A dance in time

di dilpa93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A man in a blue box ***
Capitolo 2: *** Story of a soldier ***



Capitolo 1
*** A man in a blue box ***






"Il passato non muore mai. Non è nemmeno passato"
William Faulkner
 



  L'aveva vista stanca, il tempo non era stato certo clemente con lei, ma lui l'aveva trovata comunque bellissima. Era sicuro di aver visto un barlume di amore e speranza nel modo in cui gli aveva sussurrato "sei vivo... Sei tornato", e a quelle parole non aveva potuto che replicare con una battuta, per ricordare i giorni ormai andati, ed un sorriso sulle labbra. "Beh, non potevo lasciare la mia ragazza, non quando lei mi deve ancora un ballo".  Allora l'aveva vista sorridere, e per un istante gli era sembrato di tornare ai tempi della grande guerra, quando il sorriso furbo e dolce di Peggy era l'unica cosa a dargli speranza, quando la sua voce, poco prima di sprofondare nelle acque gelide, gli aveva donato conforto.
Dopo averla salutata, aveva passeggiato per le strade cercando di evitare quelle troppo trafficate. Si era trovato a prendere a calci i ciottoli lungo un marciapiede, con le mani nelle tasche dei pantaloni, nella zona periferica. Alzò per un istante lo sguardo rendendosi ben presto conto di non avere assolutamente idea di dove si trovasse, ispirando profondamente scrollò le spalle pronto a rimettersi a camminare. Da qualche parte sarebbe pur arrivato e, per uno come lui che aveva affrontato in prima linea i nazisti, non sarebbe certo stata la periferia buia della NewYork del ventunesimo secolo a mettergli paura.
Quando fece per riabbassare il capo, l'alzarsi del vento e uno stridore metallico attirarono la sua attenzione. Guardò verso il cielo e, dove prima non sembravano esserci altro che stelle e qualche nuvola, ecco d'improvviso comparire un bizzarro bagliore e pochi secondi dopo cominciare a materializzarsi, a qualche passo da lui, una strana cabina blu della polizia.
Rimase immobile, in attesa, convinto che si trattasse di una delle nuove super tecnologie di quel secolo, come i maxi schermi a Time Square. Del resto, non aveva ancora avuto il tempo di abituarsi a tutte le stranezze di quel futuro che mai, nella sua vita, avrebbe creduto di vedere e nel quale, invece, si era trovato catapultato da un momento all'altro, dopo settant'anni passati in una lastra di ghiaccio. "Come Han Solo nella grafite", così gli aveva detto Nick Fury. Ancora non aveva compreso appieno quella metafora, ma si era ripromesso di vedere la saga di Star Wars appena avesse sistemato tutte le cose in sospeso.
Quando il frastuono terminò, ci fu un lungo momento di silenzio, intervallato esclusivamente dal leggero soffiare del vento tra i rami degli alberi. Poi la porta della cabina si aprì e, dall'interno, un uomo vi si affacciò.
"Bene, bene, bene, vediamo un po' dove siamo finiti", diede un morso a ciò che teneva in mano e uscì dalla scatola blu.
Il Capitano portò le braccia al petto, incrociandole, aspettando che quel buffo giovane si accorgesse della sua presenza. Lo vide aggiustarsi il papillon rosso, estrarre dalla tasca della giacca, con la sola mano libera, uno strano arnese con tanto di luce incorporata, brandendolo poi verso il cielo.
"New York?!", lo sentì esclamare improvvisamente. "Oh andiamo! Co-come è possibile che siamo finiti a New York?". Si girò nuovamente verso la cabina appoggiandovisi con la mano destra e tenendo il braccio teso, con aria sconsolata. "Saremmo dovuti essere sugli anelli di Saturno in questo momento! Davano una festa, accidenti. Ma no, tu devi sempre fare di testa tua, non è vero? Mai una volta che mi dessi ascolto." Cominciò ad agitarsi camminando avanti e indietro, sempre davanti alla scatola blu. "Vediamo... se mi hai mandato qui ci sarà un motivo, c'è sempre un motivo. Quando mi sono svegliato", diede un altro morso a quel bastoncino molliccio che ancora aveva in mano, "Sapevo che sarebbe andata male!", borbottò in maniera quasi incomprensibile masticando voracemente.
"Posso aiutarla?", Steve si fece finalmente avanti, con la sua solita gentilezza ed uno sguardo che voleva essere rassicurante, ma che subito si trasformò in mera preoccupazione quando lo sconosciuto gli si avvicinò a passi lunghi additandolo con quello strano snack.
"Se puoi aiutarmi? Si, si, tu...", lo squadrò da capo a piedi girandogli attorno. "Potresti aiutarmi, o forse no. Bastoncino di pesce?", chiese euforico, terminando quello che ancora aveva in mano e offrendogliene uno appena tirato fuori dalle tasche.
Il Capitano, accigliato, scosse la testa. Il giovane lanciò in aria il bastoncino e si pulì le mani sfregandole tra di loro. "Ok, niente bastoncini di pesce", si massaggiò le tempie cercando di concentrarsi, strizzando gli occhi e arricciando il naso.
"Ehm... Lei è?"
"Ma certo, che sbadato. Io sono il Dottore!"
"Dottore chi?"
"Il solo, unico ed inimitabile, l'undicesimo me! Oh, aspetta un attimo..." Andò verso la cabina, sparendovi all'interno, per tornare pochi istanti dopo con in testa un fez che gli schiacciava il ciuffo dritto sugli occhi. Rogers lo indicò puntandovi contro l'indice, con sguardo interrogativo.
"È un fez, i fez sono forti, come i papillon! Mi fa sembrare più alto, non è vero? Ma torniamo a noi ehm..."
"Steve..."
"Steve, ma certo. Allora, dove eravamo? Ah si! Io sono il Dottore, quello è il Tardis."
Si grattò la nuca, lisciandosi la base dei capelli biondi, "Il cosa?"
