Cortocircuito.

di Vella
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -Prologo: la musa dal sapor del sangue. ***
Capitolo 2: *** I°-Le Dommage ***
Capitolo 3: *** II°-Obiezione, obiezione vostro onore! ***
Capitolo 4: *** III°-Una lettera per la tolleranza ***
Capitolo 5: *** IV°-Mille violini suonati dal vento. ***
Capitolo 6: *** V°-L'ira funesta. ***
Capitolo 7: *** VI°- Cene a lume di candela. ***
Capitolo 8: *** VII°-Preliminari. ***
Capitolo 9: *** VIII°- Il ballo Nevoso- pt.1-L'ascesa ***
Capitolo 10: *** IX°-Il Ballo Nevoso- pt.2- La notte. ***
Capitolo 11: *** X°-Il Ballo Nevoso- pt.3- Il frutto della passione. ***
Capitolo 12: *** XI- Effetti collaterali. ***
Capitolo 13: *** XII- Adulteri pensieri. ***
Capitolo 14: *** XIII- La pazzia umana. ***
Capitolo 15: *** XIV- L'interpretazione della morte. ***



Capitolo 1
*** -Prologo: la musa dal sapor del sangue. ***


Prologo


Fumo, fumo dappertutto. Fumo che confondeva le idee, fumo grigio e bianco che impediva di vedere oltre, più a fondo. Fumo, fumo non tanto generico; fumo che si sperdeva in ogni piccolo angolo della strada ostacolando chiunque, creando caos e bestemmie da parte dei passeggeri. Fumo, mischiato al sudore, agli strillanti lamenti dei bambini e al fischio esasperante che avvisava l'arrivo del nuovo fiume di gente. Ancora fumo, seguito da un sospiro e da un 'era ora'.
Il fumo, d'altronde, non riusciva a nascondere quei capelli neri, troppo lunghi ormai, e quegli occhi così scuri, così profondi ed enigmatici da portar soggezione a chiunque li osservasse troppo. Il fumo portava con sé anche le parole che componevano una poesia, lo strano sapore dell'amore e la terribile introversione di un uomo sul punto del crollo nervoso.
Per questo andò via, si allontanò dal fumo di sigarette, di motore e dal vapore acqueo che emanavano i bambini troppo piccoli per comprenderne l'alchimia.
Era arrivato, fu il primo pensiero che gli passò per la mente. In verità, era l'inizio di una nuova speranza, di incontrare, anche nelle rocce, ciò che cercava da troppo e immensurabile tempo.
Quando si avvicinò all'uomo in divisa, capì di aver attirato non poche attenzioni, sarà stato soprattutto per il taccuino che portava sempre con sé e dalla valigia poco più grande di una borsetta femminile. Sorrise, e poi aprì bocca per parlare dopo tante ore in cui sussisteva in quel muto silenzio.
―Salve signore, dove posso...―
―Lì, lì! Seguite sempre la folla, andate, andate!― rispose quasi urlando l'uomo, per poi enunciare la sua massa nel mondo con una fischiettata pazzesca nelle orecchie del povero poeta.
―Presuppongo di sì―, sussurrò. In effetti, poteva solo presupporre.
Lui era Daniel.
Così si chiamava, ed odiava permanentemente il fumo delle stazioni ferroviarie e i bambini inopportuni.
Lasciando in disparte il capo stazione, si diresse con la sua finta valigia verso l'ammasso di gente, sospirando e scuotendo la testa.
Era lì, immerso in quell'abominio di frivolezze e di eterna superficialità, gli scoppiavano, personalmente, i due unici neuroni poco funzionanti, ed aveva un gran sonno senza alcuna voglia di far qualcosa, di fare quellacosa. Era proprio lì, ad aspettare che tutto finisse al più presto, che una carrozza si fermasse il prima possibile e che, finalmente, potesse dileguarsi dietro uno scompartimento o in un prato fiorito dove nessuno avrebbe osato disturbarlo.
Ma era il 1896, cosa c'era di tanto sbagliato in quell'anno da mantener sulle spine chiunque? Apparentemente nulla, finché gli occhi non incontravano quei lunghi e ribelli capelli dal color fuoco più cocente.
Daniel Shaw, la prima cosa che pensò quando li vide, fu ''rosso sangue'' e dopo, senza sosta, ne uscirono altri versi, tra cui la rosa rossa, il tramonto del sole, un fiocco mal ridotto e una farfalla in piena primavera.
Daniel Shaw, la seconda cosa che pensò quando la vide, fu ''la desidero''e dopo, senza sosta, subentrarono nuove emozioni, tra cui l'amore, la paura e la lussuria.
In quei stessi momenti, di pura agonia, dove non si è sicuri di ciò che è appena successo, la giovane ragazza dai lunghi capelli ramati sorrise all'uomo ch'era davanti a lei.
―Wendy!― esclamò quest'ultimo; arrossì, come sempre era solita fare e si soffermò per pochi attimi sul viso guardingo di una persona il cui amore era meccanico e senza fonte.
Non disse nulla, si lasciò abbracciare delicatamente e poi impregnarsi un bacio forte e deciso, quasi di possesso, sul collo semi-nudo.



―Dite davvero, padre?― sussultò la giovane, ch'era in piedi davanti la scrivania. Aveva dei grandi occhi azzurri e i capelli più neri della pece, grosse labbra carnose e un viso leggermente allungato. La veste che aveva indosso richiamava i colori dell'inverno, era di una tonalità ghiaccio, candido e puro, decisamente l'opposto al suo animo.
―E perché dovrei dire una cosa del genere per finzione?― esclamò l'uomo di fronte alla giovane donzella. Solamente gli occhi erano una comunanza da non sottovalutare, per il resto, era apparentemente invecchiato e poco curato rispetto alla giovane.
―Ma è letteralmente un affronto! Perché mi volete far questo, padre?― ringhiò la giovane, era arrivata al punto di sbattere i piedi sul pavimento e dimenarsi con forza per la troppa rabbia che circolava nel corpo.
―Katherine!― tuonò Mr Jenkins, sbuffando sonoramente e scuotendo il capo,―non voglio una figlia sciocca!―
―Oh, per l'amore del cielo, come potete dire che io sia sciocca?― Katherine iniziò imperterrita a camminare da una parte all'altra della stanza, guardando di tanto in tanto fuori dalla finestra.
―Sei furba, ma pur sempre sciocca! Arriverà tra due giorni esatti, quindi comincia pure il lungo piagnisteo, la decisione è stata presa―.
―Ma perché? Cos'è che non andava in Miss Brouk?― strillò quasi la ragazza, il padre, questa volta, non lasciò fare ed alzandosi di getto le puntò il dito indice contro.
―Fuori di qui, ora!― la figlia divenne paonazza, digrignò tra i denti e soffocò uno dei tanti insulti. Non aveva le lacrime agli occhi, semplicemente li sentiva pizzicare e inoltre aveva appena perso l'ennesima educatrice da quattro soldi. Era certa, con tutta se stessa, che il vero problema consisteva nella donna: il padre non riusciva a star lontano dalle belle gambe che non fossero le figlie. La cosa disturbava la quiete di tutti, ed ovviamente, Katherine doveva cambiare ogni paio di mesi insegnante, tant'è che si era scocciata.
―Sarà la solita ragazzetta di campagna appena uscita da un collegio d'istruttorio femminile? Chissà, questa volta anche più giovane della precedente―. Fu acidità allo stato puro quello che disse, e prima che il padre la rincorresse per darle una delle tante sculacciate che ancora a diciassette anni si prendeva, uscì dall'abnorme biblioteca della tenuta.
Ebbe uno scontro breve e funzionale con un baldo giovanotto dallo sguardo più vacuo del solito e dai portamenti sciolti e diretti.
―Di turno?― sussurrò Katherine.
―Appena finisco ti raggiungo in giardino― sussurrò lui.
―Attento che il cane morde― sottolineò lei.
―Cosa confabulate voi due? Insomma, entra Henry!― ecco che si intrometteva il gran maestro e separava i due fratelli diversi. Il giovane lasciò passar la sorella e si chiuse la grossa porta alle spalle.
―Volevate vedermi?― sentenziò il giovane seguendo il padre su due poltroncine verdi e munendosi a sua volta di una lunga pipa e una sigaretta di ricambio.
―Sì, certo, volevo proprio discutere, anche oggi, sul solito―.
Henry sospirò senza darlo a vedere, essere un nullafacente alla sua età significava dire che le conversazioni col proprio padre diventavano sempre più ripetute, accese e sconvenienti; ma il giovane si era svegliato di buon umore per questo annuì e si lasciò cadere sulla comoda poltrona.
―Devi trovarti un lavoro―.
―Lo farò―.
―Quando, Henry? Quando? Tu non fai proprio niente, per te il futuro non arriverà mai e così facendo nessuna donzella vorrà prenderti come marito―.
―Sono io a scegliere le donne e non loro!― sghignazzò il ragazzo, era più una battuta ironica, e probabilmente il padre mai l'avrebbe capita.
―E allora vieni a lavorar con me, creati una carriera, io... sono affranto più di te vedendoti crogiolare in tal modo―
―Padre, oggi possiamo anche saltare la predica― Era, d'improvviso, molto più interessato al paesaggio fuori la finestra. Si alzò dalla poltrona e si avvicinò senza destare sospetti o scomporre la situazione, mentre il gran maestro continuava a frullare le parole in un discorso polemico. Aveva visto la carrozza fermarsi e il piccolo scompartimento aprirsi.
―Credo che sia arrivato― sussultò.
―E poi diciamolo! Convocarti ogni santo giorno è diventata una seccatura―.
Ed ora osservava quei capelli, quel viso, quel portamento, sorrise prima di girarsi di nuovo verso il vecchio.
―Avete più che ragione― furono le sue ultime parole prima di dirigersi fuori dall'aula e abbandonare alle spalle, l'ultima briciola di rispetto.


Spazio scrittrice:
Ed eccoci qua! Allora, questo prologo è stato scritto di getto, soprattutto la parte finale, è un'originale a cui ho lavorato mentalmente un sacco! E spero, davvero, che possa piacervi in qualche modo. Le storie principali sono tre, in quest'inizio se ne scorge a malapena una, molto presto rimarrete, di certo, ammaliati da questi strani ed enigmatici personaggi.
Spero di pubblicare nel week-end il primo capitolo, gli aggiornamenti non sono standard ma a seconda di ciò che ho pronto e salvato sul computer u_u.
Fatemi sapere cosa ne pensate d Henry, Katherine, Wendy e compagnia bella! *-*
Un bacione, aspetto dei vostri commenti :*
ps: perdonate qualche errore, appena ho tempo, rileggo tutto.



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Capitolo 2
*** I°-Le Dommage ***


Le Dommage

Era uno scenario di quelli che raramente si vedono. Il fumo, questa volta, era innocuo, vagava da una parte all'altra della città, calandosi sempre più sulle teste dei pedoni. Erano anni meravigliosi, non c'è modo miglior di descriverli. Il rumore sano dei cavalli a trotto, della carrozza che taglia la strada ad un'altra simile e il continuo trambusto che rendeva così unica Londra.
Eppure, d'altro canto, quel giorno non poteva affatto considerarsi un bell'inizio inverno.
Era iniziato un dicembre che portava tanto, forse troppo, malumore. Non nevicava e non faceva abbastanza freddo da trattener le persone nelle proprie case.
Il conte Ermakje era seduto comodamente nel suo scompartimento, le gambe accavallate e la mano sinistra occupata a mantenere una lunga sigaretta turca. La pioggia con violenza ticchettava sul finestrino, ed il giovane uomo, bellamente, evitava di guardarla. La sua attenzione era stata rapita da un mucchio di scartoffie che manteneva con la mano destra e che a malapena riusciva a leggere per via dei fossi continui e della carrozza troppo movimentata.
Il viaggio in treno era stato rilassante, e ringraziava mentalmente chiunque gli avesse consigliato di prendere quella carovana privata.
Le due settimane che aveva passato a Buckinghamshire si erano rivelate un vero toccasana e soprattutto le idee s'erano schiarite prima del previsto.
Non vedeva l'ora di ritornarci e parlare nuovamente col futuro suocero. Sorrise. Wendy non ne era a conoscenza, la loro amicizia-attrazione si era rivelata una vera e propria gabbia. Immaginava già la giovane rossa scrivere ogni suo pensiero ed ogni avvenimento sul diario marroncino custodito nella biblioteca di casa Jenkins, ma non aveva voglia di pensare troppo ai particolari di quei giorni.
Il conte Ermakje alzò la testa solo per scorgere la lussuosa dimora in cui abitava da ben ventisei anni.
―Oooh― sentì dire dal cocchiere e la carrozza rallentare sempre più dopo aver oltrepassato il cancello in ferro battuto. Arrivati davanti al gran portone, una vecchia serva dall'aria un po' mal ridotta ed alquanto antipatica, soccorse il padrone: gli aprì l'anta e lo aiutò a scendere. La donna apparentemente scorbutica e di malalingua, era in verità la persona più intelligente che George (il conte) conosceva.
―Ben tornato, padrone― sussurrò, mentre dava ordini a due maggiordomi di occuparsi delle valigie, ―portate buone notizie?― continuò.
―Quanta curiosità, Every! Dammi il tempo di riprender fiato― rise l'uomo e, seguito dalla vecchia, entrò in casa.
―Oh, signore, vi faccio preparare una tazza di tè. Povero, è tutto infreddolito!― commentava Every mentre gli toglieva il cappotto e con uno straccio ripuliva le ultime gocce di pioggia.
―Voglio, per prima cosa, vedere Elizabeth, dove si è cacciata?― sbuffò.
―È nel salone! Sta leggendo un vecchio libro che vi ha regalato vostro padre, è molto scocciata dalla monotonia di Londra e se non la porterete con voi nel prossimo viaggio, temo che non vi rivolgerà parola alcuna― costatò la governante mentre apriva la porta del salone.
―Credo, Every, che sia troppo viziata, in fondo non c'è cosa più bella di questa città!― la risposta del padrone fu detta sottovoce, mentre entrava nel locale e guardava compiaciuto la sua amata sorella più piccola di molti anni, così giovane e ingenua. Così viziata e poco profonda. Così falsamente egoista.
―George!― esclamò quindi. Gli corse incontro ed entrambi finirono in un abbraccio fraterno.
―Cosa ti riporta qui, fratello?― chiese Elizabeth ricomponendosi e alzando appena il capo per guardare meglio il viso del padrone.
―Gli affari, mia cara! Cos'altro sennò?― rispose. Every, nel frattempo, posò il vassoio del tè su un tavolino bianco e sorridendo di sottecchi, uscì dal salone per poi iniziar ad origliare.
―Andiamo George! Dovrai esserti fatto perdonare in qualche modo. La tua partenza è stata davvero un colpo al cuore, avevi promesso che m'avresti portato un regalo e saresti ritornato prima per questo!― frignò la giovane alzando di tanto in tanto il tono della voce.
Al conte scappò un sorriso mellifluo e si accomodò su una delle due poltroncine mentre la sorella gli passava una tazza del tè tanto atteso. Lo sorseggiò con molta calma senza lasciarsi intimorire dalle occhiatacce della giovane. Quando la bevanda fu veramente conclusa, Elizabeth potette tirar un sospiro di sollievo ed il conte riprese parola.
―Ti porterò solamente se in queste settimane il tuo comportamento sarà doveroso― la informò. Elizabeth aprì la bocca per ribattere, ma poi, dopo essersi fatta scappare un grugnito poco carino, espresse a parole e pensieri incompleti:
―Portarmi dove? Oh, smettila di farmi star sulle spine!―
George ficcò la mano nella tasca interiore della giacca e ne estrasse una lettera verdognola con dei ricami assai carini e particolari. Elizabeth gliela strappò dalle mani e con impeto l'aprì, quando lesse il contenuto un sorriso sornione si dipinse sul suo volto:

Mr e Mss Ermakje,
è con gran piacere che vi invitiamo al Ballo d'Inverno,
o meglio conosciuto come il Ballo Nevoso.
Esso si terrà agli inizi di gennaio nella residenza dei Jenkins.
-Buckinghamshire-1896.



C'era un'insegna lì sopra, un'insegna che nascondeva tanto, forse troppo. Essa brillava giorno e notte di un rosso cocente, potente, esasperante. Le donne passavano da quelle parti ogni dì ed abbassavano il capo, arrossendo, chiudendo gli occhi o persino iniziando a piangere, quasi come se quel posto fosse stato un tempo il centro delle loro vite, delle loro speranze, del loro amore più profondo. Un amore che non poteva durare più di un istante prima di conoscere il peccato che le avrebbe macchiate per l'eternità.
Lo avevano nominato ”Hotel della vergogna”, ma nessuno osava ripetere più di una volta quello stupido soprannome, perché tutti, prima o poi, ci passavano.
L'insegna era semplice, un po' sporca, ma si poteva leggere a chiare lettere il nome di un'epoca esistente: Le Dommage*.
Era biondo lui, aveva gli occhi chiari, un corpo possente, slanciato e forte. Era bello, bello da morire, così bello e così dannato. Abbassò la testa, e guardò dritto dinanzi a sé: c'era una porta girevole, l'hotel era aperto e gremito di gente. Gente che sembrava non esserci. Gente, gentaglia, brutta e cattiva, buona e ricca.
―L'aspettavamo Mr Mitchell― una voce melliflua e bonaria, un sorriso sornione e così Viktor poggiò la valigia marrone sul pavimento appena lucidato, si sentì un tonfo e poi una folata di vento che attraversava la Hall.
―La camera è pronta?― disse l'uomo guardando negli occhi la ragazza dai lunghi capelli biondi e pensò, liberamente, che odiava le bionde più di ogni altra cosa. Eppure anche lui era chiaro: sorrise. Forse per questo non si sopportava.
―Certo che sì, ala ovest, sarà al sicuro da rumori… fastidiosi―, Viktor afferrò la chiave che gli era stata porta e schioccando la lingua sotto il palato, sottolineò: ―Quanto dista il Buckinghamshire da qui?―
―Poco, signore. Un leggero viaggio in carrozza.― Rispose.
―Le sei di domani mattina voglio una Berlina**pronta, qui fuori―. Fu l'ultimo comando, prima di salire le scale e perdendosi lo sguardo d'apprezzamento della giovane ragazzetta.
Al pian superiore, il giovane Viktor, notò l'ala est completamente blindata, scosse il capo, dirigendosi quindi ad ovest. Non sapeva che in quello stesso Hotel c'era un ragazzo, un ragazzo che poteva persino essere suo figlio, un ragazzo di appena diciannove anni, disteso su un letto, che guardava il soffitto rosso e tra le dita teneva stretta una sigaretta. Un ragazzo che apparentemente non aveva nulla in comune con Viktor, ma che presto avrebbero avuto tanto da dirsi, si sarebbero ritrovati in situazioni così diverse ma così dannatamente intrecciate tra esse.
Per ora, e solo per ora, dividevano il bordello più all'avanguardia di tutti i tempi.

*Le Dommage: Il Peccato/Il Danno.
**Berlina: carrozza di quell'epoca.



Spazio scrittrice:
Uuuuh! Sono riuscita ad aggiornare! Olè! Allora ragazzi, questo capitolo è di passaggio u_u, dovevo finir di presentare, più o meno, i personaggi con un certo valore. Presto si entrerà nella trama vera e spero che questi assaggi di inizio e di introduzione ad un'epoca che non ci appartiene più, siano davvero di vostro gradimento! u_u
La storia è stata spostata nella sezione Storica perché penso che lì vada meglio.
Cosa è davvero Le Dommage? E chi è questo ragazzo che ancora dobbiamo presentar? u_u E Viktor domani si recherà nel Buckinghamshire, per cosa? Per chi? Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e mi hanno sostenuta *-*, spero che questa storia vi intrighi abbastanza da portar pazienza fino al prossimo capitolo :3 .
Ps: correggo tutti gli errori appena ho tempo, promesso.



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Capitolo 3
*** II°-Obiezione, obiezione vostro onore! ***


Obiezione, obiezione vostro onore!

Daniel Shaw era una persona incompresa. E questo, più o meno, lo sapevano tutti. Era un uomo dall'aspetto enigmatico e fiero, con una brillante mente e comportamenti assai regali seppur alle volte si lasciava prendere dal suo animo scorbutico ed introverso. Daniel Shaw, inoltre, era una persona senza fissa dimora. Sarà perché era un po' nomade di suo, sarà perché non trovava l'ispirazione adatta o perché non aveva mai posseduto abbastanza soldi. L'uomo aveva ormai superato la soglia dei ventidue anni ed era considerato un poeta senza la giusta dose di creatività, c'era anche chi pensava ad una finzione e che non fosse altro se non un povero imbroglione. Ma la famiglia Jenkins non era della stessa opinione, o meglio Henry, il primogenito della famiglia, considerava il giovane poeta un'ottima arma per tenere a bada il padre e per aiutare il ragazzo; così, dopo quel viaggio in ferrovia, pieno di fumo e di strani sguardi, Daniel era arrivato a Winslow Hall e quando vide la magnifica villa alla fine del piccolo viottolo non poté trattenere un sorriso.
Due giorni dopo, poteva constatare che il luogo era davvero di suo gradimento.
Sheila, la governante di quella casa, lo andò a svegliare, aprì le tende e guardò con amaro sconcerto che l'ospite senza alcuna ispirazione, stava dormendo nudo nella stanza più bella della casa. La vecchia aggrottò la fronte e scosse il capo più volte, fino a che non chiuse la porta dietro di sé così forte da svegliarlo.
―Santo cielo, ma chi...?!―
―Signore, la colazione è stata servita!― Gridò Sheila dal corridoio e Daniel trattenne un'imprecazione mentre spostava le coperte bianchi ed indossava i primi pantaloni a portata di mano.
In due giorni Henry gli aveva presentato suo padre Ernest e la governante, ma lui aveva rifiutato categoricamente di cenare e pranzare con loro, aveva bisogno di silenzio e concentrazione. O forse, voleva solo starsene in pace senza troppi frivoli incontri.
Henry, però, era stato chiaro il pomeriggio precedente: avrebbe dovuto sottostare alle regole di quella tenuta e quindi, il giovane poeta si ritrovava costretto a condividere almeno i pasti con quella famiglia che gli era parente così alla lontana da non aver neanche lui capito come s'era messo in contatto.
Si lisciò i capelli costatando, ancora una volta, che erano troppo lunghi e che cominciavano a piacergli, poi prese con sé tre fogli gialli e una matita dalla strana punta sottile. Si guardò allo specchio prima di scendere e con un sorriso forzato capì che doveva almeno apparire divertente o con un minimo di intelligenza propria se voleva davvero far colpo e rimanere più a lungo.
Nel frattempo, Henry aveva appena preso posto vicino al lungo tavolo di legno, il padre leggeva attentamente delle scartoffie che non abbandonava mai e Wendy, la dolce e cara Wendy, mangiava un biscotto col burro.
―Allora, sorellina? Riprenderai gli studi insieme a Katherine?― domandò Henry.
―No, Katherine ha un piano di studi diverso da Wendy, ed inoltre è più piccola di due anni. Il professore non è disposto ad assecondare entrambi i capricci―. Rispose malamente Ernest, il padre di quella famiglia tanto unita. Henry si schiarì la voce ed aggrottò le sopracciglia senza proferir parola.
―Professore? Sarà un uomo?― la voce flebile della ragazza si intromise tra i due ed Ernest annuì con magra consolazione.
―Assolutamente sì, ma badate bene, Katherine dovrà scoprirlo solamente quando arriverà.―
―Perché?― domandò, quindi, la figlia.
―Lo capirai presto― sorrise.
D'improvviso la porta del salone si aprì ed il viso pallido e ben curato di Daniel apparì.
Lo sconvolgimento cominciò a giostrare la situazione. Fu proprio in quel momento, con ogni probabilità, che tutto iniziò. E sì, fu davvero un'esperienza orribile.
―Signor Shaw! Che piacere rivederla di nuovo, cominciavo a presupporre una vostra fuga― l'acidità di Ernest colpì in pieno viso Henry ma, con piacere del ragazzo, Daniel non si scompose anzi, parve quasi che non l'avesse udito.
―Cosa sta aspettando? Si sieda―. L'uomo indicò il posto alla sua destra, di fianco alla perspicace Wendy che, a modo suo, guardava l'ospite di sottecchi e con un leggero arrossimento sulle gote, una sua solita caratteristica in presenza di estranei. Daniel strinse le mascelle e dei pensieri fugaci gli passarono per la testa: il rosso, il sangue, il desiderio, la possibilità di aver visto male...
Quando si riprese, era completamente stravolto dallo shock.
―È un piacere mio esser riuscito a scendere dalla comoda stanza che m'avete fornito! Il lungo viaggio mi ha regalato gentilmente una forte emicrania―. La risposta del poeta fu veloce, finta, e ciò che avvenne dopo fu ancora più sconveniente: non prese posto dove lì gli era stato consigliato, bensì camminò fino ad Henry, girando per la stanza e dopo un attimo di esitazione si sedette al fianco del giovane amico. Appoggiò i fogli che aveva portato con sé sul tavolo ed immediatamente lo sguardo cadde sul viso della giovane.
―Siamo felici che vi sia passata, allora―. Fiatò Wendy, senza essere consultata ed Ernest si schiarì la voce, disapprovando.
I lunghi capelli rossi le ricadevano sul viso e gli occhi vispi erano nascosti da un velo di timidezza, in quel momento Daniel sentì un fiotto lampante di parole uscirgli dall'anima ed il terrore che stava vivendo fluire via disarmante.



―Obiezione! Obiezione, vostro onore!*―quella voce, quella stessa voce. Troppo programmata, forte, decisiva. Obiezione, obiezione! L'eco dissociato e lacrime amare.
―No! NO!― urlava, urlava forte quel bambino dalla pelle chiarissima, dagli occhi chiarissimi, dalla bocca chiarissima, dalla forza chiarissima. Dalla forza trasparente. Dalla forza inesistente.
―Silenzio!― tuonò l'uomo in nero, ―Esigo del SILENZIO!― si ritrovò ad urlare mentre la folla ammassante iniziava ad alterarsi. I grossi occhioni del bambino erano pieni di lacrime amare che scendevano perpendicolarmente sul suo viso debole e mal ridotto. Pensava, pensava seppur fosse così piccolo: non di nuovo, non potete farmi questo!
Ed ebbene, anche a quell'età sapeva che la gente non poteva fargli tanto male, perché l'ingiustizia era percepibile in qualunque fascia della vita.
―Accolta, a favore di Mr Toll― disse il giudice.
Accolta. ACCOLTA. A favore. A FAVORE.
Così come l'uomo in nero anche lui accolse la sua infanzia con cattiveria. Così come gli animali era stato allevato. Un allevamento con scopi ben precisi. Doveva imparare ad uccidere per giustizia, per procurarsi abbastanza potere.
Accolta, ancora una volta.
Obiezione, vostro onore!

E poi si svegliò. Il bambino dai grossi occhi e dalla limpidezza mischiata all'innocenza di un'età ancora infantile era diventato, improvvisamente, una macchina assassina, se così si poteva ancora definire. L'orologio scandiva le sei del mattino ed il suo cuore batteva forte, come sempre, come ogni giorno, fino a che il sogno non finiva di perseguirlo e non si spegneva nel suo gelo di dolori. Viktor aveva la testa che gli scoppiava, il corpo era un cumulo freddo che non riusciva a trovar calore sotto quelle coperte consumate. Sapeva che doveva darsi una mossa, era già in ritardo. Ma si sentiva scosso, riluttante, ancora più stanco di quanto non lo fosse la sera precedente.
-
Quando vide la ragazza del giorno prima aspettarlo nell'ingresso con un vassoio pieno di roba da mangiare, pensò che la gentilezza umana avesse sempre un doppio fine.
―Buon giorno― disse Viktor.
―Salve Mr Mitchell, dalle cucine è uscito questo se le va di-...―
―No, grazie. La Berlina è qui fuori?―
―Sì, signore.― rispose la giovane ragazza con voce delusa e leggermente indurita.
”Così va meglio”, pensò lui spingendo la porta girevole. La carrozza era proprio lì. Viktor sentì il freddo pungergli il viso, indossò il soprabito e lanciò un'occhiata eloquente al cocchiere che sapeva già la meta. Mentre apriva la porta dello scompartimento e si sedeva sul divanetto, notò che il centro della città, in quegli orari così mattutini, dormiva profondamente. Un tetro sole s'era fatto spazio e per un attimo l'uomo dovette proteggere il viso dalla luce per riuscire a vedere meglio davanti a sé. Il viaggio sarebbe stato estenuante.
Aveva una cartellina di pelle, una cartellina che andava sul marroncino, piena zeppa di fogli e no, non erano inutili, anzi. L'aprì e ne estrasse uno dei tanti. Era la prima volta che lo leggeva, conosceva il cognome ma non il nome. Pensò di essere un precettore assai scadente. Rise. Era anche simpatico. Viktor teneva stretto tra le dita la lista di tutti i dati possibili ed inimmaginabili su Katherine Jenkins. Katherine, come Kath, Kathry, o peggio ancora: Mss K. Ci pensò su un attimo, era un nome davvero comune eppure era dell'opinione che solamente a poche persone riusciva a calzar a pennello nello spirito e nell'intelligenza.
Il foglio citava: ”Katherine Jenkins, ultima di tre figli, Buckinghamshire, Winslow Hall.”
Nulla di particolare, fino ad allora non aveva letto il suo nome e, sinceramente voleva presentarsi senza conoscerlo. In fondo a cosa gli sarebbe servito? Era la sua unica allieva, non si sarebbe mica confuso. Posò di nuovo il documento nella valigetta e guardando il paesaggio dinanzi a lui, disse ad alta voce: ―L'intelligenza dei pochi, la crudeltà dei molti e la semplicità di nessuno―. Ricordava quel motto come se fosse passato solo un giorno dalle dure battaglie interiori contro il destino e contro il suo di precettore.



Katherine non era una ragazza da descrivere con mille particolari, un aggettivo la rendeva alla perfezione: era semplicemente l'opposto. L'opposto della sorella Wendy, l'opposto della delicatezza, l'opposto della cortesia, l'opposto della bruttezza e del conformismo. Era, probabilmente, l'opposto del mondo intero. Quella mattina, indossava un lungo vestito di un color azzurrino, un po' sporco, e i capelli erano raccolti in una strana acconciatura; camminava a piedi nudi sul prato ghiacciato mentre il sole le illuminava il viso ancora intontito dal sonno. Sentiva il freddo penetrarle nelle ossa e i piedi congelarsi. Eppure era una bella sensazione, quasi di ribellione.
―Ma cosa diamine state facendo, signorina!― e quella, invece, era la voce più stridula di tutti i tempi. Sheila scese così velocemente le scale che quasi non cascava per terra. Katherine rise sotto i baffi e le corse incontro.
―Non t'arrabbiare, Sheila! È una così bella giornata...― la ragazza dai capelli neri sorrise dolcemente ed indossò le scarpe porte dalla governante. Era meglio non farla innervosire ulteriormente.
―Oh, signorina! Ma perché siete così impedita, certe volte? Perché vi comportate in questo modo così poco addicevole? Ora entriamo, le vostre condizioni mi preoccupano, farete tardi!― ancora quel tono stridulo.
―Tardi per cosa, Sheila?― domandò Katherine mentre superavano la veranda e si ritrovavano nel salone.
―Come per cosa!? Vi siete già dimenticata che giorno è questo?― sospirò la donna.
―Se proprio devo essere sincera, sì. A cosa farò tardi?― ora, il tono della giovane sembrava annoiato; in fondo Sheila per rispondere ad una sua, per giunta semplice, domanda, ci impiegava sempre più del dovuto.
―Dovete cambiarvi di abito e dovremmo domare questi strani capelli, oggi! Sembra quasi che l'abbiate fatto apposta...―
Katherine rise, salendo le scale per raggiungere la sua stanza, ―Oh, ma cosa dici, cara Sheila! Non ne sarei mai capace!―
Aprì la porta della camera verdee si buttò su una delle due poltrone presenti.
La governante, nel frattempo, prese una tinozza di acqua calda e sciolse gli intricati nodi del vestito, ―Siete una ragazza pestifera, ammettetelo!―
―Mi dispiace, ma non capisco davvero di cosa tu stia parlando― la messinscena della giovane divertì anche Sheila che le preparò un vestito porpora sul letto e poi iniziò, con una spugna, a bagnarle i capelli.
―Arriverete in ritardo, ne siete consapevole?― domandò dopo qualche minuto di silenzio. Katherine ci rimuginò sopra. Sì, ne era consapevole, ma, in fondo, era quello il suo obiettivo e non ne aveva paura.
―E cosa sarà mai! Ho passato la mattinata al freddo, con i piedi nudi e il viso contratto dal gelo. Lo ammetto, non è stata una mossa arguta ma volevo assaporare un po' di questo inverno e...―
―Signorina! Ma cosa confabulate? Sicuramente vi verrà un malanno e spero con tutto il cuore che non sia il vostro scopo! Allora, visto che ne siete consapevole, siete anche certa di riuscire a reggere le conseguenze?― interruppe Sheila.
―Oh, sembra quasi che abbia ammazzato qualcuno! Ora mi preparo e corro da lei, contenta?―
Sheila, però, non era contenta. Un po' perché sapeva che non c'era nessuna lei ed un po' perché qualcuno, non ricordava bene chi, le aveva spiegato la fama di quell'uomo di cui Katherine ne ignorava completamente l'esistenza.
―E allora sbrighiamoci!―
Passarono la mezz'ora successiva ad acconciare i capelli fino ad arrivare alla conclusione che era decisamente meglio tenerli sciolti ed un po' ribelli, per conto loro. Katherine si sfilò il vestito azzurro ed indossò quello pulito, immergendo i piedi nell'acqua calda e sospirando di sollievo. Erano ormai le dieci di mattina, era passata un'ora buona da quando si era immersa nel giardino incantato dal freddo invernale. Poteva considerarsi pronta, o quasi. Le lezioni, secondo suo padre, dovevano iniziare alle nove e proseguire per il giorno intero, con delle pause ma non eccessive, o almeno, così accadeva con l'insegnante precedente.
Per ultimo, Sheila aiutò Katherine ad indossare le scarpe e tra un pettegolezzo ed un altro, aggiunse: ―Un paio di ore fa, ho incontrato il nuovo ospite, è davvero strano, signorina, sa'?―
―Avrò tempo di conoscerlo, le persone strane hanno un certo fascino ...―
―No, signorina! Non è affascinante, affatto!―
―Mi rechi una brutta notizia così, Sheila― sbuffò Katherine e le regalò un sorriso sornione prima di uscire dalla stanza con un paio di libri.
―Quando arriverà il nuovo precettore?― chiese.
―Signorina, guardate che è già arrivato, vi avevo chiamata per questo!― sapere che l'aveva cercata per paura di un ritardo e non perché fosse preoccupata della sua salute, fece irritare Katherine che roteò gli occhi al cielo e trattenne una smorfia di disappunto.
―Grazie― fu l'unico commento degno di nota che si lasciò sfuggire.
Le lezioni si erano sempre tenute nel secondo studio della casa: era piccolo ricoperto in legno di mogano e con un camino sempre scoppiettante. Katherine, stranamente, si ritrovò con il fiatone mentre scendeva le scale e si recava nell'ala est per raggiungere l'abitacolo. Sentiva, persino, un nodo alla gola che le premeva incessantemente, quasi come se volesse ritornare indietro e non aver fatto quello che aveva fatto, ecco. Quando la grande porta le si fu parata davanti, prese aria e con gli occhi spalancati e con un attimo di esitazione bussò due volte con le nocche delle dita.
Girò la maniglia e spinse, senza aspettare ”l'avanti”.
Il cigolio fastidioso che emanò la porta, disturbò i timpani di entrambi.
Quella fu la prima volta che Katherine incontrò gli occhi grigi di Mitchell Viktor.
E potete immaginare anche il mondo della giovane caderle addosso. Scoprire che il nuovo istitutore era un uomo andava contro ogni suo pensiero, idea, progetto, vendetta.

*Obiezione, obiezione vostro onore! : il sogno verrà spiegato a tempo debito!


Spazio scrittrice:
Oh! WAO! Ho aggiornato prima che il mondo finisse e... ne sono alquanto soddisfatta! Prima di passare ai convenevoli volevo avvisarvi che i banner rappresentano i personaggi della storia.
I personaggi del prologo e di questo capitolo sono rispettivamente: Daniel e Wendy.
I personaggi del primo capitolo sono rispettivamente: Viktor e Katherine.
Non sono bellissimi? *-* Eppure così pieni di difetti! Frr! u_u
Tornando a questo capitolo: Ci sono stati dei salti temporali, la prima parte spiega gli ultimi due giorni di Daniel e di quanto la sua prospettiva è celata dietro una coltre di nubi. Vi offusca la mente la sua personalità? u_u Beh, ragazzi miei, scopriremo, presto, tante cose interessanti sul suo conto! Wendy, invece, è uno dei miei personaggi preferiti, sarà perché è un classico personaggio di bellezza e conformismo, ma, si sa, non sono famosa per le cose ovvie! Quindi... eheheh.
Viktor è, secondo me, il personaggio più divertente, ci saranno delle cotte e di crude su di lui e sulla ribelle e forte Katherine!
Cosa ne pensate, quindi, di questo aggiornamento? Quali son state le vostre impressioni? Dai, su su, fatemi sapere! u_u
Prima di lasciarvi ringrazio di tutto cuore le persone che hanno recensito e tutte quelle che hanno aggiunto la storia nelle seguite/ricordate/preferite! Mi avete reso contentissima.

