L'amore di Voldemort

di Utrem
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La profezia ***
Capitolo 2: *** 31 ottobre ***
Capitolo 3: *** Wool's Orphanage ***
Capitolo 4: *** Nella stanza dei giochi ***
Capitolo 5: *** Una punizione e una lettera ***



Capitolo 1
*** La profezia ***



L'amore di Voldemort











Assiso sul sudato trono, Voldemort fremeva. Gli occhi iniettati di sangue erano persi nelle vuote tenebre che lo avvolgevano e celavano ciò che l'aspettava.

Si profilava vincitore su tutti i fronti. Non c'era oppositore che, trafitto dal suo potere, non stesse barcollando o fosse sulla via della resa.

Eppure, il suo talento di Legilimens gli suggeriva che Severus stava Occludendo qualcosa, e lo stesse facendo con una tale dedizione ed impegno da far presagire un avvenimento molto grave.

Così, quando lo vide Materializzarsi davanti a sé con la schiena curva, rannicchiato quasi come un istrice, s'alzò immediatamente e gli intimò di parlare.

"Mio Signore" cominciò Severus, dopo essersi profuso in un contegnoso inchino "Io ho... delle notizie-"

"Ho avuto modo di scoprirlo. Dunque, PARLA!" strillò Voldemort con voce acutissima, seccando la gola sino alla raucedine.

"Ho udito una profezia che La riguarda" rispose il servo, dissimulando sicurezza per non irretirlo maggiormente "Non tutta, solo una parte: dopodiché sono stato cacciato. Recita così: 

'Ecco giungere il solo col potere di sconfiggere l'Oscuro Signore...

nato da chi lo ha tre volte sfidato, nato sull'estinguersi del settimo mese...

l'Oscuro Signore lo designerà come suo eguale, ma egli avrà un potere a lui sconosciuto...' "

Voldemort rimase impietrito. 

Si sedette di nuovo, appoggiandosi ai braccioli del trono, e scrutò severamente Severus, per verificare con la Legilimanzia che non avesse trascurato alcun dettaglio e stesse dicendo il vero.

L'uomo, sapendosi senza scelta, esibì la sua fedeltà, rendendolo anche partecipe delle sue intrinseche paure legate alla profezia - tranne una... quella paura, in particolare, che lo scuoteva e non gli dava pace...

"Chi mai potrei designare come mio eguale?! Io, che domino incontrastato su tutti i Maghi per abilità e per ingegno?! Che cosa posso o dovrei invidiare?! Un potere, un potere... quale potere, se mi sono personalmente occupato di possederli tutti?! Cosa mi sono perso? Cosa?!"

A quel punto, Severus ebbe un'intuizione per la quale si sarebbe a lungo maledetto. Cercò di non darvi adito e tentò disperatamente di Occluderla, ma l'emotività del momento lo ingannò, e ritrovò il proprio sguardo in balia dell'Oscuro Signore.

"Tu lo sai, Severus?" gli chiese, con una determinazione tale da disintegrare tutte le sue difese mentali all'istante.

"L'amore, mio Signore. Penso sia l'amore"

Voldemort sobbalzò per la seconda volta. 

Conosciuta la causa della sua inadeguatezza, tornò a concentrarsi su sé stesso e non badò più a Piton, in lacrime per lo sforzo appena compiuto.

"Amore?! Amore?! Un altro mago... con le mie stesse abilità... ma in grado di amare?!"

Non riusciva a capacitarsene e devastò tutto ciò che lo circondava in un frastuono d'incantesimi, in un istintivo rimarcare della sua grandezza. 

Gli anatemi saettavano con forza verso il suolo, per poi rimbalzare nuovamente verso l'alto e rigettarsi con ancora più potenza su tutto ciò che non era ancora stato distrutto.

Piton, rannicchiato a terra e protetto dal migliore Sortilegio Scudo che fosse riuscito a produrre, cercava d'essere composto nel suo funesto silenzio.
 
Il furore durò finché Voldemort, accecato dalle sue stesse maledizioni, si ripiegò sul trono e guardò entro sé.

Cercava l'amore. 

Lo cercò nei recessi della sua anima frantumata, nei momenti più distanti del suo passato, nell'aspetto o nel bisbiglio di qualcuno, persino nel ricordo di sua madre, ma non trovò niente.

Così era stata sentenziata la sua sconfitta.

Non poteva pensare di affrontare un nemico che non solo lo eguagliava, ma che aveva qualcosa in più di lui, e vincere.

Doveva trovare l'amore. In qualche modo, doveva trovarlo.

Ma chi o cosa poteva amare, se lo stesso amore, come sempre aveva supposto, era sinonimo di mancanza e di necessità?

Tutto ciò era paradossale.

Voldemort si fece guardingo nella sua riflessione, quasi paralizzato.  

Ci volle un tempo infinito, gli parve, perché riuscisse a giungere a un'adeguata conclusione.

L'unica cosa che gli mancava era l'amore: ergo, doveva amare l'amore, e siccome questo s'incarnava nel suo nemico, che altri non era che una forma migliorata di sé stesso, avrebbe potuto amare solo e solamente quel bambino che sarebbe nato, al termine del settimo mese.

Ma, nell'attimo in cui sarebbe venuto alla luce, lui avrebbe già perso: infatti capì d'essere troppo compromesso per riuscire ad amare con facilità.

La disperazione lo attanagliava peggio della peggiore morte, mentre gli arti in tensione tremavano ed il viso corrotto si rinsecchiva, facendo emergere le rughe.

Alla fine, riuscì ad escogitare un piano.

Era il miglior piano che fosse in grado di concepire, ma comunque non assicurava la sua vincita, e ciò lo torturava.

Tuttavia, era la sua unica possibilità.

"Severus, ascolta e sta' molto attento: avrò bisogno che te e gli altri Mangiamorte vi impieghiate per radunare il maggior numero di  Giratempo su cui riuscite a mettere mano. Inizierete ovviamente impossessandovi di quelle del Dipartimento dei Misteri; successivamente, avrete diversi mesi di tempo per perlustrare l'intero mondo magico al fine di reperirne altre: sarò io a segnare la scadenza di questo tempo e, non appena vi chiamerò, vi Materializzerete qui, dove ci troviamo adesso. Allora io cumulerò e combinerò il potere di tutte queste Giratempo, per incanalarlo in un oggetto che sia in grado di sostenerlo. Il vostro compito, tuttavia, non sarà concluso, perché dovrete adoperarvi tutti a lanciare degli Arresto Momentum e a costringere il maggior numero di maghi possibile, con la Maledizione Imperius, a farlo insieme a voi.  Vi lascio libero arbitrio riguardo ad altri eventuali metodi che potrete utilizzare per piegarli al vostro volere. Io amplificherò tutti questi incantesimi affinché venga effettivamente arrestato il tempo in tutto il mondo magico e Babbano. È l'unico modo per proteggere il suo scorrere da un danneggiamento irreversibile. Fattò ciò, rapirò questo bambino e viaggerò sino al 1926, anno della mia nascita, portandolo all'orfanotrofio con me. Lascierò in un Pensatoio il ricordo della conversazione appena avuta con te, assieme a tutti quelli che documentano la mia ascesa,  e lo Trasfigurerò in una busta con dentro una lettera destinata a me, in modo che il mio ego passato venga a conoscenza di tutto. Questa è l'unica maniera: solo in tal modo, se tutto questo è vero, sarò in grado di sconfiggere il mio avversario."

L'orrore sulla faccia di Severus non si poté descrivere. Nonostante questo, con la faccia livida, si costrinse ad accettare e promise la sua fedelissima collaborazione.

Dopo un sentito encomio, Voldemort lo congedò, e si principiò a mettere in pratica quanto aveva architettato.

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Capitolo 2
*** 31 ottobre ***



L'amore di Voldemort











Era lì da un'ora, appollaiata come un gufo: ghermiva con le unghie il vetro della finestra e lo trapassava coi suoi occhi esausti e ingigantiti.

I candidi fiocchi di neve avevano cominciato a scendere piano, fulgidi nel contrasto col nero della notte, segnando il principio di novembre.

Non c'era niente di bello o di buono in quella monotonia. Come avrebbe mai potuto il gelo essere fonte di gioia? Di una gioia vera, non una ipocrita e di circostanza?

Quel gelo, in particolare, ne aveva la pretesa, ma lei non accettava scuse: quel 31 ottobre non era un giorno di festa.

Fortunatamente, nessuno le aveva fatto pesare questa decisione.

Cosa avrebbe mai potuto fare, con delle Giratempo? Con tutte quelle Giratempo? Davvero era intenzionato a manipolare il tempo? Ovviamente non aveva nessun riguardo per le conseguenze che ciò avrebbe avuto sulle vite degli altri e tutto doveva essere necessariamente funzionale alla sua ascesa al potere, ma in che modo? E, soprattutto, che cosa c'entrava il suo piccolo Harry in tutto questo?

Non aveva chiesto a nessuno le risposte a queste domande. Né a suo marito, né a Silente, né agli altri dell'Ordine della Fenice. Forse non ne aveva volute e molto probabilmente non ne avrebbe ricevute.

Non le era piaciuto prendere quella decisione, ma non sentiva sua la colpa dell'impossibilità, anche solo una volta dal momento in cui si erano rinchiusi, di provare un momento di felicità.

Doveva aver ragione Silente come al solito: la colpa era del buio, e il buio, persino quello del terrore degli anni precedenti, della vita di prima, quello che puniva gli innocenti, in sé per sé, non era affatto un'entità invincibile; però(e di questo il grande mago non sembrava tener conto) poco importava che adesso lei accendesse la luce, perché quello l'avrebbe aspettata sempre, un passo fuori da Godric's Hollow... 

"Lily!"

Ed ecco: fuori dalla camera, giù per le scale, in un vortice di luce, il buio la illudeva di non esserci più.

Con grande inquietudine, vide il piccolo Harry estasiato mentre si dannava per afferrare una bacchetta familiare. Il possessore di quest'ultima gliela concesse solo dopo una combattuta gara di riflessi, sorridendo in un modo per nulla rassicurante.

"Cosa c'è?" Lily domandò, con un tono abbastanza brusco da far trapelare tutta la sua divertita indifferenza.

"Harry m'ha appena mostrato un trucchetto" annunciò orgoglioso il papà. Nel frattempo, il figlio faticava irresistibilmente a tener ferma la bacchetta nel piccolo pugno.

"Promette bene!"  constatò Lily, riferendosi alle goffaggini dell' apparente enfant prodige.

"È solo timido" si difese James, dandogli un lieve pizzicotto sul collo. "Avanti: metti da parte l'orgoglio e mostra a tua madre quello che sai fare"

Allora il bebé, trattenendo la risata incipiente, prese la bacchetta a due mani con determinazione e iniziò a succhiarne voracemente un'estremità: al che James assentì sgranando gli occhi e iniziò a battere le mani.

"Be', è... è... notevole!" commentò la mamma, che, spiazzata dagli esilaranti cenni di James, scoppiò involontariamente a ridere.

"È una tecnica particolarissima" si apprestò a spiegare James "In questo modo rende il legno ignifugo. Insomma, penseresti che in secoli di storia il Wizengamot e il Ministero avrebbero pensato al fatto che il legno non è il miglior materiale per costruire una bacchetta che dovrebbe essere conservata intatta per tutta la vita: be', poco male, perché c'ha pensato Harry. Adesso pretendo che come minimo gli facciano passare i M.A.G.O. a pieni voti"

"Mi pare giusto. Però non credo che sia tutta farina del suo sacco: chi ci dice che Silente non ne sia venuto a capo già un secolo fa e lo abbia istruito di nascosto?"