"Il Tardis, ti-a-erre-di-i-esse, Time And Relative Dimension In Space. È molto suscettibile a riguardo, ti converrà tenerlo a mente. Viaggia in ogni tempo e in ogni luogo. Pianeti, stelle, tutto molto bello, ma adesso dobbiamo andare." Con la sua parlantina veloce aveva completamente stordito il Capitano. "Allora, vieni o no?"
"Venire dove? Io, io ho da fare."
"Da fare? Steve, neanche ti conosco e ti sto offrendo un viaggio, uno solamente, ai confini del tempo e del mondo. Ovunque tu voglia!", si agitava maldestramente, dando a Rogers l'impressione di essere un folle ubriaco. "Forza, entra dentro!", gli fece segno di seguirlo con la mano, sparendo nuovamente all'interno della cabina.
Steve vi si avvicinò cauto, guardandosi intorno con circospezione, come se qualcuno avesse potuto vederlo e pensare male di lui. Un uomo perbene e rispettabile, di un certa età anche se non si direbbe affatto, che entra nella cabina blu di uno sconosciuto... Sarebbe stato alquanto sconveniente, convenne Rogers. Ma la strada sembrava deserta e dovette ammettere a se stesso che un certo grado di curiosità lo stava divorando. Afferrò la piccola e sottile maniglia in metallo e spinse, sentendo il legno graffiare leggermente nell'aprirsi. La bocca gli si spalancò in un gesto del tutto involontario, dettato unicamente dallo stupore per ciò che i suoi occhi avevano appena visto.
"È... È più grande..."
"Più grande all'interno? Già... Mai nessuno che dica che è più piccola all'esterno", blaterò armeggiando alla consolle del Tardis, premendo pulsanti e tirando leve. Del fumo cominciò ad uscire mentre le luci lampeggiavano ed iniziavano a sentirsi suoni di vario genere. "Allora Steve, dove vuoi andare?"
Il Capitano era rimasto fermo all'ingresso con il naso per aria osservando ogni cosa meticolosamente, pur rimanendo sempre a debita distanza. "Posso scegliere?"
Il Dottore annuì con forza, tanto da rischiare di far cadere il suo amato fez. "Questa bellezza può andare ovunque! Vuoi vedere i dinosauri, o magari ammirare in anteprima la fine della terra? Potremmo andare a Nuova Nuova York, sul pianeta Exxilon, oppure sulle Isole di Lastox. Piene di lestofanti, e credo di essere ancora ricercato per una o due cosuccie che ho fatto... Ripensandoci", si grattò la tempia con l'indice, aggiustando poi il fez dandogli un leggero colpetto. "Meglio niente Isole di Lastox."
"Io non lo so", sussurrò confuso Rogers, accarezzando il piano della consolle.
"No, no, no, non si tocca. Guardare ma non toccare, potrebbe succedere di tutto. Allora? Non posso restare qui tutto il giorno, o notte... Ma che ore sono?"
Mentre il Dottore riprendeva a blaterare come di consueto, l'unica cosa che riusciva a pensare Steve era che non voleva di certo andare nel futuro, non di nuovo. Non dopo aver visto Peggy, invecchiata, malata, che a fatica si ricordava di lui. Non avrebbe sopportato di scoprire che le persone a cui si era affezionato non c'erano più, o che gli fosse successo qualcosa.
"Se non decidi tu lasceremo che sia il tuo inconscio a farlo. Non ho mai capito bene come funzioni questa cosa del conscio, inconscio, dell'iceberg... un giorno dovrò proprio andare a prendere una tazza di caffè da Freud". Si avvicinò a Steve strattonandolo per il braccio, "Forza ragazzone, metti le dita qui. Può essere una sensazione spiacevole, è un po', ehm, molliccio", ammise arricciando il naso in un'espressione schifata, troppo per uno che aveva da poco finito di mangiarsi un piatto di bastoncini di pesce e crema pasticcera. Il Capitano inserì i polpastrelli nell'esatto punto indicatogli dal Dottore, sentendo qualcosa di viscido attaccarvisi. In un primo momento ebbe l'impulso di ritrarsi, ma resistette. "Cosa devo fare?"
Il Dottore tirò a sé un piccolo schermo e se lo posizionò davanti per bene. "Tu assolutamente nulla, farà tutto lui, lei... L'ultima volta era una lei, e che lei! Il Tardis è collegato a te ora, alla tua linea temporale. Ah voi umani, vi stupite sempre delle cose più semplici", constatò notando la confusione dipinta sul volto di Rogers. "Bene, siamo pronti alla partenza e... Geronimooooooo!" Gridò mentre abbassava una leva.
In quel momento entrambi furono colti da un forte scossone, Steve a stento mantenne l'equilibrio e quando rialzò lo sguardo vide il Dottore appoggiato con la schiena alla balaustra metallica che proteggeva la consolle del Tardis, le braccia incrociate al petto ed un'aria compiaciuta, come se nulla fosse accaduto.
Il Dottore diede un'occhiata al monitor e poi si sistemò soddisfatto il cravattino alzando la leva e facendo stridere i freni della cabina.
"Siamo già arrivati? Come è possibile, non ci siamo praticamene mossi."
"Ma lo abbiamo fatto, ci siamo spostati nel tempo, arrivando esattamente nel... 1944!", il Dottore ci rifletté un attimo storcendo il naso, "Mai che voi umani scegliate un posto felice e tranquillo!  Prima la distruzione di Pompei... no, lì credo sia stata colpa mia. Ehm, i vampiri a Venezia! No, anche lì la colpa era mia. Ci sono, l'incontro faccia a faccia con Hitler! Oh no, no, anche questa volta colpa mia... Beh insomma, ora non mi viene un esempio, ma sembra che voi siate attratti dal pericolo. Ultimi giorni di guerra, rischio bombardamenti... " Si accertò che il cacciavite sonico fosse nella tasca della giacca e aprì la porta. "Seguimi!"
Vedendolo uscire dalla cabina, tirò le mani verso di sé cercando di staccarle dall'interfaccia, ma sembrava che il Tardis non avesse intenzione di lasciarlo andare. Una resistenza simile l'aveva provata solo quando aveva cercato per la prima volta di alzare il Mjolnir di Thor e aveva fallito miseramente. Si guardò intorno un'ultima volta e poi uscì in strada.
 