Ps: Sheila è imbattibile!
Pps(?): Presto conoscerete gli altri componenti della story-story-story! *w*



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Capitolo 4
*** III°-Una lettera per la tolleranza ***


Una lettera per la tolleranza

Ogni anno Charlotte Young aveva sempre sperato in un cambiamento radicale, in una notizia entusiasmante, in un profitto maggiore ma puntualmente nulla accadeva.
Nel dicembre del 1896, entrando nella sua camera personale, vide una lettera insolita poggiata perfettamente sul grande tavolo in mogano; il ticchettio dei suoi tacchi riecheggiò nella stanza più volte con varie pause che furono colmate da sospiri indecisi. La lettera non era stata mossa, il sigillo scarlatto, posizionato davanti, era totalmente intatto così come l'incoerenza della donna.
―Valérie! Per cortesia, vieni un attimo―. Gridò dopo essersi seduta su una poltrona a fantasia. La ragazza che aveva chiamato aprì quasi subito la porta dell'Espiazione e la richiuse immediatamente.
―Mi dica, milady―. Rispose Valérie.
―Niente comunicazioni importanti, cara?― domandò Charlotte mentre sfilava una sigaretta dalla scatolina in legno.
―Oh milady, proprio ieri pomeriggio è giunto Mr Mitchell in hotel― sorrise la ragazza.
―Qualcos'altro? Ad esempio... questa lettera?― sospirò quindi la donna mentre la cenere cadeva su uno dei tantissimi tappeti che ornava la stanza.
Valérie guardò per pochi istanti ciò che le era stato indicato e, secondo Charlotte, ci pensò su più del dovuto.
―È giunta questa mattina dal corriere― concluse. La signorina Young picchiettò le dita sul tavolo convulsamente.
―Va bene,― biascicò trattenendo un moto di riluttanza, ―allora quando ritornerà Mr Mitchell gli dica che lo riceverò dopo cena qui―.
―Sarà fatto, milady― furono le ultime parole di Valérie prima di uscire dalla stanza dell'Espiazione.
Non si sa precisamente quanto tempo Charlotte rimase ad osservare la lettera dal sigillo scarlatto, forse più di un'ora; fumò dieci sigarette fino a quando la mente non si annebbiò. La sua esitazione nasceva dalla conoscenza di quel sigillo.
Si sentì il track dopo un po' e il fruscio della carta sfilata dalla busta. L'aprì velocemente ed iniziò la lunga ed estenuante lettura, una lettura fatta per lo più di segreti proibiti, di problemi confessati e di profonde richieste. Rise più volte, un po' perché quella situazione le pareva esilarante, un po' perché s'era messa a fumar l'undicesima sigaretta, ed un po' perché finalmente era arrivato il suo momento. Un momento che bramava da anni, sin da quando aveva varcato la porta del locale e lo aveva nominato Le Dommage. Sentiva la soddisfazione uscir da tutti i pori e quello strano retrogusto di vincita solleticarle il palato: era stata la sua prima vittoria giustamente guadagnata.
Buttò la sigaretta e posò sul tavolo una boccetta di inchiostro ed un foglio bianco, tinse la penna di nero e lasciò che alcune gocce macchiassero la risposta; aveva già tutto in mente: come avrebbe iniziato, concluso, ogni piccola sfumatura, le virgole di cui avrebbe usufruito, il sentimento che avrebbe impresso sotto un velo pietoso di indifferenza, sentiva ogni fibra del suo corpo vibrare, il suo cervello stava già elaborando tutto in maniera fulminea. In conclusione, quando scrisse la prima parola, capì che tanta soddisfazione doveva esser ripagata con quel prezzo che, dopo tanti anni, non le pareva più eccessivamente alto.
-
Quella stanza nell'ala est era chiamata la 'Camera Rossa', dopo l'Espiazione, era considerata il luogo prediletto dalla milady. Forse perché a mezzogiorno, quando il sole spaccava il cielo in due parti uguali, i raggi filtravano nelle fessure delle tapparelle e le pareti del luogo diventavano improvvisamente di un rosso acceso, inumano, perfetto, calcolatore. La notte, purtroppo, niente illuminava la stanza e nulla la rendeva sobria se non una flebile luce proveniente da una candela troppo consumata che serviva giusto per rischiarare quel poco.
Inoltre la Camera Rossa era abitata da più di cinque anni. Si diceva che fosse un figlio bastardo della milady. Ma nessuno conosceva la verità eccetto il giovanotto di diciannove anni sdraiato sul letto a baldacchino, completamente nudo ed assonnato.
―È vero quello che dicono?― una voce sottile e femminile si fece largo tra la mente di Gerard che ora aveva aperto gli occhi e girato lentamente il viso. Il suo corpo scolpito era in parte nascosto dal lenzuolo blu notte ed il viso pallido con la barba incolta incorniciava un'espressione di curiosità mesta.
―Cos'è che dicono, mia cara?― soffiò lui sul viso della giovane.
―Che questa camera sia speciale: molti la credono maledetta, altri la considerano invalicabile...―
―E perché queste dicerie, mia cara?― sospirò Gerard appoggiando la testa sul cuscino.
―Non ne sono sicura ma... credo che la curiosità nasca proprio da te―
―Da me?―
―Non sai quanta gente pagherebbe per incontrarti― sussurrò Lilì mentre posava la mano sull'addome del ragazzo e delicatamente iniziava a baciargli l'incavo del collo.
Gerard gemette così come di consuetudine, non si scompose e lasciò che la bocca, insieme alle mani, della donna lo toccassero e scoprissero ancora una volta ogni piccolo lembo del suo corpo.
―Perché tanta premura, mia cara?― sussurrò lui mentre con una calma inaudita rifiutava un suo bacio a fior di labbra.
―Chi non vorrebbe conoscere il figlio bastardo di una donna casta?― rise Lilì. A Gerard tanta superficialità diede fastidio, un fastidio egocentrico.
―Come si può considerare la proprietaria di un bordello, casta?―
―È proprio questo il bello―. Una frase spontanea, persino accattivante.
La conversazione non continuò. Era quasi mezzogiorno, scorse i primi raggi del sole farsi largo. Spense la candela al suo fianco e regalando un sorriso di compiacimento a Lilì Lantrè*, si alzò dal letto. Il suo corpo era davvero il segno di una bellezza giovane che alle donne piaceva terribilmente ma non a quelle più astute, per questo nel tempo aveva imparato a raffinare i suoi modi, e grazie a Charlotte anche la sua intelligenza era divenuta di un certo spessore.
Indossò una vestaglia da notte e ne passò una, con lo stesso marchio inciso sul bordo della manica, alla compagna.
Quando la porta della stanza si aprì la messinscena ebbe fine. Il viso addolcito di Gerard si contrasse e con sguardo circospetto ordinò ai due camerieri di posar la colazione in due angoli diversi della camera. Ed ancora altre due ragazze fecero il loro ingresso, entrando nel bagno privato e riempiendo la vasca con acqua calda e pulita, Lilì fu immersa in un salone di bellezza e nel frattempo il giovane gigolò si fumava una sigaretta.
Sempre la solita congettura, sempre la solita routine, era tutto così calcolato che ormai il ragazzo non ci faceva più caso. Poco più tardi l'attrice uscì dal bagno con la sua lunga pelliccia, sul punto di indossare i famosi guanti neri.
―Desiderate dell'uva, mia cara?― domandò Gerard mentre la servitù spariva dietro la porta.
―No. Non ho fame oggi―.
―Quando ci rivedremo?― sussurrò il gigolò avvicinandosi al corpo sbilanciato e formoso della donna, la strinse e poi, con un'eleganza degna di nota, portò le sue mani sul petto.
―Dopo Natale, persino dopo Capodanno...―
―Precisamente?― digrignò i denti.
―Mi farò sentire con la milady, non temere― Lilì avvicinò la sua bocca a quella di lui ma ancora una volta il giovane rifiutò un contatto.
―Oh, che permaloso!― disse allontanandosi, ―mica è un peccato, sai?―
―Mia cara, non fraintendete, semplicemente io...― ma Gerard non concluse la strana frase che stava elaborando al momento, le porte rosse della camera vennero riaperte nuovamente ma questa volta la visita fu una boccata d'aria.
―Lantrè!― la voce di Charlotte si fece largo tra i pensieri di entrambi.
―Milady!― rispose di rimando l'attrice prima di lasciarsi andare ai convenevoli saluti. Gerard rimase a guardare la maestria della sua protettrice e quanto fosse capace di mettere il buono umore ai suoi clienti. Sorrise sotto i baffi ed aspettò che le donne concludessero una conversazione che poco gli interessava in cui erano nominati nomi troppo articolati, difficili da ricordare, gente che mai avrebbe incontrato e che mai avrebbe voluto incontrare.
―Questi giorni saranno davvero difficili per me e non credo che ritornerò per le prossime due settimane, i miei amanti temono che li possa lasciar da soli― sospirò Lilì, in un finto sentimento affranto.
―Non temere, Lantrè. Credo proprio che ci rincontreremo prima dello scadere di queste tre settimane― rise Charlotte.
―Davvero? E dove?―
―Il Ballo Nevoso― rise ancora.
―Oh, questa è buona! Milady, tu ti prendi troppo gioco di me! Mr Jenkins non entrerebbe mai in collaborazione con un bordello, figurati se si parla del suo ballo―.
Ora Gerard era ritornato tra loro e con una certa attenzione cercò di seguire il filo logico di tanta apprensione.
―A quanto pare, quest'anno le regole son cambiate― soffiò Charlotte, era distante un centimetro dalla giovane cliente.
Si salutarono di nuovo e quando Lilì Lantrè se ne fu andata da quella stanza, il suo sguardo cadde sul viso del figlioccio caro.
―Gerard...― disse, ―come stai?―
―Sto bene, mamà― La donna prese posto sul letto appena fatto ed accavallando le gambe tirò fuori il porta sigarette, non chiese il permesso, accese e basta. Gerard fumava di rado e solo dopo notti come quella trascorsa, quindi non proferì parola alcuna.
Guardò la protettrice con più attenzione del solito, costatando che i lineamenti del viso erano decisamente rilassati, sobri, eppure qualcosa non lo convinceva: la luce finta nei suoi occhi vibrava di paura e di apprensione, il corpo che sempre aveva ammirato era diventato tutto d'un tratto smunto e poco raffinato.
―Come è andata con Lilì?― domandò.
―Direi soddisfatta― rispose.
―Bene―. Passarono pochi minuti fino a che Gerard non si trovò più d'accordo in quel silenzio ingombrante.
―Che devi dirmi, mamà?― Si avvicinò al davanzale in cui era riposta la colazione e riempì due calici di Champagne, porse uno a Charlotte e ritornò alla sua posizione primordiale, in attesa.
―È arrivato questo―, lasciò cadere sull'orlo del letto il sigillo scarlatto della lettera immorale. Il giovane guardò l'oggetto tagliato parsimoniosamente dalla donna. E trattenne un sorriso.
―Il Ballo Nevoso...― aggiudicò. Posò il suo calice e non poté non abbracciarla in un attimo di felicità e di impeto non corrisposto. Charlotte guardò il suo viso e strinse le labbra.
―Sono davvero felice per te, mamà. E...―
―Per favore Gerard, risparmiati queste frivolezze. Ad ogni traguardo c'è sempre un prezzo da pagare, non credere che sia tutto frutto di felicità. Quello è solo un attimo. Un attimo che dura fin troppo poco―. Fiatò la milady posando a sua volta il calice senza scomporsi e senza mai abbassare il capo. Il giovane si ritrovò confuso e corrugando la fronte cercò di trovare le parole giuste per un'affermazione più efficace, meno... meno colpevole. C'era qualcosa che premeva sulla sua nuca, qualcosa di caldo e di doloroso; una parte del suo cervello lavorava per scorgere il prezzo ispido.
―Quale sarebbe questa volta il prezzo?―
―Non lo so―, rise. ―È un burattinaio abile e latente. Sappi però che non ho intenzione di crucciarmi ulteriormente, io son qui per darti un'altra notizia positiva―.
Gerard smise di osservare il sigillo e schioccando la lingua sotto il palato, guardò dritto negli occhi la donna.
―Sono tutt'orecchi―.
―Il mio figlioccio non mancherà a quest'evento, già immagino milioni di decorazioni, neve vera che scende leggiadra sui vostri capi al lume di candele; un corridoio speciale: è la mia idea―. Charlotte lasciò cadere la cenere della sigaretta per terra e gli lanciò un'occhiata loquace.
―Non credo di aver colto tutte le sfumature di questa conversazione― constatò Gerard ed in effetti era proprio spaesato. La sua mente si trovava in un turbinio di pensieri misti e contrastanti, a dirla tutta non era neanche così interessato a ciò che aveva da dirgli mamà.
―Gerard―, concluse Charlotte, ―questa è la casa della tolleranza, non c'è bisogno di capire, basta semplicemente... tollerare―.
Un sospiro e le tende che cadono sul sipario.
La milady non avrebbe accettato qualunque prezzo. Questo Gerard lo sapeva.



Il ticchettio della pioggia sulla finestra era l'unico rumore che aleggiava nella stanza. Elizabeth era seduta comodamente sul letto a baldacchino e guardava di fronte a sé il grande armadio in mogano nero: le ante erano aperte, osservava con circospezione i vestiti all'interno senza però trovare quello giusto. I capelli erano scompigliati sul cuscino e il viso imbronciato dai mille pensieri. Tutti sapevano che non era una ragazza dall'intelligenza acuta e il suo spropositato amore verso i vestiti era solo un piccolo capello dei tanti suoi vizi.
Every, la governante, era preoccupata per un altro motivo. Come era possibile che la sua padroncina si stesse già dedicando ai preparativi del viaggio? Mancavano due settimane, c'erano tante feste e cose da fare, ma alla signorina Elizabeth, così pareva, tutto ciò non le interessava affatto. Aveva un unico pensiero che, personalmente, Every bramava di sapere.
Nella biblioteca degli Ermakje, George era seduto dietro la scrivania con una miriade di fogli attorno.
―Posso, signore?― Every entrò circospetta con la solita teiera di tè.
―Prego, Every. Poggia lì, su quel tavolo fianco al camino― rispose l'uomo senza alzare lo sguardo dagli affari.
―Signore, volevo parlarvi di Mss Elizabeth― sospirò la donna dopo aver eseguito gli ordini.
―Che sia una cosa veloce―.
―Per quanto ho potuto capire, la signorina vuole iniziare i preparativi del viaggio―. George fermò per un attimo la piuma stretta in mano che, fino ad un attimo prima, si muoveva sul foglio.
―Oh, per l'amor del cielo, mancano due settimane―, con gli occhi incontrò quelli della sua interlocutrice.
―Sapete com'è fatta vostra sorella, signore. Ha queste manie... incontrollabili, se mi permettete di dirlo―.
―Le parlerò questa sera a cena, se ciò ti rincuora―.
―Va bene signore. Vi ringrazio―. Disse Every mentre usciva dalla stanza e lanciava un'ultima occhiata al suo padrone.
Era innocua, le dicevano. Ma l'innocuità è sinonimo di desiderio.

*Lilì Lantrè: il nome è stato debitamente storpiato, poiché questa storia non ha intenzione di riportare vicende realistiche ma semplicemente verosimili.
Nell'Ottocento ella era un'attrice e fu amante di persone alquanto famose.



Spazio scrittrice:
Sono viva. Oh my gosh. E chi l'avrebbe detto! Mi scuso per questo immenso ritardo, ma ero confusa e fino ad oggi non sapevo precisamente cosa aggiungere.
Stiamo andando lentamente? Oh, ragazzi, è così che deve andare! Perché nei prossimi capitoli vi ritroverete in un turbinio amoroso e pieni di colpi di scena che... preferireste di gran lunga questi momenti.
Ora vi pongo una domanda:
-SPOILER
-
-
-
-
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- Il Conte Ermakje (George) sa qualcosa di questo bordello? Di questo ballo? SPOILER! Adieu! E fatemi sapere cosa ne pensate!


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Capitolo 5
*** IV°-Mille violini suonati dal vento. ***


Mille violini suonati dal vento*

Le labbra tremarono; strinse più forte i libri al petto; inspirò. La prima cosa che le passò per la mente fu un semplice 'non è possibile', la seconda invece fu 'ha la barba'. Aveva visto pochi uomini con la barba. E quei pochi erano sempre stati dei vecchi rimbambiti e per niente affascinanti; il viso che ora le si prospettava davanti era decisamente giovane e non le sembrava affatto stupido. Quando gli occhi dell'uomo si posarono su di lei, trattenne il respiro, non perché avesse paura, ma per il semplice fatto che le parve davvero un'occhiata indisponente. Katherine non abbassò la guardia e in un attimo lampante, le parve di scorgere sul viso di Viktor del fastidio.
―Buon giorno Mss Jenkins― la voce strascicante dell'uomo fece sussultare la ragazza. Con un movimento istantaneo chiuse la porta dietro di lei.
Katherine si avvicinò al tavolo, il suo precettore stava osservando una pagina di un libro, sembrava del tutto disinteressato e questo, non sapete quanto, la irritava. Era lì, un po' scettica su cosa fare e come muoversi, non era abituata ad essere quasi evitata, non era abituata al disinteressamento. Seppur fosse una ragazza terribilmente forte e aggressiva, possedeva anche una certa dose di permalosità. Strinse forte le braccia al petto e senza volerlo stampò nella sua mente il viso dell'uomo. Era così singolare da intimarle sorpresa. Non aveva rughe ma la sua giovinezza doveva per forza esser racchiusa in qualche altra parte del corpo perché sul viso, ora che Katherine era più vicina, notava rudimento e dei lineamenti che non facevano parte di quel posto. Lineamenti che non aveva mai visto prima di all'ora.
Viktor smise di leggere ed alzò il capo, Katherine scorse ancora del fastidio. Tanti sentimenti sfavorevoli la portavano ad uno stato precario e di insolenza. Ingoiò saliva, schiuse le labbra e le parve che tutto stesse diventando più pesante e inconsueto. Aveva torto? Sapeva solo che i suoi occhi erano più chiari del ghiaccio e sembravano delle gemme incastrate perfettamente in pietre levigate; trattenne un sospiro e strinse ancor di più le braccia sui seni.
―Siete nervosa, Mss?― biascicò e la voce di Viktor rimbombò nelle sue orecchie.
Cosa diamine stava accadendo? Katherine rimase allibita e in un momento di lucidità cercò di riprendere le redini della situazione, di riportare sulla terra ferma l'animo perverso e cicatrizzato.
―Signore...― aria, ―no.― Composizione, ―suppongo di non esser affatto nervosa e non scorgo alcun motivo del perché dovrei esserlo―. Aria.
Viktor alzò un sopracciglio e lasciò andare del tutto il libro che lo aveva distratto nell'estenuante ora d'attesa, schioccò la lingua sotto al palato e l'unica parola che riuscì a pensare fu: touché.
―Io sono Viktor Mitchell― di nuovo schiocco, ―e questo, invece, suppongo che dobbiate saperlo―. Katherine abbassò leggermente il capo in segno di riverenza e poi si lasciò andare all'osservazione del soffitto di legno, riempiendo i polmoni di quell'aria che iniziava ad andarle un po' stretta.
―Signor Mitchell, io...― le mancò il fiato e sentiva la vena del collo pulsare costantemente, portò due dita su di essa e si impose di trovare le parole adatte, di non lasciar trasparire l'orrida irrequietezza che l'aveva pervasa sin dall'inizio, come una bomba senza fine.
Non ci riuscì, non continuò il pensiero, era quasi come andare contro la sua natura e lei non poteva permettersi un simile sgarro, non immediatamente almeno.
―Sedetevi―. Disse Viktor con un tono di voce che Katherine non riusciva affatto a collocare nella sua mente. Lo fece senza esitazione, portò le mani al grembo ed attese.
Suo padre s'era preso gioco di lei. E più guardava il viso di Mr Mitchell e più le forze mancavano. Suo padre aveva anticipato la sua vendetta. L'aveva spogliata della sua coerenza. Suo padre l'aveva affidato ad un uomo. E perché? Non lo capiva, non percepiva nulla di buono in quel gesto, eppure non sapeva darsi nessuna spiegazione. Sentirsi svuotata era un eufemismo e più l'orologio nella stanza rintoccava i secondi e più la vena del collo pulsava.
―Quale impegno improrogabile vi ha trattenuto fino ad adesso, signorina?― Viktor estrasse dei fogli bianchi, una boccetta di inchiostro e una piuma nera dalla sua valigetta marrone.
―Mi dispiace, signore. Sono stata trattenuta più del previsto e... ― rimase così. Sul suo viso era dipinto scetticismo, ―perché avete cacciato una piuma nera?―
―Per scrivere, signorina. Ed ora continuate. Cosa vi ha trattenuto?―
Ma Katherine non si fermò, ficcò le unghie nel velluto della poltrona e, necessitandosi di aria, continuò imperterrita: ―E perché scrivete ancora con la piuma, signore?― Viktor alzò lo sguardo dai fogli e posizionò l'attenzione sulle labbra della giovane, la sua insolenza lo schiacciava in pieno. Lui non si sentiva svuotato, ma demotivato.
―Cosa state cercando di fare?― sospirò. L'orologio rintoccò ancora, Katherine sussultò e scosse la testa.
―Nulla, signore.― Solo allora Viktor ritornò ad occuparsi dei fogli bianchi e l'aria divenne nuovamente scostante. La finestra era praticamente gelata e la ragazza avrebbe tanto voluto avvicinarsi al caminetto per trarne quel calore che non riusciva a scorgere in quella prima lezione.
―Ditemi, Mss. Conoscete i dieci comandamenti delle religioni ebraica e cristiana?―
―Perché dovrei, signore?― Il precettore continuava a scrivere, più velocemente, con più forza.
―Siete forse una ragazza stupida, Mss?― Katherine sorrise. Sorrise per la prima volta dopo essere entrata in quella stanza, sorrise con un'ingenuità tale da confondere chiunque, eccetto l'uomo che si ritrovava dinanzi. Il sorriso scomparve successivamente e le parole che uscirono dalle sue labbra furono il sintomo di un profondo capriccio che non poteva badare, in alcun modo. Aveva impiegato meno del previsto: Viktor Mitchell aveva già espresso la frase che avrebbe voluto che dicesse.
―È quello che dice mio padre, signore. Quindi suppongo di sì―. L'uomo aveva fermato la mano, ora. Sorrideva anche lui e Katherine notò che il suo volto era del tutto pacato, per nulla sorpreso. Per nulla inacidito.
―Voi supponete troppo, proprio per questo vostro padre mi ha convocato, per far sì che le vostre supposizioni spariscano senza far ritorno. Sarà un'impresa ardua? Cominciate col dirmi i dieci comandamenti delle due religioni, orsù―. Non avrebbe permesso a quell'uomo di confonderla. La mora si alzò dalla poltrona, così da evitare che quelle parole si instaurassero nella sua mente.
Aveva deciso di continuare il gioco e non avrebbe avuto importanza se si fosse bruciata l'intera mano, braccia, busto: la sua agonia aveva sempre avuto uno sbocco illuminato.
―Ma signore, perché dovrei conoscere i dieci comandamenti? Ed ora... mi permettete? Comincio a sentir freddo, ed il camino è così allettante! Non negatemelo―. Senza aspettare risposta alcuna fece ciò che aveva detto e riprese a guardare l'inespressività dell'uomo.
Anche quest'ultimo si alzò dalla sua poltrona e con grande scetticismo da parte di Katherine, le si avvicinò. Fu in quel momento che la giovane notò il suo portamento. Zoppicava. I suoi occhi si fermarono sulla gamba difettata coperta dal pantalone in velluto: non scorse niente se non un grave imbarazzo.
―Sapete il significato della parola “anticonformismo”, signorina?― poco più di un sussurro, le gote di lei si tinsero di rosso e la sua mente iniziò ad elaborare male.
―Forse―. La voce le si strozzò in gola e il sospiro di alleggerimento da parte dell'uomo, le trasmise un moto di riluttanza ed erroneità, ―è il comportamento di un individuo che non è conforme alla massa, no?― Katherine aveva il viso basso, guardava il fuoco scoppiettante e captava i movimenti del professore con un orecchio. Non aveva idea di dove volesse arrivare ma aspettava comunque una risposta che la ferisse. Ed ella non tardò ad arrivare: ―Dunque, ditemi adesso, voi cosa credete di essere con un tale comportamento? Anticonformista o solamente una ragazzina viziata che non ha fatto ancora il suo debutto in società?― Alzò la testa e con uno scatto troppo veloce piantò i suoi stessi occhi celesti in quelli cristallini dell'uomo imperscrutabile.
Ciò che disse fu un chiaro segno di puntigliosità:
―Ottavo comandamento, signore. Non dite falsa testimonianza―.



C'era profumo di gelsomino nell'aria. Erano stati riportati una miriade di fiori colorati nei vasi del grande salotto. Seppur non fosse la stagione adatta, quell'aggiunta di primavera recava conforto all'animo degli abitanti di Winslow Hall.
Il gelo impenetrabile che caratterizzava l'aria di quel giorno sembrava essere solamente di passaggio, uno sbaglio di dicembre che presto si sarebbe volatizzato e avrebbe lasciato crescere l'erba verdeggiante e gli uccellini avrebbero continuato i loro canti estenuanti insieme ai bruchi divenuti appena farfalle. Tutto ciò però non c'era, e il giorno dopo sarebbe stato identico a quello che stavano vivendo; e la cosa sconfortava in modo inesorabile il giovane Daniel Shaw. Aveva le ossa delle mani completamente congelate, a malapena riusciva a muoverle e la matita che stringeva era priva di sentimenti, quegli stessi che cercava di concretizzarli sui grossi fogli che aveva davanti. La mente era un turbinio di pensieri dispotici, gli occhi fuggivano da una parte all'altra della stanza e un groppo in gola gli vietava molte mansioni.
Cercò di trovare la concentrazione adatta chiudendo le palpebre ed inspirando profondamente quell'odore di gelsomini fresco, la sua mente aveva formato dinanzi a sé un'immagine ben precisa: era rossa come il fuoco, pallida come la luna con una bocca che assomigliava così tanto ad una rosa appena sbocciata e due smeraldi brillanti pieni di quella vitalità la quale rappresentava il fulcro della sua ispirazione.
Boccheggiò senza accorgersi che qualcuno era entrato. Boccheggiò di nuovo aprendo nuovamente e con lentezza gli occhi e, stupefatto, rimase abbagliato dalla stessa immagine che lo aveva portato al culmine delle speranze.
Wendy Jenkins era lì, davanti a lui, in tutta la sua bellezza più innocente. I lunghi capelli rossi erano raccolti in alto e due riccioli le cadevano sul viso arrossato ed incerto. Daniel socchiuse la bocca ma non sapeva cosa dire; in verità non sapeva neanche se quella Wendy fosse ancora l'immagine nella sua mente o la vera ragazza.
―Vi ho disturbato, Mr Shaw?― aveva una voce melodiosa, gli angoli della sua bocca erano piegati verso l'alto e le mani, che Daniel non aveva mai visto, erano nascoste dietro la schiena. Quando la mattina era entrato nella sala da pranzo la contemplazione di quel corpo, di quello stesso viso, di quell'atteggiamento nascosto da un'aura infantile, era durata davvero poco.
―No, signorina― s'irrigidì. Abbassò lo sguardo dal suo viso e ritornò ai fogli. Qualcosa premeva contro la sua anima e gli impediva di sorridere, di interloquire amabilmente, qualcosa lo fermava, bloccava, stoppava. Ma questo Wendy sembrò non notarlo. Si avvicinò a Daniel con passo spedito e leggiadro, gli occhi sprizzavano luce, finché non si posarono sui fogli completamente vuoti.
―Oh, sì che vi ho disturbato. Forse eravate proprio sul punto di capire cosa scrivere o dipingere ed io... mi dispiace, Mr Shaw― la voce di Wendy era davvero sensuale e dolce, e carismatica, e sbadata. Daniel ingoiò saliva e scosse leggermente il capo: se solo avesse saputo che fino a quel momento era stata proprio lei la sua musa ispiratrice...
―No, no, signorina!― ribadì. Sembrava aver dimenticato le buone maniere, ―perché... perché non vi sedete? Faccio portare del tè prima del pranzo. Orsù... non abbiate paura di farmi compagnia―. Quelle parole gli costarono caro, si fermarono più volte in gola e Daniel compì un gesto immane pronunciandole.
Wendy prese posto in una poltrona vicino al caminetto della stanza, lui invece era seduto fianco al tavolino e non aveva ancora lasciato andare la matita; il suo pensiero più astratto riprendeva entrambi che parlavano ma allo stesso tempo scappavano. Quei fotogrammi che gli apparivano ogni tanto non erano mai stati dei presagi buoni, ma non ci fece caso, non in quel momento.
―Siete Katherine, voi?―
Wendy rise.
―No, signore. Io sono Wendy, la secondogenita della famiglia. Strano che non conosciate il mio nome. In fondo siamo lontani parenti―. Quella frase irritò Daniel. Possibile che tanta timidezza potesse racchiudere un carattere diretto ed acido? No. Wendy non era acida, però gli piaceva pensarlo, forse era uno dei suoi tanti metodi per dissuadere da quel fascino inaudito.
―Oh, Wendy...― ci rimuginò su e quando scorse il viso di lei, notò tracce di arrossimento. Vide le grosse labbra rosse venir morse e lo stomaco gli si strinse.
―Faccio portare il tè―. E così fece. Presto comparve Sheila con una teiera e dei biscotti, Wendy si avvicinò al tavolo versando nelle tazze un po' di quella bevanda fumante, una la porse a Daniel che però non la prese. Aspettò che la posasse sul davanzale e che la giovane si allontanasse da lui. Non voleva toccarla. Questa era la verità più assurda da quando quel giorno alla stazione l'aveva vista. L'aveva sin da subito desiderata, voleva possederla, fare l'amore con lei, voleva immergere le dita nei suoi capelli infuocati e trarne del calore. E questo continuava a non negarlo, era un impulso malsano, perverso, sbagliato, alla fin fine lui non la conosceva. Eppure era così; per di più si rifiutava di toccare la sua pelle diafana. Era come un incantesimo, aveva paura di spezzarlo, di sminuirlo, di essere lui stesso l'artefice che avrebbe interrotto quel flusso di erroneità.
―Scrivete poesie, Mr Shaw?― domandò Wendy mentre sorseggiava.
―Sì. Il mio obiettivo è quello di pubblicare un libro che le racchiuda, ma nell'ultimo periodo il fulcro di tanta volontà si sta spegnendo―. Rispose pacato.
―E come mai? Se posso chiederlo ovviamente―.
“Nulla, mia cara. Sono solo nelle mani degli usurai”.
―La città. Credo che il baccano e la cappa della città abbia bloccato il mio spirito; per questo... sono qui.― sorseggiò, ―questa contea è magnificente―. Ed anche lontana dagli strozzini.
Wendy sorrise ed abbassando il capo, disse: ―Ho sempre trovato affascinante i poeti che si rifugiavano qui, da queste parti. Sembrate una specie così rara―.
Daniel posò la tazza e girò il capo verso la finestra e verso quello che si vedeva oltre: un grande prato ghiacciato e smorto. Affascinante era una parola che aleggiava ancora nell'aria.
―È proprio così― sussurrò un attimo prima di lasciare la stanza.

*Mille violini suonati dal vento*: titolo estratto dalla canzone di Carmen Consoli "L'ultimo bacio".


Spazio scrittrice:
Non credete che abbia aggiornato prima del previsto? Su, su! Fatemi i complimenti! Ed ammettetelo: è stato un capitolo che non vi aspettavate e.e.
FINALMENTE! Iniziamo a capirci qualcosa. Ma giusto quel poco, eh AHHAHA. Non sono adorabili queste coppiette? No. Non lo sono. Consiglio: siate sempre oggettivi se non volete soffrire! :P
Non ho altro da dire, fatemi sapere cosa ne pensate.
Grazie per le recensioni che avete lasciato allo scorso capitolo e come ho scritto nel ps, appena posso ricontrollo tutto! >< Quindi perdonate le distrazioni.

Ps: correggo tutti gli errori appena ho tempo, promesso.



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Capitolo 6
*** V°-L'ira funesta. ***


L'ira funesta

Il cuore le batteva forte, sentiva la testa pesante ed ogni muscolo del corpo indolenzito. Gli occhi le brillavano ed un fiotto d'energia scorreva nelle vene. Era seduta in modo sciatto sulla poltrona del grande salotto di casa e guardava al di là della finestra, in cerca di qualcosa che non fosse la pioggia, l'erba bagnata o l'insistente fruscio del vento; cercava qualcosa che richiedesse la comparsa delle sue doti civettuole. Erano passati un paio di giorni da quando aveva ricevuto la notizia del viaggio e, da quando George le aveva categoricamente impedito di fare le valigie. Il suo animo si sentiva svuotato ed era in attesa che quelle feste passassero, in attesa che il ballo di Natale ed il Capodanno riuscissero a trascorrere nel modo più piacevole e fulmineo.
Gli occhi di Elizabeth si posarono sul bordo della vetrata ed iniziarono ad osservare una formica in difficoltà a causa delle grosse gocce piovane. Sospirò, ricordando che la prima volta in cui l'aveva incontrato, nel cielo risplendeva il sole e gli scoiattoli si nascondevano, e le formiche morivano sotto i suoi piedi scalzi e... ed il caldo di quel giorno d'agosto era apprezzato più delle altre volte.
-
In tutta la sua breve esistenza, solamente una volta il fratello l'aveva portata con sé nella contea del Buckinghamshire. E fu davvero un'esperienza magnifica. Ricordava ancora i lunghi tramonti ombrati da nuvole scure e quella pioggia di mezza estate che scombussolava i progetti del giorno. Ricordava ancora quando si era fermata davanti all'entrata di Winslow Hall e George le aveva presentato Wendy, una ragazza così timida ed impacciata, giovane e sciocca. O comunque così le era apparsa. Elizabeth aveva passato interi pomeriggi a giocare con la dama insieme alla madama se non prossima cognata; ed a primo impatto Wendy non era garbata alla sorella del Conte. Ma il fratello era davvero ammaliato dal suo portamento, dalla sua castità e purezza da non aver avuto altra scelta se non quella di accettarla anche lei. La sorella minore Katherine, invece, l'aveva intravista poche volte e, almeno un componente doveva provocarle irritazione, non l'aveva pressappoco degnata di uno sguardo o di atti benevoli nelle due settimane di soggiorno.
Elizabeth non arrossiva facilmente, non era neanche un tipo che rispondeva prontamente e doveva pensarci su per almeno un paio di minuti prima di una risposta sensata, ma quando aveva incontrato il primogenito Henry nella grande biblioteca della famiglia Jenkins, qualcosa era scattato nella mente della giovane. Non si poteva definire un amore platonico o non corrisposto, eppure la corte spietata di Elizabeth fu davvero una catastrofe ed Henry, col passare dei giorni, si allontanava sempre più. Lei! Lei così bella e nel pieno della gioventù! Come poteva essere rifiutata? Elizabeth, infatti, non l'aveva ancora capito. Lei non capiva. L'ultima sera di quella vacanza si recò nel grande giardino della tenuta, si sedette ai piedi di un salice piangente ed iniziò ad osservare quel tramonto famoso e cupo.
―Mss Elizabeth!― la voce di Henry le apparve avere un'inclinazione di dolcezza. La ragazza si alzò immediatamente indossando al momento le calzature sul prato umido.
―Oh, Henry...―sorrise, ― ...che bello che mi siete venuto a far compagnia!― altro sorriso da parte del giovane.
―Cosa stavate facendo?― gli offrì il braccio ed iniziarono a camminare amabilmente attorno agli alberi potati.
―Non ci crederete mai eppure vi stavo aspettando!― Elizabeth posò la sua mano pallida sul petto di Henry e con un gesto spontaneo si strusciò sulla sua giacca blu.
Lui soffocò una risata.
―Oh, mia cara! Ma come devo fare con voi? Siete così... ― le afferrò la mano e la spostò. Elizabeth si fermò ed appoggiò delicatamente la testa sul suo torace.
―Questo è il mio ultimo giorno qui, Henry.― sospirò.
―Lo so, mia cara. Il viaggio di ritorno sarà faticoso, immagino―. Faticoso è allontanarmi da voi!, pensò lei.
―Sentirete la mia mancanza?― Disse invece.
―No, non temete. Il mio animo sopprimerà ciò che prova nella speranza di un vostro ritorno―.”

-
Ed ora Elizabeth gongolava senza trovare conforto in nulla. Il tramonto ormai, insieme alla pioggia, aveva portato con sé un buio beffardo. Chiuse le palpebre e trattenne una lacrime calda non ancora pronta a caderle sul viso; e l'unica cosa che riusciva a pensare era l'animo di Henry, nella speranza che non avesse dimenticato l'amore che univa lei a lui.



Katherine era furiosa. Le pieghe del suo abito svolazzavano da una parte all'altra mentre il ticchettio dei suoi passi riecheggiava nell'intera tenuta. Aveva le braccia lungo la schiena e tentava in qualunque modo di non stringere le dita a pugno chiuso. Gli occhi erano lo specchio dei suoi pensieri mentre si dirigeva fuori da quel luogo; sentiva la gola secca e la testa fattasi pesante, vide di sottecchi la prosperosa gonna di Sheila nella veranda: stava scopando il pavimento pieno di foglie secche e a col tempo attizzava la stufetta per riscaldare la stanza semiaperta. La giovane ragazza si fermò un attimo prima di scendere le scale, si trovava nell'atrio e dalla finestra poteva scorgere ogni movimento della domestica. Questa volta, almeno, ebbe il buon senso di indossare uno scialle di pelliccia un po' stravagante e fuori moda; Sheila, dal canto suo, l'aveva subito notata e con uno scatto veloce si affrettò nel raggiungerla.
―Signorina! Cosa state facendo? Com'è andata la lezione? E... perché indossate quella robaccia? Dove...? Signorina!― le domande, come aveva previsto la ragazza, erano diventate innumerevoli e senza premurarsi di risponderle aveva raggiunto l'esterno del giardino, ma Sheila non aveva affatto intenzione di lasciarla scappare senza un minimo di spiegazioni soprattutto dopo aver scorto tanta indignazione e rabbia sul suo volto.
―Perché siete così arrossata, signorina?―
―È il freddo!― il tono acido di Katherine esasperò la vecchia che indispettita smise di seguirla, anche perché non era più giovane come un tempo e la sua padroncina aveva lunghe gambe.
―Per l'amor del cielo, Katherine! Fermatevi!―
―Non ora, Sheila! Non ora!―
Di nuovo quella sensazione di umidiccio sotto i piedi le pervase il corpo, la testa smise di gravarle sul collo e nel gelo dell'inverno chiuse gli occhi smettendo di osservare ciò che la circondava. Sentì solamente la pelle farsi sempre più fredda e quindi, automaticamente, perdere calore e sensibilità. Aveva le labbra screpolate, e le palpebre pesanti seppur fossero chiuse.
La sua mente vagava da un pensiero ad un altro e già una seconda vendetta prendeva forma nel suo animo maligno e presuntuoso.
Era arrivata al punto di crollare sulle ginocchia quando una nuova voce l'allontanò dalla sua collera.
―Kath!― Maschile, suadente, un sorriso beffardo, lo struscio dei pantaloni e i capelli tirati all'indietro perfettamente: Henry raggiunse la sorella afferrandola appena in tempo.
―Ehi! Non credevo di farti questo effetto, sai?― rise, Katherine si appoggiò a lui ed indicò le radici di un albero dove sedersi ed ammirare lo strato gelato il quale era terreno.
―Orsù, sediamoci. Ne ho bisogno―. Sospirò. Henry le fu accanto sotto l'albero e squadrò il suo viso rattristato ed imbronciato. Era la sua sorella preferita anche se mai l'avrebbe ammesso. Forse perché gli assomigliava, forse perché lei era più combattiva, sveglia e perspicace della dolce Wendy. Ma neanche quest'ultima cosa avrebbe mai ammesso. E tutti rimanevano convinti che Wendy fosse la figlia perfetta e amata, la sorella venerata e lodata.
―Cosa succede, rosellina?― Un soprannome che personalmente Katherine aveva sempre odiato eppure lo accettava, era un segno d'affetto, un modo per sentire il fratello più vicino al suo cuor.
―Il nuovo precettore è un uomo. Te ne rendi conto, Henry? Un uomo!― fiatò la giovane adirata.
―Cosa c'è di sbagliato?― rispose perplesso.
―Non lo so. È proprio questo il problema! Né tu, né Wendy avete avuto un uomo come insegnante. Ed ora? Ora che lei ha fermato i suoi studi, io vengo assegnata ad una persona aspra
e limitata di mente!―
―Addirittura?― rise Henry.
―Oh, fratello, non immagini neanche! Papà la pagherà, la pagherà cara!― inveì ancora la giovane.
―Non credi che abbia già fatto un gran sacrificio? Ora dovrà accontentarsi solo del bordello!― rise ancora.
―Appunto, Henry. Perché rinunciare alle sottane delle mie insegnanti?―
―Non ne sei felice? In effetti odiavi quelle donne. Perché tanto astio, ora che hai ottenuto ciò che bramavi da tempo?―
Katherine sospirò ed appoggiò la testa sui palmi delle mani e i gomiti sui ginocchi. Si morse le labbra e sentì subito il sangue fluire sulla lingua dalla spaccatura.
―Ne sapevi qualcosa, Henry?― disse d'un tratto la giovane guardando il viso del fratello che non rispose subito e si limitò ad una tirata di spalle, ―Henry!― sbottò, ―perché non me l'hai detto?―
―Perché ti conosco, Kath. Non sei affatto una ragazza diplomatica, sei così irascibile ed istintiva che avresti avuto proprio questa reazione. Non ho ragione, per caso?―
―La verità è che volevi accontentare ed assecondare tuo padre!―
―Come se non fosse anche il tuo. Senti, ragazza, ascoltami: è inutile che continui questa messinscena, il signor Mitchell è un uomo adatto alla tua istruzione―.
―Come fai a saperlo, eh? ― sputò tra i denti Katherine mentre si alzava dalle lunghe radici e cercava di non far incrociare i suoi occhi con quelli di Henry.
―Sei così ostinata―. Sospirò.
Nel frattempo una figura conosciuta e quiete si aggirava nel giardino, il cappotto era abbottonato fin sotto al mento e la sciarpa nera, che si intravedeva sul collo, riusciva a donargli un ulteriore classe. Viktor Mitchell aveva tempo da perdere, la lezione era finita da meno di mezz'ora e la Berlina sarebbe giunta a momenti. Il sorriso furbetto che aveva dipinto in volto voleva significar solo una cosa: divertimento. Provava gusto nel vedere Katherine ed il suo giovane fratello parlottare, anche perché i sentimenti che provavano li si leggevano negli occhi, nelle labbra contorte, nelle rughette sulla fronte e nei muscoli irrigiditi.
Non aveva ascoltato la conversazione e sinceramente non lo avrebbe fatto neanche se ne avesse avuto l'occasione perché ne era totalmente disinteressato.
Si avvicinò con passo deciso mentre il viso diventava un oggetto non interpretabile e gli occhi fissi sull'allieva dalle gote permanentemente arrossate.
―Mr Jenkins! Voi dovete essere Henry, il maggiore―. Disse. Un vago sorriso di compiacimento e poi porse la mano verso il giovane.
Quest'ultimo, dal canto suo, l'aveva notato non appena Katherine aveva smesso di ribattere.
Era la prima volta che lo incontrava e stranamente lo aveva immaginato così come in realtà appariva.
―Quale onore, signor Mitchell. Stavamo giusto parlando di voi―. La sorella si girò di scatto verso i due e non riuscì a trattenere uno sguardo di disapprovazione per l'ingenuo Henry.
―Davvero? Come mai ero al centro dei vostri pensieri? La mia giovane alunna si stava forse lamentando?―
―Oh, assolutamente no Mr Mitchell. In verità mi stava facendo un personale resoconto sulle vostre brillanti capacità oratorie―. La ragazza scosse impercettibilmente la testa chiudendo gli occhi e trattenendo un sospiro: ciò non sfuggì al precettore.
Henry continuava a confabulare senza ricevere risposta da parte di Viktor, quando Katherine aprì gli occhi, si ritrovò ancora una volta lo sguardo dell'uomo su di sé. E decise di intervenire.
―Mr Mitchell aspettate la carrozza?―
―Esatto, signorina―, rispose con tono cantilenante, distogliendo lo sguardo da lei, ora più scocciato, ora più annoiato.
―La Berlina, vero? L'ho intravista stamattina, ottima scelta dire―. Espresse Henry.
―Ritornerò domani alla stessa ora di stamane, signorina. Spero vivamente di trovarvi già nello studio. Avrei preferito dirvelo a fine lezione ma non me l'avete permesso, scappando manco foste un prigioniero in fuga―. Katherine arrossì ed inchinandosi leggermente annuì, ―sarà fatto signore―.
Ci furono alcuni secondi di silenzio dove Henry, ora più distratto, aveva escogitato una vera e propria burla. Adorava la sorella sì, eppure amava anche renderle la vita un inferno.
―Signor Mitchell, non vorrei apparire sfacciato o risultare maleducato, ma perché non si rifocilla prima di intraprendere di nuovo il viaggio?―
Sia Viktor che la ragazza rimasero interdetti ed entrambi guardavano Henry incuriositi: l'uomo era compiaciuto, Katherine era inorridita.
―Sì...― fu la risposta incerta, ―con gran piacere!―continuò entusiasta.
Katherine boccheggiò, scrollò le spalle e con la mano spostò i capelli dinanzi al viso: ―Allora meglio che avvisi Sheila e speriamo che non abbia da ridire―.
―Oh e perché dovrebbe? Gli ospiti sono sempre ben graditi!―
―Certo, non ne dubitavo― digrignò tra i denti mentre con una riverenza formale la giovane padroncina correva verso la governante sbadata ed analfabeta che tanto amava, all'interno della casa.
Se Sheila non avesse trovato nulla di cui lamentarsi, ci avrebbe pensato lei stessa.


Spazio scrittrice:
Aaaah, pure in orario sono! Vedete? Ormai sono diventata bravissima u.u, aggiorno in tempi record, secondo i miei standard x'D.
Prima di far commenti su questo capitolo vorrei ringraziare di gran cuore tutti coloro che hanno recensito questa storia, l'hanno trovata da poco e... beh insomma, mi rendete immensamente felici soprattutto quando mi fate presenti gli errori e cercate di aiutarmi. Davvero. Lo apprezzo molto.
La prima parte vuol farvi capire perché Elizabeth voglia ritornare a Winslow Hall u.u, la seconda parte invece serve per introdurre ciò che al prossimo capitolo sarà fondamentale: la cena.
Praticamente il sesto capitolo è basato sulla cena e... ci saranno dei colpi di scena assai *gnam gnam* :3.
Dopodiché, vi avviso già da adesso, ci sarà una specie di salto temporale... no, no, non pensate male! Ma... vi dico solo che il Ballo Nevoso è più vicino di quanto pensiamo.
Ed ora? u.u Ora vi saluto! Fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolino :3.
Un bacione da me e dal mio gatto che è immancabilmente presente.

Ps: il nuovo banner *_______*, sbaviamoci sopra.



