La Giostra Umana

di Vella
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -Prologo: ammasso umano. ***
Capitolo 2: *** 1° Capitolo- Cessa il tempo, cessa la vita. ***
Capitolo 3: *** 2° Capitolo- I tutori. ***
Capitolo 4: *** 3° Capitolo- La veglia nera ***



Capitolo 1
*** -Prologo: ammasso umano. ***



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Prologo: ammasso umano

C'era un bambino poco più distante da lei, aveva i capelli neri come la pece e i pantaloni larghi stracciati. Il suo viso limpido era di un'innocenza tale da lasciare impietriti i passanti. Il vento sferzava tra lui e lei, e si fermava lentamente tra i visi, scompigliando i capelli e raggelando i cuori.
Quando i suoi occhi si posarono a pochi metri da dove si trovava, Grethel non riuscì a reprimere un pensiero che l'ossessionava da svariati minuti, minuti che sembravano interminabili e facevano parte di un incubo ancora incapace di iniziare: “i bambini non hanno paura dei clown?”
Dovrebbero.
I bambini di solito piangono immersi in una valle di lacrime quando i pagliacci sono lì per lì, pronti a regalare il fiore giallo che spruzza acqua inzaccherata. Perché quindi quel bambino era immobile tra tutta quella gente? Perché ora la stava guardando con una speranza nuova negli occhi? Non vedeva le locandine appese nella stanza soffocante? No, certo che non le vedeva, lui era fermo lì fuori, su una panchina di quel parco sconosciuto e non aveva nulla a che fare con quel mondo interno in cui si era cacciata volontariamente.
Mentre abbassava lo sguardo, incapace di reggere l'altro, notò che le mani tremavano come foglie d'autunno sul punto di cadere dall'albero madre che accudisce, nutre, persevera.
Nel tendone c'era una puzza di fumo e sudore non indifferente, la gente era ammassata gli uni sugli altri e la giovane non era certa di quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che aveva fatto un passo avanti, verso i vetri blindati che emanavano una voce meccanica ed ostile.
Si guardò intorno alla ricerca di un viso familiare, di una stretta di mano, di un sorriso fatto di certezze, le stesse che mancavano a lei, ma non trovò niente, solo un turbinio di emozioni che l'illudevano e la stringevano in una morsa che non conosceva.
Un uomo di mezza età la stava scrutando a pochi passi più in là, e Grethel mantenne quello sguardo, cercando di scovare una vena di certezza, ma notò solo della perversione.
Il bambino nel frattempo aveva iniziato a correre dietro ad una scatola in alluminio ed immaginava di essere il calciatore più bravo al mondo, con il mestiere più bello al mondo, con la passione e la felicità più infinite al mondo; ma tutto ciò non era così, era ancora un'illusione, la sua illusione. Anche la mente adesso voleva giocarle qualche brutto scherzo, facendole credere che la voce gracchiante era rivolta a lei.
Ma Grethel era volava via ed era ritornata alla madre che la stava aspettando a casa e che l'aveva guardata con aria ammonitrice: “cosa hai oggi, Grethy? Perché non parli? Perché non hai fame? Perché devi uscire? Quando ritorni?”
Tutte domande a cui non sapeva rispondere, a cui preferiva non rispondere, se solo avesse cercato di spiegare a Suzanne Hale cosa stava andando a fare, probabilmente l'avrebbe rinchiusa in casa, l'avrebbe derisa e sgridata con diligenza e un amore ipocrita, come solo lei sapeva fare.
«Il prossimo!» La voce gracchiante e meccanica tuonò per la seconda volta nell'arco di pochi secondi e ciò era impossibile, Grethel si girò davanti e vide la vecchietta signora con le stampelle, fare qualche passo e appoggiarsi al davanzale del vetro.
Questo significava che da lì a pochi minuti sarebbe toccato a lei, proprio a lei, Grethel Hale in tutta la sua bellezza più trasandata, e i suoi capelli più spettinati, e le sue occhiaie non tanto belle per via del sonno perduto, e la sua insicurezza che andava crescendo, e tutto ciò non poteva accadere! Doveva mostrarsi sicura di sé, pronta all'evenienza, doveva comportarsi così come una possibile partecipante si sarebbe comportata.
Oh, ma cosa diceva adesso? Cosa sapeva fare una possibile partecipante? Buon Dio, buon Dio, le mani non tremavano più, ora sudavano incalorite e la vecchietta rispondeva con troppa fermezza e velocità.
«Mi dispiace, non può partecipare».
A Grethel mancò il fiato, fino ad adesso non aveva mai sentito nessuno esser rifiutato alle iscrizioni ch'erano semplicemente dei preliminari.
«E perché mai non potrei partecipare?» La donnetta si era fatta rossa in viso, le stampelle ondeggiavano e lo sguardo era così fermo e perentorio da poter sotterrare anche la donna meccanica.
«Per partecipare al Red Nose, signora, bisogna aver minimo tredici anni e non si può superare la soglia degli ottanta anni.»
«QUINDI IL PROBLEMA SAREBBERO I MIEI NOVANTACINQUE ANNI?» Urlò.
«Sì.»
«MAI SENTITA UNA COSA DEL GENERE, NEMMENO AI TEMPI DELLA GUERRA!»
E ci risiamo, anche quando non c'entrava assolutamente nulla, i vecchietti tiravano fuori la guerra e tutto ciò che avevano passato di tragico.
Per carità! Chi li metteva in dubbio! La guerra era sempre la guerra, ma come potevano cercare pietà? Era una tattica vecchia, e gli addetti lo sapevano fin troppo bene!
«Il prossimo!» La voce stridette e la vecchietta fu accompagnata fuori, senza troppe cerimonie.
A chi toccava adesso? Grethel non lo sapeva, non aveva il coraggio di saperlo e prima di rendersene conto, l'uomo che la succedeva, di un certo aspetto gioviale, le disse con un bell'accento marcato del sud: «Signorina, tocca a lei. Perché non si fa avanti?» Aveva maniere gentili, un po' titubante lo ringraziò con un cenno di capo e un sorriso tirato.
«Eccomi». La voce roca, appoggiò i palmi delle mani sul davanzale e girò la testa verso gli spazi aperti del tendone, dove poteva scorgere il parco.
«Nome, cognome, età, città natia.»
«Grethel... Grethel Hale...» iniziò a dire e man mano che andava avanti con le risposte, la voce assumeva vigore: «ed ho diciannove anni, natia del West Yorkshire, precisamente dalla città di Keighley». Che ansia, che batticuore, che assurda etichetta. Aveva risposto correttamente? Che ansia, che batticuore, che assurda etichetta.
«Hai intenzione di partecipare al Red Nose?»
Aveva risposto mille volte a quella domanda davanti allo specchio.
«Sì».
«Motivo?»
Ed invece aveva cercato quella risposta nei mari e negli oceani, tra i monti e le pianure, nel cielo e nel cuore, tra la speranza e la vanità dell'essere, ma fino ad allora non era riuscita ad ottenerla.
«Perché io devo cambiare». Infine osò dire.
Non voleva, non poteva, non cercava, lei doveva. Per il suo bene psicologico, per se stessa, per una vita che l'era stata rubata.
L'altoparlante tacque ed un ronzio fastidioso le penetrò nelle orecchie; se avesse potuto l'avrebbe scosso con tanta energia.
«Iscrizione effettuata».
Iscrizione effettuata.
Immediatamente l'uomo aitante dietro di lei la sospinse verso il lato e non osò porgli resistenza mentre lo guardava avvicinarsi e prendere il suo posto con impeto, un impeto che lei non aveva avuto.
Si strinse nelle spalle, faceva caldo, un caldo micidiale. Digrignò i denti.
L'uomo muoveva le labbra piene, sensuali, e scorse per l'ennesima volta, qualcosa in più.
Perché avrebbero dovuto prenderla? Perché avrebbero dovuto accettarla? Era così inutile rispetto a tanto.
Aveva la fedina penale macchiata, o quasi. Un processo ambiguo alle spalle, una vita catastrofica che a malapena si manteneva in piedi. Perché avrebbero dovuto solamente prenderla in considerazione? Grethel Hale era solo una mocciosetta che aveva sbagliato tanto nella vita, e viveva in delle allusioni, allusioni create dal suo subconscio per liberarsi da un peccato capitale.


In quegli istanti, in quei momenti di pressione incessante, dall'altra parte del mondo, in paesi che lei neanche immaginava esistessero, altre persone stavano facendo la fila diligentemente.
C'era il Giappone nella sua meticolosa integrità; e un giovane dai capelli neri era in fila con le mani nelle tasche, la testa all'aria e non aveva di certo i palmi sudati, o il viso contratto dall'agitazione. In lui c'erano certezze.
Juro si iscrisse e quando uscì dal tendone in Giappone, sapeva già di essere entrato a far parte della decima edizione del Red Nose.
In Italia c'era trambusto invece, la gente urlava, tra i tanti vetri addetti all'iscrizione, tre erano chiusi, come al solito, manco fossero in banca, o nella poste, e Margherita era sorridente come non mai.
In Norvegia, negli USA, in Francia, in Nigeria, in India...
Tutto andava secondo i piani.
I volantini esplicativi erano già stati spediti con tanto di francobollo.