"Ottima osservazione. Non lo sapremo mai. Nel dubbio, al fine del settimo anno proporrò ai professori di dargli Eccezionale in tutte le materie"

"Anche alla McGranitt?"

"Soprattutto alla McGranitt!"

Dopo aver restituito la bacchetta ed essersi sfogato in svariati gridolini d'esultanza, il bambino esplose in un enorme sbadiglio.

"Temo che tu lo abbia fatto sforzare un po' troppo" lo redarguì Lily, prendendolo in braccio e apprestandosi a salire le scale.

"Adesso non dare la colpa a me! È stato lui a voler pavoneggiare la sua abilità! Non che pensi che ci sia nulla di male, comunque..."

Lily quasi si commosse ai tentativi che il marito stava facendo per tirarle su il morale. S'interruppe sui suoi passi mentre stava ancora salendo i gradini e si lasciò baciare.

Questi s'accorò molto nel vederla piangere, al punto da dimenticarsi completamente d'aver lasciato la bacchetta nel salotto e accompagnarla su, in camera da letto.

In quel momento s'udì un boato.

La porta di casa s'aprì con un colpo secco e tutti i vetri delle finestre si ruppero all'istante.

Materializzatosi il suo Molliccio, Lily scattò subito via insieme al figlio, ostinata a difenderlo in qualunque modo fosse possibile, mentre James s'accorse di non avere nulla addosso e sgomentato guardò in faccia il nemico.

Voldemort, invece, non lo degnò d'uno sguardo e alzò subito il polso verso di lui: allora James capì che non avrebbe accettato compromessi, nessun tipo di scambio. Indossava un ciondolo strano, che ricordava una Giratempo: se avesse avuto la sua bacchetta, avrebbe potuto colpirlo, pensò, ma un attimo dopo la vide nelle sue mani.

Ebbe appena il tempo di scuotere la testa e urlare: "NO!" che fu abbattuto da un raggio d'accecante luce verde, sul viso l'ignominia per non essere riuscito a proteggere la sua famiglia. 

Lì per lì, Lily non diede un segno tangibile di reazione: tirò fuori la sua bacchetta e si pose in difesa della culla, conscia del fatto che avrebbe perso in ogni caso ma volendo comunque sperare. 

Harry aveva cominciato a vagire, presagendo anche lui con cristallina certezza che qualcosa di terribile stava per accadere.

Voldemort avanzava con calma, sentendo che il marchio dei Mangiamorte era in alto in ogni cielo e proteggendo il ciondolo nella mano ossuta.

Non appena lo scorse, Lily gli si avventò contro con tutto il suo corpo, mirando proprio a quello, ma lui fu comunque più veloce e in un lampo la riportò al silenzio.

Allora il bambino, gonfio di lacrime, scrutò il suo aggressore, e fu ricambiato. 

Questi gli si avvicinò, a passi brevi e con circospezione mista a reverenza, per poi porgli una collanina attorno al collo.

La collanina aveva una medaglietta: inciso sopra la medaglietta c'era il suo nome, 'Harry'.

Dopodiché, lo prese in braccio.

Il contatto indesiderato lo fece piangere ancora più forte, ma Voldemort non se ne curò: l'unica cosa che gli premeva in quel momento era ricordarsi di  tutti i paradossi temporali che aveva calcolato di causare, per risolverli una volta trasportatosi nel passato. 

Ripensò anche con amarezza al fatto che avrebbe preferito essere riuscito a penetrare le difese di Silente e del suo Ordine prima e rapire Harry poco in seguito alla sua nascita, ma numerose complicazioni glielo avevano impedito: per sopperire a questa mancanza, era necessario che ognuno si adoperasse affinché tutto andasse per il meglio, almeno nell'ultima fase.
Aspettò che i Mangiamorte gli comunicassero tramite il Marchio d'aver fermato il tempo e solo allora, ancora con un po' d'odiosa riluttanza, mosse il ciondolo.

Il potere delle Giratempo fu disinnescato in una nube di scintille, ed il Signore Oscuro  dovette compiere un enorme sforzo per non rovinare a terra nell'impatto col suolo e rischiare così di ferire il bambino, che si divincolava come un matto.

Tuttavia, fu questione di pochi secondi e si ritrovò con successo nel 1927, a pochi metri di distanza dal cancello dell'orfanotrofio.

Rivedere quella facciata e quelle sbarre gli provocò un ribrezzo più forte di quello che avrebbe potuto prevedere. Gli parve che l'edificio si stesse protendendo verso di lui, ispessendo il frontone di mattoni e stagliando più in avanti le inferriate.

Allungò la mano nella cassetta postale e vi immise la busta con la lettera(sigillata magicamente, in modo che nessun altro la potesse leggere all'infuori di sé stesso). Dopodiché, aprì il cancello arrugginito e camminò risoluto dirimpetto alla soglia.

Raggiunta l'entrata, adagiò a terra il piccolo Harry, che persisteva nel lagnarsi, con suo sollievo: in tal modo sarebbe stato notato più velocemente e lui avrebbe potuto abbandonare quel posto opprimente prima.

Difatti, puntualmente la signora Cole, la governante, udì i vagiti e, biascicando qualcosa come al solito nella voce squillante cui Voldemort era insofferente, si precipitò a raccattare il piccolo e portarlo dentro.

Lasciato il nascondiglio che aveva adottato a tempo opportuno per osservare la scena, il Signore Oscuro era libero di tornare al futuro e, purtroppo, di soccombere a quello che avrebbe decretato il destino, una forza cui mai e poi mai avrebbe voluto desiderare affidarsi.

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Capitolo 3
*** Wool's Orphanage ***



L'amore di Voldemort











Era la mattina del 25 dicembre del 1932 e, come ogni anno, Londra si fermò: i marciapiedi e le strade, già resi impraticabili da giorni di ininterrotte nevicate, si svuotarono del tutto e parvero intimare a quei pochi che osavano circolare ancora di ritornare a casa a festeggiare con i propri cari il Natale.

In particolare, a subire con pesantezza questo monito erano tre distinte e anziane signore, una più impettita dell'altra, che si muovevano a passi brevissimi, quasi stessero partecipando a una gremita processione religiosa  —cosa a cui peraltro erano ben abituate.

Nonostante si fosse verificato quella mattina un consistente rialzo della temperatura, tutte e tre convenivano riguardo al fatto che il freddo era intollerabile e a ogni passo affondavano un po' di più la testa nelle loro pellicce.

Non si premuravano, tuttavia, di procedere più velocemente; anzi, a tratti pestavano un tacco e voltavano la schiena per rivedere rimpiccioliti in un angolo della lente degli occhiali i quartieri a cui appartenevano.

Percorse vie tortuose e stradine in competizione col gelo in fatto di procurare brividi, raggiunsero finalmente, al termine d'una lunga via, un alto edificio di recente costruzione, ma i cui mattoni mostravano già alcuni segni d'erosione.

Il frontone era scuro ed imponente, macchiato del bianco della neve sugli spioventi.  Al centro di questo c'erano le lettere, spennellate in vernice dorata in buona conservazione, che componevano l'insegna.

"Wool's Orphanage. È questo" chiarì la signora Kleeman, la più giovane delle tre, dopo un minuto d'attenta lettura e contemporaneo esame preliminario del luogo.

Sul cancello proliferava la ruggine, assieme a cristalli di gelo, che creavano piccoli ponti irregolari fra le sbarre. Un riquadretto dopo l'ultima a destra di queste, su una delle due murate di mattoni che incorniciavano l'inferriata, ospitava un pulsante bianco e rotondo. La signora Kleeman si guardò attorno un'ultima volta, assicurandosi che le altre due la seguissero, e poi lo schiacciò con l'indice.

Non aveva ancora ritirato la mano che la porta dell'orfanotrofio s'aprì e ne uscì di corsa la signora Cole, la giovane governante, tenendo le braccia incrociate sul petto per proteggersi dall'ondata di gelo.

"Buongiorno, signore! Benvenute! Mi spiace che siate venute oggi... è Natale, in più fa così freddo, ma sapete, io non potevo prevedere..." borbottò a capo chino, girando i battenti del cancello.

"Suvvia, Meg! Proprio perché è Natale non posso desiderare di meglio che rivedere le facce di quei poveri bambini!" s'oppose con forza la signora Kleeman, adagiando un guanto su un'anta per entrare.

"Venite" le esortò allora la signora Cole con un cenno, facendo un rapidissimo dietrofront e dirigendosi verso la porta a passo sostenuto: per l'ansia di ritardare a farle entrare non aveva indossato un cappotto e sentiva il freddo costringerle il corpo in morse sempre più strette.

Al contrario, le tre signore non rinunciarono a un ritmo contenuto e varcarono la soglia molto più tardi, obbligando implicitamente la signora Cole a tener loro la porta aperta tutto il tempo. Soltanto dopo che anche il recalcitrante tacchetto dell'ottuagenaria signora Gardner colpì il pavimento dell'edificio, poté finalmente sbattere il portone e serrarlo.

L'ingresso consisteva in una piccola stanza rettangolare dalle pareti bianche e spoglie, arredata con quattro poltrone con bracciali in legno disposte a cerchio e al centro un tavolino basso con su sopra una lampada accesa, che emanava un chiarore giallognolo sufficiente ad illuminare quasi tutta la stanza.  In estate, tuttavia, le due finestre che affiancavano la porta principale si rivelavano assai più utili. 
La camera era completamente sprovvista di tappezzeria, se non si considera il tappetino consunto e umido alla soglia, in cui le tre signore batterono più volte le scarpe per nettarle dei residui della neve; non c'era neppure ombra di un caminetto o del più rustico focolare, cosa che in quel momento Margaret Cole, essendo stata esposta al pungente freddo per diversi minuti, rimpianse particolarmente. Il pavimento era in mattonelle dure e di solito brulicava di giocattoli che rendevano costante il rischio d'inciampare, ma quella mattina delle pulizie tempestive lo avevano reso lucente ed immacolato.
Oltre alla porta principale dell'orfanotrofio, l'ingresso dava accesso ad tre altre stanze: la camera di servizio, tramite la porta a sinistra rispetto a chi entrava, vicino all'appendiabiti; la grande mensa, tramite la porta a destra, sempre rispetto a chi entrava, e alle ampie scale che conducevano alle stanze dei bambini tramite la porta in alto.

"Oooh! Ma è magnifico! Meg, qui si sono fatti dei progressi ENORMI!" esclamò la signora Kleeman, mentre la signora Cole le sfilava le pelliccia per appenderla "Quando avevi detto che ti saresti data da fare mesi fa non pensavo che saresti riuscita a fare COSÌ tanto per questo posto!"

"Ho fatto quella che ho potuto, signora Kleeman, ma non può finire qui..." commentò debolmente Margaret, seguendo la signora che si avviava verso le poltrone "Innanzitutto avremmo bisogno d'installare un caminetto-"

"Un caminetto, dici? Potresti aver ragione... ma ti dirò che questa stanza, proprio perché è così piccola, pare trattenere bene il calore. Io stessa senza pelliccia mi sento a mio agio, seppure abbia camminato per quasi un chilometro con questo tempo! Voi che ne dite, Bessie, Rosie?"

"Il caminetto non è necessario in questa stanza" rispose la signora Gardner, l'ottuagenaria, con un tono inflessibile nella sua voce rauca "È decisamente troppo piccola per ospitarne uno. Queste poltrone sono più che adeguate, e..."

"Capisco quello che dite, signore, ma vi assicuro che i bambini hanno freddo! Ogni tanto qualcuno si alza molto presto e si ferma qui ad aspettare la colazione e non passano cinque minuti che chiedono qualcosa per riscaldarsi..." spiegò la signora Cole, sollevando una ad una decine di copertine ammassate sulle poltrone.

