Even in Texas

di niclue
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - #LoveWins ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Non tanto il caldo, ma l'umidità ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Amare significa lasciare andare ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - La vera malattia ***
Capitolo 5: *** Capitolo V - Solo una bambina ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI - Nuovi e Maturi ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII - Pausa - riavvolgi ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - #LoveWins ***


Titolo: Even in Texas
Autrice: me, me, ME.
Fandom: Supernatural
Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester, Castiel, Nuovo Personaggio.
Pairing: Dean/Castiel (estabilished) + ehhh.
Disclaimers: La serie non è mia, ovviamente. Sennò mica la decima stagione aveva quella cosa di trama.
Note iniziali: Beh, era da tanto che non pubblicavo qualcosa di mio.
Salve, lettori! Come va?
Passiamo al sodo. Questa era, inizialmente, una storiella corta-corta dolce-dolce, piena di banalità, pateticità, adorabilità e altre cose con l’accento sulla a.
Poi qualcosa è andato storto ed è diventata un mostro di long - la mia prima long, omg. Addirittura con una trama! Assurdo.
Perciò, qui abbiamo i primi due capitoli decisamente introduttivi. Ma tanto.
E non ho una beta, mi pesa il culo rileggere tutto ciò che scrivo io, quindi se trovate degli errori saprete il perché.
La storia è quasi finita, ma sto a buon punto, ho tutto chiarissimo in mente, quindi aggiornerò con regolarità, tranquilli. Forse addirittura troppo presto. Poi vedrò.
Ah! Una cosa importante: avete presente la decima stagione? Beh, non c’entra nulla. Cioè, sarebbe ambientata nella decima stagione, ma senza la trama della decima stagione. Chiaro no? L’unica cosa che salvo è Charlie tornata da Oz e Castiel che si è ripreso la sua Grazia. Per il resto, blahblahblah.
Ci vediamo giù per altre cose, cià.


 
Even in Texas
 
Capitolo I: #LoveWins
 
 
Il giorno in cui lo vennero a sapere c’era il sole.
 
Non che loro fossero fuori a goderselo come ogni altra persona normale.
 
Invece, si trovavano tutti e tre nel bunker. Tutta l’attenzione di Sam era monopolizzata dal suo laptop (a cercare un caso, diceva; a leggere le sue cose da nerd, pensava Dean) mentre Castiel, con l’aiuto di Dean, cercava di concludere l’inventario di libri e testi che non riuscivano mai a portare a termine, a causa di pericoli umanitari vari da fermare, ma che da qualche giorno erano decisi a finire.
 
Beh, in teoria Dean lo aiutava.
 
In pratica faceva di tutto per distrarlo.
 
Non era per cattiveria; era solo che, da quando le cose tra loro due si erano chiarite, Dean era sempre più geloso dei momenti passati da soli, senza libri polverosi o fratelli noiosi intorno. Gli piaceva stare con Cas, gli piaceva stare da solo con Cas, gli piaceva da matti Cas. E ora era in pieno diritto di reclamare ciò che gli spettava. E no, non era un comportamento infantile. Ci aveva riflettuto e no.
 
Inizialmente si metteva semplicemente seduto e immobile a fissarlo per un lungo periodo, senza distogliere lo sguardo nemmeno per un attimo, come soleva fare l’angelo fino a pochi anni prima; sapeva di aver raggiunto il suo scopo quando vedeva Castiel agitarsi leggermente sul posto, alzando brevemente lo sguardo corrucciato al quale Dean rivolgeva un ghigno malizioso. A volte si metteva a canticchiare, a picchiettare le dita sul legno, a tossire a sproposito e a strusciare la sedia sul pavimento. In quelle occasioni riusciva a ricevere da suo fratello degli sguardi tipici di ogni insegnante stanco ma severo diretto al più indisciplinato degli alunni.
 
Quando, però, da Cas come solo effetto otteneva solo un’irritazione duratura con risvolti serali molto negativi Dean si decise a cambiare tattica.
 
E così cominciò una tentata operazione di seduzione insperatamente andata a buon fine.
 
Infatti, nonostante la recente svolta avvenuta nella loro relazione, Castiel era ancora estraneo a certi contatti fisici con Dean, e questo contribuiva alla riuscita del suo diabolico piano.
 
A una leggera carezza sul ginocchio un paio di occhi blu scattavano ad incontrare i suoi, mentre un insospettabile - quanto adorabile – rossore andava ad accompagnare un timido sorriso affettuoso – ogni volta inconsciamente ricambiato.
 
Però, appena compresa l’intenzione dietro a quel gesto, lo sguardo testardo di Castiel si abbassava di nuovo sulle parole che rubavano l'attenzione di Dean, che si sentiva in dovere – per il proprio onore – di dover insistere.
 
Perciò le sue dita lunghe continuavano ad accarezzare distrattamente la parte inferiore della coscia dell’angelo, mano a mano con movimenti sempre più decisi, trasformando i leggeri tocchi in piccoli massaggi discreti, mentre la sua mano saliva sempre più su.
 
E appena sfiorato l’obiettivo da cento punti, Castiel saltava sulla sedia, alzava degli occhi sgranati e decisi su di lui e lo afferrava per il braccio per portarlo in un posto molto lontano dalle orecchie di Sam (che seguiva quelle sceneggiate con un misto di divertimento e seccatura per il lavoro lasciato a metà, di nuovo).
 
Così, quel pomeriggio di fine giugno Dean stava cercando di ottenere un secondo round, quando un suono a metà tra una risata strozzata e uno squittio giunse da dietro lo schermo del computer che li divideva dal viso sorridente di suo fratello.
 
Castiel colse l’occasione per scacciare malamente la mano molestatrice, per il profondo scontento di Dean, il quale emise un piccolo gemito oltraggiato che lo fece ghignare. Messolo a tacere, si rivolse all’altro Winchester. “Che succede, Sam?” chiese con gentilezza, senza nascondere una nota di curiosità.
 
Sam continuò a fissare lo schermo per qualche secondo in più, gli occhi che saettavano da sinistra a destra e un sorriso che diventava sempre più luminoso. “Ragazzi,” cominciò, per poi fermarsi subito.
 
Gli altri due attesero ancora, fino a quando Dean non si spazientì. “Dobbiamo comprare una vocale?” chiese aspramente, fermando di colpo le dita che tamburellavano sul tavolo ad un occhiata parecchio seccata di Castiel.
 
A quella domanda Castiel corrugò la fronte e aprì la bocca per chiedere spiegazioni quando Sam voltò lo schermo del computer verso di loro.
 
Dean strinse gli occhi, cominciando a leggere l’articolo presentatogli, le labbra che si separavano ad ogni parola e un’espressione di estrema sorpresa in volto; Castiel, invece, lesse il titolo della pagina e buona parte dell’articolo per poi alzare le spalle mormorando qualcosa e tornare a studiare il tomo posato davanti a lui. Non sembrava molto toccato dalla notizia.
 
Dean, d’altro canto, lesse buona parte dell’articolo, per poi alzare lo sguardo su Sam e sorridere tentativamente. Sam sorrise di rimando, attendendo qualche parola – o un annuncio – per poi rimanere decisamente deluso.
 
Dean, infatti, si limitò a riappoggiarsi allo schienale della sedia, sbadigliando e stiracchiando le braccia verso il soffitto, per poi avvolgere – in modo scontatissimo – un braccio attorno alle spalle di Castiel.
 
E Castiel, altrettanto banalmente, si appoggiò distrattamente contro di lui.
 
Durante tutta l’azione gli occhi di Dean non lasciarono il contatto con quelli di Sam.
 
Va bene così, voleva dirgli. Stiamo bene così.
 
Sam sembrò comprendere, in qualche modo, e annuì con un sorriso mesto. Riafferrò il computer e lo spense, massaggiandosi gli occhi stanchi. Se va avanti così, pensò Dean, tra un paio d’anni gli serviranno degli occhiali.
 
“Allora, Cas,” proruppe dopo un po’ Sam, “che dici? Non ti pare una bella notizia?”
 
Castiel alzò lo sguardo, chiudendo anche lui il libro; per quel giorno avevano finito di lavorare.
 
“Mh, certo,” rispose, un po’ titubante.
 
“Dalla tua faccia non sembrava,” fece notare Sam.
 
“Sam,” chiamò Dean in avvertimento. Quando i loro occhi si incontrarono cercò di mandargli l’occhiata più seccata del suo repertorio, per essere poi spazzato via con un’alzata di spalle. Idiota.
 
“E’ solo una domanda,” si difese Sam, rivolgendo di nuovo lo sguardo verso l’amico.
 
Dean strinse nervosamente il braccio di Castiel. Non aveva voglia di fare quel discorso.
 
Amava Cas, di questo ne era certo, anzi, certissimo. Ed era piuttosto fiducioso che Cas ricambiasse. Era solo che si erano messi insieme ufficialmente (come a Sam piaceva precisare) da qualche settimana e stavano bene. Dean stava bene. Ed erano anni che non si era detto di star bene. Non voleva dei cambiamenti. Ma cosa cambiava in fondo un pezzo di carta? Beh, nulla. Quindi era anche uno spreco di soldi.
 
Cas era felice, lui era felice; stavano bene così.
 
Castiel si sfilò dalla stretta di Dean, che sentì subito la mancanza del suo peso addosso.
 
Scrollò le spalle, in un gesto straordinariamente umano. “Più che altro mi sconcerta il fatto che prima di oggi non ci fosse l’uguaglianza di unioni matrimoniali,” spiega.
 
Dean si sentì inspiegabilmente più rilassato.
 
Sam aggrottò la fronte, sorpreso. “Non pensavo che in Paradiso aveste una mente così aperta.”
 
Castiel strinse gli occhi, inclinando leggermente la testa verso destra. “Che vuoi dire?” domandò, spaesato.
 
“Sai,” cercò di spiegare Sam, a corto di parole, “da noi, tra gli umani, c’è una bassa tolleranza soprattutto per regole religiose. Quindi fa un po’ strano sentire gli angeli fregarsene.”
 
Se possibile, Castiel si stranì ancora di più. “Come potremmo discriminare sulla sessualità, noi che non abbiamo sesso?” chiese, in un tono un po’ più che retorico.
 
Sam fece per riprendere la parola, ma Cas aggiunse. “Inoltre,” cominciò, con voce più salda, “il vero caposaldo della Parola di Mio Padre è la condivisione dell’Amore nella sua forma più pura. Il problema nasce quando è il sentimento a mancare,” concluse, con un sorriso piccolo mentre le sue iridi saettarono per un istante verso Dean.
 
Dean percepì le guance scaldarsi ancora di più e il suo petto lo imitò appena Castiel si alzò in piedi tendendogli una mano. “Andiamo, Dean,” lo chiamò, con la voce chiara e gli occhi splendidi.
 
Dean sorrise e si alzò in piedi per poi farsi trascinare dall’angelo verso la loro camera da letto.
 
Appena chiusa la porta alle loro spalle, Castiel si allungò per rubargli un soffice bacio dalle labbra, per poi allontanarsi quasi subito.
 
Dean, però, lo afferrò per gli avambracci e se lo tirò addosso, desideroso di prolungare il contatto. Castiel lo assecondò e si ritrovò di nuovo tra le braccia di Dean, a ricevere le sue attenzioni e a ricambiarle con altrettanta passione e cura.
 
Dopo un ultimo, profondo bacio, Dean si allontanò di qualche centimetro dal viso di Castiel, che lo aveva seguito in avanti con la testa per evitare di interromperlo. Dean ridacchiò alla mossa, causando l’affluenza di un leggero rossore sulle guance dell’altro, accompagnato da un timido sorriso. Gli diede un buffetto su una guancia e gli occhi di Cas si aprirono, brillando allegramente e togliendo un attimo di ragione a Dean.
 
Ma si riprese dopo poco.
 
Un ghigno malizioso prese posto sulle labbra in quel momento libere. “Pensavo che stasera non ne avessi voglia,” mormorò, riavvicinandosi per depositargli un bacio umido sulla guancia. “Oppure il mio charme ti ha fatto cambiare idea?”
 
Una bassa risata raggiunse le sue orecchie e Dean alzò lo sguardo mentre Castiel lasciava la presa sulle sue spalle e si allontanava da lui per andarsi a sedere sul letto. Si posizionò contro la testata, le gambe leggermente aperte e rivolte verso Dean. “Allora? Signor Charme?” lo chiamò ghignante.
 
Dean non si era ancora pienamente abituato alla strafottenza da poco acquisita di Castiel. Un regalo della vicinanza ai Winchester, probabilmente. Ma non per questo non la trovava eccitante. Specialmente a letto. Perché Cas diventava così solo a letto ormai.
 
Si leccò le labbra, intrigato, mentre scalciava via le scarpe dai piedi e si prendeva il suo tempo per arrivare al letto, con calma, misurando ogni passo e intanto Castiel si abbassava fino a far poggiare la propria testa sul cuscino. Salì sul materasso gattonando e si posizionò esattamente sopra a Castiel, gli avambracci ai lati della testa, ogni ginocchio accanto al suo opposto. Si concesse di premere un’altra volta le labbra sulla pelle dell’altro, appena sotto alla sua bocca, per poi rialzarsi al livello dei suoi occhi.
 
“E ora? Signor Finto Frigido?” lo canzonò Dean con un sorriso. Castiel ricambiò con un mezzo sorriso e fece passare le mani sul suo petto, con aria pensosa.
 
“Non pensi che faccia caldo con tutti questi vestiti?” ponderò, strattonandogli la camicia grigia che stava indossando.
 
“Sto cuocendo,” affermò Dean, con finta preoccupazione, “dovresti sbrigarti a farmi rinfrescare.”
 
Un sorriso furbo prese possesso delle labbra di Castiel. “Oh, ma io non pensavo proprio di lasciarti al freddo.”
 
Il sorriso di Dean si allargò. “Ah no? Che pensavi allora?” mormorò, facendo passare lentamente un indice sulla mascella dell’altro.
 
D’improvviso, Castiel ribaltò le posizioni e gli prese un bacio che non aveva nulla della dolcezza e della tenerezza dei precedenti. “Pensavo che devi stare zitto,” sibilò, gettandosi alle spalle la camicia ormai tolta, e a seguire il proprio trench coat, la sua cravatta, la maglietta di Dean…
 
***
 
“Beh, questo… questo è stato… wow,” ansimò Dean, stravaccato sul letto sfatto, voltandosi verso un angelo altrettanto sfatto e ansimante. E stupidamente bello.
 
“Beh,” sospirò Castiel, “almeno il tuo vocabolario non ne è rimasto colpito.”
 
Dean non potè trattenersi e cominciò a ridacchiare.
 
“Hey!” esclamò, oltraggiato. “Chi te le insegna queste battute? Sam?”
 
“Certo che no, Dean,” mormorò Castiel, cercando di riprendere fiato dopo il lungo periodo di prima.
 
Dean voltò il busto sul fianco per poterlo guardare meglio. “Sei sicuro?” chiese. “Sarebbe da lui.”
 
“Tu dici?” chiese Castiel distrattamente, afferrando la scatola di fazzoletti per ripulire se stesso e Dean.
 
“Lo conosco. Si annoia. Dovrebbe trovarsi qualcosa da fare,” si fermò un attimo. “O qualcuno da farsi.”
 
“Vuoi far conoscere una ragazza a Sam?” chiese Castiel, con una punta di interesse ritrovata.
 
“Sì… mi sembra giusto. Le cose sembrano essersi sistemate, ora. Io mi sono sistemato,” mormorò, accarezzando il braccio di Castiel, “e ho capito di essere stato ingiusto. Dovrei dargli la mia benedizione e lasciargli abbandonare la caccia, se vuole. Tu che ne pensi?”
 
Un paio di grandi e adoranti occhi blu lo fissarono profondamente. “Penso che sia l’idea migliore,” sorrise Castiel. “Anche lui si merita la felicità. Per quanto lo vorrei, non può essere tutta nostra.”
 
Dean alzò un sopracciglio. “E’ a questo che pensavi oggi? Che la felicità deve essere tutta tua? Bel modo di usarmi per la tua felicità!” esclamò, fingendosi offeso.
 
“Dean,” chiamò Castiel, in quel modo che gli faceva stringere qualcosa nello stomaco, con quella vocale allungata.
 
“Lo sai che scherzavo,” sorrise Dean, leggermente preoccupato che se la fosse presa a male.
 
“Non me la sono presa. Stavo pensando.”
 
“A cosa?”
 
“Prima, ero felice per il fatto che, almeno questo Paese si stia cominciando ad aprire al vero messaggio d’Amore. Lo sono ancora. Sono felice, davvero. Anche per noi,” cominciò a spiegare, mentre giocherellava con la mano di Dean tra le sue dita.
 
Nonostante le parole rassicuranti, Dean percepì una nota stonata. Non ritrasse la mano e domandò: “Ma?”
 
“Ma,” sospirò Castiel, “mi ha fatto…” Sembrava a corto di parole per spiegarsi. Fece vagare lo sguardo per la stanza disordinata, per poi farlo passare sul letto, risalendo per il corpo ancora nudo di Dean fino a sistemarsi tra i suoi occhi. “Mettere i piedi per terra,” concluse, infine, riabbassando lo sguardo sulle loro dita unite.
 
Dean sbatté le palpebre. “Quindi?” lo incitò.
 
