Il soldatino di piombo di LaraPink777 (/viewuser.php?uid=646593)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 1 *** 1 ***
Il soldatino 1
N/A Challenge CK – LP (va bene, va bene, Cartoonkeeper
– LaraPink :P )
Scrivere una tartastoria ispirata ad una fiaba.
Naturalmente io ci ho schiaffato il mio solito stile
realismo-angst-sensualità. 4 U, baby :*
Spero che vi divertiate a leggerla. Io naturalmente mi sono divertita
tantissimo a far patire i nostri eroi; degna pausa tra le fatiche di fine anno
scolastico. Tartascrivere è… favoloso XD
Un abbraccio e vivete tutti felici e contenti!
“Every day is so wonderful
Then suddenly it's hard to breathe.
Now and then I get insecure
From all the pain, I'm so ashamed.
I am beautiful no matter what they say.
Words can't bring me down.
I am beautiful in every single way.
Yes, words can't bring me down....
So don't you bring me down today.”
Elvis Costello, Beautiful
Sedeva sul
gradino della zona centrale, fissando le pareti di carta del dojo. Aldilà, come
in un gioco di ombre cinesi, riusciva a vedere le forme dei suoi fratelli e del
suo maestro, impegnati in un intenso allenamento. Si erano divisi a coppie, e
mentre Donatello affrontava Michelangelo, Raffaello questa volta se la stava
vedendo con il maestro Splinter. Fino a poco tempo fa, avrebbero potuto allenarsi
in coppia tutti i fratelli, a due e due; adesso, il loro maestro doveva
prendere, a turno, il ruolo di avversario negli esercizi dei suoi figli.
Questa volta, Leonardo non li aveva voluti neanche
raggiungere nel dojo, ad assistere da spettatore a ciò che non avrebbe più
potuto fare. Con la scusa di voler leggere, era rimasto lì, da solo. La pila di
vecchi libri che Michelangelo aveva amorevolmente posto accanto a lui non era
stata toccata, però.
Non aveva
neanche più voglia di leggere.
Le forme si
muovevano rapide dietro la parete di carta. Apparivano e sparivano, visioni
oniriche e fugaci, come carpe koi guizzanti in fondo al lago ghiacciato.
Il giovane
mutante mascherato in blu sospirò, nella stanchezza, nel leggero intontimento
dei farmaci, nel sottile e costante dolore. Premette i polpastrelli sulle
palpebre chiuse, e arabeschi rossi e bianchi si rincorsero nel buio.
Distese le
braccia, poi spinse con le mani ai lati della sua seduta, per sollevarsi un po’
e cambiare posizione cercando di muovere meno possibile il bacino. La prospettiva
di non ricevere la solita fitta di dolore da quel che restava della coscia si
rivelò però una speranza vana.
Ne valeva la
pena? Ne era valsa la pena? Sì,
certamente, si diceva in continuazione.
Una gamba
vale una vita, vale una vittoria, vale la sconfitta del loro nemico. La sua
menomazione vale tutto questo.
Vale lei.
Eppure…
Il
moncherino in cicatrizzazione, sotto le bende, prudeva.
Ne era valsa la pena? La lotta,
la pioggia. Riflessi di lame, fulminee. Il dolore, il sangue. Le grida
concitate che lo chiamavano, su quel tetto. Le sue urla, verso il cielo, il
panico, i piedi fasciati dei suoi fratelli che battevano contro il cemento, schizzando
l’acqua che sotto di lui era rossa. E pelle a brandelli e carne, dilaniata, ed
il bianco orribile delle ossa; le braccia di Raph che lo tenevano, nelle
convulsioni, con l’avambraccio forte del fratello a premere sulla sua bocca,
col gusto di sangue e sudore, per soffocare le sue urla. Le mani di Donnie che stringevano,
dolore caldo e bianco, strazio, le sue dita a chiudere l’arteria. L’acqua
scrosciava forte, un lampo squarciava il cielo; Mikey, in piedi sopra il corpo
del nemico, sfilava la katana ancora incastrata tra l’orbita occipitale ed il
casco Kuro Kabuto. Poi il buio.
Leonardo
strinse gli occhi, al ricordo. Un intorpidimento dei sensi, febbrile, lo stava
cogliendo, ancora una volta. Le rimembranze si facevano vischiose e calde, i
pensieri si confondevano, la percezione dell’ambiente intorno a sé sfumava,
dilatando lo spazio in un’infinità nera. Iniziò a respirare più forte.
Il sangue. Il dolore.
Aprì gli
occhi di scatto, e prese un profondo respiro.
Grugniti
della lotta giungevano dalle ombre cinesi. Girò lentamente, con stanchezza, lo
sguardo ai libri accanto a sé, accarezzò il dorso di alcuni di loro. La mano
tremava appena. Michelangelo gli aveva portato di tutto un po’. Thriller da due
soldi nelle loro brossure accartocciate dalle intemperie. Grandi classici che
non aveva ancora letto. Qualche vecchio libro della loro infanzia.
Tra questi
ne spiccava uno appena un po’ più grande degli altri, con la copertina di un
marrone chiazzato e scolorito; sul dorso consunto si leggeva a malapena il
titolo in caratteri che una volta erano stati dorati, prima che piccole mani
verdi li sfiorassero centinaia di volte, portando via il colore dalla
scanalatura sbiadita delle lettere.
Leonardo lo
sfilò piano dalla colonna di libri, e se lo mise in grembo. Memorie di quattro
piccole tartarughe rannicchiate sotto una coperta, ad ascoltare Splinter
leggere loro una fiaba da questo libro, al caldo, al sicuro, tra odore di
incenso e latte e cemento, tornarono agrodolci alla mente.
Fiabe di A. C. Handersen.
Aprì il
libro, lo sfogliò a caso. Nella sua memoria, i colori delle illustrazioni erano
ancora più vividi di quanto apparissero adesso su carta. Castelli, principesse
e cavalieri, palazzi di ghiaccio, sirene, un piccolo fiammifero ad irradiare
una visione.
Gli occhi si
fermarono su una pagina in particolare. Le dita verdi carezzarono amorevolmente
una macchia, goloso lascito sulla carta di una merenda bambina. Era sempre
stata una delle sue fiabe preferite.
“…Il bambino prese uno ad uno i soldatini di piombo
e li mise sul tavolo, guardandoli meravigliato. L'ultimo gli sembrò molto strano:
rimaneva perfettamente diritto, magnifico come il resto della truppa, ma aveva
una gamba sola…”
Un sorriso
amaro sfiorò il volto della giovane tartaruga.
Una gamba sola.
Si sistemò
sul cuscino nel gradino, ricevendo ancora il solito spasimo. Per fortuna, la
terapia del dolore di Donnie era stata abbastanza efficace, e lo strazio
all’arto fantasma diminuiva di giorno in giorno, riducendosi ad un dolore sordo
e sottile, costante e familiare. Sì, una gamba valeva la morte di Shredder. La
sua famiglia, adesso, sarebbe stata al sicuro, almeno un po’ più al sicuro.
Allora
perché non si sentiva fiero, audace, come il soldatino?
I suoi
pensieri furono interrotti da un frusciare lieve, a malapena udibile, a pochi
passi da lui. Qualcuno si stava avvicinando, venendo dalle stanze da letto.
Leonardo non si allarmò, poiché sapeva esattamente chi fosse. Anche così, anche
nelle sue condizioni, i passi della ragazza, leggeri come piume, erano appena percepibili
sul pavimento.
Era lei. Sua
“sorella” Miwa.
Karai.
La tartaruga
mutante voltò il viso verso la ragazza, e le sorrise. La giovane umana gli
rispose con un cenno del capo, ancora assonnata. In pantaloncini e t-shirt
neri, avanzò con la solita andatura elegante e sinuosa, aggraziata danzatrice, per
sedersi nel cuscino a pochi piedi da lui. Sbadigliò senza curarsi di portare
una mano alla bocca, e si strofinò gli occhi.
I capelli
neri che scendevano ai lati del viso erano spettinati ed arruffati. La pelle
era pallida ed un po’ arrossata dal sonno sulle gote. Gli occhi a mandorla
sembravano piccoli e pungenti come quelli di un furetto, senza il kajal vistoso
e le bande rosse del consueto trucco. Le solite occhiaie scure cerchiavano le
orbite, come sempre da quando era stata portata a casa.
Lo sguardo
di Leonardo indugiò appena un attimo nei suoi occhi caldi, ambra e cannella, sulla
sua maglia oversize che le nascondeva le snelle forme, ed infine scese, veloce
e carico dell’imbarazzo lieto dell’azione proibita, ad ammirarle le cosce,
bianche come il latte, e le gambe, toniche e muscolose.