"Be', onestamente non vedo il problema. Può dir loro di aspettare a letto e rimandarli nelle loro stanze" replicò ancora la signora Gardner, scrutando severamente Margaret con i suoi occhi acquosi.

"Effettivamente... questa potrebbe essere una soluzione" ammise sincera la governante, evitando con zelo gli occhi dell'anziana "Ammetto di non averci pensato. Tendo ad essere un po' troppo buona con i bambini..."

La signora Kleeman e la signora Gardner si scambiarono uno sguardo d'intesa, e la prima cinguettò:
"A me questo spazio piace molto. Prima c'erano solo due poltrone, ricordo, e difatti non era la stessa cosa. Per dire, non c'era neppure l'appendiabiti! Hai fatto ottimo uso dei fondi che avevo messo a tua disposizione, Meg"

"Non solo i suoi, signora Kleeman. In questi mesi lo Stato si è deciso a darci qualcosa cosicché potessimo andare avanti..."

"Lo Stato!" tuonò Kelly Kleeman, con un movimento grandioso delle braccia "Non ne posso più, Meg. Se cominciassi a citare tutti i loschi affari in cui ho sentito si sono immischiati certi politici(incluse persone di mia conoscenza), finirei il Natale prossimo! È scandaloso, ti dico: scandaloso. Invece di finanziare le nostre scuole, i nostri ospedali, i nostri orfanotrofi, si occupano di armi, di guerra e colonialismo! Si pensava che dopo i danni della Grande Guerra queste seti di potere si sarebbe placate una volta per tutte, e invece l'uomo ricade sempre nelle stesse trappole! Provo un'indescrivibile repulsione. Guarda, Meg, è davvero meglio che mi fermi qui... io, poi, ritenendomi coinvolta avendo certi parenti... ma basta, lasciamo stare!"

Margaret annuì col capo, risentita per le ingiustizie declamate dalla signora, e cercando di attirare nuovamente gli sguardi delle altre due disse:
"Era anche un mio progetto sostituire queste mattonelle con la moquette... i bambini, come sapete, corrono spesso e cadono ancora di più e quindi, mi pareva una buona idea-"

"Moquette, dici? Mmh... non hai torto però, pensavo, non sarebbe difficile da pulire? Vista la vicinanza con la mensa e l'abitudine dei bambini di versare il cibo, temo che sareste costrette a faticare a vuoto tutti i giorni, sfregando macchie con la spazzola, per poi dover ripulire tutto daccapo il giorno seguente! Demoralizzante a dir poco... no no, ci vorrebbe qualcosa di diverso... oh oh, ho trovato! Non si potrebbero utilizzare invece  dei cuscini? Metterli tutti per terra, l'uno vicino all'altro? Non si otterrebbe lo stesso risultato? Perlopiù si divertirebbero anche a camminarci sopra, scalzi!" ribatté la signora Kleeman, con un grande sorriso.

"Be', questo è ottimo! È davvero ottimo! Non c'avevo pensato..." si complimentò la signora Cole, anche se con palpabile amarezza.

"Visto? Questi confronti sono sempre così fruttuosi! È proprio vero che essere d'aiuto è gratificante come poche altre cose... inavvertitamente, peraltro! Ti giuro che l'idea mi è venuta così, su due piedi! Comunque, passando oltre... ci  fai vedere la mensa?"

"Sì, certo! Entrate, signore, entrate." 

La signora Cole aprì loro la porta a destra e di nuovo attese con pazienza che tutte fossero entrate per richiuderla.

La mensa era più o meno grande il doppio dell'ingresso. Al centro campeggiavano due tavoli, posizionati in modo che il lato lungo corrispondesse al lato lungo della stanza e viceversa. Accostate, in perfetto ordine e l'una equidistante dall'altra, c'erano una trentina di sedie per tavolo. Rasenti il centro dei lati più corti della stanza c'era una fila di termosifoni, mentre la luce era offerta da un lampadario a tre bracci che pendeva al centro del soffitto, del tutto insufficiente ad illuminare il vano per intero. Inoltre qui, diversamente dall'ingresso, che, si ricorda, corrispondeva all'incirca alla metà della mensa, non c'era l'ombra di finestre e pertanto, in estate come in inverno, il refettorio si trovava in uno stato di perenne semioscurità.
Sulla parete più lontana rispetto alle donne, in alto, v'erano due porte: quella a sinistra conduceva alla cortile esterno, quella a destra alla cucina.

"Che ordine! E che pulizia!" commentò Kelly Kleeman, apparendo quasi più entusiasta di prima "Mi piacciono queste superfici. Molto meglio dei tavoli di prima, Meg, molto meglio. E le sedie? Guarda i cuscini! Beate quelle piccole pesti. Chissà voi invece quanto vi scoccerete a doverli lavare in continuazione! Hai proprio-"

"AAAGH!"

L'apologia dell'orfanotrofio della signora Kleeman fu interrotta sul più bello dall'urlo della signora Truman, che era disgraziatamente inciampata su una scarpa della signora Gardner, capitolando rovinosamente a terra. L'incidente era avvenuto in un cupo angolo della stanza, talmente buio che nemmeno una persona con cinque decimi in più della signora Truman sarebbe riuscita a discernere qualcosa.

La signora Cole commentò subito l'accaduto, con opportunismo solo parzialmente consapevole:
"Oh! Signora Truman, mi dispiace tantissimo! Non s'è fatta male, vero?"

"No... c-credo di no" borbottò l'anziana, che non riuscì a non mostrarsi indispettita, mentre veniva aiutata dagli sforzi congiunti della stessa Margaret e della signora Kleeman.

Improvvisamente, la porta che conduceva al cortile cigolò e trafelata una ragazza si precipitò ad aiutare la benefattrice. 

"Che è successo? Oh, signora Truman! Tutto bene? Signora Truman?! " s'assicurò, col terrore negli occhi. 

"Sta' tranquilla, Martha" la redarguì la signora Cole, facendole segno di tornare dai bambini. 

Con le gote rosse d'imbarazzo, la giovane si congedò velocemente e se n'andò con la stessa rapidità con cui era arrivata.

"Che cara ragazza!" non si trattenne dall'osservare la signora Kleeman "Sei fortunata ad averla, Meg!"

"Sono desolata, davvero. È che c'è davvero pochissima luce qui e capita spesso di cadere... anche tra i bambini ci sono stati numerosi incidenti. Ultimamente sto risparmiando soldi così da averne per bucare il muro e far costruire almeno una finestra-"

"Una finestra per avere maggiore luce? Ma non le sarà d'alcuna utilità d'inverno" obiettò la signora Gardner "Inoltre, la stanza si raffredderebbe e aumenterebbero i rischi di una cattiva digestione da parte dei fanciulli."

"Mi trovo costretta a concordare con la signora Gardner, Meg. Non potresti provare a sistemare delle lampade sui tavoli?"

"CI HO PROVATO, signore, ma il risultato è stato quello di vederle frantumate per terra lo stesso giorno in cui ho provato a metterle" rispose la signora Cole, che stava perdendo la speranza "Per avere una luce più diffusa qui servirebbe rivedere l'intero sistema elettrico-"

"Meg, capisco la tua frustrazione, ma ritengo che sarebbe sconveniente dover far pernottare i bambini in un'altra struttura, anche solo temporaneamente. Non solo non si sentirebbero a loro agio, ma probabilmente vivrebbero in condizioni ancora peggiori-"

"HA RAGIONE, signora Kleeman, ma io confidavo nel fatto che voi, avendo buone conoscenze, avreste potuto aiutarli, nel breve periodo dei lavori..."

"Con piacere, cara, ma sessanta bambini sono un po' troppi. Le poche persone che conosco disposte a fare un sacrificio del genere esigerebbero delle spese, onestamente, un po' troppo rischiose e che non saremmo in grado di accollarci a cuor leggero."

Sentito l'ennesimo rifiuto, la signora Cole si ammutolì. D'un tratto tutti i suoi progetti persero consistenza ed ogni sua richiesta le apparve insulsa: credette davvero di star chiedendo troppo ed essersi inimicata le poche benefattrici disposte a tenerla in considerazione. 

Non aveva più nulla da dire e lasciò che il collo si piegasse abbastanza da far sì che il suo sguardo non incrociasse più il loro, neppure per errore.

"Meg, non ti sarai forse offesa? Spero che tu abbia capito le mie ragioni. Io, noi tutte abbiamo molte responsabilità e purtroppo non possiamo fare miracoli. Piuttosto, non ho ancora avuto il piacere di vedere l'albero di Natale! Ne avete uno, vero?"

"Sì, è qui fuori" si risvegliò di colpo Margaret, ricordandosi dell'unica cosa cui davvero non poteva rinunciare "Vado a prendere le vostre pellicce"

In un lampo, la governante fu di ritorno con le pesantissime pellicce sugli avambracci. Una per volta, le signore le presero e le indossarono. 

"Venite, i bambini vi stanno aspettando"

Con l'usuale lentezza, le tre senili donne attraversarono la mensa, mentre Margaret corse subito davanti alla porta che conduceva al cortile e, aprendola abbastanza perché le si vedesse il viso, annunciò a Martha e ai bambini:

"Le signore stanno arrivando! Mi raccomando: comportatevi bene, TUTTI!"

Nel lasso di tempo che le signore impiegarono a finire di percorrere la stanza, Martha sopperì alla bell'e meglio a tutti i piccoli problemi di condotta e nasi gocciolanti insorti negli ultimi minuti e rimise in fila come si deve i bambini che intendevano fare delle domande alle donne.

Quando queste finalmente raggiunsero lo spiazzo all'aperto, furono sorprese da un vero abete, piantato in un vaso, decorato con innumerevoli palline decorate dai bambini con pennarelli e matite colorate e festoni di cartapesta, ma tanto curati e sgargianti da impressionare l'occhio più critico. Sulla cima svettava una stella di metallo dorato, che pareva assorbire tutta la fioca luce di quella mattina d'inverno.

Ma l'aspetto dell'albero diventava molto meno attraente quando si notava che sotto non c'erano regali: questo secondo il principio per cui, non riuscendo a realizzare i desideri di tutti e onde evitare bisticci,  a malincuore non si accontentava nessuno.

Anche per questo, i bambini nelle due file fremevano di gioia all'idea di poter chiedere qualcosa alle tre gentili benefattrici: uno di loro, per l'emozione, s'era addirittura fatto la pipì addosso, con la spiacevole conseguenza di venir deriso da tutti e dover andare a cambiarsi i pantaloni, diventando così l'ultimo della fila. 

Non tutti i bambini però volevano chiedere un regalo: dietro le due file e separati da esse c'erano infatti quelli che avevano rinunciato a ricevere qualcosa. Appartenevano a quest'ultimo gruppo quasi tutti i più grandicelli, ma non mancava anche qualche bambino piccolo, che aveva lasciato la fila all'ultimo minuto, scoraggiato dal freddo o dal pensiero di tutti i regali che avrebbe potuto avere se solo avesse avuto una mamma e un papà. Avrebbero voluto volentieri starsene nelle loro stanze, al calduccio, ma erano stati costretti dalla signora Cole a indossare i cappottini e 'farsi comunque vedere dalle tre brave signore'.

Al di là dei sessanta bambini, di Martha, della signora Cole, di Nancy, che era stata governante prima di essere sostituita da Margaret a causa della veneranda età ma che s'era rifiutata con forza d'abbandonare l'orfanotrofio quando le era stato chiesto, e dell'abete, il cortile era vuoto. Era un semplicissimo spazio aperto pavimentato, più o meno delle dimensioni della mensa, senza portici o simili architetture.

"Ma è spettacolare!" trillò la signora Kleeman, spostando in continuazione lo sguardo dai bambini all'albero "Lo avete fatto voi, questo?"