Era ottobre, un ottobre fresco e passeggero, non c'era vento quel giorno, le lenzuola erano state messe nell'asciugatrice qualche ora prima, la casa profumava di fiori freschi, ancora giovani per appassire all'autunno.
I letti sfatti, la colazione ancora sul tavolo in legno, le pile di piatti nel lavabo, un chiacchiericcio mattutino che proveniva dal mondo esterno, la radio che a tratti stracciava, un cane che entrava ed usciva dalla sua porta personale affacciata sul giardino, un canarino che cantava le sue prime note, e una donna dai capelli corvini e l'aspetto trasandato seduta su un divano in pelle, con una rivista tra le mani, la faccia coperta da una maschera in fango e le unghie dei piedi pittate di un rosso color sangue di piccione.
Grethel aveva i capelli annodati, gli occhi incollati dal sonno e dalle caccole, le ciabatte di un vecchio cartone animato che aveva tanto adorato da piccolina, ed una vestaglia rosa che incuteva timore al cane.
«Buon giorno, Suzanne». Sbadigliò la giovane sedendosi al tavolo della cucina intenta a controllare la data di scadenza dei cereali di sottomarca.
Non ebbe risposta: la donna rimaneva silenziosa nella sua lettura e in quel bagno di bellezza pre-lavorativa. Grethel avrebbe voluto avvicinarsi, forse persino chiederle cosa avesse di tanto importante da fare da non salutarla, ma non aveva così tante forze di prima mattina e lasciò correre, così come lasciava scorrere l'acqua del lavandino, la doccia sporca, i fiori secchi nel vaso, e i vestiti sparsi sul pavimento.
Non c'era ordine nella sua vita, non quell'ordine che avrebbe tanto voluto; la madre le aveva insegnato la pignoleria e lei disobbediva ogni qualvolta. Ma non era una sua colpa, anche Suzanne era fatta così ed entrambe vivevano in quel mondo fatto di disfatta e incoerenza fisica.
Imboccò un cucchiaio di cereali, li sentì insaporiti, erano veramente scaduti.
«Questi cereali sono scaduti, bisogna fare la spesa». Disse alzandosi dalla sedia, posando la tazza e controllando altri ingredienti nei mobili. Tutto alquanto avariato.
«Ma da quand'è che non vai a farla? Qui non c'è niente di buono». Sbuffò.
Eppure Suzanne non la rispose, era celata in un silenzio mattutino che cominciava a destare dei sospetti. Era una donna aperta, non stava zitta neanche per cinque minuti dopo essersi svegliata, e se non parlava, cantava, e se non cantava, urlava, e se non urlava, brontolava. Qualcosa faceva e non si chiudeva mai in se stessa.
«Ehy... mi stai ascoltando?» Insistette Grethel, posò la tazza e stringendosi nella vestaglia si avvicinò al divano, scansando il cane che giocava con una pallina verde e gommosa.
«Mamma?!» digrignò i denti.
La donna si alzò di scatto, aveva qualcosa stretto in grembo, il viso contratto sotto la maschera. Indietreggiò. La guardava inorridita, c'era qualcosa nel suo sguardo che lasciava trasparire una ferita, una ferita profonda ed insensata.
Grethel si sentì mancare l'aria, un groppo in gola, una certezza che non voleva conferma.
«Parlami!» Disse con voce stridula, Suzanne Hale adesso aveva gli occhi lucidi, quasi arrossati e Grethel si sentì in colpa, non capiva perché, non aveva fatto nulla di male se non dimenticarsi il bucato nella lavatrice e non aver portato il cane fuori per i bisogni.
«Sei stata presa...» fu un sussurro, non più di un sussurro che si sfregò lungo tutta la sua anima e la lasciò senza forze per svariati secondi.
Era lì, lì, per aprir bocca, per dire qualcosa, per spiegare ma Suzanne Hale si scagliò contro di lei con le più infami delle parole, presa dall'ira e dal suo amore materno, voleva proteggerla e non sapeva il modo:
«Come puoi avermi fatto una cosa simile? Senza dirmi nulla! Sparita per un giorno intero tre mesi fa ed adesso mi ritrovo un volantino esplicativo nella mia buca delle poste! Sei ingrata, più ingrata di tuo fratello. Credevo di potermi fidare di te ed invece? Invece mi sento qualcosa qui, vedi? Qui, nel petto che mi stringe forte, e strizza il mio cuore come del merluzzo! Oh, Grethel... ma perché? Perché? Io non capisco. Ancora a tormentarti, eh? Ancora a tormentarti? Non sei tu! Non sei stata tu! Sei la ragazza più dolce che conosca, sei la mia ragazza! Non farmi questo... non rovinarti la vita, non...» non aveva più fiato.
«Suzanne...»
«No, no! Non dirmi “Suzanne” con quell'aria da so-tutto-io! Ormai non sai più niente e come puoi sopravvivere al Red Nose, eh? Non sai piegare una maglietta! Non sai fare la spesa, sei debole come un uccellino! Io ti proibisco di andare. TE LO PROIBISCO! Hai capito? HAI CAPITO?»
L'abbracciò, la strinse a sé e Suzanne rovinò la sua maschera di bellezza con un fiume di lacrime mentre Grethel, da sopra la spalla di sua madre, si lasciava andare al primo sorriso e ad un'incredulità eccitante.
Era stata presa.


Angolo Autrice: E' come la marea, ragazzi miei. C'è l'alta o la bassa marea ma prima o poi s'impara a galleggiare. Vorrei dirvi un sacco di cose, ma prima di tutto i miei più sinceri ringraziamenti per essere rimasti comunque e sempre.
Grethel è tornata, sono ritornati anche i clown ma questa volta li troveremo diversi. Più cattivi, più elaborati, più amanti forse.
Sarà un viaggio faticoso il nostro perché la fine sarà un agrodolce risveglio da una dimensione che non esiste ed è giusto così.
Il primo capitolo verrà pubblicato martedì sei maggio duemilaventisett-... duemilaquindici, duemilaquindici.
Non mancate! Perché ad ogni mancanza un clown vi perseguit-... scherzo, scherzo... eheheh, paura?
Dedico il prologo, il mio ed il vostro prologo, a chi ha avuto tenacia ed è rimasto e chi invece ha avuto ancor più tenacia ed ha intrapreso.

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Capitolo 2
*** 1° Capitolo- Cessa il tempo, cessa la vita. ***



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1° Capitolo- Cessa il tempo, cessa la vita.


