Sacerdote della Dea Atena e servendola per secoli, ma quando gli acciacchi si erano fatti prepotenti e gli era sembrato che la vita gli sfuggisse di mano era asceso alla Collina delle Stelle, poco fuori dal Santuario, e là era sparito. Da allora, voci e leggende si erano inseguite, a volte anche bislacche, e Avalon le aveva spulciate tutte, trovando infine la verità.

 

Asterios sollevò lo sguardo e fissò il cielo della sera. La luna, quasi del tutto piena, lo fissava di rimando, con quel suo pallore chiaro, quasi malaticcio, che all’Arconte aveva spesso fatto venir voglia di chiederle cos’avesse, da stare sempre così male. Ora, infine, avrebbe potuto chiederglielo.

 

“Sii vigile. Nessuno deve saperlo.” –Gli sussurrò Avalon.

 

“Nemmeno Selene?”

 

“Soprattutto lei.” –Chiosò, allontanandosi, dietro alla lettiga su cui riposava il corpo spezzato di Arthur Pendragon, discendente di re. Guardandolo scomparire nella foschia che già iniziava a ricoprire Mount Badon, nascondendo gli orrori di quel giorno, Asterios non poté fare a meno di concordare con Anhar.

 

Suo fratello era davvero il Gran Tessitore.

 

***

 

“Non smetti mai di strimpellare?”

 

Quella voce lo infastidiva sempre. Forse perché era così squillante, vitale, intensa, rispetto ad altre ben più caute, lente, persino attempate. E magari gli ricordava anche com’era stato lui, da giovane. Se mai gli Angeli fossero stati giovani.

 

Ma adesso un Angelo non era più. Non per i Seleniti, quantomeno. Per loro, come per il resto del mondo, lui era il Principino della Luna.

 

Sin del Cerchio di Marte…” –Lo apostrofò Asterios, seduto tra le colonne fuori dal Palazzo della Luna Splendente, dove amava rilassarsi suonando la sua musica.

 

“Preferisco Sin degli Accadi. Ci tengo alle mie origini.”

 

“È giusto ricordarle. Com’è giusto ricordare chi sei adesso. Un Selenite, un guardiano di pace.”


“Sai, io non me la bevo.” –Disse il giovane dai capelli blu. –“La storia della musica. Non l’ho mai apprezzata. Anche ad Accad c’erano musicisti e musicanti, ma li cacciavo sempre. Stupido passatempo per femmine. Noi maschi, a ben più stimolanti attività amiamo dedicarci. E non fingere di non apprezzarle.”

 

Asterios non rispose, limitandosi ad alzarsi e ad appoggiare la cetra a terra, avvicinandosi a Sin.

 

“Un cosmo come il tuo, forse gli altri Seleniti sono troppo intontiti per percepirlo, ma io lo sento. È più potente di tutti i nostri messi assieme. Beh, forse di tutti gli altri otto messi assieme!” –Ironizzò il Selenite di Marte. –“Dovresti coltivarlo, tenerlo vivo, come la mia fiamma. Vieni con me, al Quarto Cerchio! Ci alleneremo!”

 

“Selene non vuole scontri nel Reame Beato, lo sai bene. Non ho intenzione di violare una sua direttiva, inimicandomela.”

 

“Cosa temi? Che non ti faccia sposare una delle sue figlie? Oh, ne troverai un’altra! Ho visto come ti guardano! Non ti tolgono gli occhi di dosso, il che è comprensibile, dato che qua, fino ad oggi, sono stato l’unico fanciullo prestante su cui potessero volgere lo sguardo.”

 

“Non è questo che temo…” –Ma Sin lo interruppe, quasi sussurrandogli in un orecchio.

 

“Io so quello che temi, e lo temo anch’io. Ma quando la notte calerà, dovremo essere pronti. Tu dovrai essere pronto, Asterios! Perciò non dirmi che sei un inutile damerino che suona la cetra e canta canzoni d’amore. Quella maschera tienila per la corte! Ma quando vieni al Cerchio di Marte, porta l’armatura! Non vorrei che ti bruciassi questo bel faccino!” –Aggiunse, afferrandogli una guancia e stringendola.

 

“E Selene?”

 

“È un’ingenua.” –Ribatté Sin. –“Un giorno lo capirà. Presto o tardi, dipende da lei. Ma io non ho intenzione di morire quassù e, sono certo, neppure tu!”

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: alcuni secoli prima del secondo avvento.

Spazio: Reame della Luna Splendente.

Fine.

 

 

 

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Capitolo 23
*** Capitolo ventiduesimo: Eterna beatitudine ***


CAPITOLO VENTIDUESIMO: ETERNA BEATITUDINE.

 

Fu con un lampo di luce che Etere apparve sul campo di battaglia.

 

Nessuno lo percepì finché non spalancò le braccia e liberò un’ondata di pura luce. Quanto fosse intensa nessuno poté stabilirlo, ma per la retina di guerrieri che da ore combattevano immersi nella caligine di un mondo che sprofondava sempre più verso l’abisso fu un violento shock. Quanto quello di ritrovarsi ad affrontare gli amici o gli avversari di un tempo.

 

In un attimo l’intera spianata di fronte alla Porta della Luce brillò come se fosse mezzogiorno, costringendo i pochi fortunati, da essere sufficientemente distanti o da riuscire ad abbozzare una qualche forma di difesa, a proteggersi gli occhi voltandosi o coprendoli con un braccio. Fu un mezzogiorno rapido, che svanì nello stesso silenzio con cui era sorto.

 

Quando la luce scemò di intensità e Sirio poté abbassare lo scudo dell’armatura, quasi credette di non essere più lì. Vacillò, per un istante, e sarebbe caduto se Alexer non lo avesse afferrato, stringendogli il polso e intimandogli di resistere. Soprattutto adesso.

 

Ma come poteva? Là dove prima le già decimate forze dell’Alleanza stavano combattendo contro le ombre dei guerrieri caduti adesso non c’era più niente. Nemmeno un soffio di vento che spazzasse via la polvere del loro ricordo, come se quei valorosi combattenti (e, del pari, i loro nemici) non fossero mai esistiti.

 

Vi era solo un uomo (sebbene di un uomo non potesse trattarsi, era chiaro a chiunque avesse prestato ascolto alle vibrazioni del suo cosmo, alla profondità del suo bagliore, alla solidità della sua fede), rivestito da eleganti abiti color panna. Privo di armatura o di qualsiasi protezione, si limitò a lisciarsi le vesti, spazzolando via i resti di chissà quale immaginaria sporcizia lo avesse imbrattato. Anche da distanza, Sirio riuscì a leggere le lettere scritte, in oro lucido, che decoravano i suoi abiti.

 

Αιθήρ

 

“Etere…” –Mormorò, stringendo i pugni.

 

“Arguisco che tu sia Sirio il Dragone.” –Parlò il Nume, poggiando lo sguardo su di lui, senza che il ragazzo riuscisse a decifrarlo. Vacuo, come il tono delle sue parole.

 

“Mi conosci?”

 

“Auspicavo di incontrarti, in verità. Non avrei sopportato di ritrovarmi davanti l’impertinente Cavaliere di Pegasus, capace solo di proferir vuote contumelie. Tu, al contrario, appari giovane di più pacato animo, che ben si addice alla mia persona.”

 

“E quale sarebbe la tua persona? Quella di un assassino di indifesi?”

 

A quelle parole, Etere non rispose. Ma a Sirio parve di scorgere il tendersi leggero di un sopracciglio, prima che il Nume ricominciasse a parlare.

 

“Devi capire, Cavaliere del Dragone, che per Divinità par nostro, edificatrici del mondo, concetti come vita e morte sono labili e, a mio parere, ben poco interessanti. Soprattutto se è di esseri inferiori, come i Claudicanti, che stiamo parlando.”

 

“I Claudicanti?!” –Disse Sirio, scuotendo la testa e strappando a Etere un leggero sorriso.

 

“Originale, non è vero? È un termine che ho appena coniato. Mia sorella mi rimprovera per il mio misoneismo, ma a volte mi diletto nel sorprenderla.”

 

“Di buona favella sei certo maestro.” –Ammise Sirio, staccandosi da Alexer e iniziando ad avanzare verso Etere, di fronte allo sguardo attento e preoccupato dell’Angelo d’Aria e di tutti i suoi compagni. –“Ma finora ho udito solo uno stoltiloquio e dubito che tu sia qui per questo.”

 

Quella volta l’inarcarsi del sopracciglio del Dio Ancestrale fu evidente, come pure la smorfia con cui si rivolse al Cavaliere di Atena. –“Stoltiloquio eh? Dovrò dunque insegnarti a portar rispetto, come ho redarguito il Cavaliere di Pegasus, rammentandoti il posto che occupi nel grande schema delle cose, stabilito, per inciso, da Lord Caos!”

 

“Ti aspetto!” –Esclamò Sirio, sollevando lo scudo e ponendosi in posizione di difesa. Ma Etere nemmeno lo guardò, scivolando nell’aria senza sfiorare il suolo, leggero, quasi impercettibile, fino a portarsi di fronte a Eir e Idunn, che, poco indietro, stavano curando alcuni Blue Warriors feriti. Le guardò dall’alto, facendo oscillare la testa, quasi stesse tentando di decifrare il loro agire, prima di rivolgere loro il palmo della mano destra, su cui risplendeva un’abbacinante luce.

 

Eir fu svelta a tirare Idunn a sé, mentre sollevava lo scudo di energia cosmica tutto attorno a loro e ai pochi guerrieri che riuscì a raggiungere, una frazione di secondo prima che il tocco di Etere lo penetrasse. Quasi fosse anch’esso fatto di sola aria.

 

Ammutolita, la Dea della Medicina vide la mano del Nume entrare all’interno del suo corpo e riempirlo di luce. Attorno a lei, Idunn gridava, i Blue Warriors puntavano le armi e qualcuno (forse il Principe Alexer?) correva a portarle aiuto. Ma Eir non li vide, non sentì più nulla. Solo un’infinita pace. Con una silenziosa esplosione di luce, l’Asinna della Medicina scomparve, lasciando Idunn ad abbrancare il vuoto, e frammenti di polvere di stelle, nel vano tentativo di raggiungerla.

 

“Co… Cosa hai fatto?! Maledetto!” –Ringhiò, balzando avanti, con la mano chiusa a pugno. Ma Etere nemmeno la considerò, spingendola addosso ai Blue Warriors con un semplice battito di ciglia. Distrusse alcune spade congelanti, ne rimandò indietro altre, conficcandole nei cuori impavidi di chi le aveva impugnate fino a quel momento, finché non fu distratto dallo sfrigolare di un cosmo nel cielo plumbeo.

 

Sollevò lo sguardo, con la stessa infastidita aria di chi è costretto ad aprire l’ombrello per ripararsi dall’acquazzone, mentre una torma di folgori azzurre piombava su di lui.

 

Fulmini siderali!” –Tuonò Alexer, apparendogli di fronte.

 

Sirio, da lontano, riuscì solo a vedere il Dio Ancestrale spostarsi più velocemente di quella pioggia di dardi. Anzi no, nemmeno vi riuscì. Quello che vide furono solo macchie, le immagini residue che Etere si lasciava dietro, mentre schivava l’assalto di Alexer e, inesorabilmente, si avvicinava al Principe della Valle di Cristallo.

 

“No!” –Gridò, schizzando avanti e portandosi tra i due combattenti, in tempo per sentire la mano del Nume sfiorare lo scudo del Dragone e irrorarlo di luce. Mai, in tutta la sua vita, Sirio aveva percepito così tanta potenza, nemmeno nei più forti avversari affrontati, nemmeno in Polemos, che l’aveva sconfitto nello Jamir. E temette che il suo corpo non avrebbe retto. –“Aaargh!!!” –Strillò, venendo scaraventato in aria, assieme ad Alexer, con l’armatura divina che si schiantava in più punti e le ossa che rischiavano di incontrare la stessa fine.

 

“Ora!” –Sentì qualcuno gridare, mentre colorati dragoni di energia sfrecciavano verso Etere. –“Danza dei Draghi!”

 

Vidharr affiancò Ascanio e ugualmente fecero i druidi e le sacerdotesse dell’Isola Sacra, aiutati dai discendenti di Mu, dirigendo i loro assalti contro il Nume, ma bastò che questi scuotesse il mantello candido per inviare indietro tutti quegli assalti, in un lampo di luce che abbagliò i contendenti.

 

Crollato a terra, Sirio faticò a rialzarsi. Temette, per un momento, di avere tutte le ossa rotte, ma poi, piano piano, riuscì a muoversi, ritrovandosi a ringraziare, per l’ennesima volta in quella giornata, Efesto per aver realizzato armature così resistenti, e Atena per averle fortificate con il suo ichor. Prima mosse un dito, poi un braccio, infine fu in grado di issarsi sulle ginocchia e osservare lo sfacelo che lo circondava. In pochi minuti Etere era riuscito laddove le Morrigan, Tiamat e l’Armata delle Tenebre avevano fallito. Li aveva sconfitti.

 

Alexer era ancora privo di sensi alle sue spalle, con l’Ars Magna crepata in più punti. Ascanio, da qualche parte in mezzo a un mucchio di cadaveri, faticava a respirare e neppure il figlio di Odino riusciva a rialzarsi. C’era soltanto lui, con lo scudo e il bracciale destro in frantumi, l’unico a muoversi ancora di fronte alla Porta della Luce. E là, ai piedi del cancello nero, una figura di bianco vestiva lo aspettava, le mani giunte al petto, in composto e solenne silenzio. Sospirando, Sirio si mise in piedi e iniziò ad avanzare, consapevole di essere il solo a poter tentare di fermarlo, o forse di essere proprio colui che Etere aveva desiderato incontrare.

 

Stiamo facendo il suo gioco. Si disse, trascinandosi verso il portone, avvicinandosi molto più di quanto fossero riusciti a fare in precedenza. Nemmeno durante l’assalto congiunto alle quattro porte erano arrivati così vicini. Ma anche questo è lui a volerlo. Ammise, giungendo infine a pochi passi dal Nume Ancestrale.

 

“Credo che adesso possiamo parlare.” –Commentò questi.

 

“Perché lo fai?” –Quindi, vedendo che Etere non aveva capito, o forse non aveva voglia di rispondergli, iterò la domanda. –“Perché ti comporti così, servendo Caos?”

 

“E in quale altro modo dovrei orientare la mia esistenza? Tu, mio giovane e combattente amico, ritieni che gli individui possano decidere da soli il proprio destino, ma è proprio questa fallacia che ti perderà, che perderà tutti voi, deboli e insignificanti esseri umani, poiché retta sull’erronea convinzione che il futuro sia un libro dalle pagine bianche. E in quest’errore è caduta anche Atena, la fallace Dea che avrebbe trovato ben più delicata fine nella beatitudine che volevo offrirle, che non nella violenza di cui Erebo o Nyx la faranno oggetto. Poiché vedi, Sirio Dragone, Sirio il saggio, come ti considerano i tuoi compagni, il futuro non esiste, allo stesso modo del passato. Sono convinzioni di cui vi siete riempiti la testa per fingere che la vostra esistenza abbia uno scopo.” –Gli disse Etere, avvicinandosi e battendogli sulla fronte a pugno chiuso. Sirio avrebbe voluto ritrarsi ma il cosmo del Dio lo stava inchiodando sul posto. –“Quello che esiste è solo un eterno presente, un qui e ora in cui gli uomini sono confinati a vivere e in cui nient’altro fanno se non ripetere all’infinito un unico schema: odiarsi e uccidersi l’un l’altro, sprecando le loro già di per sé vacue esistenze in conflitti, acredine e atti di bestialità. L’uomo altro non è se non l’ombra di se stesso.”

 

“O l’ombra degli Dei che l’hanno creato?”

 

“Tu credi? Sei nel torto a pensarlo, poiché Lord Caos, dall’alto della sua generosità, partorì gli uomini per affidare loro la bella Terra che aveva generato. Ma loro come l’hanno trattata? Conosci meglio di me l’abuso che ne hanno fatto! Per cui no, non parliamone. Non voglio rovinare gli ultimi istanti della tua vita disquisendo su verità accertate che solo l’ottuso idealismo di un sognatore non riesce a vedere. Voglio farti un dono, piuttosto. Sì, lo stesso che avevo offerto alla Dea che tanto veneri.”

 

“Un dono?!” –Balbettò Sirio, mentre Etere frusciava attorno a lui, candido nelle sue vesti bianche e odorose di lavanda.

 

“Proprio così. Gli Dei sono generosi, con chi merita la loro generosità, soprattutto noi Progenitori che contribuimmo a edificare il mondo. Io donai la luce del cielo, quella più alta, a ricordare agli abitanti della Terra che esiste sempre un altrove a cui aspirare, un mondo oltre l’orizzonte che avrebbe dovuto stimolare la loro ambizione e la loro sete di conoscenza. Invece, ahimè, ho osservato il disinteresse che hanno mostrato per il mio dono. Ben più attraenti, forse, sono stati l’oscurità di Erebo e di Nyx, forse più facili da raggiungere. Com’è semplice, in fondo, chiudere gli occhi e perdersi nella notte, mentre immaginare la luce del creato… oh, è qualcosa che nessuno è mai riuscito a concepire.” –Sospirò il Nume, fermandosi di fronte a Sirio e osservandolo, con sguardo fermo, senza sbattere neppure una ciglia. E, continuando a fissarlo negli occhi, Etere gli posò la mano sulla fronte, irrorandola di luce. –“Sorridi, Cavaliere del Dragone, come la costellazione che rappresenti, io ti permetterò di ascendere al più alto dei cieli. Ti permetterò di abbandonare questo lurido mondo e trovare la sempiterna pace a cui il tuo cuore tanto anela. Pace per te e per coloro che ami. Poiché nient’altro aspetta i pochi eletti a cui faccio dono dell’eterna beatitudine. Pranava Sabda!”

 

Sirio rammentò insegnamenti del suo maestro, che ampio spazio aveva dedicato alla storia delle culture del mondo, soprattutto quelle antiche, per cui quelle parole stimolarono vecchi ricordi. Era sanscrito. Che fosse vedico o classico non seppe dirselo, né riuscì a pensare ad altro, faticando persino a tenere gli occhi aperti. Cercò di ribellarsi, di liberarsi dalla morsa psichica di Etere, ma si accorse di non riuscirci. Anzi, inorridendo, si accorse che il Nume si era staccato da lui, arretrando di qualche passo e continuando a fissarlo con quello sguardo granitico, forte di convinzioni a cui mai avrebbe potuto opporsi favellando. E mentre lo fissava, a Sirio sembrò di vederlo cadere, o forse era lui che stava crollando a terra? Non lo capì, non capiva più niente ormai. Tutto ciò che sentiva, dentro, era un’infinita calma, come mai l’aveva provata prima.

 

Etere l’aveva chiamato “il saggio”, contrapponendolo al più irrequieto compagno, eppure, in vita sua, Sirio non aveva mai provato un tale senso di pace, una beatitudine universale che pareva abbracciarlo nel corpo e nell’anima, estendendosi al deserto del Gobi, all’Asia, al pianeta tutto. E se ancora dei mondi esistevano, laddove la loro coscienza non era ancora giunta, allora anche quei mondi adesso sarebbero stati in pace. Nessuna guerra, nessun’odio, lamento o dolore, persino i rumori si sarebbero attutiti. E i colori? Oh quelli ormai avevano perso ogni importanza, attenuandosi, sfumando e tendendo tutti verso il bianco, simbolo di purezza in alcune culture, di lutto in altre, o molto più semplicemente il colore del niente, del vago, dell’informe, di ciò che ancora non si è formato. Di ciò che è solo pensiero.

 

Questo Sirio credette di essere diventato. Puro pensiero. Ma il solo pensarlo durò un attimo, perché poi anche la sua coscienza scomparve, fluttuò via, vaporosa rimanenza di un tempo che aveva smesso di trascorrere. Quel che Etere poc’anzi gli aveva detto si era infine realizzato: passato, presente e futuro avevano smesso di esistere, lasciando il posto a un’infinita pace.

 

***

 

“Da questa parte!” –Esclamò Nesso, correndo lungo i corridoi lugubri del Primo Santuario. Nikolaos lo seguiva senza esitazione, sorreggendo Demetra, ancora svenuta, tra le braccia, ben sapendo quanto Eracle lo tenesse in alta considerazione per le sue doti di incursore. Eppure, per quanto affinati fossero i suoi sensi, neppure il Pesce Soldato riusciva a trovare la via per uscire da quel maledetto tempio. Pareva che a ogni svolta l’edificio mutasse la sua composizione, senza logica alcuna, sollevando muri dove avrebbero dovuto trovarsi finestre e aprendo stretti corridoi che si tuffavano nell’oscurità laddove avevano sperato di incontrare l’uscita.

 

“È inutile. Stiamo girando in tondo.” –Borbottò il Luogotenente dell’Olimpo, chiedendosi da quanto. Quanto tempo era trascorso dal loro ingresso nel Santuario delle Origini e cosa stava succedendo fuori dalle mura? I Cavalieri Celesti suoi compagni erano ancora vivi? Zeus li stava aspettando o era caduto sotto la folgore d’ebano di Erebo?

 

No, non doveva pensarlo. Come poteva pensarlo, lui che più volte aveva ammirato lo splendore del Signore dell’Olimpo? Eppure, forse per la stanchezza della giornata, per gli scontri continui (anche quelli con i suoi vecchi amici, Giasone, Castore e Polluce, che non avrebbe mai pensato di ritrovarsi davanti, di certo non in forma di ombre affamate di sangue!) o per quella cappa caliginosa che rendeva difficile persino respirare, Nikolaos dovette chiedersi per la prima volta se ce l’avrebbero fatta, se qualcuno di loro sarebbe riuscito a vedere l’alba. Se mai un’alba ci sarà…

 

Perso nei suoi pensieri, per poco non andò addosso a Nesso, che si era fermato sul limitare di un cortile interno. Guardando oltre la sua spalla, il Luogotenente intravide una corazza verdognola e lunghi capelli neri che uscivano dall’elmo a casco che la figura indossava. Una donna, a giudicare dalle forme dell’armatura e dalle labbra tinte di rossetto.

 

“Me ne occupo io!” –Disse il fedele di Eracle, prima di aggiungere, a bassa voce. –“Al mio segnale, passa oltre e procedi dritto. Vedi quell’angolo là in fondo, dove le mura si incrociano? È il nord, o almeno lo è al momento, prima che le forme di questo santuario cambino di nuovo.”

 

“Posso aiutarti.”

 

“Ne sono certo, ma chi porterebbe Demetra da suo fratello?” –Ribatté Nesso, prima di uscire nella piccola corte, avviandosi verso la guerriera che intanto aveva sollevato le braccia, rivelando lunghi artigli retrattili. –“Addio Luogotenente dell’Olimpo, è stato un onore combattere al tuo fianco, anche se per il breve soffio di un istante. Ora va’ e porta i miei omaggi a Eracle. Digli… digli che l’Incursore e il Cacciatore hanno tenuto alto il suo nome!”

 

“Io… lo farò!” –Esclamò Nikolaos, stringendo i pugni. Si sistemò Demetra su una spalla e si lanciò avanti, proprio mentre Nesso schizzava verso l’avversaria, liberando il suo colpo segreto. Vi fu una violenta collisione di colpi, che incendiò l’aria bruna del cortile, scompigliando persino i capelli del Cavaliere Celeste mentre passava oltre, augurandosi la vittoria del giovane Pesce Soldato.

 

***

 

Vuoto. C’era solo vuoto attorno a lui, un enorme spazio bianco che lo circondava. E forse non era neppure bianco, ma era l’unico termine con cui riuscì a definirlo, poiché le parole, come i sensi e i ricordi, ormai andavano sfumando, perdendosi nella vacuità in cui era immerso. Un bambino in un oceano di placenta, avrebbe potuto definirsi così, se avesse saputo cos’erano un bambino e la placenta.

 

E lui? Cos’era? O chi era? Aveva un nome o era solo un frammento di mondo che tendeva a scomparire? E poi, in verità, era così importante dare un nome alle cose, dare un nome a se stesso, distinguersi e essere unico, essere qualcuno? Perché sforzarsi, perché soffrire nel mettere a fuoco immagini sfumate, quando era molto più semplice lasciarsi andare, lasciare che quel fiume latteo lo trascinasse, levigando ogni dubbio? Eccola dunque, la luce più pura, quella che risiede al di là del cielo più alto. La prima luce che inondò il mondo e che adesso lo stava bagnando, donandogli calore, affetto e sicurezza, quasi fosse l’abbraccio di una madre. Si sentì cullare, sotto le note di una nenia che non riusciva a decifrare, quasi racchiudesse in sé tutti i suoni del creato. Tanto valeva accoglierli, sentirli dentro, lasciarli fluire, senza opporsi, finalmente in pace.

 

Pace. Che parola strana. Così breve e semplice e al tempo stesso così intensa. Cosa significava in verità? Non lo sapeva, forse non l’aveva mai nemmeno saputo. Forse non aveva senso tentare di definirla, in fondo pace era vita, la sua vita. Cos’altro?

 

Un fremito lo scosse. Un brivido? Irrorato dalla luce più pura, come poteva non avere caldo? Ma, se non era il freddo che l’aveva invaso, cos’era quella smania, quel tremolio, all’inizio impercettibile, che si stava diffondendo lungo tutto il suo corpo, insistente, persistente e sfuggente alla sua volontà? Un sentimento ignoto con cui stava ponendo in discussione la sua stessa esistenza.

 

Pace. Ripeté, e per la prima volta mosse le labbra, impastate dall’inattività. Da quanto non proferiva parola? E poi, in quel luogo, in quel non-luogo, aveva senso parlare, quando tutto ciò di cui abbisognava era già dentro di sé?

 

Un altro quesito, un altro dubbio. E la luce tremolò.

 

In quel momento non gli sembrò più calda come in passato (quando? Iniziò anche a interrogarsi sul tempo. Il tempo che, quindi, aveva un valore?), né così bianca, o forse adesso il bianco cominciava a stargli stretto, il bianco non bastava per definire le linee di un mondo che, sia pur sfumato, iniziava a palesarsi. Poche immagini, in verità. Un viso di donna e il suono di acqua che scorre. E un secondo rumore, ben più lieve, ovattato quasi, il tamburellare leggero di un cuore che batte. E quello bastò a ricordargli chi fosse, perché ora, sì, ricordava. Ora sapeva. Ora recuperava la cognizione d’essere.

 

Era Sirio, Cavaliere del Dragone, Cavaliere di Atena. E presto anche padre di Ryuho.

 

Spalancò gli occhi nell’istante in cui il suo cosmo esplose, dilaniando il cielo bianco con artigli color verde smeraldo, contorcendosi smanioso attorno a sé, allungandosi, stirandosi e spalancando le fauci con cui avrebbe assaporato tutto ciò che il mondo aveva da offrire e che la vacuità del bianco aveva solo coperto. Ma non estirpato.

 

“Com’è possibile?” –Sentì qualcuno parlare. Una voce che non conosceva, una voce che per lui non aveva importanza. Non come quella di Fiore di Luna, che aveva pregato per lui per tutti quegli anni, non come quella del maestro, che lo aveva allevato, addestrato e trasformato in un uomo, non come quella degli amici, al cui fianco aveva superato limiti che agli uomini erano stati imposti (da chi? Dagli Dei antichi forse? Da quegli stessi Dei contro cui adesso stavano lottando? E, se così era stato, perché?). La risposta gli arrivò nel momento stesso in cui il suo cosmo raggiunse il parossismo e continuò a crescere, saturando il cielo più alto, quasi volesse, con i suoi riflessi smeraldini, fagocitarne il candore.

 

“In realtà, voglio solo rimarcare le differenze!” –Esclamò Sirio, senza guardare in alcun punto preciso, non essendovi niente attorno a lui da osservare. Solo un vuoto che, da bianco, andava riempiendosi di nuovi colori, forme e suoni. Un mondo che da ideale stava divenendo reale. –“Noi ci siamo!” –Aggiunse, mentre il cosmo turbinava attorno a sé, raccogliendosi attorno alle braccia, che lesto portò avanti, scatenando la furia di centinaia di dragoni luminosi. Cosa sperasse di colpire, non vedendo niente, neppure percependo l’altrui presenza attorno a sé, non seppe dirselo; sapeva solo che doveva tentare, doveva agire, fare, muoversi, non rimanere bloccato nell’inazione. –“Era questo che volevi, Etere? Togliermi tutto, levarmi dal mondo, farmi dimenticare chi ero e per cosa combattevo, solo per il timore di doverti confrontare con me?”

 

“Incredibile…” –Mormorò la voce, mentre il paesaggio mutava e l’oceano di bianco si prosciugava, esplodendo e catapultando Sirio indietro. Per un tempo interminabile, Dragone credette di cadere, quasi stesse davvero precipitando dal cielo più alto sulla Terra, fino a schiantarsi al suolo. Fu un bel volo, comunque, sufficiente per aprire un cratere di fronte alla Porta della Luce e danneggiare le ali della corazza divina.

 

Quando il Cavaliere rinvenne, avanzando stanco lungo il pendio del piccolo avvallamento, trovò Etere dove ricordava di averlo visto l’ultima volta, poco prima che gli sfiorasse la fronte. La posa e gli abiti erano gli stessi ma il volto del Dio era mutato: della maschera di imperturbabilità che aveva sfoggiato poc’anzi non era rimasto niente. Adesso Etere era un crogiuolo di sorpresa, dubbio e rabbia e la sua mano, che visibilmente tremava, sfrigolando una biancastra energia cosmica, non riusciva a decidersi se cancellare o meno quel fastidioso insetto dal pianeta o se ricadere lungo il fianco di un padrone non più così imperturbabile.

 

“Perché?” –Chiese soltanto. –“Perché sei tornato? È davvero questo che vuoi, Sirio? Sangue, dolore e guerra? E morte! Perché è questo che avrai! Tu, i tuoi compagni, la donna che ami e che porta in grembo tuo figlio. Sei così accecato dalla tua brama di possesso da preferire trascorrere una misera e insignificante vita, lunga come il respiro di un Dio, con loro, piuttosto che un’eternità di purezza e beatitudine, non toccato dai mali del mondo?”

 

“Ti sei risposto da solo.” –Disse Sirio, sollevando le braccia in posizione d’attacco, il cosmo che cresceva attorno a sé, assumendo la forma di un drago di luce verde. –“Quella che tu chiami beatitudine per me non è vita. Forse non è neppure morte, ne ho viste di peggiori, di morti, nell’Ade in cui sono sceso. Ti ringrazio per aver voluto farmene dono, ma preferisco la mia vita. Tu, invece, riuscirai ad accettare la tua?”

 

“Di cosa vai cianciando, Cavaliere?”

 

“La percepisco, adesso, la dicotomia del tuo animo. È una vibrazione sottile, che all’inizio avevo scambiato per l’impronta del tuo cosmo. In realtà uno scontro violento si consuma dentro te, tra la tua fedeltà a Caos, che ti spinge a lottare contro di noi, e la tua vera natura, di Signore della Luce. Chi è capace di produrre una luce così bella e intensa non potrà mai accettare che la Terra sprofondi nelle tenebre!”

 

“Taci, millantatore! Il destino della Terra è stato deciso dagli uomini stessi! Loro hanno corrotto la bellezza del creato, costringendo Caos a decretare la fine di questo tempo cosmico. Loro sono colpevoli della loro stessa fine.”

 

“E chi li ha creati, se non Caos?” –Disse Sirio, mentre Etere lo travolgeva con un’onda di energia, spingendolo indietro, schiantando ulteriormente la sua corazza. –“Lui voleva questo. L’ha sempre voluto, fin dall’inizio. Ci ha creati così, con un po’ di luce e un po’ di ombra, per permetterci di assaporarle entrambe e di scegliere, consapevole che saremmo caduti in tentazione. Se ci avesse dato fiducia, se avesse voluto preservare la beatitudine della Terra l’avrebbe tenuta al riparo dall’ombra.”

 

“Fa’ silenzio, uomo!” –Avvampò il Nume Ancestrale, scaraventando Sirio giù nel cratere, con l’elmo in frantumi e nuove ferite aperte sul suo corpo. –“L’impertinenza non è dunque singolarità del Cavaliere di Pegasus ma un vizio che accomuna i Claudicanti, dunque. Vizio che comunque non ti salverà. Luce del…” –Ma prima che potesse liberare il proprio colpo segreto, Etere venne afferrato da due robuste braccia che, da dietro, si chiusero sul suo petto, sorprendendolo.

 

“Ora!” –Gridò Vidharr, mentre già i dragoni di Albion, uno bianco e uno rosso, sfrecciavano verso di loro. –“Perdonami, figlio di Odino! Fulmini siderali!” –Esclamò Alexer, scatenando una selva di folgori azzurre, cui si sommarono i cosmi di Idunn, degli officianti dell’Isola Sacra e dei discendenti di Mu.

 

Preso alla sprovvista, Etere barcollò, venendo raggiunto da una scarica di energia che gli bruciò un ciuffo di capelli, la guancia destra e le candide vesti. Una sola, prima che liberasse il cosmo con una violenta esplosione, che scaraventò Vidharr contro la Porta della Luce, che collassò su se stessa, schiacciandolo, e tutti gli altri combattenti a gambe all’aria. I più deboli, quelli che neppure indossavano un’armatura, vennero polverizzati dal tocco del Nume.

 

Quando Etere tornò a guardarsi intorno, si accorse che, per la prima volta, ansimava. Se fosse dovuto all’ira per essere stato ferito, all’ingenuità con cui si era fatto sorprendere o a verità sommerse che le parole di Sirio avevano risvegliato, non seppe, e non volle, dirselo. Poté solo…

 

Sirio?! Si disse, cercandolo. Ma in fondo al cratere non c’era più.

 

Ne ritrovò traccia nel momento in cui il Cavaliere piombava su di lui, dall’alto, dove si era issato approfittando dell’assalto congiunto dei suoi amici, simile a un gigantesco drago dalle scaglie verde smeraldo che risplendeva di un bagliore così intenso e nobile da far invidia alla Luce del Cielo.

 

“Un potere simile va ben oltre il Nono Senso…” –Rifletté Etere, chiedendosi cosa mai potesse esserci oltre essere una Divinità. –“Ma forse… l’Omega?” –Capì un attimo prima che Sirio lo investisse in pieno, scaraventandolo all’interno della Corte della Luce, in un boato che fece tremare le mura del Primo Santuario.

 

“Ce l’ho… fatta?!” –Mormorò il Cavaliere, accasciandosi per l’enorme sforzo. Al suo fianco si trascinarono Ascanio e Alexer, annuendo con un sorriso stanco.

 

Proprio in quel momento Etere si rimise in piedi, le belle vesti color panna strappate e macchiate di polvere, il viso solcato da rughe di rabbia e da un vistoso taglio sulla gota destra, il cosmo che riluceva e disintegrava tutto ciò con cui veniva a contatto. Lo radunò sulle braccia e poi le spalancò, pronto per liberare la Luce del Cielo, quando l’urlo di Emera lo raggiunse. Di scatto, il Nume volse lo sguardo verso oriente dove il cosmo della Dea del Giorno sembrava avvolto dalle fiamme. Non capiva come fosse possibile, ma sua sorella stava bruciando.

 

***

 

Con un gorgo di energia acquatica, Nikolaos sbaragliò un gruppo di Guerrieri del Caos che si era trovato davanti uscendo dal Primo Santuario. O, quantomeno, questo era quello che credeva, sebbene, a ogni passo, le sue certezze venissero meno.

 

Da qualche parte, alle sue spalle, Nesso stava combattendo ma il suo cosmo era labile, una nube di fumo che il vento del Caos avrebbe presto spazzato via. Quello di Iro aveva smesso di sentirlo da tempo, ma forse dipendeva soltanto dall’aura dei Progenitori che impregnava l’intero tempio? Volle credere che fosse così e continuò ad avanzare, ritrovandosi in un edificio diverso, staccato dal resto del complesso. Un edificio in cui aleggiava ancora un leggero odore di donna.

 

Corse tra i corridoi fino a uscire in quello che, in un tempio greco, avrebbe potuto essere il pronao. Ma queste non erano proprio colonne, bensì rozzi denti di pietra che sembravano nascere dal terreno e inarcarsi verso l’alto, conficcandosi nella struttura in roccia nera che si era lasciato alle spalle. E oltre quella dentatura si estendeva un’ampia corte, disseminata di sporgenze e di fosse, e ancora più oltre sentì dei cosmi accendersi ed esplodere. Uno lo riconobbe subito: era quello di Pegasus.

 

Gli altri, dovette concentrarsi per individuarli, ma gli parvero quello di Atena e di… non li conosceva, potevano essere i Cavalieri di Avalon come pure gli Areoi dell’Avaiki. Eppure, se Pegasus era vicino, questo indicava che, girovagando, si era ritrovato alla Porta della Notte, anziché a quella delle Tenebre. Non che fosse importante, in quel momento, solo un’ulteriore conferma di quanto le normali capacità di orientamento fossero inutili all’interno del Santuario delle Origini. Era Caos, e soltanto Caos, a decidere la direzione in cui orientare l’ago della bussola.

 

Fece per attraversare la corte quando un gemito lo distrasse. Demetra, accasciata sulla sua spalla, si stava riprendendo.

 

Con grazia, Nikolaos la depositò a terra, spostandole i capelli dal volto, molto più scarno e cereo di quanto ricordasse. Erano bastati pochi giorni, una manciata rispetto alla lunga vita immortale che aveva vissuto, per mutare per sempre l’immagine della Dea delle Coltivazioni. Mosse la bocca, e il Luogotenente temette che non fosse neppure in grado di parlare, così avvicinò l’orecchio, per capire cosa stesse dicendo.

 

Una sola parola, in verità.

 

“Grazie!”

 

Nikolaos sorrise, prima di spiegarle che erano quasi fuori dal Primo Santuario. Doveva soltanto resistere un altro minuto, poi Zeus l’avrebbe curata. Così la sollevò di nuovo, reggendola con entrambe le braccia, e iniziò a scivolare tra i denti di roccia nera, che confluivano in una direzione; di certo la Porta della Notte. Proprio là, in quella corte devastata, lo raggiunse l’odore acre del sangue, che pareva provenire da dietro un enorme zanna di pietra. Con cautela, il Luogotenente si affacciò e notò il corpo riverso a terra, la gola traforata da un unico affondo, da cui il sangue continuava a zampillare.

 

“Per l’Olimpo!” –Borbottò, guardandosi attorno con circospezione e avanzando fino a portarsi a pochi passi dal cadavere. Lo osservò, pur senza riconoscerlo, ma dalla fattura dell’armatura celestina che indossava intuì che si trattava di un combattente di Asgard. Forse del Dio della Luna che aveva aderito ai Seleniti? Sì, sembra proprio lui. Ma perché si è spinto così lontano, da solo?

 

In quel momento vide i suoi occhi. Sbarrati in un grido di puro terrore.

 

Indietreggiò, facendo oscillare persino il fragile corpo di Demetra, prima di ritrovare compostezza, chinarsi e poggiargli le mani sugli occhi, per chiuderli. Quando la guerra finirà, torneremo a prenderti e avrai il rito che meriti. Si disse, rialzandosi per andarsene. Salvo udire, di colpo, l’acuto strillo di una donna che conosceva bene.

 

Subito roteò lo sguardo, passandolo tra i denti di pietra che lo attorniavano, cercando di comprenderne la provenienza, mentre le grida si facevano più insistenti, e più impaurite, insinuandosi, precise, nell’animo preoccupato del Cavaliere Celeste.

 

Nikolaos! Cosa c’è?” –Gli chiese Demetra, senza capire. Ma lui si limitò a pregarla di rimanere in silenzio, tendendo l’orecchio. –“Chi c’è? Io non sento niente.”

 

“È mia sorella!” –Confessò infine Nikolaos. –“Teria!” –Aggiunse, incamminandosi nella direzione da cui gli sembrava che provenissero gli strilli. Sapeva che non poteva essere vero, che sua sorella era morta sull’Olimpo, uccisa da Ascanio al termine di un duro scontro, eppure, dopo tutti i macabri ritorni cui aveva assistito quel giorno, il pensiero che Caos potesse averla resuscitata per usarla contro di lui lo invase. E lo fece imbestialire. Teria ha già sofferto troppo da non meritare un secondo inganno!

 

Stava ancora pensando a lei quando la vide, tremante di paura, scalza e sporca, con una leggera veste bianca, logora e strappata, che a fatica riusciva a coprirle le cosce. La vide nel momento stesso in cui anche lei si voltò, scappando nella sua direzione, affondando i piedi sanguinanti sul pietrisco.

 

Teria…” –Mormorò Nikolaos, lasciando scivolare Demetra a terra.

 

La ragazza lo abbracciò, tirandolo a sé, solleticandogli i capelli e carezzandogli il volto stanco, senza dire altro, piangendo una cascata di lacrime. Fu dopo qualche istante che Nikolaos si accorse che sua sorella puzzava di sangue e morte, lo stesso odore di cui era intriso il corpo del Selenite. E in quel momento lei lo colpì allo stomaco, sfondando l’armatura dell’Eridano Celeste e affondando nelle sue viscere.

 

Di fronte a quell’orrore, Demetra urlò.

 

 

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Capitolo 24
*** Capitolo ventitreesimo: La lama e lo scudo. ***


CAPITOLO VENTITREESIMO: LA LAMA E LO SCUDO.

 

L’abbraccio della Notte stava cingendo d’assedio Asterios e i Cavalieri di Avalon, forzati contro le mura interne di un baluardo del Primo Santuario. L’Angelo d’Acqua era ferito e la sua corazza, che mai aveva subito un graffio, era scheggiata in più punti, ma i due Cavalieri delle Stelle erano messi peggio, al punto che, più volte, si era chiesto se Matthew non fosse svenuto o se il cosmo di Elanor non sarebbe esploso, aizzato da un desiderio di vendetta che non sapeva contenere. Avesse avuto tempo, le avrebbe insegnato a incanalarlo, per servirsene in battaglia, con quel distacco che pure lui, nei millenni trascorsi sulla Luna a osservare la sua progenie mantenere solida la Conchiglia, aveva imparato a esercitare. Ma di tempo, ormai, neppure gli Angeli ne avevano più.

 

Quello che avevano era di fronte a loro e dovevano affrontarlo.

 

Forte di quella convinzione, e dei sacrifici fatti per arrivarci, Asterios espanse il cosmo, riparando Matthew ed Elanor, e sollevando ovunque, nella Corte della Notte, colonne di energia acquatica, costringendo Nyx a scattare di lato in lato per evitarle. Una, infine, la raggiunse, scaraventandola in alto e facendole persino perdere la presa sul tridente. Durò un attimo, prima che la Prima Dea assumesse la forma di uccello nero e sfrecciasse tra i flutti, i lunghi artigli di tenebra pronti a ghermire.

 

L’Arconte Verde tentò di difendersi con una muraglia di energia acquatica ma Nyx la sventrò, piombando su di lui e graffiandogli il viso. Gettò a terra Matthew e Elanor, recuperando forma umana, mentre Asterios si teneva la guancia, con un’espressione mista di sorpresa e smarrimento. Il tridente tornò nelle sue mani e la Signora della Notte lo mulinò, mirando al cranio dell’Angelo d’Acqua. Vi furono un urlo, uno schizzo di sangue e l’agitarsi di Elanor che si tirò su all’improvviso.

 

“Matthew…” –Mormorò, osservando il ragazzo che si era schierato a difesa di Asterios, afferrando con le mani le punte dell’arma. A denti stretti, con il cosmo al parossismo, stava tentando di respingerla.

 

“Impavido ragazzo. La lezione che ti ho impartito sulla Luna non ti è bastata?” –Ghignò Nyx, ritirando il tridente con un secco movimento che per poco non mozzò le dita del Cavaliere dell’Arcobaleno. –“Pazienza. Sono un’insegnante disponibile nel ripetere certi concetti!” –E affondò di nuovo, stavolta mirando al cuore del ragazzo. Ma una raffica di meteore celesti si abbatté su di lei, frenando la corsa dell’arma e scagliandola indietro, prima che una squillante voce giovanile la chiamasse.

 

“Che coincidenza. Anche a me non dispiace ripetermi. Soprattutto con certe carogne che sono dure assai di comprendonio!”

 

Irata, Nyx si voltò verso l’ingresso alla Corte della Notte, osservando un ragazzo in armatura divina correre sopra l’abbattuto portone, il pugno destro rilucente di energia cosmica. Alla sua destra, sospeso sopra un letto di fiamme, un giovane dai capelli blu la fissava incuriosito, con la stessa espressione di una fiera pronta a scattare sulla preda. Quel pensiero innervosì la Dea, indignata dall’essere considerata alla stregua di un bottino di guerra, lei che era la Primogenita. Lei che aveva visto l’alba della creazione del mondo e che, adesso, avrebbe assistito (e contribuito) al suo tramonto.

 

“Cavaliere di Pegasus! Lieta di rivederti! Ti ho mai detto che amo la carne di cavallo?” –Esclamò, rialzandosi e sollevando un muro di tenebra, su cui si schiantò l’assalto. Migliaia, forse decina di migliaia, di meteore di energia picchiettarono la barriera oscura, di fronte allo sguardo ammirato di Asterios, Elanor e Matthew, che avevano dimenticato quanto ardente fosse la fiamma della determinazione del Primo Cavaliere di Atena. E quanto arguta fosse la sua mente in battaglia.

 

Ripensando allo scontro con Eris della Lucertola, Pegasus mutò strategia, concentrando tutti i pugni lucenti in un unico attacco, che divorò il suolo che lo separava da Nyx, abbattendosi sulla muraglia di tenebra come fosse un meteorite composto da sola energia.

 

Cometa lucente!” –Gridò, forzando la Dea a un colpo di mano.

 

Marea d’ombra!”

 

Lo scontro tra le due potenti energie generò un’esplosione devastante, che scosse la Corte della Notte e le mura e i baluardi attorno. Il suolo si schiantò in più punti e le grosse porte, che solo fino a poche ore prima sembravano una barriera insormontabile, sprofondarono nell’abisso. Sin degli Accadi, rimasto alle spalle del Cavaliere di Atena, fu lesto a schizzare avanti, tuffandosi tra le colonne di roccia nera che segnavano l’ingresso al complesso templare. Colonne che, in parte, si creparono, crollando a terra, mentre un gruppetto di donne in armatura nera correva in cerca di riparo. Poco distante, Sin vide Shen Gado fare altrettanto.

 

Quando le scosse terminarono e le energie di Pegasus e Nyx parvero defluire, non vi era più molta differenza tra l’esterno e l’interno della corte, marcata da segni di lotta e distruzione. Solamente i due contendenti stavano ancora in piedi, lui con il pugno destro teso avanti a sé, sulle cui nocche sanguinanti le ultime faville di luce andavano spegnendosi, lei con il ghigno teso e un’evidente ruga d’affanno sulla fronte.

 

“Cavaliere di Pegasus!” –Lo chiamò Asterios, ma il ragazzo non si voltò.

 

“Angelo d’Acqua, vi prego di portare aiuto agli Areoi e ai Cavalieri delle Stelle. Abbiamo bloccato l’Armata delle Tenebre in una bolla di energia psichica, ma dubito che resisterà a lungo.”

 

Quasi Caos avesse udito le sue parole, la terra tremò di nuovo e dalle faglie fuoriuscì un’orripilante melma nera, che presto si modellò, assumendo forme vagamente umane e venendo rivestita da corazze scure, come le ombre che le avevano precedute, iniziando ad avanzare verso le forze dell’Alleanza.


“Li bloccherò!” –Esclamò Asterios, chiamando Matthew ed Elanor. –“Con me!”

 

“Ma… mio Signore… e il Cavaliere di Pegasus?”

 

Se anche questi rispose, Elanor non riuscì a capirlo, separata dal ragazzo e dalla Corte della Notte da quel nuovo fiume di ombre deciso a riversarsi all’esterno del Primo Santuario. Motivo più che sufficiente per fermarlo prima che si ricongiungesse al resto dell’Armata delle Tenebre.

 

Pegasus percepì accendersi i cosmi dei Cavalieri delle Stelle e di Alexer e, poco oltre, anche quelli di Shen Gado e Sin si infiammarono. Tutti avevano trovato il proprio avversario, e ugualmente aveva fatto come lui. Lo aveva saputo, in fondo, fin dal primo sguardo che si era scambiato con Nyx nel Cerchio di Urano, che i loro destini erano incrociati. E che forse, proprio lì, alle porte del Santuario delle Origini, la sua avventura avrebbe dovuto concludersi.

 

In quel momento, mentre gli occhi neri della Dea lampeggiarono sinistri, a Pegasus parve di udire frasi non dette, ricordi rimossi dalla coscienza. Gli sembrò di essere di nuovo a Fensalir, nella vera Asgard, oltre le nuvole, e di ascoltare Odino preoccuparsi per la salute della sua sposa. E Frigg, ferita a morte da Loki, che cantilenava sul letto, ripetendo le strofe di un’antica profezia, nota come Profezia della Veggente.

 

Affiorare lei vede ancora una volta la terra dal mare di nuovo verde. Cadono le cascate, vola alta l'aquila, lei che dai monti cattura i pesci.

 

Quello era il nuovo mondo che, secondo Odino, sarebbe esistito dopo la fine di quel tempo cosmico. Ciò che il Signore degli Asi non gli aveva confessato era il timore che Pegasus quel nuovo mondo non l’avrebbe visto. Sospirando, il Cavaliere di Atena allentò la presa su Balmung. Neppure si era accorto di averne afferrato l’impugnatura e forse era per quello che quei ricordi erano emersi in lui. I ricordi di Odino.

 

Quale fosse la verità, Pegasus non credeva alle profezie, non ci aveva mai creduto. Loki, a modo suo, gliel’aveva detto. Mai fidarsi di un oracolo. Su questo, Pegasus concordava, eppure, di fronte all’immensa forza dei Progenitori, che lui aveva sentito sulla sua pelle, unico tra tutti i cinque Cavalieri Divini, la sua sicurezza per la prima volta si incrinò.

 

Un fruscio lo distrasse, permettendogli di evitare il raggio di energia oscura che Nyx, mulinando il tridente, gli aveva appena diretto contro. Saltò indietro, piroettando su se stesso, prima di atterrare su una mano e darsi la spinta per balzare in alto, aiutato dalle ali dell’armatura. –“Fulmine di Pegasus!” –Gridò, liberando lo sciame di meteore azzurre, cui la Dea si oppose roteando la lancia a tre punte e parandole così una a una.

 

“Tutto qua?” –Sogghignò. –“Ti avviso che sei da solo, adesso, in una trappola in cui tu stesso ti sei cacciato. I tuoi compagni combattono al di là di quella muraglia di tenebra e altri, pochi, troveranno la morte nelle stanze a me riservate, per opera di Yako e delle Kitsune Oscure o di altre creature che l’Unico riterrà opportuno generare. Mi sorprende, Cavaliere di Pegasus, che tu non abbia ancora capito, eppure, tra tutti i combattenti che si ammassano stanchi e insicuri fuori da questo santuario, tu per primo dovresti essere consapevole della vanità delle vostre azioni.”

 

“Perché io?”

 

“Non sei forse la guida dei tuoi compagni? Il faro a cui hanno sempre guardato ogni volta in cui le speranze di vittoria si sono assottigliate? Non credere che non ti conosca, so tutto di te. Molto più di quanto tu stesso sappia. Ti ho osservato. Spesso. E mi hai colpito fin da subito. Quanti altri ragazzetti giapponesi, in fondo, hanno abbattuto un gigante greco per conquistare lo scrigno dell’armatura?”

 

“Uh? Intendi dire Cassios?”

 

Nyx annuì, iniziando a camminare attorno a Pegasus, i lunghi capelli viola che frusciavano sopra il mantello nero, l’arma sanguinaria stretta nella mano destra. –“Non lo ricorderai, immagino. Ma noi ci siamo già incontrati, tre anni fa per l’esattezza, nelle valli della Morea.”

 

Morea? In Grecia?! Che vuoi dire? Non ti ho mai visto…”

 

“Ma hai visto i miei figli. I giganti che mi hanno nutrito per anni, permettendomi di recuperare progressivamente la mia antica potenza. I giganti che mi hanno venerato, chiamandomi Ebdera, ovverosia madre, nella loro antica lingua.”

 

“I giganti di Ebdera! Che Cassios ed io sconfiggemmo nelle prove per ottenere l’investitura! Tu eri là?”

 

La Dea agitò una mano avanti a sé, muovendo uno sbuffo di vapore nero, che crebbe, divenendo delle sagome vagamente umane sullo sfondo di un aspro paesaggio montuoso. Di colpo, Pegasus si rivide lì, sui fianchi ripidi di quelle montagne, a lottare contro uomini grossi e robusti da rendere piccolo persino Cassios. E Nyx? Oh, adesso la vide. Era in piedi all’ingresso di una caverna e guardava i suoi figli cadere in uno strapiombo, spinti da quel ragazzino dal ciuffo ribelle che saltava come un grillo da una parete rocciosa all’altra. In mano, la Prima Dea stringeva una lancia, o forse era il suo tridente (Pegasus, da quella distanza, non riuscì a vedere bene in quelle vaporose immagini), e si apprestava a scagliarlo. Ma esitò e Pegasus uscì dal suo campo visivo, abbattendo l’ultimo gigante. Ecco, adesso aveva superato la prova e lei lo aveva lasciato andare.

 

“In un certo senso, tu sei qui per causa mia!” –Chiosò Nyx, con tono di voce per la prima volta serio. Disperse le immagini trinciandole con il tridente, prima di riportare lo sguardo su Pegasus, che non poté evitare di chiederle perché. Perché lo aveva risparmiato quel giorno. –“La verità? Io non lo so. Potrei darti molti motivi, potrei dirti che la sorte dei giganti non mi interessava, che se erano così deboli da farsi sconfiggere da due apprendisti non meritavano certo la misericordia della Madre Notte, potrei dirti che intervenire in una semplice prova d’addestramento avrebbe mortificato la mia esistenza di Divinità Primogenita. O forse… era così che doveva andare, forse Caos in persona frenò la mia mano, perché voleva che arrivassimo qua, quest’oggi, ad affrontarci per i destini del mondo. Tu, il Portatore della Luce, ed io, la Signora della Notte. Destino? Ironia? Un’inspiegabile sequela di coincidenza? No, Pegasus. È stato il volere di Lord Caos, nient’altro!”

 

Umpf…” –Commentò il Cavaliere, strusciandosi la base del naso. –“O forse avevi già paura di confrontarti con me!”

 

“Eh eh eh. Avevo dimenticato l’umorismo di voi mortali. Dote con cui in battaglia sopperite un’evidente debolezza.”

 

“Debolezza?!”

 

“Sì!” –Tuonò Nyx, affondando il tridente di colpo. –“Debolezza.” –Il fendente di energia raggiunse Pegasus a un fianco, proprio mentre il ragazzo si spostava di lato, sbilanciandolo ed esponendolo alla successiva carica della Prima Dea, che, fulminea, si era già portata di fronte a lui, sopra di lui, calando la triplice lama.

 

“Dimentichi una cosa…” –Mormorò Pegasus, sollevando di scatto il braccio destro, che sembrò a Nyx ben più lungo, e parando l’affondo con un clangore metallico. –“La spada di Balmung! Dono di Odino e ricordo degli Asi tutti!”

 

“Reliquia di mondi fagocitati da Caos.” –Chiarì Nyx, disincastrando il tridente e preparandosi per affondare di nuovo. Ma Pegasus fu più svelto e la colpì con la spada, troncandole l’arma.

 

Stupefatta, la Primogenita si trovò a osservare il bastone mozzato e il sorriso di sfida sul volto di quel moretto fastidioso che aveva affrontato lei, Etere e Emera, Erebo e persino Caos e ancora aveva la sfrontatezza di avanzare. Fece per travolgerlo quando notò una macchia sulla lama di ghiaccio. Una macchia di sangue nero.

 

“È il sangue del tuo uomo. O di tuo figlio. Non ho ben capito le vostre strane parentele.” –Commentò Pegasus, muovendo Balmung fino a portarla a un soffio dalla gola di Nyx. –“Guarda bene! Presto gronderà anche del tuo sangue.”

 

“Erebo è stato colpito?” –Disse Nyx, e a Pegasus sembrò che parlasse con se stessa. Dunque era questo che lo aveva irritato, e anche turbato? Per quale motivo non me ne ha parlato? Cosa temeva, che lo deridessi? Se una lama mortale è riuscita a ferirlo… questo è sinceramente preoccupante. Rifletté la Prima Dea, prima di stringere il pugno sull’asta mozza del tridente e gettarla via. Ma che vado pensando? Erebo è spericolato. Scommetto che avrà giocato con i suoi avversari. Io non farò il suo errore! Aggiunse, spalancando le braccia ed espandendo il proprio cosmo oscuro. –“Marea d’ombra! Sollevati!”

 

Una fiumana di tenebre sorse sotto i suoi piedi, interponendosi tra lei e la spada e sollevandosi, quasi aprendosi in fauci nere che si chiusero sul braccio del Cavaliere di Atena, che fu lesto a ritirarlo. Pegasus menò un paio di fendenti con cui tentò di tenere a distanza quella sbobba infernale, il tempo di realizzare di non esserne in grado e di darsi un colpo d’ali per balzare all’indietro.

 

“È inutile, Cavaliere. Sei stanco, lo sento. Sei sfiduciato. E soprattutto sei solo. Come sono stata io per tanto, troppo tempo, un tempo che nessuno ha mai ideato un modo per contare.”

 

“Ti sbagli, non sono solo. I miei amici combattono con me, da sempre e per sempre.”

 

“Oh, e dove sarebbero questi tuoi amici?” –Ridacchiò Nyx, mentre la marea di ombre aveva travolto Pegasus, sopraffacendolo e facendogli perdere la presa su Balmung, che sprofondò in quella vischiosa tenebra. –“Non affannarti! Più ti agiti e più le ombre si avvinghiano al tuo corpo. Sai bene cosa cercano? Le hai già affrontate mesi addietro, quando Anhar usò la Maestria di Ombre, un potere arcano che Caos gli donò. Vogliono la luce, vogliono cibarsene, per estinguerla, e tu, mio caro, ne sei colmo. Eh eh, mi farai ubriacare!”

 

“Vorrei tanto, invece, farti strozzare!”

 

A quelle parole, Nyx chiuse il pugno di colpo e la massa di tenebra sormontò Pegasus, affondandolo al suo interno. Divertita, la Prima Dea vide la goffa sagoma del ragazzo dimenarsi, le ali sbattere, finché poterono, e lampi di luce azzurra baluginare fino a farsi sempre più fiochi. Si era preoccupata per nulla, e anche se quel giorno, in Morea, non l’aveva ucciso, l’avrebbe fatto adesso. La volontà di Caos, in ogni modo, sarebbe stata eseguita.

 

Stava quasi per avviarsi oltre, e magari travolgere quella ridicola linea di difesa che l’Arconte Verde aveva imbastito là dove prima si ergeva la Porta della Notte, quando notò le faville azzurrognole che tinteggiavano il manto d’ombra. Faville che non accennavano a spegnersi e che, anzi, aumentavano in numero e in lucentezza.

 

“Cosa? No, non è possibile! Sei ancora vivo, Cavaliere di Pegasus? A cosa ti appigli? A quale patetica speranza?!”

 

“La speranza non è mai patetica, Nyx. È umana!” –Disse all’improvviso una voce di donna. –“E tu che sei soltanto un Dio, non potrai mai capirlo!” –Aggiunse, costringendo la Primogenita a voltarsi verso il cielo, dove una macchia dorata, simile a una campana, era appena apparsa. Una macchia che andava facendosi più grande, man mano che calava su di lei.

 

Sulle prime Nyx non capì cosa fosse quella bizzarria poi, quando vide la lancia comparire nella sua mano destra e puntare su di lei, quando riconobbe il simbolo di Nike scintillare fulgido e spavaldo, comprese che quella era Atena.

 

“Nike! Philotes! Dike! Questo colpo è per voi!” –Esclamò la Dea della Guerra, piombando su Nyx con la lancia tesa e mirando al suo cuore. Ripresasi dall’iniziale sorpresa, la Primogenita balzò indietro, lasciando che lo scettro di Atena le lacerasse soltanto le vesti, prima di conficcarsi nel suolo, liberando una violenta esplosione di luce. Di quell’attimo approfittò Pegasus, per bruciare il proprio cosmo e dilaniare dall’interno la vischiosa cortina d’ombra che l’aveva sommerso.

 

Fulmine di Pegasus!” –Gridò, traforandola in più punti, fino a uscirne. –“Atena! Cosa ci fai qua? Ti credevo alla Porta delle Tenebre…”

 

“Ho lasciato mio padre e gli Olimpi ad affrontare i mostri partoriti da Caos e mi sono fatta portare qua da Ermes. Avevo sentito che stavi combattendo, riconoscendo subito contro chi. Per questo sono venuta, per portarti aiuto. Hai rischiato troppe volte la vita per me, lascia che questa volta io faccia altrettanto per te!”

 

“Isabel… Atena, io…”

 

“Combatteremo insieme, Pegasus!” –Disse la Dea, voltandosi verso Nyx, che li guardava con disgusto al suono di quelle parole, ma anche con divertimento. –“Recupera la spada e preparati ad attaccare. Io sarò la tua difesa!” –Aggiunse Atena, sollevando il braccio sinistro su cui l’ampio scudo riluceva. –“Non temere per me! Colpisci finché sarà necessario!”

 

“Offesa e difesa combinati!” –Mormorò Pegasus, mentre Balmung tornava nella sua mano. –“Come una cosa sola. Noi siamo una cosa sola!”

 

“E allora vi ucciderò assieme!” –Ringhiò Nyx, spalancando le braccia ed espandendo il cosmo, che concentrò attorno alle mani, prima di unirle assieme e liberarlo sotto forma di un’unica devastante onda di tenebra. –“Io sono la Prima Nata, Signora della Notte primordiale che esisteva quando il sole non era ancora stato creato. Io sono l’uccello dalle ali nere dalle cui uova sono nati tutti gli altri Dei. Io sono Nyx la Procreatrice, Nyx la Vittoriosa. E questo è il mio trionfo! Nox invictus!”

 

L’assalto devastante si abbatté su Pegasus e Atena, entrambi con i cosmi espansi al massimo; quello di Pegasus, specialmente, pareva tracimare i confini stessi dell’universo, andando oltre, esaltato dalla presenza di Atena al suo fianco. Atena che gli sorrideva con ammirazione per tale rinnovato miracolo. Atena che lui amava.

 

“Pegasus è oltre il Nono Senso…” –Rifletté, mentre le loro aure, unite assieme, quasi fuse in un anello d’argentea energia, tentavano di opporsi al maremoto oscuro partorito da Nyx. –“Che sia dunque… la condizione primigenia… l’essenza alla base della creazione e della distruzione dei mondi… l’Omega?”

 

Tutti, in ogni angolo del Santuario delle Origini, o nella pianura attorno, percepirono i cosmi di Atena e di Pegasus crescere e crescere ancora, come fari di luce verso cui si ritrovarono a guardare, colmi di speranza, fiducia e ritrovata fede.

 

Sirio, che in quel momento stava fluttuando nella beatitudine eterna che Etere gli aveva donato, parve scuotersi, come se una nota discordante avesse rotto l’incanto del suono primordiale. Andromeda e Cristal, circondati dai Guerrieri del Caos e da Drakon e dalle bestie che la Porta delle Tenebre continuava a vomitare fuori, sorrisero. E anche Phoenix, a modo suo, recepì il messaggio.

 

Soltanto Nyx parve non vederlo, o forse non volle vedere, gli occhi colmi di una notte quasi totale che stava riversando nel suo massimo attacco. Un attacco che, era certa, sarebbe stato vittorioso. Sogghignando, vide Atena barcollare, sfinita, con l’Egida che ondeggiava, tremava e si crepava in più punti, mentre Pegasus, al suo fianco… Pegasus non c’era più!

 

“Che cosa?!” –Ebbe solo il tempo di squittire, prima di doversi coprire gli occhi, accecata da un bagliore celeste, quasi celestiale, che stava sfrecciando verso di lei.

 

“Hai detto che ero solo, Nyx, come te. Ma ti sei sbagliata. Un Cavaliere di Atena non è mai solo. Un Cavaliere di Atena porta nel cuore il ricordo, la fede e la forza di chi lo ha preceduto. Questo sono, l’ultimo di una stirpe di eroi, ma tutti loro sono con me, a sostenermi quando le mie ali non bastano più a sollevarmi. Tenma, Seiya, Bellerofonte, e tutti i Cavalieri di Pegasus che hanno avuto l’onore di servire Atena in questi millenni, i cui nomi figurano negli annali del Grande Tempio! Cometa di Pegasus!!!” –Gridò, liberando un poderoso assalto che saettò verso Nyx a una velocità ormai non più misurabile in termini umani. Trapassò la marea d’ombra, spinto da centinaia di ali di luce, tante quanti coloro che avevano indossato l’armatura del destriero alato, e infine fu su Nyx, che tentò di resistere, frenandone la corsa, divorandolo con l’oscurità, finché non rimase soltanto una punta stretta e affilata.

 

Che le si piantò nel ventre.

 

“Ma… cosa…” –Balbettò la Prima Dea, abbassando gli occhi e notando la spada di Odino conficcata nella sua stessa pelle, macchiata, adesso, anche del suo sangue. –“L’hai spinta… con il tuo attacco!”

 

“Tanto rifuggi la luce da non averla neppure vista…” –Commentò Pegasus, planando a terra e crollando sulle ginocchia, senza più fiato neppure per parlare. Atena gli si avvicinò, incespicando nell’armatura, quasi perdendo la presa sul danneggiato scudo, fino ad abbracciarlo, complimentandosi, e ringraziandolo, per quell’ennesimo trionfo.

 

“Non può essere…” –Rantolò Nyx, afferrando la lama per rimuoverla e bruciandosi le dita al solo contatto. Era così forte la luce dei Cavalieri di Atena? Più forte della Prima Notte? –“No!” –Ruggì, estraendola di forza e gettandola via. Ma con essa se ne andò anche il suo prezioso sangue, il cosmo di tenebra che la sosteneva. Lo vide gocciolare lungo le sue vesti, macchiare il suolo fino a generare una pozza nera, in cui la Primogenita iniziò a sprofondare. Si agitò, cercò di afferrarsi a qualcosa, raschiò la terra con unghie sempre più avvizzite, finché non fu completamente immersa nella sua stessa oscurità.

 

In quel momento Pegasus perse i sensi.

 

***

 

Shen Gado sentì spegnersi il cosmo di Mani, come se fosse morto all’improvviso.

 

Possibile? Si chiese, evitando l’affondo di una Volpe Nera. Per quanto non brillasse per strategia bellica, il Selenite di Saturno era pur sempre uno degli Asi. Che la sua stella sia dunque tramontata? Tirando un ultimo sguardo verso le rozze colonne di pietra, dietro le quali era scomparso il compagno (perché poi? Perché allontanarsi da solo in un posto che ancora non conosciamo?), prima di sollevare il braccio destro, l’indice puntato al cielo e liberare il suo colpo segreto.

 

Dominion of light!” –La pioggia di lame lucenti travolse le Kitsune Oscure, squarciando le loro corazze e la pelle al di sotto, che, stupendosene, Shen Gado notò era una normalissima pelle umana, piuttosto bianca in verità. Dunque non tutti i mostri al servizio di Caos sono effettivamente mostri?

 

“Non hai mai visto una donna nuda?” –Gli chiese una voce spregiudicata, mentre la figura a cui apparteneva balzava sul Selenite, evitando la pletora di raggi luminosi. –“Ti farò vedere com’è, alla fine, dopo averti ucciso! Yaah! Kyūbi no Kitsune!” –Gridò, portando avanti il braccio destro e liberando una raffica di ben nove fendenti, precisi e taglienti come lame, che forzarono Shen Gado sulla difensiva.

 

Lo raggiunsero sull’avambraccio e nell’interno coscia, strappandogli un moto di dolore, mentre si aiutava con le ali dell’armatura a portarsi in alto, di poco in verità, quel tanto che gli bastò per incastrare i piedi sotto le ascelle della donna e tirarla su di colpo, scaraventandola in alto. Presa alla sprovvista, la Volpe Oscura roteò su se stessa, cercando di stabilizzarsi, mentre il Capitano dei Seleniti la tempestava di pugni, riuscendo a raggiungerla in testa, crepandole l’elmo e spingendola a terra.

 

“Bastardo!” –Ringhiò lei, ruzzolando sul selciato, tra i cadaveri delle compagne. Le guardò, trattenendo l’impulso di piangere, e poi si tirò su di nuovo, scattando avanti alla velocità della luce, avvolta nel suo cosmo violetto. Tutto attorno a lei brillavano le sagome di dodici volpi dai denti aguzzi. –“Assaggia le nove code delle Volpi Nere! Assaggia la furia di Yako del Nogitsune e delle sue sorelle! Kyūbi no Kitsune!”

 

L’assalto srecciò verso Shen Gado, che stava atterrando proprio in quel momento, costringendolo a puntargli contro l’indice destro e a liberare migliaia di lame di luce, con cui dilaniò cinque delle code affilate di Yako. Ma le altre quattro, guizzanti e letali, lo raggiunsero, e una, in particolare, gli si piantò sotto la spalla sinistra, poco sopra il cuore, frantumando l’armatura dell’Ippogrifo e facendolo barcollare.

 

“Non è facile prevedere dove colpiscono, vero? Le volpi sono così. Imprevedibili. Soprattutto noi, che siamo le Kitsune Oscure, le malfidate. Le maledette.” –Ridacchiò Yako, con il fiatone e il sangue che le colava dalla ferita al cranio.

 

“Che divertimento trovate in tutto questo?” –Chiese allora Shen Gado. –“Donne di così rara bellezza, agilità e forza che si piegano al volere del Distruttore di Mondi? È questo che siete davvero?”

 

“Taci! Tu non sai niente di noi! Di come siano state cacciate e costrette a vivere nel corso dei secoli! Allinearsi al volere di Inari, come le pavide Zenko, o soffrire per la libertà, come abbiamo scelto di fare io e le mie sorelle. Solo questo volevamo. Essere libere di vivere la nostra vita, sposarci, avere figli, anziché essere schiave del suo volere. Ma Inari non ce lo ha concesso, dicendoci che non era il nostro destino.”

 

“Forse era così.”

 

“Proprio tu che sei uomo dovresti dare più valore al libero arbitrio!”

 

“E combattere per l’Unico che presto azzererà il libero arbitrio di chiunque non è un controsenso?”

 

“Fa’ silenzio! Sei come Inari! Non capisci! Non conosci la nostra ansia di libertà, che Caos ci ha promesso!”

 

“Caos vi userà, come sta usando tutte le creature che ha risvegliato da un sonno millenario per combattere la sua guerra. Non è schiavitù questa?”

 

Yako fece per colpire Shen Gado con l’altro braccio, ma il Selenite lo afferrò, chiudendo il pugno sulla sua mano e stringendo forte, molto forte, mentre il cosmo fluiva tra le sue dita, liberandosi sotto forma di lame di luce. La Volpe Nera strillò, balzando indietro ed estraendo infine le dita tese dal petto del Capitano, che adesso poté accasciarsi, tenendosi la ferita sanguinante. Prima che uno dei due potesse muoversi, una bomba di fuoco esplose tra loro, allungandosi sinuosa verso Yako e inseguendola in ogni movimento. Subito i cadaveri delle Kitsune Oscure vennero divorati dalle fiamme, tra le grida furibonde della sopravvissuta che non aveva potuto dare loro l’ultimo saluto.

 

“Cos’hai da strillare? Sei una volpe o una gallina?” –Disse una voce acuta, che Shen Gado riconobbe subito, prima ancora di vederlo camminare su un tappeto di fuoco.


“Sin… Non…”

 

“Non ringraziarmi. Lo faccio solo perché mi diverte combattere e il Cavaliere di Pegasus mi ha tolto la preda più ambita!” –Chiarì il Selenite di Marte, indicando l’esplodere dei cosmi del ragazzo e di Nyx alle loro spalle.

 

“Mani… lui è… più avanti. Cercalo. Salvalo!”

 

“Cosa sono? Un cane per ciechi? Vado solo perché qua ormai lo scontro è finito!” –Borbottò Sin, prima di avviarsi verso la bizzarra costruzione che sorgeva poco distante e che, ai suoi occhi, sembrava un pezzo di montagna staccato dalla catena dell’Himalaia e poggiato lì in mezzo al deserto. –“Niente a che vedere con la bellezza dei palazzi di Babilonia e della grande piramide di Anduruna!” –Aggiunse, scomparendo in uno sbuffo di fiamme.

 

Yako si rimise in piedi in quel momento, tossendo e respirando a fatica, mentre già Shen Gado aveva espanso il cosmo, spalancando le ali e preparandosi all’attacco.

 

Galoppo dell’Ippogrifo!” –Tuonò, lanciandosi su di lei con il pugno teso. La Nogitsune tentò di frenarne la corsa con nove fendenti di energia, ma la stanchezza e l’incrinarsi delle sue convinzioni, dovuta alle parole del Selenite, resero l’assalto confuso e poco preciso, permettendo a Shen Gado di piombare su di lei e travolgerla in un’esplosione di luce.

 

“Forse avevi ragione. Questa era davvero una schiavitù. Eppure adesso sono libera!” –Mormorò, allungando una mano verso i cadaveri delle compagne e spirando.

 

***

 

Vi fu un gorgoglio e una bolla d’ombra sorse dal terreno, espandendosi in mezzo al salone. Si gonfiò e poi esplose, inondando il pavimento di pietra nera con una scura sostanza fangosa, una sostanza che, a fatica, assunse le forme di una donna.

 

Era stata bella, all’inizio, con quei lunghi capelli viola e il viso volpino, con quel corpo snello e flessuoso. Adesso, ischeletrita, divorata dalla luce che tanto aborriva, con il cranio glabro e deforme e gli occhi cisposi di fango nero, Nyx non era poi così diversa dalle tante creature abominevoli risvegliate da Caos dagli abissi del mondo.

 

Eppure, se lui aveva concesso loro di esistere, e di assisterlo nell’ultima guerra, forse avrebbe potuto aiutarla. Avrebbe potuto farla tornare a essere la Signora della Notte. Era la Primogenita, in fondo.

 

Passi lenti risuonarono sulla pavimentazione, passi che si avvicinarono, rimbombando nel sepolcrale silenzio del santuario che ormai doveva essersi del tutto svuotato. Con i Progenitori in campo, tutte i servitori dell’Unico di certo li avevano seguiti; quindi chi era rimasto ad aspettarla? Forse una delle Kitsune Oscure?

 

Yako?” –Rantolò, scuotendo la testa. Accecata dalla vischiosa sostanza che le colava sugli occhi, riuscì a distinguere solo una sagoma sfuocata, alta e possente, rivestita da un’armatura ornata di spuntoni. Una sagoma di cui riconobbe la tetra aura prima ancora di sentirla parlare.

 

“Erebo…”

 

“Che misera fine per la Signora della Notte!” –Disse il Tenebroso, piegandosi sulle ginocchia per osservare meglio quella poltiglia deforme che un tempo era stata la sua madre e sposa. –“Fine che comunque ti sei meritata, per aver lasciato che quei ragazzetti ti sbarrassero il passo. Prima i Cavalieri di Avalon, poi l’Angelo d’Acqua, infine Pegasus e Atena. Io, ad Asgard, ho tenuto testa a una ben più incisiva coalizione, uscendone vittorioso.” –Declamò, rialzandosi.

 

“Ma non indenne…”

 

A quelle parole, Erebo sibilò, fissandola con due occhi fiammeggianti, che fecero ritrarre la massacrata Dea. Tossì, sputò sangue o qualche altro liquido nerastro, prima di tendere un braccio verso l’alto, invocando la misericordia di Caos.

 

“Mio Signore… Sommo Creatore… Vi prego…”

 

“Tu che preghi? Posso dire di averle viste tutte, in questa nuova vita!” –Commentò Erebo, mentre la mano rachitica della Notte gli sfiorava un piede, afferrandovisi come fosse uno scoglio e lei una barca in balia della tempesta.

 

“Caos… ti prego, intercedi…”

 

“Oh, farò di meglio, mia cara Nyx!” –Le sussurrò, chinandosi e agguantandola per un braccio, fino a tirarla su e a fiatarle in faccia la verità. –“Dovresti saperlo! Io non concedo aiuto, soltanto morte.” –E, nel dir questo, le trapassò lo sterno con un braccio teso, strappandole il cuore.

 

Come un fantoccio incartapecorito, la Signora della Notte si afflosciò, liquefacendosi in un torbido pantano, sul volto ancora la sorpresa e il terrore per quell’imprevista fine. Divertito, il Tenebroso si rigirò in mano il cuore della Dea per qualche istante, osservandolo pulsare ancora, intriso di una luminosità violacea, quasi spettrale. Lo strinse forte, nutrendosi dell’energia residua. Lo strinse fino a consumarlo, inspirando e ubriacandosi di una verità fino a quel momento sconosciuta.

 

Non era vero che la Primogenita era la più forte. Né era vero che i loro ruoli fossero fissi. La corrente di potere che l’aveva invaso in quel momento lo dimostrava. E se i resti di un cuore maciullato avevano potuto tanto, cosa avrebbe ottenuto da un cuore che invece pulsava vivida energia? O, meglio ancora, da due cuori?

 

Tirando uno sguardo verso il bastione orientale del Primo Santuario, dove una luce bianca e una fiamma rossa ardevano intense, Erebo si avviò in quella direzione, desideroso come non mai di scoprirlo.

 

 

 

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Capitolo 25
*** Capitolo ventiquattresimo: Frammenti di guerra. ***


CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO: FRAMMENTI DI GUERRA.

 

Le ombre lo stavano circondando.

 

Ovunque corresse, ovunque volgesse lo sguardo, Iro di Orione vedeva soltanto tenebra. L’unica fonte di luce proveniva dalla grande fornace, in fondo allo stanzone, di fronte alla quale il Gran Maestro del Caos stava in piedi soddisfatto, persino divertito. Non lo degnava neppure di troppa considerazione, voltandosi, di tanto in tanto, verso l’oscuro pentolone dentro cui ribolliva una melma oscura, che scoppiettava in bolle nere facendo ridere l’Angelo Caduto. A tener occupato Iro bastava la Rapsodia di Ombre che aveva evocato e con cui lo aveva circondato.

 

Le teneva lontane, per quel che poteva, grazie alla protezione offerta dalla Cintura di Orione, che impediva a chiunque di sfiorarlo se lui non l’avesse voluto. Ma non poteva restare sulla difensiva troppo a lungo, mentre le forze dell’Alleanza, fuori da quelle mura immonde, continuavano a faticare e morire. Spalancò le braccia e liberò una vampata di puro cosmo, che annientò le tetre evanescenze che lo circondavano, aprendo un corridoio verso l’Angelo Oscuro, dentro cui subito si fiondò.

 

“Tut tut!” –Mormorò Anhar, agitando l’indice destro del guanto metallico che gli rivestiva la mano (o quella che Iro avrebbe considerato una mano) e frenando la sua carica, bloccandolo a mezz’aria. –“Vai da qualche parte? Non mi pare di averti permesso di abbracciarmi! Sai, sono molto pudico, in queste cose. Rifuggo le manifestazioni di affetto tipiche degli umani. Ahr ahr!”

 

“E di questa manifestazione che ne dici?” –Tuonò Iro, bruciando il cosmo. –“Suscita il tuo interesse?” –Con uno schianto, la morsa psichica di Anhar andò in frantumi, permettendo a Iro di balzare avanti, con un braccio teso in alto e un lampo di luce dorata che calava sul Caduto.

 

“Uhm, non particolarmente.” –Ridacchiò quest’ultimo, spostandosi di lato e rimediando solo un graffio alla corazza. Afferrò l’attizzatoio che usava per raspare tra i carboni e ne sollevò una manciata, gettandoli in faccia di Iro, distraendolo e costringendolo a balzare indietro, per non essere ustionato. Ma qualche favilla lo raggiunse comunque, bruciandogli la pelle e qualche capello, senza strappargli però nemmeno un lamento. –“Interessante. Sei più uomo di quanto credessi! Molti altri, al posto tuo, avrebbero iniziato a piagnucolare!”

 

“Non m’importa degli altri. Io sono il Cacciatore Leggendario, credi che il mio volto non abbia sopportato le intemperie della natura, il vento che mi sbatteva in faccia, la neve che mi incrostava i capelli, durante le mie battute di caccia? Io esistevo prima che le moderne città degli uomini venissero innalzate e cacciavo con Eracle nelle pianure della Scizia e nei boschi del nord. Non saranno due cicatrici in più a impedirmi di adempiere alla mia missione!”

 

Anhar non ribatté, limitandosi a guardarlo. O, quantomeno, fu quello che Iro credette che l’Angelo stesse facendo. Difficile dirlo con quella maschera integrale sul volto, se mai un volto esisteva là sotto. Ma a giudicare dalla posizione, dall’oscillare della testa e dal respirare misurato, Iro ritenne che lo stesse studiando. Qualcosa di simile a quel che faceva anche lui prima di scendere sul campo. Analizzare, pianificare e poi agire.

 

“Quella lama…” –Disse infine Anhar, indicando l’oggetto che il fedele di Eracle stringeva in mano, donatogli da Ermes durante la loro riunione.

 

Iro la sollevò, lasciando che il bagliore della fornace illuminasse la daga dorata. Un’arma regale, ben curata e maneggevole, sebbene Iro la ritenesse superflua; quando andava a caccia con Eracle, usava solo le mani e, nell’eventualità, i piedi.

 

“La riconosco…”

 

“Vuoi vederla da vicino?” –Esclamò il Primo Comandante, scattando avanti, già avvolto nel suo cosmo violetto. Piombò su Anhar, aspettandosi che lo spingesse indietro, invece questi si limitò a spostarsi di lato, afferrandogli il polso a mezz’aria e torcendolo fino ad osservare l’arma.

 

“Incredibile. Credevo fosse andata perduta.” –Mormorò, esercitando una pressione maggiore, tale da spezzargli le ossa del polso se Iro non fosse stato protetto dalle tre stelle di Orione. Con un colpo di reni, si lanciò in alto, roteando su se stesso e atterrando proprio sulle spalle del Gran Maestro del Caos; si aggrappò al grosso elmo nero e fece per calare la lama quando un’onda di cosmo oscuro lo scaraventò indietro, contro il muro della fornace, abbattendolo e facendolo cadere sulle braci.

 

“La temi davvero.” –Rifletté Iro, rialzandosi, in mezzo ai carboni ardenti e ai detriti.

 

“Sarei un folle a non temerla. Tu non conosci la storia di quella lama. Io sì, e molto bene, avendola creata.” –Disse Anhar, con voce greve. –“Non è necessario che tu sappia altro, solo che la voglio. E tu me la darai. Adesso!”

 

“Umpf! Te la darò, certo. Ma nel cuore!” –Tuonò Iro, prima di scagliare un calcio al calderone e ribaltarlo, lasciando che la melma nera si rovesciasse sulla fornace e poi di sotto, sul pavimento di pietra, forzando Anhar a indietreggiare.

 

“Idiota! Puoi anche interrompere la fabbricazione delle corazze, ma la Maestria di Ombre è già in corso ed è Caos a dirigerla. Continuerà a sfornare legioni di guerrieri caduti finché ne avrà voglia.”

 

“Ma non potrà rivestirli, non è così?” –Disse Iro, in tono beffardo. –“Il mio Signore Eracle mi ha raccontato qualcosa, riguardo a una certa incursione nello Jamir. Ora, io ne so poco di armature e alchimia, era Druso il fabbro di Tirinto, ma immagino che ci fosse qualcosa che neppure Caos conosceva, se avevate bisogno dei muriani.”

 

“Avevamo.” –Sibilò Anhar, espandendo il cosmo e sollevando una corrente di aria fetida, dentro cui sfrigolavano vampe scarlatte. –“E sai che fine fanno le cose che non servono più? Ahr ahr! Apocalisse Divina! Esplodi!”