Subito si levò un vocio di 'sì' entusiasti, uniti a qualche isolata protesta da parte dei ragazzini e le ragazzine più grandi. Martha provvedette a sedarlo subito, mentre Nancy, che non aveva sentito la domanda, si limitò a guardare perplessa la signora.

"L'ho fatto impiantare in un vaso da fuori Londra tramite mio zio ed i bambini hanno partecipato con entusiasmo ad addobbarlo per le feste" spiegò per loro la signora Cole, sollevando un po' la punta del naso.

"È spettacolare, davvero! È spettacolare vedere come ti prodighi per tutti questi meravigliosi bambini! Sì, perché siete tutti bellissimi! E vestiti anche molto bene, complimenti!"

"Mia sorella è una sarta. Se n'è occupata lei, insieme a mia madre" chiarì con voce tremante Martha, le mani incrociate sull'addome.

"Davvero due sole donne hanno cucito tutti questi bei vestitini?!" la signora Kleeman pareva esterrefatta.

"N-non solo loro. A-altre sarte si sono unite a loro, conoscendole e sapendo che lavoro f-faccio..." biascicò Martha, il cui faccia rotonda era diventata rovente dall'imbarazzo.

La signora Kleeman scosse la testa, incredula, senza mai smettere di indossare lo stesso sorriso che portava sin da quando aveva oltrepassato il cancello.

"Cotanta buona volontà è spiazzante, davvero. Mi solleva sapere che esistono persone laboriose, umili e appassionate come voi in una società come quella odierna. Mancano proprio... le parole. Ma! Parliamo dunque dei vostri adorati, l'oggetto di tutti i vostri sofferti sacrifici. Mi sembra che abbiate qualcosa da dirmi, non è vero? Vedo dei fogliettini e tanti bei rincuoranti sorrisi. Allora, chi è il primo?"

La prima della fila a sinistra fece un passo avanti. Era una bambina alta e secca, che dimostrava più o meno otto anni; aveva due codini bassi di capelli biondi che le solleticavano il collo, grandi e seri occhi grigi, un nasetto vivace pieno di lentiggini e labbra sottili che celavano un incisivo mancante. Portava un vestito beige dalle maniche lunghe ricamato con motivi di filo rosso, un paio di calze bianche che accentuavano la magrezza delle sue gambe e lucidi sandali neri, che forse erano un po' troppo stretti. Pareva molto spigliata e non dava alcun segno d'incertezza davanti alle sconosciute. Iniziò con una voce molto nasale ma decisa:

"Buongiorno, signore. Mi chiamo Holly White. Volevo dirvi di una cosa che voglio da tanto, tanto tempo e che la signora Cole mi aveva promesso che avrebbe preso per me, ma che non ha mai preso.  È più di un anno che la chiedo, perché continuo a vederla nelle riviste, a sentirla alla radio e so che tutte le bambine ce l'hanno. È una bambola che fa a Londra in un negozio un giocattolaio e che mi piace tanto tanto. Ha i boccoli biondi e un vestitino azzurro. In realtà non so come si chiama, perché alla radio non dicono il nome e sulle riviste non c'è, però io la vorrei, con tutto il cuore la vorrei e la signora Cole lo sa. Per favore"

La signora Gardner guardò subito in tralice la signora Kleeman. Quest'ultima infatti aveva ben presente di che bambola si trattasse, in quanto l'aveva regalata a tutte le sue nipotine. Era una bella bambola di porcellana, con riccioli d'oro e un vestitino di vero raso. Il giocattolaio, proprietario del più prestigioso negozio di giochi a Londra, ne aveva fabbricato un numero limitato, e Kelly Kleeman non aveva sinceramente idea riguardo al fatto se potesse essere o no ancora disponibile. La signora Gardner, tuttavia, fu inflessibile, e così la signora Kleeman rispose:

"Carissima Holly, conosco benissimo il giocattolaio di cui parli. Purtroppo non ce ne sono più e il giocattolaio non ne fabbricherà di nuove. Però, se vuoi, posso sceglierne una simile e portartela! Che ne dici?"

"NO! IO VOGLIO QUELLA! QUELLA! QUELLAAAA!" 

"Holly!" Martha accorse a calmare la bambina, che aveva cominciato a riversare fiotti di lacrime e a sporcare con esplosioni di muco il bel vestitino.
Dopo un po' di scene e di esclamazioni accorate della signora Kleeman, la bambina abbandonò la fila per lasciare spazio a chi era dopo di lei.

Si trattava di un bambino più piccolo di Holly, con una testa di capelli scuri e mossi molto ordinati, fin troppo ordinati per un bambino della sua età, due enormi e penetranti occhi scuri, il naso lievemente all'insù e una boccuccia che pareva disegnata, ma perennemente costretta all'immobilità da un cipiglio severo, che faceva trapelare una prematura arroganza.
Era quasi vestito meglio di Holly, con un cappottino di feltro marrone scuro fatto su misura, pantaloni neri di tessuto e scarpine di cuoio degne di un Lord. 

"Buongiorno, signore. Mi chiamo Tom Riddle e voglio esprimere un desiderio per Natale-"

"Tom Riddle! Io ti ho già incontrato l'altra volta, vero? Ma sei ancora più bello dell'ultima volta che ti ho visto! Davvero, Meg, la compostezza e il faccino di questo bimbo sono qualcosa di impressionante! Dimmi, Tom, ti ascolto."

"Voglio esprimere un desiderio per Natale" proseguì Tom, come se non l'avesse sentita "Volevo chiedere, per favore, se una di voi potesse adottarmi"

Alla signora Kleeman andò la saliva di traverso, mentre la signora Gardner e la signora Truman s'impettirono ancora di più del solito.

"Ma... lo chiedi proprio a noi?" 

"Sì. Non c'è migliore cosa che potrei desiderare perché io odio questo posto. Mi adottereste, per favore? Prometto che sarò buono" ripeté Tom con voce candida.

"Tom..." la signora Kleeman cominciò, sorridendo "Mi piacerebbe tanto sai, ma io, Bessie e Rose siamo troppo vecchie per-"

"Anch'io vorrei essere adottato!" esclamò il bambino dietro Tom, alto circa il doppio di lui. 

"Anch'io!" s'aggiunse Holly, 

"Anch'io!"

"IO, IO!"

Così si scatenò la baraonda: i bambini uscirono dalle file e cominciarono correndo a spingersi davanti alle tre donne e cercare di sovrastare gli altri con la voce. Il bambino che s'era fatto la pipì addosso, che si chiamava Dennis Bishop, rimase travolto da tutti gli altri e per poco non si ruppe un braccio, mentre Tom iniziò ad urlare irato a tutti quelli che tentavano di sorpassarlo:

"Non mi copiate! L'ho detto prima io! Aspettate il vostro turno! L'ho chiesto IO! IO!"

"Calmati, Tom! Voi, bambini, rimettetevi a posto per favore!" li supplicò Martha, che balzava da un lato all'altro del cortile senza riuscire a concludere nulla. 

Dal canto suo, anche la vecchia Nancy cercò di riportare l'ordine, toccando i bambini uno ad uno e convincendoli a stare zitti ed aspettare, finché però l'emozione non ebbe la meglio su di lei e rivolse la parola direttamente alle benefattrici:
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    
"AMMETTETE CHE A VOI NON IMPORTA NULLA DI QUESTI BAMBINI! PRENDETE LA PORTA E ANDATEVENE! SUBITO!"

La signora Gardner e la signora Truman ebbero un fremito di rabbia a quelle parole e furono sul punto di prenderla a parole, mentre la signora Kleeman, dopo qualche attimo di estraniazione dalla pessima situazione, chiese con calma:

"C'è qualcun altro qui che vuole esprimere un desiderio?"

 Così, tra i bambini che urlavano ancora supplicando se potessero essere adottati ne spuntò uno dal fondo delle due file, basso e mingherlino, ma che doveva avere all'incirca la stessa età di Tom, dagli scompigliati capelli corvini e dai luminosi occhi verdi. Teneva il capo chino, le mani dietro la schiena e un piede davanti all'altro, tanto che pareva che avesse acquisito il coraggio di parlare solo perché gli altri erano distratti. 
Immediatamente la vecchia Nancy gli si fece vicino per ascoltare.

"I-io... m-mi chiamo Harry H-Harper... vorrei... volevo chiedere... se poteste... i-io l'anno prossimo vado a scuola... vorrei a-avere tutti i libri e l'inchiostro e la carta e le p-penne per la scuola... come gli altri bambini"

"ADESSO ABBIATE IL CORAGGIO DI DIRGLI DI NO!" gridò con voce rauca alle tre benefattrici, esortando con mano gentile il piccolo Harry ad alzare la testa.

La signora Kleeman ci pensò per un po', le mani incrociate sull'addome in uno sfoggio di imperturbabilità; poi gli rispose con voce soave:

"Sì, Harry. Avrai i tuoi libri"

Nancy interpretò queste parole come una resa e sfidò Kelly Kleeman con lo sguardo a mantenere la promessa, mentre il bambino ebbe finalmente il coraggio di alzare il piccolo mento come mai in vita sua e sorridere tanto sino a sprizzare gioia. Mai e poi mai avrebbe sperato di riuscire a far avverare il suo più grande desiderio! Avrebbe avuto un suo calamaio, una penna d'oca, della bella carta, un abbecedario e tanti libri pieni di illustrazioni colorate... avrebbe imparato a leggere e a contare...  avrebbe visto e toccato col dito il mondo nelle cartine degli atlanti... iniziarono a scendere le lacrime, senza che lui potesse fermarle e disse: "G-grazie" alle tre signore.

Tuttavia, gli altri bambini, che, risvegliatisi dai loro schiamazzi, avevano assistito alla scena, cominciarono a protestare con vigore, gelosi. Primo fra tutti Tom, che si parò proprio davanti a Harry e lo accusò:

"Non vale! Non è giusto! Non puoi avere solo tu il regalo! Se lo ricevi tu allora lo devono ricevere tutti! E poi tu eri anche dopo tutti gli altri! Stai barando! STAI BARANDO! Non dategli i libri! NON DATEGLI I LIBRI!"

"Tom!" lo redarguì la signora Kleeman, ansiosa di ridarsi un contegno. Nel frattempo, un bambino più grande spinse Harry per terra e gli sferrò un calcio nello stomaco. "Mi dispiace tanto, caro. Se vuoi, anche tu puoi avere i libri per la scuola"

"NO! IO. VOGLIO. ESSERE. ADOTTATO!" rincarò Tom, con una tale convinzione e una voce così tonante che rimbombò per tutto il cortile.

"Temo che questo non possa accadere, Tom" ammise desolata la signora Kleeman, che iniziava ad essere seriamente scocciata da quel piccolo prepotente.

Inaspettatamente, questo non le rispose gridando più forte, bensì distese il viso, sgranò gli occhi e mise le braccia conserte. La signora Cole, che da tempo aveva perso del tutto il controllo della situazione e non sapeva da che parte girarsi, si precipitò ad afferrare il bambino per le spalle per farlo indietreggiare e riportare l'armonia fra Harry e quello che la stava picchiando.
Dopodiché, si voltò giusto per assistere alle tre signore andarsene alla chetichella.

"Signore! Aspettate! Non andate via così presto!" le supplicò, raggiungendole di corsa.

"Non siamo gradite qui, a quanto pare" asserì la signora Gardner, barcollando sui suoi passi per la fretta e lanciando un ultimo sguardo velenoso alla vecchia Nancy.

"Ritorneremo, Meg, non ti preoccupare. Faremo pervenire i libri al piccolo Harry Harper. Buon Natale a te, a Martha e a tutti i tuoi bambini!"