“Quindi,” ripeté Castiel, “mi ha fatto pensare. Ne abbiamo passate tante insieme, Dean. Non abbiamo mai avuto un momento di pace, da quando ci siamo conosciuti. Ed è anche per questo che abbiamo aspettato tanto. Ma sai il problema? Io non ho mai sperimentato della pace vera. C’erano dei momenti, in Paradiso, dove non c’erano guerre da combattere o altri doveri, quindi in teoria, la pace c’è stata. Ma come si può godere della pace se non hai nessuno con cui condividerla? Se non ne scaturisce la felicità? Questo, Dean, questo è il primo periodo felice della mia esistenza. E sei tu a renderla possibile. E certe volte ho il terrore che, non so, sia solo un’allucinazione di Naomi, o di Metatron e poi mi sveglierò e sarà tutto come prima, o peggio. Oppure, temo che dietro l’angolo ci sia una nuova Apocalisse a spezzare questo momento. Ma più passa il tempo, più mi rendo conto che è tutto vero, che può durare. Che sta durando. Che non me la potranno portare via perché, dovranno uccidermi prima. E senza che ritorni,” aggiunse, con un piccolo sorriso diretto al nulla. Poi riprese, serio. ”E’ stato difficile, Dean. Ci siamo allontanati e riuniti, respinti e riavvicinati, traditi e riabbracciati. Non potevo mai essere sicuro di poterti rivedere il giorno dopo. Ma ora,” e lì l’espressione seria si spezzò in un mezzo sorriso, “ora posso essere sicuro di dove sei, come stai, e soprattutto,” si portò la mano del cacciatore alle labbra, fissandolo negli occhi, “ora sono sicuro di non rimpiangere niente. Io ho raggiunto la mia felicità. Non desidero nient’altro. Certo, sono contento per le persone che desideravano quella cosa e ora la potranno avere ma,” sospirò, riabbassando lo sguardo, “nulla potrà farti amare da me più di quanto già non faccia in questo momento.”
 
Il silenzio cadde sulla stanza come un rigido inverno, gelando ogni pensiero presente nella mente esterrefatta di Dean. Aveva quella sensazione – quella di cui parlano sempre nei film, quando non sai se non hai nessun’idea in testa o ne hai troppe e non sai quale ascoltare per prima. Sì, proprio quella. E perché?
 
Perché Cas lo amava. Glielo aveva detto. E come glielo aveva detto.
 
Okay, magari prima non era stato del tutto onesto con sé stesso – prima non era così fiducioso che Castiel lo ricambiasse pienamente. Potevano essere tante cose diverse, magari per Castiel era solo un esperimento, per capire meglio le emozioni umane, oppure voleva essere suo amico ma pensava che per farlo doveva acconsentire ai suoi desideri, oppure preferiva Sam, oppure magari gli avevano di nuovo fatto il lavaggio del cervello e lo avevano mandato da lui per ucciderlo quando meno se lo aspettava, dalla persona che amava, oppure, oppure, oppure.
 
Oppure.
 
Oppure, semplicemente, perché Dean non merita il suo amore. Non quello di un angelo. Non quello di Cas. Non quello della persona più straordinaria al mondo. Dell’entità più leale, forte, generosa, buona, gentile, altruista e meravigliosa a cui si fosse mai avvicinato. Non meritava il suo amore, uomo debole e insulso.
 
Castiel si meritava così tanto di più. Aveva il diritto ad avere di più. Di più, di meglio.
 
Ma no, invece.
 
Era tutto l’ultimo oppure: oppure era lui l’idiota che non vedeva nulla ad un palmo dal suo naso.
 
Oppure, era l’idiota auto-distruttivo che rischiava di perdere la redenzione più luminosa del mondo.
 
Oppure, oppure, oppure—
 
“Dean?”
 
La limpidezza di una voce roca intaccò le rotelline metalliche che ruotavano e lavoravano nella sua testa. Crack. Tutto rotto. Tutto fermo. Silenzio.
 
“Dean, io— scusa, non ti volevo spaventare, era solo— io—“  Castiel cominciò a balbettare, guardandolo con gli occhi grandi, le guance rosse di vergogna, una lingua nervosa che passava sulle labbra secche, il sudore che gli inumidiva la fronte, i capelli scuriti dall’umidità sparati in tutte le direzioni per colpa di troppe mani che ci erano passate, troppe, le sue mani, le sue mani, le sue mani, di quando ha fatto l’amore con Castiel qualche minuto fa, perché non era una scopata, non era sesso, era Cas, e Cas per lui era oltre a ogni cosa, era più puro.
 
Era la forma più pura. Era Amore.
 
Si avvicinò di scattò all’altro e gli afferrò la testa tra le mani, avvicinandosi e avvicinandolo a sé. Quando le loro labbra si incontrarono non fu passione, non fu tenerezza. Fu amore.
 
Si toccarono una volta, due volte, tre, quattro, cinque, e ancora, e ancora, fino a quando non si toccarono più, preferendo riassaggiare la pelle, quella che conoscevano così bene, ma mai abbastanza, mai troppo stanchi per una nuova riscoperta.
 
E un’altra volta ci furono carezze, baci, strette, spinte, sussurri e urli mozzati, e tanto, tanto, tanto Amore.
 
“Ti amo, ti amo così tanto. Non te lo scordare mai.”





Eccola (di nuovo)

Noo, ma Din non farbb mai ks, luy e un vero duroh!!!11
Il primo che lo dice gli spacco la testa a sediate.
Violenze illegali a parte, ora comincio a dire la mia.
Per me, Dean, avendo sopportato tanto, avendo perso tanto, una volta che Castiel, una delle persone più importanti della sua vita nonché una delle più sfuggevoli, gli promette di rimanere con lui e amarlo per sempre, potrebbe tranquillamente mandare la sua facciata da macho insensibile a farsi benedire e dire per una volta quello che prova davvero in de hartt.
Beh, ora vado. A domani sera. Cià.

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Capitolo 2
*** Capitolo II - Non tanto il caldo, ma l'umidità ***


Capitolo II: Non tanto il caldo, ma l’umidità

 

La mattina arrivò come tutte le altre nel bunker. Buia. Perché vivevano in un dannato bunker.

 

Dean aprì gli occhi, sbattendo velocemente le palpebre per eliminarne la pesantezza mattutina. Si voltò – per quanto fosse possibile con un peso di settantacinque kili spalmati addosso – verso il comodino del suo lato del letto e afferrò il cellulare. Accese il display, stringendo gli occhi alla luce violenta che li colpiva, e controllò l’orario: le sette e dodici. Bene. Poteva ancora stare a letto a oziare.

 

Si risistemò in posizione supina sul materasso, osservando un punto invisibile del soffitto e cercando di schiarirsi le idee offuscate dal sonno mentre massaggiava pigramente lo scalpo di Castiel.

 

Un leggero gemito arrivò in risposta alle sue attenzioni e un piccolo cespuglio di capelli castani si avvicinò per depositargli un bacio su una spalla. “Ciao, Dean,” arrivò anche il saluto gentile.

 

“Hey, Cas,” lo salutò lui con un bacio sulla testa e un sorriso.

 

“Hai dormito bene, Dean?” domandò Castiel, come ogni mattina.

 

“Benissimo,” rispose Dean, con uno sbadiglio. Osservò l’angelo con un cipiglio. “Ma non ti annoi a stare a letto per otto ore di fila dopo che mi sono addormentato?” domandò con curiosità.

 

“Sono un essere molto paziente, Dean,” rispose Castiel con tono annoiato. Appunto.

 

“Beh, oh sommo paziente, ti puoi levare così mi alzo?” Dean cominciò a issarsi sui gomiti, facendo rotolare Castiel dall’altra sponda del letto. “E non roteare gli occhi,” sbottò, girandosi verso quella che doveva essere la direzione in cui si trovava l’angelo.

 

“Non ho roteato gli occhi,” arrivò la risposta borbottata.

 

“Lo so che l’hai fatto. Me ne accorgo, io,” si pavoneggiò Dean, mettendosi seduto per stiracchiarsi le braccia.

 

Si gelò quando delle dita calde toccarono le sue spalle, e un respiro altrettanto caldo gli andò a solleticare l’orecchio. “Oh, sì,” fu il tono ironico, “te ne accorgi, tu.”

 

Dean fece per protestare mentre con un click un po’ di luce si spanse nella stanza, illuminando un Castiel – per delusione di Dean – già vestito e ghignante.

 

“Stavo pensando,” riprese l’angelo, “alla conversazione di ieri sera.” All’occhiata leggermente imbarazzata di Dean, Castiel si affrettò a precisare, “quella su Sam.”

 

Dean abbandonò l’espressione insicuro per aggrottare la fronte in una posa più perplessa. “Sì?”

 

“Vuoi fargli conoscere qualcuno, okay. Come? Chi? Dove? Non è come se conoscessimo tante persone. E specialmente delle graziose pretendenti per Sam,” ragionò l’angelo, risiedendosi sulla sua metà sfatta del letto.

 

“Cas,” arrivò la voce a metà tra il divertito e il paziente, “Sam è abbastanza grande, può pensarci da solo.”

 

Cas inclinò la testa, confuso. “Ma se eri tu che ne parlavi ieri sera,” gli ricordò.

 

“Sì, ma non voglio fargli da mammina ansiosa,” rispose, incrociando le braccia al petto. “Ho solo detto che sarei stato d’accordo. Già gli preparo da mangiare, per il resto può camminare sulle sue gambine.”

 

Cas sembrò scettico per un attimo, per poi scrollare l’impressione di dosso. Si alzò in piedi e riservò a Dean una lunga occhiata di sufficienza. Infine ghignò e disse: “Sbrigati, Dean, Sam avrà fame.” Per poi uscire dalla stanza con passo leggero.

 

Dean sospirò, mormorando tra i denti imprecazioni contro uno “stupido dannato angelo carino” mentre si preparava per la giornata.

 

***

 

Erano passati due giorni dalla legalizzazione dei matrimoni omosessuali in tutti gli Stati Uniti d’America e il mondo continuava ad andare avanti, sempre più afoso in quel Giugno che stava ormai per concludersi.

 

Si trovavano tutti e tre nella cucina a bere delle birre fresche per cercare sollievo dal caldo (beh, non Cas perché lui è un Angelo del Signore, non sente caldo, freddo né calci in culo) mentre Dean continuava a ritorcersi contro il fatto che avanti, non puoi mettere un bunker in Kansas e non metterci la dannata aria condizionata, allora sei un coglione, per poi zittire chiunque provasse a replicare in disaccordo.

 

Era solo che il caldo lo faceva innervosire.

 

Il pomeriggio proseguì così per un po’ fino a quando la calma voce di Sam entrò pienamente nel discorso.

 

“Ragazzi…” cominciò, per poi fermarsi un attimo appena alzato lo sguardo. Dean e Castiel si divisero subito. “Grazie,” sospirò Sam, per poi riprendere il discorso. “Credo di aver trovato un caso per noi,” annunciò infine.

 

“Fantastico,” disse Dean, tergendosi la fronte, “cos’è?” Fa’ che sia al nord, ti prego…

 

“Sette omicidi in contesti misteriosi nel giro di due giorni nella stessa città.”

 

“Okay, questo è strano,” concesse. “E in che città?” Ti prego, nord, fresco, aria—

 

“Ehm, Lubbock.” Un paio di incerti occhi verdi si alzarono sui suoi. “Texas.” Un piccolo sorriso di scuse fece capolino.

 

“Texas,” ripetè Dean. Dannazione.

 

“E c’è di più,” riprese Sam, cercando di cambiare argomento. “Tra le vittime c’è la prima coppia omosessuale della città ad essersi sposata e il sacerdote che ha celebrato la funzione.”

 

Castiel corrucciò la fronte. “Non sembra una coincidenza,” mormorò.

 

“Non sarà una coincidenza, ma è una cosa da stronzi,” replicò Dean, alzandosi in piedi. “Quando vogliamo partire?” domandò.

 

“Uh, direi il prima possibile,” rispose Sam. “Domani mattina?”

 

Dean sospirò, “D’accordo,” acconsentì e si diresse in camera sua.

 

Nel corridoio estrasse dalla tasca il suo smartphone e cercò un sito meteorologico. Si terse di nuovo la fronte sudata mentre scriveva ‘Lubbock, Texas’ e attendeva i risultati. Aprì la porta della sua stanza con un calcio e si avvicinò verso l’armadio. Tirò giù la sua borsa da viaggio dall’unico scaffale e mandò un’occhiataccia al pesante, troppo pesante, completo da federale appeso su una stampella. Stupidi mostri che operavano d’estate al Sud. Osservò lo schermo del telefono:

 

Oggi, 28 Luglio: dai 18° ai 32°

Domani, 29 Giugno: dai 21° ai 34°

30 Giugno: dai 17° ai 31°

1 Luglio: dai 22° ai 34°

2 Luglio: dai 20° ai 34°

3 Luglio: dai 20° ai 32°

4 Luglio: dai 21° ai 33°

 

Dean sospirò. Non era poi così male. Meglio di quanto si aspettasse, anzi.

 

Guardò di nuovo male il completo da FBI.

 

Spense il telefono e si buttò a letto. Doveva assolutamente comprare degli altri deodoranti.

 

***

 

Invece di seguirlo, come Sam si sarebbe aspettato, Castiel rimase seduto davanti a lui con la stessa espressione corrucciata in volto.

 

“Cas?” lo chiamò Sam. “Va tutto bene?”

 

Castiel alzò gli occhi su di lui e sospirò, prima di parlare.

 

“In Texas ci sono molte comunità religiose.” Non era una domanda.

 

“Sì,” Sam si sentì ugualmente in dovere di rispondere.

 

“E da quello che mi avevi detto l’altro giorno,” continuò Castiel, “i religiosi non accettano molto gli omosessuali.”

 

“No. Cioè, buona parte non lo fa,” spiegò Sam, “ma chi, come dici tu, afferra al meglio il messaggio cristiano ha più tolleranza.”

 

Castiel annuì, non pienamente convinto. “Quindi probabilmente questi omicidi non sono avvenuti per caso,” ragionò.

 

Sam sospirò. “No, non credo.”

 

Castiel aveva ancora quell’espressione. Non tanto di tristezza. Sam lo avrebbe definito più come sconcerto. Come quello di un bambino che non capisce il perché di una guerra. Sam si sentiva così affine a lui, in quel momento.

 

“Grazie, Sam,” sorrise Castiel, alzandosi anche lui per raggiungere Dean.

 

“Non c’è di che, Cas,” rispose Sam, con un sorriso altrettanto sincero.

 

Lo osservò lasciare la stanza prima di tornare al suo computer.

 

Cliccò sulla barra di ricerca e si bloccò per un secondo, in riflessione; poi digitò velocemente sulla tastiera:

 

Le città più conservatrici d’America

 

Ricordava di aver letto un articolo a riguardo qualche tempo fa e voleva controllare una cosa.

 

Tra i vari risultati offerti dal motore di ricerca, cliccò su un link ad un forum.

 

La domanda era: Qual è la città più omofobica negli Stati Uniti?

 

Tra le vare risposte, la più votata dagli utenti presentava una classifica delle città più conservatrici, appunto.

 

Sam lesse i primi tre nomi:

 

1 Provo, Utah

2 Lubbock, Texas

3 Abilene, Texas

 

Lentamente, chiuse la pagina e si appoggiò allo schienale della sedia. Dopo qualche minuto si ritrovò a giocherellare con la freccetta del mouse sul desktop.

 

Fantastico.

 

***

 

Castiel entrò nella loro camera da letto, trovando Dean intento a preparare il borsone per il viaggio.

 

“Hai ragione, comunque,” lo apostrofò all’improvviso, mentre studiava una camicia a quadri verde, decidendo se fosse adatta per il clima estivo. La rimise a posto con uno sbuffo. Perché non aveva nulla di più leggero?

 

“A che proposito?” Sentì Castiel sedersi sul letto alle sue spalle.

 

“Sam ha davvero bisogno di una ragazza,” spiegò, girandosi per lanciare un paio di pantaloni e delle magliette sul letto, accanto al borsone.

 

Castiel ne afferrò una e la dispiegò per osservarla curiosamente. Dean soppresse un sorrisetto e si voltò di nuovo verso l’armadio.

 

“Perché lo pensi?” domandò, dopo qualche minuto.

 

Dean alzò le spalle, tirando fuori una camicia gialla. La osservò con gli occhi stretti. E da quand’è che aveva una camicia gialla?

 

“Se avesse una ragazza con cui passare nel tempo non andremmo in Texas, a fine Giugno, con più di trenta gradi,” commentò, rimettendo il capo a posto.

 

Castiel sbuffò. “Perché, hai altri impegni?”

 

Dean si voltò guardandolo con oltraggio dipinto nello sguardo. “Certo!” esclamò, in tono offeso. All’occhiata scettica di Castiel, fu il suo turno di sbuffare. “A dirla tutta,” cominciò, avvicinandosi al letto e osservando l’occupante con sfida, “volevo andare al mare. Tutti e tre.”

 

Il viso di Castiel si distese in un’espressione di dolce incredulità. Dean non poté trattenersi dal sorridere a sé stesso. “Davvero?” chiese, con qualcosa di simile alla meraviglia negli occhi. A Dean piaceva quello sguardo.

 

“Davvero,” confermò Dean, sedendosi davanti all’altro sul materasso. Gli diede un buffetto sulla guancia, sorridendo. “Florida o California?” gli chiese.

 

Castiel piegò leggermente la testa, sorridendo anche lui. “Non saprei,” rispose, scuotendo le spalle. “Per te qual è meglio?”

 

Dean percepì un fremito di emozione scuotergli il corpo. Per evitare di sorridere come un idiota, si passò una mano sul viso e abbassò per un attimo lo sguardo. Amava quello che faceva Castiel: solo lui era sempre felice di fare come voleva Dean. E lo era davvero. Era felice che Dean fosse felice. A questo Dean non sapeva mai come reagire. Non pensava che ci fossero parole per esprimere com’era importante per lui il fatto che Castiel ci fosse e basta. Castiel non sapeva quanto fosse lui quello che rendeva Dean felice.

 

Dopo un lungo momento di riflessione scrollò anche lui le spalle, rialzando lo sguardo. “Dipende da cosa vogliamo fare,” risponde. “In California ci sono tante città da vedere, ci vorrebbe più tempo… ma anche in Florida. Ma lì di solito d’estate è un po’ umido, e dicono che sia quello che ti stende. Non tanto il caldo quanto l’umidità… anche se l’acqua è decisamente più calda e bella. Le spiagge in California sono fantastiche, ma l’acqua gelida. Sarebbe ottima solo per gli sport d’acqua. Magari a Sam andrebbe bene. Però anche in Florida ci sono tante cose da vedere…” si corrucciò continuando a parlare, finché la risata di Castiel lo fece azzittire. “Cosa?”