Per uno come lui abituato ad avere tutto sotto controllo, la situazione aveva del surreale.
Percepì immediatamente una sensazione familiare, nonostante non fosse ancora convinto di aver realmente viaggiato nel tempo. E mentre intorno a lui il Dottore farneticava a vuoto, lui si godeva il profumo dell’autunno e la musica che veniva trasportata dal vento dal bar appena in fondo alla strada. Attirato come un’ape dal miele, si trovò in pochi minuti con la mano sul pomello della porta del locale, quando questa venne bloccata dal Dottore.
“Hai capito?”.
Rogers lo guardò senza dire una parola, facendo scivolare le dita lontane dalla maniglia. La luce tenue dell’insegna gli illuminava il profilo lasciando parte del viso in penombra, donandogli così un’aria cupa che non gli si addiceva affatto.
“È importante. Resta in disparte, guardati intorno ma non parlare con nessuno a meno che non sia io a dirtelo. Ci sono dei punti fissi nel tempo e qualsiasi tua mossa potrebbe pregiudicarne uno. Strane e spiacevoli cose accadono se ci si intromette nel tempo senza seguire le regole. Io ne so qualcosa...”.
Non poté non pensare a Rory ed Amy.
Aveva letto la postfazione del libro di Melody Malone almeno migliaia di volte, nonostante si fosse ripetuto spesso di gettarla via e smettere di legarsi a persone che non faceva altro che ferire. Sapeva che alla fine di tutto loro erano stati bene, ma benché Amelia lo avesse a modo suo ringraziato di essere capitato nel suo giardino di casa quando era appena una bambina, non poteva che sentirsi in colpa. Aveva promesso al padre di Rory che sarebbero stati al sicuro, che non gli sarebbe accaduto nulla, ma ancora una volta le cose gli erano sfuggite di mano. Quell’ombra di tristezza che gli aveva momentaneamente velato gli occhi non era passata inosservata al Capitano. “Dottore...”, accennò a chiamarlo dolcemente.
“Su, non restiamo qui. Fa quello che faccio io e andrà tutto bene! Ne ho viste di epoche, so passare inosservato praticamente ovunque.”
Steve si fece precedere, guardandolo entrare nel locale ed immergersi nella nuvola di fumo che aleggiava pesante all’ingresso con un sorrisino abbozzato. Era una delle poche volte in cui incontrava qualcuno che non era a conoscenza di chi lui fosse. Tutti in città sapevano qual era la sua identità. C'erano stati documentari su di lui, era stato ripreso dalle telecamere durante l’ultima guerra interplanetaria che aveva visto New York fare da campo di battaglia. Il Dottore sembrava l’unico a non sapere che lui era Steve Rogers, alias Capitan America. Eroe della seconda Guerra Mondiale, il primo uomo potenziato geneticamente attraverso l’incontro tra scienza e tecnologia. Se c’era qualcuno che avrebbe potuto mimetizzarsi al meglio negli anni ’40, quello era proprio lui.
Sempre che fossero stati davvero nel 1944.
Mise un solo piede all'interno del locale e fu la porta che, chiudendosi, lo costrinse ad entrare definitivamente. Nessuno parve accorgersi di lui o della sua entrata maldestra.
Meglio così, pensò. Quando alzò il capo per guardarsi attorno un brivido gli percorse la schiena lungo la spina dorsale.
Le risate, il chiacchiericcio, i boccali di birra che si scontravano a mezz'aria e la schiuma che traboccava fino a raggiungere il pavimento. Le divise impeccabili, tutti con lo stesso taglio di capelli, qualcuno approfittava del fascino della divisa per conquistare le ragazze sedute al bar a sogghignare e lanciare sguardi ammiccanti. Ripensò ai suoi vecchi compagni, all'intesa che c'era tra loro, il legame che li avrebbe uniti per sempre, anche una volta finita la guerra, se solo lui non si fosse messo in testa di fare l'eroe.
Vide una ragazza al bancone, sola, rigirare l'oliva nel suo martini. Ogni ragazzo che le si avvicinava lo scansava velocemente, ma non c'era presunzione nel rapido movimento del capo con cui negava ad ogni cavaliere un ballo. Il vestito rosso le fasciava il corpo longilineo e per un momento gli parve di vedere Peggy quella sera in cui fu Bucky, per la prima volta, ad essere ignorato, come invece prima era sempre successo a lui in sua presenza.
Quando finalmente la ragazza si voltò non poté credere ai suoi occhi.
Non assomigliava semplicemente a Peggy.
Era Peggy.
Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni la bussola che portava sempre con sé, aprendola la vecchia polaroid dell'Agente Carter si riflesse nei suoi occhi e, confrontandola con la ragazza, non ebbe più alcun dubbio.
Avvicinandosi a lei ripensò alle parole del Dottore, ma nulla più di un fugace pensiero, del resto lui non sembrava essere nei paraggi e, come aveva spesso sentito dire, occhio non vede, cuore non duole. Sperava sul serio che il Dottore non se la sarebbe presa troppo per quella sua scelta avventata.
Le si mise accanto, i pollici in tasca, in quella posa che ormai gli era diventata abitudinaria. Lanciando uno sguardo al suo bicchiere si accorse che il martini era ormai quasi finito, ed era certo che una volta terminato si sarebbe alzata e con eleganza avrebbe lasciato il locale, incurante degli sguardi degli uomini su di lei.
"Sono venuto a riscuotere il mio ballo", sussurrò con voce profonda, dolce e rassicurante. La vide fermare immediatamente il movimento svogliato della mano con la quale ancora rimestava l'oliva nel bicchiere. I suoi occhi, seppur sgranati dallo stupore, erano più belli e luminosi di quanto ricordasse.
"Steve...", sussurrò schiudendo appena le labbra e in Rogers si riattivò il ricordo di quel bacio rubato, e il desiderio di risentire il suo sapore si fece forte come un fuoco ardente. "Come puoi essere... Tu eri... Io ti ho, ti ho sentito. La radio non funzionava più e sei caduto. Sei caduto, Howard ti ha cercato ovunque, non sono riusciti a trovare l'aereo! Non puoi essere qui, come puoi essere qui?"
"Non lo so Peggy, vorrei avere una spiegazione, ma non ce l'ho. Però, ti prego, non spaventarti."
Continuava a guardarlo con occhi ancora spalancati, indecisa se alzarsi e scappare via, se affrontare l'uomo che aveva davanti, oppure dargli una chance.
"Sono io... Ricordi quando mi hai sparato?", riprese dopo qualche secondo in cui aveva scavato tra i ricordi nel tentativo di cercare qualcosa che potesse convincerla. "Stark mi stava mostrando gli scudi. Io non ci capivo niente, eppure mi ero fissato con quello in-"
"In vibranio", mormorò come se pendesse dalle sue labbra.
"Si... Stark non era sicuro fosse pronto e potesse funzionare. Non ci hai pensato due volte a spararmi contro per testarlo."
Sorrise, divertita e allo stesso tempo imbarazzata dal ricordo. "Mi fido di Howard. Ero certa che qualsiasi sua creazione avrebbe funzionato."
Quel suo accento inglese gli fece girare la testa, lieto di poterlo sentire di nuovo. "E hai avuto ragione, ma non nego di essermi... spaventato." I suoi occhioni chiari si illuminarono speranzosi di averla convinta con quell' aneddoto, ma nonostante questo Peggy non perse la sua compostezza e il suo aplomb. Si sistemò i capelli portandoseli dietro le spalle, senza smettere per un secondo di guardare Steve negli occhi, come se fossero loro, e non le sue parole, a poterle rivelare che quello davanti a sé era davvero il suo soldato, quel ragazzo gracile che si era dimostrato più forte di qualsiasi altro sbruffone che quell'anno si era unito all'esercito.
Alla fine del suo rimuginare, allungò la mano verso di lui aspettando che l'afferrasse deciso per aiutarla ad alzarsi.
La pista da ballo era gremita di gente, ma in quell'istante per entrambi esisteva solo l'altro. Fu nel momento in cui la strinse tra le sue braccia che Steve si ricordò che ancora non aveva imparato a ballare, e forse quello era il momento meno opportuno per accorgersene. Si stupì quando, facendo i primi passi, lei gli sorrise con quel suo solito cipiglio, sorpresa quanto lui della sua inaspettata bravura.
Si lasciarono trasportare dalla musica, danzando senza che nessuno potesse sentire ciò che si sussurravano.
D'improvviso, dopo una sua battuta, lei scoppiò a ridere come una ragazzina.
Erano mesi che non si sentiva così. Libera, spensierata, e di certo questa sensazione non era dovuta alla piega che la guerra stava prendendo e alla loro, sperava imminente, vittoria.
Sorridendo si guardò intorno, forse per scongiurare quella sensazione di sentirsi osservata, per rendersi conto che quello che stava vivendo non era un sogno e Steve era davvero al suo fianco in quella sala, o forse per mostrare a tutti che anche lei qualche volta era capace di divertirsi e di lasciarsi alle spalle il suo essere un Soldato.
La musica cambiò all'improvviso dando il via a un lento vero e proprio.
Rogers l'attirò di più verso sé premendo delicatamente sulla sua schiena, sentendola poi posare la testa sul suo petto. Con leggerezza le poggiò il mento sul capo, incastrandosi alla perfezione in quella posa che sembrava così naturale. Entrambi sapevano che quel momento non sarebbe potuto durare in eterno ma, lasciandosi sospingere dalle note suonate dalla band locale, si ritrovarono a sperare di non essere interrotti tanto presto.
 