Kelly Kleeman aveva appena raggiunto la porta, quando questa, come trascinata da una bufera, sbatté con inverosimile forza contro il suo viso, facendola volare a ritroso per un bel tratto e cadere a terra battendo la testa.

La signora Cole urlò come mai avrebbe pensato d'essere capace d'urlare, gettandosi su di lei e cercando di rianimarla, mentre la signora Gardner tirò fuori dei sali dalla tasca della pelliccia e li fece oscillare sotto il suo naso e la signora Truman fece del suo meglio per inginocchiarsi ed esaminare l'enorme livido che copriva la faccia dell'amica. Nancy, che era una gran brava donna, si sentì terribilmente responsabile e propose di farla pernottare nel suo appartamento nell'orfanotrofio tutti i giorni necessari a farla rimettere in sesto.  Martha, che era altrettanto brava, non poté però esimersi per un attimo da pensare a un'opera del Karma e fu l'ultima a soccorrerla.

Dovettero pensarci anche i bambini, insieme ai ragazzini che non s'erano inseriti nelle file, perché scoppiarono in una grandissima risata. Alcuni addirittura si scompisciavano e caddero a terra da quanto faceva loro male la pancia, adombrati dal maestoso albero di Natale. Dopo un po' d'esitazione, anche Holly White si mise a ridere di gusto, le guance ancora rigate delle lacrime di prima. Rise persino il piccolo Dennis Bishop, che non appena aveva saputo della possibilità di far esaudire un desiderio quella mattina s'era fatto la pipì addosso.

Harry Harper, però, non rise. Infatti, nonostante fosse stato a terra e con la polvere negli occhi, aveva visto Tom Riddle fare un veloce gesto della mano un attimo prima che la porta sbattesse contro la faccia della signora Kleeman. Sapeva che era stato lui, e non il Karma, perché ogni volta che parlava o si muoveva gli pareva di sentire uno scintillio strano, come lo sbatacchiarsi insieme di campanelline di Natale, che però emettevano un suono molto stridulo, metallico; quando gli veniva vicino poi sentiva un ronzio persistente, come se gli fosse entrata un'ape in ciascun orecchio, unito a un'insolita sensazione di bruciore latente sul viso. Harry sapeva che Tom era uno di quei bambini da cui era meglio stare sempre alla larga  —aveva sempre più giochi di tutti gli altri e persino Billy Stubbs, il bambino che gli aveva dato dei calci nello stomaco, non gli dava quasi mai fastidio — ma che allo stesso tempo aveva qualcosa in più rispetto a questi bambini, e non si capacitava di come mai gli altri non se ne accorgessero. Aveva provato a parlarne con Nancy, con la signora Cole, con Martha, ma tutte avevano parlato di sue "fantasie" e gli avevano detto di "stare tranquillo".

Harry ci provò anche in quella circostanza, finché non vide Tom guardarlo allo stesso modo in cui aveva guardato prima la signora Kleeman, sgranando gli occhi e mettendo le braccia conserte. Rimase un attimo fermo a fissarlo, poi voltò la schiena. Così, in quel momento, Harry capì che quella sera sarebbe dovuto andare a letto prima del solito.

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Capitolo 4
*** Nella stanza dei giochi ***



L'amore di Voldemort











Una volta nell'ingresso dell'orfanotrofio, aperta la porta di fronte a quella che dava l'accesso all'edificio e salita una breve rampa di scale, si arrivava in mezzo a un corridoio discretamente cupo ed angusto. Questo era costellato delle porte che conducevano alle stanze dei bambini, numerate, molto vicine l'una all'altra e spesso personalizzate con disegni e targhe di cartone: venivano chiuse alle nove di sera e aperte alle otto del mattino da un'unica chiave, in possesso alla signora Cole.
Teoricamente, la prima metà del corridoio avrebbe dovuto ospitare bambine e ragazze, la seconda  bambini e ragazzi, ma arrivi e partenze erano così frequenti che la regola non riusciva quasi mai ad essere rispettata.
Ogni tanto, tra le porte numerate, ne campeggiava qualcuna non numerata: erano i bagni comuni. Perché fossero proporzionati al numero degli ospiti ce ne sarebbero voluti almeno due o tre in più e così, nonostante la sottile lastra in metallo sulle porte riportasse in effetti la scritta 'maschi' o 'femmine' e data l'impossibilità di chiuderli a chiave data la costante possibilità di imprevisti e i frequenti malanni che colpivano i bambini, la separazione dei generi era quasi inesistente. Ciò rendeva, soprattutto fra i più grandi, molto alto il rischio di 'certi' incidenti, che sarebbe stato prudente evitare ma che era quasi del tutto impossibile gestire.   
L'illuminazione nel corridoio era ancora più carente che nella mensa, tanto che spesso la signora Cole, quando alle nove bussava di porta in porta  per verificare che tutti i bambini fossero a letto, si muniva di una lanterna; d'estate la situazione restava pressoché identica, in quanto il sole aveva la possibilità di penetrarvi coi propri raggi solo tramite il vetro d'una finestra in testa al corridoio stesso.

Procedendo nel verso opposto rispetto alla finestra, a partire dalle scale, si giungeva ad un piccolo spiazzo: a sinistra, una scala a chiocciola portava agli appartamenti di tutti coloro che lavoravano nell'orfanotrofio e all'infermeria, mentre a destra un portone nero e squadrato affacciava sull'agognata "stanza dei giochi".

La "stanza dei giochi" rappresentava la meta principale di tutti gli orfanelli, a prescindere dall'età o dalle preferenze: tutte le mattine a mensa si faceva a gara per finire la colazione ed essere il primo a partire per la camera. Così, dopo una furiosa corsa a rotta di collo (da cui derivavano le dolorose cadute sulle mattonelle dell'ingresso cui faceva riferimento la signora Cole parlando con le tre benefattrici), e tanti spintoni che spesso, più della velocità, decretavano il vincitore, tagliavano il traguardo, esausti e contusi, ma trionfanti. 
Questo perché, appoggiato su una parete della stanza, c'era un armadio, massiccio e di robusto legno di quercia, contenente a sua volte tantissime cassettine, al cui interno c'erano TUTTI gli averi di ciascun bimbo: quindi non solo giocattoli, ma anche pettini, nastri, forcine, guanti, cappellini, quadernetti, libri di scuola, libri di fiabe, romanzi, penne d'oca, barattolini d'inchiostro, gommine, fazzoletti, soprammobili vari, foto e persino denaro, (perlopiù scarne) collezioni di francobolli, flauti e ocarine.
Così come per le porte delle stanze, c'era una sola chiave in grado d'aprire tutte le cassette ed era in mano alla signora Cole: uno ad uno, i bambini si presentavano e lei cercava ed apriva le loro cassette. A quel punto, questi dovevano prendere tutto ciò di cui avevano bisogno per quella giornata, cosicché la signora Cole potesse chiudere nuovamente a chiave la loro cassetta e riporla. Tuttavia, le regole non erano rigide al Wool's Orphanage e chiunque, con un po' di garbo e falsando un faccino estremamente dispiaciuto, avrebbe potuto chiedere alla signora Cole di farsi aprire la cassetta a ogni ora del giorno senza essere rimproverato. Al contrario, Nancy, che era stata l'ideatrice di questo sistema ancora prima che Margaret venisse a lavorare al Wool's Orphanage, quand'era ancora governante,  era molto più severa a riguardo e, se fosse dipeso da lei, lo avrebbe quasi sempre impedito, in quanto riteneva fosse uno dei pochi modi efficaci a loro disposizione per responsabilizzare con successo i bambini.  La signora Cole però, come spesso accadeva, non le aveva dato ascolto; approvava e adottava invece la sua intransigenza riguardo agli averi preziosi (spesso eredità dei parenti) che non faceva prelevare quasi mai, se non in caso di adozione, di abbandono dell'orfanotrofio da parte di un ragazzo che avesse raggiunto la maggiore età o di estremo ed irrinunciabile bisogno (in quest'ultimo caso, il prelievo e l'uso erano amministrati o severamente monitorati  da Nancy o dalla signora Cole). 

Per far sì che nessuno rubasse le cose degli altri, a ogni cassetta corrispondeva anche un elenco, che ne documentava tutto il contenuto e che andava aggiornato ogniqualvolta veniva aggiunto qualcosa. Ogni sera, prima d'andare a letto, s'effettuava il controllo: tutti gli oggetti presenti nell'elenco dovevano essere rimessi nella cassetta. Se mancava qualcosa, veniva setacciato l'intero orfanotrofio pur di ritrovarla: in caso di ritrovamento dopo una perdita accidentale ovviamente non accadeva nulla, ma se era individuato un responsabile, questo era costretto a restituire l'oggetto e non poteva accedere alla sua cassetta per tre giorni. Se invece l'oggetto non saltava più fuori e venivano sospettati dei responsabili, ma nessuno ammetteva d'essere il colpevole, oppure era stato irreparabilmente danneggiato da qualcuno, veniva vietato a TUTTI l'accesso alle cassette per UNA SETTIMANA. Quest'ultimo caso, inutile dirlo, era l'incubo degli orfanelli: non poter giocare per una settimana! Manco a dirlo, i furti e i danneggiamenti dei giocattoli erano molto limitati e, in ogni caso, tutti preferivano arrendersi la sera, restituire il maltolto e rinunciare per tre giorni ai balocchi, magari condividendo quelli di un altro, piuttosto che tenerselo e nel frattempo non potersi divertire con nient'altro per una settimana intera.    
Queste regolamentazioni erano opera di Nancy e la signora Cole, pur lamentandosene in continuazione, dato che destavano sempre molto disordine nell'orfanotrofio, non poteva dir nulla di fronte alla loro efficacia e, seppure a malincuore, le aveva riprese pari pari. 

Ciò nondimeno, nonostante nei giorni anteriori al Natale in cui le tre benefattrici vennero a far visita al Wool's Orphanage nessuno avesse rubato o rotto nulla, il trambusto innestatosi nell'orfanotrofio dopo che queste ebbero battuto la ritirata  — l'invito di Nancy non fu nemmeno preso in considerazione e le due signore chiamarono un taxi per portar via Kelly Kleeman, ancora priva di sensi — non aveva precedenti. 

Infatti la signora Cole, volendo presentare l'edificio nel miglior modo possibile e dunque prevenire lo scompiglio in tutte le stanze, aveva dilazionato il principiare della routine giornaliera dei bambini: ne derivava che il tempo solitamente impiegato a far colazione e giocare, gli orfanelli lo avevano impiegato a farsi pettinare, vestire e rassettare da un'affannatissima Martha e da, una manco a dirlo, contrariata Nancy. Così, nell'ordine affamati, oppressi dagli scomodissimi abiti nuovi e arrabbiati per non aver ricevuto i regali promessi, i bambini non si seppero più contenere: cominciarono a litigare e, quindi, ad azzuffarsi.

Alcuni sputavano addosso agli altri, strappando loro i vestiti di dosso e squarciandoli con le unghie; altri si toglievano le scarpe o raccattavano quelle già per terra e se le lanciavano in faccia; altri ancora si graffiavano e si mordevano finché i denti da latte non si staccavano; infine, alcuni, tra cui Billy Stubbs, che era stato buono fino a quando aveva avuto gli occhi addosso per aver picchiato Harry, ma che aveva approfittato della prima distrazione di Nancy, di Martha e della signora Cole, fecero cadere deliberatamente l'albero di Natale, ne raccolsero la terra e la ficcarono in bocca a Dennis Bishop, che rischiò di soffocare; al che, il piccolo Eric Whalley, che teneva moltissimo alla pallina che aveva decorato, sgusciò in mezzo ai bulli per raccattarla e fece per andare a metterla al sicuro, quando fu travolto da Harry Harper, che stava anche lui correndo, ma per mettere al riparo sé stesso da Tom Riddle, che continuava a tenere le braccia conserte e a puntarlo con quel suo sguardo cattivo. 