 

Castiel scosse la testa, gli occhi divertiti. “Non dobbiamo pensarci ora, Dean, prenditi il tempo che vuoi.” Detto questo si allungò per baciargli le labbra.

 

Dean chiuse gli occhi, sporgendosi anche lui in avanti, tirando la nuca di Castiel verso di sé. Passò la lingua sul suo labbro superiore, i denti di Castiel che gli stuzzicavano quello inferiore. Portò il braccio libero dietro alla sua schiena, spingendoselo addosso e Castiel lo seguì, andandosi a posizionare sopra alle sue cosce. Dean aprì le labbra e incontrò subito la lingua dell’altro che non attendeva altro che quest’occasione. Continuarono a baciarsi, la mano di Castiel che gli accarezzava i capelli, e quando si divisero per bisogno di ossigeno, gli depositò un ultimo bacio sulla guancia, per poi riallontanarsi.

 

Dean rimase per qualche secondo nella stessa posizione a osservare, a corto di fiato, l’angelo seduto davanti a lui. Infine disse, “Magari potremmo andarci l’anno prossimo in California.” Si alzò in piedi con un sorriso ammiccante. “Sai, potremmo andare al Comic Con. Anche con Charlie,” si illuminò, sorridendo al nome dell’amica.

 

Castiel annuì, felice. “Certo. Sarà divertente, credo.”

 

Dean batté le mani, soddisfatto. “Così anche l’animo nerd di Sam sarà soddisfatto.” Zittì la vocina esultante che voleva andare al Comic Con da quando aveva undici anni.

 

Si voltò di nuovo verso l’armadio, le spalle molto più leggere, e continuò la sua selezione di vestiti.

 

“Perché non porti questa?” Dean saltò sul posto, voltandosi verso l’angelo improvvisamente apparso accanto a lui. In mano reggeva una camicia bordeaux di flanella e la osservava con malcelato interesse.

 

Con un sospiro, Dean gliela prese di mano per rimetterla a posto. “Prima di tutto, te l’ho detto, Cas, devi fare più rumore quando ti muovi, non puoi continuare a spaventare la gente così.” A quelle parole Castiel abbassò lo sguardo dispiaciuto, ma non mollò la presa sulla camicia. “E poi,” continuò Dean, strattonando più volte il capo d’abbigliamento, senza successo, “fa troppo caldo per metterla.”

 

Castiel alzò lo sguardo, accennando alla camicia di jeans che indossava in quel momento. La pesante, camicia di jeans. Dean si impose di non arrossire sotto allo sguardo di sfida dell’angelo e, con un ultimo strattone, si riappropriò della camicia bordeaux. “Qui fa freddo, in Texas no,” borbottò, infilando la stampella in mezzo alle altre nell’armadio.

 

“Fuori fa freddo,” concesse Castiel, “ma nel bunker no. E’ di questo che ti lamenti da un mese.”

 

“Sta’ zitto,” sbottò Dean. Di colpo chiuse l’armadio e controllò l’orario. Le tre del pomeriggio. Si voltò di nuovo verso l’angelo con un ghigno. “Ti va di venire con me a fare compere?”

 

“Ti servono vestiti leggeri?” domandò Castiel.

 

Dean annuì. “Allora vieni?”

 

“Certo,” rispose prontamente Castiel e lo precedette dirigendosi verso la porta.

 

“Aspetta,” lo fermò Dean.

 

Castiel si voltò, confuso. “Sì, Dean?”

 

“Perché volevi che portassi quella camicia?” Era incuriosito. Di solito a Castiel poco importava dei vestiti.

 

L’angelo scosse le spalle, incurante. “Mi piace molto come ti sta,” rispose, senza mezzi termini.

 

“Beh, allora è meglio che non la porti,” ribatté Dean con un sorriso furbo. “Dobbiamo lavorare, niente distrazioni.”

 

Castiel roteò gli occhi. “Ti sta bene, perché non metterla?” domandò, retoricamente.

 

Una risata scappò dalla gola di Dean mentre afferrava le chiavi dell’Impala e raggiungeva l’angelo. “Va bene, signor Stile, fammi strada.”

 

Castiel lo osservo confusamente e Dean prevenne ogni domanda con un pizzicotto sulla coscia. “Sbrigati,” bisbigliò, “voglio tornare in fretta.”

 

“Per preparare il borsone?”

 

Alzò le spalle. “Chiamalo anche così.”

 

Una risata soffocata risuonò per il corridoio.










Eccola

Sì, beh, sono stata veloce. Non vi ci abituate, però. E' un errore da principianti.
Un altro capitolo da prologo, già. Anche se è più esordio che esposizione, come invece lo era lo scorso. Perché io so la differenza u.u
Comunque, sì, mi piace tanto scrivere scenette fluff tra i miei bimbi, okay? So che piacciono anche a voi, lo so. A chi non piacciono? Ai bugiardi. E beh, agli stupidi. Ma per la stupidità non c'è medicina, quindi perché preoccuparcene?
Insomma, volevo ringraziare tutti quelli che hanno letto, recensito, aggiunto alle seguite e alle preferite lo scorso capitolo. Siete pucciosi
E beh, qui ho finito.
Alla prossima, cià.

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Capitolo 3
*** Capitolo III - Amare significa lasciare andare ***


 

A Claudia e Giulia.
Lo sapete voi il perché. 

 

Capitolo III: Amare significa lasciare andare

 

L’Impala parcheggiò nel posteggio della stazione di servizio e un Sam molto indolenzito e molto accaldato ne uscì fuori prima ancora che il motore si spense.

 

Viaggiavano da ormai quattro ore e, nonostante la macchina fosse dotata di aria condizionata, Dean non poteva proprio biasimare il fratello per agognare dell’aria fresca.

 

Lentamente, uscì anche lui dalla macchina e appena in piedi si sgranchì le gambe, appoggiandosi alla portiera dell’auto. Il sole alto picchiava forte sulla sua testa e quasi quasi preferiva tornare in macchina. Erano da poco entrati in Oklahoma e quello è sempre stato uno stato poco clemente, d’estate. Meno male che si era deciso di andare a fornirsi di t-shirt decenti il giorno prima.

 

Con un gemito chiuse la portiera della macchina e passò affettuosamente una mano sul tettuccio mentre si abbassava all’altezza del finestrino posteriore. Bussò sul vetro attirando l’attenzione dell’occupante e sorrise. “Cas, vieni fuori,” lo incitò, indietreggiando per concedergli lo spazio per uscire.

 

Castiel uscì dall’auto e chiuse lo sportello guardandosi attorno.

 

“Quanto manca ancora?” domandò.

 

“Se va tutto bene, altre quattro ore,” rispose Dean, sentendosi vagamente male all’idea di passare altre quattro ore in macchina attraversando Oklahoma e Texas, “dovremmo esserci per cena.”

 

Castiel annuì e si voltò verso l’ingresso della stazione di servizio. “Credo che lì dentro l’aria sia molto più fresca,” stabilì, per poi rivolgersi a Dean con un sorriso. “Andiamo?”

 

Dean annuì, chiudendo la macchina a chiave. In quei parcheggi c’era sempre gente strana; meglio essere sicuri. Quando ebbe finito, raggiunse Castiel e insieme entrarono nel piccolo negozio. Il sollievo dell’aria condizionata fu istantaneo: Dean si rilassò visibilmente, sospirando. Localizzarono subito Sam di fronte al frigorifero delle bevande, in un momento di contemplazione. Gli si avvicinarono, continuando a guardarsi intorno.

 

“Vuoi qualcosa?” chiese Dean al fratello. “Perché io ho fame, quindi ora o a Lubbock.” Era pure ora di pranzo, eh.

 

Sam volse lo sguardo verso il fratello, facendolo saettare poi sul bancone. “Mh, sì, va bene,” rispose, aprendo il frigorifero per tirare fuori un paio di bottigliette d’acqua. “Prendimi quello che ti pare.”

 

“Fantastico,” rispose Dean, “Cas, tu vuoi—“ si voltò, aspettandosi di trovarlo accanto a sé. Non trovandolo, fece vagare lo sguardo per tutto il negozio. “Cas?” chiamò, fino a quando non occhieggiò una testa castana dall’altro lato del negozio. Scrollò le spalle e si voltò verso il bancone.

 

Si mise in coda dietro a due persone – un uomo sui vent’anni e una donna sui quaranta – aspettando il suo turno per la cassa, dove una signora sui cinquant’anni serviva giovialmente il cliente. Dopo qualche minuto, Sam si unì a lui, portandosi appresso le due bottigliette d’acqua e un paio di giornalini d’enigmistica. Dean roteò gli occhi. Nerd.

 

Ogni tanto si voltava a controllare dove fosse Castiel, che girava ancora per il negozio con l’aria di uno studente in un museo.

 

Quando fu il suo turno – Sam gli aveva mollato i suoi acquisti per andare in bagno – poggiò i prodotti sul bancone rivolgendo un sorriso cordiale alla donna di fronte a lui.

 

Nonostante l’età matura aveva un gran sorriso e dava l’impressione di una donna particolarmente energica. Rispose con egual calore al sorriso di Dean, passandosi una mano tra i corti capelli biondi.

 

“Buongiorno,” la salutò Dean.

 

“Buongiorno a te,” ricambiò la donna, con gentilezza, “è tutto?”

 

“No,” rispose Dean, facendo vagare lo sguardo sui ripiani di cottura dietro la cassa, “volevo chiedere i tipi di pasti caldi che avete.”

 

“Oh, abbiamo hot-dogs, hamburgers, cheeseburgers, nachos, tacos e altro che non mi viene in mente,” replicò la donna, dando di riflesso un’occhiata alle spalle.

 

“Mh,” meditò Dean. “Allora… due cheeseburgers, per piacere.”

 

“Subito, caro,” replicò la donna con un occhiolino giocoso, voltandosi a preparare i panini.

 

Dean attese al bancone, estraendo intanto il portafogli dalla tasta posteriore dei jeans, e battendo le dita sulla superficie.

 

Dopo qualche minuto la commessa tornò con due panini incartati e li infilò nella busta di plastica insieme al resto della spesa. Si voltò verso il registratore e digitò qualche tasto, prima di annunciare, “Il totale è undici dollari e cinquanta centesimi.”

 

Dean le porse i soldi e salutò con un “Buona giornata,” allegramente ricambiato dalla donna.

 

Arrivato all’uscita si voltò un’ultima volta verso uno scaffale.

 

“Cas,” chiamò, “andiamo, dai.”

 

L’angelo alzò lo sguardo dalla rivista sportiva che teneva in mano, la poggiò sullo scaffale assieme alle altre e si avviò verso di lui.

 

“Che guardavi di interessante?” gli domandò Dean, uscendo dal locale. Già rimpiangeva la freschezza dell’aria condizionata.

 

Castiel scosse le spalle. “Niente di che,” rispose, “osservavo.”

 

Dean annuì e insieme raggiunsero Sam alla macchina.

 

***

 

Arrivarono a Lubbock al tramonto, stanchi e provati dal lungo viaggio e si fermarono al primo motel che videro appena entrati in città.

 

Entrati nella hall, Sam si avvicinò per primo al bancone, dove una ragazza sui vent’anni abbondanti era pronta a servire i nuovi clienti.

 

“Buonasera,” li accolse la ragazza con un sorriso un po’ troppo timido per la sua occupazione. “Una tripla?” li anticipò.

 

Sam annuì con un sorriso ricambiato dalla ragazza, accompagnato da un leggero rossore sulle guance lentigginose.

 

Ed eccoci, pensò Dean. Diede una leggera gomitata a Castiel, il quale gli rivolse uno sguardo sagace e si voltarono di nuovo verso i due.

 

La ragazza – un po’ bassina, coi capelli lunghi e mori e degli occhiali da vista, anch’essi neri – si voltò per prendere una delle chiavi appese alle sue spalle e si voltò di nuovo verso i suoi tre clienti. “Per quanto contate di restare?” domandò, con voce piccola e allungando la chiave verso Sam.

 

Sam fece per rispondere, ma Dean lo precedette, con un sorriso. “Se tutto va bene, non più di una settimana,” disse. “Ma non ne siamo sicuri.”

 

La ragazza arrossì di nuovo e rivolse di nuovo lo sguardo verso Sam – dovendo alzare di molto la testa, notò Dean con divertimento. “Beh, la stanza è la 16, al piano di sopra,” spiegò, indicando il corridoio alla sua sinistra che portava a una rampa di scale.

 

“Grazie,” disse Sam con un sorriso.

 

“Grazie a voi,” rispose la ragazza, “e buonanotte.”

 

“Buonanotte,” risposero Dean e Castiel in coro, avviandosi in fretta verso le scale.

 

“Buonanotte,” arrivò poco dopo il saluto di Sam, che poi si abbassò per prendere il suo borsone e seguire gli altri due.

 

***

 

La camera era abbastanza grande, le pareti di un azzurro cielo tenue, una grande finestra che si affacciava sul parcheggio: non era una suite, ma c’era un po’ d’impegno nel mantenerla vivibile.

 

Dean gettò la borsa su uno dei letti – che sarebbe stato suo per quella settimana, se tutto andava bene – e si precipitò nel bagno.

 

Quando ne uscì, trovò un Sam rosso in faccia e frustrato e un Castiel decisamente sereno e indifferente.

 

Appena la porta si chiuse, suo fratello si volto verso di lui. “Dean.”

 

Sam,” lo scimmiottò.

 

“Perché tu e Cas discutete della mia vita sentimentale a letto?” chiese Sam, con un tono leggermente più acuto del solito.

 

Dean osservò l’angelo alle spalle del fratello con rimprovero. “Cas!”

 

Castiel abbassò lo sguardo, mortificato. “Non gli ho detto che stavamo a letto,” mormorò ai suoi piedi.

 

Dean roteò gli occhi e si rivolse di nuovo verso Sam. “Che problema hai, Sam?” domandò, stancamente.

 

“Che problema ho?” ripeté Sam, incredulo.

 

“Sì, Sam. E’ tutta la vita che ti lamenti del fatto che ti tengo incollato a me, che odi questa vita, che vorresti trovarti una ragazza e farti una famiglia. Beh, ci ho pensato. E hai ragione. Quindi, apri le ali e vola, uccellino,” concluse Dean, sedendosi sul suo letto e cominciando a togliersi le scarpe.

 

Sam rimase immobile per qualche secondo, scioccato dalla facilità con cui suo fratello aveva parlato. “Dean,” cominciò, scuotendo la testa, per poi fermarsi subito. Dean capì che non sapeva che dire dall’emozione. Lo comprendeva; lui stesso teneva gli occhi fissi al pavimento per non fargli vedere il loro luccichio.

 

Nella quiete si intromise la voce di Castiel, premurosa anche se lievemente – e inusualmente – a disagio. “Io esco… a fare un giro e… controllare i dintorni. Torno tra… non so.” E detto questo uscì prima che qualcuno potesse obbiettare.

 

La porta si richiuse con delicatezza e, a parte il risuono dei passi di Castiel sul parquet del corridoio, nella stanza non si udiva il volare di una mosca.

 

Infine, Dean, stanco di quel silenzio opprimente alzò lo sguardo – ormai a prova di lacrime – e lo fissò con decisione in quello del fratello. “Senti, Sam,” cominciò, “in passato ti ho detto molte volte che volevo che alla fine di tutto questo schifo tu ti salvassi, ti facessi una famiglia e ti godessi in pace una lunga vita piena di ragazzini e parchi divertimento. Per questo ti ho protetto tutta la vita, ho fatto un patto con un demone per farti resuscitare, ti ho mentito per permettere ad un angelo di curarti, e tanto altro. Ma alla fine, ogni volta che riuscivi a sistemarti io non ti lasciavo mai andare. E perché? Perché sono un fottuto egoista e non volevo rimanere da solo. Ero terrorizzato di rimanere da solo. Ma ora,” e qui il suo sguardo si addolcì visibilmente, andandosi a fissare per un attimo sulla porta della stanza, “ora credo – ora so, di non essere da solo, so che non sarò mai più da solo. E non voglio che in cambio sia tu ad esserlo.”

 

Alla fine di questo discorso Dean sospirò, riportando lo sguardo su quello del fratello, aspettando una sua reazione.

 

Sam stava in piedi al centro della stanza, fissando il fratello con dei grandi occhi verdi, le mani penzolanti ai lati del corpo e leggermente tremanti d’emozione, il respiro rotto.

 

Dopo un lasso di tempo – per Dean – scomodamente lungo, Sam esplose nella reazione, a suo parere, più improvvisa: scoppiò a ridere. E lo fece di gusto. Per un lasso di tempo scomodamente lungo.

 

Ad un certo punto, Dean, stufo di quella scena, fece per rimettersi le scarpe per uscire, ma in quel momento un peso di più di ottanta kili gli venne in contro, stringendolo nelle sue lunghe braccia.

 

Passato qualche momento di sbigottimento, Dean mollò la presa sul suo anfibio e strinse con forza il fratello minore. Si erano scambiati così tanti abbracci in quegli anni: più volte per sollievo, altre per disperazione, spesso per felicità, poche volte per conforto. E in ogni abbraccio c’era così tanto da dire. Ogni stretta, ogni pacca, erano tutte parole di un discorso che non avevano mai il coraggio di pronunciare. Ma poche volte si abbracciavano così. Non per evitare un discorso, o camuffare un’emozione; bensì per esprimere un’emozione, per condividere e riaffermare tutto quello che era stato detto e accolto, tutto quello che sapevano per ammissione e conoscevano per certezza.

 

In quell’abbraccio c’era tutto l’amore che provavano l’uno per l’altro.

 

Quando si divisero, Sam rimase inginocchiato alla stessa altezza del fratello e disse, “Stare con Cas ti ha ammorbidito, Deanna.”

 

Dean non poté trattenersi dal sorridere, fermando però la risata che gli era nata in petto. “Sta’ zitto. Rimani tu la ragazzina, Samantha.”

 

“E perché scusa?” domandò Sam.

 

Dean ghignò ancora di più. “Perché le palle le hai lasciate alla reception,” rispose prontamente.

 

A quello Sam arrossì in modo imbarazzante. Dean lo trovò estremamente divertente.