C'era tranquillità.
La notte lasciava vita ad un'alba mozzafiato e le nuvole si univano in mille splendidi giochi. La testa di Grethel ciondolava sullo schienale della poltrona e guardando nell'oblò i suoi occhi venivano abbagliati da una miriade di sfumature che il sole sprigionava. Tutto ciò le faceva brillare l'animo e si sentiva più sicura, a tratti protetta; si teneva in estremo equilibrio su una scia di occasioni lasciate a marcire, e sperava che alla fine non essere mai caduta, le sarebbe valsa la pena.
Al suo fianco, una signora dai capelli ramati con svariate ciocche grige, beveva un cocktail rosa che emanava un forte odore di vodka. A lei invece era stata servita una spremuta di arancia senza neanche averla chiesta, ed in confronto al perfetto e minuzioso viso curato dell'altra, il suo era impiastricciato di trucco sciolto e segnato dalla notte insonne e da quelle precedenti.
Erano state settimane di fuoco, settimane in cui tutto si era perso e ritrovato. Dove i vicini la guardavano con occhi nuovi, dove la pattuglia di polizia passava più spesso nel suo quartiere, dove Suzanne la guardava di meno e parlava di più.
Per giorni che l'erano sembrati eterni, si era sentita veramente abbattuta e sull'orlo di sfasciare tutto, di lasciare tutto; ma aveva lottato una vita per arrivare a tanto e finalmente le mancava un passo per raggiungere la vetta.
Quei pensieri l'avevano infestata per l'intero viaggio, ormai non aveva senso rimuginarci ulteriormente, l'alba era sorta, i passeggeri si stavano destando da quel lungo sonno durato parecchie ore ed adesso l'aereo sarebbe atterrato dolcemente, e come un quadro, la tela sarebbe stata sfregiata con un coltello. L'hostess si avvicinò di soppiatto, era biondiccia, forse tinta, le sue sopracciglia lasciavano intendere che il colore naturale fosse stato un tempo di un profondo nero.
«Signorina allacci la cintura, anche lei signora, stiamo per atterrare». Un sorriso le illuminò il volto abbronzato e Grethel annuì, anche se avrebbe voluto farle qualche domanda su cosa, come, dove si sarebbe diretta poi. Avrebbe voluto aggrapparsi a quella figura tanto amorevole che per un breve tratto l'aveva accudita, senza farle mancare nulla.
Suzanne Hale l'aveva guardata a lungo il giorno prima, Grethel sentì il rimbombare del motore e l'inclinazione dell'aereo mezz'ora più tardi, Suzanne Hale l'aveva abbracciata come se fosse l'ultima volta che l'avrebbe rivista. Era ancora terribilmente arrabbiata con lei ma cosa avrebbe dovuto farci? Aveva tentato con tutta se stessa di ragionare, di farle capire che non poteva continuare ad ignorare il suo futuro prossimo, che ormai l'errore l'aveva fatto e non voleva tirarsi indietro, ma la speranza di una madre di non perdere il proprio frutto, è più forte di qualsiasi cosa. Le orecchie iniziarono a fischiare e Grethel sbuffò; i suoi occhi si fermarono di nuovo sulla signora e notò che stava leggendo tranquillamente una rivista, senza scomporsi e senza provare il benché minimo impiccio per l'atterraggio. Che razza di alieno si ritrovava davanti?
Grethel non amava decisamente l'aereo, non lo prendeva con piacere, la scombussolava, la infastidiva un sacco e non sopportava la sensazione di vuoto nello stomaco o la paura del decollo.
La rivista della signora era un gossip che si leggeva nei momenti di noia, Grethel strinse le dita sui braccioli e vi affondò le unghie: che scherzo era mai quello? Al centro delle due pagine, in bella vista c'era il titolo dell'evento e in basso sui bordi rimanevano le figure di tante persone che in vita sua non aveva mai visto. Di sfuggita, lesse qualche nome finché gli occhi non trovarono quello che stavano cercando. Lei. Lei con un quieto viso, paffutella e più sicura di quanto non lo fosse.
Si portò le mani fredde sulle guance accaldate e tolse lo sguardo un po' scossa.
Nei minuti che seguirono, non pensò più all'atterraggio aereo, ma a quella donna che non voltò pagina fino a quando non ritornò l'hostess invitandole a scendere.
C'era qualcosa di terribilmente strano. -
«Qualunque cosa Grethel, qualunque cosa e corro a prenderti».
Aveva detto Suzanne Hale strattonandola per le spalle, la ragazza aveva annuito per la quarantesima volta ed adesso si ritrovava su un autobus di linea malandato, quasi sul punto di cadere a pezzi. Come ci era finita? Delle ore precedenti ricordava poco e niente, tutto era proseguito normalmente, l'aeroporto l'aveva salutata senza troppe cerimonie e la Russia gelida l'aveva accolta.
Sentiva freddo, il suo giubbotto impermeabile era infagottato di sciarpe e un paio di cappelli di lana sulle orecchie. Non era pronta a quel clima; aveva creduto di trovare il sole ma sentiva solo il vento sferzarle attorno e tagliarle la faccia.
Era atterrata a Krasnojarsk, in Siberia, e secondo il Volantino Esplicativo, sarebbe dovuta giungere su una collina a sud della città, ch'era circa a quattrocento metri sul livello del fiume Enisej.
Grethel quel fiume l'aveva subito visto ed era un paesaggio non indifferente. Da lontano, il suo scorrere, l'era parso così limpido.
Il pullman si svuotò ben presto, non osava aprir bocca, era riuscita a capire dove la portasse grazie al cartellino in inglese, altrimenti probabilmente si sarebbe trovata ancora fuori l'aeroporto in cerca di un'anima pia.
Mentre viaggiavano aveva notato molte cose che all'apparenza potevano sembrare normali, ma arrivato ad un certo punto, non erano poi così normali.
La città era tappezzata di icone, di manifesti e volantini, tutte sul Red Nose. E fin lì Grethel s'era sentita prendere un po' in giro: se questo evento è davvero così importante, allora perché non spedire una bella macchina blindata? Perché non essere certi che i partecipanti giungessero sani e salvi? Una prova di bravura? Ma che bravura e bravura, quello era già un primo sintomo sbagliato dell'intera situazione, dell'intera malattia.
Grethel notò il vacuo negli occhi dei passanti, una frenesia poco realistica, una stantia verità che aleggiava su di lei con impertinenza. La strada si restringeva sempre più, il paesaggio diventata ingombrante e le anime che popolavano la città si impoverivano. Le parve di vedere un cimitero da lontano, sembrava fosse una croce quella posizionata su quella collina che lentamente veniva percorsa dal pullman di linea.
Ben presto si rivelò un'illusione, non c'erano cimiteri dove nascondersi per Grethel. C'era una via spianata e un bagliore ad illuminarla. Non era forse pronta? Le gambe tremavano e con loro anche gli zigomi, pronti ad esplodere in un pianto.
L'arrivo fu istantaneo, il pullman vuoto, l'autista poco lucido e la radura deserta. Non c'erano lampioni ed il bagliore di poco prima si spense in un attimo, lasciando il buio.
Si sentì oppressa.
L'uomo bofonchiò qualcosa che non capì; il russo non faceva per Grethel. In verità c'erano molte cose che non facevano per lei.
Le porte si spalancarono e l'uomo dal viso appesantito per via delle rughe e sottopeso con la mano la incitò a scendere.
Grethel si ritrovò spaesata appena quelle stesse porte si chiusero dietro di lei e l'autobus girò nella stradina per ritornare indietro; la valigia era diventata pesantissima con il prosciugarsi delle ore.
Una tabella, un'indicazione, cosa diamine poteva farci in mezzo al nulla? Dire ch'era agitata, non era una gran cosa.
Sentì un forte dolore al petto che le ricordava incessantemente quanto fosse in una situazione di precaria solitudine e che doveva pisciare a causa dell'ansia.
Girò in tondo per svariati minuti fino a quando le lacrime non giunsero agli occhi e non si trattenne dal piangere velocemente quel segno di debolezza.
D'improvviso, una lucciola le passò sulla testa e quella piccola vita portò un pizzico di brio ed ardore nel suo animo floscio; le lucciole erano state per un lungo periodo della sua vita, una buona occasione di riprendersi quando si ritrovava appigliata all'albero maestro del cimitero londinese.
Si stava girando senza pensarci, pronta ad afferrare le maniglie della valigia, quando un muro le si parò davanti.
Un muro sodo, più alto di lei, prorompente, audace. Erano questi i primi aggettivi che le affioravano nella mente e si facevano largo con estrema timidezza; ma un muro poteva essere audace?
Era umano. Grethel alzò il viso e si scontrò in un denso verde, più del fiume Enisej. Si portò la mano davanti alla bocca per reprimere un grido di sorpresa e misto allo spavento.
Ad un tratto la raduna fu immersa in una luce crescente, assomigliava così tanto all'alba. I suoi occhi furono abbagliati da tante lucciole, sempre più grandi, sempre più spaventosamente vicine. Iniziò di nuovo a lacrimare, questa volta per il dolore e fu una reazione talmente istintiva che le procurò imbarazzo; e capì ben presto che le lucciole erano in verità delle lanterne.
In quello stesso stupore, Grethel indietreggiò di un paio di passi e non le parve vero di star osservando quello stesso verde di anni addietro. Quel verde che l'aveva pugnalata senza pietà e l'aveva potuta distruggere.
Il viso era bianco, un bianco latte, non c'erano crepature e la perfezione era scolpita in quei lineamenti di fuoco, come le labbra di un rosso vivo, vermiglio e assalitore.
I capelli erano di un verde scuro e forse questa era la cosa meno bizzarra dell'intera situazione; erano ricci e lunghi, fino alle spalle e quel colorante gli donava una sensazione di macabro ch'è difficile descrivere.
Le lingue di fuoco danzavano intorno a loro e in quel freddo gelido, i loro respiri si condensavano a poca distanza l'uno dall'altro.
Grethel sapeva di ritrovarsi davanti un clown. Era impossibile e a dir poco inimmaginabile non riuscire a riconoscerlo; bastava soffermarsi un po' di più su quel bianco latte e quegli occhi ancor più verdi, e ancor più vuoti dei suoi.
Se c'erano parole da proferire, la giovane non sapeva quali e non voleva neanche provare a pronunciarle.
L'altro avanzò e lei non si mosse.
La sua mano laccata di cipria si posò sul collo della concorrente e Grethel sapeva di essere pronta. Era giunta nel luogo esatto e non sapeva neanche bene come, poteva essere fiera di se stessa, se non anche soddisfatta. Avrebbe intrapreso un cammino che la trasportava direttamente al dirupo. Il dirupo delle verità celate.
Il suo corpo era in estasi, le torce si avvicinavano e si allontanavano, sembrava quasi di udire dei tamburi di sottofondo, una sinfonia calda e africana nel freddo forte della Siberia; le labbra cremisi erano lì, troppo vicine da non vederle e troppo lontane da toccarle. Le mani del clown si muovevano ritmicamente sulla pelle febbricitante e si aspettava di tutto, era pronta a tutto, ma non a ciò che accadde realmente.
«Scappa». Fu poco più di un sussurro ma fin troppo chiaro.
Grethel rimase interdetta, le mani dell'uomo si fermarono sul suo corpo accaldato ma la fiaccolata continuò. Brividi la percossero.
Le labbra adesso indugiavano sul collo, e poi sul mento, di fianco l'orecchio.
«Scappa prima che sia troppo tardi, Grethel. Scappa prima che il tempo si fermi, scappa prima che tutto abbia inizio. Divincolati. Allontanati. Scappa».
Grethel non scappò, come avrebbe potuto? Se l'avesse fatto tutto ciò adesso non esisterebbe.
«No...» corrucciò la fronte, indietreggiò di pochi millimetri, ritornò a quegli occhi verdi e profondi, «io non scappo». Fu appena detto, a malapena udito, eppure condannò molte vite senza potere alcuno.
Le lingue di fuoco aumentarono e l'atmosfera divenne bollente e quella radura immersa in parte dal fango e dalla neve, si strinse attorno alla figura dell'esile ragazzina. Il clown verde, dai straordinari occhi e la rabbia che vi brillava, strinse quel viso con entrambe le mani, attimi di panico susseguirono alla sensazione costante che volesse spezzarle il collo.
E così, con il gelo e il caldo, svenne.