Harry, che era esile come un fuscello e solo una spanna più alto del bimbo, sapeva bene com'era essere atterrato da qualcuno e stava per scusarsi con lui, quando fu interrotto da un urlo rivolto a Eric:

"FERMALO!"

Era Tom, e li stava raggiungendo: il parapiglia in corso gli aveva consentito di anticipare la sua vendetta nei confronti di Harry, ma, per fortuna, gli stava anche  impedendo d'essere veloce. 

Spaesato e senza fiato, Eric guardava ora Harry, ora la figura di Tom in lontananza con i suoi grandi occhi turchesi scuotendo la testa, senza sapere cosa fare; al che Harry, istintivamente, s'allungò per raccogliere la sua pallina di Natale rotolata via e gliela restituì con un mezzo sorriso.

"Ho detto FERMALO, Eric!"

Il bambino, ancora più confuso, si voltò nuovamente, il viso colmo di terrore e i polsi che tremavano. Dal canto suo, Harry cercava Nancy con lo sguardo, senza però riuscire a scorgerla e non sapeva che fare, quando i suoi occhi si posarono nuovamente sulla sua pallina. Allora gli chiese, concitato:

"S-scusa, la posso prendere un attimo?"

Eric, che ormai si sentiva spacciato, fece subito di sì con la testa: Harry la prese con rapidità inaudita e la lanciò a un passo di distanza da Tom, che, confuso dallo scompiglio circostante, non notò il lancio e ci cascò sopra col piede, sbattendo pesantemente la mascella sulle piastrelle del cortile.

Impietrito dal suo stesso gesto, Harry indugiava fermo, ansimando; tuttavia, gli bastò vedere Tom muovere due dita della mano per scappare via a gambe levate e prendere la porta per la mensa abbastanza velocemente da non concedergli il tempo di sbattergliela in faccia. Anche Eric, superata l'incertezza, decise di fuggire e seguì Harry, che con la sua prontezza di riflessi s'era conquistato la sua fiducia.

Attraversarono la mensa in fretta e furia: Harry saltò su un tavolo e ci corse sopra, sbattendo grevemente gli scarponcini sul legno, mentre Eric si dava la spinta con gli schienali delle sedie, fino a slanciarsi verso la porta dell'ingresso.
Corsero a zig zag fra le poltrone, sbattuta la porta in alto fecero gli scalini a quattro a quattro, appendendosi come scimmie; sbucati nel corridoio, Harry con balzi da gigante giunse sino alla "stanza dei giochi" e si nascose nel grosso armadio di legno di quercia, cercando di non far cigolare le cassettine, mentre Eric, che, disorientato dall'aver udito qualcuno salir le scale era rimasto indietro, non fece in tempo: infatti, stava per aprire l'anta dell'armadio che la porta della "stanza dei giochi" cozzò contro la parete, con una tale violenza che per poco non si ruppe parte dell'intonaco del soffitto.

Tom entrò nella stanza, con gli occhi sgranati e le braccia conserte, esattamente come prima con la signora Kleeman. Harry lo spiava da una fessura, mentre il piccolo Eric, che, atterrito, si contorceva come una banderuola in preda a una bufera, non trovò di meglio che dire, col suo forte accento irlandese:

"Non l'ho lanciata io! È stato Harry!"

Harry ebbe un sussulto e fu sul punto di far precipitare la cassettina su cui sedeva: per fortuna riuscì a bloccarla tempestivamente con la mano e rimettersi composto.

"Lo so che è stato Harry. Se mi dici dov'è, non ti faccio niente" promise Tom con estrema serietà.

"S'è nascosto lì, dentro l'armadio" rispose Eric, senza un attimo di esitazione.

Harry si lasciò sfuggire un sospiro. Era finita.
Sentiva il frastuono di campanelle diventare sempre più forte, la faccia riscaldarsi come se avesse avuto la febbre, il ronzio d'api penetrargli le orecchie fino a farle vibrare... quando le ante s'aprirono, la flebile luce della stanza lo colpì di nuovo e vide Tom fissarlo, furioso, gli occhi quasi fuori dalle orbite.

Gli mancava il respiro dalla paura.

"Non ti muovere!" gli intimò ad un tratto, allungando un braccio verso di lui. 

La mano di Tom non l'aveva raggiunto, ma Harry si sentì  come colpito da un fortissimo pugno in pieno viso: schiacciò gli occhi e corrugò la fronte, disperato, cercando di scacciare quel dolore anche se gli parve d'aver perso tutti i denti, quando sentì che le cassette gli si stavano gettando volontariamente contro, schiacciandogli la testa e scaraventandosi sul suo addome con gli spigoli appuntiti. Eric, rannicchiato in un angolo, piangeva senza sosta.

Ad un tratto, però, mentre stava respingendo una cassetta, s'accorse che questa si stava allontanando dalla sua faccia senza che la stesse toccando: il tempo di riaprire gli occhi e la vide fiondarsi contro la pancia di Tom come se gliel'avesse lanciata, appendendolo al muro e tramortendolo. 

Ronzio, calore e frastuono di campanelle: tutto finì in un attimo.

Eric Whalley non seppe più trattenersi: cacciò un urlo acutissimo mentre gattonava all'indietro, facendo il segno della croce, tentando inutilmente di rialzarsi. 

Incredulo e bianco come un cencio lui stesso, Harry saltò fuori dall'armadio e fissò lo sguardo sulla cassetta e Tom svenuto, poi sulle sue mani, poi su Eric, che stava pregando in un latino stentato, le mani giunte e gli occhi chiari ingigantiti rivolti verso il cielo:

"Ave, Maria, grátia plena, Dóminus tecum... Benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui, Iesus..."

Non appena vide Harry avvicinarsi, il piccolo Eric indietreggiò di nuovo fino picchiare la testa contro la parete, riproducendo di nuovo il segno della croce con le sottili dita.

"VADE RETRO, SATANA! VADE RETRO! SIGNORA COLE! NANCY! MARTHA! AIUTATEMI! VADE RETRO, SATANAAA! Dio, ti prego, salvami... la mamma prima di morire ti ha chiesto di proteggermi... dal Diavolo... VADE RETRO! VADE RETRO!"

Quelle parole s'incisero in profondità nel cuore di Harry Harper.

Non c'era altra spiegazione... era il Diavolo... 

Singhiozzando, Eric riuscì finalmente a rimettersi in piedi, disse un'ultima volta:
"VADE RETRO, SATANA!" e poi scappò via come il vento.

"Allora, anche tu..."

Harry si girò.

Tom s'era rimesso in piedi. Non aveva più le braccia conserte e sembrava triste.

"Io pensavo d'essere l'unico."

Harry non sapeva cosa dire. Sospirò, lasciando che gli si riempisse il naso e che la prima lacrima toccasse terra.

"Non piangere. Non ci puoi fare niente" spiegò Tom, venendogli di fronte. "Davvero. Io ci ho provato, se no non te lo direi. Però non è una colpa. Sono così da quando sono nato. Probabilmente anche tu."

"Io non lo sapevo... l'ho saputo adesso" dichiarò Harry, sforzandosi di smettere di piangere. 

"Ti eviteranno tutti, d'ora in poi" spiegò Tom "A me è successo così. Non ti parlerà nessuno, non ti verrà a cercare nessuno, perché loro non sono come te e invece vorrebbero esserlo."

"Io non voglio essere Satana!" pianse Harry.

"E invece lo sei" lo rimbeccò Tom, saccente "Secondo me è meglio così. Puoi fare tante cose che gli altri non riescono a fare e avere tante cose che gli altri non hanno."

"Non mi interessa. Io voglio essere come gli altri e fare quello che fanno gli altri"

"Allora sei proprio stupido! Ecco perché preferisci avere dei libri di scuola piuttosto che essere adottato. Se sei adottato da delle signore ricche, non solo ti danno i libri di scuola, ma anche moltissime altre cose. Mi sa che non hai ancora capito bene cosa vuol dire essere Satana, altrimenti non ti comporteresti così"

"Come mi devo compottare?" chiese allora Harry, che aveva capito metà di quello che aveva detto e non sapeva proprio cosa volesse dire 'comportarsi'. 

"Non è difficile: devi fare quello che fa Satana. Io faccio così"

"Ma io non voglio... Satana è brutto e cattivo, e tutti odiano Satana!" 

"È vero" confermò Tom, facendo sì con la testa "Io sono brutto e cattivo e tutti mi odiano. È sempre stato così e lo sarà anche per te. T'ho detto di non piangere! Non devi essere triste!"

"E perché?"

"Perché Satana non è triste d'essere Satana. Anzi, è molto contento! Io sono molto contento e anche tu dovresti esserlo!"

"Non è vero. Tu non ridi mai. Non sei mai contento" replicò Harry, convinto.

"Anche se non rido sono contento lo stesso. Sono contento quando agli altri succedono cose brutte. Sono contento quando io faccio cose brutte agli altri. Tu non eri contento, prima, quando mi hai fatto cadere a terra con la pallina? E adesso, quando mi hai lanciato contro la cassetta?"

"Un pochino... un pochino sì" ammise Harry. Aveva tante cose da imparare, pensò. Tom era molto intelligente e non sapeva se sarebbe riuscito a diventare come lui.

"Vedi?! Sei sulla strada giusta per comportarti da Satana! Te l'ho detto che non è difficile. Basta essere contenti quando succedono cose brutte." 

"Ma tu non sei contento" insisté Harry "T'ho visto prima, quando Eric è scappato via dicendo che siamo Satana. È una cosa bruttissima, eppure tu eri triste"

"Non bisogna essere contenti quando succedono a te le cose brutte. Io ero triste quando mi hai fatto inciampare nella pallina o quando mi hai lanciato contro la cassetta: tu invece eri contento. È giusto così."

"Ma Tom, io non ci capisco proprio niente! Me lo puoi insegnare tu, come si fa a essere Satana? Sei tanto bravo, mentre io invece non riesco neppure ad essere contento!" lo supplicò Harry, rimpicciolendosi di fronte al bambino più alto.

"Si vede che non hai capito proprio niente!" lo rimproverò Tom, irato "Perché dovrei insegnarti come si fa essere Satana? Tu non sai com'è essere Satana, e infatti sei triste: per questo, io sono contento!"

"Non mi sembri contento" ripeté Harry, sempre più persuaso d'aver ragione.

Poi, dopo un attimo di riflessione, se ne uscì fuori così: "E poi anche tu per certe cose non sai com'è essere Satana. Prima Eric ha detto Satana anche a me, e tu hai detto che eri triste. Io lo so perché eri triste: perché io sono Satana come te e quindi tu dovevi essere triste. Anche prima, io ero contento quando ti ho fatto cadere con la pallina e ti ho lanciato contro la cassetta perché non so compottarmi: avrei dovuto essere triste! Questo lo hai detto tu!"

Allora anche Tom si mise a riflettere. Gli sembrava tanto strano quello che stava dicendo, eppure... lui davvero s'era sentito triste in quel momento, quindi doveva essere vero. Adesso non capiva neppure bene perché stesse sottovalutando Harry, dato che alla fine era esattamente come lui... era tutto molto più strano di quel che avesse pensato! 

"Hai ragione tu" concluse dunque, facendo sì con la testa di ricci adesso tutti in disordine, un po' stranito "Io non sapevo che ci fossero altri come me..."

"Visto?!" rincarò Harry, con una sicurezza che non aveva mai dimostrato prima a nessuno "Quindi, mi devi insegnare, perché io sono Satana come te e tu non vuoi che mi accadano cose brutte!"

