By any other name

di Calliope49
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La nipote del capitano ***
Capitolo 3: *** L'inaugurazione ***
Capitolo 4: *** Una visita all'obitorio ***
Capitolo 5: *** Una ragazza curiosa ***
Capitolo 6: *** Il bandito ***
Capitolo 7: *** Demoni e ladri ***
Capitolo 8: *** Una gita inattesa ***
Capitolo 9: *** Una nuotata nottetempo ***
Capitolo 10: *** Cinque minuti o anche dieci ***
Capitolo 11: *** Neve e sangue ***
Capitolo 12: *** Di tuberi, vino e taverne ***
Capitolo 13: *** Un'altra vittima ***
Capitolo 14: *** Sentori di tempesta ***
Capitolo 15: *** Fantasmi a volto scoperto ***
Capitolo 16: *** Tempesta (parte prima) ***
Capitolo 17: *** Tempesta (parte seconda) ***
Capitolo 18: *** Sotto la maschera ***
Capitolo 19: *** L'attacco al porto ***
Capitolo 20: *** Una lunga nottata ***
Capitolo 21: *** Un ospite di troppo ***
Capitolo 22: *** Il cardinale ***
Capitolo 23: *** I nodi vengono al pettine ***
Capitolo 24: *** Il processo ***
Capitolo 25: *** Bagagli troppo pesanti ***
Capitolo 26: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Qualche nota prima di (ri)cominciare…

Quella che state per leggere è la versione riveduta e corretta di “By any other name” (dal verso di Romeo e Giulietta “A rose by any other name would smell as sweet”).
Ho pubblicato questa fanfiction tra febbraio e giugno 2015. Quando iniziai a scriverla, la seconda stagione del telefilm era appena cominciata, quindi decisi che ne avrei  ignorato gli sviluppi (da qui il “What if?” tra gli avvertimenti, dato che la storia si basa sul paring AthosXNuovoPersonaggio, una cosa che a mio avviso può essere considerata “plausibile” solo se si ignora il risvolto che ha preso la storyline di Athos e Milady nella seconda stagione).
Mi è piaciuto creare il personaggio di Diane ed entrarle nella testa. Non so quanto possa convincere un lettore, ma è la mia bambina e ho provato a renderla nero su bianco con tutta la cura che potevo.
Non sono mai riuscita a decidere quale fosse il mio moschettiere preferito, alla fine la scelta del co-protagonista principale della storia è caduta su Athos perché era quello che mi divertiva di più immaginare in una relazione più o meno romantica (soprattutto in vista degli sviluppi che avevo in mente). Ho comunque cercato di dare il giusto spazio a (quasi) tutti i personaggi della serie perché… sono tutti fantastici ed era un peccato lasciarli nell’ombra, punto! :P
Tengo molto a questa storia, mi ha divertito tantissimo scriverla e adoro il telefilm (i moschettieri in realtà sono un’innamoramento che mi trascino dietro da ragazzina) e immergermi in questo mondo è stato davvero favoloso, ma soprattutto ci tengo perché è stata il pretesto per tornare a scrivere dopo moltissimo tempo in cui non prendevo carta e penna in mano.
Come tutte le cose riprese dopo un periodo di distacco, mi sono poi resa conto che la mia scrittura non mi soddisfaceva del tutto. Rileggendo a distanza di mesi la prima quindicina di capitoli scritti durante l’inverno in piena “foga creativa” mi sono accorta che c’erano molte cose da sistemare, sia a livello di stile sia di resa di personaggi e di passaggi narrativi, così ho pensato che una volta conclusa la fanfiction mi sarei dedicata a una revisione dell’intero malloppo. Naturalmente ho fatto tutto da me… ma ho cercato di farlo al meglio.
 
Se non siete caduti addormentati sulla tastiera dopo questo preambolo avete la mia gratitudine ma soprattutto la mia ammirazione.
 
Buona lettura.
C.
___

 
Prologo
 
L'aria umida portava con sé promesse di un inverno rigido.
Athos era da solo in mezzo all’odore di paglia e terriccio bagnato, a gambe stese sul tavolo lucidava la spada. Ormai ci si poteva specchiare in quella lama, ma lui continuava strofinare il panno lercio, assorto.
La frescura pungente della notte aveva lasciato un alone lucido sul legno liso del patio.
Parigi era insolitamente tranquilla in quelle settimane, una condanna per i moschettieri. Gli uomini del re si limitavano a fare la spola tra la guarnigione e il palazzo, in attesa di ordini, o a percorrere le strade in ronde senza scopo.
Un soldato annoiato è un soldato pericoloso, aveva detto una volta il capitano Treville, la noia impiega poco a diventare stoltezza.
Una folata di vento rimescolò polvere e fili di fieno sul terreno spoglio del cortile.
Athos tese le orecchie, come a cercare qualcosa nel silenzio vuoto di quella prima mattina, o forse solo per levarsi dalle orecchie il fracasso della taverna della sera prima che gli era rimasto incollato alla testa, a rimbalzare tra una tempia e l’altra.
Cominciava a essere vecchio per le grandi bevute.
Credeva di aver chiuso i conti con il suo passato, si era strappato di dosso i ricordi e i rimpianti, ma era rimasta come un’inquietudine dolorosa a fare eco nel suo petto vuoto.
Il rimorso è una brutta compagnia, ma dopo cinque anni ti dà comunque la sensazione di avere qualcosa che vada oltre il semplice vivere per inerzia.
Athos guardò la lama della spada lucida e perfetta. Forse il suo più grande difetto era quello di non sapersi accontentare di una qualunque ragione semplice per stare al mondo, come tutti quelli che avevano avuto molto e molto avevano perduto.
«Scusate».
Rinvenne dai propri pensieri. Stava davvero invecchiando: non aveva sentito i passi avvicinarsi. La giovane donna si tolse il cappuccio della mantella rivelando un sorriso cortese e una treccia un po’ spettinata di capelli castani.
Athos tolse i piedi dal tavolo e si sedette composto.
«Scusate, sto cercando la guarnigione dei moschettieri».
«L’avete trovata, mademoiselle».
La ragazza si guardò attorno. «L’immaginavo più affollata»
«Non a quest’ora».
La sconosciuta accennò un sorriso garbato in risposta. Aveva viaggiato, era evidente, forse era giunta in città con una nave attraccata in anticipo lungo la Senna. Parlava il francese di Parigi con l’accento stridente di chi ha passato molto tempo in un paese straniero.
«Sapreste dirmi dove posso trovare il capitano Treville? Oppure è troppo presto anche per lui?»
«C’è chi è pronto a giurare che il capitano non dorma affatto» disse Athos, la voce calma e fredda come al solito. Non aveva dimenticato le buone maniere, ad ogni modo, si alzò e fece strada alla giovane su per le scale, fino alla porta dell’ufficio del capitano.
Notò che i passi della ragazza non facevano rumore, non si udiva nemmeno il frusciare della gonna mentre saliva i gradini.
Indicò la porta dell’ufficio di Treville con un’occhiata e accennò un saluto sfiorandosi la falda del cappello.
Quali che fossero gli affari di quella giovane con il capitano non era cosa che lo riguardava.
Vide Porthos e Aramis arrivare mentre scendeva le scale.
 
***
 
Non ricordava che a Parigi facesse così freddo. L’odore di polvere e acqua stagnante, quello lo ricordava, era più o meno lo stesso per ogni città ma l’odore di casa propria sembra sempre diverso da tutti gli altri posti.
Restò qualche secondo in attesa, davanti alla porta che il moschettiere le aveva indicato. Ebbe la tentazione di voltarsi a guardarlo mentre si allontanava ma, in qualche modo, era certa che lui se ne sarebbe accorto.
Bussò. Avrebbe voluto essere più delicata ma l'entusiasmo trasformò qualche colpo leggero in pugni bruschi contro il legno.
«Avanti». Dalla voce, il capitano dei moschettieri sembrava seccato.
La ragazza esitò, la mano appoggiata alla maniglia. Il viaggio dall’Italia era stato lungo, aveva avuto tempo per pensare ma adesso era come se casa sua fosse proprio dietro quella porta e tornare avesse implicazioni per cui non si sentiva pronta.
L’ufficio del capitano era un ambiente spartano con poco mobilio e una scrivania ingombra di fogli e oggetti gettati in un disordine assai poco militaresco.
Treville stava leggendo una missiva, reggendosi il mento tra l’indice e il pollice. Non era affatto diverso da come lo ricordava, anche se gli ultimi dieci anni non erano stati del tutto generosi con lui.
Sollevò lentamente la testa dal foglio, con l’indolenza di chi non è abituato a trattare da ospiti coloro che bussano alla porta del suo luogo di lavoro.
Si alzò meccanicamente, riconoscendo una donna nella persona che era arrivata a disturbare i suoi affari, poi rimase a guardare in viso la giovane per qualche istante.
«Diane?» mormorò.
«Grazie al cielo. Pensavo che non mi avresti riconosciuto, zio».
Il capitano dei moschettieri mosse qualche passo verso la figlia di sua sorella. Diane si lanciò con foga nel suo abbraccio. Era a casa e, per la prima volta da quando si era messa in viaggio, pensò che col tempo ogni cosa sarebbe andata a posto.
«Quando sei arrivata?»
«Adesso. Poco fa».
«Nella tua ultima lettera dicevi che pensavi di tornare, ma non credevo così presto».
Diane sorrise, scosse il capo e una ciocca di capelli sfuggì alla presa della treccia.
«C’era una nave che salpava prima del previsto. Non c’è stato tempo di avvisare».
Treville assottigliò lo sguardo. Non doveva gradire troppo la prospettiva di sua nipote in viaggio da sola: l’aveva vista partire che era poco più di una bambina e per lui forse era rimasta tale.
«Sei tornata per restare?» le chiese.
Difficile dirlo. «Parigi è la mia città».
«Credevo che in Italia avresti trovato un pretendente, che avessi stretto amicizie…».
A Diane non sfuggì il sottinteso di quelle parole. Dieci anni di lontananza avevano cancellato la sua vecchia vita e quelli che ne avevano fatto parte si erano certo dimenticati di lei, di un’anonima ragazzina di dodici anni come tante. Forse suo zio credeva che a Parigi non le fosse rimasto più niente: si sbagliava.
«Ad ogni modo,» aggiunse Treville, «sono felice che tu sia qui»
«Grazie, zio»
«I tuoi bagagli?»
«Sono al porto»
«Bene, manderò qualcuno a prenderli, li farò portare a casa mia. Aspettami lì, al momento sono impegnato ma oggi pomeriggio tornerò a casa e parleremo». 
«Basta che non ti azzardi a chiedere dei pretendenti». Diane alzò l’indice con fare ammonitore.
Il sorrido di Treville gli ispessiva le rughe ai lati della bocca.
«Gli italiani non possono essere così male»
«No, in effetti no, cucinano troppo bene».

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Capitolo 2
*** La nipote del capitano ***


I
 La nipote del capitano
 
 
Il baule sembrava un grosso rospo che la fissava con aria ebete, un lembo di sottoveste usciva dal coperchio come una lingua a penzoloni.
Diane lo guardava spazientita, mani ai fianchi ed espressione torva, come se sperasse di intimorirlo e convincerlo a chiudersi.
La sua roba era stata tutta accuratamente impacchettata, ma il suo guardaroba era diventato più ingombrante da quando era a Parigi - colpa forse di quell’abito che suo zio le aveva regalato per quando l’avrebbe portata a corte, giorno che comunque non era ancora arrivato.
Il capitano Treville era un uomo molto impegnato e Diane non si era azzardata a pretendere da lui niente di più dell’affetto un po’ goffo con cui aveva cercato di accudirla in quel primo mese trascorso da quando era tornata.
Un aspetto della faccenda che sembrava sfuggire all’integerrimo capitano dei moschettieri era che la sua giovane nipote non aveva bisogno di essere accudita e che non era nemmeno tanto giovane come a lui piaceva pensare. Ma in quel mese zio e nipote erano giunti per vie diverse alla medesima conclusione: erano, l’uno per l’altra, la sola famiglia che rimanesse loro.
Eppure Diane aveva deciso di lasciare quella casa. Aveva le sue ragioni e doveva tenerle per sé.
Sarebbe stato tutto più facile, comunque, se il baule le avesse fatto la cortesia di essere collaborativo.
Sbuffò e si lanciò di peso sul coperchio, ottenendo di farlo chiudere a dovere con un tonfo secco. Rimase a pancia in giù sul baule, cercò a tentoni le chiusure di metallo sul davanti e con molta fatica le riuscì di farle scattare.
Sorrise soddisfatta del suo operato, ma il coperchio non restò chiuso a lungo. Qualche attimo dopo si aprì di colpo, sollevandosi bruscamente e facendo cadere la ragazza come se fosse stata sbalzata di sella da un cavallo imbizzarrito.
Diane rovinò sul pavimento, la gonna dell’abito si sollevò e le si ripiegò sulla faccia.
«Ehm… mademoiselle?».
Il sangue le salì alla testa quando realizzò che l’incidente non era stato privo di testimoni.
Dannazione!
Si tolse la stoffa del vestito dalla faccia e guardò verso la porta.
Lo sconosciuto si era voltato, ostentando educata noncuranza per il penoso spettacolo. Sbirciò con discrezione per assicurarsi che la ragazza si fosse ricomposta e le si avvicinò tendendole la mano per aiutarla a rialzarsi.
Era un bel ragazzo poco più giovane di lei, alto, dalla carnagione scura della Francia del sud; portava appuntato alla giubba di cuoio uno spallaccio nuovo da moschettiere.
«Perdonate l’intrusione, mademoiselle. Stavo cercando il capitano Treville, ho un messaggio da consegnargli» disse.
Diane si lisciò la stoffa della gonna per togliersi di dosso la polvere e tentò di darsi un contegno di grazia femminile - per quel poco che fosse ormai possibile.
«Mio zio non è in casa, ma tornerà a breve» spiegò. «Lasciate pure il vostro messaggio, glielo farò avere appena rientra».
Il ragazzo estrasse una piccola pergamena dalla tasca interna della giubba. «Grazie, mademoiselle».
«Avete anche un nome, monsieur?»
«D’Artagnan».
Lei strinse appena le labbra. «Ah, siete quel d’Artagnan».
«Prego?»
«D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis. Mio zio vi nomina spesso - quando parla dei rischi per la sua salute, ad esempio».
Il giovane fece una risatina bassa e nasale. Aveva il contegno di un moschettiere e la faccia pulita di un ragazzino.
 «Vi serve aiuto con quello?» chiese adocchiando il baule  spalancato in mezzo alla stanza.
«Se mi aiutate a chiuderlo, avrete la mia eterna gratitudine. I facchini saranno qui a momenti e non sono ancora pronta»
«State per sposarvi?».
Diane sollevò un sopracciglio con aria vagamente torva. «No».
«Ah, perdonate, pensavo steste cambiando casa per…»
«Sto cambiando casa, in effetti, ed è già una rogna senza che ci si metta di mezzo anche il matrimonio. Al momento preferisco perseverare nella mia condizione di vecchia zitella».
D’Artagnan la guardò come un bambino colto in fallo.
«No, no. Voi non lo siete affatto… vecchia, intendo. E neppure zitella» farfugliò, agitando le mani come a tentare di cancellare da una lavagna invisibile le sue parole inopportune.
«Sì, immagino che la lingua francese contempli termini più delicati per le donne non maritate» replicò Diane, poi rise, sollevando d’Artagnan dall’imbarazzo. Lo guardò con una punta di indulgenza: era un bravo giovane e lei si era divertita abbastanza.
Lui si decise a dedicarsi al baule. Ne smosse il contenuto e liberò le cerniere interne da lembi di stoffa che le bloccavano. Alla fine, con una buona dose di pazienza e un certo quantitativo di forza bruta, il coperchio si chiuse e chiuso rimase.
Nonostante Diane lo avesse invitato a tornare alle sue mansioni, d’Artagnan si prese comunque la briga di portare bauli e scatole al piano di sotto, con la scusa che avrebbe atteso il capitano nel mentre. A lavoro ultimato, però, Treville non aveva ancora fatto ritorno.
«Siete stato molto gentile, d’Artagnan».
Il giovane si passò una mano tra i capelli neri. «È stata una cosa da nulla, mademoiselle» disse. «Vi auguro di avere fortuna nella vostra nuova casa». Fece un leggero inchino alla ragazza, sulla soglia.
Lei gli aprì la porta e lo guardò mentre si allontanava, inghiottito dalla folla riversa in strada e diretta al mercato.
Vista da rue du Vieux-Colombier, Parigi somigliava a un termitaio.
«Mi viene da pensare che l’avvenenza sia un requisito basilare per entrare nel reggimento dei moschettieri…» mormorò tra sé e sé Diane, rientrando in casa.
Il capitano Treville fu di ritorno qualche minuto dopo. Trovò sua nipote seduta al tavolo della sala da pranzo, intenta a ultimare il ricamo su un fazzoletto, un giglio di Francia in cotone azzurro.
L’uomo scostò una sedia e si sedette di fronte a lei.
«Insomma, hai proprio deciso» sospirò.
Diane lasciò cadere il ricamo in grembo con un cenno affermativo.
Dalle finestre filtrava una luce plumbea. Da quando era tornata a Parigi non c’era stata una singola giornata di sole e il vento freddo che spazzava la città aveva già odore di neve.
«Mi dispiace non essere stato molto presente da quando sei tornata» aggiunse Treville.
Diane gli prese le mani nelle sue. Sentì la ruvidezza dei calli e il solco sottile di qualche piccola cicatrice.
«Zio, mi sono sentita più a casa questo mese che negli ultimi dieci anni» gli assicurò, e non era una menzogna per addolcire la medicina.
«Eppure hai scelto di trovarti un’altra casa. E a me non piace l’idea di mia nipote che vive da sola, e lavora, e… ah, Diane, sei una giovane meravigliosa con un’istruzione impeccabile, potresti avere molto di più».  
Come uomo abituato al comando, il capitano Treville trovava certo frustrante vedere disattese le proprie aspettative e la condizione di impotenza rispetto a qualcosa che non stava andando secondo i suoi desideri. Diane aveva anche il sospetto che si sentisse in colpa per i dieci anni che la ragazza aveva trascorso lontano da casa. Quando i suoi genitori erano morti, lei era troppo giovane e Treville era un soldato che non aveva il tempo, i mezzi e le capacità per rimettere insieme i pezzi di un’adolescente dal cuore distrutto. L’aveva lasciata andare suo malgrado e probabilmente lo aveva sempre rimpianto.
Diane sentì una morsa allo stomaco. Avrebbe voluto sollevare suo zio da qualsiasi rimorso, da qualsiasi accusa che lui stesso si imputava. Avrebbe voluto dirgli che quella di cercarsi un’altra casa non era una scelta, ma una necessità.
«Non si tratta di quello che potrei avere, zio. Si tratta di quello che voglio» disse.
«Ah, voi giovani donne d’oggi…». Treville la guardò con rassegnazione.
Diane strinse un po’ di più le mani dell’uomo nelle sue e gli sorrise con dolcezza. «Mi sto trasferendo solo qualche strada più in là. E inoltre ti prometto che verrò a trovarti tutti i giorni, alla guarnigione»
«Alla guarnigione?»
«Mi piace il panorama».
Treville gettò all’indietro la testa e sbuffò, enfatizzando un’aria scandalizzata. Lanciò una breve occhiata ai bagagli che si intravedevano dalla porta, prima di alzarsi. Sulla soglia della stanza, si voltò verso Diane.
«Ad ogni modo, se domani tu non fossi troppo impegnata a svuotare bauli nella tua nuova casa, mi piacerebbe portarti a corte» le disse.
«Uhm, sì, immagino che potrei trovare il tempo».
 
***
 
Nella sala delle udienze era stata accesa una moltitudine di candele, il cielo nuvoloso non faceva filtrare abbastanza luce in quella stanza solitamente tanto ariosa. Il tempo cupo e le troppe candele rendevano l’aria irrespirabile, pesante.
Neppure i sovrani sembravano a loro agio. La regina in particolare aveva un colorito poco salutare e sembrava stesse combattendo contro una nuova ondata di nausea, come quella che poco prima l’aveva costretta ad allontanarsi.
Athos lo aveva notato, quell’accenno di passo con cui Aramis si era sporto verso di lei come se volesse seguirla. Pregava sempre di essere il solo a cogliere certi dettagli.
Il cardinale Richelieu, in piedi accanto al re, tossì con discrezione nel fazzoletto. Nell’ultimo mese sembrava invecchiato di cent’anni; forse era stato per il brutto colpo subito con la sua sconfitta, un attentato al suo orgoglio e al suo potere, forse la sorte della Francia stava optando per una strada diversa, forse Dio aveva finalmente deciso di metterci del suo.  L’unica cosa certa era che da settimane i moschettieri non si erano più trovati in condizione di dover sventare complotti, incastrare assassini e altre imprese del genere.
Porthos si lamentava che presto si sarebbero ritrovati ubriachi e grassi - come se riguardo all’essere ubriachi non facessero già costanti passi avanti. Ma di tutte le possibili declinazioni della noia, quella giornata sembrava rappresentare un vero e proprio monumento al tedio.
Il conte Legrand, un omaccione avvolto in pizzi inamidati, stava ciarlando da un’ora buona del suo ospedale e persino il re, che lo teneva in gran conto, sembrava sul punto di ordinare la sua decapitazione.
Il conte era noto per le sue opere caritatevoli e quella di far costruire un ospedale per i poveri di Parigi era senz’altro un’impresa lodevole. Se solo il buon uomo non si fosse messo a spiegare al re e ai malcapitati presenti tutti i dettagli del progetto e della cerimonia di inaugurazione della prossima settimana!
«… e infine, avremo delle colombe» dichiarò il gentiluomo, terminando finalmente il suo sproloquio.
«Colombe» ripeté il re, meccanicamente. «Magnifico. Davvero magnifico».
Il conte si esibì in un profondo inchino, poi si allontanò verso un angolo della sala, confondendosi in una selva di merletti, sete e crinoline.
Gli occhi del sovrano erano già puntati altrove per vedere chi altri lo avrebbe annoiato quella mattina. Lo sguardo di re Luigi si rasserenò quando scorse il capitano Treville che teneva sottobraccio una ragazza. Athos la riconobbe come la giovane donna che era arrivata alla guarnigione di prima mattina, settimane fa - anche se quella al braccio del capitano sembrava la sua gemella aristocratica.
«Chi è?» bisbigliò Aramis, abituato a conoscere l’identità di ogni bella ragazza che orbitasse attorno alla guarnigione o a corte. Abitudine che non aveva smesso, malgrado tutto.
«La nipote del capitano» sussurrò d’Artagnan in risposta, soddisfatto di essere quello meglio informato. «L’ho conosciuta ieri, a casa sua»
«Questo significa che non possiamo farle la corte?» domandò Porthos.
Athos gli rivolse uno sguardo ammonitore. «Direi proprio di no».
Si udì qualche tuono in lontananza. Le fiamme delle candele tremolarono rimescolando i chiaroscuri contro gli stucchi.
Treville fece un inchino alla volta dei sovrani, la ragazza accanto a lui si esibì in una riverenza un po’ rigida.
«Vostre maestà, permettetemi di presentarvi mia nipote, Diane Leroux» disse il capitano.
Re Luigi si sporse in avanti sul suo scranno. «Dove tenevate nascosta una giovane tanto graziosa, Treville?».
«Non ero nascosta, maestà. Ho vissuto in Italia negli ultimi anni» spiegò la ragazza.
«Siete forse imparentata con il duca de Leroux?» interloquì il cardinale. Anche la sua voce, di solito tanto ferma, ora suonava spenta e roca.
«Il duca è il fratello di mio padre, Eminenza. Sono andata da lui in Italia dopo la morte dei miei genitori».
«In che parte dell’Italia avete vissuto, Diane?» chiese ancora il re. Sembrava contento per una volta di avere a che fare con una persona giovane e con qualcosa da raccontare, invece dei soliti nobili che lo tediavano con noiose questioni di stato.
«A Roma, sire».
«Roma» fece la regina con la sua voce sottile e gentile. «Ci sono stata in visita con la mia famiglia quando ero bambina. Una città affascinante. Un giorno mi dovrete raccontare della vostra permanenza»
«Quando vostra maestà lo desidera. Sarà un onore».
Il re intrattenne a lungo la nipote di Treville con chiacchiere e domande. La giornata non accennava in alcun modo a prendere una piega più vivace.
«Chi sarebbe il duca de Leroux?» chiese d’Artagnan con un filo di voce.
«L’ambasciatore francese presso lo Stato Pontificio» spiegò Aramis. «Un fedelissimo del cardinale»
«La ragazza ha delle parentele dai gusti non proprio affini» osservò Porthos con un ghigno. «Sai che armonia ai pranzi di Natale!».
La regina invitò mademoiselle Diane ad accompagnare lei e il re nella biblioteca di palazzo. La giovane guardò incerta verso suo zio poi accettò l’invito chinando il capo.
Se non altro, le udienze erano finite.
«Usciamo da qui, si soffoca» suggerì Porthos quando i sovrani se ne furono andati, accompagnati dagli inchini dei presenti.
Fuori il freddo appannava i vetri alle finestre, ma era di certo meglio di quell’aria opprimente e viziata.
I moschettieri si fermarono sotto al colonnato che delimitava la parte anteriore del giardino. Tra le siepi, le foglie cadute disegnavano sentieri scivolosi; l’autunno aveva derubato il parco della reggia dei suoi colori, l’inverno li aveva soffocati del tutto.
«Devi aggiornarci sulla tua situazione, d’Artagnan» disse Aramis.
Il giovane si strinse nelle spalle. «Non vedo Constance da settimane» disse. Cercava di dissimulare il dispiacere, inutilmente.
«Povero il mio giovanotto dal cuore spezzato! Io parlavo dell’alloggio, se hai trovato dove stare».
D’Artagnan si era trovato in un solo colpo senza una donna e senza un tetto sulla testa. Sembrava essere la dimostrazione che la fortuna non aiuta affatto gli audaci e un’ulteriore prova di quanto l’amore possa essere ingiusto e crudele.
In effetti di recente c’era stato un notevole aumento generale delle quantità di vino ingurgitate in una sola sera, ed era fin troppo facile dare la colpa alla noia e all’inattività.
Eccoli lì, i valorosi moschettieri del re, un ammasso di cuori spezzati e anime logore!
«Non ho ancora trovato dove stare» disse d’Artagnan. «Se devo dirla tutta, un sacco di gente pensa che i moschettieri non siano un buon affare come inquilini».
Nell’ultimo periodo d’Artagnan occupava uno stanzino nella guarnigione, come tutti gli apprendisti moschettieri avevano fatto prima di lui, ma la sistemazione non sembrava di suo gradimento e in qualche modo andava a turbare il suo orgoglio di Guascone.
«Ma tu sei giovane, non ti abbiamo ancora traviato a dovere» esclamò Porthos.
«È una valida argomentazione, la userò la prossima volta che faranno storie per darmi una camera in affitto».
Videro un valletto venire verso di loro, un giovane dall’aria un po’ macilenta.
«Il capitano Treville ha bisogno di un moschettiere» annunciò. «È nell’atrio».
Athos si cacciò il cappello in testa. «Vado io».
Nell’atrio c’era la stessa aria plumbea che regnava nelle altre stanze. Sembrava quasi presagio di qualcosa di tremendo in arrivo o forse si trattava solo di un temporale.
Il capitano dei moschettieri, in fondo alla scala di marmo che conduceva agli appartamenti del re, stava leggendo dei documenti. A giudicare dalla sua espressione, non dovevano essere molto interessanti.
«Ah, Athos abbiamo una certa urgenza» disse, agitando i fogli in una mano. «La prossima settimana verrà inaugurato l’ospedale fatto costruire dal conte Legrand»
«Ne ero al corrente». Non avevano sentito parlare d’altro per quasi tutta la mattina.
«Il re, per compiacere il conte, gli ha promesso che i moschettieri si occuperanno del servizio d’ordine»
«Il conte si aspetta di avere problemi?».
Treville allargò le braccia. «Forse il suo è solo un eccesso di zelo. Ci sarà molta gente all’inaugurazione. Ad ogni modo, gli ho assicurato che terrete d’occhio i lavori per l’allestimento del palco e supervisionerete alla cerimonia. Ho promesso che non ci saranno guai»
«Non ce ne saranno» assicurò Athos. Si congedò dal capitano e fece il giro lungo per tornare dai suoi compagni a riferire gli ordini. Immaginava già i loro commenti su quanto ingrata e sciocca fosse quella missione.
Vide un lembo di abito spuntare oltre un muricciolo coperto di edera e si sporse a controllare.
«Mademoiselle Diane?».
La nipote di Treville era appoggiata con la schiena alla parete di foglie, sembrava turbata e respirava prendendo grandi boccate d’aria. Possibile che il re si fosse già stancato della sua compagnia?
Ebbe un sussulto quando si sentì chiamare. Sollevò la testa di scatto e guardò Athos con una punta di fastidio.
«Vi divertite a prendere di sorpresa la gente?» borbottò, seccata. Lo sguardo acido ricordava incredibilmente il capitano Treville nei suoi giorni peggiori.
«No, non particolarmente».
Diane prese un lungo respiro portandosi una mano alla guancia. «Vi prego, scusatemi. Non volevo essere sgarbata».
La giovane accompagnò le scuse con un sorriso affabile. Aveva un bel viso, l’avvenenza di una donna mischiata alla semplicità della ragazzina che forse era ancora.
«Voi dovete essere Athos, suppongo».
Il moschettiere annuì. «Vi sentite bene?»
«Sapete mantenere un segreto? Non sono abituata al corsetto e credo che questo abito mi ucciderà»
«Ma cosa stavate facendo qui?»
«Ero uscita a prendere una boccata d’aria e mi sono persa. Temo che una corte reale non sia il mio posto preferito al mondo».
Eppure sembrava avere l’educazione necessaria a sopravvivere in certi posti.
«Venite. Vi riaccompagno dentro» disse Athos. Le sue parole suonarono quasi come un ordine secco. 
La ragazza gli sorrise ancora, più incerta stavolta, e gli prese il braccio.
Ora, era risaputo che i moschettieri possedessero certi pregi ma era anche convinzione comune che fossero degli spacconi piantagrane. Eppure poche cose creavano scompiglio tra loro come trovare un compagno al braccio di una signorina.
Li vide da lontano, venirgli incontro lungo il vialetto delimitato da siepi perfettamente potate. Anche senza guardarli in faccia, indovinò i loro sorrisetti smaliziati.
«Messieurs» salutò Diane.
Aramis si sfiorò con le dita la falda del cappello e sfoderò il migliore dei suoi sorrisi - quello che conteneva al contempo una lusinga e un  tacito invito a spaccargli il muso. 
«Sembrate stravolta, mademoiselle» disse subito Porthos. Le lezioni di Aramis sulle donne non dovevano essere state proprio un successo.
Diane non sembrò averla a male. «Sto bene, è solo che dentro mi mancava l’aria» rispose. «Fatemi indovinare… Porthos? E Aramis»
«Il capitano Treville ha reso edotta mademoiselle su, be’, sul suo reggimento» spiegò d’Artagnan.
«Oh, e vi ha anche detto di stare in guardia?» aggiunse Porthos, sornione.
Ma ti prego, lascia perdere…
Alle sue spalle, Aramis strabuzzò gli occhi. «Non eravate con sua maestà e la regina?» tentò di cambiare argomento.
«Sua maestà è stato richiamato da questioni importanti e la regina si è ritirata perché non si sentiva troppo bene» disse lei.
«Da come lo dite sembrate sollevata»
«Oh, no. È solo che il re è… come dire?»
«Un adorabile bambinone viziato» suggerì Aramis.
Diane fece un’espressione furba. «Siete stato voi a dirlo, non io».
«Mi dispiace interrompere il momento ricreativo, signori» intervenne Athos. Realizzò che la ragazza gli era ancora attaccata al braccio e si ritrasse con il fare più gentile che gli riuscì. «Ma dobbiamo tornare in città, il capitano ci ha affidato un lavoro». 
Gli occhi di Porthos si accesero di entusiasmo. «È una cosa interessante, almeno?»
«Da morire. Dobbiamo supervisionare l’allestimento del palco per l’inaugurazione dell’ospedale del conte Legrand e occuparci del servizio d’ordine dell’evento»
«Tanto vale andare in pensione subito!».
Mentre Porthos sciolinava lagnanze e imprecazioni, Athos si voltò verso Diane e le indicò la fine del vialetto, dove terminava la siepe. «L’ingresso del palazzo è sulla destra, non potete sbagliare» le disse.
«Grazie, monsieur. Signori, chiedo scusa se vi ho trattenuto, è stato un piacere fare la vostra conoscenza».
I moschettieri chinarono il capo in cenno di saluto e si voltarono per tornare ai loro affari.
Quando furono abbastanza lontani, Aramis afferrò il braccio di Porthos e lo strinse. «Se ti volti a guardarla, ti do un pugno».
«Pensavo che me ne avrebbe dato uno lui» rispose l’altro e indicò con il pollice teso Athos che, da parte sua, si limitò a stirare le labbra in un’espressione enfatica di sopportazione. 
 
***
 
La carrozza depositò Diane davanti alla sua nuova casa.
Era un edificio a due piani dalla facciata dipinta di giallo con l’intonaco scrostato in più punti che lasciava scoperti i mattoni erosi dalle intemperie. Il secondo piano era disabitato, le avevano spiegato che una grandinata aveva fatto crollare il tetto e il proprietario non era mai riuscito a risistemarlo a dovere. Ma al pian terreno c’erano finestre con inferriate di ferro battuto e fioriere piene di gerani sorprendentemente floridi malgrado il freddo. I fiori erano un’idea di Marie, la ragazza che avrebbe condiviso la casa con Diane.
Si erano conosciute al mercato, settimane prima. L’incontro era stato tutt’altro che fortuito.
Marie era una sarta, si guadagnava da vivere decorosamente con i lavori di taglio e cucito; era bella e stupida, parlava troppo e quasi sempre a sproposito, ma sembrava una brava ragazza con un buon cuore. Nel complesso, era esattamente ciò di cui Diane aveva bisogno.
La testolina dorata di Marie comparve oltre il vetro appannato della finestra. Aveva dei bellissimi capelli biondi che Diane le invidiava con genuina gelosia femminile. Quella giovane avrebbe potuto avere ai suoi piedi parecchi signori a modo, se avesse voluto, ma aveva già il suo amante e gli era fedele - almeno così aveva raccontato a Diane: «Non è un nobile, ma è tanto bello e tanto caro, e guadagna bene. Un giorno ci sposeremo e gli riempirò la casa di bambini!».
Marie uscì dalla porta, agitando la mano in segno di saluto e quasi inciampando in una pozzanghera. Si fermò, guardando ora la carrozza, ora Diane.
«Da dove vieni, conciata come una signora?» le chiese stupita.
Tanto valeva dirle la verità, del resto lo avrebbe saputo comunque. «Mio zio è il capitano dei moschettieri, oggi mi ha portata a corte».
Marie spalancò la bocca in una O precisa di stupore. Poi serrò le mascelle con aria seria. «E ti picchia?»
«Chi?»
«Tuo zio»
«Santo cielo, no» esclamò Diane. «Andiamo in casa, ti va? Fa freddo qui fuori».
Marie la prese sottobraccio e la trascinò dentro. Pestò la pozzanghera che prima aveva evitato e schizzò l’orlo dei loro abiti di fango. Diane finse di non farci caso.
«Lo chiedevo perché mi sembrava strano che tu sia venuta via di casa con uno zio così importante che ti porta a corte. Ho sempre voluto andare a corte» continuò Marie, facendo sedere Diane al tavolo della cucina.
La casa comprendeva due camere, una cucina con un camino, abbastanza spaziosa da fungere anche da salotto, e una stanza da bagno. Era una sistemazione più che decorosa.
«Sono stata in collegio per tanti anni, avevo voglia di un po’ di libertà» si limitò a dire Diane. E, a proposito di libertà, non vedeva l’ora di liberarsi di quel vestito e sciogliersi i capelli: non aveva mentito quando aveva detto ad Athos che non era abituata ai corsetti, anche se non era quello il vero motivo della sua agitazione.
«Hai già conosciuto qualche moschettiere?». Marie si sporse verso la sua coinquilina con una scintilla di interesse negli occhi da cerbiatto. 
«Qualcuno»
«A volte sono stata alla guarnigione perché uno degli attendenti mi aveva chiesto dei rammendi per le uniformi»
«Ma non mi dire…»
«Ci sono alcuni uomini assai interessanti in quel reggimento. Non so se hai avuto la fortuna di incontrare un certo Aramis… ah, se non fossi una donna impegnata!»
«Sì, ho conosciuto Aramis. Notevole. E anche i suoi amici»
Diane e Marie si guardarono in viso e ridacchiarono.
Forse, pensò la nipote del capitano, la sua permanenza in quella casa sarebbe stata meglio del previsto.  

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Capitolo 3
*** L'inaugurazione ***


II
L’inaugurazione
 
 
La copertina di cuoio era ormai consumata, brandelli frastagliati cadevano ogni volta che si toccava il quaderno.
In ginocchio sul pavimento, tra bauli e scatole non ancora svuotate, Diane ne accarezzava i contorni. Nella sua mente, i ricordi turbinavano in immagini brevi e frammentate.
L’odore di pietra e muschio del cortile alle spalle del monastero, il suono del fiume in lontananza coperto dal cozzare delle lame, il volto scavato del soldato vestito da monaco, la sua voce un po’ nasale, ruvida come la lana della tonaca.
A pensarci bene, non era stata una brutta fanciullezza la sua. Meno brutta di quella di tanti orfani, di sicuro.
«Diane, sei pronta?». Marie la chiamò a gran voce dalla porta. I ricordi che danzavano dietro le palpebre chiuse della ragazza si dissolsero e lei spalancò lo sguardo sul muro spoglio della camera da letto.
«Arrivo!». Cacciò il quaderno sotto al materasso. La prima delle tante cose che dovevano rimanere nascoste.
Si alzò e si mise a rovistare nel baule di vestiti, alla ricerca della mantella di lana.
Nonostante il brutto tempo e la pioggia della sera prima che aveva inzaccherato di fango le strade, Marie le aveva chiesto di accompagnarla, voleva farle conoscere il suo innamorato, il suo Jean-Pierre.
Diane uscì dalla sua camera, infagottata fino al mento. Il freddo di Parigi l’aveva colta alla sprovvista, si era abituata a climi più miti e non sembrava in grado di sopportarlo. E il peggio dell’inverno non era ancora arrivato.
Marie la fulminò con uno sguardo di disapprovazione. «No, no, e poi no» protestò, parandosi di fronte a lei come se avesse commesso qualche atto di terribile scelleratezza. Le sciolse il nastro che chiudeva la mantella sulla gola e gliela accomodò sulle spalle. Diane la lasciò fare, troppo incredula per opporsi.
«Cosa stai facendo, scusa?» domandò quando l’altra ragazza prese ad armeggiare con il pizzo della scollatura, ripiegandoglielo verso l’interno del corpetto.
«Non troverai mai un innamorato se vai in giro avvolta in fasce come un lattante»
«La questione non è in cima alle mie preoccupazioni. Mi sembra più importante evitare una polmonite»
«Sciocchezze. Sei carina, non vedo perché debba nasconderti»
«Non mi sto nascondendo, ho freddo!»
«Ti scalderai camminando».
Diane corrugò la fronte, interdetta, ma aveva capito che quando Marie si metteva in testa qualcosa ci sarebbe voluta una pallottola in mezzo agli occhi per farle cambiare idea. Si sistemò la mantella alla meno peggio e uscì, sicura che sarebbe caduta malata entro sera.
 
***
 
«E se ci facessimo una partita a carte con quei signori lì?»
«Porthos, per piacere»
«Insomma, sono il solo che si sta annoiando?»
«Dagli un pugno tu, io non ce la faccio, mi si sono intorpidite le braccia» sbuffò Aramis, guardando d’Artagnan con aria esasperata. 
Appoggiati al muro, i moschettieri osservavano la piazza. Da quel punto riuscivano ad avere la completa visuale dello spiazzo di ciottolato davanti al nuovo ospedale.
Ogni tanto una piccola folla di curiosi si fermava a osservare il grande palco in costruzione dinnanzi all’ingresso. Qualche cane randagio indugiava a fissare con occhi languidi le ceste con il rancio degli operai e il peggior disturbo alla quiete era stato rappresentato da un topo spuntato da sotto una catasta di legname, evidentemente arrabbiato per essere stato disturbato durante il suo riposo. Per poco d’Artagnan non si era beccato un morso e uno degli operai non si era rotto una gamba, inciampando nell’animale in fuga che era riuscito a mettersi al sicuro nella cantina di un’osteria lì vicino - osteria dove tutti i testimoni dell’accaduto avevano giurato di non mettere mai piede in vita loro.
E quella era stata una giornata movimentata.
Athos stava prendendo in considerazione l’idea di provare a dormire in piedi contro il muro. Il vino della sera prima doveva essere particolarmente scadente se il mal di testa era riuscito a tenerlo sveglio tutta la notte. In condizioni normali, il pensiero di addormentarsi in servizio non lo avrebbe mai sfiorato, ma era abbastanza certo che avrebbero potuto schiacciare tutti un sonnellino in mezzo alla piazza e non sarebbe cambiato un accidente.  
I signori con cui Porthos aveva suggerito di giocare a carte erano tre uomini del conte, due avevano l’aria di soldati di ventura e un altro era il gentiluomo che accompagnava sempre il nobile nei suoi affari, un tale Jean-Pierre, noto per essere da anni al servizio di Legrand.
«Non possono guardarselo loro, il dannato palco?» borbottò Porthos. «Che ci stiamo a fare noi qui?»
«Siamo moschettieri, uomini del re, rappresentiamo l’autorità. Loro non sono nessuno» spiegò Aramis, arricciandosi i baffi e approvando la propria immagine riflessa contro un vetro.
«Se lo dici tu». 
D’Artagnan sorrise, divertito per la schermaglia, poi il sorriso gli si accartocciò come un pezzo di pergamena gettato nel fuoco e divenne una smorfia contorta. 
Constance Bonacieux era comparsa in fondo alla piazza, reggendo non senza difficoltà grossi rotoli di raso damascato.
Aramis calò una manata sulla schiena di d’Artagnan. «Non fare il bambino, va’ a darle una mano».
Il giovane moschettiere esitò, impastando la bocca come se stesse cercando una valida scusa per non muoversi di lì e comportarsi come se la donna non fosse mai arrivata. Alla fine si risolse ad andarle incontro.
Un velo di rossore salì alle gote di madame Bonacieux quando scorse il ragazzo che le si avvicinava.
Athos, Porthos e Aramis restarono a rispettosa distanza, limitandosi a rivolgere un vago cenno di saluto alla donna che li stava fissando oltre le spalle del guascone, probabilmente per evitare di guardarlo in faccia.
Constance e d’Artagnan non si scambiarono che una manciata di parole. Da quel poco che i moschettieri riuscirono a udire, lei disse che suo marito aveva fornito le stoffe per le decorazioni del palco, lui si offrì di aiutarla a portarle, lei lo ringraziò, lui prese tutti i rotoli di stoffa e li portò agli operai. Fine della storia. 
«Il topo è stato uno spettacolo più esaltante» sussurrò Porthos a denti stretti. 
Madame Bonacieux era rimasta impalata in mezzo alla piazza, con il capo chino, come se il ciottolato bianco fosse lo spettacolo più interessante del mondo.  
Quando d’Artagnan ricomparve, lei salutò tutti loro da lontano e tornò per la sua strada.
Sì, il topo era stato uno spettacolo più esaltante.
Durante l’ora successiva, d’Artagnan si chiuse in un mutismo impenetrabile e i minuti ripresero a scorrere con mortale lentezza.
«Cos’è oggi, la giornata delle visite coniugali?» disse Porthos, notando altre due donne che si avvicinavano.
Una era la nipote di Treville, l’altra una ragazza sua coetanea, molto bella, con grandi occhi scuri e capelli biondi che spuntavano in onde dorate da sotto il cappuccio della mantella. 
«Mademoiselle Diane, quale impareggiabile fortuna» disse Aramis.
«Siete venuta a sabotare i lavori, vero? Farete esplodere tutto, vero?». Porthos lo disse con così tanta convinzione che per un attimo la giovane parve prenderlo sul serio.
«Ho solo accompagnato la mia amica Marie a trovare una sua conoscenza».
La ragazza bionda passò in rassegna con lo sguardo i moschettieri. «È un tale onore conoscervi, messieurs» trillò. Arpionò il braccio di Aramis e sfoderò un sorriso da un orecchio all’altro, stava per dire qualcosa, ma una voce la chiamò con durezza.
«Marie! Cosa stai facendo?».
La ragazza strizzò gli occhi e li riaprì, come se fosse stata svegliata bruscamente, si allontanò dai moschettieri è svolazzò verso l’uomo del conte Legrand, Jean-Pierre, che dall’altro lato della piazza guardava torvo Aramis per aver avuto l’ardire di farsi toccare da quella che era certamente la sua amante.
Marie e Jean-Pierre si abbracciarono e si scambiarono un bacio lungo e profondo. Più lungo e profondo di quanto la buona creanza suggerisse.
Diane e i moschettieri rimasero tanto sorpresi da restare per un attimo imbambolati a guardare quella la scena del tutto fuori luogo.
«Qualcuno dovrà ricordare loro di respirare» bisbigliò Porthos.  
«Vuoi farlo tu?» replicò Athos. L’altro alzò le mani e scosse la testa.
I due graziosi amanti si staccarono, si presero a braccetto e sparirono dietro l’angolo di un edificio.
Diane era basita. «Io vi chiedo scusa per la mia amica. Lei è, be’, ha i suoi pregi, ecco».
«Dove l’avete trovata?»
«Dividiamo l’affitto»
«Dev’essere una vita avventurosa, la vostra» scherzò Aramis.
«Più avventurosa della nostra, di sicuro» aggiunse Porthos. Strabuzzò gli occhi e si aggiustò la bandana sotto al cappello. «Non avete freddo, mademoiselle?».
Diane chiuse gli occhi e scosse la testa, in un’espressione che sembrava dire “non chiedete”.
Nel mentre, d’Artagnan era rimasto in disparte, appoggiato con la schiena al muro e le braccia incrociate sul petto.
«State bene?» gli chiese Diane, tra il perplesso e il preoccupato.
Lui dondolò il capo. «Io? Sì, benissimo».
«Problemi di cuore» fece Porthos, battendosi l’indice al centro del petto.
D’Artagnan alzò gli occhi al cielo, infastidito che gli affari suoi venissero messi in piazza con tanta facilità.
«Devo chiedere a Marie se ha un’amica?… No, pensandoci forse è meglio di no».   
Il ragazzo si degnò di fare un mezzo sorriso alla nipote del capitano.
«Quand’è l’inaugurazione? Non ricordo» domandò Diane.
«Domani» le rispose Athos.
«Grazie a Dio». Aramis raccolse in tre parole il pensiero di tutti.
Si udirono dei suoni in lontananza e Diane sussultò.
«Sembra che stia per venire a piovere»
«Erano settimane che si preparava un temporale. Meglio adesso che domani».
La nipote del capitano si chiuse la mantella fino al collo. «Lo dicevo io che mi sarebbe venuto un malanno» borbottò. «Scusate, è meglio che vada a cercare Marie per tornare a casa, non ho intenzione di farmi un bagno di pioggia»  
«Vi accompagno» si offrì Porthos.
«Grazie, non è necessario. Buona giornata, signori» concluse la ragazza. La videro sparire dietro l’angolo dove Marie si era allontanata con Jean-Pierre.
Aramis incrociò le braccia sul petto e sospirò spazientito. «Porthos, ti ho già detto: no!»
«Che c’è? Volevo solo accompagnarla!». Porthos aprì i palmi delle mani per sottolineare l’ovvietà delle sue buone intenzioni, poi si voltò verso Athos e d’Artagnan alla ricerca di supporto. Entrambi scossero la testa in un cenno negativo.
 
***
 
Aveva piovuto tutta la notte.
All’alba, Parigi risuonava dello sgocciolio dell’acqua gelida che colava dalle tettoie e dalle grondaie. Il sole pallido aveva riflessi argentei che ferivano la vista quando creavano un riverbero lucido sui ciottoli bagnati, sulla strada costellata di pozzanghere.
Passeggiando per le strade vuote, il bandito si sentiva come se la città fosse sua, libero di andare ovunque senza essere visto, libero di fare tutto senza che nessuno lo fermasse.
Bandito. Così lo avrebbero chiamato.
La pioggia aveva rovinato il tessuto damascato usato per decorare il palco. Ora la stoffa penzolava informe, appesantita, lungo il parapetto di legno.
Anche lì non c’era nessuno. I primi spettatori non avrebbero cominciato a radunarsi che tra qualche ora.
Dietro i tetti delle case, l’ultima sfumatura di cielo notturno si andava ritraendo per lasciare il posto a un cielo anemico e pesante.
Gli operai avevano riposto gli attrezzi sotto una tettoia, nei pressi del palco, forse per qualche emergenza o qualche aggiusto dell’ultimo minuto.
La gabbia con le colombe bianche era sotto un panno scuro, gli uccelli tubavano placidi nella loro prigione di vimini. Accanto, la struttura di cartapesta dentro la quale sarebbero stati sistemati sembrava una grossa zucca vuota.
Il bandito li guardò, loro lo fissarono di rimando con gli occhietti senza espressione, simili a minuscoli bottoni di opale.
«Mi dispiace, tortorelle».
Se gli uccelli avessero potuto sentire le sue parole, avrebbero capito che, dopotutto, era sincero.
 
***
 
I moschettieri avevano dovuto legare i cavalli al margine della piazza, la folla cominciava a renderli nervosi.
C’era davvero un sacco di gente che si stava radunando sotto al palco, malgrado il freddo pungente e malgrado il rischio di nuove piogge. Una platea degna di un’esecuzione capitale.
La costruzione dell’ospedale era uno spiraglio di luce per i poveri di Parigi, un’opera che aveva commosso la città e mandato in visibilio il re. Di certo, il conte Legrand si era aggiudicato il favore di tutti, la sua popolarità al momento sfidava persino quella dei sovrani - che non erano mai stati tanto amati come in quel periodo, ora che Anna d’Austria stava per dare un erede alla dinastia dei Borboni.
Il capitano Treville aveva mandato dei rinforzi e un piccolo drappello di moschettieri era schierato ai piedi del palco.
Athos e d’Artagnan passavano tra la folla senza che nessuno facesse caso a loro, stavano controllando il lato est della piazza. Porthos e Aramis stavano facendo lo stesso con il lato a ovest.
Come da copione, tutto era tranquillo anche se affollato.
«Se non succede niente neppure oggi, ho paura che Porthos si darà alle crudeltà sugli animali». D’Artagnan dovette alzare la voce per farsi sentire al di sopra del brusio della gente.
«Non ho alcuna fretta di veder succedere qualcosa, specie in mezzo a questa folla». Athos fu costretto a mantenersi il cappello sulla testa per impedire che gli volasse via. 
Oltrepassarono il muro di persone pigiate l’una accanto all’altra e sbucarono nello spazio vuoto ai lati del palco, separato dal resto della piazza da una fila di transenne di legno.
Lì trovarono Treville che osservava con sguardo attento la massa informe di persone, cercando di fiutare eventuali pericoli.
Non c’era nulla che apparisse fuori posto.
Mademoiselle Diane fece capolino dietro le spalle di suo zio e salutò con uno sventolio della mano i due moschettieri.
«Athos!». Il capitano gli fece cenno di avvicinarsi. «Restate nei pressi del palco, mi fido dei tuoi occhi. Io sarò là sopra, il re mi ha mandato come suo rappresentante».
Presenziare a eventi e svolgere altri compiti di natura tanto mondana non era qualcosa che Treville amasse fare. Probabilmente, se le condizioni di salute del cardinale non fossero state tanto pessime, ci sarebbe stato lui su quel palco.
Un moschettiere informò il capitano che era arrivata la carrozza del conte. Treville si allontanò, lanciando un ultimo sguardo di monito ad Athos. 
«Pensate che durerà molto?». Diane si era affiancata al moschettiere; guardava con scarso interesse il palco rovinato dalla pioggia. Coprì uno sbadiglio con la mano.
«Pensavo foste interessata all’inaugurazione»
«Non particolarmente, ho solo accompagnato mio zio. Stamattina sembrava dovesse andare a farsi cavare un dente»
«Vostro zio è un soldato, non un diplomatico. Al re piace dimenticarselo quando gli fa comodo».
Qualche metro più in là, d’Artagnan era impegnato a rispedire indietro qualche bimbetto che aveva scavalcato le transenne.
Finalmente, il conte, con il suo seguito, raggiunse il palco. La folla lo omaggiò con un applauso talmente fragoroso da far pensare a un nuovo temporale.
Un grosso braccio di legno teneva sospesa al centro del palco una sfera di cartapesta dalla quale sarebbero volate le colombe, a cerimonia ultimata - momento che non sarebbe arrivato mai abbastanza presto.
Il conte si avvicinò al parapetto e attese che l’applauso scemasse prima di cominciare a parlare, compiacendosi dell’ovazione ricevuta.
«Miei amati concittadini» esordì con il suo vocione cavernoso.
Legrand era un uomo imponente, con un grosso naso aquilino. Sul capo calvo portava una parrucca di corti capelli scuri che stonava con il viso da uomo di mezz’età, segnato da rughe marcate.
«Miei amati concittadini. Sua maestà il re è stato tanto generoso da definire questo ospedale un regalo da parte mia alla città, ma io ritengo che il vero dono siano le vite che questo luogo riuscirà a salvare…».
Il discorso, come era prevedibile, si rivelò uno sproloquio lunghissimo infarcito di retorica e falsa modestia, ma la gente sembrava ammirata. Forse non tutti riuscivano a seguire il linguaggio pomposo del conte, ma lo ascoltavano in religioso silenzio, con i nasi all’insù e lo sguardo fisso. Nessuno osava muoversi.
«Un incantatore di folle, non c’è che dire» bisbigliò Diane.
«Temo stiamo tutti dormendo in piedi»
«Mio Dio, avete fatto del sarcasmo? Voi?».
Athos replicò con un sorriso troppo simile a una smorfia. Ci mancava solo che la nipote di Treville si mettesse a fare del sarcasmo sul suo sarcasmo.
Diane cercò di intercettare lo sguardo di suo zio ma il capitano era impegnato a fingersi concentrato e interessato al discorso di Legrand.
«… ed è per questo, Parigi, che sono lieto di presentarti l’ospedale di Saint-Michel».
Grazie a Dio! Il discorso sembrava aver trovato la sua conclusione. Il conte aveva ringraziato i presenti, la folla e le maestranze che erano con lui su quel palco e ora si accingeva ad aprire la sfera di cartapesta e far volare le colombe.
Afferrò il nastro che teneva chiusa la sfera, lo strattonò con forza e la cartapesta si spaccò, ma non ci fu nessuna colomba bianca a spiccare il volo in segno di buon augurio.
Prima che la piazza esplodesse in un boato di grida ci fu un ultimo istante di silenzio perfetto.
Dal contenitore spezzato caddero brandelli di carne morta e piume chiazzate di rosso e un generoso rivolo di sangue che andò a inzaccherare la testa e le spalle di Legrand. Sul suo viso divenuto una maschera color porpora spiccavano gli occhi, spalancati e atterriti, fissi nel contemplare quello scempio.
La folla gridò per l’orrore e l’urlo sembrò smuovere persino le nubi in cielo.
Che orribile scherzo macabro era mai quello?
Athos si voltò verso Diane.
Le grida di centinaia di persone perforavano i timpani, ma la ragazza non stava gridando, o meglio, non stava emettendo alcun suono, aveva le labbra spalancate nell’atto di urlare ma la sorpresa l’aveva resa muta. Si coprì la bocca con la mano e restò impietrita a guardare il capitano Treville che trascinava via il conte ancora troppo scioccato per avere una qualche reazione visibile.
La folla impazzì. Tutti presero a correre via, scontrandosi tra loro, qualcuno invocando Dio qualcun altro tirando in ballo il diavolo o le streghe e gli zingari e gli ebrei, e gli ugonotti…
Madri trascinavano via i bambini, un gruppo di suore si fermò in mezzo a quel caos e prese a pregare e a segnarsi ripetutamente.
Il moschettiere afferrò Diane per un braccio e la portò nel punto più lontano dalle transenne, a ridosso della facciata dell’ospedale. «Andate via di qui!» le gridò a un palmo dal naso. Il fracasso rendeva le sue parole appena udibili.
La ragazza guardò con occhi sbarrati la piazza e la bolgia che era diventata. «E dove mi suggerite di andare?» sbraitò.
Athos la spinse contro le palizzate che sorreggevano il palco. «Non muovetevi da qui» le intimò. «Per nessuna ragione…».  
La frase finì soffocata da un altro grido. Un singolo strillo violento e acuto che veniva dal retro del palco. Athos e Diane lo udirono a stento in mezzo al frastuono della gente che si allontanava nella direzione opposta.
Dove diamine era finito d’Artagnan? Dov’erano tutti?
Athos non aveva tempo di aspettare i suoi compagni. Non poteva attraversare la piazza e non c’era modo di aggirare il palco, l’unica maniera per passare era andare a carponi sotto alla struttura di legno alta poco meno di un metro.
Si chinò e si infilò in quel la labirinto di pali e travi, strisciando sulle ginocchia.
Avvertì un fruscio dietro di sé, la sensazione di movimento. Si voltò e andò a sbattere con la testa contro le assi del palco sopra di sé.
«Cosa state facendo, esattamente, Diane?» borbottò, massaggiandosi il punto in cui aveva urtato.
«Io non ci resto lì fuori da sola». La ragazza sembrava risoluta e lui non aveva tempo di farle cambiare idea.
Strisciare sotto al palco si rivelò più difficile del previsto. C’erano passaggi molto stretti tra una trave e l’altra e spesso l’elsa della spada di Athos andava impigliandosi nei pilastri verticali che sorreggevano le assi.
Il sudore gli colava dalla fronte quando spuntarono dall’altro lato. La gonna della giovane era strappata in più punti e lercia di terra e polvere. Quello che trovarono fu anche peggio dello spettacolo di poco prima.
Marie, l’affascinante coinquilina di Diane, era sull’uscio del capanno montato a ridosso del muro esterno dell’ospedale, gli operai lo avevano usato in quei giorni per riporre gli attrezzi. Era stata la ragazza a gridare e continuava a farlo, solo che non le era rimasta più voce e i suoi strilli erano ormai simili a squittii.
Marie guardava terrorizzata l’interno del capanno, bianca come un lenzuolo. Diane si precipitò verso di lei prima che Athos potesse fermarla e l’abbracciò, coprendole gli occhi per proteggerla da qualsiasi cosa stesse guardando.
Non che servisse un grosso sforzo di immaginazione, comunque, per indovinare in cosa si fosse imbattuta la ragazza.
Athos si parò tra le due giovani e la porta del capanno e guardò dentro. Il cadavere era appoggiato con le spalle contro la parete, sistemato come se fosse seduto, le mani mollemente ricadute in grembo, sul fianco sinistro la ferita che lo aveva ucciso aveva smesso di sanguinare probabilmente perché non c’era rimasta una sola goccia di sangue in quel corpo, era tutto in un lago porpora in terra. 
Il primo sciocco pensiero che attraversò la mente di Athos fu: “ora Porthos sarà contento”. A seguire vennero una serie di imprecazioni che un tempo avrebbero fatto impallidire il suo precettore al solo immaginarle.
«Marie, calmati. Sei ferita?». Diane scosse per le spalle la sua amica, ma lei non accennava a riprendersi, continuava a urlare ormai viola in viso, con quella voce strozzata.
Diane la guardò con attenzione, poi le tirò un forte schiaffo che per poco non la mandò in terra. Come per magia, un attimo dopo, la ragazza sembrò tornare cosciente del mondo attorno a sé, della sua amica e di quello che era successo.
«Io… io…» pigolò. «… l’ho trovato qui, stavo aspettando Jean-Pierre».
«Non ti preoccupare, Marie, è tutto finito, ti porto via».
Forse non fu un pensiero molto cavalleresco, ma Athos si sentì profondamente grato quando, un attimo dopo, Marie ebbe il buon senso di svenire.
 
 

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Capitolo 4
*** Una visita all'obitorio ***


III
Una visita all’obitorio
 
 
In confronto al caos che ancora regnava per le strade, il cortile della guarnigione sembrava un posto quanto mai sereno e tranquillo.
Una volta dispersa la folla e ripristinato l’ordine nella piazza, la notizia di ciò che era accaduto durante l’inaugurazione aveva cominciato a spargersi per le vie della città. L’eco del macabro avvenimento si era diffusa, rimbalzando in mille resoconti distorti e ingigantiti che diventavano sempre più coloriti e fantasiosi ogni volta che una voce nuova li raccontava a orecchie ignare.
Parigi avrebbe parlato di quella storia per settimane, forse mesi.
La notizia dell’omicidio scoperto nel capanno degli attrezzi, quella ancora non era stata resa pubblica. Per adesso ne erano al corrente solo Athos e i suoi compagni e, naturalmente, gli uomini del conte che avevano aiutato a spostare il corpo.
D’Artagnan e gli altri avevano impiegato un’infinità di tempo a ritrovarlo in mezzo al delirio generale. Ai loro occhi lo spettacolo doveva essere sembrato al quanto grottesco: un morto, una ragazza svenuta e un’altra ragazza impossibile da tenere ferma.
Diane era turbata, ma aveva sopportato la vista del cadavere con una calma inaspettata. Aveva affidato la sua amica alle cure di Jean-Pierre ed era rimasta lì, dicendo che non se ne sarebbe andata fino a quando non fosse stata sicura che suo zio stesse bene. Inutili erano stati i tentativi dei moschettieri di convincerla che il capitano stava certamente meglio di tutti loro e l’unico motivo per cui non lo avevano ancora visto era perché, come minimo, aveva dovuto occuparsi di riportare a casa il conte Legrand.
Questo, in breve, era il motivo per cui la ragazza si trovava ora in sella con Athos, arpionata alle sue spalle come se un colpo di vento bastasse a disarcionarla. 
«Vi sto facendo male?» chiese, oscillando un poco dietro al moschettiere e stringendo ancora di più la presa.
«No» mentì Athos.
«I cavalli mi fanno paura. Mi fanno sentire… instabile» 
«Non lo avrei mai detto, considerando il sangue freddo che avete mostrato poc’anzi»
«Ci credereste? Nel collegio del convento dove sono cresciuta, ci mandavano in punizione ad assistere il monaco nella camera mortuaria»
«E voi finivate in punizione spesso?».
Diane alzò gli occhi al cielo e non rispose.
Al loro arrivo il cortile della guarnigione era quasi deserto.
I cavalli si fermarono docili, frustando l’aria con le code lunghe e sbuffando fumo nell’aria pungente.
«E adesso?». La nipote del capitano guardò in basso, valutando la distanza tra la sella e il suolo. Le probabilità che si rompesse una gamba tentando di smontare erano alte. Una tragedia nella tragedia.
Porthos si avvicinò e le tese le braccia. «Vi tengo io» le assicurò.
Diane gli lanciò un’occhiata grata e si lasciò cadere di lato, a peso morto, serrando le palpebre. Porthos l’afferrò come un sacco di patate, gonfiando le guance per lo sforzo inatteso. 
«Vi dirò, mi eravate sembrata più aggraziata» ammise, bonario.
Diane aprì un occhio solo per guardarlo male, prima che la depositasse a terra. Era sporca di polvere, con l’acconciatura spettinata e l’abito logoro: sembrava uno spaventapasseri.
Lo stalliere arrivò a portare via i cavalli.
I moschettieri si mossero in contemporanea verso il tavolo ai piedi delle scale. C’era un omicidio di cui discutere.
«È bello come dall’oggi al domani spuntino pazzi sanguinari» disse Porthos. Non sembrava più tanto convinto che una vita movimentata fosse meglio dell’inattività dei giorni passati.
«Per me, di pazzi sanguinari ce n’è più di uno». Aramis tamburellò le dita sul legno liso del tavolo e pensò alla maniera migliore di esporre la sua teoria. Gli piacevano, le teorie; doveva averci pensato a lungo durante tutto il tragitto e la sua mente affilata quanto la sua spada doveva essere giunta a qualche brillante intuizione. «Voglio dire, quello che ha macellato le colombe non è lo stesso che ha ucciso il nostro amico sconosciuto».
Era un’ipotesi che aveva un suo senso, anche perché lo scherzetto delle colombe doveva essere stato orchestrato prima che arrivasse gente, molto presto quella mattina e di certo chi l’aveva realizzato non era stato tanto sciocco da rimanere nei paraggi. L’omicidio era molto più recente, il cadavere era ancora caldo e non rigido quando lo avevano trovato, e questo malgrado facesse freddo e avesse perso moltissimo sangue.
«Il fatto che siano successi in momenti diversi non vuol dire che siano stati commessi da persone diverse» osservò d’Artagnan.
«Non è tanto una questione di tempo» precisò Aramis. «È che sono due cose che, a parer mio, non hanno proprio niente a che vedere l’una con l’altra»
«Le colombe erano un messaggio, una cosa pensata perché tutti vedessero» indovinò Athos. «L’omicidio era un omicidio e basta e, almeno nei progetti di chi l’ha compiuto, doveva rimanere nascosto»
«Che tipo di messaggio? E se sono due cose distinte, da dove cominciamo?» fece Porthos. Valide domande.
«Il conte Legrand ora sarà dal re a farsi saltare le coronarie». D’Artagnan si sporse in avanti sul piano del tavolo. «Ma lì fuori ci sarà la famiglia di quell’uomo che lo cerca e che vorrà giustizia»
«Mi piacciono i giovani che riconoscono quali sono le priorità». La voce di mademoiselle Diane piovve in mezzo a loro, inaspettata. Era rimasta lì tutto il tempo ad ascoltare?
La ragazza si sollevò la gonna per scavalcare la panca e mettersi a sedere tra Porthos e Aramis. Si era sciolta i capelli, risistemandoseli in una coda e si era ripulita alla meno peggio ma seguitava a sembrare uno spaventapasseri.  
«A voi serve qualcuno che vi accompagni a casa». Aramis le posò una mano sulla spalla e cercò con lo sguardo qualche cadetto scansafatiche a cui affidare la nipote del capitano.
«Non voglio tornare a casa, a casa c’è Marie in preda all’isteria, non siate crudeli»
«La vostra amica ha trovato un cadavere» ricordò d’Artagnan.
«Ma mademoiselle è stata allevata in un obitorio». Athos scrollò le spalle. Stavano solo speculando, se Diane ci teneva tanto a intromettersi meglio non perder tempo a cercare di dissuaderla. Al suo ritorno, avrebbe pensato Treville a mettere a posto la nipote.
«A proposito di obitorio, non è lì che dovremmo essere? A tentare di scoprire chi è, chi era, il nostro amico accoltellato?» disse Aramis.
Diane sembrò approvare. «All’obitorio ci si arriva a piedi, vero?».
 
***

 
Quella era un’altra cosa che aveva dimenticato. Il freddo tutto peculiare delle camere mortuarie che poi non erano altro che cantine e seminterrati dove la frescura potesse conservare meglio i corpi. Aveva dimenticato anche l’odore appiccicoso e penetrante che emana dai cadaveri.
Si sollevò un lembo della mantella a coprirsi il naso e la bocca.
La storia era vera. Assistere il monaco che si occupava dell’obitorio del convento era una punizione per le allieve troppo vivaci. Da ragazzina, Diane ne era stata terrorizzata, aveva impiegato tempo a capire che guardare un po’ più da vicino avrebbe reso quei corpi pallidi meno spaventosi, gusci vuoti che non potevano farle male anche se la disgustavano. Solo dopo qualche anno però, aveva imparato a trasformare quelle ore di penombra in qualcosa di istruttivo.
Non aveva grandi conoscenze di medicina - non era il tipo di cose che si insegnava a una ragazza di buona famiglia in un rinomato collegio romano - ma aveva imparato una manciata di nozioni interessanti nell’ascoltare il monaco che si occupava dei morti e nel leggere di nascosto le sue note.
Aveva combattuto la paura con la curiosità e, in parte, l’aveva vinta.
Il disgusto le era rimasto, non tanto per i cadaveri, ma per l’idea della morte in sé, così come per la violenza raccontata da lividi e ferite sulla pelle bianca delle salme.
I morti sono tutti uguali, diceva il suo amico Sebastiano, che sotto la tunica da monaco nascondeva il passato e i ricordi di un soldato. Diane pensava che non fosse vero: quelli che morivano nella violenza e per cause ingiuste erano diversi, era come se i loro corpi senza vita continuassero a gridare un dolore muto, come piante strappate.
Sentì una mano che le si posava piano sulla schiena. Alzò gli occhi per incontrare lo sguardo di Aramis, fermo e gentile.
Il moschettiere doveva aver scambiato il suo essere soprappensiero per scoramento.
«Rammentatemi, Diane, perché vi abbiamo portato con noi?» sussurrò, la voce bassa e rispettosa di chi prende la morte molto sul serio.
«Sono la nipote del capitano, posso permettermi di fare i capricci»
«Questo si chiama abuso di potere, lo sapete»
«Non posso negare che sia divertente». O anche no, a giudicare dal posto in cui si trovavano.
Il medico di turno, un uomo di mezza età, con una chierica di capelli bianchi e lanosi, si pulì le mani sul camice di cuoio simile a quello di un macellaio e guardò con una certa esitazione la ragazza che accompagnava i moschettieri. Athos gli disse brevemente cosa stavano cercando.
Il banco con gli attrezzi per le autopsie odorava di ruggine e sangue rappreso. La luce filtrava in lame polverose dalle strette finestre.
Il medico fece strada attraverso una fila di tavoli vuoti, fino al piano dove stava l’uomo trovato quella mattina. Sollevò il lenzuolo di tela ruvida che lo copriva e Diane provò un sentore di disagio alla vista del cadavere, lo stesso che aveva nascosto così bene quando lei e Athos lo avevano trovato.
Il volto e il collo dell’uomo erano puntellati di lividi. «È stato picchiato, prima di essere ucciso». La ragazza si sentì in dovere di rimarcare l’ovvio, togliendo la parola al medico che stava per illustrare quello che aveva scoperto - anche se c’era ben poco da scoprire, l’uomo era morto per la ferita al fianco, a parte quella e i lividi non c’era altro.
Aramis posò una mano guantata sulla faccia del cadavere. I lividi corrispondevano alla posizione delle dita, sul mento, sulla gola e attorno alla bocca.
«Non lo hanno picchiato, lo hanno trattenuto per zittirlo» osservò.
«E sappiamo che è stato ucciso nel capanno, il sangue era tutto lì» aggiunse Athos.
«Tutta l’area attorno al palco era praticamente murata, non sono molte le persone che possono aver avuto accesso a quel capanno» disse d’Artagnan.
«Gli operai, gli uomini del conte… noi moschettieri» enumerò Porthos.
«Marie si è trovata lì perché doveva vedersi con Jean-Pierre» ricordò Diane.
«Allora questo Jean-Pierre possiamo escluderlo. Dubito che avrebbe dato appuntamento alla sua amica in un capanno dove aveva nascosto un cadavere».
Quell’uomo morto stava gridando con la sua voce silenziosa. E loro non potevano udirlo, né capire per mano di chi avesse incontrato la sua fine.
I moschettieri si misero a cercare tra gli effetti personali dello sconosciuto, ma non c’era alcun indizio rilevante. Tutto quello che si era lasciato dietro era un ammasso di vestiti consunti e una borsa di cuoio con dentro un fazzoletto sporco e un pezzo di pane raffermo avvolto in un panno ingiallito.
«Dobbiamo scoprire chi è, se lo scopriamo potremmo almeno tentare di risalire al motivo dell’uccisione» disse d’Artagnan.
Qualcuno lassù sembrò averlo udito.
«State qui, bambini» disse una vocina tremula, dall’ingresso.
Una donna magra e smunta entrò con passo esitante nell’obitorio. In fondo alle scale; sotto l’arco che immetteva nel seminterrato aveva lasciato una bambina sui tre anni e un bambino sui cinque. Ogni due o tre passi si voltava per assicurarsi che rimanessero fermi dove aveva detto loro di stare.
Roma, Parigi, qualsiasi posto nel mondo non aveva importanza, la povertà aveva sempre la stessa faccia e lo stesso odore.
La donna si portò le mani al petto, come se il cuore potesse schizzarle via da un momento all’altro e si avvicinò al medico, tenendo ostentatamente lo sguardo lontano dal tavolo con il cadavere.
«Io… sto cercando mio marito» sussurrò. Il pianto già le chiudeva la gola.
«Strano» bisbigliò Porthos. «Di solito una il marito lo va a cercare prima alla locanda, poi al bordello, poi sotto le gonne della vicina, l’obitorio è proprio l’ultimo posto».
Aveva ragione. L’uomo era sparito da mezza mattinata e già venivano a reclamarlo tra i morti, prima di cercarlo in qualsiasi altro luogo.
I quattro soldati e la ragazza si allontanarono dal corpo e rimasero rispettosamente a distanza.
Diane non riusciva a fare a meno di voltarsi continuamente a guardare verso i bambini, fermi sull’ultimo gradino della scala, con gli occhi smarriti che fissavano la penombra.
«Robert!». L’urlo della donna sembrò conficcarsi nei muri e aprire crepe nell’intonaco gonfio di umidità.
Diane sentì il pizzicare molesto delle lacrime. Sarebbe stata una ben misera figura mettersi a piangere dopo aver pestato i piedi in terra per convincere i moschettieri a portarla con loro.
Il lutto era in qualche modo uno spettacolo peggiore della morte. Un defunto riposa, quelli che si lascia dietro soffrono e piangono. Non c’era niente che si potesse dire a quella donna, accasciata ai piedi del tavolo.
«Dovremmo farle qualche domanda» disse Porthos.
«Non adesso».
Attesero che la donna smettesse di piangere. Si rimise in piedi e si sistemò la veste e la cuffia di lino sui capelli, si pulì il viso dalle lacrime con il dorso della mano e si atteggiò in un’espressione di fermezza nel modo più tranquillo che le riuscì. Era una madre, doveva tornare dai suoi figli e dire loro che il padre era morto.
I moschettieri si scambiarono un’occhiata, fecero nello stesso momento un passo verso la donna. Diane restò indietro un istante, il suo cervello, i suoi pensieri, non erano ancora allenati a quella danza di complicità che coordinava le azioni e le idee dei quattro uomini, rendendoli capaci di comprendersi senza parlare.  
In quella loro squadra così ben orchestrata, lei era solo un intruso.
«Mi dispiace importunarvi in un simile momento, madame, ma dobbiamo farvi qualche domanda su vostro marito» esordì Aramis, stringendosi il cappello al petto.
«Siete moschettieri» disse lei, ancora un po’ intontita.
«Sì, signora. Siamo stati noi a trovare vostro marito e saremo noi che gli faremo giustizia, se ci aiutate».
La donna li guardò poco convinta, “giustizia” doveva sembrarle una parola così vuota.
Scrollò le spalle magre. «Aiutarvi, io?»
«Chi avrebbe fatto del male a vostro marito?»
«Nessuno». La risposta fu troppo brusca e rapida.
«Lo abbiamo trovato sul retro del palco, all’inaugurazione dell’ospedale, in un punto in cui nessuno sarebbe potuto passare» insistette Athos. «Cosa ci faceva lì? Doveva vedersi con qualcuno?».
La donna scosse il capo con un movimento rigido. «No. Nessuno» ripeté. «Ora, vi prego, devo portare i miei figli via da qui».
I moschettieri sembrarono sul punto di trattenerla, ma Diane alzò il braccio tra loro e la donna.
«Non vi parlerà» disse, quando la vedova era già accanto all’uscita. «Ha paura».
«Di chi?»
«A occhio e croce, di quelli che hanno ucciso suo marito, direi».
Porthos aprì le braccia in un cenno di protesta. «E la lasciamo andare via così?».
Aramis arricciò le labbra. «Per adesso».
 
Fuori da lì, il freddo era di tutt’altra natura. Era un freddo secco che asciugava le labbra e inumidiva gli occhi.
Nessuno parlò troppo mentre tornavano alla guarnigione.
Il vento aveva spazzato via le nuvole. Ora Parigi risplendeva di un sole pigro che asciugava a poco a poco le pozzanghere sparse come ferite tra le vie della città. La luce sembrava stonare con la piega cupa che avevano preso gli eventi.
Il capitano Treville non era rientrato e Diane era più che mai decisa ad aspettarlo, voleva sapere cosa ne era stato del conte e se la notizia degli avvenimenti di quella mattina aveva già raggiunto la corte.
Seguì i quattro soldati nella mensa, al pian terreno della caserma.
La guarnigione dei moschettieri aveva l’aria di una casa vecchia che trattiene i segni del passaggio di tutti quelli che l’hanno abitata. Con le sue mura ingiallite e le strutture di legno annerito, riusciva a sembrare accogliente, non un presidio militare ma il riparo di una grande famiglia. Pur con i suoi caotici frequentatori, la vita in quel posto scorreva con meccanismi precisi, come un efficientissimo orologio.
Diane si sedette con Athos e i suoi compagni all’unico tavolo libero, accanto a una finestra. Il camino acceso diffondeva un tepore piacevole eppure il freddo rimaneva incollato addosso.
Serge servì ciotole di zuppa e una caraffa di birra leggera. Posò un piatto fumante anche davanti a Diane che lo allontanò, scuotendo la testa.
«Grazie, non ho appetito».
Il vecchio attendente le cacciò in mano un cucchiaio. «Non sia mai detto che faccio morire di fame la nipote del capitano» gracchiò. E restò a fissare la ragazza con aria torva, fino a quando lei non mandò giù qualche boccone.
«Avanti di questo passo daranno un’uniforme e un moschetto anche a voi» disse d’Artagnan. 
«Ho ambizioni assai più modeste, a dire il vero». Diane rimescolò la zuppa densa con la punta del cucchiaio.
«Cosa fate per vivere? A parte interessarvi di omicidi, intendo» fece Aramis.
«La ricamatrice. E ho una piccola rendita grazie all’eredità di mio padre. Non mi lamento».
La sala era piena del vociare allegro degli altri moschettieri, del tintinnio di stoviglie, posate e bicchieri. Fastidioso: non si riusciva a pensare, inoltre quei quattro sembravano aver voglia di socializzare. 
«Vostro padre non era un duca?» chiese Porthos, versandole un po’ di birra.
«No. Suo fratello lo è. Il cardinale riuscì a fargli avere il titolo perché potesse andare a Roma come ambasciatore, ma la famiglia Leroux non appartiene alla nobiltà, anche se mio padre era benestante, possedeva un’impresa di costruzioni».
La mensa cominciò a svuotarsi. Un gruppo di moschettieri uscì ciarlando e dalla porta aperta entrò uno spiffero che fece dondolare le fiamme nelle lampade.
Il capitano Treville arrivò poco dopo, con aria grave.
«Mi è stato detto che avete trovato un uomo assassinato» disse, fermandosi accanto al tavolo. «Gli uomini del conte sono venuti a riferire la notizia mentre eravamo a corte, Legrand ha avuto una reazione vagamente isterica a tutta la questione e il re gli ha promesso un’indagine approfond- tu che cosa fai qui?». Il capitano, preso dall’urgenza del suo discorso, aveva realizzato in ritardo che c’era una testa di troppo a quel tavolo e che si trattava della testa adorna di ricci castani di sua nipote.
«Ti stavo aspettando, ero in pensiero» rispose Diane in tono ovvio. Treville la guardò con una punta di disapprovazione, poi decise di ignorarla per riprendere il suo resoconto.
«Il re ha promesso a Legrand un’indagine approfondita. Io vorrei vedere presto in manicomio il pazzo che ha messo in piedi questa giostra»
«Siamo già stati all’obitorio, abbiamo rintracciato la vedova dell’uomo ucciso e torneremo a parlarle quanto prima» riferì Athos. «Ma pensiamo che lo scherzo delle colombe e l’omicidio dell’uomo non siano connessi. Naturalmente, per ora sono solo ipotesi»
«Spero che vi sbagliate, non mi piace l’idea che ci sia in giro un pazzo e un omicida» concluse Treville. «E tu, Diane, torna a casa, santo cielo».
Per fortuna, i moschettieri trovarono saggio non menzionare il fatto che la ragazza avesse partecipato alle ricerche di quella mattina. Evidentemente temevano la reazione del loro capitano più di quanto lei temesse quella di suo zio.
Diane si alzò e indossò la mantella.
«D’Artagnan, accompagnala» ordinò Treville, colto da un improvviso eccesso di premura. Parigi doveva apparire a tutti un luogo molto più spaventoso, quel giorno.
Il giovane moschettiere si affrettò a raggiungere la ragazza. Sulla porta, lei si voltò e fece agli altri tre un cenno di saluto e un sorrisetto complice.
Nel primo pomeriggio le vie erano quasi del tutto deserte, le piazze sporche dopo che le bancarelle dei vari mercati erano state smontate e i venditori avevano lasciato dietro di sé i loro rifiuti, alla mercé di mendicanti, topi e cani randagi.
La strada era scivolosa per il fango e d’Artagnan offrì il braccio a Diane. «Avete davvero intenzione di farvi coinvolgere in questa faccenda?» le chiese.
«Lo dite come se lo trovassi divertente»
«No, non divertente. Intrigante, forse?»
«Sono una persona curiosa che si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato» disse Diane. «Magari a voi sembrerà il capriccio di una ragazza annoiata, ma ho trascorso un bel po’ di tempo a fare praticamente la reclusa, sono tornata a Parigi aspirando a una vita in cui avere occasione di mettermi alla prova, per quel che mi è concesso»
«Non vi giudico una ragazza annoiata, siete più intelligente di così»
«Oh, ecco che arrivano le lusinghe! Ho sentito voci sulla galanteria dei moschettieri».
D’Artagnan rise e Diane lo imitò. Era piacevole trovare un momento per la leggerezza, dopo una giornata tanto assurda.
Attraversarono un arco che immetteva su una piazza contornata da qualche bassa palazzina. Il giovane si fermò di colpo, indugiando con lo sguardo su una casa a due piani, nell’angolo più remoto della piazza, davanti alla quale sventolavano grandi stesi ad asciugare.
Diane non fece domande, ma quando si voltarono per imboccare il vicolo, si trovarono faccia a faccia con una donna con lunghi capelli fulvi acconciati con nastri e perline. Sembrava che fosse ferma lì a osservarli da un po’.
«Constance…». La voce di d’Artagnan si spense mentre pronunciava quel nome.
La donna lo fissò per qualche istante, le sue labbra si schiusero come se volesse dire qualcosa ma restò zitta. Guardò Diane e poi tornò a guardare in viso d’Artagnan con l’aria dura e penetrante di una persona ferita.
«Monsieur, mademoiselle» salutò, sollevando appena l’orlo della veste in un’accenno di inchino morto sul nascere.
«Madame Bonacieux» replicò d’Artagnan, ostentando un tono freddo e innaturale.
Diane ebbe l’impressione che fosse il caso di tacere e rivolse alla donna un vago cenno col capo.
Sorpassarono la sconosciuta e imboccarono il vicolo.
«Non ditemelo: il vostro problema di cuore» disse Diane.
«Avete indovinato». Il ragazzo parlò con voce secca, a lasciar intendere che non aveva alcuna intenzione di veder sollevato l’argomento.
L’aveva chiamata “madame”, quindi si trattava di una donna sposata. Tanto bastava a chiarire la delicatezza della faccenda.
Il moschettiere lasciò Diane davanti a casa sua.
«Rassicurate mio zio che sono arrivata sana e salva e che intendo rimanere al sicuro dietro questa porta» disse lei.
D’Artagnan la guardò come se gli riuscisse difficile crederlo. «Ho idea che ci rivedremo molto presto, mademoiselle»
«Ho promesso a mio zio che sarei venuta a trovarlo tutti i giorni, alla guarnigione» replicò la ragazza a mo’ di scusa.
D’Artagnan le sorrise, prima di andare via.

