L'unico domani

di innominetuo
(/viewuser.php?uid=621561)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO - Ritornare ***
Capitolo 2: *** Capitolo I - Ricominciare ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - Preoccupazioni ***
Capitolo 4: *** Capitolo III - Trappole ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV - Incomprensioni e debolezze ***
Capitolo 6: *** Capitolo V - Svolte ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI - Strani accadimenti ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII - Amarezza ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII - Lo sguardo di un uomo ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX - Shikata Nai? ***
Capitolo 11: *** Capitolo X - Incontri e scontri ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI - Post fata resurgo ***
Capitolo 13: *** Capitolo XII - Nuove albe ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIII - Non si è mai troppo poveri per donare una carezza* ***
Capitolo 15: *** Capitolo XIV - Les jeux sont faits ***
Capitolo 16: *** Capitolo XV - Cattive notizie ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVI - Nella tela del ragno ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVII - Blu come il mare ***
Capitolo 19: *** Capitolo XVIII - Amaro come il fiele ***
Capitolo 20: *** Capitolo XIX - Amore amaro ***
Capitolo 21: *** Capitolo XX - Vite perdute ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXI - Progetti ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXII - Passato. Presente. Futuro. ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIII - Nuovi orizzonti - Hawaii parte prima ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXIV - Fiori di frangipane - Hawaii parte seconda ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXV - Sfide incrociate - Hawaii parte terza ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVI - Ritorno a casa ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVII - Il lato chiaro e quello oscuro della boxe ***
Capitolo 29: *** Capitolo XVIII - The King is naked ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXIX - Giro di vite ***
Capitolo 31: *** Capitolo XXX - Io sono la tua morte, e tu sei la mia ***
Capitolo 32: *** Capitolo XXXI - Nέμεσις ***
Capitolo 33: *** Capitolo XXXII - Match indecente ***
Capitolo 34: *** Capitolo XXXIII - Il prezzo delle nostre scelte ***
Capitolo 35: *** Capitolo XXXIV - Un altro sé ***
Capitolo 36: *** Capitolo XXXV - Purezza ***
Capitolo 37: *** Capitolo XXXVI ed Epilogo - Bianco come l'alba ***



Capitolo 1
*** PROLOGO - Ritornare ***


Nota per i gentili lettori: prima che vi dedichiate alla lettura di questa storia, ritengo utile e doveroso, oltre che rispettoso nei vostri confronti, farvi un paio di precisazioni. Mi son concessa qualche piccola licenza poetica su alcuni eventi della serie originale, senza però distorcerne assolutamente la visione generale, per esigenze narrative mie peculiari. Ho cercato, tuttavia, di rimanere rigorosamente IC (cioè "in character" ndr.) per quanto riguarda i personaggi, Joe Yabuki in primis. Ho creato, infine, alcuni personaggi miei originali. Detto ciò... grazie per l'attenzione e buona lettura!



BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI


Tokyo, quartiere di Ginza. Prime luci della città, al calar della sera.
 
Yoko sospirò, appoggiandosi allo schienale della poltrona.

Non era facile per lei organizzare incontri di boxe di qualità, come da suo precipuo proposito da diverso tempo. Come neo presidente dello Shiraki Boxing Club, Yoko teneva ad offrire agli appassionati giapponesi dei combattimenti di primo livello, facendo salire sul ring dei futuri campioni. Certo: non tutti i giorni ci si poteva imbattere in un fuoriclasse come Tooru Rikishi.

E, soprattutto, non tutti i giorni era possibile far incrociare i guantoni di uno come Rikishi con uno come Yabuki.

Chiuse gli occhi, per catturare nella mente una serie di immagini, come un colorato carosello…

Era trascorso più di un anno, ormai. Proprio il giorno prima si era svolta la commemorazione della morte di Tooru, avvenuta dopo uno sfiancante incontro con Joe Yabuki. Un mazzo di gigli bianchi era stato posto proprio al centro del ring del Korakuen Hall e tutti gli spettatori si erano alzati rispettosamente in piedi. Il gong scoccò sordamente i suoi rintocchi. Un minuto di silenzio, per ricordare una giovane vita spezzata da un pugno di troppo.

Joe.

Quel nome le venne alle labbra, spontaneamente… Il nonno le aveva chiesto spesso se lei ne avesse avuto notizie. In realtà non lo aveva più né visto né sentito: soprattutto, non dopo quel loro ultimo difficile confronto, in una discoteca di Ginza, ove si erano incontrati per caso. Yoko per stordirsi con balli e cocktails. Joe, chissà… lui forse per non pensare a nulla, fingendo di ascoltare la musica assordante.

°°°°°

“Tu non hai nessun diritto di tirarti indietro, Joe. Tooru è morto pure a causa tua. Per questo tu devi rimanere incollato al ring e tirare fuori tutto, sino alla fine. Non puoi gettare la spugna, non ora.”

“Zitta. Cosa ne sai tu di quello che sto passando? Sei solo una ricca, viziata ereditiera che si diverte ad osservare uomini che insudiciano il ring di sangue e di sudore…”


°°°°°

Le pareva di averlo visto ovunque, da qualche giorno a questa parte.

Spesso aveva chiesto all’autista di fermar l’auto, per poter scendere a piedi e guardarsi intorno, essendole parso di vedere Joe lì vicino…

Rise tra sé e sé.

Ormai era quasi ossessionata da quel ragazzo.

Sin dai tempi della condanna di Joe a tredici mesi di riformatorio*, Yoko non aveva mai smesso completamente di pensare a quel benedetto vagabondo. In bene, in male… ciò non importava. Joe non era una persona che si potesse facilmente dimenticare, una volta incrociatone il cammino.

Nel bene e nel male.

°°°°°°

In un vicolo malfamato di Tokyo, molto lontano da Ginza…

Schiacciò la lattina, dopo averla svuotata in poche sorsate, per poi prenderla a calci. Si mise a rincorrerla, facendola risuonare per il vicolo. Guardò il cielo stellato, aggiustandosi meglio il berretto sdrucito sulla folta zazzera scura, sempre un po’ scompigliata.

“È ora di tornare a casa. Basta scappare.”

Le scazzottate avvenute appena poche ore prima con quelli della Yakuza e, soprattutto, con Goromaki Gondo, capoccia di una delle bande rivali che si erano scontrate per la difesa del territorio, lo avevano risvegliato dal torpore di quella lunga e noiosa giornata estiva. E questo solo per correre in soccorso ad un suo vecchio avversario, Wolf Kanagushi, prima pugile ed ora picchiatore di un clan mafioso, cui Gondo aveva fracassato la mascella, solo per dargli una sonora lezione.

Se c’era una cosa che Joe detestava era chi si faceva beffe delle debolezze altrui, infierendo su un nemico ormai sconfitto. Pur avendolo già messo al tappeto, Gondo aveva continuato a prendere a pugni e calci il povero Wolf, il quale non poteva più attaccare e difendersi, limitandosi a reggersi la mascella fratturata con ambo le mani, mugolando dal dolore…

La scazzottata aveva rinvigorito Joe, come ormai era sua abitudine sin da quando era solo un ragazzino che scappava di orfanotrofio in orfanotrofio… Aveva sempre amato due cose nella sua vita: prendere a cazzotti qualcuno che gli avesse dato noia e scappare da tutto e da tutti, in totale libertà. Questo fino al momento in cui era stato rinchiuso in un riformatorio per una truffa in danno a Yoko Shiraki, ove aveva incrociato i guantoni per la prima volta in vita sua contro un six boy rounds**, Tooru Rikishi, condannato pure lui ad alcuni mesi di reclusione, per rissa aggravata.

Ed era passato giusto un anno da quando non aveva fatto in tempo a stringere la mano a Tooru, stavolta però su un ring ufficiale e come pugile professionista, alla fine del loro lungo e sofferto incontro. Joe gli aveva teso la mano, in segno di pace e di amicizia, dopo essersi complimentato con lui. Tooru avrebbe voluto stringergliela pure lui, la mano. Invece si era accasciato a terra, morendo sul colpo.

Qualcosa, in Joe, si era spezzato dentro, per non più ricomporsi.

Senza neppure recarsi al funerale del suo migliore nemico, aveva preferito girovagare senza meta per tutta Tokyo, come una mosca ubriaca, per imbattersi poi in una Yoko furiosa ed in lacrime, sotto le luci di una lussuosa discoteca. Questo dopo averla contemplata a lungo, seduto in disparte su un divanetto, mentre la ragazza si era scatenata sulla pista, attorniata da alcuni ammiratori.

“Assassino.”

Anche se Yoko non aveva adoperato tale parola, il concetto, stringi stringi, era proprio quello, come un’eco fastidiosa che gli ronzava da tempo nelle orecchie e sin dal preciso momento in cui, tempo addietro, aveva sollevato il drappo funebre dal volto di Tooru, disteso e ricomposto su un tavolo del palazzetto dello sport, dopo la visita del medico sportivo che ne aveva attestato il decesso per trauma cranico, dovuto ad un gancio di Joe.

Non avrebbe mai dimenticato quei lineamenti, finalmente sereni e composti.

Non avrebbe mai dimenticato… Nulla.

Ad ogni modo, Joe Yabuki intendeva risalire sul ring, per tornare a sentirsi vivo nell’unico modo che conoscesse.

Con passo tranquillo ed elastico, prese la metro per scendere in prossimità del fiume Sumidagawa. Costeggiato il parco giochi Tamahime Koen, dove spesso aveva giocato con la piccola Saki e gli altri monelli del ghetto, ripercorse pian piano il cammino che lo avrebbe portato, di lì a poco, al Ponte delle Lacrime***.

°°°°°°

“Ehi vecchiooooooooo, scendi subito!!!”

“Che cavolo hai da urlare, idiota? Mi farai prendere un infarto, fanculo a te!”

Se c’era una cosa che il vecchio Danpei Tange detestava era l’essere svegliato di soprassalto, soprattutto dopo una sbronza colossale a base di lacrime e di sakè. Dopo aver lanciato tutta una serie di maledizioni all’indirizzo di Kanichi Nishi, Danpei fece capolino dalla botola, a testa in giù, dalla mansardina ove era solito salire a dormire.

Gli parve di essere ancora nel mondo dei sogni…

“Ehi ragazzi come va? Passavo giusto di qua e volevo farvi un saluto…”

Quel benedetto ragazzo.

Ancora più magro e sciupato e più alto. Ma con il suo solito sorriso, un po’ timido ed un po’ beffardo, come solo Joe sapeva regalarti.

Danpei si lasciò scivolare, vinto da un’emozione indescrivibile, crollando indosso al povero Nishi ai piedi della scaletta e schiacciandolo con il suo peso non indifferente, non essendo propriamente una silfide ma un ex boxeur dei pesi massimi. In poche falcate, dimostrando un’agilità assai poco consueta in un uomo maturo prossimo all’anzianità, raggiunse la figura nervosa e slanciata del figliol prodigo, per stringerlo tra le braccia, piangendo dall’unico occhio rimastogli.

Il suo ragazzo era tornato, chissà da dove.

Ma solo questo contava: che il Tange Boxing Club fosse tornato a vivere.

________________________________________________

Note Autrice: come promesso, eccomi alle prese con una long fic dedicata a Joe Yabuki, per cui ho preferito mantenere i nomi giapponesi originali (rifuggendo dalla versione con i nomi inglesi, un po' come hanno fatto con Capitan Tsubasa) che occupa un posto speciale nel mio cuore da ormai 32 anni! Questo lavoro è solo un mio umile omaggio ad un personaggio che ho amato e che amo tantissimo: prendetelo come una mia… “dichiarazione d’amore”! Spero che vi piaccia. Di sicuro, apprezzerete il bellissimo banner creato appositamente per me da Ladyforseiya_15, autrice delicata e molto, molto promettente.

*In Giappone la maggiore età si acquisisce a 20 anni, per questo il diciottenne truffatore Joe Yabuki finisce in riformatorio anziché in carcere. All'epoca della mia fan fiction ha, quindi, compiuto 20 anni ed è ormai maggiorenne.

**Le regole del pugilato ora sono un po’ diverse; ma negli anni ’60 e '70 gli incontri di sei rounds facevano la differenza tra il pugile dilettante ed il pugile professionista.

***Se la cosa vi incuriosisce, ecco per voi un blog molto carino con i luoghi dell’anime: clicca

Avviso sin d'ora che un dettagliato file di credits verrà postato a fine storia e linkato. Preferisco fare così per non appesantire la narrazione con troppe note. Buona (spero!) lettura.

innominetuo

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo I - Ricominciare ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI


Al Tange Boxing Club
 
Non fu facile per Joe ricominciare con la routine quotidiana di preparazione sportiva.

Gli allenamenti imposti e diretti dal vecchio Danpei prevedevano andare a letto presto, alzarsi di buon mattino, fare attenzione all’alimentazione ed alle bevande- per rispettare il rigido limite di 72,480 chili previsto dalla categoria dei pesi medi cui Joe apparteneva – osservare un preciso training, fuori e dentro il ring, senza poter mai sgarrare di una virgola. In un certo senso, la vita di un pugile professionista aveva quasi un che di monastico, dato che il conseguimento di una determinata forma fisica pretendeva molti sacrifici e molta dedizione, senza tempo e spazio per… distrazioni di vario genere. I primi giorni successivi dal ritorno a casa non furono una passeggiata. Spesso Joe si ritrovò a sbuffare ed a spazientirsi di fronte agli ordini imperiosi di Tange. Dopo aver assaggiato di nuovo la libertà in giro per il Giappone, con ogni giorno uno scenario diverso, per un po’ provò una sorta di straniamento.

Eppure, Joe era felice di essere ritornato da Danpei e di aver rinunciato ad un po’ di quella libertà… che, comunque, non lo aveva reso veramente appagato ed in pace con se stesso. Successivamente a più di un anno di vagabondaggi frammisti a lavoretti saltuari in tutto il Giappone, Joe non aveva disdegnato neppure di boxare come teatrante, negli spettacoli di boxe recitata che, all’epoca, erano molto diffusi nelle città di provincia. I finti pugili, alla stregua di artisti circensi, si esibivano nelle piazze principali dei posti più sperduti, seguendo un copione stabilito dal loro impresario: venivano decisi i colpi da sferrare, chi dovesse finire al tappeto, per quanti rounds dovesse durare un incontro… e così via. Finito lo spettacolo, la compagnia risaliva sullo sgangherato pulmino per partire alla volta di un’altra cittadina. I fasti e gli echi di Tokyo erano ben lontani, all’epoca… Ma quei tempi erano finiti, finalmente.

A seguito dell’ennesimo pugno sferrato per finta, Joe aveva cominciato a provare una profonda vergogna. Dopo aver saputo dare tutto se stesso contro Tooru in quell’unico loro incontro ufficiale al Korakuen Hall, Joe aveva ricominciato a risalire la china del rimorso e del senso di colpa in cui era sprofondato dopo la morte dell’amico. Tooru non poteva e non doveva essere morto invano. Soprattutto non dopo essersi autocostretto ad una dieta massacrante per discendere di ben due categorie di peso così da poter combattere contro il suo antico rivale del riformatorio: l’unico che sinora avesse seriamente messo in discussione la sua abilità come campione di boxe.

Stanco di provare disgusto per quella vita errabonda in compagnia di finti pugili, infatti, Joe se ne era andato definitivamente dal teatro ambulante, dopo essersi fatto consegnare dall’impresario, non senza averlo preso per i bavero, il compenso di quanto a lui spettante: quella vecchia volpe, infatti, in nome di un non meglio precisato contratto, pretendeva di trattenere Joe contro la sua volontà. Ma Joe non era il tipo da prendere ordini da nessuno: dopo una bella scazzottata, questa volta vera, contro alcuni aiutanti dell’impresario chiamati da quest’ultimo per dargli man forte, aveva afferrato le banconote, le aveva cacciate a caso dentro la sua vecchia sacca e se n’era andato. Per qualche settimana aveva quindi lavorato in risaie e fattorie come bracciante, in modo da mantenersi sino al suo ritorno a Tokyo, dato che le distanze non erano di certo brevi e dato che i treni costavano troppo.

Era bello ora poter respirare, di nuovo, gli odori di quella che poteva definirsi casa sua: quella piccola e sgangherata palestra sotto il Ponte delle Lacrime era tutto ciò che possedesse al mondo. Oltre, ovviamente, all’affetto di un vecchio sfregiato mezzo orbo, all’amicizia fraterna del buon Nishi Kanichi ed alle grida di giubilo dei monelli del ghetto. I bambini, già… I suoi ex “soci” di marachelle e truffe di oltre due anni orsono: le piccole pesti, di età miste tra i dieci e i tredici anni, in persona di quattro maschietti e di una bambina, erano quasi impazziti di gioia quando Joe aveva fatto ritorno alla palestra e spesso marinavano la scuola per stargli appiccicati, Saki soprattutto. La piccola era infantilmente infatuata di Joe e diceva sempre che aspettava “di crescere ancora un po’ per poterselo sposare”, cosa che suscitava l’ilarità incontenibile degli altri bambini e, soprattutto, del diretto interessato.

Il ritorno di Joe aveva reso molto felice pure un’altra persona, Noriko Hayashi, la figlia dei droghieri del quartiere. La ragazza dimostrava la sua pura gioia portando spesso alla palestra piccoli doni e squisitezze cucinate da lei. Ansiosa di captare anche solo un fugace sguardo di Joe, gli si rivolgeva sempre con un dolce sorriso sul suo bel visino. Joe le parlava con gentilezza e le faceva qualche complimento, soprattutto per le sue abilità culinarie… ma a parte questo, ignorava - o fingeva di ignorare - qualsiasi timido approccio della ragazza nei suoi confronti. Ogni volta che Noriko tornava a casa era sempre più abbattuta: felice all’andata al pensiero di rivederlo, e triste di ritorno alla sua drogheria.

°°°°°°°


“Ehi vecchio, a quando il prossimo incontro?” sbottò una sera Joe, dopo aver finito di cenare “Ieri sera Nishi ha avuto il suo match. A quando il mio?”

Danpei finì di asciugare i piatti e le stoviglie appena lavati, per darsi il tempo di rispondere.

“Calma, ragazzo. È da un po’ che sei fuori dal giro e per organizzare un incontro decente occorre tempo. Mica gli altri clubs se ne sono rimasti ad aspettare te, eh, cosa credi. Devi avere pazienza… presto avrai il tuo incontro, non ti preoccupare.”

In realtà Tange non era completamente tranquillo, come invece voleva dare a vedere: per questo tergiversava tanto nel procacciare uno sfidante per Joe. Non che non volesse farlo combattere, è chiaro: solo che se prendeva tempo era solo per uno scrupolo di prudenza.

Voleva vederci chiaro.

Da alcuni giorni, dopo aver osservato attentamente i suoi due ragazzi in allenamento e soprattutto quando l’un l’altro si facevano da sparring partner*, gli era parso di notare una cosa che gli aveva dato parecchio da pensare… una cosa che da allora gli ronzava nel cervello e che cercava invano di scacciare, come una mosca molesta ed insistente. Magari si sbagliava. Magari aveva avuto solo una vaga impressione. Ma c’era qualcosa che non andava bene negli attacchi di Joe: qualcosa che mancava.

“Beh, vado a farmi un giro.” disse Joe, cacciandosi il berretto in testa e distogliendo il vecchio dalle sue riflessioni.

“Non fare tardi: lo sai che qui si va a letto presto…” cominciò a brontolare Tange.

“Sì, mammina. Vado solo a sgranchirmi le gambe per un’oretta o due… e poi torno. Ciao.” disse, schivando  per un pelo la pentola che Danpei, inferocito all'appellativo di "mammina", gli aveva appena scagliato contro.

Non si limitò a gironzolare per il quartiere: anzi, prese la metro.

Il palazzo del Korakuen Hall gli si stagliava davanti, con la sua architettura di stampo eminentemente occidentale. A quell’ora era quasi tutto spento, a parte solo i primi piani della dirigenza, dato che per quella sera non erano previsti incontri di pugilato. Gli fece un certo effetto tornarvi, dopo tanti mesi, dato che il match di Nishi della sera prima non si era disputato lì, ma al Tokyo Dome. Contemplò in silenzio il palazzo per qualche minuto, per poi soffermarsi sulla figura sottile che apparve in prossimità delle porte scorrevoli di vetro. Yoko aveva appena concluso un'importante riunione di affari con il direttore del Korakuen.

“Joe…”

“Ciao Yoko, come stai? Ti trovo in forma.”

Si fissarono per qualche secondo. Yoko aveva la gola secca. “Non sapevo che fossi tornato… da quando sei a Tokyo?” mormorò lei a voce un po’ incrinata, avvicinandoglisi.

“Non da molto, neppure due settimane. Scusa se non sono passato a salutarti, Presidente. Congratulazioni ed auguri anzi, per la tua nuova carica.” celiò lui, ma senza malignità.

“No, figurati, nessun problema. E grazie per gli auguri..” riuscì a replicare Yoko con assoluta calma, ignorando di proposito la freddura e rendendo finalmente ferma la voce “Sei di passaggio o intendi rimanere?”

“Sono tornato a Tokyo per combattere.”

Yoko annuì, con fare convinto. “Mi fa piacere. Sei un bravo pugile.”

“Uhmmm… soprattutto, non devo farmi pregare a restarci, sul ring… giusto?” I profondi occhi neri di Joe perforarono Yoko, la quale provò un forte senso di imbarazzo.

“Joe… so a cosa stai alludendo. Ma io non pensavo seriamente a quello che ti dissi, l’ultima volta che ci siamo visti… ero sconvolta per la morte di Tooru, non ero in me. Sono stata dura con te, anche troppo. Mi dispiace… Mi dispiace, davvero. Credimi.” sussurrò la giovane donna, ad occhi bassi.

Joe sentì una strana morsa allo stomaco, senza capire il perché. Era la prima volta, quella, che Yoko Shiraki assumeva con lui quel tono così dolce ed umile. Notò che era più pallida e magra, rispetto ad un tempo.

Ma pur sempre la donna più bella su cui avesse mai posato gli occhi.

Pure il suo tono si addolcì. “No, tranquilla. Non ti rinfaccio nulla. È stato difficile, per entrambi. Ora però non pensiamoci più: Tooru non lo vorrebbe. Devo andare. Ci si vede…”

“Sì Joe. Ci si vede.”

Lo guardò allontanarsi, con le mani in tasca e la schiena leggermente curva, suo solito, per poi decidersi a chiamare un taxi.


°°°°°°°°

Qualche settimana dopo...

Finalmente arrivò il giorno del ritorno di Joe sul ring.

Era stato organizzato da Tange un buon incontro al Korakuen Hall con un pugile di tutto rispetto. Tony Duran era un giovane che si stava facendo conoscere ed apprezzare per le sue abilità di discreto out-fighter**, sopperendo con una accurata strategia alla mancanza di potenza nei diretti: infatti, su quattordici incontri sinora disputati ne aveva vinti ben dodici, dieci ai punti e due per k.o.

Joe era galvanizzato, non riusciva a stare fermo: dopo aver giocato tutta la mattina con i bambini del quartiere, prima del controllo del peso di routine, pensò bene di incontrarsi con una persona…

Fischiettando, se ne rimase seduto, o meglio, stravaccato su un morbido divanetto nella hall.

“Joe. Come mai qui?”

Yoko lo fissava, un po’ stupita: quando il suo segretario le aveva detto che un certo Yabuki-san la attendeva all’entrata dello Shirali Boxing Club, credeva che l'uomo avesse capito male e che non potesse trattarsi di Joe. Ma quel benedetto ragazzo aveva sempre la capacità di sorprenderti, in un modo o nell’altro...

Joe si alzò in piedi con calma, dopo averla valutata per qualche minuto.

“Niente di particolare. Son qui a sincerarmi che il vecchio ti avesse fatto avere il biglietto per l’incontro di oggi.”

“Sì, certo, l’ho ricevuto, grazie… già da qualche giorno.” replicò lei, un po’ freddamente, sebbene fosse turbata dallo sguardo di lui. Uno sguardo cupo, bruciante, nonostante le labbra fossero incurvate in un leggero sorriso, suo solito.

“Bene. A dopo, allora. Voglio che tu ti goda lo spettacolo del mio ritorno sul ring. Ciao.” Con un cenno della mano, le voltò le spalle e se ne andò, lasciandola interdetta.

°°°°°°°

Korakuen Hall, ore 21.00

Nulla poteva confrontarsi all’atmosfera esaltante di una sala immensa illuminata e gremita di gente.

Al suo ingresso, annunciato dall’altoparlante, si levarono grida, cori, anche qualche fischio: a quanto pare, nonostante la sua lunga assenza, non era stato affatto dimenticato.

“Allora, mi raccomando: niente improvvisazioni. Non sprecare il fiato e le energie. È uno stratega che si tiene lontano. Tu costringilo ad avvicinarsi e poi colpiscilo in modo incisivo.”

“Non ti preoccupare. Un minuto solo di questa manfrina e ce ne torniamo a casa.”

Mentre Tange, brontolando suo solito sulla cialtroneria di Joe, gli cacciava il paradenti in bocca e Nishi gli controllava i guantoni, il giovane fece scorrere velocemente lo sguardo alle prime file.

Eccola.

Vestita di celeste e compostamente seduta accanto a nonno Shiraki. Si fissarono per qualche secondo. Pur con il paradenti le sorrise, mentre lei continuò a sostenere il suo sguardo un po’ accigliata. Il suono del gong interruppe il contatto visivo. Duran si pose al centro del ring, ove Joe lo raggiunse. Finiti i convenevoli dell’arbitro, l’incontro ebbe inizio (“Fight!”).

“Avanti bello. Fammi vedere se sei più bravo a boxare di come ti fai tatuare!” lo provocò Joe, alludendo ai numerosi tatuaggi che percorrevano un po’ tutto il corpo di Duran.

“Razza di stronzo, ora vedi!” ringhiò Duran, cominciando con la sua serie da tre di jab*** di potenza media: dolorosi, sì, ma non particolarmente incisivi. Joe se la rise: era abituato a ben altre carezze, lui. Eppure continuò con la sua recita, fingendosi dolorante e lasciandosi spingere verso le corde. Fu un atto voluto, il suo: a differenza di Duran, Joe era un asso nelle distanze ravvicinate, oltre che un buon incassatore, nonostante la sua muscolatura allungata e non possente.

“Adesso ballo io.” gli sibilò, sorridendo. Abbassandosi leggermente, schivò l’ennesimo diretto destro per caricare una serie di potenti ganci allo stomaco del suo avversario. L’ultimo fu talmente forte da far sussultare tutto il corpo dell'altro: ritirato il pugno, Duran si afflosciò a terra come un sacco di patate. Sopraggiunse l’arbitro che allontanò Joe: non fu necessaria la conta, constatate le condizioni del pugile accasciato a terra privo di sensi, nonostante gli occhi tenuti sbarrati.

Knock-out! Vince Yabuki-san!” urlò, sollevando il braccio di Joe.

Gli spettatori erano in delirio: Joe aveva vinto Duran dopo poco più di un minuto della prima ripresa! Sia Nishi che Tange si precipitarono dentro il ring per sollevare Joe portandolo in trionfo: il primo ebbro di felicità, il secondo…

Il secondo per mettere a tacere una vocina che continuava ancora a ronzargli nel cervello sempre più insistentemente.

___________________________________________________

Ciao a tutti! Inauguro una rubrichetta per chi volesse curiosare nel mondo del pugilato, con qualche nozioncina spicciola su termini tecnici e regole di combattimento, senz’altro utili per meglio cogliere lo spirito di questa ff. Spero che vi piaccia! Oltre alle mie nozioni personali, dato che conosco le regole del pugilato e seguo gli incontri da quando avevo otto anni, ho perfezionato le diciture con Wikipedia. Comunque sia, come ho già esplicato in calce al prologo, a fine storia, con il postaggio dell'ultimo capitolo, sarà allegato alla ff un apposito link con credits e bibliografia completa, un po' come si fa con i libri, capitolo per capitolo, non solo per le nozioni sulla boxe ma più in generale. Così lo trovo molto più elegante e "professionale", se mi si passa il termine!


*In sport da combattimento, lo sparring è una libera forma di allenamento, non è una sfida. Applicabile con più varianti, è solitamente una lotta vincolata da regole e/o accordi informali per evitare infortuni e ferite. Lo sparring partner non è un avversario da affrontare, ma semplicemente una persona con cui sostenere l'allenamento. Lo sparring per antonomasia è quello pugilistico, come allenamento per un incontro ufficiale: è obbligatorio l’uso dei caschetti protettivi e di guantoni più pesanti, per rendere i colpi meno incisivi. Però lo si pratica anche in altre discipline da combattimento, come le arti marziali, per esempio.

** Ci sono vari generi di pugile, in base al loro stile ed alla loro personalità. L’out-fighter detto pure “stilista” (non chiedetemi il perché si dice così!) è uno di questi tipi di pugile e boxa rimanendo all'esterno della guardia dell'avversario e cerca di tenere a distanza l'antagonista, colpendolo con pugni veloci e che arrivano da lontano, distruggendo gradualmente la resistenza e le forze dell'avversario fino a ridurlo in propria balìa. Praticamente lo sfinisce anche a livello psicologico. A causa del loro affidarsi a colpi veloci ma non devastanti, gli stilisti tendono a vincere ai punti piuttosto che per KO, benché alcuni di essi presentino carriere con percentuali molto alte di incontri vinti prima del limite. Gli out-fighter sono spesso considerati i migliori strateghi del pugilato, grazie alla loro abilità di controllare l'andamento dell'incontro e di condurre l'avversario verso l'epilogo da essi pianificato intaccandone metodicamente le forze ed esibendo maggiore abilità e destrezza di un picchiatore. Questo tipo di pugile dev’essere dotato di un buon allungo, di velocità di braccia, di ottimi riflessi e di un buon gioco di gambe (cosa, quest’ultima, che funge pure da tecnica di difesa).

***Nella boxe i colpi fondamentali sono essenzialmente tre: Il jab (o diretto sinistro) è il colpo più importante e consente di controllare l’avversario. Il diretto destro è il colpo che viene sferrato sulla scia del jab (lo si fa dopo tre jab consecutivi). È un pugno molto potente ma non facile da eseguire nel modo giusto: infatti, va sfruttata pure la spinta dettata dalle gambe, non basta il torso e non bastano le braccia e le spalle. Poi c'è il mio pugno preferito, cioè il gancio, che sa essere davvero potente. Può essere portato alla testa o al corpo dell’avversario, ma è un colpo piuttosto difficile da imparare e pochi pugili sanno portarlo a bersaglio in maniera davvero da manuale: infatti, esso per essere impeccabile va sferrato tenendo il braccio in posizione parallela al terreno (cosa difficilissima da fare!). Preciso pure che il palmo della mano, nel momento il cui colpisce, deve trovarsi rivolto verso il basso. E dulcis in fundo... il re dei pugni! Il montante (il famigerato uppercut!)! Esso è sicuramente il colpo più spettacolare del pugilato, quello che resta maggiormente impresso nello spettatore, dato che viene sferrato da sotto in sopra, spesso alla mascella o al mento. Spesso chi lo riceve perde i sensi, è inevitabile!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo II - Preoccupazioni ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI


Sede della Federazione Pugilistica di Tokyo, ore 11 di qualche settimana dopo.
 
“Dobbiamo fermarlo. Oramai è divenuta una priorità, per tutti noi.”

L’anziano presidente del Furogi Boxing Club si accese un sigaro, aspirandone il fumo con voluttà. Calcò meglio gli spessi occhialetti sul naso, fissando intensamente i suoi interlocutori.

Era stata indetta una riunione improvvisa di tutti i principali presidenti di club di pugilato. Ordine del giorno: far fuori Joe Yabuki dalle classifiche nazionali. Dopo l’incontro con Tony Duran, Joe aveva incontrato altri due pugili che aveva stracciato, l’uno al primo e l’altro al secondo round, con potentissimi ganci al corpo. In ragione di ciò, i presidenti si erano tutti messi sull’avviso, furiosi al pensiero di quel “vagabondo dai pugni assassini”, come amavano definirlo, che distruggeva le loro speranze di salire nella classifica nazionale con i rispettivi boxeurs.

“Abbiamo esaminato con attenzione i filmati degli ultimi incontri di quel macellaio. Forse mi è venuta un’idea per sbarrargli la strada, una volta per tutte.” Mr. Nakajima si versò del tè verde per poi sorseggiarlo con aria meditabonda “Ho già dato disposizioni a Tiger di impostare il suo allenamento in un certo modo, secondo le mie precise direttive.” chiosò, senza alzare gli occhi dalla tazza di finissima porcellana.

“Potremmo sapere cosa tu ed il tuo club avreste in mente di fare? Pensi di far fissare un incontro di Yabuki con il tuo Tiger Ozaki?” gli chiese, perplesso, Mr. Kimura, presidente dell’omonimo club, accarezzandosi il mento.

“Esatto. Evidentemente non avete fatto caso ad un particolare, né voi, né i vostri allenatori, né i vostri atleti, sul nuovo modo di boxare di Yabuki. Nulla a che vedere, comunque, con i suoi primi incontri, specialmente con quello contro Rikishi. Dopo aver guardato più volte i filmati dei suoi ultimi match, è saltato all’occhio un dettaglio molto importante…”

“E cioè?” chiese un altro, chiaramente ansioso.

Sul mentre udirono bussare alla porta. Con l’”avanti” fece capolino Yoko Shiraki. La giovane aveva avuto la soffiata della riunione da un amico giornalista. Sorridente e composta, fece un lieve inchino cui gli astanti risposero in modo alquanto rigido. “Come mai non mi avete fatto sapere nulla della riunione? Vi rammento che pure io sono presidente di un club pugilistico, e che avrei gradito essere avvisata…” al tentativo di Kimura di replicare, Yoko gli fece cenno con la mano di arrestarsi: “No, non vi preoccupate. Tanto non avrei comunque voluto prender parte a quello che sembra essere più un complotto che una riunione. Bene: vi lascio alle vostre macchinazioni. Buona giornata.” replicò, con fare fintamente soave, senza smettere di sorridere, chiudendo la porta. Yoko era molto preoccupata  per lo strano clima che aveva subito “annusato” - dopo aver anche origliato prima di bussare - osservando le facce rigide degli altri presidenti: la puzza di congiura si sentiva lontano un miglio. Tra l’altro, non essendovi presente il presidente del Tange Boxing Club, non poteva che trattarsi di una sola cosa: impedire a Joe di scalare la classifica nazionale dei pesi medi, per concorrere a qualche premio internazionale. Ma come? In quale modo? Di corsa, si diresse agli ascensori. Doveva uscire al più presto da quell’edificio: l’aria le era diventata come irrespirabile…

“Ma che diavolo voleva quella ragazzina viziata? Perché non si dedica allo shopping come fanno tutte le riccone come lei e non lascia la boxe agli uomini?” brontolò Mr. Okamoto.

“Lascia correre… meglio non mettersi contro una Shiraki… la sua è una famiglia troppo potente per inimicarsela… ed ora concentriamoci su Joe Yabuki. Dove eravamo rimasti? Ah sì… stavo appunto per farvi presente che quel pezzente non è in grado di colpire al volto… non più, ormai. Tutti i suoi ultimi incontri li ha vinti per K.O., sì, ma grazie a ganci allo stomaco.” concluse Nakamura, soddisfatto. Gli altri presidenti si guardarono l’un l’altro, prima basiti e poi ilari, dando in esclamazioni.

“Cavoli… è VERO!”

“Com’è che non ci avevo fatto caso? Neppure il mio allenatore me l’ha fatto notare!”

“Ma allora è fatta!”

“Già. Sarà sufficiente far presente ad allenatori ed atleti che contro Yabuki si dovrà tenere la guardia bassa. Tanto se anche dovesse arrivare a colpire al volto, non sarebbe più capace di farlo in modo incisivo. In questo modo potremo neutralizzarlo. Una volta per sempre”

Fecero un brindisi a base di birra e sakè, ridendo e parlottando. In quel mentre sentirono nuovamente bussare alla porta. Accordato il permesso, si affacciò titubante e con il cappello in mano Danpei Tange: “Ehmmmm, scusate, spero di non essere in ritardo… avevate detto che la riunione era fissata per le 11.30… però vedo che ci siete già tutti: avete iniziato senza di me? Forse io ho capito male l’orario?"

“Carissimo Tange-san! Ma no, nessun ritardo… noi siamo qui solo da pochissimi minuti! Prego, accomodati… gradisci qualcosa da bere? Un tè, del sakè?” lo accolse Okamoto, con fare untuoso, facendoglisi incontro.

“Del sakè, grazie… ma solo un goccetto per schiarirmi l’ugola. Ehm, di cosa dobbiamo discutere?” farfugliò Tange, confuso: non era abituato a tanta gentilezza da parte dei suoi … “colleghi”, presidenti al par suo di club pugilistici, certo, ma di ben altro che di una baracca di legno sotto ad un ponte.

“Ma dello straordinario successo del tuo ragazzo! Un vero campione! È ritornato più forte che mai! Potrebbe diventare il prossimo campione mondiale e tutti noi dobbiamo aiutarti a farlo emergere, per il buon nome della boxe nazionale, non credi, caro Tange?” intervenne Nakajima, con un’amichevole pacca sulla spalla.

“S-ssì, certo, certo… solo che non capisco… tempo fa non volevate neppure riammettermi nella Federazione… ed ora… tutta questa gentilezza…” borbottò Danpei, confuso ma anche sospettoso. Non aveva dimenticato il disprezzo a lungo dimostratogli dagli altri presidenti e le difficoltà incontrate per poter iscrivere Joe e Nishi come pugili professionisti, essendo lui il loro allenatore, ma con precedenti penali di rissa e di ubriachezza molesta.

“Ma no, ma no… seppelliamo il passato… abbiamo sbagliato, siamo stati troppo duri con te e con i tuoi pugili, dei bravi ragazzi che vogliono solo emergere…Adesso che ne dici di parlare dei prossimi incontri di Joe? Il mio Tiger non vede l’ora di misurarsi con lui…” propose Nakajima, rabboccando il bicchiere di Danpei con un altro po’ di sakè.

°°°°°°°

Qualche ora dopo...


“Volevi vedermi? Quando ho ricevuto il tuo messaggio mi è sembrato che fosse importante.”

Joe si appoggiò al muricciolo, appena fuori dalla sala da tè, con la sua solita aria indolente. In realtà era curioso di conoscere il motivo per cui Yoko avesse tanta premura di incontrarsi con lui: solo che non voleva darlo a vedere. Se ne stette a dondolarsi leggermente, tenendo le mani ficcate nelle tasche.

“Ma perché non entriamo un attimo e non ci prendiamo un tè? Così possiamo parlare con calma… è una cosa importante, proprio come hai detto tu. E non mi pare il caso di starcene fuori, in piedi.” suggerì Yoko. Sebbene cercasse di sembrare calma e controllata, non poté che sfuggirle una lieve incrinatura nella voce, cosa che non sfuggì a Joe. Questi sollevò il capo per poterla guardare in viso: la scrutò a lungo, cosa che in Yoko provocò uno sfarfallio nello stomaco… una sensazione delicata ma anche intensa. Credeva di aver archiviato, con la morte del suo amato Tooru, la possibilità di provare ancora certe sensazioni… evidentemente si sbagliava. In silenzio, Joe si staccò dal muro e si avviò verso la porta della sala da tè, per poi voltarsi a guardarla, sorridendole appena.

“Ok, entriamo.”

Yoko si sedette, sospirando piano. Congiunse le belle mani sul tavolo, prendendo tempo per poter riordinare le idee.

“…Allora?” le chiese Joe, con tono gentile ma fermo, dopo aver ordinato due caffè al sollecito cameriere. Vedendola esitare capì che Yoko era molto preoccupata. “Yoko, cosa c’è?”

“Stanno organizzando qualcosa. Contro di te, Joe… i presidenti dei club, intendo. Stamattina si sono riuniti, tutti quanti, escludendo me e Tange, ovviamente…”

“Alt. Guarda che Danpei proprio stamattina aveva un incontro con gli altri presidenti, per parlare dei miei prossimi incontri. Ne avrò uno tra due settimane, contro Tiger Ozaki. Quindi non c’è stata nessuna riunione segreta.” precisò Joe, interrompendola, sollevando le mani in segno di resa.

“A che ora Danpei aveva l’appuntamento?”

“Mah… mi pare per le undici e mezza. Perché?” le chiese, perplesso, zuccherando il suo caffè.

“Quando sono arrivata alla sede della Federazione, stamattina, erano solo le undici ed un quarto  ed ho sorpreso i presidenti confabulare… prima di bussare ho ascoltato…” cominciò Yoko.

“Ahahahahahaha, non dirmi che hai origliato? Non è precisamente da signorina bene educata farlo!” scoppiò a ridere Joe, interrompendola di nuovo. Molte teste degli avventori presenti si girarono verso la giovane coppia, allo scoppio di risa di Joe.

“Sssh, lasciami finire, per favore.” brontolò Yoko, per poi abbassare la voce, in tono sommesso “Sì, ho origliato, Joe. E non me ne pento affatto. Parlavano di te e del tuo modo di boxare. Parlavano della necessità di metterti in difficoltà nei prossimi incontri, in modo da metterti fuori gioco… Poi però ho dovuto bussare, perché alcune cameriere mi hanno sorpresa ad origliare e così non ho più potuto continuare ad ascoltare e scoprire come intendono danneggiarti. Naturalmente hanno fatto tutto anche a mia insaputa: infatti io non sono stata invitata, ed ho saputo della riunione solo perché mi ha avvisato un mio amico giornalista, che mi ha fatto una soffiata.”

“Mmh. Che facciano pure tutte le macchinazioni che vogliono, non mi fanno paura, se proprio lo vuoi sapere.” replicò lui, secco, facendo spallucce.

“Joe…” un po’ esitante, Yoko allungò il braccio e posò una mano su quella del ragazzo, stringendola in una presa delicata ma forte. Joe alzò gli occhi e rimase un attimo incantato a guardarla. Dannazione a lui: quant’era bella, con quello sguardo malinconico e quella dolce luce negli occhi…

“Non devi stare in pena per me. Io ti ringrazio, davvero. Pur di aiutarmi hai persino origliato” sorrise, per poi tornare subito serio, vedendo l’espressione sempre più angosciata, seppur composta, della giovane donna “Sei molto cara, Yoko. Lo apprezzo moltissimo, credimi.”

“Io… io… non voglio che ti capiti nulla di brutto…” mormorò lei, stringendo le labbra.

“Infatti non mi succederà niente, stai tranquilla. E poi, con un angelo custode come te che vigila su di me, cosa potrà mai succedermi?” le disse, accentuando il sorriso. Posò l’altra mano su quella di Yoko, stringendola, pur facendo attenzione a non farle male. Le dita di Joe, affusolate ma forti, impressero alla mano candida di lei una presa calda e solida. Poi, in silenzio, allentò la stretta, girando la mano di Yoko e rimanendo a contemplarne il palmo: teneva tra le sue la manina delicata e curata della ragazza, dalla manucure trasparente e priva di anelli. Con il pollice le sfiorò il palmo in una leggera carezza. Yoko sentì dei languidi brividi percorrerle la schiena. Non avrebbe mai immaginato che quel ragazzo sbruffone ed attaccabrighe, dai pugni micidiali, fosse capace di una carezza così dolce e rispettosa.

“… Adesso io devo andare…” sussurrò lei, turbata, senza però voler ritrarre la mano. Con un’ultima carezza, Joe posò delicatamente la mano di lei sul tavolo, liberandola dalla presa. Yoko si alzò, fece un lieve inchino e se ne andò, non dopo avergli scoccato uno sguardo bruciante. Fuggì letteralmente dal locale, senza voltarsi indietro. Joe rimase interdetto per qualche secondo indeciso sul da farsi, dopo aver guardato la figura sottile allontanarsi da lui. Con un gesto secco, posò poi gli yen nel piattino del conto ed a grandi passi uscì dal locale. Non ci impiegò molto a raggiungerla nel piccolo parco lì vicino ove si era rifugiata, anche perché una volta uscita dalla sala da tè Yoko aveva rallentato il passo, essendo profondamente scossa. L'afferrò per un braccio, traendola a sé. Rimasero a guardarsi a lungo, senza dire nulla e senza osare far nulla. Yoko si vide studiata dai profondi occhi scuri del ragazzo. Capì di averlo turbato, incuriosito. Forse pure un po’ emozionato… Allora decise di osare, almeno per una volta. Di dimenticare buone maniere e comportamenti da signorina altolocata. Shiraki-sama prese quindi il volto di Joe fra le morbide mani e, stringendosi a lui, gli sfiorò le labbra con le proprie. Percorse la bocca di Joe lentamente, dandogli dei leggerissimi baci senza premere troppo, temendo di essere aggressiva nel forzare il ragazzo ad aprirle le labbra.

Per qualche secondo Joe rimase preda dello stupore più assoluto, fissando sul volto di Yoko uno sguardo a dir poco sbalordito. Ma fu solo un’impasse momentanea. Joe lasciò il braccio di Yoko, che ancora teneva afferrato, per cingerle la vita, mentre le mani di lei, scendendo giù dal suo viso, arrivarono a sfiorargli le spalle. Si ritrasse dalla bocca di lei, per poterla guardare intensamente, cosa facilitata dallo scarso divario di statura tra loro, essendo alti più o meno uguali. Lesse negli occhi di Yoko desiderio, dolcezza e… paura. No: Yoko non doveva avere paura. Non tra le sue braccia. Fu questo pensiero, fugace ma potente come un lampo, a farlo decidere. Dapprima un po’ esitante, poi con passione, Joe catturò le labbra della giovane. Gliele schiuse con una leggera ma insistente pressione, mordicchiandole leggermente la bocca, al che Yoko mugolò debolmente. Si sentiva come ubriaca: capiva quello che stava succedendo, certo, ma al tempo stesso era come distaccata da tutto ciò che le stava intorno.... Si sentì tremare dalla radice dei capelli sino alle gambe quando la lingua del ragazzo le percorse la bocca, prima con delicatezza, poi in profondità. Gli si abbandonò completamente, chiudendo gli occhi e cingendogli il collo. Il bacio le sembrò però finir presto, troppo presto. Joe non si staccò da lei, non subito: accarezzandole la lunga chioma vi affondò il viso, facendole sentire sul collo il suo caldo respiro. Joe aspirò il lieve profumo di quella pelle candida. Rimasero così, abbracciati, senza dire nulla, per alcuni minuti. Poi Joe si ritrasse da Yoko, bruscamente.

“Cosa sta succedendo?” borbottò lui, aggrottando la fronte “No, che dico… scusami Yoko, non avrei dovuto… non capisco cosa mi sia preso…”

Yoko si sentì morire. Con poche parole, Joe stava prendendo le distanze dal meraviglioso momento che avevano condiviso fino a qualche istante prima. “Perché…” riuscì solo a mormorare lei, mentre le lacrime facevano capolino tra le ciglia, ravviandosi nervosamente i capelli che le ricadevano sul viso.

“Perché non può funzionare, Yoko. Non tra un Yabuki qualsiasi ed una Shiraki. E non credo di pensarlo solo io… chiunque lo direbbe.” puntualizzò Joe, con malcelata stizza.

Yoko sorrise amaramente. “Il lupo ha perso le zanne, eh?**” disse, irosa “Joe il ribelle, quello che se ne frega di convenzioni sociali e di regole, adesso ragiona come un qualsiasi piccolo borghese… mi deludi, Joe. Non sai quanto.”

“Yoko…” sussurrò lui, avvilito.

“Non dire nulla, ti prego. Hai detto anche troppo!” disse Yoko, mentre lacrime amare le percorrevano le gote.

°°°°°°

Ad una discreta distanza dalla giovane coppia, intenta ancora a discutere, un uomo di mezz’età, sobriamente vestito all’occidentale, non si lasciò sfuggire nessun dettaglio dell’idillio bruscamente interrotto. L’uomo, dai lineamenti cesellati, osservò attentamente quel magro ragazzo che cercava invano di trattenere per un braccio l’elegante signorina, quasi come ad imprimersene con forza l’immagine nella mente.

___________________________________________________

L’angolo del boxeur: alle posizioni di guardia nel pugilato, parlando della “guardia bassa” per il pugile Tiger Osaki. Ecco per voi una rapida digressione sulle stesse.

Peek a Boo: si tratta di uno stile di guardia che ha come base di partenza la più classica delle posizioni, ovvero un braccio proteso in avanti a l'altro arretrato a protezione del mento/volto. È uno stile di guardia prettamente frontale ma la diversa distanza delle mani dal volto dell'avversario in fase iniziale (verso il quale dovrebbero distendersi i colpi) permette di posizionare il corpo un po' di sbieco e quindi di offrire un minore "specchio" nel quale poter colpire. Restare del tutto frontali è come offrire bersagli gratuiti al proprio avversario.

Cross Armed: funziona esattamente come sui banchi di scuola, solo che le braccia in questo caso vanno a proteggere il volto o il corpo a seconda della distanza dall'avversario e del fatto se si sta attaccando o se si viene attaccati. Questa è una posizione di guardia facilmente riconoscibile e utile per "sfondare" ed avanzare verso la guardia avversaria. Gli avambracci sono posizionati uno sopra l'altro orizzontalmente, davanti alla faccia, con il guanto di un braccio in cima al gomito dell'altro braccio. Questo stile è il più efficace per ridurre i danni alla testa, quando si avanza con le braccia davanti al volto. Praticamente, nessun colpo regolare può colpire il proprio volto con questa guardia tenuta alta. Viceversa, in quei frangenti il corpo rimane invece scoperto… Non è uno stile molto tecnico o elegante da vedersi... piuttosto grezzo ma efficace, specie in alcuni frangenti di un match. Molti utilizzatori di questo stile di guardia tendono a variarlo a seconda di quanto tengano alte le braccia: è una tecnica utile quando si fronteggiano avversari più alti di statura. Infatti, la massima copertura del volto la si ottiene portando la linea dell'avambraccio avanzato sugli occhi e quello più in basso a protezione del mento, utilissima contro avversari più alti, per superare lo svantaggio causato dal divario tra altezze.

Philly Shell: questo stile di guardia viene utilizzato da chi ha doti da INCONTRISTA, come il nostro Joe*. Per eseguire questa guardia un combattente deve essere molto atletico ed esperto. Questo stile è efficace per i famigerati colpi d'incontro* perché permette ai pugili di sfondare la guardia avversaria con i pugni migliori da poter sfoderare. La protezione del mento è affidata alla spalla avanzata e, con rapidi movimenti verso l'interno, deve portare fuori bersaglio il diretto destro dell'avversario (nel caso di pugili destrorsi). La protezione del fianco è quindi affidato all'avambraccio della spalla protesa in avanti, che, coprendo moltissimo, limita al massimo il pericolo di subire dei ganci al corpo come dei montanti. Il braccio arretrato è posto in difesa del gancio sinistro e del jab.. La debolezza di questo stile è che quando il pugile è fermo e non muove le mani, i punti "sensibili" sono piuttosto scoperti. Meglio quindi non fermarsi mai, meglio stare in continuo movimento. Per indebolire nell'avversario questa strategia di guardia è consigliabile sferrare molti jab, così da far muovere moltissimo il braccio arretrato dell'avversario, facendolo stancare ed approfittando del suo indolenzimento muscolare.

Ta-dah!* il colpo d’incontro è una tecnica molto utilizzata dal nostro Joe: egli ha appreso le capacità da incontrista al Riformatorio ed ha utilizzato questa tecnica in moltissimi suoi match. Joe è un incontrista innato, dato che quando il suo avversario tenta di colpirlo, il nostro ragazzo usa la propria difesa per schivare il colpo e per restituirlo contestualmente. Il pugno d’incontro ha una potenza spesso devastante, perché la potenza del pugno va a sommarsi alla forza contraria del movimento di sbilanciamento in avanti dell’avversario: un po’ come una leva, insomma. I pugili d’incontro, come Joe, combattono soprattutto a distanza ravvicinata, ma alcuni di essi rimangono invece alla stessa distanza di uno stilista. Per essere efficaci, gli incontristi usano i movimenti del capo, i riflessi, la velocità, l’allungo e devono essere buoni incassatori.

** esclamazione di Yoko Shiraki tratta dal manga (ma non ricordo il numero del volumetto, sorry!), anche se per un contesto differente.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo III - Trappole ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI



Finalmente era giunta a casa.

Quella appena trascorsa non era stata affatto una giornata facile, per lei. Prima il complotto ignobile dei presidenti dei club di pugilato contro Joe e Tange. Poi… il ritrovarsi tra le braccia di Joe… per sentirsi respingere da lui dopo pochi minuti di paradiso in terra…

“…Non può funzionare, Yoko. Non tra un Yabuki qualsiasi ed una Shiraki.”

Quelle parole continuavano a ronzarle nella testa, pur sentendo ancora sulle labbra il sapore di quelle del ragazzo… Era tutto così maledettamente difficile e solo per una stupida presa di posizione, dettata da ridicole convenzioni sociali! La cosa la addolorava e la irritava ad un tempo. Per cercare di placare il suo animo ferito, si mise un momento seduta al suo Bösendorfer* per suonare la sua aria preferita, il Notturno 9 di Chopin, imprimendo alla dolcissima musica un non so che di malinconico dolore. Mentre suonava, non si accorse assolutamente di esser stata raggiunta nel salotto. Una volta terminato di suonare, mentre riordinava lo spartito, avvertì, infine, una presenza alle sue spalle.

“Nonna” mormorò, alzandosi per inchinarsi compostamente, in segno di saluto.

Hatsuyo Shiraki, a differenza del marito Mikinosuke, che prediligeva con le persone comportamenti più rilassati ed informali, invece pretendeva, soprattutto dalla sua unica nipote, continue dimostrazioni di rispetto per l’etichetta più conservatrice, secondo la millenaria tradizione giapponese, essendo, a differenza del marito, la discendente di un’antica famiglia nobiliare. Dopo la morte del figlio e della nuora in un incidente aereo, cosa che aveva reso Yoko orfana in tenera età, aveva rivolto tutte le sue cure e le sue attenzioni alla nipotina, cercando di tirarla su come una perfetta fanciulla nobile, nel rispetto delle antiche consuetudini. Mikinosuke aveva, suo malgrado, interferito molto nel suo metodo educativo, pretendendo che Yoko studiasse in scuole di stampo occidentale e che viaggiasse molto, “per aprirsi la mente ed il cuore”, come soleva spesso dire alla moglie. Nonostante vivesse, con suo quarantennale disappunto, in una splendida villa in stile, ahimè, occidentale, Hatsuyo era solita abbigliarsi e pettinarsi in modo tradizionale, indossando eleganti kimono in pesante seta di gelso** dall’obi strettamente legato in vita. Quella sera ne indossava uno molto sobrio, in delicatissime sfumature di grigio e di azzurro, che si accordavano alla crocchia argentea ed alla pelle candida e liscia, nonostante l’età. Le tracce della sua antica bellezza erano perfettamente riprodotte sul volto delicato della nipote, che le assomigliava molto.

Ma le somiglianze si fermavano lì.

“Yoko. Finalmente a casa. Sono ore che ti attendo.” Il tono utilizzato dall’anziana donna non presagiva nulla di buono.

“Mi dispiace per aver fatto tardi, ma avevo molte cose da fare…”

“Tutte cose disdicevoli, immagino. Vieni nel mio studio, ti devo parlare.”

Nonostante fosse una donna alquanto minuta e sottile, Hatsuyo aveva una sua speciale autorevolezza nel modo di parlare e nella postura. Si diresse quindi alla stanza più raccolta del piano terra, che aveva adibito a suo ufficio personale, con passettini aggraziati e veloci sui delicati zori*** in broccato, dando le spalle alla nipote che, rassegnata, la seguì a capo basso. La lunga giornata non era ancora finita, a quanto pare…

“Siediti e prestami ascolto, dato che ho preso delle decisioni che ti riguardano direttamente, in modo che tu le esegua con giudizio.”

In quel mentre, entrò inchinandosi profondamente ed abbigliata anch’essa in un bellissimo kimono rosso fragola, Misato, la dama di compagnia personale di Hatsuyo. Con gesti misurati ed eleganti, si occupò quindi della cerimonia del tè, cosa che non smetteva mai di affascinare Yoko.

“Non distrarti a fissare Misato, invece di prestarmi attenzione: non è per questo che ti ho convocato, Yoko. Portami rispetto.”

“Chiedo perdono.”

“Uhm. Ti comunico che oggi mi sono consultata con una persona. Si chiama Ikue Miura e mi presterà aiuto come nakodo****” dichiarò solennemente.

Nel sentir far cenno ad una sensale di matrimoni, Yoko, pallidissima, saltò in piedi, cosa che fece sussultare Misato, la quale rovesciò la ciotolina del tè. Dopo un’occhiataccia ed un gesto stizzoso di congedo da parte di Hatsuyo, la dama di compagnia si inchinò affranta per ritirarsi, silenziosa come un topolino, lasciando finalmente sole nonna e nipote.

“Ricomponiti, Yoko. Non accetto da te questi comportamenti da pescivendola. Ecco il frutto delle scuole occidentali e dei troppi viaggi all’estero: si dimenticano le buone maniere” disse in tono duro. Rassegnata, Yoko si risedette, a capo chino. Si sentiva come un’imputata al momento della sentenza… “Allora, ti stavo dicendo… nei prossimi giorni verrà qui da noi Miura-sama con foto e rirekisho**** di papabili candidati alla tua mano.”

“NON. VOGLIO. SPOSARMI.” replicò Yoko, a voce stentorea, fissando la nonna negli occhi con sguardo acceso.

“Silenzio! Come ti permetti di rivolgerti a me con questo tono e con questo atteggiamento?” sibilò Hatsuyo “Non ti basta gettare discredito sul nostro nome con la tua condotta screanzata? Osi pure ribellarti?” Gli occhi di Hatsuyo si ridussero a fessure di giaietto nel guardare la nipote, che impallidiva sempre più.

“Che cosa avrei fatto di tanto screanzato per essere trattata così?” chiese Yoko, con le labbra che le tremavano: si sentiva profondamente umiliata.

Cosa avresti fatto, nipote? A te sembra dignitoso occuparti di… pugilato?” pronunciò l’ultima parola come se la sputasse “Se almeno fosse un sport della nostra tradizione, come il sumo… invece di una diavoleria straniera… ma ti pare che una signorina di buona famiglia debba interessarsi di maschi che fanno a pugni, in ambienti sporchi, degradati… maleodoranti? Te ne stai in mezzo a tutti quegli uomini, poi… è un’indecenza! Le ragazze perbene vivono ritirate, non se ne vanno in giro a vedere incontri di boxe, sappilo. Dal giorno che Mikinosuke ti ha appoggiato in questa follia affidandoti la presidenza della sua palestra non riesco più a darmi pace... Non avrei dovuto permettere che ti portasse con sé sin da quando eri solo una ragazzina a vedere gli incontri di quello sport orrendo, e men che meno a fare beneficenza in quel postaccio sull’isola… un riformatorio, che obbrobrio! Per non parlare di quel Rikishi che frequentava sin troppo questa casa…”

Nel sentir nominare il povero Tooru con tanto disprezzo, Yoko scoccò alla nonna un’occhiata di fuoco, per poi tornare a fissarsi le mani che le tremavano in grembo.

Hatsuyo continuò con la sua reprimenda, come se nulla fosse: “Non voglio più pensarci, visto che quel tizio è morto, ma sappi che non ho mai approvato certe conoscenze di Mikinosuke” sospirò profondamente “Questa cosa deve finire, bambina. E subito.” Yoko si mordeva le labbra a sangue, il corpo scosso da brividi, affondando le unghie nei palmi. Lacrime dispettose le lucidavano le ciglia, minacciando il loro ingresso in scena. Hatsuyo covò la nipote ribelle con uno sguardo che, da indignato, si addolcì progressivamente. Poi riprese con un tono più pacato e gentile, per blandirla: “Su, non fare così. Diciamo che il tuo comportamento è stato dettato dall’eccessivo permissivismo di tuo nonno e dalla tua ingenuità. Hai voluto giocare per un po’ a fare l’emancipata. Ma ora bisogna rientrare nei ranghi. Fortunatamente hai solo venticinque anni, sei ancora in un’età più che dignitosa per sposarti senza che nessuno abbia qualcosa da ridire, anche se io alla tua età ero già sposata e madre. Beh, sorvoliamo… al giorno d’oggi le sposine non hanno più vent’anni…” brontolò.

Al che Yoko non resse più ed esplose, come spinta da una forza interiore che non sapeva di avere… “Al giorno d’oggi nessuno dev’essere obbligato a sposarsi per uno squallido omiai****! Al giorno d’oggi ci si sposa con chi si ama! Al giorno d’oggi una ragazza deve poter scegliere la sua strada, facendo un lavoro che le piace! Nonna,” al che Yoko si alzò in piedi, di nuovo: “sappi che non intendo ascoltare una parola di più. Non riceverò nessuna nakodo e non voglio saperne di candidati. IO sono già innamorata, profondamente e per sempre” proruppe, arrossendo e prendendo coscienza, per la prima volta ed in modo cristallino, di ciò che il suo cuore aveva sempre saputo e che lei stessa non aveva ancora ascoltato fino in fondo “e non sposerò nessun altro se non l’uomo che amo. Non scomodarti a sapere di chi si tratti: non sono affari tuoi. E ti comunico che domattina lascerò per sempre questa casa per andare a vivere per conto mio e secondo le mie regole.”

Livida, Hatsuyo strinse le labbra, rimanendo rigidamente composta. Le due donne si sfidarono con lo sguardo, ad altezze differenti, essendo una ritta in piedi e l’altra ancora seduta in poltrona.

“Questa è la tua ultima parola?” le ingiunse la nonna, in tono spaventosamente calmo.

“Esatto.”

“Bene. Da questo preciso istante tu sei morta, per me. E questa è la mia ultima parola.”

Levatasi in piedi a sua volta, la donna dette le spalle alla nipote, uscendo dallo studio, senza dir più nulla.

°°°°°

Rinchiusasi in camera sua, Yoko si lasciò andare su una dormeuse, affranta.

Era distrutta. Era stanca. Era sola.

Sola, soprattutto. Si lasciò andare alle lacrime prima ed ai singhiozzi poi, senza freni. Dopo essersi sentita svuotare completamente, riuscì a calmarsi e si rialzò stancamente. Trasse fuori dal suo armadio un paio di valigie per riempirle di vestiti e di effetti personali. Sapeva bene dove andare a vivere: la madre le aveva lasciato in eredità una graziosa villetta in stile moderno con un bellissimo giardino, in un quartiere residenziale tranquillo e decoroso. Sebbene disabitata da molti anni, su espresso volere del nonno, la casa veniva periodicamente revisionata e ripulita da una ditta specializzata ed il giardino costantemente curato dal giardiniere di fiducia degli Shiraki. Yoko sapeva bene che il nonno non avrebbe approvato il suo trasferimento e che si sarebbe addolorato della sua decisione. Ma non tollerava di passare un giorno di più sotto lo stesso tetto di Hatsuyo Shiraki, dopo le cose orribili che le aveva detto su lei stessa, sul suo lavoro e sul povero Tooru. Non poteva farsi illusioni: mai e poi mai sua nonna avrebbe capito ed accettato lo stile di vita che lei intendeva seguire, né tanto meno i suoi sentimenti per un ragazzo come Joe. Mentre era intenta a chiudere le valigie ed il grazioso beauty-case, si rese conto che non solo non avrebbe tollerato di trascorrere una notte di più in quella casa, ma neppure un minuto di più. Dopo essersi quindi fatta aiutare dal maggiordomo a caricare la sua Corvette, Yoko mise in moto, sentendosi finalmente libera.

§§§§§

Dopo essersi allenato per tutto il resto del pomeriggio, cercando di comportarsi esteriormente in modo rilassato e sereno a suo solito per non suscitare la curiosità di Danpei e di Nishi, fischiettando a tratti un motivetto allegro, Joe si concesse una lunga doccia tiepida per riuscire a schiarirsi le idee. Durante l’allenamento, non appena gli si era riaffacciato alla mente il dolce volto di Yoko, ecco che aveva ripreso a colpire il sacco con rinnovato vigore, per concentrarsi meglio sugli esercizi di routine e per non pensare a lei. Aveva pure tartassato lo stomaco del povero Nishi, quando questi gli aveva fatto da sparring partner. Ma ora, da solo nella cabina della doccia, Joe stentava a scacciare il ricordo delle meravigliose sensazioni fisiche provate appena qualche ora prima, stringendo a sé il flessuoso corpo di Yoko. Gli sembrava di sentire ancora il dolce tepore del seno di lei contro il proprio petto, il profumo delicato dei suoi capelli. Il sapore delle sue morbide labbra…

Con rabbia, imprecò contro la saponetta che non smetteva di sgusciargli via dalle mani, mentre in realtà voleva imprecare contro se stesso e la sua stupidità. Yoko. Accidenti a lei, alla sua dolcezza, ed ai suoi occhi così belli...

“Dannazione, che cavolo mi prende?” disse a se stesso, abbassando la temperatura dell’acqua da tiepida a fredda, per tentare di… “smorzare” certi inequivocabili segnali che gli mandava il suo stesso corpo… Con suo disappunto, Joe pensò di non esser stato abbastanza forte da respingerla subito, magari parlandole in modo iroso, come ai vecchi tempi del riformatorio… Si era abbandonato alla magia del momento… per poi anzi scusarsi con Yoko per aver risposto ai suoi baci, con tenerezza e passione.

Ma lui non era più il teppistello dei bassifondi.

Il ragazzaccio, pur non essendosi trasformato in un damerino, era comunque maturato in un giovane uomo di buone qualità, avendo imparato finalmente a trattare le persone con maggior rispetto: in questo, la boxe era stata per lui un’ottima maestra di vita. Strigliandosi con furia, continuava a ripetere a se stesso che sicuramente si era trattato di un momento di follia e che tutti e due erano stati colti dalla magia del momento, complice l’ardore della giovane età. Non era possibile nessun rapporto di quel tipo tra di loro: non tra un ragazzo del ghetto ed una fanciulla cresciuta nella bambagia. Come un mantra, Joe cercava di autoconvincersi di aver fatto la cosa giusta, nel dire di “no” a Yoko.

Eppure il viso delicato di Yoko, le sue lacrime e le sue labbra tremanti lo avevano profondamente colpito. Non riusciva a smettere di pensare a lei…

Pur inveendo contro se stesso, la cosa che avrebbe fatto se l’avesse vista in quel preciso istante sarebbe stata quella di baciarla.

Ancora ed ancora.

Joe non era ossessionato dal sesso come la maggior parte dei ragazzi della sua età, anche perché per mantenere alte prestazioni in una attività sportiva come quella della boxe era necessaria una certa… continenza, per meglio sfogare l’aggressività testosteronica sul ring. Ad ogni modo, Joe era, in fondo, un uomo come tutti gli altri: aveva scoperto le gioie del sesso in campagna, quando mesi prima aveva fatto il bracciante in alcune fattorie. Aveva rovesciato sulla paglia qualche contadinella più che compiacente e, fra risate e sospiri, aveva scoperto pure lui l’incanto del piacere fisico. Ma con Yoko con poteva mica comportarsi con leggerezza, non essendo di certo una scioccherella superficiale come le ragazze che lo avevano sedotto. Al pensiero di averla fatta soffrire con le sue parole si sentiva morire.

“… E se ora andassi da lei? Anche solo per vedere come sta…magari potrei anche chiederle scusa di nuovo e dirle che possiamo restare buoni amici, come prima…”

Asciugatosi alla bell’e meglio, si rivestì in fretta con pochi gesti febbrili.

“Ci vediamo dopo.” bofonchiò all’indirizzo di Tange e di Nishi, intenti l’uno a preparare la cena, l’altro a riordinare la palestra. Non si premurò neppure di aspettare la loro risposta. Conosceva l’indirizzo della lussuosa magione Shiraki e vi si recò con decisione. Prima di suonare il campanello, però, pensò di fare un colpo di telefono, per accertarsi che non si fosse già coricata. Trovò una cabina telefonica poco distante dall’imponente cancellata della villa; dovette ripetere il numero più volte, imprecando tra sé e sé, prima di riuscire ad azzeccarlo, dato che non chiamava Yoko di frequente e dato che aveva perso il suo biglietto da visita. Gli rispose il maggiordomo il quale, in modo educato e compunto, gli fece presente che la signorina era uscita, senz’altro precisare.

“Ha un messaggio da riferirle?”.

“Le dica per favore che ha chiamato Yabuki. Nient’altro, grazie.”

“Sarà fatto, signore. Buona sera.”

Joe sorrise con amarezza. Di certo doveva trattarsi di una bugia: Yoko non voleva parlargli e gli si era negata. Poco male: il giorno dopo l’avrebbe cercata allo Shiraki Boxing Club, lui non era il tipo da scoraggiarsi per una porta in faccia!

Fischiettando il suo solito triste motivetto, di cui ignorava l’origine ma che si portava nel cuore da sempre, Joe ritornò sui suoi passi.

Tutti i movimenti del ragazzo vennero seguiti, a debita distanza, da uno sguardo molto, molto attento…

Come in una malinconica eco, un secondo più flebile fischio riprodusse la stessa canzone, non appena Joe si fu allontanato.

 
§§§§§§§

Circa ventun anni prima, Kyoto, hanamachi di Gion Higashi*****

“Sei pazza, Kahori-san? Andartene via dalla nostra okiya? E dove te ne andrai?” cercò di trattenerla la geisha più anziana, dato che l’altra, borsone alla mano, stava per varcare la soglia.

“Non posso più rimanere Kaneko… Credo che ritornerò a casa mia, ad Otsu… spero che mia madre non mi scacci…” mormorò la ragazza, mentre le lacrime le scorrevano, copiose, sulle gote, sciupando il trucco sofisticato.

“Io sono la tua onee-san, ho il dovere di prendermi cura di te, piccola. Dimmi cosa ti succede, confidati… sai che farò di tutto per aiutarti!” le disse Kaneko, accarezzandole il viso con infinita tenerezza.

“Non puoi aiutarmi… nessuno può farlo, qui… sono incinta!” esclamò Kahori, affranta.


____________________________________________________

*marca austriaca di pianoforti piuttosto élitaria: Schubert e Chopin, tanto per far nomi, suonavano con pianoforti Bösendorfer! Quisquilie!

**la seta di gelso è la seta più pregiata e costosa, e si chiama così perché la sua farfalla (Bombyx mori) si nutre solo di foglie di gelso. La caratteristica principale del filato è la sua meravigliosa lucentezza. È la regina delle stoffe!

***si tratta di calzature simili alle nostre infradito, abbinate ai kimono.

**** Omiai (お見合い) è un'usanza tradizionale giapponese che consiste nel far incontrare due persone libere da legami sentimentali affinché prendano in considerazione la possibilità di sposarsi. Il termine viene talvolta tradotto in altre lingue come "matrimonio combinato". Spesso sono le famiglie ad incaricarsi di trovare lo sposo o la sposa ai propri rampolli, incaricando ad hoc il nakodo (che in Occidente sarebbe una specie di sensale di matrimoni) di occuparsi della faccenda: il nakodo propone quindi al ragazzo o alla ragazza tutta una serie di possibili candidati/e, mostrando fotografie e rirekisho, cioè una specie di… curriculum vitae, con albero genealogico, studi e posizione lavorativa. Naturalmente, si prediligono candidati/e appartenenti alla stessa classe sociale. Dopodiché inizia tutta una serie di inviti a pranzo ed a cena, in modo che i due nubendi (le famiglie ci sperano…) possano conoscersi e vedere se si piacciono. Non è previsto che ci si debba per forza sposare con il primo o con il secondo candidato: però dopo una serie di rifiuti, la famiglia comincia a brontolare sulle “eccessive pretese”… Al giorno d’oggi questa è un’usanza un po’ meno usata, anche se non è affatto scomparsa. Però, ambientandosi la mia ff agli inizi degli anni ’70 credo che sia verosimile la sua applicazione, specie nelle classi più élitarie (che di certo non caldeggiavano il libero amore…). Fonte Wikipedia

*****gli Hanamachi sono i distretti delle città di appannaggio delle geishe. Il più importante è ancora oggi quello di Gion, della città di Kyoto, che si suddivide in Gion Kobu e Gion Higashi. Durante il lungo e complesso apprendistato di un’aspirante geisha presso la okiya (letteralmente “casa”), che, come “praticante” si denomina maiko, viene incaricata una geisha più esperta di affiancarla e di insegnarle i trucchi del mestiere: la onee-san (letteralmente “sorella maggiore”). Si sviluppa così un legame molto stretto tra le due donne. Addirittura, per tradizione, la maiko muta il suo nome adottandone uno diverso, come nome d’arte, che contenga la prima parte del nome della sua onee-san: per questo nella mia fan fiction ho chiamato la più giovane Kahori, dato che Kaneko è il nome della sua mentore. Fonte Wikipedia
 
§§§§**§§§§

Spigolature dell’Autrice:

• Piccola precisazione: Hatsuyo Shiraki è un personaggio di mia invenzione, non esiste né nel manga, né nell’anime.

• L’angolo del boxeur lo ritroverete al prossimo capitolo, dato che i guantoni si incroceranno di nuovo! In questo capitolo di raccordo ho preferito parlare di qualche piccola curiosità della cultura jap: spero che vi abbia interessato!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo IV - Incomprensioni e debolezze ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI


Shiraki Boxing Club, a mezzodì, nell’ufficio della presidenza.

“Uhm. Non mi pare un granché, ad essere sincera…” disse Yoko, dopo aver visto i filmati con molta attenzione.

“Ottimo: è proprio questo che volevo sentirLe dire, Miss Shiraki!”
 
Dopo aver posato sul tavolino la coppa di brandy invecchiato, Harry omaggiò Yoko di un sorrisetto malizioso. La giovane lo scrutò per qualche secondo: di certo, Harry Robert non era un uomo che si guardasse malvolentieri… il classico wasp* biondissimo, dal fisico alto ed atletico, dai vivaci occhi verdi e dai lineamenti spiccatamente virili, che costituiva un gaikokujin** che a Tokyo aveva già fatto voltare più di una testa femminile, non appena arrivato…

“Ora le mostro degli altri filmati, miss, di incontri NON ufficiali…” aggiunse, un po’ sornione.

“Non mi piace molto quel ‘non’, Mr. Robert” replicò Yoko, secca. “Se c’è una cosa che aborro sono gli incontri di boxe clandestini. Non si scherza con la salute dei pugili, e in quel tipo di match è consentito di tutto e di più… e solo per dello sporco denaro!” si innervosì Yoko.

“Si calmi, La prego… Carlos è cresciuto in una favela del Venezuela, dove le parole ‘legge’ e ‘regola’ non esistono! Però così potrà vedere le vere potenzialità del ragazzo…”. Dopo aver armeggiato con alcune pellicole, procedette alla trasmissione di nuovi filmati. Man mano che le immagini scorrevano, l’espressione di Yoko diveniva sempre più meravigliata.

“Ma…ha un gancio sinistro spaventoso! Un’arma impropria!” proruppe, sgranando gli occhi su un Robert assai divertito.

“Esatto.”

“Solo che non capisco… perché Lei non vuole far conoscere al mondo le vere capacità di Rivera? Tutto quanto mi sa quasi di recita…”. Yoko, alla fine dell’ultimo filmato, si servì di un po’ di tè bianco, il suo preferito.

“Uhm. Se passassimo dal ‘lei’ al ‘tu’? credo che per fare affari insieme sarebbe più semplice un tono più informale… o no?” propose l’uomo, bypassando abilmente la domanda di Yoko e sorridendole suadente.

“Vedremo. Ora però gradirei una risposta, la più sincera possibile.”

“Carlos Rivera in Venezuela è chiamato ‘il Re senza corona’, proprio perché pur essendo fortissimo non riesce ancora ad emergere. Si incontra quasi sempre con pugili bravi, sì, ma non eccezionali. Lui è un autentico fuoriclasse e meriterebbe di scalare la classifica, sino al campionato mondiale… dovrebbe incontrarsi direttamente con José Mendoza per disputargli il titolo!” si infervorò Harry, con genuino entusiasmo, cosa che colpì molto Yoko. Ma chi l’aveva detto che gli anglosassoni sarebbero tutti dei tipi freddi e monocordi? “Il fatto è che se mostrassimo al mondo tutte le potenzialità di Carlos, i club si rifiuterebbero di contrattare gli incontri con lui, impedendogli così di salire di grado. Per questo abbiamo stabilito di fargli fare la parte del brocco sino al terzo o quarto round, usando le sue doti di buon incassatore, e di vincere gli incontri con colpi… ‘fortunati’. Così inganniamo i club e Carlos può continuare a combattere, senza che nessuno si tiri indietro!”

Yoko stava per replicare quando sentì un leggero bussare alla porta. Era solo il suo segretario, il quale annunciò che “Yabuki-san chiedeva di essere ricevuto”. Yoko impallidì, cosa che non sfuggì al suo ospite il quale, premuroso, le si sedette accanto “Miss Shiraki, quel signore per caso la infastidisce? Vuole che me ne occupi io? Il Suo pallore mi spaventa…”

“N-no… nessun problema… è un vecchio amico” mormorò, per poi riuscire a rivolgersi al segretario con un tono più fermo “Sakamoto, per favore, fai accomodare il signor Yabuki nella sala piccola e digli che arrivo subito. Nel frattempo offrigli un caffè. Grazie.”

Yoko abbassò lo sguardo, non volendolo incrociare, almeno per qualche istante, con quello assai indagatore di Harry.

°°°°°°

Joe guardava, incuriosito, delle litografie inglesi dell’Ottocento appese alle pareti del salottino rappresentanti delle scene di pugilato.

L’inglese lo masticava assai poco, dato che in orfanotrofio non era stato propriamente un secchione amante dello studio, per cui riuscì solo a fatica a capire le scritte didascaliche dei quadri. Da qualche minuto, Yoko lo fissava, ritta sulla soglia. Era arrivata silenziosamente.

“Joe…” si decise, infine, a sussurrare. Entrò e chiuse la porta dietro di sé.

Il ragazzo si volse a guardarla. Era quasi come se volesse studiarla, profondamente ed a lungo. Poi, a suo solito, cercò di mascherare il suo turbamento - dato che era turbato, eccome. “Ehi, ciao. Hai visto che forti questi quadri? Certo che sono buffi questi pugili, tutti impettiti e con quei baffoni…!” celiò, imitandone le pose old style. Senza rispondergli, Yoko si sedette composta sul canapè, alzando il capo a scrutarlo. Joe non poté resistere a quegli occhi così belli e malinconici. Senza indugio alcuno, la raggiunse sul divanetto, sedendosi accanto a lei. “Come stai?” le chiese in tono sommesso. “Ieri sera ti ho cercata a casa, ma mi hanno detto che eri fuori… forse non volevi vedermi? Beh… lo posso capire. Sono stato un vero maleducato con te.” Yoko rimase colpita dalle sue parole… l’aveva cercata e già dopo poche ore dal loro ultimo incontro! Dopo i baci che si erano scambiati, Joe non era riuscito a starle lontano ed ora pure!

“Davvero mi hai cercata? Non lo sapevo, perché ho lasciato la casa dei nonni, proprio ieri sera” gli spiegò, cercando di tenere ferma la voce, illuminandosi tutta.

“Capisco... spero che non sia a causa mia…”

“Non devi preoccuparti. Semplicemente, ora sono una donna adulta e voglio vivere per conto mio: era da un po’ che ci stavo pensando.”

Joe annuì; poi incrociò le mani su cui appoggiò il mento, con i gomiti sulle ginocchia, sospirando ed assumendo un’espressione molto compunta. Non era facile per lui gestire quel tipo di situazione. “Yoko, io ci ho riflettuto a lungo. Su di noi, intendo. E resto dell’idea che sarebbe meglio lasciare le cose come stanno: non potrebbe funzionare… Lo capisci, vero?”

“No.”

“Non fare così…”

“Sei venuto qui solo per respingermi? Potevi risparmiarti la fatica!” gli sibilò.

“Non rendermi le cose difficili, Yoko. Non so come gestire tutto questo… ma volevo accertarmi che tu stessi bene…”

“Che cosa non sai gestire, Joe? Il desiderio che provi per me?” al che Yoko lo afferrò per le spalle, scuotendolo leggermente, cosa che lo lasciò interdetto a dir poco. “Tu mi vuoi, io lo so! Tu mi vuoi, esattamente come io voglio te! È così semplice, amarsi e stare insieme… così naturale. Perché dobbiamo farci del male? Dimmi perché…” gli disse, mentre le lacrime le scorrevano, limpide, sul bel viso.

Joe non resistette più: sfilatosi il berretto dal capo con un gesto stizzoso, piombò come un falco su quelle labbra morbide. Strinse forte a sé il corpo delicato della giovane, per sentirne il tepore contro il suo petto. Possedette la bocca di Yoko con passione, con disperazione, spingendola contro lo schienale del divano. Non pago, le percorse con le labbra la mascella ed il collo sottile, facendola sospirare, annusando ed assaporando quella pelle meravigliosa. Si staccò un momento per contemplare la ragazza tra le sue braccia: era così bella, con le labbra socchiuse e tremanti, le guance rosse e gli occhi chiusi… Il suo seno palpitante lo attirava come una dolcissima calamita. Mentre con una mano le cingeva ancora la vita, con l’altra le slacciò alcuni bottoncini della camicetta di seta dal colletto alla coreana, scollandola fino al delicato incavo dei seni, che sfiorò lievemente con le dita, come se fosse la cosa più preziosa che avesse mai visto in vita sua… devotamente, si chinò per posarvi un bacio lieve, aspirando il profumo soave che emanava dal suo seno… era come ubriaco…. Si sentì accarezzare i capelli da una mano leggera…

“Maledizione!” masticò tra i denti, riscuotendosi dall’incantesimo e staccandosi bruscamente da lei. Si cacciò in testa il berretto e si rimise in piedi, serrando la mascella sino a diventare livido. “Non è per questo che sono venuto a trovarti, Yoko! Tu ed io siamo distanti anni luce, lo vuoi capire o no? Soprattutto per te sarebbe un disastro, li avresti tutti contro! Non voglio essere la causa della tua rovina… hai già sofferto troppo per colpa mia!”

“Ma… cosa stai dicendo… Joe? Perché avrei sofferto a causa tua?” gli chiese Yoko alzandosi in piedi a sua volta per meglio fronteggiarlo. Gli occhi le si riempirono di lacrime, di nuovo.

“Non lo comprendi? Devo per forza dirtelo, eh, Yoko?” al che la afferrò per i polsi traendola a sé “Non dimenticherò mai il tuo sguardo vacuo di quella sera… di quella maledetta sera! Eri accasciata contro la parete… ripiegata su te stessa... e Tooru, Tooru…”

Yoko scosse la testa, chiudendo gli occhi. Basta, non voleva sentire altro. Divincolò i polsi, liberandoli dalla stretta di Joe. In silenzio, gli voltò le spalle, per uscire dalla stanza.

Joe se ne rimase a fissare la porta da cui era appena uscita Yoko, incapace di muovere un solo muscolo.

§§§§§§§

Ritornò alla palestra, sebbene non sapesse neppure lui come. Per tutto il tragitto Joe non fece altro che pensare e ripensare a Yoko, al suo profumo di donna, alle sue lacrime. Era furioso con se stesso ed un po’ pure con lei. Non voleva ammettere che di fronte a quella ragazza non riusciva più a mantenere il controllo delle sue emozioni: sin dal loro primo incontro di oltre un paio di anni prima, Yoko aveva saputo toccare in lui alcune corde. La ammirava per la sua forte personalità, anche se a volte ne era pure un po’ irritato, dato che da uomo giapponese qual era preferiva nelle donne un atteggiamento più elusivo e dimesso. Era attratto dalla sua innegabile bellezza, come può esserlo una falena dalla luce di una candela. Era sedotto dalla sua dolcezza, dal calore che solo lei sapeva infondere in ogni più piccolo gesto.

Senza quasi rispondere alle domande di Danpei, il quale lo rimbrottava per non essersi allenato nelle ore più fresche del mattino, “andandosene a bighellonare chissà dove, con Tiger che non aspettava altro che sbranarselo sul ring”, Joe si cambiò e comincio a tempestare di pugni il vecchio sacco. Colpiva e colpiva sempre allo stesso punto, come un martello pneumatico. Alla fine, il sacco cedette: si aprì uno squarcio da dove uscì tutta la sabbia, come una vescica che esplode.

“Joooooooeeee!! Che cavolo combini, guarda che casino! Ora mi tocca ricucirlo!! E non puoi neppure chiedere a Nishi di farti da sparring partner: oggi al negozio si è ferito alla mano e per qualche giorno non potrà allenarsi! Adesso mi tocca farti io da sparring partner, con tutto quello che ho da fare per organizzarti i prossimi incontri! Accidenti, dovevo uscire!” urlò, posando bastone e cappello sul tavolo con malagrazia. Mentre Joe gli brontolava le sue scuse, grattandosi la testa col guantone, Nishi osservava tutta la scena in silenzio, scuotendo il capo, sconsolato. Danpei e Joe erano, insieme, come l’esca e l’acciarino: se erano presenti nella stessa stanza, prima o poi, scoccava la scintilla.

Cosa che accadde, di lì a poco.

Sentirono bussare.

“È permesso? Buongiorno, come va?” Con un sorrisetto untuoso si fece avanti Eizo Nakajima, presidente dell’omonimo club.

“Nakajima-san… buongiorno a lei.” Danpei si inchinò, aggrottando la fronte “A cosa dobbiamo il piacere della visita?”

“Carissimo Tange! Volevo solo farvi un saluto ed un invito… mi farebbe piacere invitare te ed il tuo ragazzo alla mia palestra, per fare un po’ di allenamento con i miei pugili… che cosa ne pensa?”

“È fuori discussione. Joe e Nishi si allenano solo ed esclusivamente qui. Ma grazie per la proposta.”

“Quanto la fai lunga. Io intendo andarci, invece. Grazie, Nakajima. Mi dia il tempo di cambiarmi e sono da Lei.”

“Joe” Danpei lo spintonò da parte “Che cavolo tieni in quella zucca? Aria fritta? Non mi convince tutta questa improvvisa gentilezza… quella non è gente da essere gentile senza un motivo… lo capisci?”

“Chissenefrega. Io voglio andare ad allenarmi là. Così tu potrai uscire a fare le tue cose, come hai detto poco fa.”

“Neanche per sogno! Verrò con te… non ci vai da solo in mezzo a quei lupi!”

“Ti piace proprio farmi da balia, eh? E va bene, vieni pure tu, basta che la pianti di rompere!”

°°°°°°

Alla fine, era proprio come aveva sospettato Danpei.

Il “cortese invito” non era altro che l’occasione per poter spiare le tattiche pugilistiche di Yabuki durante l’allenamento con gli sparring partner messigli a disposizione. Joe, naturalmente, aveva subito mangiato la foglia, sentendosi spiato da occhi curiosi oltreché ripreso da una telecamera: infatti, il ragazzo si era accorto sin dal primo momento del gruppetto di persone appostate su un piano rialzato, simili ad avvoltoi che studiano, affamati, la preda. Più si sentiva osservato, più ci andava pesante con i malcapitati che incrociavano i guantoni con lui, corredando i pugni con parole irose.

“Ma che cos’hai in quelle braccia? Purea di mele?”  “Sentite, non è che avreste qualche maschio da darmi in allenamento, invece di queste ballerine in tutù?” “E tu saresti un pugile? Siam messi male...”

Il povero Danpei non sapeva più cosa dire per stemperare gli animi e per scusarsi del comportamento di Joe: quel benedetto ragazzo lo faceva ammattire! Naturalmente non si limitò a prendersela con gli sparring partner: alla fine si rivolse con piglio strafottente agli spioni, schernendoli. La sua ira non ebbe più limiti, infatti, quando scorse tra loro pure Tiger Ozaki, contro cui avrebbe avuto il suo prossimo incontro.

“Ma guarda un po’ chi c’è… onoratissimo di vederti, campione. Invece di startene lassù a spiarmi da quel vigliacco che sei, perché non scendi qua sotto e non ti batti con me, da uomo a uomo?”

A fatica Nakajima e l’allenatore riuscirono a trattenere Ozaki, che portarono via quasi di peso, per scongiurare, lì e subito, il pericolo di uno scontro diretto con Joe. Quest’ultimo, furioso per il fatto di non poter risolvere la faccenda direttamente sul muso di Tiger, pensò bene di insultare tutti gli altri pugili presenti. “Massì, vecchio, andiamocene pure noi… scommetto che delle liceali sarebbero delle sparring partner migliori di questi rammolliti. Abbiamo solo perso del tempo in questa topaia pretenziosa” disse a voce alta e ben chiara.

La reazione non si fece attendere. Nel giro di pochi minuti si scatenò una rissa spaventosa: la palestra venne praticamente distrutta. Invece di boxare correttamente, Joe si azzuffò come ai vecchi tempi delle sue scorribande per le strade, senza lesinare, oltre ai pugni, pure morsi, spintoni e calci. Ci andò di mezzo, però, pure il povero Danpei. Dopo qualche ora, tutti e due, macilenti ed in pessimo stato, furono di ritorno a casa, tra le esclamazioni disperate del povero Nishi, che dovette trascorrere la sera a medicarli e rattopparli alla bell’e meglio…

§§§§§§

Korakuen Hall, una sera di qualche giorno dopo…

Il palazzetto dello sport era gremito di gente: quella sera si sarebbe disputato un incontro molto interessante tra due stelle nascenti dei pesi medi.

A suo solito, Yoko era accomodata in prima fila, in compagnia del suo immancabile assistente personale. Harry Robert aveva già fatto di ritorno negli States, per programmare il viaggio di Carlos Rivera in Giappone. Dopo il loro ultimo intenso incontro allo Shiraki Boxing Club, né lei stessa né Joe avevano fatto il primo passo, per rivedersi. Si erano studiatamente evitati a vicenda. Yoko era ancora ferita e scombussolata. Ma se intendeva, per il momento, stare alla larga da Joe come uomo, non voleva farlo nei confronti di Joe come pugile. Per questo motivo, era, come sempre, accorsa a vederlo boxare. All’annuncio dello speaker, arrivarono prima Tiger Ozaki e poi Joe Yabuki, ambedue scortati dai rispettivi mister e secondi. Il tifo per i due pugili divenne molto acceso ed entusiasta: sia Joe che Tiger erano due beniamini indiscussi, con fan molto accaniti. Joe salutò il pubblico, pur senza perdere di vista una certa figura femminile seduta compostamente. Le scoccò uno sguardo profondo e bruciante, alla stregua di un richiamo... Yoko, in tutta risposta, abbassò gli occhi. Non ce la faceva a guardarlo in viso. Non ancora. Joe ci rimase molto male: pur essendo felice di saperla vicina a lui, capì che sarebbe stato poco semplice ristabilire un contatto. Si ripromise che l’indomani stesso avrebbe fatto il possibile per parlarle… Ora però aveva altro di cui occuparsi, per cui si concentrò su quel dannato spione.

“Vecchio, ci do dentro subito, sbatto giù quell’idiota e torniamo a casa. Ah, a proposito: lo champagne lo voglio bello fresco, eh!"

“Piantala, scemo, e stai concentrato: attaccalo con decisione ma stai attento ai suoi montanti, che sono belli pesanti… tieni il fianco protetto, mi raccomando!”

Scoccò il gong della prima ripresa. Joe non indugiò a studiare Tiger: desiderava finirla in pochi minuti. Soprattutto, il ragazzo non aveva digerito i trucchetti adoperati dal suo avversario, appena qualche giorno prima: se c’era una cosa che lo faceva imbestialire erano le scorrettezze. Avanzò quindi con decisione con un abile gioco di gambe, facendo spostare Tiger dal centro del ring. Joe preferiva la distanza breve dall’avversario, anche perché essendo di statura media non godeva di arti particolarmente lunghi rispetto ad altri pugili di più alta statura. Tiger era un po’ più alto di lui, per cui Joe ritenne di godere delle sue abilità innate di in-fighter***, agendo a distanza ravvicinata: sospingendo Tiger contro le corde, eseguì una combinazione di diretti e di jab da manuale, destabilizzando l’equilibrio del suo avversario, il quale si vedeva piovere addosso una raffica di pugni a grande velocità, che pareva non finire mai. Naturalmente Joe non teneva la bocca chiusa…

“Allora, campione? Dimmi a cosa ti è servito spiarmi!”

Non esitò pure a colpirlo alle tempie, ma in modo molto blando: cosa che non sfuggì all’occhio attento di Tange e neppure dell’allenatore di Tiger. Uno sguardo esperto in pugilato memorizza la forza e l’impatto del singolo pugno, uno alla volta, cosa che la gente profana non è in grado di fare. Anche Yoko notò qualcosa di strano, nel suo Joe. Una bizzarra esitazione, un mancato affondo… che le apparivano a tratti, sebbene surclassati dall’innegabile potenza di montanti al busto e di jab al mento inferti a Tiger. Danpei e Nishi rimasero a bocca aperta quando videro lo scoccare di un poderoso diretto destro alla tempia di Tiger, arrestato una frazione di secondo prima di essere soppiantato da un montante sinistro al fegato. Tiger cadde riverso. L’arbitro cominciò la conta. All’ottavo, però, Ozaki riuscì a rialzarsi, seppur a fatica. Joe stava per attaccarlo di nuovo, scocciato di rivederlo in piedi, ma scoccò la fine del primo round.

“Ehi, vecchio, hai visto? Si è salvato solo per un pelo, accidenti al suo brutto muso! Ma alla prossima ripresa lo mando a nanna!”

“Fossi in te non ne sarei così sicuro… è lì che se la ride con il suo secondo…”

Con suo disappunto, Joe lo vide sghignazzare al suo angolo. “Vabbè è un povero idiota… lascialo ridere!”

“Il fatto è che se ride è perché sa come contrastarti, Joe. C’è un problema nel tuo modo di attaccare… possibile che tu non te ne renda conto?”

“Si può sapere di che cavolo parli, eh? Nishi, tu ne sai qualcosa dei deliri del vecchio?”

“Joe… tu fatichi a colpire alle tempie… Danpei ha ragione. E Tiger lo sa.”

“Prima hai arrestato il diretto alla tempia, per poi colpirlo al fegato col sinistro. Hai capito, adesso? Tu hai paura di fargli del male, per questo sei bloccato! Joe… non hai dimenticato che fu il tuo gancio alla testa ad uccidere Tooru Rikishi …”

“Ma piantatela, tutti e due, di dire queste stronzate! Avrei un blocco? Io?”

In quel mentre scoccò la seconda ripresa. Innervositosi per le parole appena udite, Joe pensò bene di replicare la tecnica usata al primo round. Solo che stavolta si sentiva come demotivato. Le sue combinazioni di jab e di diretti, seppur corrette, non furono potenti grazie alla velocità. Si sentiva come “legato” negli allunghi. Tiger, sornione, si limitò ad abbassare la guardia per proteggersi fegato e stomaco, dato che i colpi sferrati alla parte superiore del busto ed al corpo non erano molto incisivi e che bastavano le sue pur scarse doti da incassatore. Tiger, a differenza di Joe, era uno stilista bell’e rifinito, dato che era solito risparmiare i colpi, sferrandoli soprattutto a grande distanza (grazie alle lunghe braccia, essendo piuttosto alto per essere un giapponese) e sfinendo gli avversari con il gioco di gambe. Incassò i pochi e fiacchi colpi ricevuti in alto, sghignazzando, cosa che fece infuriare Joe.

“Mi prendi per il culo, brutto stronzo? Ora vedi!”

Joe, non sapendo di fare violenza a se stesso, fece partire il suo poderoso gancio all’altezza degli occhi di Tiger. Eppure… eppure fu come se una mano invisibile gli avesse bloccato il guantone… La mano di Tooru, forse? Con uno splendido uppercut al mento, Tiger stese Joe. Questi era sconvolto. Più che per il dolore alla mascella ed al mento, che quasi gli mozzava il respiro, egli si sentiva paralizzato dallo stupore.

“No… non è possibile… non può finire così…”

Nel frattempo, Yoko decise di non voler continuare a vedere uno spettacolo così penoso.

“Sakamoto-san, vorrei che mi prenotassi, per favore, il primo volo per Los Angeles. Voglio partire subito.”

“Shiraki-sama, non appena finisce l’incontro correrò in agenzia…”

“No. Adesso. Non intendo rimanere un minuto di più.”

“Non intendo rimanere un minuto di più a vederti così, Joe.”

Al settimo Joe si rimise in piedi e venne salvato dal gong. Lo stesso miserando scenario si ripeté nei round successivi… fin quando, al sesto, una candida spugna non venne gettata sul ring.

___________________________________________________

Spigolature:

*Acronimo dell'espressione “White Anglo-Saxon Protestant”.

**Gaikokujin (外国人): termine che vuol dire "persona di una terra esterna (al Giappone)", cioè straniera. È un termine più gentile rispetto al più noto gaijin (外人), dalla connotazione velatamente razzista… Fonte Wikipedia

°°°°°

L’angolo del boxeur
***Il nostro Joe, solo andando avanti nella carriera svilupperà pure qualche dote da stilista (di cui abbiamo già parlato), imparando ad essere un po’ più strategico. In realtà, egli combina soprattutto le tecniche da incontrista (ovvero, Joe usa la propria difesa per schivare il colpo e per restituirlo contestualmente), apprese in riformatorio per battersi contro Tooru Rikishi, con la sua innata natura di “picchiatore” (in-fighter, appunto), dato che è un pugile dall'aggressione continua, che travolge l’avversario con intense combinazioni di ganci e di uppercut. Un buon in-fighter necessita di buone doti di incassatore, perché questa tecnica lo espone ad essere colpito da serie di jab e diretti prima di riuscire ad entrare nella guardia dell'altro pugile. Di solito gli in-fighter, come Joe, non sono altissimi di statura e sopperiscono al loro scarso allungo degli arti con le distanze ravvicinate (pensiamo a Mike Tyson, che non arriva ai 180 cm).

Et voilà!

Ora vi propino pure un pistolotto chilometrico sulle tecniche di difesa adatte al tipo di pugno avversario: quando la sera non riuscite ad addormentarvi, invece di contare le pecore, ecco che ci pensa innominetuo vostra a propinarvi una lettura bella soporifera! Buona dorm… eh, buona lettura!

Come difendersi da un gancio?

Quando l’avversario cerca di colpire con un gancio nell’area del mento, bisogna alzare le braccia in modo da pararlo, e poi rispondere con un bel diretto al viso, senza esitazione!

Come difendersi da un montante?

Da questa tecnica di boxe ci si difende spostando verso il basso l’attacco dell’avversario con il braccio, intercettandoglielo: la cosa positiva è che non è facile sferrare l'huppercut con molta velocità, quindi si può precederlo e "bloccarlo". In questo modo l’altro pugile si troverà a guardia scoperta, e lo si potrà attaccare facilmente. Per difendersi da un montante è anche possibile spostare l’intero corpo all’indietro, in modo da evitare la traiettoria del pugno. Questa tecnica di difesa è possibile solo se il fighter è molto agile e reattivo, con ottimi rilfessi.

Come difendersi da un diretto?

Quando l’avversario cerca di colpire con un diretto sinistro, lo si può schivare, per poi colpirlo con un montante sinistro all’altezza delle costole. Quando l’avversario vuole colpire con un diretto destro lo si schiva e lo si colpisce con un diretto sinistro al torace o allo stomaco. Insomma: bisogna colpire in modo speculare: sembra facile a dirsi ma non lo è!

Come difendersi da un jab?

Ci sono vari modi. Si può:

• deviare la traiettoria del jab con un pugno. Per esempio, se il jab avversario è il sinistro, allora si usa un destro, spostando il jab verso l’interno dell’area di scontro per far perdere l’equilibrio all’avversario, rendendolo così più vulnerabile;

• deviare la traiettoria del jab in arrivo verso il basso con il braccio opposto;

• schivare il jab, piegandosi verso il basso e colpendo l’avversario con un montante allo stomaco (o un gancio al fegato, che è meglio: il fegato è molto delicato ed è assai arduo riprendersi da un colpo lì);

• abbassarsi a tal punto da lasciare il jab sopra la propria testa di alcuni centimetri. In questo modo l’avversario, non centrando alcun bersaglio, perderà l’equilibrio e sarà molto più vulnerabile (spesso Joe usa questa tecnica, anche grazie al fatto che non è altissimo!);

• schivare il jab inclinando il busto all’indietro, in modo da trovarsi il pugno proprio di fronte senza però esserne colpiti. Con la gamba portata dietro avanzare e colpire lo stomaco dell’avversario in modo da bloccare il suo avanzamento. Molto più in generale, oltre alle tecniche specifiche per il tipo di pugno, ricordo la tecnica chiamata in francese décalage (spostamento, ndr.), che consiste nel collocare il corpo fuori dall'asse di attacco dell'avversario con l'aiuto di un movimento laterale.

C’est tout. À la prochaine fois!

i.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo V - Svolte ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI


Los Angeles. Hotel dello Sheraton Plaza, ore 15.00, nella Conference Hall.


“E così, Lei vorrebbe farmi conoscere questo vostro pugile talentuoso, Señorita Yoko?” dichiarò con voce bassa e vibrante, in cui risuonava un timbro caldo e coinvolgente, cosa accentuata dall’accento spagnolo.

Con gesto fluido ed elegante, più da tanguero che da pugile, il giovane posò il mug del caffè americano appena bevuto sul tavolino per alzarsi in piedi in tutta la sua statura. Egli era di certo uno degli uomini occidentali più belli che Yoko avesse mai visto in vita sua. Meno massiccio del biondo Harry, che in luogo del caffè aveva preferito un goccio di whiskey, il venezuelano era snello, longilineo e scattante, come una belva pronta all’attacco. La carnagione bronzea era rischiarata dal sorriso stupendo e dai magnetici occhi di un intenso verde cinabro. Quello che ora, con gesto galante, preparava con mani esperte un cocktail analcoolico per Miss Yoko, non era altri che “il Re senza corona” della categoria mondiale dei pesi medi: Carlos Rivera.

