Demoniac

di lindadrei12
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Due anni prima ***
Capitolo 2: *** Due anni prima ***
Capitolo 3: *** Oggi ***
Capitolo 4: *** Inquietudine ***
Capitolo 5: *** La luce nel buio ***
Capitolo 6: *** Inferno ***
Capitolo 7: *** Risveglio ***



Capitolo 1
*** Due anni prima ***


Era notte fonda, le nuvole coprivano la luna, facendo piombare Londra nell'oscurità più assoluta. Ogni parte della città era avvolta da un'ombra gigantesca e un temporale era in arrivo. Le imposte erano tutte chiuse, e mi svegliai in un bagno di sudore. Mi stropicciai gli occhi e mi guardai attorno spaesata, come mi svegliavo quasi tutte le notti, da una settimana a questa parte. Il sogno era lo stesso che mi tormentava da tempo. Ero sempre da sola, in un campo di grano rosso. La testa, dopo qualche minuto cominciava a girarmi, e cadevo prendendomela tra le mani per fermare le fitte. Poi le piante mi circondavano e creavano una macabra prigione. Mi svegliavo sempre poco dopo avere sentito dei rumori provenire da chissà dove e il sogno non cambiava mai. Era di una monotonia inquietante. Avrei quasi pensato che fosse un sogno premonitore, ma poi... non so cosa non mi permetteva di prendere in considerazione questa idea. Una vocina dentro di me mi dava della stupida e io ascoltavo sempre le voci che avevo dentro. Il mio istinto non sbagliava mai. Mi alzai dal letto bruscamente, il che mi provocò il solito giramento di testa, poi aprii la finestra e respirai l'aria della notte. Fuori non si vedeva niente, ma gli altri sensi percepivano quello che mi stava attorno. Le fronde degli alberi si muovevano a ritmo con il forte vento e l'odore della pioggia battente mi inondò le narici. Faceva freddo e c'era vento, l'aria viziata che si era creata nella mia enorme stanza sarebbe sparita velocemente come si era creata. Il mio letto era completamente bagnato, bene, si sarebbe asciugato. E poi non avevo più sonno ormai quindi che senso aveva starsene a oziare sul letto. Avevo bisogno di lavarmi, puzzavo di sudore. Cercai a tastoni la porta del bagno, ma inciampai su una delle tante pile di libri che tenevo nella mia camera. Mentre mi rialzavo presi un libro a caso dalla pila rovesciata. L'avrei rimessa a posto più tardi. Non permettevo mai a nessuno di sistemare la mia camera. Non mi piaceva che chiunque potesse invadere la mia riservatezza e ficcare il naso nelle mie cose a piacimento. La mia stanza era disordinata, sì, ma io nel mio disordine mi ci trovavo bene. La mia vita era disordinata, perché non la mia camera? Trovai la maniglia dopo essere inciampata un'altra ventina di volte e la abbassai. La finestra era spalancata e il vento e la pioggia avevano dato il loro contributo per riuscire ad inondare tutta la stanza. Eppure ero sicura di averla chiusa... mi avvicinai lentamente e serrai i battenti. Presi degli asciugamani e asciugai il pavimento quasi completamente bagnato, poi li buttai in un angolo della stanza. Li avrei lavati più tardi. Accesi la stufetta elettrica della stanza assicurandomi che sotto di essa il pavimento fosse asciutto. Faceva troppo freddo e per quanto amassi il gelo, non avevo voglia di congelarmi quando c'era ancora la luna nel cielo. Aprii il rubinetto della vasca da bagno e aspettando che l'acqua si riscaldasse mi sedetti davanti alla stufetta senza sapere che fare. Ero sola in casa. Questa era una di quelle settimane in cui mio padre, a causa del cancro ai polmoni, era costretto ad andare in ospedale per le solite crisi respiratorie e ci restava per alcuni giorni, lasciandomi senza compagnia. Volevo essere indipendente e non avevo bisogno di una babysitter, sapevo cavarmela e papà si fidava. I medici dicevano che stava migliorando, che la chemio funzionava e io ci credevo, volevo crederci. L'acqua ormai doveva essere abbastanza calda dato che il bagno era pieno di vapore... non me n'ero accorta... Lo spreco d'acqua equivaleva a soldi in più da pagare per le bollette e non si può proprio dire che io e papà navigassimo nell'oro. Presi il libro, che avevo appoggiato sul lavandino e mi immersi nella vasca. Controllai l'orario sul mio orologio da polso. Erano le 2.30 del 15 ottobre. Cominciai a leggere mentre cercavo di rilassarmi in acqua ma qualcosa non mi permetteva di stare tranquilla. Mi si era formato un nodo allo stomaco e mi sentivo il cuore pesante come un sasso, il che non prometteva niente di buono. Il mio istinto era infallibile e i groppi allo stomaco significavano problemi, problemi grossi. Il nodo non intendeva districarsi, così mi cominciai a lavare. Mentre prendevo lo shampoo sentii il telefono di casa squillare. Chi diavolo era alle 2.40 di notte? Non sarebbero dovuti essere tutti a letto a quell'ora? Sbuffai e aprii la valvola di risucchio della vasca. Uscii e mi infilai l'accappatoio. Il telefono non accennava a smettere di squillare, ma mi precipitai al piano di sotto comunque, con il cuore a mille e il nodo allo stomaco che andava ingigantendosi mano a mano che scendevo le scale. Raggiusi il telefono e tirai su la cornetta. -Pronto, chi parla? Mi rispose una donna con una voce triste e flebile -È la signorina Emily Baker? -Sì... di...dica- Stavo balbettando, il che non succedeva mai... ero troppo agitata, dovevo assolutamente calmarmi un po', ma la donna parlava in un modo che mi inquietava... La voce della mia interlocutrice si incupì -Chiamo dal Christie Hospital, è per suo padre, Philip Baker.- Sentire il nome di mio padre a quell'ora e assieme al nome dell'ospedale in cui era ricoverato non mi tranquillizzava affatto. La testa mi girò e mi dovetti sedere sul bordo del divano. Cominciai a mangiucchiarmi le unghie come facevo spesso quando ero nervosa. La donna doveva essere un'infermiera -Che... che è successo? Papà sta bene vero? La prego mi dica che sta bene. -Emily...- la voce della infermiera si incrinò un poco -mi dispiace tanto. La malattia è degenerata, non si sa per quale motivo. Tuo padre non ce l'ha fatta... devi essere forte e...- Non finii di ascoltare quello che aveva da dire. La cornetta del telefono mi cadde di mano, la lasciai andare. Mio padre era morto. Non avrei sopportato di perdere anche lui, non dopo la mamma. Un senso di vuoto cominciò a insinuarsi nel mio cuore. Ma perché? Perché doveva succedere? La chemio stava funzionando, dicevano. Si riprenderà, dicevano. Tornerà quello di prima, dicevano. Erano tutte bugie. Bugie inventate per tenermi buona, per fingere che tutto andasse per il verso giusto, ma niente andava. Sentivo la voce dell'infermiera chiamarmi dall'altro capo del telefono ma non risposi. Non ce la facevo. Riattaccai. Gli occhi e le narici mi bruciavano e mi accasciai a terra, rannicchiata ai piedi del divano, lacrime salate mi sgorgarono dagli occhi come un fiume in piena. Urlai fino a quasi rovinarmi le corde vocali. Presi un cuscino e lo abbracciai premendo la faccia contro di esso e soffocando le mie grida di dolore. L'unico pensiero che avevo in mente era il fatto che mio padre non ci sarebbe più stato. Tutte le speranze che avevamo sempre riposto nella chemioterapia erano state inutili. Le ferite che quella notizia aveva provocato al mio cuore erano profonde e enormi. Non sarei mai più stata me stessa. Non avrei più potuto parlare di tutto con mio padre, confidargli i miei segreti più grandi, non avrei più riso con lui, non avrei mai più scherzato con lui. Mio padre, il mio papà, il mio migliore amico,era l'unica cosa bella che avevo nella mia vita e ora mi aveva lasciato. Non c'era più. In quale modo sarei andata avanti senza una guida, senza un appoggio? Mi alzai di scatto, con un' idea disperata in testa e mi diressi verso il bagno. Trovai uno specchietto e lo ruppi lanciandolo a terra, poi presi un pezzo di vetro tagliente e lo avvicinai al mio polso. Premetti forte il frammento sulla pelle e un dolore lancinante mi attraversò il braccio. Qualcosa mi impedì di compiere il mio atto disperato. Sentii una lieve pressione sulla spalla, come il tocco di una mano, come le carezze di mio padre... Alzai lo sguardo e nello specchio mi sembrò di intravedere un ombra, ma non c'era nessuno, come poteva essere... guardai il mio riflesso, guardai me stessa e ripensai a quello che stavo facendo, a tutto quello che mi aveva sempre detto papà, a tutto quello che aveva sempre desiderato per noi... per me. Ma che cosa stavo facendo? Che schifo di persona ero? La mia vita sarebbe dovuta andare avanti, ma infondo nessun ragazzo della mia età sarebbe stato capacè di sopportare tutto quello che era successo a me. Però io avrei rappresentato l'eccezione, per una volta. Non avrei ceduto. Lasciai andare il pezzo di vetro che tintinnò al contatto con le piastrelle del pavimento del bagno e valutai la ferita... si sarebbe cicatrizzata, ma sarebbe rimasto un solco profondo. Dovevo nasconderla, non potevo far vedere a tutti quelli che avevo cercato di fare... Quella ferita sulla pelle si sarebbe sbiadita fino quasi a sparire. Le ferite del mio cuore invece, sarebbero rimaste aperte e sanguinanti... per sempre. Mi trascinai lentamente alla cassetta del pronto soccorso e presi il disinfettante. Urlai quando il liquido entrò in contatto con la ferita e urlai quando dovetti bendare il braccio. Il bruciore mi passò solo dopo un paio d'ore, ma non contrastò quello che avevo al petto. Corsi di sopra e mi lanciai sul letto, piangendo e tempestando di pugni il cuscino con la mano illesa. Senza ormai energie mi accasciai sopra le coperte e nonostante fosse freddissimo mi addormentati tra le lacrime. Dormii per due giorni e il 17 ottobre mi risvegliai, alle dieci di mattina, con la consapevolezza che nessuno sarebbe venuto a buttarmi giù dal letto ridendo la mattina, nessuno mi avrebbe più dato il buongiorno come faceva papà, nessuno mi avrebbe più dato il bacio della buonanotte. Prima eravamo un noi, ora ero solo io. Non meritavo tutto questo, ero sicura di non avere fatto niente di male e allora perché? Addormentarmi piangendo mi aveva provocato una faccia gonfia e occhiaie profonde, ma non me ne importava niente oramai. Scesi a fare colazione e sulla segreteria telefonica c'erano un miliardo di messaggi di condoglianze... Ascoltai solo quello di 'Zia Orlanda', un amica fidata di mio padre che annunciava che quel giorno ci sarebbe sarebbe stato il funerale alle 11:50. Dovevo andarci anche se non volevo... dopo avere fatto colazione mi feci una doccia veloce e mi vestii, ma optai per un vestito giallo, non nero. Avrei rotto una tradizione ma non me ne fregava niente. Il giallo era il colore preferito di mio padre e io dovevo rendergli omaggio in qualche modo. Avevo paura che una volta arrivata al cimitero sarei scoppiata a piangere, avrei ceduto alla tristezza, ma papà ora era in un posto migliore assieme alla mamma,forse, e io dovevo essere forte per loro, perché potessero essere fieri della loro bambina. A pensarci bene avevo dormito due giorni... nessuno si era preso nemmeno la briga di venire a vedere come stavo... che tristezza... le persone a volte sono così insensibili. Non mi truccai, perché non ne avevo la forze e la voglia e scesi le scale non appena fui pronta. Erano le 11:45, una macchina davanti a casa mia suonò il clacson. Uscii e feci un cenno con la mano, poi mi incamminai verso l'auto. Alla guida c'era Orlanda, ovviamente vestita di nero, che mi squadrò dalla testa ai piedi non senza criticare il mio abbigliamento. Certe volte le persone sono così stupide... Sbuffai un'imprecazione e salii in macchina. Arrivammo al cimitero dopo dieci minuti, non distava molto da casa mia. Una piccola folla era radunata davanti alla bara di mio padre, pronta ad essere calata nella tomba. Alla sua vista mi si inumidirono gli occhi... lì dentro c'era l'uomo che mi aveva fatto crescere, l'uomo che mi aveva fatto credere nelle fiabe, l'uomo che mi aveva fatto imparare le cose belle della vita, l'uomo che mi aveva insegnato a creare un mondo a parte con la lettura, l'uomo che mi aveva amata più di ogni altro. Trattenni le lacrime, non avrei pianto davanti a quelle facce estranee, che sembravano lì per caso e chiacchieravano tra loro come se niente fosse, come se a nessuno importasse davvero. La veglia funebre c'era stata il giorno prima, aveva detto Orlanda durante il viaggio. Io non c'ero andata, ero a letto apparentemente priva di vita e angosciata al massimo. Non era importato a nessuno, come sempre. La funzione durò un'oretta, poi la bara fu calata nella fossa. Fissai la terra che cominciava a ricoprire la tomba di papà e non ressi. Corsi via e tornai a casa a piedi. Nessuno mi seguì, come se non me lo aspettassi. Entrai sbattendo la porta, correndo per le scale e accasciandomi sul mio letto. La tristezza mi attanagliò il cuore. Ero sola e lo sarei stata per sempre.

