The Flat

di Yvaine0
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ti presento i miei ***
Capitolo 2: *** Brava, Giovanna Bravo ***
Capitolo 3: *** Avanti un altro ***
Capitolo 4: *** Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate ***



Capitolo 1
*** Ti presento i miei ***


The Flat
 
I. Ti presento i miei

 
Erano le otto di mattina di una giornata come tante e, come da copione, all'interno della casa si sentiva solo il quieto brontolare della caffettiera – lei proprio lo odiava, il lunedì mattina – che diffondeva in tutta la casa un rassicurante odore di caffè, la sveglia perfetta per chiunque avesse intenzione di iniziare la settimana con il piede giusto.
Giovanna, l'unica già alzata, era seduta al tavolo e, nell'attesa che l'elemento principale della sua colazione fosse pronto, apparecchiava per il primo pasto della giornata di tutti i suoi coinquilini: cinque tazze, cinque ciotole per i cereali, cinque bicchieri, dieci cucchiaini, il contenitore dello zucchero, quello del cacao, la panna montata, il burro con un coltello, la marmellata, i biscotti, il pane, la frutta... Sul minuscolo tavolo della cucina non c'era praticamente lo spazio per appoggiare i gomiti – e forse questa era proprio l'intenzione di Giovanna, che detestava la mancanza di buona educazione di quasi tutti i suoi coinquilini.
Sbuffò, quando il sordo russare proveniente da una delle due singole divenne così potente da sovrastare il suono complementare della caffettiera. Di lì ad un quarto d'ora, come ogni mattina, quattro sveglie dalla suoneria diversa sarebbero suonate nello stesso momento: due sarebbero state rimandate almeno un altro paio di volte, la terza solo una, mentre la quarta avrebbe scatenato il puntualissimo risveglio del diavolo in persona.
La sua idea per l'inizio di quella nuova giornata era di non permettere a quella strega di farle cominciare la settimana col piede sbagliato, dopo che le aveva già regalato una nottataccia rientrando tardissimo e sbattendo la porta così forte da svegliare tutti. Era stata fin troppo generosa a non piazzare una scenata per quel comportamento del tutto irrispettoso, ma la sua pazienza era davvero al limite – anche, forse, a causa delle poche ore di sonno.
Il resto dei coinquilini era solito rinfacciare a Giovanna l'eccessiva irascibilità, come se la colpa di tutti i litigi fosse tutta sua. E non lo era. Non era per niente colpa sua: Cristina Antonelli era la persona più misantropa, egoista ed egocentrica che avesse mai incontrato in vita sua – e, per Diana, all'università era praticamente impossibile non incontrare un numero esagerato di persone ogni giorno. Trovava davvero snervante la maniera in cui, nonostante lei andasse d'accordo con tutti, proprio non riusciva a sostenere una conversazione civile con Cristina senza poi dare in escandescenze.
Fu lo sbattere nell'aprirsi della porta di una delle camere da letto, qualche minuto dopo, a riscuotere Giovanna dai suoi pensieri; tornata alla realtà, si alzò per versare il caffè nella tazzina e salutare la nuova arrivata nel migliore dei modi, seguendo il suo piano per contrastare la solita aria tesa: « Buongiorno, Cr-- », non ebbe però modo di concludere, perché uno sbuffo e un'occhiataccia la interruppero.
Cristina non si fermò nemmeno, continuando invece a camminare decisa, accompagnata dall'aura più nera che essere umano abbia mai visto, verso il gabinetto dell'appartamento. Gesto che come ogni mattina avrebbe sollevato un gran polverone.
Giovanna prese un respiro profondo e, cercando di mantenere la calma, buttò giù il caffè tutto d'un sorso, salvo poi sgranare gli occhi castani, già diligentemente contornati di eyeliner, e diventare color peperone nel momento in cui quello le bruciò lingua e gola. La pazienza di certo non era uno dei suoi pregi, questo è chiaro fin da subito, no?
Mentre il suono della seconda sveglia proveniva da quella che era anche camera sua, la ragazza riempì un bicchiere di latte fresco e lo ingurgitò alla ricerca di sollievo, mentre la sua testa rimuginava febbrilmente su ciò che sapeva sarebbe successo di lì a poco. Le regole per il bagno erano semplici: la mattina ognuno si alzava ad un orario diverso, più o meno, per cui doveva essere semplicissimo condividere un solo piccolo bagno, nonostante fossero in cinque. O meglio: sarebbe stato semplicissimo se ognuno si fosse degnato di lavarsi in fretta e di rimandare le operazioni meno urgenti ad un secondo momento, quando anche gli altri, per esempio, avessero già svuotato la vescica. Ecco, era questa la piccola gentilezza che Cristina proprio non riusciva a concepire.
Giovanna lanciò un'occhiata all'orologio da parete a forma di tappo di Heineken – portato da Marco dopo che aveva distrutto quello vecchio con una spallonata: erano le otto e dieci precise e di lì a pochissimo Sonia avrebbe fatto il suo ingresso in cucina.
Ecco, Sonia era un'altra di quelle persone che Giovanna proprio non riusciva a capire. Non che non andassero d'accordo – anzi, tutto sommato era la persona con cui era più semplice convivere, in quella gabbia di matti –, solo non comprendeva come qualcuno potesse farsi mettere i piedi in testa sempre e comunque senza mai protestare. Sonia la chiamava pazienza, Giovanna mentalmente la correggeva ogni singola volta: stupidità. Assurdo.
Proprio in quel momento uno scricciolo dai corti capelli biondo platino arrancò sbadigliando fuori dalla camera da letto, in un pigiama grigio in cui avrebbe potuto avvolgersi comodamente due volte, tanto le stava grande, e coperta da un plaid coi “colori di Corvonero” (banalmente, blu e marrone) che le era stato regalato dalla sua migliore amica qualche anno addietro.
« 'Ngiorno » bofonchiò soffocando un secondo sbadiglio dietro una manica; ai lati del naso coperto di lentiggini due profondi segni viola annunciavano il suo brusco risveglio. « Cris è in bagno? »
Se state pensando che Sonia fosse una persona loquace e socievole fin dalla prima mattina, vi state sbagliando di grosso. Fino alla fine della prima ora di lezione – intorno alle dieci, quindi – aveva a disposizione un repertorio di sole dieci parole, cinque delle quali se ne andavano con quelle due battute ogni volta.
I logorroici in casa erano altri: Giovanna e Marco, e da sbronzo persino Orfeo, ma di certo non lei. Sonia si limitava a rispondere quando interpellata o a dire la sua quando stavi dicendo una cretinata di dimensioni epiche; parlava sempre a voce bassa, ma guardandoti dritto negli occhi, perché la sua non era timidezza, era pura, semplice e imperturbabile tranquillità. Sarebbe stata tranquilla anche nel bel mezzo di un bombardamento, anche mentre qualcuno la teneva come ostaggio durante una rapina, anche mentre minacciavano di tagliarle tutti i capelli. Era il genere di persona che avrebbe parlato a bassa voce persino in una discoteca, perché urlare proprio non faceva per lei.
« Caffè? » propose Giovanna, di nuovo seduta al proprio posto; quando la coinquilina annuì, lei le indicò il suo posto, le riempì la tazza e iniziò a dare sfogo a tutti i pensieri che fino a quel momento aveva mantenuto taciti dentro la testa. « Sta per succede di nuovo, vero? È incredibile quanto sia egoista. È in bagno già da dieci... tredici minuti! Cosa avrà mai da fare in bagno per tredici minuti? »
I bisogni? pensò Sonia, raggomitolata sulla sedia con lo sguardo perso nel vuoto e una mano a sorreggere la Gocciola immersa nella tazzina del caffè. Prima delle dieci di mattina a Sonia del mondo non importava nemmeno un pochino. Non le importava dell'incontenibile fiume di lamentele che costantemente defluiva dalla bocca un po' troppo grande di Vanna, non le importava di Cristina che occupava il bagno fino alle nove meno dieci, quando veniva poi il turno dei ragazzi per usare la tazza e lavarsi i denti – spesso contemporaneamente – e non le importava di far tardi a lezione tutti i giorni. Non le importava – era mattina, cavolo! Aveva a malapena la forza di respirare appena sveglia!
Alle otto e ventiquattro minuti, dopo aver rischiato di riaddormentarsi per la terza volta, Marco spalancò la porta ricoperta di figurine Panini dei calciatori e si stiracchiò a braccia alte nel bel mezzo del corridoio, mormorando contento. « Buongiorno, principes- oh, pardon – si corresse: – buongiorno principessa Vanna e buongiorno Cicciobello! »
In tutta risposta, senza nemmeno disincantarsi, Sonia morse il biscotto e alzò il dito medio in sua direzione, mentre Giovanna gli rivolgeva un'occhiataccia e attaccava una polemica contro quei nomignoli da cagnolino nei confronti di una ragazza nel bel mezzo della sua ascesa alla carriera. « Ti sembro una ragazzetta sprovveduta, Federzoni? »
Lui ridacchiò, felice di aver innescato una reazione spropositata di quelle tipiche di Vanna, poi trotterellò attraverso la stanza fino al frigorifero, dove aprì lo sportello e: « Ehi, Presidente della Repubblica, dov'è il latte? »
« Sul tavolo, pezzo di deficiente ».
All' « Ah » imbarazzato di Marco seguì un contenuto ma vivace moto ilare di Sonia; per il troppo ridere, nemmeno a dirlo, si strozzò con il boccone di cibo, tossendo tanto che la sua pelle solitamente nivea finì col prendere un colorito tendente al fucsia. Al che partì invece la risata di Marco, chiassosa e singhiozzante. La ragazza, dal canto proprio, gli fece una linguaccia e tornò alla propria silenziosa colazione con tanto di contemplazione del vuoto.
Giovanna sbuffò, stanca della stupidità di chi la circondava, poi rivolse una nuova occhiata all'orologio e « Sono le otto e ventisette! » sbottò esterrefatta: come diavolo era possibile che Cristina non fosse ancora uscita dal bagno? Tutte le mattine la stessa storia!
« Ma sì, che ti frega, Vanna » fu la saggia risposta di Marco, che nonostante fosse degna di nota rimase del tutto ignorata da lei, che proprio non ne voleva sapere di certe usurpazioni in casa propria. Balzò quindi in piedi e si diresse con grandi falcate pesanti fino alla porta del bagno e prese a bussare insistentemente: « Cristina? Esci, per favore? Anche gli altri devono lavarsi ».
Dall'interno si sentì il volume della radio alzarsi fino a coprire qualunque suono proveniente dall'esterno e, per diretta conseguenza, a inondare tutto il resto della casa della piacevole compagnia del jingle dello spot di un supermercato. Fu probabilmente questo suono a destare il nostro Orfeo dal letargo, visto che non più di un minuto più tardi si stava gettando con la sua solita delicatezza da rinoceronte su una delle sedie, per poi rubare la tazza di caffè di Marco e scolarsela prima che lui potesse protestare.
« Certo che sei stronzo » commentò la vittima del furto, guardando l'amico con la fronte corrugata dall'irritazione.
Quando Sonia rise dell'accaduto, Marco pensò bene di vendicarsi della beffa rubando la sua tazzina di caffè: si allungò quindi sul tavolo, gliela sfilò da sotto il naso senza che lei avesse la forza e la voglia necessarie a impedirglielo e si riempì la bocca del contenuto. Nel momento stesso in cui si rese conto di avere la lingua coperta di disgustose briciole di biscotti, poi, risputò tutto nel contenitore. « Ma che schifo! » sbottò esterrefatto; « Cicciobello, che cazzo bevi? Ma c'è una persona normale in questa casa? » si lagnò, mentre riempiva un bicchiere di succo di frutta per rifarsi la bocca.
« Sbrodolina » lo etichettò la ragazza, senza scomporsi più di tanto. Si alzò, invece e si trascinò verso la propria camera da letto, conscia che non sarebbe riuscita a liberare la vescica prima di altri venti minuti – e tutto questo perché la principessa Cristina era troppo egoista per affrettare i suoi tempi di restauro, il che, oltre che un dato di fatto, era ormai parte della loro routine. Solo Giovanna non riusciva proprio a rassegnarsi all'idea: giorno dopo giorno continuava ad arrabbiarsi perché Cristina teneva il bagno occupato troppo a lungo, perché faceva la spesa sempre e solo per sé, lavava solo i propri panni e se in lavatrice trovava qualcosa degli altri coinquilini si limitava a lasciarlo dov'era, di stenderlo ad asciugare non se ne parlava proprio. D'altro canto era anche vero che Giovanna era ossessionata dall'idea di raccogliere cinque estranei in una famiglia, di cui si era auto-eletta madre e legislatrice. Ma come si può fare una famiglia di cinque persone che non si considerano nemmeno amiche? Dunque continuava a gridare contro la porta chiusa a chiave nel bagno, mescolando insulti, ragioni e preghiere a quel suo continuo ciarlare del tutto inascoltato – del suo buon proposito di non innervosirsi non c'era più nemmeno l'ombra.
Mentre Giovanna si disperava, legando e slegando continuamente i lunghi capelli mossi, indecisa su quale delle due acconciature fosse la più minacciosa, in cucina Marco e Orfeo facevano colazione in tutta tranquillità. Circa.
« Mela » commentò piccato Marco, leggendo la scritta sul cartone. « Nemmeno il succo normale comprano, qui si beve quello alla mela ».
Orfeo sbuffò per la seconda volta da quando si era svegliato, fissando l'amico di sottecchi. « Che c'è di male? » domandò, più per esasperazione che per reale interesse nell'argomento di conversazione.
« È succo alla mela, Dalle! Fa tanto “vegani cagacazzo che organizzano proteste fuori dal McDonald's” ».
Orfeo alzò gli occhi al soffitto, poi tirò a indovinare: « È quello che compra tua madre? »
A lui servirono diversi secondi di silenzio prima di rispondere un angosciato « Sì ». Marco Federzoni era semplicemente la persona più cretina a cui si potesse pensare. Nato a Medicina, nei pressi di Bologna, era figlio di due professori universitari dell'Alma Mater; era stato cresciuto secondo regole ferree, nutrito a pane e libri di scuola nel tentativo di fare di lui un piccolo genio. Tentativo miseramente fallito, perché Marco, non troppo sveglio di natura e oppresso da anni e anni di monopolio materno nella sua vita, era fuggito a Urbino non appena finite le scuole superiori – rigorosamente liceo classico – e si era stabilito nel primo appartamento che aveva trovato fin dal primo settembre dell'estate della sua maturità, nonostante le lezioni iniziassero quasi un mese dopo. Si era chiuso la porta della casa dei genitori alle spalle gridando « Hogwarts, sto arrivando! », per poi iscriversi a Informazione, Media e Pubblicità contro il volere di chi lo spingeva a tentare i test per Medicina – « Il mio contributo alla medicina, ragazzi miei, è lasciarla agli altri. Non ridete, sono serio! » diceva sempre, a volte aggiungendo un convinto « Un giorno mi ringrazierete ». Non sapeva bene nemmeno lui cosa voleva fare da grande, al momento tutto ciò che gli importava era sganciarsi dal dominio dei genitori e poi, chissà, magari avrebbe trovato la strada giusta, nel frattempo si era iscritto ad una facoltà che non richiedeva un test d'ingresso né l'obbligo di frequenza, giocava ai videogiochi per hobby e diceva sciocchezze per passione. Tutto sommato, forse, lui era quello che in quella gabbia di matti ci stava più comodo: non aveva aspettative, speranze o regole, a Marco andava bene tutto ciò che gli andava incontro. E poi era divertente, secondo lui; insomma quanti avrebbero potuto dire di convivere con una giovane promessa del pallone, la reincarnazione di Cicciobello, l'Anticristo e il futuro Presidente della Repubblica? Mica roba da poco!
Quando Cristina uscì finalmente dal bagno – erano le otto e quaranta ed era stranamente in anticipo rispetto al solito–, Marco e Sonia si erano già vestiti, spazzolati e lavati i denti nel lavabo della cucina con sommo disappunto di Vanna, che ora, invece di strillare, stava sibilando minacciosi rimproveri seguendo il suo bersaglio passo a passo, senza darle tregua. Era quasi commovente il totale disinteresse di Cristina nei suoi confronti: continuava a passeggiare per la cucina, mentre mordeva un biscotto, versava latte in un bicchiere, aggiungeva caffè, zucchero... Solo dopo aver bevuto tutto si voltò verso Giovanna per freddarla con un'occhiata gelida delle sue. « Non me ne frega niente, non ti è chiaro? Puoi urlare, battere i piedi, bussare finché non sfondi la porta... ma a me non frega niente. Non sei mia madre, mettitelo in testa ».
E, puff, a quelle parole seguì un assoluto silenzio, mentre la temperatura della stanza scendeva allo zero assoluto. Giovanna era sbiancata e, i pugni stretti, tremava per la rabbia, guardando l'avversaria dritto negli occhi. Rispetto! Era tutta una questione di rispetto e non poteva credere che quella stronza di Cristina fosse così... così...
Non aveva mai incontrato in vita sua qualcuno di così indisponente.
Se fosse stata sua madre... ah, se fosse stata sua madre l'avrebbe presa a schiaffi! Ma purtroppo, doveva dargliene adito, aveva ragione: lei non lo era.
« Sai una cosa, Cristina? » sibilò allora, gli occhi castani fissi in quelli azzurri dell'altra, la voce che vibrava d'indignazione. « Mi sono stancata. Da questo momento, potete andarvene tutti a quel paese ».
« A fanculo » la corresse Orfeo, che di tatto non ne aveva mai avuto molto. « Si dice “a fanculo”. Non ti cade la lingua se sei volgare una volta nella vita ».
« Sì, e poi suona meglio » confermò Marco, dandogli una pacca d'approvazione sulla spalla; sembrava essere sempre d'accordo con lui, in qualunque circostanza, tanto che a volte quello lo chiamava “lecchino” accompagnando l'epiteto con un'occhiata compassionevole.
Cristina in tutta risposta scrollò le spalle e consegnò a Giovanna la tazza vuota del suo caffellatte. « Finalmente! » disse solo, poi girò sui tacchi e sparì in camera da letto senza una parola di più.
Con un gemito di frustrazione la tazza fu sbattuta nel lavandino, poi anche Giovanna lasciò la cucina; andò a raccogliere le proprie cose e meno di un minuto dopo stava lasciando il 3b di via Marconi con passo pesante e risoluto, senza salutare nessuno.
Attorno al tavolo della cucina, Marco e Orfeo finivano di sgranocchiare i biscotti della colazione senza minimamente curarsi di ciò che stava succedendo. Erano talmente presi dal loro pasto, che Sonia riuscì addirittura a correre in bagno per far pipì prima di loro, per poi raggiungerli e, dopo aver lanciato un'occhiata all'orologio che segnava le nove meno cinque, appoggiarsi con gli avambracci allo schienale di una delle sedie vuote. « Non ha salutato» fece notare loro, come se quell'unica frase la dicesse lunga sulla situazione.
Orfeo le rivolse uno sguardo di sfuggita, mentre si riempiva la tazza di quel succo alla mela che sembrava irritare tanto il loro coinquilino. Pensò che Sonia presa singolarmente, con quel viso lentigginoso e i lineamenti delicati, col suo metro e mezzo di altezza quasi del tutto privo di curve, poteva forse dimostrare diciotto anni; messa a confronto con fisici e visi come quelli di Cristina e Giovanna scendeva pericolosamente verso i sedici. E dire che ne aveva quasi ventiquattro. « Ed è un problema perché...? »
La questione era piuttosto chiara, se solo qualcuno di quei due zucconi si fosse degnato di farci caso. Giovanna era leggermente maniaca del controllo: tendeva a occuparsi di tutto in casa, tanto, forse, da credersi la responsabile di tutti loro – doveva nutrirli, far trovare i panni puliti, stabilire i turni per le faccende, stilare la lista per la spesa e cercava di fare in modo che la loro vita quotidiana scorresse semplice e lineare, senza alcun genere di intoppo. A volte Sonia credeva che si sentisse un po' davvero la mamma della situazione, cosa che, chiaramente, nessuno dei coinquilini accettava molto di buon grado: si scatenavano liti, ostilità, rancori, dichiarazioni di indipendenza a cui quella americana faceva un baffo e certe volte Marco faceva i capricci proprio come doveva aver sempre fatto a casa dei genitori.
Giovanna li considerava tutti una famiglia, cercava di far funzionare la loro convivenza e non era mai successo che uscisse senza salutare nessuno o almeno ricordar loro di chiudere tutto prima di andarsene.
Si limitò a scrollare le spalle sperando di suscitare nei due ragazzi una qualche reazione consapevole, anche se in fondo lo sapeva, che era tutta fatica sprecata.
Di fatto Marco ridacchiò, gesticolando con un biscotto tra le dita mentre parlava. « Senti, Cicciobello, non devi andare ad ammirare qualche quadro? Non farti problemi che non esistono ».
Stranamente, Orfeo si trovò costretto a concordare con lui: « Siamo alle solite, Sonia » disse: « Cris la fa incazzare e Vanna si comporta da primadonna. Tu sei un caso a parte, ma è così che funziona quando in una casa ci sono due principesse. Fidati, io lo so ».
“Fidati, io lo so” era la frase emblematica di uno come Orfeo. Sotto il ciuffo di capelli biondi sempre accuratamente ingellati, pareva nascondersi una mente profondamente sapiente, esperta in ogni campo e in ogni disciplina. A sentir lui, erano pochissime le cose che quella giovane promessa del pallone non avesse sperimentato nei suoi ventidue anni di vita. Era un ragazzo dalle mille risorse, Orfeo Dalle Monache, oltre che estremamente affascinante; “un so-tutto-io del cazzo”, per dirla con le soavi parole di Cristina.
Sarà – concesse loro mentalmente Sonia, affondando le mani nelle tasche dell'enorme felpa grigia che stava indossando. « La faccenda puzza ».
E poi ecco un insolito rossore colorare le orecchie del buon vecchio Marco: « Scusa, sono stato io » bofonchiò imbarazzato, passandosi una mano tra i corti capelli scuri. 

