Dove cresce l'erba gatta di Lechatvert (/viewuser.php?uid=453208)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo – ricordi ***
Capitolo 2: *** Primo – l'ospedale ***
Capitolo 3: *** Secondo – il gatto che non miagolava ***
Capitolo 4: *** Terzo – lingue strappate ***
Capitolo 5: *** Quarto – gole tagliate ***
Capitolo 6: *** Quinto – mani tremanti ***
Capitolo 7: *** Sesto – ago ricurvo ***
Capitolo 8: *** Settimo – il beneficio del dubbio ***
Capitolo 9: *** Ottavo – l'attacco ***
Capitolo 10: *** Nono – teste mozzate ***
Capitolo 11: *** Decimo – in battaglia le persone muoiono ***
Capitolo 12: *** Undicesimo – rinascita ***
Capitolo 13: *** Dodicesimo – ritorno ***
Capitolo 14: *** Tredicesimo – la pietra cresce senza pioggia ***
Capitolo 15: *** Quattordicesimo – soffitto di stelle ***
Capitolo 16: *** Quindicesimo – il lupo e l'ambra ***
Capitolo 17: *** Sedicesimo – inutili paranoie ***
Capitolo 18: *** Diciassettesimo – scacco alla regina ***
Capitolo 19: *** Diciottesimo – nomignoli ***
Capitolo 20: *** Diciannovesimo – abbagli ***
Capitolo 21: *** Ventesimo – silenzi ***
Capitolo 22: *** Ventunesimo – fuga ***
Capitolo 23: *** Ventiduesimo – dove cresce l'erba gatta ***
Capitolo 24: *** Ventitreesimo – quando cala la fede ***
Capitolo 25: *** Ventiquattresimo – il grido che squarciò il silenzio ***
Capitolo 26: *** Venticinquesimo – il duello dei poveri ***
Capitolo 27: *** Ventiseiesimo – promesse non mantenute ***
Capitolo 28: *** Ventisettesimo – onore ***
Capitolo 29: *** Epilogo – i gatti non volano ***
Capitolo 1 *** Prologo – ricordi ***
modellostorieefp
La gattaia, gattaria, erba gatta
o erba gattaia (Nepeta cataria L.) è una pianta aromatica
della famiglia delle Lamiacee.
È una pianta perenne,
aromatica, al profumo di menta ha fusto eretto, legnoso, quadrato,
tomentoso, di colore grigio; le foglie dentate e pubescenti sono da
triangolari a ovali-cuoriformi. Gli spicastri sono densi e formano
fiori a pannocchia bianco-rosato, con punte rosse o macchie color
lavanda.
Fiorisce tra maggio e agosto.
Dicono che delle persone si serbino, in genere, tre ricordi.
Di lei, da qualche parte nella mia mente, ne conservo soltanto due,
entrambi popolati da quella paura che fa tremare le gambe, quel terrore
del buio che fa piangere i bambini quando si soffia sulla candela per
spegnerla.
Il primo, sepolto sotto le lacrime e le vite spezzate
dall’attacco a Masyaf del 586, puzza ancora di morte e menta,
di aceto e sabbia.
Il secondo possiede il medesimo, acre odore ed è
accompagnato dal pianto acuto e stridulo di un bambino. Fu quando, in
una giornata calda e soleggiata come quella in cui lei era comparsa,
mio figlio venne alla luce.
Masyaf,
1191 (586)
La
seconda spada le trafisse il ventre un istante prima che il templare le
afferrasse con forza la caviglia per trascinarla giù dalla
torretta sulla quale si stava arrampicando.
Con un tonfo sordo, la ragazza cadde a terra, battendo il mento sul
muro duro della costruzione, e rotolò qualche passo
più lontana dal suo aggressore. Si rialzò a
fatica, calcolando i danni.
Due buchi nella pancia, di cui soltanto uno era abbastanza profondo da
farla sanguinare abbondantemente, una freccia spezzata che le
attraversava la spalla da parte a parte, un coltello nel polpaccio.
Tutto sommato, aveva passato di peggio.
Si staccò la lama dalla gamba, lasciando che il sangue
sgorgasse sulla sua carne già sporca, e si gettò
di lato, riprendendo la sua scalata verso la cima. Non era affatto
facile, balzare da un appiglio all’altro con un braccio che
stava lentamente perdendo la capacità di muoversi.
Raggiunse la sommità della torre con qualche secondo di
scarto e fece giusto in tempo a recuperare la spada legata in vita che
il templare le fu di nuovo addosso, armato soltanto dei suoi pugni
chiusi.
Più che sufficienti, in realtà. Quando
si erano scontrati, lei era stata brava a rubargli la lama, ma non
rapida a sufficienza per evitare un paio di pugni sul naso.
‘Fine’,
pensò, ghignando, mentre lo attaccava nello spazio ridotto
della cima della torre.
Gli affondò la spada nel petto che lui neanche se ne
accorse, spingendolo contro i merli per poi lasciarlo cadere nel vuoto.
Saltò sul cornicione, sporgendosi in avanti per scrutare il
paesaggio che la circondava. Si abbassò il cappuccio grigio
della cappa, arricciando il naso.
Dove diavolo era finito, il suo maestro?
Si erano separati quando i templari li avevano attaccati; come
ritrovarlo in mezzo alla folla che si accalcava sulle mura del paese
per scampare alla morte?
Facendosi pensierosa, buttò indietro il capo, chiedendosi se
tutto quel trambusto sarebbe mai servito a qualcosa per scuoterla
dall’esasperante grado di novizia che tanto bramava di
scrollarsi di dosso.
Si alzò sulle ginocchia, pronta a spiccare un balzo verso il
vuoto, ma un paio di mani più forti delle sue le afferrarono
saldamente le spalle, facendola cadere di schiena sul tetto della torre.
Improvvisamente, realizzò di non essere sola.
Deglutì, mentre la lama di un coltello si abbassava sulla
sua gola, accarezzandole la pelle con la delicatezza di un dito.
Come aveva fatto, a non accorgersi di un secondo nemico?
« Ultime parole, Assassino? »
Lei sorrise, sfregando appena la gola sul freddo metallo della lama.
‘Ci si vede
dall’altra parte’.
Ridacchiò, premendo da sola il braccio sulla sua pelle,
lacerandola con un taglio netto che le tinse la cappa grigia di sangue.
Cadde in avanti, sulle ginocchia, portandosi immediatamente una mano
alla gola tagliata, ma riuscì a trascinarsi fino ai merli
dove poco prima aveva visto precipitare il suo nemico.
Senza pensare, si buttò.
Con quel volo, contava davvero di morire.
__________________________
Note d'autore
...non guardatemi così.
Non ho neanche idea sul cosa stessi bevendo quando l'idea è
arrivata.
So solo che un minuto prima leggevo e un minuto dopo fissavo questa
cosa.♥
Se qualcuno dovesse chiederselo, non ho la più pallida idea
di come procederà. Però ci penserò, lo
giuro. ♥
Per ora vi lascio con un bacio,
Lechatvert
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Capitolo 2 *** Primo – l'ospedale ***
modellostorieefp
Il
primo ricordo che ebbi di lei fu un mantello sporco di sangue e un
pungente odore di carne andata a male nell’affollata stanza
d’ospedale in cui i curatori disinfettavano le ferite dei
combattenti.
Non erano ancora passati due giorni dall’attacco di Roberto
di Sable a Masyaf e io ero steso su un letto di fortuna, ricavato da
una fredda lastra di marmo e un paio di lenzuola, con due miei
confratelli impegnati a tenermi fermo sotto ai dolori laceranti del
disinfettante.
Credo che attirò parecchio l’attenzione su di
sé, un po’ per l’odore di morte che
emanava, un po’ perché difficilmente si riesce a
vedere tanto sangue addosso a una sola persona.
Quando le tolsero il mantello, impiegarono una manciata di secondi per
capire se si trovassero di fronte a un uomo o a una donna.
Per quanto mi riguarda, l’unica cosa che vidi sulla lastra
dove la posizionarono fu un cumulo di arti spezzati e carne lacerata.
Respirava appena, bagnata dalle lacrime silenziose che le rigavano il
viso e coperta da una folta chioma di capelli scurissimi appiccicati
alle guance.
Quando la alzarono per voltarla, la gola le si aprì
letteralmente in una ferita che liberò sangue e marciume,
contorcendola in uno spasmo di dolore che la fece vomitare sul
pavimento ciò che le rimaneva nello stomaco.
D’istinto, mi appiattii sul marmo.
Avevo passato due giorni ad inveire contro il mio braccio, eppure a
quella vista ogni dolore sembrava essere scomparso.
Sentii qualcuno avvicinarsi a passo spedito, mentre dal cumulo di carni
che era l’ultima arrivata si levava un gemito soffuso.
« Dove l’avete trovata? », chiese, con
tono composto, la voce del chirurgo.
Vi fu un attimo di esitazione, poi qualcuno si fece avanti, parlando
con titubanza.
« Appena dentro le mura, tra la paglia accatastata alle
stalle. Deve essere rimasta lì tutto questo tempo, nascosta.
Allah sa per quale motivo non abbia chiesto aiuto, una volta finito
l’attacco ».
« Sapete da dove viene? »
« Nella giacca aveva una missiva da Gerusalemme, ma
è quanto sappiamo sul suo conto ».
«
Ricucitela come si deve, sulla gola e sullo stomaco. Che Allah l'aiuti
a rimettere a posto le ossa che si è spezzata ».
Mentre
la ripulivano, non la sentii lamentarsi una sola volta.
La voltarono, le pulirono le ferite, le ricucirono le carni lacerate
senza che ella emettesse un solo gemito. Per l’intera
giornata che passò a farsi medicare da capo a piedi, non
pronunciò parola.
La guardavo, di tanto in tanto, mentre il braccio mi faceva capire che
se ne sarebbe andato
presto.
Due giorni di agonia con un pezzo di carne marcia attaccata alla spalla
erano più che sufficienti, tanto valeva che la facessero
finita prima che l’infezione si propagasse in tutto il corpo.
Di colpo, nel bel mezzo della mia terza notte di convalescenza, decisi
che ne avevo le tasche piene e che il braccio andava tagliato senza
troppe cerimonie.
Chiesi l’aiuto dei miei compagni e mi feci bloccare sul
pavimento, con la schiena premuta a forza sulle mattonelle gelide.
Quando si avvicinò la lama, volsi lo sguardo altrove,
incrociando quello scuro e spento della ragazza che, ricucita
com’era, più che a un cumulo di marciume ora
appariva più simile a una vecchia tenda rattoppata.
Lei mi guardò dritto in faccia, silenziosa, senza muoversi
dalla sua posizione.
Aveva gli occhi di un verde acceso, intenso, che metteva quasi
soggezione. Occhi che parevano parlare, che parevano voler
angosciosamente lanciare un messaggio.
All’improvviso, mi sentii prigioniero, racchiuso tra delle
mura che non mi appartenevano, che non conoscevo.
Fu una sensazione effimera, vaga, che sparì in un istante.
Poi la spada calò rapida sulla mia spalla, facendo saltare,
con un grido, il nervo del braccio.
Quando i miei occhi tornarono a cercare quelli della ragazza in una
disperata ricerca di conforto, il verde delle sue iridi si era
già spento, e lei era già caduta nel sonno che
pareva portarsi appresso da quando era arrivata lì.
__________________________
Note d'autore
Sto perdendo sempre di più il senso della
realtà e sappiate che la colpa è unicamente del
libro su cui mi hanno obbligata a studiare. Ma è bbbbello e
quindi amen.
E niente, volevo ringraziare le anime pie che si sono fermate a leggere
e quelle che hanno recensito. Vi voglio bene ♥
E comunque le note d'autore io non sono in grado di farle. Sono
note-fobica. Per favore, non bastonatemi per questo. Bastonatemi sulla
fanfiction, che mi farebbe giusto bene.
Un abbraccio,
Lechatvert
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Capitolo 3 *** Secondo – il gatto che non miagolava ***
modellostorieefp
Attorno
all’ospedale cresceva con abbondanza dell’erba
gatta, spesso usata dai curatori come calmante per i feriti
più irrequieti in mancanza di erbe officinali più
efficaci.
Passarono altri tre giorni, prima che la ragazza di Gerusalemme potesse
tirarsi in piedi con l’aiuto di un bastone e da allora, in
ogni mia passeggiata, ricordo di averla vista appisolata accanto a quei
cespugli con gli occhi chiusi al sole.
Era un mistero vivente: salvata quando ormai era di fronte alla morte,
senza passato né storia, apparentemente sola a
Masyaf e con a stento la forza di reggersi in piedi.
Ricordo essermi stupito quando notai quanto fosse giovane. Molto,
molto più giovane di quanto mi potessi aspettare.
Quattordici anni al massimo, tutti racchiusi in un viso tondo e a una
statura talmente minuta che, in confronto agli Assassini che le
gironzolavano intorno, faceva quasi tenerezza.
Qualcuno, a detta dei medici, le aveva tagliato la lingua,
perciò parlava con aggraziati gesti delle mani e occhiate
saccenti, senza che nessuno fosse in realtà in grado di
capire cosa volesse comunicare.
Cominciarono a chiamarla طّ, Qitt, Gatto¹,
un po’ perché passava le giornate adagiata tra
l’erba a sonnecchiare sotto i raggi del sole, ma
principalmente perché, quando si sforzava di produrre un
suono, ciò che veniva fuori era un soffio sommesso, del
tutto simile a quello dei gatti impauriti.
L’avevo notata spesso, all’ospedale, ed ero certo
che, in qualche modo, anche lei mi avesse notato, poiché
capitava che mi svegliassi nel cuore della notte con la sensazione di
venire osservato, o di trovarmi nel cortile dell’ospedale per
una lettura all’aperto e di vederla voltare il viso di scatto
non appena alzavo gli occhi dal libro.
Ad ogni modo, non arrivai ad averla a meno di venti passi da me se non
quando Al Mualim mi convocò nella sua biblioteca.
Arrivato alle porte della fortezza, me la ritrovai dinanzi che
camminava con l’aiuto di un bastone e mi stupii molto per la
rapidità con la quale si era rimessa in sesto, nonostante di
tanto in tanto cadesse a terra a causa del senso
dell’equilibrio danneggiato dalle ferite.
Mi riservò un profondo inchino, congiungendo i palmi delle
mani mentre mi lanciava un’occhiata carica di rispetto.
Non aprì bocca, ma capii che quello voleva essere un saluto.
Feci lo stesso, quindi, inchinandomi a mia volta.
« Salute e pace anche a voi ».
Lei mi sorrise appena, facendo scivolare lo sguardo sul punto in cui,
solo qualche giorno prima, c’era il mio braccio sinistro.
Aprì la bocca, poi si ricordò di non possedere
alcuna voce con cui parlare, e si spense, scrollando le spalle.
Girò sui tacchi con uno sbuffo e si incamminò
verso la strada, zoppicando sul piede destro con un’andatura
dettata dalle ferite ancora aperte.
Io mi ritrassi e proseguii fino alla biblioteca, senza un pensiero
particolare in mente. Cercavo notte e giorno di lottare contro
l’immagine di Kadar morente che voleva a tutti costi farsi
strada nella mia testa, perciò mi tenevo occupato leggendo e
studiando. Quella era la prima volta, da quando avevo fatto ritorno dal
Tempio, in cui riuscivo a mantenere la mente libera.
« Salute e pace, Malik », mi salutò Al
Mualim, pensieroso dietro la sua scrivania.
Nel suo tono di voce, sentii che c’era qualcosa che non
andava.
Deglutendo, mi portai più vicino.
« Salute e pace, Al Mualim ».
« Ho interrogato la ragazza; dice di venire di Gerusalemme
».
Mi accigliai.
« Dice?
»
Al Mualim mi lanciò un’occhiata seccata.
« Lo ha fatto intendere. Per essere muta, sa farsi capire
molto bene ». Fece una pausa, accartocciando un foglio su cui
qualcuno aveva lasciato degli scarabocchi confusi. Quasi senza
pensarci, li ricollegai a lei. « Dice di essere arrivata a
Masyaf con il suo maestro, giusto in tempo per tirar fuori la spada e
farsi ammazzare dagli uomini di Roberto. Abbiamo trovato il corpo del
ragazzo stamattina, fuori dalle mura della fortezza. Anche lui, si
è fatto pestare per bene, prima di morire ».
Il viso esangue di Kadar riprese prepotentemente posto nella mia mente,
facendomi perdere un respiro.
Cercai di non scompormi, mostrandomi sorpreso per quella notizia di
cui, in realtà, mi importava ben poco.
« Cosa ci facevano qui, due Assassini di Gerusalemme?
»
Al Mualim sospirò.
« Portavano un messaggio », rispose, guardandomi
negli occhi. « Pare che il Rafiq della loro dimora sia morto
in preda ai dolori della febbre ».
Aprii la bocca per parlare, ma non uscì alcun suono. Sapevo
fin troppo bene dove tutta quella discussione sarebbe andata a parare.
Ricordai lo sguardo che la ragazza mi aveva rivolto, quello pieno di
rispetto, e lo associai immediatamente all’inchino che ne era
seguito.
Che mi avesse già preso come suo Rafiq?
« Partirai per Gerusalemme domani mattina, assieme a una
piccola scorta. Non dovresti incontrare grosse difficoltà,
in viaggio, ma nel dubbio ti affido qualche guardia. La ragazza
è troppo debole, per respingere un attacco ».
Non accennò minimamente al caso in cui fossi io, a dover
estrarre la spada. Non ce n’era bisogno. Senza un braccio,
non potevo essere poi molto utile, all’Ordine. Il titolo di
Rafiq era in fondo ciò che le mie sofferenze mi avevano
fatto guadagnare e avrei dovuto onorare la decisione di Al Mualim di
affidarmi quell’incarico. Dovevo esserne più che
fiero. Ben pochi Assassini, potevano sperare di raggiungere quella
posizione alla mia età.
Fu per quello che accettai, più o meno.
In realtà, non vedevo l’ora di lasciare a Masyaf
tutto ciò che riguardava me o Kadar, seppellendo quei miei
ventisei anni sotto nuovi impegni, nuovi luoghi, nuovi visi da
ricordare.
Così, il giorno seguente, abbandonai il mio paese natale con
la viva speranza di non dovervi più fare ritorno.
Non avevo davvero la presunzione di cominciare una nuova esistenza a
Gerusalemme, in fondo, ero giovane ma saggio abbastanza da capire che
ciò che ero stato sarebbe stata la base per rimettere
assieme i miei pezzi e andare avanti.
Per quanto fosse dura, sapevo di non potermi permettere il lusso di
lasciarmi andare. Per Kadar, per tutti gli altri miei fratelli, per non
darla vinta ad Altaïr. Non avevo intenzione di vedermi morire.
__________________________
Note d'autore
Finalmente posso arricchire (?) le note d'autore con
qualche nota tecnica!
[1]: Qitt,
tradotto come gatto, si riferisce proprio al gatto maschio. Non
è un generico cat
dall'inglese. Si intende specificatamente l'esemplare maschile della razza.
Sono le due e trenta del mattino e volevo ringraziare chi
ha messo la storia tra le seguite (aw!) e chi l'ha recensita (aw aw!)
♥
Non ho altro da dire.
Dal prossimo capitolo, ci si sposta a Gerusalemme. Niente neve. Anche
se prima o poi la neve riuscirò a ficcarcela dentro
(son di
montagna, capitemi. La neve è un punto fisso).
Baci baci,
Lechatvert
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Capitolo 4 *** Terzo – lingue strappate ***
modellostorieefp
Durante
il viaggio, ci fermammo tre volte. Fu sempre per far riposare Qitt, la
cui ferita sul collo si ostinava ad aprirsi ad ogni balzo e a far
fuoriuscire una gran quantità di maleodorante marciume
giallastro. I guaritori di Masyaf si erano preoccupati di ricordarmi di
designarla immediatamente a un ospedale cittadino una volta arrivati
ed era quello che avevo intenzione di fare anche se, onestamente, vista
la profondità dell’infezione e la febbre che non
accennava ad andarsene, mi aspettavo di vederla morire da un momento
all’altro.
Invece, mostrando una massiccia dose di testardaggine, quella ragazza
ce la fece ad arrivare di suo passo fino alla Dimora, crollando poi per
la piressia e la stanchezza sui cuscini dell’anticamera
quasi senza darci il tempo di guardarci attorno.
Non appena si udì il tonfo del suo corpo a contatto con il
pavimento, un giovane Assassino dai capelli color della sabbia si
affacciò all’uscio, esaminandoci con fare
circospetto prima di fiondarsi su di lei.
« Salute e pace, Fratelli! », ci disse, senza
però degnarci di uno sguardo mentre passava la mano
inguantata sulla ferita della sua compagna. Di colpo, si
voltò verso la porta aperta, gridando a pieni polmoni:
« Ghaalib! Nathim! È tornata Haif¹!
»
Due Assassini di rango superiore si lanciarono sul corpo della loro
compagna, aiutando il giovane a raccoglierla da terra per trasportarla
all’interno.
« Ve l’avevo detto: si è fatta male di
nuovo », commentò uno, tirando su col naso.
L’altro annuì.
« È stata fortunata a sopravvivere, in
quell’inferno di Masyaf! », rispose, a voce alta.
«
Macché! Io lo sapevo, che sarebbe tornata indietro, in un
modo o nell'altro! »
«
Mi chiedo se quell’imbecille del suo maestro si sia fatto
uccidere perché era troppo ubriaco ».
« Su questo non c’è dubbio alcuno,
Nathim! »
Il vociare e le risate dei tre uomini si allontanarono rapidamente e
l’anticamera rimase vuota, animata soltanto dal lieve rumore
di passi proveniente dalla strada.
Non credo di essermi mai sentito così ignorato come in quel
momento.
Passò una manciata di minuti, dopodiché
l’Assassino dai capelli chiari ricomparve
nell’anticamera e, togliendosi i guanti con fare gioviale, si
esibì in un inchino leggero, portando le mani dietro la
schiena con un sorriso.
« Salute e pace, Fratelli miei », disse, soffocando
una risatina. « E benvenuti a Gerusalemme! Immagino sarete
stanchi per il viaggio; riposate e rifocillatevi senza timore
». Si voltò verso di me, chinando il capo.
« Rafiq, il mio nome è Imaad; è mio
compito mostrarvi i vostri alloggi. Seguitemi, vi porto a dare
un’occhiata all’interno! »
Congedai la mia scorta con uno sguardo deciso, senza perdermi in
discorsi che sarebbero comunque andati dimenticati, e mi affrettai a
seguire Imaad all’interno della Dimora.
Mi ritrovai in un ambiente piccolo, ben più modesto della
biblioteca di Al Mualim, diviso a lato da un bancone di legno e
addobbato sui muri con qualche bandiera. C’era una stanza che
si apriva sulla destra, scura e piastrellata di bianco, e ricordo un
forte odore di incenso provenire da dietro la tenda che ne celava
l’entrata.
« Da questa parte, c’è
l’ufficio », mi spiegò Imaad, indicando
il bancone con un ampio gesto della mano. « Un po’
in disordine per l’improvvisa scomparsa del vostro
predecessore, ma sono sicuro che con un po’ d’aiuto
tornerà a splendere! »
Saltellò un po’ in quella direzione, poi si
accorse di non avermi dietro di sé e si bloccò,
guardandomi con aria interrogativa.
Io sospirai.
« Dov’è finita la ragazza? »,
chiesi, sbottando.
« Chi? Haif? » Imaad ampliò il suo
sorriso. « Ho detto a Ghaalib e Nathim di portarla
all’ospedale. Sono bravi compagni, ne avranno cura. E poi,
Haif ha un talento naturale nel farsi del male. Siamo abituati a
vederla arrivare con qualche graffio ».
Qualche graffio.
« Hanno detto che le hanno strappato la lingua, durante
l’attacco ».
Lui scoppiò in una fragorosa risata.
« Macché! », esclamò,
portandosi una mano alla fronte. « Quella matta se
l’è tagliata da sola, due anni fa! »
Al mio sguardo spaesato, seguì una frettolosa spiegazione.
« Avrà avuto undici, dodici anni al massimo
», disse Imaad, tornando serio. « Una delle prime
missioni in cui le è stato dato il permesso di seguire il
suo maestro. Il bersaglio le passa davanti, lei scatta. Nessuno fa in
tempo ad agguantarla e riesce Allah sa come a fare fuori il vecchio con
una spada che sfila a una guardia. Se non che venti, trenta soldati si
buttano su di lei e la fanno prigioniera. Dico io, potevano ucciderla e
farla finita! E invece no, se la sono tenuta per farsi dire chi la
mandava, i bastardi. Bé, pur di non parlare, la signorina si
è tagliata la lingua con un ferro vecchio ».
Aspettò un istante, prima di continuare con il suo racconto.
« Il maestro era un tipo strano come lei, uno che bisognava
farlo a fette e bruciare i resti col sale, per star sicuri che non
tornasse. Non si vedevano spesso, da queste parti, e quando arrivavano
state pur certo che arrivavano pure i guai. Li chiamavano randagi,
perché non appartenevano a nessuno. Ve ne accorgete: Haif
è pacifica, ma quando ha in mano un coltello attacca briga
anche con i sassi! »
Rimasi fermo a guardarlo, stranito da quel racconto.
Non sapevo se si aspettasse che gli credessi perché mi
considerava uno stolto o, più semplicemente,
perché era la verità.
Avevo conosciuto persone più sconsiderate, Assassini
più sanguinari, ma una storia del genere non era mai giunta
a Masyaf, e la cosa mi insospettiva non poco.
Decisi di buttarmi tutto alle spalle, concedendomi un po’ di
quel sonno che non mi ero preso durante il viaggio.
« Desidero riposare », dissi, quindi, muovendo
appena il collo bloccato dalla lunga cavalcata. « Le mie
stanze? »
Imaad mi rivolse un sorriso comprensivo, assottigliando un poco il suo
sguardo castano. Sul suo viso, non c'era traccia di giudizio o di
scherno; c'era soltanto sincera disponibilità ad aiutarmi.
« Da questa parte », rispose, scostando la tenda da
cui proveniva l’odore di incenso e precedendomi
all’interno. « Vi mostro gli appartamenti del Rafiq
».
__________________________
Note d'autore
[1]: Haif,
diminutivo del nome Haifa
(Hayfa), traduzione araba della città Caifa. Si tratta di un
porto molto antico e di un centro industriale importante per l'economia
odierna.
Un detto, in Israele, dice che "Mentre
a Gerusalemme si prega, a Caifa si lavora".
Altra precisazione: Imaad,
o Imad, significa supporto
o pilastro.
Io non dovrei essere qui.
Dovrei essere alla scrivania a studiare per l'esame di religione, e
invece.
Perciò, mi ritiro supervelocissimamente, giusto per
illudermi di poter far fuori qualche pagina in attesa del prossimo
libro da leggere.
Ringrazio chi si è fermato a leggere, chi a recensire, e chi
ha inserito la storia tra le seguite. Quattro nel giro di tre giorni.
Non ho parole ♥
Buona serata a tutti!
Un abbraccio,
Lechatvert
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Capitolo 5 *** Quarto – gole tagliate ***
modellostorieefp
Nelle
due settimane che seguirono, non riuscii quasi a chiudere occhio.
Gli incubi si susseguivano in una macabra ricorrenza e non
c’era notte in cui non mi tornasse alla mente il viso di
Kadar, il suo grido acuto dinanzi alla morte, le sue iridi spalancate
quando la spada gli aveva tagliato la gola.
Mi svegliavo madido di sudore e in preda all’ansia, sperduto
nel buio delle mie stanze e senza la reale certezza di essere al sicuro.
Spesso, mi sentivo osservato. Non sapevo di preciso dove, ma sapevo che
un paio di occhi erano puntati su di me, da qualche parte
nell’oscurità.
Ed era allora, di tanto in tanto, che partiva una lenta melodia. Poche
note messe in fila per ricreare lo stesso disegno ancora e ancora,
suonate da uno strumento a fiato dal suono simile al flauto.
Provenivano dalla finestra aperta sulle strade di Gerusalemme, eppure
mi giungevano all’orecchio così chiare da sembrare
concrete, palpabili nei disegni che la notte creava nell’aria.
Un paio di volte, fui abbastanza sicuro di scorgere la figura di Qitt
arrampicarsi sui merli del palazzo di fronte prima di appollaiarsi e
iniziare a soffiare tra le mani, accompagnando la nenia in ogni suo
colore.
Con quella musica a cullare i miei pensieri capitava che ritrovassi la
pace, che riuscissi di nuovo a prendere sonno senza che gli incubi mi
assalissero.
Lasciavo la finestra aperta e ascoltavo i passi felpati di Qitt entrare
nella mia stanza, aggirare silenziosi il mio giaciglio fino a fermarsi
– mentre quella fastidiosa sensazione di venire osservato mi
punzecchiava i polpastrelli – e riprendere a camminare verso
la tenda per sparire tra i morbidi cuscini dell’anticamera.
Passarono due settimane prima che lei potesse riprendere a gironzolare
per la Dimora con la regolarità di chi sta bene. Da quando
era stata ufficialmente dimessa dall’ospedale, aveva smesso
la veste scura con la quale aveva lasciato Masyaf e si era appropriata
della cappa grigia che il suo basso rango le imponeva.
A guardarla ora, senza marciume o cuciture addosso, aveva un aspetto un
po’ più dignitoso. Piccola di statura ma di
costituzione non troppo esile, aveva le spalle strette e un viso
tondo, con il naso schiacciato e il mento pronunciato. Occhi verdi
color dell’erba e capelli scurissimi, tagliati corti dai
medici che le avevano curato la gola e tenuti in ordine sotto al
cappuccio che portava costantemente.
Si allenava spesso, fronteggiando senza timore uomini molto
più imponenti di lei, e quasi tutti i pomeriggi veniva
spedita a farsi medicare le braccia piene di tagli.
Possedeva una tecnica molto soppesata, ma la sparizione del suo maestro
l’aveva lasciata al centro di una lacuna di movimenti che non
conosceva, sola a dover collegare i pezzi di ogni singolo scatto, di
ogni singolo passo.
Era persa come lo ero io, vagabondo senza meta tra i documenti e i
libri accatastati sugli scaffali del mio studio.
Imaad, nonostante il suo rango e la sua giovinezza, si prendeva cura di
entrambi con riguardo e cortesia. Mi indirizzava con il sorriso verso i
giusti archivi e seguiva la sua compagna in quanti più
allenamenti poteva, cercando di insegnarle le basi della difesa che in
lei mancavano. Con tranquillità, le faceva vedere come una
freccia nella spalla si poteva facilmente evitare con un movimento che
risultava assai meno doloroso dell’operazione di rimozione.
Mostrava un’infinita pazienza, sostituendo al sonno la buona
volontà di vegliare sui suoi confratelli. Fu per questo
motivo, credo, che Al Mualim lo richiamò a Masyaf molto
prima di quanto tutti gli Assassini della Dimora si aspettassero.
Il giorno della sua partenza, chino su un registro, decise di
confidarsi con me.
« Rafiq, posso chiedere la vostra opinione circa una
questione? », chiese, titubante, ma con tono speranzoso.
Io annuii.
« Parla liberamente ».
« Sono preoccupato per Haif. O meglio, non sono sicuro di
essere in grado di sostituire il suo maestro ».
Gesticolava in modo nervoso, mentre parlava, quasi non riuscisse a
tenere le mani nelle tasche della cappa.
« Lui ignorava la difesa, passando soltanto per
l’attacco. Era grande e grosso; veloce, anche, e sapeva
uccidere ancor prima che il nemico arrivasse a realizzare di essere
stato attaccato. È questo, che ha insegnato ad Haif. Lei fa
del suo meglio, ma se devo essere sincero … » Fece
una pausa, accarezzando con il dorso della mano lo spadone a due mani
che portava legato al fianco. « Se devo essere sincero non
credo sia tagliata, per un combattimento corpo a corpo. Non
così, almeno ».
Lo guardai, alzando un sopracciglio.
« Stai proponendo di designarla a soli compiti di spionaggio?
»
Imaad scosse il capo.
« Sto proponendo di insegnarle ciò che il suo
maestro non ha fatto in tempo a mostrarle. Per proteggerla. A Masyaf
è scampata, ma a quante
gole tagliate potrà sopravvivere, ancora? »
Fece una breve pausa, grattandosi il capo.
« Non sono in grado neanche di spiegarlo, Rafiq. Non sono
abbastanza esperto per pensarle un allenamento e di certo non sono
così saggio per prendermi una simile
responsabilità. Inoltre, come ben sapete, sono in partenza
per Masyaf ».
Sospirai.
Mi sarei dovuto aspettare un epilogo simile sin da quando era esordito
con quel “posso chiedere la vostra opinione”.
Respirando a fondo, chinai il capo sul mio registro, buttando le idee
alla rinfusa nel tentativo di affollare la mente quanto più
mi fosse possibile.
« Sono troppo occupato per perdere tempo dietro queste
sciocchezze. Ha quattordici anni, alla sua età noi novizi di
Masyaf eravamo già in grado di difenderci da soli
», decretai infine, sbuffando.
Imaad si sporse verso di me, battendo le mani sul tavolo di legno.
Lo spadone legato alla sua cintura ondeggiò, sbattendo
contro il bancone.
« Per favore! », esclamò Imaad, forse a
voce un po’ troppo alta. « Io stesso sarei morto, a
Masyaf! Quanti novizi, a quattordici anni, sono più bravi a
saltare sui tetti che a camminare? Non potete designarla a fare da
ladra per le strade di Gerusalemme a vita! »
Mi accigliai appena, chiudendo il registro dinanzi a me.
Iniziai a tamburellare le dita sul legno senza accorgermene, mentre con
la bocca semi aperta prendevo un lieve respiro.
« Se volessi, ne avrei la piena autorizzazione »,
sibilai, denti stretti e voce seccata.
Non avevo intenzione di perdere la mia autorevolezza di fronte a Imaad,
neanche se favorire Qitt con la mia supervisione non era poi
così ingiusto.
Vidi l’Assassino gonfiarsi, mordersi le labbra talmente forte
quasi da lacerarle.
« Al Mualim vi ha mandato qui perché non vi reputa
più adatto a fare l’Assassino, ma si sbaglia
», soffiò poi, alterato. « La
verità è che si dice siate più abile
di tutti noi messi assieme. Proprio voi, che siete intrappolato qui,
dovreste capire Haif. Non fatele quello che Al Mualim ha fatto a voi:
non tagliatele le ali così ».
Avrei potuto controbattere a tono, invece non lo feci.
Rimasi in silenzio a fissarlo in viso, spaesato, perso, completamente
senza parole dinanzi a quella dichiarazione per niente comandata
dall’ego o dall’arroganza.
Non avevo mai sentito tanta determinazione in un tono di voce e la cosa
mi lasciò smarrito in una discussione che, con il mio
silenzio, si chiuse definitivamente con la vincita di Imaad.
« Ci penserò », mormorai, quindi,
voltandomi per rimettere il registro sullo scaffale. Evitai
molto accuratamente di guardarlo negli occhi, in quegli istanti.
« Tu pensa ad andare a Masyaf ».
In fondo, non potevo che essere d’accordo con lui.
Mi prendevo giusto il permesso di dissentire su una cosa: le ali, non
era stato Al Mualim, a tagliarmele. Ero stato io stesso, nel momento in
cui avevo acconsentito ad essere sbattuto dietro una scrivania
polverosa che sapeva di incenso e menta.
__________________________
Note d'autore
Dunque, oggi è un giorno un po' così.
Fa freddo, ho finito Hannibal e 58 minuti fa Yotobi ha pubblicato un
video nel quale annuncia il suo ritiro dal magico mondo delle
recensioni dei film trash. E io amo i film trash.
Comunque sia, ho qui il mio fidanzato accoccolato sul divano e questo
mi infonde coraggio ♥
Tutta questa pappardella per dire che ho perso anche il più
piccolo schema mentale circa questa storia e che sto disperatamente
cercando di tornare su un binario quanto meno credibile (no, per ora
niente invasioni aliene, I'm
sorry).
Però, tra un turno a teatro e un'abbuffata di patatine
fritte, sto pensando a una maniera indolore di uscirne. E la
troverò. Spero.
Intanto, per chiudere queste note all'insegna del senso logico (eeeeh!)
ringrazio i lettori - eloquenti o silenziosi che siano - e anche quelli
che passano di qui. Se il contatore non è ubriaco siete
davvero tanti e non riesco a capacitarmi del perché
°v°
Sostanzialmente, comunque, vi voglio bbbbene ♥
Un saltabbraccio (?),
Lechatvert
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Capitolo 6 *** Quinto – mani tremanti ***
modellostorieefp
Senza
Imaad ad aiutarmi con i registri, il carico di lavoro si
moltiplicò così velocemente che dimenticai del
tutto la faccenda di Qitt e del suo allenamento.
La vedevo arrivare alla Dimora all’alba assieme ai suoi
compagni e crollare sui cuscini dell’anticamera non appena il
sole faceva capolino da dietro ai palazzi, ma non avevo il tempo
materiale di avvicinarla e spiegarle come stavano le cose. In
realtà, io stesso non avevo ancora affrontato la questione.
La mia decisione era rimasta ferma a quel “ci
penserò” che avevo detto prima che Imaad se ne
andasse.
Sapevo di essere ingiusto nei confronti di quella ragazza.
Lei mi portava un gran rispetto, inchinandosi profondamente ogni volta
che la incrociavo nella Dimora e, benché non avesse la
minima tempestività, portava a termine tutti degli incarichi
che le affidavo.
Due o tre volte sparì per giorni, proprio come un gatto
randagio, per poi tornare e sbucare dal nulla, con lo stomaco vuoto e
l’esigenza fisica di buttarsi sui cuscini
dell’anticamera e dormire fino al tramonto.
Una sera, dopo due giorni di assenza, arrivò con una freccia
piantata nella spalla, lasciando dietro di sé una lunga
processione di gocce di sangue.
Si sedette sul bancone con un balzo, lanciandomi un’occhiata
pensierosa mentre con il mento si indicava la parte ferita.
Io non dissi niente, osservandola da lontano.
Lei si rannicchiò, stringendosi le ginocchia sul petto, ma
non diede cenno di voler scostarsi.
Credo che, se non fossi stato io stesso a strappare la freccia dalla
carne, l’avrebbe fatto da sola un istante dopo il mio rifiuto.
Mi portai dietro di lei e strinsi la mano attorno alle piume del dardo,
tirando verso di me.
Qitt emise quel suo mugolio soffuso, dopodiché sulla tunica
apparve una vistosa chiazza rossa, assieme all’odore acre del
sangue.
« Resta qui », le dissi, allontanandomi di qualche
passo per recuperare una garza pulita.
Mi assentai solo per un istante, tempo che le fu
più che sufficiente per sfilarsi cappuccio e casacca, i
quali finirono inevitabilmente sul tavolo, sporcando parte delle
pergamene che vi avevo lasciato sopra.
Guardai la miserabile fine dei miei lavori, lasciandomi sfuggire un
sospiro esasperato.
Le curai la ferita in silenzio mentre lei dondolava avanti e indietro,
seguendo chissà quale melodia all’interno della
sua testa.
Si voltò quando ebbi finito, allungando un braccio nudo per
porgermi le quattro missive che le avevo chiesto di rubare prima che
giungessero a destinazione.
Annuii piano e la ringraziai con uno sguardo, allontanandomi con quei
fogli tra le mani per esaminarli alla luce di una candela.
Le avevo commissionato quell’incarico tre giorni prima, senza
davvero aspettarmi di vederla tornare prima di una settimana. Non erano
missive di cui mi importava poi così tanto, in fondo. Non
avevo richiesto alcuna tempestività, eppure era riuscita a
rintracciare tutti i mittenti nel giro di tre notti.
Quasi senza rendermene conto, cominciai a ripensare alle parole di
Imaad.
Forse aveva ragione, a chiedermi di fare quell’ultimo passo.
In fondo, non si trattava che di insegnarle a difendersi e poi spedirla
a Masyaf. Lì ci avrebbe pensato Al Mualim, a farla diventare
un’Assassina.
Guardai verso la libreria, scorrendo gli occhi sui titoli accatastati
sugli scaffali.
Improvvisamente, un’idea mi balenò nella mente.
Afferrai un vecchio tomo di storia e tornai da Qitt, porgendoglielo
mentre si rivestiva.
« Sai leggere e scrivere? », le chiesi.
Lei finì di sistemarsi i capelli sotto al velo, prima di
alzarsi il cappuccio sul viso, e scosse la testa con fare perplesso.
Nessuna sorpresa. Non mi aspettavo che ne fosse in grado.
« Impara. Voglio che tu sia in grado di distinguere tra loro
le lettere e di riprodurle su un foglio. Sarà più
facile comunicare, così ».
Mi guardò, spaesata, ma si affrettò a prendere in
consegna il libro e ad annuire, finendo poi con uno dei suoi profondi
inchini.
Le si leggeva la confusione negli occhi, oltre che la determinazione.
La congedai con un gesto della mano e lei scattò verso
l’anticamera, con tutta la foga di un ragazzino che corre
verso il suo giocattolo preferito.
Abbassai un istante lo sguardo sul tavolo.
« Ah! »
Mi bloccai.
Le mie dita tremanti si irrigidirono attorno ai fogli che mi ero
ritrovato tra le mani e il mio respiro si smozzò.
Conoscevo quella voce, anche se non la sentivo da qualche mese.
Mi volsi a guardare verso l’uscio e in qualche modo
intercettai Qitt scattare via dal petto contro il quale era andata a
sbattere, sparendo veloce dall’uscita sul tetto.
Ci fu un istante di silenzio e di sguardi reciproci con
l’Assassino sulla soglia.
« Salute e pace, Malik », mi disse, con voce
profonda.
Mi morsi le labbra, mentre lo stomaco si chiudeva in una morsa.
« La tua presenza mi priva di entrambe », risposi,
seccato. « Che cosa vuoi, Altaïr? »
__________________________
Note d'autore
Cominciavo a sentire la mancanza di una sana litigata nella storia.
Adesso è arrivato Altaïr
e nulla mi salverà dallo scrivere qualche insulto, seguito
magari da qualche pugno.
E non avete idea di quanto immensamente felice questa cosa mi stia
rendendo
♥
Ordunque sì, è arrivato Altaïr!
E adesso non se ne andrà (circa) più via.
Insomma, è arrivato per restare (?)
E niente, sono tipo super esagitata perché nel prossimo
capitolo ci sono pugnali avvelenati, nasi rotti e anche una buona dose
di stizza. Ed
è molto divertente scrivere tutto ciò.
Per
ora, buonanotte.
Bacioni,
Lechatvert
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Capitolo 7 *** Sesto – ago ricurvo ***
modellostorieefp
‘Un gallo canta sulla strada. Al
mercato belano le pecore. Un ubriaco cade. Rumore di spade.’
Sedevamo vicini tra i cuscini della Dimora, gambe incrociate e mento
chino sul pavimento. Mentre lei giocava a captare qualunque suono le
stuzzicasse l’orecchio, trascrivendo tutto su un foglio, io
correggevo e riscrivevo le parole, mostrandole gli errori.
Ci aveva messo tre settimane¹. Tre settimane per imparare
l’alfabeto e per scrivere abbastanza scorrevolmente, senza
incappare in errori troppo gravi.
Aveva tenuto svegli i suoi compagni a sufficienza, obbligandoli a
leggerle e rileggerle il libro che le avevo consegnato mentre lei
trascriveva ogni parola.
« Può bastare », concessi, posandole la
mano sul capo per distrarla dalla scrittura. «
D’ora in avanti, viaggia sempre con qualcosa su cui appuntare
ciò che vuoi dire. Se troverai qualcuno in grado di leggere,
non avrai problemi ».
Lei sorrise, annuendo energicamente. Aveva la mano stretta attorno alla
penna d’oca sporca d’inchiostro e fremeva ogni qual
volta le veniva in mente una nuova parola da aggiungere alla sua lista.
Di colpo, la vidi arricciare il naso, assottigliare lo sguardo e
ributtarsi sulla scrittura.
‘Torna.’
Alzai la mano dal suo capo, aprendo la bocca per chiedere spiegazioni,
ma il rumore dei passi sulla grata del soffitto mi bloccò.
Altaïr si calò dall’apertura, affondando
con gli stivali nel cumulo di cuscini a ridosso della parete.
Aveva la casacca bianca sporca di sangue e, mentre la mano sinistra era
chiusa in un pugno per stringere la piuma che io stesso gli avevo
affidato, la destra era posizionata sulla spalla, stretta attorno a uno
stiletto conficcato nella carne.
Di scatto, mi alzai e avanzai verso di lui.