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Capitolo 7
*** VI°- Cene a lume di candela. ***


Avvertimento: occhio alla parte iniziale, due situazioni diverse sono mescolate in unico paragrafo. Spero che sia tutto chiaro.
Cene a lume di candela

Bolle, bolle dovunque. Bolle fastidiose, bolle grosse e piccole, bolle di sapone che volavano a mezz'aria e si fermavano sul capo della giovane fino ad esalare l'ultimo respiro e scoppiar senza rumore. La vita crudele ed ingiusta di una bolla si concludeva senza colori e senza uno scopo preciso. Il profumo dei non ti scordar di me inebriava l'aria rendendo la stanza blu ancora più dolce e perfetta di quanto non lo fosse già. I seni erano a contatto con l'acqua calda e la pelle rabbrividiva ogni qual volta una bolla si spezzava dinanzi ai suoi occhi candidi e puri da ogni tipo di morte. Girò appena il capo verso la sua sinistra e scorse il grosso specchio poggiato alla parete blu, il riflesso che vide fu di una falsità tale da incuterle un forte senso di timore e irrequietezza.
Si alzò di scatto, lasciando la chioma rossa ricaderle sulla schiena bagnata e non rivolse alcuna occhiata alla vecchia e bonaria Sheila che le porgeva un lenzuolo morbido e profumato.
I corpetti erano stati fatti per stringere fino a soffocare l'esile busto di giovani ragazze in cerca di mariti. I nastri blu vennero sciolti con violenza e quando lo sentì cadere sul pavimento insieme alla sontuosa gonna, si godette la larghezza della sottana bianca senza forma che le copriva il corpo ben cresciuto.
Le ante dell'armadio in ebano vennero aperte e un vestito color zucchero posato gentilmente sul letto. La ragazza dai capelli corvini lo indossò, lasciando che la crocchia acconciata con mille forcine facesse il suo effetto e che il vestito di zucchero ricalcasse i suoi fianchi non più piccoli.
Wendy coprì lo specchio con il lenzuolo porto da Sheila e si lasciò cullare dalle sue mani mentre l'asciugava e riportava sul divano in pelle un nuovo vestito color arancia.
Katherine abbottonò il vestito fin sotto il mento e si lasciò incipriare il naso con della nuova polvere bianca, dopodiché entrambe, quasi come se fossero state risucchiate da un vortice di conseguenze, si ritrovarono l'una di fronte l'altra sul primo gradino delle scale. Nero contro rosso. Lo schioccar della lingua si tramutò in un eco lontano risuonante nel corridoio principale. Entrambi i petti si alzavano ed abbassavano velocemente e gli occhi erano carichi di elettricità.
―Mia cara sorella, come state?― Chiese Katherine raggiungendola e le porse un braccio per scendere la rampa.
Le due non avevano mai osato darsi del tu se non in rare occasioni. Essendo l'opposto non provavano né odio né amore, forse solo del rispetto reciproco. Condividevano lo stesso tetto ma i cuori erano la diversità dei secoli: un antico ottocentesco e un nuovo novecentesco.
―Mi sento alquanto bene...― sorrise Wendy.
E allora Katherine continuò ad alimentare la sua conversazione malsana e doppiogiochista: ―Abbiamo un ospite stasera. E' un uomo noioso e per nulla divertente. Davvero una palla al piede―.
―Ma cosa dite, Kath? Il signor Shaw è un uomo perspicace. Si sa che i poeti hanno sempre quell'aria vagamente lunatica ma... non mi sembra il caso di trarre queste conclusioni così affrettate e maligne―.
La ragazza dai capelli corvini rivolse uno sguardo indagatore alla rossa e scosse il capo.
―Mi riferisco al signor Mitchell, rimarrà qui a cena. Tu sai di chi sto parlando, vero?―
―Oh, piccola peste, alludevi al tuo precettore!― rise Wendy accarezzando la guancia della sorella con il palmo della mano, ormai erano arrivate davanti al portone della sala da pranzo.
Katherine chiuse gli occhi lasciandosi sfuggire un gemito di soddisfazione e allo stesso tempo di irritazione:
―Com'è questo poeta allora? Interessante?― cambiò argomento e posò le dita sulla maniglia d'oro finto fredda. Wendy arrossì e balbettò: ―E'-è... di buona compagnia―.
Noioso, pensò Katherine.
E poi, velocemente fecero il loro ingresso nella sala.
Henry era seduto alla destra del padre, Daniel lo seguiva, Viktor alla sinistra e parlottavano sconnessamente tutti insieme di cose che nessuna delle due nobildonne si apprestò a coglierne il senso.
Katherine osservò il viso angusto e spigoloso del poeta, i lunghi capelli arricciati che gli ricadevano sulle spalle lo rendeva alquanto strano. La giovane non aveva mai visto un poeta e comunque aveva sempre dipinto quel tipo di persona come un artista superiore che riusciva a trarre ad ogni parola detta una sfumatura maggiore, una sensibilità e una delicatezza che personalmente lei non avrebbe mai colto.
Il vecchio Ernest guardò le sue ragazze mentre si lasciavano andare ad una leggera riverenza e si sedevano le una di fronte alle altre: Wendy era di fianco a Viktor e Kath di fianco a Daniel.
―Ebbene, visto che ci siamo tutti, possiamo iniziare―. Un sorriso mellifluo dipinse il volto dell'uomo e quando una giovane e gentile cameriera gli servì del pollo arrosto lasciato rosolare a lungo in spezie profumate e salse forti, non perse occasione di guardarle il décolletté.
―Voi dovete essere Katherine―, sorrise Daniel rivolgendosi alla ragazza, lei annuì leggermente e lo guardò di nuovo in viso: ―Esattamente, sir. Come trascorrete le vostre giornate nella tenuta? Vi sono d'aiuto questi paesaggi?―
―Sicuramente li trovate suggestivi―, si intromise Ernest addentando il pollo.
―Oh, senza alcun dubbio. Trovo che la tranquillità, la serenità e la pacatezza di questa casa giovi molto al mio stato precario. Era proprio quello di cui avevo bisogno, lo ammetto.― rispose Daniel guardando le pietanze nel piatto.
―Siete un poeta strano, sir―. Brontolò Ernest asciugandosi la bocca con un tovagliolo ricamato a mano.
Viktor non disse nulla, si stava limitando ad assaggiare il pane casareccio insieme a quelle salse rivoltanti. Il suo sguardo era perso in altri pensieri, in un altro mondo e altri porti.
Notò che la dolce Wendy era decisamente molto più educata e tendenzialmente ubbidiente, e si chiedeva se fosse stato meglio avere lei come allieva.
―Mr Mitchell gradite altra salsa?― domandò Ernest, Viktor rivolse un'occhiata al suo datore di lavoro. Il signor Jenkins provava un certo rispetto per il precettore della figlia, lo capiva dallo sguardo brillante e astuto che gli rivolgeva, dalla cortesia nella voce e dalla leggera confidenza che lasciava trasparire quando gli parlava direttamente. Sorrise. Altra salsa? Sarebbe morto e non era un eufemismo malsano, quello.
―No, vi ringrazio, non tendo mai a mangiar più del dovuto―. Katherine indurì i lineamenti del volto e non alzò mai lo sguardo, non fu pertinente, non gli rivolse né parola né alcun segno di fastidio. Mentre vestiva gli indumenti della sera aveva escogitato un secondo piano. Un piano che avrebbe decisamente funzionato e l'avrebbe lasciata senza un minimo di forza vitale.
Guardò il padre e notò quanta delicatezza e sarcasmo usasse con quell'uomo. Ma perché? Sospirò e scambiò qualche altra frase di convenevoli al poeta che come aveva previsto non le suscitava alcuna attrazione o interessamento.
Quando la cena si concluse gli uomini si trasferirono nella sala da biliardo, Ernest fumava la pipa ed osservava Daniel ed Henry mentre si concentravano sulle palle da gioco e sulle stecche poco affinate. Viktor si sedette a fianco del signore e quando vide le due giovane sorelle congedarsi rivolse un unico sguardo ad ambedue seguendole finché la porta non fu chiusa.
―Allora, parlate...― disse Ernest ora concentrandosi su Viktor. Il maestro abbassò il capo e non trattenne un sorriso: ―E' la ragazzina più maleducata che io abbia mai conosciuto, sir. Non credo che abbia dote e questo mi dispiace dirlo―. Parole dure, veloci, escogitate, non lo guardò negli occhi, non riusciva ad essere sfacciato sino a quel punto.
―Non proviate rancore. Lo immaginavo. Ebbene, credo che ora dobbiate congedarvi, non vorrei trattenerla ulteriormente. Henry è stato fin troppo impulsivo con quell'invito. L'accompagno alla carrozza―. Espresse Ernest alzandosi insieme a Viktor e dopo i dovuti saluti con gli altri due uomini si incamminarono verso il portone di casa. Il signore indossò una pelliccia verde e lunga per coprirlo dal freddo.
Arrivarono alla carrozza.
L'uomo fermò il giovane per un braccio e la cosa infastidì in una maniera inumana Viktor. Le guance arrossate di Ernest lasciavano trasparire quanto vino avesse bevuto.
―Questa è una ricompensa molto importante, Mr Mitchell. Conto su di voi e sul fatto che riuscirete a farla diventare minimamente donna―, rise e gli consegnò una busta sigillata, la stessa che giorni prima aveva ricevuto Elizabeth a Londra da suo fratello.
“Lo diventerà”, sorrise Viktor. La verità in quelle parole era paurosa.



Aveva indosso un lungo abito viola, che le stringeva i fianchi, le risaltava il seno, pronunciava le sue forme da eterna ragazza giovane ed in cui i fili del corsetto erano stati tirati fino a toglierle il fiato. Era lo stesso giorno il quale aveva ricevuto la lettera dalle mille sfumature. La notte era inoltrata, l'orologio a pendolo segnava la mezzanotte e il trucco della donna, fatto accuratamente quella mattina, era diventato un'ombra chiara sul suo viso impallidito. Al centro del grosso tavolo in ottone del grande salotto, era stato posizionato un grosso boccale di vino, le pietanze invece erano già state servite e mangiate in abbondanza. Charlotte, mentre attendeva, si lasciò andare alla lettura di un vecchio raccoglitore di poesie regalatole più di dieci anni prima da un cliente assai bizzarro il cui nome non rammentava più. Aspettò un'altra mezz'ora, in attesa che Viktor Mitchell scendesse dai suoi appartamenti. Non le era mai capitato di dover attendere un uomo più di dieci minuti e la cosa riusciva a turbarla.
La stanza dell'Espiazione era un piccolo mondo in cui si rinchiudeva quando non c'era nulla da fare in hotel. Era il suo studio, la sua camera da letto, la sua sala da pranzo e l'unico luogo che tollerava completamente e che le donava attimi di pace e di sollecitudine.
Si riempì il calice di acciaio con altro vino e posando il libro di poesie diede uno sguardo dalla finestra che affacciava sul retro del bordello. Dopo alcuni minuti in cui l'unico rumore erano i sospiri lussureggianti del piano superiore fu scossa dal trotto di cavalli. Trangugiò le ultime gocce di quell'ottimo vino rosso e aprì la finestra che si trovava al lato opposto della prima e dove la quale affacciava direttamente sulla grande strada principale.
Vide l'uomo dal cappotto nero scendere dalla sua Berlina e ne rimase stupefatta; diede uno sguardo di nuovo all'orologio e non capiva come fosse possibile. Era sicura che Viktor fosse tornato già da molte ore e che avesse cenato nei suoi alloggi. Però, adesso che ci pensava attentamente perché avrebbe dovuta farla aspettare per quasi un'ora? Charlotte lasciò perdere quelle congetture, avrebbe spiegato lui stesso del ritardo e di quel ritorno così sospettoso. Almeno lo era per lei.
Si sedette sulla poltrona in fiori e chiuse gli occhi lasciandosi andare al vino che stava facendo il suo effetto insieme al buio della stanza mischiato al tepore del fuoco scoppiettante.
Tre tocchi vicino alla porta bastarono per farlo entrare e quando gli occhi di Charlotte si posarono sul viso dell'uomo, il suo corpo ebbe un sussulto.
―Buona sera, milady― espresse il veterano avvicinandosi alla donna che porse la mano e se la lasciò baciare grata. Viktor era ghiaccio, lo aveva scorto dagli occhi, dal movimento leggermente storpiato, dalla cicatrice quasi invisibile sul collo, dai capelli arruffati con diligenza.
―Come mai questo ritardo, sir? Spero sia ragionevolmente giustificato, aspettare diventa una tortura in certe occasioni―. Soffiò Charlotte lasciando andare la stretta di mano.
―Mi hanno trattenuto, milady. Una cena nella tenuta dei Jenkins del tutto inattesa. Non potevo fare altro che adeguarmi. Vogliate accettare le mie scuse?― Charlotte scosse il capo ridendo e gli disse di sedersi e prendere una coppa di vino. Lui non si lasciò pregare.
―Ebbene, mio giovane e nuovo amico, a chi ha giovato di più questa cena? Me o voi?― Viktor posò il calice vuoto sulla scrivania a pochi palmi da lui ed infilò una mano nella giacca lasciando cadere sulle gambe dell'elegante donna l'invito ricevuto: ―Entrambi, deduco―.
Charlotte ruppe il sigillo ed estrasse la carta.
Le bastarono pochi attimi e poi iniziò a ridere convulsamente, l'ingenuità di Jenkins Ernest superava i limiti massimi di cui lei aveva sperato un'esistenza.
―Perché?― rise ancora, ―che senso ha? Vi ha invitato al ballo dopo neanche un giorno!―
―Sta cercando di conquistare il mio favore, milady. Lui vuole che sua figlia diventi disciplinata; con una certa mente brilla mi ha sussurrato all'orecchio che avrei dovuto far di tutto per rendere la ragazzina una donna.―
―Ci può scommettere, quel vecchio bifolco―. Rise di nuovo, il viso di Viktor si dipinse di sarcasmo e dovette concedersi anche lui un sorriso.
―Allora, Viktor caro, state attento su ciò che ho da dirvi in questo momento. Non sarà facile accontentare ciò che la mia mente progetta ma io confido nelle vostre più illustri capacità. E quindi, prestate interesse―, Charlotte si alzò dal divano e si sedette su una sedia di legno a fianco dell'uomo nonché suo dipendente, ―queste due settimane passeranno nel gelo più profondo, nulla cambierà, nulla trasparirà dal vostro viso, non guarderete la vostra alunna, non la studierete neanche per un attimo, la maltratterete, la insulterete e la deriderete se le occasioni si presenteranno. Sarete un precettore all'antica, proprio quello di cui il Vecchio ha più bisogno di questo momento: una certezza sulla figlia scapestrata.―
―E poi?―
―E poi il ballo giungerà e una nuova notizia si farà largo tanto da incuriosire pure i ciechi―.
―Quale, milady?―
Charlotte sorrise e si scostò dall'orecchio di Viktor.
―Il ballo Nevoso è famoso per i suoi temi singolari e divertenti―.
―Qual è il tema di quest'anno, mia signora?―
―Un ballo in maschera―.
Ma quello era solo l'inizio.
―Un semplice ballo mascherato?―
―Le cui maschere saranno beffe di personaggi famosi―.
―Ad esempio?―
―Io sarò Vittoria―.
E risero, entrambi, di nuovo con gusto.
―Un tema davvero carino eppure... ho una vaga sensazione che non si tratti solo di un ballo in maschera―. Viktor si riempì un nuovo calice di vino e Charlotte annuì ancora divertita.
―Infatti, mio caro. Il tema delle maschere si mischia alla lussuria più antica―.
―E quindi milady? Vuole che già al ballo io...―
―No! Assolutamente no! Non con lei.―
―E con chi allora?―
Charlotte si avvicinò di più all'orecchio e il nome che gli sussurrò rimase incastrato tra i loro pensieri. Si sentì un forte tintinnio, il freddo rosso si espanse sul pavimento e l'aroma del vino inebriò l'animo turbato di Viktor.


Spazio scrittrice:
Direi che dopo tre settimane (o forse quattro) era pure ora che aggiornassi!
Mi dispiace per questo leggero ritardo ma sono stata risucchiata nel mondo della lettura e non riuscivo a staccarmici. Sono un caso perso. Me ne rendo conto.
ALLOOOORA, che ne pensate? Confuso, stupido, superficiale, veloce? Ebbene, fatemi sapere!
AVVISO:
Il prossimo capitolo racconterà ciò che è successo fino al Ballo Nevoso dopodiché arriverà il grande giorno, o quasi.



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Capitolo 8
*** VII°-Preliminari. ***



Preliminari

Fumo, fumo dappertutto, fumo cospiratorio, fumo che si insinuava tra i lunghi capelli neri, fumo che infastidiva il viso e nascondeva lacrime amare e veritiere. Fumo che brillava alla luce del sole e raggelava alla vista delle temperature più alte. Fumo che Katherine vedeva chiaramente e che le rodeva l'animo. Quel giorno aveva indosso un lungo abito cremisi, le ciglia erano state allungate da uno strano aggeggio e le labbra erano dipinte dello stesso colore del vestito. La sontuosa gonna era sparpagliata sui gradini fuori dalla tenuta dove Kath sedeva guardando dinanzi a sé. Era sera, una bella sera, una sera luminosa in cui la luna risplendeva amabilmente.

―Cosa vi affligge, Mss?― scandì Viktor a chiare lettere, la stanza semibuia e lo sguardo perso di Katherine mentre si premuniva ad evitarlo. Sentiva del calore, del rosso, sentiva preoccupazione nell'aria. Ed il petto, stretto nel corsetto, s'alzava e abbassava con evidente difficoltà.
―Nulla che possa compromettere le nostre lezioni―, nulla che possa interessarvi anche, pensò. E in quel momento lo sguardo del precettore ritornò freddo dimenticando l'accaduto e, non spingendosi oltre, continuò la lettura sulla Storia della Scozia.


Ciò non dovrebbe causarle un simile sentimento. Eppure i suoi pensieri non riuscivano ad allontanarsi dagli occhi che un attimo prima le erano apparsi di fuoco e subito si erano tramutati nel ghiaccio più intenso e freddo.

―Voi non avete aperto libro, non vi siete premurata neanche di sfogliar mezza pagina, la vostra preparazione è pari a zero e mi vergogno di questo comportamento così sfacciato e irrispettoso, voi no, Mss? Oh, che qualcuno vi salvi dalla vostra esasperante vanità―. Le guance di Katherine avvamparono ed abbassando il capo si apprestò ad ingoiare una miriade di brutti pensieri. Quel disprezzo infondato ed alterato da chissà cosa, riusciva a confonderla inesorabilmente. Era stanca di quell'uomo, era stanca di vederlo ogni giorno e sentire quelle frasette fatte e piene di ira punzecchiarle la schiena come piccole freccette affilate.
―Io sarei irrispettosa, signore? Voi siete scostumato! E non so cosa sia peggio―. Quel giorno lasciò la stanza da studio con il cuore che le batteva a mille e quando fu costretta a rivederlo, il gelo era aumentato notevolmente.


I fuochi d'artificio si spersero nell'aria, un cumulo di rumori non identificati e la voglia matta, più matta di un matto, che aveva di gridare in quella cacofonia era più forte di qualunque altra cosa. Si strinse lo scialle bianco opaco attorno alle spalle striminzite e sentì la risata di suo padre farsi largo anche nel giardino della tenuta. Sentiva il fruscio delle vesti mentre il vicinato danzava nel Grande Salone come ogni anno. Tutti erano riuniti nella sua dimora e lei si ritrovava lì fuori a godersi quei fuochi artificiali che sempre aveva odiato e dove la vesta rossa del Natale le stringeva il petto con fin troppa forza. Non si era mai ritrovata su quei gradini a meditare del suo comportamento che in quelle ultime due settimane era stato considerato addirittura sconsiderato e strano. Soffriva di pazzia? Era davvero pazza? Socchiuse gli occhi, suo padre aveva specializzato un medico affabile? Rise. L'ipotesi e la conseguenza erano una più assurda dell'altra. I fuochi in cielo smisero di rumoreggiare e questo la porto per un attimo alla realtà.

―Vi divertite per caso?― urlò Katherine in preda alla disperazione, con la testa leggermente incrinata e gli occhi lampeggianti di disprezzo. Ciò era successo il giorno prima e Viktor era stato più che crudele, secondo lei. Un precettore non si comporta da villano, pensava. Eppure lui sì. E questo disturbava la sua mente, il suo corpo, la sua quiete.
―Sto solo cercando di rendervi una persona migliore, Mss. Perché me lo impedite?― e il tono era stato così calmo, non alzò lo sguardo dalle sue scartoffie e Kath si sentì ancora più umiliata. Ora non sapeva più come muoversi, che vendetta adottare, contro chi avrebbe dovuto agire. Era partita con un'unica presupposizione: avrebbe ubbidito. Avrebbe ubbidito e avrebbe distrutto la barriera insensata che le era stata eretta contro fin da quando era bambina. Avrebbe assecondato il precettore, avrebbe fatto di tutto per allontanare il padre dalla sua vita, per convincerlo che, alla fine, lei non era così stupida. Ma le ultime due settimane erano state un completo fallimento.


Si alzò dai gradini non appena sentì la porta dietro di sé scattare e si ritrovò il viso di Ernest a pochi passi da lei. Lo sentì sospirare mentre la guardava e le si avvicinò: ―Domani― sottolineò. E Katherine annuì. Quella era la sua unica e prima speranza, non l'avrebbe lasciata scappare, no, non l'avrebbe fatto.



Gerard era seduto su una grossa poltrona verde dinanzi ad una finestra, e guardava, guardava, guardava. La barba gli pizzicava il mento, la stoffa della poltrona aderiva sino ai glutei e la luce della luna che c'era in quella stanza lontana dal chiasso del bordello, sembrava quasi baciargli la pelle. Completamente nudo e privo di sentimenti alcuni guardava, guardava, guardava. Gerard era un ragazzo di diciannove anni, di bello aspetto e con un animo congetturato sin da quando aveva compiuto dieci anni. Due rughette gli rubavano una sana espressione sulla fronte e le piccole borse sotto gli occhi lasciavano intravedere quanto quella notte l'avesse sfinito, del tutto. Aveva fatto sesso con una donna grassottella e sposata da anni innumerevole, aveva giaciuto con qualcuno di cui non provava nemmeno il più lontano degli interessi. E guardava, guardava, guardava. A lui, le donne, non piacevano.
Gerard era un perfetto stereotipo del mondo, lui era ciò che la società ottocentesca rappresentava, tutto ciò di cui bisognava sapere di quegli anni era racchiuso nei suoi addominali, nel petto, nel cuore, nel suo sesso, nella sua mente, nelle sue labbra screpolate, nella sua vita che, dopotutto, odiava. La porta scricchiolò e i passi di Charlotte riecheggiarono nell'abitacolo.
―Vestiti.― Gli ordinò mentre un accappatoio ricamato ricadeva sul suo corpo. Gerard non si girò a guardarla, sorrise appena e disse: ―Per l'amor del cielo, mi sto preparando psicologicamente. Lasciatemi alla mia agonia.―
―Figliolo...―
―Tacete, mamà―. Non aveva intenzione di sentirla, e il bicchiere di vetro non più ricolmo di champagne faceva capire tante cose. La donna gli si avvicinò e toccandogli una spalla si lasciò andare ad un abbraccio, ―Le carrozze sono pronte, non possiamo rimandare piccolo mio.― Gerard sospirò e si staccò dalla donna che sempre aveva avuto la premura di accudirlo. Indossò l'accappatoio ed ancora una volta non gli rivolse nessuno sguardo mentre usciva dalla camera per andarsi a vestire. Quando raggiunse la sua stanza notò i “carri” infestati di prostitute e di strascichi colorati, notò anche dei cavalli che trainavano delle vere e proprio casse ricolme. Stavano per partire. Stavano per volar lontano. Lui avrebbe rubato la virtù di ragazze indifese, e le sue compagne avrebbero fatto del loro meglio per rendere il famoso Ballo Nevoso più divertente, spassoso, bello. Si passò una mano tra i capelli sospirando, gli faceva male in petto e qualcosa gli diceva che non sarebbe ritornato come Gerard. Quel dolore lì era una visione lontana, di corpo, una scelta che solo lui poteva fare.
Gerard Collins salì a fianco di Charlotte, un gigolò con dei pantaloni in velluto e una testa fattasi pesante per via della notte insonne. Un gigolò da troppo tempo. Un gigolò che non aveva mai provato amore, un gigolò che era stato considerato tale fin da quando quella parola non aveva ancora nessun significato per lui.



Daniel era accostato al grande finestrone del salone, gli uomini erano rinchiusi da almeno due ore nella sala da biliardo e le donne, sedute amorevolmente in un angolo, spettegolavano e ridevano su situazioni altrui, anche brutte ma che alimentavano la loro invidia e le soddisfacevano in un modo che il poeta non giustificava. Quella mattina di capodanno, mentre si faceva la barba davanti ad uno specchio un po' sporco, si era tagliato sulla guancia destra ed ora il piccolo cerotto bianco, segno che Sheila avesse fatto il suo lavoro doverosamente, gli donava quasi un'espressione di innocenza. Lui, quelle due settimane, le aveva passate in giardino, nella sua camera, tra pennellate colorate e fogli scarabocchiati ma tutto il lavoro che aveva fatto non lo trovava gradevole. La sua musa era ferma su un piedistallo e lui voleva che scendesse e che si muovesse insieme al suo corpo, voleva la passione del corpo e dello spirito oltre alla bellezza mentale. Sospirò. Ma cosa gli passava per la testa? Lui era un uomo finito e quasi morto. A chi voleva darla a bere? Sospirò ancora. E una mano sicura si poggiò sulla sua spalla, girandosi vide Henry, il suo presunto protettore.
―Pensieroso?― il giovane sorrise e Daniel ricambiò posando sul davanzale il bicchiere di champagne che aveva tra le mani.
―No. Stavo solo osservando fuori di qui... la luna... il buio...― Il poeta guardò l'angolo appartato delle donne e i suoi occhi si soffermarono sulla figura snella e rigorosa di Wendy. Digrignò tra i denti ed il compagno se ne accorse.
―Capisco. Ma non credo che tu sia interessato solo alla “luna... il buio...”― disse, Daniel guardò il suo interlocutore senza capire ed Henry rise di gusto, talmente forte che alcune nobildonne gli lanciarono occhiate perplesse.
―Oh, Dan, tutto mi sarei aspettato da te ma non...! Un animo come il tuo... la tua smania per l'avventura e costretto a nasconderti qui per...―
―Henry! Non urlare, potrebbero sentirti.― Lo rimbeccò Daniel spalancando gli occhi e sperando con tutto se stesso in una ripresa del compagno.
―Perché lei?― sussurrò il giovane avvicinandosi. Il poeta strinse le labbra ancora più impotente, e scosse la testa.
―Si può sapere cosa stai dicendo?― era irritato. Henry prese il calice dello champagne e lo impose nuovamente a Daniel che non ebbe altra scelta se non stringerlo tra le dita.
―Brindiamo, fratello. Avrei preferito Katherine, ma se Wendy è la tua scelta, cerca di essere carezzevole e meritevole di lei―. Il poeta boccheggiò aria e chiuse per pochi attimi gli occhi, sentendo lo sguardo di qualcuno osservarli. Henry, spesse volte, diceva cose senza senso, spesse volte era ubriaco, come quella sera ,e il giorno dopo non avrebbe ricordato più nulla, nemmeno l'occhiata che aveva rivolto a sua sorella e il fuoco che serbava nel suo animo si sarebbe affievolito fino a diventare un ricordo nelle sue ceneri.
―Ma se non riesco nemmeno a toccarla...― ridacchiò bevendo lo spumante, Henry non rispose, era già occupato in altre cose, in altri pensieri, in un altro mondo.
E allora Daniel rivolse un nuovo sguardo alla rossa e notò che anche lei lo stava osservando, ma il suo era un'occhiata curiosa, non c'era fuoco nei suoi occhi verdi, e il poeta alzò il calice d'argento accennando un piccolo sorriso prima di ritornare a guardare fuori dalla finestra, con un groppo in gola.



George era annoiato, da tutto e da tutti. Sua sorella sedeva di fronte a lui e la sua compagnia non poteva definirsi una delle migliori. Parlava, incespicava, balbettava, urlava, rideva, peggio di un infante. Accese la sua pipa mentre la carrozza sballottava i loro corpi da una parte all'altra dell'abitacolo. Quel giorno, il conte indossava un gessato nero, perfettamente in armonia nei suoi panni, nel suo gilet, con l'orologio da taschino che ticchettava nella tasca, con i capelli diligentemente laccati e senza barba sul viso. I suoi occhi apparentemente stanchi nascondevano una miriade di sfumature luminose, di segreti, di importanti congetture che avrebbe serbato e portato con sé fin nella tomba.
―Perché poi la notte di capodanno? Io non capisco! Sei così silenzioso, non mi spieghi niente e...― George scosse la mano e la zittì velocemente.
―Per l'amor del cielo, Elizabeth, sta' zitta! E riposati prima che il viaggio si concluda. Non vorrai presentarti nuovamente alla famiglia Jenkins spossata dal sonno e dall'attesa―.
La sorella scrollò le spalle e corrugò i lineamenti del volto, facendo irritare ancor di più George.
―Tu non riposi, fratellino? Vuoi forse accogliere Wendy tra le tue braccia senza un minimo di forza? Che tipo di prestazione le daresti?―
A quel punto il conte non ci vide più, e strattonò il braccio della ragazza, guardandola con quell'aria truce e vendicativa che poche volte le aveva riservato. Come poteva mettere in dubbio la virtù della sua quasi promessa sposa? Rise. Ma a chi voleva prendere in giro? Eppure quelle messe in scene gli rendevano la giornata più divertente.
―Non provare, mai e dico mai più, a dire una cosa del genere, Elizabeth.―
E la ragazza parve particolarmente dispiaciuta, abbassò il capo e sospirò: ―Perdonami, perdonami davvero. Lo sai... sono... sono euforica! Non posso crederci... io che partecipo al Ballo Nevoso! Non mi ci hai mai portato, e nemmeno papà. Sarà un debutto, sarà qualcosa di magnifico, più di quanto io stessa immagini.― E sarà l'evento giusto con Henry, la ragazza era convinta che lui l'avesse aspettata senza indugi, era totalmente e sconsideratamente elettrica.
George si irrigidì di nuovo sul suo posto e lasciò che lo sguardo cadesse su quelle eterne pianure verdeggianti ed avvolte da un freddo cospiratorio.
―Sì, sarà qualcosa di magnifico.―
Una magnificenza che nessuno mai avrebbe colto nelle sfumature dei suoi occhi e nei suoi pensieri malsani.


Spazio scrittrice:
Siamo agli sgoccioli!
Questo capitolo era pronto da ormai quasi dieci giorni e non mi decidevo a pubblicarlo uWu.
Perché? Perché ora arriva il bello e dovevo mettere in chiaro le idee! Questo capitolo è davvero di passaggio perché appena subentreremo nel Ballo Nevoso, miei cari, lì arriverà davvero di tutto!
Di solito per convincere i lettori a continuare la lettura è consono spoilerare l'abbondante presenza di sesso, ebbene... ci sarà.
E no! Non è il fulcro del Ballo, perché... perché ragazzi non immaginate neppure cosa succederà a Viktor °w°, a Gerard, a... a... alla nostra gentaglia!
ç_ç Sono sovreccitata, mi dileguo e spero di aggiornare il più presto possibile °w°.



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Capitolo 9
*** VIII°- Il ballo Nevoso- pt.1-L'ascesa ***


Avvertimento: possibile sarcasmo non voluto. Insomma, certe volte le battute te le tirano dall'anima! Buonas letturas. Ci vediamo in basso.

L'Ascesa

Il sole sorgeva sulle sponde della sua vita, gli occhi ricolmi di interesse erano posati su quel mare verde e brillante qual era il prato. La Contea del Buckinghamshire era un posto davvero meraviglioso: bruciava come il fuoco nei mesi estivi e le ragazze più giovani vestivano abiti di lino, le contadine si prostravano ai bordi di un lago e baciate dal sole lasciavano intravedere tutto dalla sottile veste che le proteggevano e a col tempo le divideva dal caldo afoso. In primavera miliardi di fiori colorati, tra cui i più belli lillà, infestavano la raduna e donavano quel tocco di risveglio ad ogni essere vivente, compresi gli uomini. E in autunno, concesse Gerard, le foglie marroni e giallognole cadevano con grazia sul letto di terreno alle estremità degli alberi. Il vento giocherellava con i capelli delle nobildonne e poche famiglie si apprestavano nell'organizzazione di feste voluttuose. In inverno, invece, proprio come quello lì, il freddo stringeva attorno alla gola della Contea ed il fuoco era solo un'ombra del calore che si avrebbe preferito provare. La carrozza sballottò ancora una volta il suo corpo e il giovane gigolò guardò la “mamà” mentre si lasciava andare ad un riposino. Ormai era ora. Lo percepiva nell'aria, nel cocchiere che esclamava “ooh...” e nel battito del suo cuore che decelerava, scandendo pian piano quei secondi pesanti.
La carrozza era ferma lì, davanti all'imponente villa, piena e rigogliosa nel putrido inverno. Gerard ravvivò i capelli con un gesto istintivo ed aspettò pazientemente, nella sua muta angoscia, che i cancelli si aprissero e che il mezzo traballante fosse stato guidato sul retro di Winslow Hall. Nel frattempo, dopo essersi persa il fantomatico spettacolo suggestivo dei prati e degli uccelli canterini, dopo aver russato appena ed essersi riposata abbastanza, Charlotte aprì gli occhi e il suo figlioccio non poté che guardarla con attenzione mentre aggiungeva una forcina alla capigliatura e si stirava il vestito con i palmi delle mani.
Solo dopo svariati secondi si accorse che Gerard la stava osservando e quindi si protese verso di lui, schioccandogli con dolcezza indesiderata un bacio sulla guancia destra.
―Sei stanco, piccolo caro?― fu poco più di un sussurro prima che il cocchiere aprisse la portiera per farla scendere.
―Nel retro?― riuscì solo a controbattere Gerard mentre la donna scendeva dalla carrozza e gli sorrideva con mesta compassione.
―E dove credevi che venissero accolte le sgualdrine, mio piccolo caro?―
“Piccolo caro” ora risuonava nella mente del giovane quasi come una tortura.
Scese anche lui e al fianco della donna aspettò che i carri sopraggiungessero e trovassero un posto comodo dove lasciare le donne doverose.
Il ragazzo si guardò attorno e rimase quasi sconcertato nel vedere ciò che lo circondava. Non era il retro della casa, ma delle cucine. I porci si crogiolavano nel fango rinchiusi in semplici recinzioni in legno fradicio, le mele acerbe erano buttate d'un lato pronte per essere divorate da quegli animali per nulla puliti e... vagamente carini. Le cucine affacciavano in una piccola fattoria disgiunta, una parte era formata dalle stalle, dall'altra, dove si trovava lui, non c'erano altro che animali pronti per essere uccisi e imbottiti di patate cotte e cipolline. Gerard era quasi del tutto certo che far scendere le prostitute in una marea di escrementi, galline congelate nei pollai e di forti maiali in calore, non fosse affatto una giusta azione.
―Vieni, Gerard, da questa parte―, ripeté per la seconda volta Charlotte, non l'aveva sentita, era immerso temporaneamente nei suoi pensieri, e quando la vide indicargli la strada, si affrettò a raggiungerla e cercò di farsene una ragione; in effetti doveva farsela senza troppi indugi.
Le cucine di Winslow Hall erano abbastanza ampie, con soffitti in legno bassi, i fornelli sempre accesi e grosse pentole con acqua permanentemente bollente.
Una serva dai capelli un po' grigiastri e ben formosa nel suo grembiule bianco, li accolse. Tutti, e pensò proprio tutti, erano immersi in quelle intense preparazioni. Il cibo sgorgava da ogni parte di mille tipi e lo stomaco di Gerard si trattenne dal brontolare rumorosamente.
―Di qua, venite.― La governante, o così gli pareva che fosse, li trascinò al di fuori delle cucine e così, dovettero salire un paio di rampe in marmo raffinato per raggiungere la vera casa. Quella che tanto aveva atteso di vedere. Quella che tanto bramava di conoscere e di concedersi il piacere di capire. Capire perché Charlotte era così... così... esaltata.
―Come avete detto di chiamarvi?― le chiese la milady.
―Non l'ho detto, sono Sheila, la governante di tutto questo ben di Dio.― Gerard soffocò una risata e la sua matrigna evitò di guardarlo. Mentre la donna di nome Sheila chiudeva l'ultima porta in mogano dietro le loro spalle, Charlotte continuò con le domande, imperturbabile:
―Oh, e allora cara mia governante, qual è la nostra meta? Dove ci stiamo recando?―
Sheila tamburellò le dita sulle pareti e senza voltarsi, esclamò la risposta quasi come se fosse una cosa del tutto ovvia:
―Milady, orsù, state per incontrare il maggiordomo.―
E a quel punto Gerard non poté più trattenersi e si lasciò scappare una risata grossolana che riuscì ad irritar la mamà.
―Il maggiordomo, donna?―
―Non sono “donna”, o meglio, potete risparmiarvi questo appellativo. Chiamatemi pure... governante. Oppure chiamatemi in tutti i modi che vi pare, a patto che usiate una lingua da me non compresa. E... sì, il maggiordomo milady.―
A Gerard doleva la pancia.
―Per l'amor del cielo, governante! Io non ho intenzione di incontrare il maggiordomo, guidatemi dal signor Jenkins. E che sia a conoscenza della mia visita, ora.―
Sheila a quel punto si fermò e senza fiatare girò il busto e guardò il viso truccato di Charlotte con assoluta serietà:
―Per lo stesso amore che Mr Jenkins prova per il cielo, non ha nessuna intenzione di incontravi, milady. Mi rammarico di ciò ma credo che farsene una ragione sia più opportuno, in questi casi.―
La faccia sbigottita di Charlotte era impareggiabile, Gerard aveva smesso di ridere e con solo il sorriso sulle labbra ascoltò le parole di Sheila; erano entrambe abbastanza tese. Lo notava dalle mani intrecciate della matrigna e dalla rigidità nel corpo burroso dell'interlocutrice.
―Cosa dovrebbe illustrarci il maggiordomo, Mrs Governante?― domandò lui. L'ironia nel suo tono non passò inosservata e Sheila ritornò a camminar velocemente.
―Giovanotto sono ancora una brillante signorina. E il maggiordomo ha il compito di illustrarvi le camerate per tutte le vostre belle figliuole. Esse saranno collegate al piano da voi riservato codesta sera. Oh e... buon 1896!-
―Tanti auguri anche a voi e che sia un anno prosperoso, Mss.― Rispose Gerard.
E fu così che vide un giovane uomo corto e robusto, con un papillon a pois sbucare alla fine del corridoio. Doveva essere il famigerato e poco atteso maggiordomo. Charlotte era davvero irritata, guardò l'uomo mentre salutava entrambi e si protendeva in lusinghe poco attendibili, aspettò che finisse prima di dir qualcos'altro. E di nuovo si rivolse a Sheila, quella donna che le stava tanto simpatica.
―Ditemi, ve l'ha riferito lui di non volermi incontrare?―
La governante sospirò e si cacciò le mani nelle tasche pronta per ritornare indietro.
―Milady, chi altri sennò? Ed ora scusate la mia poca buona educazione ma devo raggiungere nuovamente le cucine. Buona permanenza a voi.― E così facendo Gerard non la vide più, almeno non quel giorno. Il Ballo Nevoso si sarebbe tenuto esattamente il giorno dopo e gli invitati arrivavano con tale impeto e animo pieno di sentimenti incompresi che i domestici, come i padroni, non sapevano tenerli a bada. Anche perché ormai l'intera Contea aveva vociferato il grande regalo e sorpresa di quell'anno. Il più maestoso bordello anglo-francese si sarebbe appostato al terzo piano nella villa, e politici, politicanti, artisti, conti, duca, gli uomini più prestigiosi avrebbero giaciuto con le miglior sgualdrine e quel ballo avrebbe fatto un gran furore.
Ma la sorpresa, la sorpresa più grande, erano la presenza dei Gigolò. I gigolò non erano mai stati ammessi alle feste, i gigolò erano uomini che non potevano esser visti, così come le donne che li sceglievano; per questo e per altri motivi abbastanza ovvi, il ballo era mascherato.
Come, quindi, impedire a quelle anime in calore di sprizzar gioia e di bere whisky già dall'alba fino a che l'evento non sarebbe cominciato? Tutto, purtroppo, così retorico per Gerard.



L'erba era bagnata, il vento soffiava piano insinuandosi tra i suoi capelli e lasciando che il fumo della sigaretta si allontanasse dal suo corpo gessato. Aveva il solito cappotto abbottonato sino al mento e gli occhi rossi per via del freddo imminente. La sigaretta che teneva stretta tra le dita era quasi finita, aspirò un altro boccone di nicotina e si strinse nelle spalle, dietro all'albero di ciliegio, dove cui era nascosto volontariamente. In balìa dei suoi più ovvi pensieri e dei suoi timori più incalzanti.
Viktor buttò il mozzicone nel prato quando sentì il trotto di cavalli sul sentiero principale. Sbucò dal nascondiglio, lasciando perdere tutto il resto, e rimase nella penombra dell'albero mentre la carrozza dai colori azzurrini attraversava la via per fermarsi davanti al portone principale. Sospirò. Erano arrivati. Così come gli era stato detto, l'orario impeccabilmente preciso, tutto esattamente giusto.
Vide mentre ogni componente scendeva uno ad uno dal mezzo e i loro abiti sontuosi, i loro sorrisi smaglianti, la loro gentilezza così irritante che lo raggiungeva.
Vide, vide tante cose da quella prospettiva. Vide il signor Jenkins uscire dal portone e prostrarsi a quella gente, contento più di un bambino. Vide il cocchiere che trasportava le valige con forza disumana e la tanta ricchezza che viaggiava nell'aria.
Come i fuochi d'artificio, le sue orecchie erano pervase da quella brutta sensazione di rumore, un rumore pareggiabile ad una bomba, e l'erba umidiccia sotto i suoi piedi gli ricordava tanto il campo. Con il pollice accarezzò la cicatrice sul collo e non rimase sorpreso quando vide la chioma nera di Katherine scendere le gradinate e fermarsi davanti ai nuovi ospiti. Era rigorosamente ottocentesca. Con quei capelli avvolti sulla testa, il vestito chiuso fin sotto al collo e un vago sorriso sulle labbra. Viktor la guardò per qualche istante ma i suoi occhi ben presto furono rapiti dagli stivali di un baldo giovane in un blu ortodosso e dai capelli di un marroncino chiaro, timido, gli parve da lontano. E poi la donna al suo fianco e l'uomo che l'accompagnava insieme ad una bimba di appena dodici anni, ancora una volta gli parve.
Ma era la donna che a lui interessava. Nei suoi abiti chiari e con i capelli biondi. Schioccò la lingua sotto il palato e non poté che constatare quanto quella famiglia così prestigiosa fosse inutile. Lui, lui che odiava la borghesia, lui che odiava quel mondo, lui che aveva vissuto la miseria, il disonore, la fame, la sete, le torture più anguste... lui che si ritrovava sfregiato, mezzo zoppo, con gli occhi ombrati di una malinconia fatiscente, eccolo lì, oltre ad essere una macchina assassina pronta ad uccidere senza scrupoli alcuni, era diventato anche un burattino di legno, i cui fili erano un legame più forte della libertà.
E sparì da dietro l'albero, lasciando al sole quella bella veduta.