 
Ed eccomi qua, ci credete?, alle prese con una nuova long. Non aspettatevi aggiornamenti frequenti (*i pochi intenzionati a leggere se ne vanno brontolando*), perché continuo ad avere grossi problemi di ispirazione ed esami da dare. Non sono ancora del tutto sicura di come scrivere questa storia, non so se cambierò sezione, sicuramente introduzione appena avrò le idee un po' più chiare, ma hO UN PLOT! Che non è poco, visti i miei standard ahahah. Eeeee niente. Spero che a qualcuno faccia piacere ritrovarmi tra queste file, spero che a qualcuno la storia interessi e spero di non deludere le aspettative di nessuno, soprattutto le mie. 
Spero di farmi viva presto!
Uh, un paio di note: le mie informazioni su Urbino e la sua università si basano su una gita di un paio di giorni presso un'amica che studia lì e da una ricerca più o meno approfondita sul sito della Carlo Bo. Le informazioni non sono troppo puntuali e non pretendono di esserlo -- insomma, se dovete andare a farci una gita o a studiarci, non basatevi su quello che dirò io in questa storia. Teoricamente un "3b di via Marconi" non dovrebbe esistere, ma non ci metterei la mano sul fuoco. 
Per qualunque cosa, potete trovarmi a uno qualunque di questi contatti: http://yvaine0mich.flavors.me/
Un abbraccio a tutti, spero che il primo capitolo vi sia piaciuto. ♥

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Capitolo 2
*** Brava, Giovanna Bravo ***


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II. Brava, Giovanna Bravo
 
 
A sentire Sonia, era possibile riconoscere l'umore di Vanna solo ascoltando il rumore dei suoi passi attraverso il cortile di fronte al portone dell'appartamento. Al momento Sonia non poteva sentirli, ma se fosse stata con lei mentre marciava a passi pesanti lungo le ripide stradine di Urbino, diretta alla facoltà di Giurisprudenza, avrebbe potuto certificare senza alcun margine di errore la sua implacabile ira.
Giovanna camminava, infatti, insolitamente a testa bassa, senza guardare dove andava né gettare un'occhiata a chi incrociava, anche quando qualcuno la salutava. Era così presa dai propri pensieri da non riuscire a notare niente al di fuori di essi: si sentiva così frustrata! Aveva vissuto in quell'appartamento per quattro anni accademici – be', tre e qualche mese –, si sentiva a casa lì più che in qualunque altro luogo, eppure, davvero, avrebbe voluto che tutti – tutti! – i suoi coinquilini sparissero senza lasciare traccia. Oppure, giusto per non dar troppa preoccupazione alle rispettiva famiglie o essere indagata per omicidio colposo plurimo, avrebbe potuto accontentarsi di un'improvvisa afasia di gruppo. Sarebbe stato un sogno: niente più risate fastidiose, niente più voci monotone, niente più sentenze sputate a raffica, niente più “io lo so” e grida contro il televisore mentre lei cercava di studiare.
Certo, il silenzio non avrebbe risolto che una piccola parte dei problemi che i suoi coinquilini causavano, ma sarebbe stato fonte di sollievo, almeno un po'.
Non riusciva a credere che i precedenti abitanti della casa, quelli che le avevano tenuto compagnia per i primi due anni di università, l'avessero lasciata in balia di quel branco di opportunisti infami. Ricordava con un certo affetto le tre ragazze e il ragazzo con cui aveva condiviso l'appartamento prima che arrivassero quei quattro squinternati: si era sentita parte di una famiglia, dove tutti si aiutavano a vicenda senza mai lasciare indietro nessuno; si era abituata al rispetto reciproco e al gioco di squadra, per poi ritrovarsi a convivere all'improvviso con quattro individualisti che la trattavano come una governante, senza nemmeno ringraziarla per i pasti pronti, i turni dei lavori domestici già organizzati, la disponibilità a caricarsi la maggior parte di essi. E non solo, come se lo sfruttamento non fosse già un'ingiustizia, Orfeo, Marco, Sonia e Cristina non avevano la minima idea di cosa significasse la parola rispetto. Uscivano e tornavano quando andava loro, magari senza salutare, finivano la carta igienica senza curarsi di sostituire il rotolo, rubavano tranquillamente il cibo dai ripiani altrui, lasciavano i panni sporchi a marcire in ogni angolo e... – Giovanna ringhiò di frustrazione mentre svoltava un angolo, spaventando un gatto acquattato per la caccia – li odiava. Davvero, certe volte li odiava con tutta se stessa.
Aveva resistito un anno intero assieme a loro, cercando di combattere gli attacchi di fame nervosa, sopportando le crisi di nervi (almeno) bisettimanali, i mal di testa causati dalla pessima musica che ascoltavano a tutto volume, dalle grida, dai furiosi e continui litigi con Cristina e da tutto lo stress accumulato giorno dopo giorno. Dopo che ad Agosto si era ritrovata a Padova con tutti i suoi amici di una vita, non aveva potuto che considerare il ritorno a Urbino come il ricominciare di una lenta tortura; aveva la sensazione che passo a passo quella routine avrebbe finito per distruggerla del tutto e, quasi senza accorgersene, aveva iniziato a rispondere “Se vuoi ti lascio il mio” ogni volta che qualcuno le diceva di star cercando un posto letto in città. Era successo così tante volta che ora nella Moleskine rossa di Giovanna era annotata una lista di nomi e numeri di telefono, ordinati per urgenza, che le davano l'immediata possibilità di abbandonare quel luogo e lasciare il proprio posto nella camera condivisa con Sonia ad un sostituto. Era già tutto pronto, l'unica cosa a mancare era la sua determinazione. Aveva sempre considerato l'abbandono un fallimento, che fosse compiuto o subito, e non aveva alcuna intenzione di macchiare la sua scalata per il successo di un fallimento a causa di persone incapaci di collaborare; era convinta di essere perfettamente in grado di occuparsi di tutto da sola. Almeno fino a quella mattina. Quella mattina aveva capito che non sarebbe riuscita a vivere altri due anni con loro, che i suoi nervi non l'avrebbero sopportato; e, in fondo, quanto poteva influire la recessione di un contratto d'affitto sulla sua ripida salita verso la magistratura? Era ambiziosa, Giovanna, forse fin troppo, ma anche abbastanza determinata da poter raggiungere i suoi obiettivi; se la convivenza con i suoi coinquilini si frapponeva alla serenità e alla produttività della sua vita accademica, di certo era la prima a dover essere eliminata.
A questo pensava, mentre, appollaiata su una sedia nelle prime file, prendeva febbrilmente appunti senza capire nulla di ciò che stava scrivendo, ma senza perdere una parola di quelle pronunciate dal professore. In un angolo della sua mente, intanto, risuonava flebile la voce di Cristina: “Maniaca del controllo”, le diceva, “non sei mia madre”.
 
Dopo un breve consulto con le sue compagne di facoltà più intime e una telefonata alla migliore amica di sempre durante la pausa pranzo, Giovanna si era convinta: andava fatto. Per l'occasione si concesse di saltare la sessione di sistemazione degli appunti quotidiana, così da poter rientrare a casa per prima. Girò la chiave nella toppa per l'ultima volta alle quattro e ventitré, poi accese la vecchia radio che tenevano sopra il televisore – che non era grosso, ma "curvy", secondo Sonia – e si diresse nell'unica camera doppia dell'appartamento; le bastò un'ora perché, grazie al suo perfetto ordine e all'assoluta efficienza con cui faceva qualunque cosa, tutti i suoi vestiti fossero compostamente riposti in valigia (e un borsone, perché quella da sola non era abbastanza), di seguito passò a recuperare tutto il materiale domestico che aveva portato lei stessa da Padova: qualche tazza, due o tre pentole, la caffettiera che Marco tanto amava (e, ah!, quanto avrebbe voluto vedere la sua reazione quando si sarebbe accorto della sua assenza!), il phon che tutti usavano come se fosse proprio, lo shampoo, il balsamo e la crema per capelli che aveva il dubbio fosse Orfeo a rubarle, la coperta che tenevano sul divano, la sua spazzola, la pianta grassa che teneva sul comodino perché catturasse le radiazioni emesse dai dispositivi elettronici della casa, la bacheca in legno e sughero, i suoi libri, il computer, il carica batterie che Sonia le rubava sempre e tutte le foto che aveva appeso alle pareti dal suo lato della stanza. Poi guardò il muro troppo bianco, il letto e gli scaffali spogli con un sentore di malinconia ad appesantirle il corpo. Prese un respiro profondo per scacciarla: non sarebbe tornata sui suoi passi, si disse; ne valeva la pena e non avrebbe rimpianto questa decisione.
Perlustrò un'ultima volta la casa da cima a fondo, controllò l'orologio per essere sicura di aver abbastanza tempo per andarsene indisturbata e infine, un attimo prima di levare le tende, appiccicò un biglietto sul televisore, dove era certa che qualcuno l'avrebbe visto, prima o poi.
E se ne andò, con un senso di liberazione e l'orgoglio a gonfiarle le vele e spingerla verso una nuova avventura, lontana da crisi di nervi e inutili litigi; quei quattro approfittatori era sicura che non le sarebbero mancati. Tutto d'un tratto era felice: stava per ricominciare da capo, intraprendere una vita nuova, con persone nuove che forse avrebbero compreso lo spirito di squadra e il rispetto che animavano la sua vita domestica.
Dunque Giovanna attraversò per l'ultima volta il cortiletto interno – teoricamente condiviso, ma di cui si erano impossessati i vicini da prima ancora che lei arrivasse a Urbino – e si avviò per le salite della città, portandosi appresso un trolley, due borsoni e qualche busta di plastica; al momento non le importava che la gente la scambiasse per una barbona, né la infastidiva arrampicarsi a fatica con tutta quella zavorra sulle spalle per raggiungere la casa dell'amica che si era offerta di ospitarla per qualche tempo. No, niente le dava fastidio: immaginava di ascoltare gli uccellini cantare e veder il sole splendere alto nel cielo nonostante fossero ormai le sei di una sera di fine ottobre e la nebbia stesse salendo lugubre scivolando nei vicoli; in quel momento Giovanna vedeva tutto rosa, si sentiva più leggera e pronta per cominciare una nuova avventura. La principessa era uscita con le sue gambe dalla torre in cui gli usurpatori la tenevano prigioniera e sapeva che il suo per sempre felici e contenti era dietro l'angolo e lei gli stava andando incontro.
 