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Capitolo 5
*** Una ragazza curiosa ***


IV
Una ragazza curiosa

 
 
Il camposanto era uno sputo di terra fangosa e molle, con radi ciuffi di erba coperta di brina. Le croci di legno spuntavano in file disordinate, come piante selvatiche. Non c’erano nomi né fiori.
Da qualche parte, in lontananza, qualcuno stava scavando una fossa e il rumore graffiante delle vanghe copriva le parole del prete che stava officiando la sepoltura in un angolo, vicino a un albero spoglio e contorto.
La bara nella fossa era di nudo legno chiaro. Attorno poche persone dagli abiti smessi e la donna con i suoi due bambini.
La moglie di Robert Bourell, questo il nome del disgraziato trovato morto il giorno dell’inaugurazione, portava uno scialle nero sulle spalle magre e nascondeva colpi di tosse e singhiozzi in un fazzoletto stinto. Attaccati alla sua gonna, i figli stavano con il capo chino e il naso gocciolante.
«Requiem aeternam dona eis Domine…». La preghiera di rito si alzò in un mormorio lagnoso dalle bocche dei presenti.
Appoggiata al tronco dell’albero, mezza nascosta, Diane si unì a voce bassa all’orazione e fece il segno della croce mentre il piccolo coro di voci roche pronunciava un “amen” e la bara veniva calata nella fossa, in uno scricchiolio di legno e funi.
La vedova di Bourell lasciò i figli alle cure di un’altra donna che li portò via mentre i presenti si allontanavano. Il prete le si avvicinò, le mormorò qualche parola e poi seguì gli altri, lasciandola a guardare i becchini riempire la tomba di terra.
Diane ripensò al funerale dei suoi genitori. Il sole primaverile faceva splendere l’erba del camposanto e si rifletteva sul marmo lucido delle lapidi nuove. Suo zio le teneva la mano, la cicatrice accanto al suo occhio destro era fresca, uno sfregio assai più profondo e visibile di quanto lo fosse ora. Avevano entrambi gli occhi asciutti di lacrime.
 
«Perché sono morti?»
«Perché la vita è ingiusta»
 
Era stata la risposta facile e scontata di un uomo incapace di far fronte al dolore attonito di una ragazzina. Ma soprattutto, era stata una risposta incompleta.
Diane aveva pianto la morte dei suoi genitori più tardi, sulla nave che l’aveva portata in Italia, nella sfarzosa camera da letto che il fratello di suo padre aveva fatto preparare per lei, e ancora tra le lenzuola del dormitorio del collegio.
Si riscosse e fece appello a tutta la sua presenza di spirito per trovare il coraggio di avvicinarsi alla donna.
«Madame Bourell».
La vedova ebbe un sussulto, non l’aveva sentita mentre si avvicinava. Camminare senza far rumore era un’altra delle cose che Diane aveva appreso da ragazzina.  
 
«Quando riuscirai a prendermi alle spalle, smetterò di chiamarti “mocciosa”»
 
Non ci era mai riuscita, a prendere Sebastiano alle spalle.
Un altro ricordo, molesto e bruciante. La sua mente era piena di fantasmi, ombre che erano cresciute dentro di lei fino ad acquisire una loro fisionomia, parlavano con una lingua fatta di grida e strepiti, ogni parola era una sferzata.
Diane trattenne il respiro per un secondo e tornò al presente.
Madame Bourell corrugò la fronte. «Voi eravate con i moschettieri l’altro giorno».
«Vi porgo le mie condoglianze»
«Che siete venuta a fare qui?»
«Volevo solo dirvi che se aveste bisogno di aiuto…»
«Potete ridarmi mio marito, voi o i vostri amici con le pistole? No? allora non c’è niente che possiate fare».
Diane si morse il labbro. Attese qualche istante che la rabbia della donna sfumasse. «Non posso ridarvi vostro marito e restituire un padre ai vostri figli, ma i moschettieri possono aiutarvi a fare giustizia e se non dite loro quello che è successo, Robert sarà morto per niente»
«Nessuno muore mai per qualcosa, mademoiselle».
La giovane non seppe come replicare. «Avete un posto dove stare, ora?» chiese.
«Sono mesi che viviamo con mia sorella. Spero che suo marito non ci cacci». La vedova chiuse e riaprì gli occhi gonfi. Si strinse nella mantella e si voltò, decisa ad andarsene. 
Diane la seguì per qualche metro. «Il conte Legrand, c’entra lui, non è così?» le disse.
La donna si fermò di colpo. Quando si voltò a guardare la ragazza, aveva l’aria da belva ferita e in trappola, le si avvicinò e la spinse con un colpo brusco. «Non avete alcuna pietà per i miei figli?» urlò disperata, con gli occhi spalancati.
Il verso di una cornacchia fece da contrappunto a quel grido.
Diane sentì quelle parole ferirla come unghiate. Rimase ferma nello spazio tra due croci, con il vento che le spingeva la gonna dell’abito contro le gambe e le seccava le labbra.
Vide madame Bourell allontanarsi a passo svelto, somigliava all’albero sotto al quale era sepolto suo marito.
Non c’era niente da fare, ma forse quella visita al cimitero non era stata del tutto inutile.
Nel tragitto verso casa, i pensieri di Diane rifiutavano di mettersi in fila, di ricomporsi in disegni anche solo vagamente dotati di senso.
Aveva la sensazione di aver mosso il primo passo su una strada lunga e difficile, ma non riusciva a vedere cosa ci fosse avanti a sé, né riusciva a indovinare quale direzione avrebbe preso quel sentiero, l’orizzonte sprofondato nel buio.
Quando raggiunse la casa vide un cavallo dal pelo scuro legato vicino all’ingresso. Sul pomello della sella spiccava l’emblema del giglio di Francia.
La voce acuta di Marie, occupata a intrattenere il loro ospite, si sentiva fin dall’esterno. La sua bella coinquilina si era ripresa quasi subito dal trauma di tre giorni prima e, anzi, si sentiva molto fiera di se stessa e compiaciuta per il proprio coraggio - perché, nella felice visione che Marie aveva del mondo, vivere qualcosa di molto spiacevole faceva automaticamente di sé una persona con più fegato di quanto non ne avesse prima.
Il capitano Treville era seduto al tavolo ovale della cucina. Marie, in piedi davanti a lui cercava di farsi raccontare qualche bella storia di guerra, senza sapere che ai veri soldati non piace parlare di questo genere di cose e di certo non considerano bella nessuna delle loro storie.
«Zio!». Diane entrò nella stanza con l’incedere repentino del cavaliere arrivato a salvare la principessa dal drago. Nemmeno con un enorme sforzo di immaginazione si sarebbe potuto pensare al capitano dei moschettieri nelle vesti di una principessa, ma Marie sapeva senz’altro essere ingombrante quanto un drago.
«Diane, dove sei stata?»
«Al mercato»
«Non hai comprato niente»
«Spero che i venditori non si vengano a lagnare da te» disse la ragazza. «Marie, grazie per aver tenuto compagnia a mio zio. Saresti così gentile da lasciarci per qualche minuto?».
Marie si defilò, portando con sé il lavoro da cucito che aveva lasciato in mezzo al tavolo.
«Come mai qui?» chiese Diane a Treville, quando rimasero soli.
Il capitano fece vagare lentamente lo sguardo per la stanza, come se schierati contro le pareti ci fossero i suoi uomini nel giorno dell’ispezione.
«Volevo sapere come ti eri sistemata».
Diane sorrise. «Mi piace qui».
Treville lanciò un’occhiata scettica alla porta dalla quale era uscita Marie. «Se la uccidi mentre dorme, potrei farti assolvere»
«È una ragazza simpatica»
«Lo vedo. È la stessa ragazza che ha trovato l’uomo morto»
«Sei venuto per me o per interrogare lei?»
«Non mi ha saputo dire niente di interessante e volevo vedere come ti eri sistemata» disse Treville. «E qualche sera dovresti venire a cena a casa mia e raccontarmi cosa combini tutto il giorno»
«Da quando tu ceni a casa tua?» replicò la ragazza.
Il capitano sospirò senza rispondere.
Diane lo guardò con affetto. Treville doveva averne viste troppe in quegli anni per pensare a Parigi, e al mondo in generale, come un a posto sicuro, soprattutto per una giovane donna sola.    
Il capitano si alzò e si gettò la cappa azzurra di traverso sulla spalla. 
«Stai andando a palazzo?» chiese Diane. «Posso venire con te?»
«A fare cosa? Pensavo non ti trovassi a tuo agio»
«Ho ricamato il colletto del vestito, devo sfoggiarlo!»
«Indossalo in fretta, farò venire una carrozza».
 
***
 
«Gli animali non sono forse dotati di pelliccia?» disse il re, rivolto a nessuno in particolare tra i gentiluomini del suo seguito e i moschettieri che lo avevano scortato durante la battuta di caccia. «E allora perché mai si rintanano per il freddo?».
Il sovrano era scontento, non era riuscito a sparare nemmeno a un tordo quella mattina e, nella lista lunga e variegata di situazioni che mettevano di cattivo umore Luigi XIII, una caccia infruttuosa occupava di certo un posto di rilievo.
Malgrado l’aria pungente, il re aveva fatto allestire un gazebo al limitare del parco e lì si stava dirigendo, assetato di vino e di voglia di lagnarsi - almeno fino a quando non avesse trovato un altro motivo per cui affliggersi o rallegrarsi.
Si lasciò cadere seduto su una sedia tappezzata di velluto blu e scacciò il valletto che gli aveva porto un vassoio con frutta e dolciumi.
La regina attraversò il prato, avvolta in un pesante mantello dal collo di ermellino, seguita da alcune dame di compagnia.
Non erano ancora visibili i segni della gravidanza, era troppo presto perché si scorgesse la curva della pancia attraverso la stoffa degli abiti, ma il viso di Anna risplendeva di una dolcezza e di una luminosità nuova.
Il re sporse il capo all’indietro per poter guardare sua moglie che si avvicinava.
«Mia cara, tutto questo freddo non vi farà male?» le chiese. Da quando aveva saputo che lei aspettava un figlio, Luigi era diventato premuroso al limite dell’ossessione.
«Ieri mi avevate consigliato di prendere aria, maestà» disse la regina. «E comunque, non mi risulta che la gravidanza equivalga a una condanna di reclusione».
Il re non protestò oltre davanti alla gentile fermezza di sua moglie e lasciò che lei si sedesse sulla sedia vuota accanto a lui.
«Ah, Treville!». Sua maestà picchiò una mano sul bracciolo borchiato. «Ho notato che le mie battute di caccia sono più sfortunate quando non ci siete voi».
Il capitano si inchinò nel rettangolo d’ombra proiettato dal gazebo. «Mi rincresce, sire, ma stamattina non ho potuto essere presente».
I moschettieri osservavano la scena da lontano. Erano rimasti schierati al limite del prato, aspettando l’occasione giusta per svignarsela ed evitare di dover presenziare alle udienze.
Con la coda dell’occhio, Athos notò una figura comparire accanto a lui. Non l’aveva sentita arrivare.
«Come va la respirazione?» disse a bassa voce, senza voltarsi a guardare mademoiselle Diane al suo fianco.
«Male, grazie» bisbigliò la ragazza. «Sono stata al funerale di Robert Bourell, questa mattina».
Athos si chiese perché mai la nipote del capitano non si trovasse qualcosa di meglio da fare, ma tenne per sé questo pensiero.
«Dobbiamo parlare» aggiunse Diane.
Il moschettiere fece un impercettibile cenno di assenso. Dovevano parlare anche di quale fosse il posto che la ragazza doveva occupare in quella faccenda, più propriamente un posto a una considerevole distanza da presidi militari, cadaveri e quant’altro. 
«Mademoiselle Diane!» trillò improvvisamente la voce del sovrano. «Per quale ragione ve ne state in disparte, senza venire a salutare il vostro re?».
«Vi aspetto al muretto di edera, dopo» bisbigliò la ragazza, poi si affrettò a rimediare alla scortesia, prima che Luigi cominciasse a sentirsi davvero offeso, e andò a porgere i suoi omaggi ai sovrani.  
Molto bene, ora la nipote di Treville si metteva anche a dare ordini.
La regina invitò Diane ad andare con lei per una passeggiata. I moschettieri la videro sparire oltre una fila di alberi.
«Mi domando» disse Porthos, «se non sia il caso di fare qualcosa»
«Tipo spararle?» suggerì Athos a denti stretti.
Aramis scrollò le spalle. «Perché mai? È sveglia e volenterosa, io comincio ad apprezzare la sua intromissione»
«Allora se combina qualche guaio lo spiegherai tu al capitano».
«Lo mettiamo ai voti?». D’Artagnan si sporse leggermente in avanti per guardare le facce dei suoi compagni. «Io voto per tenerla»
«Tenerla? Non è mica un cane» fece Porthos. «Comunque io ci sto. Tu, Aramis?»
«La teniamo, mi sembra più pratico che spararle. Athos, amico mio, sei in minoranza».
Athos alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. Non che avesse qualcosa contro Diane, ma l’esperienza gli aveva insegnato a diffidare delle donne troppo vivaci.
Senza la soddisfazione della caccia e senza l’intrattenimento di persone interessanti da tormentare, il re decise di rientrare e la piccola folla di cortigiani e moschettieri si disperse.
Athos e i suoi compagni cercarono di evitare il capitano Treville e raggiunsero il punto del giardino dove Diane aveva dato loro appuntamento. Gli toccò aspettarla a lungo dato che la ragazza era stata requisita dalla regina.
Non parlarono più di se fosse giusto o meno assecondare l’insolito interesse di Diane per le faccende che non la riguardavano. Ormai la questione era chiusa, anche se Athos continuava a pensare a una lunga serie di motivi per cui fosse saggio tenere mademoiselle Leroux lontana dalla loro indagine. 
Alla fine, la videro arrivare, uno sbuffo di raso azzurro contro il prato spoglio.
«Cosa è successo a Bourbon-les-eaux?» disse subito Diane.
Ad Athos si contrasse lo stomaco, ad Aramis probabilmente si contorse anche qualcosa d’altro.
«Da dove viene questa domanda?» chiese Porthos.
«La regina mi ha parlato di un laghetto e di un monastero. E mi ha detto che dovrei farmi raccontare un po’ delle vostre avventure».
C’erano troppi segreti tra le avventure dei moschettieri, alcuni più letali di altri.
«Un’altra volta, forse» disse Athos con un certo garbo. «Siete stata al funerale, immagino che abbiate parlato con la vedova».
Dato che si era presa il disturbo di ficcare il naso, tanto valeva che li aggiornasse.
«Non mi ha detto molto, però possiamo essere certi che stia nascondendo qualcosa e che tema per la sua sicurezza e per quella dei figli»
«Allora, dobbiamo trovare il modo di farci dire di più» disse Aramis.
Diane scosse il capo. «Costringerla a parlare la metterebbe in pericolo» osservò. «E non è qualcosa che voglio avere sulla coscienza. Ma nessuno vieta di cercare informazioni su suo marito»
«Che genere di informazioni?» intervenne d’Artagnan.
«È una cosa stupida, forse, ma madame Bourell mi ha detto che da qualche mese abitano in casa di sua sorella»
«E questo che c’entra?». Porthos aggrottò la fronte, ma non era il solo che aveva perso il filo del discorso.
«Siete riusciti a scoprire che mestiere facesse suo marito?»
«Il garzone per una beccheria» spiegò Aramis, per chiarire che in quei giorni non erano stati con le mani in mano.
«E dove abitavano prima?»
«Non lo sappiamo»
«Allora forse è il caso di scoprirlo». Diane sorrise, una scintilla di furbizia le brillò negli occhi chiari.
«Cos’è che non ci state dicendo?». Athos mosse un passo verso di lei. Di solito, gli riusciva bene di intimorire le persone quando voleva e trovava scorretto il fatto che la ragazza stesse palesemente omettendo qualcosa.
«Permettetemi di tenere per me certe mie supposizioni, solo per il momento. Non voglio condizionare il vostro giudizio».
«Ci state lanciando una sfida, Diane?». Aramis sembrava più divertito che infastidito.
«Se sapete qualcosa, dovete dircelo» insistette d’Artagnan.
«Non so niente. Ho solo un’idea molto vaga. Cercate di scoprire qualcosa sulla precedente abitazione dei Bourell, credo sia una pista. Vi prometto che dopo ne riparleremo».
Non sarebbe stato difficile ricavare informazioni su dove viveva l’uomo, bastava tornare dal padrone della beccheria e chiedere. Ma tutta quell’aria di mistero che Diane stava soffiando non era promettente.
La ragazza sospirò. «Io devo rientrare» disse, stizzita. «Ho promesso a Marie che l’avrei aiutata in certe faccende»
«Come sta la vostra amica?» chiese Porthos.
«Come nuova e peggio di prima».
Diane salutò i moschettieri con un leggero inchino. Mentre imboccava il vialetto tra le siepi, spuntò Treville. Il capitano spostò lo sguardo tra i suoi uomini e la nipote e poi si fermò a guardare loro quattro mentre lei spariva affrettando il passo, prima che suo zio potesse farle domande.
«Tocca a te parlarci, era deciso» bisbigliò d’Artagnan all’orecchio di Aramis.
«Non è deciso solo perché lo ha detto Athos». Aramis si sistemò il cappello sulla testa e tutti e quattro misero su un’espressione noncurante.
Treville li raggiunse senza smettere di fissarli. «Il re ha detto che, visto che la caccia non lo ha soddisfatto, è giunto il momento di provare con la pesca» annunciò, cercando di non far trapelare la propria esasperazione. «Vi suggerisco di tornare alla guarnigione e rendervi utili se non volete ritrovarvi a gettare trote mezze morte nel laghetto del parco».
L’opzione era decisamente poco allettante e anche lo sguardo del capitano non era gradevole. I quattro uomini si affrettarono a sparire.
«Athos» chiamò Treville, quando erano già a qualche metro di distanza. «Esattamente, cosa sta combinando mia nipote?»
Lo dicevo io. Peccato che nessuno fosse lì a dare ragione al moschettiere: gli altri tre se l’erano già svignata.
«Niente. Mademoiselle Diane è solo una ragazza curiosa. Comprensibile, considerando che è stata lontana da Parigi così a lungo». Athos si rigirò tra le mani il cappello, ostentando un’aria impassibile.
Il capitano lo guardò stringendo appena le palpebre, vagliando la genuinità di quella risposta. Lo considerava il migliore dei suoi uomini e forse per questo gli credette senza troppa difficoltà, circostanza che rese al moschettiere ancora più odioso il fatto di aver mentito.
Treville sospirò. «Sua madre era così, testarda e impertinente, sempre a fare di testa sua. Non so se sia un bene o un male che Diane le assomigli tanto»
«Non dovete essere in pensiero per vostra nipote. Credo abbia la giusta dose di talento per stare al mondo».
Athos si cacciò in testa il cappello e si allontanò prima che quell’imbarazzante conversazione si prolungasse.
Si imbatté di nuovo in Diane nel cortile laterale del palazzo.
La ragazza stava salendo a bordo di una carrozza, litigando con la gonna troppo ampia dell’abito a cui non era abituata.
Sparì con uno sventolio di stoffa azzurra dentro la stretta apertura dello sportello.
Athos fece cenno al cocchiere di fermarsi e si appoggiò con gli avambracci al finestrino della vettura.
«Il capitano mi ha chiesto cosa state combinando» disse. Guardò Diane senza espressione, semplicemente studiandone il volto. Gli piaceva quel viso, ma un bel viso non era ragione sufficiente ad andare d’accordo con qualcuno - Aramis avrebbe dissentito e si sarebbe messo a rimproverarlo per i suoi frizzi misogini, ma in quel momento la galanteria era l’ultimo dei pensieri di Athos.
«E voi cosa gli avete risposto?». Diane sembrò preoccupata. 
«Che non stavate combinano niente»
«Oh»
«Ho mentito al mio capitano per voi» disse il moschettiere, nel caso ci fosse bisogno di rimarcare il concetto. «Badate di non metterci nei guai».
«Vi sembro forse una sprovveduta? Vi riesce così difficile fidarvi di qualcuno?»
«È delle persone sagaci che si dovrebbe diffidare maggiormente. Ad ogni modo, non si tratta di questo»
«E di cosa si tratta?»
«Lasciate perdere, tanto l’abbiamo messo ai voti…». Athos fece una delle sue smorfie travestite da sorriso per sottolineare la sua disapprovazione.
«Cosa?»
«Niente. Tornate a casa, Diane. Ci vedremo domani».
Ci vedremo domani. A ben pensarci, suonava come una resa e infatti lei sorrise.
«Tregua?» gli disse.
Il moschettiere scrollò il capo in un cenno indefinito di consenso.
La ragazza sporse la mano dal finestrino. Athos non sapeva se doveva stringerla o baciarla. Prese le dita sottili di Diane tra le sue e le strinse appena prima di lasciarla andare.
 
***
 
Un altro cavallo fuori dalla porta. Questo Diane non lo conosceva, ma intuì a chi appartenesse.
Restò qualche istante sulla soglia, soprappensiero, mentre la carrozza che l’aveva accompagnata si allontanava cigolando.
Non aveva potuto dire nulla ai moschettieri riguardo la reazione di madame Bourell quando aveva menzionato il conte. Per adesso poteva solo sperare che quei quattro fossero in gamba come i racconti di suo zio lasciavano intuire.
Athos e i suoi compagni si preoccupavano che lei si lasciasse coinvolgere in affari che non la riguardavano, in faccende quanto meno sconvenienti per una giovane donna. Ma quell’affare le apparteneva ed erano loro ad essere degli intrusi sulla complessa scacchiera che Diane aveva tentato di allestire. Potevano rivelarsi utili, o pericolosi, a seconda di come sarebbero andate le cose, ma per adesso erano proprio ciò di cui lei aveva bisogno: una scusa per muoversi liberamente su un terreno accidentato e che senza di loro forse le sarebbe stato precluso.
L’omicidio del povero Robert Bourell poteva essere considerato un colpo di fortuna, se solo Diane avesse avuto una coscienza meno ingombrante. No, si disse, non avrebbe mai pensato alla morte di un innocente come a qualcosa per cui essere grata.
La coscienza…
La voce di Sebastiano echeggiò dal fondo dei suoi ricordi, lì dove danzavano i fantasmi.
 
«La coscienza è ciò che definisce una persona. Non l’onore, non il potere, non il talento…».
 
Diventava un vero filosofo quando si ubriacava con il vino per la messa che riusciva a rubare dalla sagrestia.
Quando Diane compì sedici anni, lui iniziò a dividere quel vino con lei. Quando ne compì diciassette, la mandò a rubarlo. La prima volta, Diane si fece scoprire; le suore le diedero tante di quelle bacchettate sulle mani da farle credere che non avrebbe mai più potuto usare le dita.
Aprì la porta di casa, cancellando i ricordi anche dal suo sguardo.
In cucina, Marie era seduta sulla ginocchia di Jean-Pierre. L’uomo aveva dei capelli biondo scuro, un paio di baffi lunghi e sottili e un pizzetto curato. Era attraente anche se aveva un modo di vestire eccessivamente vistoso, come un povero che cerca di atteggiarsi a signore e crede che qualche metro di seta basti a mascherare le sue mancanze.
Diane annunciò il proprio arrivo simulando un colpo di tosse.
I due innamorati si voltarono verso di lei come ladri colti con le mani nel sacco.
«Ancora non mi sono abituato all’idea che tu non viva in casa da sola» disse Jean-Pierre, voltando pigramente il capo verso Diane.
Marie si alzò e si sistemò la gonna che per comprensibili ragioni era finita arrotolata ad altezza delle ginocchia.
«Oh, caro, non ti ho ancora presentato la mia amica Diane» disse.
Jaen-Pierre fece un mezzo inchino con misurata galanteria e tese la mano perché la ragazza potesse appoggiarvi la sua.
«Enchanté» mormorò posandole un bacio sul dorso. Alle sue spalle, Marie impallidì.
Dio, erano gelosi l’uno dell’altra come ragazzini. Commovente.   
«Mademoiselle, sono contento che la mia Marie abbia compagnia» aggiunse l’uomo.
«Il piacere è tutto mio, monsieur».
Marie si parò tra loro due e guardò Diane con un sorriso enfatico, poi la prese per mano e l’accompagnò sulla soglia della stanza.
«Avevi detto che mi avresti fatto quel favore che ti avevo chiesto» le disse.
«Certo».
Quando Diane si fu cambiata e fu tornata nel salotto, Marie aprì la cassapanca di faggio che si trovava al ridosso del muro e ne estrasse una grossa scatola.
«Ecco, dovresti consegnare questo, mi era stato commissionato per oggi».
Diane prese la scatola e per un attimo barcollò in avanti, presa alla sprovvista dal peso inaspettato di quel contenitore.
«Cosa c’è dentro, un’armatura?» borbottò.
«Non dire sciocchezze, è un vestito che ho sistemato per madame Bonacieux».
La ragazza impiegò qualche istante a ricordare dove avesse già sentito quel nome.
Ah.
«Sai dove abita?» le chiese Marie.
«Sì». Sapeva quello e sapeva anche tutto il resto.
Diane sentì le mani della sua coinquilina che le circondavano le spalle e la pilotavano - praticamente spingendola - verso l’uscita.
«Madame Bonacieux è una persona molto simpatica e conosce quei moschettieri che ti piacciono tanto, sarebbe carino se chiacchierassi un po’ con lei» disse Marie, che aveva già chiuso la porta e spuntava fuori solo con la testa. «Voglio dire, non te ne vorrò a male se ci impiegherai tanto tempo».
Diane cercò di mettere insieme un sorriso complice che però le uscì simile all’espressione caricata di una maschera da commedia greca.  
Marie le mandò un bacio con la mano e richiuse rapidamente la porta con un tonfo.
Per qualche istante, la nipote del capitano restò a fissare la porta sbarrata con un’espressione contrariata e anche un po’ disgustata, poi si riscosse e si incamminò che le braccia già le dolevano per il peso della scatola.
Il tragitto verso l’abitazione dei Bonacieux le sembrò infinitamente lungo ma aveva idea che la sua permanenza in quella casa lo sarebbe stata ancora di più.
Il piccolo edificio a due piani era dove ricordava, incuneato all’angolo di una piazza. Una domestica stava raccogliendo in una cesta le stoffe messe ad asciugare, qualche gallina trotterellava noncurante davanti alla porta. Diane chiese alla domestica se madame fosse in casa e la donna annuì con indolenza, con il volto mezzo nascosto dall’orlo della cuffia.
La ragazza dovette fare vari tentativi prima di riuscire a liberarsi una mano per bussare, ogni volta la scatola minacciava di caderle dalle braccia intorpidite.
Da dietro la porta, sbraitò una voce dal tono petulante. «Devo fare tutto io in questa casa?».
Quando l’anta si aprì fece la sua comparsa un uomo dai corti capelli scuri e dagli occhi porcini. Guardò la scatola, poi Diane, poi di nuovo la scatola.
«Non sapevo che la sarta di mia moglie avesse preso una serva» disse in tono supponente.
«Non sono una serva, sto solo facendo un favore a mademoiselle Marie» replicò Diane, piccata più dai modi dell’uomo che dalle sue parole.
«Come dite voi. Entrate» fece lui, spostandosi per farle strada.
L’accompagnò in un salotto. Sul tavolo davanti al camino c’erano ancora i resti del pranzo su una tovaglia di cotone, qualche piatto sporco e qualche buccia di frutta abbandonata tra le posate e i bicchieri.
Diane sentì passi veloci avvicinarsi e per un attimo sperò di poter lasciare la scatola da qualche parte e defilarsi prima che madame Bonacieux potesse riconoscerla.
«Scusate il disordine, mademoiselle» disse la donna, entrando nella stanza e dirigendosi spedita verso il tavolo per afferrare gli angoli della tovaglia. «Non vi aspettavo a quest’ora, di solito Marie viene sempre verso sera».
«Non scusatevi, madame. Avete una bella casa»
«Vi prego…». La voce e il sorriso cordiale di madame Bonacieux si spensero gradatamente, mutando la sua espressione e facendo irrigidire i lineamenti morbidi del suo bel viso. «Vi prego, accomodatevi» disse poi, tentando di ritrovare un tono più neutrale.  
Lei e d’Artagnan dovevano essersi amati - dovevano amarsi - davvero molto se erano entrambi messi così male. Diane avrebbe voluto dire qualcosa, ma non c’era un modo diplomatico e corretto per dire a una donna sposata: “guardate che non sono l’amante del vostro amante”.
Posò la scatola sul tavolo. Almeno era felice di potersi liberare di quel peso.
«Posso offrirvi da bere? Un po’ d’acqua magari?». La donna stava facendo di tutto per mostrarsi gentile e ospitale, ma il suo sorriso sembrava uno squarcio aperto con un paio di forbici spuntate. «Come avete detto che vi chiamate?».
«Diane. Diane Leroux» rispose la ragazza, poi prese fiato come se dovesse tuffarsi. «Sono la nipote del capitano dei moschettieri. Mio zio manda sempre qualcuno ad accompagnarmi a casa. Sono tornata a Parigi da poco» disse, pronunciando le parole una dietro l’altra, in fretta. A quel punto però un “non sono l’amante del vostro amante” ci sarebbe stato davvero bene.
Madame Bonacieux la guardò sbattendo le palpebre, senza smettere quel sorriso tirato e improbabile. «Volete dell’acqua?» ripeté.
Diane scattò in piedi come un pupazzo a molla. «No, grazie. Devo andare»
«Certo. Grazie per avermi portato il vestito»
«Non c’è di che». La ragazza si diresse a passi rigidi verso la porta. «Buona giornata, madame»
«Buona giornata, mademoiselle».  

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Capitolo 6
*** Il bandito ***


V
Il bandito

 
Il respiro diventava fumo contro il buio della notte.
Parigi sembrava sprofondare sotto quel cielo nero e solo pochi fuochi brillavano nei bracieri ancora accesi lungo le strade principali. Le locande erano già vuote di avventori, dietro le finestre dei bordelli le luci erano tutte spente. Erano le ore che separavano gli ultimi scampoli del giorno vecchio dalle prime luci di quello nuovo, uno spicchio di tempo in cui tutto si fermava, persino la frenesia della capitale francese.
In quella strada c’era rimasta solo la notte scalfita dalla luna piena che galleggiava sopra i tetti del quartiere.   
Appostato accanto a un abbaino il bandito guardava il vicolo vuoto snodarsi tra le case. Attorno solo silenzio, gelo e buio.
Non poteva essersi sbagliato, pensava, pizzicando nervosamente la stoffa del bavaglio che gli copriva la faccia fin sopra agli zigomi.
Si mosse piano e in silenzio, il minimo indispensabile per risvegliare il corpo intorpidito dal freddo e dalla posizione scomoda. Poi tornò accovacciato a spiare sotto di sé come una delle statue mostruose di Notre Dame.
Alla fine arrivarono. Erano in tre, reggevano fiaccole che brillavano come macchie slabbrate contro l’oscurità.
Il posto era quello giusto.
Il bandito scese dalla sua postazione di vedetta, lasciandosi cadere di lato e appoggiando un istante il peso alla linea diritta di una grondaia. Si acquattò e si lasciò scivolare all’indietro, cadendo su un ballatoio sotto una finestra; la stoffa degli abiti attutì il rumore del tonfo che comunque fu udibile in mezzo al silenzio della notte.
Gli uomini con le fiaccole si voltarono a scrutare il buio. Il bandito rimase immobile nel cono d’ombra di una tettoia, fissando loro che lo guardavano senza vederlo.
«È solo qualche topo» disse uno dei tre. Esitarono ancora qualche istante, poi tornano a incamminarsi verso la casa in fondo alla via.
Il bandito scese le scale con passo felpato e procedette con cautela, rasente al muro.
La casa era murata. Avevano chiuso tutti gli scuri alle finestre e tappato ogni possibile via d’accesso - il bandito aveva già controllato.
Non poteva entrare senza sapere quanta gente ci fosse dentro, tre uomini forse li avrebbe tenuti a bada, e già era una previsione ottimistica, ma se fossero stati di più non ce l’avrebbe fatta. Per entrare avrebbe dovuto fare troppo rumore e lo avrebbero scoperto.
Doveva aspettare che uscissero e intrufolarsi una volta che fossero andati tutti via.
La porta della casa si aprì di schianto. Il bandito si appiattì contro il muro e, per sua fortuna, il battente aperto lo coprì alla vista dell’uomo che era uscito.
L’uomo lasciò la porta socchiusa e andò verso il muro della casa di fronte. Si slacciò i calzoni e urinò accanto a una finestra.
Sotto il bavaglio, il bandito sorrise. Si avvicinò all’uomo e lo colpì alla nuca lasciando che cadesse privo di sensi nel suo stesso piscio.
La porta socchiusa era un invito troppo allettante. Senza il minimo rumore, scivolò dentro.
Il pianterreno della casa era deserto e buio. C’era solo un tavolo traballante con i resti di una cena frugale e alcune bottiglie di vino mezze vuote. L’unica luce proveniva da una fiaccola appoggiata al muro in cima alle scale; da lì veniva anche il suono sommesso di voci che andavano alterandosi.
Ragnatele pendevano dal soffitto come merletti logori.
Il bandito aveva paura di quegli uomini. Restò qualche istante fermo in mezzo all’ingresso - incautamente - fino a quando il senso di gelo che gli serrava lo stomaco non divenne qualcosa di simile all’eccitazione, smosso dai battiti del suo cuore che andavano accelerando.
Gli piacque quella sensazione. Era il morso del coraggio che nasce dall’incoscienza e dall’inesperienza, e bastò a cancellare ogni riguardo, ogni esitazione.
Salì per le scale, e si fermò ad ascoltare vicino alla porta.
«Avevamo detto tremila livree» stava dicendo una voce irritata.
«E adesso sono diventate quattromila» replicò qualcun altro con un francese distorto da un marcato accento straniero. «Il trasporto è stato difficile e pericoloso e ci ho rimesso uno dei miei uomini, pure».
Il bandito spiò dentro. Il secondo piano della casa era nient’altro che una stanza quadrata priva di mobilio e dal pavimento polveroso. L’aspetto più interessante era la botola che si apriva dal soffitto con un meccanismo strano che doveva servire a tenerla nascosta a chiunque non ne fosse a conoscenza, una scala di corda pendeva dal suo interno verso terra. Con la scarsa illuminazione, si distinguevano a stento delle casse appoggiate intorno all’apertura della botola.  
Nella stanza c’erano sei uomini armati di pistole, spade e coltellacci.
Non poteva affrontarli da solo, ma non era lì per questo.
Dall’interno della stanza le voci si fecero rabbiose. Probabilmente presto quei sei gentiluomini sarebbero stati troppo impegnati a fare a botte tra di loro per accorgersi di lui.
Ebbe il tempo di tornare al pianterreno, prendere un pezzo di legno e avvolgerne l’estremità in un lembo di stoffa che bagnò con il vino. Poi tornò di sopra e accese la sua fiaccola di fortuna accanto a quella che ardeva vicino alla porta.
Da dentro piovevano insulti a gran voce e, a giudicare dai rumori, cominciarono a volare anche i primi pugni.
Il bandito tornò di sotto, prese le bottiglie di vino e ne versò il contenuto sul legno delle imposte, sui tendaggi mangiucchiati dalle tarme e in una piccola pozza sul pavimento.
Sì, un bell’incendio sarebbe bastato.
Proprio nel momento in cui stava per appiccare il fuoco, la porta si aprì.
L’uomo che aveva aggredito nel vicolo si era ripreso e ora camminava barcollando nell’ingresso, massaggiandosi la testa, sporco di terreno e urina.
Pensavo di averlo colpito con più forza, maledizione.
«Tu! Chi sei?» borbottò l’uomo. La voce gli uscì malferma e impastata, estrasse la pistola e la puntò contro l’intruso.
Il bandito lasciò cadere la fiaccola che andò a incendiare il vino in terra con una fiammata. L’uomo sparò, ma le vertigini per la botta alla testa e l’improvviso lampo di fumo gli fecero miseramente sbagliare mira.
Il bandito ora si trovava tra il fuoco e le scale, da cui stavano già scendendo gli altri uomini. Quello sulla porta estrasse la spada.
«D’accordo…» sussurrò il bandito, mordendosi le labbra sotto il bavaglio. Estrasse la spada a sua volta e si lanciò contro lo sconosciuto, prima che gli altri sei arrivassero alle sue spalle. Tirò un affondo così rapido e forte che fece vacillare il suo avversario, l’unico ostacolo tra lui e l’uscita.
L’uomo inciampò nei suoi stessi piedi, sorpreso da un’altra vertigine e dalla veemenza dell’attacco dell’intruso. Il bandito scappò via nel vicolo buio, a spada sguainata.
L’oscurità lo proteggeva dai colpi di pistola con cui i sei uomini tentarono di colpirlo. Sentì un proiettile fischiargli a un palmo dall’orecchio, ma arrivò illeso alla fine della strada. La notte attorno a lui come un’armatura.
I sei uomini si precipitarono al suo inseguimento. Alle loro spalle, in fondo alla strada, la casa aveva cominciato a prendere fuoco e in pochi minuti illuminò la notte come un faro. Fumo nero e denso saliva verso il cielo di Parigi.
Il bandito aveva molti metri di vantaggio e gambe buone, leggero e rapidissimo raggiunse la fine del vicolo. Gli uomini non riuscivano a stargli dietro. 
Il trambusto di spari e grida, aveva svegliato la gente. Qualche finestra si spalancò, lasciando emergere facce assonnate di uomini e donne, e persino bambini, curiosi e preoccupati allo stesso tempo.
Arrivato all’incrocio con una piccola chiesa, il bandito si chiese da che parte andare. Si voltò, dietro di lui non c’era nessuno, ancora non lo avevano raggiunto. Se fosse riuscito a sparire in fretta, gli inseguitori avrebbero perso le sue tracce.
Scelse, a caso, la via a sinistra. E si rivelò la scelta sbagliata.
Il profilo delle costruzioni verticali del palazzo del Louvre spuntava in fondo alla strada, lì dove il cielo cominciava ad albeggiare. Il bandito non credeva di essere così vicino alla reggia.
Dove la strada si andava a incrociare con un’altra via più ampia c’era un uomo che stava attraversando. Nella scarsa luce dei fuochi morenti nei bracieri, il bandito riconobbe una giacca di pelle scura e uno spallaccio da moschettiere.
«Merde!» ringhiò tra i denti, da sotto al bavaglio.  
Cosa ci faceva lì un moschettiere? Era troppo tardi per la ronda notturna e troppo presto per quella mattutina.
Il bandito restò immobile, sperando di non essere visto. L’uomo, dall’altra parte della strada, colse il movimento con l’istinto allenato del soldato e guardò verso di lui.
Per un attimo, il bandito non fu certo di essere stato visto. Alle sue spalle, arrivarono i sei inseguitori.
«Al ladro!» gridò uno di loro, squarciando il silenzio.
Forse si aspettava di ricevere aiuto senza nemmeno farsi scoprire o sporcarsi le mani - perché quei sei signori non volevano farsi trovare a inseguire qualcuno che aveva dato fuoco a quella casa, dovendo poi spiegare chi erano e cosa ci facevano lì.
Il moschettiere udì il grido e prese a correre in direzione del bandito.
«Ah, certo» fece lui, agitando le braccia in un gesto stizzito che fece sollevare i lembi della mantella come ali. Purtroppo non avrebbe potuto davvero volare via da lì.
La buona notizia era che i sei uomini erano già spariti. O forse erano lì nascosti ad aspettare l’evolversi degli eventi. Ad ogni modo non c’era più niente che potessero fare, non potevano rischiare che quel moschettiere li trovasse e chiedesse loro spiegazioni in merito all’accaduto.
«Fermo!» tuonò il moschettiere. La canna della pistola luccicò nella penombra, ma era un luccichio stranamente tremolante, come se l’arma gli oscillasse tra le mani.
Il bandito aguzzò la vista nella strada rischiarata dalle prime luci dell’alba. La mano dell’uomo che aveva davanti non era ferma, e nemmeno la sua voce era suonata poi così minacciosa e decisa.
Il moschettiere era ubriaco, più ubriaco di qualunque ubriaco il bandito avesse mai visto. Ubriachissimo. Un meraviglioso colpo di fortuna.
«Lascia cadere la spada!» intimò l’uomo. Almeno ricordava le procedure di sicurezza.
Con estrema calma, il bandito prese la spada per la lama con la mano coperta da un guanto di pelle scamosciata. Allungò il braccio in avanti, come se stesse per lasciar cadere l’arma.
Il moschettiere era ormai a pochi passi da lui, gli occhi grigi arrossati dal vino, il volto serio e minaccioso nonostante l’ubriacatura. Doveva essere tremendo, da sobrio. 
Quanto potevano essere rapidi i riflessi di un uomo in quello stato? Il bandito si augurò che “molto poco” fosse la risposta giusta.
Con la mano destra lasciò cadere la spada, nello stesso momento, con la sinistra, estrasse un pugnale dalla cintola, con un movimento rapidissimo.
Lanciò. Il pugnale brillò per un attimo prima di conficcarsi nella mano con cui il moschettiere reggeva la pistola.
L’uomo lasciò cadere l’arma con un ruggito. Il bandito gli fu addosso e lo colpì in piena faccia; contro ogni previsione, il suo avversario reagì e lo afferrò per la mantella, facendogli cadere il cappuccio e rivelando una bandana di tessuto rosso che non lasciava scorgere i capelli.
Il moschettiere tentò un pugno, ma era troppo lento e troppo impreciso e il colpo non andò a segno.
Oh, ti prego, soldatino, non essere testardo…
Il bandito lo colpì con una forte ginocchiata all’inguine che lo costrinse a retrocedere e permise a lui di divincolarsi. Rotolò a terra con una mezza capriola e afferrò la spada che aveva lasciato cadere poco prima. Un attimo dopo stava già correndo via a gambe levate.
Non tentò neppure di voltarsi indietro.
 
***
 
«Smettila, Aramis»
«Smettila tu»
«E la prossima volta che qualcuno si offre di riaccompagnarti a casa, tu ti lasci riaccompagnare a casa. Oppure ti prendo a pugni». Porthos si portò le mani ai fianchi, la sua ombra si allungò minacciosa sul piano del tavolo. Sembrava una cariatide.
E tu non dici niente? Athos si voltò pigramente a guardare d’Artagnan, appoggiato con una spalla a una colonna di legno, le braccia incrociate sul petto, le labbra serrate. Non riusciva a capire se il ragazzo si fosse tirato fuori da quelle premure per non infastidirlo ulteriormente o perché era troppo interdetto per dire la sua.
Aramis strinse la fasciatura attorno alla sua mano, provocandogli una fitta di dolore.
«Ve l’ho già detto, non ho fatto in tempo a sguainare la spada». Per il proprio equilibrio mentale e perché il suo orgoglio non sprofondasse in un pozzo troppo profondo - ancora più profondo - , Athos aveva assoluta necessità di pensare che se lo scontro di quella notte si fosse risolto con un duello, ne sarebbe certamente uscito vincitore e ora quel bandito cencioso sarebbe stato un ospite assai gradito della prigione dello Châtelet. 
Non era il genere di persona da sparare a sangue freddo a uno sconosciuto - per quanto sospetto - ma quel tizio incappucciato aveva fatto di tutto per meritarsi una pallottola e il moschettiere si promise che se ci fosse stata una seconda occasione vi avrebbe provveduto con immenso piacere.
«Stai attento alla medicazione» si raccomandò Aramis. «Se non ci hai rimesso la mano, poco ci è mancato».
Questo Athos lo sapeva già. Così come sapeva che lo scontro di quella notte lo avrebbe tormentato sotto forma di incubo per molte notti a venire. Si era fatto scappare un criminale e non riusciva a perdonarselo. Erano settimane che non si conciava così male dopo una serata in taverna, ma la scorsa notte qualcosa era arrivato a disturbare i suoi pensieri, smuovendo i ricordi come lava di un vulcano sopito. Se avesse incontrato quell’arnese da forca in un qualsiasi altro momento lo avrebbe preso.
Lo.
Avrebbe.
Preso.
«E potevi anche rovinarti la faccia» aggiunse Porthos, indugiando con lo sguardo sul livido che andava dallo zigomo sinistro fino al naso.
In qualche modo la faccia l’ho già persa, no? Athos sentì un bruciore alla bocca dello stomaco e non era solo per il vino.
«Buongiorno» trillò la voce gioviale di Diane. Una nota stonata in quella litania di rimproveri e raccomandazioni.
I moschettieri si voltarono verso di lei nello stesso momento.
«Non è un buongiorno?» disse la ragazza. Tra le braccia reggeva un cesto con della frutta.
Guardò meglio Athos e scorse il livido e la mano fasciata.
«Cosa vi è successo?» gli chiese, stupita. 
«Niente»
«Niente?»
«Una rissa da taverna»
«Non vi facevo tipo da risse in taverna»
«Non mi conoscete».
Diane chiuse gli occhi, inspirò lentamente. «Bene. Ricominciamo d’accapo» mormorò. «Buongiorno».
«Buongiorno, mademoiselle» dissero quasi all’unisono i quattro moschettieri.
Silenzio.
«Questo è il momento in cui mi chiedete come sto e io vi dico che sto bene e chiedo come state voi, ma ho capito che non è l’argomento più in voga, stamattina» esclamò Diane dopo qualche istante.   
Aramis agitò la mano a mezz’aria. «Scusateci, stavamo sgridando Athos. Di solito è lui che sgrida noi» disse. «Se siete venuta per la questione di cui abbiamo discusso ieri, abbiamo delle novità, sapete?» 
«Ero venuta per salutare mio zio e portargli questo». La ragazza indicò il cesto che aveva in mano. «Ma voglio proprio sentirle, le vostre novità».
In quel momento, il capitano Treville si affacciò dal parapetto di fronte al suo ufficio. «Voi quattro, rendetevi utili» ordinò, «andate a dare un’occhiata in Rue Saint-Lazare, c’è stato un incendio stanotte e la gente ha parlato di spari e di una strana confusione».
Il capitano indugiò sulla faccia di Athos e scoccò un’occhiata inquisitoria. «Cosa è successo?»
«Una rissa in taverna» si affrettarono a rispondere, in coro, gli altri tre.
«Ha vinto lui» aggiunse Porthos. 
Treville scosse il capo, fece a sua nipote un cenno per invitarla a salire.
La ragazza accennò un sorriso come saluto per i moschettieri che si apprestavano a partire. Appoggiò gentilmente la mano al braccio di Athos quando lui le passò accanto.
«Spero che stiate bene» gli mormorò. Non aveva creduto alla storia della rissa in taverna e di certo non ci aveva creduto nemmeno Treville, ma zio e nipote in questo si assomigliavano: sapevano quando smettere di fare domande.
Athos annuì. «Sto bene» disse piano, poi si avviò verso le stalle insieme ai suoi compagni.
Stava bene. Ma l’orgoglio bruciava più di quel brutto taglio alla mano, più della sua testa in fiamme e dello stomaco sottosopra.
Cavalcarono in silenzio fino a Rue Saint-Lazare. Era uno dei quartieri più poveri di Parigi, ed era incredibile quanto fosse vicino al palazzo del re. A quell’ora, una certa quantità di rifiuti si era già accumulata ai lati della strada e vestiti e stracci asciugavano stesi sulle corde tese tra i due lati della via polverosa.
Gli edifici erano tutti rovinati e cadenti. La casa incendiata spiccava in fondo al vicolo come una cicatrice su un volto già deturpato. Il fuoco aveva fatto saltare i vetri alle finestre, lasciandole come occhi spalancati e ciechi, chiazzate da aloni neri dove l’incendio si era accanito contro la pietra quando non era rimasto altro da bruciare.  
I moschettieri legarono i cavalli fuori la bottega di un calzolaio. La gente li guardava mentre passavano: era raro che gli uomini del re finissero in strade come quella, nemmeno per le loro ronde notturne.
«Perdonate il disturbo» disse Aramis, togliendosi il cappello. L’interno della bottega era stretto e polveroso, così angusto che Porthos fu costretto a rimanere sulla soglia, con un piede dentro e l’altro fuori e la testa leggermente incassata tra le spalle per non urtare contro lo stipite.
«Moschettieri del re. Avremmo delle domande da farvi».
Il calzolaio, un uomo dai capelli untuosi e i denti guasti, si alzò dallo sgabello su cui era seduto. Per quanta cortesia avesse usato Aramis, la loro entrata lo aveva certamente messo in agitazione.
«Siete qui per l’incendio, vero?» disse l’uomo.
«Abitate in questa stessa strada? Avete visto o sentito qualcosa? Sappiamo che è stata una notte movimentata, questa».
Il calzolaio, in soggezione, cercò di mettere insieme le parole. «Io abito qui di sopra, signori» esordì. «Io e mia moglie abbiamo aperto la finestra quando abbiamo sentito gli spari, la casa stava già bruciando però».
«Spari?»
«Sì. Era molto buio, ma c’erano degli uomini che ne inseguivano un altro»
«Quanti uomini?» chiese d’Artagnan.
«Cinque, forse sei. E uno che scappava. Gli hanno sparato ma quello ha continuato a correre, molto veloce».
Athos fu colto da un’improvvisa intuizione. «L’uomo che scappava, sapreste descriverlo?»
«Non ci si vedeva molto. Però ho visto che aveva una giubba scura con un cappuccio e una spada. Non gli ho visto la faccia».
«È lui» fece Athos.
«Lui?»
«Il bandito, quello che ho incrociato vicino alla chiesa». Maledetto. «È rimasto ferito qualcuno nell’incendio?» 
«No, signore. La casa era disabitata, anche se pareva che gli uomini e l’incappucciato venissero da lì».
Aramis prese una moneta dalla tasca e la porse all’uomo. «Per il vostro disturbo» disse, prima di uscire.
Non aveva molto senso: degli uomini si incontrano in una casa disabitata, probabilmente per motivazioni non proprio oneste; un criminale con il viso coperto si intrufola nella casa e le dà fuoco. Se avesse voluto uccidere gli uomini, li avrebbe almeno chiusi dentro, ma a quanto pare chi aveva bruciato la casa voleva solo bruciare la casa. Una casa disabitata e vuota in un quartiere povero di Parigi.
Athos sentì una nuova ondata di mal di testa arrivare a sommergerlo.
«Andiamo a dare un’occhiata a quel posto» suggerì d’Artagnan.
La porta della casa era ridotta a moncone di legno carbonizzato. Dentro l’odore del fumo rendeva l’aria irrespirabile e la cenere danzava come fiocchi di neve smossa dal vento che entrava dalle finestre ormai prive di imposte.
L’incendio si era diffuso maggiormente al pianterreno. Dato che la casa non aveva strutture in legno, il fuoco non aveva attecchito e si era spento da solo senza danneggiare le costruzioni adiacenti.
Athos si guardò attorno. Mura annerite, cocci di vetro sul pavimento, resti di un tavolo ridotto a un cumulo di legno bruciacchiato. Per la prima volta, dopo mesi, ripensò alla sua vecchia casa, ultimo baluardo di quel passato che non voleva lasciarlo andare, che lo aveva consumato e inaridito, con quel prato dove per una qualche crudele ironia i nontiscordardimé non erano mai più tornati a fiorire.
Porthos e Aramis si offrirono di andare a controllare il piano di sopra. Le loro voci lo riportarono al presente.
«Che ti prende?» disse d’Artagnan, quando rimasero soli.
«Brutta nottata». Athos scrollò le spalle e alzò la mano stretta nella fasciatura dove qualche goccia di sangue era affiorata in superficie sul tessuto bianco delle bende.
«Non mi riferivo a questo». Il giovane guascone mise su il suo sguardo determinato, sguardo feroce da ragazzo che non sa quando è il momento di lasciar perdere, lo stesso di quando era piombato alla guarnigione con l’intento di ucciderlo. Quanto tempo era passato da quel giorno? Un anno? Di più? A volte sembrava che il giovane fosse sempre stato con loro.
«Pensavo» continuò d’Artagnan, mitigando un po’ il tono, «che tu avessi chiuso con… qualunque cosa sia la cosa che ti tiene incollato alla bottiglia o anche solo sveglio la notte. Che avessi deciso fosse ora di andare avanti».
Athos gli lanciò un’occhiata in tralice. Avrebbe volentieri fatto a meno di rispondergli.
Perché, tu sei forse andato avanti? avrebbe voluto dirgli, ma era una risposta meschina e immeritata.
«Credo di aver capito che le motivazioni che ti aiutano a chiudere non sono le stesse che poi ti aiutano anche ad andare avanti» si risolse a dire. «Non devi preoccuparti per me, e nemmeno gli altri»
«E allora tu non farci preoccupare».   
Athos stirò le labbra in un’espressione forse troppo condiscendente.
Un tonfo tremendo proveniente dal piano di sopra fece sobbalzare lui e d’Artagnan che si precipitarono verso la scala.
Il piano superiore era composto da una sola stanza in condizioni migliori di quella al pianterreno. O almeno doveva esserlo prima che uno sportello nascosto sul soffitto si aprisse e facesse piovere delle pistole sul pavimento e addosso a Porthos, ancora riverso in terra, con una smorfia in viso e una mano a massaggiarsi la spalla.
«Questo è interessante» disse Aramis.
D’Artagnan tese una mano a Porthos per aiutarlo a rimettersi in piedi. «Tutto bene?»
«No! Cos’è questa roba?»
«Un soppalco nascosto». Aramis guardò con circospezione verso la botola aperta, assicurandosi che non ci fosse più niente di pesante pronto a cadere. «Il calore deve aver rovinato i cardini, per questo si è aperta così»
«Abbiamo un omicidio, uno scherzo macabro con delle colombe morte, un bandito e dei fucili nascosti in una casa bruciata» enumerò d’Artagnan allungando un dito a ogni elemento che andava menzionando. «E tutto nella stessa settimana».
«Per la precisione, credo che abbiamo dei criminali che contrabbandano armi» disse Aramis. Allungò l’elsa della spada per afferrare qualcosa e fece cadere verso il basso una scala di cordame che portava all’interno della botola.
«Allora chi è che contrabbanda? Il bandito o i sei tizi che hanno provato a sparargli?» domandò Porthos. Fece roteare il braccio per sgranchirsi la spalla colpita e sbuffò.
«Forse il bandito era venuto qui per rubare le armi. Forse appartengono a bande criminali rivali» suggerì d’Artagnan.
«Io credo che il bandito agisca da solo» replicò Aramis. «Se avesse fatto parte di una banda non si sarebbe messo da solo contro sei uomini armati. Athos, tu che hai avuto l’onore di fare la conoscenza con il nostro nuovo amico, cosa ne dici?».
Athos si concentrò. I ricordi della notte prima erano sfocati e vaghi e il suo incontro con quel criminale era stato rapido e rocambolesco.
«Per quel che ho potuto vedere, non ha particolari abilità militari, è uno che improvvisa. Però i suoi vestiti e la sua spada erano troppo ben messi per lasciar pensare a un comune criminale di strada».
I moschettieri si concessero qualche secondo per raccogliere le idee.
«Io dico: dimentichiamoci per un attimo del bandito e proviamo a risalire a chi ha portato qui questi» Porthos accennò con uno sguardo alle armi riverse sul pavimento e ne pungolò una con la punta dello stivale.
Troppe cose tutte insieme, senza alcun legame logico. Non sarebbero mai riusciti a venirne a capo.     
Athos avrebbe voluto dire che, criminale di strada o no, il bandito non era una faccenda da sottovalutare, ma si rese conto di quanto poteva sembrare petulante con un’affermazione del genere.  
«Chi va là?» esclamò all’improvviso una voce dabbasso.
«Che altro c’è ancora?» sbottò Porthos, allargando le narici come un toro pronto alla carica.
Nella sala del pianterreno li aspettava un uomo ben vestito, accompagnato da due guardie rosse.
«Chi siete? Cosa fate qui? Questa è una mia proprietà!» esclamò l’uomo.
«Moschettieri del re» disse Athos, fermandosi di fronte a lui. «Il vostro nome, monsieur»
«Che cosa ci fate qui? Chi vi ha autorizzati a entrare?»
«Il vostro nome» ripeté Athos, con calma.
Alle sue spalle, i suoi compagni scambiavano occhiate in cagnesco con le guardie del cardinale.
«Luc Morice».
Avevano già sentito quel nome, ed era una coincidenza davvero interessante.
«Monsieur Morice, mi dispiace disturbare i vostri affari, ma credo sia meglio che veniate con noi».
L’uomo lo guardò come se gli fosse stata rivolta la peggiore delle offese.
«Siete voi che mi dovete qualcosa» sbottò. «Eravate in una delle mie proprietà»
«Una proprietà dove sono state appena rinvenute armi di contrabbando, per non menzionare tanti altri loschi particolari di cui  forse siete già a conoscenza» intervenne Aramis. «Vi conviene essere collaborativo, monsieur. Voi e i… gentiluomini che vi accompagnano».
 
***
 
Diane si era offerta di dare una sistemata alla casacche da addestramento, tutte bucherellate da colpi di spada o strappate. Le serviva una scusa per restare lì ed aspettare che i moschettieri tornassero.
Serge non protestava mai per la presenza della nipote del capitano e le aveva detto che, purché stesse lontana dall’armeria e da altre robe pericolose, poteva scorrazzare per la guarnigione a suo piacimento. Anche starsene lì a non far niente la faceva sentire parte di quel mondo a sé che era il presidio dei moschettieri. E le piaceva.
Seduta accanto a uno dei fuochi accesi nei bracieri del cortile, la ragazza stava appuntando un gallone a forma di giglio su un colletto.
Sentì i cavalli arrivare e notò la carrozza che si era fermata davanti al portone.
Lo stalliere comparve come dal nulla e attese che i moschettieri gli consegnassero i cavalli, poi si affrettò a portarli via per liberare il cortile.
Aramis fu il primo ad avvicinarsi a Diane.
«Voi non ci credereste, ma ieri siamo andati a cercare informazioni sulla vecchia abitazione di Robert Bourell e abbiamo scoperto che era stata acquistata da un certo Luc Morice, un ricco signore che compra e vende proprietà in tutta Parigi» le disse, chinandosi su di lei.
«E?»
«E Morice aveva venduto per pochi soldi la casa all’impresa che si era occupata di costruire l’ospedale finanziato dal conte Legrand, perché la casa si trovava proprio nel punto in cui l’edificio che ora ospita l’ospedale doveva essere ampliato»
«Che altro?»
«Stanotte c’è stato un incendio e un certo trambusto attorno a una casupola di rue Saint-Lazare. Siamo andati a controllare e abbiamo trovato un mucchio di armi nascoste in una botola segreta. Indovinate a chi appartiene quella casa?».
Diane allungò il collo per guardare oltre la spalla di Aramis e vide un signore ben vestito attraversare il cortile, scortato da Porthos, Athos e d’Artagnan.
«Quello è Luc Morice» indovinò.
Aramis annuì. «O la vita criminale di Parigi sta vivendo una nuova primavera o le cose accadute questa settimana sono tutte collegate tra loro in qualche modo che, al momento, sfugge alla nostra comprensione»
«Di certo, non soffrite più la noia e l’inattività, voi moschettieri».
L’uomo sorrise, poi si toccò la tesa del cappello. «Devo andare, vedremo cosa Morice ha da dire al capitano» concluse.
«Aramis» Diane lo trattenne. «Grazie per aver condiviso tutte queste novità».
Guardò i moschettieri salire le scale che portavano all’ufficio del capitano. In mezzo a loro Luc Morice procedeva con un’aria stizzita e altezzosa in viso, indispettito dal fatto di essere stato trascinato lì come un comune criminale, senza alcun riguardo per la posizione di rilievo che il suo denaro doveva certamente garantirgli.
Diane assottigliò lo sguardo.
Tutto secondo i piani.

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Capitolo 7
*** Demoni e ladri ***


VII
Demoni e ladri
  
Nel silenzio quasi perfetto del convento, il tempo assumeva una consistenza strana, più placido, leggero. Giorni sospesi, tutti uguali, senza niente che potesse arrivare a scalfirne la quiete.
Le giornate iniziavano presto e finivano ancora più presto. Nella tranquillità di quelle quattro mura, Diane aveva avuto tempo per pensare, aveva rivisto e affrontato i suoi demoni, stesa al buio sul materasso rigido della cella. Quando i demoni e i pensieri si facevano nemici troppo assillanti, la ragazza sgattaiolava fuori e si sedeva attorno al fuoco, insieme ai moschettieri per ascoltare le storie che avevano promesso di raccontarle.
 
«Parliamo di quella volta in cui Porthos ci ha quasi rimesso la testa»
«No, perché non parliamo di quella volta in cui io sono quasi finito ammazzato per incastrare un criminale dinamitardo? E senza nemmeno avere la nomina da moschettiere»
«Sono passati secoli, d’Artagnan, smettila di tirare fuori quella storia».
Diane aveva sorriso. «Come siete finito nei moschettieri, a proposito?» aveva chiesto al giovane guascone. «Un ragazzo così a modo, come voi»
«Vorreste dire che i moschettieri non sono persone a modo?» aveva biascicato Porthos, la voce leggermente impastata dall’alcool. 
«Le persone a modo non barano a carte»
«Touché». Aramis aveva ammiccato.
«No, sul serio, d’Artagnan, ditemi la vostra storia».
Il ragazzo aveva abbassato la testa, vagamente imbarazzato. «Sono arrivato a Parigi e sono piombato alla guarnigione con l’intento di uccidere Athos».
Diane aveva scoccato un’occhiata al moschettiere che era seduto in un angolo a sorseggiare brandy senza partecipare troppo alla conversazione.
«Sì, posso capire che a volte susciti questo tipo di sentimento» aveva detto.
Athos si era limitato a inarcare un sopracciglio con la sua solita flemma e non aveva replicato.
«Siamo moschettieri, se qualcuno di tanto in tanto non cercasse di ucciderci vorrebbe dire che non facciamo bene il nostro lavoro» aveva concluso Aramis. 
 
Quando rientrava e rimaneva di nuovo sola con il silenzio e le troppe cose che vi si annidavano, la voce di Sebastiano tornava a farle visita.
«Affezionarsi ai moschettieri sarebbe un errore» le diceva.
E lei, come la ragazzina sperduta e arrabbiata che era stata - e che forse era ancora - rispondeva: «È troppo tardi». 
Non aveva importanza, l’affetto per i moschettieri non l’avrebbe fermata.
«No, il tuo affetto per loro no». Sebastiano parlava nella sua memoria come un fantasma più che come un ricordo, piantato nella sue mente come un rostro di ghiaccio. «Ma il loro affetto per te sì».
A quel punto, Diane affondava la testa nella federa di tessuto ruvido del guanciale e tratteneva il respiro fino a far sparire ogni cosa.
Quella mattina si svegliò con ancora il suono della voce del suo vecchio amico a farle eco tra le tempie.
Vide la luce filtrare decisa attraverso le inferriate della finestra e si rese conto che era tardi.
Si vestì in tutta fretta e scese correndo verso il refettorio.
La grande sala era vuota. La giovane novizia stava sparecchiando i tavoli dai resti della colazione.
Con una punta di rammarico, Diane pensò che sarebbe stata dura arrivare fino a pranzo senza niente nella pancia.
«Dove sono le altre? Dov’è la regina?» chiese, concitata.
«In cappella, per la preghiera mattutina» rispose la giovane, un viso rotondo sotto la cuffia dell’abito talare. «Siete ancora in tempo, mademoiselle».
«Bene». Diane si preparò a una corsa fino alla cappella.
«Dove andate? Mangiate almeno questo». La novizia la fermò e le mise in mano una fetta di pane scuro. «E non correte, alla madre superiora non piace e voi non volete che si arrabbi».
Mangiò la fetta di pane camminando a passo sostenuto - senza correre - fino alla cappella. Sgattaiolò dentro e trovò le suore e la regina già inginocchiate tra i banchi di legno scuro. La madre superiora, in piedi davanti a una grande Bibbia istoriata, le scoccò un’occhiata di quelle in grado di trasformare il vino in aceto. Con discrezione, Diane raggiunse la regina e si inginocchiò accanto a lei.
«Scusate» le mormorò in un filo di voce.
La sovrana le posò dolcemente una mano sulla spalla.
La madre superiora cominciò a leggere e la sua voce aveva il trasporto di una fanciulla che legge poesie d’amore.
C’era stato un momento, in passato, in cui Diane si era chiesta se Dio potesse dare davvero la pace, quella che a lei mancava. Con la vista annebbiata dalla gioventù e dall’inesperienza, aveva guardato con desiderio al velo da suora, all’idea di lasciarsi tutto alle spalle, tutto cancellato dal portone di un convento chiuso dietro di sé.
Adesso, dopo che erano passati tanti anni da quei pensieri, la ragazza non aveva ancora capito quale fosse la sua vocazione, ma era certa che non fosse verso Dio.
«Non lasciare che il mio cuore si pieghi al male e compia azioni inique con i peccatori: che io non gusti i loro cibi deliziosi. Mi percuota il giusto e il fedele mi rimproveri, ma l’olio dell’empio non profumi il mio capo…». [*]
Diane alzò impercettibilmente lo sguardo. Mischiarsi agli empi non era mai stata sua intenzione, ma d’improvviso si sentì come se tutto quello che aveva fatto, pensato, progettato negli anni del collegio e da quando era tornata a Parigi l’avesse resa sporca, un passo più vicina all’inferno.
L’orazione mattutina terminò con un salmo cantato. Diane rimase a labbra strette e mani giunte, la regina si inclinò appena verso di lei.
«Non cantante, Diane?» le chiese in un soffio.
«No, se non volete che crolli il soffitto»
«Lo stesso vale per me».
Le voci delle suore invece erano armoniche, perfette, si accordavano l’una all’altra come se non fossero nate per fare altro.
Diane sorrise leggermente. Trovava ci fosse qualcosa di bello e solenne in quel canto.
La preghiera cessò e le donne si alzarono in piedi in un fruscio di stoffa. Avevano tutte i loro compiti da assolvere prima del pranzo.
La regina si avvicinò alla madre superiora e scambiò con lei qualche parola sottovoce. Diane le vide allontanarsi verso la stanza attigua e poi giù, lungo le scale che si intravedevano attraverso la porta aperta.
La ragazza stava per chiedere a una delle suore se poteva rendersi utile in qualche modo, aiutare a preparare il pasto o fare qualsiasi altra cosa che non la facesse sentire di peso.
«Mi sembrate forte» disse la suora. «Potreste andare a raccogliere l’acqua dal pozzo».
Diane sorrise, anche se sperava in un compito meno faticoso.
Quello che successe nei minuti successivi fu rapido e confuso. La suora stava accompagnando la ragazza al pozzo, ma la porta della cappella si aprì davanti a loro con uno schianto. Cinque uomini armati e con i volti nascosti da un bavaglio piombarono nella stanza, pistola in una mano, spada nell’altra.
La regina! Fu il primo pensiero di Diane. Nell’altra stanza. Al sicuro. Forse…
Valutò la distanza tra la sua posizione e le scale. Cercò di pensare a quanto lontana potesse essere sua maestà. Di certo i moschettieri sarebbero arrivati da lei prima di quei briganti.
Sì, ma dove diamine erano i moschettieri e le guardie?
Le suore gridarono. Diane rimase muta per lo stupore e la paura, la canna di una pistola a mezzo metro dal suo petto.
Respirò, cercò di mettere in riga i pensieri. La perdita della lucidità è più letale della spada, anche questo glielo aveva insegnato Sebastiano.
Regina. Moschettieri. Briganti. Pistole.
Le sue possibilità di riuscire a mantenere la calma sfumavano secondo dopo secondo, man mano che si rendeva conto di essere totalmente inerme e impotente.
«Non vi agitate, sorelle» disse uno dei cinque uomini, quello più vicino a Diane. «Vogliamo solo il vostro piccolo tesoro, datecelo e nessuno si farà male».
La ragazza si rese conto di star trattenendo il fiato, la paura come una morsa gelida alla bocca dello stomaco.
Quegli uomini non erano lì per la regina, probabilmente neppure sapevano che il convento avesse un’ospite tanto importante. Magari gli operai che avevano visto le monete avevano parlato troppo e alle orecchie sbagliate.
Diane si guardò attorno. C’era un candeliere di ferro accanto a lei, forse, con la giusta rapidità avrebbe potuto usarlo per mettere fuori gioco l’uomo che le stava davanti. Ma poi gli altri quattro avrebbero potuto far fuoco. 
Un brigante afferrò la giovane novizia e la strattonò rudemente. «Dov’è lo scrigno?» le gridò a un palmo dal viso.
Forse le suore di quel convento erano davvero fatte di acciaio come avevano raccontato i moschettieri, ma quella ragazzina era solo uno scricciolo spaventato e non poté fare altro che indicare con mano tremante un mobiletto chiuso a chiave accanto all’altare spoglio della cappella.
Il brigante tentò di aprire l’anta del mobile, invano. Alla fine si risolse a sparare per far saltare la serratura.
«Idiota!» ringhiò uno della banda. «Ci sentiranno!».
Proprio così.
Diane afferrò il candelabro.
 
***
 
Dopo le prime giornate trascorse placide e noiose, Athos e gli altri cominciavano a credere che tutto stesse andando bene e così sarebbe stato fino alla fine del ritiro spirituale della regina.
Porthos e d’Artagnan erano dentro a controllare sua maestà, che aveva dato ordine di non venir disturbata durante le ore di preghiera.
Athos pensò che fosse invece una buona idea andare a controllare Aramis. Si era tenuto a distanza dalla regina, si era impegnato a gestire la cosa, come aveva detto, ma era evidente che da quando erano giunti in quel monastero il suo cuore fosse diventato pesante, di quella pesantezza in grado di spezzare un uomo. Quella pesantezza che Athos aveva conosciuto e non era stato in grado di sopportare.
Trovò Aramis nel piccolo cimitero alle spalle del convento, nel cortile posteriore. L’ombra dell’edificio picchiava tutto il tempo su quel fazzoletto di terra e sembrava che niente fosse in grado di riscaldare l’aria.
Una colonna con una madonna piangente segnava l’ingresso del camposanto. La statua era coperta di muschio e macchie di umidità, il basamento della colonna levigato dalle intemperie.
Aramis era in piedi davanti a una tomba.
Athos conosceva la storia di Isabelle, il compagno gliela aveva raccontata una sera in taverna; per la precisione, la sera dopo che un Luigi XIII raggiante di gioia aveva annunciato alla sua corte che la regina era in attesa di un bambino.
Quella sera i fantasmi danzavano con meno vigore sul fondo del bicchiere e per la prima volta Athos aveva pensato di aver davvero chiuso i conti con il proprio passato, anche se continuava a versare vino sperando di trovare chissà quale certezza tra i fumi dell’alcool. Porthos e d’Artagnan erano già andati via, Aramis si sedette al tavolo con lui, rompendo la tradizione che voleva che Athos venisse lasciato solo a procurarsi una degna sbornia.
Si aspettava che il suo affascinante compagno vuotasse in silenzio qualche bottiglia fino a collassare sul tavolo. Ma Aramis aveva l’animo del poeta e credeva forse troppo nelle parole e nella loro capacità di salvare un uomo in bilico sul precipizio: si era messo a parlare e Athos aveva dovuto rinunciare alla sua, di sbornia, per rimanere abbastanza lucido da riportarlo a casa.
«Per un amico questo ed altro» aveva detto, molte ore dopo, gettandolo di peso sul letto, in quella stanza ingombra di fogli e libri. «Ma non farlo mai più».
Non c’era più stata occasione di riparlarne, non c’era più stata occasione di restare soli, fino a quella mattina.
Aramis si fece il segno della croce. Athos restò in silenzio alle sue spalle, non voleva essere invadente, ma non voleva nemmeno lasciarlo solo con i suoi demoni.
«Va tutto bene» disse Aramis, senza voltarsi.
«Lo so» mentì Athos.
«E tu, stai bene?»
«Io?».
Aramis si voltò appena, rivelando una virgola di sorriso sotto i baffi scuri, lo sguardo acuto di quello che ne sa sempre troppo. «Stavi facendo gli occhi dolci a Diane l’altra sera o mi sono ingannato?»
«Ti inganni. È risaputo che io gli occhi dolci non so farli»
«Sarà. È che noi altri ci stavamo chiedendo se per caso tu non fossi guarito».
Athos alzò gli occhi al cielo. «Guarito da cosa?».
Aramis si voltò, aprì le braccia come se si stesse preparando a esporre chissà che eloquente teoria, ma un attimo dopo il viso gli si pietrificò in un’espressione di sgomento.
Uno sparo, molte grida. La sensazione viscida e sgradevole del pericolo che chiudeva la gola. Voglia di bestemmiare.
Non è possibile. Non di nuovo. Dio, ti prego, no…
Athos e Aramis si precipitarono di corsa verso il convento, le suole degli stivali che scivolavano sul terriccio umido.
«Cos’è successo?»
«Dov’è la regina?»
«Da dove vengono gli spari?»
«Dove sono le guardie?»
«Che diamine stavate facendo voi due?».
Aggredirono Porthos e d’Artagnan con una raffica di domande, continuando a correre insieme a loro con le pistole tra le mani.
«La cappella» riuscì a dire d’Artagnan, il fiato serrato dall’agitazione.
I moschettieri aprirono di schianto una delle porte laterali della cappella, in tempo per vedere un uomo afferrare uno scrigno dal mobiletto accanto all’altare e Diane colpire con un candelabro un altro che teneva stretta la giovane novizia tremante di paura.
Nella mente di Athos si confusero due pensieri sovrapposti: “gran bel colpo” e “ragazzina idiota vuoiforsefartiammazzare”. 
Tra i ladri e i moschettieri c’erano troppe suore spaurite, dalla porta dove gli uomini del re erano entrati non si riusciva ad avere una linea di tiro pulita e il tempo aveva preso a scorrere velocissimo, senza lasciare spazio al pensiero.
La regina non era nella stanza. Fu l’unica cosa che riuscirono a pensare.
«Moschettieri?» ringhiò quasi spaventato l’uomo che aveva preso lo scrigno. Se erano tanto sorpresi della loro presenza, allora non sapevano che sua maestà era ospite al convento, quello era solo un volgare furto.
«Via! Subito» ordinò l’uomo. I suoi compagni si mossero verso la porta principale.
Veloci, troppo veloci, e con le suore a fare da schermo.
I moschettieri si lanciarono per inseguirli e l’uomo che era stato colpito con il candelabro si alzò, con un rivolo di sangue che gli colava da una tempia. Afferrò Diane e le torse il braccio dietro la schiena.
In un attimo la ragazza si trovò con una canna di pistola puntata alla testa.
Athos provò la sensazione di un pugno allo stomaco.
«Se ci inseguite, lei muore» sibilò il ladro.
Diane, le labbra contratte e il viso pallido, fece vagare lo sguardo spaventato e smarrito sui moschettieri, poi i suoi occhi si fissarono su Aramis. Sembrava certa che lui potesse colpire l’uomo senza farle del male e forse aveva ragione, ma era un rischio troppo grande.    
Athos fece cenno a Aramis di abbassare la pistola. Un’ondata di nausea bruciante gli salì dalla pancia alla testa mentre vedeva i ladri scappare via, sparire dietro la porta trascinandosi dietro Diane.
«Qualcuno vada a controllare la regina» tuonò Athos, agitando il pugno rabbiosamente e sentendo un rivolo di sudore scivolargli lento lungo la mascella. «Spero per le guardie che siano lì con lei e solo per questo non sono corse qui a rendersi utili».
Aramis si precipitò a obbedire. Porthos e d’Artagnan corsero alla finestra per vedere i ladri a cavallo che si allontanavano, con Diane stesa di traverso su una sella.
«Dobbiamo inseguirli!» esclamò Porthos.
In quel momento la regina e la madre superiora entrarono trafelate nella cappella. Dietro di loro le guardie correvano come galline - almeno avevano fatto il loro dovere, proteggendo sua maestà, e Athos non aveva alcuna scusa per poterli prendere a pugni.
«Cosa è successo?». La madre superiora si fece il segno della croce.       
«Dov’è Diane?» chiese la regina.
«Dobbiamo fare qualcosa» dissero in coro Porthos e d’Artagnan.
State tutti zitti, lasciatemi pensare!
Non potevano semplicemente lanciarsi all’inseguimento di quei ladri, se si fossero sentiti braccati avrebbero potuto fare del male a Diane e, allora, tanto valeva che i moschettieri si gettassero dalla torre del campanile del monastero, perché se fossero tornati a Parigi senza di lei, il capitano Treville li avrebbe scuoiati vivi o peggio.
Più che gettarsi da un campanile, Athos provava l’irrefrenabile impulso di picchiare la testa contro il muro.  
«Dov’è Diane?» ripeté la regina, che cominciava ad alterarsi.
«L’hanno presa i ladri, maestà» rispose Aramis, nervoso.
«E voi avete lasciato che la prendessero?».
Ecco, prima o poi quel momento arrivava sempre quando i moschettieri fallivano, il momento in cui qualcuno parlava come se lo avessero fatto di proposito.
«Andremo a riprenderla» disse Porthos, in tono sbrigativo. «Anzi, perché non ci siamo già andati?»
«Perché non possiamo farci scoprire mentre li inseguiamo, potrebbero farle del male» sospirò Athos, ostentando una pazienza che si andava assottigliando secondo dopo secondo. «Dobbiamo aspettare che faccia sera e sperare di sorprenderli con il buio».
«Ma entro sera chissà dove saranno» protestò la regina.
«Maestà, dovreste sapere ormai che le imprese disperate sono la nostra specialità» la rabbonì Aramis. 