 

La tempesta energetica sconquassò l’intero salone, disintegrando lo scarno mobilio, la pavimentazione, le mura che avevano resistito al precedente crollo, prima di abbattersi su Iro, che tentò di opporsi espandendo il potere della Cinta di Orione fino a creare una barriera attorno a sé, dandole la forma di un cuneo, con il vertice rivolto avanti, sì da permettere alla bufera di scivolarvi sopra senza smuoverlo troppo. Era stato uno dei primi insegnamenti di Eracle, nel Mondo Antico, durante le loro caccie.


“Quando il vento soffia forte, cerca di offrirgli la superficie più ridotta possibile.”

 

Lezioni che, dopo tre millenni, ricordava ancora, a conferma che le parole di Sarpedonte, suo vecchio compagno della Primissima Legione, erano vere: il Cacciatore Leggendario aveva anche una memoria di ferro.

 

“E due braccia forti come querce!” –Disse, caricandole di energia cosmica e portandole avanti, liberando il proprio colpo segreto. –“Tuono del Cacciatore!”

 

La detonazione di energia scosse la tempesta di Anhar, spazzando via le vampe demoniache. Fu solo un istante di calma, prima che il vento dell’apocalisse tornasse a spirare e ad abbattersi su Iro. Che però non era più dove si trovava in precedenza.

 

Se Anhar avesse avuto una bocca, avrebbe storto le labbra, seccato, prima di muovere gli occhi attorno a sé per ritrovare la sua preda. La percepì, sotto di lui, nel momento stesso in cui Iro levava la daga dorata, piantandogliela nel piede dell’armatura.

 

“Aaargh!” –Gridò l’Angelo Oscuro, scaraventando via il guerriero con un calcio, fino a schiantarlo nella melma nera che aveva sommerso il sotterraneo. Disgustato, Iro tentò di rialzarsi, incespicando e borbottando, mentre Anhar si toglieva la lama dal piede, guaendo. –“Tu! Maledetto umano! Non sai con cosa stai giocando! Questo non è strumento che può essere usato con leggerezza! Sai cos’è? Una lama deicida! La forgiai io stesso, anni addietro, affinché il mio allievo la usasse. È una lama che può uccidere un Dio, perché è maledetta. Mi ci sono voluti vent’anni di studi e sperimentazioni, assistito dagli alchimisti oscuri della Regina Nera, per giungere a un perfetto risultato. Un Dio ferito da questa daga… muore!”

 

“Un vero peccato che con te non abbia funzionato. Si è esaurita, forse?”

 

“Zitto!!!” –Ringhiò Anhar, avvampando nel proprio cosmo scarlatto, che riempì l’aria, incendiando la melma oscura e aggredendo il Primo Comandante, costretto a dimenarsi per non prendere fuoco. –“La sua energia è legata a Caos, che la esercita tramite una delle sette pietre nere. Questa gemma incastonata nell’elsa.”

 

“A me sembra verde.” –Tentò di ironizzare Iro, per quanto l’oceano di vampe lo stesse facendo soffocare.

 

“Spesso le cose non sono come sembrano.” –Mormorò Anhar, sfiorando la pietra, che subito mutò colore, rivelando la sua natura oscura. –“Mi hai portato un interessante dono e te ne ringrazio. Adesso che è tornata in mio possesso, la userò per uccidere tutti gli Dei. Caos sarà fiero di me, Caos capirà che non può fare a meno del suo araldo, che a ben più concreti risultati è arrivato dei suoi quattro Primogeniti. Per questo regalo, ti onorerò di una morte rapida, Cacciatore. La meriti, in fondo! Ahr ahr!” –Ridacchiò, mentre le vampe scarlatte si sollevavano, unendosi in una spirale che Iro paragonò alle fauci di una fiera pronte a chiudersi da un momento all’altro su di lui. –“Addio!”

 

Quando il momento arrivò, il Primo Comandante non si fece trovare impreparato, aprendo le braccia di lato e canalizzando tutto il potere della Cintura di Orione, per resistere all’ondata di fuoco infernale. Poi, quando capì di non poterla arginare per sempre, mutò la difesa in offesa.

 

“Alnitak! Alnilam! Mintaka! Mi avete sempre protetto! Devo chiedervi un ultimo favore, prima della fine!” –Disse, prima di liberare tre onde di energia che sommersero, inglobandole, le vampe di fuoco nero, prima di dirigersi verso Anhar. –“Ora che mi hai confermato il valore di quell’arma, non te la lascerò usare. Tutt’altro. Te la pianterò nel cuore, così vediamo se funziona anche sugli Angeli!”

 

“Non basterà! Io non sono un Dio!” –Esclamò Anhar, sollevando un muro di fiamme e ombra su cui l’assalto avverso impattò. –“Alle Divinità moderne sono ben superiore! Ce ne vorrebbero almeno un paio, forse, per uccidere un Arconte! Non dimenticare chi hai di fronte? Un Angelo Caduto. Quanto di più superiore a un Dio possa esistere!”

 

“Tranne i Progenitori…” –Lo punzecchiò Iro, ottenendo un ringhio rabbioso in risposta. –“Loro ti sono superiori, per quanto non ti piaccia ammetterlo. E scommetto che anche Caos li reputa migliori e più utili di te, o non ti avrebbe confinato in questo scantinato a far la guardia a una pentola piena di bava infernale!”

 

“Questo compito è un onore! Io l’ho proposto all’Unico! Io gli ho consigliato di creare corazze per rivestire le ombre, in modo da poterle ingabbiare, da sottometterle, annullando così la loro volontà! Non sono certo stati Erebo o Nyx, o quegli stupidi damerini luminosi! Il Creatore di Mondi si renderà conto, quando gli porterò la testa di Zeus e di Amon Ra, che non potrà fare a meno di me!”

 

“Né delle tue chiacchiere.” –Commentò Iro, lanciandosi avanti. Anhar tentò di spingerlo via ma il Cacciatore era già su di lui e lo colpiva al petto con una vigorosa spallata che lo fece barcollare, e mollare per un istante la presa sulla daga. Iro la recuperò e gliela conficcò nell’attaccatura tra elmo e pettorale, affondando finché ebbe forza, fino a quando l’Angelo non lo spinse via in un grido di rabbia e dolore.

 

Il Primo Comandante ruzzolò sul pavimento distrutto, con la corazza rotta in più punti, ma quando lesto si rialzò vide che Anhar si stava tenendo la gola, annaspando, cercando di estrarre la lama, senza riuscirvi, mentre dalla ferita usciva una leggera evanescenza, quasi come lo spirito dell’Angelo stesse evaporando. Iro lo osservò attento e capì che aveva problemi nel controllare lo scafandro che lo rivestiva, conscio che era l’unico momento in cui poteva colpirlo. Così radunò tutto il suo cosmo, tutto quello che riuscì a risvegliare, memore delle caccie con Eracle, degli allenamenti con i compagni, delle battaglie, della fuga e del tradimento, infine della redenzione. Aveva sperimentato davvero tutto nella sua lunga vita, e adesso l’avrebbe usata per ricordare a quel viscido bastardo come morivano gli Heroes di Tirinto.

 

A testa alta, avanzò verso Anhar, che quasi sembrava essersi scordato di lui, mentre tutto attorno a sé il cosmo esplodeva, disegnando nell’aria la costellazione di Orione, con la clava in mano e lo sguardo vittorioso. Il Cacciatore lo aveva guidato a lungo, le sue stelle lo avevano protetto, il suo mantello l’aveva nascosto durante le battute di caccia. Ma era stato il suo grido a terrorizzare i nemici, quel canto di guerra che adesso Iro avrebbe liberato.

 

Devastazione di Orione!” –Urlò, sbattendo il pugno al suolo e scatenando il potere ultimo che covava dentro.

 

Tutto esplose. La fornace, il pavimento, le mura. Una parte del Primo Santuario collassò su se stessa, rovinando al suo interno e mitragliando Anhar e Iro. Prima che un masso più grosso degli altri si abbattesse su di lui, il Comandante riuscì a vedere la daga dorata andare in frantumi, e anche la corazza del Caduto. Poi vi fu solo tenebra.

 

***

 

A Nesso non piacevano le donne.

 

Se poi tendevano a trasformarsi in serpenti (in grossi e squamosi serpenti verdastri) quando si arrabbiavano, gli piacevano ancora meno.

 

Ne aveva sentito parlare, da Eracle e anche dai suoi compagni, di guerrieri mutaforma ma non ne aveva mai incontrato uno. Certo, aveva combattuto contro sicari inviati da Era, figli di Eos, Heroes rinnegati e, di recente, contro ragazzetti che plasmavano le correnti d’acqua in cavalli neri e ogni genere di mostro, ma non si era mai trovato di fronte una donna serpente. Una combinazione, per i suoi canoni, letale e disgustosa.

 

Hiss.

 

Se poi sibilavano…

 

L’assalto di Vritra ricominciò, costringendo il ragazzo a balzare indietro, evitando che gli piantasse in un braccio i denti velenosi. Si diede la spinta su una grossa roccia che sporgeva dal suolo e le saltò sopra, atterrando dietro la nuca, e poi precipitando giù lungo la sua schiena. Ovvero lungo il suo flaccido corpo serpentiforme.

 

Estrasse i rampini seghettati dal bracciale destro e glieli piantò nella pelle, tentando di frenare la sua scivolata e, al tempo stesso, strappandole grida di dolore furioso. Non doveva essere piacevole, neppure per un grosso serpente, farsi squarciare la pelle.

 

Con un colpo di coda, la creatura lo sbalzò via, facendolo ruzzolare sul terreno arido fino a schiantarsi contro un muro del Primo Santuario, intontito, ma lucido a sufficienza da evitare il nuovo assalto dell’avversaria, che si allungò furiosa verso di lui, ritrovandosi a sbattere la testa contro la parete di roccia, mentre il giovane era già sgusciato via dalla sua presa.

 

“Ora basta! Frecce del Mare!” –Gridò, liberando un migliaio di dardi di energia azzurra, che riempirono l’aria, abbattendosi sul corpo del serpente, che si dimenava per evitarli. Quelli che raggiunsero le ferite aperte lo imbestialirono e gli fecero schizzar fuori litri di veleno.

 

Nesso cercò di evitarlo, ma qualche goccia lo bagnò sull’armatura, corrodendola, e sulle braccia, ustionandole. Se fossero stati a Tirinto, Penelope lo avrebbe curato, con uno dei suoi intrugli d’erbe e la sua voce melodiosa, che pareva far dimenticare ogni dolore, al punto che tutti gli Heroes la consideravano alla stregua di una madre. Ma Tirinto e Penelope erano un ricordo e adesso doveva cercare di uscire di lì, o quantomeno resistere finché Nikolaos non avesse riportato Demetra da Zeus. Nikolaos che, lo sentiva, era ancora all’interno del Santuario delle Origini e sembrava vagare in tondo, incapace di trovare la via per l’esterno.

 

Eppure il nord è in quella direzione! Si disse, proprio mentre Vritra, in forma di serpente, sollevava di nuovo la rozza testa, mostrando i denti da cui colava un liquido verdognolo. Sempre che Caos non stia mutando la conformazione del Santuario…

 

Nel qual caso nessuno di loro avrebbe ritrovato la via d’uscita.

 

Consolante. Ironizzò, scattando di lato mentre la grossa serpe piombava su di lui. Liberò un arpione e lo conficcò in un muro dell’edificio, lasciandosi tirare su. Tutti vogliono entrare, mentre noi vorremmo uscire. A questo punto mi converrebbe aspettare gli altri qua dentro!

 

Proprio in quel momento, con un rapido colpo di coda, Vritra lo afferrò per le gambe, stringendole con forza e strattonandolo via, schiantando l’arpione e portandosi con sé anche un pezzo di muro. Nesso tentò di liberarsi ma la forza della stretta era tale da sentire persino le ossa scricchiolare sotto l’armatura.

 

“Capisci adesso perché mi chiamano l’Avviluppante?” –Mormorò una voce di donna, strappando un gemito di sorpresa all’incursore di Eracle.

 

“Tu puoi parlare?” –Chiese, fissando la bestia negli occhi gialli.

 

“Non proprio. Emetto vibrazioni, che il tuo cervello traduce in parole. È uno dei miei talenti. Sono una degli Asura, in fondo.”


“Asura… Divinità vediche. Credevo che Caos vi avesse sterminato.” –Disse Nesso.

 

“Solo quelli che non hanno voluto piegarsi. Io, come vedi, ho compiuto una scelta ben più intelligente.”

 

“Furba, più che altro. E questo bel corpo? Te lo ha regalato Lord Caos?”

 

A quelle parole, Vritra strinse più forte, aprendo crepe sulla corazza del Pesce Soldato, mentre la sua testa si chinava fino a portarsi all’altezza degli occhi di Nesso. Sarebbe bastato un solo gesto e il Nefario se lo sarebbe ingoiato.

 

“Questo corpo è un regalo di un Cavaliere di Atena, in verità. Un uomo che mi ha maledetto, rifiutandomi tra i suoi discepoli, non ritenendomi abbastanza eletta. È stata colpa sua se gli altri Asura mi hanno trasformato, ascoltando lui che vedeva in me una serpe maligna!” –Nel dirlo, la rabbia la invase, stringendo il corpo di Nesso e avviluppandosi sempre più attorno a lui, bloccandogli anche le braccia al petto e lasciando scoperta soltanto la testa. –“Ho saputo, in seguito, che uno dei suoi protetti gli si è rivoltato contro. Arne si chiamava e fu proprio lui a ricercarmi, lo scorso anno. Mi disse che il suo nuovo mentore stava mettendo su una squadra di soggetti particolarmente dotati e che, avendo saputo del mio dono, desiderava incontrarmi. Un dono, capisci? Era la prima volta che qualcuno lo considerava così. Per tutti ero un mostro, l’Asura maledetta che dimorava nella giungla indiana e uccideva chiunque la cercasse. Per Anhar, invece, fui una risorsa, da includere nello Zodiaco Oscuro!”

 

“Zodiaco che mai vedrà la luce, dato che i suoi membri sono stati quasi tutti sconfitti. Ti sarebbe convenuto rimanere nella giungla!”

 

“E tenermi questo corpo per l’eternità? Giammai! Anhar è stato misericordioso. Ha interceduto per me presso Lord Caos, che mi ha promesso di farmi tornare donna in forma definitiva.”

 

“Cotanta generosità abbaglia i mondi!” –Ironizzò Nesso, prima di aggiungere. –“E dimmi, Caos ricucirà anche il tuo corpo distrutto?”

 

Vritra parve non comprendere la battuta del ragazzo, che intanto aveva espanso il proprio cosmo. Con un poderoso colpo di braccia, Nesso le sollevò, dilaniando con i rampini la coda che lo avvolgeva e sgusciando fuori, tra i lamenti atroci del Nefario.

 

“Maledetto! Perché mi fai soffrire tanto?” –Sibilò, chinandosi e sputando veleno.

 

“È la guerra, Vritra. Vale per tutti noi.” –Commentò Nesso, concentrando nel pugno tutta la sua energia cosmica. –“Frecce del Mare, non abbandonatemi!” –E ne diresse a migliaia contro la testa di serpente, mirando agli occhi. Li ferì, facendo inarcare la bestia e costringendola a spalancare la bocca, dove Nesso vi scagliò un arpione, trapassando la gola e conficcandolo nel muro alle sue spalle. Quindi lo afferrò e vi lasciò fluire il suo cosmo, sconquassando il corpo del Nefario con violente scariche di energia. L’ultima, la più violenta, lo folgorò del tutto, facendolo esplodere.

 

Nell’esplosione, Nesso venne raggiunto da schizzi di materia organica del serpente, che gli incendiarono le guance, la fronte e altre parti scoperte dell’armatura. Persino un occhio gli parve si squagliasse. Strillò, agitò le braccia, barcollò per qualche istante prima di crollare sulle ginocchia, pensando che, mai come in quel momento, avrebbe davvero voluto che ci fosse Penelope a curare tutti loro.

 

***

 

La bocca di Demetra era spalancata dall’orrore.

 

Una ragazza dal viso scarno e dai piccoli occhi grigi era corsa incontro a Nikolaos, piangendo, e quando lui l’aveva abbracciata lei gli aveva piantato un braccio nel ventre. Ma solo quando lo estrasse, e gettò a terra il corpo ferito del Luogotenente, la Dea delle Coltivazioni si accorse che quello non era un braccio umano. Così scheletrico, e con dita lunghe e nodose, sembrava l’artiglio di una creatura infernale, che di certo era il suo possessore, sebbene lei non riuscisse a vederlo. Notò solo la nebbia che lo rivestiva, dentro cui l’immagine di Teria sfumò, cambiando di nuovo, ma rimanendo troppo vaga per poterla identificare. Demetra poté solo strabuzzare gli occhi quando il carnefice di Nikolaos la afferrò per il collo, sollevandola di peso e sbattendola contro il grosso masso alle sue spalle.

 

Troppo debole persino per tremare, pensò che l’avrebbe uccisa ma il nemico si limitò ad annusarla, annuendo compiaciuto, prima di azzannarla a un braccio e strappar via quel misero pezzo di pelle che rivestiva l’osso, masticandolo con gusto. Avesse avuto le forze, la Dea avrebbe gridato.

 

Invece stava per perdere i sensi quando venne risvegliata da un calore improvviso. Spalancando gli occhi, vide il nemico prendere fuoco, lasciarla andare e correre via, per spegnere le fiamme che lo stavano divorando, fiamme che, Demetra lo percepì, erano di chiara origine divina.

 

“Immagino che voi siate la sorella del Sommo Zeus!” –Esclamò una voce giovanile, costringendo Demetra a voltarsi, e a levare lo sguardo verso la cima della roccia, su cui si stagliava quello che, all’apparenza, sembrava un adolescente ribelle, con folti capelli blu e sguardo furbetto. –“Mi ricordo di voi. Vi recaste in visita dai miei fedeli, a Nuova Babilonia, insegnando le tecniche di coltivazione adatte ai territori desertici. Un bel gesto, lo apprezzai. Mi sarebbe piaciuto osservare la città dall’alto di Anduruna, vedere i suoi tetti pieni di giardini, le sue strade gremite di gente e intrise dall’odore di primavera. Lo avrei fatto, un giorno, se Selene mi avesse permesso di lasciare la Luna e se Anhar non l’avesse rasa al suolo.”

 

“Dunque tu sei…?”

 

“Sin degli Accadi, Selenite del Cerchio di Marte e Signore della Guerra e del Fuoco. Elemento che, il nostro poco loquace amico, non deve avere in simpatia.”

 

“Dovresti ben saperlo, mio Signore, poiché il fuoco ha segnato la fine della nostra Babilonia!” –Disse allora il loro avversario, nascosto dietro una cortina di nebbia, che andò scemando, rivelando infine le forme di chi aveva parlato. Un giovane uomo, di trent’anni, non di più, con mossi capelli ricci e una corona sulla testa; vestiva abiti di foggia mediorientale, di un acceso color verde, finemente decorati con polvere d’oro.

 

“Marduk?” –Esclamò Sin, riconoscendo l’ultimo sovrano di Nuova Babilonia.

 

“A quanto pare il nostro popolo è destinato a ritrovarsi e, chissà, magari a ricominciare una nuova vita.”

 

“Che ci fai qua? Non sei morto durante il complotto di Anhar e la grande guerra che ha distrutto Anduruna?”

 

“Lo credevo, finché Caos non mi ha salvato, offrendomi un posto nel suo esercito di Nefari. Non mal giudicatemi, non avevo scelta se volevo ricostituire le legioni perdute degli Annunaki. Ho avuto molti dubbi, al riguardo, ma se mi ha permesso di trovare te, nostro Signore, allora so di aver fatto la scelta giusta.” –Mormorò il giovane, inginocchiandosi.

 

Sin lo osservò in silenzio per qualche istante, con Demetra che affannava alle sue spalle e il corpo di un Cavaliere Celeste, ferito all’addome, poco distante. Da qualche parte doveva esserci anche il corpo di Mani; pur senza vederlo, Sin riusciva a percepirne la presenza, grazie al sangue che doveva aver bagnato il suolo.

 

“Che ne è dell’altro? Il Selenite di Saturno? Lo hai ucciso?”

 

“È stato uno spiacevole incidente, mio Signore. Stavo solo eseguendo gli ordini di Caos. Ma venite, vi prego, vi porterò da lui, magari potete ancora salvarlo!” –E si avviò lesto attraverso l’ampio cortile, zigzagando a passo deciso tra le rozze rocce nere, fino a condurre Sin al cadavere dell’Ase. –“Eccolo. Mi ha sorpreso e ho dovuto difendermi. Sono desolato, possente Sin!”

 

“Difenderti, dici, eh?” –Mormorò il Selenite di Marte, avvicinandosi e chinandosi su Mani. Gli tastò il collo, confermando la sua morte, prima di vedere il foro nel collo, come se qualcosa lo avesse trapassato. Troppo stretto per essere un braccio, troppo largo e rotondo per essere una lama. Capì, nel momento stesso in cui si voltò, con il palmo colmo di energia rovente, con cui parò l’affondo di Marduk, che stava mirando alla sua schiena. –“Subdolo fino in fondo, vero, demone?” –Gli disse, notando le gocce di sudore bagnare il volto del Re di Babilonia, costretto a uno sforzo superiore alle sue possibilità. –“Cosa sei? Un mutaforma, scommetto.” –Aggiunse, spingendolo indietro e facendolo ruzzolare al suolo per parecchi metri.

 

“Come l’hai capito?” –Ringhiò l’essere dall’aspetto di Marduk, rialzandosi, le dita che si allungavano e divenivano artigli affilati, il corpo che mutava aspetto, rinsecchendosi e divenendo una sagoma scheletrica avvolta da uno strato di nebbia.

 

“Il foro nel collo di Mani.” –Spiegò Sin. –“È stato provocato da un bastone. Quello del figlio che avevi impersonificato, immagino. In quanto al Luogotenente Olimpico ti sarai mutato in una donna per lui importante. Sei astuto, quasi mi complimenterei con te, ma hai commesso un errore. O forse sei stato sfortunato a incontrarmi!”

 

“Quale?”

 

“Impersonare Marduk! Era impossibile che fosse ancora vivo e ancor più impossibile che avesse accettato l’offerta di Caos. Io credo, in verità, che l’Unico non sia riuscito nemmeno a risvegliare il suo spirito, troppo dedito alla causa, troppo fedele ai suoi ideali. Lo vidi, quel giorno, lottare come un disperato fino alla fine, mentre le fiamme nere cingevano d’assedio Anduruna, lui si erse, con gli Annunaki suoi amici, sulla cima della piramide, e là morì, ustionato dall’ombra che aveva invaso la città. Morì e mi chiamò, e nessuno sa quanto avrei voluto salvarlo.” –Sospirò Sin, prima di riportare lo sguardo sul nemico. –“Bene, dopo questa bella chiacchierata, è ora di ucciderti! Pronto a morire, Gallu?”

 

“Sono un windigo, non un demone babilonese! Uno sciamano del deserto del Mojave mi ha mutato in…” –Ma non riuscì a terminare la frase che un’ondata di fuoco celeste lo travolse, circondandolo.

 

“Cosa vuoi che mi importi la tua biografia? Sei solo un nemico, ai miei occhi. E pagherai per aver osato impersonare il Sovrano di Smeraldo!” –Esclamò Sin, sollevando il braccio destro al cielo e generando un enorme cubo di energia rossastra attorno al windigo, che cercò di fuggire, di allontanarsi da quel fuoco sempre più intenso, ma ogni lato era sbarrato, ogni via gli era preclusa. Poté solo strillare disperato mentre le sei facce del cubo si illuminavano di un rosso bagliore. –“È-kish-nu-gal!” –Tuonò il Selenite di Marte. E l’incendio divampò.

 

 

***

 

Di fronte alla Porta del Giorno, la battaglia continuava.

 

Febo e Horus avevano sconfitto Keres e adesso si proteggevano l’un l’altro, schiena contro schiena, aiutati da Marins e dalle Amazzoni, per tenere a distanza un gruppo di akhekh e di altre creature abominevoli. Amon Ra stava sterminando le ultime Locuste dell’Abisso e Phoenix e Andrei, a qualche passo di distanza, dovevano contenere l’avanzata dell’Armata delle Tenebre.

 

Ma il Cavaliere era stanco. Più di quanto volesse ammetterlo. E non era solo la stanchezza fisica a prostrarlo, rendendo lenti i suoi colpi e appannati i suoi riflessi, era una fiacchezza che stava logorando la fiamma della fenice, portandolo a chiedersi se quel mondo di guerra fosse destinato a finire. O a replicarsi all’infinito. Pareva che, anche dopo la morte di Polemos, che ne era l’incarnazione, la guerra continuasse a esistere, quasi avesse assunto una propria consistenza. Non era per quel motivo che quel demone era vissuto così a lungo, acquistando una forza devastante?

 

Quel pensiero lo fece vacillare, mentre una fitta di dolore lo costringeva a portarsi le mani alla testa. Gli sembrò di sentire mille voci chiamarlo (o forse era solo Andrei, preoccupato per le sue condizioni?), mille mani sfiorargli il corpo, tirandolo in ogni direzione. Pugni, calci, carezze, graffi sul collo, sembrava che tutti fossero su di lui, costringendolo a un gesto definitivo. Così radunò il cosmo e poi lo liberò, in un’unica devastante fiammata che incenerì chiunque gli fosse attorno.

 

Distrutto, Phoenix crollò sulle ginocchia, notando, con la coda dell’occhio, di essere rimasto solo. Pareva che, per decine e decine di metri, non vi fosse più nessuno, soltanto la polvere a spazzare il suolo. Chiuse gli occhi, inspirando più volte, cercando di chetare le voci che gli parlavano e di rallentare il battito cardiaco. Quando ci riuscì, e riaprì gli occhi, fu distratto da un odore particolare, che conosceva bene, sebbene lo trovasse inusuale per il deserto del Gobi.

 

Si rimise in piedi e avanzò, seguendo l’aromatica scia, fino a portarsi di fronte alla Porta del Giorno. Allungò una mano a sfiorarla ed essa si aprì, in un’onda di luce, permettendogli di varcare la soglia. Entrò e si trovò in una stanza chiusa, piccola e piena di colore. L’aria di mare, che gli era così familiare, entrava dalle finestre aperte sulla darsena e una voce di donna (bionda, a giudicare dalla capigliatura che spuntava da sotto la buffa cuffietta che portava in testa) lo chiamò, pregandolo di preparare la tavola. Il pollo sarebbe stato pronto entro pochi minuti.

 

Guardandola, Phoenix sorrise, comprendendo infine dove si trovasse.

 

Era a casa.

 

 

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Capitolo 26
*** Capitolo venticinquesimo: Un'altra vita. ***


CAPITOLO VENTICINQUESIMO: UN’ALTRA VITA.

 

La moto scivolava tra le auto in corso, incurante dei clacson e degli sguardi degli altri guidatori. Il pacchetto, fissato alla bell’e meglio con una corda rimediata in negozio, traballava sul sedile alle sue spalle, ma l’imbracatura sembrava reggere. Phoenix non voleva nemmeno immaginarsi cosa sarebbe successo se l’avesse perduto.

 

Aveva affrontato guerrieri di ogni tipo, mostri, Divinità, persino gli Dei Ancestrali, ed era sempre sopravvissuto. Ma non avrebbe sopportato di rovinare quel momento. Diede gas e imboccò l’uscita della tangenziale, ritrovandosi nel dedalo di stradine della vecchia Darsena, più confuse, forse, ma di certo più pittoresche. Un ultimo chilometro e raggiunse la meta.

 

Anche dall’esterno, la villetta in cui viveva da anni era inconfondibile, con quella facciata giallo limone che risaltava tra le altre dai colori più freddi, il giardino sempre curato e l’odore di primavera che stuzzicava l’olfatto di chiunque si trovasse a passarci davanti. Sorridendo, il giovane parcheggiò la moto, sfilò il pacchetto e si avviò lungo il viale di casa ma, prima ancora di infilare la chiavi, la porta si spalancò e una chioma bionda gli fece cenno di entrare. Phoenix annuì, senza dire niente, temendo di essere in ritardo e preparandosi a una ramanzina.

 

“Tesoro, sei in anticipo!” –Commentò la donna dai capelli biondi. –“Non avrai fatto di nuovo le corse con la moto? Lo sai che non mi piace che tu sia spericolato!”

 

“Ho affrontato di peggio che un po’ di traffico, se ben ricordi.” –Rispose Phoenix, mentre lei lo baciava sulle labbra per poi avviarsi verso la cucina. Indossava quel grembiule che avevano comprato assieme a un mercatino, anni fa, consumato dal tempo e dai mille pasti cucinati, ma Esmeralda continuava a sfoggiarlo, quasi potesse, quel solo atto, farli sentire sempre assieme. –“Inoltre non volevo che la torta si squagliasse.” –Disse, poggiando il pacchetto sul tavolo di cucina.

 

Non appena riconobbe il logo della pasticceria, Esmeralda sussultò, lanciandosi su Phoenix per abbracciarlo. –“Oddio, ma sei davvero andato fin laggiù per prenderla?”

 

“Sapevo quanto ti piacesse. E, in effetti, a ben guardarlo, deve essere un dolce davvero squisito.”

 

“Non l’avrai assaggiato, voglio sperare!” –Esclamò lei, agitando minacciosa un mestolo intinto nel sugo e strappando una risata al compagno, che la tirò a sé, baciandola e scombinandole i capelli. Un attimo dopo erano distesi sul divano, a festeggiare, a modo loro, i dieci anni di fidanzamento, incuranti del suonare del timer del forno.

 

***

 

Il campanello suonò una seconda volta e Phoenix era ancora lì, in piedi davanti allo specchio, a imprecare contro quella cravatta che non voleva saperne di trovare il proprio posto nel mondo. Di sicuro era suo fratello; solo lui tendeva a presentarsi con mezz’ora d’anticipo, ogni volta, sbucando sempre nei momenti meno opportuni. Con un ultimo sbuffo, Phoenix si tolse la cravatta e la lanciò sul letto, scendendo al piano terra per aprire la porta, proprio mentre Andromeda suonava per la terza volta.

 

“Oh, era l’ora! Stavi dormendo?”

 

“Ciao fratellino. Sono felice anch’io di rivederti.” –Ironizzò Phoenix, facendosi di lato per lasciarlo passare. Nemes, al suo fianco, sorrideva smagliante come sempre, in un completo che di certo aveva acquistato in un negozio per motociclisti.

 

“Bel giubbotto!” –Le disse, notando la qualità della pelle.

 

“Grazie. Lieto che qualcuno apprezzi. Non come certi maschi che non hanno l’occhio per le cose belle.” –Sorrise la ragazza, entrando in casa dietro ad Andromeda.

 

Guardandolo, Phoenix si chiese, in effetti, come potessero stare insieme quelle due anime così diverse. Lui, timido, introverso, a volte goffo, sempre vestito con abiti che, se avevano poco, erano del decennio passato, ritrovati forse in qualche baule dei loro genitori. Lei, invece, attiva, solerte, amante dei jeans e dello stile leather, che smaniava di provare la sua moto ogni volta in cui gli facevano visita.

 

Ma l’amore funziona così! Si disse Phoenix, mentre anche Esmeralda li raggiungeva, sistemandosi l’orecchino di madreperla donatole da una sirena. La guardò, mentre scendeva le scale, con grazia ed eleganza, e capì di essere l’uomo più fortunato del mondo ad averla. A stare con lei. A condividere assieme ogni momento della vita.

 

Eppure, c’era mancato poco che quella vita non la vivessero insieme. Se quel giorno Esmeralda non fosse venuta a cercarlo, al campo di addestramento, e non avesse convinto il padre a cambiare i suoi metodi, forse Phoenix sarebbe morto. Se l’era chiesto spesso, negli anni dopo l’investitura, se la violenza di Guilty non avesse potuto ucciderlo, e le probabilità, in effetti, erano alte. Ma era sopravvissuto, come a tutte le battaglie che erano seguite, persino all’ultima, contro gli Dei Ancestrali. Che spettacolo, quel giorno nel Gobi, quando Pegasus si è levato alto in cielo, sostenuto dai cosmi di tutti gli amici, e ha affondato la spada di Balmung nel cuore di Caos, eliminando per sempre quella minaccia!

 

Da allora i vari regni divini vivevano in pace e, ad eccezione di piccole schermaglie che i singoli eserciti erano riusciti a risolvere in poco tempo, Phoenix e i suoi amici non avevano più combattuto. All’inizio era stato strano, soprattutto per lui e Pegasus, quelli sempre in prima fila negli scontri, ma poi, col tempo, si erano abituati alla vita di ogni giorno, in quelle città di uomini che continuavano le loro esistenze, ignari del pericolo scampato. Esistenze che, adesso, erano diventate anche le loro.

 

Esmeralda lo chiamò in quel momento, porgendogli la giacca. Lui le sorrise, la indossò e le offrì il braccio, prima di avviarsi in giardino. A teatro quella sera davano l’Oreste di Euripide e suo fratello, da mesi, aveva acquistato i biglietti, per avere un posto in prima fila. Lui, e di certo anche Nemes, avrebbe preferito una partita a bowling o una corsa in moto fuori città, ma ogni tanto doveva pur accontentarlo, quel fastidioso fratello minore. Gli scombinò i capelli, ridacchiando, e richiuse la portiera, pronto per mettersi al volante.

 

***

 

Emera osservava Phoenix.

 

Disteso sull’Altare del Giorno Dopo, con le braccia giunte sul petto, quasi stesse pregando, il Cavaliere aveva un’espressione serena sul volto. Una leggera brezza, proveniente dalle ampie aperture nel muro, gli solleticava i capelli blu, un colore insolito per un ragazzo, che la Dea Ancestrale non aveva mai visto. Ma forse era uno dei cambiamenti a cui gli esseri umani erano andati incontro, nel corso di così tanti secoli in cui lei era stata fuori dal mondo. Letteralmente.

 

Ripensando al tempo trascorso nell’intermundi, tempo che nessuno avrebbe saputo quantificare poiché, come Etere le ripeteva spesso, semplicemente era un eterno presente, la Signora del Giorno sospirò, avvicinandosi al giovane e sfiorandogli una mano. La pelle era dura, inselvatichita, segnata dagli scontri che lo avevano portato fin lì. Lei lo aveva lavato, dopo averlo estratto dal campo di battaglia, gli aveva messo degli abiti puliti (di Etere, sperando che il fratello non se ne avesse a male, ma del resto erano gli unici di cui disponeva) e poi lo aveva steso lì, lasciando che riposasse. Così, uno dopo l’altro, avrebbe chiamato a sé tutti i Cavalieri dello Zodiaco, quelli che Erebo aveva definito come “mortali nemici del Caos”. Forse, in questo modo, offrendo loro un’altra vita, quella guerra sarebbe giunta presto a una conclusione e lei avrebbe potuto occuparsi di ciò che davvero le stava a cuore.

 

Donare la luce.

 

Le dita di Phoenix si mossero a malapena e Emera sorrise, certo che il ragazzo la stesse percependo, sebbene in una forma diversa.

 

***

 

Esmeralda non amava guidare.

 

Aveva a stento preso la patente, dopo numerose insistenze da parte del compagno, che le aveva spiegato quanto fosse utile, per il lavoro o per esigenze personali, disporre di un mezzo proprio, ma lei era stata intransigente. Del resto non amava uscire, non da sola almeno, e quando lo faceva, utilizzava i mezzi pubblici o, molto più frequentemente, passeggiava. A volte anche per ore, senza sentire la fatica; le piaceva camminare lungo la costa, guardare i ragazzi che correvano in spiaggia, i surfisti alle prese con le prime onde della stagione, i venditori di fiori che non mancavano mai di offrirle un bel mazzo fresco. E Phoenix non riusciva a darle torto; per una ragazza cresciuta su un’isola dimenticata dagli Dei, dove il massimo del progresso era un pozzo da cui attingere acqua fangosa, trasferirsi in una grande città come Nuoxa Luxor era stato un cambiamento abissale, a cui aveva acconsentito solo per amore suo. Solo perché lui non voleva vivere troppo lontano da suo fratello, temendo che avrebbe potuto aver bisogno di lui. Era un cuore d’oro, anche se esternava di rado i suoi sentimenti, e anche per quello Esmeralda lo amava.

 

Sorridendo, la giovane donna sfiorò poggiò la mano sopra la sua, intenta a cambiare la marcia della Toyota, che sfrecciava lungo la litoranea in un tramonto di primavera. Serata ideale per quel ristorantino sul molo che avevano sempre ammirato dall’esterno e di cui alcuni amici avevano parlato bene.

 

Voltandosi, Phoenix la osservò e ricambiò il sorriso, spostando poi lo sguardo in basso, lungo la pancia leggermente ricurva di Esmeralda. Era ancora presto; ci sarebbero voluti altri cinque o sei mesi ma poi sarebbero davvero stati una famiglia completa.

 

Un colpo di clacson lo distrasse in quel momento, riportando la sua attenzione sulla strada. Un camion, sbandando, aveva invaso la loro corsia, mandando fuori strada un paio di macchine. Fu svelto, Phoenix, a scalare la marcia e a sterzare, riuscendo a non far capovolgere l’auto.

 

“Stai bene?” –Chiese subito alla compagna, che aveva strillato impaurita.

 

Tutta trafelata, Esmeralda annuì.

 

“Maledizione!” –Esclamò Phoenix, tirando un pugno contro il volante. Era la terza volta, nell’ultima settimana, che rischiavano la vita.

 

Prima c’era stato l’incidente al pontile, quando la cassa di una nave si era schiantata dall’argano, distruggendo il molo su cui Esmeralda stava passeggiando. Poi, la sera prima, un bus non aveva rispettato il semaforo rosso, rischiando di falciarla mentre attraversava sulle strisce pedonali. Cosa stava accadendo? Pareva che il destino stesse complottando per impedire la nascita di suo figlio.

 

“Mi dispiace.” –Si limitò a dirle. –“Dovevo fare più attenzione.”

 

“Non è colpa tua. Sono cose che capitano. Sei stato bravo a mantenere il sangue freddo” –Lo confortò lei, come sempre. Ma Phoenix non si sentì affatto meglio, avvolto in una nebbia di pensieri e domande che non sapeva disperdere.

 

“Meglio tornare a casa. Mi è passato l’appetito.” –Fece inversione e si avviarono verso casa. Il ristorante sul molo poteva aspettare. Con la loro sfortuna, un maremoto avrebbe travolto il pontile quella sera, risucchiando ogni cosa negli abissi.

 

Ma era solo sfortuna? Non poté evitare di chiederselo una seconda volta negli ultimi minuti. E, in caso contrario, cosa mai poteva essere? Che fossero attentati organizzati da qualcuno (un suo vecchio nemico?) gli pareva impensabile, anche solo per l’impossibilità di programmarli. Sembravano piuttosto fatalità. Ma lui, che aveva conosciuto gli orrori del mondo in profondità, affrontando coloro che lo avevano edificato, poteva davvero credere nel caso? Avalon, anni addietro, gli aveva detto che niente avviene per caso, ma tutto è dominato dalla volontà dei Tessitori del Mondo. Lui, nel suo piccolo, si reputava uno di questi, per quanto si limitasse a osservare e a mantenere l’equilibrio, ma altri, come il suo perfido fratello, spesso intervenivano, per volgere le situazioni a loro vantaggio.

 

Phoenix scosse la testa. Anhar era morto, sconfitto nel deserto del Gobi assieme agli Dei Primordiali. Ma era davvero così? Potevano i Progenitori essere sconfitti? Potevano l’essenza stessa della creazione, la luce e l’ombra, scomparire così dal creato che loro stessi avevano concepito? A ripensarci adesso, dodici anni dopo, gli sembrava impossibile, ma quel giorno, quando il Primo Santuario era crollato, aveva esultato assieme ai compagni per aver portato a termine un’impresa epocale. Era tornato in Grecia e aveva riabbracciato Esmeralda, nascosta con Patricia e Fiore di Luna sull’Isola del Riposo, appendendo l’armatura al chiodo. Aveva forse errato in qualcosa? Il destino gli stava ricordando che quella vita non faceva per lui e che avrebbe dovuto tornare a calcare i campi di battaglia, sollevandosi in volo, tra le fiamme, e battendosi a fianco degli eserciti dei regni divini?

 

Non poteva essere così. Se Avalon o Asgard avessero avuto bisogno del suo aiuto, o dell’aiuto dei Cavalieri dello Zodiaco, lo avrebbero mandato a chiamare ed egli sarebbe accorso. I pericoli erano finiti, quelli divini quantomeno. Rimanevano quelli che la vita di ogni giorno sapeva offrire, ma a quelli poteva opporsi. Doveva opporsi.

 

Non ho attraversato gli inferni del mondo, per veder morire mia moglie in un banale incidente d’auto. Si disse, chiedendosi come avrebbe potuto proteggerla al meglio.

 

***

 

L’Incanto dell’Irrisorio stava vacillando e Emera indietreggiò, allibita da una prospettiva che non aveva contemplato.

 

“Non è possibile!” –Esclamò, osservando gli spasimi del corpo di Phoenix, fino a quel momento calmo e sereno. Che cosa poteva averlo turbato tanto? Cosa poteva esserci di così terribile in quella nuova vita che gli aveva concesso? Chiunque, persino il guerriero più dedito alla battaglia, avrebbe versato sangue per la certezza di vivere quell’esistenza che lei gli aveva concesso gratuitamente, distendendolo sull’Altare del Giorno Dopo e mostrandogli il futuro. E non uno dei tanti possibili, no. Il suo futuro possibile, quello che, scavando nel cuore, avrebbe davvero voluto.

 

Così funzionava l’Incanto dell’Irrisorio, semplicemente ti mostrava quello che sopra ogni altra cosa desideravi, offrendotelo come pura realtà. E non vi era niente che potesse far sospettare a chi viveva quell’esistenza che fosse un’illusione, poiché era lui stesso a generarla. E non era affatto un’illusione.

 

Quello era il potere di Emera, che Caos le aveva concesso, unica tra i Progenitori. Signora del Giorno, avrebbe potuto creare il giorno perfetto per ogni mortale, smuovendo i flussi del tempo, azzerandoli e ricominciandoli ogni volta. Quello che Phoenix stava vivendo non era un’illusione, bensì la vita che lui aveva sognato e che si stava infine concretizzando. In un’altra epoca, in un altro universo forse, che lei non poteva raggiungere. Poteva soltanto cullarlo con la sua malia di luce.

 

E allora che cosa stava spezzando l’Incanto dell’Irrisorio? Nessuno, nemmeno Etere, Erebo e Nyx, conoscevano il modo in cui la sua tecnica segreta operava, né avrebbero potuto infilarsi nella nuova vita di Phoenix senza che lei se ne accorgesse. Per cui la colpa non poteva essere che sua se l’alternativa esistenza del Cavaliere si stava sgretolando, sua e della debolezza che le attanagliava il cuore da quando si era recata al Santuario di Atene e aveva udito quella voce che le rimbalzava nell’animo. Quella voce che ripeteva una sola parola: “Madre!”.

 

Ma chi era suo figlio che così insistentemente la chiamava?

 

***

 

Per il funerale di Esmeralda, Phoenix indossò un abito nero, lo stesso che aveva messo quando l’aveva sposata. Era un cerchio, in fondo, che si chiudeva.

 

Sfilò accanto alla bara aperta, dove il volto cereo di lei non splendeva più, e se ne andò, pregando Andromeda di lasciarlo stare. Non voleva sentire i suoi sermoni, né le battute con cui Pegasus avrebbe cercato di tirarlo su, voleva soltanto stare da solo, come mai era stato prima d’allora. Cresciuto con lei sull’Isola della Regina Nera, aveva faticato a guadagnarsi la fiducia di suo padre, che infine aveva lo aveva accettato nella famiglia, orgoglioso dei suoi risultati e dell’investitura ottenuta. Poi, finite le guerre, erano andati a vivere insieme e si erano sposati, forse anche troppo presto rispetto ai loro coetanei, ma dopo tutte le guerre e le morti che Phoenix aveva visto non aveva voluto sprecare il momento, timoroso che avrebbe potuto sfuggirgli via, come sabbia tra le dita.

 

E ora eccolo lì, a camminare mani in tasca tra le tombe tristi di un cimitero che avrebbe voluto bruciare. Magari un giorno l’avrebbe fatto. Esmeralda non meritava di stare in una buca sottoterra, con il bambino che attendeva ancora in grembo. Esmeralda era come lui, una fenice luminosa, e un giorno sarebbe risorta, lui l’avrebbe rivista e sarebbero stati insieme, per l’eternità.

 

“Aaah! Sono solo idiozie!” –Esclamò, rabbioso, tirando un pugno a un albero. Poi un altro e un altro ancora, fino ad abbatterlo, mentre il suo cosmo divampava, incendiando tutto ciò che lo circondava. Bruciare, sì, era quello che voleva fare, consumarsi in un’unica devastante fiammata che avrebbe posto fine alla sua esistenza, adesso che ormai non c’erano più ragioni per vivere. Aveva deposto l’armatura per stare con Esmeralda, e adesso che lei era morta, che cosa lo attendeva? Come poteva immaginare un futuro senza di lei al suo fianco? Che cosa rimaneva a un uomo che aveva rinunciato alla guerra, alla morte, alle fiamme dell’inferno e infine all’amore?

 

Non seppe rispondersi e continuò a bruciare, lasciando il cosmo libero di espandersi e divorare il camposanto, le sue tombe, i visitatori che vi passeggiavano, gli amici che correvano da lui, urlando. E crescendo ancora, annientando Nuova Luxor e l’intero arcipelago giapponese in una sola fiammata. Ecco, adesso era felice, adesso poteva dirsi realizzato. Era la fenice, in fondo, l’uccello di fuoco, e quello che sapeva fare, meglio di ogni altra cosa (meglio di fingersi un buon marito, un compagno fedele e un padre attento), era bruciare.

 

***

 

“Aaargh!” –Emera strillò, balzando indietro, mentre lunghe vampe di fuoco sorgevano dal corpo di Phoenix, inglobando l’Altare del Giorno Dopo e rischiarando la sua dimora quasi fosse giorno. E là, in mezzo a quelle fiamme, il paladino di Atena si mise in piedi, guardandosi attorno stordito.

 

“Sono morto? È questo il Paradiso dei Cavalieri?” –Mormorò, tenendosi la testa. Spense le fiamme e fece per scendere dall’altare, quando udì le grida e i rumori provenienti dall’esterno. Si avvicinò a un finestrone, di fronte allo sguardo attento di Emera, e guardò fuori, solo per sgranare gli occhi e voltarsi verso di lei, smarrito.

 

“Non può essere… il giorno dell’ira?” –Balbettò. –“È un incubo! Perché lo sto rivivendo? Perché lo sto ricordando?” –Quindi, come se la conoscesse, il Cavaliere le si rivolse. –“Emera! Anche tu qui? Che strano paradiso è mai questo?”

 

“Non è un paradiso, Phoenix, né un sogno. È reale. Noi siamo qui, ora, a combattere. Voi per la vostra vecchia Terra, noi per il nuovo mondo che vogliamo edificare.”

 

“Ancora?!” –Disse, ma Emera scosse la testa.

 

“Non c’è un ancora. C’è solo un adesso. Ciò che hai visto e vissuto, da quando ti ho portato via dalla Porta della Luce, è scomparso. Qualcosa ha spezzato l’Incanto dell’Irrisorio e ti ha riportato qui, in questo mondo, in questo universo. Che cosa, Cavaliere, ti ha turbato tanto? Dimmelo, ti prego, sono curiosa di sapere!”

 

“Io… non capisco… Noi vi abbiamo sconfitto. Abbiamo vinto. E… Esmeralda?!” –Mormorò Phoenix, portandosi le mani alla testa, sempre più confuso. D’improvviso, un marasma di ricordi lo invase, trafiggendogli il cervello come grosse spine, e quei ricordi erano così diversi da quelli che lui aveva di sé e della sua vita. Gli stenti sulla Regina Nera, la morte di Esmeralda e di suo padre, i Cavalieri Neri, lui che attaccava Luxor e lottava contro… suo fratello? E Pegasus? Com’era possibile? –“Era dunque un’illusione?”

 

“No, Cavaliere. Tu hai davvero vissuto ciò che hai visto. Non in questo tempo e neppure in questo mondo, ma nel tuo, in quello che tu stesso hai creato. E i ricordi di quella vita non ti abbandoneranno, rimarranno con te!”

 

“Allora… ero davvero con Esmeralda? Abbiamo vissuto davvero una vita insieme? Ma perché lei è morta?”


“Dunque è stato questo a spezzare l’Incanto dell’Irrisorio!” –Rifletté Emera. –“Il tuo amore per quella fanciulla è così potente che l’hai inserita nella vita che avresti voluto, ma poiché lei era già morta qualcosa è intervenuto a correggere gli eventi, riportandoti qui. O qualcuno?”

 

“Emera! Ho capito ben poco di ciò che mi hai fatto! Ma sei questo è di nuovo il giorno dell’ira, e se Caos non è ancora stato sconfitto, io combatterò. Per cui lasciami passare!” –Disse Phoenix, espandendo il proprio cosmo. Subito l’armatura divina apparve a ricoprirlo, in un tripudio di fiamme che il giovane diresse contro la sorella di Etere. Ma bastò che questa gli volgesse contro il palmo della mano per fermare il suo attacco, respingendolo e scaraventando Phoenix contro l’altare, distruggendolo.

 

“Ne capisco poco anch’io, Cavaliere.” –Rispose Emera. –“Pur tuttavia farò quello che devo, e me ne dispiaccio. Avrei preferito che tu continuassi a vivere in eterno, nella sicurezza del tuo mondo privato. Non sarebbe stato bello, anche per te?”

 

Phoenix strinse i pugni, esitando per un momento e chiedendosi se fosse davvero possibile tornare indietro. Ma tornare dove? Si chiese. Se quello era davvero il Giorno dell’Ira, suo fratello e i suoi amici erano da qualche parte a combattere e lui non poteva perdersi in rimpianti. No, doveva agire.

 

Concentrò il cosmo sul pugno destro e poi scattò avanti, portandolo avanti e dirigendo un sottile raggio di energia al volto di Emera, che lei fu svelta a spazzar via con un aggraziato movimento della mano. O, quantomeno, credette di averlo fatto, finché non sentì una puntura sulla fronte e una goccia di sangue scivolarle in bocca.

 

“Che gusto strano…” –Mormorò, prima che una potente emicrania la investisse e la spingesse indietro, naufraga in un mare di immagini, suoni e odori. Possibile? Poteva davvero quel Cavaliere innamorato avere così tanto potere su di lei? O forse qualche altra, e ben più arcana forza, era in movimento?

 

Doveva capirlo, e doveva farlo in fretta, prima che la sua coscienza venisse allagata dal dubbio. Espanse il suo cosmo luminoso, avvolgendo Phoenix e inglobandolo nella corolla di un fiore bianco, chiudendogli ogni via di fuga. Quando i petali si riaprirono, e il ragazzo sbatté gli occhi per abituarli al nuovo ambiente circostante, vide che non si trovava più nella fortezza di Emera, bensì al centro di una spianata costellata di cadaveri, dove macchie nere, simili a ombre fluttuanti, affrontavano un guerriero rivestito da una corazza rossa e un Dio che risplendeva di luce propria, quasi fosse il figlio del sole, o il sole stesso, fronteggiava un demone maori.

 

“Andrei…” –Mormorò, riconoscendoli. –“Potente Amon Ra…”

 

“Cavaliere di Phoenix! Lieto di riaverti tra noi! Ma dove sei stato? Cominciavo a temere il peggio!” –Esclamò il Nume d’Egitto.

 

“Io… Non sono sicuro di saperlo.” –Disse il giovane, prima che Andrei lo afferrasse per un braccio, proprio mentre stava crollando a terra.

 

“Stai bene? Che ti è successo? Da tanto che bruci, sembri avere la febbre!”

 

“Brucio sì. Nient’altro posso fare. Sono la fenice.” –Mormorò, precipitando indietro e perdendo i sensi, mentre cumuli di ricordi, veri o presunti, si affastellavano nella sua mente, sgomitando per attirare la sua attenzione. Esmeralda, Andromeda, i suoi amici, le corse in moto lungo la costa, il figlio che avrebbero avuto.

 

Emera aveva detto che era nel suo mondo privato che aveva vissuto, e lui sapeva che aveva ragione perché sentiva su di sé il peso di quell’esistenza, di quei dodici anni trascorsi con Esmeralda. Forse, a ripensarci ora, circondato dall’Armata delle Tenebre, dal sangue e dalla morte, quella vita non gli sembrava poi così male, pur nella sua tranquilla quotidianità. E allora perché era tornato? Cosa l’aveva spinto a farlo? E soprattutto perché Emera glielo aveva concesso?

 

***

 

La ricomparsa di Phoenix permise ad Amon Ra di tirare un sospiro di sollievo.

 

Quando aveva sentito scomparire il suo cosmo, aveva temuto che avessero fallito. Al riguardo anche Zeus e Avalon erano (stati) concordi: la vittoria o la sconfitta delle forze della luce dipendevano dai Cavalieri della Speranza. Il Nume egizio li aveva osservati, in quegli ultimi anni in cui si era preparato alla guerra, lodandone le qualità e lo spirito generoso che li aveva portati a rischiare la vita, più volte, per salvare la Terra. Di certo più di quanto lui e altri Dei avessero fatto. Ma in fondo, fino ad allora, nessuno nell’Enneade, o in altri pantheon, era mai stato invaso dal dubbio della fine di tutto. Nessuna guerra, fino a quel momento, li aveva posti di fronte al più semplice quesito dell’esistenza.

 

Continuare a vivere o scomparire? Una prospettiva che un Dio non aveva mai preso in considerazione. E invece, oggi come quindici anni addietro, aveva dovuto imparare qualcosa.

 

Le grida dei Soldati del Sole lo fecero voltare. Erano rimasti in pochi, una decina scarsa, radunati tra loro, con le lame che sfolgoravano energia luminosa, dirigendola verso un mostro dalla testa di coccodrillo appena giunto sul campo di battaglia. Sospirando, Amon Ra concentrò una sfera di cosmo ardente sul palmo della mano prima di scagliargliela contro e dilaniarlo.

 

Niente di nuovo, in fondo.

 

Erano ore che lo schema si ripeteva. Da quante? Nessuno lo sapeva più. Nemmeno lui che poteva regolarsi soltanto guardando il sole. Ma il sole era sparito dietro uno strato di nuvole sempre più nere e molti (li aveva sentiti pronunciare scongiuri) temevano che non sarebbero tornati a vederlo, che sarebbero morti lì, in quella piana lontana da casa e dalle famiglie che avevano lasciato per lottare per il loro futuro.

 

E ogni volta in cui Amon o Andrei spazzavano via l’Armata delle Tenebre, o una parte di quella nera fiumana, ecco che, poco dopo, quella ricompariva, accompagnata da qualche demone, proveniente da chissà quale culto (alcuni talmente antichi che persino lui non li aveva mai sentiti nominare!), a sbarrargli il passo.

 

Osservando la spianata di fronte alla Porta del Giorno (che neppure Phoenix era riuscito ad aprire, a quanto pareva), il Sole d’Egitto vide l’Arconte Rosso fronteggiare Supay, il Dio della Morte dei popoli inca e sovrano dell’Uku Pacha, il Mondo di Sotto, circondato da una folta schiera di demoni locali. Brutti, con le facce pitturate di rosso, e lunghe corna sporgenti che offrivano all’avversario quando lo caricavano. Andrei non sembrava essere sorpreso, avendo forse già avuto occasione, in passato, di scontrarsi con quella strana schiera.

 

Le Amazzoni, al qual tempo, stavano arretrando sotto i colpi di un uomo alto e barbuto (siriano, a giudicare da come portava la barba), intabarrato di tutto punto, con un’armatura grigia, una spada, una lancia e uno scudo. Sulla testa una corona con una testa di gazzella, che permise ad Amon Ra di riconoscerlo.

 

Era Reshef, Signore della Morte siriano. Secoli addietro (molti secoli, ammise) aveva guidato una campagna militare in Egitto, per piegarlo al suo volere, scatenando pestilenze e carestie. Tuttora la sua abilità guerriera non era venuta meno, a giudicare dai cadaveri di Amazzoni che si stava lasciando alle spalle.

 

Amon Ra avrebbe voluto intervenire, quando la voce stentorea di Pentesilea risuonò sopra tutti gli altri rumori. –“Ti taglierò quella maledetta barba e la userò come miccia per bruciare il tuo cadavere!” –Ringhiò la Regina delle Amazzoni, incrociando l’ascia con l’arma nemica e strappando un sorriso al Nume d’Egitto.

 

Uomini, donne, persino ragazzi, nessuno in questa guerra si tira indietro! Tutti fanno la loro parte! Dobbiamo farlo anche noi! Si disse, prima che il sollevarsi di un vento freddo lo distrasse, anticipando la comparsa del suo nuovo nemico.

 

Alto e magro, di carnato scuro, con lineamenti che ad Amon ricordarono quelli del Comandante degli Areoi, il demone avanzò verso di lui, in un’armatura dal colore blu notte, circondato da tanti spiriti fluttuanti, che parevano urlare a ogni movimento.


“Il mio nome è Whiro, Dio della Morte, del Male e dell’Oscurità! E tu…” –Si presentò, espandendo il proprio cosmo glaciale. Ma il Sole d’Egitto nemmeno l’ascoltava più, preparandosi a combattere. Solo questo, del resto, poteva fare.

 

***

 

Nesso era debole e si trascinava a fatica, senza avere la benché minima idea di dove si stesse dirigendo. All’inizio, sforzandosi, aveva cercato di seguire la direzione presa da Nikolaos ore prima, ma dopo pochi passi aveva dovuto ammettere di essersi perso, stordito dal veleno di Vritra e dal continuo cambiare della struttura del tempio. Pareva proprio che Caos, anziché ucciderli subito, come avrebbe potuto fare con un semplice fulmine nero, traesse divertimento nel vederli smarriti e sofferenti.

 

Un colpo di tosse lo prostrò a terra, facendogli sputare sangue scuro e convincendolo di non stare affatto bene. Il cosmo di Iro era scomparso, trascinando con sé un bel pezzo del Santuario, e Nesso si augurò che quel bastardo del Maestro del Caos vi fosse crepato sotto. Dell’Eridano invece nessuna traccia, solo un barlume lontano di cosmo di cui non seppe individuare la provenienza. Che poteva fare?

 

Un rumore di passi alle sue spalle gli diede la risposta, costringendolo a sollevarsi e ad appoggiarsi con la schiena a un grosso masso sporgente, mentre di fronte a lui una mandria di nemici si radunava. Stanco e intontito, non riuscì neppure a metterli a fuoco, gli sembrarono sette leoni. O forse sette grifoni, perché avevano le ali?

 

Qualunque cosa fossero, erano nemici, come dimostrato dall’attacco in cui si lanciarono e che costrinse Nesso a liberare le Frecce del Mare, colpendo qualcuno di loro. Ma la maggioranza lo raggiunse, tempestandolo di calci e graffi, fino a schiantarlo contro la roccia retrostante, distruggendola. Afferrando un grumo di polvere, il Pesce Soldato capì come sarebbe finita. Così. Si disse, gettandola via.

 

Proprio in quel momento udì dei cani abbaiare.

 

Si risollevò, pesto e logoro, mentre centinaia di scattanti figure (che a lui sembrarono levrieri di pura ombra) si abbatterono sugli avversari, agguantando le loro braccia o le loro gambe, mordendo, strappando e godendo delle grida nemiche, con una violenza che fece indietreggiare persino Nesso.

 

“Non temere, giovane eroe, i cani da caccia dell’Annwn non ti azzanneranno!” –Disse una voce maschile, dall’accento inglese (o forse scozzese? Un tempo l’avrebbe riconosciuto subito, ma adesso era troppo stanco). –“Avrebbero ben poco di cui cibarsi, in verità. Sei tutto ossa e muscoli, ragazzo! Molto meglio, per i miei levrieri, una dieta a base di Utukku!” –Ridacchiò, prima che il frusciare di candide vesti lo distraesse, anticipando l’arrivo di una figura ammantata di luce.

 

Così, quantomeno, fu come Rhiannon apparve a Nesso, una meravigliosa madonna che sprigionava un bagliore intenso e corroborante, che subito gli avrebbe fatto chiudere gli occhi.

 

“Riposa, eroe. Le tue fatiche sono giunte a termine. Se me lo permetterai, io ti curerò. Prendi la mia mano e seguimi! Ti porto dai tuoi amici!” –Disse la sposa di Arawn, allontanandosi con Nesso e lasciando il compagno e la sua muta ad affrontare gli Utukku. A ogni passo, Nesso parve stare meglio, sebbene forse fosse soltanto una miglioria apparente, ma la presenza di Rhiannon era come il tocco della rugiada fresca. Il tocco della vita.

 

“Nesso! Stai bene?” –Lo chiamò una voce, che, se anche non vide il suo proprietario, subito riconobbe, rallegrandosi che il Luogotenente dell’Olimpo fosse ancora vivo.

 

“A quanto pare ci siamo tutti!” –Commentò Demetra.

 

“Umpf! Ma che bella riunione di famiglia!” –Borbottò qualcun altro, che Nesso forse non conosceva. Guardandolo, vide solo una folta capigliatura blu. –“Possiamo andare adesso? La guerra ci attende ed è lungi dal…” –Ma Sin non riuscì a terminare la frase che il suolo iniziò a tremare. –“Oh fantastico, e ora che succede? Quale nuova creatura immonda partorirà questo tempio?”

 

“Che succede? State tutti bene?” –Altre voci in arrivo. Queste, Nesso le riconobbe, erano Atena e il suo Primo Cavaliere.

 

“Per ora…” –Il suolo continuò a tremare, spaccandosi ovunque e risucchiando massi e pietre nelle sue oscure profondità, assieme ai cadaveri che costellavano la Corte della Notte e alle mura, ai baluardi e a pezzi di santuario, e, sopra tutto quel frastuono, risuonò l’urlo disperato di una donna. Una donna che solo Pegasus parve riconoscere.

 

“È Nyx!” –Esclamò, mentre una faglia si apriva proprio sotto i suoi piedi ed egli precipitava nell’oscurità, assieme ad Atena, Sin, Demetra, Nikolaos, Rhiannon, Shen Gado, Nesso, Arawn e a tutti i suoi bei levrieri.

 

 

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Capitolo 27
*** Capitolo ventiseiesimo: Chimaira. ***


CAPITOLO VENTISEIESIMO: CHIMAIRA.

 

Razionalmente, Ganimede sapeva di doversi fermare, eppure non riusciva a smettere di danzare.

 

Era bastato che la donna lo fissasse con i suoi occhi verde mare, che gli sorridesse, stirando le labbra sottili, prima di sollevare le mani, e con esse le vesti leggere che la ricoprivano. A quel gesto, quasi fossero marionette ai suoi comandi, tutti i soldati di Atena che la circondavano si erano sollevati sulle punte dei piedi, per poi iniziare a seguirla, in quell’assurda danza con cui aveva circondato il Cavaliere Celeste. Una danza senza musica, fatta solo di gesti accorti e malizia.

 

E ora toccava a lui, al Coppiere degli Dei, che alle fanciulle non aveva mai riservato troppe attenzioni, solo quelle previste dal protocollo di corte. Persino alle ninfe e alle ancelle della Reggia di Zeus, che pure ammiravano il suo fisico glabro e scolpito, non aveva rivolto che sorrisi di circostanza. La sua dedizione, come la causa stessa della sua eterna giovinezza, era tutta per il Signore dell’Olimpo, Signore a cui aveva tentato di star dietro, e per cui aveva imparato anche a combattere, o comunque si era sforzato di farlo, facendosi insegnare da Giasone a controllare il cosmo e dai Dioscuri le tecniche basilari di lotta.

 

Insegnamenti a dir poco infruttuosi. Si disse il Cavaliere Celeste, continuando a danzare, seguendo gli aggraziati movimenti della dama vestita di verde che, in breve, aveva messo su un corteo di ammiratori, che aumentava ogni volta che si avvicinava a nuovi gruppi di soldati. Che fossero uomini, donne, anziani o più giovani, non faceva differenza; nessuno riusciva a resistere all’incanto delle sue movenze, alla delicatezza di quella figura che, in realtà, nascondeva un temibile potere.

 

Cosa credeva di fare? Costringerli a ballare fino allo sfinimento? Quel pensiero lo fece sentire come la Cerva di Cerinea, la più veloce della Terra, che fu però sfiancata da Eracle in un’estenuante corsa. Avrebbe incontrato la sua stessa fine?

 

Aveva provato ad espandere il cosmo, per spezzare la morsa mentale, ma non c’era riuscito, realizzando che non si trattava di psicocinesi. No, era qualcosa di simile a un incantesimo tessuto da quella streghetta vestita di verde.

 

“Una strega? È così che mi dipingi, figlio di Troo e della naiade Calliroe?” –Sussurrò una voce, rimbalzando nella sua mente e strappandogli un gemito di sorpresa. Spostò a fatica lo sguardo sulla fanciulla e la vide sorridere, scoccando un bacio nella sua direzione. –“Eh sì, leggo nella mente. È uno dei miei poteri e tu, mio delizioso bocconcino di carne e cosmo, mi stai donando tanto potere.”

 

“Chi sei?”

 

“Puoi chiamarmi Bobby, se ti piace. È un nome carino, non trovi? Ho sempre voluto che un uomo mi chiamasse così. Bobby! Che me lo sussurrasse negli orecchi, mentre le sue labbra correvano sulla mia pelle morbida, che mi dicesse quanto mi amasse e mi volesse. Invece tutto quello che ho avuto sono state grida di dolore e acuti ridolini di sorpresa, ben misera rappresentanza del sesso maschile!”

 

“Sei pazza!”

 

“Ih ih, ma no sciocchino. Mi sto solo divertendo. Ma se Bobby non ti piace, chiamami Baobhan Sith, come mi definiscono i miei nemici, quelle infingarde e gelose sorellastre che mi ritrovo! Ne sono rimaste poche, per fortuna; la Cailleach le ha sterminate secoli addietro e le superstiti si sono chiuse nei boschi, uscendo di rado, forse convinte che, per la loro piccola statura e il disinteresse nei confronti del mondo, Caos le lascerà vivere. Non sanno che, quando questa vostra ridicola spedizione finirà, farò loro visita.”

 

“Per ucciderle?”

 

“Oh no, sciocchino! Non hai capito proprio niente. Ti facevo molto più intelligente e invece, Coppiere degli Dei, hai un bel visino e tanti muscoli da assaporare ma all’interno cosa c’è? Il vuoto atemporale? Ehi, non è che per caso i Progenitori sono stati nascosti dentro di te in questi millenni?” –Ridacchiò la Dama Verde, continuando a danzare e, nel frattempo, a parlare alla mente di Ganimede. –“Non le ucciderò. Non in senso fisico, almeno, e non subito. Semplicemente mi servirò di loro, per accrescere la mia forza e continuare a vivere.”

 

“Sei… un parassita…” –Mormorò Ganimede, comprendendo infine. –“Come le strigi del Mondo Antico. Succhi l’energia degli esseri viventi e più ne assorbi…”

 

“E meno le mie vittime sono in grado di resistere.” –Chiarì lei, mentre alcuni corpi iniziavano a cadere. Quelli delle sacerdotesse anziane, di alcune arrefore e di soldati già feriti.

 

“Bastarda!” –Ringhiò Ganimede, bruciando il proprio cosmo, a cui la Dama Verde rispose con una sghignazzata decisa.

 

“Bravo sì, brucia il tuo bel cosmo immortale! Non fai altro che aiutarmi!”

 

A quelle parole il Cavaliere Celeste ammutolì, rilassando i sensi e tentando di capire come superare quello stallo. Non dovette pensarci molto, in verità, distratto dalle urla improvvise di un gruppo di giovani che stavano correndo verso di loro. A vederne le cozze di rame e cuoio, sembravano apprendisti Cavalieri, che stavano tentando di proteggere delle ragazze (forse le future sacerdotesse di Atena?) da…

 

Una nuvola nera? Esclamò Ganimede, mentre l’ondata di fuggitivi si scontrava col corteo, attirando anche l’attenzione di Baobhan Sith. Proprio in quel momento dalla nube nera scaturì una selva di folgori, che abbatté un paio di apprendisti, terrorizzando gli altri e facendoli scappare, spezzando l’incanto della Dama Verde.

 

Fu una vibrazione minima, ma sufficiente, per Ganimede, per sollevare le braccia sopra la testa, unendole a pugno chiuso, e radunare il cosmo, generando una brocca ricolma di energia scintillante.

 

Anfora delle stelle!” –Urlò, abbassando le braccia e liberando il fiume di stelle.

 

Baobhan Sith, presa alla sprovvista, venne investita in pieno e scaraventata lontano, con i begli abiti in fiamme e il corpo ustionato. Ringhiando, tentò di rimettersi in piedi, incurante dei capelli bruciati e del sangue che le colava sul volto. Chiuse gli occhi, attingendo al potere assorbito dalla danza, e, davanti agli occhi sbalorditi di Ganimede, iniziò a cicatrizzare le ferite. Una dopo l’altra.

 

Il Coppiere degli Dei si guardò attorno, strappò una lancia di ferro dalle mani di un ragazzo e la scagliò contro la Dama Verde, trapassandola al cuore. Sputando sangue, Baobhan Sith morì così, in quella posizione scomoda che a Ganimede ricordò il balletto con cui li aveva incatenati poco prima. Di tutte le lezioni ricevute da Giasone, una l’aveva sempre ricordata.

 

“Se devi uccidere qualcuno, mira al cuore. Stai pur certo che morirà.”

 

Un nuovo strillo delle aspiranti sacerdotesse lo fece voltare, giusto in tempo per vedere la nuvola nera trasformarsi in una creatura uscita da un bestiario del Mondo Antico. Dal corpo si sarebbe detto un cane procione, ma le zampe erano di una tigre, la testa di una scimmia e la coda di serpente. Quando parlò, fissandoli con astio, emise il verso di un tordo.

 

O era un esperimento malriuscito di Anhar…

 

“È un Nue!” –Esclamò una voce, mentre un’agile figura lo affiancava, scintillando nella sua armatura divina. Nonostante le numerose ore di scontri che aveva sostenuto, Toma di Icaro sembrava fresco di forze. E forse è davvero così, si disse il Coppiere, osservandolo scattare avanti, per un guerriero formidabile che ha riposato per anni.

 

Non disse niente, il Cavaliere di Icaro. Mulinò soltanto una lancia di cosmo e la piantò nel ventre della bestia, facendola esplodere. Ganimede, disgustato, si riparò il volto dalla pioggia di interiora, approfittandone per voltarsi verso la Porta delle Tenebre, che proprio in quel momento si stava aprendo.

 

***

 

Tutti si aspettarono di veder uscire Erebo, persino gli ultimi Sparti e le creature infernali che si erano barricate di fronte al cancello nero. Invece, ritto sopra un enorme granchio corazzato, le lunghe chele che si allungavano fameliche in ogni direzione, stava un giovane dal fisico atletico, rivestito da una corazza verde e marrone. Guardandola, si poteva notare quanto fosse asimmetrica, con un coprispalla ornato da due robuste corna e l’altro doppio, simile alle squame di un drago. L’elmo, in parte aperto, lasciava liberi disordinati ciuffi di capelli biondi, mentre una lunga coda metallica serpeggiava attorno al suo corpo, guizzando su chiunque incrociasse il suo sguardo.

 

Eracle, in quel momento appoggiato alla clava, con alcuni danni evidenti sulla Veste Divina e il fiato corto, lo fissò, realizzando per primo cosa fosse la creatura a cui si accompagnava, una creatura da lui stesso già affrontata.

 

Karkinos…” –Mormorò, ricordando il gigantesco crostaceo che tentò di impedirgli di sconfiggere l’Idra di Lerna. Quasi avesse udito la sua voce, il granchio puntò gli occhietti rossi su di lui, facendo scattare le chele a tenaglia e iniziando a correre.

 

Con grazia, l’uomo sopra di lui balzò in aria, effettuando una capriola all’indietro e atterrando a piedi uniti nella nuvola di polvere che Karkinos si lasciò dietro, mentre, dall’ancora socchiusa Porta delle Tenebre, un’ondata di guerrieri ombra usciva.

 

“Disponetevi a muraglia! Non voglio vedere neanche una breccia!” –Sbraitò il biondo, per poi aggiungere a denti stretti. –“Sterminateli tutti! Ma lasciate i Cavalieri di Atena a me!”

 

“Sei piuttosto presuntuoso!” –Commentò allora una voce maschile, facendosi avanti.

 

“Tutt’altro.” –Rispose il fedele di Caos. –“Considerando il debole stato in cui versate, temo che non sarà piacevole come mi sarei aspettato. Ma vedrò di farmi bastare la vostra sconfitta!” –Aggiunse, scattando avanti, con il braccio teso e il pugno diretto al volto del suo avversario.

 

Ioria fu lesto a spostarsi di lato, afferrando il pugno con la mano destra e muovendola per ribaltarlo, ma l’altro, anziché opporsi, sfruttò la mossa per roteare sopra di lui, trascinando il Cavaliere d’Oro con sé e colpendolo poi con un calcio sul viso, che gli fece saltar via l’elmo, frantumandolo.

 

“Debolucce queste armature d’oro.” –Ghignò, atterrando in perfetta posizione di guardia, le braccia già pronte per la difesa.

 

O per l’attacco. Notò Ioria, che, a differenza sua, era stanco per gli scontri continui, alcuni (quelli con Siderius, Micene e Capricorn, ad esempio) che lo avevano fiaccato anche nello spirito. Proprio in quel momento il suo avversario caricò.

 

Con un balzo gli fu davanti, il cosmo che risplendeva attorno al braccio, di un oro così acceso da sembrare ocra. Un cosmo che, non fosse stato infettato dall’ombra, Ioria avrebbe potuto scambiare per uno dei Dodici Custodi.

 

Fauci delle tre bestie!” –Gridò il biondino, volgendogli contro il palmo della mano destra, da cui scaturirono tre flussi di energia. Il primo, sotto forma di capra, lo colpì allo stomaco, piegandolo in avanti e lasciandogli due belle crepe nei punti in cui le corna lo raggiunsero; il secondo gli parve l’ombra di un leone e tentò di contrastarlo sollevando le braccia, riuscendovi solo in parte, prima che qualcosa si arrotolasse attorno al suo polso, strattonandolo e aprendo una breccia nella sua difesa. In quel momento il leone lo raggiunse con un’artigliata al collo, scaraventandolo indietro, nella polvere bagnata dal suo sangue e dalle schegge dell’armatura d’oro.

 

“Ora so chi sei!” –Mormorò Ioria, tenendosi una mano sulla ferita aperta. Ma l’altro neppure lo fece parlare, balzando in alto e piombando su di lui a gamba tesa, roteando su se stesso, costringendo il Cavaliere d’Oro a ruzzolare di lato per evitarlo.

 

Il fedele di Caos traforò il terreno per cinque o sei metri, prima di risbucare fuori con un’agile colpo di reni, di fronte allo sguardo stupito, quasi ammirato, di Ioria.

 

“Chimera…” –Commentò, ricevendo un ghigno in risposta. –“Eri in Egitto. Ricordo di averti visto. Hai affrontato Horus e Bastet.”

 

“E li avrei uccisi! Vi avrei uccisi tutti, se quel bastardo dell’Isola Nera non avesse vinto, con l’imbroglio, il mio maestro. E se Forco il traditore di ci avesse raggiunti!”

 

“Misura le parole! Phoenix non ha imbrogliato. La sconfitta del Signore della Guerra era inevitabile e altrettanto sarà la tua!”

 

“Tu dici? Di certo non avverrà per mano di un debole come te!” –Sghignazzò Chimera. –“No, Cavaliere, Caos me lo ha predetto. Io non cadrò per mano tua, né di quella di alcuno dei tuoi compagni! Tutt’altro. Sarò io a prendermi le vostre vite, vendicando il mio mentore!” –Disse, concentrando il cosmo e liberando un nuovo assalto. –“Fauci delle tre bestie!”

 

Ioria tentò di difendersi, ma Virgo fu più veloce, apparendo alle sue spalle e circondando entrambi con una cupola di energia dorata su cui l’assalto si infranse. Tanto era potente che il Kaan tremò e Ioria sentì Virgo digrignare i denti, prima di guardarlo spalancare gli occhi e dare fondo alla sua energia.

 

Abbandono dell’oriente!” –Gridò, disperdendo le fiere e abbattendosi su Chimera, sollevando una nube di polvere. Quando scemò, Virgo e Ioria non videro niente, ma prima di chiedersi che fine avesse fatto il loro nemico lo intravidero spuntar fuori dal terreno con un balzo, dopo essersi nascosto nel cratere da lui stesso scavato poc’anzi.

 

“Subdolo…” –Commentò il Leone d’Oro.

 

“Io direi astuto.” –Ghignò Chimera. –“Non te l’ha insegnato il tuo maestro, a sfruttare il terreno di caccia? È così che fanno i predatori a non divenire mai prede!”

 

Ioria avrebbe voluto ribattere ma Virgo fece un passo avanti, dando chiaramente a intendere che si sarebbe occupato lui del servitore di Caos.

 

“Oh, non disturbatevi a scegliere. Lo farò io. E scelgo entrambi.” –Disse Chimera, battendo tre volte il tacco sul suolo sabbioso. Subito una faglia si aprì sotto i piedi di Ioria, che vi precipitò senza neanche riuscire a urlare, richiudendosi all’istante, prima che una seconda si spalancasse sotto Virgo.

 

Con estrema rapidità, il Cavaliere riuscì a teletrasportarsi alle spalle di Chimera, ma non appena riapparve una nuova faglia si aprì, stupendolo. Prima che potesse scomparire di nuovo, un lungo tentacolo d’ombra sbucò e lo afferrò per una gamba, strattonandolo e trascinandolo nell’abisso.

 

“Che cosa hai fatto?” –Gridò l’acuta voce di un ragazzo, portando Chimera a voltarsi nella sua direzione.

 

“Oh li ho solo offerti in dono alla Madre. Ne ha bisogno, sapete, per rinascere.”

 

“La madre?” –Mormorò Asher. –“E chi è?”

 

“Che razza di domande fai, idiota? Preoccupati piuttosto per te!” –Esclamò Chimera, scattando su di lui. Asher fece altrettanto, il braccio avvolto in lucente energia, e i due si raggiunsero a mezz’aria, lasciando collidere i loro pugni, ma la maggior forza del fedele di Caos scaraventò indietro l’Unicorno, contro Castalia, che fu lesta a evitarlo, mentre già Tisifone espandeva il proprio cosmo e scattava all’attacco.

 

“Assaggia gli Artigli del Cobra dorato!”

 

“Sono con te!” –Esclamò la maestra di Pegasus, avvolta nel suo cosmo azzurro. –“Meteora pungente!”

 

Chimera neppure si mosse, limitandosi a rivolgere loro il palmo della mano destra, su cui il duplice assalto impattò, senza neppure sbilanciarlo. Sorrise divertito, prima di roteare la mano e avvolgere l’energia nel proprio cosmo, generando un’enorme sfera che poi scagliò contro di loro, scheggiando e facendo vibrare le armature d’oro.

 

“Io sono la bestia dalle triplici fattezze! Io sono leone, capra e serpe al tempo stesso! Io sono Chimaira, figlio del mito, e voi uomini, cosa potete fare contro il mito?”

 

A quel punto rimasero soltanto Reda, Salzius e Nemes, giunti al seguito degli amici.

 

“Ma per favore!” –Esclamò Chimera, scuotendo la testa. –“Non mi umilierò con tre nullità dal cosmo simile a uno sputo nell’universo!”

 

“Dovrai farlo invece!” –Disse Nemes, lasciando schioccare la frusta. Non aggiunse altro e scattò avanti, seguita da Reda e Salzius.

 

“D’accordo. Vampa di fuoco! Annientali!” –Tuonò, travolgendoli con un’onda composta di pura fiamma, così intensa da sciogliere la frusta del Camaleonte e distruggere quel che restava delle tre corazze di Bronzo.

 

Gridando per l’estremo dolore, Nemes, Reda e Salzius ricaddero a terra, poco distanti dai già abbattuti compagni, i corpi macchiati di ustioni violente, la pelle a tratti consumata, i capelli arsi in un’unica fiammata. Rimettendosi in piedi, e guardandoli, Asher dovette trattenersi dal non vomitare, chiedendosi come potessero (e per quanto ancora lo sarebbero stati) essere ancora vivi, se viva poteva ancora essere la carne sotto quello strato di bruciature.

 

“Male… detto!” –Chiuse la mano a pugno e lasciò sfrigolare il cosmo, ma prima ancora di muoversi, Chimera si era spostato al suo fianco, afferrandogli il polso con la coda dell’armatura e piegandoglielo, mentre lo colpiva all’addome con un pugno.

 

“Già, già, sono un gran bastardo, vero? Che vuoi farci, ho una motivazione ben salda per combattere. Anzi no, con voi qui presenti, ne ho tre di motivazioni!” –Spiegò il fedele di Caos, travolgendo l’Unicorno con un’onda di energia e gettandolo a terra.


“Asher!!!” –Gridò Castalia, per poi rivolgersi a Tisifone, che ugualmente si stava rialzando. –“Non possiamo tergiversare. È noi o lui!” –La compagna annuì e insieme l’Aquila e l’Ofiuco saettarono avanti, ormai alla velocità della luce, forti delle corazze che le rivestivano e davano loro calore. –“Fish! Cancer! Questo colpo è anche per voi!!! Meteora pungente! Cobra incantatore!”

 

“Che nomi assurdi…” –Commentò Chimera, prima di scattare di lato, evitando il duplice attacco. Si portò alle spalle di Castalia e le conficcò le corna di cosmo della capra nella schiena, facendole sputare sangue e prostrandola a terra, poi, mentre Tisifone si voltava per aiutarla, la spinse indietro con una vampa di fuoco, ricacciandola accanto a Asher che tentava di rialzarsi. –“Sei agile. Più agile degli altri perdenti. Ma in battaglia serve anche la forza, è questo che determina la vittoria. Non l’una o l’altra qualità ma la loro combinazione. Lo so bene, io che ne sono il risultato.” –Disse, continuando a tenere il pugno premuto contro la schiena di Castalia, che boccheggiava in ginocchio, vomitando sangue. –“Conoscete, immagino, la storia della Chimera, figlia di Echidna e Tifone, di stanza a Patara, in Licia? Quel che non sapete è invece la mia storia e forse, giunti a questo punto, dovrei raccontarvela, cosicché possiate comprendere la mia mente malata, e poi dirmi che mi sbaglio, sbizzarrendovi con qualche retorico discorso su quanto la vita sia bella e meriti di essere vissuta. Ah ah ah. Mi diverto sempre a massacrare i Cavalieri di Atena! Di tutti gli eserciti divini, siete i più patetici.” –Aggiunse, sollevando la Sacerdotessa dell’Aquila, impalata e inerme sul suo braccio, di modo che tutti potessero vederla, anche Nemes, Reda e Salzius, che a stento poterono girare gli occhi. –“Ma vi deluderò, non ho intenzione di dirvi niente. Solo di uccidervi!” –Detto questo, scaraventò Castalia in alto, sospinta da una vampa di fuoco, prima di prepararsi a saltare.

 

Tisifone avrebbe voluto fermarlo ma nel momento stesso in cui scattò capì che non sarebbe arrivata in tempo, che Chimera era troppo veloce, persino per un Cavaliere d’Oro. Strategia, forza e velocità, non c’era niente che mancasse a quel guerriero perfetto. Perfetto e vittorioso! Mormorò, avvilita, osservandolo allungare il braccio destro, su cui già brillavano le corna della capra infernale, mirando al petto dell’amica.

 

Nooo!!!” –Tentò di urlare, ma neppure le parole le uscirono in tempo, precedute da un guizzo rapido di cosmo color lilla. Un fulmine quasi, una serpentina di energia che trapassò Chimera e lo deconcentrò, costringendolo a ripiegare, mentre una figura in armatura celeste afferrava Castalia e la portava via dalle fiamme, depositandola a terra, con delicatezza, molti metri più avanti.