“…il soldatino di piombo, attratto dalla bellezza
della ballerina di carta, non smise di guardarla nemmeno per un attimo…”
L’adolescente
mutante si sentì invadere dal solito fuoco caldo, proprio al centro del petto. Il
cuore, ancora una volta, accelerò il suo corso, e pensieri invadenti ed
impudichi nuotarono nel suo cervello per poi trasformarsi in piccoli pesciolini
guizzanti nei suoi nervi, giù verso tutto il suo corpo, indugiando irriverenti
in parti di esso nascoste. Da quando Karai era venuta a stare con loro, non era
più riuscito a ingannare sé stesso riguardo ai sentimenti che aveva sempre
provato verso di lei. Da sempre, dalla prima volta che l’aveva vista.
Quei
sussulti nel cuore adesso avevano un nome. Amore.
Lui l’amava.
Contro ogni logica, l’aveva sempre amata, anche quando era una nemica, anche
quando era feroce ed invincibile. Nelle loro lotte tra i tetti, nei loro
sguardi, nelle parole taglienti come lame; nei loro giochi pericolosi, fatti di
attese al freddo e momenti rubati, di scintille di lame e tocchi elettrici di
pelle contro pelle. Quando lei era forte come l’acciaio, ed altrettanto
implacabile.
Non come
adesso.
Ora, lei non
era che la pallida ombra della guerriera di un tempo. Da quando era tornata definitivamente
alla sua forma umana, qualcosa in lei semplicemente non andava. Nel suo corpo,
nella sua mente.
Debole e
perduta, spaventata come una bambina, passava gran parte delle sue giornate a
letto, nella camera che avevano allestito per lei. Mangiava poco, parlava
appena. Piccoli monosillabi, sussurrati piano, ed a volte neanche quelli. A
volte, sembrava che non sentisse o non capisse quello che le si diceva. In
alcuni momenti, scoppiava a piangere senza un perché. Aveva paura, sussultava
ai suoni, spalancava allibita gli occhi a pensieri che l’afferravano senza
preavviso, rubandole l’aria d’intorno. Quegli occhi, una volta duri e
determinati, sensuali e implacabili, vagavano adesso sperduti sulle cose senza
vederle, privi della loro luce, perdendosi in infinità celate dietro le pareti.
La dura kunoichi
era diventata delicata e fragile, come una
ballerina di carta.
“…egli credeva che lei avesse una sola gamba come
lui e questa supposta infermità rinforzava il suo amore…”
Splinter e
le tartarughe l’avevano accolta con dolcezza. Anche Raffaello le si era sempre
rivolto con tatto e cordialità, nonostante il rancore che aveva provato una
volta nei suoi confronti. Donatello, i primi giorni dopo la tremenda battaglia,
mentre rattoppava un po’ tutti e seguiva il terribile infortunio del fratello
maggiore, aveva cercato di essere d’appoggio alla sorella acquisita nel modo in
cui era capace; aveva parlato a lungo con Kirby O’Neil per farsi illuminare sul
complesso mondo delle turbe mentali. Ma niente di scientificamente acquisito si
sarebbe potuto applicare ad una ragazza che era stata cresciuta da un feroce assassino,
che aveva amato questi come un padre, che aveva passato lunghi mesi della sua
esistenza sotto le sembianze immonde di una feroce bestia ed aveva infine
subito un lungo e invasivo condizionamento mentale. Così, nonostante le
attenzioni di tutti, lei rimaneva nel suo mondo chiuso e desolato, distratta,
lontana.
Con un’unica
eccezione.
Vi era una
presenza nella tana, solo una, che riusciva a raggiungere il suo castello di
carta.
Michelangelo.
Quando non era nella sua camera, la ragazza restava ore attaccata all’arancione,
lo seguiva di stanza in stanza, quasi che solo con la tranquilla allegria del
mutante potesse trovare almeno un po’ di pace dentro di lei. Si sedeva sullo sgabello,
a guardarlo cucinare. Lo seguiva in lavanderia, quando lui faceva il bucato.
Silenziosa e strana, si limitava a guardarlo, e ad ascoltarlo parlare.
E
Michelangelo aveva assunto molto volentieri il ruolo di supporto a questa nuova
sorella. Sembrava molto felice di essere d’aiuto, ed ancor più felice che
qualcuno s’interessasse a ciò che faceva, ascoltasse le sue ciance, gli desse
quell’importanza che lui aveva sempre sentito di dover affermare con forza nel
competitivo mondo familiare con tre fratelli maschi maggiori. Per una volta,
non era lui quello piccolo e debole, quello da aiutare. Per una volta, lui era
la guida.
Le ombre
lasciarono il loro palcoscenico di carta, e si materializzarono nella zona
centrale in molto corporei, e sudati, mutanti che avevano finito l’allenamento.
Chiassosi ed
ansanti, i tre fratelli diedero il buongiorno a Karai e si sedettero sui
gradini, continuando a prendersi in giro ed a commentare la lotta. Michelangelo
terminò in una sonora risata una battuta sagace nei confronti del fratello in viola,
questa volta sconfitto, poi regalò al suo fratello invalido un sorriso, chiedendogli
cosa stesse leggendo.
Leonardo
abbassò lo sguardo al libro di fiabe, ancora sul suo grembo.
“Uh…
niente…” mormorò.
Ma
Michelangelo, ancora euforico di adrenalina, si limitò ad annuire, gentile, e
poi spostò ad altri la sua attenzione. Continuò lo scherzo con Donatello, si
deterse con l’asciugamano che aveva al collo il sudore dal viso, poi si voltò
verso Karai.
Non le disse
niente. La guardò e basta, sempre sorridendo.
La ragazza
si alzò da dove era seduta, si avvicinò al mutante in arancione, e gli si
sedette accanto. Gli occhi di Michelangelo si fecero ancora più luminosi.
Mentre
Splinter stava continuando a spiegare qualcosa a Donatello e Raffaello,
Leonardo seguì con lo sguardo lo spostamento della ragazza. Poi osservò
Michelangelo.
Ed
improvvisamente, si sentì male.
Vi era negli
occhi azzurri del suo fratello più piccolo qualcosa di indefinibile, una specie
di esaltata celebrazione nello sguardo che a sua volta egli rivolgeva a Karai.
C’era come un’onda, un’increspatura dell’animo, qualcosa che Leonardo non si
aspettava di vedere lì. Michelangelo guardava Karai, ma non come un fratello
premuroso avrebbe guardato una sorella in difficoltà, no, lui la guardava come
Leonardo stesso l’aveva sempre guardata.
In quel
momento, il mondo della tartaruga in blu si chiuse e si restrinse ad un puntino,
ed un altro tipo di dolore lo invase. Una vertigine avvolse la stanza.
“…uno gnomo nero e gobbo come un diavoletto.
Innamorato follemente della ragazza, era un rivale pericoloso…”
Leonardo non
sentiva le parole, non prestava attenzione a nient’altro che agli occhi azzurri
del mutante più giovane; questi si muovevano a seguire il discorso tra il
maestro ed i fratelli, poi tornavano fugaci a Karai, si spostavano ancora
quindi tornavano alla ragazza, e posandosi su di lei cambiavano appena
espressione. Si caricavano di un’intensità adulta e bramosa.
Il mutante
in blu scosse la testa, stordito al pensiero. I farmaci, sicuramente i farmaci
stavano distorcendo le sue percezioni, confondendo i suoi sensi. Gli facevano
credere ciò che sicuramente non era, materializzavano paure ed insicurezze in
demoni grotteschi.
L’idea
stessa era talmente assurda da essere quasi inconcepibile! Come poteva immaginare
che suo fratello, il suo piccolo e buffo fratellino, limpido ed ingenuo come un
bambino, provasse per la loro sorella acquisita nient’altro che un puro
affetto? Karai era la figlia di Splinter, la loro sorella maggiore a lungo
perduta e finalmente ritrovata. Lei era adesso la loro famiglia. Ma,
d’altronde, non era lui stesso caduto in quei pensieri incestuosi che adesso
cercava di negare al fratello? Non aveva lui, Leonardo, ammesso ormai a sé
stesso che quello che provava per Karai non era né puro né fraterno? Non aveva
dissuaso Donatello da indagini sul DNA della loro matrice umana, terrorizzato dall’ipotesi
che Splinter, oltre ad averli cresciuti come propri figli, non fosse, per via
del mutageno con cui erano stati tutti a contatto, anche dal punto di vista
genetico in un certo senso loro padre?