« Altaïr! », lo rimproverai, ma subito mi
sporsi per aiutarlo ad adagiarsi tra i cuscini
dell’anticamera, sorreggendo il suo corpo esausto e provato
dalle ferite.
Lasciai che si accasciasse a terra, voltandomi verso l’uscio
che dava sull’interno della Dimora.
« Tienilo fermo », ordinai a Qitt, scostandomi per
andare alla ricerca di una bottiglia d’aceto.
Non attesi che lei prendesse il mio posto accanto ad Altaïr,
allontanandomi rapidamente dietro il bancone. Ero sicuro di avere del
disinfettante, da qualche parte, e avevo anche le garze avanzate dalla
medicazione di Qitt.
Veloce, passai in rassegna ogni cassetto della scrivania, mentre il
pensiero che la lama potesse essere avvelenata si faceva voracemente
strada nella mia testa.
Di colpo, un tonfo sordo mi bloccò.
« Hakeera²!
»
Tornai nell’anticamera appena in tempo per vedere Qitt volare
letteralmente dall’altra parte della stanza con il naso
grondante sangue. Tra le mani alzate in difesa, stringeva lo stiletto
che Altaïr aveva piantato nella spalla.
Lui, seduto tra i cuscini con la schiena appoggiata al muro, aveva il
braccio destro alzato ancora chiuso a pugno.
Aprì la bocca per inveire nuovamente contro Qitt, ma io fui
più veloce, portandomi alla sua sinistra con un balzo e
premendo un pugno di garze sulla ferita. Gli sfilai il cappuccio e
strappai un lembo della casacca con la mano.
« Qitt, aiutami », ordinai, senza spostare lo
sguardo dalla ferita.
Udii il suo passo incerto vagare per la stanza, poi le sue ginocchia si
piegarono accanto alle mie.
Mi voltai e le passai due dita sul naso insanguinato.
« Le hai rotto il naso », commentai, rivolgendomi
ad Altaïr.
Lui sbottò, lanciandole un’occhiata carica
d’ira.
« Mi ha strappato lo stiletto dalla spalla! »,
esclamò.
« Avevi intenzione di tenertelo conficcato nella carne ancora
per molto? », risposi, alzando un sopracciglio. «
Razza di idiota ».
Mi rinchiusi nel silenzio, esaminandogli la ferita e il colore
insolitamente violaceo della carne lacerata. Arricciando il naso, mi
ritrovai a pensare che doveva essere stata avvelenata dallo stiletto.
Vi buttai sopra dell’aceto per pulirla e disinfettarla,
lasciando a Qitt il compito di tenere a bada gli spasmi di
Altaïr che, seppur con notevole autocontrollo, non poteva fare
a meno di contorcersi per il dolore.
« Era una lama avvelenata », considerai, forse con
un tono un po’ troppo brusco.
Altaïr grugnì.
« Diagnosi brillante », rispose, sarcastico.
Alzai gli occhi al cielo e mi voltai verso Qitt.
« Vieni qui », dissi, scostandomi perché
ella potesse prendere il mio posto. « Tieni le mani strette
attorno alla ferita e succhia quanto più sangue riesci
».
Sentii Altaïr sbottare.
« Posso farlo da solo! », protestò.
Io sbuffai.
« Potevi anche evitare di farti fare a pezzi »,
controbattei. « Credevo di averti insegnato abbastanza, circa
l’essere discreti. Qitt, sbrigati. La lama era triangolare,
perciò la ferita non si richiuderà da
sola³. Dovremo ricucirlo. Mi servirà aiuto anche
per quello ».
La ragazza annuì e appoggiò le labbra sulla
ferita aperta di Altaïr, fermandosi per un istante sulla sua
pelle.
Si voltò, poi, e sputò a terra una modesta
quantità di sangue, prima di ripulirsi le labbra con aria
preoccupata.
Le feci cenno di continuare e tornai all’interno della
Dimora, stavolta alla ricerca di ago e filo.
Non stavo esattamente pensando, anzi, i ricordi di quel momento sono
tutt’oggi nebbiosi e abbastanza confusi. Tuttavia, ricordo
che la massiccia dose di preoccupazione che provai nei confronti di
Altaïr non si ripresentò mai più,
neanche quando lo seppi in lotta contro tutti gli Assassini di Masyaf.
Credo fosse colpa dell’attacco al Tempio di Salomone che
ancora abitava i miei incubi assieme a mio fratello e alterava in modo
indecifrabile l’intera sfera delle mie emozioni.
Ero così turbato, in quell’istante, che quando
tornai nell’anticamera non mi ero reso minimamente conto del
tempo che avevo trascorso alla ricerca dei miei strumenti.
« Finalmente! », mi richiamò
Altaïr, allontanando Qitt con una manata sulla fronte.
Io mi avvicinai lentamente, porgendo alla ragazza tutto ciò
che ero riuscito a trovare assieme a un fazzoletto per pulirsi il viso
sporco di sangue.
« Qitt », dissi, cercando la calma nella mia voce.
« Devi farlo tu. Sei capace di ricucire le ferite? »
Dallo sguardo di puro terrore che mi lanciò dedussi che
avrei dovuto spiegarle ogni singolo passo.
« Si comincia dal centro, con delicatezza. Una mano usa
l’ago, l’altra stringe la ferita ».
Le indicai la spalla insanguinata di Altaïr e con il dito
tracciai una linea immaginaria sopra la carne aperta.
« Non ti preoccupare; non farà male ».
Altaïr sbuffò.
« A lei no di certo! »
Qitt mi lanciò un’occhiata esitante.
Io annuii, deciso.
« Avanti ».
Alzò la mano tremante sopra la sua testa, avvicinandosi con
titubanza alla ferita. Deglutì appena, poi si
chinò su Altaïr e conficcò
l’ago ricurvo nella carne, spingendolo con flemma fino a che
la punta non apparve dall’altra parte del taglio.
« Arrotola il filo sull’indice »,
continuai, senza staccare gli occhi dal lavoro di Qitt. « Su
ogni punto devono esserci otto nodi ».
Lei annuì, cominciando ad attorcigliare il filo per poi
fissarlo sul taglio.
« Dannazione, Ragazza! Fa’ piano! »,
ruggì Altaïr, digrignando i denti sotto al dolore.
Qitt si voltò verso di me, allarmata, ma io scossi il capo.
« Continua », la incitai, calmo.
Attesi che concluse il suo primo punto e mi congedai, camminando fino
alla fontana. Lì raccolsi dell’acqua nella
bottiglia che prima conteneva l’aceto e tornai alla mia
postazione, dove Qitt aveva già ripreso il suo lavoro.
« Lavati la bocca », le dissi, porgendole la
bottiglia. « Non vorrei dover curare un altro avvelenamento
».
Lei finì più o meno velocemente di ricucire la
ferita, dopodiché raccolse il fiasco da terra e si
risciacquò la gola, riversando a terra la saliva sporca di
sangue.
« Hai altre ferite? », chiesi ad Altaïr,
assottigliando lo sguardo alla ricerca di qualche altro buco da
suturare.
Lui schioccò la lingua, massaggiandosi il braccio.
« Sì, ma per oggi mi hai fatto rattoppare
abbastanza », rispose, sbuffando. «
Perciò, grazie tante dell’apprensione ma no,
fa’ conto che stia bene ».
Sospirai.
« Come vuoi. Suppongo che una ferita infetta non sia un
problema, per te ».
« Supponi bene ».
« D’accordo, un novizio morto di febbre in
più non sarà certo la rovina
dell’Ordine ».
Mi voltai stizzito, alzandomi con tutta l’intenzione di non
tornare più nell’anticamera fino a che
Altaïr non se ne fosse andato.
Di tutta la mia precedente preoccupazione, non era rimasta traccia.
« Qitt! », chiamai, secco, prima di sparire dietro
il bancone.
Non arrivai a finire di pronunciare il suo nome che la trovai
appollaiata sulla scrivania dell’ufficio con gli occhi verdi
spalancati per il mio tono adirato.
Mi costrinsi ad abbassare la voce, sebbene fossi tutt’altro
che rilassato.
« Prima di partire, Imaad mi ha chiesto di insegnarti
qualcosa di utile », la informai, sbuffando. «
Voglio che impari ad eseguire medicazioni di base, come quella che hai
fatto ad Altaïr ».
Lei si sporse in avanti con fare perplesso, ondeggiando lievemente e
lasciando che una ciocca di capelli scuri le sfuggisse da sotto al
cappuccio.
‘Cosa vuoi che
faccia?’, mi chiesero i suoi occhi, tanto
brillanti quanto oscurati dall’ombra della preoccupazione.
« Va’ di là e convincilo a farsi
sistemare il resto delle ferite », imposi.
Mi sentivo un po’ in colpa perché sapevo quanto
potesse essere dura avere a che fare con Altaïr per la prima
volta. E peggio di un Altaïr di cattivo umore a causa di una
missione c’era soltanto un Altaïr nervoso per aver
litigato con me.
Alla prima esperienza di Qitt toccavano entrambi e qualcosa mi lasciava
presagire che entro sera quel naso rotto che cominciava a sanguinare di
nuovo sarebbe stato l’ultimo dei suoi problemi.
Ciononostante, la designai ugualmente a quel compito ingrato.
Non poteva sperare in un addestramento migliore: curare le ferite di
Altaïr era spesso e volentieri più difficile che
sopravvivere a una battaglia, cosa in cui lei aveva già
esperienza.
__________________________
Note d'autore
[1] Imparare a leggere e scrivere in tre settimane: in principio, mi
sembrava un tempo strabiliante (io ero una bambina pigra e ci ho messo
il doppio dei miei compagni di classe ehm ehm). Poi ho fatto delle
ricerche e ho scoperto che normalmente, a riconoscere le lettere
dell'alfabeto, una persona normale non ci mette più di
quindici giorni. Morale della favola: Qitt è pure lenta
e io sono una culona pigra.
[2] Hakeera:
secondo fonti
non confermate (google aehm aehm) vorrebbe dire bastarda. All'inizio
l'avevo scritto come un italianissimo 'puttana', ma mi pareva troppo
rude. Ergo, mi sono paraculata con un termine straniero che, per quanto
ne so, potrebbe anche significare unicorno rosa. ♥
[3] La lama triangolare:
tecnicamente sarebbe una lama piramidale,
ma mi sapeva di termine tecnico e in un racconto in prima persona
suonava maluccio. Per chi se ne intende lo stiletto in questione
è il
seguente.
Utilizzato in epoca medievale/rinascimentale ma anche durante la prima
guerra mondiale, la lama non era piatta per impedire una medicazione da
campo. Per fermare la perdita di sangue, infatti, occorre una grande
quantità di punti che in battaglia non c'era il tempo di
fare.
[non ho messo il numero
perché non sapevo dove metterlo]:
per quanto riguarda tutto l'amplesso di medicazioni più o
meno
casalinghe, mi sono rifatta a mio padre e la sua maniera di curare il
morso di vipera quando va per boschi (con un coltello si apre per bene
la ferita e poi si succhia via il sangue infetto fino a che ne viene
fuori) e a questo
video sui punti di sutura.
Rispetto al video ho utilizzato una tecnica un po' più
grossolana, principalmente per i tempi che correvano. Dubito che nel
1190 avessero delle forbici-pinze apposite o che partissero dalla cute
più profonda per evitare un'infezione batterica, ma potrei
anche
sbagliarmi. ò__o
Concludo il tutto con il naso rotto. Facendo delle ricerche, mi sono
sorpresa di quanto facile sia rompere l'ossicino del naso a una persona
molto più bassa. Non serve neanche il pugno, basta una
manata sufficientemente forte e ... bé, crack. Tutto
ciò per dire che all'inizio il naso di Qitt voleva essere
soltanto fratturato ma, vista la stazza (?) di Altaïr
e la sua forza fisica ... crack
di nuovo.
Per quanto riguarda il resto ... mi scuso per il capitolo e le note
così terribilmente lunghi e logorroici. Anche se credo si
sposino bene (?)
State freschi: il prossimo sarà ancora più lungo,
ma cercherò di trattenermi sulle note.
Promesso ♥
Tanti abbracci,
Lechatvert
|
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Capitolo 8 *** Settimo – il beneficio del dubbio ***
modellostorieefp
Arrivò
la fine di agosto che neanche me ne accorsi.
Trafficavo talmente freneticamente con i documenti e le mappe della
Dimora che persi totalmente la cognizione del tempo e quegli otto mesi
di reclusione dietro al bancone volarono via tra incubi, rari e
sgradevoli incontri con Altaïr e un mare di scartoffie da
tenere a bada.
Nelle ultime settimane, due erano le cose a rendermi particolarmente
fiero della mia posizione: l’aver riorganizzato
l’ospedale della Dimora e il fatto che, durante una lite
scoppiata all’ora di cena, Qitt era stata in grado di evitare
un pugno in faccia da un suo compagno più grande. A pensarci
era ben poca cosa, ma rendeva me incredibilmente orgoglioso e lei
assurdamente esaltata.
Aveva compiuto quindici anni a luglio e, dopo la sua serata di agguati
ad Altaïr per obbligarlo a farsi rimettere in sesto, si era
avvicinata a me ogni giorno di più.
Quella mattina, sedeva a gambe incrociate sul bancone della Dimora. Ago
e filo abbandonati in grembo assieme a un coniglio spellato che si
divertiva a tagliuzzare e ricucire, alternava la sua pratica a una
lenta melodia con il suo strumento stretto tra le mani.
Si trattava di un piccolo vaso di terracotta a forma di goccia, dotato
in cima di un becco tramite cui l’aria veniva soffiata
all’interno per poi fuoriuscire dai quattro fori che aveva
alla base. Coprendo un foro piuttosto che un altro, si avvertiva una
lieve variazione nella luminosità del tono.
A suonarlo, Qitt era davvero brava. Credo fosse per questo, che le
permettevo di accompagnarmi nel mio lavoro con qualcosa che non fosse
il più rigoroso dei silenzi.
Ad ogni modo, quella aveva tutta l’aria di essere una
mattinata calda e tediosa, rallegrata dal mero fatto che la maggior
parte degli Assassini era in missione e non poteva quindi portarmi
problemi. Per le strade non c’era molto movimento, dopotutto
non era giorno di mercato, e io ne approfittavo per riordinare i
registri che ancora non erano passati sotto la mia supervisione.
Qitt era, appunto, impegnata ad alternare il suo lavoro sul coniglio a
qualche minuto di ozio in compagnia della sua ocarina¹,
così non mi allarmai quando interruppe la sua melodia,
posando lo strumento a terra.
Mi allarmai invece, quando la sentii scattare verso
l’anticamera in un frusciare di abiti così rapido
da alzare un plico di documenti.
« Salute e pace! », salutò una voce
gioviale all’esterno della Dimora. « Haif, che bello
ritrovarti! Ascoltami, il Rafiq è qui? Devo vederlo
».
Non passò un istante che Imaad fece il suo ingresso nella
stanza, trascinandosi dietro Qitt per un lembo della cappa.
Mi sorpresi di come fosse cresciuto, in quei mesi di lontananza. Non
solo si era fatto più alto ma, dal suo cappuccio abbassato
sulle spalle, una lieve barba copriva un mento dai lineamenti rigidi,
virili. Portava i capelli color sabbia tagliati corti e mostrava un
profilo più adulto di quando lo avevo visto partire per
Masyaf. Infine, sulla sua divisa immacolata non dondolava
più l’anonimo spadone che era solito portarsi
dietro per Gerusalemme; legata alla cinta, vi era ora una spada a due
mani di ottima fattura dall’elsa recante il simbolo della
croce cristiana.
« L’ho strappata di mano a un templare »,
spiegò, notando il mio sguardo insistente sulla sua
armatura. « Prima che morisse, mi sono preso un ricordo
».
Ridacchiò vivacemente, accarezzando il capo di Qitt.
« Rafiq, devo parlarvi », disse poi, facendosi
improvvisamente serio.
Così serio che sentii un brivido percorrermi la schiena.
Lentamente, annuii.
« E allora parla, Imaad ».
« Spero di sbagliarmi e, se così fosse, avrei
lasciato Masyaf nel cuore della notte per nulla ».
Deglutì un paio di volte, sporgendosi sul bancone per farsi
più vicino mentre abbassava notevolmente il tono di voce.
« Non sono di certo così stupido da sperare di non
essere stato notato, alla fortezza, ma c’è
qualcosa di cui credo dobbiate venire al corrente. Al Mualim ha
designato ad Altaïr il compito di uccidere Roberto di Sable
».
Io mi accigliai.
« Lo so », risposi, sorpreso. «
Altaïr è stato qui ieri sera a chiedermi il
permesso di agire ».
Non lo sapevo ancora, ma il ricordo della notte in cui lui venne a
chiedere il mio perdono per la morte di Kadar fu un la salda fune a cui
mi aggrappai per tutti gli anni successivi, quando a Masyaf ero solo e
lui era andato a fare la guerra in terre più lontane.
Imaad sospirò.
« Non è questo, il punto »,
precisò. « Da quando Altaïr è
partito, a Masyaf accadono cose strane. I fratelli fanno cose bizzarre,
ci vengono affidate missioni improbabili, in giro si vocifera
… », si interruppe, facendosi titubante.
« Si vocifera …? », incalzai io.
« Si vocifera di un certo potere donato agli Assassini. Un
potere in grado di soggiogare le menti. Sono stato fuori Masyaf per tre
notti, tempo che Altaïr partisse per Gerusalemme e al mio
ritorno trovo tutto questo mistero. Converrete che è
alquanto strano ».
« E incolpi Altaïr di tutto ciò?
»
Imaad scosse il capo.
« No, ma provate a vedere la cosa in quest’ottica:
Al Mualim si serve di Altaïr per far fuori qualche persona
scomoda alla sua figura. Dopodiché, quando arriva
all’ultima e alla più potente, teme che il suo
stesso allievo possa scoprire qualcosa di compromettente ».
Mi sciolsi in una lieve risata che più che divertita
suonò inevitabilmente nervosa.
« Tu vaneggi, Imaad ».
« D’accordo, allora immaginate che non sia Al
Mualim, a comandare l’ordine, ma una persona verso cui non
covate profonda ammirazione. Mettetevi nei suoi panni. Voi che
fareste? »
Aggrottai la fronte, rendendomi conto di come quel discorso stesse
lentamente acquisendo sempre più senso.
« Correrei ai ripari », mormorai di risposta.
Imaad schioccò la lingua.
« Esattamente », disse, alzando di nuovo la voce
nel suo usuale tono allegro. « Ora, non so voi, ma io non
dormirei sonni tranquilli, sapendo un tale individuo libero di agire
così! »
Chinai il capo sui miei documenti, prendendomi il tempo di riflettere.
Se Imaad aveva ragione, Altaïr stava per scoprire delle
verità molto più scomode di quanto io potessi
anche arrivare ad immaginare. Ammesso e non concesso che non stessimo
parlando di mere supposizioni – e su ciò avevo
molti dubbi –, metterlo tempestivamente al corrente
di tutto sarebbe stato il più grande errore della mia
esistenza.
No, era ancora troppo presto, per correre ai ripari. Meglio prenderla
con calma e agire all’insegna della discrezione. Dopotutto
non erano che impressioni, quelle di Imaad.
« Roberto di Sable si trova a Gerusalemme », dissi,
quindi, sospirando. « Immagino che un po’ di sana
ricognizione non possa che giovarvi ». Feci una pausa,
guardando prima Imaad, poi Qitt. « Andate in città
e tornate da me stasera con qualche informazione utile. E sperate che
sia soltanto un vaneggiamento ».
*
* *
Altaïr giunse alla Dimora poco prima del tramonto, precedendo
sia Qitt che Imaad nella loro caccia alle informazioni.
Atterrò sul pavimento con un sonoro tonfo, precipitandosi
sul mio bancone senza neanche salutare.
« Era una trappola! », esclamò, battendo
i piedi a terra con fare seccato.
Io lo guardai, accigliato.
« Ho sentito che al funerale è scoppiato un
pandemonio. Che hai combinato? », risposi.
Mi spiegò brevemente del fatto che Roberto di Sable non
c’era, che l’intera faccenda non si era rivelata
che un tranello per tentare di farlo fuori.
Ingenuo da parte mia e sua, non prendere in considerazione
l’idea di un’imboscata.
« Torna da Al Mualim », gli consigliai, sospirando.
Altaïr mi guardò di sottecchi, facendosi
pensieroso. In un istante, vidi una strana scintilla passare nel suo
sguardo; la stessa che aveva Imaad quando mi parlava dei suoi dubbi.
« Non c’è tempo », rispose,
infine. « Lei mi ha detto dove sta andando, cosa ha in mente.
Se torno a Masyaf potrei essere davvero in ritardo per farlo fuori
».
Lo guardai, ondeggiando il capo.
« Lei?
»
« Sì, lei, una donna. Strano, lo so. Ne
riparleremo. Ora come ora dobbiamo preoccuparci di Roberto ».
Discutemmo a lungo, quella sera, sempre usando toni stranamente civili.
Fu il primo vero scambio di opinioni che, dopo molto tempo, non
terminò con una lite o un pugno in faccia.
Cercai di convincere Altaïr a fare ritorno a Masyaf ma fu
praticamente inutile: una volta che aveva deciso qualcosa, era
impossibile smuoverlo o quantomeno farlo ragionare. In questo,
purtroppo, non era cambiato affatto.
Ci accordammo sul suo inseguire Roberto ad Arsuf e il mio cercare
risposte per le vie di Gerusalemme.
Non lo misi al corrente dei sospetti di Imaad, ancora troppo flebili
per essere considerati concreti, e lo congedai strappandogli la
promessa di essere prudente.
Imaad e Qitt rientrarono che la notte era già calata da un
pezzo, entrambi soddisfatti del loro operato. Mi stupii di non vederli
arrivare grondanti di sangue o con qualche arto spezzato, ma a quanto
pare erano riusciti a muoversi per le vie senza attirare troppo
l’attenzione.
« Roberto di Sable ha in mente qualcosa »,
esordì Imaad, appoggiandosi al bancone. « E che
Allah mi prenda se non è qualcosa che ci farà
sputare sangue! »
Gli rivolsi un’occhiata accigliata, osservandolo mentre
tirava su col naso.
« Salute e pace », lo salutai, sospirando.
« Presto ci mancheranno entrambe », rispose lui.
« Ho cambiato città, ma le voci restano sempre
quelle. C’è qualcosa sotto; questo è
poco ma sicuro! »
« E che c’entra Roberto di Sable? »
« Bé, stando alle voci, possiede un potere del
tutto identico a quello che imputano agli Assassini ».
Rimasi un istante in silenzio, mostrandomi pensieroso.
« Siamo da capo, Imaad », sbuffai infine.
« Voci erano, voci sono rimaste ».
Guardai Qitt.
Aveva sulle labbra una smorfia strana, un misto di trionfo e titubanza,
tuttavia non mascherava un cerco nervosismo, stringendo le dita sul
bordo del bancone di legno.
Mi scoccò un’occhiata saccente, forse un
po’ troppo presuntuosa per quella che era la sua solita
espressione pacata e la cosa mi stranì parecchio.
« Tu cos’hai da dire? », la interpellai,
alzando appena il mento.
Lei alzò le spalle, recuperò penna e calamaio dal
tavolo e usò uno dei miei documenti come quaderno. Non feci
in tempo a strapparle il foglio dalle mani, poiché si
scostò tanto rapidamente che quasi non me ne accorsi.
Scribacchiò qualche parola, dopodiché
appoggiò la sua opera sul bancone.
« Questo non me lo avevi detto! », si
lamentò Imaad, subito zittito da una mia occhiata.
Presi il foglio e lo voltai verso di me, chiudendomi nella lettura.
Nominava il tempio di Salomone, le rovine, una certa
quantità di artefatti dimenticata dai Templari che avevano
usato i sotterranei come rifugio per la notte.
Istintivamente, chiusi la mano in un pugno.
« Sei certa di quello che hai sentito? », chiesi,
atono.
Qitt annuì.
Se quello era vero, potevamo trovare risposta alle domande che parevano
affliggere Imaad come Altaïr.
« D’accordo, si può fare ».
Imaad sorrise e alzò Qitt per il cappuccio, scoprendole i
capelli mori.
« Ci andiamo subito! », decretò,
allegro. « E state pur certo, caro Rafiq, che saremo di
ritorno entro domattina! »
Li vidi allontanarsi a piccoli balzi verso l’anticamera, ma
attesi che furono sulla soglia per fermarli.
« Non hai capito, Imaad », dissi con voce profonda,
facendolo sobbalzare. « Quando ho detto che era fattibile,
non intendevo mandarvi da soli ».
Imaad mi lanciò un’occhiata spaesata, scrollando
le spalle.
« Chi viene con noi? »
Gli rivolsi un sorriso divertito.
« Io ».
__________________________
Note d'autore
Punto primo:
guardate che carino Altaïr che balla
:3
Punto secondo:
io sono una persona fondamentalmente pigra. Ho controllato oggi la
lista di chi mi ha messa tra gli autori preferiti dopo ... mesi?
Quindi, se mi avete aggiunta nell'ultimo secolo e vi ringrazio solo
ora: mi dispiace. Vorrei, vorrei, vorrei essere più svelta
ma mi hanno fatta così.
Ci tengo comunque a ringraziarvi tantissimo. E' una cosa che mi rende
immensamente felice e onorata, sul serio. Non ho parole. Grazie.
[1] L'ocarina.
Parliamone. No, seriamente. PARLIAMONE.
Io ho fatto delle ricerce, certa che "uno strumento del genere
probabilmente è stato creato prima dell'uomo! E' talmente
semplice!". E invece no.
L'ocarina, dice Wikipedia, fu inventata nel 18esimo secolo. A
parte il fatto che stento a crederci (questa cosa mi sta prendendo a
mazzate un mito)
chiudiamo tutta questa imbarazzante parentesi con un bel timbro "Licenza d'autore magra ma carina".
Ad ogni modo, l'ocarina a forma di goccia è questa qui (la prima che viene
suonata nel video).
Okay, spazio da commento personale. Come lo riempio? *crisi
E' tornato Imaad (ノ
◕ヮ◕)ノ
Ora ho un nuovo baldo giovane da torturare trattare
con cura, grazia e
tanto amòre
♥
Nel
prossimo capitolo si va in trasferta (?) al Tempio di
Salomone, dove ci sarà un attacco.
E,
grande annuncio, ho messo insieme una scatella per la
fanfiction!
*esulta. Per cui, come qualcuno avrà di certo notato (io non
lo
avrei notato ehm ehm), ho inserito Sef tra i personaggi (ノ
◕ヮ◕)ノ
Che
comunque ha tempo per arrivare, visto il contesto dove si svolge ora la
fanfiction.
*fugge
Biscotti,
Lechatvert
|
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Capitolo 9 *** Ottavo – l'attacco ***
modellostorieefp
Il
sonoro starnuto di Imaad ruppe il silenzio del tempio, mentre il suono
si propagava per il corridoio di terra.
Mi voltai a guardarlo, seccato, mentre lui si asciugava il naso nella
manica immacolata della cappa.
« Sono allergico alla polvere », si
giustificò ed in effetti dovetti ammettere di vederlo
piuttosto rosso in viso.
Camminammo in silenzio per una manciata di minuti, in una processione
che mi vedeva come apri fila e che ricordava con crudele umorismo
quella di otto mesi prima, quando Kadar era morto.
Qitt procedeva con passo felpato alle mie spalle, affondando
leggermente nel pavimento di sabbia umida, mentre Imaad chiudeva la
fila senza la minima discrezione, sciolto nei suoi movimenti pesanti.
« Fa’ piano, maledizione », mormorai,
illuminandogli il volto con la lanterna che stringevo in mano.
Lui alzò le spalle.
« Rafiq, questo luogo non vede anima viva da almeno sei mesi
», rispose, sorridendo. « Non
c’è bisogno di essere ombre! »
Gli lanciai un’occhiata carica di rimprovero e lui
soffocò a stento una risatina, superandomi con un balzo per
aggrapparsi alla scala di legno che avevamo davanti.
« D’accordo, d’accordo. Le mie scuse
», disse, sottovoce. « Vado in ricognizione
».
Mi aggrappai alla scala e mi lasciai aiutare da Qitt per salire fino al
piano superiore, dove l’entrata alta del tempio, coronata da
due colonne, ci si presentò di fronte in tutta la sua
imponenza.
« È uguale all’ultima volta »,
mormorai.
Camminai verso Imaad e superai la porta, trovandomi sulla stessa
torretta da cui, otto mesi prima, spiavo Roberto di Sable assieme ad
Altaïr e Kadar. Trovai assurdo quanto tutto fosse rimasto
esattamente lo stesso, senza cadere vittima del tempo e delle
intemperie.
« Laggiù! », esclamò Imaad,
in piedi sui merli della torretta.
Seguii il suo dito puntato contro la camera sottostante e mi ritrovai
ad osservare un tavolo di legno a ridosso del muro su cui erano stati
abbandonati interi plichi di fogli.
Sospirando, mi portai avanti.
« Qitt, con me », ordinai, muovendomi verso la
scala. « Imaad, tu resta qui e fa’ da vedetta
».
Sentii l’Assassino ridere e subito dopo la sicura della
balestra che portava sulla schiena scattò in un rumore secco
che rimbombò per tutta la camera.
« Cerchiamo ciò di cui abbiamo bisogno e torniamo
a Gerusalemme », sentenziai, prima di calarmi dalla scala.
Qitt mi superò con un balzo, atterrando a piedi pari sul
livello intermedio prima di spiccare un ultimo salto che la
portò praticamente dinanzi al tavolo.
La raggiunsi senza fretta e presi a passare in rassegna il primo plico
di carte.
Niente di esorbitante, in realtà. Lettere ingiallite dal
tempo, vecchi archivi, una lista di parole in arabo con la
corrispettiva traduzione in francese …
Il tonfo della scala che sbatté contro il pavimento mi
immobilizzò.
Levai lo sguardo verso Qitt, la quale mi tranquillizzò con
una scrollata di spalle, e mi costrinsi a lanciare
un’occhiata a Imaad.
Sulla torretta, l’Assassino aveva ancora la gamba alzata sul
vuoto dove poco prima c’era il pezzo di legno che
aveva spinto a terra.
Buttai i fogli sul tavolo, sbottando.
« Imaad, se proprio ci tieni ad attirare qui i Templari
possiamo anche metterci comodi con dei falafel¹ »,
lo rimproverai.
Lui piagnucolò delle scuse, tornando a fare avanti e
indietro sulla sua postazione.
Mi scostai dal tavolo e mossi un paio di passi verso il centro della
sala.
Quella scala caduta, proprio come il giorno in cui avevo perso il mio
unico fratello …
Superai velocemente Qitt e il mio sguardo cadde inevitabilmente
sull’entrata principale e sui macigni che la bloccavano.
Addosso a quei sassi, a gennaio, avevo visto un uomo tagliare la gola a
Kadar.
Non potei in alcun modo rendermene conto, ma piombai in uno stato di
incoscienza popolato dai fantasmi di quel giorno. Improvvisamente,
intorno a me non c’erano più Qitt e Imaad, ma
Altaïr e Kadar, entrambi avvolti nelle loro vesti bianche da
Assassini, con la spada puntata contro i templari come i più
fieri dei combattenti.
Sbattei le palpebre e vidi Altaïr scomparire,
dopodiché una lama trafisse il petto di Kadar e un pugnale
gli aprì la gola, sporcando la sabbia di sangue mentre il
suo corpo rotolava a terra in un suono di sommesso dolore.
Caddi in ginocchio, affondando le dita nei capelli.
Non sono sicuro se la mia bocca liberò qualche suono o meno,
ma ricordo la voce profonda di Imaad gridare il nome di Qitt, mentre il
rumore di due lame che si scontravano riempiva la sala con il suo eco.
« Gli stronzi ci attaccano! », urlò ad
un tratto e, non so come, me lo ritrovai accanto con una spada in una
mano e la balestra nell’altra. « Haif! »
Scattò in avanti e lanciò la spada a Qitt, la
quale non esitò ad afferrarla, piantandola immediatamente
nel petto dell’uomo che provò invano a colpirla.
« Rafiq! », si voltò verso di me,
lanciandomi un’occhiata decisa. « Ordini?
»
Allungò il braccio a destra e la sua freccia
trapassò di netto la gola di un templare.
Guardai lui, poi mi voltai a controllare quanti nemici erano rimasti da
eliminare.
In tutto, erano cinque.
Imponendomi di riprendermi, mi tirai in piedi e sguainai a mia volta la
spada.
« Qitt, alla mia sinistra. Coprimi le spalle »,
dissi, buttandomi in un affondo. « Imaad, trova una via
d’uscita. Facci arrivare a Gerusalemme vivi ».
Vidi la balestra sparire dalle mani dell’Assassino che se la
ricaricò sulla schiena, sostituendola immediatamente con la
spada a due mani che, fino a quel momento, non gli avevo mai visto
usare.
Nello stesso tempo che io e Qitt impiegammo a uccidere un templare, lui
ne fece fuori due con altrettanti colpi, studiati e talmente precisi
che non sporcarono nemmeno la lama di sangue.
Tre erano andati e, mentre io mi occupavo del quarto, Qitt venne
attaccata dall’ultimo.
Non riuscii a dare esattamente una dinamica ai fatti; la vidi perdere
di poco l’equilibrio quando tentò di schivare il
primo fendente che le tagliò la cappa, poi
ondeggiò piano sulle punte dei piedi e spiccò un
balzo verso l’alto usando le pietre accatastate addosso al
muro per darsi lo slancio. Atterrò conficcando la spada
nella spina dorsale dell’uomo e cadde in avanti, ruzzolando
ai miei piedi.
Stavo per rimproverarle l’esibizionismo quando la voce
squillante di Imaad richiamò la mia attenzione.
« Di qua! », gridò, saltando sulla
torretta da dove ci eravamo lanciati.
Aveva rimesso in piedi la scala e ci indicava il corridoio con la lama
della spada tenuta appoggiata sulla spalla sinistra.
Rapidi, sia io che Qitt lo raggiungemmo, lasciando poi cadere la scala.
Ci accorgemmo in ritardo di un altro plotone di guardie in arrivo dal
corridoio che avevamo percorso e fummo costretti a ripiegare da
un’uscita di fortuna in superficie, saltando
dall’altra parte della sala tramite un grosso lampadario
appeso al soffitto.
Andai per primo, immediatamente seguito da Imaad.
Qitt si riservò lo sfizio di infilare la spada nella gola di
un ultimo nemico, prima di balzare verso di noi con un salto troppo
debole per la distanza da compiere.
Per un istante la vidi cadere nel vuoto.
« Haif! No! »
Buttandomi addosso la spada, Imaad sfidò letteralmente la
gravità. Si sporse pericolosamente sul vuoto della sala,
appena in tempo per afferrare il cappuccio di Qitt e stringerla a
sé, al sicuro contro il muro.
Le premette la testa contro il suo petto, respirando a fondo.
« Per Allah », sussurrò, chiudendo gli
occhi. « La prossima volta ti lascio cadere ».
Lei alzò il capo verso il suo viso e per un istante rimasero
in silenzio a guardarsi. Erano talmente vicini che con il fiato
facevano ondeggiare i baveri dei reciproci cappucci.
Qitt si scostò con uno sbuffo scocciato, riprendendo la
salita fino alla superficie e Imaad, rosso fino alla punta delle
orecchie, la seguì dopo un istante, assicurandosi di buttare
a terra il lampadario con un colpo di balestra.
Si fermò poi al mio fianco, porgendomi un taccuino di pelle
dall’aria trasandata.
« Ho trovato questo », mi disse, con le guance
ancora vivacemente tinte dall’imbarazzo. « Era
assieme alle altre cartacce ».
Recuperò la spada finita a terra e uscì
dall’apertura sul tetto, così mi affrettai a
seguirlo.
Fuori, era già sorto il sole.
Ci buttammo in una corsa silenziosa verso i nostri cavalli,
accuratamente legati a una colonna in bella vista.
« Muoviamoci e torniamo a Gerusalemme », imposi,
slegando le briglie. « Ed evitiamo altri scontri ».
Montammo in sella e ci avviammo verso la città senza
aggiungere un’altra parola al discorso.
Prima di mezzogiorno, eravamo già seduti attorno al bancone
della dimora, immersi nella lettura del taccuino che Imaad aveva
trovato.
__________________________
Note d'autore
[1] Falafel:
credo siano un cibo abbastanza conosciuto anche in Italia, ma se
qualcuno dovesse ignorarne l'esistenza, vi basti sapere che sono delle
polpettine fritte di ceci di origine egiziana.
L'attacco, l'attacco!
Mi sono divertita a scriverlo. Mi
sono divertita tantissimo.
Stavolta, ho deciso di non essere logorroica (no, sono solo in ritardo
e devo uscire sotto pesante minaccia), quindi ... saluto brevemente
chiunque passi di qui, chi ha voglia di recensire, chi segue, chi
legge, chi mangia i biscotti, chi si stampa questa storia e la usa come
carta igienica ♥
Siete sempre tantissimi e io non ho parole. Davvero.
Grazie a tutti!
Falafel,
Lechatvert
|
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Capitolo 10 *** Nono – teste mozzate ***
modellostorieefp
Uscii
nell’anticamera per destarli a pomeriggio inoltrato,
trovandoli svegli, schiena contro schiena, immersi nella lettura di un
plico di documenti raccolto al Tempio. O meglio, trovai Qitt immersa nella
lettura. Imaad commentava la sua apprensione specchiandosi nella lama
lucente della sua spada e aggiustandosi la pettinatura con la mano.
Gli lanciai un’occhiata perplessa e lui si
affrettò a ricomporsi.
« Andiamo a Masyaf », spiegai, quando lo vidi
sufficientemente attento per elaborare l’informazione.
Qitt spalancò i suoi occhioni verdi in
un’espressione di gioia, mentre Imaad si limitò a
lanciarmi uno sbadiglio.
« Masyaf? », chiese, arricciando il naso.
« Che diavolo ci andiamo a fare, a Masyaf? »
« Il taccuino che hai trovato al tempio », risposi,
pacato. « È il diario di Roberto di Sable. Ha
scritto a chiare lettere e in più punti di essere in accordi
con Al Mualim; tutto ciò è più che
sufficiente. Perciò, andiamo a Masyaf ».
Imaad scattò a sedere, coprendosi la pancia con un cuscino.
Scambiò un’occhiata con Qitt, già in
piedi, e tornò a guardarmi in viso.
« Roberto di Sable è in combutta con Al Mualim e
noi andiamo a Masyaf? Noi
tre andiamo a Masyaf? »
Piegò il capo di lato, perplesso, e in un istante afferrai
il suo pensiero.
‘Roberto di
Sable è in combutta con Al Mualim e noi, una ragazzina, un
monco e un Assassino, andiamo a Masyaf? Da soli?’
Sospirai.
« Ho già raccolto gli uomini », risposi
perciò, rassicurandolo. « E ho previsto una tappa
ad Acri. Una volta lì, chiederemo al Rafiq locale di
aiutarci ».
Imaad parve rincuorato, ma non mancò di farsi sospettoso.
« Avete preso in considerazione l’idea che possa
essere una trappola, vero? Voglio dire, Roberto di Sable non mi pare
affatto stupido ».
Mi fermai a pensare per un istante.
L’avevo presa in considerazione, quell’evenienza?
Non molto, in realtà. Se l’idea di Imaad mi aveva
destato dei sospetti minimi, quella di Altaïr non aveva fatto
che alimentarli, tanto che al tempio avevo dato per scontato di essere
incappato in un complotto.
Mi incupii per un istante.
Mi restava da capire se valeva davvero la pena di fidarsi del senso di
Altaïr.
« L’ho considerata », risposi, alla fine,
gonfiando il petto. « Ma stiamo agendo per il bene
dell’Ordine. Saremo di certo giustificati nel caso in cui
tutto ciò si riveli essere una trappola ».
Imaad scoppiò a ridere.
« In questo caso, sono con voi! »,
esclamò.
Lo guardai a lungo, mostrando un mezzo sorriso.
« Non hai altra scelta, mi pare ».
« Non controbatto! »
Si tirò in piedi e andò alla fontana a
rinfrescarsi il viso, facendo l’occhiolino a Qitt con fare
ammiccante.
La vidi sorridere con aria divertita, prima che anche lei sparisse
dietro i suoi affari con una profonda riverenza di saluto.
*
* *
Il viaggio per Gerusalemme durò tre giorni e mi
aiutò a capire quanto antiche e forti fossero le radici che
gli Assassini avevano tessuto durante i secoli su tutto il territorio.
Non trovammo alleati soltanto ad Acri, ma in ogni singolo paese in cui
ci fermammo. Ovunque, infiltrati tra la gente, nascosti nei boschi,
c’erano uomini pronti a darci manforte. E, più ci
avvicinavamo a Masyaf, più frequenti divenivano le voci
circa Al Mualim e il suo potere.
Arrivammo nei pressi della fortezza che l’alba doveva ancora
sbucare dalle montagne. Il paese era freddo, spoglio e insolitamente
libero dalla folla che ricordavo popolare le sue strade, tanto che mi
stupii di quanto spaziose fossero quelle strade che avevo sempre visto
affollate e strette.
Appena dentro le mura, ordinai ai miei uomini di spargersi per Masyaf
senza dare nell’occhio e partii alla volta della fortezza,
portandomi dietro soltanto Imaad, Qitt e il Rafiq di Acri.
« Cerchiamo di agire con discrezione », mi
raccomandai, smontando da cavallo una volta arrivati nei pressi
dell’ingresso. « Ricordatevi che non possiamo
sapere chi sia colpevole e chi meno. Non uccideremo i nostri fratelli,
perciò evitiamo gli scontri ».
Dopotutto, eravamo riusciti ad entrare a Masyaf senza doverci
confrontare con nessuno. Continuare così non sembrava
affatto un brutto piano.
Imaad sbuffò, affondando il viso nel cappuccio che gli
copriva parte del mento.
« Possiamo anche offrire loro del tè, magari
tirando fuori quei famosi falafel di cui si parlava al tempio?
», mi schernì, facendomi l’occhiolino.
Era una presa in giro fatta e finita, ma non aveva un tono pesante o
irrisorio, anzi. Parevano le parole di una normale battuta tra amici.
Lo guardai, sospirando divertito.
« Come vuoi, Imaad », gli risposi. « Ma
vedi di tenerti la testa attaccata al collo ».
Silenziosi, ci appostammo sopra il promontorio che si apriva di fianco
alla fortezza. Non sapevo bene cosa cercare, ma di certo non mi
aspettavo di trovare Altaïr impegnato in una lotta con i
nostri confratelli. L’idea di trovarlo a Masyaf mi era
balzata in testa molte volte, durante il viaggio, ma non ci avevo
contato troppo. Invece, facemmo giusto in tempo ad affacciarci sulla
valle che una decina di Assassini lo attaccarono insieme, scavalcando
abilmente i cadaveri dei loro compagni.
Uno di loro, più forzuto degli altri, arrivò ad
alzarlo per la collottola, puntandogli la lama celata alla gola.
Mi balenò nella mente l’idea di buttarmi nella
lotta e dargli man forte, ma non fu necessario. Una delle frecce di
Imaad arrivò dritta nella schiena dell’Assassino
che minacciava Altaïr, facendolo cadere a terra senza vita.
Mi voltai verso i miei compagni, fulminando Imaad con lo sguardo.
« Mi è scappata! », si
giustificò lui, sorridendo sornione.
Non mi fermai a ribattere, riconoscendogli se non altro il merito di
aver salvato un compagno, e mi sporsi sull’altura, agitando
il braccio.
« Altaïr, quassù! », esclamai,
attirando la sua attenzione.
Lo vidi sorridermi con riconoscenza, dopodiché ci raggiunse
sull’altopiano con un balzo.
« Tempismo perfetto », si congratulò,
sarcastico.
« Dici bene ».
« Al Mualim ci ha traditi », mi ammonì,
piegandosi sulle ginocchia.
Io annuii.
« Sappiamo tutto. Dal suo tradimento verso gli Assassini,
fino a quello verso i Templari ».
Gli spiegai brevemente dello scontro al Tempio, del diario di Roberto
di Sable, del nostro chiamare a raccolta le forze di Gerusalemme e di
Acri e, infine, delle nostre intenzioni di tenere occupati gli
Assassini sotto il potere di Al Mualim.
« Ci rivedremo una volta che il Maestro sarà morto
», dissi infine, posando la mano sull’elsa della
spada.
Altaïr annuì, anche se non pareva troppo convinto
della cosa.
Strinse la sua mano nella mia¹, sorridendomi appena.
« Sicurezza e pace, amico mio », mi disse,
sottovoce.
« La tua presenza qui, fratello,
ci garantirà entrambe ».