Yoko aveva preso il primo volo possibile per poterlo incontrare a Los Angeles - ove il pugile aveva appena disputato un incontro, vinto per k.o. tecnico alla quarta ripresa - per saggiare la possibilità di farlo incontrare con Joe. Con il suo Joe.

“Esatto. Joe Yabuki possiede un talento innato per la boxe. Sul ring si trasforma in una furia. Credo che se riuscissimo ad organizzare a Tokyo un incontro con lui, voi due rimarreste piacevolmente sorpresi dalle sue capacità. Anche se non ha vinto l’ultimo incontro, sono certa che Joe e Carlos disputerebbero un incontro a dir poco sensazionale!”

“Carlos, quel Joe di cui ti sta parlando Miss Yoko, pur avendo solo vent’anni, ha già collezionato un discreto numero di vittorie. Senza contare che alcuni pugili molto promettenti dopo essersi incontrati con lui hanno avuto la carriera stroncata… come Tooru Rikishi,” al che Yoko abbassò gli occhi, per celare i suoi più intimi pensieri al solo nominare di Tooru… “o come Wolf Kanagushi. Credo pure io che un pugile simile sarebbe per te molto stimolante. Una sfida che dovresti cogliere.”

“Aahahahahahah, di certo sarà meglio dei pupazzi con cui ho combattuto sinora. Muy bien, señorita!” le sorrise Carlos, suadente. A Yoko parve di veder baluginare le zanne di una pantera, pronta a mordere... “Mi ha convinto. Facciamoci pure questo ‘viaggetto’ nel Suo bel Paese per incontrare Mr. Yabuki. Sono curioso di conoscerlo… e di incrociare i guantoni con lui.”

“Benissimo. Direi allora di prenotare il primo volo per Tokyo. Naturalmente sarete ospiti dello Shiraki Boxing Club in uno dei migliori alberghi della città. Preferite alloggiare in un hotel in stile moderno o in uno tradizionale giapponese?”

“Faccia Lei, señorita. Ci affidiamo completamente alla Sua gentile ospitalità.” le disse Carlos baciandole la mano con galanteria, cosa che lasciò Yoko interdetta non essendoci abituata, dato che in Giappone non esisteva il baciamano. Si sentì arrossire come una scolaretta. Il sudamericano le scoccò, studiandola, un’occhiata ardente, continuando a tenere stretta la mano di Yoko nella propria: da fino intenditore delle donne qual era, trovava Yoko assai di suo gusto. Forse un po’ troppo magrolina su petto e fianchi, questo sì, ma quel visetto di porcellana e quella boccuccia a cuore non gli dispiacevano per nulla…. E poi lui adorava i capelli neri e lisci, lucidi come ebano, tipici delle bellezze orientali. Di sicuro, al tatto dovevano essere come di seta…

“Bene. Direi allora che abbiamo deciso” intervenne Harry, alzandosi in piedi. Si era accorto del palese imbarazzo di Yoko. Accidenti a Carlos ed alla sua passione smodata per le belle ragazze! Anche a lui le donne piacevano e parecchio, ma venivano sempre e solo dopo il business: pur sapendo bene che il venezuelano era, in fondo, un vero gentiluomo, non voleva comunque che l’affare andasse a monte solo perché quel tombeur des femmes non sapeva tenere le mani a posto! “Carlos, lasciamo che Miss Yoko possa ritirarsi in camera sua a riposarsi un po’, prima del viaggio di ritorno in Giappone. Tu ed io dobbiamo rivedere alcuni passaggi del tuo ultimo incontro… avrei dei filmati da mostrarti al Tiger Boxing Club, a Santa Monica. Se ci muoviamo subito, non perdiamo troppo tempo prima del nostro volo per Tokyo.”

Yoko colse la palla al balzo, per togliersi da quell’imbarazzante impasse: non era abituata ad essere corteggiata in modo così schietto, dato che in Giappone una condotta simile era considerata a dir poco sconveniente. Si liberò finalmente della stretta d’acciaio del pugile e, levatasi in piedi, si rivolse ai due uomini con un rigido inchino a mo’ di commiato, giusto per sottolineare la necessità di mantenere le distanze tra lei e loro: “Molto bene. Allora mentre voi vi consultate, darò disposizioni al mio assistente per la prenotazione del primo volo e di due camere nel nostro migliore ryokan*: mi farebbe davvero piacere che possiate conoscere qualcosa delle nostre tradizioni, in modo che il soggiorno giapponese sia piacevole da ricordare. Per questo suggerisco di optare per un ryokan: è il nostro hotel tradizionale, con le pareti in legno scorrevoli ed il pavimento in tatami, cioè in paglia di riso… ma naturalmente solo se siete d’accordo.”

“Ma certo, querida. Sarà bello assaggiare la vostra cultura. Vada pure per il ryokan.” concluse Carlos, con un sorrisetto sornione sulle belle labbra. I due uomini salutarono e lasciarono la sala.

Rimasta sola, Yoko risalì nella sua suite, per farsi una doccia rinfrescante e per riordinarsi le idee. Mentre lasciava che il getto tiepido dell’acqua le scivolasse lungo la schiena, non si sentiva tanto a posto con la coscienza. Aveva omesso di specificare che all’ultimo incontro perso contro Tiger Osaki, Joe avesse smarrito buona parte del suo spirito combattivo: di quella sua speciale “fame”, cioè, di dare tutto, allo scoccare del gong. Yoko meditava tristemente, mentre si spazzolava metodicamente i capelli umidi per farli asciugare prima, che il Joe degli ultimi incontri, pure di quelli vittoriosi, fosse un pugile opaco e poco incisivo. Aveva notato, eccome, la sua indecisione nel colpire l’avversario alla testa.

“È perché temi di fare troppo male, Joe? Ma non è più colpa tua, nel preciso istante in cui incroci i guantoni con qualcuno… è solo la dura legge della boxe…nessuno è più solo di un pugile, quando si alza dal suo angolo…nessuno è più solo di te… amore mio.”

°°°°°°°

Tokyo, ore 7 del giorno dopo, rispetto a Los Angeles…


“È solo colpa tua, vecchio. Non avresti dovuto gettare la spugna, maledizione! Quindi ora fammi la cortesia di alzare il culo e di andare subito ad organizzarmi un incontro con il prossimo in classifica, dopo Tiger Osaki! Vediamo un po’…” brontolò Joe, afferrando il quotidiano sportivo “qui dicono che dopo Tiger ci sarebbe questo tizio, Ryu Harajima. Perfetto. Voglio assolutamente spaccare la faccia a questo qua!” dichiarò, picchiettando nervosamente con l’indice la fotografia del pugile citato.

Joe era parecchio irritato per l’esito del suo ultimo incontro. Era anche deluso ed amareggiato… in un certo senso si sentiva tradito. Mai e poi mai avrebbe creduto Tange capace di gettare la spugna! Ma non era sempre stato lui quello dello slogan del “non arrendersi mai, costi quel che costi”? Neppure ai pericolosi ed intensi incontri avuti contro Kanaguchi e contro Rikishi il vecchio aveva osato fare tanto!

“Cretino, l’ho fatto solo per il tuo bene… quel dannato incontro era perso: perso, capisci? Ho dovuto decidere l’unica cosa giusta da fare!” urlò Danpei, picchiando con forza i grossi pugni sul tavolo, che scricchiolò miserevolmente… I due uomini erano da soli - dato che il buon Nishi era a lavorare alla drogheria da prima dell’alba, per finire l’inventario insieme al padre di Noriko - per cui si aizzavano l’un l’altro fronteggiandosi come due cani rabbiosi, senza nessuno che potesse far loro da paciere…

“Il mio bene, il mio bene… il mio bene è lasciarmi vincere, dannazione! Non salgo sul ring per fare figure di merda, vecchio!” al che lo afferrò per il bavero, scuotendolo.

Danpei non si lasciò, però, maltrattare: con uno strattone violento staccò via da sé il ragazzo furioso e, con un manrovescio lo fece volare a gambe all’aria. “Adesso zitto e ascoltami, una buona volta! La tua carriera è finita, se non riesci a superare il tuo blocco psicologico!” urlò, mentre l’altro, borbottando parolacce irripetibili, si rimetteva in piedi.

“Stai alludendo alla stronzata che tu e Nishi mi avete detto proprio durante l’incontro? Sul fatto che non sarei più capace di colpire in faccia?” brontolò Joe, infilandosi i guantoni.

“Esatto. Da quando è morto Tooru non sei più in grado di assestare diretti potenti al viso… ogni tanto colpisci al mento o al naso, questo sì. Ma non sono colpi incisivi che un buon incassatore non possa sopportare. Se davvero vuoi continuare con questa carriera, ti conviene pensare seriamente a come superare questo ostacolo! Sennò la vedo dura, ragazzo mio: molto dura!”

“Piantala, vah… lasciami in pace, mi hai scocciato abbastanza per oggi! Piuttosto vai alla Federazione a combinarmi, per favore, l’incontro con Harajima. Io intanto resto qui ad allenarmi.” Joe cominciò a picchiare sonoramente il sacco, con un ritmo serrato.

Quando circa un paio di ore dopo Tange ritornò dalla Federazione, trovò il giovane ancora alle prese con il sacco. Rimase quasi ipnotizzato alla vista della feroce sequenza di pugni inferti - che non erano scemati in potenza - dato che il vecchio sapeva per certo che quello scellerato avesse continuato ad esercitarsi al sacco senza mai smettere, per tutto il tempo della sua assenza!

“Joe…” riuscì finalmente a parlare, dopo averlo fissato imbambolato per qualche minuto “sono andato ad organizzarti il match… lo avrai fra tre settimane, proprio contro Harajima, come hai chiesto tu… Joe, mi ascolti quando ti parlo?”

“Certo che ti ascolto” rispose il ragazzo, senza smettere di boxare “e vedrai che quella faccia da rapa lessa te la cucinerò io a dovere! Piuttosto… notizie di Yoko? Non sono ancora riuscito a chiamarla. Lo sai che ha lasciato l’incontro prima della fine?” mormorò, smettendo finalmente di martoriare il povero sacco, che minacciava di rompersi di nuovo.

“Non ho idea di cosa stia facendo… e comunque avrà avuto i suoi buoni motivi se non è rimasta fino alla fine del match. Ora Yoko è il presidente di un club importante e sicuramente avrà molti appuntamenti di affari. Dietro a quella faccia d’angelo si nasconde una volontà di ferro: ormai dovresti conoscerla. Non è una donna comune, la nostra cara Shiraki.” concluse Danpei in tono bonario. Egli ammirava da sempre la tempra di Yoko.

“Su questo siamo d’accordo. Beh, vado a farmi una corsetta, allora. A dopo.”

Joe amava molto correre all’aria aperta, percorrendo il ghetto. Di tanto in tanto accennava un saluto agli amici del quartiere. I monelli suoi seguaci a quell’ora erano a scuola, per cui poté dedicarsi all’allenamento senza distrazioni. Almeno, poteva pensare agli ultimi avvenimenti in santa pace. Gli bruciava, eccome, il non essere riuscito a battere Tiger. Ripassò mentalmente tutti i colpi dati e ricevuti. Dovette ammettere con se stesso che se nel primo round era stato abbastanza incisivo, nel secondo non era riuscito né a mantenere una difesa efficace, né a puntellare sull’avversario dei ganci potenti. Soprattutto al viso.

“Ok, ok. Diciamo che non ci ho dato dentro. Ma questa sarà la mia unica sconfitta. Con Harajima non avrò nessuna esitazione. Non sono ritornato a Tokyo per fare da zimbello, ma per combattere e per rendere onore alla memoria di Tooru! È per lui che sono di nuovo qui! Per lui… e per Yoko!”.

Yoko, già…

Non l’aveva più vista e neppure sentita. Del loro ultimo incontro allo SBC** aveva serbato un ricordo dolce ed amaro… Mai e poi mai avrebbe voluto vederla piangere a causa sua… Ma perché doveva essere sempre tutto così complicato? Correndo, sferrò una sequenza di jab e di diretti, quasi come a voler colpire l’aria. Joe era furioso con se stesso. Aveva deluso tutti, con quel patetico incontro con Tiger. Aveva deluso Danpei e Nishi, la brava gente del quartiere, i suoi piccoli amici. Pure Yoko non aveva voluto continuare ad assistere a quello strazio di match.

Soprattutto, Joe sentiva di aver deluso Tooru.

°°°°°°

Danpei stava rassettando la palestra, quando sentì alla finestra l’avvicinarsi di uno zufolio conosciuto. Era la solita canzoncina triste che Joe amava fischiettare quando era sovrappensiero.

“Ma come sei già qui? Non avrai mica finito di corr…”

La parola gli morì in gola, quando, aprendo la porta, non si trovò davanti il suo ragazzo.

________________________________________________

Spigolature dell’Autrice:

*ecco qualche foto di alcuni ryokan: credo proprio che se un giorno riuscissi (lo spero!) ad andare in Giappone, snobberei ben volentieri gli alberghi in stile occidentale per alloggiare in uno di questi posticini deliziosi!


ryokan-I

ryokanroom-min
… e per finire una deliziosa cenetta, con menu rigorosamente washoku (cioè tradizionale), così come viene servita nella washitsu (= camera degli ospiti) !

ryokan-cena
**SBC sta per Shiraki Boxing Club.

°°°*°°°



Ed ecco per voi un'immagine di Carlos Rivera:

carlos-rivera



L’angolo del boxeur lo ritroverete al prossimo capitolo!

Per un paio di settimane sarò in ferie: la fan fiction sarà aggiornata a fine agosto. Auguro a chi mi legge delle serene vacanze!

À bientôt, mes amis!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo VI - Strani accadimenti ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI


Al Tange Boxing Club...

Danpei se ne rimase letteralmente con la bocca spalancata, di fronte all’ospite inatteso.

Quella sicumera, quel particolare modo di vestirsi, così elegante quasi al limite dell’affettato… Quando poi il tizio portò la mano alle labbra per estrarre la sigaretta, traendone pigramente uno sbuffo di fumo, Danpei notò con orrore che gli mancava l’ultima falange del mignolo destro*. Uno yakuza. Magari si trattava pure di uno dei coordinatori, uno shatei-gashira**, visto e considerato il livello di eleganza dei suoi vestiti, che stonava nella cornice di povertà del quartiere… Non era affatto un brutto ceffo, anzi. Si intuiva che dovesse essere al massimo sulla cinquantina, anche se a prima vista poteva parere più anziano, per lo sguardo segnato da molte rughe di espressione: era di media statura, di corporatura snella ma forte e nervosa, con una folta zazzera nera con pochi fili grigi ed un viso dai lineamenti regolari e gradevoli. Gli intensi occhi neri lo fissavano, tranquilli. Ma fu il leggero sorriso sulle labbra ben disegnate a far scorrere un brivido in Danpei per tutta la sua colonna vertebrale.

Conosceva quel sorriso. Lo aveva visto neanche una mezzoretta prima…

“Piacere di fare la Sua conoscenza, Tange-san. Ormai era tempo che Lei ed io ci scambiassimo due chiacchiere, in tranquillità. Spero anzi di non disturbarLa. È da solo?” gli chiese con pacatezza. La sua voce aveva un timbro piacevole, non troppo profonda, quasi musicale.

“S-sì… in questo momento sono solo… ma ancora non mi ha detto chi è Lei…” riuscì finalmente Danpei a farfugliare, presagendo e temendo la risposta dello sconosciuto.

“Mi perdoni, ha ragione. Ecco a Lei il mio biglietto da visita.”*** chiosò l’interpellato, consegnandogli con garbo un raffinato biglietto in carta di riso, contrassegnato dal logo della “famiglia”.

Una delle più importanti del Giappone.

“Hiro Nakamura…” sillabò Tange, cercando di prendere tempo per decidere cosa fare e come comportarsi. Di sottecchi, scrutava l’uomo.

“Non mi fa accomodare? Le ruberò solo un momento.” Senza parlare, Tange si scostò dall’uscio, per permettere a Nakamura di entrare nella palestra. L’ospite entrò con disinvoltura, andando a sedersi sulla panca di legno. Si appoggiò al tavolo, per stare più comodo, guardandosi tranquillamente intorno. “Vedo che qui non ve la passate molto bene…” sottolineò, con fare compunto.

“Che cosa vuole?” eruppe Danpei, non potendone più. Più trascorrevano i minuti, più quel tizio lo faceva innervosire. Lo temeva, sì, essendo uno di quelli, ma al tempo stesso voleva che quell’incontro finisse il prima possibile.

Nakamura lo contemplò un attimo, con calma. “Credo che Lei abbia capito molto bene che cosa io voglia. Io non sono qui per Lei, ma per Joe.”

“…Perché?”

Al che Nakamura trasse un leggero sospiro.

“Suvvia, Tange-san. Lei non è uno stupido. E possiede uno sguardo vivace, sebbene da un solo occhio. Quando poco fa Le sono apparso davanti, è letteralmente sobbalzato” enunciò, sorridendo.

“Che cosa vuole dal mio ragazzo?” ringhiò Danpei, mostrandogli i grossi pugni davanti al viso.

“Il mio ragazzo, vorrà dire. Non intendo più rinunciare a lui.” concluse, asciutto.

“Lo rivuole…adesso? Dopo più di vent’anni? Dov’è stato finora?” gli urlò Tange, furibondo, afferrandolo per il bavero e scuotendolo come un fantoccio. “Dov’era, quando quel povero figliolo vagava da solo come un’anima in pena, senza che nessuno si occupasse di lui? Dov’era quando si è messo nei pasticci, finendo in riformatorio? Dov’era tutte le volte che Joe era stanco, affamato, aveva i brividi di febbre, si sentiva solo? Eh? Adesso cosa pretende, maledizione!”

Nonostante ciò, lo sguardo di Nakamura rimase imperturbabile. Con estrema calma, questi strinse la grossa mano di Danpei in una morsa d’acciaio, staccandosela d’addosso bruscamente. Si intuiva una forza non indifferente nel magro corpo racchiuso in quell’elegante completo sartoriale. “Ora si calmi, per favore. Lei non può sapere come siano andate le cose. L’ho lasciata sfogare solo perché vuol bene a mio figlio e tiene a lui. Ma non accetterò altre Sue intemperanze. Mi ha capito?”

Tange rabbrividì, dando le spalle allo yakuza. Improvvisamente sentì freddo, molto freddo, nonostante la primavera inoltrata.

°°°°°°

Diciannove anni prima, all’incirca… Kyoto, hanamachi di Gion Higashi.


“Come sarebbe dire… sono spariti nel nulla?” sibilò Hiro, ad una Kaneko pallida come il marmo.

“Calmati, Nakamura-san. Ti prego.” intervenne in tono sommesso la padrona dell’okiya, Fumiyo Watanabe, un’anziana ed impeccabile signora di mezz’età. “È da stamattina che stiamo cercando Kahori per tutta Kyoto e stiamo impazzendo dalla preoccupazione. Soprattutto per il piccolo Kei****… Dove sarà finita quella benedetta figliola? Dove?” mormorò la donna, torcendosi le mani. Kaneko piangeva silenziosamente, ad occhi bassi.

Hiro comprese che le due donne erano sinceramente ignare del motivo della sparizione di Kahori e del bambino, oltreché in preda ad un’autentica angoscia. Di solito tra la padrona di un’okiya e le geishe si instaura un rapporto cordiale sì, ma sempre entro certi confini dettati dalla forma e dall’etichetta. Invece, nella okiya Watanabe si era creata, col tempo, un’atmosfera familiare: Fumiyo e Kaneko erano sinceramente affezionate alla giovane maiko, la più bella ed invidiata di tutta Gion. Quando erano state messe al corrente della sua gravidanza, non solo l’avevano convinta a rimanere all’okiya, ma si erano prese cura di lei e del suo bimbo in arrivo. Una volta nato, Kei era stato oggetto di coccole e di cure infinite da parte di tutte e tre: dopo un fugace momento di delusione da parte di Fumiyo, che aveva sperato nella nascita di una bambina da avviare, a suo tempo, alla carriera di geisha, il piccolo Kei era stato trattato dalla oka-san come un nipotino. La scomparsa improvvisa di Kahori e del suo figlioletto aveva sconvolto letteralmente la buona signora che, insieme alla geiko*****, si era subito precipitata in prefettura per denunciarne la scomparsa. Tutte le affannose ricerche della giornata, purtroppo, non avevano dato ancora buoni frutti.

E così sarebbe stato anche nelle settimane e nei mesi successivi…


°°°°°°°

“L’ho cercato per anni… insieme a sua madre. Solo dopo molte ricerche venni a sapere dell’incidente del pullman in cui sopravvissero solo poche persone. Il corpicino di Kei non venne mai ritrovato. Kahori riposa a Niigata” nominandola, un velo di tristezza attraversò lo sguardo di Hiro “Poi per molti anni non potei più occuparmi personalmente della ricerca di mio figlio, perché il mio waka-gashira mi inviò negli Stati Uniti per implementare i nostri affari. I miei detectives privati, che avevo assoldato per ritrovare Kei in mia assenza, non appena riuscivano a rintracciarlo, ecco che lui spariva di nuovo.”

“Joe è cresciuto in vari orfanotrofi: non appena fuggiva da uno, veniva riacciuffato e rinchiuso in un altro. Credo che fosse per questo motivo che non si riusciva mai a trovarlo…” sospirò Danpei, che da alcuni minuti stava ascoltando con molta attenzione le vicende personali di Nakamura e le origini di Joe. Era profondamente commosso. Solo per una sfortunata serie di circostanze quel povero ragazzo non aveva potuto godere dell’affetto e del calore di una famiglia!

“Esatto. Anche il fatto che avesse un cognome fittizio non ha di certo facilitato le mie ricerche… Kahori non lo aveva ancora dichiarato all’anagrafe… Né io avevo ancora potuto riconoscerlo ufficialmente. Per questo Kei non aveva documenti di identità indosso. E quando lo trovarono, il corpo di sua madre, a causa dell’incidente, non stava accanto a lui. E così in orfanotrofio gli hanno attribuito nome e cognome di comodo, reputandolo un orfano senza genitori.******”

“Ed ora?” chiese Danpei, che si era alzato un momento per prendere una bottiglia di sakè, che offrì a Nakamura.

Ci sono momenti, nella vita, che necessitano di un goccetto, perché sono troppo più amari dell’alcool…

“Ed ora voglio avvicinarmi a mio figlio. Voglio che mi accetti come suo padre. Lo avevo già ritrovato, grazie agli echi della stampa, quando ha cominciato con la carriera di pugile… poi dopo la morte di un suo avversario è sparito di nuovo…” mormorò, bevendo un sorso di sakè con fare meditabondo “È bravo come pugile. Molto bravo. Mi riempie d’orgoglio, come il giorno della sua nascita… io lo cullavo, sa? Lo ninnavo finché non si addormentava: era un neonato molto irrequieto, faceva fatica ad addormentarsi…”

“Già… ecco l’origine della triste melodia che spesso Joe fischietta, quasi senza accorgersene…” rifletté Tange “Lei sa perché Kahori è scappata con il bambino?”

Nakamura abbassò lo sguardo, con molta tristezza. Tange provò quasi compassione per il pericoloso yakuza che ora appariva così abbattuto. “Kahori non sapeva della mia… professione, ecco. Le avevo mentito, spacciandomi per un agente commerciale. Temo che l’aver scoperto la mia appartenenza ad un’ikka debba averla sconvolta…”. Con mano tremante, Hiro trasse dalla tasca interna della giacca a doppiopetto un biglietto, ove erano vergate poche righe, porgendolo a Danpei. Quel biglietto era l’unica cosa che Kahori avesse lasciato all’okiya per lui, oltre ad una lunga lettera in cui chiedeva perdono a Fumiyo ed a Kaneko. Tange fece scorrere lo sguardo su quelle poche righe, mezze cancellate dalle lacrime (“Non permetterò che Kei-chan diventi un bugiardo ed un delinquente come te. E non ti perdonerò mai per avermi ingannata. Mai. K.”).

“Capisco.” Tange sospirò. “Solo che temo che sarà difficile per Joe accettare la situazione. Ha sofferto molto nella vita, anche se cerca di non darlo mai a vedere, tenendosi tutto dentro. Se posso permettermi di darLe un consiglio…” cominciò Tange, un po’ titubante.

“Mi dica pure. Il Suo parere è importante per me: Lei è l’unica figura paterna che il mio ragazzo abbia conosciuto sinora… di certo lo conosce meglio di me…” concluse, sorridendo amaramente.

“Cerchi di essere graduale, di non voler entrare nella sua vita tutto di un botto. Io prometto che Le darò una mano per farLa accettare da Joe. Ma La avviso: quel ragazzo ha il cuore d’oro, ma è testardo come un mulo ed odia le novità. Si è costruito tutto da solo il suo equilibrio e fatica ad accettare i cambiamenti, persino quelli belli.”

“Grazie. Lo apprezzo molto, davvero” sussurrò Hiro, con la voce rotta dall’emozione.

“Però guardi che io ne faccio un’altra, di promessa. Guai a Lei se dovesse farlo soffrire. Guai a Lei se dovesse abbandonarlo, dopo essersi conquistato la sua fiducia. Yakuza o no: io La farò a pezzi. Sono stato chiaro?” ruggì l’ex promessa dei pesi massimi. “La vede questa benda? Sa perché ho perso l’occhio e con esso la possibilità di diventare un campione?” chiese Tange, sfiorandosi la toppa sull’occhio sinistro. Al silenzio di Hiro, proseguì: “Fu a causa di uno di quelli come Lei. Un incontro truccato, organizzato da un sokaiya*******. Evidentemente, qualcosa andò storto… e così un gancio destro mi ha privato della vista dell’occhio, rendendomi guercio. Dopo poco, venni a sapere che il premio in palio all’incontro era farlocco e che il mio avversario aveva tenuto nascosto un sasso nel suo pugno che, chissà come mai, era sfuggito al controllo di routine! Questo per dire che quelli come Lei hanno un debito con me, Danpei Tange. Non lo dimentichi. E non dimentichi che non permetterò mai che si faccia del male al mio Joe.”

“D’accordo, Tange-san. Terrò bene a mente le Sue parole.” Nakamura si alzò, si inchinò rispettosamente a Tange e, senza dire più nulla, se ne andò.

Appena pochi minuti dopo tornarono sia Joe che Nishi: per tutto il resto della giornata trovarono Tange un po’ troppo silenzioso.
 
§§§§§§§

Qualche giorno dopo… nel tardo pomeriggio.

“Ehm… è permesso?”. Il grazioso visino di Noriko fece capolino nella palestra. Ad un saluto di Tange accompagnato da un sorriso, la fanciulla entrò, portando con sé una sporta di paglia che appoggiò con garbo sul tavolo, traendone fuori un paio di completi sportivi di differenti taglie, oltre che una vestaglia da ring in satin azzurro. Bella ragazza, pensò Danpei. E pure dolce e gentile… magari quel benedetto figliolo si fosse deciso una buona volta ad invitarla ad uscire, per fare pure lui la vita come tutti i giovani della sua età! Eppure Joe sembrava fare orecchie da mercante, al riguardo. Sempreché… sempreché non ci fosse di mezzo una certa signorina… dei quartieri alti, però… Il chiacchiericcio allegro di Noriko lo distolse dalle sue fantasticherie.

“Ecco qui, Tange-san, le due tute che ha ordinato al nostro emporio: ce le hanno consegnate oggi. E questa…” disse, dispiegando bene, per tutta la sua lunghezza, la bella vestaglia azzurra “questa invece è un mio regalo personale per Joe… ho ricamato il suo nome sulla schiena: spero che gli piaccia…”

“È bellissima, Nori grazie. Se non gli piacesse, sarebbe uno stupido. Grazie ancora, cara.” disse Tange, un po’ commosso, accarezzando il satin, chiamandola con il nomignolo affettuoso in uso nel quartiere.

“Non c’è di che. Ne sto ricamando un’altra, pure per Nishi, anch’essa azzurra. Non è stato facile trovarne una della sua taglia, per questo non è ancora pronta ed ho ritardato a ricamarla. L’ho spiegato oggi a Nishi, giù al negozio, per evitare che si offenda…”

Tange sorrise: era tipico di Noriko essere gentile e garbata con tutti e non trascurare mai nessuno nelle sue piccole attenzioni. Nonostante si sforzasse di trattare Joe e Nishi allo stesso modo, però, non vi erano dubbi sulla sua predilezione per il primo. Anche se, a voler chiamare le cose con il loro nome, non era solo predilezione quella che la ragazza provava per Joe… L’oggetto dei pensieri di Noriko fece infine il suo ingresso, accompagnato da Saki & Co.: dopo le ore di allenamento di routine, il ragazzo aveva finalmente accontentato i suoi piccoli amici, portandoli a giocare al pachinko******** in una sala giochi non troppo lontana dal quartiere. I bambini riempirono la palestra di risate e di scoppi di voci, mostrando a Danpei ed a Noriko i giocattoli vinti da Joe.

“Io ho la macchinina più bella!”

“Zitto, Kinoko! Io ho qui la volante della polizia! Ha pure la sirena!!!” urlò Chūkichi, eccitatissimo, facendo correre la sua rumorosa macchinina sul pavimento del ring.

“Ma cosa dite? Vogliamo parlare del mio guantone da baseball? Neppure Yoshio Yoshida********* ne ha uno così!!!” chiocciò Tonkichi, tirando su con il naso, essendo perennemente raffreddato.

“E finitela di fare tutto ‘sto casino! O zio Joe non ci porterà più in giro!” brontolò Taro, che, dall’alto dei suoi tredici anni, si atteggiava ormai a fratello maggiore, sgridando spesso i più piccoli.

Joe sorrise a Noriko, facendola arrossire, suo solito. Aveva passato un’oretta in allegria con quelle piccole pesti, rilassandosi in vista del match del giorno dopo, che si sarebbe tenuto contro Harajima. Un po’ di tempo in compagnia dei bambini gli aveva consentito di sgombrare la mente e di affrontare l’incontro più in serenità. Finalmente i cinque monelli uscirono fuori per giocare sul prato con i loro nuovi giocattoli, e gli adulti poterono tirare un attimo il fiato, oltre che dare sollievo ai loro poveri timpani.

“Ehi Joe, guarda un po’ qui, cosa ha fatto per te Noriko” annunciò Tange, sollevando un poco la vestaglia e mostrandogli la scritta sulla schiena “Ha ricamato lei stessa il tuo nome e quello della nostra palestra. Visto che bella?”. Joe accarezzò la stoffa, allargando la vestaglia per esaminarla meglio. Il ricamo era stato eseguito a regola d’arte, con caratteri occidentali molto eleganti.

Il ragazzo era senza parole. Deglutì, un po’ imbarazzato, riuscendo finalmente a dire qualcosa: “L’hai fatto per me? Non so che dire… grazie, Nori. È stupenda questa vestaglia.” La ripiegò con garbo, posandola sul tavolo. Noriko divenne di tutti i colori dell’arcobaleno, dato che Joe, un po’ sovrappensiero, non smetteva di fissarla.

Tange colse la palla al balzo: “Perché non la riaccompagni a casa? Si sta facendo tardi e questo non è un quartiere raccomandabile… già che ci sei vedi di stanare Nishi, che sta lavorando un po’ troppo ultimamente. Deve pure allenarsi, o prevedo dei pessimi risultati per i suoi prossimi incontri!” brontolò Tange, cominciando a preparare la cena.

“Mi spiace Tange-san… per Nishi, intendo. Mio padre gli sta facendo fare molti straordinari… ormai non riesce più a fare a meno di lui!” sorrise Noriko, felice all’aspettativa di essere riaccompagnata a casa da Joe e di poter stare da sola con lui per qualche minuto.

“Ok. Andiamo, Nori.”

Fuori dalla palestra, non v’era più traccia dei bambini: come un piccolo stormo di passerotti, essi si erano volatilizzati, tornando ciascuno di loro alle proprie case, essendo ormai quasi ora di cena. I due giovani poterono quindi incamminarsi in assoluta tranquillità. Per qualche minuto, camminarono fianco a fianco in perfetto silenzio. Poi, timidamente, Noriko infilò la sua mano, prendendo a braccetto Joe. Questi si voltò leggermente, guardando la ragazza, cosa che fece divenire questa di bragia per l’ennesima volta. Riprendendo a camminare a passo tranquillo, i due raggiunsero il parco giochi Tamahime Koen, a quell’ora completamente deserto.

“Joe…” mormorò Noriko, un po’ incerta.

“Hmm…?”

“Ecco… so già che ti sembrerò sfacciata… ma…” balbettò.

“Cosa c’è, Nori?” sussurrò Joe, con dolcezza, avvicinandosi a lei, cosa che le fece balzare il cuore in gola. “Dimmi: cosa c’è…”

“Io volevo chiederti s-se posso sperarci…” farfugliò la ragazza, ormai del colore dei papaveri, con voce quasi inudibile.

Joe batté le palpebre, un po’ perplesso. Tuttavia, era da qualche giorno che Joe si stava sforzando di pensare un po’ anche a Noriko, cercando di scacciare dalla mente il pensiero di Yoko. Doveva a tutti i costi smettere di fantasticare su una donna tanto inaccessibile per lui, così ricca e potente, e dedicare le sue attenzioni, piuttosto, ad una ragazza semplice e carina come Nori, abituata a vivere in un quartiere modesto. Una ragazza che circolava a piedi o al massimo in bicicletta, indossando un paio di jeans e senza nessun filo di perle.

Un dannato filo di perle che si intonava alla perfezione ad una certa carnagione, luminosa e candida come la neve…

Maledizione.

Più cercava di non vedere davanti a sé il bellissimo volto di Yoko, e più l’illusione continuava a prender vita…quasi sognando ad occhi aperti! Così, soprattutto per smettere di fantasticare, Joe, senza pensarci due volte, racchiuse tra le mani il viso di Noriko e si chinò a sfiorarle le labbra. A Noriko parve di librarsi in volo… chiuse gli occhi e gli si rannicchiò sul petto, per meglio gustare la sensazione meravigliosa del sapore delle labbra di Joe… non aveva mai osato immaginarsele così morbide e dolci… Il bacio però durò solo per pochi secondi: Nori dovette ridiscendere subito sulla terra, per il pesante tonfo che si udì, a poca distanza tra loro, cosa che li fece sussultare entrambi, facendoli staccare l’uno dall’altra, con fare imbarazzato.

“Scusate se vi ho interrotto.”

Con voce atona, Nishi tirò su la bicicletta, che gli era scivolata dalle mani, sconvolto alla vista del suo migliore amico che stava baciando la ragazza dei suoi sogni.

“Nishi… cosa… cosa ci fai qui?” riuscì ad articolare Noriko, non senza fatica.

“Nulla di che. Ho staccato dal lavoro ed ho tagliato per il parco per far prima. Non pensavo di incontrare nessuno… né volevo disturbare.” concluse, con malcelato sarcasmo.

“Stavo riaccompagnando Nori a casa. Tange ti sta aspettando per gli allenamenti. Io ritorno subito.”

“Oh, non ti preoccupare, Joe. Fai pure con comodo.”

Al che Nishi, stringendo le labbra per non piangere, inforcò la bici per sparire via da lì il prima possibile.

_______________________________________________

SPIGOLATURE DELL’AUTRICE:


Il personaggio di Hiro Nakamura è di mio esclusivo appannaggio: non esiste nella storia originale. Del resto, ho spiegato come avviso nel prologo che la fan fiction rispetta la storia originale, soprattutto per quanto concerne la carriera pugilistica di Joe (incontri e sfidanti), ma che contiene pure delle "novità" sulla vita personale di alcuni personaggi, Joe per primo. Infatti, io ho ideato per lui una serie di accadimenti sul piano privato (cfr. "what if?" negli avvisi), per meglio svilupparlo come persona oltre che come pugile.

*Yubitsume: ovvero l’amputazione delle dita. Gli appartenenti alle “famiglie” (chiamate ikka) della Yakuza si autoinfliggono l’amputazione delle dita (di solito partono dall’ultima falange del dito mignolo: ogni infrazione, un’amputazione… che allegria, eh!) quando devono farsi perdonare un ordine mal eseguito. In questo modo, saldano il loro “debito d’onore” con i boss e non vengono scacciati dai clan. Le origini di questa pratica, oggi interamente simbolica, risalgono all’epoca samurai: quando una katana, cioè la spada del samurai più lunga delle due che porta su di sé, è impugnata correttamente, il mignolo è il dito più forte, l’anulare è il secondo dito più forte, il medio il terzo dito più forte e l’indice non conta quasi nulla. Lo yubitsume comporta un indebolimento della mano e quindi della capacità di impugnare correttamente la spada, ponendo lo spadaccino come più debole e quindi dipendente dal suo padrone per la sua protezione.

**La Yakuza è piramidale e fortemente gerarchica. A capo dell’organizzazione troviamo il kumi-chō (“capo famiglia”). Sotto di lui vi sono: il saiko-komon, ovvero un consigliere anziano che gestisce un gruppo di avvocati, consulenti, commercialisti, segretari e contabili; il waka-gashira, che vigila sull’esecuzione degli ordini del kumi-chō; lo shatei-gashira, che coordina i diversi capi regionali. Ad ognuna di queste figure corrispondono svariati gruppi e sottogruppi di sottoposti, i kyodai (“figli”), suddivisi in dozzine di sottofamiglie.

***So che può sembrare strano, ma gli yakuza non si vergognano affatto ad esporsi: essendo praticamente intessuti nella società giapponese, sono soliti approcciarsi in modo molto educato e cortese, proprio come le persone “normali”… mostrando con orgoglio i loro biglietti da visita, con ivi esplicata la loro appartenenza alla “famiglia”!

****il nome Kei in giapponese vuol dire “benedetto”: mi è piaciuto e l’ho scelto per questa ff. È sia maschile che femminile.

*****Geiko è un sinonimo di geisha.

******Yabuki in giapponese vuol dire “piedi piccoli”: ho dedotto che in orfanotrofio glielo avessero attribuito per una caratteristica fisica di Joe bambino. Un po’ come accade nei nostri orfanotrofi, con cognomi augurali del tipo di “Diotallevi”.

******* Il termine sokaiya (“esperto di meeting”) indica una particolare categoria di ricattatori professionisti. Il loro modus operandi consiste nell’acquistare delle azioni di una società, in modo da poter presenziare alle assemblee con i soci azionisti. Nel frattempo, oltre che acquistare le azioni, i sokaiya si avvalgono di investigatori privati per raccogliere informazioni dannose sulla società: status finanziario, pratiche irregolari di gestione dell’azienda, scandali privati (...pure a luci rosse...), prove di evasione fiscale, mobbing in danno ai lavoratori, violazione di leggi sulla sicurezza e sull’inquinamento. Poi contattano l'imprenditore e lo minacciano di rivelare le informazioni acquisite. Questa forma di estorsione fa fruttare fior di quattrini alla Yakuza. Per camuffare i pagamenti ai sokiya, le imprese organizzano falsi eventi-specchietto, come feste di beneficienza, concorsi di bellezza, o tornei sportivi.

********Il pachinko è il gioco d’azzardo più popolare fra i giapponesi ed i rumorosi locali (assordanti, anzi!) in cui si pratica sono quasi sempre affollatissimi proprio perché è un gioco che in Giappone non passa mai di moda. Le macchinette del pachinko si presentano di aspetto simile al nostro flipper, posizionato più in verticale, ma con un funzionamento molto diverso. Per giocare si acquistano in cassa delle piccole palline metalliche: inserendole, si deve lanciarle attraverso una specie di leva a molla per mandarle in punti precisi: se viene colpito il punto giusto, si accumula il punteggio, ed il giocatore potrà vincere altre palline che avrà modo di rigiocare oppure di permutare in denaro, in giocattoli, in piccoli elettrodomestici ed in articoli da regalo

*********Yoshio Yoshida, nato a Kyoto nel 1933 e tuttora in vita, è stato, in assoluto, il campione di baseball più famoso ed amato in Giappone.

°°°°°°°°

Se vi interessa approfondire l’argomento sulla Yakuza, vi lascio questo interessante link, da me consultato e studiato ad hoc: clicca

Come già avvisato nei precedenti capitoli, le note bibliografiche saranno compiutamente indicate pedissequamente ai credits in un link apposito, alla fine della fan fiction.

°°°°°°°°


Sì, lo so: avevo promesso l’angolo del boxeur per questo capitolo… solo che questa storia si sta praticamente scrivendo per conto suo, vive di vita propria e fa quello che vuole! L’incontro di boxe lo leggerete al prossimo aggiornamento, sorry! E ritroverete la bella Yoko, promesso!

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo VII - Amarezza ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI
 
Yoko sospirò, finendo di riordinare alcuni documenti nel suo capiente bauletto di LV.

Alla fine era ritornata a Tokyo da sola, dato che Carlos aveva avuto delle improvvise questioni personali da risolvere in Venezuela, mentre Harry aveva preferito cominciare da subito una paziente opera di contrattazione con il Marquez Boxing Club, dato che puntava, per il suo Carlos, ad organizzargli un incontro nientemeno che con José Mendoza, il campione mondiale dei pesi medi. Ad ogni modo, il soggiorno dei due uomini in Giappone era stato solo rimandato di qualche settimana: il segretario di Yoko aveva già provveduto a prenotare per loro le due suites più lussuose e confortevoli del miglior ryokan di Tokyo.

Di lì a poco meno di due ore si sarebbe disputato il match di Joe contro Ryu Harajima, il secondo in classifica dei pesi medi giapponesi: dopo l’esito negativo dell’incontro con Tiger Ozaki, il Tange Boxing Club non aveva perso tempo a stipularne un altro, vista l’impazienza di Joe.

Joe.

Più volte Sakamoto le aveva riferito delle numerose telefonate del giovane: solo che lei non se l’era ancora sentita di parlare con lui, per cui gli si era negata. Sapeva di essere stata un po’ codarda, ma l’essersi dichiarata a Joe per poi sentirsi dire “no, grazie” da questi, l’aveva ferita profondamente, al cuore ed all’amor proprio. Tuttavia, Yoko non intendeva affatto abbandonarlo: non dopo che il ragazzo stava cercando faticosamente di risalire la china per la morte di Tooru. Yoko sapeva benissimo quanto Joe avesse sofferto e quanto si sentisse in colpa: se aveva deciso di tornare sul ring, era stato soprattutto per rendere onore all’amico scomparso. Negargli il suo appoggio morale, proprio ora che aveva subito una cocente sconfitta e che era nel mirino degli altri presidenti di club pugilistici, sarebbe stato un errore imperdonabile da parte sua, sparendo dalla sua vita.

Chiudendo gli occhi, Yoko ripensava a quei fugaci momenti di assoluta felicità vissuti tra le braccia del ragazzo, che l’aveva baciata con tenerezza e passione. Lacrime brucianti le affiorarono lungo le ciglia: imprecando tra sé e sé per quel momento di debolezza, la giovane si asciugò le palpebre, facendo attenzione a non rovinarsi il leggero trucco con cui amava valorizzare il taglio futae* che le rendeva gli occhi tanto belli ed ammirati, essendo particolarmente grandi ed espressivi. Indossato il cappotto, dato che ormai era novembre inoltrato, Yoko lasciò il suo ufficio, alla volta del palazzetto dello sport.

°°°°°°°

 Korakuen Hall, ore 20.40, negli spogliatoi degli atleti.

Joe era particolarmente su di giri. Finalmente sarebbe salito su quel dannato ring ed avrebbe fatto vedere a tutti quanti se per davvero lui era “bloccato” nel colpire alla testa. Per giorni e giorni aveva infierito su quel povero sacco colpendolo per ore all’altezza media di una fronte umana. Pure Nishi aveva rischiato di farsi male come suo sparring partner, nonostante il caschetto protettivo rinforzato ed i guantoni da sedici once* usati, invece, da Joe.

Nishi, già…

Joe si voltò a guardare di sottecchi il suo secondo, mentre, chino sulle ginocchia, finiva di allacciarsi gli stivaletti. Dal giorno prima Nishi se ne stava particolarmente silenzioso e come sulle sue. Non che fosse mai stato un gran chiacchierone, solo che non gli aveva mai negato, prima di allora, una parola gentile ed un sorriso di incoraggiamento, specie prima di un match.

“Non ti cincischiare Joe, devi finire di prepararti. Tra non molto ci chiameranno.”

“Sì vecchio, dammi un attimo solo. Nishi,” lo interpellò, avvicinandoglisi “mi permetti due parole?”

Il ragazzone, sospirando, annuì. Indossata la vestaglia da ring per non prendere freddo ai muscoli appena massaggiati da Danpei, Joe uscì dallo spogliatoio, accompagnato dall’amico, per raggiungere una saletta poco distante e più tranquilla.

“Che diavolo ti prende, amico? È da ieri che sei strano.”

“Non ho nulla.”

“Nishi… ti conosco come le mie tasche, per cui non raccontarmi balle. E guardami in faccia, accidenti!” brontolò Joe, picchiettandolo sulla spalla.

“Non farla soffrire.” sputò fuori l’altro, finalmente.

“…Cosa?”

“Hai sentito benissimo, Joe. Non fare il finto tonto con me. Sto parlando di Noriko, che ieri hai baciato sotto i miei occhi! Non farla soffrire, capito? Se ti sei deciso a metterti con lei… vedi di trattarla con i guanti, o dovrai vedertela con me!”

“Nishi… era questo, quindi?” chiese Joe, sinceramente stupito “ma guarda che ti sbagli, tra me e Noriko c’è solo amicizia, nulla di più…”

“Joe! Che cazzo dici? Tu l’hai baciata! Non si baciano le ‘amiche’, come dici tu! Adesso Noriko si starà illudendo su voi due!” urlò Nishi, dando uno spintone a Joe, che ruzzolò a terra. “Non si fanno queste cose, Joe! Non si fanno! Non ci si prende gioco dei sentimenti altrui, sei solo un insensibile, stronzo egoista! Noriko è una brava ragazza, merita rispetto!”

“Ehi ehi calma! Mica le ho messo l’anello al dito, le ho solo dato un bacio! Adesso non esagerare! Non è mica la fine del mondo… un bacetto innocente…”

“Joe…” con tono di voce già più pacato, Nishi porse la mano per aiutare Joe a rialzarsi “forse lo hai fatto così, senza pensare. Ma Noriko, vedi… lei da sempre ha un debole per te… baciandola le avrai fatto credere di corrispondere i suoi sentimenti. Perché lo hai fatto?” gli chiese, con tristezza.

Joe si sedette su un divanetto, grattandosi la testa con fare imbarazzato. “Mi sa che hai ragione tu: ho fatto una cazzata, senza pensare alle conseguenze. Noriko mi piace, davvero, e le voglio bene. Pensavo di cominciare a frequentarla per…” Joe si morse il labbro, prima di parlare troppo, cosa che comunque non sfuggì a Nishi “Solo che… se devo essere sincero…” Joe sospirò “non ne sono innamorato. Ho sbagliato. Mi scuserò con lei, ti do la mia parola, Nishi.” Si alzò quindi in piedi e dette una pacca amichevole all’amico “Poi pensaci tu a starle vicino, ok? Con te è in buone mani. Di certo sono migliori delle mie…” disse, con amarezza.

“Joe…”

“Anche tu ami qualcuno, Joe? Solo che hai una paura fottuta di soffrire: vero, amico mio?”

“Mi sa che Tange se ne starà sui carboni ardenti: tra poco inizia il mio incontro. Sarai il mio secondo, Nishi?” gli chiese, con un sorriso triste.

“Certo Joe. Come sempre.”

°°°°°°

Quando arrivarono al ring, si percepiva un’atmosfera parecchio elettrica e nervosa.

Il pubblico incitava i due pugili: però i fan di Joe, oltre a tifare per lui, pareva quasi che mettessero in dubbio le sue capacità.

“Ehi, Yabuki, stavolta ce lo farai vedere un bel k.o.?”

“Harajima lo sbatti giù, vero?”

“Joe, ho scommesso su di te, ragazzo! Non farmi incazzare!”

“Joe non fare il bluff!”


“Umpf, chi conta fan conta starnuti…” osservò Tange, sbuffando, mentre controllava i guantoni di Joe.

D’altronde, il mondo della boxe era pure questo: un pugile si vedeva presto abbandonato dal suo stesso pubblico, già solo con una sconfitta. La dura legge del ring… una legge che non perdona, che non fa sconti a nessuno. Oltre a saper incassare i pugni, un buon pugile deve pure saper inghiottire molti rospi amari anche fuori da quel benedetto quadrato. Soprattutto fuori, specialmente per la morbosa attenzione di certi giornalisti sportivi.

Joe però non sentiva e non vedeva nulla, a parte due grandi occhi neri che lo fissavano con espressione preoccupata. Finalmente era tornata: ora che la rivedeva dopo giorni e giorni si rendeva conto di quanto gli fosse mancata. Notò che Yoko era ancora più pallida del solito: il candore del suo viso spiccava nella platea, sotto le luci basse, dato che il neon era invece acceso alla massima potenza al di sopra del ring. Joe si ripromise tra sé e sé di andare a trovarla il prima possibile, magari stavolta a casa sua, in modo da poter parlare con lei in tutta calma. Lo desiderava con tutto se stesso.

Yoko, dal canto suo, si rese conto una volta di più che quel ragazzo ormai le era entrato sotto la pelle. Anche se aveva cercato di allontanarsi, di “staccare”, anche solo per poco tempo, per quanto potesse stargli lontana non avrebbe mai potuto smettere di pensare a lui. E le bastava rivederlo per sentire il cuore pompare più in fretta…

Non c’era niente da fare.

“Allora Joe, mi raccomando: non esitare a colpire alla testa. Fallo e basta, senza pensare. Più passano i minuti e più diventerebbe difficoltoso. Ci siamo?”

“Ma certo, vecchio, cosa credi? Non intendo fare il bis di Harajima con Tiger Ozaki.” brontolò Joe “Stai tranquillo: lo colpirò subito su quella sua brutta faccia! Te lo mando a nanna subito!”

“Non ho dubbi che farai del tuo meglio. Però se anche non dovessi riuscirci subito, anche se sarebbe meglio, tu non ti scoraggiare: riprovaci finché non ci riesci. D’accordo?”

“Ok.”

Scoccò il gong del primo round.

Joe non esitò a marcare stretto sin da subito il suo avversario, con una perfetta sequenza di jab e di diretti, abbastanza potenti da sfondare la difesa avversaria e da colpire alternativamente le spalle e la parte superiore del busto di Harajima. Joe evitava di proposito di colpire l’uomo allo stomaco, proprio per forzarsi a colpirlo al volto, che stava puntando ormai da alcuni secondi. Colpendolo a distanza ravvicinata, però, consentì ad Harajima di restituirgli colpo su colpo. Il pubblico poté assistere quindi ad uno scambio paritetico di pugni, quasi speculare: uno tu, uno io, uno tu, uno io… Joe, seccato, riuscì, alla fine, a sferrare alcuni ganci al viso di Harajima, dopo averlo sospinto fino alle corde: l’avversario, pur stupito, riuscì ad incassarli bene, essendo essi poco incisivi. Cosa che, purtroppo, sfuggì a Joe, avendo questi perso la precisa percezione dei pugni al volto: per lui contava solo il fatto di esser riuscito a sferrarli, ma senza averne inteso l’effettiva caratura.

In quel momento cessarono i tre minuti della prima ripresa. Baldanzoso, Joe se ne ritornò al suo angolo, interpellando i suoi: “Guardate quel poveretto! Dev’essere stata una brutta sorpresa per lui, visto che l’ho colpito in faccia, ehehehehehe!”

“Ridi, Joe? Fossi in te non lo farei. Guarda un po’ laggiù” bofonchiò Tange, aggrottando la fronte.

Joe si volse a guardare l’angolo avversario e quello che vide gli fece salire il sangue al cervello: Harajima confabulava, ridacchiando con Tiger Ozaki, che si era accostato al ring. I due uomini lo fissavano con espressione insolente.

“Che cavolo hanno da ridere, quei due?” sbottò.

“Lasciali perdere… non prendertela Joe” cercò di calmarlo Nishi, dispiaciuto per la scena assai poco edificante. Gli faceva male vedere umiliato il suo migliore amico… avrebbe preferito essere al suo posto, piuttosto. È brutto vedere offesa e colpita nel suo punto più debole una persona cui vuoi molto bene…

“Sai perché ridono, Joe? Vuoi saperlo?” gli diceva Tange, mentre gli controllava i guantoni e gli rinfrescava il viso e le spalle con un po’ d’acqua, per poi posargli uno strato di vaselina sullo zigomo e sul sopracciglio “Ridono perché i tuoi colpi in faccia facevano ridere, ecco perché! Erano dei fuochi d’artificio!”

“Mi paragoni ad un fuoco d’artificio?” urlò Joe, ora furibondo.

“Ehi non prendertela con me, ma con Harajima! Joe! Se non vuoi diventare lo zimbello del mondo del pugilato… reagisci! Colpiscilo al volto, ma con forza!” gli disse Tange, in tono accorato.

Allo scoccare del gong Joe si rialzò, sbuffando.

“Non ti pare di avere esagerato, umiliandolo così?” brontolò Nishi.

“No, Nishi. Io voglio che reagisca! La mia speranza è che ferendolo all’orgoglio possa finalmente superare questo difficile momento…” mormorò Danpei, mentre una grossa lacrima gli percorse la guancia.

Intanto, al centro del ring, a causa di una esitazione di Joe durata una frazione di secondo, successe che Harajima riuscì a colpirlo: prima con un diretto allo stomaco e poi con una sventola al viso**. Joe cadde riverso. Mentre l’arbitro iniziò la conta, Joe era più che altro incredulo. Com’era possibile?

Yoko sudò freddo nel vederlo al tappeto: ogni volta non era facile per lei assistere a certe scene…

“Non sono un fuoco d’artificio! Maledizione!”

Con uno scatto di addominali, Joe si rimise in piedi al quinto. Piombò su Harajima come una furia, cogliendolo di sorpresa: gli sferrò in viso un gancio potentissimo, mandandolo al tappeto. Prontamente, l’arbitro iniziò di nuovo il conteggio, stavolta per Harajima: solo che dovette interrompersi dato che Joe non era ritornato all’angolo opposto. “Yabuki allontanati o non posso proseguire con la conta! Allontanati, per favore… ma cosa ti prende?” osservò, notando il pallore cereo del ragazzo. Joe era come imbambolato. Fermo e rigido come un blocco di marmo, lo sguardo vacuo… alla fine, anche se barcollando, poté voltarsi, facendo qualche passo… per poi cadere in ginocchio. Seppur con i guantoni, Joe cercò di ripararsi la bocca, da cui uscì un potente fiotto di vomito.

“Joeeeeeeeeeee!!” urlò Danpei, angosciato.

L’incontro venne interrotto, per impedimento fisico di Yabuki. Il medico di gara lo visitò sommariamente, disponendo l’immediato ricovero in ospedale. Yoko era angosciata: quel povero ragazzo era riuscito a forzare se stesso, sì, per superare il blocco psicologico legato alla morte di Tooru… ma a quale prezzo?

“È così che ti prendi cura di mio figlio?”

Questo Tange si sentì sibilare alle spalle, mentre era chino su Joe in barella, con Nishi corso a chiamare un’ambulanza.

Si voltò di scatto, ma non vide nessuno.

______________________________________________

*Gli occhi giapponesi si distinguono in hitoe e futae. La differenza sta tutta nella “pieghetta” della palpebra: senza pieghetta è hitoe, con pieghetta è futae. Quando un orientale è hitoe, nella maggior parte di casi l'occhio diventa sottile ed allungato: nell'antichità l'occhio piccolo e sottile era sinonimo di grande bellezza, ma nell’era moderna il gusto estetico sta nell'occhio grande ed “aperto”, dal taglio più rotondeggiante. Tanto per intenderci, a sinistra avete occhi hitoe, a destra occhi futae:

hitoe-e-futae
************

L’angolo del boxeur   :

*Due parole sui guantoni da boxe. Essi non sono tutti uguali e si distinguono per il loro peso e per il tipo di imbottitura. Innanzitutto, il peso dei guantoni si misura in once (OZ): un’oncia equivale a 28,35 grammi circa. A seconda del loro utilizzo si distinguono in:

Guantoni da sparring partner: sono i più pesanti di tutti, sulle 14-16 OZ. Hanno la chiusura in velcro o con lacci regolabili.

Guantoni da sacco: sono i più leggeri ed il loro peso è commisurato al peso del pugile. Le donne usano di solito guantoni sulle 10 OZ, i maschi sulle 8 OZ.

Guantoni da boxe dilettantistica: il loro peso è di 10-12 OZ (la taglia cambia a seconda della categoria di peso: di solito son da 10 OZ per atleti con peso fino ai 68 kg e da 12 OZ per atleti con peso dai 68 kg in su). Sono caratterizzati dalla presenza di una parte in colore rosso o blu (a seconda dell'angolo assegnato) e della parte anteriore (detta target) bianca dotata di sistema antishock, ovvero una particolare imbottitura interna al guanto che consente di assorbire parte dell'urto del colpo. Il guanto quindi protegge non solo la mano di chi sferra il colpo, ma anche il corpo di chi il colpo lo riceve (con l'adozione del guanto dotato di antishock la percentuale degli incontri dilettantistici conclusi con un ko è scesa intorno all'1-2%). Hanno obbligatoriamente la chiusura in velcro. Portano il bollino dell'AIBA (Amateur International Boxing Association) o della federazione nazionale di riferimento.

Guantoni da combattimento professionale: il loro peso è di 8-10 OZ. Sono caratterizzati dalla tipica allacciatura tradizionale con lacci regolabili, che vengono coperti poi con del nastro adesivo. Dalla categoria di peso dei mini mosca ai welter il peso è di 8 OZ; dai pesi medi (come Joe) ai supermassimi il peso dei guantoni è di 10 OZ. Non hanno né antishock target. Per i titoli i guanti debbono essere identici (il campione e lo sfidante usano lo stesso tipo di guanto) e nuovi, in tutto 4 paia, due paia per il match e due paia di riserva.

** La sventola è un pugno che va a braccio teso dall’esterno all’interno: non è molto semplice da eseguire.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo VIII - Lo sguardo di un uomo ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI
 
“Dunque…”

L’anziano, severo medico inforcò meglio gli occhiali sul naso, per leggere il referto agli astanti. “Dal punto di vista neurologico direi che è tutto a posto. Non ci sono traumi cranici, neppure di lieve entità. Gli esami del sangue vanno bene. L’ecografia all’addome non ha rilevato nulla. Credo che il malessere del pugile Yabuki sia riconducibile ad una causa psicologica e non organica, per una condizione di forte stress emotivo. Ad ogni modo, consiglio, anzi: prescrivo riposo assoluto e tranquillità per almeno un paio di settimane. Poi vorrei rivederlo tra quindici giorni per un controllo.”

“Grazie dottore. Ora mi sento più tranquillo. Lo metterò a riposo, non si preoccupi!” disse Danpei inchinandosi insieme a Nishi. I due uomini potevano ora sentirsi rasserenati.

Nell’udir ciò, Yoko pure tirò un sospiro di sollievo, anche se si trattava semplicemente di una conferma dei suoi sospetti. Pure lei era andata in ospedale e, discretamente, si era messa seduta un po’ in disparte, per non mettere a disagio Joe ed i suoi. Ma non aveva resistito al desiderio di stargli vicino, pur in qualche modo. Se ne rimase, quindi, in perfetto silenzio, senza fare domande al medico, il quale, dopo aver prescritto delle medicine a Tange, salutò e si congedò.

“Anche Lei qui, signorina… mi scusi ma mi accorgo solo ora della Sua presenza. È stato molto gentile, da parte sua, l’essere venuta qui in ospedale per Joe.” Tange era molto colpito dalla presenza di Yoko Shiraki nella sala d’aspetto del pronto soccorso, in attesa che Joe si rivestisse dopo tutti gli esami clinici fatti.

“Di nulla, Tange-san, si immagini.” replicò lei, semplicemente, in tono gentile.

In quel mentre, apparve Joe, il quale consegnò all’infermiera il foglio di dimissione firmato. Era un po’ pallido ma, tutto sommato, pareva che stesse abbastanza bene. Sussultò lievemente, non appena si accorse della presenza di Yoko. Joe si ancorò agli occhi di lei: provava dei sentimenti molto contrastanti che gli si agitavano nell’animo. Era commosso sin nel profondo ad averla lì, vicino a lui. Ma al tempo stesso ne provava quasi dispetto, non amando farsi vedere dagli altri, e da lei specialmente, in un momento critico. Yoko ricambiò il suo sguardo. Occhi di velluto nero, grevi di dolcezza. Poi però li chinò sulle mani che teneva incrociate in grembo, quasi con timidezza. Nessuno dei due disse nulla. A suo solito, Joe mascherò il suo reale stato d’animo, e lo fece nel modo peggiore. “Io ho finito qui, direi che possiamo andare.” enunciò asciutto, dando quasi le spalle alla donna.

“Ma… Joe…” Nishi era fortemente imbarazzato per l’atteggiamento a dir poco maleducato di Joe nei confronti di Yoko, che era venuta fin lì per lui senza neppure ricevere un saluto.

“È ora che vada pure io. Arrivederci.” Con grazia, Yoko si levò in piedi, si inchinò lievemente ai tre uomini e, inforcata la borsetta, si allontanò a passo elastico, oltrepassando la porta a vetri.

“Si può sapere perché devi essere sempre così scostante e cafone con lei? Che maniere sono queste? Sei un uomo e devi essere gentile con le donne, razza di maleducato!” sbottò Tange.

“Non mi va di parlarne, ora. Per favore, andiamo a casa. Sono stanco…” brontolò Joe, in tono secco.

°°°°°°°

Erano tutti lì. Quasi un intero quartiere, in ansia per le condizioni fisiche di Joe, visto in TV vomitare sul ring, si era riversato sotto il Ponte delle Lacrime, per dare il bentornato al suo eroe. I monelli capeggiati da Taro, soprattutto, erano visibilmente in ansia, con i visetti compunti e carichi di apprensione. “Joe… stai bene, vero?” piagnucolò Saki, andando incontro a Joe, non appena lo vide arrivare, sceso da un taxi insieme a Danpei ed a Nishi. Joe si limitò ad arruffarle i capelli affettuosamente, senza dire nulla, sorridendole. Dopo un lieve cenno di saluto alla piccola folla riunitasi in prossimità della palestra, oltrepassò subito la soglia, per andare a buttarsi sul futon, tutto vestito com’era. Era distrutto. Una grande stanchezza lo attanagliava, rendendogli le membra pesanti come macigni. Ma, soprattutto, si sentiva stanco nello spirito.

Aveva fallito. Di nuovo.

C’era proprio di che essere fieri dell’esito del suo ultimo incontro… Harajima si era fatto beffe di lui, insieme a Tiger. Il volto squadrato dai lineamenti grossolani del suo avversario, con un’antipatica espressione strafottente, si avvicendava, nella sua mente, unitamente ad un volto candido come la neve dalla bellezza perfetta. Per poi vedere, infine, due profondi occhi neri da uomo che lo fissavano con aria severa. Era stanco di deludere se stesso e Danpei.

Ma, soprattutto, Joe era stanco di deludere Yoko e Tooru…

°°°°°°°

“Perché continuate a farlo combattere? Ditemi perché!” eruppe Noriko, scoppiando in singhiozzi. “Io non ce la faccio più a vederlo così… mi dite cosa ci sarebbe di bello in uno sport come questo? Che rende gli uomini simili a cani o galli da combattimento?” La fanciulla era accorsa pure lei, insieme agli altri, per sincerarsi sulle condizioni di salute di Joe. Vederselo arrivare così pallido, con profonde occhiaie, dall’aspetto stanco ed emaciato le aveva fatto male. Molto male.

“Piccola Noriko…” provò Nishi a confortarla “non fare così…”

“Voglio stargli vicino: stanotte resto qui,” propose Noriko con aria decisa, asciugandosi gli occhi ed entrando nella palestra. Joe l’aveva baciata, no? Ormai lei si considerava la sua ragazza a tutti gli effetti. La notte precedente non aveva chiuso occhio e si era immaginata tutta una serie di situazioni romantiche, in cui Joe la prendeva teneramente per mano… Le ore scorse erano state così belle, così dolci per lei: aveva toccato il cielo con un dito! Si era sentita la ragazza più felice del mondo, la più fortunata. Ed ora che Joe non stava bene voleva stargli accanto, prendersi cura di lui come ogni brava fidanzata - e chissà… magari un giorno pure… come moglie? del resto, era questo che ci si aspettava da ogni brava ragazza giapponese: che mettesse su famiglia il prima possibile - dovrebbe fare.

“Ehm Noriko non è una buona idea… Joe ha solo bisogno di riposare, cara. La cosa migliore è che pure tu vada a casa: se vuoi, domani potrai vederlo. E poi, non sta bene che tu passi la notte qui, con noi… pensa alle chiacchiere…” disse Tange, un po’ in imbarazzo. Accidenti alle ragazze moderne ed alla loro intraprendenza! Ai suoi tempi non era mica così!

“Nori…” provò a dire pure Nishi per dissuadere la ragazza.

“Noriko, per favore, posso parlarti un momento?”. In quel mentre, Joe era silenziosamente ridisceso dal sottotetto. Aveva sentito la breve conversazione giù da basso e non intendeva indugiare oltre: se una cosa andava fatta, meglio non perdere tempo, senza tentennamenti inutili.

“Joe, cosa fai in piedi? Il medico ti ha ordinato riposo assoluto!” sbraitò Tange “Torna subito a letto e restaci!”

“No. Prima devo parlare con Noriko. Vieni.” disse Joe, prendendo la ragazza per il polso.

La fanciulla, ad un metro da terra, si lasciò condurre docilmente. In silenzio, risalirono su fino al ponte e lo percorsero per qualche metro.

“Ehm… Joe, Tange-san ha ragione, non dovresti stancarti ancora…”.

Joe si fermò di botto e si voltò a guardarla. Una ragazza dolce e graziosa. Ma lei non era per lui e lui non era per lei: ora più che mai ne era certo. Ed una volta di più si maledisse per averla baciata, illudendola.

“Nori, ti accompagno a casa, anche perché ho bisogno di parlarti.”

“Oh sì, Joe, pure io vorrei parlarti. Ci sono delle cose che vorrei tanto dirti…”

“Uhm?” Joe era visibilmente perplesso e pure un po’ incuriosito.

“Ecco… volevo sapere… perché la boxe è tanto importante, per te? Di solito i ragazzi della tua età vivono in modo diverso… escono con gli amici, con la fidanzata… bevono e mangiano senza fare il conteggio delle calorie… insomma: sono più spensierati di te. Perché per te non dev’essere così?”

“Beh… io non sono spensierato forse perché non ho avuto una vita facile, Nori. Non ho avuto una famiglia che si occupasse di me. La strada da seguire me la sono cercata da solo. Ora come ora so di voler fare il pugile: amo la lotta e la competizione.”

“Ma tu sei buono d'animo, non sei un violento… infatti non vuoi fare del male ai tuoi avversari… non sei un bruto, Joe.”

“Nori… la boxe non è solo questo. È sudore e lacrime. È trovarsi di fronte il tuo avversario come se trovassi te stesso. È affrontare le tue paure, ogni volta che scocca il gong. E poi…”

“…E poi?”

“E poi io non voglio fare come tanti che se ne restano a bruciare senza fiamma di una combustione incompleta. Anche se solo per un secondo... voglio bruciare con una fiamma rossa e accecante! E poi… quello che resta è solo cenere bianchissima... nessun residuo... solo cenere bianca.”*

Joe si fissò le mani, sollevandole leggermente. Il suo tono di voce era profondo e calmo, ricco di risonanze, come lo sciabordio delle onde sul bagnasciuga.

“Joe…”

“È così che voglio vivere, Noriko. Non mi interessa condurre una vita come gli altri ragazzi. Scusami,” al che Joe le sorrise, un po’ tristemente “so di dire cose per te senza senso. E scusami pure per ieri, Noriko.”

“Che cosa intendi dire… Joe? Ti riferisci a noi due…” Noriko impallidì vistosamente. Alla luce dei lampioni apparve di un colorito cereo.

“Sì, Nori. Proprio a quello… mi dispiace. Non avrei dovuto baciarti: sei tanto cara, ma non provo altro che amicizia per te. Io…”

Il rumore sordo di uno schiaffo rimbombò in quella stradina solitaria, di solito molto silenziosa.

“Come hai potuto? Come hai potuto prendermi in giro?” Lacrime copiose bagnarono le gote delicate della ragazza.

“Mi dispiace… perdonami se puoi.” mormorò Joe, a capo chino. Non venne però udito da Noriko che si voltò per correre via. Joe la rincorse e la raggiunse subito, afferrandola per un braccio saldamente, pur facendo attenzione a non farle male: “Non fare così, Nori! Calmati!”

“Lasciami! Lasciami stare!” urlava Noriko, ormai isterica.

“No, che non ti lascio stare! Non ti faccio andare a casa da sola, a quest’ora!”

“Joe… ci penso io a lei. Tu vai da Danpei. Hai fatto abbastanza per oggi.” L’imponente figura di Nishi si stagliò, a qualche passo di distanza dalla giovane coppia.

In lacrime, Noriko corse da Nishi, per piangergli sulla spalla. “Ti prego Nishi… portami a casa… subito!”

“Va bene, piccola.” mormorò il gigante buono, in tono dolcissimo, abbracciandola teneramente, per poi indurla a camminare. Noriko si teneva il viso coperto con una mano, in modo da nascondere le sue lacrime.

Non vide così il sorriso amaro di Joe.
 
§§§§§

Qualche giorno dopo, all'aeroporto di Narita...

Hola! Hola Giappone!”

Allegramente, Carlos discese a due a due i gradini della scaletta dell’aereo. Si sentiva galvanizzato ed entusiasta. Amava molto viaggiare e scoprire posti nuovi e grazie alla tranquillità economica derivatagli dagli incontri di boxe, il Re senza corona poteva ora conoscere il mondo. Fece così il suo ingresso nel Paese del Sol Levante. Lo attendevano Yoko, il suo segretario e, naturalmente, Harry Robert, che era arrivato qualche giorno prima, anche per parlare con Yoko di affari.

“Ben arrivato. Spero che ti troverai bene qui con noi.” La giovane gli si inchinò con fare compunto, pur sorridendo dolcemente.

Carlos, ovviamente, non esitò ad abbracciarla, cosa che fece divenire Yoko di tutti i colori dell’arcobaleno: non si sarebbe mai abituata all’espansività del venezuelano!

Señorita Yoko, Lei è sempre più bella ogni volta che La vedo: i miei occhi ed il mio cuore ringraziano!” le sussurrò, facendole il baciamano e scoccandole un’occhiata seducente. I suoi occhi verdi erano a dir poco magnetici e, se rivolti ad una donna, sapevano illuminarsi di una luce speciale. Poi sorrise e si rivolse ad Harry, che salutò con una pacca sulla spalla.

“Ehmm, Carlos, che ne dici di ritirare il tuo bagaglio? Così possiamo portarti al ryokan, dove potrai rinfrescarti e riposarti un po’. Stasera abbiamo una cena di lavoro: oltre a Miss Shiraki ci incontreremo con il direttore della principale rete televisiva giapponese… dobbiamo discutere di affari… ehi Carlos, mi senti quando ti parlo?”

Carlos, ancora più ovviamente, si era messo a fare il galletto con un paio di graziose hostess che passavano giusto di lì: con la scusa di chiedere loro dove potesse ritirare le sue valigie, non lesinava complimenti e carinerie.

“È inutile: non appena vede una bella ragazza, Carlos si sente in dovere di fare il cretino. Lo scusi, miss… sono costernato…”

“Non importa: è fatto così. Diciamo che è… pieno di vita” sorrise Yoko, lievemente divertita: a quanto pare la sindrome del cicisbeo scattava in Carlos in modalità automatica, non appena gli appariva davanti una donna carina!

Lui ci sarà? Alla cena, intendo.” eruppe Carlos, lasciando interdetti gli astanti. Nel chiederlo, si mise a tracolla un grosso borsone.

“Lui… chi?” chiese Harry.

“Mr. Yabuki, ovvio. In fondo, è soprattutto per lui che io sono arrivato qui in Giappone. Giusto?”. Gli occhi verdi dell’uomo trapassarono Yoko.

“No. Lui non ci sarà alla cena. Ma tra tre giorni andremo a vederlo nel suo prossimo incontro contro il terzo in classifica giapponese della categoria dei medi: Koji Nango.” concluse Yoko, asciutta. “Così, finalmente potrai conoscerlo.” Carlos annuì, con fare soddisfatto.

“Prego, da questa parte…” invitò Sakamoto, che, con fare gentile, condusse il terzetto alla limousine.
 
§§§§§§

Tre giorni dopo al Korakuen Hall, ore 21.00.

“Signore e signori buona sera! Prima dell’incontro della serata, vi presento un ospite di eccezione: ecco a voi l’aspirante al titolo mondiale, con trentaquattro vittorie all’attivo e nessuna sconfitta, soprannominato ‘Re senza corona’… Carlos Rivera!!” annunciò lo speaker, con voce tonante. Con un balzo felino, Carlos, elegantemente vestito, oltrepassò le corde, quasi piroettando sino al centro del ring. Si muoveva con una fluidità straordinaria sulle lunghe gambe, quasi come se danzasse.

“Buona sera, buona sera a todos!! Sono felice di essere qui, nel Vostro bel Paese!" 

“E noi siamo felici di averti qui. Che ne dici di augurare buona fortuna ai nostri sfidanti?”

“Certo, mi fa piacere!” Carlos, con passo deciso si avvicinò all’angolo di Joe. “Buena suerte.” Carlos considerò, quasi soppesò con il suo acuto sguardo il ragazzo bruno seduto sullo sgabello. Gli occhi di fuoco del giovane pugile lo avevano convinto sin dal primo istante. Gli porse la mano, per stringergliela. Joe lo trafisse con uno sguardo cupo, senza dire o fare nulla. In quel momento parve che il mondo si fermasse.

“Guarda che ti sbagli. Devi augurare prima al pugile più in alto in classifica e per farlo devi andare di là.” gli spiegò Tange, in tono asciutto.

“Oh davvero? Strano. Di solito mi basta un’occhiata per capire chi è il pugile più forte… è la prima volta che mi capita di sbagliare… Sorry.” Al che si diresse subito all’altro angolo, con un sorrisetto di circostanza, “Buena suerte, ti auguro un buon incontro.” Nango gli strinse la mano di malavoglia, seccatissimo per la gaffe in suo danno fatta dallo sbruffone gaijin**.

Scoccò quindi il gong della prima ripresa e fu un autentico strazio. Joe incassò, complice una difesa assai mediocre, numerosi ganci e diretti di Nango, sia al corpo che al viso. Nessun gioco di gambe. Nessuna schivata. Neppure un misero clinch***, anche solo come elemento di disturbo. Nulla di nulla. Ai margini del ring, Tange si teneva la testa tra le mani, sconsolato. Cosa accidenti era preso al suo ragazzo? Non reagiva in nessun modo, pareva un fantoccio nelle grinfie di Nango! Yoko si sentiva fortemente in imbarazzo. Aveva fatto venire appositamente sia Carlos che Harry dall’estero per far loro conoscere Joe… per poi presentare loro uno spettacolo a dir poco penoso. A questo, si aggiungeva pure il suo dispiacere sul piano personale. Sia la donna d’affari che la donna innamorata non riuscivano ad accettare la caduta di Joe. Forse lui aveva affrettato troppo i tempi? Forse avrebbe dovuto aspettare ancora un po’ di tempo, dopo la sconfitta contro Harajima, per ritornare sul ring? Chi lo sa. Di certo, i demoni interiori non lasciavano requie al suo Joe. Tanto meno gli dava pace il ricordo di Tooru. Abbassò, costernata, gli occhi sulle sue mani, congiunte in grembo sopra la borsetta.

“A quanto pare mi sono proprio sbagliato… strano però. Quello non ce l’ha lo sguardo del perdente.” chiosò Carlos, osservando con attenzione lo svolgersi dell’incontro.

Con un poderoso gancio allo stomaco, Joe cadde riverso. Si riposò sino al settimo, per rimettersi in piedi all’ottavo. Sul mentre ebbe la fortuna che scoccò la fine della prima ripresa. Barcollando, si diresse al suo angolo. Tange e Nishi si occuparono subito di lui, facendogli sciacquare la bocca, rinfrescandolo ed applicando la vaselina sul suo viso tumefatto e gonfio per i colpi ricevuti.

“Joe, che cazzo stai facendo? Perché che non rispondi ai suoi colpi? Almeno colpiscilo al corpo, quello lo sai fare, no? Anche se perdi questo incontro, almeno per una volta reagisci… mi si spezza il cuore vederti così…” Nishi si mordeva le labbra a sangue, per impedirsi di parlare. Quello non era il suo indomabile amico, l’attaccabrighe del riformatorio… pareva ora un micetto indifeso!

“Ehehe sono bravo come attore…” replicò Joe, seppur a fatica, avendo i muscoli facciali contratti per il gonfiore “l’ho fatto apposta, vecchio… ricordati del riformatorio: Tooru abbassò la guardia e così gli sferrai un colpo di incontro con un gancio! Ho conservato per Nango il più bel pugno della serata! Stai a vedere!”

Allo scoccare della seconda ripresa, Joe parve posseduto da una forza estranea, dato che fino a pochi minuti prima si era mosso solo barcollando. Si avvicinò a Nango quasi provocandolo per farsi colpire. “Allora, brutta scimmia? Scommetto che incassi male, visto il tuo naso a frittata!” Nango si infuriò e, dopo una sequenza di jab fece partire il gancio destro. Joe, in perfetta sincronia, sferrò il suo, di gancio: il braccio scivolò su quello avversario usandolo alla stregua di una leva ed il suo pugno si impattò sulla gota di Nango con una forza maggiorata. Questi scivolò a terra, gemendo flebilmente. Joe si allontanò di qualche passo, sorridendo, tra un conato di vomito e l’altro.

________________________________

Spigolature dell’Autrice:


*Potevo mai lasciarmi sfuggire l’occasione di far dire al mio Joe la sua frase più bella e significativa? Direi proprio di no…

**È il termine meno carino con cui i Giapponesi ci apostrofano come “stranieri”: risuona più o meno come “estranei al Paese”.

************

L’angolo del boxeur :

***Clinch: si ha quando uno dei due pugili trattiene l'altro, o ambedue si trattengono, quasi come "abbracciandosi" (nulla di romantico, eh...). Se la "tenuta" è momentanea, si possono avere colpi in "entrata" o "uscita" dal clinch. Se invece si protrae, l'arbitro deve ordinare il "separatevi" (ingl.: break away), dato che è una scorrettezza. Se un pugile colpisce mentre tiene l'avversario, è passibile di squalifica, e lo è, anche se non colpisce, qualora le "tenute" diventino un'abitudine o una malizia.

Un piccolo ripasso… Joe è essenzialmente un “colpitore d'incontro” (“Counter puncher”): ovvero, egli è un pugile che usa come ultima difesa i movimenti della testa ed i blocchi costanti per contrastare l'avversario. Quando l'avversario tenta di colpire, un pugile d'incontro come il nostro Joe usa la propria difesa per schivare il colpo e per restituirlo contestualmente. Il pugno d'incontro ha una potenza spesso devastante, perché la potenza del pugno va a sommarsi alla forza contraria del movimento di sbilanciamento in avanti del pugile che è stato schivato: infatti, è il principio fisico della leva!. I pugili d'incontro combattono soprattutto a distanza ravvicinata, ma alcuni di essi rimangono invece alla stessa distanza di uno stilista. Per essere efficaci, gli incontristi usano i movimenti del capo, i riflessi, la velocità, l'allungo e devono essere buoni incassatori, dato che per poter portare a fine un colpo di incontro efficace occorre attendere il momento giusto, anche dopo parecchi pugni avversari: se non si è buoni incassatori, non si può usare questa tecnica di lotta. Tra i pugili d'incontro possono essere citati, tra quelli più famosi, Muhammad Ali, Pernell Whitaker e Mike Tyson.

°°°°°°°

Sì, lo so: Joe ci sta facendo soffrire. Fa male vederlo così. Ma chi cade, poi si rialza… consideratela una promessa! Occhi così vi dicono di chi io stia parlando! Mica frottole!



joe-occhi

(This image is from a google search, no copyright infringement intended)

Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo IX - Shikata Nai? ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Magione Shiraki, in un tardo pomeriggio…

“Mi raccomando: esigo un reportage dettagliato. Chi sia, cosa faccia, quanto si vede con Yoko. Soprattutto, pretendo che si faccia tutto con discrezione assoluta: mia nipote non deve sospettare nulla di nulla. Sono stata chiara?”

“Certamente, Shiraki-sama. Incaricherò immediatamente uno dei miei uomini.” disse l’uomo, inchinandosi profondamente.

Hatsuyo Shiraki non era donna da restare con molti interrogativi e zero risposte: l’ultima volta che l’aveva vista in quel loro terribile litigio, Yoko le aveva fatto cenno ad un suo misterioso innamorato, respingendo sdegnosamente tutte le sue proposte per un decoroso matrimonio combinato. Con un colpo di spugna, quella ragazza irrispettosa intendeva spazzar via secoli e secoli di inossidabile tradizione nipponica, per correre dietro a chissà chi. Per questo motivo aveva conferito incarico ad un investigatore privato di scoprire l’identità dell’uomo di cui Yoko si era confessata come “perdutamente innamorata”. Poi avrebbe preso gli opportuni provvedimenti, anche se Shiraki-sama era profondamente convinta che con l’uomo in questione sarebbe stato sufficiente emettere un bell’assegno sostanzioso, per chiedergli, in cambio, di stare alla larga per sempre dalla sua indisciplinata bambina.

In fondo, tutti abbiamo un prezzo, a questo mondo… o no?

Basta solo sapere di quale ammontare.

*****

Si spengono le luci al Korakuen Hall, una sera di qualche giorno dopo… le corde del ring vengono allentate, per facilitare le operazioni di pulizia e di ripristino.

Quella sera Mammouth Nishi aveva disputato il suo incontro. L’ultimo. Aveva vinto, mettendo al tappeto il suo sfidante, già al secondo round, con un magnifico sinistro. Non aveva potuto permettersi il lusso di proseguire nell’incontro, perché il suo braccio destro gli si era fratturato già al 30’ della seconda ripresa: trattenendo a fatica le urla di dolore, il buon Nishi aveva chiuso il match di gancio sinistro, per poi quasi svenire, una volta disceso dal ring. Tange lo aveva subito portato al pronto soccorso, ove i medici gli avevano ingessato il braccio, imbottendolo di antidolorifici…

Oltre a sentenziargli che non avrebbe mai più potuto boxare.

Tutto questo mentre il suo migliore amico aveva pensato bene di perdere del tempo prezioso al Nakajima Boxing Club… la palestra di Tiger Ozaki. Joe, in attesa di andare ad assistere Nishi come secondo al Korakuen Hall dopo tutta la noiosa e lunga trafila di routine del controllo del peso e delle mani, aveva semplicemente “perso la cognizione del tempo”, scatenando, nel frattempo, una rissa con tutti i pugili della palestra del suo vecchio avversario. Malconcio e dolorante, era ritornato a casa quasi a notte fonda. Nishi e Danpei, ambedue seduti al tavolo con aspetto meditabondo, non dissero nulla, quando lo videro arrivare in quelle condizioni.

Cosa c’era da dire?

“Siete tornati… già, sono io che ho fatto tardi… Scusami Nishi: ho perso la cognizione del tempo e non ti ho più fatto da secondo, alla fine. Mi dispiace tanto, amico mio: ma non capiterà più, promesso. Allora, dimmi: com’è andata? Hai vinto, vero?”

“Sì Joe, ho vinto… alla seconda ripresa, per k.o.” mormorò Nishi, con aria triste.

“Fantastico! Ma allora dobbiamo festeggiare! Perché quelle facce lugubri?”

In quel mentre Nishi sollevò un po’ il braccio ingessato, che Joe non aveva visto, dato che lo aveva tenuto posato in grembo sotto al piano del tavolo.

“Ma cosa ti è successo? Perché hai il braccio ingessato?” chiese Joe, allarmandosi e sedendosi vicino a Nishi, per posare lievemente la mano sull’ingessatura. “Parlate, avanti!”

“Joe, quello di stasera è stato l’ultimo incontro di Nishi. Il medico ha detto che il braccio destro gli si è fratturato in più punti e che il capitolo boxe per lui è chiuso. Definitivamente.” enunciò Tange, in tono tetro.

“Ma non è possibile! Amico mio,” Joe posò le mani sulle poderose spalle di Nishi “non dobbiamo arrenderci: troveremo un chirurgo capace di rimetterti il braccio in sesto… vedrai! non puoi abbandonare la boxe! Non puoi! Cosa ti resterebbe?”

“Piantala, Joe! Piantala, idiota! Pure tu ti devi ritirare, non solo Mammouth!” urlò Danpei, esasperato e con le lacrime a fior di ciglia “Io domani chiudo la palestra e voi andrete di filato da Hayashi a fare i commessi a tempo pieno… tutti e due e senza storie! Ho già parlato con Hayashi ed ha accettato di buon grado di prendervi, perché vuole ingrandire il suo negozio… è finita, ragazzi miei. Dovete accettare la realtà: il nostro sogno non potrà più realizzarsi… è andata così. Shikata nai*”

“Shikata nai un corno! Finché la mia licenza da pugile sarà valida io non lascerò il ring! Ficcatelo bene in testa, vecchio!” sbraitò Joe, esasperato.

“Joe… ragazzo mio, cerca di ragionare: un pugile che vomita quando colpisce in faccia il suo avversario non è più un pugile…”

“Io ho tante energie e finché mi sarà di sostegno il ricordo di Tooru, io non smetterò di boxare. Mai.” replicò Joe, terreo. Si alzò in piedi dalla panca, un po’ barcollando per le botte ricevute alla palestra di Ozaki. Mentre si accingeva a salire la scaletta di legno che portava al sottotetto, Danpei si decise a parlare ancora.

“Figliolo c’è dell’altro… Torna qui un attimo, per favore.”

“Se è ancora per dirmi che intendi chiudere la palestra…”

“No, non è di questo che ti voglio parlare ora.” lo interruppe Tange, sospirando “Vieni qua e siediti… ed ascoltami con attenzione.”

“Ehm, se volete scusarmi, io vorrei andare a coricarmi… sono stanco morto.” mormorò Nishi.

“Sì, certo, vai pure e cerca di dormire. Se hai bisogno di qualcosa, chiamami. Hai preso l’antidolorifico?” al cenno di assenso del ragazzone, Tange gli dette un buffetto affettuoso “Dormi bene, ragazzo mio.”

“Allora? Io sto aspettando…” sbuffò Joe, innervosito da tutto quel mistero.

“Si-e-di-ti.” Tange afferrò Joe per un braccio e lo fece sedere quasi a forza sulla panca, cosa che fece brontolare il ragazzo. “Joe, cercherò di essere breve. Qualche tempo fa è venuto qui a trovarmi una persona. Ha parlato un po’ con me, per presentarsi e per raccontarmi la sua storia… Si chiama Hiro Nakamura, Joe.”

“Mai sentito, non so chi diavolo sia” bofonchiò Joe, con fare indifferente.

“Lui invece ti conosce benissimo e vorrebbe incontrarti.”

“Cos’è, un allenatore di boxe? Non mi interessa. Voglio solo te come allenatore… e poi tu non parli tanto di ritiro dal pugilato, mio e di Nishi? Che c’entra allora quel tizio? Oppure è un reporter?” Joe era già annoiato da tutto quel giro di parole, e si stiracchiò come un gatto, per rilassarsi un po’.

Non era per niente facile per Tange affrontare con Joe un discorso del genere: e quel benedetto figliolo gli rendeva le cose ancora più difficili, come se non lo fossero già abbastanza!

“Stai sproloquiando, a tuo solito. Stai zitto ed ascoltami! Quante volte te lo devo ripetere, testa di legno! Non mi interrompere quando ti parlo! Un po’ di rispetto, porca miseria!”

"Umpf.”

“Allora, ti stavo dicendo… Hiro Nakamura vuole parlare con te di cose molto importanti. Ho il suo biglietto da visita con il numero di telefono: magari nei prossimi giorni potresti contattarlo per un appuntamento…”

“Ma che cavolo me ne frega di incontrarlo, se neanche so chi sia?”

“Cazzo, Joe, è tuo padre!” sputò fuori Tange, esasperato. Nishi fece capolino dal sottotetto, spaventato dallo scoppio di voce. Piano piano, ridiscese la scaletta per sentire pure lui. Per qualche minuto un silenzio denso e quasi tattile, come una coltre di neve che ricopre una vallata, scese su tutti loro. Pareva quasi che tre cuori avessero smesso di battere all’unisono. Il primo a riprendersi, con un’espressione intellegibile, fu Joe.

“Sono stanco, vado a dormire. Buonanotte.”

“Joe… ma… hai sentito cosa ho detto? Hiro Nakamura è tuo padre, ragazzo mio… scusa se te l’ho detto bruscamente, ma non c’era altro modo, non mi stavi a sentire…” mormorò Tange, mentre le lacrime gli scorrevano sul volto. Nishi, in silenzio, gli posò affettuosamente una mano sulla spalla, per dargli forza. Era stato sempre così, tra loro tre, no? Insieme contro il mondo.

“So solo che stasera sei in vena di scherzi e di dire cose strane. Va bene, vecchio: scherzare piace pure a me… ma ora sono stanco e voglio solo buttarmi sul letto.” Qualcosa nella voce di Joe si era incrinato, anche se lui cercava di mostrarsi ilare. Stancamente, percorse la scaletta, per sparire nel sottotetto. Quando dopo qualche minuto gli altri due andarono pure loro a coricarsi, lo videro sprofondato in un sonno pesante, quasi come se fosse morto.

Joe dormiva per non pensare più a nulla?

°°°°°°

Il giorno dopo, Joe si alzò alle sei, come di consueto, per andare a correre. Quasi pervicacemente si aggrappava alle sue abitudini per non pensare agli ultimi accadimenti che lo riguardavano da vicino. Mentiva a se stesso: voleva disperatamente fingere che fosse sempre tutto uguale a prima. Come ritornò alla palestra dalla corsa Joe non trovò nessuno, né Tange, né Nishi: il primo era andato chissà dove, mentre il secondo di sicuro era andato al negozio di Hayashi a dare una mano, pur ingessato com’era. Passò di lì a poco il postino per consegnargli una raccomandata espressa a lui indirizzata: con sua somma sorpresa, essa gli era stata spedita dalla palestra Shiraki e conteneva un biglietto per il Korakuen Hall per quella sera.

“Koji Nango contro Carlos Rivera. Ah già, quel tizio che hanno presentato al mio ultimo incontro e che voleva stringermi la mano…. Chissà perché Yoko mi ha mandato questo biglietto… boh. Poco male, ci andrò di sicuro a dare un’occhiata: tanto stasera non ho altro da fare. Sempre meglio che starmene qua ad ascoltare le cazzate del vecchio.” brontolò tra sé e sé.

Fischiettando una canzoncina allegra, Joe andò a saltare un po’ la corda, per mantenere ancora ben caldi i muscoli delle gambe dopo la corsa. Fece una piccola pausa per bere un po’ d’acqua e si accorse che sul tavolo era posato un foglio di carta, accuratamente ripiegato. Dispiegatolo, gli cadde per terra un biglietto da visita, che era stato racchiuso nella piega del foglio. Le scarne righe vergate di pugno da Danpei gli fecero salire il sangue alla testa. Posò sia la lettera che il biglietto sul tavolo con una brusca manata, per andare ad infilarsi i guantoni con fare stizzito. Mentre colpiva il sacco con ripetizioni da manuale di jab e di diretti, gli ronzavano nella testa le poche parole lette, quasi come una triste musica di un disco incantato…

“Joe, io me ne vado. Non posso continuare ad allenarti, ragazzo mio. Ti prego, vai pure tu a lavorare insieme a Nishi all’emporio della famiglia Hayashi. E, soprattutto, chiama tuo padre: ti lascio il biglietto con il suo numero di telefono. Ti voglio bene, figliolo. D.T.”

“Se davvero mi volessi bene non te ne andresti, accidenti a te!” urlò da solo, colpendo il sacco con tal foga da spezzare il cordoncino che lo teneva appeso ad una trave di legno del soffitto.

“Ehi zio Joe, che fai parli da solo?” udì Joe strillare il piccolo Kinoko, sbucato dal nulla come un folletto.

Gli altri monelli del quartiere si infilarono, uno dopo l’altro, dentro la palestra proprio come una famigliola di leprotti sa rintanarsi a velocità fulminea.

“Ma allora la palestra non è chiusa! Le vecchie giù alla drogheria spettegolano che Tange se n’è andato all’alba e che non ti allena più!” chiocciò Saki, prendendo la corda per mettersi a saltare.

“Ehi ragazzi, ma non dovete mica ascoltarle, le comari del quartiere: come vedete la palestra NON è chiusa ed io continuo ad allenarmi, come sempre!” pontificò Joe, sorridendo ai suoi piccoli amici.

“Ahhh, meno male, sono sollevato!” disse Tonkichi, infilandosi un guantone.

Mentre i più piccoli giocavano, facendo un gran baccano ed inseguendosi l’un l’altro, Joe prese Taro un momento da parte: “Scusami, mi pare di ricordare che il tuo papà faccia il capocantiere ai lavori di manutenzione delle strade…giusto?”

“Sì, Joe, è esatto: da quando ha trovato questo buon lavoro ha smesso di ciondolare a casa, attaccato alla bottiglia. È davvero contento!”

“Bene, mi fa piacere. Senti, a te posso dirlo, dato che ormai sei grande: è vero che Tange se n’è andato. Di sicuro starà cercando lavoro come manovale, dato che è l’unico lavoro che sappia fare, oltre al pugilato. Se tuo padre dovesse assumerlo per i lavori a giornata, potresti avvisarmi, per favore? Altrimenti non saprei come ritrovarlo…”

“Ma certo, Joe!! Conta su di me!” si batté Taro il petto, con fierezza “Ora sono un uomo, ho quasi quattordici anni!! Posso aiutarti benissimo!”

In tutta risposta, Joe gli arruffò affettuosamente la zazzera scura.

°°°°°°

In serata, Joe si incamminò per andare a vedere l’incontro di Carlos Rivera. Mentre scendeva con passo elastico i gradini della stazione di metropolitana, non si accorse assolutamente di quanto avvenne alle sue spalle, complice la folta folla di persone uscite dagli uffici all’orario di punta.

“Che cosa vuoi da quel ragazzo? Eh?”

“I-io? Nulla… non capisco di cosa Lei stia parlando… Ahia!” L’ometto panciuto strillò di dolore, alla morsa di acciaio al suo braccio… quel tizio non solo lo aveva strattonato in un vicolo cieco proprio mentre stava inseguendo Joe Yabuki, impedendogli così di svolgere il suo incarico… ora gli faceva pure l’interrogatorio!

“L’ho capito benissimo, che lo stavi pedinando” sibilò Nakamura, afferrando l’altro per il bavero e sollevandolo un poco da terra. “Ti do un consiglio: lascia in pace quel ragazzo. Se ti vedo un’altra volta appiccicato alle sue orme te ne faccio pentire. Tutto chiaro?” gli alitò sul viso rubicondo.

“S-sì, ho capito…” riuscì l’ometto a dire con un filo di voce.

“Bravo. Ed ora, fila!” Il detective non se lo fece ripetere due volte: si volatilizzò alla velocità della luce, nonostante le corte gambette.

Nakamura sospirò a fondo. Ora come ora non poteva che vigilare sul suo ragazzo, anche se l’impulsività di Joe e la passione di questi per le risse gli rendevano il compito assai ingrato. Ma presto lo avrebbe di nuovo stretto tra le sue braccia, per non lasciarlo andare via, mai più…

°°°°°°

Korakuen Hall, ore 21.00. 

Joe si sedette al suo posto. Sorrise tristemente, dato che Yoko lo aveva omaggiato di un ottimo posto alle prime file, da dove avrebbe goduto di una perfetta visuale dell’incontro. Si ripromise di andare presto a trovarla, non appena fosse riuscito a risolvere il problema di quel benedetto Tange che si era dato alla macchia! Aveva un bisogno quasi fisico di rivedere quel viso di madreperla… gli mancava da morire. Cercandola tra la folla di spettatori, intravvide un braccio affusolato ed una manina candida poco più avanti…

“Accidenti a Danpei: ci mancava solo lui con le sue strane fisime… addirittura un padre fantomatico che ora vorrebbe tanto riabbracciarmi! Sì, come no! Chissà cos’ha in mente quel vecchio orbo! Forse vuole farmi ammattire…”

All’annuncio dello speaker fecero il loro ingresso i due sfidanti. Joe riconobbe subito il passo elastico ed elegante del bellissimo venezuelano.

“Sembra più un attore che un pugile…” mormorò tra sé e sé.

Non degnò Nango di un’occhiata: gli bruciava ancora il fatto di aver vomitato pure al loro ultimo match. Ripensare a Nango, ad Harajima ed a Ozaki significava, per lui, riaprire delle ferite ancora troppo fresche. Dopo i saluti al pubblico ed i convenevoli di rito, finalmente l’incontro ebbe inizio.

Noia.

Una noia mortale.

Alla prima ripresa Carlos Rivera pareva quasi essersi trasformato in un punching ball vivente: incassava i colpi di Nango senza fare un plissé. Ai margini del ring, Harry Robert quasi si strappava i capelli ed incitava Rivera con toni accorati. Il pubblico rumoreggiava, innervosito.

“Ehi, venezuelano, ma sei capace di boxare?” “Gaijin del cazzo, tornatene al tuo Paese!” “Femminuccia!”

Nei tre round successivi la manfrina non cambiò: Rivera pareva un pupazzo incapace di reagire, sia pure debolmente. Joe era annoiato, ma intuiva che NON poteva essere questa l’essenza del pugile straniero scritturato dallo Shiraki Boxing Club. Quando seppur per pochi secondi i loro sguardi si erano incrociati, poco prima del match di Joe con Nango, era stato quasi come se due animali selvaggi si fossero incontrati e riconosciuti l’un l’altro.

I magnetici occhi verdi di Carlos Rivera non potevano che nascondere qualcosa.

Non sfuggì quindi a Joe un intenso sorriso d’intesa che Rivera ed il suo procuratore si scambiarono prima che scoccasse il gong della quinta ripresa. Già nei primi secondi del nuovo round, si respirò sul ring un’aria diversa. Carlos avanzò deciso verso Nango, cosa che lasciò quest’ultimo un po’ interdetto. Con un abile gioco di gambe, dall’eleganza indiscutibile, Carlos schivò ogni colpo avversario, cosa che invece pareva non essere stato in grado di fare in tutti i round precedenti… sembrava proprio che ora, improvvisamente, si fosse ricordato di come si boxa! Al 20’, dopo una bellissima schivata, Carlos sferrò un gancio destro potentissimo. Uno di quei pugni che ti fanno tremare tutte le ossa del corpo. Koji Nango non poté che stramazzare al tappeto, con gli occhi arrovesciati.

Questa mi mancava” pensò Joe, allibito “un gancio… di gomito!”.

Evidentemente nessuno, a parte Joe e forse Mr. Robert, se ne era accorto: né l’arbitro, che decretò la vittoria di Rivera per k.o.; né i giudici; né i commentatori; né, tantomeno, gli spettatori. Nessuno aveva captato l’immagine esatta di quanto davvero accaduto: Joe aveva distintamente assistito ad un duplice colpo sferrato molto velocemente da Carlos al povero Nango, dato che la gota di questi, oltre all’impatto con il pugno, aveva subito pure l’impatto con il gomito del braccio destro del venezuelano.

“Una bella fortuna che tu sia tanto rapido, amico: altrimenti ti beccavi una bella squalifica, altroché!” ridacchiò Joe, incamminandosi verso l’uscita.

____________________________________

Spigolature dell’Autrice:

* shikata nai (仕方ない) ovvero “non c’è nulla da fare”, è un’espressione molto in uso presso i Giapponesi, che ne rende bene il fatalismo, specialmente di fronte ai terremoti.

************

L’angolo del boxeur :

Trovo sia carino trascrivervi l’art. 68 del Regolamento Professionisti della Federazione Pugilistica Italiana, per farvi un’idea sulle scorrettezze sul ring.

Art. 68 - Scorrettezze: 1. Colpi proibiti. È vietato, e costituisce colpo proibito: a) colpire con il palmo, con il polso, con il taglio della mano; b) colpire con la testa, con la spalla, con l’avambraccio, con il gomito; c) portare colpi, facendo prima compiere al corpo un giro su se stesso; d) colpire di manrovescio (dorso della mano); e) colpire di striscio e danneggiare comunque l’avversario; f) colpire l’avversario a «terra» o «considerato a terra» dall’arbitro; g) colpire al di sotto della cintura, alla nuca, alle spalle e alle reni. 2. Non costituisce «colpo proibito»: il colpo regolarmente portato che colpisca una parte del corpo non ammessa per azione o colpa dell’avversario. 3. Non sono proibiti i colpi vibrati sulle braccia e sugli avambracci, ma essi non sono validi ai fini del punteggio. 4. Falli. È vietato e costituisce fallo: a) tenere, e cioè: avvincere o stringere l’avversario, trattenerlo, trattenergli le braccia o il pugno, lottare, «legare»; passare il braccio sotto quello dell’avversario e, comunque, ostacolarne l’azione; b) spingere, e cioè: dare comunque spinte all’avversario, spingergli indietro la testa con la mano, con l’avambraccio, col gomito, gravargli sopra con il peso del proprio corpo; c) adottare una condotta di gara pericolosa o sleale come: portare la testa in avanti in modo che l’avversario possa esserne danneggiato; schivare con la testa in avanti abbassandosi al di sotto della cintura dell’avversario; mettergli la testa, nei corpo a corpo, sotto il mento o il viso; mettergli le mani sul viso; pestare il piede dell’avversario; fare sgambetti; d) utilizzare indebitamente le corde, abbandonarsi volontariamente su di esse col peso del proprio corpo, servirsene per prendere slancio, appoggiarvi la mano o il braccio; e) cercare di trarre in inganno l’arbitro, simulando situazioni non corrispondenti all’accaduto; f) adottare una condotta di gara non agonistica, come: volgere le spalle all’avversario, persistere nella difesa passiva; assumere atteggiamento offensivo e irriguardoso nei confronti dell’avversario; g) non ottemperare prontamente agli ordini dell’arbitro. 5. Non compie «fallo» il pugile spinto dalla necessità di difendersi da un colpo proibito o dall’azione fallosa dell’avversario. 6. Falli e colpi proibiti insieme. È vietato e costituisce fallo e colpo proibito insieme: a) tenere l’avversario e colpirlo; b) spingere l’avversario e colpirlo; c) prendere lo slancio dalle corde, tenere una mano sulle corde e poi colpire; d) tenere la mano sul viso dell’avversario e colpire; e) non ottemperare agli ordini «break», «stop», «time» e colpire; non attenersi al segnale del gong che indica la fine della ripresa e colpire. f) La gravità del colpo proibito e del fallo è in relazione: all’entità del danno effettivamente causato all’avversario o del pericolo corso; all’intenzionalità di nuocere all’avversario o di trarre in inganno l’arbitro. 7. Tenuta reciproca. Quando contemporaneamente ciascuno dei pugili «tiene» l’avversario, si verifica la tenuta reciproca e l’arbitro deve intervenire prontamente ordinando il «break» e facendo scrupolosamente osservare il conseguente passo indietro ad entrambi i pugili.