Lo
stordimento cresceva incalzante nella sua testa, accelerando il respiro in
rumorosi sibili. Il turbinio delle voci dei fratelli intorno a lui lo stava frastornando.
Il loro scherzare, troppo enfatizzato. Sentiva la testa martellargli, calda,
come sotto l’effetto di una forte febbre. Le risate, trascinate un po’ troppo, erano
insopportabili. Le loro bocche, così rumorose. I loro sguardi, gettati verso di
lui, nel patetico tentativo di coinvolgerlo, così fastidiosi; il loro odore di
sudore, e Karai accanto a Mikey, e suo padre, in piedi bonario, ed ancora voci
e voci e voci, come lo stridere di unghie sulla lavagna, e la loro presenza, invadente,
pesante, quasi a premere sul petto, togliendogli l’aria, e rumori, rimbombi,
boati lontani, suoni distorti, voci voci voci…
Lampi, e pioggia…
Il sangue. Il dolore. Lo slancio, sulla gamba
rimasta. La sua katana, impugnata a due mani, a trafiggere l’occhio del nemico,
che lo guardava, stupito. Il ferro dentro le cervella molle.
Il rombo del tuono.
“Basta!”
Tutti
congelarono, al suo urlo, e si girarono a guardarlo.
Leonardo si
prese la testa tra le mani. Goccioline di sudore si erano condensate sulla sua
fronte. Trasse un profondo respiro, poi tolse le mani, e si guardò intorno. I
suoi familiari lo fissavano, in silenzio, allarmati.
“Cose
succede, Leo?” chiede Donatello, alzandosi in piedi e dirigendosi verso di lui.
No! L’ultima
cosa che voleva in quel momento Leonardo era farsi visitare dal fratello. Come
un caso clinico, come uno dei suoi esperimenti su un vetrino. Continuare ad
essere il suo paziente ammalato, il povero guerriero caduto, il soldatino nella
scatola con una gamba sola, l’essere debole da curare, e compatire. Continuare
a suscitare la sua pietà. Lontano, doveva stare lontano…
Tese le
braccia davanti a sé.
“Niente”
rispose, ancora leggermente ansimante. Il suono della sua voce lo riportò alla
realtà rammentandogli chi fosse, o meglio, chi fosse stato. Leonardo, il
leader, il guerriero, il fratello maggiore. Provò senso di colpa e vergogna,
disgusto di sé stesso per aver ancora una volta fatto preoccupare la sua
famiglia, per essersi comportato da malato, da debole, da folle.
“Io, io sono
solo stanco… – cercò le stampelle, ai suoi fianchi, le afferrò con foga – Ho
solo bisogno… bisogno…” Armeggiò per mettersi in piedi, il dolore s’irradiò dal
moncone per tutto il corpo, quando lo mosse. Goffamente, cercando di
bilanciarsi, traballante. Ridicolo.
Donatello si
era fermato ad un passo da lui; adesso anche Michelangelo e Raffaello l’avevano
raggiunto.
“Solo… devo
solo riposare un po’…” mormorò, più a sé stesso che a loro. Gamba, stampelle,
gamba, nel difficile compito di salire il gradino, bilanciando il corpo, che
sembrava sempre voler cadere, mentre l’istinto gli suggeriva un appoggio che
non c’era più, che non ci sarebbe più stato, per salire questi due maledetti
gradini, adesso troppo alti, troppo scomodi.
Mentre si
allontanava, poteva immaginare dietro di sé gli sguardi scambiati tra di loro
dai fratelli, e quello abbassato di suo padre, poteva sentire dietro la sua
nuca la loro compassione; ma ciò che gli bruciava il petto come fuoco, era lo
sguardo morbido e dimesso, spaventato e confuso dei marroni occhi umani, che probabilmente
non erano rivolti verso di lui.
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Capitolo 2 *** 2 ***
Il soldatino 2
“It's you, it's you, it's all for you”
Lana Del Rey, Video Games
Un’altra
giornata scivolò via, lunga e pesante. Leonardo avrebbe voluto restare tutto il
tempo disteso sul suo letto, da solo, ma sapeva di non poterlo fare; si fece
forza per uscire dalla sua camera e consumare i pasti insieme ai suoi familiari,
giocare a scacchi con Donatello, ed infine guardare la tv con Sensei mentre i
suoi fratelli effettuavano una breve pattuglia serale per controllare una
sospetta operazione dei Dragoni Purpurei. Cercò di mostrarsi sereno, regalò ai
suoi qualche vuoto sorriso. Allarmarli avrebbe causato solo un aumento delle
loro attenzioni nei propri confronti. Avrebbero chiesto con più insistenza, l’avrebbero
osservato per cercare di carpire dalle sue espressioni i demoni che vivevano
nei suoi pensieri.
Si sarebbero
preoccupati ancor di più, e l’ultima cosa che voleva Leonardo in questo momento
era gravare ulteriormente sulle spalle dei suoi fratelli o su quelle di Sensei.
Aveva già dato sufficiente spettacolo della propria incapacità, ed adesso
voleva tentare di non dissipare al vento ogni minuscolo granello di orgoglio
che gli fosse ancora rimasto.
I suoi
fratelli, suo padre, non avevano colpa e già facevano tanto per cercare di
rimettere a posto le cose. Leonardo, seppur infastidito, era d’altra parte
riconoscente e grato per quello che stavano facendo per lui. Ogni loro azione,
ogni loro parola, era un’attenta e misurata opera nel cercare di farlo stare
meglio. La loro forzata normalità, i loro occhi che non indugiavano mai troppo
su di lui, limitandosi a guardarlo sempre oltre la parte superiore del suo
corpo; le loro piccole e mal dissimulate continue attenzioni, lo riempivano di
un’amara gratitudine che rendeva ancor più doloroso il suo senso d’impotenza.
Le
attenzioni di Splinter, poi, lo imbarazzavano oltre misura. Leonardo lo conosceva
talmente bene da saper leggere il significato di alcuni silenzi dopo le sue
frasi, quando in occasioni normali ci sarebbe stato qualcosa di più. Dava il
merito a Splinter di essere a volte un ottimo attore, quando questi lo rimproverava
per essersi attardato a dormire un po’ di più, o per stare curvo a tavola, o
distratto durante la sessione di meditazione; suo padre aveva chiaramente
intuito subito il proprio desiderio nascosto di non farsi trattare come un invalido.
Ma vi erano segnali nel comportamento del maturo mutante che Leonardo non
poteva non cogliere. Quell’impulso, subito frenato, di correre a sorreggerlo
quando si era sbilanciato alzandosi dalla sedia, rischiando di cadere; o quello
sguardo, un po’ troppo morbido e doloroso, che a volte leggeva nei suoi occhi.
Quell’espressione desolata di rimpianto, di perdita, che il mutante che era
stato Hamato Yoshi a volte non riusciva nascondere, e lasciava trasparire per
un attimo nei suoi occhi scuri, osservando i suoi due figli maggiori, i suoi
Miwa e Leonardo, i suoi guerrieri rotti. Il soldatino di piombo e la ballerina
di carta.
C’erano, nei
piccoli gesti del giapponese mutante, segni di una delusione dolorosa e dimessa,
non nei confronti dei suoi figli quanto piuttosto verso il destino stesso, che
sembrava non volesse finire di accanirsi contro di lui; un’amarezza sottile che
Leonardo captava facilmente. Il legame tra padre e figlio era troppo profondo,
per permettere un facile inganno. Splinter lo sapeva, e sapeva di giocare sul
filo del rasoio; il fatto che avesse evitato di guardare Leonardo negli occhi,
quando aveva pronunciato quel “naturalmente,
è solo un fatto temporaneo”, assegnando
la guida del gruppo a Raffaello, ne era
sicuramente la prova.
Leonardo
sapeva che non sarebbe stato per niente un fatto temporaneo. Anche quando
l’arto mozzato da sopra il ginocchio sarebbe completamente cicatrizzato, anche
quando Donatello gli avrebbe costruito “la
migliore, la più avanzata delle protesi, usando pure la tecnologia Kraang, se
necessario”, lui non sarebbe mai potuto tornare ad essere quello di un
tempo. Lottare, saltare, strisciare silenziosamente dietro al nemico con una
gamba di metallo? No, Leonardo non era un ingenuo. Sarebbe già stato tanto tornare
un giorno a seguire i suoi fratelli in pattuglia, per poi restare in seconda
linea quando le cose si fossero messe male.
Al massimo,
poteva sperare di restare nella scatola insieme agli altri soldatini. Ma non
sarebbe mai più stato come loro.