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Capitolo 2
*** Due anni prima ***


Mi accasciai sul letto, priva di forze, piangendo. Non potevo sopportare che accadesse di nuovo, non dopo tutto quello che avevo fatto per proteggerla. Ma era successo e ormai era impossibile tornare indietro. Delle braccia forti mi strinsero le spalle e cercai di divincolarmi. Non opposi troppa resistenza, avevo bisogno di quell'abbraccio. Mi strinsi contro il suo petto, piangendo le lacrime che non avevo lasciato andare negli ultimi tre anni. Piansi su di lui, ma non mi importava più ormai di nascondere i miei sentimenti. La mia forza se l'erano portata via. Non volevo più portare a termine la mia missione, volevo solo fuggire e smettere di ricordare tutte le mie sofferenze. Volevo riavere il mio cuore di ghiaccio, volevo tornare ad essere impassibile, volevo tornare alle origini di tutto, indietro nel tempo. Ma se fosse successo, avrei perso la cosa più importante, il mio amore.

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Capitolo 3
*** Oggi ***


Il suono della sveglia mi rimbombò fastidiosamente nelle orecchie, il che significava che erano le sei ed era ora di alzarsi. Mi tirai a sedere sul letto della mia camera nuova, una delle tante in cui avevo alloggiato e che ovviamente non sarebbe stata l'ultima. Papà era morto due anni prima e io non avevo nessuno che mi potesse tenere con sé, né parenti, né amici. Così i servizi sociali, cinque giorni dopo la morte di mio padre, erano venuti a prendermi da casa per affidarmi ad una 'famiglia gentile ed amorevole'. Odiavo quelle quattro parole perché le suddette 'famiglie gentili e amorevoli' erano le più terribili, assillanti e ciniche che potessero esistere. Odiavo gli affidamenti, perché non avevi mai una casa fissa, con un carattere come il mio. Odiavo gli assistenti sociali, i loro falsi sorrisi e le loro leccate di piedi. Odiavo dover andare dagli psicologi una volta a settimana. Odiavo le loro finte osservazioni sui miglioramenti del mio carattere, che non migliorava affatto. Odiavo la loro finta compassione.Odiavo le rassicurazioni false, sul fatto che sarei riuscita a trovare casa. Odiavo me stessa, perché non ero mai stata abbastanza per nessuno. Odiavo questo mondo, perché mi aveva portato via tutto. Il fatto di non avere qualcuno che mi volesse bene e nemmeno una casa, mi ricordava di essere sola ed io, anche se ormai ero abituata al'idea di non avere nessuno, soffrivo ancora tantissimo per la morte dei miei genitori. La mia vita procedeva a rilento, con le solite, monotone giornate. Mi svegliavo, in una casa diversa ogni mese se non ogni settimana, anche se ci avevo fatto l'abitudine... facevo colazione e mi vestivo dopo essermi lavata. Subito dopo prendevo le mie lezioni private dato che non andavo a scuola perché ero molto brava a farmi espellere subito e alla fine delle mia fantastica routine mi rintavavo in camera mia a leggere libri con le cuffiette nelle orecchie e la musica altissima. A volte mi toccava anche andare dallo psicologo a subire la solfa del 'vedrai che tutto tornerà come prima' e 'cosa provi riguardo questo?' In due anni non ero ancora riuscita a farmi nessun amico. Gli psicologi mi definivano spesso asociale o sociopatica... in quelle due parole era racchiusa la mia intera esistenza da due anni a questa parte... d'altronde venivo sempre affidata a famiglie fuori dal comune: una violenta, una maniaca dell'ordine, una apatica, una depressa, una fanatica religiosa, una satanista. Nessuno poteva biasimarmi in fondo. Odiavo quelle famiglie e odiavo il fatto di dovere passare con loro del tempo... era una cosa terribile stare a contatto con gente del genere ogni santo giorno ed era una tortura ascoltarli mentre a tavola parlavano delle loro perfette vite e dei loro problemi, tanto che spesso, con la scusa di stare male, mi chiudevo nella mia stanza senza nemmeno toccare cibo o proferire parola. Così per riuscire a scampare da una vita da incubo, ogni volta che l'ispettrice piombava in casa facevo in modo che un po' di droga sbucasse da sotto un materasso, che dei lividi comparissero sulla mia pelle, che il cibo in frigorifero non fosse sano. Le rare volte in cui capitavo in una famiglia normale succedeva qualcosa di male. Una volta mi avevano affidato a una famiglia di bravissime persone, non avevano difetti apparenti, erano normali, li adoravo.Come segno di gratitudine verso la loro ospitalità avevo provato a cucinare qualcosa di buono e la casa era andata a fuoco. I miei genitori adottivi mi avevano denunciata come piromane. Questo era il motivo per cui nessuno ormai voleva più tenermi con sé. Tutti questi fatti andavano ad aggiungersi alla mia cartella e la mia cartella veniva letta. Non avevo più tante speranze, prima o poi nessuno si sarebbe più fatto avanti come volontario. Il che era molto triste a pensarci bene. Avevo ancora sonno, ma mi stiracchiai e scesi di sotto per la colazione non pronta però a stare a contatto con tutta la combriccola di strani individui che abitavano nella casa. Il padre si chiamava George, la moglie Maria, e neanche a farlo apposta, il figlio si chiamava Frank Pio. Questa famiglia era una di quelle fanatiche religiose e io non la sopportavo proprio. Da quando avevo messo piede in casa ed avevo notato il muro con una gigantografia di Gesù dipinta sopra, non li reggevo. Era una tortura dover dire preghiere un'ora sì e una no, era come essere sempre in un monastero. Era fastidiosissimo essere costretta ad indossare rosari su rosari quando ne sarebbe bastato uno, o baciare la croce appesa in camera mia sotto supervisione del padre di famiglia, oppure non potere guardare la tv o leggere libri fantasy o thriller solo perché c'erano un po'di spargimenti di sangue! Quando scesi al piano di sotto stavano già pregando, alle sei e cinque di domenica mattina... Ero esasperata. Quella lenta litania ormai la sapevo a memoria ed ero arrivata a non sopportarla più. Non potevo aspettare l'arrivo dell'ispettrice come avevo progettato di fare. Non potevo resistere un altro momento in quella casa, dovevo escogitare qualcosa. Un lampo di genio mi attraversò la mente. Andai in cucina con calma e come ogni mattina salutai tutti con il mio solito sorriso finto stampato in faccia e mi feci il segno della croce di routine, più per far sì che la mia idea funzionasse che per fare contenti loro come succedeva di solito. -Buongiorno a tutti, buon appetito e che il signore sia con voi- mi sedetti al mio posto innocencemente. Gli altri mi saltuarono in coro e cominciarono a pregare. Ancora! Non ce la potevo fare. Mi alzai di scatto lanciando la sedia a terra facendo strillare Maria. Guardai tutti bene negli occhi come per sottolineare il fatto che si sarebbero ricordati di quel momento per tanto, tanto tempo. Mi strappai dal collo il rosario con tanta violenza che mi scorticai. Lo scagliai nel camino e il fuoco era acceso, non c'era modo di recuperarlo. Tutti e tre i membri della famiglia sbianciarono di colpo. A Maria venne un attacco di panico e Frank cominciò a strillare -Sacrilegio! Sacrilegio!