Essendo un testo normativo, l'ho trascritto pedissequamente, come si fa con Leggi e Sentenze.

Vi lascio il link della Federazione Pugilistica Italiana: clicca

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo X - Incontri e scontri ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI
Korakuen Hall, una sera di qualche giorno dopo…


Era successo, di nuovo.

Qualche sera dopo, Joe, su espresso invito di Yoko che lo aveva omaggiato di un altro biglietto, aveva assistito ad un secondo incontro di Carlos Rivera, stavolta però contro Ryu Harajima. Joe assistette, ancora, allo svolgimento dello stesso copione del precedente match contro Nango, consistente in una difesa alquanto fiacca mimata da Carlos per i primi tre round. All’angolo di Harajima procuratore e secondo gongolavano con il resto del team su quanto fosse brocco “lo straniero scritturato da quella smorfiosa di Yoko Shiraki”.

“Ryu, ormai ce l’hai in pugno! Buttalo giù alla prossima ripresa!”

“Ma certo, eheheheh! Sarà fatto!”

Peccato che Carlos, fingendo di schivare in modo alquanto goffo un diretto del suo avversario, non lo avesse colpito con il suo gancio sinistro… e proprio quasi alla fine della quarta ripresa. Al suono del gong, Ryu Harajima era riuscito a tornare al suo angolo, ove il suo team gli si era prodigato con i soliti consigli e con le cure del caso. Ma Ryu, sebbene ad occhi bene aperti, non aveva sentito un bel niente. Quando scoccò il gong del sesto round non si rialzò in piedi. L’incontro venne quindi aggiudicato a Carlos, per impedimento di Harajima: il poveretto aveva perso i sensi per un trauma cranico causatogli dal gancio a sorpresa sferratogli dal venezuelano.

“E ti pareva… gli piace proprio tanto il trucchetto della gomitata dopo il pugno, eh!” borbottò Joe tra sé e sé, ora davvero seccato da tutta quella sceneggiata, oltre che dalla scorrettezza del gaijin.

“Allora, ti è piaciuto l’incontro?”

Perso com’era nei suoi pensieri, dato che nella sua mente stava ripercorrendo, come in un filmato al rallentatore, le tecniche combattive di Carlos abilmente camuffate da goffaggine ed incapacità, Joe non si era accorto che Yoko, nel frattempo, gli si era avvicinata. Rimase per un attimo interdetto a guardarla, senza riuscire a dire nulla… La sala degli spettatori, ormai, era pressoché vuota ed in quel preciso settore lui e Yoko erano completamente da soli. Con un gesto le indicò la sedia vicina a lui, senza staccare lo sguardo dal viso della giovane. Ogni volta che la vedeva per lui era come se fosse la prima: l’avrebbe guardata per ore ed ore, quasi come se avesse un bisogno fisico di avere accanto a lui quel volto delicato, quelle mani candide, quella figura aggraziata. Ed ogni volta si chiedeva come potesse far passare giorni e giorni senza vederla…

“Grazie.” disse lei, semplicemente, sedendoglisi vicina.

“No, figurati…” riuscì Joe finalmente a bofonchiare “Sono io che ringrazio te per i biglietti che mi mandi sempre… solo che non capisco.”

“Cos’è che non capisci?”

“Non capisco che cosa voglia ottenere il tuo pugile, con questa sceneggiata. Recita la parte del brocco per alcuni round, poi, improvvisamente, sferra un – toh che strano! – colpo ‘fortunato’ con cui manda al tappeto l’avversario… e peccato che il suo gancio sia fallato dal gomito! Ma siccome è velocissimo non se ne accorge nessuno, a parte il sottoscritto. E tutti si bevono la favoletta del pugile miracolato…”

Yoko lo ascoltò in silenzio, ad occhi bassi, come se la borsetta di Gucci posata sul suo grembo fosse un oggetto assai curioso da osservare. Per lei era sempre stato abbastanza complicato rapportarsi a Joe, specialmente quando il ragazzo dimostrava di voler erigere uno schermo tutto intorno a sé per impedire agli altri di conoscere il suo mondo interiore. E poi… che dire della sua ostinazione di fingere di ignorare che tra loro due non fosse mai accaduto nulla di nulla?

“E così te ne sei accorto. Non nutrivo dubbi in merito. Anche per questo ti ho mandato i biglietti degli incontri… volevo che tu lo conoscessi, che tu lo studiassi come pugile. Ti anticipo sin d’ora che con tutta probabilità Carlos Rivera disputerà un match pure contro Tiger Ozaki. Con il suo procuratore io ho stipulato un contratto vertente ben tre incontri qui, nel nostro Paese. Dopodiché Carlos ripartirà. Chissà… magari presto lo avremo come nuovo detentore del titolo mondiale: il grande José Mendoza si è accorto di lui, da quello che mi ha detto Harry Robert, il suo manager.”

“E vieni a dire a me tutte queste cose riservate? Sei imprudente, come donna d’affari…” celiò Joe, con un sorrisetto leggero, rilassandosi. A differenza di quanto potesse sembrare per il rimbrotto fattole, Joe era divertito ed incuriosito dall’intraprendenza di Yoko nel mondo del business: lei era davvero unica e speciale ed aveva fiuto per gli affari.

Ciò era innegabile.

“Non sei il tipo che chiacchiera in giro. Io mi fido di te, Joe.” replicò lei, dolcissima. Al che Yoko accennò di volersi alzare, ma Joe la bloccò, afferrandola per il polso sottile, cosa che la fece arrossire. Yoko, in silenzio, si risiedette e Joe lasciò la presa, arrossendo a sua volta.

“Aspetta, non andartene via…” le mormorò, a voce roca. “Sono settimane che non ci vediamo più… ti ho cercata al telefono e sono pure passato un paio di volte alla tua palestra, ma tu ti sei sempre fatta negare. Ora invece vieni qui da me per parlarmi di Carlos, per poi scappare via di nuovo! Yoko, io…” si interruppe Joe, stringendo i pugni.

“Me lo hai detto tu che non possiamo stare insieme, Joe. Io sto solo rispettando la tua volontà. Ma non dimentico mai che per te la boxe è molto importante: vitale, anzi. E penso che conoscere Carlos potrebbe esserti di sprone. Uno di questi giorni vieni pure allo Shiraki Boxing Club: Carlos rilascerà delle interviste e si allenerà pubblicamente. Così magari potrete conoscervi di persona. Sai una cosa Joe?” al che Yoko sorrise lievemente, scoccandogli un’occhiata intensa “Per certi versi vi assomigliate: tu e Carlos, intendo. Avete avuto entrambi un’infanzia difficile. Pure Carlos è stato in riformatorio, proprio come te. E proprio come te anche lui ha un talento speciale per la boxe. Carlo ha fame di lottare sul ring… per questo credo che dovreste conoscervi: vi ritrovereste, voi due. Vi riconoscereste l’un l’altro.”

“Yoko, non so cosa tu abbia in mente riguardo a Carlos, comunque sia mi hai incuriosito parecchio, lo ammetto, e quindi domani stesso verrò al tuo club. Però ora parliamo un momento di noi due…ecco…volevo dirti che forse ho commesso un errore…” farfugliò senza riuscire a proseguire nel suo discorso, tormentandosi il berretto. Era furioso con se stesso, perché stava facendo la figura dell’idiota e proprio con Yoko!

Ma Yoko non stava affatto pensando che Joe fosse idiota. Anzi. Le pareva di volare a mezz’aria. Ormai si era rassegnata a pensare che il suo amore per quel ragazzo fosse un sogno, bellissimo ma impossibile. Si era quasi convinta, a prezzo delle lacrime silenziose con cui ogni sera aveva bagnato il guanciale da un po’ di tempo a questa parte, che, in fondo, Joe avesse ragione e che una vita di loro due insieme fosse un progetto irrealizzabile…

“Shiraki-sama, mi scusi se La disturbo, ma Mr. Robert La sta attendendo alla Sala Conferenze…”

Il povero Sakamoto venne letteralmente fulminato dallo sguardo di fuoco di Joe, che serrò la mascella, livido di rabbia: solo per un miracolo il segretario di Yoko non fu sollevato per il bavero… Come aveva osato interromperli, quell’imbecille azzimato?

“S-sì, va bene, Sakamoto-san. Arrivo subito.” disse Yoko, alzandosi. Al congedo del suo segretario, Yoko, però, senza dire nulla, si chinò verso Joe, posò con delicatezza la manina sottile sulla gota di lui, per poi sfiorargli le labbra con un bacio lieve. Dopodiché corse via, rapida e leggera come una cerva. Tutto avvenne così rapidamente che Joe credette di avere solo sognato.

Ma il delicato profumo di lei lo avvolgeva ancora, come in un morbido abbraccio.

°°°°°°°°

In quel momento, alla Magione Shiraki…

“Allora, moglie? Che cosa mi rispondi?”

Mikinosuke Shiraki era davvero adirato. L’anziano signore, di solito tanto benevolo e pacato, questa volta aveva davvero perso le staffe. Non solo da settimane la sua adorata nipote aveva lasciato il suo tetto, per andarsene a vivere da sola, senza riuscire in nessun modo a farla ritornare sui suoi passi. Ora anche questo. Era successo che quello stesso pomeriggio il suo contabile di fiducia gli avesse mostrato una fattura saldata da Hatsuyo Shiraki in favore di una nota agenzia investigativa, per una somma non indifferente. Da quasi cinquant’anni la sua cara consorte era per lui una continua incognita, foriera di scoperte spesso poco piacevoli. E questa scoperta, in particolar modo, non gli garbava affatto.

“Non c’è nulla da dire. Nostra nipote è una ribelle ed una sfacciata. Si comporta in modo irriguardoso nei confronti nostri e del nome che porta. Tu lo sai benissimo che io non ho mai approvato la scelta di Yoko come presidente di quella tua palestra di pugili: trovo indecoroso per una signorina di buona famiglia occuparsi di queste faccende! E poi ho il dovere di scoprire l’identità delle persone che frequenta: soprattutto degli uomini che frequenta.” replicò secca l’anziana dama, calcando di proposito sulla parola “uomini”, quasi con disgusto.

Per qualche secondo Mikinosuke osservò il volto della moglie, ancora bello e candido nonostante l’età. Eppure tanta grazia e tanta raffinatezza celavano un cuore duro ed una inappellabile volontà di prendere decisioni spesso ingiuste per le vite altrui. La rabbia salì dentro di lui con un moto inarrestabile, ripensando alle parole appena pronunciate da Hatsuyo.

“Tu non hai nessun diritto di interferire così nella sua vita! Ti ricordo che Yoko ormai è una donna adulta! E ti ricordo anche che se ha lasciato questa casa è solo per colpa tua e per la tua durezza!” urlò, esasperato, mentre la donna stringeva le labbra, con disappunto, divenendo livida. “Hatsuyo… i tempi cambiano…” riuscì poi a riprendere con un tono più pacato, dopo aver respirato a lungo per calmarsi; “le cose non sono più come ai tempi nostri… i giovani ora sono più liberi ed indipendenti e si scelgono la vita che preferiscono. Yoko è una ragazza intelligente, seria e posata: sa quello che fa. Sta gestendo benissimo la palestra che le ho affidato: è scrupolosa e capace. E quanto alla sua vita privata, ha il sacrosanto diritto di frequentare le persone che le piacciono. Io ho fiducia in lei e so che terrà sempre la testa sulle spalle. Te lo ricordi, no? Pure da bambina era già matura e giudiziosa. Anche tu dovresti darle fiducia e lasciarla in pace… e poi…” al che il vecchio signore si guardò intorno, con aria mesta “e poi ora è così vuota, questa villa, senza di lei. Si è come spenta.”

Attese inutilmente una parola o anche solo un semplice gesto della moglie, che gli testimoniassero la volontà di lei di venirgli incontro. Allora, stancamente, Mikinosuke Shiraki si alzò in piedi, per lasciare la moglie da sola con il suo piccolo, angusto mondo interiore.

Si sentiva sconfitto, ancora una volta.

°°°°°°°°

Shiraki Boxing Club, il pomeriggio del giorno seguente.

Con passo elastico e leggero, come più leggero si sentiva ora pure nello spirito, Joe si recò allo SBC di Yoko. Era anche felice di uscire dalla sua, di palestra, dato che adesso essa era tanto triste e silenziosa, senza la voce baritonale di Tange che lo sgridava ogni due per tre. Ormai erano tanti giorni che Tange se n’era andato. Pure Nishi si era trasferito altrove: aveva preferito prendere in affitto in minuscolo appartamento più vicino alla drogheria di Noriko, ed anche se faceva capolino alla palestra tutti i giorni per lasciargli un saluto, Joe si sentiva molto più solo adesso che in tutti gli anni della sua fanciullezza… tanto più che, prima di sparire dalla sua vita, il vecchio gli aveva detto cose assurde su un fantomatico “padre”, che solo dopo quasi ventun anni si sarebbe deciso a farsi vivo. Il biglietto da visita di Hiro Nakamura, dopo essere stato appallottolato, aveva quindi fatto un gran bel tuffo carpiato fino al bidone della spazzatura. Decisamente, era meglio per Joe prendere la metro ed andarsene a zonzo per la città, piuttosto che starsene da solo sotto al Ponte delle Lacrime. Anche il leggero bacio a fior di labbra che Yoko gli aveva dato la sera prima incideva parecchio sul suo buonumore: Joe non aveva chiuso occhio per tutta la notte, continuando a pensare e ripensare al tenue profumo della donna. Si sfiorava ancora con le dita le labbra, cercando di fissare nel ricordo il morbido contatto della bocca di lei. E la sua voce così musicale…una voce che gli risuonava nella mente dell’eco di una assai più lontana nel tempo, persa ormai nei suoi ricordi… Se pure nella sua vita Joe poteva sentire un profumo di donna ed il fruscio di una veste di seta*, lo doveva a Yoko.

Soltanto a lei.

“Lo ha fatto per me, solo per me. Se Carlos Rivera è qui in Giappone è perché lei voleva a tutti i costi che io lo conoscessi, anche se non capisco bene il motivo. D’accordo: pure lui era cresciuto in strada come ho fatto io. Pure lui ha avuto guai con la legge. Ma mi sfugge il senso di tutto ciò, ancora… Yoko, Yoko… cos’hai in mente per me, mia dolce signorina dei quartieri alti…?”

Giunto finalmente all’ingresso dell’imponente edificio dello Shiraki Boxing Club, Joe si accorse del gruppetto di reporter sportivi intenti a fumare in un angolo. Glissò abilmente ogni loro tentativo di fermarlo e di tempestarlo di domande, su come stesse, sul suo presunto ritiro dal ring, sul perché e sul percome si trovasse proprio lì. Non avrebbe permesso loro di fargli perdere del tempo prezioso! Sentì nell’aria un’allegra musica sudamericana: più che in una palestra di boxe, gli parve quasi di trovarsi in una sala da ballo. Era stato proprio Carlos a richiedere che venisse messa della musica per ispirarlo durante l’allenamento: gli addetti del club lo avevano prontamente accontentato, come da precise istruzioni date loro da Yoko Shiraki, la quale aveva predisposto il tutto perché Carlos si sentisse “come a casa sua”.

Joe emise un fischio di ammirazione, non appena si trovò nella sala principale degli allenamenti.

Decine di pugili di varie categorie di peso si allenavano, affiancati uno per uno da un allenatore o da un preparatore atletico: chi ai pesi, chi al sacco, chi alla corda, tutti gli atleti erano attenti e concentrati. Il tutto si svolgeva in perfetto ordine e nella totale disciplina. Nel bel mezzo dell’enorme sala, si stagliava il ring immacolato, ove due pugili si stavano allenando. Joe si diresse, deciso, verso di loro.

“Ehi tu, sei un estraneo qui. Vedi di andartene e subito.”

Ad interpellarlo così era stato un imponente buttafuori della palestra, alto e massiccio come un armadio, dal viso prognato e dagli occhi piccoli e cattivi. Senza se e senza ma, il bestione aveva afferrato Joe da dietro per la collottola, come se fosse un micetto.

“Tranquillo, gorilla, se sono qui è solo su invito della signorina Shiraki. Per cui toglimi le mani di dosso” gli sibilò Joe, il quale, con uno strattone, riuscì a liberarsi dalla presa, mettendosi poi in posizione di guardia, cosa che fece ridacchiare l’omone.

“È tutto a posto: Yabuki-san è mio ospite. Puoi andare.” In quella aveva fatto il suo ingresso Yoko, che congedò il buttafuori, il quale abbozzò a Joe un inchino a mo’ di saluto “Scusalo, Joe: ha fatto solo il suo lavoro. La colpa è mia che non lo avevo avvertito del tuo arrivo.”

Joe rimase un attimo incantato a guardarla: in jeans e maglietta, abbigliamento in lei assai poco consueto - dato che l’aveva sempre vista vestita con eleganza, con abiti di seta e scarpine con il tacco alto - Yoko era semplicemente deliziosa. Ma, seppur in scarpe da ginnastica, trasudava classe da tutti i pori.

“Nessun problema.”

“Allora, Carlos, non ti incantare: continua con il tuo allenamento!” Harry Robert aveva storto il naso di fronte a tutto quel guazzabuglio, che aveva distratto Carlos ed il suo sparring partner, i quali si erano interrotti per assistere alla scenetta.

“Muy bien.”

L’allenamento ricominciò in modo ordinato, come da manuale: torsione indietro col busto, diretto sinistro e poi gancio destro…Carlos sferrava pugni dalla potenza misurata, per non sfiancare troppo lo sparring partner, che altrimenti non avrebbe resistito a lungo. Lo straniero si muoveva con scioltezza ed eleganza, come se stesse danzando. Il tutto si svolgeva con tranquillità… finché Joe, annoiato da tutta quella compostezza, non pensò bene di cominciare a provocare l’ospite.

“Ma come ti muovi bene: sembri più un ballerino di salsa che un pugile… che ne dici, però, di farci rivedere il tuo colpo segreto, eh, ‘Re senza corona’?”

Al che Carlos si interruppe di nuovo, trapassando Joe con i suoi intensi occhi verdi. Seppur con espressione irata e con il caschetto protettivo era uno splendido giovane, persino troppo bello: più adatto a fare l’attore che il boxer.

“Ehi ehi, non ti incazzare con me, amico… mica è colpa mia se ti diverti a colpire di gomito… la mia è solo un’osservazione!”

Le parole di Joe non sfuggirono a nessuno, neppure al gruppetto di giornalisti che, nel frattempo, aveva fatto il suo ingresso nella sala.

“Colpi di gomito? Che cosa dice Yabuki?”

“Senti senti… vediamo di scoprire qualcosina in più…”

“Che notizia!”

Yoko si mise in allarme: certo che Joe e quella sua dannata linguaccia sapevano creare un danno, alla bisogna…

“Scusate” dovette quindi intervenire prontamente “ma dovete andarvene. L’intervista di oggi è sospesa: spiacente, ma è così. Vi prego di uscire.”

Due imponenti buttafuori, tra cui il bestione che poco prima aveva intercettato Joe, si “prodigarono” di accompagnare all’uscita i cronisti, malgrado le proteste di questi ultimi.

“Joe…” Yoko gli si avvicinò, per parlargli a bassa voce, in modo da non farsi sentire dagli astanti “Perché ti comporti così? Cosa credi di ottenere?”

Il giovane si concesse il lusso di contemplarla per qualche secondo: se fossero stati da soli, le avrebbe restituito il bacio della sera prima… E quindi pensò bene di calzare la sua solita maschera da sbruffoncello.

“Beh, ecco vedi… sono un po’ a corto, ultimamente… sai, i miei ultimi incontri sono andati maluccio ed io ho bisogno di lavorare… per tirare avanti. Che ne dici di assumermi come sparring partner ? Di certo combinerei qualcosa di meglio del tuo, scusami eh: ma non mi pare un granché quello che hai dato al tuo Carlos…è buono come sacco vivente, e non per far fare al tuo pupillo un allenamento per come si deve…”

Harry Robert, avvicinatosi alla coppia, sentì la proposta di Joe. “No, Miss Yoko, per favore, non dia ascolto alla richiesta di questo ragazzo. Non voglio cambiamenti nella tabella di marcia del mio pugile!”

Senza dare ascolto al procuratore del venezuelano, Joe, con un balzo, si aggrappò alle corde, dondolandosi con fare faceto ed interpellando nuovamente Carlos. “Se ti allenassi io? Mi sa che ti divertiresti di più ad allenarti con me che con quel rimbambito… Eh, ci stai?”.

Lo sparring partner, visibilmente scocciato per l’atteggiamento dell’inatteso ospite, stava per agguantarlo ma, su cenno di Yoko, uno dei preparatori atletici se lo condusse via, seppur a fatica… Una cosa era certa: Joe non passava inosservato. Mai!

“Se Carlos è d’accordo, do il mio consenso. Però dovranno usare i guantoni da sedici once. Su questo non si discute.”

“Ma Miss Shiraki…” provò a protestare Harry Robert.

“Stia tranquillo. Vedrà che sarà utile pure per Carlos, un allenamento un po’ più incisivo.”

“Grazie Yoko” le disse Joe, rivolgendole un’occhiata ardente, che fece arrossire la ragazza.

Al che si diresse agli spogliatoi, lasciandosi accompagnare, su un cenno della Shiraki, da un addetto della palestra. Joe trovò molti set di abbigliamento tecnico, ancora confezionati: gli fu quindi sufficiente scartare un pacchetto contrassegnato con la sua categoria di peso per potersi degnamente preparare all’allenamento.

_____________________________________________________

*citazione da quel capolavoro indiscusso di “Cyrano de Bergerac” (1897) di Edmond Rostand



L’angolo del boxeur :

Nel pugilato il gioco di gambe, chiamato footwork, in cui il nostro Carlos Rivera è maestro (pare che danzi!) è importante tanto quanto i colpi. È importante quindi che si eseguano esercizi per migliorare il footwork in: agilità, equilibrio e postura. Ecco cinque modi per allenare il gioco di gambe:

1) Scaletta
La Scaletta è un metodo di allenamento eccellente per migliorare la rapidità dei piedi. Una scala in corda viene collocata nel pavimento e l'atleta dovrà eseguire determinati drill cercando di posizionare nel punto giusto i piedi. Ci sono molti esercizi che è possibile eseguire utilizzando la scala. È un ottimo esercizio anche per altri atleti che implementano il loro bagaglio tecnico come i calciatori, i tennisti ed i giocatori di rugby.

2) Box Jump
Il salto sopra ad un step alto (Box) è una forma di esercizio che aggiunge esplosività per i passi di un pugile. Ci sono un sacco di diverse esercitazioni da poter eseguire ed è possibile aumentare l'altezza della piattaforma in modo che l'allenamento diventi mano a mano più intenso e difficile. Cosa da non sottovalutare è che mentre si sta allenando l'esplosività e reattività dei piedi si sta facendo anche fiato, perché saltare sopra un box alto anche 50-60 cm per diversi secondi o minuti è molto faticoso ed impegnativo, soprattutto per il cuore (va da sé che per poter praticare il pugilato bisogna essere in forma fisica PERFETTA: cuore e polmoni devono essere sani ed il fumo è rigorosamente proibito!)

3) Salto della Corda
Il salto della corda è una delle prime cose che vengono eseguite quando si inizia l'attività di pugile (anche in ambito amatoriale: presente!). Questo perché la corda da moltissimi vantaggi, dato che, oltre a fungere da riscaldamento, migliora la resistenza aerobica e la coordinazione di gambe e braccia, conferendo una notevole scioltezza muscolare.

4) Shadowboxing
La sua popolarità è dovuta ad alcuni fattori che lo rendono un esercizio insostituibile: innanzitutto non è necessario avvalersi di un'altra persona trattandosi di un esercizio individuale; è poi un ottimo modo per riscaldare tutto il corpo prima di un allenamento intenso o di un incontro. Durante lo shadowboxing il combattente esegue tutte le normali tecniche della sua disciplina indirizzandole verso un avversario immaginario. Spesso ci si avvale di uno specchio, e questi esercizi, nel gergo tecnico vengono chiamati "vuoti".
Quante volte abbiamo visto il nostro ragazzo mimare un combattimento?

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo XI - Post fata resurgo ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

 
“Ehi ma quello laggiù non è Tange?”

“Cavoli sì… pure col caschetto protettivo è inconfondibile… ma ora fa il manovale?”

I reporters, sulla via di ritorno alle rispettive redazioni giornalistiche, avevano adocchiato Danpei intento a picconare con forza e vigore un pezzo di strada sterrata. Gli si avvicinarono senza esitazione alcuna.

“Ehi, Tange-san… come andiamo?”

“Umpf,” replicò questi, visibilmente scocciato. Che cavolo potevano volere da lui quei rompiscatole? Che lo lasciassero lavorare in pace!

“Guarda che mentre tu te ne stai qua a lavorare, il tuo pupillo sta facendo un gran casino alla palestra della Shiraki…” chiosò uno di loro “Forse ti conviene andare a vedere un po’ cosa stia combinando…”

“Di che diavolo state parlando?” sbottò Tange, posando il piccone e squadrandoli cupamente.

“Ma allora non hai capito? Joe Yabuki, sì lui, ora è allo Shiraki Boxing Club a rompere le scatole a Carlos Rivera che si sta allenando… ti è più chiaro, così?”

“Ma porc…!” imprecò l’altro, togliendosi di dosso i dispositivi di sicurezza con pochi strappi e mettendosi a correre in direzione della metropolitana, ignaro della urla del suo capocantiere. Il suo ragazzo! Il suo impossibile ragazzo, più testardo lui di un intero branco di muli!

°°°°°°°°

Shiraki Boxing Club, nel frattempo…


Joe, con la consueta mise da sparring partner appena indossata, continuava a punzecchiare “amabilmente” il venezuelano, questi sempre più visibilmente irritato: la mascella di Carlos tremava impercettibilmente, ed i suoi occhi di giada rilucevano intensamente, di rabbia e di eccitazione. Quel ragazzo lo innervosiva ma al tempo stesso lo stimolava: un mix esplosivo, sul ring.

Dopo tutto, Carlos era una pantera sotto spoglie umane… o no?

“Eccomi qua, son pronto… ma come sono pesanti e soffici questi guantoni, vero, amico? Perfetti per dare carezze. Ma tanto noi non ci scambieremo carezze… combatteremo sul serio!”

Con un agile balzo, Joe oltrepassò le corde, avvicinandosi al suo sfidante. Infatti, Joe non voleva fare da sparring partner a Carlos, proprio per niente: intendeva combattere seriamente con lui. I due si studiarono, ma solo per pochi secondi: Carlos partì subito all’attacco con una sequenza da manuale di jab e di diretti, che Joe riuscì a prevedere senza troppa fatica, dato che il suo avversario non intendeva scoprirsi troppo. Non ancora e non subito.

“Mancato, ehehehehe!” chiosò Joe, provocandolo di nuovo, come se non fosse sufficiente quanto fatto sinora… Messosi alle corde e dondolandosi con fare sardonico, parve a Carlos che lo dileggiasse! Questi lo omaggiò di un magnifico gancio al viso, dopo avergli sfondato la difesa, cosa che sembrò divertirlo, nonostante lo zigomo destro cominciasse a gonfiarglisi. “Ma che bravo amico… la potenza ce l’hai, eh, ma io questo l’ho sempre saputo… Ora però basta sceneggiate e combatti sul serio! Tocca a me!” gli sibilò Joe, digrignando i denti, innervositosi a sua volta.

In quel mentre giunse, trafelato, Danpei Tange, il quale, toltosi il cappello ed inchinatosi in silenzio a Yoko Shiraki, assistette incredulo e preoccupato alla schermaglia dei due giovani sul ring. E così, sotto gli sguardi basiti degli astanti, si svolse, tutto ad un tratto, un magnifico colpo d’incontro: le due braccia dei pugili si intersecarono tra loro, con un tempismo ed una potenza incredibili, con un duplice e secco impatto su gote e visi. Del sangue sprizzò sul candore del tappeto. Carlos cadde a terra, più stupito che indolenzito: quel galletto giapponese lo aveva beccato in modo fulmineo! Era talmente stupefatto da non riuscire neppure ad arrabbiarsi: con Joe per la sua inattesa bravura, e con se stesso per essersi lasciato fregare così… come se fosse un novellino!

Ma quel colpo… così veloce, perfetto, fulmineo! Impossibile da prevedere e da schivare!

Gli scivolò dalla testa il caschetto protettivo, dato che il colpo di Joe gli aveva spezzato la cinghietta di aggancio.

“Su su, rialzati! Tanto male non posso averti fatto, con le protezioni! Il mio gancio non era potentissimo… Adesso però facciamo sul serio!” Joe continuava a sorridere con le labbra. Ma i suoi intensi occhi di giaietto erano carichi di sfida e di furore. Quando però Carlos si rialzò in piedi dal tappeto con un balzo, Joe ebbe un conato di vomito.

“Joeeeeeeeeeee!!! Smettila, dannato testardo!!!” urlò Tange, non potendone più di vedere il suo pupillo lottare contro se stesso. Perché in realtà Joe non combatteva contro Carlos, ma contro un lontano fantasma che continuava a dargli il tormento e che non gli permetteva di essere libero.

Yoko, dal canto suo, assisteva a tutta la scena mascherando la sua intima, segreta preoccupazione con la sua consueta aura di imperturbabilità. Solo il pallore cereo del suo viso poteva svelare i suoi più segreti pensieri. Lei lo sapeva. Lo aveva sempre saputo: a mali estremi, estremi rimedi… anche a costo di morire dalla preoccupazione per il suo amato. Ma un pugile senza desiderio di combattere non è più un pugile: e lei non voleva che Joe soffocasse la sua vera natura.

Non lo avrebbe mai permesso: né per se stessa, né, tantomeno, per lui.

Prontamente, Harry Robert si avvicinò alle corde: “Ora basta, su. Carlos vai a farti una doccia. Direi che per oggi abbiamo finito…”

“Direi proprio di no, Harry. Guardalo: ti pare il suo uno sguardo di chi si arrende? A me non sembra. È un avversario coraggioso e leale. No: l’incontro non è affatto finito!”

Senza dare ad Harry il tempo di replicare alcunché, Carlos diede finalmente un saggio delle sue vere potenzialità: da fino stratega qual era, riuscì a prevedere l’attacco di Joe ed a schivarne gli affondi, uno per uno, per poi sferrargli un montante da brivido. Joe stramazzò al tappeto, perdendo i sensi per qualche secondo, mentre fiotti di sangue misto a vomito gli colarono giù dal mento. Fu solo un fulmineo flash, nella sua mente, ma capace di essere nitido e preciso come la sequenza di alcuni fotogrammi.

“Ricordo… sì, mi ricordo… stavo per evadere in quel giorno lontano…la libertà era a portata di mano, mancava pochissimo… e poi… fu un attimo. Un sorriso sprezzante, uno sguardo carico di freddezza… un colpo, uno solo. Ma talmente forte da sconquassarmi fino al midollo… da farmi tremare le ossa, tutte insieme…”

Tange non riusciva neppure a gridare, in preda all’angoscia qual era: si teneva la testa tra le mani, fissando, sconvolto, il suo ragazzo riverso per terra, con gli occhi sbarrati. Yoko, invece, tremava impercettibilmente in tutte le membra: ma non avrebbe fatto nulla. Joe doveva uscirne da solo. Anche se stava morendo dalla preoccupazione, doveva dargli fiducia ed aspettare. Non poteva e non doveva fare altro…

Cosa che accadde.

Come riscuotendosi da un torpore letargico, Joe mosse le braccia e le gambe, mise a fuoco il soffitto, battendo le palpebre… e rise. Una risata liberatoria, di petto. Con un colpo di reni, si rimise poi in piedi fronteggiando un Carlos sempre più stupefatto dalle sue capacità di pronta ripresa. Con un gancio al corpo seguito da un potente diretto, Joe esasperò il venezuelano, al punto che questi pensò bene di omaggiarlo del suo “gancio di gomito”, come Joe stesso amava definirlo. Pur grondando sangue dal labbro spaccato, Joe non esitò per un solo istante a provocarlo:” Ma bravo! Lo stavo aspettando, il tuo colpo segreto! Chissà… magari ti sarà utile per conquistare il titolo mondiale…”

“Basta, ragazzi, basta! Non voglio che continuiate! Carlos,” urlò Robert “Non voglio responsabilità verso Yabuki, potresti fargli male!”

“Tranquillo, signor procuratore… da quando sono al mondo non ho mai voluto che nessuno fosse responsabile per me!” chiosò Joe, all’indirizzo di Harry Robert.

Quest’ultimo, esasperato, si rivolse alla padrona di casa “La prego, miss, faccia suonare il gong! Li faccia smettere!”

“No. Devono continuare.” replicò Yoko, in tono fermo e gli occhi fissi sul ring, intenta ad osservare i due uomini che continuavano a colpirsi a vicenda, senza smettere un secondo. Joe, poi, sferrava i suoi pugni, pur sputando sangue e vomito. Ma senza che il suo sguardo perdesse mai in intensità.

“Joe deve continuare, finché non avrà tirato fuori tutto il marcio che gli si annida dentro e che non gli permette di essere libero…”

“Ma… come…” farfugliò il povero Harry.

Né lui, né Tange, tuttavia, esitarono un solo secondo ad agguantare ciascuno il proprio protetto, non appena ebbero visto Joe e Carlos, stanchi ed ansanti, staccarsi un momento a studiarsi… solo così si poté metter fine a quell’incontro improvvisato.

In silenzio, Yoko girò sui tacchi ed uscì dalla sala.

°°°°°°

Qualche ora dopo…


Si sentiva stanca e pure un po’ indolenzita: si massaggiò la nuca e la base del collo, sospirando flebilmente.

Ormai era sera, ma non si decideva a tornare a casa, alla sua villetta solitaria. Pure la palestra era, adesso, tranquilla ed immersa nel silenzio più totale. Ma, a parità di solitudine e di silenzio nel vespro, Yoko preferiva quelli della sua palestra: almeno, fino a qualche ora prima lo Shiraki Boxing Club aveva risuonato di voci, e v’era stata vita. La cura e l’allenamento dei suoi pugili, che costituivano il suo orgoglio di donna d’affari e di appassionata di boxe, le riempivano le giornate. Unica donna in un universo di uomini, Yoko stava affermando, pur con fatica ed a prezzo di critiche e di motteggi dal sapore altamente misogino, un posto tutto suo nel mondo della boxe nazionale giapponese.

Si tolse le scarpe ed allungò un poco le gambe sulla scrivania, cercando di rilassarsi: al diavolo le buone maniere, tanto non la vedeva nessuno… a quell’ora pure il suo segretario se n’era già tornato a casa. Chiuse gli occhi, cercando di fare mente locale su quanto accaduto qualche ora prima.

Joe si era liberato.

Lo aveva visto combattere contro se stesso, più che contro Carlos Rivera... Yoko aveva assistito ad una ribellione di Joe contro i propri mostri interiori: trepidante, lo aveva osservato vomitare boxando contro il suo avversario, mentre gli occhi gli rilucevano di nuova vita. Alla fine, lo spirito combattivo, che era l’essenza di Joe, quella più intima e vera, aveva prevalso su inibizioni legate all’inconscio.

“Un’araba fenice… Joe è come l’uccello mitologico che sa rinascere dalle sue stesse ceneri…” rifletté Yoko.

Persa com’era nelle sue meditazioni, non udì bussare alla porta: sobbalzò, quindi, non appena vide una sagoma ben nota stagliarsi sulla soglia del suo ufficio.

“Joe…”

“Scusami, non volevo spaventarti. Ho bussato, ma non avrai sentito…”

“Nessun problema, figurati.” riuscì lei a replicare, sforzandosi di ricomporsi “Vieni, accomodati. Posso offrirti qualcosa… un caffè, una bibita?”

Yoko si alzò in piedi, arrossendo leggermente, dato che Joe le osservava, incantato, i piedi scalzi. Cercò di nascondere il suo imbarazzo voltandosi a preparare del caffè: “Un caffè andrà bene: ne prendo uno anch’io…” mormorò, quasi parlando a se stessa. Il cuore le batteva nel petto furiosamente: le pareva quasi che persino Joe potesse udirne i battiti!

“Grazie Yoko, sei sempre gentile”.

Con passo elastico, Joe si diresse all’ampio divano in pelle color cioccolato che faceva bella mostra di sé ad un angolo dell’ufficio presidenziale e che prometteva una seduta molto confortevole: infatti, accomodatosi, si stiracchiò ed emise un sospiro di soddisfazione, cosa che fece sorridere Yoko, intenerita.

“Ecco… a te” gli disse lei con infinita dolcezza, porgendogli la tazza fumante: nel prenderla, Joe posò la mano su quella della giovane, facendola sussultare leggermente.

“Yoko…” sussurrò Joe.

Fu sufficiente.

Yoko lesse negli intensi occhi di lui un muto appello, cui non avrebbe saputo resistere ancora per molto. Cosa che non fece. In silenzio, la giovane posò le due tazze sul tavolino e lì esse rimasero… Il tempo andava sospeso, una volta per tutte, per rubare al destino almeno un attimo di pura felicità: questo lo sapevano molto bene, tutti e due. Si catturarono le mani, l’un l’altro. Le labbra di Joe sfiorarono la pelle morbida e profumata di lei.

E l’abbraccio fu inevitabile.

La stanza si immerse in un magico silenzio, in cui riecheggiarono sospiri e parole d’amore. Si chiamarono l’un l’altro, si cercarono l’un l’altro, incessantemente, senza smettere di guardarsi negli occhi… corpo su corpo, respiro su respiro.

Cuore contro cuore.

Si conobbero in profondità, parlandosi nella lingua più autentica e vera, antica come la terra...

Stanchi e finalmente appagati nel corpo e nell’animo, si assopirono, teneramente allacciati, dopo un ultimo bacio.

Fuori, per le strade di Ginza, centinaia di vite continuarono il loro incessante corso, tra il frastuono delle automobili e le luci accecanti dei neon.

_______________________________________

Spigolature dell’Autrice:

chi mi segue qui su Efp sa bene che non ho problemi con il rating rosso e che amo descrivere l’eros. Ma per questa storia e per questi personaggi ho preferito e preferisco mantenere il rating arancione. L’amore c’è e ci sarà ancora: ma manterrà sempre contorni sfumati e delicati…

Per Joe e Yoko desidero fare così.

Un velo di pudore e di rispetto sul loro amore.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo XII - Nuove albe ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI
 
Yoko si risvegliò poco prima dell’alba.

Già nel corso della notte si era alzata silenziosamente per tirar fuori dallo spogliatoio dell’ufficio un plaid in cachemire, per coprire se stessa e Joe, facendo piuttosto freddo per la stagione invernale ormai inoltrata. Quando distesasi di nuovo sul divano accanto a Joe aveva rimboccato la coperta su di sé e sul ragazzo, questi aveva mugolato qualcosa nel sonno, stringendola con forza come per non farla muovere più, cosa che l’aveva fatta sorridere, intenerita. Si era concessa il lusso di contemplarlo: dormiva sereno, con i tratti distesi, russando leggermente. Sembrava innocente come un bambino, il suo campione invincibile.

Dolce, indifeso.

Lo aveva quindi imprigionato a sua volta tra le sue braccia, accarezzandogli i capelli lievemente, per non destarlo. Il sonno aveva tardato ad arrivare: erano successe così tante cose, nelle ultime ore, tanto che i picchi dell’adrenalina si erano fatti sentire e a lungo. Quello poi che, poco prima, era accaduto tra lei e Joe era stato assolutamente inaspettato, per tutti e due. Forse neppure Joe lo aveva creduto possibile e si era recato da lei senza sapere bene come comportarsi. Ma i sentimenti che provavano l’uno per l’altra, alla fine, l’avevano avuta vinta su inibizioni e su sterili “questioni di principio”. Lei stessa era stupita per essersi lasciata andare così, in modo totale. Dopo la morte di Tooru aveva deciso di dedicarsi completamente al lavoro, senza più coinvolgimenti emotivi con un altro uomo. Invece il suo cuore aveva deciso diversamente, palpitando di nuovo: quel ragazzo sbruffone l’aveva fatta capitolare.

Chissà… magari già ai tempi del riformatorio, quando tra lei e Joe gli scontri verbali erano stati anche molto accesi, dato che il ragazzo era stato solito rivolgersi a lei spesso in modo sarcastico e poco gentile, in realtà stava già nascendo un profondo sentimento. Quando finalmente era riuscita ad assopirsi, cullando Joe sul suo seno, per la prima volta dopo tanto tempo si era sentita completamente serena, in pace con se stessa ed appagata.

Cominciava ad albeggiare proprio allora: il sole fece il suo timido ingresso nel cielo di Tokyo per inaugurare una nuova giornata invernale, fredda ma serena.

Con delicatezza, Yoko si sciolse dalle braccia di Joe, rimboccandogli bene le coperta sulle spalle nude per non fargli prendere freddo. Si alzò, stiracchiandosi pigramente ed infilandosi una vestaglietta di ciniglia, in modo da poter preparare qualcosa di caldo per colazione. Mentre si scaldava l’acqua per il caffè all’americana nel piccolo angolo cucina dell’ufficio*, Yoko fece una capatina nella sua sala da bagno personale, per farsi una rapida doccia e per darsi una spazzolata ai capelli. Si osservò poi allo specchio, sorridendo tra sé e sé per la luce speciale che ora vedeva nei suoi stessi occhi e per il colorito roseo e sano delle guance: ma allora era proprio vero che l’amore sapeva regalare una bellezza tutta speciale... Mentre si acconciava i capelli, spruzzandovi un soffio di lacca, andava ripensando, con dolce languore, ai momenti magici trascorsi tra le braccia di Joe, cui si era abbandonata totalmente, senza remore né vergogna, sentendosi perfettamente a suo agio ed in pace con se stessa. Anzi: non avrebbe mai immaginato che un ragazzo irruente come lui potesse essere passionale ma anche delicato e gentile, capace di accarezzarla con infinita dolcezza.

Tornata in stanza, si diresse silenziosamente all’angolo cucina per preparare l’infusione del caffè e per zuccherarlo. Se ne versò una tazza, ristorandosi con il forte aroma dell’arabica. Poi, a passo leggero, si avvicinò al divano con una tazza di caffè per mano, un po’ come aveva già fatto appena qualche ora prima quasi per un déjà vu, e, posati i mugs sul tavolino, si accorse che Joe, nel frattempo, si era svegliato. Questi, tiratosi su a sedere, le scoccò quindi un’occhiata intensa, senza dire nulla; poi, non appena lei si fu chinata per baciarlo, la afferrò per la vita con fare possessivo e se la fece sedere sulle ginocchia.

“Buongiorno…” gli sussurrò Yoko “…dormito bene?” quando riuscì a prendere fiato dal lungo bacio con cui Joe le aveva dato il suo, di “buongiorno”.

“Mai stato meglio.” sorrise lui, continuando a baciarla sul collo con delicatezza.

“Gradisci un caffè?”

“Dopo…”

La fece distendere sul divano e, sciogliendo il nodo della cintura, le dischiuse la vestaglia, per poter nuovamente ammirare il suo corpo, stavolta reso luminoso dalla dolce luce dell’alba.

“Sei bellissima…candida come la neve…” mormorò, accarezzandole il collo e le spalle per poi catturarle le labbra.

“Joe…”

“Mmh…?”

“Forse dovresti telefonare a Tange… sei stato fuori tutta la notte…” riuscì lei a proporgli, tra un bacio e l’altro.

“Dopo…” ripeté lui, omaggiandola di un luminoso sorriso e ricominciando a baciarla ovunque, facendola sospirare.

“Non riesci a dire altro che ‘dopo’? Sei monotono…” celiò lei, ridendo, cingendogli le spalle con fare languido.

“E tu parli troppo.” replicò lui con la voce resa roca dalla passione, stringendola a sé. Affondò il viso nei capelli di lei, per aspirarne il profumo.

Ancora una volta il caffè venne abbandonato sul tavolino a raffreddare…

°°°°°°°

Un paio di ore dopo, Joe, fischiettando, si accinse a prendere la metropolitana per poter far ritorno a casa. Camminava si può dire ad un metro da terra. Finalmente, dopo tanto tempo, si sentiva sereno ed in pace con se stesso. Accidenti che eventi aveva vissuto, appena qualche ora prima… Dopo intere settimane in cui si era limitato ad andare avanti, quasi trascinandosi per pura inerzia, cercando di trovare solo in se stesso abbastanza fiducia e speranza per non arrendersi all’ineluttabile, ecco che ora poteva respirare a pieni polmoni in una serena e luminosa mattinata invernale. Erano state sufficienti solo poche ore, per stravolgere completamente la sua vita, sia come pugile che come uomo. E pensare che appena il giorno prima le cose sembravano essere giunte ad un punto di non ritorno. Persino Tange, infatti, giorni addietro gli aveva voltato le spalle, mettendolo di fronte al fatto compiuto con un biglietto di commiato. Il buon Nishi, suo antico compagno di cella al riformatorio, dopo aver chiuso con la boxe, se n’era andato a vivere per conto proprio, essendo desideroso di una vita tranquilla e regolare con un lavoro, con un tetto sulla testa e… chissà: magari pure con una moglie giovane e graziosa al proprio fianco.

Eppure… se anche tutto il mondo della boxe gli aveva sbattuto la porta in faccia decretando la sua fine come pugile, c’era stata una persona che non aveva smesso di credere in lui, dimostrandolo a pieni fatti.

Yoko.

Solo a pronunciare il nome di lei, a mezza voce, Joe provava una sensazione di dolce languore che lo pervadeva sino alle più profonde fibre del suo essere…

La sua donna.

Ecco: finalmente poteva pensarlo senza sentirsene turbato o non all’altezza. Lui non se l’era bevuta per nulla la storiella del pugile straniero capitato per caso in Giappone a disputare degli incontri sotto l’egida dello Shiraki Boxing Club per conto della bella ereditiera “fissata” con la boxe… incontri che, putacaso, vedevano come avversari proprio gli ultimi tre sfidanti di Joe! Carlos aveva già affrontato e battuto Nango ed Harajima. Mancava ormai solo Ozaki, per chiudere il cerchio. Joe emise una lieve risata: era quasi come se Carlos, in un certo senso, fosse giunto a Tokyo per “vendicare” il suo onore! Il venezuelano gli aveva saputo trasmettere la sua carica ferina, potente ed inarrestabile: in Carlos Joe aveva riconosciuto subito un suo simile.

Un uomo dalla pelle dura, cresciuto per strada, senza regole e senza remore.

Un uomo che sapeva prendere la vita a morsi, con ardore e con coraggio.

Un uomo che aveva la fame del ring, per il quale i rounds non erano mai abbastanza lunghi.

Avevano picchiato duro, tutti e due su quel ring della palestra Shiraki: non si era trattato di un allenamento, proprio per niente. E Joe non si era limitato affatto a fungere da sparring partner a Carlos Rivera. E Yoko aveva accettato questo match improvvisato perché lei sapeva che era proprio di questo che lui avesse bisogno, per superare il blocco psicologico che per mesi lo aveva inibito e che gli aveva impedito di essere se stesso sul ring. Intuito femminile, forse? Chissà. Joe sorrise tra sé e sé, felice di poter immaginare la sua innamorata come una fata benefica o un angelo custode, capace di venirgli in aiuto al momento opportuno. A differenza degli altri, capaci solo di allargare le braccia in segno di resa, Yoko aveva reagito, mettendolo nella condizione di potersi rimettere in gioco, di dimostrare a tutti, Tange compreso, che lui non era affatto finito. Averla tra le sue braccia era stato un regalo inaspettato del destino, di cui lui stesso era ancora incredulo.

Arrivato alla stazione di Minami Senju, vicina al quartiere del ponte Namidabashi**, Joe si fermò al passaggio a livello, insieme ad un gruppetto di persone, in attesa che passasse il treno che stava per arrivare proprio allora, quando, all’improvviso, si avvide che un bambino, cui era sfuggita la palla, aveva pensato bene di attraversare le sbarre abbassate per andare a recuperarla sulle rotaie, provocando le urla terrorizzate della sua povera madre!

“Ma porc…!” imprecò Joe, infilandosi subito sotto le sbarre per andare ad acciuffare il bimbo imprudente. Si sentì però spintonare sullo sterno, rinculando così al di qua delle sbarre: Joe, mentre si rialzava da terra, poté osservare la velocità fulminea con cui un uomo, sbucato chissà da dove, avesse oltrepassato le sbarre, agguantato in qualche modo il piccolo scavezzacollo e riattraversato il passaggio… il tutto in una manciata di secondi! L’eroe improvvisato era riuscito a salvare il bambino appena per un pelo, dato che il locomotore del treno sopraggiunse subito dopo.

“Grazie…grazie…” riuscì solo a dire la giovane madre, in ginocchio e tra le lacrime, mentre stringeva al seno il figlioletto con fare convulso.

“Non c’è nulla da ringraziare. Si calmi ora: è tutto passato.” replicò l’uomo in tono pacato.

Joe lo scrutò con attenzione. Doveva essere sulla cinquantina o giù di lì. Molto ben portante, era snello e di media statura. Ma c’era qualcosa in quel viso che lo turbò senza quasi rendersene conto… era come una sensazione o una forma di intuito. Eppure, nonostante l’incontestabile natura eroica del gesto dimostrato, Joe provò istintivamente disagio e nervosismo nei suoi confronti. Finalmente quelle benedette sbarre si sollevarono e lui poté, a grandi passi, allontanarsi da lì.

“Ehi… ragazzo, aspetta un momento. Vorrei parlarti: è da un po’ che ti vengo dietro.”

Se c’era un modo sbagliato per interagire con Joe era proprio quello di farlo sentire braccato.

“Non La conosco. Che cosa vuole?!” gli brontolò osservandolo un po’ di scarto.

“Te l’ho detto. Parlarti.” al che gli si avvicinò un poco. “Ho già conosciuto il tuo coach ed ho parlato con lui. Ora però è giusto che ci conosciamo pure noi due.”

Joe tornò a voltargli le spalle “Non mi interessa.” replicò, secco, riprendendo a camminare.

“Aspetta…” Hiro Nakamura gli corse dietro e gli posò la mano sulla spalla, per farlo fermare.

“Toglimi. La. Mano. Di. Dosso.” sibilò Joe, che si stava irritando sempre di più.

“NO: ed ora, che mi fai? Mi picchi?” insinuò l’altro, ironico.

Joe, imprecando a denti stretti, si divincolò dalla presa con uno strattone e si girò a guardare l’uomo negli occhi: gli parve davvero di specchiarsi e di vedere un altro se stesso. Una versione ovviamente più matura… ma la somiglianza era incontestabile! Non sapeva neppure lui che cosa provasse, in quel momento… un coacervo di sensazioni contrastanti e poco distinte nei confronti di quell’uomo gli si agitava dentro e gli faceva sentire dei forti crampi alla base dello stomaco.

Rabbia.

Paura.

Imbarazzo.

Risentimento.

Un accenno di tutte queste cose, che si alternavano l’un l’altra, come in una spirale impazzita che non smette di girare e girare. Ovviamente Joe non nutriva dubbi sul fatto che costui fosse quel Nakamura di cui Tange avesse provato a parlargli. Però non riuscì a replicare, ad offenderlo, a prenderlo a pugni. Non riuscì a fare nulla. Joe se ne rimase zitto, a fissare suo padre negli occhi, con le mani infilate in tasca. Nakamura non si sottrasse a quello sguardo. Rimasero a fissarsi per qualche minuto. Poi le note di un motivo malinconico si diffusero nell’aere. Hiro Nakamura si era messo a fischiettare la triste musica che per tanto, troppo tempo era stata unica compagna di vita per Joe.

Quando aveva vagato di città in città.

Quando aveva passato molte notti all’addiaccio.

Quando si era sentito solo.

La conosci questa musica?” gli chiese Nakamura con un tono raddolcito. Avrebbe voluto afferrarlo e stringerselo addosso sul suo petto, come quando era un neonato… farlo sentire protetto e sicuro come allora… Gli occhi gli si riempirono di lacrime… il suo ragazzo. Come si era fatto bello e forte…non avrebbe mai smesso di guardarlo. Notava alcuni particolari, sul viso di Joe, che gli ricordavano anche la sua povera Kahori: i lineamenti del figlio erano più gentili dei propri e la curva delle labbra era la stessa di quelle della maiko più bella di Gion…

“Sì. La conosco. La conosco benissimo.” rispose Joe con voce atona, spezzando l’incantesimo. Poi si voltò e se ne andò.

Hiro Nakamura, affranto, si lasciò scivolare a terra, in ginocchio.

°°°°°°°

“Eccomi, sono tornato.” borbottò, una volta rientrato a casa.

“Dove cavolo sei stato tutta la notte, eh? Io stavo morendo dal pensiero che ti fosse successo qualcosa! Mi avevi detto che avevi una persona da andare a salutare e poi non sei più tornato a casa!! Vuoi farmi morire dal crepacuore, eh?!?”

“Ehi ehi calma! Non sei morto di crepacuore quando mi hai mollato da solo, qualche giorno fa, mi pare…ora cosa ti prende?” brontolò Joe, sfilandosi la maglia e grattandosi la testa. Ci mancava pure Tange con i suoi sfiancanti predicozzi!

Tange sospirò, il mento sul petto. “Joe… ragazzo mio… tu hai ragione. Io ho sbagliato. Pensavo di fare la cosa giusta per te. Invece tu avevi bisogno del mio sostegno… non mi perdonerò mai per averti lasciato solo… ma ora sono di nuovo qui e non ti mollerò più per un solo attimo!”

Joe roteò gli occhi al soffitto, esasperato. Salì la scaletta di legno per andare a cambiarsi. “Va bene, va bene… non ne parliamo più” cominciò a dire più gentilmente, una volta ridisceso in tuta e scarpe da corsa “da oggi in poi desidero che mi alleni per come si deve: voglio tornare sul ring il prima possibile e mostrare a tutti chi è Joe Yabuki. Ci stai?”

“Certo… ed io farò di tutto per trovarti uno sfidante, anche a costo di andare a strisciare alla Federazione…”

“Ora non esagerare. A proposito: tra una settimana Carlos Rivera incontrerà Tiger Ozaki e Yoko mi ha regalato due biglietti per le prime file. Ci andremo insieme a vederlo, il vero Carlos: eh, che ne dici?”

Senza neppure attendere una risposta, Joe uscì dalla palestra, lasciando Tange visibilmente perplesso. Cominciò quindi a correre in modo sostenuto e ritmato, per aiutarsi a non pensare più a nulla.

°°°°°°°

Korakuen Hall, una settimana dopo, alle ore 21.00

Joe e Tange presero posto, guardandosi intorno: non avevano mai visto, prima d’ora, così poca gente assistere ad un incontro di boxe. Men che meno quando si trattava di un match con un campione della categoria dei pesi medi del calibro di Tiger Ozaki. Evidentemente, la gente si era stufata di vedere incontri noiosi portati poi a fine con un colpo “fortunato”: di sicuro, Carlos Rivera non aveva riscosso molto successo in Giappone, quanto a popolarità. Pure negli articoli dei quotidiani sportivi si poneva l’accento più sull’aspetto “esotico” del bel venezuelano e sulle sue scorribande notturne nei locali di Tokyo, piuttosto che sulle sue doti sportive…

“Accidenti, che deserto. Peggio per loro: non sanno cosa si perdono…” sussurrò Joe.

“Eh? Cosa intendi dire?”

“Intendo dire che mentre boxavo con Carlos, qualche giorno fa, ho conosciuto le sue potenzialità: altro che brocco. E non credo proprio che stasera farà il teatrante, tuttalpiù che questo sarà il suo ultimo match qui da noi.” sorrise Joe, sibillino.

“Queste cose te le ha dette Yoko, giusto? A proposito, ehm… ma che stai combinando… con la signorina Shiraki, intendo dire?” osò chiedere Danpei, arrossendo dall’imbarazzo.

“Scusami, vecchio, ma questi non sono affari tuoi. Ed ora concentriamoci sull’incontro di stasera.”

Tange lo osservò per qualche secondo. Niente da fare: quando Joe erigeva un muro col prossimo non c’era modo di avere risposte. Anche se, a volte, certi silenzi sanno essere molto eloquenti… Ad ogni modo, non avrebbe mai e poi mai forzato il suo ragazzo a confidarsi con lui: avrebbe deciso Joe se e quando farlo.

Intanto che aspettava l’ingresso dei due sfidanti della serata, Joe vide arrivare Yoko, in compagnia del suo segretario e di suo nonno. La giovane si voltò verso di loro e li salutò con un lieve cenno del capo. Tange si alzò in piedi e si inchinò rispettosamente. Joe sollevò brevemente la mano, come se niente fosse. Dall’esterno non apparve esserci nulla di nuovo, tra loro due: nessuno dei pochi astanti, neppure il più ficcanaso dei giornalisti, avrebbe mai potuto vederci chissà cosa, tra il pugile e l’ereditiera. Joe e Yoko avevano infatti deciso insieme di tenere celata al mondo la loro relazione, per proteggerla dai pettegolezzi, dalle cattiverie e dai pregiudizi. Ci fu quindi solo un breve istante, prima che Yoko prendesse posto, in cui lei e Joe si accarezzassero con lo sguardo, come per un segreto messaggio d’amore.

Ecco giungere i due pugili, ognuno accompagnato dal proprio team. Joe notò il loro diverso atteggiamento. Mentre Tiger Ozaki e compagnia erano tutti sorridenti come in vista di una scampagnata, Carlos ed Harry avevano sul viso un’espressione fredda e concentrata.

Un’espressione spietata.

“Eh già… stasera non credo proprio che farai l’attore, amico… Tiger se la vedrà molto brutta!” rifletté Joe, il mento appoggiato sulle mani, i gomiti sulle ginocchia, mentre osservava i preparativi sul ring degli sfidanti.

Lo speaker salutò gli spettatori e procedette con la presentazione dei due pugili; dopodiché, inaspettatamente, Carlos gli strappò il microfono di mano.

Buena tarde e scusatemi. Volevo dire che questo match non durerà dieci riprese. Ne avrà una: una soltanto.”

Joe sorrise, commuovendosi ad un ricordo… una frase simile l’aveva già udita, tanto tempo prima.

“Uno solo. Mi basterà un solo round per sistemare questo dilettante.”

Solo Tooru Rikishi lo aveva saputo rimettere al suo posto. Gli aveva insegnato ad essere umile ed a rispettare le regole della boxe. Il ragazzo di strada dalla rissa facile aveva imparato a mangiare la polvere. C’è sempre qualcuno più bravo e più in gamba: con Tooru aveva appreso questa importante lezione di vita…

Finalmente iniziò il match. Carlos avanzò subito verso Tiger con un magnifico gioco di gambe: lo raggiunse, rapido e fatale come un animale predatore. I suoi magnetici occhi verdi quasi ipnotizzarono Ozaki, il quale non fece in tempo a fare proprio nulla: non poté aggirare la difesa di Carlos, né, tantomeno, portare a segno anche un solo pugno. Il venezuelano schivò facilmente i colpi di Tiger e, scansatogli il braccio per aprirgli la difesa, gli assestò un uppercut poderoso… Ozaki venne sbalzato verso l’alto per poi piombare a terra a corpo morto. Il tutto si era compiuto in venti secondi netti. L’arbitro, anch’esso basito per la velocità con cui Carlos Rivera avesse stracciato il suo avversario, non poté che sollevare il braccio del venezuelano, decretando l’avvenuto ko tecnico per Ozaki. Il team di Tiger Ozaki si premurò immediatamente di prestargli soccorso, facendo intervenire il medico di gara. L’ex primo in classifica dei pesi medi giapponesi venne portato d’urgenza all’ospedale più vicino. Nella sala del Korakuen Hall scese un silenzio mortale: i pochi spettatori presenti erano rimasti di sasso.

Venti secondi.

Un incontro di ben dieci rounds era finito al ventesimo della prima ripresa. E l’artefice di ciò era stato Carlos Rivera, il “brocco” dello SBC. Ovviamente i giornalisti presero quasi d’assalto Rivera, Robert e la Shiraki, per capirci qualcosa, dato che ques’ultimo incontro non aveva avuto nulla a che vedere con i precedenti due disputati contro Nango e contro Harajima. Yoko venne intervistata per prima, dato che Carlos Rivera aveva boxato in Giappone sotto l’egida dello Shiraki Boxing Club.

“Shiraki-sama, come può spiegarci un simile ‘prodigio’? gli altri due incontri del suo pugile non erano stati molto brillanti… Carlos Rivera li aveva conclusi al terzo o al quarto round con dei colpi fortunati…”

“Ecco, vedete, non si è trattato affatto di colpi fortunati. Io ho sempre conosciuto le potenzialità di Carlos Rivera. Non per nulla è stato soprannominato ‘il Re senza corona’” spiegò Yoko, con molta pacatezza “A tal proposito, lascio la parola al procuratore di Carlos. Mr. Robert saprà essere di certo più chiaro di me.”

“Miss Shiraki ha detto il vero: Carlos ha delle enormi potenzialità. Vi annuncio anzi che a breve disputerà a Città del Messico l’incontro clou dell’anno: quello per il titolo mondiale.” aggiunse Harry Robert. I giornalisti impazzirono ad una notizia simile e flasharono i tre intervistati, subissandoli di domande, cui Robert rispose di nuovo. “Esatto, sì… José Mendoza combatterà contro Carlos: ho sentito giusto ieri il procuratore del campione mondiale. A fine gennaio avrà luogo il match.

Anche Carlos volle dire la sua e, preso il microfono da Harry, si rivolse ai giornalisti. “Pido disculpas***, se ho recitato una parte. Ho dovuto fingere di essere poco forte per poter fare degli incontri. Sennò nessuno vuole più combattere con me. Ma voglio dire pure un’altra cosa: non intendo andarmene dal Giappone se prima non avrò fatto un altro incontro.” al che Carlos si alzò in piedi e si voltò verso le prime file degli spalti, ove sapeva di trovarvi Joe. Lo cercò con gli occhi e, come lo vide, un magnifico sorriso lo illuminò tutto. Sollevò la mano e puntò l’indice verso Joe, il quale lo fissava stupefatto, incapace di dire alcunché per la sorpresa di essere interpellato in quel modo…

“Eccolo, il mio avversario. Voglio che venga subito fissato un match proprio qui. Voglio Joe Yabuki sul ring!”

______________________________________

Spigolature dell’Autrice:

*mi piace immaginare l’ufficio di Yoko Shiraki come uno di stampo “americano”, dotato di bagno personale, di spogliatoio e di angolo cucina… ricordate il capolavoro di Billy Wilder “Sabrina” (Usa 1954) con la divina Audrey Hepburn?

**Il Ponte delle Lacrime.

*** “Chiedo scusa” in spagnolo

L’angolo del boxeur :

Come termina un match?

L'incontro può terminare: per fuori combattimento di uno dei pugili o, eccezionalmente, anche di entrambi i pugili; per abbandono di uno dei pugili o, eccezionalmente, di entrambi (cosa incredibile a vedersi!); per getto dell'asciugamano (da parte dello staff del pugile: un allenatore SA quando il suo pugile non ce la fa più a continuare); per arresto del combattimento da parte dell'arbitro; per avere i pugili compiuto il numero delle riprese previste (ergo: il match è finito!). Il fuori combattimento (knock out o ko) si verifica quando un pugile (o eccezionalmente entrambi i pugili) è “contato” a terra dall'arbitro fino a 10 secondi. L'abbandono si verifica quando un pugile abbandona il combattimento in quanto non si sente in grado di proseguire; in tal caso egli dovrà alzare il braccio e desistere dal combattimento dirigendosi verso il proprio angolo: quando avviene ciò, egli alza il braccio e pronuncia la parola “abbandono”. Si ha il getto della spugna quando i “secondi” chiedono la fine del combattimento a causa della situazione di inferiorità in cui si trova il loro assistito: vedono cioè che non ce la fa più a continuare e decidono per lui. L'arresto del combattimento per ordine dell'arbitro si ha ogniqualvolta questi reputi che uno dei pugili si trovi in stato di evidente inferiorità oppure non sia in grado di continuare il combattimento per ferite (soprattutto al sopracciglio, dato che il sangue cola nell'occhio ed impedisce di vedere) o per altre cause; nel caso che uno dei pugili (o entrambi) abbia riportato una ferita e l'arbitro non sia da solo in grado di valutarne la gravità, potrà sospendere l'incontro e chiedere l'intervento del medico di gara per un rapido consulto sul ring stesso; quindi deciderà di conseguenza, dopo aver sentito il parere del dottore. Inoltre l'arbitro ha la possibilità di sospendere l'incontro quando ritiene di squalificare uno o entrambi i pugili.
L'incontro può anche essere sospeso dal commissario di riunione per sopravvenute circostanze di forza maggiore (per esempio: il comportamento rissoso del pubblico, che si mette a lanciare oggetti sul ring, un po' come gli ultras del calcio!).

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo XIII - Non si è mai troppo poveri per donare una carezza* ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Carlos si stava annoiando a morte.

Da diversi giorni orsono doveva sopportare i fervorini infiniti di Harry che in tutti i modi cercava di convincerlo a ripartire per il Sudamerica: una puntatina veloce in Venezuela e poi “di corsa a Città del Messico”, per prendere gli ultimi accordi, pure in chiave economica, in vista dell’incontro di boxe dell’anno. Eh no, non si poteva far attendere IL campione del mondo… per chi, poi? Per uno sconosciuto pugile giapponese di dubbia fama?

Harry non aveva esitato a mutare, via via, diversi toni e diverse motivazioni: dal modo di fare gentile ed insinuante, era passato alle minacce financo alle più accorate implorazioni. Nulla da fare: Carlos pareva sordo alla voce della ragione. Alla voce del business, degli affari. Dei soldi: e, in tal caso, i soldi erano proprio tanti, dato che il procuratore di Mendoza pareva disponibile ad un compenso assai lauto per il team di Carlos, anche in caso di sconfitta. Del resto, si sarebbe trattato di un match con un nutrito seguito di appassionati, che avrebbe fatto andare in fibrillazione i registratori di cassa.

Certo, casa sua gli mancava… gli mancava andarsene a zonzo per i suoi vecchi quartieri. Anche se adesso aveva ad Altamira, quartiere “in” di Caracas, una graziosa villetta, adorava gironzolare per il suo vecchio barrio anche solo per respirarne l’aria. Lui non aveva dimenticato le sue origini. Non aveva dimenticato cosa volesse dire resistere alla tentazione di morsicarsi le dita per calmare gli spasmi della fame, né aveva dimenticato cosa volesse dire sentire freddo, di notte, sotto la pioggia battente; neppure aveva dimenticato cosa volesse dire patire il caldo opprimente delle lunghe estati torride, rese insopportabili dall’alto tasso di umidità e dagli insetti.

Adesso che grazie alla boxe poteva vivere dignitosamente, Carlos non aveva scordato gli occhioni sgranati dei bambini poveri davanti ad una pagnotta o ad una barretta di cioccolata: per questo motivo Carlos, tutte le volte che faceva ritorno a Caracas, riempiva alcune sporte di cibo e se le portava con sé in interminabili passeggiate tra una baracca di legno e l’altra, distribuendo ai bambini leccornie e giocatoli, oltre a sorrisi ed a parole gentili. La mala lo riconosceva come “uno del barrio”, per cui lo lasciava compiere in santa pace le sue azioni da buon samaritano. Carlos aveva il buon senso di lasciare a casa le sue mises sgargianti e di buon taglio per recarsi nelle baraccopoli vestito molto semplicemente: un paio di pantalonacci, delle vecchie scarpe, una maglietta sdrucita. La cosa importante era non ostentare in nessun modo il suo acquisito benessere: non era mai cosa buona e giusta sbattere l’agiatezza in faccia alla miseria più nera. Di questo Carlos ne era perfettamente consapevole. Anzi, egli provava quasi vergogna per il fatto di poter combinare il pranzo con la cena e di avere un tetto sulla testa. Quando poi di sera ritornava alla sua villetta si sentiva sollevato e triste al tempo stesso. Certo: per qualche giorno aveva lenito la fame di quei poveri piccoli, ma la miseria avrebbe continuato ad essere, per loro, una compagna di vita. Anche per questo, una volta trattenuta una parte degli introiti del pugilato per la propria sopravvivenza, tutto il resto lo elargiva in beneficenza: gli pareva solo il minimo che potesse fare…

Pranzando insieme ad Harry in un famiresu** ove l’affabile ristoratrice aveva dato il meglio di sé con del delizioso sushi e delle zuppe fragranti, Carlos decise di non ascoltare per tutto il resto della giornata il costante borbottio di Harry per potersene poi andare a zonzo, in totale libertà. Non potendone più del disco incantato di Harry, che ciangottava ormai da ore sulla necessità di “imbarcarsi sul primo volo per Caracas”, Carlos cercò di sviare il discorso sull’ottimo cibo che stavano gustando: “Esta es una buena comida***, ma mai quanto le empanadas**** e la hayaca***** ¿no?”

“Appunto: visto che ti manca tanto il cibo di casa, cosa cavolo stiamo aspettando, ancora? Hai disputato i tuoi tre incontri, come da contratto con Miss Shiraki… dobbiamo tornare, Carlos!!” Harry alzò il tono di voce, cosa che lasciò interdetti gli altri avventori, otre allo chef, che fece capolino, incuriosito, dalla cucina… chissà cosa diavolo avevano quei due gaijin da bisticciare tra loro in quella lingua incomprensibile?

Carlos roteò gli occhi al cielo, sbuffando: accidenti, parlare del cibo di Caracas non era stata una buona idea… una mossa assai poco furba da parte sua, non c’è che dire!

“Ok, Harry, lo sai che faccio sempre quello che vuoi tu… ma stavolta ti chiedo solo di aspettare qualche giorno, prima di tornare a casa… cosa ti costa?” sbottò spazientito “prima lasciami incontrare con Joe Yabuki e poi penseremo a Mendoza.”

“Quante volte devo ripetertelo? L’incontro con José Mendoza si terrà il trentun gennaio e siamo già al venti dicembre! Ma dobbiamo ancora firmare il contratto e verificare le ultime clausole…e poi ti dimentichi, testa di legno, con chi dovrai misurarti? Con il pugile per antonomasia! Uno stilista di prim’ordine, dalle strategie infallibili! Per non parlare delle sue doti straordinarie di incassatore! Dovremo studiare a fondo come affrontare questo benedetto incontro: pensavo di assumere un nuovo team di preparatori atletici e di allenatori… magari dovrai pure seguire una dieta speciale… tu non pensi a nulla di tutto questo, sembra quasi che non ti riguardi! Io mi devo occupare di ogni cosa, mentre tu non fai altro che comportarti come un bambino capriccioso!” brontolò senza tregua alcuna. Harry era davvero esasperato: di solito era sempre riuscito a convincere Carlos a seguire le sue direttive, e nei suoi confronti il “Re senza corona” era stato solito ad obbedire. Ma stavolta gli pareva di avere a che fare con un cavallo imbizzarrito!

“Va bene, va bene… poi ne riparliamo, amigo. Non voglio che litighiamo. Cerca di fissarmi un incontro con Yabuki, pure domani, pure senza pubblico: io, lui, un arbitro, i giudici e stop. Sono disposto ad incontrarmi con lui pure gratis.”

Nell’udir ciò, Harry vide una luce speciale negli occhi di Carlos. Una passione, un fervore assolutamente sinceri…capì che nessuna delle sue razionali argomentazioni sarebbe riuscita mai a convincere Carlos a lasciare il Giappone senza aver prima incrociato i guantoni con Joe. Neppure in cent’anni.

Por favor, parla con Miss Shiraki: sono sicuro che fisserà tutto in poco tempo, è in gamba quella bambola di porcellana… ha del cervello in quella testolina. Mi piace, quella donna. Peccato…”

“Peccato… cosa? Che altro ti frulla nella testa? Non ti sarai incapricciato pure di Yoko Shiraki, spero…” sospirò, con fare rassegnato, il povero manager. Ormai alle stramberie di Carlos non c’era più limite! Certo, Yoko Shiraki era una ragazza assolutamente incantevole, ma una storia di Carlos con lei era impensabile dato che il centro dei loro interessi non era di certo in Giappone! Come mantenere una relazione, a simili distanze? Senza contare le differenze culturali… per quanto Yoko fosse cresciuta ricevendo un’istruzione “all’occidentale”, rimaneva pur sempre, in tutto e per tutto, una donna giapponese… che nulla aveva a che spartire con un sudamericano come Carlos!

“¿Por qué no? Se trata de una hermosa niña, elegante, refinado, inteligente…Me encantó, ya que he conocido…con esa piel blanca… pero espero con usted.” (trad: “E perché no? È una splendida ragazza, elegante, raffinata, intelligente…mi è piaciuta subito, come l’ho conosciuta, con quella pelle candida…ma non ho speranze con lei”) al che Carlos bevve un sorso di tè verde, meditabondo, mentre Harry Robert non osava fiatare, ascoltandolo con attenzione “Yoko è riserva di caccia di Joe Yabuki: l’ho capito subito come li ho visti insieme. In palestra, soprattutto... quando ci siamo ‘allenati’ insieme, tengo la intención de explicar (trad: “Intendo spiegarti”). I loro occhi si cercavano in continuazione, anche se facevano finta di nulla. E non dimentico l’espressione di Yoko quando Joe si è sentito male sul ring…era talmente pallida che credevo sarebbe svenuta.”

“Sì… mi era parso di capire che sia legata a lui… anche se questi benedetti Giapponesi sono imperscrutabili, non esprimono chiaramente i loro veri sentimenti, sono molto più riservati di noi occidentali… beh, dei sudamericani di sicuro!” Harry diede una pacca amichevole a Carlos, il quale si mise a ridacchiare “Fai bene a lasciarla stare, con è pane per i tuoi denti. Però ti prometto una cosa: se riuscirò a farle fissare il vostro match entro Capodanno… allora va bene, Carlos. Mi arrendo.” trasse un lungo sospiro di rassegnazione “Rimanderemo la partenza. Spero solo che le penali da pagare non siano troppo salate…”

“Le penali?” trasecolò Rivera, inarcando le sopracciglia e fissando gli intensi occhi verdi sul viso di Harry.

“Certo, caro il mio alicedelpaesedellemeraviglie in calzoni, le penali!! Sai quelle parolette in fondo ai contratti, con cui ci si impegna a pagare dei bei quattrini se non si rispettano certe condizioni? Mi ero già impegnato con un preliminare ad incontrarmi con il procuratore di Mendoza al massimo per la fine di dicembre: ed invece dovremo restare ancora qui! Sia chiaro: non ci penso proprio a partire ed a lasciarti qui da solo. Noi due torneremo a casa insieme. Anche a costo di dover pagare di tasca mia.”

“Mi querido amigo…” Carlos riuscì solo a fatica a ricacciare indietro le lacrime di commozione “Ti ripagherò sino all’ultimo centesimo, te lo assicuro… dovessi combattere gratis per il resto della vita!!” eruppe Carlos, alzandosi in piedi per andare ad abbracciare l’amico, cosa che lasciò parecchio interdetti gli altri avventori e pure la padrone del ristorante…

Che dire: stranezze da gaijin!

°°°°°°°

Qualche ora dopo, Carlos Rivera aveva deciso di perdersi per le vie di Tokyo, una volta accompagnato Harry al ryokan. Il procuratore aveva preferito tapparsi in camera sua a fare alcune telefonate di lavoro – la prima a Yoko Shiraki… - non essendo interessato a compiere giri turistici per la città. Ora si sentiva più leggero: gli sarebbe pesato, e molto, non avere l’approvazione di Harry. Questi per lui non era solo il suo manager, ma anche il suo più caro amico, quasi un fratello. Lo aveva letteralmente tolto dalla strada, offrendogli la possibilità di un futuro migliore. Credendo nelle sue capacità di boxer, Harry Robert si era dedicato indefessamente a creare un campione formidabile, consentendogli così il riscatto da una vita miserevole. Gli doveva praticamente tutto: per questo motivo il sapere di averlo dalla sua parte in questa sua ossessione per Joe Yabuki lo faceva sentire ritemprato.

Strana città, questa benedetta Tokyo.

Piena di luci, sfavillante di insegne colorate. E questi Giapponesi, così gentili e sorridenti, così affabili…

Ma dov’era la Tokyo dai colori smorti, quella segnata dal dolore e dalla sofferenza? Dov’erano i volti resi anonimi dalla rassegnazione e dall’apatia? Nessun paese al mondo era immune dal cancro della miseria.

Nessuno.

E solo vedendo il dolore e la disperazione si poteva per davvero vedere l’anima di un popolo… quella di chi, con stridore di denti, non intende arrendersi a morire di fame e di freddo, giorno dopo giorno.

Di questo Carlos era assolutamente certo. Chiese quindi un po’ in giro, in un inglese maccheronico inframmezzato dalle poche parole giapponesi che aveva imparato in quella sua prima esperienza da ospite del Giappone. Alla fine, un po’ l’uno, un po’ l’altro passante riuscirono ad indirizzarlo al quartiere di tutti coloro che la speranza in una vita migliore, ormai, l’avevano persa da molto tempo.

Il Ponte delle Lacrime…

“Accidenti che nome” pensò Carlos.

Si fermò in una anonima drogheria che riconobbe dalle mercanzie esposte, dato che gli era del tutto impossibile decifrare quelle benedette insegne. La vista dei kanji continuava ad essere per lui una seria fonte di straniamento… Riempì numerose sporte di cibo di tutti i generi. Poi, ad un certo punto, passando davanti ad un frusto negozietto di vestiti di seconda mano, vide qualcosa che lo fece sorridere da un orecchio all’altro…

°°°°°°°

Finito di allenarsi, Joe aveva pensato bene di uscire a fare quattro passi per rilassarsi giocando un po’ a pachinko in una vicina sala giochi: dopo aver riempito ben due contenitori di biglie, li permutò in cassa in due grosse sporte di dolciumi e di balocchi. Gli piaceva coccolare spesso i monelli del quartiere, che erano anche i suoi fan più accaniti, con qualche regalino: l’atmosfera natalizia, del resto, ben si prestava a queste sue attenzioni. Dedicarsi ai bambini per qualche ora lo avrebbe anche fatto rilassare, dopo l’inaspettata sfida che, giusto qualche sera prima gli era stata lanciata da Carlos Rivera, lasciando tutti di stucco, lui per primo.

Per non parlare poi del suo incontro di qualche tempo prima con Hiro Nakamura…non lo aveva più visto, dopo quell’unica volta, non immaginando di avere perennemente – ed a distanza… - uno strano angelo custode armato fino ai denti. Anche se cercava in tutti i modi di non darlo a vedere a nessuno - a Tange soprattutto, cui di proposito non aveva confidato nulla - Joe era rimasto molto scosso dal brevissimo dialogo tenuto con… suo padre.

Suo padre.

Che strano suono poteva avere, per Joe, quella parola. Se la pronunciava tra sé e sé, se la masticava quasi, come se fosse una strana pietanza da assaporare con cautela. Non avrebbe mai potuto credere, un giorno, di poterla pronunziare pure lui. L’essere un orfano solo ed abbandonato a se stesso era sempre stata per lui come una seconda pelle, di cui non ci si può liberare tanto facilmente. Ed invece… ecco che non era più orfano… chissà… magari era ancora viva pure sua madre, da qualche parte…magari Hiro Nakamura poteva parlargli di lei…

E poi… quella sua figura. Il timbro della sua voce. I suoi occhi…

Joe si era specchiato in un suo doppio, con una diversa storia ed un diverso cognome – Nakamura, altro che Yabuki! - ma pur sempre sangue del suo sangue. Lo odiava ma al tempo stesso era curioso di sapere qualcosa di più. Al contempo sperava di rivederlo come di rifuggirlo. Joe provava sentimenti molto confusi e contraddittori… si sforzava di scacciarlo dalla sua mente, ma il pensiero di Nakamura era sempre lì, vigile e costante.

Sovrappensiero com’era, quasi andò ad urtare contro il piccolo Kinoko, sbucato suo solito chissà da dove, come un piccolo folletto.

“Ehi zio Joe… ma hai la testa tra le nuvole? Mica sarai innamorato, eh?” scherzò il bambino.

“Scemo.” celiò Joe, dandogli uno scappellotto leggerissimo e facendolo ridacchiare.

Subito gli altri quattro birichini arcinoti lo attorniarono, liberandolo dei pacchi e cianciando tutti insieme. Non senza fatica, Joe riuscì a distribuire tra loro, abbastanza equamente, i giocattoli ed i dolciumi, sorridendo nel vederli tanto felici con i suoi regali.

“Iiiiiiiiiihhhh quanti giocattoliii!! Li hai vinti tutti?” strillò Chūkichi, saltellando tutto all’intorno.

“E di che ti stupisci, stupido! Joe è il più grande campione al mondo di pachinko!! Certo che li ha vinti tutti!!” chiosò Saki, prendendo l’amico a… “getate”****** sulla testa, suo solito, con una manina vigorosa, mentre con l’altra teneva una bella bambola.

“Grazie zio Joe, grazie!!” chiocciò Tonkichi, stringendo al petto i morbidi peluches.

“Accidenti, che figata oggi! Un regalo unico!” disse Taro, soddisfatto per il berretto nuovo, con cui si sentiva tanto “cool” ed alla moda.

“In che senso dici ‘un regalo unico’?” chiese Joe, perplesso.

“Eh, circa un’ora fa Babbo Natale in persona ci ha fatto degli altri regali… adesso ce li fai pure tu… quest’anno, come Natale, ci è andata di lusso! Di solito non becchiamo niente! I nostri vecchi non ci prendono nessun regalo…” spiegò Taro, tutto compunto.

“Babbo Natale? Ma che dici… tu ci credi a queste cose?” celiò Joe, infilandosi in bocca un chewingum alla cola, il suo preferito.

“Sì sì, Taro ha ragione, è stato ploplio Babbo Natale!” pontificò Saki, tutta seria.

“Si dice ‘proprio’, tesoro, non ‘ploplio’…” sorrise Joe allo strafalcione della bambina “E poi vorrei vederlo questo vostro Babbo Natale… chissà: magari farà un regalo pure a me. In fondo sono stato buono, no?”

“Ma allora andiamo ai giardinetti!! Prima stava là! Magari ce lo troviamo ancora!” propose Tonkichi, tutto felice.

Joe si lasciò trascinare fino al parco Tamahime Koen da quei piccoli tiranni, un po’ brontolando, un po’ ridendo.

In effetti al parco c’era uno strano tizio travestito da Babbo Natale, che distribuiva dolciumi ad alcuni bambini, mentre canticchiava “Jingle bells”. Uno dei bambini gli tirò la candida barba posticcia, tanto che Joe poté così incrociare lo sguardo con i magnetici occhi di Carlos Rivera. Questi lo omaggiò di un sorriso allegro: “Hola!” gli urlò, saluto che Joe ricambiò con un cenno della mano.

“Ehi ma… che diavolo ci fai qui?”

Al che Carlos gli fece cenno di avvicinarsi.

°°°°°°

Nel frattempo, a Villa Shiraki…

Hatsuyo era inorridita.

Leggeva e rileggeva il report stilatole da Sakamoto, corredato da alcune fotografie. Certo, ce n’erano volute di belle mazzette di yen, ma alla fine il segretario di Yoko si era lasciato comprare.

Un pugile.

Lo temeva, lo presagiva… ma non avrebbe mai pensato che Yoko potesse trascinarsi così tanto nel fango, solo per ribellarsi alla famiglia.

Per chi, poi? Per un ragazzo sui vent’anni, un morto di fame senza famiglia, venuto da chissà dove, che ora alloggiava in un quartiere infimo… Com’era caduta in basso, sua nipote… si era lasciata toccare da quello straccione. Sakamoto non si era lasciato pregare su certi… dettagli. A quanto pare, la sera in cui Joe era andato allo studio di Yoko lo Shiraki Boxing Club non era completamente deserto.

Yoko l’avrebbe pagata cara, questo è certo.

Ma, per prima cosa, era necessario liberarsi di quel mascalzone.

_______________________________________

Spigolature dell’Autrice:


*citazione di Romano Battaglia

**trattasi della translitterazione in giapponese dei “family restaurant”, ovvero dei ristorantini a prezzi ragionevoli a conduzione familiare.

***“È buono questo cibo…”

****empanadas: sono delle paste ripiene e fritte che si trovano in molti modi: ci sono quelle di carne, quelle di formaggio, quelle vegetariane…

***** La Hallaca (o Hayaca) si trova in ogni posto durante il Natale, dato che è un piatto tradizionale di questo periodo. Si tratta di un pasta di farina di mais riempita con diversi ingredienti, tra cui spiccano il pollo (o carne di altro tipo), le mandorle, i capperi e le olive. La pasta viene poi ricoperta con foglie di platano e cucinata. Le donne venezuelane sono solite preparare questo piatto per molte persone e conservarlo in congelatore.

******spesso la piccola, fiera Saki ama dare zoccolate in testa agli altri bambini, usando i suoi geta di legno, ovvero i tipici zoccoli giapponesi
 
§§§§

Ecco… vi lascio questo capitolo introspettivo, in attesa del prossimo aggiornamento, con mooolto più dinamismo, promesso! Volevo solo farvi conoscere Carlos un pochino meglio!

Joe-e-Carlos

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo XIV - Les jeux sont faits ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI
“Nonno, come mai qui? È da tanto che non passi in palestra…”

Yoko fece accomodare l’anziano parente su una comoda poltrona e gli servì dell’ottimo tè bianco. Ormai si vedevano direttamente agli incontri di boxe oppure al ristorante preferito da tutti e due da tempo immemore, ove pranzavano insieme tutti i venerdì.

Mikinosuke Shiraki emise un lungo sospiro, dopo aver sorbito un po’ di tè.

“Sai, la villa ora è così vuota senza di te… tua nonna è sempre più cupa e silenziosa ed io cerco di stare in casa il meno possibile. Sono stanco di questa situazione. Yoko,” al che fissò sulla nipote uno sguardo carico di tenerezza “tesoro mio, vorrei tanto che tu tornassi a casa… ti prometto che non permetterò più alla nonna di darti il tormento. Vigilerò perché ti lasci in pace. Però ti prego di metterci una pietra sopra e di tornare a stare da noi.” posò la mano su quella della nipote per stringerla in una calda ed affettuosa presa.

Yoko era commossa e dispiaciuta di dare un dolore al suo caro nonno. Ma non poteva passar sopra alla cattiveria della nonna, che le aveva gettato in faccia tutto il suo disprezzo e la sua incomprensione. Nei gelidi occhi di Hatsuyo non aveva visto neppure un barlume di bontà e di empatia, ma solo una fredda determinazione: quella di piegarla al suo insindacabile volere.

Senza se e senza ma.

“Nonno, sai che per te farei qualunque cosa.” gli disse con le lacrime agli occhi “ma con la nonna sono arrivata ad un punto di non ritorno. Tu non puoi immaginare le cose orrende che mi ha detto. Mi ha pure dichiarato che io per lei sono come morta. Capisci? E poi…” esitò.

“E poi? Piccola mia, non devi temere di confidarti con me...parla, ti prego.” le disse con tenera sollecitudine.

Yoko strinse con affetto ambedue le mani del vecchio: egli costituiva, ormai, l’unico legame della sua infanzia, dato che i genitori non li aveva più da molti anni e dato che la nonna l’aveva ripudiata. “E poi ci sarebbe dell’altro. La nonna non potrebbe mai né capire, né accettare il mio amore per un uomo che non fa parte della nostra cerchia sociale. E non posso permetterle di rovinare il mio rapporto con lui…”

“Sono felice di sentire ciò: davvero felice. Dopo la morte di Tooru ho temuto che tu non avresti più voluto bene a nessuno.” le mormorò, accarezzandole il viso. “Dimmi, cara: lo conosco?”

Yoko annuì, abbassando il capo.

“Si tratta di Joe Yabuki, non è vero?” le chiese, sorridendole dolcemente.

“S-sì… ma… tu come fai a saperlo?” farfugliò Yoko, alzando il viso di scatto e divenendo rossa come un papavero.

“Beh, sarò vecchio ma non rimbambito!” rise “Mi sono accorto da tempo, sai, di come vi guardate tutte le volte che vi incontrate… Ed anche quando Tooru era in vita si capiva chiaramente che Joe non ti era affatto indifferente… né tu a lui. Quindi ora sei innamorata di Joe.”

“Sì, lo amo da morire...” sussurrò Yoko, abbassando le lunghe ciglia. Dall’intensità e dallo speciale calore del tono, Mikinosuke capì che Yoko era assolutamente sincera.

“E lui? pure lui ti ama?”

“Credo proprio di sì, anche se non me lo dice con le parole… ma tu lo sai com’è fatto.” aggiunse lei, sorridendo.

“Eri già bella, ma con questo amore lo sei ancora di più… il tuo viso risplende quando parli di lui. Hai la mia benedizione, figliola.”

Yoko, profondamente commossa, si sedette sulle ginocchia del nonno, come quando era bambina, per abbracciarlo, guancia contro guancia.

“Fai bene, però, a non dirlo a tua nonna. Non capirebbe. Non ha abbastanza cuore per capire un rapporto come il vostro. Lei vive ingabbiata in un mondo fatto di tradizioni antiquate, da cui non si libererà mai. Non permetterle di ingabbiarvi pure te.” le sussurrò, tenendola stretta a sé, cullandola come quando era piccola.

“Nonno… nonno adorato…” mormorò Yoko, dando sfogo alle lacrime. Finalmente si sentiva accolta e consolata, coccolata come quando era bambina. Dobbiamo a volte ritornare ad essere come dei bimbi indifesi per essere forti per il domani.

“Non l’hai detto a nessuno, vero?” le chiese, accarezzandole i capelli.

“No: tu sei il solo a saperlo. Abbiamo deciso insieme di essere discreti, di proteggere il nostro amore agli occhi del mondo.”

“Fate bene. È un ragazzo in gamba, uno che il futuro se lo costruisce da solo, con il suo talento per la boxe. Ma molti malignerebbero sulla disparità sociale che esiste tra di voi, direbbero le cose più crudeli, anche se solo per invidia… A tua nonna verrebbe un colpo, se lo sapesse!”. Un attimo dopo, un terribile sospetto si fece strada nella sua mente. “Yoko,” cominciò, scostando la ragazza da sé per guardarla in viso “sei proprio sicura di non averne fatto cenno con nessuno?”

“Ma certo, nonno. Anche perché è davvero da pochissimo che stiamo insieme, Joe ed io. Perché mi chiedi questo? Mi stai facendo allarmare!”

“Quindi, il tuo segretario non ne sa nulla?”

“Chi? Sakamoto? No di certo!”

“E allora cosa ci faceva Sakamoto a casa nostra, l’altra sera? L’ho visto uscire dallo studio personale di tua nonna. Lui non si è accorto della mia presenza. Ma non capisco cosa ci facesse proprio lì! Lo sa che non abiti più a villa Shiraki, giusto? Per cui non poteva essere venuto a cercarti per motivi di lavoro.”

Yoko annuì, in silenzio. Cominciava seriamente a preoccuparsi! Sua nonna era una donna fredda e senza cuore. La riteneva ormai capace di qualunque bassezza, pur di allontanarla da Joe, se avesse per davvero scoperto il loro rapporto!

Vedendo l’espressione angosciata di Yoko, Mikinosuke la afferrò per le spalle, guardandola dritto negli occhi “Ti prometto che scoprirò cosa ha in mente tua nonna. Non le permetterò di fare del male: né a Joe, né a te. Hai la mia parola. Voi due, per l’intanto, continuate ad essere discreti e fate finta di nulla.”

“Nonno… grazie.”

“E di cosa?”

“Per essere sempre così buono e comprensivo. A volte mi chiedo perché hai sposato la nonna…Siete così diversi…”

Fu adesso la volta di Mikinosuke a sospirare. “Erano altri tempi, tesoro. Io ero giovane ed ambizioso e stavo facendo carriera, bruciavo le tappe. I miei investimenti in borsa andavano a gonfie vele. Ho sempre avuto fiuto per gli affari… Hatsuyo mi venne presentata una sera, ad un ricevimento… era così bella, Yoko. Un fiore di primavera in pieno sboccio… me ne innamorai perdutamente. Mi sembrava che anche lei mi volesse bene… invece poi scoprii che era perdutamente innamorata di un altro che i suoi non le avevano permesso di sposare, e che l’avevano costretta a sposare me…” raccontò con voce flebile.

Yoko ascoltò, commossa. Ecco dunque cos’era successo. Sua nonna il cuore lo aveva avuto, da ragazza. Poi, in un giorno di cinquant’anni prima, aveva dovuto seppellirlo.

Per sempre.

“Ora vorrebbe spegnere pure il tuo, di amore. Vorrebbe che pure tu facessi un omiai… scommetto che te l’ha anche detto!”

“Sì. Stava già organizzandomene uno.” mormorò Yoko affranta, passandosi la mano sulla fronte.

“Quella donna è pazza.” concluse Mikinosuke, sconvolto.

°°°°°°°

Nel frattempo, in un quartiere lontano dalle luci…

I due giovani si sorrisero, studiandosi a vicenda.

Mani in tasca, Joe si avvicinò a Carlos, che si era seduto su un’altalena a strimpellare un ukulele che aveva acquistato poco prima da un rigattiere, per divertire i bambini.

“Sei bravo.” gli disse Joe, parlandogli, d’ora in avanti, in inglese che, da parlato, non gli era troppo ostico… non quanto lo scritto, almeno. Se poi Carlos si sforzava pure di usare qualche parola in giapponese, seppur frammista allo spagnolo, Joe lo correggeva nella pronuncia, complimentandosi con lui per la buona volontà di comunicare nella sua lingua.

“Muchas gracias.”

“Cosa ci fai qui, Babbo Natale? Credevo stessi in centro, in qualche bell’albergo.”

“Mi annoiavo. Preferisco stare in mezzo a gente umile, amigo. Non sono nato ricco, io.”

Joe lo osservò in silenzio per qualche minuto. “Senti, comincia a far freddo. Ti va di venire da me per bere qualcosa di caldo?”

“De buena gana” (“Volentieri”).

In silenzio, si incamminarono sino alla palestra di Tange, in quel momento deserta: Joe e Carlos non potevano sapere, infatti, che Tange era stato appena invitato da Harry Robert, insieme a Yoko Shiraki, per trattare del loro match. Nel vedere la costruzione in legno, un ampio, luminoso sorriso si aprì sul viso di Carlos. Una volta varcata la soglia, Carlos accarezzò le corde del piccolo ring da allenamento e sferrò un paio di jab al sacco. “Magnífico. Empecé en un gimnasio así (“Magnifico. Io ho iniziato in una palestra così”), mi pare un tuffo nel passato.” Al che rivolse il suo sguardo intenso a Joe, mentre questi era intento con il bollitore del tè.

“Eh, se parli solo in spagnolo non ti capisco…” Carlos tradusse in inglese: Joe sorrise. “Beh, grazie. Questa è la mia dolce casetta*. Se ti piace sono contento.”

Bevvero insieme del tè caldo, sospirando di soddisfazione, dato che la stufa non riusciva a riscaldare completamente la palestra. “Mi piace stare qui, in questo quartiere. Ci sento odore di polvere da sparo, proprio come nel mio vecchio barrio. Avete anche voi problemi con la mala, come da me a Caracas?”

“Beh… a volte. Sai, qui da noi c’è la Yakuza che ogni tanto va a fare una visitina di cortesia ai pochi negozianti…” sbuffò Joe, aggrottando la fronte. Chissà: magari pure suo padre, con quel suo aspetto poco rassicurante, faceva parte di quei…”gentiluomini”. Di certo, non aveva l’aspetto di un tranquillo salary-man o di un negoziante! Pure Joe aveva notato che gli mancava l’ultima falange del dito mignolo: per cui non si faceva troppe illusioni sulla sua identità! Il mutamento di espressione di Joe non sfuggì a Carlos. Gli propose di uscire di nuovo, cosa che Joe accettò. Per un po’ camminarono scambiandosi solo qualche frase di circostanza. Poi tutto ad un tratto, Joe si fermò di botto, fissando negli occhi il suo ospite. “Senti, non faccio altro che pensare alla sfida che mi hai lanciato. Solo che non è possibile un incontro tra di noi… perlomeno, non uno ufficiale. Tu stai per partire per boxare contro Mendoza. Tempo non ce n’è.”

“… E quindi?”

“E quindi cosa ne dici di risolvere la questione tra noi due, subito? Cosa ce ne frega di arbitro e giudici? Noi ci battiamo e chi non si rialza, perde. Punto. Così puoi ripartire pure stasera.”

Carlos ascoltò Joe, un po’ interdetto, per poi scoppiare in una calda risata.

“Che cavolo hai da ridere? Sei scemo o cosa?” brontolò Joe, sentendosi preso in giro e stringendo i pugni.

“Calma, amigo…” disse Carlos alzando le mani in segno di resa “non ti offendere. Ho capito cosa intendi dire e ti ringrazio, se ti preoccupi della mia partenza. Ma io voglio fare un match per come si deve, contro di te. Non una rissa di periferia.” Tornato serio, posò ambo le mani sulle spalle di Joe, fissandolo con i suoi magnetici occhi da pantera: “Ti stimo troppo come pugile… ¿sabes? (“capisci?”) Per questo pretendo un incontro con tutti i crismi, di fronte ad una platea. Lo voglio per te, ma anche per me, se permetti. Solo se sarò riuscito a batterti – perché io ti batterò, sappilo – potrò poi incontrarmi a cuor leggero con José… ho visto qualcosa in te, mentre ci allenavamo alla palestra di Miss Shiraki, che voglio capire…”

Joe scostò le mani di Carlos dalle sue spalle, con garbo ma in modo deciso, e gli voltò le spalle, ricominciando a camminare con le mani in tasca, suo solito. “Sei testardo come un mulo. Dubito che il tuo procuratore ci potrà fissare un match in così poco tempo…”

Il loro dialogo venne interrotto da un richiamo. Si voltarono entrambi, vedendo correre verso di loro il povero Tange, che annaspava, sbracciandosi per far loro segno di aspettarlo.

“Accidenti a te, Joe… è da un po’ che ti cerco… pant pant… ah, bene, c’è pure Carlos… due piccioni con una fava… statemi a sentire…”

“Prima riprendi fiato, vecchio. Mica vorrai farti venire un infarto?” celiò Joe.

“Cretino… stavo dicendo… vengo or ora da una riunione improvvisa con Harry Robert” al che si rivolse a Rivera “ e con Shiraki-san. È tutto stabilito. Se siete d’accordo, vi batterete molto presto, a Capodanno.”

Joe emise un fischio di ammirazione, felice per la notizia. Finalmente sarebbe ritornato sul ring e per battersi con un fuoriclasse come Carlos! Si sentiva quasi rinascere. Presto avrebbe potuto cancellare l’onta dei suoi ultimi disastrosi incontri!

Carlos, invece, era perplesso… non osava lasciarsi andare all’entusiasmo per una cosa che gli aveva detto Harry. “Uhmmm… sarebbe magnifico, davvero… ma ci saranno delle penali da pagare per il mio manager…e mi dispiace.”

“Oh, per questo non ti devi preoccupare. Quell’angelo di Yoko Shiraki ci ha assicurato che alle penali ci penserà lei e che sarà lo Shiraki Boxing Club ad organizzare il match. ‘Consideratelo il mio regalo di Natale per Joe e per Carlos.’**. Così ha detto… santa donna!” sospirò Tange, intenerito.

“Bene… allora, amigo, è fatta: qua la mano!” disse Joe, sorridendo da un orecchio all’altro. Carlos non ricambiò il sorriso: stringendogli la mano con vigore gli scoccò un’occhiata da predatore.

°°°°°°

Qualche ora dopo…

“Possiamo parlare un po’...?” sussurrò Yoko, cercando di riprendere fiato, dopo una dolcissima ora d’amore.

Joe l’aveva letteralmente travolta con la sua passione, lasciandola senza fiato.

“Ti ascolto.” le mormorò, roco, senza smettere di baciarla sul seno, facendola fremere.

“Sei incorreggibile… come faccio a parlarti se non smetti di farmi questo?” celiò lei.

“E va bene” brontolò, distendendosi supino, mani alla nuca “Ora me ne sto buono e tranquillo. Parla.” le disse in tono dolce, mantenendo un lieve sorriso sulle labbra e chiudendo gli occhi, come per ascoltarla meglio.

“Te la senti davvero di incontrarti con Carlos? Non è un po’ prematuro per te… intendo dire, visto che è da poco che hai superato quel tuo… ehm… problema?”

Joe riaprì gli occhi, guardandola intensamente. L’avrebbe guardata per ore ed ore, senza stancarsi.

Mai.

“Non ti devi preoccupare, Yoko. Non ti devi preoccupare di niente…”

Sollevandosi, la cinse strettamente a sé, mettendosela sotto, per ricominciare ad amarla, ancora ed ancora…

°°°°°°

Serata di Capodanno, al Korakuen Hall, ore 21.00.