Lanciò la
coperta fuori dal letto, con stizza. Niente, con questi pensieri, con questa
rabbia nel cuore, il sonno non sarebbe mai venuto. Sentiva anzi l’angoscia
crescere nel petto come un fiume in piena, che rischiava di esondare da un
momento all’altro. Si trascinò dolorosamente sulle lenzuola sudate, si sedette
sul bordo del letto, ed accese la luce sul comodino. Prese in mano la sveglia
che crudelmente ancora indicava come mancassero alcune ore all’alba. Sospirò,
posò la sveglia ed allungò la mano verso la sua maschera.
La mano indugiò
un attimo, prima di raggiungere l’amata striscia di tessuto, poi l’afferrò con
troppa violenza. Se la cinse intorno agli occhi, infilò le gomitiere e la
ginocchiera. Avvolse accuratamente le mani ed il piede con le fasce.
Si fermò
improvvisamente, fascia tirata in una mano, e strinse gli occhi. Si chiese
perché lo stesse facendo. Perché continuasse a bardarsi come un guerriero,
quando non sarebbe potuto uscire dalla tana, e non avrebbe mai potuto
combattere. Per Sensei, si rispose, o forse per i suoi fratelli. O probabilmente,
perché non riusciva lui stesso a non vedersi che così. Sospirò e finì di
avvolgere la caviglia, si alzò in piedi, e saltellando raggiunse la cinture di
cuoio. Infilò le cinture, torcendo un po’ il flessibile carapace.
Uscì
silenziosamente dalla camera. Almeno, i rivestimenti in gomma ai piedi delle
stampelle non facevano il minimo rumore. Aveva bisogno di lasciare lo spazio
della sua stanza, ma non aveva davvero voglia di andare da nessuna parte. Magari
sarebbe potuto andare in cucina, a prepararsi un po’ di tè, o al dojo, a
cercare di meditare un po’, per tentare di calmare il tumulto che sentiva
dentro... L’idea di sedersi su quei cuscini che avevano predisposto per lui
affinché potesse unirsi a loro nelle sessioni di meditazione, dato che non
poteva ancora sedersi per terra, però gli fece risalire la rabbia nel petto, e
riaccelerare un poco il respiro. Sì, meglio la cucina.
Mentre vi si
stava dirigendo, passò davanti alla camera di Karai, e si stupì di trovarla
aperta. Si fermò un attimo davanti all’ingresso della stanza, e poi arrischiò a
fare un passo nella semioscurità all’interno.
Nella camera
aleggiava l’odore della ragazza, delicato e leggermente muschiato di sudore,
difficilmente percepibile dagli umani, ma chiaramente noto e distinguibile a
Leonardo.
Lui amava
quest’odore. Gli ricordava qualcosa di simile al vento buono che soffiava a
volte dopo la pioggia, portando con sé ancora il profumo dell’acqua. Ed ancora,
quelle piante, di cui non conosceva il nome, che solevano ornare alcuni
davanzali delle finestre, i cui fiori rossi perduravano per mesi sotto il caldo
dell’estate, tra la calura che si alzava dall’asfalto.
Ma di Karai
in quella stanza c’era appunto solo l’odore. Leonardo intravide il letto vuoto,
disfatto. Si chiese dove potesse essere andata, e decise di controllare in giro
per la casa. Non che avesse voglia di incontrarla, né di stare con lei:
nell’attuale condizione d’animo in cui si trovava, solo guardarla gli avrebbe
portato un peso nel cuore. Eppure, sapeva che non sarebbe stato tranquillo fino
a che non l’avesse trovata.
Stava per
lasciare la zona notte, quando si accorse che la porta della stanza di
Michelangelo era solo socchiusa.
Lanciò uno
sguardo verso la zona centrale, vide che non vi erano luci che provenissero da
nessun ambiente. Certo, non sarebbe stata la prima volta che avesse trovato la
ragazza semplicemente seduta da qualche parte al buio. Eppure, si voltò di
nuovo verso la stanza del fratello minore e decise di avvicinarsi. Uno strano
presentimento, assurdo ed irrazionale, iniziò a turbinargli nella testa, ed un
bruciore sottile si irradiò dalla bocca dello stomaco.
Aprì
lentamente la porta, proiettando la flebile luce del corridoio fino al letto;
sulla testata era appesa la maschera arancione. La forma di suo fratello era
perfettamente visibile sotto le lenzuola, il suo piastrone si alzava e si
abbassava al respiro. Occhi chiusi e bocca leggermente aperta, il viso
lentigginoso rilassato e sereno, dormiva profondamente.
Sul letto,
rannicchiata contro di lui, si distingueva un’altra piccola figura.
Il mutante con
la maschera blu restò congelato, con la maniglia in mano. Per qualche secondo
pensò che i suoi occhi lo stessero ingannando, che ciò che vedeva altro non fosse
che un’ombra, o un cuscino, o un intrigato nodo di lenzuola, lì, accanto al suo
fratellino, al buio, cinto dal suo braccio. Ma poi riuscì a distinguere
chiaramente la pelle chiara di lei, la sua mano, piccola, stretta a pugno, sul
piastrone del fratello, la gamba nuda, bianca, sfuggita dalle lenzuola. Il
piccolo piede umano a sfiorare quello grande del mutante.
Leonardo inalò
bruscamente, improvvisamente in mancanza d’aria.
Fece un
passo all’indietro, in bilico sulle stampelle, poi un altro, ed un altro. D’un
tratto, sentì di dover fuggire da lì. Da quella stanza, da quella vista, fuori
da lì.
Fuori da
quella casa.
Si girò,
iniziando ad allontanarsi sempre più velocemente. Il respiro, ansimante e
faticoso, crebbe con la sua fuga, si bloccò dal dolore per la fatica di
superare i tornelli all’ingresso, si riempì di polvere di cemento nei vecchi
binari della metropolitana, boccheggiò nel salire la scaletta verso il tratto
di congiunzione al sistema fognario, divenne sempre più rumoroso, si trasformò
in gemiti, in lamenti, in versi dolorosi e piagnucolanti. Un altro sentimento,
rosso e bruciante, lo invase, venne a sommarsi al vecchio dolore, allo
sconforto dei suoi pensieri, sommergendoli come l’esplosione di una diga;
qualcosa di nuovo e crudele, un senso di tradimento, gli annebbiò ogni altro
sentimento con una cortina di fumo grigio.
La gamba
doleva, il moncherino tirava e pulsava, irradiando fitte fino alla colonna
vertebrale; le stampelle iniziavano a segnare la pelle sotto le ascelle, l’affanno
rendeva sempre più difficile respirare, i polmoni chiedevano ossigeno ed il
cuore batteva forte nel petto, ma egli continuò a correre, e correre, miserabile,
stampelle gamba stampelle, arrancando, stringendo i denti; correre il più
lontano possibile.
Per un po’ non
pensò neanche a dove stesse andando, nella sua fuga rabbiosa, ma poi si accorse
che si stava dirigendo verso un posto noto, un posto non molto lontano da casa,
ma che adesso sembrava distante centinaia di miglia. Era un luogo che Leonardo
aveva sempre amato particolarmente. Pericoloso ed a lungo a loro vietato da
Sensei, era adesso uno dei posti in cui amava andare a sbollire, a riflettere,
a pianificare.
Si trattava
di un ampio locale sotterraneo caratterizzato da innesti e snodi di una giungla
caotica di tubature, grandi e piccole, che si incrociavano e si intrecciavano
per diversi livelli, scendendo giù in profondità per decine e decine di piedi.
Una delle tubature più grandi, posizionata in alto, proprio sotto i passi di
chi giungeva dalla galleria nella quale stava arrancando la tartaruga mutante,
si era rotta da tempo, e mentre i suoi pezzi si incastravano sparsi nelle
tubature incrociate più in basso, un copioso gettito d’acqua fuoriusciva,
ribollente e rumoroso, a rovesciarsi come una cascata nella grande vasca
sottostante, che si intravedeva parecchio in basso, bianca e schiumante.
L’acqua, gettandosi nell’abisso, si frantumava nel reticolato di tubi
disperdendosi in tante cascate secondarie, diffondendo nell’aria, appena
illuminata da una grata lì in alto, una nebbiolina sottile. Inoltre, non erano
acque nere. Leonardo non avrebbe saputo dire con esattezza di che acqua si
trattasse, ma essa era incolore ed inodore, e nelle fogne dove vivevano già
questo sarebbe bastato a rendere la situazione interessante. Il fatto che poi,
la luce che riusciva a filtrare in alcune ore del giorno dalle griglie in alto,
avesse permesso la crescita sui tubi sotto il gettito di un rigoglioso e
grondante tappeto di alghe, rendeva tutto ancora più affascinante, di una bellezza
esotica e selvaggia, pericolosamente viscida ed invitante.