Il Dottore aveva girato per il locale, curioso come suo solito. Aveva parlato con ogni persona sospetta, verificato che grate o strane crepe non fossero portali temporali. Non riusciva a capire come mai il Tardis gli avesse fatto incontrare Steve, come mai li avesse portati in quell'esatto momento se non c'era nulla da sistemare, prevenire o nessuno da aiutare.
Qualcuno d'aiutare, in realtà, c'era ma per capirlo il Dottore avrebbe dovuto guardare il tutto da una diversa prospettiva.
"Bel farfallino! Cosa ti porto ragazzo?", chiese l'anziano barista alzando la voce per sovrastare il frastuono. Il Dottore sorrise soddisfatto all'uomo aggiustandosi il papillon, "Té, di quello forte, lasci la bustina. Molte grazie."
"Té?", l'anziano lo guardò stranito. "Facciamo che ti porto qualcosa io. È ora che inizi a temprare lo spirito, figliolo."
Il bicchiere che gli venne messo davanti non fu accolto certo da un ampio sorriso.
Due dita di liquido ambrato rifrangevano la luce soffusa del locale e, ora, anche la faccia curiosa e stranita del Dottore, che vi si era avvicinato poggiandovi contro il naso, come farebbe un bambino dinnanzi la vetrina di un negozio di caramelle. Non resistette all'impulso di puntarvici contro il cacciavite sonico. La luce verde schermò il bicchiere mentre il ronzio richiamò l'attenzione del barista.
"E quello che diavolo sarebbe?" Esclamò poco prima di posare sulla mensola alle sue spalle il bicchiere che aveva appena terminato di asciugare.
Il Dottore lo spense facendolo poi roteare in aria, per riprenderlo infine con sicurezza dalla parte dell'impugnatura.
"Mmm... Nulla", bofonchiò riponendolo al sicuro nella tasca della giacca, mandando poi giù, tutto d'un fiato, ciò che gli era stato servito. Cominciò a tossire, sentendo il petto bruciargli tanto forte che per un istante credette che uno dei suoi due cuori si sarebbe fermato. Ancora non riusciva a capire come gli umani riuscissero a sopravvivere con uno solo. Era una cosa per lui inconcepibile. "Cos'era... quella... roba?", chiese tra un colpo di tosse e un altro.
Il barista si mise la mani sulla pancia rotonda ridendo di gusto. "Di certo non tè, ragazzo mio. Ti ci abituerai, vedrai."
Si allentò un po' il cravattino cercando di riuscire a tornare a respirare regolarmente.
Lui non voleva affatto abituarcisi e la verità era che si stava parecchio annoiando. Sarebbe stato meglio trovare Steve, tornarsene al Tardis e andarsene.
Il punto era: dov'era finito Steve?
Cominciò a cercarlo con lo sguardo, agitandosi sullo sgabello su cui era seduto. Tutto ciò che riusciva a vedere era una miriade di uomini in divisa da cui le donne venivano incredibilmente attratte. Si voltò, convinto di aver sentito Rory lagnarsi con Amy tentando di attirare la sua attenzione e spostare così il suo sguardo da quegli uomini affascinati a lui e la sua mano robotica, cosa che funzionava sempre per ricordare ad Amy quanto lui l'avesse aspettata e protetta fuori dalla Pandorica, quanto fosse grande il suo amore per lei. Ma, quando ruotò il capo al suo fianco, i posti accanto al suo erano vuoti. Nessuna Amy esaltata che cercava di guardare al di là della mano che il caro signor Pond le aveva messo davanti, nessun Rory che sbuffava e brontolava.
Cacciò indietro quel pensiero e chiuse la bocca già pronta a commentare le stranezze dei coniugi Pond. Camminò per la sala, strisciando tra soldati e ragazze che approfittavano della sua sbadataggine e precario equilibrio per strusciarsi contro di lui e la sua bellissima giacca in tweed. Qualcuno lo prese per una delle bretelle rosse, tirandola con forza nel tentativo di avvicinarlo a sé probabilmente per un ballo, ma lui si allontanò incurante, accorgendosi di quanto accaduto solo quando sentì la bretella rimbalzare con forza contro il suo petto. Massaggiandosi la parte dolorante con una mano, e tenendo il fez in equilibrio sulla testa con l'altra, si fece largo tra la folla che riempiva la pista da ballo, avendo finalmente individuato Rogers.
"Steve!" Urlò sventolando in aria la mano, per poi riportarla subito sul suo affezionato copricapo. "Steve!", alla terza volta riuscì a raggiungerlo ed afferrargli il braccio, interrompendo così definitivamente il momento tra lui e Peggy. "Finalmente ti ho trovato, dobbiamo andare, ho un brutto presentimento e... Tu stavi ballando? Con una persona?? Io cosa ti avevo detto in merito?" Strillò quasi, gesticolando vistosamente.
"Steve, lui chi è?", il povero Capitano boccheggiava senza sapere con esattezza cosa rispondere ne all'uno ne all'altra.
"Steve?" Ripeté incredulo il Dottore imitando il tono della donna che ora lo guardava con cipiglio. "La conosci?", in risposta Rogers abbassò lo sguardo colpevole. "Ma non mi hai proprio ascoltato?", il Dottore estrasse il cacciavite sonico cominciando a girare intorno alla povera Agente Carter, che cercava di seguirlo con lo sguardo ruotando in continuazione il capo, ora destra, ora a sinistra. "Ti avevo avvertito, ora chissà cosa avrai combinato! E poi come fai a conoscerla, voi umani avete una vita curiosamente breve e vi riempite di, di… oh, come si chiamano? Rughe! Ecco, rughe. Tu non eri neanche nato nel 1944!".
"Veramente, ecco… nel 1944 io ero già morto, da quasi un anno." Con la coda dell'occhio il Capitano si accorse di quel velato rimpianto negli occhi di Peggy, ma rimase composto, più spaventato probabilmente dalla reazione del Dottore, il quale si fermò all'istante guardandolo con sorpresa sul volto.
Non in molti riuscivano a fargli assumere quella particolare espressione. Sorvolando sulle circostanze, quello era un traguardo piuttosto elevato.
Spense il cacciavite e poi premette con rapidità l'indice sulla fronte di Peggy, che svenne tra le braccia del suo soldato.
“Forza, non abbiamo un minuto da perdere! Mi racconterai tutto una volta che saremo nel Tardis e cerca di non attirare troppa attenzione”, esclamò noncurante degli sguardi che già aveva puntati addosso dopo la sua “esibizione” con il cacciavite sonico nel bel mezzo della pista.