Cosa ricordare di ciò che dopo successe? Buio, buio che si insinua sin dentro il tuo essere e si impadronisce di te.
Quando riprese i sensi non c'era nessuno che le dicesse di trovarsi al sicuro, di non preoccuparsi. Non c'era la madre, il padre, un fratello, il cane o un piccione. C'era lei ed il buio, ma si sa che il buio non è sinonimo di sicurezza ma di vuoto, un vuoto incessante che con il passare del tempo, si ingigantisce paurosamente, come un buco.
I capelli le caddero sul viso e lo inumidirono, le mani erano poggiate su una lastra fredda, liscia, un po' appiccicaticcia. Dove si trovava? Era una di quelle domande che sorge spontanea e confonde la mente, la distrae e la devia.
Si mosse, ma di poco, e ben presto sentì qualcosa sulla pancia, qualcosa di altrettanto freddo che le premeva sul basso vita. Ansimò e il peso divenne più costante e assiduo. Diamine, se avesse urlato cosa ne avrebbe giovato? Poteva tentare, di solito si dice che tentar non nuoce ma quella cosa sul suo addome non sembrava essere della stessa opinione.
Mosse le braccia, la percezione aumentò e capì di trovarsi sdraiata sulla stessa lastra, sempre rigida e fredda, liscia e... cos'altro? Non sapeva dirlo. Era a corto di parole e di fantasia.
Incatenata risultò essere il termine più giusto. Era proprio incatenata e non si poteva muovere più di tanto; nel frattempo il peso sulla pancia continuava a spingere.
«Cosa succede?» Biascicò perché aveva paura di alzare la voce. I ricordi poi ritornavano a tratti, le mani salde di qualcuno, il verde impegnativo di qualcun altro, la fisionomia di un viso che non le apparteneva...
«Cosa succede?» Ripeté con maggior enfasi.
E così un rumore sordo e viscerale si espanse per l'intera stanza. Un brivido le percorse il corpo e la luce si accese un po' come nei film horror. Luce bianca a neon.
Così una voce metallica si diffuse nell'ambiente, gracchiante ma sicura. Grethel non sapeva dire se appartenesse ad un uomo o ad una donna, l'unica cosa chiara del momento era la certezza di trovarsi in un laboratorio abbandonato. Un odore strano e la luce emessa, rendevano tutto ancor più buio e macabro di quanto non lo fosse già. Aveva anche appurato la sua incatenatura ad una lastra in ferro.
«Il Red Nose,» la voce gracchiò, «è un evento dalle origini antiche. Chi partecipa è consapevole delle sue scelte e di cosa ne consegue la possibile accettazione». Metallica e a tratti stracciante. «Liberi di vivere, la Siberia è il decimo luogo in cui l'edizione avrà inizio. Liberi di vivere, il tempo si è fermato da esattamente venticinque minuti e quaranta secondi. Dimenticate adesso questi minuti e questi secondi. Liberi di vivere, vi trovate a sud di Krasnojarsk. Paura? Non ne abbiate, in qualunque posizione vi troviate adesso». Grethel respirò pesantemente e deglutì con forza, aveva la bocca impastata e la gola secca. Non capiva cosa stesse accadendo e a cosa sarebbero servite quelle indicazioni. Il tempo, il tempo... il tempo s'era fermato davvero? Ad ogni respiro, Grethel era sicura che non fosse il precedente, ad ogni respiro c'era un nuovo movimento, un passo in più verso il susseguirsi della vita, e l'avvicinarsi della morte.
«Numero 3, Grethel Hale, origini gallesi, la vedo distratta». Sentire il suo nome rumoreggiare nella stanza, la sorprese e la impaurì.
«Io... non...» ansimò e il peso sulla pancia si fece ancora più insistente, tanto da toglierle il fiato.
«Non risponda». Liquidò, «dunque, partecipanti, è giusto che voi sappiate il nome del luogo in cui vi trovate, gli inglesi lo chiamano castle, gli italiani castello, i russi Замок; la verità è che non saprete mai quanto è ampio questo luogo e cosa vi aspetta al di fuori della stanza in cui vi trovate. Non saprete mai troppo. La cosa potrebbe risultarvi frustante, ma leggendo attentamente un possibile e stupidissimo foglio illustrativo, meglio nome come Volantino Esplicativo, avrete notato di esservi iscritti ad un Evento paranormale. E per paranormale intendo paranormale».
Cosa stava dicendo? Cosa era tutto quel vociferare? Le faceva male la schiena, diamine. Perché doveva rimanere proprio in quella posizione? L'avrebbe scoperto da lì a poco.
« Ed ora, non distraetevi.
L'intoccabilità dei clown è sottintesa, nessuno oserà mai solo lontanamente fare del male ad uno di loro. Come già vi è stato detto, siete undici partecipanti e a ciascuno vi verrà assegnata una stanza, la stanza numerata. Essa corrisponderà al numero di reclutamento.
Prestate attenzione a ciò che non vi si dice, questo è il nostro consiglio.».
C'era un rumore incomprensibile che le rimbombava nelle orecchie, la tensione salì quando la cosa si sospinse ancor di più sulla pancia; riusciva a concentrarsi solo su quella.
«Cambierete. Questa è una certezza che nessuno vi toglierà fino alla fine del nostro percorso insieme. Cambierete in meglio e diventerete uomini e donne migliori. Sarete esemplari, sarete forti, potenti, indomiti. Il mondo esterno non sarà messo a conoscenza di cosa accade qui dentro; né ora né dopo la fine di tutto ciò. Sappiate solo che l'illusione è più forte della realtà e che aver scelto di essere persone migliori è da saggi e coraggiosi. Siamo fieri di voi; il mondo è fiero di voi».
Salvatela, salvatela. Era metallo forse, metallo freddo e penetrante. Una lama? Ancor più giù.
«in ultimo, sperando di non turbarvi troppo e non spezzare quel filo conduttore che vi unisce a noi, io vi dico in tutta la più sincera umiltà di cui dispongo che non vi è concesso ricordare».
Buio.
L'oblio fluttuante, l'oblio che si scatenava nella sua mente ed uno strappo improvviso ed angosciante che le rubò in un attimo, l'urlo del dolore.
La lama si era conficcata nella sua pelle da giovane ragazza, nella pancia probabilmente, ma di tutto questo non le era concesso ricordare.

Angolo Autrice: Badabum tssssss!
Eheh, sono diventata una brava donnetta, vero? Mantengo le promesse! u.u
Se siete giunti fin qui significa che avete avuto fegato e che questo capitolo vi è gradito abbastanza da leggere anche le note!
Dunque, non vi trattengo, colgo solo questo piccolo spazio per ringraziare con tutto il cuore le persone che sono ritornate a seguirmi, quelle che hanno intrapreso per la prima volta questo cammino e soprattutto le fantastiche ragazze che hanno recensito e mi hanno riempito l'animo di gioia.
Dimenticavo! Prima di lasciarvi la data del prossimo aggiornamento devo minacciarvi: ISCRIVETEVI AL GRUPPO FACEBOOK IN ALTO! è-é ORDUNQUE, NON VORRETE INFASTIDIRE I CLOWN VERO? V E R O?
No, non sono credibile, ma vi aspetto con piacere anche su facebook :).
La data del secondo capitolo oscilla tra questo weekend o direttamente martedì 12 maggio!

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Capitolo 3
*** 2° Capitolo- I tutori. ***



Gruppo Facebook: VENGHINO SIGNORI, VENGHINO! Vi aspetto con tutto il cuore qui, dove sarete sempre aggiornati in anteprima sui capitoli, le grafiche, qualche spoiler ed in contatto con gli altri lettori e la scrittrice stessa QUI SU LE INTERMINABILI STORIE DI VELLA


2° Capitolo- I tutori.