"È vero, è la stessa cosa che ho detto io" annuì di nuovo Tom "Va bene, ti insegnerò... adesso però dobbiamo andarcene di qui: siamo rimasti troppo a lungo e l'irlandese avrà già fatto la spia"

"Sì, andiamo!" concordò Harry, a cui s'erano asciugate tutte le lacrime. 

Così i due abbandonarono la "stanza dei giochi", sperando di non imbattersi nel percorso con la signora Cole...



INFO: Ho pubblicato una storia, chiamata "L'erede di Merlino": si tratta di uno spin-off opzionale che può essere letto indipendentemente da "L'amore di Voldemort". Leggerlo, tuttavia, aiuta la comprensione degli eventi. Il link: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3232390&i=1

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Capitolo 5
*** Una punizione e una lettera ***



L'amore di Voldemort











Non appena ebbero messo un passo fuori dalla "stanza dei giochi", Harry e Tom videro con sollievo che in corridoio non c'era traccia della signora Cole, ma anche e soprattutto, udirono un furioso frastuono di piedi al piano di sotto, che ricordò loro tanto il rumore che faceva l'acqua nella pentola della cucina quando iniziava a bollire: stavano tutti correndo verso le cassette a prendere i giochi!

Harry si tappò la bocca spalancata. Lui e Tom  s'erano cacciati in giganteschi guai! L'armadio era aperto e le cassette erano tutte sparpagliate per terra! Una l'aveva persino lanciata! Chissà quante cose s'erano rotte! Come aveva fatto a non pensarci subito?!

Erano spacciati!

Avrebbe voluto urlare, ma non riusciva a spiccicare nemmeno una parola.
Si limitò a girarsi verso Tom, inebetito, che lo guardò di rimando con preoccupazione, chiedendogli senza fiato:

"Che facciamo adesso? Non serve che ci nascondiamo, tanto lo dirà Eric che siamo stati noi!"
"È tutta colpa tua! Se non mi avessi chiesto tutte quelle cose, forse saremmo riusciti ad andarcene prima!" replicò arrabbiatissimo Tom, con voce gutturale.
 
"Ma se sei tu che hai cominciato a parlarmi! Io non ne sapevo niente! Avresti potuto stare zitto e pensarci prima, visto che sei tanto bravo!" gli rispose a tono Harry, che non aveva proprio più paura di lui.

Tom non obiettò, bensì sgranò gli occhi e fece schioccar la lingua contro il palato, mettendo le braccia conserte. Harry pensò che si fosse offeso, ma si stesse trattenendo sia dal rispondergli male, sia dal dirgli "Hai ragione".

Nel frattempo, le pedate e le urla diventavano sempre più vicine... nel mucchio, riuscì a riconoscere anche quella profonda di Billy Stubbs e dei suoi amici...

 "Ascolta" disse allora Tom ad un tratto, deciso "L'unica cosa che possiamo fare è metterci in fondo al corridoio aspettando che arrivino  tutti: allora ci mischiamo agli altri senza che lo capiscano, facciamo dietrofront, cerchiamo Eric Whalley e lo spaventiamo per farlo stare zitto! Dobbiamo solo sperare che non abbia già spiattellato tutto!"

"Ma non l'abbiamo già fatto?" si chiese Harry, che non era troppo convinto dal suo piano.

"Non abbastanza!" spiegò Tom con impeto "Sennò non ci avrebbe detto quelle cose brutte! Dobbiamo dirgli che se fa la spia gliela faremo pagare cara!"

Harry si corrucciò un po'. L'idea non gli piaceva, però era vero che Eric era stato molto cattivo nei suoi confronti, anche se lui non gli aveva fatto niente. Sì, gli aveva tolto la pallina per far inciampare Tom, però lo aveva fatto perché riuscissero a scappare tutti e due, invece Eric aveva subito detto che lui era nell'armadio, lo aveva chiamato Satana e adesso era pure andato dalla signora Cole per farlo punire! Era cattivo, Eric! Sì, se lo meritava!

Però, anche così, non era proprio tutto a posto, anzi...

"Va bene... però come facciamo per l'armadio? E le cassette? Ho sentito che si sono rotte delle cose! Rimarremo comunque una settimana senza giochi!" si lamentò Harry, le guance gonfie da bimbo che parevano proprio traboccare della sua angoscia. Peraltro, ormai si sentivano pestare i gradini: stavano salendo le scale in massa e Harry e Tom erano costretti a a muoversi con affanno verso il fondo del corridoio...

"No no, ascolta! Dobbiamo solo incolpare degli altri e pregare la signora Cole! Sai che a lei non piace quando tutti rimangono senza giochi, e oggi c'è già stato abbastanza casino, quindi magari li leva solo a loro! Se Eric sta zitto, non è difficile: basta solo dire che è stato qualcuno che fa sempre questo genere di cose!" sussurrò Tom, mentre cercava di trascinarsi avanti il più velocemente possibile senza correre.

"BILLY STUBBS!" esclamò Harry, esagitato, il sudore che gli imperniava la fronte. Era felice: Tom aveva ragione! Forse non avrebbe dovuto rinunciare ai suoi giochi!

"Ma sei idiota?! Parla piano! Ci farai sentire da tutti!" sibilò Tom con una smorfia, dandogli un lieve spintone.

"Billy Stubbs!" ripeté Harry, a voce bassa, strisciando sulle pareti "Giusto dieci minuti fa ha abbattuto l'albero di Natale coi suoi amici e la signora Cole l'ha visto! Possiamo dire che quel casino l'ha fatto stamattina: ci crederanno tutti!"

"Va bene... ecco, arrivano! Mi raccomando: stiamo sempre dietro!"  

Finalmente i primi si arrampicarono in cima alle scale e piombarono a capofitto come bufali inferociti nel corridoio. Chi senza una scarpa, chi senza entrambe le scarpe, chi a gattoni, chi sulle spalle d'un altro: tutti puntavano alla "stanza dei giochi" e non si sarebbero più fermati di fronte a niente.
Harry e Tom, che erano sia sottili sia bassi di statura, riuscirono per un pelo a non farsi travolgere dall'onda di piccoli esposti e nascondersi nello stipite della porta d'una camera senza essere visti: dopodiché, si gettarono in mezzo agli altri, sgusciando rapidi fra un bambino e l'altro e cercando di mantenersi uniti. 

Se il corridoio si stipò d'urla e schiamazzi che seccavano la gola, la "stanza dei giochi" rimase più silenziosa delle navate d'una chiesa: infatti, chiunque oltrepassasse la soglia vociando s'ammutoliva immediatamente alla raggelante vista delle cassette buttate sul pavimento una sopra l'altra. 

Per quanto potessero essere diversi, infatti, tutti amavano, più d'ogni altra cosa e più di molti altri che pure facevano sfoggio d'adorarlo, il possesso. S'alzavano ogni mattina con la speranza di riuscire ad avere qualcosa in più e andavano a letto piangendo perché invece spesso si ritrovavano con qualcosa in meno. Non conoscevano nulla di più essenziale o più importante dell'arricchirsi e consideravano i propri oggetti la parte più bella, più importante, più speciale di sé. Sotto questa luce, appariva ancora più tragica la rassegnazione di alcuni, che pue avendo pochissimo non avevano neppure sperato, quel giorno, di riuscire ad avere di più. Peraltro, molto spesso questa convinzione finiva per accompagnarli tutta la vita, perché molto difficile era scrollarsela di dosso.
Nel tacito tumulto generale, un ragazzino s'era accucciato e stava scuotendo delicatamente la propria cassetta, borbottando con tono lento e lugubre: "L'orologio di mio padre... l'orologio di mio padre..."

"Il mio diadema!" stridette anche Amy Benson, una bambina della stessa età di Harry e Tom, la sua voce ancora più squillante nel silenzio generale, raccattando la sua cassetta vicino alla parete a sinistra "S'è spezzato! Lo sento che è rotto! Chi è stato?!"

'Sono stato io', pensò Harry. Ecco che cos'aveva sentito rompersi dopo che aveva gettato la cassetta nella pancia di Tom...

Amy era una bambina simpatica, diversamente da quasi tutte le altre, e qualche volta avevano anche giocato insieme... gli dispiaceva tantissimo averle rotto il diadema, ma non l'aveva proprio fatto apposta; e poi, se avesse confessato, anche lei l'avrebbe chiamato Satana, sarebbero diventati nemici e non avrebbe più voluto giocare con lui! 

Però... tutti già sapevano che Tom era Satana, anche se lui era molto più intelligente, e anche se Eric non fosse riuscito a parlare con la signora Cole, qualcuno prima o poi si sarebbe accorto che anche lui lo era, lo avrebbe detto agli altri e non avrebbe più potuto essere amico di Amy lo stesso. Non poteva farci niente se era Satana. Tom l'aveva detto, che non era colpa sua e che non dipendeva da lui... e poi, comunque Billy Stubbs ed Eric Whalley erano sicuramente meno cattivi di lui, visto che non erano Satana, e non meritavano d'essere puniti! Non erano neppure stati loro!

Ci stava ancora pensando, quando ricevette una forte gomitata ad una spalla. Per un attimo gli si paralizzarono gli arti e non ebbe il coraggio di girarsi: poi però sentì il cappottino di feltro di Tom accarezzargli una gamba e capì che era lui. 

"Eric non c'è qui" mormorò lui pianissimo, da dietro "Dobbiamo andare subito giù!"

Harry chiuse gli occhi. Sapeva cosa l'aspettava, ma ormai non avrebbe più cambiato idea.

"No!" si oppose Harry, scuotendo la testa "No! No! No! SONO STATO IO! SONO STATO IO A ROMPERVI LE COSE!"

Se prima il silenzio aveva ammesso il fruscio provocato dallo sfregare di pantaloni o gonne e dei colpi di tosse causati dall'aver appena trascorso un'ora al freddo, dopo che Harry ebbe parlato anche questi rumori cessarono d'esistere. Il ragazzino accucciato a cui s'era rotto l'orologio del padre serrò la bocca ed Amy Benson smise di scuotere la sua cassetta. Billy Stubbs era più silenzioso in quel momento che durante il sonno, e per chi lo conosceva una simile occorrenza era migliore del Natale. Non che fosse difficile che qualsiasi cosa fosse migliore di quel Natale, penso Harry, e adesso stava per diventare ancora più brutto, ma doveva farlo lo stesso...  

Avendolo visto aprir di nuovo bocca e intuito quello che stava per succedere, Tom sgranò i propri e pensò a tutti i modi più rapidi che aveva a sua disposizione per tappargliela, ma ormai era troppo tardi:

"S-sono io che ho lanciato la cassetta, Amy! M-mi dispiace, non l'ho fatto apposta! S-scusami! È che sono Satana! S-so che n-nessuno d-di voi l-lo sa a-ancora... f-fate b-bene s-se m-mi odiate ! S-so che m-me lo merito!"

Aveva appena finito la frase, che da dietro la porta comparve la signora Cole, esausta e con le mani sui fianchi, insieme a Eric Whalley, che non esitò a puntare subito il dito contro lui e Tom.

"SONO STATI LORO, signora Cole! Li ho visti mentre erano posseduti dal demonio e si picchiavano con le cassette! Mi deve credere!"

Margaret Cole sospirò, svogliata e stanca, chiedendosi perché Martha non potesse mai esserci quando aveva disperatamente bisogno di lei. L'ultima volta che l'aveva vista stava lavando la bocca di Dennis Bishop per eliminare i residui di terra che gli erano rimasti fra i denti, e probabilmente sarebbe rimasta impegnata ancora per molto tempo.