Diletta's coroner:

Buonasera a tutti!
Sono nuova nel fandom e spero di non aver fatto troppi danni cominciando subito con un crossover tra due "cose" così diverse.
Da principio voleva essere una shot, ma è diventata più lunga di quanto mi aspettassi, quindi sarà una mini long di due capitoletti...
Ringrazio chiunque abbia deciso di leggerla e sia riuscito ad arrivare fino in fondo a questo primo capitolo!
Spero di aver inquadrato e rispettato il personaggio di Eleven (che adoro profondamente ed è decisamente il mio Dottore!)

Baci
Diletta

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Capitolo 2
*** Story of a soldier ***







"Il passato non muore mai. Non è nemmeno passato"
William Faulkner




 
Steve portò un braccio dietro la schiena di Peggy cingendole la vita, lasciando che tenesse la testa sulla sua spalla nella speranza che nessuno facesse domande. Il Dottore aveva ragione, non era il caso di attirare ulteriore attenzione e se qualcuno avesse pensato che stava facendo qualcosa di male sicuramente si sarebbe visto costretto ad usare la forza, e quello non era certo il momento adatto per dar luogo ad una rissa. Ripassando davanti al bancone del bar, si ricordò della borsetta che Peggy aveva abbandonato sullo sgabello accanto al quale era seduta, probabilmente troppo scossa da quell'incontro che, se mai qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe ritenuto impossibile.
Quando raggiunse il Tardis, la porta della cabina era già aperta e da dentro poteva sentire un tintinnare metallico, come se il Dottore stesse armeggiando con attrezzi di ogni genere. Ma quando varcò la soglia, tenendo Peggy in braccio, lo vide immobile poggiato ad una delle pareti, le braccia incrociate e la gamba destra piegata così da avere maggiore equilibrio.
"Sai, quasi 1200 anni e ancora la stupidaggine di voi umani riesce a sorprendermi."
Steve si accovacciò, posando a terra l'Agente Carter come fosse un fiore delicato, un oggetto sul punto di rompersi da un momento all'altro. Facendo leva sulle ginocchia si alzò con un lieve sospiro, di certo non dovuto ad un inesistente affaticamento. "Volevo solo ballare con lei..."
"Beh, la prossima volta chiedilo nella letterina a Babbo Natale."
Steve inarcò il sopracciglio, "Dottore, sono cresciuto, non scrivo più a Babbo Natale."
"Io si!", urlò allargando le braccia esaltato. Fece un giro su se stesso, fermandosi poi nuovamente davanti a Steve. "Ora ricordo! Adesso dovrò assicurarmi che non ci siano state alterazioni temporali... Diamine!"
"Linguaggio!", quell'ammonizione uscì naturale dalle labbra del Capitano, e per la seconda volta un'espressione di sorpresa si dipinse sul volto del Dottore.
Steve iniziò a passeggiare avanti e indietro, poi in cerchio, cercando il punto di partenza migliore per raccontare la sua storia. Non ci avrebbero creduto in molti, persino lui stesso a volte faticava ancora a crederci, ma stranamente nel ventunesimo secolo nessuno aveva fatto domande. Era anche vero che non ne fecero neppure quando il Dottor Banner si trasformò nel pieno centro della città, tra civili urlanti e in preda al panico per l’attacco orchestrato da Loki -un bestione verde che gira per la città è piuttosto difficile da non notare-, ma poi si ricordò che il Dottore di stranezze ne doveva aver viste molte di più, ancora stava cercando di capire che razza di pianeta potesse essere Exxilo e di capacitarsi del fatto che il Dottore avesse detto di avere più di mille anni. Erano troppe cose nuove persino per lui, persino per un uomo che aveva visto letteralmente il cielo aprirsi, che aveva scoperto l’esistenza di altri luoghi abitati sparsi nell’Universo, luoghi come Asgard.
“Oh, per tutti i Sontaran! Steve vuoi fermarti?”, si massaggiò le tempie e ancora una volta l’immagine di Amelia Pond si materializzò davanti a lui. Quella folle rossa gli mancava più di quanto fosse disposto ad ammettere persino con se stesso, e ora che anche River lo aveva lasciato di nuovo solo aveva ripromesso che non si sarebbe più legato a qualcuno.
Steve obbedì grattandosi la nuca. Non era da lui mostrare tutto quel nervosismo, non che il Dottore sapesse cosa fosse da lui o non da lui.
Strinse gli occhi, come accecato dai salubri raggi solari e fece un sorriso sghembo in segno di scuse per quel suo camminare incessante. “Nel 1943 feci domanda per essere arruolato. A essere sincero feci più di una domanda, ma venni sempre respinto, almeno fino a che non incontrai il Dottor Erskine. Non so perché scelse me, non avevo nulla di speciale. Piccolo, gracile, malaticcio e bruttino.”
Il Dottore lo guardò stranito. Neanche ora era bello. Capelli radi, soprattutto non rossi, sopracciglia troppo folte, muscoli ovunque… no, decisamente non era bello, non quanto lui almeno.
“Capisco perché nessuno mi volesse nell’esercito. Erskine stava cercando qualcuno su cui sperimentare un siero che avrebbe dovuto potenziare il mio fisico. E così è stato.”
“Quindi non sei nato con quei muscoli?”, chiese gesticolando come se al posto delle mani avesse dei piccoli tentacoletti.
“No”, confermò stupito dal fatto che, di quello che fin’ora gli aveva raccontato, lo avesse colpito solo quel particolare. “C’è stato uno scontro con la Germania. Più di uno scontro. L’Hydra si stava lentamente infiltrando ovunque e siamo dovuti intervenire. Verso la fine del ‘43 mi sono scontrato faccia a faccia con il capo dell’Hydra, era in possesso di un’arma aliena e-”