L’atmosfera, in platea, era a dir poco elettrica. Era stato registrato il tutto esaurito. Gli spettatori avevano fatto code interminabili, nei giorni precedenti, per potersi aggiudicare un biglietto: sia Joe Yabuki che Carlos Rivera erano stati dei potenti poli di attrazione, come la luce dei lampadari lo è per le falene. Cori di incoraggiamento si accendevano, febbrili, un po’ ovunque e per ambo i fronti: con la tipica volubilità umana, il povero Tiger Ozaki era stato presto dimenticato ed i suoi stessi fan ora inneggiavano per Carlos Rivera. I fan storici di Joe, invece, gli rinnovavano la fedeltà del loro tifo. L’incontro venne seguito pure sulla rete nazionale televisiva: appassionati di boxe di tutto il Giappone, vicini e lontani, si accinsero a seguire l’importante evento sportivo.

All’arrivo dei due pugili, la gente si alzò in piedi, scuotendo festoni e scatenando un frastuono assordante: saliti sul ring, sia Joe che Carlos, una volta presentati dallo speaker, salutarono la folla con sorrisi allegri. Si sarebbe trattato di un signor match di ben dodici riprese.

Tange non stava zitto un solo secondo, in preda ad un nervosismo al limite dell’isteria. Aveva una paura folle che Carlos potesse “fare del male al suo ragazzo”. “La vaselina… dove cavolo l’ho messa? Nishi, fagli meglio quelle fasciature, accidenti, così non va bene! L’acqua dov’è… ah eccola.”

“Ehi vecchio, calmati. Sembri il padre della sposa che la stia accompagnando all’altare…” bofonchiò Joe, sfottendolo. Era però un po’ commosso dall’agitazione di Danpei, intuendone la preoccupazione. Lui invece si sentiva proprio bene: respirava a pieni polmoni. Quella sarebbe stata una serata memorabile. Ogni tanto scoccava un’occhiata all’angolo opposto, spiando i gesti di Carlos: quasi come in uno specchio, poteva vedere un Harry Robert agitatissimo mentre il suo avversario pareva calmo e sicuro di sé.

“Vedi di non dire scemate, eh. Mi raccomando: non prenderla sottogamba. Stai attento alla difesa, non ti scoprire troppo e non bruciare tutto e subito! Quello è un furbacchione!”

“Sì, sì… ho capito. Stai tranquillo, dài.”

Joe si volse leggermente e poté salutare, con gli occhi e con il cuore, una pallida signorina seduta accanto a suo nonno. Bastarono pochi secondi per dirsi, grazie allo sguardo, tante, tantissime cose…

Qualche fila più in dietro, un fiero sguardo di giaietto si accinse anch’esso a seguire l’incontro con trepida attenzione.

I due giovani si posero quindi al centro del ring e, dopo i convenevoli di rito, cominciò, finalmente, la prima ripresa.

Essa fu più che altro strumentale, dato che i pugili si limitarono a sferrare sì, qualche colpo, ma solo di leggero disturbo. In realtà Joe e Carlos si studiarono, con calma ed attenzione, girando in tondo l’un l’altro. Incassarono reciprocamente dei ganci al corpo, chiudendo così un round in totale parità di punteggio. Ai complimenti di Tange, una volta seduto al suo angolo, Joe ritenne di replicare: “Nulla di che, vecchio. Carlos non ha usato per niente le sue potenzialità. Mi ha solo studiato… cosa, del resto, che ho fatto pure io.”

Secondo round.

Con un rapido gioco di gambe, quell’esperto stilista di Carlos sospinse Joe alle corde: dopo un rapido e vicendevole scambio di diretti, Carlos lo colpì con un possente gancio al fegato. Joe fu al tappeto. L’arbitro cominciò la conta, interrotta all’ottavo.

“Bene bene, ora ti riconosco… adesso mi sarà più semplice” rifletté Joe. Facendo bene attenzione a non essere stretto troppo, Joe incrociò il suo più potente colpo di incontro di sinistro, cosa che fece cadere Carlos, stavolta, al tappeto. Un po’ barcollante, il venezuelano si rialzò al settimo. Scoccò il gong.

“Carlos, maledizione! Come puoi essere stato ingenuo! Dovresti sapere che Joe si muove meglio negli spazi chiusi! Non puoi permetterti di sprecare troppe energie… quelle riservale per Mendoza!”

No te preocupes, sé lo que hago.” (“Non ti preoccupare, so quello che faccio!”)

“Joe! Bravo il mio ragazzo!” esultò Danpei, medicandolo e facendogli bere un po’ d’acqua.

“Beh, non ti esaltare troppo… secondo me quel furbacchione, come hai detto tu, ha ancora molte carte da giocare… ma non importa: il bello del pugilato è che ad ogni ripresa ti può riservare delle sorprese!”

Suonò quindi la terza ripresa.

I due giovani si scambiarono dei ganci al viso dopo una sequenza di jab e di diretti. Dopo un montante destro di Carlos, Joe si chiuse in difesa, pronto a sferrare un altro colpo di incontro di sinistro, ma l’altro, anticipandone le mosse, si piegò sulle ginocchia, per sferrare un montante sinistro spaventoso. Joe cadde al tappeto e, stordito, riuscì a rialzarsi in extremis, al nono. Inferocito, si mise a provocare Carlos con i guantoni (“Come on!”), dondolandosi sulle corde con fare indolente. Carlos cedette alla provocazione, senza pensare, cosa che permise a Joe di colpirlo di gancio sinistro allo stomaco, cogliendolo di sorpresa. E così pure Carlos ricadde al tappeto, da cui si rialzò all’ottavo. Finalmente finì pure la terza ripresa. Joe stava per tornare al suo angolo, quando si sentì sibilare alle spalle “Ehi amigo, non ti illudere… ho ancora delle carte da giocare. Quando ti riavvicinerai alle corde non ti farò più rialzare.”

Joe impallidì. Carlos non era il tipo da minacciare senza motivo: ormai pensava di aver ben capito che tipo fosse!

Harry, sempre più preoccupato di vedere il suo pupillo cadere al tappeto tanto spesso, continuò con le sue raccomandazioni: “Te lo avevo detto! Yabuki si muove benissimo negli spazi ristretti! Mantieniti al centro del ring!”

“No, Harry. Io voglio batterlo proprio sul suo territorio. Ne faccio una questione di principio.”

Quarto round.

Alle corde, Carlos ripeté il trucchetto della ripresa precedente, abbassandosi cioè sulle ginocchia per schivare il colpo di incontro di Joe, e pensò bene di incastrarlo alle corde con il suo avambraccio sinistro. Con un guizzo beffardo nei suoi occhi di giada, colpì Joe con un montante destro che fece un rumore spaventoso. Ma ancora più spaventoso fu vedere il povero Joe sbalzato fuori dal ring e rovinare in terra, davanti agli spettatori di una prima fila. Molti si alzarono in piedi, sconvolti.

Non ci furono parole per esprimere lo spavento di Tange, di Nishi e, soprattutto, di Yoko, che fu trattenuta da suo nonno a stento. “Stai ferma!” le ingiunse “Non puoi correre da lui. Deve rialzarsi da solo o sarà un KO.”. Tremante e con le lacrime agli occhi, Yoko si risiedette, rigida come il marmo. “Ricomponiti, Yoko… pensa ai giornalisti…” Yoko annuì, inforcando un paio di occhiali scuri, per celare le lacrime.

Qualche fila più indietro, Nakamura era teso come la corda di un violino: il lieve tremolio della palpebra testimoniava il profondo stato di stress. Il suo ragazzo aveva appena fatto una caduta tremenda, e poteva essersi fratturato qualcosa, magari pure la spina dorsale!

Eppure, quell’indomito di un Yabuki era riuscito, mentre intorno a lui si acuiva la preoccupazione più viva, a rialzarsi al settimo, passando da sotto le corde. Si era rimesso in piedi, seppur barcollando e senza neppure vederci tanto bene…

“Te la senti di continuare?” gli chiese l’arbitro.

Joe si limitò ad annuire col capo. Per sua fortuna scoccò la fine della ripresa. Tornato al suo angolo, prese i sensi per qualche secondo, con Tange che, in preda all’agitazione, si mise a scuoterlo per farlo rinvenire.

“Ecco l’acqua, versagliela in testa, così si riprende…” suggerì Nishi, premuroso.

“No, meglio di no. Così la finiamo qua e ce ne andiamo a casa.”

“Ma, vecchio… così perderà l’incontro!”

“Non fa niente.”

“Non fa niente un corno! Guarda che mentre blateravi le tue cazzate io stavo solo riposando un pochino… col cavolo che torniamo a casa! Io posso continuare!”

“Ma Joe…”

In quella scoccò la quinta ripresa.

Alle corde, Carlos cercò di nuovo di bloccare Joe con l’avambraccio come aveva fatto nella precedente ripresa, ma questi, scivolando giù fino alle prime due corde ove si sedette, facendosi sospingere dalle stesse, gli scaricò un montante sinistro talmente potente da farlo ribaltare a terra, ove Carlos rotolò come un tronco inerte. Svenne con gli occhi arrovesciati, sputando sangue a fiotti insieme al paradenti. Poi però, aggrappandosi prima alle corde e poi pure all’arbitro, Carlos riuscì a rimettersi in piedi al nono.

Danpei, felice, si complimentò con Joe per l’ottima performance: non avrebbe mai creduto possibile una ripresa tanto fortunata!

“Non ti esaltare troppo, vecchio… non credo che quel predatore abbia finito, con me…” mormorò Joe, dopo aver bevuto un po’ d’acqua. Gli occhi gli dolevano, nonostante le premurose medicazioni di Tange. Cominciava a sentirsi stanco.

Il sesto round fu un autentico incubo. Forse anche per la stanchezza, Joe non riuscì a schivare nessun pugno di Carlos, il quale gli sferrò dei ganci, al viso ed al corpo, talmente rapidi che non riuscì ad intercettarne neppure uno. Così fu pure al settimo, cosa che fece disperare Danpei, che ricominciò a parlare di “abbandonare il match, prima che tu ti faccia troppo male!

Ma all’ottava ripresa la musica cambiò. Finalmente l’occhio di Joe si era abituato alla velocità di Carlos e riuscì a sferrargli un colpo di incontro di destro. Sia lui che Carlos caddero al tappeto e per ambedue iniziò la conta dell’arbitro. Si rialzarono simultaneamente, alla settima ripresa. Scoccò il gong. “Sai, Joe… è divertente combattere con te…” si sentì dire da Carlos, mentre ritornava, barcollando, al suo angolo. Voltandosi leggermente, e pur con il volto gonfio, riuscì a sorridergli.

Le ultime quattro riprese furono all’insegna dell’equilibrio: ambedue i pugili si limitarono a sferrare colpi di pari potenza, senza che nessuno predominasse sull’altro. Del resto, erano letteralmente sfiniti e proseguivano solo per pura inerzia. Ormai avevano bruciato tutto nelle precedenti riprese. Ciò che contava, adesso, era non mollare la presa e continuare a dimostrarselo l’un l’altro. Ai rispettivi angoli, i due team attesero, trepidanti, il verdetto finale. Raccolti i cartellini dei punteggi, l’arbitro li elencò al pubblico, round per round, per poi decretare il pareggio.

La folla degli spettatori era in delirio.

L’anno nuovo era appena iniziato nel migliore dei modi, grazie al match spettacolare regalato da due straordinari pugili. Due veri fuoriclasse. Sia il nome di Carlos che quello di Joe venne gridato con ammirazione.

E Yoko lasciò, finalmente, che lacrime liberatorie potessero scorrerle sul viso.

__________________________________________

Spigolature dell’Autrice:

come ho avvisato già nel prologo, mi sono concessa qualche licenza poetica, in questa fan fiction, e non solo per la questione dei miei OC, ma anche per alcuni dettagli della storia originale. Ecco, io ho trovato assurda la preoccupazione di Harry Robert per la… “fuga” di Carlos, che a sua insaputa se ne era andato a zonzo per Tokyo. Carlos Rivera non è di certo un pupetto indifeso che ha bisogno della balia! Per questo nella mia storia nessuno va a cercarlo nei quartieri poveri. Abbiate pazienza: a volte io sono più realista del Re… e cerco la verosimiglianza pure nella finzione!

*battuta esistente nell’anime, Serie 2, 11 episodio: mi è piaciuta e l’ho riprodotta.

**idem

************

L’angolo del boxeur :


Abbiamo assistito ad un magnifico pareggio, tra questi due straordinari ragazzi. Ma come si fa il verdetto? Ecco qua per voi qualche nozione spicciola (se la sera faticate a chiudere occhio, ci pensa innominetuo vostra, eheheh), facendo un ripasso di cose che avevo già anticipato:

Vittoria per KO: vabbè, lo sapete tutti…avviene quando uno dei due contendenti finisce al tappeto e ci resta per tutto il conteggio dell'arbitro, cioè 10 secondi.

Vittoria per KO tecnico. Si dice KO "tecnico" perché viene decretato dall'arbitro quando giudica uno dei due contendenti non più in grado di proseguire il match. Spesso in seguito a ferita l'arbitro chiede il parere del "medico di gara" e poi decide. L'importante è che l'eventuale ferita sia stata procurata con colpo giudicato "regolare" dall'arbitro stesso. Il Ko tecnico si verifica (a seconda dei regolamenti) dopo 3 knockdown (atterramenti) senza che si arrivi al 10° dell'arbitro) nella stessa ripresa.

Vittoria per RTD (Ritiro): si verifica quando uno dei due contendenti decide di ritirarsi dal match. Può essere spontaneo o meno, dettato dal pugile stesso o dal suo allenatore, col lancio della spugna sul ring. Ai fini del record di un pugile, le vittorie per KO, per TKO o per Ritiro dell'avversario, contano tutte come vittorie per KO.

Vittoria per squalifica: La squalifica può avvenire per tantissimi motivi quasi tutti a discrezione dell'arbitro. No Contest: praticamente sono squalificati ambo i pugili… è come se il match non si fosse mai disputato!

Le vittorie ai punti.

Sono facili da considerare ma bisogna riferirsi al numero dei giudici e non ai punteggi. I punteggi a favore o sfavore emessi da parte dei vari giudici non si sommano.

Vittoria ai punti per decisione unanime: si verifica quando tutti i giudici danno la vittoria allo stesso pugile 3 giudici a 0. La vittoria meno discutibile tra quelle ai punti, quella più insindacabile.

Vittoria per "split decision": due giudici a favore di un pugile e uno contro. Verdetto incerto e spesso discusso visto che non c'è stato totale accordo fra i giudici: a volte discutono animatamente!

Vittoria per "majority decision": due giudici a favore di un pugile e uno che dà il pareggio.

Vittoria per decisione tecnica: nei casi in cui prima della fine regolare del match si va alla "lettura dei cartellini", con cui vince il pugile in vantaggio.

Ed ecco i pareggi!

Draw (Pareggio): tutti e tre i giudici danno verdetto di pareggio.

Majority Draw (Pareggio di Maggioranza): due giudici danno il pari e uno no.

Tecnical Draw (Pareggio Tecnico): Si procede alla lettura dei cartellini se si sono comunque fatte un numero tot di riprese. In match di 10 o 12 round, per esempio, se non si è ultimata la quarta ripresa ecco che si dà il pari tecnico. In altre parole, il pari tecnico non è altro che una decisione tecnica avvenuta nelle primissime riprese e per questo non si è in grado di decretare un vincitore in modo assoluto e preciso.

Vi lascio questa bella immagine:

Joe-contro-Carlos-Rivera

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo XV - Cattive notizie ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI
Aeroporto di Narita.

“Allora Señorita Yoko… muchas gracias di tutto e a presto. La aspetto nella mia Caracas.”

“Ne sarò felicissima e sono sicura che in quella occasione festeggeremo per il titolo mondiale!” Yoko sorrise.

Si era ormai affezionata a quel dongiovanni. L’esuberanza di Carlos Rivera, così lontana dagli standard comportamentali giapponesi, dapprincipio l’aveva infastidita, poi ci si era abituata. Alla fine l’aveva accettata come facente parte del carattere del venezuelano. Le sarebbe mancato, di questo ne era certa. Ed era altrettanto certa che Carlos sarebbe mancato ancora di più al suo Joe.

“Lo spero… e spero che verrà insieme a Joe” nel dirlo, stringendole la mano con delicatezza, le fece l’occhietto.

Yoko arrossì: che incorreggibile sfacciato!

“Carlos, non essere indelicato! Lo scusi, miss… ecco, io non posso che ringraziarLa, per tutto. Abbiamo passato qui in Giappone un periodo stupendo, anche grazie alla Sua squisita ospitalità. Sarà per noi un ricordo bellissimo. Grazie ancora.”

“Di nulla, Harry. Sono stata felice di avervi ospitato e spero che ritornerete presto… magari come turisti. Ci sono molte belle località qui da noi da visitare! Fate un buon viaggio e soprattutto… tenetemi informata sull’incontro con José a fine gennaio! Ci tengo moltissimo!”

“Ci conti. A presto!”

Dopo gli ultimi saluti, i due uomini si imbarcarono in vista del decollo. Il Messico e José Mendoza li stava aspettando. Prima di salire a bordo, però, accadde qualcosa che impensierì Harry e non poco. Carlos, di solito avvezzo a fare i gradini a due a due, era goffamente scivolato sulla scaletta, ritrovandosi pressoché a gambe all’aria.

“Tutto ok? Ti sei fatto male?” gli chiese, preoccupato, aiutandolo a rialzarsi, mentre un’hostess stava andando loro incontro, con professionale premura.

“Tranquillo, Harry,” al che rivolse un sorriso ammaliante all’assistente di bordo “i miei piedi ed il mio cuore non vogliono lasciare questo bellissimo Paese… ho solo perso l’equilibrio. Capita.”

“D’accordo… forse sei solo un po’ stanco. L’incontro di ieri sera con Joe Yabuki è stato molto impegnativo. Vieni, andiamo a prendere i nostri posti: ci attendono molte ore di viaggio.”

Prima di ricominciare a salire i gradini, Carlos si voltò verso la città, come per un ultimo saluto. Purtroppo non c’era stato abbastanza tempo per stringere la mano al suo nuovo amico: ma di certo, vicino o lontano che fosse, Joe Yabuki gli stava augurando un buon viaggio.

°°°°°

“A presto, Carlos. Brindo a te, augurandoti di vincere contro José… A presto, amico mio.”

Un brindisi solitario, nel bar dell’aeroporto, immortalò nei ricordi di Joe anche gli ultimi momenti di Carlos sul suolo giapponese.

°°°°°

La mattina di un paio di giorni dopo…

Gli dolevano ancora tutte le ossa. Il match con Carlos era stato molto pesante ed impegnativo, sia sul piano fisico che su quello emotivo. Anche l’esser stato sbalzato fuori dal ring al quarto round gli aveva creato diffusi indolenzimenti un po’ in tutto il corpo. Nonostante i rimbrotti di Danpei, che gli raccomandava il riposo assoluto almeno per una decina di giorni, Joe aveva comunque ricominciato la routine degli allenamenti, sebbene in forma più leggera. Di ritorno dalla consueta corsetta mattutina, vide giungere al ponte un’elegante berlina scura, da cui discese un tizio di età indefinibile vestito sobriamente di grigio.

“Yabuki-san?” ad un cenno di assenso di Joe, lo sconosciuto continuò “Mi perdoni se La disturbo. Le chiedo solo qualche minuto di colloquio riservato.”

Joe aggrottò la fronte, perplesso. Cosa diavolo poteva volere da lui quel signore tanto compassato?

°°°°°°°

Qualche ora più tardi, allo Shiraki Boxing Club. 

Yoko stava controllando alcuni contratti. Dopo l’incredibile successo dell’incontro di Joe contro Carlos molti manager e procuratori sportivi volevano far boxare i loro atleti sotto l’egida dello Shiraki Boxing Club. Dopo essersi consultata con il suo legale di fiducia, Yoko stava controllando alcune clausole standard, quando udì un leggero bussare alla porta. Vederselo arrivare davanti dopo alcuni giorni che non si erano visti era sempre una grande emozione ed una grande gioia, per lei. Dopo aver contattato su una linea interna la sua nuova segretaria – avendo licenziato in tronco Sakamoto qualche giorno addietro - per avvisarla di non passarle più nessuna telefonata per il resto del pomeriggio, si alzò per farsi incontro al suo uomo. Joe era rimasto rigido su due piedi, mentre lei lo raggiunse con passo rapido e lieto. Lo abbracciò con tenerezza, baciandolo lievemente sulla gota.

“Ti faccio male? Hai ancora lo zigomo un po’ gonfio…” gli sussurrò, accarezzandolo sul viso in punta di dita. Moriva dalla voglia di baciarlo sulle labbra ed avvicinò la bocca alla sua. Ma Joe si scostò, cosa che la colpì come se avesse ricevuto uno schiaffo in piena faccia.

“No. Non mi fai male. Non con le mani, almeno.” le disse lui, atono.

Non ci aveva fatto caso, quando era entrato nel suo ufficio. Sarà stato che lui portava, suo solito, il berretto con la visiera un po’ calata sugli occhi. Ma ora che il viso di Joe era tanto vicino al suo, Yoko si sentì mancare il fiato per lo sguardo gelido con cui la stava trapassando.

“Cosa succede? Sei arrabbiato con me?” riuscì a dire con un filo di voce. Joe non l’aveva mai guardata così, prima d’ora, neppure ai tempi, ormai lontani, della sua denuncia per truffa.

In silenzio, Joe trasse fuori dalla tasca interna del suo giaccone un pezzo di carta e lo dispiegò davanti agli occhi di Yoko. Un assegno di un gran bell’importo, recante il timbro della famiglia Shiraki come traente. Yoko aggrottò la fronte e prese il titolo dalla mano di Joe per osservarlo senza riuscire a capire…

“Io non capisco… come mai hai questo assegno? E perché me lo stai mostrando?”

“Davvero non ne sai nulla?” la incalzò lui, in tono duro.

“No. Assolutamente no. Chi ti ha dato questo assegno?” al che Yoko lo afferrò per le spalle, scuotendolo e piantandogli gli occhi negli occhi “Dimmi chi è stato. Dimmelo!”.

Joe aveva molti difetti: era impulsivo, testardo ed orgoglioso. Ma sapeva riconoscere subito una persona sincera. Aveva ben affinato, nel corso degli anni, il suo innato istinto da cane sciolto. Osservò Yoko attentamente: quello sguardo, quella voce… non potevano essere quelli di una donna bugiarda.

“Stamattina sono stato avvicinato da un tizio che si è presentato come legale della tua famiglia … dopo un fervorino durato quasi dieci minuti sul prestigio degli Shiraki, mi ha poi detto che mi avrebbe consegnato un assegno ‘sostanzioso’ come… ‘risarcimento’ a condizione che io non ti vedessi più. Naturalmente io ho finto di accettare questa specie di accordo per portarti qui l’assegno da vedere. So benissimo che quella porcheria non proviene da te. Però ora io vorrei sapere se per caso immagini chi possa essere stato dei tuoi ad avere un’idea tanto schifosa. Non conosco a fondo tuo nonno, Mikinosuke Shiraki, ma mi ha sempre dato l’idea di essere una gran brava persona. Dimmi la verità, Yoko,” le ingiunse con voce bassa e calma, ma ferma, prendendo il viso di lei tra le sue mani e guardandola negli occhi “hai mai subito pressioni dai tuoi perché noi due non stessimo insieme?”

Yoko lo considerò un attimo, dopo averlo ascoltato in silenzio. Fu proprio in quel preciso istante che lei si rese conto che non avrebbe mai potuto e voluto rinunciare a Joe. Costi quel che costi. Quell’uomo era suo e niente e nessuno glielo avrebbe strappato dalle braccia.

“Ti giuro che mio nonno non c’entra. Gli ho parlato di noi e mi ha detto che non ha nulla in contrario. Anzi: lui ti stima moltissimo…” mormorò lei, abbracciandolo stretto a sé, guancia contro guancia, continuando a parlare “Mia nonna, Joe. Non può che essere stata lei… tempo fa stava persino per organizzarmi un omiai…”

“Cosa? Voleva farti sposare qualcuno contro la tua volontà?” domandò Joe, sciogliendosi dall’abbraccio ed alzando la voce di qualche ottava. Era furibondo, soprattutto con se stesso: Yoko aveva subito delle pressioni psicologiche non indifferenti… e lui ne era rimasto all’oscuro!

“Sì. È così.” confermò lei, abbassando gli occhi “Mia nonna è una donna molto tradizionalista. Non accetta il mio stile di vita, il mio lavoro, i miei amici. E voleva a tutti i costi che accettassi come marito un uomo scelto da lei e dalla sensale dei matrimoni che aveva incaricato. Per questo motivo me ne sono andata a vivere per conto mio, in una villetta che mi aveva lasciato mia madre…” sospirando, Yoko si lasciò scivolare sul divano. Si sentiva molto stanca. Anche se adesso, almeno, poteva confidarsi con Joe, il ripensare alle sottili cattiverie subite da sua nonna non smetteva di farla soffrire. Joe le si accomodò vicino, rimanendo in silenzio. “Sicuramente deve aver assoldato qualche detective o roba del genere… e deve aver scoperto di te, di noi…per poi venire ad offenderti con quell’offerta vergognosa…” scoppiò in singhiozzi, coprendosi il viso con le mani.

Joe la abbracciò, per stringerla a sé con fare protettivo. “Calmati… calmati ora. Non dobbiamo permettere a nessuno di sconvolgerci la vita. Per quanto mi riguarda non è accaduto nulla. Lo vedi questo?” al che si alzò per andare a raccogliere l’assegno che poco prima Yoko aveva posato sulla scrivania “Non è nulla, solo un innocuo pezzo di carta.” chiosò, con un lieve sorrisetto, strappando il titolo in mille pezzetti. “Joe Yabuki non è in vendita.”

Yoko, a sua volta, sorrise tra le lacrime, un po’ più rasserenata. Ma sentiva in cuor suo che Hatsuyo Shiraki non si sarebbe fermata davanti ad un assegno stracciato e questo le accese una triste luce nello sguardo. Yoko aveva paura, molta paura, anche se voleva sperare con tutte le sue forze che Hatsuyo li lasciasse in pace… Joe contemplò il viso di Yoko arrossato dalle lacrime.

Odiava vederla piangere.

Sin da quella maledetta volta in cui l’aveva vista ripiegata su se stessa, annichilita dal dolore per la prematura scomparsa di Tooru Rikishi, Joe aveva detestato se stesso per non essere stato capace di evitarle sofferenze inutili. Tornò quindi a sedersi accanto a Yoko, per accoglierla di nuovo tra le sue braccia, stringendola forte a sé.

°°°°°°

Restiamo sospesi

tra cielo e terra

dolcemente così,

senza chiederci nulla.


Non abbiamo bisogno di parole:

eri tu, ero io…

ci conosciamo già

per essere completi

solo se cuore contro cuore.


°°°°°°°

Qualche settimana dopo…

“Allora, vecchio? È trascorso ormai un mese dal mio incontro con Carlos. Sono stufo di starmene con le mani in mano. Quand’è che mi fai ritornare sul ring? Me lo stai organizzando un cavolo di incontro o devo invecchiarci nell’attesa?”

Joe sbuffava, mentre si toglieva la tuta zuppa di sudore, per evitare di prendere freddo, essendo ormai al primo di febbraio.

“Eccolo: figurarsi se non brontolavi come sempre. Non è una cosa facilissima organizzare un match, ragazzo mio. Ho vagliato tutti i possibili sfidanti e nessuno se la sente di incontrarsi con te. Il tuo incontro con Carlos ha entusiasmato gli spettatori, ma ha terrorizzato i club! A parte che sono fuori discussione i club di Harajima, Ozaki e Nango, per i motivi che ti puoi immaginare, sappi che ho già provato pure a contattare qualche palestra nuova: ma nessuna ha all’attivo dei pugili bell’è formati, adatti ad un match con te. Ti confesso che la vedo dura…”

“Ok ok, ho capito. Ne riparliamo più tardi. Ora devo uscire.” brontolò Joe, prima di cacciarsi in doccia.

“Non aspetti qui con me di avere notizie dell’incontro di Carlos? Tra poco passerà il postino con il quotidiano sportivo… così scopriremo se abbiamo un nuovo campione mondiale dei pesi medi…”

“Uhm, prima passo allo Shiraki Boxing Club ad incassare il nostro assegno dell’incontro con Carlos: la signorina Shiraki mi ha detto che ora è pronto per l’incasso.” gli replicò dalla cabina.

“Seee, vabbé… la ‘signorina Shiraki’… ma a chi vuoi darla a bere? Mica sono nato ieri...” rifletté Danpei, scuotendo il capo.

°°°°°

“Vedo che sugli assegni avremo sempre da discutere, tu ed io. Cosa significa questo importo così alto, Yoko?”

Circa una mezzora dopo, all’ufficio di Yoko, Joe ebbe da ridire sull’assegno che Yoko gli aveva appena dato.

“Significa solo che gli incassi della serata sono stati più alti del previsto. Gli spettatori si sono letteralmente affollati all’incontro tuo e di Carlos. E così ho pensato di aggiungere un bonus extra… tutto qui.” spiegò lei, in tono pacato.

“Preferirei che il bonus lo elargissi a chi ne ha davvero bisogno, Yoko. Io non voglio uno yen in più rispetto a quanto pattuito. Non faccio la boxe per diventare ricco!” dicendo ciò, si alzò in piedi, visibilmente irritato “E poi, non hai pensato che se qualcuno lo venisse a sapere potrebbe credere che il match fosse truccato? Hai sbagliato, Yoko ad agire così. Ed ora, per favore, riprenditi questo assegno ed emettine un altro dell’importo giusto!” le ingiunse, seccato, porgendole l’assegno.

In silenzio, Yoko prese il titolo da Joe, avvilita. Lo bruciò con l’accendino, gettandolo nel cestino dopo aver spento la fiamma. Trasse dal cassetto il libretto degli assegni e ne compilò un altro per l’importo corretto. Staccò il titolo e lo porse a Joe, che lo prese e se lo mise in tasca.

“Scusami. A quanto pare noi Shiraki pensiamo solo a comprare la gente. È un marchio di famiglia…” mormorò, a capo chino.

“Smettila. Questo non l’ho mai né detto, né pensato. So benissimo che volevi solo essere generosa.” Joe si avvicinò a lei e le sollevò il viso guardandola serio, negli occhi “Non osare paragonarti a tua nonna. Devi solo usare meno il cuore negli affari, tutto qui. Quando stabilisci un compenso, poi non lo devi cambiare… neppure per me.” la baciò sulla gota, con tenerezza “Faccio sempre fatica a rapportarmi a te come procuratore sportivo… ma ci farò l’abitudine…” le sorrise, con fare un po’ sornione. “ Pure tu, però, quando si tratta di affari devi vedermi solo come pugile. Gli ambiti vanno tenuti separati, sennò è un casino: per noi due, intendo.”

Yoko annuì.

“Piuttosto, hai notizie di Carlos? Ormai sono passate alcune ore dal suo incontro con José…” le sussurrò, accarezzandole i capelli. Adorava toccarglieli: erano lucidi e setosi come il più pregiato dei filati. E poi, profumavano di camelia: un fiore dal profumo tenue e delicato che gliene ricordava un altro, di profumo, che pensava di aver dimenticato… e che invece era rimasto da sempre gelosamente custodito nella sua memoria.

“Ci stavo pensando pure io… strano che Harry non mi abbia ancora chiamato…”

Quasi come se gli eventi capitano se evocati, ecco che proprio in quel mentre Joe e Yoko udirono bussare alla porta.

“Mi perdoni Shiraki-sama se La disturbo…” fece capolino la segretaria “ma è arrivato un fax urgente da Città del Messico…” Yoko dispiegò il foglio e lo lesse ad alta voce.

“Miss Shiraki, Le comunico che purtroppo Carlos ha perso per KO tecnico, dopo un minuto e dieci secondi della prima ripresa. José Mendoza ha sfondato la sua difesa e lo ha colpito con un gancio sinistro. Carlos ora è in reparto di rianimazione all’ospedale. Sono molto preoccupato… non ha ancora ripreso conoscenza. Temo che non potrà più boxare. E temo pure che Carlos non fosse nel pieno della sua forma, quando si è incontrato con José Mendoza, perché ancora debilitato dal match con Joe Yabuki. Cordialità. Harry R.”

Rimasero senza parole e riuscirono solo a guardarsi, quasi come interrogandosi a vicenda, gli occhi negli occhi.

“Joe…” cercò di dire Yoko, afferrandolo per un braccio. No, non doveva succedere di nuovo. Nessun altro fantasma avrebbe dovuto rendere pesanti le giornate di Joe… Questo Yoko stava pensando, osservando preoccupata l’accendersi di una luce malinconica negli occhi del ragazzo.

“Ti prego, lasciami andare. Ora ho bisogno di stare da solo… Scusami.” mormorò Joe, liberandosi dolcemente dalla presa di lei ed uscendo dall’ufficio, il capo insaccato nel colletto del giaccone.

__________________________________

Spigolature dell’Autrice:


Quanto li amo, io, Joe e Yoko insieme… Vi lascio questo duetto d’amore. Ma i guantoni si incroceranno al prossimo capitolo.

Piccola curiosità ... cosmetologica. Le donne Giapponesi, da secoli, amano usare il pregiato olio di camelia, che ammorbidisce la pelle - prevenendo le rughe - e rende lucidi i capelli. In più profuma. Io mi immagino la bellissima Yoko mentre cura la sua serica chioma con tale prezioso segreto di bellezza!

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo XVI - Nella tela del ragno ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Qualche giorno dopo, nel centro di Asakusa*

Se ne rimase seduta rigida e composta alla seiza** nella saletta privata dello chashitsu*** che ormai frequentava da parecchi anni, come sua abitudine consolidata.

Ma in realtà era furibonda.

La sua era una rabbia fredda e consapevole, però. Non ebbe nessuna reazione violenta e sanguigna… nessun oggetto venne scagliato contro la parete e nessuna espressione colorita venne pronunciata dalle sue labbra delicate. Ma un tale affronto per lei era intollerabile. Quello straccione spregevole si era preso gioco di lei: aveva solo finto di voler accettare la transazione, trattenendo l’assegno. Poi però la banca l’aveva avvisata che nessuna somma era stata incassata da Yabuki-san che, con tutta probabilità, continuava la sua tresca infame con Yoko.

Me la pagherai.

Come un mantra continuava a scandire mentalmente tale frase, guardando dritto di fronte a sé senza che nessun muscolo del suo viso liscio e perfetto si muovesse: dal di fuori pareva solo concentrata in una profonda riflessione. Nessuno avrebbe potuto immaginare l’uragano che le si agitava nell’animo, né il profondo odio nutrito nei confronti di un ragazzo che neppure conosceva di persona. Del resto, tutta la sua vita si era conformata al tatemae**** e non avrebbe cambiato modo di comportarsi neppure adesso. Dal di fuori nulla sarebbe trapelato, come sempre, da cinquant’anni a questa parte.

Dopo un profondo sospiro, Hatsuyo Shiraki si contemplò le mani, piccole e candide, prive delle macchie di solito tipiche della senescenza.

E sorrise.

°°°°°°

Da diversi giorni Joe era più tranquillo del solito. Continuava ad allenarsi con il consueto impegno ed ogni tanto brontolava a Tange su “quanto cavolo ci vuole per organizzare un dannato incontro”. Danpei non sapeva più che pensare: non che il ragazzo fosse un chiacchierone di natura, ma negli ultimi tempi raggiungeva livelli di mutismo davvero eccessivi anche per lui. Non volendo fargli pressione per costringerlo a confidarsi, si limitava a stargli vicino, immaginando, ed a ragione, che la sua malinconia derivasse soprattutto dalla sconfitta di Carlos Rivera… e dalla sparizione di questi. Dopo un periodo di degenza in un ospedale privato di Los Angeles specializzato in malattie sportive, infatti, il venezuelano era scappato, eludendo persino la stretta sorveglianza di Harry Robert, l’unico che gli fosse rimasto sempre accanto, come neppure un fratello avrebbe potuto fare.

Joe divorava decine di riviste sportive e di quotidiani, alla ricerca di qualche notizia sul suo povero amico. Era angosciato al pensiero di Carlos in stato confusionale in giro chissà dove… i bollettini medici avevano parlato, infatti, di “lesione endocranica cronica con ripercussioni sulle cognizioni spazio-temporali e con amnesia retrograda”. Aveva anche pensato di prendere il primo volo per Los Angeles per andare a cercarlo per tutta la città. Poi però si era arreso di fronte all’inutilità del suo progetto. Si era un po’ tranquillizzato solo quando Yoko gli aveva detto che Harry Robert - con cui era rimasta in contatto e che l’aggiornava puntualmente - aveva assoldato un paio di detectives per riuscire a ritrovarlo, oltre ad averne denunziato la scomparsa alla polizia losangelina. Anche in compagnia di Yoko era, comunque, meno ciarliero del solito: spesso rimanevano abbracciati per ore, in perfetto silenzio, dato che neppure Yoko era in vena di amabili conversazioni, essendo, a sua volta, molto triste e preoccupata per Carlos. Si era affezionata all’esuberante venezuelano e sapere di un giovane pieno di vita ed intelligente come lui ridotto ad un povero mentecatto le faceva male al cuore.

E tutto per un incontro di boxe durato poco più di un minuto.

Aveva mosso mari e monti per avere la ripresa di quel dannato round ed alla fine ci era riuscita.

In un tiepido pomeriggio, Yoko invitò Joe e Danpei ad assistere alla visione del video del match di Carlos Rivera contro José Mendoza. “Io l’ho già visto.” disse, compunta “vi lascio tranquilli a guardare la ripresa. Se avete bisogno di qualcosa, sono nel mio ufficio.” Danpei si profuse in ringraziamenti mentre Joe si limitò ad un cenno del capo. Era un fascio di nervi. Non vedeva l’ora di scoprire cosa fosse accaduto su quel maledetto ring, al punto tale da ridurre una belva indomabile come Carlos in un gattino indifeso. Finalmente le immagini cominciarono a scorrere sul televisore. E, finalmente, Joe poté vedere José Mendoza senza doversi più accontentare di statiche fotografie dei giornali sul campione del mondo dei pesi medi. Lo speaker fece le presentazioni dei due sfidanti e la folla acclamò entusiasta il saluto affabile di José al pubblico. Joe lo osservò attentamente. Un bell’uomo, alto e virile, dai tratti eminentemente ispanici e dal fisico di belle proporzioni, non più nella prima giovinezza e neppure nella seconda, ma già agli inizi della maturità. Il viso, dai lineamenti classici, era valorizzato da sottili e curati baffi alla moschettiera su labbra piene ed armoniche. Ma furono gli occhi a colpire Joe. Profondi e grandi, di un intenso blu mare, dall’espressione imperscrutabile. Negli occhi di Mendoza avresti potuto leggerci tutto e niente. A differenza di Carlos Rivera, espressivo ed esuberante, pieno di spontaneità e di gioia di vivere, il campione non avresti invece saputo dire di che pasta fosse fatto. Ma una cosa era certa: Mendoza trasudava sicurezza da tutti i pori. Il suo modo di fare composto e tranquillo era proprio di chi non ha bisogno di dimostrare nulla a nessuno. Carlos scalpitava, fremente, come un cavallo trattenuto a fatica dal morso. José, invece, pareva un grosso ragno in attesa che una preda rimanesse intrappolata nella sua rete…

Iniziò l’incontro, che Joe si accinse ad osservare cupo ed accigliato, il mento tra le mani, i gomiti sulle ginocchia. Già nei primi secondi del round iniziale, Joe e Danpei si avvidero subito che qualcosa non andasse in Carlos: commise come primo errore quello di non prendersi il giusto tempo per studiare il suo avversario, accerchiandolo con un buon gioco di gambe e limitandosi a qualche semplice jab di disturbo. Macché. Il giovane aveva improvvidamente deciso di passare all’attacco. Ma lo fece nel modo sbagliato: infatti, era stranamente lento e fiacco… dov’era finito il suo scatto felino, quasi come una “firma” personale? Dov’era finito il suo splendido gioco di gambe?

“Carlos, cos’accidenti fai… i tuoi pugni sono troppo larghi… colpiscilo con un diretto in faccia!” esclamò Joe, agitato.

“Calmati Joe…” brontolò Danpei.

Fu una vera pena assistere a quei colpi lenti, fiacchi, imprecisi: a Joe ed a Tange parve di vedere un’altra persona, un altro pugile… a José bastava schivare il capo con leggeri rollings, per evitare i ganci di Carlos al viso. Quanto al corpo, riusciva a pararli facilmente con blocchi, schivate ed abbassamenti. José faceva tutto questo in assoluta tranquillità, con una espressione distesa sul volto e con un leggero sorriso sulle labbra. Cosa che fece imbestialire Joe.

“Lo sfotte… quel pallone gonfiato lo sta sfottendo!” sbottò, digrignando i denti.

Smise di imprecare, però, quando fu il turno di Mendoza di contrattaccare. Eseguì combinazioni di jab, diretti e ganci da manuale, con uno stile impeccabile. Spinse Carlos alle corde, fiaccandolo con poderosi ganci allo stomaco ed al fegato. Dopo un fugace clinch di Carlos, che si era accasciato sul corpo di José per riprendere fiato, ecco che venne sferrata una sventola a velocità impressionante che si impattò sulla gota di Carlos con un rumore spaventoso. Carlos rovinò al tappeto, rovesciandosi su se stesso più e più volte, come un birillo da bowling. Joe balzò in piedi, afono, per poi accasciarsi sulla poltrona come un sacco di patate.

“Santi numi…” mormorò Tange, sconvolto.

Un minuto e dieci secondi al primo round.

Ecco quanto tempo era stato necessario per distruggere la carriera sportiva ed i sogni di gloria di un giovane pugile.

In silenzio, Joe si alzò, per lasciare subito lo Shiraki Boxing Club, con Danpei che gli trotterellò dietro.

°°°°°°°°

Alcune settimane dopo…

I giorni si susseguirono tutti uguali, in attesa di disputare il prossimo incontro al Korakuen Hall contro il filippino Dario Alonso, quinto classificato nel campionato asiatico. Nel frattempo, Joe aveva stracciato in un minuto e sei secondi Aroon Wongpoom soprannominato pretenziosamente “Apollo King” per i suoi diciotto incontri vinti per ko. L’orgoglioso thailandese, in patria campione anche nella thai-boxe, non riuscì neppure nei mesi a seguire a digerire la sconfitta subita per mano “del giapponese dei bassifondi”, come ormai Joe stava diventando noto in tutto l’estremo Oriente. Joe si allenava coscienziosamente per la maggior parte della giornata, con brevi pause dedicate ai bambini del quartiere o ad un caffè con Nishi, mentre di sera usciva per stare un po’ con Yoko.

Una notte, di ritorno da Ginza, pur essendo perso nelle sue meditazioni, non poté che avvertire una strana sensazione, alle sue spalle. Una sensazione da lui odiata da sempre: il sentirsi braccato dappresso. Si fermò e si girò bruscamente.

“Ehi uscite fuori… piantatela di seguirmi! So benissimo che ci siete!” urlò, mettendosi in posizione di difesa.

Dagli angoli bui del vicolo uscirono cinque loschi figuri: uomini di varie corporature e diversi in età. Ma tutti con un’espressione torva sul viso. Si avvicinarono a Joe con aria indolente. Uno di loro, con la pelle del viso tutta butterata, sputò in terra all’indirizzo di Joe, in segno di spregio.

“Sai cosa c’è? Tu sei fastidioso. Te ne vai in giro con quella faccia da culo credendoti chissà chi per incontri di boxe truccati… sei solo un bluff. E a noi i tizi così stanno sulle balle.”

“Ah sì?” Joe si tolse berretto e giaccone, per poi rinserrare di più la difesa “E così io sarei un bluff? Ora lo vedremo.” ringhiò, serrando i pugni.

Joe attaccò il più vicino, senza perder tempo in combinazioni: lo sistemò con un montante, mandandolo a gambe all’aria. Gli saltò addosso un secondo aggressore, che si ritrovò piegato in due dal dolore per un gancio al fegato: il colpo più rapido ed efficace per togliere il respiro da quanto è doloroso, specialmente se ricevuto da mani nude, senza la potenza delle nocche attutita dai guantoni. Gli altri tre non se ne stettero con le mani in mano e lo assalirono in contemporanea, travolgendolo e rovesciandolo a terra prono, con calci e pugni nei fianchi.

“Adesso vediamo come te la caverai come pugile… d’ora in poi!” gli sibilò all’orecchio il butterato, afferrandogli strettamente una mano per il polso e tirandogli il braccio con malagrazia.

“Lasciami, stronzo!” sbraitò Joe, che cercava disperatamente di divincolarsi: ma per quanto fosse forte, non gli era possibile liberarsi dalla presa di ben tre uomini, che lo tenevano puntellato al terreno col peso dei loro corpi.

“Adesso ti spezzerò le dita… uno per uno… e poi il polso… e voglio vedere come potrai continuare a boxare!”

“Lasciatelo. SUBITO.” si udì a poca distanza, con tono basso e calmo.

I delinquenti alzarono il capo e videro due uomini che si stavano avvicinando.

“Cazzo… quello è Nakamura… meglio non farlo incazzare… è uno dei ‘grossi’!”

“Ed è con Goromaki… tira una brutta aria… filiamocela!” bofonchiò il butterato che, nell’allontanarsi a passo rapido, apostrofò Joe per l’ultima volta: “Ci rivedremo, non ti credere!”

Tutti e cinque gli yakuza, chi più rapidamente, chi meno, si volatilizzarono dal vicolo.

Joe si rialzò in piedi, spolverandosi i vestiti, i lineamenti contratti. Era livido in volto.

“Tutto bene?” Gondo gli porse un fazzoletto, in modo che Joe potesse pulirsi il viso dal sudiciume della strada.

“Sì, grazie.” mormorò lui.

Alzò lentamente lo sguardo su suo padre, distante da lui di pochi metri. I due uomini si fissarono, a lungo. La tensione tra loro era palpabile, quasi si poteva toccare con mano come una cosa tattile.

Alla fine Joe ruppe il silenzio “Siete arrivati a salvarmi…Come facevate a sapere di… questa cosa?”.

Nakamura sospirò profondamente “Nei nostri ambienti le notizie si diffondono velocemente. Chi fa cosa, chi minaccia chi, chi distrugge cosa. L’ikka cui appartengono quei manigoldi è socia di quella cui faccio parte io, per alcuni affari…. E poi...” al che gli si avvicinò per posargli le mani sulle spalle, con un gesto caldo ed affettuoso. C’era una luce bellissima nei suoi occhi: era come se volessero accarezzare Joe…” E poi io non ti ho mai perso di vista… ragazzo mio… Anche se tu non mi vuoi e mi respingi, io continuerò a vigilare su di te. Nessuno deve farti del male. Nessuno. Gondo,”

“Sì?” Goromaki Gondo si era messo un po' in disparte, accendendosi una sigaretta, per permettere a padre e figlio di parlare da soli.

“Andiamo pure. Ora è al sicuro. Dubito che per stasera ci riproveranno. Siamo arrivati in tempo, tu ed io.”

“Ok. Ciao Joe, ci si vede.”

Joe se ne rimase immobile, incapace di dire o fare alcunché, osservando i due uomini che si allontanavano a passo sostenuto.

Due limpide lacrime presero a scorrergli sulle gote, senza sapere neppure il perché.

°°°°°°°°

Korakuen Hall, ore 21.00 di qualche giorno dopo…

Il pubblico era accorso entusiasta ed ottimista ad assistere al nuovo match di Yabuki contro il quinto classificato nel campionato dell’Asia Dario Alonso: del resto, Joe Yabuki sapeva sempre riservarti qualche bella sorpresa nei suoi incontri… il suo stesso essere un po’ imprevedibile incuriosiva gli spettatori, che si impegnavano a scommettere con accanimento sulle sorti del match. L’ultimo incontro di Joe, vinto al primo round dopo soltanto un minuto e sei secondi contro Wongpoom, aveva fatto impazzire i suoi fan, che poi ne avevano parlato per giorni interi… oltre che, naturalmente, i giornalisti sportivi.

Uno soprattutto, un reporter grande appassionato di boxe, che aveva seguito la carriera di Joe sin dagli esordi e che lo riteneva capace di fare grandi cose. Con nonchalance, in attesa che arrivassero gli sfidanti, Jun Kiyoshi si avvicinò a Yoko, già accomodatasi in prima fila.

“Permette? Questo dovrebbe essere il mio posto…”

Yoko alzò lo sguardo, sentendosi interpellata. Un uomo sulla trentina, molto aitante ed in tenuta casual, le fece un lieve cenno col capo riguardo alla poltroncina al suo fianco, ove Yoko, ritenendola libera, aveva posato il soprabito e la borsetta.

“Mi scusi. Non sapevo che fosse prenotato.” soggiunse, liberando subito la seduta.

“No problem.” al che Jun si accomodò, accavallando le lunghe gambe “Certo che poter vedere il ring così da vicino è tutta un’altra cosa… finalmente sono riuscito a prenotare in tempo un posto decente per potermi gustare il match.

Yoko non rispose, osservando di sottecchi il suo interlocutore. Trovava molto scortese da parte di quel tizio continuare a rivolgerle la parola senza prima presentarsi.

Come se le avesse letto nel pensiero, l’uomo, dopo averla omaggiata di un leggero sorriso, le porse il suo biglietto da visita. “Mi scusi, so cosa starà pensando ed è vero: sono un gran maleducato. Jun Kiyoshi: reporter sportivo. Sono sempre a caccia di notizie succulente da vendere a peso d’oro ai giornali sportivi. E sono pure un estimatore di Yabuki.”

“Yoko Shiraki, piacere.”

“Sì, io La conosco.”

Nell’udir ciò Yoko aggrottò la fronte, lievemente infastidita dal tono usato dal giornalista, senza però replicare.

La bella ereditiera fissata col pugilato… è così che la dipingono, negli ambienti sportivi…”

“Immagino che dicano anche cose peggiori. Ma io non me ne curo.”

“E fa bene. Lei ha fiuto per il pugilato. Sa il fatto Suo ed organizza ottimi incontri… specialmente se c’è di mezzo il Suo innamorato.”

“…Cosa?” sibilò Yoko, che stava cominciando ad alterarsi, fulminando Jun con lo sguardo. Ma come si permetteva, quel cialtrone?

“Si calmi, La prego… questi sono affari Suoi. Dico solo quello che penso, e cioè che Lei ha molto a cuore la carriera pugilistica di Yabuki, aiutandolo a scalare la vetta sino al campionato mondiale… e fa benissimo. Yabuki ha un talento eccezionale e merita tutto il sostegno possibile. So anche che pure la rete televisiva Kappa sta cominciando ad interessarsi a lui. Ed anzi, io mi permetto di suggerirLe, come prossimo sfidante per Joe, di puntare al titolo asiatico… perché non gli organizza un bel match contro Ryuhi Kim?”

Prima di rispondere alla domanda del reporter, Yoko si concesse il tempo di calmarsi e di non prenderlo a ceffoni, riflettendo rapidamente su quanto proposto.

“Ryuhi Kim, il campione coreano… già. Si sa molto poco su di lui e non esistono riprese sui suoi incontri… l’unica cosa di dominio pubblico è che lo si reputa molto forte. Micidiale, anzi. Ormai è una leggenda vivente.” mormorò Yoko, quasi a se stessa.

“Se di lui si sa poco è semplicemente perché è protetto dal segreto militare, dato che è un sottufficiale dell’esercito della Corea del Nord. Ma se vuole, io posso procurarLe tutte le informazioni utili per preparare Yabuki ad un papabile incontro… cosa ne dice?”

“Mi dia del tempo per pensarci. Nel caso, La contatterò io.” rispose Yoko, chiudendo la conversazione. Per quella sera aveva udito abbastanza. Ora voleva solo concentrarsi sull’incontro che di lì a poco il suo Joe avrebbe disputato. Kiyoshi annuì, sorridendo, sfilandosi gli occhiali da sole e mettendoseli in tasca.

In quel mentre, fecero il loro ingresso i due sfidanti, accolti festosamente dal pubblico. Joe era assai poco incline, quella sera, a saluti calorosi. In realtà, di disputare un match contro il filippino Alonso non gliene importava proprio nulla: fosse stato per lui si sarebbe imbarcato sul primo aereo per Città del Messico per andarsene a sfidare direttamente José Mendoza. Per se stesso e, soprattutto, per Carlos. Il pensiero dell’amico sventurato non lo abbandonava mai. Per qualche secondo incrociò il suo malinconico sguardo con Yoko, che lo ricambiò, dolcissima: era quasi come se loro due fossero da soli, anche se solo per un brevissimo istante, in quella enorme sala, gremita di persone … Cos’altro importava? Joe teneva alla serenità di Yoko: per questo non le aveva fatto cenno alcuno dell’”incidente” che gli era occorso qualche giorno prima… di sicuro, c’era stata di mezzo la nonna di lei. Ma queste considerazioni se le tenne per sé.

Dopo i convenevoli di routine, ecco che il match ebbe inizio. Non essendosi concentrato sul suo avversario, Joe commise l’errore di sottovalutarlo, evitando di approntare una tecnica di difesa efficace. Alonso ne approfittò per sferrargli una potente combinazione di diretti e di ganci allo stomaco, cosa che fece accasciare Joe a terra, incredulo. Però ciò gli fu utile per riscuotersi dal torpore: innervositosi, Joe si rialzò al nono della conta e piombò su Alonso, il quale non ebbe scampo, dato che Joe lo crivellò letteralmente di ganci al viso, dopo avergli sfondato la difesa, tenendolo puntellato alle corde. Un uppercut decretò la fine dell’incontro per KO tecnico. Il tutto in due minuti e quarantasei secondi della prima ripresa.

Quando poi i giornalisti, entusiasti, gli si affollarono intorno, chiedendogli se si sarebbe aspettato un match così fausto, Joe sapeva già cosa rispondere: le parole gli vennero suggerite dal cuore.

“Sapevo di poter vincere contro Alonso. Non potevo fare diversamente. La mia vittoria è un pegno di amicizia verso Carlos Rivera, sesto classificato nella graduatoria internazionale. Non potevo perdere contro quello che è solo il quinto classificato nella graduatoria asiatica: Carlos non me lo avrebbe mai perdonato.” Alzatosi, si rivolse a Danpei: “Andiamo a casa. Qui non ho altro da fare.”

____________________________________

Spigolature dell’Autrice:

*asakusa è un quartiere di Tokyo in cui si respira quasi un’altra epoca. Vi si ammira il bellissimo Tempio Senso-ji e vi sono molte costruzioni tradizionali.

**seiza (正座 "sedersi correttamente") è la tipica seduta con la schiena ben dritta e con i glutei appoggiati sui talloni, adatta alla pavimentazione in tatami di case e locali tradizionali del Giappone. Fonte Wikipedia (mi chiedo come non si addormentino le gambe, stando seduti così a lungo…).

*** chashitsu: sono i sofisticati locali in stile architettonico tradizionale (porte scorrevoli e pavimenti in tatami) adibiti alla cerimonia del tè.

****tatemae: è il modo di comportarsi, rigidamente convenzionale, considerato come “buona educazione” nella mentalità giapponese, secondo cui non si manifestano all’esterno stati d’animo e sentimenti (“honne”) e neppure si esprimono opinioni personali, onde evitare di turbare il senso armonico generale delle cose. Un Giapponese si “apre” solo quando si fida al mille per mille ed in un contesto informale. Mai prima.

Fonte Wikipedia.

L’angolo del boxeur:

Memorandum sulle tecniche di difesa più basilari:

Blocco: con il guantone e non con il corpo viene assorbito il pugno avversario.

Parata: si tratta della tecnica difensiva più semplice ed intuitiva della boxe. Per parare, è sufficiente usare le mani per deviare i pugni dell’avversario.

Rolling: con questa tecnica ci si difende bene da un assalto frontale, dato che permette di assorbire bene la maggior parte dell'impatto grazie ai guantoni ed agli avambracci, anche se lascia scoperti i lati del busto. Si effettua premendo i guantoni contro la fronte con i gomiti ben puntati contro il corpo, tenendo il mento sul petto.

Abbassamento e scarto laterale: l'abbassamento è eseguito piegandosi sulle ginocchia per evitare un pericoloso colpo alle tempie, ed è reso completo da uno scarto laterale arcuando il corpo per metterlo fuori dalla portata dell’avversario.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo XVII - Blu come il mare ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Un paio di mesi dopo…tarda sera, all’Hotel New Otani* di Tokyo…

“Siamo entusiasti. Siamo davvero entusiasti del successo di questo ragazzo, così bravo e meritevole. Per questo motivo, noi della Tele Kappa sponsorizzeremo d’ora in avanti gli incontri organizzati dalla palestra Tange perché intendiamo sostenere Joe Yabuki sino alla conquista del titolo mondiale. Perché noi crediamo in lui!”

Così pomposamente enunciò Iwao Fujita, il presidente della rete televisiva. Giusto un paio di giorni prima aveva stipulato un accordo con lo Shiraki Boxing Club e con Danpei Tange per la sponsorizzazione della carriera pugilistica di Joe: in cambio, unitamente al presidente Shiraki, avrebbe detenuto i diritti di esclusiva sulla messa in onda dei suddetti incontri. Il pulcino cresciuto nella stoppa ora aveva un valore commerciale come gallo da combattimento: l’occasione era stata troppo ghiotta per farsela sfuggire. Naturalmente, sia Yoko che Danpei avevano vigilato affinché le clausole contrattuali fossero il più possibile oneste e trasparenti. La Tele Kappa aveva quindi organizzato un sontuoso cocktail party alla moda americana per festeggiare le ultime vittorie di Joe e per annunciare ai soci della Federazione Pugilistica giapponese che, d’ora in avanti, avrebbe sovvenzionato la carriera del giovane pugile.

Joe e Danpei erano gli ospiti d’onore: naturalmente, Danpei sprizzava allegria da tutti i pori, inchinandosi a destra ed a manca, distribuendo sorrisi e battute, senza saltare nessun brindisi, specie se ad altissimo tasso alcoolico. Si prese pure la sua piccola rivincita nei confronti dei presidenti dei club pugilistici che tanti torti gli avevano fatto in passato. Danpei non aveva affatto dimenticato le angherie subite, soprattutto quando aveva faticato ad ottenere la licenza di allenatore e quando aveva bussato, invano, a tante porte: ora poteva finalmente sentirsi loro pari e guardarli dritto negli occhi, a fronte alta. La sua piccola palestra di legno, costruita a mano pezzo dopo pezzo sotto il Ponte delle Lacrime, stava forgiando un campione di boxe dal talento straordinario, come se ne potevano incontrare pochi nella vita. Danpei stava quindi toccando il cielo con un dito: il suo ragazzo aveva spiccato il volo e stava finalmente mostrando a tutti il proprio valore. Adesso l’unica cosa davvero importante era prepararlo bene nella sua ascesa per il titolo mondiale, un passo alla volta. Nell’osservarlo, essendo Joe in piedi poco distante da lui, gli si inumidirono gli occhi per la commozione: Joe stava ancora finendo di crescere. Ultimamente si era alzato di alcuni centimetri ed i tratti del viso erano ora più definiti e mascolini. Stava diventando un uomo, un bell’uomo: di statura medio-alta, slanciato e snello, dalla muscolatura tonica e nervosa. Chissà… forse era anche merito di Yoko Shiraki e della sua presenza nella vita di Joe ad averlo fatto maturare prima… Già molte ragazzine adoranti avevano incominciato a riconoscerlo ed a fermarlo per strada, per farsi lasciare un autografo, cosa che Joe faceva tra l’imbarazzato ed il divertito, sentendosi sempre molto a disagio in queste cose. La nomea di Joe si stava diffondendo a vista d’occhio: sempre più giornali e riviste riportavano articoli e fotografie sul suo conto e sempre più aspiranti campioni di boxe avevano cominciato a bussare alla porta del Tange Boxing Club. Danpei si era schermito, un po’ imbarazzato da tante richieste, promettendo agli speranzosi candidati che avrebbe cominciato ad allenare altri ragazzi oltre a Joe non appena fosse riuscito a costruire la nuova palestra per cui stava risparmiando yen su yen ormai da diverso tempo.

Questione di tempo e di pazienza.

Tutto questo però sembrava non scalfire l’ospite d’onore del ricevimento. Taciturno suo solito, Joe pareva quasi estraniato da tutto e da tutti: aveva risposto a monosillabi ai fiumi di domande rivoltegli, dimostrando chiaramente il suo disagio in una dimensione tanto mondana e così lontana dal suo modo di essere. Tange lo aveva quasi trascinato di peso fino all’hotel, promettendogli in cambio che si sarebbero trattenuti solo per lo stretto necessario. Se ne stava per conto suo ad osservare il bellissimo spettacolo di luci della Tokyo notturna ma non dormiente, mentre la torretta rotonda in cima all'hotel, ove si stava tenendo la festa, girava lentamente.

“Joe…eccoti.”

Il giovane si voltò per ammirare una Yoko luminosa e delicata come una calla, vestita di un abito giallo pallido che le scopriva leggermente le spalle: non l’aveva mai vista così bella. Le sorrise, per poi additare al panorama: “Hai visto che meraviglia? Solo Tokyo sa trasformarsi così, di sera… pur rimanendo sempre uguale. Un po’ come te. Mi sorprendi sempre, Yoko…” le sussurrò pianissimo, per non farsi udire intorno, accostandosi leggermente a lei, senza però neppure sfiorarla. Negli occhi di Joe Yoko vide una luce calda e morbida, come se volesse accarezzarla con lo sguardo, in un modo lieve e delicato. Rimase incatenata a quegli occhi per qualche secondo, in silenzio; poi, come per custodirne il riflesso nel cuore e nella mente, abbassò i suoi, di occhi. Tutto questo era solo ed esclusivamente per loro e per nessun altro. Un segreto da custodire gelosamente. In silenzio, si voltarono entrambi a guardare il panorama, fianco a fianco.

Ad un certo punto, Joe si riscosse, dopo aver scorto qualcosa nel riflesso del vetro. O meglio: dopo aver scorto qualcuno.

“Yoko ma… quel tizio laggiù… che ci sta fissando con insistenza…tu per caso lo conosci? Ha una fisionomia familiare ma non mi viene in mente chi diavolo possa essere…”

“Dove? Di chi parli, Joe?” chiese Yoko, voltandosi.

“Guarda bene laggiù, in fondo alla sala. Quel tizio vestito di scuro.”

Yoko seguì lo sguardo di Joe. In effetti un uomo alto e sobriamente vestito, con il capo leggermente abbassato e grossi occhiali scuri pareva intento a fissarli con attenzione. Poi, con un gesto fluido e morbido, si tolse gli occhiali, serbandoli in una tasca della giacca. Quello non era uno sguardo che si potesse dimenticare. Calmo, placido. Ma penetrante: ti si incatenava per non lasciarti più… Un brusio, sempre più crescente di tono, si propagò per la sala.

“Santo cielo, guardate chi c’è!”

“Ma come mai si trova qui, in Giappone… e come ha fatto a venire a questa festa?”

“Qualcuno lo ha invitato
?”

Joe e Yoko rimasero impalati ed incapaci di dire o fare alcunché, mentre il campione del mondo dei pesi medi, inaspettatamente, si mosse verso di loro. Qualche giornalista cercò di interpellarlo, ma bastò un lieve cenno di Mendoza per farlo desistere: quello non era un uomo che lasciasse fare cose a lui non gradite. Tuttalpiù, venne solo scattata qualche fotografia; i flash impazzirono, poi, quando l’uomo si parò proprio di fronte a Joe. Neppure Tange, nel suo inglese maccheronico, riuscì a distrarre l’inatteso ospite dall’intento di avvicinarsi al suo ragazzo. Questi non mosse un solo muscolo del suo viso, restandosene con le mani cacciate nelle tasche: solo l’estrema rigidità del suo corpo poteva tradire l’intensa emozione che lo stava, suo malgrado, pervadendo. Eccolo, il campione del mondo dei pesi medi, a pochi centimetri di distanza da lui. Visto da vicino appariva ancora più imponente. José era snello ma anche possente, più alto di Joe di tutta la testa. La pelle del suo viso, lievemente abbronzata, era segnata ai lati della bocca e degli occhi, a testimonianza della differenza di età non indifferente tra di loro.

Ma quelli erano occhi senza età.

Profondi ed immoti come gli abissi del mare: in essi si poteva leggere tutto e niente…

“Cosa vuole da me, Mr. Mendoza?” domandò Joe, a voce ferma. Era quasi come se la tranquillità del suo astante lo avesse contagiato: ora si sentiva calmissimo, come svuotato da ogni sentimento. Avrebbe potuto accadere qualsiasi cosa: una mano tesa da stringere, un attacco da fronteggiare… Il tempo era come sospeso. Nessuno osava fiatare. Tange e Yoko osservavano, ansiosi, ambedue gli uomini, facendo scorrere lo sguardo dall’uno all’altro.

Con un leggero sorriso sulle labbra ben modellate, José, inaspettatamente, lo fece. Alzò le mani, tutte e due, ed afferrò le spalle di Joe. Inclinando leggermente il capo lo scrutò negli occhi, come in cerca di risposte ad una sua silenziosa domanda, formulata tra sé e sé e non espressa. Accentuando il sorriso, dette con ambo le mani delle bonarie pacche al ragazzo. “Buena suerte.” La voce di Mendoza era profonda e morbida, dalla ricca tonalità, accentuata dall’accento spagnolo.

Rimasero tutti stupiti dal gesto benevolo e dalle parole beneauguranti del campione; questi si limitò poi a ritornarsene tranquillamente sui suoi passi. Fu vano qualsiasi nuovo tentativo dei giornalisti e pure dell’anfitrione di fargli qualche domanda e di trattenerlo alla festa. Se n’era già andato. Com’era apparso, ecco che aveva già lasciato il salone…

Joe rimase fermo allo stesso punto, incapace di fare alcunché. Yoko si mosse timidamente, mettendoglisi al fianco, senza dire nulla; gesto che fu replicato da Tange: tutti e due vollero così sottolineare l’unicità del momento or ora trascorso, restandosene vicini a Joe.

°°°°°°

Un paio d’ore più tardi, al Tange Boxing Club…


“Ma…Cosa sono quei segni sulle braccia, Joe?” esclamò Tange, additando a Joe le sue stesse spalle.

Il ragazzo si era spogliato per tirare qualche pugno al sacco prima di andare a dormire e per concedersi qualche minuto di riflessione su quanto era accaduto al ricevimento. Allibito, notò impressi sulla sua pelle dei segni bluastri … erano i lividi che Mendoza gli aveva lasciato quando lo aveva toccato! Quello che era parso un contatto molto lieve, invece, ora mostrava la potenza insita nelle mani del campione!

“Accidenti… ecco perché mi facevano male… a quanto pare mi ha lasciato un suo ricordino!” bofonchiò.

“Joe… quello non è un pugile come gli altri. È un uomo fiero ed orgoglioso, con molta fiducia in se stesso. Secondo me è volato fin quaggiù dal suo paese per conoscerti e per valutarti: voleva scoprire chi fosse il pugile che si era incontrato con Carlos prima di lui… e che prima di lui lo avesse messo al tappeto…” sospirò, sedendosi sulla panca.

Nel frattempo, Joe aveva ricominciato a sferrare al sacco precise combinazioni di jab e di diretti. “Voleva anche impressionarmi. E devo dire che c’è riuscito!” sorrise “certo che se pure io avessi delle mani così potenti… altro che lividi lascerei! Ma non ne sono in grado. ‘Notte, vecchio: vado a coricarmi, sono a pezzi: le feste mi ammazzano più degli incontri… non sono roba per me.”

°°°°°°

Nel frattempo Yoko non se n’era rimasta inerte.

L’arrivo di José l’aveva turbata ed aveva fatto nascere in lei mille interrogativi, cui non riusciva a dare una risposta. Quell’uomo era sbucato fuori dal nulla, quasi come uno spirito evocato… per poi sparire di nuovo. Aveva fatto un paio di telefonate ad alcuni amici giornalisti, per scoprire che dopo aver cambiato più auto José Mendoza si era rifugiato all’ambasciata messicana. Mentre, in vestaglia, rifletteva sulla questione, ecco che il telefono aveva ripreso a squillare.

“Salve. Se le interessa posso dirle dove si trova Mendoza.”

“…Kiyoshi? Ma… è Lei? Come ha fatto ad avere il mio numero di telefono?” Yoko non sapeva se restare allibita o se cominciare ad irritarsi sul serio per la sfacciataggine del reporter.

“Esatto, sono io. E per me è stato un giochetto da ragazzi reperire il Suo numero di telefono privato… come anche scovare Mendoza. Trucchetti da giornalista. Allora: vuole sapere di Mendoza o no?”

“Quanti soldi vuole?” sibilò Yoko, seccata.

“Nulla.”

“Non ci credo. I tipi come Lei hanno sempre un prezzo.”

“Uhmmm… stasera La sento assai poco cordiale… Facciamo così: domattina ci prendiamo un caffè insieme e parliamo con calma, ok? C’è una sala da tè in stile occidentale vicina al Palazzetto Kurama…Va bene per le dieci?”

“…”

“Bene. Chi tace acconsente. Dolce notte, principessa.

Yoko rimase interdetta, con la cornetta del telefono in mano, come imbambolata. Alla fine si riscosse, imprecando tra sé e sé per non aver chiuso il telefono in faccia a quel tizio. Ma la curiosità di scoprire qualcosa su Mendoza la vinse sull’irritazione. Sospirando, si spogliò della vestaglia e si coricò. Passò la notte insonne, girandosi e rigirandosi nel letto, decidendosi quindi di alzarsi assai di buon’ora: dopo aver passato in ufficio un paio d’ore a controllare la corrispondenza, Yoko si recò all’appuntamento.

Jun era arrivato già da qualche minuto: l’aspettava fuori, una sigaretta tra le labbra. Ne vederla arrivare, spense il mozzicone in un posacenere pubblico e le sorrise, un po’ sornione.

“Sapevo che sarebbe venuta. Ci tiene davvero a sapere di Mendoza… come immaginavo.”

“Buongiorno.” replicò lei, asciutta e, senza dire altro, lo precedette nel locale.

“Allora, cosa preferisce ordinare?”

“Un caffè, grazie.”

Dopo che il cameriere ebbe loro servito l’ordinazione, Jun si tolse gli occhiali da sole, ravviandosi la folta chioma, lunga quasi fino alle spalle. Yoko lo osservò: un bell’uomo, nulla da dire. Solo che, istintivamente, non riusciva ancora a decidersi se potersi fidare o no di costui. Sorseggiò il nettare robusto dell’arabica tostata a dovere.

“Cosa mi dice di Mendoza? In fondo, siamo qui per questo.” esordì, decisa.

“Dritta al sodo, eh?” ridacchiò Jun “La accontento subito. Mendoza non è venuto da solo: adesso alloggia in un albergo di lusso vicino all’aeroporto con tutta la sua famiglia.”

“Uhm… sa anche fino a quando rimarrà in Giappone?”

“Fino ad oggi pomeriggio: alle quattro si imbarcherà in un volo charter, con i suoi. Se desidera incontrarlo deve affrettarsi: non dimentichi che è protetto dall’ambasciata messicana, e che quindi dovrà chiedere prima di essere autorizzata ad avvicinarlo.”

“Che esagerazione…”chiosò Yoko, sarcastica.

“Beh, e che ci trova di strano? Mendoza è considerato una specie di eroe nazionale in patria: per questo è tanto protetto.”

“Capisco. Se vuole scusarmi, ora devo tornare in ufficio.” Yoko si alzò per inchinarsi a Jun “Grazie per le informazioni. Non esiti ad inviare la Sua parcella allo Shiraki Boxing Club per la… consulenza. Buona giornata.”

“Ma… aspetti un momento…!” provò a dire il reporter, per fermarla, ma invano: Yoko aveva già lasciato il locale.

°°°°°°

Qualche ora dopo…


Procedeva a passo sostenuto con la sua corvette, alla volta dell’albergo. Non era stato semplicissimo ottenere il permesso dall’ambasciata messicana: suo malgrado, Yoko aveva dovuto far leva sul prestigioso nome della famiglia. Essere una Shiraki poteva comportare pure qualche vantaggio, almeno una volta tanto… e non solo il problema di avere una nonna reazionaria e dittatoriale. Dopo aver affidato l’auto al parcheggiatore dell’hotel, Yoko chiese alla receptionist di essere messa in contatto con la suite reale: dopo una breve telefonata, le venne concesso il permesso di salire. Yoko avrebbe incontrato la famiglia Mendoza in piscina. Si sentì un po’ sciocca, mentre si recava all’ascensore, oltre che un po’ intimidita, non sapendo bene cosa aspettarsi… respirò a lungo, mentre l’ascensore saliva di piano in piano. In realtà, l’incontro fu poi assai piacevole e tranquillo: Claire Mendoza, una bella donna americana dai lunghi capelli biondi, fu molto affabile con la signorina giapponese tanto ansiosa di fare la conoscenza sua e di suo marito. I quattro bambini, due maschietti e due femmine, di età variabile dai tre ai nove anni, la accolsero quasi come una loro vecchia amica, mostrandole i souvenirs acquistati il giorno prima. Ma, soprattutto, Yoko rimase incantata dalla semplicità dei modi e dalla cortesia del campione: un vero gentiluomo vecchio stampo, che la ascoltò con attenzione e che rispose a tutte le sue domande. Solo ad una domanda non volle rispondere, limitandosi a sorridere quietamente: non volle dire a Yoko cosa pensasse di Joe e perché avesse voluto incontrarlo. Yoko non volle essere insistente e capì che era arrivato il momento di congedarsi. Stringendo la mano ai due sposi, li ringraziò per la loro gentile disponibilità, augurando loro un felice ritorno in patria. Proprio quando stava per girare sui tacchi, Mendoza la sorprese, una volta di più…

“Joe Yabuki mi sembra un giovane promettente. Ma da dove proviene e dove pensa di poter arrivare**?” le disse, in tono pacato.

Quelle parole continuarono a ronzarle nella mente, anche mentre mise in moto l’auto, per poter fare ritorno in ufficio.

“Già… questo è quello che viene spontaneo chiedersi quando si ha di Joe una conoscenza ancora superficiale. Pure io, anni fa, quando lo vidi per la prima volta, mi chiesi chi fosse e che cosa mai potesse volere dalle nostre vite… dalla mia, da quella di Tooru… Ma una cosa è certa: è un uomo che ti entra nella pelle e di cui non ci si può liberare, mai più. E questo lo scoprirà anche Mendoza, quando un giorno, forse, incrocerà i guantoni con lui…

°°°°°°

Qualche giorno dopo, al Kimura Boxing Club...


Aveva fatto bene.

Aveva fatto davvero bene a tenere lontano Joe da quel pugile. Danpei Tange osservava sbigottito come quell’uomo stesse infierendo sul povero sparring partner della palestra. Il coreano era implacabile: con una precisione quasi robotica non dava nessuna possibilità all’altro di stringere la difesa e di contrattaccare in qualche modo. Ma la cosa che più gli fece agghiacciare il sangue nelle vene erano gli occhi di Ryuhi Kim, che erano totalmente freddi, vacui ed inespressivi: quelli erano gli occhi di un rettile che stesse per dare alla sua preda il colpo di grazia, prima di inghiottirsela tutta d’un boccone. In più era spaventosamente alto e possente, dagli arti molto lunghi, che parevano quasi piovere dall’alto sul corpo di quel poveraccio.

Sì: aveva fatto bene a mentire a Joe, dicendogli che il campione di boxe dell’Asia si era rifiutato di organizzare un incontro con lui. Joe aspirava al titolo mondiale, ma sapeva benissimo che per poter arrivare a Mendoza e vendicare Carlos doveva prima disputare dei campionati intermedi: il primo della lista era il campionato asiatico, il cui titolo era detenuto dal pugile della Repubblica Popolare Democratica di Corea. Danpei posò la mano convulsamente sulla tasca del soprabito, ove da quasi tre mesi custodiva gelosamente una lettera inviatagli da Lee Jang, procuratore ed allenatore di Kim, con cui lo invitava a fissare al più presto un match mettendo in palio il titolo del suo uomo. Lettera cui Tange non aveva ancora dato nessuna risposta.

Alla fine, il titolare della palestra Mito Kimura non resse più alla tensione.

“Colonnello Jang La prego… faccia smettere il suo pugile! Questo non è più un allenamento ma un massacro! Guardi come Kim ha ridotto il mio povero pugile! Lo faccia smettere!”

Il militare lo squadrò freddamente, quasi soppesandolo con gli occhi.

“Sciocchezze. Kim ci sta andando leggero. È il suo pugile ad essere una debole femminuccia. Comunque sia, siamo Suoi ospiti, per cui va bene. Kim,” chiamò il campione, avvicinandosi alle corde: “basta così per oggi. Vai a farti una doccia.”

“Ricevuto.”

L’alto giovane si allontanò a passo elastico da quello che ormai era divenuto un sacco da boxe e che si era accasciato al tappeto con un flebile rantolo.

“Un medico!! Presto!!” urlò disperato Kimura, accorrendo sul ring.

Tange scivolò fuori dalla palestra, insieme ai giornalisti sportivi. L’allenamento pubblico di Kim aveva suscitato vivide impressioni in tutti loro.

“Accidenti, è una macchina, non un uomo…”

“A me ricorda Frankenstein… così alto e con quei lineamenti squadrati…gli mancano i bulloni ai lati del collo ed è uguale sputato!”

“E che dire della potenza dei suoi pugni? Neppure un peso massimo è così feroce!”


Più sentiva i commenti dei giornalisti e più Tange moriva dalla paura per Joe…doveva a tutti i costi tenere lontano il suo ragazzo da quel mostro!

“Vecchio. Eccoti qua, come immaginavo.”

Danpei, perso com’era nei suoi pensieri, era quasi andato a sbattere contro Joe, che lo stava fissando con aria cupa.

“Ehmmm… ma tu cosa ci fai qui? Non dovresti essere in palestra ad allenarti?” farfugliò Tange.

“Eggià… io dovrei starmene in palestra ad allenarmi, mentre tu te ne vai di nascosto a vedere un allenamento pubblico di Ryuhi Kim… proprio lo stesso Ryuhi Kim che – com’è che dicevi? – ‘non lascia mai il suo paese e non rilascia interviste’. Che strano, eh? Dopo la doccia ho curiosato nel quotidiano… e vengo a scoprire che dopodomani questo misterioso campione disputerà un incontro proprio qui a Tokyo… e che oggi pomeriggio si sarebbe allenato pubblicamente al Kimura Boxing Club!” al che afferrò Tange per il bavero, furibondo “A che gioco stai giocando? Quante balle mi hai raccontato? Sono settimane che ti chiedo notizie su di lui e tu fai il misterioso! Tu mi stai nascondendo qualcosa, lo sento!”

“Calmati Joe… calmati figliolo. Ecco… sto cercando di nuovo di organizzarti un incontro con lui…pensavo di raggiungere il suo manager in hotel per parlargli… poi, a cosa fatta, te ne avrei parlato…sai, i nord coreani non sono tipi facili da avvicinare…” staccò le mani del ragazzo, cercando di blandirlo.

Joe lo osservò per qualche secondo: sentiva che Tange non era completamente sincero. Eppure, adesso come adesso, non gli restava altro da fare che fidarsi di lui…

“E va bene. D’accordo. Io torno a casa. Lascio a te la cosa… ma ricordati che io voglio salire sul ring per un incontro decente. Ho fretta, capisci? Non posso restarmene con le mani in mano, né perdere tempo con pugili in basso nelle classifiche, o mi va a finire che Mendoza si ritira dalla boxe! Ciao, ci vediamo a casa. Portami delle buone notizie!”

Danpei osservò Joe allontanarsi con le mani nelle tasche e la testa un po’ insaccata nel colletto del giaccone, maledicendo se stesso per l’ennesima bugia. Gli aveva mentito di nuovo, anche se lo aveva fatto a fin di bene. Ora, però, doveva consultarsi con qualcuno che potesse capire le sue preoccupazioni: per questo si diresse alla metropolitana, per raggiungere lo Shiraki Boxing Club il prima possibile.

°°°°°°°°

Dopo aver rassettato un po’ in giro, dato che Danpei gli urlava sempre “che era troppo disordinato”, si mise a leggere una rivista sportiva che aveva comprato di ritorno dal centro, aspettando così il ritorno del vecchio. Divorava soprattutto gli articoli che parlavano di Mendoza. Si divertì molto a leggere lo scoop sulla comparsa di Mendoza al ricevimento della Tele Kappa: i giornalisti si erano sfogati in illazioni di vario genere, specialmente riguardo all’approccio che il campione aveva tenuto proprio con lui. Sentì aprire la porta.

“Oh finalmente… certo che ce ne hai messo di tempo, eh. Allora cosa mi dici? Si fa questo match?” interpellò quello che credeva fosse Tange, senza però staccare gli occhi dall’articolo che stava finendo di leggere.

“Non intendiamo lasciar correre.”

Joe alzò gli occhi sbigottito, udendo una voce a lui sconosciuta e dallo spiccato accento straniero. Due uomini gli apparvero davanti agli occhi: uno di mezza età e tarchiato, dall’aria malevola, uno molto alto e sulla trentina, che lo fissava freddamente.

“Chi diavolo sareste voi?” sbottò, levandosi in piedi, lentamente. Per una frazione di secondi pensò che si trattasse di qualche sgherro della Yakuza, affinché la dolce nonnina di Yoko potesse finire con lui quello che aveva solo abbozzato, qualche tempo prima… ma poi, fissando bene in volto i due sconosciuti notò che non erano giapponesi ma eminentemente coreani. Lo spilungone, poi, doveva averlo già visto da qualche parte…

“Joe Yabuki, non credere che Ryuhi Kim, il campione, possa avere paura di te. Per questo siamo qui: per dirti di persona che vogliamo un match contro di te il prima possibile. E non ti permettere più di dire in giro che il campione asiatico avrebbe paura di te.” gli pontificò il più vecchio, in un giapponese stentato.

Joe non fece in tempo a replicare, che ecco che sopraggiunse Tange proprio in quel momento… Il pover’uomo rimase di sasso per qualche secondo sulla soglia della palestra, non appena si vide davanti Jang e Kim… Oh no, non era possibile!!

“Andate via! Cosa ci fate qui?” annaspò, cercando di rendere ferma la voce.

“Tange, è stato lei con il suo pupillo a spargere in giro la voce sulla paura di Kim di battersi? Scherziamo? Dopo che IO Le avevo scritto per chiederLe di fissare il match il prima possibile senza che Lei si fosse degnato di rispondermi? A che gioco sta giocando?” gli sbraitò contro il colonnello, puntandogli l’indice sulla spalla con fare minaccioso.

“Sentite, facciamo così. Inutile dire chi ha fatto cosa… tanto più che ormai siete qui: fissiamo questo cavolo di incontro, quando volete voi e dove volete voi. Per me non c’è problema.” propose Joe, con fare sornione.

“Stai zitto, tu! Queste decisioni le prendo io, che sono il tuo manager! Ed ora, voi due, andate via!! Fuori di qua!”

Tange cominciò a spintonare Kim verso l’uscita…cosa che il pugile non gradì affatto.

“Mi tolga le mani di dosso. Non mi tocchi.” al che gli sferrò un gancio nello stomaco che lo lasciò accasciato al suolo, incapace quasi di respirare…

“Vecchio! Rispondimi ti prego!!” Joe cercò di tirare su il povero Danpei, che aveva perso i sensi. Lo appoggiò alla parete, facendogli aria in viso con il cappello, per farlo rianimare. “Dove credete di andare?” ringhiò poi “Confermo di accettare la sfida! Ma prima… vorrei restituire la cortesia!” balzò in piedi con uno scatto felino e piombò su Jang, che si era messo in mezzo “Si tolga di mezzo!” omaggiandolo di un diretto destro e di un gancio sinistro. Non rimase a Kim che afferrare saldamente Joe per i polsi per strattonarlo via dal colonnello, cosa che fece digrignare i denti al giapponese.

“Non qui. Ti aspetto sul ring. Tto manna-yo***” gli sibilò.

______________________________________

Spigolature dell’Autrice:

*Hotel New Otani di Tokyo: esiste, è un albergo di lusso di cui parla pure il blog che Vi avevo linkato nel primo capitolo. Sulla sommità c’è una torretta che ruota, per una vista panoramica mozzafiato!

new-otani-hotel-tokyo
**frase presa dall’anime, per me troppo significativa per tralasciarla…

***"arrivederci" in coreano.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo XVIII - Amaro come il fiele ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Tre settimane.

Solo tre settimane. Joe fissava la data sul calendario, cerchiata in rosso con un pennarello. Sospirò, grattandosi la testa, perplesso e preoccupato. Purtroppo era capitato pure a lui: l’ultimo incontro davvero impegnativo lo aveva disputato a Capodanno, con Carlos. I due match successivi, contro Aroon Wongpoom e contro Dario Alonso, non li aveva presi molto sul serio e non si era allenato intensamente. Negli ultimi mesi, essendosi concentrato sul suo sogno di sfidare, un giorno, il campione mondiale dei pesi medi, aveva tenuto, quasi senza accorgersene, uno stile di vita un po’ troppo rilassato per essere un pugile professionista. Una birra di troppo, gli spiedini di carne al baracchino preferito, un delizioso mochi* gustato in compagnia di Yoko…

“Non ce la farò mai… accidenti a me ed alla mia disattenzione, sono stato un vero idiota!” borbottò, arruffandosi la folta zazzera scura. Certo, quando aveva sfidato quello spilungone coreano, dicendogli di fissare “questo cavolo di incontro, quando volete voi e dove volete voi”, non avrebbe mai immaginato che lo avrebbe preso tanto in parola… fissando il match così presto. Si spogliò della tuta e, con la sola biancheria indosso, un po’ esitante, salì sulla bilancia.

77,80.

Cinque chili oltre la categoria dei pesi medi. Rilesse con attenzione, illudendosi stupidamente di leggere male… e questo da alcuni giorni, ormai. Saliva sulla bilancia sperando di vedere, magicamente, il peso di 72 chili, che fino ad allora era riuscito a rispettare. Cinque chili non erano poi tantissimi: con un po’ di dieta li avrebbe persi felicemente in un mesetto e mezzo o al massimo in due. Ma in tre settimane diventava un tantino arduo riuscire a calare di peso, dato che il tempo, oggettivamente, era davvero poco.

“Mi sa che dovrò dirlo a Tange e chiedergli aiuto: o non ce la farò mai da solo.” sorrise con amarezza, tra sé e sé. Gli pesava dare al vecchio quell’ulteriore preoccupazione, dopo tutti i grattacapi che gli aveva già dato. Ma non poteva farne a meno. Un leggero bussare alla porta lo distrasse dai suoi pensieri. Non fece in tempo né a dire “avanti”, né ad infilarsi almeno i calzoni della tuta, che ecco che fece capolino l’ultima persona che avrebbe pensato di rivedere…

“Noriko…”

“Oh scusami!” la ragazza arrossì nel vedere Joe… in mutande; imbarazzatissima, gli voltò le spalle, continuando a parlare: “Poco fa ho visto Tange avviarsi alla metro e così sono passata un attimo a salutarti… è da un po’ che non ci vediamo, noi due.”

“Sì, infatti, il vecchio è andato alla Federazione, per prendere gli ultimi accordi per il mio prossimo incontro: un mucchio di scartoffie da firmare, molte più del solito.” rispose Joe, glissando abilmente sul resto.

“Forse perché è in palio un titolo, come mi ha spiegato ieri Nishi-chan.”

“Esatto: Kim ha messo in palio il suo titolo di campione asiatico.” spiegò Joe, in tono pacato, finendo di rivestirsi. Si avvicinò a Noriko, parandolesi davanti. “Mi fa piacere rivederti. Accomodati pure. Io preparo un tè.”

Noriko annuì, un po’ meccanicamente. Niente da fare: ancora non le era passata…le bastava stargli vicino che il cuore le si metteva a far le capriole. Ancora e di nuovo.

Joe la liberò dell’involto che lei teneva stretto al petto.

“Accidenti quanto pesa, Nori. Cosa c’è qui dentro?” le chiese sorridendo, dandole il colpo di grazia.

No: decisamente, non le era passata e non le sarebbe passata mai…

“Ecco… c'è del sukiyaki** che ho tenuto ben caldo nel tegame per te e per Tange. L’ho preparato stamattina per tutta la famiglia: però ho sbagliato con le dosi e me n’è venuto troppo. Così ne ho messo da parte un po’ per voi della palestra e per Nishi, ovviamente. Il suo gliel’ho già dato prima di passare di qua.”

Accidenti: del succulento sukiyaki che lui non avrebbe potuto neppure assaggiare, di cui sentiva il delizioso profumino già a tegame chiuso! Che disdetta…questo però all’ignara e premurosa amica di certo non avrebbe potuto dirlo!

“Sei stata davvero gentile, Nori, grazie. Di sicuro sarà buonissimo, sei molto brava a cucinare!” nell’udir ciò, Nori divenne di bragia. ”Lo porto in cucina, allora… e preparo questo benedetto tè.”

“Io… io ora devo andare…” farfugliò la ragazza, sempre più confusa, ed avviandosi verso la porta. Ancora non le era possibile stare a lungo in compagnia di Joe: non si sentiva a suo completo agio. Aveva tentennato a lungo prima di decidersi a portare lo stufato alla palestra Tange… e lo aveva fatto soprattutto per mettersi alla prova. Prova che aveva miseramente fallito. Lo amava ancora. Non c’era nulla da fare…

Joe, udito quanto detto dalla fanciulla, uscì dalla cucina, andandole dietro.

“Nori aspetta,” le sussurrò “a me dispiace che le cose si siano messe male… tra noi intendo. Ma spero che rimarremo buoni amici. Io mi sono comportato male con te, però ti sono affezionato e vorrei che tornassimo ad essere spontanei, come un tempo… ti ricordi dei primi tempi? Uscivamo insieme a Nishi ed ai bambini ed una volta abbiamo pure fatto una gita al mare! Ecco, sarebbe bello se si potesse ricominciare tutto da capo… come quando sono ritornato dal riformatorio...” mormorò Joe, a capo chino. Voleva sinceramente bene a Noriko e se anche non poteva darle il tipo di rapporto che lei desiderava, non avrebbe rinunciato alla sua amicizia a cuor leggero. Sia Noriko che i genitori di lei si erano dimostrati gentili e disponibili con due ragazzi, come lui e Nishi, appena usciti dal riformatorio: cosa non da tutti i giorni. La famiglia Hayashi aveva dato una possibilità a due pregiudicati e questo né Joe né Nishi avrebbero mai potuto dimenticarlo. Noriko si voltò leggermente. Joe osò sollevare lo sguardo per osservarla, visibilmente turbato. Gli fece male quello che vide: un viso pallido ed un po’ tirato, dagli occhi tristi.

“Joe… non ti preoccupare… mi passerà. Ho solo bisogno di ancora un po’ di tempo. Chissà… magari un giorno riusciremo a scherzarci su…” Noriko sorrise, mesta. Poi, con con gli occhi brucianti di lacrime, aprì la porta e se ne andò.

Joe, rimasto solo, sospirò profondamente, sentendosi in colpa una volta di più.

°°°°°

Passarono un paio di giorni, in cui Joe, da sé, ridusse drasticamente cibo e bevande, adducendo come scusa a Danpei di avere un po’ di mal di stomaco e di “voler stare leggero”. Naturalmente, il famoso sukiyaki venne donato ai monelli suoi amici, dato che Tange non poteva finirlo tutto da solo. Il coach, tuttavia, pur vedendoci da un occhio solo, non si faceva sfuggire nessun particolare, specialmente se si trattava del suo pupillo.

“Non hai nulla da dirmi, ragazzo mio?” sputò fuori dai denti, una sera, ad un Joe meditabondo che scorreva gli occhi distrattamente su una rivista sportiva.

“Eh?”

Eh un corno. Cosa mi stai nascondendo?”

Joe alzò lo sguardo dall’ennesimo articolo su Mendoza, per fissare Danpei con aria interrogativa.

“Inutile che mi guardi facendo il finto tonto. È da un po’ che ti osservo e temo di avere capito. Però vorrei che me lo dicessi tu, una buona volta. Come va con il peso, Joe?”

“Di merda, grazie.”

Tange sospirò, affranto. Ci aveva visto giusto, quindi. Non che Joe non fosse più snello e longilineo, dato che certe costituzioni come la sua erano innate e molto diffuse, soprattutto tra i giovani giapponesi. Però gli era parso che, ultimamente, il viso di Joe fosse più pieno e che la sua figura fosse leggermente più florida. “Colpa mia, non ti ho prestato la dovuta attenzione, ti ho trascurato… solo da pochi giorni, tenendoti d’occhio, mi è parso di vedere qualcosa che non andasse.” Tange scosse la testa, sconsolato. “Quando faccio di queste cazzate mi prenderei a pugni da solo. Di quanto sei salito di peso?”

“Ora peso 77 chili.”

“Cazzo, Joe, l’incontro è tra diciotto giorni!!! Non lo so se ce la facciamo a scendere di cinque chili! Quando pensavi di dirmelo!”

Joe sbuffò scocciato, roteando gli occhi verso l’alto, incrociando le braccia sul petto: una scenetta analoga l’aveva vissuta appena poche ore prima, dato che pure Yoko si era detta preoccupata per il suo aumento ponderale in vista del match contro Kim, ormai abbastanza imminente. In realtà, Yoko era stata la prima ad accorgersi del problema, ancora prima del diretto interessato. Diversi giorni addietro, infatti, dopo aver fatto l’amore, gli aveva fatto notare, tra il serio ed il faceto, di averlo trovato meno “spigoloso” e ben più… accogliente. Messagli la pulce nell’orecchio, nel tragitto di ritorno a casa, Joe si era pesato nella prima farmacia che gli era capitata a tiro, ove aveva fatto l’amara scoperta. Poi, una volta giunto a casa, aveva interrogato pure la bilancia della palestra, che gli aveva confermato la verità, nuda e cruda.

“Pensavo di cavarmela da solo, mangiando un po’ meno: sono riuscito solo a calare di neanche un chilo…” alzò gli occhi su Danpei “Lo so, lo so: sono stato un idiota, avrei dovuto fare attenzione al cibo, come ho sempre fatto da due anni a questa parte. Ormai è andata così. Adesso però aiutami a dimagrire… per favore. Sennò temo di non farcela per l’incontro…” borbottò, visibilmente contrito.

“Certo che ti aiuto. Adesso ti preparo io un piano d’attacco per calare di peso…” Danpei prese un taccuino ed un lapis e cominciò a scribacchiare, parlottando via via: “Dunque… niente più tempura… né udon… un po’ di miso… e del riso a vapore… birra niente, acqua semplice… pesce ai ferri, carne bianca…” fissò il suo unico occhio indagatore sul ragazzo “e, soprattutto, niente pasticcini da gustare con la tua dolce metà…”

“Ehi ma, ma…. cosa vai farneticando…?” farfugliò Joe, preso in contropiede.

“Joe, non sono nato ieri. E forse non ci crederai, ma vent’anni li ho avuti pure io e non ho sempre avuto questo aspetto.” Disse, in tono amaro, sfiorandosi la benda sull’occhio sinistro “Magari, se all’epoca fossi stato meno idiota e avessi saputo tenermi ben stretta la ragazza che frequentavo, ora non mi sarei ridotto così…” concluse, tristemente.

Joe lo fissava, sbalordito: non poteva credere alle sue orecchie! Non avrebbe mai e poi mai creduto che il suo caro, vecchio allenatore gli avesse confidato una cosa simile! Non osò però dir nulla, limitandosi ad ascoltare.

“Ehi, non mi fissare così, sembri un bue al pascolo che guarda un treno passare! Te l’ho detto: sono stato giovane pure io ed avevo una morosa. Una brava ragazza: forse non bellissima, ma gentile e premurosa. Però io pensavo sempre e solo al pugilato… e la trascuravo. Finché un giorno lei non si stancò di aspettarmi e non si sposò con un altro…” Tange, sospirò, alzandosi in piedi “Ti dico queste cose perché non voglio che tu commetta il mio stesso errore. Sei fortunato: Yoko Shiraki è una ragazza straordinaria… bellissima, intelligente e generosa. Tienitela ben stretta, non lasciarla andar via. Non fare come me. Vado a dormire. Domattina, prima dell’alba, inizieremo una scaletta speciale, per farti calare di peso il prima possibile. Dobbiamo massimizzare gli allenamenti, per sfruttare il poco tempo che abbiamo a disposizione o non ce la faremo. D’accordo?”

“Ok… e grazie. Per tutto.”

Tange non rispose, a parte una bonaria pacca sulla spalla del suo ragazzo.

°°°°°°°

Passarono i primi giorni, abbastanza velocemente. Joe si applicò con la massima diligenza alle disposizioni prese da Tange, allenandosi con scrupolo e mangiando lo stretto necessario per stare in piedi. Dopo aver perso quasi subito i primi due chili, cosa che riempì di giubilo sia lui che Tange, ecco che il calo ponderale si arrestò bruscamente. Nonostante la dieta dimagrante e gli intensi allenamenti, quel dannato ago della bilancia non voleva proprio saperne di spostarsi e quei maledetti tre chili in più pareva che non volessero schiodarsi dal corpo di Joe. Questi si era ridotto a pesarsi e ripesarsi in modo quasi ossessivo più volte al giorno: il ragazzo interrogava la bilancia con aria quasi supplice, come se quell’oggetto inanimato potesse dargli la risposta che tanto cercava.

“Joe, è perfettamente inutile che ti pesi più di una volta al giorno: è sufficiente il controllo mattutino, a digiuno. Sta diventando una mania, la tua, un’ossessione!” lo ammonì Tange, in un tardo mattino.

“Dannazione! Sono giorni che seguo la tua dieta e che mi alleno dalle sei del mattino alle dieci di sera… però niente! Sono ancora fuori forma! Non ne veniamo a capo, tu ed io!” sbottò Joe, in preda quasi all’isteria. “Devo eliminare ancora qualcosa dai pasti! Basta: niente più riso!”

“Non puoi mangiare meno di così, o ti sentirai male! E poi un pugile ha bisogno di tenersi in forze per combattere!” brontolò Danpei. Non sopportava la cocciutaggine di Joe, che in questo era davvero un fuoriclasse.

“Allora dimmi tu cosa devo fare! La data del match si avvicina sempre più e non calo! Non calo più!” urlò. Con impeto, aprì la porta della palestra e si slanciò fuori.

“Joeeeeeeee!! Dove vai? Torna qui!”

Nulla da fare. Le urla di Tange non servirono a far ritornare Joe sui suoi passi.

Joe vagò nervosamente nei quartieri limitrofi, già meno fatiscenti rispetto al proprio. Scorse quindi le insegne di un nuovo locale ove si facevano saune e bagni turchi e vi entrò… per rimanervi per oltre tre ore…

°°°°°

Un po’ più tardi, alla palestra…

Dopo aver aspettato Joe invano per l’ora di pranzo e per quasi tutto il pomeriggio, Tange stava sistemando alcuni documenti, borbottando a tratti sull’astrusità di alcuni termini legali, quando sentì bussare alla porta in modo insistente.

“Arrivo… arrivo!!!” Rimase di sasso quando si trovò davanti Nakamura, nel suo consueto abbigliamento elegante.

“Mi pareva di averti già chiesto, in passato, di prenderti cura di mio figlio. Ma a quanto pare non ne sei in grado.” esordì l’uomo, in tono freddo. Se però le parole erano glaciali, lo sguardo dello yakuza era di fuoco: il povero Danpei si sentì incenerire da quegli occhi…

“Cosa diavolo vuole, da me? Perché non ci lascia in pace?” sbottò, passando subito ai fatti, dato che lo afferrò per il bavero… “Abbiamo già abbastanza problemi, Joe ed io: non abbiamo bisogno di altri casini!”

“Giù.Le.Mani.” Nakamura diede a Tange una poderosa ginocchiata allo stomaco, che gli fece perdere il respiro… il vecchio si accasciò a terra, in ginocchio. Nakamura continuò: “Vuoi sapere dove si trova Joe, eh? Lo vuoi sapere, vecchio pazzo?” Tange sollevò il viso, incapace ancora di parlare, anche se il suo sguardo angosciato e preoccupato parlava per lui… “Adesso Joe si trova a casa mia. Il mio medico personale si sta occupando di lui. A momenti gli veniva un collasso… per una sauna di quasi quattro ore! Quattro ore!! Quando al massimo una sauna deve durare venti minuti! E tu dove cazzo eri, mentre mio figlio si faceva del male, perché non riesce a dimagrire?” urlò, furibondo. Non era uno spettacolo gradevole a vedersi un Hiro Nakamura in preda all’ira: pareva quasi emanare un’aura rossastra.

“M-ma Lei come lo sa…” riuscì finalmente a dire Tangei, con un filo di voce, massaggiandosi lo stomaco indolenzito dal colpo di Nakamura.

“Io so tutto quello che c’è da sapere. Non ho mai perso di vista mio figlio, anche se me ne sto in disparte. Neppure quando lo hanno aggredito per spezzargli le mani me ne sono fregato.” replicò, un po’ più calmo. Con pochi gesti febbrili si accese una sigaretta: inutile prendersela con quel vecchio orbo. Lo considerava freddamente, con lucida severità. Suo figlio poteva morire, e quell’idiota del coach se n’era rimasto tranquillo e beato in palestra a fare chissà cosa! 

Tange si tirò su, incapace di credere a quanto appena udito. Il suo Joe… aggredito, picchiato da dei malviventi? “Cosa… cosa ha detto? Che cosa è successo al mio ragazzo?” urlò, disperato, stringendo i grossi pugni fino a rendere bianche le nocche.

“Quello che hai sentito. Un po’ di tempo fa lo hanno aggredito in tanti per rovinargli le mani. Ma sono intervenuto io… con un amico. Ce l’ho fatta a salvarlo, appena in tempo. Esattamente come oggi.” Nakamura sollevò il sopracciglio, un po’ stupito, quando, al termine del discorso, vide Tange rimettersi in ginocchio, piegando il capo fino a toccare il pavimento con la fronte.