 

“E’ carina,” lo incitò, “dovresti provarci. Oppure quelli troppo alti le fanno paura. Oppure a te fanno paura quelle troppo basse,” ragionò tra sé. “Nah,” si risolse alla fine, “da come vi guardavate, non credo. Ma, beh, forse in giro per strada sembreresti un pedofilo. Almeno di spalle. Perché, beh, le hai viste quel bel paio di—“

 

“Dean,” fu l’esclamazione esasperata di Sam. “Chiudi il becco!”

  

“Cercavo di convincerti,” si giustificò Dean con una scrollata di spalle. “Anche se non credo tu ne abbia bisogno,” ammiccò, aprendo il suo borsone.

 

“Sì, beh, smettila,” replicò Sam, voltandosi verso il suo letto e facendo lo stesso. “E sei in una relazione, non dovresti andare in giro a notare le ragazze e le loro—“

 

“Oh, giusto!” esclamò d’improvviso Dean, sbattendosi una mano sulla fronte. “Devo chiamare Cas! Chissà dove diavolo è andato,” mormorò, tirando fuori il telefono dalla tasca e alzandosi in piedi per raggiungere la finestra della stanza.

 

Sam scosse la testa tra sé e sé, incredulo. “Idiota,” mormorò.

 

“Puttana,” fu la risposta. Sam ridacchiò.

 

Dean digitò la chiamata rapida e dopo un paio di squilli la voce del suo angelo rispose. “Pronto?”

 

“Hey, Cas,” lo salutò, sorridendo, “dove sei?”

 

Un leggero chiasso arrivò dall’altra parte della telefonata. “Oh, ad un pub vicino al motel,” rispose Castiel con noncuranza.

 

“Vuoi che ti venga a prendere? O torni tu? Io e Sam abbiamo finito con i discorsi da donne,” disse Dean.

 

Fu sicuro di sentire Castiel roteare gli occhi. “Dean, sono un Angelo del Signore. Me la so cavare,” rispose, infatti, con uno sbuffo. “E non credo di tornare subito,” aggiunse, dopo un attimo.

 

Dean aggrottò la fronte. “Come no?” chiese, in un tono più aggressivo di quanto non volesse.

 

“In ogni caso non dormirò,” fu la risposta, sempre pacata, di Castiel. “Almeno qui comincio a mettermi a lavorare. Molte persone mi stanno raccontando delle vittime. A quanto pare siamo nella loro zona,” spiegò.

 

Dean tacque per qualche secondo. In effetti, Castiel aveva ragione: era un angelo, non aveva bisogno di dormire. Perché confinarlo in una stanza di motel quando fuori poteva essere molto più attivo e molto più utile? D’altro canto, a Dean non piaceva non tenere un occhio su Cas. Certo, lui di notte dormiva, ma almeno sapeva che l’angelo era accanto a lui, al sicuro. Ma comunque Castiel era un maledetto angelo, sapeva difendersi. E aveva visto bene, come si difendeva. L’aveva anche sperimentata la sua difesa. E più volte. Di sicuro se la sarebbe cavata. Eppure, eppure. Eppure, lo voleva lì e basta, ecco. Voleva lì il suo angelo. Era una mossa da egoista, ma per quella sera era stato abbastanza altruista. No?

 

“Dean?” arrivò la voce dell’angelo dall’altro capo della linea. Era da un po’ che stava in silenzio.

 

“Sì, Cas,” rispose Dean. Torna qui, è meglio. “Beh,” torna “se vuoi,” potresti tornare “puoi anche” tornare “puoi rimanere lì finché vuoi,” disse, infine. “Ma non fare troppo tardi,” aggiunse, dopo un attimo.

 

“Va bene, Dean,” rispose Castiel. “Tu vai a dormire, però. Sei stanco, dopo tutto il viaggio.”

 

Dean soppresse un sorriso. Torna. “Tranquillo, Cas. Ti posso benissimo aspettare.”

 

“Dean, buonanotte,” replicò Cas, con una punta di divertimento.

 

“Ciao, Cas,” rispose Dean e attese che Castiel attaccasse per primo.

 

Si voltò e poggiò il telefono sul comodino accanto al letto, per poi collegarlo al caricabatteria. Si sedette pesantemente sul letto e si passò una mano sul viso, sospirando.

 

“Va tutto bene?” domandò Sam, preoccupato. “Dov’è Cas?”

 

“E’ in un bar da queste parti, dice,” rispose Dean. “Non so quando torna.”

 

Sam sbatté le palpebre più volte. “E— cosa starebbe facendo in un bar, a quest’ora, di lunedì?” chiese, sconcertato.

 

Dean scrollò le spalle. “A quanto pare ha incontrato alcuni conoscenti delle vittime e si sta facendo dei nuovi amici,” rispose, buttando per terra il borsone e alzandosi in piedi per togliersi i pantaloni.

 

“Oh,” fu la replica di Sam. “Okay?” rispose, titubante.

 

Dean rimase in silenzio, appallottolando i pantaloni e mettendoli nella borsa e tirandone fuori una maglietta rovinata per dormire.

 

“Dean,” lo chiamò Sam. “Sa badare a sé stesso, lo sai questo.”

 

“Certo che lo so,” rispose Dean.

 

“Bene,” rispose Sam. “Ora rilassati un po’, io vado a prendere qualcosa per cena. Torno subito.”

 

Era quasi arrivato alla porta, quando la voce di Dean lo fermò sul posto. “Sam.”

 

“Sì?”

 

Si voltò, trovando un sorrisetto sulle labbra del fratello. “Fatti dare il nome della ragazza.”

 

“Dean.”

 

“Sì?”

 

“Fottiti.”

 






Eccola

Ho aggiornato un po' più tardi di quanto avessi programmato, okay, colpa mia, come vi pare.
Però non è come se qualcuno avesse recensito per lamentarsene, uhm? *guarda male*
Okay, non ruolerò, la smetto.

Comunque, qui inizia a muoversi la storia. Sì, ho messo un altro momento cuore-amore, tra i fratelli 'sta volta, e con il discorso lacrimuooooso di Dean ho finito con le smielate. Non vorrei causare l'insulino-resistenza a qualcuno, e.e
Ad ogni modo, ringrazio tutti quelli che hanno aggiunto la storia alle seguite e alle preferite, e anche chi legge in silenzio. Ma ricordatevi che non mordo, eh. Le recensioni fanno sempre piacere.
Bene, ora vado, mi aspetta la mia prima visione di Philadelphia. Auguratemi buona fortuna, colleghi. Cià, tanti saluti.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - La vera malattia ***


Capitolo IV: La vera malattia

 

Era da un po’ ormai che Dean non sognava più. A volte capitavano gli incubi, ma non più così frequentemente. A volte, parlandone con Castiel, faceva battute su un aiuto dall’alto. Castiel non rideva mai. Ma neanche poco. Di solito roteava gli occhi. Già, era proprio un brutto vizio, ormai.

 

Comunque, ormai di notte era il quieto nulla a prendere possesso della sua mente, per quanto non offensiva questa frase possa sembrare. E, sinceramente, a Dean andava bene – anzi, benissimo. Tutto al posto dell’Inferno. O, in questo caso, nulla.

 

Quindi, anche quella mattina, Dean cominciò pian piano a prendere conoscenza avendo nient’altro che calma in corpo. Rimase con gli occhi chiusi, collezionando i ricordi del giorno precedente e costruendo il contesto di quello a venire. Impala. Viaggio. Caso. Texas. Lubbock. Motel. Sam. Cas.

 

Delle voci a tono basso, bisbigliato, fecero il loro ingresso nel buio riquadro. Una risata gli fece aprire gli occhi.

 

La luce del sole – come aveva scelto male il letto – colpì i suoi occhi e non poté fermarsi dal gemere infastidito, zittendo le voci ospiti del suo nulla.

 

Issandosi sui gomiti, girò la testa verso la loro origine e trovò Sam e Castiel seduti al piccolo tavolo rotondo vicino al letto di Sam, intenti a osservarlo.

 

Con lo sguardo sorvolò sulla figura scomposta e spettinata di Sam – era tutta la vita che lo vedeva, non aveva bisogno di un’altra ispezione – e si concentrò su Castiel, piuttosto. Castiel, sempre lindo e perfetto, con il trench sempre stirato e la cravatta blu – dopo averla persa, gliene aveva comprata un’altra. Quella roba a righe era inguardabile – sempre storta e i capelli sempre spettinati e gli occhi sempre così blu e calmi, come a ingannare, con quell’impressione pacata, dall’uragano che vi era al loro interno. Castiel, che la sera prima non c’era.

 

“Cas,” soffiò, lo sguardo fisso su quello dell’angelo.

 

“Ciao, Dean,” lo salutò Castiel, il saluto di sempre, con un’immancabilità da far male.

 

“Stai bene,” era una constatazione, la sua, ma Castiel annuì comunque, sorridendo appena.

 

Dalla destra di Castiel, ci fu un colpo di tosse. “Buongiorno anche a te, Dean,” arrivò la voce divertita di Sam.

 

“Manie di protagonismo, Sammy?” chiese Dean, mettendosi seduto sul letto e strofinando via il sonno dagli occhi.

 

“Qualcosa del genere,” rispose Sam, con un sorriso pigro. “Oh, e il suo nome è Amber.”

 

Dean strinse le sopracciglia, confuso; appena capì di cosa stesse parlando suo fratello, le rialzò in un’espressione di incredulità. Non credeva che glielo avrebbe chiesto. “Fantastico, Sam. Vi siete già scambiati i braccialetti dell’amicizia?”

 

Sam roteò gli occhi. Ecco da chi aveva preso Cas, allora. “No, idiota. Ieri sera abbiamo parlato un po’ – a quanto pare qui c’è anche un’area ristorante, è lì che ho preso la cena e la colazione – e abbiamo chiacchierato anche stamattina. Si sta laureando in psicologia e intanto arrotonda qui, il motel degli zii. E’ davvero simpatica, anche se un po’ timida…” raccontò Sam, con un luccichio allegro negli occhi. “E non indovinerai mai di dov’è,” aggiunse poi, con l’aria di un cucciolo emozionato.

 

Castiel lo guardò con grande affetto nello sguardo e anche Dean si sciolse in un sorriso, alzandosi in piedi. “Di dov’è?” si risolse a chiedere.

 

“Del Kansas!” esplose Sam, sorridendo.

 

Dean spalancò gli occhi. “Wow,” disse. Fece per continuare ma si bloccò. “Aspetta un attimo,” disse, entrando nel bagno e chiudendosi la porta alle spalle.

 

Quando ebbe finito, uscì e disse, “Scusate, la natura chiama,” disse e si avvicinò al tavolino. “Beh, fortunato te, Sammy,” concesse, quindi. “O sfortunato, se non funziona. Ti ha detto di che città?” Passò dietro a Castiel e si abbassò per depositargli un bacio sulla testa, in mezzo alla foresta di capelli scuri. Castiel voltò lo sguardo in alto e gli fece un gran sorriso, quelli che faceva solo a lui. Quindi Dean si abbassò di nuovo e per posargli un altro bacio, questa volta sulle labbra. “Ciao, Cas,” gli bisbigliò infine, per poi andarsi a sedere accanto a lui e davanti a Sam.

 

Suo fratello li guardava con una strana espressione in volto. “Per quanto sia contento per voi due,” disse, “non credo che mi abituerò mai a un Dean in una relazione stabile che si scambia sdolcinatezze con qualcun altro. E’ tutto così strano.” Soppresse un finto brivido.

 

Castiel roteò gli occhi. “Più strano di partecipare ad un gioco a premi giapponese comandato da mio fratello?” chiese, con uno sguardo di sfida.

 

Sam lo osservò, stupito. E poi guardò male Dean. “Smettila di corrompere un angelo del Signore,” gli ordinò.

 

Dean, che stava già assaggiando le uova strapazzate che gli avevano portato per colazione, alzò lo sguardo innocente. “Io?” domandò retoricamente. “Io non—“

 

“Comunque, Sam,” riprese Castiel, interrompendolo – e acquietandolo con una carezza sulla coscia – “da che città hai detto che viene Amber?”

 

“Oh, giusto,” riprese Sam, rivolgendosi a Castiel con tanto d’occhi. “E’ di Smith Center!”

 

Dean si fermò un attimo per masticare, pensando. “Smith Center è...” inghiottì rumorosamente e continuò, “è a una ventina di miglia da Lebanon, o sbaglio?”

 

Bastava il sorrisone di Sam a suggerirgli di aver ragione. “Fantastico!” esclamò, e lo diceva davvero.

 

Anche Castiel sorrise a Sam, e per qualche attimo stettero tutti e tre in silenzio, Dean a mangiare, Sam a sorseggiare il suo caffè e Castiel a osservarli.

 

Finite le sue uova, Dean procedette a versarsi una tazza di caffè e chiese, “A parte le avventure d’amore di Sam, avete parlato d’altro? Che so, del caso?”

 

L’espressione di Sam si fece subito attenta e seria e, finendo il suo caffè in un sorso, gli passò il giornale del mattino. “Ieri ci sono state altre due vittime. Sempre una coppia omosessuale, sempre in circostanze misteriose.”

 

Dean sentì un nodo in gola mentre leggeva la notizia in prima pagina. La sorte omofoba colpisce ancora. Quella notte erano stati ritrovati i corpi di un’altra coppia omosessuale originaria della città e appena sposata, appena qualche miglio fuori Lubbock. I cadaveri si trovavano all’interno della loro auto, andata improvvisamente fuori strada, morti quindi per un incidente stradale. Dean deglutì pesantemente e si volse verso Castiel. “Hai scoperto qualcosa ieri, Cas?” domandò.

 

“Ho parlato con cittadini vari, alcuni conoscenti e il fratello di un componente della seconda coppia uccisa,” cominciò Castiel. “Mi hanno raccontato tutti le stesse cose: che erano persone fantastiche, gravate dalle visioni ristrette della loro società, amavano molto il proprio partner e appena avuta la possibilità di essere felici, non hanno potuto godersela,” raccontò, con calma. “Mark Fraust, fratello di James, mi ha raccontato che suo fratello aveva una relazione con il suo compagno, Paul Tweed, da otto anni ed era tanto che pensavano di sposarsi. Però i genitori non approvavano, quindi aspettarono fino alla legalizzazione per farlo. Ma a quanto pare non è andata bene. Le altre persone con cui ho parlato erano più che altro conoscenti delle vittime e non mi hanno detto molto.” Rivolse uno sguardo dispiaciuto a Dean. “Mi dispiace non saperti dire di più,” mormorò, contrito.

 

Invece, Dean gli sorrise, dandogli una pacca sulla coscia. “Ma no, Cas,” lo rassicurò, “sei stato bravissimo.”

 

Castiel sorrise leggermente e continuò a parlare. “Sam ha suggerito di andare alla stazione di polizia per avere informazioni e poi di andare a parlare con i familiari delle vittime,” lo informò.

 

“Pensavo di dividerci,” commentò Sam, “è un bel po’ di gente, faremmo prima.”

 

Dean annuì e si alzò per andare a prepararsi. Aprì il borsone e ne tirò fuori shampoo, deodorante, dentifricio, spazzolino e completo.

 

Intanto, alle sue spalle, sentiva Sam e Castiel sparecchiare il tavolo.

 

“Tranquillo, Sam,” disse Castiel, “li riporto io giù. Tu preparati.”

 

“Grazie, Cas,” rispose Sam con affetto e detto questo, un paio di passi e una porta che si apriva e si richiudeva.

 

Dean controllò l’orario – le sette e mezza – e andò in bagno. Poggiò tutto sul lavandino e aprì l’acqua della doccia, aspettando che diventasse tiepida. Più pensava a quel caso e meno gli piaceva. E soprattutto meno gli piaceva l’averci portato anche Castiel. Va bene la storia Angelo del Signore batte tutto e blah blah, ma in ogni caso quell’angelo era in un corpo umano, un corpo umano maschile e aveva una relazione molto omosessuale con lui. E oltretutto erano in Texas.

 

Avevano una relazione omosessuale in Texas. Non sapeva quale parte di quella frase fosse peggiore.

 

***

 

Riaggiustati i loro completi da federali e raddrizzata la cravatta di Castiel, tutti e tre erano pronti a interpretare i loro ruoli alla stazione di polizia.

 

All’ingresso, mostrarono i loro distintivi e chiesero informazioni sugli omicidi e anche di parlare con l’agente a capo delle investigazioni. Così conobbero lo sceriffo Brian Ellis.

 

Lo sceriffo era un uomo gioviale sui cinquant’anni o poco più, senza un capello bianco in testa e con ancora una forma invidiabile. Era più basso di tutti e tre e nonostante fece qualche battuta sulle loro altezze esagerate – diciamo solo quella di Sam – appena gli si accennò del caso si trasformò in un agente molto attento al suo lavoro e premuroso della sicurezza dei suoi cittadini, noncurante di qualunque fosse la loro sessualità, religione, razza, o squadra del cuore. Di questo Dean fu piacevolmente impressionato.

 

Parlarono a lungo di possibili collegamenti che ci potessero essere tra gli omicidi e, con vari fascicoli su ogni vittima e ogni omicidio, li salutò, indirizzandoli dal medico legale, raccomandandosi di tornare da lui per ogni domanda o per ogni nuova scoperta.

 

Arrivati dal dottor Marvin, gli venne fatto notare come i cadaveri di ogni coppia ritrovata presentassero esattamente gli stessi sintomi del compagno. E non che fossero sintomi normali.

 

“Vedete,” illustrò il medico, “qui, la signora Bonnell presenta un arrossamento innaturale di naso, orecchie e contorno occhi.” La ragazza, sui vent’anni, bella, con un viso lungo e i lineamenti decisi, i capelli scuri e la pelle chiara, aveva, infatti, le parti indicate colorate di un rosso fragola innaturale; Dean sarebbe convinto che fosse del trucco se il medico non avesse strofinato i polpastrelli sulla sua pelle per confutare silenziosamente le teoria insperata. “E gli stessi sintomi li presenta la signora Pockman, come potete vedere.” Accanto, il corpo di un’altra bella, giovane donna riposava eternamente, gli occhi e il naso contornati di rosso appena una tonalità più scura di quella dei lunghi capelli arancioni.