- correndo attorno al tavolo. Sembravano impazziti. L'unico che conservava una calma apparente era George, che era comunque bianco come un lenzuolo. Stavolta avevo davvero esagerato, anche per i miei standard. L'uomo passava gli occhi da me al fuoco, dal fuoco a me... era troppo calmo, mi spaventava quasi. Poi si porto le mani al petto e permette la destra sul cuore con un espressione di pura sofferenza in viso. Ci fissammo per qualche istante dai lati opposti della stanza, poi, semplicemente, cadde. Dapprima non capivo cosa fosse successo, ma quando Maria urlò di chiamare un'ambulanza una macabra ipotesi si insinuò nel mio cervello. Un infarto. Ero totalmente scioccata.Non avevo pensato alle conseguenze del mio gesto e non avrei mai ipotizzato a una cosa del genere... Era solo un rosario... Così stetti lì, a fissare Maria accasciata sul marito piangendo e Frank chiamare l'ambulanza con voce devastata e malsana. I paramedici arrivarono subito e dopo pochi minuti trasportarono George in ospedale. Si sarebbe ripreso, avevano detto a Maria... era solo un lieve attacco di cuore avevano detto... io non ne ero sicura... lo avevano detto anche per papà che si sarebbe ripreso... Maria e Frank avevano seguito il malato in ospedale e io ero ancora lì, impalata accanto allo stipite della porta... da un'ora oramai... Qualcuno bussò alla porta, mi sembrava di avere macigni ai piedi e che questi fossero incollati al parquet. La voce squillante della mia ispettrice si sentiva chiaramente e al di là della porta stava urlando da non so quanto tempo la stessa frase. -Sono dei servizi sociali, apri la porta o sarò costretta a buttarla giù- passarono pochi istanti in cui io rimasi immobile -su tesoro sono Margaret- Mi ripresi lentamente dallo shoc e andai ad aprire. Mi ritrovai davanti l'unica persona sulla quale potessi fare affidamento, almeno un po'. Era una donna benevola e gentile, non come gli altri ispettori, rigidi e fissati con le regole. Sembrava quasi che mi volesse bene, anche se ovviamente non lo aveva mai dato a vedere. Non appena vidi apparire la massa di capelli biondi sulla soglia mi fiondai tra le sue braccia e la strinsi forte. Era parecchio più bassa di me e lei, che non superava il metro e sessanta, mi arrivava all'altezza del collo. Si sottrasse al mio abbraccio bruscamente con uno espressione di delusione stampata in volto. -Questa volta hai esagerato te ne rendi conto? Non puoi fare quello che vuoi! Devi collaborare e le famiglie a cui sei stata assegnata sono tra le migliori che abbiamo! Non pensi di dovere loro un po'di rispetto? Passi pure un allagamento o la rottura di un vaso prezioso o il fatto che tu ,sì me ne sono accorta già da tempo, fai di tutto per cambiare famiglia quando ti sei scocciata di stare assime ad un'altra, ma provocare un infarto? La signora Maria mi ha chiamato per farti portare via e mi ha anche detto che hai lanciato un rosario nel camino e l'hai bruciato. Ci pensi mai a quello che fai? Sono una famiglia devotissima alla religione e tu bruci qualcosa di consacrato? Sei impossibile davvero. Posso capire che non l'hai fatta apposta, posso capire i tuoi problemi ma stavolta le conseguenze sono state molto gravi. Non posso più tollerare altre azioni simili da parte tua! Sarebbero venuti gli assistenti sociali a prenderti, ma ho chiesto e ottenuto il permesso di venire io, perché so che non ti vanno a genio e...- Non le lasciai finire la frase, non poteva parlarmi così senza sentire quello che avevo da dire -Margaret. Tu non puoi venire qui a dirmi quello che devo e non devo fare. Sono abbastanza scossa per i fatti miei, non hai appena visto un uomo collassare per un infarto, io sì. Lasciami tempo per respirare e mostra un po'di comprensione per una buona volta! Lo so che sei venuta per me e ti ringrazio, ma se devi venirmi a dare lezioni di vita preferisco di gran lunga i tuoi colleghi leccapiedi, almeno loro non parlano, ti guardano solo con disprezzo. Non potete sapere cosa ho passato. Non potete sapere come mi sento ogni giorno quando mi sveglio senza nessuno che mi dia il buongiorno come faceva mio padre, senza nessuno che mi aiuti ad andare avanti, senza amici, senza una vita! Tu non hai mai passato quello che ho passato io e non lo passerai mai. Non potrai mai capire quello che provo perché non sei me. Odio tutte queste famiglie che voi credete perfette e che si mostrano tali, ma non sono per niente come credi! Sono odiose e non le sopporto! Non ce la faccio più a vivere così! Sai cosa si prova a piangere ogni notte senza nessuno che ti consoli, con i singhiozzi soffocati dai cuscini per non fare rumore e la solitudine che non fa altro che spingerti giù verso l'abisso della disperazione? Non capisci cosa ho passato e come sto perché non puoi, non dico che tu non voglia ma...- un singhiozzo mi uscì dalla gola e al diavolo il mio tentativo di mantenere un briciolo di orgoglio. Non avrei pianto, non dopo tutti quegli anni. Sarei stata forte, come sempre e non mi sarei lasciata andare. Rimasi zitta un momento, prendendo dei respiri profondi -...ma non capiresti comunque cosa la morte di mio padre ha provocato al mio cuore.- Margaret corrugò la fronte guardando a terra e piccole rughe di espressione si formarono sul suo viso ancora giovane. Stava pensando. Quando sollevò lo sguardo aveva gli occhi lucidi, o per lo meno così sembrava... parlò con un tono diverso, di una tranquillità calcolata -No, hai ragione non posso capire. Ma se le sedute dallo psicologo non bastano possiamo provare con dei farmaci per... lasciamo stare... comunque sono sicura che troveremo qualcuno che si prenderà cura di te e con cui tu possa relazionarti al meglio okay?- Annuii meccanicamente. Tanto nessuno sarebbe mai stato capace di sostituire nemmeno in minima parte papà. Nessuno. Non importava quanto cercassero, il mio papà era solo uno e un gruppo di estranei non sarebbe bastato per colmare il vuoto che avevo dentro. Soffrivo, ma cercavo di non darlo a vedere. Margaret aveva cambiato espressione ora... il suo sguardo era carico di compassione e senso di colpa per essere costretta a portarmi di nuovo nel posto che più odiavo. Il centro di affidamento. Andai di sopra a testa bassa, strascicando ogni passo per sprecare più tempo possibile e anche perché non avevo forze. Buttai i miei vestiti nella valigia alla rinfusa, senza piegarli o sistemarli un po', mi mancava la voglia. Presi dal comodino la foto di papà e accarezzai il suo viso sotto il vetro, come se potessi toccarlo per davvero e con una delicatezza infinita la appoggiai nella borsa dove tenevo le cose più preziose. Mi sedetti sulla valigia per chiuderla poi radunai libri e cianfrusaglie varie nelle tre borse che rimanevano. Scesi carica di tutti i bagagli e Margaret prese la mia valigia mentre mi accompagnava alla macchina, una Fiat Mini bianca, sempre pulita e tirata a lucido. Aprii la portiera posteriore dell'auto e mi infilati sui sedili allacciadomi la cintura per evitare i rimproveri di Margaret e spinsi le borse nel baule. Durante il viaggio non parlammo, ci eravamo dette tutto davanti a casa... Non sopportavo l'idea di poter capitare in un'altra famiglia irritante o meschina, perché questa volta sarebbe stato per sempre. Questa era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, Margaret non avrebbe piu accettato le mie mute richieste di allontanamento. Questa era la mia ultima possibilità per rifarmi una vita, per cambiare, per essere una persona nuova. Le foglie cadevano e si agitavano deboli sui rami a causa del vento autunnale e io fissavo il cielo grigio, come per chiedergli di portarmi via, di farmi fuggire da questo mondo freddo e insensibile. Arrivammo davanti ad un triste edificio di un brutto color marroncino smorto. Mi accorsi che ci eravamo fermate solo dopo che Margaret sbatté con violenza la portiera e scese dalla macchina. Mi risvegliai dal mio torpore... Avevo pensato troppo, come al solito. Scorsi di sfuggita Margaret che, al di là del finestrino, mi intimava di scendere dall'auto. Sbuffai facendo una smorfia, abbastanza grande perché lei riuscisse a notare la mia svogliatezza. Giurai di averla vista alzare gli occhi al cielo. Soppressi una risatina nervosa e mi costrinsi a scendere dall'auto. Aprii lo sportello e non appena misi piede sull'asfalto, alcune gocce di pioggia mi caddero sulla mano. Alzai il volto verso l'alto e sentii altre gocce bagnarmi sulla fronte e sul naso. -Ti vuoi dare una mossa? Sta cominciando a piovere, non ho intenzione di inzuppami i vestiti!- la voce acuta di Margaret mi fece sobbalzare e per poco non inciampai sui miei piedi. -Arrivo! Arrivo! Che due scatole, dammi un po' di tempo dannazione!