Ci guardammo negli occhi per un lungo istante, dopodiché lui
si voltò e spiccò un balzo verso la fortezza,
sparendo dietro le alte mura di quella che una volta entrambi avevamo
chiamato casa.
Lo osservai allontanarsi soffocando a stento l’impulso di
seguirlo e mi voltai verso la mia piccola scorta.
« Muoviamoci », dissi, deciso. « Io e
Jabal ci muoveremo per dare il segnale a tutti gli uomini appostati
nella cittadella. Voi due, seguiteci fino alle mura ».
Imaad mostrò un largo sorriso, caricandosi la balestra in
spalla.
« Niente morti, dunque? », chiese.
Io scossi il capo.
« Finché vi sarà possibile, limitatevi
al difendervi ».
Dopo otto mesi passati dietro una scrivania, arrivare a battermi per
due volte nel giro di una settimana mi pareva quasi un’utopia.
Ero nato con la spada in mano; quel periodo di atroce astinenza era
passato veloce e più o meno indolore, ma ora mi gravava
tutto sulle spalle, come se la lama che avevo respinto fino ad allora
volesse farmela pagare per averle fatto prendere polvere.
Mi sorpresi, però, di essere ancora abile nel combattimento.
Senza difficoltà, schivavo e paravo gli attacchi di tre
uomini diversi riuscendo, nello stesso momento, a bloccarne almeno uno
con una ferita che non sarebbe stata letale.
Sentivo la mancanza della lama celata sul mio polso sinistro, ma non ci
davo peso, concentrandomi solo sulla spada che impugnavo come quando io
e Altaïr andavamo in missione assieme al nostro Maestro.
Un affondo mi sfiorò il naso, tagliandolo appena, e io mi
buttai di lato ruotando su un piede. Con un saltello mi portai alle
spalle del mio assalitore e lo colpii nella schiena con
l’elsa della spada, facendolo ruzzolare a terra.
Non persi un istante e attaccai due ragazzi di fronte a me, schivando i
loro attacchi acerbi e ferendoli in successione con un colpo alla
spalla.
Dovette essere un’azione parecchio teatrale, quella,
poiché, quando mi fermai, notai Qitt ferma a pochi passi da
me. Mi fissava, impietrita, con un’espressione indecifrabile
sul viso e la spada abbassata.
Quando i nostri occhi si incontrarono, mosse le braccia per applaudirmi.
Non fece in tempo.
In quell’istante, un Assassino la attaccò alle
spalle, trafiggendole il petto da parte a parte.
In una muta successione di eventi, la vidi spalancare le iridi color
dell’erba, inginocchiarsi a terra con il viso già
pallido e le labbra sporche di sangue e accasciarsi sul fango, con i
capelli ancora ordinatamente raccolti sotto il cappuccio grigio.
Scattai in avanti per correre in suo aiuto, ma Imaad mi
superò con un grido acuto e la spada alzata sopra il capo.
Un attimo dopo, la testa dell’Assassino rotolava sul terreno
umido, bagnata dal sangue che sgorgava dal corpo decapitato.
Mi bloccai, aprendo la bocca per parlare.
Imaad mi zittì con un’occhiata carica
d’ira, gettando la spada addosso al cadavere e brandendo
nuovamente la balestra.
« Mantieni la calma », riuscii a dire dopo una
manciata di secondi che sembrarono ore se non giorni interi.
« Al Mualim non è ancora morto ».
Di fronte a me, una pozza rosso cremisi si allargava a ogni parola
sotto il corpo immobile di Qitt.
Mi chinai su di lei, stringendole la spalla.
Aveva ancora gli occhi aperti e fremeva leggermente, ma era viva.
Il ricordo di quel grumo di carne marcia che era arrivato
all’ospedale a gennaio mi rincuorava. Se era sopravvissuta
allora, poteva affrontare qualunque cosa.
« Ce la farà », sussurrai.
Imaad grugnì, puntando la balestra su un Assassino che si
era lanciato all’attacco e colpendolo in piena fronte.
« Lo so », ribatté, senza guardarmi in
faccia. Aveva le labbra contratte in una specie di sorriso forzato che
voleva esprimere ottimismo, ma sapevo che, dietro quella smorfia, la
sua interezza stava cadendo a pezzi. « Ci penso io, a questi
qui. Voi trovate Altaïr e dategli una mano a far fuori il
Vecchio ». Cacciò la balestra per terra, ficcando
il piede nella staffa per ricaricarla. « Fate in fretta. Da
adesso in poi, chi attacca è morto ».
Annuii e mi voltai, senza azzardarmi a protestare.
Quello sguardo che Imaad mi aveva lanciato, quello acceso dalle fiamme
della rabbia, era lo stesso con cui avevo accolto Altaïr
quando l’avevo visto entrare nella Dimora per la prima volta
dopo la morte di Kadar.
__________________________
Note d'autore
[1] Prima che la cosa vada in fraintendimenti comunque
più che ben accetti, specifico che nel mondo arabo vedere
due uomini tenersi per mano è normale. Passeggiare mano
nella mano è segno di amicizia, di fratellanza e non ha
niente a che vedere con il romantico che noi occidentali gli
attribuiamo c:
Niente, in realtà il tutto finisce con Imaad che muore con
una spada nel collo e Qitt che lo segue per dissanguamento.
Fine ♥
D'accordo, scherzi a parte tengo a dire che le cose qui stanno
degenerando. Fa talmente freddo che le dita stanno intraprendendo una
lotta di indipendenza dalle mie mani gelate. Inutile aggiungere che non
ho un paio di guanti a morire.
Ma la vita è bella.
Gamberetti,
Lechatvert
|
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Capitolo 11 *** Decimo – in battaglia le persone muoiono ***
modellostorieefp
Quel giorno, guardai l’alba crescere da dietro le montagne di
Masyaf.
Mi ero dimenticato quanto diversa fosse da Gerusalemme e,
benché
durante i miei primi allenamenti mi capitasse spesso di assistervi, ne
rimasi letteralmente affascinato.
Fu un po’ come tornare ai tempi in cui anche la sola idea di
toccare una lama mi elettrizzava, quelli in cui eravamo io e
Altaïr a duellare con le spade di legno fino a che non
cadevamo
esausti sulla sabbia del campo. Quei tempi in cui non facevamo
trent’anni in due, in cui Kadar era appena stato iniziato
all’Ordine ed era l’unica famiglia che avevo.
All’epoca, non sapevo ancora cosa fosse una battaglia. Sapevo
dai
racconti dei confratelli più anziani che in battaglia le
persone
muoiono, che ci sono feriti, sabbia negli occhi, fango sugli stivali e
sangue sulle mani.
Né io né Altaïr, a
quell’età, potevamo
immaginare di dover un giorno mettere mano alle spade per abbattere il
nostro stesso Maestro.
La cosa mi aveva lasciato scosso e immobile a osservare la Mela nelle
mani del mio compagno, senza la vera capacità di commentare
o
anche di pensare. Negli occhi, avevo soltanto l’alba sulle
montagne.
« Andiamo incontro a una guerra »,
affermò
d’un tratto Altaïr, facendo sparire la sfera dorata
in una
delle sue tasche.
Lo guardai a lungo, senza rispondere.
« Al Mualim aveva sotto di sé un gran numero di
Assassini
che gli obbedivano ciecamente », spiegò con tono
fermo.
« Colpevole o meno, i suoi seguaci vorranno giustizia.
Sarebbe da
stupidi non pensarlo ».
Mi stupii di udire quelle parole uscire dalla sua bocca.
D’un tratto, mi resi conto che l’Altaïr
con cui avevo
diviso il posto accanto al fuoco nelle missioni più fredde,
il
ragazzino che faceva a pugni anche con se stesso, era sparito. Da dove
venisse tutta quella saggezza era un mistero, ma mi compiacqui di
trovare il mio compagno così cresciuto.
Ci incamminammo assieme verso il salone della fortezza, discutendo di
un piano sensato per evitare la guerra all’interno
dell’Ordine che ci avrebbe soltanto indeboliti.
« Lascerò la Mela nella biblioteca di Al Mualim
»,
disse Altaïr, allontanandosi sullo scalone. « Tu
pensa a
raggiungere l’ospedale e a radunare i medici. Se davvero ci
sarà uno scontro, ci serviranno dei curatori ».
Improvvisamente, mi tornarono in mente Qitt e Imaad. Ce
l’avevano
fatta, a sopravvivere? E in tal caso, dove potevano essere finiti? Mi
chiesi se non fosse il caso di mandarli a cercare
sull’altopiano.
« Raduna i tuoi uomini », si raccomandò
Altaïr.
« E manda qualcuno a prendere il corpo di Al Mualim. Merita
se
non altro le sue esequie ».
Si allontanò a grandi passi e così feci io,
lasciandomi
la fortezza alle spalle per raggiungere l’ospedale che si
apriva
sul campo di allenamento.
Le infermiere, assieme ai medici e ai chirurgi, erano già
tornate al lavoro e correvano per il corridoio principale armate di
garze e aceto in un continuo frusciare di vesti.
Notai come i feriti fossero pochi, principalmente membri del gruppo che
ci aveva attaccato al nostro arrivo. Li stavano ricucendo per bene e
gran parte era già in piedi, pronta alla lotta.
Mi chiesi da che parte avessero intenzione di stare, dopo che io e
Altaïr li avevamo feriti senza il riguardo di
provare a farli
ragionare. In fondo, che pretese potevamo avanzare, nei loro confronti?
La voce di Imaad mi costrinse ad allontanare quei pensieri, rimbombando
così irata nel corridoio che scacciò ogni mia
preoccupazione circa il suo stato di salute.
Lo trovai schiena contro il muro di una stanza, bloccato sulla parete
da due Assassini più grossi, mentre l’infermiera
gli
ricuciva un taglio tanto largo da aprirgli la fronte in due.
Aveva un lembo di carne che penzolava su un occhio nero e il resto del
viso era sporco di sangue, ma a parte quella ferita non sembrava aver
riportato altri danni.
« Non ti muovere! », gli gridava
l’infermiera, mentre
lui si divincolava. « Oh, per favore, tenetelo fermo!
»
« Lasciatemi andare! », ribatteva lui, battendo i
piedi come un bambino. « Haif! Voglio vederla! »
Mi avvicinai silenzioso, mentre l’infermiera finiva di
suturare la fronte.
« I chirurgi l’hanno portata via e lo hanno
costretto a medicarsi », mi spiegò uno degli
Assassini.
« Gli stronzi faranno bene a lavorare al meglio, se non
vogliono
fare la sua stessa fine! », ruggì Imaad e si
divincolò così forte che scappò alla
presa dei
suoi compagni, muovendo un passo avanti.
Sbuffando, l’infermiera lasciò l’ago,
incrociando le braccia sul petto.
« Calmati! », esclamò, seccata.
« Se non ti
farai ricucire per bene, scommetto che resterà la
cicatrice! »
L’idea di rovinarsi il suo bel viso dovette spaventare non
poco
Imaad, il quale tornò al muro con riluttanza e cieca
obbedienza per farsi rimettere a posto quel pezzo di carne che gli
dondolava sulle sopracciglia a ogni passo.
Fu questione di un paio di minuti, tempo che la ferita venisse richiusa
con le dovute precauzioni e che l’occhio nero venisse
tamponato
con della menta per poi essere fasciato¹.
Senza risparmiarsi nessuna lamentela al trattamento ricevuto, Imaad mi
accompagnò a passo spedito dall’altra parte
dell’ospedale dove, a detta sua, i chirurgi lo avevano spinto
via
con così tanto ardore da fargli perdere
l’equilibrio.
Trovammo Qitt chiusa in una stanza assieme a tre degli uomini che
l’avevano attaccata. A loro, lei aveva rotto i polsi con un
colpo
d’elsa. Niente di più.
Vederla sdraiata e in fin di vita dinanzi ai suoi aguzzini trattati con
così tanto riguardo irritò non poco Imaad, il
quale
strinse i pugni e mi precedette, accantonando contro il muro il
chirurgo che la stava osservando.
« Quindi? », esordì, indignato.
L’uomo sospirò.
« Ha perso molto sangue e gli organi sono danneggiati
»,
rispose. « Potrebbe riprendersi come no. Per ora, lasciatela
dormire ».
Imaad
si piegò sulle ginocchia digrignando i denti.
« Razza di incompetente! Cosa diavolo vuol dire, 'lasciatela dormire'?!
»
Sentii il rumore della sua lama celata scattare e mi mossi in avanti,
afferrandolo per la manica prima che potesse alzare le mani sul medico.
« Sta’ calmo, maledizione », sibilai a
denti stretti,
affondando le dita nel suo braccio. « Vuoi far scoppiare un
altro
pandemonio? »
Imaad si scostò da me con un gesto secco, ma fece rientrare
la
lama. Forse, in mezzo a tutta quella furia, era rimasto un
po’ di
buonsenso.
« Non ho intenzione di restare qui a guardarla morire
».
« L’abbiamo ricucita come meglio potevamo
», lo
rassicurò il chirurgo. « Ma per il momento
è
difficile dire se ce la farà. Ho visto persone in condizioni
peggiori riprendersi completamente, ma non vi nascondo che potrebbe
anche non superare la notte ».
« Ha ragione », concordai io. « Quando
è
arrivata a Masyaf la prima volta, era più morta che viva
». Arricciai il naso al ricordo di quell’ammasso di
carne
marcia che agonizzava tra il vomito e il sangue sulla lastra di marmo
accanto a me. « Ma ce l’ha fatta ugualmente
».
Imaad mi scoccò un’occhiata carica di rancore.
« Vi avevo chiesto di proteggerla »,
sibilò. «
Soltanto quello. Non mi sembra un compito così difficile
».
Lo guardai a lungo, respirando appena.
« Imaad, in battaglia le persone muoiono »,
ribattei,
offeso. « Non sei il primo a perdere qualcuno di caro.
Fattene
una ragione e comincia ad accettare il fatto che potrebbe non tornare
».
Lo capivo, in fondo. Qitt si era ferita spesso, ma vedersela morire
davanti agli occhi doveva essere stato un duro colpo.
Imaad era cresciuto lontano dalla guerra, al sicuro nella Dimora di
Gerusalemme, probabilmente fuori da qualunque conflitto abbastanza
grosso. La sua città aveva visto battaglie troppo brevi per
essergli costata la vita di qualche caro e comunque lui era di certo
troppo giovane per averci combattuto.
Avevo intenzione di stargli vicino, perché sapevo bene
quanto
male facesse la solitudine che segue la morte di chi si ama.
Nessuno, da quando era morto Kadar, mi aveva parlato di lui e la cosa
mi faceva sentire terribilmente abbandonato. Era come se nessuno lo
conoscesse, se nessuno lo avesse mai incontrato. I primi mesi, la cosa
mi aveva quasi mandato fuori di testa.
A Imaad non sarebbe toccato lo stesso destino; non lo avrei permesso.
« Resta qui », gli dissi, con tono imperativo.
Lui sbuffò.
« Si vocifera che fuori ci sarà un nuovo scontro.
Posso aiutare. Sono forte ».
« Lo scontro è esattamente ciò che
vogliamo
evitare. Per fare questo, non ci servono persone forti. Abbiamo bisogno
di persone ferme e in questo momento non potrei vederti più
a
pezzi ».
Indicai Qitt con un gesto del capo e il mio sguardo indugiò
un
istante sul suo collo scoperto. Non avevo mai avuto occasione di
vederlo, prima di quel momento, e la cicatrice che l’attacco
di
Masyaf le aveva lasciato mi lasciò senza parole.
« Sta’ con lei », mormorai, dopo un
istante. « Ne ha più bisogno ».
Vidi il volto di Imaad sciogliersi un po', dopodiché lui mi
prese per la spalla e mi obbligò a prendere posto sullo
sgabello
accanto al letto.
Si sedette sul materasso, incrociando le braccia sul petto.
« Lo conoscevo », disse, tenendo lo sguardo fisso
sul pavimento sporco di polvere.
Non risposi, puntando lo sguardo su un cumulo di lenzuola sporco di
sangue che qualcuno aveva dimenticato sul pavimento.
« Kadar, intendo. Era venuto a Gerusalemme con il suo maestro
quando Haif ancora parlava ».
Sorrisi appena, ma non mi azzardai a spostare gli occhi dalle lenzuola.
« Tu e lui avete la stessa età »,
risposi.
« Già. E accidenti, se era una testa calda. Era
come voi.
Una volta, durante una missione, si arrabbiò così
tanto
che facemmo tutta la strada di ritorno alla Dimora in silenzio!
»
Ridacchiai, sporgendomi in avanti.
Era da lui, in effetti.
« Che avevate combinato? », domandai.
Imaad sorrise.
« Immaginate il mercato di Gerusalemme. Le donne con i vasi
sul
capo, le capre legate ai tendoni, le guardie che si aggirano alla
ricerca di qualche ladruncolo a cui tagliare le mani e
quell'insopportabile puzzo di piscio che esce da ogni vicolo. Dovevamo
semplicemente rubare una missiva e il maestro si era allontanato per
raccogliere delle informazioni. D’un tratto, Kadar vede il
nostro
obiettivo in fondo alla strada. È da solo, lontano dalle
guardie: possiamo farcela! » Mentre raccontava, prese a
gesticolare in aria, incantato dalla sua stessa storia. «
Saltiamo in strada, corriamo verso l’uomo e, proprio mentre
io ho
le mani infilate nel suo borsello, una vecchia grida: “Al
ladro!” e questo si gira. Mi vede, vede Kadar accanto a me e
fa
per agguantarci entrambi. Io scatto a destra, mi butto contro un
venditore di argille, mando in frantumi tutti il vasellame e mi rialzo
con un coccio di terracotta piantato nella mano. A quel
punto, arrivano le guardie. Cominciamo a correre come pazzi, saltiamo
su un vecchio tendone, ci buttiamo in tutti i vicoli che riusciamo a
trovare, ma quelli sono veloci! Mi volto a guardare quanto scarto
abbiamo e di colpo urto Kadar. Lui ha trovato un vicolo cieco che
dà su un vecchio canale e, con la mia spinta,
c’è
finito dentro! Allora lo guardo annaspare nell’acqua, poi
sento i
passi delle guardie avvicinarsi … e mi butto anche io. Non
credo
di aver mai nuotato così veloce in vita mia! »
Ridemmo a lungo, entrambi addolciti da quei ricordi, e
arrivò
mezzogiorno che eravamo ancora seduti uno di fronte all’altro
a
raccontarci aneddoti sulla nostra giovinezza. Parlavo liberamente di
quando avevo visto Altaïr esibirsi nel suo primo – e
mancato
– salto della fede, di quando Kadar era scoppiato a piangere
di
fronte all’uccisione del cane randagio che aveva voluto a
tutti i
costi portarsi a casa, di quella notte in mezzo al deserto che tutti e
tre avevamo passato davanti al fuoco. Imaad ribatteva con le missioni
più stupide che gli avessero affidato, narrava di quando
aveva
visto mio fratello entrare per la prima volta alla Dimora, di quanto
entrambi si fossero lamentati di dover affrontare l’ennesimo
incarico sotto la supervisione del maestro.
A poco a poco, mentre dimenticavamo il nervosismo e la rabbia di avere
la vita di una compagna appesa al filo, scoprimmo di avere in comune
molte più cose di quanto pensassi.
Mi resi improvvisamente conto di dovergli molto: nel mio primo periodo
a Gerusalemme, Imaad era stato la mia guida e aveva vegliato su di me
come il più paziente dei maestri.
Era merito suo se a Gerusamelle non mi ero completamente perso.
Passammo assieme ancora qualche minuto, prima che il dovere mi
richiamasse a sé, e quando me ne andai lo lasciai da solo
accanto a Qitt.
Le aveva preso la mano e la stringeva nella sua, accarezzandole il
polso in silenzio.
« Sii forte », mi raccomandai, prima di
allontanarmi. « Vedrai che tornerà ».
Lui mi rivolse un sorriso pieno di energia.
« Lo so », rispose. « Sarà
anche vero che in battaglia le persone muoiono, ma mi fido di lei
».
Negli anni avvenire, scoprii che vedere Imaad sorridere in quel modo
era più raro che vederlo triste. Aveva le labbra
perennemente
piegate in quel ghigno divertito ma, dopo quel giorno, mi
capitò
soltanto tre volte di vederlo illuminato, sereno e fiducioso come in
quell’istante.
La prima volta fu il giorno del suo matrimonio, dopo un abbraccio
così forte che dentro di me giurai di sentire un paio di
costole
spezzarsi. La seconda fu quando sua figlia diede alla luce le gemelle.
La terza, quella che ricordo con più orgoglio, fu il giorno
cui
Darim partì per la Mongolia dopo esserglisi inginocchiato
dinanzi per ringraziarlo dei suoi insegnamenti.
__________________________
Note d'autore
[1]
La menta, mi informa Madre, è un antinfiammatorio naturale.
Gli occhi neri, nelle buie epoche in cui non esisteva lo spray
emolliente, venivano bendati con delle garze imbevute di acqua e menta
che andavano cambiate ogni qual volta arrivassero ad asciugarsi.
(◕__◕)
Non
lo so, non lo so.
E'
che le
scene dei ricordi mi commuovono sempre, principalmente
perché
quando mi siedo e penso ai giorni trascorsi con gli amici a rotolare
sull'erba (?) mi vengono sempre le lacrime agli occhi. Sì,
sono
una piangimerenda.
*scompare
Approfitto della mia inesistente voglia di scrivere queste note
d'autore per ringraziare tutti i lettori, silenziosi e non. Era un po'
che non lo facevo e volevo rimediare a questa mia mancanza.
Siete davvero in tanti, molti di più di quanto mi aspettassi
e,
arrivati a questo punto, è soltanto grazie a voi se ci sono
ancora.
Sono pigra; normalmente avrei mollato molto prima.
Quindi grazie, grazie, grazie! ♥
Saltaddosso e abbracciamenti,
Lechatvert
|
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Capitolo 12 *** Undicesimo – rinascita ***
modellostorieefp
Si svegliò in piena notte, conficcandomi le unghie nella
carne
della mano con così tanta forza che venni strappato al sonno
con
un grido di sorda sorpresa.
La candela che avevo acceso sul davanzale prima di crollare sulla sedia
accanto al letto d’ospedale si era consumata in fretta, ma
restava comunque abbastanza cera per mantenere in vita la fiamma.
« Qitt », sussurrai, guardandola riprendere
coscienza di sé.
Lei mi lanciò uno sguardo impaurito.
« Va tutto bene », le dissi, accarezzandole il
braccio.
« Sei al sicuro, ora. Al Mualim è morto. Hai
dormito per
giorni ».
Bé, non proprio per giorni, visto che di tanto in tanto si
era
svegliata in preda alle allucinazioni causate dalla febbre di
un’infezione che i medici non erano stati in grado di evitare.
Guardai la sua espressione terrorizzata contrarsi in una smorfia di
dolore, mentre le sue dita stringevano sempre più forte la
mia
mano.
‘Imaad’.
Le sorrisi.
« Sta’ tranquilla, è tornato sano e
salvo.
Altaïr lo ha messo a badare ai novizi più giovani e
sono
tre giorni che si fa strappare i capelli dai bambini ». Oltre
che
a passare le notti insonni a camminare avanti e indietro sul corridoio
dell’ospedale con quella smorfia impaziente e le braccia
incrociate sul petto, ma questo dettaglio fu volutamente ignorato.
La guardai annuire, mentre un piccolo sorriso le illuminava il volto, e
allora la aiutai a mettersi seduta sul materasso, sfilandole la cinghia
che i chirurgi avevano usato per tenerla ferma durante il sonno.
« Ce la fai ad alzarti? », le chiesi.
Debolmente, lei annuì.
« Lo so che è presto, ma c’è
qualcosa che devi vedere ».
La feci alzare e mi premurai di aiutarla ad indossare i sandali, prima
di precederla sul corridoio dell’ospedale.
Lei mi seguì a passo esitante, un po’ per le
ferite che
dovevano ancora farsi sentire e un po’ per l’enorme
confusione che traspariva dal suo sguardo assente. I chirurgi ci
avevano assicurato di averla ricucita a dovere, strappandomi la
sorpresa di tenerla lontana dalle spade fino a che i punti non
sarebbero stati rimossi, perciò ero tranquillo e procedetti
con
calma, tenendo il suo ritmo tentennante.
Feci strada fino alle mura della fortezza che si affacciavano alla
cittadella illuminata dalle fiaccole di chi si era alzato di buona lena
per lavorare le pelli o sfornare il pane fresco.
Sotto i merli, due Assassini parlavano con tono soffuso durante il loro
turno di guardia.
« Altaïr partirà presto per Acri assieme
a un plotone
d’attacco », esordii, appoggiando il petto alle
mura.
Lei imitò le mia posizione, premendo la schiena sui mattoni
e
limitandosi a osservare l’alba arrivare dalle montagne.
« Non sappiamo quanto a lungo starà via,
né cosa
porterà al suo ritorno ». Feci una pausa,
ricordando a chi
sarebbero passati tutti gli oneri e gli obblighi di amministrare la
rinascita di Masyaf ora che Altaïr aveva deciso di prendere il
largo: a me. Mentalmente, maledissi il giorno in cui avevo deciso di
perdonarlo. « Vogliamo ricostruire l’Ordine,
riportarlo
alla sua antica gloria. Abbiamo già riformato
l’allenamento dei più giovani, affidando a Imaad
il
compito di seguire i ragazzini. Stiamo lavorando anche sulla lama
celata, in modo da rendere inutile la rimozione dell’anulare
e
… » Presi un grosso respiro, passandomi la mano
tra i
capelli. « … stiamo rimettendo in piedi
l’ospedale,
cercando di migliorarne l’efficienza in caso di attacco alla
fortezza ».
Qitt mi lanciò un’occhiata preoccupata,
stringendosi nella veste chiara che i medici le avevano messo addosso.
Era un discorso difficile da fare, anche se avevo la netta sensazione
che lei avesse già afferrato dove volessi andare a parare.
« Vorrei che fossi tu, a prendertene carico. Con
Altaïr hai
fatto un buon lavoro, quella volta. Credo che avresti delle buone
potenzialità come infermiera. Inoltre, qui a Masyaf avresti
degli ottimi insegnanti ».
Mi accorsi solo parlando di tutto il male che le stavo facendo.
Lei che si era distrutta le ossa, che aveva perso il suo maestro in
battaglia, che si era tagliata la lingua pur di non tradire
l’Ordine … con che coraggio, ora, le stavo
chiedendo di
rinunciare al suo posto tra gli Assassini? Era stata più
valorosa di gran parte dei suoi fratelli, mostrando cieca obbedienza
persino sotto un capo corrotto come Al Mualim.
Deglutii, cercando di rendere quella richiesta un po’ meno
amara.
« Cesseresti di essere definita con il tuo rango di novizia e
non
potresti ottenere la lama celata, ma nessuno ti sta chiedendo di
rinunciare ad allenarti con la spada, se lo desideri. La fortezza non
ha mai disdegnato un combattente in più ».
Mi sentivo più vigliacco a ogni parola che aggiungevo.
Altaïr mi aveva chiesto consiglio per rimettere in sesto
l’ospedale e io avevo proposto Qitt senza realmente pensare
ai
suoi interessi. La cosa mi prendeva lo stomaco, dandomi un lieve senso
di malessere.
Fu in quel momento – e in molti altri negli anni avvenire
–
che Qitt mi diede prova della totale fiducia che aveva nei miei
confronti.
Con un sospiro che sapeva di rassegnato, si portò di fronte
a me, lambendo i baveri del mio mantello aperto sulla cappa.
Non aprì bocca, ma i suoi occhi parlarono.
‘Se questo
è quello che vuoi, Rafiq, io sono con te’.
Mi sorrise, incoraggiante, appoggiando la fronte calda sul mio petto e
io, colpevole come mi sentivo, non ebbi che il coraggio di circondarle
le spalle con il braccio, stringendola a me con gratitudine.
L’alba arrivò e inondò di luce i
camminamenti sulle
mura, accecandomi appena mentre mi scostavo da
quell’abbraccio.
Sotto di noi, i rumori della fortezza che si svegliava cominciavano a
riempire l’aria e le risa acute di due ragazzini mi
convinsero a
indicare il recinto dell’allenamento, sorridendo.
« Guarda », sussurrai.
Qitt si voltò, sporgendosi sui merli che davano
sull’interno della fortezza.
Imaad arrivava al campo d’addestramento proprio in quel
momento,
trascinato da due ragazzini in uniforme dall’aria esaltata.
Indossava la stessa veste di Altaïr, coronata dalla sua
immancabile spada a due mani, e strisciava i piedi a terra tenendo le
mani in tasca. Portava il cappuccio abbassato sulle spalle e aveva
l’aria assonnata, oltre che la barba incolta e i capelli
spettinati.
Istintivamente, mi chiesi quanto fosse passato dall’ultima
volta
che lo avevo visto dormire. Era una settimana che alternava gli
allenamenti agli insegnamenti al tenere stretta la mano di Qitt
all’ospedale.
« Occhi aperti e spade di legno! », gridava,
seguendo i due
ragazzini nel recinto. « Se vi fate male non raccolgo i
pezzi!
»
Mi voltai verso Qitt e la trovai con il mento appoggiato a un merlo,
persa a contemplare la scena con un sorriso intenerito a incresparle le
labbra.
« Maestro, Maestro! », strillò un
ragazzino,
appropriatosi chissà come di un coltello da lancio.
«
Posso? »
« No, no, no. Niente lanci. Ricordi? Non raccolgo i pezzi!
»
Mi lasciai scappare una risata divertita.
« Vuoi andare a salutarlo? »
Qitt annuì, ampliando il suo sorriso, ma aspettò
che
fossi io a farle strada per avviarsi verso il cortile interno.
Arrivammo nei pressi del recinto dell’allenamento che il sole
si
era già staccato dalla culla che erano le montagne.
L’aria era ancora quella fredda e ventosa della mattina,
profumata dalla legna accatastata alle mura e dalla neve prossima a
scendere
sui monti.
Imaad aveva sentito Qitt arrivare ancor prima che uscissimo dal
portone. Non so come facesse ma, dal giorno in cui se l’era
praticamente vista morire davanti agli occhi, era in grado di captare
la sua presenza. Ogni volta che lei era nei paraggi del campo, lui se
ne accorgeva e correva a salutarla.
Così, una volta abbastanza vicini al recinto, lo vidi
strappare
di mano la spada di legno al suo allievo, correre verso lo steccato e
superarlo con un balzo, prima di buttarsi letteralmente addosso a Qitt.
La prese tra le braccia senza preoccuparsi di urtare chi gli stava
attorno e la abbracciò così forte che temetti di
vederla
scoppiare.
« Haif! », la chiamò, ridendo
più per il
nervosismo che per la gioia. « È bello vederti in
piedi,
finalmente! »
La rimise a terra con delicatezza, studiandola da cima a piedi con
un’espressione incantata dipinta sul viso.
Poi guardò me, aprendo la bocca in un’espressione
sorpresa mentre arrossiva vistosamente.
In un istante, tutta la tensione che gli avevo visto addosso
nell’ultima settimana sembrava essersi volatilizzata.
« Grazie, Rafiq », disse, inchinandosi lievemente.
Io feci per rispondergli, ma le risatine divertite dei bambini lasciati
al campo mi precedettero.
« Chi è? Tu lo sai? », chiese uno,
arrampicato sullo steccato.
Il suo compagno annuì, solenne.
« Certo, io so tutto. È la moglie del Maestro
».
Fu per un solo secondo, ma vidi Imaad cambiare colore.
Arrossì così tanto che per un istante smise
persino di
respirare, ma riuscì ugualmente a ricomporsi in fretta,
voltandosi di scatto per tornare verso il recinto.
« D’accordo, chi ha parlato? »,
sbuffò
ridendo. « Imparate un po' di discrezione! Non impicciatevi
negli affari del
Maestro! »
Restammo in silenzio a guardare mentre si allontanava,
dopodiché
proposi di riportare Qitt nella sua stanza per farla riposare e lei
acconsentì, mostrandosi effettivamente spossata.
La lasciai sola qualche ora, giusto il tempo di chiudermi nella
biblioteca assieme ad Altaïr per discutere ancora circa
l’organizzazione della fortezza durante la sua assenza.
Quando tornai da lei, il letto era vuoto.
Né io né Imaad la rivedemmo per almeno tre mesi.
Come un gatto randagio si ritira in un posto sicuro per rimettersi in
sesto, così Qitt lasciò Masyaf nel più
completo
silenzio, dileguandosi senza lasciare traccia di sé.
__________________________
Note d'autore
Insomma,
sono tutti vivi!
E di Rauf, che ne è stato? Lo hanno promosso.
No, per quanto mi riguarda l'idea è stata di togliergli i
bambini e accozzarli a qualcuno paziente abbastanza da prendersene cura
(*゜▽゜ノノ゛☆
Grande
errore, grande errore me ne rendo conto.
Ma un ragazzino in meno che sarà mai, no?
Ciambelle,
Lechatvert
|
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Capitolo 13 *** Dodicesimo – ritorno ***
modellostorieefp
Compì diciotto anni a Masyaf, in un pomeriggio di luglio
talmente soleggiato che ancora serbo il ricordo del caldo opprimente e
del sudore sulla mia pelle.
Dopo la sua proverbiale fuga dall’ospedale, Qitt era sparita
altre volte, sempre per tempi più o meno lunghi. Il nuovo
Rafiq di Gerusalemme si premurava di mandarmi una missiva ogni qual
volta la vedeva capitare alla Dimora, ma era pressoché
impossibile capire cosa facesse durante quei periodi di assenza.
Intanto, ad ogni suo ritorno a Masyaf la trovavo sempre più
cresciuta.
La prima volta arrivò con i lineamenti fini di una
fanciulla, la seconda con i fianchi e le curve morbide di una giovane
donna e le terza, quando si presentò alla fortezza per
restare, era talmente cambiata che a stento riuscivo ad associarla alla
ragazzina tutta graffi e cicatrici che avevo conosciuto.
Da quanto riuscii a capire, aveva speso molto tempo
all’ospedale di Gerusalemme per apprendere nuove tecniche
medica da portare a Masyaf. Aveva imparato a riconoscere le erbe
curative, a usare i funghi e a eseguire i salassi. Chissà
come era riuscita persino a entrare in possesso del Qanun di Ibn
Sina¹, leggendolo e rileggendolo quasi fosse un testo sacro.
Tutto quello studio l’aveva fatta regredire un poco
nell’uso della spada ma, senza le perenni ferite che si
procurava da ragazzina, il suo fisico si era irrobustito parecchio.
Me ne diede prova il giorno in cui Altaïr tornò dal
suo viaggio durato quasi quattro anni.
Solo la settimana prima avevo ricevuto una missiva in cui lui stesso mi
annunciava la sua intenzione di riprendere il suo posto alla fortezza,
assieme a due clamorose notizie: si era sposato e stava per diventare
padre.
Stavo ancora cercando di assimilare bene la cosa, un po’
perché mi sentivo offeso di non essere stato invitato al
matrimonio e un po’ perché, a dirla tutta, non
approvavo la sua unione con una donna inglese, per giunta legata ai
Templari.
Avevo così deciso di allontanare i pensieri, passando il mio
poco tempo libero al campo assieme a Imaad, brandendo la spada contro
di lui in una piacevole serie di duelli.
Gli avevo concesso il titolo di Maestro Assassino l’estate
prima quando, contrariamente a ogni mio consiglio, aveva organizzato
una difesa della cittadella a dir poco impeccabile. Durante un attacco
inaspettato, era riuscito a far rientrare tutti gli abitanti nella
fortezza schierando arcieri e fanti appena fuori da Masyaf e ordinando
loro un lento retrocedere sotto le mura. Arrivati lì, non
era stato difficile cacciare le forze nemiche con una pioggia di frecce
infuocate che avevano letteralmente dato alle fiamme il ponte
precedentemente coperto di paglia.
A battaglia finita, nessuno aveva avuto da ridire circa la mia
decisione di farlo passare di rango. Dopotutto, Imaad era un abile
combattente e di certo possedeva parecchia tecnica, anche se mancava di
pazienza, di rigore e, in un certo senso, di disciplina.
Cosa che, nei nostri incontri, giocava tutta a mio favore.
Quel giorno, avevamo appena finito di disarmarci a vicenda e stavamo
passando a un combattimento a mani nude quando Qitt passò
accanto al recinto, completamente persa nei suoi pensieri, con un
carico di garze tra le mani.
« Salute e pace, Haif! », la salutò
Imaad, abbassando la guardia per voltarsi verso di lei. «
Giornata impegnata? »
Un mio pugno gli arrivò dritto in faccia, facendolo
barcollare.
Dietro di me, le risatine dei suoi giovani allievi si fecero
più insistenti.
« Te l’avevo detto, che avrebbe perso ».
Sorrisi compiaciuto. Ogni tanto era bello, prendersi una piccola
rivincita su Imaad.
« Per Allah, Malik.
Come sei ingiusto! », si lamentò lui,
piagnucolando con fare ironico. Già da un po’
aveva abbandonato ogni formalità e mi trattava come se
fossimo amici di vecchia data. « Dì un
po’, Haif, ce l’hai un momento per un ritorno ai
vecchi tempi? » Indicò una spada lasciata a terra
dal precedente allenamento. « Fa’ vedere a Malik
come combattono le signore! »
Scoppiò a ridere e Qitt gli lanciò
un’occhiata seccata.
Quell’affermazione dovette offenderla parecchio
perché, con uno sbuffo, lasciò cadere a terra
tutte le garze e si apprestò a tirarsi le maniche del
vestito sulle spalle. Si pettinò i capelli corti dietro le
orecchie e si lanciò all’attacco contro Imaad
senza neanche lasciargli il tempo di armarsi.
Lo colse davvero di sorpresa, colpendolo in pieno petto con un calcio
che lo sbilanciò all'indietro.
Non arrivai neanche a pensare di fermarla che con un pugno lo aveva
già buttato a terra, cadendogli addosso per il troppo
slancio.
Lui se la scrollò di dosso immediatamente, afferrandola per
il cappuccio mentre si rialzava e facendola rotolare tra la sabbia del
campo. Si sfilò un paio di coltelli da lancio dalla cintura
e gliene lanciò uno ai piedi, invitandola a raccoglierlo con
un cenno del capo.
Ricordo di essermi stupito parecchio della foga con la quale
combatterono, quasi fossero privi di tecnica, disperati in un goffo
tentativo di disarmarsi a vicenda.
Avevo visto combattere Imaad in battaglia e sapevo come si muoveva. Era
meglio, molto
meglio di così. Si muoveva pesantemente ma con decisione, si
avventava, certo, ma con sicurezza, calcolando quantomeno una possibile
via di fuga.
Qitt, invece, era lenta. Lentissima.
Quasi avesse la pesante spada a due mani di Imaad legata al fianco.
Credo riuscii a non farsi colpire dalla lama perché
all’ultimo, quando Imaad la buttò a terra, gli
fece volare in faccia una manciata di polvere e sabbia che lo costrinse
a voltarsi per non restare vittima della sua allergia.
A duello finito, non riuscii a commentare quello che per me non era
stato altro che un disordinato tirare fendenti all’aria.
Ero allucinato da quanto distanti fossero dall’armonia di cui
avevano dato prova al Tempio di Salomone. Niente passarsi le armi,
chiamarsi, cercarsi durante il combattimento. Niente di niente, se non
un groviglio di braccia e di lame che sembravano non sapere dove andare
a parare.
Cos'era successo, a tutto l'affiatamento che avevano quando agivano in
squadra a Gerusalemme?
Improvvisamente capii.
Non si era trattato affatto di disarmare, ma di farsi disarmare.
D’altronde, avevano tenuto una guardia talmente bassa che
soltanto uno sciocco non avrebbe capito la loro reale intenzione.
Mi sentii uno stolto per non aver afferrato prima quel loro piano e mi
avvicinai a passo pesante, seccato, senza neanche degnarmi di
controllare che non si fossero fatti del male.
A cosa sarebbe servito, poi, visto che avevano deciso di giocare a modo
loro?
« Ehi, Malik! », mi chiamò Imaad,
allegro. « Hai visto come si è fatta ardita Haif?
»
Lo guardai di sottecchi.
« Ho visto come tu ti sei fatto allocco », risposi.
Poi mi rivolsi a Qitt, scoccandole un’occhiata severa.
« E come tu ti sei fatta pesante ».
Mi sentii un po’ in colpa per i toni che adoperai nel
rivolgermi a lei. Dopotutto, erano almeno due giorni che non le
parlavo. Tra una cosa e l’altra, lei era sempre presa a
ricucire feriti e io troppo impegnato a tenere sotto controllo la crisi
di nervi causata dall’organizzare la fortezza.
Sentii Imaad ridere e tendere il braccio verso la mia spalla,
probabilmente con l’intenzione di rifilarmi una delle sue
freddissime battute, ma una voce lo fermò.
« Alle porte! », gridò
qualcuno. « Sta tornando Altaïr! »
Lanciai a Imaad uno sguardo incredulo e lui ricambiò con un
sorriso più esaltato di quello di un bambino di fronte a una
bancarella di datteri al caramello.
« Per Allah, non ci credo! », esclamò,
prendendo a saltellare per l’impazienza.
Come tutti gli Assassini della sua età, faceva parte di
quella generazione cresciuta all’ombra della raggiante figura
di Altaïr il Maestro Assassino e non poteva fare a meno di
gioire ogni qual volta qualcuno lo comparava a lui.
A pensarci bene, si somigliavano molto. Lo notai per la prima volta
quando li vidi abbracciarsi dinanzi alle porte della fortezza.
Visto lontano dal campo di battaglia, Imaad non era altro che un
Altaïr un po’ più basso, un po’
più magro e infinitamente più allegro. Aveva
persino il suo stesso taglio di capelli, ma evitai di chiedermi se
fosse pura coincidenza o piuttosto una tecnica per onorare il suo
beniamino.
Accolsi Altaïr con un abbraccio, sorprendendomi di quanto il
tempo fosse stato generoso con il suo volto. Erano passati quattro anni
ma in lui non c’era segno di invecchiamento.
« Salute e pace, Malik », mi salutò,
abbassando il cappuccio.
« A te, Altaïr », risposi.
Lo vidi farsi esitante, prima di scostarsi per presentarmi la donna che
sostava alla sua destra.
« Questa è Maryam,
mia moglie e madre di mio figlio ».
Ricordo di averla guardata a lungo, perso tra lo stupore, la diffidenza
e il mero risentimento.
Era una donna piuttosto bella, diversa da come l’avevo
immaginata. Capelli castani lasciati sciolti sulle spalle e
scompigliati dal vento, sguardo stanco ma fiero. Aveva dei lineamenti
molto fini che però non ingannavano sulla sua natura di
combattente: al fianco, legata stretta alla cintura, portava una spada.
Nella mia testa, l’avevo sempre figurata molto simile ad
Adha², mentre nella realtà era difficile immaginare
due donne più diverse.
« È un onore conoscerti, Malik », mi
disse con voce ferma. « Altaïr mi ha tanto parlato
di te ».
Mi sembrava il minimo, visto che da codardo non aveva accennato alle
sue intenzioni di prendere moglie se non dopo la cerimonia nuziale. Ma
non era il momento di serbare rancore.
Mi sforzai di sorridere, mentre Altaïr la aiutava a scendere
da cavallo, e non potei fare a meno di notare il ventre appena rigonfio
a
causa della gravidanza evidentemente poco avanzata.
La gravidanza di cui io non ero stato messo al corrente se non alla
fine, quando Altaïr era stato costretto a sputare il rospo a
causa del suo ritorno.
Di nuovo, mi imposi di mantenere la serenità.
« Immagino vogliate riposare », dissi, pacato.
Altaïr annuì.
« Sì, Maria ha bisogno di dormire. È
stato un viaggio faticoso e - »
Si bloccò quando la donna gli pestò il piede.
« Non sono affatto stanca », decretò
lei, prendendo la parola con tono velenoso. « Tuttavia un
bagno caldo sarebbe meraviglioso, oltre che molto gentile da parte
vostra ».
Arricciai il naso, guardando contrariato la scena.
Quella donna non mi piaceva per niente.
« Naturalmente », asserii, cordiale. «
Faremo preparare ogni cosa ». Mi voltai verso Qitt, in piedi
a fianco di Imaad che ancora dondolava sui talloni
dall’emozione di aver abbracciato il suo beniamino.
« Va’ a chiamare la levatrice », le
dissi, destandola dai misteriosi pensieri in cui era caduta.
« Sono certo che vorrà accertarsi che il bambino
stia bene ».
Qitt non lasciò a Maria il tempo di controbattere,
schizzando verso l’ospedale con il suo solito passo scattante.
Almeno in quello aveva mantenuto una velocità decente.