 

“Dottore,” cominciò Sam, “lei ha parlato di sintomi. Ma non è il termine che si utilizza quando si parla di malattie?”

 

Il medico legale alzò lo sguardo su di lui. “E’ questo il punto, agente,” spiegò. “Sembrano sintomi di malattie.”

 

“E ne è stata diagnosticata alcuna?”

 

Il medico scosse la testa.

 

Dean non riusciva a distogliere lo sguardo dai due cadaveri, distesi uno accanto all’altro, mentre rifletteva sulle parole del dottore. Sintomi di una malattia non diagnosticata. Una malattia…

 

Improvvisamente Dean sentì il desiderio di prendere a pugni qualcosa e quello di andare a vomitare mescolarsi in un’unica emozione incazzata. Maledetto figlio di puttana.

 

“Grazie, dottore. Ci è stato di molto aiuto,” lo ringraziò Dean, con un sorriso di circostanza.

 

“Grazie a voi, agenti. Spero che l’FBI ci aiuti a venirne a capo,” rispose il medico, cominciando a mettere a posto i suoi attrezzi.

 

“Lo spero anche io,” mormorò Dean tra sé e sé, uscendo dalla stanza.

 

Tutti e tre, camminarono i corridoi dell’edificio e non parlarono finché non uscirono, sicuri di essere al sicuro da orecchie indiscrete.

 

“Il medico non mentiva,” cominciò Castiel. “Né si sbagliava. Nessuno dei corpi soffriva di alcun male.”

 

“E’ questo il punto,” ringhiò Dean.

 

Sam e Castiel lo fissarono, perplessi. “Cioè?” lo incitò Sam.

 

Dean lo guardò con occhi sbarrati. “Non ci eri arrivato?” domandò, incredulo.

 

Sam scosse le spalle, non sapendo che dire. Dean sospirò.

 

“Quei segni, appaiono come sintomi, no?” Attese che gli altri due annuissero prima di continuare, “Ma non erano malate. Almeno non di una malattia corporea,” concluse con amarezza.

 

Vide l’espressione di Sam illuminarsi, per poi incupirsi di nuovo. “L’omosessualità è una malattia,” citò, in un bisbiglio.

 

Castiel a quelle parole alzò le sopracciglia, sorpreso, e fece saettare più volte lo sguardo tra i fratelli, come aspettandosi che uno dei due gli svelassero che era uno scherzo. Quando nessuno dei due parlò, fu lui a farlo. “E’ questo che pensano gli umani? Davvero?” All’assenso di Sam, l’incredulità si trasformò in quieta rabbia.

 

Con un sospiro, Sam ricominciò a parlare. “Ad ogni modo, dobbiamo andare a parlare con le famiglie, qui ho gli indirizzi di tutte le vittime, insieme a quello del convento del sacerdote. Visto che era anche dove è stato ritrovato il suo corpo, è di doppia importanza.” Dean annuì e si avvicinò a leggere i nomi e gli indirizzi. Non che gli avrebbero comunque detto qualcosa.

 

“Come ce li dividiamo?” chiese Sam.

 

“Beh, tu ne prendi tre, io e Cas gli altri tre,” risolse Dean.

 

Sam assunse un’espressione scettica. “Non credi che faremmo prima se ognuno di noi prendesse due indirizzi?” domandò.

 

“Non se uno di noi è Cas.” Dean cercò davvero di non ridere all’espressione di profondo oltraggio dipinta sul viso dell’angelo.

 

“Sono migliorato! Me lo avevi detto anche tu!” esclamò questi, appunto, offeso.

 

“Sì, beh, continui a spaventare un po’ le persone. Preferisco tenerti sott’occhio,” spiegò Dean, sperando che se la bevesse.

 

Castiel strinse gli occhi, fissandolo. Poi si voltò e si diresse verso la macchina e Dean era abbastanza certo di sentirlo mormorare qualcosa tra sé e sé.

Dean si voltò verso il fratello, trovandolo a fissarlo con un sorriso. “Cosa c’è?” domandò, sbottando leggermente più forte del previsto.

 

“Dean,” disse Sam, masticando il suo nome con un divertimento che al nominato non piaceva per nulla. “Castiel è davvero migliorato. Lo so anche io.”

 

Dean scosse le spalle, mormorando parole insensate e cercando una scusa per una ritirata.

 

“Lo so che sei preoccupato,” continuò Sam, con tono più serio, “lo sono anche io. Per entrambi. Questo caso non mi piace per niente, ma lo sai che può badare a sé stesso. Come io lo so e come so che tu puoi badare a te stesso.”

 

“Grazie, Dr. Phil,” rispose Dean, con voce annoiata. “Ora la carrozza la attende. Dov’è il ballo?”

 

“Dean, cos—“

 

“Dove ti posso scaricare? Scegli un dannato indirizzo!”

 

“Okay, calmati, però. Fammi controllare quale mi conviene.” Tirò fuori il suo smartphone e aprì l’applicazione sulle mappe stradali per digitare i sei indirizzi. Dopo un paio di minuti annunciò, “Io andrò dai Bonnell, dai Tweed e dai Fraust. Voi prendete gli altri tre, okay?”

 

“Fantastico,” rispose Dean, afferrando i tre fascicoli delle vittime alle cui famiglie avrebbe dovuto parlare, insieme a quello del convento.

 

I fratelli Winchester raggiunsero Castiel, già salito in macchino, seduto al posto accanto al guidatore, e accompagnarono Sam all’indirizzo della famiglia Fraust, il più vicino. Per tutto il viaggio, Castiel rimase in silenzio, sfogliando i fascicoli delle vittime.

 

Sam ha scelto i suoi indirizzi con buon senso, pensò Dean. Erano tutte ragionevolmente più semplici da raggiungere a piedi l’una dall’altra. E ora che lo notava, Castiel aveva ragione. Tutte le vittime abitavano nella zona vicino al loro motel. Un altro elemento che gli faceva venire i brividi.

 

Appena lasciato Sam davanti a casa Fraust, Dean si voltò appena verso Castiel.

 

“Hey,” lo chiamò, poggiandogli una mano sulla coscia, “ce l’hai ancora con me?”

 

Castiel alzò lo sguardo dal fascicolo di una delle vittime – Don Smoot – e osservò Dean con occhi impassibile. Alla fine si fece scappare il suo solito mezzo sorriso e soffiò, “Dean, sbrigati, faremo tardi.”

 

A Dean non servì nient’altro.








 

 

 

 

Eccola

Okay, questo era, ahimè, un altro capitolo di passaggio, anche se intriso di dettagli importanti. Godetevi il fluff gratuito.

Allora, in questo momento sono in una situazione complicata perché domani partirò per l’estero e starò in un posto che non ha nemmeno uno straccio di wifi, quindi mi sarà difficile aggiornare presto. Se ce la faccio potrei pubblicare il capitolo 5 domani sera ma non ci sperate troppo, e-e

Tanto vado da mia zia a scroccare il wifi appena posso quindi bellaaaaaah

Comunque, ci tenevo a ringraziare le due persone che hanno (più o meno) recensito lo scorso capitolo. Siete state dolcissime, grazie davvero. Ma anche quelli che stanno leggendo la storia, chi l’ha messa tra le seguite, le preferite e le ricordate, uo. Siete tutti dei grandi.

Detto questo, ci sentiamo o domani sera o tra qualche settimana. Nel caso non mi faccia sentire, tenete a mente che questa storia la finirò che mi piaccia o no.

Grazie mille ancora, cià.

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Capitolo 5
*** Capitolo V - Solo una bambina ***


Capitolo V: Solo una bambina

 

Posteggiarono l’Impala accanto al marciapiede davanti a quella che doveva essere la residenza della famiglia Pockman, l’ultima che gli rimaneva da interrogare.

 

I genitori di Don Smoot erano il ritratto della coppia stereotipale texana: il padre, uomo violento e alcolizzato, dandogli una birra e una partita di football si riteneva un uomo soddisfatto; la madre era una piccola donna casalinga, crocifisso al collo e cucchiaione di legno nella mano destra.

 

L’ultima volta che era stato in un ambiente tanto burbero e in cui veniva continuamente chiamato “giovanotto” Bobby era ancora vivo.

 

Anche se la vita dagli Smoot era molto più dura: nei quadri rappresentanti eventi biblici, nei crocifissi appesi alle pareti, accanto a fucili e trofei di caccia, nei gesti e nelle parole fredde del signor Smoot nelle esclamazioni e nelle preghiere nervose della signora, in tutto ciò Dean leggeva la stessa vergogna e lo stesso odio per se stessi che doveva aver sofferto Don per tutta la vita. E Dean ne sapeva qualcosa di quei sentimenti e della auto-privazione di libertà che comportava. La frase più compassionevole che sentirono fu da parte della madre: “Spero solo che l’anima di Don si sia pentita, e magari si sia salvata.”

 

Dopo un’ennesima esclamazione su quanto Robert Morsent fosse il demonio stesso e fosse un bene che non ci fosse più al mondo, altrimenti ci avrebbe pensato personalmente il signor Smoot a liberarsene, Dean e Castiel decisero di conoscere la famiglia Morsent e capire la loro malvagità.

 

Dean ne era già un grande fan.

 

Una decina di isolati più lontani, una villetta in stile classico racchiudeva una famiglia di quattro persone distrutta. I genitori raccontavano di come avessero sbagliato per tutta la vita, di come si pentissero di aver respinto così il loro amato figliolo, e rimpiangevano i bei momenti che avrebbero potuto passare insieme se non gli avessero voltato le spalle. Le sorelle minori, invece, Catherine e Marianne non smettevano di piangere come fontane a ogni menzione del nome del fratello, piagnucolando su come loro lo amassero in ogni caso, su come fossero sempre dalla sua parte. Mary, di undici anni, seduta accanto a Castiel, non smetteva di stringere tra i pugni paffuti i lembi del suo trench coat. Dean ne era curiosamente disturbato.

 

Infine, eccoli lì, all’ultima casa.

 

Dean aveva appena ricevuto un messaggio da Sam che li informava di come anche lui stesse andando a parlare con l’ultima famiglia rimastagli da visitare e confermava l’orario per cui contava di aver finito, in modo che Dean e Castiel lo potessero passare a prendere per potersi recare insieme al convento.

 

Uscirono dalla macchina, Castiel attendendo Dean sul marciapiede, per poi andare insieme a bussare alla porta. La casa era più piccola di quella dei Morsent – probabilmente la vittima, Madison, era figlia unica – ma decisamente più graziosa; Dean vide Castiel osservare curiosamente le diverse aiuole fiorite sparse per il giardino e trattenne un sorriso.

 

Arrivati al portico, Dean si allungò per spingere l’indice sul campanello e un semplice diin-doon risuonò piacevolmente nelle loro orecchie. Dopo qualche attimo una donna minuta, dai capelli biondo chiaro e i grandi occhi spaventati e marroni aprì la porta. “Sì?” parlò con voce appena sussurrata. Gli occhi gonfi e l’aspetto trasandato tradivano un’estrema stanchezza. Le rughe appena accennate sul viso suggerivano un’età non troppo lontana dai quarant’anni.

 

Dean e Castiel mostrarono prontamente i distintivi. “La signora Christina Pockman?” La donna annuì appena, ancora intimorita. “Agenti Wetton e Palmer*, FBI. Vorremmo farle qualche domanda su sua figlia, se per lei è il momento.”

 

La signora Pockman annuì di nuovo e aprì completamente la porta per farli entrare in casa, mormorando un “Prego.” L’interno della casa aveva un aspetto che si addiceva all’esterno: curato, materno, caloroso. Al posto dei fucili e dei crocifissi di casa Smoot, qui le pareti erano costellate di foto di famiglia e di quadri di paesaggi pacifici o vasi fioriti. Niente a che vedere con la severità dell’arredamento di forte Smoot, né con l’ordinata eleganza della villetta dei Morsent; questa era una casa. Qui si respirava l’amore. Qui Madison sarebbe stata accettata a braccia aperte. Qui, insieme a Sophie Bonnell, Madison avrebbe potuto essere felice.

 

Una voce tremante si schiarì. “Vi posso offrire qualcosa, agenti?” domandò la signora Pockman.

 

“No, la ringraziamo molto, signora,” rispose Castiel, con pacatezza. La signora lo guardò e trovò qualcosa che la fece rilassare appena.

 

“Vi prego, venite a sedervi,” li invitò la donna, con voce un po’ più ferma, guidandoli verso il salotto. Qui, vennero accomodati su un divano blu costellato di cuscini colorati, di fronte ad una poltrona verde scura, dove si accomodò Christina.

 

La stanza, come il resto della casa, era completamente al buio: le luci spente, le tapparelle abbassate fino a metà. L’aria condizionata rendeva l’aria ben più che fresca, quasi invernale: questo spiegava il grande maglione blu spento che indossava la donna così come la coperta di plaid che si mise prontamente sulle gambe. Numerosi pacchi vuoti di fazzoletti stazionavano per terra, tra la poltrona e il divano. La signora Pockman doveva aver fatto di quella stanza la sua tana contro l’orrore che l’aveva così brutalmente colpita.

 

“Cosa volete sapere?” domandò ella, osservandoli con occhi vuoti.

 

“Ci parli di Madison. Tutto quello che si sente di dirci,” la incitò Dean, con tono gentile.

 

La donna prese un respiro profondo e iniziò a parlare.

 

“Madison era il mio bene più prezioso. Era tutto quello che mi era rimasto. Suo padre, mio marito – morì quando Maddie era piccola, in un incidente stradale. I miei genitori abitano in Florida, io ero qui solo per Paul, mio marito, e poi per Maddie, appunto. Tutto quello che facevo lo facevo per lei. La amavo così tanto. Mandarla a scuola non è mai stato un problema – sono un medico, ho uno studio mio, quindi i soldi non sono mai mancati, nonostante tutto. Poi andavamo in vacanza, la portavo ai concerti dei cantanti che le piacevano, guardavamo i film che le piacevano – ho fatto di tutto per renderla felice. Tutto per lei. Poi— poi— poi quando finì il liceo, decise di studiare ingegneria qui, al Tech. Ero contenta che volesse rimanere a casa— ne ero entusiasta, ma lei poteva— poteva aspirare a molto di più— era stata accettata ad Harvard, a Stanford, a Yale, ma lei no, lei— lei voleva rimanere qui. Così studiò ingegneria, si specializzò in gestionale, e si laureò un anno fa,” il suo sguardo si posò sulla colonna accanto a lei, dove faceva una bellissima impressione una cornice rettangolare raffigurante la foto di una bellissima e sorridente ragazza dai lunghi capelli arancioni indossava tocco e toga neri, una pergamena arrotondata in mano, “a ottimi voti. Era così brava. Per un anno rimase qui, dopo aver trovato lavoro in un’azienda. A me ovviamente non creava problemi— per quanto mi riguardava poteva rimanere a vivere qui per sempre,” a queste parole la sua voce vacillò un po’, ma Christina continuò, determinata, “ma mi pareva strano. Maddie aveva sempre avuto dei larghi orizzonti. Da piccola sognava New York, Los Angeles, le grandi metropoli. Ho sempre pensato che, appena presa la laurea, beh— se ne sarebbe andata. Che avesse inseguito i suoi sogni. Invece era ancora qui— e perché? Lo scoprii qualche giorno fa, il perché. Era la sera del 26 giugno,” Dean e Castiel si scambiarono un’occhiata mentre la donna non guardava, “ero in cucina, a preparare la cena, Madison era uscita. Verso le sette era tornata a casa con Sophie, la sua amica dai tempi delle medie,” l’emozione le inumidì gli occhi fissi sul pavimento, persi nel ricordo, mentre un sorriso affettuoso le affiorò sulle labbra, e continuò con voce dolce, “e mi chiamò dal salotto «Vieni, mamma, vieni! Ti dobbiamo dire una cosa!». Era così emozionata. Così bella. E quando me lo disse. Oh, Dio, quando me lo disse. Quando mi disse di essere innamorata di Sophie. Della sua ragazza. Da ben sei anni. E che l’avrebbe sposata perché beh, ormai si può anche in Texas! Così decisa, così bella. La mia bambina. Con o senza il mio consenso. E in quel momento non potei fermarmi. Scoppiai a ridere. E dopo un po’ piansi. E infine le abbracciai entrambe. Le mie bambine. E accarezzai così tanto la mia Maddie e risi e piansi e infine la sgridai. Perché, come ha potuto aspettare tanto a dirmelo? Perché aspettare tanto? Come poteva pensare anche solo lontanamente che non l’avrei accettata per quello che è? Nulla mi potrebbe mai fermare dall’amarla incondizionatamente, come faccio dal giorno in cui è nata. E’ la mia bambina. E’ il mio amore. Lo era. Lo era. Perché ora lei— ora lei—“ e lì non poté più andare avanti, consumata dal dolore che le portava pensare a quegli eventi, a quell’ingiustizia fin troppo fresca da sopportare. Scoppiò a piangere, appallottolandosi su se stessa, stringendosi le braccia attorno alle spalle. Nascose il viso tra le ginocchia, la schiena scossa violentemente dai singhiozzi e dai tremiti. L’immagine di una donna sola.

 

Dean resistette con tutte le sue forze all’istinto che gli gridava di alzarsi e andare a stringere quella donna fino a che non fosse stata meglio, ascoltando invece la ragione che gli ricordava che in quel momento era un agente, e gli agenti non si abbassavano a certe cose.

 

Non doveva pensarla così Castiel, invece, che si alzò dal suo posto sul divano – ignorando volutamente lo sguardo di Dean che gli imponeva di rimanere seduto – e raggiunse la poltrona dove si era seduta la donna, abbassandosi fino a trovarsi al suo livello.

 

Christina, accortasi della presenza dell’agente a poco spazio da lei, alzò leggermente il viso, permettendo agli occhi – grandi, rossi, ancora più lucidi, ancora più gonfi, ancora più spenti – di fare capolino dallo scudo delle sue ginocchia. Castiel allungò una mano e la poggiò con la sua bizzarra sicurezza sulla sua spalla, stringendola confortante. La donna, se possibile, pianse ancora più forte, aggrappandosi al muscoloso braccio estraneo e appoggiandovi la fronte. In un nuovo moto di coraggio, Castiel allungò l’altra mano e la poggiò sulla sua testa, accarezzandola dolcemente.