Katherine guardava dinanzi a sé, al fianco del padre, mentre quest'ultimo rideva ad una nuova battuta di Mr Griffiths.
La famiglia Griffiths abitava a nord di Londra, era una famiglia ricca, potente, di un certo rango, i cui unici eredi erano due figli conformi alla vita. Il primo era un giovane ragazzo di vent'anni, o così le sembrò a lei. E la più piccola invece ne aveva dieci, era stata molto desiderata e nella contea si vociferava che non fosse figlia di Mrs Griffiths, soprannominata “sterile di stile ma non di fatto”. Katherine aveva sempre trovato molto spassose quelle storielle, quei pettegolezzi, eppure ora che aveva davanti quella donna non riusciva ad immaginarla come il centro di tanti pensieri. Come poteva una signora così essere il fulcro di tanto scalpore? La sua rigidità andava oltre.
―Sarete stanchi, miei cari. Vi prego, entriamo.― Disse Ernest. Katherine alzò lo sguardo che si posò delicatamente su quello del giovane della casa Griffiths. Si diceva, sempre in paese, che cercasse moglie. E il padre non aspettava altro.
La famiglia Griffiths aveva una casa in campagna nella Contea del Buckinghamshire, e il padre aveva insistito che lei si presentasse appena fossero arrivati a Winslow Hall; cosa poteva fare se non assecondare? Sentiva un forte trambusto nel suo animo e gli occhi indagatori del giovane, seguito da quelli languidi del padre di lui, non l'aiutavano. Era oppressa, come un agnello da macello. E in quel momento, mentre salivano le gradinate e il portone si apriva davanti a loro, la figura massiccia e rigorosa di Viktor le apparì davanti, e se pensò di aver avuto una visione d'angelo, non poté che vergognarsene.
―Salve, signori.― Fu quello il suo saluto, seguito da un sorriso veloce e, quando le passò accanto senza guardarla e sparì prima che lo raggiungessero, Katherine provò un altro moto di vergogna; e non sapeva bene rispetto a cosa.
Non aveva di certo visto lo sguardo che Mr Mitchell aveva fatto cadere sbadatamente sul viso incipriato della signora Griffiths.



―Quand'è che inizierò ad espiare i miei peccati e smetterò di scappare dalle mie stesse vittime?― la domanda riecheggiò nell'appartamento. Così come riecheggiò nella mente di Daniel e vi si soffermò per un tempo indefinito. Era seduto sul capezzale del letto, in mano stringeva un foglio giallastro e scriveva frivole frasi fatte e sentite da troppo tempo. Un groppo in gola gli devastava l'anima, gli devastava il corpo, i pensieri, le sue paure. Il panciotto che aveva indossato quella mattina gli stringeva troppo il busto, il suo alloggio gli sembrava terribilmente piccolo e soffocante, la giornata fuori non era delle migliori. Il cielo era lo specchio dei suoi sentimenti. Era lo specchio che continuava a riflettere ogni sua singola incertezza, liberandolo e castigandolo.
Si riempì un bicchier d'acqua e lo trangugiò senza pudore.
In verità lui continuava ad essere ossessionato dalla capigliatura rossa. E più ci pensava, più ne rimaneva bloccato, essiccato come un fiore. Più pensava al corpo snello ed equilibrato di Wendy e più s'infiammava, s'eccitava. Ma non nel modo in cui uno stupido uomo si definisce eccitato; la sua eccitazione proveniva dai meandri più remoti del suo genio, si propagava nel corpo, nelle vene, irradiando energia, e fuoco liquido che bruciava ogni radice di razionalità.
Si morse le labbra e lasciò perdere la sua arte ancora una volta, rifiutandosi di limitare la sua mente ad una matita e a delle parole grige.
La stanza affacciava sulla parte ovest del parco di Winslow Hall; una grossa finestra illuminava l'appartamento, rendendo tutto molto più gradevole. Vi si affacciò, in penombra a causa del vetro, immerso nella sua aura di concentrazione. Vi si affacciò e il suo cuore, per la prima volta, perse un battito. E no, non stava per lasciar quella vita. Aveva solo visto volteggiare la sua musa, volteggiare delicatamente con qualcuno che non era lui. Il fiato gli si mozzò in gola, e la sua testa smise di ragionare, di collaborare. Che cosa stava facendo? Che cosa stava vedendo? La sua Calipso... la sua ninfa, la figlia di Zeus, la vita nascente... che cosa era in grado di fare quella creatura al suo animo? L'avrebbe distrutto? Sì, lo avrebbe pugnalato lentamente, con ardore, con passione.
Wendy camminava nel parco, con le mani sul grembo, un sorriso timido tra le labbra, gli strascichi dei vestiti che le scendevano delicatamente dai fianchi in giù. La voglia di stringerla forte tra le braccia cresceva inesorabilmente.
“Chi è?” fu la prima domanda che si versò nella sua mente. Ed iniziò a respirare a fatica. Al fianco di Wendy, un giovane uomo rideva di gusto, prendendola per mano, baciando diligentemente le nocche, regalandole sorrisi civettuoli. Poteva continuare in quel modo? Evitandola? Evitando il suo corpo che continuava a sprizzare un'attrazione malsana? Poteva persino disprezzarla? No. No, non poteva. Lui non voleva. E il cuore gli dolse quando capì che non sarebbe mai stato in grado di prenderla in disparte e osservarla negli occhi sapendo che lei lo guardava per quello che era. Con la sua naturalezza. La sua innocenza. Espirò rumorosamente quando il suo genio prima di andare in cortocircuito riuscì a trasmettergli un briciolo di sensata idea.
Voleva che Wendy lo desiderasse. Così come mai aveva desiderato nessun uomo. E ci sarebbe riuscito, ce l'avrebbe fatta, perché lui aveva il potere di modellare il tempo e di trasformarlo in arte, in piccoli istanti di pure gocce vitali. Il Ballo Nevoso lo avrebbe ucciso e insieme vi avrebbe trascinato la sua musa ispiratrice.



―Buon Dio, quanto mi sei mancata.― le braccia di Mr Ermakje si poggiarono sui sottili fianchi della rossa donzella e il suo viso si avvicinò delicatamente, fino a che le labbra del conte non si insinuarono sul collo di Wendy e vi indugiarono a lungo, strappando dalle labbra di lei un gemito di piacere.
―Oh, signore, perché mi fate questo?― rise, staccandosi dal conte con una certa delicatezza, sperando vivamente che non lo prendesse come un rifiuto.
―E perché tu non ti lasci cullare dai piaceri della vita che io, perfettamente, posso donarti?―
Wendy arrossì e poggiò le mani sul petto del suo pretendente.
―Mi date del tu, adesso.― Forse una parte di lei bramava ardentemente di lasciarsi toccare dalle mani astute ed esperte del conte, ma un'altra parte sapeva che la cosa migliore era cambiar discorso, distogliere quei pensieri dal fine desiderio.
Ti dà fastidio, mia cara? Presto saremo un corpo ed un'anima sola, un singolo respiro, un battito accelerato di un sol cuore. Perché fermarsi a queste banali ricorrenze? Dovresti anche tu iniziare a lasciar perdere il voi.― Il sorriso del conte Ermakje era bello, luminoso, attraente. Lui lo era. Un po' rude nei portamenti, un uomo fine nella mente, e Wendy lo aveva catalogato come una delle persone più attraenti che avesse mai incontrato.
―Signore, io...―
―E smettila di chiamarmi signore, Wendy.― sottolineò ancora, apparentemente irritato, ―io sono George per te, e molto altro ancora. È ora che tu inizi ad abituartene.―
Il conte era arrivato quella mattina presto, aveva fatto colazione con la famiglia Jenkins e dopo aver scambiato alcuni convenevoli con il capofamiglia, aveva spedito la sorella nelle sue stanza e si era impadronito della sua promessa, perché ne aveva bisogno. E perché la sua innocenza lo faceva impazzire. Ogni uomo sarebbe diventato folle davanti a tanta dolcezza e purezza.
―Cosa volet-... oh, scusat-... sì, sì, lo so.― sbuffò allora la rossa con un vago sorriso sulle labbra, chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro prima di riprendere il filo del discorso:
―Cosa vuoi dire, George? Cosa vuoi condividere con me, mio caro conte?― la mano di Wendy accarezzò il viso pulito e profumato dell'uomo e lui la strinse al suo corpo, trascinandola dietro ad un albero di pini. Era così leggera tra le sue braccia, come una piuma. Era anche intelligente, riusciva a cogliere ogni sfumatura in ogni singola frase. Quei vaghi doppi sensi non la spaventavano per niente.
―Una volta mi capitò una cosa assai strana che mi fece ridere per un giorno intero. Ero seduto al tavolo di un bar, nel centro di Londra. La gente si affrettava nel parlare e sguazzare nei pettegolezzi; c'erano due nobildonne sedute poco più distanti da me e si stavano godendo un tè pomeridiano.― Rise pervenuto a tal punto.―E si confrontavano su quelli che, usarono codeste parole, consideravano “orrori del letto coniugale”. E tu, Wendy? Credi a queste dicerie? A questi orrori coniugali?― la mano del conte iniziò a giocherellare con il merlo del corsetto e la giovane si ritrovò con le spalle a pochi millimetri dalla corteccia dell'albero e con il fiato dell'uomo ad una distanza enormemente piccola.
―Perché, conte? Io non sono coniuge di nessuno.― Che frase astuta, pensò lui.
―Ancora per poco.― Si udì a malapena e Wendy represse un sorriso di compiacimento, non per lei, ma per il padre.
―E chi è il fortunato?― George rise, rise con forza, poggiando le braccia alla corteccia e bloccando l'esile corpo della sua donna.
―Io.― E se un un tuono avesse scalfito il cielo, l'effetto finale sarebbe stato più scenografico.
Allora si avvicinò di poco, pronto a toglier del tutto quella distanza tra loro e non fu gentile, lo fece e basta. Schiacciò il corpo di Wendy con il suo, godendo dei gemiti che uscivano dalla bocca della giovane. Indugiò poco sulle sue labbra e poi, poi se ne impadronì completamente. Non fu un bacio casto, per nulla. Il corpo di lei fremeva e la giovane non sapeva nemmeno perché; portò le mani nei capelli del conte e lo strinse ancora più forte a sé, se ciò fosse stato possibile. Le loro lingue si incontrarono come onde e scogli in una bufera d'inverno. Ansimarono quando dovettero riprender aria e le mani di lui si soffermarono sui lacci del corsetto per troppo tempo.
―Sei dissetante ed io sono così disidratato...― Stava per ritornar tra le acque della sua bocca ma Wendy si scostò, riportando ordine tra i suoi pensieri e tra i capelli arruffati.
―Non siate famelico, George.― Tornare così bruscamente al voi, raffreddò l'intimità e il conte capì che per adesso bastava quell'assaggio. Bastava abbastanza da averla sconvolta. E notava nei suoi occhi verdi quella curiosità, desiderio, nello scoprire cosa ci fosse oltre.
―Vi riconoscerò domani, Mss?― rimase al gioco anche lui, accennando un mezzo sorriso mentre si passava una mano tra i corti capelli neri.
―Dipende, signore. Siete capace di riconoscere un papavero in un campo di rose rosse?― somministrò le parole Wendy.
―Solo se quel papavero mi sorriderà.― E allora Wendy annuì lasciando che le mani del conte si allontanassero da lei.
―Non sbagliarti, mio caro. Potrei non perdonarti.―
―Ah, voi donne! Voi e la gelosia! Neanche il tempo di cadervi tra le braccia e pensate già alle vostre acerrime nemiche.―
Ma Wendy non pensava alle sue acerrime nemiche, pensava a quella notte, pensava a ciò che aveva appena fatto e al gelo che aveva sentito mentre la baciava, un gelo così dolce che aveva spento il suo fuoco, ma l'aveva resa euforica.
Aveva appena baciato il conte. E il conte le aveva detto che l'avrebbe sposata. Ma non gliel'aveva chiesto. Tutto ciò non le sfiorò neanche per un secondo i pensieri, era troppo impegnata a rispettar l'etichetta e a piegarsi al volere del mondo tranne che al suo.


Spazio scrittrice:
Troppo lungo? TROPPO LUNGO? TROPPO LUNGOOOOO? Beh, ragazzacci miei, sono tre settimane che non pubblico! Cosa avrei dovuto scrivere? Quattro cosette? Insomma, questo capitolo è fondamentale perché praticamente domani ci sarà il Ballo HAHAHAHA. No.
Gosh, questo Ballo ucciderà tutti.
Cosa avete preferito di questo nuovo capitolo? çWç, io ho amato scrivere tutto, ma in particolare la situazione di Wendy. Ne aveva bisogno, la ragazzaccia.
Perdonatemi per il ritardo nel pubblicare, ho avuto un periodo "stand-by" ma ora sono ritornata e si salvi chi può!
Lo scorso capitolo è stato calcolato poco ma non importa, in compenso moltissime persone hanno aggiunto la storia tra le preferite/seguite/ricordate ed è davvero una soddisfazione unica.
ps: le avvertenze sopra non erano poi del tutto infondate! :P
Aspetto davvero dei vostri pareri, un bacione. A tra qualche giorno, ragazzacci!



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Capitolo 10
*** IX°-Il Ballo Nevoso- pt.2- La notte. ***



La Notte

La notte benevole, la notte maligna. La notte succube del buio. La notte prima del ballo. La notte della fame e dell'incertezza. La notte e tutte le sue cause.
Winslow Hall era illuminata parzialmente dall'elettricità nella parte est, mentre la parte ovest era completamente immersa nella fioca luce delle candele. Winslow Hall, anche se si prospettavano giorni di fuoco e il via vai cominciava ad essere incessante, non era mai stata tanto silenziosa.
A questo Henry piaceva; indossava i suoi soliti pantaloni in velluto blu ed un perfetto panciotto in tinta. Aveva le mani nelle tasche, la testa ciondolante e un viso leggermente reso ispido dalla barba; camminava con passo certo anche se le scale risultavano del tutto oscurate.
Quei passi vennero uditi ma ciò Henry non poteva immaginarlo.
C'era una grossa porta scorrevole fatta in legno e in vetro che rendeva il terzo piano quasi proibito. Di certo, pensava Henry, se al Ballo Nevoso due coniugi si fossero trovati nella stessa stanza di quel piano, si sarebbe scatenato il putiferio. E la cosa lo divertiva. Un sacco. Forse troppo. Strofinò i palmi sulle maniglie fredde ed aprì la porta; s'intrufolò all'interno e se la richiuse alle spalle. Avanzò di qualche passo, guardò le targhette al di fuori di ogni stanza fino ad arrivare a quella prediletta. Se prediletta era il termine giusto. S'infilò una mano nella tasca e si ritrovò nuovamente quel foglio giallognolo in mano. Il padre l'aveva affidato ad un servo che, per convenienza, era stato acciuffato da lui in persona ed ora... ora voleva leggervi all'interno. Cosa c'era di tanto urgente da lasciar per iscritto alla Milady Francese? Non gli aveva detto che non era intenzionato ad incontrarla per le ovvie ragioni che sottolineavano l'etichetta? Il problema, quello di base, era che la curiosità non era poi tanto forte. Aveva meditato a lungo guardando quel pezzo di carta, avrebbe potuto rompere il sigillo rosso e lasciar che la mente assorbisse il significato di quelle poche righe ma..., e si malediceva, aveva un presentimento. Come se quell'insignificante inchiostro doveva essere recapitato alla milady e non avrebbe dovuto ficcare il naso in quelle vicende; per questo si era recato al terzo piano, quasi convinto ad infilarglielo sotto la porta come era stato ordinato al servo.
E quindi? Ora si preoccupava di cosa avesse fatto il servo? Del padre? Quella notte gli aveva portato noia, doveva compensare.
Aprire o non aprire? Avrebbe usufruito volentieri di una margherita ma visto che ciò non era plausibile, dovette scegliere. E quando si sceglie, l'impulso vince il più delle volte.
L'aprì.
Il sigillo scarlatto, proprio come la lettera che era stata spedita giorni prima al bordello, fece uno strano schiocco e un fogliettino bianco gli cadde tra le mani.
Le parole che erano state scritte dal padre gli balzarono davanti agli occhi e lo lasciarono quasi senza fiato: “1877. [...]” L'inchiostro un po' sbavato. Un'incoerenza. Non capiva. Rimase alcuni secondi ad osservare quelle parole. Francese. Odiava quella lingua. Odiava parlarla. L'odiava così tanto che non riuscì a tradurre. Era Wendy l'addetta all'internazionalità. Non lui.
Tutti i suoi pensieri sciamarono via non appena dei passi gli riecheggiarono dietro. Dei passi che non conosceva, che non riusciva ad affibbiare a nessuno, non in quel momento di sconforto.
―E voi chi siete?― Henry si girò lentamente udendo quelle parole e vide nella penombra il corpo di un ragazzo, fasciato da pantaloni neri e una camicia sbottonata. Corrucciò la fronte e si affrettò a riporre il foglietto nella tasca interna della giacca.
―Sguardo sfacciato, abiti comodi, terzo piano... oh, io invece so cosa voi siete!― controbatté Henry con un vago sorriso di compiacimento a contornargli la bocca.
Gerard, perché è di lui che stiamo parlando, ficcò le mani nelle tasche trasversali dei pantaloni e si morse le labbra, quasi annoiato da quella situazione.
Cosa io sono?―
―Una persona specializzata nell'arte della cavità imperturbabile di una giovane donnetta. ―
Gerard rise e non di gusto.
―E voi in cosa sareste specializzato? Nell'introdurvi qui senza meta? O ce l'avete una meta, signor...?―
―Non è importante che voi conosciate il mio nome, l'importante è che io e voi non ci incontriamo più―.
Ma purtroppo quando il destino è rinchiuso in un gioco di dadi e i dadi sono a tuo sfavore, le stelle ballano nel cielo e ti augurano di morire con l'ultimo lancio dei cubetti numerici.
Allora Gerard si avvicinò ad Henry e non sapendo cosa stesse per fare, lo inchiodò al muro, premendo leggermente il suo petto a quello dell'altro. Entrambe le casse toraciche si alzavano ed abbassavano ad un ritmo lento e il gigolò fermò Henry premendo l'avambraccio contro la gola e rubandogli un suo respiro accelerato, non evitando, nemmeno per un secondo, il contatto visivo.
―E così sia.― La mano di Gerard iniziò ad accarezzare il petto di Henry, insinuandosi all'interno della giacca, poi del panciotto, l'uomo di casa ebbe un sussulto, iniziò a divincolarsi, lo guardava con occhi sbarrati, e poi la mano raggiunse il taschino apparentemente vuoto.
―Cosa stai cercando di fare?― passare direttamente al tu, lasciando la convenzione da parte non era un buon segno, le parole di Henry furono poco più di un sibilo e la maschera derisoria dipinta sul volto di Gerard fu impagabile quando rispose alla domanda.
―Sto praticando la mia arte.― Henry ne fu meravigliato ed irrigidì la mascella squadrata, che gli donava quell'aria del tutto lusinghiera, lasciando ora trasparire una vena di erotismo, perché, pensava il ragazzo, i gesti dell'altro erano davvero troppo ambigui.
Infine Gerard sfilò il biglietto ingiallito e lo accartocciò tra le mani, non più interessato a tener fermo il suo interlocutore.
―Ed ora chi siete?― domandò Henry, ritornando come lui all'uso del voi.
Il ragazzo quindi inclinò leggermente il capo e in un gioco malfermo fece schioccare la lingua al palato; strinse le labbra, rifiutandosi di osservare ancora a lungo quegli occhi di un celeste troppo profondo che lo mettevano in una condizione di soggettività per lui abbastanza rara.
―Quando verrete a cercarmi sir, chiedete del Gigolò.―
Henry annuì, stava osservando il pugno chiuso di Gerard che conteneva il foglietto.
―Unico e solo? Gigolò il magnifico o Gigolò Magno?― quel sarcasmo cominciava ad irritare il moretto in maniera esorbitante.
―Sir, con tutto il rispetto che provo per voi, ed è davvero molto, non credo che ci sarà più occasione di rivedersi. Così come non ci sarà più occasione di sferrarle un pugno in faccia.― Dicendo ciò, con un grazia davvero sbalorditiva, le nocche di Gerard raggiunsero la guancia di Henry e vi si affondarono per un tempo indefinito, quasi a rallentatore, sicché il padrone di casa sentì il suo sangue sgocciolargli dall'interno del labbro e lasciargli sul mento una scia rossa elettrica tanto da farlo rimanere scosso e sorpreso.
Henry, allora, lo prese per la camicia e con forza inaudita, nonché rabbia frustata, lo scaraventò così violentemente verso il muro che ci fu l'eco rimbalzante per il corridoio.
Schiaffeggiò Gerard, entrambe le guance, facendole diventare di un forte rosso pungente, più del sangue che ancora colava.
Sembrava un ballo di marionette dove il burattinaio non riusciva a tenere più a bada le sue stesse creazioni e che esse avessero iniziato a muoversi con passi sbagliati e senza ritmo.
Ora Henry teneva per la gola il gigolò e lo stringeva così forte da infliggergli contemporaneamente due calci nello stomaco.
Ma come ogni sipario, arrivato ad un punto, le tende calano e le luci si riaccendono.
E Charlotte uscì dalla sua stanza, proprio quella in cui Henry doveva imbucare il fogliettino, in tutta la sua bellezza, fasciata in un accappatoio di seta, a piedi nudi e i capelli rianimati all'indietro.
―Cosa diavolo sta succedendo qui?― la voce impastata dal sonno, ―Gerard? Sei tu? Oh, santo cielo, ragazzo lascialo andare!― Ed Henry mollò la presa, con un vago sorriso ad increspargli le labbra e la solita aria afflitta e sarcastica che lo caratterizzava irrimediabilmente.
―Milady che piacere incontrarvi, vedete? Questo ragazzetto mi ha regalato un'ottima maschera per domani notte.―
―E voi invece gli avrete perforato il fegato con quel ginocchio! Si può sapere che cosa stavate facendo? Gerard! Esigo delle spiegazioni; oh, se le ragazze vi avessero visto! Sono molto volubili, hanno bisogno di riposo e voi, soprattutto tu ragazzo, irrompete nel loro corridoio disturbando una notte sacra!― il discorso era completamente riferito a Gerard, Henry sembrava una cosa a parte, un'altra fetta della torta.
―Una notte sacra, mamà. Non esageriamo adesso con i termini, ci stavamo semplicemente confrontando.―
―Un confronto inutile e volgare.― Sottolineò Henry.
Charlotte guardò Gerard ed alzò le sopracciglia truccate, aspettando una risposta più esatta, con una spiegazione forse.
―Voleva infilarvi questo sotto la porta, credevo che... oh mamà, ma non vedete che razza di faccia ha?―
―Che razza di faccia avrei? Per l'amor di Dio, siete stato voi a combinarmela così!―
Nel frattempo il foglietto cadde nelle mani della donna e Charlotte non tardò ad aprirlo per leggerne il contenuto. Le mancò il fiato.
―Mr Jenkins...― le parole riecheggiarono nell'aria, Henry socchiuse gli occhi e strinse ancora una volta la mascella, ma Charlotte non si riferiva a quel Mr bensì al signorino che aveva davanti, ―... sono davvero desolata e spero che questo spiacevole equivoco sia... sia già acqua passata.―
Tanta acqua passata però non era, dato che il rivolo di sangue sgocciolava sul pavimento e Gerard stringeva lo stomaco, per nulla dispiaciuto.
Henry voleva approfondire l'argomento, chiedere cosa significasse quel biglietto ma sicuramente la donna era convinta che lui già lo sapesse e di certo, in caso contrario, non gli avrebbe detto nulla.
―Andiamo Gerard, entra.― Ordinò Charlotte al figlioccio indicando la stanza ed accennando una riverenza al padron di casa.
―A domani sera mio caro e ringraziate vostro padre per tale dono, vuoto di pudore.― La porta bianca fu richiusa davanti ad Henry e l'unica cosa che riuscì a scorgere fu lo sguardo deciso del suo assalitore, uno sguardo che gli aveva scalfito l'anima già da subito.
Gerard, pensò in un misto di rabbia e mistero.
Mentre ritornava alle scale ripercorse mentalmente ciò che era successo e alle tenebre scorte in quel ragazzo decisamente più piccolo di lui. Quel ragazzo che sembrava già aver deciso il suo futuro incerto, quel ragazzo che come primo regalo gli aveva graffiato la pelle senza dolcezza. Una dolcezza, rimuginava Henry, che si sarebbe posata con grazia su quel corpo agile ed ancora ingenuo.


Katherine non riusciva a dormire. Era questa la verità. Si rigirava nel letto senza meta e tutto le appariva freddo come il marmo, i capelli erano aggrovigliati sulla testa in modo assai strano e la veste che aveva indosso lasciava trasparire il suo corpo seminudo. I pensieri vagavano lontani e non aveva voglia di inseguirli, così come non aveva voglia di inseguire il sonno e quella notte di problemi interiori. La sua bella stanza era immersa nella luce delle candele ma sembrava così soffocante, così intrisa di guai da non riuscire a rimaner ferma e buona tra le lenzuola bianche.
Per questo, e per altri futili motivi, si alzò dal letto a baldacchino e tastò il pavimento con i suoi piccoli piedi e sentì il freddo del mogano insidiarsi nella pianta del piede e preservare attentamente lungo la caviglia.
Ravvivò i lunghi capelli e li lasciò cadere sulla schiena mentre si dirigeva fuori dalla stanza a passo deciso. Così come era apparso ad Henry, anche Katherine credeva che quella notte fosse molto più silenziosa di quanto avrebbe dovuto; scese lentamente le scale, lasciandosi guidare dallo scorri mano e da tutte le volte che aveva salito e sceso quei gradini.
Kath, quella notte, voleva raggiungere la piccola biblioteca dove si tenevano le solite lezioni torturanti di Mitchell Viktor. E quando raggiunse il corridoio che portava a quel luogo, scorse immediatamente la fievole luce che si propagava da tale stanza.
Ma perché doveva far retromarcia? Perché mai avrebbe dovuto lasciar spegnere la curiosità che iniziava ad attizzare il suo animo? In fondo chiunque ci fosse stato lì dentro non era così importante ma a Katherine ciò le stuzzicava la mente e i pensieri problematici.
E ancora una volta, per questo e per altri futili motivi, fece scorrere la mano sulla parete imbiancata fino a che non sentì il mogano solleticarle il palmo e la curiosità insieme all'istinto sovrastarla. Spinse lentamente, con quella lentezza peculiare ad ogni suspense, la porta e lasciò che gli occhi si abituassero alla luce delle candele più forte rispetto al resto della casa e che il corpo irrigidito del suo precettore si insinuasse con lentezza nei meandri della sua mente e del suo campo visivo.
Viktor si trovava lì, così come Katherine aveva sperato, ed era in piedi, nei suoi pantaloni, nel panciotto, persino nella giacca, tutto d'un pezzo, proprio lì, davanti ai suoi occhi.
La luce giocava con le cicatrici situate alla base del collo e la poca barba incolta sul suo viso era davvero una boccata estasiante.
Viktor le dava le spalle ma sentì il cigolio della porta e girando il busto intravide la sua allieva, immersa in uno sguardo di risentimento, e lui non riuscì a fermare i pensieri mentre osservava con delicatezza le curve del corpo della ragazza sotto la lunga veste perlacea.
―Katherine...― il nome della ragazza apparve come una rosa sbocciata sulle labbra dell'uomo ed il tono roco che accompagnava tale evento riuscì a far rabbrividire la giovane che, con timidezza, aprì la porta ed entrò nella stanza, un po' contrariata, un po' arrossita.
Era la prima volta che la chiamava per nome, pensò lei ed era davvero una bella sensazione ciò che veniva dopo la pronuncia. Kath scosse la testa e cercò di riprendersi, capendo momentaneamente di com'era vestita e di non aver nulla ai piedi e che i capelli erano slegati, anche se non era la prima volta che la vedeva così il maestro, il padre le aveva raccomandato di non combinare guai e lei non poteva non ubbidirgli. Ed invece? Lo aveva fatto, nuovamente.
―Sono qui per un libro, la biblioteca principale è troppo grande e... preferisco questa sapendo che è ben rifornita.―Non le aveva chiesto perché fosse lì ma le era sembrato un obbligo vociferare il perché della sua comparsa anche per impedirgli di guardarla ancora, con quello sguardo che sembrava improvvisamente famelico, attorcigliato da sentimenti contrastanti.
―Va bene, Mss Jenkins.― Ritornato alle buone abitudini, Katherine si sentì a disagio quando si avvicinò a lui e si sporse per prendere un libro che neanche sapeva il titolo, poggiato all'interno della libreria; si sentirono dei passi risuonare nel corridoio e probabilmente era Sheila che perlustrava la zona come una lupa in cerca dei suoi figli, quando il rumore dei passi fu lontano allora successe quello che più aveva temuto in cuor suo la ragazza.
―Volete cimentarvi nelle arti culinarie, per caso?― sospirò Viktor mentre guardava affranto il ricettario che Katherine aveva preso.
―Oh...― esclamò lei, ormai in imbarazzo ed evidentemente derisa.
―Orsù, provate questo.―
Viktor fu veloce, troppo veloce, e Katherine provò paura quando sentì le mani dell'uomo sui suoi fianchi e la sua ferrea stretta tenerle la sottile vita; la spinse caldamente verso la poltrona e la guardò con occhi incisi dal ghiaccio e cosparsi di carbone ardente; possibile mai? Pensò lei quando lui, fin troppo vicino, le passava un libro che ancora una volta si apprestò a non scorgerne il titolo.
―In effetti dovreste voi consigliarmi libri da leggere, siete o non siete il mio istitutore?― L'acidità di Katherine divertì l'uomo che con la stessa velocità di prima, la fece alzare e le posò l'indice sull'ombelico. Fu un gesto talmente premeditato e talmente sconvolgente che Katherine trattenne il respiro e Viktor rise ancora, un po' più forte di prima.
―Dovreste smetterla di gironzolare per la casa con questi indumenti. È indecente.― Le parole dette furono acqua gelida per la ragazza, aveva ragione. E quando qualcuno aveva ragione lei non poteva ostinarsi nel torto, non più di tanto almeno.
―Fatemi un favore Mr Mitchell, chiudete gli occhi quando vedete qualcosa di indecente.―
Viktor allargò ancor di più il sorriso e si chinò verso il viso di lei, toccandole il naso con le labbra. Le sue mani a pochi centimetri di distanza dai fianchi. Sentiva il suo tremolio e la cosa lo divertiva troppo.
―Ho detto indecente, mia giovane allieva, non di certo sgradevole. E come potrei chiudere gli occhi ogni qual volta il mio sguardo ricade sul vostro volto indecente ma... grazioso? Suvvia, questo gioco non mi piace, trovate qualcosa di più divertente da fare.― Ora l'indice era ritornata all'ombelico e si muoveva con una vena del tutto inopportuna.
―Tutto ciò, signore, non è affatto professionale.― E Katherine si allontanò da lui, lasciandolo interdetto nel suo gioco di sbagli. Viktor nascose un sorrisetto mentre lei si dirigeva alla porta con il libro sotto braccio e le sopracciglia corrucciate dallo shock.
―Che ne dite, Kath? Finalmente la smetterete di guardarmi con quell'aria afflitta da giovincella, quale siete? Oppure ho attizzato il vostro ideale platonismo?―
―Siete una persona orrida, signor Mitchell. Come potete dire di scorgere in me platonismo o quel che sia? Siete una persona talmente brutta che io, personalmente, non potrei mai provare nessuna attrazione per il vostro corpo scheggiato dai vetri della vita e per il vostro carattere di infinitesimali segreti. Quindi risparmiatevi questi atti di oscena ipocrisia, se non godimento personale. Siete patetico.―
Detto ciò la porta in mogano fu sbattuta con forza e i passi di Katherine rimasero impressi nella mente di un Mr Mitchell ridente.


Quando la notte finì e Viktor scorse la luce del sole, buttò il mozzicone di sigaretta nel portacenere sulla scrivania della piccola biblioteca ed uscì dalla stanza.
“Non se n'è accorta...” pensava.
Quando la notte finì Wendy si stiracchiò nel suo letto roseo e si guardò allo specchio situato vicino alla finestra e di fronte a lei.
Si sorrise e si considerò pronta.
Quando la notte finì Katherine non aveva dormito. Era stremata.
E quando arrivò l'alba aveva già usato violenza contro Morfeo.
Quando la notte finì il conte era pronto per scender in scena.
Quando la notte finì Gerard aveva concluso il suo pacchetto di sigarette.
Quando la notte finì Charlotte si decise a bruciare il foglietto ingiallito.
Quando la notte finì Daniel aveva concluso finalmente una poesia, dopo tempi immemori.
Quando la notte finì il ballo ebbe inizio e la catastrofe si avverò come una maledizione dal gusto dolciastro e la perdizione si insinuò negli animi di quella dolce e problematica famiglia.
E le danze furono aperte con l'infiltrarsi del primo raggio di sole.


Spazio scrittrice:
CI SONO! SONO QUIII! Diciamocelo, nessuno dei due, io e tu caro lettore, si aspettava di essere qui dopo due settimane x'D. Insomma... sono così entusiasta di questo capitolo... e di quello che è successo! E di quello che succederà! E... e... boh, le danze hanno avuto inizio miei cari e potremmo morire prima del tempo e della fine, mi sa hahhaha.
A parte questi macabri scherzi, volevo ringraziare i vecchi e i nuovi lettori, quelli che hanno abbandonato e quelli che hanno deciso di seguire questo progetto complicato di suo. Sono contenta. Contenta perché sono ben da due anni che non riuscivo a scrivere più di nove capitoli in una storia, sono due anni che non concludo un mio progetto e... credo che questo sia quello giusto. Almeno lo spero.
Una lettrice, molto tempo fa, mi disse che già immaginava la copertina di questa storia in libreria... ebbene, tanta fiducia non so chi ve la dia ma mi rendere fiera e senza di voi la mia passione sarebbe nulla.
Bene, aspettiamo tutti la terza parte allora u.u.
Ormai l'estate è arrivata ed anche il tempo!
Sopportatemi.
E recensite, miei cari, non mordo u_u. Anzi, è sempre un piacere leggervi, che sia positivo o negativo.
Siete voi il tutto, il carburante di questa macchina, siete voi la matita che disegnate questo progetto, quindi non temete e... vi voglio bene, un bene profondo da una scrittrice squilibrata.
A TRA UNA SETTIMANA E POCO PIù!
ps: per rimanere sempre aggiornati ed avere qualche spoiler riguardo alla storia potete aggiungermi su facebook, è sempre un piacere scambiare quattro chiacchiere!



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Capitolo 11
*** X°-Il Ballo Nevoso- pt.3- Il frutto della passione. ***



Il frutto della passione.

E quel rosso, quel rosso che sprigiona l'anima,
la mia, la tua, la nostra.
Il candore delle gote si insinua nei miei brividi
e la paura di possedere un briciolo di una falsa identità,
stringendo, amando, illudendo.
Sento il bivio che arriva,
e la fine prostrarsi tra il giusto e lo sbagliato,
tra la scelta e la perdizione.
Se solo potessi,
se solo facessi,
almeno amerei.

E l'amore, quello falso, quello che non si insinua, quello che potrebbe ma non farebbe mai, si fece aprir le porte ed entrò nella maestosa sala escandescente. Tutti si girarono ad osservarlo ma nessuno veramente si accorse della sua entrata; le maschere di orrori, di un carnevale ormai vecchio, ricolmavano i vuoti visi di emozioni spente.
Riccioli infuocati scendevano candidamente sulla schiena nuda di Wendy, dove l'abito si apriva in uno scroscio di sensualità e la scollatura accentuava la castità che attirava tanto i giovanotti. I capelli erano stati fermati sulla nuca con variopinti fermagli e i boccoli resi ancora più vivi dalla lacca la coprivano fin sulle scapole.
Il vestito era un abbondante strascico di veli oro e argento, l'abito di seta che indossava sotto faceva da merletti al vero vestito, ed era di un forte giallino che le risaltava le curvature del seno e dava nudità alla schiena. Aveva tra le mani una lira ed un plettro, sui capelli era stata poggiata una corona di uva e rose rosse. I suoi occhi invece erano contornati da un sottilissimo strato di eyeliner e le gote erano risaltate da una cipria spruzzata appena da rosa. La pelle diafana risultava un piccolo gioiello voluminoso sotto alle luci della maestosa e sovraffollata sala.
―Orsù, mia dolce damigella, è ora di indossar la maschera e di ballar per tutta la notte.― Henry posò la mano sulla spalla della sorella e Wendy, arrossendo impercettibilmente, si portò all'altezza del viso la sua maschera sconosciuta, ordinata direttamente a Venezia in onore di tale evento. Poggiato l'elastico invisibile tra i capelli e guardandosi allo specchio riposto in un lato della sala, si aggiustò le piume della maschera inerenti al vestito.
Henry si morse il labbro superiore e salutò la ragazza con un buffetto sulla schiena, corse irrimediabilmente ai piani superiori e quando giunse davanti alla stanza di Katherine, si trattenne dal ridere. Bussò un paio di volte, poi spalancò la porta e la sua seconda sorella lo guardò disarmata, completamente nuda e con un'aria afflitta.
―Cosa succede? Vestiti, per l'amor del cielo!―
―Di cos'hai paura, fratellino?― Henry scosse il capo con aria divertita e chiuse dietro di sé la porta, avvicinandosi al letto e schioccando un bacio sulla fronte della giovane. Sul letto, appunto, c'era un enorme vestito pesca, pieno di fronzoli e quella roba che mai avrebbe compreso. Il vestito era accollato e di fianco al corsetto e alle scarpe con un leggero tacco, la sorella aveva riposto degli stracci bianchi.
―Come hai ordinato tu, fratello caro.―
―Te ne sono grato.―
―Cosa vuoi fare, Henry?― sospirò Katherine lasciandosi cadere sulla poltrona.
―Non sono affari tuoi ed ora su, vai ad indossare i calzoni e la camicia bianca.―
―Cosa rappresento? Una cavallerizza?―
―Visto? Non sei così stupida come pensavo.―
―Spero ardentemente che tu mi stia prendendo per i fondelli, perché altrimenti...―
―Altrimenti?―
Katherine sospirò ancora e divertita cominciò ad indossare il travestimento, iniziando dai mutandoni da uomo.
―Se ci scoprono cosa succederà?―
―Rideremo, rideremo fino allo sfinimento e prima della fine della serata balleremo un valzer insieme, è una promessa mia giovane sorella!―
―Risparmiati queste promesse, io decisamente non ci tengo.― lo rimbrottò Katherine e si alzò i pantaloni marroni, poi la camicia larga bianca; abbottonò i gemelli sul polso e si infilò i formidabili stivali di cuoio, infine i capelli vennero raccolti in un chignon e nascosti da una coppola marrone un po' vecchiotta. Il viso era seminascosto da un leggerissimo trucco, che le faceva risaltare gli zigomi rendendola più mascolina.
―Facciamo veder a nostro padre chi è che comanda.― Rise il ragazzo.
―Lui comanda, Henry. Lui.― Lo salutò aggrappandosi al collo e gli sorrise con riconoscenza,
―Felice Ballo Nevoso, Mr Jenkins.― Ed Henry rise. Anche lei non trattenne una leggera risata e poi, guardando l'orologio a pendolo, si accorse che la festa era appena iniziata, il buffet aperto e le maschere indossate. Quella sera avrebbe dovuto fare la sua entrata con uno sfarzoso vestito ed invece si ritrovava mezzo uomo. Ciò che la mente stava elaborando era oscura anche a lei, non sapendo ancora che i propositi vengono sempre interrotti dal fato.
La sala adibita alla festa era un tutt'uno di colori invernali, dove piccoli fiocchi di neve finta penzolavano dal soffitto e i lampadari erano rigorosamente aggiustati e perfezionati con le candele, dando una luce soffusa e alquanto romantica alla festa. Gli uomini mantenevano i loro calici di brandy e whisky. Le giovane donzelle erano nascoste da un velo di trucco e dalle maschere tanto agognate, ognuno era vestito e si comportava rispecchiando a pieno la classe sociale da cui venivano. Il ticchettio degli stivali di cuoio riecheggiò appena sulle scale e Katherine si nascondeva dietro i pilastri adornati con mille strascichi e i tappeti bianchi e blu che si disperdevano in tutta la sala. Lo spettacolo era magnificente. Solo a guardar tante leccornie, tanta lussuria e ricchezza, faceva battere il cuore, e proprio per questo il malsano tentativo di sabotare il Ballo Nevoso era nato e si era concretizzato nei cuori dei figli di Mr Jenkins. Ma ancora una volta si sbagliavano. Non stavano sabotando qualcosa, ma stavano per essere sabotati dalle loro stesse carte, dalle loro mosse poco astute rispetto a quelle del destino.
―MIKE!― L'urlo provenne dal basso delle scale e Katherine si girò di soprassalto, scossa dai suoi pensieri e... colta in flagrante da Sheila, la cara governante.
―Mike, cosa ci fai lì? Brutto furbacchione, ti sei intrufolato? Scendi, ora!― Katherine non sapeva che Sheila vedesse male. L'aveva veramente confusa con lo stalliere? Oh, per l'amor del cielo, solo lo stalliere si chiamava Mike! E Katherine lo sapeva...
Si schiarì la voce tossendo e scrollò le spalle, cercando di apparire rozza e di mimetizzarsi del tutto in quella che probabilmente era una persona appunto rozza.
―Io... io...―
―Prima che ti prenda a sberle, scendi da quelle scale!― la voce di Sheila era diventata stridula e Katherine fu costretta ad arrivarle vicino, ma non si aspettava affatto che l'avrebbe presa per l'orecchio tanto forte e strattonata come solo una buona matrona sapeva fare. 'Ahia!' Avrebbe voluto dire, ma non le sembrava il caso e quindi, non sapendo bene come, mugolò e si rimbrottò da sola.
―Esci e ritorna nei fienili! Non farti vedere qui per niente al mondo, mascalzone! Se ti becco un'altra volta ti sculaccio fino a che non potrai sederti per una settimana intera!―
La stava minacciando? Katherine si sentì offesa. Fu strattonata e scortata fino alla porta sul retro dove Sheila con una spintarella la buttò letteralmente fuori di casa. Sentì il cuore rimbombarle nelle orecchie e gli stivali stridere sulla breccia mentre delle carrozze si fermavano sull'uscio della villa e la famiglia Griffiths scendeva dagli scompartimenti in tutto il suo splendore. Quella mattina si erano recati in città ed ora eccoli arrivare con lussuosi abiti, pronti a cimentarsi nel ballo della neve. La figlia più piccola, quella di dieci anni, e mica tanto bella, indicò il vestito malconcio di Katherine ed urlò a squarciagola:
―Ci saranno servetti come quelli lì?― Mr Griffiths non guardò dalla sua parte e spinse la figlia verso l'entrata mentre l'altro figlio, quello maggiore, aiutava la madre a scendere dallo scompartimento e nel frattempo si prodigò ad osservare la camicia di Katherine abbastanza larga da nasconderle i prosperosi seni (o almeno lo sperava). La giovane si abbassò la coppola sul viso e ritenne che rimanere ancora lì poteva essere pericolo. Si era vestita in quel modo per un motivo esatto: doveva aspettare Henry. Quindi, con calma, si rifugiò tra i cespugli, sul retro della casa, seduta sulle radici di un albero nodoso, districando le gambe affusolate e dando uno sguardo al tramontare del sole che lasciava posto alla notte burlona.