 

“Come… hai… osato?” –Avvampò Chimera, atterrando, per la prima volta, con poca grazia e tenendosi una mano sullo stomaco. Tisifone notò che da un lato della bocca un rivolo di sangue gli colava lungo il collo.

 

“Per proteggere mia sorella oserei anche di più!” –Rispose una voce maschile, mentre colui che aveva salvato Castalia si faceva avanti, rivelando un’armatura celeste, decorata con un bizzarro gonnellino di stoffa. I folti capelli fulvi, lo sguardo deciso, il pendente di famiglia ancora legato al collo. –“Il mio nome è Toma di Icaro e non ti chiederò per cosa o chi combatti. No, ti dirò soltanto questo: ho sfidato l’ira di Zeus pur di sapere mia sorella al sicuro. Credi che mi farò impaurire dal belato di una capra, dallo strisciare codardo di una biscia o dal miagolio di un gatto selvatico? Se lo credi, non mi conosci!”

 

“Vediamo di rimediare, allora.” –Chiosò Chimera, lanciandosi all’attacco. Toma fece altrettanto e i loro cosmi esplosero.

 

***

 

Emera era invasa dal dubbio, ed era stato Phoenix a instillarlo in lei.

 

No, non era vero. Scosse la testa, muovendo qualche passo nell’ampia camera a lei riservata, il pavimento e le mura ancora annerite dall’infiammarsi del cosmo della Fenice. Se doveva essere onesta, e con se stessa poteva esserlo, il dubbio l’aveva già raggiunta al Grande Tempio, quando aveva osservato Atena e i suoi Cavalieri combattere fino allo stremo delle forze per una causa persa in partenza, una causa a dir poco ridicola. La difesa di una corrotta umanità che aveva rifiutato la luce.

 

Eppure Phoenix aveva fatto di più, aveva rifiutato l’altra vita che gli aveva offerto, l’altra vita in cui sarebbe cresciuto assieme a colei che amava e sempre assieme sarebbero morti, di morte naturale. E quel lontano giorno, Emera avrebbe assistito al decomporsi del suo corpo, ancora lì, disteso sull’Altare del Giorno Dopo. Cosa poteva chiedere di più un uomo? Cosa poteva esserci di più che non il concretizzarsi dei propri sogni? Inoltre… poteva un uomo ardire così tanto, rifiutando un dono divino?

 

Era follia, avidità o hybris la loro? O forse…? Un altro pensiero l’aveva invaso e adesso non riusciva più a toglierselo dalla mente, al punto da sopraffare tutti gli altri. Era colpa di Phoenix, certo, di quel colpo che le aveva ferito la fronte e che lei aveva creduto fosse un semplice graffio. Invece, qualunque potere fosse, non ne era immune. Quale ironia, in fondo, scoprire che anche gli Dei ancestrali hanno delle debolezze che nemmeno conoscono! Eppure lei avrebbe dovuto saperlo, lei che, come suo fratello, aveva già vissuto un’intera esistenza a fianco di Caos e dei loro genitori. Non erano stati sconfitti anche in quell’occasione? Non avevano ruggito così tanto da scuotere pianure intere, livellare montagne e sollevare oceani, solo per poi precipitare nel vuoto che separa i mondi?

 

Fu una bella idea, quella.

 

Emera non ci pensava da tempo, non pensava ai Primi Giorni. Aveva smesso di farlo quando erano stati rinchiusi nell’intermundi e da allora aveva osservato: gli uomini, la Terra, le guerre divine, chiedendosi come potessero quegli esseri inferiori aver vinto. Come potessero disporre del diritto di distruggere quel che gli Dei avevano creato. Quel che Caos aveva creato.

 

Una fitta la aggredì improvvisa, prostrandola a terra, carponi, mentre le immagini andavano e venivano e una voce parlava. Una voce così simile alla sua.

 

“Al principio era il tempo. Non c’era sabbia né mare, né gelide onde. Non c’era terra né cielo in alto, un vuoto si spalancava e in nessun luogo erba.”

 

Un vuoto? Sì, era l’universo prima della Creazione. Io lo ricordo. L’ho visto, tramite gli occhi di Caos. Poi lui generò il mondo e trasse Nyx dalla Notte eterna e lei partorì Erebo dalle Tenebre primordiali. Loro, i Primogeniti. I nostri genitori.

 

Poi nacque Etere, o nacqui prima io? O forse nascemmo insieme, i Gemelli di Luce, per bilanciare l’oscurità dei primordi, in un equilibrio perfetto su cui avrebbe dovuto basarsi la vita sul pianeta.

 

“Splendette da sud il sole sulle pareti di pietra, allora si ricoprì il suolo di germogli verdi.”

 

Eccolo, Etere, mio fratello. Oh com’era bello quel giorno, con il volto rilassato e perfetto, quasi fosse stato plasmato dalla sabbia astrale, rilucente come polvere di stelle. E sorrideva, mentre camminava per il mondo e lasciava che la sua luce lo rischiarasse. Io feci altrettanto, io lo seguii e concessi agli uomini l’avvicendarsi del giorno e della notte, per dare loro indicazioni sul tempo per il lavoro e sul tempo per il riposo. Così doveva svolgersi la loro vita, in perfetto equilibrio.

 

E allora cosa si è rotto? Cosa si è spezzato? Si chiese Emera, portandosi le mani alla testa, quasi potesse strappar via quella vibrazione che sembrava spezzarla in due.

 

“Altari e templi, alti gli uomini innalzarono, focolari accesero, crearono ricchezze, tenaglie fabbricarono, ingegnarono utensili. Nel cortile giocavano, non sentivano affatto mancanza d’oro.”

 

Non volevano l’oro? Volevano soltanto… studiare, capire, mettere in pratica le loro capacità, ampliare i confini della conoscenza. Volevano soltanto… crescere? Balbettò Emera, sollevando la testa, mentre le fitte sembravano alleggerirsi un po’.

 

“Hai capito adesso, madre?” –Parlò una voce dal profondo del suo animo. –“Il Tenebroso non la prese bene, non approvava tutto quell’interesse per la scienza e per la vita felice che gli uomini stavano cercando di realizzare. Loro voleva che lo adorassero o, meglio ancora, che lo temessero. Così iniziò a bisbigliare agli orecchi del Caos, e Nyx fece altrettanto. Loro, loro per primi, ruppero il principio dell’equilibrio, perché volevano potere, perché volevano che l’oscurità dominasse. Ed erano certi di poter trovare negli uomini inconsapevoli alleati.”

 

“Ma certo! Caos vide nel progresso un tentativo degli uomini di detronizzarlo, di disconoscere tutto quel che aveva fatto per loro, regalando loro un mondo.”

 

La voce annuì, continuando a raccontare.

 

“Così strinse il laccio, imponendo leggi liberticide, pretendendo omaggi, tributi e sacrifici, espandendo le sue braccia di tenebra sì da avvolgere il pianeta nella sua stretta e niente, nulla e nessuno potevano fuggirli. Chi ci provava, chi anche solo ardiva obiettare o uscire dal sentiero tracciato dagli Dei, veniva annientato.”

 

“Ma qualcuno ci riuscì!” –Disse Emera. –“I Sette!”

 

“Ci riuscirono perché qualcuno glielo permise. Qualcuno di dolce e generoso, qualcuno che aveva imparato ad ammirare l’umanità, ad ammirarne le caratteristiche che la rendevano unica e inimitabile: la sua sete di conoscenza continua, la sua tendenza all’errore, ma anche al miglioramento, il suo desiderio di vivere intensamente. Qualcuno che a sua volta era amato e adorato dagli uomini che ovunque, in tutte le culture, veneravano la Grande Dea Madre. Così, per porre fine alle ambizioni di Caos, Ella li nascose nella luce, dove gli occhi di Erebo e Nyx non potevano arrivare, e là i Sette lavorarono alacremente per generare i manufatti che impugnarono contro Caos. I Talismani delle Stelle, che riunivano in sé le forze della natura.”

 

“Ella?” –Mormorò Emera, iniziando a capire. Ma la voce proseguì.

 

“Quando i Talismani furono forgiati, Ella li condusse sulla cima di un colle, dove sollevò un tempio di pietra lucida attorno a loro, su cui il sole, riflettendosi, li avrebbe schermati. E là li benedisse, piangendo e temendo per il loro destino, per il destino di tutti gli uomini. Fu quel giorno che, per la prima volta, la chiamarono col nome che le compete, e con cui ti chiamo tutt’ora, madre.”

 

“Madre…” –Disse Emera, non riuscendo a trattenere le lacrime. Né i ricordi, che adesso, grazie al Fantasma Diabolico di un Cavaliere andato oltre il nono senso, erano liberi di tornarle. –“Caos… lui ci percepì in quel momento esatto. Un fulmine nero si schiantò sulla cima del colle, distruggendo il tempio e lasciando soltanto alcuni pezzi di roccia, reliquie che i druidi e i sacerdoti di Avalon avrebbero adorato per secoli. Quel giorno iniziò la Prima Guerra.”

 

“E tu scegliesti dove stare. Tu, invero, la iniziasti!” –Concluse la voce, che adesso Emera riconobbe. –“Sei pronta, adesso, a compiere la stessa scelta?”

 

Per qualche secondo nessuno parlò, il silenzio regnò sovrano nella dimora della Signora del Giorno, poi, lentamente, Emera si rimise in piedi, pulendosi le lacrime dagli occhi e scuotendo i vestiti bruciacchiati e impolverati. A passo lento si avvicinò alle ampie finestre, guardando fuori, ma ovunque ponesse lo sguardo il panorama era lo stesso.

 

Guerra, sangue e morte. E, su tutto, una tenebra imperante, una tenebra così fitta che persino lei fece fatica a penetrarla, chiedendosi se vi fosse ancora qualcosa oltre. Il sole, le stelle, il cielo più alto, da cui lei e Etere avevano lasciato cadere gocce di luce sulla Terra, per rinfrancare l’animo degli uomini e ricordare loro di camminare a testa alta, senza temere l’oscurità.

 

Etere? Si scosse, chiedendosi dove fosse suo fratello. Tese i sensi e lo sentì, impegnato in lotta di fronte alla Porta della Luce. Senza esitare, si avviò fuori dalle sue stanze, bisognosa di parlare con lui quanto prima. Era possibile, infatti, che anch’egli avesse ricordato o, se non l’aveva fatto, poteva sempre aiutarlo a ritrovare quello che era. Suo fratello, Signore della Luce del Cielo. Suo fratello, l’Imperturbabile, e l’uccisore di Erebo.

 

“Vai da qualche parte?” –La gelida voce la raggiunse non appena mise piede fuori dalla stanza, risuonando dagli androni oscuri del corridoio. Voltandosi, ad Emera parve di vedere le tenebre allungarsi verso di lei, da ogni direzione, fino a toglierle ogni spazio di movimento, mozzandole il fiato e forzandola a un involontario passo indietro. E là, in mezzo a quelle tenebre, due occhi rossi si accesero all’improvviso, avvicinandosi famelici, mentre una potentissima forza invisibile la scagliava indietro, contro l’Altare del Giorno Dopo, distruggendolo.

 

A fatica, Emera tentò di risollevarsi, spazzando via i detriti e la polvere, ma un tacco metallico le premette sul seno, schiacciandola di nuovo nelle macerie.

 

“Ripeto la domanda.” –Sibilò Erebo, la cui maschera entrò nel campo visivo della Dea. –“Vai da qualche parte?” –E affondò.

 

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Capitolo 28
*** Capitolo ventisettesimo: Le ali di Icaro. ***


CAPITOLO VENTISETTESIMO: LE ALI DI ICARO.

 

“Sei ancora in tempo a ritirarti, Toma di Icaro!” –Esclamò Chimera, puntandogli contro un dito. –“La mia tenzone non è contro di te, ma contro i Cavalieri di Atena. Ma non fraintendermi, sarò ben lieto di metterti al tuo posto, bruciandoti tra le mie fiamme come il tuo antenato mitologico, dopo aver portato all’estinzione la casta dei cosiddetti eroi di Grecia. Perciò, scegli! Puoi andare a farti ammazzare da Karkinos o dagli altri figli che la Madre sta generando o aspettare che finisca di massacrare questi pivelli, prima di massacrare anche te. Non ci vorrà molto, in fondo!”

 

“Sui Cavalieri di Atena non leverai la mano! Soprattutto su mia sorella!” –Tuonò Toma, facendosi avanti, avvolto nel suo cosmo intriso di fulmini azzurri.

 

Ooh, dunque è per lei che combatti. Per difenderla? Per farla sentire degna di te? Uhm, abbiamo qualcosa in comune, sia pur alla lontana!” –Disse Chimera, strusciandosi il naso, prima di scattare avanti. –“Ma non credere che per questo mi tratterrò!” –Si staccò da terra e si lanciò di tacco verso il volto di Toma, che fu lesto a scansarsi e ad afferrarlo per un piede, scagliandolo lontano.

 

Ma Chimera, che aveva previsto quella mossa (o forse l’aveva provocata), sgusciò via dalla sua presa, piegando il ginocchio e poi tempestandogli la faccia di calci, così tanti da frantumargli la maschera e spingerlo a terra sanguinante.

 

“Toma!” –Gridò subito Castalia, rialzandosi, affiancata da Tisifone e Asher.

 

“Sta’ indietro!” –La intimò subito lui, strappando una risata a Chimera.

 

“Quanto amore fraterno! Sono commosso!” –Disse, prima di sollevare un piede e batterlo con forza nel suolo. –“Zoccolo della capra infernale!” –Una faglia si aprì davanti a lui, distruggendo in fretta il terreno che lo separava dai tre Cavalieri di Atena, che dovettero balzare di lato per non precipitare nell’abisso oscuro.

 

Asher, troppo lento, si aggrappò al bordo del burrone, prima che Tisifone lo raggiungesse, afferrandolo per un braccio. Ma per quanto tirasse, la Sacerdotessa non riusciva a tirarlo su, come se vi fosse qualcosa che lo ancorava in quella scomoda posizione. Sporgendosi leggermente e guardando in fondo, Tisifone vide una luce soffusa, di colore violaceo, baluginare fredda. E lampeggiare. Quasi stesse parlando. Quasi li stesse chiamando.

 

Sogghignando, Chimera batté di nuovo il tacco e il suolo tremò, gettando Asher e Tisifone nell’abisso.

 

Nooo!!!” –Gridò Castalia, rialzandosi. –“Cosa hai fatto? Dove sono finiti?”


“Io non ho fatto niente. Sono loro che hanno prestato ascolto ai richiami della Madre. È comprensibile, in fondo, che li abbia voluti a sé. Ha fame. Molta fame. E deve nutrirsi, anche se da quei due ben poco nutrimento riceverà.”

 

“La Madre?!” –Balbettò la Sacerdotessa dell’Aquila, ma Toma, riavutosi, si mise in mezzo ai due, evocando una lancia di puro cosmo.

 

“Smettila di perderti in chiacchiere! È con me che devi combattere!”


“Che fastidioso!” –Borbottò Chimera, mentre il Cavaliere Celeste scattava avanti, mulinando l’asta di energia, che l’altro prontamente evitò. –“Sicuro di non essere un Cavaliere di Atena? Sei noioso come loro!”

 

“E se lo fossi?”

 

“Oh! Incontreresti per primo la fine di questo lungo penare!” –Chiosò Chimera, gettandosi di lato, mentre la lancia di cosmo strusciava su un fianco della sua corazza, annerendola.

 

“Resistente quella tua armatura. E sembra anche di ottima fattura. Chi l’ha costruita?”

 

“Che Cavaliere Celeste sei se non riconosci neppure la mano di Efesto, Figlio e Fabbro del tuo Signore?”


Efesto?! Impossibile! Perché mai avrebbe dovuto?” –Esclamò Toma, sorpreso, fermando la propria carica, giusto quel mezzo secondo di cui Chimera abbisognò per travolgerlo con una vampa di energia infuocata, spingendolo indietro e disperdendo la lancia di cosmo. –“Mentitore e baro!”

 

“E tu sei lento e stupido! Credi che un leone risparmierà una gazzella solo perché è carina, giovane o stanca? Le leggi della caccia sono altre, ragazzo. Le imparerai a tue spese! Ora muori! Sbranato dalle Fauci delle Tre Bestie!” –Gridò, liberando il proprio assalto, che sfrecciò verso Toma alla velocità della luce.

 

Il Cavaliere di Zeus incrociò le braccia davanti al volto, subendo in pieno l’attacco, che danneggiò i suoi bracciali, prima di venir azzannato a un fianco da un secondo colpo, che non aveva neppure visto arrivare. Solo allora, con la coda dell’occhio, notò un movimento alla sua destra, un ciuffo di capelli rossicci che si poneva di fronte a lui, il luccicare di un’armatura d’oro che venne danneggiata a una gamba.

 

“Castalia!” –Mormorò, vedendo la sorella accasciarsi ai suoi piedi.

 

“Era… un attacco in tre fasi… triplice, come la Chimera…” –Sillabò lei a fatica.

 

“Donna debole e imprevidente, ma acuta. Dovresti fare la maestra!” –Ironizzò Chimera. –“Ringrazia l’armatura dei Pesci o il morso del serpente ti avrebbe ucciso. Rimedierò adesso!” –E fece per scattare avanti, ma Toma, rapidissimo, saltò sopra la sorella, evocando una lancia di cosmo, e piombò sull’avversario, conficcandogliela in un piede.

 

Chimera strillò, mentre folgori azzurrognole scivolavano lungo l’asta, sconquassando il suo corpo e scheggiando la sua armatura, prima di accasciarsi davanti agli occhi di Toma, che allora ritirò la lancia, lasciandolo libero.

 

“Errore!” –Sibilò l’allievo di Polemos, rialzando il capo e rivelando un ghigno perfido, mentre già il suo cosmo turbinava attorno al braccio destro. –“Beccati ‘sta zampata!” –E lo mosse, artigliando il giovane al fianco già ferito dal precedente attacco, scagliandolo indietro, con l’armatura danneggiata, le vesti strappate e mille squarci aperti sulla pelle.

 

“Toma!!!” –Rantolò Castalia, allungando un braccio nella sua direzione.

 

“Non sprecare il fiato, vi riabbraccerete a breve! Dovreste persino ringraziarmi per il dono che vi faccio! Non è da tutti morire assieme a qualcuno che si ama!”

 

“Dunque è per questo che combatti?” –Lo interruppe la Sacerdotessa. –“Per vendetta. Per essere stato separato da qualcuno a cui volevi bene.”

 

“In un certo senso. Morire fianco a fianco al mio maestro l’ho sempre considerato un onore. Se fossi riuscito a resistere, se avessi stretto i denti e superato ogni avversità, sarei potuto rimanere con lui, onorarlo e ringraziarlo per avermi scelto, salvandomi dalla mediocrità e dalla solitudine e facendo di me il suo secondo. Il fido secondo della Personificazione della Guerra, da cui ho appreso ogni tecnica di lotta, anche quelle più subdole. Ma quel privilegio mi è stato portato via dal Cavaliere di Phoenix, che ha ucciso il mio mentore, e per quell’oltraggio io punirò voi Cavalieri di Atena, che già odiavo, sterminando la vostra casta. Non ci vorrà molto, in fondo, quanti ne rimangono? Ben lontani sono i tempi in cui le ottantotto armature avevano tutte un possessore. Vi siete uccisi l’un l’altro e poi Ades, Ares e Anhar hanno fatto il resto. Peccato per me, che mi sarei divertito di più!”

 

“Tutto quest’odio, solo per vendicare il tuo maestro? Non fraintendermi, l’amore per il proprio mentore è bello e nobile ma…”

 

“Taci, donna! Non parlare del Sommo Polemos!” –Ringhiò Polemos, balzando su Castalia e tempestandola di pugni, che distrussero l’elmo dei Pesci e la maschera della giovane. –“Egli non era solo un maestro d’armi. Egli era…”

 

Già, cos’era davvero? Non avrebbe voluto farsi quella domanda, non adesso, non nel pieno dello scontro. Ma non poté evitarselo, perché Polemos era stato molte cose per Chimera. Molte cose per Vaughn. Ma la Sacerdotessa non avrebbe capito, nessuno poteva capire.

 

“Nessuno!” –Avvampò, colpendola con un pugno sul cranio e sbattendola a terra, in una pozza di sangue. Ansimando a fatica, il biondino si guardò il pugno insanguinato, rendendosi conto di aver disatteso proprio uno degli insegnamenti di Polemos.

 

“Mai, in nessun modo, perdere la calma di fronte a un avversario.” –Ripeteva sempre. –“Un leone non deve dare spiegazioni. Un leone semplicemente si nutre. Le chiacchiere alle iene, i timori agli avvoltoi. La vittoria a noi.”

 

Un rumore alle sue spalle lo fece voltare verso Toma, livido e dolorante, che si stava rimettendo in piedi. Chimera non gli diede tempo di riaversi, saettando su di lui e iniziando a tempestarlo di colpi, come aveva fatto con la donna. Era il fratello di un Cavaliere di Atena, era un amico dei Cavalieri di Atena e come tale doveva morire.

 

Sì, devono morire tutti quei bastardi che mi hanno umiliato! Si disse, espandendo il proprio cosmo. E, in quel momento, mentre uno schizzo di sangue di Toma lo bagnò in faccia, la sua mente volò indietro, a un giorno di dieci anni addietro, quando era la sua faccia ad essere una maschera tumefatta di sangue rappreso.

 

Era accaduto sui Pirenei, dove si era rifugiato per fuggire all’ETA che aveva massacrato la sua famiglia in un attentato. Ancora imbrattato dei resti dei genitori, aveva vissuto per una settimana di bacche, radici, frutti di bosco e vani tentativi di catturare un po’ di selvaggina. Era in quello stato pietoso che lo aveva trovato il Cavaliere di Capricorn.

 

“Bastardo, muori!” –Ringhiò, affondando il pugno nel ventre di Toma, incapace di capire a chi si stesse riferendosi. Tremando, Chimera estrasse il braccio, spingendo a terra il Cavaliere Celeste, che crollò a pancia in su, il viso rivolto alle stelle. Con aria schifata, l’allievo di Polemos scosse la mano dalle interiora del nemico, dispiacendosi che non fossero quelle del Cavaliere d’Oro.

 

Aveva saputo che era morto un paio d’anni addietro e che poi era risorto per aiutare i Cavalieri contro Ade. Ma entrambe le volte Chimera non aveva potuto intervenire. Era troppo presto, a sentire Polemos, per rivelare la loro presenza.

 

“Un cacciatore non è mai frettoloso, ma paziente. Sa aspettare, nell’ombra, mentre i nemici si sbranano tra di loro e poi, fresco di forze, interviene per finire il lavoro.”

 

Questo, del resto, era ciò che avevano fatto sia loro che Nyx, recuperando pian piano le forze e sfuggendo all’occhio dei più potenti. Zeus, Amon Ra, persino Avalon non li avevano visti, ma, se anche li avessero notati, che pericolo avrebbero potuto vedere in loro? Due giovani che correvano per le foreste d’Europa, rivestiti di pelli, a caccia degli ultimi animali selvaggi che l’uomo non aveva ancora massacrato. Non uno spettacolo che dovesse in qualche modo preoccupare i regni divini.

 

Eppure, da quelle caccie Chimera aveva imparato ben più di quanto fatto nei due anni passati in Spagna con Capricorn, che a stento voleva insegnargli qualcosa. Malvolentieri, il Cavaliere d’Oro l’aveva preso sotto la sua protezione e sempre più malvolentieri aveva acconsentito a condividere le sue conoscenze con lui, geloso della Spada Sacra che aveva ricevuto, lui e lui soltanto. Spada che, a sentir i suoi tronfi sproloqui, aveva ucciso il più grande traditore del Grande Tempio.

 

“Il tuo cosmo è impuro!” –Gli aveva detto Capricorn, prima di cacciarlo. –“Non meriti di divenire Cavaliere, neppure apprendista.” –Aveva aggiunto, guadagnandosi un’occhiata di puro odio dal biondino, che avrebbe voluto cavargli gli occhi, ma il servitore di Atena lo aveva atterrato, ferendolo più volte.

 

“Tante ferite, ma nessuna mortale.” –Aveva subito notato Polemos quando l’aveva incontrato, l’indomani. –“Sembra che il tuo maestro, in fondo, ti volesse bene.”

 

“Lui non era il mio maestro. Lui non mi ha insegnato niente.”

 

“Molto bene. Vedremo di rimediare.” –Aveva chiosato il Signore della Guerra, con un sorriso, tirandolo su e invitandolo a seguirlo.

 

“Dove andiamo?”

 

“A caccia, Vaughn. Andiamo a caccia!”

 

***

 

Toma giaceva languente, lo sguardo perso nella cortina d’ombra che rivestiva il Primo Santuario e che, a quel punto, era certo avesse raggiunto i confini dell’Europa. E le vette del Caucaso ove era stato confinato per anni.

 

Era strano essere libero. Strano e bello. Una sensazione che non pensava sarebbe tornato a provare, dopo tutto quel tempo trascorso a osservare i deliri del mondo, subendone le intemperie e il menefreghismo. Nessuno, dei suoi antichi compagni, era venuto a fargli visita, tutti fedeli ai dettami di Zeus. Per i Cavalieri Celesti, come per il resto del mondo, Toma di Icaro non era mai esistito, vittima della damnatio memoriae che lui stesso aveva scatenato.

 

Soltanto Euro era venuto a volte a trovarlo, sebbene non avessero mai parlato.

 

Sedeva da solo sulla cima di Elbrus, cullato dai venti di cui era signore, e meditava. Era un Dio strano, il figlio di Eos, forse non troppo a suo agio nella sua condizione divina, una condizione che invece Toma avrebbe voluto possedere. Per questo aveva lottato, per questo si era sempre spinto oltre, per raggiungere quello status che Giasone e gli altri Cavalieri Celesti possedevano per diritto di nascita, ma che a lui, in quanto uomo, era stato negato.

 

“Un uomo non può diventare un Dio!” –Gli aveva detto Zeus, quando quel giorno l’aveva scortato nel Caucaso e Efesto lo aveva incatenato al monte. –“E tu lo hai dimenticato. Hai dimenticato l’umiltà del servire, accecato dalla brama di avere, finendo per mancarmi di rispetto.”

 

“Io… quello che ho fatto… l’ho fatto solo per lei. Per essere forte per proteggerla. Non è a questo che serviamo? Per difendere chi abbiamo caro?”

 

Zeus non aveva risposto, allontanandosi nella nebbia con tutti i suoi pensieri, sensi di colpa e dubbi che, nel suo io, l’avevano tormentato per tutti quegli anni.

 

“Avevi ragione quel giorno e io non volli ascoltarti.” –Parlò allora una voce maschile. –“Difendere gli altri. Siano nostri fedeli, nostri consanguinei o gli uomini del mondo, che hanno smesso di adorarci e che persino ci insultano, bestemmiando il nostro nome e sputando sui nostri simboli. Per questo abbiamo i nostri poteri. Per questo siamo quello che siamo: gli Dei immortali e i loro Cavalieri.”

 

“Mio Signore…” –Mormorò infine Toma, muovendo le dita della mano destra.

 

“Alzati, Icaro. Sei un uomo, è vero, e non possiedi ali, ma questo non significa che tu non possa volare.” –Continuò Zeus, mentre a Toma sembrò di sentire mani possenti che lo tiravano su, rimettendolo in piedi. –“Non sei neppure un leone, eppure ciò non ti impedisce di lottare e ruggire. Né sei il cielo, ma non per questo smetterai di tuonare e scagliar fulmini, non è vero?”

 

“Io… no, mio Signore. Non lo farò! Tutto quello che sono lo devo a voi e in onore vostro combatto!” –Affermò Toma, chiudendo la mano a pugno, espandendo il cosmo, che turbinò attorno a lui, costellato da migliaia di scintille energetiche. Distratto da quell’emanazione cosmica, Chimera si voltò, proprio mentre il Cavaliere Celeste sollevava il braccio destro al cielo, evocando i fulmini dal cielo profondo. –“In nomine vostro, Zeus! Lamento di Strobilus!”

 

La miriade di folgori investì Chimera, per quanto cercasse di evitarle, scattando di lato in lato. Ma erano tante, troppe, e a Chimera sembrò di scorgere persino una mano divina a sostegno del Cavaliere Celeste. Così, ricordando i dettami di Polemos, bruciò il cosmo, scatenando il suo feroce attacco, proprio mentre veniva martellato da quella selva di fulmini.

 

“Quando sarai all’inferno, non ti rassegnare. Continua ad andare avanti. Poco importa quanto bruceranno le fiamme. Tu potrai bruciare ancora di più!”

 

Aaargh!!!” –Gridò Chimera, mentre attorno a sé apparivano le sagome di tre bestie spaventose, una capra furiosa, un leone famelico e un serpe dai denti velenosi. Tre bestie che poi si fusero in una sola, esplodendo e disperdendo la pioggia di folgori. –“Fauci delle Tre Bestie!” –Tuonò. Ma proprio in quel momento un ultimo fulmine lo colpì in pieno, schiantando l’elmo e parte della sua corazza e mozzando l’assalto a metà, che sfiorò soltanto Toma. –“Che… cosa?” –Rantolò, sputando sangue, incredulo per non aver visto quell’attacco.

 

“Stupito? Non dovresti esserlo, perché anche tu possiedi un colpo segreto che colpisce in più fasi. Colpevolizza te stesso per avermi dato l’idea!” –Chiarì Icaro, avvicinandosi. –“Doppio attacco, tuono e lampo, proprio come duplice è la cima di Elbrus, che gli antichi chiamavano Strobilus, la Montagna Eterna ove fui confinato!”

 

“Maledetto… mi hai fuorviato…”

 

“Lo avresti notato, tu non fossi stato troppo preso dai tuoi ricordi, quali essi siano.” –E, nel dir questo, Toma balzò su di lui, la lancia di energia stretta in mano, la punta rivolta al cuore di Chimera.

 

“No!!!” –Gridando, il fedele di Polemos abbassò le braccia, deviando l’affondo, che gli si piantò nel ventre, trapassando la corazza forgiata da Efesto e a lui rubata.

 

“Vuoi dirmelo, adesso? Perché la indossi?”

 

Chimera lo guardò, tossendo sangue, poi osservò l’addome sanguinante dentro cui stava fluendo il cosmo di Icaro, facendolo sussultare, e allora scoppiò a ridere.

 

“No.” –Si limitò a rispondere.

 

In quel momento la sua coda serpentiforme scivolò lungo la schiena di Toma, per poi avvolgersi attorno al suo collo e strattonarlo indietro. La lancia di energia si dissolse, Chimera si accasciò e il Cavaliere Celeste venne scagliato fin oltre il bordo della faglia, tra le grida di Castalia.

 

“Eh eh. Buon viaggio Icaro. Ti sei avvicinato troppo alla fiamma ed essa ti ha scottato. Non avevi imparato la lezione?” –Ironizzò l’allievo di Polemos, tenendosi l’addome sanguinante. Fece per rialzarsi ma fallì, crollando di nuovo sulle ginocchia, ringraziando Karkinos e le altre creature che stavano tenendo impegnate le forze dell’Alleanza, o qualcuno sarebbe potuto giungere a finirlo.

 

Si guardò intorno, ammirando il frutto del suo lavoro. Aveva offerto cinque Cavalieri alla Madre, ormai prossima al risveglio, e altri quattro giacevano moribondi poco distante. Non se l’era cavata male, per quanto nessuno di loro fosse la Fenice.

 

Stringendo i denti, Chimera si rialzò e, se non avesse avuto timore che potesse udire persino i suoi pensieri, avrebbe maledetto Erebo per averlo assegnato alla Porta delle Tenebre, anziché lasciarlo libero di unirsi a Supay e a Whiro alla Porta del Giorno. Convinto che comunque non avrebbe più rivisto Phoenix, iniziò ad avanzare verso i corpi ustionati di Reda, Salzius e Nemes, prima che Castalia lo richiamasse.


“Ancora viva, Sacerdotessa Guerriero? Sono le ali dell’aquila a tenerti su o la vitalità dei pesci dorati? No, non rispondermi. Sono comunque bestie destinate ad essere schiacciate sotto il mio tacco!” –Esclamò Chimera, bruciando il cosmo e sollevando al qual tempo la gamba destra. Ma prima che potesse sbatterla a terra, un paio di mani gli bloccarono il piede, costringendolo a chinare lo sguardo verso Nemes, che, ferita, seminuda e dolorante, aveva ancora abbastanza forza per trattenerlo. –“Stupida donna, non potevi startene buona e morire? No, dovevi per forza farmi infuriare?” –E agitò la gamba per liberarla, sollevando e sbattendo Nemes più volte contro il terreno, senza che lei accennasse a lasciarlo andare.

 

Proprio in quel momento altre quattro mani si unirono a quelle della ragazza, mentre Reda e Salzius rantolavano al suo fianco, decisi a imbrigliare la triplice bestia.

 

“Ragazzi!” –Mormorò Castalia. –“Cavalieri!”

 

“Cadaveri!” –Puntualizzò Chimera, espandendo il cosmo e liberando violente vampe di fuoco che aggredirono le braccia dei tre Cavalieri di Bronzo, facendoli urlare. –“Mi dispiace per la Madre ma temo vi troverà un po’ bruciacchiati! Croccanti, forse!”

 

“No, se io ti fermo prima!” –Esclamò Castalia, portando il cosmo al parossismo, che scintillò attorno a lei, sollevandosi sotto forma di un’aquila dalle piume d’argento rigate d’oro.

 

“Provaci! Spezzerò le tue ali!”

 

“Le ali di un Cavaliere non possono essere spezzate!” –Disse allora una voce maschile. –“Soprattutto di un Cavaliere che combatte per proteggere chi ha caro!” –E, nel dir questo, una sagoma avvolta in un’aura celeste balzò fuori dal baratro, spinta in alto da ampie ali di energia.

 

“Toma!” –Gridò Castalia, mentre il fratello si librava in aria, roteando su se stesso, con entrambe le braccia sollevate e unite sopra la testa.

 

“Insieme, sorella! Lancia di Icaro!!!” –E sfrecciò verso Chimera.

 

La Sacerdotessa dell’Aquila annuì, scattando avanti, il pugno che sfrigolava lucente energia. Bloccato da Nemes, Reda e Salzius, Chimera non poté muoversi, soltanto contrastare il doppio attacco con le tre bestie di cosmo. Ma il leone venne infilzato dalla lancia energetica di Toma, che proseguì la corsa piantandosi nel costato di Chimera, poco sopra la precedente ferita, e le corna della capra furono tenute a bada dai pugni luminosi di Castalia. E quando la coda serpentiforme si sollevò, Chimera non aveva ormai più forze neppure per indicarle dove colpire.

 

Cadde all’indietro, con l’armatura in frantumi, così come tutti i suoi bei progetti di vendetta. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma la bocca impastata di sangue e morte glielo impedì. Poté solo ricordare i tre motivi per cui era sceso in battaglia: vendicare Polemos, uccidendo Phoenix (e non l’aveva fatto), massacrare i Cavalieri di Atena per essere stato bandito da Capricorn (e non c’era riuscito) e infine…

 

Il terzo motivo non lo ricordava neppure più. C’era soltanto il vuoto oltre i ricordi recenti, che si facevano sbiaditi e parvero scomparire man mano che la linfa vitale lo abbandonava. C’era stato un terzo motivo o semplicemente combatteva per il piacere di farlo? Un colpo di tosse gli fece sputare sangue e sentì qualche costola che si spezzava, sotto l’armatura ormai in frantumi.

 

L’armatura, già. Eccolo il terzo motivo. Lo spirito della Chimera.

 

Quando l’aveva accettato, quando Polemos lo aveva evocato per dargli il potere che nessun Cavaliere d’Oro avrebbe potuto donargli, aveva accolto in sé anche i ricordi della bestia, la sua furia, la sua fama di guerra. E il sapore amaro della sconfitta inflittagli da Bellerofonte di Pegasus.

 

Pegasus. Ecco chi doveva ammazzare.

 

Ma anche quel punto l’aveva mancato.

 

Con la consapevolezza di essere un totale fallimento, Vaughn, Signore delle Tre Bestie, allievo di Polemos, Luogotenente dell’Armata delle Tenebre, posseduto dallo spirito della Chimera, morì.

 

***

 

Nei sotterranei del Santuario delle Origini, una sagoma d’ombra strisciava lungo le gelide piastrelle di pietra. Rantolando e maledicendo una lunga lista di persone, avanzava trascinando la propria massa deforme verso la sala più nascosta e profonda del complesso templare. Così celata che solamente Erebo e Nyx, oltre a Caos, ne erano a conoscenza, e quell’idiota di Chimera, con cui il Tenebroso aveva voluto condividere il segreto, affinché le portasse del nutrimento.

 

Ma la Madre non aveva bisogno di quel damerino dai capelli biondi, la cui unica impresa memorabile era stata sgraffignare un’armatura a Efesto. La Madre sapeva come sopravvivere. Anhar di questo era ben consapevole.

 

L’aveva scoperta lei, in fondo, una ventina d’anni addietro, in una grotta sotto un vulcano attivo, nel cuore del Mediterraneo. C’era andato per un motivo ben preciso e, anche se quel piano sul momento non aveva avuto successo, per l’intervento dell’allievo di Avalon, era felice di averlo messo in atto perché gli aveva permesso di trovare lei.

 

Oh, all’epoca non sapeva che fosse una lei, non sapeva neppure chi fosse, per quanto percepisse la sua oscura potenza irradiarsi dal guscio che la rivestiva, il guscio dentro cui pulsava il cuore della sposa del mostro. La sposa, sì, poiché era per quello che lei era lì, per stare accanto al compagno anche nella cattività. Non era per quello che si pronunciavano certi giuramenti? Anhar li aveva sempre trovati sciocchi, gli uomini e gli Dei, che accettavano di legarsi per tutta la vita (e per le successive!) a qualcuno, a una sola persona. Eppure, anche tra le Divinità Ancestrali, c’era chi credeva in quei giuramenti. C’era qualcuno come la Madre.

 

Con un ultimo sforzo, il Caduto varcò la soglia dell’androne dove aveva deposto l’uovo, nelle radici di un albero antico, che, a detta di Nyx, poteva persino aver assistito alla Prima Guerra. Erano, del resto, nell’area più vecchia del pianeta, vecchia quasi quanto loro. Di che stupirsi, quindi, se dall’uovo erano subito usciti tentacoli di tenebra, che si erano avvinghiati alle radici, espandendosi e succhiando ogni stilla della loro energia, fino a svuotarle e a ridurle in polvere.

 

Anhar sapeva che la Madre aveva fame. Tanta fame. Un bisogno di energia che superava quello di qualunque Divinità avesse conosciuto, poiché la Madre non era soltanto una Divinità, era una procreatrice, e doveva nutrirsi anche per i suoi figli.

 

Se avesse avuto una gola, Anhar avrebbe deglutito in quel momento. Se avesse avuto le gambe, si sarebbe sollevato per ammirarla nella sua orripilante mostruosità. Se infine avesse avuto ancora un volto (magari il bel volto che la sua, di madri, gli aveva dato quando l’aveva generato), avrebbe torto le labbra in un ghigno di perversa soddisfazione. Invece ormai era solo un’ombra, e quell’ombra gocciolava sangue nero da quando Orione l’aveva colpito con la daga deicida. E per fortuna la corazza l’aveva difeso.

 

Un sibilo richiamò la sua attenzione. Eccola, la Madre. Stava proprio di fronte a lui, acciambellata nell’enorme ala sotterranea che Caos le aveva riservato, immersa nel fetore, nella tenebra e nel rancore provato per secoli e che, di recente, aveva subito una nuova impennata, che l’aveva spinta a uscire dal guscio e a cercare vendetta.

 

Vendetta. Ripeté Anhar. Niente di diverso da quello che volevano tutti loro. E forse, grazie a lei, avrebbero potuto ottenerla. Ma prima lui aveva bisogno di un corpo, uno qualsiasi, uno di quelli che la Madre aveva attirato a sé e che giacevano, adesso, avvolti in vischiosi filamenti di tenebra, come feti in procinto di sviluppare, per quanto nessuno di loro, da quell’operazione, avrebbe ottenuto nuova vita.

 

Il Caduto conosceva quel metodo, lo aveva visto applicare da molte Divinità e creature della notte, anche dalla sua vecchia amica Camazotz. Gli uomini superstiziosi lo avrebbero definito vampirismo, in realtà era una forma di conservazione della specie che si basava sulla sopravvivenza del più forte, in questo caso la Madre, che assorbiva l’energia degli altri esseri viventi, fino a ridurli a meri involucri. E quando l’ultima stilla di cosmo sarebbe stata assorbita, anche l’involucro sarebbe divenuto polvere.

 

Concentrando i sensi, Anhar riconobbe i cosmi di molti prigionieri, in quei bozzoli di ombra di cui lei si stava nutrendo. C’era Pegasus, il fastidioso, e anche Atena, la Vergine Guerriera. Poi l’Eridano Celeste, i Cavalieri d’Oro di Virgo e Leo e addirittura due Divinità (ah, una la riconobbe! Era Arawn, il traditore, che gli aveva promesso il suo appoggio a Mount Badon, prima di vendersi ad Avalon). E un’altra decina di soggetti che non seppe identificare, troppo deboli erano i loro cosmi.

 

Virgo? Uhm, interessante! Si disse, ricordando il breve periodo in cui era stato ospitato dal Custode della Porta Eterna, prima di strisciare in quella direzione. Ma un tentacolo di tenebra gli sbarrò la strada, costringendolo a voltarsi verso la Madre.

 

Non parlava, non ancora, preferendo concentrare ogni energia nel suo risveglio, eppure Anhar capì benissimo quello che gli stava dicendo.

 

Quello è il mio cibo! E non si tocca!

 

Il Caduto fece un inchino, vomitando altro sangue nero da una forma che ormai non riusciva più a controllare a pieno, infettata da quella maledetta daga da lui stesso forgiata.

 

“Caos, mio Signore. Aiutami! Ascoltami!” –Mormorò, mentre il lungo corpo squamato della Madre lo circondava, cullandolo e precludendogli al tempo stesso ogni via di fuga. –“Nyx è caduta. Ho avvertito il suo cosmo spegnersi poco prima, e gli Dei Gemelli non ti sono fedeli. Non del tutto, almeno. Se la Madre fallisse, se la progenie del mostro venisse estinta, rimarrebbe soltanto Erebo. Lui da solo contro le forze dell’Alleanza, compresi quei pericolosi Cavalieri della Speranza. Tu li temi, so che li temi, in virtù di ciò che potrebbero fare. Divenire i nuovi Dei. Io lo so, l’ho sempre saputo, ma non ne ho mai fatto parola con nessuno.” –In quel momento, Anhar si sentì soffocare, stretto nella morsa della Madre, che torreggiava sopra di lui fissandolo con due grossi occhi gialli. O tali il Caduto li immaginò, poiché la Madre poteva assumere anche la forma di una bella donna, gravida e sudata, e carezzarsi il ventre, gloriandosi della stirpe mostruosa che aveva e avrebbe ancora generato. –“Mio Signore, Lord Caos, io sono il tuo araldo! Io sono l’araldo dell’ombra, la chiave che ti ha permesso di aprire le porte del tuo ritorno! Non abbandonarmi! Non ti chiedo molto… soltanto un corpo… uno soltanto, anche usato va benissimo!”

 

E in quel momento, ad Anhar, sembrò di udire una voce nella mente, la stessa che gli aveva parlato nel corso dei secoli, promettendogli di divenire governatore di uno a scelta dei mondi divini che avrebbe voluto scegliersi. La stessa che lo aveva istigato, sobillato e nutrito di sogni ambiziosi e macchiati di sangue. La stessa che adesso avrebbe chiesto il suo, di sangue.

 

Stringendo ancora, la Madre serrò la stretta sull’ombra del Caduto, affondando i tentacoli nella ferita e iniziando a sfamarsi. Oh sì, Anhar percepì il suo godimento quando il suo sangue la invase e la inebriò e, a modo suo, la fecondò. Con quel pensiero in mente, con la consapevolezza di aver contribuito a generare nuovi mostri, Anhar sprofondò nelle tenebre, accompagnato da un grande boato (simile alla terra che esplodeva) e da una selva di grida.

 

Fossero sibili, ruggiti, ululati o urla di guerra non seppe dirselo, poiché non sapeva quale forma la Madre avrebbe assunto. Quel che sapeva, e che gli bastò per sogghignare un’ultima volta, fu che li avrebbe sterminati tutti.

 

Nessuno, del resto, poteva opporsi alla sposa del mostro. Nessuno poteva fermare Echidna.

 

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Capitolo 29
*** Capitolo ventottesimo: Quarto interludio. Terra/Ombra. ***


CAPITOLO VENTOTTESIMO: QUARTO INTERLUDIO.

 

TERRA/OMBRA.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: quindici secoli prima del Secondo Avvento.

Spazio: Asia meridionale.

 

Anhar era in fuga da giorni.

 

Da quando quel bastardo gli era piombato addosso, lungo le coste africane, da dove aveva seguito la fine della guerra di Britannia, deluso e irritato dalla sconfitta della Cailleach e di Apollo. Cosa aveva sprecato a fare tutto quel tempo, istigando il figlio bastardo di Zeus a reclamare maggior potere per sé e fomentando la volontà della Regina dell’Inverno a estendere il suo dominio sull’intera Albion, se poi non erano riusciti a piegare le forze di Avalon e dell’Olimpo? Cosa si erano aspettati che facesse? Che tornasse indietro a salvarli?

 

Lui era un distruttore, non un riparatore.

 

Immerso nei suoi pensieri, si era accorto soltanto all’ultimo della bomba di fuoco che stava saettando su di lui, venendo raggiunto al fianco destro e scaraventato di sotto dal promontorio da cui stava scrutando il mare. Non lontano da dove, fino a secoli addietro, era esistita una città chiamata Cartagine, prima di riuscire a convincere i romani a dichiararle guerra per poter poi razziare i suoi resti alla ricerca di fantomatici talismani celati dalla Regina Didone, senza successo.

 

Bofonchiando, si era rialzato, la mano sul fianco ferito e ustionato, sotto la corazza che in quel punto aveva ceduto, liquefacendosi, soltanto per trovarsi di fronte il più agguerrito dei suoi fratelli. Non il fedele cagnolino di Avalon, né il distaccato suonatore d’arpa, bensì l’audace dominatore del fuoco, di cui non aveva percepito la presenza a Mount Badon. Forse Avalon gli aveva ordinato di coprire loro le spalle o forse era stata una sua idea; del resto, proprio come lui, Andrei non era tipo da rifiutare una battaglia. Tutt’altro.

 

“Felice anch’io di rivederti, fratello. Cos’era quello? Un bacio di bentrovato? Piuttosto ardenti le tue labbra!”

 

“Finiscila di blaterare, Anhar! Avalon ci ha informato dei tuoi deliri di onnipotenza!”

 

“Oh, il nostro fratello maggiore è sempre così prodigo nel dare giudizi e muovere i fili del suo piano. E dimmi, Andrei, ti ha anche detto che alla fine moriremo? Che, se e quando Caos sarà sconfitto, la nostra esistenza cesserà?”

 

“Noi esistiamo per questo, Anhar. Noi siamo l’Alfa e l’Omega. E se con la nostra dipartita un arco del tempo cosmico si chiuderà, così sia. Non l’avremo vissuto invano se avremo portato a termine la nostra missione!”

 

Umpf! Missione suicida, dico io.” –Aveva ringhiato. –“Affidataci da chi, poi? Da qualche ignota e perversa entità che ci ha messo al mondo per usarci come marionette? Sai che ti dico? Io credo che sia tutta una menzogna! Avalon! È stato lui a farci questo, lui a trasformarci nei suoi galoppini, inculcandoci in testa tutte queste idiozie sulla fine del mondo! Ma io non ci sto! Non farò quello che vuole!”

 

“Era proprio quello che volevo sentirti dire.” –Aveva commentato Andrei, bruciando il cosmo rossastro. –“Così posso spaccarti la faccia! Nostro fratello, al riguardo, si è dimostrato molto più cauto, preferendo che ti riportassi ad Avalon per affrontare il consiglio. Lo farò, non voglio certo disobbedire, ma a modo mio. Del resto non ha mica specificato come debba riportarti indietro!” –E si era lanciato contro di lui, avvolto in una corona di fiamme.

 

Anhar aveva opposto il proprio cosmo di tenebra e da allora avevano iniziato una danza letale che era proseguita per tutte le coste del Mediterraneo, fino alle terre dei fiumi, dove era riuscito a far perdere le sue tracce. Questo quantomeno era ciò che aveva creduto, prima di ritrovarsi, nel fitto della giungla indiana, di nuovo braccato dall’Angelo di Fuoco. In questo modo, lui correndo e fuggendo, l’altro inseguendolo senza sosta, avevano percorso la parte meridionale del continente asiatico, giungendo nella miriade di isole che ne popolavano la punta orientale.

 

Non una rotta casuale per Anhar. Aveva sentito dire che là, nella solitudine del suo isolotto, viveva una creatura antichissima, una potente donna-ragno con il dono della preveggenza. Un dono che, a lui, sarebbe stato molto utile.

 

Aurora infuocata!” –La bomba di cosmo lo investì in pieno, piantandolo nel fianco della montagna e bruciando tutta la vegetazione attorno. –“Vuoi una mano per alzarti, mio adorato fratello?”

 

“Faccio da solo, grazie. Tu piuttosto, attento a dove metti i piedi.” –Sibilò, affondando una mano nel terriccio e infondendogli il proprio cosmo, godendo quando Andrei sprofondò in una buca appena apparsa sotto di lui. –“Sono ancora l’Angelo della Terra, per quanto tu e quel bastardo tessitore vi ostiniate a negarlo!”

 

“Quel ruolo lo hai perso abbandonando l’Isola Sacra e sputando in faccia ai tuoi fratelli, ai loro insegnamenti e a tutto quel che di santo rappresentavamo!”

 

“Santo? Credi davvero che ci sia qualcosa di santo nei nostri poteri, Andrei? Se è così, sei più sciocco di Avalon che crede davvero di riuscire a vincere l’Unico!” –Ringhiò Anhar, rimettendosi in piedi, mentre, lasciando esplodere il cosmo infuocato, anche il fratello faceva altrettanto. –“Un’idiozia a cui non intendo partecipare.”

 

“Dunque hai davvero rinnegato i nostri valori, meritando l’appellativo che il Primo Saggio ti ha dato; tu sei davvero caduto!”

 

“E voi tutti cadrete con me!” –Avvampò, espandendo il proprio cosmo oscuro, intriso di striature scarlatte. –“Vi trascinerò nel mio stesso destino, facendovi conoscere l’onta del rifiuto, della solitudine e della sconfitta! Apocalisse divina, esplodi!!!”

 

La tempesta di tenebre e fiamme nere si sollevò improvvisa, sorprendendo Andrei che non si aspettava una tale rapidità di ripresa da parte del fratello. Riuscì a stento a sollevare un muro di fuoco prima di rispondere con un incendio della stessa intensità.

 

“Mira la fiamma che dilaga dal mio palmo! Essa contiene l’essenza della mia vita! Io sono l’Arconte di Fuoco e non può esistere sconfitta per chi stringe in mano la Fiamma della Vittoria! Una fiamma donatami da coloro che vivevano nel Tempo Prima del Tempo e destinata ad ardere fino al Giorno dell’Ira!”

 

Lo scontro tra le due energie aumentò d’intensità, generando folgori che squassarono il terreno, facendo cadere gli alberi e le poche abitazioni che sorgevano ai piedi di quella montagna che, solo notando gli sbuffi di fumo che uscivano dalla sua cima, Anhar capì trattarsi di un vulcano. E allora prese la sua decisione.

 

Attenuando il vigore del suo assalto, balzò indietro, lasciandosi trascinare dalla tempesta di fuoco generata da Andrei, fino a ritrovarsi sulla sommità del rilievo, a pochi passi dall’ampia caldera sul cui fondo ribolliva magma ardente.

 

“Se mi vuoi, fratello, vieni a prendermi!” –E si gettò nell’abisso infuocato, forzando Andrei a inseguirlo.

 

Avvolto in un globo di energia nera, Anhar si schiantò nella pozza di lava, scendendo finché poté, finché le forze glielo permisero, e allora, soltanto allora, spalancò le braccia, liberando l’immenso potere dell’ombra che aveva accumulato negli ultimi secoli, da quando aveva lasciato Avalon. Ripensò alle domande poste al fratello, a cui mai aveva risposto; alle richieste di sempre maggiore apprendimento rivolte al Primo Saggio, che gli erano tutte state negate; all’umiliazione di essere stato redarguito, punito e infine bandito. E, su tutte, all’espressione di pietà comparsa sul volto di Avalon quando, in piedi su quel maledetto molo di legno, lo aveva osservato scomparire tra le nebbie, senza dirgli alcunché.

 

“Ha continuato a volermi bene mentre io… io lo odio!” –Gridò, scatenando la furia dell’Apocalisse Divina dall’interno del vulcano.

 

Fu un attimo e il suolo tremò fin dalle fondamenta, mentre migliaia di colonne di magma schizzarono verso l’alto, riversandosi fuori, lungo i pendii che presto divorarono, fino a raggiungere il mare. E si scatenarono violenti boati di tuono accompagnati da forti piogge e tremende tempeste, e alte onde si levarono sul mare circostante. Anche Andrei, preso alla sprovvista, venne sbalzato lontano, costretto a difendersi (persino lui, che il fuoco lo dominava) da quell’ammasso di lava che, ovunque si voltasse, pareva pronto ad aggredirlo, ritrovandosi a ruzzolare sulle rocce fuse. Levando il capo, l’Arconte Rosso inorridì alla vista della gigantesca nube di fumo e ceneri laviche che si stava spargendo tutt’attorno.

 

I forti venti oceanici l’avrebbero dispersa, ricoprendo l’intero continente asiatico e forse raggiungendo persino il Mediterraneo. Per giorni il cielo sarebbe rimasto nero e gli uomini avrebbero tremato al pensiero di non rivedere più il sole. Le temperature sarebbero scese e i profeti e i millantatori avrebbero gridato all’ultimo inverno, anticipatore della fine del mondo. I raccolti si sarebbero seccati, gli animali sarebbero morti di freddo e gli uomini non avrebbero esitato a trovare qualche scusa pur di dichiararsi guerra l’un l’altro, incolpandosi per un evento al di là della loro comprensione.

 

Tossendo e riparandosi gli occhi dal fumo, Andrei cercò tracce di Anhar, battendo l’intera isola, sollevandosi in volo e tirando una veloce occhiata anche all’interno del vulcano, dove la lava continuava a ribollire, producendo bolle di energia ardente, colonne di fuoco e schizzi e lapilli. Stringendo i pugni, l’Arconte Rosso convenne che il fratello l’aveva beffato ma dubitava che, ad ogni modo, sarebbe sopravvissuto all’apocalisse da lui scatenata. Perciò diede le spalle alle isole del sud-est asiatico e si preparò per tornare ad Avalon.

 

Proprio in quel momento, il vulcano eruttò di nuovo, generando nuove onde di altezze enormi che si abbatterono sulle isole vicine, sommergendole e devastandole.

 

Krakatoa…” –Mormorò Andrei.

 

Nella Prima Lingua significava “il distruttore”.

 

***

 

Per un tempo ignoto, attorno a lui non vi fu altro che ombra. E in quell’ombra il suo corpo stanco e ferito fluttuò, scivolando in silenziosi abissi che quasi gli parvero un grembo materno. Se mai avesse conosciuto sua madre o avesse avuto notizie sulla sua nascita; per quel che ne sapeva, quel poco che Avalon aveva condiviso con i suoi fratelli, loro erano semplicemente nati.

 

Non c’era stata un’infanzia o un’adolescenza, come non ci sarebbe stata alcuna vecchiaia. Loro erano gli Angeli e così sarebbero rimasti fino alla fine del tempo cosmico. Un’entità capace di trascendere il concetto stesso di tempo, riducendolo a un immenso qui e ora, proprio come i Progenitori che avrebbero dovuto affrontare. Cinque Angeli contro cinque Progenitori, sebbene (e di questo Anhar era sempre stato cosciente) la disparità di forze in campo giocasse tutta a loro svantaggio. Per quale motivo, quindi, avrebbe dovuto rischiare di mettere fine alla sua esistenza? Se Caos non fosse stato vinto, se magari avesse potuto regnare indisturbato sul pianeta, magari li avrebbe premiati per la giusta scelta di campo. Di certo avrebbe concesso loro di servirlo, e il loro tempo cosmico non sarebbe giunto a conclusione. Per questo Anhar aveva fatto la sua scelta.

 

Per questo era caduto.

 

Eppure adesso, mentre sprofondava nell’ombra, fuori da qualunque concetto di tempo o di spazio, esausto per il prolungato scontro con Andrei e per aver dato fondo a ogni stilla di energia, il dubbio lo invase. Unico momento nella sua interminabile vita in cui pose in discussione se stesso.

 

La Cailleach e Apollo avevano fallito, una sconfitta che bruciava, soprattutto perché si era davvero aspettato qualcosa da loro, soprattutto dal figlio di Zeus che, in fondo, era depositario del sacro potere del sole. Averlo dalla sua parte era stata una vittoria personale e meritata, a coronamento di una campagna di reclutamento durata secoli. Eppure, per quanti sforzi avesse profuso nel perorare la sua causa, essa era rimasta sorda agli orecchi dei regni divini, che avevano riso, lo avevano invitato ad andarsene o, nel peggiore dei casi, non lo avevano neppure fatto entrare. Come era successo a Bifrost, quando Heimdall gli aveva proibito di mettere piede sul Ponte Arcobaleno. Ma gliel’avrebbe fatta pagare a quel bifolco cornuto!

 

Ora però era troppo stanco persino per adirarsi, voleva soltanto riposare, riprendersi. Sì, gli bastava un po’ di tempo, un dolce naufragare in quel mare di tenebra, e poi avrebbe elaborato un nuovo piano. La vendetta, quella mai l’avrebbe abbandonato.

 

“E a cosa ti ha portato?” –Parlò una voce nella sua mente, strappandogli una ruga di fastidio. –“Cosa hai ottenuto dopo, quanti secoli? Cinque? Sette? Hai smesso di contarli immagino! Dopo tutto questo tempo di rancore verso i tuoi fratelli, cosa puoi dire di aver realmente ottenuto, se non il disprezzo dei tuoi congiunti e un’eterna solitudine?”

 

“Meglio un’intera esistenza da solo che un altro giorno su quell’isola maledetta!”

 

“Non lo pensi davvero. Sei soltanto seccato perché tuo fratello vede più lontano di te. Tu guardi al presente, Anhar, tu vedi le guerre che puoi scatenare adesso, i regni che puoi far cadere, ma non controlli l’intera scacchiera di gioco.”

 

“Io…” –Rantolò il Caduto. –“Non posso farlo. Non possiedo la Vista. Solo Avalon la sa utilizzare e non ha mai voluto insegnarmi.”

 

“Posso farlo io.” –Disse la voce, che adesso, agli orecchi di Anhar, sembrò una voce femminile, sebbene raschiata, quasi faticasse nel parlare, quasi non fosse abituata a parlare. –“Sono piuttosto abile nel vedere lontano. Per questo sapevo che saresti giunto fin qua.”

 

“Dove qua?”

 

“Nella mia tana.” –Sussurrò la voce, prima di scomparire.

 

Soltanto in quel momento Anhar riaprì gli occhi, o forse li aveva sempre tenuti aperti ma essendoci soltanto tenebra attorno non aveva potuto notare alcunché. Adesso, invece, capì di essere in una caverna, dal soffitto immenso, e gocce d’acqua gli cadevano sul corpo, riverso in una pozza di fango. Che misera fine per lui che aveva voluto condurre gli Angeli verso l’eternità, liberandoli dall’asservimento a una missione suicida!

 

Tossendo e sputando sangue e fango, il Caduto si rialzò, cercando con lo sguardo e con i sensi colei che gli aveva parlato. Sgranò gli occhi, muovendo persino un passo indietro, quando percepì la sua presenza, tutt’attorno a lui. Chiunque fosse, era un’entità antica, quasi quanto lui, forse anche più vecchia, ed era potente, in grado di entrare nella sua mente e muoverne i fili.

 

“Apprezzo la tua ospitalità!” –Disse infine. –“Ma non dimenticare chi hai sfidato! Un Arconte immortale! Non un uomo qualunque, che puoi piegare ai tuoi dettami!” –E spalancò le braccia, lasciando che il cosmo fluisse in lui, per concentrarlo su due sfere di fuoco nero… che subito evaporarono. –“Ma cosa?”

 

“Ospitalità è la mia, non ingenuità, Arconte Nero.” –Commentò la voce, con una punta di divertimento nella voce. –“Ma non accigliarti. L’oscura vampa che ti anima si riaccenderà non appena abbandonerai il mio tempio. Il tempio di Biliku.” –Disse, e allora ad Anhar sembrò di vedere qualcosa di grosso, di molto grosso, scivolare tra le ombre, oscurando la scarsa luminosità che filtrava tra le rocce in alto, fino a piombare di fronte a lui.

 

L’odore che emanava era disgustoso, almeno quanto il volto deforme di donna che sorgeva da quel tozzo corpo di ragno se poteva esistere un ragno così grande, come l’intera sommità dell’Isola Sacra. E quei peli sozzi che la rivestivano potevano essere alti quanto i monoliti che ne ornavano la cima.

 

“Finalmente ci incontriamo. Ho sentito molto parlare di te, delle tue abilità ma soprattutto della tua vocazione.”

 

“Vocazione? Chi ti ha parlato di me?”

 

“E me lo chiedi? Chi altri se non colui che tutto vede e tutto sa? Colui che aspetta, paziente, dietro il velo che separa i mondi, attendendo il giorno in cui la configurazione astrale verrà ricreata e potrà tornare nel mondo che ha generato e da cui è stato impunemente cacciato?”

 

“Intendi dire…?” –Ma con un rapido movimento di una zampa, Biliku lo zittì.

 

“Non c’è bisogno di nominarlo invano. Siamo al sicuro, è vero, ma gli Arconti tuoi fratelli potrebbero essere in ascolto. Quel gran tessitore, nel suo specchio d’acqua, potrebbe penetrare persino qua sotto, sebbene lo sforzo lo lascerebbe esausto. Vi sono centinaia, forse migliaia, di incantesimi, formule e sigilli oscuri che difendono il mio santuario, poiché vedi, Angelo Caduto, io mal sopporto la compagnia. Gli uomini mi rifuggono da sempre, per cui perché dovrei io accoglierli con gioia? Li accolgo sì, ma me ne nutro, prosciugandoli di ogni energia. E se ti chiedi cosa ti ha reso diverso, da meritarti un trattamento migliore, la risposta già la conosci. Già la senti nel tuo animo.” –Sibilò Biliku avvicinandosi e fissando Anhar con piccoli occhi giallognoli. –“Egli mi ha parlato e desidera i tuoi servigi. Egli ti ha scelto, colpito dalla tua devozione, per essere l’araldo dell’ombra, colui che aprirà la strada al Secondo Avvento!”

 

“Io… non so che dire… sono…”

 

“Entusiasta? Onorato? Pronto a esaudire ogni sua richiesta?”

 

“Intendevo dire, sono affamato!” –Ghignò Anhar. –“E desideroso di compiacere l’Unico Dio. Ma come posso farlo, se i miei fratelli continuano a starmi addosso?”

 

“Dovrai nasconderti, rifugiarti nell’ombra. Posso insegnarti come strisciare, non visto, nelle tenebre del mondo, e in quelle tenebre dovrai crescere, aumentare i tuoi poteri e tessere le fila del tuo progetto. Del suo progetto. Basta con gli attacchi palesi, devi diventare astuto. Nessun sovrano, neppure di un regno divino, tollera che qualche ignoto profeta spunti alle sue porte a inneggiare a una guerra che non considera sua, ma tutti, persino i più saggi (persino Zeus, Odino e Amon Ra!), hanno un consigliere che siede al loro fianco, genuflettendosi quando deve e sibilandogli nell’orecchio quando l’altro è troppo ubriaco di ambrosia o di idromele, per instillare il dubbio. Vedrai, non dovrai faticare molto, le menti degli Dei sono deboli e invidiose quanto quelle degli umani. E un giorno, quando l’Unico rinascerà, ti ricompenserà adeguatamente per i tuoi servigi. Nell’attesa, goditi questo primo assaggio del suo potere.” –Disse Biliku, invitandolo ad avvicinarsi.

 

Con una certa riluttanza, Anhar acconsentì, trovandosi proprio di fronte al mostruoso volto della creatura, che spalancò la bocca e lo investì con una fetida fiatata, che lo fece barcollare, quasi cadere all’indietro. Ma Biliku fu svelta ad afferrarlo con le sue zampe, filando una tela biancastra in cui lo avvolse, tra i mugolii deliranti del Caduto. Quindi, quando ormai aveva perso conoscenza, la donna-ragno lo portò fuori, lasciandolo sul tetto di un antico tempio delle Isole Andamane, sotto cui aveva stabilito la sua dimora. Quando la tela si sarebbe sfatta, e le sue ferite rimarginatesi, l’Arconte della Terra si sarebbe svegliato, divenendo quello che Caos lo aveva chiamato ad essere.

 

L’Arconte Nero, araldo dell’ombra.

 

***

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: quindici anni prima del Secondo Avvento.

Spazio: una piccola isola del Mar Egeo. Sconosciuta ai più.

 

 

La grande fornace emetteva un calore fetido, resto tale dalla decina di corpi gettati al suo interno e presto divorati dalle fiamme. Un fastidio che Athanor poteva sopportare poiché quell’ultima energia cui aveva attinto gli aveva permesso di completare il lavoro che il suo Signore gli aveva richiesto. Ignorando i belati di Beira, che bofonchiava su uno sgabello di pietra (di cosa non volle neppure saperlo, tanto avrebbe voluto gettarla nella fornace, sì da zittirla definitivamente!), l’alchimista oscuro terminò di versare l’oro nello stampo, mescolato al sangue di tutti gli Dei minori e delle creature fatate e leggendarie a cui lui e Anhar avevano dato la caccia per anni.

 

Un’operazione di per sé semplice ma che, fino a quel momento, non aveva dato i risultati sperati. C’erano procedure che neppure lui, sull’Isola della Regina Nera, aveva appreso completamente, ma grazie ai testi che l’Angelo aveva arraffato dalla Biblioteca di Alessandria, prima di darle fuoco, erano riusciti a completare il rito.

 

“Hai finito?” –Bofonchiò la vecchia alle sue spalle. –“Mi sto annoiando, e fa piuttosto caldo qua sotto. Se non hai finito ti aspetto di sopra, c’è più ventilato!”

 

“Sta’ zitta e non muoverti! Il nostro Signore ci ha ordinato di rimanere al coperto. Con la guerra tra Atene e l’Egitto in corso, gli occhi degli Dei si stanno muovendo e non vorremmo essere individuati proprio adesso, non è così?”

 

“Io posso essere non vista, se voglio. Una nuvola, qualche fulmine ed ecco che sparisco. Tu piuttosto, con quelle vesti nere, ti noterebbe anche un gabbiano che sorvolasse quest’isola brutta e brulla, ma dato che persino quelle bestiacce si tengono alla larga, chi mai potrebbe notarti?”

 

Athanor non rispose, limitandosi a sbuffare e a borbottare tra sé una lunga sequela di maledizioni in tutte le lingue che conosceva. Ed erano parecchie.

 

Proprio in quel momento, una presenza oscura parve farsi spazio nei tenebrosi androni in cui erano rifugiati, infiammandoli con la sua aura, prima di rivelarsi nelle forme dell’Angelo Caduto.

 

“Mio Signore! Siete tornato presto!” –Esclamò subito l’alchimista, inchinandosi, anzi no, prostrandosi ai suoi piedi.

 

“Non esiste presto o tardi, Athanor! Esiste solo il tempo per ogni cosa! Un insegnamento, questo, che ho appreso dal mio poco venerabile fratello! E questo è il tempo della vendetta!”

 

“Già, già, tuo fratello! Quel bastardo che ha massacrato la Regina dell’Inverno! Quando potrò occuparmi di lui? Mi hai promesso la sua testa, te lo ricordo!” –Intervenne la donna.

 

“Puntualizzare il superfluo a ben poca giova, Cailleach, tranne a innervosire il mio inquieto animo! E tu, Beira, immagino non voglia farmi innervosire!” –Sibilo Anhar, voltandosi e inchiodandola alla parete di pietra con un solo lampeggiare delle sue iridi rossastre.

 

“N… no, signore! No! Volevo solo dire… vorrei essere utile! Aiutarti! Come Athanor!” –Squittì la vecchia, prima che, con un sospiro scocciato, l’Angelo non la liberasse, facendola ruzzolare a terra.

 

“A questo proposito, mio Signore e Padrone, lascia che ti mostri il mio lavoro.” –Disse l’alchimista, afferrando una tavolozza di legno su cui era poggiata una daga dorata. –“Ammira il frutto del tuo ingegno e della mia sapienza! La lama che un tempo fu di Camazotz, la lama della Dea Vampiro, è stata riforgiata, nutrendola di sangue divino, ed è pronta adesso per adempiere alla sua missione.”

 

“Eccellente, mio buon alchimista! Le manca solo una cosa!” –Commentò Anhar, mostrando una gemma di colore nero scuro, che avvicinò all’arma, spingendola nell’impugnatura e lì fissandola, cuore pulsante di uno strumento ben più potente di quanto potesse all’apparenza sembrare. –“Eccola, dunque! La lama deicida! La lama che ucciderà la Dea! Con la sua morte, e con il mio allievo sul trono di Atene, ci assicureremo l’indiscusso appoggio di un esercito tra i più granitici nelle proprie convinzioni. So di cosa sono capaci i Cavalieri di Atena, l’ho provato sulla mia pelle più volte e la Vista non mi ha mai mentito. Dobbiamo metterli fuori gioco e dobbiamo farlo adesso che sono deboli.”

 

“Come intendi procedere?” –Azzardò la domanda Beira.

 

“Ho già seminato il seme dell’ombra nel cuore del mio allievo. Saga di Gemini presto cesserà di esistere e diverrà l’uccisore della Dea, ministro del culto dell’ombra. E la ucciderà proprio con quest’arma. Dammela, gliela porterò stasera stessa!”

 

“Perché non adesso? Perché aspettare?”

 

“Ti ho forse autorizzato a parlare, vecchia fastidiosa e butterata creatura?” –Ringhiò Anhar, avvolgendo la Cailleach in una vampa di fuoco nero che le ustionò la pelle, bruciandole i sudici capelli in un’unica fiammata. –“Sei fortunata, Beira, perché mi servi e ho apprezzato l’operato della tua antenata, sia pur fallimentare. Vedi di non fallire anche tu o non ci saranno più Cailleach ad Albion! Le estirperò una ad una, con i miei affilati artigli di tenebra! Adesso, invece, devo recarmi in Egitto; è là che Seth e i Guerrieri del Sole Nero stanno combattendo contro gli invasori di Atene. E, qualora Seth fallisse, dovrò occuparmene io.”

 

“Intendete forse scendere in guerra, mio Signore? Sarà prudente rivelarsi adesso?”

 

“Non personalmente, sebbene non mi dispiacerebbe riempire di schiaffi la faccia da ebete del bastardo di Amon! Ho un amico, chiamiamolo così, che dimora nelle profondità di Amenti. Un amico che ha fame, tanta fame, e che a Karnak potrebbe trovare nutrimento! Ah ah ah!” –Quindi, dopo una bella sghignazzata, Anhar avvolse la daga in un panno rosso sangue e fece per allontanarsi, salvo tornare indietro dopo pochi passi. –“Dimenticavo. Al piano di sopra c’è qualcuno di cui devi prenderti cura!” –Disse, rivolto ad Athanor che lo guardò sorpreso, seguendolo lungo le scale di pietra che conducevano alla caverna scavata nella roccia ove dimoravano da anni.

 

Là, adagiato vicino all’ingresso, giaceva il corpo scomposto e spezzato di un ragazzo, il volto massacrato e tumefatto, marcato da lividi, graffi e ustioni.

 

“L’ho trovato sotto un mucchio di macerie.” –Spiegò Anhar. –“È ancora vivo. Resiste, indomito, aggrappato a un filo sottile di speranza!”

 

“Mio Signore, non capisco… cosa dovrei farne?”

 

“Tienilo in vita. Come non mi interessa, purché respiri ancora quando tornerò, e allora mi prenderò cura di lui. Allora lo farò mio. Gemini, in fondo, non ha più bisogno dei miei insegnamenti.” –Ridacchiò, prima di evocare una vampa di fuoco nero e scomparire al suo interno, non prima di aver aggiunto un’ultima istruzione. –“Sia chiaro, se dovesse morire nel frattempo, mi prenderò cura di te. Ma in un modo diverso.” –E scomparve.

 

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: quindici anni prima del Secondo Avvento.

Spazio: una piccola isola del Mar Egeo. Sconosciuta ai più.

Fine.

 

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Capitolo 30
*** Capitolo ventinovesimo: La progenie del mostro. ***


CAPITOLO VENTINOVESIMO: LA PROGENIE DEL MOSTRO.

 

Il suolo tremò ovunque tutto attorno al Santuario delle Origini. Alcune mura crollarono, i bastioni si accartocciarono quasi fossero fatti di carta e il pugno di un gigante li avesse schiacciati, e poi tra le macerie e la polvere, tra l’ombra e il timore di chi osservava, una figura sorse, torreggiando sulle sparute forze dell’Alleanza.

 

Trattenendo il fiato, i Cavalieri e gli Dei temettero che si trattasse di Caos. Per quel che ne sapevano, era un’immensa nube nera, ma nessuno dubitava che, alla fine, sarebbe riuscito a creare un corpo atto a contenerlo, un corpo mostruoso e gigantesco, con cui li avrebbe schiacciati. Ma questa figura, del Deus Otiosus, non aveva niente, era semplicemente un mostro e vomitava un liquido maleodorante che, al contatto con la roccia e con il suolo, sfrigolava, corrodendoli.

 

“Che razza di creatura ha partorito il Primo Santuario?” –Esclamò Cristal, che aveva appena affrontato e congelato Drakon al termine di un estenuante scontro. –“Sembra… un grosso serpente!”

 

“Io vedo una donna… una gigantessa” –Lo affiancò Andromeda. –“Selvaggia, rabbiosa, forse anche sofferente. Con una mano sul ventre, a tenersi l’enorme pancia da cui filtra una luce verdastra…”

 

“Cosa?!” –Rispose l’amico, voltandosi verso di lui e poi di nuovo verso la creatura.

 

“Che orrore!” –Mormorarono altri attorno a loro e Cristal, udendoli, notò che ognuno sembrava vedere qualcosa di diverso. Un serpente, una donna, un gigante, tutte e tre le figure mescolate assieme. Ma tutti concordavano su un aspetto: ella era gravida.

 

“Il suo nome è Echidna!” –Esclamò allora una voce maschile, facendosi avanti. –“E no, non dovete guardare con gli occhi, bensì con i vostri sensi acuti! Può apparire diversa a chiunque la guardi, per confonderci, per frenare le nostre azioni, forse anche per commuoverci…” –Aggiunse Nettuno, gettando un rapido sguardo ad Andromeda, che subito lo scansò. –“Ma non dovete esitare! Quella creatura è il più potente e pericoloso mostro del Mondo Antico, al pari del suo sposo, Tifone, con cui ha generato le peggiori creature!”

 

“Ortro e la Sfinge, Cerbero e l’Idra di Lerna!” –Intervenne Euro. –“Se Eracle non fosse impegnato contro Karkinos ve li elencherebbe uno ad uno, avendoli affrontati quasi tutti!”

 

“E quella pancia gonfia?” –Intuì Andromeda.


“Significa che sta per partorire! E dobbiamo impedirglielo!” –Disse Nettuno, levando alto il tridente luminoso. –“Credo che sia stata lei a generare, su richiesta di Caos, molte delle creature affrontate finora! Per cui, se la uccidiamo, porremo un freno alla marcia dell’oscurità! Cavalieri, Dei dell’Olimpo, so di non potervi chiedere niente, di non avere il diritto di chiedervi niente, per essere stato spesso in contrasto con voi e con gli uomini che difendete, eppure adesso, di fronte a questa minaccia, non posso esimermi dal lottare al vostro fianco. Concedetemi questo onore, ne sarei grato!”

 

“Sono con voi, mio Signore!” –Esclamò subito una voce di donna, rivelando il corpo esile e ferito di Titis, che si fece avanti zoppicando, con l’armatura quasi interamente distrutta dai Rakshasa.

 

“Titis, mia dolce sirena, ancora ti ostini a seguirmi, pur nelle condizioni in cui versi? La tua determinazione è ammirevole. Vorrei poterla ricompensare, un giorno.”

 

“Anche noi combatteremo, Divino Nettuno! Il gelo del Cigno e le catene di Andromeda fermeranno la sposa del mostro!” –Intervennero i Cavalieri di Atena.

 

“E sia!” –Gridò Nettuno, voltandosi verso Echidna, che intanto si stava liberando del tutto dalle macerie, distruggendo una parte del Primo Santuario e palesandosi proprio nello spiazzo che un tempo separava la Porta delle Tenebre da quella del Giorno.

 

Adesso i Cavalieri poterono vederla meglio e rabbrividire. Era una donna sì, una gigantessa, proprio come Atlante, ma non aveva gambe, bensì una lunghissima e rozza coda squamata, simile a quella di un serpente, che a Cristal ricordò Ladone, sebbene Echidna fosse molto più grossa e, giudicò, più pericolosa. Il corpo, non privo di lineamenti femminili, era sbilanciato in avanti da un’enorme pancia, così pronunciata che le squame tendevano a dilatarsi, come bottoni di una camicia allacciata stretta, e tra gli interstizi che le separavano filtrava una luce verdognola.

 

Subito l’Imperatore dei Mari si fece avanti, brandendo il tridente e puntandolo contro la bestia immonda, liberando un fascio di energia che venne però deviato dalle scaglie che la rivestivano, simili a grossi scudi di color oro sporco. Anche Euro la investì con un turbine d’aria ma Echidna nemmeno se ne curò, lasciando che le strigliasse i capelli putridi, spazzando via polvere e muffa, quasi inebriandola per quell’inaspettata sensazione di freschezza. Fu così, stupendolo, che allungò una mano verso il figlio di Eos e per un pelo non lo afferrò, lesto, quest’ultimo, a sbattere le ali e volare più in alto, dove la Dea non poté arrivare.

 

O, quantomeno, fu quel che Euro credette.

 

Piegandosi sulla coda serpentiforme, Echidna spiccò un balzo, allungandosi verso il cielo e afferrando il Vento dell’Est per un piede, trascinandolo a sé, di fronte allo sguardo atterrito di Nettuno e dei Cavalieri di Atena, che subito si fecero avanti per portargli aiuto. In un attimo le Catene di Andromeda, il gelo del Cigno e il tridente di Nettuno sfrecciarono avanti, impattando contro la corazza di squame che vestiva la sposa di Tifone e, sebbene non riuscissero a ferirla, la fecero barcollare, e poi cadere di lato, su quel che restava delle mura di confine del Primo Santuario. Ma anche questo non bastò a farle mollare la presa.

 

“Copritemi!” –Urlò l’Imperatore dei Mari a Cristal e Andromeda, prima di scattare avanti.

 

“Mio signore!” –Gridò Titis, sgambettandogli dietro.

 

Un rapido guizzare della coda di Echidna spinse via la sirenetta, spezzandole un paio di costole, ma Nettuno la evitò con un balzo, piantandoci sopra il tridente e servendosene per lanciarsi in avanti, diretto al braccio destro della Dea. In quel momento Cristal e Andromeda liberarono i loro attacchi, mirando al volto di Echidna.

 

Avevano imparato, in passato, che spesso gli occhi erano il punto debole di creature così grandi e, all’apparenza, invincibili. Ma la sposa di Tifone, sorprendentemente, non parve troppo scocciata da quell’assalto, limitandosi a coprirsi con il braccio ancora libero, che venne rivestito da un lieve strato di ghiaccio e avvolto nelle catene. Le bastò uno strattone per sollevare Andromeda da terra e tirarlo a sé.

 

“Andromeda!!!” –Gridò Cristal, ma l’amico non sembrava sorpreso, avendo intuito, quasi l’avesse visto nella mente, la mossa dell’ancestrale creatura e avendo deciso di servirsene per avvicinarsi. Espanse così il cosmo, liberando il vento dal bagliore rosa di cui era padrone.

 

“Esplodi, Nebulosa di Andromeda!!!” –Esclamò, mentre, ancora in volo, piombava su Echidna.

 

La violenta corrente d’energia investì il volto della sposa di Tifone, strappandole più di un gemito di fastidio e dolore, mentre le scaglie che rivestivano il braccio vibravano e si scheggiavano in più punti, forzandola a muoverlo di colpo, trascinando Andromeda con sé, in basso, e schiacciandolo a terra.

 

Di quel momento di confusione approfittò Nettuno, arrampicandosi sul ventre gravido della Dea e lanciandosi poi sul pugno ancora chiuso, dentro cui Euro si dimenava vanamente. Conficcò il tridente nel palmo della mano, in basso, liberando scintille di energia, incitando il giovane Dio a fare altrettanto, a bruciare tutto quel che rimaneva del suo cosmo. Insieme, in un rogo dai bagliori celesti e azzurri, Euro e Nettuno fecero ardere la mano di Echidna, strappandole un violento grido di dolore, prima che la creatura sollevasse il braccio per poi calarlo di colpo.

 

Lo sbatté più volte al suolo, quasi volesse spegnere quelle fiamme con la gelida oscurità dei suoi sotterranei, fino ad aprire una voragine in cui Euro e Nettuno precipitarono. Soltanto allora, guardandosi la mano ustionata e sanguinante putrido sangue verdognolo, Echidna si rilassò, riportando l’attenzione sul resto del campo di battaglia.

 

Cristal, nel frattempo, aveva soccorso Andromeda, aiutandolo a rimettersi in piedi. Con un veloce colpo d’occhio, il Cigno si rese conto delle disperate condizioni in cui versavano le forze dell’Alleanza: Eracle, poco distante, stava guerreggiando con Karkinos, mentre gli Heroes abbattevano gli ultimi Sparti. Di Asher e degli altri Cavalieri di Atena, nessuna traccia o deboli sprazzi di cosmo che, nel marasma che lo circondava, non riuscì a capire da dove provenissero. Persino Ioria e Virgo erano scomparsi e, cosa ancor più preoccupante, persino Atena.

 

Inspirando più volte, il ragazzo richiamò alla mente gli insegnamenti del Maestro dei Ghiacci e di Acquarius, ritenendo che mai come in quel momento doveva saperli mettere in pratica. Il dolore, le lacrime, il senso di perdita e di smarrimento, per tutto quello ci sarebbe stato tempo in seguito. Adesso doveva soltanto rialzarsi e combattere, se voleva che un seguito ci fosse, alla sua storia e a quella degli altri eroi che quel giorno infinito avevano rischiato tutto.

 

“Sono con te!” –Gli disse Andromeda, intuendo i suoi pensieri. Cristal gli afferrò la mano e lo tirò su, proprio mentre Echidna, ripresasi, iniziava ad avanzare verso di loro, strisciando, strusciando il suo rozzo corpo sul terreno e spazzando via tutto quel che le si poneva davanti, fossero rocce, nemici o persino Guerrieri del Caos.

 

Li notò, e dovettero sembrare così piccoli rispetto a lei. Un puntolino rosa e uno bianco, le cui aure però andavano espandendosi. In un angolo della sua mente malata non poté fare a meno di pensare che proprio aure simili, di tale intenso splendore, avevano ucciso il suo adorato sposo. Ben due volte. E lei non aveva potuto salvarlo, costretta ad aspettare, a languire nel grosso uovo in cui l’amato l’aveva confinata, per nasconderla agli occhi degli Dei e dei loro Cavalieri cacciatori di mostri e per permetterle un giorno di vivere la sua vita, vendicandolo e sterminandoli tutti.