 

Dopo qualche minuto – in cui Dean si sentì vittima dell’orribile miscela tra imbarazzo e senso d’inutilità – la signora Pockman sembrò calmarsi e cominciò a prendere dei profondi respiri, alzando lentamente la testa dal solido sostegno sui cui l’aveva poggiata. Riservò un piccolo ma sincero sorriso pieno di gratitudine a Castiel e poggiò la mano sulla sua (ancora stazionante sulla spalla di lei) per stringerla brevemente e ribadire il concetto. Castiel annuì e si rialzò in piedi, riavvicinandosi verso il divano, senza però risedersi.

 

Dean fece saettare lo sguardo – fino a quel momento fisso su Castiel – verso Christina, caricandolo di premura. “Va meglio?” domandò, nonostante l’ovvietà della risposta. Se affermativa o negativa, non sapeva dirlo.

 

La signora però annuì freneticamente, asciugandosi le guance con le maniche del maglione, mormorando, “Grazie mille, scusate,” tra sé e sé.

 

Dean le sorrise gentilmente e la donna ricambiò, in una discreta imitazione.

 

“Beh, se è tutto—“ cominciò Dean, cercando di rompere l’atmosfera pesante che si era creata.

 

“Oh, sì— sì, vi accompagno alla porta,” continuò ad annuire Christina, calciando via la coperta e alzandosi in piedi.

 

Dean e Castiel la seguirono nell’ingresso, in silenzio, fermandosi poi davanti alla porta.

 

“La ringraziamo di cuore,” le disse Dean, e lo diceva davvero.

 

La donna scosse la testa, un sorriso triste in volto. “No, sono io che vi ringrazio,” gli occhi marroni saettarono su Castiel, “a entrambi. Per tutto. E soprattutto,” un’espressione scura le adombrò il volto, “se riuscirete a trovare lo stronzo che ha ucciso la mia bambina. E se gliela farete pagare.”

 

Dean annuì solennemente. “Glielo giuro sul mio onore,” promise con espressione seria.

 

Castiel, intanto, osservava con interesse le diverse foto di Madison appese nell’ingresso. Era particolarmente focalizzato in un abbraccio tra Madison e Sophie – entrambe con tocco e toga, dei sorrisi enormi sui volti giovani e rilassati. Entrambe bellissime.

 

“Erano meravigliose, vero?” mormorò Christine, gli occhi malinconici fissi sullo scatto.

 

Castiel annuì. “Lo erano. Lo sono. Lo saranno sempre.” Con un ultimo sorriso, entrambi lasciarono la dolce casa dal calore materna di una dolce madre senza più figlie né tepore.

 

***

 

Dopo aver prelevato Sam davanti alla casa della famiglia di Sophie Bonnell, i tre finti agenti si diressero in fretta verso la chiesa presidiata dal pastore Gilbert, l’ultimo posto da visitare per quel giorno.

 

Un annoiato resoconto degli interrogatori delle altre tre famiglie – spaventosamente simili a quelle visitate da Dean e Castiel – li fece rendere conto di stare ad un punto morto con le indagini. Non si era presentato alcun punto in comune tra le vittime e le loro vite a parte, beh, l’orientamento sessuale.

 

Non era che Dean si aspettasse già di trovare la specie di mostro, la sua localizzazione e il modo di ucciderlo, ma almeno sperava in un qualcosa che gli potesse dare almeno una piccola, vaga idea di cosa diavolo stesse succedendo. E magari anche la testa del colpevole su un piatto d’argento.

 

Dalle sue spalle la voce di suo fratello continuava a pronunciare mille parole di conforto e ottimismo e Dean dovette trattenersi con tutto sé stesso dal voltarsi per tirargli un pugno sul naso. Era stanco, aveva fame, era frustrato, era affranto e faceva così caldo. Non aveva bisogno di altre rogne, grazie tante.

 

Seguendo le direzioni del GPS del telefono di Sam si fermarono, infine, di fronte ad un grande edificio color ocra, all’apparenza ben mantenuto. Era semplice, ma non per questo spoglio: il grande giardino era adornato di siepi e aiuole curate, con tanti fiori colorati, anche se principalmente di tonalità delicate; un portone di legno scuro a due ante apriva sull’ingresso della struttura, sposandosi con le rifiniture delle finestre della medesima materia, abbellite, inoltre, da una rifinitura di un rosso sbiadito. Al centro del giardino anteriore, una grande croce grigia si ergeva di fronte a una piccola scalinata.

 

Scesi dalla macchina, Dean fischiò. “Però, non se la passano male,” commentò, guardandosi attentamente attorno. Era meglio che nessuno si offendesse prima ancora che gli si fornissero i giusti motivi per farlo.

 

Di fronte alle scale li attendeva un uomo di media statura, con i capelli grigi e un completo nero.

 

Raggiuntolo, il reverendo Simon Gilbert gli sorrise cortesemente, stringendo le mani a tutti e tre. “Benvenuti, agenti,” li accolse, alzando il braccio verso l’ingresso per invitarli ad entrare. Gli occhi azzurro chiaro spezzavano la facciata di calma innaturale che tentava di mantenere, assieme a due pesanti occhiaie scure. L’aspetto pallido del volto anziano suggeriva la difficoltà della situazione di quei giorni.

 

“Buongiorno, reverendo,” salutò Sam con un sorriso, “è un buon momento?”

 

Il pastore sorrise debolmente. “Questi non sono dei bei giorni, un momento ne vale un altro. Ma se si può accelerare l’attuamento della giustizia e meglio farlo il prima possibile, no?”

 

Dean sorrise, colpito e si avviò nella chiesa assieme agli altri.

 

“Ci può parlare del reverendo Dunnets? Tutto quello che si sente di dirci,” si affrettò a dire Sam, con la sua cortesia.

 

L’interno della chiesa era molto elegante e semplice: camminavano su un lucido pavimento blu, colore ripreso da alcune raffigurazioni appese alle pareti bianche. Le panche di legno scuro si susseguivano fino all’altare, dove una tavola era completamente coperta da una tovaglia bianca che toccava il pavimento e alle sue spalle un grande e maestoso crocifisso di legno intagliato faceva bella mostra di sé.

 

“Beh,” cominciò il pastore, “la prima cosa che vi posso dire di Gregory è che era davvero una persona buona. Aveva sempre una parola gentile per tutti, sorrideva sempre, incoraggiava continuamente l’amore. E a quanto pare è stato questo a condannarlo,” mormorò, fissando lo sguardo nel vuoto.

 

“Da quanto tempo vi conoscevate?” domandò piano Dean.

 

Il reverendo Gilbert si scosse da qualunque pensiero lo avesse monopolizzato e tornò a concentrarsi sui tre agenti. “Siamo praticamente cresciuti insieme,” rispose, con voce roca. “Andavamo a scuola insieme fin dalle elementari. Abbiamo giocato insieme, abbiamo studiato insieme, mi ha presentato mia moglie, è stato il mio testimone di nozze… sapete, le classiche grandi storie d’amicizia,” spiegò, sorridendo appena. “Era un fratello per me. Beh,” si affrettò a dire, “oltre che per l’abito.”

 

Dean trattenne un sorriso divertito e chiese ancora, “Sa se, per caso, qualcuno covasse rancore per il reverendo Dunnets?”

 

L’espressione di Gilbert si indurì. “Se mi sta chiedendo se ho dei sospetti sul colpevole,” disse piano, “non so darle un nome preciso. Ma sono sicuro che sia lo stesso peccatore che ha tolto la vita a quegli altri sei ragazzi.”

 

“Li conosceva?” chiese Sam.

 

Il pastore annuì. “Certamente. Venivano tutti qui con le loro famiglie, ogni domenica, anche quando era il reverendo Emerson a ufficiare,” raccontò. “Li ho visti crescere, quei ragazzi.”

 

Sam annuì comprensivo, rivolgendogli un mezzo sorriso paziente. Poi, con tono cauto, disse, “Se non le dispiace, ci potrebbe accompagnare sul luogo dove…” e lasciò cadere la frase, sperando che cogliesse il significato.

 

Gilbert abbasso appena lo sguardo, mormorando. “Vi faccio accompagnare dalla mia consorella, suor Alice. E’ lei che—“ la voce gli tremò appena, ma l’uomo sentì comunque il bisogno di fermarsi un attimo. “E’ lei che lo aveva trovato,” concluse, senza alzare lo sguardo.

 

“La ringraziamo,” disse Castiel con cortesia.

 

Il reverendo annuì al pavimento, per poi voltarsi e uscire dalla chiesa. Dopo qualche minuto, tornò insieme ad una donna robusta poco più alta di lui, di una decina di anni più giovane, il viso pallido di egual stanchezza e qualche ricciolo di capelli scuri che spuntavano da sotto il velo nero.

 

Gilbert, intanto, sembrava aver riacquistato un briciolo di compostezza. “Alice,” cominciò, con voce ferma ma benevola, “questi sono i tre agenti dell’FBI di cui ti avevo detto. Raccontagli tutto quello che sai mentre li accompagni di sopra, mi raccomando. Sono qui per aiutare.”

 

La suora annuì seccamente, gli occhi color nocciola chiaro che scrutavano ognuno dei tre estranei di fronte a lei. Dopo qualche attimo, stirò le labbra nel principio di un sorriso garbato, e li accolse con un “Buon pomeriggio, agenti. Vi ringrazio per il vostro sostegno.” Parlò con un tono di voce alto, ma misurato. Probabilmente era l’effetto di tanti anni di disciplina.

 

“E’ il nostro dovere,” replicò Dean con un mezzo sorriso di gratitudine.

 

Suor Alice lo fissò con espressione indecifrabile e Dean si sentì quasi intimorito da quegli occhi chiari che puntellavano la sua facciata, come spogliandolo e giudicandolo. Si costrinse di non mostrare alcun segno di disagio e mantenne un’aria neutrale. Alla fine, la monaca si voltò, accennandogli con la mano a seguirla. “Da questa parte, signori.”

 

“Arrivederci, reverendo,” salutò Sam, imitato poi dal fratello e dall’amico. Il sacerdote si limitò a rivolgergli un timido gesto di saluto con la mano.

 

I quattro uscirono dalla chiesa attraverso una porta alla sinistra dell’altare, uscendo in un lungo corridoio dal pavimento di marmo lucido color sabbia. Proseguirono in silenzio, se non per i passi echeggianti sul rivestimento marmoreo, passando davanti a numerose porte, tutte di quello stesso tipo di legno degli altri ingressi dell’edificio. Infine, giunsero di fronte ad una scala costruita dalla stessa pietra del pavimento e salirono due rampe di gradini dalla memoria rimbombante. Al secondo piano dell’edificio, si ritrovarono in un secondo corridoio e i tre uomini si fecero guidare all’interno della stanza chiusa dalla prima porta di legno scuro – ancora – sulla destra.

 

Suor Alice si voltò appena, come per controllare che si fossero ancora tutti e tre, tirò fuori una chiave di ferro da infilare nella moderna serratura, la fece girare completamente due volte e, abbassando la maniglia, spinse la porta.

 

“Abbiamo lasciato tutto esattamente come lo trovai,” assicurò, con voce salda e pacata.

 

La stanza era piccola – ci entravano giusto loro quattro – sebbene più grande di quanto si aspettasse in un convento, di forma rettangolare, con l’ingresso e una finestra quadrata su ognuno dei lati minori. Addossato al lato maggiore destro vi era il letto ad una piazza, coperto da un lenzuolo azzurro e un cuscino candido; dalla parte opposta vi era una piccola scrivania di legno chiaro, pulita e in ordine. Anche le pareti bianche avevano degli abbellimenti: sopra il letto vi era un lungo scaffale occupato da un gran numero di libri; sopra la scrivania, vi era un quadro. Il lampadario era fornito di tre eliche ventilanti: vi era ancora annodata la fune, cappio incluso.

 

“Come avete escluso il suicidio?” chiese Sam, voltandosi verso la suora.

 

“Oh, Gregory non lo avrebbe mai fatto. Amava troppo la vita,” rispose prontamente Alice, gli occhi che per un attimo solamente si scurivano di malinconia.

 

“E poi?” insistette Sam.

 

La monaca lo fissò con le sopracciglia aggrottate, non capendo. Dean rispose al suo posto.

 

“La sedia è al suo posto nella scrivania,” disse, riflettendo. “Non sarebbe riuscito ad arrivarci, nemmeno in piedi. Non era così alto, no?” domandò alla suora, che scosse la testa.

 

Avvicinandosi alla sedia, alzò lo sguardo sulla parete, cominciando ad osservare il quadro appeso con interesse.

 

Non era mai stato un appassionato di arte ma sapeva riconoscere un capolavoro quando ne vedeva uno e, soprattutto, lo sapeva apprezzare.

 

Il quadro – rettangolare, più lungo che alto – rappresentava un rito, se non si sbagliava: da sinistra, una folla di persone osservava dabbasso una bambina, avvolta in un’aurea dorata, che risaliva (verso destra) un’alta scalinata dai gradini di pietra, andando incontro a due figure dall’aspetto importante e l’aria solenne. L’opera giocava molto con i colori – rinascimentale? – ma ai suoi occhi risaltava in modo particolare l’azzurro della veste della bambina, richiamato anche dal modesto spazio di cielo dipinto come sfondo alla folla di cittadini a sinistra.

 

Non si accorse di quanto tempo fosse rimasto a studiarlo, fino a quando una voce chiara per poco non lo fece sobbalzare. “E’ meraviglioso, non è vero?” Suor Alice si avvicinò e si mise accanto a lui.

 

Dean si girò la testa. Vide Castiel osservarlo con curiosità e Sam lanciargli un’occhiata divertita.

 

Si voltò di nuovo verso il quadro e annuì appena.

 

“Gregory amava l’arte. Questo lo acquistò durante il suo ultimo viaggio in Italia, qualche anno fa. Non smetteva più di straparlare su che grande occasione fosse stata comprarlo,” un sorriso tremolante le sfuggì dalle labbra e non poté fare nulla per riappropriarsene. “Non so quante lezioni mi ha tenuto su questo quadro,” sbuffò, infine, tornando al suo tono incurante.

 

“Che cos’è? Non mi sembra di averlo mai visto,” osservò Dean.

 

“Beh, non c’è su tutti i libri,” concordò Alice. “Non ricordo il titolo,” ammise, “ma sono certa che l’autore è Tiziano – non mi chieda il cognome. Rappresenta la venuta di Maria da bambina al Tempio di Gerusalemme.”

 

Dean assottigliò lo sguardo. “Per Maria intende—“

 

“La madre di Gesù, sì,” affermò la suora. Dopo qualche attimo, Dean percepì la donna accanto a sé irrigidirsi di colpo. “Ma cosa…” soffiò, confusa.

 

Una mano pallida si avvicinò all’angolo inferiore destro della cornice. Dean cercò qualunque dettaglio che potesse averla turbata, fino a notare dei pezzetti di carta fuoriuscire da sotto il materiale nero. Con un leggero sforzo delle mani, la donna estrasse, uno dopo l’altro, cinque cartoncini dal lato minore della larga cornice e li posò sulla scrivania.

 

Dean si voltò verso Sam e Castiel, arrivati alle loro spalle per vedere cosa avessero trovato.

 

Sulla scrivania ora erano presenti cinque carte – di un genere che non aveva mai visto prima: una raffigurava tre cerchi uguali, con la stessa decorazione a forma di sole – erano due occhi e una bocca quelli? – colorata di nero e d’argento; la seconda aveva gli stessi cerchi, ma ne contava sette; la terza ne ritraeva due. La quarta, invece, ritraeva un uomo vestito di costumi ottocenteschi, con calze, busto e cappello rossi, calzoni e spalline verdi, maniche e piuma del cappello gialla; nella mano destra stingeva lo stesso oggetto circolare. La quinta carta assomigliava alla penultima, presentando anch’essa una figura, anche se questa appariva meno buffa: al posto del busto rosso indossava un’armatura blu dalla quale ricadeva un mantello blu e rosso; la maglia gialla era intonata alle calze, ma alla cinta dei calzoni verdi portava una spada e in testa una corona; il disco argenteo fluttuava accanto alla sua testa.

 

Dean occhieggiò suo fratello e il suo compagno: nessuno dei due sembrava essere davanti a lui. Fantastico.

 

“Cosa sono?” domandò Sam, confuso. Castiel, invece, rimase in silenzio, afferrando una delle carte – quella con i sette dischi – e avvicinandola per studiarla meglio.

 

La suora, però, li ignorò; cominciò, invece, a cercare qualcosa tra gli oggetti posati sulla scrivania. Insoddisfatta, si inginocchiò a terra, cominciando a tastare la moquette con i palmi aperti; si allungò fino a sotto il tavolo, mentre gli altri tre si allontanarono per concederle lo spazio d’azione e si scambiarono degli sguardi perplessi. Dopo una dozzina di secondi di apparente ricerca, quando Dean si era risolto a chiedere che cosa stesse cercando esattamente, Alice si rimise in piedi, sospirando di soddisfazione.

 

“Mi scusi, ma—“ cominciò a chiedere Sam, per poi essere interrotto dalla monaca che allungò le mani per mostrare quello che contenevano: una scatoletta rossa e bianca, con una scritta che Dean non riuscì a decifrare e lo strano disegno di un’aquila a due teste e con due circonferenze all’interno del corpo.

 

La donna sorrise dei loro sguardi confusi e aprì la bocca per spiegare, quando venne tagliata da una voce molto più roca.

 

Carte da gioco napoletane?” Castiel inclinò appena la testa di lato. “Cosa sono?”

 

Fu il turno della suora di assumere un’espressione perplessa. “Sa leggere l’italiano e non conosce questo tipo di carte?” domandò, incredula. “Comunque,” si riscosse, senza aspettare una risposta, “a parte la risposta ovvia che vorrei tanto darle, le dirò che sono solo un altro souvenir dell’ultimo viaggio in Italia di Greg.”