“Aliena?”, il Dottore si raddrizzò immediatamente, avvicinandosi di qualche passo a Steve. “Che genere di arma?”
“È chiamato Tesseract", il Dottore non disse nulla, tentò di aggrottare le sopracciglia, ricordandosi poi che chiunque avesse incontrato gli aveva sempre fatto notare che erano pressoché inesistenti, così si limitò a corrugare la fronte. "È… è un cubo. Fornisce una particolare ed illimitata forma di energia a chiunque la possieda. Lo scopo dell’Hydra era di utilizzarla per potenziare il loro armamentario bellico. Ed è così che mi sono ritrovato su quell’ala volante, cercando di impedire a Schmidt di distruggere l’intera New York e, ecco, ci sono riuscito.”
“Ovvio che tu ce l’abbia fatta o non potremmo trovarci qui in questo momento. Il punto è come tu ci sia riuscito.”
“Schmidt è scomparso nel nulla, i comandi erano bloccati, puntavano dritti sulla città. Non potevo andarmene e lasciare che l’Hydra l’avesse vinta, ho dovuto dirottare l’aereo che si è schiantato nell’Artico.”
“E come hai fatto a sopravvivere? Un cuore solo, di certo non sei un signore del tempo, nessun manipolatore Vortex, antiquato ma efficace. Quindi?”
“Sono rimasto congelato tra i ghiacci per settant’anni. Quando mi sono risvegliato ero in una realtà del tutto diversa. Fu come se il mio mondo fosse svanito nel nulla. Certo, la città non era stata distrutta, ma per me è stato un po’ come se lo fosse.”
Gallifrey fu il primo pensiero del Dottore al sentire quelle parole e ancora una volta si trovò a scacciare quel ricordo. Non era il momento adatto per pensare al suo rimorso più grande.
"Okay, uomo del mistero... Uh, curioso, di solito chiamano me in questo modo", si tolse il fez, lo lanciò come fosse un freesbe dall'altro lato del tardis e si passò le dita tra i capelli lunghi. Sfregò le mani tra loro congiungendole, per poi portarsele davanti al viso lasciando che gli indici giocassero con il naso. "Come arriviamo a lei?", indicò Peggy con gli indici ancora uniti, come i bambini quando fingono di sparare a qualcuno usando la fantasia per trasformare le dita in una delle pistole più potenti al mondo, che neanche la bacchetta di Sambuco, in quanto a potenza, potrebbe eguagliare.
"L’Agente Carter, insieme al Colonnello Phillips, era al comando della sezione nel quale ero stato trasferito. Lei mi ha notato anche quando ero invisibile. La sua voce è l'ultima cosa che ho sentito prima che l'aereo precipitasse."
"Bene, quindi vediamo di vedere se ho capito... Ragazzino ignorato, guerra, un'agente donna per cui evidentemente provavi qualcosa, arma aliena, aereo che precipita, ghiacciolo umano. È corretto?"
"Si, tranne per il fatto che..."
"Tranne per che cosa?"
Steve si limitò a scuotere la testa abbozzando un sorriso. Il fatto era che lui non provava qualcosa per Peggy. Lui l'amava, ma se avesse dovuto dirlo per la prima volta, lei avrebbe dovuto sentirlo. Invece era ancora addormentata, o almeno sperava che lo fosse, non gli era ben chiaro cosa il Dottore le avesse fatto ma stranamente, forse per quel viso buffo e in un certo qual senso rassicurante, si fidava di lui.
Il Dottore gli si avvicinò con aria minacciosa, come quella volta che si era ritrovato nel Far West, nella città di Mercy, e aveva tentato di intimorire chi gli stava intorno. Per l'ennesima volta prese tra le mani il cacciavite sonico puntandolo contro il petto di Steve. La luce verde si accese e comparve il solito e leggero sibilo.
"Cosa...?"
"Shhh!"
"Ma...", tentò di nuovo il Capitano con l'unico risultato di essere zittito un'altra volta. Il Dottore si mosse con attenzione molleggiando sulle gambe, come una marionetta mossa da fili invisibili. Alla fine sospirò sollevato, "La tua linea temporale non sembra aver subito cambiamenti. Ora muoviamoci a portare a casa la Bella Addormentata prima che qualcosa di grave accada sul serio. Ragazzone, mi serve un indirizzo."
"Non lo so, eravamo nell'esercito. Si è in continuo spostamento, la caserma e le trincee sono la tua casa."
"Questo è un bel problema. Potremmo lasciarla in una trincea se vuoi, ma non credo che abbia il vestito adatto."
In quel momento Rogers si ricordò della borsetta che aveva afferrato al volo prima di lasciare il locale. Si avvicinò a Peggy, chinandosi accanto a lei. Le scostò i capelli dalla fonte accaldata sfiorandole appena la guancia, seguendo quella linea immaginaria che andava dallo zigomo al mento. Quando prese la borsa, le sfiorò involontariamente le dita della mano sentendola, nel sonno, rispondere al tocco con un piccolo scatto delle dita. Mentre il Dottore armeggiava con il monitor del Tardis, premendo tasti all'apparenza a caso, Steve frugava nella borsa sorridendo divertito dal minimalismo del suo contenuto. Un fazzoletto con le sue iniziali ricamate, un rossetto che, conoscendola, era sicuro nascondesse qualcosa di più, e una chiave. Si alzò portandola alla luce riuscendo a leggerne la scritta in basso rilievo impressa sull'impugnatura della stessa.
"Griffith Hotel", scandì lentamente.
"Bene, bene, bene, direi che abbiamo ufficialmente una meta! Tenetevi forte", strinse il cilindro della leva tra le dita e l'abbassò intonando il suo grido di battaglia.
 