Mrs Griffiths indossava un sontuoso vestito smeraldo con una fascia marrone scuro sotto i seni a stringerle ancor di più il busto appiattito. I suoi occhi volavano da una parte all'altra della stanza, le labbra rosse fuoco venivano intraviste dalla mezza maschera che nascondeva gli occhi indagatori. Vide il marito salire le scale verso i piani superiori e già biasimava la povera sgualdrinella che avrebbe dovuto sopportarne i mugolii. A tal pensiero le venne da ridere e per nascondere quel vago sorriso, si affrettò a trangugiar del vino bianco da un calice poggiato sui sontuosi e lunghi tavoli da buffet. La figlia era scomparsa dietro a qualche cameriera e suo figlio, invece, sedeva in disparte, con le gambe accavallate e un leggero sguardo incuriosito verso la folla, in cerca della giovane Katherine. Giusto, ecco, pensava, dove si era cacciata quella piccola ragazzetta? Mrs Griffiths si ravvivò i capelli biondi e quando il suo sguardo si posò su un uomo dagli occhi inquietanti, il suo carisma perse d'importanza e tutta ad un tratto si sentì nuda e vulnerabile.
Mr Mitchell indossava un gessato blu, stretto, il panciotto ben aderente al suo busto atletico e i capelli lasciati arruffati. La stava osservando.
Charlotte si godeva lo spettacolo in un remoto angolo dell'immensa stanza, seminascosta da una tenda, con un lungo vestito rosso che assomigliava tanto ad una veste da notte: copriva tutto e niente. Si inumidì le labbra con la lingua quando vide Viktor avvicinarsi alla donna dei Griffiths e notò che Mr Jenkins, intento a parlare con qualche stupido omaccione dello Stato, si accorse di questo scambio. Stupido uomo, pensava lei, si accorge di tutto e non di me.
―Siete incantevole, Miss.― Viktor sorprese Annabelle da dietro e la signora Griffiths trasalì.
―Oh, io non sono una miss... mio prode cavaliere.― Sussurrò lei, volgendogli appena il capo.
―Eppure il vostro corpo sprizza gioventù da tutti i pori.― La mano grande ed esperta di Viktor le sfiorò il braccio.
―Mio marito si delizia nei piani alti. Farebbe bene a non starmi così vicino qualora decidesse di scendere.― Viktor represse un sorriso e roteò gli occhi al cielo, questo modo ostinato non era altro che una seccatura, non si stava difendendo, stava civettando cosicché lui potesse trovarne rifugio senza pietà.
―Non potete negarmi un ballo, però. Non potrei sopportarne il dolore.― Con fare professionista abbassò di nuovo gli occhi sul pavimento e subito ne seguì la risata limpida della giovane donna.
―Come potrei solo vagamente rifiutare?― Rispose quindi prontamente. Viktor le strinse la mano in modo del tutto aggraziato e quando il violoncello attaccò con la sua più totale devozione, Le scarpette alte della donna si mossero verso il centro della sala e Viktor la seguì, lasciando libero il suo animo da ballerino. Volteggiare, congiungersi, separarsi, sinistra, destra, avanti e indietro. Sorrisi non concessi, sguardi sottintesi, soddisfazione. Il violoncello scandì le ultime note più dolenti, quelle più alte e allo stesso tempo più stridenti. I piedi smisero di muoversi e il seno della signora Griffiths minacciava di esplodere dall'interno del corpetto.
―Come vi muovete bene, Mr Mitchell―.
―Conoscete...― Viktor deglutì, ―il mio nome, milady?―
―E chi non lo conosce, Vik?― Sì, esatto, chi non lo conosceva Vik?
―Volete concedermi un altro ballo, signora?― Sorrise allora il precettore e Annabelle gli strinse il braccio, accennando degli occhi dolci e a malapena guardinghi verso le persone che li circondavano.
―Preferirei chiacchierare con voi, se ciò non vi disturba ovviamente. Preferirei... assaggiare meglio i vostri presunti ideali, chissà... forse seduti all'ombra di un albero, con la luna che...―
Viktor rise forte.
―Non impegnate i vostri pensieri in simili congetture, sarà un piacere semplicemente passeggiare nel maestoso giardino di questa tenuta.―
E l'uomo tese il braccio, e la donna posò la mano su di esso sorridendo mellifluamente, proprio come il sorriso che increspava le labbra di Charlotte. Quest'ultima si alzò di scatto dalla sua postazione e con una maschera tutte piume a ricoprirle il viso fin troppo marcato dal trucco, si diresse al centro della sala, verso le scale, e poi ai piani alti. Era nervosa quella sera, il biglietto che aveva ricevuto era stato capace di smuovere i mari e di riscaldare gli oceani, si sentiva una bambola di pezza ancora una volta usata a modo suo, Quell'uomo, quell'uomo andava distrutto. Annientato. Represso come un animale al macello. E non c'era nulla che potesse contrastare l'ardente fuoco dell'ira che scorreva nelle sue vene da immemori anni.


Daniel indossava un panciotto grigio, e i pantaloni e la giacca erano di un marrone scuro, i capelli neri e lunghi erano stati legati in un codino all'indietro e resi gelatinosi. I suoi occhi guardavano fisso lo specchio dinanzi a sé e le scartoffie posate sul tavolo a fianco. Si morse la lingua mentre parole sconnesse fluivano lentamente nell'alveo della sua mente e drizzò le spalle quando indossò una maschera color del panciotto che copriva i suoi occhi brillanti, traboccanti di ispirazioni e desiderosi di un amore carnale, lasciando a qualcun altro quella tortura platonica.
Uscì dalla sua stanza con molta calma e si diresse sulle scale, scendendole. La sala che aveva davanti era maestosamente splendida, ogni cosa brillava, ogni cosa era meticolosamente posizionata nella giusta parte. Si sentì riscuotere da tanta meraviglia, soprattutto perché la chioma rossa fuoco intrappolata in un alta crocchia scosse il suo animo e lo fece sussultare. Era una dea? Una dea tra gli uomini? Era Erato? La dea che provoca desiderio? Esattamente, lei era la sua Erato, uno sprizzo di felicità, di esaltante sicurezza. Il cuore di Daniel perse un battito, perché quando Wendy si girò, si accorse vivamente della sua maschera. Lei si era vestita da Erato.
Sussultò.
Gli occhi celeste profondo inchiodarono quelli di Daniel e tutto si basò su un gioco di luci e di gente che li divideva. Wendy gli sorrise. Un sorriso dolce, eppur c'era una punta di malizia in tutto ciò. Gli girò le spalle e Daniel poté scorgere la schiena nuda, piena di lentiggini, bagnata totalmente dai baci umidi del sole. Il giovane poeta allentò la presa del papillion e si immerse nella mischia.
Voleva raggiungerla.
Wendy però volteggiava lontano da lui, muovendo le sue sottogonne, zampillando di felicità e ridendo.
Dall'altra parte della stanza, il Conte Ermakje parlava con un ometto tarchiato ed inetto.
Wendy volteggiò attorno tutta la sala e Daniel si ritrovò quasi senza fiato quando la vide salire le scale. Di nuovo!, pensò.
La seguì quindi. Erano al primo piano e Wendy ora non volteggiava più, correva. La cristallina risata fu da sensore per Daniel che la seguì come un segugio, il cuore che gli batteva a mille e le parole che strusciavano in tutto il suo corpo, il desiderio di lasciarla scappare, e quello di intrappolarla nella sua anima, di renderla finalmente parte di se stesso.
Nel buio opprimente di quel piano che aveva sempre evitato, visto che alloggiava al secondo, si sentì per un attimo spaesato, ma presto la risata ritornò a colorare la sua caccia a tesoro e il rosso vivo che si chiudeva una porta sulla sinistra lo rianimò.
Quando aprì la porta ed entrò nella stanza rimase sbalordito da ciò che trovò. Non era uno studio, neanche una delle biblioteche usate dalla famiglia. Era stretta e lunga, sui pavimenti giacevano tappeti di ogni tipo e alle pareti c'erano quadri su quadri. Tutti rappresentavano la capigliatura dei suoi sogni, la sua musa ispiratrice. Si chiede se non stesse sognando, ma quella risata non poteva infilarsi nei suoi sogni con tanta nitidezza.
La musica di una lira lo scosse dai suoi pensieri e lasciandosi trasportare da quelle note, attraversò la stanza, fino a che la chioma rossa, nascosta in un angolo, non si fece largo nella sua mente.
―Oh, mi avete trovata...― smise di suonare. Daniel trattenne il fiato.
―Erato...― sussurrò lui, ma con un tono così basso da essere appena udito dalla giovane.
―Bello e persino intelligente.― Rise Wendy, lasciando cadere la lira e lasciando il suo posticino sicuro. Si avvicinò al giovane poeta, le vesti strusciarono vicino ai suoi fianchi, la ragazza gli diede nuovamente le spalle ma non scappò questa volta.
―Vi piace?― gli domandò caustica, inarcando le spalle verso l'esterno. Daniel non aveva più parole, poggiò le sue lunghe dita sulla schiena nuda e tracciò i lineamenti di quel gioco di stelle.
Wendy gemette; sentiva il suo corpo fremere al tocco, un calore improvviso irradiarsi per l'intera schiena ed ogni nuovo lembo di pelle che scopriva era come un bruciore improvviso, inguaribile, una scottatura afrodisiaca, che le recava piacere e allo stesso tempo dolore.
Cosa era mai tutto ciò? Che cosa le stava facendo? Il corpo di Daniel non rispondeva più ai suoi comandi, la sua razionalità era nulla in confronto alla passione che traboccava da ogni poro della sua anima.
―Sapevo che foste bravo con le mani ma non immaginavo mica che... oh...― L'aveva stretta per i fianchi con ambedue le braccia e la sua bocca si era insinuata, non sapeva bene come, sulla scapola della donna. I baci languidi che gli stava lasciando erano una tortura non indifferente, la scia di dolore sulla sua schiena mischiata alla voglia di volere di più, sempre di più. Sentì un po' della barba ispida recarle qualche graffio superficiale sul basso della schiena. Wendy non aveva più fiato, non aveva più niente, si sentì spoglia, e altamente indifesa.
―Cosa state facendo, mio cavaliere? Non potete...― Rise. Daniel dovette staccarsi, imperturbabile, in balia di sensazioni, sentimenti contrastanti. In balia di un cuore che minacciava di esplodere. Sentiva già il rimbombo dell'esplosione farsi ego nelle orecchie.
Wendy si girò, di scatto, e gli sorrise. Tolse la maschera che le copriva il viso e Daniel poté ammirare tanta bellezza in così poco spazio.
―Siete una scarica di adrenalina, mio cavaliere. Lo sapevate?― Si avvicinò lentamente e Daniel non indietreggiò, anzi, le venne incontro.
―Ho la schiena a pezzi per colpa vostra.― Sussurrò lei. E lo stesso sguardo languido di prima si poggiò sulle sue labbra. Il bruciore della schiena era pari al bruciore del suo cuore, al bruciore delle dita di Daniel che l'avevano toccata, era qualcosa che nasceva da dentro e li distruggeva ad ogni nuovo tocco.
―Sono la musa del desiderio, signor mio. Mi desiderate?― Ridacchiò lei, alzando gli occhi verso quelli di Daniel e lasciando che i visi si avvicinassero sempre di più, in modo possessivo, come due calamite divise per troppo tempo.
Daniel sentì il suo respiro caldo sulla faccia mentre si impadroniva, finalmente, delle morbide labbra. Questa volta non ci fu nessuna scottatura o bruciore. Questo nuovo tocco fu come il fuoco più ardente. Avvamparono come fiamme e le lingue danzarono come piccoli rametti di legno che si crogiolano su carboni ardenti. Fu il bacio più bello che Wendy ebbe mai ricevuto. Fu un turbinio di vita e morte. Fu mancanza di aria, mancanza di verità. Morirono quel giorno, e risorsero come fenici dalle loro ceneri e dal loro amore più remoto.
―Oh, George...― gemette Wendy sulle labbra di Daniel.
Lì l'incantesimo si spezzò. Il poeta si allontanò e corrugò la fronte.
―Cosa c'è?― domandò lei, cercò di afferrargli il braccio ma lui indietreggiò sempre più. Ora spaventato. Ora sconvolto.
―Oh, mio conte, hai ancora voglia di giocare?― Gli sorrise.
Fu troppo, il castello di vetro del poeta si frantumò e questa volta dovette lui scappar via da quella stanza.
―George! George dove stai andando? GEORGE!―
Il nome del conte era una spada affilata dopo aver raggiunto l'apice della felicità.



Quando Henry bussò alla camera numero 3, non riusciva a trattenere un ghigno di divertimento. Il lungo abito color cremisi gli cadeva a pennello, gli stracci erano stati riposti dove lì doveva sorgere tecnicamente un seno prosperoso, e la parrucca di un biondo scambiato gli penzolava dalla testa minacciando di cadere da un momento all'altro. I tacchetti che calzava ai piedi erano davvero un incubo, sentiva già le vesciche che si formavano sul tallone. Perché stava facendo tutto ciò? Burla, burla e solo burla! Amava le burle, amava prendere in giro la gente, ma sapeva anche che presentarsi davanti la tana del lupo non era consigliabile. Amava pure il pericolo, quindi.
Gerard rimase sbigottito quando aprì la porta della sua stanza, non si aspettava che le donne del ballo decidessero di rischiare in presenza dei mariti.
―Posso entrare?― Apparentemente la voce di Henry era poco femminile, più stridula.
―Prego...― sussurrò Gerard lasciandolo passare.
―Cosa ci fate qui? E... conciato in quel modo!― aggiunse dopo aver chiuso la porta. Henry rise ed alzò le braccia al cielo.
―Pensavo che presentarmi davanti alla porta di uno gigolò nelle mie vesti abituali potesse destare curiosità a persone poco... gradevoli, ecco. E poi non volevo essere preso a pugni. Non puoi prendermi a pugni, santi numi! Io sono una giovane donna attraente finché...― rise più forte, ―Non mi alzi la gonna.― Gerard si morse la guancia interna allibito e scuotendo il capo andò a versarsi un bicchiere di gin.
―Favorite?― Lui era irremovibile sulle formalità. Non gli andava giù quell'Henry.
―Assolutamente no.― D'altro canto il signorino Jenkins iniziò a soffiarsi con un ventaglio poggiato lì sopra e si buttò letteralmente sul letto di piume, alzando le vesti e coprendosi poi il viso in modo civettuolo.
―Devo chiedervi di andarvene, allora. Se non ve ne siete ancora reso conto, io sto lavorando.―
―Sì, dicono tutti così, o più o meno. Ebbene, com'è portare a letto una miriade di signore e sentirle mugolare come delle gattine indifese? Dev'essere bello... oppure è solamente una scocciatura?― Henry sorrise, Gerard corrugò la fronte.
È il mio lavoro, ora andatevene.― Henry schioccò le dita e guardò il ragazzo davanti a lui: era bello, bello per via del suo lavoro, bello perché non c'era malinconia nei suoi occhi ma solo rassegnazione. Lo incuriosiva.
―Mi era parso di capire che devo dimenticarvi, mi è parso di capire di esservi totalmente estraneo..., o sbaglio?― continuò.
―Ho chiesto del Gigolò e mi è stata indicata questa camera, sai? Dovresti essermi grato.― disse Henry senza dar peso alle parole dell'altro.
―Cosa volete?―
―Recarti piacere, mio caro.―
Gerard rise.
―Come, prego?―
―Davvero passare l'intera notte in balìa di quelle donnette ti... ti attrae?―
―È il mio lavoro, sir. Ed ora uscite da qui. IMMEDIATAMENTE.― il tono di Gerard si fece più perentorio.
―Facciamoci una partitina a poker, se vinci tu me ne andrò, se vinco io...―
―Una partitina a carte? Oh, voi avete perso il senno.―
―Accetti?― Tagliò corto Henry mentre si sedeva su una poltrona di fianco ad un tavolino in velluto rosso.
―No.―
―Bene. Allora mi prendo con la forza ciò che voglio.― E rise ancora.
―E cos'è che volete, sir?― un tono canzonatorio che non piacque ad Henry.
―Non prenderti beffa di me.―
―Ora spiegatemi come non potrei...― questa volta fu Gerard a ridere.
―Il foglietto... che fine ha fatto?―
―È questo che vi interessava? Che fine avesse fatto il foglietto?―
―Oh, non solo...― lo sguardo di Henry percorse il corpo di Gerard che avvampò.
―USCITE.DI.QUI.ORA!― A passo falcato assalì Henry, arrabbiato, deriso, ferito nell'orgoglio.
Ma quest'ultimo era più forte, lo prese per le braccia, lo bloccò, si alzò dalla poltrona e fece sedere il suo assalitore, tutto questo con una gonna svolazzante e il rossetto sulle labbra.
―Le donne non si toccano, non lo sapevi?― sussurrò Henry. Avvicinò il suo viso a quello di Gerard e i loro occhi si incontrarono in modo possessivo.
―Cosa c'era scritto nel foglietto? Tu lo sai.― Gerard alzò le sopracciglia e si dimenò senza risultati. Henry non avrebbe permesso che gli fosse di nuovo fatto del male da quel bamboccio.
―Cosa c'è?― Rise Henry stringendo di più la presa sui polsi, ―fremi al mio tocco, bambolina?―
Quando Gerard gli sputò in faccia sembrò tanto una scena a rallentatore. Disgustoso, si pensava, eppure non fu così.
―Vattene― sibilò il gigolò tra i denti.
Henry lo lasciò andare e si ricompose.
―Vediamoci tra due giorni al Caffè che si trova fuori la strada de “Le Dommage”. A Londra. Toccherà a te presentarti da donna.―
―Certo, puoi contarci. Ci sarò senz'altro.― lo schernì Gerard.
―Sì, esatto, ci sarai.― Henry invece era serio.
Si riempì un bicchierino di gin e si diresse alla porta. Quando l'aprì per uscire, si volse a guardare il ragazzetto e gli disse freddamente:
―Perché non te ne fai una ragione? La cavità di una donna non fa al caso tuo, mio giovane amico. ―


Katherine, nascosta tra i cespugli con i suoi abiti maschili, la coppola ben calcata sulla testa, si sentiva in uno stato fortuito. Era un maschiaccio esasperante, lì, tra il verde, che guardava la casa e si teneva ben al riparo dietro gli alberi.
D'un tratto però, mentre i mille pensieri le vorticavano in testa, sentì i passi di qualcuno che scricchiolavano sul letto di rametti e foglie.
Incuriosita si spostò dalla sua postazione e con una certa calma si avvicinò alla villa, nel retro, dove il buio era appena sconfitto dalla luce delle candele all'interno. Era proprio sul punto di fare un passo falso, quando scorse davanti a lei un tronco di albero che sbarrava la strada in modo artistico, deviò per un poco, seguendo con meticolosità quei passi e quei rumori indistinti. Non vedeva bene, non riusciva a scorgere le sagome, eppure era curiosa... e non sapeva dirsi perché.
Infine, sempre più vicina e sempre più guardinga, udì ansimare e degli schiocchi che la lasciavano indugiare.
Appoggiati alla parete esterna sul retro della casa, la signora Griffiths si dava da fare avvinghiata ad un uomo. Katherine scorse i familiari capelli biondi ma non riuscì a capire chi fosse la testa di quell'ometto del tutto presa nel baciare i seni scoperti della donna. Katherine capì che non era il marito, non poteva essere il marito. Sarebbe stato abbastanza monotono se fosse stato davvero il marito, e quindi, volendo capire chi fosse l'altro, si avvicinò incautamente ai due amanti.
Ciò che la tradì fu la luce fioca delle candele che la illuminarono in parte ed anche dal rumore dell'erba alta calpestata dai suoi stivali di gomma. Annabelle fu la prima a vederla e sul volto di Katherine si dipinse stupore e pudore.
―Per l'amor del cielo, oh, oh... OHHH!― la donna non gemeva più per le fusa dell'uomo e lui se ne accorse, staccandosi immediatamente, ―PRENDILO VIKTOR! PRENDILO!― Urlava ora lei. Il precettore della ragazza si girò verso dove lo stava indirizzando la donna e non vide altro che un ragazzetto pulito e sotto shock. Stava per dire qualcosa ma Katherine si riprese quasi sul momento e dopo un paio di secondi di puro stupore, esso si trasformò in ira e il ragazzo/donna voltò le spalle ai due amanti e cominciò a correre come un cerbiatto nella radura.
―Acciuffalo, mascalzone!― urlò ancora Annabelle strattonando il virile uomo.
E Viktor, ripresosi anche lui, iniziò a correre dietro a quel farabutto di un ragazzo curioso. Gli avrebbe dato lui qualche lezione di anatomia: a sculacciate!
Il giardino di casa Jenkins era immenso, e dietro la villa e il boschetto, c'era una grande raduna divisa dalla proprietà con un'alta staccionata. Katherine corse più veloce del vento verso di essa, balzando elasticamente. Non seppe neanche lei come riuscì a superare la staccionata e continuare la sua ardua corsa, ma sapeva che Viktor, dio era proprio lui quello che palpava la vecchiaccia!, la stava seguendo e che per superare quell'ostacolo ci avrebbe messo un po' con la gamba che si ritrovava.
Corse, corse ancora, sentiva l'aria pungente trafilare dalla camicia, sentì i piedi dolerle fino a farla cadere, sentì le gambe che correvano ancora per conto suo, e sentì il petto che si imbatteva sul terriccio, come la testa, e il cappello volava via. E le mani toccarono acqua sporca. Alzò lo sguardo per vedere dov'era finita e scorse lo stagno a pochi centimetri di distanza dove da piccola veniva con Henry a schizzarsi di fango. Sorrise, lasciando che i muscoli si rilassassero.
E poi venne strattonata, non represse un urlo di spavento quando Viktor la rimise in piedi e la trascinò nello stagno salmastro.
―LASCIAMI! LASCIAMI! BRUTTO BASTARDO!― Urlava Katherine mentre il suo precettore le infilava la testa nell'acqua.
―La buona educazione, Kath. Sono pagato per questo.― Traspariva ira dalle sue parole e Katherine si dimenava, stanca per via della corsa, vogliosa di prenderlo a calci e pugni nell'inguine.
―Lasciami! Sei solo un porco!― E di nuovo sott'acqua.
La ragazza non si lasciò intimorire, lo afferrò per la gamba e lo strattonò a sua volta cercando di farlo cadere, ma era troppo muscoloso, troppo forte, troppo virile per essere soggiogato da una mocciosetta.
―Sei... stata... indiscreta...― continuava lui tirandola per i capelli.
Infine Katherine ci rinunciò, le gambe ora lanciavano fitte e aveva trangugiato troppa acqua stagnante.
Premette il suo corpo a quello di Viktor e si afflosciò come un fiore appassito. L'uomo la strinse a sé e la rimise in piedi, tenendo ben salde le sue mani sui fianchi stretti della ragazza. La camicia che aveva indosso era tutta bagnata ed i capezzoli erano ben visibili. Viktor lasciò che lo sguardo vagasse su quei piccoli e pieni seni e poi la strinse a sé con fare possessivo.
―Perché sei vestita da maschio, eh? Volevi far colpo su di me?― Katherine non rispondeva, aveva gli occhi bassi, cercava di trovare una via di fuga. Un appiglio per sparire da quelle braccia virili, un appiglio per non lasciare che le lacrime sgorgassero dai limpidi occhi celesti. Allora lui la strinse più forte al suo petto e le alzò il mento con un dito.
―Lasciami andare...― gemette lei.
―In queste condizioni?― Le domandò gentilmente lui.
―Ritorna dalla tua bella puttanella!― digrignò tra i denti Katherine e l'uomo scorse un lampo di ira nelle limpidi iridi.
―In questo momento vorrei solo continuare a sentire la pressione del tuo corpo sul mio, credimi.― Sussurrò e per la prima volta Viktor non aveva premeditato quella frase. Era uscita di getto, con troppa velocità.
―Dovrei emozionarmi ora?― Che carina, pensò.
―Allora smettila di fremere ogni qualvolta che ti tocco...― da quand'è che erano passati al tu? Katherine aveva il viso arrossato, i capelli appiccicati in testa dopo il bagno, così come i calzoni.
E Viktor la trovava stupenda.
―Lasciatemi andare, Mr Mitchell. Non rendiamo le cose ancor più imbarazzanti.― E subito al voi. Cercò di svincolarsi ma l'uomo le prese il viso con entrambe le mani e se lo avvicinò irrimediabilmente al suo.
―Perché tremate?― Katherine strinse le labbra.
―Perché mi fate schifo, ecco perché.―
―Smettetela di essere gelosa, non mi piacciono le donne gelose...― Katherine si sentì avvampare. Voleva solo uscire da quell'acqua sporca e ritornare a correre. Lontana da lui.
―Io non sono gelosa!― riuscì solo a dire, infine.
―Ah no?― E il viso di Viktor si avvicinava impercettibilmente mentre Katherine si ritrovava sempre più incastrata, con sempre meno vie di fuga.
―Lasciatemi, lasciatemi, lasciatemi! Brutto porco, non toccatemi con queste manacce!―
A quelle parole l'uomo indietreggiò di qualche millimetro ed alzò un sopracciglio, apparentemente irritato.
―Cosa vi prende Kath? Davvero vi ha dato fastidio che io abbia toccato un'altra donna? Volevate essere lei al suo posto?―
A tali parole Katherine non ne potette più, piantò gli anfibi nella melma con decisione e si menò sul suo precettore con una violenza non concessa alle signorine di buon rango.
―Le vostre insinuazioni mi fanno così ribrezzo da non meritar risposta alcuna, credetemi voi adesso.― Lo picchiò. Picchiò forte. Gli diede pugni e calci sul petto muscoloso, cercò di trovare i suoi punti deboli e alla fine, purtroppo, si ritrovò ancora più bloccata dalle sue gambe e dalle sue braccia.
Viktor, dopo che si ebbe presumibilmente calmata, le fece lo sgambetto e con un urlo Katherine cadde totalmente nello stagno. L'uomo allora, con un ghigno beffardo, la raggiunse ed entrambi finirono testa sott'acqua. Katherine cercava di liberarsi i polsi, di non bere ma ogni suo tentativo sembrava vano di fronte alla forza disumana dell'uomo. In quell'acqua verde si sentiva anch'essa una pianta, da piccola non aveva mai fatto caso a quanto fosse profondo in verità lo stagno e la sua mente ora bramava semplicemente di uscirne.
Il suo precettore, se così poteva essere ancora chiamato, l'attirò ancora una volta a sé, cingendole i fianchi con un braccio e con l'altro premette la testa della ragazza contro la sua.
Le loro labbra si toccarono irrimediabilmente, come le ali di una farfalla che si riuniscono la sera dopo tanti battiti in aria. Viktor allora si decise a riportarla a galla e la lasciò libera.
Eppure lei non se ne accorse. Il suo cervello di odio si era spento appena aveva sentito quel contatto umido. Appena ebbe compreso di aver realizzato il sogno del suo subconscio.
Avvinghiata con le gambe attorno alla stretta vita di lui, Katherine ora toccava quell'ala vellutata. La passione traboccò come mai aveva fatto, sentì il suo corpo stringersi sempre più all'altro e la sua bocca ormai assaggiava il dolce languore di quel bacio, il sapore di stagno, di vino, la morbidezza e la pienezza di quelle labbra, di quei due lembi che tanto la facevano dannare ma contemporaneamente riempivano un vuoto nella sua vita che mai avrebbe pensato di riuscire a colmare. Poi assaggiò qualcos'altro. Qualcosa di sgradevole. Qualcosa che riportava drasticamente alla realtà, come un balzo improvviso e di cattivo gusto. Il rossetto di un'altra. Quando giunse a tale conclusione, l'ala si affievolì e la donna riprese pieno possesso delle sue azioni.
―Sporco approfittatore! Maniaco!― Urlò in preda a degli spasmi. Il signor Mitchell rise forte ed alzò le mani in alto. Quel sorrisetto! Come le sarebbe piaciuto farlo sparire...
―Oh, mia cara, guarda che non sono stato io ad assalirti...― e allora Katherine si accorse di essere stata lei l'artefice di tale passione. Una passione che se n'era andata. Una passione falsa. Lei lo odiava. Lei non riusciva a tollerare la sua presenza. Lei non riusciva a non pensare al suo viso affondato nei seni di quella brutta e sporca donnetta. Immediatamente si staccò e con due sani schiocchi lo schiaffeggiò ancora una volta.
―Per l'amor di Dio, non sono il tuo capro espiatorio!― Sbuffò Viktor mentre la ragazza indignata usciva dall'acqua a grandi falcate.
―Siete un approfittatore! Dirò a mio padre di cacciarvi. Non ho la benché minima intenzione di avere come insegnante un pervertito!―
In tutto il suo splendore Viktor la seguì e quando le fu ad un metro di distanza e sentì l'erba bassa solleticargli al di sotto del pantalone zuppo, si premunì di risponderla:
―Cosa le direte esattamente, milady? Che eravate vestita da uomo? Che avevate intenzione di sabotare il ballo? Che mi avete visto nelle braccia di un'altra e per questo la gelosia vi ha accecata a tal punto da schiaffeggiarmi e poi da baciarmi in modo... oh, oltraggioso! Tutta quella passione dov'era nascosta, milady?–– rise, ––Siete ridicola.―
Katherine alzò la testa verso quella dell'uomo e con un nasino impertinente sibilò:
―Non osate più toccarmi.―
Seppur quelle furono le sue ultime parole, nell'aria c'era un senso di incompletezza.
La ragazza amareggiata si rifugiò sul retro della villa e quando scorse la figura di Henry, cercò di apparire al massimo della sua compostezza.
―Ma cosa hai combinato?― Le domandò il fratello.
―S-Sheila mi ha cacciato fuori, mi dispiace.―
Il cipiglio di Henry la sapeva lunga. Si era cambiato, lui. Era andato tutto liscio, a lui. Si sentiva stupida, lei. Si sentiva tremendamente a disagio con il sapore amaro di Viktor sulle sue labbra screpolate.
―Su... ti porto in camera.―
Il calore di un fratello però non riuscì a compensare il freddo di un tradimento dell'anima.


Se Katherine era stata oltraggiata sin nell'orgoglio, Wendy era totalmente scossa. A piccoli passi si muoveva nella mischia della sala e cercò di non bere ulteriore alcolici finché non avesse ripreso il filo logico delle cose.
Era ferma in tutta la sua bellezza, ardente come il fuoco e fredda come il ghiaccio, in disparte nella stanza. Teneva le mani tremanti tra il velluto oro del vestito luccicante e i suoi occhi vagavano alla ricerca di qualcosa che potesse iniziare vagamente a darle una risposta a ciò che appena aveva vissuto. Si sentiva flaccida. Le sue energie erano state risucchiate via e i lembi di pelle bruciavano ancora tanto da accelerarle il battito cardiaco.
Era proprio sul punto di lasciar perdere quello stupido ballo e cercare un nascondiglio isolato quando qualcuno le strinse i fianchi. Wendy arrossì e non provò a girare la testa, per paura che il presunto George potesse scappare di nuovo.
Le labbra dell'uomo si posarono sulla schiena, proprio come un'oretta prima.
Le labbra dell'uomo lasciarono una scia umida di baci proprio come un'oretta prima.
Le labbra dell'uomo non bruciarono la pelle diafana di Wendy, diversamente da un'oretta prima.
―Ti ho trovata...― la voce greve del conte le procurò piccoli brividi per tutto il corpo.
―Oh, conte, perché siete scappato?― sussurrò Wendy.
―Scappato? E smettila di darmi del voi.― Un risolino.
Wendy si girò verso George Ermakje e gli sorrise mellifluamente.
―Ti ho cercato per l'intera serata. Dove ti eri cacciata, eh?―
Il sorriso scomparve.
―Vi piace il mio costume?― Tentò allora Wendy facendo una lieve giravolta.
Fu il conte a sorriderle e annuì appena.
―Delizioso.―
Non aggiunse altro. Non disse altro. Il cuore della giovane donna cominciò a dolerle e captò l'irrimediabile bisogno di allontanarsi dal suo promesso sposo.
Lei era Erato, eppur per il suo cavaliere non era altro che deliziosa.


Spazio scrittrice: No gente. NON FIATATE. Cos'è che avevo detto l'ultima volta? "A TRA UNA SETTIMANA"? Bene, siete liberi di bastonarmi. Ma so, so per certa, che dopo questo capitolo SUPERMEGALUNGHISSIMISSIMO voi non avete più il coraggio neanche di guardarmi in faccia é-è.
Gentaglia, io sono sconvolta. Ho passato gli ultimi tre giorni ad ultimare questo GRANDISSIMO CASINO e non ho più forze.
Volevo ringraziare Eiirin, Lotiel, ThanatoseHypnos e Viktoria Brennan per aver recensito e per avermi supportata.
L'estate è iniziata da un secolo ma solo ora mi sto pregustando il momento di scrivere questa storiella giornalmente. Quindi i prossimi capitoli saranno mooolto più veloci. Niente due settimane, niente mesi, al massimo una decina di giorni.
Basta. Ho parlato troppo. Viktor distrugge, Gerard ed Henry mi fanno morire e la poesia all'inizio del capitolo sono i versi dedicati a Wendy da Daniel. Katherine è il fuoco.
Piango. E addio.



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Capitolo 12
*** XI- Effetti collaterali. ***



Effetti collaterali.

I
n una gelida mattinata di gennaio, Katherine volava da una parte all'altra della casa. I piedi scalzi e il viso sciupato dal poco sonno le regalavano un elegante buongiorno. Indossava la sua lunga vestaglia sottile e guardava la neve scivolare lentamente dalle nuvole per poggiarsi con cautela sul viottolo di Winslow Hall. Aveva una mano attorno alla gola e il nasino impertinente davvero arrossato. Un brivido le oltrepassò la schiena e gli occhi lucidi per il pianto avevano un non so che di vacuo. Aveva preso un brutto raffreddore e Sheila era scesa giù in cucina per prepararle un fagotto caldo dove appoggiare i piedi; avrebbe dovuto stare a letto, sotto i vari strati di piumone e crogiolarsi in quel tepore a dir poco soffocante. Dannato bagno, dannato bacio, dannato lui.
Rimuginava, rimuginava, rimuginava.
Erano due giorni che rimuginava. Erano passati già due giorni quando aveva visto le puttane lasciare la sua casa e la milady non rivolgere alcuno sguardo a suo padre. Erano passati due giorni da quando la milady aveva ricevuto ciò che le spettava e nulla le faceva presupporre di rincontrarla. Erano due giorni, sì, e la famiglia Griffiths soggiornava ancora in casa sua. Sua. Davvero? No. Era la dimora in cui passava i suoi giorni, in cui aspettava saggiamente di sposarsi, era la dimora dell'attesa ma non della vita. Non avrebbe mai vissuto lì. Avrebbe sempre atteso di vivere.
Era il cinque gennaio del 1896 e Katherine osservava il suo riflesso sul vetro appannato per via del freddo. In quello stesso riflesso non riusciva più a scorgere una ragazzina sempre pronta all'attacco, tutto pepe e cattiveria. Scorgeva inesorabilmente solo il suo visetto calcato dalla notte insonne e, seppur la pelle fosse liscia come seta, sentiva ancora lo sporco addosso, sentiva ancora quelle labbra calde sulle sue. Sentiva ancora quelle mani e quel fuoco maltrattarle l'anima. Portò entrambe le mani sul cuore ed abbassò la testa, sconfitta. Che le prendeva? Cosa c'era che non andava in lei? Erano passate settimane dall'arrivo di Viktor ed ogni giorno, ora, minuto o secondo che passava, la fragilità aumentava e bramava di essere sviscerata; perché forse, e dico forse, con l'eviscerazione non avrebbe dovuto ammettere il dolore e l'irrequietezza che provava. Tra un paio di ore il suo precettore avrebbe attraversato il viottolo con l'intenzione di mettere fine a ciò che lei stessa aveva intrapreso e lei avrebbe dovuto sopportare altre lezioni, altre parole al vento... parole che provenivano da labbra così, così, passionali.
Ecco. Ecco, questo intendeva. L'incoerenza e il dolore l'avevano sovrastata. Non poteva continuare così. Lei odiava Mitchell Viktor. E non era una presupposizione, ma un dato di fatto.
I passi di Sheila riecheggiarono nel corridoio e quando entrò nella stanza non fu affatto sorpresa di scorgere la sua padroncina seduta vicino alla finestra, raggomitolata sulla poltrona, con occhi sporgenti e rossi, capelli alla rinfusa e...
―Che avete, signorina? Su, su, bevete questo buon tè. Ve l'ho portato apposta! Su, su, bevete.― Katherine rivolse un'occhiata fugace alla tazza che le era stata porta. Lentamente la strinse tra le dita e pochi attimi dopo sentì il tepore della bevanda ringiovanirle ogni papilla gustativa.
―Non avete freddo? Su, su, mettete questa coperta sulle spalle.― E la coperta la riscaldò.
―Perché non vi vestite e scendete giù? Potreste leggere qualcosa o aiutarmi con...― continuava imperterrita la vecchia governante. Katherine tirò su col naso e, stringendosi nelle spalle, zittì la donna con una vaga occhiata di mal interessamento.
―Vai e sbriga le tue faccende. Ma prima dimmi in che giorno ci troviamo.― Gli occhi della fanciulla erano ancora puntati al di fuori della stanza e Sheila non sapeva bene come fare per risvegliarla da quel lento torpore del corpo e della mente.
―È quattro gennaio, signorina. È sabato.― Erano passati due giorni allora, due giorni dalla fine del ballo ch'era durato una notte intera. Ed aveva infranto molte cose, la sua pudicizia ad esempio. Sheila esitò ma doveva assolutamente far rinsavire Katherine. Il padre quella mattina le aveva dato ordine di svegliare la figlia e di farla trovare nella sala da ricevimento prima di mezzogiorno. A quanto pare la famiglia Griffhits alloggiava ancora a Winslow Hall e c'erano molti affari da concludere che riguardavano soprattutto la figlia più ribelle. Ma come poteva dirle una cosa del genere? Così com'era probabilmente l'avrebbe presa a calci su per il sedere e nulla più l'avrebbe convinta a scendere nei piani inferiori. Per non parlare di Henry! E di Wendy! Il ballo aveva letteralmente scombussolato quei giovani. Il futuro signor Jenkins s'era vestito di prima mattina con il più bell'ingessato che Sheila stessa avesse mai visto e con qualche scheletro nell'armadio s'era diretto bello bello, in città. A Londra. Eh beh! Mi pare ovvio, pensava la governante, avrà qualche invito con quelle puttanelle della festa! Non può mica lasciarle allo sbaraglio, il signorino. Deve ritornar da loro pimpante, pimpante.
Ma Elizabeth? La sorella del conte Ermakje? Si salvi chi può! Appena aveva saputo di una tale fuga, continuava a lamentarsi con Wendy nella sala da ricevimento. La povera figlia maggiore s'era seduta pazientemente sulla sedia a dondolo e ricamando un centrino assurdo e bruttissimo, cosa che proprio non era da lei!, ascoltava la cognata. Gli unici contenti dell'evento sembravano essere i componenti della famiglia Griffiths e Mr Jenkins. Erano tutti rilassati e parlavano animatamente del futuro prossimo.
L'unica cosa strana, che la governante aveva notato, era stata la domanda impertinente della signora Annabelle. Era entrata di sotterfugio nelle cucine e in cerca di Sheila, appena trovata, le aveva sussurrato: “sapete per caso dove alloggia Mr Mitchell Viktor?” E lì lì, un po' indaffarata, Sheila aveva risposto: “ma di chi parlate, signora mia? Del precettore di miss Katherine?” e la donna aveva annuito, eppur una tale ardua domanda non l'aveva portata proprio a nulla. Sheila non sapeva dove alloggiasse Viktor Mitchell ed inoltre sapeva del suo arrivo solo quando la carrozza dell'uomo si fermava davanti ai cancelli e lui vi si scendeva. E proprio ora che ci pensava, l'uomo mancava dal ballo, se n'era andato senza dir nulla al signor Jenkins e chissà adesso cosa stava aspettando. Katherine infatti avrebbe dovuto riprendere le sue quotidiane lezioni anche se, con ogni probabilità, sarebbero terminate presto. C'era una sorpresa per la giovane, una bella sorpresa secondo Sheila.
Le farà bene! Pensava ancora la donna, mentre girava una scorza di limone nella tazza ricolma di tè caldo. “Le farà proprio bene! Tanto impertinente e cocciuta. Sempre pronta ad attaccare, sulle difensiva e molto, molto prepotente. Non s'è manco presentata al ballo! È una cosa possibile? Proprio no!”
―Sentitemi signorina, non potete continuare a rimaner qui in cima al freddo quasi come se foste a lutto! Che cosa vi prende?―
Katherine si irrigidì sul morbido materasso e deglutì un sorso della bevanda, trattenendo un'espressione di sorpresa e a col tempo di vergogna.
No, non poteva certo ammettere che si sentiva sporca e stupida, e anche disobbediente, più del solito.
―Ma che cosa mi dovrebbe prendere Sheila! Proprio nulla, ti pare che non vada bene qualcosa? Sono solo... raffreddata, influenzata, infreddolita, stanca e credo proprio di aver bisogno d'un bel riposino. Quindi svegliami tra qualche ora, quando sarà pronto da mangiare.―
Sheila scosse la testa, lentamente, e lasciò che la mano cadesse sulla maniglia dell'armadio per aprire l'anta e cacciare un abito scuro e pesante, accollato e fastidiosamente irritante addosso.
―Vostro padre...― scandì la donna, ―vi vuol vedere e vi sta aspettando. Ho l'ordine d'assicurarmi, non solo che stiate bene, ma che vi vestiate e lo raggiungiate prima che si faccia ulteriormente tardi.―
―Che aspetti allora! Non succederà nulla, il mondo non finirà, le nuvole continueranno a muoversi, i fiori a germogliare e...― “il mio cuore a frantumarsi come vetro”. Sobbalzò dal letto e guardò la donna, la sua amata governante, con uno sguardo che Sheila non aveva mai visto. Forse disprezzo? Non ne era sicura ma sapeva che non le piaceva, che non le diceva nulla di buono.
―Katherine!― borbottò mentre lasciava cadere lo sfarzoso vestito al suo fianco, ―siete esasperante! Non m'interessa cosa avete intenzione di fare. So solo che ho un compito da vostro padre e dovete obbedirmi! Vi aspetta e non solo lui, ha bisogno di parlarvi di questioni urgenti, quindi basta bambinate! State perdendo tempo!―
“Bambinate”, le sue bambinate. Quella parola colpì proprio nel punto giusto, forte come una martellata in testa, dolorosa come una coltellata nel costato.
―Vai, vai! Ci penserò io.― Sbottò Katherine senza guardarla e così Sheila si ritrovò spaesata ed un po' incalorita, quando capì che la ragazza aveva intenzione di spogliarsi senza il suo aiuto e che non aveva neanche intenzione di discutere con lei o di confidarsi, o di essere consigliata, uscì dalla stanza e un groppo in gola le si formò per non dare spazio alle lacrime. Nel frattempo Katherine lasciava cadere la vestaglia sul pavimento e riuniti i capelli in una crocchia, si vestiva di un nero opaco, frastornata ed in cima ad un dirupo.