- -Signorinella, non accetto questo comportamento maleducato da parte tua. Impara un po' di bonton, ci sono dei libri apposta sai?- -Ci sono dei libri apposta sai?- la imitai per prenderla in giro -ma per favore!- Margaret incrociò le braccia e comincio a guardarmi con fare intimidatorio.... Oh oh,l'avevo fatta arrabbiare. -okay, scusa... Arrivo subito.- Presi le valigie dal baule e corsi sotto la tettoia del palazzo, perché le gocce avevano già cominciato a battere ritmicamente sul terreno. Margaret mi seguì a ruota e entrammo nel centro affidamenti. Era pieno zeppo di cubicoli, stretti corridoi e impiegati, assistenti sociali e ispettori. Era troppo caotico, ogni volta che ci entravo mi veniva da svenire. La mia claustrofobia portava anche a questo.... Non appena misi piede sul tappeto all'entrata tutti alzarono lo sguardo per vedere chi fosse appena arrivato e i loro occhi rimasero puntati su di me... Cinquantasette persone mi stavano fissando... Perché non abbassavano la testa e tornavano ai loro lavori? L'aria comiciò a mancarmi e sbiancai di colpo. Diedi una lieve gomitata a Margaret per informarla delle mie condizioni e lei per tutta risposta mi prese per un braccio e mi trascinò lungo un contorto labirinto di corridoi, fino ad arrivare davanti ad un ufficio... L'ufficio del capo.... Ripresi fiato e parlai con voce rotta -Perché siamo qui Margaret? Non dovevamo andare nel tuo ufficio? Non dirmi che.... Mi sbattono in prigione? Oddio non possono farlo! Dovrei andare in un riformatorio e... Sarebbe.... Una cosa... - mi era tornato un attacco di panico. -Respira Emily! Avanti! Calma.... Su.... Non andrai in riformatorio, solo che hai cambiato troppe famiglie in questi ultimi due anni, quindi il capo ha deciso di trovare per te una famiglia che tu possa credere adatta per una buona convivenza. Dovrai solo compilare un questionario, poi sceglieremo per te un ambiente familiare adatto. E non potrai cambiare questa volta. Un passo falso da parte loro o da parte tua? Poco importa. Tu dovrai rimanere con loro fino ai tuoi diciotto anni, dopodiché potrai essere libera di vivere dove ti pare e piace. - mi guardò finché il mio respiro non torno più o meno regolare -andiamo?- Annuii poco convinta e Margaret dopo aver bussato, abbassò la maniglia della porta. L'ufficio era enorme, con un tocco vintage... Non avevo mai visto il capo, ma doveva essere una donna visto l'arredamento in stile molto femminile della stanza. Puntai lo sguardo su un'ingombrante sedia che era rivolta verso una vasta libreria, di fronte a me. Era in pelle nera, costosa a prima vista. Guardai Margaret... era immobile e sembrava leggermente preoccupata. La sedia, con un movimento brusco, si girò. Sbiancai. Non era una donna, era un uomo, anche ben piazzato... Aveva i capelli corvini, lunghi il giusto e gli occhi verde smeraldo dai tratti asiatici. Sembrava davvero bello. Ero persa nella sua contemplazione quando si alzò e andò a stringere la mano di Margaret, per poi passare alla mia. La strinsi senza troppo vigore, non avevo molte forze e la nausea stringeva il mio stomaco in una morsa insopportabile. -Mi chiamo Peter John Emilton, piacere- mi rivolse un sorriso e qualcosa mi diceva che non era poi così di cortesia. La sua voce era dolce e sensuale in un certo senso. Farfugliai delle parole che sembravano un misto tra Emil e Yan... Non dissi il mio cognome... Oramai mi conoscevano tutti. -Oh, sei la famosa Emily!- come se non lo sapesse. Mi indicò una sedia accanto alla sua scrivania e fece accomodare Margaret su una poltroncina nel fondo della stanza. Andò dalla parte opposta del tavolo e tirò fuori dei fogli, il test. Me lo porse e io lo presi controvoglia -mi hanno già spiegato cosa fare, grazie- Presi una penna senza chiedere il permesso, me ne infischiavo del 'bonton'. Cominciai a compilare i moduli. C'erano 40 domande ed erano tutte a crocette tranne tre. "Dove vorresti vivere?","Vorresti avere fratelli e sorelle?","Ti irritano gli animali?" Queste erano le domande a cui risposi con più attenzione. Nelle altre crocettai la risposta fregandomene altamente del risultato finale. Avrei sempre voluto vivere in campagna, in mezzo alla natura. Amavo i felini e specificai anche il colore che avrebbe dovuto avere il mio felino ideale. Nero. Una gatto nero dagli occhi di ghiaccio. Inoltre scribacchiai che avrei sempre voluto avere due fratelli maggiori, ma che fossero simpatici per lo meno. Dubitavo che mi trovassero una villa in campagna, una gatto nero e due fratelli maggiori simpatici, ma mai dire mai. Consegnai il modulo. In cinque minuti avevo finito. Sorrisi freddamente, indossando la mia maschera, mentre passavo le carte a Peter e mi alzai soddisfatta. -Grazie mille per quest'ultima possibilità che mi state dando.- L'uomo mi stava squadrando da capo a piedi -Non c'è di che... Riceverai il responso e avrai una nuova famiglia entro una settimana. Nel frattempo potrai dormire in una delle nostre... - -Dormirà da me.- Margaret era dietro alla mia sedia e mi aveva messo una mano sulla spalla. Sorrideva dolcemente. Sono sicura che si troverebbe molto meglio. Annuii con vigore per sottolineare che ero d'accordo, dannatamente d'accordo. Peter sembrava irritato, quasi arrabbiato... Sorrisi anche io e salutammo il capo con una stretta di mano, poi uscimmo dall'ufficio. Appena fuori guardai Margaret con gli occhi colmi di gratitudine, ero quasi commossa -Perché lo fai?- -Fare cosa? Se mi stai chiedendo perché ti ho ospitato, be' non mi sembrava carino lasciarti qui. Le stanze sono puzzolenti, vecchie e per me che abito da sola non sei di alcun impiccio...- non ebbe il tempo di finire la frase. -Anche quello, ma la cosa che non capisco è il fatto che tu mi aiuti in ogni situazione, mi sostieni e mi fai notare quando sbaglio... perché lo fai? Ti ho sempre risposto male, ti ho sempre trattata male, come faccio con tutti... prima pensavo che lo facessi perché era il tuo lavoro, ma gli altri assistenti sono.... come dire... distaccati dai ragazzi che gli sono assegnati... e tu mi hai ospitata a casa tua addirittura... mi stupisce solo questo... quindi vorrei dirti, per la prima volta nella mia vita grazie, grazie di tutto quello quello fai, grazie di prenderti cura di me e di consolarmi quando sto male, grazie di esserci quando nessuno non c'è... be', grazie- stavo guardando a terra e quando alzai gli occhi Margaret era sul punto di piangere. -Margaret io... non avevo intenzione di farti piangere...- -No, Emily queste non sono lacrime di tristezza, mi sono solo commossa un po' , tutto qui... io aiuto solo te in questo modo, ma non ho idea del perché, sembri così piccola e indifesa rispetto a tutti gli altri che sono dei delinquenti patentati... sento solo di doverti dare una mano, tutto qui- -Margaret, posso abbracciarti?- Annuì ed io ne fui immensamente felice, sentivo di avere bisogno dell'abbraccio sincero di qualcuno, dell'affetto di Margaret, di un affetto vero. La strinsi forte per qualche minuto poi mi staccai da lei -Grazie, davvero- -Non devi neanche dirlo- mi sorrise con gentilezza poi prese parte delle mie valige -il resto prendilo tu, non riesco a portare tutto- -Si certo- raccolsi il resto delle valige e percorsi assieme a Margaret il corridoio da cui eravamo passate prima. Arrivate all'atrio tutti si fermarono a fissarmi di nuovo e uscimmo in fretta e furia. Non appena varcata la soglia ci ritroviamo davanti una pioggia scrosciante, il la pioggia aveva allagato tutto. Presi l'ombrello di Margaret e misi dentro la macchina tutte le valige mentre lei mi aspettava sotto la tettoia, poi le feci spazio e salimmo in macchina, finalmente. Nonostante l'ombrello ero completamente inzuppata di pioggia e quando mi appoggiai con la schiena al sedile non riuscii a non rabbrividire quando la maglia bagnata entrò a contatto con la pelle.