“Grazie. Non posso che dire grazie…” mormorò, mentre copiose lacrime scivolarono dalle sue gote fino a terra.

“Io non posso dire altrettanto, però.” Detto ciò in tono freddo, Nakamura girò sui tacchi e se ne andò.

°°°°°°

Quando aveva riaperto gli occhi non era riuscito a muovere neppure un muscolo. Solo dopo alcuni minuti scosse un po’ il capo, tirandosi su leggermente per mettersi seduto e per potersi guardare intorno in un posto a lui sconosciuto.

Una camera da letto in stile occidentale, dai mobili sobri ma eleganti.

Un tappeto con strani disegni geometrici.

Dei bei quadri alle pareti.

Un grosso vaso di ceramica, forse cinese, o roba del genere…

Joe era stato coricato in un letto matrimoniale molto morbido e confortevole. Le lenzuola erano di fresco lino ed un leggero trapuntino lo ricopriva fino allo stomaco. Si aprì la porta e vide avvicinarglisi un uomo basso di mezza età, in camice bianco, con lo stetoscopio al collo. “Molto bene, ti sei risvegliato. Come ti senti, ragazzo?” gli chiese, prendendogli il polso per contare le pulsazioni “Uhm… qui va già molto meglio…”

“Dottore, dove mi trovo?” borbottò Joe, sentendosi parecchio confuso e a disagio.

“Mi chiamo Shuji Ogawa e sono il medico personale di Nakamura-san, il padrone di questa casa.”

Udendo quel nome, Joe spalancò gli occhi, ma non disse nulla.

Il medico proseguì, con pacatezza, continuando con la visita. “Sei svenuto in una sauna per un collasso da calore e ti abbiamo portato qui. Il titolare ci ha detto che sei rimasto nella cella per oltre tre ore. Hai rischiato grosso, ragazzo. Nessuno ti ha spiegato che non si deve superare la mezzora, in una sauna?” mentre parlava, il medico, dopo avergli auscultato il cuore ed esaminato le sclere, fece a Joe anche una rapida iniezione, cosa che lo fece brontolare. “Tranquillo, è solo per reintegrare i sali minerali che hai perso con la sudorazione. Ora riposati. Più tardi torno a visitarti. Qui c’è dell’acqua minerale: bevi a piccoli sorsi.” gli disse in tono professionale ma gentile, riempiendo un bicchiere e posandolo sul comodino, lasciandoglielo a portata di mano.

Dopo un lieve inchino del medico, Joe rimase nuovamente da solo, in preda ai suoi pensieri. Distrattamente, bevve un po’ d’acqua, rimanendosene poi con il bicchiere stretto tra le mani, meditabondo. Nakamura… proprio lui, ancora lui, lo aveva portato via dalla sauna. Puntualmente quell’uomo riappariva nella sua vita senza essere stato minimamente interpellato, un po’ come il jolly nel gioco delle carte, capace di cambiare da solo il corso di una partita. Così: di punto in bianco.

Ed ora?

Che cosa voleva da lui? Perché era comparso proprio adesso… adesso che lui aveva ventun anni suonati e dopo aver trascorso in solitudine buona parte della propria vita? Che cavolo ne sapeva quel tizio distinto ed affettato delle sue notti all’addiaccio, dei morsi della fame, di tutte le volte che era scappato dall’orfanotrofio di turno, cercando così di fuggire da un inferno in terra per andare a cacciarsi, via via, in uno peggiore? Che cosa credeva di fare? Di risolvere i suoi problemi con un colpo di bacchetta magica come fanno i maghi delle favole?

In preda all’ira, Joe scagliò il bicchiere contro la parete, frantumandolo in mille pezzi. Voleva andarsene via, subito. Nulla poteva essere per lui, in quella casa tanto estranea. Sollevò trapunta e lenzuolo stizzosamente e posò i piedi per terra. Lo avevano spogliato per coricarlo e tirò a sé i vestiti, che gli avevano posato, ben ripiegati, ai piedi del letto. Si rivestì in pochi gesti febbrili e cercò di rimettersi in piedi… per ricadere seduto goffamente. Gli girava la testa come se fosse una girandola impazzita, con la vista annebbiata. Respirò profondamente e con calma e, una volta messo nuovamente a fuoco, riprovò ad alzarsi, stavolta più lentamente. Avanzò cautamente, un passo dopo l’altro, via via appoggiandosi a questo o quel mobile. Il medico gli aveva detto di stare fermo ed a riposo… col cavolo. Ok, per il resto della giornata si sarebbe riposato, di allenarsi in quelle condizioni si rendeva conto lui stesso che non era proprio in grado. Però si sarebbe riposato a casa sua, non lì, nel covo di quello yakuza. Il problema era come arrivarci, al Ponte delle lacrime: controllò nelle tasche. Era uscito dalla palestra precipitosamente, con pochi yen… i pochi quattrini che aveva con sé li aveva spesi tutti per la sauna: per cui prendere un taxi era fuori discussione e non poteva neppure telefonare a Tange o a Nishi per farsi riportare a casa. Bah, pazienza: in qualche modo se la sarebbe cavata da solo, come sempre… Giunto finalmente alla porta, la aprì un po’ troppo di slancio: si sbilanciò e sarebbe caduto a terra come un sacco di patate se due forti braccia non lo avessero prontamente sorretto. Joe si ritrovò, suo malgrado, rannicchiato contro il saldo petto di suo padre, che era giunto a casa giusto in quel momento: Nakamura si era allontanato per andare da Tange solo per un breve lasso di tempo, sapendo che il dott. Ogawa era ancora a casa sua, con Joe.

“Dove credevi di andare, nelle tue condizioni?” lo rimbrottò, stringendolo a sé con più forza.

“Lasciami!” Joe si divincolò bruscamente. “Devi lasciarmi stare!” urlò, reggendosi in piedi a fatica, con il respiro corto.

“No.” Nakamura gli si parò davanti, a braccia conserte. “Questo te lo scordi. Io sono tuo padre e tu sei mio figlio. Ficcatelo bene in testa, una buona volta. Non intendo rinunciare a te e tu non dovrai respingermi. Ora mi ascolterai, una buona volta.” Hiro lo afferrò per tutte e due le braccia, nello stesso modo in cui, tempo addietro, aveva fatto Mendoza con lui. “Sono anni che ti cerco per tutto il Giappone. Anni: lo capisci? Ho pure sguinzagliato un esercito di detectives per ritrovarti! Solo da poco tempo sono riuscito a ricollegare il nome di Joe Yabuki… a quello di Kei Nakamura.” Man mano che gli parlava, il suo tono di voce diveniva sempre più basso, per trasformarsi in un sommesso mormorio… pure gli occhi di Hiro mutarono di espressione: Joe vide molta dolcezza, in quello sguardo. Una dolcezza triste, senza limiti e tutta per lui… “Kei Nakamura… è questo il tuo vero nome. Joe Yabuki te l’hanno attribuito nel primo istituto dove sei stato portato dopo l’incidente…”

"Incidente? C-cosa ti stai inventando?” borbottò Joe.

Hiro annuì, sorridendo mestamente “Nessuna invenzione… sto parlando dell’incidente del pullman dove, piccolissimo, viaggiavi con la tua povera madre… lei purtroppo non ce la fece.” le lacrime ormai scorrevano, lente, sulle gote dell’uomo, che lasciò ricadere le braccia, liberando, così, Joe dalla stretta.

In silenzio, Joe si appoggiò, attonito, alla parete, per poi lasciarsi scivolare fino a terra.

“Sulla sua tomba sono tornato tante volte, in questi anni, per rinnovarle la mia promessa di ritrovarti…”

“Lei… dove si trova…” chiese Joe, a fatica. La lingua pareva essergli divenuta di cemento, impedendogli di parlare con scioltezza.

“A Niigata… si trova laggiù…” Hiro andò a sua volta a sedersi a terra, al fianco di Joe. Per un po’ rimasero in silenzio, ascoltando l’uno il respiro dell’altro. Hiro lo covava con gli occhi, amorosamente, quasi volendo studiare i lineamenti di Joe, uno per uno. Joe, invece, teneva lo sguardo basso, come se volesse esaminare il pavimento. Il primo a rialzarsi fu suo padre e gli allungò una mano per aiutarlo a tirarsi su. Joe accettò il suo aiuto, senza dire nulla, totalmente apatico. Si sentiva stanchissimo, senza voglia di dire o di fare alcunché. Si lasciò guidare dal padre, come un bimbo piccolo.

“Vieni, ti riporto alla tua palestra. Appoggiati a me, così… bravo.”: gli parlava con pacatezza, con lo stesso tono che aveva adoperato con lui tanti anni or sono…

Nakamura fece accomodare Joe sulla sua auto, una Porsche 911 nera e lucente come l’onice.

Accese quindi le luci: il vespro ormai incombeva, su tutti loro.

______________________________________

Spigolature dell’Autrice:

*Il mochi è un dolcetto tradizionale nipponico costituito da riso tritato e pestato sino ad ottenere una pasta bianca e morbida che viene poi foggiata in una tipica forma rotondeggiante. Molto comune in Giappone, viene solitamente consumato durante tutto l'anno, sebbene sia un dolce caratteristico in particolare del capodanno giapponese, lo shōgatsu. Spesso lo si consuma ripieno di marmellata. Ad Osaka esiste ancora la metodologia di produzione tradizionale, in una speciale cerimonia che si chiama mochitsuki: il riso, precedentemente messo a bagno e poi cotto, viene triturato nel tradizionale mortaio di grandi dimensioni (usu) con un martello (kine). Questo procedimento viene solitamente svolto da due persone che lavorano in coppia: il primo pesta ritmicamente con il kine mentre il secondo rigira ed umidifica il mochi. La pasta collosa così ottenuta viene poi tagliata a pezzetti da modellare in palline. Ora però si riserva questa procedura artigianale ad eventi speciali (feste, fiere, eccetera), e per produrre il mochi in grandi quantitativi per pasticcerie e sale da tè si usano delle macchine automatiche, molto più rapide.

(fonte: Wikipedia).

Guardateli: non sono carini, così tondi e colorati?

dango
**Il sukiyaki è un delizioso stufato di manzo sceltissimo con konjac, cipolle, funghi, cavolo cinese e tofu: una sorta di piatto domenicale, lungo da preparare e non propriamente economico, ma la nostra Noriko Hayashi ha una drogheria in espansione che presto diventerà un piccolo supermercato… per cui può permettersi tale piccolo lusso culinario! Guardate un po’:

sukiyaki
…non vi viene l’acquolina in bocca?
 
***§§***

Dunque… mi sembra doveroso spendere due-parole-due sull’affaire “problemi di peso” nella storia di Joe Yabuki. Chi mi legge su Efp ormai lo sa che amo essere verosimile, anche nelle storie di pura fantasia. Da sempre nutro le mie belle perplessità per come la serie originale ha sviluppato la questione dell’aumento ponderale di Joe, dovuto al suo sviluppo muscolare ed al completamento della crescita. Ora: è risaputo che chi si mette a dieta ferrea quando e se non ha grasso superfluo da smaltire, ecco che vengono “mangiati” dall’organismo i suoi stessi muscoli. E come può un pugile, ovvero chi pratica uno sport di puro contatto, salire su un ring senza più un briciolo di forza? E, per giunta, come può un essere umano sopravvivere per giorni e giorni SENZA BERE (cosa che Joe fa nella storia originale; e così pure Tooru Rikishi: ma costui, poveretto, muore!)? Tra l’altro, se il nostro ragazzo deve privarsi del cibo e dell’acqua perché altrimenti sale subito di categoria di peso, mi chiedo come possa continuare a boxare e financo a restare vivo! Per questi motivi ho pensato di rielaborare a modo mio tutta la faccenda, che sarà ulteriormente sviluppata nel prossimo aggiornamento.

Intanto, ecco per voi il bolide di Nakamura, una Porsche 911 del 1970:

porsche-di-Nakamura
…mica male, direi…

(All images are from a google search, no copyright infringement intended)

Un grazie speciale va al mio amico Antonio, Admin di questa bellissima pagina dedicata al nostro eroe: clicca

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Capitolo XIX - Amore amaro ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Perché doveva essere sempre tutto così complicato?

Yoko si torceva le mani, nervosamente. Il clic della cornetta aveva appena chiuso la conversazione tra lei e Joe. Da diversi giorni, ormai, Joe era divenuto per lei solo una voce: si diceva preso e concentrato nella sua battaglia contro i chili di troppo, in vista dell’incontro, per cui non era più andato a trovarla. Tutte le sue energie e la sua attenzione erano rivolte all’obiettivo di far abbassare quel dannato ago della bilancia: per questo motivo, Joe non aveva lasciato la palestra e i dintorni della stessa, per potersi preparare al meglio contro Ryuhi Kim.

“Cerca di capirmi, Yoko. In fondo si tratta solo di pochi giorni. Ma sono cruciali per me e non posso deconcentrarmi per nessun motivo… neppure per te. Scusami.”

Ecco la solita chiusa alle loro conversazioni. Joe ergeva un muro, invisibile ma granitico, tra loro due, pregando Yoko di avere fiducia in lui e di pazientare ancora per un po’… Ma Yoko non intendeva starsene in disparte. Il suo intento non era di certo quello di interferire, ben sapendo che in ballo c’era il titolo asiatico: quello che la giovane cercava in tutti i modi di far capire al suo uomo era semplicemente che voleva stargli accanto per aiutarlo. Del resto, c’era già passata… con Tooru. Chi meglio di lei era in grado di capire quanto fosse delicata situazione del peso, per un pugile?

Chiuse gli occhi, la testa le girava leggermente… già seduta com’era sulla dormeuse si lasciò andare riversa. Come dimenticare? Le immagini le si affollarono nella mente, come in un caleidoscopio.

Tooru affamato ed angosciato nel contemplare una mela tra le sue mani tremanti… una misera mela, unico pasto della giornata.

Tooru che si pesava ossessivamente, più volte al giorno.

Tooru che si allenava vestito di una pesante tuta con cappuccio… ma non all’aperto e nel pieno della stagione invernale, ma all’interno di una sauna.

Ma, soprattutto…

Tooru che si aggirava di notte, per la palestra Shiraki ove si era barricato, implorando, con la voce rauca: “Ho sete, ho sete… vi prego, dell’acqua…”, dato che aveva persino smesso di bere, due giorni prima* del match contro Joe.

Una limpida lacrima le scorse giù per la gota. No, non aveva dimenticato quello che era stato il suo primo amore: il ricordo di Tooru era gelosamente custodito nel suo cuore…un ricordo prezioso come un gioiello, da serbare con cura e con rispetto. E adesso pure Joe doveva lottare contro la bilancia, anche se nel suo caso non si trattava di dover scendere di ben due categorie di peso, com’era stato per Tooru, ma di rimanere nella propria, di categoria, facendo più attenzione, per il futuro, alle bevande ed all’alimentazione, dato che, negli ultimi tempi, aveva peccato di leggerezza. La vera difficoltà era riuscire a perdere gli ultimi tre chili a distanza di pochi giorni dall’incontro: un vero e proprio conto alla rovescia, che lo metteva in uno stato di comprensibile angoscia. Anche se al telefono Joe ne parlava scherzando, cercando di rassenerare Yoko e di minimizzare la cosa, lei sapeva che il ragazzo, già solo tenendola a distanza, cercava a suo modo di proteggerla. Combattuta tra il desiderio di stargli accanto e quello di rispettare la sua volontà di gestire la questione-peso con Tange, Yoko fissava, immobile, un punto della carta da parati, come ipnotizzata dalle fantasie a tenui colori pastello della sua camera da letto. E rimase così anche nelle ore successive, in uno stato di dormiveglia, ponendosi mille interrogativi, tutti rimasti senza risposta.

°°°°°°°

Qualche giorno dopo…al Ponte delle Lacrime


Ormai mancavano solo tre giorni dall’incontro.

Joe aveva preso la decisione di nutrirsi solo di un frutto al dì. Tange era riuscito, seppur a fatica, a convincere Joe a continuare a bere, dato che la disidratazione avrebbe arrecato danni gravissimi al suo fisico e dato che, debilitato com’era, senz’acqua non avrebbe resistito neppure per una settimana. Il ragazzo, infatti, memore del digiuno assoluto a suo tempo affrontato da Tooru, non voleva essere da meno, rispetto al suo povero amico.

Erano rimasti, più che soli, isolati, Joe e Danpei. A parte qualche sporadica visita di Nishi e dei monelli del quartiere, i due uomini si erano ora tenacemente aggrappati l’uno all’altro, un po’ incoraggiandosi a vicenda, un po’ litigando, a volte pure aspramente. Nakamura aveva provato, più volte, ad approcciarsi a Joe, offrendogli il suo aiuto: l’uomo si aggirava spesso da quelle parti, come un felino geloso del suo territorio, pronto a difenderlo da tutto e da tutti. Ma Joe, seppur in modo non troppo brusco, gli aveva fatto capire, proprio come aveva fatto anche con Yoko, di voler gestire la situazione soltanto insieme al suo coach, dovendo perseguire un duplice obiettivo: quello di rientrare nei limiti di peso della sua categoria e, al contempo, quello di arrivare al match adeguatamente allenato. Tutte le questioni personali e familiari andavano semplicemente rimandate di qualche giorno, senza se e senza ma.

“Un chilo. Solo un maledetto, fottuto chilo. Che dici: ce la possiamo fare, in questi tre giorni?” borbottò Joe, rivolgendosi a Tange, dopo che ambedue avevano consultato, ansiosi, la bilancia medica della palestra.

“Speriamo di sì… più di così non possiamo fare, mi sa.”

“E se non ce la facciamo?” chiese Joe, in tono iroso. Ormai non ce la faceva più a reggere una situazione tanto incerta. Si rivestì in fretta e furia, lasciandosi poi sedere, sospirando, sulla panca.

“Se non ce la facciamo dovremo avvisare la Federazione e far annullare il match, oppure cercare di spostarlo un po’ più avanti. Certo: ci saranno delle penali da pagare e se ne andranno in fumo tutti i nostri risparmi messi da parte per costruire la palestra nuova… ma pazienza. Si vede che non era destino… forse sarebbe il caso di farti iscrivere alla categoria di peso superiore, quella dei supermedi: così, se anche ogni tanto ti capita di sgarrare con il cibo, più di 76 chili non penso proprio che riusciresti a pesare, ragazzo mio, e faresti almeno una vita meno grama. Va bene fare sacrifici ed essere rigorosi: ma alla tua età è anche giusto poterti permettere ogni tanto un peccato di gola, come fanno tutti i ragazzi. A me dispiace stare sempre attento a quello che ti metto nel piatto e sapere che ti alzi da tavola ancora affamato! Cosa credi, che io non l’abbia capito?”

“No. Non si può fare. Io non intendo cambiare di categoria.” replicò Joe, in tono secco, chinandosi ad allacciarsi le scarpe da running.

“Joe…”

“Ascoltami bene, Danpei. Non mi sono ridotto a mangiare un’arancia al giorno per poi mollare tutto. Ce la devo fare. Punto. E non voglio più sentir parlare di salire di categoria: io sono e resto un peso medio! Lo era Carlos, che ci ha rimesso la salute mentale, su quel cazzo di ring. E soprattutto… ricordati che Tooru è diventato un peso medio per combattere contro di me, scendendo di ben due categorie: ha rinunciato ad essere un mediomassimo, perdendo tanti chili e riducendosi a pelle ed ossa per incrociare i guantoni con me… e tutto questo per onorare una promessa! E tu ora mi vieni a dire, bello tranquillo, di cambiare di categoria per poter mangiare un po’ di più? Ma scherzi o stai delirando?” man mano che parlava, Joe alzava i toni, sempre più, fronteggiando Danpei. “Io non faccio la boxe per divertimento! Chissenefrega se non posso abboffarmi di dolci, guarda che non stai mica parlando con Nishi! Mangiare mi piace, ok, ma il cibo non è la prima cosa cui penso quando mi alzo al mattino! Lo capisci o no che per me ora la cosa più importante è misurarmi con José Mendoza? E come faccio se cambio di categoria? Vuoi che quel messicano se la rida, dopo che si è dato la briga di venire fin qua, anche se solo per guardarmi negli occhi?” concluse, ormai urlando fuori di sé.

Tange aveva ascoltato in silenzio la reprimenda di Joe, evitando di interromperlo, per non farlo irritare ancora di più. Vedendolo così nervoso, cercò di blandirlo, appoggiando paternamente le mani sulle sue spalle: “Va bene, va bene… ho capito. Se per te è tanto importante onorare la memoria di Tooru Rikishi, non intendo insistere, con la storia del peso. Però guarda che io lo dicevo per te, per il tuo bene. Questi giorni sono davvero pesanti e volevo solo evitarti, per il futuro, di ricascarci… ecco tutto.” Tange abbassò lo sguardo, contrito, voltandosi per andare in cucina.

“Lo so, vecchio, che mi vuoi bene. Pure io te ne voglio. Ma devi darmi fiducia e lasciarmi fare. Vedi,” Joe additò al loro ring da allenamento “ogni volta che io oltrepasso quelle corde non dimentico nulla. Ed è come se lo stesso copione venisse recitato ripetutamente, anche se con qualche modifica. Ma io in ogni nuovo sfidante ci rivedo Wolf. E Bellosguardo. E Carlos.” Joe si incamminò all’uscita; aprendo la porta si voltò a guardare Danpei, con una luce triste negli occhi. “Ma soprattutto… ci rivedo lui, Tooru.”

Fatto un cenno di saluto con la mano, si mise a correre.

Non appena Joe si fu allontanato, Danpei inforcò la bicicletta e si recò alla drogheria Hayashi. Dopo i saluti ed i soliti convenevoli sul tempo e su argomenti generali con Keishichi Hayashi, finalmente sbucò Nishi dal retro del negozio, con aria cospiratoria. Il proprietario si congedò, scusandosi “di avere un milione di cose da fare”, e lasciandoli soli.

“Allora, hai fatto?” chiese Danpei, ansioso.

Nishi fece una smorfia di disappunto, scuotendo la testa “Sì, sì, certo, ecco qui… come mi avevi richiesto” gli disse, consegnandogli un sacchetto di carta di piccole dimensioni. “Senti, vecchio, io continuo a non essere d’accordo. Ti ho dato il peso vuoto fatto fare apposta, come mi avevi richiesto. Ma non trovo giusto ingannare Joe in questo modo… illudendolo di aver raggiunto il peso corretto mentre in realtà non è così. Tanto poi all’esame del peso lo scoprono e ci fa pure una figuraccia!”

“Senti tu, sciocco bestione, non farmi la predica! Vorrà dire che il match sarà rinviato di qualche settimana! Joe in questi giorni è debole come una formica, mangia solo un’arancia al dì! Lo capisci? Si sta rovinando la salute, alla sua giovane età! E tutto perché quei fetenti di coreani hanno preteso di fissare l’incontro in fretta e furia, senza neppure permetterci di prepararci in modo adeguato! Se anche il peso di Joe fosse stato perfetto, per un match così importante con anche il titolo asiatico in palio, ci dovevano dare più tempo, anche per allenarci in un modo speciale! Tu lo hai visto combattere, quel mostro di Kim? No. Io invece sì! E Joe NON È PRONTO! E se anche dovessi pagare delle penali salate chissenefrega! Ma io non ci rimetto il mio ragazzo, hai capito?” urlò Danpei, scuotendo Nishi come un birillo, dopo averlo afferrato per il bavero.

Alle urla dell’uomo fecero capolino Hayashi e consorte. “Ehm, Tange-san… tutto bene? Venga dentro, che Le offro del buon sakè.” lo invitò, affabilmente la madre di Noriko. La brava donna, sotto la scorza burbera, nascondeva un cuore d’oro, da vera chioccia.

“Grazie, Tamako-san… Lei è sempre gentilissima. Un goccio di sakè lo gradisco eccome. Quanto a te,” continuò, rivolgendosi nuovamente a Nishi, che continuava ad osservarlo con espressione preoccupata “sei pregato di tenere il becco chiuso. Io so quello che faccio.”

“Va bene, vecchio. Io ti ho avvertito: Joe NON la prenderà bene.” pontificò il ragazzone, tornandosene nel magazzino.

°°°°°°°

Nel frattempo, Joe aveva finito la sua sessione di corsa ed era ritornato alla palestra. Rimase un attimo interdetto, una volta aperta la porta.

“Ma cosa ci fai tu, qui?”

“Sai dirmi solo questo, dopo tanti giorni che non ci vediamo?” sussurrò Yoko, alzandosi dalla panca. Gli si avvicinò, dato che lui era rimasto impalato alla porta. “Come sei sciupato e pallido… che cosa sta succedendo?” gli sussurrò, prendendogli il viso tra le mani, fissandolo preoccupata.

“Aspetta… sono tutto sudato, di certo non profumo di fiori!” cercò di scherzare Joe, eludendo di proposito la domanda di Yoko. Le prese le mani tra le sue, stringendole piano ed accarezzandole i polsi sottili. “Dammi cinque minuti per una doccia… un attimo solo.” Infilatosi in cabina, continuò: “E comunque non ti devi preoccupare, eh. Guarda che io sto benissimo. Questa è solo la tirata finale, per l’incontro. Poi mi prenderò qualche giorno di relax, promesso.”

Yoko fece fatica a percepire le parole di Joe per lo scroscio dell’acqua. Ma il tono falsamente allegro che lui cercò di tenere anche dopo che ebbe finito con le abluzioni e che le ricomparve davanti rivestito di una tuta fresca di bucato, quello lo intese benissimo. Si era messo a cianciare di cose varie, senza spessore. Yoko non lo ascoltava: si limitava ad osservare, in Joe, il colorito smorto, le occhiaie profonde, le guance scavate.

“Basta. Taci. Non stai parlando con una stupida: smettila con questa sceneggiata!” gli si avvicinò “Te lo ripeto: che cosa sta succedendo? Hai un aspetto orribile! Cosa stai combinando?” gli intimò, gli occhi negli occhi.

“Va bene, Yoko.” Joe sollevò le mani, in segno di resa, “Basta con le stronzate. E scusa se ho fatto l’idiota, poco fa. Dimenticavo con chi sto parlando… con la stessa con cui litigavo, anni fa, al riformatorio.” Joe la contemplò in silenzio, per qualche secondo: no, la sua Yoko non sarebbe mai stata una donna dimessa, nonostante l’aspetto delicato. Un fiore d’acciaio: ecco cos’era**. “Hai ragione: sto da schifo. Ma non importa: la cosa importante è arrivare all’incontro con il peso a posto. Ormai manca pochissimo e devo farcela, anche a costo di nutrirmi d’aria! Anzi: sai una cosa? Mi hai fatto venire una splendida idea!”

“A cosa alludi?” chiese Yoko, sempre più perplessa ed angosciata.

“Possiamo andare alla tua palestra? Vorrei chiederti un favore…”

“Che cosa intendi fare, Joe?” urlò quasi, avendo intuito. Un maledetto déjà-vu.

“Mi sa che hai capito. Ascoltami, Yoko: io so quello che faccio, non sono pazzo, né stupido. Ma credo che qualche ora senza mangiare non mi ammazzerà. Mi porterò dietro una bottiglia d’acqua, giusto per non esagerare con il digiuno. Solo che con Danpei intorno che mi sbraita di mangiare ogni cinque minuti non lo so se riuscirò a perdere l’ultimo, fottuto chilo. Da te starò più tranquillo.” Osservando l’espressione sconvolta di lei, le prese le mani e le strinse forte “Aiutami, Yoko. Come facesti con Tooru, ricordi? Sarà solo per due giorni. Poi tornerò qui e completerò la preparazione atletica prima del match. Ma devo assolutamente rientrare nei limiti di peso, o tutti i miei sacrifici di quest’ultimo periodo, e quindi anche il non vederci, non sarà servito a niente!!”

Yoko deglutì, chinando il capo. “Va bene.” Lo precedette, a testa bassa, uscendo dalla palestra. Rimase in assoluto silenzio per tutto il tragitto sino allo SBC: mettendo in moto la sua corvette, aveva inforcato gli occhiali da sole, per non mostrare a Joe le lacrime brucianti che le erano affiorate tra le ciglia.
 
°°°*§*°°°

“Mi hai chiesto aiuto.

Pure tu.

Una voce diversa, una persona diversa... ma la stessa folle cocciutaggine. In nome di che cosa? Che cosa brucia in un pugile così intensamente da oscurare tutto il resto? Né la salute, né il pensiero di chi vi sta intorno, contano, per quelli come te… e come lui. Mi sorridi, poco prima di chiudere la porta, chiudendoti a chiave all’interno. Ma non mi inganni, con il tuo sorriso.

So benissimo che vuoi escludere me e tutti gli altri con qualcosa di più di una semplice porta.”


°°°°°°

Né Tange, né Nakamura presero bene la decisione di Joe di autorecludersi per perdere l’ultimo chilo. I due uomini si urlarono l’un l’altro i peggiori insulti, recriminando e maledicendo ogni singolo vicendevole atto che poteva aver portato Joe a quella follia. Tutti e due si recarono allo Shiraki Boxing Club per cercare, con le blandizie e con le minacce, di convincere il ragazzo ad uscire dalla cantina dove si era rinchiuso. Tutti e due si sedettero per terra, davanti a quella porta chiusa, dalla quale non proveniva quasi nessun suono.

E così fu, per due giorni e per due notti.

°°°°°°

Fu difficile per lui affrontare quel buio e quella solitudine.

Tempo addietro, aveva vissuto una situazione simile, al riformatorio, quando lo avevano sbattuto in cella di isolamento per punirlo dell’ennesima rissa che aveva scatenato contro i suoi compagni di reclusione. Uno sguardo di troppo, una battuta infelice… erano bastati per farlo esplodere come una miccia pericolosa. Ma all’epoca si sentiva bruciare dentro: di rabbia, di sconforto.

Joe il ribelle; Joe l’attaccabrighe.

Quello che non rispettava niente e nessuno e tantomeno le regole. Dov’era andato a finire quel ragazzo? La sua anima ora era rimasta circoscritta in quel quadrato sopraelevato e delimitato da corde.

Si sentiva stanco, Joe.

Sapeva solo di dover continuare a combattere, ad affrontare i suoi sfidanti: dentro il ring e, soprattutto, dentro se stesso. In tutte quelle ore di solitudine, mentre i morsi della fame si facevano sentire, sempre più atroci, tra un piccolo sorso e l’altro della bottiglia d’acqua, Joe sferrava pugni all’aria contro un avversario immaginario. Tre jab, un diretto destro. Continue, perfette combinazioni di colpi.

Tre-uno, tre-uno…

Nessuno poteva capire quel delicato momento, neppure la sua Yoko.

O meglio: solo una persona avrebbe potuto comprenderlo. Ma essa era dietro una porta, questa, sì, davvero chiusa per lui.

Ancora per il momento.

°°°°°°°

Finalmente passarono i due giorni: ormai, mancavano solo ventiquattro ore dall’incontro contro Ryuhi Kim. Danpei, Hiro e Yoko - che avevano fatto la guardia alla cantina facendo un po’ a turno, in modo che, se Joe avesse chiamato aiuto, avrebbero potuto intervenire e che ora avevano atteso insieme che il ragazzo si decidesse ad uscire, come già promesso a Yoko - udirono il rumore della chiave ed il cigolio della porta. Yoko portò le mani alla bocca, per soffocare un gemito. Joe avanzava barcollando, come un bimbo piccolo alle prese con i primi passi. Se ne stava un po’ curvo e, debolmente, scansò le mani di Hiro che gli si era fatto incontro per sorreggerlo. Era pallidissimo, gli occhi sparivano nelle occhiaie violacee. A fatica, riuscì a stirare le labbra in quello che, più che un sorriso, era una smorfia grottesca. Le labbra gli si spaccarono, le mucose si rigarono di sangue. E gli occhi di Yoko si riempirono di lacrime, una volta di più.

“Danpei… andiamo a casa… per favore.” riuscì a mormorare, con un filo di voce.

“Certo… certo, ragazzo mio. Vieni, appoggiati a me. Per favore, può darci un passaggio?” chiese Tange a Nakamura. Quest’ultimo si limitò ad annuire, stringendo le labbra per autoimporsi il silenzio. Anche Yoko si unì alla piccola scorta per Joe: niente e nessuno le avrebbe impedito di stargli accanto. Del resto, a nulla erano valse, nei due giorni appena trascorsi, le implorazioni di Tange e di suo nonno di tornarsene a casa per riposare.

Nessuno parlò, durante il tragitto. Joe aveva chiuso gli occhi e si era assopito. Riaprì gli occhi solo quando furono arrivati al Ponte delle Lacrime.

Erano tutti lì.

Gli Hayashi al completo; i suoi piccoli amici, con Saki in testa. Il buon Nishi. E così pure gli sfaccendati del quartiere e le brave massaie. Tutti rimasero in religioso silenzio, nel guardare il loro giovane amico, quello che avrebbe dovuto riscattare tutti loro e che, nel buio delle loro vite, essi consideravano il faro di una vita migliore e ricca di soddisfazioni: lo mirarono scendere da un’elegante berlina scura a passo incerto, sorretto da Danpei e scortato da un’ereditiera e da uno Yakuza. Non si sentiva volare una mosca, neppure le voci acute dei bambini, che quasi trattenevano il fiato. Le donne avevano gli occhi rossi ed umidi, gli uomini tiravano su col naso, cercando di darsi un contegno.

Joe aprì la porta della palestra e vi si infilò dentro, senza dire una sola parola, seguito da suo padre e dalla sua donna. Tange si voltò verso gli astanti, sorrise tristemente e li pregò di tornare a casa. “Adesso Joe è in ottime mani, state tranquilli. Vi farò sapere per domani. Grazie a tutti.”

Pian piano il folto gruppo di persone si disperse nella nebbia mattutina, come uno strano sciame d’api.

___________________________________________

Spigolature dell’Autrice:


*Un uomo adulto, in buone condizioni fisiche, può resistere senza bere acqua o assumere liquidi direttamente dagli alimenti per circa 7-10 giorni; ma un Tooru Rikishi fortemente debilitato da una dieta massacrante non avrebbe retto così a lungo: per questo motivo ho ritenuto di limitare nella mia ff la sua astensione dall’acqua a soli due giorni dal fatidico match… o sul ring sarebbe salito solo il suo fantasma! Scusate: ormai lo sapete quanto io sia rompiscatole!

(fonti: www.sos2012.i, www.sopravvivere.net, www.manuelmarangoni.it )

**permettetemi la citazione di un film da me molto amato: “Fiori d’acciaio” (“Steel Magnolias”), Usa 1989, di H. Ross, con Julia Roberts, Sally Field, Shirley MacLaine.


L’angolo del boxeur:

Ecco per voi le categorie di peso (espresse in chilogrammi) per la boxe professionistica maschile:

Massimi: nessun limite di peso
Massimi leggeri: 90,600
Mediomassimi: 79,275
Supermedi: 76,104
Medi: 72,480
Superwelter: 69,762
Welter: 66,591
Superleggeri: 63,420
Leggeri: 61,155
Superpiuma: 58,890
Piuma: 57,078
Supergallo: 55,266
Gallo: 53,454
Supermosca: 52,095
Mosca: 50,736
Minimosca: 48,924
Paglia: 47,57

(Fonte: www.mondoboxe.com)
****

Sì, lo so. Questo capitolo è molto introspettivo. Solo che in “Ashita no Joe” non ci sono solo ceffoni, ma anche tanta profondità. E comunque i ceffoni saranno di ritorno al prossimo capitolo. E che ceffoni, ragazzi miei…

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Capitolo XX - Vite perdute ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Finalmente era arrivato il giorno fatidico del match contro Ryuhi Kim.

Joe si sentiva particolarmente carico: l’adrenalina a mille lo teneva su come accade per un pupazzo con la carica a molla, anche se le sue reali energie erano parecchio scarse, dopo la dieta dissennata tenuta negli ultimi giorni. Anche l’umore gli aveva giocato degli strani scherzi: la forzata allegria e l’entusiasmo apparente non erano altro che l’ennesima reazione nervosa ad un suo fortissimo stato di ansia e di preoccupazione. Dopo giorni di scatti di rabbia e di parole irose, ora era il turno delle battute di spirito e dell’ottimismo eccessivo.

Danpei lo osservava, sempre più angosciato: il suo ragazzo era sull’orlo di un esaurimento nervoso e, grazie al cielo, tra qualche ora ci sarebbe stata la resa dei conti… a prescindere dal risultato, la cosa importante era proprio che quello strazio finisse, in qualsiasi modo.

“Guarda, Danpei! Ho anche perso più del chilo che ci mancava! Ora peso solo 71,20 chili! Sono anche più leggero di prima, a momenti rischio di diventare un superwelter!” chiosava Joe, scendendo dalla bilancia.

“Basta con quella dannata bilancia e finisci di prepararti: tra un’ora abbiamo i controlli di routine. Hai messo tutto nella sacca? Lo sai che servono due paia di guantoni nuovi, per un match con il titolo in palio… ieri te li ho comprati apposta.”

L’ora “x” si stava avvicinando sempre più e Tange sudava freddo, avendo la coscienza sporca: per questo brontolava ancora più del solito. La verità era che se la stava facendo sotto dalla paura al pensiero della reazione di Joe… una volta scoperta la verità. La sua unica speranza era che il ragazzo fosse dimagrito ancora: non tanto quanto era stato segnato dalla bilancia truccata della loro palestra, ma perlomeno quel tanto che bastasse per rientrare nei limiti di peso, seppur anche solo per un pelo!

“Brontoli peggio di una vecchia comare al mercato del pesce, comunque ho preso tutto, la memoria ce l’ho ancora buona. Bene: sono pronto e bello carico!” disse Joe, piroettando con fare scherzoso.

“Umpf, se non fai il cretino non sei contento. Andiamo.”

Per tutto il tragitto Joe non tenne il becco chiuso neppure per un secondo: parlava di Kim, del titolo asiatico, di Mendoza. Questa strana loquacità, davvero inusuale in lui, rendeva Danpei sempre più nervoso e monosillabico. Il vecchio non aveva neppure risposto ai saluti ed agli auguri degli amici del quartiere, che avevano voluto scortare lui e Joe sino alla fermata della metropolitana. La piccola Saki, poi, ci era rimasta malissimo, quando venne apostrofata duramente da Tange solo per aver cantato una canzoncina allegra “di buon auspicio per il suo amico Joe”.

“Si può sapere che cavolo ti prende?” sbottò Joe, ad un certo punto, non potendone più dello strano atteggiamento del coach. “Non che tu sia un mostro di simpatia, ma di solito non ti comporti così. Prima sei stato a dir poco stronzo con i bambini e con gli amici del quartiere. Oggi è un giorno speciale e tu ti comporti in modo strano.” Tange socchiuse l’occhio sano, calcandosi bene il feltro sulla fronte.

“Non dire scemate. Io sono solo in ansia per l’incontro e resto concentrato. Prima di far caciara e di festeggiare cerchiamo di prenderlo… il titolo intendo. Nishi arriva alle 20.00 al Palazzetto Kurama, giusto? Se deve farti da secondo, non capisco perché non si è fatto dare un giorno di ferie da Hayashi…” brontolò Tange, cercando di sviare il discorso.

Joe lo osservò in silenzio, per qualche secondo. No, decisamente quello non era Danpei. Di solito affrontava gli incontri con uno spirito diverso: anche se era nervoso e brontolava, era solito tenere comunque un atteggiamento costruttivo. Stavolta invece, con in ballo persino un titolo pugilistico, si comportava in un modo a dir poco assurdo! Pareva assente da tutto e da tutti, con fare stranamente freddo e distaccato.

“Oggi non ti capisco proprio, ma lasciamo perdere: tanto prima o poi salterà fuori il motivo del tuo strambo atteggiamento.” Al che Tange brontolò qualcosa a mezza voce. Joe proseguì: “Nishi… beh, a dire il vero so che Hayashi-san voleva lasciargli tutta la giornata libera, solo che Nishi non ha accettato: ci sono i lavori di ristrutturazione, giù alla drogheria, per trasformarla in un piccolo supermercato. Così, il nostro buon Mammouth non ha voluto mollare il capo sul più bello. Ha fatto bene: per me non ci sono problemi se anche arrivasse più tardi. Tanto, deve solo farmi da secondo all’incontro, che si terrà stasera.”

Tange non disse nulla. Ma quando giunsero al Palazzetto Kurama rallentò il passo sino a fermarsi, rimanendo imbambolato a fissare la facciata dell’edificio.

“Che ti prende?”

“No… nulla. Certo che è strano che il match lo si tenga qui e non al Korakuen Hall, come al solito. Noi non pratichiamo il sumo.”

“Vero sì… ma in fondo che importanza ha, vecchio?” pontificò Joe, sorridendo.

I giornalisti sportivi, che stavano arrivando a gruppetti sparsi, non appena videro arrivare Joe e Tange, si accalcarono loro incontro, tempestandoli di domande. Joe sorrise loro, rispondendo a qualche domanda, pur cercando di svincolarsi.

“Come si sente?” “Siamo carichi, eh?” “Pronostici? Chi vincerà questo incontro?” “Qualche rito scaramantico?”

Tange scostò i giornalisti da sé e da Joe con il suo bastone e, finalmente, si poté raggiungere l’ufficio posto al piano terra, per i controlli di rito. Tange sentiva le tempie pulsargli dolorosamente: il momento fatidico stava per arrivare. Si raccomandò ai suoi antenati per l’esito del controllo del peso, dato che la cosa importante era che Joe non fosse fuori forma. “72 chili e 480 grammi… 72 chili e 480 grammi…” continuava a ripetere fra sé e sé come un mantra, sperando e pregando che il suo ragazzo non avesse superato di un solo grammo quel benedetto limite.

“Ehi mi senti? Che fai, sogni ad occhi aperti? Guarda che il medico-sportivo ci sta chiamando. Kim è a posto lo hanno appena controllato.” Joe scosse leggermente Tange, con una pacca gentile, dopo aver scambiato un’ennesima occhiata bruciante con Ryuhi Kim.

Fuoco contro ghiaccio.

L’allampanata figura del coreano non reagì in nessun modo alla vista del suo avversario: il suo sguardo scorse sul viso e sul corpo di Joe come se lo attraversasse. Lee Jang, sempre al fianco del suo atleta, socchiuse gli occhi, già piccoli di loro, per osservare Joe attentamente… quasi soppesandolo. Joe detestava sia l’indifferenza forzata che l’ostentazione eccessiva di curiosità: tali atteggiamenti dimostrati nei suoi confronti da parte di Ryuhi Kim e del colonnello lo irritarono profondamente. Con pochi gesti rabbiosi, Joe si tolse i vestiti, rimanendo in biancheria.

“Prego, Yabuki-san, salga sulla bilancia medica.” gli chiese il medico sportivo, in tono professionale. Ciò che avvenne poi lasciò tutti di stucco, Joe per primo. “73 chili e 100 grammi. Ha superato la categoria. L’esito del test è negativo.” enunciò il medico in tono incolore, annotando il peso di Joe sulla scheda tecnica.

“Ma… aspetti un attimo, ci dev’essere un errore! Ci riprovo!” senza attendere una risposta del medico, Joe risalì sulla bilancia. Nulla da fare: per 530 grammi egli era diventato un supermedio. L’incontro non poteva più disputarsi. Joe ridiscese dalla bilancia, barcollando. Era sconvolto: com’era possibile? “Com’è possibile?” disse, dando voce ai suoi pensieri “ Mi sono pesato poco prima di uscire e pesavo poco più di 71 chili… questa bilancia non va bene, è rotta! Ne voglio un’altra!” protestò.

“Scherza, vero?” replicò il medico, molto freddamente “Questa è la bilancia ufficiale della Federazione Pugilistica Giapponese: viene controllata e vidimata dai tecnici prima di ogni incontro!”

“Ma allora come possiamo fare? Vecchio, diglielo tu al dottore che noi abbiamo controllato il mio peso per centinaia di volte, in questi ultimi giorni! Diglielo tu!”

Tange si avvicinò lentamente, a capo basso. Sembrava un cane bastonato. “Mi dispiace…”

“C-cosa?”

“Joe, ragazzo mio… perdonami. Il dottore ha ragione. Questa bilancia è a posto. È la nostra che non va bene…”

Joe strinse i pugni fino a far diventare bianche le nocche. “Cosa hai combinato, vecchio? Rispondi. RISPONDI, PER LA MISERIA!” con un balzo, agguantò Tange per il bavero, scrollandolo furiosamente, avendo intuito la verità.

“Io… ho truccato la nostra bilancia, per farti smettere la dieta. L’ho fatto per te, per la tua salute e…”

Non finì la frase, dato che Joe, con un tremendo diretto, lo scaraventò contro la parete. “Tu… tu! Sei un pazzo! Non avevi il diritto di prendermi per il culo così! Io mi fidavo di te, mi fidavo!”

Tutti gli astanti rimasero a bocca aperta per la sgradevole scena cui avevano dovuto assistere.

Si fece avanti Jang, palesemente seccato. “Sarebbe questo il senso dell’onore di voi Giapponesi? Che cosa credeva di fare con questa sceneggiata, Tange? Questa storia la pagherete cara, Lei ed il Suo pugile. Vi farò causa: dovrete risarcirci fino all’ultimo spicciolo!”

Seppur a fatica, Tange si rimise in piedi. “Colonnello, mi creda, sono costernato. Io ho sbagliato: lo riconosco. Ma l’ho fatto solo per il mio pupillo, per evitare che si facesse del male con un continuo digiuno…” cercava con ansia lo sguardo di Joe, ma questi gli aveva voltato le spalle e, raggiunta la panchetta dove aveva lasciato i suoi abiti, si stava rivestendo con pochi gesti stizzosi. Tange sospirò. “Senta, possiamo fare così. Non mettiamo più in palio il titolo, e disputiamo l’incontro con dei guantoni più pesanti per Joe, per compensare il suo maggior peso rispetto a Kim. Eh? Cosa ne dite della mia idea?” balbettò Tange scorrendo lo sguardo tra gli astanti.

“Basta con queste stronzate. Quante ore ho a disposizione per rifare il controllo del peso?” chiese al medico.

“Tre ore. Un secondo controllo lo potrà fare tra tre ore esatte, sempre qui.”

“Va benissimo. Tra tre ore esatte sarò di nuovo un peso medio e Lei lo annoterà sulla sua bella scheda.” chiosò Joe, sarcastico.

“Joe, cosa intendi fare?” urlò Tange, disperato.

“Fatti i cavoli tuoi!” gli sibilò il ragazzo, di rimando.

I giornalisti gongolavano, soddisfatti: ne avevano eccome, di materiale, per un articolo sensazionale!

°°°°°°

Gironzolò per un po’, rimanendo sulla via principale. Non voleva allontanarsi troppo dal Palazzetto Kurama, anche per non stancarsi eccessivamente prima del match, camminando per ore. Eppure doveva trovare una soluzione. Scartò l’idea della sauna: l’ultima volta che ne aveva fatta una si era indebolito troppo, al punto di svenire… e poi si trattava solo di liquidi persi e non di dimagrimento effettivo: sarebbe stato sufficiente un bicchiere d’acqua per reintegrarli subito. Ci voleva un’altra opzione, da affrontare subito e bene. E da solo.

Pensando a Tange, Joe era combattuto da sentimenti contrastanti. Provava vergogna e disgusto per se stesso, per aver dato un pugno al suo coach. Era sinceramente affezionato a quel vecchio ubriacone, dannazione. Ma perché quel tradimento? Va bene la preoccupazione; va bene lo stato d’ansia per il suo digiuno forzato… ma perché truccare la bilancia? Era questo, a fargli più male: immaginare Tange mentre manometteva la bilancia della palestra, per fargli credere di essere dimagrito in tempo per il match. Sinora Tange era stato leale e corretto con lui: severo, rompiscatole…a tratti pure asfissiante. Ma corretto e pulito. Certo: c’erano stati i suoi penosi tentativi di scongiurare gli accordi per l’incontro contro Kim, avendogli detto “che il coreano non si faceva vivo per paura”. Ma arrivare a truccare la bilancia… questo era davvero troppo. Sospirando, andò a sedersi sulla panchina per riposarsi qualche minuto. Ripensò al passato, ai primi tempi del sodalizio con Danpei Tange. Dovette ammettere con se stesso di non essersi sempre comportato bene con il suo allenatore: spesso non gli aveva portato rispetto, foss’anche solo per questioni di età*.

“E va bene… d’accordo. D’accordo, vecchio pazzo. Diciamo che hai fatto questa gran cazzata perché mi vuoi troppo bene. È inutile menarla a lungo. Ormai è andata così. Adesso però devo perdere quei fottuti 530 grammi...” rifletté. Vide sfrecciare, a sirene spiegate, un’ambulanza. E sorrise.

°°°°°°°

Tange rimase nei pressi del palazzetto, come un’anima in pena. Non aveva osato provare a cercare Joe, non sapendo dove si fosse cacciato: pertanto, preferì restarsene ad aspettarlo, sapendo bene che, dopo chissà quale diavoleria fatta per perdere peso, il suo ragazzo sarebbe rispuntato per rifare il test. Finalmente lo vide arrivare, pallido come un cencio.

“Joe…dove sei andato? Che cosa hai combinato? Sei bianco da far paura!”

“Beh, diciamo che ho pure compiuto una buona azione… vedila così.” disse Joe, in tono abbastanza tranquillo. Guardò Tange: l’espressione afflitta e preoccupata ed il livido bluastro sulla gota gli dettero una morsa allo stomaco. “Scusa per il pugno. Non avrei dovuto.” Sottolineò le parole con una pacca sulla spalla.

“No, Joe, sei tu che devi scusare me. Ho fatto una cosa imperdonabile. Forse dovresti trovarti un altro allenatore… piuttosto che un pazzo come me. Mi hai chiamato così, prima, ed avevi ragione.” Si accasciò su una panchina, appoggiando le mani al manico ricurvo del bastone.

“Ascolta… mentirei se ti dicessi che mi è passata, perché non è così. Non mi piacciono le prese in giro. Adesso so perché stamattina eri tanto strano, venendo qua per i controlli. Ma so anche che hai sbagliato perché cerchi sempre di proteggermi, come una vecchia chioccia.”

“Mi dispiace…” balbettò Tange, mentre grosse lacrime gli percorrevano il volto.

“Dai, tirati su. Non parliamone più.” Joe gli porse la mano, per farlo alzare in piedi. “Tanto più che ora è tutto a posto. Mi sono appena pesato in una farmacia e peso 72 chili e 300, per cui adesso il test andrà benissimo.”

“Ma allora mi vuoi dire che cosa hai combinato?” sbraitò Tange.

Joe emise un fischio “Certo che ritorni subito al tuo solito caratteraccio, eh?” sorrise “Ma niente, cosa vuoi che io abbia fatto? Te l’ho detto: ho compiuto una buona azione, dato che ho donato il sangue.”

“Joeeeeeee! Adesso sarai debole come una formica!” urlò l’altro.

“Niente affatto, vecchio. Niente affatto.”

°°°°°°°°


AVVISO AI LETTORI: è doveroso avvisare chi mi legge che verrà raccontata dal personaggio di Ryuhi Kim una storia, la sua, piuttosto cruenta. Ho ritenuto di rispettare pedissequamente il manga originale ma, a questo punto, debbo pure rispettare la sensibilità di chi mi legge, prevedendo un avviso.

Come previsto, il test filò liscio come l’olio: l’incontro avrebbe potuto svolgersi regolarmente.

“Meglio così.” sentenziò il colonnello, mentre Kim si limitò ad una fredda occhiata rivolta al suo prossimo avversario.

Una volta usciti dal palazzetto, Tange portò Joe in un ristorante in stile occidentale per farlo rifocillare: sedutosi a tavola e contemplata la bistecca appena servitagli, a Joe tremarono leggermente le mani, nell’inforcare coltello e forchetta.

“Posso… posso mangiarmela tutta… veramente?”

A Danpei si inumidirono gli occhi per la commozione: l’espressione di Joe era quella di un bimbo che stesse per scartare un bellissimo regalo.

“Ma certo… ragazzo mio. Certo che puoi mangiartela tutta. Io vado: torno al Palazzetto per firmare scartoffie su scartoffie per l’incontro. Quando avrai finito raggiungimi là, così ti preparo al match con un bel massaggio. Buon appetito, Joe.”

Il sapore della carne, ben rosolata fuori e leggermente al sangue all’interno con il suo intenso aroma. La croccantezza di biscotto del pane ben lievitato. La freschezza dell’insalata. Sapori semplici e casalinghi, che sanno dare conforto allo stomaco ed allo spirito. Mentre gustava quel buon pasto, masticando lentamente ed assaporando ogni boccone, Joe pareva quasi estraniarsi dal resto del locale. Era bello poter mangiare, di nuovo. Era bello sentirsi vivo ed appagato. Il cibo è il primo conforto che conosciamo, dacché veniamo al mondo, quando veniamo attaccati per la prima volta al seno materno. Rinunciare al cibo vuol dire rinunciare a vivere.

Ad un certo punto, si accorse di non essere solo. Alzò gli occhi e li fece scorrere sull’alta figura che gli si stagliava dinnanzi.

“Kim.”

“Posso sedermi? Ordino qualcosa.”

Joe si concesse il lusso di osservarlo per qualche secondo.

“Fai come ti pare. Però se ci vedesse qualcuno potrebbe pensare chissà che cosa sulla regolarità del nostro match.” al che si rimise a mangiare quietamente. Kim si sedette ed ordinò un tè nero.

“Certo che mangi poco. Ce la farai a reggere un match di 12 riprese?”

“Umpf.”

“Credi di essere un duro, eh? Siccome sei stato a dieta per rimanere nella categoria dei medi e mangi come un uccellino, pensi di avere la grinta sufficiente per battermi.” Kim parlava con tono basso, dal forte accento coreano. I suoi occhi, freddi ed inespressivi, non si staccavano dal viso di Joe neppure per un secondo.

“Pensala come ti pare. Quello che blateri mi scivola addosso.” replicò Joe, non meno freddamente.

“Uhmm… capisco. Tu pensi di sapere cosa siano la fame e la disperazione. Tu pensi di sapere cosa significhi alzarti al mattino e non sapere se vedrai il tramonto. Mi dispiace deluderti, Joe Yabuki: ma tu non sai un bel niente. Vedi cosa ho ordinato?” Kim scostò le braccia, additando alla tazza di ceramica che la cameriera gli aveva appena portato, insieme ad una selezione di filtri, alla zuccheriera ed alla teiera. “Un tè. Io mi alimento ogni giorno con un tè, qualche biscotto ed un po’ di frutta. Ogni tanto mangio del pollo o del pesce. Tutto qua. E lo sai da quanto tempo mi nutro così? Da vent’anni a questa parte.”

Joe lo ascoltava in silenzio, mangiando sempre più lentamente. La presenza di Ryuhi Kim al suo tavolo gli stava facendo passare l’appetito.

“Lo sai cos’è la guerra Joe?”

“…la guerra?”

“Io l’ho vissuta. Avevo solo dieci anni, quando la Corea si spaccò in due… con aerei militari di vari paesi che ci tiravano addosso le bombe, a tutte le ore del giorno e della notte. Io so già cos’è l’inferno sulla terra. So cosa diventa l’uomo lasciato ai suoi istinti: diventa peggio di un animale. Ho visto il corpo di mia madre esploso in mille pezzi per una granata.” al che prese una pausa, aggrottando la fronte.

Joe impallidì, deglutendo a fatica. “Mi dispiace… davvero. Non immaginavo una cosa simile.”

“Dopo la morte di mia madre, abbandonai la mia città… Kaesŏng, per rifugiarmi in campagna. Speravo così di trovare più facilmente qualcosa da mangiare. In qualche modo me la cavai, masticando insetti e lombrichi, se non trovavo di meglio.”

Joe non riuscì ad evitare una smorfia di disgusto: neppure lui e neppure nei suoi momenti peggiori si era mai ridotto a nutrirsi di tali porcherie!

“Una sera però accadde una cosa che sconvolse per sempre la mia vita. Dopo due giorni che non mangiavo, stavo per rannicchiarmi tra i cespugli per prepararmi alla notte, quando potei, finalmente, mangiare a crepapancia… dopo aver fracassato la testa ad un soldato ferito in cui mi ero imbattuto sulle rive di uno stagno, portandogli via la sua sporta, che era piena di cibo. Mangiai, mangiai… fin quasi a soffocare. Mi infilavo in bocca biscotti, frutta, carne secca… così, tutto insieme, senza quasi sentirne il sapore. Volevo solo riempirmi lo stomaco. Lo feci solo dopo aver voltato le spalle al cadavere di quel soldato, con il cervello schizzato fuori dalla scatola cranica…”

Joe impallidì, fino ad assumere un colorito verdastro. Gli stava venendo da vomitare. Solo a fatica riuscì a trattenere i conati di rigetto.

“Poi sentii i passi di molte persone munite di torce e mi rimpiattai dietro a dei cespugli. Era uno squadrone di soldati: dalle divise capii che si trattava degli invasori***. Solo per un pelo non me la feci sotto dalla paura. Due di loro esaminarono da vicino la testa di quel soldato. Si fece largo, poi, un uomo basso ma ben piazzato, con le mostrine di capitano sulla giubba. Già allora sapeva incutermi un profondo senso di rispetto…”

“Stai parlando di Jang, il tuo coach, giusto?”

“Esatto. All’epoca Lee Jang era capitano di una brigata di ricognizione. Dette ordine ad alcuni dei suoi di rastrellare le case vicine. Da quanto diceva, era convinto che l’assassino del soldato non potesse che essere nei pressi, dato che il corpo era ancora caldo. Poi disse una cosa che mi sento risuonare nelle orecchie ancora oggi, per ogni minuto della mia vita. Il capitano parlò del valore di quello che era stato uno dei suoi migliori soldati, ammazzato brutalmente… Parlò di vendicare Yong-ho Kim, trovando il suo assassino. Voleva vendicare la morte di mio padre.”

“Kim…” Joe era profondamente scosso dalla storia di quel giovane uomo, con cui di lì a poco avrebbe dovuto incrociare i guantoni. Un uomo che aveva sofferto delle pene indicibili, di un’atrocità spaventosa.

“Non lo avevo riconosciuto, essendo quasi buio. Non avevo saputo più nulla di lui, da molti mesi. Non sapevo neppure che fosse passato al nemico. Mi ero avvicinato, attratto dalla sua sporta, a quello che avevo creduto fosse solo un soldato morto, un uomo qualsiasi. Mentre stavo aprendo la sua sacca, ecco che, improvvisamente, mi sentii agguantare. Per il panico non capii più nulla: con la prima pietra che mi capitò sotto mano colpii, colpii senza sosta… finché non ebbi sfondato il cranio a quell’uomo. A mio padre.”

Joe non sapeva più cosa dire o fare. Era del tutto inadeguata qualsiasi sua esternazione, di fronte ad una tragedia del genere.

“Vomitai tutto. I soldati mi sorpresero mentre mi rotolavo nel mio stesso vomito, avendomi sentito gemere. Capirono subito che ero stato io ad ammazzare il loro commilitone e mi avrebbero fatto saltare le cervella se Jang non li avesse fermati in tempo. Non permise loro di farmi del male. In silenzio, mi prese in braccio e mi portò via con sé. Da allora il colonnello Jang diventò la mia unica famiglia. Venni allevato in una scuola militare. Oggi sono un sergente della gloriosa Chosŏn inmin'gun Yukkun****: il colonnello Jang, oltre che il mio procuratore e coach di pugilato, è pure il mio comandante. Gli devo tutto.” Kim si alzò in piedi, indossando il giubbetto di pelle nera “Goditi pure il tuo pranzo, Joe Yabuki. Ma non ci sperare troppo, per stasera. Io ti butterò giù al primo round.”

“Non esserne tanto sicuro. Mi dispiace moltissimo per il tuo passato, davvero. Ma io non intendo arrendermi senza neppure provarci. Se credi questo di me, sappi che ti sbagli di grosso.”

“No, amico. Tu non hai capito una cosa: non potrai mai vincere contro di me perché io ormai non provo più nulla e per nessuno. Sono una macchina che uccide, dentro e fuori dal ring, come pugile e come soldato. Non hai speranze contro di me. Ti saluto.” Joe rimase da solo, contemplando i resti del suo pasto, senza però vedere nulla.

°°°°°°°°

Qualche ora dopo, al Palazzetto Kurama

Quella era stata davvero una lunga giornata.

Yoko si accomodò al suo posto in prima fila: era la prima volta che assisteva ad un incontro di boxe in quel luogo. Un ring era stato allestito sopra il dojo***** all’interno di un edificio di puro stile giapponese: nulla a che vedere con il modernissimo Korakuen Hall, ove di solito si svolgevano gli incontri di boxe. Si sentiva molto stanca e nervosa. Le ultime settimane erano state piuttosto pesanti, per lei stessa e per Joe. Vederlo soffrire per la dieta e sentirsi impotente mentre Joe scherzava con la salute per poter disputare un incontro era stato difficile, da sopportare. Dover rivivere il passato, con Joe che aveva fatto la sua personalissima discesa all’inferno proprio come Tooru, aveva messo a dura prova il suo equilibrio. D’altronde, è questo che si chiede alle donne più forti: di sopportare e di restare solide ed affidabili, anche quando si sentono spezzare dentro. Anche quando si sentono morire. In ginocchio davanti alla lapide di Tooru, quello stesso pomeriggio, Yoko aveva chiesto consiglio, conforto, comprensione. Aveva interrogato una muta pietra in cerca di risposte. “Aiutami… aiutalo. Solo tu puoi farlo.” Chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie che le pulsavano. Quasi non sentì il saluto rivoltole.

“Ehi… dicevo buonasera, Shiraki-sama.”

A fatica, riaprì gli occhi, scorrendo lo sguardo sulla prestante figura di Jun Kiyoshi, che le sorrideva.

“Ah, è Lei. Mi scusi, non l’avevo udita.”

Senza smettere di sorridere, Jun si accomodò vicino a Yoko. “Proprio non si accorge di nulla, stasera.”

“In che senso?” chiese Yoko, in tono stanco.

“Da alcuni minuti quel tizio laggiù Le rivolge il saluto.” Seguendo lo sguardo del reporter, Yoko si avvide che Hiro Nakamura, distante di qualche fila, le indirizzava un corretto inchino.

“Certo. Non poteva mancare.” pensò Yoko, che restituì il saluto. Non poté non notare lo sguardo preoccupato ed i lineamenti tesi del padre di Joe: gli sorrise lievemente, per cercare di rassicurarlo. Joe non poteva perdere, quella sera. Non dopo tutta la sofferenza patita per poter disputare il match!

“Lo conosce?” chiese Jun, curioso.

“Sì” rispose lei, senz’altro aggiungere.

“Criptica come sempre, vero? Beh, poco male: tanto lo scoprirò da me di chi si tratta.”

Yoko si limitò a lanciargli un’occhiata gelida, in perfetto silenzio.

“Cambiamo discorso: non vorrei beccarmi un altro sguardo inceneritore. I Suoi occhi sanno essere assassini, anche se sono bellissimi.” ridacchiò, ravviandosi la folta capigliatura “Stasera il nostro campione non avrà vita facile. Ryuhi Kim ha disputato 108 incontri, nella sua carriera, e li ha vinti tutti. Lui e Jang non sono solo un pugile con il suo coach, ma un militare con il suo superiore: quei due sanno trasformare il ring in un campo di battaglia.”

“Perché mi sta dicendo tutte queste cose?” replicò Yoko, stizzita.

“Perché non deve nutrire troppe illusioni. Specialmente se Kim dovesse sfoderare il chom-chom.”

“…cosa?” mormorò la giovane, impallidendo. “Il chom-chom ?”

“Si tratta di una combinazione micidiale di colpi regolari, che non dà scampo all’avversario.”

Yoko respirò a lungo, cercando di recuperare il controllo e di mettere a tacere la paura per il suo amato. Alla fine, riuscì a rispondere al reporter con la dovuta pacatezza. “Può darsi. Ma spesso Joe è stato definito il ‘campione dell’impossibile’, non se lo dimentichi.” Jun non fece in tempo a replicare, dato che la sala risuonò di scoppi di voce dei tifosi: i due pugili avevano appena fatto il loro ingresso nella sala. Urla, fischi, tamburi: il pubblico era in delirio. Yoko seguì ansiosamente la figura di Joe, come se volesse accarezzarlo, proteggerlo con lo sguardo. Jun osservò, incantato, la bellezza luminosa di quel volto, che alla vista dell’uomo amato era sbocciato al pari di una corolla ai raggi del sole. Sentì una feroce morsa di gelosia, essendo ben consapevole che la radiosità di quel viso non poteva essere rivolta che solo ad un uomo. Sospirando, si voltò rassegnato ad osservare il ring.

“All’angolo rosso, il campione asiatico, con 108 vittorie: Ryuhi Kim! All’angolo blu, il campione giapponese Joe Yabuki!”

Yoko udiva e non, l’annuncio dello speaker. Ed era arciconvinta che pure Nakamura si stesse sentendo come lei: attento all’imminente incontro e, al tempo stesso, concentrato esclusivamente su Joe, come se in quella sala, gremita di gente ci fosse solo lui. Si volse a guardare Nakamura e lo vide pallido e dalla mascella contratta. Provò pena e compassione per quell’uomo, frustrato nel suo unico desiderio di poter fare il padre per Joe.

Finalmente, dopo i convenevoli di rito, ebbe inizio l’incontro.

“Mi raccomando: sei stanco e debilitato per la dieta. Cerca di risolvere il match il prima possibile, magari già alla prima ripresa. Dubito che tu possa resistere a lungo…”

“Sì, certo, lo so bene questo. E so anche che stavolta non potrò vincere.”

“Joe!”

Il gong segnò la prima ripresa. Joe non si sentiva molto saldo sulle gambe: sbilanciandosi in avanti, ruzzolò a terra. Avvicinandosi l’arbitro, protestò di essere solo scivolato, rialzandosi subito. Ci mancava solo una squalifica per impedimento! Si sentiva fortemente frustrato: nessun colpo che cercava di sferrare andava a segno, col risultato di stancarsi e di perdere le sue poche energie a disposizione. Kim lo osservava freddamente, con l’inespressività tipica del rettile che stia per agguantare la sua preda. Cosa che fece, martellando Joe con diretti e ganci a ripetizione, tenendolo ancorato alle corde. Solo con un disperato clinch, Joe riuscì ad interromperlo e, al contempo, a riprendere fiato, per poi contrattaccare con un gancio destro al volto ed un sinistro allo stomaco. Kim si abbassò leggermente sulle ginocchia, per poi sferrare un diretto al mento che fece rovinare Joe a terra. Cominciò la conta. Joe era stordito e già stanchissimo, eppure riuscì a rialzarsi al settimo. Per sua fortuna scoccò il gong.

“Bravo, bravissimo! Hai reagito molto bene, ragazzo mio, molto bene.” lo rassicurava Danpei, mentre lo medicava e si faceva passare da Nishi l’acqua e le pomate.

“Tu dici? Io dubito di riuscire a buttarlo giù…”

“Ma perché dici così?”

“Kim è una macchina. Una macchina da guerra. Ed io non so combattere contro le macchine, ma contro gli uomini in carne ed ossa come me. Finora i miei avversari erano persone con dei sentimenti… con delle debolezze. Ma lui no. Guardalo,” lo additò con il mento “ti pare un uomo normale, quella specie di robot?”

“Joe… non è da te essere così sfiduciato…” replicò Nishi, perplesso.

Secondo round.

Joe si alzò, serrando la difesa.

“Che dici, vecchio: ce la farà?” chiese Nishi, giù dal ring.

“Non lo so. Di certo dovrà superare questo suo momento di debolezza. Mi fa specie sentirlo parlare così.” sospirò.

“Pure a me, vecchio. Pure a me. Da che lo conosco, non lo avevo mai visto così insicuro.”

Kim lo dileggiava, aspettandolo alle corde. Lo lasciò anche sfogare, con una sequenza di jab e di diretti, per poi omaggiarlo di un colpo di incontro, facilitato al massimo dalle lunghe braccia, molto più lunghe di quelle di Joe, data la sua notevole statura, davvero inusuale in un asiatico. Joe cadde al tappeto, per poi rimettersi in piedi al nono. Subì un gancio sinistro al fegato ma Joe, grazie ad un veloce clinch, riuscì a colpire Kim alla tempia con una sventola, provocandolo: “Non hai vinto, maledetto stronzo!”

“Sei un osso duro eh?” sibilò Kim, dopo una scrollata del capo.

“Molto più di quanto credi!” ringhiò Joe, esasperato.

Dopo due ganci poderosi di Joe, Kim, intuendo che Joe era quasi privo di energie, riuscì a schivare i suoi jab, per poi portare a segno a sua volta una combinazione di diretti al volto e poi di due ganci allo stomaco: il tutto con una precisione straordinaria. Joe finì al tappeto per la seconda volta nello stesso round. In platea, Yoko impallidiva sempre di più. Ogni tanto chiudeva gli occhi, stanca di dover assistere a quello stillicidio.

“Si sente bene?” le chiese Jun, premuroso.

“No. Ma non importa. Resterò qui fino alla fine.” mormorò lei, con un filo di voce.

“Aspetti un attimo, torno subito.” Jun fece ritorno dopo pochi minuti con una bibita “Ecco qua… beva un po’ di aranciata, La tirerà un po’ su.”

“Grazie…” rispose Yoko, con un debole sorriso, buttando giù qualche sorso.

In quel momento, Joe aveva appena subito un tremendo montante: riuscì a non crollare al tappeto, cosa che avrebbe segnato la sua sconfitta, solo grazie alle corde, cui si aggrappò. Così finì il secondo round. Barcollando, Joe non capiva bene cosa stesse facendo: infatti andò a finire all’angolo rosso. Jang lo afferrò per le spalle: “Cosa combini? Questo non è il tuo angolo! Tange,” interpellò il coach di Joe, che stava arrivando di corsa “Si riprenda il Suo pugile, anche se io Le consiglio di gettare la spugna!” gli ingiunse, spingendogli Joe addosso.

“Appoggiati a me ragazzo mio… ecco, ancora pochi passi e potrai sederti!”

Grazie alla frescura dell’acqua spruzzatagli in faccia e sulla testa, Joe riprese conoscenza, dato che era quasi svenuto.

“Vecchio…”

“Dimmi,”

“Non gettare la spugna, qualunque cosa accada. Mi raccomando.”

“Non ci penso neanche: non dopo tutti i sacrifici fatti!”

Joe sorrise debolmente, per quanto il paradenti ed il gonfiore del viso glielo consentissero.

Allo scoccare della terza ripresa, Kim incalzò subito Joe, senza dargli respiro, accerchiandolo e colpendolo con una poderosa sventola già al ventiseiesimo secondo. Joe cadde a tappeto a peso morto. Ma si rialzò all’ottavo.

Non posso vincere contro Kim… eppure continuo a rialzarmi, ancora ed ancora… ma perché?”

Per la seconda volta al terzo round, Joe finì al tappeto, per rimettersi in piedi al settimo.

“Ce la fai a continuare?” gli si premurò incontro l’arbitro.

“Ovvio.” borbottò Joe scostandolo da sé e rimettendosi in posizione. Ma in quella finì la ripresa.

Kim era perplesso. “Non capisco, colonnello. Joe si rialza sempre e contrattacca.” osservò, stringendo le labbra con disappunto.

“Vero, sì… è più resistente di quanto pensassimo. Forse lo abbiamo sottovalutato. Ma poco male: tu colpiscilo col il chom-chom, e vedrai che non si rialzerà più.”

“Ricevuto.” Intanto, la folla era in delirio, tutti urlavano e fischiavano: l’atmosfera in sala era a dir poco elettrica. Solo Yoko e Nakamura si erano trincerati in un rigido mutismo.

“Il mio ragazzo. Il mio ragazzo sta soffrendo contro quel dannato mostro ed io non posso che starmene qua sotto, a sopportare ed a guardare. Dovrò sempre aspettarmi solo questo, per te?”

Nakamura avrebbe dato qualsiasi cosa affinché Joe la smettesse con la sua ostinazione con quello sport suicida: possibile che non ci potesse essere altro, nella sua vita?

A partire dal quarto round si sentì, sul ring, un’aria diversa. Se Sparta piangeva, neppure Atene rideva: Kim era sempre più nervoso per la resistenza dimostrata da Joe, che anche se andava al tappeto non voleva rimanervi! Per ben due volte i pugili fecero clinch, strappandosi rabbiosi l’uno dall’altro. Dopo un terrificante gancio Joe cadde a terra e sognò, per qualche secondo… Sognò di essere in un Giappone bombardato dal nemico e di uccidere Tange con una pietra, per derubarlo di cibo ed armi.... Sconvolto e turbato, Joe ritornò in sé, rialzandosi al nono. Giù dal ring, Jang sbraitava a Kim di usare il chom-chom.

“Ehi, che cavolo ti sta urlando?” gli brontolò Joe. Proprio in quel mentre, scoccò il gong di fine ripresa. Accasciatosi sullo sgabello, lasciò che Nishi e Tange gli si premurassero intorno, per poi gettare lo sguardo giù in platea, per la prima volta da quando era iniziato il match. Ciò che vide non gli fece piacere. Vide un giovane uomo parlare dappresso a Yoko, con questa che gli rispondeva affabilmente. Non gli piacque per nulla l’aria di confidenza assunta da quel tizio con la sua donna, proprio no.

“Joe, mi ascolti?”

“Sì certo. Ricordati: NON gettare la spugna. O stavolta non te la perdono.

“Ma no, che non la getto! Adesso più che mai, con Kim che si sta sgretolando come un gigante di creta!”

Risuonò il gong: era iniziata la quinta ripresa.

Joe reagì male ai due ganci subito infertigli da Kim, il quale rifletté che era arrivato, ormai, il momento del chom-chom. Iniziò, così, una sequenza infernale di un diretto ed un gancio al viso e poi due ganci al corpo, per poi ricominciare da capo. La precisione cronometrica dei colpi, scanditi tutti allo stresso ritmo sincopato, fece sì che il corpo di Joe, addossato alle corde, restasse sollevato a qualche centimetro dal tappeto, quasi come un burattino senza fili che “ballasse” al ritmo dei pugni di Kim. Yoko lanciò un urlo di disperazione, cui echeggiò quello di Hiro. Joe crollò al tappeto, non appena Kim lo lasciò andare. Cominciò la conta: chiunque, in quella sala, era ormai certo che sarebbe stato l’ultimo conteggio della serata. Ed invece avvenne l’inspiegabile, dato che Joe si rialzò al nono. Ancora una volta. Kim era sconvolto, non poteva credere ai suoi occhi. Quando scoccò il gong, era talmente fuori di sé da finire lui, stavolta, all’angolo sbagliato, al punto tale, poi, da prendersi due irosi schiaffi dal colonnello.

Yoko si alzò in piedi, quasi meccanicamente, come se una molla misteriosa avesse dato impulso alle sue gambe. Senza nessuna esitazione, si spinse fin sotto all’angolo blu.

“Signorina…” dissero in coro Danpei e Nishi, visibilmente stupiti.

“Perché non lo fa smettere, Tange-san? Perché non getta la spugna?” chiese Yoko, rivolgendosi direttamente al coach e non a Joe.

“Ecco… io…” farfugliò Danpei, imbarazzato.

“Vuole far morire Joe? Vuole che faccia la fine di Tooru? Pure lui era debilitato per la dieta… e non è sceso vivo, dal ring! Lo faccia smettere! Per favore!”

“Ora basta! Tornatene dal tuo cicisbeo e lasciami in pace!” urlò Joe, esacerbato dal tremendo match e fuori di sé dalla gelosia, incapace di vedere le cose in modo lucido e sereno. Yoko rimase sbigottita, nell’udire quelle parole, senza però far cenno di muoversi. “Allora, vuoi tornare a sederti?” al che Joe, afferrata la bottiglia da Nishi, spruzzò un po’ d’acqua addosso a Yoko. Non appena però la vide infradiciata fino alle spalle, realizzò l’assurdità del gesto commesso e delle parole dette. “Scusami… davvero, scusami. Ma non puoi parlarmi proprio tu di mollare. Cerca di capire!”

Risuonò il gong per il sesto round.

“Ed ora state a vedere, tutti quanti!” Joe balzò in piedi con uno scatto felino, per avventarsi su Kim.

Non posso perdere. Non posso farlo: pure Tooru ha combattuto dopo il digiuno, ed io devo onorare la sua memoria! Non scenderò da questo fottuto ring se non da vincitore!”

Colto di sorpresa dallo straordinario recupero di Joe, Kim cadde al tappeto per due tremendi ganci. Si rialzò al settimo e contrattaccò con un diretto al sopracciglio di Joe, spaccandoglielo. Come vide rivoli di sangue sul volto del suo avversario, Kim andò col pensiero ad un altro, di volto insanguinato. Quello di suo padre. Kim gemette, in preda all’orrore, rivissuto e rivisto per l’ennesima volta. Joe ne approfittò, colpendolo con un gancio al fegato e poi con un montante così potente da sbalzare Kim fuori dal ring.

A 2 minuti e 18 secondi del sesto round venne così decretato il nuovo campione asiatico dei pesi medi!

____________________________________________________

Spigolature dell’Autrice:

*nella cultura giapponese è fortemente radicato il rispetto delle persone anziane, considerate la “corona della società”, al punto da festeggiare una giornata, il terzo lunedì di settembre come keiro no hi (敬老の日), ovvero “il giorno di rispetto per gli anziani”. (fonte: http://www.nihonjapangiappone.com/)

**la guerra di Corea (25 giugno 1950 - 27 luglio 1953) sintomatica della guerra fredda, ha visto la strage di ben 2.000.000 di civili e di centinaia di migliaia di perdite di ambo gli schieramenti militari. La città di Kaesŏng, cui io attribuisco i natali di Kim, prima del conflitto si trovava nell’attuale Corea del Sud: a seguito dell’armistizio del 27 luglio del 1953 avvenne lo spostamento della linea di confine, per cui ora tale città si trova nella Corea del Nord.

***furono i Coreani del Nord ad invadere la Corea del Sud, dando così inizio alla guerra.


****Forze di Terra dell’Armata Popolare Coreana (fonte: wikipedia)

*****il dojo (道場) è la zona di combattimento ove si svolgono le arti marziali tradizionali, tra cui il sumo.

L’angolo del boxeur:
I pugili professionisti si dividono in tre serie, ognuna con un determinato numero di round, a seconda del tipo di incontro da disputare. Tali serie sono:

I serie: disputano incontri di sei riprese di tre minuti (il giovane Tooru Rikishi conosciuto da Joe al riformatorio era famoso come promessa della boxe nipponica, un “six boy round”)

II serie: disputano incontri di dieci riprese di tre minuti.

III serie: disputano incontri di dodici riprese di tre minuti e ciò qualora si tratti di incontri con in palio un titolo, come è stavolta il caso di Joe contro Kim.

(Fonte: www.bassanoboxe.it www.fpi.it )
§§§§§

Mi scuso con i lettori per il ritardo: spero di essermi fatta perdonare con un capitolo un po’ più lungo del solito! Approfitto dell’occasione per augurare a tutti uno splendido 2016!!
Ringrazio la splendida amica ed autrice DivergenteTrasversale per il suo consiglio sull'avviso, che ho trovato assolutamente giusto e necessario da osservare!

P.S.: sono leggermente fusa, visto l’orario: se trovate degli errori di battitura, siate magnanimi!

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Capitolo XXI - Progetti ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Quartiere di Asakusa, in un elegante ristorante tradizionale di qualche giorno dopo.

“Ben arrivato. Si accomodi, prego.”

Hatsuyo Shiraki versò dal tokkuri* di fine ceramica nelle piccole ciotole del sakè caldo e dal fragrante aroma, facendo cenno all’uomo, ancora in piedi, di sedersi al suo tavolo e di servirsene liberamente. Senza attendere che il suo invito venisse accolto, con un gesto morbido ed aggraziato, portò alle labbra uno dei due ochoko**.

Sorrideva lievemente, tra sé e sé.

Bisognava festeggiare, in qualche modo: per questo aveva ordinato la migliore bottiglia di tokutei meishoshu*** della casa. Forse si era preoccupata eccessivamente del colpo di testa di Yoko e sarebbe stato sufficiente dar tempo al tempo: certe disparità sociali, alla lunga, si fanno sentire nei rapporti interpersonali e soprattutto nei legami sentimentali.

“Conosci il tuo nemico per meglio abbatterlo”: mai come in questo caso l’antico detto le era tornato utile. Da quando aveva saputo di Yoko e di Joe, non si era persa nessun incontro di quest’ultimo, trasmesso alla TV. Di volta in volta, aveva sperato con tutte le sue forze che quel miserabile cadesse al tappeto per non più rialzarsi, proprio com’era accaduto per quell’altro, per Rikishi. Una bella lapide al cimitero, e senza che lei c’entrasse in qualcosa.

Del resto, la boxe è uno sport pericolosissimo… o no?

Ed invece, con una pervicacia ed una ostinazione al limite dell’assurdo, quello straccione di Joe Yabuki era passato indenne da incontri molto duri: ora aveva persino vinto un titolo!

Hatsuyo aveva visto eccome la deliziosa scenetta in cui quel ceffo aveva urlato a Yoko chissà cosa, gettandole poi addosso dell’acqua. Sua nipote era stata umiliata pubblicamente: in televisione si era visto tutto, e pure in alcuni giornaletti scandalistici non erano mancate le fotografie del succoso fatterello… Ah, Yoko, Yoko… che questo ti serva di lezione! Non ci si mescola impunemente con il fango!

Jun Kiyoshi si decise, finalmente, a sedersi: pur essendo giapponese non amava per niente lo stile di vita tradizionale e brontolò fra i denti per la scomoda posizione alla seiza, che gli avrebbe fatto venire i formicolii alle gambe e che gli avrebbe gualcito i pantaloni. Avrebbe preferito di gran lunga essere invitato in un ristorante in stile occidentale, ma pazienza: da bravo reporter qual era moriva dalla curiosità di conoscere il motivo per cui l’ineffabile gran dama dei quartieri alti lo avesse convocato. La osservò attentamente, notando la notevole somiglianza dell’anziana signora con Yoko.

“E così, Lei sta facendo la corte a mia nipote… a quanto vedo.” enunciò con fare tranquillo la sua ospite, rompendo il silenzio.

“Non capisco come la cosa possa interessarLe, cara signora.”

“Diretto e franco, non c’è che dire.” posò la ciotolina e dette un morsetto leggero al dango**** “Ma ci tengo a precisare una cosa: a me interessa tutto quello che riguarda la mia unica nipote. Yoko un giorno sarà la mia erede, per cui non mi sono indifferenti le persone che frequenta. Spero che Lei comprenda.”

“Uhmm…” bofonchiò Jun, per poi inghiottire il sakè tutto d’un sorso. Accidenti, quant’era forte! Come aveva fatto quella fragile signora a scolarselo senza fare un plissè?

“Immagino si starà chiedendo come io faccia a saperlo… di Lei e di Yoko, intendo. Semplice: non solo i reporter come Lei cercano informazioni… intende?”

“Perfettamente, solo che una persona adulta come Yoko meriterebbe più rispetto per la sua privacy.

“Voi giovani date troppa importanza a certe cose. E comunque se teneste così tanto alla riservatezza, vi dareste pena ad una maggior discrezione in pubblico.” Hatsuyo estrasse dalla borsetta alcuni ritagli di giornale, con fotografie ritraenti una Yoko sorridente seduta accanto a Jun… ed una Yoko sbigottita e zuppa d’acqua. Nel vedere quelle foto Jun imprecò a bassa voce. “Mi stupisco della sua indignazione: di solito a voi imbratta-carte non dispiace scrivere articoli di bassa lega.” sibilò Hatsuyo.

“Badi a come parla: io sono un giornalista sportivo, non mi occupo di questa spazzatura da giornaletti scandalistici!” al che Jun si rimise in piedi.

“Suvvia non si offenda. E si risieda, per favore. Volevo solo mettere le cose in chiaro con Lei. e dirLe che sto dalla Sua parte.” aggiunse la donna, melliflua. Aveva capito subito di dover mutare registro con il giornalista e di fingersi assertiva.

"Ovvero?” chiese Jun, perplesso, rassegnandosi a sedersi nuovamente.

Ovvero, io non approvo il legame di mia nipote con quel pugile: lo ha visto pure lei come Yoko è stata umiliata pubblicamente e non intendo passarvi sopra. Per questo motivo il fatto che adesso mia nipote possa allargare la cerchia delle sue amicizie… e magari frequentare di meno persone come Joe Yabuki mi tranquillizza. Io voglio solo che mia nipote trovi un compagno adatto a lei: credo che chiunque la penserebbe come me. Cosa ha a che spartire una ragazza di buona famiglia, colta, bene educata, con un ragazzo dei bassifondi, che di mestiere fa a pugni? Sono anche molto in ansia per Yoko: lei era presente la sera dell’incontro ed avrà visto di persona lo scatto di rabbia di quel pugile… e se un giorno, magari per un banale litigio, facesse del male a Yoko? I pugili sono uomini violenti, sono dei bruti! Io non ci dormo la notte… se dovesse picchiare la mia bambina…” con un gesto aggraziato, Hatsuyo si passò la punta delle dita sotto le ciglia, per asciugare lacrime inesistenti.

“Questo Joe non lo farebbe mai: non alzerebbe mai le mani su una donna. Lei non lo conosce per niente, a quanto vedo. La sera dell’incontro Joe era stanco e debilitato per un periodo di digiuno forzato… sicuramente avrà esagerato con Yoko, quando le ha gettato addosso dell’acqua. Ma sono certo che si sia trattato di un caso isolato, perché Joe non le torcerebbe un capello. Non è un cattivo ragazzo e di certo non è colpa sua se non è di buona famiglia come Yoko: ma con le sue sole forze e con il suo talento sportivo sta ora raggiungendo una buona posizione sociale. Lei non conosce l’ambiente pugilistico, cara signora: i pugili non sono affatto come li intende lei e Le assicuro che si comportano con le donne molto meglio di certi inappuntabili sararīman*****. Il pugilato è uno sport serio, che ti insegna a rispettare le regole, il tuo avversario e, soprattutto, te stesso.”

“Davvero commovente: Lei sta tessendo le lodi del suo rivale…” chiosò la donna, con fare sarcastico.

“Non so se si possa parlare di rivalità: Yoko è molto legata a Joe e mi considera un semplice amico.” brontolò Jun “Ed io rispetto Joe Yabuki, a prescindere da Yoko.”

“Quindi Lei non è interessato alla mia Yoko. Capisco: ho preso un abbaglio, a quanto pare.”

“Niente affatto: Yoko mi piace moltissimo. Lei rappresenta tutto ciò che ho sempre cercato in una donna e se solo avessi anche una piccola speranza di poterla conquistare non mi tirerei indietro.” Jun si ravviò nervosamente la folta capigliatura, tirando indietro i capelli.

“Beh, non è sposata e neppure fidanzata, per cui Lei potrebbe anche provare a dichiararsi, no? Senta,” Hatsuyo sospirò profondamente, “io sono davvero convinta che per Yoko ci voglia un compagno diverso da quel ragazzo. Apprezzo la sua sincerità e la sua lealtà nei confronti di Yabuki, ma io credo che per una donna sia importante avere al suo fianco un uomo più presente ed affettuoso: dubito che un pugile tutto preso dai suoi incontri e dai campionati possa darle la solidità di cui ha bisogno. Ci pensi. Yoko è giovane e può benissimo darsi che presto o tardi si renda conto di volere un compagno che le stia più vicino, che le dia stabilità e con cui mettere su famiglia.”

Jun rimase in silenzio, non sapendo più come replicare. Hatsuyo si rialzò in piedi e, dopo un raffinato inchino, lasciò la saletta privata.

°°°°°°

Località di Nikko, prefettura di Tochigi, nel tardo pomeriggio.

Yoko osservava, incuriosita e divertita, l’antica scultura di legno delle tre scimmiette: un vero e proprio motto illustrato del “non vedo-non sento-non parlo”******.

Dopo aver visitato il santuario di Tōshō-gū, Yoko si era soffermata a rendere omaggio a quel simbolico manufatto. Il santuario era un complesso storico ed artistico molto grande ed articolato in più edifici: era già quasi sera, dato che la visita aveva comportato per lei l’impiego di tutta la giornata. Prima di avviarsi al ryokan per la cena, si sedette un attimo su una panchina di pietra, per riprendere fiato.

Ora si sentiva meglio.

Aveva fatto proprio bene a prendersi una piccola pausa, concedendosi dei momenti tutti per sé. Il giorno successivo all’incontro di Joe con Kim, infatti, Yoko se n’era andata. Almeno per un po' di tempo aveva sentito il bisogno di allontanarsi da tutto e da tutti. Dopo aver dato rapide disposizioni in ufficio per le pratiche più urgenti, delegando alla sua assistente personale ed al legale di fiducia, Yoko aveva preso con sé un piccolo bagaglio ed aveva lasciato Tokyo in fretta e furia: il viaggio non era stato lungo, dato che la località di Nikko distava da Tokyo di soli 140 chilometri. Appena scesa dal treno, Yoko aveva respirato a pieni polmoni la pura e frizzante aria di montagna, dai sentori balsamici, sentendosene rinfrancata. Aveva trovato subito di suo gusto il piccolo e pittoresco ryokan prenotato su consiglio della sua segretaria, che vi aveva trascorso le ultime vacanze: “Vedrà, Shiraki-sama, che ci si troverà benissimo: lì si respira aria di casa e la cucina è davvero ottima!

Gli ultimi tempi erano stati davvero pesanti per lei, perlomeno a livello psicologico. Ancora una volta, aveva dovuto assistere impotente all’ostinazione autodistruttiva dell’uomo amato: prima Tooru, ora anche Joe. Aveva dovuto inghiottire le lacrime e mostrarsi coraggiosa e solidale, appoggiando Joe in iniziative sempre più pericolose per la sua salute. Quando le aveva chiesto le chiavi per autorecludersi nella cantina dello SBC si era sentita morire.

“Il passato ritorna… ritorna sempre. Joe ed io non riusciamo a proseguire in questo cammino che abbiamo iniziato insieme: siamo ad un punto di stallo.” Ma la cosa che l’aveva ferita di più erano state le irose parole che le aveva rivolto la sera dell’incontro: “Ora basta! Tornatene dal tuo cicisbeo e lasciami in pace!

Che assurdità.

Non pago di averla trattata con deliberata freddezza se non addirittura di averla tenuta a distanza per giorni e giorni, nonostante lei lo avesse pregato di permetterle di stargli vicina, adesso Joe recitava la parte dell’Otello. E per cosa? Solo per averla vista seduta vicina ad un giovane uomo, un semplice amico, ricamando nella sua testa chissà che cosa.

“Forse siamo stati precipitosi, Joe ed io e non ci siamo concessi abbastanza tempo per capire se possiamo stare insieme. Ma allora è proprio vero: l’amore non basta. Non sempre.”


Persa com’era nelle sue meditazioni non si era accorta che le si stesse avvicinando qualcuno.

“Yoko…”

La giovane dovette battere le palpebre per meglio mettere a fuoco. Era come lo spezzarsi di uno stato di trance. “Tu… qui?” riuscì a sillabare, non senza fatica. Non ce la fece, però, a rimettersi in piedi, sentendo le gambe molli, e se ne rimase seduta, osservando i movimenti fluidi di Joe che, con passo elastico, andò a sedersi accanto a lei.

“Sei fuggita, o sbaglio? Ti ho cercata sia a casa che allo Shiraki Boxing Club. Solo dopo aver pregato e scongiurato in tutte le lingue la tua inflessibile segretaria sono riuscito a farmi dare l’indirizzo della pensione dove ora stai alloggiando… Ti ho cercata pure lì, ed il bambino della padrona mi ha detto di venirti a cercare in questo santuario.” Mentre le parlava, in tono sommesso, le accarezzava timidamente il polso sottile della mano abbandonata in grembo. Le cercava gli occhi con i propri, dato che lei si fissava ostinatamente le punte delle ballerine. Joe non sopportava quell’ostinato silenzio: con delicatezza, le sollevò il mento, finché non poté studiarla in viso. Era molto più pallida del solito e con le guance un po’ scavate.

Yoko, la sua Yoko, non stava bene.

“Dimmi… cosa c’è?” le sussurrò.

“Io… non mi sono ancora complimentata con te, per il tuo nuovo titolo. Scusami.” mormorò lei, cercando di sviare il discorso.

“Stai scherzando? Credi che sia venuto a cercarti fin qui per questo, Yoko, per i tuoi complimenti? L’altro ieri la gente del quartiere ha voluto festeggiarmi: sono stati tutti molto buoni con me, ma io non mi sentivo felice.” al che la afferrò per le spalle “Tu non c’eri. Mancava al mio fianco la persona che ha sempre creduto in me, che non mi ha mai ingannato o nascosto nulla, e che ha fatto tutto il possibile per aiutarmi nella lotta alla bilancia!” la strinse a sé, sussurrandole nei capelli “Mi manchi, mi manchi da morire…non lasciarmi più…”

Yoko lo ascoltava in silenzio, lasciandosi cullare dal suono della sua voce, così limpida e vibrante: ad occhi chiusi e rannicchiata sulla sua spalla, lasciò che lacrime silenziose e troppo amare le sciogliessero i nodi che teneva da troppo tempo dentro di sé. Nodi tanto stretti e duri che aveva temuto non si sarebbero sciolti, mai più.

“Sono io che devo scusarmi con te, non il contrario. Adesso, a mente fredda, mi rendo conto di avere esagerato: purtroppo avevo troppo poco tempo a disposizione per calare di peso, e così non ho adottato mezze misure. Ma tu hai fatto tanto per me e senza chiedermi mai nulla, senza protestare per le follie che ho fatto per dimagrire. Poi però durante il match ti sei spaventata per me: così hai chiesto al vecchio di gettare la spugna. Ed io? Cos’ho fatto, io? Invece di tranquillizzarti e di rassicurarti che potevo continuare e che non dovevi preoccuparti, ti ho trattata malissimo, senza nessun rispetto. Sono stato stupido e maleducato. Sei tu che devi perdonare me.”

“Non ti preoccupare, Joe… non ha importanza.” Yoko si asciugò gli occhi, sorridendo mitemente.

Joe si staccò da lei e rimase a capo basso, con fare vergognoso.

“Mi sento un idiota anche per un altro motivo.” bofonchiò, grattandosi la testa, confuso.

“Non sei tu ad essere idiota, ma la tua gelosia.”

“…” Joe arrossì.

“Ecco, appunto. Meriteresti tu una bella doccia fredda, e non la sottoscritta. Jun Kiyoshi – questo è il suo nome – fa il reporter per riviste sportive, ed è solo un buon amico, oltre che un tuo fan: segue da sempre tutti i tuoi incontri. Solo per questo una sera mi si è presentato al Korakuen Hall e si è messo subito a parlare di te. Hai preso un bell’abbaglio… chissà: forse per il digiuno forzato avrai avuto delle strane allucinazioni e, vedendo me e Jun chiacchierare in platea, avrai immaginato chissà cosa.”

“Beh, Yoko, io non dubito di te e ci credo se mi dici che lo consideri un semplice amico.” sbottò, secco. “Ma le occhiate che quel tizio, quel Jun, ti scoccava non erano da amico. Proprio per nulla.”

“Joe, ti prego. Basta. Stai dando troppa importanza ad una cosa che non ne ha.”

“Te l’ho detto: di te mi fido, ma di quel tuo amico, no.” Alzatosi in piedi, porse la mano a Yoko. “Abbiamo un altro discorso da farci, tu ed io… interrotto diverse settimane fa.” le disse, in tono già molto più dolce.

°°°°°

Tornarono al ryokan, insieme, dato che quel mattino stesso Joe, oltre a chiedere informazioni su Yoko, si era premurato di prendere una camera anche per sé.

“Posso… entrare da te?” le sussurrò Joe, un po’ intimidito, a capo chino e perdendo ogni baldanza. Da diverso tempo lui e Yoko avevano smesso di far l’amore, dato che l’allenamento intensivo e la dieta dimagrante non avevano consentito a Joe di impegnare in altro le poche energie rimastegli. Yoko non rispose: presolo per mano, lo condusse dolcemente nella sua stanza.

Si presero tempo, senza nessuna fretta.

Si spogliarono lentamente, in piedi, gli occhi negli occhi. Nessun bacio, nessuna carezza li offrirono e li presero, senza che il tramonto del sole non fosse l’unico testimone del loro mistero d’amore, omaggiandoli con i suoi ultimi raggi di luce nella penombra della stanza. Il fresco della sera, greve dei suoi profumi, sfiorò i loro corpi, ebbri di felicità di potersi finalmente ritrovare dopo una così lunga assenza. Era stata la solitudine la loro vera condanna: anche solo e semplicemente stare abbracciati, per potersi sussurrare parole d’amore, era adesso così dolce, così bello, da farli sorridere e piangere ad un tempo. Joe stringeva la sua donna, finalmente appagato di lei, del suo profumo, dei suoi capelli, del raso della sua pelle. Yoko lo accarezzava, morbida e dolce, per dare conforto e sollievo ad un corpo provato dal digiuno e dalle privazioni, facendo così sospirare Joe dalla felicità. “Io sono qui, sono qui per te.” si dicevano l’un l’altra, con gli occhi, con le mani, con ogni singolo poro della loro pelle.

Si assopirono solo alle prime luci dell’alba, le braccia nelle braccia.

°°°°°°°

Qualche ora dopo, a Tokyo.

Tange si sentiva finalmente più tranquillo: con la conquista di un titolo pugilistico, la posizione di Joe nella boxe giapponese ed asiatica non era più in discussione, ed ora si potevano raccogliere i frutti di tanto duro lavoro. Innanzitutto, si era incontrato, giusto il giorno prima, con una piccola impresa edile per la progettazione e la costruzione di una nuova palestra, sempre nel loro vecchio, caro quartiere di periferia. Nulla di speciale, certo, o di minimamente paragonabile a palestre ben più blasonate… ma adesso si poteva realizzare il sogno di tutta una vita: accompagnare il suo ragazzo nel difficile ma esaltante percorso di conquista del titolo mondiale, e magari allenare anche delle nuove promesse della boxe. Però tutto questo ora si sarebbe concretizzato non più in una baracca di legno, soggetta a spifferi e ad infiltrazioni d’acqua e con un ring di quarta mano bisognoso di essere continuamente rattoppato, ma in una bella palestra in cemento, piccola ma moderna ed efficiente, su due piani: il piano terra adibito agli allenamenti, con un ring smagliante e nuovo di pacca, ed il primo piano che fungesse da dormitorio, con una bella cucina fornita di ogni ben di Dio e con una grande sala da bagno.

Tange si sentiva il cuore molto più leggero: il suo Joe stava bene, si era ripreso dal difficile periodo di digiuno forzato ed ora era in lizza per un altro titolo pugilistico: quello del Pacifico. Quella stessa mattina, alla Federazione gli avevano parlato dell’opportunità di trattative con il campione hawaiano Pinan Sarawaku, un giovane molto promettente, desideroso di strappare a Joe la cintura di campione asiatico tanto faticosamente conquistata.

Ah, quella meravigliosa cintura…

Tange la teneva conservata in un piccolo baule, avvolta in un drappo di velluto. Aveva perso il conto, ormai, delle volte in cui, di nascosto, l’avesse estratta dal baule per contemplarla, commosso, accarezzandola con reverenza, in punta di dita. Una volta che la nuova palestra fosse stata eretta, avrebbe custodito la cintura nella teca di vetro appena ordinata ad un artigiano di fiducia, in modo che potesse far bella mostra di sé.

“Hawaii… arriviam, orsù arriviammmm!” canterellò, fischiettando allegramente.

Ma il canto gli morì in gola, quando vide, nei pressi di casa, una ben nota figura che gli si stava avvicinando.

“Nakamura-san.” lo salutò, con un piccolo e rigido inchino.

L’altro si limitò ad un lieve cenno della testa. “Noi due dobbiamo parlare.” enunciò Hiro, tralasciando inutili convenevoli.

A Tange parve che l’aria mattutina si fosse improvvisamente raggelata, nonostante il calore del sole primaverile.

______________________________

Spigolature dell’Autrice:

*tokkuri: è la bottiglietta, di solito in ceramica, in cui viene servito il sakè, caldo o freddo.

**ochoko: sono bicchierini o ciotoline in cui si versa il sakè.

***tokutei meishoshu (特定名称酒), sarebbe il "sake per occasioni speciali" ed è contraddistinto dalla certificazione di miglior raffinamento del riso: ha un aroma molto particolare e costa parecchio!

****dango: sono dei dolcetti fatti con il riso e serviti come spiedini

(fonte: Wikipedia)

*****termine giapponese derivante dalla storpiatura della parola salary-man

******eccole le famose scimmiette: si trovano a Nikko, presso il santuario shintoista di Tōshō-gū (日光東照宮), del 1617.

le-tre-scimmiette-di-Nikko
I loro nomi sono "Mizaru", “scimmia che non vede il male”, "Kikazaru", “scimmia che non sente il male” e "Iwazaru", “scimmia che non parla del male”. Direi che non sarebbe cattiva idea seguire il loro esempio…

Ed ecco il santuario di Tōshō-gū:

Toshogu-2
(fonte: http://www.nihonjapangiappone.com)

Suvvia: ci voleva un piccolo intermezzo romantico, o no? Tanto più che ritroveremo il nostro pugile, più agguerrito che mai, nel prossimo capitolo, pronto a nuove sfide!

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Capitolo XXII - Passato. Presente. Futuro. ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Nikko, in un tardo, pigro pomeriggio…

“Che ne dici… dobbiamo rientrare?” mormorò Yoko rabbrividendo dal piacere, mentre Joe le percorreva la schiena di baci morbidi e leggeri, su su fino alla nuca, dopo averle scostato con delicatezza la lunga chioma di seta.

“Uhmm… Tokyo ti manca così tanto?” brontolò lui, mordicchiandole, piano, il lobo dell’orecchio.