[*] Sono versi dal Salmo 140 della Bibbia

 

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Capitolo 8
*** Una gita inattesa ***


VI
Una gita inattesa
 
 
Alla fine, il sole era tornato, contro ogni previsione, come una sorpresa al centro del duro inverno parigino.
C’era una bella luce nella biblioteca del palazzo. Era lì che i moschettieri erano stati convocati, dalla regina, avevano poi appreso con un certo stupore.
«Mia cara, vi invito fermamente a ripensarci» disse il re.
Sua moglie accennò un sorriso e scosse il capo. «Sapete che non posso» disse calma.
Ogni anno, per il suo compleanno, la regina si recava in visita in un convento e passava qualche giorno in un ritiro di preghiera. Era decisa a onorare la tradizione anche quella volta, a dispetto delle sue condizioni.
«È un voto che ho fatto e non posso mancare a un impegno preso con Dio» concluse Anna con una fermezza tanto dolce da stroncare sul nascere qualsiasi recriminazione.
Il re aprì la bocca per protestare, la richiuse, strinse le labbra e si voltò verso Richelieu.
«Cardinale, ditele voi qualcosa, che con Dio dovreste avere una certa confidenza» borbottò.
«Notoriamente, condizioni particolari di salute possono sollevare momentaneamente le persone dai propri voti verso il Signore, come per il digiuno quaresimale e…» esordì Richelieu.
La regina alzò il capo verso di lui con uno sguardo di sfida celato dal suo viso gentile.
«Tuttavia,» sua Eminenza corresse il tiro, «la gravidanza di sua maestà non è in uno stato così avanzato e il viaggio non dovrebbe presentare particolari difficoltà. Un tale sacrificio sarà certamente gradito agli occhi di nostro Signore».
Era piacevole vedere l’uomo più potente di Francia esibire un atteggiamento così mansueto.
Il re aprì le braccia poi le lasciò ricadere lungo i fianchi. «Scegliete almeno un’altra meta, più vicina. A Parigi non mancano i conventi, sapete»
«Ho preso la mia decisione, sire»
«E vi sembra una decisione saggia? Tornare nel luogo dove vi è accaduto qualcosa di così terribile!».
L’espressione imperturbabile di Athos si incrinò per un istante.
Oh, no, non intenderà mica…
«Il convento di Bourbon-les-eaux mi ha dato asilo quando la mia vita era in pericolo» insisté la regina, come se stesse esponendo la più logica delle argomentazioni. «Nessuno attenterà alla mia vita questa volta. Ne convenite con me, Eminenza?»
Il cardinale fece un sorriso tirato che accentuò le rughe sul suo volto scavato, le pelle sugli zigomi era così sottile da sembrare trasparente. «È altamente improbabile che una simile tragedia possa ripetersi».
Il re si voltò verso di lui con uno scatto. «Da quando mi remate contro, Armand?» sbuffò esasperato.
«Mai, vostra maestà. Mi sto solo limitando a notare che le argomentazioni della regina sono tutt’altro che erronee»
«E poi mi accompagneranno i migliori tra i moschettieri» aggiunse Anna, indicando con un garbato cenno della mano i quattro uomini schierati a qualche metro di distanza.
Oh santo cielo. Athos si voltò impercettibilmente per spiare l’espressione di Aramis accanto a lui. Sembrava stesse pregando che una voragine si aprisse sotto i suoi piedi per inghiottirlo.
La regina non aveva cattive intenzioni e tutto si poteva dire di lei meno che fosse una persona crudele, ma c’era qualcosa di involontariamente sadico nel voler trascinare tutti loro, e soprattutto Aramis, di nuovo in quel posto.  
Il re chiuse il pugno e se lo portò alle labbra. Fece qualche passo avanti e indietro, come se stesse riflettendo su qualcosa di assai grave e pregnante.
«E sia» capitolò. «Ma oltre ai moschettieri voglio che vengano con voi altre guardie e un medico di corte, per ogni evenienza. E sappiate, comunque, che tutto ciò non mi rende affatto felice»
«E non vi aiuta sapere che rende felice me?» disse la regina con un sorriso che avrebbe fatto sciogliere una statua.
Il re la guardò e sospirò senza aggiungere altro, poi lasciò la stanza seguito dal cardinale.
Richelieu e la regina si scambiarono una breve occhiata prima che lui andasse via.
Anna si avvicinò ai moschettieri e sorrise loro. «Spero che non me ne vogliate se vi ho coinvolti in questo mio capriccio» disse.
«Siamo ai vostri ordini, maestà» rispose prontamente Aramis.
«Perdonate l’ardire, ma voi siete proprio certa, maestà, che sia il momento e il luogo opportuno?» azzardò Athos.
«Ho promesso alle suore che non avrei dimenticato la lealtà che mi hanno mostrato. Voglio onorare questa promessa e voglio farlo di persona».
Quello sarebbe stato un buon momento per dire che, viste le cose gravi accadute a Parigi in quei giorni, forse era meglio che i moschettieri restassero in città a occuparsi di quelle faccende. Ma erano obiezioni che Athos non osò esporre.
«Certamente, maestà».
Alle loro spalle, la porta della biblioteca si aprì e la voce di un valletto annunciò che era arrivato l’ospite che sua maestà attendeva.
«Mademoiselle Leroux» disse la regina in tono gioviale.
Iddio ce ne scampi…
Anna sembrava sinceramente contenta. Osservò compiaciuta la ragazza che veniva avanti e le si inchinava con fare ossequioso.
Per conto suo, Diane, sembrava assai poco a suo agio nel doversi muovere in quelle circostanze senza la presenza di suo zio. Niente a che vedere con la ragazza che loro conoscevano al di fuori della gabbia dorata del palazzo del re, eppure aveva una sua grazia naturale, un’eleganza composta che non l’avrebbe fatta sfigurare tra le più nobili dame di corte. 
«Grazie di essere venuta». La regina prese le mani della sua ospite con fare amichevole. «Vi ho mandato a chiamare perché devo chiedervi un favore».
Diane lanciò un’occhiata di traverso ai moschettieri, smarrita. «Al vostro servizio, maestà»
«È qualcosa che non posso chiedere alle mie dame, loro non apprezzerebbero e, francamente, non sono neppure il genere di compagnia che vorrei accanto in una simile circostanza»
«Dovete solo chiedere, maestà».  
La sovrana prese sottobraccio Diane e passeggiò con lei avanti e indietro nel grande spazio vuoto tra gli alti scaffali di libri, sotto lo sguardo di putti e madonne che spiavano dal soffitto affrescato.
«A breve partirò per il convento di Bourbon-les-eaux per un ritiro spirituale di qualche giorno» spiegò. «Volevo chiedervi di accompagnarmi. Il re è in pensiero e sia io che lui ci sentiremmo più tranquilli se avessi con me di una fidata compagnia femminile, oltre che la protezione dei moschettieri qui presenti».
Mentre la regina muoveva qualche passo in avanti, per annusare un vaso di fiori, Diane si voltò verso i quattro uomini, rimasti impettiti in mezzo alla stanza.
«Co-sa?» mimò con le labbra, corrugando la fronte.
Loro scossero il capo.
«Un convento… un altro?» balbettò Diane. Porthos simulò un lieve colpo di tosse, d’Artagnan fece un cenno agitando la mano come a dire “non farlo”. 
«Bello. Cioè, quello che volevo dire, maestà» la ragazza tentò di riaversi, «è che sarei onorata di accompagnarvi e vi ringrazio per la considerazione che mi avete dimostrato»
«Sono io che ringrazio voi. Davvero, la vostra compagnia mi renderà più tranquilla»
«Ma voi siete assolutamente certa che io sia proprio la persona che desiderate?».
D’Artagnan si portò una mano alla fronte.
L’espressione della regina si incupì appena. «Perché oggi mi fate tutti domande del genere?» disse. «Non c’è nessuno che sia più appropriato di voi, Diane»
«Bene. Grazie, maestà». La ragazza abbozzò un sorriso incredulo. «Quando si parte?»
«Dopodomani. Di norma vi avrei dato un preavviso maggiore, ma credo sia meglio partire prima che il re cambi idea».   
La regina lasciò la stanza e Diane restò da sola con i moschettieri. La prospettiva di fare quel viaggio non la entusiasmava, era evidente. Aprì le mani come a cercare spiegazioni su quanto era appena successo.
«Credo dovreste cominciare a preparare i bagagli» disse Porthos. «Se pensate ci sia un modo per evitare questa cosa, tranquillizzatevi, tanto non c’è».
Diane sospirò, rassegnata. «Pensavo aveste da fare, in città».
«Sì, be’, i criminali saranno ancora qui quando torneremo. Scortare la regina è più importante» rispose Aramis.
La ragazza fece cenno di aver capito. Sconsolata, si andò a sedere su un sofà accanto alla finestra, agitando i piedi come una bambina imbronciata.
 «A proposito di criminali e affini, cosa mi dite di Luc Morice? Lo avete interrogato?»
«Ha negato di sapere qualcosa delle pistole. Quella casa era disabitata da tanto tempo, lui l’aveva comprata e non era ancora riuscito a venderla» spiegò d’Artagnan. «Di fatto non ci sono prove contro di lui e il capitano non ha potuto fare niente per trattenerlo, ma è evidente che in qualche modo, consapevole o inconsapevole, è coinvolto in quello che sta succedendo e lo terremo d’occhio. O almeno, lo faremo quando saremo tornati a Parigi»
«Sperando che nel mentre non si verifichi qualche altra novità» sbuffò Porthos.
«E del bandito, cosa mi dite?» chiese Diane.
«Chi vi ha detto del bandito?»
La ragazza guardò Athos con una punta di imbarazzo. «Alla guarnigione non si parla d’altro»
«Quando lo cattureremo, se ne parlerà ancora di più» replicò il moschettiere, gelido.
 
 
***
 
La mattina della partenza, Parigi era avvolta nella foschia.
Si sarebbero messi in viaggio molto presto, in modo da essere al convento entro sera ed evitare soste per la notte.
Diane arrivò alla guarnigione dei moschettieri all’alba, con una grossa sacca da viaggio sulle spalle. Il peso la faceva camminare sbilanciata in avanti, rischiando di farla inciampare nei suoi stessi passi.
D’Artagnan l’accolse con un sorriso sarcastico. «Non sapevo stessimo per andare in guerra».
La ragazza lasciò cadere il suo bagaglio che atterrò con un tonfo morbido, sollevando un nugolo di polvere e fili di paglia.
«La regina non mi ha detto quanto tempo resteremo e non sapevo cosa portarmi» si giustificò lei, guardando i moschettieri in cerca di comprensione.
«Giusto» fece Aramis. «Tipico. E scommetto che non vi piacciono neppure i vostri capelli»
«Li odio, in effetti». Diane corrugò la fronte e passò in rassegna i quattro uomini, impegnati a equipaggiare i cavalli.
Il taglio che si era provocato nello scontro con il bandito spiccava come un ghigno rosso sul dorso della mano destra di Athos, attorniato da un livido che si andava sbiadendo.
«Come va la ferita?» chiese la ragazza.
Il moschettiere alzò il capo, aprì e chiuse le dita della mano e scrollò le spalle. «Sta guarendo».
Diane distolse subito lo sguardo. Tra sé e sé si chiese cosa fosse ora questa novità, che scherzo le stesse mai giocando la sua testa se non riusciva a guardare in viso Athos.
Uno dei cavalli si scosse e mosse un passo indietro agitando la coda di crine corvino. Lei si ritrasse, infastidita.
«I cavalli non mangiano le persone, lo sapete, sì?». Porthos sorrise, accarezzando il muso dell’animale. Prese con dolcezza la mano della ragazza e l’appoggiò sul collo della bestia. Lei tentò una carezza timida e poco convinta, sentì muscoli e vene gonfie guizzare sotto il suo palmo.
«Sono sicura che i cavalli dei moschettieri siano bestie molto disciplinate».
«Dovete colmare questa lacuna, Diane» disse Aramis. «Dovremo insegnarvi a cavalcare, un giorno o l’altro».
«Ho un sacco di lacune, io. Non so nuotare, ad esempio, ma sono sopravvissuta benissimo fino ad oggi». La ragazza scosse il capo e ritrasse la mano dal collo del cavallo. «Piuttosto, qualche suggerimento per sopravvivere a questa gita?».
Non aveva fatto mistero del suo scarso entusiasmo per quel viaggio. Suo zio le aveva raccomandato diverse volte, e sempre con le stesse parole, di comportarsi a dovere, di accudire sua maestà e di seguire le istruzioni dei moschettieri.
«Non avete ragione di sentirvi a disagio» disse d’Artagnan. 
«È la regina, mette a disagio per principio»
«Sua maestà è una donna molto gentile, non vi farà tagliare la testa per la vostra irriverenza, non preoccupatevi» aggiunse Porthos. «Solo, non lasciate mai che cucini per voi».
Diane spalancò gli occhi. «Perché mai sua maestà dovrebbe cucinare per chicchessia?». I moschettieri si scambiarono occhiate divertite e ghigni ma non risposero. 
«Comunque sia, non si suppone che io debba andare a cavallo, vero?» domandò alla fine Diane, raccogliendo da terra il suo bagaglio terribilmente pesante.
«No, tu andrai in carrozza, insieme alla regina» rispose il capitano Treville, che si era appena affacciato dal ballatoio. Aveva il cipiglio burbero e l’aria un po’ stropicciata di qualcuno che si era appena alzato - durante la sua prima visita Diane non ci aveva fatto caso, ma il capitano dei moschettieri aveva persino una branda in quell’ufficio, nel caso qualche notte le pareti della guarnigione avessero deciso di cadere, senza lui lì a mantenerle.
«In effetti» continuò Treville, «in questo preciso momento tu dovresti essere su quella carrozza».
«Sono in ritardo?» esclamò Diane.
Dal suo nido di pali e assi di legno, suo zio annuì vagamente torvo.
La ragazza litigò con la gonna, la sacca da viaggio e i suoi stessi piedi e per poco non inciampò.
D’Artagnan fu lesto ad afferrarla prima che andasse a finire a faccia in terra e Porthos le tolse la sacca dalla spalle. «Questa la porto io, è meglio» disse.
«Fate attenzione, tutti e quattro. Anzi tutti e cinque» fu il saluto del capitano Treville. Diane si voltò verso di lui prima di imboccare l’arcata del portone e gli rivolse con un sorriso e un cenno con la mano.
 
***
 
Il capitano si era caldamente raccomandato di evitare soste non necessarie. Approfittando dell’ennesima lamentala del re per quel viaggio inatteso, aveva ottenuto che il sovrano affidasse il comando indiscusso del corteo ai moschettieri - il cardinale non si era azzardato a opporsi.
Gli uomini di Treville viaggiavano in testa, dietro di loro la carrozza della regina e, a seguire, un drappello di dieci guardie. Con loro galoppava anche il medico di corte; il dottor Lemay sembrava quello meno entusiasta del viaggio e delle condizioni scomode - aveva cominciato ad agitarsi sulla sella a poche miglia da Parigi, tuttavia aveva valorosamente rifiutato quando la regina gli aveva proposto di salire sulla carrozza, insieme a lei a Diane.
Nel primo pomeriggio il corteo fu comunque costretto a fermarsi. I cavalli erano stanchi e tutti loro avevano bisogno di sgranchirsi le gambe.
Athos scelse per la sosta una radura al limitare di una vigna, non lontano da un piccolo villaggio dall’aria molto tranquilla. Il posto non era del tutto isolato e, se la regina avesse avuto qualche necessità, avrebbero potuto chiedere agli abitanti della zona.
D’Artagnan prese i cavalli e li portò ad abbeverarsi ad un ruscello vicino. Porthos fece mulinare le braccia nel vuoto per sgranchirsi la schiena. Aramis restò qualche istante fermo, in mezzo a quel placido nulla, a guardarsi le punte dei piedi con aria assorta.
«Stai bene?» gli sussurrò Athos.
«Posso gestirla, questa cosa»
«Non è quello che ti ho chiesto».
Lo sportello della carrozza si aprì di schianto e la nipote del capitano scese con un balzo goffo, reggendosi tra le mani la gonna dell’abito. Respirò lentamente una grande boccata d’aria e gettò la testa all’indietro, muovendo il collo come un gatto.
La compagnia di mademoiselle Leroux era quel genere di cose a cui bisognava fare l’abitudine, dopo si poteva imparare ad apprezzare la sua parlantina mordace e la buffa tenerezza che era capace di mostrare quando non era troppo impegnata a comportarsi da ragazzina petulante.
«Non dovreste prendervi cura della regina, voi?» disse Aramis, lanciando un’occhiata immusonita allo sportello aperto.
Diane corrugò la fronte. «La regina sta dormendo e sta meglio di me. Che vi prende? L’aria aperta vi fa male?».
Aramis chiuse gli occhi e inspirò lentamente. Si passò una mano tra i capelli, arruffandoli nervosamente. «Vi prego di scusarmi, Diane» mormorò. «Troppe ore in sella».
La ragazza scosse la testa e gli batté affettuosamente una mano sul braccio, a dire che considerava il suo scatto cosa già dimenticata.
Athos cercò lo sguardo di Diane, si chiese se anche lei non fosse esausta per quel lungo viaggio giunto appena a metà: una carrozza poteva essere più scomoda di una sella, per questo lui le aveva sempre evitate ogni volta che aveva potuto, prima, quando le carrozze, insieme a molte altre cose, sembravano una componente imprescindibile di una vita che non esisteva più.
Diane distolse subito gli occhi. Era comprensibile che ce l’avesse con lui, dopo che Athos aveva cercato di allontanarla dai loro affari di Parigi, affari che si erano piantati nella sua testa come un chiodo rovente.
Il bandito, l’omicidio, il traffico di armi erano tutte cose che necessitavano di essere chiarite e risolte. E invece loro erano lì, in mezzo al nulla, diretti in un luogo che mai nella vita Athos avrebbe voluto rivedere
«Come sta andando, Diane, state bene?» domandò Porthos, avvicinandosi. «Mi è sembrato di sentire delle risate provenire da quella carrozza»
«La regina è un’interessante compagna di viaggio» replicò la ragazza. Sembrava contenta.
«Sono certo che lo siate anche voi».
Diane batté un colpetto sull’avambraccio di Porthos e si alzò sulle punte per baciargli la guancia. Accanto a lui appariva minuscola, con la vita sottile e le spalle magre, di statura non particolarmente alta.
Porthos fece un sorriso gongolante.
Del resto, bastava poco per far felice una giovane donna. Athos pensò che erano tutte cose che aveva dimenticato.
«Se la regina non ha bisogno di nulla, ci rimettiamo in viaggio subito» ordinò, facendo un cenno a d’Artagnan perché riportasse indietro i cavalli.
Diane annuì e si affrettò a tornare verso la carrozza, correndo agilmente sul terreno scivoloso.
Per un attimo, nella mente di Athos si accese il ricordo del bandito che scappava via, sparendo nella notte. Strinse le labbra e arricciò il naso con uno scatto nervoso, poi cancellò quell’immagine e rimontò in sella. 
 
Il convento di Bourbon-les-eaux era lì dove lo avevano lasciato, arroccato sulla cima dell’altura, tra gli alberi che in quel periodo dell’anno erano spogli e mettevano in risalto il profilo severo della massiccia costruzione di pietra.
Alle spalle del corteo, la luce del tramonto andava spegnandosi, le prime stelle brillavano tra le nuvole ammassate attorno alla guglia del campanile.
Una sensazione generale di sollievo si diffuse tra i viaggiatori. Erano arrivati a destinazione in tempo e senza alcun incidente. La regina stava bene e presto tutti avrebbero potuto riposarsi.
«Chissà se le suore fanno ancora quel brandy all’uva» disse Porthos facendo schioccare le labbra.
«Magari hanno perduto la ricetta» rispose Aramis, mesto.
La salita che portava al convento era più ripida di quanto ricordassero, la carrozza la percorse non senza difficoltà, ma alla fine giunsero davanti al portone di legno. Le buone sorelle avevano ancora l’usanza di tenerlo aperto, spalancato, per accogliere chiunque avesse bisogno.
I tragici avvenimenti di tre mesi prima non sembravano aver minato la loro fiducia nell’umanità o nella loro missione.
Il corteo invase il cortile spoglio del monastero e le suore si precipitarono fuori, al seguito della madre superiora. La regina era un’ospite tutt’altro che inattesa.
Le sorelle si inchinarono quando Anna scese dalla carrozza. Dietro di lei, Diane l’aiutò a tenere sollevata l’ampia gonna dell’abito di velluto.
«Maestà» disse la superiora, un sorriso accogliente sul volto severo, «abbiamo ricevuto il vostro messaggio solo ieri, sono contenta di vedere che siete arrivata prima che fosse troppo buio. Avete fatto buon viaggio?»
«Sì, madre, vi ringrazio». La regina ricambiò il sorriso. «Vi chiedo scusa per il trambusto, ma il re mi ha assegnato una scorta più numerosa di quella dell’ultima volta».
La suora contò con una rapida occhiata le guardie e i moschettieri, la sua mente da donna pragmatica stava già pensando a un modo per sistemarli tutti nella maniera più confortevole possibile anche se forse non era consono che una tale folla di soldati dormisse in un convento di monache per tutto quel tempo.
Athos si fece avanti. «Abbiamo portato l’attrezzatura per accamparci, ci sistemeremo fuori, in cortile, se per voi non è troppo disturbo» disse.
La superiora sembrò apprezzare la cortesia e il fatto di rivedere un compagno di battaglia.
«Ma immagino vogliate che il portone rimanga chiuso» gli rispose.
«Lo apprezzeremmo molto, sì».     
La suora annuì. «C’è una squadra di operai che sta sistemando la cappella, abbiamo avuto dei danni per le piogge della scorsa settimana».
Pareti sottili, Athos lo ricordava, quel convento non era esattamente una fortezza, a dispetto della tempra d’acciaio delle suore che lo abitavano.
«Vi aiuteranno a montare il vostro campo» concluse la madre superiora. «Solo state attenti all’orto e, per il vostro bene, non infastidite le api».
Athos annuì con un cenno garbato e la vaga ombra di un sorriso.
La regina mormorò qualcosa all’orecchio di Diane e poi entrò nel monastero, accompagnata da una suora e da una giovane novizia.
«Aspetta, aspetta, questa cosa del dormire accampati fuori in mezzo al gelo quando è stata decisa?» domandò Porthos quando tutte le monache furono rientrate.
«Perché, tu hai intenzione di dormire fino a quando questa vacanza non sarà finita?» fece d’Artagnan.
«È stata un’idea del capitano» spiegò Athos. «E, personalmente, trovo molto tranquillizzante il fatto di essere qui fuori, tra quel portone e la regina»    
Porthos sbuffò, allargando le narici. «Perché non lo hai detto prima?».
«Non volevo ti facessi prendere dallo scoramento»
«Voglio tornare a casa» piagnucolò d’Artagnan, stropicciandosi il viso con le mani.
«Io vorrei non essere mai partito» sospirò da qualche parte dietro di loro il dottor Lemay.
Dalla porta del convento uscirono quattro uomini con i vestiti impolverati e sporchi di calce.
Athos si guardò in giro per cercare Diane, non l’aveva vista entrare e voleva evitare che tentasse di suicidarsi in qualche modo con la sua enorme sacca da viaggio. La vide balzare giù dalla carrozza reggendo uno scrigno intarsiato.
«Pensate di riuscire a portarlo senza rompervi una gamba?» chiese.
Diane fece un’espressione fintamente piccata. «Potrei farlo, ma visto che ho al mio servizio un quartetto di moschettieri che vantano onore e galanteria lascerò che lo portiate voi».
Gli depositò lo scrigno tra le braccia e Athos si stupì di quanto fosse pesante. Ne sollevò il coperchio e le monete d’oro che c’erano all’interno scintillarono alla luce delle fiaccole.
«L’offerta della regina per l’ospitalità delle suore» spiegò Diane.
«Meglio a loro che nelle tasche del cardinale» approvò il moschettiere.
 
Cenarono tutti nel refettorio del monastero. Le suore avevano allestito un tavolo per i soldati in fondo alla sala del refettorio. La regina e Diane, in abiti semplici, sedevano accanto alla madre superiora.
La preghiera prima del pasto fu infinitamente lunga e ricordò a tutti loro quanto fossero stanchi e affamati.
Anche se la mente di Athos e dei suoi compagni tornava in continuazione agli affari lasciati in sospeso, una sensazione di calma e serenità sembrava aleggiare nella sala, nel silenzio scalfito solo dal  rumore delle posate che urtavano i piatti, delle caraffe d’acqua che sfioravano di tanto in tanto il bordo dei bicchieri.
Dopo cena, i soldati si ritirarono, uscendo in una fila ordinata, diretti alle tende allestite nel cortile anteriore.
Fuori, il freddo gelido era mitigato da grandi falò accesi negli spazi vuoti tra una tenda e l’altra.
Erano stati organizzati dei turni di guardia al portone esterno, ma la notte era tranquilla e silenziosa e quasi si riusciva a sperare che non sarebbe capitato niente di male, questa volta.
I moschettieri si sistemarono nelle tende montate a ridosso dell’entrata. Dopo essersi liberati dall’ingombro delle armi si sedettero intorno a uno dei fuochi.
La stanchezza serpeggiava languida nei muscoli, fino alla testa ma dormire non sembrava un’impresa tanto semplice, proprio come aveva previsto d’Artagnan. 
«Dobbiamo organizzare qualcosa, per quando torneremo a Parigi» disse Porthos, allungando le mani verso il falò che scoppiettava davanti a loro.
«Una cosa come la tua ultima festa di compleanno?» replicò Aramis con una smorfia.
«Una cosa per vederci a fondo nella questione di quelle armi»
«E in tutto questo, ci siamo dimenticati delle colombe» osservò d’Artagnan.
«Uccidere colombe non è un crimine, contrabbandare pistole lo è»
«Sì, ma quelle colombe sono state qualcosa di più di un semplice scherzo macabro».
Per un attimo, i moschettieri abbassarono lo sguardo sul fuoco, assorbiti ognuno dalle proprie riflessioni. Quello delle colombe era stato uno scherzo macabro tanto quanto bruciare una casa disabitata.
Athos si passò una mano sugli occhi, si chiese se il bandito che aveva incrociato quella notte in strada non fosse l’elemento che legava assieme tutti gli incidenti dell’ultima settimana, ma si trattenne dal dirlo; cominciava a credere che la sua stesse diventando un’ossessione e che tanto accanimento potesse offuscare il suo giudizio e fargli immaginare cose prive di fondamento.
Uno sbuffo di stoffa chiara svolazzò per un attimo a margine del suo campo visivo.
«Diane?».
La ragazza era comparsa dal cono d’ombra proiettato dall’arco del portone interno, con il suo passo silenzioso. Reggeva tra le mani una bottiglia e cinque bicchieri in equilibrio precario.
«La madre superiora mi ha detto di portarvi questo, ha detto che vi siete meritata una delle ultime bottiglie del loro brandy speciale» disse, mettendosi a sedere in mezzo a loro e posando in terra bicchieri e bottiglia.
«Ora sì che si comincia a ragionare!». Porthos batté le mani, deliziato
«Non so se sia il caso che voi lo assaggiate» disse Aramis, notando il bicchiere in più, «vi assicuro che è roba forte»
Diane spinse in fuori le labbra. «Lo era anche il vino che il prete del collegio teneva nascosto in sagrestia» replicò.
Porthos ammiccò. «Rubavate il vino della messa. Siete una donna da sposare, ve lo hanno mai detto?»
«Qualche volta».
Il sorriso furbo di Diane brillò nella luce dorata del falò, prima che lei si mettesse a versare il liquore.
«In realtà, il mio scopo è quello di farvi bere così poi mi racconterete cosa diamine è successo in questo posto».
«È presto detto» l’accontentò Athos. «Un gruppo di mercenari aveva tentato di assassinare la regina mentre era al lago, qui vicino. Io e Aramis ci barricammo qui dentro con lei, mentre Porthos e d’Artagnan tornarono a Parigi per cercare rinforzi. Le suore del convento si rivelarono piene di risorse e riuscimmo a reggere l’assedio fino a quando non arrivò il capitano. E tutto quello che voglio ricordare di quelle giornate assurde è questo brandy».
La ragazza ascoltò il racconto con gli occhi sbarrati, sorpresa e interdetta. Il viso le si incupì.
«Chi aveva ingaggiato i mercenari? Dev’essere stato qualcuno di molto potente per dimostrare un simile spirito di iniziativa» disse.
«Siete perspicace in una maniera che è pericolosa, Diane» osservò Aramis, rigirandosi il bicchiere di liquore tra le mani ma senza bere. L’affermazione non era priva di sottintesi.
«Sì, l’ho scoperto a quindici anni»
«Cosa?»
«Che ficcare il naso può portare a… risvolti imprevisti».
Porthos mandò giù il primo bicchiere di brandy e se ne versò un secondo. «Sembra che abbiate una storia anche voi, è molto più di quello che si può dire di qualsiasi altra ragazza cresciuta in un collegio di religiosi».
Athos puntò gli occhi sul volto della giovane, era curioso di sentire cose avrebbe risposto.
Diane assaggiò un sorso di liquore e arricciò le labbra, l’alcool le fece salire una sfumatura di rosso sulle gote - e sembrava l’unico motivo per cui una ragazza del genere potesse arrossire.
Il moschettiere pensò di nuovo a quella inattesa sensazione di tenerezza che la nipote del capitano suscitava, l’effetto di un fiore appena colto quando lo si tiene tra le mani e lo si vorrebbe stringere ma allo stesso tempo si ha paura di sciuparlo. Oppure paura di pungersi con una delle sue spine.
Ma lui non faceva testa, per lui tutte le donne avevano le spine da quando…
«Avevo un amico speciale, al collegio» cominciò a raccontare Diane.   
«Non è il genere di cose che le ragazze di buona famiglia sono incoraggiate ad avere» disse Porthos, storcendo la bocca.
Aramis gli mollò uno schiaffo dietro la nuca. «Perché, in nome di Dio, devi sempre dire tutto quello che ti passa per la testa?».
Diane non sembrò prendersela, anzi ridacchiò sommessamente. «Non era quel genere di amico. Avevo notato qualcosa di strano in lui, non so spiegare, avete presente quando una sensazione vi prende così forte da sembrarvi una certezza? Ebbene, lo tenni d’occhio e, alla fine, scoprii di aver visto giusto: non era un monaco come gli altri. Era un soldato dell’esercito papale, un disertore, si era nascosto nel convento per non farsi trovare».
«E non lo confidaste a nessuno?» domandò Athos.
«No. Sapevo cosa fanno ai disertori. Non conoscevo le sue ragioni e non pensavo di avere il diritto di condannarlo»
«Cosa gli è accaduto?» intervenne d’Artagnan.
Lo sguardo di Diane si fece scuro, la luce del falò non sembrava in grado di rischiarare il suo viso che si era come annuvolato. «Alla fine lo hanno trovato» disse. Nelle sue parole c’era il peso di un rimpianto grande come una montagna, un peso che Athos conosceva. «Poco prima che io lasciassi il convento».
Un silenzio gelido calò tra i moschettieri.
D’un tratto le ombre proiettate dal fuoco sembrarono più dense e cupe.
«Pe- perdonatemi» balbettò d’Artagnan. «Non volevo rattristarvi».
Diane racimolò un sorriso gentile e posò una mano su quelle del ragazzo che ancora stringevano il bicchiere.
«Vi suggerisco di provare a dormire» disse la giovane dopo qualche istante. Si alzò e si spolverò la gonna dai fili d’erba che vi erano rimasti attaccati. «So per esperienza che le giornate nei conventi iniziano fastidiosamente presto».

 
 
 

 

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Capitolo 9
*** Una nuotata nottetempo ***


VIII
 Una nuotata nottetempo
 
 
Cavalli. Quanti? Troppi.
Il rumore degli zoccoli che pestavano la strada le martellava in testa sempre più forte, man mano che riemergeva da quel torpore asfissiante.
L’avevano colpita? Quando?
Diane si sentiva soffocare dalla nebbia, in quel luogo indefinito tra veglia e incoscienza. Attraverso quella coltre di confusione i ricordi tornarono a inanellarsi come parti di una catena e riuscì a ricostruire quello che era successo… quanto tempo prima? Minuti, ore?
Ricordò l’uomo che aveva colpito con il candelabro, lo stesso che poi l’aveva afferrata e l’aveva portata via. Le aveva fatto male al braccio quando l’aveva acciuffata.
Braccia? Dov’erano le sue braccia, perché non riusciva più a sentirle?
L’avevano trascinata fuori dalla cappella. Dietro di lei, i moschettieri erano rimasti impotenti.
Aveva pensato che i ladri l’avrebbero lasciata andare appena fossero stati abbastanza lontani dal convento: un ostaggio si sarebbe rivelato un intralcio nella loro fuga.
All’aperto il sole le aveva ferito la vista ed era stato lì che l’avevano colpita e il sole si era spento, finendo inghiottito dal buio.
Ora non sentiva le braccia ma sentiva un peso sullo stomaco, come se qualcuno la stesse ripetutamente colpendo alla pancia con delle legnate. E delle sue gambe, cosa ne era stato?
Gli zoccoli dei cavalli strusciarono contro una porzione di terreno scosceso e scivoloso. Diane rimbalzò e il colpo allo stomaco fu più forte.
Aprì gli occhi di schianto e tentò di aprire la bocca per cercare aria, ma sentì tra le labbra il ruvido di un bavaglio.
Provò a mettere a fuoco quello che aveva attorno, c’era solo il suolo di terra e erba che sembrava ondeggiare sotto di lei, davanti al suo sguardo bruciante. Soffocò a sento un conato di vomito.
L’avevano messa a pancia in giù su una sella e ora lei penzolava a bocconi dalla groppa di un cavallo, mani e piedi legati così stretti che gli arti erano tutti un formicolio e un bruciore - meglio prima, quando non li sentiva. Richiuse gli occhi per non vedere il mondo capovolto che correva attorno a lei.
E una singola domanda si piantò nella sua mente come un chiodo e sparse il gelo della paura su tutto il resto, su ogni altro pensiero.
Perché non mi hanno lasciata andare?
Stava imbrunendo quando i ladri fermarono la loro fuga. Diane si chiese angosciata quanto fossero lontani dal convento, se i moschettieri sarebbero mai riusciti a trovarli.
Certo che mi troveranno.
Doveva solo continuare a crederlo, ma la fede era una compagnia sfuggente.
E se non l’avessero trovata? E se non l’avessero cercata affatto, non potendo abbandonare il fianco della regina? E se fossero arrivati tardi?
I briganti scesero di sella. Diane restò in bilico in quella posizione scomoda e spaventosa - sul dorso di un dannato cavallo! - per qualche istante, cercando di aguzzare la vista nella penombra e provare a distinguere il panorama, ricordare se era un pezzo di strada che avevano percorso durante il viaggio verso il monastero.
«Allora, facciamo scendere sua eccellenza» disse uno dei briganti, assestandole una pacca sul sedere. Diane sentì gli occhi schizzarle via dalle orbite e una rabbia frustrata irrigidirle i muscoli doloranti.
Due mani l’afferrarono rudemente per i fianchi e la misero a terra. Le gambe legate e intorpidite non la ressero e lei crollò con la faccia nell’erba. Sentì gli uomini ridere attorno a sé e gli occhi le si inumidirono di lacrime di furore e umiliazione.
Un altro della banda l’afferrò per la spalla e la rimise in piedi, trascinandola accanto a un albero dove la fece sedere con malagrazia su una radice che spuntava dal terreno.
Lei vide l’orlo frastagliato di una piccola altura che cadeva a strapiombo verso una gola stretta dove si trovava un lago calmo e piatto nella brezza della sera. Doveva essere il lago di cui una volta  aveva accennato la regina.   
I cinque ladri la accerchiarono, con le braccia incrociate sul petto e le facce serie, sembravano macellai venuti a scegliere quale maiale ammazzare. Incassò appena la testa nelle spalle, intimorita da quello che sarebbe successo e da quelle occhiate rapaci fisse su di lei.
«Che ce ne facciamo di questa qui?» disse uno degli uomini.
«Guardatela, dev’essere una nobile o qualcosa del genere» rispose quello che aveva preso lo scrigno, poi sbuffò e si chinò verso Diane, le tolse il bavaglio ed estrasse un coltello. Le diede un buffetto sulla punta del naso con il piatto della lama. «Sei una nobile figlia di papà, non è così?»
«No, ma grazie del complimento». Si pentì quasi subito di quello sfoggio di spirito. «Se vi state chiedendo se sono buona per chiedere un riscatto, devo informavi che sarebbe una perdita di tempo, non c’è nessuna famiglia che pagherebbe per riavermi».
«Un’orfanella? Molto toccante» l’uomo fece schioccare le labbra. «Che ci facevano i moschettieri al convento?».
Diane capì di averci visto giusto. Quegli uomini erano volgari ladri, non sapevano della regina e avevano giocato quel brutto tiro pensando di impadronirsi facilmente di una piccola grande fortuna. Dovevano essere entrati dall’ingresso lasciato aperto dagli operai, per questo le guardie non li avevano notati.
«E io come faccio a saperlo? Ero lì per mia sorella, la novizia». La ragazza pensò che fosse saggio non menzionare affatto la regina, non voleva che quegli uomini la credessero più importante di quanto non fosse e andassero nel panico. Forse, se l’avessero immaginata come una giovane qualsiasi l’avrebbero persino lasciata andare incolume.
«Se fossi stata importante, i moschettieri vi avrebbero inseguito, no?» incalzò Diane, sperando che la sua non si rivelasse una profezia.
L’uomo chino accanto a lei la fissò con sguardo penetrante. «Pensavamo fosse un lavoro facile» disse, sputando in terra. «Un convento disarmato, uno scrigno pieno di monete, nessuno si sarebbe fatto male, e invece… ho paura, ragazzina, che avremo bisogno di te fino a quando non saremo abbastanza lontani».
C’era una nota cupa nelle sue parole, qualcosa che faceva presagire un prosieguo che Diane non avrebbe voluto udire.
Fu quasi tentata di chiedere “E poi?”, ma tacque. In quel momento capì che non ne sarebbe uscita viva.
Con l’ultimo scampolo di dignità che le restava serrò le labbra e non disse niente, guardò i ladri con disprezzo e si appoggiò con la fronte dolorante alla corteccia dell’albero.
«Mi troveranno» disse, senza che nessuno potesse udirla.
 
***
 
«La troveremo» disse Athos.
Il cielo cominciava a imbrunire oltre le fronde degli alberi.
Avevano aspettato la sera irrequieti, la giornata che sembrava non finire mai e il pensiero di Diane nelle mani di quei criminali come un tarlo opprimente.
«Certo che la troverete» rispose la regina. Più che una rassicurazione sembrava un ordine. «Solo, vi prego, siate prudenti».
«Prudenza è il nostro secondo nome» disse Porthos.
«Alla fine, sembra che il re e tutti voi abbiate avuto ragione, venire qui è stata una pessima idea. E se nel frattempo è successo qualcosa a Diane…».
Aramis mosse un passo verso di lei, per attimo sembrò sul punto di prenderle le mani nelle sue e Athos era troppo furioso e preoccupato per badarci.
«Non è stata colpa vostra» disse il moschettiere con la voce morbida, del tutto priva della consueta nota un po’ beffarda. «E sono certo che neppure Diane lo pensa, non lo ha pensato nemmeno per un attimo»
«Diane sarà qui prima che possiate dire “brandy”, maestà» assicurò d’Artagnan.
«Brandy?».
Il giovane moschettiere si morse le labbra e si affrettò a distogliere lo sguardo.
«Torneremo presto, con Diane e sani e salvi, ve lo prometto» concluse Aramis.
«E voi sapete che prendo molto sul serio le promesse di un moschettiere» replicò Anna con un lampo negli occhi chiari, uno sguardo rivolto a lui soltanto.
Athos inspirò lentamente per mantenere la calma. Aramis e la regina dovevano essere tenuti alla larga l’uno dall’altra prima che anche i ciechi notassero il modo in cui si guardavano, ma quella era una preoccupazione che poteva aspettare, per il momento.
«Pregheremo per il vostro ritorno e per la salvezza della ragazza» disse la madre superiora, dalla porta. «Ma se vi servisse qualcuno per caricare le pistole, potrei venire con voi» aggiunse con un mezzo sorriso che Athos non poté fare a meno di ricambiare.
I moschettieri si inchinarono alla regina e la lasciarono nella cella. Sotto, nel cortile del monastero, i loro cavalli erano già sellati e pronti a partire.
«Mi aspetto di trovare tutto perfettamente in ordine, quando torneremo» disse Athos a una delle guardie. «Richiudete il portone quando saremo usciti e non apritelo fin quando non saremo tornati»
«E se non tornate?» fece la guardia, titubante.
«Ma lo avete sentito?» sbottò Porthos con una risata enfatica.
I moschettieri spronarono i cavalli e partirono al galoppo. La foresta alle spalle del monastero era già avvolta dal buio.
 
Nella luce tremula di una fiaccola, Aramis trovò le tracce dei cinque cavalli con cui i banditi erano scappati.
«Ci sono delle impronte più profonde delle altre» disse. «Uno dei cavalli doveva portare un peso in più, vuol dire che hanno portato Diane con loro per tutto il tempo».
Oltre la foresta c’era una sola strada, la stessa che avevano preso per arrivare lì, la stessa che avevano percorso mesi prima scappando dai mercenari assoldati per uccidere la regina.
I ladri dovevano essersi fermati per la notte. La foresta attorno al lago sarebbe stata impraticabile con il buio e dovevano far riposare i cavalli certamente esausti dopo una giornata in fuga.
Trovare quei criminali non era l’aspetto più difficile e nemmeno quello più preoccupante della questione.
«Io spero solo che Diane non li abbia fatti arrabbiare» disse Porthos, all’improvviso, come se fosse un pensiero ad alta voce.
Gli altri lo guardarono vagamente accigliati.
«Voglio dire, ha il carattere che ha, lo sapete, noi le vogliamo bene, ma per chi non la conosce…»
«Le vogliamo bene?». Aramis quasi rise.
«Perché, voi non vi siete affezionati?»
«Sì, le vogliamo bene, Porthos» rispose d’Artagnan. «Altrimenti cosa staremmo facendo qui?»
«Pensavo che qui ci fossimo perché il capitano ci ucciderà in qualche modo lento e doloroso se non gli riportiamo la nipote».
«Avete finito? Volete anche una bottiglia di vino?» sbottò Athos.
«Insomma, stavo solo dicendo che spero che Diane non abbia fatto niente per farsi ammazzare - a parte picchiare uno dei ladri con un candelabro!» tagliò corto Porthos.
Aramis tornò in sella. «È pazza, non è mica stupida» considerò con un’alzata di spalle.   
Usciti dal primo tratto di boscaglia, una volta tornati sulla strada, dovettero spegnere la fiaccola e cavalcare al buio mitigato appena dalla luce della luna.
Nella foresta li accolse il verso di un gufo e il rumore delle fronde degli alberi smosse dal vento. Per il resto tutto era immobile e silenzioso.
Furono costretti a procedere camminando quasi a tentoni, a piedi, guidando i cavalli in mezzo agli alberi che emergevano come ombre giganti dall’oscurità.
Cogliere i ladri di sorpresa era fondamentale, altrimenti si sarebbero ritrovati punto e a capo e, se questa volta fossero scappati, i moschettieri non sarebbero stati così fortunati dal riuscire a prenderli una seconda volta. Anche se, tecnicamente, dovevano ancora prenderli la prima.
L’aria si era fatta più umida, gli alberi contro i quali di tanto in tanto urtavano avevano la corteccia coperta di muschio.
«Il lago» bisbigliò Aramis. «Ci stiamo avvicinando al lago».
«Che bel ricordo, fa sentire fortunati» rispose Porthos.
Non si erano ingannati. La foresta terminava a strapiombo; come uno zaffiro, il laghetto stava incastonato in una conca dalle pareti di pietra frastagliata, una corona di abeti circondava i bordi della gola rocciosa.
Acquattati tra i cespugli, i moschettieri scorsero i fuochi sulla sponda opposta.
Aramis estrasse il cannocchiale e guardò. «Sono loro» disse.
«Diane? La vedi?» domandò Athos.
«È vicino a quell’albero. È viva».
La prima buona notizia della giornata. Ora c’era da sperare che oltre a essere salva la ragazza fosse anche sana: l’idea di quello che potevano averle fatto metteva la nausea.
«Guardate» disse Porthos e indicò la figura che si era staccata dal gruppo attorno al fuoco e ora scendeva verso il lago, munita di bisacce.
Lo sguardo di d’Artagnan brillò nel buio. «Vado io» bisbigliò. «Voi arriverete da dietro. Almeno saremo quattro contro quattro».
Il giovane strisciò tra gli alberi, lo videro a stento in mezzo al buio scendere verso il lago e aggirarlo, arrivare alle spalle del ladro e colpirlo alla testa, afferrandolo di peso prima che cadesse a terra con le bisacce che teneva in mano.
D’Artagnan indossò la mantella del ladro e si calò il cappuccio sulla testa.
Ora non restava che pregare.
 
***
 
I cinque uomini non parlavano troppo tra loro e quando lo facevano, per lo più, si insultavano.
Diane non era tipo da sconvolgersi per il linguaggio da taverna, ma pensava che quei cinque idioti avessero bisogno di qualche lezione sul lavoro di squadra.
Avevano litigato su chi dovesse andare a prendere l’acqua al lago, alla fine era toccata al tale di nome Gilbert.
Per tutto il resto del tempo, la ragazza non aveva fatto altro che pregare silenziosamente tra sé e sé.
Il fuoco disegnava una macchia di luce dorata sul suolo roccioso e ruvido. Diane ne osservò i contorni irregolari e pensò che se non fosse stato per quel piccolo incidente, a quest’ora, sarebbe stata seduta accanto a un altro fuoco con ben altra compagnia.
Si era affezionata ai moschettieri, era un’evidenza con la quale era già venuta a patti, ma solo in quel momento, con davanti la prospettiva di finire i suoi giorni l’indomani, si rese conto di quanto ammirasse quegli uomini, di quanto avrebbe voluto che la sua amicizia con loro fosse stata una scelta e non una necessità dettata dai suoi piani.
Stava gelando. Il calore del fuoco non arrivava fino a lei e la corda che le stringeva i polsi aveva scavato un solco che bruciava ogni volta che provava a muoversi.
Gilbert ritornò dalla sua piccola missione. Nella penombra Diane lo vide avanzare verso il fuoco con il cappuccio della mantella calato sul viso. L’acqua del lago doveva essere davvero miracolosa, aveva guarito l’uomo da quell’orribile andatura dinoccolata.
Gilbert le si avvicinò e Diane provò un moto di repulsione. Pensò che se proprio doveva morire, prima avrebbe trovato il modo di staccare il naso a morsi ad almeno uno di loro.
«Cosa fai, Gilbert? Vuoi fare la corte a sua eccellenza?» gracchiò uno degli altri uomini seduti vicino al falò.
Per tutta risposta, il ladro incappucciato alzò la mano che reggeva una delle bisacce.
«Ah, pensi che se le diamo da bere sarà più carina con noi?» disse un altro della banda. «Non ti preoccupare, che entro domani mattina sarà stata carina abbastanza».
Diane sentì il respiro gelarsi nel petto e fare male.
Gilbert si chinò davanti a lei e la ragazza valutò se dargli una testata sarebbe stata giudicata una carineria accettabile. Ma il ladro alzò appena il capo, mostrando il viso da ragazzo nascosto dal cappuccio.
Siete arrivati.
L’espressione di Diane si illuminò e l’aria fece il suo giro con più facilità, senza il nodo della paura a chiuderle la gola.
D’Artagnan si portò l’indice alle labbra, i suoi grandi occhi scuri erano gentili e rassicuranti, si abbassarono sui polsi martoriati dalle corde come in una carezza, poi si guardarono attorno come in attesa di qualcosa che sarebbe dovuto arrivare da un momento all’altro.
Il primo sparo partì da un punto indistinto in mezzo agli alberi, fischiò attraversando l’aria e colpì uno dei quattro uomini alla spalla, atterrandolo.
Gli altri tre presero le pistole e scattarono in piedi.
Il secondo sparo non andò a segno e i ladri fecero per gettarsi tra i cespugli.
D’Artagnan si chinò su Diane per farle scudo, approfittando degli ultimi istanti di calma, tagliò le corde con cui era legata e l’aiutò a rialzarsi.
Athos, Porthos e Aramis spuntarono dal fitto della vegetazione. Uno di loro tre doveva avere ancora un colpo in canna.
Anche d’Artagnan sguainò la spada. «Non muovetevi» sussurrò a Diane e si affiancò ai suoi compagni.
Uno dei ladri, quello più vicino all’albero, tentò la mossa disperata di afferrare la ragazza. L’ultimo colpo a disposizione dei moschettieri venne sparato.
Diane vide l’uomo cadere ai suoi piedi con il petto trafitto da un proiettile, un rivolo di sangue colava lento dal foro aperto dalla pallottola.
La ragazza sollevò lo sguardo e incrociò gli occhi impassibili di Athos che reggeva la pistola ancora fumante. Il moschettiere ricambiò lo sguardo con un’espressione indecifrabile, poi lasciò cadere la pistola ormai inutile e si voltò verso i suoi compagni.
Porthos e Aramis erano piombati addosso agli ultimi due ladri rimasti, prima che avessero tempo di sparare. La lotta si sarebbe risolta in una combattimento da spadaccini, ma era chiaro che i due criminali non potevano tenere testa ai moschettieri.
«Lasciamo a loro tutto il divertimento?» disse d’Artagnan, osservando tranquillo i due compagni che si battevano con avversari del tutto indegni.
Athos scrollò le spalle. «Devono pur rendersi utili, ogni tanto».
Con un affondo particolarmente fortunato, uno dei due ladri riuscì quasi a  far sbilanciare Porthos.
D’Artagnan afferrò Diane per un braccio e l’allontanò, spingendola nel punto più lontano dallo scontro.
Porthos si piegò in avanti per evitare un colpo, senza rialzarsi caricò come un toro il suo avversario, spingendolo contro il tronco dell’albero e facendogli cadere la spada da mano. Alla fine, gli assestò un pugno in faccia che lo fece afflosciare al suolo.
Aramis era appena riuscito a disarmare l’uomo con il quale si stava battendo. Lo buttò in terra e gli serrò una mano alla gola. «Lo scrigno che avete rubato?» gli chiese.
L’uomo indicò affannato uno dei cavalli con una grossa sacca da sella che pendeva di lato. Appena il moschettiere si alzò, il ladro afferrò la pistola vicino alla quale era caduto. Diane vide l’arma puntata verso di sé.
L’uomo sparò.
La ragazza indietreggiò di un passo e la terra le mancò sotto i piedi.
I moschettieri quasi non ebbero tempo di vederla precipitare. 
 
 
***
 
«No!». Non fu chiaro chi avesse urlato per primo, il grido fece eco nelle orecchie che ancora fischiavano per il colpo di pistola.
Un attimo prima Diane era in piedi, sana e salva, alle spalle di Athos e d’Artagnan, un attimo dopo era sparita. 
Porthos si gettò come una furia sull’uomo che aveva sparato. Lo colpì così forte al viso da fargli saltare un paio di denti.
Athos e d’Artagnan si precipitarono a guardare dal bordo dello strapiombo e videro il cerchio di spuma disegnato sulla superficie del lago, lì dove la ragazza era caduta.
Se anche Diane non fosse stata colpita dal proiettile, quante possibilità c’erano che l’impatto con l’acqua gelata non l’avesse uccisa?
Athos sentì un moto di panico fargli mancare l’aria mentre aspettava di veder risalire a galla la ragazza.
Aramis si chinò sul bordo del precipizio. «Maledizione». Si slacciò la cintura e la lasciò cadere a terra, con gesti concitati si liberò della giacca e della spada.
«Non sa nuotare!» gridò in risposta alle occhiate dei compagni. Prese la rincorsa e saltò prima che loro riuscissero a fargli notare quanto fosse fredda, pericolosa e maledettamente profonda l’acqua.
Aramis sprofondò, sollevando alti schizzi e sparì anche lui inghiottito dal nero pece del lago.
Come se stessero pensando con un’unico cervello, i moschettieri corsero nello stesso istante giù per il ripido sentiero che portava alle sponde del lago. L’aria gelida della notte bruciava nei polmoni.
Arrivarono in tempo per vedere Aramis riemergere in uno sbuffo di acqua. Teneva un braccio attorno alla vita di Diane, inerme come una bambola di pezza.
Athos strizzò gli occhi nella semioscurità per provare a capire se lei fosse ferita. Porthos mosse qualche passo sulla riva, immergendosi fino alle ginocchia, afferrò la ragazza e la posò sul terreno umido. Aramis crollò accanto a lei, il fiato spezzato dal freddo, scosso dai brividi.
Il viso della ragazza era pallido, l’acqua le appiccicava i capelli attorno al viso, la manica del vestito strappata e sollevata fino alla spalla lasciava scoperto il braccio destro, sulla pelle candida spiccavano due sottili cicatrici incrociate, solchi bianchi e ormai vecchi che sembravano essere stati inflitti da una lama molto affilata.
«Diane». D’Artagnan la chiamò con il terrore nella voce.
Athos sentì la paura che da una sensazione di freddo viscido diventava qualcosa di bruciante, un morso rabbioso sotto pelle. Con uno scatto inconsulto tirò uno schiaffo sul viso della ragazza e lei aprì di colpo gli occhi e la bocca, prendendo aria con un singulto e finendo per sputare acqua.
Diane scattò a sedere, le spalle scosse dalla tosse e dai brividi. Si guardò attorno come se si fosse appena svegliata da uno strano sogno. La sua mano afferrò quella di Aramis, steso accanto a lei, e lo fissò con gratitudine, lui accennò un gesto vago con il capo.  
«Solo nella giornata di oggi sarò invecchiato di dieci anni, forse anche venti» esclamò Porthos.
Athos si slacciò la cappa e la gettò sulle spalle di Diane, per un attimo le circondò la schiena con le braccia, nel tentativo di infonderle un po’ di calore.
«Il fuoco è ancora acceso, lassù» disse d’Artagnan. «Voi due dovete asciugarvi. E io devo ricordarmi come si fa a respirare».
«Non mi direte… che… che questa è stata la peggiore… delle vostre avventure» sussurrò Diane con il fiato corto e i denti che battevano. Sia lei che Aramis sarebbero potuti morire l’indomani per la febbre.
«Lo sarà quando saremo tornati a Parigi e vostro zio saprà quello che è successo».
Aramis si rimise in piedi a fatica, le gambe e le braccia intirizzite dal freddo. Porthos lo aiutò, reggendolo per le spalle.
Anche Diane si alzò ma si teneva in piedi a fatica.
«Permettete». Athos la sollevò prendendola tra le braccia e stringendola meglio dentro la sua cappa.
Alla ragazza sembrò tornare un po’ di colore alle gote.
Era più pesante di quanto sembrasse. Stringendola Athos notò che aveva braccia e gambe forti, muscoli appena delineati sotto la pelle. Notò anche i segni che la corda le aveva lasciato attorno ai polsi e alle caviglie.
Avanti a loro, Aramis barcollava tenuto in piedi da Porthos e d’Artganan.
Lasciarono la ragazza e il compagno accanto al fuoco, ad asciugarsi e a riprendere calore, e si occuparono di legare ben stretti i tre ladri sopravvissuti. Li avrebbero trascinati a piedi per tutta la strada del ritorno e l’indomani li avrebbero consegnati alle autorità del villaggio più vicino, insieme ai cadaveri dei due rimasti uccisi.
D’Artagnan andò a cercare qualche legnetto per ravvivare il fuoco.
«Ora sì che ci vorrebbe un sorso di brandy» disse Diane, strofinandosi le braccia sotto la cappa.
«Se fate dello spirito vuol dire che vi siete ripresa e che possiamo tornare al monastero» disse Athos, guardando Aramis per accertarsi che anche lui stesse bene.
«Sì, abbiamo perso anche troppo tempo» esclamò la ragazza. Quando si rimise in piedi scoprì di riuscire a reggersi in equilibrio. «La regina sarà in ansia. Non vi ho neppure chiesto se sta bene».
Porthos la guardò soffocando una mezza risata.
«Cosa c’è?»
«Niente. Pensavo che siete la degna nipote di vostro zio»
«Mio zio ha troppo buon senso perché io possa assomigliargli»
«Questo è vero» ammise d’Artagnan, arrivando con i cavalli.
Diane li guardò con un certo nervosismo, come di consueto, ma osservandola meglio Athos si rese conto che i suoi occhi erano puntati sui ladri e poi sui morti riversi sulla sella con il volto coperto.
La ragazza poteva forse sopportare la vista di un cadavere, ma non aveva mai visto qualcuno morire davanti a lei e per lei.
«Coraggio, andiamo» le disse Porthos mentre gli altri moschettieri montavano a cavallo. Decise lui, per ragioni non meglio specificate, che toccasse ad Athos portare la ragazza; la sollevò per la vita e gliela depose in sella.
«Non avete più paura dei cavalli?» domandò il moschettiere, notando la tranquillità con cui Diane si sistemava tra l’arcione e le sue braccia.
Lei scosse il capo, qualche goccia scivolò dalle punte dei capelli ancora umidi. «No, stasera no» rispose in un mormorio stanco.
Si erano messi in viaggio da poco quando Athos notò che era crollata. Si era addormentata come un sasso, con il capo reclinato sul suo petto. 
Il moschettiere chinò la testa, toccandole la fronte con la guancia per sentire se le era salita la febbre. Era leggermente accaldata
 

 

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Capitolo 10
*** Cinque minuti o anche dieci ***


IX
Cinque minuti o anche dieci
 
 
«Come sta Aramis?»
«Meglio di voi».
Diane respirava a fatica, il naso congestionato e la gola gonfia in fiamme. La sua voce sembrava quella di un bizzarro ventriloquo.
«E vi prego, maestà, non vi avvicinate». La ragazza lasciò cadere la testa all’indietro sul cuscino. «Potrei contagiarvi».
«Vi siete raffreddata, non avete la peste». La regina le rivolse un sorriso adorabile e le passò la tazza con il decotto che il medico aveva fatto preparare per lei. Non era stato del tutto inutile portarsi dietro il dottor Lemay - anche se a un certo punto Diane lo aveva sentito parlare di sanguisughe e altre cose terrificanti. 
Le suore le avevano anche dato un unguento per le escoriazioni che ai polsi e alle caviglie. Con un po’ di fortuna, suo zio non le avrebbe notate quando sarebbero tornati a Parigi.
Escoriazioni o meno, Treville si sarebbe fatto venire un colpo.
Diane starnutì violentemente, la regina le passò un fazzoletto.
«Mi dispiace tanto, vi sto dando troppi pensieri. E dire che avrei dovuto prendermi io cura di voi»
«Diane, se lo dite ancora una volta giuro che vi faccio condannare a…non lo so, a qualcosa».
La ragazza fece un mezzo sorriso e, contro ogni buon senso, la regina si andò a sedere sul bordo del letto, accanto a lei.
Le candele accese dentro bugie di terracotta spandevano una luce calda e dorata tutt’attorno. Una strana, inattesa serenità aleggiava in quella stanza, ma Diane si sentiva come soffocare.
Se le sue condizioni non fossero migliorate, avrebbero rimandato il ritorno ed era l’ultima cosa che voleva. A Parigi, i moschettieri avevano i loro affari e lei aveva i suoi.
«Stavo pensando» disse titubante Anna. La ragazza sapeva che i pensieri di una sovrana sono sempre qualcosa di più che semplici pensieri, lo stava imparando. «Stavo pensando che forse non è il caso di raccontare al re di tutto questo».
Stando alle storie che le avevano raccontato i moschettieri, un’altra cosa che Diane aveva capito era che il re non veniva a sapere mai niente. Un’informazione in più o in meno non avrebbe fatto molta differenza.
«Non ho intenzione di rinvangare l’accaduto» assicurò con un’occhiata complice. «Ma non è a me che dovete chiederlo».  
La regina strinse le labbra, riducendo a una fessura la sua bella bocca a cuore.
«Dite che potremmo domandare ai moschettieri…».
Come se fossero stati evocati da una specie di incantesimo, gli uomini del re comparvero sulla soglia della porta. Videro sua maestà e si inchinarono prima di entrare.
«Mio Dio, Diane, avete una faccia che…» esordì Porthos.
La regina alzò la testa di scatto per fulminarlo con lo sguardo. Aramis e Athos ai due lati gli assestarono una leggera gomitata, d’Artagnan tossicchiò.
«Bellissima» disse subito il giovane.
«Come sempre, meglio di sempre» gli fece eco Aramis.
«Assolutamente» confermò Athos.
Diane li guardò tutti e quattro accigliata, poi sbuffò. «Il dottore cosa ha detto? Posso alzarmi?»
«Avete fretta? Dovete andare da qualche parte?».
La ragazza capitolò e tornò con la testa sul guanciale.
«Stavo pensando» disse poi, deglutendo per schiarirsi la voce roca e nasale. «Mio zio. Si inquieterà moltissimo quando saprà di tutta questa storia»
«Non possiamo certo nascondergliela». Athos lo disse come se fosse ovvio. Ah, uomini: sempre così privi di fantasia!
«Perché no?».
I moschettieri si scambiarono un’occhiata ma nessuno rispose. Era quasi irritante quando sembrava che pensassero con un unico cervello in comune.
«Voi non volete che mio zio si inquieti, no?».
Aramis corrugò la fronte. «Diane, cosa state cercando di dire?»
«Che io non lo dirò a mio zio se voi non lo direte al re. O al cardinale. O a chicchessia»
«È quello che faccio tutte le domeniche dopo la messa: scambio pettegolezzi con il cardinale» bofonchiò Porthos.
D’Artagnan storse il naso. «Perché questa cosa mi suona vagamente come un ricatto?».  
«Perché lo è» confermò la regina.
I moschettieri fissarono imbarazzati le due donne, quel loro cervello spartito in quattro non poteva reggere il confronto. Ci sono situazioni in cui un uomo non può fare altro che capitolare.
Athos stava guardando Diane con il sopracciglio alzato, una virgola di disapprovazione. Non gli piaceva mentire, meno che mai al suo capitano, ma lo avrebbe fatto. Era più facile che uccidere un uomo.
Diane non aveva più pensato al ladro morto a cui il moschettiere aveva sparato, ma ora il ricordo le pizzicò la mente.
La regina si alzò, il materasso si smosse per lo spostamento di peso.
«Mi aspettano per la preghiera serale» disse e sfiorò la mano di Diane.
Anna aveva il cuore e l’anima di una grande sovrana, si portava una luce dentro che forse con il tempo le avrebbe permesso di uscire dal cono d’ombra proiettato su di lei dal re e dal cardinale. La ragazza la invidiò, invidiò la sua bellezza, la sua regalità, la sua purezza.
I moschettieri si avviarono a seguire la regina e poi tornare ai loro posti di guardia.
«Athos». Diane lo chiamò che era già sulla soglia.
Lui si voltò e mosse qualche passo nella stanza con quella sua andatura elegante - persino troppo per un semplice soldato. Misurava i movimenti e le parole come se conoscesse l’esatto peso di ogni respiro, sembrava saldo come una statua eppure perso come solo chi nasconde grandi fantasmi può essere.
«Athos, fate in modo che il ritorno a Parigi non venga rimandato».
L’uomo mosse appena il capo. «Non ve ne dovete preoccupare».
«Non sono preoccupata, ma con tutto quello che sta succedendo, mio zio avrà bisogno di voi».
Lui annuì e fece un cenno di saluto, poi si voltò per uscire.
«Athos».
Girò su se stesso con la cappa azzurra che gli svolazzava sulla schiena. «Sì?».
«Che ne è stato di quei ladri? Quelli ancora vivi, intendo».
«Li abbiamo portati al villaggio, sono stati messi in prigione, abbiamo firmato una dichiarazione. Non faranno una bella fine, la parola dei moschettieri vale ancora qualcosa, anche fuori Parigi»
«Capisco»
«Avreste voluto vederli graziati?».
Diane mosse la testa sul cuscino e represse uno starnuto. «Credo nel valore della legge. È giusto che un crimine venga punito».
Athos fece uno dei suoi sorrisi non-sorrisi. «Non credevo aveste convinzioni così ferree». Avanzò nella stanza, prese uno sgabello e lo avvicinò al letto: aveva capito che Diane non voleva rimanere sola.
«I miei genitori sono stati uccisi da dei criminali quando avevo dodici anni» disse la ragazza. «La legge assume un certo valore davanti a cose come questa».
L’uomo spostò lo sguardo come se le implicazioni di quel discorso fossero troppo pesanti per lui. Eppure parlare di legge e giustizia non avrebbe dovuto essere così difficile per un moschettiere del re. «Sono stati presi, quei criminali?»
«Gli assassini, sì».
Il volto di Athos si incupì per qualche secondo. «Ho visto quelle cicatrici sul braccio, come ve le siete fatte?».
Diane ebbe un sussulto, di istinto si toccò il braccio destro, poco sotto la spalla, dove c’erano i due sfregi a forma di X.
«Oh, il collegio. Una vita fa» disse.
Athos contrasse le labbra. «Anche questa era una punizione?».
In un certo senso… «No, è stato un incidente. Non era un posto così brutto, quell’istituto, in realtà. Il fratello di mio padre aveva scelto con cura il luogo dove farmi istruire».
«Parlate sempre di lui come il “fratello di vostro padre”, non lo chiamate mai “zio”, come fate con Treville».
Diane abbozzò un sorriso quasi divertito. «Sì, lo confesso, Treville è il mio zio preferito. Il fratello di mio padre… lui è, be’, non è mai stato cattivo con me o altro, solo disinteressato. Non aveva né tempo né voglia di occuparsi di me, ma ha fatto quello che riteneva più giusto pensando al mio bene». E forse anche troppo.
«Perché non rimaneste con Treville, dopo la morte dei vostri genitori?»
«Lui era un soldato, ritenne che affidarmi a un duca ricco e con una certa influenza mi avrebbe offerto più prospettive»
«Sì, la vita nobiliare è piena di prospettive».
Qualcosa nel tono di Athos lo fece apparire buffo, e che Athos apparisse buffo era un evento alla stregua del diluvio universale. Diane si trovò a ridere senza ragione, e poi la risata si trasformò in un attacco di tosse.
Il moschettiere le allungò un bicchiere d’acqua.
«Cercate di dormire, Diane» le disse, alzandosi. «Dovete tornare in forze se non vogliamo rimandare la partenza e non raccontare niente a vostro zio»
«Grazie, comunque» mormorò lei, sistemandosi meglio sotto le coperte, la trapunta di lana che le pizzicava il mento.
Athos annuì come risposta a quel ringraziamento che voleva forse includere tutto, troppe cose che non potevano essere dette a parole.
Il moschettiere richiuse la porta dietro di sé senza fare rumore e Diane rimase sola.
Una delle candele si era consumata, si spense con un impercettibile sfrigolio e uno filo di fumo che si andò a mescolare alle ombre della stanza. La ragazza lo seguì con lo sguardo mentre si trasformava in minuscole volute contorte e poi spariva, lo immaginò continuare a salire e assumere forme di serpenti nel cono d’ombra sotto il soffitto a volta. Lo vide diventare la crepa che c’era sul muro nel cortile abbandonato dietro al monastero dove aveva vissuto da ragazzina, un solco a forma di saetta sulla pietra liscia.
L’erba e il muschio avevano mangiato il lastricato del cortile, la pavimentazione spuntava in chiazze grigie attraverso le sterpaglie. Ai margini di quella che una volta era stata una piazza adiacente alla parte più vecchia del convento, i cardi e l’ortica crescevano pronti a mordere e graffiare con le loro spine. 
Sebastiano era un’ombra alta e sottile, la cintola della tonaca da frate stringeva fianchi magrissimi, le maniche ampie nascondevano braccia lunghe e nodose piene di cicatrici che sembravano merletti fatti male.
Diane non aveva idea di dove il finto monaco avesse trovato quelle due spade. Le lame erano segnate e avevano da tempo perso l’affilatura, l’elsa era macchiata e ossidata.
«Non dirò a nessuno chi sei, se mi insegni a combattere» aveva detto la ragazzina con i suoi quindici anni ciechi di incoscienza. Un ricatto subdolo che non avrebbe tentato se avesse potuto, se avesse avuto altra scelta.
«Perché una mocciosa come te, con la sottoveste di seta, dovrebbe imparare a combattere?»
«Guardi le sottovesti delle ragazzine?»
«No. Ma tu ce l’hai scritto in faccia che sei ricca»
«Non lo sono, il fratello di mio padre lo è».
Parlavano urlandosi contro nel cortile spazzato dal vento che portava l’odore della pietra e delle acque melmose del Tevere che scorreva poco distante. Sebastiano aveva il suo italiano perfetto e privo di inflessione, Diane lo parlava goffo, inciampando nelle R.
«Ti faresti del male, mocciosa». Negli occhi scuri del soldato l’ombra di una minaccia.
«Se mi facessi male, dovrei poi raccontare chi me lo ha fatto e perché».
Il disertore dovette trovare qualcosa di divertente in quella ragazzetta sfrontata.
«Va bene, mocciosa. Ma il patto è un altro: ti insegno, se mi dici perché ci tieni tanto a imparare».
Diane assottigliò lo sguardo, scrutò il viso scavato del soldato, il velo di barba sfatta che ne metteva in risalto i lineamenti spigolosi.
«Per quando tornerò in Francia» fu la risposta.
«Ah, è da lì che vieni? E cosa vuoi fare, quando tornerai in Francia?»
«Vendicare i miei genitori»
«Non ti serve imparare a usare la spada se devi solo piantarla nel petto di qualcuno che ti ha fatto arrabbiare»
«Voglio una vendetta, non un assassinio».
Gli occhi di Sebastiano si accesero di una scintilla strana, il luccichio di chi scorge una sorpresa nascosta in un luogo impensabile.
Che cosa vide in lei quel giorno, Diane non fu mai in grado di capirlo.
«Hai la mente di una manipolatrice» le disse il soldato. «La spada è solo un di più».
Manipolatrice sembrava un insulto, ma lui lo pronunciò con indolenza, quasi sarcastico.
«Mi insegnerai?».
Sebastiano aveva già deciso. Se ne stava in piedi davanti a lei con le spade incrociate dietro le spalle, le nocche che sbiancavano nello stringere le else rovinate.
I due tagli sul braccio destro vennero dopo, quando erano passati anni e Diane sapeva già maneggiare una lama.
«Non sei mai concentrata abbastanza». Sebastiano era una maestro severo e poco paziente, persino crudele a volte. «Usi la spada come se dovessi danzare, ma l’abilità nel movimento non è tutto, è l’intenzione che fa la differenza»
«L’intenzione verrà da sé» disse la ragazza. Il corpetto le stringeva un seno acerbo, un torace magro, sotto la pelle c’era la consistenza solida dei muscoli allenati.
«È che tu pensi che io non ti farò del male. Se pensi che il tuo avversario non sia pericoloso, combatterai sempre come uno sciocco».
L’attaccò all’improvviso, con forza. Diane riuscì a parare per un pelo e a indietreggiare.
«Va bene, mocciosa, un pregio ce l’hai: sei veloce». Nella voce del soldato c’era l’esitazione di chi cerca di riprendere fiato. «Ma non sei astuta nel duello come lo sei nelle altre cose».
Un altro attacco, più rapido, più forte. Diane si piegò per schivare la spada e tentare un affondo, Sebastiano la colpì alla schiena con il piatto della lama. Quando cadde, la giovane si tagliò le mani contro il ruvido della pietra .
«Questo,» le disse, voltandosi e strisciandole la punta della spada sul braccio, «è perché tu ricordi che io posso farti del male, come qualsiasi avversario».
Diane guardò attonita il rivolo di sangue che impregnava la manica strappata, il taglio aperto sulla pelle candida bruciava.
«E questo è perché te lo meriti». Con una leggera torsione del polso, Sebastiano affondò di nuovo la lama, infliggendole un altro taglio che si andava a incrociare con quello precedente.
Il bruciore le fece vedere rosso e la ragazza si trovò a boccheggiare, l’orgoglio ferito e la pelle marchiata per sempre a causa del suo stesso gioco.
«E ora, va’ a raccontare chi ti ha fatto male e perché» la sfidò il soldato.
Diane gridò il suo nome, furiosa.
Aprì gli occhi. Sopra la sua testa il soffitto intonacato della stanza.
Il sogno era stato così reale che non riusciva a credere di essere in un luogo diverso da quel cortile.
La gola le bruciava come i tagli sul braccio nel suo ricordo che già si andava dissolvendo.
Si alzò a sedere in mezzo al letto e provò a versarsi dell’acqua ma la brocca era vuota.
Aveva la lingua secca come un pezzo di cuoio, decise di sfidare il freddo che c’era fuori dal suo tiepido bozzolo di coperte di lana per andare a cercare da bere. Forse nel refettorio avrebbe trovato qualche caraffa ancora piena.  
Indossò la vestaglia e si gettò una coperta sulle spalle, avvolgendosi come un pipistrello nelle sue ali.
Doveva da poco essere passata l’ora della cena. Dal cortile arrivava la luce dei falò accesi ogni sera dalle guardie nel loro accampamento, dal piano inferiore si sentiva il rumore attutito dei passi delle suore che si adoperavano per portare a termine gli ultimi compiti della giornata.
Diane sospirò. «Sto proprio male se penso che mi mancherà questo posto» disse a se stessa, storcendo il naso.
L’angusta anticamera dava su un corridoio privo di finestre, con una lanterna come unica fonte di illuminazione. Dall’altro lato si trovava la stanza della regina. Diane vide la lama di luce accesa filtrare da sotto l’uscio e pensò che fosse il caso di andare a controllare se sua maestà avesse bisogno di qualcosa; si sentiva così in colpa per non essersi potuta occupare di lei in quei giorni, ma voleva mostrarle che a dispetto di tutto era abbastanza in salute da poter affrontare il viaggio di ritorno.
Diane attraversò l’anticamera con quel passo per abitudine sempre silenzioso e leggero. La porta della stanza della sovrana era leggermente socchiusa, quando la ragazza fece per bussare si aprì un po’ in avanti mostrando uno squarcio dell’interno spoglio e spartano come tutte le altre stanze del monastero.
Mosse un passo. Il suo sguardo si allineò alla fessura lasciata dall’anta non chiusa.
La mente di Diane fece fatica a ricomporre l’immagine che si trovò davanti e ad attribuirle un senso. Era come se un elefante fosse appena entrato in quell’anticamera spuntando dal pavimento; allo stesso modo la ragazza trovava inspiegabile e incomprensibile la vista della regina che baciava Aramis. O di Aramis che baciava la moglie del re, tenendole una mano sulla pancia.
Bacio. Pancia. Bambino. Aramis.
Lo stupore emerse pian piano da dietro un velo di incredulità e scoppiò nella mente di Diane come un fuoco d’artificio.
Sconvolta, la ragazza girò su se stessa per allontanarsi da lì. Alle sue spalle trovò Athos che reggeva un piatto fumante e una brocca d’acqua.
«Ero venuto a… portarvi la cena».
Il moschettiere guardò oltre il profilo di Diane, in piedi, immobile come una statua. Vide la porta socchiusa della stanza della regina, vide lo sguardo completamente stravolto della giovane e capì.
E se ha capito, allora…
Diane corse via, travolgendolo e scappando attraverso il corridoio. La coperta le scivolò giù dalle spalle e finì a terra da qualche parte nella penombra.
 
***
 
Athos era rimasto totalmente basito, incapace di collegare corpo e cervello. Il piatto e la brocca tra le sue mani erano un impaccio di cui non sapeva come liberarsi e per un istante gli sembrarono un ostacolo insormontabile.
«Dio!» sibilò, voltandosi di colpo e appoggiando gli oggetti su una sedia. Lasciarli cadere avrebbe attirato l’attenzione ed era meglio di no - decisamente.
Si lanciò verso il corridoio, dietro Diane.
Quanto poteva correre una ragazza malaticcia in camicia da notte? Be’, mademoiselle Leroux correva come se fosse inseguita dal demonio.
Il moschettiere rischiò di inciampare nella coperta che lei aveva lasciato cadere dietro di sé, da lontano la vide imboccare le scale che portavano alla distilleria nelle cantine.
La porta di legno massiccio della distilleria doveva essere stata chiusa a chiave perché Diane ci si buttò contro per aprirla ma finì solo per andare a urtare addosso al battente con tutto il suo peso.
Mandò un gemito, indietreggiando quasi stordita dall’impatto.
Athos la raggiunse e l’afferrò per le spalle, stringendola perché non scappasse di nuovo.
«Che cosa ho appena visto?» piagnucolò la ragazza, divincolandosi.
«Niente, non avete visto niente».  
Diane smise di agitarsi e voltò il capo verso il moschettiere. Athos la superava in altezza di tutta la testa; la vide spalancare gli occhi sotto il peso di un’altra rivelazione.
«Voi!» gli gridò. «Voi lo sapevate!».
Provò la tentazione di tapparle la bocca con una mano, ma tutto quello che fece fu alzare l’indice con fare ammonitore. «Non è come sembra»
«Questo è il genere di frase che si dice quando le cose sono esattamente come sembrano»
«Diane, vi prego…»
Diane non lo stava ascoltando. Aveva distolto lo sguardo e sembrava inseguire il filo dei suoi pensieri come un fiume in piena. E chissà quali conclusioni avrebbe tratto la sua testa dannatamente troppo perspicace. 
«Oh, mio Dio… il figlio che la regina aspetta…»
«No!». Lo sguardo di Athos si fece duro, senza volere la strattonò con malagrazia per farla voltare verso di sé, tenendola spalle al muro, bloccata tra la porta e il suo torace. «Prima di dire, prima anche solo di pensare quello che state pensando, vi supplico, valutate le conseguenze».
Diane parve sul punto di dargli uno schiaffo, e anche se non lo fece, Athos se lo sentì bruciare sulla guancia.
«Le conosco, le conseguenze». Spinse per costringere il moschettiere a spostarsi. Lui barcollò all’indietro, sorpreso dalla veemenza della spinta. «Solo, concedetemi cinque minuti per essere sconvolta, va bene? Facciamo anche dieci minuti, magari» 
«Sconvolgetevi in silenzio, però».
Diane gli rivolse un’occhiata astiosa. «Chi altri lo sa? Porthos, d’Artagnan? Mio zio?!»
«Solo io. E credetemi, vorrei non averlo mai scoperto»
«Non me ne parlate».
Athos si stropicciò il viso con la mano, lisciandosi nervosamente la barba incolta. «È successo… è successo solo una volta». Si sentì un idiota, gli sembrava di essere un marito che doveva giustificarsi con la moglie per qualche grave trasgressione.
La ragazza fece un’espressione esasperata. «Una volta, a parte questa, dite? E comunque credo che una volta sola basti per essere alto tradimento. Oddio, tecnicamente siamo traditori anche voi e io adesso». Si voltò, dando le spalle al suo interlocutore e mosse qualche passo, valutando il peso delle sue stesse parole.
Athos strabuzzò gli occhi. «Grazie per avermelo ricordato, è la mia parte preferita. Sentite, avete tutto il diritto di denunciare la cosa e io non posso impedirvelo, solo…»
Diane si girò verso di lui con uno scatto stizzito, a pugni serrati. «Smettetela di pregarmi! Io vi voglio bene. A… a voi, e a Aramis, a voi tutti e quattro maledetti moschettieri boriosi. Non direi una sola parola che possa nuocervi. Però i dieci minuti non sono ancora passati. Penso che li trascorrerò da qualche parte, al chiuso, tipo molto lontano da voi, da lui e dalla regina».
La ragazza sorpassò il moschettiere, spintonandolo per costringerlo a lasciarla andare.
Athos aprì la bocca ma tacque. Lo sguardo deluso di Diane lo aveva ferito: la chiamò per poterla guardare in faccia e accertarsi che tutto sarebbe tornato alla normalità, che la tenerezza che la ragazza aveva mostrato verso tutti loro fosse ancora lì, resistente a qualsiasi disappunto. 
«Diane…»
«Molto, molto lontano» ripeté lei senza voltarsi.
«Diane!»
«Quale parte di “molto lontano” non vi è chiara?».
 

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Capitolo 11
*** Neve e sangue ***


X
 Neve e sangue
 

Il colore del cielo era bianco, quasi perlaceo. Il freddo sembrava fatto di mille lame pronte a trafiggere.
Diane si chiuse il cappuccio della mantella, coprendosi fino al naso per proteggersi da un’eventuale ricaduta. Attraverso la fessura di stoffa guardava i soldati ultimare i preparativi per la partenza.
I cavalli muovevano su e giù le zampe, innervositi dal clima pungente.
«Sembra che vi stiate portando via il sole, maestà» disse la madre superiora alla sovrana.
«Non credo che a Parigi troverò più sole di quanto ne abbia visto nei giorni scorsi» rispose Anna, posando le mani sulle spalle della religiosa. «Grazie per la vostra ospitalità».
«È stato un onore rivedervi e sono contenta di avervi trovato in salute». Lo sguardo della superiora indugiò sul ventre della regina e lei si portò una mano alla pancia. «Vostro figlio sarà un magnifico re, con una madre come voi a crescerlo».
Sotto il tessuto del cappuccio, Diane strinse le labbra. Quando lo sconvolgimento per il segreto che aveva scoperto era passato, era riuscita ad affrontare l’idea di qualsiasi cosa ci fosse o ci fosse stata tra Aramis e la regina. Poteva capire, per quanto le sembrasse un fardello enorme da portare, poteva accettarlo e accettare di portarsi quel segreto nella tomba con la stessa sicurezza e lo stesso coraggio con cui Aramis si era gettato nel lago ghiacciato per salvarla.
L’idea del tradimento aveva abbandonato presto i suoi pensieri. Ci sono leggi che vanno onorate, ma ci sono troppe cose al di sopra della legge che non possono diventare una condanna e, da parte sua, la ragazza non si sentiva certo nella posizione di fare la parte del giudice.
La voce di Sebastiano le fischiò nelle orecchie, portata dal vento.
«E il pensiero che questo segreto possa tornarti utile in futuro, per ogni evenienza, non ti ha nemmeno sfiorato?»
Sta’ zitto.
Diane si riscosse e si unì alla regina negli ultimi saluti alle monache del convento. Sì, un po’ quel posto le sarebbe mancato, malgrado tutto. Tornare a Parigi significava tornare a troppe cose che era stato piacevole poter accantonare in quei giorni. Le sarebbero mancate anche le sere attorno al fuoco con i moschettieri, stare con loro senza sentirsi un’intrusa o una bugiarda.
Aramis comparve di fronte a lei, reggendo la grossa sacca da viaggio che la ragazza aveva portato con sé.
«Cosa ci avete messo dentro, delle armi?» disse.
Diane notò che aveva un livido attorno al labbro inferiore solcato da una piccola ferita. Un pugno. Quando era successo?
Ah.
I moschettieri le passarono davanti, diretti ai loro cavalli che aspettavano pazienti in testa al corteo già pronto a partire.
Diane si accostò a Athos con un passo.
Non si erano più parlati dalla sera in cui aveva scoperto di Aramis e della regina. Con la sua reazione, la ragazza lo aveva davvero turbato - ammesso che si potesse turbare Athos più quanto lui già non lo fosse per predisposizione naturale.
«Pensavo che i vostri dieci minuti fossero passati da un pezzo» gli sussurrò, lanciando uno sguardo eloquente al viso di Aramis qualche metro più avanti.
Athos si voltò a guardarla - sollevato, forse, chi poteva dirlo? Non si riusciva mai a capire cose gli passasse per la testa.
«I miei dieci minuti posso gestirli. I vostri sono passati?» mormorò in risposta.
«Sono stati dieci minuti e basta. Senza nemmeno bisogno di menare pugni». 
Il moschettiere fece un cenno indecifrabile.
«Meglio sbrigarci, se vogliamo arrivare a Parigi prima che faccia sera» disse Porthos. «Siete pronta, mademoiselle?».
Mademoiselle. Diane alzò lo sguardo sui moschettieri e sorrise. «Sapete, pensavo che dopo qualche bevuta insieme e, sopratutto, dopo che mi avete salvato la vita, potremmo anche smetterla con le formalità».
I quattro uomini annuirono.
«Il prossimo passo sono le serate in taverna» disse Aramis, poi indicò con lo sguardo la carrozza dove la regina stava già aspettando. «Ma ne riparleremo quando saremo a casa».
 