 

Quel giorno, per Echidna, era arrivato.

 

Spalancando le braccia, e gonfiando i muscoli al punto che molte scaglie schizzarono via dal suo grosso corpo, la Madre ancestrale gridò, invadendo l’intero deserto del Taklamakan con il suo urlo di guerra. Attirate dal suo richiamo, tutte le creature infernali ancora vive si radunarono attorno a lei o sulle sue spalle, appollaiandosi persino tra i suoi capelli. C’erano viverne, grifoni, arpie, valravn, e poi grossi cinghiali dalle zanne intrise di sangue, warg, felini oscuri e serpi velenose.

 

 

Storditi, i Cavalieri e degli Dei si portarono le mani alle orecchie, crollando a terra o barcollando, devastati da quel furioso attacco sonoro che non accennava a smettere. Le sacerdotesse e gli apprendisti di Atena caddero travolti da spasmi violenti, il sangue che usciva fuori dai loro occhi e dal naso; le spade e le lance andarono in frantumi; il suolo tremò di nuovo, un’ultima volta, prima che la coda serpentiforme di Echidna lo battesse, liberando un ampio semicerchio di fronte a lei.

 

Cristal afferrò Andromeda appena in tempo, sollevandosi sulle ali delle loro corazze divine, quel poco di cui riuscirono, prima che le fitte all’apparato uditivo non li costringessero a tornare a terra. Ma per allora Echidna aveva smesso di gridare, adesso sembrava infatti si stesse lamentando.

 

China all’indietro, sulla propria stessa coda, la sposa di Tifone si portò una mano al ventre, dove, tra le scaglie vibranti, la luce verdognola aumentava sempre di più, fino a scagliarle in aria, distruggendole. E allora i Cavalieri di Atena capirono quel che stava per accadere.

 

“Per l’Olimpo!” –Esclamò Ermes, planando accanto a loro. –“Sta per partorire!”

 

E in effetti, in quel momento, la grossa pancia di Echidna si aprì, in un ventaglio di luce verdastra, che accecò i Cavalieri, costringendoli a sollevare un braccio. Durò un momento, quel bagliore velenoso, e quando scemò tutti videro che il ventre del mostro si era sciolto, mescolandosi alle creature che aveva ospitato fino ad allora e che adesso si muovevano in una tetra melma da cui, ringhiando e dimenandosi, stavano venendo fuori. Figli dell’oscurità pronti a portare terrore nel mondo.

 

“Quale orrore!” –Mormorò Andromeda, raggiunto anche da un nauseabondo odore.

 

“Cerchiamo di colpirle adesso che sono ancora vulnerabili!” –Disse Ermes, spalancando le ali della Veste Divina e librandosi in aria, con il Caduceo stretto in mano. Diresse una raffica di fasci di energia contro la massa molliccia nella pancia di Echidna, ma quel gesto fu il segnale per scatenare tutte le creature riunitesi attorno alla Madre a sua difesa. Il Messaggero degli Dei venne investito da ogni lato da mostri alati, che tentarono di beccarlo, artigliarlo e azzannarlo, costretto a bruciare il proprio cosmo e a liberare una tempesta di energia, con cui le spazzò via, facendone precipitare a terra le carcasse.

 

Proprio allora, dal ventre di Echidna, uscirono le bestie che aveva partorito, scivolando sul terreno arido e lasciandosi dietro una scia di melma nera, fino a rivelare le loro fattezze. Erano tre, una più orripilante dell’altra: la prima un serpente, anzi un mostro serpentiforme con ben tre teste, strette e lunghe, che subito guizzarono in ogni direzione, puntando i loro occhi giallastri sui Cavalieri e sugli Dei che si stavano riunendo attorno; la seconda creatura era un gallo enorme, grosso come Drakon, con la coda di serpente e la lingua biforcuta, mentre la terza era una gigantesca tartaruga, bardata per la guerra.

 

Inorridendo, Andromeda si chiese con quale perversa fantasia la Madre progettasse i propri figli, proprio mentre la tartaruga rivelava il muso dalle fattezze leonine e dal suo guscio spuntavano robusti aculei e dalla cima della coda una lancia dalla punta affilata.

 

“Per non farci mancare niente…” –Ironizzò Cristal, strappando un sorriso all’amico.

 

Fu in quel momento che la marea d’ombra, che pareva essersi acquietata, riprese ad avanzare con violenza, riversandosi fuori da ogni breccia aperta nel muro del Primo Santuario, incitando le creature demoniache a farsi avanti. Solo per trovarsi la strada sbarrata da una muraglia di fulmini azzurri.

 

Sollevando lo sguardo, Cristal e Andromeda videro Zeus scendere su di loro, avvolto nel suo meraviglioso cosmo adamantino. Nonostante le fatiche della guerra, il Signore dell’Olimpo riusciva ancora a risplendere come il sole di primavera.

 

“Cavalieri di Atena e dell’Olimpo! Figli e congiunti miei! Prestate ascolto! Dobbiamo unire le nostre forze per quest’ultima battaglia! Possiamo vincere, come vincemmo Tifone sul Monte Sacro, in un solo modo: combattendo assieme!” –Tutti, a quelle parole, annuirono, iniziando a far brillare i loro cosmi. –“Efesto, occupati della coccatrice! Ma sta’ attento a non farti alitare in faccia, potresti divenire una statua di pietra!” –Sbattendo un pugno nel palmo dell’altra mano, il Dio della Metallurgia schizzò avanti, piombando come una cometa di magma ardente contro il ventre dell’enorme gallo, gettandolo a zampe all’aria. –“Ermes! Mio fido! Tieni a bada queste bestie volanti! Impedisci loro di distrarre chi combatte dal proprio nemico!” –Ermes prontamente assentì, turbinando nel cielo e falciando le viverne e tutte le loro sorellastre mostruose. –“Heroes di Eracle! So che siete stanchi per gli scontri con gli Sparti, ma vi chiedo di occuparvi di Zahhak! Le sue tre teste velenose non potranno opporsi al vostro valore!” –Subito Neottolemo, Marcantonio e Nestore circondarono il demone iraniano della tempesta, avvolti nei loro cosmi luminosi.

 

“Affronterò io la Tarrasque!” –Intervenne allora Eracle, facendosi avanti. La Glory era danneggiata in più punti, da lunghe strisce che aveva grattato via il colore e anche pezzi di metallo, dove Karkinos lo aveva agguantato, ma alla fine il Campione di Tirinto era riuscito ad averne ragione e adesso stringeva in ciascuna mano le braccia del grosso granchio, agitando le chele verso la tartaruga corazzata. –“Un tempo vinsi l’animale più veloce del mondo, vediamo come lotta il più lento, invece!”


“Fa’ attenzione, figlio mio! Tutto si può dire tranne che quel mostro sia indifeso!” –Esclamò Zeus, mentre Eracle si lanciava avanti, allungando le chele verso il volto leonino della Tarrasque che subito ruggì, rispondendo con un rapido colpo di coda. –“In quanto a me, terrò a bada l’esercito delle ombre, ricacciandolo nel profondo santuario da cui è appena uscito!”


“Da solo, mio Signore?” –Chiesero subito Cristal e Andromeda.

 

“Il Signore dell’Olimpo non è mai solo!” –Parlò la voce pacata di Ganimede, apparendo a fianco di Zeus, nella sua armatura celeste.

 

“Ti ringrazio, Coppiere degli Dei!” –Sorrise il Nume, prima di guardare i Cavalieri di Atena un’ultima volta. –“A voi tocca il compito più periglioso. Ma conosco il vostro valore e se c’è qualcuno che può aver ragione della Madre dei Mostri, quelli siete voi! Fate in fretta però, vedete quei tentacoli? Temo che ella, sfruttando chissà quale perversa energia, possa procreare ancora!” –Aggiunse, indicando dei filamenti di tenebra che dalla pancia della creatura scendevano, insinuandosi nel terreno, come viticci oscuri, alla ricerca di nutrimento.

 

“A ognuno il proprio compito!” –Esclamò Cristal, espandendo il cosmo glaciante. –“Vediamo come se la cava contro le nevi eterne della Siberia! Polvere di Diamanti!” –E diresse la tempesta di ghiaccio contro la pancia sventrata di Echidna, che all’inizio sussultò, ma poi le scaglie iniziarono a rivestirla, ricucendo e cicatrizzando lo squarcio.

 

“Attento!” –Intervenne Andromeda, mentre la grossa coda spazzava il suolo, sollevandosi e preparandosi per schiacciare il Cigno. –“Mia catena, difendici!” –Subito la versatile arma scintillò nell’aria caliginosa, assumendo la forma di una rete per rapaci, issata proprio sopra le loro teste, per proteggerli dall’assalto, che più volte si abbatté su di loro.

 

Stringendo i denti, Andromeda impresse tutto il proprio cosmo alla catena ma, nel farlo, non riuscì a coordinare le immagini che gli stavano invadendo la mente. Passato, presente e futuro si mescolarono dentro di sé, davanti a sé, troppo velocemente per poterli differenziare. Pegasus e Atena immersi in una melassa nera che li stava fagocitando; l’Egida che andava in frantumi, precipitando in un abisso assieme al Grande Tempio di Atene; una donna, di bianco vestita, in lacrime su un altare di pietra; due occhi rossi che fiammeggiavano nell’oscurità; gli Heroes che cadevano sotto una pioggia di dardi neri; suo fratello che lo chiamava, lo proteggeva e infine piangeva inginocchiato davanti a una croce di legno. E Nemes che moriva.

 

Nemes? Sgranò gli occhi Andromeda, inorridito.

 

Proprio in quel momento la massiccia coda di Echidna, anziché calare dall’alto, si abbatté su di loro di lato, spazzando via i Cavalieri di Atena e la loro difesa.

 

“Andromedaaa!!!” –Gridò una voce di donna.

 

Voltando la testa indolenzita, il ragazzo vide Nemes (seminuda, rasata, con il corpo segnato da piaghe, ustioni e ferite aperte) che barcollava verso di lui, sorreggendosi a Castalia in armatura d’oro. Reda e Salzius, alle loro spalle, erano ridotti a un ammasso di carne bruciata e si trascinavano solo con la forza di volontà.

 

“Nemes! Cavalieri! State indietro!” –Gridò Andromeda, mentre la coda di Echidna frusciava di nuovo nell’aria, calando sui due fedeli di Atena, solo per venir intercettata da una lunga asta di energia.


“Al tuo posto, biscione!” –Esclamò Toma di Icaro, ergendosi a difesa di Andromeda e Cristal, il braccio destro levato per sostenere la lancia energetica. Ma bastò che Echidna aumentasse la pressione dell’assalto per schiacciare il Cavaliere Celeste al suolo, imbrattandogli il corpo con il liquido venefico che gocciolava dalle sue scaglie. A fatica, tossendo e sputando, Toma cercò di tenere la coda a distanza ma il solo sfiorarla gli causava ustioni atroci alle mani.

 

“Tomaaa!!!” –Strillò Castalia. Lasciò la presa su Nemes e scattò avanti, il pugno pregno di energia cosmica, liberando l’assalto delle stelle cadenti che aveva insegnato a Pegasus, solo per osservarlo rimbalzare sulla pelle squamata di Echidna. Con un rapido guizzare della coda, anche la Sacerdotessa dell’Aquila venne spinta via, la corazza d’oro che scricchiolava, scheggiandosi in più punti.

 

Rimase solo Nemes, tremante, di fronte a Echidna, che la osservò dall’alto con occhi intrisi di veleno, prima di allungare le braccia su di lei. La ragazza distolse lo sguardo, cercando Andromeda tra la polvere e la devastazione, per rivolgergli un saluto, e solo all’ultimo s’avvide delle due figure che erano scattate di fronte a lei, dando fondo a quel che rimaneva delle loro esigue forze.

 

“Reda! Salzius!” –Gridò Nemes, osservando Echidna afferrarli entrambi, piantare le rozze unghie avvelenate nei loro corpi e stringere. Strinse finché non li ebbe ridotti a un’informe poltiglia che poi vomitò al suolo, di fronte allo sguardo terrorizzato della ragazza, che poté soltanto urlare, prima che un muro di catene sorgesse di fronte a lei e Andromeda la afferrasse, portandola fuori dal raggio d’azione della coda.

 

“Prudenza, Andromeda!” –Esclamò Cristal, raggiungendo l’amico. –“So che è difficile, ma rimani freddo!”

 

Il compagno annuì, depositando Nemes a terra e scambiando con lei una veloce occhiata che voleva significare tante cose, forse troppe. A quel punto non avevano neppure bisogno di dirsi alcunché, ben conoscendo ognuno i sentimenti dell’altro.

 

Singhiozzando, la ragazza annuì, lasciandogli la mano.

 

“Uccidi la serpe e torna da me!”

 

“Dobbiamo tenerla a distanza, Andromeda!” –Disse Cristal, che aveva analizzato il comportamento di Echidna e i suoi punti di forza.

 

“Posso provare a imbrigliarla con la mia catena, dandoti il tempo di colpirla con il tuo gelo! Se ha vissuto con Tifone, nelle caverne fiammeggianti sotto l’Etna, dubito che sopporterà temperature troppo fredde!” –Rispose l’amico, espandendo il cosmo e scattando avanti, liberando la catena nella sua ultima conformazione. –“Melodia scintillante di Andromeda!

 

Migliaia di strali argentei fendettero l’aria, assumendo tante configurazioni diverse quante ritennero necessarie per contenere la furia di Echidna. Spire di mithril avvilupparono la sua grossa coda, tagliole giganti le seguirono, azzannando e spaccando le squame di Echidna, mentre lance e boomerang le massacravano il corpo e una rete da caccia si chiudeva su di lei, lasciando libera soltanto la grossa testa furibonda.

 

“Ora!!!” –Gridò Andromeda e vide l’amico passargli sopra, scivolando sulla catena tesa e dandosi la spinta per balzare in alto, sostenuto dalle ali del Cigno.

 

La croce del Nord brillò attorno a lui mentre il cosmo di ghiaccio si radunava sulle mani, chiuse a pugno sopra la testa, e poi fluiva fuori, in una cascata di bianco e argento. –“Per il Sacro Acquarius!” –Gridò Cristal, dirigendo il getto di energia congelante verso il volto di Echidna. –“È fatta! Non può scappare!”

 

Ma in quel momento la scarmigliata chioma della sposa di Tifone si agitò e i capelli che la componevano si allungarono a proteggerle il viso, sibilando come serpi di tenebra. Una barriera d’ombra su cui il gelo della Siberia impattò, disintegrandola, ma permettendo a Echidna di non subire troppi danni e rifiatare. Con un moto di rabbia, liberò le braccia dalla morsa delle catene, afferrò Cristal, che stava cercando di volare via, e gli spezzò le ali (e forse anche un paio di ossa), prima di tirarlo contro Andromeda e atterrarlo. A quel punto, anche la grossa coda era ormai libera di dimenarsi, distruggendo le opprimenti catene e abbattendosi sui Cavalieri di Atena.

 

***

 

Quando rinvenne, Nettuno capì di stare sprofondando. Ma non nei mari azzurri in cui aveva a lungo vissuto, e che lo avevano cullato, lenendo ogni suo affanno, bensì in una melma nera, dall’incredibile fetore di morte. Un fetore che, in passato, aveva sentito soltanto quando Atlantide si era inabissata, trascinando con sé il suo prezioso consigliere, il suo amato figlio e tutto il resto del popolo che aveva creduto in lui e che invece era stato ucciso dalla sua brama di potere. Per cosa poi? Per la conquista dell’Attica? A ripensarci, in seguito, era scoppiato a ridere al pensiero che proprio lui, l’Imperatore dei Mari, avesse perso tutto per una zolla di terra. Magari, se fosse stato più accorto, avrebbe percepito la rinascita di Ponto o di Forco, quelli sì che erano i suoi veri rivali.

 

Ma Ponto, Forco e persino Oceano erano morti, assieme a tutti i loro fedeli. Rimaneva soltanto lui, l’ultimo Signore dei Mari, e forse quell’eredità significava qualcosa. Qualcosa deve significare! Si disse, espandendo il cosmo e liberandolo di colpo, dilaniando le tenebre in cui era immerso.

 

Respirando a fatica, si trascinò nella melma, riuscendo a mettersi in piedi, e si guardò attorno, per quanto difficile fosse vedere qualcosa nella tenebra che lo circondava.

 

Era in un ampio stanzone, grande quanto il suo primo palazzo su Atlantide, sebbene il soffitto fosse molto basso. L’unica fonte di luce proveniva da alcuni bozzoli disseminati lungo le pareti, dal cui interno sembrava filtrare un pallore verdognolo, simile a quello che aveva visto, poco prima, nella pancia di Echidna. Che fosse dunque da quei nidi che proveniva la sua forza?

 

Strattonando le gambe per liberarle dalla torbida sostanza in cui erano immerse, il Signore dei Mari avanzò, concentrandosi per richiamare a sé il suo tridente, caduto assieme a lui là sotto. E allora si ricordò di Euro, che di certo doveva essere da qualche parte, avvolto in quei vischiosi filamenti di tenebra che, come radici, calavano dal soffitto, espandendosi poi in tutto il salone.

 

“Che creatura orribile!” –Mormorò Nettuno.

 

Quasi avesse udito la sua voce, uno dei bozzoli di tenebra tremò, incuriosendo il Nume, che si avvicinò con circospezione. Allungò la lancia, per tastarne la consistenza e tagliare qualche filamento, ma non vide altro che ombra. Eppure, in quell’ombra, gli sembrò di notare qualcosa muoversi, un’ombra più scura delle altre e che, a volte, emetteva un bagliore scarlatto.

 

“Nettuuunooo…” –Gli parlò una voce che, con suo grande stupore, capì provenire da quella tenebra sanguigna. –“L’ultimo Re dei Mari. Sei venuto a morire anche tu? Sei venuto a offrire la tua vita in pagamento per tutte quelle che hai sprecato?”

 

“Chi sei?”

 

“Chi sono? O chi ero? Non ha importanza, ormai.” –Replicò la voce. –“Ho avuto molte identità, troppe, e a stento le ricordo. Mi hanno chiamato Anhar, quando nacqui; fratello, quando crebbi; traditore, quando decisi; flagello di uomini e Dei, quando agii; Maestro di Ombre, quando compresi; ma per tutto questo tempo non ho mai smesso di essere il braccio armato di Caos. L’araldo dell’ombra.”

 

“Tu sei il Caduto!” –Realizzò infine Nettuno, indietreggiando di un passo, l’arma ancora puntata verso la massa informa di tenebra.

 

“Così pare…” –Tossì la voce, emettendo un altro bagliore rossastro. –“In effetti, si può dire che sia davvero caduto in basso, diventato cibo per la Madre. Eppure, se quel che rimane della mia antica forza può servire per alimentare la vittoria di Caos, io darò fino all’ultima stilla di energia! Ho aspettato per una vita intera, per tutte le mie vite, il giorno dell’ira e non mi tirerò indietro.”

 

“Sei folle!”

 

“Disse colui che se ne stava da solo, ferito e debole, nell’alveo ove nascono i mostri che dominano gli incubi degli uomini.” –Ridacchiò Anhar, prima che la sua voce si riducesse a un fioco bisbiglio e i filamenti di tenebra lo avviluppassero del tutto. –“Sei in buona compagnia, in fondo.”

 

Voltandosi, Nettuno capì cosa intendesse dire. Percepì, anche se flebili, le tracce degli altri Dei e dei loro Cavalieri, là sotto rinchiusi, e capì cosa doveva fare.

 

“Non ho potuto salvare Tritone né il mio popolo ma posso ancora dare una speranza alla Terra!” –Disse, espandendo il proprio cosmo. Ancora e ancora. Come aveva visto fare a Pegasus e ai Cavalieri di Atena e come non aveva mai creduto di poter arrivare a fare.

 

Il tridente brillò nelle sue mani, caricandosi dell’energia cosmica del Signore dei Mari, che lo roteò e lo conficcò infine nella massa di viticci che scendeva dal soffitto, facendoli vibrare. Subito i tenebrosi filamenti vennero percorsi dalle scariche energetiche, che li sfaldarono, li recisero e permisero infine a Nettuno di vedere gli stanchi volti di coloro che erano stati catturati. Uno dopo l’altro, Pegasus, Atena, i Cavalieri d’Oro, i Seleniti, persino Demetra, riapparvero davanti agli occhi soddisfatti di Nettuno, che non interruppe il fluire del suo cosmo finché l’ultimo combattente non fu liberato.

 

“Che… che è successo?” –Borbottò Arawn, cercando subito i suoi levrieri, che però erano stati divorati dall’ombra. Solo Rhiannon le frusciò accanto, le candide vesti ormai sporche e logore, il volto però ancora magnifico e giovane.

 

“Siamo stati infettati dall’ombra, Signore di Annwn!” –Esclamò allora Nettuno, il cui cosmo azzurro vorticava nel salone, andando a concentrarsi tra le mani del Nume, che aveva liberato il suo più prezioso manufatto. –“Permettetemi di purgarvi con le mie chiari, fresche e dolci acque!” –Nel dirlo, sollevò le mani, mostrando una grossa conchiglia ripiena di cosmo. –“Corno di Tritone!” –E un fiume di energia azzurra ne fuoriuscì.

 

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Capitolo 31
*** Capitolo trentesimo: Uomini, Dei e mostri. ***


CAPITOLO TRENTESIMO: UOMINI, DEI E MOSTRI.

 

Quando Echidna uscì dalla terra, cacciando fuori la testa come un verme, Amon Ra sarebbe voluto intervenire per annientarla. Quel mostro le ricordava troppo Apopi e, anche se aveva fattezze più femminili, era certo possedesse la stessa perversa crudeltà. Ma i gelidi venti di Whiro non gli lasciavano margine d’azione, costringendolo a concentrarsi sul Dio della Morte e dell’Oscurità dei popoli della Polinesia, e in simili scontri erano bloccati Phoenix e Andrei. Per cui, a malincuore, il Sole d’Egitto dovette distogliere lo sguardo, augurando la vittoria ai Cavalieri di Atena.

 

***

 

Strattonandolo con la catena, Andromeda riuscì a trascinare via Cristal, mezzo secondo prima che la coda di Echidna li schiacciasse, nella polvere e nel veleno. L’amico era ancora intontito per la brutta caduta e le ferite aperte sulla schiena, dove le unghie del mostro avevano affondato, non promettevano niente di buono. Ma per le cure ci sarebbe stato tempo, forse, in seguito. Adesso dovevano combattere e dovevano farlo loro. Erano finiti i tempi in cui uno dei cinque amici poteva restare e lasciare che gli altri proseguissero o si riposassero. Quel gioco, nel Giorno dell’Ira, non funzionava più. Andromeda l’aveva capito, anche se avrebbe voluto disporre di più tempo, per scavare tra le immagini confuse che gli affastellavano la mente di continuo.

 

Che cosa vedeva? Ricordi del passato o frammenti di futuro? E di quale futuro? Il fatto stesso che le immagini cambiassero, assieme alle sensazioni che portavano con sé, forse indicava che il futuro non era stato ancora scritto, che Caos poteva essere vinto, che loro potevano sopravvivere. Eppure, per quanto variegato fosse il mosaico di scene che gli riempiva la mente, alcune tornavano sempre.

 

Sospirando, e cacciando via le lacrime, Andromeda si tirò su, espandendo il cosmo e generando una nube dal colore rosato, dentro cui scintillavano sprazzi d’argento ogni volta in cui muoveva la catena. Echidna lo notò, si leccò le nere labbra carnose e poi si tuffò su di lui, le braccia tese avanti, gli unghioni pronti per affondare in quel gracile corpo.

 

Catena di Andromeda! Non abbandonarmi adesso! Proteggimi e proteggi il mio amico!” –Disse il Cavaliere, liberando migliaia di strali luminosi, che aumentarono sempre più all’espandersi del suo cosmo.

 

Nemes, poco distante, osservò ammirata lo splendore dell’aura del ragazzo, così vivida, così intensa, così piena d’amore. Per lei, per gli amici, per Atena e per i popoli della Terra. Un cuore in grado di amare a tal punto, persino i suoi stessi nemici, non sarebbe mai stato sconfitto. Di questo la Sacerdotessa si disse certa, prima di perdere i sensi.

 

Fu proprio quel bagliore a risvegliare Cristal, in tempo per vedere le aguzze punte della Catena di Andromeda mitragliare le mani, le braccia, persino il viso di Echidna, falciando i suoi ribelli capelli di serpe, scheggiando le scaglie protettive e giungendo perfino a infilzarle un labbro. Rapide, sfuggenti, le maglie in puro mithril colpivano e svanivano, forti di un’esperienza di battaglia maturata in anni di scontri e, forse, anche di una mai del tutto padroneggiata intuizione.

 

“Meraviglioso…” –Mormorò il biondino, mettendosi in piedi accanto all’amico, che, forte proprio dei suoi insegnamenti, non si distrasse, limitandosi a sorridere mentre continuava a tempestare Echidna con le sue catene. –“Il nono senso… Andromeda, tu sei andato oltre.”

 

“Puoi farlo anche tu. Lo farai. Io… ti ho soltanto aspettato!”

 

A quelle parole, Cristal annuì, sollevando le braccia sopra la testa e socchiudendo gli occhi, proprio come i suoi maestri gli avevano insegnato. Tutto il resto, gli scontri che infervoravano attorno a loro contro la progenie di Echidna, sarebbe rimasto al di fuori, persino Flare. Proprio per tornare da lei, Cristal avrebbe lottato fino alla fine.

 

“Scorrete, divine acque!” –Esclamò, riaprendo gli occhi e sbattendo i pugni davanti a sé, liberando un devastante fiume di ghiaccio e cosmo.

 

Echidna tentò di ripararsi con la coda, ma il martellare continuo delle catene di Andromeda rese lenti i suoi movimenti, quasi goffi, riuscendo a portarsela davanti solo ad attacco iniziato, quando già il primo getto di energia l’aveva raggiunta in faccia, strappandole un grido furioso. La sua pelle e il suo cosmo, abituati all’estremo calore dell’Etna, impedirono che il suo volto divenisse una machera di ghiaccio, ma l’intera guancia destra, l’orecchio e ciuffi di capelli si irrigidirono, spaccandosi poco dopo e riversando fuori schizzi di sangue verdastro, che le colò lungo il corpo, provocandole spasimi e violenti colpi di tosse.

 

Andromeda afferrò l’amico e si buttarono a terra, mentre la coda del mostro saettava sopra di loro, strusciando sulla sua corazza e portandogli via un pezzo d’ala. Sempre meglio che la testa di Cristal! Si disse, rialzandosi all’istante, proprio mentre la squamosa protuberanza di Echidna tornava indietro, furiosa.

 

“Resta giù!” –Disse, scattando avanti e liberando le sue catene, che si arrotolarono all’estremità della coda, imbrigliandola quel tanto che gli bastò per saltare in alto e farsi trascinare dal movimento di ritorno della stessa, atterrandoci sopra.

 

“Andromeda!!!” –Gridò Cristal, tirandosi su a fatica e osservando il ragazzo che correva lungo il corpo deforme di Echidna, usando le catene per afferrarle una mano e salire ancora più su. –“Sta’ attento, amico mio!” –Aggiunse, mentre la Madre lo individuava, allungando l’altro braccio per afferrarlo. –“Tieni le tue mani lontane da lui!” –Esclamò allora il Cigno, scattando avanti, con il braccio destro teso e intriso di gelida energia cosmica. –“Spada di ghiaccio!” –E lo calò, liberando un unico devastante fendente che si abbatté sulle dita di Echidna, mozzandogliele e congelandole le estremità.

 

“A buon rendere!” –Commentò Andromeda, che intanto stava scalando l’altro braccio della sposa di Tifone, incurante degli schizzi di veleno che fuoriuscivano tra le scaglie. Aiutandosi con l’ala ancora integra, riuscì a portarsi sulla sua spalla sinistra, passando le catene attorno al suo enorme collo, più e più volte, finché il suo cosmo poté generarne, poi, mentre Echidna agitava le braccia per strappar via quella catenella, si lasciò cadere sulla sua schiena, puntando i piedi sulle scaglie per tenersi in equilibrio. –“Adesso!” –Gridò, liberando le scariche di energia ad alto voltaggio, che percorsero le sue armi, investendo l’ancestrale creatura e facendola sussultare.

 

“Ci sono!” –Tuonò il Cigno, avvolto nel suo cosmo biancastro. Lo concentrò sul pugno destro e poi lo portò avanti, liberando un unico violentissimo flusso di energia congelante che raggiunse Echidna in faccia.

 

Per qualche secondo restarono così; Andromeda, sulla schiena della bestia, con il cosmo portato al parossismo, concentrato nel liberare la corrente energetica tramite la catena, e Cristal, dall’altro lato, intento a convogliare tutto il gelo che seppe produrre, superando i limiti stessi della scienza e della conoscenza. Entrambi, in quel momento, seppero di aver raggiunto e superato il Nono Senso. Entrambi, in quel momento, si sentirono due Divinità.

 

Con uno schiocco rumoroso, la testa di Echidna schizzò in alto, ridotta ormai a un rozzo blocco di ghiaccio, mozzata dalle intense folgori di Andromeda. Il resto del corpo sussultò per un istante, mentre l’allievo di Albione precipitava a terra, riuscendo a frenare la discesa conficcando le catene nella schiena del mostro. Ma poi anche la schiena, e tutto il resto di quell’infame creatura, caracollò, inclinandosi all’indietro, proprio su Andromeda, che perse l’appiglio e stramazzò a terra.

 

Con qualche osso rotto e la schiena dolorante, il ragazzo dai capelli verdi non ebbe bisogno di interpellare le visioni che Biliku gli aveva lasciato in dono, per sapere quel che sarebbe accaduto. Schiacciato da un’enorme donna serpente è in fondo un modo come un altro di morire! Si disse, proprio mentre, con la coda dell’occhio, vide una scia bianca e azzurra scivolare sul suolo, sfrecciando verso di lui.

 

Fu solo quando sentì i primi brividi di freddo che capì e vide una cupola di ghiaccio sollevarsi a sua difesa. Cristal lo abbracciò in quel momento, tenendolo stretto, mentre con il braccio ancora libero, levato in alto, evocava il potere dei ghiacci eterni per riparare entrambi.

 

“Una variante della Bara di Ghiaccio!” –Commentò, sperando che non si rivelasse un feretro per nessuno dei due.

 

Il corpo di Echidna si schiantò in quel momento su di loro, costringendo il Cigno a un enorme sforzo, piegato su un ginocchio, forzato a usare anche la seconda mano. Ovunque, attorno a loro, il ghiaccio ribolliva, corroso e liquefatto dal velenoso sangue e dai liquidi interni che stavano straboccando dal corpo decapitato della sposa di Tifone. L’aria, nel giro di poco, divenne irrespirabile in quell’angusto spazio, facendo tossire e lacrimare entrambi, soprattutto Cristal, che era più esposto.

 

Schizzi di veleno lo raggiunsero sulle braccia, annerendo e corrodendo l’armatura, ustionandogli la pelle al di sotto. Qualche goccia gli bruciò i bei capelli biondi, scivolando poi lungo la guancia e lasciandogli una strinatura violacea, mentre Cristal stringeva i denti, rantolando e trattenendo il dolore. Fu in quel momento che Andromeda fece detonare il suo cosmo, che esplose a raggiera, squassando il suolo e gettando ovunque pezzi di terra, roccia, gelo e le interiora di Echidna. Dopo di che, quando furono liberi, si accasciò sull’amico indebolito, crollando assieme tra le macerie.

 

“Cristal…” –Ansimò, scuotendo il compagno, il cui cosmo andava affievolendosi. –“Cristal, svegliati! Non lasciarmi! Non puoi abbandonarci così!” –Ma il Cigno non accennava a riaprire gli occhi.

 

Andromeda si guardò intorno, cercando qualcuno che potesse aiutarli. Ma Atena era scomparsa, Zeus stava lottando contro l’Armata delle Tenebre e tutti gli altri Dei erano impegnati in battaglia; distrarli avrebbe potuto essere loro fatale. Per cosa poi? Per salvare uno tra i tanti caduti in quella giornata senza sole?

 

No, si disse Andromeda, afferrando la testa dell’amico e infondendogli il proprio cosmo. Tu non cadrai quest’oggi, Cristal. Io l’ho visto! Aggiunse, liberando una scarica di energia che lo scosse, facendolo rinvenire. Non sarai tu a cadere!

 

“Resisti Cristal! Il dolore, le ustioni, tutto passerà e tornerai ad Asgard! Da Flare, che ti aspetta, e da tuo figlio!”

 

“Mio… figlio?!” –Balbettò il Cigno, sputando sangue e bava sporca.

 

“Sì. L’ho visto, e ho visto che diventerà un eroe come suo padre!” –Sorrise Andromeda.

 

Proprio in quel momento il suolo tremò di nuovo e Andromeda si voltò, temendo di dover fronteggiare qualche nuova diavoleria. Invece era soltanto acqua. Tantissima acqua. Una marea intera che fuoriusciva dalle faglie aperte, riversandosi nel deserto e pulendo via tutta la sozzura che l’aveva avvelenato. E, spinto proprio dalle acque che aveva evocato, si erse Nettuno, con il Corno di Tritone tra le mani che rigurgitava una vivida luce azzurra.

 

Attorno a lui apparvero tanti amici e compagni di cui Andromeda aveva perso le tracce e per cui adesso, vedendoli, poté permettersi di piangere di felicità. Pegasus, con l’armatura danneggiata e il sorriso spavaldo, benché più stanco del solito, sorreggeva Atena, dall’Egida scheggiata, mentre, alle loro spalle, Ioria e Virgo si tenevano a vicenda, respirando a grandi boccate, quasi fossero stati privi d’ossigeno per tutto quel tempo. Anche Asher e Tisifone erano tra loro, le armature d’Oro dello Scorpione e del Cancro scheggiate e imbrattate, ma ancora intrise della luce delle stelle.

 

Spostando lo sguardo, Andromeda notò Nikolaos, col volto emaciato e una ferita sul ventre, l’armatura danneggiata in più punti, ben lontana dallo splendore olimpico che aveva ammirato durante il loro primo incontro ad Atene. Sorrise, lieto che fosse salvo, mentre Castalia, aggrappata a Toma, zoppicava nella sua direzione. E fu ancor più lieto di vedere la donna che il Luogotenente stava portando con sé, sebbene non avesse più niente della potente Divinità olimpica che era stata, e che tuttora era.

 

“Demetra!” –Mormorò, prima che due figure attirassero la sua attenzione, due figure che non aveva mai incontrato. Lei, bellissima nonostante le vesti sporche e lacere e il viso ferito, e lui, al contrario, piccolo e buffo, più simile a un folletto che non a un guerriero. Eppure, notando con quanto affetto si prendevano cura l’uno dell’altra, il Cavaliere non poté fare a meno di sorridere, certo che l’amore sorgesse davvero ovunque. Anche negli inferi della terra di Albion.

 

Per ultimi, infine, sbucarono Euro, Vento dell’Est, e i Seleniti: Shen Gado, con le ali danneggiate della corazza e numerosi tagli sul corpo, quasi fosse stato assalito da una fiera feroce, e il possente Sin, la cui corazza, a dispetto di quelle degli altri, non aveva subito danni particolari. Sbuffando, il Selenite di Marte espresse il proprio fastidio per essere stato cacciato fuori dagli scontri proprio nel momento cruciale e aver perso tutto il divertimento. Di Mani, invece, Andromeda non trovò traccia e si rattristò, pensando che non avrebbe più rivisto i suoi figli.

 

Un gemito lo distrasse, mentre Cristal tentava di rimettersi in piedi. Con le lacrime agli occhi, il Cavaliere ritenne che almeno lui non era incorso in quel tragico destino.

 

***

 

Anche Nesso gemette in quel momento.

 

Liberato dal bozzolo d’ombra, aveva lasciato che le acque di Nettuno lo trascinassero in superficie e lo purgassero, alimentando al tempo stesso la fiamma dei suoi ricordi. Fin da giovane aveva amato il mare e quando Eracle gli aveva proposto di infiltrarsi sull’Isola di Eolo aveva prontamente accettato, nutrendosi della corroborante aria salmastra. Poi c’era stata la battaglia di Samo e l’assedio di Tirinto, la caduta, il silenzio e infine il ritorno alla vita ma, per quanto l’avesse cercata, quella sensazione non l’aveva più ritrovata, neppure negli abissi polinesiani, troppo intento ormai a combattere e poco ad ascoltare. Ma Nettuno, con quell’ondata, non aveva ripulito solo gli androni del Santuario delle Origini, anche il suo cuore.

 

Un colpo di tosse gli fece sputare sangue e veleno, mentre i suoi sensi scivolavano al di là delle macerie. Sentì, quasi come li stesse vedendo, i cosmi di Nestore, Marcantonio e Neottolemo accendersi e crescere di continuo, impegnati a fronteggiare il demoniaco Signore della Tempesta delle terre di Persia. Il suo nome era Azhi Dahaka, per quanto tutti lo conoscessero come Zahhak, e persino Eolo lo temeva, esitando ogni volta in cui doveva sorvolare quelle terre. Era un ladro di bestiame, malevolo e portatore di sventura, e in questo somigliava ad Eracle, l’Eracle di gioventù, quando la fama di gloria e l’egoismo lo dominavano.

 

Ne conosceva tante, Nesso, di storie su Eracle. Gliele aveva insegnate Gerione sulla Dama dei Mari, altre le aveva udite raccontare attorno al fuoco, nei bivacchi notturni nella corte di Tirinto, e tutte mettevano in risalto la sua irrequietezza, il suo continuo cercare oltre. Una caratteristica che il Pesce Soldato credeva di aver ereditato.

 

“Riposa, giovane eroe!” –Gli disse una delicata voce femminile mentre una sagoma in abiti bianchi, ormai sporchi e laceri, scivolava accanto a lui, prendendogli la mano. Gli carezzò la pelle, tremando nel sentire il veleno di Vritra che gli scorreva dentro, e continuò a cullarlo, con il sorriso affranto di una madre.

 

“Non… importa…” –Mormorò Nesso, intuendo quel che la Dea avrebbe voluto fare. Stranita, lei lo fissò con grandi occhi dorati, mentre il giovane distoglieva lo sguardo, perdendosi oltre la cappa di nuvole. –“Non voglio le tue cure. Conserva le forze per le guerre che verranno. Io ho esaurito il mio compito. Ma una cosa voglio chiedertela, se puoi farla per me.”

 

Rhiannon sorrise, spostandogli i capelli dalla fronte e pettinandolo, mentre Nesso chiudeva l’unico occhio rimastogli, vinto dalla stanchezza e dal veleno. Quando si svegliò, non era più nel deserto del Taklamakan, bensì su un’isola del Mediterraneo, seduto sugli scogli, di fronte al mare maestoso dentro cui nuotavano felici i delfini. Uno di loro si avvicinò, invitandolo a salirgli in groppa; Nesso acconsentì e si perse assieme a lui oltre la linea di confine.

 

Sospirando, la Grande Regina si alzò, raggiungendo Arawn, mentre il cosmo di Nesso del Pesce Soldato si spegneva alle sue spalle.

 

***

 

Il sangue imbrattava le vesti di Emera, sgorgando dalle numerose ferite sul corpo e sul viso che Erebo non si era risparmiato a infliggerle. Ferite profonde, studiate, ma mai mortali. Qualunque cosa avesse in mente, prima voleva torturarla. Di questo, la Signora del Giorno era sicura.

 

Affannò, rimettendosi in piedi, portandosi dietro quel che restava dell’Altare del Giorno Dopo, dove solo poco tempo prima aveva adagiato Phoenix, compiacendosi adesso di quella scelta, che le aveva permesso di riottenere i suoi ricordi. Grazie a lui, e grazie al figlio che per tutto quel tempo non l’aveva abbandonato, nascondendosi, non visto, in un angolo della sua coscienza e continuando a fare appello alla sua vera natura, di Dea di Luce, non di Ombra.

 

“Anche per te, io combatterò!” –Mormorò Emera, espandendo il cosmo.

 

Erebo, a quella visione, esplose in una sonora sghignazzata, contrastandolo con la propria, ben più consistente, tenebra. –“Decisione coraggiosa, ma tardiva. Inoltre, perché sprecare le forze combattendo tra noi, quando il vero nemico è là fuori?”

 

“E se fosse qua dentro, invece?” –Rispose Emera, tagliente.

 

Il Tenebroso non disse alcunché, limitandosi ad avvolgere le sue dita nell’oscurità, sì da generare sottili lame nere, e a muovere poi di scatto il braccio, scagliandole contro la Dea. –“Danza di daghe!” –Gridò, crocifiggendola al muro alle sue spalle, l’esile corpo dilaniato dagli affondi dell’avversario. –“Sai, non devo neanche scomodare Lord Caos per il tuo tradimento. Mi occuperò io di farti avere la giusta punizione. Per una che non vuole combattere, cosa può esserci di meglio che essere costretta a farlo, osservando, impotente e sofferente, la fine di tutto quello in cui hai creduto?” –Sibilò, avvicinandosi.

 

Emera tentò di liberarsi ma la presa dell’oscurità era forte. Molto forte.

 

Troppo forte. Analizzò, concentrandosi sul cosmo di Erebo e percependo qualcosa di diverso, qualcosa di aggiunto, innaturale persino per degli Dei creatori come loro.

 

“Erebo… Che cosa hai fatto?”

 

“Sto soltanto anticipando la fine.” –Le disse, afferrandola per il mento e forzandola a fissare la maschera d’ombra che gli copriva il volto. –“E adesso te ne darò un assaggio!” –Aggiunse, liberando la tenebra primordiale.

 

A quel punto, Emera urlò, come mai aveva fatto prima. Urlò, e le vibrazioni furono così potenti da far tremare l’intero baluardo da lei difeso, da scheggiare la Porta della Luce e far oscillare la barriera che impediva all’alleanza di entrare.

 

Andrei, che aveva appena annientato una legione di demoni inca, fu il primo a notarlo, gridando ad Amon Ra e agli altri compagni di tenersi pronti a cogliere l’attimo.

 

“Madre…” –Mormorò la voce. –“Resisti, madre! Puoi contrastarlo.”

 

Appigliandosi a quello, Emera fece esplodere il suo cosmo, che dilagò, come un maroso di pura energia, in ogni direzione, distruggendo le mura e i soffitti della sua dimora, spingendo persino Erebo indietro. Crollò, la reggia della Signora del Giorno, e lei e il Tenebroso crollarono con essa, ritrovandosi sommersi dai detriti.

 

Erebo fu il primo a riaversi, liberando un’esplosione di energia che annientò fino al più piccolo frammento di roccia, ergendosi al centro di quella devastazione, con soltanto qualche graffio all’armatura. Tirò un’occhiata verso Emera e la vide riversa al suolo, con la schiena poggiata a un grosso macigno e la mano intenta a tamponarsi una ferita al costato da cui sangue divino ruscellava copioso.

 

“È stato divertente!” –Ironizzò, incamminandosi verso di lei, mentre il suo cosmo oscuro si avvolgeva attorno alla mano destra, mutandola in un lungo artiglio d’ombra. –“Ma come per tutte le cose belle (o almeno così dicono poiché per me non verrà mai), giunge la fine. E giunge per mia mano. Seconda a cadere degli Dei Ancestrali, lode a te, Divina Emera!” –E calò l’artiglio.


“Fermo!” –Esclamò una voce maschile, anticipando la comparsa di un velo di luce a difesa della Signora del Giorno. Anche senza voltarsi, Erebo capì chi lo avesse generato, e sogghignò.

 

“Etere… Perché hai abbandonato la difesa della Porta della Luce? Non starai complottando contro Lord Caos come tua sorella?”

 

“Complottando? Che vai blaterando, Erebo? E cos’è tutto questo sfacelo?”

 

“Dunque non sai…” –Sibilò il Tenebroso, la mano tesa a un fiato di distanza dal cuore della Dea. –“Che tua sorella ha tradito! Ha liberato un Cavaliere di Atena, che era nelle sue mani, e sta abbandonando la difesa del suo cancello. La percepisci? Questa corrente di luce è il suo cosmo che torna da lei. Presto anche le forze dell’Alleanza divina se ne renderanno conto e attaccheranno la Porta del Giorno!”

 

“Emera…” –Mormorò Etere, avvicinandosi, una palese confusione negli occhi. –“Cosa sta succedendo? Le parole di Erebo sono vere? Hai dunque abbandonato Caos e la tua famiglia?”

 

“Fratello, chiediti se stiamo facendo la cosa giusta! Se è davvero per questo che siamo stati generati. Io lo so, io ho ricordato. E ho visto cosa ha fatto Caos, ho udito come Erebo e Nyx hanno avvelenato la sua mente, mutandolo da Generatore a Distruttore di Mondi!”

 

“Taci, spergiura!” –Ringhiò Erebo, schiaffeggiandola e aprendole un trincio lungo una guancia. –“Le tue parole immonde sono bestemmie al cospetto dell’Unico!”

 

“E le tue cosa sono, Erebo? Tu hai reso Caos il tiranno che è adesso. Tu lo hai portato a muovere guerra agli uomini. Meglio ucciderli tutti che guardare venir meno la loro schiavitù, non è la tua opinione? Ma così facendo hai soltanto spinto gli esseri umani verso il libero arbitrio! In un certo senso, hai dato loro il potere di superarsi. E di superare tutti noi.”

 

“Ora basta! Le tue menzogne finiscono qua, come il Giorno di cui eri signora. Giorno che ormai, nel nuovo mondo che Caos edificherà, non sorgerà più!” –E mosse il braccio dalla punta di tenebra, mirando al cuore della Dea.

 

“Erebo, no! Aspetta!” –Gridò Etere, scattando avanti e afferrando il Progenitore per l’altro braccio, impedendogli di affondare nel corpo della sorella. Ringhiando indispettito, Erebo si voltò, stirò le labbra e gli piantò la lama di tenebra nel cuore. –“E… Erebo….” –Rantolò il Dio della Luce del Cielo, la cui aura andava sbiadendo sempre più.

 

“Etere! Etere!” –Lo chiamò Emera, in lacrime, ma Erebo la spinse via con un calcio, continuando a tenere il braccio nel cuore di Etere. E risucchiando.

 

Aspirò tutto quel che poté: la sua forza, piegandola alla sua volontà, la sua luce, fagocitandola nell’ombra, il suo integralismo, a conferma della necessarietà delle sue azioni, e lasciò soltanto un vuoto corpo, con gli occhi vitrei rivolti al cielo. Un cielo che ormai non avrebbe brillato più con la stessa brillantezza di prima.

 

Soddisfatto, Erebo estrasse il braccio, sul cui palmo brillava l’ultimo riverbero della luce di Etere, e poi strinse il suo cuore, come aveva fatto con quello di Nyx, assorbendolo nella propria aura. E divenendo ancora più potente.

 

La sentì subito, ben più fresca e immediata, l’energia che divampava dentro di sé e che lo rendeva ancora più grande. Emera, singhiozzando, strisciò tra le rovine, per tenere un’ultima volta per mano l’adorato fratello, prima che si sfaldasse come fosse fatto di cenere, senza togliere gli occhi di dosso al Tenebroso, timorosa di una sua reazione. Se possibile, credette persino di vederlo alzare, e anche irrobustire, e vide l’armatura nera vibrare di sfumature viola e dorate, le punte delle sue componenti allungarsi e farsi affilate, i becchi della maschera irrigidirsi quasi fossero corna. Le corna del demonio. E il demonio era lui.

 

Ahu ahu ahu! Creature del mondo, tremate nel terrore! L’ora di Erebo è giunta! E con essa la vostra caduta!” –Disse, sollevandosi in una nube di cosmo nero, che ribollì sotto di lui, divenendo una tetra scia quando sfrecciò in alto, sopra il Primo Santuario, abbracciando con un unico sguardo i quattro schieramenti che lo circondavano. O, per lo meno, quel che ne rimaneva.

 

Sogghignò, riconoscendo che delle formazioni compatte e equipaggiate che avevano marciato ore prima contro la roccaforte era rimasto ben poco. I soldati semplici di tutte le armate erano praticamente stati sterminati e anche gli Dei e i loro Cavalieri non se la passavano bene. Solo di fronte alla Porta delle Tenebre c’era ancora un certo assembramento, che avrebbe sradicato in un soffio. Ma prima voleva divertirsi un po’.

 

Così scese in picchiata verso la Porta del Giorno, fuori dalla quale Amon Ra e Andrei avevano radunato i pochi superstiti, incitandoli a un’ultima azione congiunta, accortisi che la protezione di Emera era caduta. Stavano correndo verso il cancello, avvolti nei loro cosmi, quando Erebo piombò su di loro, squassando il terreno e travolgendoli con fauci di tenebra. Le Amazzoni non ebbero neppure il tempo di capire cosa stesse accadendo che i loro corpi iniziarono a disgregarsi e, in un battito di ciglia, scomparvero. Rimase solo Pentesilea, con la spada in mano, circondata da tenebre così fitte da non vedere, o percepire, nemmeno i suoi compagni. La lasciò vivere, sghignazzando nel vederla piantare la lama per sbaglio nella schiena di Horus, concentrandosi sui tre caporioni. Artigliò Phoenix alla schiena, spaccando le ali dell’armatura divina e portando via anche pezzi di pelle; sferrò un calcio in faccia ad Andrei, maciullandogli il naso, e poi afferrò la sua testa, sbattendola più volte contro il pettorale di Amon Ra, fino a creparlo, prima di travolgere entrambi con un’esplosione di tenebre infernali.

 

Quando si sollevò di nuovo, la spianata di fronte alla Porta del Giorno sembrava un cimitero, tanto silenziosa e desolata gli apparve. Non perse neppure un secondo, sfrecciando nel cielo come una cometa nera e come tale sorprendendo e calando su Sirio e gli altri sopravvissuti al massacro di Etere, di fronte alla Porta della Luce.

 

Alexer tentò di urlare, ma venne investito dalla furia del Nume e spinto a terra, l’Ars Magna crepata in più punti, una gamba torta in una posa innaturale. Vidharr fu il secondo a cadere, in un cratere accanto all’Angelo Azzurro. Sirio e Ascanio tentarono una disperata difesa ma i dragoni di Cina e di Albion vennero dilaniati dalle daghe d’ebano che trapassarono i loro corpi, gettandoli nello stesso avvallamento ove giaceva il figlio di Odino e che andava sempre più riempiendosi di sangue.

 

Ridacchiando, Erebo atterrò proprio sul limitare della conca, osservando gli agguerriti combattenti che avevano avuto ragione delle Morrigan e di Tiamat e che Etere non era riuscito a vincere. Oltre alla sua energia, aveva assorbito anche i suoi ricordi e adesso poté rivivere lo scontro con Sirio, notando quanto il Gemello di Luce si fosse trattenuto.

 

“Rimedierò ai tuoi errori!” –Esclamò fiero Erebo, prima che un rumore lo distraesse, portandolo a voltarsi e trovandosi di fronte una donna di mezza età, che più che una guerriera sembrava una mendicante, con quel ridicolo caschetto di capelli castani e tre mele in mano. –“Cos’è? Vuoi soldi per caso? Sei un mercante?”

 

“No!” –Rispose la donna, espandendo il proprio cosmo. –“Non devi pagarmi. Tu, ombra infernale, avrai gratis le mele di Idunn!” –E gliele scagliò contro, aumentando il numero e godendo degli scoppi di energia che si generavano all’impatto con il corpo del Tenebroso. Ma per quanto tentasse, per quanta energia infondesse al proprio assalto, nessun’esplosione impensierì Erebo, che invece parve divertirsi. –“Bragi, amore mio, compagno di vita, presto sarò con te. Da quando ti ho perso, la mia esistenza non ha avuto più senso, neppure il Ragnarok lo ha avuto. Cosa può importarmene di vivere in un nuovo mondo se in quel mondo tu non ci sei? Eppure, vedendo questi ragazzi, vedendo con quanto ardore lottano per difendere i loro cari e dare un futuro a questo pianeta, ho capito che anche noi Asi abbiamo sbagliato, abbandonando il Recinto di Mezzo. Forse, se fossimo stati più umili, avremmo potuto vivere tra gli uomini e impedire tutto questo.” –Sospirò Idunn, mentre un’onda di energia nera la investiva, annientando tutte le mele d’oro, tranne una, che continuò a stringere in mano.

 

“Un dono per me?” –Sghignazzò Erebo, con voce in falsetto. –“Che gentile. Erano eoni che nessuno me ne faceva uno, e forse non l’ho mai ricevuto, a parte la vita da Lord Caos! Non dovevi, vecchia. Ma se insisti, ne ho uno anch’io per te!” –E fu su di lei, come una nube di gas nero, e la strinse, la intrappolò, la fagocitò tra le sue spire, prima di entrarle dentro, dalla bocca, dalle narici, dalle cavità auricolari, oscurando la sua luce fin nella più nascosta intimità. Quando si risollevò, sfrecciando di nuovo in cielo, lasciandosi alle spalle anche quel campo in cui era uscito vittorioso, godette nell’udire l’esplosione del corpo dell’ultima Asinna. –“Addio. O dovrei dire… non so, come si usa dire in norreno? Non che importi, in fondo, poiché a breve tutte le lingue scompariranno, sostituite da un solo linguaggio. Quello della paura. Ahu ahu ahu!”

 

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Capitolo 32
*** Capitolo trentunesimo: Stretta finale. ***


CAPITOLO TRENTUNESIMO: STRETTA FINALE.

 

Sorretto da Atena, che si appoggiava alla Nike come una vecchia a un bastone, Pegasus zampettò attorno alla carcassa di Echidna, il cui fetore impregnava ancora l’aria nonostante la freschezza e l’aroma di mare delle acque evocate da Nettuno. Le tirò un’occhiata disgustata, prima di continuare a circumnavigarla, raggiungendo due note sagome sull’altro lato.

 

Cristal e Andromeda, feriti e malconci, con le armature divine scheggiate (in alcuni punti persino distrutte), si sorreggevano a vicenda, ma sorrisero quando videro l’amico avvicinarsi. Avrebbero voluto inchinarsi di fronte alla Dea ma, non appena ci provarono, qualche osso scricchiolò, strappando a entrambi un gemito di dolore.

 

“Amici!” –Esclamò Pegasus felice, staccandosi da Atena e correndo ad abbracciarli.

 

Castalia aveva fatto lo stesso con Nikolaos e adesso, aiutata da Ganimede e da una debolissima Demetra, stava cercando di prestare a lui e a Toma cure adeguate, per quanto anche lei fosse molto debole, al punto da barcollare più volte e costringere il Coppiere degli Dei a sorreggerla e ad aiutarla a sedersi.

 

“Mi sento indegna di quest’armatura d’oro…” –Disse la Sacerdotessa dell’Aquila.

 

“Non l’avresti addosso, se così fosse.” –Chiosò deciso il fratello, prima che una fitta al fianco sventrato lo zittisse. Spostò lo sguardo, maledicendo la propria debolezza, per cercare traccia di Zeus e degli Olimpi.

 

Con una raffica di fulmini, dal bagliore così intenso da rischiare l’intero deserto del Taklamakan, il Padre degli Dei di Grecia eliminò quel che restava dell’Armata delle Tenebre, atterrando a poca distanza dal fratello, che, nel frattempo, si era accasciato sul tridente, stanco per aver richiamato le acque oceaniche.

 

“Stai bene? Voglio sperarlo. Avremo ancora bisogno dei tuoi flutti per mondare le oscenità di questa terra.” –Disse Zeus. –“Non mi stupisce che, nel corso di millenni, non vi sia mai cresciuto niente, se qua fu combattuta la Prima Guerra.”

 

“La Prima e l’Ultima.” –Commentò Nettuno, puntellandosi sull’arma e rialzandosi. –“Il cerchio si chiude.”

 

“Più che un cerchio, mi sembra un cappio. E sta stringendo alla gola di tutti noi.” –Nel dirlo, Zeus spostò lo sguardo sulla spianata attorno alla Porta delle Tenebre, dove gli ultimi tre figli di Echidna erano appena caduti.

 

Eracle aveva ucciso la Tarrasque, servendosi anche delle chele di Karkinos, e adesso la stava scoperchiando, aiutato da Efesto, per utilizzare il suo guscio irto di aculei come scudo. Il Fabbro dell’Olimpo, nel qual tempo, aveva sconfitto la coccatrice mentre gli Heroes, sia pur stanchi e feriti, avevano avuto ragione di Zahhak, ma una delle tre teste serpentiformi aveva azzannato Marcantonio a un fianco, infettandolo. Per quanto Rhiannon dispensasse i suoi poteri curativi senza risparmiarsi, la rapidità di diffusione del veleno del demone ne compromise l’efficacia, ma la sposa di Arawn si rifiutò di desistere, continuando a infondere, al corpo del fedele di Eracle, il suo cosmo ristoratore.

 

Infine, riuniti attorno alla loro Dea, Zeus vide i Cavalieri di Bronzo, Argento e Oro superstiti, un numero esiguo rispetto al passato splendore delle legioni ateniesi, ma comunque superiore alla sua armata che, ormai, poteva contare soltanto tre Cavalieri Celesti: Toma, Nikolaos e il fedele Ganimede, oltre all’Ippogrifo, che un tempo aveva ceduto a Selene. Proprio Shen Gado mandò un urlo quando una cometa di energia nera si staccò dal cielo e sfrecciò verso di loro, schiantandosi nel cadavere di Echidna e divorandolo in un oceano di fiamme nere.

 

“Che… succede?” –Esclamò Pegasus, investito da un rigurgito di fetido calore. Atena fu lesta a ripararlo dietro l’Egida, ma vennero comunque spinti indietro, assieme a Cristal e Andromeda.

 

Virgo circondò Ioria, Titis e i Cavalieri di Bronzo e Argento con il Kaan, che stridette ma non si schiantò, mentre i sensi attenti del Cavaliere d’Oro scandagliavano la nube di tenebra per capire chi li avesse attaccati. Non che avesse molti dubbi al riguardo, avendo sentito Pegasus raccontare della caduta di Nyx. Per cui, se i Gemelli di Luce sono impegnati alle rispettive porte... si disse il Custode della Porta Eterna, mettendo in ordine i dettagli del suo piano. Può funzionare. Ma per metterlo in atto ho bisogno di un aiuto! E cercò Ioria con lo sguardo.

 

Una nuova vampata di cosmo nero esplose in quel momento, disintegrando quel che restava della sposa di Tifone e mandando in frantumi la protezione dorata della Vergine, scagliando indietro i Cavalieri, mentre una sagoma terrificante, di sola tenebra composta, prendeva forma nel rogo, levandosi alta sopra tutti loro. La sagoma di una gigantesca maschera dietro cui splendevano due vispi occhi rossi.

 

“Erebo…” –Mormorò Pegasus, stringendo i pugni. –“Dove sei, bastardo? Fatti vedere!”

 

“Oh, ma già mi vedete, Pegasus! Sono attorno a voi. Sono ovunque, ormai.” –Disse il Progenitore e la sua voce risuonò per l’intera spianata, facendo rabbrividire Cavalieri e Dei. Indistintamente. –“Non senti il vento delle tenebre annunciare l’inizio di una nuova era? Scommetto che ti manca il tepore del sole, il confortevole lucore delle stelle? Dovrai farci l’abitudine, Cavaliere, se vorrai sopravvivere nel mondo nuovo, poiché vedi, anzi sappiatelo tutti, schiavi, nel mio nuovo mondo non ci sarà posto per la luce. Soltanto per la tenebra.”

 

“Il tuo nuovo mondo?”

 

Ahu ahu ahu! Così sembra. Vorresti forse condividere il trono con me, Cavaliere di Pegasus? Non ti immagino seduto su uno scomodo seggio a imbolsire. Tu sei come me, sei vitale, preferisci l’azione al vuoto parlare. Per questo ti ammiro, ma al tempo stesso devo punirti. Ricordi vero l’empia azione di cui ti sei macchiato ad Asgard?”

 

“Vorrei avertela conficcata nel cuore quella spada!” –Esclamò Pegasus, guardandosi attorno, cercando di capire dove si trovasse il Tenebroso.

 

“Prospettiva irrealizzabile temo. Perché io non ho un cuore.” –Ridacchiò quest’ultimo. –“In effetti, ne ho ben tre.” –In quel momento la sagoma d’ombra della maschera si liquefece, colando nella carcassa fiammeggiante di Echidna, di fronte allo sguardo attento e inquieto di tutti i membri dell’Alleanza, le braccia alzate in posizione di guardia. Poco dopo, da quella stessa carcassa si staccarono due gigantesche ali di tenebra, anticipando il sollevarsi di una viverna nera che, con un sol colpo d’ali, sparse le vampe tutte attorno, investendo i più vicini e sfortunati, prima di librarsi nel cielo nero. E là, ritto sul dorso dell’ultima figlia di Echidna, Erebo li guardava sogghignando.

 

Non che potessero vederne i lineamenti, stagliandosi nero contro un cielo ancora più scuro, con quella corazza dalle forme acuminate che lo rivestiva e la maschera che gli copriva il volto. Ma Pegasus non ebbe dubbio alcuno che tutto quello lo stesse divertendo; era così che si comportava un Dio tronfio del suo potere. Non cercava di capire gli altri, fossero uomini o altre Divinità, come Atena e forse anche Emera, non fingeva neppure di essere imperturbabile, come Etere, quando in realtà il suo cuore traboccava disprezzo e fastidio, e soprattutto non pretendeva di essere quello che non era.

 

Pegasus lo aveva capito, e adesso emergeva in tutta la sua chiarezza. Nyx poteva pure essere la Prima Nata, ma Erebo, e lui soltanto, era il re dei Progenitori, per forza, potenza d’attacco e soprattutto volontà di esserlo.

 

“Dobbiamo fermarlo!” –Esclamò Ermes, spalancando le ali della Veste Divina e levandosi in volo. –“Caduto lui, rimarrà soltanto Caos!” –Euro, pur pesto e ferito, lo seguì. –“Kerkeyon!” –Gridò il Messaggero degli Dei, liberando un raggio di energia, che però Erebo contrastò con l’emanazione del suo cosmo, prima di sollevare il braccio destro al cielo, l’indice che brillava di una sinistra luce violetta.


Danza di daghe!” –Sibilò, liberando una fitta pioggia di strali neri che mitragliò Ermes ed Euro, costringendo il primo a puntare il Caduceo e scagliare in alto migliaia di fasci luminosi, e il secondo a ripiegare, colpito più volte e infine atterrato.

 

“Ritirati, Ermes!” –Gli urlò Zeus, aprendo le ali della Veste Divina e preparandosi per affiancarlo, ma Nettuno lo afferrò per un braccio, fermandolo.

 

Proprio in quel momento il Dio dei Mercanti venne travolto dalla pioggia di daghe, troppo fitta e superiore al suo attacco, e scaraventato a terra, il corpo trafitto da lame di tenebra e inchiodato al suolo, il volto torto in un’espressione di puro terrore.

 

“Come antipasto non c’è male.” –Sogghignò Erebo. –“Ma voglio di più. Molto di più.” –Aggiunse, lanciandosi di sotto, avvolto nel suo cosmo oscuro, e atterrando proprio in mezzo alla cerchia di Dei e loro fedeli, liberando una vampata di energia che spinse indietro i Cavalieri di Bronzo e Argento. –“A chi dunque l’onore del primo pasto?” –Disse, spostando lo sguardo su tutti loro, fino a individuare Euro che, a fatica, si stava rialzando, incapace di appoggiare la gamba destra a terra, dove una daga di tenebra lo aveva raggiunto. Fece per muoversi nella sua direzione ma un fiume di lava gli ricoprì i piedi, forzandolo a voltarsi verso Efesto, che lo fissava con rabbia, avvolto nella sua aura ardente. –“Ancora arrabbiato, bel gobbetto? Paparino non ti ama? La tua sposa ti ha lasciato? La tua esistenza non ha più significato? Rilassati, ti farò un favore, poiché presto terminerà!” –Esclamò, sollevando di scatto una gamba e schizzando il Fabbro dell’Olimpo con la sua stessa lava.

 

“Afrodite domanda vendetta!” –Ringhiò Efesto.

 

“Già, già. E molti altri ancora la chiederanno di qui a poche ore. Suvvia, sto facendo il modesto! Perché aspettare qualche ora, quando posso uccidervi tutti adesso?” –Disse Erebo, espandendo il cosmo, che vorticò attorno a lui, risucchiando la lava incandescente e ributtandola in ogni direzione, spinta da gelide correnti d’aria.

 

“Attenti!” –Gridò Cristal, sollevando un muro di ghiaccio dietro cui si riparò assieme ad Andromeda e Nemes. Atena posizionò l’Egida di fronte a Pegasus, mentre Virgo evocava di nuovo il Kaan per tenere Ioria, Titis, Asher e Tisifone al sicuro.

 

Castalia, i Cavalieri Celesti e Shen Gado vennero invece raggiunti da qualche lapillo, che invece non infastidì più di quel tanto Sin degli Accadi. Camminando su un tappeto di fuoco, il Selenite di Marte si avvicinò al Tenebroso, battendo le mani.

 

“Notevole.” –Commentò, prima di spalancare le braccia ed evocare il suo colpo segreto, che circondò Erebo da ogni lato, chiudendolo all’interno di un cubo di energia. –“È-kish-nu-gal!” –Tuonò, mentre le fiamme rossastre divampavano e un leggero sorriso di trionfo si allungava sul volto del Selenite. Sorriso che scomparve con la stessa rapidità con cui era apparso non appena Sin vide le fiamme annerire e perdere tutta la luce che avrebbe dovuto splendere nella Gran Casa. Un attimo la costruzione esplose e la marea di fiamme lo investì, scagliandolo molti metri addietro, con l’armatura danneggiata, al pari del suo orgoglio.

 

“Come ho già detto, non c’è posto per la luce nel mio nuovo mondo!” –Disse Erebo, emergendo tra le tetre vampe.

 

“Vediamo se questa luce ti farà cambiare idea!” –Esclamò Zeus, librandosi in aria e portando un braccio avanti, scatenando una tempesta di fulmini, dentro cui il Progenitore sfrecciò, senza esserne colpito, portandosi lesto di fronte a lui.

 

“Direi di no.” –Rispose, allungando la mano, carica di energia cosmica, verso il suo cuore. Solo per trovarsi di fronte Ganimede, che era scattato a difesa del suo Signore. Gli sfiorò il petto e il Coppiere degli Dei esplose.

 

Ganimede…” –Mormorò Zeus, sconvolto, il volto imbrattato dai resti del fanciullo.

 

“Siamo con te!” –Esclamò allora Nettuno, puntando il tridente e colpendo Erebo con una scarica di energia, mentre anche Eracle caricava e Efesto, Ermes e Euro univano i loro cosmi in un unico attacco, investendo il Progenitore da tre direzioni diverse.

 

“Ora sì che ci divertiamo!” –Commentò quest’ultimo, sollevando le braccia e lasciando che il suo cosmo esplodesse. Non fu un colpo segreto, soltanto una devastante deflagrazione di energia, che investì tutti i membri dell’Alleanza, gettandoli in aria, scheggiando le loro corazze, frantumando le loro ossa. La stessa Porta delle Tenebre vibrò, prima di schiantarsi e crollare a terra, senza che Erebo ne fosse minimamente toccato. Nessuno di loro, in ogni caso, entrerà nel Primo Santuario finché io sarò vivo! E lo sarò per molto tempo ancora! Ridacchiò, prima di voltarsi e osservare lo sfacelo che lo circondava.

 

Ventiquattro avversari atterrati, solo con quell’ultimo attacco. Se poi aggiungeva i caduti di fronte alle Porte della Luce e del Giorno il numero saliva decisamente, motivo che lo fece sogghignare, strofinandosi le mani sovreccitato. Tese l’orecchio, senza farsi distrarre dai lamenti dei feriti, e ascoltò gli unici rumori ancora udibili attorno al Primo Santuario.

 

Di fronte all’abbattuta Porta della Notte, l’Arconte Verde resisteva, assieme a quattro Cavalieri delle Stelle, due Seleniti e un esiguo numero di Areoi polinesiani. L’Armata delle Tenebre avrebbe potuto tenerli impegnati fino alla loro estinzione ma il Tenebroso non amava perdere tempo, così si sollevò, ribollendo nel suo cosmo nero, e fece per scattare in quella direzione. Ma qualcuno lo afferrò in volo, prendendolo di sorpresa.

 

Aveva sbagliato a non prestare ascolto ai gemiti dei feriti, avrebbero potuto dirgli quanto ancora mancava alla loro morte. E di quali avrebbe dovuto facilitare il trapasso. I più ostili, ad esempio, come i Cavalieri di Atena.

 

Voltandosi, pensò quasi di trovarsi Pegasus di fronte, invece era un giovane dai capelli argentati, che lo teneva stretto, sforzando le danneggiate ali della sua Veste Divina a dirigersi verso terra. Ancora in volo, Erebo strusciò sul suolo con un coprispalla dell’armatura, prima di riprendere il controllo e portarsi sopra il suo coraggioso avversario, sbalzandolo via con un calcio all’addome.

 

Euro rovinò a terra, aprendo solchi con le ali semidistrutte, ma già aveva espanso il proprio cosmo, avvolgendosi in un arcobaleno di colori e mormorando qualcosa che, sulle prime, Erebo non riuscì a capire.

 

Lo udì però Zeus, che si stava rialzando, assieme a Efesto ed Ermes, stupiti dall’audacia del giovane Dio. Quando anche loro decifrarono le sue parole, piansero.

 

Eurus, Notos, Zephyrus, Boreas. Eurus, Notos, Zephyrus, Boreas.”

 

“Le tue cantilene non bastano a fermarmi, ragazzo!” –Ghignò Erebo, sollevando il braccio destro e allungando artigli di tenebra.

 

“Non vuote parole sono le mie, bensì un’invocazione. Un appello ai ricordi.” –Disse Euro con voce pacata, mentre il cosmo turbinava attorno a sé, divenendo un vento impetuoso. –“Che gli uomini sappiano che sono esistiti Quattro Venti che, per secoli, hanno portato loro il freddo e il caldo, la pioggia e il sole. Borea, mio fratello maggiore, Vento del Nord e Padrone delle Correnti Fredde.” –Aggiunse, liberando una raffica di vento polare che spinse Erebo indietro, rallentando per un attimo i suoi movimenti. –“Austro o Noto, Vento del Sud, Signore delle Piogge Torrenziali!” –E lo investì con una nube di energia acquatica, dentro cui una caterva di fulmini danzava furiosa. –“Zefiro, Vento dell’Ovest, Messaggero della Primavera” –Disse, mentre il vento si faceva torrido e lingue di fuoco si allungavano a stridere sulla corazza di Erebo. –“Infine il sottoscritto, Euro, Vento dell’Est…”

 

“Signore degli idioti e morto per nulla!” –Chiosò Erebo, calando infine il braccio e piantandogli cinque artigli di tenebra nel ventre, interrompendo il soliloquio del Dio e facendogli sputare sangue. Godendosi la sua espressione sorpresa e sconfitta, il Primogenito lo sollevò, voltandosi verso gli Olimpi, i cui cosmi già brillavano, pronti a caricarlo. –“Temo che il vento abbia smesso di spirare.” –E ne gettò la massacrata carcassa ai piedi di Zeus, osservandolo rotolare sul terreno e macchiarlo di sangue.

 

“Euro!” –Mormorò Ermes, ricordando in un momento tutte le imprese vissute assieme. Contro Tifone, contro Flegias, infine contro Caos.  –“Ti vendicheremo, ragazzo!” –Aggiunse Efesto, facendosi avanti, rivestito da una coltre di fiamme scintillanti.

 

“Non dicevi la stessa cosa di tua moglie? Quella sgualdrina che si è fatta mettere incinta da Ares, generando due simpatiche carogne? Credo di averle incontrate, quest’oggi, mentre marciavano fuori dal Primo Santuario e, ti dirò, tra le tante ombre che mi son passate davanti, erano i più contenti di essere qua!” –Ironizzò Erebo.

 

“Taci, malnato! Lava incandescente!” –Tuonò Efesto, portando entrambe le braccia avanti e scagliandogli contro due fiotti di magma ardente, che il Tenebroso non ebbe problemi ad evitare. Di quella sua veloce acrobazia approfittò Ermes, per piombare su di lui, puntando il Caduceo al suo petto; ma Erebo fu più veloce, afferrando la bacchetta e spezzandola con una mano sola, di fronte agli occhi stupefatti del Dio, prima di conficcarne i resti nel suo collo, piantandolo a terra.

 

“Ermes! Ritirati!” –Esclamò allora Zeus, mentre centinaia di fulmini danzavano attorno a lui, che le indirizzò verso il loro obiettivo. –“Tempesta di folgori!”

 

Erebo non rimase ad attenderle, avvolgendosi in un guscio di tenebra, su cui le saette stridettero, senza scalfirlo, prima di scattare avanti, investendo il Re dell’Olimpo con quello stesso ammasso d’ombra e gettandolo a gambe all’aria.

 

“Mio Signore! Siamo con te!” –Intervennero i Cavalieri Celesti, balzando contro Erebo da tre diverse angolazioni. –“Gorgo dell’Eridano! Lancia di Icaro! Galoppo dell’Ippogrifo!” –Gridarono, ma prima ancora di aver terminato di urlare il nome della loro tecnica, Erebo si era già spostato. Evitò il mulinello energetico di Nikolaos, afferrò Shen Gado per il piede e lo scagliò contro Toma, lasciando che gli piantasse la lancia nel ventre. Quindi si liberò della bolla di tenebra che lo rivestiva, scagliandola addosso ai tre difensori dell’Olimpo, travolgendoli.

 

“Sembra che tu riesca ad affrontare più avversari contemporaneamente!” –Commentò allora una voce, attirando l’attenzione del Tenebroso. –“Anzi, oserei dire che ti diverte persino. Forse uno scontro diretto, uno contro uno, ti annoia? Spiegamelo, sono curioso di udire le motivazioni che ti portano a questo stile di lotta confuso e continuo.”

 

“Potrei farlo. Ma perché dovrei sprecare del fiato? Tanto più con chi, come te, conosce già la risposta. Non è così, divino Eracle?”

 

Il campione di Tirinto allungò le labbra in un veloce sorriso, battendo la clava nel palmo dell’altra mano. La Glory non aveva più lo splendore di un tempo ma l’ichor di Zeus l’aveva irrobustita a sufficienza da impedire a Karkinos e alla Tarrasque di sfondarla. Contro gli artigli di tenebra di Erebo, Eracle non era però sicuro che avrebbe resistito, motivo per cui era necessario non dargliene la possibilità.

 

Senza dire altro, il figlio di Zeus scattò avanti, veloce come la Cerva di Cerinea, e mosse la clava, preciso nel colpire come gli affilati becchi degli Uccelli di Stinfalo, ma forte, molto forte, come il Toro di Creta. Anche Erebo lo notò, muovendosi lesto all’indietro e osservando l’arma sfilargli davanti al viso, conscio che, non si fosse spostato, avrebbe potuto sfondargli il cranio. Prima che avesse il tempo di muoverla indietro, il Progenitore lo colpì con un pugno dal basso, scagliandolo in alto, ma Eracle fu lesto a incastrare un piede sotto il braccio dell’altro, trascinandolo con sé.

 

Un colpo di clava spinse Erebo indietro ma neppure quell’arma riuscì a incrinare la sua corazza, che pareva composta di ombra solidificata.

 

“Incredibile!” –Notò Eracle, atterrando con un’agile piroetta.

 

“Non siamo poi così dissimili. Anche a te, noto, piace questo stile di combattimento. Più da mischia che da torneo. Più da bestia che da uomo. Perché tu, figlio bastardo di Zeus, puoi anche aver tirato su quel castelluccio, riempiendolo di giovani e giocando a fare l’Atena della situazione, ma la verità è che sei soltanto uno zotico, cresciuto menando pugni, uccidendo amici e parenti, spinto dall’ambizione di gloria. Bene e male sono concetti che per secoli non hai distinto, servendoti di entrambi in base ai tuoi porci comodi. Quanti compagni hai tradito e massacrato? Quante mura di città, che tutt’oggi avrebbero potuto continuare a esistere, hai abbattuto? Quante donne hai ingravidato, lasciandole sole a crescere i loro figli che, nel migliore dei casi, ti hanno odiato? Perciò smettila di fare l’eroe e torna a fare quel che sai fare meglio!” –Sibilò Erebo, avanzando avvolto nel suo cosmo di tenebra. –“La bestia.” –E gli scagliò contro migliaia e migliaia di daghe nere.

 

Senza perdersi d’animo, Eracle mulinò la clava, colpendole una dopo l’altra, ma la pioggia non accennava a diminuire d’intensità, anzi aumentò, impedendogli di pararle tutte. Venne raggiunto a un fianco, poi a una gamba destra, ma non cedette, neppure quando la clava iniziò a scheggiarsi, erosa come una roccia all’esposizione alle intemperie. Compiaciuto, il Tenebroso radunò le daghe in un’enorme lama di energia nera che incrociò con l’arma del rivale. Una volta, due, finché alla terza la clava di Eracle non andò in frantumi, con qualche pezzo delle sue dita.

 

“Com’era la profezia? Nessun uomo vivente ucciderà mai Eracle, ma un nemico morto segnerà la sua fine! Beh, credo stesse parlando di me, non credi?” –Ghignò Erebo, portando avanti il braccio.

 

“No!” –Disse una voce, mentre una muraglia di luce appariva a difesa del figlio di Zeus. Sottile e poco ampia, ma sostenuta da un ammasso di nubi di energia cosmica, dentro cui la lama d’ombra si piantò, mandandola subito in frantumi.

 

Di quell’attimo approfittò Nestore dell’Orso, portatosi alle spalle del Primogenito, per artigliarlo con una zampata di energia, mentre Marcantonio e Nestore, che avevano affiancato Eracle, liberarono i loro colpi segreti.

 

Glorioso canto degli Eroi Caduti! Ali del Mito!”

 

“E nel mito finirete anche voi!” –Esclamò Erebo, volteggiando sopra di loro, incurante dell’irrisoria efficacia di quell’attacco. –“Ma non sarete ricordati né cantati, poiché nessuno, di coloro che vi conosce, rimarrà. Tutti moriranno con voi!” –Ed espanse il cosmo, liberando un ventaglio di daghe di cosmo nero che mitragliarono i tre Heroes, distruggendo le loro corazze, strappando loro via pezzi di pelle e ossa, finché un grosso scudo non giunse a ricoprirli.

 

“Metodo rozzo ma efficace.” –Commentò Efesto, che intanto aveva recuperato il guscio corazzato della Tarrasque e lo aveva lanciato sugli Heroes. –“Stai bene, fratello?”

 

Eracle, a quelle parole, sorrise, affiancando il Fabbro Olimpico, mentre anche Zeus e Ermes li raggiungevano. Nikolaos avrebbe voluto essere con loro, per quanto faticasse ad alzarsi, ma un’occhiata del Signore del Fulmine gli fece capire di non mettersi in mezzo. Quella era una battaglia tra divinità.

 

“E allora vi daremo una mano!” –Esclamò la squillante voce di Arawn, apparendo per mano alla sua bella sposa. –“Che non si dica che gli Dei di Britannia non amano la compagnia!”

 

“Se così tanto ami stare con i perdenti, accomodati, stupido folletto! Mi farò un mantello con la muta dei tuoi cani!” –Ringhiò Erebo, avventandosi su di loro.

 

“Nessuno tocca i miei levrieri e la passa liscia!” –Avvampò Arawn, liberando il suo colpo segreto. –“Cŵn Annwn!” –Subito seguito da quello di Rhiannon. –“Bianchi cavalli spumeggianti!” –Una carica di segugi dal pelo bianco e dalle orecchie fulve, i due colori della vita e della morte ad Albion, e di bellissimi stalloni dal pelo biancastro sfrecciarono verso Erebo, che falciò le loro zampe con un rapido movimento del braccio. Quindi, prima che i due potessero iterare l’attacco, li travolse con un’onda di energia.

 

Zeus, sopraffatto dal rapido succedersi di quello scontro, poté solo vedere Arawn lanciarsi su Rhiannon, offrendo la schiena al nemico, prima che venissero scaraventati lontano, in una nube di cocci d’armatura, sangue e polvere.

 

“Stupidi isolani! Avrebbero fatto meglio a restare nella loro maledetta Albion!” –Tuonò Erebo, tornando a volgersi verso gli Dei di Grecia.

 

“Non offendere i nostri amici e alleati! Concetti, forse, ignoti alla tua perversa mente solitaria!” –Precisò Zeus, muovendo un passo avanti, mentre attorno al suo braccio destro sfrigolava la folgore celeste.

 

Ahu ahu, vuoi castigarmi? Come giocavi con Ganimede? Coraggio, fatti avanti!” –Lo derise il Tenebroso, voltandosi di schiena e simulando il gesto di una frustata.

 

“La tua presenza su questa Terra è un’offesa alla Terra stessa, Erebo. Sei una locusta che deve essere estirpata! E io possiedo l’arma adatta!” –Esclamò il Nume, levando il braccio destro al cielo e sprigionando un bagliore che accecò persino gli altri Dei. –“Mira, oh tenebra oscura, la luce che squarcia anche la notte più buia! La folgore che ricevetti in dono da Ceo del Lampo Nero! La Folgore Suprema!”

 

“E non solo sei, mio Signore! Kerkeyon!” –Gridò Ermes. –“Euro, questo colpo è anche per te!” –Efesto e Eracle si disposero ai suoi lati. –“Lava incandescente! Fauci del mito!” –E Nettunò li affiancò. –“Tridente del Re Pescatore!”

 

L’attacco congiunto rischiarò la caliginosa aria attorno al Primo Santuario e confortò per un momento anche Asterios e i Cavalieri delle Stelle, impegnati a fronteggiare l’ultima mandata dell’esercito di Caos. Ma Erebo, anche quella volta, si limitò a sogghignare, forte del potere di Nyx e di Etere che aveva assorbito. Spalancò le braccia, lasciando che una spirale di cosmo sorgesse dal suolo e lo avvolgesse, salendo su, verso il cielo tenebroso, e in quella spirale venne risucchiato l’assalto degli Olimpi, mulinando attorno al Progenitore, finché, stufo di quelle quattro facce allarmate che si trovava di fronte, non mosse le dita, quasi stesse tessendo qualcosa. Tra i suoi palmi, l’energia raccolta fino a quel momento si radunò, vorticando e spruzzando scintille violacee e nere, con qualche sfumature dorata.

 

“Qui caddero gli ultimi Olimpi. Non siate tristi. Avete tutta una famiglia intera da riabbracciare in qualunque vuoto vi attenda oltre questa misera esistenza.” –Disse Erebo, prima di lasciar esplodere il suo potere. –“Dies irae!”

 

Nestore, Marcantonio e Neottolemo tentarono di ripararsi dietro il guscio della Tarrasque ma questo si sbriciolò tra le loro mani, prima che anche i loro corpi si sgretolassero. Eracle non ebbe neppure il tempo di gridare o piangere che venne sbalzato indietro, addosso al povero Ermes, già dolorante, le cui ali andarono del tutto in frantumi, e a Nettuno e Efesto, cui fu troncato un braccio. Zeus fu l’ultimo a crollare, tentando di resistere, avvolto nel suo cosmo adamantino, ma quando Erebo puntò gli occhi rossi su di lui la marea d’ombra fagocitò le folgori. E cadde nell’oscurità.

 

***

 

Flare sedeva al capezzale di Bard, da ore ormai.

 

Avrebbe dovuto occuparsi di molte faccende, trovarsi un altro consigliere magari, girare per le strade di Asgard, confortare il popolo, come sua sorella avrebbe fatto, e loro padre prima di lei. Ma riusciva a pensare soltanto a Cristal, al figlio che portava in grembo e alla paura di crescerlo da sola, la paura che lui non avrebbe mai conosciuto il valoroso padre di cui si era innamorata.