“Sciocco che sei, abbiamo delle responsabilità, mica possiamo dimenticarcelo!” pontificò la giovane, con finto disappunto e mettendosi supina per accoglierlo tra le braccia, dopo avergli scompigliato la chioma, già arruffata di suo.

“Parla per te, Presidente. Io mi limito a boxare.”concluse Joe, zittendola con un lungo bacio.

Yoko lo strinse a sé, ebbra di lui.

Dopo una dolce ora d’amore, rimasero, stanchi e felici, ad ascoltare la speciale melodia della pioggia primaverile che in quel giorno non aveva smesso di tamburellare, fresca e fitta, tutta d’intorno, regalando all’atmosfera un intenso profumo di terra e di alberi.

Era bello starsene, così, per tutto il tempo rimasto al ryokan a fare l’amore. Joe si scioglieva dalle braccia della sua donna giusto il tempo di andare a fare la sua consueta corsetta, una al mattino ed una al tardo pomeriggio. Sentivano il bisogno, fisico e spirituale, di stare costantemente uniti. Non parlavano poi molto, solo l’essenziale, e per lo più scherzavano come se fossero di nuovo bambini: troppe parole non erano necessarie… non in quei momenti, almeno.

Si decisero a fare ritorno a Tokyo solo qualche giorno dopo: la boxe li reclamava, anche se per ruoli ben diversi. Neppure per tutto il tempo del viaggio smisero di sorridersi, con le labbra e con gli occhi: il dono che si erano fatti l’un l’altra in quella breve vacanza li aveva ritemprati profondamente e si sentivano ora pronti ad affrontare tutto ciò che il destino avrebbe loro portato, nel bene e nel male.

Si sentivano forti, una volta di più, dopo aver superato insieme il delicato momento vissuto da Joe per poter salire sul ring contro Ryuhi Kim.

°°°°°°°

Un mezzodì a Tokyo di qualche giorno dopo.


Cercava di non pensarci… ma il suo cervello di vecchio testardo andava a parare sempre lì, alla fin fine.

Hiro Nakamura non si era trattenuto, l’ultima volta, per più di una decina di minuti: ma quello che gli aveva detto, o meglio, ingiunto, gli si era scolpito nella mente e da giorni continuava a ronzargli nelle orecchie come una fastidiosa eco.

“Non voglio che mio figlio ci muoia, su quel maledetto ring. Deve smettere, e subito.”

Tange sorrideva amaramente, tra sé e sé. Magari fosse stato facile, togliere Joe da “quel maledetto ring”, come aveva detto lo yakuza. Pure lui in passato aveva cercato di distogliere il ragazzo dall’ossessione per il pugilato, ma senza riuscirvi. Nessuno sarebbe mai stato in grado di convincere Joe a cambiare vita. Per un momento aveva accarezzato l’idea di chiedere l’aiuto di Yoko: le lacrime femminili a volte riuscivano, ancora come in passato, ad ammorbidire gli uomini più coriacei. Ma Tange accantonò quasi subito quell’intento, dato che Yoko Shiraki non era il tipo di donna che usasse il piagnisteo per raggiungere i suoi obiettivi. E, soprattutto, per il fatto che Joe stesso non era il tipo da farsi soggiogare dai ricatti affettivi.

Da nessuno: Yoko compresa.

“Nakamura non ha ancora capito di che pasta è fatto suo figlio… eppure è sangue del suo sangue!” borbottò tra sé e sé, mentre rassettava la palestra. Aspettava il ritorno a casa del suo ragazzo proprio di lì a poco, ritardi del treno permettendo, dato che Joe gli aveva dato un colpo di telefono giusto la sera precedente. Gli si era allargato il cuore nel sentire la voce di Joe così calma e serena: era quindi vero il potere miracoloso dell’amore!

“Ad ogni modo dovrò parlarci, con quel benedetto figliolo… in fondo Nakamura è suo padre e Joe gli deve portare rispetto: non può continuare ad ignorarlo, non sarebbe giusto! E poi forse sarebbe davvero meglio che pensasse a ritirarsi, ora che ha vinto un bel titolo e gode ancora di ottima salute. Mica mi sono scordato di quei due poveri ragazzi, Tooru e Carlos: il primo è morto, il secondo… chissà che fine avrà fatto. Non voglio neppure io che Joe finisca male, come loro.” sospirò.

Ogni tanto gettava l’occhio sulla grande busta gialla che giaceva sul tavolo, intoccata: il contratto per il prossimo incontro di Joe alle Hawaii contro Pinan Sarawaku aspettava solo la firma sua e di Joe per la chiusura delle trattative. Se Joe avesse vinto anche contro Pinan si sarebbe aggiudicato un altro titolo, quello del Pacifico, e la sua scalata per il titolo mondiale contro José Mendoza avrebbe continuato, inarrestabile. Sarebbe stato incredibile se quel ragazzo di strada, venuto su dal nulla, alla fine ci fosse riuscito a strappare la cintura a Mendoza.

Davide contro Golia?

Chi poteva saperlo.

Finora nessun aspirante campione del mondo era riuscito a buttare giù quello che era considerato da tutto il mondo della boxe come IL pugile per antonomasia: un atleta dalla tecnica perfetta, rifinita e cesellata in ogni particolare. Uno stilista di prim’ordine, dal gioco di gambe elegantissimo ed efficace, dalla difesa elastica e duttile. Incassatore inossidabile ed attaccante spietato. A Mendoza non mancava proprio nulla. Soprattutto, a differenza dei pugili affamati di ring, Mendoza era una persona pacata, equilibrata: un uomo molto bene educato, un po’ d’altri tempi. Mai uno scandalo, uno scoop pruriginoso: le poche fotografie dei rotocalchi lo ritraevano con la sua amata famiglia, a spasso con la bella moglie ed i figlioli, sorridente e tranquillo. E sorridente e tranquillo, infatti, lo era sempre: sul ring, in attesa di cominciare un match; con i giornalisti, dopo aver sconfitto il suo ultimo avversario, per l’ennesima volta. Come avrebbe potuto il suo ragazzo, per quanto bravo e coraggioso, riuscire in una simile impresa? Questo Tange non lo sapeva. Però era consapevole che fin quando nello sguardo di Joe fosse brillata quella sua speciale fiamma, niente e nessuno sarebbe mai riuscito a distoglierlo dal suo obiettivo di incrociare i guantoni con José.

Costi quel che costi. Per se stesso, prima di tutto, ma non solo.

Anche per Carlos.

E, soprattutto, per Tooru.

“Ehi vecchio, cosa fai, così pensieroso? Conti le farfalle?” risuonò nel silenzio della palestra, improvvisa, la voce di Joe, appena apparso sulla soglia, col suo solito sorrisetto beffardo. Tange lo osservò per qualche secondo: provò autentico orgoglio paterno nel vederlo così in forma, con un bel colorito sano. Soprattutto negli occhi del suo ragazzo brillava una luce calda e dolce. Benedisse tra sé e sé Yoko Shiraki, per la felicità che sapeva donare a Joe. Ma questo, ovviamente, non lo disse: anzi, assunse, suo solito, un’aria a dir poco arcigna.

“Eccoti, signorino: ben arrivato. Mentre tu te ne vai a spasso, io qua devo pensare a tutto! Adesso dobbiamo occuparci del tuo prossimo sfidante! O vuoi salire sul ring regalando al tuo avversario mazzolini di fiori di montagna? Porca miseria!” sbraitò, sbatacchiandogli in faccia la busta gialla.

“Oh che gentile, un regalo di bentornato per me?” scherzò Joe, mimando una buffa riverenza.

“Piantala di fare il cretino, eh. Ora in ballo c’è un altro titolo, quello del Pacifico… sì, sì, non farmi quella faccia scocciata, lo so che vuoi direttamente un incontro per il titolo mondiale, ma devi prima scalare la classifica, o Mendoza non lo vedi neppure di striscio! Un passo alla volta!!”

“E chi cavolo sta dicendo nulla? Te la canti e te la suoni da solo, vecchio. Per me va bene tutto… com’è che si chiama questo tizio? Pinan Sarawaku?” borbottò, scartabellando il contratto che aveva estratto dalla busta. “Ma che nome è?”

“Si chiama così perché è hawaiano. Infatti è proprio alle Hawaii che si dovrebbe disputare il match, tra un mese esatto.” gli spiegò Tange, alzando gli occhi al cielo, ma con tono già un po’ più pacato. “Porteresti in palio il tuo titolo in un incontro di dodici riprese. Allora, che ne dici? Accettiamo? Naturalmente saremmo sponsorizzati da Fujita-san di Tele Kappa*, che organizzerebbe tutto, dal viaggio all’albergo ad un budget per le nostre spese personali. E poi, come puoi leggere nel contratto alla pagina 3, il nostro compenso sarebbe eccellente anche in caso di sconfitta.”

“Umpf, figurati se intendo perdere contro questo tizio. Cosa penserebbe di me Mendoza, se mi lasciassi sfuggire il titolo che ho appena conquistato? La sconfitta è fuori discussione.” brontolò Joe, mettendosi a disfare il suo piccolo bagaglio.

“Sì sì, va bene. Piuttosto, non è che mi sei ingrassato nella tua… fuga d’amore?” chiosò Tange, beccandosi, di rimando, un’occhiataccia di Joe. “Con tutta la fatica che abbiamo fatto per farti calare di peso, non vorrei che tu fossi ingrassato di nuovo!”

“Tranquillo, mi sono pesato proprio ieri in una farmacia: sono 71 chili e novecento grammi.”

“Ah, meno male. Ma che fai, esci? Sei appena tornato!”

“Torno subito. Però non ti escludo che oggi pomeriggio io possa ripartire di nuovo. Ma sarò a casa al massimo entro domattina, promesso. Intanto, eccoti qua la mia firma per il contratto e intanto chiama pure la Tele Kappa anche per me, per dire che accettiamo tutto.”

“Cosa intendi fare? Dov’è che te ne vai?”

Joe, già sulla soglia, si voltò verso Danpei.

“C’è prima una cosa che devo fare. Da quasi ventidue anni.” gli sussurrò.

°°°°°°°

Era sempre bello poterlo guardare da vicino.

Ultimamente era cresciuto ancora di qualche centimetro e le spalle gli si erano allargate. Il ragazzo era ormai diventato un giovane uomo molto attraente: i lineamenti suoi e quelli, piuttosto belli, di Kahori si erano riprodotti in lui in un modo assai felice. Nessun pugno avversario, per quanto forte, era ancora stato in grado di deturpare il viso di suo figlio.

“Kei.”

“Non mi chiamo così.” replicò Joe, un po’ secco.

“Te l’ho già detto: il tuo vero nome è Kei, non Joe.”

“Può darsi: ma è un nome che a me non dice nulla e non mi ci riconosco. Piuttosto: posso sedermi?”

“Ovvio: questa è casa tua.”

Joe non volle replicare a questa affermazione di Hiro e si limitò a sedersi su una poltrona. Da diversi giorni ci aveva riflettutto su come e se affrontare Nakamura, ed alla fine si era deciso ad andare direttamente a casa dell’uomo, ricordandosi ancora dell’indirizzo.

“Gradisci qualcosa da bere? Un sakè? Una birra?”

“Con l’alcool devo andarci piano, perché fa ingrassare. Preferirei del tè, se ne hai. Grazie.”

“Già…” Hiro si mise ad armeggiare con un thermos pieno di acqua bollente per preparare due tazze di tè. “Devi sempre fare attenzione con il peso, o ti ritroverai di nuovo nei guai. Sempre che tu non la smetta.”

“Che cosa intendi dire?” nicchiò Joe.

“Hai capito benissimo. Dovresti darci un taglio con il pugilato.”

“Non sono venuto qui per parlare di questo.” dichiarò il ragazzo, sforzandosi di rimanere calmo e di non innervosirsi. “Tempo fa mi accennasti ad una cosa, e vorrei parlarne con te… se non ti dispiace.”

In silenzio, Hiro finì di preparare l’infuso, per poi porgere una tazza a Joe.

“Dimmi.” gli sussurrò, con dolcezza.

Joe prese la tazza con tutte e due le mani ed alzò gli occhi per guardare in viso suo padre, ancora in piedi davanti a lui.

“Parlami di lei.”

°°°°°°

“Mi chiedi di tua madre, Kei?

Perché è così che dovresti chiamarla: mamma. Non ‘lei’.

Ma non è colpa tua. Non hai mai potuto pronunziarla in vita tua, quella parola. Le tue labbra di bambino non hanno sillabato quel nome… del resto, a chi avresti dovuto
indirizzarlo, quel dolce epiteto? A qualche arcigna insegnante dell’orfanotrofio?

Sì, figlio mio: ora ti parlerò di tua madre.

Ti dirò di quanto fosse bella.


E testarda.

Amava il colore blu e detestava mangiare la zuppa di miso.


Studiava con impegno lo shamisen** per diventare una brava geisha, anche se ascoltava di nascosto i dischi di Louis Armstrong.

Per renderla davvero felice, bastava regalarle un cucciolo: un giorno le portai un coniglietto nano, tutto bianco con una macchia nera su un occhio e lei se lo strinse subito al petto, infilandoselo nello scollo del kimono ‘per tenerlo al caldo’.


Questa era Kahori Abe, tua madre.

E non c’era nulla che non avrebbe fatto per te, per il suo Kei-chan…

Persino ora, che riposa a Niigata, farebbe qualsiasi cosa. Solo per te.”


°°°°°°

Joe aveva ascoltato, in silenzio, il lungo racconto di Nakamura.

Come questi avesse conosciuto sua madre, i loro giorni più felici. I litigi e le riappacificazioni. Lo sconcerto di Kahori, appena diciottenne ed ancora solo una maiko, nello scoprirsi incinta e nel doverglielo rivelare. La gioia che le irradiò il viso quando si attaccò al seno il loro bambino per la prima volta. L’ira della giovane quando conobbe la verità sulla sua …”professione”. La fuga assurda di Kahori da Kyoto, insieme al piccolo. E, soprattutto, la disperazione di un uomo che nel giro di poche ore si era visto cadere a pezzi il proprio mondo, perdendo tutto: Kahori morta, il figlioletto di pochi mesi sparito chissà dove. Per più di vent’anni, però, Nakamura non aveva voluto arrendersi, cercando il suo Kei per tutto il Giappone. Poi un giorno aveva posato, per puro caso, lo sguardo sull’articolo di un quotidiano sportivo che parlava di una nuova promessa della boxe giapponese.

“Il resto lo sai.” concluse.

Joe teneva ancora tra le dita il biglietto di addio di Kahori, dai caratteri mezzi cancellati dal tempo e da antiche lacrime, che Hiro gli aveva dato da leggere, perché aveva voluto essere assolutamente sincero con lui, senza omettere nulla del suo doloroso passato.

“Com’era… fisicamente, intendo.” Joe non aveva quasi finito la frase, che si ritrovò tra le mani, oltre al biglietto, anche una piccola fotografia in bianco e nero. Ammirò il ritratto, a mezzo busto, di una giovane donna incantevole, dal puro viso ovale e dallo sguardo profondo. “Era bellissima.” mormorò. Fino a pochi secondi prima non sapeva neppure che aspetto avesse avuto, sua madre. L’unica cosa che riusciva a ricordare era il suo profumo: lo stesso dei capelli di Yoko. “Portami a Niigata.” disse poi, asciutto.

Hiro annuì, andando a prendere da uno scrittoio le chiavi della sua Porsche.

°°°°°

Quando arrivarono al cimitero di Niigata erano quasi le sei di sera, avendo trovato l’autostrada parecchio trafficata.

Per tutto il viaggio, padre e figlio parlarono assai poco, facendo cadere spesso la conversazione. Soprattutto quando Hiro provò di nuovo a toccare l’argomento “boxe”, si ritrovò, suo malgrado, a fare un monologo, dato che Joe si era chiuso in un cupo silenzio, ostinandosi a guardare fuori dal finestrino.

Kahori riposava in un piccolo cimitero sulla collina, da cui si stendeva un bellissimo paesaggio. Dal mare giungevano profumi freschi e salmastri, mentre la luce del sole stava lentamente morendo, per affidare la città al vespro.

“Eccola.”

Lo yakuza si fermò davanti ad una lapide candida, ove erano incisi due nomi: quello di Kahori Abe e quello di Hiro Nakamura, quest’ultimo in rosso, dato che Hiro si considerava, a tutti gli effetti, il suo sposo***.

Joe gli fece notare i fiori freschi, un mazzo di lillà, legati con un fiocco rosso e disposti in un vasetto.

Suo padre gli spiegò: “Da più di vent’anni pago il custode del cimitero perché tenga pulita la sua lapide e vi deponga ogni settimana un mazzo di fiori. Soprattutto di lillà, quando sono di stagione: erano i suoi fiori preferiti.” Chinandosi leggermente, estrasse dal pastrano una bottiglietta d’acqua, per versarla sulla lapide. Porse al figlio un accendino, per fargli accendere i bastoncini di incenso che aveva comprato poco prima, all’ingresso del cimitero.

Con le mani che gli tremavano leggermente, Joe bruciò l’estremità dei bastoncini, per poi posarli con delicatezza nell’apposita conchetta, posta alla base della piccola lapide.

E, per la prima volta in vita sua, si concesse il lusso di provare pena per se stesso.

______________________________

Spigolature dell’Autrice:


*v. capitolo XVII “Blu come il mare”

**Lo Shamisen (三味線) è uno strumento musicale giapponese a tre corde, della famiglia dei liuti, utilizzato per l'accompagnamento durante le rappresentazioni del teatro Kabuki. Deriva dal san xian cinese e cominciò a diffondersi in Giappone nel periodo Muromachi (tra il XV ed il XVI secolo d.C.).

(fonte: Wikipedia)

Ecco qui, a tal proposito, una bella immagine d’epoca:

geisha-con-shamisen
(This image is from a google search, no copyright infringement intended)

***La tipica tomba giapponese consiste, nella maggior parte dei casi, in una tomba di famiglia (come spesso succede pure da noi: mia suocera riposa, infatti, in una tomba di famiglia). Consiste in una lapide di pietra molto semplice e sobria, con un posto per i fiori, uno per l'incenso, ed uno per l’acqua, con una piccola cripta sottostante per le ceneri (in Giappone si usa la cremazione). Il nome del defunto è spesso inciso sulla parte frontale della tomba. Quando una persona sposata muore prima del suo coniuge, il nome del coniuge viene talvolta inciso anch’esso sulla pietra, ma con le lettere dipinte di rosso. Dopo la morte e la sepoltura pure del coniuge, l’inchiostro rosso viene rimosso dalla pietra.

(fonte: http://www.marcotogni.it/funerale-giappone/)

Sono felice di mostrarvi la bellissima fanart che mi ha regalato DivergenteTrasversale

Joe-fatto-da-Monica

C’è amore in questo ritratto di Joe e si vede! Grazie, amica mia carissima!
 
§§§§§§


Sì, lo so: vi avevo promesso le Hawaii, per questo capitolo. Ma le Muse e le esigenze narrative hanno i loro dettami, cui mi sottometto volentieri. Vi prego di scusarmi e… aloha, ci vediamo al prossimo capitolo!

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Capitolo XXIII - Nuovi orizzonti - Hawaii parte prima ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Quartiere di Ginza, presso gli uffici di Tele Kappa. 

“Allora, Shiraki-sama? Cosa ne pensa?” le chiese Iwao Fujita in tono leggermente ansioso.

Era da tempo che ci pensava ad un progetto comune con la bella ed astuta presidentessa dello SBC, ovvero quello di far crescere la boxe giapponese e di renderla il più internazionale possibile: Yoko Shiraki, con il suo fiuto per gli affari e con la sua padronanza delle lingue straniere, in tale frangente sarebbe stata una risorsa molto preziosa, senza contare le sue indubbie capacità di talent scout nel pugilato giovanile, già dimostrate ampiamente con Tooru Rikishi e con Carlos Rivera.

Quanto a Yoko, il contratto di joint venture* propostole dalla Tele Kappa era un boccone assai allettante, che le avrebbe portato nuove occasioni di affari, in Giappone e non solo. Dopo averlo letto con calma, la giovane si prese il tempo di zuccherare il proprio caffè, prima di rispondergli. “In linea di massima mi pare che sia perfetto. Però vorrei parlarne con i miei legali prima, se non le dispiace: ci sono un paio di clausole che non mi convincono del tutto. Posso portarmi via la bozza contrattuale?”

“Ma certo, faccia con comodo! Si prenda tutto il tempo che le serve! Piuttosto,” continuò Fujita, con fare suadente, “cosa mi dice di Mendoza? Ha avuto più contatti dal suo procuratore?”

“Sì, mi ha scritto l’altro ieri. Sarebbero interessati ad un contratto di collaborazione con il mio club: nulla di definito, ancora, per valutarne o meno l’opportunità. Vedremo.” dichiarò Yoko, asciutta, sorseggiando il caffè bollente.

“Sarebbe magnifico! In questo modo apriremmo gli orizzonti giapponesi alla boxe internazionale, con Mendoza come tedoforo!”

In realtà, Yoko stava già contrattando con i procuratori di Mendoza da diversi giorni e, per poterlo incontrare di persona, era anzi in procinto di partire anche lei per le Hawaii, ove il campione del mondo avrebbe disputato, di lì a pochi giorni, un match contro Sam Iaukea: solo che, non avendo ancora definito la joint venture con la Tele Kappa, preferiva mantenere la riservatezza su alcune questioni. Quello che le stava veramente a cuore era spianare il più possibile a Joe le transazioni per un match da tenersi in Giappone, sotto l’ala protettrice dello SBC. Sapeva quanto fosse importante per Joe misurarsi con Mendoza: ma voleva che ciò accadesse per lui nel modo più cautelativo possibile, e che non partisse svantaggiato sul piano contrattuale, essendo ora, sì, un campione, ma pur sempre il pupillo di una minuscola palestra di legno messa su sotto ad un ponte.

Non avrebbe detto nulla a Joe, per il momento: anzi, voleva proprio fargli una romantica sorpresa, una volta che pure il giovane fosse giunto ad Honolulu, per tenere il suo incontro con Pinan Sarawaku.

°°°°°

Un pomeriggio, alla vigilia della partenza per Honolulu.


Erano passati ormai diversi giorni dalla sua visita al cimitero di Niigata e Joe ne aveva parlato a Danpei, anche se un po’ sommariamente.

Il coach non aveva ritenuto, comunque, di indagare troppo a fondo: comprendeva benissimo che il ragazzo avesse bisogno di instaurare un rapporto affettivo con suo padre e che dovesse scoprire le sue radici, passando del tempo insieme a lui. E capiva anche che certi mondi interiori è sempre meglio tenerli per noi stessi, senza eccessive confidenze.

La cosa importante, in fin dei conti, era che Joe fosse sereno, in buona salute e che continuasse ad allenarsi con scrupolo. Il buon vecchio pensava a tutte queste cose, abbaiandogli contro, mentre gli faceva da sparring partner. “Così non va! Pinan è ancora più spilungone di Kim, se possibile, e con degli arti così lunghi ti terrà a distanza! Le sventole, Joe, le sventole! Perfezionale! E poi vedi di sfondare la difesa con una serie di jab e di diretti, per arrivargli vicino e lavorartelo di montante! Capito?”

Negli ultimi giorni, Joe e Tange avevano dovuto allenarsi in presenza dei giornalisti sportivi, avidi di notizie sul prossimo incontro alle Hawaii per disputare il titolo di campione del Pacifico, mettendo in palio quello tanto faticosamente sudato e guadagnato contro Ryuhi Kim. Di solito Joe si limitava a rispondere a monosillabi alle loro domande, non amando per nulla le intromissioni della stampa nella sua carriera sportiva, pur capendo di dover fare, per forza di cose, buon viso a cattivo gioco: anche e soprattutto per questo motivo, aveva sempre somma cura di non far trapelare nulla del suo rapporto con Yoko, evitando di nominarla, anche di sfuggita, onde evitare di alimentare la morbosa curiosità dei giornalisti.

Joe l’amava troppo per darla in pasto agli scoop scandalistici, che di sicuro avrebbero impietosamente satireggiato sull’enorme disparità sociale esistente tra loro.

Anche in quel pomeriggio di primavera la piccola palestra era gremita di gente, risuonando di più voci e venendo folgorata dai numerosi flash delle macchine fotografiche: si immortalava il giovane pugile in pose plastiche, cosa che lo divertiva e lo annoiava ad un tempo. Ogni tanto, per alleggerire l’atmosfera, Joe omaggiava i cronisti di boccacce e di posture buffe, attirandosi le reprimende di Danpei (“E piantala di fare lo scemo! Joe! Un po’ di contegno!”) e le risate degli ospiti.

Questo finché un reporter non se ne venne fuori con un’esternazione poco felice.

“Yabuki-san, sa già come gestire la cosa con Mendoza, alle Hawaii?”

“Cosa intende dire?” sbottò Joe, trapassando il cronista con lo sguardo e saltando giù dal ring per andargli incontro.

“Come, non lo sa? Pure Mendoza terrà un match a Honolulu… contro Sam Iaukea: è una giovane promessa della boxe hawaiana. L’incontro si terrà esattamente tre giorni prima del Suo.” farfugliò il poveretto mentre arretrava, temendo di aver fatto irritare il campione asiatico.

“Vecchio, tu ne sapevi nulla?” chiese Joe, in tono già più pacato.

“Francamente, non mi ricordo, forse sì... mi sarà passato di mente. E comunque penso che questa sia una gran bella notizia: potremo assistere in diretta ad un suo incontro, capiscimi! Lo studieremo, pugno dopo pugno, eheheheheh!” dichiarò Tange, sfregandosi le mani, tutto soddisfatto.

“Uhm. Bene, signori… se ora non vi dispiace, vorrei finire da solo i miei allenamenti. In queste ultime interviste credo di avervi già detto tutto quanto vi possa interessare. Vi prego di uscire e buona serata.” concluse Joe, voltando loro le spalle e rifugiandosi in cucina, per bere in santa pace un po’ d’acqua.

Nonostante le loro proteste, un po’ ringraziandoli, un po’ spintonandoli, Tange riuscì a scaraventarli fuori dalla palestra.

“Sai una cosa?” cominciò Joe, una volta rimasti finalmente da soli. “Mi sa che alle Hawaii restituirò a Josè la sua visita di cortesia di qualche tempo fa… Per favore, cerca di scoprire in quale cavolo di palestra o club di Honolulu intende allenarsi, così potrò portargli i cioccolatini.” dichiarò sorridendo.

“Cosa vuoi combinare? Ti prego, non fare cazzate!”

“Tranquillo. Te l’ho detto: voglio solo fargli una visitina, proprio come l’ha fatta a me. Niente di più e niente di meno.”

Danpei ruotò in alto l’unico occhio rimastogli: il sorrisetto beffardo di Joe non prometteva nulla di buono!

°°°°°°°

Finalmente arrivò il giorno della partenza: all’aeroporto di Narita c’era l’intero quartiere e quasi per un pelo Joe e Tange riuscirono ad imbarcarsi, correndo a perdifiato, per non perdere il loro volo… solo dopo aver promesso agli amici di portare a tutti loro tanti ricordini hawaiani. La piccola Saki si staccò dal collo di Joe solo dopo che questi non si fu solennemente impegnato con lei di portarle come souvenir una bella bambola col tipico costume hawaiano.

Tange era eccitato come un bambino: quella era la prima volta per lui che lasciava il Giappone e che saliva su un aereo e, sin dal decollo e per tutte le ore del viaggio, fece letteralmente impazzire le pazienti hostess, tempestando le tapine di osservazioni e di domande, alcune talmente astruse che Joe si sentì sprofondare dalla vergogna, calcando il berretto fino al naso e fingendo di non udirle, certe amenità…

“Mi scusi, questo aereo quante volte è caduto?” “Signorina, il cielo fuori è immobile: allora siamo fermi!” “Non è che tenete un frigorifero, qua sopra?” “Le ali non si spezzano, vero?” “Posso slacciarmi le cinture? Devo andare al gabinetto…”

Ma il non plus ultra delle figuracce fu quando, una volta finalmente sbarcati all’aeroporto di Honolulu, Tange, un po’ brillo per i troppi cocktails scroccati indecorosamente con il lauto fondo spese foraggiato loro dalla Tele Kappa, pensò bene di perdere l’equilibrio e di ruzzolare giù per quasi tutta la scaletta, inaugurando così il suo arrivo sul suolo hawaiano non in punta di piedi, ma battendoci sopra con il proprio - assai dolorante - deretano. Ma si consolò ben presto quando ricevette il benvenuto da una graziosa cittadina hawaiana, vestita di un lungo muumuu*** a fiori colorati, che gli regalò una profumata ghirlanda, scoccandogli due bacioni sulle gote ed accogliendolo con un sonoro “Aloha!

“Ben arrivati!”

L’ennesimo saluto venne poi loro rivolto da Chomei Gotou, un solerte incaricato della Tele Kappa, che era giunto alle Hawaii alcuni giorni prima per predisporre alla perfezione il loro soggiorno e per far loro da chaperon, una volta giunti a destinazione. Li condusse al taxi prenotato, in modo da condurli al loro albergo, così che potessero riposarsi un po’.

I due uomini si guardarono intorno incuriositi, non appena usciti dall’aeroporto: il loro taxi percorse le strade principali di Honolulu, una città sfolgorante di luci e colori, dagli immensi grattacieli e dalle auto nuove fiammanti. Ma la cosa che li colpì molto fu il verde: esso era ovunque, lucente e smeraldino negli alberi e nelle palme sottili. E poi fiori: fiori dappertutto, con fragranti corolle colorate, che occhieggiavano dalle aiuole, dalle siepi ben curate, dai vasi sui davanzali delle case, dalle chiome delle ragazze più belle. Gotou indicò loro la bellissima Waikiki Beach, che incastonava un mare dal blu profondo e vellutato. Ma Joe lo ascoltava a malapena. Non era volato fino alle Hawaii per fare il turista, ma per disputare un incontro di boxe. E, chissà, magari pure per… “scambiare due chiacchiere” con Mr. Mendoza.

“Senti, Danpei, non è che per caso avresti scoperto dove si allena il campione?”

“Cos’è, vuoi andare a spiare Pinan prima dell’incontro?” brontolò Tange, facendosi aria con il cappello e lamentandosi per il caldo.

“Ma che Pinan e Pinan… non fare il finto tonto! Io parlo di Josè Mendoza!”

“Se posso permettermi...” esordì Gotou, “io so dove si sta allenando il campione mondiale, in questi giorni. Se volete, posso condurvi più tardi alla palestra che lo ospita, dopo che vi sarete riposati in hotel.” propose.

“Non dopo, ma adesso. Grazie.”

Vedendo però i segni di stanchezza sul viso del suo coach, Joe si arrese a farlo prima accompagnare in albergo, con armi e bagagli; poi, rimasto finalmente solo, si fece portare all’indirizzo datogli da Chomei. Si giunse all’entrata di una bella palestra in un quartiere pieno di locali e di ristoranti, proprio nel pieno centro della città. Joe quasi non aspettò che l’auto finisse le manovre di parcheggio che balzò fuori, per raggiungere, a grandi passi, l’entrata dell’edificio. La palestra era grande, moderna ed attrezzatissima, all’altezza dello SBC di Yoko: Joe osservò decine di pugili, di varie categorie di peso, intenti ad allenarsi, chi da solo, chi con lo sparring partner. Curiosò un po’ intorno, girellando con le mani in tasca e, a colpo d’occhio, poté constatare che Josè Mendoza, al momento, non era presente. Mentre contemplava trofei e cinture riposte in bella mostra in teche di vetro, si sentì afferrare saldamente ad una spalla.

“Tu chi cavolo sei?”

Joe sorrise tra sé sé: gli parve un déjà vu, dato che, tempo addietro, un buttafuori simile, nella figura e nell’atteggiamento, lo aveva apostrofato in pari modo, nella palestra della sua Yoko: in quell’occasione, si era misurato sul ring, per la prima volta, con il Re senza Corona. Carlos Rivera. Il pensiero dell’amico, scomparso chissà dove, lo fece rabbuiare di colpo.

“Sono Joe Yabuki e vengo da Tokyo. Sono venuto qui a trovare Mr. Mendoza. Può dirmi a che ora torna? Mi farebbe un favore!” gli rispose Joe, in inglese.

“Cosa blateri, bamboccio? Io non ti dico un bel niente e tu ora sparisci!” Il gorilla ebbe la pessima idea di afferrare Joe per una spalla, strattonandolo.

“Non. Mi. Toccare.”

Dato che il bestione non ebbe il buon senso di mollare la presa, ci guadagnò un poderoso gancio allo stomaco dall’inatteso ospite, cosa che lo fece accasciare a terra, piegato in due dal dolore. L’incidente non passò inosservato: alcuni pugili si pararono davanti a Joe, in posizione di difesa e con un’espressione assai poco conciliante.

“Ehi ehi, calma, ragazzi…glielo avevo detto al gorillone di togliermi le mani di dosso: mi sono solo difeso! Non sono qui per rompere le scatole ma solo per dare un salutino a Mr. Mendoza! Tutto qui.” provò a rabbonirli Joe, alzando le mani in segno di resa: essi erano davvero troppi anche per lui e, in caso di rissa, se la sarebbe vista brutta.

Per sua fortuna si fece avanti un anziano allenatore che, dopo averlo osservato con attenzione ed averlo così riconosciuto come il campione asiatico dei pesi medi, decise di calmare le acque. “Benvenuto Mr. Yabuki, siamo lieti di averLa nella nostra palestra. Purtroppo il campione ha già finito per oggi i suoi allenamenti ed è tornato in hotel. Lo troverà qui domattina. Gli farò sapere che è passato a salutarlo, non dubiti.” gli disse, in tono affabile.”

“Meno male, una persona civile. Grazie per l’informazione, cercherò di tornare domani.” Voltatosi, aveva già sollevato la mano accennandogli un saluto, quando, fatti alcuni passi, Joe si fermò di botto, nuovamente. “Scusi un momento… può venire qui, per favore?” gli chiese.

L’allenatore ritornò sui suoi passi, raggiungendolo. “Mi dica.”

“Cosa… cosa vuol dire questo?” sbottò il ragazzo, in tono acido, additando un vecchio manifesto pubblicitario affisso alla parete, ritraente il match tenuto da Josè Mendoza contro Carlos Rivera alcuni mesi prima. Più osservava il poster, più sentiva una sorda rabbia montare dentro di sé, alimentandola. “Come si permette di tenere qui questa locandina? Carlo Rivera ora è un invalido mentale ed è finito chissà dove! È un povero derelitto, ed io non ammetto questa mancanza di rispetto nei suoi confronti!”

“La prego si calmi… non credo che Mr. Mendoza volesse mancare di rispetto al Suo amico…”

“No, che non mi calmo. Questa volta non la passa liscia! Dica al campione che questo comportamento antisportivo gli si ritorcerà contro e che lo aspetto al varco!” urlò, furibondo. Il suo corpo scattò in avanti scaricando tutto il peso sul braccio, che, come una freccia scoccata dall’arco, fece conficcare un poderoso gancio sul manifesto affisso.

I segni delle nocche rimasero, così, impressi sulla foto del viso di Josè.

______________________________

Spigolature dell’Autrice:


*Una joint venture (“società mista”) è un accordo di collaborazione tra due o più imprese, giuridicamente indipendente dalle imprese stesse che lo costituiscono. Con tale accordo ci si pone l’obiettivo della realizzazione di un progetto comune di natura industriale o commerciale, con l’impiego di diversi know how e di capitali. Non conosco assolutamente la contrattualistica giapponese, per cui mi riallaccio ad uno schema contrattuale di portata pressoché internazionale come questo qua.

**Ricordo ai gentili Lettori che la sventola è un pugno che va a braccio teso dall’esterno all’interno (cfr. Capitolo VII).

***Muumuu: non ridete :-D ! Si chiama così il vestito tradizionale delle donne hawaiane! Ecco qui un grazioso modello, come esempio:

muumuu

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Capitolo XXIV - Fiori di frangipane - Hawaii parte seconda ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI


"Le Hawaii non sono uno stato mentale, ma uno stato di grazia*"


Honolulu, qualche ora dopo…

Per tutto il resto della giornata non era riuscito a toglierselo dalla mente: quello stramaledetto poster continuava a ballargli davanti agli occhi e Joe non riusciva a capacitarsi il motivo del comportamento irrispettoso e menefreghista di Mendoza, laddove questi era invece lodato universalmente come gentiluomo e come persona corretta. Ripassava mentalmente il breve discorsetto che intendeva fargli a tu per tu, non appena fosse riuscito ad incontrarlo.

Avrebbe voluto parlare con Yoko dell’intera faccenda, anche per chiederle di ricontattare nuovamente Harry Robert, per sapere se ci fossero delle novità su Carlos, ormai disperso da mesi: l’aveva sentita, per l’ultima volta, giusto la sera prima della partenza, dato che lo aveva contattato lei stessa da New York, ove Yoko, giorni addietro gli aveva detto, tra un bacio e l’altro, che sarebbe dovuta andare “per concludere un paio di affari per il club”, senz’altro specificare. Ma senza un recapito telefonico gli era impossibile rintracciarla, foss’anche solo per sentire la sua voce, che già gli mancava terribilmente…

Joe non poteva sapere che in realtà Yoko non si trovasse affatto a New York ma proprio alle Hawaii, per incontrarsi con Mendoza e con il suo staff: la ragazza aveva infatti organizzato tutto al meglio per fargli una romantica sorpresa, complice pure la splendida cornice esotica di Honolulu.

Dopo essersi concesso un paio di tuffi nella piscina dell’hotel mentre Tange si era recato alla hall per fare un paio di telefonate internazionali, si era quindi diretto, nel tardo pomeriggio, alla palestra ospite per sciogliere un po’ i muscoli e per esercitarsi nelle sventole, dato che si sarebbe misurato con Pinan Sarawaku solo di lì a cinque sere: alla fine, il suo incontro era slittato in avanti di un paio di giorni, dato che gli organizzatori hawaiani avevano insistito perché si tenesse prima il match di Josè Mendoza con Sam Iaukea, sicuramente di maggior richiamo per il pubblico.

Il Maui Boxing si trovava molto vicino al loro hotel: non era di certo grande come il Konaka Club, ove era ospitato Mendoza, ma era dignitoso ed efficiente, molto ben equipaggiato di tutte le più moderne attrezzature. Come Joe e il suo coach fecero il loro ingresso, vennero calorosamente accolti dal rubicondo direttore della palestra e da una mezza dozzina di nuove promesse della boxe hawaiana: Joe ebbe un sorriso di incoraggiamento per un paio di ragazzini che gli chiesero l’autografo e di posare insieme per delle foto-ricordo, cui si prestò volentieri. Poi si diresse allo spogliatoio per potersi cambiare.

Dopo aver preso gli ultimi accordi con `Eleu Maui per la scaletta di allenamento da seguire fino alla data del match di Joe, Danpei accarezzò con aria sognante le corde del ring nuovo smagliante, posto proprio al centro della palestra: ecco quale nuovo progetto ora gli stava a cuore, oltre al benessere di Joe. “Presto avremo anche noi una palestra così: piccola ma modernissima e dotata di tutto punto. Ho sentito poco fa al telefono il capo cantiere: mi ha detto che persino qualche abitante del quartiere va tutti i giorni a dare una mano ai muratori! Se continuano a questo ritmo, quando saremo tornati a casa avranno quasi finito!” disse, dando voce ai suoi pensieri e con gli occhi umidi, osservando Joe che si stava allacciando il caschetto protettivo.

“Ottimo. Solo che mi sa che almeno per i primi tempi io continuerò a dormire nella nostra vecchia baracca, come al solito.” precisò lui.

“Ma perché? Lo sai che al primo piano ci saranno i dormitori… dotati di cucina e di bellissime sale da bagno!” esclamò Tange, visibilmente perplesso. A volte faceva davvero fatica a capirlo, quel benedetto figliolo!

Saltando al di là delle corde con un agile balzo, Joe, sotto gli sguardi ammirati dei ragazzi della palestra, si concesse il lusso di impiegare qualche minuto a sciogliere i muscoli con il gioco di gambe e con un po’ di shadowboxing, prima di replicare a Danpei. “Semplice: quella baracca di legno tenuta su con quattro chiodi, rattoppata alla bell’e meglio e che si allaga quando piove, è la prima vera casa che ho avuto in vita mia. Nessuna potrà mai sostituirla.”

“Joe…” Tange gli si avvicinò, dandogli un buffetto sulla guancia. “Cominciamo, su, non siamo qui per cazzeggiare.” concluse in tono rude, per ricacciare indietro le lacrime dispettose. Abbaiò quindi un ordine ad un giovane peso medio per far sì che, finalmente, iniziasse l’allenamento in sparring partner.

°°°°°°

Nel frattempo, a Waikiki Beach…

“Ma come, Yoko, non ti metti al sole? Se te ne rimani sotto l’ombrellone non riuscirai mai ad abbronzarti…”

Shirley Mendoza, che si apprestava a raccogliere sul bagnasciuga delle conchiglie colorate insieme alla sua primogenita osservava un po’ perplessa la sua nuova amica, che era rimasta all’ombra seduta sul lettino insieme ai tre bimbi più piccini che le si erano stretti intorno, per sfogliare con loro un bel libro illustrato sui cavalli, dato che il piccolo Russell ne andava pazzo. La moglie del campione mondiale poteva già esibire una tintarella dorata che si accordava meravigliosamente al biondo della sua chioma ed al vezzoso bikini rosso, mentre il semplice costume intero nero indossato dalla signorina di Tokyo ne faceva risaltare la pelle madreperlacea.

Yoko sorrise dolcemente alla giovane americana. “Sai… da noi in Giappone le donne non amano molto abbronzarsi. Abbiamo un vecchio detto: ‘iro no shiroi wa shichinan kakusu’.”**

“Eh?” trasecolò Shirley sgranando gli occhioni verdi, non capendoci un’acca.

Yoko rise, seguita in coro dai bambini, che da subito avevano trovato simpatica e dolce quella ragazza così carina e sorridente, dalla voce musicale. “Hai ragione, scusa… in giapponese vuole dire: ‘la pelle bianca copre sette difetti’. Quindi è meglio se me ne rimango all’ombra!” scherzò.

“Sì certo, come se tu li avessi, i ‘sette difetti’… sciocchina!” replicò Shirley, scuotendo la testa e richiamando a gran voce la sua figliola che, zitta zitta, si era già un po’ troppo addentrata in acqua: meglio non scherzarci, con l’oceano!

Yoko respirò a pieni polmoni la brezza che veniva dal mare, così lieve e gentile che pareva volesse accarezzarla.

Sospirò di soddisfazione, distendendosi sul lettino e stiracchiandosi, senza però perdere mai di vista i tre bambini che si erano appena messi a giocare con le formine e la sabbia, mentre l’amica continuava nella sua ricerca di conchiglie insieme alla piccola Amber. Le trattative con il procuratore di Mendoza si erano felicemente concluse giusto il giorno prima, con un contratto blindato che avrebbe fatto gongolare di soddisfazione il buon vecchio Fujita-san, ed ora poteva finalmente godersi una meritata vacanza a Honolulu.

Waikiki Beach era la spiaggia più grande ed estesa che mai avesse potuto immaginare: un’enorme distesa di soffice sabbia roseo-dorata che si perdeva a vista d’occhio, snodandosi in lunghezza per chilometri e chilometri, costeggiata da slanciati palmeti e da cespugli di fiori di ibiscus dai mille colori. L’aroma salmastro dell’oceano era, a tratti, smorzato dal dolcissimo profumo dei fiori di frangipane, i cui numerosi arbusti facevano capolino un po’ ovunque. Yoko aveva raccolto un fiorellino roseo poco prima di scendere dall’hotel in spiaggia per raggiungere Shirley e i bambini, con cui aveva preso appuntamento: ne accarezzava in punta di dita i petali di velluto, ed ogni tanto lo portava alle nari, per aspirarne ad occhi chiusi l’intenso profumo fruttato.

Erano trascorsi solo pochi giorni dalla sua partenza da Tokyo, ma Joe le mancava già terribilmente.

Sorrise tra sé e sé, osservando il sole che, lentamente, moriva nel mare, alla morbida luce del vespro.

°°°°°°°

Non appena rientrò in camera sentì nell’aria un profumo delicato: si accorse che sul tavolo faceva bella mostra di sé un mazzolino di fiori bianchi e gialli. Pur non essendo particolarmente amante dei fiori, non resistette alla tentazione di aspirarne la dolcissima fragranza.

Aloha…” sentì sussurrare.

Joe si voltò, stupito: gli sembrava di vivere in uno stato di soffuso dormiveglia. I suoi occhi incontrarono quelli di Yoko che, avvolta in una lunga e semplice camicia da notte di raso blu scuro era appena uscita dalla sala dal bagno, avanzando lentamente verso di lui, i candidi piedi scalzi che spiccavano sul parquet color tanè. Senza dire nulla, Joe la sollevò leggermente tra le braccia, affondando il viso nel collo della giovane, per aspirarne il tenue profumo.

Aloha a te…” mormorò, la voce rotta dall’emozione che lo faceva tremare fino alle viscere.

Era sempre bello ritrovarsi, riconoscersi, ricongiungersi.

Ogni volta era come se fosse sempre la prima, unica e preziosa, irripetibile. I loro corpi conoscevano una saggezza tutta speciale e sapevano muoversi insieme come in una lenta, dolcissima danza. Era ancora più bello, poi, rimanersene teneramente allacciati, cuore su cuore, labbra su labbra, respiro su respiro, intrecciando le loro dita insieme, in un unico nodo... 

“E così… mi hai regalato questa bellissima sorpresa… eri qui invece che a New York. Ma come hai fatto ad entrare in camera mia? Hai chiesto la complicità di quel vecchio matto, vero?” chiosò Joe, con falso fare corrucciato e tenendola stretta a sé. Yoko si limitò a sorridere. “E meno male che starebbe sempre a predicarmi la… come la chiama lui? ‘Temperanza prima di un incontro, per non disperdere energie preziose’, per poi allearsi con te a mia insaputa?” scherzò, senza smettere di accarezzare i capelli di Yoko.

“Beh, il tuo match si terrà solo tra qualche giorno… abbiamo ancora un po’ di tempo: non credi?” Yoko gli catturò il labbro inferiore con le sue, mordicchiandolo delicatamente e dandogli lenti e lievi baci.

Joe non resistette: si arrese al dolce tepore del corpo di lei.

Ancora una volta…

°°°°°°°

Alle prime luci dell’alba, Joe si mosse leggermente nel letto, brontolando nel dormiveglia chissà cosa.

D’istinto, allungò il braccio per cercare il morbido corpo della sua donna, sentendo però solo il tenue tepore delle lenzuola, che emanavano un delicato sentore di camelia. Aperti gli occhi, seppur a fatica, vide che il letto era vuoto. “Yoko, accidenti…” farfugliò, tra il confuso e il deluso. Sbirciò la sveglia sul comodino, svegliandosi finalmente del tutto: “Porca miseria! Mendoza! A quest’ora sarà già in palestra ad allenarsi!”

Neanche mezzora dopo si era già catapultato fuori dall’albergo, con Tange che gli trotterellava alle calcagna. Al Konaka Club non si stupirono troppo di rivedere “quel matto di un muso giallo”, come lo avevano soprannominato, stavolta accompagnato dal suo trafelato coach.

“Buondì! Eccomi di ritorno!” salutò Joe, con un sorrisetto sottile “Mr. Mendoza…?”

Come il Mar Rosso si aprì per far passare Mosè col Popolo Eletto, ecco che tutti gli astanti della palestra si scostarono per far passare il loro illustre ospite.

Con passo tranquillo ed elastico, José Mendoza si parò davanti a Joe, sovrastandolo non solo con la sua statura ma anche con la sua innegabile aura di superiorità. Seppur in semplice tuta da ginnastica, il messicano sapeva essere elegante e signorile come nel più impeccabile degli smoking. Gli intensi occhi blu di Josè fissarono Joe, mentre le belle labbra del campione pronunziarono un pacato saluto.

“Ho saputo che mi ha cercato, Mr. Yabuki. Mi scuso se ieri non mi ha trovato, ma ero già andato via. Mi dica in cosa posso aiutarLa.” gli domandò, in un inglese dalla pronunzia perfetta.

Ora, se c’era una cosa che Joe non apprezzava molto era l’essere trattato in modo gentile ed educato, sì, ma freddo ed affettato: alle belle maniere usate per mera etichetta preferiva modi magari meno forbiti, ma almeno più schietti. E questo boxeur con modi da aristocratico lo faceva innervosire sempre più.

Parecchio di più.

“Innanzitutto, buongiorno. Mi scuso con Vostra Maestà per il disturbo,” esordì Joe, con fare sarcastico, cosa che fece inarcare il sopracciglio del suo interlocutore, che non gradì affatto, mentre il povero Tange diventava di tutti i colori dell’arcobaleno e desideroso solo di sprofondare “ma avevo urgenza di un chiarimento…”

“Mi dica.”

“La accontento subito.” bofonchiò Joe, allontanandosi di qualche agile passo. “Che cosa significa questo?” chiese, picchiettando leggermente sulla locandina oggetto della sua indignazione. Josè la osservò per qualche istante, per poi tornare a fissare il ragazzo giapponese tanto poco cordiale con lui.

“Sorry, ma non capisco la domanda.” osservò, in tono asciutto.

“Come sarebbe, che non capisce? È sordo, pazzo o semplicemente stupido?” replicò l’altro, più tagliente di un rasoio.

“Joe, ti prego… basta! Ora stai esagerando!” Tange cercò di trattenerlo a forza - mentre quell’altro si dibatteva imprecando a più non posso - dato che sapeva benissimo che la bomba stesse per brillare… conosceva sin troppo bene, quel mulo ostinato! “Mr. Mendoza, La prego, lo scusi! Non sa quello che dice, dev’essere il jet-boh o come cavolo si dice…!”

Nessuno degli astanti si mise a ridere per il buffo strafalcione di quel povero vecchio allenatore, sconvolto dal folle comportamento del proprio atleta.

C’era davvero assai poco, infatti, da riderci su.

Josè socchiuse gli occhi, come per meglio mettere a fuoco il suo focoso ospite, che pareva quasi avvolto in una luce rossastra, tanto era il livore che emanava. “Credo di aver inteso. Lei pensa che quel manifesto sia un mio dispetto nei confronti di Carlos Rivera, giusto?” domandò, con voce piana e cacciandosi le mani in tasca, come per smorzare l’atmosfera divenuta sin troppo mefitica con un atteggiamento assertivo.

“Ha detto bene: io penso che questo gesto sia antisportivo e da emeriti stronzi. Carlos adesso è un povero derelitto… ha perso la memoria e da mesi non se ne sa più nulla, da quando è scappato dalla clinica psichiatrica! Ed è ridotto così dopo il suo incontro con il campione del mondo!” urlò Joe, dopo essersi finalmente divincolato dalla morsa delle braccia di Tange per puntargli il dito contro e quasi sputandoglielo fuori, il tanto decantato titolo.

Mendoza però non lo fece. Non pensò, infatti, di replicare a sua volta che se il Re senza Corona era caduto sotto i suoi pugni dopo appena pochi secondi e già al primo round, ciò era stato dovuto ad un certo match di Capodanno tenutosi a Tokyo. Decise di evitare sterili ripicche: non era da lui, infatti, comportarsi in modo incivile. “Mi dispiace se Lei pensa questo: mi creda, non era mia intenzione creare simili problemi. Al mio arrivo in questa palestra feci poco caso a quella locandina” disse, additando alla stessa “che, in effetti è solo questo: la locandina di un vecchio incontro di boxe. Quanto a Mr. Rivera mi auguro che presto le cose si risolvano per lui nel modo migliore. Ed ora, se mi vuole scusare, vorrei poter continuare con il mio allenamento, dato che domani sera dovrei disputare un incontro. Buona giornata.” concluse girando sui tacchi, con un leggero cenno di saluto rivolto a Joe e a Danpei.

“Mendoza, aspetti! Aspetti un attimo, porca miseria, non ho ancora finito di parlare con Lei!”

Tutto accadde in una manciata di secondi. Joe si scagliò come una scheggia contro Mendoza per bloccarlo, ma non fece neppure in tempo ad afferrargli la spalla, che ricevette sulla gota destra un gancio talmente rapido da non aver neppure fatto in tempo a vederselo scattare contro, il braccio sinistro di Josè. Il soffitto divenne un tutt’uno con il pavimento della palestra.

Joe non fece neppure in tempo a sentire dolore: semplicemente, stramazzò a terra senza far rumore.

________________________________________

Spigolature dell’Autrice:


*Citazione di Paul Theroux.

**(色の白いは七難隠す) Paese che vai… usanza che trovi! In Giappone l’abbronzatura è out, per le donne giapponesi la pelle chiara è un pregio da preservare a tutti costi. Per questo anche nelle nostre città possiamo vedere, nei mesi caldi, deliziose turiste del Sol Levante armate di ombrellini a mo’ di parasole (come facevano le dame occidentali nell’Ottocento…). Il mercato della cosmesi giapponese fattura milioni di yen con i prodotti di bellezza cd. bihaku (“sbiancanti”), contenenti soprattutto gli alpha-idrossiacidi per il peeling della pelle. (Fonte Wikipedia)

Ecco qui per voi un assaggio di Honolulu:

fiore di ibiscus:
ibiscus

fiori di frangipane:
frangipane-fiore-NG2
Waikiki Beach:    
waikiki-beach

Ok: chi salta sull’aereo con me?


°°°°°°°°°

Ritroverete "L’Angolo del boxeur" al prossimo capitolo, con una duplice sfida pugilistica! Il sogno hawaiano continua!

Besos,

i.

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Capitolo XXV - Sfide incrociate - Hawaii parte terza ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Buio.

Voci in lontananza, sussurrate.

“Ecco… sta riaprendo gli occhi.”

“Piano, fate piano: non muovetegli la testa. Alziamogli le gambe, così il sangue arriva prima al cervello.”

“Joe
… Joe, mi senti? Ragazzo mio, mi farai venire un infarto!”

Mise a fuoco il viso di Danpei chino sul suo, l’espressione che da angosciata andava via via rasserenandosi. Al suo fianco, un anziano signore in camice bianco gli stava misurando le pulsazioni del polso, con aria assorta. “Vecchio… cos’è stato?” farfugliò, a fatica. Non riusciva quasi a muovere le labbra.

“Non parlare, resta giù. Lascia che il medico finisca di visitarti.”

Joe se ne rimase zitto, osservando il medico sportivo del Konaka Club che impartiva a Tange le ultime raccomandazioni. “Direi che per ora sia tutto a posto: occhio, naso e denti non hanno riportato danni, gli è andata di lusso, visto e considerato l’impatto di un pugno ricevuto a mani nude. Per oggi lo faccia riposare. Ecco qui del ghiaccio sintetico per il gonfiore e degli antidolorifici. Consiglio però una radiografia alla mandibola per maggior scrupolo. Non si sa mai.”

“Grazie e scusi tanto per il disturbo… e scusate tutti voi per l’incidente, sono desolato…” Tange non la smetteva di inchinarsi al presidente della palestra Konaka - visibilmente seccato per lo scandalo occorso alla sua palestra - agli allenatori ed ai pugili presenti: al suo solito, Joe non aveva lesinato uno spettacolo dovuto alla sua impulsività, di cui avevano tratto vantaggio i giornalisti sportivi, accorsi al luogo del “fattaccio” come le mosche sono attratte dal miele. Il giorno dopo, infatti, i quotidiani locali avrebbero ritratto in prima pagina la “carezza” di cui Joe era stato gentilmente omaggiato da Mr. Mendoza.

Joe si sfiorò, con cautela, la guancia: gli si stava già gonfiando ed era dura al tatto. Il dolore era inimmaginabile, gli stava trapanando il cervello ad ondate sempre più fitte e impietose: per sua fortuna avrebbe dovuto disputare il suo incontro solo di lì ad alcuni giorni, o anche il più lieve pugno ricevuto da Pinan Sarawaku lo avrebbe fatto impazzire.

Pugile e coach se ne ritornarono in albergo con la coda tra le gambe, dopo essere stati caldamente pregati da Mr. Konaka di “non farsi mai più rivedere da quelle parti”, cosa che provocò in Tange un ulteriore attacco di nervosi inchini. Per il resto della giornata, Joe se ne rimase quindi tappato in camera sua, a leccarsi le ferite. A tratti, si toccava la gota, quasi stupito di avercela ancora, una faccia…

Mai in vita sua aveva ricevuto un colpo così devastante: ed era anzi arcisicuro che Mendoza non avesse neppure scaricato sul suo viso tutta la forza di cui fosse capace, essendosi solo limitato a mostrargli il suo signorile “disappunto”… un po’ come quando si scaccia pigramente con il dorso della mano un insetto sin troppo fastidioso e assillante. Né Tooru, né Carlos lo avevano mai colpito in un modo così chirurgico e perforante, pur essendo stati dei pugili dalla potenza indiscutibile. Mendoza apparteneva davvero ad un’altra categoria. Joe non sapeva se detestarlo o ammirarlo: si sentiva combattuto da sentimenti contrastanti. Ammise con se stesso di aver forse esagerato con la sua insistenza nei confronti di Josè, riguardo all’infelice affissione della famigerata locandina: magari la colpa di ciò non era di Mendoza stesso ma solo degli organizzatori dei suoi incontri… Quell’uomo così riservato, silenzioso, misurato nelle parole e nei gesti doveva essere, per forza di cose, estraneo a certi atteggiamenti ignobili: ora Joe se ne rendeva pienamente conto. Mendoza era semplicemente troppo superiore, e rispetto a chiunque nel pugilato, per abbassarsi ad umiliare un antico avversario ormai sconfitto: questo Joe lo stava ora comprendendo appieno, dato che a mente fredda si riesce a ragionare meglio.

Un po’ imprecando, un po’ lamentandosi, si decise finalmente ad alzarsi dal letto, quando sentì bussare alla porta.

“Ecco… lo immaginavo. Hai saputo e adesso sei qui per farmi la ramanzina, giusto? Un po’ come ai vecchi tempi del riformatorio…” brontolò lui.

Yoko lo ascoltò, seria, sfiorandogli la gota gonfia e nerastra con la punta delle dita. Joe si permise il lusso di osservarla per qualche secondo, prima di scostarsi per lasciarla entrare. Yoko faceva riposare lo sguardo, così vestita di un pallido celeste. E poi… solo lei sapeva toccarlo senza procurargli nessun dolore.

“Perché, servirebbe forse a qualcosa? Farti la ‘ramanzina’, intendo.” fece notare lei, con tono pacato.

Con un unico gesto fluido sciolse i capelli dal foulard di seta con cui li aveva avvolti e protetti, essendo arrivata in cabriolet, facendo così emanare tutto d’intorno un fresco sentore di acqua di colonia. Si sedette compostamente sul bordo del letto e aprì le braccia, per invitare Joe a raggiungerla.

°°°°°°

La sera dopo, al Palazzetto dello Sport in centro città…


“Signore e signori, ho l’onore di presentarvi questo straordinario incontro!” iniziò lo speaker, elegantemente vestito in smoking estivo “All’angolo rosso, eccolo disputare per la quindicesima volta il suo titolo il campione dei campioni, il finora imbattuto…Mr. Josè Mendoza!”

Scoppiarono roboanti applausi: il pubblico era in delirio come alla vista di una star del cinema o della musica internazionale: sul ring piovvero mazzi di rose dai fan impazziti dalla gioia di poter finalmente ammirare da vicino il loro idolo indiscusso. Complimenti, auguri e tifo entusiasti vennero pronunciati in varie lingue, poiché oltre che dagli Hawaiani la folla degli spettatori era composta anche da moltissimi turisti appassionati di boxe di tutto il mondo. Non mancavano neppure le numerose ammiratrici della maschia bellezza del messicano.

“Sei il migliore, il migliore!”

“Vai Josèèèèèè!!!”

“Vinci, Mendoza, facci impazzire!”

“Sei bellissimo!”


“Accidenti quanto la fanno lunga” bofonchiò Joe, tappandosi le orecchie all’ennesimo scoppio di voci, dato che pure il campione locale Sam Iaukea, nientemeno che il terzo nella classifica internazionale, fu omaggiato di un tifo assordante.

“Eh, d’altronde stasera Mendoza mette in palio il suo titolo: questo casino è il meno che ci si possa aspettare. Porta pazienza, su, adesso inizia il match.” osservò Tange, quietamente. “Facciamo bene attenzione a quale pugno di Iaukea Josè possa essere sensibile: ci sarà senz’altro utile.”

“Di certo, IO sono stato sensibile ad uno dei suoi.” chiosò Joe, sarcastico.

“Umpf, e la colpa di chi sarebbe? Taci, vah, che è meglio e guarda!” borbottò Tange.

Joe masticò tra sé e sé un paio di imprecazioni, per poi scorrere con lo sguardo le prime file degli spettatori alla ricerca della sua Yoko. Fedeli come sempre al loro patto di gestire il legame che li univa in totale riservatezza, in pubblico continuavano ad evitare con cura di farsi vedere insieme, incontri di boxe compresi. La individuò seduta in prima fila, accanto ad una bella signora dai boccoli biondi che poco prima era stata presentata dallo speaker nientemeno che come Mrs. Mendoza. Le due donne, già a vedersi da lontano, rappresentavano due mondi diametralmente opposti: eppure, sapevano godere l’una della compagnia dell’altra, chiacchierando amabilmente tra loro.

Un po’ come me e Carlos…” rifletté Joe. Il suo pensiero andava sempre all’amico sfortunato, una volta di più.

Dopo le presentazioni e i preparativi, finalmente scoccò il gong della prima ripresa. I due sfidanti serrarono la difesa, studiandosi a vicenda per qualche secondo. Il primo a scattare in avanti fu Iaukea, bramoso di conquistarsi il titolo a tutti i costi: già durante i convenevoli di rito lo si era visto scalpitare impaziente, come un cavallo che morde il freno. Il suo viso, dai tratti eminentemente hawaiani, era percorso da un lieve tremito, dovuto all’eccitazione. Cominciò con una rapidissima combinazione di jab e di diretti destri, come per “saggiare” Josè, il quale si limitò ad un lieve rolling, in totale imperturbabilità. Sembrava quasi che nulla lo toccasse direttamente, e che fosse su quel ring giusto per passare il tempo. La pacata indifferenza di Mendoza non poté che far innervosire ulteriormente il suo sfidante, che cercò di colpirlo al viso con una sventola: il pugno, tuttavia, andò a vuoto, cosa che lo fece sbilanciare e finire alle corde. Josè non si mosse: rimase ad attenderlo all’esterno, senza pensare minimanente di avvantaggiarsi della posizione assunta da Iaukea.

“Vamos, muchacho” lo incitò.

Irritato dall’aplomb ostentato dal campione, Iaukea imprecò nel suo dialetto, facendoglisi nuovamente incontro, e riuscendo a colpirlo al volto con un poderoso gancio sinistro. Seguì tutta una serie di diretti e di ganci al corpo e al viso, che Josè subì passivamente, senza fare una piega.

“Accidenti… oltre che essere uno stilista puro, sa pure incassare molto bene!” osservò Tange, ammirato.

Joe taceva, il mento tra le mani.

“Il momento sta per arrivare. È solo una questione di secondi.” pensò.

Intanto, sul ring, la sequenza di colpi a Josè pareva non finire più. Yoko si voltò a guardare Shirley, con espressione preoccupata: l’americana le rispose con un sorriso sereno, intuendo il muto messaggio dell’amica. “Tranquilla: lui sa quello che fa. Sempre. E poi ci ho fatto l'abitudine, ormai.”

“Ti ammiro… io non so se riuscirei a rimanere così tranquilla.” mormorò Yoko. No: non avrebbe mai smesso di stare in ansia, tutte le volte che avesse visto Joe sul ring. Non le sarebbe passata, la maledetta ansia. Mai.

In tutta risposta, Shirley le strinse la mano, con sincero trasporto.

“¡Hey, hombre, ahora es mi turno!” sibilò il campione, con un sorrisetto.

Iaukea non fece neppure in tempo a tradurre mentalmente le parole di Josè, che questi gli sferrò un gancio ed un diretto al volto: dopodiché si voltò per recarsi al suo angolo.

“Mr. Mendoza, non lasci il match!” lo ammonì l’arbitro.

“L’incontro è finito.” gli replicò l’altro, in inglese, additandogli col mento Iaukea che crollava al tappeto con un secco tonfo. La conta non fu necessaria.

Il pubblico esplose, in delirio. Joe balzò in piedi, esultante: una luce selvaggia gli bruciava negli occhi scuri. “Ti attendo su quel fottuto ring, Josè… presto o tardi…”

Due pugni: un gancio e un diretto. Due soli pugni avevano distrutto un promettente ragazzone dalle spalle taurine. E così, per la quindicesima volta, Josè Mendoza era ridisceso dal ring con la sua smagliante cintura da titolato del mondo.

°°°°°°°°

In una calda ed afosa serata di Honolulu…

Finalmente arrivò anche la data dell’incontro di Joe contro Pinan. Gli organizzatori delle confederazioni pugilistiche avevano pensato di far allestire il ring in un teatro all’aperto: al centro della scena, quindi, in luogo dei consueti drammi teatrali e di concerti di musica sinfonica, si sarebbe svolto un ben diverso spettacolo.

Uno spettacolo che, a volte, porta la morte sulla scena, e non per finta.

Il mare non era lontano: la brezza serotina portava con sé profumi salmastri, mentre le luci della città si accendevano, in attesa della notte.

Come sempre, Yoko era arrivata un po’ in anticipo, per prepararsi, mentalmente ed emotivamente, all’ennesima prova di Joe. Neppure stavolta era sola, però: Shirley e Josè erano seduti al suo fianco. Lo speaker fu lietissimo di presentare al pubblico l’illustre ospite, che aveva accolto volentieri l’invito ad assistere al match della serata con in palio ben due titoli: quello asiatico, difeso da Yabuki, e quello del Pacifico, difeso da Sarawaku. Arrivarono i due pugili, accompagnati dai reciproci staff: oltre che da Danpei, infatti, Joe godette del supporto di un preparatore atletico e di un secondo resisi diponibili dal Maui Boxing.

Il pubblico li accolse entusiasta e curioso di vedere in azione il giovane di Tokyo che giorni addietro era già finito al tappeto… però fuori dal ring. Oltre agli applausi non mancarono quindi i fischi di dileggio, all’indirizzo di Joe.

“Ehi, jap! Ti duole il faccino?”

“Passata la bua? Ahahahahah!”

“Ce la fai stasera a difendere il titolo? Mi sa di no!”


Joe sorrise, sarcastico, limitandosi a dare un’occhiata fuggevole al suo avversario, appena salito sul ring. “Cavoli, ma quanto è lungo costui?!” notò, alludendo all’altissima statura di Sarawaku “Ma è un pugile o un cestista? Bah…”

“Eh, te lo avevo detto che è molto alto, anche più di Kim… per questo ti raccomandavo di perfezionarti nelle sventole!” andava brontolando Tange, mentre finiva di massaggiargli le spalle.

Nel frattempo, Josè Mendoza, invitato dal presentatore a salire sul ring, si recò subito dal più titolato, per augurargli buona fortuna. Offrì a Joe la sua mano, in segno di pace e di rispetto. Joe fissò gli intensi occhi neri in quelli blu mare del campione, senza dar cenno di volergli porgere la mano. I due rimasero a fissarsi in silenzio, per alcuni secondi.

“Joe… cosa aspetti a stringergli la mano?” lo incitò Tange, rosso dall’imbarazzo. Niente da fare: proprio come ai vecchi tempi quando in ballo c’era Tooru Rikishi, ora Joe non sapeva tenere un contegno adeguato con quello che ritenesse essere il suo unico, vero avversario. Dentro e fuori dal ring.

Il più giovane finalmente mosse la mano e Danpei trasse un sospiro… ma il suo sollievo durò poco. Joe sollevò in alto la destra, mostrando a tutti l’indice e il medio. “Al secondo round ti sbatterò a terra quello spilungone. Hai capito Josè? Visto che siamo all’aperto non voglio che ti buschi un raffreddore… e quindi questo match non durerà dodici riprese, ma solo due.” sbruffoneggiò.

La folla accolse ridendo e motteggiando la spacconata del giapponese, mentre Yoko scuoteva il capo, sconsolata. “Ma cosa ti prende, accidenti…”

Josè non battè ciglio: non un solo muscolo del suo bel viso si mosse. Si limitò ad afferrare il polso destro di Joe, per quindi costringerlo a stringergli la mano. “Buena suerte.” gli disse pacatamente. Joe digrignò i denti. Quell’uomo era inscalfibile, porca miseria!

Finalmente scoccò la prima ripresa e Joe, dimentico – come sempre… - delle raccomandazioni di Danpei di essere prudente e di studiare l’avversario, gli si scagliò contro. Pinan non faticò a tenerlo a distanza, aiutato dai lunghissimi arti: lo scostò da sé col palmo per poi colpirlo con un poderoso gancio sinistro. Barcollando, Joe finì alle corde, basito e sempre più nervoso. Per i minuti rimanenti sprecò molte energie con colpi a vuoto, non riuscendo mai a colpire Pinan: l’allungo di questi lo destabilizzava. Per fortuna risuonò il gong. Il pubblico lo sbeffeggiò, non senza cattiveria.

“Cosa cavolo fai, jap? Scacci le mosche?”

“Idiota, come hai preso il tuo titolo, lo hai pagato?”

“Buuuuu!!”


Gli sfottò degenerarono ulteriormente dopo la fine del secondo round, anche perché Joe era finito letteralmente seduto per terra, complice un poderoso diretto destro di Pinan. Sul ring piovvero oggetti di vario tipo, e sia Joe che Tange rischiarono di essere colpiti da bottiglie e lattine, nonostante i severi moniti dell’arbitro e dello speaker rivolti agli spettatori.

“Scusami, vecchio. Sono stato un coglione. Ora però mostra al pubblico tre dita, fammi questo favore…”

“Eh? Ricominci con le cazzate?” gli urlò Tange, esasperato.

In tutta risposta, Joe gli afferrò il polso, piegandogli mignolo e pollice e sollevandogli il braccio. “Scusate! Scusate tutti! Vi faccio un’altra promessa! Questo sarà l’ultimo round!”

“Ma finiscila, scemo! Tornatene a casa!”

“Buuuuu!!”


Yoko si massaggiava le tempie, stordita da tutto quel fracasso e indecisa se arrabbiarsi o ridere della follia di Joe.

Allo scoccare del gong, Joe schizzò in avanti come una scheggia impazzita: fu talmente veloce da scostare – finalmente – il lungo braccio destro di Sarawaku, che stava per sferrargli un diretto, con la tecnica del Philly Shell*, creandosi così una breccia nella difesa serratissima dell’altro. Lo raggiunse al volto con una serrata serie di colpi: montante sinistro-gancio destro-montante sinistro. Pinan non ebbe scampo, con un simile martellamento, e non potè che accasciarglisi addosso, per poi scivolare, pian piano, fino al tappeto.

Il pubblico era sbigottito: al 29° secondo quel pazzo di un giapponese aveva battuto il suo avversario.

David aveva atterrato Golia.

“Straordinario, Signore e Signori! Joe Yabuki è ora anche il Campione del Pacifico!”

Gli applausi scrosciarono, come un fiume in piena che distrugge gli argini e gli spettatori che fino a pochi minuti prima avevano ricoperto Joe di insulti, ora lo esaltavano, entusiasti.

Joe sollevò in alto la sua nuova cintura, esultante, per poi togliere di mano il microfono al presentatore. “Scusi, mia dia qua un attimo… grazie. Ehi Josè… Josè Mendoza! Un momento, per favore! Ho una parola per Lei, non se ne vada!”

Mendoza, che in compagnia della moglie e di Yoko si era già alzato per andarsene, si voltò verso il suo interlocutore.

“Oggi ci ho messo più del previsto, ma io mantengo sempre le mie promesse, mi sente? E la prossima volta toccherà a Lei!”

Josè annuì e, fatto un lieve cenno di saluto, si voltò e se ne andò.

________________________________________

Spigolature dell’Autrice: *v. capitolo II “Preoccupazioni”:

Philly Shell: questo stile di guardia viene utilizzato da chi ha doti da incontrista, come il nostro ragazzo. Per eseguire questa guardia un combattente deve essere molto atletico ed esperto. Questo stile è efficace per i colpi d'incontro, perché permette ai pugili di entrare agevolmente nella guardia avversaria con i pugni migliori da poter sfoderare. La protezione del mento è affidata alla spalla avanzata e, con rapidi movimenti verso l'interno, deve portare fuori bersaglio il diretto destro dell'avversario (nel caso di pugili destrorsi e non mancini).


L’angolo del boxeur:
A chi dobbiamo la boxe moderna? A questo signore qui, Mr. James Figg:


james-figg


Un po’ di Storia…

James Figg (1695 – 1740) è considerato come colui che diede inizio alla fase moderna di questo sport, che deriva dall’antichissimo pancrazio, ammesso alle Olimpiadi già dal 648 a.C. Il suo nome è stato inserito nella “International Boxing Hall of Fame” nel 1992. Nacque a Thame, un villaggio nello Oxfordshire, nel 1695. Alto 1,81 m, pesava poco più di 90 chili, e si dimostrò subito molto abile nelle arti del combattimento corpo a corpo, dopo essersi cimentato a lungo nella scherma. Viaggiava di villaggio in villaggio per dare dimostrazioni di boxe ed organizzare incontri, finché non si recò a Londra ove iniziò ad insegnare le sue tecniche di combattimento. Nel 1719 aprì un'accademia dedicata solo alla boxe, alla quale si iscrissero più di 1000 persone. Sul biglietto da visita dell'ormai popolare James Figg c'era scritto: "Master of the noble science of defence". La boxe che Figg proponeva all'epoca era molto differente da quella che siamo abituati a vedere nei giorni nostri. Si poteva afferrare l'avversario e scagliarlo per terra, erano ammessi i colpi anche quando l'avversario era già atterrato. Non esisteva un ring ben definito, dato che lo spazio adibito al combattimento era definito da una semplice linea disegnata per terra, proprio come avveniva nel citato pancrazio. La boxe era quindi uno sport molto più brutale di quello odierno, ed era consentito l’utilizzo di molte tecniche di atterramento. Figg non può essere considerato un pugile moderno nel vero senso del termine: il suo contributo però fu rilevante per segnare l'inizio della fase moderna del pugilato. La sua scuola sarà un serbatoio di nuovi campioni, uno dei quali era il suo pupillo: Jack Broughton. Sarà colui che nel 1743 scriverà le prime regole fondamentali del pugilato conosciute come il “London Prize Ring rules”. (fonte: Wikipedia)

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Capitolo XXVI - Ritorno a casa ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Lo sciabordio dell’acqua sul bagnasciuga era una melodia che accarezzava l’orecchio e rasserenava lo spirito.

La brezza marina, profumata di sale, sfiorava, lieve, i corpi sudati, come per ristorarli dalla dolce ora d’amore appena vissuta. Teneramente allacciati, si cullavano a vicenda, senza smettere di sorridersi con le labbra e con gli occhi.

“Sai,” sussurrò Yoko, interrompendo il dialogo muto mantenuto fino ad allora  “sono un po’ triste...”

“Di lasciare Honolulu?” chiese Joe, intrecciando le proprie dita a quelle della ragazza.

“Perché tu no?” rispose lei, inframmezzando le parole con i baci “Che domande faccio: ovvio che tu non veda l’ora di tornare a casa! Ti aspettano degli allenamenti piuttosto intensi, se vorrai mantener fede agli impegni presi.”

Joe sorrise, senza rispondere.

Le ultime ore erano state assai cruciali, per lui. Non solo aveva vinto il suo secondo titolo pugilistico, aggiudicandosi la cintura di campione del Pacifico, ma giusto poche ore prima Yoko gli aveva finalmente comunicato dell’entità degli accordi presi con il campione mondiale: entro la fine dell’anno Tokyo avrebbe ospitato l’illustre boxeur facendogli mettere in palio il suo titolo… contro Joe Yabuki. I diritti di esclusiva del match sarebbero stati di appannaggio esclusivo della joint venture stipulata dallo SBC con la Tele Kappa di Fujita-san.

La giovane era stata in grado di accattivarsi la fiducia di Mendoza, del suo staff e delle autorità consolari del Messico – dato che il campione mondiale era posto sotto l’egida diretta delle autorità del suo Paese – accaparrandosi così un “boccone”, in termini di business, assai prelibato. Naturalmente, l’accordo aveva previsto delle condizioni assai agevolate per Yabuki in termini economici e di ritorno di immagine: sia che avesse vinto o perso, il pugile avrebbe comunque visto crescere a dismisura la sua popolarità, anche a livello internazionale.

Comunque sia, le ultime vittorie contro Kim e contro Sarawaku avevano già contribuito a renderlo famoso ben al di fuori dei confini nazionali: ormai si ritrovava pressoché braccato dai giornalisti e dai fan ovunque si girasse. Con molta fatica, Joe era riuscito a sfuggire alla morbosa curiosità altrui, per poter vivere dei momenti di intimità con la sua donna in quella fatata cornice di paradiso terrestre.

“Beh… direi allora di non sprecare tempo in inutili chiacchiere…” mormorò infine Joe, stringendo la giovane a sé e percorrendole il collo con le labbra, facendola sospirare.

°°°°°°

Narita, aeroporto internazionale.


“Allora, quand’è che atterra l’aereo di zio Joe?” brontolò Saki, per la ventesima volta, puntellandosi sui piedini per cercare, inutilmente, di vedere un po’ meglio. C’era una tale folla di gente nell’area arrivi, che quasi non si scorgevano i tabelloni dei voli, specialmente quando si è ancora “alta come soldo di cacio”, come la apostrofò Chukichi, meritandosi così una zoccolata sul muso. Nishi sorrise, sollevando in aria la bambina per mettersela seduta a cavalcioni sulle ampie spalle, cosa che le fece emettere dei gridolini di soddisfazione, dato che, accomodata così in alto, poteva finalmente avere una visuale perfetta di tutto ciò che le stava intorno.

Anche lui non vedeva l’ora di rivedere Joe: negli ultimi tempi non si erano più visti per i reciproci impegni, e questo non andava bene, proprio per niente. Joe era per Nishi quanto di più vicino potesse essere ad un fratello: e tra fratelli ci dev’essere vicinanza, condivisione. Soprattutto quando si hanno delle belle notizie da comunicare.

Poco distante da lui e dai bambini, Noriko, che Nishi covava teneramente con lo sguardo, teneva costantemente d’occhio i tabelloni degli arrivi. “Eccolo… è atterrato proprio adesso. Ormai manca pochissimo, Saki.” precisò la ragazza in tono dolce, voltandosi a sorridere alla piccola. Il suo nuovo taglio di capelli, un caschetto morbido ed ordinato che le sfiorava le spalle, le valorizzava moltissimo le dolci curve del viso e la linea delicata del collo.

Nishi non smetteva di accarezzarla con gli occhi, cosa che aveva provocato più di una gomitata nei fianchi tra i monelli, che se lo additavano a vicenda, ridacchiando sotto i baffi… cosa, di cui, ovviamente non si accorgevano i diretti interessati.

In attesa di poter finalmente rivedere Joe, il ragazzo non faceva che pensare e ripensare a quella che era stata la serata più importante della sua vita.

°°°°°°

(flashback) - Diversi giorni prima, esattamente l’indomani della partenza di Joe e di Danpei per le Hawaii…


Non se lo era saputo spiegare neppure lei, come mai avesse ceduto al misterioso impulso di varcare la soglia del nuovo negozio di parrucchiere del quartiere doya-gai*, per dare, così, un bel taglio netto alle due lunghissime trecce che per anni le avevano sfiorato la vita. Poche ore più tardi, Noriko era ritornata al suo emporio, salutandolo come se niente fosse. Nel vederla, Nishi si era quasi fatto cascare un’intera pila di cassette di frutta sui piedi, da tanto era rimasto sorpreso. Con un colpo di bacchetta magica, una signorina distinta e affascinante aveva preso il posto della ragazzina di sempre. Una volta finito l’orario di negozio, Noriko gli aveva chiesto di fare insieme due passi, prima che calasse il buio. Dopo aver chiacchierato del più e del meno, passeggiando fino ad arrivare al parco Tamahime Koen, ecco che, di punto in bianco, la fanciulla si era voltata verso il ragazzo e, con un unico movimento pieno di grazia, si era sollevata sulle punte dei piedi per riuscire a posargli un bacio lieve sulle labbra.

Al poveretto era parso di toccare il cielo con un dito…

E se lo era preso, quel bacio, restituendolo con tutta la tenerezza di cui era capace. Fu un momento, il loro, bellissimo nella sua semplicità.

Lo sguardo di Nori si era posato su di lui, risplendendo di una luce calda e dolce.

“Sposiamoci, Nishi.” gli aveva sussurrato, ancora stretta a lui.

“C-cosa? Cosa hai detto, Nori?” Nishi si era sentito molto confuso. Mai, neppure nei suoi sogni più arditi, aveva osato immaginare di sentire da Nori simili parole. “Ma… ne sei sicura?”

“Sì.” aveva risposto lei, in tono tranquillo.

Per qualche minuto Nishi se ne era rimasto zitto, a braccia conserte. Noriko quasi non osava respirare, paventando di udire la domanda che sapeva essere in arrivo.

“Dimmi la verità, piccola.” Il gigante buono le aveva preso gentilmente tutte e due le mani, racchiudendole in una stretta calda e rassicurante. “Sei ancora innamorata di Joe?”

“Sì.” Noriko gli aveva scrutato la profondità degli occhi. “Non voglio mentirti, non te lo meriti. Io lo amo ancora e credo che difficilmente smetterò di amarlo.” aveva sospirato “Joe… è come una malattia che ti entra sotto la pelle e di cui non ci si può liberare. Mai. Lui è così. Fa questo effetto a tutti coloro che lo conoscono: non si rimane indifferenti all’aura speciale che trasmette di cui sono sicura che sia pure inconsapevole. E tu che sei suo amico da tanto tempo dovresti saperlo benissimo, Nishi.” aveva proseguito, in tono tranquillo, senza smettere di guardarlo negli occhi. “Però so di volerti un bene immenso e di voler costruire una famiglia con te. Solo con te. Posso giurarti una cosa, Nishi,” al che Noriko, liberate gentilmente le mani da quelle del ragazzo, gli aveva accarezzato le gote, con tenerezza. “Ti giuro che se anche un domani Joe dovesse venire da me, io non lo vorrei mai e poi mai per marito.”

“Nori… tu lo sai, vero, che Joe è innamorato di un’altra?” le aveva chiesto poi Nishi, aggrottando le sopracciglia e sforzandosi di non piangere, di rabbia e di tenerezza, insieme.

“Una volta Danpei si è lasciato sfuggire qualcosa a proposito, anche se poi ha cercato di minimizzare… Ho capito benissimo di chi si tratta. E ti dico un cosa: io non la invidio affatto. E lo sai perché?” Nishi scosse la testa, sempre più confuso. “Una sera Joe ed io ci parlammo… fu quando mi diede il benservito. Ti ricordi? Tu poi ci raggiungesti per riaccompagnarmi a casa. Ero distrutta, Nishi.” Sospirando, Nori si era andata a sedere su una panchina. Nishi l’aveva raggiunta a testa bassa e rimanendo in piedi, senza quasi fiatare per non interromperla. “E non solo e non tanto perché… sì, insomma, perché mi aveva confessato di non essere innamorato di me, scusandosi per il bacio che mi aveva dato. Rimasi sconvolta per ciò che poi mi confidò.” Il tono della fanciulla si era fatto via via più sommesso. Per non lasciarsi sfuggire neppure una parola, Nishi le si sedette accanto, racchiudendole una manina tra le sue. “Joe mi fece un discorso strano, ed ogni volta che ci penso non posso fare a meno di piangere.”

Era stato come se con tutto il suo essere avesse rifiutato, ancora una volta, una verità tragica: due limpide lacrime, infatti, le avevano percorso le gote pallide.

“Che cosa ti disse, tesoro mio?” Abbracciandola, le aveva fatto posare la testa sulla propria spalla, dandole dei baci leggeri sulla fronte.


“Non dimenticherò mai, finché avrò vita, le sue parole. La sua voce era così triste, Nishi, mentre mi diceva che lui non voleva essere come gli altri… che non voleva starsene a bruciare lentamente, ma che desiderava bruciare di una fiamma rossa ed accecante, finché non sarebbero rimaste solo delle bianche ceneri…”

A questo punto la ragazza si era messa a singhiozzare forte, seguita da Nishi, sconvolto e preoccupato a sua volta. Sapeva da sempre che il suo amico Joe custodisse gelosamente un suo intimo tormento; ma non avrebbe mai immaginato che potesse essere così profondo. Così devastante.

Joe… il suo migliore amico, il fratello di sempre. Sua croce e delizia sin dai tempi del riformatorio.


Era destinato, quindi, a perderlo per sempre?

“Lo capisci ora, Nishi? Capisci cosa vuole essere, Joe?” aveva ripreso la ragazza, poi, una volta che le lacrime le avevano dato un po’ di requie, mente Nishi annuiva, annichilito. “Per questo provo compassione per la disgraziata che lo sta accompagnando, inconsapevole, nel suo cammino di autodistruzione. Ed è per questo che io voglio sposare te.” Discostandosi un poco, Noriko aveva racchiuso il viso di Nishi tra le sue mani sottili “Io voglio vivere, Nishi. Ecco, io preferisco la luce calma e dolce di una candela che brucia lentamente in una atmosfera ricca di amore e di affetto, piuttosto che ritrovarmi presto da sola a far scorrere della cenere bianca tra le mie dita. Perché è questo che dovrà aspettarsi, la signorina Shiraki, presto o tardi. E soffro già per lei… più di quanto tu possa immaginare…”

“Ho capito, piccola. Sposiamoci presto e cominciamo a vivere. Insieme.”

Erano rimasti a lungo così, abbracciati strettamente su una panchina, nel parco giochi ormai deserto.


°°°°°°

“Eccoli… eccolo! Zio Joeeeee!!!”

Joe e Danpei non fecero quasi in tempo a sollevare la mano in segno di saluto, che si videro letteralmente travolti dagli amici del quartiere. I monelli scaraventarono a terra il loro idolo, quasi soffocandolo con i loro abbracci.

“Ahia, ahia! Fate piano! Accidenti quanto pesate, ragazzi… non sarete mica ingrassati, in mia assenza?” Tra uno scappellotto ed un buffetto, Joe riuscì finalmente a divincolarsi dalle prese dei birichini, ridendo divertito. Non resistette, però, alla tentazione di sollevare in alto la sua prediletta: “Eccola qua, la mia principessina! Ho portato un mucchio di regali, a te, a tutti!”

La piccola squittì felice, allacciando le braccine al collo del ragazzo con fare possessivo. “Quanto mi sei mancato! Adesso non parti più, vero?” gli chiese, mettendo il broncio.

“No Saki-chan, per ora direi proprio di no! Ho tante cose da fare qui!” le rispose, posandola delicatamente a terra, dopo averle scoccato un tenero bacio sulla guancia.

Seguirono le pacche amichevoli tra lui e Nishi, felici di ritrovarsi, dopo tanto tempo.

“Sei stato grande alle Hawaii… di più, anzi, amico mio!” balbettò Nishi, profondamente commosso e compiaciuto delle vittorie di Joe.

Questi si commosse a sua volta, nel vedere le lacrime sincere di Nishi. Il suo buon, vecchio amico di sempre… quanto gli era mancato! “Grazie. Che bello rivederti. Ho tante cose da raccontarti, magari davanti ad un bel boccale di birra ghiacciata! Che ne dici?”

Non appena gli si fece avanti Noriko, però, Joe rimase letteralmente a bocca aperta. “Cavoli, Nori… stai benissimo! Sembri più adulta, così.” disse lui, facendo cenno ai suoi capelli.

“Grazie Joe, e bentornato.” Noriko gli si inchinò con grazia. “Siamo tutti molto orgogliosi di te.”

“Ehi, ehi, quante formalità… così mi confondi…” arrossì lui, togliendosi il berretto e grattandosi il capo.

Nel frattempo, pure Danpei faticava a destreggiarsi tra tutti gli amici più anziani del quartiere, già mezzi ebbri di primo mattino, che lo tempestavano di domande e di complimenti. Ormai, il poveretto era stato prenotato per un giro interminabile di bevute ad altissimo tasso alcoolico e in nessun modo avrebbe potuto esimersi, pena dispetti a non finire… Mai offendere gli ubriachi!

I giornalisti sportivi, che avevano atteso pazientemente l’arrivo di Joe per immortalarlo con le loro foto e per cercare di rivolgergli qualche domanda, vennero messi letteralmente in fuga da quel folto e scalcagnato gruppo di persone malvestite e dall’alito pesante di cipolla e sakè, che reclamavano gelosamente il campione come di loro esclusivo appannaggio.

Una volta arrivati tutti alla palestra del Ponte delle Lacrime, Joe e Danpei rimasero commossi per i numerosi cartelli colorati di “bentornato”, affissi un po’ ovunque, financo sugli stentati alberelli piantati sul lungofiume, ed inneggianti al nuovo titolo guadagnato da Joe. Le brave massaie di Namidabashi avevano allestito un sontuoso banchetto sul prato adiacente alla palestra, dato che in quest’ultima lo spazio non era sufficiente a contenere tutti gli ospiti e dato che la palestra nuova non era ancora stata ultimata dagli operai. Una moltitudine di tovaglie colorate erano state distese per terra per un gigantesco pic-nic, con tanto di quel cibo da poter arrivare a sfamare mezza Tokyo: da alcuni giorni il piccolo supermercato del buon Hayashi era stato preso amorevolmente d’assalto dalle signore del quartiere per “festeggiare adeguatamente quel caro ragazzo”, come avevano pomposamente dichiarato all’indirizzo di Joe. Venne pure acceso un rudimentale barbecue, per arrostirvi carni e pesci.

Joe si sentiva confuso, oltre che molto commosso. Non riusciva quasi a spiccicare parola, proprio come gli era accaduto diversi anni orsono, quando era stato accolto amorevolmente da quella povera, ma brava gente, in un modo assai simile, al suo ritorno dal riformatorio. Da allora, tante cose erano cambiate, sul suo cammino. Fatto e ancora da fare. Ma quella era casa sua e quelle persone erano quanto di più vicino al termine “parenti” egli potesse auspicare. Però… mancava ancora qualcuno, rimasto nell’ombra sin troppo a lungo.

“Scusa, Danpei, io devo allontanarmi un attimo… torno subito.”

“Eh? E dov’è che te ne vai, hic” farfugliò il coach, già con la lingua impastata dall’alcool.

Joe sbuffò, roteando gli occhi verso l’alto e fuggendosene alla chetichella. Erano tutti talmente presi a mangiare a creapapancia e a far scorrere fiumi di sakè da non accorgersi della fuga del festeggiato!

Circa una ventina di minuti dopo, Joe era arrivato davanti ad una certa casa. Al suono flebile del campanello, Hiro Nakamura si era affacciato alla porta, vestito, suo solito, di un inappuntabile gessato grigio. Padre e figlio si scrutarono in silenzio per un lasso di tempo che parve un’eternità.

Il primo a rompere il ghiaccio, al solito, fu lo yakuza.

“Sapevo che oggi saresti tornato. Ma non pensavo che saresti mai passato di qua. Mi stupisci.”

“Già… stavolta sono io, a stupire te. Ad ogni modo, ora sono qui per chiederti se vuoi venire con me in un posto.”

Hiro non se lo fece ripetere due volte. Percorsero il tragitto fino al Ponte delle Lacrime senza scambiarsi una sola parola. Avanzarono fianco a fianco, con lo stesso identico passo elastico e cadenzato, l’uno il perfetto doppio dell’altro.

Quando arrivarono insieme sul luogo della festa, per qualche minuto calò il silenzio tra gli astanti. Uno yakuza è pur sempre un ospite scomodo. Naturalmente tutti gli abitanti del quartiere avevano capito ormai da tempo cosa davvero costituisse, per il loro amato Joe, quel signore azzimato dall’aria poco raccomandabile e ciò sin da quel triste giorno in cui il ragazzo, sofferente per un atroce periodo di digiuno forzato, era stato accompagnato a casa pure da Yoko Shiraki e dallo stesso Hiro Nakamura, oltre che dal buon Tange.

Fu quest’ultimo a risolvere la situazione d’impasse.

Ritrovata di colpo la sobrietà, avanzò verso Hiro e gli diede una bonaria pacca sulla spalla in segno di pace, per poi porgergli un bel boccale di birra ben fredda. “Ce ne ha messo di tempo ad arrivare, eh, Nakamura-san. Ora la festa può finalmente continuare.”

Joe ringraziò Danpei con un sorriso sereno.

Il resto della giornata passò così, fino a notte fonda, tra continui brindisi, eque distribuzioni di regalini e di souvenirs, e resoconti, ripetuti all’infinito, sulle bellezze di Honolulu e sui pugni dati e ricevuti.

____________________________________

Spigolature dell’Autrice:

*doya-gai: il quartiere dove vivono i nostri amici viene soprannominato "doya-gai", ove la parola “doya” sta per la parola rovesciata di “yado”, che vuol dire albergo, soprattutto nell’accezione di albergo a bassissimo costo per gli operai giornalieri impiegati nel settore dell’edilizia.
(fonte e doverosissimi credits: clicca)

Mi sembrava giusto che il nostro ragazzo venisse adeguatamente festeggiato per la sua ultima vittoria! E poi, lo ammetto: mi mancava Nishi, quel buon ragazzone!

Ma non temete: i guantoni si incroceranno molto presto! Baci,

i.

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Capitolo XXVII - Il lato chiaro e quello oscuro della boxe ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Avviso: mi scuso con i lettori per il turpiloquio presente nella prima parte del seguente capitolo. Purtroppo mi serve per la caratterizzazione del mio nuovo OC: ho il piacere di presentarvi… Mr. Dudley Walker!

°°°°°°

Una sera come tante nel Bronx, in un pub semibuio e puzzolente…


“Non capisco cosa cazzo ci vai a fare in Giappone. Proprio non lo capisco.”

Il ragazzo inforcò la stecca, per aprire il gioco. Si ripiegò con un unico movimento flessuoso del busto per mirare con calma il colpo, dopo aver dichiarato la sua biglia: il tiro perfetto gliela fece imbucare, dopo aver toccato una delle sponde del tavolo*.

L’altro sorrise, senza scomodarsi troppo a rispondere, attendendo tranquillamente il primo fallo dell’avversario per poter fare il proprio gioco: conoscendolo, sapeva bene che termini come “rispetto” e “regole” non facevano parte del vocabolario personale del suo amico.

“Allora? Non dici niente, Leon?”

Innervosito per il silenzio di questi, Dudley, o Dude per gli amici e per le pollastre del quartiere, sbattè con forza la stecca sul tavolo, spezzandola in due. Al crack del legno, Leon inarcò leggermente le sopracciglia, in segno di stupore.

“Si può sapere che diavolo ti piglia, fratello? Ora ti becchi il fallo… e quindi tocca a me.” replicò Leon sorridendo di nuovo ed inforcando a sua volta la stecca, dopo averne leggermente sfregato la punta con il gesso.

“Me ne sbatto i coglioni del fallo. Rispondi, piuttosto! Quando fai l’ebete mi fai incazzare!” Dude si appoggiò al tavolo, a braccia conserte, fronteggiando l’amico con espressione corrucciata. Leggermente più basso e tarchiato di Leon, lo fissava, cupo, di sotto in su, con grandi occhi neri dalla sclera eternamente iniettata di sangue. I due giovani uomini, entrambi afroamericani e cresciuti schiena contro schiena in una topaia del Bronx dal nome altisonante di “Condominio Esperanza”, da alcuni anni frequentavano, oltre alle stesse ragazze di vita, pure la medesima palestra di boxe.

Con una differenza sostanziale, però: Leonard Smiley, chiamato da tutti “Leon” e pure “The King”, rispetto all’amico aveva saputo dimostrare, nel corso del tempo, un notevole talento per la boxe. Egli era un vero fantasista del ring, capace di mutare la strategia di combattimento in modo camaleontico, di round in round, spesso spiazzando i suoi avversari e cogliendoli di sorpresa. Sovente gli stessi giudici si ritrovavano a dover ribaltare il verdetto, dato che ai punti The King riservava sempre un’ultima carta da giocare: ovvero, quella decisiva. Non per nulla, Smiley era diventato il primo classificato mondiale dei pesi medi: aspettava solo l’occasione giusta per poter agguantare Josè Mendoza in quel benedetto quadrato. Prima però lo stava aspettando un’altra sfida… dall’altra parte dell’oceano.

Una sfida a dir poco inaspettata.

“Te l’ho detto, no? Il mio coach si è messo d’accordo con la Federazione Pugilistica Giapponese per farmi fare un match a Tokyo nelle prossime settimane.” replicò con fare tranquillo. Chiamò una cameriera per ordinare delle birre alla spina: dopo un’amichevole pacca sul sedere della ragazza, si specchiò in una vetrata dell’armadio delle stecche, per poter controllare il suo nuovo taglio di capelli: oltre che un campione di pugilato, Leon sapeva essere molto vanitoso, cosa che gli procurava motteggi a non finire dagli altri fratelli del quartiere.

Lui chi sarebbe?” bofonchiò Dude, un po’ più calmo.

A differenza dell’altro, Dude Walker doveva al pessimo carattere ed alla sua incapacità di mantenere la calma il fatto di non essersi più di tanto distinto nelle classifiche pugilistiche, nonostante il talento innato come incontrista: spesso era stato squalificato in corso di match, avendo più volte commesso falli di ogni genere e persino insultato l’arbitro. Proprio in quel momento stava scontando come sanzione disciplinare un esonero di alcuni mesi dagli incontri ufficiali per le numerose scorrettezze perpetrate.

La rabbia accumulata ed il senso di frustrazione lo rendevano però molto pericoloso, come una bomba inesplosa: bastava un nonnulla per farlo reagire con violenza. Giusto quel pomeriggio aveva massacrato di botte un povero diavolo solo per un’alzata di sopracciglio di troppo… così, tanto per passare il tempo.

Come pugile, la sua forza distruttiva era inconfutabile ed affiorava già nel preciso istante in cui allargava le corde per poter salire sul ring: emanava tutto d’intorno a sé un’aura rossastra, fatta di sangue, sudore e lacrime, regalo di una vita disgraziata ed ai margini della società. La madre, ex prostituta ed alcoolizzata, ora gestiva con sua somma soddisfazione un piccolo bordello di puttane afroamericane e portoricane, troppo sfatte e malmesse per essere ammesse nei “giri” migliori. Del padre Dude non aveva mai saputo nulla, né la madre si era mai scomodata di dirgli chi diavolo fosse, mentre non aveva mai lesinato a “vezzeggiarlo”, sin da piccolissimo, con urla, improperi e schiaffi.

Tutto ciò non aveva avuto a che fare con Leon: questi, pur essendo nato e cresciuto nello stesso malfamato stabile del Bronx, aveva dei genitori poveri, sì, ma amorevoli con i figli, oltre che dignitosi ed onesti. Primo di una folta carrellata di bambini, Leon aveva sempre saputo essere un fratello maggiore buono ed affettuoso, oltre che un ragazzo rispettoso con i genitori e con gli insegnanti. Pure con il proprio coach, cui era affezionatissimo, aveva imparato a rispettare le regole sportive, rivelandosi sin da subito un ottimo boxeur oltre che un ottimo ragazzo. Non sapeva neppure lui perché non avesse mai smesso di frequentare quella canaglia indefessa di Dude. Forse gli si era affezionato proprio come ci si affeziona ai propri difetti ed a tutto ciò che ci fa più male.

Ma che ci attrae con il suo fascino nero.

Dopo essersi ristorato con una birra ben ghiacciata, Leon soppesò per un attimo con lo sguardo l’amico, ora intento a prendere dall’armadio una nuova stecca, dopo aver distrutto la prima. “Il tizio si chiama Joe. Il cognome non me lo ricordo. Ha stranamente un nome occidentale**. Mi sembra di aver letto qua e là degli articoli su di lui: ha da poco vinto ben due titoli. Pare che sia uno bello tosto. Il mio coach è molto entusiasta di questo match: dice che il jap sia molto ben introdotto nell’ambiente e che se lo sbatto giù volo di filato da Mendoza, liscio e beato come un fringuello!” concluse, tutto soddisfatto “E poi… sai una cosa? Son curioso di vedere qualcosina del Sol Levante: ogni tanto allontanarsi dalla puzza di casa propria fa pure bene!”

“Umpf. Secondo me è solo una grande stronzata. Mi chiedo che gusto ci proverai a incrociare i guantoni con un fottuto muso giallo: la boxe non è fatta per quella razza infame. Se ti va, visto che sei in vena di cineserie,” al che diede una pacca sulla spalla di Leon “domani o dopodomani possiamo farci una capatina a Chinatown… è da un po’ che non ci facciamo vedere da quelle parti.” una luce maliziosa gli si accese negli occhi scuri. “E poi le loro femmine mi piacciono. Mi fanno schifo le grassone di qua.”

“Ti ricordo che Yabuki – ecco, ora mi è tornato in mente come fa di cognome – è giapponese, non cinese!” a tale precisazione Dude sputò in terra come replica. “E parlando di femmine, giusto ieri sera ti ho intravisto mentre ti ripassavi Bess La Bambola in macchina… e di certo lei non è una silfide…” ridacchiò Leon.

“Sai com’è: al buio si assomigliano tutte. Allora, tira quelle cazzo di biglie, o qua facciamo notte.”

°°°°°°

Tokyo, quartiere di Namidabashi, una mattina di qualche giorno dopo…


Danpei pareva esser stato morso dalla tarantola, non riusciva a starsene tranquillo e composto: continuava a fare su e giù per le scale, scattando qua e là come una scheggia impazzita.

“Ehi vecchio, calmati: se continui così ci scavi una trincea e qua crolla tutto!” bofonchiò Joe, peraltro invano: Tange non lo stava a sentire. Non avrebbe sentito neppure una cannonata, se era per questo.