*
 
Come ogni giorno, alle sei del pomeriggio l'appartamento cominciava a ripopolarsi dopo un'intera giornata di desolazione. Per prima tornava Cristina, che dopo aver mangiato un pacchetto dei cracker preso dalle provviste di Vanna si chiudeva in camera a studiare e ascoltare musica.
Circa mezz'ora dopo, mai davvero puntuali, ecco arrivare Marco e Orfeo, che dopo aver finito le lezioni di primo pomeriggio erano soliti comprare lattine di bibite al supermercato da sorseggiare mentre si passavano il pallone nei corridoi del centro commerciale Porta Santa Lucia, per prendere il caldo – o il fresco, a seconda della stagione – e attirare l'attenzione delle ragazze, almeno finché qualcuno non li cacciava spazientito.
Poi di solito toccava a Vanna, che trafelata si tuffava in doccia e, una volta asciugatisi i capelli, si metteva ai fornelli.
L'ultima a rincasare era sempre Sonia, dopo aver trascorso il pomeriggio tra lezioni e aule studio. Anche quel giorno, quindi, strisciò dentro il 3b di via Marconi con un sorrisetto stanco sulle labbra e lo zaino che penzolava da una spalla. « Ciao a tutti! » salutò a mezza voce, mentre si chiudeva la porta alle spalle. Si levò le scarpe, abitudine che aveva preso dai genitori, i quali, a casa, preparavano le pantofole persino per gli ospiti: non fosse mai che il loro prezioso parquet si graffiasse a causa di un sassolino sotto la scarpa. A volte pensava che tenessero a quel parquet più che ai loro figli.
Lasciò le scarpe in terra e andò a sedersi sul bracciolo del divano, dove Marco e Orfeo si davano gomitate nel tentativo di distrarsi a vicenda e poter conquistare il vantaggio necessario a vincere il match di boxe alla consolle. « Come è andata la giornata? »
« Al solito » bofonchiò il biondino, cercando con un calcio di togliere dalle mani dell'amico il joypad.
Marco, nonostante il tentativo fosse tallito, si tuffò per vendetta direttamente addosso al suo carnefice, agitandosi tanto che uno dei suoi piedi passò pericolosamente vicino al volto di Sonia, la quale dovette abbassarsi per evitare di essere colpita.
« Sì, tutto bene, Ciccio! »
Fu più o meno in quel momento, dopo aver roteato gli occhi, che la ragazza di accorse del foglio piegato a metà e appiccicato con lo scotch al bordo inferiore del televisore. « E quello? » chiese quindi, indicandolo. « Cos'è, il tabellone dei punti? »
« Quello cosa? » fu l'acuta risposta di Marco, che non si degnò nemmeno di distogliere lo sguardo dallo schermo.
Dopo aver atteso ancora qualche altro istante in silenzio, Sonia capì che i ragazzi, nonostante ce l'avessero proprio sotto gli occhi, non si erano accorti del biglietto. Quindi si alzò e lo recuperò lei stessa, levandosi poi in fretta da davanti allo schermo.
Controllò il fronte e il retro in cerca di informazioni, poi lo aprì e lesse:
Cari ragazzi,
ho parlato con la signora Nicolì e levato le tende. Dubito che a qualcuno di voi verrà in mente di cercare di trattenermi, ma in ogni caso ogni tentativo sarebbe inutile. L'affitto per questo mese è pagato; per le bollette, se non trovate una coinquilina, contattatemi e ci penserò io. Sono settimane che penso di andarmene e finalmente mi sono decisa; è passato tanto tempo che ho già una lista di possibili interessate al mio posto letto, eccole qui:
 
Manuela, 325...
Clizia, 333...
Francesca, 346...
Enrica, 334...
 
Sono disposte in ordine di urgenza. Non cercate di fregarmi con la storia delle bollette, perché ho contatti con tutte loro e lo scoprirei.
È triste abbandonare quell'appartamento dopo tutto questo tempo, ma non mi dispiace affatto l'idea di lasciarmi alle spalle voi (e, sì, forse è la rabbia a parlare, ma comunque...). Ho provato in tutti i modi a convivere con voi civilmente, ma è difficile insegnare alle galline a volare. Ho finito di farmi sfruttare da voi ingrati. Buona vita.
 
- Giovanna (e essere chiamata “Vanna” mi ha sempre fatto schifo, per la cronaca)
 
Seguirono lunghi istanti di isolamento dalla realtà durante i quali Sonia ripercorse diverse volte il significato della lettera, poi, incredula, corse in camera a controllare che non si trattasse di uno scherzo. Quello che trovò furono le ante dell'armadio di Giovanna spalancate, i ripiani vuoti, il materasso spogliato di lenzuola e cuscino, la scrivania sgombra, le pareti ripulite da tutte le fotografie che giorno dopo giorno si scollavano cadendo sul pavimento, ma lei si premurava di riappiccicare con lo scotch scadente che aveva comprato Marco.
Ebbe un attimo di smarrimento Sonia, che nonostante l'evidenza non riusciva a capacitarsi del fatto che la loro coinquilina potesse essersene andata davvero così all'improvviso, senza avvisarli, lasciando nient'altro che un biglietto. Una vocina dentro di lei glielo ripeteva dalla mattina, che qualcosa non andava, che l'insolita arrendevolezza e il fatto che Vanna fosse uscita senza una parola fossero un segno: avevano passato il limite. O, per dirla con le parole di Orfeo, “avevano pisciato fuori dal vaso”.
E quando Sonia tornò in sala e disse: « Nessuno di voi si è accorto che Giovanna se n'è andata? », Marco replicò: « Davvero? Finalmente! » e a lei calò la mascella per lo sconcerto, mentre Orfeo se la rideva tranquillamente. Non che si aspettasse che i ragazzi scoppiassero in lacrime, ma che per lo meno dessero un minimo cenno di dispiacere! O di pentimento, visto che fino a prova contraria erano stati loro due e Cristina ad esasperarla fin dal giorno del loro arrivo. D'altro canto, sapeva di essere l'unica in casa a cui davvero interessava qualcosa di Giovanna: la sua tendenza maniacale al controllo era sempre stata un po' stretta a tutti i coinquilini; Marco si era rifugiato a Urbino per fuggire la sua vera madre e non aveva intenzione di sopportarne una seconda, Cristina ignorava le sue regole per egoismo e Orfeo per un suo naturale istinto di ribellione. A volte era davvero stancante avere a che fare con dei ventunenni: erano ragazzi sul punto di diventare adulti, con un piede già nel bel mezzo della vita dei grandi, ma l'adolescenza che ancora non si era del tutto chiusa la porta alle spalle: c'era chi continuava a combattere con l'acne, chi i genitori, chi, ancora, se stesso. Sonia, ventitré anni in un corpo da bambina, a volte si sentiva estremamente vecchia tra loro; finché c'era Giovanna con le sue manie da casalinga nevrotica per lo meno poteva confondersi tra la folla di giovincelli, ma ora?
Prese un respiro profondo e cominciò a perlustrare la casa per controllare cos'altro fosse cambiato con la partenza della loro coinquilina; dopo trentacinque minuti di ricerca l'inventario degli oggetti che non erano più a disposizione erano un numero discreto – e fondamentali: tanto per cominciare, nessuno di loro si era mai reso conto che il phon che usavano tutti in realtà apparteneva a Vanna, così come alcuni contenitori, la spatola per i pancake, due pentole, una padella e...
Sonia si affacciò alla porta della sala e si fece piccolapiccola contro il muro; teneva gli occhi fissi sul pavimento mentre si mordicchiava l'interno della guancia, indecisa se dir loro o meno qual era stata la sua ultima triste scoperta.
Il primo a spazientirsi, sentendosi sotto esame, fu ovviamente Marco, che al posto della pazienza aveva in corpo un'eccessiva dose di teatralità – o più semplicemente idiozia. « Cicciobello, che c'è, hai le pile scariche? » le chiese quindi, rivolgendole un'occhiata di fugace curiosità. Lei si trattenne dal roteare gli occhi, cosa che fu per tutti un segno eloquente della gravità della situazione. « Oddio » sussurrò infatti Marco, mettendo in pausa il gioco; « cosa succede? »
« Ehm, » Sonia prese ancora un istante di tempo prima di decidersi a strappare il cerotto con un colpo secco per abbreviare la tortura: « Vanna si è portata via la caffettiera ».
« MAURICE! »
« Cazzo urli? »
« Della, quella strega s'è fottuta Maurice! Desidero vendetta! »
Era evidente che Marco avesse preso male la notizia – non che Sonia si aspettasse niente di meno da lui; un attimo era seduto sul divano a gridare disperatamente il nomignolo che aveva dato alla caffettiera di casa, quello dopo trottava per la cucina aprendo ogni cassetto e sportello per verificare la notizia: sembrava davvero impossibile che Giovanna avesse potuto fare qualcosa di così crudele – tanto valeva amputar loro un arto e portarselo a casa come pegno!
Orfeo, invece, schioccò la lingua contro il palato, sempre scompostamente disteso sul divano, perché niente sembrava essere davvero in grado di turbarlo. « Nemmeno una disgrazia di queste proporzioni! » sbottò indispettito Marco, che ancora sbatteva sportelli alla ricerca del suo tesoro scomparso. « Quella troia! Come ha potuto farci una cosa simile? »
Sonia immaginò la reazione di Giovanna a quelle parole: non avrebbe saputo dire se si sarebbe arrabbiata per l'insulto misogino o per la totale mancanza di interesse verso la sua partenza – « Rispetto! Dov'è finito il rispetto?! » la citò, in una goffa imitazione del suo accento di Padova.
« Dentro Maurice, cazzo! » replicò in fretta il ragazzo, che, sinceramente scandalizzato dalla sparizione della caffettiera, continuò a inveire pesantemente contro la loro ormai ex coinquilina senza badare al tentativo di sdrammatizzare dell'altra. E continuò Marco finché Sonia, esasperata, non consigliò a lui e Orfeo di correre al supermercato per comprarne una nuova prima che chiudesse, perché di certo nessuno sarebbe riuscito a sopportare quella lagna infinita per tutta la sera – e il giorno dopo, ma a questo ancora non avevano pensato.
Quando effettivamente i due ragazzi si chiusero la porta alle spalle, dopo aver preso una banconota dalla cassa comune, lei si lasciò cadere seduta sul divano ancora caldo, con una strana sensazione di quella che doveva essere nostalgia a raffreddarle la nuca. Viveva in quell'appartamento da un paio d'anni, ma da allora non aveva mai avuto il bisogno di prendere in mano la situazione affidare compiti ai ragazzi per il bene comune – era sempre toccato a Vanna. Era strano tutto d'un tratto trovarsi a farlo in prima persona: passare da ospite a governante.
Erano passati solo quaranta minuti da quando avevano appreso dell'assenza di Giovanna e Sonia già aveva la sensazione che le cose senza di lei sarebbero state profondamente differenti, e i cambiamenti non le erano mai piaciuti molto. Ne sentiva già la mancanza, ma in una maniera strana, molto diversa da quella che aveva avuto modo di provare molte volte da quando si era trasferita a Urbino per studiare. Si raggomitolò su se stessa, stringendo le gambe al petto, e scompigliò energicamente i corti capelli biondi in un tic nervoso che nessuno avrebbe mai capito fino in fondo e poi, piano piano, si addormentò.
 
Per la prima volta da quando abitava al 3b di via Marconi, quella sera Cristina uscì dalla sua camera da letto aspettandosi di vedere la tavola imbandita e trovò le sue aspettative deluse. « Che è, oggi non si mangia? » domandò a voce alta guardandosi attorno. In casa sembrava non esserci nessuno, o nessuno che avesse intenzione di rispondere. Roteò gli occhi di fronte all'immaturità dei suoi coinquilini, poi lanciò uno sguardo alla lettera di Vanna e fece una smorfia; l'aveva notata subito una volta rientrata, la sua memoria fotografica difficilmente poteva essere ingannata, nessun dettaglio le sfuggiva mai. Dopo averla letta in fretta, aveva tirato un sospiro di sollievo e l'aveva riattaccata al televisore con lo scotch. La sua permanenza in quella casa senza Giovanna non poteva che migliorare; era stufa di tutte le inutili lamentele, le petulanti richieste di attenzione quando secondo lei qualcosa non andava, le raccomandazioni, i rimproveri... Cristina emise un gemito di frustrazione al solo pensiero: da Pesaro avrebbe potuto tranquillamente frequentare le lezioni da pendolare, ma aveva scelto di trasferirsi per poter finalmente gestire la sua vita da sola; convivere con qualcuno che aveva intenzione di monopolizzarla e sottometterla alle sue regole era stata una tortura per lei, che proprio per non dover più sopportare situazioni del genere si era allontanata dai genitori. Non che i signori Antonelli fossero mai stati particolarmente assillanti – niente a che vedere coi genitori di Marco –, semplicemente Cristina aveva sempre nutrito un fortissimo spirito di individualità e indipendenza che l'aveva spinta ad allontanarsi appena gliene si era presentata l'occasione. Voleva vivere la sua vita senza pesare sugli altri e senza che essi pesassero su di lei: aveva dei progetti ed era intenzionata a seguirli passo a passo; doveva ancora arrivare la megalomane maniaca del controllo che le avrebbe messo le catene ai polsi. Aveva preso la partenza di Giovanna come una piccola vittoria personale: finalmente aveva compreso che nessuno di loro aveva tempo per assecondare le sue manie.
Cristina bussò alla porta del bagno, da dove proveniva il rumore dell'acqua corrente abbinato ad una musica insopportabilmente commerciale. « Chi c'è qui dentro? » chiese, senza smettere di bussare.
Ancora una volta non ottenne risposta, ma di nuovo non si diede per vinta. « Chi c'è? Ehi, perché nessuno sta cucinando? » continuò, ancora e ancora, finché quasi un minuto dopo la porta non si aprì, mostrando Sonia infagottata in accappatoio e asciugamano, tremante di freddo.
« Che c'è? » ebbe il coraggio di domandare, come se Cristina non l'avesse già ripetuto un sacco di volte.
« Se spegnessi quel casino mi sentiresti quando ti parlo » le fece notare l'altra, accompagnando quel rimprovero con uno sguardo di sufficienza a cui la prima rispose alzando gli occhi al soffitto. « Perché non c'è odore di cibo? »
Sonia prese a frizionarsi i capelli con calma. « Giovanna se n'è andata ».
Fu il turno di Cristina per roteare gli occhi. « E allora? »
« Lo sapevi già? » si sentì domandare in tono inquisitore; la piccoletta sembrava sorpresa: certo che lo sapeva, ma cosa si aspettava? Che forse lei si disperasse o magari organizzasse un festino per celebrare l'evento? Vanna non era così importante, aveva cose più urgenti a cui pensare – la cena, per esempio.
« Sì, ho letto il biglietto. Ti dispiace, per favore, rispondere alla mia domanda? » L'estrema gentilezza e la calma con cui le si rivolse non indicavano altro che l'implicita insinuazione delle sue difficoltà di comprendonio.
Altra cosa su cui Sonia preferì glissare e a lei non dispiacque. « Non c'è odore di cibo, perché la cena non si prepara da sola » rispose nel suo solito tono pacato, sempre strofinandosi l'asciugamano sulla testa.
Cristina sbuffò, dovendosi dichiarare d'accordo. « Appunto » le concesse: « perché nessuno provvede? » Era semplice, no? Se alle otto di sera ancora niente era sui fornelli, bisognava mettercelo; cosa impediva ai suoi coinquilini di svolgere quelle semplici funzioni?
« Io stavo facendo la doccia » le fece notare Sonia, indicando col pollice la stanza alle sue spalle. « E non so cucinare » si premurò di ricordarle, nel caso dopo un anno e mezzo di convivenza ancora non se ne fosse accorta. Non che lei fosse una di quelle persone che in cucina non ci avrebbero messo piede nemmeno sotto minaccia, anzi era proprio il contrario: tutte le cucine del mondo sembravano desiderare ardentemente che Sonia si tenesse alla larga da loro. Era il genere di persona che riusciva a fare un macello anche solo nel tentativo di scaldarsi il latte per la colazione, a meno che non avesse un forno a microonde a portata di mano. Ma anche quello non costituiva una garanzia per la riuscita dell'impresa, per niente. Per dirla in maniera semplice: era negata nella maniera più totale.
A quelle parole, tornando a noi, Cristina fu costretta a dargliela vinta; tendeva a dimenticare le incapacità delle altre persone, più che altro perché le sembrava normale che ognuno si impegnasse giorno dopo giorno per colmare le proprie lacune, ma, be', evidentemente Sonia non la pensava allo stesso modo. « Prima o poi » le disse, mentre già si dirigeva verso la cucina, « mi spiegherò qual è la tua utilità al mondo, ma temo che quel giorno non sia oggi ».
Sonia roteò gli occhi per l'ennesima volta durante la giornata, reprimendo per quieto vivere una risatina di scherno che era certa all'altra non sarebbe piaciuta; si limitò quindi ad esclamare un « Grazie, Cri! », prima di tornare in bagno.
Quello che non aveva capito era che Cristina non aveva nessuna intenzione di preparare la cena, ma si sarebbe rinchiusa in camera, avrebbe ordinato una pizza a domicilio e avrebbe lasciato tutti i coinquilini a cuocere nel loro brodo – di inutilità cosmica, a sentir lei.
 