 

Carezzando la pancia, la Regina di Asgard spostò lo sguardo sul Capitano della Guardia Reale, che giaceva febbricitante a letto. Non fosse stato per le immediate cure di Mani, che gli aveva donato parte del suo cosmo, e per gli infusi che gli aveva poi somministrato Eir, anche Bard l’avrebbe abbandonata, come Ilda, Enji e tanti soldati semplici di cui non conosceva neppure il nome. Sua sorella anche in quello non avrebbe mancato.

 

Lei era nata per essere regina. Commentò, alzandosi dal letto e scivolando verso le finestre rivolte a sud. Era buio ormai, ma anche se fosse stato giorno la differenza sarebbe stata minima, a causa dell’enorme nube nera che aveva oscurato il sole.

 

Aveva reso omaggio a Odino, in ginocchio nel piazzale retrostante, assieme ai coraggiosi fedeli che avevano scelto di affiancarla, e credere in lei, e molti di loro, anche adesso, erano inginocchiati sul gelido marmo a mormorare canti in onore degli Asi. O forse lo facevano soltanto per continuare a credere. Per convincersi che ci fosse ancora qualcosa in cui credere.

 

Ma è davvero così? Non poté evitare di chiedersi, per l’ennesima volta.

 

Ormai aveva visto troppi orrori del mondo per credere ancora nel lieto fine, eppure, in fondo al cuore, sapeva che doveva essere così o le loro stesse vite non avrebbero avuto significato. Il futuro non poteva essere già scritto, lei quello non l’avrebbe accettato, perché farlo avrebbe significato perdere Cristal e perdere il loro bambino, che invece era un segno della benevolenza del fato. Se fosse stato Odino a inviarlo loro, o Ilda, o magari Loki che, a modo suo, aveva lottato per Asgard, Flare non seppe dirselo, ma sapeva che lo avrebbe difeso, per garantirgli il suo diritto alla vita.

 

Così salutò Bard con un bacio sulla fronte e uscì, avvolgendosi nella mantella. Nel salone del fuoco Bil e Hjúki stavano intrattenendo il popolo che vi si era radunato con dei giochi di prestigio, facendo fluttuare in aria un bastone e schizzandosi l’un l’altro con l’acqua che fuoriusciva da un secchio apparentemente vuoto. Scherzi da bambini, ma sufficienti per strappare qualche sorriso alla gente comune.

 

Flare passò oltre, avviandosi sul retro del palazzo, e allora le sentì chiaramente, le preghiere di pace che provenivano dal piazzale. Ma non erano soltanto gli abitanti di Asgard a cantare (quelli, ormai stanchi, si limitavano a starsene in ginocchio, abbracciati e stretti nelle loro mantelle, ripetendo le solite strofe), bensì un numeroso gruppo di fanciulle che aveva occupato la piattaforma dove Ilda era solita rivolgersi al Signore degli Asi. Una di loro, forse la più grande, stava suonando una cetra, accompagnando i canti delle sorelle, mentre tutto attorno a loro deboli fiammelle di cosmo si accendevano, per riscaldare l’animo dei presenti e ricordare che, pur in quel mondo di tenebra, esisteva ancora della luce a cui aggrapparsi.

 

Sorridendo, Flare raggiunse le figlie di Selene, sedendo tra loro e unendosi alle preghiere, certa che avessero ragione. La luce giaceva in ognuno di loro, in ogni essere umano, e Caos e i Progenitori non sarebbero mai riuscita a spegnerla.

 

“Ti aspetto Cristal! Torna da me!”

 

 

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Capitolo 33
*** Capitolo trentaduesimo: Uniti contro l'ombra. ***


CAPITOLO TRENTADUESIMO: UNITI CONTRO L’OMBRA.

 

“Ti aspetto Cristal! Torna da me!”

 

Furono queste parole a risvegliare il Cigno.

 

Si tirò su e vide un’immensa onda nera dirigersi contro gli Olimpi, simile a quella che, da bambino, avrebbe considerato la forza del possente Kraken, prima di scoprire che ben più perigliosi mostri si nascondevano nelle tenebre del mondo.

 

Scosse Andromeda, disteso accanto a lui, e Pegasus, aiutandoli a rimettersi in piedi proprio mentre gli Heroes venivano disintegrati e Zeus e gli altri Dei scagliati lontano, con le corazze danneggiate e i corpi massacrati. Avrebbero dovuto aspettarselo, avendo già affrontato Erebo ad Asgard, eppure, vederlo adesso, vedere la facilità con cui si era sbarazzato di quelle che avevano sempre considerato le più grandi potenze del mondo, li fece rabbrividire. Sospirando, Pegasus tirò uno sguardo verso il suolo, dove Atena giaceva ancora stordita, lieto che non fosse con suo padre. Lieto che non fosse stata travolta da una simile massa di energia che, in vita sua, aveva sperimentato soltanto una volta, proprio per volontà di Erebo.

 

“Sembra che gli Dei di Grecia siano caduti!” –Commentò quest’ultimo, voltandosi verso i Cavalieri di Atena. –“Volete provare voi, nuovi Dei di quest’epoca? Oh, non fate quella faccia, sono consapevole dei vostri poteri. Ne sono consapevole più di voi, che ancora faticate a rendervene conto e a farne buon uso. Vi darò un consiglio, uno semplice, proprio come me. Desistete!” –Sogghignò, espandendo il cosmo oscuro. –“Poiché per quanto possiate provare, non supererete il cosmo di un Progenitore. Per quanto sfavillante la vostra luce possa essere, è soltanto la luce di tre ragazzini che giocano con qualcosa che non possono comprendere a pieno. Cosa potrebbe fare di fronte alle tenebre ancestrali in cui è stato immerso il mondo fin dalla sua fondazione? Io sono quelle tenebre, io esistevo prima ancora che questo suolo fosse fecondato dalla vita! E voi, patetici vertebrati su due zampe, siete nullità di fronte alla mia imperiale potenza!” –E scatenò una tempesta di daghe nere, che costrinse i tre compagni a bruciare al massimo il proprio cosmo.

 

Andromeda animò la catena nella sua ultima configurazione, tentando di opporre uno strale a ciascuna lama di tenebra; Cristal, rivestitosi di uno strato di ghiaccio, liberò una corrente glaciale per rallentare l’attacco avversario, e Pegasus, stanco più di quanto credesse, poté soltanto concentrare il cosmo sul pugno destro, per colpire ogni daga che gli pioveva contro. Ma erano troppe e presto il gelo del Cigno andò in frantumi, le nocche di Pegasus sfrigolarono di dolore e le catene di Andromeda presero a schiantarsi, finché, con un’ultima raffica, i tre amici non furono travolti e martoriati, e scaraventati indietro, grondando sangue e sconfitta.

 

Pegasus fu il primo a tirar su la testa, e Erebo non ne fu stupito.

 

“Ti è andata bene, in fondo. Morire per mano di Chimera non sarebbe stato all’altezza della tua fama! Gliel’avevo detto, a quell’idiota, che non sarebbe riuscito a sconfiggerti, ma non desiderava altro, da quando quel tuo antenato, com’è che si chiamava? Bellerofonte di Pegasus? Sì, credo fosse lui. Pare che gli abbia soffiato la donna, di cui entrambi erano innamorati, e Chimera non la prese bene. Era un Cavaliere Celeste all’epoca, ci crederesti?” –Disse, fermando il ragazzo con una morsa mentale. –“Si scontrò con Bellerofonte e si uccisero a vicenda. Vergognandosi di quell’atto sacrilego, Zeus lo maledisse e ordinò a Efesto di distruggere la sua armatura, ma credo che, troppo orgoglioso dei suoi lavori, il fabbro gibboso non l’abbia fatto, nascondendola in qualche anfratto lercio della sua fucina, soltanto per farsela rubare sotto il naso. E dire che è proprio grosso quel nasone! Chissà quant’è sporco! Ahu ahu ahu!” –Sghignazzò Erebo, mentre il suo cosmo nero si allungava fino a generare uno spadone di energia, a prolungamento del braccio destro, che puntò al collo del Cavaliere.

 

“No!” –Gridò una voce di donna, sorprendendo il Progenitore, che vide Atena rialzarsi e porsi a difesa del ragazzo, con l’Egida che vibrò sotto il suo attacco.

 

“Di nuovo scegli un Pegaso, Atena!”

 

“Non ucciderai più nessuno, Erebo, né ora né mai!”

 

“Mai? Un concetto troppo astratto per chi, come me, è un tipo piuttosto concreto. Inoltre, se me lo concedi, vorrei smontare la tua tesi, uccidendo proprio te!” –E mosse il braccio, conficcando lo spadone di tenebra al centro dello scudo dorato, trapassandolo e raggiungendo la Dea a un fianco. Sussultò, Erebo, nel vedere la smorfia di dolore di Atena, nel sentire l’armatura divina (quella brutta e ridicola campana che Efesto doveva aver costruito un giorno in cui era di cattivo umore, magari quando aveva scoperto che Afrodite lo aveva cornificato con Ares!) schiantarsi e il sangue divino ruscellare fuori. Ritirò la lama di tenebra e si leccò le dita, imbrattate da qualche goccia di ichor. –“Delizioso. Sei davvero la più divina tra le Dee, Atena. Le cronache riferiscono che ti sei tenuta vergine, a dispetto dei tanti pretendenti. Un vero spreco. A meno che tu non l’abbia fatto aspettando me!”

 

“Falla finita, idiota!” –Avvampò subito Pegasus, scattando avanti, nonostante le grida di Atena. E infatti, sfinito per lo scontro con Nyx e per essere stato prosciugato da Echidna, il Cavaliere barcollò dopo pochi istanti e il suo attacco si perse alle spalle di Erebo, che invece ne approfittò, portandosi alla sua destra, con gli artigli di tenebra già pronti per colpire.

 

“Muori, Pegasus!” –E affondò.

 

Ma in quel momento la Catena di Andromeda scattò verso il suo braccio, afferrandolo e tentando di torcerlo, mentre il gelo della Siberia lo investiva dall’altro lato. Anche Atena si unì ai suoi Cavalieri, spostando Pegasus con una spallata e colpendo Erebo con l’Egida. Senza riuscire a smuoverlo neppure di un passo.

 

“Una puntura, una brezza e una carezza. Ecco quel che mi avete offerto!” –Ghignò, mentre il suo cosmo oscuro turbinava attorno a sé, spazzando via ghiaccio, catena e scudo. –“Lasciate che ricambi il favore. Lasciate che vi faccia dono della mia gratitudine! Dies irae!” –Tuonò, sollevando le braccia di colpo e liberando una potente esplosione di cosmo.

 

Atena, vicinissima, venne investita in pieno e scaraventata indietro, con l’Egida che andava in frantumi, investita dalle stesse schegge della sua difesa, che le tagliarono le braccia e il volto, fino a schiantarsi molti metri addietro, mentre Pegasus, travolto allo stesso modo, gridava il suo nome disperato, allungando le braccia pur senza raggiungerla. Anche le catene di Andromeda si schiantarono, prima che il Giorno dell’Ira arrivasse per lui e per Cristal, gettandoli a terra, pesti, logori e con le corazze danneggiate.

 

Ma fu di nuovo su Atena che Erebo si concentrò, avanzando a passo deciso verso di lei. Gli era appena sovvenuto che Emera non era riuscito a possederla, disturbato da quel damerino impostato del fratello, ma Atena… oh beh, lei l’avrebbe piegata e fatta sua prima di sprofondarla nelle tenebre infernali. Poteva anche proporle di essere la sua consorte ma già sapeva come avrebbe risposto e un rifiuto, quello no, non avrebbe potuto accettarlo. Non di fronte a tutti quegli orecchi. Ma delle grida disperate, delle invocazioni supplichevoli di pietà, quelle le avrebbe offerte volentieri allo stanco pubblico che giaceva nella polvere della propria rovina.

 

Così torreggiò su Atena, il bel volto lacerato dai frammenti dell’Egida e macchiato di sangue, sollevandola con un impercettibile movimento della mano fino a costringerla a guardarlo negli occhi. E in quel momento si tolse la maschera che gli copriva il volto, lasciando che lei lo vedesse realmente.

 

“No… non è possibile…” –Mormorò la Dea, inorridita. –“Tu non puoi essere… Com’è possibile?” –Strillò Atena, sorprendendo i suoi Cavalieri per quella perdita di controllo. La prima volta in tanti anni di battaglie.

 

Erebo non disse alcunché, limitandosi a indossare di nuovo la maschera e ad avvampare nel proprio cosmo oscuro.

 

“Volevo soltanto che tu sapessi chi ti ha ucciso!” –Ghignò, levando il braccio destro al cielo, avvolto in una spirale di nera energia. –“Il tuo primo amore.”

 

Galoppo dell’Unicorno!” –Esclamò allora una voce, mentre una meteora di argento si abbatteva sull’arto del Progenitore, distraendolo. In quello stesso istante un ammasso di corallo gli ricoprì le gambe e due luci dorate piombavano su di lui, da entrambi i lati. –“Meteora pungente! Cobra incantatore!”

 

“Sul serio?” –Sibilò Erebo, voltandosi a malapena. Scaraventò via Asher con una sberla volante prima di voltarsi (e, nel farlo, distruggere il ridicolo trucchetto di Titis) e posizionare Atena davanti a sé, godendo nel vedere gli attacchi delle due Sacerdotesse andare a segno, nel suo ventre già ferito.

 

“Atena!!!” –Gridò subito Castalia, frenando l’assalto. –“Per gli Dei! Perdonaci! Noi volevamo…”

 

“Soltanto morire!” –Concluse Erebo, scagliando la Dea contro i Cavalieri d’Argento e gettandoli tutti a terra. –“Lo capisco. Lo vorrei anch’io al posto vostro, piuttosto che continuare a trascinarmi, vuoto e inutile, in una vita che da un momento all’altro potrebbe finire. Meglio una decisione immediata e immutabile. E io, Boia delle Tenebre, accetto la vostra supplica, donne. Io adesso vi uccido!”

 

“Non ci provare!” –Esclamarono tre voci maschili, schizzando verso di lui che, sollevando lo sguardo oltre le fanciulle abbattute, vide una cometa d’oro lucente, una lancia di folgori e un gorgo d’energia acquatica unirsi in un unico assalto. Che fermò semplicemente spalancando il palmo della mano.

 

Ioria, Toma e Nikolaos osservarono sconcertati il vanificarsi delle loro tecniche, prima che Erebo gliele rinviasse contro, notevolmente potenziate.

 

“Dovrebbero scegliersi paladini migliori le vostre donne!”

 

“E tu dovresti parlare meno!” –Commentò una voce, prima che il Progenitore si accorgesse del cerchio di fuoco che era sorto attorno a lui. Un cerchio di luce ben più ardente di quella di Efesto, simile a quella, forse, che il Fabbro Olimpico aveva dimostrato in gioventù, prima di ingobbirsi, infiacchirsi e intristirsi. –“é-khul-khul!” –Disse Sin degli Accadi, apparendo alle sue spalle e incitando le fiamme a sollevarsi e ad avvolgersi attorno al corpo di Erebo, quasi fossero braccia decise a stringerlo in un mortale abbraccio. –“Se la Casa della Grande Luce non l’hai trovata accogliente, cosa farai nella Casa di Gioia? Io, nel vederti bruciare, riderò di certo!”

 

“Allora, ragazzino, riderai ben poco!” –Tuonò Erebo, spalancando le braccia e disperdendo le fiamme con un mulinello di oscura energia. –“Anzi, ti farò piangere e poi ti farò mangiare quei ridicoli capelli blu prima di sgozzarti! Danza di daghe!” –Ma quando mosse il braccio per falciarlo con i suo strali neri, Sin non era più davanti a lui.

 

Per la prima volta sorpreso, Erebo riuscì a porsi mille domande, valutando ogni possibile opzione e dandosi tutte le risposte che reputò ovvie, in quella frazione di secondo che passò tra la comparsa dello stupore sul suo volto e la stretta di fuoco che lo cinse allo stomaco.

 

“Sin!!!” –Esclamò Shen Gado, da lontano, zoppicando verso i due contendenti, uniti adesso in un abbraccio fiammeggiante. E più Sin stringeva e più le fiamme divoravano entrambi, levandosi alte verso il cielo, calde, luminose e vive. Come il Capitano dei Seleniti non aveva mai visto il Custode del Cerchio di Marte.

 

Anche Pegasus le vide, disteso a terra dolorante e esausto, e ripensò alle parole scambiate col Dio durante l’assalto alla Porta della Notte.

 

“Io vivo per la guerra. Essa è la mia fiamma vitale!” –Gli aveva detto.

 

“Fa che non ti consumi, Sin!” –Aveva risposto Pegasus. E la stessa frase si ripeté in quel momento, mentre il cosmo del Selenite di Marte raggiungeva il parossismo e i due combattenti si sollevavano, sfrecciando in cielo in una cometa di fuoco celeste.

 

“Folle!” –Gridò Erebo, mentre già il suo cosmo oscuro si espandeva, infettando le fiamme e piegandole alla sua volontà. –“Coraggioso ma folle. Riposa assieme agli Dei già caduti!” –Aggiunse, liberando una violenta esplosione di cosmo che distrusse l’armatura del Selenite, precipitandolo a terra, tra le macerie della Porta delle Tenebre. Quindi, con un colpo di reni, il Progenitore si capovolse e si fiondò al centro di quel che restava delle forze dell’Alleanza.

 

Con un solo sguardo li osservò, sgomenti e smarriti, impotenti di fronte al riverbero infernale che aveva diretto loro contro, ma ancora decisi a sbarrargli il passo. Ancora decisi a morire combattendo piuttosto che attendere, vuoti e stanchi, la fine.

 

“Di ciò mi compiaccio!” –Gridò, sollevando il braccio destro, avvolto in una nube di cosmo, proprio mentre i Cavalieri Celesti scattavano all’assalto. Li travolse e li inforcò più volte, sbattendoli a terra, con le corazze in frantumi e il sangue che andava a bagnare l’arido suolo del Gobi. Poi si voltò verso i Cavalieri di Bronzo, Argento e Oro che, sia pur claudicanti, si stavano preparando a un attacco congiunto, ma li anticipò, non avendo la benché minima voglia di osservare il loro patetico e fallimentare tentativo, scatenando un’onda di energia nera.

 

“No!!!” –Esclamò Pegasus, rialzatosi e schieratosi a difesa di Asher e degli altri. –“Vi proteggeremo!” –Aggiunse Andromeda, affiancandolo assieme a Cristal e facendo brillare i loro cosmi. Di più, sempre di più, fino a riflettere la luce delle stelle e diventare loro stessi tre stelle.

 

“Soffia, Nebulosa di Andromeda! Danza, Cigno di Ghiaccio! Corri, Pegasus di Luce!” –Gridarono i tre amici, unendo i loro assalti, cui Erebo oppose l’emanazione del suo cosmo oscuro. Ma in quel momento qualcosa lo colpì alla schiena, attirando la sua attenzione, la punta di un’arma che non era riuscita ad andare oltre la superficie della corazza. Sufficiente però per strappargli un gemito di fastidio. Fisico e soprattutto morale.

 

“Nettuno…” –Sibilò, osservando l’Imperatore dei Mari entrare nel suo campo visivo, il cosmo già intriso di azzurra energia. –“E sia! Ti spazzerò via assieme ai tuoi vecchi nemici! Dies irae!!!”

 

Quella volta la potenza dell’attacco di Erebo fu tremenda, un ruggito di energia che fece tremare l’intero deserto del Taklamakan, generando frane sui Monti Kunlun, a sud, e sul Tien Shan, a nord. I tre Cavalieri di Atena vennero scaraventati indietro, con le armature di mithril che si schiantavano in più punti, e i loro compagni, che avrebbero voluto proteggere, subirono la stessa sorte.

 

Nettuno, capendo di non poterla evitare, non la morte, non quella volta, chiuse gli occhi, pensando che avrebbe rivisto a breve Tritone e tutti i suoi Generali degli Abissi, dai tempi di Arel Kevines in poi. Fu con l’ultimo guizzo di lucidità che vide una figura snella balzargli davanti e afferrarlo, facendogli da scudo.

 

“Mio signore!” –Disse Titis. E furono le sue ultime parole, prima che l’esplosione del cosmo di Erebo la disintegrasse, scaraventando indietro anche Nettuno.

 

Quando tutto finì, non era rimasto nessuno in piedi. Nemmeno Erebo.

 

Respirando a fatica, si era chinato su un ginocchio, la mano destra premuta sul cuore, che gli batteva, pulsando come mai prima di allora. E, dall’interno, credette quasi di vedere barlumi di luce bianca penetrare l’armatura di tenebra e spruzzare fuori, prima che, rialzandosi e controllando il proprio respiro, non ritornò padrone delle proprie forze. Era stato un attacco devastante, ben più di quanto avesse creduto, ben più potente di qualunque assalto avesse scatenato prima di allora; il doppio, forse il triplo, più forte di quello con cui aveva abbattuto Zeus, Alexer e Pegasus ad Asgard. E lui sapeva perché.

 

Sogghignando, si sfiorò il cuore, tornato nero come il cielo sopra di lui, certo di non essere più uno. Adesso era trino.

 

Dando le spalle a Pegasus e ai Cavalieri di Atena, si avviò verso l’abbattuta Porta delle Tenebre, solo per rendersi conto che c’era ancora qualcuno a sbarrargli il passo. Per un momento gli parve di vedere un grosso leone, poi un’idra con nove teste, infine una cerva dalle corna d’oro che correva verso di lui. In realtà era soltanto Eracle, avvolto nel suo cosmo, che gli piombava addosso e lo colpiva con un pugno secco sulla guancia.

 

Sbilanciato, il Progenitore barcollò di lato, l’osso della mandibola che si troncava, al pari della maschera nera, rivelando il suo volto al figlio di Zeus. Che anziché colpirlo di nuovo, approfittando di quell’istante in cui una breccia poteva essere aperta, rimase attonito a osservarne il viso. Un viso in cui così tante volte si era specchiato, fin da quando l’aveva vinta a Calidone, e che in seguito, dopo la sua apoteosi e il suo ritorno sulla Terra, aveva invano cercato, conscio ma al tempo stesso impossibilitato ad ammettere che non l’avrebbe più ritrovata.

 

“Deianira…” –Mormorò.

 

In quel momento Erebo piantò i piedi a terra, evitandosi di cadere, e mosse il braccio destro dal basso verso l’alto, colpendo Eracle con un diretto in pieno petto, che gli mozzò il fiato, facendogli sputare saliva e sangue, e gli crepò la corazza. Un secondo colpo, stavolta sulla spalla destra, lo piegò a terra, distruggendo il coprispalla.

 

“Non ci sono più i tuoi Heroes a proteggerti. Cosa farai adesso? Chi sacrificherai per portare a termine la tua crociata di gloria?”

 

“Io…” –Eracle, per un momento, non seppe che dire, limitandosi a fissare Erebo con sguardo perso. Quell’Erebo che, ai suoi occhi, non era più tale, soltanto un doloroso ricordo.

 

“Anche gli Dei non possono avere quel che vogliono, vero, Eracle?” –Sibilò il Nume, travolgendolo con un calcio e scagliandolo lontano. Proprio ai piedi di Zeus che intanto si era rimesso in piedi.

 

“Pa… Padre…” –Mormorò il Campione di Tirinto, mentre Zeus lo sollevava, invitandolo a resistere.

 

“Combatteremo assieme, figlio mio. Sei pronto?”

 

“Aspettavo questo momento da tutta una vita e tu sai quanto sia stata lunga!”

 

“A sufficienza per permetterci di arrivare qua!” –Annuì il Signore dell’Olimpo, voltandosi verso Erebo, che ormai era a volto scoperto. –“Co… Cosa? Vasteras?” –Il viso, che immaginava fosse quello di un mostro, gli parve invece quello di un vecchio centenario, con pochi capelli grigi e occhi verdi e profondi, intrisi di quell’aria da rimprovero che spesso gli aveva rivolto durante tutto il tempo in cui l’aveva servito.

 

“Come?” –Esclamò subito Eracle. –“Padre? Cosa stai vedendo?”

 

“Non lo ricordi? No, forse tu non l’hai mai conosciuto. Vasteras, fedele e prezioso quanto inascoltato consigliere. Morì durante la Titanomachia ucciso da Crio.”


“Io vedo Deianira…” –Confessò Eracle, stupendo Zeus, prima che la sottile risata di Erebo li richiamasse.

 

“Sembra che abbiate scoperto il mio piccolo inganno. Non che la qual cosa sia importante, adesso che siete rimasti soltanto voi due, adesso che sto per spazzarvi via dall’universo. Buffo vero, Zeus? Da giovane uccidesti tuo padre, che a sua volta aveva ucciso Urano. Scommetto che, in cuor tuo, hai sempre temuto di essere fatto fuori da uno dei tuoi figli? Con tutti quelli che hai sparso per il mondo, sei stato piuttosto coraggioso. O stupido. Ahu ahu ahu!”

 

“Taci, mentitore! Perché hai le fattezze di Vasteras?”

 

“E di Deianira?”

 

“Faccia diversa, sentimenti diversi. Scommetto che se fosse Nettuno a guardarmi, vedrebbe suo figlio, quel Tritone che non è stato in grado di salvare dall’inabissamento di Atlantide. E se fosse Efesto, la mia faccia butterebbe fiamme perché sono certo che ci vedrebbe Ares!”

 

“Dunque è così che funziona? Mostri a ognuno le nostre paure?”

 

“Molto più delle vostre paure, Zeus! Io sono il Signore delle Tenebre e ciò che vedete è la tenebra stessa della vostra anima, l’oscurità che trattenete e che mai avete liberato!” –Disse Erebo, scattando avanti, avvolto nel suo nero cosmo. –“Io sono il rimpianto del tempo perduto, l’ultima parola non detta. Io sono il gesto che vi ha frenato e a cui più non potete recuperare. Io sono la persona che avete amato e deluso di più, quella che avete cercato per tutti i mondi, rovinando la vostra stessa esistenza. Io sono la maledizione che vi affligge, il tormento del cuore, la droga che inquina la vostra solarità!” –Aggiunse, piombando tra entrambi e gettandoli indietro, in direzioni diverse. –“Guardatemi in faccia e quel che vedrete sarà l’abisso che è dentro di voi, la tenebra che non avete il coraggio di affrontare!” –E si voltò verso Eracle, colpendolo con un calcio al petto, là dove già lo aveva ferito, spingendolo a terra, prima di piroettare verso Zeus, che stava evocando una selva di fulmini, e zigzagarvi in mezzo. –“Io… sono… voi!” –Sibilò, poggiando la mano sul pettorale della Veste Divina e infondendovi la propria oscura energia.

 

Con un’esplosione improvvisa, l’armatura di Zeus vibrò, schiantandosi laddove Erebo l’aveva sfiorata, gettandolo a terra, proprio mentre il Progenitore gli balzava sopra, allungando le dita a guisa di daghe e calandole sul suo collo. Ma Eracle, ripresosi, gli balzò addosso, gettandolo a terra, afferrandogli il braccio e torcendolo, rotolandosi confusamente al suolo per molti metri.

 

“Bestia! È così che hai affrontato il Leone di Nemea e il Cinghiale di Erimanto? Ma vedi, Eracle, io di quelle bestie da giardino sono molto più pericoloso!” –Disse Erebo, espandendo il cosmo e sbalzando via il Campione di Tirinto, spaccando un altro pezzo della sua Glory.

 

“È l’ora, padre!” –Esclamò Eracle, ricevendo in risposta un cenno d’assenso. –“L’ora in cui cielo e terra suoneranno al nostro passaggio. Oh che morte gloriosa sarà, al fianco del Dio a cui ho voluto assomigliare per tutta la vita! Per tutte le mie vite!”

 

“Neppure io avrei potuto chiedere di meglio! Tranne forse la caduta di questo mostro!”

 

“E cader lo faremo!” –Ruggì Eracle, bruciando al massimo il suo cosmo, che scintillò fulgido, mescolandosi a quello del Signore dell’Olimpo. Per un attimo gli parve di non essere più solo, come si era sentito per molto tempo (ed era stato proprio per lenire quella solitudine che aveva istituito le legioni degli Heroes, sebbene lo avesse compreso soltanto in seguito), bensì sostenuto da tanti cosmi. Troppi per riconoscerli tutti.

 

C’erano gli Heroes alle sue spalle, a proteggerlo, a combattere con lui, a vivere assieme lo stesso afflato di vita, come era stato nel Mondo Antico, con la Primissima Legione, poi a Tirinto duecentocinquanta anni prima, e infine adesso. E c’erano tutti, da Iro a Chirone, da Marcantonio alla bella Alcione. C’erano i suoi genitori adottivi, Anfitrione e Alcmena. Inoltre c’era Ebe, la povera Ebe, colpevole soltanto di averlo amato troppo, anche quando lui amava un’altra donna. Ebe, che si era sacrificata per lui nel Vigneto di Dioniso. Ebe che gli aveva dato tre figli. E anche loro erano lì, con le mani sulle sue spalle, a donargli la forza di cui aveva bisogno.

 

Aniceto, l’Invincibile, gli donò la potenza d’attacco. Alessiare, colui che rifiuta la guerra, gli donò protezione. Infine Alessiroe, unica femmina, gli confermò di essere nel giusto.

 

“Lancia, scudo e frecce. I miei figli sono con me!” –Ruggì Eracle, mentre la sua aura veniva pervasa da migliaia di scintille di energia, che presto assunsero la forma di fulmini azzurri. Gli stessi che danzavano attorno al braccio di Zeus e che Zeus gli aveva concesso in dono nel Mondo Antico. –“Keraunos! In nomine tuo, padre!”

 

“Insieme, figlio mio! Folgore Suprema!” –Tuonò il Signore dell’Olimpo, unendo il proprio cosmo a quello di Eracle e lasciando che scintillasse verso Erebo in un solo potentissimo fulmine.

 

“Stolt…” –Mormorò il Progenitore, avvolgendosi in un globo di cosmo oscuro su cui l’attacco impattò, venendo respinto. Questo, quantomeno, fu quel che pensò per un momento, prima di accorgersi di una crepa nella sua barriera, e di una susseguente incrinatura nella sua corazza, proprio all’altezza della scritta sul petto.

 

“Ce l’abbiamo fatta, padre! Hai visto? Possiamo vincerlo!” –Esclamò Eracle, euforico, prima che Erebo sollevasse lo sguardo su di loro, furioso come mai prima di allora. Quello che a uno pareva Deianira e all’altro Vasteras divenne una fiammata nera, dentro cui il Progenitore si sciolse poco dopo, scivolando sul terreno e circondando le due Divinità con un oceano di vampe oscure, e in quell’oceano c’erano migliaia di mani che li agguantarono, li strattonarono, li tirarono a sé, e bocche che si allungavano, denti che mordevano, zanne che artigliavano e spade che colpivano, lame che affondavano, frecce che martoriavano i loro corpi, finché, quasi si fosse riformato dalla tenebra stessa, Erebo ricomparve in mezzo a loro.

 

Afferrò Zeus per il collo, tirandolo su, avvolgendolo in una spirale di cosmo nero, che schiantò in più punti la sua corazza, la più bella mai creata da Efesto, senza che le sue folgori potessero alcunché, poi, quando Eracle fece per accorrere in suo aiuto, facendo esplodere il cosmo e distruggendo la marea d’ombra, Erebo mosse il braccio verso di lui, continuando a guardare Zeus in faccia.

 

“Guarda anche tu!” –Gli disse soltanto, prima di affondare la lama di tenebra nel cuore del Campione di Tirinto.

 

“No! Nooo!!! Eracle!!!” –Gridò il Signore dell’Olimpo, mentre il cosmo oscuro del Progenitore lo avvolgeva completamente, scaraventandolo in alto in una spirale che pareva allungarsi fino al cielo. Non lo raggiunse, fermandosi e scomparendo in un istante, e di un altrettanto istante abbisognò Zeus per precipitare al suolo e lì schiantarsi, novello Icaro della sua stirpe divina.

 

Quando riuscì a rimettersi in piedi, arrancando nella fossa da lui stesso scavata, trovò il corpo distrutto di Eracle sul bordo, che a fatica si stava trascinando verso di lui. Lo prese per mano, lo fece voltare, di modo che potessero guardarsi un’ultima volta e infine lo lasciò morire.

 

“Non piangere, padre. Ho mantenuto la mia promessa. Ho combattuto al tuo fianco.”

 

“Possa non trascorrere troppo tempo prima di abbracciarci di nuovo!” –Rispose Zeus, prima che un battito di mani lo costringesse a rialzarsi, e a riportare l’attenzione su Erebo.

 

“Una bella dichiarazione. Devo presumere che tu ti sia arreso, grande Zeus?”

 

“Mai!”

 

“Era quello che volevo sentirti dire! Ahu ahu ahu!” –Sghignazzò il Progenitore, muovendosi per travolgerlo. E ritrovandosi a sbattere contro un muro invisibile che lo gettò a terra, gambe all’aria, un’espressione di genuina sorpresa sul volto, identica a quella che sfoderò Zeus. –“Che trucchetto è mai questo?”

 

“Nessun trucco. Solo un semplice esercizio di sapienza e strategia.” –Parlò allora una placida voce, apparendo a pochi passi dal Nume.

 

“Cavaliere di Virgo…” –Mormorò Zeus, mentre, alle spalle del biondo, anche Ioria del Leone si rimetteva in piedi, sputando sangue e un dente.

 

“Divino Zeus, ve ne prego. Porgete voi, ad Atena, le nostre scuse. Sono certo che lei non approverebbe!” –Disse il semidivino, le mani giunte attorno a un bagliore dorato.

 

“Non so come tu abbia fatto, ma credi davvero di potermi bloccare? Di poter bloccare le tenebre infernali?” –Ringhiò Erebo, liberando la propria aura oscura che avanzò di qualche metro fino a bloccarsi, racchiusa in una rozza circonferenza che, notò il Nume, era marcata in terra da dodici simboli tracciati in rosso.

 

“Il sangue degli Dei. Atena, Zeus, Nettuno, Efesto, Ermes, Euro, Eracle e anche Amon Ra, Horus, Vidharr, Eir e Idunn. Poche gocce ma servono allo scopo.”

 

“E sarebbe?”

 

“Darci una possibilità.” –Commentò placido Virgo, avanzando di un passo e entrando all’interno del cerchio protettivo, mentre tutto attorno a sé lo spazio iniziava a mutare, di fronte agli occhi attoniti di Zeus e di Erebo stesso.

 

“Virgo! Cosa vuoi fare?” –Urlò Ioria alle sue spalle.

 

“Quel che va fatto.”

 

“E sia!” –Disse il compagno, oltrepassando i sigilli a sua volta. Si avvicinò a Virgo e a Erebo, che scattò subito verso di loro, e poi il cosmo della Vergine esplose in un riverbero abbagliante che costrinse Zeus a coprirsi gli occhi.

 

Quando la luce scemò di intensità, non era rimasto nessuno. Il Signore dell’Olimpo si guardò attorno stordito, senza comprendere dove fossero finiti.

 

***

 

Rantolando, Anhar scivolò nell’oscurità.

 

Aveva provato più volte a salire in superficie ma ogni strada pareva riportarlo lì, nel sotterraneo dove Echidna aveva riposato a lungo, nutrendosi dell’energia di chiunque riuscisse a raggiungere con i suoi tentacoli. Anche di lui, che infatti aveva creduto (e forse persino temuto) che l’avrebbe prosciugato fino all’ultima stilla.

 

Invece la Madre lo aveva lasciato in vita. Se di vita, quel suo errare come un’ombra da uno stanzone all’altro, poteva trattarsi.

 

Perché? Si chiese, per l’ennesima volta in pochi minuti. E perché non riusciva ad andarsene? Una sensazione, quella dello smarrimento, tipica di chiunque osasse addentrarsi nel Primo Santuario, ma che né lui, né i Progenitori, avevano mai provato. Cos’era successo, adesso?

 

Se lo stava ancora chiedendo quando udì dei passi poco distanti. Passi controllati, di un’armatura; passi che si fermarono all’ingresso dello stanzone, attirando la sua attenzione. Chi mai poteva scendere là sotto, mentre fuori infuriava l’ultima battaglia? Prima ancora di rispondersi, percepì il suo cosmo. Più vasto di qualunque concezione avesse mai avuta di vasto.

 

Quando Biliku gliene aveva parlato, in quell’oscura caverna delle Andamane, Anhar era stato felice di diventare l’araldo dell’ombra, felice di essere colui che avrebbe aperto le porte al ritorno di Caos. Ma adesso che Caos era lì, a pochi passi da lui, e lo fissava da dietro quell’orribile elmo che gli copriva il volto, Anhar capì che tutto quello che aveva pensato su di lui, tutto il potere che aveva creduto disponesse, era soltanto una parte di ciò che poteva fare. Una parte incommensurabilmente piccola che lo fece sentire insignificante, portandolo a rincantucciarsi in una breccia nel muro, quasi sperando di non essere notato.

 

“Alzati!” –Parlò Caos, con voce atona. E l’ombra che un tempo era stato l’Angelo della Terra si rizzò, strisciando fino a portarsi di fronte a lui. –“Mi servi ancora!” –E infilò una mano nell’oscura evanescenza… afferrandola.

 

Per la prima volta, nella sua immortale esistenza, Anhar fu invaso dal terrore, ma non poté nemmeno gridare. Poté soltanto rimanere immobile mentre Caos si nutriva di lui.

 

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Capitolo 34
*** Capitolo trentatreesimo: La fine dell'alta casta. ***


CAPITOLO TRENTATREESIMO: LA FINE DELL’ALTA CASTA.

 

“Dove mi hai portato?” –Ringhiò Erebo, guardandosi attorno e non riconoscendo niente, di quello spazio strano in cui si era ritrovato all’improvviso.

 

Dominato da un cielo d’acceso color rosa, era un paesaggio brullo, di montagne nere e cadaveri immersi in un oceano di acqua torbida, da cui spuntavano lunghe spine che li trafiggevano di continuo. Erebo osservò la decomposizione di quei corpi, traendone piacere, e l’altrettanto rapida rigenerazione, affinché il processo potesse ricominciare.

 

“Benvenuto nel primo mondo di Ade, Signore della Tenebra! Il mondo dei traditori! Lo dimorano coloro che sono venuti meno alla parola data. La loro pena è quella di trascorrere l’eternità in un oceano di lacrime amare, versate dalle persone che avevano riposto fiducia in loro e ne sono rimasti traditi.”

 

“Dovrei essere impressionato da questo spettacolo, Cavaliere di Virgo?” –Ridacchiò Erebo. –“Lo trovo suggestivo. E dimmi, anche la divina Emera è tra costoro? Oh, lo sarà presto; non appena avrò terminato con voi, mi sbarazzerò anche di quella traditrice. Ma chi la piangerà, se più nessuno resterà a ricordarla? Nemmeno suo fratello. Ahu ahu ahu!”

 

Ioria e Virgo si scambiarono un’occhiata ansiosa, prima che il Progenitore riportasse l’attenzione su di loro, avvolgendo il braccio in una spirale di cosmo nero e muovendolo di scatto, liberando una pioggia di strali di tenebra.

 

“Voglio contribuire a questo bel mondo, magari aggiungendo i vostri corpi a quel mucchio!” –Esclamò, prima di torcere le labbra in una smorfia di fastidio nel vedere che i due Cavalieri d’Oro erano scomparsi e le daghe nere stavano fendendo il vuoto. –“Cosa?” –Ringhiò, mentre un riverbero d’oro lucente esplodeva alle sue spalle, investendolo e gettandolo avanti, contro una montagna di cadaveri in putrefazione. –“Che razza di trucco è mai questo?”

 

“Nessun trucco.” –Parlò calmo il Custode della Porta Eterna, ritto, nel cielo sopra di lui, accanto a Ioria. –“Non dimenticare dove ti trovi, figlio di Nyx! Nel primo dei sei mondi che io controllo. Un mondo su cui non hai potere alcuno!”

 

Ahu ahu ahu! Era da tempo che non ridevo così di gusto, Vergine!” –Disse Erebo, rialzandosi e annientando, con la sua venefica emanazione cosmica, i corpi che aveva poc’anzi calpestato. –“Oseresti dunque affermare che sei tu, e non io, non Caos, a controllare questo luogo? Affermazione superiore persino alla tua ben nota superbia!”

 

“Non vi è superbia nella verità. Solo la semplice constatazione di un dato acquisito.”

 

“Acquisisci questo, allora!” –Avvampò il Nume, scatenando una pioggia di daghe. Ma anche quella volta Ioria e Virgo scomparvero, evitando l’attacco.

 

Anzi no. Non sono scomparsi. È come se l’ambiente stesso li abbia nascosti, accolti in sé, quasi fossero parte del tutto. Rifletté Erebo, concentrando gli affilati sensi e individuando dove sarebbero riapparsi.

 

“Può funzionare una volta, ma non due!” –Ringhiò, calando il braccio carico di energia cosmica. E scontrandosi con una cupola di luce dorata.

 

Kaan!!!” –Gridò Virgo, riparato al suo interno, concentrato al massimo sul mantenere la barriera.

 

“Tutta questa presunzione, la spazzerò via! Dies…” –Sibilò Erebo, preparandosi per il suo massimo attacco e notando, soltanto allora, l’assenza del Cavaliere di Leo.

 

Zanne del Leone!” –Esclamò questi, da qualche parte alle sue spalle, mentre una miriade di fulmini dorati scaturì dal terreno, investendo il Progenitore e avvinghiandosi, stridendo e contorcendosi come serpi di energia, sulla sua corazza oscura. –“Lightning Fang!”

 

Abbandono dell’Oriente!” –Disse allora Virgo, liberando un ventaglio energetico che travolse Erebo, spingendolo indietro e facendolo ruzzolare di sotto.

 

Nemmeno si era accorto, il Nume, di essere sul bordo di un rilievo, o forse di un precipizio. Difficile rendersene conto quando il paesaggio attorno a sé continuava a mutare. E lui quel mutamento lo odiava. Odiava non avere il controllo. Così, per farlo intendere anche ai Cavalieri di Atena, liberò una fiammata di cosmo mortifero, che prosciugò l’oceano, squassò le montagne e bruciò fino all’ultimo cadavere di traditori. Virgo fece appena in tempo ad afferrare Ioria, proteggendolo col Kaan, che l’onda nera li investì, distruggendo la barriera e sbalzandoli lontano. Nella tenebra.

 

***

 

“Svegliati Ioria!” –Esclamò una voce, prima di colpirlo con un ceffone.

 

“Uh?” –Balbettò il bambino, tirandosi su e massaggiandosi la guancia indolenzita.

 

“Devi essere sveglio durante uno scontro! Cosa vuoi, che un nemico ti uccida perché stai dormendo?” –Ringhiò l’uomo di fronte a lui. Sui trent’anni, rivestito da una cotta di rame e cuoio, lo fissava con sguardo torvo, sistemandosi una benda sul (mancante) occhio destro.

 

Ioria sapeva quando l’aveva perso, in una delle battaglie combattute in Africa, contro un gruppo di Savanas che aveva preso d’assedio la Biblioteca d’Alessandria. Per quanto non fosse competenza di Atene, il Grande Sacerdote aveva inviato due Cavalieri d’Oro a portare aiuto al saggio custode di così tanta cultura, ritenendo che quell’atto ostile aggredisse la saggezza e la sapienza di tutti i regni divini. Ma nessun’altro aveva risposto all’appello, nascondendosi dietro i propri confini, così il glorioso Agamennone e il suo parigrado Tristano avevano dovuto combattere da soli contro la banda del Mamba Nero, e se Agamennone aveva perso solo un occhio a Tristano era andata peggio, morendo là, lontano dai ghiacci della Siberia, sepolto con poca cura ai margini di un’oasi.

 

“Se tu fossi venuto in Africa con me, quella guerriera ti avrebbe sbranato in un sol boccone! Ai serpenti piace la dolce carne di bambino!” –Gli disse, afferrandolo per la maglietta e tirandolo su.

 

“Sì padre.” –Si limitò a commentare Ioria.

 

“Adesso in guardia. E cerca di non perdere i sensi di nuovo! Da quanto tempo combattiamo? E ancora non sei in grado di parare un semplice pugno?”

 

“Lascialo stare! Ha bisogno di riposare, non vedi?” –Intervenne la voce di un ragazzo, attirando l’attenzione di Ioria, che, vedendolo arrivare, subito si illuminò.

 

“Riposare? I nemici di Atena non riposano mai. Si approfitteranno, un giorno, del suo giovane cuore, e anche del tuo, Micene, se non mostri più disciplina!”

 

“Come desideri, padre. Sono venuto per portarti un messaggio. Il Primo Ministro desidera parlarti.”

 

“E che vuole quel vecchio? Cosa sei adesso, il suo galoppino? Un Cavaliere d’Oro non dovrebbe abbassarsi a simili lavori!” –Grugnì Agamennone, allontanandosi.

 

Micene, allora, si voltò verso Ioria, sorridendogli. Gli pulì il sangue che usciva da una ferita allo zigomo e poi gli porse un nastro colorato.

 

“Che cos’è?” –Gridò subito il bambino, felice.

 

“La tua fascia di apprendista. Anch’io, alla tua età, ne avevo una.”

 

In tutta risposta, Ioria lo abbracciò, strappando al fratello un sorriso affettuoso. –“Vorrei che fossi tu ad allenarmi. Agamennone è cattivo. Non mi fa mai riposare.”

 

“Ti aiuterò, ma cerca di non disobbedirgli. Sai com’è fatto, a modo suo sta cercando di prepararti. Di preparare tutti noi.”

 

“A cosa?”

 

“All’oscurità.” –Mormorò Micene. –“All’oscurità che sta per calare sulla Terra!”

 

***

 

Quando Ioria riaprì gli occhi, vide solo buio. Una tenebra senza fine.

 

Si massaggiò le tempie e poi si tirò su, cercando un punto di riferimento. Ma non vide niente, come se niente esistesse attorno. Persino il cosmo di Virgo sembrava lontano, per quanto sentisse che era lì, in quel mondo in cui il compagno aveva pensato di portarli, sperando di sfruttarne le caratteristiche per vincere Erebo.

 

Quasi lo avesse evocato, due puntini rossastri apparvero di fronte a lui. Due occhi di brace vomitarono una vampata di fiamme che investirono il Cavaliere d’Oro, intaccando la sua armatura. Spinto indietro, Ioria non cadde, né sbatté contro alcun muro o roccia, semplicemente barcollò e faticò per ritrovare una posizione stabile.

 

“È strano, non è vero?” –Parlò allora Erebo, mentre, nella tenebra di fronte a lui, una sagoma più nera del nero stesso, parve prendere consistenza. –“Anch’io all’inizio ho faticato a comprendere le leggi che regolano questo piccolo universo privato del tuo parigrado. La fisica degli uomini non ha valore, qua. È qualcosa di più vicino al concetto di creazione degli Dei ancestrali.”

 

“Dov’è Virgo? Cosa gli hai fatto?”

 

“Oh, la Vergine dai bei capelli d’oro è sparita. Sembra che ci abbia lasciato da soli, sacrificando anche il suo compagno. Come ci si sente, Cavaliere di Leo, ad essere traditi? Meriterebbe anche lui, dunque, di stare in questo mondo?”

 

“Taci! Non infangare il nome di uno dei più valenti Cavalieri di Atena!” –Esclamò Ioria, prima che, muovendo un passo avanti, Erebo si rivelasse del tutto, lasciandolo esterrefatto. Di fronte a lui, rivestito dalla corazza nera del Progenitore, c’era Micene. –“Quale oscuro artificio è in atto?”

 

“Niente che persino una zucca vuota come te non possa capire.” –Ridacchiò il Nume, avvampando nel proprio cosmo oscuro e travolgendo Ioria con un’onda di energia.

 

L’armatura del Leone andò in frantumi in più parti, aggredita, divorata, persino sciolta, dalla violenza del Progenitore, e per quanto Ioria tentasse di difendersi con i propri pugni luminosi, essi si perdevano all’istante.

 

“La tenebra che ti circonda è troppo grande.” –Commentò Erebo, muovendo le labbra di Micene e ricordando, a Ioria, una vecchia conversazione col fratello. Uno dei tanti ricordi messi da parte dopo il suo presunto tradimento, in un angolo della coscienza che, per tredici anni, si era rifiutato da aprire. –“Cosa può fare la tua misera luce?”

 

“Brillare!” –Rispose il Cavaliere d’Oro, mentre il suo cosmo cresceva e cresceva ancora, splendendo come una stella. –“Per Atena e per gli uomini! Ruggisci, costellazione del Leone! Per il Sacro Leo!” –E scattò avanti, puntando al Progenitore, a cui bastò muovere un braccio, generando una barriera di energia nera, per parare l’attacco e rimandarglielo indietro.

 

Fu in quel momento, mentre Ioria veniva massacrato dalle sue zanne, che Virgo apparve alle spalle di Erebo, schioccando le dita. Il paesaggio cambiò all’istante e dove prima c’era tenebra adesso c’era una fitta selva, popolata di mostri e bestie.

 

“Arguisco che questo sia il mondo dei violenti.” –Commentò il Progenitore.

 

“Per la verità è quello degli ipocriti. La loro pena è quella di essere tramutati in bestie, per aver mostrato un'altra faccia in vita.” –Rispose Virgo, zittendosi non appena Erebo si girò.

 

Ogni volta che lo fissava, a Virgo sembrava di vedere uno dei suoi discepoli. Prima Loto, poi Pavone, poi Ana, infine Tirtha. E di nuovo Dhaval e Ana. Ana, sempre Ana, che tornava a tormentarlo anche a distanza di anni.

 

“Non funzionerà!” –Disse, con voce troppo debole da non convincere neppure se stesso.

 

“Tu dici? Persino Zeus ha frenato il suo colpo. È l’indole umana, e degli Dei che dell’asservimento agli uomini hanno fatto il fulcro del loro potere, a essere emotiva, a lasciare che gli affetti dominino, annullando la ragione. Noi Divinità Ancestrali non proviamo simili sentimenti, anzi non proviamo affatto sentimenti. Noi conosciamo solo la vittoria. Quella che adesso mi prenderò!” –E mulinò un affondo col braccio destro, a forma di lama di tenebra, che Virgo tentò di parare con il bracciale dell’armatura d’oro, che subito si schiantò, bruciandogli la pelle al di sotto. –“Fa male? È il dolore che i tuoi discepoli vorrebbero infliggerti, per averli abbandonati e lasciati a morire! Dolore che ti sei più che meritato!”

 

“Così è.” –Disse semplicemente Virgo, prima di espandere il proprio cosmo, molto più di quanto avesse fatto fino ad allora. A Erebo, in quel fugace sguardo che rivolse attorno a sé, sembrò di vedere tutte le bestie del terzo mondo voltarsi a fissarlo con astio, prima che scattassero contro di lui. Lupi e leoni, serpi e rapaci furiosi.

 

Erebo rise, incurante dei loro artigli, lasciando che si sfogassero per qualche istante, senza provocargli danno alcuno. Poi, quando ritenne si fossero divertiti abbastanza, li annientò con un’esplosione di energia. Anche Virgo, davanti a lui, venne disintegrato dalla detonazione, strappandogli un moto di sorpresa, prima di rendersi conto che si trattava soltanto di un’immagine residua.

 

In quel momento, due ben note voci urlarono alle sue spalle.

 

Per il Sacro Leo! Abbandono dell’Oriente!”

 

I due attacchi luminosi si strinsero su di lui, ma Erebo, voltandosi, li spezzò in due con una sciabolata del braccio destro, lasciando che il resto si schiantasse sul velo di tenebra che lo rivestiva. Così densa da tenere a distanza qualsiasi forma di luce.

 

Eppure, mentre sollevava il braccio per liberare l’attacco finale, il Progenitore sentì una fitta improvvisa, simile a quella che l’aveva invaso durante lo scontro con Zeus. Una fitta di luce che lo piegò un momento in avanti, di fronte agli occhi stupiti di Ioria e attenti di Virgo, prima che, con un ruggito d’odio puro, si ritirasse su e scatenasse la furia del suo attacco.

 

Dies irae!!!”

 

La violenta emanazione cosmica distrusse il terzo mondo degli ipocriti, e Virgo glielo lasciò fare, mentre lui e Ioria, pur rimanendo fermi sul posto, si allontanavano, sbiadendo, scomparendo tra i mondi, facendosi sempre più distanti, e solo quando ritenne che l’attacco avesse esaurito la sua carica distruttiva il Cavaliere ricominciò a respirare, fermandosi e accasciandosi esausto. Guardandosi attorno, Ioria vide che si trovavano adesso sulla mano del Buddha, il sesto mondo di cui era guardiano.

 

L’ultimo.

 

“Intelligente.” –Disse Erebo, che si trovava a poca distanza da loro. –“Ha sacrificato tutti i mondi, lasciando che il Giorno dell’Ira li distruggesse, trasportando lui e te fino qua. Una misura estrema che di certo lo ha consumato, per cui rimani soltanto tu, Ioria del Leone. Sei pronto a raggiungere tuo fratello? E no, non sto parlando di questo ridicolo viso in cui ti specchi? Intendo il fratello che hai abbandonato per anni, lasciandolo marcire da solo, ritenendolo colpevole?”

 

“Aspetto quel giorno da molto tempo, Erebo! E, se tu avessi mai amato qualcuno, lo sapresti!”

 

“Oh, ma io ho amato i miei congiunti! Così tanto che li ho voluti con me!” –Ghignò il Progenitore, sfiorandosi il cuore. –“Non te li ho presentati? Coraggio, fatti avanti! Incontra Nyx e Etere! Vieni, leone, mostrami le zanne!”

 

Guardando Virgo, prostrato ai suoi piedi, debole come non l’aveva mai percepito, forse neppure quando Anhar ne aveva abbandonato il corpo, Ioria strinse la mano destra a pugno, lasciando che le scintille dorate del suo cosmo balenassero.

 

“Erebo! Preparati, vengo da te!”

 

“Non aspetto altro!” –Sibilò il Progenitore, sollevando l’aura mefitica.

 

Per il Sacro Leo!” –Gridò il Cavaliere d’Oro, scattando avanti. E in quel reticolato di luce, che si chiuse su Erebo, dilaniando la cortina di tenebra, mise tutto se stesso, tutta la sua vita, tutti i ricordi che lo avevano fatto sorridere e piangere, e l’avevano reso quello che era. Ci fu posto, in quel breve lampo di luce, in quella frazione di vita, per tutti coloro che aveva amato. Lythos e Galan, suo padre, il valoroso Agamennone, Micene suo maestro, Micene il traditore, Micene il fratello che non aveva capito, Capricorn, Virgo, Castalia, Pegasus, Atena. E Reis, dolce Reis, a cui aveva promesso che si sarebbero rivisti, nel cuore della battaglia, per dirsi un’ultima volta addio.

 

Una promessa che non avrebbe mantenuto.

 

Con un semplice movimento del braccio, Erebo falciò via la ragnatela luminosa, conficcando la lama dello spadone di tenebra nel ventre di Ioria, impalandolo così, di fronte agli occhi silenziosi di Buddha. Poi lo gettò via, accanto all’inerme Virgo, mentre la grande statua sopra di loro piangeva la loro sconfitta.

 

“È stato divertente! Ma adesso devo tornare al Primo Santuario! Ho altri Dei da uccidere e voi, senza offesa, non siete alla mia altezza! Per cui…” –Disse Erebo, sollevando il braccio destro, avvolto da una spirale di cosmo nero, ma quando fece per calarlo una crepa si aprì sul pettorale della sua armatura. Una vistosa crepa da cui fuoriuscì una luce biancastra. –“Ma… cosa? Non è possibile!”

 

Virgo, nel sentirlo urlare, risollevò lo sguardo, scuotendo il parigrado e aiutandolo a rialzarsi, entrambi sconcertati da quell’improvviso miracolo.

 

“Ioria… L’hai colpito?”

 

“No…” –Rantolò il Cavaliere di Leo. –“Non l’ho nemmeno raggiunto.”

 

“E allora chi?”

 

Proprio in quel momento una seconda crepa, ancora più ampia, trinciò in due il pettorale dell’armatura delle tenebre, all’altezza del cuore, distruggendo la scritta in caratteri rossastri e lasciando che una fiamma bianca ne uscisse.

 

Aaargh! Maledizione! Cos’è questo dolore improvviso? Cos’è questa… luce?” –Disse Erebo, incredulo, prima di iniziare a comprendere. –“Non può essere! Etere?”

 

E una voce gli rispose, una voce che parve provenire dalla luce stessa.

 

“Non essere sorpreso, padre! Il tuo destino, in fondo, non sarà diverso da quello di altri tiranni. Urano, Crono, non sono tutti caduti per mano dei loro figli?”

 

“Maledetto bastardo! Come osi rivolgerti a me in questo modo? Tu sei morto! Io ti ho assorbito! Io ti ho fatto mio!”

 

“Sì, lo hai fatto e, nel farlo, ti sei assicurato la mia sopravvivenza! Credevi davvero che, per quanto oscura e enorme, la tua tenebra potesse estinguere del tutto la Luce del Cielo più Alto? La Luce di uno dei quattro Progenitori?” –Parlò Etere, la cui sagoma, chiara ed evanescente, sembrò fluttuare di fronte al Tenebroso per qualche istante, voltandosi verso i due Cavalieri di Atena e sorridendo loro. –“C’eri quasi riuscito, devo dire. Ma una scintilla, una soltanto, è rimasta sopita dentro di te, aspettando il momento giusto per liberarsi. E questi giovani Cavalieri, dal cuore pieno d’amore, devoti ai loro ideali e pronti a dare la vita affinché pace, giustizia e libertà trionfino, l’hanno risvegliata!”

 

“È troppo tardi! Io vincerò! Io sono il dominatore delle tenebre, l’uccisore di Nyx, il divoratore della luce, il figlio che Caos metterà sul trono dei mondi!” –Gridò Erebo, espandendo al massimo la propria aura di tenebra, che sormontò persino il Buddha, mandandolo in frantumi.

 

“Sì, lo sei. Ma non dimenticare chi sono io. Colui che, già una volta, ha posto fine alle tue ambizioni. Emera, la mia dolce sorella, me lo ha ricordato.” –Ammise Etere, prima di rivolgersi ai paladini di Atena. –“Cavalieri d’Oro! Perdonatemi, non ci hanno formalmente introdotti! Io sono Etere, Signore della Luce del Cielo! Nacqui da Nyx e da Erebo per bilanciare la loro oscurità, dando vita a quell’equilibrio perfetto che avrebbe dovuto regolare la vita sulla Terra secondo Caos. Ma poi, quando i miei genitori avvelenarono l’animo del Generatore di Mondi facendone un tiranno e la Prima Guerra scoppiò, persi il mio candore, dovendo scendere in guerra. A volte, per un ideale, si compiono atti imbarazzanti, l’ho imparato anch’io, sporcandomi. Ma se ne vale la pena, ben venga anche la sporcizia. Aiutatemi, Cavalieri di Atena! Aiutate Etere, fratello di Emera e uccisore di Erebo, a tener fede al suo epiteto!”

 

Maledettooo!!!” –Gridò il Signore delle Tenebre, spalancando le braccia e liberando una devastante ondata di energia oscura, a cui Etere tentò di opporsi, con la poca luce che ancora gli restava.

 

“Adesso, Virgo!” –Esclamò Ioria, espandendo al massimo il cosmo, memore degli scontri con i possenti Titani nel Labirinto di Crono. –“Non avremo un’altra possibilità! La Terra non l’avrà!” – Al suo fianco il Custode della Porta Eterna annuì. –“Ceo! Iperione! Che il vostro cosmo retto guidi il mio pugno per l’ultima volta! Che le mie stelle si carichino del Keraunos e del vostro ichor, per risplendere più fulgide che mai! Photon Burst!” –Gridò, liberando una pioggia di astri che investì Erebo da ogni direzione, trapassando la cortina di tenebra e piantandosi nel suo corpo, aprendo nuovi buchi sulla sua corazza. Buchi da cui la luce di Etere continuava a traboccare fuori.

 

“Ana, e voi tutti discepoli di Virgo! Ascoltate la mia preghiera di pace e sostenete il vostro maestro nell’ora del tramonto!” –Parlò Virgo, il cui cosmo rilucette in un ventaglio d’energia dorata che si chiuse su Erebo, facendolo strillare. –“Ultima luce dell’Oriente!” –Urlò, e per un momento gli sembrò di sentire tutti i suoi discepoli con lui. Ana, Loto, Pavone, Dhaval, Pavit, Tirtha, Virnam, Arnav, Mahendra.

 

“Voi… siete… tutti… folli!” –Ringhiò Erebo, stravolto dall’ira e dal dolore che la fiamma bianca di Etere gli stava causando nel cuore. –“Morite, maledetti! Scomparite, voi e questo mondo! Dies Irae!”

 

L’assalto si abbatté sui Cavalieri d’Oro, distruggendone le corazze e i corpi e lasciando soltanto un mucchietto di polvere di stelle. Ma in quel momento i protoni di Ioria, sostenuti dal cosmo di Virgo e dalla luce di Etere, dilaniarono Erebo dall’interno, in un’esplosione che disintegrò quel che restava della statua di Buddha e del sesto mondo. Poi tutto finì.

 

***

 

Quando Erebo, Virgo e Ioria erano scomparsi davanti ai suoi occhi, Zeus era rimasto per un momento a fissare il vuoto, come se, per la prima volta in una millenaria vita, non sapesse cosa fare. Spostò lo sguardo sul cadavere di Eracle, a cui non aveva avuto neppure il tempo di chiudere gli occhi, sui corpi massacrati di Ermes ed Efesto, su quelli dei Cavalieri Celesti che lo avevano seguito in quella dannata impresa, infine su Atena, che stava cercando di rialzarsi, aiutandosi con lo Scettro di Nike.  Da qualche parte, il vento aveva disperso anche i resti di Ganimede, degli Heroes e della coraggiosa Titis che forse, depositandosi, avrebbero ricordato agli uomini quanto la fede nella propria missione potesse essere giusta e nobile. Chiuse la mano destra a pugno, lasciando scintillare l’energia che ancora aveva dentro, e si voltò. Verso le devastate mura perimetrali del Santuario delle Origini. Verso quel che si celava al suo interno e che aveva scatenato quella carneficina.

 

Fu allora che vide le comete d’oro.

 

Lassù, alte, nel cielo d’occidente, due sottili scie luminose fendettero la cappa di tenebra, prima di svanire. E al tempo stesso Zeus sentì venir meno un’oppressione sul cuore, un’oppressione che l’aveva invaso fin dal primo scontro con Erebo ad Asgard.

 

E allora capì.

 

Chiuse gli occhi, lasciando che una lacrima gli scivolasse sulla guancia ferita, prima che i rumori attorno lo distraessero. Forse liberi dall’ombra del Progenitore, gli altri Dei e i Cavalieri stavano, con molta fatica, rimettendosi in piedi.

 

“Padre…” –Mormorò Atena, avvicinandosi, una mano sul fianco ferito, l’altra che si stringeva alla lancia di Nike.

 

“Ho un messaggio per te, figlia mia. Un messaggio d’amore.” –Le disse, accennando un sorriso, permettendole di comprendere. E di crollare in ginocchio.

 

“Li ho uccisi io, trascinandoli in questa guerra. Li ho uccisi tutti. Ioria, Virgo, Reda, Salzius, Kama, Nicole, i soldati, le arrefore, le ergastine, persino gli apprendisti.” –Singhiozzò Atena. –“E quelli che ancora resistono, quelli che ancora insistono a seguirmi, saranno i prossimi.”

 

“Questo non è vero, e lo sai bene anche tu. Quello che hai fatto, quello che noi Dei facciamo, o dovremmo fare, è dare agli uomini uno scopo, una fede in cui credere, un progetto per cui lottare. E loro lo hanno fatto. Loro lo faranno fino alla fine.”

 

“Zeus ha ragione, milady!” –Intervenne Andromeda, avvicinandosi, sorreggendo Cristal. –“I Cavalieri d’Oro non avrebbero potuto desiderare fine migliore se non sconfiggendo la Tenebra Infernale.”

 

“Loro ci hanno insegnato a credere, a sbagliare, a lottare, senza mai rinunciare.” –Disse Cristal, tra le lacrime. –“Ioria, Virgo, e anche Mur, Libra, Scorpio, tutti loro!”

 

Anche Castalia, stretta tra le braccia del fratello, aveva percepito la scomparsa del cosmo del Leone, e Asher, poco distante, tirato su da un’affaticata Tisifone, aveva appena tirato un pugno per terra.

 

“Conserva le forze. Ne avrai bisogno. Ne avremo tutti bisogno. Non è ancora finita!” –Disse la Sacerdotessa, prima che il suo pensiero andasse a Titis. –“Addio amica mia. Julian Kevines aspetterà vanamente il tuo ritorno ma tu, pesce o sirena, quel che sarai nella prossima vita, continuerai a vegliare su di lui. Ne sono certa.”

 

“Addio Cavaliere di Leo! Addio valoroso combattente della giustizia!” –Disse Nikolaos, battendosi una mano sul petto e ricordando il loro primo scontro, nel bosco dell’Olimpo, l’inizio di quella strana ma sincera amicizia.

 

Ioriaaa!!!” –L’urlo di Pegasus squarciò il silenzio, costringendo tutti a voltarsi verso il Cavaliere che, chino sulle ginocchia, stava piangendo. Per Ioria, per gli Heroes, per tutti i Cavalieri, soldati e Dei che erano caduti dall’inizio della battaglia, per gli altri che ancora sarebbero caduti.

 

“Pegasus!” –Lo chiamò Andromeda, con voce dolce. –“Alzati, amico mio. La strada prosegue e abbiamo bisogno di te!” –E allungò una mano, per aiutarlo a tirarsi su.

 

***

 

Appoggiato alla ringhiera di legno del portile di Santa Monica, un ragazzo dai capelli biondi sospirò. Era mattina, o quanto meno avrebbe dovuto esserlo, sebbene il sole non fosse ancora sbucato, coperto da una cappa di nuvole che Galarian Steiner, fin dall’inizio, aveva sospettato essere innaturale. Non aveva più i sensi affinati come durante l’addestramento, ma sapeva ancora fiutare un pericolo.

 

“Ioria, amico mio. Hai raggiunto Micene, combattendo anche per noi. Portagli i miei saluti! E presto ci ritroveremo, tutti e tre, come quindici anni fa.”

 

Una ragazza, magra e non troppo alta, con mossi capelli verdi, che facevano l’invidia e la curiosità di chiunque la guardasse, gli si avvicinò, prendendogli una mano.

 

“Era lui, non è così? Padron Ioria… avete trovato pace alla fine.”

 

Sospirando, Galan annuì.

 

 

 

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Capitolo 35
*** Capitolo trentaquattresimo: Nessun riposo. ***


CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO: NESSUN RIPOSO.

 

La scomparsa dei cosmi di Ioria e di Virgo, e quello di Erebo, venne avvertita ovunque sul campo di battaglia. La sentì Reis che, nella piana di fronte alla Porta della Notte, menava fendenti con la Spada di Luce in ogni direzione, per tenere a bada la marea di Guerrieri del Caos che, nonostante la morte di Nyx, continuava a uscire dal Santuario delle Origini. La sentì e per un momento vacillò, e per poco una lancia non le tagliò la testa se Jonathan non l’avesse intercettata con lo Scettro d’Oro.

 

“Reis!” –Le gridò, facendosi spazio e portandosi di fronte a lei. –“Matt! Elanor! Chiudete il cerchio!” –E i due ragazzi, dall’altro lato, si strinsero a lui, fino a generare una sfera unica di cosmo, che poteva, all’occorrenza, espandersi in ogni direzione.

 

Asterios ne era la punta, con il cosmo che, pur fiaccato da Nyx, si abbatteva sull’Armata delle Tenebre, come una corrente oceanica, tenendola indietro; Matthew, Elanor, Jonathan e Reis lo affiancavano su un lato, mentre sull’altro resistevano Hubal, Avatea e gli Areoi, proteggendo Tirtha, i santoni indiani feriti e gli ultimi guerrieri inca che riposavano al centro del cerchio. Tutto attorno vi era solo oscurità.

 

L’Arconte Verde aveva percepito, nelle ultime ore, tutti gli scombussolamenti in atto, tremando, quasi piegato in due dal dolore, quando aveva sentito scomparire i cosmi di Andrei e di Asterios. Così, all’improvviso, come se fosse stata tagliata loro la testa. Poi, con grande sforzo (che aveva quasi rischiato di deconcentrarlo dagli scontri attorno), si era reso conto che i fratelli erano ancora vivi. Deboli, feriti, forse anche svenuti, ma vivi. E questo gli era bastato per rinvigorire i propri attacchi.

 

Ma l’Armata delle Tenebre non aveva smesso di fuoriuscire dalla Corte della Notte, impedendogli di correre in aiuto degli altri Angeli. Del resto, era così che avevano deciso di procedere, ognuno alla propria Porta, ognuno con il proprio obiettivo.

 

Se Avalon fosse qua, se fosse tra noi, forse avremmo già preso questo Santuario! Rifletté, realizzando di sentire, per la prima volta, la mancanza del fratello maggiore. Lui era il primo nato, tra loro, ma era anche il più saggio e previdente, colui che aveva destinato l’intera sua esistenza al realizzarsi di uno scopo e, per farlo, si era servito anche di loro. A volte, in passato, Asterios non aveva capito tutta la sua dedizione, eppure, di fronte agli orrori di quel giorno, fu fiero di averlo avuto come fratello e guida di tutti loro, anche del più scettico. O disinteressato, come a volte Andrei lo aveva definito.

 

Sorridendo, l’Arconte Verde radunò il cosmo, levando alto il braccio destro e scatenando la furia delle correnti oceaniche. –“Trionfo d’Acqua! Avalon, questo colpo è per te!” –E disperse l’Armata delle Tenebre, permettendo ai compagni di rifiatare. E di onorare i caduti.

 

Mi hai mentito! Mormorò Reis, fissando il cielo, quasi sperando di vedere le stelle del Leone oltre la cappa nera. Mi avevi promesso che ci saremmo ritrovati, come ci siamo sempre ritrovati, in Egitto o in Tessaglia, nel cuore di una battaglia. Eppure stavolta te ne sei andato, in silenzio, senza neppure avermi detto addio. Jonathan, in quel momento, le mise una mano su una spalla, accennando un sorriso che, stancamente, lei ricambiò. Forse avremo modo di dircelo, e di dirci molte altre cose, quanto prima! Nell’attesa veglia su di noi! E proteggici con le tue zanne dorate!

 

***

 

Di fronte alla Porta del Giorno, Amon Ra si era appena rimesso in piedi. La splendida Veste Divina era danneggiata e sporca, ben diversa dalla luminosità del Sole d’Egitto, ma la sua maggiore resistenza e il non averla utilizzata per secoli gli aveva permesso di sopravvivere. Lo stesso non poteva dirsi dei soldati che l’avevano accompagnato.

 

Sia i Faraoni delle Sabbie che i Guerrieri del Sole erano caduti. Amon Ra li avrebbe sempre ricordati e, se fosse riuscito a tornare a Karnak, avrebbe fatto scrivere i loro nomi sulle mura della Sala Ipostila e avrebbe elevato statue in loro onore. I nomi, del resto, li ricordava tutti, forte di una memoria che l’amico di suo figlio, in una delle loro conversazioni, aveva definito eidetica, un termine che lui non conosceva ma che ben si adattava alla sua capacità di ricercare nella mente, con facilità, immagini del passato. Anche lontano.

 

Osorkon del Falco, Tutmosis dell’Ibis Reale, persino Ermanubi dello Sciacallo, vittima di un potere più grande di lui, e tutti i loro compagni, assieme a Naveed, Net, Yanara, e a Sekhmet, Osiride e Iside, Duamutef, Hapi, Imset e Qebensuf. Nella nuova Karnak ci sarebbe stato posto anche per loro, per il passato, per ciò che aveva permesso l’esistenza di quel presente.

 

Udendo i gemiti di dolore di Horus, il Nume d’Egitto si avvicinò al figlio di Osiride, che faticava a rialzarsi, trafitto alla schiena da un colpo di spada che gli aveva spezzato qualche vertebra. Amon si chinò su di lui, sfiorandogli la pelle insanguinata e recitando un antico canto, forse tratto dagli inni in suo onore, infondendogli un po’ di cosmo per chiudere la ferita. Fece altrettanto con Febo, Marins, Phoenix, Bastet, Pentesilea e l’altra Amazzone sopravvissuta, Mirina, dai lineamenti delicati, originaria forse del vicino Oriente. Ma quando si mosse per aiutare Andrei, questi lo prevenne, avvampando in una fiammata ristoratrice e pregandolo di conservare le forze. Si volse verso le mura, chiedendosi cosa fosse accaduto all’interno, prima di incamminarsi in direzione della Porta del Giorno. Senza fiatare, i restanti membri dell’alleanza lo seguirono. Per ultimo, anche Phoenix si mise in cammino.

 

“Vieni, Cavaliere?” –Lo chiamò Marins, strappandogli un grugnito d’assenso.

 

Levando lo sguardo verso il cielo nero, a Phoenix parve di vedere due comete dorate falciare le nubi, per mandare loro un ultimo saluto. –“Virgo… Anche tu ci hai lasciato? L’alta casta ha dunque cessato di esistere?” –E ricordò il loro scontro alla Sesta Casa, quanto aveva faticato per vincere la sua resistenza, prima di tutto mentale poi fisica. –“Sei con i tuoi discepoli, alla fine.”

 

Gli parve quasi di sentire una parola portata dal vento, soffiar via la polvere e ricoprire i morti che si lasciavano alle spalle. Una parola soltanto: no.

 

Annuendo, il Cavaliere di Phoenix seguì Andrei e gli altri, certo che Virgo gli avesse risposto. Il ricordo dei Cavalieri d’Oro non morirà mai e un giorno, alla fine di tutto, ci ritroveremo nel paradiso dei Cavalieri e berremo ambrosia, o chissà cosa Ganimede ci servirà, e ricorderemo i giorni degli scontri, le corse contro il tempo e tutte le volte in cui abbiamo salvato il mondo. Fino a quel momento, io combatterò!

 

***

 

Furono i druidi a svegliare Ascanio, aiutandolo a sollevarsi dalla pozza di sangue e morte in cui Erebo l’aveva precipitato. Intontito, il Comandante dei Cavalieri delle Stelle ebbe bisogno di qualche secondo per mettere a fuoco l’immagine dei due anziani che lo tenevano e gli parlavano, per stimolare la sua reazione.

 

“Owain? Siete ancora vivi? Credevo che…” –Ma il druido gli fece cenno di non affaticarsi, spiegando di essere rimasto indietro, assieme ad alcune sacerdotesse e discendenti dell’isola di Mu. Attempati, stanchi e feriti, non erano riusciti a seguire il resto dell’Alleanza nell’assalto contro la Porta della Luce e, forse, questo aveva permesso loro di non essere travolti da Erebo, che di certo non si era soffermato su un mucchietto di miserabili esseri umani. –“Sono… felice che state bene.”

 

Anche Sirio, poco distante, stava cercando di rimettersi in piedi, la bella armatura divina danneggiata in più punti, lo scudo in frantumi. Non che sia una novità, si disse, trattenendo un sorriso al ricordo di tutte le volte in cui qualche avversario era riuscito a distruggerlo. Magari un giorno qualcuno l’avrebbe fatta davvero una lista del genere. Qualcuno che gli sarebbe succeduto.

 

“Ryuho…” –Mormorò, al pensiero di Fiore di Luna che lo aspettava, del caldo abbraccio a cui si sarebbero abbandonati, dell’odore fresco dei suoi capelli.

 

“Sirio! Ascanio! Venite qua!” –Li chiamò allora Alexer che, nel frattempo, si era portato davanti alla Porta della Luce, raggiunto da uno zoppicante Vidharr. Di Idunn nessuna traccia, di certo anch’ella caduta nell’assalto di Erebo.

 

Ascanio sentì il figlio di Odino mormorare qualcosa, forse una preghiera in norreno, realizzando che adesso era rimasto l’ultimo Ase ancora vivo. L’ultimo di una stirpe di Divinità vissute oltre i confini di quel mondo. E capì cosa provasse, un sentimento non dissimile da quello che l’aveva invaso dopo la rivelazione sulla cima dell’Isola Sacra, quando aveva visto suo padre per la prima volta. Il suo vero padre. E che, solo qualche ora prima (impossibile definire quante), gli era passato davanti, splendido sul suo stallone bianco e la lama argentata in mano. Chissà se era stata la prima Caliburn, quella che Arthur aveva stretto in mano, quand’era piombato sulle Morrigan?

 

“Dobbiamo andare!” –Esclamò l’Angelo Azzurro, prima di voltarsi verso il portone e sfiorarlo, spingendolo indietro con una corrente d’aria, senza incontrare resistenza.

 

Con cautela, guardandosi attorno temendo un attacco, i superstiti al massacro di Erebo avanzarono nella Corte della Luce, che era semplicemente un altro pezzo di deserto circondato a ovest dalla muraglia, in parte distrutta, che correva verso la Porta della Notte, e a est da quella che correva verso la Porta del Giorno, dove in realtà non c’era più niente. Pareva che la residenza di Emera, se di essa si trattava, fosse collassata su se stessa, costellando la spianata desertica di pezzi di roccia e macerie.

 

Nella Corte della Luce non incontrarono nessuno e non percepirono alcuna presenza. Insospettito, Alexer espanse i propri sensi, lasciandoli scivolare sulla polvere, sulla roccia, sull’intera struttura del Primo Santuario, ma non trovò niente. Sembrava che quel luogo fosse avvolto nel nulla.

 

“Se ci sono dei nemici, sanno nascondersi piuttosto bene!” –Commentò, trovando Vidharr, Sirio e Ascanio concordi. –“Le uniche tracce che percepisco provengono dalla nostra destra.” –Aggiunse, voltandosi verso le mura che portavano alla Porta del Giorno, in fondo alle quali un gruppetto di note figure stava avanzando.

 

“Febo! Marins!” –Esclamò Ascanio, riconoscendoli. –“E c’è anche Phoenix!” –Disse Sirio. –“E Andrei e gli Dei d’Egitto!” –Concluse Alexer, riconoscendo Amon Ra, Horus e Bastet. Ma poi, a parte due malconce e silenziose Amazzoni, non c’era nessun’altro con loro. E a quella vista l’Angelo d’Aria si rattristò.

 

“Sono lieto di vederti ancora vivo, fratello!” –Disse Andrei, avvicinandosi.

 

“Lo stesso vale per me. Sebbene troppi siano caduti, per permetterci di arrivare fin qua!” –Commentò Alexer, ricordando Idunn e Eir, e tutti i druidi, gli apprendisti, le sacerdotesse dell’Isola Sacra e gli abitanti della Montagna Bianca che non era riuscito a proteggere.

 

“Nessuno di loro sarà caduto invano, Arconte Azzurro! Io, Sole d’Egitto, posso assicurartelo!” –Declamò Amon Ra, strappando un sorriso stanco a tutti i presenti.

 

“Come procediamo, adesso? Questo posto sembra più deserto del deserto!” –Disse allora Marins.

 

“Cautela, giovane yankee! Caos potrebbe avere ancora molte frecce al suo arco! Anzi, per la verità, io credo che disponga di una faretra inesauribile!” –Disse Amon Ra. –“Pur tuttavia mi chiedo…” –E anche Alexer e Andrei si scambiarono un’occhiata veloce. –“Cosa sta aspettando?”

 

In risposta alla sua domanda, il suolo tremò. Ma non fu semplicemente una scossa, fu un vero e proprio movimento delle zolle terrestri che trasportò gli Angeli e i Cavalieri avanti, facendoli ruzzolare a terra, mentre mura crollavano e altre ne sorgevano, mentre artigli di roccia sbucavano dal terreno e le forze dell’Alleanza finivano a sbatterci dentro, mentre voragini si aprivano e sparavano fuori gas nocivi o rigurgiti di tenebra o fiamme nere, e tutto quel che poterono fare fu continuare a ruzzolare, quasi stessero precipitando in orizzontale. E quando il movimento si placò, e poterono sfiorare il suolo senza che questo gli scappasse via dalle mani, videro che, attorno a loro, c’erano altre figure in armatura, sporche e macchiate di sangue come loro. E allora risero poiché infine si erano ritrovati.

 

“Pegasus!” –Gridò Sirio. –“Cristal! Andromeda!”

 

“Fratello!” –Esclamò subito Andromeda, correndo verso Phoenix.

 

Anche gli Arconti si ritrovarono, e i Cavalieri delle Stelle si riunirono al loro Comandante, i Talismani ancora saldamente nelle loro mani. Intonsi.

 

Notando Amon Ra, Zeus si avvicinò a passo lento, seguito da Ermes e da Efesto, che si reggevano l’un l’altro, da Nettuno, Demetra e Atena con i suoi sparuti Cavalieri, da Sin degli Accadi, con l’armatura a pezzi, e da Toma, Nikolaos e Shen Gado.

 

Avatea, stanca e ferita, abbracciò il Capitano dei Seleniti, come una madre avrebbe abbracciato un figlio, mentre Hubal si limitò a poggiargli una mano su una spalla. Toru e gli Areoi rimasero ai margini del gruppo, sentendosi esclusi da tutti quei legami, ma una dama bianco vestita li avvicinò. Per quanto sporca e ferita, Rhiannon era ancora bellissima, o così parve ai giovani Areoi, mentre si chinava su di loro, per esaminare le loro ferite e offrire una stilla del suo cosmo guaritore.

 

“Fa così con tutti!” –Disse Arawn, presentandosi. –“Non riesce a farne a meno. Puoi dirle “tienilo per te” quante volte vuoi, ma fa sempre di testa sua. È una donna, no?”

 

“E tu abbai sempre come un cane!” –Lo rimbrottò lei, strappandogli una risata.

 

“Non farmi pensare ai miei levrieri! Sommersi dalle macerie e svuotati da quella bestia!” –E scosse la testa, mentre Zeus si incontrava con Amon Ra e Vidharr.

 

“Signore della Folgore!” –Esclamò il figlio di Odino, accennando un inchino. –“Infine ci siamo ritrovati! Sia pur in una compagnia ben più ridotta!”

 

A quelle parole Zeus annuì, prima di porre la domanda che tutti si stavano chiedendo. –“Cos’è successo? Abbiamo varcato la Porta delle Tenebre e poi il suolo si è sollevato, e abbiamo temuto che una nuova bestia demoniaca sorgesse dagli abissi, e ci ha fatto rotolare fin qua.”

 

“Qualcosa di simile è accaduto a noi.” –Spiegò Asterios. –“Una faglia ci ha precipitato nell’oscurità, facendoci scivolare su un tappeto di roccia fino a farci sbucare, non so come, qua.”

 

“E dov’è questo qua?” –Domandò allora Pegasus, guardandosi attorno. Erano ancora nel deserto del Gobi, al centro di un enorme spazio vuoto, circondati da mura lontane che sembravano quasi chiudersi a cerchio.

 

No! Notò il Cavaliere. C’è uno spazio aperto proprio alle nostre spalle. Minimo ma sufficiente per farci passare tutti. Cos’è? Un invito ad andarcene finché siamo in tempo? Caos ha un perverso senso dell’ironia!

 

“Temo di avere una spiegazione!” –Intervenne Andrei, indicando il massiccio edificio centrale che era sorto davanti a loro e che gli ricordò alcune costruzioni del continente ove aveva a lungo soggiornato. –“Una ziggurat nera!”

 

“È immensa!” –Disse Jonathan, pensando al tempio di Isla del Sol, a quanto gli era sembrato grande la prima volta in cui vi era entrato, e quanto adesso, di fronte a tale oscura magnificenza, gli parve l’unghia incarnita del piede di un titano.

 

Era un grosso quadrato di pietra nera, sopra cui erano innestati altri tre blocchi, via via più piccoli, ma grandi a sufficienza per ridicolizzare l’arena del Grande Tempio o il complesso templare di Karnak. Sulla facciata del quadrato più alto, una lunga scalinata scendeva a picco dall’unica porta che permetteva l’accesso al monolitico santuario fino a una piattaforma centrale, a cinquanta metri dal suolo, dividendosi poi in due gradinate che correvano in diagonale a destra e a manca, fino a terra.