Il locale si
apriva adesso pochi passi avanti al giovane mutante ormai esausto, ansimante e
stremato dal dolore. Si muoveva rigido, scomposto, gettando in avanti le
stampelle a casaccio, gemendo rabbioso ad ogni passo, finché, proprio alla
fine, allo sbocco della galleria nella grande sala, il ginocchio non cedette, e
lui rotolò nel fango, a pochi passi dalla voragine, tra cartacce e sporcizia,
la faccia a strisciare contro il brecciolino, il moncone a sbattere per terra, strappandogli
un grido di dolore che riecheggiò nell’apertura.
Leonardo chiuse
gli occhi, aspettando che il dolore tornasse a livelli sopportabili, ed il
respiro si normalizzasse. L’odore limaccioso gli riempì i fori di respirazione.
Strisciò, girandosi su un fianco; si prese la testa tra le mani.
Soffocò un
gemito d’angoscia.
Davvero, era
tutto qui? Possibile che la vita si riducesse a questo? Dolore, tradimento,
fango?
Che senso
nascere, per alcune creature? Forse era il destino, che crudele rinfacciava a
lui, tartaruga nata per essere acquistata e tenuta in una boccia, di aver
voluto puntare troppo in alto, nella sua pretesa di essere un ninja, un
guerriero, un eroe. Perché, si era allenato tanto? A che scopo, la sua continua
ed entusiasta ricerca al miglioramento che aveva rubato lui le migliori ore
della sua giovane vita?
Un cuore, il
destino beffardo gli aveva donato un cuore umano, capace di amare, e poi gli
aveva svelato che l’amore non è altro che un inganno. Poteva guardare le forme
diafane del suo desiderio, ma non ci sarebbe mai arrivato. E qualcuno, qualcuno
adesso allungava le sue mani, per giungere dove lui non era stato capace…
Il serpente
nero del sentimento nuovo gli strinse la gola. Nel cuore, una vibrazione insolita,
diversa, una rabbia sconosciuta e cattiva. Capì di cosa si trattasse, riuscì a distinguere
la sensazione feroce. Gelosia. Che
soffocava l’amore e l’onore, e dietro gli occhi chiusi portava visioni rosse e
malaugurate contro l’ultima persona che avrebbe mai creduto di odiare.
Odio. Un cuore capace di odiare. Era quindi odio questo
che provava adesso verso suo fratello? Non sentiva forse tra le mani un
formicolare, una voglia di tornare nel covo, saltargli addosso nel sonno,
riempire di pugni la sua piccola faccia insolente? Di colpirlo, fino a fargli
sputare sangue! Trascinarlo fuori da quel letto, prenderlo a calci, a calci! Come
osava, come si permetteva! Come aveva potuto fare questo, proprio lui! Proprio
Michelangelo! Il piccolo Michelangelo, l’ingenuo, il bambino… Quello a cui non
fregava niente di niente, eh sì, perché la vita è un gioco, pizza video games e
skateboard, piccolo ignorante, stupido, che non si era mai seriamente impegnato
in niente, che chiacchierava rumorosamente nelle missioni, toccava tutto, non
si curava dei loro impegni, dei loro doveri… Insolente, con quel suo sorriso
che sapeva girare le persone a suo favore. Ma come aveva potuto, con Karai!
Approfittare della sua debolezza! E poi era sua sorella, maledizione, sua
sorella!
Trasse un
profondo respiro, e si strofinò gli occhi.
No, no,
questo era ipocrita… E poi, in fondo, no… non lo odiava davvero. Non odiava suo
fratello, e non odiava Karai. Odiava solo sé stesso, per aver avuto questo
pensiero, odiava la sua menomazione, odiava la sua vita e…
Sussultò, al
rumore. Appena percepibile, col fragore dell’acqua che scorreva.
Spalancò gli
occhi verso l’oscurità da dove era giunto, ed il cuore prese a battere forte nei
fori auricolari.
Qualcosa,
qualcuno era lì.
Nonostante i
suoi pensieri, nonostante tutto ciò sul quale stava riflettendo, l’istinto di
conservazione era forte, e la paura salì nel suo petto. Non era in condizioni
di combattere. Non poteva difendersi, né scappare. Qualsiasi cosa si stesse
avvicinando, egli sarebbe stato alla sua mercé, come un soldatino nelle mani di
un bambino.
L’ombra si
materializzò in lontananza, nel cunicolo. Ondeggiò nella semioscurità, nero su
nero. Leonardo si alzò a sedere, strisciando per raggiungere la stampella più
vicina, gli occhi blu sgranati sbatterono più volte.
Poi, si
chiusero un attimo, con un sospiro. Le membra tese si rilassarono. Aveva
riconosciuto la forma dell’esile ombra.
Karai si
avvicinò a lui, senza una parola. Leonardo la seguì con lo sguardo, fino a
guardare in alto, alla ragazza in piedi sopra di lui. Lei lo squadrò con un’espressione
indecifrabile sul volto, poi gli si inginocchiò accanto.
“Stai bene?”
gli chiese. Ed ormai anche due sole parole da lei suonavano strane, la voce
roca e stonata dal poco uso, lo stridere di un violino rotto. Lo guardava in
viso, forse con appena un minimo cenno d’interesse nella suo solito sguardo
spento.
Leonardo fu
il primo a distogliere gli occhi.
“Che ci fai
qui?” borbottò infastidito invece di risponderle, tendendosi a raggiungere la
stampella.
Lei fece un
passetto di lato, sempre inginocchiata, l’afferrò e gliela porse. Lui gliela
stappò malamente di mano.
“Che ci fai
qui, Karai?” ripeté, brusco, alzando la voce. Lei si limitò a rialzarsi in
piedi, a prendere l’altra stampella, poi l’aiutò a tirarsi su, afferrandolo da
sotto un braccio.
Leonardo si
divincolò, con uno strattone.
“Torna a
casa, Karai” ordinò stancamente.
Lei non si
mosse; in piedi, si fronteggiavano, fermi. Una tensione vibrante sembrava
irradiarsi dall’adolescente mutante, infrangendosi come invisibili onde sul
corpo di lei, sui suoi vestiti stropicciati, sulla sua postura morbida. La
ragazza alzò una mano e la portò al volto di lui, lo sfiorò delicatamente; lui
si tese ancora di più al suo tocco, mentre lei gli toglieva qualche pietrina
dallo zigomo, rigato di sangue, inclinando la testa di lato, come un gatto, o
meglio un serpente, con l’aria estraniata, gli occhi marroni ferini e stupiti.
Leonardo si
ritrasse e le voltò le spalle. Non voleva vederla, non voleva che fosse qui. Come
mai lei era qui, a proposito? Doveva averla svegliata, entrando nella stanza di
Michelangelo. O forse non dormiva; non importa, non voleva pensarci. In ogni
caso, adesso non la voleva tra i piedi. No, troppo confusione nella sua testa,
troppi pensieri. Troppi nuovi sentimenti da analizzare. Voleva stare solo, non
voleva nessuno con lui, e soprattutto non lei.
“Vattene” le
disse ancora, riprendendo a camminare, avvicinandosi al bordo della cascata
d’acqua, che innalzava davanti a lui una nebbia iridescente, onirica, nella
prima luce dell’alba che stava iniziando a svegliare la città sopra le loro
teste, ignara di tutto.
I sensi
turbati, la febbre che si sentiva in corpo, i movimenti intorpiditi dal dolore,
l’agitazione per la presenza spietata di Karai vicino a lui. Sarà stato questo,
o più probabilmente il farmaco analgesico presente nel suo sangue, sommato allo
stordimento per aver battuto la testa per terra pochi minuti prima. Sarà stato
il capogiro che lo avvolse per un attimo, o il fortuito incastrarsi di una
punta della stampella nella fessura del cemento nascosta dalla sporcizia. O il
destino che si divertiva a giocare con lui, deridendolo, umiliandolo in una
letale situazione tragicomica.
Fatto sta,
non servì a nulla il movimento istintivo che la sua formazione ninja gli aveva
suggerito pure in queste condizioni, perché il piede sul quale si sarebbe
dovuto appoggiare per non cadere, non c’era.
E la mano,
anche se forte, scivolò sul bordo viscido quando tentò l’ultimo disperato gesto
per la salvezza.