Quando i ragazzi rientrarono con una caffettiera nuova e una cassetta di birra in lattina, poco dopo, trovarono Sonia sul divano intenta a divorare i propri biscotti della colazione per riempire lo stomaco, mentre borbottava commenti innervositi in direzione del televisore ogni tre per due (o due per tre?, si chiesero).
« Be'? » Mentre Orfeo già si avviava verso la propria camera da letto, Marco si lasciò cadere al suo fianco, reggendo trionfante tra le mani il suo nuovo acquisto come il più prezioso dei tesori: « Non dici niente? No, ma certo che non dici niente, ancora non vi conoscete. Ora faccio le presentazioni. Cicciobello, questa è la nuova Maurice – Maurice seconda! Maurice, questa è Cicciobello! »
Cicciobell- ehm, Sonia in tutta risposta gli rivolse un'occhiata truce, gesto che, come se la sua vena polemica sfogata sulla televisione non fosse abbastanza eloquente, manifestava ancora più apertamente il suo cattivo umore. « Se è una femmina perché l'hai chiamata Maurice? » commentò aspramente. Era tipico suo abbandonare ogni diplomazia in favore di una continua critica al mondo circostante quando la sua solita tranquillità lasciava spazio al nervosismo.
Marco sgranò gli occhi e sbuffò di incredulità: « Per mantenere viva la tradizione, no? Cos'è tutto questo scetticismo? Mi deludi, Ciccio! »
Sonia scrollò le spalle e mise in bocca un altro biscotto per impedirsi di rispondere male; tutto d'un tratto iniziava a capire come mai a Vanna stesse così stretto l'egoismo di Cristina. Era stata una sciocca a pensare che avrebbe preparato la cena anche per loro, ma che almeno avvisasse prima di chiamare la pizza non era chiedere troppo, no? E aveva la sensazione che questo fosse solo l'inizio del declino di quella compagnia.
Sbuffò dal naso, per poi alzarsi dal divano. « Buonanotte » borbottò e, nonostante fossero a malapena le otto di sera, si rinchiuse nell'unica camera doppia dell'appartamento con il sacchetto dei biscotti e una marea di appunti da rivedere. Non sarebbe tuttavia riuscita a concentrarsi su più di una riga quella sera nella stanza insolitamente vuota. Non era abituata a dormire da sola e a condividere spazi solo con se stessa; farlo in un momento come quello, poi, in cui aveva l'impressione che le loro vite sarebbero cambiate radicalmente non faceva che rendere i suoi pensieri un po' più cupi e tumultuosi, instradandola verso una notte insonne. Sonia era terrorizzata dai cambiamenti e dalla solitudine che era convinta portassero sempre con sé. Era una persona per natura tranquilla e all'apparenza sempre spensierata, ma quando iniziava a preoccuparsi niente poteva rassicurarla: continuava la sua lunga e silenziosa discesa verso il pessimismo assoluto, inarrestabile.
Pensava al modo in cui Giovanna li aveva abbandonati senza una parola, senza nemmeno salutare; a quanto dovesse essere frustrata per mollare – perché Vanna era testarda come un mulo e anche più orgogliosa, non si dava mai per vinta; pensava a Cristina che, nonostante si fosse accorta della sua partenza, non aveva detto niente a nessuno, concentrandosi come al solito solo su se stessa e sulla sua routine; pensava ad Orfeo che sembrava sempre sintonizzato su una lunghezza d'onda diversa dagli altri, intangibile e impassibile a tutto fuorché alle lamentele di Marco, il quale, be', non avrebbe potuto essere più infantile di così. E lei, lo zimbello di tutti, come avrebbe potuto assicurarsi che tutto filasse per il verso giusto? L'idea che Cristina e Orfeo si chiudessero nell'isolamento delle loro camere da letto la spaventava, come il presentimento che Marco avrebbe potuto ben presto seguire il loro esempio, lasciandola da sola in una camera doppia troppo grande per lei. E Sonia più di ogni altra cosa non voleva rimanere sola. Il silenzio e il letto vuoto al suo fianco le incutevano una sorda malinconia che temeva di non saper gestire; a darle un briciolo di coraggio era il mormorio del televisore che attraversava la casa e sgattaiolava fin sotto la porta rossa chiusa: era quel suono a dirle che dopo tutto, per il momento, non era ancora sola.
 
Marco, rimasto da solo in salotto con la sua caffettiera nuova, non poté fare altro che decidere di prepararsi un caffè, per nulla preoccupato dai cambiamenti che l'assenza di Giovanna avrebbe portato. Una volta riempita la tazza e riconosciutosi intimamente entusiasta delle novità che sarebbero di certo piombate su di loro da quel giorno in poi, si gettò sul divano con la nuova Maurice, interamente ricoperta da una vivace vernice verde acido, che lo guardava dal centro del tavolino, come un buon auspicio. Tutto sommato, Marco era ottimista. Era un po' strano starsene lì tranquillo e in perfetta solitudine, senza che Giovanna corresse da una stanza all'altra dando sfoggio della propria implacabile nevrosi, ma non strano in senso negativo. Era curioso di sapere cosa sarebbe successo di lì in poi.
« Maurice, benvenuta a casa! » esclamò sottovoce, un attimo prima di versarsi altro caffè nella tazzina.


 


Ho come l'impressione che questo capitolo sia un po' caotico, ad eccezione forse della parte di Giovanna, ma lascio a voi il giudizio, ché tanto il mio conta poco. Che dire, oggi avrei dovuto studiare, ma a quanto pare la voglia di farlo se n'è di nuovo andata in vacanza (non è vero, l'ansia è dietro la porta, la sento che bussa >D<), mentre quella di aggiornare si faceva sentire, per cui... eccomi. I tre quarti del capitolo erano già scritti, li ho riguardati e spero di non aver tralasciato qualche errore durante la lettura -- in caso contrario, sentitevi liberi di farmelo notare. 
In realtà anche in questo secondo capitolo non succede molto, se non che la nostra Giovanna ha finalmente levato le tende, per di più tutto in una volta, il che, sì, è un po' strano, ma può succedere, no? E abbiamo una lista di persone con cui la nostra compagnia dovrà avere a che fare per scegliere la nuova compagna di stanza di Sonia. 
Spero che qualcuno si sia incuriosito e che abbiate ancora intenzione di seguire la storia, mi auguro di renderla un po' più coinvolgente di così (sempre che i deliri di Marco non bastino a tenervi con me :D).
Grazie a chi ha letto e a chi ha recensito lo scorso capitolo!
Un abbraccio a tutti. ♥
 

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Capitolo 3
*** Avanti un altro ***


The Flat
 
Dedico questo capitolo a Fabia,
chi la conosce capirà il perché.
 
III. Avanti un altro
 
 
Erano le otto e quattordici minuti di un martedì come tanti; il cielo sopra Urbino era grigio, una fitta nebbia aleggiava tra le vie della città e all'interno del 3b di via Marconi regnava sovrano il più assoluto silenzio, se non si contava il sordo russare che proveniva da una delle camere da letto. Un minuto più tardi, la cacofonia di quattro diverse sveglie perfettamente sincronizzate colmò quel silenzio; tre furono rinviate, la quarta venne spenta.
Cristina, raggomitolata sotto il piumino IKEA che le aveva regalato il suo – ex – ragazzo solo qualche mese prima, storse il naso scontenta al pensiero di dover abbandonare quel tepore. Poi però si ricordò dei propri impegni – le lezioni della mattina, l'appuntamento con Riccardo durante la pausa pranzo per discutere la loro rottura per l'ennesima volta, la lezione di linguistica di quel pomeriggio con quel professore che non vedeva l'ora di vedere – e si decise a scoprirsi, lanciando le coperte dall'altra parte del letto singolo. Ci aveva messo settimane per adattarsi ad un letto così piccolo, abituata com'era a quello matrimoniale in cui dormiva a casa dei genitori. Spinse le gambe da un lato del materasso e si costrinse a sedersi, per poi cercare le pantofole, ben attenta a non toccare il pavimento gelido coi piedi. Una volta infilate, si alzò, prese il beauty-case dalla scrivania e si trascinò fuori dalla camera diretta in bagno, il fastidioso pensiero di Riccardo che continuava a batterle febbrilmente su una tempia. Avrebbe voluto che tutto fosse più semplice, ma a quanto pareva il suo ex non aveva ben compreso il motivo del suo allontanamento; eppure le sembrava ovvio che una ragazza, dopo mesi di litigi continui e motivati esclusivamente dall'ossessiva gelosia di lui, decidesse che forse era meglio lasciar perdere. L'aveva ferita così tante volte che a Cristina non era nemmeno dispiaciuto aver rotto – erano stati insieme per tutti il suo primo anno di università e le nottate che aveva trascorso piangendo a letto a causa delle sue sfuriate non si potevano contare nemmeno sulle dita di tutti i coinquilini messi assieme. Quando ad agosto Riccardo era tornato a Palermo e lei a Pesaro, aveva capito di sentirsi davvero libera solo quando lui era lontano e di lì a comprendere che forse era meglio smettere di essere succubi di un bel faccino non era passato molto tempo. Era successo il primo ottobre, quando entrambi si erano ritrovati ad Urbino dopo le vacanze; tra un esame e l'altro Cristina si era ritagliata un po' di tempo per discutere la questione con lui e in tutta sincerità gli aveva confessato di sentirsi oppressa e che avrebbero fatto meglio a lasciarsi. Il problema era che Riccardo non sembrava aver capito bene l'antifona: continuava, di tanto in tanto, a presentarsi al bar in cui lei era solita incontrarsi con le amiche, a volte la aspettava fuori dalla facoltà o insisteva per accompagnarla a casa dopo averla casualmente incontrata in giro il sabato sera – era uno dei motivi per cui Cristina aveva cominciato a tornare a Pesaro nel weekend.
Cercò di cacciare quel pensiero sotto il getto caldo della doccia, ma non appena si ritrovò davanti allo specchio a districare i lunghi riccioli neri e incontrò il proprio sguardo stanco non poté fare a meno di abbandonarsi a lungo sospiro di esasperazione. I lineamenti resi appuntiti dalla continua perdita di peso quasi non sembravano più i suoi, gli occhi blu, stranamente vacui, erano contornati da profondi aloni scuri, segni evidenti del fatto che lo studio la stesse lentamente sfiancando. Ma non aveva intenzione di arrendersi, certo che no; non così presto: avrebbe concluso la triennale a pieni voti, come si era prefissata, e solo in un secondo momento si sarebbe forse concessa un periodo di riposo. Così uscì a testa alta dal bagno, venti minuti dopo, e di nuovo si ritrovò sorpresa nel vedere i coinquilini seduti attorno ad un tavolo semi vuoto.
« Mangiare proprio non vi piace, eh? » commentò mentre cercava di tirare i ricci voluminosi all'indietro e setacciava la cucina con lo sguardo alla ricerca del suo caffè.
Sonia nella sua solita tenuta mattutina – pigiama, plaid, calzettoni di lana sopra i pantaloni del pigiama, capelli spettinati e occhiaie – si limitò a fissarla con ostinazione, senza proferire verbo; quella mattina arrivare in cucina e trovarla desolata era stato un duro colpo che le aveva ricordato la partenza di Giovanna. Non erano mai state particolarmente affiatate, certo, ma iniziava già a rendersi conto che senza di lei dell'atmosfera di casa che era solita aleggiare al 3b di via Marconi non c'era l'ombra.
Cristina ovviamente non si curò più di tanto dell'insistente silenzio della ragazza, che questa volta non aveva ancora sprecato nemmeno le cinque parole che solitamente rivolgeva a Giovanna per informarsi sullo stato del bagno.
« Dov'è il caffè? »
A quella domanda Marco si illuminò di luce propria; rizzò le spalle larghe e, sorridendo smagliante, puntò un dito contro il suo trofeo: eccola lì, al centro del tavolo, posizionata sul contenitore chiuso dei cereali come su un altare: « Maurice seconda! »
Cristina sospirò dell'infantilismo dell'altro, poi allungò una mano per prendere la tazza da riempire, la prese e... O almeno l'avrebbe fatto, se solo la sua tazza fosse stata al suo posto nella credenza. « Non fate scherzi » sbuffò subito, voltandosi aggressiva a fronteggiare i coinquilini, prima ancora che loro potessero rendersi conto di cosa fosse successo: « Dove l'avete messa? Lo sapete – lo sapete! – che la giornata non può iniziare se la mia routine viene interrotta! »
Sonia affondò un po' di più sulla sedia, riempiendosi la bocca con una Gocciola intera senza averla nemmeno bagnata nel caffè; Marco afferrò la caffettiera, ansioso di poterla usare di nuovo per riempire le tazze altrui; Orfeo, l'unico che sembrava abbastanza lucido da poter rispondere, sospirò. « Che cosa? » Si passò stancamente una mano tra i capelli biondi – che, pensò, stavano diventando un po' troppo lunghi: era ora di tagliarli.
« La – mia – tazza » scandì la ragazza, guardandolo in cagnesco.
Orfeo fece una smorfia. « Quale tazza? »
« La mia tazza! Quella che uso tutte le mattine! »
« Scusa se la mattina controllare quale tazza stai usando non è tra le mie priorità » commentò lui, in un implicito invito a spiegarsi meglio.
Cristina emise un gemito di frustrazione, incrociando le braccia con stizza. « La mia tazza. La tazza rossa, la tazza in cui bevo il caffè tutte le mattine, la tazza che mi lavo da sola e che nessuno di voi deve toccare, per l'amore di Dio! » sbottò, prendendo poi a stringere forte le labbra insieme.
Sonia, accasciata sul tavolo con la testa tra le braccia, bofonchiò una piccola correzione che nessuno parve udire: « Per amor di sopravvivenza ».
Marco, dal canto proprio, si riscoprì profondamente divertito dalla continua ripetizione del nome dell'utensile e dunque, in un momento di particolare brillantezza mentale, prese a pronunciarla a sua volta. « Tazza! » scandì a mezza voce, mentre si rigirava la sua adorata Maurice tra le mani.
« Non lo dove sia la tua... »
« Tazza! »
« ...tazza, Cristina. Magari è finita dietro alle altre ».
« Non è possibile, perché significherebbe che qualcuno di voi l'ha spostata e voi lo sapete che non dovete toccare le mie cose ».
« Taaaz - za! »
« L'hai dimenticata in camera? »
« Non l'ho dimenticata in camera, Orfeo, ti sembro stupida? »
« Tazza. »
« Può succedere ».
« Non a me ».
« Oh, certo, capisco. Nel lavandino? »
« Tazzaaa! »
« La vedrei, se fosse lì. Dove l'avete messa? »
« Io non l'ho vista. Forse l'ha portata via Vanna ».
« Come sarebbe a dire che l'ha portata via Vanna?! »
« Tazzatazzatazzatazzatazza-- »
« MARCO, PUOI SMETTERE DI RIPETERLO?! »
« … Tazzina. »
Cristina emise un nuovo ringhio di pura frustrazione e adagiò soavemente uno schiaffo sulla nuca di Marco: l'impatto risuonò talmente fragoroso che per un istante, mentre lui boccheggiava incredulo, fu l'unico suono a udirsi nella cucina del 3b di via Marconi. Almeno finché la vittima non decise di lamentarsi: « Ahia ». Anche se il carnefice non se ne curò più di tanto, anzi, tornò subito all'attacco: « Perché avrebbe dovuto portarla via Giovanna? »
Orfeo osservò Marco alzarsi e dirigersi indignato in bagno, per recuperare un po' di tempo mentre quell'indegna conversazione continuava senza fine, poi rispose: « Si è portata via anche il phon, qualche cosa dalla cucina e la caffettiera. Magari la tua tazza in realtà era sua ».
Cristina rimase in silenzio qualche istante, riflettendo sulla plausibilità di quella risposta, poi sbuffò sonoramente e « Che troia! » sbottò, prima di tornare a rifugiarsi nella propria stanza, senza aver toccato cibo.
Attorno alla tavola erano rimasti solo Sonia, più addormentata che sveglia, e Orfeo, che nonostante non avesse ancora finito la colazione era già stanco e desideroso di tornare a letto. « Ho come l'impressione che convivere senza Giovanna sarà un delirio » commentò, incontrando l'approvazione della ragazza nel suo pigro annuire.
« Dovremmo chiamare le tipe? »
Sonia aggrottò le sopracciglia, rivolgendogli uno sguardo vacuo.
« Quelle di cui ci ha lasciato i numeri ».
Un barlume di consapevolezza le attraversò gli occhi, dunque questa volta annuì con più convinzione, immergendo un biscotto nel caffè.
« Quale delle quattro? »
Lei si strinse nelle spalle.
« Sorteggiamo? Tutte e poi decidiamo? Ne cerchiamo altre? »
Sonia annuì di nuovo.
« Oh, bimba » sbottò a quel punto Orfeo, dopo aver represso un'imprecazione. « T'ho dato tre opzioni, sì cosa?! »
Lei annuì di nuovo, prendendo tempo, poi ci pensò un po' su e fece l'enorme sforzo di proferire verbo: « Le incontriamo tutte ».
« Poi? »
Sonia lo fulminò con lo sguardo: possibile che avesse così tanto bisogno di farla parlare la mattina alle otto e mezza, oltre tutto per dire cose ovvie? Che strazio. « Ne scegliamo una » e con questo la sua parlantina venne definitivamente esaurita.
 