« Ora, vogliate scusarci. Torniamo ai nostri compiti
», decretai, mostrando una lieve riverenza ad Altaïr
e a sua moglie. « Sono certo che avremo tempo per parlare
questa sera, quando vi sarete entrambi ristabiliti dal viaggio
».
Mi voltai verso Imaad e lo afferrai per la manica della casacca,
trascinandolo via.
« Ti consiglio di fare bella figura, con quella donna
», gli sussurrai, quando fummo abbastanza lontani da non
essere uditi.
Portando le braccia dietro la schiena, l’Assassino mi
guardò, perplesso.
« Con Maria? E perché? »
Gli scoccai un’occhiata divertita.
« Bé, il figlio di Altaïr non
potrà far altro che seguire le orme di suo padre
», spiegai ridacchiando. « E dubito che il Mentore
di Masyaf abbia tempo per allenare un singolo ragazzino, per quanto suo
primogenito. Può darsi che venga affidato a te ».
Imaad sgranò gli occhi e per poco non inciampò
nei suoi stessi passi.
« Dici sul serio? », balbettò, ignorando
completamente il mio tono di scherno.
Io alzai le spalle.
« Perché no? »
Non avevo idea che, nel giro di qualche anno, ciò che avevo
buttato come una battuta sarebbe corrisposto alla verità.
__________________________
Note d'autore
[1]
Il Qanun di Ibn Sina
(o Avicenna, nome con cui forse è più famoso)
è un'opera resa celebre in Europa nel XVIII secolo che venne
però scritta nell'alto medioevo. Si tratta dell'enciclopedia
medica più vasta e accurata del nostro passato, che
comprende intere sezioni dedicate alla scoperta delle malattie
contagiose e di quelle trasmesse tramite i rapporti sessuali,
all'introduzione della quarantena, all'utilizzo dei test clinici, agli
studi neuropsichiatrici, all'ipotesi della presenza di microrganismi.
Un passo importante del canone (Qanun) è quello dedicato
alla farmacologia. Questa scienza come la conosciamo oggi, infatti, ha
visto la luce grazie a quest'opera.
[2]
Ho provato ad informarmi, ma ammetto di non essere riuscita a trovare
uno straccio di informazione riguardo l'ipotetico fatto che Malik
conoscesse Adha. Ciò nonostante, ho fatto di testa
mia. Dopotutto Malik e Altaïr
sono amici di vecchia data ... non ci vedrei nulla di strano. No?
°v°'
E' arrivata Maria e sono finiti i cazzeggi
(*゜▽゜ノノ゛☆
A
parte
ciò, confesso che ieri ho scritto l'ultimo capitolo della
fanfiction ... così, a pura ispirazione personale. Non lo so
neanche io perché, o quando, o come
arriverò fino a lì.
Basta crederci, vero?
Grosse
montagne di cibo cinese,
Lechatvert
|
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Capitolo 14 *** Tredicesimo – la pietra cresce senza pioggia ***
modellostorieefp
« Malik ».
Feci finta di non aver sentito, continuando a leggere il tomo di storia
che mi ero portato dietro dall’ultima escursione a
Gerusalemme.
« Malik ».
Voltai pagina, iniziando il nuovo capitolo sulle origini delle guerre
in Siria.
« Malik ».
La prima guerra siriaca,
combattuta nell’antichità da Tolomeo e Antioco
…
« Per Allah, Malik! »
Seccato, mi trattenni dal colpire il volto di Imaad con il dorso del
tomo.
Sospirai, senza staccare gli occhi dalla mia lettura.
« Odio dover sempre sottolinearlo, ma non posso fare a meno
di
notare quanto tu e Altaïr siate simili nel torturare ogni mio
singolo nervo », risposi.
Sentii Imaad piagnucolare e mi convinsi a lanciargli una rapida
occhiata, giusto per assicurarmi che non fosse ferito, magari con il
sangue che gocciolava sul pavimento della stanza e sporcava il tappeto.
No, sembrava tutto intero. E stranamente incappucciato.
Mi bloccai a fissarlo.
C’erano soltanto due casi in cui Imaad si copriva il
volto.
La prima, più per regola che per volere personale, era
quando si
trovava in missione; la seconda, ben più tragica, era quando
qualcosa non andava per il verso giusto.
Istintivamente, pensai ai suoi allievi.
« Dimmi che non hai perso un ragazzino », dissi,
sgranando gli occhi.
Lui mi lanciò un’occhiata sconfitta.
« Per carità, no! », rispose.
« È una faccenda … diversa ».
« Lo sai, è tornato Altaïr. È
lui a prendersi cura di queste cose, adesso. Parlane con lui
».
« Lo farei, se avessi la stessa confidenza che
c’è tra noi due! »
Alzai un sopracciglio.
Da quando tra noi due ci fosse confidenza restava un mistero, ma mi
ripromisi di indagare una volta finito il discorso.
« Avanti, parla chiaro. Che hai combinato? »
Con un gesto secco, Imaad si tolse il cappuccio.
Era paonazzo.
Altro brutto, orribile, terrificante segno che il discorso stava
prendendo una piega più tragica a ogni parola che aggiungevo.
Tentennò un po’, mordendosi le labbra con fare
imbarazzato.
« Dunque? »
Aprì la bocca e strinse le mani attorno ai fianchi,
affondando appena nella tunica bianca.
« È successa una cosa ».
« L’avevo capito ».
Silenzio.
« Non so come spiegarlo ».
« Avanti ».
Lo vidi dondolare il bacino, calciando il tappeto con un debole gesto
del piede.
Il mio tono si fece più duro.
« Imaad, ti avverto: non ho tempo da perdere ».
Lui sospirò.
« Potrei starmi per sposare ».
Abbandonai del tutto l’idea di tornare a leggere.
« Ah », commentai, senza parole.
Non me lo aspettavo.
Guardai Imaad mugolare qualcosa al limite dell’imbarazzo.
« Quel campo d’addestramento mi sta uccidendo
», si
giustificò, rosso in viso. « Tutta quella polvere
…
ero andato da lei per farmi dare qualche medicina per calmare
l’orticaria, così siamo scesi nella cittadella a
raccogliere l’erba gatta² e … »
Deglutì
a fatica. « Ed è successo. In realtà
non so bene
come. Lo sai, a volte parlo senza pensare. Non volevo veramente essere
così invadente, però, cioè, credo
… sono
felice di averlo fatto, ma … » Sospirò,
rinunciando
definitivamente all’impresa di sputare una frase di senso
compiuto.
« Buona fortuna », sospirai quindi. « Se
le hai
proposto di sposarti con la stessa scioltezza con cui mi stai parlando,
ne avrai bisogno. Quantomeno per sperare che lei abbia capito
ciò che le hai detto ».
« Malik ». Il tono di Imaad si fece serio. Ennesimo
segno
che le cose stavano per andare incontro a una tragedia. « Non
sono sicuro che mi abbia detto di sì ».
« Che vuoi dire? »
« Lo sai, com’è fatta ».
Un brivido mi percorse la schiena, ma mi imposi di non scompormi. Avevo
un brutto, bruttissimo presentimento.
Lo guardai, quindi, alzando un sopracciglio.
« Com’è fatta chi? »
Per risposta ricevetti un mugolio sommesso.
« Imaad … », sospirai.
Maledissi il momento in cui avevo alzato gli occhi dal libro. Cosa mi
era saltato in mente?
« Haif. L’ho chiesto ad Haif! »
Aprii la bocca per parlare, ma mi ritrovai a richiuderla subito dopo,
perplesso.
Haif. Quella che d’accordo, poteva anche essere in piena
età da marito, ma che non si lasciava avvicinare da nessuno
se
non da me e lui. Quella che da cinque mesi praticamente viveva tra le
mura dell’ospedale. Quella che chiamavamo Qitt per il suo
carattere randagio. Quella che era cresciuta sparendo e ricomparendo
dal nulla, come se non fosse mai andata via.
Di nuovo, sospirai.
« È scappata? », mi informai, anche se
conoscevo già la risposta.
Imaad annuì.
« Verso il Regno, sì ».
« Bé, in questo caso non ti resta che aspettare il
suo ritorno ».
« Tornerà? »
« Chi può dirlo? »
« Potremmo mandare delle guardie nel Regno e setacciarlo!
Scommetto che la troverebbero nel giro di due notti! »
Interruppi i miei pensieri e lo fissai a occhi sgranati.
Cercai su di lui il suo sorrisetto di scherno, ma sul suo viso
c’era soltanto serietà.
« Farò presente ad Altaïr che il rango di
Maestro
Assassino deve essere abolito », commentai, allora.
« Toglie alla gente quel briciolo di buonsenso che questo
Ordine riesce a
inculcare ».
Imaad scoppiò a ridere, battendo le mani con un sonoro
sciocco di lingua.
« Stavo scherzando! », mi assicurò,
senza smettere
di ridere. « Mi sembra ovvio: aspetterò
».
Lo guardai, lasciandomi sfuggire un sospiro esasperato.
« Su, torna dai tuoi allievi! », lo esortai.
« Se la dovessi vedere nei dintorni … me lo
faresti sapere? »
« Se dovesse essere nei dintorni sai meglio di me che non si
farebbe vedere ».
Lui annuì e si sporse in avanti, prendendomi la mano e
stringendola tra le sue.
« Lo prendo come un sì. Grazie infinite
», disse,
raggiante. Mi rivolse un’espressione allegra, la stessa che
brillava sul suo viso quando pronunciò quelle esatte parole
al
suo matrimonio, abbracciandomi così forte da mozzarmi il
respiro.
Uscì dalla stanza a passo deciso, allontanandosi sui
corridoi della fortezza con un lieve fischiettare ad accompagnarlo.
Sospirando, mi tirai in piedi.
« Puoi anche farti vedere, adesso », dissi,
sistemando le carte sparse sulla mia scrivania.
La tenda appesa al muro vicino all’ingresso si
scostò appena, lasciando che Qitt uscisse allo scoperto.
Era arrivata con gli occhi sgranati e il fiato corto pochi istanti
prima di Imaad, nascondendosi lì dietro senza neanche
lasciarmi
il tempo di chiedere spiegazioni.
Ora capivo perché.
Le feci cenno di avvicinarsi, incoraggiandola con un sorriso tirato che
lei ricambiò con uno sbuffo.
« Non te lo aspettavi? », le chiesi, scrollando le
spalle.
Non credevo quell’uscita di Imaad l’avesse colta di
sorpresa. Dopotutto, soltanto uno stupido non si sarebbe accorto
dell’interesse che lui provava e Qitt era
tutt’altro che
stupida.
La guardai accucciarsi tra i cuscini sotto la libreria.
« Bé? »
Mi scoccò un’occhiata seccata, sebbene le guance
si
stessero tingendo un lieve colorito rossastro che non le avevo mai
visto addosso.
‘Bé
cosa?’
Io sospirai.
« Imaad ti proteggerebbe », considerai,
avvicinandomi appena. « Lo ha già fatto, lo
rifarebbe ».
Qitt tirò su col naso.
« Vi conoscete da anni ».
Altra occhiata carica d’astio.
« E vi volete bene ».
La vidi piegare il capo di lato, mentre con la mano si scostava un
ciuffo della frangia che le copriva la vista.
‘Anche io e te
ci vogliamo bene’.
Dal piccolo sorriso di scherno che le si disegnò sul viso,
immaginai un tono colmo di sarcasmo.
Ignorai quella frecciatina, scrollando le spalle.
« Non credevo fosse possibile essere più infantili
di Imaad ».
Lei scattò in piedi, portandosi davanti a me con un balzo.
Nei suoi occhi, spalancati e puntati sui miei, lessi un rancore che mai
avevo pensato una ragazzina come lei potesse provare.
Onestamente, non la capivo affatto.
« Come vuoi », sospirai, scrollando le spalle.
In fondo, tutta quella storia non era che un problema in più
da affrontare. Meglio evitarlo, per quanto possibile.
Qitt rimase immobile, ma il suo sguardo si spense un poco.
‘Cosa vuoi che
faccia?’
Il ricordo di lei che mi osservava nel buio della Dimora di Gerusalemme
mi bloccò dal risponderle.
Mi ero sempre preso cura di lei, in un modo o nell’altro. Era
più che naturale che ora mi prendesse come punto di
riferimento
e si aspettasse un preciso ordine da rispettare.
Ecco perché non era scappata. Aspettava il mio parere.
Aprii la bocca per rassicurarla, anche se sapevo di non esserne in
grado. Non ne ero mai
stato in grado.
Tutt’oggi ringrazio ancora Altaïr e la sua brutta
abitudine
di fiondarsi nelle stanze altrui senza bussare per aver interrotto quel
mio magro tentativo di essere comprensivo.
Quando la porta della mia biblioteca si aprì e la sua voce
rimbombò tra le pareti, sono sicuro che nelle mie orecchie
suonò più come una melodia che come
un’entrata in
scena poco elegante.
« Ah! Trovata! »
Vidi il braccio di Altaïr tendersi su Qitt per trascinarla
verso il corridoio sotto una muta protesta.
« La levatrice ti cerca », le disse
semplicemente.
Dalla stanza, li vidi guardarsi per un istante negli occhi.
Qitt piegò appena il capo di lato, assottigliò lo
sguardo
color dell’erba e aprì la bocca con fare sorpreso.
Mi
lanciò un’occhiata furtiva, poi tornò a
piantarsi
su Altaïr, il quale la liquidò con
un’alzata di
spalle.
« Manca ancora del tempo, comunque »,
commentò,
sottovoce, e le chiuse letteralmente la porta in faccia, voltandosi
verso di me.
Mi bastò uno sguardo per capire che qualcosa non andasse.
Non potevano esserci molte opzioni, quando Qitt era stata chiamata
dalla levatrice ed era stato Altaïr in persona a
venirla a
cercare. Lo stesso Altaïr che, negli ultimi quattro mesi, mi
era
stato impossibile vedere lontano più di tre passi da sua
moglie
incinta.
Il momento, dunque, era arrivato. Un po' in anticipo, forse, ma il mio
amico d'infanzia stava per diventare padre.
La sola idea mi chiudeva lo stomaco.
« Vuoi del tè? », gli chiesi, pacato.
Non lo avevo mai visto così irrequieto.
Si avvicinò a passo spedito, lasciandosi cadere di peso sui
cuscini.
« Pensavo più a dell’Arak³
», rispose.
Mi accigliai. Erano anni che non lo sentivo nominare il liquore con cui
ci distruggevamo quando il Maestro ci portava ad
Acri.
« Credo che il tè andrà benissimo
», risposi, quindi, avvicinandomi.
Altaïr mi scoccò un’occhiata affranta.
« Non mi lasciano stare lì »,
mormorò. « Mia
moglie sta dando alla luce mio
figlio e io
non posso stare lì! »
Sospirai.
« Pensavo che in qualità di Mentore avessi potere
anche sulla levatrice e le infermiere »,
commentai.
Lui alzò le spalle.
« Già, lo pensavo anche io ».
Rimanemmo un istante in silenzio, lui con le braccia incrociate sul
petto e un persistente tic che gli faceva tamburellare le dita sulla
cappa, io con lo sguardo perso sul pavimento.
D’un tratto, notai la sua spada legata al fianco e
un’idea mi balzò alla mente.
« Hai detto che ci vorrà del tempo? »,
chiesi.
Lui grugnì.
« La levatrice dice che al primo parto potrebbe volerci anche
un giorno intero ».
« Allora prendi la spada e andiamo di sotto a fare qualche
affondo », proposi. « Agli allievi di Imaad di
certo
servirà una dimostrazione su come battersi e non credo ci
possa
essere un esempio migliore di te, per quanto riguarda la tecnica
».
Altaïr si alzò debolmente, lasciandosi sfuggire un
grosso sospiro.
« Tu che mi fai un complimento »,
commentò, mentre
un sorrisetto di magra autocommiserazione appariva sul suo volto.
« Quanto miserabile devo sembrare, per strapparti un simile
riguardo? »
Gli sorrisi appena.
« Abbastanza », ammisi.
Scendemmo assieme al campo d’allenamento, dove
Imaad fu
più che lieto di togliere la spada ai suoi allievi per
lasciarci
lo spazio per una lezione.
Erano passati anni, dall’ultima volta in cui avevo affrontato
Altaïr in un duello e mi ritrovai pentito di non aver
rimediato
prima a quella mancanza.
I fendenti precisi e letali che il mio compagno tirava e che io mi
trovavo sempre a parare più per fortuna che per bravura
erano
tutt’altra storia rispetto agli affondi forti e pesanti di
Imaad.
Passammo tutto il pomeriggio a tirare di spada senza mai prenderci una
pausa.
Arrivò sera che eravamo ancora lì, stanchi,
sudati e
ormai soli. Uno alla volta, i giovani spettatori ci avevano abbandonati
per andare in mensa ad abbuffarsi con il rancio per poi filare a
dormire, ma né io né Altaïr sembravamo
avere fame ed
eravamo restati tra la sabbia del recinto a tirare coltelli contro i
pali di legno.
Alla fine, stremati, ci eravamo concessi una sosta sullo steccato.
« Credo dovresti risposare », considerai, ridendo a
un
aneddoto sulla nostra giovinezza che Altaïr aveva tirato fuori
vedendo un ragazzino inciampare dinanzi alle porte della fortezza.
« Maria di certo non avrà bisogno di un marito che
cade a
terra dal sonno, domani ».
Lui sospirò, volgendo il suo sguardo alla torre dove aveva i
suoi appartamenti.
Difficile dire cosa gli passasse per la testa in quel momento, anche se
sul viso gli si leggeva chiaramente
l’agitazione.
« Ti vengo a cercare non appena mi diranno qualcosa
», mi promise e io gli risposi annuendo.
« Mi farò trovare. Per ora, pensa a dormire
».
__________________________
Note d'autore
[1]
"La
pietra cresce senza pioggia" è una citazione che viene
dritta
dritta dal testo della canzone linkata sotto il titolo. Tumbalalaika
è un canto popolare russo, usato da Roberto Faenza in suo
film
abbastanza recente, e narra di un innamorato che non sa decidersi se
confessare o meno il su amore alla fanciulla che ama. I versi finali,
dopo molte notti insonni che affliggono i pensieri del giovane,
recitano: Giovane
sprovveduto,
perché struggersi ancora? Solo la pietra cresce senza
pioggia,
solo l'amore arde per anni. Solo il cuore può piangere senza
lacrime e bramare.
[2]
Mi dicono (io non lo sapevo :c) che in antichità
l'erba
gatta era usata come emolliente per l'orticaria causata dall'allergia.
Quando si dice il caso ...
[3] Arak:
un liquore tipico
arabo originario della Siria. Ha una gradazione che si aggira attorno
ai settanta gradi alcolici, quindi, eh, non è proprio una
passeggiata.
Tradizionalmente viene bevuto in un bicchiere da tavola, allungato con
acqua (un po' come l'ouzo
greco).
Lo
so che il capitolo sembra lungo, ma non temete: è tutta
apparenza. Sono soltanto dialoghi e tanti, tantissimi punti-a-capo.
E niente. Gongolo perché è una settimana buona
che penso
a come rendere i caratteri di Darim e Sef, nomi dal significato
stupendo, tra l'altro <3
Sef in particolar modo avrà un ruolo molto attivo, ergo ...
sono contenta di essere arrivata fin qui c:
Un grazie a tutti quelli che seguono, mipiacizzano (?), recensiscono e
ne parlano con la nonna (lo so che ci siete anche voi, là
fuori!).
Tra l'altro: mi rendo conto che ultimamente ci sono stati un po' di
salti temporali, ma non temete! Ho una giustificazione (?) anche per
questo. Secondo la mia nuova Bibbia (=Assassin's Creed wiki) gli anni
tra la quasi-guerra-civile a Masyaf e la partenza di Altaïr
e Darim sono stati anni felici, calmi, senza troppi problemi.
Per questo, sto cercando di tirarla "veloce ma non troppo" fino al clou
della cosa: la morte di Sef. Perché scrivere di
momenti
felici in compagnia degli amici non è divertente.
Detto
ciò:
Grosse
montagne di cibo
giapponese (cara Onice,
la battuta l'ho capita ora. Altra
prova di quanto io sia lenta. Chiedo umilmente scusa!
Lechatvert
|
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Capitolo 15 *** Quattordicesimo – soffitto di stelle ***
modellostorieefp
Premessa:
ci saranno tante note.
Non ho saputo evitarlo ♥
__________________________
«
Malik, c’è qualcuno che dovresti conoscere
».
Con insolito calore, la voce pacata di Altaïr mi distolse
dalla lettura di quel tomo di storia che l’intera fortezza
sembrava voler impedirmi di concludere.
Alzai il naso dalla pagine, trovando il mio compagno in piedi sulla
soglia con le braccia occupate da un cumulo di coperte.
Aveva lo sguardo incantato, perso a contemplare quel fagotto da cui
sembrava non poter staccare gli occhi di dosso.
Senza commentare, abbandonai la scrivania, portandomi accanto a lui per
sbirciare oltre il bavero immacolato delle coperte.
« Ti presento Darim ». Il tono di Altaïr
si fece tentennante, agitato, ma anche orgoglioso, in un certo senso.
« Mio figlio ».
Guardando Darim dormire tranquillo tra le braccia di suo padre, ebbi
l’impressione di trovarmi di fronte a un secondo
Altaïr. La stessa carnagione scura, lo stesso viso dai
lineamenti morbidi ma decisi, le stesse dita affusolate strette in due
piccoli pugni.
Rimasi a contemplarlo a lungo, mentre lui non dava segno di volersi
svegliare.
« Maria sta bene? », chiesi alla fine, destati
all’improvviso dal gesto di Altaïr che si piegava in
avanti per permettermi di prendere suo figlio in braccio.
« Sì, ma ha passato la notte in bianco ed
è crollata dopo averlo allattato », rispose.
« Non l’ho ancora vista. Ha detto alle infermiere
di non voler avere nessuno intorno a disturbarla, mentre dorme
».
Osservai Darim accoccolarsi come meglio poteva contro il mio petto,
affondando il visino nella cappa.
« Visto? », mi disse Altaïr, con un
sorriso intenerito sul volto. « Ha la stessa dolcezza di sua
madre ».
« Non è troppo silenzioso, per essere un neonato?
», commentai io, pensieroso.
L’unica esperienza che avevo con i bambini era Kadar e, da
quello che i nostri cinque anni di differenza mi permettevano di
ricordare, nei suoi primi mesi di vita non aveva fatto che piangere.
« La levatrice dice che è normale »,
disse Altaïr. « Ha iniziato a strillare non appena
è venuto al mondo, ma a quanto pare si è calmato
quando Maria l’ha preso in braccio e da allora non ha
più aperto bocca ».
« Tanto meglio ».
Cullai un poco Darim, osservandolo sbadigliare e muovere le manine nel
sonno, quasi a voler cercare qualcosa da afferrare. Strinse i pugni
attorno al bavero del mio mantello, tirandolo leggermente per
portarselo alla bocca.
« Non pensi abbia fame? », chiesi, osservandolo
passare le labbra sottili sulla cappa.
Altaïr alzò le spalle.
« Di solito piangono, quando hanno fame. No? »
« Non ne ho idea. Forse dovresti riportarlo da sua madre
».
Riconsegnai il fagotto al mio compagno, accarezzando la fronte del
bambino con fare intenerito.
A quel contatto, Darim emise un gorgoglio di approvazione, ma non si
degnò né di aprire gli occhi né di far
sentire la sua voce.
Nei mesi avvenire, capimmo il perché di tutto quel silenzio.
A Darim, nonostante il suo nome¹, non piaceva
parlare. Non gli piaceva strillare, non gli piaceva gridare o piangere,
come tutti i bambini della sua età facevano. Emetteva
qualche verso strozzato di tanto in tanto, ma era tutto ciò
che ci si poteva aspettare da lui e la cosa non andò a
cambiare negli anni, quando divenne sufficientemente grande per farsi
capire a gesti, piuttosto che a parole.
Tutto il contrario di suo fratello Sef che, dal giorno in cui venne al
mondo a quello in cui venne ucciso, non fece che blaterare su ogni cosa
gli passasse per la mente.
Guardai Altaïr allontanarsi con suo figlio tra le braccia e mi
chiesi se fosse stata Qitt, a farlo nascere.
Sapevo che la levatrice era una donna anziana e che stava insegnando le
sue conoscenze alle infermiere più giovani,
perciò non era del tutto improbabile
Mi chiesi anche se Imaad l’avesse notata passare dalla
fortezza all’ospedale, ma mi resi conto che quando Qitt
voleva evitare qualcuno non c’era possibilità che
venisse scovata. Era un gatto anche da questo punto di vista: la si
poteva cercare ovunque e per giorni ma lei era lì, nascosta
chissà dove, pronta a sbucare fuori quando ci si allontanava
di qualche passo.
E in effetti, nei mesi successivi, per stanarla Imaad dovette giocare
d’ingegno. Fu una storia che mi raccontò lui
stesso qualche tempo dopo, quando ci incontrammo per caso sui
camminamenti della fortezza in una notte non particolarmente fredda.
Era uscito di buona lena una mattina per andare nella cittadella a
raccogliere l’erba gatta che usava per indebolire
l’allergia e l’aveva trovata nel giardino
dell’ospedale tutta intenta a cogliere foglie di menta e
rosmarino per i pazienti.
Lei era schizzata via dimenticando persino il suo cestino, ma lui si
era fatto furbo e, da quel giorno, ogni mattina si presentava nel
cortile al sorgere del sole per aiutarla a raccogliere le erbe.
Era un compito che lei, in quanto infermiera, non poteva rifiutare ed
era quindi obbligata condividere con lui quello stretto
quadrato di terra che era il giardino botanico.
Dovette aver insistito davvero molto, Imaad, perché finirono
per sposarsi prima di febbraio.
La sera delle loro nozze non aveva nevicato e, sebbene il terreno fosse
coperto da qualche fiocco ghiacciato, l’aria non era poi
così fredda e il cielo copriva il cortile interno della
fortezza come un soffitto di stelle.
Normalmente non ci sarebbero stati dei gran festeggiamenti per il
matrimonio di un’infermiera, ma era un Maestro Assassino a
prendere moglie e per l’occasione l’intero salone
centrale era stato adibito a banchetto il cui capotavola spettava
all’acclamato Maestro Altaïr.
Non conservo molte memorie di quella sera, principalmente
perché in tavola fu servito più Arak che acqua.
Ricordo il gran frastuono dei tamburi² che i fratelli maggiori
di Imaad si preoccuparono di far suonare durante tutta la festa,
assieme a qualche canto sommesso che veniva dalla stanza adiacente,
dove le donne festeggiavano la sposa.
Non vidi Qitt fino a che la testa non mi girò troppo per
accettare l’ennesimo bicchiere di Arak e mi congedai con la
scusa di una boccata d’aria.
Non bevevo dai tempi in cui io e Altaïr festeggiavamo la
riuscita di una missione nei bordelli di Acri, ma allora avevamo
entrambi meno di vent’anni e il tempo era stato
più che sufficientemente per abituare il mio stomaco a
bevande assai più delicate.
Quindi, un po’ per allontanarmi dal raccapricciante battere
dei tamburi, un po’ perché una boccata
d’aria era sul serio ciò che mi serviva per
tornare un po’ più sobrio, mi incamminai fino al
cortile interno, speranzoso di trovare finalmente il silenzio di cui
sentivo la mancanza.
Trovai invece Qitt in piedi sul parapetto che dava sui cortili a
terrazza di Al Mualim.
Indossava una veste color sabbia lunga fino alle caviglie, coperta in
parte dalla tunica bianca nuziale e dal velo chiaro, sistemato
frettolosamente su una spalla per lasciare liberi i folti capelli neri
ornati dai fiori secchi che le altre infermiere le avevano intrecciato
con cura.
Mi sentì arrivare e si scostò per salutarmi con
un lieve inchino, ma non accennò a rimettersi il velo.
« Ancora qui, Qutaita³?
», la salutai, sorridendo appena.
Mi pentii subito di averla chiamata così, spento
dall’occhiata stranita che mi lanciò.
« Pensavo fossi già scappata », dissi
appoggiandomi al parapetto. La guardai a lungo, studiando il suo
profilo nel buio della sera. « Ci stavi pensando, vero?
»
Lei alzò le spalle.
‘Forse’,
mi dissero i suoi occhi furbi.
Mi guardava di sottecchi perché non mi aveva mai visto in
abiti da cerimonia o perché credeva che fossi andato fin
lì per fermarla? Non lo seppi mai.
Mi volati ad ammirare la piana stagliarsi oltre i profili di Masyaf,
così libera dal paesaggio montuoso che avevamo alle spalle
da riuscire, nei pomeriggi più soleggiati, a vedere persino
le spiagge di Tortosa.
« Ce la potresti fare », considerai, ondeggiando il
capo con fare allegro. « Arriveresti al porto entro due
giorni e da lì, bé, l’Europa!
»
Qitt ridacchiò sommessamente, sedendosi sul parapetto di
marmo.
‘Lo sai, da
ubriaco sei molto più divertente’.
Non credo volesse intendere quello, ma fu più o meno come lo
recepii a causa dell’eccessiva allegrezza data dal liquore
che i miei compagni non avevano fatto che buttarmi nel bicchiere.
« Ad ogni modo, voglio che tu sappia che hai fatto la scelta
giusta », continuai, senza distogliere lo sguardo dalla
piana. « Non saresti potuta incappare in una persona migliore
».
Perché Imaad era ingenuo, infantile ma in fondo coraggioso e
d’animo buono. E tutte quelle non erano congetture di una
mente inibita da un Arak di pessima qualità.
Optai per stare zitto, sperando di riuscire a fare una figura meno
magra, ma sapevo ormai di aver inculcato nella mente di Qitt il
terribile dubbio: ora che era moglie, avrebbe potuto anche essere
libera di sparire come faceva sempre? Libera di vivere alle spalle
della gente, senza dovere niente a nessuno?
Ancora una volta, tradii la mia volontà di non interferire
oltre.
« Sarete felici », le assicurai, prendendole la
mano come quel giorno all’ospedale. « Te lo
prometto ».
Non ci credevo davvero, neanche con tutto l’Arak che mi ero
scolato.
Lei sorrise appena, guardando prima la mia mano sulla sua poi me.
Arrossì un po’, affondando il viso nel colletto
dell’abito, e finì col voltare il capo verso la
piana, ben attenta a non intercettare di nuovo il mio sguardo.
« Qutaita
», la richiamai, calmo.
Ridacchiò infastidita a quel soprannome, ma non
arrivò a scoccarmi alcuna delle sue saccenti occhiate,
poiché la voce di una donna la fece ritrarre bruscamente
dalla mia mano.
« Caifa,
accidenti! »
Mi voltai verso le porte e trovai una delle infermiere in piedi dinanzi
a noi, con un ciuffo di capelli castani che scivolava da sotto al velo
e le penzolava sulla fronte.
Per molti giorni, l’unico ricordo che serbai di lei fu quel
ricciolo ribelle che danzava a ogni suo respiro.
« Tuo marito ti cerca; è ubriaco »,
sentenziò, con uno sbuffo che utilizzò per
scoccarmi un’occhiata severa. «
Bé, a quanto pare lo sono proprio tutti ».
Mi feci avanti, passandomi una mano sul volto nel tentativo di
ricompormi.
« Altaïr è ancora dentro? »,
chiesi.
Credo ci misi un po’ a pronunciare quella frase,
poiché sul viso dell’infermiera si dipinse un
sorrisetto di scherno, prima che lei portasse le mani sui fianchi per
soffocare una risatina.
« Macché, anzi! Vi siete persi una scena!
», esclamò, piegandosi in avanti. « Maryam lo ha
rimproverato davanti a tutta la sala. Roba che anche quegli scemi ai
tamburi hanno smesso di fare cagnara. Se ne parlerà per un
bel po’4!
»
Fui lieto di vedere che anche quella ragazza concordava con me sul
fatto che suonare i tamburi ai matrimoni fosse cosa da inetti, ma non
arrivai neanche a cercare le parole per una risposta sensata che Qitt
mi superò con un balzo, avviandosi verso il salone con la
sua compagna sotto braccio.
« Che modi, Caifa », la rimproverò
questa, sbuffando con il suo ricciolo castano che le coronava la
fronte. « Bé, buon rientro a casa, Rafiq!
»
Nella foga di pensare a un saluto decente, riuscii solo a chiederle il
nome.
« Malika5
». Mi sorrise con aria arguta, sventolando la mano con un
gesto aggraziato. « Come Agnese di Francia! »
Vorrei poter dire che conservai quella risposta in fondo al cuore fino
a che non ci incontrammo nuovamente, che apprezzai il fatto che il
destino ci avesse legati donandoci lo stesso nome. La verità
è che, un po’ per l’allegrezza del
liquore, un po’ per il fatto che dopo una giornata di
festeggiamenti ero letteralmente a pezzi, la mattina seguente mi ero
quasi dimenticato di quell’incontro.
Mi restò in mente soltanto il ciuffo ribelle e il suo lento
dondolare a ogni sussulto, ma non fui mai abbastanza coraggioso da
chiedere a Qitt come si chiamasse la ragazza che, la notte del suo
matrimonio, ci aveva interrotti così bruscamente sotto a
quel soffitto di stelle.
__________________________
Note d'autore
[1] Darim
significa letteralmente cantastorie,
o narratore.
Tra l'altro, per lui e Sef ho deciso di ispirarmi all'headcanon di questa
ragazza su Tumblr. Mi è sembrato che fosse molto benfatto e
anche giustificato e poi voglio dire avete visto come disegna
Marcello
Auditore?
Questa
è una fanart della suddetta artista (da sinistra a destra:
Innokenti, figlio di Nikolai; Tazim, figlio di Malik; Marcello, figlio
di Ezio; Darim e Sef, figli di Altaïr).
I caratteri che ha dato a Darim e Sef sono rispettivamente: il primo
è molto silenzioso, calmo, disciplinato e assolutamente
sottomesso al volere del padre, almeno in giovinezza. Il secondo
è allegro, carismatico, istintivo, ostinato. Entrambi sono
due
abili combattenti ma, mentre Darim è abile nell'uso
dell'arco e
non sbaglia mai un colpo, Sef si butta corpo a corpo creando un gran
casino intorno a sé e stendendo la gente con la lama celata.
[2] Ho letto in un libro sulla secolarizzazione delle religioni, che
l'islamismo vieta le danze ai matrimoni. I canti sono ammessi solo se
sacri (e generalmente sono tenuti dalle donne), mentre anticamente vi
era la tradizione di affidare alla famiglia dello sposo dei tamburi che
andavano suonati dall'inizio alla fine del banchetto. (Evidentemente il
mal di testa causato dal cantare di un'intera sala di persone non era
abbastanza D:)
[3] Qutait(a) significa
letteralmente gattino,
riferendosi a un esemplare della razza particolarmente piccolo. Non
è quindi un gatto giovane, ma un gatto piccolo di dimensioni.
[4] Tradizionalmente, lo sposo siede in una sala con gli uomini e la
sposa in una sala a parte con le donne (a differenza dei matrimoni
cristiani dell'epoca, in cui la sposa era ammessa al tavolo degli
uomini). Il fatto che Maria entri a riprendersi suo marito
infischiandosene degli altri uomini non è cosa da scandalo
ma
... sì, contando i tempi che corrono è cosa
da scandalo.
[5] Malika
significa regina, ed
è il femminile di Malik. Agnese, per la cronaca, era la
regina
sul trono di Francia all'epoca. No, è che fondamentalmente
sono
talmente pigra da non aver neanche voglia di cercare un nome decente su
internet quindi ... riciclo gli altri e li metto al femminile. *porge
le mani per farsele tagliare come punizione
Per concludere queste note che anche io sto iniziando a detestare,
vorrei fare una precisazione sull'uso dell'alcol.
L'islamismo (come d'altronde il cristianesimo) abiura l'uso di sostanze
che alterano lo stato mentale dell'individuo tra cui, appunto, alcol e
droghe. Il fatto che abbia volutamente inserito l'arak al banchetto
nuziale deriva dal fatto che, bé, sono Assassini! Il Corano
disdegna anche l'uomo che uccide il suo simile, ma non mi pare che a
Masyaf ci si faccia poi tante paranoie a riguardo. Inoltre, il divieto
di consumare bevande alcoliche all'epoca
si legava all'obbligo di essere puri in
preghiera (Allah ordinò ai Musulmani di non pregare mentre
erano
ubriachi, versetto 43).
Mi rendo conto che tutte queste note sono un'esagerazione, ma non ho
saputo resistere o accorciarle. E non è stato l'ultimo
l'esame
di religione che incombe a gennaio, a impedirmelo. Neanche un po'.
Nulla, ci tenevo ad aggiornare ancora prima di Natale per fare a tutti dei
grandi, grandi auguri di Buone Feste!
:D
Personalmente, ho già iniziato a riempirmi la pancia di
pandoro
e sono tornata a casa in Trentino, dove c'è una bella
stufetta
che mi vuole bene e mi coccola ♥
Nulla,
immagino sarò troppo occupata a ingozzarmi come il tacchino
ripieno del venticinque per aggiornare prima di Natale,
perciò
ci si rivede tra due tagile di jeans in più post-cenone.
Auguri a tutti,
passate una meravigliosa giornata con le vostre famiglie, i vostri cari
e i vostri parenti che si vedono una volta l'anno e che nessuno sa da
dove arrivino (chi non ne ha?)! ♥
Panettoni, pandori e liquirizia,
Lechatvert
|
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Capitolo 16 *** Quindicesimo – il lupo e l'ambra ***
modellostorieefp
Anbar
e Sef
vennero alla luce lo stesso anno, la prima sotto il sole cocente di un
agosto che sembrava non voler più terminare, il secondo nel
freddo invernale che a Masyaf arrivava sempre assieme alla neve.
Anbar Al-saydy, figlia di Caifa e Imaad Al-saydy era l’esatta
copia di sua madre, con una nota di allegria nella voce squillante e
tutto il carisma di suo padre racchiuso nella medesima impazienza.
Nonostante nel tiro con l’arco fosse molto più
brava di
quanto desse a vedere, rifiutò di seguire le vie
dell’Ordine e si dedicò all’ospedale
come infermiera.
La ricordo bambina, seduta alla mia scrivania nell’intento di
imparare a leggere e a scrivere, perennemente alleata con Sef in
un’assurda guerra contro Darim che riusciva meglio di loro a
memorizzare le lettere. Tempo qualche anno e quella triste congiura nei
confronti del primogenito di Altaïr le si rivoltò
letteralmente contro quando, a dodici anni, Sef si rese conto che
essere amico di una bambina lo avrebbe messo in cattiva luce con i
compagni al campo.
Fu allora che, in un arido mese in cui Altaïr e Maria erano
lontani per condurre i loro studi sulla Mela oltre il Mediterraneo, tra
i novizi si scatenò una vera e propria battaglia che Imaad
non
fu in grado di contenere e che, ovviamente, toccò a me
reprimere.
Sef ne uscì con un paio di bende sul braccio e una punizione
che
lo esentava dagli allenamenti per almeno una settimana. Darim, rigoroso
com’era in ogni sua azione, era riuscito a tirare qualche
pugno
senza farsi scoprire e perciò venne salvato, appropriandosi
silenziosamente delle due ore di lezione individuale che normalmente
Sef aveva con Imaad.
Fu durante una di queste sessioni che mi resi conto
dell’ottimo lavoro che il maestro aveva svolto con i suoi
allievi.
Io e Sef riposavamo all’ombra delle mura, ben attenti a
ciò che Darim combinava all’interno del recinto.
Anbar passò proprio in quel momento, indaffarata ad aiutare
sua
madre che trafficava con le erbe da portare all’ospedale, e
si
fermò a farsi vezzeggiare da suo padre seduto sullo
steccato.
Negli anni, quei tre erano diventati inseparabili, tanto che dopo il
matrimonio mi fu difficile riuscire a trovare un po’ di tempo
per
discorrere con Qitt come facevamo quando restava a suonare
l’ocarina sul banco della Dimora.
Quel giorno, comunque, parlammo a lungo davanti
all’allenamento di Darim.
Io e Sef ci avvicinammo per assistere ai suoi ultimi tiri e io ne
approfittai per abbracciare Imaad, che non vedevo da quasi una
settimana.
« Salute e pace », esordì Sef, gonfiando
il petto
nella sua veste color della neve. Poi guardò il suo maestro
di sottecchi, ancora visibilmente offeso per la punizione. «
Anche a te, Maestro ».
Imaad lo zittì con un gesto della mano.
« Guarda tuo fratello e impara un po’ di
disciplina, ragazzo », gli rispose, sottovoce.
Mentre Anbar scoccava a Sef un’occhiata di velenoso
divertimento,
io e Qitt ci stringemmo al recinto per osservare la scena in silenzio.
Darim, quindici anni compiuti a ottobre, stava ricaricando a terra una
balestra che per poco non lo superava in altezza. Sembrava impossibile
che un ragazzino come lui – che di certo non aveva ereditato
la
stazza del padre – potesse reggere una simile arma.
Lo guardammo tendere la freccia e dare le spalle al bersaglio,
scambiando un’occhiata fugace con Imaad.
« Non riuscirà mai a fare centro »,
commentò Sef, imbronciandosi un po’.
Anbar lo ribeccò con uno sbuffo seccato.
« Perché
non deve fare centro, Abit² ».
Si inginocchiò a terra con grazia e raccolse arco e frecce,
passando tutto al padre.
Sapevo cosa stavano per fare. Era un esercizio che avevo visto riuscire
soltanto ad Altaïr, dopo anni e anni di esercizi.
Con un cenno d’intesa, Imaad scoccò una freccia
verso il paglione.
Accadde tutto così velocemente che lasciò tutti
senza fiato.
Darim parve letteralmente volare sulla sabbia del campo, voltandosi con
la balestra in aria e scoccando la sua freccia un istante dopo quella
del suo maestro.
La centrò del tutto, spaccandola in due metà
perfette che
caddero a lato del paglione, e rimase a osservare il suo lavoro da
lontano, mentre una goccia di sudore gli rigava la fronte contratta.
L’applauso di Imaad ruppe il silenzio del nostro stupore.
Del mio stupore.
Neanche Altaïr era mai stato in grado di colpire la freccia in
volo con così tanta perfezione.
« Bravo, ragazzo! », esclamò Imaad,
balzando
all’interno del recinto per andare a scompigliare
affettuosamente
i capelli del suo allievo. « Direi che hai qualcosa da
mostrare a
tuo padre, quando farà ritorno! »
Darim si rivolse al suo maestro chinando rispettosamente il capo.
« Il merito è vostro, Maestro », lo
sentii dire, mentre Imaad scoppiava a ridere.
« Via, via! », gli rispose infatti, spingendolo
verso il
recinto. « Con la balestra mi hai persino superato! Non mi
resta
poi molto da insegnarti! ».
Sapevamo tutti cosa volesse dire.
Ancora pochi mesi e Darim, giovane com’era, avrebbe ottenuto
il
giusto grado per iniziare le sue prime missioni fuori Masyaf. Proprio
come me e Altaïr, che venticinque anni prima partimmo per Acri
con
tutta l’esaltazione e la paura di chi per la prima volta
lascia
la fortezza, anche Darim stava per essere affidato alla supervisione di
un Maestro Assassino che lo avrebbe addestrato sul campo.
Fu in quel momento che realizzai quanto il tempo fosse passato da quel
giorno, quello in cui Kadar era morto e in cui tutto era andato
sgretolandosi per poi ricomporsi sulle solide spalle di Altaïr.
Io avevo quarantacinque anni e Kadar, così come Imaad, ne
avrebbe avuti quasi quaranta. Sarebbe stato uomo, magari sposato e con
dei figli che avrebbero potuto sbucciarsi le ginocchia assieme a Sef.
Ed era successo tutto così in fretta che non mi aveva
lasciato
nemmeno il tempo di pensare o di accorgermi di quanto tutto stesse
cambiando.
Erano arrivati Qitt e Imaad con una prepotenza tale da lasciarmi senza
fiato dinanzi alla loro disponibilità dei miei confronti,
poi
era arrivato un nuovo Altaïr, era arrivata Maria, nei cui
confronti all’inizio provavo un astio incalcolabile ma che
con il
tempo avevo imparato ad apprezzare. Erano arrivati i loro figli a cui
badare, era arrivato l’ospedale da ampliare, una nuova torre
da
costruire, erano arrivate nuove battaglie, nuovi problemi a cui pensare
…
La mano di Qitt sulla mia spalla mi strappò a quel vortice
di
ricordi con gentilezza e riguardo e in un istante mi trovai i suoi
occhi verdi puntati addosso in un’espressione dolce, piena di
cortesia.