Nel primo
tubo, appena una decina di piedi più giù, sbatté solo il gomito; in quello poco
più sotto invece ci arrivò proprio di testa. Fu lì che perse i sensi.
“… girando su sé stesso, la testa in basso e i
piedi in alto, cadde vertiginosamente…”
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Capitolo 3 *** 3 ***
Il soldatino 3
“So far away from where you are
These miles have torn us worlds apart
And I miss you, yeah, I miss you”
Lifehouse, From Where You Are Lyrics
La coscienza
andava e veniva.
Acqua,
freddo, buio. Dolore. Qualcuno che gridava il suo nome. Il suo corpo si
muoveva, sbatteva, girava. Una nuova dimensione, dolorosa e sconosciuta, dove
lo spazio si dissolveva in un turbinare liquido, lo avvolgeva e lo stringeva,
lo ruotava e lo sballottava, sospendendolo appena un attimo tra i flutti per
poi strattonarlo a forza via.
Acqua e desiderio
d’aria; affanno, smarrimento, tosse. Niente, e poi nuovamente coscienza. Momenti
lunghissimi di lotta per un respiro, tra neri vuoti. Una mano, sotto la sua
mascella, gli tirava la testa su, ma l’acqua turbinava in gola. Tossiva, ed
altra acqua entrava nella trachea, non poteva respirare. Giù, di nuovo con la
testa giù, sotto la superficie. Nuovamente buio.
Poi, ancora
la voce, a ritirarlo fuori.
“…passò momenti interminabili nell'oscurità,
bagnato dagli spruzzi dell'acqua agitata…”
“Leo! Le…
cof… Malediz… cof… LEO!”
Qualcuno era
lì con lui, nell’acqua. Tra gli spruzzi, nel buio, una voce gridava nei suoi
fori auricolari. Qualcuno lì vicino, che era avvolto a lui, lo stringeva e lo
spingeva a galla. Una presenza amica, che tentava di aiutarlo.
“Leo… cof
cof LEO! SVEGLIATI, LEO! Non ce la facc… cof…”
Leonardo si
aggrappò alla coscienza con tutte le sue forze, lottando per non farsi trascinare
ancora una volta nel nulla.
“Cof… Karai… Kar… cof cof… KARAI!”
La chiamo,
gridò il suo nome sopra il turbinio dell’acqua, come un’invocazione disperata;
si strinse a lei, nel panico, l’afferrò, ché non scivolasse via, ché non la
perdesse tra i flutti; lei, la sua ancora, la sua salvezza.
Lì, in quell’inferno
di acqua, Karai era con lui. La sua Karai.
Leonardo comprese
che erano sul fondo della sala, nella vasca turbinante. L’acqua schiumosa li palleggiava
in giro come giocattoli. Capì che Karai stava lottando per trascinarlo verso
una direzione, ma essendo più piccola di lui, e dovendo lottare contro la
corrente che turbinava, non ce la stava facendo. La sentiva, incuneata con la
testa sotto il proprio braccio, che stringeva forte con una mano, cercando
inutilmente di remeggiare con l’altra. La tartaruga mutante iniziò a muoversi
pure lui, prese a nuotare con il braccio libero, con la gamba, mosse anche
l’inutile moncherino, incurante del dolore che si irradiava.
Ansimando,
lottando per ogni boccata d’aria che riusciva mandare giù, alla fine si rese conto
che la corrente iniziare a decrescere. Karai lo tirò con minor resistenza. Allontanati
dal centro dell’enorme vasca, si avvicinavano ai bordi, dove l’acqua era più
tranquilla. Il buio era quasi totale, là sotto. Solo in alto, parecchi piedi
più sopra, si poteva vedere la pallida luce dell’aurora che da una grata
filtrava dalla superficie.
“Karai…” Il
mutante sentiva di aver dato tutto quello che poteva, e la coscienza iniziava a
scivolare nuovamente via da lui come sabbia tra le dita di una mano.
“Leo! Leo,
resta come me, adesso usciremo di qui, Leo!”
Leonardo
sfiorò il bordo della vasca, viscido di alghe. Le forze lo stavano
abbandonando; si aggrappò con entrambe le braccia al corpo esile e caldo della
ragazza. Era appena abbastanza sveglio
per capire che non sarebbe stato facile venirne fuori. Da quanto ricordava, da
quello che aveva sempre potuto vedere dall’alto, la vasca non aveva punti da
dove poter uscire, non essendo altro, in realtà, che il fondo di un alto pozzo
in cemento. Tutt’intorno, nessun appiglio; su di loro, solo i tubi, troppo in
alto per arrivarci. Lui non aveva con sé il suo T-phone; Karai non ne aveva mai
avuto uno. Avrebbero dovuto aspettare che qualcuno venisse a cercarli; sarebbe
passato un po’, prima di essere rintracciati. Erano soltanto lui e Karai.
Karai.
Questa Karai
che lottava, parlava e gridava. Così vicina alla Karai che aveva sempre amato,
e non la bambolina fragile che aveva girovagato per la tana nelle ultime
settimane come uno spettro senz’anima.
Si strinse a
lei, poggiò la testa nell’incavo del suo collo; lei lo avvinghiò a sua volta, con
le gambe intorno al suo carapace. Leonardo chiuse occhi. Sotto la pelle
morbida, sentiva il respiro ansimante della ragazza.
Karai si era
gettata nell’acqua per salvarlo. Per lui.
Aveva messo la sua vita in pericolo, per
lui.
Quest’ultimo
pensiero, dolce e amaro allo stesso tempo, lo accompagnò all’oblio.
“…Per il soldatino di piombo ci fu di nuovo
l'oscurità…
…
Le visioni
erano strane, deformi, fluttuanti. I suoni e le immagini che gli arrivavano a
sprazzi, quando emergeva a volte dall’oscurità, davano l’impressione di
qualcosa di noto, ma definire cosa era sempre appena al di fuori della sua
portata. Un solo pensiero, una sola sensazione, riuscì a imprimersi nella sua
coscienza. Aveva la forma curva di un fratello, l’odore noto di alcol, ed il
tocco di una mano sul suo braccio. Questo pensiero era “sono a casa, sono salvo”. Non capiva ancora quale fratello fosse
chino su di lui; ma andava bene così: era al sicuro.
Sbatté gli
occhi, accecati dalle luci del laboratorio di Donatello, che pure erano tenute
basse.
“Ben
svegliato, bell’addormentato.”
Girò la
testa di lato, verso la voce. La testa pesava quanto una montagna. Sbatté
ancora le palpebre, mise a fuoco. La forma accanto a lui si distinse. Accennò
un sorriso, poi deglutì e mormorò piano.
“Raph…”
Il fratello
mascherato in rosso gli fece un cenno, sorridendo con la sua solita aria
ironica; il suo sollievo si leggeva negli occhi.
“La prossima
volta che vuoi andare a fare un tuffo, dimmelo. Magari scegliamo un posto un
po’ più accessibile per la risalita, che dici?”
Leonardo
riportò il volto verso l’alto, e sbuffò; ma la battuta del fratello aveva
funzionato, ed un altro sorriso gli increspò la bocca.
“Come… – iniziò,
quando un improvviso pensiero gli fece spalancare gli occhi – Karai!”
Cercò di
alzarsi a sedere, ricevendo in cambio una fitta alla coscia ed un forte senso
di nausea. Raffaello lo riportò giù, mettendogli le mani sulle spalle.
“Ehi ehi!
Calma! Karai sta bene, sta dormendo. Anzi, sta benissimo, direi.” Diede un
altro mezzo sorriso, ed annui. “Sembra più normale, sai, tutta la cosa ‘stramba’…”
Iniziò a girasi un dito intorno alla tempia, ma il gesto si spense davanti allo
sguardo di ghiaccio di Leonardo, e Raffaello abbassò la mano, storcendo il viso
imbarazzato.
“Insomma –
aggiunse – sta meglio. Donnie ha parlato di qualcosa come ‘effetti dello shock’…
Quando vi abbiamo ripescato eravate mezzi assiderati; ma lei ci ha aiutato a
tirarvi su e ci ha raccontato come sei caduto. Ah, ed era incazzata nera con
te.”
Leonardo
sbatté gli occhi, e Raffaello continuò.
“E lo è
anche Donnie, perche ti sei incasinato la ferita, – prese a contare sulle dita
– Sensei, perché sei uscito dalla tana di notte nelle tue condizioni, e
naturalmente io, perché sei un idiota.”
Alzò un po’
la voce ed arricciò una mano a pugno, poi la aprì, sospirò, e poggiò la mano
sul piastrone del fratello.