 

“Dunque questo è il Santuario delle Origini…” –Commentò Sirio. –“La sua versione definitiva intendo.”

 

“Definitiva?” –Mormorò Alexer, che aveva compreso l’intuizione del fratello. –“Sì, forse così può definirsi. Vedete le mura che ci circondano? Corrono circolarmente attorno a noi, convergendo proprio alle spalle della ziggurat, fondendosi con essa. Una forma di certo non casuale.”

 

“Principe della Valle di Cristallo, intendete dire…” –Disse Vidharr.

 

“Se avessi ancora le mie ali, mi alzerei in volo per cercare una conferma ma credo che anche da questa posizione sia piuttosto evidente la forma di questo santuario.” –E disegnò un simbolo sul terreno, lo stesso che Avalon aveva rappresentato durante l’assemblea dei regni divini nell’arena di Atene.

 

 

Un’Omega.

 

La fine di tutto.

 

Proprio in quel momento la porta della ziggurat si dischiuse e dalle tenebre un’alta figura, rivestita di una possente armatura da battaglia, ne uscì. La corazza era viola e nera, ornata di spuntoni, artigli e teschi, e dall’elmo, della stessa fattura, uscivano quattro rozze corna, una per ciascuno dei Progenitori. In mano stringeva una lunga asta con una lama ricurva in cima, simile a una falce, e proprio quell’arma abbassò, puntandola sulle forze dell’Alleanza. Un gesto eloquente per tutti loro.

 

Caos era arrivato. E voleva combattere.

 

***

 

L’Isola del Riposo aveva decisamente perso il diritto ad avere quel nome.

 

E meno male dovevamo soltanto attendere il risolversi degli eventi! Commentò Cliff O’Kents, riparato dietro un mucchio di rocce. Si affacciò cauto, prese la mira e sparò, centrando alla spalla una di quelle strane bestie che li stavano attaccando.

 

Sembravano uomini, per quanto avessero il busto e la testa di cavallo, con una lunga criniera nera che sobbalzava a ogni loro movimento. Erano veloci, erano resistenti, erano persino aggraziati nei movimenti, ma quando spalancavano la bocca, Cliff vedeva soltanto la robusta arcata dentaria che poteva chiudersi sui loro corpi e strappar via dalla pelle alle ossa. Come avevano fatto con un malcapitato abitante del villaggio che aveva avuto l’ardire di farsi avanti, con un bastone in mano, per colpirli.

 

Il tizio in armatura azzurra che li guidava (un ragazzino, all’apparenza, ma ben più tosto dei suoi coetanei. E più bastardo!) li aveva chiamati Each Uisge, e lui, che conosceva il gaelico scozzese, aveva subito capito.

 

“Cavalli marini! Forti e pericolosi!” –Disse agli altri, ricordando vecchie leggende delle Highlands a cui mai aveva dato ascolto. Eppure, lui che sulla pelle e nell’animo ne portava ancora i segni, avrebbe dovuto sapere che le leggende nascono dalla realtà.

 

“Come li fermiamo?” –Gridò Dean, riparato dietro una roccia poco distante.

 

Dopo la prima carica degli Each Uisge, il gruppetto si era asserragliato dietro una sporgenza rocciosa, lungo la strada che dal porto saliva verso il villaggio, nel tentativo di fermarli e proteggere gli isolani. Cliff aveva più volte ordinato al Professore di rintanarsi in qualche casa ma lui non voleva abbandonarli e stava armeggiando per riparare l’armatura d’acciaio di Dean.

 

Sam e Dean. Li guardò Cliff, non potendo fare a meno di pensare quanto fossero diversi. Il primo alto e magro, con una cesta di capelli mossi dal vento, il secondo, più basso e piazzato, con un volto glabro e ben curato; uno attento e preciso, l’altro irruento e focoso nel colpire. Si erano conosciuti a Nuova Luxor tempo addietro, quando Lady Isabel li aveva convocati per collaborare, una squadra di umani fedeli al Santuario che avrebbero potuto muoversi senza dare troppo nell’occhio e, infatti, per ora le loro missioni erano state di investigazione, recupero e salvataggio. Per la battaglia non erano particolarmente portati.

 

Ricordò, Cliff, l’attacco di quelle donne letali sulla nave che trasportava la mela d’oro e come si era sentito inutile, qualcosa di non troppo diverso da come si stava sentendo adesso. Lui, in fondo, era soltanto un umano. Cosa poteva fare contro quelle bestie uscite dai tempi del mito?

 

“Giù!” –Un grido lo distrasse, mentre Dean si gettava su di lui, per coprirlo, e Sam sparava nuovi dardi di energia contro un gruppetto di Each Uisge che si era fatto avanti. –“Non possiamo continuare così, passivi e inermi in difesa! Dobbiamo attaccarli! Professore, qualche arma che possiamo usare?” –Ma Rigel scosse la testa; tutte le sue ricerche e i suoi segreti si erano ormai inabissati.

 

“Siamo noi l’arma!” –Disse allora Kiki, quel ragazzino foruncoloso con i capelli rossicci che tutto sembrava meno che una fonte di apprensione per un nemico. Eppure, di fronte ai loro sguardi straniti, si fece avanti, incurante dei loro richiami, fino a portarsi in mezzo alla battaglia, attirando anche l’attenzione di colui che guidava l’assalto. –“Sei un Forcide, vero? Riconosco la tua armatura!”

 

“Come fai a saperlo? Dubito tu abbia già incontrato uno di noi o saresti morto!”

 

“Mio fratello era il riparatore di armature; conosceva composizione e fattura di ogni corazza esistente al mondo. Sopra e sotto il mondo.” –Parlò fiero, con gli occhi che, al solo ricordo di Mur, si inumidirono. –“Stando al suo fianco, aiutandolo come apprendista, ho imparato molte cose e altre avrei potuto apprenderne se non mi fosse stato portato via. Da mostri come voi!”

 

“Umpf! Hai del coraggio, bambino!”

 

“Non sono un bambino, ma un apprendista Cavaliere di Atena, fratello del Grande Mur dell’Ariete. Il mio nome è Kiki, e il tuo qual è? Presentati, invasore!”

 

Cliff, Sam, Dean e Rigel, alle sue spalle, rimasero colpiti dal tono autoritario con cui si rivolse al guerriero azzurro, scambiandosi uno sguardo insicuro, quasi a chiedersi cosa ci facessero loro, ben più grandi di lui, ancora nascosti dietro una roccia.

 

“Io sono Kelpie di Abderdeen, Settimo Forcide dell’Imperatore dei Mari, nonché ultimo rimasto. Pare che persino Tiamat l’Invincibile sia caduto. Questo significa che la mia vittoria contro di voi mi darà accesso al più ambito titolo, quello di Primo Forcide. Riconoscendo i miei meriti, Caos potrebbe persino pormi sul Trono dei Mari per iniziare la mia propria dinastia. Una stirpe di Cavalli Marini, adatti sia a vivere nel mare che sulla terraferma.”

 

“Stirpe che mai vedrà la luce.” –Disse Kiki, espandendo il cosmo e strappando, al qual tempo, una risata al Settimo Forcide.

 

“Sei divertente, bambino, ma ho passato da tempo l’età dei giochi. Uccidetelo!” –Ordinò agli Each Uisge, che scattarono avanti in gruppo.

 

“Kiki!” –Gridò Rigel alle sue spalle, ma il bambino nemmeno lo ascoltava, gli occhi socchiusi, la mente lasciata libera di fluire oltre, di andare all’indietro, ricordando gli insegnamenti di suo fratello sull’uso del cosmo e tutto l’affetto che non gli aveva mai fatto mancare. Pur essendo un Cavaliere di Atena, uno dei più fedeli, e sempre impegnato a riparare corazze, Mur aveva anche trovato il tempo di fargli da maestro, e per onorarlo adesso Kiki avrebbe combattuto.

 

“Guardami, Mur!” –Esclamò, spalancando gli occhi, mentre un cosmo bianco e argento brillava attorno al suo corpicino. –“Guardami e sii fiero di me! Onda di Luce Stellare!” –Urlò, portando avanti le braccia e liberando un’onda di pura energia che travolse i primi Cavalli Marini, scaraventandoli indietro, gli uni sugli altri, e giù di sotto dalla scogliera. Una crepa si aprì nella grande terrazza e alcuni Each Uisge ci precipitarono dentro, schiacciati dal rapido richiudersi della breccia. Durò pochi secondi, quel breve attacco, il tempo di cui Kelpie abbisognò per schivarlo, saltando di roccia in roccia, e piombare su di lui, a tacco teso.

 

“Non così in fretta!” –Gridò Sam, uscendo da dietro il riparo e sparando un dardo di energia contro la gamba del Forcide, investendolo e scagliandolo indietro, fino a farlo ruzzolare tra i corpi feriti e storditi del suo piccolo esercito.

 

“Bel colpo!” –Si complimentò Dean, mentre Cliff, ormai con il caricatore scarico, gettava via la pistola, correndo su Kiki, che nel frattempo si era accasciato, esausto per l’enorme sforzo. Lo sollevò, evitando il balzo di un Cavallo Marino e colpendolo con un pugno, prima di scattare verso i compagni. –“Che diavolo facciamo adesso? Dobbiamo tenerli lontani dalle ragazze!”

 

Il Professor Rigel si guardò intorno, si arruffò i capelli, cercò qualche soluzione ma prima che riuscisse a parlare una corrente di energia acquatica lambì i loro piedi, spumeggiando e liberando continue bolle simili a sapone.

 

“Cosa fate? Voi morite, cos’altro? Non siamo venuti per fare prigionieri!” –Disse Kelpie, rimessosi in piedi. –“Gli ordini del Gran Maestro del Caos sono stati precisi. Atena deve essere punita e si dà il caso che qui vi sia un’arma di distruzione di massa che nessuno di voi, una volta innescata, potrà fermare!”

 

Cliff e gli altri si guardarono con sospetto, senza capire le sue parole, prima che Kelpie desse ordine ai Cavalli Marini di attaccare. Soltanto allora, tirando uno sguardo al vulcano che incombeva sul villaggio, il Professor Rigel capì.

 

“Volete scatenare un’eruzione?”

 

Il Forcide sghignazzò, aumentando l’intensità della sua corrente, che falciò le gambe dei quattro combattenti, facendoli strillare dal dolore e impedendo loro ogni mossa. Sam mosse il braccio per liberare nuovi dardi di energia ma una colonna d’acqua si sollevò dalla corrente azzurra, mutando in liane di energia che si avvinghiarono al suo arto, strattonandolo e distruggendo la corazza d’acciaio.

 

“Protezioni buone nel corpo a corpo, ma inutili contro un guerriero dotato di cosmo. Addio, giovani eroi! Primi a cadere per mano di Kelpie sarete!” –E portò entrambe le braccia avanti, caricandole di flutti spumeggianti. –“Bäckahästen!” –Gridò, liberando una mandria di imbizzarriti cavalli di cosmo.

 

Sam e Dean si misero di fronte a Cliff e a Rigel, per proteggerli, subendo in pieno l’assalto e assistendo, impotenti, al disintegrarsi delle loro armature. Bruciarono il cosmo, come il Professore aveva loro insegnato, ma tutto quel che riuscirono a produrre fu una fiammella bianca che venne presto ingoiata dai furibondi cavalli di energia scatenati da Kelpie. Così, con le braccia aperte di lato, per fare da scudo ai compagni, i fratelli d’acciaio credettero che avrebbero fatto la fine delle loro corazze, quando notarono un’agile figura balzare davanti a loro e sentirono l’assalto defluire ai lati. Tutto ciò che videro, prima di crollare esausti sulle ginocchia, fu una lunga chioma color nocciola scendere lungo la schiena di una fanciulla in armatura.

 

“Yulij!” –Gridò Cliff, riconoscendo il Cavaliere del Sestante. –“Non dovevi restare con Fiore di Luna e le altre?”

 

“Se non li fermiamo, moriremo tutti. Tanto vale provarci.” –Disse la Sacerdotessa, bruciando il cosmo e generando una barriera protettiva a forma di maschera, che si aprì attorno a lei, disperdendo l’attacco del Forcide.

 

“Provare non serve a nulla se non avete le forze.” –Ironizzò Kelpie, puntando il dito contro la ragazza e spingendola indietro con un solo raggio di energia, che le trapassò il ventre, gettandola addosso al Professor Rigel, che subito si agitò, pensando a come tamponare l’emorragia, a cosa fare per proteggerli, a come onorare la fiducia che Atena gli aveva rinnovato e che lui continuava a non meritare. –“Andate!” –Intimò il Forcide, rivolgendosi agli Each Uisge, che scattarono avanti, superando il gruppo di indeboliti difensori e dirigendosi verso il vulcano. –“Pare che, secoli addietro, il Gran Maestro del Caos abbia distrutto un intero arcipelago facendo esplodere un vulcano. Forse l’effetto di questa eruzione non sarà tale da raggiungere la Grecia, ma chissà, sono curioso di verificarlo! Voi no?”

 

“Sei un pazzo! Quante vite spazzerai via? Ci sono donne e bambini su quest’isola e su tutte quelle attorno, e le navi, le città sulla costa…” –Esclamò Rigel, mentre Kelpie si avvicinava loro.

 

“Cosa vuoi che mi importi della vita sulla Terra? È stata condannata nel momento in cui Caos ha fatto ritorno. Ciò che posso salvare, e portare a un nuovo futuro, è la vita nei mari, di cui diverrò reggente o magari imperatore. Non c’era un proverbio umano, gli ultimi diverranno i primi?” –Ridacchiò, espandendo il proprio cosmo e preparandosi a colpire da distanza ravvicinata. Per prima cosa liberò la corrente d’energia acquatica con cui li immobilizzò, poi avvolse le braccia nel suo cosmo azzurro, godendo l’espressione sgomenta dei suoi nemici. Sgomenta e impotente.

 

Ma quando le calò, liberando la furia dei cavalli energetici, si stupì nel vedere che quegli stupidi umani avevano creato una barriera con i loro cosmi. Una protezione misera, invero, nata dalla disperazione, e che con un secondo assalto spazzò via.


“Aaahhh!!!” –Gridarono Sam, Dean, Cliff, Kiki, Yulij e il Professor Rigel, travolti dalla furia del Bäckahästen e scaraventati indietro, giù di sotto dalla terrazza, fino a ritrovarsi tra le macerie del devastato porto. Relitti sopra altri relitti.

 

Stirando le labbra in un sorriso divertito, Kelpie si incamminò lungo la strada che portava al villaggio, chiedendosi se i Cavalli Marini fossero già giunti al vulcano. Levò lo sguardo verso la cima e non s’avvide di un globo di energia che lo colpì sulla schiena, sbilanciandolo e gettandolo a terra. Subito si rialzò, furioso, soltanto per vedere che quel bambino dai ricci fulvi si era rimesso in piedi, ferito, sanguinante e più simile a uno straccione che a un apprendista Cavaliere, e che aveva giunto le mani, ancora intrise dell’ultimo sfavillio di un cosmo grezzo.

 

“Il tuo canto del cigno, bambino? Credevo di averti insegnato a stare al tuo posto!”

 

“Il mio posto è accanto ai Cavalieri miei compagni nella lotta contro Caos!”

 

“Kiki…” –Mormorarono Yulji, Sam, Dean e Cliff, riversi al suolo attorno a lui. –“Tu sei un vero Cavaliere… mentre noi…” –Disse lo scozzese. –“Indossiamo patacche di latta per fingerci grandi…” –Continuò Dean. –“E crederci dei Cavalieri…” –Gli fecò eco il fratello. –“Eppure lo siamo! Dobbiamo ricordarlo, amici, noi lo siamo! La benedizione di Atena è su tutti noi!” –Chiosò Yulij. –“E allora alziamoci!” –Disse Cliff, muovendo a malapena le dita, chiudendole a pugno e facendo forza. –“Sì, alziamoci!” –Ripeterono i fratelli d’acciaio. E tutti, in quel momento, bruciarono la loro vita, fino all’ultima stilla di energia che riuscirono a produrre. –“Per Atenaaa!!!”

 

“E per Atena morirete!” –Gridò Kelpie, mentre migliaia di spumeggianti cavalli di energia acquatica sorgevano attorno a sé. –“Che il potere dei mari vi travolga e vi trascini nell’oblio! Bäckahästen!” –E liberò il potente assalto che i compagni tentarono di contenere unendo di nuovo i loro cosmi, mentre la vita li abbandonava.

 

Vela Bianca!” –Esclamò allora una voce squillante, prendendo tutti alla sprovvista. Kiki e gli altri subito sentirono scomparire la pressione che finora li aveva schiacciati a terra, riaprendo gli occhi e osservando un ragazzetto, di poco più grande di Kiki, in armatura bianca, che si ergeva di fronte a loro, con uno strano scudo triangolare sul braccio con cui stava deviando l’attacco di Kelpie.

 

“E tu chi sei? Un altro disperato paladino di Atena?” –Lo apostrofò il Forcide.


“Non ad Atena sono devoto, per quanto i suoi Cavalieri abbiano combattuto per difendere il mio mondo, mondo che tu e i tuoi simili avete distrutto!” –Disse il giovane dagli occhi neri. –“Sono qui per riscuotere il mio credito! E tu, Forcide, sei pronto a pagare il fio?”

 

“E cosa mai dovrei pagarti?”

 

“Il mio Avaiki!” –Esclamò Kohu dell’Istioforo. –“Il mio mondo. Taglio delle Onde!” –Aggiunse, liberando il suo attacco.

 

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Capitolo 36
*** Capitolo trentacinquesimo: Quinto interludio. Luce. ***


CAPITOLO TRENTACINQUESIMO: QUINTO INTERLUDIO.

 

LUCE.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: l’inizio del tempo cosmico.

Spazio: isola di Avalon.

 

Quando aprì gli occhi, era nella luce.

 

Non c’era altro attorno a lui, soltanto un’intensa luminescenza che, all’inizio, pensò rappresentasse il mondo, poi lentamente quel bagliore si attenuò e altre forme apparvero. C’erano delle grosse pietre grigie, alcune storte, altre dritte, piantate su un terreno erboso e pietre più piccole, forse sassi, che costellavano il suolo. Vi camminò sopra, nudo e scalzo, sentendo la freschezza di quella natura bagnata di rugiada e la ruvidità delle pietre, fino ad affacciarsi tra i monoliti, sfiorandone la superficie, e guardando giù.

 

Perché era in alto, o almeno così gli apparve quel colle solitario che si innalzava sopra un mare di nebbia, che sembrava fargli da cintura. Ma lui, senza neppure sforzare troppo gli occhi, quella cortina riuscì a penetrarla, vedendo l’isola che si apriva sotto di lui. I terrazzamenti, gli alberi di mele, piccole capanne di legno crollate, un pontile sulla riva di un lago, barche tirate in secca, barche rovesciate, barche che ancora vagavano sulle acque intrise di sangue. E corpi ovunque, di uomini e animali. Corpi che, guardandosi, non erano poi così diversi dal suo.

 

Eppure egli viveva mentre il resto del mondo, di quello che, risvegliatosi, gli parve il mondo, era sprofondato nel silenzio. Chi era dunque lui? Il portatore di quella distruzione? E perché si era salvato?

 

Le risposte le ebbe sfiorando una delle grandi rocce che, notò, cingevano la cima del colle. Chiuse gli occhi e, per un momento, gli sembrò di vedere un tempio ergersi sopra di lui, gli sembrò di vedere le pietre per quel che erano state, le mura di un santuario di luce che impavido sfidava il cielo. Ma tempo addietro (quanto? Non seppe dirselo, poiché era il Tempo Prima del Tempo, prima della sua nascita) quella costruzione era crollata e chi vi si era rifugiato costretto a combattere.

 

Vasteras. Questo era uno dei nomi che si accesero nella sua coscienza. Elmas, Antalya, Kloten. E poi Galen, Menara e Tegel. Dunque erano costoro i Sette che avevano lottato? Per cosa? Perché quella guerra?

 

“Per proteggere l’umanità, il suo diritto a scegliere e anche a sbagliare.” –Parlò allora una voce alla sua coscienza. E quel suono gli strappò una fitta, piegandolo in due, così violento per essere il primo rumore udito in quel mondo immerso nel silenzio. Ma la voce non se ne curò, o forse neppure poteva sentire quel che provava, e continuò a parlare, raccontandogli quel che era accaduto, infondendo alla sua coscienza sempre nuove informazioni.

 

Gli disse chi era e cosa era, gli disse quel che era accaduto e perché era stato generato e soprattutto gli disse quel che avrebbe dovuto fare. La sua missione, scopo ultimo della sua esistenza. Ascoltando, e comprendendo, allora si rimise in piedi.

 

“Tutti viviamo per un motivo. Chi per splendere, chi per bruciare, chi per avvolgere il mondo nell’oscurità. Tu vivrai per preparare gli uomini al Secondo Avvento, poiché un giorno, che adesso ci sembra lontano ma poi, nell’enormità del presente in cui ti ritroverai a vivere, lento si avvicinerà, egli farà ritorno per reclamare quel che gli è stato portato via. Un mondo intero, da lui stesso creato. Proteggi quel mondo fino ad allora, figlio mio! Proteggilo e donagli la luce del tuo sapere!”

 

Figlio? Si chiese, guardandosi attorno e notando, per la prima volta, una strana costruzione sorgere al centro del prato. Un cerchio di pietre dentro al quale, affacciandosi, vide scorrere un liquido fresco; vi intinse le braccia e lo trovò freddo, ma anche pulito e corroborante. Ne prese un po’ tra le braccia e se lo versò in faccia, lasciando che lo svegliasse e che, al tempo stesso, gli desse tutte le conoscenze di cui aveva bisogno. Una in particolare.

 

Sbattendo gli occhi, vide, nel riflesso nell’acqua, le sue pupille brillare argentee, i suoi capelli di un colore simile, mossi dalla brezza che solleticava l’erba di quell’isola ricca di meleti. Di quell’isola in cui si era risvegliato e che, quindi, sarebbe diventata la sua casa, dandogli il suo nome e irrorandola col suo potere.

 

Potere che gli derivava dall’entità che l’aveva risvegliato e che proprio lì, tra le rovine di quel tempio, aveva incontrato la fine della sua esistenza, la fine del suo tempo cosmico. Eppure, di lei qualcosa rimaneva, uno sbuffo di luce, un riflesso nell’acqua del Pozzo Sacro che tentò di afferrare, per carpire fino all’ultimo segreto fosse stato in grado di dargli. E allora vide.

 

Caos l’oscuro, Caos il creatore dei mondi, Caos il divoratore, che tutto raccolse in sé, persino l’ombra e la luce. Vide sette uomini, così piccoli di fronte al Dio che aveva generato l’universo, ergersi a sfidarlo, e sette armi lampeggiare nelle loro mani, mentre le forze della natura si agitavano attorno a loro, in un tripudio di colori. Infine vide lei, giacere immobile sulla riva di un lago, una mano allungata verso l’acqua, il cosmo che scivolava lungo il suo corpo spezzato. Piangeva, la donna dai capelli di luce, forse per la sorte del fratello che non aveva potuto salvare e che era scomparso, oltre la soglia, assieme all’oscurità che aveva sfidato, o forse per le sorti di un mondo in cui non avrebbe potuto continuare a vivere. Sgorgava impetuoso il sangue da una ferita al ventre, dove la Signora della Notte l’aveva colpita, eppure ancora lei resisteva, conscia del suo ruolo. Così, con un ultimo grido selvaggio, lasciò che cinque spiriti luminosi le uscissero dal ventre insanguinato, cinque fiamme di diverso colore che fluttuarono di fronte a lei, nutrendosi del suo sangue divino.

 

Una luce bianca, una luce rossa, una terza verde, una quarta azzurra e un’ultima, tremolante, fiamma marrone che, per un momento, credette di vedersi tingere di nero. Una sfumatura leggera, in verità, forse dovuto al fatto che era uscita per ultima, ma sufficiente per sollevare una ruga di costernazione sul volto della Dea che poi, esaurita quell’ultima missione, sfiorì, svanendo.


“Madre…” –Mormorò infine, e quella fu la prima parola che pronunciò. –“Madre. Grazie. Per averci donato la vita, per aver sacrificato la tua affinché questo mondo potesse vivere, e gli uomini sapere e prepararsi. Noi, in questo, li aiuteremo!”

 

E in quel momento, attorno a lui, quattro fiamme sorsero dal suolo, assumendo forma umana, simile a quella da lui assunta. La prima, di un colore intenso come i raggi del sole, si mutò in un uomo alto e robusto, col petto villoso, che sbatté i pugni assieme, lasciando sfrigolare la propria incandescente energia. La seconda, invece, si affacciò timida, rivelando il volto di un ragazzo dagli occhi azzurri che, a ogni movimento, pareva generare vortici d’aria con cui solleticare, e a volte spegnere, le fiamme del fratello.

 

“Andrei. Alexer.” –Li chiamò, ed entrambi si inginocchiarono. Poi volse lo sguardo verso la terza fiamma, di un colore verde acqua, da cui parve provenire un suono leggero, che gli ricordò i canti che aveva udito nei ricordi di sua madre, quando, assieme ai Sette, aveva forgiato i Talismani. Un lamento capace di trascendere il tempo. –“Asterios.” –Gli disse, e anch’egli si inchinò.

 

Ultimo, infine, sorse dalla terra un giovane muscoloso, con mossi capelli neri e occhi che, guardandoli, parevano mutare colore, alternando il nero al rosso, ma non il rosso solare dell’aura di Andrei, un rosso più pericoloso, che gli rammentò il sangue che fluiva dal ventre della loro madre. Durò un attimo quel dubbio, ma ormai gli era rimasto nel cuore e là sarebbe rimasto, fisso, per tutto il tempo che sarebbe seguito.

 

Dubbio. Mormorò, prima di chiamarlo con quel nome.


“Anhar.” –E anche suo fratello si inginocchiò.

 

Eccoli, gli Angeli, nati dal sangue di colei che aveva sfidato il suo stesso creatore per garantire un futuro agli uomini. Per lei avrebbero combattuto, per onorare la sua memoria. Di lei sarebbero stati i guerrieri, gli Arconti che avrebbero retto il mondo in attesa del suo ritorno. E, su tutti, lui li avrebbe guidati, lui, Avalon, il signore dell’isola delle mele, il Principe Supremo degli Angeli.

 

“Alzatevi, fratelli miei! Oggi nasciamo! Oggi inizia la nostra vita, oggi siamo l’Alfa! Un giorno, di questo tempo cosmico, saremo l’Omega!” –Ed espanse la propria aura argentea, invitando i fratelli a fare altrettanto.

 

Andrei bruciò il proprio cosmo scarlatto, rivestendosi di un’armatura rossastra che pareva richiamare i colori del sole. Nella mano destra lampeggiò uno spadone di pura fiamma che, con un impercettibile movimento del braccio, tagliò la cortina di nebbia attorno all’isola, aprendo un corridoio in cui ratto si infilò, spalancando le ali e lanciandosi alla scoperta del pianeta.

 

Alexer, al suo fianco, vorticò in un’aura azzurra, costellata da folgori e scintille, gocce di pioggia e cristalli di neve, che si solidificò su di lui, divenendo una corazza che quasi parve composta di ghiaccio. Una corazza in grado di riflettere gli umori del mondo. Nel suo palmo brillò un fulmine azzurro, prima che sollevasse il braccio e lo scagliasse in alto, verso il cielo profondo, spalancando le ali e inseguendolo.

 

Per terzo, Asterios espanse il cosmo, simile alle verdi acque sconfinate dell’oceano su cui il sole e il cielo si riflettevano, e venne rivestito dalla propria corazza. In mano strinse uno strumento con fili sottili che, pizzicandoli, produssero suoni dolci e bolle d’acqua, e tutt’attorno a lui una marea di energia acquatica ribollì, spingendolo in alto, cavalcando quell’onda di conoscenza che mai sarebbe venuta meno.

 

Ultimo, infine, Avalon spostò lo sguardo su Anhar, che, a differenza dei suoi fratelli, non aveva ancora bruciato il proprio cosmo. Unico, al contrario, a fissarlo incuriosito.

 

“Perché siamo nati, fratello?” –Gli chiese, e quelle furono le prime parole che pronunciò.

 

“Per adempiere a una missione. Difficile, estenuante, ma necessaria per garantire la sopravvivenza della Terra. Avrò bisogno dell’aiuto di tutti voi, Anhar, per riuscire ad adempierla. Sarai al mio fianco?”

 

L’Angelo della Terra rimase a osservarlo per qualche istante, gli occhi che passavano dal rosso al nero, fino a stabilizzarsi in un colore scuro come la notte. Li abbassò, mentre il suo cosmo fiammeggiava attorno a sé, invadendo l’intera collina di Avalon, e si inchinò.

 

“Sempre.” –Rispose.

 

Avalon gli andò incontro, lo abbracciò e sorrise.

 

“Sempre.” –Ripeté, baciandolo in fronte e lasciando che la luce di Emera fluisse anche in lui, convinto che, più di ogni altro, ne avesse bisogno.

 

Vi fu una fiammata di cosmo e anche Anhar abbandonò l’Isola Sacra, andando alla scoperta del mondo e lasciando Avalon da solo. Come sarebbe stato, in cuor suo, fino alla fine del proprio tempo cosmico.

 

***

 

“Mio Signoreee!!!” –Gridò Ascanio, vedendo l’ombra immensa piombare sul suo maestro che, imperturbabile, si preparava ad affrontarla.

 

“Non avrò il mio impero, né sarò araldo dell’ombra! Ma tu, burattinaio di mondi, pagherai con la vita l’avermi umiliato una seconda volta!” –Esclamò Anhar, infiammando l’aria con vampe di fuoco nero, che circondarono Avalon, lambendo le sue lunghe vesti argentee. –“Ti ucciderò! E brucerò la tua carcassa sulla cima dell’Isola Sacra, assieme ai vetusti corpi dei druidi che mi rifiutarono!" –E nel dir questo piombò su di lui, in un turbine di fiamme nere.

 

Lo scontro tra le due potenti energie cosmiche produsse una deflagrazione che spinse tutti indietro di qualche metro, aprendo nuove faglie sul martoriato suolo dell’Isola delle Ombre. In quella il vulcano ricominciò a eruttare, in maniera più consistente, mentre lapilli incandescenti piovevano su Ascanio e sui Cavalieri di Atena, costringendo tutti alla fuga.

 

Ore più tardi, mentre i fumi del vulcano s’acquietavano e i combattenti vittoriosi curavano le ferite nelle loro dimore, una figura, d’argento vestita, camminava scalza lungo quel che rimaneva dell’isola. In parte era collassata, come Atlantide e Mu, in altre parti si era riempita d’acqua, allagando quel che d’ombroso giaceva nei suoi oscuri androni. Ne rimanevano soltanto scogli brulli e una sottile striscia di terra composta per lo più da rocce affioranti in cui nessun uomo avrebbe più messo piede. Ma egli, che un uomo non era, procedeva placido verso la fonte di quel lamento.

 

Un lamento che nessun orecchio umano (e forse nemmeno divino) avrebbe udito poiché parlava nella Prima Lingua, che soltanto in cinque potevano comprendere. E due erano lontani, e un terzo troppo distratto per udirlo.

 

“Mio signore, possente Anhar…” –Una donna, china su un cumulo d’ombra, stava mormorando qualcosa. –“Cosa posso fare? L’alchimia di Athanor, quella con cui ha imbrigliato Giasone della Colchide, forse potrebbe aiutarvi?”

 

“Mio fratello non ha bisogno dell’aiuto di nessuno al di fuori del mio!” –Parlò allora Avalon, affacciandosi tra le rocce e lasciando che la donna (che era una vecchia vestita di stracci) lo fissasse con sorpresa e sdegno, prima di riconoscerlo e dare voce alla propria rabbia. Così, anziché temerlo, si lanciò su di lui, avvolta in un gelido cosmo, non suscitando altra reazione, nel Principe degli Angeli, se non un banalissimo movimento del braccio, con cui la scaraventò via, facendole descrivere una parabola nel cielo del Mediterraneo orientale. –“Insolente. Come la tua antenata.” –Commentò, riprendendo ad avanzare.

 

“Dove l’hai spedita?” –Gli chiese Anhar.

 

Sbuff, che importanza ha? Davvero credevi di farne la nuova Cailleach? Potrà al massimo lanciare qualche fulmine e vomitare un po’ di vento da quella sua deforme bocca ma controllare le potenze della natura è obiettivo per lei irraggiungibile.”

 

“Un discorso che vale per molti.”

 

A quelle parole Avalon annuì, chinandosi sul fratello che giaceva nella polvere.

 

Distrutto nel corpo dall’attacco congiunto dei Cavalieri di Atena, di Anhar (o Flegias, come si faceva chiamare in Grecia da qualche decennio) era rimasta soltanto l’ombra a cui, grazie ai suoi immensi poteri, era riuscito a dare una forma vagamente umana. Avalon sapeva perché; era piuttosto ovvio, in verità. Erano Angeli, figli della Signora del Giorno, discendenti diretti del Generatore dei Mondi, e certo non bastava il benché-molto-potente attacco di un gruppo di Cavalieri che a malapena aveva raggiunto l’Ottavo Senso. Oh no, se volevano avere qualche speranza, di vincere un Angelo o chi stava sopra di loro, sarebbero dovuti andare oltre. Qualcuno, in verità, pur senza accorgersene, lo stava persino facendo e Avalon non dubitava che presto avrebbe padroneggiato il Nono Senso e forse, in tal caso, qualche speranza in più l’avrebbero avuta.

 

Ma se Anhar fosse morto, a cosa sarebbe servito?

 

No, si disse, afferrando il volto d’ombra di suo fratello e abbassandosi fino a sfiorargli la fronte con le labbra, come già aveva fatto quel lontano giorno perso negli abissi del tempo in cui si erano risvegliati. Anhar non deve morire! E fiatò, dentro di lui, una scintilla della luce di Emera. Un’altra.

 

Subito la nera evanescenza sussultò, riacquistando, per una frazione di secondo (così breve di fronte all’interminabile presente in cui avevano vissuto), l’aspetto del suo fratello, del fratello che aveva amato di più per tutto quel tempo. E che non era riuscito a salvare.

 

Sospirando, Avalon si rialzò, guardandosi attorno, quasi temendo che Andrei o Alexer potessero spuntare da dietro le rocce, per chiedergli spiegazioni. Ma tutto era quieto e si disse certo che il Signore del Fuoco fosse tornato a Isla del Sol, a insegnare a Jonathan o magari a trovare il coraggio per dirgli di essere suo padre, mentre il Principe della Valle di Cristallo (come lo conoscevano gli abitanti di Asgard) avrebbe fatto visita a Cristal e alla Regina di Polaris, rinsaldando vecchi legami che presto sarebbero stati messi a dura prova.

 

Aveva già visto, nelle acque del Pozzo Sacro, i Giganti di Fuoco uscire da Muspellheimr e marciare su Bifrost e il giorno in cui il Ponte Arcobaleno si sarebbe schiantato, producendo un rumore tale da essere udibile in tutti i mondi divini. Così forse quegli indolenti e pigri Dei si sarebbero resi conto di quanto le sue parole non erano vuote leggende ma minacce concrete.

 

Un rantolo gli fece abbassare lo sguardo su Anhar, che sbatteva le lunghe ciglia nere, faticando a riordinare i ricordi (i troppi secoli di ricordi da cui chiunque sarebbe stato sopraffatto), e forse faticando anche a credere a quanto appena avvenuto.

 

“Perché?”

 

“Sii più chiaro!” –Gli disse, con voce atona.

 

“Perché mi hai salvato? Potevi lasciarmi morire e mi sarei disperso al vento, smarrendo la mia coscienza…”

 

“Dunque questa dovrebbe essere la fine di un Angelo? Io non credo. Siamo guerrieri, Anhar, non erbe da gettare in un braciere. Lo hai dimenticato? Hai dimenticato perché siamo nati? Per combattere e vincere l’ultima guerra?”

 

Umpf! E tu hai dimenticato che ho abiurato al tuo progetto suicida secoli addietro? Se sei qua per tentare un altro approccio, per recuperare la mia coscienza malata e farne un altro tuo umile leccapiedi, potevi lasciarmi morire. E, se tu fossi un grande tessitore, lo avresti fatto, così forse non ti avrei più ostacolato. Invece così…” –Sibilò Anhar, muovendosi per rialzarsi, ma bastò che Avalon gli poggiasse un piede sul petto (o, quantomeno, dove in quella sagoma d’ombra doveva trovarsi il petto) per piantarlo di nuovo al suolo, sommerso da un rigurgito di luce che lo fece strillare.

 

“Invece così servirai allo scopo. Tutti ne abbiamo uno, Anhar, e forse nostra madre ne aveva uno anche per te.”

 

“Nostra madre? Dunque tu sai chi ci ha generato? Parla, Avalon! Perché non ne hai mai fatto menzione con gli altri?”

 

“Avresti potuto capirlo anche tu, se tu avessi usato la Vista per guardare indietro.” –Continuò il Signore dell’Isola Sacra, imperturbabile. –“Invece, mosso da una delirante frenesia di possesso e trionfo, hai sempre rivolto avanti il tuo sguardo, senza comprendere che la vera conoscenza sta nell’osservare i flussi, considerando il tempo un unico immenso presente. È così, del resto, che Caos lo considera, un qui e ora, nient’altro.”

 

“Sei ardito nel parlare. Scommetto che informazioni simili non le hai mai rivelate agli altri tuoi galoppini…”

 

“Non ce n’è mai stato bisogno. Andrei, Alexer, persino Asterios, sanno dove stare. Tu, invece, non l’hai mai capito, sempre irrequieto, sempre in cerca di nuove verità, incapace di vivere con quelle che già possiedi. Pensavo che ti avrebbe illuminato ricevere la luce di Emera, invece ti ha soltanto confuso, dandoti motivo di pensare che contro Caos non vi è speranza e che, anziché tenerli segreti, e addestrare coloro che li portano, fosse nostra ragione d’essere impiegare i Talismani, e magari offrirglieli in dono. Non è così, Anhar? Tutto quello che hai fatto, negli ultimi tremila anni, lo hai fatto soltanto perché hai paura! Perché hai visto, nei ricordi di nostra madre, quello che accadde durante la Prima Guerra e ne sei inorridito. Tu, un Arconte guerriero, inorridito da un potere più grande di te!”

 

“Tu non lo sei? Avalon, non so a quale perverso gioco tu stia giocando, ma ti giuro che io ti ucciderò!”

 

“E su cosa vorresti giurare? Cosa reputi così sacro e giusto da meritare di essere la pietra miliare di un giuramento che presto romperai, come hai rotto i tuoi patti con Seth, Apopi, Crono e Ares? A questo proposito, quel poveraccio di Loki sa cosa hai in mente? Con una mano gli aprirai la strada per il Valhalla ma non gli hai detto che Asgard non sarà mai sua, perché con l’altra la brucerai.”

 

“Tu? Come sai?” –Avvampò Anhar.

 

“So perché ho visto, facendo buon uso di un dono che concessi anche a te. Un dono che, mi rendo conto, non hai mai saputo sfruttare. Chissà, forse un giorno, quando rivedremo nostra madre, ella mi punirà per non averti saputo guidare nella luce. Oppure…”

 

“Oppure cosa?”

 

“Oppure la tua presenza destabilizzante, il tuo rimanere in bilico tra vita e morte, luce e ombra, natura e distruzione, faceva parte del suo piano? Voglio credere che sia così! Per questo ti ho salvato. Ma né tu né io ricorderemo niente di questo momento. Addio, fratello. Se mai dovessi tornare a cercarmi, io ti combatterò!” –E, tramite la gamba con cui lo stava bloccando, Avalon lo irrorò di luce.

 

“Avalon, no, aspetta! Io…” –Ma la luce lo inghiottì, e anche il Principe degli Angeli ne fu travolto, scivolando fuori dalle pieghe del tempo e dello spazio. Quando rinvenne, era di nuovo nella sua dimora, sulla cima del colle di mele da cui dirigeva il gran concerto del mondo.

 

Scosse la testa, stordito, ritenendo di essersi addormentato. Di certo il confronto con Anhar sull’Isola delle Ombre lo aveva stancato, soprattutto quell’ultimo attacco, quando, in forma d’ombra, aveva cercato di fagocitarlo, di fronte agli occhi sconvolti di Ascanio e dei Cavalieri di Atena.

 

Ascanio. Mormorò, sorridendo al pensiero del valoroso Comandante dei Cavalieri delle Stelle che aveva raggiunto vette che gli altri suoi parigrado non avevano neppure sfiorato. Tranne Febo, quello era ovvio; lui era il figlio di un Dio, per quanto a volte non sembrasse esserne troppo consapevole.

 

Chiamò un servitore e gli ordinò di preparargli un bagno, e poi mandò a chiamare il Primo Saggio. C’erano un paio di cose di cui doveva parlare con lui. Uno spiffero freddo lo portò a stringersi nelle sue vesti, uno spiffero che veniva da nord e che di certo anticipava l’avvento dell’inverno.

 

***

 

“Andate via, Cavalieri di Atena! Vi prego! Se moriste voi, morirebbe la speranza! Voi siete il futuro per le genti libere di tutto il mondo! Voi siete coloro che tutti attendono, quando pregano qualunque Dio possa salvarli e dare un senso alle loro esistenze! Voi siete il domani! Addio, giovani Cavalieri, e grazie per avermi regalato un sogno per cui vivere!" –Sorrise il Signore dell’Isola Sacra, prima di lasciar esplodere tutto il suo cosmo in una nebulosa di luce.

 

La detonazione non fermò Caos, che anzi di quella luce si nutrì, ma permise ad Avalon, per un momento, uno soltanto, di nascondere la sua presenza.

 

Così, privo del corpo (che Caos stava fagocitando alle sue spalle), privo della sua armatura, che ormai non avrebbe più indossato, e privo di molti suoi poteri, ricordi e certezze, fluttuò nel vuoto che separa i mondi, certo che nessuno, laggiù, sarebbe mai venuto a cercarlo. Chi mai sarebbe stato, del resto, così sciocco da camminare sul ciglio di un varco che avrebbe potuto chiudersi all’improvviso? Di certo non Caos, né i Progenitori, che avevano atteso fino ad allora che la configurazione astrale si ricreasse per uscirne.

 

Ma Avalon, che le stelle aveva a lungo studiato, ben sapeva quanto sarebbe durata quella configurazione. Così la sfruttò, per nascondere la sua presenza e per guardare il mondo da lontano, da così lontano che mai avrebbe pensato di arrivarci. Eppure tempi estremi richiedono misure estreme; così gli aveva detto una volta l’uomo che gli aveva insegnato a usare il cosmo per combattere, mettendolo al corrente di tanti piccoli segreti e rimedi naturali di cui la sua coscienza era priva.

 

Sua madre, del resto, non aveva avuto modo di insegnargli alcunché, infondendogli soltanto i rudimenti necessari per lo svolgimento della sua missione. Magari, durante il loro incontro, avrebbe anche potuto chiederle cosa avrebbe fatto di lui, di tutti loro cinque, se avesse potuto crescerli con calma e affetto. Chissà come Anhar sarebbe diventato, se avesse avuto l’amore di qualcuno? Lui, nel suo piccolo, ci aveva provato a capirlo, ma non era riuscito a vincere l’invidia, l’odio e la paura in cui il suo cuore era affogato.

 

Eppure Anhar non è perso! Si disse Avalon, certo che, alla fine, anch’egli avrebbe avuto ancora un ruolo da giocare. Lui, invece, adesso doveva trovare sua madre. Così scandagliò il mondo dall’alto, vagando di luogo in luogo, scivolando tra una marea di sentimenti confusi, cosmi deboli e baluginanti e regni divini sull’orlo del collasso, finché non la trovò, seguendo la scia di dubbio che si lasciava alle spalle.

 

Aveva provato ad avvicinarla al Santuario di Atena, sperando che, nella miriade di scontri e cosmi ardenti, nessuno lo notasse, ma lei non sembrava riconoscerlo. Lei sembrava non ricordare. Forse nell’intermundi Caos o Erebo le avevano alterato i ricordi, o semplicemente, troppo stanca e debole, era stata sovrastata dall’oscurità che invece mai calava, fomentata dall’odio e dal male che gli uomini non accennavano a smettere, neppure a rischio di distruggersi a vicenda.

 

A volte, nel corso di quei millenni di guardia, Avalon si era chiesto se gli uomini non meritassero davvero l’estinzione che Caos aveva promesso loro, ma poi, anche nei momenti di sconforto (perché sì, c’erano, sebbene di rado ne parlasse), pensava a sua madre, alla vita che aveva loro donato affinché divenissero i custodi del mondo, di quel mondo per cui lei riteneva valesse la pena combattere, e morire. Così era andato avanti e adesso, forte di quella determinazione, avrebbe ricordato anche a lei chi era.

 

Non (soltanto) uno dei Progenitori, bensì Emera, la Signora del Giorno, il contraltare perfetto della Notte, sorella e sposa di Etere, Signore della Luce e uccisore di Erebo.

 

Quando la trovò, chiusa nelle sue stanze nel Primo Santuario, le forze dell’Alleanza si erano appena radunate all’esterno, marciando verso ciascuna delle quattro porte da cui si accedeva alla struttura. Un attacco di certo pianificato da Andrei, che non lasciava mai nulla al caso.

 

Sorridendo, Avalon pensò che neppure il fratello avrebbe potuto prevedere la sua (sia pur debole, fatua e svanente) presenza. Così abbandonò il varco tra i mondi, prima che la cappa di tenebre avvolgesse l’intero pianeta, e fluttuò verso Emera, raggiungendola mentre stava sollevando il velo di luce che avrebbe riparato l’ingresso da lei difeso. Non fu facile, ma riuscì, progressivamente, a risvegliare la sua coscienza, la stessa da cui anche lui era stato partorito.

 

E allora sorrisero entrambi, ritrovandosi, stretti in un abbraccio immateriale ma uniti da una sola certezza. La loro missione non era ancora finita.

 

In quel momento Erebo attaccò Emera, sbattendola a terra, e poi infilzò Etere, nutrendosi della sua energia. Una prospettiva terribile e raccapricciante a cui nessuno aveva mai prestato orecchio. Vedendo la carcassa priva di vita del Signore del Cielo più Alto, vedendolo tramite gli occhi della sorella, intrisi di lacrime, Avalon rabbrividì, pensando che se fosse accaduto a lei, tutti i loro piani sarebbero falliti.

 

Così, con gentilezza, la invitò ad alzarsi, allontanandosi dalla Corte della Luce, che presto sarebbe stata invasa dalle forze dell’Alleanza, e a scendere negli androni del Primo Santuario. C’era ancora qualcosa che poteva fare, con le ultime energie che le rimanevano, qualcosa che Avalon non smise di sussurrarle all’orecchio durante il tragitto, finché la sua voce, di per sé già molto debole, non si ridusse a un flebile sussurro, sormontato e vinto dalle grida e dai rumori di guerra che risuonavano tutt’attorno al complesso templare. Un sussurro che infine scomparve.

 

Accasciandosi sulle ginocchia sbucciate, per la perdita del primo e più amato figlio, Emera singhiozzò, soltanto per rendersi conto, all’udire i passi metallici avvicinarsi, che era proprio dove voleva andare.

 

Alzando lo sguardo triste e bagnato di lacrime, vide Caos torreggiare sopra di lei.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: la fine del tempo cosmico.

Spazio: Primo Santuario.

Fine.

 

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Capitolo 37
*** Capitolo trentaseiesimi: Il secondo avvento. ***


CAPITOLO TRENTASEIESIMO: IL SECONDO AVVENTO.

 

Il potere di Caos era immenso.

 

Lo percepirono tutti, non appena uscì dalla porta che conduceva all’interno della ziggurat nera, e tutti tremarono, trovandosi di fronte a una concentrazione tale di energia da mettere in discussione tutto quello in cui avevano sempre creduto. Concetti come forza o debolezza, ordine e gerarchia, attacco e difesa, parvero perdere significato. Adesso, di fronte a loro, c’era soltanto un’infinita quantità di energia primordiale, la stessa da cui aveva avuto origine la terra su cui camminavano, l’aria che respiravano, l’acqua che bevevano e i loro poteri. Cos’erano, in fondo, se non tutti figli suoi?

 

Pegasus e i suoi quattro amici erano immobilizzati, per quanto avessero già avuto un assaggio della sua spaventosa potenza quando, sotto forma di nube nera, era apparso sull’Isola Sacra, fagocitandone il custode. Quel ricordo, quell’orribile memoria, riapparve all’istante davanti ai loro occhi, assieme al senso di impotenza provato. Soltanto Pegasus, tra i cinque, riuscì a muovere un passo, posizionandosi di fronte ad Atena e annuendo. Non visto, Andromeda sospirò.

 

Alle loro spalle Asher, Castalia, Tisifone, Toma, Nikolaos, Shen Gado tremavano di paura, come bambini di fronte al buio, loro che bambini non erano mai stati. Eppure non riuscivano a fare altro, nemmeno a distogliere lo sguardo da quella minacciosa corazza da battaglia che, forse soltanto pensandola, Caos aveva generato. Anche Sin se ne stava zitto, dopo la batosta presa da Erebo e la distruzione della sua armatura, tra Hubal e Avatea, con il primo muto e la seconda intenta a mormorare qualcosa in una lingua polinesiana che non conosceva, forse una preghiera per tutti loro.

 

Anche Atena avrebbe voluto pregare, ma non sapeva chi. Forse le sue amiche, le Dee che le avevano offerto i loro doni di amicizia, vittoria e sapienza, se ancora vivevano dentro di lei, se ancora non erano state attirate dalla perversa oscurità di Caos.

 

Accanto a lei, schierati uno accanto all’altro, Zeus e Nettuno, Ermes ed Efesto, Amon Ra, Horus e Bastet, infine Vidharr, più che mai silente. Persino Pentesilea non stava proferendo parola, la mano che a fatica riusciva a stringere la spada dalla lama sbeccata senza tremare. Mirina, dietro di lei, represse un singhiozzo spaventato.

 

Soltanto gli Angeli parvero non provare niente. Per quanto la logica domandasse prudenza, in fondo al loro cuore balenarono due sentimenti diversi; il primo, assai ovvio, fu uno sconfinato senso di soddisfazione, di completamento di un’esistenza. In vista di quel giorno avevano vissuto e quel giorno era arrivato. Inoltre, per quanto lo tenessero a bada e non volessero lasciarlo libero di divorare la loro capacità di giudizio, furono toccati anche dal desiderio di vendetta. Per Avalon, prima di tutto, e forse anche per Anhar, la cui mente Caos aveva avvelenato.

 

Ma fu Toru dello Squalo Bianco a farsi avanti per primo, sputandosi sulle mani e poi sfregandole, di fronte allo sguardo sconcertato del resto dei combattenti. Avanzò di una ventina di passi, apostrofando Caos senza mezzi termini.

 

“Dunque sei tu… Pō l’oscuro! Il generatore delle tenebre primordiali! Il responsabile della fine del mio Avaiki!”

 

Caos non rispose, impassibile, dietro l’elmo che gli copriva la faccia e da cui usciva una matassa di capelli verdognoli. Soltanto il leggero inclinarsi del cranio fece capire a Toru che lo aveva individuato. Così, bruciando il cosmo, sbatté il pugno nel palmo dell’altra mano, dichiarando che quel giorno avrebbe avuto giustizia.

 

“Per me e per tutti gli Areoi caduti a causa tua, maledetto!” –Gridò, scattando avanti, avvolto in un’aura bianca e celeste.

 

“Toru, fermo!!!” –Gli urlò dietro Sirio, mentre anche Ascanio fremeva impotente, ma il Comandante degli Areoi non lo ascoltò, balzando in alto e liberando un gigantesco squalo di energia.

 

Imperium Carcharodon!” –Tuonò, scatenando il suo massimo attacco, appreso da Afa dello Squalo Tigre quando era ancora un ragazzo pieno di sogni e speranze.

 

Il temibile animale di puro cosmo sfrecciò verso Caos, di fronte allo sguardo attento di tutta l’Alleanza, ma lui nemmeno si mosse, lasciando che si schiantasse contro un muro invisibile a pochi passi da sé. Una barriera oltre la quale lo Squalo Bianco non poté andare, per quanto ardore riversasse nell’attacco.

 

“Scappa, Toru!!!” –Esclamò Ascanio, comprendendo quel che sarebbe accaduto. –“Vattene subito!” –Ma non fece in tempo.

 

Caos rimandò indietro l’assalto, investendo il polinesiano mentre era ancora sospeso in aria. Lo aggredì, dilaniò e spezzò in più parti, fino a schiantarlo a terra, in una pozza di sangue, ossa rotte e schegge di armatura, tra le grida degli Areoi superstiti, che subito corsero dal loro Comandante, incuranti dei richiami degli altri Cavalieri.

 

“Aaah…” –Rantolò Toru, con le ultime forze. Riuscì solo a vedere Parò, Aitu e Waku che si chinavano su di lui, prima di chiudere gli occhi. Sospirando, Parò si augurò che la sua anima si fosse riunita a quella degli aumakuas, per trovare pace nella Perla dei Mari, continuando a sognare un avaiki che non avrebbe più rivisto.

 

In quel momento Caos mosse la lancia, mulinandola verso destra e scatenando, con quel semplice gesto, un devastante fendente di energia.

 

No, si disse Pegasus. Non è un fendente, è una vera e propria onda!!!

 

La prima linea dell’esercito dell’alleanza venne annientata, prima ancora che qualcuno potesse abbozzare una forma di difesa. Fu soltanto in virtù di quella strage che i Cavalieri dello Zodiaco, delle Stelle e gli Dei rimasti poterono rimettersi in piedi, feriti e con le corazze danneggiate, ma i corpi ancora integri.

 

Tirando uno sguardo avanti a sé, là dove prima i giovani Areoi si erano stretti attorno al Comandante, Pegasus vide aprirsi una macabra fossa macchiata di rosso e bianco, frammenti così piccoli che soltanto il possesso del Nono Senso gli permise di notarli. E, poco oltre, dove Arawn aveva tentato di proteggere Rhiannon, dove Tirtha e i santoni indiani avevano sollevato uno scudo psichico e dove Pentesilea si era lanciata avanti, spada in pugno, seguita da Mirina, non c’era niente che li ricordasse. Soltanto un terreno devastato di buche e mucchi di terra smossa.

 

“Pentesilea…” –Mormorò Phoenix, incredulo.

 

“È… incredibile! La sua potenza… supera ogni aspettativa…” –Disse Cristal, mentre Andromeda e Sirio, al suo fianco, rimasero in silenzio, gli occhi umidi di lacrime che non avrebbero voluto, ma non riuscirono a impedirsi di, versare.

 

“Cosa… possiamo fare?” –Domandò allora Pegasus, voltandosi verso gli Angeli. –“Che speranze abbiamo?”

 

“Non ne abbiamo.” –Tagliò corto Andrei. –“Mai avute. Fin dall’inizio è stato un suicidio, ma se la scelta è aspettare che quel bastardo silenzioso venga a prendermi a Isla del Sol o provare a spezzare la sua tronfia sicurezza allora scelgo la seconda.” –E avvampò nel suo cosmo amaranto, prima di sollevarsi in aria come una cometa di fuoco e schizzare verso Caos. –“Aurora infuocata!!!”

 

“Sono con te, fratello!” –Gli andò dietro Alexer, evocando una torma di fulmini azzurri. –“Tempesta siderale, soffia!” –Asterios non disse altro, limitandosi a scatenare la furia delle correnti d’acqua, che si sommò alle folgori e al fuoco degli altri Angeli, generando un assalto veloce, potente e mirato che scosse l’intera facciata della ziggurat nera.

 

Ma Caos, anche quella volta, non si scompose, riparato dietro l’invisibile protezione su cui il triplice attacco impattò, facendo tremare il Santuario delle Origini ma non il suo ospite. Qualche crepa si aprì sui blocchi di roccia nera, mentre gli Angeli liberavano la fiamma del loro potenziale e Pegasus si convinse che fosse il momento per unirsi a loro. Avvolse il pugno destro nel suo cosmo azzurro e fece per scattare avanti, quando Andromeda lo afferrò per un braccio, chinando lo sguardo.

 

In quel momento un’onda di energia travolse Andrei, Alexer e Asterios, gettandoli a gambe all’aria tutt’attorno a loro, con le ali spezzate e le corazze danneggiate. Di certo, se non fossero state interamente di mithril, avrebbero raggiunto Toru e gli altri.

 

“Andrei!” –Si agitò subito Jonathan, muovendosi verso di lui, solo per trovare Ascanio a sbarrargli il passo. Con voce ferma e sguardo triste, lo invitò a desistere.

 

“Non possiamo permetterci distrazioni! Non adesso!”

 

Jonathan, al pari degli altri Cavalieri delle Stelle, comprese quanto sottinteso.

 

Non adesso che siamo arrivati a questo punto, e abbiamo sacrificato tutto e tutti. Sospirò, tornando a voltarsi verso Caos, che, nel frattempo, aveva iniziato a scendere lungo la scalinata, raggiungendo l’ampia piattaforma situata a metà dell’altezza della ziggurat.

 

“Credevo che non potesse avere forma umana…” –Disse infine Pegasus, rivolto a Zeus. Ma fu Amon Ra a rispondergli, facendosi avanti, con Bastet e Horus ai lati.

 

“Temo che, dopo essersi nutrito di tutti gli Dei che gli sono stati offerti in dono, la vostra amata Demetra, tra gli altri, Caos abbia acquisito il potere, e anche la conoscenza necessaria, per generare un proprio corpo. In verità, io credo che, come Dio Creatore, egli possa tutto. Ciò che lo separa dalla vittoria completa, a parte il nostro ridicolo tentativo di ritardarla, è la mancanza di consapevolezza.”

 

“Comprendo le vostre parole, possente Amon. Caos è al momento come un bambino prodigio, dotato di grande talento ma ancora grezzo.” –Intervenne Vidharr. –“Ed è questa finestra di tempo la nostra speranza. Vincerlo, abbatterlo, renderlo inerme, prima che riacquisti completa padronanza di sé, prima che possa essere in grado di fare tutto semplicemente volendolo.”

 

“Proviamoci allora!” –Concluse Horus. –“Per i miei figli! Per i miei genitori! Io ci proverò!” –E si avvolse nel suo cosmo argenteo, scattando avanti, liberando la sagoma di un falco di energia, a cui andò subito a sommarsi il cosmo di Bastet, prima che anche il Signore di Karnak spalancasse le braccia, rivelando un immenso occhio di fuoco che puntò su Caos.

 

“Prudenza, possente Amon! Sarà anche un bambino ma di certo è pericoloso!” –Esclamò Zeus, strappando un sorriso al Dio egizio.

 

“Temo che ormai, mio buon amico, la prudenza sia l’ultimo dei nostri problemi. È forse stata, al contrario, la causa di questa nostra probabile disfatta.” –Commentò, prima che il Creatore di Mondi gli rinviasse contro il suo attacco, a cui Amon Ra tentò di opporsi incrociando le braccia al petto, caricandole di ardente energia, ma venendo comunque sbattuto a terra. Bastet e Horus furono meno fortunati, investiti in pieno e scaraventati alle spalle delle forze dell’Alleanza, con le corazze in frantumi e numerosi tagli aperti sul corpo.

 

Horus, fratello mio!” –Gridò Febo, seguendo con lo sguardo il doloroso volo del Dio Falco, prima di riportarlo su Caos e avvampare nel suo cosmo. –“I Talismani! Sono stati creati per sconfiggerlo, no? Devono riuscire nel loro intento, allora! Ci riusciranno! Avalon ne era sicuro!”

 

“Avalon conosceva i loro segreti, meglio di noi.” –Precisò Ascanio.

 

“Ma è morto! E se non vogliamo morire anche con noi…” –Nel parlare, Febo espanse il cosmo, che lo avvolse come la corona solare, prima di sollevare il braccio destro e liberare il proprio colpo segreto. –“Bomba del Sole!”

 

Marins lo seguì all’istante, scatenando l’impeto dei mari azzurri, a cui andarono a sommarsi le comete d’oro di Jonathan, il vortice di luce di Reis, la danza dei sette colori di Matthew e le croci di luna di Elanor. Ultimo, sopra tutti loro, ruggì Ascanio, portando avanti le braccia e liberando i Draghi di Albion.

 

Danza dei draghi!” –Gridò, mentre l’assalto congiunto piombava su Caos, che continuò a scendere le scale della ziggurat senza degnarlo d’attenzione, limitandosi a roteare la lancia, parandolo e prendendone il possesso. Quindi, con identica irrisoria facilità, lo fece suo, caricandolo del proprio cosmo, prima di dirigerlo verso le forze dell’Alleanza.


“Attenti!” –Esclamò Efesto, sollevando una muraglia di terra e lava, subito affiancato da Phoenix, che la potenziò col suo cosmo, mentre Andromeda e Cristal tentarono di frenarlo con le loro tempeste d’energia. Ma tutti vennero spazzati via, travolti dall’onda scatenata da Caos, ritrovandosi a urlare sottoposti a una pressione mai provata prima, fino a schiantarsi a terra, ovunque, sul martoriato suolo del Gobi.

 

“In… credibile…” –Rantolò Marins che, nell’urto, credette di aver subito danni alla mano artificiale, faticando, adesso, nel controllarne le dita. E forse, si disse, immaginando lo stato delle sua ossa, è il danno minore!

 

“Che strano.” –Mormorò Jonathan. –“La sua aura è diversa da tutte quelle incontrate finora… è come affacciarsi a un precipizio e guardare giù, in un vuoto senza fine…”

 

“Immensa, ancestrale eppure… perché mi sembra di conoscerla?” –Disse Reis, giacendo scomposta accanto a lui.

 

In quel momento, mentre Caos terminava la discesa dell’ultima rampa di scale, il suo cosmo invase la spianata di fronte al Santuario delle Origini, schiacciando a terra tutti i Cavalieri e gli Dei a cui erano fedeli. Lo scettro di Nike si sbriciolò nelle mani di Atena, che vanamente vi stava facendo forza per rialzarsi, crollando di nuovo a terra, davanti agli occhi impotenti di Pegasus che non riusciva neppure a puntellarsi sulle ginocchia. Scosse Sirio, accanto a lui, che doveva aver perso i sensi e sangue gli colava da una tempia ferita, mentre Cristal, Andromeda e Phoenix potevano soltanto seguire con lo sguardo i movimenti del Creatore di Mondi, inorriditi di fronte a un potere simile.

 

“Non riesco a muovere neppure un muscolo…” –Rantolò il Cigno.

 

“Debolezza o paura, cosa opprime le mie ossa? Cos’è questa sensazione mai provata prima?” –Disse Phoenix.

 

“È l’assenza di speranza.” –Concluse Andromeda, chiudendo gli occhi. Avrebbe voluto vedere qualcosa, attingendo al dono di Biliku, ma in presenza di Caos tutto ciò che riusciva a intravedere era una notte senza fine, ove tutte le loro azioni finivano per convergere. Sembrava che il futuro avesse smesso di esistere.

 

“E così è!” –Parlò infine Caos, toccando il suolo del deserto con i piedi corazzati dell’armatura e sollevando, al qual tempo, una nuova ondata di energia che scosse la terra per miglia e miglia, facendo tremare i Monti Kunlun e le grandi catene dell’Asia Centrale. Tutti ne furono travolti, sballottati impotenti in ogni direzione, chi schiantandosi contro le mura perimetrali, chi sprofondando in nuove fosse che ovunque si aprirono, chi sbattendo contro l’inerme compagno e crollando esanime al suolo, impossibilitati a qualsiasi tentativo di reazione.

 

Osservando lo sfacelo di fronte a sé, il massacrato campo di Cavalieri e Dei che presto sarebbero divenuti cadaveri, e suo nutrimento, Caos quasi sorrise, se avesse saputo farlo. Era quella, in fondo, nel suo progetto di rifondazione del pianeta, un’attitudine di secondario interesse.

 

Camminò tra i corpi tramortiti degli sconfitti, godendo dei loro rantoli, assorbendo il loro dolore, la loro insicurezza e la sempre più pesante sensazione di fallimento, finché non fu distratto da un uomo dai capelli grigi, rivestito da una danneggiata armatura azzurra e arancione, che si stava trascinando verso un tridente.

 

Nnn… Nettuno…” –Mormorò Ermes, osservando il Dio tentare di sollevarsi, solo per essere colpito da un calcio in faccia e gettato di nuovo a terra e là piantato, con una lunga lama che gli trapassò un braccio, affondando nell’arido suolo.

 

“Imperatore dei Mari!” –Parlò Caos, sorprendendo il fratello di Zeus, che, a fatica, alzò lo sguardo su di lui. –“I mari non appartengono forse al pianeta che io ho generato? Ricordo, all’alba dei tempi, il sogno primordiale da cui tutto ha avuto inizio, la commistione dei colori. Il verde, per i prati, l’azzurro, per il cielo, il rosso, per il fuoco. Ma all’acqua non diedi colore, mi piaceva che fosse trasparente e che gli uomini, specchiandovisi, potessero vedere quel che volevano. Dimmi, Nettuno, con che diritto ti sei proclamato imperatore di un regno che non ti è mai appartenuto? Con che diritto mi hai rubato un dono che avevo fatto agli uomini?”

 

“Tu… riesci a parlare?”

 

“Sto imparando.” –Disse Caos. –“Presto imparerò molte altre cose, cose che forse già sapevo fare, avendole create io stesso, ma che millenni nell’intermundi mi hanno fatto dimenticare. Non ci vorrà molto, non per chi, come me, ha avuto la pazienza di aspettare per così tanto per riprendere quel che gli è stato portato via. Tutto, in fondo, qui appartiene a me! Anche tu! Anche gli Dei!” –E spinse sulla lancia, tra le grida del Signore dei Mari e i lamenti della vicina Demetra, fino a tranciargli il braccio. Soltanto allora estrasse l’arma, che gocciolava ichor, e se la portò alle labbra, per assaporarlo. –“Prelibato. Molto più corroborante di quelle insulse Divinità minori di cui mi era stato fatto dono in passato.”

 

“Tu… mostro! Io non sarò il tuo pasto!” –Avvampò Nettuno, tirandosi su, avvolto nel proprio cosmo azzurro. Impugnò il tridente col braccio sinistro e fece per portare avanti un affondo, ma Caos lo intercettò, spezzando l’asta con la propria lancia e tagliando poi anche quell’arto.

 

Impotente e fiacco, Nettuno crollò sulle ginocchia e poi giù lungo disteso, faccia al suolo, di fronte allo sguardo pietrificato degli altri Olimpi e dei Cavalieri. Zeus fece per sollevarsi, fremente di rabbia, quando Caos, che neppure lo stava guardando, si rivolse proprio a lui.

 

“Giovane Zeus! Ti chiamano in molti nomi, non è così?” –Gli disse, affondando la lancia nella schiena di Nettuno e facendolo sussultare. –“Cronide, Signore del Fulmine, Padre di tutti gli Dei, Zeus Olimpio, quali altri poi? Non li conosco tutti. Vuoi insegnarmeli? Ah sì, Zeus protettore.” –Aggiunse, sollevando poi il corpo del Dio dei Mari in modo che tutti potessero vederlo, mutilato, sconfitto e impalato sulla lancia che presto avrebbe ucciso gli altri combattenti. Lo agitò in aria per qualche istante, senza che nessuno fiatasse, prima di gettarlo ai piedi di Zeus. –“E dimmi, Zeus protettore, quanto valgono questi epiteti?”

 

A quelle parole il Signore dell’Olimpo avvampò, scattando avanti e bersagliando Caos con una tempesta di fulmini, così tanti che chi osservò lo scontro vide soltanto un lampeggiare continuo d’azzurro. –“Folgore tonante!!!”

 

Lava incandescente!” –Gli fece eco Efesto, pur se incapace di rialzarsi, sfiorando il suolo con la mano e infondendogli il suo cosmo, sì da liquefare il terreno e generare un mare di magma attorno e sotto i piedi di Caos. Demetra, poco distante, gli prese la mano, donandogli quel che restava del suo cosmo.

 

"Kerkeyon!” –Si unì loro Ermes, liberando un unico preciso fascio di energia.

 

“Dobbiamo aiutarli!” –Rantolò Jonathan, cercando di rialzarsi, puntellandosi sullo Scettro d’Oro. Ma Andrei gli passò davanti, intimandolo di rimanere indietro, cercando Ascanio con lo sguardo.

 

“I Sette devono starne fuori. Non possiamo rischiare di perdervi adesso!”

 

Proprio in quel momento Caos liberò un’ondata di cosmo, che annientò le folgori di Zeus, la lava di Efesto e l’energia di Ermes, sollevando gli Olimpi e risucchiandoli in un enorme vortice oscuro, che li fece ballare sopra le teste dei presenti.

 

Fu uno scintillio argenteo a distrarlo, la catena di Andromeda che si arrotolò al suo polso, costringendolo a posare lo sguardo su di lui e, in quel momento, al Cavaliere sembrò di precipitare in un vuoto immenso.

 

“Resisti, fratello!” –Gli disse Phoenix, rialzandosi, e caricando con un pugno di fuoco, a cui andò a sommarsi il gelo del Cigno e lo scrosciare maestoso di centinaia di dragoni energetici. –“Per la Terra!” –Tuonarono Cristal e Sirio. Ma anche il loro assalto non incontrò fortuna, parato dall’invisibile barriera che proteggeva Caos e rimandato indietro, dieci volte più potente.

 

“Tocca a noi!” –Esclamò allora Pegasus, che aveva appena aiutato Atena a rialzarsi. La Dea annuì e unì il proprio cosmo a quello del suo Primo Cavaliere. –“Anche senza l’Egida, posso comunque essere la tua difesa!” –E lo avvolse in una sfera protettiva, mentre Pegasus galoppava avanti, mitragliando l’oscuro Creatore di Mondi con migliaia di pugni luminosi.

 

Neanche uno andò a segno e il Cavaliere, lanciato in avanti dalla sua stessa corsa, arrivò a pochi passi da Caos, incrociandone lo sguardo nascosto dall’elmo e dalla capigliatura ribelle. Non seppe cosa aspettarsi in quel momento, del resto persino Ade, che dominava l’aldilà e obbligava i morti a soffrire ancora, aveva dei bellissimi occhi azzurri, eppure quelli di Caos sembravano non avere colore, come se non si fossero ancora formati. Un grigio spento, gli parvero. E fu tutto quello a cui pensò, mentre veniva scaraventato indietro, con l’armatura che si schiantava in più punti.

 

A salvarlo dalla distruzione totale fu l’attacco congiunto di tutti gli altri combattenti. Shen Gado, Toma, Avatea, Hubal, Nikolaos, persino Asher, Castalia e Tisifone si unirono a loro, potenziando il cubo di fiamme con cui Sin degli Accadi aveva appena circondato Caos.


“Quel bastardo di Anhar lavorava per te, non è così?” –Commentò il Selenite. –“Brucia allora, come Babilonia è bruciata!” –Ma, per quanto potenziata dall’unione di quella decina di cosmi, la Casa della Gran Luce venne tagliata in due da un movimento della lancia di Caos e le due parti scagliate contro i Cavalieri, scaraventandoli indietro, con le corazze in frantumi.

 

Fu lesta, Avatea, a schierarsi davanti a Shen Gado, congiungendo le mani e mormorando un’ultima preghiera. –“Sono vecchia.” –Si limitò a dirgli, sorridendo, mentre l’energia di Caos la investiva, disintegrando il suo corpo. –“Tu vivi!” –E quel sorriso accompagnò la caduta del Cavaliere Celeste, che ruzzolò per vari metri, fino a ritrovarsi a sbattere contro i suoi stessi compagni, accatastati in un confuso mucchio di eroi sconfitti.

 

“Eroi…” –Mormorò il Capitano dei Seleniti. –“Lo siamo davvero? Gli Heroes si chiamavano così eppure sono tutti morti.”

 

“Non riusciamo neppure a impensierirlo, a costringerlo a considerarci avversari…” –Concordò Nikolaos, nella polvere accanto a lui. Asher, Castalia e gli altri non avevano neanche il fiato per parlare e l’Eridano si augurò che fossero svenuti, sebbene, con il cosmo ridotto al lumicino, fosse difficile capire chi era vivo e chi non più.

 

Soddisfatto per le proprie azioni, Caos voltò le spalle al campo di battaglia, incamminandosi di nuovo verso la gradinata. Soltanto quando mise piede sul primo scalino, sorrise, appagato per le conferme che aveva trovato.

 

“È dunque così che deve finire?” –Commentò Pegasus, riverso al suolo, con un braccio piegato dietro la schiena. –“Abbiamo combattuto tanto solo per morire qui?”

 

“Pegasus… Che cosa possiamo fare? Siamo impotenti.” –Disse Cristal a fatica.

 

“Ogni cosa che pensiamo, Caos l’ha già pensata prima. Ogni attacco è fallace, ogni difesa è inutile, ogni arma è spuntata.” –Continuò Andromeda.

 

“Eppure abbiamo i Talismani.” –Disse Pegasus. –“Se solo sapessimo come usarli…”

 

“Non perdete la speranza, Cavalieri dello Zodiaco!” –Parlò allora una delicata voce femminile, mentre un cosmo luminoso, simile a un’alba sul mare, sorse su di loro, irrorandoli e donando loro momentaneo ristoro. –“Né tutti voi, Divinità degli uomini! Poiché la speranza è tutto ciò che separa voi dalla vittoria e Caos dalla sconfitta!”

 

“Questo cosmo…” –Mormorò Pegasus, tentando di rialzarsi. –“Lo conosco…”

 

“Emera!” –Esclamò Phoenix, cercando la fonte di quella luce e trovandola, in piedi sulla piattaforma centrale della ziggurat. Tutti, per quel che le forze permisero loro, si voltarono per guardarla, sebbene pochi riuscissero a immaginare che quella fanciulla ferita e macchiata di sangue, con le vesti lacere e i capelli scarmigliati, fosse una delle più potenti entità della Terra, la stessa che, pochi giorni addietro, aveva quasi distrutto il Santuario di Atene.

 

“Non cedete! Non fatelo mai! Non rinunciate ai vostri sogni!” –Li esortò la Signora del Giorno. –“Anch’io, un tempo, ne avevo, e anche mio fratello, prima che l’oscurità di Erebo e Nyx offuscasse i nostri ricordi. Ed erano sogni di pace e fratellanza, sogni in cui gli uomini avrebbero collaborato tra loro, adorando gli Dei che, in cambio, avrebbero garantito la loro sopravvivenza, uno scambio di doni e di idee in vista di un futuro comune. Sono sogni che possono ancora divenire realtà, se saprete lottare per questo! Io so che Caos può essere sconfitto, io c’ero e l’ho visto. E voi avete gli strumenti per farlo! Possa la mia luce illuminare il vostro cammino!” –E sollevò un braccio, con il palmo aperto, da cui una nube di polvere di stelle si sollevò, fluttuando nel vento e depositandosi poi sui corpi di tutti i combattenti.

 

In quel momento Caos la raggiunse sulla piattaforma, incombendo su di lei e piegandola in ginocchio con la sola volontà. Ma Emera non se ne curò, continuando a profondere il proprio cosmo agli Dei e ai Cavalieri, senza neppure guardarsi alle spalle.

 

“Emera…” –Mormorò Atena, con le lacrime agli occhi. E le sembrò che la Signora del Giorno le parlasse, parlasse proprio a lei, con parole dolci, come quelle di una madre.

 

“Ti ringrazio, Dea Atena, per avermi ricordato quanto questo mondo sia bello e pieno d’amore, tu che così tanto hai vissuto tra gli uomini da esserti nutrita della loro luce. Un bagliore diverso è quella luce, rispetto a quella degli antichi Dei, ma non per questo incapace di splendere altrettanto intensamente. L’ho compreso o forse l’ho soltanto ricordato. Poco importa, muoio felice, muoio come gli uomini.”

 

A ciascun combattente, a modo suo, sembrò di sentire le parole di Emera dentro sé, parole rivolte alla propria intimità, parole che lo invitarono a rialzarsi, bruciando ogni stilla del proprio cosmo, unendola agli altri, tante gocce dello stesso mare di luce che, a detta della Dea, avrebbe potuto infrangere gli scogli oscuri del Caos.

 

“Hai finito?” –Le disse l’Unico e, prima ancora di ricevere risposta, roteò la lancia, tagliandole la testa, che rotolò giù lungo l’altra scalinata, andando a perdersi in lontananza, vicino alle mura perimetrali. Il corpo, invece, rimase per qualche istante ancora eretto, a testimonianza della potenza di Caos, prima che questi, toccandolo con l’asta, lo spingesse avanti, facendolo precipitare a terra con un tonfo sordo.

 

“Emera!!!” –Gridarono i Cavalieri dello Zodiaco, espandendo il loro cosmo. Subito, le ali distrutte delle armature ripresero vita, spalancandosi e permettendo loro di librarsi, sia pur brevemente, in volo, mentre Atena allungava una mano, impugnando un ricostruito Scettro di Nike. –“Non ti deluderemo! Non offenderemo la tua memoria!” –Esclamarono, scattando avanti.

 

Per primo, Sirio liberò migliaia e migliaia di dragoni di energia che sfrecciarono nel vento, ricoperti e irrobustiti dal gelo del Cigno, mentre Phoenix e Andromeda, mano nella mano, liberavano i loro assalti: un pugno di fuoco, imbrigliato in un poderoso turbine d’aria. Tra loro, d’improvviso, spuntò un cavallo alato, che si moltiplicò in infinite copie, tanti quanti i pugni di luce che Pegasus produsse. E al centro, guidato, spinto e al tempo stesso difeso dal cosmo dei suoi Cavalieri, lo scettro di Atena sfrecciava verso Caos.

 

“È un attacco potentissimo!” –Notò subito Nikolaos, che pure aveva avuto modo di combattere più volte con i Cavalieri di Atena, notando quanto fossero cresciuti.

 

“Eppure non basterà!” –Precisò Vidharr, scuotendo la testa, prima che l’ombra di Zeus gli passasse davanti.

 

“No, se non li aiutiamo!” –Tuonò, liberando il proprio attacco, a cui i cosmi di Efesto, Ermes, Demetra, Toma e Nikolaos si sommarono. Anche Amon Ra e gli egizi fecero altrettanto, e una bomba di fuoco andò a unirsi alle folgori olimpiche e al cosmo gelido dell’Ase, sospingendo l’assalto dei Cavalieri di Atena e donandogli nuovo vigore.

 

“Interessante.” –Fu l’unico commento di Caos, prima che quella massa di energia raggiungesse la piattaforma, esplodendo. L’intera facciata della ziggurat tremò e pezzi di roccia franarono a terra, seppellendo in fretta il corpo sfregiato di Emera e sollevando nubi di polvere, ma quando queste si dissiparono i Cavalieri e gli Dei videro che di Caos non vi era traccia. Non su quella piattaforma quantomeno.

 

Li osservava divertito dall’alto della prima porta, prima di muovere il braccio a spazzare e generare una devastante ondata di energia, simile a quella con cui aveva massacrato gli Areoi e le Amazzoni, ma infinitamente più potente, costringendo gli avversari a unire i cosmi in un’unica barriera per frenarla.

 

“Resistete!!!” –Gridò Zeus, le braccia tese avanti in uno sforzo estenuante.

 

“Luce del sole, non smettere di brillare!” –Lo affiancò Amon, con Bastet e Horus.

 

“Odino, aiutaci!” –Disse soltanto Vidharr, prima che una nuova ondata schiantasse la barriera e li investisse, scaraventando tutti lontano.

 

“Non è possibile… Neppure con l’aiuto di Emera lo abbiamo ferito…” –Borbottò Pegasus, precipitato in una fossa assieme ai compagni.

 

“Dunque è vero, contro l’ombra non vi è speranza di vittoria?” –Chiese Sirio. –“Non posso accettarlo! Non voglio accettarlo! Deve esserci speranza, per noi e per coloro che aspettano il nostro ritorno!”

 

“E la speranza ci sarà!” –Parlò allora il Principe Alexer. –“Non dimenticate le parole di Emera! Le parole di nostra madre!”

 

“Co… cosa?” –Balbettarono più o meno tutti i Cavalieri e anche Zeus, Amon Ra e Vidharr, osservando gli Angeli sollevarsi in volo, ognuno avvolto nella propria aura, rossa, azzurra e verde acqua.

 

“Le parole di Emera, quelle che ci ha rivolto, ci hanno infine chiarito un dubbio sulla nostra origine.” –Continuò l’Arconte azzurro. –“Sapevamo di essere la chiave di volta, il gradino a metà nella scala che dagli Dei Ancestrali conduceva agli Dei moderni, e lei ce ne ha dato conferma. Lei, nostra madre, che un giorno si sacrificò per fermare i piani di Caos, aiutando i Sette Saggi a forgiare i Talismani e nascondendoli ai suoi occhi. Lei che infine, pur morente, trovò la forza per procrearci, per partenogenesi, proprio come Nyx aveva generato Erebo.”

 

“Madre…” –Mormorò Asterios, mentre tutto attorno a sé marosi di energia acquatica ribollivano spumeggianti. –“Il ricordo della tua voce guiderà i nostri passi adesso. Verso la luce e verso la pace. E presto, molto presto, ci rivedremo!”

 

“Prima però porteremo a compimento la nostra missione! Insieme, fratelli!” –Gridò Andrei, spalancando le braccia e liberando una violenta fiammata di puro cosmo. –“Trionfo di fuoco!!!”

 

“Per questo esistiamo! Per vincere Caos e decretare la fine di questo tempo cosmico! Trionfo d’acqua!” –Lo seguì Asterios, prima che il gelido cosmo di Alexer li avvolgesse, scatenando una tempesta di vento e ghiaccio. –“Trionfo d’aria!”

 

“Il massimo colpo degli Angeli.” –Commentò ammirato Ascanio, osservando il poderoso assalto schiantarsi sull’Unico, costretto a torcere la lancia davanti a sé. Un gesto sufficiente per impedire al triplice trionfo di concretizzarsi. –“No!!! L’ha parato! Era un colpo tale da distruggere le stelle! Come ha potuto?”

 

“Non l’ha parato.” –Notò Febo, la cui vista acuta gli aveva permesso di scorgere l’esatto movimento della lancia di Caos. –“L’ha neutralizzato, dividendo in due i marosi di Asterios e servendosene per spegnere la fiamma di Andrei, deviando la tempesta contro quel che restava della sua aurora incandescente.”

 

“Ma per fare una cosa simile…” –Borbottò Jonathan, strappando un cenno d’assenso preoccupato al figlio di Amon. –“Devi conoscere i colpi segreti!”

 

Andrei, Alexer e Asterios, ancora sospesi in aria, ancora con i pugni tesi avanti, erano riusciti a giungere fino a pochi passi da Caos, osservando sconcertati il vanificarsi delle loro tecniche.

 

“Quale dispiacere!” –Parlò infine l’Unico, puntando lo sguardo su di loro. –“Mi aspettavo uno scontro leggendario, degno di essere cantato nelle cronache, ma tutto ciò che sapete regalarmi è un massacro a senso unico.” –Aggiunse, sbattendo le palpebre e, con quel gesto, scaraventando indietro i tre fratelli, che si schiantarono a terra, in enormi crateri che macchiarono di sangue e di cocci d’armatura.

 

Faticarono, e molto, Andrei, Asterios e Alexer per rialzarsi e trascinarsi fuori da quelle conche, spezzati, oltre che nel corpo, anche nello spirito.

 

“Quella voce…” –Mormorò l’Arconte Azzurro, scuotendo la testa, solo per rendersi conto che anche Andrei si era irrigidito, riconoscendola.

 

“Un vero peccato, non è così?” –Riprese a parlare Caos, scendendo lungo la scalinata e spostando lo sguardo dall’uno all’altro. –“Avete combattuto bene e a lungo, ma per cosa poi? Per morire qui? Colpa vostra, in verità. In fondo, mi avete portato proprio ciò che desideravo di più.” –E, nel dir questo, fissò i Cavalieri delle Stelle, riuniti attorno al Comandante Ascanio. –“Adesso sì che il cerchio si chiude!” –Quindi, senz’altro aggiungere, si fermò sulla devastata piattaforma centrale, sfilandosi l’elmo e gettandolo via, permettendo a tutti di guardarlo in faccia, e inorridire.