***
 
Il viaggio di ritorno si rivelò tranquillo non meno dell’andata.
Nella penombra grigia del crepuscolo, Parigi apparve da lontano come un grappolo di luci oltre le campagne.
I primi fiocchi di neve caddero quando il corteo era ormai alle porte della città. Erano fiocchi piccoli che scivolavano gentilmente sulle guance arrossate dal freddo e si scioglievano prima di arrivare alle labbra.
La neve e il freddo della sera avevano costretto quasi tutti i parigini in casa, poca gente per le strade salutò il passaggio della carrozza della regina. Le guardie la scortarono fino all’ingresso del palazzo, i moschettieri si diressero alla guarnigione, ansiosi di vedere il capitano e conoscere le ultime novità.
La preoccupazione per quello che era successo e per quello che poteva essersi verificato durante la loro assenza, calò come un peso sulle spalle dei moschettieri che videro sparire l’ombra di quella serenità che avevano respirato nella quiete del convento - tra un attacco di ladri sbruffoni e un salvataggio di fortuna.
Quando scesero da cavallo, i loro movimenti erano rigidi e stanchi. La neve cominciava a impregnare le cappe scure e fermarsi in minuscole stille bianche tra la trama della stoffa pesante. Sull’uscio dell’ufficio di Treville se la scrollarono di dosso.
Il capitano era seduto alla sua scrivania, sommerso dalle carte. Un piatto con la cena ancora intatta e ormai fredda in un angolo.
Un ciocco di legna scoppiettava nel camino, spandendo una luce calda e un tepore più che mai piacevole dopo una giornata intera passata a cavallo con quel freddo.
Treville lasciò cadere il foglio che aveva in mano e alzò lo sguardo sui suoi uomini. Per qualche istante non disse niente, si limitò ad analizzarli con gli occhi stretti.
«È andato tutto bene?» domandò.
«Liscio come l’olio» disse Aramis. Gli altri pregarono che la risposta suonasse soddisfacente e che non ci fossero altre domande in merito a quella gita.
«La regina?»
«È tornata a palazzo. Non ci sono stati problemi. La presenza del medico di corte è stata una precauzione del tutto inutile».
Almeno per quel che riguardava sua maestà, era vero.
«Mia nipote?» aggiunse il capitano.
«Cosa?» fece Porthos, tradendo un accenno di panico.
I moschettieri dovettero trattenersi dallo scambiarsi occhiate preoccupate e ostentarono un’aria innocente.
«Diane, sta bene?» precisò Treville. «La regina è rimasta contenta?».
«Certo. In questo momento vostra nipote la sta riaccompagnando nelle sue stanze» disse d’Artagnan.
«È una brava ragazza» confermò Athos
«Dovete essere molto fiero di lei» aggiunse Aramis.
«Anche se non sa nuotare» concluse Porthos.
Athos chiuse gli occhi per non vedere l’espressione del capitano, ma Treville si limitò a corrugare la fronte, vagamente perplesso. Per fortuna c’erano questioni più pregnanti delle inabilità di sua nipote e del perché i moschettieri le conoscessero.
«Tu cosa hai fatto alla tua preziosa faccia?» domandò il capitano, fissando il taglio e il livido sul viso di Aramis.
Lui si portò una mano alla bocca, nel punto in cui era stato colpito. «Un incidente mentre io e Athos spostavamo i cavalli al chiuso».
Era la scusa ufficiale che avevano usato anche con Porthos e d’Artagnan.
Il capitano non insistette con altre domande al riguardo.
«Mentre eravate via ho cercato qualche informazione su Luc Morice» disse. «Notoriamente è conosciuto per provenire da una ricca famiglia di banchieri, ha ereditato una piccola fortuna alla morte del padre e l’ha investita nell’acquisto di case in vari quartieri di Parigi che ha poi rivenduto a prezzo più alto».
«Questo lo sapevamo» rispose Porthos, interrompendo il capitano. «Ma ho idea che stiate per dirci che c’è un ma»
«Ci stavo giusto arrivando, se mi concedete di finire il discorso» borbottò Treville. «Spesso ha acquistato case e proprietà in quartieri poveri a un prezzo ridicolo, probabilmente truffando o costringendo i proprietari, per poi cederle ad altri in cambio di somme assai più grosse»
«Il commercio non è un reato, anche quando è disonesto. A meno che non proviamo che ha rubato quelle proprietà…» esordì Athos.
Il capitano simulò un leggero colpo di tosse ed esibì un’espressione spazientita.
«Posso finire? Grazie. Quello che cercavo di dire è che le proprietà che ha acquistato le ha poi cedute, apparentemente senza compenso o guadagnando solo piccole donazioni, a cantieri ed imprese edili. Molte delle case di Morice sono state abbattute per costruire qualcosa»
«Fatemi indovinare: l’ospedale del conte Legrand fa parte di queste  struttere costruite dove prima c’era qualche proprietà acquistata da Morice» concluse Athos
«Era il punto a cui cercavo di arrivare».
Troppe informazioni complesse, troppa stanchezza addosso e nella testa. Athos si massaggiò il collo che sentiva rigido e contratto.
«E tutto questo cosa c’entra con le armi?» chiese d’Artagnan.
«Bella domanda. Ancora non lo so». Treville sbuffò. «Ma intendo scoprirlo, e soprattutto voglio che voi teniate d’occhio Morice. Se personaggi come Legrand sono coinvolti nei suoi traffici o se è solo una coincidenza, penso che valga la pena saperlo. Io cercherò di cavare qualche informazione a corte, voi vedete se riuscite a scoprire qualcosa di concreto su Morice, una scusa qualsiasi per chiuderlo allo Châtelet per qualche giorno e fargli venire voglia di parlare. Ha un gruppetto di scagnozzi e criminali al suo servizio, ma naturalmente non possiamo collegarli a lui e usarli come accusa»
«Intendete che dobbiamo pedinarlo?» chiese Porthos.
«Molto sagace, sì».
Athos pensò che avessero bisogno di un attimo di tregua per mettere ordine tra tutte quelle informazioni. Quanto illustrato da Treville era chiaro, eppure mancava qualcosa, mancava il filo che segnava la connessione tra i traffici di Luc Morice e il quadro generale di incidenti e stranezze inquietanti verificatesi le settimane passate.
«Il bandito» si lasciò sfuggire. «Cosa c’entra lui in tutto questo?»
«Pensavo lo avreste scoperto voi, prima o poi». Dalla sua sedia, il capitano guardò i suoi uomini con un’occhiata obliqua.
«Potrebbe anche non entrarci niente» osservò Porthos. «Potrebbe essere solo una coincidenza».
No, non lo è…
Athos stava per dire qualcosa, ma un’energica bussata alla porta riscosse tutti dalle loro riflessioni confuse e silenziose.
«Avanti!» disse Treville, infastidito per essere stato interrotto nella sua riunione.
Diane spuntò sulla soglia che divideva l’ufficio del capitano dall’anticamera dove erano custoditi i moschetti. Si affacciò con discrezione e rimase ferma con le maniche della mantella tirate giù a coprire le mani arrossate per il freddo.
«Ho interrotto qualcosa?» chiese.
Suo zio le fece cenno di entrare, l’espressione severa si addolcì.
«Questi signori mi stavano giusto dicendo quanto tu ti sia comportata bene con la regina e tutto il resto» le disse.
Diane si fermò al centro del quartetto, tra Aramis e Porthos, e lanciò un’occhiata sbieca alle facce dei moschettieri.
«Tutto il resto?» domandò serafica.
«Sì, be’, è stata una sorta di missione ufficiale, era la prima volta. Per quello che ne so, la regina avrebbe anche potuto strapparsi i capelli»
«La tua fiducia in me mi commuove, zio».
Treville mosse la mano a mezz’aria, come a dire che era cosa di poco conto, era solo felice di riavere intorno sua nipote.
«Signori, ci preoccuperemo della questione di cui abbiamo discusso da domani» disse, rivolto ai moschettieri. «Avete fatto un lungo viaggio, andate a mangiare qualcosa di caldo e riposate. Vale anche per te, Diane: ho delle cose da sbrigare, stasera. Domani mi racconterai come è andata con la regina». 
La ragazza fece un cenno di assenso. Al capitano non piaceva discutere degli affari e delle questioni dei moschettieri davanti a lei, forse temeva che la sua curiosità l’avrebbe fatta interessare troppo a cose che non dovevano riguardarla, forse i nomi che avevano fatto quella sera erano pericolosi ed era preferibile che Diane non ne sapesse niente. Se Treville si fosse reso conto che sua nipote aveva già ficcanasato abbastanza se ne sarebbe risentito, e parecchio anche.
Meglio non farle sapere delle novità su Morice e sul pedinamento - sarebbe stata capace di proporsi come volontaria.
Fuori il vento faceva turbinare i fiocchi di neve in piccoli vortici soffici. La nevicata si andava infittendo.
Diane allungò una mano oltre il parapetto di legno del ballatoio, guardò con un’espressione da bambina qualche fiocco caderle sul palmo e sciogliersi piano a contatto con la pelle.
«Erano dieci anni che non vedevo la neve» disse, a nessuno in particolare.
«Se continua con questo freddo, domattina ne avrai abbastanza da recuperare il tempo perduto» rispose d’Artagnan, guardando torvo i fiocchi che continuavano a cadere sempre più grandi. Nei suoi ricordi  di contadino forse la neve significava raccolti rovinati e disagi domestici. 
Aramis posò una mano sulla spalla di Diane. «Vieni» le disse. «Devi mangiare qualcosa anche tu».
 
***
 
I tetti di Parigi non erano sicuri.
Nevicava da due giorni ormai e le gelate notturne avevano trasformato il manto bianco in una crosta dura e scivolosa. Camminare per le strade era già di per sé insidioso, le vie alternative erano impraticabili.
Dove passavano persone e carrozze, la neve pesta diventava una striscia lucida e spessa come vetro sabbiato. Uno rischiava di rompersi l’osso del collo a camminarci su.
Di buono, c’era che la gente restava in casa; anche il rumore che proveniva dalle osterie e dalle locande nei quartieri alle spalle del palazzo reale era meno forte del solito.
Il bandito guardò il rettangolo di luce proiettato sulla neve da una porta che si apriva. Uno scricchiolio, un tonfo, e la luce sparì come se l’inverno l’avesse inghiottita.
Nell’ombra, sentiva le braccia rigide e intorpidite. Era tempo di muoversi.
L’uomo che era uscito dalla porta era avvolto in una mantella scura lunga quasi fino alle caviglie; sul cappello una piuma blu sventolava e tremolava a ogni suo passo. Passi pesanti che facevano un sacco di rumore affondando e spezzando la crosta di ghiaccio che riluceva di minuscoli bagliori nella luce dei fuochi.
L’uomo si chiamava Luc Morice.
Era sua la casa che il bandito aveva incendiato quella notte, una delle tante proprietà che gli appartenevano. Voleva che trovassero le armi, voleva attirare l’attenzione su quello sciacallo. Qualcuno, da qualche parte, avrebbe pur iniziato a farsi delle domande.
Morice camminava con passo nervoso, di tanto in tanto si voltava come se si aspettasse di essere seguito. Era curioso che non avesse portato con sé i suoi tirapiedi.
Il bandito lo seguì, confondendosi tra i pochi passanti che si erano azzardati a uscire: qualche tagliaborse e qualche ubriaco incallito che non poteva rinunciare alla sua dose di vino. Una testa incappucciata non dava nell’occhio in mezzo a quella gente avvolta in strati e strati di vestiti più o meno logori.
Lanciandosi alle spalle un’ultima occhiata sospettosa, Morice si infilò in un vicolo deserto. La neve per terra era intatta, nemmeno un cane ci si era addentrato.
Doveva avere un appuntamento importante con qualcuno che gli aveva detto di venire da solo.
Si infilò nel vicolo, rapido e silenzioso, senza che Morice vedesse, e si nascoste dietro a una pila di casse di legno lasciate a marcire a ridosso della parete esterna di un edificio. Nascosto dal buio, dall’ombra proiettata dalla palazzina, il bandito aspettò mentre Morice camminava su e giù in attesa, respirando roco con il fiato che diventava fumo contro la sera, toccandosi il cappello e torcendosi le mani.
L’altro uomo arrivò dal lato opposto della via. Indossava un cappotto scuro, un cappello di panno senza piume. Avanzava con passo pesante e sotto al cappotto ad altezza dei fianchi si distingueva il rigonfiamento di due pistole e l’elsa di una spada.
Il bandito deglutì. Aveva paura, di nuovo, come sempre quando fiutava la prospettiva di uno scontro imminente.
Anche il nuovo arrivato aveva il volto coperto per metà da una benda. Il bandito si toccò la sua come ad assicurarsi che fosse ancora lì.
Lo sconosciuto armato si fermò davanti a Morice.
«Sappiamo cosa sta succedendo» gli disse. «Sappiamo che dopo l’incendio i moschettieri vi hanno prelevato»
«E… e che ci posso fare io? Erano lì quando sono andato a controllare la casa. Hanno trovato le armi. Se avessi opposto resistenza, avrebbero sospettato, ma non vi preoccupate, li ho sviati, non hanno alcuna prova e presto dimenticheranno anche i loro sospetti».
Luc Morice aveva tentato di mostrarsi sicuro, ma la voce gli tremava.
«Non possiamo più nascondere le armi nelle vostre case vuote»  dichiarò l’altro uomo.
«Lo capisco…».
Silenzio.
Nella totale assenza di rumore, il bandito percepì un suono scricchiolante proveniente dall’imbocco del vicolo. Si voltò, facendo attenzione e non uscire dal suo riparo di ombra, e lo vide. Un ragazzo moro appiattito contro il muro spiava anche lui la conversazione.
Lo guardò meglio, sforzando la vista nel semibuio della sera.
Un moschettiere. Un altro. Di nuovo.
«E allora» disse l’uomo dal viso coperto. «E allora, capirete anche questo».
Morice emise un grido con voce strozzata, ma fu tutto rapido e veloce e le sue urla non presero mai aria attraverso la gola squarciata dal pugnale che era brillato un attimo nell’oscurità per poi sparire dentro la manica dell’uomo. Cadde a terra, sollevando uno sbuffo di neve. Un fiotto di sangue schizzò macchiando il bianco immacolato per una considerevole lunghezza. Il corpo si contrasse in spasmi violenti mentre gli ultimi getti di sangue zampillavano sempre più deboli dalla sua gola.
Il bandito guardò la scena con occhi spalancati, ancora sorpreso per la rapidità con cui tutto era avvenuto. Si sentì uno stupido, si era lasciato scappare Morice tra le dita, scappare in maniera eterna e definitiva.
«Moschettieri del re! Fermo!» gridò una voce dall’imbocco del vicolo.
Impetuoso, ragazzo, troppo impetuoso.
Il giovane moschettiere avanzò ad armi spianate. Era da solo, forse non aveva previsto di trovarsi in una simile circostanza.
Il bandito sentì lo stomaco che si contorceva. Due morti in una sera erano troppi e il ragazzo, per quanto insistesse con quell’espressione agguerrita, non aveva grandi probabilità di uscirne vivo.
Idiota! Non hai visto che quel tizio ha due pistole e tu ne hai una soltanto?!
L’uomo alzò le mani in segno di resa.
Il moschettiere gli si avvicinò senza smettere di tenerlo sotto tiro.
«Gettate le armi» gli intimò.
Gliela stai rendendo troppo facile, ragazzo.
Il bandito capì che quello era il momento di agire, altrimenti il reggimento del re si sarebbe trovato con un soldatino in meno. E no, non doveva succedere.
Quando il giovane fu di fronte all’uomo, questi aprì il cappotto, mostrando le due pistole, le sganciò dalla cintola, ma un attimo prima di buttarle a terra calciò forte la neve in faccia al moschettiere, che di istinto indietreggiò e perse la mira.
L’uomo sparò. Il moschettiere cadde a terra. Il bandito uscì dal suo rifugio e la lama della sua spada luccicò fuori dal fodero.
Lo sconosciuto alzò lo sguardo, perplesso. Aveva in mano l’altra pistola, con la quale contava di finire il ragazzo.
A terra, il moschettiere si contorceva premendosi una mano sul fianco.
«Non toccarlo!» gridò il bandito. Attraverso la stoffa del bavaglio, la voce uscì bassa e strozzata.
Dopo qualche istante, il ragazzo in terra smise di contorcersi e perse i sensi, crollando a braccia aperte e con il viso fermo in un’espressione sofferente come un crocifisso.
L’uomo fece fuoco contro il bandito. Rimase sorpreso quando questi si scansò di lato, rapidissimo, evitando il proiettile che gli sfiorò appena il braccio, strappando la stoffa della manica larga ma senza toccare la carne.
Ora gli spari avrebbero attirato gente.
Lo sconosciuto lo pensò, come lo aveva pensato il bandito. Non gli diede tempo di raggiungerlo ma si voltò e scappò via, dileguandosi nel buio. Il bandito provò a correre per tenergli dietro, ma era ancora sconvolto dalla pallottola che aveva evitato per un soffio e il rombo dello sparo nelle orecchie gli aveva portato le vertigini.
Arrancò nella neve, cadendo in avanti sulle proprie mani, la destra che ancora reggeva la spada.
Inseguire l’uomo era impossibile, rimanere lì era rischioso.
Cadde in ginocchio accanto al ragazzo ferito e si chinò sul suo viso per accertarsi che respirasse ancora. Era vivo e non c’era troppo sangue: la ferita non doveva essere grave.
Gli strinse per un istante la mano nella sua.
«Non morire qui, ragazzo» sussurrò.
Il giovane moschettiere spalancò gli occhi di colpo e il suo sguardo si fissò in quello del bandito. Era stupito e impaurito insieme.
A mezzo metro da lui, il cadavere di Luc Morice cominciava già a impallidire.
Il bandito chiuse gli occhi, e anche quelli del ragazzo si chiusero, sbarrati sul viso esangue.
Sentì i passi arrivare dall’altro lato della strada. Si alzò con uno scatto, smuovendo la neve come se fosse schiuma, e sparì correndo prima che arrivasse gente, o altri moschettieri che avrebbero potuto trarre le conclusioni sbagliate.
 
 
 
 
 

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Capitolo 12
*** Di tuberi, vino e taverne ***


XI
Di tuberi, vino e taverne
 
 
Nella stanza c’era un’aria soffocante: troppa tensione e troppe persone ammassate dentro.
Il medico sistemò la fasciatura e si pulì le mani in un panno. Il proiettile estratto era una minuscola sfera grigia lasciata in mezzo ai grumi di sangue dentro a un fazzoletto.
«Per fortuna, non è esploso» aveva detto il medico.
«Il colpo deve essere stato sparato a distanza ravvicinata» era stato il commento di Aramis.
Sparato da chi? Sparato perché?
Avevano trovato d’Artagnan in terra, una pozza di sangue accanto a lui e uno schizzo vermiglio grande come un mantello accanto a Luc Morice morto con la gola tagliata.
Di tutte le persone che erano accorse dopo aver sentito gli spari, curiosi o cittadini con uno spiccato senso civico, nessuno aveva visto cosa era successo davvero. Le impronte nella neve erano quelle di due uomini che si allontanavano in direzioni diverse.
Athos non aveva riconosciuto subito d’Artagnan nel corpo immobile nella neve, era come se la sua mente rifiutasse di crederlo lì, in fin di vita, lasciato a morire come un cane. Quel ragazzo era destinato a fare grandi cose, a essere il migliore di tutti loro, la sua vita non sarebbe potuta finire a vent’anni anni in uno squallido vicolo dei bassifondi di Parigi. La sua vita non doveva finire in quel letto.
Si era inginocchiato accanto a lui, con la mano gli aveva scostato i capelli dal viso. Quando lo avevano spostato e messo sul carro per riportarlo alla guarnigione, d’Artagnan aveva aperto gli occhi, dalle labbra livide era uscito appena un sussurro.
«Il bandito… l’ho visto».
E Athos aveva sentito l’odio esplodergli nel petto come una scintilla in una barile di polvere da sparo.
In d’Artagnan aveva sempre visto una speranza, quel ragazzo gli somigliava eppure era migliore di lui, la vita non lo aveva ancora contaminato con le sue brutture. Sarebbe potuto diventare un grande uomo e un grande moschettieri, e Athos sentiva come propria la responsabilità di aiutarlo a raggiungere quel traguardo, proteggendolo, persino.
«Allora se la ferita non è grave, starà bene, no?». Porthos si accarezzava nervosamente la barba ricciuta, gli occhi fissi sulla sponda del letto, incapaci di guardare il compagno ferito e ancora privo di conoscenza.
«Il freddo ha evitato l’aggravarsi dell’emorragia. Ma, mi dispiace, la ferita è infetta» dichiarò il medico.
Treville gettò la testa all’indietro. «Ho visto più di un uomo ferito avere ragione dell’infezione» disse, come se stesse dando a d’Artagnan l’ordine indiretto di non azzardarsi a morire. «Il ragazzo è giovane e forte, ce la farà». Estrasse una manciata di monete dalla tasca e le diede al dottore.
«Se avete bisogno di me, sapete dove trovarmi» disse il medico, uscendo, passando a fatica in mezzo ai quattro soldati.
Un silenzio pesante calò su tutti loro.
Nel cortile della caserma la neve non era più un soffice manto bianco, era diventata una poltiglia sporca, mista a fango. Nella mente di Athos turbinavano ancora le immagini di tutto quel sangue sulla neve in quel vicolo. Aveva visto scene più violente, morti più disgustose e cruente, ma quel lampo porpora acceso sul bianco candido e perfetto della neve gli ballava davanti agli occhi ogni volta che chiudeva le palpebre.
La porta della stanza si aprì con uno scatto improvviso, un refolo di aria fredda smosse la fiamma della lampada sul comodino.
Sulla soglia, Diane trafelata guardò con occhi sgranati il letto dove era steso d’Artagnan. Il petto si alzava e si abbassava nel corpetto dell’abito sotto la mantella.
«Serge… in cortile… mi ha detto» disse, ansimando, a mo’ di spiegazione. Si fece strada tra i moschettieri, scansandoli brusca, fino al capezzale del ragazzo.
«Cosa è successo?»
«Non lo sappiamo» disse Treville. «Lo abbiamo trovato così, in nottata».
Il capitano non menzionò l’altro uomo morto. Degli schiamazzi dal cortile attirarono la sua attenzione e lui uscì a grandi passi per andarli a zittire.
«Ce la farà, non è vero?» chiese la ragazza, guardando uno ad uno i tre moschettieri rimasti nella stanza.
«Certo che sì» rispose Aramis. Per tutto il tempo aveva continuato a rigirarsi tra le dita la croce d’oro che portava sempre al collo, dono della regina Anna. La preghiera sembrava l’unica soluzione e Athos si sentì schiacciato al pensiero: sapeva che rimettere tutto nelle mani di Dio, il più delle volte, non era una scelta tanto efficace.
«Cosa è successo?» ripeté Diane, certa che suo zio non le avesse detto tutto.
«Stavamo pedinando Morice» spiegò Porthos. «Ci eravamo organizzati per farlo a turno. Non avremmo dovuto mandare d’Artagnan da solo, è stato stupido»
«E Morice?»
«Morto. Lo abbiamo trovato vicino a d’Artagnan, qualcuno lo ha ucciso e poi ha sparato al ragazzo»
«È stato il bandito» aggiunse Athos.
«Come fate a saperlo?». Un fremito di orrore attraversò lo sguardo di Diane già velato dalle lacrime. 
«Menzionare il bandito è stato tutto quello che d’Artagnan è riuscito a fare quando lo abbiamo soccorso». Il moschettiere serrò la mascella e inspirò prima di riuscire a proseguire. «Avrebbe dovuto fare un lavoro migliore, e invece lo ha lasciato a dissanguarsi in mezzo alla strada».
La ragazza si passò una mano tra i capelli, come a cercare di rimettere ordine tra i pensieri che si agitavano sotto i suoi ricci castani. Sembrava respirare a fatica.
«Cosa ha detto il dottore?»
«La ferita non è grave, ma ha fatto infezione, ha la febbre e se non si abbassa…».
Diane chinò il capo, continuando a tormentarsi i capelli con le dita. L’umidità aveva reso ancora più vaporosa quella cascata di ciocche disordinate.
«Ho un’idea» sussurrò. Uscì dalla stanza senza dire altro.
I moschettieri si guardarono in viso, scambiandosi occhiate dubbiose.
Se fosse stato abbastanza lucido, Athos avrebbe detto che quello era il momento di tirare definitivamente fuori dai giochi quella ragazza testarda, perché quei giochi si erano fatti troppo pericolosi.  
Diane tornò dopo qualche minuto, reggendo tra le mani uno straccio e una cesta con delle patate.
«Il cuoco mi ha abbaiato contro» disse. «Non sono certa che oggi vi servirà il pasto»
«E quelle servono a cosa, esattamente?» chiese Aramis, perplesso.
«Un vecchio rimedio. Lo usavano nel collegio, di inverno ci si ammalava come se niente fosse… io davo la colpa al freddo che c’era nel refettorio, i monaci dicevano che era perché non pregavamo abbastanza».
Diane si sedette su uno sgabello e allungò la mano. Aramis capì al volo e le passò un coltello.
La ragazza tagliò una patata in fette spesse e ripiegò lo straccio per tutta la lunghezza fino a farlo diventare una striscia simile a una benda. Dispose le fette su un lato e lo legò forte attorno alla testa di d’Artagnan, sollevandogli il capo con delicatezza.
Il ragazzo si agitò appena, borbottando versi senza senso. Almeno respirava ancora.
Diane gli rimboccò le coperte, come fosse un bambino, poi si voltò verso gli altri tre.
«Usciamo, è così piccolo qui dentro che finirà soffocato» suggerì.
Sì, era una buona idea. Lontano dalla vista di d’Artagnan in fin di vita forse sarebbero riusciti a mettere insieme qualche pensiero coerente.
Fuori il freddo faceva quasi male.
«Dobbiamo trovare chi ha fatto questo» disse Porthos a denti stretti.
«Dobbiamo scoprire perché» puntualizzò Aramis. «Perché uccidere Morice».
«Era un uomo ricco, con una certa influenza». Diane si massaggiò le braccia per tentare di riprendere calore nell’aria pungente. «Chi avrebbe osato tanto?»
«Sapeva qualcosa, qualcosa di tutto quello che sta succedendo, forse sapeva persino troppo. Volevano metterlo a tacere» ipotizzò Athos.
Porthos dondolò il capo. «Secondo le informazioni che ci ha dato il capitano, Morice era in combutta con un sacco di gente potente. Potrebbe essere stato chiunque, per qualsiasi ragione. Forse era coinvolto in quello che sta succedendo, forse questo era un regolamento di conti e non c’entra niente con quello di cui ci stiamo occupando». 
«Non so voi, ma io non sono tipo da credere alle coincidenze» concluse Aramis.
E se anche qualcuno avesse voluto crederci, le coincidenze cominciavano a diventare davvero troppe.
«Vado a far preparare i cavalli» sbuffò Porthos, sistemandosi il cappello sulla testa. «Dobbiamo andare a cercare qualcosa, qualunque cosa. Se resto senza far niente, potrei diventare matto».
Si diresse a passi pesanti verso le stalle, Aramis lo seguì.
Forse Athos avrebbe dovuto imitarli, provare a fare qualcosa di utile invece di stare fermo, sospeso sui propri pensieri come carboni ardenti.
Sospirò, stropicciando con le dita la falda del cappello.
«D’Artagnan si riprenderà» gli disse Diane, posandogli una mano sulla spalla.
Sì, lo aveva detto anche il capitano. Ma lui non voleva sentire speranze esposte ad alta voce, voleva solo che le cose fossero andate diversamente.
«È colpa mia» sibilò. Strinse i pugni e picchiò contro una delle colonne di legno del patio.
«Da dove viene questa assurdità?». Diane scosse il capo e si parò di fronte a lui, obbligandolo a sostenere il suo sguardo.
«Se avessi preso quel bandito, la prima volta che l’ho incontrato…»
«Che gusto ci provi ad addossarti responsabilità che non hai? Sembra quasi che ti piaccia tormentarti. La colpa di quello che è successo è di chi ha sparato a d’Artagnan e di nessun altro»
«La fai troppo facile. L’ho mandato io da solo a pedinare Morice. Ha sempre la smania di fare qualcosa e l’ho assecondato. Ho sempre avuto fiducia nel suo talento e ho provato a renderlo un bravo moschettiere: non mi ha mai deluso, ma io ho preteso troppo questa volta e sono stato incauto»
«Athos, smettila!». Gli occhi di Diane sembravano pugni serrati pronti a colpirlo. «I sensi di colpa non aiuteranno d’Artagnan e di certo non gli renderanno giustizia».
Il moschettiere gettò all’indietro il capo, respirando grandi boccate di aria fredda.
«Non importa quanto tempo ci vorrà e chi dovrò tirar giù dalla sua poltrona» mormorò, la voce ridotta a un soffio dalla rabbia traboccante di odio, quello che gli era rimasto dentro a pungere nel petto come spine, quello che credeva di aver sepolto ma che si risvegliava ogni volta che veniva fatto del male a qualcuno a cui teneva. «Non importa, ma io troverò quel bandito e lo ucciderò».
Diane serrò le labbra. Ora lo guardava spaventata, forse perché vedeva nei suoi occhi il fumo di un fuoco di inferno che non si era mai estinto davvero. Per un istante, Athos ne fu dispiaciuto: per una sorta di sciocca vanità gli piaceva pensare che la ragazza lo considerasse un uomo senza macchia, quello che fingeva di essere quando riusciva a dimenticare chi era in realtà e cosa aveva fatto.
Deglutì, cercando di calmarsi. Avrebbe voluto prendere la mano di Diane e chiederle scusa, ma non aveva il coraggio di toccarla, non mentre lei lo guardava a quel modo.
«Per favore» le chiese, ritrovando un tono più mite. «Prenditi cura di lui, mi posso fidare di te». 
Si sistemò il cappello e si incamminò senza aggiungere altro.
 
***
 
Sotto le palizzate di legno, Diane restò a guardare i moschettieri montare a cavallo e sparire galoppando veloci.
L’odio e il turbamento che aveva visto negli occhi di Athos le avevano fatto male, ma la sua preoccupazione ora era tutta per d’Artagnan.
Le patate non lo avrebbero salvato e neppure la sua compagnia, ma la ragazza era decisa a restare al suo fianco e, per quel poco che poteva, aiutarlo a combattere.
Rientrò nella stanza e si sedette accanto al letto, spiando ansiosa l’espressione del ragazzo.
Il tempo congelò in istanti lunghissimi di caldo appiccicoso e odore di sudore.
L’impacco che Diane aveva preparato ormai doveva aver fatto il suo lavoro. Lo sfilò con cautela e lo abbandonò sul comodino. Più tardi ne avrebbe preparato un altro.
Posò una mano sulla fronte di d’Artagnan. Era più fresca ma la febbre non lo aveva ancora abbandonato.
Il ragazzo aprì le labbra, inspirando aria con un singulto, e sollevò appena le palpebre.
Diane gli prese una mano nella sua e gli accarezzò la guancia.
Non morire, d’Artagnan. Per te, per Athos, per tutti noi…
«Constance…» sussurrò il giovane, il fantasma di un sorriso sulle labbra screpolate e smunte.
Diane non aveva mai sentito pronunciare un nome di donna con tanta sfinita dolcezza.
D’Artagnan aprì gli occhi arrossati e mise a fuoco il viso della ragazza chino su di sé. Per un attimo rimase a guardarla come se non la riconoscesse.
«Mi dispiace, sono solo io». La ragazza gli sorrise. Si chiese se non fosse il caso di andare a trovare madame Bonacieux e portarla lì, lei sì che sarebbe stata d’aiuto.
Cancellò il pensiero: non poteva intromettersi in una cosa del genere.
D’Artagnan aprì e chiuse gli occhi più volte, poi tentò un piccolo movimento in avanti. Il viso gli si contrasse in una smorfia di dolore.
Quanto poteva far male la carne lacerata da un proiettile? Diane preferì non pensarci.
«Dove sono gli altri?» chiese il ragazzo.
«In giro, a fare cose da moschettieri». Gli posò una mano sul petto e lo spinse piano contro il materasso. «Ora risparmiamoci la parte in cui tu fai l’eroe e provi ad alzarti e io ti convinco a rimanere a letto ficcandoti un dito in quella ferita, ti prego».
Il giovane moschettiere realizzò di essere troppo debole per muoversi e forse pensò che lei sarebbe stata davvero capace di infilargli un dito nella ferita per costringerlo a letto.
La ragazza gli versò dell’acqua e l’aiutò a bere.
La pelle di d’Artagnan era rovente.
Treville aprì con discrezione la porta e spiò dentro prima di entrare. Non parve stupito di trovare la nipote al capezzale del moschettiere.
«Capitano…» mormorò d’Artagnan.
«Come ti senti?»
«Come un ciocco di legna in un camino».
Treville conservò la sua aria ferma e imperturbabile, ma si torse nervosamente le mani. La devozione dei moschettieri al loro capitano era leggendaria ma anche sull’affetto del capitano per i suoi uomini avrebbero dovuto scrivere poesie.
«Riesci a parlare? Puoi dirmi cosa è successo? Athos dice che è stato il bandito» disse piano.
D’Artagnan deglutì, voltò la testa sul guanciale cercando di mettere in ordine i pensieri annebbiati dalla febbre.
«Non è stato il bandito a uccidere Morice» mormorò, la voce spenta, flebile. «Lui era lì, ma c’era un altro uomo»
«Chi ti ha sparato?».
Il ragazzo scosse il capo. «Non riesco a ricordare, è tutto confuso. Prima di perdere i sensi ho visto il bandito, come lo aveva descritto Athos… si è chinato su di me, pensavo volesse finirmi, ma non lo ha fatto, o forse non ha fatto in tempo perché poi è arrivata gente e da allora non ricordo più niente»
«Non hai visto in faccia nessuno dei due, l’uomo o il bandito?»
«Era buio, avevano il viso coperto».
Treville sbuffò dalle narici. «Ne verremo a capo» assicurò. «Tu vedi di riprenderti, e tu vedi fargli mangiare qualcosa».
Diane annuì e seguì con lo sguardo suo zio che lasciava la stanza.
Più tardi la ragazza riuscì a rimediare dalle cucine una ciotola di brodo ma d’Artagnan ne mandò giù pochi cucchiai prima di ricadere sfinito contro il cuscino. Si addormentò di colpo, con la fronte imperlata di sudore.
La ragazza rimase seduta accanto a lui, così presa dai suoi pensieri da dimenticarsi persino di respirare.
Le ultime parole che aveva scambiato con Athos le facevano eco nella testa.
«Mi posso fidare di te…»
Non sembrava qualcosa che il moschettiere dicesse con leggerezza.
Lacrime di frustrazione le pizzicarono le ciglia. I suoi pensieri si erano fatti valanga e la sommergevano. Pensava alle persone che erano morte, pensava che quella faccenda era solo all’inizio.
Si alzò e si mise a camminare per la stanza, di tanto in tanto fermandosi accanto alla finestra nella speranza di veder tornare i tre moschettieri.
D’Artagnan prese a lamentarsi nel sonno. Diane gli accarezzò la testa, cercando di calmarlo. Scottava ancora: forse era il momento di tentare con un altro impacco.
Gli stava asciugando il sudore dalla fronte con un panno umido quando sentì la porta aprirsi di nuovo, troppo bruscamente, troppo all’improvviso. Sobbalzò e si voltò verso la soglia.
«Io… io… scusate». 
Oh, santi numi!
Madame Bonacieux era rimasta ferma come un quadro incorniciato dal rettangolo della porta, le labbra schiuse a riprendere fiato dopo una corsa. L’orlo della mantella di tessuto a fiori gocciolava sull’uscio, qualche ciocca di capelli era sfuggita alla crocchia tenuta su da nastri di raso.
Non era difficile capire perché d’Artagnan ne fosse innamorato.
Diane restò a guardarla, incapace di parlare. Vide gli occhi della donna riempirsi di lacrime e una sfumatura di rosso salirle dal collo alle gote.
La donna si voltò in un fruscio di stoffa e scappò via come una ladra.
La nipote del capitano balzò in piedi e si lanciò dietro di lei. 
Non era proprio il caso di spargere altro dolore, ne aveva abbastanza.
Constance Bonacieux correva maldestra sulla neve, incespicando, con la mantella che si gonfiava dietro la sua schiena.
Nel cortile della guarnigione, i moschettieri osservarono divertiti la scena di due donne che si inseguivano. Se non osarono fare commenti ad alta voce era forse perché avevano riconosciuto in una delle due la nipote di Treville.
Diane raggiunse madame Boncieux e l’afferrò bruscamente per la spalla, stringendo tra le dita il tessuto morbidissimo della sua mantella.
La donna la guardò con gli occhi gonfi di una tristezza rassegnata, rabbiosa ma priva di astio, e Diane si piegò appena in avanti per tentare di riprendere fiato. Nella concitazione del momento, era uscita senza indossare niente sopra l’abito e ora stava gelando, malgrado la corsa.
«Questa cosa la dobbiamo risolvere una volta per tutte» esclamò. La sua voce spezzata dal fiato corto fece eco sotto l’arcata del portone di ingresso, il respiro diventava fumo nell’aria pungente. Diane pensò che anche la testa avrebbe preso a fumarle.
«Cosa volete da me?»
«Dirvi che non sono l’amante di d’Artagnan, non aspiro ad esserlo e credo che in questo momento lui abbia più bisogno di voi che di me» dichiarò Diane, quasi soffocando.
«Che state dicendo?»
«Sentite, non sono fatti miei, ma quale nome pensate che abbia chiamato nel delirio della febbre?».
Gli occhi di Constance si allargarono e una lacrima le scivolò sulla gota.
La ragazza continuò. «Non so bene cosa sia successo tra di voi, ma a giudicare da come vi siete precipitata qui, direi che vi importa più di quanto si possa dire. Ora, se volete fare qualcosa di utile, andate in quella stanza e prendetevi cura di lui».
La donna guardò la sua interlocutrice con un’espressione indecifrabile, di sollievo forse.
«È… è molto grave?» chiese poi, abbassando il capo. «Ho sentito solo che c’è stato uno scontro e che è rimasto ferito»
«La ferita è poca cosa, ma ha fatto infezione». Sul volto di Constance passò una sfumatura di paura. «Ha la febbre alta, passa dalla veglia all’incoscienza e sto cercando di curarlo con le patate»
«Le patate?»
«Sì, un vecchio rimedio che ho visto usare in Italia per far abbassare la febbre. Le mie conoscenze in materia si fermano lì».
Constance sbatté le palpebre e distolse lo sguardo, cercando di mettere ordine tra i pensieri e il cuore che pochi minuti prima doveva esserle andato in frantumi. «Siete la nipote del capitano Treville, avete detto?»
«Già». Diane sollevò l’angolo della bocca in un accenno di sorriso. «Venite, andiamo a vedere se d’Artagnan si è svegliato».
Il moschettiere dormiva ancora, avviluppato nel limbo della febbre. Constance lo guardò con una tenerezza da spaccare il cuore e si sedette accanto a lui. Diane preparò un secondo impacco con le patate. Sperò che il ragazzo riaprisse gli occhi per accorgersi che madame Bonacieux era lì, forse la sua presenza sarebbe stata migliore di qualsiasi medicina. 
Da quando era diventata così romantica? Diane restò per qualche secondo con il coltello in mano. Romantica non lo era mai stata perché non aveva avuto tempo di diventarlo, pensava che l’amore fosse una fede totale e cieca in qualcun altro e la giovane non era tipo da credere con così tanta forza in qualcosa al di fuori di lei, anche se da quando era arrivata a Parigi le cose stavano cambiando, se non nel suo cuore, almeno nel suo sguardo.
Constance non sentì quando Diane la salutò a bassa voce e lasciò la stanza. Per adesso la ragazza non poteva fare altro che tornare a casa.
Di giorno, le strade tornavano ad affollarsi malgrado la neve, solo che erano molto meno rumorose. I passi dei parigini producevano un suono sordo e ruvido mentre ciabattavano sui cumuli di neve mezza sciolta.
Diane attraversò la città, camminando quasi senza pensare a dove stava andando. Le era bastato poco per riappropriarsi di quel luogo che aveva sempre sentito come casa sua.
Andare via da Parigi da ragazzina l’aveva fatta sentire come un albero strappato, le radici lasciate a sanguinare nella paura che la lontananza sbiadisse i ricordi. Quando il duca, il fratello di suo padre, l’aveva portata al collegio si era sentita anche peggio, come un oggetto abbandonato, in attesa. Nelle sere lunghissime, scalfite dalla luce fioca di una candela sul comodino nel grande dormitorio, aveva letto il diario di suo padre che aveva portato con sé, sperando di trovare tra quelle pagine degli appigli per rimanere ancorata alle sue origini, malgrado tutto.
In casa trovò Marie seduta al tavolo in cucina, intenta a cucire una gonna di un bellissimo tessuto color smeraldo.
Molte cose si potevano dire della sua svampita coinquilina, ma non che non sapesse far bene il suo lavoro.
Una pentola sul fuoco del camino soffiava un fumo leggero e spandeva un buon odore di verdure e di spezie.
Marie alzò lo sguardo dalla propria opera e appuntò l’ago di traverso tra le pieghe del tessuto.
«Ah, oggi avrò l’onore della tua compagnia?» domandò, sarcastica ma senza risentimento. Ciocche di capelli biondi le solleticavano il collo niveo.
Diane si andò a sedere di fronte a lei.
«Ho del lavoro arretrato» disse.
«Bene, posso allungare la zuppa, così possiamo pranzare insieme»
«Sei gentile, grazie».
Gentile lo era davvero, al di là della sua testolina da dodicenne troppo vispa, Marie era una brava ragazza, buona come lo sono le persone a cui non è mai capitato niente di male.
Diane prese la sua scatola per il ricamo. Doveva terminare delle iniziali sui fazzoletti di una ricca signora - anche quel lavoro glielo aveva procurato Marie. Il piccolo impiego da ricamatrice e la rendita dell’eredità di suo padre bastavano alle sue poche necessità e Diane pensò per la prima volta alla vita tranquilla che avrebbe potuto avere un giorno.
«Raccontami qualcosa dell’Italia» disse Marie all’improvviso.
«Non ho visto quasi niente dell’Italia o di Roma. Sono sempre stata in collegio»
«Ah, non mi dici mai niente, tu» sbuffò l’altra ragazza. «In dieci anni devi pur aver fatto qualcosa! Qui a Parigi non stai mai ferma».
Diane ridacchiò e scosse il capo. Marie sembrava decisa a insistere.
«Dimmi almeno qualcosa di quello che combini qui, sei sempre in giro. Sei già stata con qualche moschettiere?».
La nipote del capitano alzò la testa di scatto e si punse il dito con l’ago da ricamo, se lo portò alle labbra tamponando con la punta della lingua la minuscola goccia di sangue.
«Qualche? Perché, è previsto che debba averne più di uno?»
«Non lo so, mica li conosco i tuoi gusti. Dovremmo parlare di più, sai».
Diane guardò di traverso l’amica. Sì, forse avere una compagnia più adatta alla sua età e alla sua condizione non sarebbe stata una cattiva idea.
«Mettiamola così: se volessi stare con qualche moschettiere, sarebbe uno. Singolo. Unico. D’accordo?» disse, e rimarcò il concetto alzando l’indice che si era punta.
«Quale?»
«Parlavo in termini ipotetici, Marie, non è che abbia in mente qualcuno di preciso»
«Aramis?».
La ragazza sollevò le sopracciglia. Da qualche parte, nella sua testa sentì riecheggiare una risatina isterica.
«No. Per l’amor del cielo» borbottò.
Cominciava a imbrunire quando Diane decise di tornare alla guarnigione per avere notizie.
I fazzoletti che aveva ricamato giacevano perfetti e inamidati in una scatola con un nastro. Era soddisfatta del suo lavoro, era bello sapere che riusciva a combinare qualcosa di buono, di normale.
«Farò tardi» disse a Marie con un’aria complice. «Voglio dire, non ci metterò molto, ma posso trattenermi».
La ragazza bionda scrollò lo spalle e sospirò sconsolata. «Ah, tanto sono da sola. Jean-Pierre mi ha mandato un biglietto dicendomi che starà via per qualche giorno»
«Capisco».
Il volto di Marie si alterò di colpo. «No, non capisci. Dopo tutto questo tempo, invece di venire a salutare, mi manda un biglietto».
Diane guardò perplessa la sua coinquilina mentre diventava rossa in viso e gonfiava le guance, respirando come un mantice. Sembrava che da un momento all’altro potesse uscirle fumo dalle orecchie.
«Jean-Pierre è al servizio di un uomo molto importante, sono sicura che avrà avuto le sue ragioni» disse Diane. Un’idea le balenò in mente all’improvviso ma non riuscì a prendere forma.
Pensare. Doveva pensare.
«Io vado, Marie. Se sei da sola e vuoi compagnia, prometto che non ci metterò molto». Si infilò la mantella e imboccò frettolosamente la porta.
Alla guarnigione dei moschettieri sembrava sempre giorno: non importava quale fosse l’ora, c’era sempre qualcuno che tornava o partiva a cavallo, sempre qualcuno in fondo al cortile che si esercitava con la spada, sempre qualcuno seduto a parlare o a bere al grosso tavolo in fondo alle scale. 
Serge stava sparecchiando proprio quel tavolo dai boccali e le brocche che qualcuno aveva abbandonato vuoti sul piano di legno.
Diane gli si avvicinò. «Sono tornati?» chiese.
Il vecchio attendente non ebbe bisogno di chiedere a chi si riferisse la ragazza; sollevò le sopracciglia cispose esibendo un’espressione che lo fece assomigliare in maniera inquietante al gufo impagliato che il padre di Diane teneva nel suo studio.
«Non tengo mica il registro di chi arriva e chi va» borbottò Serge. «Sono tornati e se ne sono andati di nuovo»
«Dove?»
«In taverna, no?».
La ragazza arricciò le labbra. «E d’Artagnan?»
«Hanno visto che c’era la signora e non hanno voluto disturbare. Però non lo so se il ragazzo è ancora vivo… credo di sì, comunque».
«Confortante. Grazie, Serge».
Il vecchio annuì con una scrollata di capo e tornò alla sua occupazione. 
Diane decise che era abbastanza presto per potersi arrischiare a raggiungere i moschettieri in taverna, senza che partissero paternali sul fatto che certi posti non fossero adatti a una ragazza. Ma prima voleva accertarsi delle condizioni di d’Artagnan.
Nella piccola stanza del moschettiere, trovò Constance addormentata, seduta sullo sgabello, con il busto appoggiato in avanti sul materasso, accanto al fianco del ragazzo, le loro mani intrecciate tra le lenzuola.
Entrò silenziosamente e prese la mantella che madame Bonacieux aveva appeso a un gancio alla parete. Con delicatezza e senza emettere alcun rumore gliela posò sulle spalle che l’abito le lasciava scoperte.
D’Artagnan aprì gli occhi. Erano meno lucidi e meno arrossati, la febbre doveva essersi abbassata.  
Diane e il ragazzo si guardarono in silenzio.
«Grazie» le sussurrò lui, a fior di labbra.
La nipote del capitano gli sorrise e sentì un calore piacevole al centro del petto. Forse, era ancora capace di combinare qualcosa di buono.
Sfiorò con le dita la fronte del giovane e la trovò più fresca e asciutta di sudore.
Grazie a te per non essere morto.
Uscì, silenziosa come era entrata e si calò il cappuccio della mantella sulla testa per proteggersi dall’aria pungente. Quel freddo le stava facendo venire l’emicrania.
Le parve che le strade si fossero ripopolate. Alla fine, la neve non aveva potuto spegnere la vita di Parigi, l’aveva solo come attutita per qualche giorno.
Infilata al centro della via, in mezzo a basse costruzioni dalla facciata spoglia, la taverna con le luci accese e il ronzio del chiacchiericcio dei clienti brillava come un pezzo di brace tra la cenere.
Diane entrò e fu investita da un calore quasi torrido, in contrasto con il freddo dell’esterno, dall’odore dolciastro del vino e dall’aroma di fumo e olio bruciato proveniente da uno spiedo sul quale rosolava un maialino da latte.
Sfilò nello stretto spazio tra un tavolo e l’altro, evitando cameriere che reggevano con sorprendente maestria vassoi con boccali traboccanti.
Un braccio, come spuntato dal nulla, le circondò la vita. Perse l’equilibrio e si trovò addosso a un uomo che la fissava con un sorriso mellifluo.
«Non è un po’ presto, per le passeggiatrici?» le chiese lo sconosciuto. «Però l’offerta del bordello qui dietro sembra nettamente migliorata».
La prima opzione a cui pensò la ragazza riguardava un boccale spaccato sulla faccia del gentiluomo. La seconda opzione, che le parve quella più saggia ma meno divertente, consisteva semplicemente nel passare sopra all’accaduto, liberarsi da quella stretta e far notare che c’era stato un errore.
Diane stava ancora valutando quale delle due soluzioni scegliere, quando l’uomo allungò una mano verso la scollatura del suo vestito.
E boccale spaccato in faccia sia… Prima che il pensiero avesse tempo di tramutarsi in azione, una mano si chiuse su quella dello sconosciuto. Nel trambusto del locale, la ragazza sentì distintamente il suono di ossicini che scricchiolavano.
Alzò lo sguardo per incrociare gli occhi di Porthos.
«Chiedi scusa» disse il moschettiere. Parlò come a un bambino discolo, ma il suo sguardo era duro e minaccioso.
Strinse un po’ di più la presa e l’uomo si piegò per il dolore della stretta, tentando di liberarsi la mano ma finendo per farsi ancora più male.
Diane scivolò via. Gli altri uomini al tavolo si alzarono con uno stridore di sedie.
«Signori, vi prego». Aramis spuntò accanto a Porthos, la pistola appoggiata di traverso sulla spalla, l’aria disinvolta. «Voi non siete abbastanza sobri e noi non siamo abbastanza ubriachi per questo».
Il mondo - il mondo rumoroso e variopinto che si riversava alla sera per le strade di Parigi - si divideva in due categorie: quelli che trovavano dilettevole accalappiarsi con i moschettieri e quelli che preferivano evitare rogne. Per fortuna, i signori a quel tavolo appartenevano alla seconda categoria.
«Chiedi scusa, da bravo» ripeté Porthos all’uomo a cui stava ancora stritolando la mano.
«Scus- scusate, madame» biasciò questi. Il moschettiere lo lasciò andare e lui indietreggiò, inciampando nella sedia dietro di sé.
Aramis cinse le spalle di Diane con un braccio e mise via la pistola. «Magnifica sera, amica mia, non trovi?».
Porthos l’affiancò dall’altro lato e insieme la pilotarono verso il loro tavolo. «Scommetto che le tue prossime parole saranno: non ditelo a mio zio»
«Penso che non ci sia neppure bisogno di pronunciarle, quelle parole»
«Che ci fai qui?»
«Ero in ansia. Volevo sapere se avevate scoperto qualcosa».
Porthos si versò del vino ma Diane gli levò il bicchiere dalle mani e bevve una lunga sorsata. Il moschettiere mostrò i palmi in un enfatico gesto di invito.
«Nessuno ha visto niente. Non ci aspettavamo nulla di diverso» spiegò Aramis. «La nostra idea è che il bandito e l’uomo che ha ucciso Morice non stiano dalla stessa parte, le impronte della loro fuga sulla neve andavano in direzioni diverse, ma questa è solo un’idea e comunque non ci porta a niente. A proposito, sei stata tu a mandare a chiamare Constance Bonacieux?»
«È venuta da sola, da quello che ho visto è più efficace dei tuberi»
«Già, alla fine pare proprio che il ragazzino l’abbia scampata anche stavolta» fece Porthos. Il sospiro di genuino sollievo gli fece vibrare i baffi scuri.
Diane bevve un altro sorso di vino. Non era il migliore che avesse assaggiato ma sentiva di averne un gran bisogno.
«Ricapitoliamo» disse, passandosi una mano sulla fronte. «Cosa abbiamo? Un uomo morto che ha venduto la propria casa a un altro uomo morto; un carico di armi di contrabbando in una casa bruciata, ipoteticamente, da un bandito misterioso - casa che apparteneva al nostro secondo uomo morto e…»
«Le colombe!» esclamò Porthos. «Uno sfregio al conte Legrand»
«Comincio a pensare che dovremmo fare due chiacchiere con il conte» disse Aramis «È piuttosto blando come collegamento, ma a ben pensarci è l’unica cosa che sembra accomunare quanto è successo… è iniziato tutto con quelle colombe, poi la morte di Robert Bourell, che aveva venduto la casa a Morice che l’aveva data al conte per l’ampliamento dell’ospedale»
«E le armi nella casa, cosa c’entrano le armi?» chiese Porthos, corrugando la fronte.
«Non lo so, ma non si può mai dire cosa possa uscirne fuori una volta smossa un po’ di polvere».
Diane si girò il bicchiere di vino tra le mani.
«Al conte Legrand avevo pensato anche io» ammise. «Era il sospetto di cui vi avevo accennato e che non volevo menzionare. So che è nelle grazie del re e che è un sant’uomo che ha finanziato un sacco di opere di bene, indagare su di lui costituirebbe uno scandalo e forse è finito coinvolto in qualche macello a sua insaputa»
«Be’, qualche domanda non ha mai ucciso nessuno» osservò Porthos.
«Non dirlo, che qui i morti sembrano piovere dal cielo» lo rimbeccò Aramis.
Diane pensò di versarsi un altro bicchiere di vino, poi alzò la testa e si guardò attorno, passando in rassegna la locanda affollata.
«Scusate, ma dov’è Athos?» chiese.
«Non c’era rimasto nessun tavolo libero» disse Porthos con ovvietà.
«E questo che vorrebbe dire?»
«Che lui quando beve, beve da solo, soprattutto quando è… ehm, turbato»
«E molto turbamento vuol dire molto vino» concluse Aramis, poi intercettò lo sguardo torvo di Diane. «In altre parole, è qui fuori sul retro».
La ragazza si alzò con fare nervoso.
«Io lascerei perdere». Aramis aprì le mani e poi le richiuse a pugno, stringendo le labbra come se si fosse fatto male. Era troppo intelligente per pensare che Diane potesse starlo a sentire.
Lui e Porthos restarono a guardarla rassegnati mentre attraversava la taverna, diretta alla piccola porta che dava sul retro.
La ragazza la aprì con forza, facendola sbattere contro il muro esterno.
Athos era con le spalle appoggiate alla parete. Una bottiglia vuota ai suoi piedi e un’altra già notevolmente più leggera alle labbra. Voltò pigramente il capo verso la ragazza, senza alcuna espressione, non si diede neppure la pena di stupirsi perché lei era lì. 
«Che cosa stai facendo?» esclamò lei.
Per tutta risposta, il moschettiere spostò lo sguardo annebbiato tra la faccia della giovane e la bottiglia che aveva in mano, a sottolineare l’inutilità della domanda.
Diane gli si piazzò davanti. «Con tutto il macello che sta succedendo, d’Artagnan ferito, tu che reciti la parte di Atlante con il peso del mondo sulle spalle e io e gli altri che staremmo anche discutendo di cose importanti, pensavo che volessi dare un contributo vagamente più costruttivo».
Athos sollevò appena un sopracciglio, la sua espressione impassibile non mutò. «Credo che l’importanza di certe faccende non cambi molto, che io contribuisca o no» disse con voce impastata. «Il macello di cui parli, sarà ancora lì domattina, come più o meno tutto il resto»
«Oh, capisco. No, davvero, dovremmo tutti prenderci una pausa ogni tanto, tra un omicidio e l’altro…». Il tono della ragazza era eccessivamente calmo, come quello di una persona troppo infuriata.
«Cosa vuoi, Diane?»
«Niente».
Athos si staccò dal muro, i movimenti resi appena esitanti dal vino. Chinò il capo per poter guardare negli occhi la sua invadente interlocutrice.
«Non fare anche tu l’errore di credermi un uomo migliore di quello che sono» disse, come se fosse sfinito dai suoi stessi pensieri.
Diane fece un ghigno triste, colmo di delusione. «Forse sei tu che dovresti smetterla di renderti peggiore di quello che sei e scappare da tutti gli sguardi che vedono in te qualcosa di buono, qualcosa di bello»
«Posso fare anche di peggio»
«Guarda che il mio non era un invito…».
Athos si sporse verso di lei, una mano a stringerle il braccio, l’altra che ancora reggeva la bottiglia.
Diane non capì come e quando era successo che le loro posizioni si fossero invertite, lei con le spalle al muro e il moschettiere a sbarrarle il passo. Sentì il freddo della parete contro la pelle, attraverso i vestiti quando vi si ritrovò premuta contro, e il calore del respiro dell’uomo sul suo viso.
Le labbra di Athos erano quasi bollenti sulle sue screpolate dall’aria fredda della sera. Sentì il sapore di vino nella sua bocca.
Restò immobile per un istante, travolta dall’idea che a quel bacio aveva già pensato senza rendersene davvero conto.
No.
Non era il bacio dato per sfregio da un ubriaco arrabbiato, quello a cui aveva pensato quando quella sera, dopo essere stata salvata dai ladri, si era ritrovata a cavallo tra le braccia di Athos a farsi riscaldare dal pensiero delle sue labbra così vicine.
Sfilò via dalla presa del moschettiere con un unico scatto, facendogli versare qualche goccia dalla bottiglia che ancora teneva in mano.
Gli tirò uno schiaffo così forte da sentire male lei per prima e si voltò, allontanandosi a grandi passi, prima che le salissero le lacrime agli occhi.
 
 
 

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Capitolo 13
*** Un'altra vittima ***


XII
 Un’altra vittima

 
Re Luigi si massaggiò la tempia con la punta delle dita.
«Non vorrei mai apparire petulante o molesto agli occhi di sua maestà…» disse il conte Legrand. Un’affermazione difficile da credere. Aveva cominciato la sua filippica un’ora prima, partendo da lontano, e veniva quasi da chiedersi se la sua non fosse una peculiare abilità oratoria: prendere i propri interlocutori per sfinimento.
«… ma sono preoccupato. C’è stato un altro omicidio due notti fa, inoltre è passato più di un mese e sugli incresciosi incidenti avvenuti il giorno dell’inaugurazione non sì è ancora fatta chiarezza, e mi dicono anche che ci sia un bandito piuttosto pericoloso in giro per le strade. Mi avevate assicurato che i moschettieri se ne sarebbero occupati, ma fino ad ora non mi sembra che ci siano  stati risultati eloquenti».
Il nobile lasciò cadere le braccia massicce lungo i fianchi e rimase rispettosamente in attesa di una risposta da parte del sovrano.
«Non posso darvi torto, conte» disse il re, prima di voltarsi verso il capitano. «Treville? Sono certo che voi abbiate qualcosa di rassicurante da dire al conte, non è così?». La domanda suonava come un ordine o forse come una supplica.
Il capitano fece un passo avanti. Aramis e Porthos gli avevano espresso le loro teorie riguardo il coinvolgimento, diretto o indiretto, del conte. In qualche modo, la cosa sembrava avere senso: Legrand era tra quelli che avevano beneficiato dei traffici di Morice e gli avvenimenti macabri del giorno dell’inaugurazione sembravano assumere un significato meno oscuro, se visti da questa prospettiva. Da qui a muovere delle accuse concrete verso il conte il passo era tutt’altro che breve, ma era pur sempre un inizio.
«Il fatto che le indagini dei miei uomini non siano ancora giunte a  una conclusione non vuol dire che siano state infruttuose, sire» disse Treville, calmo. «Non dirò niente senza avere delle certezze, ma stanno emergendo particolari che, una volta messi insieme, ci aiuteranno a fare chiarezza».
Instillare il dubbio avrebbe tenuto Legrand sulle spine, se era colpevole di qualcosa, e l’avrebbe rabbonito almeno per un po’, se era innocente.
«Ad ogni modo, monsieur» il capitano si rivolse proprio al conte. «L’interesse che mostrate per degli omicidi di strada vi fa onore».
«Le azioni criminali non lasciano indifferenti le brave persone, capitano»
«Conoscevate Luc Morice, l’uomo che è stato assassinato l’altra notte?»
«Lo conoscevo. Mi ha ceduto una proprietà nei pressi dell’ospedale, senza la quale i lavori di ampliamento non sarebbero mai stati terminati»
«E sapevate che l’uomo trovato morto il giorno dell’inaugurazione era, casualmente, il vecchio proprietario di quella casa?»
«E come potevo saperlo? Una triste coincidenza, senz’altro»
«Una triste coincidenza» concluse Treville.
Legrand annuì con un cenno composto, poi sollevò lo sguardo come se si fosse accorto in ritardo della sfumatura nelle parole del capitano.
«State forse cercando di accusarmi di qualcosa?» disse. «O il vostro è un modo indiretto di interrogarmi? Se vi necessita qualche chiarimento sarò ben lieto di discutere con voi, ma non vi permetto di fare insinuazioni di fronte a sua maestà».
Re Luigi inclinò il capo guardando Treville con una punta di divertito interesse. 
«Non mi permetterei mai, monsieur. La vostra fama vi rende immune da qualsiasi accusa» disse il capitano.
Il re, annoiato, alzò le mani per placare sul nascere qualsiasi discussione che potesse prolungare quell’udienza più del necessario.
«Sono certo che il capitano Treville non voleva recarvi offesa» disse. «È un uomo pieno di buon senso ma in quanto a tatto deve ancora fare progressi. Temo anzi che non ne farà mai».
Sua maestà lanciò a Treville uno sguardo bonario di rimprovero. Era sempre stato nelle sue grazie, ma quello di un re capriccioso era un supporto fragile, un affetto egoista, da un momento all’altro quella benevolenza avrebbe potuto incrinarsi e decretare l’inizio di una caduta. C’era solo da pregare che quel giorno non arrivasse mai.
Legrand fece un cenno con la mano, come a soffiare via la polvere e la sua irritazione per le parole di Treville che sembrava aver già dimenticato.
Il re annuì compiaciuto, si alzò dallo scranno e lasciò la stanza. L’udienza era finita.        
Molti altri signori e dame della corte uscirono dalla sala, accompagnati da un fruscio di stoffe e dal ticchettio dei loro stessi passi.
Fuori, un sole timido cominciava lentamente a sciogliere la neve senza riuscire a fare davvero breccia nella cappa di freddo dell’inverno parigino.
Legrand si avvicinò al capitano dei moschettieri. «Ad ogni modo, signore, dicevo sul serio» disse con un sorriso gentile. Sul suo faccione, le espressioni di cortesia apparivano sempre un po’ leziose. «Se doveste avere bisogno di me per qualsiasi ragione non dovete fare altro che chiedere»
Treville ricambiò meccanicamente il sorriso ed esibì un’espressione di umile condiscendenza. «Spero, monsieur, che non ce ne sia bisogno. Ma vi ringrazio per la disponibilità»
«Mi farete sapere se ci sono novità sulle indagini?»
«Senz’altro».
Legrand chinò il capo in un cerimonioso cenno di saluto e si allontanò, raggiungendo un crocchio di signori che si erano fermati a parlare accanto alla porta.
«Sembrava sincero» disse Porthos, quando furono abbastanza lontani dalle orecchie dei cortigiani.
«O forse fingeva molto bene» suggerì Aramis.
Treville si massaggiò il mento, pensieroso. «Capirete che la vostra idea di un coinvolgimento del conte è piuttosto azzardata» ammise. «Ma è comunque una strada che vale la pena di tentare»
«Sì, anche perché le indagini non stanno andando così bene come volevate far credere, capitano»
«Ho solo cercato di procurarvi altro tempo. Ma dobbiamo assolutamente scoprire qualcosa di utile».
«Basterebbe un indizio che ci dicesse in che modo gli avvenimenti delle ultime settimane sono collegati» fece Aramis. «A partire dalle colombe».
La triste sorte di quegli uccelli veniva quasi sempre dimenticata, eppure doveva avere un significato di una certa importanza anche se appariva un’ulteriore complicazione sulla superficie di un disegno già troppo illeggibile.
Delle persone uccise avrebbero dovuto essere più importanti di qualche tortora macellata. Eppure…
«Buongiorno».
Diane era comparsa alle spalle del capitano. Aveva il potere di materializzarsi dal nulla, come un fantasma.
Athos sentì lo stomaco contrarsi. Aveva timore di incrociare il suo sguardo e allo stesso tempo sentiva fortissima la tentazione di guardarla negli occhi per valutare l’entità del danno, quanto lei potesse ancora essere arrabbiata - offesa? disgustata? - per quello che era successo la sera prima.
Dopo che la ragazza aveva lasciato la locanda, Athos aveva mandato giù un’altra bottiglia di vino, cercando di dimenticare, oltre a tutto il resto, anche l’idiozia che aveva fatto - e forse “idiozia” era un termine troppo generoso. Passato l’oblio del dopo sbronza e appena il mal di testa aveva cominciato a scemare, aveva dovuto fare i conti con se stesso e con la gravità della situazione. Si era chiesto come gli fosse mai saltato in mente di fare una cosa tanto squallida e meschina, il perché di quel gesto assolutamente privo di senso persino per un ubriaco.
E la sera prima non era nemmeno così ubriaco. Aveva mantenuto il suo distaccato controllo in condizioni ben peggiori, con in corpo quantità di alcool nettamente superiori alla bottiglia e mezzo di vino. 
Non c’era nessun perché, aveva dovuto convenire con se stesso, alla fine. Voleva baciarla, non per sfregio, non perché era ubriaco e turbato e arrabbiato e la collera della ragazza lo stava facendo uscire di testa, lo voleva e basta. E la semplicità della motivazione non faceva che rendere l’accaduto ancora più grave. Lo voleva e non ne capiva la ragione, lui che considerava il desiderio un capriccio di cui poter fare a meno dal momento che l’amore era passato nella sua vita e se ne era andato portandosi via tutto il resto.
Non si può avere qualcosa perché la si vuole e basta, gli aveva ricordato una coscienza sgangherata e ritardataria, riemersa zoppicante dalla nebbia dell’alcool. Non c’è onore nel prendere senza conquistare e per Athos l’onore era l’ultimo pilastro rimasto in piedi, sopravvissuto al terremoto che aveva ridotto in macerie l’uomo che era stato.
Ciò che era rimasto del conte de la Fère era lo spirito di un soldato, l’acciaio di una lama e la calma costante di una disciplina ferrea che in tutto quel tempo non aveva mai vacillato.
Guardò Diane, riuscì a sollevare lo sguardo nel suo. Pensò di doverle almeno la dignità di non comportarsi da codardo. Appena il pilastro del suo onore avesse smesso di sembrargli così traballante, avrebbe poi anche trovato il coraggio di affrontarla e chiederle scusa.
La ragazza gli restituì lo sguardo senza alcuna emozione particolare e Athos sentì il nodo nel suo stomaco stringersi ancora di più. Non poteva almeno fargli la cortesia di essere indignata come tutte le persone normali a cui fosse mai capitato di ricevere un gesto villano e indesiderato?
Il moschettiere avvertì di nuovo la guancia bruciare, come se lei lo avesse schiaffeggiato una seconda volta.
All’improvviso divenne consapevole dello sguardo di Porthos e Aramis su di sé. Perché naturalmente loro erano arrivati in tempo per vedere tutto o, almeno, per indovinare cosa fosse successo.
Treville posò una mano sulla spalla di sua nipote - lo stomaco di Athos sembrò implodere al ricordo che, tra le altre cose, Diane Leroux era anche la nipote del suo capitano.
«Avevo sentito dire che la corte esercita un fascino particolare, al limite della dipendenza» le disse Treville. «Pensavo che tu ne saresti stata immune».
«Vanità femminile, cosa vuoi farci, zio?»
«Sei stata a palazzo tutta la mattina?»
«No» rispose la ragazza. «Sono stata alla guarnigione a controllare come stava d’Artganan. Poi sono venuta qui perché la regina voleva che le facessi compagnia».
Il capitano spostò lo sguardo tra sua nipote e i tre moschettieri. Doveva aver notato che, da quando erano tornati da Bourbon-les-eaux, Diane aveva mostrato per loro un affetto che andava al di là della formale cortesia - o della sconveniente curiosità.
«Sto per andare a casa, comunque» concluse la ragazza. «Ho del lavoro da fare e oggi è il mio turno di pulire la cucina»
«Io ti aspetto ancora per cena, prima o poi» replicò Treville.
«Di solito è la cena che aspetta te». Diane gli diede un bacio sulla guancia a tradimento, fece un leggero inchino alla volta dei moschettieri e si voltò con una mezza piroetta, con la gonna che si gonfiava disegnando un cerchio perfetto attorno ai suoi piedi.
Il capitano sospirò, seguendola con lo sguardo fino a quando non sparì oltre la porta. «Un marito» mormorò, come se stesse riflettendo a voce alta. «Dovrei trovarle un marito».
 
***
 
Diane rifiutò la carrozza e decise di tornare a casa a piedi.
Non era la migliore delle idee, tra la neve mezza sciolta e la fanghiglia, avrebbe rischiato di rovinarsi il vestito, ma quella mattina era andata alla guarnigione molto presto, poi era stata con la regina e non aveva avuto un attimo per sé.
Aveva bisogno di concedersi un po’ di tempo per pensare, prima di rincasare e finire sommersa dalla vivacità della sua cara coinquilina.
Dall’esterno della sala delle udienze, aveva ascoltato l’intero discorso del conte Legrand con le sue continue accuse velate riguardo al fatto che non si stava facendo abbastanza per venire a capo di quella situazione.
Era vero, in un certo senso.
Quando la ragazza aveva progettato il suo brillante piano, aveva creduto che tutto si sarebbe mosso più in fretta. Le era parso che le cose stessero andando nella giusta direzione, ma poi qualcosa era cambiato.
C’era stato il ritiro a Bourbon-les-eaux, giorni lontani da Parigi. C’erano stati i moschettieri, il ferimento di d’Artagnan, ed era cominciata la paura, erano arrivati i dubbi. C’era stato Athos che le aveva detto che si fidava di lei e il ricordo di quelle parole le aveva scavato un solco nel cuore, in mezzo a cicatrici vecchie e nuove che la ragazza credeva avessero smesso di sanguinare.
Athos. Il pensiero disturbò le sue riflessioni, camminando nella sua mente come una crepa che si allarga su di un muro. Avrebbe voluto prenderlo a schiaffi altre dieci, cento volte ora che si rendeva conto che lui, nel suo piano e nel suo cuore, era diventato l’imprevisto.
E tutto per colpa di quel bacio. Se non fosse accaduto, se non l’avesse infastidita al punto da farle male, Diane avrebbe potuto continuare a non vedere, a rimanere cieca e sorda a quel qualcosa che si era smosso dentro di lei.
Dannazione. Non era ad Athos che doveva pensare. Sospirò rendendosi conto di essere già davanti alla porta di casa.
Abbassò il capo per controllare le condizioni dell’abito, notò schizzi di fango sul lato destro della gonna. Doveva trovare un po’ di tempo per portare la biancheria sporca da qualche lavandaia.
Entrò in casa e si stupì che fosse così fredda. Di solito Marie accendeva subito il camino appena si alzava; quella mattina Diane era uscita molto presto e non l’aveva vista, ma era strano che non fosse in giro a cucire o a sbrigare qualche faccenda domestica.
Si affacciò in cucina. La stanza era vuota, non erano stati aperti neppure gli scuri alle finestre e il camino era, come previsto, spento e freddo con ancora la cenere del fuoco della sera prima che sarebbe toccato a Diane pulire, più tardi.
«Marie, ci sei?».
Pensò che l’amica fosse uscita, ma accanto alla porta c’era la sua mantella appesa al gancio. Forse, con l’abitudine di andare in giro mezza svestita, Marie si era beccata qualche ragionevole malanno e ora era barricata in camera sua sotto strati di coperte.
Diane bussò piano alla porta della stanza ma la trovò socchiusa. Il battente si aprì scricchiolando sotto i suoi colpi.
Intravide una sagoma sul letto. Probabilmente ci aveva visto giusto, Marie era sotto le coperte ammalata.
«Ehi, Marie, stai bene?» le sussurrò entrando con passo felpato.
Una lama di sole entrava dagli scuri socchiusi, disegnando un angolo di luce e pulviscolo a mezz’aria.
Diane si voltò verso il letto. La scena fu un tale colpo che quasi cadde all’indietro, come se un vento fortissimo l’avesse spinta. Una stilettata di gelo la trafisse da capo a piedi. Non era paura o ribrezzo, era qualcosa di peggio, più profondo, più oscuro.
Gli occhi di Marie erano ancora aperti, sbarrati e vuoti. Il suo corpo era a gambe aperte sul materasso con i vestiti strappati dalla cintola in giù. Il pugnale conficcato al centro del suo petto spuntava come una croce sull’erba di un camposanto.
No, Dio ti prego… non lei…
Diane restò paralizzata dalla brutalità della scena. Il pensiero che la sua amica fosse morta, che qualcuno le avesse fatto del male a quel modo sembrava così grande e inaffrontabile da spegnere ogni barlume di raziocinio. Qualcosa dal fondo della sua testa in subbuglio le stava dicendo che non poteva lasciarla così, in quella posa oscena e con gli occhi fissi nel vuoto, doveva coprirla, lasciarla addormentata con la dignità che il suo assassino le aveva strappato. Ma non trovò il coraggio di avvicinarsi.  
Restò ferma a guardare fino a quando quell’immagine diventò schiacciante e rischiò di farla soffocare con il pianto che le era rimasto incastrato in gola. Si voltò con un movimento rigido e lasciò la stanza. Con il capo svuotato da ogni pensiero, uscì in strada e richiuse la porta della casa alle sue spalle, immaginandola murata per sempre come la grata di un mausoleo. Vi si appoggiò con la schiena e si rese conto di star tremando.
Attese semplicemente che la lucidità riaffiorasse dal fondo di quel caos e le restituisse un po’ di senso pratico. Quando fu certa di potersi reggere in piedi, si avvicinò a un gruppo di ragazzini che giocavano con una palla di pezza all’imbocco della strada.
«Sapete dov’è la guarnigione dei moschettieri?» chiese loro. I ragazzini annuirono. «Bene».
Estrasse dalla tasca delle monete e ne distribuì due ciascuno ad ogni ragazzo. «Andate lì, cercate del capitano Treville e ditegli di andare a casa di sua nipote, che è molto urgente».
I ragazzini misero su un’espressione solenne, forse erano state le monete a convincerli, forse il bel vestito della giovane donna, forse il solo fatto di aver nominato i moschettieri.
Diane li guardò avviarsi a passo spedito in direzione della piazza dall’altro lato della strada e poi confondersi tra la folla.
Ora doveva aspettare. Di pensare non ne era in grado. 
 