“Ci abbiamo
messo ore per trovarvi, là sotto. Sei un idiota – ripeté, questa volta con aria
triste. – Non dovevi andartene in giro da solo con… nelle…”
“Nelle mie
condizioni?” Leonardo tornò a guardarlo, sorridendo triste.
“Sì, nelle
tue condizioni.”
Gli occhi
verdi, duri ma nello stesso tempo pieni d’affetto, non ammettevano repliche.
Sbatté piano la mano sul piastrone del fratello, poi si allontanò di un passo.
“Vado a dire
agli altri che ti sei svegliato.”
Ma quando
Raffaello tornò in laboratorio con i suoi fratelli ed il loro sensei, il
mutante in blu si era riaddormentato.
…
“Posso
entrare?”
Leonardo tolse
il braccio dal viso ed aprì gli occhi; era sdraiato sul letto in camera sua.
Per tutta la giornata era stato obbligato a non uscire dalla sua stanza. Così
come per le due giornate precedenti.
Tutto qui.
La punizione era stata ridicola. Donatello aveva spiegato a lui ed a Sensei che
la causa dello “strano comportamento” di Leonardo era dovuta all’inevitabile
stato di depressione a cui lo aveva portato la grave menomazione. Era un fatto
normale, aveva asserito il viola. E poi addizionava l’azione dei farmaci, e lo stato
febbrile che il blu stava attraversando.
Tutto
normale, insomma. Leonardo non si era comportato da folle, scappando da casa e
quasi rimanendo ucciso nelle fogne, perché era stata una sua, stupida,
decisione, ma perché era rotto, malato.
La conclusione a cui era arrivata la sua famiglia lo aveva ferito ancora più
profondamente. Aveva capito che Splinter alla fine gli aveva inflitto questa
ridicola punizione quasi per farlo contento.
Effettivamente,
non gli dispiaceva neanche, restare da solo. Non sopportava la compagnia dei
suoi fratelli in questi giorni, e voleva un po’ di tempo solo per sé, per
riflettere. Adesso, che la febbre era passata e che Donatello aveva ridotto i
farmaci per il dolore, era più lucido. La gamba faceva un male cane, il moncone
doleva ad ogni piccolo movimento, ed era tornato a volte il dolore fantasma,
come se qualcuno gli trafiggesse con la punta di un coltello la caviglia che
non c’era più. Ma riusciva a ragionare con più coerenza, i pensieri stavano
tornando ad incasellarsi uno dietro l’altro con l’ordine che li aveva sempre
contraddistinti. Aveva individuato questo nuovo nemico da sconfiggere, gli
aveva dato un nome, depressione, ed
il suo spirito guerriero lottava per non farsi sopraffare.
Non era
facile. Quando il nemico è in te, quando sei tu, non è semplice distinguere la
differenza tra i due fronti; il campo nemico si avvicina e si fonde con la tua
trincea, ed ogni colpo inferto è un colpo ricevuto.
Eppure,
qualcosa stava tornando a posto. Aveva letto un po’, aveva perfino meditato,
sul serio. Ed era riuscito a non pensare a lei, a non pensare a lei con lui, per alcune ore. Era quasi riuscito a
convincersi di essersi sbagliato, di aver travisato, e che in fondo non gliene
importasse più di tanto.
Quasi
riuscito.
“Entra.”
Adesso, dopo
tre giorni, lei aveva bussato alla sua porta, e stava entrando in camera sua. E
tutti i suoi propositi avevano preso fuoco, si erano accartocciati,
carbonizzati e ridotti in cenere.
Karai accostò
la porta alle sue spalle, lasciando però socchiusa una fessura. Indossava una
tuta nera, piuttosto aderente, ed una cintura grigia in vita. Leonardo non
l’aveva mai vista così. Da quando l’avevano portata a casa, aveva sempre
indossato i pochi indumenti che le aveva procurato in fretta April, per lo più dal
guardaroba suo e di Casey, che si riducevano a qualche t-shirt e qualche paio
di pantaloncini sportivi. Adesso invece indossava questa divisa che sembrava
fatta su misura, una vera tenuta da kunoichi; i capelli erano ben pettinati,
lisci e neri, senza la tintura bionda sulla nuca.
Sugli viso,
il consueto kajal corvino a delineare gli occhi, ma nient’altro.
La sua
bellezza fece male a Leonardo come un pugno.
Rimase
ferma, davanti alla porta chiusa; un braccio lungo il corpo, l’altro a
strofinarlo piano, su e giù. Leonardo non l’invitò a sedersi, lei non si mosse.
Un’espressione
fredda e decisa le riluceva negli occhi. Dopo quello che sembrava un secolo,
parlò.
“Io me ne
vado.”
Leonardo si
mise a sedere sul letto e la guardò, impietrito; incapace di articolare suono,
di respirare, quasi di comprendere ciò che aveva appena sentito. Lei distolse
lo sguardo. Il silenzio nella stanza si fece greve e vischioso. Il mutante sul
letto percepì distintamente accelerare i propri battiti cardiaci; aprì la
bocca, sbatté gli occhi blu, attoniti .
La ragazza
si voltò, posò una mano sulla maniglia.
Il mutante si
scosse, per fermarla. Afferrò una stampella, rapido, e si alzò.
“Karai…”
La mano della
ragazza si bloccò sull’impugnatura di metallo.
La tartaruga
mutante fece un passo verso di lei; la ragazza si irrigidì, la mano strinse la
maniglia fino a sbiancare le nocche, poi la rilasciò, piano e lei tornò a girarsi
verso di lui, un sospiro lieve le ondeggiò le spalle; gli occhi scuri
indugiarono un attimo in basso e poi si alzarono.
Fragile, vi
era ancora in lei qualcosa di fragile, in quegli occhi morbidi ed impauriti
imprigionati in un viso di ghiaccio, troppo duro per una ragazza che non aveva
neanche diciott’anni. Una vecchiaia di secoli, cristallizzata in un’esistenza
breve ed intensa, vecchie crepe di un quadro ad olio del ritratto di una
bambina infelice, di una donna dall’infanzia rubata, di un’assassina vittima lei
stessa.
La stampella
batté sul pavimento, il piede fece un altro passo avanti. La mano verde si sollevò,
esitò appena, nell’aria densa e pesante tra i due, e poi raggiunse ed afferrò
il braccio della ragazza, forte e delicato sotto il tessuto nero.
“Non andartene…”
La ragazza
giapponese diede un sorriso triste.
“…la ballerina gli mandò un sorriso così dolce da
cui capì che anche lei lo amava…”
La mano
mollò il braccio, e titubante si avvicinò al viso di lei, lo sfiorò piano, con
la delicatezza con cui si accarezzerebbero le ali diafane di una farfalla; lei
chiuse le palpebre, inclinando appena il volto verso la mano.
Leonardo si
avvicinò ancora, portandosi avanti a poggiare la propria fronte su quella di
lei. Karai aprì lentamente gli occhi, li fissò nei due oceani azzurri davanti a
lei, vibranti di pensieri, passionali e postulanti, dolorosamente consapevoli,
giovani vecchi anch’essi come i suoi; alzò a sua volta una mano a carezzare il bordo
del piastrone del ragazzo mutante, fermandosi con il dito sottile sulle piccole
pieghe, dure ma setose; quindi salì a sfiorare il collo, la pelle verde di lui,
spessa eppur morbida, fresca e tesa al suo tocco, e salì ancora al bordo della
mascella, allo zigomo, tracciandone i lineamenti ancora acerbi, né adulti né
bambini, né umani né animali.
La mano
arrivò infine alla nuca del mutante, e la ragazza lo tirò delicatamente a sé.
Poi lo
baciò.
Per un
lunghissimo secondo, Leonardo faticò a capire che questo stesse davvero
avvenendo. Sentì le labbra morbide schiudersi contro la sua bocca, un brivido
correre da quel contatto di pelle contro pelle fino a tutto il suo viso, poi a
tutto il suo corpo. Schiuse a sua volta la bocca, accogliendo la lingua di lei,
delizia morbida. Tutti i suoi sensi si dedicarono a quel momento, sprangando il
mondo intorno a sé come se non esistesse. Un attimo appena, per trovare la
posizione, la bocca di lei così piccola contro la sua, così calda, e poi si
lasciò invadere, completamente, dal fuoco. La strinse a sé, con un braccio, con
la mano ad afferrarla, dietro la schiena, artigliando sul sottile tessuto; i
seni di lei premevano contro il suo piastrone. Lei afferrò a sua volta il
mutante dal guscio, cercando con le mani, spasmodiche, su e giù, fino ad abbrancarlo
sul lato inferiore; mosse la testa, prese un respiro, cambiò posizione,
piegando la bocca di lato, mordicchiandogli piano un attimo il bordo, e poi
ripremette le labbra con forza, con passione. Leonardo sentì rimescolarsi il
sangue, al tocco di quei piccoli denti, e bevve, avido, il respiro di lei,
buono, che gli entrava in bocca, ed era caldo come il primo sole che giunge a
sfiorare la terra dopo il freddo della notte, caldo come la fiamma che lo stava
consumando.