La prima delle possibili nuove reclute venne contattata nel pomeriggio e fu invitata a cena per permettere a tutti di studiarsi a vicenda. Si trattava di Manuela, marcato accento milanese, voce nasale e una cascata di indomabili ricci bordeaux che persino Merida, direttamente dal film Disney, le avrebbe invidiato. Seduti attorno alla tavola con davanti del cibo cinese preso al take away alle dieci di sera – perché a quanto pareva a nessuno era venuto in mente di cucinare qualcosa o ordinare prima –, avevano scoperto che l'aspirante coinquilina suonava il violino e poteva vantare l'orecchio assoluto; al che Marco, come c'era da aspettarsi, aveva cominciato a battere una bacchetta su qualunque superficie per interrogare l'ospite su quale fosse la nota provocata. Intanto Sonia, arrossendo per l'imbarazzo, cercava di impedire il suo implacabile essere inopportuno; Cristina poneva di tanto in tanto domande lapidarie, volte più che altro ad assicurarsi che quella candidata non potesse infastidirla con la propria routine; mentre Orfeo in silenzio mangiava e sbadigliava nell'attesa che quella tortura finisse. Lui non era mai stato un tipo di molte parole, ma tutto quel parlare di corde, archetti, esami di musica e note musicali lo annoiava da morire, nonostante non se ne lamentasse.
Manuela raccontò del suo violino, delle quotidiane esercitazioni, dell'allergia alle fragole, ai latticini, alla polvere, alle graminacee e una lista pressoché infinita di altre cose – motivo per cui, si era scusata, non avrebbe mangiato nulla quella sera, ma avrebbe gradito un bicchier d'acqua. (« Che figura di merda » aveva commentato Marco a mezza voce, facendola ridere.) Si era poi abbandonata ad una lunghissima serie di spiegazioni sul perché e il come era diventata vegana, nominando malattie, medici, teorie, dietologi, manifestazioni, pratiche... aveva parlato tantissimo e senza sosta finché Orfeo non si era appisolato sulla sedia e Cristina aveva convenuto che si era fatto tardi – « Ora me ne andrei anche a dormire, se non ti spiace » le aveva detto senza troppi giri di parole. Marco aveva colto l'occasione al volo per esibirsi in teatrali sbadigli e stiracchiamenti, visto che, una volta stancatosi del gioco delle note, aveva preso ad annoiarsi anche lui.
A conti fatti, una volta che Manuela ebbe lasciato l'appartamento con la promessa di Sonia che le avrebbero comunicato al più presto la decisione presa, Orfeo espresse in maniera lapidaria il pensiero che tutti avevano in mente: « Che due palle ». E gli altri non poterono che annuire in segno di approvazione. Dopo un paio d'ore passate a parlare di musica classica, di allergie e dieta vegana, la prospettiva di abitare con una persona così monotematica (o, be', tri-tematica) non appariva molto rosea. Specie se la tal persona aveva bisogno di esercitarsi quotidianamente col violino. Tirarono quindi una riga sul nome di Manuela sulla lista lasciata da Giovanna, poi Sonia comunicò il prossimo passo: « Proviamo con Clizia ».
 
 
La prima caratteristica di Clizia che saltava all'occhio non appena la si incontrava era il suo essere una bellissima e sorridente Barbie. Era alta, magra ma formosa, bionda con una frangetta perfettamente stirata che ricadeva morbida sugli occhi in modo da poter essere soffiata via senza il minimo fastidio. Il suo sorriso era ampio, luminoso, dolce e raggiungeva sempre gli occhioni – immancabilmente azzurri e corredati di ciglia lunghe e folte.
A occhio e croce, secondo Orfeo, Marco si innamorò di lei nel momento stesso in cui la vide, entrando nel piccolo bar subito fuori dalle mura di Urbino in cui si erano dati appuntamento.
Cristina, invece, mise in chiaro fin da subito la propria antipatia nei suoi confronti: « Pensate che Raperonzolo, qui, si darà la pena di prendersi una pausa per parlare con noi? » domandò retoricamente. Clizia aveva parlato al telefono con Sonia per mettersi d'accordo sulle modalità di incontro per discutere di quel posto letto; dopo aver rifiutato quasi tutte le opzioni che le erano state proposte, si era imposta perché tutti i coinquilini la raggiungessero quel giovedì sera al locale dove lavorava part time.
« Sinceramente » commentò Marco, osservando con un certo interesse il fondoschiena della candidata: « A me anche così non dispiace. Sembra una brava ragazza, no? Propongo di reclutare lei! » Dopo tutto, che bisogno c'era di parlarle? Era palese che fosse perfetta per essere la loro coinquilina: bellissima, sorridente e lavoratrice. Che altro volevano sapere?
Orfeo si ritrovò suo malgrado a ridere, mentre Sonia sospirava d'esasperazione e Cristina lo fulminava con lo sguardo. « Da quando in qua la decisione spetta a te? »
« Siamo in democrazia, no? Il mio potere decisionale è del venticinque per cento, proprio come il tuo » replicò lui prontamente, lo sguardo che ancora seguiva movimento per movimento il sedere della biondina, la quale ancheggiava in giro per il locale per prendere e consegnare le ordinazioni.
Sonia lo osservò per un po' in silenzio, mentre il ragazzo si opponeva con fermezza alle dispotiche proteste dell'altra: era davvero incredibile quanto Marco potesse comportarsi da perfetto idiota e allo stesso tempo – letteralmente – tenere testa alla sapiente dialettica di Cristina, la quale, quando voleva, era in grado di svincolare anche le più ferme convinzioni politiche di Vanna. Insomma, mica roba da poco.
Poi roteò gli occhi, come era solita fare ogni volta che aveva a che fare con i suoi coinquilini, e cercò di focalizzarsi su Clizia. Era sempre stata brava a comprendere le persone al volo; di solito le bastavano poche informazioni e un breve scambio di battute per farsi un'idea – seppur generale – della personalità della persona che si trovava davanti. Era convinta, inoltre, che anche l'osservarle mentre non sapevano di essere sotto esame fosse un buon metodo per iniziare a costruire un identikit: quale metodo migliore, dunque, dello studiarla mentre si muoveva tra gli altri tavoli?
Passava da un cliente all'altro sfoggiando un sorriso che svaniva solo quando la concentrazione nel tentativo di non rovesciare nulla sui vassoi che trasportava aveva la meglio; allora il suo sguardo, fisso su bottiglie e bicchieri in equilibrio precario, si inscuriva un po', senza tuttavia perdere nemmeno un filo della sua innocenza. Di primo acchito, Sonia avrebbe detto che non c'era assolutamente nulla di negativo in lei: sembrava così carina, semplice e ingenua, del tutto a suo agio in mezzo alla gente, motivo per cui supponeva potesse essere diplomatica e paziente – ed esisteva forse una qualità più importante di quella per poter sopravvivere nel loro appartamento?
« Sto cercando di non farci caso », la voce di Orfeo richiamò Sonia alla realtà, strappandola alle proprie attente riflessioni; « ma sembrate due maniaci e la cosa inizia a mettermi in imbarazzo » osservò.
A quelle parole Sonia si accigliò, per poi rendersi conto che, in effetti, sia lei che Marco stavano fissando intensamente Clizia da svariati minuti e la cosa, sì, avrebbe potuto risultare un po' equivoca. Rise, quindi, per smorzare l'imbarazzo in cui inevitabilmente era piombata, e si accasciò sulla sedia per nascondersi, sparendo un po' di più sotto al tavolo.
La aspettarono per quasi due ore durante le quali Cristina sbuffò e si lamentò a denti stretti ininterrottamente per quella mancanza di rispetto, Marco non smise un attimo di tubare e cantare le lodi della candidata, Orfeo tenne lo sguardo incollato su Whatsapp, curvo sul tavolo, e Sonia placidamente ascoltò e rispose, del tutto inascoltata, agli opposti commenti dei due coinquilini. Furono due lunghissime ore, per tutti e quattro, che a frequentarsi al di fuori delle mura domestiche non erano per nulla abituati. Tra loro c'era quell'imbarazzo che coglie il nuovo arrivato in un gruppo già formato di amici, con la piccola variante che non c'era nessuno tra quei quattro che non si considerasse l'elemento di troppo. Finché c'era Giovanna era molto più semplice trovare complicità l'uno nell'altro per opporsi al suo dispotismo, ma così, senza nessun vero nemico da contrastare, la faccenda cambiava. La verità era che, nonostante avessero vissuto sotto le stesso tetto per quasi due anni, non potevano dire di conoscersi; sapevano il nome, l'età, l'indirizzo di studi di tutto, così come la situazione sentimentale – circa – e il nome di qualcuno dei parenti, ma questo non era abbastanza per definirsi amici. Un occhio esterno, per esempio, avrebbe potuto supporre che almeno i due ragazzi, nel trascorrere gran parte del loro tempo in compagnia l'uno dell'altro, fossero diventati buoni amici, ma la realtà era che il silenzioso e inoppugnabile distacco di Orfeo non aveva permesso al loro rapporto di spingersi oltre un traballante cameratismo basato sulla passione per il pallone, i videogiochi e la solidarietà maschile.
Ma torniamo a noi. Clizia li degnò della propria presenza, dicevamo, dopo quasi due ore; non si sedette nemmeno al loro tavolo, ma si chinò sulle ginocchia e posò gli avambracci sulla superficie in legno tra Sonia e Cristina, per poi cominciare a parlare con un indelebile sorriso sulle labbra, lo sguardo limpido che balzava allegramente da una persona all'altra: « Scusate l'attesa! Bene, vi spiego in breve che genere di coinquilina sono: sempre puntuale coi pagamenti, poco presente perché purtroppo lavoro quasi tutti i giorni; ogni due settimane torno a casa, quindi non do molto fastidio. Giovanna ha detto che le bollette sono un po' alte, quindi vi conviene ridurre al minimo i consumi, perché non ho soldi da buttare nei vostri sprechi ». E fin qui, direte, andava tutto bene, ma mano a mano che il monologo proseguiva, si poteva vedere l'ammirazione di Marco calare sempre più fino a trasformarsi in puro e semplice terrore; infatti Clizia si rivelò essere una maniaca del risparmio: era dell'idea che bisognasse ricaricare telefoni e computer sempre e solo in facoltà invece che incrementare le loro bollette, eliminare la spesa per l'ADSL – inutile, a sentire lei, quando si poteva sfruttare il wifi dell'università–, tenere le luci domestiche spente prima delle otto di sera, fare lavatrici solo durante la notte, utilizzare piatti, bicchieri e tovaglioli solo in carta e plastica, per diminuire l'utilizzo dell'acqua; addirittura propose qualcosa che suonava come “razionare la carta igienica”, ma Marco cercò di convincersi di aver sentito male. « Quindi chiaramente niente televisione né videogiochi o radio. Se c'è un telefono fisso io consiglierei di disinstallarlo e affidarci solo ai cellulari, in questo modo sarebbe più facile dividere le spese. Oppure potete lasciare tutto come sta, ma senza contarmi nella divisione delle bollette, perché, insomma, io non sarò quasi mai in casa, quindi sarebbe ingiusto se dovessi pagare per voi, no? »
Orfeo inarcò un sopracciglio senza scomporsi più di tanto. « Quindi, secondo te, dovremmo essere noi a farlo per te? »
Clizia a quel punto rise di cuore, con gli occhi chiusi e la testa leggermente piegata all'indietro. « No, certo che no, devo essermi spiegata male ».
Marco tirò un silenzioso sospiro di sollievo: ah, ecco, gli sembrava che fosse tutto troppo assurdo per essere vero. Si trattava di certo di uno scherzo.
« Pagherò la mia parte, ma calcolata esclusivamente sui miei consumi, non per divisione del totale ».
A Orfeo sfuggì una risatina di scherno: « E come pensi di calcolarla, scusa? »
Prima che Clizia potesse dare una risposta – e, al di là di ogni aspettativa, sembrava davvero averne una –, Cristina la interruppe: « Ho anch'io una proposta: perché non teniamo il riscaldamento spento tutto l'inverno? Tanto basta indossare un maglione o due per mantenersi caldi ».
Sonia sospirò, affondando la testa tra le braccia incrociate sul tavolo. « O potremmo bruciare le dita che ci cadono durante la notte » mormorò, facendo ridere Marco, l'unico a sentirla.
Clizia sorrise raggiante rivolgendosi a Cristina: « Stavo per suggerirlo io! » esultò, entusiasta di aver trovato qualcuno che comprendeva il proprio punto di vista.
« Idea geniale, davvero » continuò l'altra con falsa gentilezza; « lascia che ti suggerisca ancora una cosa » aggiunse e, mentre parlava, si mise alla ricerca di una penna all'interno della borsa; una volta fatta scattare la molla, prese un tovagliolino e ci scrisse su qualcosa. « Ecco qui, questo è il numero di mio zio. È psichiatra, secondo me dovreste incontrarvi ».
Così, mentre Cristina guardava Clizia con estrema serietà, lei boccheggiava oltraggiata e Marco si accasciava sulla sedia in preda ad un forte attacco di risate, Sonia prese un respiro profondo e si alzò in piedi: « Bene, è ora di andare a casa! » annunciò, il tono di voce leggermente acuto per l'imbarazzo. « Ti faremo sapere al più presto! »
 
Naturalmente, non le fecero sapere un bel niente: anche il nome di Clizia venne prontamente cancellato dalla lista, mentre Orfeo commentava: « Sono proprio amiche di Vanna: una più disagiata dell'altra. La prossima chi sarà, la figlia di Hitler? »
« No » rispose Sonia, scorrendo la lista con l'indice: « la prossima è... Francesca».
 