Tutto inizia dai capelli; quando si guarda una persona, si inizia dai capelli, dalla forma, dal colore, da quanto sono luminosi quel giorno. E questa caratteristica umana non poteva essere un eccezione dinanzi a Wendy.
La ragazza aveva raccolto parte dei capelli in una crocchia sul capo e quelli che si trovavano sull'attaccatura del collo li aveva arricciati e lasciati cadere lungo la spalla e i seni nascosti diligentemente da un vestito color miele che si chiudeva armoniosamente senza lasciare intravedere nulla di sconcio.
Proprio come aveva già anticipato Sheila tra i suoi pensieri ingarbugliati, Wendy era seduta su una sedia a dondolo, poco comoda e per nulla bella, aveva in mano un uncinetto e si dilettava in tal passatempo mentre Elizabeth beveva rumorosamente il tè, arrabbiata ed in preda a singhiozzi di rabbia e di disarmonia.
―Io... io non capisco!― piagnucolava, piagnucolava esasperante, ―scappa, scappa in continuazione, cognata mia. Proprio non lo capisco! Volevo ballare con lui l'altra sera ma non sono stata capace di trovarlo tra tutte quelle maschere! Non vi piacerebbe fare una cosa in famiglia, Wendy? Voi e mio fratello ed io il vostro. Dio misericordioso, già immagino la bellezza, le feste, la felicità! Il nostro rango poi... vi gioverebbe solamente! Sareste fratelli fortunati ad aver noi, e vostro padre non potrebbe aspirare di meglio. E poi... poi io sono Elizabeth! Non farei male a nessuno, sarei un'ottima moglie, un'ottima cognata e soprattutto un'ottima madre!―
Wendy continuava a tener gli occhi bassi ed osservava le mani che si muovevano leggiadre sul tessuto di ottima qualità comprato al mercatino inglese un anno prima e lasciato ad ammuffirsi in un cassetto delle soffitte, trovato per sbaglio dai domestici nelle grandi pulizie stagionali.
Annuiva appena quando capiva che Elizabeth aveva bisogno di un sostegno, qualcuno che le dicesse il giusto, che le desse ragione.
Ma dov'era la mente della rossa? Dove volava? Oh, sì, volava lontano! Ma qual era la meta? La meta era brutta, brutta da morire che creava un animo cattivo e soffocante nella donna. Sentiva che il corpo non le dava sostegno, che sarebbe potuta crollare da un momento all'altro senza troppe cerimonie.
“Chi era al Ballo Nevoso?” si domandava. Sentiva ancora il fuoco sulla pelle, le labbra ispide di barba poggiarsi sul suo corpo, cercare la sua bocca, intraprendere attimi eterni in pochi e miseri istanti. Sapeva per certo che non era George. Il conte Ermakje non c'entrava nulla con lei, ogni qualvolta la sua mano toccava il suo corpo, un brivido nascosto le oltrepassava la schiena ma nulla più. Ed era proprio in ciò che si celava il problema.
Non riusciva a collegare, a ricordare, ogni momento si stava perdendo nell'aria e più cercava di riunire i pezzi del puzzle, più perdeva quelli che già aveva senza trovarne di nuovi.
―Wendy? Mi state ascoltando?― La stridula voce di Elizabeth ridestò la giovane dai suoi pensieri ed un fievole sorriso le apparve sulle labbra proprio quando nella sala da tè entrò George. Quel giorno aveva portato all'indietro i capelli con un sottile strato gelatinoso ed il gessato che aveva indossato rendeva onore al suo corpo robusto e ben allenato.
―Mie care.― Tuonò mentre salutava la sorella con un bacio sulla gote e Wendy sul dorso della mano.
―Con una bella giornata come questa, vi rintanate in casa?― La sua voce tradiva sdegno ma anche una nota divertita.
Bella giornata? dov'è che vedi questa bella giornata, George?― Brontolò Elizabeth dando una rapida occhiata alla finestra e scorgendo così una leggera pioggerellina che andava a sciogliere la neve caduta.
―Dove tu vedi il freddo, mia cara.― Ma George smise di pensare agli sproloqui della sorella e si lasciò andare alla contemplazione di Wendy e della sua bellezza, folgorante bellezza.
―Oh, mia dolce amata. Vorresti passeggiar con me? Forse in giardino o una bella scampagnata all'aperto!―
Ma Wendy non aveva la benché minima intenzione di passare altre ore alla mercè della famiglia Ermakje. Voleva solo rintanarsi nelle sue stanze come aveva fatto Katherine.
―George, io...― purtroppo per Wendy la sua indole non le permetteva di rifiutare con tanta facilità e guardando dritta negli occhi del suo promesso sposo, si sentì imbarazzata e spoglia, per di più anche sporca. Peccatrice.
Aveva veramente commesso peccato? Cosa ne poteva saper lei? Era stata una congiura per distruggerle l'animo? Per non darle possibilità di chiarimento? No! No! “Io non so chi è stato, se è accaduto veramente! Io non so nulla! Forse era il conte e mi sta giocando un brutto scherzo. Io non ho commesso atti sgraditi! Io... io mi sono comportata così come una Jenkins dovrebbe comportarsi. Sono ancora pura, ho ancora la mia virtù e non la perderei per nulla al mondo se non dopo il matrimonio!” Pensava, pensava a raffica e certe volte pure sbagliato ma come biasimarla? Si sentiva stordita e alquanto in colpa.
―Sarò lieta di accompagnarti in una passeggiata prima di pranzo ma permettimi di suggerirti una cosa. Non è consigliato allontanarsi troppo, non con questo freddo e con questa bufera che tira. Stiamo un po' per il giardino e poi ci riscaldiamo prima di metterci a tavola.―
Il conte Ermakje sorrise e in quel sorriso traspariva una solida domanda: “come ci riscaldiamo, mia dolce amata?”
“Col fuoco, col fuoco che non sei capace di farmi provare, non tu almeno.” Sembrò che gli rispondesse Wendy attraverso una rapida occhiata.

Londra. Londra uggiosa e poco illuminata, Londra grigiastra che si disperde nel torpore dell'inverno e lascia che il sonno infanghi la mente dell'uomo, che l'agghiaccia. La Londra di fine ottocento era un grande manto che copriva l'intera felicità e apriva la sua epoca tra le strade nascoste, tra gli edifici poco conosciuti.
Quel giorno di inizio gennaio del 1897, Henry si trovava a Londra e riusciva a sentire sulla sua stessa pelle ogni singola emozione che quella città trasmetteva alle persone. Il suo umore titubante si era trasformato improvvisamente in forza, coraggio, determinazione. E proprio così lui si sentiva. In una strada ben conosciuta, dove le persone camminavano spensierate sotto l'ombrello e i bambini ridacchiavano vicino alle gonne delle donne, gli uomini abbracciavano le mogli o lasciavano che la collera prendesse il sopravvento, il giovane Mr Jenkins camminava spedito alla ricerca di un bar noto, chiamato “Caffè”. Si trovava esattamente alla fine di quella strada, dove era situato il più famoso e ben tenuto bordello dell'intera capitale!
Henry Jenkins arrivò davanti al bar con un leggero ritardo, la carrozza lo aspettava letteralmente dall'altra parte della città ed aveva proibito il cocchiere di seguirlo.
“Mi farò vivo io!” gli aveva detto e così l'uomo s'era ritrovato in una carrozza vuota, in balìa di un padrone che... beh, non si sapeva se sarebbe ritornato.
Gerard era già lì.
Un piccolo, piccolissimo sorriso affiorò sulle labbra di Henry e quando entrò, lo scampanellio che proveniva dalla porta, fece girare il gigolò che arrossì, arrossì pesantemente appena lo vide, ed Henry non poté se non sghignazzare ulteriormente.
―Posso sedermi?― Lo raggiunse, il tavolo che Gerard aveva scelto era molto, forse troppo appartato e tutto lasciava presagire un incontro clandestino ai presenti nel bar.
―Siamo qui per parlare.― Biascicò Gerard.
Henry lo trovò in gran forma, indossava un maglione verde scuro e al di fuori vi si intravedeva una camicia bianca, anche i pantaloni in velluto erano fatti di una stoffa ben pagata, di uno stesso colore verde, forse di un tono più basso.
Sembrava essersi ripreso dal grande Ballo Nevoso, non aveva più le occhiaie sotto gli occhi e i suoi comportamenti non davano per nulla a vedere l'esuberanza di chi si prostituisce.
Allora Henry si sedette sulla poltrona in stoffa di un bianco latte che era stata situata di fronte a lui. Erano divisi da una tavolino nero, in ferro, un po' traballante. Il “Caffè” non era di certo un bar prestigioso, ma aveva qualcosa che affascinava tutti, compreso Mr Jenkins.
―Vi dispiace se fumo?― Gli dava ancora del voi Gerard, ma non aveva nessun rispetto. Lasciò cadere uno scatolo di sigarette sul tavolo e se ne accese una col fiammifero. L'aria si riempì di quel rumore e poi dal fumo passivo.
Prima che uno dei due iniziasse a parlare e la smettesse una volte per tutto di squadrarsi in cagnesco ma ambiguamente, un cameriere li raggiunse ed entrambi ordinarono del tè. Tè caldo, bollente, come gli animi di quel giorno.
Entrambi erano infervorati.
―Siete in ritardo, stavo per andarmene.― Continuò Gerard, accavallando le gambe e guardando in altre direzioni, attento ai movimenti di una donna che dava un biscotto al suo cane e si lisciava la gonna in modo convulso.
―Solo di pochi minuti.― Ribatté l'altro.
―E visto che siete giunto sano e salvo, che ne dite di smetterla con questa farsa e di dirmi una volta e per tutte cosa vuole da me?―
Henry sorrise nuovamente e si rilassò sulla poltrona. Oh, quel ragazzo! Schietto, sempre sulle sue, dubbioso della gente ma altrettanto forte.
―Vai di fretta, per caso?―
―Sì, molto. A vostra differenza io di tempo non ho da perdere.―
Henry storse la bocca e lasciò che il cameriere posasse due tazze grandi di tè sul tavolino e si ritirasse con i soldi dei Jenkins nelle tasche.
―E perché sei qui se credi che sia tempo sprecato?― Ma Gerard non rispose, era diventato rosso dalla rabbia, si sentiva accaldato e i muscoli del torso si erano tesi.
―Ebbene, sono qui perché siete un uomo davvero esasperante. Se non avessi accettato la vostra offerta, avreste rivoltato Londra per trovarmi di nuovo e sapere quello che... beh, quello che volete sapere.―
In effetti, pensò Henry, non aveva mica tutti i torti, eppure non era lì per capire qualcosa, ma per capire proprio lui. Gerard. Lo intrigava in maniera ossessiva ed era stanco di sentire il padre urlar per casa, le sorelle crogiolarsi nei loro pesanti problemi e... nascondere quella che per lui era la più bella delle nature: l'amore.
Aveva voglia di divertirsi! Di divertirsi con un gigolò, di capire una volta e per tutte cosa nascondesse il padre con quel bordello. Era voglioso di intraprendere l'oblio.
―Sei mai andato a letto con un uomo?― Sussurrò Henry e si sporse verso l'avanti. Gerard arrossì ancora di più, quella domanda non c'entrava niente! Aveva gli occhi più spalancati ed un certo imbarazzo nell'aria. Dannati Jenkins.
―Oh...― ci pensò su un attimo e poi rispose, sicuro di ciò che diceva,
―senz'altro! Ma voi non avrete tale onore.―
Henry rise di gusto e Gerard arrossì ancora di più, indispettito.
―Così giovane ed ingenuo!― Chi? Chi era ingenuo? DannatO Jenkins!
―Cosa volete, Mr Jenkins?― parlò troppo ad alta voce Gerard e così alcune coppie presenti nel bar si girarono a guardar la scena ma presto si scocciarono di non scorger nulla nelle loro parole o nei loro gesti e ritornarono alle mansioni precedenti.
―Hai letto il biglietto che mio padre ha voluto consegnare alla tua milady e voglio, obbligatoriamente bada bene, sapere cosa c'era scritto e qual è stata la risposta della donna.―
Gerard abbassò la testa, ancora con quella storia? Non riusciva a farsene una ragione? E poi! Ma che stupido! L'aveva portato lui a Charlotte quel biglietto e non l'aveva neanche letto!
―Perché non l'avete letto direttamente voi?― si ritrovò a domandar.
―Perché...― rispose certo Henry, ―sono di una certa discrezione, ma se ci sono altri modi per saperlo, l'intraprendo senza problemi.―
―Continuo a non capire.― Soffiò Gerard.
―C'è qualcosa che non quadra ragazzo. Voglio capire, capire cosa ci fosse scritto e soprattutto il perché.― Gerard comprese anche un'altra cosa: tra Henry e il padre non scorreva buon sangue, c'erano profondi problemi tra i due, problemi che andavano ad indebolire il nucleo familiare e non permetteva una buona conversazione tra i due.
―Quindi siete talmente caparbio che avete scelto di “ingaggiarmi” per scoprire la verità seppur essa si trovava proprio lì... fra le vostre delicate e fanciullesche mani!― Questa volta fu il gigolò a sghignazzare.
―Qualcosa da obiettare?―
―Molte cose!―
―Ad esempio?―
―Ad esempio perché diamine io. E perché siete così certo che io mi prodighi in un tale affronto!―
―Lo farai e vuoi anche sapere il motivo?―
Gerard strinse gli occhi ed allontanò la tazza da tè. Non avrebbe bevuto una bevanda che non era stato capace di comprarsi da solo. Era una regola fondamentale nella sua vita, soprattutto poi se la persona che aveva avuto l'onore di comprarla era una feccia di Jenkins.
―Se mi è concesso.― Digrignò tra i denti.
―Perché...― indugiò Henry, lasciando un piccolo periodo di pausa e suspense, una suspense che Gerard non riusciva a sentir sua.
―Mi piaci.― Gerard strinse gli occhi, ―ed anche io... ti piaccio. Anche se fatichi ad ammetterlo.―
Il gigolò rise di gusto e scosse la testa, divertito.
―Visto che non c'è nessun guadagno in ciò, credo proprio che rifiuterò l'offerta e... farò a meno del tuo amore.―
―Non puoi farne a meno.― Ribatté Henry.
―E perché mai, Mr Jenkins?―
―Perché... io ho soldi, prestigio e potrei elevare la tua situazione di vera... mèrde.―
I lineamenti del viso di Gerard si irrigidirono e in un impeto di orgoglio, prese il cappotto che aveva appoggiato sullo schienale della sedia ed indossandolo, abbandonò il tavolo.
―È un no?― Gli urlò dietro Henry ma non gli pervenne risposta.
Il gigolò uscì dal locale e cercò, almeno per un attimo, di calmare il cuore che batteva all'impazzata ed i polpacci che cercavano di cambiare direzione.
“Inetto, inetto uomo.” Pensava.
Nel frattempo Henry lo aveva inseguito in strada ma Gerard aveva intrapreso già la via per il bordello. A quanto pare non aveva bisogno di schiarirsi le idee, non aveva bisogno di capire se era meglio accettare o meno. Non aveva neanche bisogno di meditare su ciò che gli era stato detto. In fondo Henry si era appena dichiarato!
Decise quindi di seguirlo.
Intraprese anche lui la via per il peccato, se così vogliamo definirla, ed intravide la sagoma del giovane perdersi dietro l'angolo, proprio all'entrata de Le Dommage.
―Gerard! Aspetta!― Urlò ancora Henry ed aumentò l'andatura del passo, speranzoso di raggiungerlo in tempo ma l'unica cosa benefica di quella brutta camminata, fu un'uscita inaspettata.
Davanti all'entrata dell'hotel c'era una Berlina parcheggiata molto, molto familiare. Henry era confuso.
Guardò verso l'interno ma non scorse nulla, Gerard era già sparito per chissà quale piano.
Indietreggiò di qualche metro e fu la cosa più saggia; di lì a qualche minuto, un uomo ben vestito, dai medi capelli biondi ed un sigaro tra le labbra uscì dall'hotel.
“Ma cosa...” aveva con sé un bastone nero, in legno di mogano probabilmente, per cercare di nascondere il suo esser claudicante, e con quello diede un paio di colpi alla carrozza prima di salirci.
“... cosa ci fa Mitchell Viktor nella casa del diavolo?” fu l'ultima cosa che pensò Henry.

Katherine scese le scale con estrema lentezza. La testa le doleva più di prima ed il corpo era ancor più intorpidito.
Il viso pallido era stato incipriato in malo modo e gli occhi ricalcati da un sottile strato nero risaltavano la luce fievole che quel giorno cercava invano di illuminarli.
La sala da tè era vuota, nessuno più vi soggiornava e una teglia di tè freddo era poggiata sul tavolo in legno lontano dal fuoco.
Presto entrò Sheila con aria impettita e Katherine capiva che la donna era offesa, veramente offesa. Non le aveva detto nulla di che ma avrebbe potuto farlo, e questa possibilità probabilmente aveva ferito l'animo poco fragile della donnona.
―Vostro padre vi aspetta nello studio e con lui vi troverete la famiglia Griffiths riunita. Il tè è già stato servito lì, se volete iniziare ad anticiparmi, vi sarei riconoscente. ―
Lì per lì, Katherine avrebbe voluto dirle qualcosa, forse una banale frase di scuse, ma proprio non ci riuscì, forse non era nella sua indole, forse era davvero troppo nervosa e quindi, un po' come un cane bastonato, si recò in biblioteca senza fiatare e senza far scricchiolare il pavimento.
Bussò una, due, tre volte, alla fine il padre decise di farla entrare e Katherine, con i capelli ancora un po' cotonati in testa e residua da due giorni infernali, si ritrovò dinanzi all'intera famiglia Griffiths come già presagito dalla governante.
―Oh, eccoti finalmente!― Sbraitò il padre, ch'era seduto spaparanzato su una delle poltrone vicino al camino, nell'altra c'era Mrs Griffiths. Annabelle. Katherine si morse la guancia interna con i denti. Voleva scannarla, triturarla, infliggerle dolore. A lei e a quei maledetti seni che erano stati accarezzati da mani... mani che sciaguratamente conosceva bene.
L'attenzione però non poté soffermarsi a lungo sulla donna, il figlio dai capelli marroncini e di cui ignorava il nome, si trovava in piedi poco più dietro della madre e la squadrava da capo a piedi con una certa insistenza.
Quando Katherine incrociò il suo sguardo non riuscì più a captare quella timidezza che aveva scorto la prima volta, ma semplicemente un'aria felina e molto, molto impertinente.
Si sentì le guance arrossire appena e un moto di repulsione nei confronti del giovane.
―Ti vedo un po' sciupata, mia cara.― Parlò la donna e Katherine abbassò appena il capo in segno di rispetto, con le mani raccolte sul grembo e il corpo irrigidito.
―Non ho dormito bene queste notti, la bufera ed il ballo che c'è stato sono riusciti a scompigliare la tranquillità e la monotonia del mio animo.―
A tali parole, il padre scoppiò in una sonora e grassa risata, seguita da quello dell'altro uomo, Mr Griffiths.
―Tranquilla e monotona! Credo di aver scambiato Katherine con Wendy...― commentò l'uomo, in preda ancora a quel brutto attacco di ilarità.
―Ma padre... accettate le cose così come stanno.― Soggiunse la giovane e Mr Jenkins la zittì con la mano, accennando anche ad avvicinarsi.
―C'è una notizia che debbo darti, mia cara.― Katherine ormai era al fianco della poltrona in cui sedeva egregiamente l'uomo.
―Sono qui per ascoltarvi.―
―Ti piacerà, senz'altro. La famiglia Griffiths alloggerà qui un altro po' di tempo, forse un mese, o due; e quindi gradirei molto, ma davvero molto, che tu e Joseph vi avviciniate. Non conosce molte persone qui in giro, potreste recarvi dai Bourbès o...―
Katherine non riuscì a trattenersi e domandò spropositatamente: ―Chi è Joseph?―
Proprio in quel momento, il ragazzo dai capelli marroncini che Katherine era stata costretta ad accogliere giorni addietro sull'androne di casa, si fece avanti e rispose ch'era proprio lui Joseph.
La ragazza arrossì e si sentì addosso lo sguardo inquisitore di Mrs Griffiths.
―Oh... beh, padre, è ovvio che non c'è nessun problema a riguardo. Sarà un piacere intrattenerlo in questi giorni di ordinaria amministrazione. L'inverno porta una tale noia!― Ma Katherine sapeva che c'era dell'altro, un altro che non voleva proprio venirne a conoscenza.
La conversazione presto venne distratta da un nitrito di cavalli. Mrs Griffiths saltò dalla poltrona e si precipitò sul davanzale della finestra per scorgere il nuovo arrivato.
Sia Mr Jenkins che Mr Griffiths rimasero sbalorditi da tale comportamento, ma subito dopo la donna si scusò, credendo che fosse il corriere.
―Oh, no, non è il corriere,― proprio in quel momento era entrata Sheila per riprendersi la teglia da tè ed informò quindi anche sull'uomo ch'era giunto a Winslow Hall, ―è Mitchell Viktor, manca da qualche giorno. Credo sia ritornato anche il signorino, però. Mi pare di aver scorto la sua carrozza in lontananza.―
Un sottile silenzio s'impadronì della stanza e Katherine, con ardente coraggio, guardò male la donna e quest'ultima se ne accorse, lasciando che lo sconcerto si impadronisse del suo viso.

Un singulto pauroso proveniva dal basso della stanza, rannicchiato in un angolo, seduto tra le pieghe del lenzuolo, con il viso tra le mani e lacrime nere che scendevano paurosamente sul viso del giovane. Furono poche e silenziose ma impregnarono talmente tanto quel momento, da scalfire l'animo vuoto delle mura.
Daniel aveva in mano fogli di carta e matite mal temperate; scriveva, stracciava, esasperato in un lago di parole e di sentimenti strozzati sul nascere.
Qualcosa dentro di sé si muoveva, il dolore malsano di un brutto giorno. Ma non era solo uno. Erano molti. Le labbra bruciavano come carboni ardenti e il ricordo di un bellissimo corpo color panna tra le mani, labbra morbide e macchiate di un rossetto che sapeva di more, con un retrogusto di alcolico, era vivo dentro di sé.
Il poeta aveva il cuore ridotto a brandelli, aveva il fiato corto ed una voglia pazzesca di urlare a Wendy, la sua musa, ch'era lui, lui quello che l'aveva per un attimo posseduta. Aveva sentito ogni singola sensazione che la penetrava nelle ossa, sensazioni che lui aveva generato, con il suo amore, la sua smania platonica.
Un angelo caduto dal cielo e non c'era niente di carnale o passionale in ciò, c'era solo lui e le stelle, l'infinito, l'ignoto. Come raggiungere il grande quando si è così piccoli?
Non essere riconosciuto, essere stato ripudiato tanto facilmente, lo aveva quasi ucciso ed ora, per terra, mezzo nudo, con un bicchiere di brandy tra le mani e l'alito che puzzava di alcol, aveva deciso di buttare giù qualche riga malformata.
Cosa fare? Come comportarsi? Cosa accettare e cosa no?
No, non poteva accettare una simile cosa.
Wendy non poteva essere di questo... George. Ma chi era, appunto? Il conte? Quell'essere sporco? Sporco fin dentro alle viscere che avrebbe macchiato la sua vergine donna? La sua amata, casta, pura e perfetta donna?
Ma come poteva essere tanto casta e pura se si era lasciata andare a lui, che altri non era se non Daniel, il poeta in mano agli usurai, sul lastrico e pronto a morir per nulla?
L'uomo si alzò, barcollante, trepidante di brutte, bruttissime sensazioni.
Si avvicinò allo specchio e guardò a lungo il suo riflesso, veramente a lungo, finché in un impetuoso coraggio, non diede una grande capata e lo specchio si ridusse in frammenti.
Piccole schegge caddero sul suo viso e le lasciò fare, gli lasciò infliggere un tal dolore, dove riusciva persino a trarne sollievo.
―Oh, cos'è l'amore se non lo struggimento dell'anima, la sua rovina, la sua disgrazia?―
Aveva scritto sui fogli bianchi.


Spazio scrittrice:
Ciò che vorrei dirvi è grazie.
Grazie per esserci dopo mesi, per non lasciare a vuoto le mie parole.
Grazie di aspettare pazientemente, grazie di non mollar mai.
Katherine, Wendy, Gerard, Viktor, Henry, Ernest, Sheila, Charlotte... hanno bisogno di voi più di chiunque altro. Loro vivono attraverso noi, attraverso ciò che non sappiamo dire nella realtà. Vivono in un'altra epoca ma ridono come i bambini di oggi, piangono e soffrono come uomini primitivi.
Loro sono solo esseri umani che stanno imparando ad amare, ed amano come una volta si amava. Con calma, con agonizzante attesa. Amano ed imparano ad amare perché solo questo sanno fare. Ma per amare ed imparare ci vuol fegato perché il gelo dell'inverno, il torpore della notte, le lacrime di un disastro... sono tutte cose che accadono, accadono e li devastano.
Ognuno di loro rappresenta un sentimento: vendetta, pudicizia, bontà, cattiveria, buon senso... E ognuno di loro ha una storia da raccontarvi.



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Capitolo 13
*** XII- Adulteri pensieri. ***



Adulteri Pensieri.

"C
he capelli lunghi, Wendy” diceva, “che bel corpicino che hai, Wendy” diceva, “che belle labbra che hai, Wendy” diceva.
Sembrava quasi di avere a che fare con il lupo di Cappuccetto Rosso. Le sue lunghe e callose mani si spostavano sul suo corpo con sinuosa energia e tanta, tanta esperienza. Sapeva perfettamente che parti toccare per sentire piccoli e lievi gemiti da parte della sua amata.
La passeggiata nel giardino di Winslow Hall si era trasformata in un dejavù del precedente incontro. Il conte Ermakje era desideroso di risentire la dolce civetteria di Wendy e la sua caparbietà nella castità e purezza; e Wendy, rispetto al ballo, iniziava a percepire una piccola fievole fiammella. Un piccolo accenno di speranza.
Le labbra di George cercarono il suo collo, il suo mento, le sue labbra con un fervore talmente irruento e ardente che si sentì desiderata più di ogni altra cosa .
Ogni piccola carezza, parola pronunciata, ogni piccolo attimo passato lì, nella radura, in mezzo al verdeggiante e alla bella e possente casa, sentiva dentro di sé una sottomissione maggiore. Un'accettazione di ciò che aveva vissuto.
“Sì, era lui. Mi sta solo tirando un brutto scherzo”.
La sua era convinzione pura perché non accettava lo sbaglio, l'essersi lasciata andare ad uno sconosciuto mascherato, probabilmente un maniaco depravato pronto a stuprarla nello stanzino.
Poi ci ripensò sull'ultima deduzione: come poteva volerla stuprare se era scappato prima che potesse scoprire la vera identità? Ma lasciò perdere presto tale domanda e cercò di convincersi ancor di più sull'ipotesi A. L'uomo mascherato era il conte Ermakje in tutta la sua bellezza.
Chi in fondo muoveva le mani come lui? Nessuno. Aveva una prodezza ed una certa imponenza, era di una leggiadra formosità, di una bravura non indifferente.
Quando il palmo del conte raggiunse un punto cruciale delle parti intime, Wendy gemette così forte che l'uomo fu costretto a zittirla con l'altra mano ed entrambi, subito dopo, scoppiarono in una sonora risata, infreddoliti e con i nasi rossi, ormai in preda ad un calore che pian piano si raggelava nelle basse temperature del giorno.
―Sei così spaventosamente desiderabile, ogni uomo vorrebbe almeno una volta provare a formare con le proprie mani il tuo corpo, sai? Sei modellabile come la creta e fragile, fragilissima. E tutto ciò mi fa impazzire disdicevolmente.― Sussurrò il conte all'orecchio di Wendy, e la ragazza arrossì, stringendo le braccia attorno al collo dell'amato e lasciandosi andare ad una risata stridula.
―E cos'è che non riesci proprio a sopportare di me?―
Il conte ci pensò su un attimo e rispose: ―Nulla―.
Ma era una bugia. Una di quelle grandi che si dicono per il bene e la pace di una coppia agli inizi. Il conte odiava il carattere di Wendy, il suo essere sottomessa, buona, senza pregiudizi, senza alcuna aspirazione al pericolo, allo sbaglio, al peccato.
Certo, era a modo suo molto emancipata. Nella sua castità permetteva al promesso sposo di assaggiarne un pezzo senza troppe cerimonie, ma in quei gesti meccanici non c'era il pericolo che il conte avrebbe voluto sentire.
Quando le aveva chiesto se avesse voluto passeggiar con lui, alludendo apertamente a cose poco idonee, aveva sperato davvero che rifiutasse, che lo mandasse a quel paese e probabilmente gli sarebbe piaciuto, lo avrebbe deliziato e l'avrebbe resa ancora più attraente ma... non c'era dubbio che Wendy, nella sua bontà di animo, era una gran donna. Bella e forte, se voleva.
Debole il più delle volte.
A lui però andava bene così, per ora.
Gli piaceva anche questo lato, in un certo senso. Sfidava se stesso con qualcosa di puritano, qualcosa a cui avrebbe dovuto prestare tanta attenzione, come una piccola porcellana di vetro.
―Hai freddo, mia cara?―
―Sì...― soffiò la ragazza ed una nuvoletta di fumo le uscì dalle narici, ―ma resisto.―
Una tale risposta stupì l'uomo che in quel momento, in un impeto come gli altri, premette le labbra contro quelle della giovane. “Resiste...” resiste per lui, per il bene della famiglia, per la sanità della società.
―Non resistere più allora, entriamo dentro, abbiamo saltato il pranzo.―


Ambedue le carrozze erano state parcheggiate sul viottolo di casa ed ambedue gli uomini erano entrati in villa senza scontrarsi nemmeno per un secondo.
Viktor quel giorno aveva un'aria veramente rilassata, la gamba non gli doleva più di tanto e Charlotte gli aveva consigliato di indossare un panciotto color lillà che all'epoca era davvero in voga. Per non parlare del colore! S'intonava perfettamente ai suoi occhi e all'umore.
Lasciò il bastone nell'ingresso di casa e con l'aiuto di una delle tre sguattere, che il più delle volte lavoravano nelle cucine, si fece togliere il cappotto e lasciò che lo posassero nell'armadio apposito.
Doveva parlare con Mr Jenkins ma prima avrebbe dovuto presentarsi tramite Sheila e... dov'era finita quella buona donna? Sempre in giro per casa, indaffarata e pronta a dare del suo meglio quando c'era bisogno, e proprio adesso che Viktor aveva un bisogno quasi fisico di lei, spariva.
Attraversò il corridoio principale e non si soffermò a lungo sulla biblioteca d'eccellenza, dove c'erano ancora gli ospiti e Mr Jenkins.
Katherine, Ernest e la famiglia Griffhits avevano pranzato amabilmente nella sala apposita e dopo essersi rifocillati con una grande abbondanza di cibo, Katherine s'era cambiata nelle sue stanze con un candido abito color mogano che le stringeva i seni più in alto e la scollatura le dava un senso di castità e ipocrisia non indifferente. La falsità di tanto perbenismo era scorta tra il brillio incessante dei suoi occhi; dopo essersi cambiata dunque, si era recata da Joseph e, così come voleva il padre, insieme si erano rinchiusi nello studio di Mr Viktor che arrivato con la carrozza non s'era ancor fatto vedere.
Era stata una di quelle mosse astute e dispettose ch'era balenata nella sua mente come un flash improvviso. Sapeva che Viktor si sarebbe per prima cosa recato nel suo studietto personale, forse per riprendersi qualche libro, forse per incontrare la giovane. Di certo non era a conoscenza di una tale amicizia tra lei e il giovanotto che sin da subito aveva odiato, odiato profondamente, più della madre Annabelle.
Katherine aveva trovato una scatola di scacchi e con una domanda cortese aveva chiesto il consenso del gioco anche al suo accompagnatore, e ben presto la giovane si ritrovò concentrata sui cavalli e gli alfieri che con somma maestria venivano abbattuti da Joseph.
Il giovane rise, ma non con cattiveria, quando la seconda torre perse vita sul campo di guerra distrutta da un sonoro calcio da parte del cavallo bianco.
―Mi dispiace, davvero...― rideva sotto i baffi e Katherine, rossa in viso, cercava di non far trasparire lo sdegno e il bruciore della sconfitta.
―Sono una donzella giovane e poco brava in simili giochi di società, perché... non mi fate vincere? Insomma cosa vi costa?― brontolava mentre muoveva un suo pezzo e capiva per l'ennesima volta di star sbagliando tutta la strategia.
―Ma non ci sarebbe sfizio a far vincere le donne, dovete conquistarvi la vostra fetta vittoriosa, miss.― La voce calda del giovane le apparve nuovamente impertinente, ma le piacque troppo come la rispose e si lasciò scappare un sorriso.
―Non cantate sin da ora! La battaglia è appena iniziata.―
Joseph rise ancora, di gusto, e Katherine si lasciò andare anche lei sulla poltrona in velluto.
―Una battaglia sì, ma la guerra? Siete sicura di riuscirci? Così graziosa e fragile, miss. Troppo per poter sporcarvi le mani.―
―Me le sporcherò! Non ci son problemi.― e sfregando i palmi, mosse la regina che cadde miseramente sotto il colpo della torre bianca.
―Ah! Ma insomma! Contegno! Era la mia regina...―
―La mia torre aveva qualcosa in più rispetto alla vostra regina allora.―
Katherine sbuffò e si rifiutò di continuar la battaglia, tanto che Joseph fece una tirata di spalle ed esclamò: ―Siete troppo competitiva, con la competizione non si arriva alla vittoria, Katherine.― Ma la ragazza non l'ascoltò, qualcosa attirò la sua attenzione vicino la porta: la maniglia leggermente girata, un uomo appoggiato allo stipite che guardava la scena con enorme riluttanza. In quell'istante Katherine le sentì il fiato mancare, per l'ennesima volta il suo piano era stato portato a termine ma le conseguenze erano sempre enormemente disastrose.
―Oh, signor Mitchell!― Esclamò irrigidendosi ed alzandosi dalla poltrona.
L'uomo entrò nella stanza e recò un lieve segno di capo all'altro ragazzo presente. Doveva comportarsi in modo più servile ma non era proprio in lui una simile scenata di galanteria per l'alto rango.
―Il ragazzo ha proprio ragione, sapete miss? Siete così emotiva che non riuscite ad accettare la realtà dei fatti.― Ridacchiò ma nessuno si unì a lui, Joseph ora era intento a riposare i pezzi del gioco all'interno della scatola in vetro, senza voglia alcuna di unirsi alla conversazione.
Katherine deglutì e il suo sguardo si perse per un attimo sul viso del precettore, e poi sul collo, fino a scendere alle mani incrociate.
―Chi cercavate, Mr Mitchell? Posso esservi utile?― Sussurrò la giovane, in una forma di buone maniere, cercando di non trarre in nessun modo, ricordi spiacevoli. Cercava di sorpassare, di ritornare alla fredda realtà di cui parlava l'uomo. Di evitare con tutta se stessa lo scombussolio dello stomaco, la testa vorticante, le gambe dolenti.
―Sì. Cerco Sheila. Devo parlare con vostro padre di una questione urgente.―
Viktor non la guardava però, il suo sguardo era fermo sul ragazzo in maniera talmente insistente che quest'ultimo era diventato rosso come un pomodoro.
―Mio padre è nello studio e lì dovrebbe essere anche Sheila, vi accompagno.―
Katherine si mosse di qualche passo e non diede alcun peso alle proteste dell'uomo, dicendo:
―Non preoccupatevi, non mi costa nulla accompagnarvi―.
Joseph rimase nello studietto e trasse un profondo sospiro di sollievo quando sia Viktor che Katherine uscirono dalla stanza.
Quell'uomo, con quella cicatrice e quella gamba zoppicante, quell'aria talmente rude, lo aveva terrorizzato come mai nessuno c'era riuscito. E Joseph era una persona forte di animo e di mente.
―Di cosa volete parlare con mio padre?― Domandò la giovane mentre attraversavano il corridoio uno di fianco all'altro.
―Questioni urgenti sul mio lavoro qui, nulla che vi possa interessare, miss.―
A tali parole, la giovane si fermò di colpo e l'uomo fu costretto a girarsi per capire come mai avesse smesso di camminare.
Gli occhi leggermente inumiditi di lei si posarono su quelli di lui e questa volta Viktor non poté far altro che guardarla e scoprire in sé un bollente sentimento di irrefrenabile possessione.
―Nulla è stato detto riguardo a ciò che già sapete. Ho taciuto e gradirei tanto che anche voi facciate lo stesso. Non è... il caso di far preoccupare inutilmente un povero vecchio.―
Il suo animo rise ma il suo viso rimase impassibile e solo un leggero cenno di capo fece comprendere a Katherine che per adesso poteva star tranquilla.
Ripresero a camminare.
―Come mai siete mancato questi giorni? Ho dovuto istruirmi da sola.― Mentì la giovane.
―Dubito che abbiate sfogliato la prima pagina di un libro ma apprezzo lo sforzo.
Ebbene, ho avuto da fare e non c'è nient'altro da dire in merito.―
Katherine arrossì ed arrivarono finalmente dinanzi la biblioteca; che poteva farci in fondo? Non era nessuno, era stupida, infantile, cocciuta. Voleva tutto e nulla, e alla fine non riusciva ad ottenere proprio il benché minimo.
Bussò una, due, tre volte, e alla fine il padre la fece entrare.
―Padre...― disse la giovane evitando di rivolgere lo sguardo su Annabelle; oh quanto la odiava! Quanto voleva urlare al mondo il suo adulterio! La sua lussuria! La sua schifosa indole da puttana! Con lui poi... con Viktor, ―Mr Mitchell vuole parlarvi.―
Il padre guardò l'uomo claudicante, poi lo sguardo cadde su Mrs Griffiths, alla fine congedò la figlia e lasciò che la porta si chiudesse dietro di lei.
Katherine non seppe mai cosa doveva dire il precettore al padre suo.
Nel frattempo, uscendo dalla biblioteca, la ragazza si scontrò con Henry, suo fratello. Appena lo vide, notò subito la stravaganza sul suo viso. Sembrava in cerca di qualcosa, aveva la camicia al di fuori dei pantaloni e i capelli leggermente scompigliati.
Si fermò di botto appena la vide e si massaggiò la cute come se volesse nascondersi.
―Henry...― lo chiamò Katherine e lui le sorrise, avvicinandosi.
Insieme si avviarono al di fuori del corridoio per subentrare nella sala da tè, a quanto pare era diretto lì.
―Ho bisogno di bere qualcosa.― borbottò dopo essersi avvicinato al mobile dei liquori, si riempì un intero bicchiere di rum e Katherine scorse del rossore alla base del collo che andava fin dove erano cresciuti i capelli; gli era palesemente successo qualcosa ma lì per lì non ebbe il coraggio di domandargli nulla, timorosa di una risposta che non le sarebbe potuta piacere.
Vi si avvicinò da dietro e gli toccò la spalla con la punta delle dita.
―Hai fatto presto ritorno a quanto vedo. Londra è stata di tuo gradimento?―
―Cos-... ah! Oh... sì, sì! Nuvolosa, molto. Ma sinceramente tutte queste ore di viaggio non sono valse a chissà cosa. Troppo stancanti.―
―Almeno hai portato a termine ciò che dovevi.―
No, pensò Henry, neanche questo ho fatto. Ho solamente una mente così confusa da farmi paura. Gerard è stato irremovibile ma probabilmente in questo istante ci sta ripensando e presto riavrò sue notizie, per non parlare della bruttissima e mal celata entrata ed uscita di Viktor Mitchell. Dovrei informare di ciò Katherine? È troppo emotiva, correrebbe da nostro padre oppure lo farebbe sapere al precettore ed io prima devo capire che parte sta recitando quest'uomo nelle nostre vite. Ho bisogno di certezze, di una via di fuga, di una strategia che venga applicata come si deve, che mi porti ad una fruttuosa conclusione, e meno persone sanno e prima riuscirò al mio intento.
―Che cosa hai fatto tu? Ti sei ripresa dal ballo a quanto vedo. Hai ancora un viso scarno ma più vivo dei giorni precedenti.―
La ragazza annuì con pigrizia e si sedette placidamente in una delle poltrone presenti. Si era ripresa, se così si poteva dire, ma di certo era ancora scombussolata e poco sicura sulle mosse che doveva adottare.
―Sì, questo freddo mi sta uccidendo, Henry. Sento proprio un peso sulle gambe e sulle braccia... assurdo! Non so cosa fare per trovare un rimedio. Sheila poi! Continua ad attaccarmi manco fossi una nullafacente. Non le ho fatto nulla di male e ce l'ha con me. Ha persino messo il broncio!―
Henry rise e lasciò che il liquido gli scendesse lungo la gola con violenza, così che il bruciore lo destasse dall'intorpidimento del corpo.
Proprio in quel momento, dove il silenzio stava avendo la meglio e i due fratelli agilmente cercavano un appiglio dove riposarsi in santa pace senza conversar troppo, una giovane figura fece il suo ingresso nella sala. I capelli corvini che cadevano dolcemente sulle spalle, le ciglia truccate meticolosamente ed un vestito in seta color sangue di piccione che lasciò interdetti i presenti.
―Oh, Henry caro! Henry, Henry, Henry!― piagnucolò la figura femminile mentre si cimentava tra le braccia del giovane e le scarpe ticchettavano fastidiosamente sul pavimento.
“Dio! Solo la zecca Ermakje mancava.” Pensò in un impeto di disperazione il giovane.
Elizabeth lo strinse così forte da togliergli quasi il fiato ed il ragazzo ricambiò appena l'abbraccio, di modo che si allontanasse senza troppe cerimonie e preamboli d'amore. Quanto odiava queste cose! Quanto lo mettevano a disagio! Il corpo di una donna era un modello rispettabile da venerare, qualcosa che lui stesso trovava apprezzabile, ma non riusciva a coglierne quella sottile attrazione che ogni uomo di solito provava alla vista.
―Ma dove vi eravate cacciato? Ho tanto penato in vostra assenza! Non vi siete presentato al ballo, non mi avete concesso la benché minima attenzione in questi giorni. Mi sono sentita tremendamente abbandonata.― Il piagnisteo durò per altri svariati minuti nei quali Katherine si diede all'osservazione delle sue unghie ben curate ed Henry subì in un inetto silenzio che a nessuno in quella stanza piacque veramente.
Katherine si aspettava un'epocale uscita.
Elizabeth voleva che la prendesse tra le braccia lì, davanti a tutti e la stringesse forte, così forte da incuterle tutto il suo calore d'uomo, ed infine chiederle umilmente scusa con un regalo sontuoso che aveva acquistato per lei a Londra.
Henry invece immaginava le parole di Elizabeth sulla bocca di un altro essere umano e purtroppo anche se gliele avesse dette Sheila, sarebbero apparse più attraenti.
Niente di tutto ciò accadde veramente e alla fine, l'uomo sorrise docilmente a mo' di scuse fatte male, che neanche provenivano dallo strato superficiale della sua anima; ma ad Elizabeth ciò bastò, si arrampicava sul nulla per costruire immensi e sparsi castelli.
―Ditemi Lizzy, posso chiamarvi così non è vero?, dove si è cacciato vostro fratello? Vorrei chiacchierare un po' con lui e... beh, insomma...―
Elizabeth interruppe subito il discorso campato in aria del giovane, e rispose amabilmente che George era rientrato con Wendy da un po', erano stati in campagna, nelle radure, avevano vissuto una bella giornata insieme, appartati dagli sguardi inquieti, pronti per conoscersi oltre ogni dire, ma mai superando i limiti della decenza stessa.
Katherine sospirò e si lasciò andare sulla poltrona, guardando in aria e trattenendo appena uno sbadiglio di noia. Henry la guardò con mezzo sopracciglio alzato ed Elizabeth si apprestò a continuare il suo discorso su quanto Wendy fosse perfetta per il suo amato fratello ma mai, mai osò dire ch'era George perfetto per Wendy.
―E dove si trovano adesso?― domandò Henry.
―E dove dovrebbero trovarsi, fratello? Buon Dio, non esser così petulante! Saranno nella veranda oppure Wendy sarà andata a schiacciar un pisolino. Lasciala stare a lei, che ha tante cose per la testa e poche occasioni per risolverle. Poverina, è sempre così piena del suo io, che lo sta perdendo.―
Henry alzò ancor di più il sopracciglio verso la sorella che, a quanto pareva, era decisamente di cattivo umore e stava iniziando la mente da sola vagare per terre sconosciute e la bocca parlare spropositatamente davanti a soggetti poco idonei come la signorina Ermakje.
“Da quand'è che ti preoccupi di Wendy, Kath?” avrebbe voluto domandarle il fratello, eppur si trattenne, lasciando cadere il discorso e trasportando le vesti di Elizabeth al di fuori della sala.
La giovane fu felice, ed in impeto di gioia prese l'uomo sotto braccio e lo guardò raggiante, con un sorriso a trentadue denti, pronta anche ad offrirsi a lui come più lo poteva gradire.
A quanto pare, pensò Henry, questa ragazzina è più cotta di un tacchino.
Katherine, rimasta sola nella stanza, vide le vesti della ragazza svolazzare lungo il corridoio dalla porta e poi li perse di vista non appena svoltarono l'angolo e le voci gioviali si persero nell'aria.
Dio buono e amato, come si sentiva male. Voleva vomitare lì, sul pavimento. Non aveva forze che la tenessero a galla da quel mare in tempesta e non aveva alcuna voglia di sopravvivere al furente sentimento che starnazzava come un'oca nel suo cuore.
Cosa fare in situazioni del genere? Avrebbe voluto, proprio lì, senza motivo alcuno, andare da Wendy e domandarle come poteva lei essere così sicura del futuro, così sicura di George e di cosa quell'uomo era pronto ad offrirle. Aveva sempre preso in giro la sorella, considerandola una stupida ragazzetta alla mercé del padre e di qualunque cosa lui volesse farle, ma ora, da sola in quella stanza, capiva che probabilmente era la via più facile, quella che le avrebbe assicurato la vita e la morte, non del tutto felici entrambi, ma almeno giuste e sviate sulla strada traboccante di alti e bassi.
Invece lei, adesso, si trovava in una bufera di neve e non c'era vita o morte all'orizzonte, c'era solo la certezza di quell'oggi e di quegli occhi imperlati di un malsano amore che attendevano dietro al sipario, di farla cadere sul palcoscenico, di pugnalarla e probabilmente di non darle neanche un minimo di vittoria.
Katherine bramava il futuro di sua sorella Wendy e quest'ultima bramava il pericolo e la spensieratezza di Katherine.
Entrambe componevano quello che era un quadro infinito di sbagli e di sentimenti contrastanti.