“…Il soldatino si sciolse rapidamente per il calore…”
…
L’ultimo
Dragone Purpureo si accasciò contro il cassonetto dell’immondizia e cadde a
terra piano, riverso sulla lordura del vicolo.
“E tanti
saluti a Morfeo.” Michelangelo ripose i nunchaku nella cintura e voltò le
spalle al nemico ormai innocuo. Intorno a lui, riversi nel vicolo, una decina
di corpi storditi e feriti, svenuti o in lamenti. Sul camion, ancora in moto,
le casse con la partita di armi destinate al mercato nero. Accanto al camion, c’erano
i suoi tre fratelli, già riuniti, che il mutante in arancione raggiunse subito.
Donatello parlava indicando il veicolo.
“… portarlo
ad una decina d’isolati da qui, vicino alla stazione della polizia, e fare la
solita chiamata anonima.”
“D’accordo.”
Raffaello iniziò a salire sulla cabina, impartendo gli ordini. “Leo e Mikey
potete tornare alla tana. Io e Donnie porteremo il camion fuori da qui.”
Prima di
chiudere lo sportello, lanciò il solito sguardo di richiesta di conferma a
Leonardo. Il mutante in blu rispose a sua volta col solito minuscolo cenno.
“Andiamo,
Mikey.”
Il blu si
issò con un balzo sulla scala antincendio, ed iniziò a salire; il fratello lo
seguì.
Le due figure
balzavano rapide e silenziose nella notte. Michelangelo adesso un po’ più
avanti, attento a non distanziare troppo il fratello; Leonardo dietro di lui,
agile sul suo arto meccanico.
Nel cielo,
all’orizzonte, la striscia di luce dell’aurora iniziava a salire lungo la
skyline scura dei grattacieli. Atterrato sul bordo di un tetto, il mutante in
blu si fermò a guardare il chiarore che cominciava a tingersi di una calda
tonalità purpurea. Le nuvole scure, strisce di pece nera contro il blu indaco
del cielo, rilucevano in basso di un bagliore dorato.
Michelangelo,
fermato a sua volta quando aveva visto bloccarsi il fratello, si avvicinò a lui
a passi lenti; Leonardo gli rivolse una rapida occhiata, e tornò a fissare
lontano. Il mutante in arancione seguì lo sguardo del fratello verso
l’orizzonte.
Leonardo
ebbe un brivido, quando un soffio di vento gli accarezzò la pelle. Gli occhi
blu si persero nello spettacolo fiammeggiante del cielo.
Il fuoco
chiamò il fuoco, il pensiero tornò a quell’unico bacio d’addio, quasi un anno
prima.
Si sforò il
bordo della bocca con la lingua.
…
“Io… –
mormorò piano la ragazza, staccandosi dal bacio – Non è come pensi. Non volevo
stare sola, avevo paura. Solo questo…”
Lui la fissò
negli occhi. Il corpo ancora in fiamme, brividi lungo i lombi. Eppur doveva
chiedere, subito.
“Michelangelo…”
La ragazza
si allontanò di un passo. Girò la testa di lato, poi si voltò tutta, verso la
parete della stanza di Leonardo, dove riposavano come guerrieri dormenti le due
katana sul loro supporto. Si portò una mano al petto, si strofinò piano la
clavicola, pensierosa, poi rispose, in un sussurro.
“È mio fratello. Leonardo, voi siete i miei
fratelli…”
Leonardo
chiuse gli occhi, ispirò piano. Il gelo del pensiero noto sfrigolò a contatto
col fuoco del suo corpo. Poi, di scatto, si avvicinò nuovamente a lei, una mano
sulla stampella, con l’altra la prese dalla spalla e la costrinse a guardarlo.
In un secondo, Leonardo aveva deciso.
“Non mi importa.”
Lei piegò la
testa, un po’ sorpresa, quasi a studiarlo. Per un attimo, i suoi occhi
s’illuminarono di speranza, e la si poteva quasi vedere immaginare una vita
possibile, felice, diversa. Ma veloce com’era arrivata, la luce si spense.
“Devo
andarmene. Ho parlato con Splinter,
pensa che così sia meglio per tutti… Torno in Giappone.”
Leonardo
allargò gli occhi, nel dolore. Adesso, iniziò a pregare.
“Allora
vengo con te.”
Una lacrima
brillò nelle iridi della ragazza.
“No.”
…
“Andiamo
Leo, tra poco sarà giorno.”
Il mutante
in blu si voltò verso il fratello. Michelangelo gli sorrise, del suo solito
sorriso caldo e sincero, che arrivava agli occhi azzurri, limpidi, i quali
sembravano conoscere sempre un po’ di più di quanto le parole e l’atteggiamento
lasciassero intendere. Da mesi, ormai, le cose erano tornate quelle di un
tempo. Se le prime settimane dopo la partenza di Karai vi era stato tra i due
fratelli qualcosa che nessuno aveva mai espresso chiaramente, una sorte di
tensione che aveva portato Mikey a sfuggire, confuso, dagli sguardi strani che
soleva rivolgergli il fratello, tutto questo ormai non era che un lontano
ricordo. Leonardo era tornato ad allenarsi con dedizione e disciplina;
Michelangelo, dopo un inusuale periodo d’apatia, aveva ripreso a mettere a dura
prova la pazienza della sua famiglia con la sua esuberanza e ad allietare i
loro animi con la sua allegria.
Neppure una
parola, mai, tra i due fratelli sull’argomento. Se Michelangelo, che era sì
ingenuo ma dotato di un’empatia eccezionale, aveva intuito che la disavventura
di Leonardo e l’allontanamento di Karai avessero in un certo senso a che fare
anche con sé stesso, non l’aveva mai espresso chiaramente. Perché quello che
non è raccontato, non è mai successo.
Riguardo a
Leonardo, questi a volte ancora si chiedeva se le fiamme non gli avessero
bruciato inesorabilmente un pezzo del suo cuore. Il dolore, era rimasto, per
mesi, a consumarsi piano. Ed alla fine, aveva esaurito qualcosa dentro di lui,
e si era spento. Restava solo cenere, sul fondo del camino.
Le code blu
della sua maschera garrirono ad una folata. Leonardo sorrise a sua volta al
fratello minore, gli mise una mano sulla spalla.
“Andiamo”
disse con un cenno.
Il mutante
in arancione prese a muoversi, e balzò sul tetto vicino. Leonardo lanciò
l’ultimo sguardo al cielo e poi lo seguì.
Il vento si era
alzato, da oriente. Soffiò sui mille riflessi del sole nascente nei vetri
sporchi della città. Un refolo, tiepido, rimescolò le ceneri.
N/A Ecco finita anche questa mia piccola storia
strana. Grazie ancora a Cartoonkeeper
per le sfida gustosa e per le recensioni troooooppo buone. Ti lovvo XD :P
Alla fine, c’era o no il Mikey/Karai? A voi l’interpretazione. L’immagine della
tensione tra i due fratelli mi è piaciuta tanto che forse dal plot bunny
nascerà un sequel. Voglio scrivere (nuovamente) di Leo e Mikey che fanno a
botte! XD L’idea dell’arancione alle prese con i palpiti del cuore è poi
succosissima *si sfrega le mani, ghignante* Aspetto anche di vedere le nuove
puntate della serie 2k12 per eventuali spunti Mikey/Renet. Quanta roba,
ragazzi, quanta roba…
Grazie anche alle gentilissime Hamatoshappire
(trooooppo buona anche tu! :*), e HellenBach:
questa volta non ho messo nessun momento padre-figlio, che entrambe amiamo
tanto, perché nella mia prossima ff, scritta a metà, su questo ci vado giù
pesante: faccio morire Mikey nel primo capitolo, e poi sviluppo le drammatiche dinamiche familiari che seguiranno. Come al solito, tutto molto allegro!
XD
Grazie a
tutti per essere qui! Un abbraccio!
P.S. Per chi
non se ne fosse accorto: è estate!!! È finita la scuola! Saltelli di gioia dai ragazzi e da noi strani prof ^_^
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