Nishi sorrise: erano ancora loro tre, come ai vecchi tempi. Covava con sguardo affettuoso il suo migliore amico ed il suo ex allenatore che si stavano ambientando nella loro nuova palestra, le cui chiavi erano state solennemente consegnate dal capocantiere solo poche ore prima, in segno augurale.

Il sogno di una vita intera era finalmente divenuto realtà…

In uno spiazzo erboso non molto distante dal Ponte delle Lacrime si ergeva ora una palazzina di due piani in cemento chiaro, con la sua bella insegna come “Tange Boxing Club” e con delle ampie finestre le cui vetrate scintillavano al sole. Essa era piccola: ma moderna ed efficiente, ariosa e piena di luce. Non mancava di nulla: al piano terra era stata allestita una palestra fornita di tutte le apparecchiature sportive necessarie per la boxe, con al centro un bellissimo ring da allenamento che profumava di buono e di pulito. In una fila di armadietti di un bel rosso smagliante erano riposti guantoni di varie once, caschetti protettivi, paradenti e kit di pronto soccorso. Tutto era nuovo e di ottima qualità, sia di marca giapponese che americana. Le due cinture vinte da Joe facevano bella mostra di sé nella teca di vetro commissionata da Tange ad un valente artigiano della zona: tali trofei erano il simbolo di un domani agognato e sospirato, che era costato lacrime e sangue e che ora poteva essere finalmente tenuto ben stretto tra le mani.

Per questo Tange non riusciva a starsene fermo: cianciando a più non posso, ripercorreva più e più volte tutti i locali della palazzina, con la scusa di controllare “che tutto fosse a posto, con tutti i casini che combinano gli operai”, toccando ogni cosa, accendendo e spegnendo gli interruttori, aprendo ante e cassetti.

Joe e Nishi, che cercavano invano di stargli dietro, si guardarono l’un l’altro con aria rassegnata, capendo che conveniva loro portare pazienza…

Al primo piano, proprio come fortemente voluto da Danpei, si trovavano: una bella cucina, dotata di tutti gli elettrodomestici più moderni; una luminosa sala da pranzo all’occidentale; la sala da bagno, tutta piastrellata di bianco; i dormitori in stile tradizionale dai freschi tatami e dagli armadi ad ante scorrevoli, così da sfruttare al massimo gli spazi per la convivenza di più persone.

Del resto, dal momento in cui Joe e Tange avevano fatto ritorno da Honolulu, si era perso il conto dei giovani di belle speranze che si erano presentati al coach: quei ragazzi, provenuti da ogni angolo del Giappone, desideravano darsi alla boxe nella speranza di poter emulare, un giorno, il nuovo idolo delle cronache sportive nazionali. Adesso che la nuova palestra era pronta ed arredata di tutto punto, Joe e Tange avrebbero convissuto con una mezza dozzina di ragazzi promettenti, già esaminati e selezionati scrupolosamente: Danpei non voleva infatti trascurare Joe per allenare troppi pugili, tanto più che neppure le dimensioni della palestra stessa consentivano di ospitare tante persone. Pochi ma buoni, questo era stato il verdetto inappellabile del coach.

“Allora, ormai è tutto deciso per il mio prossimo incontro: Leon Smiley dovrebbe arrivare nei prossimi giorni, giusto?” chiese Joe, mentre sistemava le sue cose nell’armadio, dopo che Nishi se n'era tornato alla drogheria con gli ordini di Danpei per rifornire la dispensa.

“Proprio così. Tra dieci giorni esatti ti incontrerai con l’americano. Bisogna intensificare gli allenamenti. È il primo in classifica, dopo Mendoza, quindi non esattamente un pugile qualunque. Se vincerai l’incontro con Smiley, quello con il Campione potrà anche essere anticipato, Shiraki-sama e i suoi contratti permettendo… ovviamente.”

“Uhm. Per quanto mi riguarda, Leon Smiley è un capitolo già chiuso ancora prima di iniziare.” ribattè Joe in tono secco, lasciando Tange un po’ basito. “Vado a farmi una corsetta prima di cena. A dopo.”

Quella sera, dopo aver mangiato da solo con Danpei per l’ultima volta, dato che già al mattino seguente avrebbero fatto colazione in otto, Joe si ritirò su nel dormitorio. Passò un’ora; ne passarono due, tre.

Niente da fare: il sonno tardava ad arrivare.

Il letto era troppo morbido, l’odore della stanza non era lo stesso cui era abituato da diverso tempo a questa parte. Sbuffando, Joe si rimise in piedi, agguantando i vestiti con una manata. Cercando di non fare rumore, sapendo che Danpei riposava nella stanza a fianco, lasciò la palestra.

Lentamente, si portò fino al Ponte per ridiscenderlo, una volta di più. Infilò la chiave nella toppa della sua vecchia casa, tirando finalmente un sospiro di sollievo.

Com’era piccola ed angusta… spoglia e triste, quella baracca di legno, rappezzata qua e là col bitume. Ma Joe conosceva centimetro per centimetro quella costruzione: sapeva in che preciso punto il pavimento fosse un po’ sconnesso, con un paio di assi leggermente sollevate, avendoci incespicato milioni di volte. In un altro punto, invece, il legno scricchiolava lamentosamente, dato che le infiltrazioni di pioggia avevano indebolito l’impiantito, facendolo marcire ed annerire.

Le corde del vecchio ring erano state allentate e parevano starsene lì, adagiate mollemente sul pavimento, quasi come se piangessero.

Joe le accarezzò dolcemente.

Quanto sangue aveva visto quel pavimento, più volte ricucito a mano dal povero Tange… Nessun altro ring da allenamento avrebbe mai potuto degnamente sostituirlo, perché solo quel piccolo, vecchio quadrato liso e malmesso aveva rappresentato il desiderio di riscatto e di rinascita sospirato da uomini lasciati ai margini della società. Joe pensava a tutto questo, mentre si guardava intorno, provando un forte senso di malinconia.

Respirò a fondo, per sentire nelle nari, ancora una volta, l’odore di quella piccola palestra.

Di certo non poteva essere dei migliori, nonostante tutti gli sforzi da sempre prodigati da Joe stesso e da Danpei di tenere tutto pulito e in ordine: d’altronde, la palestra era stata costruita con materiali di fortuna nei pressi di un fiumiciattolo dalle acque rese sporche e maleodoranti dai rifiuti della gente del quartiere. Si decise quindi a salire la scaletta di legno, per potersi buttare a peso morto sul suo vecchio letto.

“Solo per stanotte. Una notte soltanto…” mormorò tra sé e sé, stiracchiandosi tutto soddisfatto.

Ad un certo punto, sentì avvicinarsi dei passi con un ben noto tossicchiare. Sorrise quando vide emergere la testa calva di Tange. “Ma… che cavolo ci fai tu qua?” brontolò questi.

“Senti chi parla!” ridacchiò il ragazzo “Pure tu non ce l’hai fatta a resistere… ammettilo!”

Tange rise a sua volta, lanciando una bottiglia di sakè a Joe, che la prese al volo.

“Goccetto?”

_________________________________

Spigolature dell’Autrice:


*il tipo di biliardo da me accennato è il cd. “Straight pool” ed è molto diffuso negli States, in cui lo scopo del gioco è quello di raggiungere per primi un punteggio prefissato. Ogni biglia imbucata vale un punto: per punteggiare in modo regolamentare si deve però specificare quale biglia si vuole imbucare e in quale buca prima di poter effettuare il tiro. Si gioca con quindici biglie numerate da 1 a 15, più una battente bianca. (fonte: Wikipedia).

**Il nome di Joe nell’opera originale in realtà è scritto come “Jō” con il sistema di scrittura giapponese del katakana, ovvero quello meno usato. Per la precisione, vediamo che il moderno sistema di scrittura della lingua giapponese utilizza ben tre principali tipi di caratteri: i logogrammi (kanji), due sillabari (hiragana e katakana) e l'alfabeto latino in casi ristretti (rōmaji). I kanji, di origine cinese, sono 2997 (quelli più comuni, noti come jōyō e jinmeiyō kanji), e vengono utilizzati soprattutto per sostantivi di uso comune, verbi, aggettivi e nomi propri di persona; i due sillabari (kana) contengono ciascuno 46 caratteri di base (71 compresi i segni diacritici), ognuno dei quali corrisponde ad un suono nella lingua giapponese, vengono utilizzati nella flessione linguistica dei verbi e degli aggettivi e nelle particelle grammaticali. Quasi tutte le frasi giapponesi contengono sia kanji che hiragana, mentre più raramente viene utilizzato il katakana: quest'ultimo viene utilizzato per la traslitterazione delle parole e dei nomi stranieri - come quello, per l’appunto, del nostro ragazzo - per la trascrizione di nomi scientifici di animali e piante e per i versi degli animali. A causa di questa miscela di caratteri, oltre a un grande inventario di caratteri kanji, si comprende la grande complessità del sistema di scrittura giapponese! (fonte: Wikipedia).

Il personaggio di Dudley Walker è di mio esclusivo appannaggio. Cenni a persone, fatti, luoghi realmente esistenti, quivi va considerato come puro frutto del caso.

Bene, miei cari Lettori: al prossimo capitolo ci rivedremo sul ring…e capiteranno un po’ di cosette. Il capitolo che avete appena letto funge da preludio per nuovi eventi! Ringraziando i miei meravigliosi recensori per avermi gratificato con 200 gentilissime recensioni, Vi abbraccio e Vi auguro una serena settimana!

Alla prossima!

i.

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Capitolo XVIII - The King is naked ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Una mattina, allo SBC…

“Non pensavo che ci saremmo mai più riviste.”

Yoko si sentiva in preda all’agitazione. Trovarsi vis-à-vis con la nonna, dopo tanti mesi di separazione… e, soprattutto, dopo il terribile litigio che aveva segnato l’ultimo contatto tra loro, non si sarebbe mai immaginata di trovarsela “in visita” proprio al suo club. L’anziana signora ignorò bellamente le parole amare della nipote, guardandosi intorno.

“E così… questo sarebbe il tuo ufficio. Non male. Sobrio ed elegante, adatto alla tua carica. Non mi intendo, poi, di palestre. Ma poco fa ho visto un discreto via vai di giovanotti nei corridoi: sono i tuoi pugili?”

“Sì. Alcuni di loro sono molto promettenti.”

“Ma non più del tuo fidanzato… o sbaglio?”

Stavolta fu il turno di Yoko di far finta di nulla di fronte all’insinuazione sarcastica di Hatsuyo. Fece accomodare la nonna in poltrona e cominciò ad aprire con mano febbrile vari armadietti e cassetti del suo piccolo angolo cucina alla ricerca di qualcosa da offrire alla sua inaspettata ospite, sentendosi via via sempre più a disagio.

“Vorrei poterti offrire qualcosa, ma temo di non avere qui l’occorrente per il matcha*, che so che preferisci ad altre bevande. Purtroppo dovrai accontentarti di un tè all’occidentale.” mormorò Yoko, imbarazzata di non sapere cosa dare da bere alla nonna, sempre molto esigente e selettiva in fatto di gastronomia.

“Con questa calura preferirei un calice di umeshu**… sempre che tu ne abbia. Altrimenti mi accontenterò di un semplice bicchiere d’acqua, grazie.”

Sorridendo per il sollievo, Yoko aprì il piccolo frigo-bar, da cui estrasse la bottiglia del liquore: fortuna che ne teneva sempre una buona scorta, essendone lei stessa molto ghiotta! Versò il fragante liquido in due bicchierini di cristallo, per poi porgerne uno all’anziana donna, che ringraziò con un leggero cenno del capo. Dopo qualche minuto di teso silenzio, Yoko osò formulare la domanda che le si era arrestata sulle labbra dal preciso istante in cui la segretaria le aveva annunciato l’arrivo, di certo non previsto, di Hatsuyo Shiraki.

“Perché sei qui?” chiese, in tono dolce ma fermo.

“Vedi cara,” iniziò la nonna, dopo aver centellinato il liquore, posando il piccolo calice sul tavolino con un gesto fluido ed aggraziato, sapendo rendere speciale ogni suo singolo gesto, anche il più banale “ritengo assurda questa guerra silenziosa tra di noi. Ci ho riflettuto a lungo, in questi mesi. Naturalmente non intendo mutare avviso sul tuo stile di vita e sulle tue scelte… diciamo sentimentali. Tuttavia, avendoti già chiaramente espresso in passato il mio parere a proposito, non credo necessario insistere oltre… tu andrai avanti per la tua strada, ed io per la mia. Voglio solo mantenere i contatti con quella che è la mia unica discendente. Mi tranquillizza vedere che stai bene e che mi sembri serena. Bene,” al che si alzò in piedi, sorridendo lievemente “ora devo proprio andare. Ricordati che potrai venirmi a trovare tutte le volte che vorrai. La strada di casa tua la conosci. Buon pomeriggio, nipote mia.”

Dopo un leggero inchino, cui Yoko rispose con maggior inclinazione del busto in segno di rispetto, Hatsuyo Shiraki lasciò la stanza.

Yoko era frastornata.

Da una parte si sentiva sollevata, dato che in fondo al cuore aveva sempre voluto bene a quella che era stata l’unica figura femminile della sua famiglia, poiché era rimasta orfana di entrambi i genitori in tenerissima età: seppur molto severa ed intransigente, Hatsuyo non era mai stata avara di una qualche forma di affettuosità nei suoi confronti, specialmente quando era bambina. Quindi avrebbe dovuto sentirsi felice: i contatti con la nonna erano stati, in qualche modo, ripristinati e chissà… magari con il tempo pure Hatsuyo avrebbe imparato ad apprezzare le buone qualità di Joe, accettandolo in famiglia.

Eppure… se il suo cuore esultava, una parte di lei rimaneva diffidente e sospettosa. La palese reticenza della nonna di chiederle come andassero le cose nella sua vita privata le era parsa troppo strana. Questo perché quando si vuol bene ad una persona, se anche non si approvano le scelte di vita di quest’ultima, si dimostra comunque interesse e partecipazione verso tutto ciò che la riguarda, facendole domande ed elargendo consigli. Hatsuyo non aveva fatto nulla di tutto questo: si era limitata ad andare a trovarla in una visita durata neppure una decina di minuti.

Una piccola spia invisibile sussurrò, all’orecchio ed al cuore di Yoko, “Guardati”.

°°°°°°

Korakuen Hall, ore 21.00, una sera di qualche giorno dopo…



Quello era il primo incontro disputato da Joe al suo ritorno da Honolulu. Yoko, seduta suo solito in prima fila, con accanto il nonno ed Hiro Nakamura, pur non avendo contribuito alla contrattazione del match con l’americano, era molto curiosa di vedere in azione il primo classificato nella graduatoria mondiale.

Prima di incontrarsi con Mendoza, infatti, era necessario per Joe affrontare il pugile più forte dopo Mendoza medesimo. Leonard Smiley, l’afroamericano che neppure dopo aver vinto molto denaro con le sue 15 vittorie per ko aveva rinnegato le sue umili origini, rimanendo a vivere nel Bronx, seppure in un bell’appartamento luminoso di un decoroso e tranquillo suburb***, non si era ritrovato, straniero e da solo, in una città tanto lontana da casa sua: i suoi estimatori lo avevano raggiunto a Tokyo, ed ora avevano letteralmente invaso il palazzetto dello sport. Ai cori in lingua giapponese si aggiungevano, infatti, quelli pronunciati nel più puro slang di New York, conferendo così alla manifestazione sportiva che di lì a poco si sarebbe disputata un più ampio respiro internazionale, cui lo spettatore giapponese medio era ancora poco avvezzo. La folla degli spettatori di quella sera era quindi in fibrillazione: l’intenso vociare di entrambi gli schieramenti percorreva le file, rendendo l’aria elettrica ed eccitante.

L’arrivo dei due campioni, ognuno con il proprio entourage, fece impazzire di gioia ed entusiamo i rispettivi fan, che si alzarono in piedi, urlando ed agitando gli striscioni. Yoko si tappò le orecchie, infastidita e divertita al contempo: per Joe erano ben lontani, ormai, i tempi in cui i suoi unici estimatori erano essenzialmente i disperati del quartiere di Namidabashi!

Lo speaker presentò, entusiasta, il campione asiatico e del Pacifico ed il primo classificato mondiale, riuscendo a farsi sentire a fatica nonostante l’uso del microfono, per il frastuono che non accennava a placarsi.

Ma come stava vivendo Joe, tutto questo? Yoko notò che fosse particolarmente posato e tranquillo: si era limitato a salutare la folla festante con un lieve cenno della mano, concentrandosi poi alla preparazione delle mani, affidandole a Nishi, che gli allacciò i guantoni. Aveva degnato il suo avversario solo di una fuggevole occhiata. Non gli interessava poi molto del match che stava per disputare. Leonard Smiley, esattamente come chiunque altro che non fosse Josè Mendoza, costituiva per lui semplicemente una tappa obbligatoria da superare… una noiosa ma necessaria corvée da espletare per poter finalmente sbattere i propri guantoni contro quelli di Mendoza, dando così inizio alla resa dei conti su cui aveva incentrato la sua carriera pugilistica dopo la morte di Tooru Rikishi.

Una cosa però lo aveva colpito sul conto di Smiley: questi gli aveva sorriso. Nulla a che vedere con il sarcasmo o con un atto di sfida, però. Il sorriso dell’americano era aperto, luminoso. Sincero. Nonostante l’alta statura e l’innegabile prestanza fisica, Leon teneva sul viso un’espressione trasparente e pulita… quasi infantile. I suoi grandi occhi neri percorrevano la figura di Joe con benevola curiosità.

Joe si avvicinò quindi al centro del ring per ascoltare i rituali ammonimenti dell’arbitro: incrociò così lo sguardo con Leon, che gli sorrise di nuovo, sussurrandogli “Go for it! Go ahead!” (“Su, forza! Metticela tutta!”)

“Umpf. Pensa per te.” Joe gli borbottò contro, avendo intuito il significato delle parole di Leon, seppure pronunciate in slang.

Prima ripresa di un match di 10 round: non accadde nulla di rilevante.

I due campioni si fronteggiarono alla pari, serrando la difesa e colpendosi a vicenda con semplici jab di puro disturbo.

“Allora, eh? Che impressione ti ha fatto? Secondo me sta per tirar fuori il suo asso nella manica” gli disse Tange, dopo averlo rinfrescato con un po’ d’acqua. La calura estiva stava cominciando a farsi sentire, essendo giugno inoltrato.

“Mi sa pure a me. Ha un magnifico gioco di gambe: mi ricorda un po’ Carlos.”

Allo scoccare della seconda ripresa, dopo essersi fronteggiati e stuzzicati come poco prima, Leon, a 2’ 20’’ riuscì però a scostare il braccio destro di Joe per sferrargli un fulmineo montante sinistro. Più stupito che indolenzito, Joe si ritrovò al tappeto, da cui si rialzò al settimo. Finì il tempo.

“Accidenti. NON HO VISTO il suo montante! Ha una velocità spaventosa!”

“Eh. D’altronde se è il primo classificato un motivo ci dovrà pur essere. Te lo dicevo io di guardare le diapositive sui suoi incontri… ma al solito non hai voluto darmi retta. Nishi, passami il ghiaccio per favore.”

Al 1’ 40’’ Joe riuscì finalmente a sfondare la difesa di Leon, sferrandogli un montante ed un gancio sinistro. Per la forza inflitta perse però l’equilibrio e, insieme al suo avversario, si ritrovò sbalzato fuori dalle corde. Rovinati tutti e due in terra fuori dal ring, si rimisero in piedi ridendo e dandosi amichevoli pacche sulle spalle a vicenda, cosa che venne acclamata dal pubblico, sollevato dalla sportività del gesto e dal fatto che nessuno dei due pugili si fosse fatto male nonostante la caduta.

Yoko scosse la testa, sorridendo a suo nonno ed al padre di Joe: “Il solito incorreggibile!” I due uomini le restituirono il sorriso, con volti franchi e sereni. Yoko era molto felice di questa piccola réunion tra loro tre. Voleva condividere il prestigio dell’evento sportivo di quella sera con due persone per lei molto importanti: il nonno Mikinosuke Shiraki, adorato da sempre, ed ora pure il padre del suo Joe. In vista dell’incontro, aveva quindi spedito in regalo ad Hiro Nakamura un posto in prima fila accanto a lei, per dimostrargli rispetto e riconoscenza come padre di Joe e chissà… magari pure come suo futuro suocero.

Senza smettere di ridere, i due pugili risalirono sul ring.

“Sai, Leon… è divertente combattere contro di te”

For sure!” (“Sicuro!”)

Il terzo round si chiuse con un colpo d’incontro che li mandò al tappeto insieme: riuscirono però a rialzarsi in simultanea, proprio come avevano fatto poco prima, fuori dal ring. La cosa buffa è che più che un incontro di boxe pareva quasi una rimpatriata tra vecchi amici, dato che l’allegria spontanea di Leon aveva contagiato Joe, che quasi non sentiva più neppure le ecchimosi per i colpi ricevuti e per il volo fatto fuori dalle corde. Una cosa però lo impensieriva: solo un paio di volte dall’inizio dell’incontro e per un brevissimo lasso di tempo era riuscito ad aprire un varco nella difesa avversaria. Diede voce alle sue perplessità a Tange, una volta raggiunto il suo angolo.

“Tutto bene, Joe? Non ti sei fatto male nella caduta, vero?”

“No, sono intero, come vedi. Piuttosto, Smiley è un osso duro, anche se a prima vista non sembrerebbe. Il suo sinistro è una barriera impossibile da superare. E poi è velocissimo. Quando mi colpisce quasi non vedo i suoi pugni!” sbottò, sedendosi sullo sgabello per farsi medicare.

“Umpf. Non dimenticarmi la lezione numero uno per domani proprio ora, eh.” bofonchiò Tange, massaggiandogli gli zigomi con della vaselina.

“I jab?”

“Esatto. Parti dalla combinazione 3-1 come azione di disturbo. Non attaccarlo direttamente con i ganci. Vedrai che quello stramaledetto sinistro gli si indebolirà, ad un certo punto.”

“Ok. Posso avere un po’ d’acqua, per favore?”.

Il quarto ed il quinto round videro solo azioni di pura schermaglia da parte di tutti e due i pugili: l’unica cosa di rilevante fu una goffa scivolata a terra da parte di Joe, preso in contropiede da un rolling brusco del suo avversario: tanto repentino da farlo sbilanciare e cadere seduto sul tappeto. L’arbitro iniziò la conta, nonostante le proteste di Joe, “Arbritrooooo, sono scivolato, accidenti!” il quale, sbuffando, si rimise in piedi al settimo.

Ai piedi del suo angolo Tange non la smetteva di strillargli “La lezione n. 1, porca miseria!”, dato che Joe, sordo come al solito ai suggerimenti del suo coach, si incaponiva con i ganci, con cui tuttavia non riusciva a sfondare la difesa avversaria, sprecando così un mucchio di energie.

Mr. Lewis, invece, pareva assai soddisfatto della prestazione del suo pugile. Si limitava ad incitarlo per “finire Yabuki, così non si rialza più”.

Cominciò quindi la sesta ripresa, tra il malumore generale. Il pubblico, infatti, pareva spazientito: a parte lo scenografico volo di ambedue i pugili fuori dal ring avvenuto al secondo round ed il colpo di incontro avvenuto al terzo, nulla di così rilevante era poi accaduto in un match importante come quello, di ben dieci riprese e, per di più, tra due campioni internazionali. Il prezzo salato del biglietto dovevano pur guadagnarselo, quei benedetti pugili! Fischi e proteste cominciarono, così, a serpeggiare tra le file. Qualcuno pensò pure di lasciare la sala prima della fine dell’incontro.

“Tsè… non c’è nulla da fare. Se non vedono il sangue che zampilla non sono contenti!” brontolò Tange, mentre Nishi gli dava di gomito.

“Guarda, vecchio. Sta accadendo qualcosa.”

Accadde infatti qualcosa: in Leon Smiley. L’americano pareva aver mutato improvvisamente di fisionomia. La resistenza pervicace di Joe, che nonostante tutti i colpi ricevuti, non desisteva mai ad attaccarlo, cominciò ora a far innervosire Leon, il quale smise di praticare la sua elegante arte di stilista per attaccarlo pure lui a distanza più ravvicinata. Joe dovette così sopportare una gragnuola di colpi potenti, cercando di serrare la difesa il più possibile ed aiutandosi con il gioco di gambe.

“IO sono il Re! Il Re! Non posso perdere!” gli sibilò Leon, in preda all’adrenalina a mille.

“Se tutto quello che riesci a fare è solo questo… mi dispiace deluderti, amico!” al che Joe riuscì a scansargli il braccio destro per spedire Leon al tappeto con un poderoso uppercut. Leon si rialzò all’ottavo, sbigottito.

Al settimo ed all’ottavo round i due pugili si limitarono ad azioni di puro disturbo, essendo molto stanchi: intesero tutti e due risparmiare le poche forze rimaste per le ultime riprese, come per una tacita e mutua intesa tra loro. La nona ripresa vide due magnifici colpi di incontro, di cui uno incrociato e per ben due volte Leon cadde al tappeto, mentre Joe riuscì a mantenersi in piedi, aggrappandosi alle corde per non volare giù: era sfinito, ma intendeva arrivare fino in fondo.

Provava ammirazione per la pervicacia dell’americano: lo capiva perfettamente. Lo capiva perché pure lui desiderava battersi con Mendoza: misurarsi con IL campione mondiale!

Anche io lo voglio… con tutte le mie forze!”

I due campioni esaurirono tutte le frecce delle rispettive faretre alla decima ed ultima ripresa: si sferrarono a vicenda dei ganci furibondi, soprattutto al corpo, dalla potenza paritaria. Poterono quindi tornare ai loro rispettivi angoli: il match era finalmente terminato. Ora bisognava solo attendere il responso dei giudici.

Yoko aveva seguito con apprensione tutto l’incontro. Spesso aveva incrociato, preoccupata, lo sguardo con il nonno e con Nakamura, che le avevano sempre sorriso per infonderle coraggio.

“Meno male che è finito… ogni volta è sempre difficile, per me.” mormorò.

“Purtroppo non è possibile fare nulla, Shiraki-sama. Possiamo solo starcene qua sotto, tutte le volte, ad aspettare.” disse Nakamura, in tono stanco. “Posso solo starmene ad aspettare che mio figlio ridiscenda da quel maledetto ring con le sue gambe” concluse l’uomo, tra sé e sé.

“Già… possiamo solo aspettare. E sperare.” La voce di Yoko era flebile, tanto che la udirono appena. Mikinosuke le strinse la mano, per darle conforto.

Qualche fila più in là, gli intensi occhi neri di un giovane uomo non avevano smesso di accarezzare la sottile figura vestita di rosa pallido seduta ai primi posti: per tutta la durata dell’incontro di Yabuki contro Leonard Smiley, Jun Kiyoshi non si era lasciato sfuggire nessuna sfumatura di espressione apparsa sul volto di Yoko. Neppure le occhiatacce scoccategli da Nakamura, il quale si era accorto subito dei suoi sguardi insistenti, lo aveva fatto desistere.

Arrivò il conteggio, alla fine: il verdetto venne pronunciato, con la vittoria di Joe ai punti.

°°°°°°°°°

Qualche giorno dopo, al Tange Boxing Club…


“Non ci siamo, non ci siamo! Quante volte ti devo dire che il gioco di gambe non va eseguito come fai tu! Atsumichi, per favore, vieni un po’ qua: fai vedere a Juro come si deve fare!”

Da quando la nuova palestra dava ospitalità ad altri sei giovani di belle speranze, il lavoro di Tange pareva non finir mai. Oltre al suo pupillo, adesso il coach doveva occuparsi di due pesi massimi, di due pesi welter e di due pesi medi. Questi ultimi si alternavano anche come sparring partner per Joe, che adesso poteva finalmente allenarsi in modo più regolamentare, specialmente in vista dell’incontro clou che si sarebbe tenuto entro alcuni mesi contro il campione del mondo. Erano finiti i tempi in cui il povero Tange, oltre che da preparatore atletico, da allenatore e da massaggiatore, doveva pure fungere da sparring partner! Tre sere a settimana, un fisioterapista di comprovata esperienza, assunto da Tange, veniva ad eseguire massaggi professionali ai suoi ragazzi, senza contare la dietista che aveva preparato per ciascuno di loro un preciso piano alimentare, a seconda della categoria di peso cui appartenevano. Ora che le sue condizioni economiche potevano finalmente dirsi più che floride, Danpei ci teneva a non far mancare nulla ai suoi atleti: pur in una piccola palestra di periferia, voleva che ogni cosa venisse fatta nel modo migliore.

In breve tempo, i nuovi pugili si erano ambientati benissimo: si sentivano un po’ come a casa loro, con un allenatore severo e burbero ma dal cuore d’oro, che li seguiva passo passo nel loro cammino verso il professionismo. Quanto a Joe, si era subito dimostrato affabile e collaborativo con tutti loro, un po’ come un fratello maggiore.

“Ehmmm… scusa Joe se interrompo il tuo allenamento,” farfugliò Masaki, uno dei pesi massimi.

A Joe ricordava un po’ Nishi, dato che pure Masaki era un gigante buono.

“Dimmi.” gli rispose, approfittando per bere un sorso d’acqua e per asciugarsi il sudore dal viso con una salvietta.

“Abbiamo visite, senpai****.”

“Ehi, ciao!” Joe sbatté le palpebre, un po’ stupito.

“Smiley? Sei ancora a Tokyo? Pensavo che fossi già ripartito!” gli sorrise. Non avrebbe mai creduto di ritrovarselo davanti!

“Beh, sai com’è… ora faccio il turista qui da voi. Voglio godermi questa bella città. La sera me ne vado in giro ad ascoltare musica e a bere qualcosa… siete strani voi Giapponesi, però mi piacete.”

“Ah grazie! Felice di piacerti pure io, allora!” ridacchiò Joe. “Vieni, ti offro qualcosa. Saliamo su in cucina.”

Passò il resto del pomeriggio a chiacchierare con Leonard: Joe lo trovava davvero simpatico, pieno di buffe trovate e con un forte senso dell’umorismo. Era da molto tempo che non si divertiva così, come un ragazzino spensierato… sempre che lo fosse mai stato, in fondo, all’epoca della sua vita solitaria ed errabonda.

“Ti insegno un gioco.” Leon estrasse un mazzo di carte dal taschino del suo giubbetto di pelle. “Su, estrai una carta… una qualunque. Però non girarla subito. Io indovinerò la carta che hai scelto.”

“Ma va… mica ci credo!”

“Su, prova.”

Seppur scettico, Joe scelse una carta, estraendola dal mazzo tenuto a ventaglio da Leon.

“Uhmmm… scommetto che hai preso un Jack!” Girando la carta, scoppiò in una franca risata, avendo indovinato.

“Ah, beh, ho capito: ci dev’essere un trucco!”

“No, no, nessun trucco, Joe. Solo logica e buona memoria. Adesso ti dico che cosa estrarrò io. Sicuramente un Re: e questo perché io lo sono… un Re, intendo!” replicò l’americano, sorridendo. La fronte gli si imperlò di freddo sudore, quando però si avvide che la carta scelta portava la figura nervosa ed inquietante del jolly.

“Che ti prende, amico? Tutto bene?”gli chiese Joe, vedendo l’espressione mutata di Leon.

“S-sì, tutto ok…” mormorò l’altro.

Questa non ci voleva. Era già la terza volta negli ultimi giorni che quel dannato jolly gli occhieggiava con il suo sorrisetto malvagio dal suo mazzo di carte preferito… essendo molto superstizioso, Leon sapeva che ciò non era di buon auspicio. Sospirò a lungo, al che bevve un lungo sorso della bibita offertagli dal suo ospite, per calmarsi. “Senti, ho da farti una proposta. Ho noleggiato una bomba di macchina, una fantastica De Tomaso Pantera giallo canarino per andarmene a spasso da re in questi giorni! Domattina vado a ritirarla. Che ne dici se domani sera passo di qua a prenderti e ce ne andiamo un po’ in giro a far bisboccia?”

“Ottima idea: passami pure a prendere quando vuoi, dopo le venti.”

°°°°°°°

La sera seguente, fatta una doccia rinfrescante, Joe si preparò ad uscire con Leonard, quando ricevette una telefonata.

“Yoko…”

“Scusami se ti chiamo a quest’ora, so che stai per uscire con Smiley, come mi hai detto ieri notte…ma non potevo aspettare fino a domani per avvisarti!”

“Cos’è successo?” le chiese con dolcezza.

“Si tratta di Carlos… finalmente lo hanno ritrovato!”

_________________________________

Spigolature dell’Autrice:

*matcha (抹茶): le foglie vengono cotte al vapore, asciugate e ridotte in polvere finissima. È usato nella famosa cerimonia del tè (fonte Wikipedia).



**umeshu (梅酒): è un liquore tipico giapponese, bevuto ben freddo nella stagione calda, ottenuto dalla macerazione della ume, una varietà di prugna ancora acerba e di colore verde, nell'alcool o anche nel sakè con aggiunta di zucchero di canna cristallizzato. Ha un sapore dolce, leggermente aspro, e un contenuto di alcool di circa 10-15 gradi (fonte: Wikipedia)




***suburb: ovvero, la periferia newyorkese abitata da pendolari benestanti che spesso lavorano nel centro della città (fonte: http://www.ilpost.it/2013/06/05/bronx/).

****senpai 先輩: con questo termine ci si riferisce indicativamente a colui che risulta esser più esperto in un certo ambito, che può esser il membro che sta più in alto nella scala gerarchica, per livello di responsabilità od età: egli offre assistenza, amicizia e consulenza al “novellino” privo ancora del tutto d'esperienza (fonte Wikipedia).

Ed ecco la straordinaria auto sportiva, una De Tomaso Pantera degli anni ’70, scelta dal nostro The King:


detomaso-pantera

******


Ricordo una volta di più che TUTTE le immagini da me scelte ed inserite nella presente fanfiction sono mero frutto di ricerca su Google e che non costituiscono violazione del copyright, tanto più che su efp si scrive senza scopo di lucro alcuno.


******


L’angolo del boxeur  :


Un ripassino sugli stili pugilistici. Ho già parlato dello stile proprio dell’incontrista (come il nostro Joe) e di quello dello stilista (Josè Mendoza). Ma vi sono altri modi di vivere la boxe, su quel benedetto quadrato:

Puncher: è un pugile con una dotazione tecnica completa, abile nel boxare a distanza ravvicinata, unendo la tecnica alla potenza e alla velocità, ed ha spesso la capacità di mettere fuori combattimento l'avversario con combinazioni di pugni o anche con un unico colpo. I movimenti e la tattica del puncher sono spesso simili a quelli di uno stilista, a differenza del quale, tuttavia, il puncher non tiene a distanza l’avversario, cercando solo di sfiancarlo sulla distanza: tende a demolire l'avversario con le combinazioni di colpi per poi cercare il KO. In Ashita no Joe, un puncher era di sicuro l’indimenticabile Tooru Rikishi. Lo era pure il povero Carlos Rivera.

Picchiatore: è solitamente un pugile carente di tecnica e di gioco di gambe, che compensa queste carenze con la pura potenza dei propri pugni. Molti picchiatori ricercano la stabilità dell'assetto per favorire la potenza, e per questo tendono ad essere insufficientemente mobili e ad avere difficoltà ad inseguire i pugili veloci di gambe, di cui possono anzi diventare un facile bersaglio. I picchiatori a volte tendono a trascurare le combinazioni, privilegiando le ripetizioni di colpi singoli, a volte portati con una sola mano e con grande potenza (per lo più ganci e uppercut), ma spesso con velocità minore di quella degli stilisti. Nishi Kanichi, prima di ritirarsi dal pugilato, era un peso massimo di questo tipo.

Aggressore (o "in-fighter"): è un pugile dall'aggressione continua, per questo chiamato anche "pressure fighter", che tenta di rimanere addosso all'avversario, aggredendolo con continue raffiche e intense combinazioni di ganci e uppercut. Un buon in-fighter necessita di buone doti di incassatore, perché questa tecnica lo espone ad essere colpito da serie di jab e diretti prima di riuscire ad entrare nella guardia dell'avversario, dove i colpi dell'in-fighter sono più efficaci. Gli in-fighter agiscono meglio a distanza ravvicinata perché generalmente sono di statura più bassa della media degli avversari e hanno un minore allungo, e perciò sono più efficaci ad una distanza in cui le più lunghe braccia dei loro avversari sono svantaggiate nel colpire rispetto alle loro. Molti in-fighter di bassa statura utilizzano quindi l'altezza ridotta come strumento per schivare i colpi ed infilarsi nella guardia dell'avversario, abbassandosi fino alla vita per passare sotto o di fianco ai colpi in arrivo. A differenza del bloccare i colpi con i guantoni, le schivate fanno andare a vuoto l'avversario causandone lo sbilanciamento, e consentono all'in-fighter di passargli sotto al braccio disteso con i pugni liberi per colpire d'incontro. Nonostante questo stile esponga parecchio i pugili che lo praticano ai colpi degli avversari, qualche in-fighter fu noto invece per essere stato difficile da colpire. Beh, direi che nella vita reale Mike Tyson fosse proprio uno da "pressure fighter"! (fonte: Wikipedia)

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Capitolo XXIX - Giro di vite ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Bella, bellissima cosa è il potersene andare a zonzo, senza rendere conto a nessuno: specialmente se sei al volante di una fantastica supercar.

Il rombo del suo motore sa essere una sinfonia che ti esalta, che ti fa sentire potente, unico, un vero re della strada. Ti senti un tutt’uno con l’asfalto, che divori ad una velocità che ti fagocita a sua volta.

Bello pure entrare in curva tagliandola in modo sapiente: non va sprecato neppure un solo secondo. Il tempo diventa, così, un concetto assai relativo.

Si corre, quindi, senza dover arrivare da nessuna parte.

Eppure si corre, per non sentire più niente, neanche l’eco dei propri pensieri.

Non si ha coscienza di nulla e si diventa istinto puro: lo stesso del falco che plana, librandosi, beato, sulle ali del vento. Lo stesso del ghepardo all’apice del suo ultimo scatto, prima di ghermire la preda. Non conta la meta: basta andare… andare oltre.

Ma arriva il momento in cui all’istinto si sovrappone la ragione: quella che ti fa capire che un certo limite non va mai superato e che ti fa prendere decisioni prudenti…

Fin quando i freni possono reggere.

°°°°°°°

“Abbiamo fatto un lavoretto pulito, non deve dubitare.”

“Me lo auguro. Non mi aspetto di meno, quando pago certe somme.”


°°°°°°°

Joe era sconvolto.

Non appena smetteva, anche se solo per pochi secondi, di pensare a Carlos, ecco che nella sua mente si riaffacciava il volto sorridente di Leon. Peccato che l’americano non avrebbe mai più sorriso al mondo… non a questo, almeno.

Le mani gli tremavano leggermente mentre infilava a caso qualche ricambio di vestiti e di biancheria in una capiente sacca sportiva. Il passaporto ed il biglietto aereo attendevano inerti sul tavolo della cucina. Yoko lo avrebbe raggiunto al check-in di Narita. Le ultime ore erano state un vero incubo, per lui: ovunque si girasse pareva proprio che nulla potesse andare per il verso giusto.

Carlos era stato ritrovato, sì. Ora era ricoverato in una clinica di Los Angeles. Yoko avrebbe voluto dargli qualche altra informazione sullo stato di salute di Carlos: ma Joe l’aveva zittita.

“Non mi interessa che mi si faccia la sua diagnosi. Io voglio solo sapere dove si trova e voglio rivederlo. Parto subito, con il primo volo.”

“Partiamo, vorrai dire. Ci vengo pure io. Dammi solo un paio d’ore di tempo per organizzare tutto.


“Yoko…”

“No, Joe. Questo problema va affrontato insieme. E poi ricordati che pure io sono affezionata a Carlos.”

“Non è lo stesso. Senza offesa, ma non sei un pugile e certe cose non puoi comprenderle.”

“Lo so bene, questo. Ma ‘certe cose’, come dici tu, voglio comunque condividerle con te. Non ci andrai, a Los Angeles, senza di me. Rassegnati.”


La sua Yoko sapeva essere assai cocciuta, anche più di lui: suo malgrado sorrise lievemente a quel fugace pensiero.

“Hai preparato tutto?”

Nishi Kanichi posò un involto sul tavolo, proprio al fianco dei documenti. Aveva pensato di fare una scappata in palestra dalla drogheria Hayashi, per portargli un succulento bentō* da gustare in aereo, dato che spesso i pasti offerti dalle compagnie aeree non erano poi questo granché. Joe annuì, senza quasi alzare lo sguardo sull’amico. Non era molto in vena di chiacchiere. Aspettava da un momento all’altro l’arrivo del taxi che lo avrebbe portato in aeroporto. “Quando sarai di ritorno?” gli chiese Nishi, per cercare di farlo sciogliere un po’.

“Non ne ho idea.” replicò l’altro, in tono incolore.

“Joe… cerca di stare su. Per Carlos Rivera, soprattutto. Ma anche per te. Sennò non sarai di aiuto a nessuno.”

Con affetto fraterno, Mammouth gli si avvicinò per dargli una pacca sulla spalla. Joe lo fissò per qualche istante, alzando il capo. A Nishi si strinse il cuore: le ultime ore avevano segnato impietosamente il suo povero amico. Il viso di Joe, già scarno di suo, aveva ora un colorito cereo. Le labbra gli apparvero tirate e senza colore. Ma ciò che più impressionò Nishi furono gli occhi del giovane: erano spenti, privi della fiamma che neppure la morte di Tooru aveva mai saputo affievolire.

Joe appariva stanco. Molto stanco.

Si udì in strada un colpo di clacson.

“Ora devo andare. Grazie Nishi. Ci vediamo.”

°°°°°°°°

La stampa si era scatenata: una notizia così succulenta non capitava tutti i giorni.

Jun Kiyoshi rimase disgustato dal comportamento di certi suoi colleghi reporters: la morte di un giovane di belle speranze non merita un tale sciacallaggio. Non merita titoli strillati sulle prime pagine dei quotidiani sportivi, e questo solo per far guadagnare qualche spicciolo in più alla testata per cui si lavora.

“Il gaijin perde con Yabuki e perde pure in curva.”

“Il campione americano non se ne ritorna in patria sulle sue gambe.”

“Le speranze di vittoria di Smiley si bruciano in un falò… contro un palo.”


Con un gesto di stizza, Jun appallottolò l’ennesimo quotidiano, per poi fargli fare un bel tuffo carpiato nel cestino della carta.

Certe volte provava vergogna per tutta la categoria professionale di cui lui stesso faceva parte: quello non era più giornalismo, proprio per nulla. C’era ben poco da ironizzare sulla morte di un venticinquenne andatosi a schiantare contro un palo, all’uscita da una curva a gomito. Da quel poco che era rimasto del bolide, che si era autocombusto a seguito del violentissimo impatto, difficilmente sarebbe stato possibile ricostruire l’esatta dinamica del sinistro. Forse lo sfortunato giovane aveva avuto un malore, perdendo, così, il controllo della sua auto… oppure i freni avevano smesso improvvisamente di funzionare bene… chi lo sa. Di certo non ci si improvvisa corridori, da un giorno all’altro, se non si è esperti in guida sportiva di mostri meccanici che raggiungono i 100 km all’ora in pochi secondi, con un semplice colpo di acceleratore.

Gran brutta giornata, quella.

Piuttosto che cercare di scriverci qualcosa, riguardo alla morte di Leonard Smiley, Jun avrebbe preferito battere sui tasti della macchina da scrivere per un pezzo sul nuovo flirt dell’attricetta di turno.

°°°°°

Los Angeles. Hotel dello Sheraton Plaza, nella Conference Hall.

Harry Robert si alzò in piedi dal morbido divanetto, non appena vide due figure a lui ben note superare la porta girevole.

“Eccovi arrivati. Avete fatto un buon viaggio?”

Con fare cordiale, strinse la mano a Joe e fece a Yoko un galante baciamano.

“Abbastanza, grazie.” Yoko gli sorrise, mesta. Quante cose erano cambiate, dal loro ultimo incontro…

“Vi ho fatto riservare due belle camere tranquille. Due minuti qui alla hall per le generalità e poi potrete finalmente salire a riposarvi un po’.”

“Preferirei andare subito da Carlos, se non ti dispiace. Per oggi posso anche andarci da solo: basta che tu mi dia l’indirizzo e mi arrangio da me.”

Joe si guardava nervosamente in giro, osservando gli specchi e le dorature di quella magnifica sala: no, decisamente, tutto quel lusso pretenzioso, così… americano, non faceva per lui. I visi rubicondi dall’espressione soddisfatta dei danarosi occidentali che vedeva intorno a sé non facevano per lui. Proprio per niente. E Carlos era ormai vicino, tanto vicino… cosa cavolo ci faceva lì, ancora? Perché non si andava subito in clinica?

Harry sospirò. Gli ultimi mesi lo avevano segnato profondamente. Rughe sottili gli solcavano la fronte e gli angoli degli occhi. Appariva più magro e dimesso del solito, la schiena un po’ curva.

“Non è possibile, Joe. Oggi è lunedi e di lunedi non sono permesse le visite. Ma già domattina potrete andarlo a trovare: verrò io stesso a prendervi, verso le dieci per accompagnarvi alla clinica. Va bene?” propose, conciliante.

Joe annuì, stringendo le labbra.

Dopo qualche minuto, lui e Yoko si ritrovarono da soli, in stanza. La ragazza non ci aveva proprio pensato di lasciarlo da solo e, silenziosa, lo aveva seguito nella camera di lui, ignorando la sontuosa suite che Harry le aveva fatto appositamente riservare. Si distesero sul morbido letto matrimoniale, così… con ancora tutti i vestiti del viaggio addosso, ormai un po’ stazzonati.

Joe taceva, ancora e di nuovo. Neppure in aereo e per tutto il viaggio aveva parlato poi molto, limitandosi a guardare Yoko in viso con dolce malinconia, quando non fissava il cielo fuori dal finestrino. Com’era diverso lo scopo di quel nuovo viaggio via dal Giappone, questa volta.

Niente incontri, niente sfide coraggiose.

Nessun campione del mondo da emulare.

Yoko si stringeva a lui, le mani nelle mani, rimanendo all’erta ed ascoltando il respiro di Joe che, alla fine, divenne più lento e flebile. Si era assopito, finalmente. Durante il viaggio transoceanico Joe non era riuscito a chiudere occhio: ma, alla fine, l’impietoso jet-lag l’aveva avuta vinta pure su di lui. Con un profondo sospiro, Yoko chiuse gli occhi, affidando pure se stessa ad un po’ di riposo.

°°°°°°°

Ci sono situazioni che nella vita non vorresti mai dover affrontare.

Volti che interroghi ansiosamente chiedendo: “Perché? Perché accade questo?”

Non conta se sei in piedi, seduto, appoggiato alla parete.

Ti senti comunque sprofondare in un buco nero e, per quanto tu possa muoverti per cercare di riemergere e di tirartene fuori, cadi sempre più giù… Sei impotente, inutile.

Non vali più di un fantoccio in balia del vento, esattamente come uno stupido spaventapasseri.

La verità è che non servi a niente… assolutamente a niente.

Inutile raccontarsi delle balle pietose.

°°°°°°°

Joe, seduto sulla panchina del parco, teneva tra le mani un orsetto di peluche con un buffo cappellino rosso, che gli era stato affidato. Lo reggeva saldamente, come se si trattasse di un tesoro prezioso.

“Esto es Chico ... y es mi mejor amigo. Yo no se puede mantener un momento, por favor?” (“Questo è Chico...ed è il mio migliore amico. Me lo puoi tenere un momento, per favore?”)

Carlos non aveva smesso un solo momento di sorridere.

Sorrideva a tutto e a tutti, in modo dolce e fiducioso: a Joe, a Yoko, ad Harry… e così pure al medico che gli aveva rivolto poche e pacate domande, e all’infermiera bionda che gli aveva portato la pastiglia da assumere con un bicchiere d’acqua. Carlos non aveva privato del suo sorriso neppure il bel prato verde e le aiuole variopinte. In quel momento la sua attenzione era stata catturata dal volo leggero di una farfalla: proprio per correrle dietro aveva affidato a Joe, in tono complice, il suo piccolo amico.

Joe si sforzava di non ascoltarla la voce del medico che, in tono basso e professionale, spiegava a lui ed a Yoko di cosa fosse affetto Carlos, mentre, un po’ in disparte, Harry si era acceso una sigaretta, senza però mai perdere di vista il suo pupillo, che adesso correva dietro alla farfallina con la semplicità di un bimbo di pochi anni.

Joe non udiva quasi più i paroloni scientifici.

Solo a sprazzi e suo malgrado, gli pervenivano alle orecchie, come un’eco molesta, termini quali: “… forma di Alzheimer… encefalopatia… si regredisce sempre più…”

Yoko annuiva, affranta, ogni tanto rivolgendo qualche timida domanda al dottore, per poi ricevere risposte assai poco rassicuranti.

Joe non volle sentire più nulla. Si alzò dalla panchina e raggiunse Carlos in poche falcate.

“Che ne dici di catturarla insieme, la farfalla? Guarda, ho portato pure Chico. In tre ce la facciamo!”

Carlos scoppiò a ridere, felice: quello sì che era un gioco bellissimo!

Joe si calcò il berretto sulla fronte, fingendo di divertirsi e fingendo di non sentire le lacrime brucianti che gli rigavano, dispettose, il viso.

°°°°°°

“Me la pagherai. Maledetto!”

Labbra diverse, lingue diverse, luoghi diversi.

Ma vennero mormorate le stesse, identiche parole.

Non era servito a nulla, alla fine. Nessuna somma, per quanto ingente, era stata sufficiente ad ottenere un risultato concreto.

Oltre alla vittima sacrificabile - dato che in tutti i giochi di potere che si rispettino ci sono delle persone in più e perfettamente inutili, atte ad essere eliminate senza troppi scrupoli d’ordine morale – avrebbe dovuto essere chiuso per sempre il capitolo di Joe Yabuki. E invece… Joe era vivo, ancora. Su quella dannata macchina, i cui tubi dei freni erano stati bucati di proposito, c’era salito solo lo stupido straniero.

Dannazione.

Nel contempo, con un intero oceano in mezzo, dei pugni furiosi venivano sferrati sul sacco, senza sosta, con un accanimento tale da far credere che il pugile in questione volesse, in realtà, colpire una persona in carne ed ossa, e non un oggetto inerte.

“Gli hai portato jella… fottuto di un muso giallo! Ma non finisce qui!”

_______________________________________

Spigolature dell’Autrice:


*bentō (お弁当): spesso lo si vede nei manga/anime ed incuriosisce da sempre noi Occidentali! Si tratta semplicemente del confezionamento del pasto da consumare fuori casa, a scuola o al lavoro, durante la pausa pranzo. La scatola da bentō è dotata di divisori interni atti a separare cibi differenti e viene avvolta in un pezzo di tessuto oppure anche in borse speciali, insieme alle bacchette. Il bentō viene sempre confezionato in modo da creare un pacchettino esteticamente gradevole ed allettante, studiando le combinazioni di colore dei cibi. Le scatole bentō sono di vari materiali e dimensioni: possono essere di plastica usa e getta, di legno o metallo, semplici, stampate, decorate, oppure addirittura opere artistiche laccate e fatte a mano. Alcuni hanno addirittura uno scompartimento thermos, che contiene riso mantenuto caldo o la zuppa di miso. Il bentō contiene riso e contorni, ovvero diverse specialità di pesce, carne, verdure, onigiri, tempura, verdure cotte o marinate, tōfu e altri cibi varianti a seconda della stagione e, ovviamente, dei gusti personali (fonte: Wikipedia).




 
§§§§§§§

Quello di Carlos Rivera è e resterà sempre un personaggio splendido e tragico, indimenticabile, verso cui provo molto affetto.

Nella mia fanfiction ho voluto però apportare una sostanziale modifica alle modalità di ricomparsa di questo sventurato ragazzo. Nella storia originale, infatti, Joe si ritrova Carlos da solo, malvestito ed in evidente stato confusionale, al Tokyo Taiikukan al termine del suo incontro con Arimau. Solo che una persona affetta da una grave malattia mentale, come nel caso di Rivera, non ce la vedo proprio alle prese con un volo intercontinentale per muoversi in una città straniera. Un pugile suonato, ovvero una persona affetta da una grave forma di encefalopatia, non ricorda (quasi) neppure come si chiama. Per questo motivo nella mia storia ho deciso di far partire Joe e Yoko alla volta della California, per andare a trovare una persona malata ricoverata in una clinica: così mi è parso di rendere la vicenda più verosimile.


Io preferisco ricordarlo così:

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Capitolo XXX - Io sono la tua morte, e tu sei la mia ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Davvero, c’era qualcosa che proprio non quadrava.

Da quando Tange gli aveva fatto notare che solo per un puro caso Joe non era uscito quella maledetta sera insieme a Leonard Smiley, Nakamura non aveva smesso di pensarci. Come non aveva mai smesso di ripensare all’agguato che era stato teso al suo ragazzo giusto alcuni mesi prima. Era evidente che esistesse qualcuno, laggiù, nella massa indistinta dei cittadini di Tokyo, che odiasse a morte suo figlio.

Occorreva investigare.

Occorreva scavare… scavare a fondo, per arrivare alla verità.

°°°°°°°

C’erano stati giorni migliori e giorni peggiori… non era stato sempre tutto monocorde.

Alcune volte, e solo per qualche secondo, Carlos gli aveva scoccato un’occhiata cosciente e lucida, come se lo stesse riconoscendo, chiamandolo per nome non per mero riflesso, come fanno i pappagalli ammaestrati, ma come se ricordasse ogni singolo istante del suo passato. In quei brevissimi sprazzi in cui la malattia mentale pareva volersi prendere una pausa, Joe aveva osato sperare che il suo amico non volesse arrendersi e che volesse lottare per riappropriarsi della propria identità.

Ma la speranza, come una timida e fioca luce, si spegneva, inesorabilmente.

Tutte le volte.

Joe parlava per ore con Carlos, giocava con lui a nascondino e ad acchiapperella, gli portava orsacchiotti di peluche e libri illustrati, gli imboccava la merenda, quasi sempre un budino alla vaniglia che Carlos ingollava tra mille smorfie. Una volta Joe provò pure a raccontargli una bella favola che gli aveva suggerito Yoko. Quest’ultima cercava di interferire il meno possibile nel rapporto di Joe con Carlos: non voleva intromettersi tra i due amici e si limitava a starsene sempre un po’ in disparte, seduta su una panchina del parco un poco distante da loro.

Joe trattava Carlos con pazienza e tenerezza infinite, come se si trattasse di un bimbo di pochi anni. A più riprese, ricacciava le lacrime a forza, mostrando sempre all’amico un volto disteso e sorridente, mentre dentro si sentiva morire…

Alla fine, però, dovettero risolversi a ritornare a casa.

Il soggiorno a Los Angeles era durato quasi tre settimane e, pur soffrendo moltissimo per il distacco dal malato, Joe e Yoko, dopo aver promesso ad Harry Robert che avrebbero fatto un’altra visita a lui e a Carlos il prima possibile, furono costretti a prestar fede ai loro numerosi impegni in patria. Joe doveva intensificare gli allenamenti, dato che la fine dell’anno con la disputa del titolo mondiale si stava avvicinando sempre più, mentre Yoko non poteva trascurare i suoi affari ancora per molto: nonostante le deleghe conferite ai suoi legali di fiducia, alcune questioni dello SBC attendevano urgentemente la sua personale supervisione. Per loro e, per Joe soprattutto, fu difficile e doloroso lasciare Carlos: pur sapendolo amorevolmente assistito e curato, salirono sull’aereo per Narita con il cuore gonfio di tristezza e di rimpianto.

°°°°°°°°

“Dove stai andando?”

La ragazza si stiracchiò sul letto, rimanendosene a contemplare la schiena tonica e dai muscoli guizzanti del suo compagno che le dava le spalle, intento ad infilarsi i calzoni.

“Fatti i cavoli tuoi.”

“Poco fa non mi parlavi con questo tono.” mormorò lei, con voce tremante.

“Poco fa mi scaldavi il letto.”

Dudley si abbottonò la camicia, lasciando slacciati solo i primi due bottoni del colletto, in modo che si vedesse ben bene la catena d’oro di cui andava tanto orgoglioso. Si concesse il tempo di percorrere con lo sguardo il corpo burroso e ben fatto della giovane venere nera, malcelato dal sottile lenzuolo.

“Quando ritorno, vedi di non farti trovare qui.” le intimò, con studiata freddezza.

Non osò, però, interpellare il suo stesso coach con lo stesso tono sprezzante. Quando arrivò in palestra, infatti, Dudley Walker si beccò da Mr. Lewis l’ennesima ramanzina per l’ultimo pestaggio del quartiere del giorno prima, da cui aveva riportato un occhio pesto ed il labbro spaccato. Non fiatò, sebbene gli prudessero le mani: non fece nulla di rimando alle rampogne dell’allenatore per il semplice motivo che Morgan Lewis gli serviva per combinargli il prossimo incontro. Ora come ora la cosa che più gli premeva era andare a spaccare quel maledetto muso giallo che aveva jellato Leon.

Voleva volare a Tokyo e fare più danni possibili in quella fottuta città per avergli ridato i resti combusti del suo povero amico chiusi in una bara.

°°°°°°°°

Joe versò l’acqua ed il tè, per poi accendere l’incenso.

Contemplò la lapide chiara, su cui la luce del sole tracciava dei lievi giochi di chiaroscuro.

Era da un po’ che non andava a trovarlo… le ultime sfide che aveva affrontato, come uomo e come pugile, gli avevano lasciato ben poco tempo libero.

Ma sapeva di poter sempre ritornare da lui, di ritrovarsi a quel punto: il passato riaffiora sempre, alla fine.

Ne è passato di tempo dall’ultima volta che sono venuto qui, da te.

Scusami.

Ma tu lo sai che sto lavorando sodo: lo faccio per tutti e due…


Sono sempre un peso medio: sono ancora nella nostra categoria, ricordi? Te lo dovevo.

Fra qualche mese mi incontrerò con Mendoza ed avrò bisogno anche del tuo, di aiuto, per resistere.

Per resistere fino alla fine.


°°°°°°°°

Un tardo pomeriggio, al Tange Boxing Club.

Tutti e sette i giovani pugili si allenavano coscienziosamente, attendendo il ritorno di Tange: proprio quel pomeriggio, questi si era recato alla Federazione, essendo stato convocato dal Presidente in persona.

Joe, sorridendo, stava aiutando a rialzarsi Chomei, che di solito gli faceva da sparring partner, e questo per l’ennesima volta. Il ragazzo sorrideva, ringraziando Joe per i consigli che gli andava elargendo.

“La guardia bassa, per ora, lasciala a me. Non sei ancora pronto. Serra bene i guantoni davanti agli zigomi, piuttosto… o finirai per terra di nuovo!”

“S-sì, va bene…”

“Non ti distrarre o vedi cosa ti faccio?”

Dopo esserselo lavorato ai fianchi, sì da fargli scendere i pugni per meglio puntellare i gomiti al dorso, Joe gli sferrò un gancio sinistro alla gota di discreta potenza, pur senza infierire troppo e misurando il carico del pugno. Chomei stramazzò lo stesso a terra.

“Umpf, a che punto siete voi due?” tuonò in palestra il vocione di Danpei, giunto allora allora. Sette paia d’occhi lo fissarono, incuriositi: i ragazzi interruppero gli esercizi simultaneamente… per poi riprenderli alla velocità della luce, non appena il coach abbaiò loro di non distrarsi! “Joe, scendi un secondo dal ring: ti devo parlare. Chomei, continua ad allenarti in sparring con Nobuo, non ti fermare.” ordinò, interpellando il terzo peso medio del club.

“Cosa ci sarebbe di così urgente da farmi interrompere l’allenamento?” brontolò Joe, levandosi caschetto e guantoni per potersi spruzzare in faccia un po’ acqua tiepida, stropicciandosi la zazzera scura con fare nervoso.

“Senti… in Federazione mi hanno parlato del tuo prossimo sfidante.”

“Mendoza? Se ne parla tra qualche mese, me lo ha già confermato Yoko più volte. Il campione non può bypassare alcuni incontri, prima di vedersi con me. Quindi prima di novembre o anche di dicembre non se ne parla proprio.” brontolò, bevendo un paio di sorsi e sedendosi sulla panca.

“Non si tratta di Mendoza. Altrimenti la Federazione Pugilistica non si sarebbe scomodata a mandarmi a chiamare, dato che gli accordi con il campione li abbiamo presi con Shiraki-sama e con la Tele Kappa. No, Joe… si tratta di un altro pugile, con cui dovrai incontrarti prossimamente.” Danpei sospirò, dispiegando alcuni fogli che aveva piegato per cacciarseli in tasca. Li porse a Joe. “Si tratta di un altro atleta di Mr. Lewis… sì, non guardarmi con quella faccia… proprio lui, il procuratore di Smiley, povero ragazzo. Questo qui si chiama Dudley Walker, e pure lui è di New York. Pare che sia un osso duro.”

“Chissene. Non mi interessa.” Joe replicò, secco.

Si alzò dalla panca, dopo aver fatto volare tutti i fogli per aria. Stava per ritornarsene sui suoi passi, mani in tasca, ma le parole di Danpei lo fecero arrestare.

“Joe, il Presidente mi ha consegnato una lettera di Dudley Walker in persona, che ha spedito alla Federazione, non conoscendo il nostro indirizzo: è una lettera per te… è scritta in inglese, dovresti riuscire a leggerla: so che mastichi abbastanza quella lingua stramba.”

“Dammi qua.” Joe la sfilò a Danpei con gesto febbrile.

Lesse con lentezza, dato che l’inglese riusciva a parlarlo benino, ma nella lettura non era molto ferrato. Man mano che i suoi occhi scorrevano le righe – che fatica leggere da sinistra a destra, ed in orizzontale! - Joe impallidiva sempre più, assumendo un colorito verdognolo, da olivastro qual era.

“Che razza di stronzo…” sibilò tra i denti.

“Cosa dice?” chiese Danpei, tra il curioso ed il preoccupato, avvicinandosi a lui per spiare nello scritto.

“Bazzecole… mi chiama bastardo, mi augura di morire, afferma che ho portato jella al suo amico Leon e che per questo vuole spaccarmi il culo… carinerie così. Eh, che te ne pare?” bofonchiò Joe, sorridendo beffardo.

Tange conosceva bene quel sorriso: lo aveva visto tante volte sul viso di Joe, soprattutto ai loro vecchi tempi. Se sorrideva così, non era per gioia o per soddisfazione: quello era un sorriso di sfida, di competizione. Era il sorriso di chi non vuole arrendersi alle avversità della vita. Neppure sul ring, con il viso gonfio e tumefatto per i colpi ricevuti, Joe aveva mai smesso di sorridere in quel modo al suo avversario, all’arbitro, ai giudici… al mondo intero. Il coach capì subito che, ancora una volta, il suo ragazzo non si sarebbe tirato indietro. La lettera aveva sortito il risultato sperato dal suo mittente.

Joe aveva però tralasciato di riferire a Tange la frase di Walker che più delle altre lo avesse colpito e turbato. Per tutto il resto della giornata, che fosse la prosecuzione dell’allenamento o la consumazione della cena insieme a Tange ed agli altri ragazzi nella sala da pranzo su al primo piano, ecco che alcune parole continuavano a ronzargli nel cervello, come un disco incantato o anche un’eco fastidiosa.

Io sono la tua morte e tu sei la mia*.

°°°°°°°°

“E così, Joe si appresta ad incontrarsi con un altro americano, Dudley Walker.”

Quella di Jun Kiyoshi era più una constatazione, che una domanda. Aveva seguito, con il suo solito passo tranquillo ed elastico, Yoko Shiraki, una volta vistala uscire dalla sede della Federazione Pugilistica per varcare la soglia di una elegante sala da tè in stile inglese, a quell’ora frequentata da turiste occidentali e da anziane signore della media borghesia giapponese. Yoko sospirò leggermente, indicando la sedia di fronte a lei, per invitare il reporter al suo tavolo. L’aveva seguita, a quanto pareva: a questo punto, tanto valeva sentire cosa volesse!

“Grazie.”

Jun le si accomodò di fronte osservandola a lungo. Il viso di Yoko appariva un po’ stanco e tirato, nonostante il velo di blush steso sugli zigomi delicati per simularne la bonne mine**.

“È da un po’ che non ci si vede.”

“Verissimo. E tutte le volte Lei compare dal nulla, come un folletto.” sorrise Yoko, quietamente. “Quanto alle sue parole di poco fa, sì: Le confermo che Joe disputerà un incontro contro Mr. Walker. Però La prego, almeno per il momento, di non scrivere nulla al riguardo: la cosa non è ancora ufficiale. Conto sulla Sua discrezione.”

“Certo. Ma ad una condizione.”

“Ovvero?” domandò Yoko, inarcando le sopracciglia, con chiaro disappunto.

“Una cena. Con me.”

Yoko rimase interdetta per qualche secondo. Bevve un sorso di acqua tonica, per darsi un contegno.

“Non mi pare il caso.” replicò, asciutta.

“Beh, se verrà a cena con me, Le racconterò un bel po’ di cosette sul conto di Walker… Qualche tempo fa ho assistito ad alcuni suoi incontri, di cui ho preso appunti. Sono un bravo ragazzo che studia la sua lezione,” le sorrise, allegro “… e poi suvvia, cosa c’è di male a mangiare un boccone con un suo vecchio amico ed alleato? Una donna emancipata come Lei, una donna d’affari, non deve rendere conto a nessuno delle sue azioni!”

Yoko sospirò, di nuovo. In fondo, non c’era nulla di male a cenare con un amico giornalista. Se poi quest’ultimo le avesse dato davvero delle informazioni preziose sul conto del prossimo sfidante di Joe, un paio d’ore trascorse al ristorante con Kiyoshi a parlare di boxe avrebbe assunto il valore di una cena di lavoro.

Né più e né meno.

“Va bene, Kiyoshi. Però il ristorante lo scelgo io.” sorrise.

Arrivò la sera dell’appuntamento: Yoko aveva scelto un grazioso ristorantino francese, non troppo lontano dallo Shiraki Boxing Club, che raggiunse comodamente a piedi, rifiutando così il passaggio in auto dal reporter. Per l’occasione, come per sottolineare l’intento puramente professionale dell’incontro, era rimasta con la medesima mise della mattina: un sobrio tailleur blu scuro, appena rischiarato dalla camicia in chiffon color crema.

“Bene. Possiamo accomodarci.”

“… un calice di buon rosso, per iniziare?” suggerì l’uomo, che non le staccava gli occhi di dosso. Non avrebbe mai smesso di guardarla.

“Perché no. Volentieri, grazie."

Chiacchierarono del più e del meno, mentre l’esperto sommelier rabboccava loro i calici di un Pommard*** d’ottima annata.

“Bene… che ne diresti di cominciare ad ordinare?” suggerì Jun.

“Possiamo aspettare ancora qualche minuto?”

“Sì, certamente, ma…”

Jun non finì la frase, dato che vide avvicinarsi al loro tavolo una figura ben nota. Il sorriso gli morì sulle labbra.

“Scusate se vi ho fatto attendere. Il Consiglio di Amministrazione non si decideva a deliberare.”

“Nonno, non ti preoccupare: noi ti abbiamo atteso bevendo del buon vino.”

Yoko si alzò per fare meglio accomodare Mikinosuke Shiraki, chiamando un cameriere per fargli servire un terzo coperto. Potè così offrire al nonno un calice di vino: “È assolutamente divino, questo vino borgognone: mi ricorda un nostro viaggio in Francia di qualche tempo fa. Ricordi?” gli disse, dolcissima.

Jun assistette, livido in viso, all’affettuoso scambio di battute tra nonno e nipote.

“Me l’hai fatta, Yoko, accidenti…”

“Bene: adesso che ci siamo tutti,” disse Yoko, con un sorriso innocente “possiamo ordinare la cena ed ascoltare il tuo resoconto su Dudley Walker.”

_____________________________

Spigolature dell’Autrice:


*curiosità storica: questa frase venne pronunciata nientemeno che da Anna Bolena, riferendosi alla moglie ed alla figlia di Enrico VIII, alias Caterina d’Aragona e Mary Tudor, dato che il divorzio di Enrico pareva allontanarsi sempre più e quindi la possibilità per lei di sposarsi con il Re. Per la precisione, Anna disse, in un momento di rabbia e di sconforto: “Loro sono la mia morte, ed io la loro”.

**bonne mine: bell’aspetto, dal francese, lingua che adoro ^_^

***Pommard: un pregiato vino rosso della Borgogna, dal gusto ricco e sontuoso, con sentori di frutta e di cioccolato (credits: http://www.vins-bourgogne.fr)

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Capitolo XXXI - Nέμεσις ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

“Vecchio, ma è proprio necessario?”

Joe stava finendo di vestirsi: di lì ad un’ora circa si sarebbe tenuta una conferenza stampa nientemeno che alla Tele Kappa, in presenza del presidente Iwao Fujita, dei giornalisti sportivi… e del team Lewis. Pochi giorni addietro, infatti, Dudley Walker era arrivato a Tokyo, pretendendo a viva voce un incontro televisivo in diretta con il suo prossimo sfidante. Il Giappone non era ancora molto avvezzo a certe consuetudini proprie degli incontri sportivi statunitensi: seppur con riluttanza iniziale, alla fine Fujita-san aveva dovuto acconsentire. Del resto, ad un po’ di pubblicità gratuita non si può dir di no a cuor leggero: e di certo un incontro intermedio di Joe con un altro pugile straniero, in attesa di poter assistere a quello clou dell’anno contro Mendoza, poteva pur sempre suscitare un discreto interesse da parte del pubblico appassionato di boxe!

“Ormai non possiamo più tirarci indietro. E se tu non partecipassi, Dudley Walker sarebbe capace di andarsene in giro dicendo che hai paura di lui o stronzate del genere … l’hai letto il biglietto che ti ha mandato, no? Non esiterebbe a diffamarti, quel tizio. Su,” Tange gli porse il giaccone, “datti una mossa, o arriviamo in ritardo. La sede della Tele Kappa non è propriamente dietro l’angolo.”

In quel mentre, udirono il colpo di clacson del taxi prenotato, che li aspettava parcheggiato fuori dalla palestra.

“Bah… piuttosto è questo quartiere che si trova in culo al mondo!” bofonchiò Joe, visibilmente scocciato. Avrebbe preferito milioni di volte potersene stare tranquillo a continuare il suo allenamento, anziché perdere del tempo prezioso a fare la star televisiva! Dopo un cenno di saluto agli altri ragazzi del club, Joe fece calare sul viso la sua consueta maschera di ironica indifferenza, fischiettando un motivetto leggero.

Una volta giunti alla sede televisiva, Joe e Tange trovarono una discreta folla di giornalisti e di curiosi: onde evitare di essere “amorevolmente” assediati, pensarono di filarsela per un’entrata secondaria, così da poter entrare nel palazzo indisturbati.

La sala delle conferenze era già gremita: oltre ai cameraman ed ai telecronisti, non vi prendevano parte solo i reporter giapponesi, ma anche quelli di New York, inviati dalle principali testate giornalistiche sportive statunitensi. Fujita aveva saputo fare le cose in grande, seppur con pochi giorni di preavviso: aveva pure fatto allestire un sontuoso buffet di cucina internazionale ed aveva assunto, per l’occasione, pure delle premurose hostess e dei bravi barman: nessuno avrebbe avuto così da ridire sull’arcinoto spirito di accoglienza del paese del Sol Levante!

Joe venne accolto dai flash, che quasi lo accecarono, facendolo innervosire: inutile, non si sarebbe mai abituato allo star system! Quella roba proprio non faceva per lui!

“Un momento di attenzione, prego. Innanzitutto grazie a tutti voi per aver accettato il nostro invito,” cominciò Fujita, facendo abbassare il brusio delle voci ed invitando tutti gli astanti a prendere posto: “nonostante un invito dell’ultima ora. Dopo la conferenza, nel salone attiguo sarete tutti graditi ospiti della Tele Kappa, con un catering allestito appositamente per voi. Adesso diamo il benvenuto ai nostri beniamini: Yabuki Joe e Mr. Dudley Walker! Un bell’applauso, per favore!”

La graziosa interprete traduceva in tempo reale il discorso del presidente, man mano che veniva snocciolato. Uno scroscio entusiasta di battimani sottolineò l’ingresso dei due protagonisti della giornata, ognuno dei quali affiancato dal proprio procuratore. Presero posto specularmente alle due ali del tavolo, al di qua ed al di là di Fujita-san e dell’interprete.

Joe teneva lo sguardo fisso di fronte a sé, come se, a bella posta, ostentasse di voler ignorare l’americano. Nonostante tale atteggiamento, si sentiva però addosso gli occhi di Walker tenacemente fissi, quasi come se volessero trapassarlo da parte a parte. Strinse le labbra e calcò ancora di più il berretto fin sugli occhi, con fare strafottente. I giornalisti cominciarono con le loro domande, cui i due pugili risposero pressoché a monosillabi: il lavoro ingrato di soddisfare esaurientemente la curiosità delle testate sportive venne quindi affibbiato a Lewis ed a Tange, i quali si dimostrarono ben più educati e disponibili dei loro rispettivi pupilli.

Ad un certo punto, Dude si alzò in piedi e, con due balzi, raggiunse Joe dall’altra parte del lungo tavolo: non lo prese alla sprovvista, però, perché per tutto il corso della conferenza, i muscoli di Joe erano stati percorsi dai tremori dell’eccitazione e dell’adrenalina. Il suo corpo, a differenza del viso mantenuto volutamente nella più totale inespressività, era sempre rimasto vigile e teso, pronto a scattare. E scattò, infatti, con un movimento talmente rapido da essere quasi impossibile da visualizzare. Dude si ritrovò così il suo avversario in piedi, a pochi centimetri di distanza. Ora i due ragazzi si fronteggiavano, furibondi: due paia di intensi occhi neri, di diverso taglio ma dalla medesima espressione di cupo furore, parevano essere il comun denominatore di un muto messaggio di confronto, di desiderio di rivalsa.

Di odio.

I loro corpi erano rigidi e tesi, come due blocchi di marmo e le mani strette a pugno, con le nocche bianche. Lievi stille di sudore percorsero i loro volti, dalle mascelle contratte sino al parossismo.

I giornalisti non si fecero scappare il ghiotto boccone: flasharono i due pugili, ben contenti di riempire le rispettive testate con le fotografie ritraenti quella silenziosa ed inequivocabile sfida. Tange e Lewis si scambiarono, ansiosi, un fugace sguardo ed accorsero subito dai loro rispettivi pugili, per tenerli lontani l’uno dall’altro, temendo che potessero scatenare il finimondo!

“Vieni Joe… ti prego, lascialo perdere! Tra pochi giorni te la vedrai con lui su un ring! Vieni via!”

Intanto Dude sorrideva a Joe, tentennando leggermente il capo a mo’ di dileggio: un sorriso carico di aperto disprezzo, il suo. Nulla a che vedere con la sincera bonarietà del povero Leon Smiley, dimostrata a Joe sia durante il loro incontro che fuori dal ring. Com’era diverso questo Walker… amico di Leon, a quanto pare, anch’esso pugile assai promettente della scuderia di Lewis: ma con un’aura distruttiva che coinvolgeva tutto ciò che andava a toccare. Una pura fiamma di odio: odio cieco e pazzo, financo stupido. Ma senza freni. Joe si divincolò con uno strattone dalla stretta di Tange e stavolta fu lui ad incombere su Walker: con un gesto fulmineo, estrasse dalla tasca una pallottola di carta.

“Eccoti qua la mia risposta alla tua lettera!” gli sibilò, lanciandogliela addosso.

L’altro non smise di sorridere, sputando in terra in direzione di Joe. Al che si voltò e se ne andò, con Morgan Lewis che gli trotterellò dietro, dopo essersi scusato con Joe e Tange, profondamente costernato. Fujita-san rimase impietrito, incapace di dire o di fare alcunché, per arginare lo scandalo, mentre i cameraman continuavano meccanicamente a riprendere la scena ed i giornalisti, eccitatissimi per lo scoop, non smettevano di vociare e di scattar foto.

°°°°°°°°

Tokyo, stazione di Iidabashi, al tempio di Daijingu, nel tardo pomeriggio.



Da tempo immemore amava immergersi nell’atmosfera tranquilla del tempio.

Fuori dal torii*, la città continuava con i suoi ritmi convulsi, senza fermarsi mai. Ma era sufficiente oltrepassare il portale per sentirsi lievemente trasportati in un altro luogo… in un’altra vita.

Quanti anni erano passati, dalla prima volta?

Più di cinquanta. Ora come allora, indossava sempre lo stesso kimono, per fare visita ai suoi kami**, almeno con il pensiero e con la preghiera. Di tutto il proprio folto guardaroba, composto da kimono dal valore inestimabile - dato che ognuno di essi era di pura seta di gelso***, e spesso era stato dipinto a mano anziché semplicemente stampato: quindi ognuno dal valore di milioni di yen – Hatsuyo Shiraki custodiva gelosamente proprio quello più semplice e disadorno. Per lei quello era il kimono in cui racchiudeva le sue lacrime: asciutte sugli occhi da mezzo secolo, ma mai prosciugate nel suo cuore. Le tinte blu scuro della seta un tempo si erano perfettamente accordate ai riflessi argentei dei suoi capelli. Ora si rispecchiavano nelle ombre che le si agitavano dentro, sin nel profondo.

I gesti rituali si ripeterono, sempre uguali, una volta di più.

Alla fontanella del drago, muto custode di pietra, Hatsuyo si purificò le mani, prima di pregare: si lavò prima la mano sinistra, poi la destra. Poi si lavò la bocca e il mento, ancora con la sinistra. Non avrebbe scritto nessun omikuji: sin troppi ne aveva vergati, tanti anni prima… chiedendo invano che i suoi desideri venissero esauditi. Ora non ne aveva più. Si limitò a lasciare un’offerta, dopo aver tirato la corda al battente della campana, facendo risuonare dei cupi rintocchi. Prima di allontanarsi, si concesse il lusso di osservare alcune giovani donne che, sorridendo tra loro con gli occhi e con le labbra, lanciavano le monetine da cinque yen, di buon auspicio. Chissà… magari credevano ancora di poter trovare l’amore e la felicità… Del resto, il tempio di Daijingu era devoto ad Amaterasu, la dea dell’amore: per questo, seppur piccolo e seminascosto, esso era frequentato soprattutto da ragazze e da giovani coppie.

Una figura si stagliò sullo sfondo, al limitare del piccolo parco. Essa non faceva parte dei devoti: stonava, anzi. Hatsuyo batté le palpebre: quell’uomo aveva un’aria vagamente familiare, anche se era ben sicura di non averlo mai incontrato prima d’ora. Lo sconosciuto le si avvicinò, con passo tranquillo.

“Buongiorno. Avrei bisogno di parlarLe.”

“Non La conosco.” replicò l’anziana donna. Nonostante il tono freddo ostentato, sentì un vago stato di malessere crescerle dentro.

“Io invece sì.” replicò l’altro, atono. Le indicò una panchina di pietra, poco distante, in un angolo ombroso e tranquillo, racchiuso in un grazioso pergolato. “Sediamoci un momento, prego.”

“Preferirei restare in piedi.”

Preferirei che si sedesse. Scusi se insisto.” La pazienza di Nakamura stava cominciando a scemare. Respirò a fondo, imponendosi di mantenere la calma: in certi frangenti, una fredda rabbia è la migliore consigliera. Le osservò il collo sottile, ancora candido ed abbastanza liscio, nonostante l’età: era inconfutabile la bellezza dell’anziana donna, perfettamente trasfusa nella nipote. Gli sarebbe bastato premere su quel collo con la forza di una sola mano, per spezzare il respiro di quella fragile creatura.

Tanto fragile nell’aspetto, tanto delicata...

Ma capace di commettere empietà.

Si sedette per primo, ad un’estremità della panchina. Finalmente, Hatsuyo si accomodò a sua volta, tenendo la schiena ben eretta e lo sguardo fisso davanti a sé, senza però vedere nulla.

“Le è andata male.” cominciò Nakamura, senza tergiversare troppo. Si accese una sigaretta, soffiando poi lievi sbuffi di fumo fuori dalle labbra con espressione assorta. “Le consiglio, tuttavia, di darci un taglio, con gli agguati notturni e con le auto manomesse. Una dama d’élite come Lei dovrebbe occuparsi solo di ikebana e di teatro Nō.”

“Non capisco di cosa stia parlando.” mormorò Hatusyo, mentre sudava freddo, nonostante il viso incipriato perfettamente composto.

“Invece lo sa benissimo. Vede,” al che Nakamura spense la sigaretta tra due dita, con sussiego “a quelli come me non sfugge mai nulla. E nel raro caso in cui sfugga qualcosa, sappiamo bene a chi rivolgerci per farci spiegare certi… accadimenti. Sappiamo pure come fare per farci raccontare i fatti altrui. Agguati notturni ed auto manomesse compresi.”

“Non intendo continuare ad ascoltare le basse insinuazioni di un delinquente.” Hatsuyo si alzò, ma Nakamura, con un gesto fulmineo, le prese una mano e gliela strinse leggermente, senza esercitare una pressione eccessiva, o la donna avrebbe gridato di dolore, attirando gli astanti.

“Mi ascolti bene, Shiraki-sama, anche perché la prossima volta che dovesse rivedermi non mi limiterò a parlarle. Stia alla larga da Joe. E stia alla larga dalle ikka****: o Le assicuro che con una mia mezza parola le farò conoscere l’inferno su questa terra. Lei non conosce le famiglie e non sa come ci si debba muovere: si ritenga fortunata che, dopo i suoi piccoli intrighi e pure con un morto in mezzo, finora nessuno sia venuto a farle regolare ulteriori conti… mi intende?” le intimò in tono duro, seppur a bassa voce.

“Cosa… cosa è per Lei quel ragazzo?” balbettò lei, trasecolata. Batté le palpebre, fissandolo con attenzione. “No… la mia è una domanda inutile, ora che La osservo bene.” sorrise, gelida. “Credo di aver capito. E sa una cosa? Da oggi in poi me ne laverò le mani, può tranquillizzarsi. Non ci sarà più bisogno di nessun mio intervento, per il futuro.”

Nakamura aggrottò le sopracciglia, con fare interrogativo.

“Joe Yabuki sarà ben capace di distruggersi da solo. Dovrò solo starmene ad aspettare. Buona sera.”

Con un grazioso inchino, Shiraki-sama si voltò e se ne andò.

Hiro, rimasto da solo, si accasciò sulla panchina, sentendosi sconfitto per la prima volta in vita sua.

°°°°°°°°

“Joe, dimmi… è proprio necessario?” sussurrò Yoko, il viso adagiatogli nell’incavo del collo, le labbra di lei sulla sua spalla.

Joe sorrise: l’ignara Yoko aveva ripetuto le sue stesse parole, pronunciate a Danpei alcune ore prima. Pur intuendo a cosa si riferisse, fece orecchi da mercante.

“Cosa intendi dire?”

Yoko sollevò un po’ il viso, per poterlo guardare negli occhi. Vide una luce divertita nello sguardo di Joe, cosa che la indispettì. “Va bene, va bene… lasciamo perdere. Tanto hai capito a cosa alludo!” Si alzò in piedi, per indossare, con pochi gesti febbrili, la leggera vestaglia di raso nero.

“Se ti riferisci a Walker… sì. Lasciamo perdere. Non intendo tirarmi indietro.” replicò lui, secco. Con passo leggero, raggiunse Yoko, che, dandogli le spalle, si era accostata alla finestra, per guardare le mille luci di Tokyo. La villetta ereditata dalla madre, ove ormai viveva da quasi un anno, era stata eretta su una collina, consentendo così una bellissima vista dall’alto. Joe la cinse alla vita da dietro, stringendola a sé.

“Il fatto è che quel pugile mi spaventa.” Yoko, in preda all’agitazione, si sciolse subito dalla stretta, per potersi voltare e guardarlo in viso. “Non credo di aver mai visto nessuno tanto brutale in vita mia! Kiyoshi mi ha parlato di lui e mi ha pure prestato delle diapositive da vedere… Joe: non è un avversario normale! Walker è una belva furiosa, assetata di sangue! Durante un incontro ha persino dato un morso al collo del suo avversario, tanto da esser stato squalificato dal match e sospeso per diversi mesi*****!” al che Yoko racchiuse il viso di Joe tra le sue mani “Ho paura. Joe, io ho paura che ti possa fare del male! E non potrei sopportarlo! Ti prego, annulla l’incontro!” gridò, in preda all'angoscia, che sentiva pulsare sempre più forte dentro di lei, come una corrente inarrestabile.

“Calmati, Yoko… non mi accadrà nulla.” Joe la abbracciò, accarezzandole la schiena per darle conforto. “Ho la pellaccia dura, ormai dovresti saperlo!”

“Il mio intuito mi dice che dovresti stare alla larga da Walker...” sussurrò lei, con un filo di voce, mentre le lacrime le scorrevano sul viso. “Ti prego… fallo per me…” lo supplicò, singhiozzando.

“Lacrime non ne voglio.” mormorò lui.

Joe le prese con dolcezza il viso tra le mani e le sfiorò le palpebre con le labbra, bevendo le sue lacrime: la sua Yoko stava ad occhi chiusi, piangendo sommessamente. Percorse il viso di lei, fino a catturarle la bocca. In silenzio, la sollevò tra le braccia, per ridistenderla sul letto.

____________________________________

Spigolature dell’Autrice:


*torii (鳥居): trattasi delle porte di ingresso ai templi, formate da due colonne ed una trave orizzontale sulla cima (fonte: www.daisuki.it) Mi sono innamorata del tempio di Daijingu, piccolo, intimo e raccolto… con un’aura romantica, dato che è noto come il “tempio dell’amore”. L’enorme e mastodontico tempio di Yakusuni per esempio, non si accordava alle mie esigenze narrative, pur essendo molto famoso. Avevo bisogno di farvi conoscere un aspetto meno noto della Tokyo turistica e spero di esservi riuscita!

daijingu


(fonte: www. raccontidiunagaijin.wordpress.com)

**i kami sono un po’ come i Lari degli antichi Romani: gli antenati, per il culto shintoista, sono entità benefiche che proteggono il focolare domestico. Ai kami sono spesso dedicati gli omikuji, dei messaggi scritti su biglietti che vengono appesi, sperando in un buon auspicio…

***seta di gelso: la più pregiata e costosa (v. supra capitolo III – Trappole)

****ikka: il termine per definire i clan degli Yakuza (v. supra capitolo VI – Strani accadimenti)

*****indovinate a chi mi sono ispirata per il “caratterino” di Dudley Walker? Vediamo chi ci arriva per primo!

°°°°°°°

Ci rivediamo al prossimo capitolo, miei cari, perché i guantoni si incroceranno… eccome!

A presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Capitolo XXXII - Match indecente ***




Joe riaprì gli occhi lentamente, quasi con fatica.

Si sentiva tutto indolenzito: ogni suo muscolo lo percepiva rigido e duro. Aveva avuto seri problemi, la sera precedente, a prendere sonno, perché aveva faticato ad assumere una posizione sufficientemente comoda: comunque si girasse, tutto il corpo gli aveva provocato fitte di dolore e di malessere. Non era riuscito a sentirsi comodo e rilassato neppure in posizione supina: anche la schiena gli faceva un male cane per i lividi provocatigli dalle cuciture dei guantoni di Walker, che gli si erano impressi nella pelle come rapide sferzate di frusta.*

Pian piano, riuscì a mettersi seduto, sospirando flebilmente. Sentiva ancora il capo pesante, ed aveva la vista un po’ appannata, soprattutto all’occhio destro, molto gonfio. Solo con molta fatica riuscì a mettersi in piedi, facendo leva sugli addominali: se anche questi sapevano svolgere egregiamente il loro dovere, era l’equilibrio che, in quel momento, non gli funzionava al meglio. Per ben due volte era caduto seduto goffamente, come un sacco di patate.

Imprecò a bassa voce tra sé e sé: era la prima volta, quella, che si sentiva così debole e fiacco dopo un incontro.

Mai, in passato, neppure dopo l’incontro con Tooru Rikishi, con Carlos Rivera o con Ryuhi Kim, si era risvegliato al mattino seguente in simili condizioni. Con cautela, si palpò il bernoccolo sulla nuca, che Dude Walker gli aveva appioppato a tradimento, con una sventola spaventosa. Nonostante le proteste di Tange, di Yoko e di suo padre, si era rifiutato di farsi vedere in ospedale, pretendendo di ritornare subito a casa, una volta finito quello che, anziché un incontro, aveva avuto tutte le caratteristiche di un pestaggio tra bulli di periferia.

Più cercava, a tentoni, di raggiungere la sala da bagno per una doccia rinfrescante, e più gli girava la testa.

“E va bene, Joe… stavolta gli allenamenti li riprendiamo tra una settimana e non subito, come al tuo solito. Per il match con Josè c’è ancora molto tempo…” disse a se stesso, stirando le labbra in una piega amara.

°°°°°°

La sera prima, ore 21.00, al Budokan


Non si era mai vista una calca del genere.

Gli spettatori avevano letteralmente preso d’assalto l’intera struttura del Budokan; le biglietterie avevano decretato il tutto esaurito già alle prime ore del mattino: molti appassionati, brontolando ed imprecando, si erano dovuti rassegnare a seguire il match più atteso della stagione per radio o alla televisione. L’incredibile aspettativa dell’incontro era stata provocata dal siparietto dei due pugili alla conferenza stampa, oltre che foraggiata dalla pubblicità, sia nazionale che statunitense. Il frastuono, in sala, era assordante. Gli spettatori giapponesi facevano a gara con i visitatori americani su quale fazione esercitasse il tifo più acceso: era un continuo sventolare di striscioni inneggianti a Joe e a Dude, oltre che di bandiere nazionali, con il fiero e solitario sole rosso contro il firmamento di stelle.

Due cieli diversi, per due mondi diversi.

Yoko si accomodò in prima fila, accompagnata dal nonno Mikinosuke. Per tutto il tragitto, non aveva aperto bocca e continuava a trincerarsi dietro ad un muro, fatto di occhi bassi e di labbra serrate. Erano stati inutili tutti i tentativi del buon vecchio Shiraki di strapparla dal mutismo e di farla chiacchierare: con un sospiro rassegnato, si limitò ad accomodarsi, brontolando sugli acciacchi dell’età e sullo schienale troppo rigido del sedile.

“In effetti il Korakuen Hall, sebbene più piccolo, perlomeno offre delle poltroncine più comode!”

“Buonasera Nakamura-san: anche Lei qui per il nostro ragazzo?” chiese Mikinosuke, con tono affabile, inclinando il capo e ricevendo un inchino in risposta.

Come ormai negli ultimi incontri di Joe, Hiro aveva ricevuto da Yoko il biglietto in prima fila, in modo da poter assistere ai match in sua compagnia. Yoko si limitò ad un cenno del capo indirizzato all’ospite come saluto, per poi scoccargli un’occhiata angosciata: Hiro osservò il viso della giovane, più pallido del solito e le restituì uno sguardo parimenti preoccupato. Neppure a lui era garbato l’atteggiamento inutilmente aggressivo di Walker, che esulava dalla semplice competizione sportiva. La boxe non c’entrava nulla, e neppure l’ambizione e la voglia di battere l’avversario: l’aura rossastra che Walker aveva dimostrato di emanare era l’espressione di un’anima nera, desiderosa solo ed unicamente di portare il buio nelle vite altrui.

Senza resa alcuna, e senza speranza.

“Meno male che gli americani hanno accettato un incontro di sole otto riprese, dato che la Federazione Pugilistica Giapponese si è categoricamente rifiutata di rimettere in palio i titoli vinti dal nostro Joe, già disputati ad Honolulu: quello di stasera viene considerato un incontro amichevole, buono solo a fine pubblicitario. Del resto, Dudley Walker non gode di molto peso contrattuale, neppure a New York, e alla fine ha dovuto rassegnarsi pure lui ad accettare le nostre condizioni.” commentò Mikinosuke, mentre Yoko annuiva in silenzio.

“Meglio così. Joe si incontrerà a fine anno contro Mendoza e deve risparmiare le forze. Non sarà quel bulletto di mezza tacca ad intralciargli il cammino.” sibilò Nakamura, a denti stretti.

Qualche fila più indietro, Jun Kiyoshi contemplò, a braccia conserte, la signorina dei suoi sogni pervicacemente barricata tra due uomini: avrebbe quindi dovuto rassegnarsi, per il futuro, a non poter più neppure assistere agli incontri di boxe vicino a lei? Sospirò flebilmente, sforzandosi di concentrarsi solo su ciò che, di lì a poco, si sarebbe svolto sul ring. Il vociare e gli scoppi di urla e di fischi aumentò in modo parossistico, all’ingresso in sala dei due sfidanti, ognuno accompagnato dal proprio entourage: per l’occasione, Nishi si era fatto dare un permesso da Hayashi per affiancare Joe e pure il giovane Masaki aveva insistito per poter essere presente.

Walker avanzava con passo elastico e baldanzoso, facendo il gesto di “v” con l’indice ed il medio agli spettatori: pareva che volesse sfidarli tutti, uno per uno, con uno sguardo colmo di arroganza e supponenza. Joe camminava tranquillo, sorridendo quietamente e salutando il pubblico. Si sentiva sereno, quella sera. Considerava il match contro Walker un semplice atto dovuto, una formalità da espletare: Dude lo aveva sfidato e non gli restava altro da fare che dargli ora una sonora lezione.

Semplice.

Dopodiché, egli si sarebbe dedicato, con il massimo scrupolo, solo ed esclusivamente alla preparazione, fisica e mentale, per l’incontro con Mendoza: il titolo di campione del mondo dei pesi medi poteva non essere più solo un’affascinante chimera… Aveva scoperto di tenerci, eccome, a quella magnifica cintura, e questo non per mera vanagloria. Joe voleva vincere Josè per far vincere, insieme a lui, Tooru e Carlos. Il ricordo degli amici lo accompagnava costantemente. Mentre saliva i gradini del ring, ripensò, come in un flash, ad un pupazzetto che aveva regalato a Carlos poco prima di partire da Los Angeles e che l’amico aveva chiamato Josè: il ricordo gli fece salire le lacrime agli occhi, che ricacciò subito, con un moto di stizza.

Quello non era il momento di piangere: quello era il momento di combattere. A muso duro.

“Allora Joe: mi raccomando. Non attaccarlo subito. Studialo a lungo, tienilo bene a distanza con i jab di disturbo. Fallo innervosire e stancare: lui è un aggressore**, per cui nella difesa è carente e pure nel gioco di gambe, così come abbiamo potuto vedere nei filmati che ci ha prestato Shiraki-sama. Non ti scoprire e non farlo entrare nella tua guardia, o sei fottuto!”

“Va bene, va bene… ora però lasciami respirare.” Joe lasciò che Nishi gli infilasse i guantoni e che Masaki gli facesse bere un sorso d’acqua. Lo speaker, azzimato nel suo elegantissimo smoking, era in fibrillazione più che mai: presentò i due sfidanti, che vennero accolti dal pubblico con ulteriori scrosci di applausi e di scoppi di voce.

Dude mimò un po’ di shadowboxing, mostrando al pubblico il corpo sodo ed elastico, dalle fasce muscolari larghe e compatte, mentre Joe si limitò ad un leggero saluto agli spettatori ed a sciogliere i muscoli con un po’ di stretching. La pelle color cioccolato fondente, in Dude, guizzava in chiaroscuri, come un tessuto prezioso. Era leggermente più basso e tarchiato di Joe, che negli ultimi mesi si era ulteriormente alzato di statura, superando adesso anche Nakamura: quanto era flessuoso ed elastico Joe, dalla pelle leggermente ambrata e dalla muscolatura tonica ed elegante, quanto al confronto Dude appariva ben più rozzo e belluino.

Mentre Joe ostentava deliberatamente di ignorarlo, perlomeno sino allo scoccare del gong, l’altro non smetteva di intercettarne lo sguardo: gli occhi di Dudley, grandi ed espressivi, si agganciavano al corpo di Joe, come a volerlo trapassare da parte a parte, con stilettate silenziose, ma inequivocabili. Non lo mollarono un solo secondo, neppure quando i suoi guantoni sbatterono contro quelli di Joe, durante i convenevoli di rito.

Finalmente scoccò la prima ripresa.

I due pugili raggiunsero subito il centro del ring. Dudley cercò subito di entrare nella guardia di Joe, ma questi non glielo permise, schivandolo abilmente con il rolling, per proteggersi il viso. Quanto al corpo, riusciva a parare i colpi facilmente con blocchi, schivate ed abbassamenti. Il suo buon gioco di gambe gli consentiva di essere veloce e di tenere Dudley a distanza. L’esperienza maturata nel corso degli anni ora gli consentiva di essere un pugile ben più completo: da mero incontrista e picchiatore, Joe si stava, infatti, evolvendo in stilista***.

La prima ripresa finì così con un Joe illeso e fresco come una rosa e con un Dudley nervoso al pari di un cavallo che morde il freno, ricoperto di sudore. Yoko tirò un sospiro di sollievo: se anche le altre sette riprese si fossero mantenute su tale binario, il suo uomo sarebbe sceso da quel ring più riposato di quando ci era salito. Si volse a Mikinosuke e ad Hiro con un sorriso fiducioso, che i due uomini le restituirono.

Al pari della prima ripresa, anche la seconda e la terza ebbero un esito analogo: Tange non la smetteva di congratularsi con Joe, mentre lo massaggiava e lo rinfrescava, facendosi aiutare da Nishi e da Masaki. Tutti sorridevano, intorno a lui… forse quel Dudley Walker era solo un pugile mediocre, dopo tutto!

“Mah… a me sembra tutto sin troppo facile, vecchio.” borbottò Joe.

“Eh…? Perché dici questo? Ma se fino ad ora sei stato padrone indiscusso del ring?”

“Anche a me pare strano che Walker non sia incisivo più di tanto. Joe, stai attento, quello lì non me la conta giusta!” Nishi controllò i guantoni dell’amico, con fare preoccupato.

Quarta ripresa.

Ancora una volta Joe si tenne al centro del ring, per avere più spazio possibile per muoversi intorno a Dudley da tutte le angolazioni. Non gli interessava più di tanto cercare il KO per quell’idiota. Non gli importava un accidente di Walker. Il suo unico scopo, ora come ora, era Mendoza. Vincere ai punti o per KO, stavolta, per lui era la stessa cosa.

“Mi hai voluto sfidare? E va bene. Ma se pensi di fottermi in qualche modo ti sbagli di grosso!” pensava Joe, cercando con tutte le sue forze di autoconvincersi che tutto sarebbe filato liscio come l’olio, proprio come nelle prime riprese. Eppure… eppure ora Dudley gli apparve diverso, anche se Joe non avrebbe saputo spiegarsi come e perché. Era più che altro una sensazione: un brivido che gli percorse la pelle, in tutto il corpo. Walker avanzò verso di lui lentamente, con i pugni leggermente abbassati, e con una strana luce negli occhi. Un ghigno malevolo gli percorse il viso scuro, in un lampo di luce.

I demoni devono essere simili, quando sorridono…

Joe spalancò gli occhi, incredulo. Dude stava usando una sua vecchia tattica dei primi incontri, quella della guardia abbassata!

“Cerchi il colpo d’incontro, eh? Cosa credi di fare?!” gli sibilò a denti stretti, quando ormai erano vicini a portata di braccio.

“Non si parla all’avversario! Fight!” lo sgridò l’arbitro.

Dude se ne rimase fermo, con le braccia quasi a penzoloni, continuando a sorridere: pareva una pagliaccio tragico, che ti sfida e ti schernisce senza farti ridere affatto.

“Joe, non lasciarti provocare! Stringi la difesa! Resta fermo! FERMO!” urlò Danpei.

Intanto il pubblico rumoreggiava.

Già le prime tre riprese si erano rivelate più noiose del previsto: tanti yen per aggiudicarsi il biglietto per vedere, poi, un incontro del genere? Adesso i pugili se ne stavano addirittura fermi a fissarsi, come due burattini senza fili! Esplosero fischi ed imprecazioni, soprattutto da parte dei fans americani, furiosi anche per aver sostenuto il costo del viaggio in Giappone. Yoko si guardava intorno, preoccupata: un pubblico inferocito può diventare molto pericoloso!

“Combattete! O dichiarerò chiuso l’incontro, per doppia rinuncia!” rampognò l’arbitro.

Joe si decise: avanzò verso Dude per saggiarlo con una combinazione di jab e di diretti, in modo da vanificargli il tentativo del colpo di incontro. Una volta ricevuto il diretto, però, Dude, con una mossa fulminea, scartò di lato, aggirando Joe, per sferrargli un potente gancio destro, che lo colpì all’orecchio ed alla mascella sinistra. Joe barcollò, cadendo seduto a terra.

Era stupefatto.

Quello stronzo lo aveva fregato con un trucco. Quasi non sentiva dolore, soprattutto all’orecchio, che pulsava e ronzava in modo fastidioso. Sentì montare la rabbia verso se stesso, per essere stato tanto stupido! Joe si tirò su al terzo, quasi spintonando l’arbitro.

“Sono scivolato, cosa mi conti a fare!” bofonchiò.

Furibondo, Joe cominciò a pressare Walker, sospingendolo alle corde: questa manfrina di incontro voleva chiuderla, e subito. Nonostante la difesa serrata dell’altro, riuscì a farsi un varco tra le braccia scostandole con un diretto per poi colpirlo al mento con un uppercut. Ciò fece inferocire Dude, il quale si abbassò sulle ginocchia per nuovamente scartare di lato e colpire a sua volta Joe all’occhio destro ed al sopracciglio, che, spaccatosi, sprizzò un getto di sangue. Joe si strofinò il viso leggermente con il guantone, per poter vedere meglio, dato che il sangue gli colava sull’occhio.

“Bastardo… non ti riesce di colpirmi di fronte, eh, mi lavori ai lati!”