Ahia.
Oh che dolore, che inebriante sapore di sangue tra le labbra secche e che persistente sensazione di pulito, di bucato fresco, di disinfettante al ciliegio e sollievo alla pancia, proprio lì dove una mano la stava toccando e le riscaldava i muscoli, poi le ossa. Il respiro non era regolare, tremava ogni volta che la ferita aperta veniva toccata da quell'alta e pomposa figura, piegata su di lei che guardava attentamente l'ago sterilizzato e il filo per la cucitura. Il cuore accelerava il battito quando la sua punta si infilzava nella pelle fresca e gli occhi di Grethel si spalancavano in un grido di risveglio.
Il viso era pulito, aveva ripreso i sensi e con loro anche la ragione. Le gote punzecchiate di rosso e i grandi occhi assorbivano adesso la luce e mettevano a fuoco il luogo austero in cui si trovava. C'era troppo bianco per i suoi gusti e di solito il bianco è associato agli ospedali. Ricordava fin troppo bene le luci a neon che perforavano le sue delicate pupille quando ancora era una fanciulletta indifesa. Adesso era giusto chiedersi se fosse ancora quella fanciulletta oppure qualcos'altro, qualcosa disposto a superare e andare ben oltre a quello che le si prospettava davanti.
Sussultò non appena dei polpastrelli -non suoi- si conficcarono nella ferita aperta e la sua mente si risvegliò da un brutto sogno per entrare in un grande ed immenso incubo. Davanti a lei, c'era un uomo cadaverico.
Ancora quel bianco... quel bianco perfetto del tutto intatto su una faccia definita da angoli pronunciati e zigomi alti. Le sue iridi erano di un profondo azzurro, più del mare, più dell'oceano. Aspirò rumorosamente e sentì una profonda fitta al ventre; una smorfia di dolore insensato le dipinse il volto intorpidito dagli svenimenti. Mugugnò e mosse la mano verso l'alto, in un movimento così spontaneo da non rendersene neanche conto, e fu fermata da un'altra mano, senza calore che si mischiò alla vitalità di Grethel e si soffermò sui polpastrelli ghiacciati.
La ragazza fu stupita, vide di nuovo quella bocca così cremisi e un naso all'insù, innocuo e pertinente. La consapevolezza di ritrovarsi di nuovo davanti ad un altro clown la incuriosiva oltre ogni dire e avrebbe voluto allungare ancor di più la mano per giungere alla gola e toccare quella pelle, e venire a conoscenza di quale strana sostanza fosse fatta.
Chi erano? Dov'era finita? Ricordava vagamente di essere stata in una stanza, forse incatenata e al buio, una voce gracchiante che aveva parlato per tanti minuti, minuti che adesso non rammentava più e soprattutto... non capiva più cosa una persona volesse dire con la parola “minuti”. Deglutì ma si accorse di avere una gola secca e bruciante, che non si sentiva più le labbra e che non aveva più tante forze. Lasciò cadere la mano e l'uomo socchiuse gli occhi, lì Grethel vide la lunghezza delle ciglia e la perfezione dell'occhio allungato. Afferrò al volo le sue dita e le strinse nella mano incipriata, stringendola e tenendone la morbidezza.
Il contatto ebbe vita breve ed il clown abbassò la testa sulla pancia della giovane, ritornando a quello che stava facendo. Inforcò degli occhiali ed iniziò ad arrotolare della garza bianca.
Quante probabilità ci sono che una persona chieda ad un altra -in situazioni come quella alquanto disdicevoli e decisamente non idonei alla quotidianità- un bicchiere d'acqua? Poche. Ci sono poche probabilità.
«Ac-...c-qua?» La parola rimase sospesa in aria mentre la giovane sentiva le dita del clown premere sul taglio con un batuffolo di ovatta.
Immediatamente, o quasi subito, l'uomo lasciò cadere la pinzetta e di nuovo si tolse gli occhiali, l'imperturbabile sguardo iniziava ad infastidire la giovane e i suoi modi di fare. Si sterilizzò le mani con dell'acqua rosa -forse si trattava di semplice spirito- e riempì un bicchiere di plastica da una brocca in vetro.
Alzò la testa di Grethel senza troppi complimenti e lasciò cadere l'acqua nella sua bocca, quasi soffocandola; buttò il bicchiere in un contenitore nero e ritornò alla ferita aperta.
C'erano cose, tante cose nella mente di Grethel. C'erano pensieri e tentazioni, incombenze da risolvere e un'immensa voglia di raggiungere il punto cruciale della situazione.
Si trovava davanti un secondo clown. I suoi occhi voraci si fermarono su svariati punti dell'uomo e cercò di assorbire ogni suo singolo dettaglio: aveva le mani veloci e pulite, mani per nulla callose che si muovevano sicuramente sulla ferita da loro stessi procurata. Non era alto, non più di quello incontrato nella raduna e sembrava essere più agile di quanto volesse apparire. Era di costituzione mingherlina, ottimo per situazioni tecniche.
Ma chi era? Cosa stava facendo? Perché l'avevano ferita e perché adesso la curavano? Cos'era quel posto in cui si trovava? La stanza bianca assomigliava tanto ad un'infermeria; guardandosi attorno capì che si trattava molto più di un punto ristoro, era un vero e proprio centro avanzato. Un piccolo ospedale di emergenza: ai lati della stanza c'erano macchinari che mai Grethel aveva visto, la pulizia era impregnata nel costante odore di disinfettante al ciliegio, o comunque lei aveva l'impressione che si trattasse di ciliegio.
«Perché...» la voce le uscì rauca e non ricordava più quando aveva parlato l'ultima volta...
«Perché state facendo tutto questo?» Dove trovò l'ardire per quella domanda è un mistero, ma già pronunciandola si sentì liberata da un grande macigno. Gli occhi dell'altro si alzarono lentamente dalla pancia scoperta e si soffermarono su quelli di Grethel.
Credeva che stesse sul punto di parlare ma da quelle labbra color cremisi non uscì alcun suono se non l'intenzione. Grethel percepì unicamente quella trasmissione di sguardi che non aveva molto da dirle e che non riusciva a decifrare; e la stanchezza prese il sopravvento ancora una volta e poggiò quindi goffamente la testa sul cuscino lasciandosi andare ad un sospiro di primordiale rassegnazione.
Sentì uno strappo netto e puntò istantaneamente gli occhi sul suo infermiere: vide la garza strappata e la sua fronte corrucciata in concentrazione. Perché non parlava?
«Mi lascerà una bella cicatrice, eh?» Si buttò come un pesce nel settore sarcasmo macabro e si ritrovò impiccata ad un amo.
Parla ti prego, parla! Se non parli tu... chi parlerà mai?
Erano questi i suoi pensieri, i suoi confusi pensieri. Bum-Bum-Bum. Il cuore batteva forte.
«O forse non rimarrà traccia...» le parole morirono in gola e socchiuse gli occhi.
Quando sei sul punto di cadere, sul punto di non capire più niente, dove ti ritrovi davanti un burrone e l'unica opzione è quella di buttarsi a capofitto, allora da lontano una luce si accende e si smette di avanzare in quella direzione.
Accadde anche lì, proprio quando Grethel era sul punto di lasciarsi andare al sonno o forse al magico effetto dei sonniferi, le porte dell'inferno si spalancarono.
L'infermiere si ridestò dalla sua acuminata operazione e si mise sugli attenti. Grethel riaprì gli occhi e il cuore palpitò vedendo le porte scorrevoli della stanza aperte e una nuova figura farsi largo nella sua rubrica di nuove persone da conoscere.
«Come va la situazione?»
Cosa era? Un clown? Ancora? E perché il suo viso era nero come la pece? Era cipria nera? Perfetta. Gli occhi di un profondo ebano, un uomo aitante e robusto. Un hulk in circolazione.
«La ferita si risanerà entro una settimana, il taglio non è troppo profondo; il soggetto può definirsi fortunato».
Parlava quindi il suo infermiere; non spostò neanche un secondo il viso su quello di Grethel e continuava a digitare su un tablet.
Il nuovo entrato aveva una tuta plastificata addosso e questo ridestò la sua curiosità che perse di vista la ferita in via di guarigione e si focalizzò sul passo pesante e le gambe flessuose. La gola era di nuovo diventata secca ma questa volta non aveva il benché minimo coraggio di chiedere un altro bicchiere d'acqua. Si sentiva circondata come una preda e i suoi predatori la stavano soffocando senza attaccarla. O forse l'avevano già attaccata? Da dietro, come avvoltoi. Grethel cercò di sedersi su quel comodo lettino ma i gomiti le dolevano e l'infermiere, con una fermezza assurda, fece forza sulla sua pancia e la rimise giù, senza troppe cerimonie.
«Sta' ferma», l'uomo in nero si era spostato nella stanza adiacente ed aveva seguito ogni piccolo movimento della paziente attraverso delle placche in vetro. Grethel pensò giustamente che dall'altra parte ci dovessero essere vari computer e aggeggi tecnologici non alla sua portata. L'altro clown continuava a non parlare, agiva con i gesti e strattonava la garza attorno la vita.
Quindi, adesso analizzava, le stavano facendo un test? Che bisogno c'era di star ferma, di non parlare, di essere osservata a vista? Niente domande, Grethel. Niente domande. La tua testa tra un po' scoppierà o emanerà fumo nero.
«Va' pure, four». La voce intensificata del nero si espanse per l'intero abitacolo in russo e la giovane non capì se non il numero in inglese; vide i lineamenti dell'altro irrigidirsi e lasciò cadere le pinzette strette tra le dita, in una bacinella di acciaio. Grethel si apprestò a seguirne i movimenti finché non lo perse dopo che attraversò le porte.
Era a disagio, un disagio che cresceva dall'animo e le imporporava la faccia. Ahia, non riusciva a sopportare tutta quella pressione fisica psichica.
Un tempo la signora Hale l'aveva stretta per le spalle e guardandola negli occhi aveva detto: «Grethel ce la farai! Io so che ce la farai; tu sei forte, più forte delle super eroine che tanto adori. Sei nata per combattere tutto questo». Non l'aveva più scordato quel giorno -come scordarlo altrimenti!-, ma quelle parole... oh, quelle parole... erano state un toccasana, una perla da Dio. E lei sopravviveva facilmente ripensandole ancora.
La porta dell'altra stanza si aprì e subito i suoi occhi guizzarono sul clown in nero che aveva tra le mani dei fascicoli bianchi ben ripiegati, ordinatamente sistemati e impilati.
«Non voglio star zitta», disse la rossa energicamente, aveva le sopracciglia corrucciate e le labbra strette in un capriccio spontaneo. Fece di nuovo forza sui gomiti ed alzò il busto dal lettino.
«E non voglio star neanche ferma». Continuò ora che aveva l'attenzione dell'uomo e ch'era disarmato.
«Allora non farlo, Grethel». La sua calda voce le perforò il coraggio che si sgonfiò immediatamente come un palloncino. Sarà stato il suo nome pronunciato, la tranquillità che emanava...
«Ma non dovresti fare così; dovresti invece riposarti finché puoi».
«Chi sei?» Netta, un fulmine a ciel sereno, una ripresa di equilibrio.
«Innanzitutto le buone maniere, Grethel. Sto cercando di suggerirti una valida mossa e credo che tu debba-...»
«Non trovo nessun beneficio nei tuoi suggerimenti, credo di sapere meglio di chiunque altro cosa mi faccia bene e adesso ho bisogno di capire chi tu sia».