Aveva più di trent’anni e io ancora la vedevo
correre
avanti e indietro dall’ospedale alla legnaia come la
ragazzina
bassa e piena di cicatrici che a Masyaf si era fatta tagliare la gola
ed era quasi morta in un mucchio di fieno.
« Stanno crescendo », dissi, guardando Darim
allontanarsi
con la balestra ancora in spalla e con Sef che lo pregava di
lasciargliela quantomeno toccare.
Anbar li seguiva con la mano chiusa in quella del padre, ben attenta a
ogni parola che lui pronunciava.
Qitt mi fece strada verso la fortezza, sorridendomi appena.
‘Cresciamo
tutti, Rafiq’.
La guardai a lungo in viso, lasciandomi sfuggire un sospiro rassegnato
mentre camminavamo fianco a fianco.
« Sai, mi capita a volte si sentirmi qui in veste di
rappresentante, anziché di essere umano »,
confessai, dopo
aver ponderato attentamente le parole nella mia mente. « Tu e
Imaad, con Altaïr e Maria. Tutti i nostri vecchi compagni
hanno
preso moglie e si sono costruiti una famiglia. Sono convinto che
persino Kadar sarebbe padre, se fosse ancora qui ».
Mi resi conto che avevo passato gli ultimi quindici anni dietro una
scrivania, preso a controllare documenti su documenti, a coordinare
lavori e a zittire le voci più scomode. L’unica
donna che
avevo avuto intorno era stata Qitt e per lei provavo sentimenti
contrastanti, che non sfociavano nell’amore ma si fermavano a
un
silenzioso affetto.
La guardai prendermi a braccetto e sorridermi con fare incoraggiante,
quasi avesse letto nella mia mente ogni mio singolo pensiero.
Si strinse a me, ridacchiando mentre un ciuffo di capelli scuri le
scivolava sulla spalla.
‘Io te
l’avevo detto, che ci volevamo bene’.
Pensai che in fondo potevo essere io, l’uomo al posto di
Imaad.
Se avessi avuto lo spirito di accogliere quella frecciatina nei miei
confronti, quella che quindici anni prima ci aveva quasi fatti
litigare, probabilmente in quel momento io e lei saremmo stati marito e
moglie, per quanto bizzarra quell’idea potesse suonare.
« Qitt, ho una domanda », dissi, accelerando il
passo per
raggiungere gli altri. Era da quando Anbar era venuta al mondo che non
vedevo Qitt sparire. Ormai del gatto non aveva più niente,
ma
c’era chi ancora si intestardiva a chiamarla così.
Io, per
esempio. « È da un po’ che non scappi
».
Per risposta, Qitt indicò Imaad prendere in braccio Anbar
per
baciarle la fronte. Li guardò con un sorriso talmente
intenerito
che mi ricapitò spesso di ripensare a quella scena.
Già, da cosa doveva scappare, in fondo?
Da ragazzina, fuggiva a gambe levate quando il mondo che aveva intorno
si ribellava alle leggi che lei gli imponeva. Quando stava male, quando
succedeva qualcosa di sgradevole, quando non sapeva come reagire alle
brutte notizie.
Ma ora il suo mondo era lì, chiuso nei sorrisi e nei baci
della
sua famiglia. Non c’era più niente per lei, a
Gerusalemme
o nel Regno. La sua realtà era interamente rinchiusa nella
fortezza di Masyaf.
E allora avevo mantenuto quella promessa, quella fatta
nell’allegrezza dell’alcol al suo matrimonio,
quando le
avevo detto che sarebbe stata felice.
All’epoca non ci avevo creduto nemmeno io.
La sospinsi verso suo marito, lasciandola andare a prenderlo per mano
mentre Anbar rincorreva i due fratelli sulle scale con tutta
l’intenzione di prendersi la balestra.
Guardai Qitt e Imaad accarezzarsi la schiena a vicenda mentre
osservavano la loro figliola allontanarsi sul corridoio e pensai che,
forse, era ora che lasciassi andare l’appiglio che
rappresentavano per me.
Ci provai, ma non ne fui in grado.
Quella notte, quando mi coricai con la sensazione di essere
più
solo che mai, il suono dell’ocarina di Qitt si
levò nel
silenzio, cullando ancora una volta i miei sogni.
Erano passati anni da quando l’avevo ascoltata nella Dimora
di
Gerusalemme e fui più che lieto di concedermi al sonno
lasciandomi andare ai lieti ricordi che quella musica mi scaturiva.
Durante la notte, sebbene non mi svegliai, sentii i passi di Qitt
entrare nella mia stanza e aggirarsi nell’ambiente con la
circospezione di sempre, per poi fermarsi a guardarmi dormire.
Non fu discreta, stavolta, perché il mattino seguente mi
svegliai con la sensazione delle sue labbra morbide sulla fronte.
__________________________
Note d'autore
[1] Anbar significa ambra
grigia (un materiale da non confondere con l'ambra che tutti conoscono)
che viene usata per creare profumo e incenso.
Sef, sebbene da molti venga tradotto come 'ieri', è
traducibile anche come lupo.
Il nome ha infatti due derivazioni: la prima egizia (tradotta in ieri)
e la seconda araba (lupo).
[2] Abit
significa stupido in arabo.
Yuhu! E'
Natale
*-*
Mi sono riempita la pancia di pandoro e sto beeeeeeeeeenissimo u.u
Tra l'altro mi hanno regalato una bellissima
biscopistola, con la quale sono certa conquisterò
il mondo a suon di zuccheri e kilocalorie in eccesso! *posa da eroina
in un film americano
A parte questo, ho deciso di aggiornare perché boh. Insomma,
era una scusa come un'altra per scampare ai parenti in vena di
strizzamenti e abbracci.
La buona notizia è che nessuno mi separerà mai
dalla mia temibile arma ♥
Biscotti sparati dalla mia biscopistola,
Lechatvert
PS delle 2:22
Mi sono accorta ora che la storia ha compiuto un mese! *stappa vino
Yuhu! Doppio brindisi!
|
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Capitolo 17 *** Sedicesimo – inutili paranoie ***
modellostorieefp
Nel
614, Altaïr decise di partire per la Mongolia e di portarsi
dietro, oltre che la sua fedele Maria, le braccia forti e lo spirito
combattivo di Darim, che all’epoca aveva appena compiuto
ventidue anni.
Sef pregò in tutti i modi sua madre di portarlo con
sé, ma Maria fu ferrea: non era compito di un padre di due
figlie piccole, combattere una guerra lontana da casa, e inoltre
qualcuno doveva restare a Masyaf per aiutarmi
nell’amministrazione.
Non credo avrei potuto appoggiarla di più, nonostante
sapessi quanto male quella preferenza facesse male a Sef.
A differenza di Darim, che nella sua adolescenza si era dedicato
esclusivamente ad affilare la spada e a tirare con l’arco,
lui aveva alternato gli allenamenti a quel poco di vita sociale che
c’era all’interno della fortezza. A
vent’anni aveva ormai fatto pace con Anbar e le aveva chiesto
di sposarlo e lei, neanche un anno dopo, gli aveva dato due figlie
femmine nate lo stesso giorno.
Inutile sprecare parole su quanto ciò rese felice Imaad.
Essere elevato alla stessa famiglia di Altaïr fu cosa che lo
rese più fiero di ogni rango che l’Ordine potesse
conferirgli.
Quella mattina, eravamo tutti e tre sulle mura della fortezza assieme a
Darim, ad osservare Altaïr allontanarsi a cavallo,
più deciso che mai nel combattere una guerra che
probabilmente sarebbe una delle ultime, vista la sua età.
La nostra
età, a dire il vero, ma io mi ero ritirato da tempo dai
combattimenti e cominciavo a sentirne sempre meno la mancanza.
Imaad, che stranamente era di pessimo umore, parlò per primo.
« Credo sia tempo che tu vada », disse, rivolto a
Darim.
Il ragazzo annuì, limitandosi a distogliere lo sguardo dalla
valle.
Altaïr era partito per primo assieme a Maria e lui doveva
seguirlo poco dopo, assicurandosi una scorta per il viaggio e i dovuti
approvvigionamenti.
Silenzioso come sempre, strinse la mano di Sef, il quale lo
trascinò in un abbraccio senza neanche lasciargli il tempo
di divincolarsi.
« Torna a casa intero, Fratello », gli disse,
affondando le sue dita nella casacca.
Darim lo guardò con severità.
« È ovvio », rispose, aggrottando la
fronte come se non contemplasse altre possibilità.
Poi si scostò e si voltò verso di me. «
Grazie di tutto, Malik ».
Ci stringemmo la mano senza aggiungere un’altra parola.
Sapevo che sarebbe tornato, ma non avevo idea di quando. Non ero
neanche sicuro di riuscire a vivere fino al suo rientro alla fortezza.
Le istruzioni di Altaïr parlavano di anni, se non di decadi.
Guardai Darim con un sospiro e lo seguii con lo sguardo fino ai piedi
di Imaad, dinanzi ai quali si inginocchiò con
solennità, tenendo il mento basso sulla sabbia.
« Maestro », gli disse, a voce bassa. «
Ogni vostro insegnamento è stato prezioso. Vi
onorerò in battaglia e farò tesoro delle
conoscenze che mi avete trasmesso ».
Come quella volta al campo, vidi Imaad cambiare colore.
Le sue guance divennero rosse e improvvisamente gonfie, mentre con il
piede scalciava nervosamente a terra.
« Alzati, Darim », gli disse, tenendo la mano al
ragazzo per farlo tirare in piedi mentre con goffaggine cercava di
ricomporsi. « Siamo pari, io e te. Non
c’è bisogno di tutte queste pomposità
».
Si abbracciarono quasi sapessero che non si sarebbero mai
più rivisti, quasi sapessero che quello era il loro ultimo
momento per stare insieme come il maestro e l’allievo che
erano stati per quasi vent’anni.
Guardammo Darim allontanarsi a cavallo verso le porte della cittadella
e, mentre il suo profilo spariva dietro le montagne, ebbi
l’impressione che sul viso di Imaad scendesse una lacrima di
commozione.
« Che fai, Maestro, piangi? », lo
schernì Sef, restando ben distante da lui nella precauzione
di non ricevere uno scappellotto.
Imaad lo zittì con un’occhiata seccata.
« Quante volte dovrò ripetervelo »,
sbuffò, tirando su col naso. « Sono allergico alla
polvere e questa dannata fortezza mi ammazzerà, un giorno.
Per fortuna che, se Allah vuole, entro l’inverno me ne
tornerò a Gerusalemme! »
Si voltò e si allontanò da solo sfregandosi la
manica della blusa sul viso, talmente irritato che, quando due dei suoi
vecchi allievi si fermarono a salutarlo, lui non li degnò di
un’occhiata e tirò dritto fino al campo degli
allenamenti.
« Che voleva dire? », mi chiese Sef, immobile con
le mani molli lungo i fianchi.
Io alzai le spalle.
« Il Rafiq di Gerusalemme sta morendo, dicono. Credo voglia
chiedermi di prendere il suo posto. Dopotutto, tu e Darim siete grandi,
il suo lavoro qui è fatto. Immagino voglia fare ritorno
dalla sua famiglia ».
Speravo con tutto il cuore che fossero soltanto voci; non ero pronto a
dire addio a lui e a Qitt.
Soffocando una risatina divertita, Sef mi scoccò
un’occhiata curiosa
« Non lo facevo così sentimentale »,
commentò, prendendo a camminare verso l’ospedale.
Lo seguii, divertito.
« Ha i suoi momenti », risposi. « E sta
invecchiando ».
Ridemmo insieme fino all’ospedale, prendendoci un momento per
discorrere come facevamo ogni qualvolta ci trovavamo liberi a
sufficienza per spendere un istante lontani dai nostri oneri.
Mi sorprendevo ogni giorno di più di quanto Sef fosse
diverso da suo padre. Possedeva la sua stessa irruenza e talvolta dava
segni dell’arroganza che Altaïr mostrava in
giovinezza, ma parlava sempre e con il sorriso sulle labbra. Si buttava
in battaglia senza riflettere, alternando la sua lama celata agli
stessi, letali fendenti che suo padre gli aveva insegnato a tirare. Di
certo non era un eccelso balestriere come Darim, ma era un ottimo
combattente, valoroso e con un grande senso dell’onore.
Quella mattina, mi parlò a lungo della sua intenzione di
prendersi carico di una parte dei miei compiti, in modo da aiutarmi a
smaltire il lavoro. Dopotutto, mi disse, se voleva che Altaïr
lo portasse con sé nella prossima missione doveva prima
dargli prova di essere maturo a sufficienza.
« Sto facendo trasferire Anbar e le bambine negli
appartamenti di mio padre », mi spiegò,
passeggiando con calma nel campo. Si guardava attorno con aria pacata,
dondolando leggermente sulle suole consumate degli stivali. «
Credo sia più sicuro ».
Gli scoccai un’occhiata perplessa, abbassando il tono di voce
man mano che ci avvicinavamo all’ospedale.
« Ci sono dei problemi, Sef? », chiesi.
Lui alzò le spalle.
« Non più del solito, invero. Sono il figlio del
Mentore: ho sempre problemi ».
« Temi in una cospirazione? »
Sef ridacchiò, scuotendo la chioma castana che gli cadeva
sugli occhi.
« No, no », mi assicurò, sereno.
« Ma è innegabile che mio padre avesse dei nemici,
quando ha preso il potere a Masyaf, e temo sia altrettanto innegabile
che li abbia ancora ».
Mi accigliai.
« Cosa te lo fa pensare? »
« Inutili paranoie, credo. Stamattina ho accompagnato Darim
nella legnaia e abbiamo trovato uno dei suoi cani sgozzato. Probabile
che sia stato solo qualche superstizioso, dopotutto quelle maledette
bestie ululano come dannate¹. Tuttavia, so che
dormirò sonni più sicuri all’interno
della fortezza ».
« Hai fatto bene a dirmelo, in ogni caso ».
Lo guardai entrare nell’ospedale in silenzio, precedendomi di
buon passo mentre io mi fermavo all’esterno, impegnato a
scrutare gli uomini che affollavano il campo.
Che quello scherzo di cattivo gusto al cane di Darim fosse opera di
nemici o superstiziosi, c’era da ammettere che era arrivato
con un tempismo decisamente inquietante.
Voleva essere un avvertimento? Ora che Altaïr era lontano,
arrivare alla sua posizione poteva sembrare più semplice.
Mentre si alzava il vento freddo del mattino, pensai che non lo sarebbe
stato affatto. Avrei dato tutto ciò che potevo, assieme a
Sef, per respingere qualunque magro tentativo di togliere il potere ad
Altaïr.
Non ci saremo di certo fatti dilaniare dalla paranoia per una bestia
morta nella legnaia. Eravamo più forti e sapevamo
dimostrarlo.
Entrai nell’ospedale e mi diressi immediatamente alla ricerca
di Qitt, trovandola in una delle stanze dei chirurgi, presa a pulire la
ferita che un ragazzino si era fatto alla spalla.
Non mi concessi la premura di bussare.
« Devo parlarti », le dissi, serio, senza degnare
di uno sguardo il ferito.
Lei sobbalzò ma mollò subito lo straccio sporco
di sangue, salutando il ragazzino con una carezza affettuosa sul capo e
affrettandosi a seguirmi sul corridoio.
« So che Imaad progetta di tornare a Gerusalemme »,
le dissi, attento a non farmi sentire dalle infermiere che affollavano
il corridoio.
Qitt annuì, prendendomi per la manica della cappa e
conducendomi in una stanza vuota.
Si richiuse la porta alle spalle e si assicurò di averla
bloccata, prima di rivolgermi uno sguardo soddisfatto.
‘Ora possiamo
parlare liberamente. Che succede?’.
« Voglio che restiate qui », risposi, serio.
Lei mi scoccò un’occhiata stupita.
« Sef ha fatto spostare Anbar e le sue figlie
all’interno della fortezza. Voglio che tu e Imaad facciate lo
stesso », spiegai. « Abbiamo motivo di credere che
ci sia qualcuno intenzionato ad attentare alla posizione di
Altaïr. Se ciò è vero, ci
sarà una battaglia. Sef non può farcela senza il
suo maestro e l’ospedale non può farcela senza di
te. Non potete andarvene ».
Mi arrivò uno sguardo diffidente.
‘Sei certo di
ciò che dici?’
Lentamente, annuii.
« Ho già in mente dei nomi ».
Come quello di Abbas, che avrei incaricato di tenere d’occhio
non appena tornato dietro la mia scrivania.
Qitt parve farsi comprensiva.
‘Allora
parlerò con Imaad’.
Chinai il capo in segno di riconoscenza. Credo fu la prima volta che
riservai a Qitt una simile formalità, ma sentivo veramente
il bisogno di averla accanto assieme a suo marito, se i miei sospetti
erano fondati.
« Un’altra cosa », dissi, bloccandola
mentre si accingeva a liberare l’uscio. « So che
sei una brava ascoltatrice. Ti sarei grato se mi riferissi ogni voce
circa questa faccenda, fondata o meno che sia ».
Lei strizzò l’occhio e sparì sul
corridoio, camminando a passo spedito verso la stanza in cui avevo
interrotto il suo lavoro.
La seguii poco dopo, dirigendomi però verso
l’uscita.
Sentivo il bisogno di rifugiarmi dietro la mia scrivania e considerare
seriamente l’idea di passare a un piano di difesa, ma la voce
squillante dell’infermiera che per anni avevo tenuto in un
angolo della mia memoria mi trattenne dal passare il resto della
giornata tra i libri.
« Rafiq! », mi chiamò, allegra, e io mi
sorpresi a riconoscerla prima ancora di voltarmi.
La ragazza del matrimonio, quella con il ciuffo di capelli che le
dondolava sul viso.
Mi corse incontro in un fruscio di candide vesti, tirandosi dietro un
cestino di vimini con aria raggiante.
« Quanto tempo! », cinguettò, fermandosi
dinanzi a me con aria raggiante. Si era fatta più grande,
più alta e, da ciò che il velo sul suo capo mi
permetteva di vedere, anche molto più bella. « Ti
ho visto uscire dal magazzino assieme a Caifa! », aggiunse
poco dopo, abbassando notevolmente il tono mentre si avvicinava.
« Credo dovreste essere più discreti, in un covo
di donne come questo le voci girano in fretta ».
D’impulso sentii il dovere di giustificarmi, ma ributtai
tutto indietro, lasciando cadere quella provocazione con un sospiro.
« Certe comunicazioni non possono aspettare il tempo di un
cambio di turno, ora che Altaïr è partito
», risposi, allontanandomi sul corridoio.
Lei mi seguì con passo scattante, tutt’altro che
intenzionata a lasciarmi in pace.
« Oh, ma lo vedo! », ridacchiò.
« Com’è che la chiami? Ah sì,
gatto. Bel soprannome, per una donna! »
Trovai Sef sul corridoio, intento a spiegare ad Anbar le sue
intenzioni e lessi sul suo volto un’espressione sorpresa
quando mi vide superarlo con una ragazza al fianco.
Lo superai sbottando, con tutta l’intenzione di rinchiudermi
nella mia biblioteca quanto prima.
Peccato che la ragazza del matrimonio fosse di tutt’altro
avviso.
« È bello essere di nuovo a Masyaf », mi
disse, cinguettante. « È da quando Caifa si
è sposata che aspettavo di tornarci! »
Mi spiegò brevemente che lei e suo marito vivevano a
Gerusalemme e che, da quando lui era morto l’inverno prima,
non aveva fatto altro che mandare missive all’ospedale per
pregarla di riservarle un posto da infermiera dentro la fortezza.
Missive che Qitt doveva aver ignorato senza troppi problemi, dato che
non me aveva mai fatto parola.
Finsi di interessarmi a quei racconti mentre in realtà
pensavo a tutt’altro, chiuso ancora nelle mie preoccupazioni
e nelle inquietudini che le parole di Sef mi avevano messo addosso.
La mia scrivania, in quel momento, restava la meta più
ambita.
« Perché non passeggiamo? », mi chiese
d’un tratto l’infermiera, prendendomi a braccetto.
« È una così bella giornata! »
Lanciai un’occhiata furtiva al cielo mattutino. Soffiava uno
strano vento e il sole era coperto da uno sottile strato di nubi. Non
esattamente una bella giornata, quindi, ma non glielo feci notare onde
evitare una discussione che mi avrebbe soltanto fatto perdere tempo.
« Al momento sono occupato », buttai lì,
senza neanche sforzarmi di mentire.
« Potrei aiutarti. Di cos’è,
esattamente, che ti occupi? »
Era chiaro come il sole che non mi avrebbe lasciato andare via senza
una spiegazione.
« Registri, per lo più », concessi,
dando un grande sospiro di rassegnazione. « Nella biblioteca
».
« Sembra noioso », commentò lei,
iniziando a trascinarmi verso il cortile dell’ospedale.
« Qualche minuto all'aria aperta ti farà bene!
»
Mi lasciai portare via senza neanche provare ad oppormi.
Da un lato mi faceva piacere, ricevere quel genere di compagnia. Ero
sempre troppo occupato per potermi permettere di trascorrere del tempo
con qualcun altro al di fuori della famiglia di Sef e anche il semplice
fatto di suscitare l’interesse di quella ragazza mi rendeva
meno restio ad accettare la sua compagnia.
Dovette ripetermi il suo nome, comunque, perché non fui in
grado di ricordarlo.
« Malika », mi disse, scostandosi il velo per
rimettersi in ordine quel groviglio di ricci castani che aveva al posto
dei capelli.
Aveva un senso del pudore tutto suo. Ben lontana dalla spudoratezza di
Qitt che si liberava del velo appena restavamo soli, restava comunque
diversa dalla maggior parte delle altre donne, cerando spesso il
contatto fisico con la scusa di appoggiarsi a me mentre si sporgeva a
raccogliere il rosmarino.
Era spontanea ma non peccava mai di finezza.
Mi piaceva, il suo modo di atteggiarsi e credo fu per questa ragione
che presi a trascorrere più tempo del dovuto assieme a lei,
forse trascurando un po’ sia Sef che i miei oneri.
Ma, dopotutto, Qitt e Imaad erano cresciuti assieme con una figlia che
a sua volta si era sposata. Con Altaïr lontano, sentivo su di
me il peso di una solitudine alla quale mi ero condannato da solo, come
quando avevo accettato il ruolo di Rafiq a Gerusalemme.
Con Malika, cercavo soltanto di recuperare il tempo che avevo dato
all’Ordine.
__________________________
Note d'autore
[1] Nella tradizione popolare, l'ululato del lupo
è segno di sventura e, in alcuni casi, di morte. Sebbene
uccidere un animale sia considerato peccato dalla fede islamica, non
era raro uccidere i cani il cui abbaiare assomigliava all'ululato del
lupo.
Ultime dal fronte
Intanto una bellissima fanart di Sef che
fa sempre bene e anche questa sequenza tenerissima che mi
fa sciogliere ogni volta (tra l'altro, spendete un istante a vedere
quali opere d'arte ha fatto questa ragazza :Q__) ♥
Sef diventa padre giovanissimo (a differenza di Altaïr
e Malik che se la prendono con mooooolta calma). Quando suo fratello
parte ha vent'anni ed è già sposato con due
figlie. Insomma, mi è venuto spontaneo affibiargli due
gemelle, tanto per non renderlo padre a diciassette anni che neanche al
tempo non era normale, per un uomo (in genere gli uomini venivano fatti
sposare dopo i venticinque anni con ragazzine più giovani).
Detto questo.
Sono felice di annunciare che sono arrivata al capitolo venti sana e
salva.
Ho dovuto affrontare una
morte, ma ce l'ho fatta. Sef è ancora vivo,
anche se mi ci sto affezionando troppo. *piange pensando alla fine che
Ubisoft gli ha fatto fare
Se tutto va bene (e mi auguro sul serio di non cadere in intoppi troppo
grossi), non dovrebbero esserci più di ventiquattro
capitoli. Incrocio le dita.
Chiudo facendo a tutti i lettori (fissi e di passaggio) tantissimi
auguri
per un
inizio 2014
al massimo!
Festeggiate, rotolate nello spumante, ingurgitate gli ultimi panettoni!
Che dopo la Befana comincia la dieta!
Ma per ora non preoccupiamocene.
Champagne e tartine,
Lechatvert
PS: D'ora in poi non
ci saranno più (credo) salti temporali troppo grossi.
Yu-hu! Ho smesso di sentirmi una ladra ogni volta che questi benedetti
figlioli crescono di dieci anni nel giro di venti righe.
Salute e pace, creature. D'ora in poi diventerete vecchie come i comuni mortali. ヾ( ´ー`)
|
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Capitolo 18 *** Diciassettesimo – scacco alla regina ***
modellostorieefp
Guardare
Imaad e Sef giocare a scacchi era un po’ come guardare due
bambini tirarsi addosso del cibo nella vana speranza di zittirsi a
vicenda.
Muovevano pezzi a caso, troppo avventati per seguire una qualunque tipo
di tattica, e una partita poteva anche durare ore senza mai arrivare a
una conclusione vera e propria.
Erano una tortura.
Avevo assistito ad almeno cento partite, negli ultimi anni, e non ce
n’era neanche mezza di cui serbassi il ricordo di una
vittoria.
Fu per questo che, quando Sef gridò “Scatto matto!”,
mi svegliai di colpo dal mare di pensieri in cui stavo sguazzando per
lanciare un’occhiata sconvolta alla scacchiera, dove il re
bianco giaceva rovesciato.
Controllai la disposizione delle pedine nere due volte, eppure
l’annunciato scacco era lì, con due alfieri e un
cavallo ad accantonare in un angolo il povero re ribaltato.
« Ce l’ho fatta! », strillò
Sef, alzando le braccia in segno di vittoria. «
L’allievo batte il maestro! »
Imaad scrollò le spalle.
« Non mi è mai piaciuto, giocare a scacchi
», rispose, sereno. « A me le battaglie piace
vincerle per davvero! »
Scoppiarono entrambi a ridere e presero immediatamente a risistemare i
pezzi sulla scacchiera, probabilmente con l’intenzione di
avviare un’ulteriore partita.
Personalmente, ero troppo sconcertato dalla visione del re caduto anche
solo per pensare di prendere il posto dello sconfitto alla scacchiera.
Così, quando Imaad si alzò per andare a cullare
le sue nipoti nella stanza accanto, lo sguardo insistente di Sef mi
colse del tutto impreparato.
« Che c’è? », chiesi, mentre
lui mi fissava con due occhi del tutto simili a quelli di suo padre.
Un sorrisetto di sfida apparve sul suo volto.
« Scommetto che ti batto in due mosse »,
ridacchiò.
Io sospirai, prendendo posto alla scacchiera.
« Vedo che Altaïr ti ha insegnato bene come montarti
la testa », commentai, ma non credo che mi sentì.
La tenda che separava il nostro spazio da quello in cui stavano le
donne si scostò con il fruscio della stoffa sul pavimento,
lasciando che i lievi passi di Qitt risuonassero nella stanza.
Vidi Sef scattare in piedi per andare ad accoglierla con
tutte le formalità che legavano un marito alla sua suocera,
dopodiché sparì anche lui nell’altra
camera senza neanche salutare, certamente attratto dalle sue due
giovani figlie che tanto pareva adorare.
Attesi che Qitt prendesse posto dinanzi a me, poi la salutai con un
cenno del capo.
« Salute e pace », dissi, pacato.
Lei non si prese neanche la premura di rispondermi.
Allungò una mano sulla scacchiera e portò avanti
un cavallo.
‘I bianchi
muovono per primi’, mi disse, con
un’occhiata carica di sfida.
Io ridacchiai, muovendo a mia volta un pedone.
Fu allora che Imaad si riaffacciò, sbucando da dietro la
tenda con sguardo curioso.
« Per Allah! », esclamò, balzando verso
di noi per prendere posto accanto a sua moglie. « Uno scontro
tra titani! »
Sì, perché Qitt era davvero brava a giocare a
scacchi. Naturale, dato che ero stato io a farle da insegnante.
Le nostre partite duravano talvolta più di quelle di Imaad e
Sef, ma erano un groviglio di tattiche, di mosse mirate, di stratagemmi
che diventava sempre più difficile prevedere. In quelle
poche sfide che avevamo avuto modo di fare da quando eravamo a Masyaf
avevamo dato non poco spettacolo, soprattutto a Darim, che da bambino
si era intestardito a imparare guardandoci in silenzio per ore.
Prima di lui, credo che Qitt fosse l’unica persona alla
fortezza in grado di battermi.
Anche quel giorno, man mano che muoveva i pezzi sulla scacchiera, mi
ritrovai a pensare a quanto la sua strategia cambiasse di volta in
volta, lasciandomi sempre nella difficoltà di doverla
anticipare senza poter ricorrere a qualche trucco.
Mi ci volle un’ora per mangiarle entrambi i cavalli e qualche
altro minuto per riuscire a mettere sotto scacco il re per la prima
volta.
« Scacco matto », dissi, limpido, e subito vidi
Qitt allungare il braccio per ribaltare la sua pedina.
Imaad sbadigliò rumorosamente.
« Siete davvero spassosi », commentò,
sarcastico. Si stiracchiò un poco, dopodiché
qualcuno bussò alla porta della mia stanza e lui si
offrì ad andare ad aprire. « Comodi »,
disse, alzandosi con aria pigra. « Non voglio rovinarvi il
divertimento ».
Si affacciò sul corridoio e spalancò la porta,
sventolando la mano con fare gioviale per salutare il misterioso
visitatore che, a quell’ora della sera, mi dava da pensare
sulla sua identità.
Non mi sarebbe potuta andare peggio.
« All’ospedale mi hanno detto che state dando una
festa! »
La voce di Malika risuonò briosa e limpida in tutta la
stanza e non riuscii a fare a meno di lanciare un’occhiata
preoccupata a Qitt, la quale aveva già stretto la mano
attorno al povero sovrano appena sconfitto.
Rimase immobile a fissare la scacchiera fino a che Malika non venne a
sedersi alla mia destra, augurandomi la buonasera con un aggraziato
cenno del capo e un sorriso allegro.
Ricambiai il saluto e tornai a concentrarmi sulla scacchiera, mentre
Imaad si avvicinava con aria soddisfatta.
« Ma guarda », trillò, riprendendo posto
accanto a Qitt e passandole il braccio attorno alle spalle. «
Re e Regina! » E scoppiò a ridere, quasi quella
fosse la prima volta in cui qualcuno tirava fuori una battuta simile.
Mi sforzai di soffocare l’imbarazzo con una risata, ma lo
sguardo gelido che Qitt mi buttò addosso mi zittì
quasi subito, costringendomi a ricompormi senza l’aiuto
dell’umorismo di Imaad.
Capii troppo tardi il perché di quell’occhiataccia.
Quando allungai la mano per recuperare i pezzi bianchi sulla scacchiera
per rimetterli a posto e cominciare una nuova partita,
l’occhio mi cade sulle pedine centrali.
Re e Regina.
La Regina alla destra del Re.
Il posto che per tutto quel tempo era spettato a Qitt, quello accanto a
me mentre leggevamo qualche tomo di storia o le insegnavo come affilare
la spada. Quello che Malika si era presa con tranquillità
quando era entrata, probabilmente ignara dell’effetto che la
sua azione aveva causato.
Guardai Qitt prendere un grosso respiro, prima di chinare il capo e
invitarmi a fare la prima mossa.
« Giocate a scacchi? » La voce di Malika interruppe
la mia mano, mentre lei mi precedeva a muovere un cavallo. «
Mia madre diceva sempre che sono molto brava ».
Sollevai lo sguardo su Imaad e lo scoprii sogghignare sotto la sciarpa
che gli circondava il collo.
Certo, doveva essere proprio una scenetta divertente, vista
dall’esterno.
Lo zittii con un’occhiataccia, sforzandomi di trovare un
commento adatto quantomeno a mantenere la pace comune.
« Io e Qitt stavamo giocando l’ultima partita per
decretare il vincitore », mentii, indicando la scacchiera.
Malika scrollò le spalle.
« Allora non ti farò perdere! »,
esclamò, facendomi l’occhiolino.
Aprii la bocca per scusarmi con Qitt, ma lei allungò un
braccio verso di me per tapparmi la bocca.
Era il suo turno.
Rimase immobile a pensare per una manciata di minuti,
dopodiché fece avanzare due pedoni, concludendo la sua mossa
con un piccolo sorriso che mi diede l’impressione di essere
tutt’altro che cordiale.
Fu una partita relativamente breve.
Benché Malika non fosse affatto male, Qitt dimostrava molta
più tattica, anticipando ogni volta i magri attacchi delle
pedine bianche per poi accerchiarle con maestria.
Ebbe occasione di fare scacco matto per ben tre volte, ma si
guardò bene dal decretarlo.
Pensai che fosse per gentilezza, fino a che non capii a cosa servisse
quel suo frenetico muovere gli alfieri da una parte all’altra
della scacchiera.
Non stava puntando al Re.
Nel giro di un’ora aveva messo le due torri agli angoli
opposti, mosso il cavallo accanto a un gruppo di pedoni e
l’unico alfiere che le era rimasto in attacco alla regina
bianca.
Guardò soddisfatta il suo operato e tirò fuori un
altro sorriso, stavolta più pungente e decisamente
alimentato la consapevolezza stare per concludere una partita in uno
dei modi più strabilianti che avesse a disposizione.
Io stesso faticavo a credere che fosse stata in grado di costruirsi una
disposizione così perfetta.
Decisamente una trappola degna di uno stratega, in cui Malika
cascò senza neanche prendersi il tempo di riflettere.
« Prendo l’alfiere! »,
esclamò, muovendo la regina nello spazio occupato fino a
poco prima dalla pedina nera.
Vidi Qitt ghignare e muovere in avanti il cavallo.
Mi scoccò un’occhiata soddisfatta e
alzò le spalle.
‘Scacco matto.’
Si alzò e si inchinò lievemente dinanzi ai
presenti in segno di saluto. Poi prese Imaad per mano, costringendolo
ad alzarsi, e rivolse a Malika un’ultima occhiata velenosa
prima di lasciare la stanza per allontanarsi con passo elegante sul
corridoio.
Rimasi a fissare la scacchiera, stranito.
Malika sbuffò.
« Ma … non è scacco! »,
protestò.
Io annuii.
« Sì, invece », mormorai.
Allungai la mano verso la Regina bianca e la ribaltai, restando
immobile a guardare la pedina che rotolava giù dalla
scacchiera.
Sorrisi appena, sebbene il gesto così teatrale di concludere
la partita con una simile mossa mi avesse lasciato alquanto sgomento.
Una trappola perfetta che aveva saputo attirare la sua preda
nell’unico punto in cui lo scacco era possibile.
Lo scacco alla regina.
Quale migliore dichiarazione di guerra poteva esserci?
__________________________
Note d'autore
Prima di passare ad annoiarvi con le mie note, volevo
spendere un secondo a chiarire la mossa dello scacco alla regina.
Si tratta della conclusione della partita un tempo nota come garde, che adesso
è andata praticamente in disuso. Negli scacchi, la regina
è la pedina che si muove più liberamente. Farle
scacco matto è quasi impossibile. Servono le torri (spesso
e volentieri anche un alfiere) ai
lati della scacchiera e il cavallo (l'unica pedina a poter far scacco
alla regina senza essere mangiato) in attacco.
Confesso di essermela fatta spiegare più di una volta e di
non essere ancora riuscita a metterla in pratica :c
Edit:
Illiana mi ha fatto notare come l'etimologia del nostro "scacco matto"
sia scorretta se riferita alla regina, poiché di derivazione
persiana ("il Re è morto"). Sono quindi andata a informarmi
e, con la mia solita fortuna sfacciata, ho trovato un escamotage.
Citando Wikipedia: "[...] Non
concordano invece gli Anglosassoni che lo considerano una alterazione
fonologica del verbo Persiano "mandan" = restare che
considerano poi mutato nel "maneo" Latino. Il significato sarebbe
quindi quello di restare abbandonato al fato, oppure sorpreso
in un'imboscata".
Mi aggrego quindi a questa versione, che tra l'altro trovo parecchio
azzeccata per la cosa dell'imboscata ♥
Grazie comunque a Illiana per avermelo fatto presente; imparare cose
nuove fa solo bene!
Detto questo, confesso anche che mi ci sono voluti cinque minuti buoni
per scrivere diciassettesimo senza che il correttore di word si
lamentasse. #lentezzamentale
E che questo capitolo non doveva esistere ma l'ho introdotto due notti
fa per legare meglio la prossima parte e per posticipare la
morte di Sef.
E che questo è il primo aggiornamento del 2014 e sono
felicissima di farlo in questa sezione ♥
Un bacione grande grande (stavolta niente cibo perché dopo
le feste rotolano un po' tutti),
Lechatvert
|
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Capitolo 19 *** Diciottesimo – nomignoli ***
modellostorieefp
Il
fruscio delle pagine che scorrevano l’una
sull’altra fino a scontrarsi sulle dita morbide della loro
lettrice mi invitò ad aprire pigramente un occhio, sebbene
la luce del sole mattutino mi avesse già destato da tempo.
Sbadigliando, guardai Malika rotolare tra le lenzuola del mio letto
sfatto, affondando il naso nel libro che doveva aver trovato tra quelli
impilati accanto alla finestra.
« Non ci capisco niente », piagnucolò,
zittendo con uno sbuffo il mio tentativo di darle il buongiorno.
Si accoccolò contro la mia spalla con il libro in grembo e
indicò le pagine ingiallite.
« Insegnami a leggere », disse, con il suo tono
limpido e brillante.
Ridacchiai, accarezzandole la schiena nuda e calda.
« A cosa ti serve leggere? », risposi.
Lei alzò le spalle.
« Non ne ho idea, ma lo hai insegnato a Caifa. Me lo ha detto
lei ».
Sbuffai.
« Aveva quattordici anni ».
« Io ne ho trentacinque. Sono sicura che puoi fare uno
sforzo! »
« Come vuoi ».
Non avevo dubbi che quella fosse gelosia bella e buona, ma stavo
imparando a conviverci, più o meno. Malika la mostrava nei
confronti di Qitt non di meno di quanto Qitt la mostrasse nei suoi.
Nonostante lavorassero fianco a fianco praticamente ogni giorno, non
potevo immaginare due persone andare meno d’accordo. Eppure,
quando avevo cercato di far ragionare Qitt su quell’astio
infondato, lei se n’era andata di gran passo senza neanche
calcolarmi, mollando il suo paziente con l’ago ancora
infilato nella carne. Il giorno dopo aveva lasciato
l’ospedale nelle mani di sua figlia e da allora mi evitava
accuratamente, designando ogni comunicazione a Imaad, che dal canto suo
era combattuto sulla posizione da prendere.
“Francamente,
non capisco che le prenda. Si sta comportando da egoista”,
mi aveva confidato, durante una delle nostre passeggiate sui
camminamenti. “Sono
veramente felice per te, Malik. Cominciavo a pensare che non ti saresti
mai sposato”.
Non mi sposai mai, infatti, sebbene presi in considerazione
l’idea più di una volta.
Mi mancò sempre il coraggio, il tempo, la situazione, la
reale volontà di farlo.
Quel giorno mi ero ripromesso di chiederlo a Malika prima che lei si
alzasse per andare a fare il suo turno all’ospedale, ma Sef
prese a bussare con tanta irruenza che per poco non sfondò
la porta a pugni.
« Malik! », chiamò a voce alta, mentre i
suoi passi davanti alla porta si facevano impazienti.
Mi alzai pigramente, scostando le coperte per andare alla ricerca dei
calzoni e aprii la porta mentre ancora mi infilavo la cappa,
sbadigliando con fare intontito.
Tra tutto il lavoro arretrato e le continue attenzioni che Malika
richiedeva non avevo avuto modo di dormire molto, nell’ultimo
periodo.
« Che vuoi? », dissi, affacciandomi
all’uscio.
Mi bastò un’occhiata per capire che qualcosa non
andava.
Sef ansimava, mentre le braccia tese verso di me tremavano, gli occhi
mi fissavano a metà tra l’eccitazione e la paura.
« Malik, attaccano la fortezza! »
Sobbalzai, afferrandolo immediatamente per il colletto della blusa.
« Cosa diavolo aspettavate per dirmelo? », ruggii,
guardandolo dritto in faccia con espressione irata.
Sef mi scoccò un’occhiata offesa.
« Di tornare a Masyaf, direi. Io e il Maestro li abbiamo
visti arrivare mentre passeggiavamo sull’altopiano. Saranno
qui a momenti ».
« E le sentinelle dov’erano? »
« Bella domanda. Il Maestro sospetta si tratti di un attacco
concordato con qualche spia all’interno della fortezza
».
Qualche spia.
Come la prima volta, quando a Masyaf era scoppiato l’inferno
sotto l’attacco dei templari.
Doveva essere per forza così.
« D’accordo; andiamo ».
Raggiungemmo in fretta il cortile, dove un gran numero di uomini si era
raccolto ad ascoltare gli ordini di tre Maestri Assassini tra i quali,
più anziano di tutti, spiccava Imaad.
« Non abbiamo il tempo di far entrare gli abitanti della
cittadella nella fortezza », diceva, scandendo bene le
parole. « Stavolta i nemici non dovranno superare la linea di
difesa fuori Masyaf. Arcieri sulle torrette, chi combatte bene corpo a
corpo in prima fila fuori dal paese. Faremo entrare le persone dentro
le mura mentre terremo occupati i soldati all’esterno. Medici
e infermiere: istituite un ospedale da campo appena dentro la
cittadella: ce ne sarà bisogno per le medicazioni di base.
Chi non sa combattere, si adoperi per portare donne e bambini al sicuro
».
Con un balzo, scese dallo steccato sul quale si era arrampicato per
farsi riconoscere, avvicinandosi a me e a Sef con aria preoccupata.
« Salute e pace », ci disse, portando le mani sui
fianchi.
Il suo tono lasciava presagire tutt’altro.
« Cos’hai intenzione di fare, stavolta?
», gli chiesi.
Speravo in un suo piano per liberarsi in fretta dei soldati, come
quello che l’aveva reso Maestro Assassino, ma leggevo nei
suoi occhi che non c’era nulla di simile in programma.
Dopotutto, chi si sarebbe aspettato un attacco a sorpresa quando
l’inverno era ormai alle porte?
« Potremmo dare di nuovo fuoco al ponte », rispose,
serio. « Ma dubito che i nostri nemici non si siano preparati
alla sorpresa delle fiamme. Probabilmente, il loro intento è
quello di schiacciarci nella cittadella onde evitare sorprese. Teniamo
buona l’opzione di appiccare un incendio, ma usiamola come
ultima carta ». Si slegò una spada dal cinturone e
me la passò. « So che è passato il
tempo degli allenamenti nel campo », mi disse, soffocando
l’agitazione con una risatina nervosa. « Ma serve
qualcuno che tenga sotto controllo la situazione dentro le mura
».
Presi la spada ancora chiusa nel fodero e me la legai al fianco,
chiedendomi se sarebbe mai stato il caso di sguainarla. Di giovani
più agili di me ce n’erano a dozzine, dopotutto.
« Contaci », risposi, comunque. « E tu
vedi di tenerti la testa attaccata al collo».
Mi tornò in mente il giorno in cui Altaïr aveva
affrontato Al Mualim, quello in cui Imaad gli aveva praticamente
salvato la vita con un colpo di balestra. Ricordavo di aver dato un
consiglio simile, allora, e la cosa mi chiuse in un silenzio
inquietante.
Fortunatamente, Imaad colse la citazione diversamente.
« Ma certo! », rise, scuotendo il capo. «
Ma stavolta li voglio sul serio, i falafel! »
Fece una piroetta e mi mostrò la schiena, sulla quale
spiccava la vecchia balestra che si tirava dietro a Gerusalemme. Per
l’occasione, aveva anche tirato fuori la spada a due mani che
per anni pareva aver dimenticato in fondo a qualche baule.
Con l'allegria che pareva aver improvvisamente trovato, si
allontanò da noi a grandi passi e raggiunse
l’ospedale, dove Qitt lo aspettava in piedi dinanzi
all’entrata assieme ad Anbar e alle sue figlie.
Io e Sef ci scambiammo un’occhiata preoccupata e lo seguimmo
in silenzio.
Trovammo Qitt in lacrime e ammetto che la cosa mi scosse non poco. Non
ricordavo di averla mai vista dare segno di debolezza, anzi, a dirla
tutta avevo cominciato a credere che lei di debolezze non ne avesse
affatto.
Vederla piangere era quasi surreale.
« Sta’ calma », le diceva Imaad,
cingendole le spalle nella speranza di tranquillizzarla. «
Non è diverso dalle missioni che abbiamo fatto assieme.
Tornerò prima di sera, te lo prometto ».