 

Caos si godette la loro espressione confusa, attonita, addirittura terrorizzata, prima di esplodere in una risata cristallina.

 

“Siete pronti per cadere per mia mano? Per mano di colui che fin qui vi ha condotto?”

 

Pegasus non riuscì a rispondere, incapace di distogliere lo sguardo dal volto di Caos. No, non era Caos, quello. O, quantomeno, non aveva mai pensato che lo fosse.

 

Per lui, come per tutti gli altri Cavalieri e Divinità, egli era semplicemente Avalon.

 

 

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Capitolo 38
*** Capitolo trentasettesimo: Il suo nome è Caos! ***


CAPITOLO TRENTASETTESIMO: IL SUO NOME E’ CAOS!

 

L’apparizione di Avalon sollevò un velo di silenzio sull’intera spianata di fronte al Primo Santuario, zittendo persino i lamenti dei feriti. Andrei, che si era appena rialzato per fronteggiare il Generatore di Mondi, rimase con il pugno teso, avvolto in una fiamma rossastra che andò scemando di intensità, mentre Alexer e Asterios si rimettevano in piedi a loro volta, fissando la figura in piedi sulla scalinata del tempio.

 

Era Avalon. O quantomeno ne aveva le sembianze.

 

E la voce. Notò Alexer. E il portamento. I poteri, e anche la conoscenza. Poteva essere un inganno? Una maschera creata ad arte da Caos per distrarli, intimorirli, renderli vulnerabili? A che pro? Si chiese l’Angelo Azzurro, sconsolato. Non aveva bisogno di ricorrere a trucchi simili lui che aveva, anche fin troppo bene, dimostrato di saper tenere testa a tutti loro senza neanche sforzarsi. No, non poteva essere un inganno. Quell’uomo… quell’entità potentissima che li aveva sballottati da una parte all’altra della piana, piegando loro le ossa, frantumando le corazze, respingendo anche il più potente attacco, era il loro amato fratello. Era…

 

“Quello non è Avalon!”

 

Alexer si voltò, fissando il Comandante dei Cavalieri delle Stelle farsi avanti tra i caduti. L’armatura della Natura scheggiata, tagli e ferite aperte sul volto, e un livido sotto l’occhio, a deturpare il bel volto elegante che all’ombra dei meli dell’Isola Sacra era cresciuto, nutrendosi dei suoi segreti e della sua conoscenza.

 

“È solo un’ombra. Niente più!” –Disse Ascanio, fermandosi vicino agli Angeli. –“Un’ombra con le fattezze del mio maestro, del nostro mentore, della nostra guida. Avalon era puro, come la prima luce. Avalon era figlio di Emera, il primo figlio di Emera, e mai si sarebbe prestato… mai avrebbe permesso che Caos si servisse di lui.”

 

A quelle parole nessuno rispose, costringendo Ascanio a voltarsi verso i Cavalieri delle Stelle, i seguaci di Atena e dell’Olimpo, e poi di nuovo verso gli Angeli, il pugno chiuso e colmo di rabbia. –“Principe Alexer! Non crederete davvero a questa follia?”

 

“Io…” –Ma fu Caos a togliere l’Angelo dall’imbarazzo. Caos che ridacchiò, sollevando la lancia e scagliando un raggio di energia che detonò ai piedi di Ascanio, costringendolo a balzare indietro, assieme ai tre figli di Emera.

 

“Giovane Pendragon, mio allievo prediletto. Sapevo che avresti tenuto fede al tuo mandato. Sapevo che avresti rispettato le mie volontà fino in fondo.”

 

“Le… tue volontà?”

 

Caos annuì, prima di spostare la lancia, indicando Jonathan e gli altri Cavalieri delle Stelle. –“Mi hai portato quel che volevo, no? Sani e salvi. Pronti per me. Pronti per essere sacrificati.”

 

“I talismani…” –Comprese infine Ascanio, rabbrividendo. –“No! Servono ad altro...” –Ma di nuovo non poté terminare la frase, costretto a gettarsi a terra, di lato, per evitare il nuovo fascio di energia, che scagliò molti suoi compagni a gambe all’aria.

 

“Servono allo scopo per cui sono stati creati!” –Chiosò Caos, prima di chetarsi.

 

Per qualche istante nessuno fiatò, persino Pegasus pareva aver perso la favella, di certo chiedendosi, al pari dei suoi amici, cosa dovessero fare, cosa potessero fare, loro che avevano sempre ritenuto di poter andare oltre, di crescere e accrescere i propri poteri all’infinito, in un girotondo iniziato quando Alman di Thule li spedì nelle zone d’addestramento.

 

Che quel cerchio sia infine destinato a spezzarsi? Si domandò Pegasus, spostando lo sguardo su Andromeda, Sirio, Cristal e Phoenix. E su Atena, che non si era allontanata dal suo fianco. Feriti, scarmigliati, macchiati di sangue, sudore e morte, sembravano aspettare un segno dal cielo. Ma il cielo ormai si è oscurato e le benigne stelle, che tanto ci hanno aiutato, rischiarando il nostro cammino, sono lontane. Rifletté il ragazzo, chiudendo la mano a pugno e lasciando il cosmo crepitare. Eppure… noi siamo le stelle. La stessa energia risiede in noi. Da sempre.

 

“Cavalieri!” –Gridò allora Pegasus, attirando lo sguardo dei combattenti e degli Dei sopravvissuti. –“Per quanto arduo il cammino sia, per quanto lontana e impossibile da vedere la fine del percorso, noi dobbiamo andare avanti. Per questo siamo giunti fin qua, ai confini di un’epoca in cui tutto ciò in cui abbiamo creduto è andato in frantumi. Gli Dei che credevamo invincibili? Sono mortali come noi. Le rivalità tra i regni divini? Uno stupido trastullo per chi ha tempo da sprecare. Il Distruttore di Mondi? Un altro nemico. Soltanto un altro nemico! Dovete vederla così!”

 

“Pegasus…” –Mormorò Sirio, prima di affiancarsi all’amico e poggiargli una mano su una spalla. Anche Cristal fece altrettanto, mentre Phoenix infiammava il proprio cosmo, pronto per scattare avanti. Soltanto Andromeda rimase in disparte, Andromeda che sospirò e si pulì una lacrima, per poi raggiungere gli amici e annuire. Un attimo dopo cinque comete di luce sfrecciavano nel deserto del Taklamakan, dirette verso la cima più alta della ziggurat nera.

 

“Una domanda soltanto!” – Disse allora Caos. –“Dove credete di andare?” –E mosse la lancia in orizzontale, generando un piano di energia che obbligò i cinque amici a separarsi. Qualcuno si abbassò, altri balzarono in alto, con le ultime forze che poterono trovare, e quando già l’Unico mulinava di nuovo l’arma, ecco che la catena di Andromeda si attorcigliò attorno al suo polso, avvolta da vampe di fuoco rovente. –“Una fusione di poteri? Interessante!” –Commentò Caos, con una voce che, adesso che erano così vicini, suonava davvero uguale a quella di Avalon, sebbene più fredda e spietata.

 

In quell’attimo una cometa di luce, acqua e gelo puntò al suo volto, investendolo, mentre le forze dell’alleanza, rimaste indietro, trattenevano il fiato.

 

“Che stiamo facendo?” –Bofonchiò Zeus, spronando gli Olimpi. –“Dovremmo essere con loro!” –E fece per avanzare, ma Alexer gli sbarrò il passo, scuotendo la testa.

 

Indispettito, ma anche non comprendendo la reazione dell’Angelo, Zeus volse di nuovo lo sguardo allo scontro in atto, molti metri più in alto, solo per scoprire che Caos era ancora lì, ritto sul pianerottolo, le braccia aperte, quasi stesse assaporando la brezza del mattino. Rise, prima di portare una mano davanti al volto e deviare il flusso energetico scatenato dai Cavalieri dello Zodiaco contro la catena di Andromeda, spezzandola. Poi, con la solita inflessibile calma, li sbaragliò roteando la lancia e scaraventandoli a terra.

 

“Avevo proprio bisogno di una rinfrescata. Grazie, Cavalieri di Atena! Dopo tanto tempo trascorso nel vuoto dell’intermundi, avevo dimenticato cosa fossero il freddo e il caldo, avevo dimenticato quanto ardente potesse essere l’animo umano, e il cosmo che ne deriva, e quanto gelido potesse diventare. Ora lo so. E so che, in fondo, non mi tocca. Per chi ha conosciuto l’alba del mondo, il gelo primigenio che esisteva prima della nascita del sole, cosa mai può essere la vostra brezza, pur impetuosa che sia?”

 

“Incredibile…” –Rantolò Pegasus, cercando di rialzarsi, l’armatura che scricchiolava sinistramente. Anche se Emera aveva dato loro un po’ di cosmo, erano ben lungi dall’essere in forma smagliante.

 

“La potenza di Caos e la conoscenza di Avalon.” –Parlò allora Asterios. –“Ecco a cosa mirava l’Unico. In questo modo, con un solo colpo, avrebbe avuto accesso a migliaia di informazioni, sul presente e sul passato, sulla Terra e sui suoi popoli.”

 

“Ora capisco perché poc’anzi ha detto che stava ricordando. Sta acquisendo tutto ciò che Avalon sapeva.” –Intervenne Alexer.

 

“Una notizia peggiore dell’altra!” –Borbottò Andrei.

 

“Motivo per cui dobbiamo agire adesso!” –Esclamò Ascanio. –“Usando i Talismani!” –E, nel dirlo, cercò l’approvazione dei suoi sei compagni.

 

Prima che Alexer potesse opporsi, l’emanazione cosmica di Caos li raggiunse, sradicandoli da terra e gettandoli in aria, esposti a lampi di fuoco improvviso. Atena mosse in fretta l’Egida (in parte riparatasi grazie al cosmo di Emera), Zeus evocò la folgore, Amon Ra generò un’enorme cupola a forma di occhio rossastro, ma i loro tentativi vennero vanificati dal sorriso fiero dell’Unico, con cui li scaraventò a terra.

 

“Ho chiesto i Talismani!” –Disse, stendendo la mano sinistra, il palmo aperto verso i combattenti. –“Li voglio! Qui e ora!”

 

“Li vuoi, brutto bastardo?” –Ringhiò allora Marins, rialzandosi, mentre attorno a sé turbinava un cosmo azzurro. –“Prendili, e strozzatici! Maremoto dei Mari Azzurri!!!” –Subito Febo lo affiancò, scatenando la Bomba del Sole.

 

“Ci siamo anche noi!” –Gridarono Jonathan, Reis, Matt e Elanor, unendo i loro cosmi in un unico attacco. –“Troppo a lungo ci siamo trattenuti! Grande Nube di Oort! Per questo siamo qua! Vortice scintillante di luce! Per questo Avalon ci ha voluto qua! Arcobaleno incandescente! Per combattere Caos! Selenaios Vortex!”

 

“Io… sono… Caos!” –Esclamò l’entità sulla cima della ziggurat, parando l’assalto dei sei. Ma in quel momento due maestosi dragoni, uno bianco e uno rosso, si abbatterono sulla sua improvvisata difesa, caricandola di tutta la sapienza, la virtù e la storia che l’erede dei Pendragon riuscì a produrre. Durò poco, ma bastò a sbilanciare Caos, facendogli muovere un passo indietro.

 

In quel momento gli Dei tutti attaccarono e Ascanio, rimasto indietro, le braccia tese avanti a sé a liberare energia, vide un tripudio di colori, forme e suoni saturare l’aria del deserto. C’era Zeus, in prima linea, che mitragliava Caos con migliaia di folgori (forse persino più di tutte quelle che aveva lanciato durante la Titanomachia!), e il fido Ermes, dal malridotto corpo, il buon Efesto, zoppo, gobbo e con un braccio rotto, e la denutrita Demetra riuniti ai suoi piedi, a fargli dono di quel che restava della loro aura cosmica. E Atena, al suo fianco, con la Nike puntata avanti, a liberare una potenza d’attacco mai scatenata prima. E gli Dei d’Egitto, con i loro cosmi caldi, le artigliate precise di Bastet e Horus, il divampare imperioso del sole di Karnak. E alle loro spalle i venti del nord fomentavano l’assalto congiunto, con Vidharr che pregava e mormorava e manteneva unita quella compagine variegata ma decisa.

 

“Come… osate?” –Avvampò Caos, intercettando le folgori di Zeus e rispedendole al mittente, strappando la Nike dalle mani di Atena e spingendo poi indietro l’orda di Dei con una muraglia di cosmo. A nulla valsero le preghiere del figlio di Odino, venendo tutti travolti, rifluendo come un maroso sulla battigia.

 

Ma di quella confusione di suoni e calori approfittarono gli Angeli, per nascondere la loro presenza, e scattare di nuovo all’attacco. Fuoco, acqua e vento mitragliarono la sommità della ziggurat, aprendo fenditure ovunque, facendo tremare e crollare muri e colonne, e costringendo Caos ad abbandonare la posizione di attesa per passare a un vero e proprio passo di danza mortale. Scagliò la lancia contro Andrei, piantandogliela nel petto e precipitandolo a terra, in una scia di fiamme, mentre già balzava su Alexer, fluttuando nelle sue correnti d’aria, afferrando i suoi stessi fulmini e deviandoli per separare i marosi d’energia acquatica di Asterios. Un’ultima esplosione di cosmo e anche i due fratelli erano a terra, accanto all’Angelo di Fuoco che, lamentandosi, aveva estratto l’asta dal suo petto.

 

“Ora va meglio!” –Commentò Caos compiaciuto, atterrando sulla piattaforma di mezzo. Sollevò il braccio e richiamò a sé la lancia, piantandola poi nel pavimento e generando un’enorme bolla di energia che si espanse in ogni direzione, devastando anche il suo stesso tempio.

 

Amon, Vidharr e Zeus, aiutati dagli Angeli, cercarono di rallentarla, ma vennero travolti, osservando la distruzione delle loro corazze leggendarie. Toma afferrò Castalia, offrendo le spalle all’attacco e guardando la sorella un’ultima volta, prima di scomparire in pulviscoli di luce. Hubal, poco distante, se ne andò zitto zitto come aveva vissuto, e anche Shen Gado l’avrebbe seguito se Sin non avesse sollevato un cubo di energia per proteggere se stesso e l’Ippogrifo. Asher, Tisifone, Nemes e Nikolaos si trascinarono dietro quel che restava dell’Egida di Atena, retto dalla Dea in ginocchio, aspettando il momento in cui il suo gracile cosmo non sarebbe bastato più e sarebbero tutti caduti, quando, d’improvviso come si era sollevata, la tempesta si placò e un unico suono echeggiò nella piana insanguinata.

 

“Cosa?” –Esclamò Caos.

 

Sollevando la testa a fatica, Asher vide cinque scie di luce turbinare attorno all’Unico, bombardandolo di lampi di energia Sorrise, riconoscendole, prima di lasciarsi cadere tra la polvere, certo che, in un modo o nell’altro, Pegasus l’avrebbe sconfitto.

 

***

 

L’attacco di Kohu prese Kelpie alla sprovvista, spingendolo indietro, travolto da onde azzurre e spumeggianti. Riuscì comunque a mantenersi in posizione eretta, espandendo la propria aura cosmica su cui l’assalto avversario si infranse, rifluendo ai lati, come la marea contro gli scogli.

 

“Sei uno degli Areoi? Riconosco la tua bianca corazza! Credevo foste stati tutti sterminati da Forco! Umpf, un altro obiettivo mancato del Signore dei Mari! Tanto defunto quanto presunto!”

 

“Parli così del Dio che hai servito? Ben misera devozione era la tua, Cavaliere!” –Disse allora Kohu, chiudendo le mani a pugno.

 

“Devozione? Quella a un certo punto finisce, ragazzino, poi subentra la voglia di vivere. Quando ho percepito la sconfitta di Tiamat e l’arrivo di Nettuno e di rinforzi, ho capito che per Forco era finita e ho fatto la cosa giusta, andandomene dall’Avaiki, indebolito dalle ferite inflittemi da Nesso del Pesce Soldato. A cosa sarebbe servito, in fondo, dimostrare un’estrema devozione a Forco? A morire con lui in abissi dimenticati da uomini e Dei?”


“Quegli abissi erano la mia casa!” –Ringhiò l’Istioforo, scattando avanti e cercando di colpirlo con un pugno sul mento, ma Kelpie fu lesto a balzare di lato, afferrargli il braccio e torcerglielo all’indietro, strappandogli un grido.

 

Fa’ un favore a te stesso! Trovatene un’altra! Ci sono tanti graziosi anfratti marini!” –E lo calciò a terra, poco distante da Cliff e dai paladini di Atena, che a fatica si stavano rimettendo in piedi.

 

Areoi!” –Lo chiamò la sacerdotessa. –“Sono Yulij del Sestante, ti ringrazio per il tuo aiuto.”

 

“Non con i ringraziamenti lo vinceremo, sacerdotessa!”

 

“No, infatti. Ma vi dirò un segreto. Uno soltanto prima di uccidervi!” –Esclamò Kelpie, espandendo il proprio cosmo, che si innalzò verso il cielo sotto forma di cavalli di energia. –“Voi non vincerete mai! Bäckahästen!”

 

“Forse è così!” –Disse allora Kohu, aprendo la vela che portava affissa sul bracciale destro. –“Ma ci proveremo fino all’ultimo. E se gli abissi oscuri di mi aspettano, tu li vedrai con me! Vela bianca!” –Ed estese il tessuto cartilagineo, in modo da proteggere tutti i Cavalieri di Atena.

 

“Non reggerà a lungo!” –Gridò Sam. –“Dobbiamo fare qualcosa! Aiutiamolo!” –Incalzò Dean, cercando con lo sguardo il professor Rigel, che sollevò le mani impotente, non sapendo cosa fare.

 

“Sì!” –Rispose Kiki, avanzando fino a portarsi accanto all’Areoi. –“Lo aiuteremo.” –E, senz’altro aggiungere, poggiò una mano sulla sua gamba, chiudendo gli occhi e donandogli fino all’ultima stilla del suo cosmo. Nel vederlo così deciso e sereno, Sam e Dean si rialzarono e si tolsero di dosso le danneggiate armature d’acciaio.

 

“Che fate? Siete pazzi?” –Li apostrofò subito Cliff, ma loro continuarono ad assemblarle nella forma originaria: un uccello di qualche specie, quella di Dean, anche se privo di becco e con le ali spezzate, e un quadrupede, quella di Sam, che adesso però di zampe ne aveva tre. E non aveva più il muso.

 

I due fratelli si voltarono verso Rigel, che aveva compreso il loro piano e annuì, mentre Kiki, Yulij e Kohu cercavano di tenere a distanza l’imbizzarrita mandria scatenata dal Settimo Forcide, venendo progressivamente spinti indietro. Uno strappo si aprì nella Vela Bianca, poi un altro, e schizzi di energia cosmica li raggiunsero, assieme al furioso azzannare e scalpitare dei cavalli di cosmo.

 

“Dobbiamo contrattaccare!” –Disse Kohu. –“Mi servirò della vela per un’ultima mossa! Per aprirvi la strada!” –Aggiunse, mentre la sua difesa iniziava ad accartocciarsi. La stirò con forza un’ultima volta, riparandola col suo cosmo, prima di puntarla avanti, creando un cuneo che si infilò nella mandria energetica, spingendola ai lati e rivelando la sagoma di Kelpie alla fine del passaggio. –“Ora!”

 

Yulji e Kiki scagliarono sfere di cosmo verso il Forcide, che, per quanto deboli, lo distassero a sufficienza da impedirgli di generare nuovi cavalli. Di quel momento approfittarono i gemelli d’acciaio per lanciare avanti le loro armature, investendo il ragazzo e gettandolo a terra.

 

“Che diavolerie sono queste?” –Esclamò, dando un calcio alla strana corazza a forma di uccello. In quel momento le due armature esplosero.

 

“Ce l’abbiamo fatta?” –Domandò speranzoso Cliff, osservando la nube di polvere e pietrisco sollevatasi con la detonazione. Sam, Dean e Rigel erano alle sue spalle, ormai inermi, mentre Kiki si era accasciato tra le braccia di Yulij. Soltanto Kohu, con la vela a brandelli, era più avanti degli altri e fu il primo ad avvistare la sagoma di Kelpie farsi avanti.

 

Della bella corazza azzurrognola donatagli da Forco era rimasto ben poco, distrutta, scheggiata o annerita dall’esplosione, che gli aveva portato via un orecchio e un pezzo di faccia. E il lato che rimaneva era deformato da una rabbia incontenibile, che scatenò subito su di loro. Anche se non riusciva a muovere il braccio sinistro, che penzolava inerte sul suo fianco, il destro era ancora vivace e preciso nel colpire, e forzò Kohu a scattare di lato, per evitare gli affondi.

 

“Bastardi! Voglio le vostre teste!” –Ringhiò Kelpie, radunando il cosmo fino all’ultima stilla. E portò avanti il braccio destro per liberare il Bäckahästen ma Kohu lo anticipò con il Taglio delle Onde, piegando l’avversario sulla difensiva. La collisione cosmica andò avanti per parecchi secondi, con i contendenti decisi a dare il massimo, anche la loro stessa vita, pur di spazzar via l’altro. Un equilibrio perfetto che fu interrotto dal canto di Yulij, che, ancora in ginocchio, carezzava i capelli di un addormentato Kiki. Un canto che ricordò a Kohu le preghiere degli Areoi, riuniti attorno al Palazzo di Corallo ad ascoltare la grande Hina del Lactoria; a Sam e a Dean fece invece venire in mente la loro madre, morta poco dopo la loro nascita.

 

A Kelpie non ricordò nulla, perché ormai della sua vita a Abderdeen prima della chiamata aveva rimosso tutto. Ma fu il canto che segnò la sua fine, rafforzando l’impeto delle onde di Kohu, che travolsero i cavalli di cosmo, annegandoli, abbattendosi infine sul Forcide e scaraventandolo in alto. Ricadde sugli scogli, oltre il margine esterno della terrazza, battendo la testa e lì rimanendo, finché un’onda più alta delle altre non lo trascinò via, negli abissi di cui tanto aveva voluto esser signore.

 

“Ce l’hanno fatta!” –Disse Dean. –“Bravissimi!”

 

“Non è ancora finita!” –Gli ricordò il fratello, voltandosi verso il vulcano alle loro spalle, quasi temesse di vederlo esplodere da un momento all’altro. –“Le ragazze. Che ne sarà di loro?”

 

“Non temete!” –Parlò allora Kohu, con voce stanca ma felice. –“Non sono venuto da solo.” –E infatti, in quel momento, canti melodiosi si levarono in tutta l’isola, a placare gli animi inquieti degli uomini che, al momento dell’invasione, si erano barricati nelle loro casette. Ovunque, da tutte le pozze d’acqua che costellavano l’isolotto, anche dai più piccoli rigagnoli, sorsero figure eteree: ninfe oceanine e sirene, cavallucci e tritoni, che, anziché combattere contro gli Each Uisge, li invitarono a seguirli, ad andare con loro.

 

“Siamo tutte creature dei mari. Dovremmo stare assieme!” –Cantilenò una voce, spegnendo ogni istinto bellico nei Cavalli Marini, che abbandonarono i loro progetti apocalittici, scomparendo nelle acque poco dopo.

 

“Che meraviglia!” –Commentò Dean, osservando la delicata figura femminile che uscì dall’acqua poco dopo, rivestita di quello che, agli occhi mortali, pareva un abito fatto di acqua e sale, e filamenti di corallo a tenerlo unito.

 

“Mia signora! Grazie per il vostro aiuto!” –Esclamò Kohu, inginocchiandosi. –“Cavalieri di Atena, permettetemi di presentarvi Euribia, Dama dei Mari!”

 

“Incantato!” –Mormorò Dean, prima di venir trascinato in ginocchio dal fratello.

 

“Oh, non siate così formali! È stato un piacere aiutarvi. Avevi ragione, giovane Istioforo, il tempo della neutralità è finito, anche per chi, come me, ha sempre rifiutato di prendere parte ai conflitti del mondo di sopra. Poiché temo, guardando questa cappa d’ombra che ricopre la Terra, che se i vostri compagni non vinceranno presto non esisterà più alcun mondo di sopra. E che ne sarà allora dei mari? Aborrisco al sol pensiero, e prego. Sì, pregherò per tutti loro. Chissà che il mio canto, e quello del popolo degli Oceanini, non porti loro gioia, calore o anche solo la carezza di un domani? Volete pregare con me?” –Sorrise la Dama dei Mari, sedendo su uno scoglio e iniziando a cantare.

 

Un rumore di passi distrasse Cliff e gli altri, in tempo per vedere Patricia, Fiore di Luna e la Dottoressa Hasegawa arrivare, sane e salve. Sia pur a fatica, quella battaglia l’avevano vinta. Adesso tutto era nelle mani dei Cavalieri dello Zodiaco.

 

***

 

Iaiii!!!” –Gridò Pegasus, lanciandosi su Caos, il pugno teso, il cosmo al parossismo, accompagnato, spinto e sostenuto da migliaia e migliaia di stelle cadenti. –“È finito il tempo delle remore e dei timori. Se morir dobbiamo, lo faremo combattendo!”

 

“Oh, non temere, cavalluccio di Atena. Tu… morirai! Tutti voi morirete!” –Sibilò Caos, evitando la fitta pioggia di luce, di fronte agli occhi sgomenti di Pegasus che non riusciva neppure lui stesso a vedere tutti i colpi che stava scatenando. Un’onda di energia e il ragazzo si ritrovò a terra, a ruzzolare lungo la scalinata della ziggurat, con l’elmo in frantumi e l’armatura e le ossa scricchiolanti. –“L’incertezza sta solo nel decidere chi, tra voi, sarà il primo a cadere!”

 

“Perché non tu?” –Esclamò Cristal, comparendo ai suoi piedi, mentre attorno a loro Sirio, Andromeda e Phoenix continuavano a sfrecciare, circondandoli con le loro scie colorate. Una nube di cosmo così fitta da rendere difficoltoso agli Dei e ai Cavalieri rimasti al suolo capire cosa stesse accadendo al suo interno. –“Gelo della Siberia, ti ho invocato tante volte. Non deludermi proprio adesso!” –Disse il Cigno, afferrando un piede corazzato di Caos e infondendovi tutto il suo cosmo.

 

Umpf! Il gelo della Siberia? Per chi ha conosciuto il freddo dell’universo, cosa mai può essere la brina della terra che ti ha dato i natali?” –Borbottò Caos, nient’affatto impressionato dal ricoprirsi di ghiaccio della sua gamba destra. Roteò la lancia e fece per conficcargliela nella schiena, quando uccelli di fuoco, dragoni d’acqua e strali d’argenteo lucore lo raggiunsero da ogni direzione. Continuando a roteargli attorno, Sirio, Phoenix e Andromeda lo stavano attaccando. –“Un assalto impreciso ma costante. Me ne compiaccio.” –Commentò. –“Ma inefficace anch’esso.” –E affondò la lancia avanti a sé, raggiungendo Phoenix a una gamba e bloccandone la corsa.

 

Andromeda, nel vedere il fratello ferito, lasciò la sua posizione, nonostante le grida di Sirio, e venne afferrato per un braccio e schiantato sopra Cristal. Con un affondo di lancia, Caos si liberò dal ghiaccio, colpendo i tre Cavalieri come fossero una pallina da golf e scagliandoli nel cielo, sghignazzando nel guardarli ricadere a terra. Infine si voltò verso Dragone che, impavido, sia pur tremante, era rimasto a volteggiargli attorno, continuando a colpirlo (o, almeno, provandoci) con attacchi continui.

 

“Mi hai stufato!” –Disse Caos, dilaniando l’ultimo Drago Nascente e mirando al cuore del ragazzo, che lesto spostò lo scudo dell’armatura a sua difesa. Solo per vederlo sfondare da un pugno deciso del nemico. Grondante sangue, Sirio si accasciò ai piedi di Caos, troppo debole persino per sollevare la testa e guardare in faccia il suo carnefice. La lama dell’Unico frusciò in aria un’ultima volta, mirando al collo del Cavaliere di Atena, tra le grida e gli sguardi attoniti dei superstiti, ma venne frenata da una miriade di comete lucenti che, dal basso, stavano sfrecciando verso Caos.

 

“Resisti, amico mio!” –Gridò Pegasus, divorando in un lampo la distrutta scalinata che lo separava dalla cima, dandosi una spinta con le ali dell’armatura. Evitò un fascio di energia scagliato da Caos, roteò su se stesso e poi piombò in picchiata, assumendo la forma di una cometa. Nel vederlo, Caos sogghignò. O forse fu Avalon, che ben conosceva le tecniche di Pegasus, a farlo? Il ragazzo non seppe dirselo, non volle neppure saperlo, si limitò a mettere tutto se stesso in quell’attacco definitivo. Forse non sarebbe bastato, di certo Caos l’avrebbe sconfitto, ma almeno sarebbe riuscito ad allontanarlo da Sirio.

 

La collisione dei loro poteri fece esplodere la piattaforma, scagliando Dragone giù lungo la scalinata e sollevando una nube di polvere e pietrisco. Alexer, da basso, lo disperse all’istante con un colpo di vento, solo per inorridire nel vedere Pegasus in ginocchio, ai piedi di Caos, con la lancia che, conficcatasi nel suo braccio sinistro, gli aveva persino distrutto un’ala.

 

“È la tua fine, cavalluccio. Senz’ali, come potrai mai volare?”

 

“Maestro…” –Sibilò allora una voce, attirando l’attenzione di tutti. Una sagoma scarnificata era apparsa da una crepa nel muro, una sagoma di pura ombra che a fatica cercava di mantenere una sembianza umana. Era ricoperta di pezzi di armatura, indossati forse a caso, quasi volesse nascondere la sua oscura nudità. Sebbene fosse impossibile definirne l’aspetto, nessuno ebbe dubbi sulla sua identità.

 

“Cosa vuoi Anhar? Perché mi disturbi, adesso?” –Lo apostrofò Caos in malo modo, estraendo l’arma dal braccio di Pegasus e colpendolo alla testa, gettandolo a terra. Lo bloccò con un piede sul collo, poggiando la punta della lama tra i suoi occhi, mentre il suo corpo era percorso da scariche di energia. –“Una mossa soltanto, un fiato, anzi, e lo uccido!” –Disse, spostando a malapena lo sguardo su Zeus, che aveva appena evocato un fulmine, e sugli altri Dei. –“Avanti, parla Anhar!”

 

La sagoma che un tempo era stato l’Angelo della Terra fluttuò fino a raggiungere la piattaforma, inchinandosi (o così parve) di fronte al Generatore di Mondi, lodandone la forza e la possanza, la saggezza e altre mille doti che la sua sempre attiva mente riuscì a partorire. Quindi avanzò la sua richiesta, con un tono di voce così supplichevole da risultare difficile persino per Pegasus, che era a pochi passi da lui, udirlo. Gli sarebbe venuto da ridere a pensare che quella creatura, adesso così prona e debole, era il temibile Flagello di Uomini e Dei che a lungo avevano combattuto.

 

“Sommo Caos, mio Signore, stavo pensando, se piacesse a vossignoria, perché uccidere questo giovane? Sarebbe uno spreco, non trovate? Ben più adatto potrebbe rivelarsi per qualche esperimento, non trovate? Esperimenti sì, come quelli che ho condotto per molto tempo. Una possessione, ad esempio. Quel corpo è in forma, ben in grado di accogliere l’anima di un angelo.”

 

“Lo vorresti per te, Anhar? Carogna fino in fondo, sei.” –Esclamò Caos, con una punta di ironia nella voce. –“Ho una brutta notizia per te. Non prenderai il corpo di Pegasus! Non prenderai più possesso di alcun corpo!”

 

“Come? Ma io credevo che non sarei rimasto in questa forma…” –Ma le suppliche di Anhar vennero smorzate quando Caos mulinò la lancia e lo trapassò, sfondandone la sagoma d’ombra. –“Mio… Signore…” –Balbettò incredulo il Caduto. –“Perché? Io sono… il vostro araldo… il portatore del caos. Io… vi ho sempre servito!”

 

“E l’hai fatto bene!” –Ghignò Caos. –“Ma adesso non ho più bisogno di te!” –E ritirò la lancia, che a Pegasus, adesso, parve avvolta da una spirale di energia oscura che dalla sagoma di Anhar si allungò fino a entrare dentro l’Unico. –“Il cosmo di un Angelo. Quale bontà!” –Non aggiunse altro e lo spinse di sotto, osservandone divertito il ruzzolare stanco lungo la scalinata. –“E adesso a noi due! Perdonami se ti ho fatto aspettare!”

 

“Pegasus, no!” –Gridarono Sirio, Cristal, Andromeda e Phoenix scattando all’assalto, ognuno partito da punti diversi attorno alla ziggurat. Piombarono tutti su Caos nello stesso momento, in un tripudio di acqua, gelo, vento e fuoco, ma il loro assalto si schiantò attorno a una sfera invisibile che rivestiva l’Unico, una sfera che lo risucchiò, facendolo turbinare su di sé, prima di rigettarlo indietro, investendo i quattro e scagliandoli a terra, contro Zeus e gli Angeli.

 

“Addio, Cavaliere di Pegasus! Il tuo cosmo sarà nettare prelibato!” –E impugnò la lancia con due mani, sollevandola e poi calandola di colpo, mirando al cranio del Cavaliere di Atena.

 

Pegasus avrebbe voluto fare troppe cose in quei pochi istanti. Invocare Atena, e dirle quanto la amasse. Salutare i suoi amici un’ultima volta. O forse trovare la forza per spezzare la morsa con cui Caos lo stava prostrando a terra, rialzarsi e prenderlo a pugni, sì da togliergli quell’espressione tronfia dalla faccia. Invece, prima ancora di pensare di metterne in atto una, sentì la punta della lama conficcarsi nella sua fronte, il sangue zampillare fuori, una fitta di gelo improvviso. Poi niente più.

 

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Capitolo 39
*** Capitolo trentottesimo: E pluribus unum! ***


CAPITOLO TRENTOTTESIMO: E PLURIBUS UNUM.

 

Pegasuuus!!!”

 

L’urlo di Sirio fu l’ultima cosa che Pegasus udì mentre Caos, mulinando la lancia sanguinaria, la calava su di lui, conficcandone la lama nella sua fronte. Sentì il gelo invadergli le membra, il gelo di una morte a lungo scampata e che adesso infine era giunta. Sentì il sangue scorrergli sulla pelle, la vista appannarsi e poi non sentì altro.

 

Aprì e richiuse gli occhi più volte ma il risultato era sempre lo stesso. Caos, sopra di lui, stringeva ancora la lancia con entrambe le mani ma non riusciva a spingerla, sorpreso lui stesso da quel freno improvviso ai suoi piani. Anzi, a guardarlo, sembrava un freno ai suoi stessi movimenti.

 

“Co… cosa succede?” –Esclamò l’Unico, con una punta di incertezza in una voce fino ad allora tronfia e sicura. Pegasus non perse tempo, afferrò la lama dell’arma e la sollevò, quel tanto che gli bastò per scivolare via da sotto e rimettersi in piedi, incapace di comprendere quell’inaspettato e inspiegabile prodigio. –“Fermo!” –Gridò Caos, muovendo la lancia verso destra, con un unico fluido movimento destinato a mozzargli la testa. Ma anche quella volta, non appena la lama raggiunse la pelle del ragazzo, si fermò. Anzi no, guardando con attenzione la sua mano, Pegasus vide che tremava. Era stato Caos stesso a fermarla!

 

Caos o…?

 

In quel momento una luminosa emanazione cosmica si sollevò alle spalle dell’Unico, rischiarando la spianata desertica, venendo subito riconosciuta dai Cavalieri dello Zodiaco e dagli Angeli.

 

“Pegasus!”

 

“Questa voce…” –Esclamò Alexer, con le lacrime agli occhi. –“Questo cosmo… Fratello! Sei vivo?”

 

 “A… Avalon?” –Mormorò il Cavaliere, temendo un qualche trucco di Caos, che invece era ancora intento a cercare di far forza sulla lancia.

 

“Maestro…” –Disse Ascanio, facendosi più attento che mai.

 

“Non abbiamo molto tempo. Secondi, forse meno. Il Calderone, Ascanio. Adesso!” –Esclamò Avalon, prima che la sua sagoma iniziasse a tremolare.

 

“È il cosmo di Caos!” –Capì Asterios.

 

“No! Non gli permetteremo di distruggere quel che resta di nostro fratello!” –Ruggì Andrei, scattando avanti, avvolto in una sfera di fuoco rovente. –“Pendragon! Fai i tuoi trucchetti adesso! Noi ti daremo l’occasione! Fiamma di vittoria!!!”

 

“L’occasione per cosa?” –Mormorò Pegasus, che intanto aveva strappato la lancia di mano a Caos, spezzandone l’asta e gettandone i resti di sotto.

 

“Per liberare Avalon!” –Annuì Ascanio, rivelando il talismano da lui custodito.

 

In quello stesso momento gli Angeli circondarono Caos. Alexer lo tartassò con una selva di fulmini siderali, scheggiandogli persino l’elmo della corazza, subito imitato dall’impetuoso fratello che liberò bombe dall’ineguagliabile calore. E quando Caos si mosse per fermarli, trovò la strada sbarrata da una pioggia di lance di energia acquatica. Un coacervo di acqua, aria e fuoco che generò una nube di vapore sopra la piattaforma della ziggurat.

 

“E questi vostri attacchi dovrebbero impensierirmi?” –Esclamò Caos, liberandosene con un’esplosione di energia.

 

“Impensierirti no. Distrarti per un momento, perché no?” –Disse Andrei, precipitando a terra, osservando con la coda dell’occhio il Comandante dei Cavalieri delle Stelle piazzare il Calderone dei Misteri proprio ai piedi dell’Unico e attivarne il potere.

 

“Cosa?”

 

Il risucchio di energia fu immediato e prese Caos alla sprovvista e un attimo dopo il Generatore di Mondi si ritrovò a ribollire in una massa di cosmo da cui sembravano allungarsi migliaia di mani, braccia e filamenti che lo tenevano bloccato. E più si dimenava, più espandeva il cosmo per distruggere quella ridicola prigione, più la presa si faceva serrata, trascinandolo sempre più a mollo.

 

“Inconcepibile…”

 

“Non con la forza potrai vincere il Calderone dei Misteri!” –Precisò Ascanio, chiudendo gli occhi e mormorando qualcosa in gaelico antico. Andromeda, ai piedi della ziggurat, tentò di tradurlo per gli amici, ma vennero tutti distratti dalla nube di cosmo oscuro che si levò dal pentolone. Una nube che ai Cavalieri dello Zodiaco ricordò quella che aveva attaccato l’Isola Sacra e ucciso Avalon.

 

“Eccolo! È Caos!” –Gridò Alexer. Ma Ascanio non desistette, continuando a cantilenare, finché l’ultima stilla del cosmo del Generatore di Mondi non abbandonò il Talismano. A quel punto, nelle sue acque ribollenti di energia e vita, giaceva un corpo debole e fiacco, ben lontano dall’eleganza di cui aveva fatto sfoggio nel corso dei millenni, un corpo che comunque riconobbe come quello del suo maestro.

 

Anche Pegasus lo vide e gli si avvicinò, aiutandolo a tirarlo fuori. Era nudo e caldo, forse febbricitante, e magro, quasi scheletrico, e Pegasus ebbe paura che gli si sarebbero spezzate le ossa mentre lo muoveva. Ma la mano rachitica che gli afferrò il braccio, costringendolo a guardarlo in faccia, gli tolse ogni dubbio. Negli occhi argentei di Avalon brillava la stessa luce di sempre, la stessa determinazione a vincere, oltre che un improvviso senso di fine.

 

“Ora!” –Disse soltanto. E la sua voce risuonò nella mente dei suoi fratelli e di tutti gli Dei riuniti ai piedi della ziggurat, e ognuno udì parole diverse, note dello stesso suono che avrebbe prodotto l’armonia finale.

 

Asterios, Alexer e Andrei capirono all’istante quel che Avalon stava per fare, ciò per cui avevano vissuto e sopportato così tanto, così bruciarono i cosmi più che poterono, turbinando attorno alla nube di Caos per impedirle di muoversi.

 

“Stupidi!” –Parlò l’Unico in quel momento. O forse fu soltanto un tuono, il mugghiare furioso di un vento infernale. Ma poi, pian piano, quei rumori divennero distinte parole, una voce che stava ricreando. –“Sono stato a sufficienza nel corpo di Avalon per poterlo generare io stesso.” –E la nube di cosmo oscuro iniziò a muoversi, contorcendosi, allungandosi, comprimendosi, fino ad assumere una forma vagamente umana, indifferente alle vampe di fuoco, alle folgori e alle lance di energia acquatica che la stavano vessando.

 

Avalon, al tempo stesso, non si distrasse, poggiando la mano sul petto di Ascanio e sorridendogli, fiero come un padre, ben più che un maestro.

 

“Va’!” –Gli disse, prima di chiudere gli occhi e recitare una formula appresa molto tempo addietro. Da Emera, che l’aveva ideata, e da Tegel, che per primo l’aveva messa in atto. Radunò ogni stilla del proprio cosmo, facendo appello ai Sette Saggi, alla Dea sua madre, al di lei fratello, che aveva condiviso la sua luce, alle forze della natura, alle memorie dell’isola di Avalon, alla coscienza dei druidi con cui aveva diviso il cammino, e ai ragazzi che aveva cresciuto e addestrato, strappandoli alle loro vite (o forse salvandoli?) e portato fin lì. Li trovo, uno dopo l’altro: Ascanio, Jonathan, Reis, Marins, Febo, Matthew e Elanor. E li chiamò. –“Talismani!”

 

Subito i sette manufatti brillarono nelle mani dei loro possessori, sollevandosi in cielo nello stesso momento e disponendosi in cerchio sopra Avalon. Il Calderone dei Misteri, la Spada di Luce, la Cintura dell’Arcobaleno, il Tridente dei Mari Azzurri, lo Specchio del Sole, lo Scudo di Luna e lo Scettro d’Oro. Sette talismani per sette saggi che li avevano creati. E che alla fine erano diventati una cosa sola.

 

“E pluribus unum!” –Mormorò Avalon, mentre i manufatti brillavano di una luce abbagliante che costrinse molti tra i presenti a tapparsi gli occhi. Soltanto Amon Ra, abituato a tale intenso lucore, riuscì a vedere quel che stava accadendo, e sorrise, felice per aver potuto vivere quel giorno.

 

Quando la luce scemò d’intensità, i sette talismani erano scomparsi. Al loro posto, sospesa in cielo, stava una grossa coppa di mithril, alta quanto la schiena di un uomo. E al posto della nube nera fuoriuscita dal Calderone dei Misteri si stagliava una sagoma simile ad Avalon, forse più all’Avalon che era stato un tempo, forte e muscoloso. Rivestito dall’armatura del Caos, impugnava la ricostituita lancia che Pegasus aveva spezzato poc’anzi. Vide il manufatto scintillare in cielo e arricciò le labbra, comprendendo.

 

“No!” –Gridarono gli Angeli, piombando su di lui. –“Fulmini siderali! Lance di acqua! Aurora infuocata!” –Il triplice assalto venne parato dall’arma che Caos torse davanti a sé, rimandandolo indietro, ma quando fece per balzare in alto trovò la strada sbarrata da tutti gli Dei e i Cavalieri rimasti, forti dell’appello che Avalon aveva lanciato poco prima nella loro mente.

 

“Difendere la Coppa di Luce a ogni costo!”

 

Folgore Suprema!” –Tuonò Zeus. –“Occhio di Ra, illumina la via di tutti noi!” –Gli fece eco Amon Ra, affiancato dall’Ase Silente che liberò il Soffio di Asgard.

 

“Toglietevi… di mezzo!!!” –Ringhiò Caos, che ormai, dei bei modi di Avalon, non aveva più niente, travolto da una furia cieca e primordiale. Ma dopo i Signori degli Dei trovò i Cavalieri delle Stelle a ostruirgli il passo, e Atena, Bastet e Horus, e Ermes, Efesto e Demetra, persino i deboli Asher, Tisifone, Castalia, Nemes, Nikolaos e Shen Gado bruciarono quel che restava della loro vita per fermarlo.

 

“La Coppa di Luce!” –Parlò allora Avalon, con un filo di voce. –“La prima forma dei contenitori delle armature.”

 

“Eh? State dicendo che quello… è uno scrigno?” –Esclamò Pegasus, in piedi accanto a lui, sulla devastata scalinata. Avalon annuì, riprendendo a spiegare.

 

“Non uno scrigno qualunque. Lo scrigno che racchiude i misteri del mondo, i segreti della Prima Guerra, le lacrime dei vincitori, il cosmo dei Sette Saggi. E un’armatura.  Forse dovrei dire l’armatura. L’armatura della leggenda, interamente in mithril, forgiata all’Alba dei Tempi con il sangue di Emera. La più potente corazza mai esistita. Destinata al più potente di tutti, il Cavaliere della Leggenda, l’unico degno di indossarla. Tutti gli altri ne verrebbero consumati, bruciando come fiamma. Va’ Pegasus, reclama il tuo retaggio! L’armatura è tua!”

 

“Come?”

 

“Tu sei il prescelto, l’erede di Micene. All’inizio pensavo fosse lui, il mio allievo, sai, destinato a riceverla, ma poi ho seguito le tue gesta, ho visto il tuo cosmo crescere e la tua voglia di giustizia mai venire meno. Apri la Coppa di Luce, indossa l’Armatura della Leggenda e salvaci! Salva tutti noi!” –Mormorò Avalon, prima di chiudere gli occhi.

 

Pegasus levò lo sguardo in alto, dove lo scontro tra gli Angeli, gli Dei e gli ultimi Cavalieri che tentavano di fermare Caos stava continuando, e prese la sua decisione. Corse lungo la scalinata e poi si lanciò verso la Coppa di Luce, che ancora brillava in cielo, incurante delle lotte in corso attorno e sotto di lei. Nel vederlo scattare in quella direzione, Caos si agitò, liberando una devastante esplosione di energia, sperando di distruggere anche la coppa stessa, ma gli ultimi difensori unirono i loro cosmi in una catena di energia che circondò l’Unico, contenendo la sua potenza distruttiva. Durò un attimo quell’effimera protezione, prima che Caos la mandasse in frantumi, scaraventando tutti a terra, vinti, feriti o cadaveri che fossero. Ma in quell’attimo Pegasus aveva raggiunto la Coppa di Luce. E l’aveva aperta.

 

La luce che ne uscì fu violentissima, illuminando a giorno il deserto del Taklamakan e giungendo persino oltre le pendici del Karakoram e dell’Indukush, portando un momento di speranza alle genti del mondo che temevano di essere sprofondate nell’oscurità. Persino Caos dovette distogliere lo sguardo, riparandosi dietro un braccio, e non poté vedere l’Armatura della Leggenda uscire fuori. La vide soltanto quando, entrata in risonanza col cosmo di Pegasus, planò su di lui, quasi fosse fatta di luce, rivestendolo e donandogli nuova forza.

 

Con la Prima Corazza addosso, Pegasus atterrò nella spianata di fronte alla ziggurat, ristorato e pronto alla lotta. Somigliava alla sua armatura, con due ampie ali angeliche affisse alla schiena e un elmo azzurro con un cimiero a forma di Alfa. La spada di Balmung apparve nella sua mano, leggera e flessibile, quasi fosse un’estensione del braccio stesso, e tutte le ferite subite, i tagli e le contusioni, parvero rimarginarsi, grazie a un potere curativo rimasto inalterato per millenni.

 

“Avalon diceva il vero. La luce della coppa è la più pura.” –Disse, notando che la coppa era ancora in cielo sopra di loro, a osservarli forse? A decidere se fosse degno di quel dono? O in attesa di profondere ulteriori doni? Quali fossero tutti i suoi segreti nemmeno Avalon doveva esserne al corrente.

 

“Pegasus…” –Mormorò Sirio, gli occhi colmi di lacrime di felicità. –“La meriti davvero, amico mio.” –Disse Cristal. –“Quale meraviglia!” –Commentò Phoenix. –“Fa’ attenzione, Pegasus, te ne prego!” –Disse soltanto Andromeda.

 

“E così l’hai indossata!” –Esclamò Caos, che intanto era atterrato sulla piattaforma centrale della ziggurat. Indicò Pegasus con la lancia e subito un fascio di energia nera saettò verso di lui, solo per essere intercettato dalla spada di Balmung, strappando un ghigno al Generatore di Mondi. –“Mithril di prima generazione. Mi fu rubato nella Prima Era. Quanti crimini la mia progenie ha commesso! Non soltanto Emera e Etere fomentarono una rivolta contro di me, non soltanto cospirarono per detronizzarmi, ma seminarono persino i germi per impedire la mia futura felicità! Rabbrividisco di raccapriccio di fronte a tale nefandezza! Ma poiché sono entrambi morti, posso soltanto rivalermi su di te, Cavaliere di Pegasus! Anzi no, Cavaliere della Leggenda dovrò chiamarti? Fatti avanti, mostrami di essere all’altezza dell’epiteto che ti hanno dato! Mostrami di essere all’altezza di Caos!”

 

Pegasus non se lo fece ripetere, spiegando le ali dell’armatura e sfrecciando verso l’avversario, avvolto in una sfera di cosmo luminoso, di fronte agli sguardi ammirati, speranzosi e preoccupati dei Cavalieri suoi compagni e degli Dei.

 

Fulmine di Pegasus!” –Gridò, scatenando il suo colpo segreto. Ma Caos non ebbe problemi a evitarlo, muovendosi più velocemente delle sfere di luce e lasciando le poche che lo raggiunsero (tre? forse quattro?) a infrangersi contro il manto di energia oscura che lo rivestiva. Quando mosse la lancia, Pegasus era sopra di lui e gli stava piombando addosso, con Balmung levata avanti.

 

L’impatto tra le due armi generò scariche di energia che travolsero entrambi, squarciando ulteriormente la scalinata della ziggurat, e lambendo perfino le forze dell’alleanza che a fatica si rimettevano in piedi, chiedendosi cosa potessero fare, come potessero prendere parte a uno scontro di pari potenza e entità. Pareva che, ammantato dalla Prima Luce, Pegasus fosse divenuto un Dio Ancestrale.

 

“Non sottovalutare il tuo avversario…” –Mormorò Alexer, lo sguardo fisso sul rapido confronto a colpi di lame e fendenti di energia che si stava consumando sulla piattaforma centrale. Macchie di ombre e di luce che si inseguivano, si circuivano, si abbrancavano l’un l’altra fino a separarsi, scattando in direzioni diverse per poi tornare a incrociarsi.

 

Pegasus colpiva in continuazione, senza risparmiarsi, senza mai fiatare, senza fermarsi a guardare se aveva raggiunto il bersaglio o meno, timoroso che Caos potesse approfittare di quel millesimo di secondo per ucciderlo. E ogni volta era quasi sicuro che sarebbe accaduto. Anche con le cure di Emera, con l’Armatura della Leggenda, con Balmung in mano, sembrava sempre che vi fosse un divario tra loro.

 

Del resto, Caos è il Generatore dei Mondi. Anche di questo. Disse Pegasus, scansando un affondo che gli strappò un ciuffo di capelli e rispondendo con un secco colpo di lama che Caos parò. Per un lungo istante rimasero così, con Pegasus che premeva su Balmung, riversandovi tutta la forza che era in grado di attingere, fin dai recessi della galassia, e l’Unico che, senza apparente sforzo, lo fissava superbo, spingendo la lancia in avanti, deciso a trafiggerlo al cuore. Rimasero così finché, con un rumore secco, che riecheggiò greve come una condanna a morte, Balmung non si spezzò.

 

“No!” –Gridò Vidharr, dal basso, accorgendosene per primo. –“La spada di Odino! Forgiata dai nani nelle fucine di Svartálfaheimr per suggellare la loro antica alleanza! Distrutta? Impossibile! Mai neppure Loki e i Giganti di Muspell vi riuscirono!”

 

Anche Pegasus dovette sembrare sconvolto ma riuscì a conservare sufficiente lucidità per balzare indietro, mentre la lancia di Caos strideva contro il lato sinistro del suo pettorale. La deviò con il troncone di lama rimastagli, prima di lanciarglielo in faccia, spalancare le ali e portarsi a una giusta distanza. Come se possa esistere una distanza giusta da Caos! Bofonchiò, osservando l’espressione divertita sul volto che questi aveva creato ispirandosi alle fattezze di Avalon.

 

“Cosa ti aspettavi? Pur potente che fosse, la spada di Balmung era soltanto una spada, nata da creature terrestri e figlia di giovani Dei. Come avrebbe potuto opporsi alla Prima Lama? Tu non lo sai, Pegasus. Tu non sai niente, ma la Prima Lama ha mietuto molte vittime all’Alba dei Tempi, abbeverandosi anche del sangue dei Gemelli di Luce e della loro stirpe infingarda. Una lama che io stesso ho forgiato e che non potrà essere spezzata finché vivrò. E io vivrò per l’eternità.”

 

“Parli troppo. Ci hai preso gusto, adesso che ti si è sciolta la lingua, eh?” –Disse Pegasus, avvolgendosi nel suo cosmo incandescente. Roteò su se stesso e sfrecciò verso Caos, simile a una cometa di pura luce, riuscendo a impressionare persino il Generatore di Mondi, che comunque la schivò, lasciando che si schiantasse contro il muro esterno della ziggurat alle sue spalle. Un attimo dopo un’esplosione di pietre e lampi di luce rivelò che Pegasus stava caricando di nuovo, ma Caos quella volta era pronto, con la Prima Lama sollevata e un raggio di energia nera che frenò la corsa del cavallo alato, spingendolo di nuovo contro la parete e poi giù lungo la scalinata.

 

“Sei mio!” –Esclamò Caos, lanciandosi sull’avversario e inchiodandolo a terra per un’ala. –“A che servono, in fondo? Sei un umano, e come tale destinato a strisciare al suolo. Così io ti ho fatto. Non per volare tra le lontane stelle che non ti appartengono!” –E lo piantò a terra, sprofondandolo per decine di metri nel suolo con un sol colpo di tacco.

 

“Pegasus!” –Gridò Sirio, espandendo il proprio cosmo color smeraldo, subito affiancato da Cristal, Andromeda e Phoenix.

 

“Al vostro posto, insetti!” –Li derise Caos, sollevando un muro di tenebre su cui si schiantò la loro avanzata. Un muro che li spinse avanti, scaraventandoli contro gli Dei e gli Angeli. –“E ora… addio, Pegasus! Troppo a lungo questo ballo è durato!” –E calò la lama, mentre il Cavaliere faticava a uscire dalla conca macchiata dal suo sangue. La evitò per un soffio, e gli scheggiò l’armatura, ma la seconda volta capì di non riuscire a schivarla.

 

A salvarlo fu la Coppa di Luce.

 

“Uh?” –Esclamò Pegasus, notando che il manufatto si era spostato da solo, posizionandosi tra lui e Caos e impedendo alla Prima Lama di ferirlo.

 

“Stupida brocca! Ti distruggerò!” –Ringhiò Caos, calando la lama sulla Coppa di Luce, ma venendo spinto (anzi, scaraventato!) indietro da un’improvvisa onda di luce che sciabordò fuori dall’antico talismano. Un’onda che divenne una marea, che ricoprì l’intera spianta di fronte alla ziggurat, traboccando poi dalle mura lontane e fluendo in ogni direzione.

 

Guardandosi attorno, Pegasus non vide altro che luce e per un momento pensò di non essere più in guerra ma in quel tanto decantato Paradiso dei Cavalieri in cui sapeva che un giorno sarebbe finito. Era un oceano di luce abbagliante, di luce purissima, conservata dentro la coppa per millenni, in vista dell’ora più nera dell’umanità.

 

“Che meraviglia!” –Mormorò Andromeda, lasciandosi ristorare da quell’ancestrale bagliore, al pari degli altri combattenti.

 

In quella luce Pegasus e i suoi compagni videro migliaia di volti sorridere loro, ricordi dei giorni vissuti assieme, delle battaglie affrontate e vinte, delle fatiche superate, dell’amore provato, dell’amicizia che li aveva legati, della speranza che mai li aveva abbandonati. E videro anche il futuro, per loro e per le genti della Terra.

 

Videro Orion vincere il drago Fafnir e bagnarsi della linfa del suo sangue. E Sirya suonare il dolce flauto dall’incanto ammaliatore. E Abadir, lottare contro le correnti avverse per salvare l’amico d’infanzia. E Castore e Polluce allenarsi e diventare Cavalieri Celesti. E Freyr, figlio del Re dei Vani, inchinarsi ai piedi di Hliðskjálf e offrire la sua spada di luce al potente Odino. E Ippolita guidare le Amazzoni alla ricerca della perduta Themiskyra. E Bronte del Tuono difendere il Bianco Cancello dell’Olimpo assieme ai suoi fratelli. E Toma incatenato sulla sommità di Strobilus struggersi al pensiero della sorella rimasta sola. E Atlas, Jao e Berenice guidare il carro del Sole, accompagnando ovunque il loro signore. E Atteone osservare Artemide bagnarsi nuda e bella nelle acque di un fiume. E Tyr mettere la mano nell’enorme bocca del lupo Fenrir. E Mime incantare gli animali della foresta di Asgard, sfuggendo al costante allenamento impostogli da Folken. E Magellano della Mensa girare per il continente africano e usare il cosmo per lenire le malattie dei popoli. E Nike, Philotes e Dike impalarsi sullo scettro di Vittoria, cedendo ad Atena le loro vite e i loro sogni. E Zeus il giovane, Zeus il leggendario, Zeus il vittorioso, ergersi sulla cima dell’Olimpo, scagliando folgori sul mondo attorno, difeso e protetto dagli Olimpi suoi congiunti, e tenendo i Titani a distanza. E Iperione il Nero, Iperione della Forza, Iperione il Dio del Sole, che tutto ciò che voleva era dare un futuro alla sua gente. E Eos, che aveva amato così tanto Titone da meritarsi gli sguardi malevoli degli Dei. E Toru dello Squalo Bianco, addestrato da Afa, che affrontava la prova, uscendo per la prima volta fuori dalla Conchiglia. E Mani che giocava con i suoi figli, insegnando loro la psicocinesi. E Giasone e gli Argonauti veleggiare sulla nave verso la Colchide, in cerca del Vello d’Oro. E Artax nascondersi dietro le porte della fortezza di Asgard, solo per vedere Flare passare e bearsi della sua immagine. E i druidi di Avalon riunirsi sulla sommità dell’isola, tra le grandi pietre resto e testimonianza della Prima Guerra. E Emera che, poco prima, piangeva e pregava per tutti loro, irrorandoli con l’ultimo dono di cui era stata capace.

 

C’era molto altro da vedere. Molti momenti rimasti nella luce del cielo. Ma Pegasus e i suoi compagni li conoscevano bene, perché quei ricordi li portavano nel cuore, la magia di momenti che li avevano segnati e fatti crescere. Gradini di un percorso che li aveva condotti lì, e che adesso erano dentro di loro.

 

“Soltanto poche ore addietro, quando siamo giunti in questo deserto, abbiamo affrontato i nostri vecchi avversari. La luce della coppa, adesso, ha donato pace anche ai loro spiriti. Sono certo che se Radamante fosse qui preferirebbe essere scomparso nella luce che vivere asservito all’Unico!” –Disse Pegasus. –“E come lui tutti gli altri!”

 

“Ora basta!” –Tuonò Caos, colpendo la coppa con il piatto della lama e scagliandola lontano. –“Procrastinare l’inevitabile è inutile! Muori, Pegasus, e con te le stupide leggende gli uomini!” –Ma prima ancora che riuscisse a muovere la Prima Lama, vide vampe rossastre esplodere attorno a lui, levarsi alte verso il cielo sotto forma di serpi, frecce e uccelli di fuoco.

 

“Non lo raggiungerai!” –Esclamò Phoenix, balzando di fronte all’amico. –“Non finché le Ali della Fenice batteranno a sua difesa!” –Al suo fianco spuntò Andrei, i palmi delle mani irrisi di energia cosmica. –“Aurora infuocata!”

 

Bomba del sole!” –Gridò Febo, spuntando alle spalle di Caos e calando il braccio su di lei, sostenuto dalla figura paterna che lo sovrastò. –“Occhio di Ra!” –Disse Amon, prima che anche Sin degli Accadi si unisse agli accalorati combattenti.

 

"È-kish-nu-gal!”

 

“A… amici…” –Balbettò Pegasus, mentre un oceano di fuoco si riversava sull’Unico da ogni direzione, liquefacendo persino il terreno attorno, rendendo difficile respirare e costringendo il ragazzo a muovere qualche passo indietro.

 

“Tutte queste fiamme… vi consumeranno.” –Disse Caos, lasciando esplodere il proprio cosmo. Sin, che era il più vicino, venne disintegrato all’istante, ma prima di scomparire concentrò fino all’ultima stilla di cosmo nella Casa della Gran Luce, per assorbire l’attacco più che poté. Phoenix e gli altri vennero scaraventati lontano, le corazze scheggiate in più punti, gli arti piegati innaturalmente. Ma non ci fu tempo neppure per piangere il Selenite di Marte che una tempesta di fulmini iniziò a piovere su Caos, stridendo sulla sua corazza, e costringendolo a levare lo sguardo al cielo, dove avvolti nei loro cosmi azzurri Alexer e Zeus erano apparsi.

 

L’Unico volse loro il palmo della mano, per spazzarli via, ma in quel momento venne investito da poderose raffiche di vento, cariche di energia cosmica, scatenate da Andromeda e da Vidharr, mentre, spinti dalle stesse turbinose correnti, Bastet e Horus sfrecciavano su di lui, liberando artigliate energetiche.

 

Caos li sbaragliò all’istante, gettandoli contro il figlio di Odino e il Cavaliere di Andomeda, solo per accorgersi che le sue gambe stavano affondando nel terreno divenuto all’improvviso acquitrinoso. E da quella melma nacquero milioni di falene energetiche, svolazzandogli attorno, posandosi sulla sua corazza, sull’elmo e sulla Prima Lama e esplodendo all’istante.

 

Lance d’acqua!” –Tuonò Asterios, apparendogli davanti e riuscendo a conficcargliene un paio nella gamba destra, prima che il mulinare della lancia lo spingesse indietro, con una vistosa crepa sul pettorale della corazza.

 

“Una tecnica bizzarra, invero!” –Ammise Caos, disintegrando le ultime falene che, fastidiosamente, gli ronzavano addosso, solo per essere costretto a coprirsi gli occhi, abbagliato, d’improvviso, da sette luci che, come stelle, erano esplose attorno a lui.

 

Jonathan, Reis, Matthew, Elanor, Shen Gado, Nikolaos e Atena avevano espanso i loro cosmi al massimo, distraendo l’Unico quel tanto di cui Cristal abbisognò per congelare il terreno fangoso, solidificandovi le sue gambe all’interno, e di cui Ascanio e Sirio approfittarono per liberare i possenti draghi di Albion e Cina.

 

“Siete… ridicoli…” –Esclamò Caos, mentre le fauci delle bestie sacre tentavano di trovare una breccia nelle sue difese. Con un solo movimento del braccio mozzò le loro teste, vanificando ogni speranza, prima di generare un’enorme sfera di energia che esplose a raggiera, fagocitando tutto quel che incontrò.

 

Quando il potente attacco si esaurì, attorno a Caos non c’era rimasto niente, soltanto un campo di sconfitti che giacevano deboli, feriti e sanguinanti, in armature che ormai non potevano garantire più la loro funzione primaria. Ma Pegasus respirava ancora, e ancora bramava di rialzarsi, puntellandosi sulle ginocchia e levando di nuovo lo sguardo su di lui. Quello sguardo sprezzante che Caos tanto detestava, poiché gli ricordava quello che Emera gli aveva rivolto prima di sprofondare nell’intermundi.

 

“Tu perderai.” –Gli aveva detto. Poi era andata in pace.

 

Caos invece no. Pace non ne aveva mai avuta da quando gli avevano tolto il suo mondo. Beh, almeno tagliare la testa di quell’arrogante ragazzino che pretendeva di essere suo pari sarebbe stata una soddisfazione. Magari l’avrebbe cucita sul corpo mutilato di Emera, caricandolo su un grifone e osservandolo svolazzare per i millenni a venire. Sì, sarebbe stato divertente in fondo infierire su chi aveva così tanto ardito.

 

Si avviò verso Pegasus, con la Prima Lama in mano e gliela piantò nel ventre mentre si rimetteva in piedi. Poco, in verità. Colpa di quel mithril, antico e resistente, quasi quanto la sua armatura. Forse come la sua.

 

“Addio, Cavaliere di Atena! Non dispiacerti. Sei l’unico ancora in piedi dopo tutto. Ma sei solo.” –Disse, estraendo la lama, mentre Pegasus barcollava, bruciava il cosmo e tentava di colpirlo con un pugno che Caos deviò con la lancia, prima di spingerlo a terra e troneggiare su di lui. –“E solo morrai!”

 

“Ti sbagli!” –Parlò allora una terza voce, costringendo Caos a voltarsi, accorgendosi soltanto allora che tutt’attorno a Pegasus si erano radunate decine, anzi centinaia, di Cavalieri. Dovevano essere seguaci di Atena, a giudicare dalle armature. Oro, argento e bronzo, ce n’erano di tutti i tipi, e sembravano aumentare in numero, traboccando fuori dalla Coppa di Luce che, zitta zitta, era riapparsa nel cielo sopra di loro.

 

“Quella maledetta coppa…” –Avvampò Caos, ma una moltitudine di cosmi dorati lo spinse indietro, separandolo da Pegasus.

 

“Desisti! Non lo raggiungerai mai!” –Continuò la voce, mentre un uomo alto e dai corti capelli castani avanzava verso l’Unico, rivestito da un’armatura d’oro, con un arco e una freccia già incoccata in mano. –“Pegasus non è solo! È l’ultimo di una gloriosa stirpe di eroi! E noi siamo fieri che sia il nostro rappresentante!”

 

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Capitolo 40
*** Capitolo trentanovesimo: Una stirpe di eroi. ***


CAPITOLO TRENTANOVESIMO: UNA STIRPE DI EROI.

 

“Mi… Micene!”

 

Anche se non aveva mai udito la sua voce, Pegasus lo riconobbe all’istante, come riconobbe gli altri cosmi che lo circondarono, lo sollevarono e lo avvolsero con il loro tepore.


“Stai bene, ragazzo?” –Gli disse una voce possente, dandogli una pacca sulla schiena.  –“Da bravo, fatti da parte! Ho voglia di sgranchirmi le gambe!”

 

“Toro! Scorpio!” –Disse Pegasus, identificando le figure ammantate di luce che lo accerchiavano. –“Ioria! Virgo! Pure tu, Gemini!”

 

“Pegasus! Ci ritroviamo per l’ultima volta! Anche se solo con le nostre anime, noi combatteremo per la Terra e per l’umanità!”

 

“Sì!” –Gli fece eco Ioria. –“Per la Terra e l’umanità!” –Ripeterono in coro i Cavalieri d’Oro, mentre alle loro spalle sgomitavano anche i Cavalieri d’Argento e Bronzo. Tanti volti, alcuni Pegasus non li conosceva, ma riconobbe le loro corazze.

 

Kanon! Ci siete tutti?”

 

“Tutti coloro che hanno combattuto per Atena e per la libertà degli uomini, finalmente liberi dall’ombra di Caos. Non più anime asservite alle tenebre, ma libere.” –Confermò il fratello di Gemini. –“Questo è il potere ultimo della Coppa di Luce, vivere davvero nella luce. Far parte di un progetto più grandioso, di uno scontro millenario che si consuma ciclicamente.”

 

“Pegasus!” –Altre voci, altri amici. Altri ricordi. –“Siamo con te, amico!” –Era Gerki dell’Orsa quello, così alto e possente, che sovrastava tutti gli altri, sgomitando che gli facessero spazio?

 

L’esplosione del cosmo di Caos ricordò a Pegasus il motivo di quell’inaspettata e gradita riunione, costringendolo a volgere lo sguardo verso l’Unico che, superata la sorpresa iniziale, non sembrava affatto preoccupato dal ritrovarsi circondato da un esercito di Cavalieri di Atena.

 

“Anime erranti, vi darò la fine che meritate! Il varco tra i mondi è ancora aperto! Sì, vi spedirò tutti nell’intermundi!”

 

A quelle parole, Pegasus rabbrividì, poiché se fosse successo non avrebbe più potuto raggiungerli. Nessuno avrebbe più potuto farlo, costretti a vivere un’eternità di solitudine. Nessun canto, nessuna preghiera, nessuna tecnica li avrebbe più portati indietro, lasciando di loro soltanto il vuoto e il ricordo. Fece per parlare ma si accorse che nessuno aveva mosso un passo indietro, tutti decisi e forti nelle loro convinzioni.

 

“Possiamo procedere!” –Parlò la voce pacata di Shin dell’Ariete. E tutti gli altri annuirono, caricando il nemico.

 

“E sia! Incontrerete qui la fine del vostro lungo penare!” –Avvampò Caos, saturando l’aria con una nube di cosmo oscuro, verso cui si lanciarono i Cavalieri d’Oro. Uno dopo l’altro, uno al fianco dell’altro. Finalmente, dopo tradimenti, incomprensioni e separazioni, insieme.

 

“Che la mia pioggia di stelle trafigga quest’immensa ombra, riportando la luce! Per il Sacro Ariete! Rivoluzione Stellare!!!” –Esclamò per primo Mur, a cui tutti gli altri Cavalieri d’Oro seguirono, in ordine di segno.

 

“Che il possente corno del bove sacro rifulga, in onore a mio fratello Eurialo e a mia nonna Ada, servitori onesti della Dea Atena! Per il Sacro Toro!”

 

“Che il colpo capace di disintegrare le stelle serva per farle rinascere un giorno! Esplosione Galattica!!!” –Tuonarono Gemini e Kanon.

 

“Che le anime erranti del Tseih-She-Ke accolgano la tua scura luminescenza! Strati di Spirito!!!” –Disse Cancer.

 

“Che la tecnica che ideai per proteggere mio fratello possa difendere la Terra tutta! Photon Burst!” –Avvampò Ioria.

 

“Che il cerchio della Vergine si chiuda, con te prigioniero tra le sue fatali spire! Ultima luce dell’Oriente!” –Parlò Virgo.

 

“Che le zanne dei Cento Draghi di Cina risplendano impetuose, fiamme ardenti di saggezza e maestosità!” –Esclamò Libra.

 

“Che la cuspide suprema dello Scorpione d’Oro ti trafigga, incenerendoti ora e per sempre! Avvampa, Antares!!!” –Gridò Scorpio.

 

“Che i mille dardi di luce si carichino del ricordo di coloro che hanno combattuto per la giustizia! Per il Sacro Sagitter!” –Tuonò Micene, subito affiancato da Capricorn.

 

“Che la sacra lama che ricevetti in dono da Atena, e ad Avalon forgiata, possa recidere per sempre quest’immenso male! Excalibur!”

 

“Che questo fiume di gelo possa mostrarti quanto freddo sia l’alito di morte di cui sei portatore! Per il Sacro Acquarius!” –Esclamò Acquarius.

 

“Che le rose tanto amate da Afrodite, Dea della Bellezza, siano per te fonte di indicibili martiri!” –Concluse Fish, in un turbine di fiori rossi, neri e bianchi.

 

E il cerchio si ripeté, mentre Pegasus vedeva passargli davanti volti ignoti, di certo appartenuti ai Cavalieri delle generazioni precedenti. Tante generazioni di eroi che, dal Mondo Antico, si erano succedute a difesa di Atena e dei suoi valori. C’era il padre di Micene e Ioria, che lottò come un leone, finché la Prima Lama non lo trafisse. E Asmita della Vergine, Albafica dei Pesci e Sisifo del Sagittario, che si unirono in un improvvisato Urlo di Atena. E Adamant del Leone, Iulia del Capricorno, Daniele del Sagittario, e via indietro, fino alla prima generazione che Atena scelse come suoi paladini, quelli che combatterono contro Arel Kevines e i Generali di Nettuno ad Atlantide. Un tripudio di luci dorate che attaccò Caos da ogni direzione, quasi sommergendolo in quella marea scintillante.

 

“E noi? Non resteremo mica a guardare!” –Esclamò allora Gerki dell’Orsa, sbattendo un pugno dentro l’altra mano. –“Certo che no!” –Gli andò dietro Black il Lupo, Cavaliere di Bomhills. –“Fate largo, scriccioli! Pugno di Eracleee!!!” –Li sovrastò la tonante voce di Docrates, subito seguito da Eurialo del Dorado e Niso del Tucano che liberarono la Nube di Magellano.

 

Pugno rovente! Ardi!!!” –Gridò il Cavaliere della Fiamma, affiancato da Morgana e dai suoi tre seguaci. –“è il nostro riscatto! Cobra incantatore! Vortice del Delfino! Tocco della Medusa!”

 

Vento dagli artigli fendenti! Spazza via quest’epoca oscura!” –Esclamò Retsu della Lince, unendo il suo cosmo a quello dei compagni. E altrettanto fecero Gerki, Aspides, Lupo, Leone Minore, Reda, Salzius e gli altri discepoli di Albione, Ana del Pittore, Magellano, Regor, Kama e migliaia di Cavalieri di Bronzo, prima che anche la casta mezzana si unisse loro.

 

Tritos sphraghisma!” –Gridò Noesis del Triangolo, disegnando un triangolo di vivida luce nell’aria. –“Polvere di Diamanti!” –Gli fece eco il Maestro dei Ghiacci, liberando l’attacco glaciale. –“Dita d’argento!” –Tuonò allora Eris, prontamente seguito da Moses e da Babel. –“Getto d’acqua devastante! Aurora infuocata!!!”

 

Tuono impetuoso della Croce del Sud!” –Urlò Relta, mentre Serian di Orione già lo superava, gridando a gran voce. –“Nucleo della Meteora Incandescenteee!!!”

 

Tela del Ragno!” –Esclamò Aracne, affiancato da Orione, Dedalus e Argetti. –“Attacco devastante! Labirinto oscuro! Cornexolos!!!” –E, dietro di loro, le catene di Albione, i dischi di Agape, le palle chiodate di Vesta, la pioggia di frecce di Betelgeuse e Lesia, uniti ai cosmi di Nicole, Orfeo, Loto, Pavone, Arles, Asterione, Damian, Birnam, Argor, Ian dello Scudo, Edomon e tutti gli altri Cavalieri d’Argento vissuti dai tempi del mito.

 

Da qualche parte, in quell’oceano di anime combattive, doveva esserci anche il suo antenato, il primo Cavaliere di Pegasus. Il primo Pegasus di cui Atena si era innamorata. Gli parve quasi di vederlo, Bellerofonte, mentre si lanciava su Caos assieme ai suoi compagni. Chissà se anche lui, all’epoca, aveva trovato quattro amici con cui condividere il destino e che magari gliel’avevano fatto apparire meno gramo?

 

Guardando Sirio, Cristal, Phoenix e Andromeda stesi a terra, e Atena, poco oltre, accanto ai frammenti dell’Egida e all’asta sbeccata della Nike, capì che, per proteggerli, avrebbe compiuto la stessa scelta di Micene e dei Cavalieri d’Oro.

 

Si voltò, con il pugno sfrigolante di energia, proprio mentre Caos sbaragliava una legione intera di Cavalieri d’Oro. E ogni volta che morivano, ogni volta in cui uno di loro moriva, semplicemente scompariva. Una damnatio memoriae dell’anima. Un sacrificio per un fine più grande.

 

Colmo d’orgoglio e lacrime, Pegasus sfrecciò avanti, concentrando nel pugno tutto l’amore che sentì di provare per i Cavalieri suoi compagni e predecessori, e piombò su Caos, evitando l’affondo della sua lama, chinandosi e colpendolo dal basso, mirando a un fianco che, nel muovere l’arma, aveva lasciato scoperto. Fu un colpo solo, uno soltanto, prima che l’avvampare dell’oscura emanazione cosmica lo scaraventasse in aria, distruggendogli persino l’elmo, schiantandolo a terra e facendogli scavare un solco nel terreno con la schiena. Quando si rialzò, Caos si stava già affrettando su di lui, eliminando chiunque osasse sbarrargli il passo.

 

Lo vide tagliare in due Black e Aspides, mentre Gerki tentava di afferrarlo per le spalle, venendo incendiato. Eris, il Maestro dei Ghiacci, Toro, Virgo, Loto e Pavone crearono una barriera con i loro cosmi, ma bastò un dito di Caos per porre fine ad essa e alle loro esistenze. Per ultimo, rimase soltanto Micene, con l’arco teso e la freccia pronta a scoccare. L’ultimo dell’armata di Cavalieri di Atena liberata dalla Coppa di Luce, per far vedere loro un’ultima volta il mondo per cui avevano lottato.

 

“Io… Micene…” –Pianse Pegasus, sentendosi responsabile per la loro dipartita.

 

“Non esserlo!” –Lo anticipò il Sagittario, sorridendogli, quindi scoccò l’ultimo dardo e Caos lo spaccò in due con la Prima Lama prima di conficcargliela nella gola.

 

Anche se non uscì sangue, Pegasus vide la lancia sbucare dal collo del Cavaliere d’Oro e quell’immagine agonizzante gli rimase impressa, quell’immagine dell’allievo di Avalon, il martire del Santuario, colui che aveva salvato Atena e permesso a tutti loro di essere lì quel giorno. L’idea che quello sarebbe stato l’ultimo ricordo di Micene lo fece infuriare, strappandogli un grido di rabbia e rimettendolo in piedi, mentre il suo cosmo brillava e cresceva, saturando la corte del Primo Santuario e sfidando l’oscurità del Creatore di Mondi.

 

“Caos!!!” –Lo chiamò Pegasus, sollevando un braccio al cielo. E in quella il mozzone troncato di Balmung sfrecciò nella sua mano, liberando folgori e scintille azzurre, e quando lo mosse Pegasus si accorse che la spada si era ricomposta, forte della luce della coppa, dell’amore di tutti i Cavalieri di Atena e della loro fede.

 

“Im… possibile…” –Tentennò per un momento Caos, sorprendendosi di quel tono vacillante con cui commentò l’avanzata baldanzosa di Pegasus, che era già su di lui e che mirava, con la spada, al fianco dove poc’anzi l’aveva colpito. –“Arguto!” –Disse, muovendo la Prima Lama a intercettare Balmung.

 

Ma quella volta la spada degli Asi non si ruppe, perché adesso non era più degli Asi soltanto. Adesso era la spada degli uomini e di tutti i loro Dei, quelli che si erano scelti e che avevano venerato, invocato e servito nel corso di secoli. Quella era la spada degli uomini liberi, che non avrebbero chinato il capo a un’ombra venuta dal passato, neppure se quell’ombra era il loro stesso creatore.

 

Iaiii!!!” –Gridò Pegasus, affondando e costringendo di nuovo Caos a parare il colpo. Un affondo dopo l’altro, un fendente dopo l’altro, un collimare di lame e scintille di energia che scosse la terra, risvegliando i Cavalieri e gli Dei superstiti e portandoli a guardarsi incontro, ad ammirare stupefatti quel colossale scontro tra titani.

 

“Vana e spossante la tua tenacia!” –Lo derise Caos, schermandosi il volto da un nuovo assalto e accorgendosi, con quello stesso gesto, che tutto quel che aveva fatto negli ultimi due minuti era stato difendersi. –“Possibile?”

 

Perso in quell’improbabile pensiero, non s’avvide del colpo d’ala di Pegasus, con cui lo sovrastò, per poi colpirlo con un calcio in faccia e spingerlo indietro, togliendogli l’elmo, da cui fuoriuscì un groviglio di capelli verdognoli, simili a serpi malate. Approfittando di quel momento, Pegasus andò in picchiata, con la spada tesa, e Caos dovette sforzarsi per recuperare la presa sulla Prima Lama e rivolgerla contro di lui.

 

Si cozzarono, Balmung e la Prima Lama, stridendo l’un l’altra, prima che entrambe trovassero terreno fertile in cui piantarsi. Caos sussultò, quando la spada di Odino distrusse l’armatura già testata dal precedente attacco di Pegasus, affondando nella sua carne, nella carne che lui stesso aveva creata. E se anche era consapevole di poter rigenerare ogni ferita semplicemente volendolo, capì che qualcosa di diverso, di nuovo e potenzialmente pericoloso, gli era appena fluito dentro. Una stilla di luce, una goccia soltanto di quell’oceano di cuori impavidi che avevano combattuto per la libertà degli uomini fin dal Mondo Antico.

 

Cacciò quei pensieri, spingendo a fondo la Prima Lama nel ventre di Pegasus, che boccheggiava sopra di lui, grondando sangue dalla ferita e dalla bocca, prima di scaraventarlo lontano, disimpegnando l’arma.

 

“Pegasus!!!” –Gridarono i Cavalieri dello Zodiaco, rialzandosi e correndo verso l’amico. Ma Caos conficcò la lancia nel terreno, generando un piano di energia che impedì loro di raggiungerlo, facendoli fermare, prima di puntare l’arma e sprigionare un oscuro raggio energetico. Attorno ai quattro amici sorse improvvisa una barriera trasparente, sottile come un velo, ma sufficiente per smorzare l’attacco di Caos, prima che Vidharr apparisse alle loro spalle, venendo però spinto indietro da un’occhiata furibonda del Generatore di Mondi.

 

Trionfo di fuoco!” –Gridò allora Andrei, mentre un oceano di fiamme si riversava su Caos. –“Trionfo d’acqua! Trionfo d’aria!” –Lo seguirono Asterios e Alexer.

 

Umpf!” –Caos fece per liberarsi di quel triplice assalto che gli turbinava attorno quando vide lo stesso brillare sempre più, fino ad accecarlo, prima che una voce (la sua voce?) echeggiasse attorno a sé.

 

Trionfo di luce!”

 

L’improvvisa esplosione cosmica spinse Caos indietro, scaraventandolo contro le mura della ziggurat e facendogli persino perdere la presa sulla Prima Lama.

 

“Avalon!” –Commentò Alexer, notando il fratello, debole e emaciato, simile a una delle tante miserande anime che finivano in Hel dopo la morte. Appoggiato a un contrafforte della fortezza, il Principe Supremo degli Angeli aveva atteso in silenzio, recuperando un quantitativo minimo di forze, a malapena sufficiente per quell’attacco inaspettato.

 

Guardando meglio, ad Alexer parve di vedere qualcosa muoversi ai suoi piedi. Un’ombra? Un groviglio di pezzi d’armatura? Non ebbe modo di pensare poiché Caos si era già rimesso in piedi, il volto deformato dall’ira, l’armatura macchiata di polvere e aloni, e soprattutto il basso ventre scoperto. Era uno spazio minimo, in verità, dove Balmung si era conficcata ma fu interessante notare che quella ferita non si era ancora rimarginata. Quella ferita Caos non l’aveva ancora rimarginata.

 

Se può farlo, perché non lo fa? Si domandò il Principe Alexer, prima che un gemito improvviso lo distraesse, costringendosi a spostare lo sguardo su Pegasus, che, sia pur con molta fatica, appoggiandosi a Balmung, si stava rialzando. Non l’avrebbe mai ammesso, ma stava davvero male, con il sangue che ruscellava fuori dalla ferita all’addome, imbrattando l’eterea veste creata da Emera.

 

“Hai combattuto con onore, Cavaliere di Pegasus! Meriti davvero l’appellativo che ti è stato dato! Cavaliere della Leggenda! Una sola ombra offusca il tuo successo, l’ombra del tuo fallimento. Dopo tanto provare e insistere, dopo aver sacrificato tutto, anche le anime dei tuoi compagni e dei vostri predecessori, che cosa ti resta? Una lama che ho già distrutto? Un’armatura che non è poi così infrangibile? O questa schiera di fantocci debilitati che spazzerò via con un gesto soltanto?”

 

“Mi resta la vita!”