Incontrarono Francesca qualche giorno dopo al 3b di via Marconi; lei si presentò in ritardo di quaranta minuti all'appuntamento, scusandosi in marcato accento pugliese ed inciampando nelle scarpe di Sonia all'entrata. Una caschetto scompigliato di capelli tinti di biondo, guance tonde e morbide, grandi occhi scuri e un vestito a fiori; non appena la vide, Cristina borbottò un « Questa mi sta già sulle scatole » che la fece scoppiare a ridere.
Per lo meno, si dissero, la nuova arrivata sembrava in grado di sopportare l'acidità di Cristina.
Francesca, ridendo e inciampando, parlò loro brevemente di sé: vent'anni appena compiuti, famiglia numerosa, proveniente dalla provincia di Foggia, cucinava tanto, rompeva qualunque cosa toccasse, ma, a detta sua, era una persona con cui era semplice andare d'accordo. « O almeno così dicono. A parte cucinare non so fare nulla, ma imparo abbastanza in fretta ».
Cristina sbadigliò vistosamente, lasciando che i riccioli scuri le cadessero sul viso. « Non so se mi deprime più quell'abbastanza o il fatto che sembri davvero goffa come dici di essere » commentò.
Francesca rise e Marco, entusiasta della sua allegria, con lei. « Ma, senti un po', da dov'è che vieni? »
A quella domanda la ragazza arrossì e ridacchiò. « Provincia di Foggia ».
L'impressione che ci fosse qualcosa di interessante da scoprire a riguardo spinse il nostro Marco a insistere ulteriormente: « Sì, ma dove di preciso? »
« Ehm ». Lei prese tempo e ridacchiò di nuovo, prima di decidersi a dare una risposta: « Troia ».
C'è bisogno di specificare che Marco scoppiò in una fragorosa risata con tanto di lacrime agli occhi? La vita diventava così bella quando, senza alcun preavviso, le sue aspettativa si avveravano. Rise, rise, rise tanto sotto le sguardo di rimprovero delle coinquiline e quello imbarazzato di Francesca – mentre Orfeo, be', come al solito era troppo concentrato sul cellulare per farsi coinvolgere da ciò che gli succedeva intorno.
« Sei un deficiente » lo rimproverò Cristina in tono piatto; « non c'è assolutamente nulla da ridere. Se si chiamasse Elena sarebbe divertente, ma non è questo il caso » specificò con un briciolo di disappunto.
Quell'osservazione, comunque, non fece che amplificare il divertimento di Marco sulla questione: « Elena di Troia! » boccheggiò tra le risa, per poi accasciarsi definitivamente sul tavolo con la testa tra le braccia, le spalle scosse da singhiozzi incontrollabili.
Sonia a quel punto si sentì in dovere di prendere in mano la situazione, in quanto membro più anziano della compagnia. « Scusalo » disse, mentre si torturava imbarazzata le mani strette in grembo. « A volte la sua età mentale scende pericolosamente verso il sei ».
« Di norma si mantiene sull'otto, invece » si premurò di specificare Cristina – non che le interessasse rassicurare la loro ospite, sia chiaro: parlava per il puro gusto di infierire su “quel deficiente di Federzoni”.
Francesca scrollò le spalle e ridacchiò tranquilla. « Oh, non c'è da preoccuparsi! Sono abituata a reazioni del genere. La mia città non ha un bel nome ».
« Già, » anche Sonia sghignazzò, nonostante trovasse il tutto molto più imbarazzante che divertente: perché una volta tanto qualcuno di loro non poteva comportarsi da persona normale? Mentre ci pensava, lo sguardo le cadde sulla caffettiera poggiata in posizione di spicco sopra una scatola di biscotti – chissà da chi – e pensò che forse era il caso di mostrarsi un po' più ospitale del resto dei coinquilini. Dunque: « Vuoi dell'altro caffè? Ecco, te lo vers- »
« Oh, no, no, grazie! » Francesca le sorrise raggiante e la precedette nelle mosse afferrando la caffettiera per prima; « faccio da sola. È molto buono il vostro caff- », ma non fece tempo a concludere la frase, perché, Dio solo sapeva come, rovesciò la tazza ancora vuota e, nel tentativo di evitare che quella rotolasse sul pavimento, vi lanciò...
« Maurice! »
Marco si tuffò sul pavimento e la raccolse con la cura e il pathos che una madre ansiosa avrebbe riservato al proprio figlio piccolo; ne esaminò ogni lato, senza curarsi della pozza di caffè ad un passo da lui, e quasi scoppiò a piangere quando si accorse di una piccola ammaccatura un po' scorticata sulla base. « Maurice! » ripeté in tono ferito; « cosa ti è successo... »
Di fronte a quella – melodrammatica – scena, Francesca si alzò in piedi di scatto, mortificata: « Oh mio Dio! Mi dispiace moltissimo! » gridò. Di nuovo, in una combinazione di movimenti che nessuno riuscì a percepire, urtò con la gambe la sedia, la quale cadde, trascinata dalla pesante borsa appesa allo schienale, urtando la testa di Marco prima del pavimento.
« Ahia! »
« Oh mio Dio, mi dispiace così tanto! »
« Non preoccuparti, Francesca, è Marco che... »
« No, dai, ragazzi: questo contratto non s'ha da fare ».
 
Dopo che diverse linee furono tracciate sul nome di Francesca assieme ad un piccolo appunto – “Per la salute psicofisica di Marco!!!”, scritto nella grafia piccola e disordinata dello stesso –, si provvide a telefonare all'ultima candidata sulla lista lasciata da Giovanna.
« Ve lo dico già da ora » comunicò Orfeo con fare svogliato, pigramente disteso sul piccolo divano dell'altrettanto piccolo salotto, mentre attendevano che la nuova ospite si presentasse all'appuntamento: « non si salva nemmeno questo. Io lo so, me lo sento ».
« Ah, te lo senti? » bofonchiò Marco contrariato, massaggiandosi il lato della testa su cui era cresciuto un appena accennato bernoccolo; « Bravo, pensaci tu, ché la scorsa l'ho sentita io bella forte ».
« Che palle », Cristina sbuffò invece, sfogliando nervosamente il quaderno degli appunti di Linguistica seduta al tavolo della cucina; « speriamo che questa sia quella buona, al contrario. Non ne posso più di perdere tempo per incontrare una sfigata dopo l'altra, ho un sacco di cose da fare ».
Sonia sospirò; sperare in un comportamento migliore del solito da parte dei coinquilini era del tutto inutile, ormai l'aveva capito, non le rimaneva che augurarsi che quell'ultima candidata fosse quella giusta. Perché, al di là dello stress causato dai tentativi di riunire, accontentare e tenere sotto controllo quei tre, Cristina aveva ragione: c'erano lezioni da frequentare, esami da preparare, tesi da scrivere e di certo nessuno di loro aveva voglia di trascorrere il resto del semestre alla ricerca di una coinquilina decente. Ognuna di quelle che avevano già conosciuto si era rivelata una compagnia non proprio ideale per loro, ad eccezione forse di Francesca, a cui però Marco si era opposto con fermezza e più di un'ora di intense e inarrestabili lamentele. Così, per quanto a Sonia quella ragazza piacesse, quando anche Cristina convenne che una persona così goffa sarebbe stata meglio evitarla, si convinse a rinunciare anche a lei. Dunque non rimaneva che l'ultima.
« Come avete detto che si chiama? »
« Enrica ».
« Che nome di merda ».
« Marco, ti imploro, non cominciare ».
« Ma è vero! »
« È il nome della tua ex, vero? »
« Una delle tante, Dalle. Quella psicopatica ».
« ...una delle tante psicopatiche, vuoi dire ».
« Sì, forse. Merda, e se fosse proprio lei? »
« Oh Cristo ».
Fu proprio in quel momento che suonò il campanello e tutti trattennero il fiato. Il momento delle supposizioni era appena finito, finalmente avrebbero incontrato l'ultima candidata sulla lista lasciata loro da Giovanna.
« Tadadadann ».
« Merda ».
« Chi va ad aprire? »
Toccò alla stessa persona che pose la domanda, ovviamente, l'unica che si dimostrava seriamente interessata alla ricerca di una coinquilina: Sonia.
Enrica era puntuale come un orologio svizzero, alta, bruna e imbronciata; aveva i capelli neri raccolti in una lunga treccia e tutte le proprie valigie con sé.
« No, scusa, devi aver capito male » intervenne Cristina non appena se ne accorse, piombando nell'uscio dai meandri della cucina: « sei qui solo per un colloquio ». Ci mancava solo che la nuova arrivate si stanziasse a casa loro senza permesso. Ma una normale, una normale l'avrebbero mai incontrata?
La ragazza fece scorrere lo sguardo da Sonia a lei, poi sulle proprie valigie. « Oh » disse solo, dopo aver battuto le palpebre diverse volte. « Errore mio ».
Ma riassumiamo la questione: messa momentaneamente da parte la piccola incomprensione del trasferimento immediato, capirono subito che Enrica non era un tipo di molte parole. Rimase in silenzio ad ascoltare i battibecchi di Cristina e Marco, le spiegazioni che Sonia cercava di fornirle riguardo ai regolamenti della casa e alla loro routine; rispose lapidariamente alle domande che le furono poste, non soddisfò i tentativi di Marco di suscitare in lei una reazione un po' più vitale della silenziosa impassibilità con cui si era presentata e, quando ormai nessuno di loro sapeva più cosa dirle, parlò: « Posso far uscire Geronimo? Non gli piace rimanere chiuso in borsa a lungo ».
Un brivido percorse la schiena di Cristina, che nonostante non avesse la minima idea di cosa Enrica stesse parlando, aveva una bruttissima sensazione. Fino a quel momento tutto era andato nel migliore dei modi, se non si contava la naturale idiozia di Marco: Enrica aveva orari di studio e abitudini perfettamente compatibili con le loro, sembrava essere abbastanza sveglia da non creare problemi, tranquilla anche e non aveva l'aria di essere una persona particolarmente pigra. Eppure aveva un brutto presentimento. « Geronimo? »
« Oddio » sussurrò Marco ad Orfeo, un po' troppo forte per non essere udito; « ha un amico immaginario ».
Enrica lo ignorò totalmente; in tutta risposta alla domanda di Cristina, invece, si alzò sorridendo dalla sedia della cucina per avvicinarsi ad una delle borse che aveva portato con sé, fece scorrere la zip e poi ne estrasse quello che sembrava un innocuo cubo di vetro.
Nel momento stesso in cui lo posò al centro del tavolo, quattro paia di occhi si sgranarono e quattro cuori persero un battito: una ammasso nero e peloso, grosso quanto un pugno di Orfeo si muoveva pigramente sul fondo della teca a cui Enrica sorrideva orgogliosa: otto zampe, due minacciose tenaglie e troppi occhietti lucidi a fissarli. Con mano esperta la ragazza fece per aprire la gabbia per presentare il suo caro Geronimo ai ragazzi, ma le grida imploranti di Marco, sbiancato in viso, la spaventarono al punto di fermarla: « FRANCESCA! Prendiamo Francesca, vi prego, Francesca, Francesca va benissimo! »
 
E Francesca fu.

 
Buongiorno! Questo capitolo, arrivato dopo un po' più tempo del previsto (da me, almeno), è stato scritto in due momenti molto diversi, ma non saprei dire se si nota o meno. La prima parte è stata preparata e poi leggermente modificata quasi un mese fa, la seconda (quella degli ultimi tre incontri) è fresca fresca di ieri sera/questa notte. 
Qui ci focalizziamo un po' di più Cristina, dopo aver conosciuto meglio Giovanna nello scorso capitolo, e spero che si riesca a comprendere un po' di più il suo solito atteggiamento di superiorità. Non è che sia cattiva, insomma, è solo determinata e profondamente individualista. Ha anche lei i suoi problemi, come un po' tutti, ma questo lo vedremo più avanti. 
Che ne pensate delle aspiranti coinquiline? Ho cercato di descrivere le quattro situazioni in maniera leggera e il più possibile simpatica -- spesso con l'aiuto di Marco, bless him--, quindi mi auguro di essere riuscita a non annoiarvi. Ho provato a trovare quattro persone fondamentalmente diverse tra loro, ognuna con i suoi difetti, ma ho come l'impressione di aver raggiunto un nuovo livello di estrema banalità... ma shush, shush, smetto di parlarne prima di diventare una lagna (ho sempre avuto qualche problema d'originalità). Ma ho una domanda: l'avevate intuito fin da subito che sarebbe stata Francesca la nuova recluta? Sì, vero? Immaginavo. XD
Ne approfitto per ringraziare Francesco, anche se probabilmente non leggerà mai, per avermi aiutato nella scelta delle caratteristiche di Enrica.
Piccola curiosità: ho davvero sentito parlare di gente che per risparmiare razionava la carta igienica, usandone solo un rettangolino per... asciugarsi. Dettaglio che non vi interessava, ma la cosa mi fa ridere. Ah, piccola precisazione: se qualcuno di voi lo fa, non sentitevi offesi, ma personalmente lo troverei molto scomodo. XD
Piccola precisazione #2: non sono una sostenitrice dei pregiudizi; non so se qualcuno di voi s'è sentito offeso nel sapere che Riccardo è siciliano ed eccessivamente possessivo nei confronti di Cristina. Ecco, volevo specificare che le due caratteristiche sono state associate casualmente: quel personaggio avrebbe dovuto avere quel determinato carattere fin dall'inizio, il fatto che sia anche palermitano è capitato perché nel mio periodo di fissazione con l'accento siciliano lui è stato il primo personaggio a cui non avevo assegnato una provenienza a capitarmi sotto tiro. Giusto per chiarire, magari non ce n'era nemmeno bisogno, ma sono paraculo inside. 
Ho già scritto tantissimo, quindi me ne vado in fretta!
Ringrazio tutti quelli che stanno leggendo e continuano a darmi fiducia, spero di continuare a meritarla! ♥

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Capitolo 4
*** Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate ***


The Flat



IV. Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate

 
Il trasferimento di Francesca fu preannunciato da un timido sole mattutino, che illuminando le strade di una Urbino invernale donava loro un po' di allegria per la prima volta dopo quasi un mese. Al 3b di via Marconi erano quasi tutti concordi sul fatto che si trattasse di un buon presagio per la nuova convivenza, tutti a parte Marco, che, ancora sconvolto dal primo incontro con la ragazza, continuava a borbottare l'imminente caduta di un fulmine a ciel sereno che lo avrebbe colpito in pieno.
Di fatto non aveva proprio tutti i torti: fu lui ad aprire la porta quando alle cinque del pomeriggio si presentò all'appartamento e fu lui a beccarsi su un piede il trolley di Francesca quando lei, inciampando di nuovo nelle scarpe di Sonia all'entrata, lo fece cadere.
« Ve l'avevo detto » sibilava Marco contrariato non più di dieci minuti dopo, mentre con eccessiva perizia si fasciava il piede ormai non più dolorante usando una sciarpa del Milan; « questa mi uccide entro la fine del semestre ».
« Non vedo l'ora! » commentò Cristina con un sorriso allegro; poi chiuse il libro che stava cercando di studiare in cucina e scivolò in camera proprio sotto lo sguardo imbronciato di Marco. Con l'allontanarsi di Cristina, si trovava solo e fisicamente infortunato: era ingiusto che nessuno si prendesse cura di lui nel momento del bisogno. L'Anticristina era sparita non appena lui aveva cominciato a lamentarsi, Cicciobello era in camera con la sua nuova compagna di stanza per aiutarla a sistemarsi e Dalle era di nuovo sparito nel nulla senza avvisare nessuno. Non che si aspettasse di conoscere tutti i suoi affari personali, certo che no – se non altro perché Orfeo non glielo permetteva –, ma si sentiva sempre un po' abbandonato quando l'altro uomo di casa lo lasciava solo nelle grinfie di tutte quelle femmine. Si sentiva in minoranza e indifeso, un po' più del solito.
E si annoiava, soprattutto. Cosa poteva fare quando nessuno – nessuno – era nei paraggi? Non avrebbe fatto ridere nessuno con le proprie idiozie e non aveva un compagno di videogiochi. Anche se forse avrebbe potuto approfittare dell'assenza di Orfeo vincere qualche partita e guadagnare punti – barando, okay, ma in qualche modo doveva pur sopravvivere alle continue sconfitte che gli venivano inferte! Magari lo avrebbe fatto, più tardi però. Una volta annodato un bel fiocco voluminoso come chiusura della sua fasciatura improvvisata, si decise ad alzarsi e a preparare il caffè: Maurice II, infortunata proprio come lui, sembrava essere la sua unica gioia al momento.
Nella camera doppia dell'appartamento, intanto, Sonia aveva capito che si erano liberati di una ragazza logorroica solo per accoglierne un'altra e doveva ammettere che la cosa non le dispiaceva nemmeno un po': era come se lo pseudo-equilibrio a cui erano abituati, almeno in questo frangente, si fosse ristabilito.
Francesca tuttavia era evidentemente molto più solare di Vanna, lo si poteva evincere anche solo dai vestiti che, canticchiando e chiacchierando, stava estraendo dalle valigie perché fossero riposti nell'armadio con l'aiuto volontario di Sonia: abiti a fiori, camicette a fiori, gonne a fiori, magliette a fiori... e tutti gli indumenti non fiorati sfoggiavano tinte accese – giallo, rosso, verde chiaro, rosa...
Dopo aver riposto i vestiti cominciò a svuotare gli scatoloni dei suoi effetti personali: riempì un intero scaffale di piante grasse tutte diverse, accoccolate in vasetti colorati – alcuni tenuti insieme dal nastro adesivo – e rese riconoscibili da etichette con su scritto il nome della specie e quello di battesimo donato loro da Francesca. Prima di passare al borsone successivo, si premurò di nominarle a Sonia una per una, mostrando un tenero orgoglio per quel suo vivaio.
Il passo successivo fu la sistemazione di penne, pennarelli, evidenziatori e post it, tutti dai colori più svariati, sulla scrivania assieme ad un montagna – letteralmente – di quaderni, blocchi e libri di testo, che Sonia si chiese come avesse fatto a trasportare in giro per Urbino senza rotolare giù per qualche discesa.
Infine, dopo aver rifatto il letto con l'aiuto della compagna di stanza, Francesca appiccicò alle ante dell'armadio un poster di Kit Harington – con intima approvazione di Sonia – e le due estremità di un lungo spago a cui erano appese svariate polaroid che la ritraevano assieme ai suoi più cari affetti. Francesca indugiò qualche istante, accarezzando con lo sguardo e un sorriso nostalgico alcune delle figure nelle foto, poi si voltò a sorridere raggiante alla nuova compagna di stanza: « Finito! » esclamò allegramente.
L'altra sorrise di riflesso al suo entusiasmo, poi notò un borsone che ancora non avevano svuotato e lo indicò: « E quello? », in fondo aveva già intuito a che livello giungesse la sua sbadataggine.
Francesca tuttavia scosse il capo, mentre già si gettava sul letto e abbracciava l'enorme pupazzo di Winnie Pooh che aveva portato con sé da casa: « Quello mi serve, domani mattina parto e torno a casa » spiegò; « non vedo il mio ragazzo da quasi due mesi, fino ad ora non siamo mai riusciti a coordinarci. Lui studia a Bari ».
Il sorriso di Sonia si addolcì; capiva fin troppo bene come doveva sentirsi Francesca: vivere lontano dalle persone che più amava era ormai un'abitudine per lei, dopo cinque anni di studi fuori sede, ma per una ragazza che aveva appena iniziato l'università la nostalgia doveva essere ben difficile da gestire. Non che per lei fosse particolarmente facile: ancora non era in grado di stare sola con se stessa, nonostante i mesi di allenamento.
« Come mai studi così lontano da casa? » le venne automatico chiedere, mentre si sedeva ai piedi del proprio letto.
Francesca strinse le labbra in un sorrisetto e inarcò le sopracciglia accennando una stretta di spalle: « Informatica Applicata non sta in molte altre città » disse; dopodiché, senza accorgersi dell'improvvisa caduta della mascella di Sonia, balzò a sedere e gettò l'orsetto di nuovo accanto al cuscino. « Ho fame, facciamo una torta? » propose e trotterellò fuori dalla camera senza aspettare una risposta.
Sonia rimase seduta sul plaid con gli occhi sgranati e la bocca spalancata, sconvolta dalla nuova scoperta: Informatica Applicata! Tra tutte le opzioni che si era data quando aveva sentito Orfeo e Marco scommettere sulla facoltà che pensavano Francesca frequentasse non le era nemmeno passato per la mente che la risposta potesse essere quella. Tutti ci si aspettava da una ragazza così goffa e apparentemente sempliciotta fuorché che fosse un cervellotico genio dell'informatica! Tutto d'un tratto non vedeva l'ora di informare i coinquilini che entrambi avevano torto e i dieci euro in palio sarebbero finiti nel barattolo della cassa comune – le loro espressioni sarebbero state di certo impagabili.
Si alzò dal letto, mentre già le lamentele di Marco riguardo all'invasione di campo di Francesca si facevano sentire fin dall'altro capo della casa, ma prima di uscire e raggiungerli pensò bene di spostare il computer della sua compagna di stanza dalla cima di una pila pericolante di libri ad una posizione più sicura al centro della scrivania.
Era confortante sapere di non essere più sola lì dentro, l'esplosione di colori portata dagli effetti personali di Francesca dava un'aria molto più vitale e serena alla camera e Sonia sentiva che la convivenza sarebbe stata piacevole. Era fiduciosa. Come si poteva non andare d'accordo con una persona solare come Francesca?
 