Lei si ribellò alla stretta, alzando un pugno nel magro
tentativo di colpirlo.
« Accidenti, non ti fidi neanche un po’ di me?
Figurati se mi faccio ammazzare proprio oggi! »
Le figlie di Sef si liberarono della presa della loro madre, correndo
verso di lui in cerca di un abbraccio.
« La nonna piange », gli disse una, stringendosi
alle sue gambe mentre lui le accarezzava i capelli castani. «
Baba,
perché la nonna piange? »
Sef si chinò su di lei per prenderla in braccio e riportarla
a sua madre.
« Piange perché ha paura, habibti
», le spiegò, calmo. « Tu e tua sorella
dovete stare con lei e farle passare la paura. Magari con il vostro
gioco, d’accordo? »
Lo guardai consegnare le bambine ad Anbar e scambiare con lei uno
sguardo d’intesa.
Sapevo che lei era già pronta ad attraversare il campo di
battaglia per raccogliere i feriti, glielo leggevo negli occhi
verdissimi pieni di determinazione, ma non ero certo che Sef fosse in
grado di reggere la cosa. Benché avesse già
partecipato a numerose missioni, non era mai sceso in una battaglia del
genere. Era discreto, senza dubbio un ottimo Assassino, ma uccidere un
singolo uomo con discrezione è cosa diversa da ucciderne
cento senza lasciarci la vita.
Sospirai, imponendomi di non portare sventura.
Sef era un bravo combattente e al suo fianco avrebbe avuto Imaad, che
di battaglie ne aveva viste anche troppe. Sarebbero tornati entrambi
vivi e vegeti.
Un uomo sulle mura annunciò l’arrivo dei soldati e
Qitt scambiò con suo marito un’occhiata piena di
paura.
Era tempo.
Li vidi abbracciarsi così stretti e così
disperatamente che trovai spontaneo chiedermi cosa il destino avesse
annunciato loro, durante la notte. Sembravano convinti che quella
sarebbe stata la loro ultima battaglia.
« Sef, stammi dietro », ordinò Imaad,
scostandosi con dolcezza dall’abbraccio. « Non
perdiamoci di vista ».
Le porte della fortezza si aprirono con una lentezza esasperante e i
medici, seguiti dalle infermiere come Anbar, furono i primi a prendere
posto all’esterno, portandosi dietro quante più
garze e narcotizzanti le loro braccia consentissero.
Toccò poi agli arcieri, ai combattenti, infine alla squadra
comandata da Imaad.
« Tornerò », disse a Qitt, stringendola
per baciarle i capelli per poi voltarsi e trascinare Sef con
sé verso le porte. « Aspettami, Haif ».
Mi fece una strana impressione, sentirlo chiamare sua moglie in quel
modo. Eppure era una cosa abituale.
A Masyaf era l’unico, a usare quel nome, ma ci vedevamo
talmente spesso che ormai non mi sorprendevo più di sentirlo.
In quell’occasione, invece, mi fece arricciare il naso.
Tutt’oggi non so perché ebbi quella reazione.
So solo che fu l’ultima volta in cui sentii Imaad chiamarla
così.
__________________________
Note d'autore
Non
è carinissimo questo piccolo Altaïr spiazzato?
*temporeggia
Il suo "D:" è stata la mia faccia durante tutta la rilettura
del capitolo.
Confesso di essermi chiesta spesso il perché di questa
brutta piega, ma insomma, era ora che tutta questa
tranquillità si squarciasse, no? Dando uno sguardo a
ciò che ho già scritto, di azione ce ne
sarà parecchia e per parecchio tempo. Degli abbagli, un
addio, una (gloriosa) fuga e poi
Sef.
Vado
a preparare i fazzolettini.
E, tanto per la cronaca (?), sto riscrivendo il finale .////. Non sia
mai che rispetti la scaletta che mi ero prefissata.
Gelato a palate (che fa bene per combattere la depressione),
Lechatvert
|
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Capitolo 20 *** Diciannovesimo – abbagli ***
modellostorieefp
Sef
tornò alla fortezza che la notte era già calata e
l’attacco già concluso da tempo.
Stanco, malconcio e con una freccia spezzata piantata in una coscia,
barcollò fino al campo dove io e Anbar lo aspettavamo e ci
buttò addosso la cappa sporca di sangue, mostrandoci con una
smorfia il taglio lungo due dita che gli apriva la pancia.
« Guardavo dall’altra parte », si
giustificò,
ma non arrivò a dire altro che Anbar gli fu letteralmente
addosso, riservandogli un abbraccio fugace prima di chinarsi a
controllare la ferita.
« Non è grave », asserì,
tirando un sospiro
di sollievo. « Così impari a guardare le altre
donne!
»
Il fatto che Sef non rispose a quella frecciatina mi mozzò
il fiato.
Non fu tanto la battuta in sé, quanto che fossero Anbar e
Sef a
parlare, quelli che da ragazzini si erano azzuffati per una balestra,
quelli che anche da adulti non perdevano occasione di battibeccare su
ogni cosa. Ed era soprattutto Sef, che non stava mai zitto, che si
sarebbe mangiato le mani piuttosto che lasciar cadere una provocazione
simile.
Fu come scendere le scale al buio e appoggiare il piede su un gradino
inesistente.
Una sensazione di vuoto mi pervase il petto mentre Sef accarezzava
piano le spalle di sua moglie e schiudeva le labbra per parlare a tono
smozzato.
« Anbar, è successa una cosa ».
A lei non servirono altre spiegazioni.
Spalancò gli occhi verdi, irrigidendosi tra le braccia di
Sef.
« Dimmi che non è … ».
« No. Ma è stato ferito ».
« Dov’è adesso? »
« Sotto alle mani dei chirurgi ».
Anbar annuì, gli donò un ultimo abbraccio e
partì
a passo spedito verso l’ospedale, sparendo
nell’ombra del
cortile ancora affollato dai feriti.
Non so dove trovai la forza di parlare.
« Che è successo? », chiesi, mentre la
gola bruciava sotto il fiato che usciva.
Sef mi scoccò un’occhiata carica di rammarico.
« C’erano dei ragazzini che si erano messi in testa
di
aiutare e correvano verso la linea con delle spade di legno
»,
raccontò. « Lui è andato a recuperarli
mentre io
sono andato avanti. Ci siamo persi di vista solo per un istante, lo
giuro, ma quando sono tornato a prenderlo aveva già il petto
tagliato ».
« Ha qualche possibilità? »
Sef dondolò il capo.
« Chi può dirlo », rispose. «
Anche se non
sono religioso, credo che stanotte mi concederò di chiedere
ad
Allah un favore ».
Si allontanò lentamente, trascinando la gamba ferita sulla
sabbia del campo.
« Non vai a farti curare? », lo ripresi, alzando la
voce.
Lui scrollò le spalle.
« Sai bene che non mi farei mettere le mani addosso da
nessuno,
se non ci fosse Anbar. Aspetterò che torni
dall’ospedale.
L’hai sentita, no? Non è niente di grave
».
Un istante dopo gli ero già alle spalle.
Dall’inizio alla fine di quell’attacco non avevo
smesso di
pensare e ripensare ai nomi dei possibili traditori che mi affollavano
la mente. Troppi uomini, Assassini e civili, ognuno con una diversa
professione.
Non potevo lasciare Sef da solo, non in quelle condizioni.
Anche se temevo per la vita di Imaad e non c’era nulla che
volessi di più di tornare sui miei passi e fiondarmi
all’ospedale, sapevo che non era il caso di allontanarmi da
Sef.
Avevo l’impressione che quell’attacco fosse uno
spettacolo
ben studiato per concludere con dignità la storia del cane
sgozzato, ma che però aveva fallito nel tentativo di far
fuori
il figlio di Altaïr.
Ebbene, sarebbe stata mia premura far sì che Sef non si
risvegliasse con un coltello nella schiena, per quanto ciò
potesse implicare lasciare Imaad da solo nel momento in cui ne aveva
più bisogno.
No, non da solo.
C’era Qitt, dopotutto.
Con un sospiro, mi chiesi dove potesse essere finita.
Di certo aveva ricevuto tempestivamente la notizia circa le condizioni
di suo marito. Restava da capire se gli fosse rimasta accanto o avesse
già sellato un cavallo per scappare chissà dove
nella
speranza di sfuggire al dolore.
Guardai Sef mugugnare mentre si staccava la freccia dalla gamba.
« Avrei dovuto farlo prima », considerò,
guardando
una chiazza di sangue allargarsi sui pantaloni sporchi di terra. Poi si
voltò verso di me, con il dardo ancora stretto in pugno.
«
Malik, va’ da lei ».
Aggrottai la fronte.
« Lo so che stai pensando a Caifa ».
Mi concessi un sorriso tirato, anche se non provai nemmeno a nascondere
la cosa.
« Come fai a saperlo? », chiesi.
Lui alzò le spalle.
« Perché so quanto siete simili e so quanto la
notizia del
Maestro ti stia distruggendo. Prima che succeda anche a lei, dovresti
starle vicino ». Attese un istante in silenzio, poi aggiunse:
« Non darti pensiero per me. Tornerò nelle mie
stanze e
passerò la serata con le bambine, sperando che la ferita non
si
infetti. Starò bene ».
Come potevo anche solo pensare di dirgli di no? Aveva ragione su tutta
la linea.
Sospirai, quindi, ancora immobile nel cortile.
« Pensavo volessi stare accanto a tua moglie »,
considerai.
Sef ficcò le mani in tasca.
« E tu credi che Anbar non sia già con le mani
sporche di
sangue a ricucire suo padre? », rispose. « Non
c’è niente che possa fare per consolarla, ora come
ora. Il
mio starle vicino la rallenterebbe soltanto nel suo lavoro. Vai, Malik.
Io riposo qualche ora e vi raggiungo ».
E detto questo si allontanò più o meno
velocemente
all’interno della fortezza, senza lasciarmi il tempo di
rispondere.
Arrivai all’ospedale in tempo per vedere un gran numero di
infermiere accerchiare un ragazzo con il busto tagliato e afferrarlo
per poi portarlo nella sala in cui i chirurgi lavoravano.
Sotto le urla del malcapitato, mi costrinsi a ripensare a quanto lavoro
io e Qitt avessimo svolto assieme per far sì che quel luogo
prestasse le cure più efficienti.
Soltanto Gerusalemme aveva chirurgi migliori di quelli di Masyaf e, in
quanto alle infermiere, venivano istruite alla farmacologia del Qanun
fin da giovanissime.
Imaad era al sicuro.
Entrai nella sua stanza in silenzio, sorpreso di non trovare Qitt a
vegliare su di lui.
Da quanto riuscii a capire, nessuno aveva ancora avuto modo di darle la
notizia. O di trovarla, visto che pareva essere sparita non appena lo
stato di allarme era cessato.
E, mentre lei era là fuori, impegnata a scappare verso
chissà dove, Imaad respirava pesantemente su un vecchio
materasso, malamente avvolto in lenzuola sporche di sangue.
Era sveglio, con gli occhi scuri puntati sul soffitto e le labbra
sottili appena schiuse in una smorfia di dolore.
« Mi avevano detto che ti avevano dato abbastanza
stramonio¹
da farti dormire almeno tre giorni », esordii, più
che
sollevato di vederlo quantomeno cosciente.
Imaad si voltò debolmente e mi scoccò
un’occhiata divertita.
« Prendo lo stramonio da quando ero bambino per
l’allergia
», rispose, strizzando l’occhio. « Temo
non mi
sarà granché d’aiuto per schiacciare un
pisolino,
ma quantomeno smetterò di starnutire per un po’
».
Ridacchiai, sedendomi al suo fianco.
« Lieto di vedere che stai bene, Imaad ».
Lui sorrise appena.
« Bentornato a casa, Altaïr. Maria sta bene?
».
Mi fermai un istante a fissare il suo viso sereno incresparsi un poco
quando provò a raddrizzarsi sui gomiti.
«
Altaïr? », chiesi, perplesso.
Lui annuì.
« Che c’è? I mongoli ti hanno fatto
dimenticare come ti chiami? »
« Un momento ».
Mi alzai e mi riaffacciai al corridoio, alla ricerca di
un’infermiera. Agguantai la prima che mi capitò a
tiro,
affondando le dita nel suo braccio magro.
« Ha le allucinazioni », annunciai, guardandola con
severità.
Lei si divincolò un poco, rinunciando all’impresa
di liberarsi.
« Con tutto quello stramonio nello stomaco, scambierebbe un
cavallo per sua madre », rispose, quasi offesa, dando un
sospiro
seccato. « Lasciatelo dormire, domattina starà
bene
».
E si allontanò.
Con rammarico, tornai all’interno della stanza.
« Le mie scuse », dissi, riprendendo il mio posto
accanto al letto.
Imaad mi sorrise, estasiato.
« È bello averti qui », disse con tono
dolce.
« Sei mancato a tutti noi così come a Sef
». Fece
una pausa, concedendosi un sospiro. « Prima che tu mi dica
com’è andato il viaggio, c’è
una cosa di cui
ti vorrei parlare ».
Aggrottai la fronte.
« Ti ascolto ».
« Si tratta di tuo figlio. Temo sia, anzi, siate in pericolo
».
Lo guardai tirarsi seduto con una serie di soffuse imprecazioni dovute
alle cuciture che si tiravano sulla sua carne malconcia.
« Ho visto una cosa, là fuori », riprese
poco dopo,
mentre il suo sguardo si spegneva, perso a guardare con sospetto le
infermiere affollare il corridoio.
Io trassi un profondo sospiro.
« Continua », lo esortai.
« L’ho pensato subito », mi rispose,
assente. «
Un attacco condotto da mercenari … doveva esserci qualcosa
sotto. Figurarsi se gente come quella si muove senza un compenso! Li ho
visti venire pagati con i miei occhi, appena dentro le mura della
cittadella ».
Cominciai ad agitarmi, muovendomi nervosamente sullo sgabello accanto
al letto.
Avevo ragione, dunque. L’autore dell’attacco era
qualcuno all’interno di Masyaf.
« Chi è stato? », chiesi, sporgendomi in
avanti.
Se Imaad era riuscito davvero a vedere chi stava dietro quella storia,
potevo cominciare a dormire sonni più tranquilli.
Lui scosse il capo.
« Credevo di averlo visto in volto, invece non riesco a
ricordarne le fattezze », confessò, rattristandosi.
Non mi stupii. Uno degli effetti collaterali del sedativo che gli
avevano fatto ingoiare era quello di annebbiare i ricordi.
« Non importa, Imaad », risposi, quindi,
sforzandomi di sorridere.
Ero un po’ deluso, ma confidavo che una notte di riposo gli
avrebbe donato la sanità mentale che il narcotico si era
portato
via.
« Me lo dirai domani ».
Lui strizzò l’occhio con aria furba.
« Se mi fai visita così spesso, Altaïr,
finirai per far ingelosire Malik! »
Aprii la bocca per rispondere, combattuto tra l’offendermi a
quella sfacciata insinuazione e il ridere all’ultima delle
sue
battute, ma il fruscio di un paio di scarpe sul pavimento della stanza
mi zittì.
Non fui abbastanza veloce per accorgermi di Qitt sfrecciare sotto al
mio naso per gettarsi tra le braccia di suo marito quasi senza curarsi
della ferita che gli apriva la pancia.
Aveva il fiatone e il velo arrotolato sotto al braccio, lontano da quel
groviglio nero impastato di sudore che le copriva parzialmente gli
occhi spalancati.
Doveva aver fatto una bella corsa, per essere arrivata in quello stato.
« Sta’ tranquilla, habibti »,
le sussurrò Imaad, carezzandole piano la schiena.
« Sono a casa, va tutto bene ».
In qualche modo, era riuscito a riconoscerla.
Osservai Qitt stringersi ulteriormente a lui, singhiozzando sempre
più forte, fino a scoppiare a piangere per alternare le
lacrime
a dei gridi soffusi.
Lasciai la stanza con l’intento di lasciarli soli e
immediatamente una strana malinconia prese il sopravvento sul buonumore
che lo stato di Imaad mi aveva messo addosso.
Ripensai a Qitt, piangente sul letto di suo marito, e solo in
quell'istante mi resi conto che quella era la prima volta in
cui
sentivo la sua voce.
__________________________
Note d'autore
[1]
Lo stramonio
(erba del diavolo) è una pianta dalle proprietà
allucinogene utilizzata nel medioevo come sedativo. I semi e i fiori,
seppur altamente velenosi, venivano utilizzati per il loro effetto
terapeutico sulle allergie. Con il dosaggio eccessivo si presentano
allucinazioni e, in casi estremi, la morte in seguito alla
paralizzazione del sistema respiratorio.
Oggi è una giornata un po' così, iniziata
decisamente bene ma che si è tramutata in un mezzo drama da
telenovelas argentina. Leggasi come: sono uscita presto per andare a
comprare un bellissimo paio di scarpe ma quando sono arrivata al
negozio non c'era il mio numero. Tuoni e fulmini ha iniziato pure a
piovere X°
Insomma,
mi ritrovo qui zuppa, raffreddata e senza le scarpe. Se non altro, ho
il caffé! ♥
Torta,
Lechatvert
|
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Capitolo 21 *** Ventesimo – silenzi ***
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Tornai
da
Imaad la mattina seguente, armato sia della spada – dalla
quale
non mi ero più separato dopo l’attacco –
che del
libro a cui pianificavo di dedicarmi fino a mezzogiorno.
Malika si era offerta di accompagnarmi e, la sera prima, aveva
intrecciato un cesto di canapa che aveva poi riempito con della frutta.
Mi aveva tenuto stretto a sé tutta la notte, accarezzandomi
i
capelli per farmi dormire sereno, e quella mattina mi aveva svegliato
in silenzio, intrecciando la sua mano con la mia.
Camminammo fino all’ospedale senza rivolgerci neanche un
saluto,
tutti e due troppo preoccupati per parlare. Quando arrivammo nel
corridoio principale, scoprimmo che le cose erano degenerate.
Ci accolse il tono agitato di Sef, che lontano da noi supplicava sua
moglie di calmarsi.
Man mano che ci avvicinavamo, le voci aumentavano.
« Spero tu non stia insinuando che sia stata io »,
soffiava quella di Anbar, rauca e colma di rabbia.
Dovetti arrivare a toccare la spalla di Sef in segno di
saluto
per accorgermi della presenza di un terzo – e un quarto
–
interlocutore.
Abbas e uno degli Assassini che di solito lo seguivano ovunque erano in
piedi accanto a due cesti d’erba secca, entrambi con le mani
incrociate al petto e un’espressione tutt’altro che
rassicurante stampata in faccia.
« Salute e pace », esordii quindi, mettendomi
accanto a Sef.
Venni completamente ignorato.
« Non insinuo niente », disse Abbas, sostenendo con
arroganza lo sguardo furioso di Anbar. « Al contrario di te,
mi
baso sui fatti. Sei stata tu, quella che ha dosato lo stramonio
».
Sef si fece avanti alzando il braccio.
« Frena la lingua, Abbas », lo ammonì,
serio.
« Stanne fuori. Sono io, qui, quella accusata », lo
ribeccò Anbar. Mosse un passo verso i due Assassini,
portando le
mani sui fianchi. « Anche se il fatto che questi due
compaiano
proprio
quando mio padre viene avvelenato dovrebbe far pensare ».
Abbas le rise in faccia.
« Sei l’unica, qui, ad accusare qualcuno!
», esclamò.
Anbar gli puntò il dito contro il mento, piegandogli il capo
verso il muro.
« Fuori dal mio ospedale », sibilò a
denti stretti.
Sef la prese per le spalle.
« Calmati », l’ammonì.
« Siamo tutti scossi ».
Lei annuì e si allontanò, voltandoci le spalle
solo per un istante nell’intento di ricomporsi.
Istante che fu più che sufficiente ad Abbas per sputare
un’altra provocazione.
« Le donne dovreste sceglierle meglio, nella vostra famiglia
», rise, stavolta riferito a Sef. « Ve le prendete
tutte
rabbiose ».
Non so dire quanto velocemente successe, né
l’esatta dinamica dei fatti.
So solo che il rumore del naso di Abbas schiacciato dal pugno che Anbar
gli piazzò in piena faccia fu un suono che
risuonò assai
gradevole nella mia testa per molti mesi.
Vidi Sef spalancare la bocca in segno di sorpresa, troppo sgomento per
salvare sua moglie da uno schiaffo talmente forte da buttarla a terra.
Il suono della mano di Abbas sulla guancia di Anbar rimbombò
nel
corridoio e io non riuscii a muovermi, bloccato da quello schiocco
mentre Sef scattava in avanti con il pugno alzato.
Buttò l’aggressore di sua moglie contro il muro e
per poco non lo vidi colpirlo.
Per risposta, Abbas scoppiò a ridere.
« Che vuoi fare?! », esclamò, divertito.
« Sei solo un pulcino! »
Sef digrignò i denti e fu allora che mi decisi ad
intervenire, afferrandolo per la spalla e tirandolo verso di me.
« Vediamo di non far scoppiare una guerra »,
imposi, inflessibile.
« Ricordiamoci chi è stato il primo ad alzare le
mani
», ribatté Abbas, indicando Anbar con un cenno del
capo.
Poi, rivolto a Sef: « Insegna alla tua donna a stare al suo
posto! »
Credo fu soltanto il fatto che Malika le fosse accanto a controllare il
rivolo di sangue che le usciva da un labbro, ciò che
trattenne
Anbar dallo scagliarsi nuovamente contro Abbas. Se avesse avuto tra le
mani un coltello, probabilmente nulla l’avrebbe persuasa a
non
piantarglielo nel cranio.
« Basta », dissi, quindi. « Andate ora e
chiuderò un occhio su questa situazione incresciosa
».
« Ti stai dimenticando che non sei tu il Mentore, Malik
».
In quel momento, avrei armato io stesso Anbar per permetterle di fare a
pezzettini Abbas. Lo avrei anche tenuto fermo, in modo da semplificarle
il lavoro.
Presi un profondo respiro.
« Credo ti stia dimenticando che Altaïr ha delegato
me, per
prendere le decisioni durante la sua assenza », risposi,
severo.
« Se qualcuno ha sbagliato il dosaggio di stramonio spetta a
me,
punirlo. Non a te ».
Diedi le spalle ad Abbas e mi chinai su Anbar, offrendole la mano per
aiutarla a rimettersi in piedi. Aveva la guancia rossa e gonfia e il
labbro si era spaccato, lasciandole sul mento un piccolo rivolo di
sangue.
Malika le circondò le spalle con un braccio e le
accarezzò la spalla.
« Vieni », le disse con dolcezza. «
Andiamo a metterci sopra della menta ».
Le guardai allontanarsi sul corridoio, dopodiché tornai a
guardare Abbas.
« Salute e pace », gli dissi, indicando
l’uscita con un cenno del capo.
Non aspettai di vederlo lasciare l’ospedale. Mi diressi con
passo
scattante verso la stanza di Imaad e mi tirai dietro Sef,
strattonandolo per la manica della cappa sotto le sue soffuse lamentele.
« Adesso spiegami che è successo », gli
dissi, una volta che fummo lontani abbastanza per non farci sentire.
Lui sospirò.
« Ci hanno chiamati le infermiere stamattina », mi
spiegò, irrequieto. « Quando siamo arrivati qui,
il
maestro stava dando di matto. Era in preda alle allucinazioni, pareva
indemoniato. Si era fatto sanguinare le braccia a furia di grattarle
con le unghie. Dicono che qualcuno gli abbia fatto ingoiare
più
bacche del dovuto ».
« E Abbas? »
Lo vidi alzare le spalle.
« Che diavolo ne so. Il maestro stava delirando; possibile
che
abbia sentito le urla dalla finestra e che sia entrato per accertarsi
che stessimo bene. E per fortuna, direi. Non sarei riuscito a tenerlo
fermo da solo ».
« Imaad sta bene ora? »
Non ricevetti risposta.
Quella domanda restò sospesa sopra le nostre teste per una
manciata di minuti, mentre i nostri passi rimbombavano vuoti sul
pavimento dell’ospedale.
Improvvisamente, il silenzio che ci circondava prese a essere
insopportabilmente rumoroso.
I nostri respiri, il frusciare delle nostre vesti, le voci dei fantasmi
che affollavano il corridoio. Tutto cominciò a vorticarmi
intorno in un chiassoso girotondo, tanto assordante da farmi venire il
mal di testa.
Mi sentii barcollare, ma il tono fermo di Sef mi tenne in piedi.
« Malik », mi disse, mentre entravo nella stanza.
Imaad giaceva candidamente avvolto tra le lenzuola che Qitt gli aveva
sistemato addosso la sera prima, addormentato con il mento sul cuscino
e la mano stretta in quella di sua moglie che vegliava su di lui
accanto al letto.
Incontrai gli occhi di Qitt e li vidi spenti, lontani dalla
realtà in cui camminavo. Come se non esistesse e quello che
avevo davanti non fosse che uno spettro.
Improvvisamente capii.
« Malik ».
La voce di Sef mi raggiunse appena, coperta dai miei passi che
frettolosi si avvicinavano al letto per poi crollargli dinanzi.
Caddi sulle ginocchia e non sentii neanche il rumore delle mie gambe
sul pavimento.
« Il maestro è morto ».
E poi fu il vuoto, poiché tutto ciò che mi
circondava sparì senza lasciare tracia di sé.
Imaad morì così, senza dare un lamento, senza
aggrapparsi
alla vita con tutta quella grinta che per anni non aveva fatto altro
che trascinarmi fuori dalla depressione e dalla solitudine.
Le infermiere mi informarono con rammarico che talvolta lo stramonio
causa la morte, che il fatto che Imaad prendesse regolarmente i semi di
quella pianta come antibiotico per la sua allergia le aveva rese meno
parsimoniose con le dosi e che, comunque, quella era la prima vittima
che l’erba del diavolo mieteva vittime all’interno
dell’ospedale.
Nei giorni seguenti, a nulla valsero i tentativi miei e di Anbar di
indagare chi avesse deciso quel dosaggio eccessivo, visto che i
responsabili sparirono di colpo, quasi Imaad avesse preso quei semi di
sua spontanea volontà.
Che Abbas l’avesse messo a tacere per aver visto troppo mi
parve
lampante, negli anni avvenire, ma all’epoca vacillavo
continuamente tra l’idea di una cospirazione e quella della
mia
paranoia e non mi sarei mai neanche lontanamente immaginato di poter
incolpare qualcuno per la sua morte.
Fu strano, comunque, come tutti prendemmo la notizia nello stesso,
identico modo.
Dopo i funerali, uno a uno ci rinchiudemmo in un mondo distante dagli
altri, soli con il nostro dolore e con l’unica distrazione
che ci
potevamo permettere.
Sef trascorse le giornate ad allenarsi sull’altopiano,
esercitandosi con la balestra e con i coltelli da lancio. Non
l’avevo mai visto così concentrato su qualcosa.
Continuò a tirar fuori la sua migliore parlantina e di certo
non
smise di blaterare su quanto questo o quello gli causasse noia, ma
sentivo nella sua voce una nota di disillusione, quasi non credesse
più in ciò che raccontava. Scrisse una missiva a
Darim
per informarlo di quanto successo, ma non ricevette mai risposta.
Anbar reagì con la rabbia. Iniziò a metterla
ovunque. Nel
suo lavoro, nei suoi toni che prima di allora erano sempre stati
rispettosi; cambiò atteggiamento persino con Sef.
Come Qitt si rifugiò tra le mura di casa, lei si
rifugiò
all’interno dell’ospedale dove iniziò a
lavorare
giorno e notte.
Non ci rivolgemmo la parola per mesi.
Fu anche colpa mia, in realtà.
Pur di non rivivere i ricordi che la risata di Imaad aveva lasciato
all’interno dei corridoi della fortezza, mi rinchiusi
letteralmente nei miei appartamenti e iniziai a studiare tutti i volumi
che non avevo ancora avuto il tempo di prendere in mano. Finito anche
l’ultimo tomo, ricominciai con quelli che avevo studiato per
primi.
Raramente, nella mia vita, mi sentii così solo. Fu come a
Gerusalemme, quando non avevo nessuno su cui contare. Lì
avevo
Malika, che nonostante la sua giovane età si
rivelò molto
più paziente di quanto potessi sperare, ma continuavo
comunque a
sentirmi orribilmente lontano dal mondo.
__________________________
Note d'autore
...
Non guardatemi così.
Vi prego, non lo fate.
Non è stata colpa mia (?)
*scappa*
Arrivati a questo punto, non so davvero che dire. Doveva succedere ed
è successo, con un po' di rammarico da parte mia
perché mi ci ero affezionata, più o meno.
Torno a studiare, che è meglio. c____c
Yogurt,
Lechatvert
|
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Capitolo 22 *** Ventunesimo – fuga ***
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Come
per Qitt, il mio lutto durò quattro mesi¹.
Mi svegliai una mattina con il bisogno di prendere una boccata
d’aria e mi vestii velocemente, senza preoccuparmi di
coprirmi
con qualcosa di pesante, quasi sapessi di dover fare in fretta a
scendere nel cortile.
Ad accogliermi fu l’alba di una giornata fredda ma luminosa,
con
un vento gelido e un’aria tagliente che mi fece starnutire.
Pensai che dovevo aver trascorso veramente molto tempo tra i miei
libri, poiché nel cortile incrociai un paio di Assassini ed
entrambi mi guardarono strabuzzando gli occhi, come se avessero davanti
un fantasma. Li salutai, ma non mi trattenni a parlare con loro,
liquidandoli con un lieve cenno del capo mentre la mia passeggiata
procedeva spedita verso le mura.
Rimasi invece a parlare con Sef, di ritorno dalla legnaia con una delle
sue figlie, carico di rami e frasche secche.
« Salute e pace, Shaykh²!
», mi salutò, allegro, mentre la bambina che gli
camminava
al fianco mollava per terra i bastoncini che portava sotto braccio per
aggrapparsi alle gambe di suo padre. « Come mai fuori a
quest’ora? »
Aprii la bocca per inspirare un po’ d’aria e una
nuvola di
fiato caldo si levò dalle mie labbra, dissolvendosi nel giro
di
pochi istanti.
« Una passeggiata », risposi, alzando le spalle.
Sef mi scoccò un’occhiata divertita.
« Verso la cittadella? », chiese, ridacchiando
sotto la
sciarpa. « Strano, sei la seconda persona che stamattina
è
in vena di passeggiate fuori dalle porte! »
Dal sorriso furbo che mi lanciò capii a chi stesse facendo
menzione.
« È già arrivato il momento?
», chiesi.
Sef alzò le spalle.
« Così pare. Mi sono offerto di farle da scorta,
ma credo si sia offesa ».
Erano passati quattro mesi ed era tempo che Qitt si recasse dalla
famiglia di suo marito per portare ufficialmente le sue condoglianze.
Scortata o meno, doveva raggiungere Gerusalemme e lì
soggiornare
il tempo che i fratelli di Imaad avrebbero ritenuto necessario.
Era la tradizione e accadeva spesso che le vedove lasciassero Masyaf
per sempre, trasferendosi nella città d’origine
con la
famiglia del loro defunto marito. Erano scene che avevo già
visto più volte, da ragazzino. Serve in lacrime per la
partenza
di un’amica, giovani assassini ammutoliti
dall’addio appena
dato alle loro madri. Quando qualcuno partiva, c’era sempre
una
discreta folla, dinanzi alle porte.
Qitt, invece, aveva deciso di partire senza farne parola con nessuno.
Quasi certamente il suo incontro con Sef era stato casuale e del tutto
malvoluto, sebbene potesse essere parte di un piano più
scaltro
per rassicurare sua figlia circa la sua partenza.
Piano o meno, non c’erano dubbi che quella di Gerusalemme non
fosse altro che una scusa bella e buona per allontanarsi da Masyaf e
sparire chissà dove per mesi.
Scusa che non ero sicuro di voler accettare.
Salutato Sef e la sua figlioletta, mi affrettai a scendere fino alle
mura.
Tutt’oggi non saprei dire cosa guidò i miei piedi
fin lì.
Ormai, lasciavo così raramente i corridoi della fortezza per
uscire a prendere aria nel cortile, figurarsi per perdermi tra le
strade di Masyaf. Ammetto di essermi stupito parecchio, infatti, quando
scoprii di conoscere ancora la strada che portava alle mura.
Aveva appena iniziato a nevicare una neve fina, calda, tipica di quando
la primavera è ormai alle porte e le nuvole si stanno
preparando
alla stagione più arida.
Quando arrivai alle scuderie, trovai Qitt indaffarata a sellare uno dei
cavalli nella stalla.
Tutta avvolta in una sciarpa di lana, sembrava alla ricerca di un paio
di staffe dalle cinghie sufficientemente corte per la sua statura
minuta.
Mi avvicinai con tranquillità, sebbene l’idea di
rivolgerle nuovamente la parola dopo mesi mi rendesse più
agitato del solito.
Non c’era che imbarazzo, in realtà, visto che
dalla morte
di Imaad non avevo ancora trovato il coraggio per farle delle
condoglianze che si scostassero da quelle formali che le avevo rivolto
al funerale.
« Strano vederti scappare », le dissi, accarezzando
con il dorso della mano il cavallo sellato.
Lei sobbalzò, mollando a terra le staffe con le quali stava
armeggiando.
Mi compiacqui di averla colta di sorpresa.
Le sorrisi stentatamente e in un istante vidi i suoi occhi verdi
riempirsi di lacrime, mentre le guance si arrossavano, le labbra
sottili tremavano sotto l’irruenza del pianto.
Si buttò contro il mio petto, premendo il viso tra la stoffa
della cappa, e io non potei far altro che stringerla a me.
L’abbracciai così forte che sentii le mie vecchie
ossa
scricchiolare, ma non diedi loro peso, continuando a stringerla. La
strinsi per tutte le volte che non l’avevo fatto prima; per
quando l’avevo vista morente all’ospedale, per
quando mi
spiava dall’erba alta del cortile, per quando era quasi morta
per
portarmi fino a Gerusalemme. Affondai il mento nei suoi capelli scuri
per quando Imaad mi aveva chiesto di prendermi cura di lei e anche per
quando tutti assieme eravamo andati al tempio. Per quando
all’ospedale le avevo stretto la mano così forte
da
sentirla tremare sotto la mia forza, per quando mi aveva detto di
essere incinta e io non avevo potuto fare a meno di invidiare Imaad.
Infine la strinsi più forte che potei per quando avevo visto
Sef
tornare dalla battaglia da solo, per quando l’avevo vista
disperarsi sul cadavere di suo marito e per quel momento, in cui ogni
parola era superflua perché avrebbe saputo soltanto di addio.
E io non volevo che quello fosse un addio, volevo che lei tornasse
bambina, dietro il bancone della Dimora con il viso assonnato chino sui
taccuini che i Templari avevano lasciato al tempio.
Mi accorsi di stare per piangere quando il nodo che avevo alla gola mi
impedì di deglutire la saliva e allora mi scostai da
quell’abbraccio, imponendomi un minimo di contegno.
« Non devi per forza andartene », le dissi,
abbassando lo sguardo.
Poi la guardai in viso e capii che non c’era altro, in quel
momento, che Qitt volesse più di allontanarsi da Masyaf, la
meta
che tanto aveva agognato da bambina e che le si era rivoltata contro,
togliendole tutta la felicità che in quegli anni le avevo
visto
addosso.
Mi chiesi come sarebbero state, le cose per lei e Imaad, se quel giorno
li avessi lasciati a Gerusalemme, addormentati sui cuscini della Dimora.
Strinsi i denti, muovendo un passo indietro.
« D’accordo », mormorai.
In fondo, la capivo.
Come fermarla, ora che l’unico luogo che poteva offrirle
protezione era quello in cui scappava ogni qual volta il mondo le stava
stretto? Persino Imaad l’aveva capito.
All’improvviso, rammentai il giorno in cui arrivai alla
Dimora.
“Salute e
pace, Fratelli miei! E benvenuti a Gerusalemme!”
Sorrisi nel ricordare il tono allegro di Imaad e i suoi occhi vispi che
mi studiavano con giovialità mentre lui mi portava a fare il
giro della Dimora.
“Non ho
intenzione di restare qui a guardarla morire.”
“Per Allah,
Malik. Come sei ingiusto!”
“Sono
veramente felice per te, Malik.”
Avrei dato davvero qualunque cosa per averlo ancora al mio fianco.
Guardai Qitt e lei mi guardò di rimando, poi prese la mia
mano e la aprì verso l’alto.
Passò il suo dito indice sul mio palmo, tracciando una
lettera dopo l’altra con delicatezza.
“Non essere
triste, Rafiq”, scrisse, quasi mi avesse letto
nel pensiero. “In
battaglia, le persone muoiono”.
Fu il solo fatto che lei si ritrasse per salire a cavallo,
ciò che mi trattenne dal darle un ulteriore abbraccio.
« So che tornerai », dissi, serio, guardandola
ficcare i
piedi nelle staffe un po’ troppo basse per le sue gambe corte.
Lei alzò le spalle.
‘Può
essere’, ammise, sorridendo appena.
« Allora ti aspetterò ».
L’avevo sempre fatto.
A Gerusalemme, sepolto tra i documenti e i registri, o a Masyaf, chiuso
in biblioteca dietro i tomi di storia. Ma non c’era stata
notte
in cui, prima di coricarmi, non avessi guardato fuori dalla finestra
alla ricerca di un cavallo di ritorno da una missione, non
c’era
stato mattino in cui non fossi sceso all’ospedale per
chiedere di
lei.
Sapere che sarebbe tornata, mi tranquillizzava.
La guardai indugiare un poco, dopodiché spronò il
cavallo
e partì al galoppo verso il Regno, lasciando dietro di
sé
soltanto il rumore degli zoccoli che tamburellavano sulla terra.
Rimasi lì impalato per appena il tempo di un respiro, poi mi
voltai verso le stalle.
Tutt’oggi ignoro cosa mi spinse a seguirla.
Paura di dover tornare a vivere con me stesso ora che lei se
n’era andata, piuttosto che di dover trascorrere un altro
anno
alla finestra a sperare di vederla ricomparire.
Forse la verità è che ero stanco di doverla
sempre aspettare.
Sellai il primo cavallo che mi capitò a tiro e mi buttai al
suo
inseguimento, superando in una manciata di secondi lo steccato che
delimitava i confini di Masyaf.
Arrivai a tagliarle la strada che il freddo mi aveva congelato le
guance e tagliato le nocche.
« Scappiamo insieme », le dissi, mentre lei mi
guardava con
quegli occhi color dell’erba spalancati sul mio viso
ansimante.
Sorridevo, forse. Non lo ricordo. « Ti do tre giorni. Fammi
vedere dove vai quando hai voglia di sparire ».
Qitt mi sorrise.
Per un istante temetti mi stesse per scoppiare a ridere in faccia, ma
poi scalciò nella pancia del suo cavallo e prese a galoppare
verso la valle coperta dalla lieve nebbia del mattino.
La seguii senza esitare e immediatamente capii perché
scappare pareva piacerle così tanto.
Faceva sentire liberi.
__________________________
Note d'autore
[1]
Disse il libro che, per i quattro mesi sucessivi alla morte del marito,
la vedova non può uscire di casa/vedere altri uomini/parlare
con
altri uomini/sposare altri uomini. Per i parenti stretti in genere,
invece, il lutto dura una settimana in cui si presenta il digiuno.
[2] Shaykh
significa vecchio, non in tono dispregiativo ma di ammirazione (Shaykh
viene usato per le persone sagge).
La parte scritta del mio esame è andata, tra dieci giorni
l'orale.
Maaaaaaaaaaaaaaa sono ancora viva. Più o meno.
Il prossimo capitolo è l'ultimo che ho pronto (*parte la
musichetta tragica) per cui spero vivamente che la mia ispirazione si
faccia viva; se n'è andata in Alaska a fare le vacanze di
Natale e non si è più fatta viva :c
Ergo ... speriamo <3
Biscotti,
Lechatvert
|
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Capitolo 23 *** Ventiduesimo – dove cresce l'erba gatta ***
modellostorieefp
Mi
portò a casa.
Non a Gerusalemme, o nei suoi appartamenti a Masyaf, ma nel paese di
montagna dove era cresciuta, dove tutti parevano conoscerla molto
meglio di me.
In tre giorni scoprii di più sul suo conto che in tutti gli
anni che avevamo trascorso assieme.
Era la più grande di otto sorelle a cui aveva insegnato a
leggere e a scrivere ed era arrivata fino a Gerusalemme seguendo le
tracce di suo padre, un crociato disertore del suo esercito che un
giorno era sparito nel nulla così come era arrivato. Il suo
colore preferito era il bianco, suonava il flauto, da bambina amava
ascoltare le storie sulle stelle che sua madre le raccontava prima di
mandarla a dormire.
Per tre giorni, fu come vivere in un altro universo, dove Qitt non era
più schiva ma dolce e sempre di buon umore, dove tutti le
volevano bene e, sebbene ignorassero il fatto che era stata sposata e
che avesse una figlia, la consideravano come una madre paziente a cui
fare riferimento.
Passammo tre notti sul tetto di casa sua a guardare le stelle brillare
nel buio, avvolti in una vecchia coperta di lana che puzzava di
polvere. Restavamo lì fino a che non faceva troppo freddo
per
non congelare, fermi ad ammirare la volta celeste, dopodiché
scendevamo nell’unica stanza che quella casa aveva e
accendevamo
il fuoco.
Qitt suonava l’ocarina e io le raccontavo le storie di Imaad,
dei
nostri allenamenti e delle nostre passeggiate sui camminamenti in cui
non avevamo fatto altro che parlare di lei.
Sembrava apprezzare.
Continuava a suonare il suo strumento con tranquillità, fino
a
che il suo fiato non interrompeva il suono limpido della melodia,
increspandosi mentre le sue dita tremavano attorno alla terracotta e le
guance le si bagnavano di lacrime.
Allora le toglievo l’ocarina dalle mani e la stringevo a me,
cullandola mentre scoppiava in un pianto silenzioso che non avrebbe
potuto essere più assordante.
Le baciavo il capo ripetendole che sarebbe andato tutto bene, che
sarebbe stata di nuovo felice.
E allora lei si piegava ancora di più sotto il suo dolore,
affondava le dita nella mia cappa, si copriva il viso premendolo con
forza contro le ginocchia.
Finiva per addormentarsi su di me e io su di lei, stretti sotto la
vecchia coperta che puzzava di polvere, con il fuoco a scaldarci dal
freddo della montagna.
La mattina ingannavamo il tempo insegnando ai ragazzini come si impugna
la spada.
Qitt era ancora molto brava, a differenza di me, che cominciavo a
sentire sulle spalle gli anni trascorsi dietro una scrivania.
Le chiesi se le sue fughe occasionali non fossero in realtà
fini
al permetterle di usare la spada e lei mi rispose strizzando
l’occhio, un istante prima di tirare un affondo nella mia
direzione che per poco non mi fece perdere l’equilibrio.
Allenamenti a parte, passavamo gran parte della giornata in panciolle a
sorseggiare tisane e a raccontarci qualche stupido aneddoto legato a
Gerusalemme.
Rimandavamo i brutti ricordi alla sera.
Mi stupii di quanto fossimo simili, io e lei. Lontani dai ruoli di
Rafiq e di infermiera, scoprimmo di amare lo stesso infuso di erbe, di
preferire i datteri salati a quelli dolci, di avere un sonno leggero
che si interrompeva a ogni singolo fruscio della notte.
Era incredibile quanto poco sapessi di lei e quanto poco lei sapesse di
me, dopo tutti quegli anni passati insieme.
Trovai il coraggio di dirglielo la mattina precedente il giorno della
mia partenza, mentre raccoglievamo l’erba gatta che cresceva
dietro la casa.
Il marito di una delle sorelle di Qitt aveva ucciso un paio di galline
e ce ne aveva ceduta una, così eravamo partiti di buona lena
alla ricerca di qualche erba aromatica, tornando a mani vuote a causa
del freddo ancora pungente. Avevamo così deciso di ripiegare
sulle erbacce, magra ma saporita consolazione al nostro fallimento.
« Mi spiace non esserti stato più vicino
», confessai, chino sulla terra smossa.
Con la coda dell’occhio la vidi allontanare le mani dal
ciuffo d’erba che stava cavando dal terreno.
Rimase ferma a fissare le sue braccia sporche di fango, persa in
chissà quale pensiero.
« Sarei dovuto venire a trovarti, anziché
lasciarti da sola per quattro mesi ».
Silenziosa, Qitt mi prese la mano, aprendola verso l’alto
nella
sua nuova forma di comunicazione che chissà chi le aveva
insegnato.
“Ora sei qui”,
scrisse, senza scostare lo sguardo dal mio palmo. “Va tutto bene”.