L'uomo in nero ingoiò l'impertinenza che si ritrovava davanti e posò i fascicoli sulla scrivania in fondo la stanza, dove si trovavano anche utili materiali per una vera e propria operazione ospedaliera.
Prese posto su uno sgabello al fianco del lettino, incastrò le gambe di Grethel tra le sue con prontezza e le bloccò i polsi con le mani inguantate di nero. Gli occhi della pece si mischiarono al chiaro della partecipante e vi si soffermarono per un lungo tempo, così gli attimi divennero infiniti.
Grethel cercò di divincolarsi, strattonandosi e recando da sola delle fitte doloranti al taglio fresco.
«Tu chi sei?» Le alitò in faccia, un po' tra l'incazzatura e un po' tra il divertimento malsano di cui solo lui poteva godere.
«Io... non...- ahia...» Aveva stretto la presa sui polsi; Grethel aveva la macabra impressione che non ne sarebbe uscita illesa dalla caparbietà che disponeva.
«Rispondimi tu, Grethel. Chi sei? Una mocciosetta colta in flagrante alle iscrizioni mondiali? Un'adolescente in via d'estinzione che aspettava quell'attimo di brio nella vita? Cosa è per te il Red Nose? Ma soprattutto ragazzina: cosa sei tu per il Red Nose? Forse tutto, forse niente... con queste domande m'irriti la pelle delicata». E bum, lasciò la presa e la giovane si ritrasse da quel tocco micidiale, così come lo erano state le parole. Un sorriso gli si stampò in faccia e i lineamenti si distesero così come si erano induriti.
Cosa aveva detto di tanto male? “Chi sei?”? Era sicura che se avesse avuto la possibilità di conoscere una delle due nonne, in quel momento le avrebbe suggerito premurosamente che non era mica ad una festa di ballo, lì mica era andata per divertirsi! E quindi su... un po' più d'attenzione, Grethel cara.
«Visto che preferisci non riposare, desideri qualcosa da mangiare? Ho per te dello yogurt bianco, niente di più buono. Ma sssht, non farne parola con nessuno. Non dovresti mangiare così instabile». Allontanato, l'uomo si era avvicinato ad un mobile bianco rivelatosi un frigorifero, e aveva in mano una scatola di yogurt marcati in lingua... lingua... no, non c'era nessuna etichetta.
«Preferisco stare a stomaco vuoto». Bofonchiò Grethel nel suo orgoglio per metà ferito.
Il clown si grattò il mento liscio e sospirò con teatralità.
«Come preferisci». Alla fine disse; lo scatolo fu buttato energicamente sul mobile e a grandi falcate raggiunse l'area delle operazioni ospedaliere.
In un fulmineo istante, la ragazza se lo ritrovò vicino, spalancò gli occhi e buttò il busto in avanti, cercando di proteggersi quel poco che riuscivano le sue forze. Maledisse l'attimo in cui aveva rifiutato lo yogurt ed aveva preteso troppo da quell'uomo in nero, ma di più maledisse quel momento in cui il pollice di lui si fermò sulla vena del braccio ed un ago vi si infilzò dentro. Represse un urlo di rabbia e di gran rancore. Cercò di staccarsi il tubicino e di fermare il sangue rosso piccione che fluiva delicatamente all'interno, ma fu tutto inutile, così come fu inutile fermare le mani forti del clown che la bloccavano e la spingevano sempre di più ad una totale immobilizzazione.
«Non mi sembra il caso di lamentarsi, in fondo sono stato gentile. Non credi che io sia stato gentile? Oh, mi sembri alquanto furibonda. Ti conviene calmarti altrimenti potresti morire dissanguata». Grethel strinse i denti tanto da farsi male e l'uomo, notando la rassegnazione di lei, rallentò la presa sugli avambracci e si sedette al fianco, sul lettino bianco.
«Formalmente mi chiamano clown nove. Intimamente sono soprannominato l'Ombra», le sue dita si poggiarono sull'orlo della felpa di Grethel e picchiettarono gentilmente sul taglio.
«Se non domandi, ti verrà dato. Se domandi, non ti verrà dato. Questo è un bel motto... credo di volerlo adottare ma... nel dubbio, oh... no, stai ferma, non muoverti». Sbadigliò, Grethel notò due rughette agli angoli della bocca e del rossetto marrone sbavato ai bordi del viso truccato.
«A cosa ti serve il mio sangue? Smettila, lasciami». In uno strappo l'ago fu tirato fuori e una boccetta riempita di rosso cadde nelle mani dell'Ombra. Grethel liberata dalle grinfie della strega cattiva, si alzò di scatto dal lettino ma appena mise piede sul pavimento, la testa iniziò a girare vorticosamente e non riuscì a mantenere un minimo di equilibrio; ruzzolò così per terra e sentì la pelle attorno al taglio lacerarsi in un dolore atroce.
Ahia.
«Merda...» imprecò come una stupida e clown nove le buttò addosso qualcosa di freddo.
«Adesso mangia lo yogurt».
Avrebbe voluto prenderlo a parole; avrebbe voluto dire un sacco di cose poco carine, avrebbe voluto ringhiargli contro, ma l'unica cosa che fece, fu quella di aprire realmente lo yogurt dopo che sentì la porta della pseudo-infermeria chiudersi dietro i suoi passi.
Oh, come si sentiva stupida e indifesa; era una poveretta dagli occhi acquosi e il corpo dolorante. Mangiò lo yogurt bevendolo dal recipiente e l'amaro la invase subito, portando con sé anche un senso di nausea. Dopotutto però, non mangiava da molte ore, quello yogurt quindi divenne un toccasana e anche una liberazione in mancanza di qualcuno che la sorvegliasse.
Sarebbe dovuta uscire ma non sapeva affatto cosa le aspettasse all'esterno; non poteva fare mosse stupide, non immediatamente almeno.
Altri passi si fecero più vicini e ben presto, clown nove rientrò nella stanza, adesso con un camice bianco, adesso con uno sguardo più divertito del precedente, adesso con una calma inquietante e adesso con un minicomputer.
«L'hai mangiato veramente!» Rideva.
Grethel strinse il recipiente vuoto dello yogurt e si schizzò sulla felpa. In preda ad una nuova rabbia che però già aveva provato recentemente, lo buttò sul suo assalitore.
«Solo per te». Digrignò i denti.
«Grazie tesoro».
Entrarono altre due persone, una era l'infermiere che non aveva osato dir parola alcuna in sua sola presenza, e l'altra invece pareva essere una donna dai colori vivaci. Grethel appena la vide, si spaventò. Sul viso era stata disegnata una bocca in rosso ben oltre le labbra vere, ed il bianco della cipria era talmente perlaceo da essere inquietante. I vestiti floreali e in parte strappati, davano una cadenza distorta della figura stessa e lì per lì, la rossa trovò normale ritrarsi al tocco di entrambi, divincolandosi ancora una volta, più riluttante di prima. Com'erano viscide le loro mani e come sentiva il bisogno di un bagno caldo. Inoltre non aveva la forza di tenersi su da sola e dovette lasciarsi andare alla forza dei due.
«Vi ringrazio miei cari, vi raggiungerò tra poco». La voce cristallina e sempre divertita dell'Ombra, fu odiosa, così come fu odioso il viaggio che ne seguì.
Grethel non seppe bene cosa accadde dopo, qualcuno la incappucciò e parole ovattate raggiunsero le sue orecchie. Sapeva solo che i suoi piedi si muovevano a malapena e che i suoi presunti strozzini (era stata rapita o si trovava davvero ad un evento mondiale?) avevano una gran forza corporea e d'animo.
Scese scale. Le salì. Le scese ancora. Camminò per interminabili corridoi, e i luoghi puzzavano di tanfo e muffa. Inciampò, cadde anche, percepì il sangue lungo il ventre scorrere.
Infine raggiunse una meta e le viscide mani di entrambi la strattonarono su una sedia, una presunta sedia. Fu contenta in quel momento, liberata dal peso del cammino e dall'agitazione.
Nessuno parlò, lei non parlò, gli altri non parlarono, la gola era secca, lo yogurt sballottava nel suo stomaco. Avrebbe vomitato.
Se ne andarono, ne era certa, nel buio del sacco che l'era stato messo, riusciva a percepire gli odori -i sapori del bile- e ogni singolo rumore.
Topi? No, quel rumoraccio dal basso della stanza non erano topi ma persisteva e le cose che persistevano, non erano nulla di buono.
I corvi nel cimitero persistevano ogni notte a spiarla da una lapide, l'erba di casa sua persisteva nell'essere schiacciata, la sua tenacia persisteva ma i topi... i topi potevano anche non persistere.
La sua mente confusa e i suoi arti doloranti la dicevano lunga, ad esempio, sul persistere.
In quell'angoscioso stato, ci stette per molto tempo. Un tempo che più non veniva calcolato, ma che ancora c'era nei loro animi e si faceva largo a forza per sibilare la sua vita.
Non c'era luce nella stanza, un tavolo in legno, un'unica sedia dove era seduta Grethel e poi il vuoto meschino.
La porta, unica e sola, alle sue spalle venne aperta e il cigolio ridestò Grethel dal torpore del dormiveglia dove cui s'era rintanata.
«Chi è?» Biascicò, stringendo i polpastrelli attorno le gambe della sedia.
Il sacco dalla testa fu tolto e si chiese perché diamine non l'aveva fatto lei stessa. Poi capì. Aveva paura.
E in vita sua, la paura era qualcosa di talmente astratto e intimo da meravigliarla.
Aveva paura di fare un'azione non dovuta, di osare nell'ovvio e finire per essere punita.
Clown nove si fece avanti, le sue dita camminavano sulla spalla di Grethel e gli occhi piombarono nei suoi, accarezzandola.
Le mancò il respiro e si ritrasse a quel tocco come giusto che fosse, l'uomo la bloccò e si accovacciò davanti, perennemente divertito, perennemente sicuro di sé.
La situazione buia e tetra in cui si era cacciata, la contrapponevano alla luce calda e pomposa di quando era arrivata e per un attimo in quei grossi occhi d'ebano, vide il verde di altri, più sottili e limpidi che le sussurravano parole, parole che fino ad allora nessuno aveva avuto il coraggio di dirle se non l'Ombra.
Un brivido le oltrepassò la schiena e deglutì, cercando di mandare giù il brutto saporaccio dello yogurt.
C'era altro in quel contatto; forse una forma di verità ed uguaglianza. Forse invece la trattavano in quel modo per sottometterla ad un certo andazzo.
Abbassò lo sguardo ma meccanicamente le dita dell'Ombra si posarono sotto il mento e l'alzarono, ritornando quindi a quel contatto fugace.
«Immagina un mondo senza cattiveria... senza ingiustizie... senza guerre... un mondo bianco, più bianco di me che si imporpora del tuo amore». Le parole del clown furono a malapena sussurrate e Grethel trovò fastidio nel concentrarsi per riuscire a sentirlo.
Sospirò e lui si sporse più avanti, così da poter assaporare la sua flagranza, così da poter sentire ancora con più realtà quel profumo di muschio e di terra bagnata dopo la pioggia. Cosa poteva mai essere? Grethel non lo sapeva.
«Adesso immagina un mondo cattivo, un mondo con tante, troppe guerre. Un mondo distrutto da noi stessi, dal nostro spasmodico egoismo e non sforzarti troppo, mia cara. Perché ci vivi».
Le mani dell'uomo si poggiarono sui bracci di lei e quando si vuol distrarre un bambino sul punto di fare una siringa, così lui la distrasse premendo il pollice sulla pelle; Grethel sentì un pizzicore, come un taglietto, una pressione, e subito dopo assaporò quel muschio sulle sue labbra. Ci mise poco a capire che il nero aveva schiacciato la bocca contro la sua e che aprendola leggermente aveva fatto in modo che sentisse chiaramente l'acre e amaro aroma che caratterizza ogni tipo di sangue. Compreso quello di Grethel.