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Capitolo 4
*** Inquietudine ***


Margaret abitava un fuori città, in un quartiere carino, a dirla tutta. Ci fermammo davanti a una casetta dai colori vivaci e appena scesi dalla macchina una palla mi rotolò ai piedi. -Margaret, puoi portare dentro la mia roba? Devo fare una cosa- -Si certo tesoro, ma fai presto che dobbiamo cenare- La raccolsi. Dei bambini, più in là, stavano prendendo in giro un loro compagno e lo stavano spintonando. Il più grande avrà avuto circa undici anni, mentre gli altri erano tutti più piccoli di qualche anno probabilmente. Il bambino più piccolo era quello che veniva spintonato. Non potevo sopportare di vederlo così. Mi avvicinai a loro - Cosa state facendo?- Il bambino più grande si avvicinò a me con fare minaccioso. Mi arrivava allo stomaco e imitando una voce profonda mi disse -Scusa chi sei tu?- ripetei la mia domanda ancora una volta, con più convinzione, continuando a fissare il bambino, che mi rispose in malomodo -Non può stare con noi- indicò la palla che avevo in mano- se ha una palla rosa- fissai il nanerottolo esterrefatta - allora neanche tu puoi stare con loro- indicai la sua maglietta - dato che sei vestito rosa- gli rivolsi un sorriso di scherno e rivolgendomi a tutti gli altri dissi -Forza, tornate dalle vostre mamme e smettete di dare retta a questo nano, siete meglio di lui- Tutti i bambini si dispersero, tranne il più piccolo, il proprietario della palla. Quando mi avvicinai a lui, cominciò a indietreggiare -Hey, non devi avere paura, sono tua amica- gli sorrisi, sperando di apparire rassicurante. Il bimbo mi si avvicinò e sussurrò un grazie, recuperò la palla poi corse via come gli altri. Mi avviai verso la casa e spinsi la porta che era rimasta socchiusa -Permesso?Le mie valige erano vicino alle scale -Dove sei Margaret?- -In cucina! La stanza alla destra del salotto- Entrai nella cucina. Tutta la casa di Margaret aveva un design moderno, ma era comunque confortevole e accogliente. -Che dovevi fare prima?- la sua domanda mi colse alla sprovvista -Oh be io... volevo dare un'occhiata al quartiere, tutto qui- feci un sorriso forzato sperando che non facesse altre domande. -Oh d'accordo, spero che ti troverai bene qui!- -Sì, di sicuro, è tutto così carino e in ordine, un po' come nella mia vecchia casa. Grazie ancora Margaret- -Ah già, se vuoi stasera puoi uscire e andare a fare un giro magari, tanto per cambiare un po' aria e magari schiarirti le idee, o cose così- -Sì emh... credo che prenderò in considerazione la tua idea- c'era qualcosa che dovevo chiederle ancora, ma non ricordavo... -Ah già! La mia stanza?- -Vieni Emily, ti accompagno- mi portò in una stanza molto spaziosa, con un letto a due piazze, ma poco arredata - Be, è la stanza degli ospiti questa e non viene usata da molti anni, quindi potrebbe avere bisogno di una ripulita. Scusa se trovi della polvere o cose varie, ma non è che mi fossi preparata granché per il tuo arrivo- -Oh, si tranquilla, ci penso io- Margaret tornò in cucina e andai a prendere le valige saltellando per le scale. Tornai in camera e mi chiusi dentro, buttando nei cassetti dell'armadio tutte le mie maglie e pantaloni e appesi agli attaccapanni i giacconi, i cardigan e i vestiti. Perfetto. Mancava solo una cosa, la foto di papà. La misi sul comodino, di fianco al letto, non prima di essermi assicurata che durante il viaggio non si fosse rovinata. Avevo una particolare cura di quella fotografia, non ne avevo tante di papà, non amava farsi fotografare. La fissai finché non si formò un groppo nella mia gola e cominciai a sentire gli occhi inumidirsi. Allora mi alzai dal letto e cominciai a esplorare la casa. Trovai il bagno e misi sul lavandino il mio spazzolino e il dentifricio, mentre le altre cose le tenni in un sacchetto che appoggiai nella mensola vicino allo specchio. Odiavo guardarmi su una superficie riflettente. Ogni volta i miei lineamenti mi ricordavano mio padre e per questo stavo male. -Emily è pronta la cena!- la voce di Margaret arrivò come la voce di un angelo dalla cucina. Avevo una fame terribile. Corsi di sotto e mi fiondai nella sala da pranzo seguendo l'odore di uno stufato di maiale coi fiocchi -Mh che buon odore- -Emily! Questo giorno è da ricordare! È il primo stufato che non brucio!- -Oddio Margaret è... emh... fantastico!- Cercai di non ridere, sembrava troppo entusiasta. Finii di mangiare quasi subito -Hai ragione Margaret, era davvero buono- -Oh, sono così contenta che ti sia piaciuto- Annuii - Magari esco ora, vado a fare un giro fino in città poi torno. A piedi quanto ci metterò? Mezz'ora? - -Sì, una mezz'oretta dovrebbe bastare, ma metti il cappotto che fa freddo- Corsi di sopra e misi il cappotto dando un'ultima occhiata alla foto di papà, poi uscii di casa -Torno alle nove!- urlai sperando che Margaret mi sentisse. Arrivai in città alle nove in punto e addio le mie speranze di tornare a casa puntuale. Tanto valeva rimanere un altro po'. Andai in un bar a bere qualcosa e non appena mi sedetti un ragazzo, sbronzo, mi so avvicinò -Hey bambola, che ne dici se ti offro una birra- poi si rivolse al barman -due birre- -No guarda, io non bevo, mi alzai lentamente dal mio sgabello, grazie comunque- Il ragazzo mi sbarrò la strada piazzandosi davanti alla porta -Oh no cara, tu berrai con me!- - Senti voglio solo tornare a casa okay? Ti sposti per favore?- Qualcuno dal fondo del bar lo richiamò -Dai John, lasciala stare, è solo una ragazzina- -D'accordo, d'accordo, puoi andare, ma prima o poi berrai qualcosa insieme a me- mi sorrise inquietante e liberò la strada. Uscii di corsa controllando che non mi stesse seguendo. Rallentai quando fui sicura di essere sola. Gli occhi di quel ragazzo si erano riempiti di timore quando l'altro l'aveva richiamato. O forse era solo una sensazione. Continuai per la mia strada a passo spedito. Era tutto buio e per strada non c'era anima viva. Guardai l'orologio, erano le undici di notte. A casa mia aspettava una bella lavata di capo. Non che io non ci fossi abituata, ma era sempre snervante. Era tutto buio e tre lampioni si spensero, dopo avere sfarfallato per un po'. Fantastico -Cavolo ma sei serio?- stavo urlando, sicuramente mi avrebbero preso per pazza se mi avessero sentita, ma chi sene fregava? Continuai ad andare per la mia strada per un po' quando vidi un ombra passarmi accanto. Non c'era nessuno, la strada era deserta. Mi voltai, attenta a tutto quello che mi circondava, ma come immaginavo, il nervoso che mi stringeva lo stomaco e la frustrazione che provavo mi giocavano brutti scherzi. Tornai sui miei passi, stavolta più attenta, ascoltai il suono dei miei piedi calpestare l'asfalto rovinato dal viavai delle macchine. Ero sicura, qualcuno mi seguiva. Uno strascichio di piedi si aggiungeva alla mia camminata. Chi era? Cercai di guardare con la coda dell'occhio, non c'era nessuno... che mi stessi immaginando tutto? Mi misi a correre, non so nemmeno io perché lo feci, avrei solo attirato maggiormente l'attenzione del mio inseguitore, ma l'istinto mi diceva di andarmene di lì e in fretta. I passi dell'altro si fecero più veloci, mi era alle calcagna.... Una mano calda e sudaticcia, scheletrica, mi circondò il polso e mi strattonò all'indietro, facendomi cadere di testa sul bordo del marciapiede. Feci di tutto per non svenire, se l'avessi fatto, mi avrebbe quasi sicuramente uccisa, se non peggio. Era un maniaco. L'ultima cosa che vidi fu il suo volto... -Tu- riuscii a emanare quel flebile sussurro, prima di sprofondare nel buio.