Alzò gli occhi verdi su di me e mi sorrise, arrossendo
appena sulle guance rese pallide dal freddo.
Fu nel rispondere a quel sorriso, che le mie dita si fecero strette
attorno al suo polso magro.
Credo di averci messo troppa forza, perché per un istante la
sentii tremare, senza però vedere in lei
l’intenzione di
ritrarsi.
La guardai negli occhi e lei guardò me di rimando, con la
bocca ancora aperta in un respiro mozzato dal mio gesto.
Baciarla fu la cosa più naturale che potessi fare.
Posai le labbra sulla sua fronte gelata e fu lei stessa a cercare la
mia bocca, premendo il mio viso contro il suo con la mano libera dalla
stretta.
Mi stupii di trovare sulle sue labbra fredde un lieve sapore di menta,
deciso ma discreto al tempo stesso, messo lì quasi per
essere
assaporato.
Non saprei dire quanto durò, poiché persi del
tutto la
cognizione del tempo fino a che non fu lei a scostarsi,
fissando
con un sorriso imbarazzato la mia mano ancora stretta attorno al suo
polso.
Non mi ero reso conto di non averla ancora lasciata andare, e a maggior
ragione non lo feci in quell’istante.
Attesi che Qitt tornasse a guardarmi in viso, probabilmente per
supplicarmi di allentare la presa, e le strappai un altro bacio,
stavolta avvicinandomi a lei di mia iniziativa per sentire il suo
respiro sul mio viso.
Non mi disse di no.
Quella notte, restammo sul tetto fino all’alba.
Incuranti del freddo e avvolti nella coperta di lana, ci scaldammo a
vicenda guardando le stelle e, quando il cielo fu ormai troppo chiaro
per scorgervi degli astri e Qitt si fu addormentata contro il mio
petto, mi premurai di riportarla in casa e lasciarla riposare nel
giaciglio di cuscini a ridosso del muro.
Fu la prima notte che passò senza piangere per Imaad e, con
tutto il sonno che aveva da recuperare, non diede segno di volersi
destare fino a che il sole non fu alto nel cielo.
Dovetti quindi posticipare la partenza di un giorno, anche se la cosa
non mi dispiacque poi tanto.
Vederla dormire per la prima volta lontana dagli incubi, senza le dita
affondate con disperazione nelle coperte, mi mise addosso una
tranquillità che non provavo da anni.
Quasi quel luogo fosse casa mia, quasi fossi ancora ragazzino, lontano
miglia da ogni onere e ogni preoccupazione.
Mi dispiaceva dover fare ritorno a Masyaf, ma in fondo era quello, il
mio posto. Nonostante tutto, sapevo di appartenere ancora alla
fortezza. Altaïr aveva lasciato a me il comando, fidandosi
ciecamente del mio giudizio, e non era mia intenzione tradire
l’uomo che era diventato, crescendo e maturando fino a
ribellarsi
ad Al Mualim.
Pensai che, in fondo, io e lui avevamo avuto una bella vita.
In giovinezza a bighellonare per Acri non appena il maestro volgeva lo
sguardo altrove, poi schiena contro schiena nelle missioni
più
lontane, da Hama a Damasco, fino ad arrivare a Gerusalemme. Ci eravamo
spinti anche a Petra, una volta, tanto per farci cacciare a bastonate
dai beduini che vi passavano la notte.
Era una storia divertente, quella di quando io e Altaïr ci
eravamo
messi in mente di fare a gara a chi scalava più velocemente
la
facciata di El Khasneh¹, così la raccontai a Qitt
mentre
lei ancora dormiva, soffermandomi su quanto si fosse arrabbiato Al
Mualim dopo che avevamo messo in allarme l’intera
comunità
dei nabatei.
« Chissà cosa ci passava per la testa »,
considerai, scuotendo il capo con aria divertita.
Fu in quell’istante che Qitt si svegliò.
La sua mano corse veloce a cercare la mia, stringendola con dolcezza e
accarezzandola mentre con gli occhi mi guardava preoccupata.
Sapevo cosa volesse dire, con quello sguardo.
‘Non lasciarti
andare ai rimpianti, Rafiq.’
Mi conosceva davvero bene, Qitt, e sapeva come dietro ogni mia memoria
si celasse del rimorso.
Ma non avevo intenzione di abbandonarmi al dolore, non in quel momento.
Mi sdraiai accanto a lei sotto le coperte, lasciando che il calore del
suo corpo mi riscaldasse con un abbraccio che non tardò ad
arrivare.
Si strinse a me e io mi strinsi a lei, accarezzandole la fronte con il
mento.
La sentii ridacchiare sommessamente al contatto ruvido con la mia
barba, allora mi scostai un poco e osservai il suo viso arrossato, le
sue iridi verdi tanto profonde da fare quasi spavento, le sue labbra
sottili schiuse in un respiro mozzato.
La spinsi sotto di me, accompagnando quel gesto con un bacio a fior di
labbra mentre le mia dita sfilavano nel groviglio di capelli mori
sparsi cuscino.
Fu lei a scostarsi, quando la mia mano scivolò sulla sua
spalla,
infilandosi tra le pieghe dell’abito per scendere ad
accarezzarle
il fianco. Si sottrasse a quelle effusioni con i palmi aperti premuti
contro il mio petto per allontanarmi.
Glielo lessi in quell’istante negli occhi volti al soffitto.
Sebbene fosse libera, provava ancora troppo amore e rispetto nei
confronti di suo marito per giacere con un altro uomo.
Quanto a me, sapevo di tenere fede alla promessa che avevo fatto a
Imaad più di vent’anni prima. Mi aveva fatto
giurare di
prendermi cura di lei e troppo a lungo mi ero assentato, lasciandola
sola con il dolore di una perdita che aveva ferito tutti, a Masyaf. Da
quel momento, intendevo starle sempre accanto.
Perciò la guardai alzarsi dal giaciglio, troppo assonnata
per
sembrare imbarazzata, e riempire la borsa con il pane e la frutta che
avevamo dimenticato sul tavolo.
Capii che aveva intenzione di andarsene.
Ancora sdraiato sotto le coperte, la sentii uscire di casa e andare ad
occuparsi dei cavalli. Non udii il rumore della sella fissata sulla
groppa, perciò diedi per scontato mi avrebbe aspettato,
quantomeno per ricambiare il favore e lasciarmi qualche ora di sonno
dato che avevo passato la notte praticamente in bianco.
Mentre il suo calore impregnato tra le coperte e la morbidezza dei
cuscini mi cullavano in un lieve torpore, mi illusi che stessimo per
tornare a Masyaf insieme.
Ci separammo invece la mattina seguente, quando la strada che stavamo
percorrendo assieme si divise. Io mi diressi verso nord, verso Masyaf,
mentre Qitt si diresse a Gerusalemme dove, mi disse, era sua intenzione
portare le condoglianze alla famiglia di Imaad.
Mi promise di tornare con un bacio lasciato sull’angolo della
mia
bocca, così serena che nel salutarmi mi sorrise con
dolcezza,
spronando poi il suo cavallo a galoppare tra la sabbia della strada.
Non dimenticherò mai quel sorriso.
Fu l’ultimo che vidi brillare sul suo volto.
__________________________
Note d'autore
[1]
El Khasneh, è la
facciata del monumento più famoso della città di Petra, al tempo abitata dai nomadi
detti nabatei (se qualcuno si fosse chiesto cosa diamine è
un nabateo v.v)
La facciata di El Khasneh (il 'tesoro del faraone') misura ben quaranta
metri. Insomma, una bella scalata!
Io ho ufficialmente chiuso con le cose romantiche/che provano a essere
romantiche/che non lo sono per niente.
Non
ho parole, è stato peggio che lavorare otto ore di fila col
mio
capo che-ti-guarda-ma-non-parla-facendoti-sentire-colpevole.
Un'esperienza di vita, un parto, un ... non lo farò mai
più. D: Addio! Adios! Adieu! Aufidersenocomesiscrive!
Dasvidania!
Vado a rifugiarmi in un mondo di dolore e pentimento (?),
Lechatvert
PS:
Sì, ho fatto la
mossaccia del titolo del capitolo uguale a quello della storia.
Sì, lo so che è una cosa trita e ritrita. E
sì,
l'ho fatto perché non avevo idea di come chiamare il capitolo
♥
|
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Capitolo 24 *** Ventitreesimo – quando cala la fede ***
modellostorieefp
Arrivai
nei pressi di Masyaf dopo un giorno di viaggio.
Me l’ero presa con comodo, fermandomi una notte ad Acri ed
evitando di spronare il mio vecchio cavallo ad andare troppo veloce.
Giunsi alle porte della fortezza all’alba e trovai
l’aria
stranamente calda, con la neve fine che l’inverno si era
lasciato
dietro completamente scomparsa. La primavera, almeno lì,
sembrava essere finalmente arrivata.
Una volta nelle mie stanze, fu Malika ad accogliermi, buttandomi le
braccia al collo non appena mi azzardai ad aprire la porta.
« Temevo non saresti più tornato »,
singhiozzò, affondando il viso nella mia cappa sporca di
sabbia.
Si strinse alle mie vesti e la sua presa fu così forte che
per un istante rimasi senza fiato.
« Sto bene », le dissi, scostandomi appena dal suo
abbraccio.
La guardai sorridermi e alzarsi sulle punte per schioccarmi un bacio
sulla guancia ruvida di barba mentre, allegra, mi prendeva per mano.
Avrei voluto raccontarle ciò che era successo, chiarire il
perché della mia fuga, anche, ma non mi lasciò il
tempo
di parlare.
« Devo dirti una cosa », cinguettò,
trascinandomi all’interno della stanza.
Si sedette a terra tra i cuscini e invitò me a fare lo
stesso,
accoccolandosi contro la mia spalla quando mi fui chinato su di lei.
Silenziosa, mi prese la mano e se la portò al ventre.
Non servirono domande, né spiegazioni.
Sotto le pieghe dell’abito, tesa al contatto con la mia mano
gelida, la pancia di Malika seguiva curve più morbide di
quelle
a cui ero abituato, rivelando una rotondità appena accennata
che
non avevo mai notato prima.
« Credevo di essere troppo vecchia »,
farfugliò lei,
intrecciando la sua mano con la mia mentre il suo viso si arrossava
sotto l’imbarazzo.
Non risposi a parole, restando seduto tra i cuscini, perso nel nulla
della mia mente mentre Malika mi raccontava per filo e per segno di
come l’aveva scoperto, di come Anbar l’aveva
aiutata a
tenerlo nascosto fino a che il primo mese non era passato senza
complicazioni. E di come Anbar si era presentata tutta sorridente alla
mia porta praticamente ogni giorno e avesse accuratamente evitato di
informarmi della situazione.
E io intanto mi davo dell’ingenuo, perché dopo la
morte di
Imaad avevo tradotto quell’insolito avvicinamento come
un’amicizia, senza sospettare alcunché.
« Da quando tempo lo sai? », le chiesi
all’improvviso, senza quasi accorgermi di parlare.
Malika alzò le spalle.
« Un mese, anche se Anbar dice che potrei essere incinta da
più tempo. Non me ne sono accorta subito ».
In quel momento decisi che io e Anbar avremmo presto parlato circa
quella faccenda. Non eravamo mai stati particolarmente affiatati, anzi,
persino quando le facevo da insegnante era stata ferma sul suo
spocchioso piedistallo, ben attenta a non dare troppa confidenza
né a me né ai suoi compagni. Tuttavia, non avrei
accettato di farmi prendere in giro in quel modo. Non da una donna che
si era messa in testa di dichiarare guerra al mondo.
Quanto alla notizia che stavo per diventare padre, bé, ebbi
tempo per assimilare la cosa al meglio quella notte, insonne tra le
lenzuola di un letto che non mi pareva più il mio.
Lasciai le mie stanze che ormai il sole era alto nel cielo,
congedandomi al primo sbadiglio di Malika con la scusa di farla
riposare.
Non doveva aver dormito molto, nei giorni in cui ero stato lontano, e
di ciò mi dispiacqui, soprattutto perché sapevo
bene cosa
volesse dire passare la notte in bianco in attesa di una persona cara e
non era mia intenzione far preoccupare qualcuno.
La lasciai dormire, quindi, più che lieto di poter passare
qualche ora da solo a riflettere. Avevo bisogno di aria fresca, di
pace, di mettere ordine alla frenesia degli ultimi giorni che
improvvisamente aveva iniziato a schiacciarmi. Scappare non era stato
da me, lasciare i miei oneri sulle spalle di qualcun altro nemmeno. Era
stato tutto uno sbaglio dettato dalla paura di perdere la
stabilità che nei mesi precedenti era venuta a mancare e da
tale
doveva essere trattato. Buttarmi tutto alle spalle e riprendere i miei
doveri quanto prima era ciò che mi pareva più
giusto fare.
Scesi perciò nel cortile con tutta l’intenzione di
mettermi alla ricerca di Sef, ma incappai invece in Anbar, seduta
all’ombra di un albero con un coltello tra le mani, tutta
intenta
a spellare un secchio di criceti.
Mi salutò con un cenno del capo, senza realmente accennare
un’espressione, ma conoscevo Qitt e il suo sguardo furibondo
e
non fu di certo difficile coglierlo sul viso di sua figlia.
La notizia della fuga di sua madre doveva averla adirata parecchio, ma
non intendevo farmi intimorire.
« Salute e pace », esordii, avvicinandomi con fare
deciso.
« Salute e pace, Malik », sibilò,
gelida, senza
staccare gli occhi dal suo lavoro. « Fatto buon viaggio?
»
Presi un grosso respiro e lo trattenni nel petto, inarcando un
sopracciglio.
« Non che la cosa ti concerna, ma ti ringrazio per
l’apprensione », risposi.
Lei mi scoccò un’occhiata velenosa.
« No, infatti. Probabilmente concerne più mia
madre ».
Sospirai.
« Se sei arrabbiata perché Qitt se
n’è andata – »
Non seppi mai cosa la trattenne dal conficcarmi il coltello in una
gamba.
Con uno scatto del tutto imprevedibile, Anbar si buttò
contro di
me, puntandomi la lama contro il petto e mollando a terra la povera
bestia morta a cui aveva appena cavato gli occhi.
« Pensi che sia arrabbiata? », soffiò,
spingendomi
verso il tronco dell’albero sotto al quale stava lavorando.
« Ve ne siete andati prima dell’alba senza degnarvi
di dare
notizia, sputando su tutto ciò che è
l’onore della
mia famiglia. Di mio padre! » Piegò il capo di
lato e
mosse un ulteriore passo verso di me. « Malik, ‘arrabbiata’
sarebbe una grazia a cui non puoi aspirare! »
Alzai lo sguardo al cielo e approfittai della sua presa poco salda sul
coltello per farglielo cadere di mano con uno schiaffo.
« Calmati », dissi, guardandola dritta negli occhi.
« E smettila di comportarti come una stupida ».
« E allora tu smettila di comportarti come un ragazzino!
»
Provò a colpirmi con un pugno, ma fui più veloce
e mi
scansai, lasciando che andasse a colpire il tronco
dell’albero.
« Anbar », la chiamai, prendendole il polso mentre
lei si
divincolava con qualche mugolio di protesta. « Non
è bene
che qualcuno ci veda litigare ». Ancora proteste. Strinsi la
presa, costringendola a voltarsi verso di me. In quel momento, non mi
importava di farle del male. « Guardami », sibilai.
«
Non sfidarmi. Non ti ho punita quella volta con Abbas, ma ti assicuro
che alla tua età io e Altaïr siamo finiti a fare la
fame in
prigione per molto meno ». Sospirai. « Puoi
soffrire ancora
per tuo padre, ma datti una calmata; farsi prendere dalla rabbia ti
farà soltanto passare come una preda più facile
».
Rimanemmo un istante in silenzio, fermi a guardarci con astio.
Da parte mia, ero convinto di aver fatto un ottimo lavoro in veste di
insegnante quando lei era bambina e mi indignava vederla comportarsi in
modo tanto oltraggioso. Neanche Sef, che da giovane era screanzato e
ribelle, era mai arrivato a puntarmi un’arma contro durante
le
nostre liti.
Aprii la bocca per rivolgerle un altro rimprovero, ma non feci in tempo.
Sef sopraggiunse in quell’istante, raccogliendo sua moglie
per
alzarla da terra e caricarsela in spalla con tanta rapidità
che
quasi non lo vidi arrivare.
« Salute e pace! », esclamò, voltandosi
verso di me
con un leggero sorriso ad increspargli le labbra. « Vi siete
già fatti del male? »
Anbar provò a scalciargli nella schiena.
« Mettimi giù! », ringhiò.
Lui scoppiò a ridere.
« Non ci penso neanche! », rispose. Poi, rivolto a
me: « Salute e pace, Malik. Vedo che sei tornato! »
Mi sforzai di sorridere.
« Salute e pace, Sef ».
Lo guardai allontanarsi di qualche passo, fare una giravolta con sua
moglie ancora in spalla e poi piegarsi delicatamente in avanti per
adagiarla a terra.
« Devo parlare con Malik », le disse, baciandole la
fronte.
« Ti spiace se rimandiamo la tua esecuzione? »
Anbar incrociò le braccia sul petto.
« Sì che mi dispiace! »,
protestò, ma non venne ascoltata.
Sef tornò da me e mi trascinò per la manica della
cappa.
Salutò sua moglie sventolando la mano destra e assieme ci
allontanammo in fretta, uscendo dalle porte principali. Nel
più
completo silenzio, scendemmo fino al fiume.
Lì si sfilò gli stivali e si arrotolò
i calzoni
fin sopra le ginocchia, muovendo un paio di passi dove
l’acqua
scorreva più placida.
« Di che dovevi parlarmi? », gli chiesi, sedendomi
sulla
riva mentre lui si liberava della cappa per immergere le braccia nel
fiume.
« Di niente », mi rispose, facendomi
l’occhiolino.
« Ma è una bella giornata per pescare e non mi
andava di
farlo da solo! »
Passammo la giornata a buttare le reti nel fiume per poi raccoglierle e
trovarle vuote.
Sia io che Sef eravamo quanto più lontano potesse esserci
dalla
pesca, ma era un bel modo di passare il pomeriggio e venne sera quando,
esausti, ci rimettemmo in cammino per tornare alla fortezza con in mano
nient’altro che un salmone.
Erano forse anni che non passavo un’intera giornata assieme a
lui
e mi ritrovai a pensare che, in fondo, era rimasto tale e quale al
ragazzino a cui avevo insegnato a scrivere. Sebbene fosse profondamente
diverso da suo padre, non cessava mai di ricordarmelo. Certi
atteggiamenti, certi gesti, certe risate. Ero convinto che se
Altaïr avesse mai riso, il suo tono sarebbe stato del tutto
identico a quello sornione di Sef.
Fu pensando a quello, più o meno, che mi resi conto che
erano
passati otto anni da quando avevo visto il mio migliore amico e Darim
partire alla volta dell’est. Di tanto in tanto erano
sopraggiunte
delle missive, ma erano comunicazioni occasionali che si limitavano a
poche righe quando la stagione era calda abbastanza da permettere al
messo di viaggiare.
« Da quanto tempo non senti Darim? », chiesi,
quindi,
mentre Sef si legava il salmone alla cintura con tutta la fierezza di
un cacciatore di ritorno dalla battuta più proficua della
sua
vita.
Lui alzò le spalle.
« Un anno », rispose.
Avevo ricevuto una missiva da Altaïr tre mesi prima, ma non
dava notizie né di Maria né tantomeno di Darim.
« Sono certo che sta bene », commentai.
Sef ridacchiò.
« Oh, ma lo so bene », disse. « Se mio
fratello fosse
morto, l’intera fortezza sarebbe stata tempestivamente
mobilitata
per la vendetta. Mio padre è saggio, ma talvolta sa essere
tremendamente impulsivo. Credo sia un male di famiglia ».
Annuii vigorosamente.
« Lo credo anche io », confermai ridendo.
Era sera inoltrata quando passammo dinanzi alla legnaia. Là
dentro, legati allo stesso palo dove Darim li aveva lasciati otto anni
prima, i suoi cani ululavano per chissà quale motivo,
spaventati, forse, dal vociare di un paio di uomini di ronda sui
camminamenti.
Io e Sef ci fermammo a guardare verso il vecchio capanno.
« Abbaiano come dannati da quando Darim è andato
via
», considerò lui, assumendo
un’espressione
crucciata. « A volte credo che anche loro sentano la sua
mancanza
».
Alzai le spalle.
« Sono inquietanti », risposi, ricordando il giorno
in cui Altaïr era partito.
Ero andato di persona a vedere il cane sgozzato e l’immagine
di
quel povero animale con la gola aperta non mi aveva mai abbandonato del
tutto, restando in agguato come l’oscuro presagio che voleva
essere.
La risata di Sef mi rimise di buon umore.
« Malik, non ti facevo superstizioso! »,
esclamò,
portandosi una mano alla fronte. « Sai cosa diceva sempre mia
madre? È quando cala la fede che – »
La voce sprezzante di Maria mi risuonò in testa come quando
mi
prendeva in giro la mia scarsa propensione all’occuparmi dei
cani
da guardia.
« Che aumentano le superstizioni », sospirai,
alzando le spalle. « Me lo ricordo, Sef ».
Lo guardai camminare a passo spedito nella direzione della legnaia.
« Vado a vedere qual è il problema »,
disse. Feci
per seguirlo, ma mi bloccò. « Va’ pure,
io finisco
con i cani e torno a casa ».
Annuii, seppur poco convinto.
« Ci vediamo domani, allora ».
Lui sventolò la mano in segno di saluto, prima di
allontanarsi nel buio.
Per tutta la sera, mentre mi occupavo dei registri che avevo lasciato
in bianco prima di partire, mi restò in mente il suo tono
allegro.
« Salute e pace, Malik! »
Ancora oggi non so perché non gli risposi.
__________________________
Note d'autore
Avrei
voluto aggiornare prima ma ... siamo agli sgoccioli per preparare
questo benedetto esame di religione *parte the final countdown*
e volevo assolutamente aspettare il 25 per festeggiare i due mesi della
fanfiction c:
Ebbene sì, sono due mesi che rompo le palle con queste
scartoffie melodrammatiche! E lo devo tutto a voi, fantastiche persone
che perdete preziosi minuti della vostra vita dietro la mia voglia di
battere le dita sulla tastiera. Ancora non mi capacito del fatto che ci
sia gente che davvero legge ciò che scrivo, ma sappiate che
ne sono lusingata.
Grazie, grazie e ancora grazie.
Non temete! Mancano quattro capitoli e poi tornerò nel mio
antro oscuro. u.u
Pane e mortadella (oggi ci buttiamo sul salato),
Lechatvert
|
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Capitolo 25 *** Ventiquattresimo – il grido che squarciò il silenzio ***
modellostorieefp
La
mattina seguente, reduce da una notte insonne passata a rigirarmi tra
le lenzuola, uscii di buona lena per una passeggiata sulle mura. Mi
schiarii le idee con l’aria fresca dell’alba,
osservando a lungo i profili della valle appianarsi fino ai porti
limpidi di Tortosa e Balanea, inspirando l’odore acre di un
paese che ogni giorno rinasceva.
Quando feci ritorno nei miei appartamenti, Malika si era già
svegliata.
Anbar e le sue figlie erano passate a farle visita per assicurarsi che
stesse bene, perciò la trovai ancora a letto, intenta a fare
del chiocciante salotto circa le infermiere dell’ospedale
mentre le due bambine le intrecciavano i capelli ridendo sommessamente.
Mi avvicinai per salutare, accarezzando la spalla di Malika prima di
sedermi accanto a lei.
« Come sta? », chiesi ad Anbar.
Dallo sguardo che mi scoccò, capii che non aveva seppellito
l’ascia di guerra. Non che ci avessi sperato, naturalmente.
« Meglio di quanto pensassi », rispose, piegando le
labbra in una smorfia contrariata. « Di certo
l’agitazione di questi giorni non ha aiutato. Deve riposare;
stare a letto senza affaticarsi ».
Malika si appoggiò alla mia spalla.
« La fa più tragica di quello che è
», ridacchiò.
Anbar le rivolse un sospiro rassegnato, ma si sforzò di
sorridere. Si alzò e andò ad aprire la finestra,
perdendo qualche istante a guardare lo strapiombo sopra il quale era
arroccata la fortezza.
« Ti serve aria fresca », disse, infine, tornando
verso il letto per recuperare la borsa. « Vado a prendere
della legna per il fuoco. Tu vedi di riposare ».
Puntò il dito verso una delle sue figlie e si sporse in
avanti per sistemarle il fazzoletto sui capelli nerissimi.
« Avrò bisogno di aiuto », le disse,
accarezzandole piano il capo.
Scattai in piedi.
« Vengo io », dissi, mostrando un sorriso tirato.
Anbar mi piantò addosso i suoi occhietti verdi,
assottigliandoli in un’espressione sospettosa.
Piegò le labbra in una smorfia, ma non commentò.
Si limitò a guardare le sue figlie, dicendo loro di
comportarsi bene in sua assenza, dopodiché salutò
Malika e mi precedette sul corridoio.
Riuscimmo ad evitare i toni acidi per non più di tre passi.
« Sembra quasi tu stia evitando di restare solo con lei
», mi disse d’un tratto, arricciando il naso quando
raggiungemmo lo scalone centrale.
Io la guardai, offeso.
« Da dove arrivano queste insinuazioni? »,
protestai.
Lei scoppiò in un’odiosa risata ricca di
consapevolezza.
« Solo un allocco crederebbe di poter tenere nascoste certe
cose a una donna », rispose, sollevando le spalle.
« Non saremo brave quanto voi uomini a far roteare una spada,
ma sappiamo far lavorare la testa. Anche se non ne comprende le
ragioni, Malika comprende il tuo comportamento ».
Sussultai.
« Non le hai detto dove sono stato? »
Anbar sghignazzò.
« Certo che no; non rientra nel mio interesse! E poi, Sef mi
ha chiesto di starne fuori ».
Uscimmo nel cortile in silenzio, passando accanto al mucchio di fieno
che la mattina veniva accatastato in attesa che chi di dovere lo
utilizzasse per prendersi cura delle bestie. Proprio dietro quella
montagna d’erba secca, dieci anni prima, avevo scoperto Anbar
e Sef a scambiarsi i loro primi baci. Non avevano vent’anni,
eppure non ci fu nulla capace di farli sentire colpevoli di qualcosa.
Quando poi venne tirato di mezzo Darim, capimmo che la storia andava
avanti da mesi grazie alla sua silenziosa collaborazione.
Quei ricordi mi portarono una lieve risata, costringendomi a fermarmi
dinanzi alla catasta di fieno per riportarli alla mente con
più accuratezza.
Credo che Anbar seguì il mio stesso flusso di pensieri
perché, quando mi voltai verso di lei, la trovai accanto a
me con le guance vistosamente più rosse del solito.
« Volevo chiederti scusa per ieri »,
borbottò, scalciando il terreno sotto i suoi piedi proprio
come suo padre faceva quando si trovava in imbarazzo.
Quelle cinque parole mi addolcirono un poco.
« Scuse accettate », risposi.
« Il fatto è che non è un bel momento
».
La guardai tirare un grosso sospiro mentre riprendeva a camminare verso
la legnaia.
« Spiegati », la incoraggiai, seguendola.
« Non credo te ne abbia mai fatto parola, ma, dopo la morte
di mio padre, Sef ha chiesto ad Altaïr il permesso di
raggiungerlo in oriente ».
La raggiunsi accelerando appena il passo.
« E l’ha ottenuto? », chiesi.
Anbar mi rispose con una risatina tesa.
« Naturalmente no », disse. « Sono
riuscita a mettere le mani sulla missiva in questione e non me ne dico
affatto sorpresa, seppure non condivida i toni ».
« Altaïr è stato duro? »
« Gli ha proibito di scrivergli di nuovo prima del suo
ritorno ».
« Sef come l’ha presa? »
Anbar mi scoccò un’occhiata a metà tra
il divertito e il triste.
« Altaïr come l’avrebbe presa?
», mi chiese, imbronciandosi appena.
Avrei tanto voluto risponderle che, dopo un periodo di rabbia passato a
tirare pugni ai muri in completo silenzio, Altaïr sarebbe
partito per l’est nel bel mezzo della notte senza
preoccuparsi di chiedere il permesso a nessuno.
Partito nel bel mezzo della notte, già.
Mi fermai.
« Anbar ».
Lei si voltò a guardarmi con aria interrogativa.
« Sì? », chiese, inarcando un
sopracciglio.
« Dov’è Sef? »
Silenzio.
L’immagine di lui che lasciava Masyaf per raggiungere la sua
famiglia chissà dove cominciò a prendere il
sopravvento nella mia testa. Pensai che poteva conoscere il luogo
esatto grazie alla complicità di Darim, che era sempre
così ligio agli ordini impartiti da suo padre ma che per
proteggere Sef si era fatto punire più di una volta.
Aveva senso.
Guardai Anbar, in piedi davanti a me con le labbra piegate in una
smorfia confusa.
« Non è tornato stanotte », mi disse,
stranamente calma. « Perciò direi che lo puoi
trovare a calciare sassi sull’altopiano. Non fa altro,
ultimamente ».
« Passa la notte sull’altopiano? »
Anbar annuì.
« Da quando ha ricevuto quella missiva, sì
».
Non ero ancora tranquillo, ma preferii non fare parola dei miei
sospetti. Da come ne parlava Anbar, la situazione era già
abbastanza complicata senza che mi mettessi ad appesantirla con delle
supposizioni.
E poi, Sef era tutto fuorché uno sprovveduto. Se davvero era
partito alla volta dell’est, di certo aveva fatto in modo che
non potessimo rintracciarlo.
Decisi che sarei andato ad accertarmi della sua presenza di persona non
appena avessimo finito con la legna.
Arrivati di fronte alla casupola che avevamo adibito a deposito, mi
offrii di portare i pezzi più pesanti.
Anbar mi rispose con una lieve risata.
« Sei gentile », disse, precedendomi
all’interno della legnaia mentre si arrotolava sui gomiti le
maniche del vestito. « Ma non occorre; grazie
dell’apprensione ».
Si richiuse la porta alle spalle e mi piantò in mezzo al
cortile, sparendo dietro le file di rami e frasche secche accatastati
come scorta per l’inverno.
Rimasi là fuori per qualche istante, fermo ad inspirare
l’aria fresca della montagna e ad osservare le poche persone
che passeggiavano intorno alle mura. C’era un insolita
desolazione, quasi quel giorno la fortezza si fosse presa una pausa
dagli oneri mattutini che spettavano a ognuno degli abitanti.
Fu istintivo chiedermi dove fossero finiti tutti, ma non ebbi il tempo
di rispondere alla mia domanda, né la pace di tornarvi a
riflettere nei giorni avvenire.
Il grido di Anbar che squarciò il silenzio fu
l’unico suono che popolò i miei incubi per i mesi
avvenire.
Mi precipitai nella legnaia con la spada in pugno, ma non dovetti
combattere contro un nemico.
Anbar era a terra, in lacrime sul corpo esangue di Sef. Lo chiamava
piano, premendogli le mani sulle guance quasi dovesse svegliarlo da un
sonno profondo.
Mi buttai al suo fianco, lasciando cadere la spada a terra, incapace di
parlare.
Sef, immobile, freddo come il ghiaccio, pareva ricambiare gli sguardi
di sua moglie da quei suoi occhi castani che fissavano ancora il
soffitto, pieni di paura, ti terrore. Qualcuno gli aveva aperto la gola
da parte a parte, lasciandolo morente in una pozza di sangue.
Non fui in grado di pensare immediatamente a cosa fare.
Restai pietrificato dinanzi al corpo senza vita di Sef, ascoltando il
pianto di Anbar distruggere ogni mia difesa contro quella visione.
Riuscii a ricompormi appena in tempo per evitare un altro grido.
Afferrai Anbar per la spalla e le tappai la bocca prima che potesse
emettere alcun suono, facendole cenno di stare in silenzio.
Vidi i suoi occhi riempirsi nuovamente di lacrime e in un istante mi si
buttò addosso, affondando il viso nella mia cappa.
La scostai con fermezza, guardando il suo vestito macchiato di sangue.
« Torna nelle mie stanze », le dissi, levandomi il
mantello per avvolgerle le spalle. Almeno non avrebbe destato sospetti
andandosene in giro per la fortezza più sporca di un
macellaio. « Chiuditi lì assieme alle tue figlie e
non aprire a nessuno per nessun motivo ».
« Sì ».
Aveva un tono singhiozzante e lo sguardo assente.
Quando fece per voltarsi, la bloccai afferrandola per la spalla.
« Non parlare con nessuno, hai capito? »
Lei annuì debolmente, tirandosi il cappuccio sul capo.
« Sì », mormorò, respirando a
fondo in un disperato tentativo di ricomporsi. « Sono qui
». Si voltò nuovamente verso il corpo di Sef e si
chinò su di lui, sfilandogli il coltellaccio che portava
legato alla cinta, poi mi riguardò. « Per
sicurezza », aggiunse, in cerca di approvazione.
Io annuii.
« Va’ dritta nelle mie stanze », mi
raccomandai.
Ci scambiammo un’ultima occhiata
dopodiché la guardai uscire nel cortile, malferma sui suoi
stessi piedi e visibilmente scossa. Persino un cieco si sarebbe accorto
che qualcosa non andava, perciò pregai affinché
non incontrasse anima viva nel suo cammino.
Quanto a me, restai a vegliare su Sef fino a che non ebbi la forza
sufficiente di alzarmi in piedi e andare a chiamare aiuto. Chiusi i
suoi occhi color della sabbia e pregai per lui, riacquistando quella
fede che lui stesso mi aveva accusato di aver perso.
Poi, come il vento prese a soffiare sulla fortezza, mi risvegliai.
Sentivo su di me la rabbia di Sef, assieme al suo respiro pesante e
irrequieto. Lo sentivo cadere in ginocchio e rifiutarsi di chiedere
pietà, gemere sotto la sua gola tagliata, soffocare nel suo
stesso sangue.
Lo sentivo implorarmi di vendicare il suo onore.
__________________________
Note d'autore
Arrivata
a questo punto, dovrei essere libera da ogni esame. E invece no.
Cos'è successo? E' successo che dqpodqdkqiodjqwioqwudqwjq la
mia professoressa ha deciso di annullare la sessione il giorno prima,
per cui ora sono daccapo. Volevo pubblicare il capitolo il 29, ma mi
sono presa una giornata di meditazione zen e ferrata autodisciplina per
evitare di mietere vittime. Davvero.
Ad ogni modo, parlando di cose più allegre (mica tanto):
l'addio a Sef. E' finalmente arrivato il momento tanto atteso, quello
in cui quel pover'uomo viene ammazzato. Credo che sia una delle cose di
cui mi dispiace di più. In fondo mi piaceva, come
personaggio ç_ç
Finisco di farneticare, mi do all'antropologia culturale.
Pancetta,
Lechatvert
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Capitolo 26 *** Venticinquesimo – il duello dei poveri ***
modellostorieefp
La
prima cosa che mi fece pensare ad Anbar come a una tempesta in attesa
del primo fulmine per spazzare via tutto ciò che il suo
cammino avrebbe incontrato fu il suo silenzio.
Rimase due giorni interi senza proferire parola se non obbligata, persa
in chissà quale pensiero, a pettinare i lunghi capelli scuri
delle sue due figlie.
Ufficialmente, era scappata da Masyaf la mattina
dell’omicidio; in realtà, avevo arrangiato un
giaciglio di fortuna nell’anticamera e sfruttavo quel poco
potere che mi era rimasto per tenere la servitù lontana
dalle mie stanze.
Era lampante che non potessimo andare avanti così; sarebbe
bastato un pianto, una risata fatta a voce troppo alta, per allarmare
qualcuno a far cadere i sospetti su di noi.
Mentre nella fortezza temporeggiavo con la caccia
all’assassino, in casa lo facevo per mantenere la quiete. Con
Abbas e la sua stupida idea di mettere su un consiglio e con Anbar, che
si avvicinava sempre più al punto di rottura in cui avrebbe
preso un coltello e sarebbe andata a concludere quella faccenda
personalmente.
Nel bel mezzo della notte del terzo giorno fui strappato alla lettura
dal rumore di una lama che entrava nel fodero. Alzai lo sguardo su
Anbar, tutta impettita nell’armatura di suo marito mentre,
con la grazia di un ubriaco, cercava di legarsi la lama celata al polso.
« Spiegami dove hai intenzione di andare »,
commentai, alzando un sopracciglio quando lei buttò a terra
l’arma in uno sprizzo di stizza.
« Parto », sbottò di risposta.
« E per dove? »
« Vado a cercare Darim ».
Roteai gli occhi.
« Credevo ne avessimo già parlato », le
dissi, chiudendo il tomo che avevo aperto in grembo. «
Altaïr e Darim stanno combattendo una guerra per il nostro
Ordine. Ordine che tu hai deciso di abbracciare sposando Sef. Se
dovessero tornare a Masyaf – e lo farebbero di certo
– tutte le fatiche di questi anni sarebbero state vane.
Ammesso che tu riesca a raggiungerli senza che qualcuno ti uccida sulla
strada, certo ».
« Quantomeno ci toglieremmo dai piedi questa ridicola
situazione! » Fece una pausa, controllando con
un’occhiata che le sue figlie fossero ancora addormentate nel
loro giaciglio nell’anticamera. « Non ho intenzione
di starmene qui mentre là fuori si cerca
l’assassino di mio marito. Mentre vengo accusata a causa
della mia improvvisa scomparsa ».
Io le feci cenno di sedersi di fronte a me, abbassando appena il capo.
« Avevo le mani legate », risposi. «
Abbas vuole metterci fuori gioco entrambi per assicurarsi il potere
tramite il consiglio formato dai suoi tirapiedi. Ti avrebbe di certo
rinchiusa nei tuoi alloggi con la scusa del lutto. E dimmi, che
utilità avresti mai potuto avere, una volta confinata in una
stanza? »
Le mani di Anbar si irrigidirono lungo i suoi fianchi.
« Certo, invece un’accusa di omicidio mi
terrà libera e lontana dai guai! »,
ironizzò.
« L’unica prova che hanno contro di te è
la tua scomparsa ».
« All’assassino di Sef servirebbe molto meno, per
farmi fuori ».
Sospirai.
« La cosa migliore che puoi fare, ora come ora »,
spiegai, accigliandomi di nuovo. « È aspettare il
ritorno di tua madre. Di certo i fratelli di Imaad la scorteranno fino
a qui. Sono l’unico supporto su cui possiamo contare senza
sospettare un tradimento ».
« Potrebbero passare mesi, Malik. Potrebbero passare anni.
Potrebbe non fare ritorno. Se persino i messi potrebbero pugnalarci
alle spalle e non abbiamo modo di farle sapere cosa sta succedendo,
cosa dovrebbe mai farla tornare? »
Aveva ragione. Conoscendo Qitt, avrebbe di certo lasciato Gerusalemme
dopo pochi giorni, ma cosa l’avrebbe fatta tornare a Masyaf?
Anbar era grande, ormai, nella sua ottica poteva tranquillamente
cavarsela da sola.
Eppure, qualcosa mi diceva che sarebbe tornata.
Per una volta, avevo fiducia di credere a quella promessa fatta per
strada.
« Abbi fede », le risposi, quindi, poggiandole una
mano sulla spalla. « E, per una volta, non fare di testa tua
».
Lei annuì.
« Ti do ancora una settimana », rispose,
scostandosi da quel contatto. « Dopodiché prendo
il primo cavallo che riesco a trovare e vado a riprendere Darim o chi
per lui ».
Si alzò e camminò spedita fino alla tenda che
delimitava l’entrata nell’anticamera, la stanza di
fortuna che eravamo stati in grado di mettere in sesto per permetterle
di dormire assieme alle sue figlie. La toccò con la punta
delle dita inguantate, dopodiché si voltò verso
di me.
« Leggevi delle missive da Alamut¹, ieri
», mi disse.
Io annuii piano, circospetto.
« Che cos’è? »
« Una fortificazione degli Assassini a mezza lega a nordest
da qui ».
« Quali nuove ci scrivono? »
Sospirai.
« Maometto, l’uomo posto a capo della fortezza, non
è un servo dell’Ordine; ha conquistato Alamut con
la forza due anni fa. Deve essersi ingolosito delle vittorie
di Altaïr, poiché chiede un riavvicinamento agli
Assassini ».
Soltanto quando finii di esporre quella spiegazione mi resi conto di
quanta attenzione richiedesse quella faccenda. Avevo sempre liquidato
le pacifiche insistenze di Alamut e avevo iniziato a prenderle come
sciocche moine dopo la morte di Sef.
In quel momento realizzai che la fortezza di Maometto poteva
rappresentare la nostra salvezza, se avessi saputo schierare i suoi
soldati dalla mia parte. Se invece Abbas fosse arrivato prima assieme
al suo consiglio, bé, in quel caso non sarebbero stati che
due plotoni in più a tagliarmi la gola nel sonno.
Guardai Anbar di nuovo, cercando di mostrarle un sorriso rassicurante.
« Va’ a dormire », la esortai, pacato.
« Non sono cose a cui una donna dovrebbe pensare ».
Doveva essere davvero esausta, poiché non raccolse quella
misera provocazione e si limitò ad annuire, sparendo dietro
la tenda che per tutto quel tempo si era persa a fissare.
Si rinfacciò subito dopo.
« Buonanotte, Malik ».
La salutai con un cenno del capo, prima di spegnere a mia volta il lume.
« Buonanotte ».
*
* *
Camminavo spedito per i corridoi della fortezza, spada legata al fianco
e braccio occupato a reggere due rotoli di cartine geografiche
sottratte senza troppi complimenti alla biblioteca.
La notte precedente, avevo riflettuto a lungo sulla
possibilità di stringere un’alleanza del tutto
ufficiosa con Alamut e, se da una parte l’idea di prendere
sotto la mia ala una schiera di soldati del tutto estranei al credo
degli Assassini non mi piacesse affatto, dall’altra mi
rendevo perfettamente conto che era l’unica via per
garantire l’incolumità di Masyaf.
Incrociai Abbas e i suoi tirapiedi che ero ormai di ritorno verso le
mie stanze.
« Salute e pace », esordii, avvicinandomi con fare
severo. Scambiai un paio di occhiate con Abbas, prendendo un grosso
respiro prima di continuare a parlare in tono grave. « Non
credo vi sia permesso camminare su questi corridoi. Ci sono gli
appartamenti privati del Mentore e della sua famiglia ».
Abbas sostenne il mio sguardo con arroganza.
« Stiamo controllando ogni stanza », rispose uno
dei suoi servitori.
Mi accigliai.
« In cerca di cosa, esattamente? »
« Sef non aveva con sé il suo coltello. Pensiamo
si tratti dell’arma usata per sgozzarlo ».
Ricordo che pensai che soltanto uno stupido avrebbe tenuto con
sé l’arma del delitto. E soltanto un minorato
mentale l’avrebbe nascosta nelle sue stanze, soprattutto
nella fortezza, arroccata sopra una gola talmente profonda che
qualunque cosa fosse finita laggiù poteva dirsi persa per
sempre.
Tutto ciò avrebbe dovuto darmi un presentimento lampante su
ciò che sarebbe successo in seguito, ma a causa della
stanchezza non lo fece.
Nella mia testa, il coltellaccio di Sef con la lama arricciata in punta
era ancora nelle mani di Anbar.
« Immagino vogliate controllare anche le mie stanze
», dissi, quindi, fingendomi seccato. Pregustavo
già il momento in cui Abbas sarebbe uscito di lì
a mani vuote.
« È esatto ».
Sottovalutarlo fu il mio errore più grande.
Guidai tutto il gruppo verso i miei alloggi, fermandomi dinanzi alla
porta di legno per bussare prima di azzardarmi ad aprirla.
Tre colpi erano il segnale che qualcuno di pericoloso era in
avvicinamento.
Dalla stanza, sentii i passi veloci di Anbar spostarsi
nell’anticamera assieme ai bisbigli nervosi di Malika.
Sospirando, mi chiesi perché mai le donne dovessero essere
così rumorose in tutto ciò che facevano,
dopodiché aprii la porta.
La tenda sull’anticamera era sparita, di Anbar non
c’era traccia, Malika era in piedi al centro della stanza con
le mani congiunte sul ventre rigonfio e un sorriso innocente stampato
in faccia.
Persino un cieco si sarebbe accorto che stava nascondendo qualcosa.
E così fu.
Abbas mi superò a passo spedito, affacciandosi
all’anticamera e indicando la porta che dava sulla biblioteca.
«Cercate dappertutto!», sbraitò,
prendendosi la libertà di aprire i cassetti delle librerie.