Angolo Autrice: Beh dai ragazzi! Dovevo aggiornare il dodici maggio ed oggi è ventuno; questo significa che non potete affidarvi alle mie previsioni! ahahah
A parte i convenevoli scherzi, mi sembra sciocco dirvi che mi è seriamente dispiaciuto per questo ritardo e spero con tutta me stessa di non farvi aspettare oltre. Il terzo capitolo arriverà presto, tra qualche giorno, al massimo una settimana.
Volevo inoltre ringraziare -come sempre- tutti, chi mi segue, chi recensisce, chi entra a far parte del gruppo facebook... insomma, grazie davvero. Siete una bella combriccola e mi rendete felice (vi ricordo che la storia è anche disponibile su Wattpad).
In ultimo, mi domandavo, non è che mi "introspetto" troppo? Spero di non annoiarvi, che le descrizioni e tutto ciò che è attorno vi soddisfino, vi piacciano, vi... gratifichino ecco.
Fatemi sapere un vostro parere, eh! Ci conto! :3

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Capitolo 4
*** 3° Capitolo- La veglia nera ***



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3° Capitolo- La veglia nera.


Il castello di Krasnojarsk era un luogo angusto e buio, non si conoscevano precisamente i piani che lo costituivano e non era ben noto l'orientamento delle stanze e come raggiungerle, neanche quante rampe di scale salire o scendere, e quanti sotterranei si trovassero in fondo. Era tutto situato male e chi cercava un appiglio, un punto di riferimento, una minima organizzazione, veniva sconvolto e rimaneva confuso più di prima.
A tutto ciò, Juro Sakamoto era stato preparato, o almeno così credeva. Ora che si ritrovava lì, tra quelle macabre mura in pietra antica e dove la luce più remota non era altro che uno spiraglio d'inferno, sapeva che nulla sarebbe stato facile così come aveva sperato.
Aveva salito varie scale ed ora non riusciva a capire cosa lo circondasse. Il buio affranto invadeva le sue pupille e un odore di muffa distruggeva il suo apparato sensoriale. “Chissà da quanto tempo una cameriera non fa visita al castello...” era uno dei tanti pensieri che proprio non doveva affollare il suo cervello già abbastanza incasinato.
Si prese qualche attimo per ragionare sul da farsi e appoggiato alla parete poteva sentirne il tocco freddo e deciso.
Juro era un tipo abbastanza in gamba, era sempre stato alquanto ambizioso e non s'era mai immaginato in quella drastica e viscida situazione. Avrebbe preferito tante cose, come ad esempio starsene sul comodo e malandato divano di casa sua, guardarsi un drama giapponese o perdersi in qualche manga passato di moda.
E riflettendoci, avrebbe avuto il cuore anche più leggero, più vuoto e acerbo.
Invece no, era tutto diverso, tutto distorto, la stessa realtà gli appariva distorta, la sua precaria missione gli appariva distorta.
E la stupidità molte volte prendeva il sopravvento, come adesso che s'era appoggiato alla pietra levigata e riprendeva fiato, sull'attenti ad ogni singolo rumore. Aveva le mani in tasca e se le stringeva e contorceva; la paura si era impossessata del suo orgoglio e del suo strano senso di lucidità.
Avrebbe voluto liberarsi i polmoni con una decisiva imprecazione, la verità era appunto che non sapeva più come diamine ritornare indietro e non ci teneva neanche un po' a passare la notte in quel meandro di castello inquietante al massimo.
«Cosa faccio, eh? Cosa faccio adesso? Sì Juro, cosa fai? Dai bambino, metti in moto il cazzo di cervello...» Le piccole finestrelle in alto e quelle invece più grandi che riflettevano un certo stile gotico, davano pochi segnali di luce, non che fuori fosse bel tempo o brillasse la luna, però diamine... dov'erano le stelle? Non si diceva forse che a Krasnojarsk il cielo appariva più bello? No. Forse quella era una qualche città europea di cui confondeva la provenienza con proverbi.
Strinse i pollici così forte da farsi male e riprese a camminare. Tanto valeva cercare una possibile via di fuga, di certo se fosse rimasto appoggiato alla parete non sarebbe accaduto nulla. Non è che i passaggi segreti s'aprivano con lo schioccar delle dita: ce ne voleva per quello!
Fu così, un po' per errore, un po' perché non ci vedeva un beneamato nulla, che Juro affrontò il suo primo cadavere.
Scivolando lungo le piastrelle impolverate, qualcosa gli era urtato contro e con un precario equilibrio, quasi non ci cadeva sopra.
Questa volta imprecò e niente gli impedì di farlo, soprattutto quando si accorse che davanti a lui non c'era un sacco di patate o un clown svenuto ma una figura normale, rannicchiata su se stessa, in posizione fetale, piccola e indifesa.
«Cosa diamine...?» Nel buio pesto, accovacciandosi al suo fianco, Juro intravide un viso familiare e sconvolto dal sonno.
L'inerme corpo di Grethel era stato percosso, Juro però non riusciva a vedere molto o a capire molto della sua situazione clinica.
Se prima il problema era uno solo, ovvero come ritornare da dove era venuto, adesso ne sorgevano due di problemi. Per quanto fosse alta la sua percentuale di difetti, non si poteva considerare inetto e ciò lo spingeva ad un strano senso del dovere.
Avrebbe dovuto prendere quella giovane figura tra le sue braccia e brancolare nel buio. Ma... se fosse stata una trappola? Una trappola dei clown? In fondo nessuno sapeva ch'era uscito dalla Veglia Nera; nessuno aveva ancora visto i clown e forse tutto era stato previsto da quelle menti spregevolmente diaboliche.
Che orrore, che terribile dilemma.
Avrebbe dovuto svegliarla ma sembrava che si trovasse davanti ad un caso di svenimento proficuo. Sì. Gli svenimenti in casi del genere, dove manco lui sapeva come uscirne, diventavano proficui.
Tutto si complicava con lo scorrere degli istanti, di quel tempo che vi era stato proibito e Juro sapeva bene che seppur gli era stato tolto l'attimo, quello c'era sempre. Inesorabilmente.
L'oblio però ha sempre una fine ed ella giunse da lontano con una lentezza immane. La luce spettrale che il corridoio adesso emanava, destò Juro dai suoi marchingegni e i suoi occhi furono abbagliati da una torcia bianca; il silenzio si espanse come tentacoli di un polipo ed ora le gambe gli tremavano, perché così era giusto. Perché avere paura è lecito anche per un uomo.
Trattenne il fiato quando la luce si spostò sul corpo ch'era al suo fianco e lui poté vedere un viso bianco. Quei visi che aveva sognato la notte per troppe notti, quel pallore che lo aveva perseguitato insieme agli occhi ghiacciati di orrore. Sapeva adesso cosa si provava a ritrovarsi davanti un clown.
I clown, quelle figure tanto ignobili e meschine. Esseri viventi la cui umanità era sparita in un soffio di vento in una sera di tanti, troppi anni fa.
Il loro particolare fascino si univa alla voglia di ucciderli ora, adesso, in quell'istante inesistente.
Un istinto sconosciuto suggerì a Juro di proteggere il corpo inerme sul pavimento con se stesso; piazzatosi davanti aspettò che i passi del clown si fermassero e smettessero di avanzare verso di lui trascinando il peso e le pene.
«Posso... io posso spiegare». Il suo tentativo di parlare si affievolì man mano che la luce si avvicinava e per un attimo fu tentato di mettersi a correre.
Cosa accadde dopo, è difficile anche per lui ricordarlo. Sentì il tocco freddo di dita marmoree e subito una stretta attorno alla gola. La torcia cadde dalle mani del clown e rotolò sulla pietra. La voce di Juro si strozzò e tentò di portare tutto il suo peso sui polsi del clown, su quel freddo che s'insediava nelle ossa e le schiacciava lentamente. Traballante, capì che non aveva più ossigeno, che stava andando in apnea e poi forse sarebbe morto strozzato.
Gli occhi fuori dalle orbite ed un unico pensiero che volava alla sopravvivenza. Dov'era? Cosa... i pensieri si offuscarono e un attimo prima di perdere i sensi, il clown lasciò andare la presa e il corpo di Juro cadde su quello di Grethel con un sonoro tonfo.
Non lo aveva ucciso, si disse. Aveva solo fatto in modo che svenisse lì e venisse abbagliato dalla luce bianca. Lo aveva visto in faccia? No, credeva di no.
Il clown si accovacciò sul fianco di Grethel e ne scorse il viso martoriato. Cosa ci faceva lei lì? In quel corridoio? Si guardò intorno e riprese la torcia in mano, illuminando gli angoli che non riusciva a controllare finché non fu sicuro che nessuno per ora s'era fatto vivo.
Doveva assolutamente, in qualunque modo, portare entrambi i corpi fuori da quel luogo, riportarli nella Veglia Nera dove tutti i partecipanti si trovavano al momento.
Fu distratto però dai lineamenti pallidi della giovane ragazza e fu risucchiato dal rosso vivo dei suoi capelli.
Li ricordava corti e al vento, che si spostavano su un viso gioviale e un corpo da bambina.
La mano marmorea si posò sulla guancia tiepida di lei e gli sembrò di ritornare indietro di molti anni, in quel giorno di fine inverno; ma si riprese subito e alzatosi di scatto, issò entrambi sulla schiena. - La Veglia Nera era una stanza immensamente grande, luminosa, arieggiata. La prima cosa che colpiva erano gli specchi che la caratterizzavano. Le pareti, a differenza dell'intero castello, erano totalmente coperte con grandi lastre di vetro. Il pavimento era liscio e bianco, pulito.
Ai lati era possibile trovare dei tavoli in legno, dell'acqua, del cibo inscatolato con marche internazionali. Era una stanza di ristoro che porta un minimo di fiducia negli animi dei presenti.
Grethel si era svegliata e la circondavano con una nuova impronta di curiosità. Era stata affidata alle mani di Chitra Subram, origini arabe. Sembrava che la donna avesse una certa dimestichezza con le più basilari conoscenze dell'arte medica.
Di fatti, la giovane era stata svegliata con un forte odore di sali, ed anche Juro aveva ripreso conoscenza grazie ad essi.
In un mare di occhi indagatori, i due si ritrovarono spalla contro spalla con un atroce mal di testa post traumatico.
«Cosa vi è accaduto?» Fu una delle più ripetute domande espresse dai presenti.
Grethel si guardò in giro, aveva la vista un po' annebbiata e scorse lineamenti di tutti i generi; persone che mai in vita sua aveva pensato di conoscere.
C'erano un po' di etnie, o quasi. A quanto pareva, i partecipanti erano in tutto undici e solamente tre circondavano i pazienti, i rimanenti sei erano sparpagliati nella grande stanza e sembravano incomprensibilmente impegnati.
Talmente che fu scossa dalla luce forte della stanza che fu costretta a proteggere gli occhi con entrambe le mani e Chitra le consigliò di socchiudere per qualche minuto le palpebre.
«Così ti abitui a questa intensità», era gioviale e alquanto di bell'aspetto. La sua pelle olivastra faceva da contrasto a lunghi capelli di un nero ramato che arrivavano fin sotto al sedere, gli occhi nocciola brillavano di quiete ed era alquanto magra e flessuosa nei movimenti che faceva per aiutare Grethel a ridestarsi dal torpore.
Nel frattempo Juro si sentiva mancare l'aria, percepiva ancora le dita del clown sul suo collo e non riusciva a respirare bene. Al suo fianco vi si trovava Salimah Chukwu, origini nigeriane. Aveva un odore particolare che ricordava tanto frutti esotici mai mangiati, la sua pelle scura contrastava con quella giallognola del giapponese e la grandezza di un così strano evento vi si percepiva proprio in quello: il mondo diviso si univa sotto ad uno stesso tetto incredibilmente.