 
 
 

 

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Capitolo 14
*** Sentori di tempesta ***


XIII
Sentori di tempesta

 
Trovarono Diane in mezzo alla strada, davanti alla porta di casa.
Treville strinse i pugni e il cuoio delle redini scricchiolò nella sua presa: l’unico gesto che tradì il suo nervosismo. Sua nipote non lo avrebbe mandato a chiamare se non fosse successo qualcosa di assai grave.
Scese rapido di sella e andò in contro alla ragazza. Lei era pallida, sembrava incapace di distogliere lo sguardo spento dalla porta chiusa davanti a sé.
Athos e Porthos si scambiarono un’occhiata allarmata. L’istinto li aveva abituati a fiutare i guai e quello che aleggiava nell’aria in quel momento era decisamente il sentore di una tragedia.
Diane si mosse con gesti lentissimi, quasi impacciati, per nascondere il capo nel petto del capitano. Teneva la testa china, le spalle leggermente curve, come se un peso la stesse opprimendo e fosse sul punto di spezzarla. I suoi occhi erano ancora fissi sulla porta, lo sgomento le aveva cucito le labbra ridotte a una fessura sul viso bianchissimo.
Treville le circondò le spalle con un braccio e indicò la porta con un cenno del capo, dando ai due moschettieri l’ordine silenzioso di andare a controllare cosa ci fosse lì dentro.
Porthos soffiò con le narici, nervoso. Qualsiasi cosa fosse, era qualcosa che avrebbero volentieri evitato di vedere.
All’interno la casa era fredda e buia, come disabitata. Sui due lati della cucina un po’ in disordine si aprivano le porte che immettevano nelle camere da letto, quella sulla sinistra era aperta, si vedeva la luce del sole filtrare fioca dagli scuri rimasti socchiusi.
Il silenzio gelido e quasi innaturale levigava i rumori, attutiva il suono incessante della città che proveniva dall’esterno.
Athos e Porthos si affacciarono oltre la porta aperta. Per un attimo, entrambi chiusero gli occhi.
Il volto di Porthos si fece cupo, irrigidito in un’espressione addolorata e indignata allo stesso tempo. Si mosse verso il letto e coprì il corpo  mezzo nudo della ragazza con il lenzuolo gualcito che pendeva da un angolo del materasso.
Athos le chiuse gli occhi, rimasti aperti come bocche che gridavano al vuoto. Sentì il gelo della pelle della morta anche attraverso i guanti, un senso di malessere gli formicolò nei muscoli.
Il sangue attorno alla ferita al petto si era già seccato in una chiazza scura, lì dove spuntava la lama sottile di una misericordia. 
«Diane l’ha trovata così» mormorò Porthos.
Persino per una ragazza abituata alla vista dei cadaveri quello era troppo.
Athos si rese conto di non riuscire a ricordare il nome della giovane e provò una rabbia sorda e cieca che per un istante gli annebbiò la vista. Tra tutte le morti e i tremendi incidenti di quelle ultime settimane, era come se ad ogni nuova scelleratezza un peso si aggiungesse alle sue spalle per trascinarlo a fondo. Ogni giorno che trascorreva senza che le loro indagini portassero a niente era un passo più vicino all’inferno.
Si accorse che Porthos era rimasto a fissare il pavimento, gli diede una leggera pacca sulla spalla per farlo riscuotere e gli fece cenno di tornare di fuori, dal capitano.
Treville sembrava ansioso di avere notizie. Diane non aveva ancora detto una parola e lui sembrava timoroso di farle domande, con lo stesso timore con cui si eviterebbe di destare un sonnambulo.
«È… è meglio che guardiate anche voi, signore» disse Porthos, incapace di ripetere a parole quello che aveva visto o forse solo per risparmiare a Diane una descrizione della scena che l’avrebbe perseguitata nei suoi incubi per molte notti a venire.
Il capitano si staccò piano da sua nipote. Per un attimo Athos temette che Diane sarebbe crollata in terra senza qualcuno a sostenerla, ma la ragazza rimase in piedi, immobile come quando l’avevano trovata.
Porthos le si avvicinò e le prese la mano. Athos aveva già in mente mille domande da farle, ma forse la silenziosa gentilezza del suo compagno era, al momento, la reazione più appropriata.
Treville spuntò dalla porta poco dopo, sporgendosi con il busto. Guardò sua nipote con un accenno di ira che non era rivolto a lei ma che appariva abbastanza spaventoso.
«Tu non resterai in questa casa un secondo di più!» disse secco. «Per adesso ti porto alla guarnigione, fino a quando non avremo capito cosa è successo qui».
Diane annuì, meccanicamente.
Quello che era successo era terribilmente chiaro. Ma di certo il capitano non poteva fare a meno di pensare quello che stava pensando anche Athos: cosa sarebbe successo se ci fosse stata anche Diane in casa, quando l’assassino della sua amica era venuto a farle visita? O semplicemente, cosa sarebbe successo se ci fosse stata lei al posto della ragazza bionda?
Il pensiero lo atterriva.
«Fate venire qualcuno a occuparsi di quella povera ragazza, non possiamo lasciarla così» disse poi Treville.
Quando Porthos lasciò la mano di Diane, lei sembrò riaversi.
«Le mie cose» mormorò.
«Che?»
«Non posso restare con questo addosso. Verrò dove vuoi, ma devo portare qualcosa con me, non ho intenzione di dover tornare qui dopo a fare i bagagli».
Il capitano la scrutò con un’occhiata che non aveva davvero l’ardire di essere severa, poi si passò una mano sul viso.
«Athos, va’ a prendere le cose di mia nipote» sbuffò.
Lei guardò il moschettiere con un’alzata di sopracciglio. Lo sgomento e il dolore le avevano portato via quell’aria da ragazzina sfacciata e le avevano spento lo sguardo, ma le occhiate di Diane erano comunque sempre molto eloquenti.
«Sono certa che lui sia troppo gentiluomo per mettersi a frugare nella mia biancheria». In un’altra circostanza ci sarebbe stata una nota di sarcasmo un po’ querulo in quelle parole, ora invece Diane le aveva pronunciate senza alcuna inflessione.
Treville alzò gli occhi al cielo. «Accompagnala, allora» si arrese, allargando le braccia.
Perché non può andarci Porthos?
Porthos era già salito a cavallo per andare a cercare qualcuno che si occupasse del cadavere.
Athos sospirò impercettibilmente. Entrò in casa e guardò che la porta della stanza della ragazza bionda fosse chiusa, non c’era proprio bisogno che Diane vedesse di nuovo quello spettacolo.
La nipote del capitano venne dietro di lui, lo sorpassò e si diresse verso quella che doveva essere la sua camera per poi rimanere ferma davanti alla porta, esitante.
«Permetti?» disse Athos in tono asciutto. La scansò e aprì, gettando un’occhiata all’interno per assicurarsi che non ci fossero brutte sorprese.
La stanza di Diane era un caos di vestiti sparsi ovunque, letto disfatto e libri lasciati alla rinfusa sul piano di uno scrittoio sotto la finestra, accanto a una ciotola sporca. Paradossalmente però vi aleggiava un buon odore di sapone, lo stesso che lui le aveva sentito addosso la sera prima, quando…
Diane gli passò davanti, sovrapponendosi tra lui e quello squarcio di normalità inattesa. Sembrava perfettamente a suo agio in mezzo a quella confusione, aprì un baule e ne estrasse una sacca da viaggio, la stessa che aveva portato con sé a Bourbon-les-eaux. Cominciò a riempire la sacca con alcuni dei vestiti sparsi in giro, ogni tanto ne annusava qualcuno e decideva di lasciarlo sul pavimento con un cenno negativo.
Si chinò, mettendosi in ginocchio accanto al baule e tirò fuori qualche fazzoletto e qualche piccola scatola che infilò nella sacca.
Athos cercava insistentemente di guardare altrove. Il dover supervisionare quell’operazione lo faceva sentire a disagio, o forse era solo l’idea di trovarsi da solo con lei.
Quando la struttura a travi del soffitto aveva ormai assorbito la sua completa attenzione, sentì dei singhiozzi. Si voltò per vedere Diane ancora in terra, con il viso nascosto tra le mani e le spalle scosse dal pianto.
Ci sarà del vino in questa casa?
Athos rimase sulla soglia, a rigirarsi il cappello tra le mani. Era normale che Diane cominciasse a crollare e forse sarebbe stato riguardoso non intromettersi in quel suo sfogo, ma il pianto non accennava a calmarsi e dopo qualche minuto il moschettiere cominciò a trovare insopportabile l’idea di quelle lacrime.
Si avvicinò alla ragazza e si chinò accanto a lei. Prese uno dei fazzoletti dalla sacca e glielo porse.
Diane lo prese con le dita che le tremavano, si asciugò gli occhi gonfi. «Scusa…» mormorò, le sillabe che le si accartocciavano in gola.
Athos scosse il capo come a dire che non c’era nulla di cui scusarsi. «Scusa tu» le disse.
No, non è questo il momento.
Diane lo guardò da sopra l’orlo ricamato del fazzoletto. «Cosa?»
«Lo sai. E io so che a volte ho un pessimo tempismo, lascia star-»
«Sì, un tempismo veramente idiota»
«Già. Scusa, in generale».
La ragazza si soffiò il naso con discrezione. «Scuse accettate, in generale» mormorò. Almeno aveva smesso di piangere.
Athos le posò una mano sulla spalla. «Andiamo» concluse. «Tuo zio vorrà portarti via e dobbiamo parlare di tutto questo».
Diane voltò piano il capo, a guardare in direzione della stanza della sua amica uccisa. «Hai ragione» ammise con un sospiro triste. Richiuse la sacca da viaggio già piena e Athos se la buttò in spalla.
Treville li stava aspettando sulla soglia della porta.
Da fuori, stavano arrivando altri moschettieri che scortavano il medico dell’obitorio alla guida di un carretto trascinato da un vecchio mulo.
Il capitano fece cenno ad Athos di sbrigarsi: non voleva che Diane restasse lì e vedesse il corpo della sua amica venir portato via.
La ragazza parve esitare e di nuovo il pianto le salì agli occhi, ma riuscì a trattenerlo. Treville la pilotò verso i cavalli.
Il corsiero fulvo del capitano si voltò verso di lei e mosse le orecchie pigramente. Diane tirò indietro la testa.
«Dio, devo trovare il tempo di insegnarti ad andare a cavallo» borbottò suo zio. 
Alla fine, si risolsero ad andare a piedi.
Diane restò muta, al fianco di suo zio per tutto il tragitto. Il bel vestito che aveva indossato quella mattina a corte sembrava stonare in mezzo alle vie dei quartieri popolari di Parigi. Ma anche l’intera giornata sembrava stonare, con il sole e con il pulsare vivo della città che continuava come se niente fosse successo.
«Nel mio ufficio» disse subito Treville, appena furono arrivati alla guarnigione. Lì trovarono Porthos e Aramis ad aspettarli con le facce impensierite, d’Artagnan era su una sedia sotto la finestra.
«Tu cosa ci fai in piedi?» gli disse Diane
«Non sono in piedi, sono seduto».
Aramis si parò davanti alla ragazza, le appoggiò la mano sulla guancia in un accenno di carezza. «Mi dispiace tanto, Diane».
La notizia dell’accaduto doveva essersi già diffusa alla guarnigione e presto avrebbe fatto eco per tutta Parigi.
La ragazza passò tutti loro in rassegna con lo sguardo. «Lo troverete, vero, quello che ha fatto questo?».
Ultimamente non sembravano neppure in grado di trovare le staffe per montare a cavallo, ma annuirono con convinzione, fosse stato anche solo per consolare Diane.
«Hai qualche idea su chi possa essere il responsabile?» domandò Treville, versando dell’acqua alla nipote - Athos era sinceramente convinto che del vino sarebbe stato più appropriato.
Diane si circondò il busto con le braccia, come se un’ondata di freddo l’avesse colta alla sprovvista.
«Nessuno. Marie era una sarta, conosceva un sacco di gente a Parigi, ma nessuna brutta compagnia».
Marie, ecco come si chiamava la giovane.
«La ragazza era molto bella, qualcuno l’ha notata, l’ha seguita a casa e…» Porthos fu incapace di continuare. Non ci sono parole belle o delicate o corrette per parlare di un abuso su una donna, meno che mai davanti a un’altra donna. «Voglio dire,» si corresse il moschettiere con un leggero colpo di tosse, «dev’essere stata una cosa mirata, la casa era in ordine, non erano ladri o simili».
«Il suo innamorato, non era quel Jean-Pierre?» domandò Aramis, retorico.
«Il braccio destro del conte Legrand» confermò d’Artagnan.
Athos fece scattare lo sguardo sui visi dei suoi compagni. Ancora una volta, il nome del conte veniva fuori nella discussione su un omicidio efferato, un omicidio che sembrava non avere niente a che fare con i suoi traffici, leciti o illeciti che fossero.
«Dov’è Jean-Pierre adesso?» domandò Athos. «Dovremmo quanto meno avvisarlo di quello che è successo e, magari, fargli qualche domanda».
Diane scosse il capo. «Jean-Pierre non c’entra, amava molto Marie, e comunque da qualche giorno è via da Parigi, credo che il conte lo abbia mandato a sbrigare qualche faccenda fuori città»
«Da quanto è via?»
«Credo sia partito il giorno dopo l’omicidio di Morice».
Marie. Morice. Il conte e il suo uomo. Omicidi. Più tutti questi avvenimenti apparivano scollegati tra loro, più veniva da pensare che ci fosse un nesso, un tassello del mosaico che loro ancora non avevano trovato ma che era lì, da qualche parte, l’ultimo pezzo che avrebbe dato un senso logico a quello strano disegno illeggibile.
«E se qualcuno avesse fatto del male a Marie per vendicarsi di Jean-Pierre?» disse Aramis con il tono enfatico di chi è stato appena colto da una rivelazione. «Jean-Pierre combina qualcosa. Il conte lo manda via da Parigi per far calmare le acque, ma quelli che ce l’hanno con lui si vendicano sulla sua amante».
Aveva senso. Athos ripensò suo malgrado alle condizioni in cui avevano trovato il corpo di Marie: uno sfregio, una vittima sull’altare della violenza. Se si fosse trattato solo di uno stupro, l’assassino non sarebbe stato così avventato da lasciare il corpo dove potesse essere facilmente recuperato, dove chiunque potesse vedere lo scempio. 
«E se Jean-Pierre fosse l’assassino di Morice?» domandò d’Artagnan.
«Questa è una teoria molto molto azzardata» rispose Treville.
«No, sentite, ha senso. Il conte ha dei traffici con Morice, Morice viene scoperto a causa dell’incendio nella casa e si viene a sapere che lo stiamo tenendo d’occhio. Il conte manda qualcuno a ucciderlo per paura che parli: Jean-Pierre, il suo fidato braccio destro. Ma sanno che la banda di criminali di Morice lo avrebbe scoperto o, almeno, lo avrebbe dedotto come stiamo facendo noi, e quindi il conte manda via Jean-Pierre, ma gli altri si vendicano sulla sua amante, in un modo disgustoso e plateale».
Athos si massaggiò la fronte. Aveva senso, aveva così senso da essere quasi troppo bello per essere vero: un collegamento logico tra tutti quei fatti orribili delle ultime settimane.
Morice prende la casa di Robert Bourell per darla al conte che ne ha bisogno per i lavori dell’ospedale. Bourell, che presumibilmente non è stato ancora pagato per la casa che ha venduto, va a protestare con gli uomini del conte - ora effettivo proprietario - ma questi lo uccidono per zittirlo. Morice ovviamente sa e, quando l’incendio alla casa con i fucili nascosti attira l’attenzione su di lui e suoi suoi traffici loschi, il conte manda il suo scagnozzo a ucciderlo.
Aveva tutto senso. Ma qualcosa ancora non quadrava.
Se il conte nascondeva tanto marciume dietro la sua aria da buon samaritano, perché nessuno se ne era mai accorto prima?
E il bandito? E le colombe?  
«Ha senso, no?» ripeté d’Artagnan, allargando gli occhi scuri alla ricerca di approvazione. Se potevano stabilire che Jean-Pierre era l’omicida che aveva fatto fuori Luc Morice, allora adesso sapevano anche chi era stato a sparargli e perché.
I moschettieri avevano conosciuto l’uomo del conte durante i lavori per l’allestimento del palco dell’inaugurazione. Forse lui temeva che il ragazzo potesse riconoscerlo in qualche modo e, preso alla sprovvista, aveva fatto fuoco… ma non lo aveva finito. Perché poi era arrivato il bandito e… cosa? Il bandito aveva salvato d’Artagnan? No, Athos rifiutava di crederlo. Forse l’arrivo del bandito aveva semplicemente messo in fuga l’omicida ed era stato un caso fortuito. Forse il bandito era in combutta con l’assassino.
«Però il bandito deve entrarci qualcosa» si lasciò sfuggire Athos.
«Forse fa parte di una banda criminale rivale a quella di Morice e non ha niente a che vedere con il conte» ipotizzò Porthos. Aramis annuì, d’accordo con questa teoria.
Athos continuava a pensare che non poteva essere così semplice, che quel criminale era proprio la cifra mancante che avrebbe fatto tornare i conti. Ma lui ne era vagamente ossessionato e forse non era il caso di insistere.
«Quindi adesso che facciamo?» chiese ancora d’Artagnan. «Interroghiamo il conte? Aspettiamo che Jean-Pierre torni a Parigi? Lo andiamo a cercare?»
«Tu non farai proprio niente che non sia startene a letto a riprenderti da quella ferita, intanto» lo ammonì Treville. «Non possiamo dare addosso al conte, dobbiamo trovare prove concrete, perché è un uomo troppo di riguardo e perché, se è davvero coinvolto come pensiamo, potrebbe far sparire tutte le prove prima che si riesca a montare un caso contro di lui»
«Però potremmo usare la morte di Marie come scusa per cercare di rintracciare Jean-Pierre» suggerì Aramis.
Treville si stropicciò gli occhi chiusi con la punta delle dita, stanco e impensierito. Athos si guardò intorno e si accorse che Diane non era più in mezzo a loro, la videro di spalle sulla soglia della porta che immetteva verso l’anticamera: stava tremando.
«Diane?» mormorò Porthos.
La ragazza si voltò appena. Aveva il viso arrossato e rigato di lacrime.
«Scusatemi…» biascicò con voce rotta. Sollevò l’orlo della gonna e si diresse a grandi passi fuori dall’ufficio, sbattendo la porta dietro di sé.
 
***
 
«Posso stare qui?»
«Con quel vestito?».
Ignorò l’osservazione di Serge e si accucciò in terra, sotto la scala che dalle cucine portava al soppalco dove erano conservate le scorte di cibo della guarnigione. Non c’era altro posto in tutta la caserma che non brulicasse di moschettieri e Diane aveva bisogno di stare un po’ in pace e in silenzio.
Era come se di colpo tutto fosse precipitato, una rete sul fianco della montagna si era spezzata e ora la frana rischiava di sommergere ogni cosa. Si sentiva trascinare giù, cadendo a valanga dall’alto della torre di segreti e macchinazioni che aveva eretto.
L’idea di quello che era successo a Marie le attraversava la mente come una lama, squarciando i pensieri razionali di cui ora avrebbe avuto bisogno.
Dei tre morti in mezzo a quella follia, due erano completamente innocenti. Una era sua amica.
Serge uscì dalle cucine reggendo un pentolone fumante con il rancio per i soldati. L’odore di minestra rimase ad aleggiare nella stanza.
Diane si alzò e afferrò la bottiglia di liquore che aveva scoperto da tempo nella credenza accanto al camino, si cercò un bicchiere pulito e si rintanò nel suo angolo di penombra, come un ratto.
Del resto, non era quello che aveva sempre fatto da quando era tornata a Parigi? Ancora prima di lasciare la casa di suo zio, ancora prima di immischiarsi nelle indagini dei moschettieri, era andata in giro a cercare informazioni, a cercare quello che le serviva per mettere in atto il suo piano. Ora il suo piano era già avviato e, forse per miracolo, stava funzionando, eppure qualcosa cominciava a farle male, fin dentro le ossa, come un’infezione.
Il liquore era scadente, quasi insapore, bruciava sulla lingua e nella gola come se fosse fatto di tante piccole lame che scivolavano giù tagliando e graffiando.
Al secondo bicchiere però sembrava già meno terribile.
Diane chiuse gli occhi e sentì una sensazione di calore salirle dallo stomaco alla testa; quando li riaprì vide lo sbuffo di stoffa di una gonna dal tessuto a fiori, si sporse appena con la testa oltre lo spiovente della scala.
«Vedo che a forza di frequentare moschettieri state prendendo qualcuna delle loro brutte abitudini» disse una voce femminile che la ragazza impiegò qualche istante a riconoscere.
«Madame Bonacieux».
Constance si chinò per guardare sotto la scala e abbozzò un sorriso un po’ mesto. «Possiamo parlare come persone normali o volete restarvene lì?»
«Non è che mi dispiacerebbe restarmene qui» sospirò Diane.
«Sciocchezze! Alzatevi». Constance si chinò e le strappò la bottiglia di mano.
La ragazza la guardò interdetta, poi guardò le due dita di liquore che erano rimaste nel bicchiere che ancora aveva con sé e le bevve di fretta, tutto d’un fiato, prima che la donna le portasse via anche quelle.
Sentì un leggero capogiro quando si rimise in piedi. Con cosa lo facevano quel liquore, con l’olio da lampada?
Madame Bonacieux scostò due sedie appoggiate vicino al tavolo ancora ingombro di resti di verdure tagliate e bucce di patate.
«Ho saputo di Marie» disse mesta la donna. «Me lo ha detto d’Artagnan».
Diane arricciò attorno alla punta delle dita un truciolo di buccia. Si chiese se il giovane moschettiere avesse detto proprio tutto a Constance.
«Non so neppure se avesse famiglia, qualcuno che devo avvisare…» sospirò la ragazza, sentì di nuovo il pianto salirle alla gola e spezzarle la voce. «Sono sempre stata per i fatti miei e non mi sono mai interessata a lei, eppure era così gentile… ha provato a essermi amica, mi ha rimediato dei lavori, mi ha aiutato…».
Constance prese le mani della ragazza da sopra al tavolo e gliele strinse con calore. «Non aveva famiglia. Conosceva un sacco di gente per il suo mestiere, ma di fatto era una ragazza piuttosto sola».
E da sola è morta. Perché non c’era nessuno a prendersi cura di lei.
Diane prese un lungo respiro. Evitò di scoppiare a piangere di nuovo, qualcosa nella stretta di Constance parve darle forza.
«Chi si occuperà del funerale, allora?» chiese.
Madame Bonacieux scosse il capo con una smorfia di rammarico.
«Me ne occuperò io» decise infine Diane.
Constance annuì. «Vi darò una mano».
«Non dovete, non occorre…»
«Ho trenta livree da parte» mormorò la donna con un sorriso triste riaffiorato da qualche parte dei suoi ricordi. «Le ho conservate per aiutare gli amici».
Diane capì che era inutile insistere e, alla fine, accettò l’aiuto della donna con un sorriso amichevole.
Athos entrò nelle cucine e si sporse per controllare come stavano procedendo le cose. Diane ebbe una mezza idea che fossero stati lui e gli altri tre a mandare Constance da lei.
Un “come stai?” rimase sospeso e muto sulle labbra e nello sguardo dell’uomo che lanciò un’occhiata alla bottiglia di liquore mezza vuota in un angolo; Diane gli restituì uno sguardo di sfida: “non azzardarti a commentare o te la spacco in testa”.
Il moschettiere si schiarì la voce. «Il capitano ti ha fatto preparare una stanza» annunciò.
«Bello. Ho sempre sognato di passare la notte in un presidio militare»
«Non vedo proprio dove altro tu possa stare senza che a Treville venga un colpo apoplettico. E non vogliamo che tu rimanga sola».
Non volete? 
«Quando è stato deciso che l’intero reggimento mi avrebbe adottata?»
«Stamattina hai detto al capitano che saresti andata ovunque lui avesse voluto»
«Stamattina gli stava per venire un infarto»
«Smettila, Diane…» 
«Può venire a stare da me» trillò Constance, intromettendosi ad alta voce nella discussione, poi arrossì leggermente e chinò il capo. «Ehm… la stanza è ancora vuota».
Quale stanza?
«Ho idea che vostro marito non apprezzerà una ragazza sola, per giunta imparentata con i moschettieri» osservò lui con calma.
«Ah, allora mi avete adottata davvero…». L’uomo zittì Diane con un’occhiataccia.
«Mio marito non le chiederà l’albero genealogico» rispose Constance, scrollando le spalle.
Il moschettiere sembrò cedere, alla fine sospirò stizzito e tornò a guardare la ragazza. «Molto bene. Ma lo dirai tu al capitano» concluse, fece per voltarsi ma poi si fermò. «Hai bisogno di qualcosa?»
«Sì, un becchino» dichiarò Diane con il volto che tornava a intristirsi. L’idea del corpo di Marie nudo su un tavolo di obitorio la faceva star male, le doveva almeno la dignità di un’appropriata sepoltura e la pace di un rito funebre. Forse dopo si sarebbe sentita un po’ più in pace anche lei.
«Un becchino» ripeté Athos. «Te ne cercherò uno»
«Grazie». 
Il moschettiere se ne andò senza aggiungere altro. Diane avvertì su di sé gli occhi di madame Bonacieux, lo sguardo comprensivo di chi osserva uno spettacolo che ha già visto. «Cosa c’è?» le chiese.
La donna scosse la testa. «Niente» si affrettò a dire. «Prendete le vostre cose, ci occuperemo del funerale e poi vi porterò a casa».
  

 

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Capitolo 15
*** Fantasmi a volto scoperto ***


 
XIV
Fantasmi a volto scoperto
 
 
D’Artagnan tentò un affondo.
La lama della spada fischiò nell’aria, il giovane strinse le labbra a trattenere una smorfia di dolore, con movimenti rapidi e fluidi fece ruotare la spada e la rinfoderò.
«Visto? Sto bene».
Athos, Porthos e Aramis si scambiarono un’occhiata poi tornarono a guardare il guascone.
«Le ferita ti fa ancora male» disse Athos, asciutto.
«Non così tanto». D’Artagnan si portò la mano al fianco con aria noncurante. La cicatrice era un rigonfiamento di pelle livida, ma cominciava a guarire, anche se i punti che aveva applicato il medico erano stati maldestri e avevano lasciato un bello sfregio. Avrebbero dovuto lasciare che se ne occupasse Aramis.
«Era quasi ora che ti procurassi qualche cicatrice come si deve» commentò Porthos.
«Il nostro bambino sta diventando grande» gli fece eco Aramis con voce stridula, parodiando un’aria commossa.
«Volete smetterla? Andiamo o no?». D’Artagnan pestò un piede nel terriccio. Che fosse pronto o meno, non sarebbero riusciti a trattenerlo un giorno più alla guarnigione, quel maledetto ragazzino testardo.
«Se fai il bravo, ti comprerò un dolcetto» continuò Aramis. Il ragazzo scosse il capo, gli passò accanto e gli mollò un pugno sulla spalla.
«Diane non è venuta, oggi» aggiunse poi d’Artagnan, mentre salivano a cavallo.
«Oggi c’era il funerale della ragazza» rammentò Athos.
Diane era stata una buona compagnia per il giovane moschettiere ferito, quando madame Bonacieux non era più potuta venire a fargli visita. Dovevano aver passato molto tempo insieme, con lei seduta a ricamare e lui a confidarle i mille tormenti del suo cuore provato da un amore irrealizzabile. Gli altri tre invece non avevano avuto molto tempo per parlare con la nipote del capitano, non le avevano neppure detto che quella mattina sarebbero andati dal conte a chiedere notizie di Jean-Pierre.
Attraversarono la città, con i cavalli che procedevano lenti per le strade affollate e poi li lanciarono al galoppo appena fuori dalle mura, attraverso i campi che si stendevano a perdita d’occhio ai lati del sentiero.
L’inverno aveva reso la campagna una distesa grigia, avvolta nella foschia.
La tenuta del conte Legrand era a poche miglia da Parigi, immersa in un boschetto di querce che odorava di erba e resina, un’enorme costruzione che spezzava la linea dell’orizzonte.
Nessuno fermò i moschettieri quando attraversarono il cancello. Su un lato del cortile anteriore, vicino a una fontana con un putto che versava acqua da un’anfora, erano allineate alcune carrozze: il padrone di casa doveva avere ospiti importanti.
Un valletto uscì dalla porta principale della villa. Camminava quasi saltando, la livrea marrone che gli svolazzava dietro al sedere lo faceva sembrare un grosso grillo. 
«Posso chiedervi, messieurs, cosa state cercando?» domandò con fare cerimonioso, sfregandosi le mani magre e affusolate.
«Vorremmo scambiare qualche parola con il conte» rispose Aramis.
«Il signor conte è impegnato» 
«Possiamo aspettare».
Il valletto lasciò che lo seguissero dentro. All’interno la casa era sfarzosa quanto il palazzo del re. Nel grande ingresso enormi quadri con madonne e santi decoravano le pareti, tra colonne di marmo bianchissimo, una miriade di sguardi estatici trafiggeva chiunque mettesse piede in quella stanza.
«Si tratta bene» commentò Porthos, spingendo in fuori il labbro.
«A me sembra tutto molto claustrofobico» fece Aramis.
Il bianco del marmo sembrava aumentare l’intensità della luce del sole che proveniva dall’esterno. L’intera stanza splendeva.
Ad Athos le case dei grandi signori non facevano alcun effetto. Non c’era nulla che rimpiangesse della vita agiata che aveva condotto prima di diventare un moschettiere. La ricchezza era qualcosa che aveva sempre dato per scontato e si era stupito della rapidità con cui l’aveva dimenticata quando aveva dovuto riassestare la sua esistenza su binari diversi; delle tante assenze con cui aveva dovuto fare i conti quella del denaro non era mai stata un problema. Era stato sereno, da ragazzo, da uomo era stato felice per una stagione e aveva smesso di esserlo forse per sempre, ma niente di tutto ciò aveva mai avuto a che fare con i privilegi del suo titolo.
Il valletto spuntò da una porta in fondo al grande atrio.
«Il conte vi riceverà» annunciò.
I moschettieri lo seguirono su per le scale, il domestico li lasciò ad attendere in una grande anticamera con il soffitto decorato con rilievi floreali. Gli spazi grandi e luminosi di quella casa avevano, per contrasto, l’effetto di far sentire schiacciati i suoi visitatori.
Il conte comparve dopo qualche minuto. Indossava abiti più semplici di quelli che sfoggiava a corte, ma appariva comunque imponente ed elegante.
«Non mi aspettavo una vostra visita, signori» disse con un mezzo sorriso cordiale.
I moschettieri chinarono leggermente il capo, stringendo i cappelli contro il petto.
«Siamo molto dispiaciuti di dovervi importunare per una questione di scarsa rilevanza» esordì Athos.
«Parlate. Sono certo che non sia poi così irrilevante se ben quattro moschettieri del re sono venuti fin qui»
«Il fatto è, monsieur, che vorremmo metterci in contatto con il vostro uomo, Jean-Pierre»
«Jean-Pierre sta sbrigando delle commissioni per me fuori Parigi, non so quando tornerà. Perché lo cercate?»
«La nipote del capitano Treville, mademoiselle Leroux, abitava insieme a una carissima amica del vostro uomo. La giovane è stata trovata morta in brutte circostanze. Mademoiselle Leroux pensava che Jean-Pierre avrebbe voluto saperlo. Ci dispiace incomodarvi per una simile questione, ma non sapevamo a chi altri rivolgerci per entrare in contatto con lui»
«Mademoiselle Leroux, avete detto?»
«Sì, signore. La conoscete per caso?».
Il conte scosse la testa. «No. Mi dispiace moltissimo per quella ragazza. Avete fatto bene a venire, troverò il modo di far avere la notizia a Jean-Pierre».
I moschettieri accennarono un inchino educato e si congedarono.
Erano andati lì per tastare il terreno, ma non avevano ottenuto niente.
«Magari adesso Jean-Pierre tornerà a Parigi» disse Porthos, fiducioso.
«E anche se fosse? Dobbiamo scavare ben più a fondo se vogliamo arrivare a trovare qualcosa. Siamo venuti fin qui per niente…» sbuffò d’Artagnan. Si tastò il fianco dolorante credendo di non essere visto.
«Se Jean-Pierre tornasse a Parigi, potremmo farlo parlare con Diane» intervenne Aramis. «Non abbiamo una scusa per interrogarlo, ma lei potrebbe riuscire a farsi dire qualcosa in una conversazione amichevole, dovranno pur parlare della povera Marie»
«Certo, mettiamo la nipote del capitano in una stanza con un assassino, è geniale! Perché non ci abbiamo pensato prima?» sbottò Porthos.
«Non sappiamo ancora se è un assassino»
«Ce la siamo appena tolta dai piedi». Athos aprì le mani come a sottolineare l’eloquenza della questione. La tragica storia di Marie sembrava aver fatto placare un po’ le smanie di quella ragazza, davvero non c’era bisogno di darle altre occasioni per immischiarsi in cose che non la riguardavano.
«Sentitelo! Ora non devi fare lo scontroso solo perché l’hai baciata e lei non ha apprezzato». Lo sguardo di Aramis scintillò di malizia.
«No, aspetta, tu hai fatto cosa?». D’Artagnan si bloccò in mezzo al corridoio, guardando Athos con occhi sgranati.
Oh, per l’amor del cielo!
«L’ha baciata» ripeté Aramis, in tono petulante, facendo schioccare le labbra. «Certo, dopo un paio di bottiglie di vino, come se servissero due bottiglie di vino per farsi venire voglia di baciare quella ragazza!»
«Preferisci che ti prenda a pugni o calci?». Athos fissò l’amico con aria torva. 
«Non importa, era una vita che aspettavo un’occasione come questa. Porthos, ci siamo dimenticati di raccontare a d’Artagnan di… Porthos?».
Porthos era sgusciato fuori dalla conversazione molto tempo prima. Era accanto a una finestra e guardava fuori stringendo gli occhi, come se cercasse di mettere a fuoco un particolare del giardino oltre i vetri. La luce ingigantiva la sua ombra sul pavimento bianco.
Aramis gli si affiancò. «Cosa c’è? Cosa hai visto?».
Il moschettiere scosse il capo. «Niente, pensavo di aver visto qualcuno che conoscevo» mormorò, soprappensiero. «Perché stavi starnazzando?»
«D’Artagnan si è perso un sacco di cose durante la sua convalescenza» concluse Aramis con un sorriso pestifero.
Tornarono ai loro cavalli e ripartirono al galoppo verso Parigi.
 
***
 
«Sapete, questo è il secondo funerale a cui partecipo da quando sono tornata dall’Italia» mormorò Diane.
Constance Bonacieux non parve udirla.
Alle loro spalle, attorno alla tomba, c’era una piccola folla di conoscenti. L’omicidio efferato di una giovane donna è sempre qualcosa che scuote le anime, a volte con genuina indignazione, a volte con uno strano morboso prurito fatto di pettegolezzi e illazioni.
Mentre la bara veniva inghiottita dalla terra scura della fossa, Diane sentì per l’ennesima volta le lacrime salirle agli occhi. La morte di quella ragazza aveva come rotto una diga dentro di lei, lasciando che il dolore e la frustrazione le sommergessero i pensieri.
I moschettieri le avevano proibito di andare all’obitorio. Porthos aveva dovuto minacciarla che l’avrebbe detto a suo zio, Athos si era piazzato come una cariatide davanti alla porta e Aramis le aveva nascosto la relazione del medico del mortuario dicendole che non avrebbe letto nulla che non sapeva già.
Non meritavi tutto questo, Marie, pensò Diane quando la prima vangata di terra vibrò contro il legno della bara.
Lanciò un mazzolino di fiori che atterrò nella polvere. Aveva sperato che quel funerale le desse pace, che sepolta sotto quella terra scura si spegnesse anche la sua inquietudine, ma non era stato così.
«I moschettieri troveranno quello che ha fatto questo» disse Constance, nel suo sguardo la convinzione era velata da una cortina di lacrime. Diane le prese la mano, avevano entrambe le dita gelide.
Di colpo, la ragazza avvertì il peso di tutta la stanchezza e la tensione accumulata. Quelle in casa Bonacieux erano state giornate strane, come in sospeso, giorni di attesa e di calma, di silenzio immobile come quello prima di una tempesta.
E la tempesta stava arrivando. Diane se lo sentiva nelle ossa, nel petto pesante di ombre e dubbi e rimorsi e rancori. Di notte i fantasmi fischiavano nelle sue orecchie, tenendola sveglia; di giorno cercava di allontanarli provando a darsi da fare. Ricamava e cuciva per Constance, per ripagare la sua ospitalità, rammendava vestiti e uniformi strappate alla guarnigione in attesa di notizie che non arrivavano.
Non avrebbero trovato l’assassino di Marie, non sapevano nemmeno dove cominciare a cercare.
La tempesta aveva cominciato a ululare tra i pensieri di Diane quella mattina. La ragazza sapeva che ora toccava a lei la prossima mossa ma si sentiva come smarrita sul sentiero che lei stessa si era scelta, una strada che credeva di conoscere e che ora la inghiottiva come un labirinto senza uscita.
Dopo il funerale, Constance la prese sottobraccio e la portò via.
In quei giorni, con il marito che le girava per casa, non era potuta passare alla guarnigione per andare a vedere come stesse d’Artagnan. Diane le portava notizie ogni sera, le diceva in poche frasi bisbigliate che il giovane guascone stava bene e si stava riprendendo. Non potevano farsi sentire da monsieur Bonacieux: per essere un ottuso borghesuccio pieno di sé, era fin troppo sospettoso e non aveva accolto di buon grado quella ragazza sconosciuta in casa sua, chissà cosa avrebbe fatto se avesse scoperto che lei era la nipote del capitano dei moschettieri.
«Mio marito ripartirà tra qualche giorno» annunciò Constance, mentre erano sulla via del ritorno, con addosso ancora il peso e il freddo della mattina al cimitero.
Che sollievo.
«La casa sarà drammaticamente più silenziosa» rispose Diane. «Comunque sia, spero di trovare un’altra sistemazione prima del suo ritorno»
«Non c’è nessuna fretta, potete restare tutto il tempo che volete»
«Ho approfittato fin troppo della vostra ospitalità»
«Non capisco perché vogliate stare da sola, non lo meritate»
«Ora parlate come mio zio, Constance».
Madame Bonacieux accennò un sorriso. «Il capitano Treville è un uomo molto assennato»
«Il capitano Treville pensa che io sia ancora la ragazzina di dodici anni che ha visto partire da Parigi una vita fa. Tranne che quando avevo dodici anni non si preoccupava del fatto che non avessi un marito»
«Qualcuno dovrebbe spiegare alle famiglie che il matrimonio non è sempre una benedizione» osservò Constance scuotendo il capo. «Ma voi siete fortunata, potete scegliere»
«Sì. Forse, un giorno» disse Diane in tono accondiscendente. Era un argomento che preferiva evitare.
«Un giorno?»
«Be’, non vedo nessun uomo nel mio futuro prossimo»
«No?»
«No».
Constance strinse le labbra, come a tentare di trattenere parole che non osava pronunciare. Il tentativo fallì miseramente. «Ho visto come guardate Athos».
Diane ebbe la sensazione di essere inciampata in qualcosa, si vide sbattere in terra mentre il mondo intorno a lei si capovolgeva. Ma era solo un’impressione, era perfettamente in equilibrio sui suoi piedi e riuscì a mettere insieme un sorriso indifferente per la sua interlocutrice.
«E avete visto anche come lui non guarda me?» si limitò a dire, calma.
Constance le lanciò un’occhiata di traverso, come a dire: “Sciocchezze!”.
«So che a volte può sembrare freddo e scostante, ma non lo è davvero»
«No, soprattutto dopo una bottiglia o due» sbottò Diane. Il pensiero di quel bacio le faceva ancora male.
La donna le diede un leggero strattone al braccio. «Ogni uomo ha le sue debolezze, quella di Athos è il proprio passato, ma mi piace pensare che ormai sia al sicuro dal fantasma di sua moglie e…»
Di sua… che?
La ragazza arricciò il naso. «Perché, è vedovo?»
«No, non proprio»
«È… è sposato
«No, non proprio».
Diane si fermò bruscamente in mezzo alla strada, finendo quasi travolta da un carretto pieno di pollame che la sorpassò lasciandosi dietro una scia di piume e cattivo odore.
Constance chinò il capo con aria colpevole, rendendosi conto di aver detto troppo, il suo sguardo fermo vacillò.
«Pensavo che voi sapeste, più o meno» farfugliò, imbarazzata.
«No, non sapevo. Ma ora state per dirmi tutto, non è così?».
Madame Bonacieux contrasse il viso in una smorfia, come se avesse ingoiato un boccone amaro. «È una lunga storia»
«Non ho fretta».
La donna sospirò, sentendosi presa con le spalle al muro. «Athos è di nobili origini, era un conte, un tempo. Sposò una donna del popolo, doveva esserne davvero molto innamorato… poi scoprì che lei era una criminale, lei uccise suo fratello - forse per difendersi da attenzioni sgradite, forse per altre ragioni, non si è mai saputo. Lui la fece condannare a morte, ma lei sopravvisse e diventò una spia e un’assassina al servizio di qualcuno molto potente. Credo che per molto tempo Athos abbia vissuto nel dubbio, incapace di venire a patti con quello che aveva fatto e incapace di capire se condannare a morte la donna che amava fosse stato davvero giusto. Quando poi si sono ritrovati e lui ha scoperto cosa era diventata questa donna, i dubbi devono essergli passati, ma una volta che i fantasmi ti entrano nell’anima, non te ne liberi più».
Diane deglutì. Conosceva l’insistenza dei fantasmi e sapeva scorgerne la presenza negli occhi delle altre persone. Li aveva visti danzare in fondo allo sguardo di Athos ma non aveva mai pensato di avere il diritto di conoscerli. Persino adesso si sentiva in colpa per aver estorto a Constance quella storia.
Sentì una tristezza gelida avvolgerla, come una coperta bagnata e pesante.
«Capisco» si limitò a dire, riprendendo a camminare. Avvertì lo sguardo dispiaciuto di Constance alle sue spalle, prima che la donna affrettasse il passo per raggiungerla.
Arrivarono a casa che era già quasi ora di pranzo. Se si sorvolava sulla presenza del padrone, casa Bonacieux sembrava un’oasi di pace in mezzo al caos di Parigi: incastrata nell’angolo più lontano della piazza, era al riparo dai rumori della strada e la vita domestica tra quelle pareti era scandita da ritmi precisi e ordinati, odore di pulito e calore di camino sempre accesso.
Diane si era rifugiata dentro quella calma, come in un bozzolo sicuro, una bolla di luce dove i suoi passi non sembravano più tanto infidi.
La domestica annunciò a Constance che c’era un ospite.
Il capitano Treville si alzò quando vide entrare le due donne nella sala da pranzo.
«Perdonate l’intrusione, madame» disse, chinando il capo alla volta della padrona di casa. «Ero venuto a trovare mia nipote».
Lei sorrise amabilmente e indicò Diane con un cenno. «Non siete affatto un intruso, monsieur».
La ragazza sperò che suo zio non fosse venuto per tentare di convincerla a stabilirsi alla guarnigione o a tornare a casa sua, ma il capitano mosse un passo verso di lei e la squadrò da capo a piedi come se fosse uno dei suoi soldati. Alla fine annuì.
«Sì, questo può andar bene» mormorò tra sé e sé.
«Di cosa stiamo parlando?»
«Vieni con me, Diane, voglio portarti in un posto. Spero che madame Bonacieux non me ne voglia a male se le sottraggo la tua compagnia»
«Spero solo che me la riportiate» disse Constance.
Il capitano fece un cenno vago e prese Diane sottobraccio. La ragazza lo seguì fuori dalla casa.
«Dove stiamo andando?» domandò.
«Quante domande! Un vecchio zio non può passare un po’ di tempo con sua nipote?».
Treville slegò il cavallo che aveva lasciato accanto alla staccionata fuori alla casa. L’animale guardò lui e Diane con i grandi occhi scuri e masticò una manciata di fieno che aveva trovato in terra. La ragazza ricambiò quello sguardo liquido con un’occhiata di diffidenza.
Si incamminarono a piedi verso una delle vie principali che attraversava Parigi e portava fuori città, dove le case e le palazzine stemperavano in minuscole abitazioni di legno e poi in campi e vigneti ora spogli.
«Come stai, Diane?» domandò Treville quando furono lontani dai viali più affollati.
Il capitano dei moschettieri non voleva semplicemente passare del tempo con sua nipote, voleva parlare con lei. Non lo avevano mai fatto davvero, non da quando la ragazza era tornata a Parigi; certo, Treville si era interessato a Diane e aveva ascoltato i suoi racconti sulla sua vita in Italia, ma un sottile senso di pudicizia lo aveva sempre trattenuto dal tentare di andare più a fondo. Forse, esattamente come quando lei aveva dodici anni, quell’uomo non riteneva di avere l’animo abbastanza sensibile per potersi intromettere nell’intimità di una ragazza, forse semplicemente aspettava che fosse lei ad aprirsi con lui. E ora, tra le molte cose per cui Diane si sentiva in colpa, si andava aggiungendo anche il non averlo mai fatto.
La domanda meritava una risposta più articolata di un paio di sillabe.
«Inquieta» disse la ragazza. «Conosci quella sensazione di quando senti qualcosa pendere sulla testa?»
«Dopo tanti anni al comando dei moschettieri, quella è diventata la mia condizione naturale, ma a te cosa mai dovrebbe succedere?»
«Non a me, in generale»
«Da quando sei tornata a Parigi ne hai viste accadere troppe. A dirla tutta, questa città è sempre stata molto movimentata…».
Diane sorrise senza rendersene conto.
«E ho il sospetto che ti piaccia» aggiunse Treville, scoccandole un’occhiata di traverso.
«Come?»
«Credi che non lo sappia, quello che hai combinato in tutto questo tempo con quelle quattro zucche vuote? Credi che non sappia che è successo qualcosa mentre eravate al convento e che non è solo me che vieni a trovare alla guarnigione?».
La nipote del capitano si fermò di colpo e lo guardò interdetta. Lo sguardo dell’uomo ora le sembrava difficile da reggere.
Che cosa gli hanno raccontato, maledetti?
«Non sono stati loro a dirmelo» continuò Treville, indovinando i suoi pensieri. «Lo so e basta».
Diane si parò di fronte a lui, i pugni stretti, le braccia abbandonate lungo i fianchi. «Non arrabbiarti con loro» pregò. «Sono stata io a insistere… sono stata io a chiedere che non ti raccontassero quello che è successo al convento»
«Cosa è successo, già che ci siamo?».
La ragazza strinse le labbra e gonfiò le guance, poi soffiò piano. «Ladri. Erano venuti a rubare le offerte del convento e mi hanno rapita, ma loro mi hanno salvata. Tipo subito
«Buon Dio!»
«Non mi sono fatta nemmeno un graffio… nontiarrabbiare».
«Non so se devo ringraziarli o farli giustiziare» Treville prese un lungo respiro.
Si erano fermati in un campo, accanto a un grosso albero spoglio che allungava verso il cielo grovigli di rami rinsecchiti.
«Ad ogni modo, credo che la domanda più importante sia: cosa ti è successo mentre eri in Italia?». Il capitano dei moschettieri si appoggiò con le spalle al tronco ruvido e si lasciò cadere seduto tra le radici che sporgevano dal terreno umido dove il muschio stendeva un tappeto color smeraldo. Guardò dal basso sua nipote e lei si accorse che Treville aveva uno sguardo dal quale non poteva scappare. Avevano gli stessi occhi, lo stesso animo abituato alla battaglia. Il ricordo di sua madre piovve silenziosamente tra di loro come una tempesta improvvisa, a rammentare un legame che andava ben oltre il sangue.
Docile, Diane si sedette accanto a suo zio, lisciandosi la gonna con le mani e accomodandosela sotto le gambe.
In Italia ho imparato ad ascoltare i fantasmi…
«Cosa dovrebbe mai essermi successo?». Voleva capire quanto profonda e veritiera dovesse essere la risposta che l’uomo si aspettava.
«Fa sempre piacere sapere che le persone a cui teniamo sono speciali. Tu però non sei solo questo. Non mi importa quanto poco assomigli alle altre ragazze della tua età, però vorrei sapere perché»
«Ci sono un paio di cose della mia vita in Italia che non ti ho detto» ammise Diane. «La prima è che ho imparato a, ehm, a tirare di spada». Piegò all’indietro la testa per guardare l’uomo e prepararsi alla sua reazione.
Il capitano restò in silenzio per un attimo, senza mostrare alcuna emozione. «D’accordo. Ci sono un sacco di donne nobili a cui piace imparare la scherma per diletto e…»
«Ho imparato a tirare di spada da un soldato disertore che ho aiutato a restare nascosto nel convento»
«Ah. Ecco. Le compagnie inusuali ti sono sempre piaciute, insomma».
Diane si circondò le gambe con le braccia, come a chiudersi su se stessa e trattenere il calore che il gelo dei ricordi le portava via insieme a quel vento freddo che spazzava il campo davanti ai suoi occhi.
Si sciolse un laccio sul davanti del vestito per potersi abbassare la manica e mostrò a suo zio le due cicatrici a forma di X. «Il fratello di mio padre, il duca, lo scoprì a causa di queste» continuò. «Ordinò ai monaci del convento di rinchiudermi fino a quando non avessi confessato cosa era successo».
Treville voltò la testa di scatto, indignato.
«Il soldato si consegnò e raccontò tutto perché io venissi liberata. Lo giustiziarono come disertore»
«Diane…»
«Il duca mi portò via dal monastero. Ormai ero abbastanza grande e la mia istruzione era più che accettabile perché facessi il mio ingresso in società. Voleva - indovina - trovarmi marito».
Il capitano dei moschettieri si passò una mano sulla fronte, come se i pensieri fossero diventati polvere da scacciare via. «Questo almeno non puoi negare che fosse ragionevole».
Diane lo guardò vagamente piccata. «Sono andata via da Roma per non sposarmi»
«E io che pensavo lo avessi fatto perché ti mancavo».
Alla fine l’espressione cupa della ragazza si sciolse in un sorriso. Treville le circondò le spalle con un braccio.
«La morte di quel soldato non è stata colpa tua, Diane» le disse. «E sono sicuro che, seppur in maniera barbara, il duca abbia fatto quello che riteneva giusto per proteggerti: se qualcuno avesse scoperto che aiutavi un disertore a nascondersi, sarebbe stato un disastro per te per prima».
La giovane non rispose. Aveva sempre pensato che il duca volesse salvare se stesso dallo scandalo prima ancora che la sua nipote ribelle, ma non si sarebbe messa a sproloquiare in proposito.
Treville si alzò e tese la mano a Diane, per aiutarla a tirarsi su.
«Un giorno,» le disse, «mi mostrerai cosa sai fare con la spada. Adesso c’è qualcos’altro che devi imparare»
«Ho paura a chiedere…».
Il capitano dei moschettieri indicò il cavallo con lo sguardo.
Oh, no…
 
 
 
 
 

 

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Capitolo 16
*** Tempesta (parte prima) ***


XV
Tempesta - parte prima
 
 
L’aria sembrava essersi mitigata, il vento che faceva danzare le fiamme nei bracieri era meno freddo, meno graffiante ma spingeva nuvole da lontano, banchi di nubi gonfie di pioggia.
Dalla mensa arrivavano gli schiamazzi degli ultimi uomini che si erano attardati per la cena.
Aramis stava pulendo la propria pistola, in silenzio. D’Artagnan sbriciolò quel che restava di una fetta di pane per due piccioni che passeggiavano intirizziti nel cortile.
Appoggiato con un fianco al bordo del tavolo, Athos cercava di mettere ordine tra i propri pensieri. Erano sempre pensieri molesti quelli che si annidavano nei suoi silenzi, immagini vivide e perfette di ricordi insistenti, da lavare via con il vino più tardi. Quella sera però c’era qualcosa di diverso, il passato spariva in dissolvenza in mezzo ai chiaroscuri di un presente che ancora non era riuscito a mettere a fuoco, o che semplicemente non aveva il coraggio di guardare in faccia.
Il rumore di passi pesanti e respiro affannato spezzò quel momento di calma.
Non si erano chiesti dove fosse sparito Porthos, che mancava da tutto il pomeriggio ormai. Adesso eccolo lì, che attraversava il portone con qualcosa di grosso e ingombrante in spalla.
Quando entrò nella macchia di luce proiettata dal fuoco, si accorsero che non era qualcosa. Era qualcuno.
«Non voglio saperlo. Vi giuro che non voglio saperlo» mormorò Aramis.
Porthos proseguì fino al centro del cortile. Il corpo che aveva in spalla oscillò nella sua presa.
«Non disturbatevi a darmi una mano, eh» borbottò il moschettiere, con uno sbuffo, le labbra tese per lo sforzo.
Lasciò cadere malamente il corpo su una sedia vicino a uno dei pali di legno dietro al tavolo. Si tolse il cappello e si fece aria. Sotto il tessuto scuro della bandana, la fronte era imperlata di sudore.
«È vivo?» chiese d’Artagnan, indicando con lo sguardo l’inusuale bottino che Porthos si era trascinato dietro.
«Certo, per chi mi hai preso?»
«E chi o che cos’è, oltre a essere vivo?» chiese Aramis.
A occhio e croce, sembrava un mendicante raccolto dalla scalinata di Notre Dame, o qualcosa di simile: vestiti cenciosi, colorito vagamente itterico, capelli unticci tagliati storti. C’erano buone probabilità che Porthos volesse adottarlo.
«Vi ricordate l’altro giorno a casa del conte, quando ho visto alla finestra qualcuno che pensavo di conoscere?». Porthos allungò un’occhiata sul tavolo per cercare qualche bicchiere ancora pieno. Non ne trovò. «Be’, alla fine non mi ero sbagliato. Lo conoscevo da… sapete, la Corte dei Miracoli. Non è il soggetto più raccomandabile del quartiere».
Gli altri annuirono, evitando di far notare che i soggetti raccomandabili in quel posto dovevano essere una minoranza, per non dire un miraggio.
«Si chiama Vrel. Mi sono chiesto cosa ci facesse un tipo del genere a casa del conte e ho pensato che fosse una buona idea chiederglielo»
«E te lo ha detto?» domandò Athos.
Porthos scrollò le spalle massicce. «No, non ancora».
«Vediamo di scoprirlo, allora». Aramis si alzò e versò sul volto di Vrel una mezza caraffa d’acqua. 
Lui aprì gli occhi di colpo, rabbrividendo e cacciando un rantolo simile al verso di un piccione in agonia.
«Cos- aaah!». Si spinse con le spalle magre contro lo schienale della sedia, poi scattò per rimettersi in piedi. D’Artagnan lo spinse giù con un’occhiata severa.
Porthos sorrise, sardonico. «Ciao, Vrel, ah ci siamo già salutati» disse. «Loro sono i miei amici. Dobbiamo farti qualche domanda, se ci piaceranno le risposte, ti faranno andare via sulle tue gambe, o su una di esse, almeno».
Vrel spostò lo sguardo sulle facce dei moschettieri con l’aria da topo in trappola.
«Io non ho fatto niente… non potete tenermi qui. Lasciatemi andare!» replicò.
«Amico, credi davvero che a un moschettiere serva una scusa per far impiccare uno come te?» intervenne Aramis, mellifluo.
L’espressione di Vrel si fece meno ostile. Strinse le labbra con aria di resa, poi sputò in terra saliva mista a muco e si asciugò la bocca con la manica lercia.
«Cominciamo con le domande. Se fai il bravo, ti rimediamo anche un pasto caldo e un bicchiere di vino».
«Uno solo?» fece Vrel, aggiudicandosi un quartetto di occhiatacce. Alla fine sospirò. «Pensate che uno come me ne sappia tanto? Che volete?»
«Sapere cosa ci facevi a casa del conte Legrand»
«Prima il vino».
Ragionevole, dopotutto.
D’Artagnan scosse la testa, sparì per qualche minuto in direzione della mensa e ne tornò con una bottiglia e un bicchiere.
Vrel ingollò lunghe sorsate, fece schioccare le labbra e sorrise soddisfatto.
«Mi dovevo vedere con un uomo, il tirapiedi del conte, mi hanno rimediato un lavoretto, a me e ad altri, cosa c’è di male in questo?» disse.
«Be’, dipende dal tipo di lavoretto» osservò Porthos.
«Aspetta, aspetta. Il tirapiedi del conte, hai detto?» esclamò d’Artagnan. «Jean-Pierre?»
«Sì, mi sembra che si chiami così… che razza di nome!».
I moschettieri si scambiarono un’occhiata. I loro pensieri stavano andando nella stessa direzione.
Dunque Jean-Pierre non aveva lasciato Parigi.
Dunque il conte lo stava nascondendo.
Dunque c’erano buone probabilità che fosse davvero lui l’assassino di Luc Morice. E che la povera Marie fosse morta per una vendetta.
Ma ancora, non c’era nessuna prova.
«Va bene. Che tipo di lavoretto ti ha offerto Jean-Pierre?» continuò Aramis.
«Lo stesso dell’altra volta»
«Potresti essere un po’ più chiaro?»
«Scaricare merce da una nave che sarebbe attraccata nel porto di Parigi».
Vrel sembrò sorpreso dal silenzio dei moschettieri.
«Sulla Senna» borbottò, allungando la mano che reggeva il bicchiere vuoto. «A Parigi non c’è il mare, sapete».
«Grazie dell’informazione, pensavo che quello che si vede dalla mia finestra fosse lo stretto della Manica, invece forse è una fontana» sbottò Aramis, versando altro vino al loro ospite.
«Hai detto che hai già fatto questo lavoro un’altra volta» interloquì Athos. «Quando?».
Vrel contò sulla punta delle dita. «Un mese fa»
«Sempre per conto dell’uomo di Legrand?»
«Sì».
D’Artagnan si passò una mano tra i capelli e si voltò, dando le spalle all’uomo. Gli altri lo imitarono e si strinsero a crocchio, in testa e sulle labbra le stesse parole.
«Un mese fa. L’incendio in Rue Saint-Lazare» mormorò il guascone.
«Le pistole nascoste» continuò Porthos.
Già…
Si voltarono di nuovo verso Vrel, in contemporanea. Lui stava bevendo altro vino direttamente dalla bottiglia e ora il suo colorito sembrava giallo più intenso, come una pergamena bruciata.
«Che cosa avete scaricato dalla nave, lo sai?» domandò ancora Porthos.
«Ovvio che no. Ci hanno detto che ci avrebbero ammazzati se avessimo visto dentro le casse, ma era roba pesante»
«E dopo che ne è stato delle casse?» incalzò Athos.
Vrel scrollò le spalle. «Le abbiamo messe su dei carri. I carri sono partiti in direzioni diverse… poi non lo so».
Fecero all’uomo cenno di aspettare,  si voltarono e si allontanarono di qualche passo.
Il disegno che avevano tentato di decifrare in quei giorni appariva via via meno sfocato.
«D’accordo, qual è la teoria? Legrand contrabbanda armi?» domandò d’Artagnan.  
«Legrand contrabbanda armi. Luc Morice gli prestava le case vuote che aveva sparse per Parigi perché le usasse come deposito. L’incendio in Rue Saint-Lazare ha attirato l’attenzione su Morice, il conte lo ha fatto uccidere perché sapeva troppo e non era più utile» riassunse Aramis.
Porthos tese in avanti le mani, come a chiedere di rallentare il corso di quei pensieri e di quelle supposizioni - ormai molto più che supposizioni - che stavano cominciando a diventare ingombranti e troppo veloci, come una valanga sul fianco di una montagna.
«Sì, va bene, ma perché?» disse. «Perché un conte ricco e influente, con la fama del buon samaritano per giunta, si dovrebbe immischiare in cose del genere?»
«Con le opere di bene si è comprato il rispetto della nobiltà e del re» spiegò Athos. «Le armi gli servono per comprarsi qualche altra cosa, da qualcun altro».
«Quando siamo stati a casa sua, tutte quelle carrozze, tutta quella gente importante» disse d’Artagnan. «Il commercio di armi è tenuto sotto controllo, se qualche riccone cominciasse ad ammassare fucili per il proprio esercito personale, darebbe nell’occhio, invece se le armi sono di contrabbando…»
«Inoltre, tutti i permessi e gli aiuti che occorrono al conte per costruire i suoi ospedali e i suoi orfanotrofi e i sanatori…»
«E le armi non servono solo ai nobili e ai ricchi, ma anche ai criminali, a gente come lo stesso Morice».
«Dannazione!». Aramis si portò il pugno alla fronte, quasi divertito dalla complessità della faccenda che ora appariva più chiara sotto ai loro occhi. «Se ci abbiamo visto giusto, il conte deve aver messo in piedi una bella rete da ragno in tutti questi anni».
Sì, era tutto molto divertente, ed era quasi un sollievo essere riusciti a trovare il bandolo della matassa. Ma restava il fatto che non avevano prove per accusare un uomo tanto potente.
«Ci servono quelle armi e quelli che le trasportano» disse Athos, puntando l’indice.
«E Jean-Pierre» aggiunse d’Artagnan con una scintilla nello sguardo.
Da qualche parte in lontananza brillò il bagliore di un lampo a squarciare il cielo scuro della sera.
«Dov’è il mio pasto caldo?» brontolò Vrel.
«Dicci un’ultima cosa e lo avrai: quando dovrebbe attraccare la nave che devi scaricare?»
«Domani sera».
Bene.
«Porthos, accompagna il tuo amico in mensa» disse Athos, poi guardò gli altri due. «Dobbiamo parlare con Treville, dobbiamo trovare quella nave e quelle armi».
Ora sapevano da dove cominciare.
 
***
 
Diane alzò lo sguardo verso l’alto.
Non c’era una sola stella a brillare in cielo, la luna era una macchia di luce biancastra dietro un velo di nuvole, ma le strade di Parigi erano ancora ben illuminate a quell’ora.
La grossa cesta le pesava tra le braccia. Aveva pensato che riportare alla guarnigione la roba che aveva rammendato fosse una buona scusa per sgusciare via da casa Bonacieux: ora che il marito di Constance era tornato, l’aria si era fatta un po’ opprimente.
Attraversò il cortile della caserma, come sempre, illuminato e rumoroso, con moschettieri che andavano e venivano. Quelli in procinto di partire per la ronda notturna stavano sellando i cavalli, quelli di ritorno dalle proprie mansioni portavano avanti e indietro bottiglie di vino recuperate nell’osteria più vicina.
Un paio di loro si toccarono la falda del cappello quando incrociarono la nipote del capitano.
Aramis e d’Artagnan erano attorno al tavolo ingombro di bicchieri sporchi e resti della cena, di Porthos e Athos non c’era traccia.
D’Artagnan le andò in contro quando la vide arrivare e le tolse da mano la grossa cesta che appoggiò sulla panca.
«Sembra che si stia preparando una tempesta con i fiocchi» disse la ragazza annusando l’aria che aveva già il sentore ferruginoso della pioggia. «Per fortuna che vi ho riportato queste». Indicò la grande cesta dalla quale spuntavano i lembi delle mantelle nere dei moschettieri.
«Non c’era nessuna fretta. Un po’ di pioggia non ha mai fatto male a nessuno» replicò Aramis.
«Be’, mi preme mantenere in salute il reggimento di mio zio»
«Come stai, Diane? Sembri provata»
«Mio zio ha deciso che è ora che io impari ad andare a cavallo. Mi dà lezioni, quando ha tempo».
Aramis e d’Artagnan ridacchiarono.
«C’è da avere paura di quello che potresti combinare, andando a cavallo»
«Ah, grazie della fiducia». La ragazza fece una smorfia e tirò fuori le mantelle dalla cesta. «Cosa ci fate voi moschettieri con i bottoni? Li usate quando siete a corto di proiettili?» sbuffò.
«Mi hai dato una bella idea». Aramis ammiccò.
«Per fortuna che a casa Bonacieux i bottoni non mancano. Sono riuscita a sistemarle tutte».
Diane porse a d’Artagnan una mantella accuratamente ripiegata che profumava di bucato pulito.
«C’è qualche novità?» domandò poi, tentando di dissimulare il proprio interesse rovistando nella cesta.
«Stiamo ancora cercando informazioni sull’omicidio di Marie» si affrettò a dire d’Artagnan. «Ma intanto abbiamo scoperto cose interessanti che…»
«Che dobbiamo verificare» lo interruppe Aramis. «Forse tra qualche giorno ne sapremo di più».
La ragazza spostò lo sguardo tra i visi dei due moschettieri. Da quando erano diventati così avari di informazioni? Forse da quando la giovane con cui abitava era stata trovata morta e loro avevano cominciato a pensare che il gioco si era fatto davvero troppo pericoloso per lei.
«Cos’è che non mi state dicendo?» chiese, piccata.
«Credo sia meglio non parlarne adesso, prima di avere in mano qualcosa di certo» rispose Aramis. «Chiamala scaramanzia».
Diane incrociò le braccia sul petto e sospirò. Sapeva quando era il momento di non insistere, anche se avrebbe avuto molte domande da fare. Si arrese e tirò fuori un’altra mantella, anche quella piegata, sistemata e profumata.
«Dov’è Athos?» chiese. «Devo dargli questa» 
«A casa»
«Che è un modo come un altro per dire che è da qualche parte a scolarsi mezza osteria?»
«No» esclamò subito Aramis. «In genere quando va a scolarsi mezza osteria dice che va a scolarsi mezza osteria e aggiunge anche qualche frase affettuosa tipo: non statemi tra i piedi. Quando dice che va a casa, va a casa»
«Cielo! Mi state dicendo che Athos dorme, come tutte le persone normali?»
«Ogni tanto».
D’Artagnan tossicchiò leggermente. «Domani abbiamo delle cose importanti da fare» spiegò, vago. «Però potresti, uhm, andare a portargli questa, se è urgente. No?».
Il guascone si voltò a cercare l’approvazione di Aramis che sollevò le sopracciglia e scosse appena il capo. «No. Cioè sì».
Diane guardò entrambi con aria interrogativa. «Athos ha l’aria di uno che ti spara se gli bussi alla porta»
«No. A meno che tu non debba consegnargli una lettera. Odia la posta, vai a capire il perché».
Perché è un dannato orso che non vede più in là del suo naso, ecco perché.
«La mantella potrebbe servirgli» insistette d’Artagnan. Aramis distolse lo sguardo e si pizzicò i baffi.
La ragazza scrollò le spalle. «Posso lasciarla qui, la prenderà domani».
Il guascone fece un gesto vago con la mano. «Se domattina piovesse…»
«… ma magari non piove» lo rimbeccò il compagno.
«Va bene, smettetela, ci vado. Posso sempre lanciargliela su per la finestra» sbottò Diane, raccogliendo la mantella. Pensò che se avesse trovato Athos di buon umore - per quanto uno come lui potesse esserlo - sarebbe riuscita a farsi raccontare quello che quei due le avevano taciuto. Pensò anche che era una pessima idea, per molte ragioni, ma “pessima idea” era da tempo diventato un titolo adatto per una sua eventuale biografia. 
La ragazza si fece spiegare dai due moschettieri come raggiungere la casa di Athos, li salutò e si incamminò con la mantella piegata tra le braccia.
Non poté vedere la scena di Aramis che tirava un buffo sulla spalla di d’Artagnan e mormorava: «Ci ucciderà, lo sai questo, vero?».
E non poté udire d’Artagnan rispondere sardonico: «O magari no».
 
***
 
Prima brutta notizia della serata: non c’era vino. Pensava che ne fosse rimasto dall’ultima volta e invece si sbagliava. Non che avesse intenzione di farsi una bevuta delle sue, ma un bicchiere lo avrebbe aiutato a prendere sonno.
Seconda brutta notizia della serata: stavano bussando alla porta. Non era abituato ad avere ospiti; a pensarci, ad eccezione dei suoi amici mandati da Treville a controllare che fosse ancora vivo dopo una nottata particolarmente impegnativa in qualche locanda, non veniva mai nessuno a bussare da lui.
Athos fece un rapido inventario di se stesso. Non era del tutto presentabile, scarmigliato e con la camicia mezza fuori dai calzoni, ma lo era abbastanza per mandare via qualche seccatore - con buona probabilità, qualche ubriaco che aveva bussato alla porta sbagliata.
Andò ad aprire, spalancando il battente con aria poco ospitale.
«Oooh, non spararmi, ero venuta a portarti questa».
Diane alzò una mano. Probabilmente avrebbe alzato anche l’altra, se non fosse stata occupata a reggere un fagotto di stoffa scura.
Athos la guardò, sorpreso, senza dire niente. Un attimo dopo, il rombo di un tuono scosse l’aria, e una pioggia fitta e sottile cominciò a cadere tutto d’un colpo, come se qualcuno dall’alto avesse aperto una gigantesca fontana.
La ragazza balzò in avanti, presa alla sprovvista dallo scroscio d’acqua che si era riversato dal tetto.
Con un piede dentro e l’altro fuori, Diane restò a guardare il padrone di casa. Odorava, come sempre, di sapone e di buono, lo stesso odore che Athos aveva sentito in camera sua, l’ultima volta che gli era capitato di restare da solo con lei.
«Entra» le disse, «prima che qui si allaghi». 
Richiuse la porta alle loro spalle. Oltre la piccola anticamera dell’ingresso c’era l’unica stanza di cui era composta la casa: Athos pensò che era anche meno presentabile di quanto lo fosse lui. Calciò sotto al letto una bottiglia vuota rimasta sul pavimento e nello stesso tempo si sistemò la camicia.
«Che ci fai qui?». No, non era quello il modo giusto di dirlo.
«Ero venuta a portarti questa» ripeté Diane. Gli gettò tra le mani la mantella con un’espressione che sembrava dire: “impiccatici”.
«Non c’era bisogno di venire fin qui». No, anche questa suonava male. «Cioè, grazie».
«Non c’è di che».
La ragazza si voltò verso la porta e fece per andarsene.
«Dove vai?»
«Torno a casa. Ti lascio… a fare qualsiasi cosa tu stessi facendo»
«Piove»
«Lo vedo»
«Diane». Santi numi.
La ragazza si calò il cappuccio sulla testa. Athos si sporse in avanti e l’afferrò per un braccio. «Scusa» borbottò. «Non sono abituato ad avere ospiti. Non uscire con questo tempo».
Lei sospirò. «Credo che andrà avanti ancora per un po’»
«Dovrei avere un mazzo di carte da qualche parte».
Diane scosse il capo, ma ridacchiò sommessamente e quando tornò a guardare in viso il moschettiere, la sua espressione si era placata. Attraversò la stanza e si sedette sull’unico sgabello vicino al tavolo.
«Giacché siamo qui» disse la ragazza dopo qualche istante, «perché non mi racconti cosa state combinando tu e i tuoi amici. Alla guarnigione, Aramis e d’Artagnan non hanno voluto dirmi niente»
«E ti aspetti che lo faccia io?»
«A meno che non salti fuori quel mazzo di carte».
Athos strinse le labbra. Pensò che doveva fare qualcosa di ospitale, ma non c’era niente che parlasse di ospitalità in quella casa minuscola. Se avesse avuto del vino, almeno avrebbe potuto offrirle un bicchiere e evitare di parlare e di chiedersi perché l’arrivo della ragazza lo avesse messo in agitazione.
Non aveva mai davvero pensato a lei. Non c’era bisogno di pensare a Diane, era costantemente tra i piedi e la sua presenza non lasciava tempo ai pensieri. E ora era lì, in un silenzio imbarazzato che si faceva fatica ad attribuirle, e Athos non riusciva a rimpiangere quella pioggia.
Era lì, un passo fuori dal gorgo di ombre e fantasmi che l’uomo si portava dentro, a una distanza sorprendentemente breve ma che lui non riusciva ad attraversare.
Avrebbe dovuto capirlo, prima, dai tanti piccoli segnali che la sua mente gli aveva lanciato e che lui aveva preferito ignorare semplicemente perché no, perché era certo che non gli fosse rimasto abbastanza cuore per una cosa come quella, per una persona come quella.
«Athos?».
Il moschettiere si riscosse. Da quanto tempo era lì muto e immusonito? D’accordo, immusonito lo era sempre.
«Sì?»
«Riformulo: c’è qualche novità di cui vorresti parlarmi?»
«Niente che tu abbia bisogno di sentire»
«Oh, insomma, manco per qualche giorno e diventate tutti muti come pesci»
«Non si tratta di questo» rispose lui, facendo appello a tutta la sua pazienza. «Quello che abbiamo scoperto - che pensiamo di aver scoperto - è pericoloso. È bene che tu ne rimanga fuori»
«Tutto è pericoloso. Potrei camminare per strada e potrebbe finirmi una tegola in testa»
«E si romperebbe, la tegola, e tu ne usciresti illesa».
Diane agitò la mano a mezz’aria. «Lascia perdere il sarcasmo, ti viene male»
«Cerco il mazzo di carte». Era davvero convinto di averne uno, da qualche parte. Aprì la cassapanca vicino all’entrata e ne perlustrò il contenuto.
«Athos?»
«Cosa?»
«Se è pericoloso… devo preoccuparmi per voi?».
Il moschettiere tirò su la testa e si voltò verso la ragazza. Aveva il viso cupo, gli occhi lucidi di pianto trattenuto. Quand’era successo che era diventata così pessimista? Era per la sua amica morta? Era un genuino momento di emotività femminile?
«Siamo moschettieri» le rispose. «I moschettieri non muoiono facilmente».
Diane si alzò, mosse qualche passo nervoso tra le pareti anguste della stanza. Fuori la pioggia infuriava, fortissima, smossa dal vento che la gettava contro le finestre facendo tremare i vetri.
Athos le si avvicinò. «Se tutto va come credo, tra un paio di giorni avremo delle risposte» la rassicurò.
Non sembrava rassicurata, ad ogni modo.   
Gli spifferi che entravano dalle imposte facevano tremolare le fiamme delle poche candele accese nella stanza.
Diane chinò il capo, strinse i pugni come se stesse provando a trattenere qualcosa. Athos cercava parole da dirle, rovistando a fatica nella sua testa dove ora regnava una confusione peggiore di quella che regnava nella piccola casa.
La ragazza alzò la testa con uno scatto.
Un lampo brillò accecante per un rapidissimo istante, dissolvendo tutte le ombre nella stanza. Athos lo sentì quasi bruciare l’aria.
Buio. Luce. Le labbra di Diane sulle sue, all’improvviso.
Ad occhi spalancati vide il mondo perdere di consistenza. Sentì le braccia della ragazza allacciate attorno al suo collo. Un secondo inafferrabile, lo stesso di quel lampo.
Diane si staccò da lui un attimo dopo come se si fosse scottata.
Sembrava imbarazzata. Schiuse la bocca alla ricerca di parole che davvero non erano necessarie.
«Almeno adesso siamo pari» farfugliò.
«Sì. Immagino di sì».
Al diavolo.
Le circondò la vita con le braccia e l’attirò a sé.
Buio. Luce. Che fossero i lampi o solo la sua mente che giocava brutti scherzi non aveva più importanza. Baciarla gli sembrò l’unica cosa che avesse senso.
Buio. Luce. Buio. Buio dietro le sue palpebre chiuse, movimenti confusionari, alla cieca, mani che stringevano i capelli, che tiravano la stoffa dei vestiti.
Spinse Diane contro il tavolo, brusco. Sentì il rumore di qualcosa che cadeva e si rompeva con il fragore del vetro spezzato, ma era come lontanissimo da lì, a mescolarsi con il ruggito della tempesta e il fischio feroce del vento.
Fuori da quella casa Parigi tremava e annegava. Tutt’attorno c’era il buio.
Buio. Luce. Luce, ora che Athos si costringeva ad aprire gli occhi e a ritornare rapidamente alla realtà, riprendendo il controllo del respiro sulla bocca della ragazza.
Non doveva essere così, furioso e cieco. Non doveva essere tempesta.
Si staccò appena da Diane, lei lo guardò confusa. Non c’erano parole per dirle che da lei e da quella notte avrebbe voluto tutta la tenerezza che gli era mancata.
La baciò di nuovo, con più calma, sentendo il calore che saliva piano come quando si passa dall’ombra al sole in un giorno d’estate.
I pensieri sparivano, allontanandosi come passanti frettolosi. Uno degli ultimi barlumi di raziocinio scintillò d’improvviso e Athos si bloccò.
Non aveva il diritto di non essere assennato. Lei era solo una ragazza ed era la nipote di Treville. 
«Prima che sia troppo tardi…» tentò di dire.
Lo sguardo lucido e un po’ arrossato di Diane gli fece mancare la terra sotto i piedi e non seppe come continuare la frase.
«Va bene così» gli rispose la giovane, appoggiandogli le mani sul petto. 
«Diane…»
«Va bene così» ripeté lei. Era una donna, aveva deciso per entrambi. «Non voglio nient’altro…».
Il vestito di Diane scivolò sul pavimento. Athos scostò con la punta delle dita la stoffa della sottoveste, conquistando pochi centimetri di pelle alla volta. Si fermò un istante per vederla sorridere, per sentire le carezze sul viso e tra i capelli, approfittando dell’ultimo scampolo di autocontrollo.
La sollevò tra le braccia e la posò sul letto - maledettamente perfettamente stretto.
L’ultima candela si consumò e si spense mente Athos si liberava dei vestiti.  Avvertì lo sguardo di Diane su di sé, poteva sentirlo pungere come la pioggia là fuori, era uno sguardo di innocenza senza esitazione.
Quando si stese sopra di lei, la ragazza gli accarezzò la schiena con la punta delle dita, facendolo rabbrividire.
Insinuò le mani oltre l’orlo della sottoveste e Diane non chiuse gli occhi nemmeno per un istante, nemmeno quando la prima carezza dell’uomo tra le sue gambe la fece sussultare e gemere. Athos ricambiò il suo sguardo lucido mentre si spingeva piano dentro di lei.
Dietro i vetri la tempesta mordeva e abbaiava.
 
 

 
_______
 

Questo capitolo è la prova che sono stupida. Per svariate ragioni ma soprattutto perché mi sono resa conto, mesi dopo averlo scritto, che nella serie i moschettieri non hanno una casa ma vivono alla guarnigione (nella puntata in cui Athos viene rapito e gli altri e Treville vanno da lui a cercare indizi sulla scomparsa si vede che lo stanzino-casa-sgabuzzinopolveroso-postobrutto affaccia sul cortile della guarnigione). Credo che la convinzione che abbiano un posto loro mi sia rimasta in testa dal romanzo e mi sia sfuggito il particolare del telefilm.
Facciamo che è una licenza poetica? 

C. 

 

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Capitolo 17
*** Tempesta (parte seconda) ***


XVI
Tempesta - parte seconda
 
 
Una luce grigia e opaca penetrò sotto le sue palpebre chiuse.
Athos aprì gli occhi e riemerse pian piano dal torpore del sonno, prendendo coscienza dei rumori ovattati provenienti dall’esterno e della gamba destra fredda e formicolante che spuntava dalla coperta troppo piccola per due.
Due…
La consapevolezza di non essere solo in quel letto tornò a galla di colpo. Strizzò le palpebre per mettere a fuoco lo sbuffo di capelli castani sotto al suo naso, un groviglio di ciocche scomposte che gli solleticavano il mento. Era in bilico sul bordo del materasso, nei muscoli e nelle ossa la rilassatezza languida di chi riemerge da una buona dormita - avevano dormito poco quella notte, ma era una vita che non dormiva così bene.
Diane era rannicchiata contro il suo petto, con un ginocchio piegato che premeva dolorosamente contro lo stomaco del moschettiere. Athos non osava muoversi, per non rischiare di cadere a terra ribaltando letto, materasso e ragazza in un sol colpo.
Sentì uno sbuffo nasale e abbassò lo sguardo su di lei. Diane aprì prima un occhio poi l’altro e alzò piano la testa.
«Buongiorno» mugugnò la ragazza.
Athos strinse leggermente la presa attorno al suo fianco nudo. Era un mistero come fossero riusciti a incastrarsi a quel modo, una matassa di gambe, braccia, lenzuola, vestiti appallottolati in fondo al materasso.
«Tuo zio mi ucciderà» disse il moschettiere, stropicciandosi il viso con la mano che riuscì a recuperare da sotto al cuscino.
«Sul serio? Sono queste le tue prime parole?»
«È la verità»
«Nah, sei il suo soldatino preferito».
Athos annuì con finta accondiscendenza. «Lo vedremo…» sussurrò, e baciò la ragazza sulla fronte, in mezzo ai capelli spettinati. Diane sfregò il viso contro il suo petto.
I loro corpi erano una bolla di calore piacevole e accogliente. Fuori c’era il freddo umido della città mezza allagata dalla tempesta di quella notte.
«Il tuo ginocchio sta cercando di uccidermi, comunque» disse Athos.
Diane si scosse, si districò da quella posizione assurda e pigiò la schiena contro il muro a cui era appoggiato il letto. Sembrava volesse recuperare una distanza impossibile in uno spazio così minuscolo.
Strattonò le coperte e se le tirò fin sopra al mento, come se avesse realizzato di colpo che era svestita, in una situazione disdicevole.
Quello sfoggio di candore e imbarazzo non sembrava appartenere alla ragazza che i moschettieri avevano conosciuto.
«Va tutto bene?» chiese Athos.
«Ieri sera era più…»
«Buio?»
«Sì».
Con molta cautela, il moschettiere si voltò verso di lei e le prese la mano, aspettando che Diane si riavesse da quell’attimo di turbamento.
La ragazza si rilassò e tornò a rannicchiarsi contro il petto di Athos. Con i capelli arruffati e il viso rosso, era troppo bella perché il suo corpo non reagisse a quella visione. Diane si mosse per stendere le gambe, con un tocco leggero e involontario che gli fece saltare un battito.
Doveva alzarsi da quel letto o non sarebbe stato in grado di staccarsi da lei.
«Io dovrei…» esordì roco. Quando si mosse, il materasso minacciò di capovolgersi e la ragazza gli finì addosso.
Dovrei andare.
Il lenzuolo le scivolò via. Athos vide la linea sottile di qualche graffio che le aveva lasciato tra la gola e i seni nudi.
Dovrei andare, ma non adesso.
Le appoggiò le mani sui fianchi e lei sorrise, la curva delle labbra sembrava già molto meno innocente.
Quando la ragazza mosse il bacino contro quello del moschettiere, la guarnigione e i suoi compagni erano già dimenticati. 
Vide il suo nome sulle labbra di Diane, pronunciato senza voce, solo con il respiro. Gli mancava già baciare quelle labbra.
La ragazza crollò, sotto la spinta dell’orgasmo, nascondendo il viso nell’incavo della spalla di Athos.
In silenzio, restarono ad aspettare che il respiro tornasse regolare.
Diane sollevò la testa e appoggiò il mento sul petto del moschettiere, contro il suo sterno, guardandolo di sbieco con gli occhi all’insù.
Lui si odiò per quello che stava per dire. «Devo andare» fece, mortificato. Allungò un braccio fuori dal letto, cercando a tentoni i vestiti lasciati sul pavimento.
«Mh-mh». Diane afferrò la coperta e ci si avvolse, lasciandolo mezzo nudo nel freddo della stanza. Lo guardò e sembrava che i suoi occhi stessero memorizzando una ad una tutte le cicatrici, ricordi degli anni da soldato.
Il modo in cui gli sorrise fece provare ad Athos un senso di pace sconosciuto.
«L’importante è che poi torni».
E dove altro vuoi che vada?
«Non tornerò prima di domattina» le disse.
«Non so come farò a sopravvivere fino ad allora» scherzò la ragazza, teatrale.
Athos la baciò a lungo prima di staccarsi definitivamente. Aprì la finestra e tirò dentro un secchio di acqua che posò sul pavimento, versando qualche schizzo.
«Mi dispiace, credo sia gelida» mormorò.
Diane scosse il capo, come a dire che non importava. Si stese di schiena, raggomitolata sotto la coperta, con lo sguardo fisso sul soffitto  mentre Athos si preparava a uscire.
Alla fine, il moschettiere si chinò su di lei e le prese la mano, vi impresse un piccolo bacio, pensando che se l’avesse baciata sulle labbra non sarebbe stato in grado di lasciare quella stanza.
«Ci vediamo domani» le disse. «Torna a dormire, se vuoi».
Diane lo trattenne, stringendo le dita attorno alle sue. Di colpo sembrava preoccupata, quasi spaventata. «Athos…»
«Cosa c’è?».
La ragazza lo guardò. Aveva lo sguardo pesante, come le nuvole che la sera prima avevano assediato Parigi.
«Niente. Fa’ attenzione. Tu, e quelle altre tre teste bacate» concluse.
Lui annuì senza dire niente.
I moschettieri non muoiono facilmente.  
Parigi quella mattina gli sembrò tremendamente fredda, con le strade piene di pozzanghere e acqua grigia che scorreva in rivoli tra i ciottoli. La gente parlava dei quartieri dove la Senna aveva straripato, di case di legno con i tetti di paglia abbattute dalla tempesta come giunchi.
La guarnigione era mezza deserta, una strana eccezione a quell’ora già tarda.
«Cosa succede?» chiese Athos, avvicinandosi al tavolo dove gli altri tre erano seduti tra i resti della colazione. Afferrò un pezzo di pane e fece vagare lo sguardo per il cortile mezzo vuoto.
«La tempesta di questa notte ha fatto molti danni in città» spiegò Porthos. «Treville ha mandato un po’ di uomini a dare una mano in giro»
«Io non ho chiuso occhio» si lamentò d’Artagnan, nascondendo uno sbadiglio nel palmo della mano, poi lanciò un’occhiata ad Athos. «Tu l’hai sentita, la tempesta, vero?».
Non disse niente, non si era accorto di quanto quel temporale fosse stato tremendo. Vide che gli altri tre lo stavano fissando e non occorreva chiedersi il perché.
«Mi stavo giusto chiedendo come avesse fatto Diane a scoprire dove abito» disse, fingendo un’aria più torva del solito.
«Ha fatto tutto d’Artagnan!» esclamò Aramis di colpo. Alzò le mani e scosse la testa.
Il ragazzo incrociò le braccia sul petto, inarcando un sopracciglio. «Vienimi a dire che ho fatto male…» borbottò.
Athos non rispose, si voltò continuando a mangiare la sua fetta di pane. Alle sue spalle gli altri tre si alzarono rumorosamente e lo accerchiarono come lupi affamati di notizie.
Porthos allungò il collo fermandosi con la faccia a un palmo dal viso di Athos come per analizzarlo, o forse aveva intenzione di baciarlo. «Non sembra cambiato, però» disse. «Stessa aria funerea di sempre».
Il moschettiere guardò uno ad uno i suoi compagni, inclinando la testa di lato.
«Non avrete una sola parola da me» dichiarò.
«Ci mancherebbe, un gentiluomo non parla di certe cose» lo rimbeccò Aramis.
«Sembrate molto sicuri del fatto che ci sia qualcosa di cui parlare»
«Ah, se ti avessimo lasciato fare ci sarebbero voluti anni. Confidavamo nello spirito di iniziativa di Diane, più che altro» insistette Aramis, sarcastico.
«Credo che sia proprio persa. Cosa ci trova in te ancora lo devo capire» fece Porthos.
Athos li fulminò con lo sguardo. «Parlate più forte, magari Treville non ha sentito»
«Cosa vuoi» sbottò Porthos. «Il capitano ci adora, gli piacerebbe l’idea di dare sua nipote a uno dei suoi uomini»
«Il capitano non ci adora, ci sopporta, è diverso». Athos si sistemò il cappello in testa. «E non voglio sentire un’altra parola sull’argomento»
«Be’, se ne dovrà riparlare prima o poi» osservò d’Artagnan. «Non si è fatta tutta questa fatica per niente».
Athos non ci aveva pensato. Non aveva pensato al momento in cui avrebbe dovuto sorbirsi le battute dei suoi compagni. Non aveva pensato a cosa sarebbe stato di lui e Diane dopo quella notte.
Aramis e gli altri erano abituati a considerare le loro conquiste come un gioco, qualcosa che meritasse la semplicità e la leggerezza della goliardia tra amici; per lui le cose non erano così semplici, non lo erano mai state. Si rese conto all’improvviso che tutto quello che gli era rimasto nella testa era una strana confusione, e dietro il velo di confusione, un senso di contentezza che non riusciva ad afferrare.
Diane gli era entrata dentro piano piano, e la sua presenza aveva fatto eco nel vuoto che Athos si portava nel petto. Adesso per lui era difficile immaginare quel vuoto riempirsi di una voce nuova, di nuovi sorrisi, di nuovi occhi.
Ma non era quello il momento di pensarci.   
«E quale fatica avreste mai fatto, voi, sentiamo? Anzi, no, non ditemelo…» borbottò.
La voce di Treville, dall’alto, li fece sobbalzare tutti e quattro all’unisono.
«Quando avete finito di ciarlare come pescivendole» esclamò il capitano, «gradirei molto avervi nel mio ufficio, se non è di troppo disturbo».
I moschettieri si affrettarono a dirigersi verso le scale.
Treville aveva l’aria di aver dormito poco e niente. Un velo di barba gli copriva le guance e la branda nel suo ufficio era sfatta.
La tempesta doveva essere stata davvero spaventosa.
«Mi sono arrivati dei dispacci dal porto» disse il capitano. «La nave che cercate non è ancora arrivata»
«La tempesta deve aver creato problemi alla navigazione» ipotizzò Porthos. «Ma ora dovrebbe essere tutto calmo. Stasera arriverà»
«Andremo comunque al porto a controllare» aggiunse d’Artagnan. «Non possiamo lasciarci sfuggire l’occasione. Se non l’intercettiamo adesso, chissà quando avremo una seconda possibilità».
Treville si chinò in avanti e appoggiò i gomiti sul piano della scrivania.
«Portatemi quelle armi» concluse secco.
 