Lasciarono il Tardis in un vicolo che costeggiava il lato est del palazzo. Steve si caricò Peggy, ancora incosciente, sulla spalla anticipando il Dottore nell'uscire dalla cabina.
Salirono i gradini, il Dottore trotterellò attraversando l'arcata per arrivare alla porta d’entrata. Una volta lì, bussò energicamente contro il vetro riuscendo a vedere, appena oltre quello, una figura in veste da camera e bigodini. La donna sobbalzò colta alla sprovvista da quel frastuono nel cuore della notte. Si strinse ancora di più nella vestaglia andando titubante ad aprire.
“Chi desiderate? Non sono ammessi uomini qui!”, precisò subito, pronta a richiudere la porta bloccata però prontamente dal braccio del Dottore, il quale sventolò per aria la carta psichica sperando che, come sempre, potesse aiutarlo anche questa volta ad ottenere ciò che voleva.
La donna strizzò gli occhi cercando di leggere, nonostante il movimento convulso della mano del ragazzotto che si trovava di fronte le causasse qualche difficoltà. Sbarrò gli occhi quando finalmente riuscì a distinguere le parole Ispettore di igiene, così si affrettò ad aprire per bene la porta e a chiedergli se il braccio gli doleva avendoglielo chiuso tra i due stipiti. Dopo aver ricevuto una scrollata di capo, iniziò a calmarsi. “Posso chiedere come mai un’ispezione a quest’ora di notte?”. Si sfiorò il capo per assicurarsi che i bigodini fossero tutti al loro posto. “Non mi fraintenda, non ho nulla da nascondere. Qui ho delle severissime regole e faccio in modo che tutti le rispettino.”
Il Dottore camminava allontanandosi dall’ingresso, cercando di dare modo a Steve di entrare senza essere visto. Annuiva ad ogni cosa che gli veniva detta senza prestare ascolto. D’improvviso si fermò, voltandosi verso la donna. “Lei sarebbe?”
“Come chi sono?”, chiese scocciata. “Sono Miriam Fry, proprietaria del Griffith!”
“Mh…”, mugugnò grattandosi poi la tempia. “Avrei bisogno di controllare delle stanze”.
“A quest’ora?”, la Signora Fry si portò una mano alla bocca, perplessa. Le regole che aveva imposto erano molto rigide. Erano rare, rarissime le occasioni in cui dava il permesso a degli uomini di entrare nel solo edificio, figuriamoci in una stanza, ma si trattava pur sempre di un ispettore, non poteva rischiare che ci fossero dei problemi.
Nonostante il corpifuoco, si ricordò che la Signorina Carter non era ancora rientrata. Se non avesse voluto essere mandata via, l’ispezione della sua stanza sarebbe dovuto essere il prezzo da pagare. “Veramente una delle ragazze non è ancora rientrata…”
“Di chi sarebbe la stanza?”
“Ecco… io non so se sia il caso di dirlo…”, ci pensò su qualche secondo, ma fu facile per la Signora Fry capitolare. “Alla signorina Carter, la nuova arrivata. Non credo abbia ancora capito come ci si debba comportare qui al Griffith Hotel, ma del resto è inglese e certe cose…”
“A che piano si trova la stanza?”, chiese interrompendo quella valanga di parole, facendo roteare il farfallino tra le dita.
“Al primo piano, l’accompagno.”
“No! Quando lavoro preferisco essere solo”, camminò rapidamente verso le scale che portavano al piano superiore, sentendo la donna urlargli le indicazioni. “In fondo al corridoio, ultima porta sulla destra!”.
Salì le scale, tenendo il cacciavite sonico in mano pronto ad ogni evenienza. Non appenò svoltò sulla sinistra per imboccare il corridoio, si trovò  Rogers a un palmo da naso.
“Eccoti ragazzone. Porta in fondo, sulla destra, tieni il passo.”
Adagiò meglio Peggy sulla spalla cercando di star dietro all’andamento buffo del Dottore, il quale puntò il cacciavite contro la serratura aspettando che compiesse la sua magia e la porta si aprisse, completamente dimentico di avere con sé la chiave.
Quando varcò la soglia, Steve si guardò intorno in cerca di qualsiasi cosa potesse suggerirgli come fosse stata la vita di Peggy dopo che lui se n’era andato, ma il Dottore gli mise troppa fretta perché potesse veramente concentrarsi su ciò che vedeva e cercare di ricavare qualche indizio. La posò delicatamente sul letto, guardandola aggiustare la posizione nel sonno con qualche piccolo stiracchaimento.
“Oggettini curiosi…”, commentò il Dottore sficcanasando qua e là. “Forza, dobbiamo andare!”.
Steve ignorò le sue parole, accovacciandosi accanto a lei. “Sono felice di aver finalmente potuto avere quel ballo”, le sussurrò all’orecchio scostandole i capelli dal viso.
“Ragazzone, il tempo scorre! Beh, scorre, si riavvolge, va avanti e indietro. Del resto il tempo è elastico, e se lo dico io che sono un Signore del tempo!”
Il Capitano continuò ad ignorarlo, alzandosi e chinandosi su Peggy per un ultimo bacio. Avrebbe voluto darglielo là, sulla pista da ballo, ma il Dottore li aveva interrotti prima che ne avesse avuto l'occasione.
Sebbene fosse diventato un super soldato, era rimasto il timidone di sempre.
Le sfiorò appena le labbra e quando si staccò da lei la guardò per un'ultima volta, voleva una nuova immagine di lei da ricordare.
“Ora possiamo andare…”, sussurrò al Dottore precedendolo.
Steve uscì di soppiatto, mentre la Signora Fry si preparava un tè, tuttavia non le sfuggì quell’ombra alta e muscolosa che pensava di andarsene indisturbata. Miriam Fry era sempre molto attenta e vigile, si mormorava in giro che avesse gli occhi anche dietro la testa. Lasciò il tè sul tavolo andando verso la porta, quando si sporse per vedere al di là del vetro chi fosse il misterioso uomo, venne travolta dal Dottore.
“Allora, Madame, tutto a posto!”, esclamò entusiasta e frizzante avvolgendo un braccio attorno le spalle della donna, che osservò la mano che ora la toccava appena sopra la veste da camera con circospezione e sospetto. “Ma io ho visto un giovanotto uscire di qui proprio adesso.”
“Le posso assicurare che non c’era nessuno. La saluto, la ringrazio e arrivederci.”
“Ma il rapporto? Cosa scriverà, era tutto in perfetto stato? Come le dicevo la Signorina Carter è nuova, ancora non sa…”, per la seconda volta venne interrotta mentre tentava di giustificarsi usando le origini inglesi di Peggy.
“Tutto pulito e in ordine. In ordine… se voi umani lo chiamate così”, bofonchiò appena,, abbassando lo sguardo. Quando lo rialzò notò la perplessità negli occhi della Signora Fry, testimoniata anche da quella ruga formatasi in mezzo alla fronte. “Oh beh, buona serata allora!”, e scappò via prima che la donna potesse chiedergli altro.
 