«Come sono arrivata fin qui?» Fu poco più di un sussurro ma deciso, così Grethel strinse il braccio alla gioviale Chitra e strizzò gli occhi, adesso più lucida.
La donna rimase interdetta.
«Io... non lo so». Rispose in un inglese un po' stentato.
Grethel lasciò la presa e permise così all'araba di allontanarsi; girò il busto e si ritrovò davanti Juro e Salimah che erano intenti a controllare le tracce sul collo del ragazzo.
La giovane fu abbagliata a sua volta dalla diversità d'etnia e strinse le labbra per non domandare anche a loro da dove fosse sbucata e chi l'avesse trascinata fin lì.
Grethel non ricordava nulla.
Aveva solo un vago ricordo di qualcosa che la punzecchiava permanentemente sul ventre e la tagliava, ma poi? Quanto tempo era passato e cosa stavano facendo adesso? Aveva dormito? Aveva bevuto, per caso? C'erano tante probabilità ma nulla sosteneva una situazione così.
Chitra ritornò da dov'era andata, muovendo sensualmente i suoi fianchi; c'erano uomini nella stanza che si girarono ad osservarla e Grethel fu sconvolta nel vedere quelle occhiate fugaci quando loro stessi erano stati catapultati in un'altra dimensione.
«Bevi dell'acqua, sarai disidratata». Era gentile almeno, e le persone gentili le aveva sempre in qualche modo rispettate.
«Dimmi ciò che sai, allora».
La donna si sedette sul pavimento al suo fianco, erano infatti sdraiati su dei sacchi a pelo non troppo comodi che puzzavano di nuovo.
«Io non so nulla, mia cara. Non so neanche il tuo nome».
Ed era vero, non si conoscevano affatto.
«Mi chiamo...» si schiarì la voce, «Grethel Hale e vengo dall'Inghilterra».
«Io sono Chitra Subram, dall'Arabia. Loro sono Juro Sakamoto, dal Giappone, e Salimah Chukwu, dalla Nigeria». Grethel si girò di nuovo e strinse la mano ad entrambi. Il giapponese la guardò un po' più a lungo del dovuto; il suo sguardo torvo non diceva nulla di buono.
«Perché siamo qui?» La prima domanda era sprofondata in un abisso di incertezze e la seconda sembrava sul punto di cadere lì dove era traballata la prima.
Chitra Subram si leccò le labbra per pensare forse ad una giusta risposta.
«Non so neanche questo, Grethel». La giovane scrollò le spalle, le pareva ovvio che non lo sapesse. Cosa in fondo si sapeva di ciò che era e stava per accadere?
«Cos'è questa stanza, allora? I clown... i clown dove sono?» Chitra sorrise, era lecito che Grethel avesse la mente tanto piena e sputasse fuori tutti i dubbi che sorgevano.
«Non ho risposte per te oggi. Nessuno ce le ha, stavamo tutti aspettando un tuo risveglio per sapere cosa ti fosse successo e cosa fossi disposta a dirci».
Quella pretesa rimase sbigottita la giovane che non aveva la più pallida idea a cosa si stesse riferendo. Se loro non sapevano niente, perché avrebbe dovuto saperne qualcosa lei?
«Neanche io so qualcosa. Dillo a tutti se questo stavate aspettando». S'imbronciò; vedeva meglio sì, era più sveglia sì, ma i muscoli le dolevano, perfino la testa le faceva male.
Chitra si morse le labbra e poggiò entrambe le mani sulle spalle della sua paziente rivolgendole un familiare sguardo materno.
«Sei sicura di non voler dire niente? Non eri con noi quando siamo stati portati qui, Grethel. Forse hai incontrato i clown? Sei stata trattenuta di più quindi qualcosa avrai pur... visto, non trovi?»
Le parole scorsero come un fiume in piena e Grethel rimase esterrefatta. Non erano innocue domande che si insinuavano pian piano tra due persone. Erano precise e dirette; ma cosa avrebbe dovuto rispondere adesso? Non c'era nulla di concreto nei suoi ricordi, non poteva soddisfare quella curiosità innata di Chitra ed iniziava anche a sospettare del suo buon animo.
«Non lo ricordo». Fu tutto ciò che riuscì a dire.
«In che senso non lo ricordi?»
Grethel tirò su le spalle e ripeté: «Non lo ricordo, non so cosa io abbia fatto. Sono alquanto confusa e credo che sia giusto così».
Chitra strinse le labbra e si ritrovò dopo poco ad annuire, non più sull'attenti.
Juro e Salimah avevano attentamente ascoltato la conversazione tra le due ma nessuno intervenne; il primo era sconvolto: come poteva non ricordare niente? Lui ricordava ogni singola cosa ed aveva sperato ardentemente che al suo risveglio ci fosse stata un minimo di chiarezza. La seconda continuava a massaggiare il collo del giapponese con dell'ovatta bagnata d'acqua e sembrava presa da ciò.
«Cosa si fa adesso?» Sussurrò Juro, girandosi verso Grethel che ricambiò il suo sguardo ed arrossì lievemente.
«Quello che stavate facendo prima del mio arrivo immagino...»
Chitra sbuffò ma si ricompose quasi subito con un sorriso compiacente.
«Siamo stanchi di aspettare Grethel. I clown non si sono ancora fatti vivi, siamo stati tutti sedati e portati in questa stanza tranne tu e... beh, Juro dice di essere stato assalito durante la dormiveglia qui. Poi sei comparsa e noi tutti, come giusto che sia, siamo confusi. Vogliamo spiegazioni proprio come le vuoi tu e non ci basta passare ore intere in questo luogo con scatolette in alluminio e questi... specchi che ci stanno col fiato sul collo».
Grethel abbassò lo sguardo sul pavimento ed affondò la testa nelle mani.
«Dimentichi che il tempo si è fermato, per loro non è un'attesa; siamo in bilico tra il nostro passato ed il nostro futuro». Rispose Salimah e Juro si stese sul sacco a pelo.
«Struggerci con queste domande non porterà a nulla di buono. Lasciateci dormire adesso, siamo entrambi alquanto esausti».
Salimah si ritrovò d'accordo con il ragazzo ma Chitra titubò ad alzarsi e a lasciare la sua paziente nelle mani di qualcuno che non si fidava troppo. Decise di postarsi in un angolo per riuscire ad osservarli meglio, nel caso non stessero dormendo.
Appena le due si allontanarono, anche Grethel si stese sul suo improvvisato letto e trovò sollievo poggiando la testa sul cuscino sintetizzato.
C'era un brusio di sottofondo, il suo corpo era rivolto verso uno dei tanti specchi e guardava il suo sfinito riflesso lanciare un'aura di pesantezza. Avrebbe tanto desiderato una doccia momentanea e lasciarsi andare un po' a quell'incoerente situazione.
Non era vero che non ricordava nulla; nella sua mente erano ancora impressi gli occhi di un verde smeraldo e la lucente pelle di un clown memorabile. Chi fosse non lo sapeva ma era presente, immerso nei suoi più custoditi ricordi.
E ricordava la stanza buia dove s'era procurata la fitta al ventre ma il resto era oblio finché non s'era svegliata in quell'altra stanza piena di luce e piena di avvoltoi.
Il respiro regolare del ragazzo al suo fianco, la tranquillizzò ed era sul punto di lasciarsi andare ad un leggero pisolino, quando un sussurro la trascinò via.
«Non muoverti». Era Juro che aveva avvicinato il suo sacco a pelo e muoveva impercettibilmente le labbra contro la sua schiena.
«Se mi senti, annuisci lentamente».
Grethel si ritrovò ad annuire.
«Ora stammi bene a sentire: se stai mentendo, continua a mentire. Non fidarti, sii precisa e non lasciarti abbindolare. Stanno aspettando solo questo. Non fidarti neanche di me, soprattutto di me. Ripeto: se stai mentendo, continua a mentire. Siamo d'accordo?»
Ancora una volta, Grethel annuì.
Sentì il ragazzo che si muoveva sul sacco a pelo come se stesse vivendo un sonno agitato e lei fece altrettanto. Niente era accaduto. -- Hussein e Iesa erano gemelli omozigoti.
I loro tratti del viso non avevano nulla che li distinguessero. Erano confondibili come due gocce d'acqua; di origini arabe, provenienti dal sud di quella che un tempo era stata una florida Mesopotamia.
Non avevano più di quarant'anni, di statura bassa e una pelle baciata dal sole con grandi occhi scuri che incantavano chiunque. Una corporatura forte ma niente affatto grossa.
Erano seduti a gambe incrociate l'uno di fianco all'altro nella Veglia Nera, la stanza dove tutti i partecipanti si trovavano.
Avevano guardato a lungo i due ragazzi sotto le cure di Chitra e Salimah, si erano consultati attraverso brevi ed intensi sguardi ed adesso si ritrovavano circondati dagli altri uomini e donne che non sapevano come comportarsi. C'era chi non trovava logico la presenza di quei due, c'era chi diceva che avevano già avuto il piacere di incontrare i clown e c'era invece chi -come loro- se ne stava zitto, un po' in disparte a pensare tranquillamente.
Iesa stringeva tra le mani un narghilè ed ogni tanto avvicinava la bocca e ne traeva conforto.
C'era un'ala della stanza impregnata di fumo ed un'altra invece ch'era inebriata dei profumi esotici di Salimah.
Entrambi i gemelli consideravano una saggia e bella iniziativa quella di creare un luogo che rappresentasse la loro vecchia vita. In fondo erano giunti fin lì per lasciar correre via l'animo e le tradizioni, ciò che era stato già vissuto e quello che avrebbero preferito mai vivere.
Hussein schioccò la lingua sotto il palato e fece scorrere il pollice lungo la guancia liscia e quasi niente barbosa.
«Cosa c'è che non ti convince, Iesa?» Fu poco più di un sussurro, suo fratello sospirò lasciando evaporare il fumo dalle sue narici.
«Vedo la distruzione, la percepisco». Hussein annuì e strinse la mano attorno al braccio di Iesa.
«Si stanno avvicinando, lo sento. Crollerà tutto». Fu la sua risposta e lentamente si girò dietro, verso gli specchi ed il suo calmo riflesso.
Le labbra si toccarono e le sue dita si posarono sul vetro.
In quel momento, tutti i presenti in sala si fermarono a guardare quel gesto. Chitra e Salimah si erano avvicinate, gli altri erano già lì.
Tranne Juro e Grethel.
Fu un attimo, un eterno attimo che si imporporò di terrore. L'aria ribolliva di segretezza, il sudore colava dalle tempie e c'era una sottospecie di batticuore che tenne tutti sul filo di un rasoio.
Non appena la mano di Hussein fu appoggiata sulla lastra in vetro, emise fumo bianco. Non ci fu rumore, non ci furono parole. Sbalordimento ed accanimento allo stupore si innalzarono come sentimenti umani.
Senza indugiare la ritrasse e Iesa fu il primo a vedere l'imminente ustione del palmo.

Angolo Autrice: In ritardo? In ritardo! Insomma, chi è che non è mai in ritardo? Non io, questa è una cosa appuratissima.
Vivendo i miei alti e bassi, ecco a voi il terzo capitolo della Giostra Umana.
Non so quanto possa esservi piaciuto e non so neanche se la piega che sta prendendo la storia, vi stia annoiando o meno.
Nel dubbio, vi assicuro che ce la sto mettendo tutta, che è mio compito portare a compimento le storie dei clown e quella di Grethel,
Spero con tutto il cuore che entriate a far parte del gruppo facebook, così da essere sempre aggiornati sulle storie e su ciò che potrebbe ipoteticamente accadere.
E spero sempre di non avervi deluso.
Ringrazio tutti per il sostegno, siete fantastici e non credo di meritare lettori come voi <3.
Un bacio!
Il prossimo aggiornamento avverrà il più presto possibile!

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