 

“Orbene, presto non avrai più nemmeno quella!” –Decretò Caos, sollevando la Prima Lama, attorno alla quale turbinarono nembi di tenebra. –“Archè!” –Tuonò un attimo dopo calandola contro gli Angeli e gli altri Dei, travolgendoli e spezzando le loro difese. Bastet si mise davanti a Horus, salvandolo e venendo disintegrata. –“Io sono l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine di tutto. Io sono il principio che governa il mondo, il divenire del mondo stesso, che torna necessariamente a me. Nessuno può sfuggirmi. Neppure tu, Cavaliere della Leggenda!”

 

“Ho abbandonato da tempo l’idea di fuggire al destino!” –Commentò laconico Pegasus, espandendo di nuovo il cosmo, più che poté, cercando di ignorare le fitte devastanti al ventre, quasi vermi d’ombra lo stessero divorando dall’interno.

 

“Ammiro il tuo coraggio.” –Si limitò a dire Caos, prima di sollevare una nuova nube di cosmo nero. –“Ma sei senza difese”.

 

“No!” –Parlò allora una voce femminile, mentre la sagoma delicata di Atena si poneva accanto al suo Primo Cavaliere. –“Anche senza l’Egida e Nike, anche con le mie vesti a brandelli e il mio corpo a pezzi, io proteggerò sempre i miei Cavalieri! I Cavalieri della Speranza!”

 

“Isabel?!” –Mormorò Pegasus, prima che lei ponesse le mani sulla sua, stabilendo una connessione tra i loro cosmi. Avrebbe voluto dirle di andarsene, di mettersi in salvo, avrebbe voluto dirle che stava combattendo anche per lei, ma tutto ciò che riuscì a fare fu annuire, voltandosi verso Caos, che li stava osservando con sguardo incerto, incapace di comprendere quel bizzarro sentimento che portava gli esseri umani (e, a suo vedere, anche gli Dei da loro innalzati) a gettare via la vita.

 

“Pensa a colpirlo Pegasus! Io sarò la tua difesa!” –Disse Atena, mentre il ragazzo concentrava il cosmo sulla spada, preparandosi per scagliare un ultimo attacco.


“E sia!” –Avvampò Caos, il cui cosmo vasto e onnipotente stava inglobando l’intera spianata, sprigionando ovunque lampi e vampe di energia nera. –“La vostra leggenda finisce qua! Alla fine di tutte le cose! Archè!”

 

Cometa di Pegasus!!!” –Esclamò il Cavaliere, portando avanti il pugno destro e liberando un unico devastante attacco, che sfrecciò nella caligine di quell’interminabile giornata come un intenso raggio di luce. E sulla prua di quel raggio, lampeggiava avvolta nella luce di Emera la spada di Balmung.

 

La devastante nube di cosmo si chiuse su Pegasus e Atena da ogni lato, distruggendo le sfere protettive che la Dea stava tentando di imbastire. Tolse quasi loro il respiro, annerì le corazze, fece lacrimare i loro occhi e bruciare i cuori, ma niente impedì a entrambi di rimanere concentrati e vedere la cometa lucente trapassare la cortina di tenebra e piombare su Caos. Piantandosi in lui.

 

“No!” –Gridò rabbioso il Generatore di Mondi, osservando la spada conficcarsi nell’armatura già crepata da Pegasus. E stavolta quella sensazione di fastidio crescente, quel prurito che l’iniezione del cosmo luminoso in lui gli aveva suscitato, si fece molto più marcata, generandogli fitte e spasimi lungo tutto il corpo, quasi un virus lo avesse infettato e gli stesse scorrendo nelle vene. –“No!” –Ripeté, puntando Atena e Pegasus con la Prima Lama e scatenando un devastante attacco verso di loro.

 

“Dobbiamo… aiutarli…” –Rantolò Sirio, aiutando Cristal a rialzarsi. –“Pegasus!!! Scappa!!!”

 

Disarmato, con l’armatura rotta e il cosmo ormai ridotto a un lumicino, Pegasus non poté far altro che dare la schiena al colpo mortale, proteggendo la Dea che, anni addietro, aveva giurato di servire fino alla fine, credendo nei suoi ideali. La guardò un’ultima volta prima che lei gli poggiasse la mano sul petto, rimanendo con lui.

 

“Atena, no!” –Gridò Zeus, proprio mentre l’Archè si abbatteva sui due.

 

E in quel momento, tra le braccia di colei che aveva a lungo amato, Pegasus pensò che tutte le vite su cui aveva fantasticato, tutte le vite che avrebbe voluto vivere con lei (da qualche parte in giro per il mondo, magari ragazzi normali con problemi normali) non le avrebbe mai vissute. Ma forse qualcun altro ci sarebbe riuscito. Forse un Cavaliere di Pegasus che fosse venuto dopo di lui. Nel nuovo mondo.

 

Gettò un ultimo sguardo a Sirio, Cristal, Phoenix e Andromeda, che stavano tentando di raggiungerlo, incespicando nel terreno smosso, e sorrise, prima di dire loro addio.

 

Addio amici miei. Addio fratelli di sangue con cui ho diviso la vita.

 

Poi il cosmo di Caos lo investì e Pegasus e la Dea Atena morirono.

 

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Capitolo 41
*** Capitolo quarantesimo: Verso un nuovo mondo. ***


CAPITOLO QUARANTESIMO: VERSO UN NUOVO MONDO.

 

Sirio non riuscì a credere ai suoi occhi. Aveva condiviso ogni fatica con Pegasus, fin dal primo scontro alla Guerra Galattica, avevano affrontato così tanti nemici, rischiando la vita più e più volte, mettendosi ogni volta in gioco come se non ci fosse un domani. E ora quel giorno era arrivato davvero.

 

“Pegasus… è morto!” –Mormorò, fissando sgomento il punto in cui l’amico e Atena avevano combattuto indomiti contro Caos fino a un momento prima. A ricordarli, adesso, rimanevano frammenti di armatura e altri resti su cui Sirio non volle porre lo sguardo. Lo puntò invece sull’Unico, a cento passi di distanza, riversandovi tutta la rabbia che non aveva mai provato in vita sua, neppure contro Cancer alla Quarta Casa. –“Pegasuuus!!!” –Gridò, espandendo il proprio cosmo, mentre centinaia di dragoni di energia acquatica sorgevano attorno a lui, in una magnifica cascata che dal suolo fluiva verso il cielo.

 

Una cascata che presto andò tingendosi di un colore biancastro, costellata da cristalli di neve che rivestirono le scaglie dei dragoni, indurendole, quando Cristal lo affiancò. Anche senza vederlo in faccia, Sirio fu certo che l’amico stesse piangendo come lui.

 

Scattarono avanti, il drago e il cigno, verso Caos che, pur avendo sgominato la minaccia del Cavaliere della Leggenda, non sembrava affatto soddisfatto, con la spada di Balmung ancora conficcata nel basso ventre, la spada che ancora brillava di luce propria. Spostò lo sguardo sui due Cavalieri solo un attimo prima che i Cento Draghi e l’Aurora del Nord lo investissero, proteggendosi con un muro d’ombra su cui l’assalto impattò. Ma Sirio e Cristal non cedettero, continuando a far ribollire il cosmo, decisi ad abbattere quel muro o a morire come Pegasus nel farlo.

 

Fu una fiammata improvvisa a rischiarare quella barriera tenebrosa, il cosmo di Phoenix che si unì ai due amici, tempestandola con il battito furioso delle Ali della Fenice, che scivolarono sulla muraglia, la scossero, la fecero tremare in profondità, in cerca di un varco, di un punto in cui sarebbero potute andare oltre, portando con sé le rabbiose fiamme che il Cavaliere stava generando.

 

Ultimo fu Andromeda ad avvicinarsi, Andromeda che non aveva smesso di fissare i resti di Pegasus e Atena, Andromeda che aveva visto quella scena decine di volte, in ogni occasione in cui aveva guardato al futuro.

 

“Il futuro non esiste!” – Gli aveva detto Avalon sotto l’Etna, quando aveva parlato con lui dei poteri che Biliku gli aveva trasmesso. –“Sono soltanto flussi, maree indomabili delle coscienze di ognuno. Puoi vederne uno ma cambierà sicuramente.”

 

“E se non dovesse accadere?” –Aveva chiesto Andromeda, sconvolto dalla visione.

 

Avalon gli aveva sorriso, consolandolo con i suoi magnetici occhi argentei, prima di sospirare. Forse anch’egli aveva i suoi frammenti di futuro con cui fare i conti, quegli sprazzi che il Pozzo Sacro gli rivelava tramite la Vista.

 

“Lo accetteremo, come accetteremo la volontà di chi lotta per quel futuro!”

 

“E Pegasus ha lottato fino alla fine!” –Disse Andromeda, evocando i venti siderali della sua costellazione. –“Addio amico mio! Nebulosa di Andromeda!!!”

 

L’impeto del quadruplice assalto inclinò la barriera di Caos, facendola ondeggiare, mentre i Cavalieri dello Zodiaco bruciavano i loro cosmi al massimo, le loro vite, incuranti dei corpi che a fatica sopportavano tale immensa energia, delle vene che esplodevano, delle corazze che fremevano e si schiantavano, dell’ombra della fine di tutto che sarebbe calata su di loro. Insisterono, per Pegasus, per Atena, per tutti i Cavalieri che avevano permesso loro di arrivare fin lì.

 

“Le parti per il tutto!” –Rifletté Andromeda. Era così che avevano sempre agito. Combattere da soli per un obiettivo finale che apparteneva a tutti. –“E quest’obiettivo sarà la sconfitta di Caos e una seconda occasione per la Terra! Aaahhh!!!”

 

L’esplosione dei loro cosmi distrusse infine la muraglia d’ombra, scaraventando indietro il suo stesso creatore, contro le mura della ziggurat, che franarono su di lui, tra gli sguardi stupefatti degli Angeli e degli Dei superstiti. Fatto ciò, Sirio e gli altri si lasciarono cadere a terra, infiacchiti da quell’ultima prova, da quel Nono Senso che avevano dimostrato di saper padroneggiare.

 

Fu con un ruggito furioso, e una deflagrazione di energia, che Caos si rimise in piedi, indispettito oltre ogni dire per quell’oltraggio. Emerse dalla polvere delle macerie con la Prima Lama ancora in mano e il cosmo che turbinava attorno a lui, fremendo come mai, in maniera selvaggia, quasi fosse un’entità autonoma che avrebbe voluto essere libera di agire. Ma quel che maggiormente colpì le forze dell’Alleanza fu vedere Balmung ancora conficcata nel suo basso ventre, con Caos che la malediceva e faticava nel rimuoverla. Di certo non per la paura che la ferita sanguinasse, se mai un Dio Ancestrale come lui (il Dio, come amava definirsi) potesse sanguinare.

 

“E allora cos’è che lo frena?” –Si chiese Alexer, superando i Cavalieri dello Zodiaco e osservando i continui tentativi dell’Unico di estrarre la lama.

 

“La luce.” –Rispose candidamente Avalon, avanzando a passo strascicato verso il fratello, che subito corse ad aiutarlo. –“La luce della coppa, fluita in Pegasus e in Balmung. La luce dei cuori ardenti che per millenni hanno combattuto per la giustizia, per la libertà e per l’umanità. Il segreto ultimo della Coppa di Luce.”

 

“Le parti per il tutto.” –Mormorò Andromeda, rialzandosi a fatica assieme al fratello. E Avalon annuì con un sorriso. –“E pluribus unum!”

 

“Non è forse per questo che siamo qua? Tutti assieme? Regni diversi, culti diversi, ma accomunati dall’unico enorme desiderio di vivere e vincere l’ombra?” –Disse il Signore dell’Isola Sacra, spostando lo sguardo sugli Dei superstiti. –“E allora facciamo che sia così! Zeus! Amon Ra! Vidharr! Un’ultima alleanza per la luce e per gli uomini!”

 

A quelle parole gli Dei e gli Angeli annuirono, proprio mentre Caos riusciva infine a estrarre Balmung e a gettarla via, avvolgendola in una spirale d’ombra che la corrose, la divorò e la cancellò dall’esistenza. Ma anche dopo la sua scomparsa la macchia di luce che aveva portato con sé rimase nel corpo di Caos, espandendosi lentamente ma irreversibilmente, allungandosi in ogni direzione, con i suoi rami di luce biancastra e pura. La stessa luce che proprio lui aveva contribuito a creare, all’Alba dei Tempi, prima di cedere all’ombra e da Generatore di Mondi divenire Distruttore.

 

“Cosa si prova, adesso?” –Gli si rivolse Avalon. –“A tornare indietro? Non è questo il senso dell’Archè? Una legge di eterno ritorno? Orbene tu, Signore dei Mondi, tornerai alla luce originaria da cui fosti generato, la luce del Big Bang da cui nacque la prima entità.”

 

“Siete… folli!” –Ringhiò Caos, mulinando l’arma su di loro. –“Pensate davvero che rimarrò qua inerme ad aspettare che questa macchia di luce ricopra il mio corpo? Vi ucciderò prima e poi la estirperò. O, al massimo, genererò un nuovo corpo!”

 

“Non credo sia possibile…” –Commentò Avalon. –“La Prima Luce non ha intaccato soltanto il tuo corpo, bensì la tua aura. Non vedi come freme irrequieta? Teme il ticchettio delle lancette che segnano la tua fine, Caos!”

 

“Maledetti! Vi cancellerò dall’esistenza!”

 

“Non se noi cancelliamo prima te!” –Esclamò Sirio, avvampando nel proprio cosmo verde smeraldo. –“Cristal! Andromeda! Phoenix! Siete con me?”

 

“Come sempre e per sempre!” –Gli fecero eco i suoi amici, scattando avanti. Quattro comete di luce che circondarono Caos, sfrecciandogli attorno e tartassandolo da ogni direzione. –“Ruggisci drago della speranza!” –Gridò Sirio, liberando le zanne dei Cento Draghi di Cina. –“Danza, Cigno Bianco!” –Gli fece eco Cristal, generando un tifone di gelo sulla cui cima, ad ali spiegate, imperava un cigno dal piumaggio bianco. –“Incendia, fiamma della Fenice!” –Esclamò Phoenix, scatenando l’infuocato attacco, a cui andarono a sommarsi i venti del fratello. –“Soffia, Nebulosa di Andromeda!”

 

I quattro assalti investirono Caos da direzioni diverse, impegnandolo su più fronti, con la Prima Lama che colpiva, ne spazzava via uno, solo per roteare e fronteggiarne un altro, sempre più incalzante e preciso, mentre lui si muoveva sempre più lentamente. –“Tutto ciò è fuor di dubbio!” –Ringhiò, prima che la risatina sommessa di Avalon lo distrasse.

 

“È un morbo, quello di chi lotta per la speranza, che non può essere fermato!” –Disse, per poi voltarsi verso i fratelli e incitarli a un’ultima azione. –“Bruciate il vostro cosmo! Donate la vostra luce affinché sconfigga l’ombra!”

 

Andrei, Alexer e Asterios lo affiancarono, espandendo le loro aure cosmiche, che andarono a sommarsi a quelle dei Cavalieri dello Zodiaco, potenziando i loro attacchi e raggiungendo pian piano Caos, contribuendo a aumentare la macchia di luce sul suo corpo. Zeus, Ermes, Efesto, Demetra, Amon Ra, Horus e Vidharr si unirono agli Angeli, e anche i Cavalieri delle Stelle, quelli di Atena e di Zeus donarono fino all’ultima goccia di energia.

 

“Pegasus, amico mio! In nome tuo!” –Disse Asher, sostenuto da Tifisone, mentre anche Castalia, Nikolaos, Shen Gado e la moribonda Nemes si univano loro.

 

Ovunque, sulla Terra, tutti videro lampi di luce balenare in cielo, squarciando l’oscurità di una cappa che temevano li avrebbe oppressi per sempre. Li videro Flare e le figlie di Selene, riunite nel piazzale di Asgard, intonando un canto di pace, tramite cui raccolsero le preghiere degli uomini e le donarono ai Cavalieri dello Zodiaco. Li vede Bard, ancora a letto, e Bil e Hjúki, che bruciarono i loro cosmi.

 

Li videro Euribia, Kohu, Kiki, Yulij e gli altri fedeli di Atena sull’Isola del Riposo, mentre le sirene cantavano a gran voce e la Dama dei Mari affidava al vento il compito di portare il suo dono ai combattenti per la giustizia. Li videro Galan e Lythos, a Battery Park, e Julian Kevines, nel giardino della villa di San Vicente, e Lamia e i bambini, all’orfanotrofio Saint Charles. E ognuno cedette loro un po’ della propria luce, un cantico di eroi comuni uniti per sconfiggere l’ombra.

 

“Tanta superbia peccaminosa, io la chiamo hybris! Archè!” –Esclamò Caos, sollevando entrambe le mani e scatenando un devastante attacco circolare che spinse indietro i Cavalieri dello Zodiaco, distruggendo le loro corazze. Quando l’assalto scemò d’intensità, Caos si sorprese di stare respirando a fatica (poteva, lui, conoscere la fatica? La stanchezza? Potevano le sue forze esaurirsi? No, tutto ciò era inconcepibile! Eppure la ferita di luce gli doleva sempre più, e per quanto provasse non riusciva a arginare quella marea che stava corrodendo la sua ombra, la sua stessa essenza) e della sua sorpresa approfittarono gli Angeli.

 

Riportando lo sguardo sul campo di battaglia, Caos vide che i figli di Emera si erano disposti attorno a lui, ai vertici di una stella, con i cosmi accesi e pronti a dar battaglia. Fece per estirpare la loro fiamma quando si accorse di quel che Avalon stringeva in mano.

 

“La Coppa di Luce!”

 

No, non la stringeva in mano. Era semplicemente sospesa in aria di fronte a lui, con il bordo colmo di luce e in quella luce a Caos sembrò di vedere sette sagome definirsi, agitarsi e chiamarlo a gran voce, allungando braccia scintillanti verso di lui. Sagome che gli pareva di conoscere, di aver già affrontato un tempo.

 

Galen, Tegel, Antalya, Vasteras, Kloten, Elmas e Menara. Nomi che aveva dimenticato e che adesso tornarono a riempirgli la mente. Strappandogli un brivido.

 

“Maestro…” –Commentò Ascanio. –“Cosa dobbiamo fare?”

 

“Dovere? È una parola che ci ha legato troppo a lungo, allievo mio, che ha legato tutti noi!” –Sorrise Avalon. –“Sentiti libero di seguire il tuo cuore, adesso che hai adempiuto alla tua missione. Adesso che ci hai portato fin qui!”

 

Asterios, Alexer e Andrei annuirono, portando i cosmi al parossismo, lunghe vampe di energia verde, blu e rossa che salirono verso il cielo, e anche Avalon si unì loro. I trionfi energetici chiusero Caos in una prigione, prima di convergere verso il basso, verso la Coppa di Luce che stava fluttuando in aria, fino a portarsi di fronte a Caos, e iniziare ad attrarlo a sé.

 

“Cosa?!” –Balbettò incredulo.

 

“Ero certo che un sol colpo di spada non sarebbe bastato, che avresti resistito. Forse, se avessimo tempo, potremmo guardarti sfiorire, ma di certo troveresti un modo per arginare quella marea di luce. E non possiamo perderlo. Questa guerra deve finire, qui e ora! Questo ciclo deve interrompersi!” –Disse Avalon, mentre le sagome di luce degli epta sophoi si sbracciavano per chiamare Caos a sé, e più questi tentava di fuggire, più trovava la strada sbarrata dei cosmi degli Angeli, affaticato e debilitato dalla ferita luminosa che ormai gli aveva ricoperto l’addome e le gambe fino al ginocchio e stava salendo lungo la schiena. –“Grazie, Pegasus, per averlo colpito e averci dato un’opportunità! Adesso possiamo chiudere il cerchio, concludendo la nostra missione!”

 

“Avalon…” –Mormorò Zeus, che aveva intuito il funzionamento della Coppa di Luce.

 

“Non crucciarti, amico mio. Troppo tempo abbiamo passato a discutere e a disquisire su come fronteggiare questo momento. Ci siamo arrivati, e lo abbiamo superato, questo è l’importante!” –Gli sorrise, bruciando il cosmo sempre di più, al punto che la sua pelle iniziò a sfaldarsi, consumata dall’interno da un fuoco inestinguibile. –“Adesso, fratelli miei!”

 

Gli Arconti diedero fondo fino all’ultima stilla della loro essenza, mentre Caos, urlando e dimenandosi, veniva risucchiato all’interno della Coppa di Luce e la sua aura si sgretolava, divorata dalla luce primordiale e da quella degli uomini.

 

“Voi… non potete…. Io tornerò!”

 

“Non stavolta!” –Sentenziò Avalon, scambiando un ultimo sguardo con i suoi fratelli.

 

“Maestro! Che succede? Voi…?” –Balbettò Ascanio, che aveva infine compreso.

 

“Tutti i manufatti divini hanno un sigillo. Lo sanno bene Zeus e Atena. Anche la Coppa di Luce. Se vogliamo essere certi che Caos non ne esca, dobbiamo sigillarla per sempre. Con il nostro cosmo, con i nostri spiriti. Per questo siamo nati. Noi siamo l’Alfa e l’Omega, abbiamo assistito all’inizio di questo ciclo cosmico. Lascia che ne decretiamo la fine!”

 

Asterios fu il primo a evocare lo Spirito d’Acqua, che si sollevò, quasi fosse un cavalluccio marino, svuotando il corpo del suo tramite, che divenne polvere, prima di scivolare in aria e scomparire all’interno della Coppa di Luce.

 

Alexer lo seguì, fissando Cristal un’ultima volta e sorridendogli. Anche senza parlare, il Cigno credette di sentire le sue parole nella mente, calme e paterne, come gli si era sempre rivolto. –“Vivi felice con Flare! Questo ti auguro, Cristal, e so che anche tua madre lo vorrebbe per te!” –E scomparve, liberando lo Spirito d’Aria che turbinò attorno alla coppa per un ultimo istante, prima di esserne risucchiato.

 

Terzo fu Andrei a farsi avanti, le fiamme che ormai nascevano dal suo corpo, un corpo che stava bruciando, come la sua foga battagliera aveva bruciato per tutta la sua vita. Si fermò un istante, esitò, quasi volesse voltarsi un’ultima volta, poi divampò in un’unica fiammata che sciabordò dentro la Coppa di Luce, lasciandosi alle spalle un corpo segnato dal tempo e dal fato, che subito si deteriorò.

 

“Addio, padre!” –Commentò Jonathan, cui Reis poggiò una mano su una spalla.

 

“Tocca a me!” –Parlò allora Avalon. –“È strano. Ho pensato tanto a questo momento, ho avuto così tanto tempo per pensarci che adesso non so cosa dire. Forse non c’è niente da dire. Non essere triste, Ascanio, non piangere! Io non lo sarei per te, perché saprei che stai portando a compimento ciò per cui sei nato, la missione che ha dato un senso alla tua esistenza. Ti dico solo una cosa, torna a casa!” –Detto questo, l’aura di Avalon bruciò, sollevandosi in una vampa di luce argentea che abbagliò tutti i presenti. Fluttuò in aria, ma anziché entrare subito nella Coppa di Luce parve guardarsi attorno, individuare qualcosa che cercava di nascondersi tra le macerie del Primo Santuario e poi piombare su di lui e sollevarlo di peso.

 

“Lasciami andare!” –Piagnucolò Anhar.

 

“Vieni con me, fratello! Abbiamo bisogno anche di te! Per quale motivo credi che ti abbia concesso di vivere così a lungo?” –Sentenziò Avalon, trascinando l’Angelo della Terra con sé. Quando i cinque Arconti furono nella coppa, questa si richiuse e il coperchio venne sigillato dai loro spiriti, che lampeggiarono in un arcobaleno di colori. Allora la Coppa di Luce sfrecciò in cielo, salendo sempre più in alto, sfondando la già devastata cappa di nubi nere, finché non esplose, con un boato silenzioso che liberò un’ondata di luce che spazzò via l’oscurità.

 

“Eterna gloria a te, Signore dell’Isola Sacra!” –Mormorò Zeus, appoggiandosi al fido Ermes, mentre su di loro, e forse su tutto il pianeta, una pioggia di luce cadeva a mondar via le tenebre dei giorni passati. Quanti ne erano trascorsi? Difficile dirlo, per loro che credevano di aver vissuto un’unica intera giornata. Una giornata in cui avevano perso amici e compagni, in cui avevano assistito al sacrificio di valorosi eroi e al compiersi di mirabolanti e antiche profezie. Adesso, svuotati di ogni certezza e scopo, i Cavalieri e gli Dei superstiti crollarono a terra, mentre quel che restava della ziggurat nera si sfaldava, in un crollo che segnò la fine del tempo cosmico.

 

“Dunque è finita…” –Disse Sirio, sorreggendosi a vicenda con Cristal, mentre Phoenix faceva lo stesso con Andromeda. Avrebbe voluto dire qualcos’altro, abbandonarsi a un commento epico, magari a una risata scanzonata ripensando a tutto quel che avevano sudato per portare a termine la missione, come avrebbe fatto Pegasus in un’altra occasione. Ma loro non erano Pegasus, e il loro amico non c’era più. –“No!” –Si scosse Dragone, sollevando la testa e lasciando che la pioggia di luce gli scivolasse sul volto. –“Pegasus è vivo! Come Atena e tutti i nostri compagni! Loro sono nella luce, in questa luce immensa che inonda la Terra e guiderà gli uomini verso un nuovo mondo!”

 

Sér hon upp koma ǫðru sinni jǫrð ór ægi iðjagræna; falla forsar, flýgr ǫrn yfir, sás á fjalli fiska veiðir.” –Disse allora Vidharr, e Cristal tradusse per loro.

 

“Affiorare lei vede ancora una volta la terra dal mare di nuovo verde. Cadono le cascate, vola alta l'aquila, lei che dai monti cattura i pesci. È la Profezia della Veggente.”

 

Munu ósánir akrar vaxa; bǫls mun alls batna. Vituð ér enn eða hvat?”

 

“Cresceranno non seminati i campi; ogni male guarirà. Volete saperne ancora?”

 

“Sì!” –Ripeté Vidharr. –“Ogni male guarirà.”

 

Zeus gli diede ragione, aiutando Demetra a rimettersi in piedi, mentre Efesto, poco distante, trascinava la gamba rotta, e Amon Ra abbracciava Horus e Febo, lieto che si fossero salvati. Marins guardava sconsolato la protesi danneggiata, pensando che, in occasione del prossimo viaggio in America, avrebbe potuto far visita alla zia Susy, mentre Matt, in piedi accanto a Elanor, osservava la ragazza pregare e ringraziare le sue sorelle per aver creduto in lei, e in tutti loro.

 

“Molto abbiamo perduto.” –Disse Jonathan a Reis. –“Amici e congiunti. Cosa ci è rimasto? Non abbiamo più i Talismani, non abbiamo più uno scopo. La nostra esistenza… cosa faremo adesso?”

 

“Non hai sentito le parole di Avalon? Faremo quello che vogliamo, ciò che meritiamo. Vivremo!” –Parlò Ascanio. –“Vivremo!”

 

“Comprendo il vostro dolore!” –Disse Zeus, avvicinandosi ai Cavalieri di Atena, che si erano riuniti per onorare la Dea e i caduti. –“Vorrei confortarvi ma non posso farlo, non ho parole per farlo, perché anche il mio cuore piange coloro che ho perduto. Pur tuttavia la tristezza non deve diventare disperazioni, non lo meritano gli eroi che abbiamo perduto! Non è questo che vorrebbero! E poi… le vie del cosmo sono infinite…”

 

“Che intendete dire, mio Signore?” –Domandò Cristal. –“Credevo che dall’intermundi non fosse possibile tornare.”

 

“Probabilmente è così. Ma dopo ciò a cui ho assistito in questi ultimi gloriosi giorni, posso ammettere di non avere più certezza alcuna. E chissà che, in qualche vita futura, in qualche strano mondo, non ci ritroveremo assieme a coloro che amiamo. Forse, se l’anima davvero può rinascere, in un altro tempo, in un altro luogo, Pegasus e Atena sono vivi, magari sono due mercanti che navigano su acque perigliose per portare in salvo il carico, o due ragazzetti innamorati che vanno a scuola, o ancora due aquile in volo verso l’infinito. Oppure, più realisticamente, continueranno a lottare e soffrire come in questa vita, come abbiamo fatto tutti noi, ma mai, ne sono certo, rinunceranno a combattere per il loro futuro e per quello dei loro cari!”

 

Finalmente la nube di tenebra che aveva ricoperto il pianeta svanì del tutto e gli Dei e i Cavalieri superstiti, in piedi l’uno accanto all’altro, guardarono le stelle lontane, che mai come in quel momento parvero loro così vicine. Lo stesso panorama che, chi di giorno, chi di notte, chi in un rosso tramonto o chi in una fresca alba d’inverno, rimirarono tutti coloro che alzarono lo sguardo, in ogni angolo della Terra.

 

All’orfanotrofio Saint Charles era ormai sera e presto Lamia avrebbe dovuto aiutare la madre superiora a radunare i bambini e a portarli a letto, un lavoro che quel giorno avrebbe richiesto notevole sforzo, sovreccitati com’erano da tutti gli avvenimenti. Affacciandosi in giardino, Lamia li vide rincorrersi e giocare a calcio e per un momento credette di non vedere Smarty e Sancho, ma Pegasus e i suoi amici, che fin da bambini avevano amato quel luogo di svago. Li ringraziò, sfiorando la collanina che portava al collo, per aver donato a tutti loro un futuro.

 

Alla Darsena di Nuova Luxor, Olga, Elena ed Elisa camminavano sul lungomare, che adesso si era animato di persone, tutte uscite per rivedere le stelle, ritrovarsi e abbracciarsi. Qualcuno suonava la chitarra, qualcun altro mangiava e beveva seduto sul muretto del molo. Le tre amiche camminarono in mezzo a quell’umanità, felici di farne parte e di essere ancora insieme.

 

Ad Asgard, il tiepido sole d’inverno prese quasi di sorpresa il popolo riunito nel piazzale dietro la cittadella. Flare di Polaris, in cima sul palco dove per anni Ilda aveva pregato Odino, sorrise, con i figli di Mani stretti alla sua pelliccia e le sorelle di Elanor che strillavano di gioia, lodando le prodezze della primogenita. La Regina di Asgard guardò il ramo dell’Albero Cosmico che il Selenite di Saturno le aveva lasciato, stringendolo con forza, quasi potesse, con quel gesto, far apparire Cristal davanti a sé.

 

“Torna!” –Disse, sfiorandosi la pancia. –“Torna per noi! Abbiamo un albero da piantare e una vita intera da vivere assieme!”

 

Anche Bard volle vedere il sole, camminando a fatica fino alle vetrate della stanza e lasciando che i suoi raggi ristorassero le sue ferite. Un sole che avrebbe riscaldato non soltanto Asgard ma la Terra tutta.

 

Molto più a sud, nel Mediterraneo Orientale, Euribia e il popolo degli Oceanini si bagnavano felici nelle acque attorno all’Isola del Riposo, decisi a portare con sé, nelle profondità del loro regno, un po’ di luce solare. Seduti sugli scogli, con i piedi a mollo, Sam, Dean, Cliff O’Kents, il Professor Rigel e le ragazze godettero a fondo di quel momento, sorridendo all’ennesima vittoria dei Cavalieri dello Zodiaco. Soltanto Kiki sembrava triste, Kiki che si avvicinò a Patricia, prendendole le mani tra le sue, prima che lei annuisse e lo abbracciasse.

 

“Lo so!” –Si limitò a dirgli, carezzandogli i ricci fulvi. –“L’ho sentito!”

 

Fiore di Luna si strinse all’amica e la Dottoressa Hasegawa, ricordando le avventure della sua adolescenza, commentò.

 

“I demoni sono stati sconfitti per sempre. Leo, Rius e i loro amici ci hanno salvato!”

 

Anche Galan e Lythos lo pensarono, seduti sulla sponda meridionale di Manhattan. Il sole sarebbe sorto a breve e non volevano perderselo. Non quell’alba, che avrebbe segnato l’inizio di un mondo nuovo. Un mondo umano.

 

Pensieri simili investirono anche Julian Kevines, nel giardino della sua villa, all’estremità occidentale dell’Europa. Corse fino al promontorio a guardare al mare, respirando l’aria salmastra che la brezza gli portava in faccia. Voleva vederla, certo che un giorno l’avrebbe rivista spuntare tra le acque, schizzarlo con la sua coda, agitando la lunga chioma bionda in segno di saluto. Era il suo angelo custode, la sua sirena personale. Non la vide, ma non disperò. C’erano ancora tanti giorni a venire.

 

Proprio in quel momento il suo segretario arrivò correndo, pregandolo di rientrare. Un’altra giornata di incontri alla Kevines Corporation stava per iniziare e Julian aveva un calendario fitto di impegni.

 

 

 

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Capitolo 42
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

Estratto dalle cronache di Avalon.

Tempo: uno dei tanti futuri possibili.

 

Le campane della chiesa dell’orfanotrofio Saint Charles quel giorno suonavano a festa. Era una splendida mattina di primavera e il sole rischiarava i volti dei bambini radunati attorno a Lamia. Volti eccitati e desiderosi di sapere.

 

“Quando arriva Pegasus? Perché non è ancora arrivato? Dopo che si è fatto mettere il cappio continuerà a giocare a pallone con noi?” –Erano solo alcune delle tante domande a cui la ragazza rispondeva sorridendo, cercando di prendere tempo. Ormai, si disse, tirando un’occhiata all’orologio del campanile, mancavano pochi minuti e un’era sarebbe giunta a conclusione. L’era della loro adolescenza, degli scherzi e dei giochi. L’era delle speranze.

 

“Pegasus sarà qui presto, non temete, bambini! Non mancherà di certo quest’oggi! E poi ci faremo tutti una bella partita a pallone!” –Esclamò allora una decisa voce maschile, obbligando Lamia a voltarsi per trovarsi di fronte un uomo di oltre trent’anni, con mossi capelli marroni, affiancato da un’elegante ragazza con folti capelli arancio. –“Anche Soma lo sta aspettando, sapete? Non vede l’ora di giocare a calcio con suo figlio!”

 

“Non proprio…” –Sghignazzò il bambino che camminava dietro di lui, strusciandosi le mani divertito. –“Preferirei dare calci a Koga che al pallone! Ih ih ih! Quel citrullo!”

 

“Soma!!! Non voglio sentirti parlare così, in particolare non oggi!” –Lo redarguì subito sua madre, agitando un dito di fronte al suo viso. –“E cerca di non distruggere la chiesa, durante la funzione!”

 

Il bambino non disse niente, limitandosi ad allargare la bocca in un ampio sorriso, mentre dietro la schiena incrociava due dita. Non che volesse davvero deludere sua madre, ma neppure lei avrebbe potuto contenere il suo carattere vivace e a volte pestifero.

 

“Ioria! Castalia! Siete venuti anche voi?!” –Esclamò una delicata voce maschile, mentre una coppia si avvicinava ai due, intenti a parlare con Lamia. –“Sono davvero felice di rivedervi!”

 

“Andromeda! Nemes! Da quanto non ci vediamo! Sempre in giro per il mondo, eh?” –Sorrise allora Castalia, abbracciando la ragazza dai lunghi capelli biondi, mentre il compagno salutava Ioria. –“E vedo che ci sono parecchie novità di cui non ci avete informato!” –Aggiunse, osservando il bambino dal fisico asciutto che si nascondeva timido dietro Andromeda, il volto coperto da enormi occhiali dalle lenti rotonde.

 

“Lui è Haruto! Lo abbiamo adottato qualche mese fa! È molto intelligente e studioso!” –Spiegò il ragazzo dai capelli verdi, mettendo una mano su una spalla del figlio e spingendolo a farsi avanti. –“Sono sicuro che da grande diverrà un ottimo archeologo e contribuirà a riportare alla luce antiche civiltà scomparse! Quanto meno quelle che noi non abbiamo scoperto!” –Aggiunse con un sorriso, prima che un’altra coppia li raggiungesse.

 

Alto e atletico, i lunghi steli neri che scivolavano placidi lungo la schiena, Sirio sembrava non dimostrare neppure i trent’anni che in autunno avrebbe compiuto. Fiore di Luna, per mano al compagno, sorrideva educatamente, sfoggiando un nuovo taglio di capelli, corti fino alle spalle, mentre un bambino dai capelli corvini correva felice, insinuandosi tra le loro gambe.

 

“Sirio!!!” –Esclamò Andromeda, andando incontro all’amico. –“Sei riuscito a venire!”

 

“Non mi sarei perso questa giornata per niente al mondo! Pegasus che mette la testa a posto?! Avrebbero dovuto legarmi a un masso sotto la cascata dei Cinque Picchi per impedirmi di assistere a quest’evento epocale!” –Sorrise il ragazzo, mentre tutti gli amici si raccoglievano tra loro.

 

“Devi insegnarmi i tuoi trucchi, Cavaliere del Drago! Come il tuo predecessore, riesci a mantenerti in forma perfetta! Qual è il segreto della tua eterna giovinezza?” –Ironizzò Ioria, mettendo una mano sulla spalla di Sirio.

 

“Una vita salubre e genuina, lontana dallo stress delle grandi città! E l’ottima cucina di Fiore di Luna!” –Rispose questi, prima di presentare suo figlio. –“I Cinque Picchi sono il posto migliore per far crescere un ragazzo, in pace e tranquillità, non è vero Ryuho?”

 

“Salve a tutti!” –Si presentò il ragazzo, cui Haruto rispose con un debole sorriso, mentre Soma, alle spalle del padre, incrociò le braccia al petto, bofonchiando qualcosa contro certi bambini troppo secchioni e diligenti per lui.

 

“Ma quando arriva Koga?” –Lamentò, mentre la porta della chiesa si apriva e il sole rischiarava due bionde chiome che tutti conoscevano.

 

“Cristal!!! Flare!!! Non sapevo che foste già arrivati!” –Esclamò allora Andromeda, mentre la coppia usciva dall’edificio.

 

“Siamo arrivati ieri sera, dopo un lungo viaggio dal Nord Europa! Lady Isabel è stata molto gentile ad averci ospitato a Villa Thule!” –Rispose il giovane dai mossi capelli biondi, ben più lunghi e più chiari rispetto all’ultima volta in cui si erano incontrati. Si era persino lasciato crescere un po’ di barba, con gran dispiacere della moglie a cui non piaceva quel pizzicore che provava ogni volta in cui lo baciava, e adesso era del tutto simile a un antico vichingo. –“Sono già dentro! Lei voleva discutere gli ultimi dettagli con il sacerdote!”

 

“Dovreste vedere il vestito! È splendido!” –Intervenne allora Flare, gli occhi che le brillavano dall’emozione.

 

Anche a Soma si accesero gli occhi, ma non per il vestito da sposa di Isabel, bensì per l’apparizione che lo prese di sorpresa. Dietro a Cristal e a Flare, camminava la loro figlia, la graziosa Principessa di Asgard che la coppia aveva chiamato Yuna.

 

“Ciao bellezza!!!” –Esordì il bambino, affiancandola all’istante, mentre Ioria e Castalia arrossivano alla sfacciataggine del loro rampollo. Anche Ryuho e l’introverso Haruto si avvicinarono, scambiando qualche parola con l’educata bambina e lasciando i grandi ai loro discorsi.

 

“Vuoi sedere vicino a me in chiesa? Ci metteremo in fondo, così potremo essere tra i primi a svignarcela alla fine della funzione!” –Ridacchiò Soma, prima che un sibilo lo costringesse a voltarsi. Un fischio sempre più acuto che si concretizzò in un pallone da calciò che sfrecciò a gran velocità verso di lui, colpendolo in piena faccia e sbattendolo a terra.

 

“Fuori allenamento, farfallone, eh?!” –Ironizzò un’arzilla voce di bambino, mentre tutti si voltavano verso l’ingresso del piazzale, laddove una limousine scura aveva appena parcheggiato.

 

Il primo ad uscirne, in fretta e furia, e con ancora le stringhe delle scarpe slacciate, era stato un bambino di dieci anni, con una folta zazzera violetta, che subito aveva calciato il pallone, abbattendo Soma e subendo adesso una scarica di improperi.

 

“Razza di… Lascia che ti prenda, Koga, e vedrai!” –Esclamò Soma, lanciandosi verso il bambino e iniziando a rincorrersi per il piazzale antistante alla chiesa. –“Perché sei arrivato così tardi? Non potevi venire prima? Dove diavolo eri finito?”

 

“Ho fatto il cicerone, caro mio!” –Ridacchiò Koga. –“Abbiamo ospiti!”

 

“Ciceche?” –Bofonchiò Soma, continuando a inseguirlo tra le risate dei presenti.

 

“Quei due decisamente diventeranno grandi amici!” –Commentò un uomo alto, dai mossi capelli blu, scendendo dall’auto assieme a un ragazzo alto e snello, con una folta chioma verdognola.

 

“Fratello!” –Lo salutò Andromeda, mentre Phoenix offriva il braccio a una ragazza alta e snella, con lisci capelli biondi. Anche adesso, prossima alla trentina, Esmeralda sembrava ancora un’eterna ragazzina, con una collana di fiori attorno al collo e un sorriso che non sfioriva mai. Fiore di Luna, Nemes e Flare la salutarono con calore, mentre Phoenix raggiungeva i compagni di un tempo, abbracciando prima Andromeda, poi gli altri.

 

“Ciao Eden!” –Esclamò Yuna, salutando il figlio di Phoenix, che rispose increspando leggermente le labbra, prima che il padre gli desse una botta sulle spalle.

 

“Socievole come sempre, eh?”

 

“Chissà da chi avrà preso!” –Ironizzò Andromeda.

 

Proprio in quel momento Mylock uscì dalla chiesa, tutto trafelato, asciugandosi la crapa pelata con un fazzoletto di stoffa e lamentando per il caldo di quel giorno.

 

“Ehi Mylock! Sei tutto sudato! Che ne è dell’etichetta?” –Lo schernì Phoenix.

 

“Oh, lascialo stare! Sono sicuro che Mylock è emozionato come noi, forse anche di più! Non è così?”

 

“Un po’ basito per la scelta della signorina, ma se a lei quello scapestrato piace…” –Bofonchiò il burbero maggiordomo. –“Quel che è certo è che dovrà trovarsi un lavoro! Basta passare le giornate a strimpellare quella chitarra sul molo! Un lavoro vero! Non vorrà mica farsi mantenere dalla signorina a vita?”

 

“Ehm, ehm!” –Un colpetto di tosse imbarazzato anticipò la comparsa di un uomo alto e robusto, un po’ stempiato, con capelli bianchi ai lati. Indossava un abito da cerimonia e sorrise ai presenti, facendo loro cenno di entrare. –“Lo sposo è arrivato. Non riusciva a trovare i gemelli!”

 

“Questi gemelli… causano sempre problemi!” –Scosse la testa Ioria.

 

“Eh, ci credo! In quel disordine di casa! Umpf! Con permesso, Duca!” –Si inchinò Mylock, infilando nella chiesa. –“Voglio essere in prima fila!”

 

Sirio, Cristal, Andromeda, Phoenix e Ioria, con le rispettive consorti e figli, lo seguirono, ritrovandosi in un’ampia navata illuminata da decine di candele. Ai lati nicchie piene di fiori, orchidee per lo più, e sopra l’altare un arco di ulivo benedetto.

 

Proprio là, rialzati da qualche gradino di marmo, stavano Pegasus e Lady Isabel, lui in completo nero, a lamentarsi per quanto la cravatta gli stringesse attorno al collo, e lei in uno splendido vestito bianco, con un lungo strascico che Kiki si stava affrettando a sistemare, per evitare che qualcuno lo calpestasse.

 

“Amici!” –Sorrise Pegasus nel vederli entrare e accomodarsi sulle panche di fronte all’altare.

 

“Se siete pronti, la cerimonia può cominciare!” –Commentò il Duca Alman, superando la coppia e rivolgendo loro un gran sorriso, quasi paterno.

 

“Sei sempre in tempo per tirarti indietro!” –Ironizzò Atena.

 

“È quello che voglio!” –Disse Pegasus.

 

“Per sempre?”

 

“E anche più in là!” –Le rispose. E la baciò.

 

 

Estratto dalle cronache di Avalon.

Tempo: uno dei tanti futuri possibili.

Fine.

 

***

 

Schede dei personaggi: Atene, Avalon, Asgard.

 

ATENE

 

CAVALIERI DIVINI:

 

PEGASUS:

 

Primo Cavaliere della Dea Atena, erede di Micene e ultimo condottiero di una stirpe di eroi iniziata nel Mondo Antico. È legato a Atena da un amore impossibile. Impugna la spada di Balmung e fronteggia Nyx, Erebo e Caos.

 

(Colpi segreti: Fulmine di Pegasus, Cometa lucente, Cometa di Pegasus)

 

ANDROMEDA:

        

Grazie alla Vista, dono di Biliku, vede cose che non vorrebbe scoprire, soffrendone. Affronta Echidna assieme a Cristal, partecipando poi allo scontro finale contro Caos.

 

(Colpi segreti: Catena di Andromeda, Melodia scintillante di Andromeda, Nebulosa di Andromeda)

 

SIRIO IL DRAGONE:

        

Affianca Ascanio, con cui ha stabilito un ottimo rapporto, i due più grandi successi di Libra, e con lui combatte contro la Morrigan e Tiamat, prima di vedersela con Etere.

 

(Colpi segreti: Colpo segreto del drago nascente, Excalibur, Colpo dei cento draghi)

 

CRISTAL IL CIGNO:

 

Ha lasciato Flare ad Asgard, e il figlio che aspetta da lui. Per loro combatte, per tornare ad avere una vita. Affronta Echidna assieme ad Andromeda prima di unirsi allo scontro finale contro Caos.

 

(Colpi segreti: Polvere di diamanti, Aurora del Nord, Anelli di ghiaccio, Per il sacro Acquarius, Spada di Ghiaccio)

 

PHOENIX:

 

Unico tra i cinque amici, ha la possibilità di proseguire la sua vita lontano dalla guerra e dalla morte, grazie al dono di Emera. Rifiuta, preferendo vivere nel presente.

 

(Colpi segreti: Fantasma diabolico, Pugno infuocato, Ali della Fenice)

 

CAVALIERI DI BRONZO:

 

ASHER DELL’UNICORNO:

 

Strenuo combattente di Atena, sempre in prima fila, finché le gambe lo sorreggono, a lottare con i suoi compagni.

 

(Colpi segreti: Corno d’argento, Criniera dell’Unicorno)

 

YULIJ DEL SESTANTE:

        

La Sacerdotessa accompagna Kiki e gli altri sull’Isola del Riposo, combattendo con loro contro il Forcide invasore. Il suo canto stordisce, ammalia o fa addormentare.

 

KAMA DELLA POPPA:

 

Combatte per Atena e per onorare la promessa fatta a Regor delle Vele di difendere il suo allievo. Ci riesce, morendo contro Ravana.

 

REDA e SALZIUS:

 

Nonostante la loro scarsa esperienza, sono decisi a combattere per Atena e per l’umanità. Vengono sconfitti da Chimera e poi stritolati a morte da Echidna.

 

NEMES DEL CAMALEONTE:

 

Segue Atena e i Cavalieri nel deserto del Gobi, venendo massacrata da Chimera.

        

CAVALIERI D’ARGENTO:

 

CASTALIA DELL’AQUILA:

 

Felice, e anche incredula, per aver ritrovato il fratello, combatte con Tisifone e gli altri contro Ravana, poi contro Chimera.

 

(Colpi segreti: Meteora pungente, Volo dell’Aquila Reale)

 

TISIFONE DEL SERPENTARIO:

        

Agguerrita, riceve in dono l’armatura del Cancro, come ricompensa per il suo lottare continuo.

 

(Colpi segreti: Cobra incantatore)

 

CAVALIERI D’ORO:

 

IORIA DEL LEONE:

        

Affronta numerosi avversari, tra cui Chimera, prima dello scontro finale con Erebo nei sei mondi di Ade, assieme a Virgo. Con la loro morte, l’alta casta cessa di esistere.

 

(Colpi segreti: Per il sacro Leo, Zanne del Leone/Lightning Fang, Photon Burst)

 

VIRGO:

        

Sconfigge molti avversari, prima di confrontarsi con Erebo per l’ultimo scontro. Lui e Ioria, assieme alla luce di Etere, riescono a vincerlo, scomparendo a loro volta.

 

(Colpi segreti: Kaan, Abbandono dell’Oriente, Volta di Minosse, Ohm, Ultima luce dell’Oriente)

 

ALTRI PERSONAGGI:

 

KIKI:

        

Incapace di accettare la morte del fratello, vorrebbe seguire Pegasus e gli altri nel Gobi, ma viene incantato da Yulij e portato (in salvo?) sull’Isola del Riposo. È il degno erede di Mur.

 

CLIFF O’KENTS:

        

Per ordine di Atena, mette in salvo le persone care a Pegasus e ai Cavalieri dello Zodiaco, portandole sull’Isola del Riposo.

 

PATRIZIO:

 

Uno dei veterani nell’esercito di soldati semplici che combatte per Atena.

 

PROFESSOR RIGEL:

 

Creatore delle Armature d’Acciaio, ripara sull’Isola del Riposo con i fratelli Winchester.

 

DEAN, Cavaliere d’Acciaio del Cielo e SAM, Cavaliere d’Acciaio della Terra:   

 

I nuovi Cavalieri d’Acciaio, che Rigel ha addestrato su ordine di Atena.

 

AVALON

 

CAVALIERI DELLE STELLE:

 

JONATHAN, Cavaliere dei Sogni:

 

Figlio di Andrei, combatte strenuamente nel Gobi, fino allo scontro finale con Caos.

 

(Colpi segreti: Cometa d’oro, Luce dello Scettro, Grande Nube di Oort)

 

REIS di Lighthouse, Cavaliere di Luce:

 

Interviene in aiuto degli Areoi contro i Gytrash, partecipando poi allo scontro finale.

 

(Colpi segreti: Flashing sword, Vortice scintillante di luce)

 

FEBO, Cavaliere del Sole:

 

Figlio di Amon Ra, lotta assieme a Horus, suo fratello, contro la perfida Keres.

 

(Colpi segreti: Raggi gamma, Bomba del sole, Lancia del sole)

 

MARINS, Cavaliere dei Mari Azzurri:

 

Il suo vero nome è Ethan, anche se quel nome è legato ai giorni felici dell’infanzia, in cui il padre lo portava a caccia e a giocare a baseball. Adesso ha una famiglia e un fratello, e per difendere Febo Marins combatte. Affronta e vince Eogan.

 

(Colpi segreti: Maremoto dei mari azzurri)

 

MATTHEW, Cavaliere dell’Arcobaleno:

 

Affronta Nyx assieme ad Elanor, dimostrandole tutto il suo amore.

 

(Colpi segreti: Arcobaleno incandescente, Corona di luce)

 

Elanor, Cavaliere della Luna:

 

Decisa a vendicare la madre, cerca Nyx e la trova, combattendo un duro scontro.

 

(Colpi segreti: Croci di luna, Falce di luna calante, Selenaios Vortex)

 

Ascanio Pendragon, Cavaliere della Natura:

 

Erede di Avalon, conduce i Cavalieri delle Stelle nell’ultima battaglia. Di fatto, è il nuovo Signore dell’Isola Sacra, destinato a ricostruirla.

 

(Colpi segreti: Attacco del drago di sangue, Double dragon attack, Danza di draghi)

 

ANGELI:

 

AVALON, Angelo di Luce, Principe Supremo degli Angeli:

 

Il suo corpo è stato divorato da Caos, ma il suo spirito è rimasto. Indagatore attento e pronto a intervenire per realizzare la missione della sua esistenza.

 

(Colpi segreti: Trionfo di Luce)

 

ANDREI, Angelo di Fuoco:

 

Agguerrito combattente, padre di Jonathan e Signore di Isla del Sol.

 

(Colpi segreti: Aurora infuocata, Fiamma di vittoria, Trionfo di Fuoco)

 

ALEXER, Angelo di Aria:

 

Principe della Valle di Cristallo, dopo la scomparsa di Avalon, è la mente degli Angeli.

 

(Colpi segreti: Fulmini siderali, Tempesta siderale, Trionfo d’Aria)

 

ASTERIOS, Angelo di Acqua:

        

Affronta Nyx alla Porta della Notte, prima di unirsi ai fratelli nello scontro finale.

 

(Colpi segreti: Falene acquatiche, Lance di acqua, Spiriti d’Acqua, Trionfo d’Acqua)

 

ANHAR, detto il Caduto:

 

Un tempo era l’Angelo della Terra, adesso è divenuto il principale sostenitore di Caos, tanto da definirsi araldo dell’ombra.

        

(Colpi segreti: Apocalisse divina, Rapsodia di Ombre)

 

SETTE SAGGI:

 

ANTALYA, primo Custode della Spada di Luce:

 

Fondatrice di Mu e, dopo la sua distruzione, del primo Avaiki.

 

ELMAS, primo custode del Tridente dei Mari Azzurri:

        

Consigliere di Nettuno, perito nel crollo di Atlantide.

 

GALEN, primo custode dello Specchio del Sole:

        

Custode della Biblioteca di Alessandria. Ucciso anni addietro da Anhar mentre cercava i Talismani

 

TEGEL, primo custode del Calderone dei Misteri:

 

Maestro di Avalon.

 

VASTERAS, primo custode della Cintura Arcobaleno:

        

Consigliere di Zeus, profetizzò la decadenza degli Olimpi.

 

MENARA, primo custode dello Scettro d’Oro:

 

KLOTEN, primo custode dello Scudo di Luna:

        

Primo Grande Sacerdote di Atena, fece costruire la Collina delle Stelle per osservare il moto degli astri e vi nascose un portale.

 

ASGARD

 

ASGARD:

 

FLARE DI POLARIS:

        

Regina di Asgard, fatica a prendere confidenza col suo ruolo.

 

BARD:

        

Capitano della Guardia, dal cuore ardimentoso. È allievo di Orion.

 

VIDHARR, l’Ase silente:

Ultimo figlio di Odino ancora vivo e erede della sapienza di Asgard.

 

(Colpi segreti: Soffio di Asgard)

 

EIR, Dea della Medicina:

 

Non una Divinità combattiva, preferisce usare il cosmo per curare le persone. Viene uccisa da Etere con un solo tocco del suo potere.

 

(Colpi segreti: Hlif (=scudo, in norreno), tecnica difensiva)

 

IDUNN:

        

In cerca di vendetta per la morte del marito Bragi, affronta Erebo senza timori.

 

(Colpi segreti: Mele d’oro)

 

 

Schede dei personaggi: Olimpo, Egitto, Luna, Avaiki.

 

OLIMPO

 

DIVINITA’ OLIMPICHE:

 

ZEUS, Dio del Fulmine:

 

Il Signore dell’Olimpo guida le armate di Grecia in guerra, affrontando Erebo e poi Caos.

 

(Colpi segreti: Folgore suprema, Tempesta di folgori)

 

ERMES, Messaggero degli Dei:

 

Fedelissimo di Zeus, rimane al suo fianco fino alla fine.

 

(Colpi segreti: Caduceo, Kerkeyon)

 

NETTUNO, Signore dei Mari:

 

Ha messo da parte i contrasti con Atena per lavorare tutti assieme. Combatte contro Echidna e poi contro Erebo e Caos.

 

(Colpi segreti: Corno di Tritone, Tridente del Re Pescatore)

 

EFESTO, Fabbro olimpico:

 

Generoso e umile, è in prima linea fuori dalla Porta delle Tenebre. Combatte contro Erebo e Caos a fianco del padre.

 

(Colpi segreti: Lava incandescente)

 

DEMETRA, Signora delle Messi e delle Coltivazioni:

 

Prigioniera nei sotterranei del Primo Santuario. Viene liberata dalla spedizione guidata da Nikolaos.

 

EURO, Vento dell’Est:

 

Ultimo figlio di Eos, tiene alta la bandiera degli Dei dei Venti ma trova la morte di fronte alla Porta delle Tenebre a opera di Erebo.

 

(Colpi segreti: Vento di Levante)

 

ATENA, Dea della Guerra Giusta:

 

Combatte con Pegasus contro Nyx, poi contro Erebo e contro Caos, andando incontro al suo destino.

 

(Colpi segreti: Lancia di Nike)

 

ERACLE, Protettore degli Uomini e Vindice dell’Onestà:

 

Combatte a fianco di Zeus, orgoglioso di averlo come padre. Vince molti mostri ma viene ucciso da Erebo.

 

(Colpi segreti: Fede negli uomini, Fiere del Mito, Keraunos).

 

CAVALIERI CELESTI:

 

NIKOLAOS DELL’ERIDANO CELESTE, Luogotenente dell’Olimpo:

 

Guida la spedizione per liberare Demetra, venendo sconfitto dagli inganni del Windigo.

 

(Colpi segreti: Gorgo dell’Eridano)

 

GANIMEDE DELLA COPPA CELESTE, Coppiere dell’Olimpo:

 

Segue il suo amato Zeus nell’ultima guerra, pur non amando combattere. Affronta e vince Baobhan Sith ma viene ucciso da Erebo.

 

(Colpi segreti: Anfora delle stelle)

 

SHEN GADO DELL’IPPOGRIFO, ex Capitano dei Seleniti:

 

Affronta le Volpi Nere nella Corte della Notte. Viene protetto da Avatea dall’attacco di Caos.

 

(Colpi segreti: Galoppo dell’Ippogrifo, Dominion of light)

 

TOMA DI ICARO:

 

Dopo tanti anni di prigionia su Strobiuls, tutto ciò che Toma vuole è combattere per Zeus e proteggere la sorella. Affronta e vince Vaughn della Chimera, venendo ucciso da Caos.

 

(Colpi segreti: Lancia di Icaro, Lamento di Strobilus)

 

LEGIONE DEI MIGLIORI:

 

ALCIONE DELLA PIOVRA:

 

Affronta l’Iku-Turso, sconfiggendolo a prezzo della vita.

 

(Colpi segreti: Alti flutti spumeggianti, Esplosione dei Silenti Abissi)

 

NESSO DEL PESCE SOLDATO:

 

Ribelle per natura, sempre in cerca del suo altrove, Nesso combatte finché può, ma rifiuta di essere salvato oltre. Vuole vivere il suo tempo e basta.

 

(Colpi segreti: Sospiro nel vento, Frecce del mare. La sua armatura possiede accessori interessanti, come arpioni, ganci e rampini)

 

CHIRONE DEL CENTAURO:

 

Combatte contro Alu della Tempesta, esplodendo assieme a lui.

 

(Colpi segreti: Magma ardente, Pioggia di lava)

 

IRO DI ORIONE:

 

Il Primo Comandante degli Heroes. Partecipa con Nesso e Nikolaos alla missione di liberazione di Demetra. Muore affrontando Anhar con determinazione.

 

(Colpi segreti: Tuono del Cacciatore, Cintura di Orione, Devastazione di Orione)

 

NEOTTOLEMO DEL VASCELLO, Nocchiero di Tirinto:

 

Assieme agli amici Marcantonio e Nestore, viene ucciso da Erebo.

 

(Colpi segreti: Ali del Mito)

 

MARCANTONIO DELLO SPECCHIO:

 

Glorioso combattente, affianca Eracle fino alla morte.

 

(Colpi segreti: Specchio delle Stelle, Glorioso Canto degli Eroi)

 

NESTORE DELL’ORSO BRUNO:

 

Furioso e ruggente, può mutare in un immenso orso bruno.

 

(Colpi segreti: Ruggito dell’Orso Bruno, Ursus Arctos middendorffi)

 

TIRESIA DELL’ALTARE SACRO:

 

Veggente di grandi poteri, scopre la planimetria del Primo Santuario, ma per questo peccato viene punito da Nyx, che lo divora con la sua ombra.

 

ALTRI PERSONAGGI:

 

TITIS DELLA SIRENA:

 

Ultimo Cavaliere Sirena, segue Nettuno fino alla morte.

 

(Colpi segreti: Sottile trama corallina, Incanto delle sirene)

 

AMAZZONI:

Guerriere del Ponto, guidate da Pentesilea. Tra loro c’è Mirina.

 

PENTESILEA, Regina delle Amazzoni:

Ardimentosa combattente, avanza a testa alta finché ha forza. Viene uccisa da Caos.

 

EURIBIA, figlia di Ponto.

 

Sposa del Titano Crio, vive in un palazzo sul fondo del mare assieme al popolo degli Oceanini. Aiuta Kohu e i Cavalieri di Atena sull’Isola del Riposo.

 

EGITTO

 

DIVINITA’ EGIZIE:

 

AMON RA, Dio del Sole, Signore di Karnak:

 

Guida le forze d’Egitto fuori dalla Porta del Giorno, affrontando numerose Divinità evocate o risvegliate da Caos, fino allo scontro finale.

 

(Colpi segreti: Occhio di Ra)

 

HORUS, Dio Falco, detto “il lontano”:

 

Affianca il fratello Febo nello scontro contro Keres, per vendicare la morte di Iside.

 

(Colpi segreti: Artigli del Falco)

 

BASTET, Dea Gatta:

 

Sempre in prima fila, anche se si tratta di combattere i Faraoni del Deserto.

 

(Colpi segreti: Sacro Mau)

 

LUNA

 

REGNO DELLA LUNA SPLENDENTE:

 

HUBAL, Selenite di Venere:

        

Ha fatto voto di silenzio. È un abile arciere.

 

AVATEA, Selenite della Terra:

 

Vecchia ma ancora combattiva. Affronta le Malebranche. Si sacrifica per Shen Gado.

 

SIN, Selenite di Marte:

 

Signore della Guerra e del Fuoco, ama combattere. Abbatte molti nemici durante l’Ultima Guerra, non risparmiandosi nemmeno di fronte a Erebo e Caos, deciso a vendicare Nuova Babilonia. Viene disintegrato da Caos.

 

(Colpi segreti: é-kish-nu-gal =casa della gran luce; É-khul-khul = casa di gioia)

 

MANI, Selenite di Saturno:

 

Il timore per la sorte dei suoi figli è la sua maggiore debolezza e causa della sua disfatta.

 

AVAIKI DEL MAR DEI CORALLI

 

AVAIKI DEL MAR DEI CORALLI: (su gentile concessione di Pavone):

 

TORU, lo Squalo Bianco:

 

Comandante degli Areoi, guida quel che resta del suo popolo nell’ultima guerra. È il primo coraggioso, o folle, a scagliarsi contro Caos.

        

(Colpi segreti: Fauci dello Squalo Bianco)

        

KOHU dell’Istioforo:

 

Il più giovane degli Areoi, viene lasciato indietro da Toru per salvarlo. È l’unico Areoi superstite, a lui il compito di creare una nuova colonia.

        

(Colpi segreti: Taglio delle onde, Vela Bianca)

 

WAKU della Balenottera:

 

Segue Toru nel deserto del Gobi, venendo ucciso assieme a lui da Erebo.

 

(Colpi segreti: Soffio della Balenottera)

 

Schede dei personaggi: Progenitori, Armata delle Tenebre, Forcidi.

 

PROGENITORI:

 

LORD CAOS:

         L’essenza della creazione. Il nemico di cui Avalon e i suoi fratelli hanno atteso l’avvento per secoli. Definito anche l’Oscuro Signore, l’Unico Dio o semplicemente l’Unico, creatore del cosmo e della Terra, è l’entità da cui tutti gli Dei e gli uomini discendono.

 

NYX, Dea della Notte:

         La Prima Dea nata dal Caos, può assumere qualunque forma, prediligendo quella di un enorme uccello nero, dagli artigli di pura tenebra. All’apparenza calma, è crudele e vendicativa, non ama assegnare compiti ai suoi sottoposti, preferendo agire in prima persona. Dei Quattro Progenitori, è la prima a rinascere, in una caverna della Grecia, venendo cullata dall’odio dei giganti mostruosi che popolavano quella regione e che l’avevano chiamata Ebdera.

         Si reca sulla Luna per uccidere Selene e Endimione, sperando di attirarvi Elanor, la più fresca e inesperta tra i Cavalieri delle Stelle, per carpirle il Talismano.

         (Colpi segreti: Marea d’ombra)

 

EREBO, Signore delle Tenebre Infernali:

         Di aspetto sconosciuto, nascosto da un’armatura integrale di colore nero, Erebo è il Primo Dio nato dalla Notte per partenogenesi. Definito con molti nomi che mettono l’accento sulla sua oscurità, è agguerrito, voglioso di scendere in guerra e coprire il pianeta con la sua ombra infernale. Al tempo stesso sfodera un lato riflessivo, turbato dalle parole del Gran Maestro del Caos riguardo ai cinque Cavalieri dello Zodiaco. È questo il motivo per cui decide di affrontare Pegasus, Cristal e poi Andromeda, per tastare le loro abilità e convincersi che i timori di Anhar siano infondati.

         (Colpi segreti: Danza di daghe, Dies Irae)

 

EMERA, Dea del Giorno:

         Elegante e leggera, è una dei due gemelli di Luce partoriti dalle tenebre per contrapposizione. Rappresenta la personificazione del Giorno.

         Silenziosa, non amante del chiasso e del frastuono, Emera accompagna Etere al Grande Tempio, dopo aver risvegliato Atlante, sedendo sulla Meridiana dello Zodiaco e osservando la fine di un mondo che, a sentir lei e il fratello, merita di scomparire, reo di non essere perfetto come l’Unico l’aveva creato. Pur tuttavia, a differenza di Etere, percepisce qualcosa, un richiamo, forse una voce, che le si rivolge spesso chiamandola “madre” e stranendola.

 

ETERE, Signore della Luce:

         L’imperturbabile fratello di Emera, è il giudice supremo che condanna Atena per la fallacia delle sue azioni e l’umanità per la sua claudicante imperfezione, vedendo con disprezzo l’alternarsi di luce e ombra nell’animo del genere umano.

         Attacca il Grande Tempio per annientarlo, deciso a rifondare un nuovo mondo privo di esseri imperfetti, un mondo dove le macchie non esistano e i contorni siano netti. Per quanto accorate siano le difese di Atena e di Pegasus, Etere non sembra prestare ascolto alle loro parole, cieco e sordo nelle proprie convinzioni.

         (Colpi segreti: Luce del Cielo; Pranava Sabda: suono primordiale (sanscrito), il suono della creazione, che racchiude tutti gli altri suoni. Una beatitudine dotata di forza dirompente.)

 

ARMATA DELLE TENEBRE:

 

POLEMOS, Demone della Guerra:

         Lord Comandante dell’Armata delle Tenebre, maestro di Chimera, guida l’esercito di Caos nell’attacco contro Karnak. È la personificazione della guerra, l’istinto naturale dell’uomo allo scontro, ed esiste fin dagli albori dell’umanità. La sua potenza è immensa, per quanto non utilizzi colpi segreti o tecniche specifiche, egli le conosce tutte, sapendo anche come difendersi. Dopo aver sconfitto Sirio in Asia, fronteggia Andrei e Phoenix fuori da Karnak, sfoderando la sua armatura: l’Arma, a forma di carro da guerra.

 

CHIMERA:

         Il suo vero nome è Vaughn ed è l’allievo di Polemos. Hanno girovagato assieme per l’Europa, spostandosi dai Pirenei verso oriente, trascorrendo periodi di caccia nelle regioni montuose o nella Foresta Nera, crescendo assieme e conoscendosi meglio. La sua furia in battaglia è indubbia, così come la sua devozione alla causa di Polemos, per cui darebbe la vita. Segue il Lord Comandante in Egitto, incitando l’Armata delle Tenebre a dare il meglio di sé, o a morire nel tentativo, ingaggiando rapidi e cruenti scontri con Bastet, Horus, Reis, Jonathan e alcuni Faraoni delle Sabbie.

         (Colpi segreti: Zoccolo della capra infernale, Fauci delle tre Bestie).

 

ATLANTE:

         Figlio del Titano Giapeto, fu abbattuto dalle folgori di Zeus, sprofondando nel suolo lungo la costa africana nordoccidentale, generando la catena montuosa che da lui ha avuto nome. Viene risvegliato da Etere e Emera, che risvegliano al qual tempo la sua sete di vendetta verso gli Olimpi. Invade il Santuario di Atena, radendolo al suolo e impegnando Mur, Virgo e tutti i Cavalieri della Dea Guerriera ad un duro sforzo, che sarebbe stato vanificato se Zeus non fosse intervenuto.

 

LESTRIGONI:

         Grossi guerrieri, alti e robusti, rivestiti di biancastre armature integrali. Combattono in gruppo, spesso riuniti a schiera, in modo da presentarsi come muro compatto contro cui impattano gli assalti avversari. Impegnano duramente Marins e gli altri Cavalieri delle Stelle, in Egitto. 

 

WARG:

         Selvaggi lupi da guerra, cresciuti nelle tenebre della Foresta di Ferro, in Nord Europa. Molti vennero cacciati e uccisi dai Blue Warriors di Alexer, ma alcuni riuscirono a salvarsi, allevati e nutriti da Reidar e da Anhar per scopi bellici. Adesso cavalcano verso Asgard, bardati di corazze appuntite che li rendono ancora più demoniaci. Reidar ne cavalca uno.

 

I NEFARI DELLO ZODIACO OSCURO:

 

JARED del Golem di sangue:

         Giovane arabo di vent’anni, crea con il cosmo delle statue di sabbia che si nutrono del sangue dei nemici, divenendo sempre più potenti e grosse. Le sue abilità gli consentono di mimetizzarsi con il terreno, ingannando l’avversario. È particolarmente a suo agio nel combattere nei terreni aridi, desertici. Vulnerabile al fuoco e al vento che lo erode, non è troppo forte fisicamente, contando più sulle sue statue di sabbia e sull’astuzia.

 

BEIRA della Cailleach:

         Nacque da un druido anni addietro durante le Nozze Sacre, ai fuochi di Beltane. Sentiva di avere grande potere ma Avalon non la ammise all’ordine delle sacerdotesse perché presagiva qualcosa di oscuro in lei. Ha appreso le arti magiche da Anhar, studiando antichi testi di Beira, la più grande Cailleach, il cui nome ha scelto per onorarla e per combattere in suo nome.

         (Colpi segreti: Strega delle tempeste, Cenn na Cailleach)

 

REIDAR dei Warg:

         Di aspetto nordico, è originario infatti di Midgard, si è addestrato con Artax e Orion per divenire Cavaliere di Asgard, ma Ilda ha nominato Luxor al suo posto e lui non l’ha presa bene. Neppure Orion e Artax hanno interceduto per lui e per anni lui ha rimuginato sulle parole rivoltegli da Orion, il giorno dell’investitura: “Forse Ilda ha percepito violenza nel tuo animo!”

         La sua armatura è identica a quella di Luxor ma è nera con riflessi violacei ed è dotata di artigli che gli coprono le mani. L’ha fatta creare apposta dal Gran Maestro del Caos a forma di lupo, così adesso può indossare la corazza che gli spettava.

         È sanguigno, gli piace nutrirsi di sangue. Veloce, scattante, ha udito e odorato fine, sente gli odori e i suoni anche più lontani. Possiede braccia molto forti, in grado di strangolare un orso.

         (Colpi segreti: Artigli del Lupo di Sangue)

 

GRENDEL, lo Spettro Bianco:

         Di Grendel poco è noto, neppure il nome. Di lui si sa solo che parla poco e combatte molto, senza conoscere pietà. Il bracciale destro dell’armatura è un enorme guanto artigliato, in puro mithril, dotato di cinque dita appuntite in grado di squartare un essere umano con un solo colpo. Anhar gliene ha fatto dono affinché porti ovunque il segno della loro efferata potenza.

 

DUPPY:

         Fantasma dell’isola di Giamaica, possiede la capacità di assumere qualsiasi forma agli occhi di chi lo guarda. Fisicamente non è molto forte, ma grazie ai suoi poteri mentali riesce a prevalere anche su avversari ben più potenti di lui. Grazie al suo aiuto, Reidar rientra a penetrare all’interno della cittadella di Asgard, raggiungendo il Salone del Fuoco.

 

ALU della Tempesta:

         Demone assiro, malvagio e vendicativo. Il suo nome deriva dal sumero “gallu”, tempesta. Dal fisico snello e smilzo, ha occhi grandi e neri, capelli viola spettinati e

Un’armatura rossa vermiglia, dotata di ampie ali, simili a quelle di un pipistrello, con cui vola sul campo, rilasciando vento e tempesta.

 

CORB dei Fomori:

         Uomo basso e barbuto,  dai folti capelli rossicci e aspetto simile ad un folletto. Originario di Cork (Irlanda). In gioventù è stato un apprendista druido presso Avalon, ma poi se ne era andato, non interessato all’uso del potere che veniva fatto nell’Isola Sacra. Il mondo moriva e i druidi cosa facevano? Rimanevano chiusi in cima al cerchio di pietre a pregare. Corb ha sempre criticato Avalon per non essere un interventista, bensì un garante dell’equilibrio, finendo poi per mettere i suoi poteri al servizio di chi ha preferito agire, per porre fine all’agonia del mondo.

         (Colpi segreti: Piaghe dei fomori)

 

YAMA del Bufalo Nero:

         Il suo nome riprende il nome di Yama, Deva della Morte, presso la religione induista. La sua armatura è rossastra, la pelle olivastra, gli occhi di fuoco e cavalca un bufalo nero. Attacca Themiskyra, uccidendo alcune Amazzoni, prima di essere fermato da Pentesilea e Phoenix.

 

VRITRA del Serpente Malevolo:

         Vritra significa “l’avviluppante”. Prende il nome da un asura: nella mitologia indiana, un enorme dragone o serpente, il cui simbolo sono le nuvole, che il Nefario controlla per far piovere. Sequestra le acque e porta i popoli alla fame tramite la siccità.

 

ARTEMISIA della Dionea Assassina:

         Sorella di Menas della Rosa, che cerca di vendicare uccidendo i Cavalieri di Atena, responsabili (in base a ciò che Anhar le ha detto) della morte del fratello. Possiede il potere di controllare il regno vegetale, creando piante, soprattutto carnivore, con cui stritola e soffoca i nemici.

 

ALTRE DIVINITA’:

 

OIZYS, Dio della Miseria e della Sventura:

         Astrazione, figlio di Nyx, ha una voce stridula e stordente. Non ama, non vuole e non sa combattere, solo profetizzare sciagura e rovina per chiunque. Viene portato in Egitto da Chimera, che si diverte a frustarlo e a torturarlo, nutrendosi dei suoi spasimi di dolore.

 

APATE, Dea dell’Inganno:

         Astrazione, figlia di Nyx. Al pari di Oizys, questa divinità minore viene portata in Egitto e forzata da Chimera ad avanzare verso Karnak, dove è costretta ad affrontare le forze dell’alleanza, in particolare le incandescenti fiamme di Sin degli Accadi, trovandovi la morte.

 

KERES, la morte violenta:

         Alta e snella con lunghi capelli rossicci, è una donna spietata e sanguinaria. Si diverte in compagnia di Lissa, a cui spesso si accompagna nelle scorribande belliche. Al suo fianco invade Karnak, contribuendo alla morte di Iside e fronteggiando poi Febo e Marins.

 

LISSA, Dea della rabbia e del furore cieco:

         Una donna alta e bella, con lunghi capelli biondi e sguardo magnetico. Indossa un’armatura con un viso dipinto sul pettorale, il viso del suo più grande successo. Come Dea della Rabbia, possiede il potere di condurre uomini (e Dei) alla pazzia, proprio come accadde a Eracle, secoli addietro. A Karnak, tenta di piegare Febo al suo volere, facendo forza sulla sofferenza celata nell’animo del bastardo, ma finendo lei stessa piegata dalla tempra fiammeggiante del sole d’Egitto.

 

HORKOS, figlio di Eris:

         Rappresenta la maledizione inflitta a coloro che tradiscano un giuramento. Sopravvissuto al crollo di Dhaulagiri, subisce la collera di Nyx, accusato di non aver portato a termine la missione. Horkos cerca quindi vendetta al Grande Tempio, uccidendo Mur ma venendo disintegrato a sua volta dall’Onda di Luce Stellare.

         (Colpi segreti: Sturmjan, Sturm und drang)

 

AMPHILOGIE, figlie di Eris:

         Al pari di Horkos, alcune di loro sono sopravvissute al crollo della Montagna Bianca, decidendo di seguire il fratello nell’attacco a sorpresa al Grande Tempio. La loro avanzata viene però interrotta da Kiki, Asher, Castalia e Kama e soprattutto da Matthew ed Elanor, che sconfiggono l’esercito nemico.

 

ATE, Dea della rovina, dell’inganno, della dissennatezza:

         Su consiglio di Anhar, la figlia di Eris si sostituisce a Demetra, attirandola fuori dall’Olimpo, presso l’abitazione dei genitori di Nikolaos. In questo modo Ate, nelle vesti di Demetra, può attingere ai segreti di Zeus e, soprattutto, può bagnare con il proprio sangue l’armatura di Andromeda, infettandola e servendosene per oscurare il suo cosmo. Non soddisfatta del risultato, e notando che la coscienza del Cavaliere continua a perdurare, la Dea invoca persino Ade, invitandolo a prendere definitivo possesso del simulacro da lui scelto un tempo, non avendo però fatto i conti con l’orgoglio del Signore dell’Oltretomba e con quel sentimento che Atena lo aveva accusato di non aver mai provato. L’amore.

 

DISNOMIA, figlia di Eris:

         Assieme a Oizys e Apate, segue Polemos in Egitto, per quanto refrattaria allo scontro armato. Viene frustata spesso da Chimera e, quando le forze dell’alleanza attaccano, inizia a correre per fuggire, venendo però disintegrata dalle fiamme di Sin degli Accadi.

 

FORCIDI

 

FORCO, Antica Divinità dei Mari:

         Primo Imperatore dei Mari, non ha mai rinunciato al dominio sugli oceani, confrontandosi contro tutte le supposte Divinità che hanno ardito definirsi tali. Su due certezze si è basata la sua intera esistenza: Ceto, la compagna che mai lo ha abbandonato, e la smania di possedere il trono dei mari, certo di essere l’unico degno di sedervisi. Per questo scatena i Forcidi contro l’Avaiki, per dominare l’ultimo regno sottomarino esistente e consolidare il proprio dominio.

         (Colpi segreti: Kata thalassa)

 

CETO, Sposa di Forco:

         Nota come “la perigliosa”, Ceto è la sposa di Forco, al cui fianco è sempre rimasta durante le millenarie contese per il dominio sugli oceani. Non ha mai avuto un dubbio su quale fosse la sua posizione, alla destra di colui che aveva scelto come compagno per la vita, unendosi in un amore che era perdurato per secoli.

         Le sue capacità le permettono di carpire le paure celate nell’animo di ogni avversario, ritorcendole contro di lui.

         (Colpi segreti: Grande balena bianca, Sentinelle del mare)

 

TIAMAT, l’Abisso Oscuro, Primo Forcide:

         Il Comandante dei Forcidi, la cui potenza supera quella dei suoi sottoposti uniti assieme, rivaleggiando persino con quella di Forco o di Ceto. Quale ne sia il motivo, al momento a tutti ignoti, tranne che a Tiamat stesso, il cui cosmo è intriso di oscurità, che ha saturato ogni lucentezza o bontà avesse mai vissuto nell’animo. Un tempo era stato un uomo di nome Tebaldo, compagno di addestramento di Ascanio ai Cinque Picchi.

         Dopo la sua morte apparente ad Atene, durante l’attacco dei soldati egizi, il ragazzo era stato salvato da Anhar, impressionato dalla sua tenacia, dalla sua determinazione a non morire, nonostante avesse il corpo a pezzi. Per quel motivo, e per una punta di oscurità che aveva suscitato il suo interesse, Anhar lo aveva preso con sé, facendone il suo allievo e affidandogli scomode missioni nell’ombra, tra cui radunare i Forcidi e fornire un esercito sottomarino ai Progenitori. E Tebaldo era presto divenuto Tiamat, una persona completamente nuova, come Ascanio ha modo di verificare.

         Nello scontro che scuote la Conchiglia Occidentale, Tiamat esce sconfitto, ma l’energia oscura che lo corregge gli permette di curare le proprie ferite in fretta, al punto da portarlo ad uccidere Forco poco dopo, mozzandogli la testa e riunendola assieme a quella di altre Divinità oceaniche da lui stesso massacrate, per offrirle in dono al suo signore. Ma a chi?

         (Colpi segreti: Abisso oscuro, Apocalisse oscura, Rapsodia di ombre)

 

OZENA, la Piovra Puzzolente:

         Secondo Forcide, nonché unica donna tra i sette servitori di Forco. Proviene da una famiglia dove la discendenza, sempre in linea femminile, è stata finalizzata a creare una fedele combattente e sostenitrice di Forco, in attesa che il vero Imperatore dei Mari la chiamasse a sé. Viene ferita da Ascanio nell’Avaiki ma trova inaspettata morte per mano di colui a cui aveva giurato fedeltà.

 

ISONADE: Quarto Forcide.

         In origine era Moeava, uno degli Aeroi, addestrato da Ono dello Squalo Tigre, assieme a Toru e Maru, ma non molto incline a rispettare le leggi. A differenza dei compagni, Moeava amava cacciare per il gusto di farlo, uccidendo animali anche quando non necessario alla sopravvivenza. Per questo Ono lo cacciò, per aver violato il kapu, e adesso è tornato per avere la sua vendetta su Hina e gli altri Areoi.

 

IKU-TURSO: Quinto Forcide.

         Il suo nome è Meritursas ed è originario della Lapponia, dove è cresciuto, abbeverandosi di mitologia finnica. Proprio per la sua provenienza, Forco gli ha donato la corazza dell’Iku-Turso. Violento e sanguigno, non rifiuta mai una bella scazzottata, da cui conta di uscire vittorioso grazie al potere che gli è proprio, quello di infettare, debilitando, l’avversario.

         (Colpi segreti: Tuonen härkä: Buoi della morte. Sono grossi buoi neri, che caricano con corna sprigionanti fiamme e lampi. Una loro ferita è mortale, in quanto Iku-Turso è considerato padre delle Nove Malattie. Tuhatsarvi)

 

AFANC, Sesto Forcide.

         Tanto silenzioso, quanto letale. Il nome del Sesto Forcide è ignoto, persino ai suoi stessi compagni. È semplicemente comparso un giorno, nella caverna subacquea, rispondendo al richiamo del suo Signore, inchinandosi e giurando fedeltà. Tiamat lo definiva “il sicario perfetto”, perché mai avrebbe discusso gli ordini del suo superiore. E così si è comportato, fino allo scontro con Titis e Tisifone nell’Avaiki, in cui stava per avere la meglio, non fosse stato travolto dalle fauci dello squalo bianco scatenate da Toru.

         Non sono noti colpi segreti, preferendo il Sesto Forcide lo scontro diretto, corpo a corpo. Di certo la sua forza fisica era impressionante, in grado di stritolare un uomo, spezzandone le ossa in pochi secondi. Il suo simbolo è l’afanc, un mostro lacustre della mitologia gallese, responsabile delle inondazioni. Voci non confermate, su cui Avalon avrebbe voluto indagare, lo indicano come responsabile della grande inondazione avvenuta in Galles trent’anni addietro, quella in cui morirono i genitori di Reis. Che lo spirito del Sesto Forcide si fosse risvegliato in quel momento?

 

KELPIE, Settimo Forcide:

         Nato a Aberdeen, da una famiglia con forti radici in quella zona, il ragazzo risveglia la coscienza del Settimo Forcide all’età di quindici anni. Fisicamente è il meno forte dei sette fedeli di Forco, per la corporatura non troppo atletica, ma è molto agile e compensa con scaltrezza e velocità.

         Affronta Nesso del Pesce Soldato nell’Avaiki nel Mar dei Coralli. Il suo simbolo è un demone in grado di assumere la forma di un cavallo nero, tipico del folklore celtico, e diffuso nei laghi e nei corsi d’acqua di Scozia e Irlanda.

         (Colpi segreti: Bäckahästen, un cavallo di fiume tipico del folklore scandivano)

 

 

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