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Capitolo 5
*** La luce nel buio ***


Mi svegliai circondata dall'oscuritá dopo essere svenuta tre o quattro volte dalla mia permanenza in quel posto. Mi faceva male tutto. Durante i brevi momenti in cui ero sveglia sentivo le sue mani viscide passarmi per tutto il corpo, lo sentivo picchiarmi, lo sentivo graffiarmi. Perché tutto questo doveva succedere a me? Mi aveva trovata, mi aveva presa e non mi avrebbe mai lasciata fuggire, ero la sua preda. Ma non era colpa mia e nemmeno sua, in fondo era pazzo. Cosa devo fare per convincerlo a lasciarmi andare? Non avevo la più pallida idea di quello che sia il suo limite, fino a quel momento non aveva dato segni di pietà o cedimento, non aveva detto niente. Non sapevo nemmeno da quanto quella tortura era partita. La mia cognizione del tempo era svanita assieme alla mia fiducia verso l'umanità. Sorrisi all'idea che ero vicina alla morte e che mi sarei liberata definitivamente dalle sue torture. Ma poi la morte cosa risolve? Non avevo certezze nemmeno nella vita reale, come potevo averne riguardo a quello che viene dopo? E se non ci fosse niente? Se la morte fosse un grande buco nero dove tu vieni scaraventato perchè questo mondo ti ha buttato? La paura prese il sopravvento, non sapevo cosa fare, ma sapevo che dovevo riuscire ad uscire da lì. I pensieri mi frullavano in testa a ruota libera e dovevo riuscire a fermarli. Come facevo durante le interrogazioni? Spegnere il cervello, eliminare tutto tranne il mio obbiettivo, riuscire a raggiungerlo. E sarei riuscita a arrivare anche a questo. Dove sono? Non lo so, so solo che dall'aria viziata che c'era mi trovavo in un seminterrato, senza finestre e completamente buio. Sono bendata, ma perchè? Prima di svenire l'ultima volta non lo ero. So chi è, non ha senso non farmi vedere. Ma forse è meglio così. Usa il buio per torturarmi, per farmi impazzire e forse ci è riuscito, sono pazza. Ma sarei uscita di lì. Non tornerà per un altro po' di tempo, di questo ne sono certa, è appena venuto a portarmi da bere e ho sentito la porta sbattere, se fosse stato in casa avrei percepito dei rumori. Avevo urlato talmente tanto che la mia voce era quasi sparita del tutto. Morsi le corde che mi circondvaano i polsi, cominciavano a cedere. Continuai per un tempo che mi sembra infinito e una si ruppe. Perchè non ci avevo pensato prima? Perchè il mio istinto non mi aveva aiutata prima? Feci lo stesso con l'altra corda che si spezzò come la prima. Mi tolsi la benda dalla testa. Ci sono. I polsi mi facevano un male incredibile. Provai a sfiorarli perchè non vedevo niente e trattenni a stento un urlo. Delle abrasioni si estendevano per tutta la circonferenza del mio braccio che oramai era diventato magro la metà di prima. Mi alzai in piedi e barcollai. La mancanza di cibo e la disidratazione mi provocavano dei giramenti di testa incredibili. Annaspai nell'aria e con una cautela che sembrava quella di un felino raggiunsi il muro che mi sembrava quello opposto rispetto a dove ero prima. Procedevo a tentoni , niente mi dava la certezza che Lui fosse uscito davvero. Trovai una maniglia e la girai. La porta era aperta. Sembrava troppo sicuro di sé per non commettere almeno un errore. Sono davvero così stupida secondo lui? Ci sono degli scalini. Li salii e arrivai a un'altra porta, anche quella era aperta. La luce della luna mi arrivò in faccia e chiusi subito gli occhi, mi bruciavano. Schiudo le palpebre e nuovamente, la luce di gigantesca palla bianca mi si paró davanti, attraverso i vetri di una gigantesca finestra. Ma dove sono? Mi voltai e vidi una scala, dava al piano superiore. Andai avanti sempre lentamente a passo felpato e arrivai al piano terra. C'era un salotto e una porta di ingresso. Stavo per esultare di gioia, ma non me lo potevo permettere , non dovevo fare rumore. Elimina le emozioni Emily, torna a casa. Sconfiggi le tue paure, scappa. Facendomi forza con l'ultima briciola di volontà che mi rimaneva scattai verso la porta e provai ad aprirla. Era chiusa. Sentii dei rumori al piano di sopra, si era svegliato. Non mi sembrava di avere fatto rumore -Coniglietto? Cosa combini? Cerchi di scappare? Dove sei?- la sua risata ruppe il silenzio tombale che si era creato. Dei passi, stava scendendo le scale. Terrorizzata, non avevo idea di dove avrei potuto nascondermi, così mi fiondai dietro la porta da dove ero entrata sperando che non si accorgesse di me. Mi feci piccola piccola e cercai di limitare i miei respiri a cinque sei al minuto. Misi all'erta l'udito e lo sentii fischiettare -Vieni coniglietto, sei libero- il rumore della chiave che girava nella toppa della porta mi sorprese. Non sapevo cosa avesse in testa, ma la sua mente malata non gli avrebbe permesso di farmi fuggire così facilmente di lì. Continuò a parlare con una voce profonda e terrificante- So che sei dietro quella porta. Esci da questa casa ora o vengo a prenderti io- la sua voce tornò melliflua - e non sarà poi così piacevole. Cominciai a uscire dall'ombra, impaurita e terrorizzata da quello che stava per succedermi, ma dovevo cogliere la palla al balzo. Presi la ricorsa superandolo senza che avesse la possibilità di muoversi. Mi fiondai fuori, debole, ma con l'adrenalina alle stelle. Corsi fino in fondo all'isolato poi semplicemente caddi, dopo essermi appoggiata contro un muretto. Ero ancora troppo vicina a quella casa, mi voltai e lo vidi venirmi in contro con un'accetta. Chissà dove l'aveva presa quella. Due lampeggianti di una macchina mi passarono sul volto. Davvero non fregava niente a nessuno di una mezza morta a terra? Ebbi le vertigini e appoggiai la fronte su una mattonella del muro a cui ero appoggiata. Era fresca, speravo che mi evitasse di svenire, ma non accadde. Caddi nell'oscurità, quel buio che mi immobilizzava, che mi terrorizzava. Non volevo più svenire, non con Lui che mi stava per catturare di nuovo. Però era inevitabile. Mi aspettavo di cadere sul freddo e duro asfalto, ma qualcosa mi sostenne. Mi sforzai di vedere cosa o chi fosse, e se fosse stato Lui? Aprii gli occhi per una frazione di secondo e un lampo di luce mi passò sopra la testa. Un'imprecazione alleggiò nell'aria. Non avevo nessuna forza per urlare o provare a lottare per liberarmi, dovevo sperare. Smisi di lottare contro me stessa e mi lasciai andare a quella sensazione di formicolio e paralisi, chiunque tu sia, salvami. Buio. Freddo. Paura. Io avevo paura del buio, almeno credo. Come sono finita qui? Ma poi, qui dove? Tanto valeva aspettare che qualcosa o qualcuno mi tirasse fuori da quel posto... Sentii qualcosa che mi sfiorò e non avevo la più pallida idea di cosa fosse. Non potevo muovermi, ero come incatenata al terreno. Non ci capivo niente. Una mano si era intrecciata alla mia. La paura stava tornando. Cercai di scacciarla col pensiero ma non accadde nulla. Il buio che mi circondava era imperscrutabile, ma io sentivo che qualcuno era lì con me. Urlare non sarebbe servito a niente, tanto le mie corde vocali erano come gelate. Si sta avvicinando, lo sento. Ero come imprigionata in una statua, ero terrorizzata e non avevo la più pallida idea di come fuggire È davanti a me, lo percepisco, sento il suo alito caldo sul mio collo. Ha aperto gli occhi e la mia paura si è placata e al suo posto è arrivato lo stupore. I suoi occhi sono di due colori diversi. Quello destro è come il cielo notturno il sinistro è verde cangiante come le foglie estive. Due colori innaturali, ma bellissimi. Poi mi accorsi che quegli occhi erano l'unica cosa che illumina.... il nero.... ero circondata da un gigantesco alone nero. La figura si voltò. Si allontanò. Il terrore di essere tutta sola tornò a galla. Chi era? Una fitta alla testa, riuscii a spostare una mano e a poggiarmela sulla fronte. Un'altra fitta e poi un'altra ancora, stava diventando insostenibile. Alzai gli occhi per l'ultima volta e vidi solo buio. L'emicranea prese il sopravvento e mi buttai a terra cingendomi le gambe con le braccia, così esili che sembravano giunchi. Chiusi gli occhi e il dolore si attutì di poco. Calmai i miei pensieri e le mie emozioni, ma una domanda rimase. Chi?