 

Con una mossa abile delle dita paffute aprì in fretta la scatola e ne estrasse un mazzo di carte, che cominciò a mischiare. “Ve la faccio breve,” esordì. “Sono quaranta carte divise in quattro semi: le spade,” e gli mostrò una carta raffigurante quattro spade dal manico dorato e la lama blu, “i bastoni,” una carta con sei clave rosse e verdi, con una foglia gialla nel mezzo, “le coppe,” due coppe rosse, verdi e gialle, “e i denari,” e mostrò una carta con due dischi – monete, come aveva fatto a non pensarci? – con rifiniture nere e dorate.

 

“Ma,” fece Dean, “sono—“

 

“Dorate, sì,” lo interruppe Alice, di nuovo, “normalmente, sono dorate. E’ questo che non mi torna.”

 

Accigliandosi di colpo tornò alle carte, cominciando stavolta a contarle. Castiel, intanto, appariva profondamente assorto.

 

Dean si voltò verso Sam. “Cosa pensi?” gli chiese.

 

Sam scrollò le spalle, impotente. “Non ne ho idea,” ammise, deluso.

 

Dean strinse rabbiosamente la mascella, sentendosi ancora più inutile.

 

“Scusi, suor Alice,” arrivò la voce urgente di Castiel. L’angelo si era avvicinato alla donna con due delle cinque carte – quelle con le figure ritratte – in mano. “Mi sa dire cosa rappresentano queste figure?”

 

La monaca alzò lo sguardo, lievemente irritata dall’interruzione, ma osservò le carte e illustrò, “Questa,” e indicò l’uomo con la spada e la corona, “vale dieci denari. Quest’altra,” accennò al disegno con il cappello, “ne vale otto.”

 

Il viso di Castiel si aprì in un’espressione di trionfo, sebbene durò poco, ma non tanto da sfuggire all’attenzione di Dean. Raggiunse l’angelo con due falcate e lo chiamo, “Cas?”

 

“Dean,” replicò Castiel, alzando lo sguardo per incontrare il suo. Dean deglutì di fronte alla gravità che vi scorse. “Sono trenta denari d’argento.” Castiel volse lo sguardo verso al quadro, soffermandosi sull’estremità destra. “Trenta denari d’argento lasciati nel Tempio,” concluse, con pesantezza.










 

 

 

 

Eccola (dalla Polonia con furore)

*John Wetton (bassista e voce solista degli Asia) e Carl Palmer (batterista degli Asia)

Il quadro di cui ho parlato invece è questo:


 

Bello, eh? Trovato completamente a caso nel libro di arte di mio fratello ma sh

Comunque, tutte le informazioni del dipinto che ho fatto dire alla deliziosa suor Alice le ho trovate qui nel caso vi interessasse o voleste semplicemente farvi una cultura. Di sicuro io non voglio farmela (LA CULTURA).

Ad ogni modo, ce l'ho fatta a monopolizzare il computer dei miei cugini :D urra` per me! Quindi ho deciso di aggiornare visto che e` passato un po' dall'ultima volta e so che e` frustante aspettare un nuovo capitolo per tanto tempo - e gia` il fatto che ci sta davvero chi mi aspetta e` decisamente motivante.

Quindi grazie mille a chi continua a leggere questa storia, non avete idea di quanto significhi per me.

Oh, ricordatevi di non essere timidi, le recensioni fanno sempre un gran piacere, ho tanta voglia di sapere cio` che pensate e parlare con voi.

Beh, che altro dire? Qui fa sia caldo che freddo, me ne vado prima che abbiate da ridire sulle carte napoletane (Dio mio, non so nemmeno io come mi sia uscita questa) e devo prepararmi per il mega matrimonio del mio cuginone preferito. Fatemi gli auguri. Dovro` spaccare qualche culo su come si cuoce la pasta.

Bene, grazie del delirio. Alla prossima!

 

(scusate per gli accenti strani, sulla tastiera polacca non ci sono le vocali accentate, mi sono dovuta adattare)

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Capitolo 6
*** Capitolo VI - Nuovi e Maturi ***


Capitolo VI: Nuovi e Maturi

 

Tornarono in motel il più in fretta che poterono: c’era molto di cui parlare e pochi posti in cui farlo.

 

Passarono velocemente davanti alla reception, dove Amber era seduta dietro il bancone, un libro tra le mani. Alzò lo sguardo al loro ingresso, occhieggiandoli curiosamente e fissando di nuovo gli occhi sul libro appena intercettò il sorriso che le rivolse Sam, arrossendo fino a far risaltare le lentiggini.

 

Dean e Castiel si affrettarono per le scale, fiondandosi nella loro stanza e chiudendo la porta subito dopo l’ingresso di Sam.

 

Castiel rimase in piedi accanto all’ingresso, osservando Dean passeggiare nervosamente avanti e indietro nello spazio tra il tavolo e il suo letto; Sam, invece, andò a sedersi al tavolo, con un sospiro.

 

“Dunque,” cominciò, “ricapitoliamo tutto quello che sappiamo.”

 

Dean gli mandò un occhiata, annuendo, ma non disse una parola. Aveva troppi pensieri nella testa per poterli semplicemente mettere a parole. Castiel rimase in silenzio, perfettamente immobile.

 

“Okay,” sussurrò Sam tra sé, e si schiarì la voce. “Sappiamo che chiunque abbia ucciso le coppie ha usato la stregoneria— Dean, non mi fissare così, nemmeno a me piacciono le streghe, lo sai. Non l’ho organizzato io. Comunque. Sappiamo che anche l’assassino del reverendo Dunnets usa la magia.” Suor Alice aveva ricontrollato tre volte: le cinque carte appartenevano al mazzo del reverendo. “Possiamo essere ragionevolmente certi che sia la stessa persona ad agire. Ora dobbiamo solo capire chi è e come fermarla,” concluse Sam, con un sorriso debole.

 

Dean lo guardò male. Solo?

 

Si fermò in mezzo alla stanza e cominciò a considerare, a voce misurata, “Chiunque sia lo stregone, conosceva abbastanza bene Dunnets da sapere l’esistenza del mazzo di carte e del quadro; non sembrava proprio una ciliegina messa sul momento.” Sam ci pensò su e si ritrovò d’accordo. “E deve essere anche stato in contatto con le coppie,” continuò. “E qual è il posto in tutte e sette le vittime sono state?”

 

“La chiesa,” rispose Castiel con calma.

 

“Esatto, la chiesa,” ripeté Dean.

 

“La chiesa,” ripeté a sua volta Sam. “E chi è che passa tanto tempo nella chiesa da passare inosservato durante la celebrazione di un matrimonio e da conoscere così bene un sacerdote? E che, oltre a tutto, sia violentemente omofobo?”

 

“In Texas, parecchia gente,” rispose Dean, strofinandosi stancamente la mano sul viso. Si lasciò cadere sul letto e si tolse giacca e scarpe.

 

“Dean,” fece Sam con impazienza, ma Dean lo interruppe subito.

 

“Sam,” gli fece il verso e proseguì, “non ti puoi aspettare che chiunque, nel convento, ammetta con tanta semplicità di odiare gli omosessuali, ti pare? E non possiamo nemmeno andare alla ricerca di suor Morgana.”

 

“C’è una cosa che vi siete dimenticati,” intervenne Castiel. I fratelli Winchester si voltarono verso di lui, negli occhi verdi un misto di confusione e aspettativa. “I trenta pezzi d’argento nel Tempio,” puntualizzò, ottenendo in cambio dei sorrisi indulgenti.

 

“Cas, ce ne ricordiamo,” lo rassicurò Sam, ma a quanto pare Castiel non ne volle sapere.

 

“Di questo non ne dubito, Sam,” sospirò, alzando gli occhi al cielo. “Quello che penso è che vi stia sfuggendo il significato sottinteso di quelle carte,” chiarì, riabbassando lo sguardo e alternandolo tra i due fratelli.

 

“Beh, che si alludesse a Giuda lo avevamo capito,” borbottò Dean, prestando però attenzione al filo che univa il senso delle parole dell’angelo.

 

“Certo, quello è ovvio,” confermò Castiel, annuendo, “ma cos’era Giuda?”

 

“Era un traditore,” rispose prontamente Sam. “Il traditore.”

 

“Precisamente,” annuì Castiel. “Quindi, per quale motivo mettere il più significativo simbolo di Giuda Iscariota accanto al cadavere di un uomo? Pensate come se invece di quelle carte ci fosse stato un foglio con sopra scritto SEI UN TRADITORE. Sarebbe la stessa cosa. Il punto chiave è capire chi ha tradito Gregory Dunnets e come. Questo lo si può chiedere al convento.”

 

Appena la voce di Castiel si spense, nella stanza regnò la più sbalordita delle quieti.

 

Sam cominciò a boccheggiare, cercando qualcosa da dire, le guance che si arrossavano per la vergogna di non averci pensato prima; Dean, invece, fissava il suo angelo ad occhi spalancati, come se lo vedesse per la prima volta.

 

Certo, sapeva che Castiel fosse intelligente: era un maledetto Angelo del Signore, era brillante addirittura per la sua specie. Era solo che ogni volta che mostrava di avere qualcosa in più oltre ai suoi begli occhioni blu Dean doveva prendersi qualche attimo per assaporare per bene l’immagine dell’angelo nel suo splendore.

 

“Beh?” chiese Castiel, stranito dal loro silenzio. “Cosa c’è?”

 

Quando poi, dopo quella domanda, Dean si alza per andare a baciarlo con fermezza sulla bocca giustifica le proprie azioni dicendosi che non avrebbe potuto fare diversamente nemmeno se lo volesse.

 

Non che ci sarebbe mai stato un momento nella sua vita in cui non avrebbe voluto Castiel.

 

Alle sue spalle sentì suo fratello ridacchiare e lo ignorò, preferendo concentrarsi su qualcosa di molto più importante e interessante. Tipo le mani di Castiel che gli accarezzavano i fianchi. Oh, addio stanchezza, ma salve, eccitazione da preliminari!

 

Dopo un lungo attimo si divise finalmente dall’angelo – cercando di non prestare troppa attenzione al gemito sofferto di quest’ultimo, ampiamente compreso – e si voltò verso Sam, che li guardava con un sorriso, senza però allontanarsi dal suo spazio personale.

 

“Guardone,” lo apostrofò ghignando. Sam alzò gli occhi al cielo, ma lui non demorse. “Non c’è una bella ragazza mora con cui preferiresti passare il tempo?”

 

Sam aggrottò la fronte, confuso. “Pensavo dovessimo tornare alla chiesa,” obiettò.

 

“E’ da stamattina che lavoriamo, per oggi è più che sufficiente,” rispose Dean. “Possiamo benissimo tornare domani.”

 

“Come vuoi tu,” concesse Sam, non del tutto convinto. Si alzò dalla sedia, liberandosi anche lui di giacca, cravatta e scarpe eleganti. Afferrò un paio di pantaloni jeans e una camicia a quadri rossa e si diresse in bagno per cambiarsi.

 

Appena il fratello minore fu fuori dalla sua vista – o meglio, loro lo furono da quella di Sam – Dean si avventò nuovamente sulle labbra piene di Castiel, gemendo silenziosamente al contatto umido ritrovato e stringendosi addosso l’intero angelo.

 

Però, Sam non chiuse completamente la porta, ma la lasciò accostata. Dopo qualche attimo Dean capì il perché.

 

“Ragazzi,” chiamò Sam dalla stanzetta.

 

Dean si staccò dalla bocca di Castiel appena in tempo per rispondere con un “Che c’è?”

 

“Secondo voi, c’è davvero possibilità con Amber?”

 

Castiel frenò il percorso che le sue labbra avevano incominciato a tracciare sul collo di Dean, meritandosi un’occhiataccia dal compagno, al quale rispose con uno sguardo severo. Dean si morse il labbro inferiore, frustrato, mentre Castiel volgeva la testa verso la porta del bagno ed esclamò, “Non possiamo saperlo, Sam, sta’ a te.”

 

Dean stava cercando di togliere il trench coat a Castiel mentre aggiungeva, “Poi stava leggendo Lo Hobbit, è di sicuro il tuo tipo,” con un ultimo sforzo riuscì a sfilare il cappotto dalle braccia combattive dell’angelo e gli piazzò un bacio sulla guancia mentre gettava l’indumento sul letto senza alcuna cura. “E se non il tuo, allora quello di Charlie,” aggiunse, ripensandoci. Dal bagno risuonò una breve risata.

 

“Non credo, sai,” sopraggiunse Castiel, cercando di tenere a bada i tocchi di Dean. “Da come ti guardava, le sue preferenze apparivano abbastanza chiare.” Con uno scatto all’indietro, sfuggì un’ennesima volta dalle braccia di Dean che cercavano di afferrarlo.

 

Dean ghignò. Non era la prima volta che giocavano così; a volte uno dei due non era in vena di coccole ma alla fine veniva ben presto contagiato dall’entusiasmo dell’altro – solitamente l’uno era Castiel e l’altro era lui, ma anche lui aveva i suoi giorni no che si evolvevano in nottate decisamente piacevoli – e presto era diventata una delle sue attività preferite da fare insieme a Castiel. Aveva un posto assicurato nella top five.

 

Avanzò ancora, con sguardo predatorio facendo quindi indietreggiare cautamente l’altro. Quando però l’angelo si accorse di starsi dirigendo inconsciamente verso il letto – e dove voleva Dean – deviò subito direzione realizzando, però, con un attimo di ritardo, che ovunque avesse deciso di andare si sarebbe trovato con le spalle ad un letto. Dean sorrise ancora più malignamente, leccandosi teatralmente le labbra pronto ad attaccare per l’ultimo colpo— quando la porta del bagno si aprì e Castiel ne approfittò per pararsi alle spalle di un Sam profumato e preparato per uscire.

 

Dean scattò fino a trovarsi faccia a faccia con fratello e si piegò sulle ginocchia, girandogli attorno per cercare di intercettare l’angelo fuggitivo. “Cas, non vale così,” si lamentò, ricacciando un sorriso, “ne avevamo già parlato. Non vale utilizzare gli animali come scappatoia.”

 

La mano di Castiel si andò a poggiare sull’avambraccio di Sam, come per cercare sostegno e si affacciò a poco a poco da dietro la sue schiena. “Ma qui non ci sono animali,” replicò, perplesso.

 

Dean ghignò. “Io vedo un alce che ti copre, guarda un po’,” rispose prontamente, alzando lo sguardo divertito verso Sam, il quale non riuscì a nascondere un sorriso mentre Castiel scoppiava a ridere.

 

Sam si spostò per andare verso il suo letto, rimproverandoli, “Dovreste smetterla con questo gioco da bambini. Potreste farvi—“ si bloccò, ripensandoci. “Tu, Dean, potresti farti male. Nessuno dei due è tanto leggero e—“

 

Dopo aver alzato gli occhi al cielo, Dean scelse di approfittarsi del momento di stallo e con una piccola rincorsa placcò un Castiel ancora ridacchiante e lo spinse sul suo letto, torreggiando su di lui. Fece in fretta a bloccargli i polsi ai lati del corpo e fissò il suo sguardo provocatorio negli grandi e oltraggiati occhi blu di Castiel. Continuò a fissarlo, ansimando, e dopo un po’ scoppiò a ridere anche lui, non riuscendo più a reggere quello sguardo così comicamente offeso.

 

“Puoi andare, Sammy, divertiti,” si rivolse al fratello, senza però girarsi, temendo che a ogni sua distrazione il suo ostaggio potesse liberarsi.

 

Castiel ghignò, fissandolo dal basso. “Sam se ne è già andato da un bel pezzo, Dean,” gli fece sapere, con tono lievemente canzonatorio.

 

Di riflesso, Dean si voltò a controllare, cadendo però nella trappola che aveva previsto e quasi scongiurato.

 

Con un colpo di reni, infatti, Castiel ribaltò le loro posizioni, sovrastandolo completamente; il piccolo sorrisetto che gli rivolse, mentre gli bloccava i polsi come stava facendo lui fino a pochi minuti fa, non riuscì a farlo irritare quanto avrebbe dovuto.

 

“Ma non vale,” si imbronciò, invece.

 

“Beh, anche tu prima hai barato!” ribatté Castiel. “Ora siamo alla pari.”

 

“Ho comunque vinto io,” insistette Dean.

 

Castiel roteò gli occhi al cielo. “Certo, si vede,” concordò, in tono sarcastico.

 

Poi, un lampo di malizia illuminò il suo sguardo e lo stomaco di Dean fremette d’anticipazione.

 

Con lentezza esasperante, l’angelo si chinò su di lui sfiorandogli le labbra con le sue, deviando poi per un punto sul mento, dove lasciò un piccolo bacio umido. Da lì seguì tutta la linea della mascella con tanti piccoli baci asciutti, fino ad arrivare al suo orecchio destro.

 

In quel momento si accorse di non avere più alcuna pressione sui polsi, ma non gliene sarebbe potuto importare di meno. Con lentezza, poggiò le dita sui fianchi di Castiel, scavando sotto gli strati di vestiti che ancora indossava. Castiel respirò profondamente nel suo orecchio, e un brivido lo scosse fino alla punta dei piedi; poggiò la bocca leggermente più in basso, sul punto di congiunzione con la mascella, e si inumidì le labbra, sfiorandogli la pelle del viso con la punta della lingua.

 

A quel punto, Dean, in preda alla frustrazione, con un ringhio afferrò la nuca di Castiel e lo indirizzò verso il punto esatto in cui voleva sentire quel respiro caldo.

 

***

 

Sam Winchester, secondogenito di John e Mary, tramite del diavolo, scampato alla morte più volte di un gatto nero sulla Route 66 e più volte salvatore del mondo, nonché aspirante avvocato alla Stanford era appoggiato al muro che lo nascondeva dalla reception, piegandosi anche sulle ginocchia per essere sicuro di non essere visto.

 

Perché si nascondeva? Non lo sapeva nemmeno lui.

 

In realtà sì, lo sapeva.

 

Era spaventato.

 

Non da Amber. Era una ragazza molto carina, certo, ma non si nascondeva perché imbarazzato o messo in difficoltà da lei. Non ha mai reagito in modo così inetto a causa di una sola ragazza.