***
 
Il cortile davanti a casa Bonacieux era vuoto. La domestica non era ancora uscita a stendere i panni e c’erano buone probabilità che non fosse stata ancora servita la colazione.
Diane si guardò attorno. Le sue speranze erano vane: era già mattino inoltrato, Constance si svegliava sempre di buon’ora e di certo aveva già notato la sua assenza. O magari aveva pensato che lei fosse ancora addormentata e la credeva coricata nel letto della stanza degli ospiti.
Dio, ti prego, fa’ che sia così…
Aprì piano la porta e scrutò dentro. L’ingresso era vuoto e silenzioso, non si udiva nemmeno la vocetta nasale e petulante di monsieur Bonacieux. Forse poteva ancora intrufolarsi in camera sua e fingere di essersi svegliata tardi.
Entrò, con i suoi passi silenziosi attraversò l’atrio, ma non arrivò neppure a mettere un piede sul primo gradino della scala.
«Diane! Santo cielo!». La voce alterata di Constance la fece quasi inciampare.
La ragazza si voltò, si accorse delle pedate di fango e acqua sporca che aveva lasciato dietro di sé, dell’orlo della mantella zuppo e chiazzato che gocciolava in una piccola pozza ai suoi piedi.
«Pulirò tutto subito» si affrettò a dire.
Constance la guardò senza capire. Solo dopo qualche secondo realizzò il disastro che era diventato il suo pavimento sempre perfettamente pulito. 
«Lascia perdere il pavimento» sbottò, infuriata. «Ieri sera sono venuta a controllare che stessi bene, quella tempesta è stata un inferno, e indovina: tu non c’eri»
«Lo so, Constance, scus-»
«E allora ho pensato di venirti a cercare, ma era impossibile uscire. Stamattina dovevo decidere se era il caso di avvisare tuo zio che eri scomparsa! Dovevo decidere se avere un suo infarto sulla coscienza e intanto l’infarto è venuto a me! Pensavo che ti fossi persa di ritorno dalla guarnigione! Pensavo che fossi rimasta in strada con quella tempesta! Che fossi annegata nella Senna!».
Diane incassò la testa nelle spalle, schiacciata dalla voce di Constance che andava crescendo parola dopo parola e dalla rabbia sempre più percepibile sul suo viso arrossato dall’esasperazione.
«Scusami, Constance, perdonami» disse, alzando le mani davanti a sé come se la donna avesse potuto lanciarle contro la brocca che aveva in mano.
«Si può sapere dove sei stata?»
«Non volevo farti preoccupare e non era assolutamente in programma il passare la notte fuori. Ti avrei avvisata se avessi potuto, te lo giuro»
«Non ho sentito ancora una risposta alla mia domanda E credimi, ti conviene che la risposta sia molto buona»
«Ero con Athos» rispose precipitosamente Diane.
L’espressione sul viso di Constance si congelò. Per qualche istante lei rimase perfettamente immobile, ponderando le possibili implicazioni di quella frase. Alla fine, con una lentezza quasi innaturale, schiuse le labbra.
«Ah»
«Ero andata a riportargli la mantella, poi è iniziato a piovere a dirotto e sono rimasta bloccata a casa sua».
Diane guardò la padrona di casa, aspettando che lei dicesse altro, ma madame Bonacieux sembrava non avere argomenti e solo dopo lunghi secondi di silenzio imbarazzato riuscì a riscuotersi.
«Ha una stanza per gli ospiti, Athos?» disse con una voce insolitamente stridula.
«Non direi…»
«Oh, povero caro, avrà dovuto dormire sul pavimento» concluse Constance, lo sguardo imbarazzato di chi ha già capito che le cose erano andate in tutt’altro modo.
Diane sentì il ricordo della notte appena trascorsa colpirla come un pugno allo stomaco. Era qualcosa di forte, pesante, che le si era aggrappato alle spalle e la soffocava.
Sono andata a letto con Athos. Realizzò, come se solo in quel momento la cosa si rivelasse nella sua mente per quello che era: un enorme, completo, totale disastro. Il pensiero le trafiggeva la testa come una lama rovente.
Avrebbe dovuto scappare da quella casa, anche sotto la pioggia, anche in mezzo alla tempesta. Avrebbe dovuto scappare via quella mattina, almeno, trovare il coraggio di dire a lui e a se stessa che era stato un errore, anche ferirlo, se necessario. E invece era rimasta e aveva…
«Oh, Dio mio…» farfugliò. Si portò una mano alla bocca e si piegò sulle ginocchia, finendo seduta sui gradini.
Constance restò a guardarla per un attimo, senza sapere cosa fare di se stessa e della brocca che aveva in mano. Alla fine, appoggiò la brocca sul piano di un mobile e andò verso la ragazza, ancora rannicchiata sulle scale. Si sedette accanto a lei e le circondò le spalle con un braccio. La rabbia e la preoccupazione erano già svanite dal suo viso.
«Se anche… se anche non ha dormito sul pavimento, va bene lo stesso» le disse, incerta. Non riusciva a capire da dove venisse il turbamento della ragazza, non avrebbe nemmeno potuto immaginarlo.
Diane le posò il capo sul petto. Era così stanca del peso che si portava dentro, stordita dalla gravità di quello che era accaduto quella notte. Era così stanca di lottare contro il suo stesso cuore, contro l’affetto per i moschettieri e i suoi sentimenti per Athos.
Voleva solo sentirsi dire che sarebbe andato tutto bene, anche se non era vero. Ma Constance di certo non poteva capire.
«Ho sbagliato tutto» piagnucolò, e si sentì tremendamente stupida.
La donna le batté la mano sulla schiena. «Perché dici questo? Cosa può mai esserci di sbagliato? Sei libera di amare chi vuoi, Diane, e hai fatto la tua scelta» le disse.
Amare? Libera? Lei?
Non ho abbastanza cuore per questo. Athos forse credeva di essere quello più restio all’amore, ma non era così.
«Athos… lui…» farfugliò la ragazza, stringendosi nell’abbraccio della donna come se temesse di annegare.
«Athos è un brav’uomo» rispose Constance con fermezza.
«Non doveva succedere» sospirò Diane, ritrovando un attimo di calma e di lucida freddezza.
«Perché?».
Era una domanda che non poteva avere una risposta, o forse ne aveva troppe e tutte impossibili da pronunciare.
Diane prese un lungo respiro e cercò di ricomporsi. Si alzò e corse su per le scale, verso la sua camera, lasciando Constance turbata e preoccupata.
«Mi tolgo questa roba bagnata di dosso, poi sistemo il pavimento» esclamò, in cima ai gradini, prima di chiudersi dentro. «Credo che stasera uscirò di nuovo, non stare in pensiero per me».
 
***
 
L’odore di acqua stagnante era così forte da dare le vertigini.
Il porto era quasi deserto a quell’ora e non c’erano navi attraccate al molo.
Nella sera umida, i respiri diventavano fumo sottile nell’aria.
La tempesta di quella notte aveva danneggiato la pedana di legno sospesa verso il fiume e ribaltato il gabbiotto di legno della guardia. Il porto era deserto, nemmeno il personale della dogana si era azzardato a mettervi piede.
«Alla fine pare proprio che la nostra nave non sia attraccata» sospirò Aramis. Alla fine, era abbastanza ovvio, ma trattandosi di una nave con merce illegale, avevano pensato che si fosse arrischiata a compiere manovre che gli altri mercantili non avevano osato in mezzo al temporale.
Con le loro mantelle nere, i moschettieri erano ombre nella sera. Attorno ai quattro uomini, lo spettacolo del porto vuoto aveva un che di lugubre.
«Valeva la pena di fare un tentativo» disse Porthos.
D’Artagnan fece qualche passo, guardandosi attorno, sorpassando una pila di casse ribaltate, pezzi di legno annegati in una pozzanghera profonda come un lago.
«Potremmo dare un’occhiata ai registri doganali» suggerì. «La nave che ha portato le armi il mese scorso fa deve pur essere stata registrata in qualche modo. Anche se il conte, o chi per lui, ha corrotto gli ufficiali portuali».
Athos fece un cenno di approvazione e si massaggiò le braccia intirizzite sotto la mantella scura. La mantella aveva lo stesso odore di sapore e di buono che aveva Diane, la ragazza era stata un pensiero molesto durante tutto il giorno, impossibile da allontanare. Pensò che quando l’avrebbe rivista avrebbero dovuto accennarle della storia del porto e delle armi, non avrebbero potuto tenere a bada la sua curiosità ancora per molto.
Rivedere Diane era un pensiero che rendeva meno gelida l’aria di quella sera.
«Se riusciamo a scoprire qualcosa dai registri, almeno potremmo dire di non essere venuti qui per niente» disse.
La porta dell’ufficio si arrese al primo calcio di Porthos, spalancandosi con uno scricchiolio di legno e cardini poco oliati.
L’ufficio era un angusto spazio con scaffali traboccanti di documenti arrotolati. Dove il mobilio lasciava scoperte le pareti erano appese cartine nautiche ingiallite.
Il soffitto gocciolava in un angolo, con l’acqua che cadeva producendo un fastidioso ticchettio contro le assi del pavimento.
Il registro che i moschettieri cercavano era aperto in bella mostra sul tavolo in fondo alla stanza, accanto a una candela accesa che proiettava un cerchio di luce dorata sulle pagine.
I quattro uomini si fermarono, interdetti.
«Chi ha acceso quella candela?» bisbigliò d’Artagnan.
«Qui non c’è nessuno. Nessuno viene al porto da stamattina» osservò Porthos.
Qualcuno doveva esserci. E qualcuno che si era intrufolato in un ufficio abbandonato, senza essere un moschettiere in servizio, non doveva essere qualcuno di particolarmente raccomandabile.
Di istinto i moschettieri misero mano alle pistole. Si guardarono attorno, ma non videro nessuno, la stanza sprofondata nella penombra sembrava vuota.
«Gli scuri alle finestre sono chiusi e la porta era sbarrata prima che l’aprissimo» disse Aramis. «Da dove è entrato?»
D’Artagnan fu il primo a cogliere, a voltarsi verso le gocce d’acqua che continuavano a cadere dal soffitto.
Il tetto. Qualcuno era passato dal tetto, approfittando di qualche apertura lasciata dai danni causati dalla tempesta. E adesso, dov’era finito? Non poteva essere già sparito, lo avrebbero sentito mentre entravano.
Athos alzò la mano per intimare a tutti di fare silenzio. Era certo che lo avrebbe udito, da qualche parte, uno scricchiolio, il suono di un respiro, magari. Guardò verso l’alto, ma il tetto si perdeva nel buio.
Furono distratti da un colpo di vento che fece tremare le imposte delle finestre.
Contro i vetri chiusi, illuminati appena dal riverbero dorato della candela, Athos scorse l’ombra di un movimento, una sagoma sbiadita come un fantasma.
Si voltò e lo vide. Il bandito - testa incappucciata e spada al fianco - si era calato dalle travi, ora era alle loro spalle, diretto verso la porta che avevano lasciato aperta. Non aveva fatto il minimo rumore, i suoi passi erano impossibili da udire, come quelli di…
Athos scosse la testa come per allontanare un insetto. Non era quello il momento di pensare alla ragazza.
«Fermo!» gridò. La tentazione di sparare fu fortissima, sentì il furore vibrargli nei muscoli.
Quello era un maledetto criminale. Lo aveva ferito. Aveva bruciato la casa di rue Saint-Lazare. Aveva lasciato d’Artagnan a morire nella neve e chissà quali altre scelleratezze aveva compiuto. Forse meritava una pallottola tra le spalle senza troppo riguardo, ma Athos si rese conto che gli serviva vivo, che era la terza volta che si trovava sul luogo di un qualche avvenimento legato alla loro indagine e doveva certamente saperne qualcosa.
Il bandito infilò la porta e scappò, come se il grido del moschettiere gli avesse messo le ali ai piedi.
Gli altri tre dovettero pensare tutti la stessa cosa: non potevano sparargli, dovevano solo inseguirlo. Quattro contro uno l’avrebbero preso.
Uscirono di corsa. Il bandito era già lontano, con quelle sue gambe maledettamente veloci. I moschettieri si lanciarono a perdifiato dietro di lui.
Prima di lasciare il molo, Porthos afferrò una piccola botte riversa per terra, la prese con entrambe le mani e la lanciò come una palla. La botte disegnò una mezza parabola e colpì il bandito alla schiena con perfetta precisione, schiantandosi contro le sue spalle.
«Gran bel colpo» si complimentò Aramis con il fiato corto, grato di potersi prendere una pausa da quella corsa che li aveva lasciati senza respiro.
Il bandito cadde a terra con un gemito spezzato. Si voltò su un fianco e si rialzò barcollando. Non si poteva negare che fosse un osso duro, ma ormai aveva perso terreno e velocità. Mosse qualche passo rapido verso l’imbocco di un vicolo buio, ma i moschettieri lo avevano già raggiunto.
Quando si voltò verso di loro, si accorsero che aveva il viso mezzo nascosto da un bavaglio; le falde del cappuccio facevano ombra su quel che restava scoperto di una faccia indistinguibile.
Realizzando di non poter più scappare, il bandito sguainò la spada in un ultimo disperato tentativo. La lama brillò nella luce argentea della luna, lucida e perfetta come se fosse nuova.
Athos allontanò con un braccio gli altri tre che avevano mosso un passo verso il criminale. «È mio» sibilò, estraendo la spada a sua volta e avvicinandosi minaccioso all’avversario.
«Credo che lo infilzerà molto prima di riuscire a dirgli “ciao”» mormorò Porthos.
«Se non lo infilza lui lo faccio io» rispose d’Artagnan, secco. 
Aramis non disse niente, mosse qualche passo verso lo spazio destinato al duello; con lo sguardo inquieto e il labbro stretto tra i denti, sollevò la pistola, pronto a fare fuoco. Forse non si fidava della lucidità di Athos, forse il suo istinto di soldato gli aveva fatto fiutare qualcosa di pericoloso, di fuori posto.
Athos sferrò il primo colpo. Il bandito fu rapido a parare e rispondere.
Le lame delle spade stridettero nel silenzio della strada deserta.
I duellanti si separarono con un balzo e restarono a fissarsi con le armi puntate l’una contro l’altra, parallele alle loro braccia tese.
Veloce, sei veloce e nient’altro, si disse Athos. Sapeva che la rapidità per uno spadaccino poteva valere più della maestria, ma quel maledetto non era neppure minimamente in grado di tenergli testa.
Forse sei bravo abbastanza da poter tener testa a qualche criminale di strada, ma i soldati addestrati non sono pane per i tuoi denti.
Era solo questione di minuti.
Athos estrasse il pugnale, attese che fosse l’avversario a sferrare il colpo successivo, colpo con il quale era certo, si sarebbe tradito.
Il bandito esitò un istante, come se stesse cercando di capire il suo gioco - almeno non era stupido.
«Arrenditi adesso». Athos sentì la voce di Aramis alle sue spalle. «Arrenditi e forse riuscirai a evitarti il cappio».
Lui non voleva che quel criminale si arrendesse, voleva fargli mangiare la polvere e umiliarlo, per fargli scontare tutto.
Il bandito strinse la mano attorno all’elsa della spada e mosse il capo con un gesto forse stizzito forse irriverente. Tra sé e sé Athos sorrise senza allegria.
Come previsto, il bandito sferrò un colpo, un perfetto affondo diritto che colpì di piatto la lama di Athos e gli fece quasi male al braccio. Ignorando la botta che ancora gli vibrava nei tendini, il moschettiere mosse appena il polso, scoccando un fendente fortissimo.
Le lame scivolarono l’una verso l’altra, fischiando e producendo una scia di scintille. Il colpo arrivò fino all’elsa della spada del bandito, così forte e inatteso da fargli perdere la presa.
La sua lama nuova di zecca, cadde a terra con un tonfo. Lui fu abbastanza rapido da indietreggiare, prima che un colpo montante lo colpisse al braccio.
Solo col pugnale, una misericordia dall’elsa di argento cesellato, il bandito restò a distanza, indietreggiando piano, mettendo quanto più spazio poteva tra se stesso, la lama del moschettiere e quel suo sguardo gelido e furioso.
Restarono a guardarsi, i moschettieri e il bandito, come se nessuno fosse sicuro di cosa fare ora. 
«C’è un limite oltre il quale la tenacia diventa idiozia. Se provi a scappare, ti sparo» promise Aramis, perfettamente calmo, quasi amichevole.
A spada in pugno, Athos mosse qualche passo verso il bandito, con la punta della lama gli abbassò il cappuccio, scoprendo il volto nascosto dal bavaglio e il capo stretto in una bandana che copriva i capelli - o magari una testa completamente calva. Solo un paio di occhi chiari brillarono impauriti nel riflesso della lama con cui il moschettiere teneva sotto tiro il suo avversario, occhi che la scarsa illuminazione rendeva impossibili da riconoscere.
Ancora memore della ferita alla mano, Athos fissò il bandito con astio. «Getta quel pugnale» ringhiò. Quando si spinse verso di lui, il criminale cadde all’indietro, spaventato forse o sopraffatto dalla sconfitta. Il pugnale rotolò tra i ciottoli, il moschettiere lo calciò via, lontano.
Sentì i passi di Aramis correre verso di lui.
«Non voglio ucciderlo, il boia si dovrà pur guadagnare il suo stipendio» disse. Ora che lo avevano preso, un po’ del suo furore sembrava essersi attenuato, e così la tentazione di passare da parte a parte quell’arnese da forca. 
Athos e Aramis si chinarono sul bandito che non provò neppure a opporre resistenza.
Anche Porthos e d’Artagnan si erano chinati in terra, pronti a prevenire qualsiasi colpo di testa del loro nuovo amico. 
Athos gli strappò la maschera e la bandana con un solo gesto.
Per un attimo tutto si fece immobile, il vento, il rumore della città, lo sciabordio della Senna poco distante, persino i loro respiri.
No.
I moschettieri restarono chinati sul bandito come statue di angeli su un sepolcro.
Athos fu il primo a spezzare il quadro di quell’immobilità. Si alzò di scatto e si allontanò verso il fondo del vicolo, come se tra le mani avesse qualcosa di incandescente che non riusciva più a toccare.
«No».
Gettò via la spada con rabbia, tenerla in pugno avrebbe potuto essere una tentazione troppo forte.
I visi degli altri tre erano congelati dallo stupore.
Il bandito in terra, non aveva osato muoversi, la sua faccia era diventata così pallida da far credere che fosse morto sul colpo.
Morta, anzi.
Athos si voltò, senza osare avvicinarsi, senza riuscire a guardare.
«Legatela» ordinò secco. Ed era un ordine che aveva già pronunciato una volta, con quella stessa voce, con quello stesso stravolgimento, con quella stessa espressione che aveva reso il suo viso una maschera grottesca alterata dal furore.
Aveva pensato a quell’individuo così a lungo, si era chiesto come fare a trovarlo, e per tanto tempo era sempre stato con loro.
Diane si tolse la benda che ancora le copriva la curva del mento, ormai non ne aveva più bisogno, e allungò le mani verso Aramis, consegnando i polsi al morso ruvido della corda. 
 
 

 

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Capitolo 18
*** Sotto la maschera ***


XVII
Sotto la maschera
 

 
Sola nella stanza, Diane pensava a quanto crudele fosse l’ironia di trovarsi lì in quel momento.
Non avendo altro posto in cui portarla, la casa di Athos era parsa a tutti l’unica soluzione possibile. E ora la ragazza era seduta su una sedia traballante, polsi e caviglie legati, a guardare fisso il letto davanti a sé, lo stesso letto che aveva sistemato e rifatto prima di andarsene quella mattina. Lo stesso letto dove il giorno prima a quella stessa ora…
Sospirò, guardò verso l’alto, verso la soffitta del minuscolo edificio dove i moschettieri si erano chiusi a parlare e a decidere sul da farsi.
Le avrebbero fatto almeno il favore di ascoltarla, prima di portarla allo Châtelet? Avrebbero lasciato che Athos l’ammazzasse subito o avrebbero sentito le sue ragioni?
Non avevano aperto bocca da quando l’avevano smascherata, nessuno di loro, e lei aveva pensato che fosse meglio non mettere alla prova la pazienza dei soldati.
Sentiva un’enorme voglia di piangere, ma non una lacrima le salì agli occhi. L’unica cosa che si muoveva nel suo sguardo era una freddezza da felino, nella testa il martellare forsennato del suo cuore si mischiava al rumore di ingranaggi che scricchiolavano: alla fine, il suo piano era andato storto, l’avevano presa.
Era tutto più facile se pensava solo con la testa del bandito, con la mente allenata alla logica di ferro a cui Sebastiano aveva cercato di abituarla quando lei gli aveva confessato i suoi progetti per il futuro: tornare a Parigi, smascherare il conte, vendicare i suoi genitori.
Era tutto più facile, visto attraverso le fessure della corazza, ma se abbassava lo sguardo su se stessa, Diane vedeva solo un cuore sanguinante, una fontana di fiele e veleno.
Il bandito era ferito nell’orgoglio, arrabbiato per la parte di piano che non aveva funzionato, per l’umiliazione della sconfitta. La ragazza non reggeva il peso del male inflitto a qualcuno che si era fidato di lei, che si era affezionato a lei.
«Te l’avevo detto, non è l’affetto che tu provi per loro il problema, è quello che loro provano per te» disse la voce di Sebastiano, urlando più forte di tutti i suoi fantasmi. «E questo amore stupido e del tutto sconveniente».
Dell’amore, o qualunque cosa fosse quella che provava per Athos, non c’era da preoccuparsi: ormai era perduto. Dell’affetto dei moschettieri… be’, se fosse bastato a evitarle il patibolo, sarebbe stato già tanto.
«Non possono farti giustiziare».
Da quando i suoi fantasmi erano così ottimisti? 
«A conti fatti, non hai commesso nessun crimine vero e proprio».
Non si trattava di quello che aveva fatto, si trattava di quello che loro credevano che il bandito avesse fatto, e la fiducia dei moschettieri ormai doveva essere totalmente compromessa.
Diane chinò il capo. Sì, sarebbe stato davvero d’aiuto piangere, ma le lacrime restarono ben nascoste sul fondo della corazza, dietro una cortina di gelo che non le lasciava sciogliere in pianto.
Sentì i passi lungo le scale scricchiolanti e alzò la testa di scatto verso la porta.
C’era solo un moschettiere sull’uscio ed era l’ultima persona al mondo con cui Diane avrebbe voluto restare da sola in una stanza.
Lo sguardo di Athos la trapassò come una lama. Sarebbe stato meglio se lui l’avesse uccisa in quel vicolo, prima che lei potesse vedere la sua reazione quando le avevano strappato il bavaglio. Gli aveva fatto del male: ancora prima della delusione e della rabbia lui aveva provato dolore.
Mi dispiace. Mi dispiace così tanto…
Non osò dar voce a quel pensiero.
Il moschettiere entrò nella stanza e mosse qualche passo lento tra il letto e il tavolo. Guardò fuori dalla finestra, come se cercasse di prendere tempo, di mettere insieme le parole. Come se non fosse davvero importante e lei fosse un criminale qualunque colto in flagrante.
«Tra un attimo, gli altri scenderanno e tu ci racconterai ogni cosa» le disse. Parlava con quell’indolenza un po’ accondiscendente che si rivolgerebbe a un cane da abbattere. «È una premura che dobbiamo al capitano Treville. Almeno hai avuto la decenza di non rimanere sotto il suo stesso tetto, con un po’ di fortuna, riusciremo a evitargli lo scandalo»
«Mh». Diane annuì con noncuranza. «E la ragione per cui tu sei qui da solo, a parte la soddisfazione di tormentarmi con quella faccia di marmo, esattamente qual è?».
Se doveva farsi detestare, tanto valeva farlo per bene. Quell’aria sfrontata era tutto ciò che le rimaneva, la sua ultima difesa, la corazza piena di crepe.
Athos mosse appena il capo, la sua espressione rigida non si alterò di una virgola. «Assicurarmi che tu non faccia qualche mossa eccessivamente subdola».
Diane sentì la rabbia accendersi come un formicolio nello stomaco, una sensazione di fame insaziabile che mordeva e bruciava. «A te non interessano le mie ragioni, vero? Ti interessa solo che ti abbia nascosto…»
«Che tu mi abbia ingannato? Sì, mi sembra abbastanza rilevante. Tutto il resto però lo è ancora di più, non sono così vanesio da concentrarmi solo su me stesso».
La ragazza arricciò il naso. «Tutto il resto? Aspetta, aspetta! Tu credi che io abbia fatto cosa, esattamente? Sparato a d’Artagnan? Tentato di ucciderti la sera dell’incendio?»
«Diciamo che non lo escludo».
Diane sbuffò. Le lacrime dentro di lei erano un fiume gelido che travolgeva e annegava, ma il suo sguardo rimase fermo, di sfida. Da Athos poteva accettare la rabbia, non quella cieca stupidità.
«Sono certa che persino a tua moglie tu abbia concesso il beneficio del dubbio» borbottò. Si pentì di quelle parole mentre ancora le stava pronunciando.
Lui la guardò come se gli avesse appena conficcato un palo nel petto. Un attimo dopo le diede le spalle, fece qualche passo e cercò di riacquistare la calma.
Scoprire che lei era il bandito a cui aveva dato la caccia doveva avere, in qualche modo, il sapore di qualcosa che aveva già vissuto. Non era semplice delusione, era di più, il baratro di una frattura insanabile, nel vuoto del precipizio un buio pieno di fantasmi e rostri di lame e vetri che dilaniavano l’anima.
«Purtroppo conosci cose pericolose, volevo parlarti solo per assicurarmi che tu stia zitta al riguardo» disse poi Athos, dopo qualche minuto.
Diane non capì subito. Impiegò qualche istante a riportare a galla il ricordo: era qualcosa che aveva sepolto dentro di sé fino a dimenticarlo, fino quasi a cancellarne l’importanza. L’idea che Athos se ne crucciasse la fece quasi ridere.
«Oh mio Dio, tu ti stai davvero preoccupando che io possa parlare di Aramis e della regina?» sbottò. «È la cosa più idiota che io abbia mai sentito!»
«Ritengo di essere stato idiota su altri aspetti di questa faccenda, non su questo».
Era sfiancante, da picchiare la testa contro il muro. «Sei meglio come amante che come compagno di conversazione» disse Diane, e ottenne di far arricciare le labbra del suo algido interlocutore. «Pensa quello che vuoi, io non farei mai del male ad Aramis o a nessuno di voi, neppure se decideste di spararmi qui ed ora»
«Vorrei poterti credere» mormorò Athos. Dondolò il capo, come se fosse stanco e si voltò a guardare il letto ancora in ordine, rimasto intatto da quella mattina. «Anche questo faceva parte del tuo piano brillante?» chiese e non riuscì a impedire a una nota di tristezza amara di incrinargli la voce.
«Cosa? Innamor-». Diane strinse i denti, ingoiò le parole come un boccone amaro.
Sei il primo e unico uomo con cui sia mai stata? Non è abbastanza?
«Che importanza ha? Se te lo dicessi, non mi crederesti».
Il moschettiere la guardò con un’espressione indecifrabile e respirò lentamente.
Sentirono i passi degli altri arrivare dalle scale e lui si voltò, fermandosi accanto alla finestra come se avessero smesso di parlare da tempo e lei non fosse minimamente degna della sua attenzione.
Idiota! pensò Diane. 
I tre moschettieri gettarono un’occhiata circospetta all’interno della stanza.
«Avevamo detto che l’avremmo slegata» disse Aramis, avvicinandosi alla ragazza. Athos scrollò le spalle.
Quando Aramis tagliò le corde, Diane sentì il sangue riprendere a circolare più liberamente nelle mani e nei piedi. Il moschettiere la guardò negli occhi, prima di rialzarsi, sembrava dispiaciuto. Se era dispiaciuto per la condizione in cui l’avevano lasciata o per quello che era successo, non si riusciva a capire.
Dopo qualche istante di silenzio di tomba, i tre moschettieri aprirono la bocca e parlarono in contemporanea. Le loro voci si accavallarono e Diane non fu in grado di capire una sola parola.
«Una domanda alla volta, per alzata di mano, per piacere» sbuffò. 
«Mi dispiace di averti colpita…» fece subito Porthos.
«Questa non è una domanda»
«… però tu sei una maledetta pazza. E io voglio credere che tu abbia avuto le tue buone ragioni e… Dio santo! Non ci sono buone ragioni per vestirsi da uomo e andare in giro a fare… tutte quelle robe che hai fatto tu»
«Punto primo: vestirsi da uomo è comodo, a prescindere dal motivo. Punto secondo: ho delle buonissime ragioni. E non ce l’ho con te per avermi colpita con quella botte» concluse Diane. Realizzò che sarebbe stata una serata incredibilmente difficile. Più di quanto non lo fosse già stata. 
D’Artagnan mosse un passo e si accovacciò davanti alla sedia dove la ragazza era seduta. Ne studiò il volto e alla fine sospirò. «Non sei stata tu a spararmi in quel vicolo, quella sera, vero? Cioè ora so che è stato l’altro, ma tu eri lì»
«Per la cronaca, non ho una pistola e non so sparare. Se anche avessi saputo farlo, non avrei sparato a te. Stavo pedinando Morice, come voi, quella sera. Quando l’altro ti ha sparato sono rimasta lì ad aspettare che arrivasse qualcuno e che ti trovassero…».
D’Artagnan accennò un mezzo sorriso. Non aveva mai pensato che lei avesse cercato di ucciderlo e Diane si sentì un po’ più leggera.
«Non sai sparare, non sai andare a cavallo però tiri di scherma e non proprio come una principiante» intervenne Aramis. «Credo che tu abbia davvero una bella storia per noi».
Diane appoggiò le mani sulle cosce. Chiuse gli occhi e sentì finalmente le lacrime pizzicarle le ciglia. Ma non poteva mettersi a piangere ora, aveva resistito e doveva continuare a farlo, non voleva muovere a pietà i moschettieri, non voleva la loro commiserazione, voleva solo che  capissero. Athos poteva anche detestarla, adesso e forse per sempre, ma almeno avrebbe dovuto comprendere la sensatezza delle sue ragioni e i motivi che l’avevano spinta a fare quello che aveva fatto.
«La casa dove vivevo con Marie, prima che lei morisse» esordì la ragazza. «Il secondo piano è disabitato perché pericolante. È lì che ho nascosto tutto»
«Tutto cosa?»
«Questi vestiti, le armi e i diari di mio padre. Sono ancora lì»
«I tuoi genitori sono morti dieci anni fa, cosa c’è di così importante in quei diari?» chiese Porthos.
«La verità» rispose semplicemente Diane. «Lasciate che cominci dall’inizio, permettete?».
 
«Avevo dodici anni, abitavamo in una bella casa nel centro di Parigi. Vi ho già detto che mio padre era benestante, aveva una ditta di costruzioni, era un uomo dabbene.
Quella sera io rimasi a casa con la domestica, i miei genitori erano stati invitati da un amico - mio padre, sapete, conosceva un sacco di gente importante, lui e mia madre non disdegnavano la vita mondana.
La mattina dopo mi svegliai e non erano tornati. Al loro posto c’era mio zio, Treville, mi disse che erano stati uccisi, una rapina… niente di nuovo in quella zona di Parigi dove capitava che i ricchi signori venissero attaccati dai borseggiatori. Ma di rado i borseggiatori uccidono, no?
Treville non si diede pace fino a quando non trovarono i responsabili della rapina. All’epoca non ci pensai, ma era stato tutto troppo facile.
Pochi mesi dopo partii per l’Italia. Il fratello di mio padre aveva ricevuto il titolo di duca, la sua famiglia era da sempre fedele al cardinale e Richelieu lo mandò a Roma come ambasciatore della Francia presso la corte del Papa.
Il duca non aveva tempo di occuparsi di me, non aveva una moglie che potesse farlo e mi spedì in collegio.
Avevo portato con me da Parigi i diari di mio padre, cominciai a leggerli quando mi sentivo sola, alla sera, nel dormitorio. Pensavo che avrei trovato qualche bel ricordo della nostra vita prima della tragedia, storie su di me, su mia madre… ma nelle ultime pagine di uno di quei quaderni trovai tutt’altro.
Prima di morire, mio padre stava lavorando a una commissione per il conte Legrand, pensava fosse un buon lavoro. Poi cominciò a scoprire cose… strani traffici nelle acquisizioni dei terreni dove il conte faceva costruire le sue opere, e poi le armi, un traffico di armi su una rete vasta forse come l’intera Francia.
Mio padre annotò tutto, voleva montare un caso contro il conte, avrebbe presentato tutto al re e al Consiglio. Ma il conte lo scoprì.
Forse temeva che mio padre avesse raccontato qualcosa delle sue indagini a mia madre, perciò dovevano morire entrambi.
Mio padre sapeva che sarebbe morto, lo aveva capito. Forse la sera in cui lui e mia madre furono uccisi, era andato a casa di un qualche amico importante proprio per cercare di ottenere un’udienza con i consiglieri del re, prima che fosse troppo tardi.
I borseggiatori hanno sempre negato di aver ucciso i miei genitori. Ora so che forse dicevano il vero, sono stati solo un capro espiatorio…
Nel collegio trovai il soldato disertore che si nascondeva, Sebastiano, ve ne ho già parlato. È stato lui a insegnarmi a tirare di scherma… a dire il vero, all’inizio non lo fece di sua iniziativa e con particolare entusiasmo: dovetti ricattarlo - sì, non ne vado fiera, ma soprassediamo. Avevo deciso che sarei tornata a Parigi, prima o poi, e avrei fatto quello che mio padre non era riuscito a fare: incastrare il conte Legrand.
Nel primo mese, dopo il mio ritorno, mentre ero a casa di mio zio, ho cercato informazioni. La rete del conte oggi non è tanto diversa da come aveva annotato mio padre nei suoi diari; mi è bastato solo guardarmi un po’ in giro, incontrare le persone giuste. Marie… povera cara, scoprii che era l’amante dello scagnozzo del conte, l’avvicinai e, fortuna volle, mi disse che cercava una coinquilina. Io dovevo trovarmi una casa lontano da mio zio, non potevo rischiare che mi scoprisse, e non potevo metterlo nei guai se fossi stata scoperta.
Quando riuscii ad avere tutte le informazioni che mi servivano, quando riuscii a mettere insieme i pezzi, cominciai a mettere in atto il mio piano.
Sapevo che non potevo accusare il conte senza prove, né potevo lasciargli capire che stavo indagando, altrimenti avrei fatto la fine dei miei genitori. Dovevo fare in modo che altri indagassero, dovevo fare in modo di attirare l’attenzione su di lui.
Le colombe, il giorno dell’inaugurazione, sono state opera mia. Erano un messaggio per Legrand e per la gente, per dire a tutti quanto le mani di quell’uomo fossero sporche di sangue. 
Poi c’è stato l’omicidio di Robert Bourell… non sono così cinica da ritenerlo un colpo di fortuna a mio favore, ma ha fatto scendere in campo voi e il fatto che io mi sia trovata lì quando è stato scoperto il corpo, mi ha dato una scusa per interessarmi al caso.
La casa di rue Saint-Lazare l’ho incendiata perché volevo attirare l’attenzione su Morice e sulle armi. Sapevo che poi tutto il resto sarebbe venuto da sé, sapevo… o almeno speravo, che voi ci sareste arrivati.
Sono gli unici crimini che ho da confessare, l’incendio e le colombe. Per gli innocenti che hanno perso la vita sono rammaricata, ma non mi sento responsabile… anche se Bourell e Marie erano brave persone e non meritavano quello che gli è successo.
E mi dispiace anche di aver approfittato della vostra amicizia e della vostra fiducia, ma non ho avuto scelta.
Se volete arrestarmi, fatelo pure. Ma promettetemi che continuerete le indagini e che troverete delle prove contro il conte, promettetemi che verrà smascherato per il mostro che è…»
 
Diane chinò la testa. Doveva essere notte fonda, la stanchezza e le emozioni cominciavano a presentare il conto e lei si sentiva come se non avesse la forza di pronunciare più una sola parola.
I moschettieri erano rimasti in silenzio durante tutto il racconto, ora la guardavano fissi, cercando di mettere insieme i pensieri.
Fu Aramis il primo a parlare. «Perché scegliere una strada tanto pericolosa? Perché non dirlo a Treville e lasciare che ci pensasse lui?» chiese.
«Se lo avessi detto a mio zio c’erano due possibilità. Poteva non credermi e io avrei perso il vantaggio della segretezza. O peggio, poteva credermi e mettersi contro il conte. Mio zio voleva molto bene a mia madre, se scoprisse che il responsabile effettivo della sua morte è rimasto impunito, be’ credo che persino la sua proverbiale ragionevolezza vacillerebbe»
«Non fa una piega» concluse Porthos, dondolando il capo. «Ma resta il fatto che sei una pazza e che potevi finire uccisa e che devi imparare a usarla meglio quella spada e magari dobbiamo anche insegnarti a sparare!»
«Adesso stiamo tutti molto calmi» lo riprese Aramis con un’occhiata severa. Anche d’Artagnan e Athos lo guardarono come se avesse preso a parlare in greco antico all’improvviso.
«Quindi, non mi arresterete?» domandò Diane.
«Hai intenzione di appiccare altri incendi e perpetuare altre crudeltà sugli animali?» disse d’Artagnan.
«No, se non sarà necessario»
«Allora credo proprio che ci manchi una scusa ragionevole per portarti allo Châtelet» concluse Porthos.
«Questo non significa che tu potrai andartene in giro conciata così a fare la giustiziera solitaria» precisò Aramis, puntando l’indice con fare ammonitore. 
«Non posso arrampicarmi con una gonna»
«No, no, che tu ti arrampichi è proprio fuori discussione»
«Athos, dille qualcosa!» fece d’Artagnan.
Athos si riebbe dal suo cupo mutismo. «Curioso che tu ci chieda una così grande prova di fiducia quando sei stata la prima a non credere in noi» disse. «Ci hai spiegato la tua storia, ci hai detto cosa vuoi, siamo perfettamente in grado di portare a termine questa indagine senza di te»
«Se non fosse stato per me, non ci sarebbe neppure questa indagine» obiettò la ragazza.
«Avresti dovuto dircelo prima!». Athos alzò di qualche ottava il tono della voce, spazientito e irritato. Ora che aveva ascoltato le ragioni di Diane sembrava interdetto perché non poteva più avercela con lei e trattarla da criminale, non gli restavano scuse concrete per la sua rabbia nei suoi confronti, solo la delusione di non aver capito con chi aveva a che fare. «Sapevi che ti avremmo aiutato, ma no, tu hai dovuto fare di testa tua e…».
Diane si alzò di scatto, rovesciando la sedia e gli si avvicinò come se avesse voluto investirlo. «Sì, ti ci vedo, se ve lo avessi detto prima» sbottò, furiosa, poi imitando una voce bassa e maschile aggiunse: «“È fuori discussione, Diane” “Torna a ricamare, qui pensiamo a tutto noi, Diane” “Non sono cose adatte a una ragazza, Diane”».
Aramis, Porthos e d’Artagnan erano indietreggiati e si scambiavano occhiate imbarazzate, osservando in un silenzio attonito la scena della ragazza che sbraitava furiosa contro Athos.
«… sai che ti dico? Sono cose adatte a me da quando sono rimasta in quel collegio, da sola, con quei dannati diari! Io l’ho iniziata e io la porterò a termine, se volete darmi una mano bene, altrimenti continuerò a fare quello che ho fatto fino ad ora, e state sicuri che ne verrò a capo!».
Athos restò a guardarla e la lasciò a terminare quella sua invettiva - che vista da fuori doveva sembrare vagamente isterica. Quando la ragazza chiuse la bocca, lui sospirò e con tutta la flemma di cui era capace ricominciò a parlare.
«Noi siamo moschettieri e questo è il nostro lavoro» le disse. «Tu, se il conte ti scoprisse a indagare su di lui o a mettergli i bastoni tra le ruote, finiresti come i tuoi genitori. L’hai detto tu stessa»
«Perché credi che me ne vada in giro con una dannato bavaglio sulla faccia? E il cappuccio e tutto il resto?»
«Perché ti rifiuti di capire? Pensi di essere coraggiosa, ma stai solo rischiando la vita inutilmente»
«È la mia battaglia, Athos. Sì, anche una donna può avere le sue battaglie da combattere, con una spada o senza, e sì, anche una donna può scegliere di rischiare la propria vita per qualcosa in cui crede. Mettetevelo in testa» concluse Diane, perentoria. «E adesso, ridatemi la mia spada e andiamo a cercare quella maledetta nave!».
 

***


Il porto era come lo avevano lasciato, spettrale e deserto, mezzo devastato dalla tempesta.
La città era buia, immobile. A notte fonda persino Parigi riposava.
Athos sentiva il gelo entrargli sotto pelle ed era l’unica sensazione su cui voleva concentrarsi. Diane camminava davanti a lui, stivali di cuoio chiaro alti fino al ginocchio, una giubba di lana color rosso cupo, con il cappuccio che le ricadeva dietro le spalle e i capelli, ora liberi dalla bandana, sciolti e spettinati. Teneva la mano mollemente appoggiata all’elsa della spada, in una posa da vero soldato.
Con il senno di poi sembrava così ovvio che sotto quegli abiti il bandito nascondesse forme femminili. 
Con il senno di poi sembrava tutto ovvio. Athos ricordò della prima volta che l’aveva vista alla reggia, nel giardino, sembrava turbata, respirava a fatica, gli aveva detto che era per il corsetto dell’abito a cui non era abituata. E invece ora il moschettiere sapeva che era perché quel giorno a corte c’era il conte Legrand: la ragazza aveva appena incontrato l’uomo responsabile della morte dei suoi genitori.
Era ovvio il motivo per cui, quando Treville le aveva ordinato di lasciare la casa dopo l’omicidio di Marie, Diane si fosse impuntata per occuparsi personalmente di raccogliere le sue cose.
Era ovvio il lampo di genio dietro le sue intuizioni.
Era ovvio il suo interesse per i moschettieri, quel frequentare assiduamente la guarnigione con più solerzia di quanto fosse normale. Era stato solo questo, solo per i suoi scopi. Era un pensiero che faceva male, ma era un pensiero facile, come chiudere la porta di una stanza e ignorare quello che rimaneva all’interno.
Il furore che Athos aveva visto negli occhi di Diane, la lucida determinazione, la sfacciata indolenza… non potevano appartenere alla ragazza che credeva di conoscere, che aveva creduto di poter amare. Convincersene era solo fare un passo indietro, di nuovo verso il buio silenzioso a cui era abituato.
Era una caduta che aveva già subito una volta. Solo che adesso gli sembrava che il precipizio fosse molto più alto, come ricevere un taglio su una cicatrice mai rimarginata: fa più male della prima volta.
La porta dell’ufficio della dogana era spalancata, come l’avevano lasciata. La candela accanto al registro si era consumata e ora la stanza era nient’altro che un antro scuro che odorava di acqua stagnante e legno vecchio.
D’Artagnan rimase sulla soglia, lanciando un’occhiata circospetta all’esterno come a controllare che non arrivasse nessuno.
Chi vuoi che arrivi, è notte fonda, pensò Athos, ma si appoggiò con le spalle al muro e restò con il ragazzo a guardare il porto, la superficie lucida e nera della Senna.
Dentro, Aramis aveva acceso un’altra candela. Lui, Porthos e Diane spostarono fogli, mossero pagine, parlottarono a voce bassa di quello che stavano leggendo.
«E adesso?» disse d’Artagnan all’improvviso, incrinando il silenzio rotto solo dallo sciabordio del fiume.
Athos lo guardò di sottecchi. «Adesso aspettiamo la nave e…»
«Avanti, lo sai di cosa sto parlando»
«Non c’è bisogno che tu mi faccia ricordare quanto sono stato sciocco. Certo, bisogna ammettere che ho anche un po’ di sfortuna»
Il guascone gettò all’indietro il capo e strabuzzò gli occhi. «Se vuoi avercela con Diane perché ti ha nascosto…»
«Ci ha nascosto tutta la storia. Perché sembra che io sia l’unico ad averlo notato?»
«Perché il tuo coinvolgimento è diverso dal nostro e perché hai una prospettiva distorta sulle donne, soprattutto sulle donne con dei segreti».
Athos guardò d’Artagnan con un’occhiata scettica. Il ragazzo continuò. «Hai mai arrestato un ladro?» gli chiese.
«Mi è capitato»
«E ne hai mai lasciato andare qualcuno?»
«No, ovviamente» rispose Athos secco, poi ci ripensò. «Un ragazzo, una volta, aveva rubato del pane per la madre malata. Porthos gli comprò anche un cesto di mele».
D’Artagnan aprì i palmi come a sottolineare l’ovvietà del ragionamento a cui stava cercando di arrivare. «Perché rubare per fame e rubare per avidità non sono la stessa cosa, no?»
«Non venirmi a fare la morale. Non sto dicendo che quello che ha fatto Diane sia cattivo, solo sbagliato. Non ce l’ho con lei, solo che non posso fidarmi»
«Questa è una menzogna»
«Cosa?»
«Che non ce l’hai con lei». D’Artagnan strinse le labbra. «Ce l’hai con lei perché ti ha nascosto un segreto, ma soprattutto ce l’hai con lei perché ti ha costretto a rivivere una situazione simile a… be’, lo sai. Solo che è proprio questo quello che sto cercando di dirti: non è la stessa cosa dell’altra volta». Il guascone lanciò un’occhiata alle sue spalle, Aramis e gli altri erano ancora impegnati a consultare carte. 
«No, non lo è» ammise Athos con un sospiro stanco.
«Ah, bene. Quindi?»
«Quindi cosa?» 
«Cosa hai intenzione di fare?»
«Niente»
«Niente in che senso?»
«D’Artagnan, mi stai facendo venire mal di testa… Non ho intenzione di fare niente. L’hai sentita: non si farà da parte, che faccia come crede. A noi non resta che fare il nostro lavoro»
«Sì, va bene, tutto quello che vuoi. Io volevo sapere cosa hai intenzione di fare di te e lei»
«Niente. E prima che tu mi dica “niente in che senso?”, niente nel senso di niente. Se lei non si è fidata di me e io non posso fidarmi di lei, niente è proprio l’unica cosa da fare. Sono abbastanza sicuro che anche Diane ne convenga».
D’Artagnan sbuffò e scosse forte la testa. «Ti prenderei a pugni…» borbottò.
«No, non lo faresti» concluse Athos.
Alle loro spalle, gli altri tre riemersero dalla penombra con un foglio mezzo strappato tra le mani.
«L’abbiamo trovata» annunciò Diane, sventolando il pezzo di carta. «Si chiama la Cerbero - che razza di nome! - è una delle tre navi il cui attracco era previsto per stasera. Una trasportava vino, un’altra era vuota e doveva imbarcare merci da portare a nord, la Cerbero invece ha dichiarato come carico legname e metallo»
«Ora dovrebbe essere attraccata a Le Havre» disse Porthos.
«La andiamo a cercare lì?» propose d’Artagnan.
I moschettieri si guardarono in viso, valutando la possibilità di correre fino al porto di Le Havre che distava quasi un giorno di marcia.
«No, rischieremmo di perderla» concluse Athos. «Non scaricheranno le armi in un porto così lontano da Parigi, sarebbe un rischio troppo grande trasportarle fino qui a cavallo. Dobbiamo aspettare, se il tempo si mantiene buono,  la nave dovrebbe arrivare domani»
«E non scaricheranno prima di sera, rischierebbero di dare troppo nell’occhio» aggiunse Aramis.
«Allora se ne parla domani sera» concluse Porthos. «Io propongo di andare tutti a farci una dormita come si deve. Abbiamo tutti bisogno di dormirci su… ehm, di riposare»
«Un’ottima idea» approvò d’Artagnan, poi si voltò verso Diane. «Però prima ti riportiamo a casa». 
 
 

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Capitolo 19
*** L'attacco al porto ***


XVIII
L’attacco al porto
 

«Sono un mercante di stoffe, mademoiselle, non un albergatore».
Monsieur Bonacieux picchiò le nocche sul piano del tavolo come a sottolineare l’eloquenza delle sue parole. E si credeva davvero una persona eloquente.
Diane era indecisa se ridere o lanciargli in faccia il vaso che c’era al centro del tavolo. Ma il mercante non meritava lo spreco dei fiori freschi che Constance aveva sistemato nel suddetto vaso, così la ragazza decise di continuare a fingere quella sua aria mortificata e un po’ annoiata.
Quella mattina - era più notte che mattina, a dire il vero - almeno era riuscita a rientrare senza essere vista e a togliersi di dosso gli abiti maschili prima che qualcuno la intercettasse mentre sgusciava di sopra. Ma il padrone di casa avevano notato la sua assenza a cena.
«Vi chiedo scusa, monsieur» disse, in uno sfarfallio di ciglia. «Non accadrà più. E in ogni caso, non preoccupatevi, toglierò presto il disturbo».
«No. Perché?» esclamò Constance, riavendosi dalla sua posa da colonna ornamentale, immobile alle spalle del marito.
Perché non voglio mettervi in pericolo, pensò Diane. Su una cosa Athos aveva ragione: se qualcuno l’avesse scoperta prima che lo facessero i moschettieri, se la storia fosse arrivata alle orecchie del conte, lei sarebbe stata in pericolo e così pure le persone sotto il suo stesso tetto. Diane sperava proprio di uscirne viva, non era coraggiosa abbastanza da riuscire a contemplare l’idea di morire assassinata, ma ancora meno riusciva a tollerare il pensiero di mettere a repentaglio vite altrui.
«Credo di aver disturbato già abbastanza» si limitò a dire, rivolgendo un sorriso mellifluo a monsieur Bonacieux che annuì senza troppe cerimonie.
«Bene. Io ho i miei affari da sbrigare» concluse il mercante. Prese il cappello dal gancio alla parete e uscì rivolgendo appena un’occhiata a sua moglie.
«Senti, non devi preoccuparti di lui, gli piace fare la voce grossa, crede che la cosa lo renda virile» disse subito Constance quando rimasero sole. Si sedette di fronte a Diane e la guardò negli occhi.
La ragazza cercò di ignorare lo sguardo troppo furbo della sua interlocutrice. «Non è solo per lui, devo proprio trovarmi un’altra casa, ero venuta a Parigi con l’idea di essere indipendente e…»
«Diane, vorresti dirmi cosa sta succedendo?».
La nipote del capitano rivolse a Constance uno sguardo interrogativo. Serviva a poco fingere: gli occhi di madame Bonacieux dicevano chiaro e tondo che sapeva troppo. Prima suo zio, poi i moschettieri e ora lei… la ragazza si rese conto che era stato molto ingenuo da parte sua pensare che certi fantasmi potessero essere tenuti nell’ombra per tanto tempo. L’errore era stato sempre lo stesso, dall’inizio, credersi più in gamba di quanto non fosse.
La donna si sporse a guardare oltre la porta per vedere la domestica passare e allontanarsi lungo le scale.
«Ero sveglia, quando sei tornata stanotte. Non dormo mai troppo bene quando c’è mio marito…»
Neanche io dormirei bene con quella specie di mangusta nel letto.
«… e ti ho vista. Con i moschettieri e tutto il resto».
Per “tutto il resto”, Constance doveva certamente intendere i vestiti maschili e la spada alla cintura. Bene.
«Non credere che mi stupisca. In un anno e passa, da quando ho conosciuto d’Artagnan, ne ho viste parecchie» continuò la donna. «Non sei obbligata a dirmi cosa sta succedendo, solo che sono preoccupata».
Diane soffiò una risata amara dal naso e si portò una mano alla fronte.
«Far preoccupare gente sembra essere diventato il mio secondo mestiere. Ah, no, aspetta c’è anche il farmi detestare dall’uomo che amo… cioè che voglio… insomma, quello lì».
Constance spalancò gli occhi. «È successo qualcosa con Athos?».
La ragazza avrebbe quasi riso di come vestiti maschili, spade e uscite notturne fossero passate subito in secondo piano.
Sei proprio una romantica, madame Bonacieux.
«Be’, ieri sera i moschettieri hanno visto quello che hai visto tu, Athos non l’ha presa benissimo» spiegò Diane.
«Aspetta, io non ho capito quello che ho visto»
«È una lunga storia, Constance, ed è troppo pericoloso che tu sappia»
«Questa l’ho già sentita. Ti rammento: un anno. Moschettieri. D’Artagnan come inquilino. Ho ospitato assassini, donne in fuga, presunti criminali, gente ferita che mi ha sanguinato sul tappeto…»
«E un bandito mascherato lo hai mai ospitato?»
«Il bandito? Quello che ha sparato a d’Artagnan?!»
«Non ho sparato a d’Artagnan!»
«Ma sei tu. Alla guarnigione non si è parlato d’altro per giorni, me lo hanno raccontato, l’incendio, Athos che è rimasto ferito a una mano»
«Già» sospirò Diane. «Ora capisci perché devo andarmene?»
«Questo lo capisco - e comunque non è necessario che tu vada da nessuna parte. È tutto il resto che non capisco»
«Ho i miei motivi, te lo assicuro. C’è una cosa che devo fare, poi mi lascerò tutto alle spalle e proverò a fare la persona normale, giuro. I moschettieri lo hanno compreso, più o meno»
«E Athos?»
«Per riassumere, direi che lui ora mi odia. Non ha preso molto bene il fatto che gli abbia nascosto di essere il bandito. Ma forse è meglio così, non poteva finire bene»
«Questo non è vero…» esordì Constance battagliera come un intero plotone di soldati, ma la sua arringa a favore di quella storia nata morta fu interrotta dalla comparsa della domestica sulla soglia.
La cameriera fece un leggero colpetto di tosse per annunciare la sua presenza e la padrona di casa si zittì.
«Sono venuti a consegnare questa per mademoiselle Leroux».
La domestica camminò quasi saltellando fino al tavolo e posò una lettera un po’ spiegazzata sul piano di legno scuro, poi si ritirò ciabattando fuori dalla stanza.
Diane fu contenta di poter evitare il discorso che Constance stava per imbastire. Non voleva ascoltare argomentazioni filosofiche sul fatto che Athos prima o poi l’avrebbe perdonata, perché, che Athos fosse capace di farsela passare era probabile, ma che riuscisse a vedere oltre quel tradimento era fuori discussione.
Diane si affrettò ad aprire la lettera, prima che Constance ricominciasse a parlare. Erano solo poche righe e riconobbe la calligrafia alla prima occhiata. Lo stupore la fece boccheggiare come un pesce.
«Cosa c’è? Brutte notizie?» chiese Constance.
«Pessime» sibilò la ragazza con voce strozzata. 
 
***
 
C’era qualcosa di strano nell’andatura di Diane quella mattina.
Che Athos lo volesse o no, non riusciva a fare a meno di osservarla. Aveva imparato come una canzone a memoria il ritmo del suo passo leggerissimo, il movimento un po’ stizzito quando inclinava la testa di lato per dire qualcosa di sarcastico o per lanciare una delle sue occhiate impertinenti, la piega morbida delle sue labbra quando sorrideva. Ricordava anche con bruciante precisione la curva della bocca schiusa e arrossata mentre facevano l’amore. Il pensiero gli strinse lo stomaco e il moschettiere lo scacciò, concentrandosi sull’aria turbata della ragazza che stava venendo verso di loro.
Preferiva pensare a tutto quello che non conosceva di lei, alle mille ombre che gliela rendevano estranea.
Avevano discusso brevemente di quello che era successo la sera prima e poi non ne avevano più parlato. Avevano ascoltato le sue ragioni, se le erano fatte bastare: la nipote del capitano era una ragazza che si era coraggiosamente - e avventatamente - imbarcata in un’impresa più grande di lei, aveva mentito e manipolato, ma questo non toglieva nulla al fatto che le sue accuse contro Legrand erano fondate e che le attività criminali del conte dovevano essere smascherate. Né le menzogne facevano di Diane una cattiva persona, solo che Athos ne aveva avuto abbastanza per una vita intera…
Aramis, Porthos e d’Artagnan erano anche convinti che non fosse per niente idiota e sconsiderato portare la ragazza con loro, quella sera. La ragionevolissima obiezione di Porthos era stata: «Tanto non riusciremmo a fermarla comunque»
«Rammentatemi perché non l’abbiamo arrestata, allora» aveva sbottato Athos.
«Per il capitano, in primo luogo» aveva risposto Aramis.
«E perché non lo merita» aveva aggiunto d’Artagnan.
«Tu fa’ pure la statua di sale, se così ti piace, noi non abbiamo ragione per smettere di volerle bene». Porthos aveva incrociato le braccia sul petto e la questione era stata chiusa.
Volerle bene, come se si trattasse di questo
Diane si fermò vicino al tavolo dove d’Artagnan era seduto sul piano, con le gambe a penzoloni.
«Buongiorno» sospirò frettolosamente.
I moschettieri le rivolsero un cenno. 
«Dobbiamo parlare, Diane, prima che venga sera» disse Aramis, poi si sporse verso la ragazza e abbassò la voce: «Tu non verrai da nessuna parte senza aver prima imparato l’ABC di come si usa una pistola».
Ad Athos andò di traverso il sorso d’acqua che stava bevendo per ostentare totale disinteresse verso la presenza della ragazza. Quando si era deciso che le avrebbero insegnato a sparare?
E questo è perché le si vuole bene…
«Oh. È la cosa più ragionevole che abbia sentito ultimamente» trillò Diane, soddisfatta.
Athos si chiese se non fossero ancora in tempo per sbatterla in prigione, così, a scopo precauzionale.
«Comunque, prima di ogni altra cosa devo parlare con mio zio» aggiunse la ragazza. I moschettieri impallidirono. «No, non di stasera… questioni di famiglia. Disastrose questioni di famiglia».
«Diane?». Treville doveva aver sentito la voce della nipote ed era comparso in fondo al cortile di addestramento, la fronte sudata e la spada tra le mani. Si divertiva ancora a dare qualche lezione alle nuove reclute, qualche volta, quando la montagna di carte sulla sua scrivania si faceva troppo alta da affrontare.
«Zio!». La ragazza si frugò nelle tasche e ne estrasse una lettera piegata in più parti. «Hai avuto qualche notizia interessante?»
«Nessuna. Perché, tu sì?».
«Mi ha scritto il duca. Sta venendo a Parigi. Uccidetemi subito».
Treville diede una rapida scorsa alle poche righe scritte con una bella calligrafia elegante e allungata, poi scrollò le spalle.
«Probabilmente è stato convocato dal cardinale» disse. «Non vedo il motivo di tanta agitazione».
Diane sollevò un sopracciglio con un guizzo. «Tu non lo ricordi bene, il fratello di mio padre, vero?»
«Ricordo quanto basta. Gli riserveremo l’accoglienza che merita un funzionario di Francia e farò in modo che non ti stia troppo con il fiato sul collo. Non ti devi preoccupare di lui, d’accordo?».
La ragazza fece un cenno affermativo, ma non sembrava troppo convinta. Suo zio la salutò, lanciò un’occhiata burbera ai moschettieri che stavano trattenendo sua nipote, e sparì diretto di nuovo verso il cortile di addestramento, facendo roteare la spada nel vuoto con movimenti rapidi.
«Qual è il problema? Sembra che la visita di tuo zio ti stia mettendo in agitazione» domandò Porthos.
«Il duca non era molto d’accordo con il mio ritorno a Parigi»
«E con questo? Non può mica legarti e rinchiuderti per costringerti»
«Lo ha già fatto una volta» rispose Diane, cupa.  
Athos si decise a guardare la ragazza in viso per la prima volta da quando era arrivata  e lei sostenne il suo sguardo per qualche istante prima di abbassare il capo e distogliere gli occhi.
 
***
 
A Diane piaceva indossare quegli abiti. Cercava sempre di vestirsi in maniera comoda, anche a rischio di apparire un po’ sciatta, ma la libertà che le davano un paio di calzoni e una camicia sotto la giubba era inarrivabile e le faceva perdere molta della sua goffaggine.
Guardò il proprio riflesso sulla superficie dell’acqua. Era la prima volta che si specchiava con quei vestiti e le piacque quello che vide. Ora che non aveva dovuto nascondere il viso e i capelli, che non aveva dovuto stringere la camicia e lasciare larghe le chiusure della giacca per nascondere la curva del seno, in un attimo di vanità, trovò che quell’abbigliamento donasse alla sua figura e non si era mai preoccupata troppo del suo aspetto quando si guardava allo specchio nei suoi vestiti di sempre.
Non si era mai preoccupata troppo del suo aspetto in generale. Sapeva di essere considerata una ragazza graziosa, il desiderio di essere bella era una preoccupazione recente, nata con il desiderio di avere un paio di occhi grigi puntati su di sé, occhi che ora avevano smesso di guardarla.
Il riflesso di Aramis comparve accanto a lei, sulla superficie scura e accartocciata dell’acqua.
«Pronta?» chiese il moschettiere.
L’avevano portata ai piedi delle mura cittadine, all’esterno, dove c’era una sottile lingua di terra grigia e fangosa sulla sponda occidentale della Senna. La città sembrava un gigante dietro l’alta muraglia di mattoni corrosi dalle intemperie.
Alla parete avevano appeso dei sacchi di rena e avevano acceso un falò per illuminare la sera che andava infittendosi.
Diane li guardò, tutti e quattro, muoversi silenziosamente sulla sponda di sabbia e sentì un moto di commozione. Nonostante tutto, erano lì, per lei - compreso Athos, malgrado il corredo di espressioni gelide e il silenzio punitivo - ed era più di quanto la ragazza avrebbe mai potuto chiedere. E forse quella sera sarebbe finito tutto, e l’indomani lei avrebbe potuto ricostruire un pezzo alla volta le mura di quell’amicizia dove i suoi segreti avevano aperto crepe e fori.
Aramis le mise in mano una pistola, si sedette su un pilastro sporgente e le mostrò come caricarla. Glielo fece ripetere infinite volte, fino a quando Diane riuscì a farlo quasi senza guardare, con tutti i passaggi nell’ordine giusto, senza rovesciare la polvere da sparo.
«Questa è la parte meno divertente, vero?» disse la ragazza.
«Tanta fatica per un solo momento di soddisfazione, già» confermò Aramis.
Quando la misero di fronte ai sacchi appesi al muro, Diane restò a guardare la canna della pistola che aveva tra le mani, quasi perplessa. «Non puntartela in faccia!» esclamò d’Artagnan. «E non puntarla neanche contro di me»
«Sì, hai ragione, scusa…»
«Adesso ti faccio il riassunto di quello che succederà» intervenne Porthos. «Ti diremo di mirare al sacco, tu penserai di aver mirato, sparerai, sbaglierai e farai, se va bene, un buco nella parete, se va male, in terra»
«E il rinculo ti prenderà alla sprovvista e penserai che faccia male» aggiunse Aramis.
«E tieni il polso ben allineato al braccio, così sembra che tu stia mirando alle nuvole». Erano le prime parole che sentiva pronunciare ad Athos da quando si erano rivisti quella mattina.
Porthos le raddrizzò la spalla.
«Pronta? Vai!».
Il colpo brillò in una lingua rossa che si trasformò subito in uno sbuffo di fumo dall’odore acre e penetrante. Come aveva detto Aramis, il rinculo le vibrò quasi doloroso dal polso alla spalla, come una scossa.
Il proiettile affondò miseramente nella sabbia.
Cielo, non era nemmeno riuscita a tenere il polso abbastanza diritto da colpire il muro.
«Sembra più facile quando lo fanno gli altri» borbottò la ragazza, abbassando contro il fianco il braccio che ancora reggeva l’arma.
«Ricarica. Riprova» rispose Aramis. «Abbiamo ancora un po’ di tempo prima dell’appuntamento al porto». 
 
***
 
Aramis e d’Artagnan avevano controllato il porto quella mattina, sembrava che avesse ripreso la sua normale attività.
I moschettieri erano abbastanza sicuri di trovare quello che stavano cercando. La nave non sarebbe potuta attraccare prima di sera e non si sarebbero azzardati a scaricarla prima della tarda ora, per non dare nell’occhio.
Athos sperò solo che non fosse già tardi. Avevano passato ore sotto le mura per insegnare a Diane a sparare in maniera decente ma ci sarebbero volute settimane per riuscire a fare di lei una tiratrice poco meno che accettabile. Nonostante tutta la pazienza e la buona volontà che Aramis ci aveva messo, attualmente la ragazza non sarebbe stata capace di colpire un elefante fermo a due metri di distanza e nessuno di loro era in animo di trascinarla in uno scontro aperto, anche se sapeva cavarsela con la spada.
Prima di imboccare la via che conduceva al porto, d’Artagnan si fermò accanto a Diane e le sistemò sul viso il bavaglio che la ragazza ora portava attorno al collo come un foulard, le calò anche il cappuccio sulla testa e la guardò, approvando il risultato.
«Se tra quegli uomini c’è anche Jean-Pierre, è meglio che non ti riconosca» disse, infilandole una pistola nella cintola. «E resta sempre vicino a uno di noi».
La ragazza annuì. «Me la caverò» disse, ma la sua voce suonava incerta.
Almeno aveva il buon senso di avere paura.
Sentirono le voci ancora prima di arrivare, troppo trambusto per quell’ora anche per uno scalo mercantile sulle rive della Senna. Si scambiarono un’occhiata: avevano fatto centro.
Arrivarono muovendosi cauti, acquattati nell’ombra delle costruzioni.
La nave, la Cerbero, era attraccata accanto al molo e dondolava in un cigolio di legno e cordame tra le acque tranquille del fiume. Era un mercantile minuscolo e portava i colori della Spagna, ma non era neppure detto che la bandiera fosse vera.
La piazzola del porto era illuminata da un paio di fuochi accesi nei bracieri e alcuni uomini con il volto coperto reggevano lampade per guidare i passi di altri che scaricavano le pesanti casse portandole fino ai carri, tre in tutto, in attesa all’imbocco della piazza.
Gli uomini con le lampade erano in sei - due per ogni carro - e tutti armati. Gli operai ingaggiati per scaricare erano ometti alla stregua dell’amico ladruncolo che Porthos aveva portato alla guarnigione, loro non avrebbero dato problemi.
«Non sappiamo quanti uomini sono a bordo della nave e se si uniranno alle danze» osservò Athos.
«Dovrebbero essercene al massimo altri cinque, non di più» disse Aramis. «Una nave di quelle dimensioni non può avere un grande equipaggio».
«E quelli a terra hanno meno pistole di noi» aggiunse d’Artagnan.
«Undici contro quattro, si può fare» bisbigliò Porthos.
«Contro cinque» disse Diane.
Forse è meglio sparale a una gamba, subito.
La ragazza sorrise sotto al bavaglio e il ghigno le brillò nello sguardo che sembrava lucente come quello di un felino. «Come dite voi moschettieri? Uno per tutti, tutti per uno».
Aveva paura, era evidente, ma la paura invece di frenarla le dava la spinta. Se fosse nata uomo, forse, sarebbe stata un ottimo soldato - di quelli che si lanciano per primi nella mischia e cadono, ma solo dopo aver rispedito al creatore almeno una decina di avversari. 
Athos si limitò a sospirare. «Chi vuole avere l’onore, signori?» domandò, provando a dimenticarsi della presenza della ragazza.
Porthos drizzò la schiena e gonfiò il petto. Uscì dal suo rifugio d’ombra con la pistola già in mano, gli altri lo seguirono con un balzo.
«Moschettieri del re!» tuonò duro e minaccioso. «Controllo portuale a sorpresa. Aprite quelle casse».
Gli uomini che stavano scaricando la merce si bloccarono, incerti. Gli altri sei estrassero le pistole.
Seguì una manciata di istanti di silenzio denso e teso in cui Athos ebbe il tempo di accertarsi della posizione di Diane e di verificare quanto i suoi compagni fossero esposti mentre estraevano a loro volta le pistole e si lanciavano dietro una fila di botti accanto alla casupola della dogana.
Gli spari rombarono nel silenzio della sera conficcandosi nel legno, in una pioggia di schegge e fumo.
Athos si voltò a guardare nella penombra. Gli altri erano illesi e stavano riprendendo fiato.
Diane respirava forte, la stoffa del bavaglio si sollevava e poi si attaccava alla bocca, il suo sguardo era lucido di paura.
C’è una prima volta per tutto. Anche per farsi sparare addosso.
I moschettieri si preparano a fare fuoco da dietro quella piccola trincea improvvisata. Anche la ragazza fece per sollevarsi, Aramis la prese per la manica della giubba e la tenne giù.
Si alzarono quel tanto che bastava a guardare avanti. Gli operai stavano già scappando, le casse con le armi erano ribaltate a terra, gli uomini con il viso coperto stavano ricaricando.
I moschettieri fecero fuoco. Un uomo cadde morto con il petto trafitto al centro esatto dello sterno, un altro fu colpito al fianco e stava agonizzando contro il ciottolato, altri due colpiti alle gambe gemevano e si dibattevano.
Restavano sette contro quattro - cinque! - se avevano fatto bene i conti. Una sfida del tutto affrontabile.
Sapevano che quando sarebbero usciti dal loro riparo, gli altri due rimasti avrebbero fatto fuoco e in pochi minuti si sarebbero trovati addosso anche quelli della nave. Dovevano essere rapidi.
«Abbiamo ancora una pistola carica ciascuno» ricordò d’Artagnan.
«Lasciatene uno vivo da interrogare» si raccomandò Athos, poi si voltò verso Diane e la guardò come se avesse potuto ucciderla sul posto. «Non ti muovere da qui» le ordinò.
I moschettieri scattarono.
Dalla nave saltarono a terra cinque uomini, come aveva previsto Aramis. Solo tre di loro erano armati di pistole ma sembravano tutti piuttosto agguerriti.
I moschettieri si trovarono con l’equipaggio della nave alle spalle e i due uomini superstiti davanti.
Aramis fu il primo a sparare, atterrò uno dei marinai senza lasciargli il tempo di fare fuoco. Porthos sparò, ma mancò il bersaglio nella penombra. D’Artagnan si guardava attorno con aria febbrile, cercando di riconoscere Jean-Pierre in uno degli avversari e restituirgli il favore di una pallottola nel fianco - o magari in mezzo agli occhi.
Gli altri due marinai fecero fuoco e Athos e d’Artagnan risposero.
Un grido strozzato di dolore seguito da un rantolo. Athos vide con la coda dell’occhio Aramis piegarsi in avanti e premersi una mano sul braccio, tra le dita un filo di sangue gli inzuppava il cuoio del guanto.
«Aramis?!». Porthos si voltò verso il compagno con gli occhi sbarrati.
Era solo il braccio, il sinistro, e probabilmente solo di striscio. Aramis poteva ancora combattere, e comunque sarebbe tornato come nuovo.
Sentirono un altro sparo. Non era rivolto a loro.
Si voltarono per vedere uno degli uomini bendati con la pistola puntata contro uno dei compagni rimasti a terra, feriti alle gambe. L’altro uomo scampato alla sparatoria, uccise il secondo ferito, poi entrambi si voltarono e fecero per scappare.
Maledizione!
I moschettieri non fecero in tempo a corrergli dietro, gli uomini della nave gli furono addosso.
Uno sparo, un altro. Sorprese tutti e per un attimo i contrabbandieri e gli uomini del re rimasero immobili, bloccati dallo stupore.
Lo sparo colpì una cassa sul retro di uno dei carri. Cassa, carro e tutto il resto esplosero spargendo schegge e pietre ovunque.
I moschettieri e gli uomini che li avevano attaccati caddero a terra.
Uno dei due uomini in fuga, quello rimasto indietro, cadde con un braccio e un fianco dilaniato dall’esplosione, sarebbe morto nel giro di un minuto, il sangue come un tappeto lucido sul ciottolato.
L’altro era riuscito a scappare.
Athos, ancora mezzo stordito, alzò lo sguardo per cercare di capire cosa fosse successo. Diane, in piedi oltre la fila di botti che avevano usato per rifugio, tremava con la pistola tra le mani.
«Miravo alle gambe di quello lì» esclamò a nessuno in particolare, urlando con le orecchie tappate dall’esplosione. 
Poi non ci fu più tempo.
Distratto dalla ragazza, Athos non aveva visto la lama di uno dei contrabbandieri diretta contro di lui, parò all’ultimo momento e lo scontro si tramutò in una zuffa confusa a metà tra un duello e una rissa da osteria, una cacofonia di tonfi di pugni, ringhi e stridore di lame.
Nella battaglia la mente diventava nuda, non c’erano pensieri o ricordi, c’era solo un susseguirsi di azioni logiche, tra un battito di cuore e l’altro. C’era un avversario, un nemico da abbattere come unico punto fisso, tutto il resto andava fuori fuoco.
La lama di Athos tranciò pelle e tessuto e respiro. L’uomo cadde in terra, stramazzando.
All’orizzonte di quel nugolo di furia e sangue freddo, uno scintillio, la canna di una pistola, e un grido.
«ATHOS!».
Diane.
Lo sparo sembrò smuovere le nuvole.
Il tempo rallentò. Athos vide il lampo rosso del colpo che partiva e poi gli occhi di Diane sul suo viso. E gli ci volle qualche istante per capire.
C’era un altro uomo a bordo della nave, era saltato in coperta in quel momento e aveva fatto fuoco contro il moschettiere. Diane lo aveva visto e non potendo fermare lo sparo, aveva deciso di fermare il proiettile.
Eppure adesso Athos si sentiva come se quel colpo lo avesse centrato in pieno petto, adesso che gli occhi di Diane velati di dolore e paura si chiudevano e lei cadeva ai suoi piedi.
L’afferrò per le spalle prima che rovinasse al suolo e scrutò il suo viso esangue senza riuscire a emettere un suono. Sentì il caldo appiccicoso del sangue tra le dita, che impregnava il tessuto del guanto e la stoffa del polsino della camicia. Un sacco di sangue.
«Aramis!» gridò.
Dietro di lui, i suoi tre compagni stavano tenendo testa agli ultimi contrabbandieri troppo caparbi per morire o arrendersi. Aramis ne lanciò uno tra le braccia di Porthos, assestandogli un calcio nello stomaco, e si precipitò da Athos, chinandosi a terra accanto alla ragazza. Il suo braccio non sembrava messo troppo male, ma in mezzo a quel fracasso doveva essersi beccato qualche brutto colpo perché aveva il sopracciglio sinistro spaccato e sanguinante.
«Portala via» sibilò Athos mentre il rosso del sangue gli danzava davanti agli occhi in scintille pulsanti che gli annebbiavano la vista.
Aramis tastò con le dita la schiena di Diane per cercare il foro di entrata del proiettile e provare a capire perché stesse perdendo così tanto sangue.
«Dio, fa’ che non abbia raggiunto il cuore» mormorò in un sospiro così leggero che davvero solo Dio avrebbe potuto udire.
«Portala via di qua, salvala» disse Athos. Un attimo dopo era già in piedi, la spada sguainata, diretto verso l’uomo che aveva fatto fuoco contro di lui e colpito la ragazza. Ora aveva scavalcato il parapetto della nave per scappare attraverso la piazzola del porto.
Ma quel pendaglio da forca non sarebbe scappato, non sarebbe nemmeno sopravvissuto a quella notte.
 
 

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Capitolo 20
*** Una lunga nottata ***


XIX
Una lunga nottata

«Aramis, ma cosa…»
«Mi dispiace, Constance…»
«Oh Dio!»
«… non sapevo dove altro portarla. E mi serve una mano».
 