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Capitolo 6
*** Inferno ***


Riaprii gli occhi e mi misi a sedere. Era tutto rosso attorno a me. Ero circondata da un immenso campo di grano rosso, che si estendeva a perdita d'occhio. A qualche metro da me c'era un albero gigantesco, una quercia, con le foglie scarlatte, illuminate da una luna dello stesso colore e alta nel cielo. Sembrava che tutto in quel luogo fosse ricoperto da sangue, il che era molto macabro. L'unica cosa che variava era il cielo, sempre che si possa chiamare cielo quella distesa di blu scuro come la notte. Mi alzai da terra e provai a mantenere l'equilibrio. Dovevo raggiungere quella quercia, mi attraeva come una calamita. Cominciai ad avanzare lentamente, poi cominciai a correre. Sembrava che non fossi mai stata legata per chissà quanti giorni, mi sentivo libera da tutti i pesi che mi si erano ammassati sul cuore fino a poco prima. Caddi sei, sette, otto, nove volte, ma mi rialzai sempre, non mi importava, ero libera e stavo bene, ero felice. Sentivo che in un qualche modo sarei anche potuta volare. Arrivare sotto la quercia non fu difficile. Girai attorno all'albero, ma non notai niente di strano. Cominciai a tastare la corteccia in cerca di passaggi segreti o porte nascoste, ma poi mi resi conto che quello non poteva essere uno dei libri che leggevo sempre e che quello era solo uno stupido vegetale, come tutti gli altri. Mi allontanai dall'albero, quel posto cominciava a mettermi addosso una certa inquietudine. Volevo andarmene al più presto. Se solo avessi saputo come... uno scricchiolio attirò la mia attenzione. Alzai lo sguardo verso la fonte del suono, le fronde della quercia. Una foglia si staccò e andò a posarsi ai miei piedi. La fissai. Non c'era nemmeno un filo di vento, come poteva essere arrivata così, da sola? Raccolsi quella piccola foglia e la appoggiai sul palmo della mia mano. Per qualche secondo non accadde niente, ma poi una piccola parte della corteccia dell'albero cominciò a deformarsi, fino ad assumere una forma quasi umana, che si staccò dal resto del tronco. La figura cominciò ad avanzare lentamente verso di me. Sembrava uno zombie, mi terrorizzava. Dovevo scappare di lì assolutamente, ma i miei piedi erano come incatenati a terra e non riuscivo a muovermi. Tirai la gamba destra con le mani, ma non riuscii a spostarla nemmeno di qualche centimetro. Ero impotente, così chiusi gli occhi e attesi che succedesse qualcosa. Ma niente mi fece del male o mi toccò, non accadde niente di niente. Quando riaprii gli occhi vidi che quell'essere non era più un pezzo di corteccia deformata, ma un vero e proprio uomo. Un uomo bellissimo, a dire la verità. I suoi capelli corvini risaltavano sulla sua pelle bianca come il latte. Ma nel suo viso, la cosa che risaltava maggiormente erano gli occhi, di un viola brillante e chiaro. Indossava solamente una tunica, di un tessuto che sembrava lino e il fisico scultoreo, che vi si intravedeva sotto, sarebbe stato invidiato da chiunque. No, non poteva esistere un essere così bello. -Chi è lei?- l'uomo aprì il palmo della mano sinistra che fino a pochi secondi prima era rimasto chiuso e sentii che potevo di nuovo muovermi -Se ti ho lasciata andare non significa che io voglia che tu tenti di scappare di nuovo- stavo continuando a fissarlo come un ebete da chissà quanto tempo, perciò finsi un grande interesse per la quercia, la cui corteccia si era riformata perfettamente. -Ha intenzione di rispondere alla mia domanda?- -Ragazzina, dove credi di essere?- Mi guardai in giro senza trovare una soluzione alla domanda che mi aveva fatto e che io mi stavo ponendo da quando avevo aperto gli occhi poco prima. -Penso... non ho la minima idea di dove sono...- -E hai la minima idea di chi io possa essere?- scossi la testa, nemmeno a questo potevo dare una risposta. Sorrise in un modo abbastanza inquietante e poi continuò a parlare- Bene, allora lascia che ti schiarisca le idee. Questo posto è quello che voi umani chiamate inferno. Avete uno strano concetto della vita dopo la morte, credete che l'inferno sia una cosa terribile, piena di fuoco e fiamme e distruzione e terrore, ma ti assicuro che non è così. Qui non arrivano solo coloro che non rispettano i comandamenti o che compiono azioni malvagie, qui arrivano tutti coloro che cessano di vivere nel tuo mondo. Anche quelli che non hanno fatto niente di male per meritarselo. Le tue paure qui non si tramutano in realtà, sei solamente un po'solo. Quindi no, so a cosa stai pensando, il paradiso non esiste. È solo uno stereotipo di luogo perfetto che voi umani vi siete messi in testa per dare una spiegazione alla vita ultraterrena e a cosa ci sia dopo. Coloro che perdono la vita terrena sono già destinati sin dalla nascita ad andare in un luogo diverso di questa dimensione, non puoi scegliere, vengono assegnati in modo assolutamente casuale. Capita spesso però che due persone si ritrovino nello stesso posto contemporaneamente. Coloro che sono stati violenti o hanno compiuto atti meschini o terrificanti vengono confinati nella prigione dell'inferno, che non è per niente come le vostre, ma spero che tu non scopra mai cosa succede lì dentro. Coloro che sono a metà tra la vita e la morte o che non devono morire finiscono qui, nella "Savana Rossa", credo che tu abbia già capito il perché di questo nome. È un luogo molto tranquillo, come una sala d'attesa. Poi qualcuno della Casata verrà da te e ti aiuterà a tornare in vita. Tu non vedi nessuno qui, ma solamente perché questa parte della dimensione è immensa. Scommetto che se ti mettessi a cercare, qualcuno lo troveresti. Devi considerarti onorata che io sia venuto da te, di solito mando uno dei miei sottoposti a fare le mie veci- Lo stavo ascoltando, sì, ma la mia mente galoppava a mille. Tutto quello che avevo sempre creduto e sostenuto, da brava cristiana, erano frottole? E poi quella prigione era così terribile? Se ero nella Savana Rossa significava che ero in bilico tra la vita e la morte... a me sembrava di essere semplicemente svenuta -ok... sto ancora assimilando la sua prima risposta ma... chi è lei?- -io?- sorrise ancora, questa volta però non era inquietante, era splendido -io sono colui a cui appartiene l'inferno. Sono semplicemente Lucifero, il Diavolo. Sì, è l'unica cosa giusta che ti hanno raccontato. Ma non sono un angelo caduto, dato che come ti ho detto non esiste nessun paradiso dal quale io possa essere precipitato- Ero scombussolata da quelle nuove scoperte e facevo fatica a capire tutto quello che mi stava dicendo - Ma quindi... cos'è un diavolo? E chi sono i suoi sottoposti? Prima ha detto che di solito manda qualcuno a fare le sue veci perciò...- -Quelli che voi chiamate angeli... in realtà sono, come dire... tanti me? Esiste solamente un Diavolo, ma le mie ali non sono bianche e candide, sono rosso scarlatto come il sangue. Nessuno le ha mai viste dispiegate ed io non ho intenzione di mostrarle, sia ben chiaro- sospirò - per quanto riguarda i miei sottoposti... sono semplicemente umani passati a questa dimensione. Sono quelli che ritengo più intelligenti e capaci e sono coloro che mi aiutano ad amministrare l'inferno- -E perché non ha mandato uno di loro a parlarmi? Cioè, lei mi sembra di gran lunga importante, mentre io non sono nessuno- -Tu hai conosciuto qualcuno che... be, con cui mi interessa parlare insomma. E vorrei chiederti se puoi ritrovarlo- Ridacchiai nervosamente -Senta, io conosco tante persone, colui con cui deve parlare potrebbe essere chiunque... inoltre... chi è questo... ehm... ragazzo?- Lucifero socchiuse gli occhi e assunse tutt'a un tratto un aria minacciosa -senti Emily, so che lo troverai, non appena lo vedrai lo riconoscerai, stanne certa, ma è un ragazzo chiuso e scontroso. È affascinante, ma non lasciarti abbindolare da lui. Lo hai già visto una volta, ma io non posso dirti niente di più, né posso descrivertelo, vorrei solo che tu me lo riportassi... credimi vorrei dirti di più, ma non posso. Ah già, lui merita di andare a Kahlmir, è pericoloso Emily, molto pericoloso- -Dov'è che deve andare? E come conosci il mio nome?- -La prigione infernale, Kahlmir. E per quanto riguarda la tua seconda domanda, sappi che io conosco un po' tutto e tutti Emiy. Un'ultima cosa -indicò la mia mano -quella foglia, se bagnata con il tuo sangue ti riporterà qui e se insieme al tuo sangue anche una goccia di quello del ragazzo cadrà su quell'oggetto, verrete qui insieme- -Ma se mi cercasse di uccidere? Cosa dovrei fare?- -Non è pericoloso per te, ma per me. E ora vai. Colui che ti ha fatto del male e che ti ha torturata, be, mi ha fatto un favore enorme anche se mi dispiace per tutto quello che hai dovuto subire. Portarti in fin di vita sarebbe comunque stato l'unico modo per incontrarti- Lucifero cominciò ad indietreggiare finche non cominciò a fondersi con la corteccia dell'albero -Addio, Emily- lo vidi tornare parte della grande quercia e rimasi impalata in mezzo al campo di grano rosso, sconvolta da tutte quelle scoperte e inquietata da quello che dovevo fare. La luce della luna cominciò a farsi sempre più flebile e tutto piombò nell'oscurità. O forse ero io che stavo svenendo ancora? La seconda ipotesi era la più azzeccata e sperai di risvegliarmi nel mondo reale, questa volta.