All'ora di cena, per la prima volta dopo giorni di take away e cibo spazzatura in isolamento, finalmente tutti i coinquilini si ritrovarono seduti attorno allo stesso tavolo con un piatto di pasta al sugo davanti e un torta al cioccolato ancora calda ad aspettarli.
Mentre Francesca ciarlava allegramente raccontando loro la propria settimana, Marco aveva tutta l'aria di qualcuno che, nonostante i precedenti, era disposto a perdonare la sua aguzzina: « A quanto pare ora abbiamo una donna che sa fare il proprio lavoro in casa! » esclamò a bocca piena, masticando una forchettata esageratamente grande di pasta.
Mentre Sonia alzava gli occhi al cielo e la diretta interessata rideva, a lui andò di traverso il boccone e si ritrovò a tossire piegato in due sul tavolo, il volto arrossato e le lacrime agli occhi. Grazie ai (violenti) colpi che Orfeo si degnò si picchiargli sulla schiena, Marco riuscì a liberare le vie respiratorie e a riprendere fiato dopo aver sfiorato la morte per soffocamento.
« Sai che cos'è questo? » lo stuzzicò Sonia ridendo sotto i baffi.
« Il karma? » Il tono piatto e disinteressato di Cristina emerse dal volume di studio che si era portata a tavola, senza che però il suo sguardo si spostasse dal testo.
« L'ennesimo tentativo di Francesca di Troia di uccidermi? » suggerì Marco, fulminando una dopo l'altra tutte le ragazze al tavolo. La sua disposizione al perdono era appena svanita nel nulla, veloce come il profumo della torta l'aveva evocata qualche ora prima.
« Il fantasma di Vanna che ti punisce per il tuo commento misogino e maschilista » fu la risposta di Sonia, accolta da un sogghigno compiaciuto di Orfeo, che prese ad annuire come a dirsi d'accordo.
Marco ci provò a non ridere, ma ogni suo tentativo di darsi un contegno fu vano: scoppiò in una risata incontrollata e vagamente isterica che coinvolse, senza che nemmeno lei sapesse il perché, anche Francesca e poi Sonia, che si accasciò accanto al piatto con la testa fra le braccia e le lacrime agli occhi, mentre nella sua testa prendeva forma l'immagine di una Giovanna fatiscente che, braccia incrociate ed espressione contrita, giudicava aspramente la misoginia (ironica) del coinquilino.
E con quel momento di quotidiana scemenza per Sonia inizava ufficialmente la nuova avventura al 3b di via Marconi. La solitudine era durata poco, grazie al cielo, e sapere il letto accanto al proprio non più vuoto, sentire Marco e Francesca ridere con lei, vedere il sogghigno divertito di Orfeo e intuire il sorrisetto nascosto dietro il libro di Cristina non faceva che aumentare le sue speranze per una serena convivenza. Nonostante le scenate di Marco e l'iniziale mancanza di confidenza, infatti, l'estroversione di Francesca lasciava presagire un'atmosfera molto più rilassata rispetto a quella che aveva portato con sé Giovanna. Forse questa nuova squadra, si diceva, avrebbe funzionato meglio della precedente, magari addirittura bene.
 
Il venerdì al 3b di via Marconi, come forse in ogni altro appartamento universitario, era sempre stata giornata di partenze.
Cristina usciva dalla facoltà alle quindici e quarantacinque, correva a casa a sistemare gli ultimi oggetti nella valigia e poi si fiondava a prendere il pullman che l'avrebbe riportata a Pesaro. Dopo di lei, di solito, era Vanna a lasciare l'appartamento, ma non prima di aver nascosto il barattolo della cassa comune e raccomandato a chi trovava in giro per casa di spegnere il gas prima di andare a dormire, di chiudere a doppia mandata il portoncino all'ingresso e di non portare a casa sconosciuti.
Orfeo, invece, era sempre un'ingognita. C'erano venerdì in cui Marco lo aspettava per andare a lezione insieme ma scopriva che se n'era già andato, altri in cui lo vedeva sparire a metà mattinata o durante la pausa a pranzo; certe volte partiva il giovedì sera saltando direttamente le lezioni del venerdì o ancora aspettava il sabato mattina per trascorrere una serata fuori con i compagni di facoltà.
Quel venerdì, poi, scoprirono che Francesca aveva l'abitudine di svegliarsi prestissimo per arrivare a Pesaro prima delle sette. Lo scoprirono quando alle cinque e mezza la sentirono cantare sotto la doccia e alle sei e cinque litigare in dialetto foggiano col portoncino all'ingresso finché Cristina non l'aveva raggiunta imprecando ad alta voce: « Non si apre, mia gioviale cerebrolesa, perché devi girare la chiave due volte e non una! »
Come di routine, quindi, nel weekend all'appartamento rimanevano solo Marco e Sonia. Il primo perché rimandava il ritorno a casa il più possibile ogni volta, angosciato dagli interrogatori e dai tentativi materni di riportarlo stabilmente in patria che lo aspettavano una volta messo piede a Bologna; la seconda perché, per motivi a nessuno ben chiari, preferiva tornare a Cremona non più spesso di una volta al mese.
Il venerdì trascorreva sempre piuttosto in fretta tra lezioni, saluti, sessioni di studio e uscite con gli amici, poi il sabato mattina al tavolo della colazione, intorno a mezzogiorno, si trovavano loro due soli a quattrocchi, a fare i conti con le occhiaie e il mal di testa post sbronza e post nottata di studio.
Nemmeno nelle tempie che pulsavano di dolore Marco trovava un buon motivo per tenere la bocca chiusa, quindi cominciava a parlare, parlare, parlare di tutto quello che aveva combinato la sera prima – o almeno della parte che ricordava – mentre Sonia lo ascoltava solo a metà, la mente costantemente attirata verso il capitolo che aveva lasciato in sospeso quando si era addormentata alla scrivania.
« Oh, e indovina chi ho visto? » le domandò Marco con entusiasmo, prima di mordere una fetta della torta che aveva preparato Francesca il giorno prima – perché in fondo il suo odio non era abbastanza forte da indurlo a boicottare quella meraviglia di dolce.
Sonia gli diede a malapena un'occhiata per dimostrare che lo stava ascoltando, esageratamente stanca per una che aveva dormito comunque una decina d'ore.
« Clizia! » gioì lui, sputacchiando briciole sulla tavola; « Mamma mia, ha un culo canta! »
La ragazza sbadigliò, troppo pigra anche solo per versarsi altro caffè nella tazza; certe volte riteneva una vera e proprio fortuna che Marco fosse così ossessionato dalla caffettiera da far sì che ce ne fosse pronto abbastanza per tutti a qualunque ora del giorno, altrimenti dubitava che lei avrebbe mai avuto voglia di prepararlo da sé. Mugugnò di falso interesse in tutta risposta, mentre lui continuava: « Penso che prima o poi le chiederò di uscire. Non posso lasciarmi sfuggire una figa del genere ».
Sonia annuì, poi si decise a versarsi il caffè prevedendo una lunga giornata di studio.
« Dici che ho qualche speranza? »
« Uhm » mormorò lei incerta: qual era la domanda?
« Che palle, odio il tuo pessimismo. Sai una cosa? Credo che il problema siate voi. Voglio dire, le uniche ragazze che pensano che io sia uno sfigato sono quelle con cui convivo. Forse siete voi ad avere poca fiducia in me, di solito alle altre piaccio ».
O forse, lo corresse Sonia mentalmente, alle sconosciute piaceva perché non lo conoscevano per l'infantile che era; però decise di non scoraggiarlo: « Se paghi tu, Clizia accetterà qualunque cosa ».
Marco rise, apprezzando quel commento pungente: « Vero. Però per un corpo del genere sono disposto anche a pagare ».
Sonia alzò gli occhi al cielo.
« Oh, avanti! – protestò lui appena si rese conto dell'ambiguità della propria frase, fraintendendo il gesto della ragazza; – Non le stavo dando della prostituta ».
L'altra scosse il capo e ridacchiò; la promiscuità di Marco e la naturalezza con cui ogni weekend le raccontava le sue avventure l'avevano sempre messa un po' a disagio, per cui si affrettò a cambiare discorso prima che cominciasse a descrivere qualche scena che proprio non le interessava. « Hai sentito Francesca ieri mattina? »
Lui sbuffò; « scusa, ma chi non l'ha sentita? Se non mi avesse preceduto l'Anticristina l'avrei buttata fuori io a calci ».
Sonia alzò di nuovo gli occhi al soffitto, ridacchiando. « Io, – confessò; – io non l'ho sentita. Ha fatto molto rumore? » Aveva sempre avuto un sonno molto pesante, l'unico suono in grado di destarla era l'allarme della sveglia, rumore che esercitava su di lei una suggestione tale da costringerla a volte ad alzarsi prima che suonasse. Non esisteva niente al mondo, probabilmente, che lei odiasse più della propria sveglia e forse era questo il motivo per cui il suo orecchio risultava tanto sensibile ad essa ed ad essa soltanto.
Il pugno di Marco si abbatté con immotivata foga sul tavolo: « Ma come fai!? » sbottò contrariato; « Vorrei dormire io così bene, cazzo ».
« Non mi risulta che tu soffra d'insonnia » osservò lei in tono gentile, come a consolarlo per quella piccola delusione.
Lui si imbronciò comunque, gli occhi ridotti a due fessure rabbiose. « Sì, però devo essere una calamita per i casini che combina quella ».
Sonia evitò di fargli notare che difficilmente qualcuno sarebbe mai riuscito a sottrargli il ruolo di combinaguai della casa. « In realtà è simpatica, è solo un po' goffa ».
« Si vede lontano un miglio che è una cretina, altro che simpatica. Però ha delle belle tette ».
Ovviamente. « Oh, stupida non è. Sai cosa studia? »
« Scienze delle merendine? »
« Informatica Applicata ».
Un silenzio denso di incredulità cadde su di loro, mentre Marco fissava Sonia con un misto di aspettativa e scetticismo. « Stai scherzando ».
« No, giuro ».
A quel punto lui spinse all'indietro la sedia con foga, facendola stridere contro il pavimento. « Che palle! Ho perso la scommessa! »
« Già ».
« Potremmo non dirlo ad Orfeo, no? »
« No ».
« Eddai, So! Che ti costa? »
« Sono un giudice imparziale, barare non è- »
« Che palle che sei. Non ti farò più fare l'arbirtro ».
« Lo dici ogni volta ».
« Questa volta davvero! »
Sonia scoppiò a ridere, divertita dal broncio contrariato dell'altro. Bisticciare con lui era sempre divertente, ma lo diveniva ancora di più quando erano soli e Marco non sentiva il bisogno di nascondersi dietro una patina di distacco e arroganza per farsi grosso agli occhi degli altri – atteggiamento che, comunque, non aveva mai impressionato nessuno.
Marco le fece una linguaccia, per poi riavvicinare la sedia al tavolo e tagliarsi un'altra fetta di torta. « Comunque questo conferma la mia teoria » decretò, la fronte corrugata di serietà.
« Quale teoria? » domandò lei curiosa, ma già sicura della totale infondatezza di ciò che stava per sentire.
« Se studia Informatica Appagata significa che è intelligente, no? »
« Applicata, Marco: Informatica Applicata ».
« Sì, quello. Se non è stupida, significa che sta seriamente cercando di uccidermi ».
« Oh, ma ti prego! » Sonia rise scrollando il capo e si alzò in piedi. « Ne ho sentite abbastanza, torno a studiare ».
« Sì, certo, deridimi! Ma quando mi avrà ucciso “per sbaglio”, » e nel dirlo mimò le virgolette in aria, « ti sentirai in colpa e il mio fantasma verrà a tirarti i piedi! »
« Ah-ha. Paranoico » sghignazzò lei, mentre se ne andava lungo il corridoio. Prima di chiudersi la porta alle spalle fece giusto in tempo a sentirlo dire: « Che poi non ti farebbe male, se ti tirassi i piedi: magari diventeresti un po' più alta... »
 