Le voci galleggiavano da qualche parte nel buio, sospese tra il nero soffocante e il dolore che la trapassava serpeggiando in ogni muscolo.
Dentro quel buio, era come annegare in un lago di liquido denso che le impediva i movimenti e le toglieva il respiro. Provò a dibattersi ma sentì solo altro dolore, più forte, un artiglio che le scavava la carne.
Odore di metallo e sangue e sudore che toglieva aria.
Provò ad aprire la bocca, a urlare, ma il corpo non rispondeva alla sua volontà e l’urlo rimase solo nella sua testa.
Un sentore di lenzuola pulite si mischiò a quel tanfo mortifero, poi tornò il buio, solido e impietoso. La soffocò e la spinse giù, in fondo, sempre più in fondo dove le voci non potevano arrivare e dove persino il dolore era una sensazione sbiadita.
Diane smise di lottare e si lasciò andare a quella vertigine.
Riemerse di colpo, dopo, un dopo che sembrava distante una vita intera.
Sulla sponda della sua coscienza brillavano candele e lampade a olio.
La ragazza emise un singulto. Il dolore la paralizzò così come la consapevolezza di essere ancora viva.
La prima cosa che vide furono un paio di mani che riemergevano da un catino di ceramica bianca e si asciugavano in un panno chiazzato di sangue - il suo. Il luccichio di un crocifisso di pietre incastonate balenò a margine del suo campo visivo.
«A- Aramis».
Il moschettiere, viso pallido e manica sinistra completamente zuppa di sangue, si chinò su di lei, chiuse gli occhi un istante e si segnò con un sospiro che vibrava di gratitudine.
«Come ti senti?»
«Fa male…». Diane sentì le lacrime salirle agli occhi, le sembrava infantile piangere di dolore eppure non riuscì a impedirselo.
«Sì, è l’effetto che fa un foro di proiettile, anche dopo che il proiettile è stato estratto» spiegò il moschettiere con una dolcezza paziente nella voce. «Ti conviene dormire. Possiamo cercare qualcosa di abbastanza forte da stordirti come si deve, ma almeno sei rimasta svenuta per tutto il tempo che mi ci è voluto per estrarre la pallottola».
Diane boccheggiò. Cercò di non pensare al male, si concentrò sui particolari della stanza, quella dove era rimasta l’ultima settimana a casa Bonacieux.
Oddio, povera Constance…
I suoi vestiti erano piegati su una sedia. Se avesse avuto abbastanza sangue in corpo, sarebbe arrossita.
Aramis intercettò il suo sguardo e decifrò la sua espressione imbarazzata sul viso sudato.
«Sì, ehm, Diane, mi dispiace» esordì il moschettiere, titubante.
«Direi che l’istinto di sopravvivenza conta più del pudore. Mi hai salvato la vita»
«E tu l’hai salvata ad Athos, ma non ti stavo chiedendo scusa per averti spogliata - operazione nella quale Constance ha ampiamente contribuito con tutto il corollario di discrezione femminile che la situazione richiedeva e, ehm…»
«Aramis… mi fa così male la ferita che voglio morire, non mettermi ansia, cosa succede?».
Una bussata alla porta, all’improvviso. Il cuore di Diane le si contrasse nel petto nudo, stretto nelle bende della medicazione.
Aramis indicò la porta con un gesto goffo, un attimo prima che si aprisse e il capitano Treville entrasse nella stanza come una furia.
«Ecco, era per quello che ti chiedevo scusa» bisbigliò il moschettiere. «Ho dovuto dirglielo».
Constance sulla soglia si alzava sulle punte per riuscire a guardare oltre la spalla del capitano dei moschettieri. Sospirò quando vide che Diane aveva aperto gli occhi.
E gli altri? Dov’erano Athos, Porthos e d’Artagnan?
Per un attimo sembrò che tutto fosse fermo, come lo sfondo di un ritratto, cristallizzato in un’immobilità innaturale.
Se il dolore che mordeva tra le scapole non fosse stato così forte, Diane non sarebbe stata nemmeno sicura di essere viva.
«Zio…» mormorò.
Treville spostò lentamente lo sguardo dal letto al viso di Aramis. «Lasciaci soli» ordinò in tono asciutto.
No, non farlo.
Il moschettiere rivolse un’ultima occhiata alla ragazza prima di defilarsi, chiudendo silenziosamente la porta dietro di sé.
Sotto le coperte, Diane strinse i pugni, conficcandosi le unghie nei palmi.
Il capitano mosse qualche passo, prese una sedia che era appoggiata contro il muro e la sistemò accanto al bordo del letto. Quando si mise a sedere, quasi lasciandosi cadere, la ragazza si accorse che era stanco, che la sua espressione dura e fredda di poco prima si era sciolta per lasciare il posto a una maschera di rammarico.
«Era proprio necessario arrivare a tanto?» le chiese. Non c’era alcuna nota di rimprovero in quelle parole, solo una triste incredulità.
«Non c’era altro modo» disse Diane.
«Avresti potuto dirmi tutto, fin dall’inizio»
«E tu cosa avresti fatto?»
«Me ne sarei occupato, con qualsiasi mezzo».
La ragazza scosse il capo per quel poco che le riuscì. Suo zio continuò.
«Tutto questo è più grande di te, Diane. Ed è un miracolo che tu non sia rimasta uccisa, stanotte» esclamò. «E quei quattro sconsiderati… non provare a dirmi di non prendermela con loro, ci rimetterei quel po’ di salute mentale che ancora mi rimane!»  
«A loro difesa posso dire che non è stato facile convincerli». Diane deglutì, cominciava a sentire la testa in fiamme e la stanchezza che le irrigidiva i muscoli. «Dove sono Athos, Porthos e d’Artagnan?»
«Non lo so, non sono ancora tornati. E credo sia meglio che non li abbia davanti in questo momento».
Quanto tempo era passato da quando era lì? Com’era possibile che i moschettieri non avessero ancora fatto ritorno dal porto?
La nipote del capitano chiuse gli occhi, provò a calmarsi e a rimanere lucida. Quando li riaprì puntò lo sguardo in quello di suo zio.
«Ti voglio bene» gli disse, con la voce impastata e resa roca dal dolore. «E non avrei mai voluto darti un simile dispiacere, ma non mi fermerò fino a quando Legrand non sarà sul patibolo, questo devi saperlo»
«Io non…»
«Certo, puoi sempre farmi rinchiudere, il duca ne ricavò qualcosa dopotutto».
Erano parole astiose e crudeli, dettate dal dolore, dal senso di sconfitta, dallo stordimento, dalle tante cose da cui Diane si sentiva sopraffatta.
Treville le prese la mano da sopra le lenzuola e la strinse. La ragazza sentì tutta l’angoscia di suo zio in quella presa. Era un soldato, era abituato a servire e proteggere, ce l’aveva fatta con qualcosa di maestoso ed etereo come un Paese, una bandiera, e ora invece la vita di sua nipote gli era quasi scappata tra le dita. I segreti di Diane erano nemici che non aveva potuto affrontare e tutta quella storia doveva apparirgli come una battaglia persa in partenza.  
Restarono a guardarsi, senza dire niente.
Constance schiuse la porta e lanciò un’occhiata all’interno prima di entrare.
I contorni della stanza cominciavano a essere sfocati.
La padrona di casa aveva in mano un piccolo bicchiere con dentro un liquido ambrato.
«Ora è meglio che riposi» suggerì, guardando il capitano con aria quasi autoritaria.
Si avvicinò al letto e aiutò la ragazza a sollevare la testa, versandole tra le labbra aride il contenuto del bicchiere. Era alcolico, forte, bruciava nella bocca e le salì immediatamente alla testa.
Treville si avviò verso la porta con aria esitante. Si voltò un attimo verso il letto prima di uscire.
«Se questo è davvero l’unico modo, allora dovremo trovare la maniera di farlo funzionare un po’ meglio» concluse.
Diane non riuscì ad afferrare il senso della frase. Ricadde con la testa contro il guanciale e fissò Constance con occhi smarriti.
Il liquore le stava facendo provare un senso di torpore soffocante.
«Dove sono gli altri tre? Perché non sono ancora tornati?» disse, piagnucolando. Non voleva addormentarsi senza sapere.
«Aramis ha detto che andava tutto bene quando ti ha portato via, avevano tutto sotto controllo» disse Constance. «Non ti devi preoccupare».
Perché tutti possono preoccuparsi per me ma io non devo mai preoccuparmi per loro?
Un pensiero stupido, l’ultimo barlume di luce prima che il buio tornasse a inghiottirla.
 
Sprofondò nel sonno come dentro a un pozzo, ma era una caduta che non finiva mai.
C’era ancora il porto, la Senna era un fiume di sangue che scintillava sotto la luce dei fuochi e lei era persa e sola in quella notte senza stelle. Vagò per la città deserta fino a cadere esausta sul ciottolato.
Enormi cani neri emersero dal buio, si avvicinarono ciondolando e lei seppe che doveva scappare ma non riusciva ad alzarsi.
I cani le giravano attorno, annusandola e sfiorandola con i nasi umidi, la bava schiumosa che colava dai musi scuri. Poteva sentire il loro respiro fetido su di sé.
Quel respiro divenne un basso ringhio e poi un verso graffiante e feroce. Quando si avventarono su di lei, Diane aprì gli occhi.
Riemerse dall’incubo e il buio era ancora lì, ma era leggero, sicuro.
Non c’erano bestie mostruose annidate nell’ombra, ma la ragazza percepì nettamente una presenza accanto a lei. Voltò piano la testa e distinse una figura seduta sulla sedia che Treville aveva lasciato vicino al letto.
C’era da aspettarselo che suo zio sarebbe rimasto lì tutta la notte.
Il dolore non l’aveva abbandonata, ma era abbastanza stordita da non sentirlo troppo forte.
«Ti stavi lamentando, quasi urlavi» disse l’ombra nel buio.
«Athos?…».
La voce del moschettiere suonava ovattata e stanca.
Diane cercò di mantenersi lucida, di mettere a fuoco i pensieri che danzavano in mezzo a spirali di nebbia nella sua testa. Provò a sistemarsi meglio sul guanciale, una fitta lancinante la paralizzò e la convinse a restare dov’era.
«Cosa è successo? State tutti bene?» domandò.
«Stiamo bene. Staremmo meglio se fossimo riusciti a prendere vivo qualcuno degli uomini del conte. Sono sopravvissuti tre contrabbandieri, li abbiamo portati allo Châtelet, siamo rimasti a interrogarli, ma non sanno a chi stavano davvero vendendo quelle armi. Ancora una volta non abbiamo prove, mi dispiace».
Era facile parlare di quelle cose, più facile che pensare all’idea di essere da sola con Athos.
«Ma tu ora non devi preoccuparti di questo» concluse il moschettiere.
«No, quella di preoccuparvi abbiamo già stabilito essere una vostra prerogativa» tentò di scherzare Diane.
Athos non rispose. Respirò pesantemente e tirò indietro la testa, piegandola contro la spalliera della sedia. Il suo sguardo era lucido, forse per l’alcool.
«Perché lo hai fatto?» chiese piano.
Era una domanda che non meritava risposta. Lo sai perché.
O forse no, non lo sapeva. Forse per indole o per esperienza, Athos pensava che non si potesse amare qualcuno e tenergli nascosto qualcosa. E anche adesso che non c’era più niente da nascondere, l’idea, per lui, doveva essere inarrivabile.
«Ho pensato che beccarmi una pallottola fosse una buona idea, da lì sarebbe stato tutto in discesa». Diane avvertì una freddezza non voluta nelle sue stesse parole.
Il moschettiere si alzò con fare stizzito, rischiando di rovesciare la sedia.
«Non dovevi farlo, non per me» sibilò, dirigendosi a passi nervosi verso l’uscita. «Non sono così importante» concluse uscendo e richiudendo con uno scatto la porta dietro di sé.
Diane rimase sola con il buio come unica compagnia. Quando il sonno pesante e appiccicoso tornò a sommergerla si chiese se quello scambio con Athos non facesse anch’esso parte del sogno.     
 
***
 
Il silenzio nel salotto di casa Bonacieux era al limite del sopportabile.
Per fortuna il marito di Constance era partito all’improvviso quello stesso pomeriggio, altrimenti quella nottata sarebbe stata ancora più impossibile.
La donna andava e veniva, come se a quell’ora tarda, con la sala invasa dai moschettieri, si fosse rammentata di mille faccende casalinghe da sbrigare.
Aramis si era medicato il braccio, ma il sangue sulla manica della sua camicia spiccava come una grande macchia opaca.
Athos, Porthos e d’Artagnan sedevano a spalle curve, sudati, sporchi e stanchi.
Per niente, tutto per niente…
Il capitano Treville camminava su e giù davanti al camino, il mento sprofondato nel petto e lo sguardo fisso. Il ticchettio ritmico dei suoi passi era l’unico suono a spezzare quell’immobilità tesa e silenziosa.
Athos pensò che stava per mettersi a urlare, gridare al capitano di dire loro quello che aveva in mente, spedirli diritti diritti verso un plotone di esecuzione e che non se ne parlasse più.
Era difficile credere che Treville potesse perdonargli anche quella bravata. Non si trattava di una zuffa con le guardie del cardinale, di una trasgressione ai comandi o al volere del re, era qualcosa che andava oltre. Avevano tradito la sua fiducia tenendogli nascoste le imprese di Diane, proprio come la ragazza aveva tradito loro.
Li aveva traditi, aveva mentito e manipolato. E poi si era beccata una pallottola nella schiena per salvare lui. Nella visione molto lineare che ad Athos piaceva avere del mondo, l’incidente di quella sera era una crepa sulla superficie di uno specchio che spezzava l’immagine in tanti riflessi e in ogni riflesso c’era una sfumatura diversa e inafferrabile.
Treville si fermò al centro della stanza, all’improvviso, come un pendolo che smette di oscillare, alzò lo sguardo e fissò uno ad uno i quattro moschettieri.
«Non vi chiederò perché lo avete fatto, se sentissi anche solo una scusa stupida potrei spararvi seduta stante» disse cupo.
Nessuno di loro parlò.
Non c’erano scuse stupide e nemmeno motivazioni valide. Non c’era stato modo di fermare Diane, si era immischiata in quella situazione come una ragazza curiosa del mondo dopo tanti anni di reclusione in un collegio, un travestimento che le calzava a pennello come quegli abiti da uomo. Loro non potevano immaginare che fosse molto di più, molto più folle e infida e testarda e coraggiosa.
Sulla porta a destra del tavolo, Constance Bonacieux si era fermata con il fianco appoggiato allo stipite, ad ascoltare con aria ansiosa. Anche lei si sarebbe parata tra loro e una pistola se Treville avesse deciso di sparare davvero contro i suoi uomini.
Athos rammentò di aver chiesto a Diane perché lo avesse fatto. Realizzò quanto tutta quella situazione lo avesse reso stupido.
«Immagino che non ci sia modo di tornare indietro» continuò Treville. «Mia nipote si è spinta troppo oltre e l’unica soluzione che riesco a immaginare per fermarla è rinchiuderla da qualche parte, ma non posso farle subire di nuovo una cosa del genere»  
«Ah, perché, c’è già stato qualcuno che l’ha rinchiusa?» si fece scappare d’Artagnan.
Il capitano gli lanciò uno sguardo assassino per zittirlo.
«Forse dovrei avere la mano ferma del duca de Leroux, e non solo con mia nipote» commentò asciutto. Si passò una mano sulla fronte prima di continuare. «Se proprio Diane deve proseguire su questa strada tanto folle, tanto vale che lo faccia sotto la mia supervisione».
I moschettieri annuirono senza essere certi di aver capito. Il capitano proseguì con il suo monologo.
«Ciò non toglie che il conte Legrand vada smascherato, arrestato e possibilmente impiccato, se tutto quello che ha detto Diane è vero».
Se tutto quello che aveva detto Diane era vero, il conte Legrand aveva fatto uccidere la sorella di Treville. Un motivo in più perché finisse sul patibolo.
Porthos alzò la mano con fare titubante, chiedendo il permesso di parlare come in mezzo a un gruppo di scolaretti.
«E per tutto questo c’è un piano, giusto?» chiese un po’ perplesso.
«Non ancora. Mi aspetto che ve ne facciate venire in mente uno quanto prima».
Aspettate che Diane si riabbia dalla convalescenza… probabilmente la ragazza stava già pensando alla prossima mossa da fare. Ora che tutte le carte erano state scoperte e che avrebbe avuto persino la benedizione di Treville per agire alla luce del sole, sarebbe stata inarrestabile. E pericolosa…
«E riguardo a Diane?» chiese Aramis.
«Avete già provato a insegnarle a sparare, no? Continuate così»
«Così come?». D’Artagnan spalancò gli occhi.
«Spada, pistola, dovrà pur imparare a usarle in modo decente se è tanto caparbia da voler fare la guerriera solitaria»
«E dovremmo insegnarglielo noi?» fece Porthos.
Treville corrugò la fronte. «Ma no, lo faremo fare a qualcun altro al quale racconteremo tutta la storia» sbottò. «Certo che dovete farlo voi!»
«Con tutto il rispetto, signore, vostra nipote non è un soldato» esclamò Athos, aprendo bocca per la prima volta dopo ore, con un fare drastico che mal si conciliava con la situazione in cui si erano cacciati lui e i suoi compagni.
«Se solo ve lo foste fatto venire in mente prima di trascinarla in una sparatoria» lo rimbeccò Treville mellifluo.
«Le avevamo detto di rimanere al riparo…» insistette Athos, senza preoccuparsi di irritare ulteriormente il capitano.
«Certo, perché notoriamente Diane è una che dà ascolto agli altri»
«… era al sicuro, è uscita fuori per salvare me!» continuò il moschettiere.
Prendetevela con me e con nessun altro. Non sono riuscito a convincere gli altri a tenerla fuori, non sono riuscito ad allontanarla quando avrei dovuto. Non sono riuscito a tenerla al sicuro!  
Aramis, Porthos e d’Artagnan voltarono il capo verso di lui nello stesso momento. Le loro espressioni sembravano dire che quel particolare sarebbe stato meglio non rivelarlo.
Treville aveva l’aria di uno che da un momento all’altro si sarebbe messo a picchiare la testa contro la mensola del camino. Alla fine, si stropicciò il viso con le mani e sospirò.
«Se non fossi totalmente sicuro dell’affetto che voi quattro sconsiderati provate per Diane vi avrei già spediti in mano alla corte marziale» concluse. «Ora andate a farvi una dormita, maledizione, sembrate dei rottami. Appena mia nipote si sarà ripresa ci occuperemo di come salvarla da se stessa e di tutto questo schifoso ginepraio».
Il capitano afferrò il cappello che aveva lasciato sul tavolo e si diresse verso la stanza dove sua nipote riposava, quasi travolgendo madame Bonacieux sulla porta.
I moschettieri restano a fissare il punto da dove Treville era sparito.
«Ho la sensazione che sarebbe potuta andare peggio» mormorò Constance, entrando nella stanza con un secchio di metallo da mettere sul fuoco e dei teli di lino gettati di traverso sulla spalla. «Vi metto a scaldare dell’acqua, datevi una ripulita e poi andate a dormire. Non voglio vedere moschettieri per almeno un mese».
«Non è la prima volta che te lo sento dire» rispose d’Artagnan, trovando chissà dove la forza d’animo di fare dello spirito.
Athos si alzò e andò alla finestra. Guardare Parigi avvolta nel silenzio quieto della sera lo aiutò a non pensare a quello che era successo - e a quello che doveva ancora succedere. Ma neanche un’intera botte di vino avrebbe tenuto lontano i pensieri, ormai.
Dopo qualche minuto avvertì il rumore di passi dietro di sé, riconobbe il riflesso pallido di Aramis sulla superficie lucida del vetro.
«Tu lo sai che tutto questo non è colpa tua, vero?» disse Aramis, piano.
«Perché mai dovrei pensarlo?» Athos arricciò le labbra, il sarcasmo nelle sue parole era aspro come vino scadente.
«Se proprio vogliamo stare qui a deprimerci, allora dovremmo dire che ognuno di noi ha un quarto di colpa, ma chi ha voglia di fare i conti?»
«Siamo stati solo fortunati che non sia andata peggio».
Aramis sbuffò. «Fattela passare» tagliò corto. «Abbiamo un sacco di lavoro da fare». 
 

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Capitolo 21
*** Un ospite di troppo ***


XX
Un ospite di troppo
 
 
Diane sparò.
Nella frazione di secondo che le servì per premere il grilletto, il mondo attorno a lei si dissolse una nuvola di colori confusi.
Per la prima volta, il proiettile colpì il bersaglio a sei metri di distanza aprendo un foro fumante in uno dei cerchi dipinti sul bersaglio.
«Oh, grazie a Dio…» sussurrò Aramis con un sollievo a metà tra lo stupore e l’esasperazione.
«Guarda che ti ho sentito» disse Diane.
Il moschettiere scosse il capo. «Ti giuro, se riesci a rifarlo per almeno tre volte di fila ti pago una sbronza»
«E se arrivo più vicina al centro mi tieni anche su la testa mentre vomito?».
Erano passate due settimane dalla missione al porto. La ferita dietro la schiena di Diane aveva smesso di pulsare e tirare da poco; la ragazza ricordava quasi con orrore il dolore soffocante della carne dilaniata dal proiettile. Constance le aveva assicurato che la cicatrice non era troppo brutta, Aramis era stato bravo a ricucirla, ma quando la ragazza allungava la mano tra le scapole sentiva un rigonfiamento raggrinzito a forma di V sotto i polpastrelli, un bel ricordo da portare.
Era rimasta sorpresa quando suo zio le aveva detto che voleva insegnarle a difendersi e che i moschettieri erano disposti a darle lezioni - più che disposti, erano stati costretti.
Che le armi da fuoco non fossero la migliore attitudine di Diane era stato chiaro da subito, ma la ragazza aveva tutta l’intenzione di provare fino a quando non fosse diventata una tiratrice quanto meno decente.
Non contava che sparare e tirare di scherma non le sarebbero più serviti in futuro, quando tutta quella storia fosse finita, ma quella era la sola condizione che Treville aveva richiesto per lasciarla in gioco e  permetterle di portare a termine il suo piano.
Il suo piano ora era un orizzonte in attesa. Con l’attacco al porto, il conte Legrand doveva aver capito di aver attirato troppo l’attenzione e anche se non poteva essere sicuro che i moschettieri sapessero del suo coinvolgimento, di certo per un po’ avrebbe messo fine ai suoi traffici e se ne sarebbe stato buono nel suo travestimento di lupo mascherato da agnello.
Le occasioni per incastrarlo erano sfumate e forse ci sarebbe voluta una vita prima che se ne ripresentassero di nuove.
Diane ci pensò con rabbia mentre ricaricava la pistola. Pensò a lui, al conte, mentre prendeva la mira e sparava, immaginò che il bersaglio di legno fosse il suo petto grasso da tacchino.
Il colpo andò a segno, anche se era solo di pochi centimetri più vicino al centro rispetto al precedente. 
Se la sua vendetta si fosse ridotta a uccidere Legrand, Diane l’avrebbe già compiuta da un pezzo, senza lezioni di tiro e di scherma, senza l’aiuto dei moschettieri.
Al terzo colpo, non ottenne risultati migliori dei due precedenti. Abbassò la pistola con fare stizzito.
«Calma» si raccomandò Aramis. «Nessuno è diventato un bravo tiratore dal giorno alla notte e tu hai già fatto qualche progresso»
«Sono in ritardo su tutta la linea, immagino che a voi maschi venga insegnato molto presto a sparare».
Il moschettiere scrollò le spalle e le passò una pistola già carica. «Io accompagnavo mio padre a caccia, ho iniziato presto, sì. Anche se i miei preferivano vedermi con un breviario in mano invece che con un fucile»
«Immaginarti prete mi riesce più difficile che pensare di poter centrare il bersaglio»
«A volte penso a quanto più facile sarebbe stata la mia vita, facile e…»
«… noiosa» terminò Diane per lui. «Come lo sarebbe stata la mia se fossi rimasta in Italia».
Un pensiero le attraversò la mente, un pensiero angoscioso e soffocante più dei tanti fantasmi che l’avevano tormentata nelle notti passate. Non rimpiangeva Roma, anzi quella città era lontanissima dai suoi pensieri, ma sapeva che vi aveva lascito promesse e conti in sospeso e un giorno avrebbe dovuto affrontare tutto questo come ora stava affrontando la sua vendetta.
«Non pensi di tornarci, dopo?» chiese Aramis a bruciapelo.
Diane distolse lo sguardo. Quella domanda andava a intrecciarsi con le sue riflessioni lì dove il cuore bruciava. «Immagino che dovrò farlo»
«Ah. Pensavo avessi trovato buoni motivi per restare»
«Il mio buon motivo è sfumato la sera che mi ha strappato la maschera, Aramis, non prendiamoci in giro» sospirò Diane, rassegnata e senza alcuna malinconia. «In Italia potrei avere ancora qualcosa che mi aspetta…».
La ragazza sollevò il braccio, allineò il polso come le avevano insegnato, puntò lo sguardo dove finiva la linea diritta tra la canna della pistola e il bersaglio, ma il mondo non si dileguò stavolta, restò lì con tutta la sua ingombrante presenza di rumori e colori. La concentrazione era sparita; Diane abbassò il braccio senza sparare.
«Come stiamo andando qui?». La voce di suo zio mandò via anche quegli ultimi scampoli di calma che erano rimasti. Athos, Porthos e d’Artagnan comparvero al seguito del capitano.
Passato l’attimo di sconvolgimento e la paura per aver quasi perso la ragazza, Treville aveva preso ad affrontare quella situazione con estrema lucidità, con il suo consueto buon senso aveva stabilito che se non poteva fermare sua nipote, allora doveva assecondarla: era preferibile avere voce in capitolo e tenere d’occhio la faccenda, piuttosto che esserne tagliato fuori come era stato fino a quel momento. Probabilmente non ci dormiva la notte, ma riteneva fosse meglio restare sveglio per un buon motivo piuttosto che dormire nella beata ignoranza.
Aramis si alzò in piedi dal piano della botte su cui era appollaiato. «Fa progressi, come qualsiasi giovane apprendista moschettiere. Anzi, ne ho visti di più lenti di lei».
Il capitano guardò con aria scettica il bersaglio con i due fori a una distanza troppo grande dal centro.
«Ti è stato spiegato che in genere i bersagli a cui si spara quando si combatte davvero sono in movimento?» disse.
Diane fece una smorfia. «Vuoi farmi esercitare sulle galline di Serge?».
Suo zio scosse il capo. «Mi piace immaginare che tu non sparerai mai a nessuno, in ogni caso» ammise. Tutta la questione dell’allenamento era solo una precauzione, almeno nelle speranze di Treville. «Comunque, una volta ti dissi che mi sarebbe piaciuto vedere come te la cavi con la spada». Staccò dalla griglia nell’angolo del cortile di addestramento due spade senza affilatura e ne porse una a sua nipote.
Quello era un terreno su cui Diane si sentiva assai più sicura. Forse non era in grado di tenere testa a un vero soldato in un vero scontro, ma sapeva senz’altro dove mettere le mani.
Impugnò l’arma e ne guardò la lama smussata. «Sapevo che prima o poi ti sarebbe venuta voglia di darmi una lezione» mormorò con un mezzo sospiro.
«Io? Oh, no, ci mancherebbe, sono vecchio per queste cose e non sarei un avversario all’altezza» rispose il capitano con una certa enfasi. «Athos, ti spiace?».
Athos alzò la testa con l’aria di uno che era stato appena svegliato da una lunga dormita. Non era stato molto partecipe agli allenamenti di Diane e, anzi, nelle due settimane dopo quella notte al porto, loro due si erano a stento rivolti la parola. Ritenevano entrambi di non avere molto da dirsi.
Ora il moschettiere stava facendo vagare lo sguardo tra la ragazza e il capitano con un’aria che diceva chiaro e tondo: “perché io?!”.
Il perché in realtà era più che ovvio.
Farla combattere con il miglior spadaccino del reggimento - e forse anche dell’intera Francia - e quindi umiliarla con una pessima figura era senz’altro un modo che Treville aveva escogitato per punirla per le sue bravate e, dopotutto, Diane pensò che era meno di quanto meritasse anche se non riusciva a non sentirsi indispettita.
Athos, era chiaro, riteneva molto più sicuro e sbrigativo ovviare alla sicurezza di Diane rinchiudendola da qualche parte. Aveva sempre voluto averla fuori dai piedi e ora lo voleva più che mai.
Quando la ragazza lo vide prendere la spada da addestramento che Treville gli porgeva, le salì il sangue alla testa.
«Posso occuparmene io?» si intromise d’Artagnan, allungano la mano perché Athos gli consegnasse la spada.
Caro ragazzo, no, non puoi…
«Non ne vedo la ragione» disse Treville con un certo sussiego.
Athos si era già parato di fronte a Diane e la guardava senza alcuna espressione. Lei respirò lentamente cercando di farsi passare la voglia di spaccargli quella faccia imperturbabile.
«Mi sembra giusto» disse la ragazza con un sorrisino tirato, «questo è lo spareggio. La prima volta che ci siamo affrontati ho vinto io, la seconda ha vinto lui»
«La prima volta non hai vinto, sei scappata» mormorò Athos come se stesse rimarcando un concetto ovvio, forse quello che era sempre stato il suo pensiero a riguardo: non sei capace, non sai pronta. «E la seconda volta…»
«La seconda volta mi stavo preoccupando di non farti del male» ribatté lei.
Treville aggrottò le sopracciglia davanti a quello scambio da galline di cortile. Gli altri tre moschettieri si scambiarono occhiate allarmate e imbarazzate insieme, poi indietreggiarono per portarsi alle spalle del capitano, come a proteggersi da quello che stava succedendo. 
«Sì, be’… io avevo in mente un paio di tiri giusto per provare» fece Treville. Di colpo non era più tanto sicuro di quello che stava succedendo o che la sua fosse una buona idea. 
Diane attaccò all’improvviso, Athos riuscì a parare per un soffio. Si avvicinarono premendo le lame l’una contro l’altra, poi si staccarono. Si guardarono, girando in tondo con passi lenti, l’uno di fronte all’altra.
Athos inclinò la testa con aria seccata. Doveva trovare tutta quella faccenda assolutamente noiosa e superflua.
Diane lo attaccò di nuovo, finse di sbilanciarsi verso sinistra pensando di poterlo prendere di sorpresa vibrando poi da destra. Di nuovo lui parò senza alcuno sforzo e la respinse con una scoccata energica che le fece sentire un senso di irritazione frustrata. Lo attaccò di nuovo, spinta come una molla, senza pensare.
Con un movimento veloce e leggero che la ragazza non capì, il moschettiere l’aveva già disarmata. 
La spada cadde rimbalzando contro il terreno.
Erano bastati pochi minuti e lo scontro si era concluso piuttosto miseramente.
Diane lanciò ad Athos uno sguardo astioso, lui si voltò per andare a posare la spada sulla griglia. La ragazza si chinò a raccogliere la lama caduta.
«Dove credi di andare? Non abbiamo finito» borbottò. Si rese conto di suonare infantile e petulante, ma non le importava. Se Athos e suo zio volevano darle una lezione, allora il moschettiere si sarebbe dovuto impegnare molto più di così.
«Non ti serve un duello alla cieca» disse lui con indolenza, senza nemmeno voltarsi. «Ti manca la tecnica e la disciplina necessaria»
«Non costringermi ad attaccarti mentre sei di spalle. Ti ho avvisato».
Il vento rimescolò la polvere e fece scricchiolare la struttura di legno ai lati del cortile.
«Che piacevole reminiscenza» sospirò Aramis, poggiandosi col gomito alla spalla di Porthos. Entrambi voltarono il capo verso d’Artagnan che restituì loro un’occhiata truce.
Treville, per conto suo, continuava a osservare basito i duellanti.
La ragazza fece fischiare la lama nell’aria. Athos si voltò mettendosi in guardia.
Con calma, pensò lei, la voce di Sebastiano che si mischiava a quella della sua mente. La rabbia non è tua amica mentre combatti.
Le spade cozzarono con un suono violentissimo. Diane sapeva che lui avrebbe vinto di nuovo, non voleva batterlo, voleva solo dimostrare di riuscire a tenergli testa e per farlo non doveva pensare a quanto lui la facesse infuriare e quanto male le facesse l’averlo perso, non doveva guardare gli occhi grigi che ogni tanto si fermavano nei suoi da dietro l’elsa della spada.
Gli affondi di Athos erano precisi, forti senza essere brutali, se fossero stati appena più violenti, l’urto gli avrebbe fatto saltare la spada dalle mani, invece lui sapeva calibrare con precisione la giusta dose di forza.
Diane contava i respiri tra un luccichio di lama e l’altro. Prendeva aria dalle narici per non ritrovarsi senza fiato e investire in velocità tutto quello che le mancava in bravura.
Athos non le dava tregua, non le lasciò neppure il minimo spazio di manovra per contrattaccare, ma lei riuscì a parare ogni colpo e a evitarne altri.
Sentì il sudore scorrerle sulle tempie e sulla schiena. Anche il volto del moschettiere era arrossato e lucido.
Diane approfittò di una sua esitazione, la frazione di secondo che Athos si concesse per riprendere fiato, per attaccarlo. Le lame stridettero così forte da far male ai denti.
Athos le bloccò il polso in una stretta tanto salda da farle male. Erano vicini, vicinissimi come non lo erano più stati da quella notte di tempesta, e come quella volta i respiri si mescolavano sui loro visi arrossati. 
Perché il mondo non era finito quella notte?
Diane sentì un gelo di angoscia e pianto stringerle lo stomaco, mischiarsi dolorosamente al fuoco della rabbia.
Perché Athos non poteva gettare le armi e baciarla? Anche lì, davanti a tutti…
Perché non c’era altro nei suoi occhi di piombo se non quella furia mitigata dalla tristezza tanto quanto dalla disciplina?
«Basta!» tuonò Treville. «Smettetela».
Il moschettiere e la ragazza si staccarono, indietreggiando ognuno di un passo.
Aramis, Porthos e d’Artagnan avevano le facce congelate in un’espressione stravolta e le labbra serrate.
Il capitano reggeva tra le mani un foglio e il suo viso non tradiva nessuna emozione particolare. Il ragazzo che gli aveva consegnato la missiva si stava allontanando oltre l’angolo.
«Per oggi abbiamo finito» annunciò Treville, guardando sua nipote. «Mi è arrivato il messaggio che il duca de Leroux sarà a Parigi tra un’ora»
«Oh, merde…» si lasciò scappare Diane.
«Modera il linguaggio!» la riprese suo zio. «Andate tutti a rendervi presentabili, ho detto al cardinale che avremmo scortato noi il duca a palazzo». 

 
***
 
Il luogo dell’appuntamento con la carrozza del duca era un ritaglio di prato poco distante dalle mura cittadine.
«Sono curioso di conoscere questo duca» disse Porthos. «Diane non ne parla quasi mai»
«Considerando come ha reagito quando ha saputo della sua visita, non credo sia il suo parente preferito» osservò d’Artagnan.
«E se pensiamo che di parenti gliene sono rimasti solo due…» fece Aramis, inclinando la testa.
Un sole smagliante faceva brillare il verde dell’erba del prato. Un vento fresco smuoveva le cappe azzurre dei moschettieri e spettinava le piume sui loro cappelli.
L’inverno si preparava a essere solo un ricordo. Era stato uno strano inverno, quello, pensò Athos, un inverno che avrebbero ricordato.
La carrozza comparve come una macchiolina traballante all’orizzonte.
Fermo in mezzo al sentiero, Treville l’attendeva ostentando un’aria tranquilla ma nemmeno lui sembrava troppo entusiasta di avere a che fare con il cognato della defunta sorella.
Il duca era un uomo del cardinale, e questo era un dettaglio tutt’altro che trascurabile.
I moschettieri si scambiarono occhiate annoiate, Porthos si piegò in avanti sulla sella per sgranchirsi la schiena. Sembrava aspettassero da ore.
Diane era di fronte a loro, qualche passo dietro suo zio. Treville era riuscito a portarla con sé, la paura che la ragazza aveva dei cavalli cominciava a passare, anche se seduta di traverso sulla sella per non rovinarsi la gonna dell’abito non era sembrata troppo a suo agio.
Athos la guardò per qualche istante, era nervosa per l’arrivo del duca.
«Mi stavo chiedendo se riuscirete mai ad avere un rapporto normale voi due» disse Aramis, intercettando la direzione dello sguardo del compagno. «A giudicare da quello che ho visto stamattina, direi di no»
«Stamattina mi sono fatto prendere la mano perché mi innervosisce la sua cocciutaggine, come quella di chiunque»
«Bene, tanto lei non nutre grosse speranze su voi due».
Athos guardò Aramis inarcando un sopracciglio. «Credevo le stessi insegnando a sparare, non che fossi il suo padre confessore»
«Sono suo amico»
«Buon per te». Sospirò stizzito, sperando che ciò bastasse a chiudere la questione.
Era stanco dei discorsi su quello che era successo tra lui e Diane, era stanco delle domande, dei consigli, delle allusioni. Tra loro quattro ognuno aveva i suoi demoni, per i propri il moschettiere non chiedeva altro che comprensione.
La carrozza era vicina ora, si sentiva il suono degli zoccoli dei cavalli. Dietro la vettura del duca viaggiava un piccolo seguito di soldati e un’altra carrozza con dei bagagli: il nobiluomo non aveva intenzione di ripartire presto o, forse, non aveva viaggiato da solo.
L’intera carovana si fermò. I cavalli stanchi con il pelo chiaro lucido di sudore abbassarono la testa e sbuffarono, lanciando sguardi languidi ai ciuffi d’era ai margini del sentiero. 
Il duca de Leroux smontò, balzando agile oltre i gradini della carrozza. Qualcosa in lui ricordava i lineamenti di Diane, anche se i suoi tratti erano più marcati e virili, e i suoi occhi erano scuri e un po’ freddi. Nel complesso, il duca era un bell’uomo, elegante e ancora giovane.
Dietro di lui smontò un altro uomo alto e con bei vestiti di velluto rosso e marrone. Non arrivava ai trent’anni, aveva la compostezza innegabile di un nobile abituato agli agi. Non lo si sarebbe potuto scambiare per un valletto o un sottoposto del duca.
Quando de Leroux si fermò di fronte a Treville, Athos pensò che occorreva un enorme sforzo di immaginazione per credere che quei due fossero imparentati in qualche modo.
Il duca portava al fianco una spada con la ricca elsa cesellata, ma dalle sue mani era facile intuire che non avesse mai usato una lama e forse le uniche volte in cui aveva avuto modo di avere a che fare con qualche arma era stato durante delle battute di caccia.
Treville fece un rigido cenno del capo e accennò un sorriso formale.
«Vi do il benvenuto, monsieur» disse. «Avete fatto buon viaggio?»
«Snervante» ammise il duca. «Ma è bello tornare a casa. Vi ringrazio per l'accoglienza».
De Leroux spostò piano lo sguardo su Diane rimasta ferma lì dov’era, accanto alla strada, e le sorrise. «E come sta la nostra bella nipote? Le sue maniere non sono migliorate dall’ultima volta che l’ho vista, non lo merito un saluto?».
La ragazza si riscosse e si avvicinò ai suoi due zii.
De Leroux prese le mani di Diane tra le sue. «Sembra che la vita parigina non vi faccia bene» le disse prima di baciarla sulle guance. «Sono contento di rivedervi»
«Lo sono anche io». Non si riusciva a capire quanto ci fosse di sincero nel sorriso della ragazza, ad ogni modo la sua espressione si spense e si trasformò in una smorfia imbarazzata quando il suo sguardo si posò sull’uomo giovane che accompagnava il duca.
«Cesare!» trillò Diane provando a ostentare una contentezza del tutto fasulla.
Cesare mosse una passo verso di lei e l’abbracciò con un moto di trasporto che fece storcere le labbra di Treville.
La ragazza gli batté una mano tra le spalle, in imbarazzo, e sembrò si fosse dimenticata come fare a respirare. Prese aria solo quando l’uomo la lasciò andare.
«Posso avere il piacere?» disse il capitano dei moschettieri, intromettendosi in quello scambio univoco di effusioni - sembrava proprio che Cesare fosse sul punto di baciarla.
«Voi dovete essere il signor Treville. Cesare Corsini» si presentò l’uomo. «Diane mi ha tanto parlato di voi. È un onore conoscervi». Il suo francese era corretto, anche se la pronuncia lasciava un po’ a desiderare.
Il capitano strinse la mano a Corsini che appariva così deliziato da credere che fosse sul punto di mettersi a scodinzolare. Non ebbe cuore di dirgli che lui invece non lo aveva mai sentito nominare, nonostante la confidenza che l’italiano sembrava avere con sua nipote.
«L’onore è mio, monsieur. Non speravo di avere la fortuna di conoscere qualche amico italiano di Diane».
Corsini spostò lo sguardo tra la ragazza e i suoi due zii.
«Non sono un suo amico, capitano, sono il suo fidanzato».
Il suo che?
I moschettieri drizzarono le schiene di colpo, come se quell’affermazione fosse stata un tiro di frusta contro le loro spalle. Parve che a Treville fosse andato di traverso qualcosa.
Per conto suo, Diane abbassò lo sguardo e fissò la terra sotto i suoi piedi come a pregarla di aprirsi in una voragine e inghiottirla.
«Fidanzato?» bisbigliò Porthos. «Quello? Sul serio?»
«Be’ non mi pare brutto» gli fece eco Aramis.
«E nemmeno povero» concluse d’Artagnan.
Tutti e tre si voltarono verso Athos, aspettando un suo commento o anche solo un gesto che tradisse la sua delusione.
«Una giovane donna di buona famiglia imparentata con un duca: ci sarebbe da stupirsi se non fosse fidanzata» disse lui con calma - ma ovviamente il pensiero non l’aveva mai sfiorato prima di quel momento. «Temo comunque che Diane lo farà impazzire nel giro di un mese»
«O lui farà impazzire lei, per la noia» replicò d’Artagnan.
«Diane non mi sembra il genere di ragazza che uno può forzare a sposarsi» sbuffò Aramis.
Athos scrollò le spalle. «Chi dice che sia forzato?»
«Piantala o ti do un pugno» mugugnò Porthos, stringendo le labbra. «Non mi pare proprio che lei stesse sprizzando di gioia nel rivedere quel tipo»
«Solo perché Treville non ne sapeva niente, non glielo aveva mai detto» concluse Athos. Certo che non lo aveva fatto: raccontare di un futuro marito che l’attendeva in Italia avrebbe sollevato troppe domande e le avrebbe causato fastidi. Un conto era comportarsi da donna libera, altra cosa era dichiararsi impegnata con un fidanzato che l’aspettava dall’altra parte del Mediterraneo. E Cesare Corsini aveva tutta l’aria di aver aspettato Diane con il cuore in mano…
«Signori». La voce di Treville costrinse i moschettieri a prestare attenzione. «In marcia. Il duca è atteso e non voglio che faccia tardi».
Gli uomini a cavallo sollevarono lo sguardo per vedere Diane sparire mano nella mano con Corsini attraverso lo sportello della carrozza del duca.   
 
***
 
«Prima che mi cadano le braccia: c’è dell’altro che non mi hai detto?» disse Treville. «Ogni giorno ne salta fuori una nuova!».
Diane era seduta su un sofà tappezzato di velluto blu, faceva strusciare i piedi l’uno contro l’altro a pochi centimetri dal pavimento con l’aria assorta da bambina sprofondata in un mondo di pensieri inaccessibili.
Il duca era stato fagocitato dalle porte dorate di un ufficio ed era sparito insieme al re e al cardinale Richelieu.
Nei labirintici corridoi del palazzo del Louvre c’era un bel silenzio, interrotto solo dai passi leggeri dei domestici che andavano avanti e indietro, presi dalle loro mansioni.
«Che altro ho fatto, stavolta?» chiese la ragazza, riemergendo dalle sue riflessioni.
«Corsini. Non me ne hai mai parlato, nemmeno un accenno. Sei fidanzata, questo vuol dire che tornerai a Roma prima o poi. Avresti dovuto dirmelo, almeno questo».
Diane sollevò lentamente lo sguardo su suo zio. Non capiva se fosse più sconvolto all’idea che lei avesse un fidanzato o che prima o poi avrebbe di nuovo dovuto lasciare la Francia.
«Non è così semplice» disse con un sospiro.
«No, a quanto pare con te non lo è mai»
«Va bene, ascolta: il duca e la famiglia di Cesare decisero il nostro fidanzamento quando io avevo quindici anni» spiegò la ragazza. «Per conto mio non ho mai dato il consenso a questa cosa»
«Davvero? Be’, Corsini mi sembra molto convinto che tu lo abbia fatto»
«È perché il duca non mi avrebbe lasciata partire se non gli avessi promesso di sposare Cesare. In realtà non l’ho proprio promesso, l’ho solo… aehm, lasciato intuire, in maniera molto vaga. Vaghissima»
«Diane! Forse non lo hai capito, ma il duca è venuto qui per riportati indietro e ha portato con sé… Cesare per rammentarti gli impegni che hai preso» borbottò Treville. «Hai fatto una promessa e loro si aspettano che tu la mantenga. E francamente, me lo aspetto anche io».
Diane lo sapeva. In quei mesi a Parigi aveva dimenticato il peso di quella catena, la morsa fredda dei ceppi attorno al cuore, l’aveva dimenticato con così tanta facilità da concedere a se stessa di innamorarsi di un altro uomo, di immaginare una vita che non poteva avere, come Constance con d’Artagnan, come la regina Anna con Aramis, come tante altre donne. Aveva giocato a essere libera e ora tornare alla realtà le faceva male, ma davvero Treville non capiva le difficoltà, i compromessi con cui aveva dovuto fare i conti a Roma come orfana sotto la tutela dell’ambasciatore francese?
«La manterrò, la mia promessa» sospirò la giovane. «Conosco Cesare da quando eravamo ragazzi, gli voglio bene e lui ne vuole a me. Ma non lascerò la Francia prima di aver ottenuto ciò per cui sono venuta qui».
Treville incrociò le braccia sul petto. «E allora c’è da sperare che la permanenza del duca a Parigi sia lunga abbastanza» concluse lapidario.     
 
 

 

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Capitolo 22
*** Il cardinale ***


XXI
Il cardinale
 
 
«Francamente, Treville, io non riesco a comprendere» disse de Leroux.
In effetti, la comprensione non sembrava una delle sue migliori attitudini.
«Non c’è niente da comprendere, duca»
«Avete mandato nostra nipote a vivere in casa di un mercante»
«Dovreste smettere di parlare di Diane come se fosse priva di una volontà propria. Desiderava vivere in maniera indipendente, secondo voi avrei dovuto rinchiuderla?».
De Leroux arricciò le labbra. «Dovevate provare a farla ragionare» sibilò. «Mi ci sono voluti dieci anni per rimetterla in riga, se non fosse una ragazza impegnata mi importerebbe meno, ma voi dimenticate che deve sposare Cesare Corsini. Non voglio nemmeno pensare cosa abbia combinato da sola a Parigi».
Le frasi di quella discussione arrivavano in soffi rochi, come il verso di un gatto arrabbiato, ai due moschettieri in piedi accanto alla finestra.
Dai giardini del palazzo del re filtrava una luce calda, la prima remota speranza di primavera.
«Mi sto sentendo male» sussurrò Porthos, facendosi aria col cappello.
In una qualche maniera assurda e contorta, Athos trovava divertente l’idea che il duca non avrebbe mai immaginato cosa aveva combinato sua nipote. Ma la bolla di ilarità si dissolse in un attimo, inghiottita da tutto il resto, perché Diane doveva proprio farlo, doveva proprio andare a letto con lui e tradirlo anche in quel modo, doveva dimenticarsi di avere un fidanzato - o comunque un tizio che si credeva tale. E poi… doveva beccarsi una pallottola tra le spalle per salvare lui.   
Un rumore di passi pesanti dall’altro lato del corridoio rimescolò i pensieri del moschettiere e li dissolse come fumo.
Richelieu stava arrivando scortato da due guardie rosse e dal conte Legrand.
Ora mi sto sentendo male anche io, pensò Athos.
Il conte incarnava tutto ciò che aveva imparato a disprezzare. E l’idea che delle persone a cui teneva avessero rischiato la vita per le sue macchinazioni gli fece correre la mano all’elsa della spada, ma la lama restò nel fodero, le dita mollemente appoggiate all’impugnatura.
Richelieu e la sua scorta si fermarono accanto al duca e al capitano.
Anche Treville rimase impassibile davanti al responsabile della morte di sua sorella, solo un lampo impercettibile guizzò nei suoi occhi chiari, una scintilla che solo chi lo conosceva bene avrebbe potuto scorgere.
«Caro duca de Leroux» salutò Richelieu con squisita cortesia. «Ah, faccio sempre fatica a ricordare che voi e il capitano siete parenti»
«In un certo qual modo» disse Treville a denti stretti.
«Suvvia, cosa importa avere qualche contrasto di idee quando si è accomunati da quella deliziosa ragazza di vostra nipote» esclamò bonario il cardinale. I suoi occhi infossati in solchi lividi di occhiaie marcate riuscivano ancora a essere taglienti come lame. «Un gioiello prezioso da preservare da tutti i pericoli e le tentazioni a cui sono esposte le giovani donne al giorno d’oggi».
Athos sentì lo scricchiolio del cuoio quando Porthos accanto a lui strinse a pugno le mani guantate. Lui invece avvertì una sensazione fredda e pungente trafiggergli i muscoli, un’ombra di qualcosa che somigliava alla paura o al rammarico.
Che in qualche modo lo sguardo d’acciaio di Richelieu fosse arrivato così lontano? Che sapesse di Diane e di tutto quello che era successo?
No, impossibile. Il cardinale non aveva motivo di interessarsi alla ragazza, forse stava solo cercando di mettere in difficoltà Treville. Dopo tanto tempo, lo trovava ancora dilettevole.
«Ho insegnato l’onestà a mia nipote molto tempo fa» ribatté de Leroux.
«Non lo metto in dubbio. Un peccato che la vostra Diane si sia trovata sola a Parigi, passare tanto tempo alla guarnigione dei moschettieri dev’essere stato noioso per lei».
Il duca si voltò verso Treville guardandolo come se avesse commesso qualche orrendo crimine.
«Oh, ti prego…» borbottò Porthos, irritato.
Il capitano sollevò la testa. «Diane ha passato il suo tempo dove preferiva. Se qualche pomeriggio alla guarnigione dei moschettieri fosse cosa da rimproverare, allora dovremmo riconsiderare tutto il nostro sistema penale» disse. «Ad ogni modo, immagino che Vostra Eminenza non sia qui per parlare di mia nipote».
Il duca de Leroux sembrava furioso. Doveva essere davvero difficile per lui immaginare che, uscita dalla sua orbita, Diane avesse fatto quello che le pareva e in tutto questo tempo lei gli fosse sfuggita di mano.
«No, capitano, avete ragione» disse il cardinale. «Vogliamo fare due passi? È una splendida giornata per godere di una così illustre compagnia».
Porthos sbuffò e si cacciò il cappello in testa. I due moschettieri seguirono a qualche metro di distanza Richelieu e i gentiluomini che erano con lui.
«Comunque, Diane non sposerebbe mai quel damerino» disse Porthos all’improvviso all’orecchio del compagno.
Athos sospirò facendo appello a tutta la sua pazienza. «La cosa non riguarda né me né te».
L’altro fece un verso sordo e scosse il capo, poi, per fortuna smise di parlare.
Il corridoio era una striscia di rettangoli di luce di ombra. I ritratti dei vecchi sovrani di Francia guardavano con occhi fissi il piccolo corteo che passava sotto di loro.
«Il conte Legrand si è rivolto a me, per una questione di una certa pregnanza» disse il cardinale, guardando Treville. «I vostri moschettieri non hanno ancora fatto progressi nelle indagini. Sono passati tre mesi dagli incidenti dell’inaugurazione dell’ospedale».
«Non voglio accusare i vostri uomini di negligenza, capitano» intervenne il conte Legrand. «Ma voi capite, vorremmo delle risposte e mi seccherebbe dover riportare nuovamente la questione all’attenzione di sua maestà»
«Cosa suggerite, dunque?»
«Che voi e i vostri uomini vi facciate da parte».
Athos e Porthos si scambiarono un’occhiata obliqua. Certo che voleva che si facessero da parte: Legrand doveva aver intuito che, di questo passo, sarebbero giunti al bandolo della matassa.
Non ci fermeremo fino a quando non ti vedremo pendere da una forca.
«Molto bene» disse Treville, perfettamente tranquillo.
Athos e Porthos si fermarono di colpo, quasi inciampando per lo stupore. Da quando il loro capitano era così remissivo? Abbandonare quell’indagine era una resa che non potevano concedersi.
Persino Richelieu parve sorpreso dall’arrendevolezza di Treville.
«Sì, ecco…» disse il cardinale, rimasto un attimo senza parole. «Già che siamo qui a parlare con il conte, vorrei invitare voi, duca, a visitare le strutture di cui Legrand ha fatto dono alla città di Parigi, credo che vi sarà utile per la vostra relazione»
«Quale relazione, se posso chiedere?» domandò Legrand con una mossa del capo che faceva tremolare ogni volta il suo generoso doppio mento.
«Una relazione sulle opere di bene in Francia richiesta dalla Santa Sede».
Il conte sorrise in quel suo modo assolutamente amabile. «Oh, allora ne avrete di cose da dire, monsieur. Sarete un ospite molto gradito nelle mie strutture, quando vorrete. E anche voi, Eminenza, del resto il vostro contributo è stato prezioso per la loro realizzazione».
Treville sorrise come a voler dare il suo di contributo a quel delizioso scambio di ciarle e cortesie, ma quel sorriso aveva altre ragioni e non era indirizzato ai suoi interlocutori.
«Il capitano ha in mente qualcosa» disse Porthos.
Dopotutto Diane doveva pur averla presa da qualcuno, quella sua testolina machiavellica.
Treville si fermò a osservare il panorama da una delle grandi finestre della galleria, mentre il corteo si allontanava di qualche metro.
«Athos, va’ a cercare mia nipote, era qui a palazzo stamattina» ordinò. «Porthos, vai a prendere Aramis e d’Artagnan, c’è del lavoro da fare. Ci vediamo nel mio ufficio il prima possibile».
I due moschettieri lasciarono il capitano nel corridoio. C’era un certo entusiasmo nelle parole del loro superiore, come di qualcuno che ha preso all’amo un pesce molto grosso ed era una soddisfazione contagiosa: Athos, come i suoi compagni, aveva fatto propria quella missione. Non si trattava semplicemente della vendetta di Diane, si trattava di fare giustizia. Dopo tanti rischi e dopo tanti pessimi quarti d’ora, ogni passo avanti, ogni singolo spiraglio era una notizia che bastava a migliorare la giornata. Di sicuro era quello di cui avevano bisogno in quel momento, dopo il fallimento della loro missione al porto.
 
***
 
Il vento scuoteva le chiome degli alberi nell’aranceto.
Diane al braccio di Cesare continuava a camminare con il naso per aria, guardando il cielo come se qualcosa dovesse caderle addosso da un momento all’altro.
Il tempo stringeva. Presto avrebbe dovuto tornare a Roma e non aveva ancora ottenuto niente.
Quel senso di attesa la soffocava, o forse era solo la presenza del duca. Nei pochi giorni che lui aveva trascorso a Parigi, la ragazza non aveva avuto un solo minuto per sé, de Leroux l’aveva trascinata a corte, a pranzo con il re, nei suoi incontri con i dignitari di palazzo e con una sequela di uomini fedeli al cardinale che non sembravano avere molta simpatia di quella ragazza che era ormai conosciuta come la nipote del capitano dei moschettieri. 
A salvarla da mattinate e pomeriggi noiosi era intervenuta la regina che, quando poteva, allontanava Diane da quel crocchio di uccellacci imbellettati e la portava con sé in qualche passeggiata o in qualche salotto a bere cioccolata e giocare a carte.
Diane era stata più volte tentata di raccontare ad Anna la sua storia e il motivo per cui era tornata a Parigi, ma si era trattenuta per gli stessi motivi per cui si era trattenuta con Treville: non voleva rischiare di non essere creduta, ma soprattutto non voleva rischiare che qualcuno si compromettesse per aiutarla e la regina era troppo felice - e troppo delicata - a causa della sua gravidanza per venire turbata da qualche pensiero cupo ed esporsi ad altri problemi.
«Sei riuscito a visitare Parigi?» domandò la ragazza, smettendo di fissare il viavai di nuvole sopra la sua testa.
Cesare scosse il capo. «Affatto. Non ho nessuno che mi faccia da guida, chiederei al duca di lasciarti libera più spesso, ma non vorrei apparirgli sfacciato».
Diane sorrise. Figlio di una ricchissima famiglia italiana, Cesare aveva un concetto molto chiaro di cosa fosse sconveniente, e cercava di attenersi a quelle idee in maniera quanto mai scrupolosa. A suo modo era l’antonomasia del bravo ragazzo.
«Sarei contenta di poterti accompagnare»
«Ho avuto l’impressione che tu sia sempre impegnata a pensare ad altre cose. C’è qualcosa che ti preoccupa?»
«Mio zio»
«Posso assicurarti che il duca sta benissimo e non vede l’ora di riaverti a casa»
«Non lui, l’altro».
Il ragazzo annuì comprensivo. «Hai paura che il capitano Treville possa sentirsi solo dopo la tua partenza? Potrebbe venire a stare da noi a Roma per un po’»
«Non sai quello che stai dicendo. Lui non lascerebbe mai la guarnigione, nemmeno per un giorno»
«Nemmeno per il matrimonio della sua unica nipote?»
«L’Italia è lontana, Cesare»
«Allora dovremmo sposarci a Parigi».
Diane ebbe un sussulto, si figurò la scena e le parve tremenda come un incubo. «No!» esclamò fermandosi di colpo.
«Era un’idea. Pensavo potesse farti felice… non mi ero mai reso conto di quanto la tua città ti mancasse e di quanto vi fossi legata».
Oh, dolce, caro Cesare. Si conoscevano da quando lei era arrivata a Roma. Quel ragazzo era una compagnia piacevole nelle rare settimane che Diane trascorreva a casa quando non era in collegio. Il duca voleva assicurare un futuro agiato alla sua unica erede, i genitori di Cesare volevano crearsi legami con qualcuno che vantasse anche solo mezza spanna di nobiltà e c’era sempre stata una tenerezza complice tra i due ragazzi, un affetto che aveva lasciato intendere che un futuro matrimonio non sarebbe stata affatto una sgradevole imposizione. Per un po’ anche Diane l’aveva pensato, negli anni in cui il mondo era una visione da contemplare a distanza e l’amore era un concatenarsi di rime in qualche libro di canzoni.
Era partita da Roma convinta di poter amare quel ragazzo con poche briciole di cuore, che fosse così che andavano le cose. Aveva imparato presto che era in errore ma adesso la vicinanza di Cesare le aveva fatto tornare in mente che avrebbero potuto farcela, rendersi felici a vicenda e nascondere come polvere sotto al tappeto la restante parte di infelicità che ogni vita si trascina dietro.
«In questi mesi a Parigi ho imparato a conoscermi meglio» disse al ragazzo, scrollando appena le spalle.
«E permetterai anche a me di conoscere quelle cose che hai scoperto stando qui?»
«E se non ti piacessero?»
«Ne dubito».
Quando era successo che i loro visi si erano fatti così vicini?
Cesare la baciò con la stessa tenera esitazione con cui l’aveva baciata la prima volta, quando lei aveva diciotto anni ed era un’altra persona. Il cuore di Diane si spezzò a quel tocco e la ragazza provò l’intenso desiderio di essere la giovane donna che lui si aspettava e la malinconia di rendersi conto di non esserlo mai stata, di non essere in grado di diventarlo. Eppure era bello, era piacevole credere che da qualche parte nel suo futuro ci fosse un rifugio comodo, una casa e un paio di braccia dove dimenticare Parigi e tutto quello che era successo, un luogo dove la cicatrice a forma di V tra le scapole avrebbe smesso di bruciare.
Un rumore secco di rami spezzati strappò i due giovani al loro idillio.
«Perdonatemi…». Athos sembrava una statua emersa dal terreno, una di quelle cose che ritrovi quando non ti aspetti e che ti fanno capire di esserti smarrito.
Se Diane fosse stata capace di odiarlo, quello sarebbe stato il momento adatto per cominciare a farlo.
«Che cosa c’è?» sibilò la ragazza.
Il moschettiere rivolse a Cesare un cenno garbato prima di voltarsi verso di lei. «Il capitano Treville vorrebbe vederti, se non sei troppo impegnata».
Cos’era quella, una frecciatina? Si sentiva davvero in diritto di potersi permettere una tale sfacciataggine?
Ma forse non c’era nessuna nota di impertinenza nelle sue parole, forse Diane si stava attribuendo troppa importanza. Anche se lei e Athos non avevano mai più parlato di quello che era successo tra loro, non occorreva: era finita e lui non voleva neppure crederlo importante dal momento che lei era stata così indifferente da riuscire a mentirgli per tutto quel tempo.
«Sono certa che mio zio abbia delle buone ragioni per mandarmi a cercare» rispose.
«Sì, credo anche io»
«Vuoi che ti accompagni?» si intromise Cesare.
Athos parve divertito da tanta solerzia. Diane si voltò verso il ragazzo stupita che lui si mostrasse così ansioso di seguirla.
«Credimi, la guarnigione dei moschettieri non è il primo posto da visitare per qualcuno che non ha mai visto Parigi» gli disse.
«È che mi piacerebbe conoscerlo meglio, il capitano Treville. Non riesco a… inquadrarlo, mi sembra che non ti somigli per niente, faccio fatica a credere che sia tuo zio»
«Sì, d’accordo, ma tu non dire mai una cosa del genere davanti a lui. O a qualcuno dei suoi uomini».
Cesare dovette prendere quella frase come una battuta perché guardò Diane con aria sorniona, poi si voltò verso Athos.
Dio, ti prego…
«Non ve ne vorrete a male, monsieur, se il mondo militare e gli uomini che ne fanno parte mi risultano un po’ estranei» concluse il ragazzo nel suo francese un po’ stonato.
«Niente affatto» replicò Athos, cordiale. «Ognuno ha le sue attitudini, confido che anche voi abbiate le vostre, monsieur».
«Immagino che mio zio mi stia aspettando» tagliò corto Diane, la voce che suonava leggermente stridula. «Ci vediamo a cena, Cesare. Grazie della passeggiata».
Il ragazzo le prese la mano e gliela strinse tra le dita prima di lasciarla andare. Mentre si allontanava per raggiungere Athos, Diane sentì le gambe pesanti e legnose, come se i suoi muscoli la stessero implorando di mettersi a correre e scappare.
Affiancò il moschettiere e insieme sparirono dietro a una siepe.
«Un tipo sveglio» commentò Athos in tono piatto.
«Sta’ zitto»
«Sei fortunata che io non sia Porthos»
«Stai. Zitto»
«Ci mancherebbe»
«Ecco, bravo». 
 
Quando raggiunsero l’ufficio del capitano, Aramis, Porthos e d’Artagnan erano già lì.
«Il cardinale» disse Treville, dal nulla.
«Che ha fatto?»
«Ha fatto delle donazioni per le opere del conte Legrand. Il duca. La relazione per la Santa Sede. Non capite?».
I moschettieri e la ragazza si scambiarono occhiate perplesse. Treville li fissava aspettandosi che cogliessero la genialità della sua intuizione, ma nessuno sembrava in grado di dargli soddisfazione.
Infine il capitano si arrese e sbuffò, rassegnandosi a spiegare tutto dal principio.
«Il duca de Leroux è qui per scrivere una relazione sulle opere di bene per la Santa Sede, lo abbiamo appreso poco fa» esordì. «Il cardinale vorrà certamente fare bella figura e questa è l’occasione di smascherare Legrand»
«Non capisco» mormorò Diane, dato che i quattro moschettieri non sembravano in animo di contraddire l’euforia del loro superiore. «Cosa c’entra il cardinale, in che modo può esserci utile tutto questo?»
«Dite che Richelieu potrebbe essere coinvolto nei traffici di Legrand?» domandò d’Artagnan, confuso.
«No, tutt’altro. L’azione del conte è qualcosa di losco e sovversivo, e Richelieu non prenderebbe mai parte a qualcosa che può compromettere la sicurezza della città - se non è lui a gestirlo, almeno».
Treville strinse le labbra, congiunse le mani e le appoggiò sul piano dello scrittorio. Sembrava che le parole faticassero a uscirgli di bocca, adesso.
«Dobbiamo - e Dio solo sa quanto mi costa dirlo - chiedere al cardinale di aiutarci».
I moschettieri fecero un’espressione sdegnata. Porthos si lasciò scappare una risata nasale e cavernosa ma il capitano lo fulminò con uno sguardo che lo costrinse a ingoiare quello sprizzo di ilarità.
«Perché dovrebbe aiutarci?» chiese Athos, cercando di ritrovare il filo del discorso.
«Perché sta perdendo la presa, non è più potente come una volta e ha bisogno di fare colpo. Devo solo convincerlo che le accuse contro Legrand sono fondate e che ha tutto da guadagnare nell’aiutarci a smascherarlo»
«Buona fortuna…» bofonchiò Aramis.
«Continuate a non capire: non vi siete chiesti dove sono le armi arrivate due settimane fa?» insistette il capitano
«Potrebbero essere ovunque».
In quel momento Diane comprese il ragionamento di suo zio. Era un’intuizione geniale, anche se non c’era modo di provare che avesse ragione.
«Le armi sono all’ospedale» mormorò la ragazza.
Quadrava: Legrand aveva fatto uccidere Morice perché non poteva più fidarsi di lui, ma gli serviva ugualmente un posto dove nascondere le armi e quale posto migliore e più insospettabile di un ospedale per i poveri?
Dovevano essere quelle arrivate quindici giorni prima, partite dal porto prima che loro arrivassero. Di sicuro, dopo il trambusto di quella sera, il conte e i suoi scagnozzi non si sarebbero azzardati a smerciarle in giro: dovevano tenerle nascoste da qualche parte, in attesa che si calmassero le acque. 
Probabilmente costruire l’ospedale aveva fatto parte fin dal principio del piano del conte per gestire meglio i suoi traffici.
«E cosa dovremmo fare? Intrufolarci per andare a cercarle?» domandò d’Artagnan.
«No, se le troviamo e loro se ne accorgono, le sposteranno prima che si riesca a denunciare il conte» insistette Diane. «Dobbiamo coglierlo con le mani nel sacco»
«Durante la visita che farà il duca» indovinò Porthos.
«Esattamente» confermò Treville. «Ed è per questo che ci serve l’aiuto del cardinale»
«Ah, bene, non ci resta che convincere sua Eminenza» sbuffò Aramis.
«Ci andrò a parlare io» sbottò la ragazza.
Porthos scosse energicamente la testa. «Tu sei praticamente un mezzo moschettiere». 
«Be’, c’è più probabilità che ascolti un mezzo moschettiere che un moschettiere intero».
 
Diane non era sicura che Richelieu l’avrebbe ricevuta tanto presto, ma quando le porte del suo ufficio si aprirono dopo solo mezz’ora di anticamera, la ragazza capì che sua Eminenza doveva essere quanto meno incuriosito: nel mondo della politica di palazzo, con bianchi e neri senza sfumature, lei doveva rappresentare un caso singolare, contesa tra Treville e il duca.
Probabilmente Richelieu si era chiesto a quale ramo della sua famiglia la ragazza fosse fedele, senza capire che non era una questione di fedeltà, solo di affetto, di affinità naturali.
Diane non aveva mai scelto tra il duca e il capitano, ma la sua natura la faceva propendere per un certo stile di vita invece che un altro. Uno stile di vita che avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle, ad ogni modo.
L’ufficio di Richelieu era una stanza immensa con il soffitto a cassettone di legno scuro. Nonostante lo spazio enorme, sembrava che nessuno si fosse mai preoccupato di riempire il vuoto. Era come se il cardinale volesse riflettere la propria grandezza attraverso quella stanza piena di nient’altro che lui e la sua scrivania di mogano.
Era curvo su dei fogli, scriveva velocemente righe di parole fitte e appuntite, senza curarsi della sua ospite. Anche questa doveva essere una dimostrazione di potere.
Molto bene: se sua Eminenza capiva l’importanza dei gesti e dei dettagli, avrebbe capito senz’altro la richiesta che Diane intendeva fargli.
Fece cenno alla ragazza di avvicinarsi, flettendo le dita, senza alzare lo sguardo dalla lettera.
Non c’erano sedie in quella stanza, oltre a quella occupata dal cardinale. Nessuno era un ospite lì dentro.
Diane decise che non si sarebbe lasciata intimorire, anche se le sembrava che il soffitto fosse fatto apposta per abbassarsi e schiacciare chiunque mettesse piede in quell’ufficio.
Richelieu la lasciò ancora qualche minuto ad attendere, solo quando ebbe riempito il foglio di pergamena fino all’ultima riga si decise a metterlo via e a sollevare lo sguardo sulla giovane donna.
Accennò un sorriso indecifrabile, una smorfia come un taglio storto sulla faccia rinsecchita.
«Medemoiselle Leroux, non mi sarei mai aspettato una vostra visita. Vostro zio sa che siete qui?»
«Quale dei due?» domandò la ragazza, ostentando una certa disinvoltura.
Il cardinale parve persino divertito da quella piccola dimostrazione di spirito.
«Vi ringrazio per avermi ricevuta» continuò la giovane. «So che siete un uomo molto impegnato»
«Allora confido che non mi farete perdere tempo e verrete al dunque: cosa volete?».
Diane sapeva che occorreva scegliere le parole con cautela. Una virgola in più o in meno segnava la differenza tra venire ascoltata fino in fondo o venire scacciata.
Constance le aveva detto di stare in guardia col cardinale. Constance ormai sapeva ogni cosa: glielo avevano raccontato come lo avevano raccontato a suo zio la notte che Aramis l’aveva portata a casa Bonacieux in fin di vita. Il cuore di quella donna era grande ed era forte, uno scrigno per i segreti e gli affetti e per un amore troppo grande e difficile.
«Ho delle accuse da fare, accuse molto serie, Eminenza».
Richelieu si umettò le labbra pallide e fissò la sua interlocutrice con fare canzonatorio. Il serpente nel giardino dell’Eden doveva avere quella stessa fisionomia.
«Per questo ci sono le autorità competenti. Siete la nipote del capitano dei moschettieri, diamine!»
«E so che questo mi rende poco amichevole ai vostri occhi»
«Francamente, mademoiselle, vi ho osservata e non riesco a capire chi siete: la fanciulla soave e devota che vi mostrate con il duca o la ragazza sfrontata che frequenta la guarnigione dei moschettieri»
«Vi importa?»
«Se non vi conosco, non posso fidarmi di voi. E voi mi avete sempre fatto pensare a qualcuno che nasconde dei segreti».
Diane sorrise, sarcastica. «È dei miei segreti che sono venuta a parlarvi, in un certo senso».
«Non nego di essere in parte intrigato ma, come avete osservato voi stessa, sono un uomo impegnato, perché dovrei perdere tempo ad ascoltarvi?»
«Perché avete qualcosa da guadagnarci. Non sono così ingenua da venirvi a trovare senza niente da offrirvi».
Richelieu si gettò con le spalle contro l’alto schienale della sedia, un lampo da fiera famelica passò nei suoi occhi chiarissimi. Sorrise di nuovo in quel suo modo un po’ sardonico e un po’ crudele.
«Forse comincio a capirvi meglio, mademoiselle» disse.
«Avete fatto delle donazioni per la costruzione dell’ospedale del conte Legrand, non è vero?»
«Sì. Molti nobili le hanno fatte, tutti per la stessa ragione: il nostro rango ci impone di essere buoni, ostentare il nostro spirito elevato. E poi un ospedale per i poveri fa felici tutti, meno moribondi per le strade, e così via, così via»
«Ma il vostro nome è sicuramente quello più influente. Se si scoprisse qualcosa di poco gradevole sulle attività del conte, sarebbe un bello scandalo per voi»
«Mia cara, argino scandali da tutta la vita»
«Ma in tutta la vostra vita non siete mai stato così vulnerabile».
Il cardinale guardò la ragazza con astio: non sopportava di vedersi sbattere in faccia le proprie debolezze, e probabilmente ora era curioso davvero, o persino ansioso di sapere cosa ci fosse di così importante da dire su quel pallone gonfiato del conte Legrand.
«Il conte Legrand traffica armi, e Dio solo sa cos’altro. Riteniamo che stia usando l’ospedale come copertura. È responsabile della morte di Luc Morice, suo vecchio socio in affari poco raccomandabili, e di Robert Bourell, l’uomo trovato morto il giorno dell’inaugurazione dell’ospedale. Non so cosa ci faccia con le armi e il ricavato dei suoi traffici ma credo sia qualcosa che vi converrebbe scoprire e, soprattutto, fermare».
Richelieu si alzò di scatto dalla sedia, quasi facendola ribaltare. Diane pensò di aver sbagliato qualcosa, che ora il cardinale l’avrebbe scacciata e tutto sarebbe andato perduto.
«Se è vero, e dico se, mi state rendendo un grosso favore, mademoiselle, non riesco a capire come mai i vostri amici moschettieri non abbiano fatto niente in proposito» disse l’uomo. Si mosse rapido per la stanza, la mantella del suo abito scuro si gonfiava dietro la sua schiena come le ali di un pipistrello.
Richelieu era un uomo troppo sagace, probabilmente doveva aver sospettato di Legrand molto tempo prima e di certo si rendeva conto che lei non avrebbe mai mosso accuse tanto gravi a vuoto, che non si sarebbe azzardata a scomodare il primo ministro di Francia senza essere sicura di quello che stava dicendo.  
«Non abbiamo prove» ammise Diane. «Vi sto chiedendo di aiutarci a trovarle»
«Parlate al plurale. Ora capisco in chi e in cosa riponete la vostra fede»
«Quando vorrò parlare della mia fede verrò al vostro confessionale»
«Potreste trovarlo illuminante. Ma, ditemi, in che modo credete che io possa aiutarvi - voi e i vostri amici dalle cappe azzurre?»
«La visita all’ospedale che avete organizzato per mio zio il duca. Direte a Legrand che andrete solo voi e lui con una piccola scorta, invece porterete anche me, il capitano e i moschettieri. Cercheremo le armi: se le troviamo potete prendervi il merito di aver smascherato un falso benefattore. Se foste presente anche voi e riuscissimo a incastrare Legrand, la sua dimostrazione di colpevolezza a un eventuale processo sarebbe garantita».
Richelieu avanzò verso la finestra e si appoggiò al davanzale spoglio.
«Date per scontato che io vi creda» disse senza voltarsi a guardare Diane ancora in piedi accanto alla scrivania.
«Lo state facendo. Ho l’impressione che il conte non sia simpatico a tutti come gli fa piacere credere» osservò lei.
«E se vi foste sbagliati? Se non ci fossero quelle armi?»
«Chiederò il vostro perdono per avervi importunato»
«Potrei pretendere molto di più»
«Allora ne riparleremo».
Richelieu annuì. «E sia. Domani portate Treville e i vostri amici all’ospedale. Spero troviate tutto di vostro gusto».
Diane sorrise soddisfatta. Non si diede il disturbo di salutare il cardinale e si voltò sentendo sulla schiena i suoi occhi glaciali.
«Non capisco il vostro accanimento, però» disse lui quando la ragazza era già sulla porta. «Siete un cuore puro come vostro zio il capitano, ma ho l’impressione che non siate mossa solo da senso civico».
Non sono un cuore puro, pensò la ragazza. Richelieu non era un ministro di Dio a cui fare quel genere di confessioni ma i segreti non le sarebbero serviti più a nulla. 
«Legrand ha fatto uccidere i miei genitori, dieci anni fa» concluse sull’uscio, senza ricambiare lo sguardo di sua Eminenza.
«Ah, vendetta» sospirò lui.
«Giustizia»
«Delizioso quando trovano il modo di coincidere. Sentirsi assolti per l’odio che si prova aiuta a dormire meglio la notte, non trovate? Immagino che voi dormiate come una bambina».
«Ho smesso di dormire da quando sono tornata a Parigi» disse Diane.
Lasciò la stanza con l’orlo della gonna di raso che spazzava il pavimento di cotto.
Voleva uscire da lì e respirare.








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Capitolo 23
*** I nodi vengono al pettine ***


XXII
I nodi vengono al pettine
 

«Non capisco il motivo di tutta questa folla». Dal finestrino della  carrozza, de Leroux lanciò un’occhiata al corteo di guardie e moschettieri. Il capitano Treville, in gran spolvero, era in sella al suo cavallo.
«Pensavo aveste detto al conte che saremmo andati da soli, Eminenza»
«Mi sono giunte voci di disordini nella zona dell’ospedale. Di questi tempi, duca, la sicurezza non è mai troppa» rispose svogliatamente il cardinale prendendo posto nella vettura.
Diane osservò la scena a distanza, le mani sudate che lisciavano ossessivamente la stoffa della gonna.
«Andrà tutto bene» le disse d’Artagnan quando le passò accanto.
La ragazza fece un cenno di assenso, ma pensò che non sarebbe arrivata viva all’ospedale. C’era una lunga lista di cose che avrebbero potuto andare male.
Perse l’equilibrio sui gradini della carrozza, inciampando nel suo stesso vestito. Qualcuno alle sue spalle l’afferrò al volo per le spalle, prima che cadesse.
«Nervosa?» mormorò Athos, continuando a tenerla.
«Vorrei avere una spada, o una pistola…»
«Non esagerare» concluse il moschettiere. Diane sentì che lui le aveva fatto scivolare qualcosa in mano, chiuse il pugno e lo nascose tra le pieghe della gonna.
Finalmente riuscì a sedersi accanto a Cesare. Di fronte a lei, il cardinale sorrise sotto baffi, negli occhi la malizia di chi ha capito più cose di quante fossero necessarie. La ragazza sospirò e puntò lo sguardo fuori dal finestrino.
Si misero in viaggio.
Con discrezione, Diane provò a guardare cosa le avesse lasciato Athos. Si trattava di un minuscolo pugnale, poco più di un tagliacarte, l’unica rassicurazione che poteva darle. La ragazza si ritrovò a sorridere e se lo lasciò scivolare all’interno della manica.
Come tutte le cose per cui non ci si sente pronti, la carrozza giunse a destinazione troppo presto.
L’ospedale era l’imponente edificio che Diane ricordava dal giorno dell’inaugurazione, troppe finestre senza nessuna luce che vi brillasse attraverso.
Le sembrava passata una vita da quella mattina e a volte le sembrava di non aver fatto alcun passo avanti ma quando con la coda dell’occhio vide i moschettieri smontare da cavallo realizzò che era partita per quell’avventura da sola e adesso non lo era più; si era ferita pelle e cuore ma ne era valsa la pena, anche se le cicatrici non smettevano di bruciare.
Pensò all’Italia, realizzò che neanche lì avrebbe trovato riparo da quel dolore sottile, dalla parte di se stessa che non si riconosceva quando l’aggraziata ragazza di buona famiglia si guardava allo specchio.
Come un’ombra emersa dal sogno di un pazzo, il conte Legrand comparve sulla soglia dell’edificio, occupando con la sua figura corpulenta l’intera apertura della porta di ingresso. Jean-Pierre alle sue spalle stava ritto come una statua.
Diane provò a intercettare lo sguardo dello scagnozzo del conte: era tranquillo come sempre, ma era lui quella sera al porto, che aveva sparato ai compagni che non potevano fuggire, era lui che aveva ucciso Morice e sparato a d’Artagnan, era per colpa sua che Marie era morta.
La ragazza sentì l’odio che le affannava il respiro. L’odio è peso e fatica, stanca e distrugge e lei non era in grado di combatterlo, né riusciva più a sopportarlo.
Il conte non sembrò aversene a male per tutti quegli ospiti inattesi, li invitò a entrare con fare cerimonioso.
Accanto a sua nipote, Treville inspirò lentamente e strinse per un attimo le dita di Diane tra le sue.
Mentre i visitatori sfilavano in uno stretta anticamera, Diane sentì qualcuno che le si avvicinava, gambe che sfioravano il cerchio della sua gonna.
Si voltò pensando che fosse Cesare o uno dei moschettieri, sussultò quando si rese conto che era Jean-Pierre.
«Avrei voluto venire a farvi visita, mademoiselle» le bisbigliò l’uomo. «Per Marie. Io… non ero in città quando…»
«Certo. Quale altra ragione vi avrebbe impedito di presentarvi al suo funerale, altrimenti». Diane pensò che la freddezza accusatoria nella sua voce avrebbe potuto tradirli tutti, ma non riusciva più a fingere. Lo sguardo di Jean-Pierre sul suo viso allentava i lacci del sacco dove aveva richiuso tutto il suo astio e tutto il suo veleno.  
«Sono certa che avremo occasione di riparlarne» concluse, avvicinandosi a Cesare per prendergli il braccio come se cercasse di restare aggrappata alle cose migliori.
«Vi chiedo scusa per l’ingombro, caro conte» disse Richelieu. «Il re ha molto insistito perché questa visita si svolgesse nella più assoluta sicurezza».
«Una precauzione del tutto comprensibile, Eminenza».
«I miei uomini hanno l’ordine di ispezionare la zona» intervenne Treville.
Un istante di perplessità aprì una crepa sulla maschera di perfetta cortesia di Legrand. Che avesse fiutato qualcosa?
«Naturalmente» disse poi, calmo. «Jean-Pierre, vuoi essere così gentile da accompagnare i signori?».
Di istinto, Diane incrociò lo sguardo di Richelieu, il cardinale assottigliò leggermente gli occhi da rapace. Se non le aveva creduto fino a quel momento, cominciava forse a crederle adesso.
La ragazza sentì i moschettieri passare alle sue spalle, il tintinnio leggero delle loro spade che dondolavano appese alle cinture. Non poté voltarsi a guardarli, poté solo pregare che tutto andasse come sperato.
«Se volete seguirmi» mormorò il conte, spostando con un gesto una tenda di tessuto grezzo. «Ah, mademoiselle Leroux, non sentitevi obbligata a sottoporvi a questo spettacolo, non è adatto alla delicatezza di una giovane donna».
«So decidere da sola cosa è adatto alla mia delicatezza, monsieur» gli rispose Diane.
Accanto a lei, Treville ghignò, il duca tossì leggermente per sottolineare la propria disapprovazione.
Legrand non aveva parlato a sproposito. Quando varcarono la soglia, Diane si sentì cogliere dall’angoscia. Era abituata alla morte, all’immobilità placida di cadaveri dal volto smunto, la sofferenza era un’altra cosa.
In un’unica grande stanza erano disposte tre file di letti, separati da lenzuola bianche. L’aria odorava di malattia, di troppi corpi tenuti insieme, si sentiva persino il ristagno di carne bruciata.
Suore con l’abito bianco stretto in vita da una corda con i nodi dell’ordine francescano sfilavano come fantasmi nel chiaroscuro di luci fioche. I lamenti dei malati salivano in un unico monotono gorgoglio.
Diane si trovò a fissare quel purgatorio e pensò che quell’ospedale non fosse un rifugio per i bisognosi, era un lebbrosario per i reietti che Parigi preferiva dimenticare.
«Forse il conte ha ragione» bisbigliò Cesare, quando lui e Diane rimasero indietro. «Non c’è proprio bisogno che tu ti sottoponga a tutto questo».
«Non sono una bambina stupida» replicò la ragazza, stizzita.
«Cosa ti prende oggi? Sei strana…»
«Scusa, non è con te che ce l’ho»
«E con chi allora?».
Un’ombra bianca, una suora dal viso magro e scavato emerse da dietro una tenda. «Credete di essere in una galleria del Louvre? Fate silenzio!» sbraitò a denti stretti contro i due giovani, li fissò con una durezza da combattente e Diane si sentì seccare la gola.
«Perdonate, sorella» disse Cesare, mortificato. Strinse la mano della ragazza e la trascinò via, riunendosi al corteo al seguito del conte che  stava enumerando come un mercante i pazienti curati e i bambini nati in quell’ospedale.
«Sarò lieto di farvi avere un resoconto scritto per la vostra relazione, duca» concluse, congiungendo le mani.
«Mi sarà senz’altro utile, grazie, monsieur».
Diane osservò Richelieu che si teneva stretto i lembi della pesante mantella scura perché non toccasse il pavimento né sfiorasse niente. Sua Eminenza era visibilmente a disagio e lei fu lieta di non essere la sola.
«Credo che dovremmo dire una preghiera o due, cardinale…» osservò Treville in un filo di voce. Quei due uomini si detestavano, eppure erano capaci di una complicità da vecchi camerati. Erano comunque soldati dalla stessa parte della barricata, guerrieri che si erano scelti campi di battaglia differenti nella stessa guerra.
Richelieu si schiarì la voce, fece qualche passo portandosi nel punto più lontano possibile dalle corsie e fece il segno della croce.
Intorno a loro le suore si segnarono e si misero in ginocchio.
Il cardinale cominciò un Pater Noster con una voce da litania.
Erano lì dentro da troppo tempo e Diane non riusciva più a sopportare quell’attesa. Mentre tutti snocciolavano versi in latino guardando il cardinale, la ragazza indietreggiò senza fare il minimo rumore e sparì dietro la prima porta che le capitò a tiro.
Se avessero notato la sua assenza, avrebbe potuto dire che era uscita a prendere aria.
La porta immetteva in una saletta dove erano ammassate lenzuola sporche in attesa di essere lavate. L’odore era nauseante e Diane si guardò attorno come se stesse annegando, alla ricerca di un modo per tornare a galla e riprendere fiato.
Vide uno scaffale ingombro di ceste e casse vuote, impiegò qualche istante a notare la porta mezza nascosta dietro quel mobile.
Avevamo ragione, pensò. L’idea di essere così vicina alla vittoria, alla possibilità di smascherare il conte, le fece sentire un bruciore sotto pelle che si trasmetteva secondo dopo secondo in tutto il corpo, come se all’improvviso il sangue avesse cominciato a friggerle.
Non pensò. Aprì la porta con cautela e sbirciò dentro.
Oltre la soglia c’era un ballatoio spoglio con una scala di pietra che si perdeva verso il buio di uno scantinato senza aperture. Dal basso proveniva il rumore di passi, una cacofonia leggera di suoni attutiti.
La ragazza scese le scale.
Il primo impulso che provò fu quello di ridere.
Sopra la sua testa il duca e il cardinale recitavano la loro parte di bravi cristiani, nel buio di quello scantinato un terzetto di uomini faceva la guardia a grandi casse uguali a quelle che aveva visto quella sera al porto, uguali a quelle nascoste nella casa che lei stessa aveva dato alle fiamme molte settimane prima. 
La ragazza li spiava nascosta dall’ombra. Solo un lume brillava in un angolo dello scantinato, molto lontano dalle casse e dai contenitori di polvere da sparo.
Per quel poco che la ragazza riusciva a vedere, i tre uomini erano armati. Forse si stavano preparando a spostare le casse in un luogo più sicuro, appena fosse calata la sera, forse aspettavano la visita di qualche compratore oppure erano stati avvisati della presenza sospetta dei moschettieri.
È fatta… pensò Diane mordendosi il labbro. Ora sapeva dove erano le armi, ora poteva denunciare il conte, ora poteva mettere fine a tutto.
Si voltò per tornare di sopra, doveva trovare i moschettieri, doveva andare a prendere suo zio, dovevano approfittare della presenza del cardinale, esattamente come aveva previsto il loro piano…
Respira. Non sei arrivata fin qui per farti tradire da un moto di impulsività.
Con estrema lentezza, Diane si voltò, attenta a non fare rumore. Il suo passo era leggero, inudibile anche in mezzo a quel silenzio quasi perfetto.
È finita…
Sorrise, ora che aveva ripreso controllo del proprio respiro e della propria lucidità. Salì i primi gradini e quando sollevò lo sguardo incrociò il foro nero di una canna di pistola puntata contro la sua faccia.
 