Kiss my ass, motherfucker!” (“Baciami il culo, bastardo!”)

L’arbitro provvide subito a controllare lo stato di Joe.

“Te la senti di continuare?” gli chiese, esaminandogli l’occhio.

“Che razza di domanda! Certo, che continuo!” borbottò.

In quella scoccò il gong, a fine round. Sbuffando, Joe tornò al suo angolo. Prontamente, i suoi si prodigarono di medicarlo e di rinfrescarlo.

“Su, risciacquati la bocca… guarda qui come ti ha ridotto l’occhio! Riesci a vedere?” gli domandò Tange, preoccupato. “Te lo avevo detto di tenerlo a distanza! Perché non mi dai mai ascolto, porca miseria!”

Joe non lo ascoltava. Era intento a fissare il suo avversario, che dal suo angolo continuava a sorridergli, con fare strafottente. Osò perfino mandargli un bacio, a mo’ di dileggio.

“Brutto stronzo… ora ti aggiusto io!”

“Calmati, lascialo perdere e resta concentrato, se vuoi continuare!” brontolò Tange, finendo di ungergli il sopracciglio con la vaselina.

“Umpf!”

Yoko era impallidita nel vedere il viso di Joe tumefatto: l’occhio destro era semichiuso dal gonfiore. Il nonno le diede una pacca affettuosa.

“Coraggio, cara: questo incontro non durerà molto… siamo già alla quinta ripresa!”

Allo scoccare del gong, i due pugili girarono in tondo, studiandosi. Avanzò Walker, sferrando un paio di ganci furibondi al viso di Joe.

“Hai finito, bello? Ora tocca a me” ringhiò Joe.

Toccò a lui, ora, abbassarsi leggermente sulle ginocchia per penetrare nella difesa dell’altro: gli sferrò un uppercut poderoso, che mandò Walker ben steso a terra. Fino all’ottavo non gli fu possibile rimettersi in piedi. Sputò per terra, scuotendo la testa per riprendersi del tutto. Rannicchiatosi su se stesso, Dudley caricò su Joe in un balzo, andandolo a colpire con una testata! Joe finì alle corde, reggendosi il capo per il dolore folle: per alcuni secondi ebbe la vista annebbiata e solo dopo aver scosso la testa riuscì a mettere di nuovo a fuoco.

“Fallo! Penalità! Se ne combini un’altra sei squalificato!” lo redarguì l’arbitro severamente. Poi si diresse da Joe, per controllarne lo stato. “Te la senti di continuare?”

“Di nuovo, arbitro? Me la sento, me la sento, porca miseria!”

Fu il turno di Joe di piombare su Walker: lo martellò con una serie infinita di ganci velocissimi, al corpo ed al viso, non appena coglieva, in frazioni di secondo, degli spiragli ove infilarsi. Pareva una furia scatenata: Walker non ebbe il tempo di serrare la difesa e neppure di contrattaccare. Alla fine, Joe riuscì a sferrargli una sventola destra, mandandolo al tappeto per la seconda volta nella stessa ripresa. Si girò, per allontanarsi in modo che l’arbitro potesse nuovamente iniziare la conta, quando sentì un dolore lancinante alla nuca, cadendo, così, in ginocchio: Walker, non si sa come, si era rialzato e lo aveva colpito alle spalle!

“Stop! Squalifica! Dudley Walker è squalificato! Vince Yabuki!”

__________________________________________

L’angolo del boxeur :

Ciao a tutti, provvedo ad un piccolo ripasso sugli stili pugilistici, per meglio comprendere l’incontro di Joe contro Dude:

*di solito appaiono sulla pelle della schiena il giorno seguente al match: mi riferisco ai lividi lasciati dalle cuciture dei guantoni durante gli attacchi ricevuti al torso. Bruciano: parecchio!

** Aggressore (o "in-fighter"): è un pugile dall'aggressione continua, per questo chiamato anche "pressure fighter", che tenta di rimanere addosso all'avversario, aggredendolo con continue raffiche e intense combinazioni di ganci ed uppercut. Un buon in-fighter necessita di buone doti di incassatore, perché questa tecnica lo espone ad essere colpito da serie di jab e diretti prima di riuscire ad entrare nella guardia dell'avversario, dove i colpi dell'in-fighter sono più efficaci. Gli in-fighter agiscono meglio a distanza ravvicinata perché generalmente sono di statura più bassa della media degli avversari e hanno un minore allungo, e perciò sono più efficaci ad una distanza in cui le più lunghe braccia dei loro avversari sono svantaggiate nel colpire rispetto alle loro. Molti in-fighter di bassa statura utilizzano quindi l'altezza ridotta come strumento per schivare i colpi ed infilarsi nella guardia dell'avversario, abbassandosi fino alla vita per passare sotto o di fianco ai colpi in arrivo. A differenza del bloccare i colpi con i guantoni, le schivate fanno andare a vuoto l'avversario causandone lo sbilanciamento, e consentono all'in-fighter di passargli sotto al braccio disteso con i pugni liberi per colpire d'incontro. Nonostante questo stile esponga parecchio i pugili che lo praticano ai colpi degli avversari, qualche in-fighter fu noto invece per essere stato difficile da colpire. Beh, direi che nella vita reale Mike Tyson fosse proprio uno da "pressure fighter"! (v. Capitolo XXVIII “The King is naked”).

*** Stilista (o “out-fighter”): egli boxa rimanendo all'esterno della guardia dell'avversario e cerca di tenere a distanza l'antagonista, colpendolo con pugni veloci e che arrivano da lontano, distruggendo gradualmente la resistenza e le forze dell'avversario fino a ridurlo in propria balìa. A causa del loro affidarsi a colpi veloci ma non devastanti, gli stilisti tendono a vincere ai punti piuttosto che per KO, benché alcuni di essi presentino carriere con percentuali molto alte di incontri vinti prima del limite. Gli out-fighter sono spesso considerati i migliori strateghi del pugilato, grazie alla loro abilità di controllare l'andamento dell'incontro e di condurre l'avversario verso l'epilogo da essi pianificato intaccandone metodicamente le forze ed esibendo maggiore abilità e destrezza di un picchiatore. Questo tipo di pugile dev’essere dotato di un buon allungo, di velocità di braccia, di ottimi riflessi e di un buon gioco di gambe (cosa, quest’ultima, che funge pure da tecnica di difesa). (v. Capitolo I “Ricominciare”) (fonte: Wikipedia)

°°°°°°°

Un abbraccio forte forte a Devilangel476: lei sa il perché.

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** Capitolo XXXIII - Il prezzo delle nostre scelte ***


BANNER-MIO-PER-L-UNICO-DOMANI

Quartiere di Namidabashi, un’alba di fine autunno…

Si osservò attentamente allo specchio, notando con disappunto le ombre violacee sotto gli occhi, regalo di una notte insonne, che poi avrebbe cercato di nascondere con il trucco.

Fino alle prime luci dell’alba si era interrogata senza tregua, per capire se dovesse o meno andare fino in fondo. Sarebbe stata la scelta giusta da fare, quella? Per mesi e mesi, dopo quel fatidico pomeriggio in cui aveva preso coraggio per dargli un bacio nel parco giochi di Tamahime Koen, aveva scacciato ogni pensiero che potesse gettare un’ombra sulla decisione presa e comunicata agli amici del quartiere: lo aveva fatto quasi come per precludersi ogni possibile via d’uscita, dato che, in caso di dietro front, ci avrebbe fatto una pessima figura con tutti quanti.

Anche con lui.

Davvero esisteva un solco, invisibile ma invalicabile, tra il voler bene e l’essere innamorati? Davvero i due sentimenti erano inconciliabili tra loro e diversi come la notte e il giorno? Stanca di questo continuo tormento interiore, Noriko si avvicinò al piccolo stand di metallo, ove stava appeso l’abito, imbozzolato dentro la custodia di cellophane. Tirò giù la lunga cerniera ed infilò la mano ad accarezzare la spessa e pesante seta candida. Sotto i polpastrelli sentiva i leggeri rilievi dei ricami: come nella più antica tradizione shintoista, il damasco del suo kimono era tutto ricamato con leggeri e delicati motivi di fiori di prugno, simbolo di perseveranza; di tartarughe, simbolo di vita; di gru, simbolo di fedeltà coniugale.

Sorrise tristemente.

Se per fedeltà era da intendersi solo quella propriamente fisica nessuno avrebbe avuto da ridire ed il suo Kanichi per primo. Quanto alla fedeltà del cuore… beh, quella era ben altra cosa.

Kanichi, già… chissà perché tutti lo chiamavano sempre e solo per cognome, persino Joe. Solo da poco tempo lei stessa aveva cominciato a chiamarlo più confidenzialmente, sforzandosi di omettere il cognome Nishi. Lo aveva rivisto, qualche giorno prima. Lei ed il fidanzato erano andati insieme alla palestra, per invitare formalmente Joe e Tange alle loro nozze. Era da un po’ che non si vedevano e quando lui le sorrise, aveva sentito, ancora una volta, quella maledetta morsa allo stomaco…

“Noriko! Ma sei già in piedi! Mancano ancora tante ore alla cerimonia!”

“Sì, lo so, mamma, ma ho preferito alzarmi presto per fare tutto con calma.”

Tamako Hayashi la osservò in silenzio: notò il pallore della figlia e gli occhi pesti. Le accarezzò il viso, senza dire nulla. Con un sospiro, estrasse fuori dalla custodia lo splendido shiromuku* per fargli prendere aria. Le vennero le lacrime agli occhi: non era più tempo, ormai, di accompagnare a scuola la sua piccola, con le lunghe trecce che le ballavano sulla schiena…

“Vieni, scricciolo. Ti preparo la colazione, con il salmone e la zuppa di miso che ti piacciono tanto. A partire da domattina dovrai prepararla tu, per te e per tuo marito. Ma almeno per oggi sarai ancora la mia bambina.”

°°°°°

In quel preciso istante, all’aeroporto di Narita…


Yoko scrutava i tabelloni, in attesa del suo aereo per poter raggiungere il gate.

Era dispiaciuta di non poter partecipare alle nozze del miglior amico di Joe, ma ora come ora aveva urgenza di partire alla volta di New York: grazie ai suoi contatti, aveva saputo che il Prof. Igor Kininskji avrebbe tenuto un importante convegno di neurologia e di medicina sportiva proprio in quei giorni, prima di fare ritorno nei Balcani. Era davvero importante riuscire a parlare con quel grande luminare anche solo per pochi minuti, dato che da alcune settimane era rosa dal tarlo di un dubbio atroce.

Quel solito testardo.

Sin dopo il match contro Walker lo aveva pregato, supplicato, scongiurato di farsi visitare in ospedale o da uno specialista. Yoko lo aveva notato eccome che Joe incespicasse più del solito e che a volte, anche se solo per qualche secondo, si muovesse a scatti, in modo scoordinato. A volte lo aveva sorpreso barcollante, specialmente nell’alzarsi in piedi da seduto o da coricato. E poi pareva ascoltarla, mentre in realtà sembrava sempre più perso nei suoi orizzonti interiori.

Joe non faceva altro che minimizzare…

Minimizzava tutto.

I ritardi ai loro appuntamenti, dato che aveva dimenticato cose semplici come l’orario e il luogo. Il ripetere quanto già detto poche ore prima. Una mano leggermente tremante. Le violente emicranie che lo coglievano all’improvviso.

“Sono solo un po’ stanco: forse sto esagerando con gli allenamenti. Ma la data si avvicina, lo sai.”

La data, già. Yoko non sapeva se sottolineare o meno di rosso quel dannato numero sul calendario. Joe non faceva che prometterle una vacanza e un po’ di riposo, dopo l’incontro contro Mendoza.

Gli occhi le si velarono di lacrime e solo battendo ripetutamente le palpebre riuscì a mettere a fuoco il numero del gate. In silenzio, sollevò il suo piccolo bagaglio a mano ed andò ad imbarcarsi.

°°°°°°°

Saki strabuzzò gli occhi, quando la vide uscire dal portoncino di casa.

Noriko pareva essersi trasformata nella fata delle nevi. Gli altri bambini, che fino ad allora avevano fatto un chiasso d’inferno, rincorrendosi tra loro e chiamando la sposa a viva voce, alla sua visione si erano ammutoliti di botto, rimanendo a bocca aperta.

Noriko era bellissima.

Il kimono di damasco a dieci strati avviluppava il corpo sottile della ragazza facendola sembrare quasi una creatura ultraterrena, sospesa da terra. Il bianco candido del tsunokakushi** le teneva quasi celato il volto, dato che Noriko, intimidita, avanzava lieve tra gli amici del quartiere a capo chino, sorreggendo con mano tremante il grazioso ventaglio di raso, dipinto in colori tenui. Si intravvedevano di lei solo il mento delicato e la piccola bocca a cuore, tinta di un rosso intenso.

Gli astanti erano visibilmente emozionati: molti di loro avevano visto nascere e crescere la figlia del droghiere e si consideravano tutti un po’ come i suoi zii putativi. Le donne piangevano, commosse: non l’avevano mai vista così bella prima d’ora. Gli uomini si passavano il sakè tra loro, augurandole ogni felicità, dando pacche consolatorie sulla spalla di Keishichi Hayashi, che non la smetteva di piangere da quando si era alzato.

“Ecco Mammouth!” strillò Kinoko con la sua vocetta acuta. Nel giro di pochi secondi le cinque pesti attorniarono lo sposo, tirandolo per le maniche del kimono, per farlo camminare più in fretta. Anche Nishi aveva indossato, infatti, l’abito tradizionale con l’hakama***, e così abbigliato pareva ancora più imponente, come un antico e fiero samurai. Con delicatezza, sollevò e strinse tra le mani i polsi sottili di Noriko, mentre il cuore gli faceva capriole nel petto… Tra non molto, quella ragazza sarebbe divenuta sua moglie e sua compagna per la vita.

“Nori, sei pronta per… per tutto questo?” le sussurrò a voce bassissima, in modo che gli altri non potessero udire.

Finalmente lei sollevò il capo per guardarlo negli occhi, annuendo. Capì, infatti, che non avrebbe potuto tirarsi indietro: Kanichi non meritava una simile cattiveria da parte sua. Capì anche che avrebbe sempre cercato di fare del suo meglio per rendere felice lui e, di riflesso, per essere serena lei stessa. Minuto per minuto, ora per ora, giorno per giorno: avrebbe lavorato su se stessa per costruire qualcosa di buono e di pulito, con affetto e comprensione. E, soprattutto, con dedizione.

“Amico mio.” Joe, giunto proprio allora, aveva abbracciato Nishi di slancio, dandogli poi delle pacche affettuose, subito imitato da Tange, che piangeva dall’unico occhio sano mentre si congratulava con lui. I due uomini ammutolirono, poi, nello scorgere la sposa. “Noriko… sei davvero bellissima. Ti faccio i miei migliori auguri di felicità, anche da parte di Yoko.” mormorò Joe, un po’ confuso ed emozionato.

Noriko lo osservò. Era sempre lui, l’astro solitario nel cielo. Del resto, Joe era sempre rimasto lontano da lei, anche nei primi tempi della loro amicizia, quando anche lui, appena uscito dal riformatorio, era stato assunto part-time da suo padre per dare una mano in negozio e per aiutarla con le consegne a domicilio. D’ora in poi, Joe sarebbe stato sempre così, per lei: vicino ed amico, eppure, allo stesso tempo, inaccessibile e lontano. Abbassò gli occhi.

“Grazie Joe, anche per Yoko. Ci ha fatto un magnifico regalo di nozze e spero di poterla incontrare presto per ringraziarla di persona.” rispose quietamente, mentre dentro di sé si sentiva morire, una volta di più…

Finalmente il corteo nuziale, con gli sposi in testa, si avviò alla volta del tempio di Meiji Jingu, nel quartiere di Harajuku. Per l’occasione, era stato noleggiato un pullman con tanto di autista: il pover’uomo dovette guidare rischiando di diventare completamente sordo, dato che, a parte gli sposi e Joe, i passeggeri si davano alla pazza gioia, bevendo sakè e facendo un baccano d’inferno, cantando e ballando. Nonostante i rimbrotti di Nishi e di Tamako, gli invitati non la vollero capire di starsene seduti buoni e composti: parevano tutti quanti dei ragazzini in gita!

“BASTAAAAAA!” urlò ad un certo punto Nishi, ormai esasperato! “Guai a voi se fate questo casino pure al tempio! Vi sbatto fuori!”

Al che il povero autista si rassegnò alla sordità…

Fortuna volle che una volta arrivati al tempio si dettero tutti una calmata: tale trasformazione poteva essere dovuta al rispetto ed al timore reverenziale che poteva aver ispirato quel luogo così intriso di spiritualità… oppure le minacce impartite da Mammouth. Un unico momento di ilarità venne colto da alcuni degli ubriaconi di Namidabashi quando videro il muro composto dai barili di sakè votivi, donati al santuario dai fedeli. Bastarono però le occhiatacce di fuoco dello sposo a ricomporre lo sgangherato corteo nuziale.

Era una giornata di fine autunno, dalla luce dolce e dall’aria fresca ma calma.

In silenzio, i due sposi si avviarono a braccetto fino alla Sala Memoriale, ove il sacerdote li stava aspettando. Dietro di loro venivano i genitori di Noriko, Joe e Tange e poi tutti gli altri, in una fila indiana abbastanza composta. La cerimonia si svolse in un clima di serenità e di commozione. L’anziano sacerdote, dopo le formule di rito, porse la tazza di sakè allo sposo, per il consueto san-san-kudo: con mano tremante dall’emozione, Kanichi bevve un sorso, per poi offrire la tazza a Noriko, che bevve a sua volta. Per tre volte gli sposi bevvero il sakè a piccoli sorsi, suggellando così il desiderio di vivere insieme. Vennero poi accesi i bastoncini d’incenso al dio Kamisana, per chiedergli di vegliare sul loro amore. Per tutto il tempo della cerimonia, nella sala non parve muoversi una mosca: tutti gli astanti erano rimasti in religioso silenzio, a dimostrazione del rispetto e dell’affetto nutrito verso i due ragazzi.

Joe si sentiva strano. Naturalmente era felicissimo per Nishi, sapendo quanto l’amico avesse desiderato avere una famiglia, un focolare. Per questo motivo e non tanto per amore della boxe Nishi aveva vissuto con lui e con Tange nella palestra di legno, sin dall’uscita dal riformatorio. A differenza sua, Nishi aveva sempre detestato essere solo al mondo, senza genitori e parenti e non si era mai rassegnato alla solitudine. Adesso aveva finalmente esaudito il suo desiderio di compagnia e di amore, con la dolce Noriko al suo fianco. Osservò la figura delicata della sposa, cosa che gli fece pensare a Yoko. Fino ad allora non si era mai posto il problema di affrontare con lei il progetto di un futuro a due, ritenendosi già fortunato a vivere il suo amore giorno per giorno, assaporando ogni istante trascorso vicino alla sua donna.

Ma adesso?

Presto o tardi Yoko gli avrebbe posto la fatidica domanda: dove stiamo andando? Che piega potrà mai prendere, in futuro, il nostro rapporto? Si grattò la testa, meditabondo. Lui sapeva di amarla con tutto se stesso: lei era unica e speciale, così bella, testarda e volitiva, e così vicina al suo cuore da sentirla al suo fianco pure in quel momento, pur sapendola in volo per gli Stati Uniti. Cosa avrebbe dovuto fare, ora? La fine della cerimonia lo distolse bruscamente dai suoi pensieri; si alzò, quindi, per andare a congratularsi con gli sposi.

Dopo gli auguri e i convenevoli, il corteo uscì dalla sala e poi dal tempio. Una volta oltrepassato il torii, si vide giungere Hiro Nakamura, al suo solito abbigliato in modo inappuntabile.

“Scusate per il ritardo, ma ho avuto un contrattempo. Comunque sono passato al ristorante a controllare il servizio e vi assicuro che tutto procede alla grande,” specificò, dopo essersi congratulato anche lui con gli sposi.

“Grazie ancora, Nakamura-san, per averci regalato i kimono e il pranzo nuziale: se è tutto perfetto è anche per merito Suo,” mormorò Nishi, un po’ confuso: quell’uomo continuava ad ispirargli soggezione, per il suo forte ed innegabile carisma, cosa che, del resto, Joe aveva ereditato.

“Di nulla, ragazzo mio: per il migliore amico di mio figlio questo ed altro.” replicò Hiro in tono gentile.

Una volta arrivati tutti all’imponente hotel in stile occidentale, la sposa si ritirò in una camera prenotata con la madre e con alcune amiche di famiglia per cambiarsi d’abito, per rinfrescare il trucco e per sciogliere i capelli in una acconciatura più moderna, dato che sotto il cappuccio di seta aveva portato una parrucca di foggia tradizionale, abbellita con fiori e con fermagli smaltati: bellissima sì, ma assai pesante e fastidiosa per il cuoio capelluto. Anche lo sposo andò a cambiarsi: il kimono lo faceva sentire un po’ impacciato nei movimenti e non vedeva l’ora di infilarsi un paio di pantaloni con una semplice camicia.

“Uff… finalmente, non ne potevo più.” brontolò, dopo essersi rinfrescato il viso nella sala da bagno.

Joe ridacchiò. “Allora, come ti senti da sposato?”

“E che ne so? Per ora c’è stata solo la cerimonia. Sai com’è: Noriko mi ha chiesto di aspettare il matrimonio per… sì, insomma, hai capito.” arrossì, un po’ imbarazzato.

“Ho capito, amico mio. Sai cosa ti dico? Hai fatto bene a rispettare il suo volere: sono cose queste che non vanno forzate. Vedrai che filerà tutto liscio come l’olio.” Joe gli diede una pacca sulla spalla, per infondergli coraggio.

“Tu ora cosa pensi di fare… con Yoko, intendo…”

Joe rimase leggermente interdetto dalla domanda dell’amico. Si concesse il lusso di restarsene in silenzio per un po’, andando ad affacciarsi fuori dalla stanza, in balcone. Nishi lo raggiunse, appoggiando i gomiti sul cornicione, in paziente attesa di una risposta dell’amico.

“Quando lo saprò, te lo dirò. Forza, scendiamo in sala ad aspettare Noriko, così intanto beviamo qualcosa, ti va?” propose l’altro, con tono forzatamente allegro.

“Joe…”

Questi scosse la testa, chinando lo sguardo. Rinserrò il viso nel colletto della giacca e, mani in tasca, uscì dalla stanza.

°°°°°°

Nella sala del ristorante, chiusa al pubblico e quindi totalmente riservata, gli invitati cominciarono a servirsi al sontuoso buffet, ben fornito di leccornie non solo giapponesi ma anche della cucina internazionale. I bambini correvano felici da tutte le parti, dopo aver dato l’assalto ad un enome vassoio di fragranti polpette. Finalmente arrivò la sposa, stavolta splendente in un bellissimo abito candido in stile occidentale: il corpetto avvitato, dalla scollatura a cuore, le sottolineava la vita sottile ed il seno delicato; la gonna in soffice chiffon danzava leggera ad ogni suo passo. Noriko teneva i capelli raccolti in un morbido chignon ed il trucco soft sottolineava la fresca bellezza del suo viso. Al posto del ventaglio, ora portava con grazia un profumato bouquet di mughetti e camelie.

Tutti rimasero a bocca aperta, una volta di più: quella benedetta figliola non la smetteva di stupirli! Gli auguri esplosero con una gioia incontenibile: prese il via un brindisi sensa fine, con sakè e champagne che scorrevano a fiumi, mentre un esercito di compiti camerieri faceva il suo meglio per servire ed accontentare quella strana schiatta di clienti. Di certo la più rumorosa mai conosciuta finora! Lo sposo si avvicinò al candido cuore della festa: offrì a Nori un calice di champagne, posandole un bacio leggero sulla fronte, visibilmente commosso.

Joe li contemplò.

Si alzò in piedi dalla poltroncina ove era affondato, con Saki appollaiata sul morbido bracciolo che sgranocchiava pasticcini al cioccolato, e si schiarì la voce, chiedendo un attimo di attenzione.

“Scusate, volevo solo fare un piccolo discorso per gli sposi. Ecco… io non sono molto bravo con le parole, lo sapete, però ci tenevo a dirvi quanto sono contento di vedere arrivato questo giorno. Nishi,” al che gli si avvicinò “tu sei l’amico migliore che un uomo possa avere: il più buono, il più onesto e leale. Scusami per tutte le volte che non ti ho sostenuto come avrei dovuto… Io ho un pessimo carattere, lo sai. Però ti voglio bene e credo che nessuno più di te si meriti di essere felice con una ragazza dolce come Nori al suo fianco.”

Nishi balbettò qualcosa, con le lacrime agli occhi, per poi stringerselo addosso.

Joe si sciolse dall’abbraccio, sorridendo, e si girò verso la ragazza, che lo guardava con malinconia. “Noriko, io ti affido quest’uomo: non esiste al mondo persona migliore di lui. So che saprai prendertene cura.”

Nori annuì in silenzio, chinando il capo, per fissare la semplice fede che ora le riluceva all’anulare.

Non c’era più nulla da dire.


_______________________________

Spigolature dell’Autrice:


Suvvia, almeno in questo capitolo ho voluto farvi tirare un sospiro di sollievo con un bel matrimonio tradizionale giapponese, seppur con qualche leggera modifica, dato che la nostra Noriko non si cambia d’abito per ben tre volte, ma solo per due. Questo perché stento a credere che la figlia di un droghiere possa permettersi l’acquisto di ben tre costosissimi abiti da sposa: ragion per cui l’avete ammirata – seppur solo con il pensiero – nel candido kimono nuziale, chiamato anche shiromuku*, con il cappuccio candido chiamato tsunokakushi** (simbolo di calma e pazienza), donatole da Nakamura, e poi in un delicato abito nuziale di taglio occidentale. Anche il nostro Nishi è splendido nel suo kimono tradizionale, così come ho cercato di farvelo immaginare, indossando l’hakama***, ovvero la larga gonna-pantalone, inventata ai tempi dei samurai per poter cavalcare. Chi conosce gli anime ed i manga di Ashita no Joe sa benissimo che Noriko e Kanichi (pure io debbo sforzarmi di usare il suo nome e non il suo cognome! La forza dell’abitudine: ma la colpa è pure del manga, che usa sempre e solo il cognome Nishi per questo bel personaggio!) si sono sposati con una cerimonia occidentale: opzione che al giorno d’oggi adottano molti giovani giapponesi. Ma io sono dell’idea che certe tradizioni siano molto belle e che non vadano perdute: per questo mi sono avvalsa della facoltà di licenza poetica, parlandovi invece della cerimonia nuziale shintoista.

E mostrandovi, ad hoc, queste belle immagini, per rendervi più godibile quanto avete letto: ecco lo shiromuku:

shiromuku
gli sposi tradizionali:

sposi-giapponesi
 il dettaglio del sakè votivo del Tempio di Meiji:

sake-votivo
il secondo abito da sposa di Nori, stavolta in stile occidentale:

Marchesa-collezione-2016-Abito-da-sposa-bianco-in-chiffon-e-seta-con-corpetto-a-cuore-senza-spalline
(credits: un bel po’!

http://www.giapponeinitalia.org/il-mio-sguardo-sul-giappone-3/

http://www.hairadvisor.com/it/trends/capelli/acconciature/9443-acconciatura-sposa-immagini-dal-mondo

http://www.japancoolture.com/it/usi_costumi_e_simbolismi_dei_matrimoni_tradizionali_giapponesi

http://www.ilbiancoeilrosa.it/il-matrimonio-shintoista/ http://www.nuovasartoria.com/2014/02/abito-da-sposa-tradizionale-giapponese/ )

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** Capitolo XXXIV - Un altro sé ***


banner-nuovo-per-l-unico-domani
Joe si sentiva come sdoppiato da se stesso.

Era quasi come se potesse vedersi dall’esterno, provando sensazioni strane e difficili da catturare, ma anche ben tangibili.

Cercava di condurre la sua vita al solito modo, con i gesti e le abitudini di tutti i giorni: a volte era tutto come sempre, a volte gli pareva di vivere l’esistenza di un altro uomo e di un altro corpo. Quest’ultimo era ultimamente una continua sorpresa per lui, e Joe si ritrovava suo malgrado a gestire reazioni fisiche inconsulte, seppur di breve durata. Un giorno era dedicato a forti emicranie, che gli annebbiavano la vista. Un altro giorno, invece, non si sentiva ben saldo sulle gambe. Joe apriva e chiudeva le mani e notava che spesso la mano sinistra avesse dei movimenti meno rapidi e meno controllati rispetto alla destra, cosa che poi risaltava quando colpiva il sacco per il consueto allenamento.

Poi, improvvisamente, per alcune settimane sparivano tutti quegli strani sintomi, come un brutto incubo che lascia finalmente il posto a mente sveglia e alla tranquillità quotidiana… per poi ricominciare daccapo, e con maggior frequenza.

Naturalmente non fece parola con nessuno dei sintomi che stava notando su di sé, cercando anzi di controllarli il più possibile quando si trovava in compagnia di altre persone. Ma gli sguardi eloquenti di Yoko non lo abbandonavano più e neppure per un istante, anche se la donna, tornata ormai da diverso tempo da New York, non aveva più toccato l’argomento, dopo la loro prima ed ultima vera litigata. Se anche c’erano state delle discussioni poco gradevoli ai tempi ormai lontani del riformatorio, nulla era mai stato paragonabile all’alterco che era scoppiato una sera di qualche settimana prima, come un fulmine a ciel sereno, e che aveva avuto come conseguenza una loro dolorosa separazione, seppur di breve durata.

Joe le aveva poi domandato perdono, anche se era rimasto fermo sulle sue decisioni di non fare proprio un bel nulla per verificare il suo stato di salute. Yoko lo aveva pregato, infatti, di sottoporsi ad una serie di esami approfonditi a livello neurologico, cui Joe si era opposto categoricamente, alzando la voce ed accusandola di “stargli troppo addosso e di volerlo manipolare come un burattino”: una simile accusa era stata un colpo sin troppo doloroso per Yoko, che, nei giorni seguenti si era rifiutata financo di vederlo, fino alla loro sofferta riappacificazione. Si erano quindi amati per ore, quasi con disperazione, come se si trattasse di un’ultima volta...


L’incontro che Yoko aveva avuto a New York con il Prof. Igor Kininskji qualche tempo prima, infatti, le aveva dolorosamente aperto gli occhi sulle condizioni di salute di Joe. Ciò che prima aveva solo sospettato ora le si era rivelato in tutta la sua crudezza. Il luminare si era rivelato molto gentile e disponibile con la misteriosa signorina giapponese che aveva fatto un lungo volo solo per potergli parlare: in una raffinatissima sala da tè sulla Fifth Avenue, il medico le aveva esaurientemente spiegato in cosa consistessero i sintomi più frequenti della “sindrome del pugile ubriaco” e a quali conseguenze potesse arrivare lo sfortunato atleta che mostrasse di esserne affetto.

“Vede, Miss Shiraki, alcuni sport sono intrinsecamente pericolosi per chi li pratica: anche per questo le compagnie assicurative si dimostrano tanto restie a stipulare polizze con chi pratica discipline come il football, il rugby, l’hockey su ghiaccio, il pugilato e così via. Purtroppo non è bassa la percentuale degli atleti che, ancor giovani, si ritrovino gravemente lesionati a livello neurologico, a causa dei violenti traumi cui è stata sottoposta la calotta cranica durante le performances sportive. La letteratura medica è abbastanza monocorde in tal senso: recenti studi di neurologia applicata alla medicina sportiva, alcuni dei quali condotti proprio da me e oggetto del mio ultimo convegno qui a New York, stabiliscono che anche la commozione cerebrale più lieve può provocare la demenza post traumatica. Un trauma cranico grave, invece, può far insorgere l’Alzheimer. E, comunque sia, non andrebbe tralasciato neppure il rischio di arresti cardiaci per l’atleta, sempre derivanti da colpi violenti ricevuti al torace…”

Yoko aveva ascoltato la fine del lungo discorso del professore senza mai interromperlo: si era sentita talmente angosciata da non riuscire quasi a respirare. Solo quando Kininskij le aveva palesato la sua preoccupazione, nel vederla sempre più pallida, aveva sorriso debolmente.

“No… non si preoccupi… sto bene, grazie.”

“Forse Le farebbe bene prendere una boccata d’aria: venga con me, facciamo due passi sulla terrazza, vedrà che si sentirà meglio.” le aveva proposto in tono paterno, aiutandola ad alzarsi dalla poltroncina ed offrendole il braccio. Yoko si era lasciata trasportare via come una bambina, senza dire nulla. “Mi perdoni se sono indiscreto… anche se Lei mi ha detto di essere presidente di un club pugilistico del suo Paese, credo che la sua preoccupazione sia di natura personale. Una persona che Le sta a cuore presenta i sintomi di cui abbiamo parlato?” le aveva chiesto, affabile.

Yoko si era limitata ad annuire, mentre una lacrima silenziosa le aveva percorso la gota. Il professore Le aveva quindi offerto il suo fazzoletto di batista, elegantemente cifrato e profumato di colonia. “Mi dispiace. Mi dispiace davvero. Credo che dovrebbe parlarne con… con questa persona, convincendola a fare al più presto degli esami di controllo, per verificare a che punto è arrivata la lesione neurologica e magari stabilire una terapia ad hoc.”

“Non si può fare nulla per una guarigione, giusto?” aveva mormorato Yoko, con voce appena udibile. Si era sentita il petto perforato da un buco silenzioso, da qui era entrato un freddo gelido. Un gelo che d’ora in avanti non avrebbe smesso di sentirsi addosso.

Mai più.

Kininskij aveva scosso il capo con fare contrito. “Purtroppo no… come Le ho accennato poco fa, è un decorso irreversibile, che si manifesta sia con anomalie a livello fisico, sia con anomalie a livello comportamentale: il malato non solo non possiede più la totale padronanza del suo corpo e dei suoi movimenti, ma sviluppa anche comportamenti di tipo maniaco-depressivi, risultando a volte anche pericoloso e molto aggressivo per chi gli sta intorno. Con i medicinali di ultima generazione, che sono essenzialmente degli antipsicotici, si può solo rallentare il più possibile lo sviluppo della malattia, soprattutto a livello comportamentale…”

Yoko era quindi scoppiata in un pianto dirotto, senza più controllarsi. Aveva continuato a singhiozzare, accecata dalle lacrime, gridando il proprio dolore, mentre il bravo medico l’aveva abbracciata, dandole delle lievi pacche sulla spalla. Alcuni astanti si erano avvicinati alla coppia con fare preoccupato. Un sollecito cameriere aveva subito portato un bicchiere d’acqua e zucchero.

“È tutto a posto, sono un medico. Mi occupo io della signorina. Grazie per l’interessamento.”

Quando alcune ore dopo Yoko si era congedata dal luminare, questi le aveva lasciato tutti i suoi recapiti, dimostrandole la sua più totale disponibilità e donandole il suo ultimo trattato di medicina sportiva, oggetto del convegno appena svoltosi in città. La giovane lo aveva ringraziato, promettendogli di tenerlo aggiornato su ogni nuova anomalia riscontrata nell’uomo amato, e si era quindi recata all’aeroporto per far ritorno a casa, sentendosi il cuore stretto in una morsa feroce.

°°°°°

Un tardo pomeriggio di qualche tempo dopo, sul lungofiume di Sumidagawa.


Joe si sentiva stanco, ma abbastanza soddisfatto.

Quella trascorsa era una stata una giornata “buona”, nonostante tutto: era stato perfettamente padrone del suo corpo. Niente tremolii, niente mal di testa, e niente equilibrio precario. Oramai le sue giornate non erano più tutte uguali, a livello di benessere fisico: c’erano giorni buoni e giorni cattivi e tutto questo esattamente dopo lo sventurato incontro tenutosi contro Walker. Joe sperava con tutto se stesso che i suoi disturbi fossero solo una cosa passeggera, promettendo a se stesso che dopo il match con Mendoza si sarebbe riposato, a prescindere dall’esito. Che vincesse o perdesse, poco importava: oltre a Mendoza egli non provava stimoli per nessun altro avversario, dato che il messicano costituiva per lui IL pugile per antonomasia. Dopo l’affaire Mendoza avrebbe deciso cosa fare… sempre che ci fosse ancora qualcosa da decidere, per lui.

Espirò a fondo, per svuotare bene i polmoni. Aveva fatto una bella corsetta corroborante ed ora si era fermato ad osservare i giochi di luce sulla superficie del fiume, che scorreva placido. Si sedette sul prato, dedicandosi ad un po’ di sano stretching, osservandosi con curiosa attenzione gli arti, che negli ultimi mesi gli si erano affusolati, ma anche irrobustiti. Pure le mani gli si erano leggermente ingrandite, ed ora superava di statura di almeno quattro dita suo padre, che pure non era piccolo come giapponese.

Quasi come se lo avesse evocato dal nulla, Joe si interruppe dai suoi esercizi di ginnastica, non appena se lo vide giungere incontro. Nakamura avanzava tranquillo, con il suo solito passo cadenzato ed elastico. Senza dire nulla, l’uomo discese per il piccolo pendio e si sedette sull’erba, incurante del suo elegante gessato grigio in fresco di lana di squisita fattura italiana.

“Ne vuoi un po’? L’ho presa poco fa in drogheria.”

Joe sorrise, afferrando la lattina di aranciata per trarne un lungo sorso, emettendo un sospiro di soddisfazione.

“Quanto manca?” domandò Hiro, a bruciapelo, dopo alcuni minuti di perfetto silenzio tra lui e suo figlio.

“Quanto manca… a cosa?” chiese Joe, perplesso.

“Al tuo match contro il campione mondiale.”

“Circa tre settimane. La data è stata anticipata per motivi personali di Mendoza: pare che la moglie sia in attesa del quinto figlio e Josè vuole sospendere i suoi impegni sportivi per un po’, per restare in famiglia. Così mi ha riferito Yoko giusto l’altro ieri.”

“Meno male. Prima si farà e meglio sarà. Questa attesa è a dir poco snervante.” replicò secco Nakamura, strappando un filo d’erba per metterselo tra le labbra, traendone un suono sibilante.

Joe lo osservò incuriosito, sorridendo leggermente. “Uhm… e perché mai saresti tanto in apprensione? Mica sarai tu a disputare l’incontro.”


Di rimando Hiro gli scoccò un’occhiataccia. “Sono tuo padre. Ogni volta che sali sul ring è come se ci salissi pure io. Non mi pare tanto astrusa da capire, come cosa.”

“Non ti devi preoccupare. Io sono in perfetta forma fisica e gli allenamenti procedono benone.” soggiunse Joe, atono, volgendo lo sguardo al fiume.

“Non prendermi per i fondelli, Kei. Non ci provare.” Nakamura si alzò in piedi di scatto, prendendo a calci la lattina di aranciata, ormai vuota.

“Che ti prende?” bofonchiò l’altro, di rimando.

Nakamura, in tutta risposta, afferrò il figlio per un polso, facendolo rimettere in piedi, per poi bloccargli le spalle nelle sue mani. Gli percorse il viso con uno sguardo colmo di tristezza e di rabbia. “Se credi di ingannarmi hai sbagliato di grosso. Forse puoi fregare il tuo coach, che da quando ha la sua bella palestra nuova si è completamente rimbecillito dalla felicità. O forse ce la fai a dire una balla colossale a Yoko, anche se dubito che quella ragazza se la beva fino in fondo: di certo non è una sciocca. Ma a me non la fai. Capito?”

Joe si divincolò dalla stretta, brontolando e cercando di darsi un contegno, anche grazie alla sua consueta maschera di strafottenza. “Calmati, eh? Non mi piace essere trattato così! Non sono più un bambino oramai da un bel pezzo!”

“Kei. Figlio mio…” Nakamura gli appoggiò una mano sulla spalla, massaggiandogliela con affetto, “sono mesi che ti sto osservando, facendo finta di nulla. Ho annotato, ho immagazzinato dentro di me ogni tuo singolo movimento, ogni tuo gesto. Ti ho visto incespicare molte volte, barcollare. Spesso ti ho visto pallido come un cencio per l’emicrania. Tu non stai bene… non stai bene!”

Joe strinse le labbra per poi emettere un lieve fischiettio. “Beh, non esagerare, dài… sono solo un po’ stanco. Ho intensificato gli allenamenti e spesso crollo sfinito. Se barcollo o incespico è solo per questo, davvero… per la troppa stanchezza, tutto qua. Non facciamola più grossa di quella che è. Anzi,” continuò, in tono forzatamente allegro “ti faccio una promessa: dopo il match mi metto a riposo per un bel po’ e magari me ne vado al mare per una vacanzina. Eh… che ne dici?”

Nakamura scosse la testa.

“Non me la fai, figliolo. Non me la fai. Neppure stavolta.”

°°°°°°°

Quella stessa sera, allo Shiraki Boxing Club…


“È questo che hai chiesto alla vita?”

Yoko sobbalzò, completamente colta alla sprovvista. La figura del giovane uomo si stagliava sulla porta, aitante e statuaria.

“Kiyoshi-san… come mai da queste parti?”

Yoko si ricompose, assumendo un’espressione assai poco accomodante. L’uomo l’aveva distolta dalle sue profonde riflessioni, scaturite dal libro che stava leggendo con attenzione. Alcuni termini medici non erano facili da capire, ma Yoko cercava comunque di seguire il filo del discorso esposto dall’autore, il Prof. Kininskij. Di scatto, chiuse il tomo, rimanendo seduta, un po’ rigida e a mento alzato, come una regina sdegnosa. Fissava Jun, che però non si lasciò intimorire da quello sguardo altero.

L’amico si accomodò in una sedia, posta proprio di fronte a lei, pur senza esserne stato invitato.

“Yoko… perché fai così?”

“Così, come?”

“Tu non sei felice. Inutile fingere.”

“Io sto benissimo e non vedo come la cosa debba interessarti, comunque. Non sono affari tuoi, mi pare. E non mi pare neppure di averti invitato qui, nel mio ufficio.” Yoko si alzò, cercando di darsi un contegno nell’impilare dei documenti.

“Guarda che questo tuo atteggiamento da dama snob con me non attacca. Mettila pure giù, questa maschera inutile.” Jun si alzò e le si accostò posando la sua mano, calda e forte su quella tremante della giovane, stringendola. “Stai soffrendo le pene dell’inferno. Ancora una volta. La storia si ripete… giusto? Prima Tooru Rikishi… adesso Joe Yabuki. Ti offrono le briciole delle loro attenzioni, del loro amore, mentre in realtà la loro unica ossessione è incrociare i guantoni con chicchessia. E tu te ne resti da sola a bordo ring, sospirando e scongiurando… sempre, ad ogni incontro.”

Yoko si liberò della stretta, ma Jun la afferrò per le spalle, costringendola a guardarlo in faccia.

“Cos’è che pensi, ogni volta, eh? Chissà se ce la potrà fare anche stavolta… chissà se ridiscenderà quella scaletta di legno sulle sue gambe…

“Jun, per favore…” mormorò Yoko, la voce rotta.

“Ti vedo, tutte le volte. Il tuo viso si spegne, di round in round, come se perdesse ogni singola goccia di sangue. È come se ci salissi pure tu, su quel dannato ring, accusando sulla tua pelle ogni colpo che Yabuki riceve. E fa male, fa molto male, Yoko.”

Accostò il suo viso a quello di lei, respirandole sui capelli, essendo molto più alto di Yoko. “Quanto credi di poter reggere, in questo modo? Dimmelo…” le sussurrò con dolcezza.

Le sollevò il viso, osservando le lacrime che le percorrevano le guance, morendo nelle sue labbra. Yoko aveva accusato il colpo: Jun era stato spietato. Si sentiva morire dentro, confinata in un angolo buio e freddo.

Jun non resistette più, e le catturò le labbra con le sue.

_________________________________

Spigolature dell’Autrice:


Innanzitutto mi scuso per il ritardo di postaggio, ma tra problemucci di salute e – finalmente! – un po’ di vacanza, non ho avuto modo e tempo di aggiornare prima questa benedetta storia. Come avrete notato, ho sostituito il consueto banner con uno nuovo, che la gentilissima fatina DivergenteTrasversale ha confezionato per me con la sua bacchetta magica, e che ora come ora rappresenta al meglio il mio stato d’animo riguardo a Joe. La storia sta volgendo al termine, come avrete inteso, e questi ultimi momenti in compagnia di Joe Yabuki sono per me dolorosi ma anche tanto, tanto belli. Questo è stato un anno da fanfictionnara dedicato al mio Joe: del resto, lui è pervicacemente nel mio cuore da 34 anni e lì ci resterà, ancora e sempre. Sono una donnina fedele, io…


Se avete interesse ad approfondire l’argomento spinoso della demenza pugilistica, Vi lascio qui di seguito i link (anche per mio preciso dovere di credits):
http://www.dottorgiuseppedeigiudici.net/node/193
http://robertodadda.blogspot.it/2012/02/la-sindrome-del-pugile-suonato.html
http://www.alzheimer-riese.it/contributi-dal-mondo/esperienze-e-opinioni/3045-il-rugby-e-legato-alla-demenza-secondo-esperto-inglese http://www.dica33.it/argomenti/sport_salute/pugilato.asp

Al prossimo capitolo, sosterremo tutti insieme Joe nel suo match contro Josè.
Un bacio,
i.

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** Capitolo XXXV - Purezza ***


banner-nuovo-per-l-unico-domani

Era fuggita.

E, per come continuava a sentirsi in quegli ultimi tempi, la tentazione di fuggire da tutto e da tutti, pure dal suo Joe, diventava per Yoko sempre più forte…una sirena dalla voce suadente, che le sussurrava incessantemente di arrendersi di fronte all’ineluttabile corso del destino.

Quella sera si era ritrovata, sì, quasi senza rendersene conto, tra le braccia di Jun: con la vista annebbiata dalle lacrime non aveva colto lo sguardo ardente del reporter, che le aveva catturato le labbra prima che lei potesse reagire in qualche modo. L'uomo era stato molto duro con lei, dicendole quelle cose sul suo rapporto con Tooru prima e con Joe adesso: le sue parole avevano colpito nel segno, mettendola di fronte alla sua più profonda angoscia. Un’angoscia che mai aveva smesso di accompagnarla, tutte le volte che aveva visto salire sul ring l’amato. Per questo poi si era strappata, gemendo, dall’abbraccio del giornalista, correndo via veloce, per non dover sentire più niente…

°°°°°°

Una tranquilla sera, in una bella villa di Città del Messico…

La sua vita da pugile era scandita da ritmi sempre uguali e ripetuti nel tempo, giorno dopo giorno: e questo ormai da molti anni.

Sessioni di allenamento, severe ma equilibrate. Una dieta alimentare sana e leggera. Niente fumo e niente alcool. Periodici e rigorosi controlli clinici dal medico di fiducia. Ecco l’elisir di lunga vita per un campione di boxe: niente di più e niente di meno. Aveva iniziato presto, molto presto, a vivere così: a soli quattordici anni d’età. E fin da subito egli aveva saputo dominare gli scenari della boxe internazionale, sotto l’egida della WBC, con assoluta sicurezza, come se non potesse esserci altro campo d’azione per uno come lui.

Con una donna al suo fianco come Shirley, poi, che gli aveva donato quattro bellissimi bambini, Josè Mendoza poteva affrontare ogni nuovo avversario in totale serenità, dato che ad attenderlo, fuori dal ring, ci sarebbe stato un focolare caldo e rassicurante. A differenza di molti altri pugili, Josè non aveva avuto un’infanzia disgraziata, all’insegna della povertà e del degrado: proveniva infatti da una tranquilla e onesta famiglia piccolo-borghese di Città del Messico, con un padre ferroviere ed una madre maestra di scuola. Tanto affetto e saldi principi morali lo avevano sempre accompagnato per mano lungo il cammino.

Josè non aveva fame del ring. Semplicemente, il ring lui lo calcava: ne era il padrone indiscusso. Uomo perbene ed educato, pugile perfetto, quindi: ovunque andasse, la sua aura di serena superiorità veniva percepita da chiunque incrociasse il suo cammino.

Un po’ stanco dopo aver trascorso la giornata in palestra dalle sette del mattino, adesso controllava i compiti di scuola di Russell ed Amber: amava trascorrere il tempo libero con i suoi bambini, di cui seguiva l’educazione con scrupolo e coscienza insieme alla moglie, essendo memore dei buoni insegnamenti ricevuti a suo tempo da Eloy Mendoza.

“Ricordati chi sei, in ogni momento: sei mio figlio, Josè. Non farmi mai vergognare del mio ruolo di padre.”

Questo era solo uno dei saldi principi morali cui Josè aveva sempre voluto improntare la sua vita: a quarantadue anni suonati, egli era più che mai convinto di aver seguito la strada giusta, che lo avrebbe condotto presto ad appendere i guantoni al chiodo. Ormai aveva raggiunto l’apice del successo, come pugile: non poteva che ritenersi più che soddisfatto dei risultati ottenuti ed era intenzionato a ritirarsi a breve per dedicarsi ad altro, ancora nel pieno delle forze e della salute.

Stava accarezzando il progetto di occuparsi, oltre che della famiglia, dell’allevamento di cavalli di corsa, dato che il suo hobby preferito era, da sempre, l’equitazione: Josè adorava i cavalli e li considerava creature nobili e perfette. Amber, la sua primogenita, era già una discreta cavallerizza e lo riempiva d’orgoglio quando la vedeva eseguire compitamente gli esercizi di salto ad ostacoli, in groppa alla sua bellissima baia.

Amava moltissimo essere padre ed aveva accolto con gioia la notizia della quinta maternità di Shirley: per questo motivo aveva esercitato pressioni non indifferenti, per tramite della WBC, presso la Federazione Pugilistica Giapponese, al fine di ottenere che la data del suo incontro con Joe Yabuki venisse anticipata, anche a costo di dover pagare fior di penali. Voleva godersi ogni momento della gravidanza della moglie, per coccolarla e viziarla senza dover pensare alla boxe. Del resto, Josè aveva già deciso che dopo Yabuki avrebbe disputato al massimo altri due incontri, per poi dire addio alla boxe.

Yabuki… o, semplicemente, Joe.

Gli piaceva, quel ragazzo. Non provava nessuna animosità dei suoi confronti: anzi, sin dal primo momento, quello strano giapponese lo aveva incuriosito e colpito positivamente, al punto tale da imbarcarsi sul primo volo per andarlo a vedere di persona, subito dopo il match che aveva tenuto con Carlos Rivera, in modo da poter scoprire di che pasta fosse fatto il pugile che aveva saputo infiacchire il “Re senza corona” prima di lui, rendendogli le cose assai semplici poco dopo lo scoccare del primo round.

Al di là della pura competizione sportiva, Josè aveva saputo riconoscere il talento innato di Joe per la boxe già quando si era trovato faccia a faccia con lui, nella sala illuminata e festante dell’Hotel New Otani di Tokyo*. Aveva incrociato il proprio sguardo con quello di fuoco di Joe e vi aveva riconosciuto lo stesso fuoco dei suoi, ormai lontani, esordi. Ed aveva intuito molto, molto di più in quel ragazzo: la sua testardaggine, la sua ostinazione ma anche la sua più autentica statura morale. Si era quasi pentito di averlo atterrato ad Honolulu con un poderoso gancio, quando Joe, iroso, gli si era rivoltato contro per la faccenda del manifesto ritraente Rivera: Josè aveva apprezzato, in realtà, il sentimento di lealtà e di amicizia provato da Joe nei confronti dello sventurato venezuelano. Quando poi, qualche mese prima, al Ceasars Palace di Las Vegas, se lo era ritrovato a bordo ring in compagnia della signorina Shiraki intento a fare un acceso tifo solo per lui, la cosa gli aveva fatto molto piacere.

“Sei davvero il più grande, Josè. Sono contento della tua vittoria: Gomez non aveva scampo, con te. Ricordati però che io ti aspetto sul ring.”

Quando Joe si era congratulato con lui, dopo l’incontro, c’era stato molto sincero calore nella sua voce. Ciò non lo aveva stupito più di tanto, avendo capito da tempo di che pasta fosse fatto il giovane campione giapponese… non più del fatto di averlo visto accanto a Yoko Shiraki, con cui la sua Shirley aveva stretto una profonda amicizia durante il periodo trascorso insieme alle Hawaii.

Quello disputato con il portoricano Harold Gomez, a sua volta detentore del titolo mondiale, sebbene della WBA, non era stato affatto un match di routine. Ogni tanto gli capitava di ripensarci, rendendolo sempre più convinto di lasciare il pugilato all’apogeo della sua bravura e della sua forza. Chiuse di scatto il quaderno degli esercizi di aritmetica di Russell, aggrottando le sopracciglia.

Sì. Il suo addio al pugilato si stava avvicinando sempre più: su questo ormai nutriva ben pochi dubbi.

°°°°°°°

Alcuni mesi prima, al Caesars Palace di Las Vegas…


“Questa volta ci gustiamo tu ed io, soli soletti, un bell’incontro del nostro Josè…è stato un bel gesto, da parte sua, regalarci i biglietti. Proprio un bel gesto. Ne vuoi un po’?”

Joe le porse il sacchetto di chips, cosa che la fece sorridere, intenerita, pur scuotendo il capo.

“Vacci piano con quella roba… fa ingrassare da morire.” Yoko si avvolse la pashmina di cachemire sulle spalle, rabbrividendo. “Che freddo… è tipico degli statunitensi accendere l’aria condizionata al massimo. Eppure fuori non fa affatto caldo!”

In silenzio, Joe si sfilò il giaccone per posarlo con delicatezza sulle spalle di Yoko.

Finalmente, entrarono in scena i due protagonisti assoluti di quella serata: il fragore in sala divenne assordante ed il tifo, da acceso, si fece parossistico. Joe provò a dire qualcosa, senza però che Yoko potesse udirlo, tanto era forte il baccano esploso tutto intorno a loro.

Josè Mendoza e Harold Gomez, ornati ciascuno di loro della cintura di campione mondiale della rispettiva federazione internazionale e scortati dal proprio entourage, vennero accolti da incontenibili urla di acclamazione degli spettatori. Echeggiarono in sala le note sia dell’inno nazionale americano che di quello messicano, l’uno in seguito all’altro. Lo speaker, abbigliato in uno scintillante smoking di raso blu, presentò, visibilmente emozionato, i due grandi campioni al pubblico. Joe osservò Gomez, incuriosito, dato che quella era la prima volta che lo vedeva di persona: lo trovò assai ben piazzato e con lo sguardo fiero. Ridacchiò alla vista dei suoi pantaloncini ad appariscente stampa leopardata, essendo lui molto spartano in fatto di tenute sportive.

“Epperò… Gomez si crede un grosso felino, a quanto pare!”

“Esatto. Non per nulla è stato soprannominato ‘la pantera dei Caraibi’, dato che è nato a San Juan, in Portorico. Anche senza saperlo, ci hai visto giusto!”

“Vabbè…pantera o no, se crede di mettersi Josè nel sacco si baglia di grosso.” bofonchiò Joe, finendo di mangiare le sue patatine, per poi appallottolarne il sacchetto.

“Cosa intendi dire? Non dimenticare che anche Gomez è un campione mondiale, seppur di un’altra federazione pugilistica. Non è saggio sottovalutarlo e non credo che converrebbe farlo neppure a Josè…” pontificò Yoko, stringendosi nel giaccone.

“Uhmm… guarda che io non sottovaluto nessuno, Presidente. Dico solo che Mendoza è unico, nel suo genere: un atleta eccezionale, completo, che usa i guantoni come se fossero un fioretto. Josè è un pugile… ‘gentiluomo’, passami il termine.”

La donna rise, divertita. “Accidenti, che sviolinata verso il tuo prossimo avversario.”

“Dico solo quello che penso. Ora però concentriamoci sul match, che sta per iniziare.” Joe emise un sospiro di stanchezza dovuto al jet lag, accomodandosi meglio sulla poltroncina, a braccia conserte.

I pugili salutarono il pubblico festante e si lasciarono preparare le mani dai rispettivi staff.

Josè apparve in forma smagliante, dall’espressione serena ed imperturbabile, come sempre. Stavolta Shirley non aveva potuto accompagnarlo per sostenerlo, dato che due dei loro quattro bambini avevano contratto il morbillo. Il messicano fece scorrere lo sguardo sugli spettatori della prima fila e le sue labbra si distesero in un sorriso leggero, quando scorse Yoko e Joe, che salutò con un lieve cenno del capo: Yoko sollevò la mano, con viso lieto e Joe gli sorrise apertamente, facendo il gesto di “v”, vittoria.

Il contatto visivo tra i due uomini venne interrotto dallo scoccare del gong della prima ripresa.

I campioni avanzarono cautamente per ritrovarsi a centro ring, studiandosi e muovendosi in tondo. Gomez saggiò l’altro con la ripetizione dei jab di disturbo, per aprire le danze e per tenerlo a distanza: i suoi colpi vennero evitati con nonchalance da Mendoza con rolling e schivate del busto. Un diretto destro di Gomez, tuttavia, andò a segno e fece arretrare l’avversario, il quale contrattaccò con un gancio sinistro sotto lo sterno.

“Eccolo. Adesso Josè si limita a difendersi. Mi sa che prima del quarto round non assisteremo al suo vero attacco.” borbottò Joe, che stava elaborando mentalmente, pugno per pugno, ogni azione dei due pugili.

“Sono d’accordo. Intanto però questa ripresa sarà aggiudicata a Gomez, come punti.”

Joe fece spallucce. “Con Josè i punti non serviranno. Vedrai.”

Secondo round.

Gomez pensò di passare subito all’attacco, spingendo Mendoza alle corde: questi subì il diretto sinistro e poi una serie di ganci poderosi. Il messicano pareva subire passivamente le azioni dell’avversario, dimostrando le sue indubbie doti di incassatore: non ansimava e non sudava, quasi come se stesse ricevendo delle morbide carezze e non dei pugni micidiali. Naturalmente, il punteggio fu a favore di Gomez, cosa che si ripeté anche al terzo round, nonostante una potentissima sventola sferrata da Mendoza.

“Accidenti… ma perché Josè non reagisce?” brontolò Joe.

“Ma come, non lo avevi detto tu che prima del quarto round non avrebbe attaccato?” gli fece osservare Yoko, leggermente ironica.

“Sì, però almeno potrebbe difendersi!”

Durante la quarta ripresa, Josè smise di incassare, schivando abilmente ogni colpo sferratogli da Gomez, proprio come aveva fatto all’inizio del match: con lievi torsioni del busto dalla velocità impressionante, non permise al portoricano di portare a segno i suoi pugni, facendolo stancare. Fu quello il momento giusto, che venne prontamente colto da Josè, che ferrò una rapidissima sessione di ganci, un sinistro al fianco ed un destro al viso: Gomez si accasciò a terra e riuscì a rialzarsi con molta fatica, per poi scivolare di nuovo poco più avanti e rimettersi in piedi aggrappandosi alle corde, contro cui era andato a finire.

Alla fine della ripresa, Joe si mise ad osservare attentamente ambedue i pugili, ognuno al proprio angolo: mentre il campione della WBA era tutto sudato, con lo sguardo vacuo ed ansimava a fatica, non riuscendo neppure a bere l’acqua che gli porgeva il secondo, Josè era rilassato e fresco come una rosa, perfettamente cosciente, sì da rispondere pacatamente alle parole del suo coach, che gli andava parlottando chissà cosa.

“Inutile ribadirlo… Josè è di un altro pianeta. Hai visto, Yoko? Gomez è ormai spompato, non riesce neanche a respirare. Il nostro amico, invece, sembra appena uscito dalla doccia! D’altronde i suoi attacchi non perdonano: visto che ha reagito al quarto round, come ti dicevo?” chiosò, tutto trionfante.

Il quinto round fu analogo al quarto, con un Harold Gomez sempre più stanco…

Al 2’ 30’’ della sesta ripresa, Mendoza chiuse la questione con un paio di potentissimi ganci ed un montante destro: il portoricano si accasciò a terra e venne conclamato il k.o. Il pubblico acclamò quindi l’indiscusso campione mondiale dei pesi medi della WBC e della WBA!

°°°°°°°

Un pomeriggio qualsiasi…di qualche tempo dopo, al Tange Boxing Club.


“Joe, sei pronto?”

“Ancora un minuto e possiamo andare.” rispose il pugile, con pacatezza, finendo di vestirsi.

Tange covava con lo sguardo il suo pupillo, mentre Nishi ed un paio di ragazzi della palestra riempivano i borsoni di tutto l’occorrente. Le due nuove paia di guantoni, necessarie in un incontro con in palio un titolo pugilistico, vennero riposte nella custodia dal buon Mammouth, dopo una fuggevole carezza. Era quasi come se Nishi volesse augurare buona fortuna al suo migliore amico tramite gli oggetti più simbolici del pugilato stesso: quelli ove si trasfondono la fatica, il sangue ed il sudore di chi calca il ring.

Da diverse settimane il vecchio coach non aveva smesso di osservare Joe con somma ansia, pur senza parere. Si era anche confrontato con Yoko prima e con Nakamura poi, per ritrovarsi in preda alla più profonda angoscia. Spesso la notte non riusciva a chiudere occhio e, in preda alla disperazione, andava in punta di piedi a controllare il sonno di Joe, ascoltando il suo respiro e permettendo a lacrime brucianti di solcargli il viso.

Il suo ragazzo stava male.

In più di una occasione si era ritrovato come in procinto di dirgli qualcosa, senza averne il coraggio. Tange non voleva accettare la verità: sperava sempre che si trattasse di un incubo orrendo da cui fosse possibile risvegliarsi. Lo osservava sperando con tutto se stesso di poter vedere un miglioramento… di poter rivedere il Joe di sempre. Ogni volta che lo vedeva poco sicuro sulle gambe o in preda a forti emicranie malediva se stesso per averlo iniziato alla boxe. Si sentiva malvagio ed egoista, per questo… anche perché ci si illude che certe cose possano accadere sempre e solo agli altri, e mai a chi vogliamo bene. Solo una volta aveva cercato, timidamente, di proporgli di lasciar perdere il match con Mendoza e di riguardarsi: ma lo sguardo di Joe era stata una risposta a dir poco inequivocabile.

E Danpei Tange si era sentito colpevole, una volta di più.

_______________________

Spigolature dell’Autrice:


Ecco per voi un'immagine del fiero Josè Mendoza:
jose-mendoza
*v. il capitolo XVII – Blu come il mare 


L’angolo del boxeur  :

In realtà, nella boxe professionistica (maschile e femminile) NON esiste un unico campione mondiale di ogni categoria di peso, anche se per comodità si tende ad univocare. E questo è dato dal fatto che esistono più federazioni pugilistiche internazionali, ovvero, sintetizzandovi (o vi addormentate…): International Boxing Association (IBA); International Boxing Federation (IBF); International Boxing Organization (IBO); World Boxing Organization (WBO); World Boxing Association (WBA); World Boxing Union (WBU); World Boxing Council (WBC); European Boxing Union (EBU, fondata nel 1910, con sede nella nostra Roma!).
(fonte: Wikipedia, per ricordarmele tutte!)

A titolo esemplificativo, vi enuncio gli attuali campioni in carica limitatamente alla WBA ed alla WBC, come esplicato in questo interessante blog, per i doverosi credits: www.pianetaboxe.blogspot.it

Campioni del mondo World Boxing Association (o WBA):
Pesi piuma: Yuriorkis Gamoa (Cuba)
Pesi leggeri: Juan Manuel Marquez (Messico)
Pesi super leggeri: Anthony Crolla (Regno Unito)
Pesi welter: Keith Thurman (USA)
Pesi super welter: Erislandy Lara (Cuba)
Pesi medi: Gennady Golovkin (Kazakistan)
Pesi super medi: Giovanni De Carolis (Italia), di cui sono fan sfegatata!
Pesi massimi leggeri: Denis Lebedev (Russia)
Pesi massimi: Tyson Fury (Inghilterra)

Campioni del mondo World Boxing Council (o WBC):
Pesi piuma - Jhonny Gonzalez (Messico)
Pesi leggeri: Jeorge Linares (Venezuela)
Pesi welter: Danny Garcia (USA)
Pesi super welter: Jermell Charlo (USA) (corretto con il sito ufficiale della WBC, dato che nel citato blog era dato per vacante: http://wbcboxing.com/wbceng/champions)
Pesi medi: Saul Alvarez (Messico)
Pesi super medi: Badou Jack (Svezia)
Pesi medio massimi: Adonis Stevenson (Canada)
Pesi massimi leggeri: Tony Bellew (Regno Unito)
Pesi massimi: Deontay Wilder (USA)

°°°°°°
Amici carissimi, vi aspetto al prossimo capitolo, che forse (questo ancora non lo so) sarà l’ultimo.
Grazie per avermi accompagnata fin qui… altro, per ora, non riesco a dirvi.
i.

Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** Capitolo XXXVI ed Epilogo - Bianco come l'alba ***


banner-nuovo-per-l-unico-domani
Con pochi gesti metodici accese i bastoncini di incenso: aveva acquistato quelli più pregiati e profumati.

Si sentiva stranamente tranquilla.

Non credeva che si sarebbe ritrovata così composta e serena, come se stesse ripetendo, pure in quel momento, gli stessi infiniti gesti, giorno dopo giorno… Anno dopo anno. A dire la verità, gli anni erano passati. Più di dieci, per l’esattezza, ma alla fine era ritornata in Giappone: si era auto-esiliata per tutto quel tempo per ricostruire se stessa e la sua vita sotto un altro cielo.

Tokyo era cambiata, ancora e ancora, divenendo più grande, moderna ed all’avanguardia: aveva fagocitato antichi quartieri, radendoli al suolo e ricostruendoli, mattone su mattone. Namidabashi era divenuto, alla fine, una zona residenziale, pulita e decorosa, dato che tutte le baracche di legno erano scomparse per sempre: al loro posto erano state costruite molte graziose palazzine e persino qualche villetta con giardino. Nulla di elegante o di prestigioso: ma di certo le latrine a cielo aperto, con i fetidi ed immondi rigagnoli che ti mozzavano il respiro, erano divenute un lontano e sgradevole ricordo.

Pure la palestra sotto il ponte non c’era più da tanto tempo.

Ma ricordi erano rimasti tutti al loro posto.

°°°°°°

Circa dieci anni prima, al Budokan, in una sera di fine novembre…

Joe si sciacquò il viso, stropicciandosi gli occhi. Poi si asciugò metodicamente le mani, che Nishi gli aveva già fasciato per il match. C’era ancora un bel po’ di tempo, prima dell’incontro, ed aveva richiesto al suo staff di potersene restare da solo nello spogliatoio, per concentrarsi e per non doversi sforzare di fare conversazione. Si era accostato alla finestra, così da osservare il traffico convulso di quella sera di fine novembre. Come al solito, aveva delegato Tange di rispondere in vece sua agli ultimi, assillanti giornalisti.

Solo all’ultima conferenza stampa di qualche ora prima si era lasciato un po’ andare, rispondendo alle domande in un modo un po’ più cortese del solito. Aveva persino sorriso ai fotografi. Ma il momento per Joe più bello, quello in cui si era davvero sentito a suo agio, era stato quando Josè gli si era avvicinato per stringergli la mano: lo sguardo attento e sereno con cui gli si era fatto incontro il suo avversario, che pochi istanti prima aveva rivolto al suo indirizzo parole gentili e rispettose, definendolo “un’autentica promessa della boxe internazionale, un giovane ricco di talento con cui era fiero di misurarsi”, lo aveva reso ancora più persuaso di essere al posto giusto ed al momento giusto. Il Campione del mondo era lì per lui, perché lo considerava alla sua altezza. Perché lo stimava: come uomo e come pugile. Si erano stretti la mano in una presa calda e forte e Josè aveva completato il gesto con una pacca amichevole sulla sua spalla. I fotografi li avevano così immortalati in una posa rilassata e sorridente, come se si trattasse di due vecchi amici e non dei contendenti di un prestigioso match per il titolo mondiale della WBA e della WBC.

Al lieve click della porta, Joe si era girato, senza stupirsi affatto di trovarsela lì. Senza dire nulla, si era lasciato sedere sul divano, mentre Yoko provvedeva a chiudere a chiave la porta, in modo nessuno potesse disturbarli.

“Credevi che proprio stasera mi sarei tenuta lontana da te?”

“Non credo nulla, Yoko.” replicò, asciutto “Anche se forse lo spogliatoio di un pugile non sarebbe il luogo più adatto ad una signora.”

“Sciocchezze.” Si sentiva le gambe molli, ma si diresse al sofà con fare deciso. “Sei intenzionato a startene a capo chino per tutto il tempo, pur di non guardarmi in faccia?” La giovane gli si sedette accanto, cercando di intercettarne lo sguardo, dato che Joe se ne stava con i gomiti sulle ginocchia, guardando un punto imprecisato del pavimento. Era come se in quel preciso momento della sua vita volesse tenere tutti lontani da sé. Anche con Nakamura si era comportato, negli ultimi tempi, con maggior freddezza e distacco, vanificando quasi completamente tutti i piccoli progressi fatti per riallacciare i rapporti con il padre ritrovato. Yoko gli sollevò il mento, con delicatezza, incrociandone finalmente gli occhi, dallo sguardo malinconico. “È proprio necessario…tutto questo?” mormorò lei.

“Cosa intendi dire?” Joe si alzò per bere un po’ d’acqua, porgendole un bicchiere in offerta, che la donna rifiutò scuotendo il capo.

"Lascia perdere tutto quanto: non salire su quel ring, stasera!” Al che Joe sgranò gli occhi, incredulo. “Se sono le forti penali a preoccuparti… ecco, ti assicuro che ci penserei io a pagarle!” gli implorò la giovane, con le labbra e con gli occhi.

“Ma cosa stai dicendo? Stai dando i numeri?” bofonchiò il pugile, appoggiandosi al tavolo, a braccia conserte, mirandosi le mani fasciate con fare corrucciato.

“No. Per niente.” Yoko si alzò dal divano per andargli incontro, racchiudendo il volto di lui tra le sue mani “Ti scongiuro: rinuncia all’incontro. Tu non sei al massimo della forma,” nel dire ciò le tremarono le labbra, volendo sottintendere ben altro “e Josè è troppo pericoloso, troppo micidiale…” Le lacrime cominciarono a scorrerle sul viso, senza che lei quasi potesse accorgersene.

“Basta, Yoko. Ti prego.” le sussurrò, commosso. Le lacrime della sua donna avevano da sempre il potere di sgretolare ogni sua difesa, una per una. Joe sciolse le braccia, per poterla stringere a sé, senza rispondere nulla. Le accarezzò piano i capelli, baciandola sulla tempia, per poi percorrerle piano il viso con le labbra, bevendone le lacrime, fino a catturarle la bocca. Yoko gli si abbandonò. Gli aveva aperto il suo cuore, completamente, facendolo partecipe delle sue paure e sapeva benissimo che Joe non avrebbe mai potuto darle le risposte che lei andava disperatamente cercando.

Adesso erano stanchi di parlare... tutti e due. A cosa sarebbe servito?

Senza smettere di guardarsi negli occhi, Joe la sollevò, in modo che Yoko potesse circondargli i fianchi con le gambe. Fecero l’amore così, in piedi e addossati alla parete, chiamandosi l’un l’altro, cercandosi con passione, con disperazione, desiderosi di strappare un momento al destino.

Un momento ancora.

°°°°°°

La sala era gremita di gente.

L’evento sportivo era stato organizzato in modo perfetto ed impeccabile: l’incontro sarebbe stato trasmesso dalle reti televisive di tutto il globo. Cori incessanti si rincorrevano, da una parte all’altra del palazzetto dello sport, in lingua giapponese e spagnola. I fan si erano scatenati con decine e decine di striscioni multicolori e di bandiere nazionali del Messico e del Giappone, che agitavano tra applausi, fischi, canzoni e sberleffi vicendevoli.

Con passo meccanico, Yoko si recò a capo chino fino alla sua poltroncina, tremando come una foglia: solo la presenza rassicurante di Hiro Nakamura, che nel frattempo era già arrivato e che la stava aspettando, le diede un po’ di coraggio e di sangue freddo. Si guardarono in profondità, scrutandosi sin nell’anima e senza quasi dirsi una parola. Yoko era pallida e sudava freddo, mentre il padre di Joe era livido, dai muscoli facciali rigidi e contratti, come se i lineamenti del suo viso fossero scolpiti nella pietra. L’unica cosa che desideravano era che quella penosa attesa finisse subito, con qualunque verdetto. Prima si faceva, e prima avrebbero portato il loro Joe via da lì.

All’arrivo dei due pugili, ognuno scortato dal proprio staff, tutto il pubblico si alzò in piedi, letteralmente impazzito, facendo un baccano assordante. Solo Yoko e Nakamura se ne rimasero seduti, osservando sfilare Joe con i suoi: il giovane salutava i fan con un lieve sorriso sulle labbra e con uno sguardo limpido e sereno. La stessa gentile pacatezza era mostrata anche dal Campione mondiale. Con il diffondersi delle note prima dell’inno nazionale messicano, e poi di quello giapponese, un silenzio rispettoso, accompagnato dalla mano sul cuore, si stese finalmente in tutta la sala.

Lo speaker, elegantissimo nel suo smoking e visibilmente emozionato, annunciò i due contendenti.

Ladies and gentlemen, benvenuti a questa straordinaria serata, in cui si disputerà un incontro di dodici riprese con in palio il titolo mondiale delle categorie WBA e WBC, tra due pugili eccezionali! All’angolo rosso, il Campione mondiale dei pesi medi, Josè Mendoza! All’angolo blu, in quarta posizione della classifica mondiale, Joe Yabuki!”

Uno dopo l’altro i due pugili rinnovarono i saluti agli spettatori che, impazziti, non la smettevano più con il loro tifo. Era quasi come se tutta la sala fosse percorsa da una corrente elettrica, che galvanizzasse chiunque. Seduto un po’ in disparte ed a braccia conserte, Jun Kiyoshi non cessava di memorizzare ogni singolo momento di quella serata. Ormai si era rassegnato a non farsi più nessuna illusione su Yoko, ripromettendosi di seguire la carriera di Yabuki solo come semplice appassionato di boxe. Eppure… eppure ogni tanto il reporter non riusciva a resistere alla tentazione di spiare, seppur da lontano, ogni singolo movimento della soave figura femminile seduta in prima fila, vestita di bianco, che si stagliava nell’oscurità come una candela dalla luce delicata. Non c’era nulla da fare. Era più forte di lui.

Nel frattempo, all’angolo blu del ring, Tange si sentiva molto agitato e nervoso, riuscendo persino lui ad essere pallido sotto il colorito olivastro, mentre si dava da fare con i guantoni del suo ragazzo. “Mi raccomando, eh. Resta concentrato, ma vedi di conservare le energie e di aspettare l’occasione giusta! Dammi ascolto, capito?” brontolò, cercando di celare la sua profonda agitazione.

“Ok.” replicò Joe, atono. Fece scorrere lo sguardo sulle prime file, incontrando, così, lo sguardo della sua Yoko. La accarezzò con gli occhi, sorridendole con dolcezza. Lei abbassò le palpebre, per nascondergli le sue lacrime.

Prima ripresa.

Sordo ai suggerimenti appena ricevuti dal suo coach, Joe pensò bene di attaccare Josè da subito: sferrò tutta una serie di jab e di diretti che il messicano schivò con del semplice rolling, senza quasi parere. Lo stesso Josè batté le palpebre, stupito, per la poca accortezza del suo avversario, che andava sprecando sin dal primo istante molte preziose energie. Contrattaccò con una fulminea combinazione di ganci, che fortunatamente Joe riuscì a parare sugli avambracci e sui guantoni, sebbene finì poi violentemente sospinto alle corde. Finita la ripresa, all’angolo blu venne accolto immediatamente dai rimbrotti di Tange, mentre Nishi e Masaki gli si operavano intorno con l’acqua e con la vaselina.

“Cretino! Testa d’asino! Cosa accidenti ti avevo detto poco fa? Ma perché non vuoi mai darmi ascolto, porca miseria! Quella tecnica del cavolo che hai usato NON FUNZIONA CON JOSÈ! In che lingua te lo devo dire?”

“Va bene, va bene… non urlarmi così, mi sfondi i timpani!” bofonchiò Joe, parandosi le orecchie con i guantoni.

Secondo round.

Questa fu la volta di Mendoza di attaccare Joe immediatamente: gli inferse una spaventosa combinazione di montante sinistro, gancio destro al volto e gancio sinistro allo stomaco: Joe si accasciò a terra, annaspando rumorosamente. Riuscì però, aggrappandosi alle corde ove era nuovamente finito, a rialzarsi in piedi… per ricevere un altro micidiale montante da Josè. Fortuna sua fu che scoccò il gong proprio in quel momento, e che poté approfittarsene per rialzarsi in piedi, evitando la conta. Barcollando, raggiunse il suo angolo, ove ricevette ulteriori rimbrotti da Tange “per tutte le energie inutilmente sprecate!”.

Terza ripresa.

Ancora una volta, Josè infierì su Joe con una terribile sventola destra. Ed ancora una volta, Joe si rialzò da terra. Il resto del round fu uno stillicidio di jab e ganci che, volta per volta, sfondavano ogni sua difesa.

Joe está cansado, se derrumbará más pronto o más tarde.” (“Joe è stanco, dovrà crollare, prima o poi.”) fece osservare Josè al suo manager, una volta raggiunto l’angolo alla fine della ripresa, mentre l’intero staff si complimentava con lui per l’ottimo lavoro svolto. Dall’altra parte del ring, Tange un po’ rimproverava, un po’ implorava Joe di rinserrare la difesa e di usare il gioco di gambe, per disorientare l’avversario. Nel contempo, in prima fila, Yoko affondava le unghie nei palmi delle mani, costringendosi al silenzio… per non urlare la sua angoscia. Hiro non ce la fece più a starsene fermo e seduto e, una volta scoccato il quarto round, si alzò meccanicamente, come un pupazzo sospinto da una molla invisibile, per poi avvicinarsi alle corde, e per porsi al fianco di Tange, che lo salutò con un cenno del capo. Joe continuava, da solo ed imperterrito, a resistere ai feroci attacchi di Josè, da cui ricevette, dopo una combinazione di jab e di ganci da manuale, una poderosa sventola alla tempia destra, che lo lasciò senza fiato. Scosse la testa, cercando di mettere a fuoco, mentre il sangue gli colava sul viso e sull’occhio destro… Già, l’occhio: la visuale gli parve come ovattata da un velo grigiastro, cosa che lo mandò in confusione. Tutto questo mentre l’arbitro gli si era fatto incontro per esaminargli lo squarcio alla testa e per chiedergli se se la sentisse di continuare.

“Certo… certo che continuo.” protestò. Con uno scatto fulmineo, approfittando della nuova visuale suo malgrado “regalatagli” da Josè, Joe riuscì a sfondarne la difesa con jab di disturbo per finalmente portare a fondo dei ganci poderosi, sia allo stomaco che al volto: cosa che lasciò Josè stupefatto e dolorante.

“Bravo! Così figlio mio, così devi colpire il messicano!” urlò Nakamura, con tutto il fiato che aveva in corpo. Avrebbe tanto voluto essere pure lui, su quel maledetto ring, per proteggere il suo ragazzo, per vendicarlo, colpo per colpo…

Raggiunto il suo angolo alla fine della ripresa, Joe venne accolto da Tange a braccia aperte. “Sei stato fantastico! Continua così, capito? Questo è il lavoro che devi fare!” Hiro si pose al di sotto dell’angolo, dandogli una pacca sul braccio. Joe si voltò per scambiare con suo padre un sorriso d’intesa, caldo e luminoso. Era bello averlo vicino, in quel momento così cruciale per lui.

Al quinto round, dopo essersi difeso con un buon gioco di gambe, con cui riuscì a tenere Josè a distanza, Joe sferrò un gancio sinistro che fece un rumore sordo sulla gota destra di Mendoza: questi rovinò in terra con un forte tonfo. Indolenzito, il messicano si rialzò solo all’ottavo. Girandogli intorno, come per studiarlo, tuttavia, Josè capì cosa fosse davvero successo e come fare per poter superare l’impasse. Sorrise tra sé e sé. Il suo avversario non ci vedeva più dall’occhio destro. Fu quindi facile ed ovvio, per lui, muoversi strategicamente sul lato destro, ormai buio per Joe. Fu in quella che lo colpì con un gancio sinistro, per infierire sull’occhio cieco del giapponese. Provvidenzialmente, proprio in quella, scoccò il gong.

Stordito e mezzo cieco, Joe venne recuperato da Danpei, dato che stava per andarsi a sedere all’angolo rosso. “Santo cielo… cosa ti è successo?” gli andava domandando, mentre lo medicava. Anche Nakamura, che non era più tornato a sedersi, chiedeva a Nishi cosa stesse succedendo, dando voce alla sua tremenda ansia.

“Calma, calma… tutti quanti. Non ci vedo più tanto bene dall’occhio destro, ecco.”

“Co-come?” trasecolarono Tange e lo yakuza, urlando in coro.

“Beh, cosa volete che vi dica… mi sa che ora sono guercio pure io, come te, vecchio!” celiò Joe, in tono leggero.

Danpei interrogò con lo sguardo, disperato, sia Nakamura che Nishi, mentre Masaki stringeva le labbra, cercando di trattenere le lacrime.

“Maledizione… no, NO!” urlò Hiro. Quando, allo scoccare del sesto round, i secondi scesero giù dal ring, Hiro afferrò Tange per il bavero, scrollandolo violentemente. “Getta la spugna! Subito! Porca troia!” Solo grazie a Nishi e a Masaki il povero Danpei venne strappato dalle mani dello yakuza, ormai furibondo e disperato…

Intanto, Joe cadeva sotto i colpi di Josè, per poi rialzarsi. Cadeva e si rialzava, cadeva e si rialzava, come in un balletto infernale. Rassegnato, Hiro tornò al suo posto, e vi trovò un piccolo gruppo di persone accalcato. Si accorse quindi che Yoko, bianca come un giglio, era svenuta. Jun era infatti accorso al suo fianco, cercando di farle riprendere i sensi con lievi schiaffetti sul viso, mentre una signora andava suggerendo di distenderla a terra e di sollevarle un po’ le gambe, per farle affluire il sangue alla testa.

“Che succede… Yoko?” mormorò Joe, oramai allo stremo delle forze, quando potè ritornare al suo angolo.

“Niente, niente, non ti preoccupare, Shiraki-sama ha solo avuto un capogiro…” cercò di minimizzare Tange, per non metterlo in agitazione.

“Nishi, per favore, vai un attimo a vedere! Sennò scendo dal ring!” sbraitò Joe, in preda all’angoscia.

Dopo pochi istanti l’amico fece ritorno. “Tranquillo, sta bene, ha avuto un capogiro per il caldo che c’è in sala. Vedi tu stesso, ti sta salutando.” Yoko, infatti, pur sentendosi ancora molto debole e stordita, riuscì a sorridergli, sollevando un po’ la manina tremante. Joe afferrò una corda con forza, in preda alla rabbia. Doveva farla finita, e scendere da lì!

Alla settima ripresa si ripeté lo stesso copione della sesta: Joe venne colpito da Josè con inaudita violenza… per rialzarsi ancora. Mendoza non ce la faceva più. Era inorridito. Quel ragazzo doveva essere pazzo, non c’era altra spiegazione! Perché continuava a resistergli? Perché non si arrendeva? “Vuole morire? Non ha paura? Io sì, che ho paura!” andava pensando, sempre più angosciato “Io penso a mia moglie, ai miei figli! Non pensa a nessuno, non gli importa niente di niente?

Ah, quello sguardo… lo stava perseguitando, come gli occhi vitrei di Medusa.

Joe gli si faceva sempre sotto, fissando sul suo viso uno sguardo senza fondo, come un buco nero infinito. Uno sguardo che ti rende folle.

Pian piano, Yoko riuscì ad alzarsi in piedi, respingendo ogni aiuto. Non voleva che nessuno la ostacolasse, né Jun, né Nakamura, né nessun altro. Lentamente, raggiunse le corde del ring. “Joe! Sono qui! Mi senti? Metticela tutta! Io resterò vicina a te! Attaccalo, attaccalo, AMORE MIO!” Con la voce di Yoko, che strinse al suo cuore per non farla più uscire, Joe divenne una furia. Ormai era quasi cieco anche dall’occhio sinistro. Ma c’era un’ombra che continuava a vedere, davanti a sé. L’ombra del suo avversario. Era l’ombra di Josè… di Tooru, di Carlos… di Kim? Non aveva importanza. L’ombra andava scacciata, a tutti i costi.

Con una magnifica sequenza di ganci al corpo ed al viso e con un uppercut violentissimo, Joe sbatté Josè al tappeto. Solo al nono, il messicano poté rimettersi in piedi. All’ottavo round, però, Josè non riuscì a mantenere il suo aplomb, urlando come un ossesso e colpendo Joe ripetutamente con pugni da rissa: l’arbitro intervenne immediatamente, ammonendolo e chiedendo ai giudici di togliergli del punteggio per irregolarità. Josè si sentiva come allucinato, in preda a visioni folli e distorte: quello era un incubo! Uno schifoso incubo senza fine! E l’incubo continuò… al nono, al decimo, all’undicesimo round… Mentre i colpi di Joe andavano a segno, pur essendo ormai ipovedente, Josè si muoveva a scatti, come un burattino impazzito, commettendo quasi solo dei falli che suscitarono il disdegno del pubblico.

Yoko, rigida e ritta, sempre in piedi, sopportò di vedere tutto questo, stoicamente. Vide andare al tappeto il suo uomo, una volta di più… al dodicesimo ed ultimo round di quel girone infernale. Lo chiamò, con voce forte e chiara, come una sirena che sa avvincere e guidare un marinaio sperduto nel mare in tempesta. E Joe la ascoltò, rialzandosi in piedi. Ancora una volta. Si rialzò per portare a segno il più potente, il più straordinario colpo di incontro incrociato della sua carriera. Rimasero tutti in silenzio, in quella affollatissima sala: non si muoveva più una sola mosca. L’unica cosa da fare, era rimanere basiti ad osservare la grottesca statua composta da due corpi in piedi, le cui braccia si protendevano e si incastravano tra loro, come in un plastico perfetto. Ambedue i pugili si accasciarono a terra, stremati, per poi rialzarsi in contemporanea, vanificando la conta dell’arbitro.

Non restava da fare altro, adesso, che attendere il verdetto dei giudici.

“Vince Josè Mendoza, che si riconferma il detentore del titolo mondiale dei pesi medi!”

L’arbitro si ritrovò quindi a sollevare il braccio di un vincitore distrutto, che se ne stava ciondoloni come un pupazzo inerte.

Joe si lasciò scivolare sul suo sgabello, con un unico movimento fluido e dolce. “Yoko…” riuscì a mormorare, “dove sei?”

“Sono qui, amore mio. Sono vicino a te.”

Lentamente, come se provasse una fatica immane, Joe torse un poco il braccio sinistro, porgendole i guantoni, che grondavano sangue.

“Eccoli, i miei guantoni. Sono stati molto importanti per me e vorrei che ora li tenessi tu.”

Yoko li prese con mani tremanti, per stringerseli al seno, lasciando che le lacrime le scorressero senza sosta giù per il viso, sino a lambirli.

Era bello, per lui, poter adesso sorridere. Non c’era altro da fare.

°°°°°°

È bianco.

È tutto bianco, adesso… vedo una nuova alba.

Apro gli occhi come se fosse per la prima volta.

Non ho più nulla da bruciare.


°°°§°°°

Tempio di Suwa, un dolce pomeriggio d’autunno…


Ce l’aveva fatta a ritrovarlo, alla fine.

Aveva impiegato mesi nella ricerca, dato che non si era più sentito parlare di lui nel vecchio quartiere: si era semplicemente volatilizzato nel nulla.

“Mamma, mamma, ecco il santuario di Suwa*!” trillò, felice.

“Aspettami, non correre così, non riesco a starti dietro!” sbuffò, per il fiatone. Parole vane, come al solito: Yoko scosse la testa, sorridendo. La sua Keiko** aveva sempre l’argento vivo addosso, ed era difficile farla star ferma per più di dieci minuti. Le vecchie insegnanti infatti le avevano brontolato più volte, durante i colloqui, che la bambina potesse essere affetta da “sindrome da iperattività”, mentre lei era ben consapevole che la sua piccola fosse solo molto vivace, curiosa ed espansiva. Il problema si era risolto nell’ultimo anno facendole cambiare l’istituto scolastico con uno meno austero e tradizionalista: Keiko si era ambientata benissimo e pure il suo rendimento ora era notevolmente migliorato. Semplicemente, la sua creatura era restia ad osservare regole troppo stringenti e ad ascoltare parole troppo severe.

Yoko accarezzò con gli occhi la figurina sottile che correva veloce su per la lunga scalinata: la piccola amava vestirsi d’azzurro e lei faceva sempre di tutto per accontentarla. Pure in quella tersa giornata di fine ottobre, Keiko indossava un paltò del colore del cielo, su cui spiccava la lunga treccia nera legata da un nastrino di velluto rosso, che le saltellava allegramente sulla schiena. Sospirando, si rassegnò a percorrere le scale, che parevano non finire mai. “Ti sei fermata finalmente…”

Keiko fece una giravolta su se stessa. Era così elettrizzata, sin dal primo istante in cui aveva messo piede in Giappone: quello era il primo viaggio all’estero che faceva nella vita e trovava tutto così bello e diverso da New York. Per la prima volta in vita sua vedeva tutte le persone che incontrava per strada, nei negozi, sui mezzi pubblici, con i suoi colori e con i suoi lineamenti: non era più lei quella strana della scuola, con gli occhi grandi ma a mandorla, la pelle bianchissima, i capelli neri e lisci… i Giapponesi non erano ancora moltissimi, nella Grande Mela, e nella migliore delle ipotesi la chiamavano “slantie”, per il taglio dei suoi occhi, se non “chink” con aperto disprezzo, considerandola cinese e non giapponese. Tutti ora le sorridevano e le facevano un piccolo inchino, che lei cercava di imitare nel modo giusto, anche per rendere fiera la sua adorata mamma.

La mamma, già…

In quei giorni la impensieriva non poco, però: spesso l’aveva sorpresa con gli occhi umidi e lo sguardo triste, magari mentre se ne stava ad osservare, di sera, il paesaggio fuori dalla finestra della loro bellissima casa giapponese. Chissà se era così triste perché erano morti ormai da tanto tempo i nonni Shiraki, lasciandola sola in quell’enorme villa? Così, un giorno l’aveva stretta forte forte con le sue braccine, dando voce ai suoi pensieri. “No, tesoro. Non sono triste per i nonni… o meglio, non solo per loro. Qui a Tokyo ho tanti ricordi, alcuni belli e alcuni brutti. Ma tutti preziosi per me.”

Queste parole le erano rimaste impresse, temendo sempre di vedere di nuovo affiorare le lacrime sul bel volto di sua madre. Ma oggi lei era sorridente e di buon umore: la gita al tempio si stava rivelando davvero molto divertente! Dopo il viaggio in treno, avevano pranzato allegramente in una piccola trattoria ai piedi della collina, per poter affrontare la passeggiata sino al santuario cariche di energia.

“Adesso però tesoro promettimi che sarai un po’ più tranquilla: vedi, questo è un luogo sacro, dove le persone vengono a pregare e a parlare con i sacerdoti. Non sarebbe una bella cosa se arrivassimo noi due a fare baccano, giusto?”

“Giusto!” trillò la birichina.

Presala per mano, Yoko si recò al santuario, che si ergeva maestoso all’inizio del lussureggiante giardino. Sollevata la piccola, le fece tirare la corda, in modo che i due campanelli potessero annunciare la venuta di nuovi visitatori. In attesa che arrivasse qualche sacerdote, Yoko condusse la figlia alla fontanella per il rituale di purificazione: con un po’ d’acqua raccolta con il mestolo di legno asperse le manine di Keiko, spiegandole di strofinare prima la mano sinistra e poi la destra. Pochi secondi dopo lei stessa ripeté il semplice rito. Alla fine era stato facile: Yoko non avrebbe potuto sperare di meglio, dato che non sarebbe stato necessario chiedere di lui ad un altro sacerdote.

Si mirarono in silenzio, per qualche secondo, tempo necessario per Yoko per alzarsi in piedi. L’attitudine di Hiro Nakamura di apparire all’improvviso non era mai mutata, a quanto pare. Gli occhi dell’uomo si spostarono dalla figura della madre a quella della figlia: Hiro batté le palpebre senza neppure accorgersene. Keiko fece un rapido inchino, per poi prendere per mano la sua mamma stringendola forte forte, come per sentirsene protetta: chi sarà mai stato quel signore dall’aria così compunta? Non era mica brutto, però.

“Yoko.”

La donna gli si inchinò profondamente. “Sacerdote”.

“Sono solo un semplice hafuri*** di questo tempio. Non occorre un inchino così formale. Venite, andiamo a sederci in un posto tranquillo.” propose, dato che altri fedeli erano giunti alla fontanella per la purificazione.

Si spostarono fin verso un angolo riparato del bellissimo giardino, per sedersi su una panca di pietra.

“Mamma, posso andare a vedere i fiori? Ci sono le tuberose!” chiese Keiko. “Così tu potrai parlare con il signore.” aggiunse, a mo’ di scusa.

“Vai pure, ma non allontanarti troppo: non andare oltre quella siepe laggiù.”

“Ok!”

La piccola si allontanò saltellando, felice di inseguire una farfalla.

Hiro non aveva smesso di osservarla, come se ne studiasse ogni singolo lineamento. “Lei è…” mormorò, senza riuscire a finire la frase. La voce gli si era spezzata dentro.

“Sì. È sua.” disse Yoko, con semplicità. “Il suo nome è Keiko.”

“È bellissima. Ha qualcosa di lui, nello sguardo soprattutto.” mormorò commosso. “Grazie per tutto… anche per averla chiamata così.” Le mani gli tremavano percettibilmente. Yoko notò che gli mancava la prima falange di ambedue i mignoli: Hiro ne seguì lo sguardo e sorrise. “Ho dovuto pagare un prezzo, per lasciare la mia ikka e per potermi ritirare qui, altrimenti non mi avrebbero mai lasciato andare****.” spiegò, in tono tranquillo, come se si fosse trattato di una bazzecola l’auto-amputarsi un pezzo di dito.

“Capisco…” sussurrò Yoko. “Avevi bisogno di lasciare tutto e penso che tu abbia fatto bene. Pure io son dovuta andare via…” si strinse le mani, nervosamente, abbassando lo sguardo. “Sono stata molto male, dopo… Ho anche corso il pericolo di perdere Keiko: la mia gravidanza è stata a rischio per tutto il tempo e l’ho passata interamente a letto. Ma non avrei mai permesso alla mia piccola di lasciarmi anche lei.”

Rimasero in silenzio per qualche minuto, visibilmente turbati.

“Hai abbandonato il Giappone subito dopo, giusto?” sussurrò l’uomo, appena fu in grado di parlare di nuovo.

Tutti e due non riuscivano a parlare della scomparsa di Joe… a quell’angolo maledetto: le parole avevano il pudore di un dolore ancora troppo atroce e bruciante. La reticenza era la loro unica arma contro la disperazione di un discorso diretto e crudo, quasi come se fosse un tabù, un mostro che non si può affrontare apertamente.

“Esatto. Harry Robert, sai… il manager del povero Carlos Rivera: come seppe dell’accaduto venne a Tokyo e mi portò via negli States, per fondare insieme un nuovo club pugilistico. Io lasciai tutto, anche lo Shiraki Boxing Club: lo affidai a mio nonno, con una delega.” spiegò lei, sospirando, senza smettere di torcersi le mani “Harry mi ha salvato, Nakamura-san. Con la scusa di un nuovo lavoro, mi ha sottratto all’abisso di disperazione in cui ero caduta. Se sono viva e se anche Keiko lo è, lo devo solo al miglior amico che si possa avere in questa vita. Ho avuto fortuna, a differenza di altri.”

“Stai alludendo a Danpei Tange?”

“Sì, soprattutto a lui. Il suo cuore non ha retto. Io stavo troppo male per pensare a qualcun altro, non ero in grado di aiutare nessuno, neppure me stessa. Ma mi sento in colpa, per questo. Quel pover’uomo è stato sopraffatto dal dolore, poche settimane dopo… poi la sua palestra mi pare che l’abbia rilevata Nishi.” al che Yoko alzò lo sguardo, ritrovando, negli occhi di Hiro, lo stesso fuoco di quelli del suo Joe. “Anche nei tuoi confronti ho sbagliato e me ne dolgo.”

“Non devi. Non potevi fare nulla per nessuno, figlia mia, proprio come hai ammesso.” le disse, accarezzandole la guancia paternamente.

Lacrime silenziose le affiorarono dagli occhi, che si distolsero subito a cercare la figurina di Keiko, ora intenta ad annusare i candidi boccioli di una aiuola poco distante. “Se sono tornata a casa è stato perché volevo rivederti… e soprattutto per farti conoscere Keiko.” mormorò Yoko, sorridendo tra le lacrime.

Hiro si limitò ad annuire, chiudendo gli occhi. Allungò una mano per stringere forte quella di lei, ringraziandola in silenzio.

“Rimarrai così, Yoko?” le domandò dopo un po’, a bruciapelo, lasciandole andare la mano.

“Così come, Nakamura-san?”

“Legata a lui. Sei così giovane, dovresti pensare a rifarti una vita, anche per la mia nipotina.” Nel pronunciare quella parole gli si spezzò la voce. “Non voglio che restiate da sole. Neppure Joe lo vorrebbe.”

Yoko continuò a seguire i movimenti di Keiko, che le sorrideva da lontano, felice di trovarsi in un posto così bello.

“Sempre, Nakamura-san. Sempre.”

___________________________

Spigolature dell’Autrice:

L’incontro di Joe Yabuki contro Josè Mendoza, a differenza di molti altri, si tenne al Budokan (ove ho fatto disputare pure il match contro il mio OC Dude Walker) e non al Korakuen Hall. Eccovene una fotografia:

BUDOKAN
*Il grande Santuario di Suwa (諏訪大社) è uno dei più antichi santuari shintoisti del Giappone. È menzionato nell'antico testo Kojiki, risalente all'VIII secolo. Si trova nei pressi dell’omonimo lago, nella prefettura di Nagano. Ecco per voi una foto di questo bellissimo tempio:

tempio-di-SUWA

**Il nome Keiko (恵子) in giapponese vuol dire “bimba benedetta” e mi è parso doveroso dare questo bellissimo nome alla figlia di Yoko e di Joe, dato che nella mia fan fiction il vero nome di Joe Yabuki sarebbe Kei Nakamura, laddove Kei stia, appunto, per “benedetto”, come da significato in lingua giapponese. Il personaggio di Keiko è quindi un mio omaggio al grande amore di Joe e di Yoko, ed una speranza per il futuro.

***Gli hafuri (祝) sono i sacerdoti ritualisti dei templi shintoisti.

****Vi ricordo nuovamente la pratica dello yubitsume (v. Capitolo VI): ovvero l’amputazione delle dita. Gli appartenenti alle “famiglie” (chiamate ikka) della Yakuza si autoinfliggono l’amputazione delle dita (di solito partono dall’ultima falange del dito mignolo: ogni infrazione, un’amputazione… che allegria, eh!) quando devono farsi perdonare un ordine mal eseguito o un’aperta disobbedienza.

Come preannunciato nel prologo e ribadito in vari capitoli, provvedo ora ad indicare il link della mia pagina Autore su Facebook afferente i credits di questa fanfiction, nel pieno rispetto dei diritti di autore altrui. clicca

Ovviamente, vi sono elencati pure i credits di questo ultimo capitolo, ovvero:

https://it.wikipedia.org/wiki/Shintoismo
http://www.mondojapan.net/cultura/shintoismo-015/
http://shintoismo.com/2014/07/21/hafuri/
https://it.wikipedia.org/wiki/Santuario_di_Suwa_(Sohonsha)
http://ayuzoshi.blogfree.net/?t=4136412

Direi che ho lavorato sodo, per questa long fic!!

E, come sempre, confermo che TUTTE le immagini postate sono frutto di mera ricerca su Google, nel pieno rispetto del copyright e senza scopo di lucro alcuno. Con tutti i diritti riservati.

°°°°°°°


Non è mai facile per me finire una storia, e men che meno una fanfiction di questa portata. Mi ha impegnato e tenuto compagnia per oltre un anno (!) e mi ha consentito di parlare del personaggio anime/manga a me più caro in assoluto. C’è molto di Joe Yabuki in me: questo ragazzo straordinario mi accompagna da quasi 34 anni, una vita intera… Mi è quindi doloroso chiudere questa long fic. Ma tutto ha un inizio e tutto ha una fine, a questo mondo. Ringrazio i numerosissimi lettori silenziosi di questa mia storia: mi farebbe piacere conoscere le loro impressioni, anche in via privata. Suvvia, non fate i timidi !

E, soprattutto, non posso che ringraziare i miei meravigliosi recensori, che mi hanno sempre incoraggiato, sia qui su efp che in via privata, a proseguire in questa avventura, dimostrandomi apertamente il loro affetto e la loro vicinanza con i loro commenti sempre incisivi e profondi, che mi hanno fatto emozionare e riflettere. Ragazzi, siete speciali, davvero. Vi abbraccio tutti, uno per uno:

curleywife3

Devilangel476

diletta1974

DivergenteTrasversale

EaBea

gratia

Khamsa

kyashan_luna

Little_Lotte

Stellareika

yuki68

Jacksonist

Un grandissimo grazie va al mio amico Andrea E., pugile professionista dei pesi massimi, per i suoi apprezzamenti sulla mia resa… “pugilistica” di questa storia, ed al mio amico Antonio C. che tributa a Joe Yabuki una bellissima pagina Facebook: clicca

Un ringraziamento speciale va a mio marito Federico, che da sempre mi sprona ad esprimermi come scrittrice amatoriale: grazie, amore mio.

Un profondo grazie, quindi, a tutti voi…


rosa-rossa-per-voi
E soprattutto un profondo grazie tutto per te, per essere così meraviglioso ed unico, come nessuno mai.


Joe-triste
i.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3191724