Oh milady, dolce milady, in un vicolo buio della vita s'era smarrita ed ora giaceva supina su un letto di rose e un calice di champagne versato sul tappeto in pelle. Il viso truccato era macchiato dal mascara e dall'ombretto di un verde sgargiante; aveva una vestaglia rossa, di quel rosso che fendeva la mente dell'uomo e distruggeva la pudicizia delle giovani ragazze.
Charlotte stava vivendo quel giorno in un bagno di sudore e di alcol, lasciata libera a sguazzare in una tetra malinconia, formata dalla sua stessa vita e dal suo stesso passato sgualcito e maltrattato.
La camera puzzava di chiuso, era da quando aveva ricevuto il biglietto da Mr Jenkins che la donna non riusciva più a ragionare come una volta.
Stava cadendo a picco nelle sue vecchie emozioni, in un passato che le doleva l'animo come non mai, un passato formato da sentimenti forti, così forti e duraturi da ridurla in poltiglie.
Ubriaca fracida com'era, inizio a ridere, ridere come non mai; il suo sguardo perso davanti a sé e pensava, pensava... rammentava... e moriva dentro, come una fata...

A quel tempo le sue gambe erano lisce come seta e i vestiti le cadevano addosso perfettamente; la rotondità dei glutei e dei fianchi, dei seni e del corpo in sé, incantava chiunque, anche lui.
Un uomo sposato ma bello, bello come il sole. Alto, moro, forte, virile...
Le sue mani che si spostavano dal collo alla schiena seminuda e poi la guardavano, giovane ma non troppo; e lei, lei nel fiore della sua gioventù che lasciava stare le mani, lasciava che percorressero i suoi abissi e non vi si perdessero...


―Bastardo!― Urlò in preda all'ira. Charlotte si alzò di scatto e lanciò il calice di champagne dall'altra parte della stanza con infinita rabbia; il suo cuore martellava ed aveva il fiatone, talmente che il gesto impetuoso le aveva rapito energia.
Pian piano scoppiò in un pianto lamentoso e cadde con le ginocchia sul pavimento facendo così un gran fracasso.

―Non farò mai nulla che possa nuocerti, amor mio.―
Quelle parole rimbombarono allora nella sua mente e le labbra del giovane si posarono candidamente su quelle di Charlotte, ma mai aveva lasciato trapelare del dubbio, un minimo di dubbio. E quello fu un grande errore, concedersi al mondo con la grande purezza che sin da bambina l'aveva caratterizzata e poi rimaner fregata, con un pugno di sabbia tra le candide dita.
Entrò Gerard e guardò la mamà. Charlotte aveva gli occhi vacui e la faccia di una bambina triste sull'orlo di un lungo pianto.
Il giovane vide il bicchiere frantumato in mille pezzi di vetro e la donna che non gli prestava attenzione alcuna.
Dalla porta si affacciò Violette ma il ragazzo la spinse via con fare sbrigative.
Con il viso corrucciato, raccolse i cocci per terra, ripose la madre sul letto in fiori e lasciò che sfogasse la sua rabbia.
Mai come allora Gerard aveva desiderato di sapere cosa fosse successo veramente a Charlotte, cosa avesse dovuto subire. Cosa avesse dovuto provare nella sua vita per comportarsi in tal modo.
Che Henry avesse ragione? Doveva iniziare un'indagine?
Non era quello il momento di pensarci.
―Oh mamà, sono qui io, sono qui io. Calmatevi, guardatemi, nulla vi succederà di brutto.― Continuava a ripetere lui mentre la donna sussurrava a denti stretti “Bastardo, bastardo, bastardo...


Spazio scrittrice:
Eccomi qua!
Il nuovo capitolo di Cortocircuito è stato pubblicato prima che l'anno finisse hahahaha, dovreste essere fieri di me!
Piccola avvertenza per il XIV CAPITOLO:
Potrei stupirvi!
Ora, ritornando a questo qui, ho solo una cosa da dire: Viktor è un gran-... no, scherzo.
Ho da dirvi grazie, a tutte le persone che hanno iniziato a seguire di nuovo Corto e quelle che sono rimaste senza mollare, e ancor di più a coloro che seguono in silenzio, spero di compiacervi!
Lasciate se volete un commento! Sapete che è sempre gradito, che capisco la poca affluenza dato che ho lasciato la storia a marcire per ben cinque mesi, ma... adesso ci sono, e ci siete anche voi!
Un paio di avvisi amorevoli:
CORTOCIRCUITO SU WATTPAD! http://www.wattpad.com/story/28432757-cortocircuito
E UN GRUPPO PER VOI LETTORI! (tutte le newsss quiii! Tutti gli spoiler! Tutto, tutto, tutto! Non lasciatemi da sola u.u) https://www.facebook.com/groups/739028276178619/?fref=ts

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Capitolo 14
*** XIII- La pazzia umana. ***



La pazzia umana.

T
ra la diversità e l'uguaglianza, nasce un fiore che splende più del sole e guarda la sua vita passargli davanti talmente velocemente da togliere il fiato.
Le sfumature dell'alba erano ormai quasi scambiate su quella grande tela azzurra cielo e le nuvole camminavano come pecorelle al pascolo in cerca di pace e di un momento di pausa, cosa che il vento impediva.
La grande Winslow Hall era immersa in un caloroso abbraccio del sole e baciata da una tiepida temperatura che, dopo giorni di freddo e burrasche interminabili, risultava un toccasana per tutti coloro che vivevano lì, sia i grandi che piccini.
Le cucine erano un turbinio di indaffarato cibo che veniva cotto a metà o servito crudo, le cuoche erano alle prese con interminabili menù del giorno che facevano girar la testa a chiunque, le cameriere invece erano stufe come non mai di dover pulire la casa da cima a fondo. Era diventata insostenibile l'aria che aleggiava intorno a loro. La famiglia Griffiths era formata se non altro da un branco di barbari che stracciavano le lenzuola, mangiavano troppo e sporcavano dappertutto; d'altra parte Mr Jenkins trovava che tutto ciò fossero delle sciocchezzuole e che il personale si stava lamentando davvero troppo ed era persino pronto a sostituirlo nel caso gli fosse parso necessario.
Era passata più di una settimana dal ballo, forse dieci giorni, ormai nessuno più teneva conto del tempo, c'era troppo da fare! Troppo da mettere in ordine! Troppo da stendere, lavare, cucire, pulire, cucinare, intraprendere, aggiustare, rompere, scherzare, compiangersi addosso, vivere. La colazione era stata servita un'ora fa e Wendy si era svegliata da non più di dieci minuti. Aveva addosso una vestaglia color avorio che le scendeva fin oltre ai piedi ed era così aderente che non poteva proprio uscir dalla stanza, e se avesse incontrato George? Che Dio ce ne scampi! Non voleva affrontare il suo sguardo di prima mattina, così tremendamente assonnata e per nulla pronta a un simile trauma psicologico; per questo Sheila presto salì con un vassoio fumante che conteneva una cioccolata calda, del tè, un cornetto, fette biscottate, marmellata, latte caldo e freddo, caffè tiepido e una gran bella porzione di burro sfuso. Quando Wendy si ritrovò davanti tutta quella roba, faticò molto a non arrossire e si sentì gli occhi della governante fermi sul suo corpo e diligentemente aspettava che mangiasse, tutto.
―Dove sono le uova ed il bacon, Sheila?― Non riuscì a trattenersi la ragazza e la governante, visto che mai aveva ricevuto battutine vagamente ironiche sul suo operato da parte della rossa, era già pronta a scender nelle cucine per prendere ciò che le era stato chiesto ma Wendy, ridendo debolmente, la trattenne nella stanza: ―Ti prego, non farlo. Stavo solo scherzando; sai che non mangio tutto questo buon cibo e sprecarlo è un gran peccato.― Sheila arrossì e le disse che aveva bisogno di mettersi in forze, che quella voce debole proprio non le piaceva ed aveva un viso tanto lentigginoso che adesso pareva pallido, le lentiggini parevano pallide! No, non era possibile e con raccomandazioni che superavano ogni cosa, la governante fu cacciata gentilmente dalla stanza.
Wendy, come spesso era solita far la mattina, prese il tè e lo buttò nel vaso delle azalee, spezzò un po' di fette biscottate e le sbriciolò, ma non toccò cibo. Né quel giorno, né in quelli che erano già venuti.
Indossò un abito chiaro, di un colore che nemmeno lei sapeva specificare e lasciò che le fantasie disegnate su tutto il corpetto, le dessero un po' di allegria in quella che si prospettava una giornata terrificante.
O forse no? George sarebbe partito quel giorno per Londra con Elizabeth, e si era svegliata così presto per presentarsi adeguatamente al suo addio. Lo avrebbe rivisto forse in primavera, quando le giornate erano costantemente calde, il sole si nascondeva ma non privava del suo tepore. S'era svegliata così presto per tante cose, ma soprattutto perché Henry, un paio di giorni prima, le aveva domandato se avesse incontrato Daniel; non usciva dalle sue stanze dalla fine del ballo e questo stava preoccupando il giovane ragazzo. Wendy lo aveva rassicurato, dicendogli che forse s'era ammalato di un brutto raffreddore e che voleva stare un po' da solo, come i poeti fanno nel pieno della loro vena ispiratrice.
La verità che a lei poco importava di quell'uomo, di cosa facesse e perché non si fosse fatto vedere; certo, era una persona interessante, intrigante quasi, ma lei ormai aveva in programma ben altre cose. Il padre avrebbe parlato con George quello stesso giorno, prima che se ne andasse, avrebbero dovuto fissare la data del loro fidanzamento ufficiale e poi, chissà, forse per la fine di quello stesso anno si sarebbero sposati, o forse avrebbe dovuto aspettare altri anni, alla mercé di un uomo sempre indaffarato nella gran città.
Con tali pensieri, e anche perché il suo buon animo non riusciva a ribellarsi, tolse le briciole di fetta biscottata dal vassoio, si legò i capelli con un fermaglio malandato, e prese la sua colazione per portarla al poeta sconosciuto.
Le stanze da letto si trovavano sullo stesso piano, e per esser più precisi, quella di Daniel Shaw era situata alla fine del corridoio, molto lontana da quella di Wendy.
La rossa si diresse circospetta, mantenendo il vassoio con entrambe le mani e stando attenta a non inciampare nelle sue stesse pantofole.
Giunta davanti alla camera, per qualche secondo cercò l'equilibrio adatto e poi bussò, un paio di tocchi con le nocche, veloce e discreta, come solo lei riusciva a fare con due battiti.
Ma nessuno la rispose e lì Wendy pensò che ci fosse qualcosa che non andava, che forse Mr Shaw si trovava morente nel letto, che non aveva forza di parlare, che era nel pieno della sua vena quindi e stava scrivendo i più bei versi che i critici avessero mai letto in vita sua!
Bussò nuovamente, con più enfasi, un'enfasi che poteva nascondere una certa preoccupazione ma neanche questa volta la giovane dai capelli fulvi ricevette risposta e allora, con ancora della discrezione, girò la maniglia e spinse la porta con lentezza disarmante.
―Mr Shaw... posso?― Aveva la voce roca e alcune ciocche di capelli le ricadevano sul viso spigoloso, ma quando si decise a fare il primo passo nella stanza, non vide nessuno. Perché non c'era nessuno.
―Mr Shaw è qui?― Si sarà nascosto? Entrò del tutto, la porta spalancata e subito un odore di tabacco, di chiuso e di sudore le impregnò le narici. Si avvicinò alla scrivania e vi ci poggiò il vassoio. Che fosse scappato? Dio, e perché mai avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Lei non riusciva a trovare una soluzione plausibile, ma cosa ancor più grave, che ora la scombussolava ogni secondo di più, dalla testa ai piedi, con finta disarmonia, era l'odore, la stanza, tutto ciò che c'era all'interno. C'era un'attrazione del corpo, fiato che le mancava, un luogo invalicabile.
Per un attimo pensò pure ch'era entrata in un tempio sacro e che aveva appena commesso un sacrilegio indicibile. Tutto ciò in quella stanza, compresa l'aria, l'attraeva, la divideva, le dava e le toglieva tutto quello di cui possedeva.
―Ma dove sarà...― si domandò febbrilmente, lasciando lo sguardo vagare sulle lenzuola buttate sul pavimento, sullo specchio della stanza ridotto in mille schegge, alcune erano persino rosse, rosse sangue e ciò spaventò Wendy che decise di andarsene, ora o mai più.
Ma non ce la fece, qualcosa la trattenne, qualcosa ch'era più forte della gravità, dei sentimenti, della verità, della vita stessa: la curiosità.
Forse fu il destino? Forse fu l'odio? C'è da dire che i suoi occhi così profondamente verdi, si posarono sulla scrivania nuovamente e fogli ingialliti, scribacchiati, stracciati, strappati, osceni, la colmavano, eppur c'era qualcos'altro, una parola che risucchiò il suo essere in indicibili domande, in indicibili istanti. Le sue tremule mani si fermarono con forza inesistente sul foglio e lo strapparono avidamente da sotto il vassoio.
C'era un titolo quindi, un titolo di una poesia che distrusse e rianimò un nuovo animo, aprì gli occhi di Wendy e valicò i limiti massimi: Erato.
Si chiamava proprio così quella poesia e non riuscì a fermarsi, le pupille scorsero il foglio, su ogni singolar parola e la fece sua.
E quel rosso, quel rosso che sprigiona l'anima,
Annaspò.
la mia, la tua, la nostra.
Si sostenne alla scrivania.
Il candore delle gote si insinua nei miei brividi e la paura di possedere un briciolo di una falsa identità, stringendo, amando, illudendo.
Brividi immensi ancor più, quando gli occhi si inflissero sulle ultime parole della prima strofa:
Se solo potessi, se solo facessi, almeno amerei.
La rilesse almeno dieci volte, ed in ogni dove scorgeva una sfumatura nova, leggiadra, che schiacciava, schiacciava, schiacciava.
Ma prima che andasse oltre, prima di immergersi nel vero Erato, nella vera essenza, la sua essenza, sentì passi di piedi nudi che subentravano nella camera.
E si girò, così violentemente da rimanere ancor più scossa, presa in flagrante col foglio in mano dal poeta di tal poesia che ora era davanti a lei, in uno splendore nuovo.
Si coprì la bocca tremante come una foglia, e percorse il corpo dell'uomo con uno sguardo fugace: era nudo, nudo come non mai. Il fiato adesso non l'aveva più, era un'anima vagante con le guance in fiamme e le gambe molli. Oh Dio, salvala!
―I-io...― come poter parlare in una situazione tanto delicata? I capelli lunghi e neri di Daniel erano tirati indietro; il suo corpo nudo fremeva ad ogni suo sguardo, ad ogni suo tentativo di parola, ad ogni secondo che passava con il foglio di Erato nelle mani della sua Erato.
―Oh...― gemette, Wendy notò la porta semichiusa e il giovane poeta che le si avvicinava, con le labbra semiaperte, gli occhi ricolmi di strani pensieri e non riusciva neanche per un secondo a fermarsi sul sesso dell'uomo.
―D-dov-vreste c-coprirvi. I-io s-sono... q-qui p-...― ma non ebbe modo di concludere il suo primo pensiero, Daniel ormai distava di un solo passo ed espresse con una voce roca e pieno di rammarico, con occhi scuri e cerchiati da occhiaie: ―Sono io, Wendy. Sono io.―
La giovane avvampò ancor di più sentendo il suo nome pronunciato da lui, non aveva timore del suo sguardo, del suo viso sciupato, del suo corpo da uomo.
―I-io non c-capisco. Chi sei... tu?― biascicò e, in un batter d'occhio, Daniel le bloccò le braccia, il foglio cadde sul pavimento ed il corpo di lui si strinse a quello di lei, così tanto da non poter nascondere i pensieri a riguardo.
―Sono io, Wendy, sono io.― ripeté mentre le sue labbra si fermavano su quelle di Wendy ed una elettrizzante scossa scuoteva ad entrambi.
Sentì il sapore del brandy tra le labbra di Daniel, sentì la passione sfusa mentre le sue braccia la circondavano e la stringevano delicatamente a sé. Era imbarazzata, forse stava baciando un ubriacone ma... per un attimo ritornò alla sera del ballo, a tutto ciò che aveva vissuto, a quella stessa elettrizzante scossa, ai suoi sentimenti. Non c'erano più maschere che proteggevano i propri corpi. Non c'era più nulla.
Daniel si staccò, il suo viso era amaro, nascondeva un dolore interiore pari al peso di un montone.
―Sei tu la mia musa.― Lacrime vere solcavano il viso di Wendy.
L'imbarazzo di lei sciamò in un attimo, ciò che provava divenne cemento e ogni secondo che passava, si sentiva sempre più pesante. Avrebbe voluto piangere copiosamente, avrebbe voluto picchiare Mr Shaw e sfogare la rabbia e violenza repressa che viveva dentro di sé da troppo tempo.
Come aveva potuto tradire George? Come aveva solamente potuto pensare ad un altro uomo, lasciarsi baciare da un altro uomo? Come aveva potuto guardare un altro uomo nudo? Questo era adulterio e lei non era neanche sposata! La sua indole ora era macchiata irrimediabilmente ma purtroppo il cuore continuava a batterle con energia, così come mai aveva fatto in vita sua.
Le mani frettolose, quelle di un poeta, curate e per nulla callose, si insinuarono tra le scapole e sciolsero i primi lacci del corpetto, con un po' di impaccio. Quando Wendy lo sentì allentato abbastanza da farlo cadere sul pavimento, lei stessa non si ritrovava con i piedi per terra. Non aveva idea di cose stesse succedendo, era tutto un turbinio di emozioni, di quelle che ti colgono all'improvviso e sconvolgono il tuo animo senza alcun ritegno.
La gonna di quel vestito che non aveva colore le cadde da dosso come una piuma levigata e le mani di Daniel si fermarono sui seni mentre la spingeva verso il letto; la sua bocca cercava quella di lei con una smania intollerabile, le sue gambe adesso erano intrecciate a quelle di Wendy e non c'erano parole che potessero fermarli.
In quei brevi istanti, colmati dai fruscii della sottoveste e dal reggipetto che cadeva dietro il letto a baldacchino, Wendy non poteva fare a meno di pensare che non conosceva Mr Shaw, o meglio, forse lo conosceva più di tutti, ma che alla fine era uno sconosciuto.
Sconosciuto! Sconosciuto! Non c'era niente di sconosciuto in loro, c'erano i versi della poesia che le strapparono un gemito mentre Daniel le mordeva il collo, scendeva lungo il petto, fino ai seni e lasciava che il sesso premesse contro quello di lei, ancor coperto dai mutandoni.
―Cosa stiamo facendo?― Fu un sussurro di lui mentre ritornava a baciarla con foga, e i mutandoni venivano spostati senza grazia e Daniel le guardava il viso, forte, come un avvoltoio, e Wendy tratteneva il respiro; avrebbe dovuto dir di no, avrebbe dovuto dare un sonoro schiaffo a Daniel, si sarebbe dovuta opporre. Ma di cosa stavamo parlando adesso? Della sottomissione? Del fatto che non sapesse negare un qualcosa ad una persona? O stavamo parlando di una trasgressione? Di un volere profondamente spirituale?
Wendy non aveva risposta, ma non le importava, aveva smesso di pensare tempo fa, aveva dato tutto alla vita, alla convenzione, alla perfezione e al perbenismo di se stessi, ma adesso, con tutto il cuore, basta!
Sento il bivio che arriva― recitò ed allargò le gambe, perché l'istinto questo le diceva.
―Non aver paura, Wendy.― Annaspò Daniel tra l'incavo del suo collo.
Wendy sentì qualcosa, ma non sapeva bene dire cosa, era certa che così avrebbe perso per sempre la sua virtù e non c'era uomo che gliela avrebbe ridata, e non c'era più uomo che gliela avrebbe tolta.
e la fine prostrarsi tra il giusto e lo sbagliato. ― Tremava adesso e si ritrovò ad ansimare, a percepire un bruciore al basso ventre, un bruciore che diventava sempre più piacevole, un'eccitazione nuova.
Tra la scelta e la perdizione.― Urlò, qualcosa era entrato dentro di lei e la colmava come mai prima d'ora.
Daniel cominciò a muoversi con scatti rigidi, scatti che le davano un immenso piacere misto ad un pizzico di dolore, scatti ch'erano incendiati di un amore esasperante, mugugnò, spinse la testa di Daniel tra i suoi seni, voleva sentirlo di più, con un fervore nuovo, con una smania che cresceva di volta in volta.
Le braccia del giovane le circondarono la vita e l'alzarono, inginocchiati sul letto, uno di fronte all'altro, con i capelli ingarbugliati, i respiri affannati, gli occhi che luccicavano, il piacere che andava via via crescendo, lasciando nel corpo di Wendy un'inspiegabile maturazione. I seni alti e sodi venivano torturati da lui, e la ragazza cercò il suo petto, accarezzò i peli e scese lungo l'ombelico con l'esili mani, finché il poeta non le liberò i capelli dal fermaglio, non diede una spinta più decisa e sentì la sua amata tremare ancor di più, senza fiato in corpo, totalmente inerme, totalmente sua.
―Continua...― La voce di Daniel era ancora più roca, ancora più lontana, e tutto sembrava un viaggio senza fine.
Se solo potessi...― ansimò, e strinse il suo amante, lo baciò con foga e si lasciò sedurre come mai era stata sedotta.
Se solo facessi...― sentiva il limite, la fronte imperlata di sudore, l'impeto, i bacini che ad ogni movimento parevano di raggiunger la cima, di aver scalato la montagna.
E quando giunse finalmente l'attimo in cui Wendy Jenkins, la giovane e precaria ragazza, dalle mille sfaccettature, da tutto ciò che nulla era stato immaginato, venne per la prima volta e vide un mondo nuovo, un mondo fatto di ipocrisia, di magnifici poeti, di uomini che amano ma solo in luoghi terrestri, uomini che rubano la vita e la riconducono in un tunnel buio, lei urlò con tutto il fiato che aveva: ―almeno amerei.
―La mia Erato, la mia Erato...― sussurrava Daniel mentre l'accarezzava rimanendo dentro di lei, continuando ad amarla e i loro occhi si fondevano nell'ultimo bacio di una castità perduta.


Aveva cresciuto, amato, consigliato, accudito, curato fino allo sfinimento tutti i figli di Mr Jenkins. Mai una volta s'era comportata male nei loro confronti, li voleva bene come creature sue, anzi, le considerava come tali.
Sheila era una donna vecchia, che non comprendeva più il mondo dei giovani, che non riusciva più a stare a passo coi tempi. Preferiva la sua epoca, quella di quarant'anni prima, dove tutto era più rigido, dove nulla si dava per scontato, dove le ragazze erano totalmente immerse nei loro doveri, nelle loro attese, e l'unica che assomigliava di più a quel vecchio stereotipo di donna era Wendy, o almeno lo credeva, a differenza di mss Katherine.
Ricordava i momenti in cui le pettinava i capelli rossi quand'era ancora una fanciullina e già da allora rifiutava il cibo, ricordava quando le infilava i vestitini francesi portati dal padre e le raccontava poesie della sua infanzia nel letto, insieme a Katherine, la piccola Kath.
Ricordava tante cose, e credeva di conoscerli, di conoscerli tutti, di avere la coscienza e il cuore pieni di loro, credeva di poter ancora accudirli, impartirli le buone usanze, di sapere come e quando comportarsi.
Sheila era a conoscenza anche dell'omosessualità di Henry, e non fu qualcuno a svelarglielo, ma la sua esperienza, il suo amore, la conoscenza di quel ragazzo che tanto adorava, sia prima che adesso.
Certo, aveva sempre avuto un debole per Katherine, ma lei non lo considerava un debole, credeva più che altro che la ragazza avesse più bisogno del suo aiuto, della sua disciplina.
Sheila era una gran donna, una di quelle che sa cosa fare, sa come tenere una casa, avere dell'ordine, comunicare con i suoi padroni, con gli ospiti che arrivano e se ne vanno.
Sheila era il tutto, un perno fondamentale, un pilastro, una madre.
I suoi occhi erano di un nocciola profondo, i capelli erano striati d'argento e raccolti in una severa crocchia, il suo corpo era mingherlino, basso e tramava tutto, come una foglia, in preda ad un'uccisione, un'uccisione vera e propria.
La sua mano tremula era ferma sul pomo della porta socchiusa, il suo sguardo percorreva quei corpi che si erano uniti nell'amore e che ansimavano, osavano ansimare.
Si guardavano, erano occhiate d'intesa, un qualcosa che la disgustò completamente; dovette appigliarsi al muro, alla forza del muro e cercare di distogliere lo sguardo, di non dare retta a quel dolore lancinante che andava crescendo nel petto.
Non era possibile, pensava, non è possibile!
Quella chioma fulva, quel corpo mingherlino e bianco latte che aveva lavato mille volte, quell'innocenza che ora non c'era più e nulla gliela avrebbe restituita.
Nel corpo della governante ora dominava l'ira, l'impotenza, l'imbarazzo, il disgusto e la presa in giro. Si sentiva una madre tradita, una donna disabilitata dai suoi compiti e non riuscì a stare lungamente dietro quella porta, non riusciva a guardare il poeta dell'est che s'impossessava della sua piccola Wendy, che la toccava dappertutto e la bramava disastrosamente.
Non poteva permettere una cosa del genere, non poteva dare libero spazio ad una sciagura del genere! Una sciagura che si sarebbe abbattuta su tutti i Jenkins, sul suo padrone, la sua ancora di salvezza.
Si girò, distolse gli occhi riluttante e corse, corse come non lo faceva da anni, le gambe rallentarono l'andatura molto presto, il corridoio venne attraversato con le lacrime agli occhi ed il fiatone a mille, le scale divennero un ostacolo intramontabile e mentre la fuga, la voglia di recarsi in biblioteca, l'amarezza che l'attanagliava tutta, s'impossessavano di lei, perse l'equilibrio, inciampò nelle sue stesse scarpe nere che le erano state consegnate trentacinque anni prima e ruzzolò su tutti e venti scalini, la testa batté pesantemente, non comprese subito cosa le stesse accadendo ed il suo ultimo pensiero fu: “VERGOGNA!”
Mr Jenkins uscì di corsa dalla biblioteca, allertato dal rumore, e scorse il corpo inerme della sua fedele alleata in una pozza di sangue, ai piedi delle scale.
―Sheila!― Urlò l'uomo, catapultato in un'angosciante situazione.


Il viottolo di Winslow Hall era stato ricoperto con del cemento, le carrozze vi si sostavano nei giorni festivi ed era un passaggio onorevole per chi volesse uscire ed entrare in quella villa.
Il vestito di Katherine era di un azzurrino leggero, merlettato di bianco, che le stringeva il busto e slittava sulla sua figura davvero carinamente. Aveva il passo affrettato ed un sorriso nuovo sulle labbra, un sorriso che nascondeva una voluta felicità. Al suo fianco c'era Joseph, con i suoi capelli fluenti e un gessato nero, con un panciotto fantasioso davvero originale. Il ragazzo guardava l'orologio a taschino mentre con un orecchio ascoltava il blaterale di Katherine, che quel giorno era davvero di ottimo umore.
Appunto, per quell'umore nuovo, ci si poteva appigliare a molti avvenimenti. Era passata più di una settimana dal Ballo e dal ritorno di Viktor Mitchell, i due avevano ripreso ordinariamente le loro lezioni e si ritrovavano metà giornata rinchiusi nello studio per uno studio diligente. Si poteva dire che Katherine stesse apprendendo in fretta e che non aveva nessuna intenzione di far imbestialire il suo precettore, ma qualcosa di losco permeava in lei.
All'inizio aveva odiato quell'uomo perché era un uomo e perché aveva perso un'insegnante più che valida, adesso ce l'aveva con lui perché aveva osato sedurla, l'aveva maneggiata, o almeno così credeva, e non voleva mollarla più.
Quindi, come ben potete immaginare, era arrivata alla conclusione che per far risvegliare Viktor Mitchell, un precettore ch'era pronto a fare la prima mossa ma che non aveva il coraggio di proseguire, ci voleva qualcosa di forte ed innocente, qualcosa che non desse troppo nell'occhio.
Era mattina presto, il signor Mitchell faceva cinque ore di viaggio per raggiungere Winslow Hall ogni giorno e lei era sicura che proprio di lì a qualche minuto, sarebbe comparso con la sua carrozza.
―Ma cosa trovate di tanto interessante nell'orario?― Joseph arrossì e posò l'orologio, per nascondere del divertimento con un sorriso sincero.
I due continuavano a frequentarsi periodicamente dopo le lezioni di lei; giocavano a dama, scacchi, facevano lunghe passeggiate nel giardino, prendevano il tè, si dilettavano in conversazioni gradevoli riguardanti gli ospiti della villa e avevano in programma anche delle escursioni da fare.
Quel giorno dunque avevano deciso di far visita alla famiglia Boudès.
Viveva in una villa non più grande di quella di Winslow Hall a pochi isolati da quest'ultima e dopo aver avuto una conferma del loro incontro, erano decisi di incontrare la famiglia, formata da due vecchietti imperiosi ed una giovane ragazza che Katherine ricordava paffutella e timida, come uno scoiattolo.
―Nulla, nulla, Kath.― Rispose Joseph.
Katherine in quei giorni aveva scoperto anche l'adorabile presentazione di Joseph, il suo portamento, il parlato e i discorsi che intraprendeva. Erano sempre molto pertinenti, per nulla ovvi, che incantavano l'attenzione di lei e la lasciavano di stucco.
Era per certo ammaliata e non solo, anche contenta di un'amicizia che non credeva possibile; alle volte le dispiaceva usarla per quei loschi piani, ma dava comunque la colpa al suo precettore, era lui il problema, lei non poteva farci nulla, non più di tanto almeno.
―Sbrighiamoci allora, sapevate che Mrs Boudès ci ha chiesto di fermarci a pranzo? È tanto amabile quella donna, eppure non l'avrei mai detto a prima vista.―
Joseph le sorrise e strinse il braccio di Katherine intrecciato al suo.
―Me l'avrete ripetuto mille e una notte. Non state così tesa.―
Katherine gli diede ragione e continuarono ad interloquire degli alti e bassi, come due vecchi conoscenti.
Proprio quando avevano raggiunto la carrozza, i cancelli si aprirono per farne entrare un'altra e lì Katherine ebbe una nuova certezza.
La berlina era oscurata ma gli occhi del precettore si erano fermati dal principio sul corpo della sua allieva e dopo che il cocchiere avesse percorso cinque metri dall'entrata, lo fece fermare con una sonora martellata di bastone.
Viktor scese claudicante, un po' arrossato in viso e con i vestiti mal conciati. Aveva un aspetto pietoso: i capelli tirati all'indietro drasticamente, tenuti a bada da un volgare codino, la giacca era stropicciata in più punti e gli occhi arrossati.
Se non fosse che lo conoscesse, Katherine avrebbe osato dire che forse era ubriaco.
―Non mi avevate assicurato che il vostro istruttore era al corrente di questa escursione, oggi?― Accusò immediatamente Joseph. La ragazzo lo guardò, e notò del terrore velato.
Joseph aveva paura di Viktor, e la cosa la elettrizzante in una maniera pazzesca. Più del dovuto.
―Certo, ora glielo riferirò. Non agitatevi, Joseph, non agitatevi.― Lo ammonì lei, sciogliendosi dall'abbraccio ed avvicinandosi alla figura dell'uomo.
―Cosa state facendo?― La voce di lui era forte, come sempre, ma la donna non si lasciò scoraggiare ed abbassò il capo, facendo una reverenza, una di quelle che contrapponeva tra loro ancor più gelo.
―Mr Mitchell, dovete scusarmi! Scusarmi come non mai, davvero, non era mia intenzione essere così sbadata e sciocca, lo ammetto. Ho dimenticato di avvisarvi che oggi le lezioni non si sarebbero tenute. Io e Joseph Griffiths siamo stati invitati dai Boudès e rifiutare adesso mi risulta impossibile.― La voce petulante di lei diedero fastidio alla mente offuscata di Viktor.
Non voleva sentire ragioni, non voleva proprio sentirle, era in una bolla di sapone, le parole gli pervennero ovattate. Aveva un mal di testa imperiale, uno di quelli che vengono una volta nella vita.
―Era consono avvisarmi precedentemente, si può essere più scostumati, miss? Quand'è che imparerà le buone maniere? Per una volta tanto, perché non cerca di essere una ragazza di normale intelligenza e non sottostare al parametro comune?― Biascicò, gli occhi socchiusi, la fronte corrugata, le labbra strette, il maglione nero sotto il cappotto che gli accollava il collo.
Katherine abbassò gli occhi sul cemento, poi guardò Joseph e sospirò come se si fosse illusa di avere una risposta cortese per una volta.
Strinse forte le mascelle, fino a farle tremare, come se si trovasse sull'orlo di un pianto e disse, sussurrando: ―Mi dispiace Mr Mitchell, più di questo non posso dirvi perché altro non ho a disposizione.― E voltandogli le spalle, sculettò fino alla carrozza, superò Joseph e gli lasciò credere che si stesse asciugando una lacrima.
Viktor aveva un ghigno disgustato sulle labbra perché lui capiva sempre tutto, ma il giovane Griffiths vi si avvicinò e indurendo i suoi lineamenti, in un moto di coraggio gli disse:
―Siete un un villano, perché non imparate voi l'educazione ed il buon rispetto per una signorina? Mi chiedo come Mr Jenkins abbia potuto assumere una persona tanto inappropriata.―
Viktor rise, perché gli parve la cosa più ovvia da fare: deriderlo.
Un bamboccio che cercava di farsi bello agli occhi di Katherine e che sputava sentenze perché era figlio di papà, perché non sapeva nulla della vita e perché il suo perbenismo e la sua buona indole non gli permetteva di guardare oltre le persone, di conoscere quindi la sua amica, meglio di quanto credesse.
―Attento, ragazzo.― Digrignò.
Joseph scosse la testa ma non lo rispose più, si allontanò evasivamente e salì sulla carrozza che lo attendeva.
Viktor dal finestrino vide la sua allieva che abbracciava il ragazzo coraggioso e nel suo stomaco tante spille lo punsero.
La carrozza presto sparì al di fuori del cancello e Viktor fu indeciso se entrare in casa o meno. Il mal di testa gli impediva tutto, anche di vedere chiaro in questa faccenda, a malapena ricordava le parole che aveva pronunziato a Katherine.
D'improvviso però una cameriera giovane e dai capelli corvini uscì correndo dal retro e si diresse verso il viottolo principale, dove proprio lui si trovava.
―Mr Mitchell! Mr Mitchell! La governante è caduta dalle scale! È morta, è morta!―
Quelle parole riecheggiarono nell'aria per secondi interminabili.
Morta?


Spazio scrittrice:
So cosa state pensando: "È pazza."
In effetti sarebbe anche inerente al titolo del capitolo e non posso negare che forse la pazzia umana era riferita a me in primis.
Scioccati? Divertiti? Delusi? Nel dubbio, vi dico un paio di cosette.
La prima è che questo capitolo non è stato un parto ma un vero e proprio istinto, un istinto animale che doveva esserci. Non ho deciso io, la decisione è stata presa da Wendy! E beh, porella, se ha così scelto...
Inoltre, vorrei capire se le descrizioni che sono solita scrivere vi annoino. Insomma, io scrivo, scrivo, scrivo... i dialoghi sì, ci sono, ma tutta questa introspezione dei personaggi? Vi piace? Ah beh, vorrei proprio capirlo.
Prima che abbandoniate la storia perché è troppo "machecacchiettohaifattoVè!", vi mando un bacetto bacettino, la seconda cosa non ve la dico perché non c'è e quindi nulla, al prossimo aggiornamento che arriverà il prima possibile!

Un paio di avvisi amorevoli:
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E UN GRUPPO PER VOI LETTORI! (tutte le newsss quiii! Tutti gli spoiler! Tutto, tutto, tutto! Non lasciatemi da sola u.u) https://www.facebook.com/groups/739028276178619/?fref=ts

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Capitolo 15
*** XIV- L'interpretazione della morte. ***



L'interpretazione della morte.