***

D’Artagnan accarezzava l’impugnatura della pistola come un cacciatore che rabbonisce il suo segugio prima di scagliarlo contro qualche preda.
Non potevano essere certi che fosse stato Jean-Pierre a sparargli quella notte sotto la neve, come non potevano essere certi che avrebbero trovato le armi quella mattina, eppure Athos leggeva il nervosismo negli occhi dei suoi compagni.
In un attimo realizzò che poteva succedere davvero: poteva finire tutto quella mattina e allora avrebbero messo altri mostri a dormire per sempre, e allora avrebbero reso un gran servizio al Paese, e allora Diane sarebbe stata libera di riprendersi la sua vita, quella che spettava a ogni ragazza della sua età. Sarebbe stata libera e lontana, al sicuro dalle ombre che si era trascinata dietro per dieci anni e da tutte quelle che aveva trovato sulla strada quando era tornata a Parigi.
E lui sarebbe andato avanti come sempre, a fatica, con il peso del passato che gli stringeva le caviglie. Diane era un altro fardello nella scia dei suoi passi.
«Non so cosa vi aspettiate di trovare» disse Jean-Pierre all’improvviso. «Qui dietro c’è solo una lavanderia e un deposito».
«Siamo sempre pronti alle sorprese» rispose Aramis con un sorriso sornione.
«Volete controllare fuori, per vedere se qualche figuro poco raccomandabile si è avvicinato alla carrozza di sua Eminenza?». C’era del sarcasmo nella voce dell’uomo, quasi una sfida alla loro impotenza: state tentando di afferrare l’aria da mesi, non riuscirete a vincere oggi.
«A proposito di figuri poco loschi» aggiunse l’uomo dopo qualche istante di silenzio, «so che eravate sulle tracce di un insolito criminale mascherato, prima che il conte ottenesse di farvi sollevare dal caso»
«E con questo?» domandò Athos, che non trovava per niente rassicurante quella domanda.
«Mi chiedevo se aveste qualche indizio su di lui»
«Non ne abbiamo» si affrettò a dire d’Artagnan. «A voi che importa?»
«Pensavo potesse entrarci qualcosa con l’omicidio di Marie»
«E io sono biondo…» bisbigliò Porthos in un filo di voce, senza che Jean-Pierre lo udisse.
«Naturalmente, avete lasciato irrisolta anche quella questione»
«Abbiamo dei sospetti»
«Chi?»
«Perché dovremmo dirvelo?».
L’uomo lanciò ai moschettieri un’occhiata torva, piena di disprezzo malcelato. Doveva tenere davvero alla ragazza, ma con la vita che si era scelto avrebbe dovuto essere più accorto. Non era anche quello l’amore? Sapere quando rinunciare per il bene dell’altra persona…
«Non importa» concluse, «magari me ne occuperò io, a tempo debito».
Nessuno di loro ebbe modo di replicare. Un colpo di pistola spezzò il silenzio asettico di quell’ala dell’ospedale e tutti si voltarono per cercare di capire da dove provenisse.
«Me ne occupo io» esclamò subito Jean-Pierre. «Non serve che vi mettiate di mezzo».
Fece per lanciarsi fuori dalla stanza. D’Artagnan si sfilò la pistola dalla cintura e lo colpì alla nuca con un unico gesto deciso.
Il tirapiedi di Legrand stramazzò al suolo come un sacco di rena e Porthos guardò il giovane con finta aria di rimprovero.
«Che vuoi? Mi stava irritando» borbottò il guascone.
«Andiamo a vedere chi è stato tanto idiota da farsi sparare» si intromise Aramis, per riportare l’attenzione sulle questioni più urgenti.
«Ho paura di provare a indovinare…» borbottò Athos.
I moschettieri sfrecciarono fuori dalla stanza, scavalcando il corpo di Jean-Pierre privo di sensi.
 
***
 
«Cosa credevi di fare, ragazza?» sputò un uomo con un sorriso sardonico.
Diane era ferma sui gradini, davanti a lei l’uomo e la sua pistola, alle sue spalle gli altri tre che si erano precipitati a vedere cosa stesse succedendo.
L’uomo, probabilmente uno di quelli scampati dal disastro al porto, le fece cenno di scendere le scale. Incespicando sui gradini corrosi dal tempo, la giovane raggiunse il ventre buio dello scantinato.
«Cosa credete di fare voi?» esclamò. «Se mi sparate vi sentiranno»
«Chi dice che dobbiamo spararti?» disse un altro uomo. Diane indovinò il lampo di una lama.
«Nessuno ti verrà a cercare quaggiù. Penseranno che magari te ne eri uscita a prendere una boccata d’aria… e chissà cosa può succedere a una ragazza sola in un quartiere come questo»
«Faranno domande. Controlleranno questo posto da cima a fondo. Vi scopriranno». Diane sapeva che quei criminali avevano ragione, ma doveva prendere tempo. Si rese conto che la sua unica possibilità era che le sparassero davvero.
«E poi, sottovalutate quanto forte io possa urlare» concluse, facendo un balzo all’indietro per sottrarsi alle mani degli sconosciuti che si muovevano nella penombra come spettri.
L’uomo sulle scale l’afferrò e le chiuse la bocca con la mano.
Diane non riusciva a respirare. Strinse i pugni e il minuscolo pugnale che le aveva dato Athos le scivolò nel palmo della mano. In un tentativo disperato lo conficcò nella coscia del suo aguzzino e glielo rigirò nella carne.
L’uomo urlò, con un sussulto fece partire il colpo di pistola che atterrò come una cometa ai piedi della ragazza.
Così va meglio…
Gli altri si guardarono in viso, atterriti. Uno di loro si scagliò su Diane e l’afferrò brutalmente per le spalle, stringendole la gola.
«Colpa tua, ragazzina. Adesso ci aiuterai a uscire da qua» le disse.
Non è nemmeno la prima volta che un gruppo di banditi mi prende come ostaggio per coprirsi la fuga… fu il primo sciocco pensiero di Diane. Il secondo fu che questa volta avrebbe davvero potuto non farcela.
«Non farete in tempo a uscire da questo posto» sibilò.
Dall’esperienza passata avrebbe dovuto almeno imparare che non è opportuno far innervosire uomini armati che ti tengono sotto tiro, ma poi come avrebbe fatto suo zio a lamentarsi della sua testardaggine?
«Allora non ne uscirai nemmeno tu»
«Allora sarete ancora di più nei guai».
Uno degli uomini la colpì al viso con un pugno fortissimo. Diane sentì il sapore del sangue in bocca e la testa girarle.
L’afferrarono e la trascinarono per le scale, in una corsa quasi alla cieca.
Erano a metà dei gradini quando la porta nascosta si aprì di schianto e le guardie del cardinale comparvero con le pistole alla mano.
Diane, mezza stordita e più impaurita che mai, si chiese se i moschettieri nel mentre non si stessero facendo un goccetto con Jean-Pierre da qualche parte. Le guardie rosse non sembravano abbastanza sveglie per trarla d’impaccio da quella situazione: al cardinale importava incastrare il conte per prendersene il merito, fare uscire tutti vivi da lì non doveva rientrare nelle sue priorità o in quelle dei suoi soldati.
«Lasciate andare la ragazza» intimò una delle guardie.
Apprezzo il tentativo ma quando mi faranno saltare la testa voi sarete i primi che il mio fantasma verrà a tormentare…
«No. Voi ci lascerete passare e… ci lascerete passare o la bambolina muore» replicò l’uomo, spingendo con più forza la canna della pistola contro la tempia di Diane.
«Lasciateli passare, ho già abbastanza mal di testa…» squittì lei, mezza furiosa e mezza terrorizzata dall’inettitudine del soldato che aveva davanti.
Le guardie rosse si fecero da parte e i tre uomini si affrettarono a uscire, trascinando con loro la ragazza.
Quando sfondarono la porta della lavanderia e si riversarono nella grande camerata che ospitava le corsie dell’ospedale, furono accolti da un coro di strilli.
«DIANE!». La ragazza non capì chi lo avesse gridato per primo, se il duca, Treville o Cesare.
I tre uomini restarono impietriti, come se si fossero resi conto dell’impossibilità della situazione.
«Conte! Che storia è questa?» tuonò il cardinale - che per precauzione era comunque sparito dietro le spalle del capitano dei moschettieri.
L’enorme faccione di Legrand era bianchissimo e sudato.
Diane cominciava a sentire la nausea, la testa che le scoppiava e la voglia di mettersi a piangere o a gridare o tutte e due le cose insieme.
E poi il mondo precipitò.
La ragazza vide con la coda dell’occhio delle figure spuntare di lato. Un braccio l’afferrò e la trascinò così forte da farle scricchiolare l’articolazione della spalla.
I moschettieri erano comparsi Dio solo sa da dove e si erano lanciati addosso ai tre uomini, approfittando dell’effetto sorpresa per strappare loro l’ostaggio che intendevano portarsi dietro.
Diane non capì subito cosa fosse successo, realizzò solo di essere con la faccia affondata in un lembo di cuoio, un braccio le cingeva le spalle e lei non aveva il coraggio di voltarsi a guardare.
D’improvviso si sentì gettare a terra, e cadde restando aggrappata a chiunque l’avesse sottratta ai suoi aguzzini.
Spari. Grida. Odore di polvere e di bruciato. Suono di passi che correvano. Rumore di corpi che impattavano l’uno contro l’altro e di ossa rotte. 
«ARRESTATELI! IN NOME DI DIO!» tuonò Richelieu da qualche punto imprecisato della camerata.
Poi il silenzio.    
Diane non si era accorta di aver chiuso gli occhi,  li riaprì uno alla volta e si rese conto di essere letteralmente avvolta addosso a qualcuno.
«Porthos?…» squittì.
«Credo di aver fatto ingelosire un po’ di gente in un colpo solo, eh» scherzò lui. Si alzò e l’aiutò a rimettersi in piedi.
La ragazza era malferma sulle gambe, si appoggiò al braccio del moschettiere e cercò di riacquistare coscienza di quello che aveva attorno, di ricostruire quello che era successo.
Le suore erano accovacciate dietro ai letti; gli infermi sulle loro brande avevano sprofondato la testa nei cuscini; qualcuno piangeva; le guardie rosse erano ancora sulla porta, uno di loro reggeva tra le mani una cassa con dei fucili avvolti nella paglia.
Cesare e il duca erano impietriti, con gli occhi sgranati fissavano il nulla davanti a loro.
Il capitano Treville afferrò il conte e lo spinse contro il muro. «Vi dichiaro in arresto, in nome del re».
Diane cercò lo sguardo dei moschettieri. Loro le stavano sorridendo, anche se non avevano una bella cera.
La ragazza si staccò dal braccio di Porthos e mosse qualche passo, si fermò, sbatté le palpebre, inspirò. Poi vomitò in un badile. 
 

 

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Capitolo 24
*** Il processo ***


XXIII
Il processo
 
 
«Sei sicura di volerlo fare?». Porthos appoggiò la mano sulla chiave, senza farla girare nella serratura.
Le prigioni sotterranee del Louvre erano viscere di pietra spoglia illuminate a stento da fiaccole appese alle pareti.
Diane deglutì. «Non siamo arrivati fin qui per farci fregare dalla mia emotività, no?».
Il moschettiere annuì e girò la chiave.
Erano stati tutti convocati a palazzo, quella mattina. Porthos si era offerto di accompagnare la nipote del capitano alle prigioni mentre gli altri raggiungevano la sala dove si sarebbe tenuto il processo a Legrand.
Il cardinale era stato di parola: aveva fatto incriminare il conte, aveva portato la questione all’attenzione di sua maestà e c’era voluta appena una manciata di giorni perché si arrivasse a un processo davanti a tutta la corte.
L’increscioso episodio dell’ospedale non era abbastanza per incastrare Legrand come capo della rete di traffici, macchinazioni e omicidi, ma Richelieu sembrava assai deciso a farlo condannare. Sua Eminenza non aveva apprezzato l’essere stato ingannato dal conte, né l’essere finito coinvolto in quella mattinata così piena di confusione e ne aveva fatto una questione personale. Più di ogni altra cosa, il cardinale aveva bisogno di un’azione che provasse la sua capacità di poter rendere ancora servizi al Paese. Incastrare un lupo travestito da agnello sarebbe stato un ottimo colpo.
La grata si aprì con uno scricchiolio graffiante che fece eco nel vuoto del corridoio.
Diane prese un grande respiro, alzò lo sguardo con la fermezza di chi sa di essere nel giusto e si incamminò fino all’unica cella occupata.
«Vi hanno già mandato un prete?» domandò calma la ragazza, appoggiandosi con le mani alle sbarre. Le trovò fredde e sentì un brivido passarle lungo la schiena.
«Non mi serve un prete».
Jean-Pierre, il fedelissimo di Legrand, avanzò verso un ritaglio di luce grigia che filtrava dalla minuscola finestra.
«Perché siete qui, mademoiselle?».
La consapevolezza della sconfitta lo aveva già raggiunto, e da uomo rassegnato evidentemente pensava di non avere motivo per essere astioso.
«Oggi il conte Legrand verrà processato, e voi con lui»
«Lo so»
«Sapete anche che non ci sono possibilità di uscirne bene?»
«Questo lo dite voi».
Diane sospirò. Non aveva intenzione di infierire su un avversario già sconfitto.
«Il cardinale ha preso molto a cuore la questione, sono a Parigi da abbastanza tempo per sapere che non è un uomo da sottovalutare» si limitò a dire.
«Il cardinale non ha prove per dimostrare che il conte sapesse di quelle armi. Credete che la fama di un uomo come Legrand possa essere distrutta in una sola mattina? Il cardinale non ha prove, e nemmeno i vostri moschettieri»
«Noi abbiamo voi».
Jean-Pierre si lasciò scappare una risata graffiante, voltò le spalle a Diane, fece il giro della cella con passi lenti.
Porthos, in piedi dietro la ragazza, cominciava a spazientirsi.
«Fate troppo affidamento su di me, mademoiselle. L’onore e la lealtà non sono cose che possono venir cancellate da qualche giorno al fresco» 
«Di quale onore parlate? Di quello di un assassino? E di quale lealtà? Avete visto a cosa ha portato la vostra lealtà».
Jean-Pierre mosse qualche passo e si avvicinò alle sbarre. «Non mi aspetto che una ragazzina viziata capisca».
Diane strinse i pugni attorno alla grata, le nocche che sbiancavano.
Non voleva essere subdola, girando il dito nella piaga di un uomo ferito, ma se Jean-Pierre faceva fatica a ricordare di avere una coscienza allora era bene che qualcuno glielo rammentasse: quella poteva essere la sua ultima occasione di usarla.
«All’ospedale mi diceste che avreste voluto parlarmi di Marie» mormorò. 
«Che cosa credete di ottenere?» 
«Lo sapete che sono stata io a trovarla?».
Nello sguardo dell’uomo qualcosa vacillò e tremò. «No, non lo sapevo».
«Il conte non ve lo ha detto. Era innamorata di voi, è morta perché voi siete stato un uomo onesto e leale»
«Questo non potete saperlo!»
«Avete ucciso Morice, per il conte! La sua banda non poteva toccare Legrand o voi personalmente, così si è vendicata su di lei. Marie era innocente!»
«Sono solo supposizioni le vostre… non è stato trovato un colpevole. Non lo avete nemmeno cercato…»
«Non conosciamo gli scagnozzi di Morice, voi sì. Dateci i loro nomi e cercheremo l’assassino di Marie».
Jean-Pierre balzò in avanti e picchiò le mani contro le sbarre della cella, quasi ringhiando.
Porthos si parò accanto a Diane ma la ragazza gli fece cenno di stare calmo.
«Perché vorreste farmi questo favore? Se sperate che testimoni contro Legrand, vi sbagliate» concluse il prigioniero.
Diane si chiese in che razza di mondo orribile fosse vissuto quell’uomo per pensare che quella visita avesse come scopo uno scambio del genere.
«Voglio trovare l’assassino di Marie perché è giusto, perché penso che qualcuno capace di fare una cosa simile a una ragazza non debba potersene andare in giro da uomo libero. Spero che testimonierete contro Legrand per la stessa ragione. Non vi sto proponendo un patto».
Jean-Pierre restò a fissarla muto, con le labbra strette e contorte come una crepa. Diane pensò di averne avuto abbastanza, si voltò senza aggiungere altro e lasciò le prigioni.
L’aspettava una giornata tremenda.
 
***
 
Il capitano Treville allungò il collo per spiare oltre la selva di gente radunata nella sala delle udienze.
«Quanto tempo ci mettono a tornare?»
«Diane non si perderebbe questo momento per niente al mondo» lo rassicurò Aramis.
La folla di cortigiani si aprì quando il re e la regina fecero il loro ingresso nel salone, seguiti da Richelieu che quella mattina sembrava improvvisamente aver riacquistato un po’ del passato vigore.
«Spero che il cardinale sia davvero agguerrito come sembra» mormorò Athos.
«È riuscito a condannare te per delle false accuse, non ho idea di cosa potrebbe fare ora che le accuse sono vere» rispose Aramis battendogli una mano sulla spalla.
«Il conte è un personaggio assai più amato e influente di quanto non lo sia un comune moschettiere»
«Suvvia, un po’ di ottimismo, amico mio…» intervenne d’Artagnan.
Il duca de Leroux comparve facendosi strada a fatica in mezzo alla sala affollata, seguito da Corsini con l’aria annoiata di chi avrebbe voluto volentieri trovarsi altrove.
«Se non fosse stato per il delirio all’ospedale, avrei preferito evitarmi tutto questo spettacolo» disse il duca, fermandosi accanto a Treville.
«Credetemi, è meglio che non ve lo perdiate» rispose il capitano.
Finalmente arrivarono anche Porthos e Diane. 
I moschettieri spiarono l’espressione della ragazza per tentare di capire quale esito avesse avuto il suo colloquio con Jean-Pierre.
«Allora?» mormorò d’Artagnan in un soffio.
La ragazza scosse la testa, Porthos scrollò le spalle.
Aramis si fece aria col cappello. «È un no o un non lo sappiamo?».
«Non ne sono sicura» sospirò lei.
L’aria sembrò cambiare all’improvviso, il sottile chiacchiericcio dei presenti si trasformò in un brusio sempre più forte.
Il conte Legrand entrò scortato da due guardie rosse. Non sembrava aver patito troppo la prigionia, indossava abiti puliti, aveva il viso perfettamente rasato e non una sola ombra di preoccupazione velava lo sguardo da furetto di quei suoi occhi sprofondati nel viso grassoccio.
Non era incatenato: evidentemente, per quanto impegno ci avesse messo, il cardinale non era riuscito ad assicurarsi una completa umiliazione per un uomo tanto importante. Non era un buon segno.
Diane lo fissò come se avesse un moto di nausea.
«Forse è stato un bene che abbia lasciato la Francia» mormorò de Leroux. «La nobiltà in questo paese è bizzarra»
«Non sapete quanto…» borbottò Porthos.
«Quell’uomo merita di sicuro una punizione esemplare per la mattina infernale che abbiamo passato e per quello che quei criminali hanno fatto a Diane» interloquì Corsini, poi prese la mano della giovane. Il ragazzo ancora non sembrava essersi ripreso dallo spavento di aver visto la sua fidanzata ostaggio di briganti comparsi dal nulla.
«Non siamo sicuri che c’entri qualcosa» osservò il duca, convinto. «Andiamo, è un conte».
I moschettieri si scambiarono un’occhiata di paziente sopportazione. Treville evitò di guardare il cognato di sua sorella per non dover rifilargli qualche battuta pungente che avrebbe guastato l’umore di tutti più di quanto già non fosse.
«Conte Legrand» esclamò il re. La folla si zittì, gli sguardi di tutti si rivolsero al sovrano. «Mi sono giunte voci davvero inquietanti su di voi. Quello che mi ha riferito il cardinale è talmente grave che stenterei a crederlo, ma dato che sua Eminenza è la persona di cui mi fido di più non posso esimermi dal chiedervi spiegazioni»
«Sarò ben lieto di darvene, vostra maestà» disse il conte con il più amabile dei sorrisi.
Athos fu grato che tra lui e quell’uomo ci fosse una fila di persone e gli sguardi di mezza corte, altrimenti si sarebbe occupato personalmente di fargli saltare tutti i denti da bocca, così che nessuno dovesse più vedere quel ghigno da maschera greca. 
«Naturalmente le parole di sua Eminenza hanno un valore inestimabile per noi tutti e l’onestà e la saggezza del cardinale sono al di sopra di ogni sospetto». Sembrava che dalla bocca del conte filasse zucchero. «Tuttavia credo che, seppure in buona fede, il cardinale Richelieu abbia commesso un errore nello giungere alle conclusioni sbagliate. Non so niente di quello che è successo nel mio ospedale e dei crimini che mi si attribuiscono».
«Vostra maestà, permettetemi» intervenne il cardinale. «Quest’uomo afferma di non saperne niente, ma a me riesce davvero troppo difficile credere che non fosse a conoscenza del fatto che il suo ospedale venisse usato come deposito per armi di contrabbando»
«Questa è una vostra supposizione, Eminenza» ribatté Legrand, calmissimo.
«Il conte ha ragione, Armand. Che prove avete? Perché voi ne avete, giusto?» chiese il re.
Un’immobilità innaturale sembrava aver colto tutti i presenti. La folla fissava silenziosa il cardinale, pendeva dalle sue labbra preoccupata e curiosa.
«Oh, andiamo…» bisbigliò d’Artagnan nervoso. «Era il suo dannato ospedale!»
«Il conte ha ragione, non ci sono prove effettive che dimostrino il suo coinvolgimento» osservò de Leroux. «Il conte ha fatto costruire l’ospedale, di certo non ci viveva dentro»
«Volete tacere?» sbottò Diane, guardando il fratello di suo padre come se avesse potuto incenerirlo.
Quella doveva essere la prima volta in dieci anni che il duca riceveva un tale trattamento dalla sua devota nipote. Ammutolì con aria scandalizzata.
Treville sorrise gongolante.
«Avete interrogato i criminali che hanno messo le mani addosso alla povera mademoiselle Leroux?» chiese il conte, serafico.
Sentendosi nominare da quell’uomo, Diane alzò la testa di scatto. I moschettieri trattennero il fiato chiedendosi se non fosse il caso di afferrarla e chiuderle la bocca prima che potesse fare o dire qualcosa, ma la ragazza rimase immobile e serrò le labbra.
«Li abbiamo interrogati, Eminenza?» fece eco il re.
«Lo abbiamo fatto, maestà, e non ci hanno saputo fornire alcuna indicazione. Ma questo non prova che il conte sia innocente»
«Né che sia colpevole».
Diane strinse i pugni e si voltò verso i moschettieri. «Cos’è questa storia? Perché quegli uomini non hanno parlato? Credevo che il cardinale avesse tutto sotto controllo» disse. Un moto di panico le passò negli occhi chiari: adesso sembrava che dopo tutti quegli sforzi, dopo aver fiutato la vittoria, ogni cosa fosse sul punto di vanificarsi, il conte l’avrebbe fatta franca ancora una volta.
«Quei tre mentecatti non hanno parlato» spiegò Aramis.
«Probabilmente sono spaventati. Lo sappiamo come vanno a finire quelli che tradiscono il conte» aggiunse Porthos.
«Il cardinale non poteva aspettare di estorcergli una confessione» sospirò Treville. «Non avrebbe potuto trattenere a lungo il conte in prigione senza un’accusa fondata…».
Diane si coprì la bocca con la mano. Dentro di lei doveva star urlando disperata.
Athos provò l’impulso di cingerle le spalle, dirle che sarebbe andato tutto bene. Non potevano perdere quella battaglia, non di nuovo, non lo avrebbe permesso, qualsiasi cosa questo implicasse.
«Quindi, la vostra versione, conte Legrand, è che dei criminali hanno usato il vostro ospedale a vostra insaputa per nascondere delle armi e che nessuno se ne sia mai accorto?» sbuffò Richelieu.
«Mi prendo senz’altro la responsabilità di non essere stato abbastanza avveduto, vostra Eminenza»
«Ho condotto delle indagini» insistette il cardinale. «A partire dal giorno dell’inaugurazione e dalla morte di quel pover’uomo trovato vicino al palco. Ci sono gravi indizi che fanno credere che il conte sia coinvolto in una rete di traffici e di speculazioni sulla vendita di proprietà e case. Ho motivo di ritenere che fosse in affari con Luc Morice, noto speculatore dalla condotta poco raccomandabile, che è stato anche lui assassinato poco dopo il ritrovamento di armi uguali a quelle trovate in ospedale all’interno di una delle sue proprietà» 
«Sì, certo, le ha condotte lui le indagini…» borbottò Porthos strabuzzando gli occhi. 
Il conte non disse niente. Tutta quella valanga di informazioni non provava nulla.
«Questo dimostra che in città c’è una rete per il traffico d’armi assai estesa. Non è la prima volta che riscontriamo crimini del genere e Dio solo sa quanto la cosa mi preoccupi» disse il re, massaggiandosi una tempia. «Ma il coinvolgimento del conte in tutto questo non è ancora stato provato».
Mentre sua maestà parlava e intavolava un lungo soliloquio sulla necessità di combattere tutti i sovversivi che si nascondevano a Parigi e che operavano contro il bene della Francia, il cardinale si voltò verso Diane. Sembrò che il suo sguardo fendesse l’aria come una pietra per arrivare a colpire la ragazza al petto.
La nipote del capitano e Richelieu restarono a fissarsi come se si stessero parlando con la sola forza del pensiero. Ma Diane era coraggiosa e non le occorreva alcuno sprone per decidersi a fare la sua parte. Fare la sua parte era il motivo stesso che l’aveva portata a Parigi, che le aveva fatto rischiare la vita, la reputazione e ogni cosa.
Prima che qualcuno fosse in grado di rendersene conto, Diane scansò le persone che aveva davanti e si portò nello spazio vuoto dinnanzi al trono.
«Vostra maestà, vi prego, permettetemi di parlare» esclamò.
Il re arricciò il naso, guardando la ragazza irritato per essere stato interrotto in quella che doveva sembrargli una grande orazione da sovrano.
«Mademoiselle Leroux, ho saputo del vostro rocambolesco coinvolgimento l’altra mattina all’ospedale ma sono sicuro che non abbiate niente di interessante da dirci» borbottò Luigi, imbronciato. «Siete certo una giovane molto apprezzabile ma dubito che possiate saperne qualcosa di armi e traffici e sicurezza a Parigi!».
Diane rimase zitta ad ascoltare il re rimproverarla come fosse una bambina. Poi chinò il capo in umile segno di scusa e riprese a parlare.
«Vostra maestà, vi prego…»
«Diane…» sospirò Corsini, turbato.
«Cosa diamine sta facendo?» disse de Leroux con voce strozzata, aggrappandosi alla manica di Treville.
«Di sicuro qualcosa che dovrebbe renderci entrambi fieri di lei, duca» ribatté il capitano dei moschettieri. 
«Vostra maestà, vi prego…» sussurrò Diane.
«Mademoiselle, vi invito a tornare al vostro posto».
La regina, che fino a quel momento era rimasta zitta, ad ascoltare e ad osservare cercando di capire da che parte schierarsi, allungò una mano e la posò con dolcezza su quella del marito.
L’aria piccata di Luigi si trasformò in una smorfia.
«Lasciatela parlare, maestà» chiese la regina. «Sono certa che mademoiselle Leroux non sia persona da parlare a sproposito in una simile circostanza. E credo che a questo punto siano tutti curiosi di ascoltarla».
Il re finse di prendersi qualche secondo per pensarci, alla fine sospirò e fece un cenno con la mano a Diane perché parlasse.
«Ringrazio il cardinale per aver portato all’attenzione della corona questo caso» esordì Diane. «Sua Eminenza forse riteneva saggio e generoso non espormi per evitarmi una prova troppo grande, ma non c’è niente che sia troppo grande a confronto della giustizia»
«Di cosa state parlando, Diane?» chiese il re.
Il cardinale, per suo conto, sorrideva sornione per il favore resogli dalle parole della ragazza - con quell’uscita gli aveva forse salvato la faccia che stava miseramente rischiando di perdere in quel processo che non sembrava arrivare a un dunque.
«Il cardinale ha accettato di intervenire dopo che i moschettieri di sua maestà gli hanno esposto il caso sul quale hanno indagato per settimane con assoluta diligenza» spiegò Diane.
«Cara ragazza, sta salvando capra e cavoli» trillò Aramis, deliziato.
«Alla fine, se va tutto bene, ci prenderemo anche noi la nostra fetta di gloria» intervenne d’Artagnan.
«Se va tutto bene» precisò Athos che in quel momento sentiva l’orrida sensazione di un masso nello stomaco e l’impellente desiderio di bere un’intera botte di qualcosa abbastanza forte da stordirlo per un mese.
Il re ridacchiò e scosse il capo. «Ah, be’, se è qualcosa che ha messo d’accordo il cardinale e i moschettieri allora vale propio la pena di starvi a sentire».
Diane fece un cenno di ringraziamento. Si voltò un istante a guardare Legrand senza alcuna espressione, poi infilò la mano tra le pieghe dell’abito e ne estrasse un voluminoso quaderno rilegato in cuoio. Si schiarì la voce e riprese a parlare.
«I miei genitori sono morti assassinati dieci anni fa, all’epoca fu ritenuta opera di criminali di strada, ma nel suo diario mio padre aveva annotato ogni cosa: le scoperte che aveva fatto sui traffici del conte, le sue paure per la propria incolumità e per quella della sua famiglia. Se non ci sono prove effettive oggi per dire che Legrand sia coinvolto in questi traffici e persino in casi di omicidio, non si può nemmeno escludere che in tanti anni non abbia lavorato in tal senso».
Ora tutti fissavano la ragazza, stupiti. Il re si voltò lentamente verso il cardinale, muovendo la testa quasi a scatti.
«È stata mademoiselle Diane a far partire le indagini?» chiese.
«Pare sia tornata a Parigi con questo preciso intento, maestà» rispose Richelieu, senza staccare gli occhi dalla giovane.
Il re allungò la mano perché Diane gli consegnasse il diario di suo padre, la ragazza lo sfogliò e mostrò al sovrano le pagine che contenevano gli appunti di cui aveva parlato.
In silenzio, il cardinale e il re cominciarono a leggere.
«Questa è una follia!» strillò Legrand «Non potete accusarmi per delle fandonie scritte dieci anni fa e mai provate!».
Cominciava a perdere la calma e questo forse sarebbe bastato a tradirlo.
«State zitto, conte, mi distraete» sbuffò il re, alzando una mano ma senza guardarlo, continuando a leggere.
Diane restò al centro della stanza, resistendo all’impulso di guardarsi attorno e affrontare la selva di occhi che la stavano puntando.
Accanto ai moschettieri, il duca era ammutolito. Si era appoggiato con una mano alla spalla di Treville come se temesse che le gambe non potessero reggerlo. Scoprire che suo fratello era stato assassinato in un complotto criminale doveva essere stato un duro colpo, persino per lui.
Quando Diane si costrinse ad alzare lo sguardo, incontrò gli occhi della regina che la guardavano senza la feroce curiosità del resto dei presenti. Sua maestà sembrava turbata per tutto quello che la ragazza si era tenuta dentro da quando l’aveva conosciuta, per il fatto che lo avesse tenuto segreto anche a lei.
Il re chiuse il quaderno.
«Quello che ho letto è molto grave, molto» disse sua maestà. «Francamente, mademoiselle, mi chiedo perché mi abbiate mostrato questo diario solo oggi»
«Per lo stesso motivo per cui solo oggi il conte Legrand è qui per un processo: non si era mai riusciti a coglierlo in flagrante o a trovare abbastanza elementi per sottoporre il caso alla vostra attenzione, maestà».
Il re si lasciò cadere contro lo schienale del suo scranno, pensieroso. Dopo lunghi secondi di silenzio, si sporse verso il cardinale. «Sono assai incline a credere a voi e a mademoiselle Leroux, Armand» bisbigliò. «Ma se solo avessimo una prova in più…».
Richelieu dondolò la testa come un avvoltoio, mosse qualche passo e restituì a Diane il diario del padre.
Prima di lasciarla andare le afferrò il polso e glielo strinse con le sue lunghe dita ossute. «Devo far chiamare Jean-Pierre. Se mente sarà tutto perduto…» le sussurrò in un soffio così leggero che i moschettieri udirono a stento.
La ragazza annuì e restò in piedi sul bordo del cerchio disegnato dalla folla, a solo un metro dal conte. L’uomo la guardava come se avesse voluto ucciderla con uno sguardo, lei lo fissò con freddezza, strinse al petto il diario di suo padre e attese.
Il cardinale fece un cenno alle guardie e dopo qualche minuto Jean-Pierre fece il suo ingresso con le catene ai polsi che tintinnavano cupamente nel silenzio della sala.
«E costui chi sarebbe?» chiese il re.
«Jean-Pierre, il braccio destro del conte. Speriamo possa aiutarci a fare chiarezza su un paio di cose» spiegò il cardinale.
Il sovrano raddrizzò la schiena e mise su la sua espressione da uomo saggio. «Venite avanti» ordinò. «Conoscete le accuse che sono state rivolte al vostro padrone e, di conseguenza, a voi?»
«Sì, maestà»
«Cosa avete da dire al riguardo?».
Jean-Pierre si voltò verso il conte. Legrand gli sorrise come il più caro degli amici.
L’uomo restò in silenzio per secondi che sembrarono un’eternità.
Aramis si strinse tra le dita la croce del rosario. Porthos tormentava le falde del cappello che si rigirava tra le mani. d’Artagnan aveva assottigliato lo sguardo e sembrava trattenere il respiro. Treville guardava il vuoto, forse augurandosi semplicemente che tutto finisse il prima possibile per portare Diane via da lì.
Athos continuava a sentire un macigno dentro, l’esigenza di essere altrove a bere e la voglia di gridare che era tutto così superfluo e sciocco, che il conte era colpevole e mai e poi mai avrebbe dovuto farla franca ancora una volta.
«Ho servito il conte per tanti anni» disse Jean-Pierre. «Un uomo importante che si occupa di tante cose di riguardo ha bisogno di qualcuno di cui fidarsi. La fiducia è sempre stata tutto per lui»
«Venite al dunque» sbottò Richelieu.
«Se quell’uomo mente, il cardinale lo farà uscire di prigione un pezzo alla volta» disse Treville.
«Sì, e saranno tutti pezzi molto piccoli» convenne d’Artagnan.
«Ci sono due modi per ottenere la lealtà di qualcuno» continuò Jean-Pierre. Era il suo momento di gloria, in un modo o nell’altro, e sembrava deciso a goderselo fino in fondo. Comunque fossero andate le cose, era di certo l’ultima azione che avrebbe fatto da vivo.
«Guadagnandosela con una condotta appropriata, oppure comprandola in qualche modo»
«E il conte come si è assicurato la vostra lealtà per tutti questi anni?» chiese il cardinale ostentando una pazienza che si andava sempre più esaurendo.
«L’ha comprata. A ventidue anni ero un giovane desideroso di fare strada, entrai al suo servizio con un’idea molto chiara di cosa significasse il dovere. Quando scegli quella strada, sai che il tuo destino è l’obbedienza… come un monaco, no?»
«Sì, sì, il concetto è assai chiaro. Andate avanti»
«Il primo ordine, uno dei primi ordini, che ricevetti riguardava una prova: se l’avessi superata avrei ottenuto la fiducia del conte e lui avrebbe saputo che poteva fidarsi di me perché sarei stato compromesso»
«Che tipo di prova?».
«L’omicidio del proprietario di una ditta di costruzioni e di sua moglie» disse Jean-Pierre, con calma. Si voltò verso Diane con gli occhi vitrei. «Ho ucciso io i vostri genitori dieci anni fa».
Un boato si alzò dai presenti.
Il duca de Leroux e Treville scattarono nello stesso momento. Porthos e Aramis li afferrarono e li trascinarono non senza difficoltà via dalla folla, nell’angolo più lontano della sala, gettandoli contro il muro e invitandoli a prendere un grosso respiro.
Treville si chinò in avanti con i palmi appoggiati alle ginocchia, boccheggiando sopraffatto dallo sconcerto. Il duca si allentò il nodo del foulard di seta che aveva al collo, Corsini gli andò incontro per aiutarlo a riaversi.
Athos era vagamente consapevole di tutto questo. Non riusciva a fare altro che guardare Diane, in piedi come una statua tra il mandante e l’esecutore dell’assassinio dei suoi genitori. La ragazza era diventata bianca come il marmo delle colonne, non sembrava neppure capace di respirare o muoversi, rimase lì con le mani strette attorno al diario di suo padre come un naufrago che si aggrappa a un relitto senza possibilità di salvarsi dall’annegamento.
Il cardinale mosse qualche passo al centro della stanza. «Confermate tutto quindi?» disse a Jean-Pierre. «Non solo l’assassinio di Leroux e sua moglie dieci anni fa, ma anche il resto? Il traffico d’armi? L’omicidio di Luc Morice e dell’uomo il giorno dell’inaugurazione dell’ospedale e, Dio mi aiuti, chissà che altro»
«Traditore!» esclamò il conte, liberandosi con uno strattone dalla presa delle guardie e scagliandosi contro Jean-Pierre.
Athos e d’Artagnan si precipitarono ad afferrarlo prima che potesse raggiungere il suo servitore e lo trascinarono a terra.
Quando il conte si mise a urlare come impazzito, Athos pensò che tutti ne avevano avuto abbastanza. Con un pugno ben assestato lo stordì e lo lasciò a rovinare sul marmo del pavimento.
Il re aveva sgranato gli occhi, ora fissava la scena davanti a sé con le dita conficcate nel velluto che rivestiva i braccioli del suo scranno. La regina respirava affannosamente, turbata, facendo appello a tutto il suo autocontrollo per non avere nessun tipo di reazione inconsulta.
La gente attorno parlava strillando.
Per un attimo la sala delle udienze fu una bolla di caos sul punto di esplodere.
«Arrestateli!» strillò il re, coprendo con la sua voce quella di tutti. «Fateli sparire nella più buia delle celle!».
Le guardie rosse del cardinale si fecero strada a fatica in mezzo a quel putiferio. Ce ne vollero quattro per trascinare via il conte svenuto.
Jean-Pierre si voltò verso Diane, prima che arrivassero per portarlo via, mosse un passo verso di lei e la guardò. Athos provò il desidero bruciante di sparargli in mezzo alle spalle, lì, seduta stante.
«Avrò il vostro perdono un giorno, mademoiselle?» domandò. Le fece scivolare un pezzo di carta tra le dita.
Lei lo fissò atterrita senza rispondere. Le guardie lo afferrarono per le braccia e lui si lasciò portare via senza battere ciglio.
Mentre il caos di voci e strilli scemava pian piano, Diane riprese lentamente a respirare, guardò il cardinale, poi il re e la regina, ma forse non stava guardando nessuno per davvero. Strinse le labbra per soffocare qualcosa di troppo grande da dire, qualcosa che non poteva essere detto e si voltò, scappando via aprendosi la strada a forza tra la folla e sparendo dietro una porta.
«Va’ a vedere se il capitano e gli altri hanno bisogno di un medico. O di un esorcista» bisbigliò Athos a d’Artagnan. Anche lui si sentiva frastornato, mosse qualche passo come se fosse ubriaco poi si riscosse e lasciò la sala, allontanandosi con sollievo da tutte quelle facce stropicciate dall’indignazione.
Impiegò molto tempo a trovare Diane. La ragazza era in una delle gallerie che portavano agli alloggi della servitù. Teneva la fronte appoggiata al vetro freddo della finestra, come se fosse febbricitante, le spalle si sollevavano violentemente per i singhiozzi.
Quando Athos le si avvicinò, lei lo vide riflesso contro un vetro e si voltò di colpo. Il moschettiere pensò di non aver mai visto tanto pianto sul viso di una persona, le lacrime le erano scese lungo la gola e le bagnavano il pizzo scuro della scollatura.
Diane si gettò tra le sue braccia e nascose il viso nel suo petto, continuando a piangere.
Athos sentiva la disperazione della ragazza scorrere via, passare da quelle lacrime alla sua pelle. Sentiva il veleno lavato da quella pioggia di acqua salata e pensò che era tutto ciò che la ragazza meritasse: una vita pulita, lontana da quei fantasmi, da quello che il destino le aveva riservato.
Mentre le lacrime di Diane gli inzuppavano la camicia, trovò che quegli istanti fossero la cosa più giusta del mondo. E anche per lui qualcosa simile al pianto salì dalla gola agli occhi, velandogli lo sguardo per qualche secondo. 
A poco a poco la ragazza si calmò. Passate le lacrime, le restò un sottile affanno, il viso arrossato, lo sguardo perso di qualcuno che si risveglia da un incubo troppo lungo e difficile da raccontare.
«Respira» le disse Athos. «È tutto finito. È tutto finito, ce l’hai fatta».
Diane annuì, non disse niente gli prese la mano e abbassò lo sguardo, aspettando che gli ultimi strascichi della crisi passassero del tutto.
«Diane!» esclamò una voce preoccupata.
La ragazza e il moschettiere si voltarono per vedere Cesare Corsini sulla porta all’estremità del corridoio.
Diane spostò lo sguardo smarrita tra lui e Athos. Il moschettiere le prese il braccio con delicatezza e la pilotò verso il giovane italiano.
«L’avete trovata…» mormorò Corsini, sollevato. «Non sapevo dove cercarla, pensavo mi sarei perso in questo labirinto di palazzo. Stai bene, Diane?».
La ragazza fece un vago cenno affermativo.    
«L’ho trovata» disse Athos, accennando un sorriso. Era stato giusto abbracciarla e raccogliere le sue lacrime come un fardello da portare, era stato giusto essere lì per lei, ma ora c’era qualcosa di più giusto da fare. Posò una mano sulla spalla di Diane, la spinse piano verso Cesare.
«Ve la lascio» disse. Le implicazioni di quella frase non potevano essere chiare al giovanotto, ma erano chiare abbastanza per lui e non occorreva altro. «Abbiatene la massima cura».
Corsini cinse le spalle della ragazza e sospirò, contento di poter stare con lei, di potersene prendere cura in quella giornata assurda e per tutta la vita.
Il moschettiere li sorpassò e si diresse verso l’uscita.
«Athos…». La voce di Diane tremava. «Grazie».
Lui le sorrise un istante, poi imboccò la porta e sparì. 
 
 




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Capitolo 25
*** Bagagli troppo pesanti ***


XXIV
Bagagli troppo pesanti
 
 
Era l’alba, un’alba pallida che mangiava le ombre a poco a poco.
La luce plumbea filtrava dalla finestra dell’ufficio di Treville.
Diane si stiracchiò sulla sedia.
«E poi sarei io quello che non dorme mai» borbottò il capitano dei moschettieri.
La ragazza era stata sveglia tutta la notte, quasi tutte le notti dalla mattina del processo a Legrand, quattro giorni prima. Raggiungere l’obiettivo a cui si era dedicata per tanto tempo ora la faceva sentire svuotata.
Il re aveva decretato la pena di morte per il conte, per Jean-Pierre e per gli altri che erano stati trovati nell’ospedale. La fama di Legrand aveva reso più osceni i suoi crimini, senza possibilità di assoluzione. Al momento si trovava con i suoi complici alla Bastiglia ed era stato deciso che l’esecuzione non sarebbe stata pubblica, ma il cardinale aveva detto a Diane che poteva assistere, se lo desiderava. La ragazza aveva declinato l’invito, non voleva sapere nemmeno quale sarebbe stato il giorno dell’esecuzione.
Forse, mentre lei e suo zio erano lì a parlare, Legrand e i suoi cani da caccia stavano guardando negli occhi il plotone di esecuzione.
Treville aprì un mobiletto e ne estrasse una bottiglia di vino e dei bicchieri.
«Lo sai che ora è?» borbottò Diane.
«Essere il capitano dei moschettieri ti dà diritto a ogni genere di brutta abitudine».
L’uomo versò da bere per sé e per sua nipote. Lei assaggiò un sorso di vino, era ottimo.
«Era la bottiglia delle grandi occasioni?» domandò.
«Potremmo dire così»
«Cosa festeggiamo?»
«Festeggiamo te». Treville urtò il proprio bicchiere contro quello della ragazza. Lei fece un sorriso stanco. «Non sei felice?».
Diane bevve un altro sorso, lo trattenne sulla lingua per qualche secondo.
«Sono felice che sia finita. Solo che mi rendo conto, adesso, a mente lucida, di quanti errori abbia fatto e di quante cose potevano andare diversamente»
«Sei stata avventata, sì. Ma non lo siamo tutti quando teniamo a qualcosa?».
Diane picchiettò le unghie contro il vetro del bicchiere. Si chiese a cosa tenesse davvero, se cercava la risposta a quella domanda si rendeva conto di quanto era stata egoista.
«Hai preparato la tua roba?» chiese il capitano, dopo qualche istante di silenzio.
La ragazza annuì.
«Bene. Manderò qualcuno a darti una mano con i bagagli»
«Grazie. Monsieur Bonacieux era felicissimo quando ha capito che avrei sloggiato».
La luce che filtrava dalla finestra assunse un riverbero dorato, si fece più forte. Il giorno era arrivato, il domani che Diane aveva atteso, quello in cui sarebbe stata libera dai fantasmi, era giunto e l’aveva presa alle spalle.
Inginocchiata davanti a un baule, la sera prima, la ragazza si era ritrovata tra le mani la spada che aveva usato durante tutta quella tremenda avventura parigina, l’aveva estratta per metà dal fodero ed era rimasta a fissare i suoi stessi occhi riflessi sull’acciaio lucido. Aveva aspettato di sentire la voce di spettro di Sebastiano, ma aveva ottenuto solo il silenzio.
Treville ascoltò i rintocchi di un campanile lontano. «Rischierai di fare tardi al porto» disse a sua nipote.
«Oh, sarebbe davvero imperdonabile»
«Hai già salutato tutti?»
«Sì».
Il duca de Leorux aveva deciso di anticipare la partenza. Diceva di averne avuto abbastanza della Francia; Diane aveva il sospetto che volesse solo mettere più distanza possibile tra sé stesso e quello che aveva visto capitare negli  ultimi giorni.
Il duca non era mai andato troppo d’accordo con suo fratello, soprattutto dopo che questi aveva deciso di sposare la madre di Diane, ma la sera dopo il processo aveva alzato un po’ troppo il gomito e la nipote lo aveva trovato seduto sul sofà della sua camera al Louvre e quando aveva cercato di convincerlo a mettersi a letto lui le aveva afferrato la manica dell’abito e le aveva sciolinato un discorso strano sulla famiglia, sugli affetti, sulle libertà del cuore - così aveva detto. 
La ragazza mandò giù d’un fiato gli ultimi sorsi di vino.
«In realtà, ero passata per una cosa importante, oltre che per bere di prima mattina e fare la conta delle mie sventure» mormorò. Si frugò nella tasca e ne estrasse il foglio che le aveva dato Jean-Pierre il giorno del processo.  
«Uno di questi nomi dovrebbe essere l’assassino di Marie. Lo troverete?»
Treville infilò il foglio nel cassetto dello scrittoio. «Ci puoi scommettere».
Diane si alzò e sentì le gambe tremarle leggermente. Si disse che era solo il vino, o almeno era meglio pensarla così. Raccolse lo scialle che aveva appoggiato alla spalliera della sedia e vi si avvolse.
Quando Treville la accompagnò fuori, dal ballatoio la ragazza osservò il cortile vuoto della guarnigione, nel silenzio si sentiva appena il verso dei cavalli che se ne stavano placidi nelle stalle.
«Sembra un po’ il giorno in cui sono arrivata» disse.
«Ah, è perché hai visto la guarnigione così calma e silenziosa che hai pensato che potesse essere posto per te»
«C’era Athos lì al tavolo. Lucidava la spada e si allenava a fare il tipo torvo». Quanto tempo fa è stato?…
«Athos?».
La ragazza annuì. «Lui, sì».
«Devo chiedere?»
«Non c’è niente da dire».
Diane sentì la commozione afferrarle il petto con gli artigli. Si voltò per abbracciare Treville, gli posò la guancia sulla spalla.
«Ti voglio bene, zio» mormorò.
«Ho una reputazione da mantenere» rispose lui, sbuffando una risatina tra i capelli della ragazza, prima di ricambiare l’abbraccio.
Poi lei si staccò, si aggiustò meglio lo scialle sulle spalle e andò via.
Aveva i bagagli pronti, erano tutti bagagli molto pesanti.
 
***
 
Erano di ritorno da una breve missione fuori Parigi, solo lui e d’Artagnan, dovevano scortare in un convento la figlia di qualche gran signore che incominciava il suo noviziato. Un lavoro noioso, di quelli che lasciano troppo tempo ai pensieri e troppi pensieri necessitavano per forza di essere corroborati da un’appropriata dose di vino.
Non c’erano stati imprevisti, solo lunghe ore in sella sotto un cielo che cambiava umore di continuo senza mai sputare una vera goccia di pioggia. 
«Stai bene?» chiese d’Artagnan quando furono in vista della città.
All’orizzonte il tramonto scuriva il cielo.
«Perché non dovrei?».
Il giovane strabuzzò gli occhi e capì che era meglio tacere.
La risposta più semplice a quella domanda era che non stava né bene né male, stava da Athos. Niente che non si sarebbe risolto una volta messo piede in una locanda.
Parigi li accolse con il suo viavai serale. I primi fuochi brillavano nelle strade, dove le ultime luci della giornata lasciavano il posto alle ombre della sera umida.
Riportarono i cavalli alla guarnigione, le povere bestie erano più stanche di loro.
«Porthos e Aramis?» chiese d’Artagnan a Serge che attraversava il cortile con una pila di pentole sporche tra le mani.
«A fare cose loro» rispose l’uomo.
Athos batté la mano sul petto di d’Artagnan. «Ci raggiungeranno» disse. Del resto, sapevano sempre dove trovarsi.
Nella locanda c’era ancora poca gente, era presto per gli avventori serali e tardi per quelli pomeridiani.
Athos si lasciò cadere seduto al primo tavolo che trovò libero. Il vociare basso dei pochi clienti andò sbiadendo come un rumore sempre più distante.
«Che devo fare?» chiese d’Artagnan, in piedi. Tamburellò le mani sullo schienale della sedia e fissò l’amico. 
«Mh?»
«Date le circostanze, non riesco a capire se è una serata in cui vuoi stare in compagnia o no» 
«Quali circostante? Ah, no, sta’ zitto, non voglio saperlo. Siediti, se mi annoi mi sposto»
«Gentilissimo».
D’Artagnan intercettò l’oste che passava con dei boccali di vino e gliene strappò uno da mano.
«Si sa quando verrà giustiziato il conte?» chiese il ragazzo, guardando il fondo del bicchiere appena vuotato.
«Lo hanno già giustiziato. Me lo ha detto Treville. Non se n’è parlato perché Diane non voleva saperlo»
«Quindi è finita?»
«Era già finita»
«Quindi ci hai parlato, con Diane?»
«No, non l’ho vista in questi giorni»
«Constance è impazzita. Io ci ho parlato… con Constance, intendo»
«Lo credo bene. Ci eravamo proposti di non coinvolgerla più nei nostri disastri»
«No, è impazzita perché si è messa in testa di regalare a Diane il corredo da sposa, solo che non era sicura di cosa potesse andare bene per la moda italiana»
«Con tutto il rispetto per le vicissitudini tessili di Constance, riesci a tenere la bocca chiusa per almeno cinque minuti?». Athos vuotò bruscamente la caraffa nel proprio bicchiere e fece cenno all’oste di portargliene un’altra.
D’Artagnan si tirò indietro per appoggiarsi con le spalle allo schienale tarlato della sedia. Nella penombra della locanda, Athos notò un accenno di sorrisetto da satiro sul suo viso ma non ci badò.
Per lunghi minuti a seguire il ragazzo rimase meravigliosamente zitto e lui poté dedicarsi all’ubriacatura giornaliera in santa pace. O almeno era quello che intendeva fare.
Il sorso di vino che mandò giù, il primo del quarto bicchiere, gli sembrò particolarmente acido e gli bruciò la gola. Appoggiò il boccale sul tavolo con una smorfia.
Con il viso mezzo nascosto dall’ombra di una colonna, d’Artagnan seguitava con il suo silenzio e Athos pensò che ora avrebbe preferito sentirlo parlare, perché i pensieri si erano fatti più insistenti del vino ed erano pensieri che non voleva avere.
Quando sentì la voce di Porthos alle sue spalle, pensò di essere salvo.
«Se Treville mi fa passare un’altra giornata come questa giuro che diserto»
«Non dirlo a me».
Porthos e Aramis si trascinarono con passo stanco fino al tavolo e si misero a sedere, cadendo con malagrazia sulle sedie vuote.
«Che avete fatto? Sembrate distrutti» chiese d’Artagnan.
«Distrutti e affamati» disse Porthos.
Athos trovò che farsi raccontare la giornata dai suoi compagni fosse un’ottima idea.
«E tu? Non bevi?» gli chiese Aramis.
«Vi stavo ascoltando. Che avete combinato?»
«Abbiamo fatto i facchini, ti rendi conto?» sbuffò Porthos, togliendosi in un sol colpo cappello e bandana e passandosi una mano tra il groviglio di capelli scuri.
«Cioè, per Diane questo ed altro, però quella ragazza aveva davvero troppi bagagli» aggiunse Aramis, stiracchiando la schiena.
«Diane?». Athos cercò di dissimulare l’interesse per la domanda versando altro vino e finendo per spargere un po’ di quell’orribile Borgogna sul tavolo.
«Sì. Il duca ha anticipato la partenza»
«Abbiamo caricato su un carro non so quanti bauli di roba»
«Constance è adorabile, ma ha davvero esagerato con il corredo nuziale»
«Le ha regalato una coperta di lana che pesa più di me!» borbottò Porthos.
Athos annuì tentando di mostrare un’appropriata dose di partecipazione per le sciagure dei compagni.
«Aspettate, ma quando parte?» chiese d’Artagnan, d’un tratto.
«Domani, se non sbaglio» disse Aramis distrattamente, cercando con lo sguardo qualche cameriere a cui chiedere qualcosa da mangiare.
«Ma… e non verrà a salutarci?» insistette il ragazzo.
Athos si rigirò tra le mani il calice di vino. Avrebbe fatto meglio a sedersi da solo, tutte quelle chiacchiere lo stavano indisponendo e ogni volta che faceva per portarsi alla labbra il bicchiere veniva distratto.
«Se il duca le lascerà il tempo» disse Porthos. «Non penso ci abbia molto apprezzato come compagnia per la nipote»
«E neppure il damerino, Corsetto, o come si chiama» concluse Aramis.
«Corsini»
«Come dici, Athos?»
«Corsini. Cesare Corsini, si chiama così»
«Ah».
Athos spiò le espressioni dei suoi amici, Porthos e Aramis sembravano totalmente presi dai due piatti fumanti che avevano davanti. D’Artagnan dondolava sulla sedia sospesa su due piedi.
Sospirò e bevve un altro sorso di vino. Aveva lo stesso orribile sapore di prima, forse anche peggio. Provò a costringersi a finire il bicchiere, ma non ci riuscì.
«Al diavolo!» sbottò all’improvviso. Il boccale ancora pieno si capovolse sul tavolo con un tonfo.
Gli altri tre sollevarono lo sguardo su di lui contemporaneamente. Athos non si scomodò a dare spiegazioni, si alzò di scatto e uscì a passo nervoso dalla locanda.  
 
***
 
«Oh, Constance, non ce n’era alcun bisogno, davvero, hai fatto fin troppo…»
«Sciocchezze! Lascia che mi prenda cura di te per altri cinque minuti… chissà quando ti rivedrò!».
Constance depositò tra le braccia di Diane la giacca di cuoio che la ragazza portava sui pantaloni, l’ultimo ricordo di quelle notti in cui era stata un’altra persona.
Non aveva più visto quell’indumento dalla sera al porto. Pensava che lo avessero buttato via, che fosse troppo sporco di sangue per essere salvato e invece Constance l’aveva lavato e aveva rammendato il foro di proiettile dietro la schiena. 
La padrona di casa sparì verso la cucina per controllare la cena che ribolliva in una pignatta nel caminetto, quando si sentirono dei colpi alla porta.
«Ti dispiace vedere chi è, Diane?» gridò Constance, mentre la ragazza era ancora intenta a rigirarsi tra le mani la giacca.
«Vado subito».
Altri colpi, più forti e insistenti.
«Arrivo!».
Chi era che se ne andava in giro per le case a ora di cena a tentare di buttare giù la porta?
Diane aprì con tutta l’intenzione di dare una lezione di buone maniere a quell’ospite inopportuno.
«Ma che cos… oh! Athos!».
Il moschettiere si sporse in avanti e si appoggiò alla cornice di legno della porta - nel caso che lei si facesse venire in mente di sbattergliela in faccia, evidentemente.
«Porthos e Aramis mi hanno detto che il duca ha anticipato la partenza» disse d’un fiato, senza concedersi il tempo di un saluto o di qualsiasi altra forma di cortesia.
«Sì, è così».
Athos inclinò la testa e fissò la ragazza come se si aspettasse una risposta più eloquente e articolata.
Diane decise che i muri di casa Bonacieux non avrebbero dovuto essere spettatori dell’ennesima follia. Sgusciò fuori, chiudendo piano la porta dietro di sé e ritrovandosi con le spalle contro lo stipite, bloccata da Athos che non sembrava volersi spostare per lasciarle quel minimo di spazio che sarebbe servito a parlaresi senza rischiare di pestarsi i piedi.
«Sei ubriaco?» gli domandò.
«Non ancora»
«Molto bene. E sei venuto qui perché?» 
Athos si torse le mani facendo scricchiolare il cuoio dei guanti. «Non voglio che tu parta. Non voglio che Constance ti regali coperte. Non voglio che tu sposi Corsini»
«Come?».
Il moschettiere sospirò come se fosse esausto. «Hai capito».
«Athos, io non ho alcuna intenzione di-»
Diane sentiva il cuore batterle come se volesse spezzarle il petto.
«Perdonami»  disse lui di colpo. «Meriti di lasciarti questa città e tutto quello che è successo alle spalle, lo so, ma ti amo».
La giovane si sentì soffocare, non pensava che la felicità avesse la violenza di un pugno in pieno viso.
«Athos, il duca è partito questa mattina».
Il calore le saliva dal cuore agli occhi, confondeva le parole che avrebbe voluto urlare in tante cose che non si potevano dire, che non era più necessario dire. 
«Avevo solo intenzione di andarmene in campagna per un po’, avevo fatto i bagagli e tutto ma, pensandoci bene, non mi è mai piaciuta la campagna» fu l’unica cosa che riuscì a tirare fuori.
Athos prese un lungo respiro e la guardò incredulo. «E Corsini?»
«A dispetto di ciò che tu e i tuoi amici possiate pensare di lui, non è un damerino stupido. Gli ho detto che amo un altro, ha capito. Non merita una donna che non può essere la moglie che desidera»
«D’Artagnan, Aramis e Porthos, loro mi avevano detto che…»
«Loro sono degli adorabili bastardi»
«Perché piangi?»
Diane si asciugò il viso con il dorso della mano. «Non sto piangendo».
«Forse però, un mese in campagna gioverebbe»
«Ora vedi di non farti prendere a schiaffi»
«Smetti di piangere, per piacere»
«Convincimi»
Athos la spinse contro la porta. La baciò come se fosse l’unico modo in cui poteva continuare a respirare.
Da qualche parte, dalla strada, forse arrivò lo sghignazzo di qualche passante, un’esclamazione maliziosa o persino volgare, ma era tutto lontanissimo, il mondo sfocava e si faceva trasparente, inghiottito dal rombare del sangue nelle loro orecchie, lo scalpiccio dei passi di una felicità insperata e ancora zoppicante.
Rimasero stretti anche dopo quel bacio, dita che serravano le braccia fino a far male.
La razionalità riemerse a poco a poco, restituendo loro la consapevolezza della strada trafficata, della brezza della sera e delle bolle di luce dorata provenienti dalla fiaccole accese ai lati della piazza.
«Devo parlare con tuo zio» disse Athos, cercando di nuovo le labbra di Diane con gesti febbrili.
«Questa cosa che mio zio diventa il tuo primo pensiero ogni volta comincia a diventare inquietante» rispose lei passandogli le dita tra i capelli.
«Voglio fare le cose nella maniera appropriata. Per anni ho creduto di aver chiuso con le storie d’amore, non voglio rischiare di rovinare tutto».
Diane scosse il capo, la solennità nelle parole di Athos la divertiva. «Di solito è una prerogativa delle donne quella di prendersi del tempo».
«Sarà, ma io cerco solo di comportarmi da persona assennata»
«Qualcuno tra noi due deve pur esserlo, mi sembra giusto». Diane prese una mano del moschettiere nelle sue. Aveva ragione: avevano bisogno di tempo adesso che la tempesta era passata e che le loro vite erano come oasi da lasciar fiorire nel deserto. «Aspetteremo».
Un improvviso colpo di tosse, troppo forte, li fece sobbalzare.
«Credo vogliano denunciarci per oscenità» mormorò Diane.
Athos si riscosse come se solo in quel momento di fosse effettivamente reso conto che erano in mezzo a una strada - fuori casa di Constance e suo marito. Si allontanò dalla ragazza con una certa riluttanza.
Un ometto in livrea li stava guardando con aria spazientita. Il moschettiere gli lanciò un’occhiataccia che lui ignorò.
«Sto cercando…» esordì lo sconosciuto, controllando il nome scritto su una lettera che aveva in mano, «… mademoiselle Diane Leroux. Mi hanno detto che alloggia qui, voglio sperare non siate voi»
«Mi dispiace deludervi, monsieur» replicò la ragazza, allungando la mano per farsi consegnare la missiva.
L’ometto fece un inchino reticente e si allontanò senza aggiungere altro.
«È della regina» disse Diane, riconoscendo il sigillo di ceralacca. Aprì la busta di spessa carta color avorio e lesse le poche righe con le quali sua maestà la convocava a corte per l’indomani. «Vuole vedermi, avrà saputo che rimango a Parigi».
«La regina ha bisogno di amici» mormorò il moschettiere, come un pensiero ad alta voce. «Ad ogni modo, se domani tuo zio mi sparerà alla testa non avrò nessun rimpianto»
«Buono a sapersi».
Diane sorrise, Athos sorrise di rimando come in un riflesso, come se per la prima volta i loro pensieri si fossero incontrati nel percorrere la stessa strada. 
«E adesso dove andrai a stare?» chiese lui. Prese la mano di Diane e fece qualche passo con lei attraversando la piazza.
«Credo che tornerò da mio zio fino a quando non avrò trovato un’altra sistemazione» rispose la giovane, indugiando con lo sguardo sulle loro dita intrecciate. «Immagino che lui sarà contento, e poi in quella casa dovrà pur abitarci qualcuno dato che Treville è sempre alla guarnigione»
«Spero di non essere presente quando si dirà a Porthos e Aramis che devi spostare di nuovo tutti i bagagli.
Diane ridacchiò. «Amo i moschettieri!».
Athos baciò la mano della ragazza, appoggiandole con delicatezza le labbra sul dorso, sfiorandolo appena. Era qualcosa che aveva imparato in un’altra vita, quando ancora era innocente e pensava che sarebbe stato tanto fortunato da rimanere tale.
«Buona notte, Diane» disse. Non c’era alcuna fretta, ora avevano tutto il tempo del mondo.
«Promettimi che non sgriderai gli altri tre» lo pregò lei. 
«Non lo farò»
«Sono davvero rammaricata che abbiano trascinato i miei bagagli per niente»
«Ho la sensazione che non gli dispiacerà saperlo».  










Sì, dovevo proprio farli penare fino alla fine.
Sì, sono stupida e i moschettieri che si danno alla psicologia inversa mi hanno fatto ridere un sacco (che è poi il mio problema di fondo: io mi diverto a scrivere queste sciocchezze. Dovrei trovarmi un hobby, qualcosa di utile per la società, non so...). 

Ci leggiamo mercoledì con l'epilogo e con una piccola sorpresa... 
Alla prossima
C. 

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Capitolo 26
*** Epilogo ***


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Epilogo
 
Era una mattina di luce azzurrina. La prima rondine solcò il cielo di Parigi sparendo nell’ombra di un abbaino senza che nessuno la notasse.
Era una mattina che seguiva a una notte strana, una di quelle notti dove il sonno non arriva eppure non ci sono fantasmi annidati nel buio che nasconde il soffitto.
Athos si fermò accanto al tavolo nel cortile della guarnigione, si tolse il cappello e si passò una mano tra i capelli.
Porthos e Aramis seduti davanti a tazze fumanti lo guardarono come bambini in attesa di un regalo di Natale, senza essere sicuri se quello che avrebbero trovato nella scatola infiocchettata li avrebbe soddisfatti o delusi. D’Artagnan comparve da sotto la tettoia delle scuderie.
Ora tutti e tre lo fissavano.
«Non vi darò la soddisfazione di dirvi grazie» disse Athos con un mezzo sorriso.
Porthos batté con troppo vigore la mano sulla spalla di Aramis. «Visto, che ti avevo detto?»  
«Come potrei mai ringraziarvi con quello che mi aspetta adesso?». Athos alzò lo sguardo in direzione dell’ufficio di Treville.
«Vado a dire al medico dell’infermeria di tenersi pronto per ogni evenienza» esclamò Aramis.
«Se vuoi, veniamo con te» disse d’Artagnan, trattenendo una risatina. «No? D’accordo, ma se hai bisogno di aiuto, grida».  
Athos scosse il capo con un sospiro di finta sopportazione, recuperò il cappello e si diresse verso l’ufficio del capitano. In fondo alle scale, gli altri tre lo accompagnarono con lo sguardo, si affacciò un istante e li vide agitare le braccia in cenni di incitamento.
«Idioti» mimò con le labbra.
Bussò con discrezione e non attese risposta prima di entrare.
«Cosa c’è?». Treville era in piedi vicino alla finestra. 
«Sono venuto a parlarvi di Diane»
«Ecco. So che è stata mandata a chiamare dalla regina. Speravo che tu e gli altri sapeste cosa altro ha combinato». Il capitano andò a sedersi alla scrivania, doveva aver imparato che era sempre meglio sedersi quando si parlava di sua nipote.
Athos scrollò le spalle. «Non so perché sua maestà l’abbia convocata»
«Allora cos’è che dovevi dirmi?»
Il moschettiere si sorprese a tormentare la falda del cappello che teneva tra le mani, rivelando un nervosismo che non gli si addiceva. «Saprete già che Diane ha deciso di restare a Parigi e che quel signore italiano l’ha sollevata dalla promessa di sposarlo».
Treville sorrise compiaciuto come se stesse seguendo il filo di pensieri tutti suoi. Doveva essere contento che la ragazza si fosse decisa a liberarsi dell’ingombrante ombra del duca.
«Nessuno è più felice di me - del fatto che mia nipote rimanga a Parigi, non che perseveri nel voler rimanere nubile. Immagino tu non sia qui per dirmi qualcosa che già so»
«Ho intenzione di frequentare vostra nipote». Non c’erano altri modi per dirlo e il capitano non era uomo da gradire stucchevoli giri di parole, né Athos era uomo da farne. 
«E non è quello che tu e quelle altre tre teste bacate state facendo da quando è tornata in Francia? Non che abbia modo di oppormi, cerco solo di non ricordare che è quasi morta, giusto quelle due o tre volte, come più o meno tutti voi».
Al moschettiere venne il dubbio che Treville si stesse prendendo gioco di lui e stesse solo fingendo di non aver capito. Si schiarì la voce e si costrinse a smetterla di stropicciare il cappello come un qualsiasi ragazzino nervoso venuto a chiedere la mano di una fanciulla.
«Sono tutti molto affezionati a Diane» disse con cautela. «Ma io intendevo una frequentazione con un certo margine di esclusività». 
Di fatto il capitano non parve sorpreso, si limitò a stirare le labbra in un’espressione che poteva essere un sorriso compiaciuto o una smorfia da maniaco omicida.
«E sei venuto a chiedere la mia benedizione?»
«Conoscete la mia storia. Non posso sposarla, eppure mi sono scoperto non abbastanza altruista, non abbastanza uomo d’onore, da lasciarla andare». Per un attimo Athos pensò che più che altro, era lì per chiedere perdono.
Treville abbassò il capo, con il mento a premere sul petto. Rimase in silenzio per lunghi istanti.
«E allora rendila felice e basta» disse infine. Era la risposta più semplice e difficile del mondo.
Athos spalancò gli occhi, strinse le mani attorno al cappello, poi annuì. Qualsiasi ringraziamento sarebbe suonato superfluo, stucchevole, e così non aggiunse altro. Era un uomo d’azione, e come tale credeva assai poco nelle parole, soprattutto in momenti come quello.
Non erano stati ancora inventati termini per quel senso di sollievo e per l’importanza dell’impegno che sentiva di essersi preso.
Si rese conto di non sapere come uscire da quell’ufficio. Ci pensò Treville a porre fine alla questione per tutti e due.
«A proposito, forse è il caso di andare a corte e controllare cosa sta succedendo»
 «Vado a dire agli altri di tenersi pronti».
 
***
 
Constance aveva aspettato tranquilla su un sofà accanto a un davanzale.
Diane l’aveva voluta con sé a corte quella mattina, stavano succedendo troppe cose importanti nella sua vita e aveva bisogno di un’amica che le mettesse una mano sulla spalla e le dicesse che era tutto vero, che nonostante i suoi errori, le bugie, la malizia, ora meritava un po’ di pace, l’occasione di essere una persona migliore.
Quando Diane aveva parlato con la regina l’ultima volta, Anna le aveva detto di tenersi pronta, che l’avrebbe mandata a chiamare presto e la ragazza non aveva idea del motivo.
La porta si aprì e Constance balzò in piedi. Diane sgusciò fuori come un topolino, senza fare rumore, senza nemmeno respirare.
«Cosa è successo?». Madame Bonacieux le prese le braccia.
«Non ne sono sicura…» bisbigliò Diane.
Nel silenzio dei corridoi della reggia i suoi pensieri le martellavano in testa, affollandosi e impedendole di ragionare con lucidità.
E poi il brusio di tutti quei pensieri si mescolò al rumore di passi sul marmo.
Il capitano Treville comparve da dietro un angolo con un codazzo di moschettieri. Alcuni uomini sparirono diretti verso i compiti che gli erano stati assegnati, rimasero Athos, Aramis, Porthos e d’Artagnan.
Sì, era giusto che fossero loro i primi a saperlo - forse gli unici che l’avrebbero saputo, per il momento.
«Qualcuno ha finalmente deciso di tagliarti la testa?» disse il capitano, notando lo stato alterato di sua nipote.
I moschettieri fissarono la ragazza perplessi.
«Cosa è successo?» domandò d’Artagnan guardando Constance, sperando che lei avesse una risposta.
«Non me l’ha ancora detto» ammise la donna.
Altri passi, da dietro la porta. Tutti loro si scansarono per lasciare libero il passaggio.
La regina Anna uscì con il suo seguito di dame. La gonna del suo bel vestito avorio si sollevava sulla pancia ormai ben visibile.
 
«Sto per diventare madre del futuro re di Francia, Diane. Ho bisogno di essere una buona madre e una regina più attenta di quanto non lo sia stata finora, se voglio insegnare a mio figlio a essere il sovrano che questo paese merita»   
«Sarete la migliore delle madri, maestà»
«Nessuno può essere bravo abbastanza senza qualcuno che lo aiuti»
«Non so niente di bambini e maternità, credo proprio di non potervi aiutare…»
«E invece potete»
 
Le due donne, il capitano e i moschettieri si inchinarono alla vista della sovrana. Anna sorrise e tese una mano a Treville per prendergli il braccio e camminare con lui per qualche metro, allontanandosi dalle orecchie indiscrete delle sue dame.
«L’altro giorno vostra nipote mi ha raccontato tutti i dettagli dei suoi ultimi mesi a Parigi» disse la sovrana.
«Vi confesso, maestà, che ancora oggi non so se esserne orgoglioso o sconcertato»
«Ho chiesto a Diane di lavorare al mio servizio»
«State facendo un grande onore alla nostra famiglia, maestà. Sono certa che possa imparare molte cose come dama di corte»
«Suvvia, capitano, sapete meglio di me che Diane sarebbe sprecata come dama di corte».
La ragazza, che ascoltava la conversazione accanto ai moschettieri, ebbe un sussulto.
«Ora non farti spuntare fuori la coda di pavone, potrebbero strapparti le piume per farci un cappellino» bisbigliò Aramis al suo orecchio.
Treville si irrigidì. «Perdonate, maestà, non vi seguo».
«Ho bisogno di qualcuno che mi tenga informata su cosa succede fuori da questo palazzo, qualcuno di cui fidarmi, che non mi racconti solo ciò che il cardinale e il re vogliono farmi sapere» disse Anna decisa. «Il re ha i suoi moschettieri, io avrò la mia…»
«Spia?»
«Suona avventuroso, mi piace» concluse la sovrana con un sorriso.
«Suona come un mucchio di guai» borbottò Porthos a mezza voce.
«Suona come io non voglio saperne niente» gli fece eco Aramis.
«Dovremo insegnarle a sparare sul serio. E a nuotare…» bisbigliò d’Artagnan. «Di’ qualcosa, Athos».
«Non ti azzardare» si intromise la ragazza guardandolo torvo. Athos strinse le labbra.
«Sarà meglio per tutti voi che vi adoperiate per tenerla in vita» interloquì Constance con l’aria di una madre severa.
I moschettieri alzarono le mani come in segno di resa.
«Vedo che c’è troppa forza di volontà femminile in ballo perché si possa fare qualcosa al riguardo» sospirò Aramis, a metà tra lo sconsolato e il canzonatorio.
Il capitano e sua maestà erano già lontani, a discutere dei dettagli del nuovo incarico di Diane.
Le due donne e i moschettieri rimasero a scambiarsi sguardi indecifrabili.
«Vieni, Constance, ti riporto a casa» esclamò all’improvviso d’Artagnan, offrendo il braccio alla donna. Prima che lei potesse dire una parola, erano già spariti verso le scale.
«E noi andiamo a… fare qualcosa che non sia stare qui» disse Aramis, afferrando Porthos per la manica. 
Tutto quello a cui riuscì a pensare Diane era che amici come loro erano più di quanto meritasse. Quando rimase sola con Athos si accorse che non riusciva a guardarlo. Fu lui a rompere per primo quel silenzio teso.
«Pare che sia la giornata delle grandi notizie»
«Cosa ha… ehm, detto mio zio?»
«Che la distanza tra me e un plotone di esecuzione si è nettamente accorciata»
«Mi pare avessimo appurato che l’umorismo non è il tuo forte».
Athos sorrise. «A conti fatti, credo che quello che gli ho detto io sia niente a confronto di quello che gli ha detto la regina»
Diane annuì con aria pensosa. Il moschettiere le strinse la mano.
«Sei sicura che è questo quello che vuoi?» le domandò.
«A quale dei grandi eventi recenti ti stai riferendo, adesso?».
«Mi piace pensare che su almeno uno di questi eventi recenti tu non abbia dubbi».
Lo avrebbe baciato, se non fosse stato per il crocchio di dame della regina a pochi metri da lì.
«Molto bene» disse Athos, ritrovando la sua voce salda di uomo abituato a comandare. «Va’ a indossare qualcosa di più adatto, non mi pare che il tuo addestramento sia finito».
«E io che mi aspettavo un complimento, una frase carina, che so…»
«Mademoiselle Diane, siete il mio raggio di sole. Ora fatemi la cortesia di indossare abiti più consoni e datemi la possibilità di fare qualcosa per preservarvi in vita».
La ragazza incrociò le braccia sul petto e rivolse al moschettiere una smorfia indispettita.
«Dillo di nuovo…» borbottò.
«Raggio di sole è un complimento ridicolo, non starò a ripeterlo»
«Ti amo»
«Ah, quello!»
«Sì, quello»
«Dopo. Forse. Se riuscirai a tenermi testa con la spada per più di mezzo minuto».
 

 


 
E così ci siamo arrivati in fondo. So che è solo una fanfiction sciocchina in un fandom piccino picciò, però per me è stata lo stimolo per tornare a scrivere e mi ha divertito tantissimo.
 È stato un piacere condividere questa avventura scrittoria con qualcuno, per questo ringrazio di cuore tutti i lettori, quelli silenziosi e non.

Spero vi sia piaciuta la sorpresa del videocoso :D (io e iMovie non ci parlavamo da un po’ e la riconciliazione non è stata del tutto indolore, ma c’ho provato). Non ho la tendenza a voler dare un volto a tutti i costi ai personaggi che invento, ma mi era venuta questa bislacca idea di provare a rappresentare “visivamente” qualcosa della storia e il disegno non è il mio forte XD

Come vi avevo anticipato, non sono riuscita a chiuderla qui con Diane e la storia ha trovato un suo seguito del tutto fuori programma, si intitola “Ghosts that we knew” e… ne parleremo quando sarà ora (tra un paio di settimane, più o meno… il tempo di scappare al mare prima di tornare a infestare EFP).

Ancora grazie a tutti per la compagnia.
*abbraccia e manda biscotti*

Claudia

 

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