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Capitolo 7
*** Risveglio ***


Non riuscivo ad aprire gli occhi, erano come incollati. Provai a muovermi ma non ci riuscii. Era quel senso di paralisi che mi tormentava ogni volta che svenivo. Misi all'erta tutti gli altri sensi che mi rimanevano e sentii un forte odore di medicinali e malattia. Dovevo essere in ospedale, logico. Quindi chi mi aveva trovata non era il maniaco, ma una brava persona che mi aveva aiutata. La ringraziai mentalmente e continuando a cercare di muovermi iniziai a percepire altre cose oltre agli odori. Delle voci. La voce di Margaret metteva in secondo piano le altre -Dottore basta con i giri di parole e risponda alla mia domanda! Emily tornerà a casa con me?- Il dottore era sicuramente a disagio-signora... la ragazza è in coma vegetativo. Da due mesi oramai. È sempre nello stesso stato, gliel'ho già detto molte volte. Non sa quanto mi dispiaccia per lei, ma senza un miracolo temo che dovrà rimanere attaccata ad una macchina per tutta la vita- due mesi? Ma scherziamo? Come posso essere stata in coma due mesi se non saranno passati nemmeno due giorni! Un tonfo, qualcuno doveva essere caduto, probabilmente Margaret. -Signora!- -Joshua, la metta stesa su una sedia e le tenga le gambe alzate, dovrebbe riprendersi tra qualche minuto. Aspetti che le do una mano- era svenuta. Dopo poco sentii Margaret singhiozzare - Ma perché doveva capitare proprio a lei? Non si meritava tutto questo. Non ha mai fatto niente per meritarsi tutto quello che le è successo- parlò con la voce spezzata dal pianto, mi faceva tenerezza. Feci di tutto per liberarmi dalla paralisi, per liberarmi da quelle catene che mi tenevano costretta a letto, senza che potessi muovere un muscolo. Ma non accadde niente. Ancora. Provai e riprovai a spostare anche solo un dito senza risultato per chissà quanto tempo, poi mi lasciai andare alla stanchezza. La mia forza di volontà stava sparendo. Mi ritrovai di nuovo a brancolare nel buio più totale. Non avevo idea di che ore fossero, ma non appena mi "svegliai" da quel sonno malato non sentii più alcun rumore se non il ticchettio di un orologio. Doveva essere finito l'orario delle visite da un pezzo a questo punto. Qualcosa circondò la mia mano... qualcosa di caldo, ma rassicurante. Una mano, più grande della mia. -Non ti sei ancora svegliata è?- era la voce di un ragazzo, parlava con un tono dolce e tranquillo, ma non mi pareva di conoscerlo -be direi che sono costretto a dare una mano- mi accorsi che si stava spostando, per la precisione si stava avvicinando a me. Non sapevo quello che stesse per fare ed ero terrorizzata dall'idea che potesse farmi del male. Mi appoggiò un dito sulla fronte, era tiepido. Mi crogiolai in quel calore e per alcuni istanti mi sentii protetta, come se nessuno potesse poi ferirmi. Poi la sua mano si staccò dalla mia fronte e andò di nuovo a posarsi sulla mia -Ora dovresti riprenderti in fretta, non c'è più bisogno di me qui- volevo dirgli di restare e di non lasciarmi sola, volevo dirgli grazie, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono. -Se mi senti Emily- eccome se lo sentivo -sappi che questo è solo un arrivederci- la porta della stanza sbattè e io mi abbandonai al solito senso di solitudine che mi accompagnava da giorni. Cercai di dormire, ma ogni volta che mi assopivo mi tornava in mente la sua voce e la sensazione di sicurezza che avevo provato stando a contatto con quel ragazzo. Mi addormentai pensando a quei due occhi blu e verdi, quei due splendidi occhi che illuminavano il buio più totale. Fui svegliata da un dolore lancinante al braccio. Qualcuno staca armeggiando molto probabilmente con l'ago della flebo che era al suo interno. Faceva male, era la prima volta da mesi che provavo una qualche sensazione fisica. Forse potevo muovere qualcosa. Con tutta la forza mentale che ero riuscita a trovare portai il dito indice a toccare il palmo della mia mano. Con tutta probabilità l'infermiera o il dottore che mi stava visitando ci mise un po' a metabolizzare il fatto che una ragazza in coma vegetativo da due mesi senza alcuna speranza di ripresa, in quel preciso momento, si stesse svegliando. -Serve aiuto qui! Dottor Ower, chiamate il dottor Ower- mugugniai perché le sue urla mi davano un fastidio tremendo. Era una donna. Il dottore arrivò dopo vari richiami -Che sta succedendo? Perché strilla tanto- il dottore sembrava confuso -La ragazza.... si è mossa!- -Questo è impossibile!- -Ma le dico che si è mossa! Non ho le allucinazioni io.- Ower mi si affiancò e mi prese la mano -Prova a muovere qualcosa ragazza- sforzandomi al massimo, riuscii a muovere tutte le dita e lentamente chiusi la mano a pugno - Oh santo cielo... chiamate subito la signora Margaret- l'infermiera era rimasta al suo posto. La sua voce diventò più dura -Ho detto subito!- -Si signore!- rumore di passi, l'infermiera era uscita. -Riesci ad aprire gli occhi?- Annuii, certo che ci riuscivo. Lentamente, con calma, schiusi le palpebre. La luce del giorno mi inondò il volto e fui costretta a richiudere subito gli occhi. Il dottore parve accorgersene e tirò giù la tapparella -Mi ero dimenticato, prova ora- Aprii gli occhi lentamente e mi voltai verso il dottore. Cercai di sorridere -Salve- la voce che uscì dalla mia gola era roca e strana, ma avevo parlato, mi bastava quello. -Oh mio dio! Tu stai bene?- Annuii cercando di sembrare rassicurante. -Oh certo, tirati un po' su- alzò la parte superiore del letto e mi ci appoggiai a fatica - mi raccomando, non fare troppi sforzi e... sai ragazza... non so spiegarmi come ci tu sia riuscita- -Riuscita a fare cosa?- facevo una fatica enorme a parlare -Diamine! Ti sei ripresa da un coma vegetativo di due mesi, non ti davo nemmeno una possibilità di ripresa io e mi dispiace, non sai quanto.- -Ah... emh... posso farle una domanda?- -Certo- mi sorrise -Il ragazzo che è venuto poco tempo fa a trovarmi... lo conosce?- -Quale ragazzo? È venuta una donna, Margaret, è stata qui quasi sempre- -Oh... magari stavo solo sognando, non so proprio come spiegarmelo altrimenti- -Molto probabile Emily, molto probabile- Sentii delle voci concitate provenire dal corridoio e Margaret piombò di colpo nella stanza -Per l'amor di Dio, Emily! Stai bene- corse ad abbracciarmi e ci mancò poco che non rimanessi stritolata in quell'abbraccio. Fu il dottor Ower a salvarmi -Signora, Emily è ancora molto fragile, stia attenta- -Oh si certo, mi scusi- si ricompose -Quando tornerà a casa?- -Tra un paio di giorni, sicuramente, ora dobbiamo fare qualche esame per verificare che sia tutto a posto- -Perfetto, magnifico direi- mi sorrise raggiante -Come stai?- Cercai di rispondere con sicurezza - Bene, direi, credo... suppongo- guardai Ower in cerca di una risposta e lui annuì -Sì, sto bene- -Oh, che bello! Sapevo che ti saresti risvegliata, ho pregato Dio tutti i giorni per farti tornare da me!- Ridacchiai sentendo parlare di Dio- Grazie Margaret, non so che farei senza di te... ti voglio tanto bene- allargai le braccia e lei mi strinse in un forte abbraccio. Ower tossicchiò -Bene, bene, ora la ragazza deve riposare. Se non le spiace. Staccò Margaret da me e dopo avermi salutata anche lui uscì dalla stanza. Avevo davvero sognato quel ragazzo? E se anche fosse... Avrei sognato perfino tutta la storia dell'Inferno e della mia missione... non avevo idea di cosa fosse successo, ero confusa. Quella notte non riposai come mi aveva detto di fare il dottore, mi rifiutavo di accettare che fosse stato tutto un sogno. Era troppo reale per esserlo. Non riuscivo a chiudere occhio, mentre i pensieri mi affollavano la mente assieme alle mille domande che dovevo assolutamente fare a qualcuno. Ripensai a quegli occhi, così belli, chissà a chi appartenevano.

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