Una volta rimasto solo, Marco si alzò in piedi e si stiracchiò pigramente, emettendo mugolii di soddisfazione, poi studiò con aria critica la tavola ingombra chiedendosi se fosse il caso di sistemare tutto oppure no. Gli bastarono pochi istanti per optare per la seconda opzione; dunque afferrò la caffettiera semivuota, la propria tazza e andò a tuffarsi sul piccolo divano sfondo nel salotto. Solo dopo che si fu sistemato lungo e steso – con le gambe che penzolavano dal ginocchio in giù al di là del bracciolo – si rese conto con un moto di disperazione che “qualche cretino” aveva lasciato il telecomando sopra il televisore. « Soooooniaaaaaaa » cominciò quindi a gridare, nella speranza che quella rispondesse alla richiesta di aiuto. La chiamò una, due, tre... sei volte, prima che una porta si aprisse e la voce flebile della ragazza dicesse: « Prenditelo da solo », poi la comunicazione fu interrotta da uno “stoc” e un “clang” di serratura chiusa.
« Che stronza » borbottò lui scontento. Si era appena disteso sul divano, di alzarsi non ne aveva alcuna voglia e costringerlo a farlo era una vera e propria violenza. Se ci fosse stata Giovanna, probabilmente a quel punto avrebbe cominciato a urlargli contro quanto fosse immaturo e viziato: come osava disturbare gli altri per un capriccio così sciocco? Lo avrebbe invitato ad alzarsi e prendere il telecomando da solo, lui l'avrebbe sfidata senza muoversi di lì e alla fine Sonia, esasperata dal loro rumoroso battibeccare, sarebbe emersa dai meandri della propria camera, gli avrebbe consegnato l'oggetto della contesa e poi sarebbe tornata a studiare. Senza Vanna, però, non c'era gusto a gridare: nessuno sarebbe accorso a litigare con lui. Per quanto fosse fastidiosa, bisognava ammettere che a volte Giovanna era divertente, anche se in maniera del tutto involontaria. Era così prevedibile che tutti loro avevano imparato a sfruttare i suoi scatti d'ira a proprio favore – tutti a parte Sonia, che era troppo pacifista per far infuriare qualcuno di proposito.
Chissà se sarebbe stato altrettanto facile raggirare Francesca a proprio piacimento. Tutto d'un tratto non vedeva l'ora che lei tornasse all'appartamento per metterla alla prova con qualche scherzo – era il genere di persona che si arrabbiava, rideva o scoppiava a piangere di fronte a un tiro mancino? Era curioso. Mise subito in moto il cervello alla ricerca di qualche giochetto da mettere in atto. Si disse che a conti fatti qualunque scherzo sarebbe stata una piccola e meritata vendetta dopo tutti i dolori che Francesca le aveva, volontariamente o meno, inferto.
Spinto da questo nuovo spirito di iniziativa, trovò la forza di alzarsi dal divano e correre in camera, dove accese il pc e cominciò a cercare spunti sul web.
Così trascorse il pomeriggio tra episodi di The Walking Dead, video comici, studio intensivo del profilo facebook di Clizia Ranieri, con conseguente svuotamento dell'ingorgo che gli aveva ristretto il cavallo dei pantaloni, e notizie deludenti dell'ultima partita della società sportiva per cui giocava prima di trasferirsi. A quel punto, del tutto dimentico dell'intento iniziale di cercare scherzi da fare a Francesca, cominciò a sentirsi solo e quindi ad annoiarsi. Avrebbe voluto poter invadere i profili facebook di Cristina e Giovanna di commenti inopportuni come un tempo, ma la prima lo aveva bloccato dopo i primi due giorni, mentre la seconda nel momento stesso in cui se n'era andata di casa. Sbuffò e spinse all'indietro la sedia, facendo stridere le gambe contro il pavimento. Maledisse la signora Nicolì per non aver fornito le stanze di poltroncine girevoli: se non fosse stata così tirchia, per lo meno a questo punto lui avrebbe potuto girare su stesso fino a vomitare lo pseudo-brunch nel cestino dei rifiuti. Ma no, questa distrazione gli era stata negata, ora non gli rimaneva che convivere con la nostalgia di casa, dei suoi compagni di squadra e... e tutto il resto. Tutto d'un tratto sentiva una strana sensazione nebbiosa opprimergli il petto dall'interno, come se fosse pieno di qualcosa di incosistente e inutile; pesante e leggero al tempo stesso, gli impediva di alzarsi dalla sedia o di divertirsi leggendo quelle stupide barzellette online che lo avevano sempre fatto ridere fino alle lacrime. Si trattava di quel senso di inutilità e dubbio che lo spingeva a mettersi in discussione, a denigrare le proprie scelte, riconoscere le sciocchezze che stava facendo giorno dopo giorno. Aveva lasciato Bologna senza un piano preciso, subito dopo aver trovato una facoltà senza test di ingresso che potesse trovare anche solo vagamente interessante, pur di allontanarsi da casa il prima possibile. E ora si trovava lì a perdere tempo davanti al computer, sprecando i soldi dei suoi genitori per affitto, bollette e rette universitarie; aveva dato un terzo degli esami che avrebbe dovuto e ancora si ostinava a rimandare il momento dello studio, ingrato e incosciente fino al midollo. Se ne era andato per sentirsi grande e ora, chiuso nella propria stanza a sprecare tempo e denaro, si rendeva conto di non essere nulla più che un bambino capriccioso e viziato.
Fu quasi senza pensarci, come tante volte prima di allora, che si trascinò fuori dalla propria stanza per bussare alla porta di Sonia. Contò mentalmente fino a cinque, tempo secondo lui ragionevolmente sufficiente per interrompere qualunque operazione in atto, poi entrò senza aspettare che lei rispondesse. La trovò a guardarlo con aria tranquilla, per nulla sorpresa, perché come al solito sembrava sapesse già che lui sarebbe arrivato. Sonia sapeva sempre tutto e questo a volte lo faceva incazzare, altre ne era grato perché rendeva innecessarie scomode spiegazioni. « La mia squadra ha perso » disse solo.
« Il Milan? »
« No, la mia squadra » ripeté, questa volta marcando il possessivo in modo che lei capisse quanto la faccenda lo riguardasse da vicino.
E Sonia capì, se non altro perché avevano già avuto quella conversazione in passato, ma indugiò ancora un attimo prima di invitarlo ad accomodarsi. Il suo sguardo si posò involontariamente sul libro di testo, trainato dal senso di colpa, poi però lei sospirò e fece cenno a Marco di entrare: c'erano cose più importanti dello studio di cui occuparsi.
Marco si tuffò sul suo letto, lei voltò la sedia per poterlo intravedere al fascio di luce della lampada da tavolo. Non fu necessario dirgli niente perché cominciasse a parlare, iniziò da solo come se nulla fosse: « Hanno bisogno di me, manca il giocatore migliore. Dovrei essere con loro » disse in tono di finta arroganza; gli riusciva difficile essere sincero all'inizio, preferiva nascondere le proprie fragilità dietro una patina di forza che piano piano andava scemando – almeno per un certo lasso di tempo.
« Oh, sono sicura che se la cavano bene anche senza nessuno che li rimbambisca di chiacchiere » commentò lei in una risatina.
Marco rise e scosse il capo. « Mica tanto: hanno perso cinque a uno, nemmeno da bambini succedeva! » esclamò indignato, poi tacque per qualche secondo. « Pensi mai di aver fatto una grandissima puttanata con l'università? »
Bam. Eccolo venire al dunque.
Sonia non rispose subito, colpita su un nervo scoperto da quella domanda. Prima della specializzazione in Storia dell'arte aveva frequentato Lettere Moderne; non era passato giorno durante il suo primo anno di università che non si fosse sentita ricordare dai genitori, in un modo o nell'altro, quanto la direzione da lei presa fosse stata sciocca: portava ad un vicolo cieco. « Pensi di averlo fatto? » gli chiese.
Marco sospirò e rotolò supino. « Non lo so. A me della pubblicità non frega niente, non mi ci vedo a fare un lavoro del genere. Mi sono rotto di studiare e sono praticamente già fuoricorso ».
« Se il problema sono gli esami, con un po' d'olio di gomito puoi metterti in pari. Mi duole dirlo, ma sei tutto fuorché stupido, Marco ».
« No », il suo problema non erano gli esami. Il suo problema era quella sensazione di intima inutilità cosmica che lo attanagliava ogni qual volta rimanesse da solo e si trovasse a fare i conti con ciò che stava facendo della propria vita: assolutamente niente. Trattenne uno sbuffo di insofferenza verso se stesso e nascose la testa sotto il cuscino di Sonia. Profumava di vaniglia, notò; un odore che tuttavia non aveva mai notato emanasse lei stessa. Era un odore confortante tuttavia.
La ragazza lo osservò in silenzio ancora qualche istante, prima di sussurrare la domanda che riteneva essere l'unica giusta in quel momento: « Pensi di aver scelto la facoltà sbagliata? »
La risata di Marco giunse ovattata attraverso gli strati di tessuto, poi scostò il cuscino dal viso e parlò in tono profondamente e amaramente divertito: « Io non ho scelto un bel niente, So: mi sono buttato a capofitto sulla prima possibilità che mi si è presentata ». Informazione, media e pubblicità gli era sembrata la soluzione perfetta a tutti i propri problemi: era all'interno di un altro polo universitario, ragionevolmente lontana da Bologna e sua madre non avrebbe potuto ribattere che “di certo l'Alma Mater offriva un corso di laurea simile e più soddisfaciente”, visto che tra le scelte dell'unibo quella non figurava. Era una scusa perfetta per andarsene da casa e, in più, il nome prometteva qualcosa di non troppo noioso.
Sonia rimase in silenzio nel tentativo di non giudicarlo. Era incredibilmente fiduciosa nei confronti di Marco, ecco perché era piuttosto certa che non avesse seriamente scelto la facoltà a caso – o, per lo meno, che sotto ci fosse una motivazione di qualche genere, più o meno valida che fosse. « E non c'è qualcosa che ti piacerebbe fare? » continuò in tono gentile.
« Detesto quando mi tratti come un bambino » protestò lui con una smorfia, probabilmente con l'unico obiettivo di eludere la domanda.
Non è colpa mia se ti comporti come un bambino pensò lei, ma anche questa volta tacque. Nel corso della propria vita aveva imparato che giudicare era inutile e offensivo, senza contare che in tutta probabilità lei non poteva permettersi di giudicare nessuno, visti i suoi retroscena. « Quindi? »
« Be', quante possibilità ci sono che abbia scelto quella giusta sorteggiando? » replicò lui risentito, dopo aver sospirato. Era proprio necessario infierire e fargli ammettere di aver combinato un casino? Con un gesto infantile mentre parlava cercò di coprirsi gli occhi scuri – troppo sinceri a detta sua – con qualche ciuffo di capelli mossi.
« Conosco persone che hanno trovato la propria strada in maniera del tutto casuale ».
« Perché tu frequenti i matti ».
« Eh, lo so, ne ho anche uno nel mio letto ».
Marco a quella risposta scoppiò in una fragorosa risata che fece arrossire Sonia nel momento stesso in cui intuì il doppio senso del tutto involontario; lui continuò a ridere a lungo, poi ammiccò nella sua direzione: « Che ne dici di raggiungerlo, Cicciobello? »
La ragazza inspirò a fondo roteando gli occhi ed espirò una risatina rassegnata; si alzò pigramente dalla sedia per poi prendere posto a seder ai piedi del proprio letto. Nel momento stesso in cui la distanza fisica fu ridotta e portata entro i confini della confidenza, Marco si sentì anche emotivamente più vicino a lei; così, come tante volte prima di allora, capovolse le propria posizione per poggiare la testa sulle sue gambe e chiudere gli occhi. « Grattini » fu il suo perentorio ordine, che, pronunciato in tono deciso ma soffice, attivò immediatamente la mano sinistra di Sonia: prese ad accarezzargli con leggerezza la nuca e lui si sciolse fin dal primo tocco emettendo un mugolio di profonda soddisfazione.
La ragazza fece per riprendere il discorso, ma le parole le si incastrarono in gola: pur sapendo che Marco era troppo impegnato a farsi coccolare per poter protestare, aveva la sensazione che non fosse giusto costringerlo a parlare di sé senza dargli niente in cambio – sempre che i suoi consigli potessero considerarsi nulla. A fatica, dunque, disse: « Io... ci ho pensato su a lungo, prima di prendere questa strada. Per tutta la triennale, a dire il vero. Alla fine mi sono detta che se avessi passato questi anni a studiare qualcosa che non mi piaceva sarebbero stati anni buttati, ma non così. Se non è quello che vuoi fare nella vita, perché non cambi? Non c'è nulla di vergognoso nel cambiare idea ». Lei lo avrebbe fatto senza troppi, se si fosse svegliata una mattina rendendosi conto di aver scelto il sentiero che non faceva per lei.
Lasciò vagare lo sguardo per la stanza in attesa di una risposta, mentre il silenzio regnava sovrano; erano gli unici abitanti della casa e nemmeno il solito ronzio della televisione in lontanaza faceva loro da sottofondo. Se solo non ci fosse stato Marco con lei in quel momento, Sonia probabilmente sarebbe stata presa da uno sconforto non dissimile dal suo. A conti fatti, nonostante fossero così diversi per dimensioni, colori, atteggiamento, abitudini e tanto altro, non c'era dubbio che avessero entrambi un grosso problema con lo stare soli con loro stessi.
« Quello cos'è? » Invece di rispondere, Marco allungò il braccio destro ad indicare uno degli scaffali nella parte di stanza di Francesca; nella penombra tutto ciò che si vedeva lì sopra erano sagome scure dalle linee geometriche proiettate contro la parete – cilindri, più che altro, e qualche triangolo qua e là. Persino Sonia ebbe bisogno di strizzare gli occhi per qualche istante e poi, senza essere riuscita a veder alcunché, se ne ricordò: « Ah! Sono piante grasse, quasi tutti cactus. Francesca sembra adorarli, ha dato un nome ad ognuno ».
Non vista, si lasciò sfuggire un sorriso mentre Marco rideva e borbottava qualcosa a proposito di quanto sarebbe stato bello nascondere qualche spina sulla sedia di Cristina – o nel piumone o nelle scarpe! Correva da lei ogni volta che qualcosa andava storto, ma le impediva di vedere la ferita per disinfettarla con qualche scusa; lei non era sicura del perché lo facesse, di quale fosse il senso di tutto ciò, ma accettava senza obiezioni quel periodico controsenso dal momento in cui sembrava far star bene entrambi. Non calcava la mano per farsi raccontare cose che non era pronto a rivivere e al tempo stesso gli era quasi grata dell'innato egocentrismo per cui non le veniva mai proposto di parlare di sé. Non era forse un'amicizia convenzionale la loro, Sonia non era nemmeno del tutto sicura che si trattasse di una vera amicizia, ma a loro bastava.
 
« So? »
« Dimmi ».
« Avremmo dovuto scegliere Clizia ».
« Stai scherzando? Non voleva pagare le bollette! »
« Appunto! Avremmo potuto fare la doccia in due per risparmiare! E dormire insieme per scaldarci! »
« Condivisione – che grande idea, potresti proporglielo! »
« Penso che lo farò! »
« Forse unendo i vostri cervelli ne fate uno normale ».
« Non essere gelosa, Cicciobello! Lo sai che c'è abbastanza Federzoni per tutte! »
« Oh, ce n'è fin troppo ».
Due sorrisi silenziosi si accesero nella penombra.



 


Chi mi conosce lo sa, che le mie commedie sono commedie solo in parte. Non che questo sia un capitolo particolarmente triste, ma nemmeno molto divertente, temo. Sono curiosa di sapere cosa ne pensate, davvero tanto, e spero che l'abbiate apprezzato almeno un po'. Personalmente sono molto legata al rapporto tra Marco e Sonia, non perché io abbia mai provato qualcosa di simile (fortunatamente, perché sono sempre disponibile per tutti, ma gli egocentrici che non ricambiano l'interessamento a lungo andare mi stanno stretti), ma lo trovo particolare e... forse realistico, nel totale egoismo che lo caratterizza. 
C'era un'altra cosa di cui volevo parlare... ah, già. La piccola crisi esistenziale di Marco. Non so quanti di voi studino all'università e quanti di voi abbiano mai avuto problemi del genere -- si siano sentiti fuori luogo, sulla strada sbagliata, abbiano avuto paura di cambiare o di non combinare niente. Per quello che vale, io la penso seriamente come Sonia. Non voglio dilungarmi sull'argomento, perché ci tengo molto e potrei parlarne ore (e spesso lo faccio ahaha), ma sarei felice di discuterne con chiunque ne avesse voglia (non su ask, perché l'ho disattivato, ma sul mio profilo efp trovate i miei contatti, a voi la scelta).
Okay, al momento non so che altro dire.
Vorrei ringraziare chi di voi mi segue e fare l'in bocca al lupo a tutti per gli esami, qualunque tipo di esame! ♥
Spero che il capitolo vi piaccia e di poter aggiornare presto!

PS: una mia enorme pecca è la scarsità di descrizioni fisiche, per cui mi scuso; non mi piacciono quelle troppo dettagliate (proprio mi annoiano, sia da lettrice che da """scrittrice"""), ma cercherò di inserire spunti perché possiate farvi un'idea dell'aspetto fisico dei miei personaggi. Sono contraria ai prestavolto, per cui non posso nemmeno usare questo escamotage, mi toccherà impegnarmi! xD

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