"Tom, Harry, ditemi: siete stati davvero voi?" domandò, non riuscendo a celare nella voce il dubbio riguardo alla veridicità di ciò che stava dicendo.

Harry inghiottì un grosso grumo di saliva. Era successo: s'erano cacciati nei guai, tutti e due. Niente più giochi per una settimana. Sentì il viso bruciargli più che mai e non sapeva se fosse colpa della vicinanza di Tom o del suo imbarazzo. Non avrebbe voluto piangere di nuovo, ma come poteva trattenersi? Adesso, adesso che aveva risentito l'accento irlandese di Eric Whalley e aveva confessato davanti alla signora Cole aveva capito. Aveva capito che avrebbe fatto bene ad essersene andato giù con Tom ed essersene stato bello zitto. Possibile che fosse sempre così stupido? Che non sapesse compottarsi? Avrebbe dovuto essere contento che agli altri si fossero rotte le cose: tanto, prima o poi avrebbero scoperto che era Satana e avrebbero iniziato a evitarlo e odiarlo come già facevano con Tom! Avrebbe dovuto essere contento di incolpare Billy Stubbs e di spaventare Eric Whalley: cosa importava che loro fossero meno cattivi di lui? Lui era Satana, e avrebbe dovuto essere contento d'esserlo di far loro cose brutte! Adesso, però, aveva rovinato tutto ed era triste, molto triste, e anche Tom lo era, perché stava capitando loro una delle cose peggiori che sarebbero mai potute accadere! Era proprio un idiota, un idiota... non avrebbe mai imparato ad essere Satana...

Forse, però, c'era un modo per rimediare a quello che aveva fatto, almeno in parte... un modo per essere almeno un po' meno triste...

"T-Tom non c'entra, s-signora C-cole: è stata s-soltanto c-colpa mia. Ho aperto i-io l'armadio e ho gettato i-io le cassette. Non so p-perché l-l'ho f-fatto. P-punite solo me, per favore... levi solo i g-giochi a m-me p-per una settimana!"

La signora Cole non sapeva che credere. Eric aveva sempre avuto una fervida fantasia e poter pensare che un bambino che tartagliava così tanto avesse potuto mettere a soqquadro l'intera stanza era assai improbabile, ma d'altro canto era usa a vedere piccini all'apparenza tranquillissimi trasformarsi non appena pizzicati dalla tristezza o dal tormento d'essere soli. Anche il fatto che avesse confessato non  lo scagionava: gli stessi bimbi pacifici infatti, proprio in virtù della loro buona indole, erano soliti farlo molto spesso dopo una cattiva azione. Nel caso di Harry, tuttavia, si trattava di qualcosa di molto grave: inoltre, se Eric non s'era fatto condizionare e aveva avuto ragione ad accusarlo, forse anche Tom era coinvolto nella faccenda in qualche modo... ma era anche vero che Eric aveva sempre avuto una forte antipatia per Tom, che era sì un po' prepotente, ma che non era mai incorso di proposito in vandalismi o piccoli furti: era infatti nel complesso un bambino tranquillo, molto acuto e precoce, ma sempre per conto suo, e forse un po' spregiato dagli altri orfanelli proprio per questo. 

Quanto alla punizione da attribuire... la signora Cole non poteva assolutamente permettersi di fomentare ulteriormente il caos generatosi dall'infelice incontro con le benefattrici negando i giocattoli a tutti, a Natale oltretutto! Nancy avrebbe avuto da dire? Non le importava: era lei a dirigere l'orfanotrofio e dunque era lei ad avere l'ultima parola sul da farsi, in tutte le circostanze.

Così, in base a questi criteri, finalmente si decise:

"D'accordo, Harry. Niente giocattoli per una settimana: al contrario, saranno gli altri bambini a poter usare i tuoi. Vedi di non fare mai più niente del genere, o potresti essere punito ancor più severamente"

A questo punto Harry, che grondava delle proprie lacrime, ebbe il coraggio di rialzare la testa. Come previsto, tutti lo stavano guardando malissimo, eccetto Billy Stubbs, che aveva appena scoperto che la sua cassetta era rimasta intatta e quindi se la rideva sotto i baffi, e Tom, che aveva una stranissima espressione sul viso: sgranava gli occhi come sempre, ma la bocca era stirata in un modo molto strano. Allora Harry capì: è che lui, non sapendo bene come si facesse a compottarsi, non sapeva se essere felice o triste. Lui era meno triste, ed era sicurissimo del fatto che esserlo fosse la cosa giusta.  

Ed in effetti era proprio così: Tom era confuso. Non essendo stato punito, avrebbe dovuto essere contento, ma Harry, che era Satana come lui, sì, essendosi preso tutte le colpe: quindi avrebbe dovuto essere triste. 
Che cosa doveva fare? Cosa doveva pensare? Perché tutto era diventato così difficile?! Aveva bisogno di più tempo per riflettere: gli conveniva andarsene di lì.

Uscì dalla stanza, gli occhi sempre spalancati, lasciandolo mentre riceveva la sua punizione. 

-

Erano le sei di pomeriggio, quando le sfumature del tramonto sbiadivano da dietro le nuvole ed il cielo cominciava a colorarsi d'un fosco nero.

La signora Cole era in cortile, in piedi davanti all'abete abbattuto. 

Era forse un segno?

Non solo era caduto: s'era proprio sradicato. Non c'era speranza di riuscire a rimetterlo in piedi, per non parlare di com'erano ridotti i festoni e le palline...

Almeno, dopo che erano stati ritirati i giocattoli ad Harry Harper e distribuiti ai bambini che avevano subito più danni, la giornata aveva quasi iniziato ad assomigliare alle altre: gli orfanelli erano stati costretti a fare colazione, tre ore più tardi del normale, anche se la maggior parte era comunque riuscita a scappare dalla mensa dopo aver bevuto due sorsi del proprio latte, e dopo c'era stata l'apertura delle cassette, che per qualcuno era stata una vera e propria tragedia, per altri il miglior regalo che avrebbero mai potuto sperare di ricevere, considerato quanto avevano dovuto aspettare per prendere i propri giochi e andare a divertirsi.
 
Ma c'era ancora qualcosa che non andava e che era in grado di minare ulteriormente la bellezza quasi soprannaturale che quella giornata aveva per fama: non aveva detto a Nancy dei giochi rotti. Se lo avesse fatto, avrebbe esatto il ritiro di tutti i giocattoli per una settimana e i bambini le si sarebbero avventati contro come leoni affamati. 

Sapeva che il momento in cui l'avrebbe vista sarebbe stato il momento in cui le avrebbe parlato, redarguendola e intimandole di eseguire ciò che diceva in virtù della sua esperienza. Ma Margaret era stanca, irritata ed incattivita: per questo si limitava a esaminare le radici di quell'albero, che suo zio aveva fatto trapiantare con così tanta premura.

E quel momento, immancabilmente, giunse. Quando meno se l'aspettava, Nancy le marciò contro con, le parve, il dito già alzato e iniziò a parlare.

"Margaret, Harry mi ha detto che ha rotto dei giochi e che tu hai proibito solo a lui l'apertura della cassetta. Capisco... che è Natale, che sono rimasti delusi, ma se non glieli leviamo come possiamo prevenire il ripetersi di episodi uguali? Harry è un bravo bambino, ma ha bisogno, come tutti, d'essere punito con appropriatezza quando si comporta male. Ti prego, dammi ascolto: ritiriamo i giocattoli"

"Scusa, ma mi sembra proprio una follia. No che non li ritiro. Con tutto quello che è successo?! Hanno fatto colazione tardi, hanno giocato poco, hanno buttato all'aria l'orfanotrofio intero, per l'amor del cielo! Sessanta bambini sono sessanta bambini! Mi dici tu, adesso, che cosa devo fare, per favore?! Non posso mica sdoppiarmi! Siamo in meno di una decina a gestire questo posto e ogni giorno mi sembra di morire! Sai quanto ci tengo, sai quanta fatica faccio, eppure compari soltanto per dirmi che sono una cattiva governante e che non faccio abbastanza! Sono io a pregare te, ma di lasciarmi in pace una santa volta!"

"Molto bene. Sai che ti dico io? Non sei l'unica ad averne abbastanza qua dentro. Stamattina hai affamato i tuoi sessanta bambini per cui dichiari di far tanta fatica pur di far bella figura con tre schifose ipocrite! Sei stata tu ad aver buttato all'aria l'orfanotrofio con la tua cecità, Margaret! Sei tu che a venticinque anni pensi d'aver capito tutto e non vuoi dare retta a nessuno! Sono mesi che cerco di fartelo capire, eppure-"

"Vattene"

Nancy sgranò gli occhi e schiacciò in una violenta contorsione il viso rugoso.

"Che hai detto, scusa?"

"T'ho detto di andartene, Nancy. È un anno che devo convivere con le tue pretese, oltre che con le difficoltà di gestione: non ce la faccio più. Se non te ne vai, non durerò a lungo. Credimi: non mi piace dirtelo, mi hai aiutata tantissimo nel corso di quest'anno, ma se non vado avanti da sola, non riuscirò mai a cavarmela per conto mio. Quindi, per favore, lascia andare l'orfanotrofio. Lascia che me ne occupi io. Un briciolo di fiducia è tutto ciò che ti sto chiedendo!"

Nancy incrociò le braccia e si morse il labbro inferiore. 

"D'accordo. Hai ragione. Me ne vado. Era l'ora, già, era l'ora... lo penso anch'io, sai. Tornerò però un giorno, a far visita... a vedere il frutto del tuo lavoro. Chissà? Come cresceranno questi bambini? Chi può dirlo? Vedremo, vedremo... tra uno o dieci anni... addio, Margaret, mia cara... mi scuso per averti trattato male, quest'anno. È pur sempre Natale oggi, no?"

Non ebbe alcuna risposta. La signora Cole sospirò, fissando ancora con triste ossessione le rachitiche radici di quell'albero. 'Pare di sì', pensò.

Proteggendosi con le braccia dal freddo, Nancy rientrò e principiò a salire verso il suo appartamento. Non ne aveva mai avuto così tanto in vita sua. Forzandosi a essere imperturbabile, richiuse una sola valigia: tutto ciò in cui consistevano i suoi bagagli. Allora chiuse a chiave la sua camera, vuota, e iniziò a scendere, per l'ultima volta dopo quarant'anni, verso l'uscita: Martha e le cuoche la incrociarono per abbracciarla e salutarla con i loro migliori auguri, tanti bambini le saltarono in braccio riempiendola di baci. Tra questi c'era il piccolo Harry Harper, che, nonostante le proteste, ricevette lo stesso ammontare di coccole degli altri e pensò che, anche se se ne stava andando e non aveva niente con cui giocare, per una volta tutti si volevano così bene che sembrava davvero Natale.

Tom, invece, era rimasto in camera sua.

Aveva un foglio stropicciato fra le mani e sorrideva. 

Era una lettera indirizzata a lui, senza firma o mittente indicato, che aveva avuto quasi sin da quando era nato e che aveva letto sin da quando era stato in grado di leggere, senza mai capirne il senso.

Sopra c'era scritto:

"Ama Harry e nessuno sulla faccia della Terra potrà mai eguagliare il tuo potere."

Tom s'era sempre scervellato riguardo a chi potesse avergliela mandata. Aveva spesso pensato a sua madre, ma la signora Cole gli aveva detto d'averla trovata nella cassetta della posta lo stesso giorno in cui aveva trovato Harry Harper sui gradini dell'entrata dell'orfanotrofio: quindi, quando era già morta. 

Più che altro, però, non aveva mai compreso bene che volesse dire. 

Dopo gli eventi di quel giorno, però, tutto era molto più chiaro: per la prima volta, Tom si sentiva quasi felice.

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