Nella furia di cinque uomini che si impegnano a mettere a soqquadro
cinque stanze intere, mi avvicinai a Malika e le presi la mano.
« Anbar? », chiesi sottovoce, senza spostare lo
sguardo dai miei poveri registri che venivano scaraventati da una parte
all’altra della camera. Anni e anni di lavoro buttati
all’aria così irrispettosamente. In un altro
momento, avrebbe fatto male.
Malika si strinse a me.
« Le ho fatte uscire dalla porta della biblioteca
», rispose con un filo di voce. « Si sono nascoste
nelle camere di Altaïr ».
Se non altro, qualcosa di intelligente erano state in grado di farlo.
Rimasi in piedi al centro della stanza mentre tutto ciò che
avevo scritto, pensato e archiviato per l’Ordine veniva
distrutto nella foga della ricerca, osservando ogni singola ora di
lavoro perdersi nel marasma di fogli e registri che si era creato sul
pavimento.
Ci avrei messo mesi, se non anni a rimettere tutto in un ordine
quantomeno accettabile, ma Abbas avrebbe di certo ascoltato ogni mia
singola lamentela circa l’accaduto. Era inaccettabile che lui
e la sua ridicola compagnia di debosciati si permettesse di sospettare
di me, non l’avrei accettato.
Poi, quasi quei bellicosi pensieri fossero stati ascoltati dal fato,
uno degli uomini prese a frugare tra le coperte e i materassi del letto.
Accanto a me, sentii Malika irrigidirsi.
La guardai, perplesso.
L’occhiata che mi mandò di rimando
chiarì ogni cosa.
Troppo tardi, però.
« L’ho trovato! »
Non ebbi bisogno di guardare verso il mio giaciglio per sapere di cosa
si trattasse. Il coltello di Sef, quello con la punta arricciata,
quello che Darim aveva ricevuto in dono da suo padre e che Sef gli
aveva chiesto in dono così tante volte da esasperarlo.
Quello che Anbar aveva sfilato dalla cintura del cadavere di suo marito
per sicurezza, come aveva detto lei. Quello che ora se ne stava
lì, brillante tra le mani di Abbas, sporco del sangue di
chissà quale animale.
Quello che era stata lei, a nascondere tra le coperte.
Scoccai a Malika un’occhiata esasperata.
« Perché? », mugugnai, mentre gli uomini
di Abbas mi si buttavano addosso per immobilizzarmi. Come se avessi
avuto possibilità di fuggire. Come se ne avessi avuto la
forza.
Lei si aggrappò a me con gli occhi pieni di lacrime.
« Mi dispiace! », gridò, coprendosi la
bocca con la manica dell’abito.
Presi un grosso sospiro, imponendomi la calma. Non potevo permettermi
il minimo sgarro.
« Questo non prova niente », dissi, voltandomi
verso Abbas mentre i suoi tirapiedi mi tenevano fermo per le spalle.
Lo vidi sogghignare.
« Al contrario », rispose, beffardo. «
Questo prova tutto, ma non sarò io, a giudicarti. Ci
penserà il consiglio ». Fece una pausa, ricercando
quel briciolo di teatralità che si ritrovava per poi
allargare le braccia con fare pomposo. « Portatelo nelle
prigioni, che attenda il giudizio! »
Mi risparmiarono l’umiliazione di portarmi in carcere di
peso, lasciandomi quantomeno la dignità di camminare di mio
passo.
Dove potevo scappare, in fondo? Agli occhi degli Assassini
più giovani, non ero che un vecchio con l’assurda
presunzione di poter ancora comandare l’Ordine.
Mi allontanai assieme ai miei carcerieri, lasciandomi alle spalle i
miei alloggi e maledicendo ogni singolo momento in cui avevo messo da
parte il lavoro per dedicarmi al mio personale interesse. In quegli
istanti, non mi sarei stupito se qualcuno mi avesse detto che Abbas e
Malika erano in combutta fin dal matrimonio di Imaad.
Credevo che non ci sarebbe stato nulla, in quel momento, capace di
lasciarmi senza fiato.
Ancora una volta, il fato mi dimostrò quanto mi stessi
sbagliando.
Nella camminata verso la prigionia, trovai una delle porte degli
appartamenti di Altaïr ancora socchiusa.
Voltandomi verso di essa, vidi brillare qualcosa, nel buio.
La punta di una freccia già incoccata sul suo arco.
Il verde delle iridi di Anbar, concentrato sulla mira da prendere per
abbattere almeno una delle guardie, mi diede speranza.
Cadde tutto quando la vidi sospirare.
Completamente inosservata dagli Assassini, abbassò
l’arco e tornò nel buio della stanza, chiudendo la
porta dietro di sé.
Affranto pensai che, quel giorno, ero stato tradito due volte.
__________________________
Note d'autore
[1]
Alamut era storicamente una fortezza iraniana che, dal 1090, fu dimora
degli Assassini. Passò di mano per qualche anno, finendo poi
nelle mani dei mongoli nel 1256. Nel periodo della storia (1225 circa)
il comandante del castello era Maometto III. Su di lui non si hanno
informazioni, ma ho dedotto che non fosse originario del luogo
perché tutti i precedenti sovrani vengono accompagnati da un
"of Alamut" che Maometto è l'unico a non avere.
Per il resto, ho tirato a indovinare quale potesse essere la situazione
politica c:
Lo so, è un po' che non mi faccio sentire.
Lo so, sono una persona orribile.
Ma sono orribile e libera.
Sì, perché dopo due mesi di preparazione, tre
appelli cancellati e uno spostato
io. ho. finalmente. dato. quel. benedettissimo. esame.
Yoho! Yuhu! Yaha! Yihi!
Avevo intenzione di pubblicare ieri, ma ho dormito fino alle cinque del
pomeriggio per recuperare le ore di sonno buttate al vento per questo
stupidissimo esame.
Per rifarmi, prometto di sbrigarmi della stesura del prossimo. Ora sono
libbbbera! *corre per l'ateneo incintando la distruzione di ogni
appello simile
Latte e biscotti,
Lechatvert
PS: -2!
|
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Capitolo 27 *** Ventiseiesimo – promesse non mantenute ***
modellostorieefp
La guardia che mi teneva d’occhio giorno e notte, sola
nell’ultimo piano della torre dove da secoli erano collocate
le carceri, morì esattamente una settimana dopo il mio
imprigionamento.
Era un ragazzetto piuttosto basso, muscoloso quanto bastava per reggere
una balestra, sbruffone oltre ogni limite ma non particolarmente
intelligente. Aveva un paio di occhietti scuri così piccoli
che, quando una freccia lo colpì dalla tromba delle scale,
uno di loro parve sparire sotto la punta di metallo.
Crollò proprio dinanzi alla mia cella, durante un normale
turno di ronda.
Io, che leggevo alla luce del minuscolo lucernario di cui la mia cella
era dotata, feci appena in tempo ad accorgermi della sua dipartita.
Quando accantonai la lettura per portarmi vicino alle sbarre, non fu
difficile dedurre da chi provenisse quel colpo.
Gli unici uomini capaci di colpire un uomo in un occhio con
l’ausilio di una sola freccia. Imaad, che purtroppo per me
era trapassato da anni, e il figlio maggiore di Altaïr.
In quel momento, non fui certo quale dei due potesse essere
più probabile veder sbucare da dietro l’angolo
dell’atrio.
« Darim! », chiamai, optando per ciò che
mi pareva meno profano.
Un Assassino vestito di bianco comparve
dall’oscurità delle scale, camminando verso la mia
cella con il volto ancora coperto dal cappuccio.
Si accucciò dinanzi a me, buttando a terra l’arco
con il quale aveva commesso il suo omicidio e la sacca che portava su
una spalla.
« Ti dovrai accontentare di me », mi rispose la
voce femminile di Anbar, mentre si abbassava il cappuccio sulle spalle.
Alzai un sopracciglio.
« Tuo padre non mi aveva mai detto di averti insegnato a
tirare con l’arco ».
Lei alzò le spalle, iniziando a frugare nella borsa.
« Mio padre ha nascosto molte cose a molte persone
», rispose, lapidale. « Non mi ha lasciata
completamente fuori dal mondo ». Prese a tastare la cappa
della guardia, girando il corpo per raggiungere le tasche interne.
« Niente chiavi », commentò, arricciando
le labbra in un’espressione delusa. « Ma ho
comunque qualcosa per te ». Aprì la sacca,
prendendo a frugare all’interno con foga. Alla fine, mi porse
una bisaccia. « Acqua », spiegò.
« Non te ne devono dare molta, quassù. Sei
dimagrito ».
Assieme alla bisaccia, allora, mi porse anche un sacchetto di datteri e
semi.
Erano settimane che non buttavo giù altro che croste di pane
vecchio e radici rinsecchite vecchie di anni, eppure non toccai cibo.
Mi avventai invece sull’acqua, buttandone giù
quanta più potei assicurandomi però di non
svuotare la bisaccia. Se volevo andare avanti senza moire di sete, mi
sarebbe servita.
« Quali notizie, dalla fortezza? », chiesi, dando
un ultimo sorso.
Anbar alzò le spalle.
« Stanno provando a mettere su un consiglio, ma anche uno
stupido capirebbe che è una manovra di Abbas per prendere il
potere. Per ora, si sta temporeggiando a causa di qualche scettico che
ancora resta fedele ad Altaïr. Tempo di farli fuori e sarai il
primo a ricevere un processo da quel gruppo di debosciati ».
« E Malika? »
La vidi sussultare.
« Sicuro di volerlo sapere? »
Non sussultai che un istante, ma ad Anbar bastò un istante
del mio silenzio per scuotere il capo.
« Spaventata come un coniglio dopo averti fatto cadere in
trappola », rispose. « L’hanno messa in
una stanza d’ospedale, ben sorvegliata nel caso mi venisse
l’idea di tornare a strangolarla ».
« Tu dove ti sei
nascosta?»
« Sono partita verso il Regno subito dopo la tua
incarcerazione. Ho lasciato le mie figlie alle donne di un villaggio,
ne avranno cura finché non sarò di ritorno
».
« Saresti dovuta andare dritta a Gerusalemme ».
Anbar roteò gli occhi, alzandosi in piedi, probabilmente
alla ricerca di qualcosa per scassinare il lucchetto che mi teneva in
gabbia.
« Se fossi andata a Gerusalemme sarebbero potuti passare
mesi, prima di poter fare ritorno a Masyaf »,
spiegò. « Difficilmente ti avrei ritrovato vivo
».
Provò a spiccare un balzo verso l’alto per
afferrare una trave sporgente dal muro di mattoni e provare a
scardinarla, ma non arrivò a sfiorarla neanche con la punta
delle dita. Allora, stizzita, si portò le mani ai fianchi,
calciando il pavimento con fare seccato.
« Troverò il modo di farti uscire di qui
», commentò.
Io mi accigliai.
« Non ci metterei la mano sul fuoco », replicai.
« Dovessi anche trovare il modo di tirare giù la
porta – e ne dubito – avresti comunque un vecchio
da tirarti appresso. Non credo riusciresti a varcare la soglia della
fortezza senza che qualcuno ti noti ». Sospirai pesantemente,
trascinandomi debolmente verso il mio libro abbandonato sulla paglia.
« Torna dalle tue figlie, Anbar », dissi dopo un
istante. « Avresti dovuto salvarmi quando ne avevi la
possibilità sui corridoi della fortezza. Sempre che non
fossi io, il tuo bersaglio ».
Alle mie spalle, la sentii esitare.
« Lo eri », disse poi, strappandomi uno sbuffo
ferito. « Ma non per il motivo che pensi ». Si
interruppe e per un istante parve persino esitare. « Sef mi
ha parlato molte volte di come finiscono i loro giorni le persone in
queste celle; di certo non avrebbe voluto vederti morire qui dentro.
Per questo pensavo … »
« Di darmi la grazia? », incalzai.
Lei sospirò.
« Di farti morire con dignità ».
Mi voltai e per un istante non facemmo altro che guardarci negli occhi.
Anbar era alta, dalla carnagione chiara a causa di tutto il suo star
chiusa in ospedale, con i capelli nerissimi e gli occhi verdi di sua
madre. Aveva uno sguardo deciso, forte, per niente specchio del dolore
che sapevo aveva provato con la perdita di suo marito.
Osservandola sbuffare infastidita dalla mia reazione, mi chiesi da chi
potesse aver ereditato tutta la fermezza che con ardore
contraddistingueva il suo carattere. Forse, se negli anni precedenti mi
fossi preso il tempo di conoscere più a fondo Qitt e Imaad,
mi sarei reso conto di come anche loro erano feroci e valorosi.
Forse mi sarei addirittura stupito di come, fin da ragazzini, a loro
bastasse un’occhiata per zittirsi a vicenda, a come non li
avessi mai visti bisticciare o darsi contro. Di come Imaad tirava sua
moglie fuori dai guai con pazienza e di come lei gli rimproverasse ogni
spavalderia con nient’altro che un’occhiata delusa.
« Perché non mi hai ucciso? », chiesi,
d’un tratto, smantellando con un respiro i ricordi che si
sovrapponevano nella mia mente.
Anbar scosse il capo.
« Non mi sarei mai perdonata di mancarti e lasciarti ad
agonizzare sul pavimento della tua stessa dimora », rispose.
Sospirò, poi mi fece cenno di avvicinarmi nuovamente alle
sbarre. « Ma ti ho portato un’altra cosa
». Frugò nella tasca della sua cappa e
allungò verso di me il pugno chiuso.
Quando lo aprì nella mia mano, vi depositò dei
semi piccoli e neri, dalla superficie ruvida come quella dei semi di
papavero.
« Stramonio », mi disse, seria. « Se lo
prendi prima di andare a dormire, non ti renderai conto di niente
».
« Non volevi portarmi via? », chiesi.
« Ero pronta ad ogni possibilità. Se mi dovessero
trovare qui, rafforzerebbero la difesa ed entrare diventerebbe
più difficile ».
Si scostò dalle sbarre, compiendo qualche ampio passo sul
corridoio delle celle, arrivando fino al tavolo dove i miliziani
solitamente sedevano durante il turno, per poi tornare indietro con
aria sconsolata.
Scosse il capo, premendosi due dita sulle labbra per apparire
pensierosa.
« Forse, la guardia al piano inferiore …
»
Io sospirai.
« Va’ a Gerusalemme e mettiti in salvo, Anbar
», dissi, tornando verso i miei libri. « Le tue
figlie hanno già perso un padre e la loro casa, non privarle
di ciò che le resta ».
Anbar annuì, passandosi una mano sul collo.
« Non ti lascerò solo », rispose.
« Avvertirò il Rafiq di Gerusalemme,
manderò degli Assassini a prenderti ».
« Fa’ quello che devi fare, ma va’
lontano da qui prima che qualcuno noti che qualcosa non va ».
La guardai muovere piano il capo, mentre impacciata si assicurava una
spada alla cintura che le stringeva i fianchi.
« Mi dispiace », mormorò, prima di
voltarmi le spalle e avviarsi verso la tromba delle scale.
Io la bloccai facendo il suo nome.
« Fammi un favore », le dissi.
Lei si voltò a guardarmi e scosse subito il capo, come se
con chissà quale sortilegio fosse stata in grado di leggere
la mia mente.
« Non la porterò con me, se è questo
che vuoi chiedermi », rispose, leggera.
« È la madre di mio figlio ».
Anbar alzò le spalle.
« Non del mio. Se non fosse stato per lei, forse Sef sarebbe
ancora vivo. Per quanto mi riguarda, spero che Abbas faccia presto ad
accorgersi che non gli è di più di alcuna
utilità e che si liberi di lei nello stesso modo in cui si
è liberato di mio marito ». Fece una pausa,
tastandosi la casacca per controllare di non aver dimenticato nulla,
dopodiché mi rivolse un’ultima occhiata.
« Salute e pace, Malik ».
E detto ciò si dileguò con un paio di balzi sulla
tromba delle scale, lasciando ad accompagnare la sua memoria soltanto
un lieve rumore di passi che frettolosamente scendevano le scale.
Rimasi impalato a guardarla andare via, incerto se provare ancora a
trattenerla o se accettare che, qualunque cosa avessi da dire non
sarebbe mai stata abbastanza per farle cambiare idea.
Quella fu l’ultima volta che la vidi.
__________________________
Note d'autore
Ciao,
sono stata in campeggio!
E laggiù ci sono i mattoni che potete sentirvi liberi di
tirarmi per quest'assenza che non mi perdonerete mai e che siete
più che giustificati a non perdonarmi.
Perché sì, sono stata nel campeggio della mia
pigrizia e per questo non ci sono molte scusanti xD Quindi mea culpa su
tutta la linea.
Scherzi (mica tanto) a parte, ho avuto un calo d'ispirazione da premio
oscar, perché sapevo cosa scrivere ma non sapevo il come,
cosa che puntualmente mi distrugge.
Ma dovrei aver recuperato ciò che è andato
perduto, quindi il prossimo (e ultimo!) capitolo arriverà
presto, I swear. L'epilogo, infine, è stato scritto talmente
tanti mesi fa che ormai starà facendo la muffa u_u
Insomma: siamo a cavallo.
Mi scuso ancora una volta per questa sparizione marzolina, prometto di
impegnarmi a rispettare la puntualità con cui ho iniziato
(come si dice: uno parte sempre con le migliori intenzioni, ma
poi ... :P)
Tanti abbracci (i biscotti!),
Lechatvert
|
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Capitolo 28 *** Ventisettesimo – onore ***
modellostorieefp
Sei mesi più tardi, ero stato abbandonato sia dalla salute
che dalla vista.
Cominciavo a non essere più in grado di distinguere le forme
lontane e nelle ultime tre settimane ero stato incapace di alzarmi da
terra a causa della febbre, ma per qualche strana ragione sapevo che
non era ancora giunto il momento di porre fine alla mia esistenza.
C’era qualcosa nell’aria che annunciava
l’arrivo di qualcosa che dovevo aspettare;
l’inverno imminente, pensavo, mentre invece era
tutt’altro che una stagione ciò che sarebbe giunto
a breve.
Pensavo a Muezza¹, quando il vento della sera giunse a
destarmi dalle mie storie.
Davanti alle sbarre della mia cella, Qitt mi fissava con gli occhi
verdissimi grandi quanto due piattini da tè.
Dalla sua espressione, dedussi quanto sei mesi di galera avessero
deteriorato ciò che rimaneva di me.
Non ebbi neanche la forza di alzarmi per andare da lei, e mi trascinai
debolmente fino alle sbarre, sospirando di dolore ogni volta che i miei
movimenti affaticavano troppo il mio corpo malato.
« Alla buonora », sussurrai, poggiando il capo sul
ferro freddo e voltandomi a guardarla.
Lei si morse un labbro.
Aveva i capelli sporchi appiccicati sulla fronte, la casacca bianca
sporca di terra, il viso incrostato di fango. Chissà da
quanti giorni era in viaggio e da quanti era appostata fuori dalla
fortezza ad aspettare il momento giusto per infiltrarsi senza essere
vista. O forse era tornata con i fratelli di Imaad a guidare una
rivoluzione, magari con Altaïr e Darim a capo di un esercito
intero. Forse c’era stata una battaglia, fuori dalla
fortezza, e lei era arrivata ad annunciarmene la fine.
Sentii che la mia mente stava vaneggiando, perciò rivolsi a
Qitt un’occhiata dubbiosa, chiedendomi se quella era
effettivamente una persona in carne e ossa o piuttosto il frutto di un
mio delirio.
« Chi ti manda? », chiesi in un soffio. «
Altaïr? »
Lei scosse il capo. Si inginocchiò goffamente accanto a me e
alzò la manica della tunica, mostrandomi il polso senza il
rumore di un respiro.
Capii immediatamente.
« Dunque non c’è più
speranza, eh? »
Sulla sua mano destra, la lama celata di Sef era cupa come la firma di
una condanna.
Doveva averla ricevuta da Anbar, visto che l’ultima volta che
avevo visto quell’arma era tra le sue mani, e ciò
significava che non era stato possibile contattare né Darim
né tantomeno Altaïr. Senza un capo, neanche
Gerusalemme si sarebbe mossa in soccorso dei suoi confratelli.
Il Credo moriva quel giorno, o almeno così pensavo.
Qitt era venuta ad annunciarmi la fine ed era stato un suicidio bello e
buono, visto che difficilmente sarebbe riuscita a uscire dalla torre
senza essere localizzata. E allora qualcuno l’avrebbe
catturata – se non addirittura uccisa direttamente
–, l’avrebbe portata davanti a un consiglio
fittizio e l’avrebbe condannata a morte. Come me, avrebbe
speso i suoi anni al buio tra la paglia marcia e il fetore delle celle,
visto che nessun uomo avrebbe mai avuto il coraggio di giustiziare una
donna.
Venirmi a trovare era stato l’atto più
sconsiderato che le avessi mai visto fare.
Qitt mi dimostrò tutto il contrario.
Dopo un istante passato nel più completo silenzio, prese ad
allentare lentamente i baveri della sua casacca, aprendola quasi
completamente sulla veste marrone che indossava sotto.
Forse, per arrivare fin lì, si era finta una contadina o una
massaia. Non mi importò più nel momento in cui
capii che quello spogliarsi serviva a mostrarmi ciò per cui
realmente aveva rischiato la vita: un fagotto di coperte scure tanto
strette da somigliare a una palla, che però si muoveva piano
al ritmo di un respiro leggero e inudibile.
Strabuzzai gli occhi, incredulo.
Qitt mi aveva portato mio figlio.
Glielo lessi in faccia quando si allungò verso di me per
invitarmi a farmi più vicino, e ne fui totalmente certo
quando tra quelle coperte scorsi il minuscolo e sonnolento viso di un
bambino addormentato.
Per un istante, la consapevolezza di essere davanti a mio figlio si
mischiò con le emozioni che avevo provato la prima volta che
mi avevano mostrato Darim e Sef.
« Dove l’hai trovato? », sussurrai,
spiazzato.
All’inizio, non provai neanche a toccarlo.
Qitt roteò gli occhi, stringendosi ancora di più
contro le sbarre e obbligandomi praticamente a sfiorare il corpo del
bambino con il braccio. Mi guardò come se fosse ovvio dove
l’aveva trovato, e con una singola occhiata
sottolineò che non c’erano poi molti posti dove i
neonati venivano tenuti durante il giorno.
Improvvisamente, mi fu chiaro il perché si trovasse a
Masyaf, e compresi che io non avevo niente a che fare con il motivo che
l’aveva spinta a cavalcare fino a là da
Gerusalemme. Era per il bambino, non per me, che si era infiltrata
nella fortezza.
« Sei venuta a salvarlo », mormorai, allora,
allungando il braccio per accarezzare dolcemente le guance di mio
figlio. « Lo vuoi portare via ».
Qitt annuì, abbozzando un sorriso.
Pensai che dopotutto non esisteva madre al mondo in grado di lasciare
un bambino a morire, anche se non suo.
« Grazie », dissi sottovoce, mentre il bambino si
crogiolava nel sonno e strusciava la pelle rosea contro il mio dito
scheletrico e tremante. « Sarai un genitore molto
più capace di me, senza dubbio ».
Incontrai di nuovo il suo sguardo, stavolta volontariamente.
‘Rafiq’.
Qitt si accigliò, indicando il bambino con un lentissimo
cenno del capo.
‘Non ha un nome’.
Lo ricordai in quell’istante: non avevo mai dato un
nome a mio figlio.
Con la mente sgombra più a causa della febbre che
dell’emozione, tentai di appigliarmi a qualunque ricordo mi
potesse suggerire un nome degno per una creatura che era appena stata
rubata alla sua madre naturale per essere affidata a una madre
migliore. Una creatura che non avrebbe mai conosciuto suo padre, e che
probabilmente non avrebbe mai saputo delle sue origini. Una creatura
che non avrebbe potuto seguire il Credo che tutti i suoi antenati
avevano abbracciato, ma che avrebbe dovuto ugualmente rispettarne i
canoni.
« Tazim », sussurrai, annuendo appena. «
Come l’onore²
».
Tra le braccia di Qitt, il bambino si stiracchiò, mettendosi
più comodo tra le coperte e continuando beatamente il suo
sonno da dove l’aveva interrotto per sistemarsi.
Mentalmente, mi congratulai con me stesso: non avrei effettivamente
potuto scegliere un nome migliore. Mi ricordai troppo tardi che un
tempo avevo pensato di chiamarlo Kadar come il mio defunto e amato
fratello, ma in quell’istante ero così vicino alla
fine da non voler condannare un altro essere umano a vivere con il
fardello del passato a gravargli sulle spalle.
Debolmente, arrancai di nuovo fino alla mia abituale postazione sotto
al lucernario: avevo un libro, nella mia prigione. Un solo testo di
poco più di duecento pagine che negli ultimi sei mesi avevo
studiato a memoria e che era divenuto così esasperante da
essere stato lanciato contro il muro di pietra ben più di
qualche volta. Conoscevo i capitoli talmente bene che azzeccai subito
la pagina a cui lo volevo aprire.
La scritta era lì, proprio nella prima frase. شرف. Onore. La
strappai senza pensarci due volte e tornai da Qitt, porgendogliela come
se fosse il mio ultimo tesoro.
« Onore », dissi.
‘Onore’,
ripeterono i suoi occhi verdi.
Prese la parola dalle mie mani e la adagiò dolcemente tra le
coperte dove dormiva Tazim, incastrandola proprio tra le sue dita.
Nonostante tutto, sapevo che era stata una buona madre, e confidavo che
lo sarebbe stata di nuovo.
Le sorrisi, stringendomi a mia volta alle sbarre della cella per farmi
più vicino a lei. Troppo concreto per immaginare che quella
non era il nostro ultimo incontro, provai comunque a lasciare quella
certezza nel buio, riempiendomi la testa con l’immagine di
Qitt inginocchiata sulla pietra davanti a me, preoccupata per Tazim che
era stato portato al freddo con la sola grazia di qualche coperta a
tenerlo al caldo.
Non era qualcosa che avrei mai pensato di vedere, ma fu una vista che
apprezzai infinitamente.
Finì subito.
Una freccia passò sotto il naso di Qitt e si
conficcò in un catasto di legna poco distante del corridoio,
mentre il rumore di una spada sfoderata si diffuse nell’aria
come l’incenso in una camera da letto.
Come Qitt scattò in piedi, Tazim iniziò a
piangere.
« Non farti prendere », dissi io, alzandomi in
piedi con la febbre e la fame che improvvisamente erano sparite senza
lasciar traccia. Guardai Qitt e scossi il capo, mentre lei sgranava gli
occhi su di me e si affrettava a richiudersi la casacca. « Se
lascerai che ti prendano, ti tortureranno fino a che il tuo corpo
avrà vita ».
Lei scosse il capo, facendo scattare la lama celata. Fu repentina nel
suo movimento, voltandosi soltanto quando la guardia fu così
vicina da provare a trafiggerla. Lei gli affondò la lama nel
collo, facendo schizzare il sangue da una parte all’altra
della cella.
Dal piano di sotto, si udirono altre voci.
« Vai », la esortai io, indicandole una finestra in
fondo al corridoio. « E sii forte ».
Lei annuì.
‘Anche tu’.
Si tirò il cappuccio sul capo, e in istante ai miei occhi
tornò la ragazzina che faceva avanti e indietro dalla mia
Dimora a Gerusalemme con qualche arto rotto o con il naso schiacciato
da un pugno.
« Sii forte », ripetei, ma lei fu così
lesta a sparire all’esterno che non sono sicuro fece in tempo
a udire le mie parole.
Ben presto, l’unico odore che riuscii a sentire fu quello del
sangue. L’unico rumore, tutto attorno a me, erano i passi
pesanti e frettolosi dell’intera fortezza che si metteva a
dare la caccia all’intruso.
Tornando al mio posto e aprendo il mio libro, non potei fare a meno di
sorridere: gli Assassini non erano capaci di rincorrere i gatti.
__________________________
Note d'autore
Dunque.
Il mio ultimo aggiornamento a questa storia risale al lontano marzo
2014, quindi più di un anno fa. Non so che dire. Mi sono
sentita sfiancata dal giorno alla notte, e ho piantato lì un
capitolo già iniziato per dedicarmi ad altro. L'altro giorno
la voglia è tornata, ed eccomi qua.
Non ho davvero scusanti, però questa è una storia
che tenevo a concludere e, con un po' di ispirazione, mi sono obbligata
a dedicarci un pomeriggio e a portarla a termine ★
Questo è l'ultimo capitolo. La settimana prossima, senza
aspettare un altro anno (:P) posterò anche l'epilogo,
già pronto da tempo immemore, che concluderà
l'intera faccenda. Posticipo ad allora i ringraziamenti sentitissimi a
tutte le persone che mi hanno accompagnata in questa epopea ❤
E niente, non ho davvero altro da aggiungere.
Sto gongolando tantissimo per essere riuscita a mostrare di nuovo la
mia brutta faccia in questo fandom, eheheh.
Alla settimana prossima (stavolta davvero!),
Lechatvert
[1] Muezza,
nella tradizione islamica, è il gatto di Maometto che lo
salvò dal morso di un serpente velenoso;
[2] Onore
(شرف) è il significato arabo attribuito al nome Tazim;
|
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Capitolo 29 *** Epilogo – i gatti non volano ***
modellostorieefp
Masyaf,
1228 (625)
Raggiunse
velocemente la sommità della torretta, scalando le mura con
tutta la tenacia e l’agilità che aveva da
ragazzina. Si compiacque di quanto ancora riuscisse ad essere veloce,
nonostante l’età, lo scarso allenamento e la paura
che le scorreva nelle vene.
“Non farti
prendere”, si era raccomandato il Rafiq.
“Se lascerai
che ti prendano, ti tortureranno fino a che il tuo corpo
avrà vita”.
Il Rafiq poteva stare tranquillo, allora.
Non aveva nessuna intenzione di lasciare che le guardie le torcessero
un solo capello. Se avrebbe perso la vita, sarebbe stata lei stessa a
togliersela con la lama celata di Sef.
Strinse a sé il bambino che piangeva contro il suo petto e
si chinò appena per lasciargli un lieve bacio sulla fronte.
Avrebbe tanto voluto cullarlo, farlo sentire amato come una creatura
tanto piccola avrebbe meritato, ma non ne aveva il tempo.
‘Sii forte’,
gli disse, mentre lo nascondeva sotto le pieghe del mantello.
Attese che un paio di Assassini le saltassero addosso per buttarsi a
terra ed evitare i loro fendenti, voltandosi appena in tempo per
conficcare la lama celata nelle loro ginocchia.
Non avrebbero mai più camminato.
Sorrise, rotolando a terra mentre il colpo di una delle guardie provava
a trapassarle il cranio con un coltello. Evitò un secondo
affondo e si buttò all’attacco, trafiggendo il suo
aggressore in pieno petto. Attese che la lama affondasse abbastanza
nelle vesti immacolate dell’Assassino e si ritrasse,
preparandosi a respingere tutte le spade che l’avrebbero
raggiunta fin lì.
Di certo aveva messo la fortezza in allarme.
“Se davvero
vuoi fare l’Assassino, impara a essere discreta”,
le aveva detto una volta il Rafiq. “Poggia il piede sulla sabbia e
scostati: del tuo passaggio, sulla banchina non deve esserci traccia”.
E lei ci aveva provato, a camminare sulla spiaggia di Acri senza
lasciare le sue impronte nella sabbia, ma non c’era mai
riuscita.
Sorrise, pensando a quelle giornate passate con i piedi
nell’acqua salata, mentre con foga affondava il coltello
nelle gole di due guardie.
Avrebbe volentieri raccontato quella storia al piccolo, se mai fosse
sopravvissuta. Cominciava a sentire la stanchezza rendere le sue mani
pesanti e il respiro farsi pesante sotto le vesti sporche di terra.
Si chiese quante vite si sarebbe presa ancora, quella notte, e in un
attimo di distrazione una spada calò solenne sulla sua
spalla, strappandole il vestito in uno schizzo di sangue che
però non la mise esageratamente in allarme.
Si sarebbe curata una volta al sicuro.
Si voltò verso il cornicione, sporgendosi sulla torre alla
ricerca di un mucchio di fieno in cui atterrare.
Di fronte a sé, non aveva che gli strapiombi delle montagne.
Le servì soltanto un secondo per calcolare la sua posizione.
A destra le guardie, a sinistra le guardie, dietro la morte e davanti
il vuoto.
Nonostante il piccolo piangesse e strillasse, saltare fu la scelta
più facile della sua intera esistenza.
Il Rafiq la guardò,
così tremante e malferma sull’asse goffamente
sistemata in cima alla moschea di Gerusalemme, e le sorrise con fare
incoraggiante.
« Non ti farai del
male », le promise, accennando al cumulo di fieno che la
aspettava a terra. « Devi solo avere fede ».
Lei lo guardò con
fare crucciato.
‘Rafiq,
ma i gatti non volano’,
si lamentò.
Lui annuì,
raggiungendola sull’asse per poggiarle una mano sulla spalla.
Le indicò il vuoto che si stagliava dinanzi ai suoi piedi.
« Volare è
il dono più grande che ci viene concesso », le
spiegò, pacato. « Non devi essere gatto. Devi
essere aquila, falco, spirito. Sii tutt’uno con
l’aria che respiri e sarà lei, a guidare la tua
caduta ».
Lei guardò
giù ed esitò, di nuovo.
Non si sentiva ancora sicura.
Il Rafiq le carezzò
il capo, avvicinandosi ulteriormente alle sue spalle contratte dalla
paura.
« Se non ti fidi
dell’aria, questa volta fidati di me », propose.
« Ti guiderò io ».
Non seppe mai perché
saltò.
Accompagnati dal verso di
un’aquila, i suoi piedi si staccarono da soli
dall’asse su cui si erano instabilmente piazzati e per un
istante caddero nel vuoto dei cieli di Gerusalemme.
Dopodiché, ebbe quasi
la sensazione di prendere il volo.
Nella luce accecante
dell’alba, intravide le ali scure dell’aquila
inseguirla in quella planata verso terra, quasi fossero una cosa unica,
lei e quel rapace, quasi l’animale volesse proteggerla con le
sue piume più brillanti dell’argento.
Un istante dopo, al posto
dell’aquila dal becco dorato c’era il Rafiq,
avvolto nella sua tunica color della notte che si gonfiava sotto la
forza dell’aria. Si lasciava cadere con gli occhi chiusi, il
pugno serrato e un leggero tremore di labbra.
Improvvisamente, la prese per il
cappuccio e la trasse a sé, facendole affondare il volto
nella cappa chiara.
Non durò che un
istante.
Raggiunsero terra assieme e
vennero coperti dal fieno che lei ancora era convinta di volare.
Mai come in quel momento avrebbe
voluto poter ridere.
Nessun mucchio di fieno, nessun’aquila a gridare al suo
maestoso volo.
Cadde a terra con così tanta violenza che temette di vedere
il suo corpo distrutto dall’impatto con il fango del giardino.
Fortunatamente, riuscì a restare cosciente con la sola
sensazione di essersi spezzata le gambe.
Gridando a ogni sforzo che compì nel trascinarsi lontano dal
luogo della caduta, si tirò fino a un cespuglio di erba
gatta che cresceva lungo la montagna e lì si
lasciò andare, concedendosi un istante di riposo.
Non l’avevano presa, alla fine.
Lei era stata più brava.
Si chiese se il Rafiq sarebbe stato fiero di lei, sapendo quali gesta
aveva compiuto per non lasciare che la sua vita le venisse strappata.
‘Io
l’avevo detto, Rafiq, che i gatti non volano’.
Aggrappato al suo petto ansimante, il bambino piangeva. Si dimenava in
quel mucchio di coperte che gli impedivano di muoversi, ma sembrava
stare bene.
Lo aveva salvato alla caduta con il suo corpo, stringendolo a
sé in quel salto della fede che per lui era stato il primo e
per lei l’ultimo.
Sorridendo, chiuse gli occhi.
Il profumo di menta che le aveva pervaso le narici quando, molti anni
prima, aveva visto il Rafiq leggere, tornò a cullarla in un
improvviso sonno.
Ebbe l’impressione di essere osservata da qualcuno,
lì intorno, eppure era certa di essere sola. Si chiese se il
colpo che aveva preso alla testa non fosse stato così forte
da causarle allucinazioni.
Debolmente, si passò una mano sulla tempia. Era grondante di
sangue.
Forse, era tempo di concedersi un po’ di riposo.
Il pianto insistente del bambino tra le sue braccia fu
l’ultimo suono di cui riuscì a serbare memoria.
Fu il suo maestro a svegliarla,
scrollandole leggermente la spalla per indicarle la folla del mercato
che si stava accalcando addosso alla bancarella delle spezie.
Sentì Imaad ridere
con il viso nascosto nella sciarpa.
Imaad …
così giovane e con i capelli color della sabbia lasciati
crescere in un ammasso di morbidi riccioli che gli ricadevano sulle
guance paffute. Le mostrò la lingua e lei fece lo stesso di
rimando, scoprendosi seduta su una panchina nella piazza del mercato di
Gerusalemme.
In una pozzanghera, vide il suo
volto coperto dal cappuccio.
Era tornata ragazzina.
Provò a parlare e si
stupì di sentire quanta dolcezza vi fosse nella sua voce.
Con gli anni, si era dimenticata che suono avesse.
« Maestro, siete
tornato per restare? », chiese, osservando l’uomo
che per primo le aveva messo in mano una spada.
Lui sorrise appena,
sciogliendosi nei suoi lineamenti occidentali così morbidi e
aggraziati. Alzò una mano e gliela posò sul capo,
accarezzandolo con dolcezza.
« Non sono mai andato
via, habibti
», rispose.
Imaad la prese per il cappuccio.
« Già!
», esclamò, ridendo. « Siamo sempre
stati qui! »
Li guardò entrambi,
cacciando a stento le lacrime mentre la folla del mercato si faceva
più rada.
« Che fai, piangi?
», la schernì Imaad.
Il maestro la guardò
e sospirò, spiegando le labbra in un’espressione
intenerita. Tornò serio non appena un frusciare di vesti
più rapido del solito non catturò la sua
attenzione in fondo alla piazza.
« Laggiù
», disse, indicando il bersaglio muoversi verso il Muro del
Pianto. « Ragazzi, state pronti ».
Sentì la lama celata
di Imaad scattare con quel suo suono stridulo mentre si alzavano per
avvicinarsi con discrezione.
In un istante, tutti gli odori e
le voci di Gerusalemme le si frantumarono addosso come
un’onda si infrange sullo scoglio. Il profumo dolce dei
datteri, quello stomachevole della carne marcia; il belare delle
pecore, il vociare dei bambini; il rumore di un vaso che andava in
frantumi e il grido della donna che rimproverava Imaad per la rude
maniera con la quale l’aveva urtata.
D’istinto sorrise,
attaccandosi alla veste di un erudito per seguirlo attraverso il
mercato.
Sentiva su di sé lo
sguardo attento del maestro e gli occhi pieni d’amore di
Imaad.
Era tornata a casa.
Masyaf,
1228 (625)
Soffocando
un debole sospiro, il vecchio passò le dita raggrinzite tra
il pelo nero del gatto.
L’animale aprì la bocca per miagolare, ma non
uscì alcun suono. Con un balzo, si portò a terra
e sgusciò tra le sbarre della cella, probabilmente alla
ricerca di un ratto a cui spezzare il collo.
Tornò poco dopo con il suo bottino stretto tra i denti e si
accoccolò sulle ginocchia del vecchio, pronto ad ascoltare
un nuovo racconto.
« Mi dispiace, Qutaita », rispose l’uomo,
accarezzandogli il capo. « Ma non ho altro da raccontare. Non
l’ho più vista, da quel giorno ».
Il gatto nero spalancò gli occhi color dell’erba,
senza mascherare una certa delusione. Forse anche lui, come il vecchio,
avrebbe voluto conoscere la vera fine della donna che tanto gli
somigliava e da cui aveva preso il nome.
Con disappunto, aprì la bocca e lasciò cadere a
terra il suo ratto morto.
Stava per andarsene, quando un rumore di passi lo bloccò.
Il vecchio tentò di coprirlo con il suo mantello sgualcito,
ma il gatto sgusciò via talmente veloce da sparire nel buio
della prigione in un effimero battito di ciglia.
Riapparve con l’arrivo di un paio di stivali di cuoio sui
quali si strusciò a lungo, iniziando a fare le fusa.
Il vecchio assottigliò la vista debole a causa del buio e
dell’età.
La porta della cella si aprì e, scortato dal gatto nero,
l’uomo degli stivali di cuoio entrò in quel
piccolo ambiente che puzzava di morte.
Si chinò sul vecchio e gli tese la mano.
« Ce la fai a camminare, amico mio? », chiese con
voce profonda, guardandolo con gli occhi chiari che brillavano di
dolore.
In quegli occhi, il vecchio riconobbe Altaïr.
Afferrò la sua mano e si fece tirare in piedi.
« Per te, posso anche camminare ».
Rivolse un’occhiata di scuse al gatto nero,
perché, dopo tutta quella storia senza finale, lo avrebbe
abbandonato nel buio di una cella.
L’animale ricambiò aprendo la bocca e spalancando
gli occhi verdi.
Nonostante tutto, si ostinava a non miagolare.
__________________________
Note di un autore che si è ridotto così
Prima
o poi questo momento doveva arrivare: la fine.
Coriandoli, stelle filanti, champagne che cade a cascata dai balconi!
Quando ho iniziato questa storia, ormai due (tre?)
anni fa,
questo non era il finale che volevo. Ma, se avete seguito anche un po'
queste note di fine capitolo, avrete capito che io sono una persona
incapace di prendere decisioni per i propri personaggi, per cui alla
fine tutti hanno fatto quello che hanno voluto, si sono sposati con chi
hanno voluto, si sono uccisi come hanno voluto. Questo non vuol dire
che io non mi stia prendendo la responsabilità per il
finale,
sia chiaro. Vuol dire semplicemente che mentre scrivevo, sono cresciuta
un pochino io e sono cresciuti un pochino loro, e questo è
ciò che maggiormente mi piace delle storie.
Avrei tante, tantissime
cose da dire circa Qitt. Da dove è sbucata l'idea, per
esempio. Oppure cosa ne volessi fare all'inizio.
Tuttavia, penso che questo spazio sia meglio impiegato ringraziando chi
c'è stato per poco o per tanto e chi ha continuato a
esserci,
perché non penso sarei mai giunta a una conclusione (neanche
dopo un anno!) se non fosse stato per tutti gli apprezzamenti che ho
ricevuto. Certo, non si scrive solo per quelli, ma sarebbe falsa
modestia non ammettere quanto faccia piacere trovare un nuovo preferito
o una nuova recensione.
Quindi.
Il grazie più grande va di certo a chi c'è stato
da subito, ossia Illiana e O n i c e.
Sono assolutamente certa che senza il vostro prezioso e assiduo
supporto non avrei mai raggiunto neanche la metà di questa
storia, perciò vi devo tonnellate e tonnellate di biscotti
fatti
in casa!
A Illiana, soprattutto, con cui in privato ho scambiato dei bellissimi
messaggi e con cui ho fatto delle piacevoli conversazioni che anche nel
mio anno di pausa ho ricordato con piacere.
Poi è arrivata _volpina_,
che mi ha fatto notare i miei errori e che mi ha aiutata a migliorare.
Confesso che ogni tanto la stalkero su Facebook, soprattutto nei post
in cui appoggia il mio sogno politico: Feudalesimo e
Libertà.
Alla pugna!
A Natale, invece, si è palesata anche didi93,
con cui ho smattato un po' circa le reciproche vicende universitarie.
E' stato divertentissimo, eheh! Spero di riprendere, un giorno.
Per poco c'è stata anche Littlestar1990,
che è sparita poco dopo ma che comunque voglio abbracciare.
Infine, ultima arrivata, Benez,
con cui ho parlato poco e niente ma che voglio comunque ringraziare,
visto che ha avuto la pazienza di recuperarsi venti capitoli in una
giornata!
Ovviamente, mando biscottini anche a tutte queste persone, che sono
coloro che hanno aggiunto la storia ai preferiti/seguiti (alcuni anche
recentemente ... wow!): Apeiron_
, Boss_Pride, carmen666, GoldenGorian, ladyjessy, make_me_happy,
Miao93, Silently, _J,
hola1994, FhRVancent, ice___, LindonaNazionale, schizophrenos,
xTrinkyWinky,_Fiore di Loto_.
Non so davvero cosa dire: per me siete tantissimi e non ho parole per
ringraziarvi e per dirvi quanto mi stupiscano questi numeri!
Perciò, grazie mille a tutti, è stato bellissimo.
❤
... a questo punto credo di essere stata anche troppo logorroica,
perciò mi ritiro.
Un bacio a tutti,
Lechatvert
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