C
'era la sua aura in quella stanza, un'aura che poteva esser definita negativa se si prendevano in esempio alcune circostanze della medesima situazione, ma poteva esser considerata altrettanto in modo positivo, se vi si guardava da un punto lontano, un punto fuori luogo che sapeva esattamente dove cogliere le sfumature azzurre e bianche in quel nero opprimente.
Le tendine dello studio in legno erano state chiuse violentemente e malamente, le finestre fragili riflettevano una luce tenue e l'uomo era stravaccato su una delle poltrone presenti, con un bicchiere di scotch tra le mani salde e le gambe divaricate, uno sguardo perso nel vuoto, il puzzo dell'alcol di prima mattina, i capelli che si scompigliavano sulla fronte e la cintura sbottonata, come i bottoni della zip dei pantaloni ricamati a mano.
C'era qualcosa nel suo sguardo, in quella brutta posizione, tra le costole e i polmoni ed il cuore che batteva ritmicamente; qualcosa che poteva esser considerata gelosia, oppure una sbronza di prima mattina.
I polpacci gli dolevano, aveva corso tanto e forte, come una lepre a caccia, in cerca di un nascondiglio che si era rilevato nella realtà il dottore della grande contea del Buckinghamshire. Dove trovava un medico di prima mattina con quella faccia da mascalzone arrabbiato nero? Sì, perché lui era arrabbiato nero, forse come mai lo era stato in vita sua e si sentiva ferito, come un cane bastonato dal suo padrone.
Si sentiva anche così sciocco! Con quello scotch che gocciolava sui polpastrelli e poi sul pavimento, che veniva inghiottito con forza e trangugiato pesantemente, lasciando una gola infiammata, più dei pensieri stessi.
Il medico era corso senza troppe cerimonie, aveva fatto la sua entrata a Winslow Hall con un'aria altezzosa, di quelli che sanno troppo della vita e che alla fine uccidono inconsapevolmente.
―Mio dio Frank! Sono scioccato, scioccato come non mai... non so cosa sia accaduto, non lo so proprio. Guarda, guarda, ho il cuore che batte energicamente e le mani che tremano! Mamma mia, che spavento, che spavento che ho!― Mr Jenkins delirava, delirava perché forse era l'unica cosa buona che sapeva fare nei momenti di panico, o forse perché solo quello aveva fatto per tutta la vita, delirare coi figli, gli amici, in politica, tra le case della gente, nelle strade, a lavoro, mentre leggeva un giornale o si rivolgeva a Sheila, la cara e dolce Sheila!
―Dov'è, Ernest? Dopo mi spiegherai l'intera dinamica, adesso è meglio correr da lei. Non aspettiamo troppo, meglio non indugiare sul latte versato.― L'aveva quasi sussurrata l'ultima frase ma Viktor aveva occhi da falco e orecchie... orecchie di qualche altro animale; l'aveva udito senza troppo sforzo ed ora seguiva i movimenti dei due che si apprestavano ad entrare nel grande studio dove il corpo di Sheila era stato poggiato sul tavolo in legno, e in quel momento il precettore s'era chiesto, semmai la donna fosse morta veramente, che sepoltura le sarebbe stata data.
Non indugiare sul latte versato! Ma quale latte versato? Viktor non sapeva affatto cosa fosse successo, la dinamica gli era totalmente oscura.
Presto venne affiancato dalla cameriera di poco prima che lo osservava con un timore gentile negli occhi.
―Desiderate qualcosa signore? Dovete perdonarmi... perdonarmi davvero, non sono una governante io, di queste cose non capisco e non comprendo manco come facesse la buona Sheila a tener tutto sotto controllo. Devo salir sopra per avvisare i signorini e se lei ha...―
Venne messa a tacere con un leggero colpo della mano sulla spalla e l'attenzione di entrambi fu colta immediatamente dalla comparsa di una cresta rossa fiammeggiante, un po' scombinati e, se così poteva osar pensare, travolti da una tempesta interiore.
―Mss Jenkins! Mss Jenkins s'è alzata adesso? Volete che vi porti una tinozza d'acqua calda per lavarvi? Oh... ma voi non sapete...―
―Cosa è successo?― Domandò fievolmente stringendosi la vestaglia al corpo; Viktor lo percorse silenziosamente e notò un tremolio che l'attanagliava come un mal di pancia.
―Signorina.― la voce perentoria dell'uomo infuse un attimo di calma.
―Signorina non credo che dobbiate allarmarvi. Sheila, la vostra governante, ha avuto un malore, roba da niente, vestitevi e potrete accettarvi voi stessa della sua salute!―
Oh sì, che poteva esser persino la morte, questa cara salute.
Aveva messo su un teatrino di speranza in un batti baleno e come era facile farlo credere alla gente, perché quest'ultima era malleabile come il cielo limpido di un giorno d'estate. La gente preferiva i fatti raccontati e risolti da sé, non voleva esser angustiata con una notizia che probabilmente l'avrebbe mortificata e scioccata allo stesso tempo; l'equilibrio mentale di Wendy Jenkins d'altronde sembrava anche abbastanza precario quel giorno.
―Corro a vestirmi!― Allora disse e scomparve all'interno del corridoio. La cameriera giovane, di nome Kelly così come appurò poco più tardi, continuava a ciarlare su cose che a lui poco interessavano.
Era da quando aveva lasciato la sua Berlina sul ciottolo di casa, da quando era corso dal medico ed aveva parlato a così tanta gente, che non aveva avuto neanche mezzo secondo per deprimersi, deprimersi pesantemente perché Katherine era scomparsa all'interno di uno scompartimento con un uomo, se proprio bisognava descriverlo in tal modo, del tutto inetto!
Doveva esser sincero? Completamente? Come mai era stato fino ad allora? Beh, difficile a dirsi ma le sue budella, in quel preciso istante, erano contorse in una morsa di dolore terrificante, un dolore che cresceva, cresceva, cresceva, perché, dannazione, stava fallendo! Fallendo come un pollo! Fallendo perché doveva capitarci una stupida ragazzina anticonformista con lo sguardo impettito ed il culo all'insù.
Si sentiva volgare e sporco dall'anima proprio, ma non gliene fregava più.
Perché era così adirato? Si domandava ancora e torturava se stesso ogni secondo di più, non aveva chiuso occhio quella notte, era stato vigile per tanti motivi, il sonno lo aveva allarmato ma non sconfitto, i pensieri fugaci lo avevano messo a tacere e si sentiva tremendamente impazientito.
Impazientito da cosa? Da quello che provava e non voleva, non poteva spiegarsi cosa fossero quelle emozioni!
Entrò nel suo studietto, aveva gli occhi lucidi e la gamba adesso gli faceva male, male per davvero, un dolore non tanto fisico, ma interno che lo spingeva ai limiti dell'uomo.
Per questo adesso si ritrovava stravaccato sulla poltrona, flaccido e offuscato.
Lo scotch scendeva lungo la gola senza mai fermarsi, il bicchiere veniva riempito una e mille volte, la mente annebbiata e il pensiero di una Sheila morta.
Come Desireè.
Desireè era morta tra le sue braccia.
Rise.
Ricordava ancora quel suo viso, quel suo viso inaridito e truccato fino allo sgomento, i seni che ballavano davanti a lui senza alcun pudore, l'atto sessuale che arrivava alle stelle perché loro erano le stelle.
Desireè era morta.
Desireè lo aveva amato.
Ed ogni giorno, quando giungeva la sera, non poteva smettere di pensarla.
Sentiva ancora il vischioso sangue che gli colava tra le dita e gli bagnava i pantaloni verdi.
Era stato un mostro? Era un mostro?
Trangugiò altro scotch.
Cos'era la sua vita?
Obiezione, obiezione vostro onore!
Nessuno aveva sentito la sua obiezione! Mai, in tutta la sua vita.
Aveva lottato con i denti, era stato forte, credeva di esser stato forte ed ora si ritrovava lì, un cadavere che camminava e che si portava troppo sulle spalle. Aveva visto sangue, aveva visto morte, aveva visto ingiustizie, aveva visto l'intramontabile odio, aveva visto l'inconcepibile eppure... eppure riusciva a vedere ancora quel briciolo di amore che credeva perduto.
Sbatté il bicchiere sul tavolino in legno grezzo e si lasciò andare per pochi istanti al tepore che il fuoco emanava nel caminetto.
Forse quel fuoco l'aveva acceso Sheila stessa.
E adesso perché continuava a pensare a quella donna? Oh, beh... lui la morte non era capace di accettarla, era l'ultimo scoglio della vita, quello più temibile, ma anche quello più facile... sì, facile! Troppo facile morire quando si è vissuti in un mondo incrementato di orrori.
La porta dello studietto scricchiolò e Kelly entrò. Aveva una divisa che le andava corta, i capelli biondi lo deliziavano e... quel viso, oh quel viso!
―Mr Mitchell... avete bisogno di qualcosa?― Una vocina, occhi vispi.
―Kelly...― la bocca impastata, ―perché sei qui con tutto ciò che sta succedendo in casa?― Singhiozzò.
―Io...―
Viktor si alzò, oltre all'alcol c'era anche il dolore del monco ad infastidirlo.
―Volevo solo accertarmi che steste bene. È mio compito... adesso―. Ancora quella vocina, una vocina deliziosa, sì!
Singhiozzò e rise, rise e singhiozzò.
Si avvicinò alla ragazza, c'era poco spazio che li divideva, Viktor notò il viso grazioso, le spalle esili e le forme imprigionate nella divisa di casa Jenkins.
Agilmente strinse il mento di Kelly tra le mani ed osservò ancor meglio quei giovani lineamenti che proprio adesso lo stavano allettando più che mai.
―Di' la verità, piccina. Sei attratta così tanto da me che non riesci a starmi lontana! È comprensibile, sai?― Un sussurrò, le palpebre appesantite, il fiato che puzzava di scotch.
―N-no... M-mr M-Mitchell, vi sbagliate!― Le mancava il fiato e l'uomo riusciva quasi a sentire il battito accelerato del suo cuore rimbombargli nelle orecchie. Questo lo infastidiva molto di più della gamba.
―Pssss... puh!― Rise e neanche lui capì cosa stava dicendo.
Le sue labbra si posarono su quelle della cameriera con una violenza inaspettata, un impeto che proveniva dai quartieri più bassi dell'anima in cui era intrappolato.
Il suo viso era quello di una dea, o almeno così credeva. Aveva quei capelli biondi che lo incorniciavano così bene! E gli zigomi alti e carini.
Strinse il corpo della giovane al suo, la bloccò tra lui ed il muro, e le mani percorrevano zone fantasiose, parti che non conosceva, inesplorate forse.
―N-NO! M-M-M-M-R M-MITCHE-E-LL!― Urlò ma presto la bocca le fu coperta e i pensieri dell'istitutore volarono di nuovo a Desireè: gli occhi di Kelly assomigliavano tanto a quelli di Desireè.
Le alzò la gonna, abbassò le reggicalze e la guardò dritta in faccia. Era spaventata.
Era pronto a stuprarla, sì.
Poteva stuprarla...
Rabbrividì.
Essere completamente padrone di un'altra persona... rabbrividì ancora.
Lasciò immediatamente la presa, in preda ad una visione che lo scosse travolgendolo.
L'immagine di un terzo viso, quello più bello, quello che non assomigliava ad una dea, ma al suo angelo, gli apparve davanti e lo ridestò.
Come aveva potuto toccare un'altra donna? Oh, ma cosa pensava adesso? Quante volte aveva usufruito di donne senza alcuno scrupolo? Eh? Quante?! Troppe.
Ed adesso bastava pensare ad un viso bello come quello di Katherine, ad un animo aggressivo e piacente come quello di Katherine per impedirgli di fare sciocchezze, come toccare altro corpo che non fosse il suo!
Era da quando aveva assaggiato il corpo della giovane Jenkins che non aveva il coraggio di toccarne di diversi.
Vide il viso sconvolto di Kelly ma non gli interessava; si riempì il bicchiere di scotch e prima di trangugiarlo disse: ―Va'. E non proferirai parola alcuna.―
Kelly andò e non proferì parola alcuna.


―Si riprenderà?― Fu poco più di un sussurro, il medico si stava diligentemente lavando le mani in una tinozza in porcellana riempita d'acqua bollente. Mr Jenkins, il vecchio e furbo uomo, era suo amico da un sacco di tempo. Si conoscevano già da prima che Ernest sposasse quella che era stata la sua fortuna e la sua sventura. Un amore morboso e passionale, ancora adesso se lo guardava riusciva a scorgere quel profondo senso dentro di lui. Un senso di speranza nella vita insieme dopo la morte; e Frank sapeva bene che Sheila era come un pilastro fondamentale dell'intera famiglia. Sheila aveva accudito i suoi bambini quando la moglie era morta anni addietro, o così lasciava pensare alla gente che glielo chiedeva.
Frank sapeva anche quanto la governante avesse aiutato il suo amico ad uscire da una profonda crisi e da un'acuta depressione. Sheila era decisamente il perno dell'intera Winslow Hall e vederla in quelle condizioni, con la pelle violacea e un bernoccolo in testa più grande dell'intera faccia tra un po', lo aveva scosso meno di Ernest, ma pur sempre scosso.
―La mia diagnosi non può essere considerata del tutto veritiera. Si trova pur sempre su una poltrona.― Mr Jenkins trattenne il respiro, odiava quando Frank si lasciava andare a degli sproloqui un po' bruttini, l'ultima volta che l'aveva fatto era finito per dirgli che sua moglie era morta e giaceva senza vita in quello che una volta era stato il loro letto di incoronazione.
―È in coma, bisogna trasferirla in ospedale. La ferita è alla testa, bisogna consultare un neurologo, io non sono capace di darti una diagnosi accurata e se dicessi baggianate Ernest, avrei una vita in più sulle spalle―. Disse adesso il medico senza altri giri di parole.
Ernest si mantenne alla scrivania in ebano e deglutì guardando la donna che sembrava sul punto di lasciarlo da un momento all'altro senza emettere nemmeno l'ombra di un suono.
―Dunque cosa mi consigli?― Sussurrò e ad un tratto a Frank gli parve molto più vecchio di quanto non lo fosse già. Le rughe attorno agli occhi e agli angoli della bocca avevano la capacità di afflosciargli la pelle e le guance che un tempo erano state di un rosso invidioso.
―Direi di chiamare l'ospedale e di far pervenire un'ambulanza.― Ernest annuì e trangugiò da un bicchiere in vetro i residui del suo scotch mattiniero.
―Va bene, va bene. T'accompagno al pian terreno dove abbiamo il telefono. Usciamo da qui dentro che vedere una governante in queste condizioni mi fa venir un mal di testa allucinante―.
Il medico si ritrovò interdetto davanti ad un'affermazione di quel tipo. Che si stesse facendo problemi su come risarcire la donna semmai fosse sopravvissuta? Non poteva credere che il suo amico si fosse rincitrullito, anzi, non voleva crederci, non era quel tipo di persona che pensava solamente al proprio interesse economico e sociale; perdio stavano parlando di una vita umana! Frank si sentiva confuso come lecito che fosse ma non potette constatare a lungo la veridicità dei suoi pensieri e ipotesi perché non appena l'ambulanza giunse sul viottolo della casa di campagna, Ernest ammise che non sarebbe andato con lui in ospedale e che nel pomeriggio avrebbe spedito qualcuno per accertarsi della precaria situazione.


I Boudès. I Boudès vivevano a pochi isolati da Winslow Hall in una villa di campagna proprio come quella Jenkins. I Boudès erano una famiglia prestigiosa e ben amata da tutti i vicini e chi osava metter in dubbio il loro buon cuore, poteva esser immediatamente emarginato da quella società di per sé gerarchica.
La villa si estendeva in gran bella vista in un rientro di terre e la calma che si percepiva entrandovi, la si perdeva uscendovi.
I Boudès erano meno numerosi dei Griffiths o dei Jenkins stessi, in tutto erano tre e il più delle volte la casa era abitata semplicemente da due persone.
Mr Boudès era un uomo robusto, dagli occhi vispi e di un marroncino che a Katherine ricordava tanto la vischiosità del miele. Lavorava per il ministero e la maggior parte dell'anno viveva in un appartamento condominiale al centro di Londra. Era un uomo abbastanza indaffarato, con i suoi grattacapi per la testa e la sua singolare vispezza e cultura; Ernest non lo trovava simpatico e né un amico con cui passare in santa pace una bella serata, in compenso c'era una profonda amicizia tra Mr Boudès e Mr Griffiths, entrambi si erano conosciuti anni addietro nella guerra in Crimea. Erano stati anni in cui le discordie non potevano sussistere e la sopravvivenza degli altri necessitava per la propria, e così avevano instaurato un rapporto duraturo che si era propagato anche tra gli attuali lavori e l'attuale carriera.
Dopo essersi congedati dall'esercito, avevano deciso di percorrere strade diverse. Mr Griffiths si era dato ad un duraturo libertinaggio finché non aveva incontrato Annabelle, l'attuale moglie, che lo aveva fatto infatuare così fortemente da incastrarlo attraverso una prima gravidanza. E seppur Annabelle fosse una donna dalle dubbie origini e la cui suocera odiava a morte, si erano sposati ed il matrimonio aveva fruttato abbastanza tra i due da permettere una vita tranquilla e serena solo apparentemente.
Mr Boudès invece aveva lasciato Clarissa per l'esercito e al suo ritorno l'aveva trovato ad aspettarlo senza alcun rimorso. Con i capelli marrone scuri e lunghi, con le sue abbondanti curve ed il viso paffutello... l'aveva trovata incantevole sin dalla prima volta che l'aveva intravista nel mercato londinese e si era ripromesso di sposarsela.
Così si avverò ma il loro non fu mai un matrimonio puro e nemmeno facile. Clarissa si riscoprì sterile, o almeno credeva di esserlo nei primi anni di matrimonio non riuscendo a concepire nessun bambino, e rifiutando qualunque tipo di visita da medici che considerava incapaci.
Finché ovviamente, un bel giorno, capì di essere incinta e la gravidanza fu portata a termine con così tanti problemi tra lei e Mr Boudès, tra lei e il bambino, che si vociferava in città la possibilità di un divorzio accettato dalla Chiesa; difatti i Boudès, di origini francesi, erano cristiani cattolici.
Clarissa Boudès soffriva di emicranie, non sopportava la perpetua lontananza del marito e l'unica sua consolazione era Genevieve. La figlia tanto bramata sopravvissuta al parto per miracolo. Genevieve, con il suo viso carino e i capelli biondi, paffutella di faccia e con le stesse curve che aveva la madre da giovane, adesso ammaliava i giovani con due battiti di ciglia. Un tipo dolce, un po' timida, ma pur sempre degna dei Boudès.
Debuttata in società da poco tempo, poteva definirsi già ben integrata; la vita sociale tra l'altro dei genitori, era in continuo progresso e lei s'era subito ritrovata circondata da avvoltoi e famiglie intenzionate ad entrare nel circolo ristretto dei francesi.
Clarissa e Genevieve erano entrambe sedute nel salotto di casa Boudès e le si poteva quasi considerare annoiate. La prima cuciva ad uncinetto un tappetino per il cane e la seconda si prodigava nella lettura di un libro che il padre le aveva suggerito mesi prima con fervente irruenza. Voleva che lo leggesse e lei da brava figlia lo stava facendo.
Avevano mandato quell'invito a Winslow Hall, o meglio, Mrs Boudès l'aveva spedito per pura noia e si sa che quando la noia è troppo forte, bisogna compensarla con qualcosa di allettante. Aveva sentito dire che la famiglia Griffiths alloggiasse da quei vecchi zoticoni dei Jenkins e per non apparire troppo scortese, l'invito era stato esteso anche ad un solo, ed uno solo, componente dell'altra famiglia. Adesso le donne, chi più chi meno, aspettavano di udire il rumore della carrozza sull'acciottolato e i visi pieni di brio che avrebbero alleviato quell'estenuante noia dei mesi invernali.
Cosa ancor più deplorevole, Clarissa aveva impedito al marito e a lei stessa di partecipare al Ballo Nevoso; quell'evento portava sventure nelle famiglie che vi ci partecipavano e non poteva assolutamente permettere un'accettazione così leggera.
Così neanche il sinuoso e grande Ballo che si teneva a pochi isolati più indietro aveva alleviato quella noia.
La carrozza di Katherine e Joseph arrivò in tarda mattinata e appena la videro varcare il cancello, fu servito il tè con biscotti nel salottino.
Genevieve si alzò di soprassalto, rossa in viso e con una certa agitazione. La madre la guardò per un lungo istante senza però capire quale fosse il suo problema. La verità dei fatti stava proprio nel non esserci. Il problema non esisteva, era solo che Genevieve si sentiva in subbuglio; aveva il corsetto che le stringeva troppo i seni e i pensieri vagavano alla figura alta e guardinga di Joseph. Lo conosceva, eccome se lo conosceva! Nelle feste di famiglia, in società, per le strade londinesi, tra le cene intime e non, tutto la riportava a quegli occhi fugaci e dal portamento vigile. Joseph però non conosceva Genevieve. La ragazza prima del debutto era sempre stata un tipo anonimo che il padre nascondeva nella sua campana di vetro e che preferiva non lasciar brillare troppo a lungo sotto gli occhi indagatori degli amici. Dopo il debutto, Joseph non ricordava di aver avuto occasione di incontrarla, di poterle parlare o di ammirare il suo viso carino.
Il maggiordomo si apprestò ad accogliere gli invitati all'ingresso e Katherine, appena mise piede nella villa che da piccola aveva sempre considerato fin troppo impotente, fu pervasa da una miriade di odori ed emozioni in contrasto tra loro. C'era un profumo di toast e di fiori freschi, il pavimento lucidava più di ogni altra cosa e il mobilio sembrava cadere a pennello nei luoghi adatti, manco fosse stato fatto apposta, per un quadro futuro e famoso.
Era ancora rossa sulle gote per via di quello che Viktor le aveva sputato addosso, si sentiva più ferita rispetto alle altre volte, forse perché ciò che le era stato detto l'aveva scombussolata e soprattutto non corrispondeva alle mani possessive del professore mentre le accarezzavano il corpo ed andavano oltre, in pensieri e mondi sconosciuti alla materia del mondo.
―Mrs e Mss Boudès vi stanno attendendo nel salotto del tè. Ci è sembrato opportuno darvi un po' di ristoro―. Katherine sorrise e dopo che ebbero lasciato i cappotti nelle mani del buon uomo, prese sotto braccio Joseph e lo seguì mentre attraversavano vasti corridoi tappezzati dal soffitto all'ultimo e più inutile angolo.
―Avete pensato proprio bene!― Sopraggiunse lei mentre finalmente giungevano alla sala principale.
L'attenzione di Katherine fu subito attratta dal viso paffutello di Genevieve e dal suo abito altamente costoso stretto in vita che le donava troppa sciccheria per i suoi gusti. Si sentiva anche un po' in competizione con quest'ultima e dunque il suo sorriso, se visto da altri punti, poteva apparire troppo tirato.
Clarissa si alzò di scatto e corse immediatamente ad abbracciare Joseph, il suo Joseph.
―Mio caro, mio caro! V'aspettavamo con tanta premura! Son proprio felice che non abbiate rifiutato il nostro invito; le mattinate sono lunghe, anzi lunghissime e per non parlare dei pomeriggi, e delle sere...― con un sospiro teatrale la padrona si girò anche verso l'accompagnatrice Jenkins, ―piccola Katherine! Ma che bello sguardo vispo che hai. Non ricordavo così i tuoi lineamenti, sei proprio cresciuta dall'ultima volta che ti ho visto in società.― Inchinandosi dolcemente, Katherine capì che con ogni probabilità la donna la stava prendendo in giro: l'ultima volta che si erano visti, lei aveva solo cinque anni ed era stato al funerale di sua madre.
Che razza di vipera, pensò senza riuscire a frenare tale veridicità.
―E noi invece siamo contenti di essere passati; ho sempre amato questa villa, signora. La trovo deliziosa ed accogliente, così come tutte le volte che sono stato in vostra compagnia. Mia madre vi porge i più sinceri saluti, sperando in un incontro imminente. Così come mio padre a suo marito―.
Katherine non rispose al saluto, lasciò che Joseph riempisse la testa di quella donna con le sue mille parole, e ritornò a concentrarsi nuovamente su Genevieve che non aveva occhi che per il Griffiths. Cosa ci trovasse di così insistente da non presentarsi neanche, Katherine non lo sapeva e la cosa la infastidì ancora di più. Dannazione, perché adesso si infastidiva per tutto? La voce biascicata di Viktor rimbombava nella sua mente come l'eco in montagna. Più si faceva lontano, più si impregnava nella pelle.
―Accomodatevi su, il tè è appena stato servito. Katherine posso riempirti una tazza? Quanto zucchero preferisci? Avete voi questa usanza del tè oppure bevete solo vino e birra tedesca come si vocifera in città?― Ridacchiò la donna e Katherine si morse la guancia interna per non lasciar trapelare la sua indole da pescatore.
―Ma certo che beviamo tè, signora cara! Non siamo mica così zotici; in altre parti della città che conoscete voi, si dice che siamo molto più ammodo di certi ricchi senza sostanza... mah, sarà vero? Io fino adesso non ho avuto prova―. Joseph si schiarì la gola, non diede manco il millesimo del tempo a disposizione per lasciar comprendere l'offesa nelle parole di Kath e, sedendosi su una delle sedie in mogano che popolavano la stanza, guardò Genevieve.
In quel momento, nell'animo dolce del ragazzo germogliò un interesse di fuga.
―Oh, e voi dovete essere Genevieve! A malapena ricordo il vostro grazioso viso, non mi pare di avervi visto spesso in società, non negli ultimi tempi e a quanto pare proprio in questo periodo la natura vi ha maturato―. La madre sorrise soddisfatta e lasciò cadere maldestramente la tazza di Katherine sul tavolino, mentre lei prendeva posto al fianco di Joseph irata.
―Vi ringrazio―. Sussurrò quasi impercettibilmente e Katherine si domandò perché avessero accettato quell'invito.
Genevieve abbassò il capo con civetteria e Joseph sorrise di buon grado, questo Kath lo notò e le sembrò una cosa alquanto strana da fare tra due individui quasi sconosciuti.
Avrebbe tanto voluto dirle: “Non era un complimento stupida, ma una semplice osservazione! Buon Dio, alza quel viso e caccia un po' di quel timido rossore in intelligenza!”
Ma forse Katherine Jenkins chiedeva troppo dalla vita stessa.
―La natura è stata fin troppo generosa con mia figlia, in fondo chi vorrebbe di più dalla vita?― ridacchiò la madre; una madre un po' bisbetica e narcisista. Una madre che più madre sembrava un rinoceronte in calore, ma questi erano semplicemente i pensieri insensati di Katherine che adesso, appena dopo mezz'ora l'arrivo, si sentiva oppressa e accaldata. Mai aveva provato tanto scontento in vita sua, neanche quando Viktor le stringeva i polsi e la infilzava in uno spiedino con i suoi occhi celesti. Adesso sì, proprio adesso, si chiedeva perché mai -forse l'ennesima volta- i suoi pensieri erano stati scaturiti da una brutta situazione e inconfondibilmente si erano adagiati tra i ricordi del suo precettore.
Come odiava anche questa cosa! La consapevolezza di non poter fare altro, di non riuscire neanche ad impedire alla sua mente di pensare a Viktor, Viktor Mitchell, pure se si trovava in una casa affascinante, tra un'accoglienza orribile e con mille altre cose a cui fare riferimento.
―In effetti signora Griffiths avete ragione: la natura è buona con chi ha già troppo e non lascia molto a chi non ha chissà quanto. Disdicevole, non credete?―
―La realtà delle cose mia cara Katherine, semplicemente un cerchio ristretto di quello che siamo condannati a vivere. ―
―E chi giunge prima al centro del cerchio merita di più, non è vero?― Sospirò Katherine, adesso in piedi. Clarissa la guardò con circostanza e, sorridendo, annuì. C'era forse malignità in quegli occhi? La giovane avvampò e vide il suo accompagnatore immerso in una deliziosa conversazione con Genevieve-la-fortunata.
―Cosa fate? Vi alzate?―
Katherine stava per aprir bocca e non si sarebbe fermata, anzi. Ora neanche Joseph poteva coprire la sua durezza; ma avevano bussato alla porta e l'attenzione di Clarissa si concentrò tutta sul maggiordomo.
―Mi dispiace interrompervi signori ma c'è un domestico di casa Jenkins alla porta e chiede esplicitamente di parlare con Mss Katherine.―
Un silenzio contraddittorio scese lungo le pareti e Mrs Boudès ridacchiò.
―Beh, che cosa aspettate? Andate a veder che vuole!― L'ironia in quelle parole lasciò un'altra sensazione d'ira.
―Con permesso―. Digrignò i denti ed alzandosi la veste si diresse verso la porta. Appena fu fuori si sentì come liberata da un gran peso. Quella donna le stava sulle scatole. Era antipatica, civettuola, esuberante e... non c'era un briciolo di umiltà nelle sue parole e in tutto ciò che la caratterizzava o la circondava.
La giovane Katherine raggiunse ben presto l'uscio della villa Boudès, dove pochi attimi prima era entrata ed adesso non vedeva l'ora di andarsene.
―Signorina!― Il viso smunto di Kelly Anderson si presentò davanti. I suoi capelli biondi appiccicati alle gote, gli occhi spalancati per lo spavento e un leggero tremore che le invadeva il corpo. Cosa l'era potuto accadere?
―Kelly! Che ci fai qui?― Affannata e in preda ad un pianto isterico, la domestica si schiarì la gola e alzando le spalle cercò di scusarsi.
―Vi prego di scusarmi, non volevo venir in questo modo ma non ho avuto altra scelta―.
―Calmati Kelly, ch'è accaduto?― Avrebbe voluto farla entrare e tranquillizzarla ma il viso torvo del maggiordomo, aveva intimorito la stessa Katherine che avanzò di qualche passo verso l'esterno.
―Una disgrazia, miss! Nessuno sa come è potuto accadere―.
―Parla Kelly, per l'amor del cielo, smettila di indugiare così tanto―.
―Sheila... la governante... lei... oh miss... lei è caduta―. E un singulto fu strappato dalle sue esili labbra e gli occhi di Katherine si spalancarono come se lei stessa avesse ricevuto un pugno nello stomaco.
―Come? Dove?―
―Dalle scale miss! Non si sa come sia potuto accadere. Forse un malore o sarà inciampata, ma non si riprende e mi è stato dato l'ordine di avvertirvi. Vostro padre sa quanto siete legata alla donna. Mi ha chiesto personalmente di riferirvi che non c'è da preoccuparsi e mi ha consegnato questo foglietto―.
Con immediatezza la carta fu strappata dalle dita di Kelly e Katherine aprì veloce.

Mia cara Kath, di quello che ti ha riferito la sguattera non allarmarti.
Il dottor Frank è già pervenuto ed insieme ci recheremo in ospedale.
Passa una buona giornata dai Boudès.
-Tuo padre.

Una buona giornata dai... chi? Katherine aveva già nascosto il biglietto nelle vesti e ritornata in sé, con durezza guardava Kelly.
―Va' pure, ritorna in villa. Ti seguirò.―
―Ma signorina...―
―Cosa?― Le mani sui fianchi ed il cipiglio alzato fecero indietreggiare la domestica che annuì e girò le spalle.
Non c'era più nulla che la tratteneva in quella villa. Era appena arrivata ed aveva avuto una perfetta occasione per scappare a gambe levate. Il maggiordomo non sapeva cosa dire, era stato alquanto indiscreto ad ascoltare l'intera conversazione ed adesso la guardava con un rossore vivido in faccia.
―Preparatemi il cappotto e dite al garzone che rimarrà qui finché il signorino Griffiths non vorrà far ritorno―.
―Miss...― la voce roca del maggiordomo, insospettirono Katherine.
―Sì?―
―Se posso chiederlo: come ritornerete a casa?―
La giovane e fervida ragazza si lasciò sfuggire un vago sorriso e con tutta la perspicacia di cui era disposta, disse:
―A piedi ovviamente. Mi raccomando: non lasciatevi sfuggire questo gossip. La vostra padrona ne sarà deliziata―. Non vide il rossore promulgarsi sul viso dell'uomo e spedita ritornò nella grande sala dove gli altri si trovavano.
Mrs Boudès rideva egregiamente ad un'osservazione da parte di Joseph e Genevieve aveva il viso colorato dalla felicità.
Il caro amico di Katherine, appena la vide, le rivolse un sorriso condiscendente che si spense appena notò la preoccupazione e lo sdegno stampato in viso.
―Che cosa succede, Kath?― Il nomignolo che le attribuì riuscì ad indurire i lineamenti delle due donne e la giovane si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo.
―Purtroppo un brutto incidente ha colpito la nostra famiglia. Vi prego di volermi scusare ma devo proprio andare―.
―Cosa è accaduto?― Domandò ancora Joseph.
Katherine deglutì e spiegò la situazione con una certa aria solenne.
―Non capisco... è così importante questa governante? Dovete per forza andarvene entrambi? Questo pomeriggio stava iniziando a divertirmi―.
A quelle parole, Katherine capì il fulcro della questione e tutto dentro di lei si spense con quel poco di acqua.
Guardò il suo Joseph e poi la giovane dei Boudès. La madre. E chi c'era in quella stanza. Tutto un miscuglio di una società che non le apparteneva.
Sentiva dentro di sé ribollire la voglia improvvisa di fuggire da quella situazione. Aveva in mente solo il viso contrito di Sheila, la paura di Kelly, le mani di Viktor.
La sua società, quella di cui faceva ancora parte, la stava distruggendo. E non c'era bontà d'animo o cuore coraggioso che riuscì a farla ricredere. Era persa in quelle baggianate, in quella stupida, stupidissima gerarchia. Quelle etichette. Quella vita che non le apparteneva.
―Non c'è motivo che Joseph venga con me, davvero. La carrozza sarà disponibile appena vorrai ritornare a casa ed adesso, perdonatemi, ma è ora che io vada―.
―Davvero? Sei di una dolcezza unica, Katherine!― Fu la prima volta che Genevieve si riferì personalmente a Kath ed il suo sorriso angelico la irritò.
―Sei sicura? Io... io posso anche tornare―. Il tentativo di Joseph fu talmente debole che Katherine scosse il capo.
―Perché rovinare un così bel pomeriggio per un caso di famiglia? No. Non importa.―
I convenevoli furono saltati e Katherine sbattuta fuori; sembrava quasi che in fondo aspettassero solo questo: di rimanere da sole con un uomo perfetto per un matrimonio. Chi l'avrebbe mai detto!
Il maggiordomo l'aveva aiutata a sistemarsi il cappotto in pelle sulle spalle ed adesso la guardava dal cantuccio mentre si allontanava impettita sulla neve bassa e quasi sciolta. Avrebbe preso una caduta? Perché non aveva scommesso con la sua padrona?

In tutta la sua vita, da quando era nata, mai in vita sua aveva visto Winslow Hall -la sua casa- caduta in un baratro di silenzio angustiante. Le finestre brillavano di una luce bianca e i rumori lontani provenivano dalla strada o dalle cucine.
Katherine era appena entrata dall'uscio e subito, o quasi subito, Kelly le era corsa incontro.
―Signorina! Siete tutta affannata... oh... non sarete venuta a piedi? Guardate le scarpe! Sono tutte bagnate. Dovete cambiarvi―.
La ragazza cercava di riempirla di troppe parole e fu zittita quasi subito da un veloce gesto con la mano. Katherine era impaziente, impaziente di sapere altro.
―Non c'è nessuno in casa?―
―Sì, signorina―.
―Chi?―
―Mr Shaw e Miss Wendy sono entrambi nelle rispettive stanze, la servitù invece sta aspettando notizie per la disposizione del giorno―.
Possibile che se ne fosse andato? A Katherine non mancò il coraggio. Non poteva omettere di chiederlo.
―E Mr Mitchell? Se n'è andato?―
In quel momento notò un brivido oltrepassare la schiena e uno strano irrigidimento nella ragazza che aveva di fronte. Cosa le prendeva? Possibile che fosse successo qualcosa anche a lui? Il cuore si allarmò immediatamente ed iniziò a batterle talmente forte che il sangue fluiva nelle vene come un fiume in piena, arrossendo.
―No miss―. Un sospiro di sollievo le uscì dalle labbra ma Kelly se ne accorse e non tentò di nascondere un'occhiata torva e quasi disgustata.
―E dunque?―
―È nella biblioteca miss. Ubriaco fracido. Consiglio di non avvicinarsi finché non gli sarà passata―.
Il tono duro della domestica e quegli occhi incantati in un punto dietro le spalle di Katherine, la preoccuparono un po', ma ciò che la scossa maggiormente fu sapere della sbronza di Mr Mitchell. Ubriaco? Lui? Lui che era sempre perfetto in ogni situazione? Che non perdeva mai il lume della ragione e non si scomponeva neanche davanti alle peggior parole dette da lei?
Che avesse bevuto qualche bicchierino di scotch poteva essere ma... l'ubriachezza non faceva parte della sua indole.
―Come sei buona Kelly ma Mr Mitchell non può fare della nostra biblioteca quel che vuole quindi andrò da lui personalmente―.
―Io credo che-...―
―No, no. Non dire niente, va bene? Ritorna giù e di' pure alla cuoca che può preparare il pranzo per chi è presente in casa. Non possiamo rimanere a digiuno fino a nuove notizie―.
Kelly abbassò lo sguardo e con un cenno del capo le sfuggì un “va bene, miss”.
La vide allontanarsi e scendere le scale dietro ad un angolo,\ dopodiché tirò un grosso respiro e guardò il corridoio che portava alla biblioteca. C'era una parte di lei che ambiva alla possibilità di umiliarlo. Un'altra parte invece pensava che ci fosse un motivo del perché si trovasse in simili condizioni.
In preda a tanti accorgimenti, vi si diresse a piccoli passi. Bussò con le nocche sul legno liscio ma non ebbe risposta. Indugiò. Alzò gli occhi al cielo e girò la maniglia.
Quello che si ritrovò davanti, fu peggio di ciò che si aspettava: un professore. Un professore immerso in una nube nera di orrori. Occhi vitrei. Un corpo cadente. Un viso prosciugato.
―VIKTOR!― Urlò. Katherine non aveva mai urlato di disperazione. Il suo sguardo si aprì in una smorfia di terrore e in un balzo giunse di fianco la poltrona. La sua piccola mano bianca si posò sulla guancia di Viktor e cominciò a picchiettarla.
L'uomo aveva fatto cadere il bicchiere di scotch sul tappeto e forse adesso era semplicemente svenuto.
―Ehi... mi senti? Oh, Mr Mitchell! Mr Mitchell rispondetemi...― Era bianco come un cencio; non sentiva il battito ma cosa poteva saperne? Lei non era capace di sentire il polso.
In un attimo che parve eterno, la sua mano fu fermata da un'altra. Gli occhi grigi del precettore si aprirono lentamente e il suo sguardo trovò quello di Katherine. Il viso arrossato della ragazza lo fecero sorridere.
―Ridete? Oh, ridete, certo. Stavate fingendo―. Si alzò e la gonna frusciò sul pavimento. Induriti i lineamenti, riempì un bicchiere di acqua dalla brocca sul tavolino in legno.
―Sei tornata...― fu poco più di un sussurro ma lei lo udì.
―Sono stata avvisata della disgrazia―.
―Sei tornata per questo? Per Sheila?―
Katherine sospirò. Era tornata per Sheila o per scappare dai Boudès? Aveva voglia di urlare.
―Certo che sì. Perché siete rimasto? Perché non siete tornato in città?― Gli porse il bicchiere e lui lo afferrò con poca forza, trangugiando lentamente l'acqua.
―Sei accalorata―.
―Forse―.
―E sei anche bagnata―. Rise.
―Ridete di me? Io non vi capisco. Non vi capisco davvero. Vi comportate indegnamente e avete anche il coraggio di ubriacarvi a casa di mio padre! La mia casa! Che esasperazione siete―.
―Sei così ingenua e testarda―.
―Non ho tempo da perdere, mr Mitchell. No con uno come voi. Riprendetevi e fate buon ritorno a casa―.
Finiva sempre così, non riusciva ad andare oltre. Non riusciva a non prenderlo con le cattive maniere. Era tanto amareggiata e come sempre si considerava una stupida.
Posò la caraffa sul tavolino, doveva uscire da quella stanza perché nulla la tratteneva con quell'uomo. Poteva averle fatto battere il cuore ma cos'altro poteva darle? Solo odio.
Viktor d'altro canto non aveva intenzione di lasciarla andare; il suo angelo che svolazzava come un diavolo da una parte all'altra della stanza non doveva abbandonarlo. E in quelle ore di agonia ed angoscia era giunto alla conclusione che lei riusciva a migliorarlo.
E se per migliore s'intende un burbero uomo peccaminoso, allora va bene così.
Vacillò, la poltrona fece rumore, le spalle nude e fresche di Katherine gli annebbiarono la vista; la raggiunse. Forse le cadde persino addosso ma riuscì a fermarla appena in tempo e a suscitare un moto di sorpresa su quel viso angustiato dalla vita.
Lo scotch non riusciva a scacciare le parole di Charlotte nella sua mente. La madame del bordello avrebbe permesso mai tutto ciò? Oh sì, ma stava sbagliando tutto. Viktor stava sbagliando completamente l'approccio. Il suo cuore stava errando.
―Joseph bacia male?― Le sussurrò all'orecchio, la mano salì alla pancia, poi oltre.
―Oh Dio, Viktor lasciatemi!―
―Perciò ritornate sempre da me? Perché Joseph bacia male o perché non vi sa prendere? Non provate quello che state vivendo adesso quando è lui a mettervi la pancia sul ventre, il vostro ventre piatto, e poi su e poi giù―. Singhiozzò.
―Siete ubriaco, ubriaco, ubriaco!― Katherine era ritornata rossa in viso, gli occhi lucidi forse da un pianto che non cadeva via.
Vacillante, Viktor ebbe il coraggio di girarla e il suo corpo ispido e temprato si scontrò con il buon odore e sostanza di Katherine.
―Sarò anche ubriaco ma solo adesso posso dirvi liberamente ciò che penso perché non ne avrei più il coraggio in futuro―. Biascicò.
―Come potrei credervi?― Sussurrò lei.
―Come credete che tutto questo è reale. Come credete che la mia vita e la vostra non sono tanto lontani dall'amore. Vi ho baciato, vi tocco e vi desidero. Vi desidero nel modo più ardente e intangibile che mai avrei pensato di poter provare per una donna, figuriamoci per una ragazzina. Quindi... quindi smettetela, smettetela di far del male a voi e del male a me. Avete il coraggio di baciarmi, milady? Avete il coraggio di dire no a vostro padre? Voi... voi non siete fatta per un matrimonio combinato. Voi dovete vivere la passione e l'affievolimento. Vivetelo con me, vivete bene con me―.
Katherine non aveva più fiato. La stretta morsa del braccio di lui la stava sciogliendo come neve al sole.
―Voi...― tiepida in primavera, ―mi distruggerete―. La mano di Viktor indugiò sullo spazio dai seni poi si allontanò piano stringendola per la vita.
I caldi occhi di Katherine si spensero nei suoi ed abbassò il capo quando l'esili mani si fermavano sulla giacca logora e lo attiravano a sé senza metro di giudizio o di vergogna.
Amare è sinonimo di costanza. Una costanza che nasce con i piccoli gesti nascosti in una miriade di errori. C'era la consapevolezza di non poter ritornare più indietro e quando Katherine alzò di nuovo il viso con coraggio lo avvicinò a quello del suo precettore ed era lì per toccargli le labbra, per lasciar cadere le mani su tutto il suo corpo e sentire l'estasi con lui, decise che forse tutto ciò doveva avvenire in un momento più lucido, più bello.
―Voglio baciarti Viktor, voglio baciarti così come tu mi hai baciata al lago. Ma non adesso, non con tutto quello che sta accadendo, non con te ubriaco, non senza una certezza―.
L'uomo deglutì ed aspirò il buon odore di freddo che lei emanava.
―Ti aspetterò―.
Ci fu un abbraccio dove entrambi sentirono il tepore del futuro ma venne sciolto quando qualcuno bussò alla porta e Katherine si allontanò con il solito viso torvo e accattivante.
Tutto venne celato in una coltre di mistico desiderio quando Kelly entrò a capo basso ed annunciò che Wendy voleva parlare con la sorella.


Spazio scrittrice:
Insomma Vella, dopo quattro mesi aggiorni? Ma stai bene? Minimo un anno!
Insomma, chi vuole lanciarmi i pomodori lo faccia ma non perché io abbia aggiornato dopo una vita, ma perché è riuscito a leggere l'intero capitolo! È tipo... uno dei più lunghi della mia vita AHAHAHAH.
Conoscete bene la mia incostanza ma ricordate che mai e poi mai abbandonerei Cortocircuito che... AVRà UNA FINE! Forse questa estate, forse tra mille altre estati.
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Vi voglio bene e vi ringrazio sempre per il grandissimo sostegno che mi date! Solo con una recensione, un mi piace, un'aggiunta tra i preferiti/ricordate/seguite.
E... cosa ne pensate di questo chapter? é-è *w*

Un paio di avvisi amorevoli:
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