Non si dissero nulla camminando verso il Tardis, stranamente perfino il Dottore riuscì a mettere a freno la sua parlantina. Era tempo che Steve tornasse a casa, così lo riportò nell’esatto punto in cui lo aveva incontrato.
Come all’andata il viaggio fu breve, talmente breve che Rogers si accorse di essere arrivato solo per lo scossone dovuto all’atterraggio e il consueto sibilo della cabina. Il Dottore si affacciò alla porta, restando a guardarlo uscire con quell’aria pensierosa dipinta in volto.
“Dottore…”, esordì Steve con tono pacato.
“Lo sapevo, lo sapevo che c’era dell’altro. A voi non basta mai! Qualcuno vi offre una mano e voi vi prendete tuuuuutto il braccio. Un solo viaggio, era questo l’accordo. Scommetto che ti sei pentito di aver lasciato scegliere alla tua testolina. Chi lo sa, magari ci rivedremo un giorno, anche se… no, credo di no. Ho tantissime cose da fare e problemi da risolvere! Perciò ragazzone è stato un piacere.”
“Dottore”, ripeté ignorando il discorso senza logica appena udito. “Lei starà bene?”
Di nuovo quell’espressione di stupore sul viso giovane del Dottore. Steve fu certo di leggere dolcezza, per quella domanda, nei suoi occhi.
“Si, starà bene”, sussurrò estremamente serio, e avrebbe avuto ragione. Perché la mattina seguente, quando Peggy si svegliò, si sentì riposata come non le capitava da mesi. Si sfiorò le labbra con le dita sentendo una stretta al cuore e, quando si accorse di essere ancora vestita, capì che ciò che era accaduto non poteva essere solo un sogno. Ancora non sapeva come fosse possibile, ma non le importava.
Per la prima volta da tempo sorrise, sorrise davvero.
Steve si limitò ad annuire con la bocca piegata in un sorriso appena accennato, portandosi la mano sinistra alla fronte per poi muoverla in direzione del Dottore in quel saluto militare poco rigoroso. Riprese a camminare come se non fosse accaduto nulla in quelle ore, invece tanto era successo e anche lui sentì il cuore più leggero avendo avuto un’ultima occasione di rivedere la sua Peggy. Udì ancora una volta il rumore dei freni del Tardis e quando si voltò la cabina era già sparita e il Dottore con lei.
 
Il Tardis era di nuovo vuoto, mentre volteggiava tra il cielo stellato impossibile da vedere ad occhio nudo. Non importava quanto fosse grande, pieno di cianfrusaglie, cerchi alle pareti e innovazioni che le prime rigenerazioni non si sarebbero mai sognate. Per quanto amasse la sua casa non faceva altro che sentirsi solo. Aveva pregato River di restare con lui, non si era mai abbassato a tanto con nessuno, solo con i membri della famiglia Pond. Prima Amy, testarda e cocciuta, che non aveva voluto seguirlo e aveva smesso di guardare quell’angelo solo nella speranza di poter raggiungere Rory. E poi River, tale e quale a sua madre. “Dolcezza, una signora ha le sue esigenze”, si era giustificata. Gli aveva lasciato un ultimo bacio a stampo sulle labbra e si era sistemata il manipolatore vortex. “Arrivederci, Dottore”.
In un attimo era sparita.
Quello era il destino legato alle persone a cui si affezionava, sparire. Per questo la regola del solo ed unico viaggio, ma quella sera, senza saperne il motivo, era riuscito a legarsi anche a Steve e alla sua storia. Con 900 anni sulle spalle stava diventando sentimentale. Forse era l’età, o forse no. Nonostante tutto, però, non poteva rischiare che qualcun altro si facesse male per colpa sua. In alcuni casi aveva avuto la fama dell’egoista, del distruttore, colui che non pensa mai prima di agire, che non ha un piano.
Questa volta il piano però era ben preciso. Si sarebbe ritirato in isolamento, da solo, offrendo il suo aiuto solo quel tanto che bastava perché il genere umano non andasse distrutto, ma restando sempre nell’ombra e usando le dovute precauzioni.
Si, avrebbe funzionato.
“Vediamo, vediamo, vediamo, dove potrei andare… niente posti caldi, ho la carnagione chiara, e niente New York, l’America non fa per me.” Ci pensò su qualche secondo sentendo il motore del Tardis iniziare a borbottare. “Dammi un minuto per pensare!”, esclamò sistemandosi il cravattino, e in quel momento ebbe l’illuminazione. “Ci sono!”, si avvicinò al monitor iniziando ad impostare le coordinate. “Perché non ci ho pensato prima?”. Rimase in silenzio, come a voler creare un po’ di suspence in quel dialogo tra lui e la sua amata cabina blu. “Londra, epoca vittoriana. Posto perfetto, clima ideale e poi adorano i papillon! Ah, gli inglesi…”. Strinse la leva tra le dita pronto ad abbassarla. La bocca si schiuse per far uscire la parola Geronimo nel consueto grido, ma subito si richiuse senza dar voce neanche ad una singola lettera. Non ne valeva la pena, non da solo. Inspirò a fondo e, abbassando la leva, la cabina partì alla volta della Gran Bretagna vorticando su se stessa.
Si sentiva sicuro, nessuno lo avrebbe disturbato. Eppure, per quanto spesso lui stesso si vantasse del suo intelletto e della sua arguzia, non poteva sapere che, a Londra, il suo cammino si sarebbe incrociato con quello di un’apparentemente innocua e semplice ragazza, Clara Oswald.
Passato e futuro si sarebbero intrecciati ancora una volta e non ci sarebbe stato nulla che il Dottore avrebbe potuto fare per evitarlo.





Diletta's coroner:
Siamo giunti alla fine... Peggy si sente di nuovo felice, Steve meno in colpa ed Eleven riparte verso la Londra vittoriana.
Spero vi sia piaciuta e irngrazio coloro che hanno letto questa piccola follia!
Baci
Diletta

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