 

Era la situazione che lo faceva indietreggiare piano piano.

 

Perché per la prima volta nella sua vita poteva finalmente guardare il viso di una bella ragazza ed immaginarsi un futuro con lei, un futuro attuabile con lei.

 

Solitamente andava con ragazze conosciute di sera e dimenticate quella dopo; belle ragazze, magre, alte, sfrontate e sicure di sé. Piccole storie per soddisfare dei bisogni.

 

Nemmeno con Jessica o Amelia si era sentito in tale agitazione: con la veterinaria, inizialmente per la sua attitudine dura, che non lo faceva nemmeno sperare in un amicizia; in secondo luogo, per le idee sulla vita da cacciatore inculcate da suo padre e da Dean: ha sempre vissuto quella storia giorno per giorno, come si vive una vita da Winchester, non sapendo cosa avrebbe riservato il futuro e non passandoci quindi troppo tempo a pensarci. Poi, quando le cose si fecero serie e andarono a vivere insieme, beh— il passo ormai era fatto, non c’era tanto da pensare o spaventarsi.

 

E con Jessica— con lei invece…

 

Nonostante fossero passati dieci anni dall’ultima volta in cui la poté stringere tra le braccia e sussurrarle qualche parola d’amore tra i ricci biondi – la vera Jess, non qualche illusione del Diavolo tentatore – credeva ancora che fosse lei la donna della sua vita. Non avrebbe mai smesso di amarla. Ma quando si conobbero erano così giovani, appena ventenni – chi pensava all’amore della vita a vent’anni? Tra loro era nata come una semplice storia, incerta ma piena di tenerezza e passione, come lo sono tutti i giovani amori. Ma dopo diversi anni, sapeva che lei era quella giusta. Se solo lo avesse capito prima, magari—

 

No. Stop. Time out.

 

Marcia indietro e riparti.

 

Ma ora, dopo la discussione con Dean, conoscendo sempre di più questa ragazza così diversa dal genere con cui usciva di solito (magari era il destino dei Winchester, finire con qualcuno che mai avrebbero pensato) e apprendendo nozioni sempre più favorevoli, così sconcertantemente favorevoli, Sam sente il bisogno di doversi fermare per tre secondi e respirare a fondo. Un, due, tre. Un, due, tre. Uff.

 

Perché con questa bella ragazza che vive a venti miglia da lui, legge i suoi stessi libri, studia con la sua stessa passione, beh— con questa ragazza non solamente potrebbe costruire qualcosa.

 

Potrebbe far durare qualcosa.

 

Per questo non poteva lasciarsela scappare.

 

Con quel pensiero in testa, Sam si spinse via dalla parete con un colpo di reni e marciò con decisione nella hall, verso il bancone, dietro al quale sedeva sempre Amber, con un libro in mano e una gomma da masticare in bocca, annoiata dalla calura estiva.

 

Eccetto quel giorno, a quanto sembrava.

 

Al suo posto, infatti, sedeva una signora sui cinquant’anni passati, alta e magra con dei capelli neri tagliati poco più in giù delle orecchie. Al suo ingresso nella hall, alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo, masticando contemplativamente una gomma (Sam corrucciò la fronte per un attimo appena registrate le due azione) e dopo un lungo momento in cui Sam si sentì come passato dai più accurati raggi-x dell’emisfero settentrionale, sorrise melliflua. “Tu sei l’amico di Amber,” constatò.

 

Sam non poté fare altro che annuire.

 

Dopo un altro lungo momento in cui la donna lo continuava a fissare, persa in chissà quali pensieri, Sam si sentì come in dovere di dire qualcosa. “Ehm, volevo—“

 

“E’ fuori, nel giardino. Va’ da lei,” lo interruppe, con la voce roca, ma sorrise in modo un po’ più sincero.

 

Sam ricambiò il sorriso, sollevato. “La ringrazio, signora,” si affrettò a dire per poi uscire.

 

“Ragazzo,” la fermò la donna. “Prima di tutto, chiamami Nancy. Odio essere trattata da vecchia,” bisbigliò, stringendo gli occhi in un tic irritato.

 

Sam annuì, lentamente.

 

“E poi,” aggiunse Nancy, “mia nipote è di là.” Stese un braccio abbronzato a indicare il corridoio dove si trovava la sala da pranzo. “L’uscita è oltre la mensa,” spiegò, riabbassando poi gli occhi sulla pagina che stava leggendo fino a quel momento.

 

“Oh,” fece Sam. “Oh! Grazie mille, sig— Nancy, buona giornata,” si affrettò a correggersi, per poi andare per la direzione indicatagli. Se fosse rimasto nella stanza qualche attimo in più, avrebbe sentito Nancy mormorare mestamente alle pagine del suo romanzo, “Almeno è un bel ragazzo.”

 

***

 

Il cortile del motel non era nulla di eccezionale, ma era abbastanza curato, con il minimo indispensabile, in linea perfetta con il resto dell’edificio.

 

Appena si usciva c’era un piccolo spazio di giostre per i bambini: uno scivolo giallo, un paio di altalene, delle piccole moto a molla e una costruzione per arrampicarsi. Intorno allo spazio vi erano delle panchine.

 

Oltre allo spazio del parchetto si estendeva un largo prato, la maggior parte all’ombra – e qui Sam stesso dovette alzare la testa di molto – di un’enorme quercia, probabilmente plurisecolare.

 

Era proprio sotto ai suoi rami abbondanti di foglie che era sdraiata Amber, rilassata sotto l’ombra piacevole in quella giornata in cui l’aria era secca e il sole severo.

 

Sam s’incamminò verso di lei con passo tranquillo, osservandola con divertimento mentre si muoveva continuamente, cercando una posizione confortevole sulla terra dura, e ad ogni gesto le cuffie le cadevano dalle orecchie.

 

Era uno spettacolo spassoso.

 

Arrivato a mezzo metro dalla punta dei suoi piedi nudi – le scarpe erano accanto alla borsa, sul telo dove era accomodata – si fermò e si schiarì la voce. Ma rendendosi conto che si era rimessa le cuffie capì che non lo aveva sentito.

 

“Hey,” tentò, ma la ragazza nemmeno aprì gli occhi.

 

Decise, quindi, per un approccio un po’ rischioso ma in questo modo almeno si sarebbe fatto notare.

 

Si lasciò cadere a terra in ginocchio e si avvicinò di poco, gattonando. Distese le braccia in avanti, mettendosi in una posizione stabile e allungò le dita fino a posizionarle sotto le piante dei piedi della ragazza, cominciando poi a picchiettarli.

 

Un mezzo urlo sorpreso fu la reazione – attesa – della ragazza, che scattò seduta, guardando Sam con occhi grandi e stralunati. Si tolse in fretta le cuffiette dalle orecchie, ritirando di riflesso le gambe per incrociarle, e fiatò, “Sei forse impazzito?!”

 

Dal canto suo, Sam non riusciva a smettere di ridere dell’espressione spassosamente oltraggiata sul viso di Amber. “Scusa,” rispose, tra le risate, “è che, la tua faccia,” e riprese a ridere.

 

Amber alzò gli occhi al cielo mentre un’intensa ondata di rossore le coprì le guance, rinvigorendo le macchioline scure sparse per il viso. “Hai finito?” borbottò, alternativamente guardandolo male e fissandosi i piedi nudi.

 

“Okay,” disse Sam, alzando le mani in scusa, “mi dispiace. Era divertente,” si giustificò, con un sorrisetto.

 

Amber, suo malgrado, sorrise, scuotendo la testa a sé stessa. “Ti serve qualcosa?” gli domandò infine. “Non sei venuto solo per farmi il solletico.” Si fermò, ripensandoci. “Non sei uno di quei malati perversi per i piedi, vero?” chiese seriamente.

 

Sam alzò entrambe le sopracciglia, incredulo e preso in contropiede. “Certo che no,” rispose, sbattendo più volte le palpebre, “volevo solo parlare un po’ con te.”

 

A quello l’espressione di Amber si ammorbidì, un sorriso che tirava gli angoli della sua bocca e uno scintillio malizioso nello sguardo, e replicò “Quindi i tuoi amici ti hanno cacciato dalla stanza?”

 

Sam aggrottò la fronte, confuso, e la ragazza accennò con lo sguardo a una finestra del primo piano, con la luce accesa e le tende tirate. Non aveva notato che ci fosse una finestra che desse sul giardino. Beh, non aveva nemmeno notato che ci fosse un giardino ma non è questo il punto.

 

“Beh, loro,” cominciò, leggermente in imbarazzo, per poi fermarsi subito.

 

Si trovavano in Texas. E seguivano un caso di un assassino texano omofobo. Perché si trovavano in Texas.

 

Per quanto sembrasse adorabile e innocente, con le sue guance rosse e lo sguardo basso, Amber era pur sempre una ragazza conosciuta da poco, che aveva una famiglia del Texas; non poteva essere sicuro che non avrebbe reso la loro situazione molto più problematica.

 

 Amber alzò un sopracciglio. “Devo pensare male?” chiese. “O sono solo una bromance?”

 

Sam fece per rispondere, per poi fermarsi. Alla fine domandò, “Una cosa?”

 

“Una bromance,” ripeté Amber. Attese qualche secondo per un possibile segno di riconoscimento da parte da Sam. Infine sbuffò e si spiegò, “sai, quelle amicizie tra ragazzi che vengono sempre scambiate per altro.”

 

Sam sbuffò una risata, sviando lo sguardo, per poi puntarlo sui fili d’erba tra le sue dita.

 

“Diciamo,” riprese, “diciamo che è più di una bromance.” Alzò uno sguardo allo stesso tempo allusivo e speranzoso, pregando che capisse e che non facesse una scenata omofoba.

 

Invece, Amber batté le mani, deliziata, sorridendo ancora di più. “Lo sapevo!” squittì, felice. “Mio zio mi deve venti dollari, ora. Sono una grande, sì.”

 

Sam la fissò sbigottito, per poi ridacchiare. “Avevate scommesso?” chiese, divertito.

 

 Amber scrollò le spalle, un’espressione timida sulle labbra. “E’ un passatempo come un altro,” si giustificò. “Anche se all’inizio non ero sicura che non fossi tu quello invischiato con uno dei due,” ammise, con un sorriso furbo.

 

Lo sguardo di Sam passò dal divertimento al disgusto, con un lieve cenno di esasperazione. “Uno dei due è mio fratello,” precisò, con voce lamentosa.

 

L’espressione di Amber si fece più seria, assomigliando a quella di Sam. “Occhi Verdi è tuo fratello?” chiese, più retoricamente che altro. Alla conferma di Sam sospirò, “Ecco. Voi due siete una bromance.”

 

Sam scoppiò a ridere, seguito a ruota da Amber.

 

Dopo qualche attimo, domandò, “Quindi non ti crea problemi che…?”

 

Amber aggrottò la fronte. “Certo che no,” replicò, quasi offesa. “Anzi, tutto il contrario.”

 

All’occhiata confusa di Sam, si spiegò. “Degli amici dei miei genitori sono gay e sono delle persone meravigliose. Poi,” aggiunse, “alla mia di chiesa, a Smith Center, il reverendo James ci insegnava ad amare, non come Emerson.” Sputò fuori quel nome con un disprezzo che Sam non avrebbe mai immaginato da lei. “E poi,” continuò, dopo qualche secondo, “ormai non possono più farci niente, no? Ormai li devono accettare in tutti e cinquanta gli stati. Anche in Texas,” affermò, un piccolo sorriso sulle labbra.

 

Sam sorrise di rimando, nonostante un pensiero gli stesse ronzando in testa. Dove aveva già sentito quel nome…

 

“Cinquanta stati di gay,” replicò, guardandola con affetto mentre scoppiava a ridere.

 

Passarono qualche attimo in un silenzio agiato, osservando un bambino che giocava con la madre su una delle altalene; ogni tanto si rubavano delle occhiate e si regalavano qualche piccolo sorriso.

 

Infine, Sam domandò, “Cosa fai questa sera?”

 

Amber si irrigidì e si voltò a fissarlo con un’espressione indecifrabile in volto. “Perché me lo chiedi?”

 

Sam aggrottò la fronte. “Pensavo di uscire insieme, se ti va,” si affrettò ad assicurare, passandosi una mano tra i capelli, impensierito dalla sua reazione. Però alla fine il solito rossore fece capolino.

 

“Scusa,” mormorò Amber, “mi avevi sorpresa. Mh, va bene?”

 

“Okay,” rispose Sam, alzandosi dalla posizione inginocchiata che aveva mantenuto per tutto il tempo. I muscoli delle sue gambe gli mandarono un caloroso ringraziamento. Allungò una mano per aiutare Amber a tirarsi in piedi. “Dove vuole andare, signorina?” domandò, con tono fintamente formale.

 

Amber ridacchiò, alzando leggermente gli occhi al cielo. “Conosco un posto molto carino da queste parti,” cominciò, raccogliendo le sue cose da terra. “E’ il pub dove avevo incontrato Cas ieri sera,” spiegò.

 

Sam alzò le sopracciglia, sorpreso. “Avevi incontrato Cas?” chiese.

 

Amber annuì, tranquilla. “Sì, è stato davvero carino,” rispose casualmente, con un piccolo sorriso.

 

Sam sorrise di rimando, passandosi nervosamente una mano tra i capelli. “Ho concorrenza?” chiese con una risata.

 

“Non credo,” replicò Amber, mordicchiandosi appena un’unghia, “tuo fratello ha l’aspetto di uno che non vorrei avere come nemico.”

 

“Credimi, non lo vorresti,” affermò seriamente, scatenando un’ennesima risata dalla ragazza. Poteva abituarcisi. “Andiamo?”

 

“Certo.”

 










 

 

 

 

Eccola

Okay, sono in ritardo, lo so. Non lagnatevi, gne gne.

Okay, mi dispiace davvero, ma, sapete, Settembre, impegni, scuola, schifo. E il caldo. Dannazione il caldo.

Comunque, vi regalo questo capitoletto di passaggio in attesa di quello nuovo che non so quando arriverà ma arriverà.

Molto bene, ho fatto il mio dovere. Ringraziate Emma per questo.

Ora mi do, vado a morire, cià. (semi-cit)

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Capitolo 7
*** Capitolo VII - Pausa - riavvolgi ***


Prima di tutte le scuse per questo ritardo illegale vorrei dedicare questo capitolo
e fare tanti, ma tanti, ma tanti auguri di buon compleanno
alla mia lettrice più accanita e più spaventosa
A Emma, la più dolce delle persone, buon compleanno,
spero che questo capitolo ti piaccia almeno la metà di quanto
a me piaccia passare le giornate con te. 

 

 

Capitolo VII: Pausa – riavvolgi

 

Il chiasso di una porta violentemente aperta fu la sveglia personale di Dean, che scattò subito a sedersi sul letto.

 

La luce della stanza si accese e Dean poté notare l’orario – le tre di notte – dall’orologio appeso sopra alla porta d’ingresso e le due figure sotto ad esso.

 

Castiel chiuse la porta dietro di sé mentre un Sam dall’aria confusa e assonnata si appoggiava contro di lui.

 

“Cas?” chiamò Dean, alzandosi dal letto. “Cosa—“

 

“Sam è ubriaco,” annunciò Castiel con ovvietà, trascinando il nominato fino al letto e depositandocelo con la stessa grazia con cui un contadino poserebbe un sacco di patate nel portabagagli di un furgone.

 

Sam si limitò a rotolare fino a sdraiarsi supino, addormentandosi quasi subito.

 

Dean sbuffò. “Beh, almeno pare che si sia divertito,” commentò, avvicinandosi al letto del fratello.

 

“Forse, ma ha esagerato,” replicò Castiel seccamente, osservando mentre Dean toglieva le scarpe di Sam dai suoi piedi.

 

L’acidità della sua voce colpì Dean; si voltò in modo da poterlo guardare in faccia, con aria interrogativa, mentre gettava le scarpe di Sam a terra. “Cosa intendi?” gli domandò.

 

“Beh,” disse Castiel, alzando lo sguardo e facendolo volare per la stanza, “diciamo che il suo comportamento, qualunque piega abbia preso questa sera, ha avuto effetti decisamente negativi sui propositi romantici recentemente espressi.”

 

Dean coprì Sam con una coperta e si voltò verso Castiel. “Quindi,” arguì, “Amber ti ha telefonato per chiederti di riportarlo qui?”

 

Castiel annuì.

 

Dean sbatté le palpebre un paio di volte. Abbassò lo sguardo su Sam. Lo rialzò. Chiuse gli occhi e se li massaggiò con una mano. Li riaprì. Sbatté di nuovo le palpebre. Concentrò l’attenzione su Castiel.

 

Castiel aggrottò la fronte. “Stai bene?” domandò, piegando la testa in una posa inquisitrice.

 

Dean agitò una mano in aria e chiese, “Ti ha detto che cosa ha fatto Sam di tanto orribile da spaventarla tanto?”

 

Castiel rilassò la sua smorfia e disse, “Non era spaventata… almeno, non credo lo fosse. Mi ha detto che Sam ha bevuto un po’ troppo alcool e aveva cominciato a… trovarsi in particolare disaccordo con altri abitanti del locale.” Fece spallucce, “Amber ha trovato saggio chiamarmi prima che la situazione degenerasse inevitabilmente.”

 

Dean annuì, più a se stesso che a Castiel, e fece ancora, “Ma perché ha chiamato proprio te?”

 

Castiel abbassò lo sguardo sulle sue scarpe, agitandosi appena in quello che Dean aveva imparato a leggere su di lui come imbarazzo. “A quanto pare,” mormorò Castiel, dandogli le spalle, “il mio nome è così… particolare che se ne era ricordata subito.”

 

Nel silenzio in seguito alla breve spiegazione Dean si sforzò, per quanto il sonno che gli appesantiva ancora la ragione permetteva, di trattenere l’ilarità isterica che essa gli causava, e si portò quindi una mano sulle labbra molto stirate e molto divise, cercando di nascondere il ghigno già nato e ben cresciuto nel caso Castiel si fosse voltato di colpo. Non che temesse una possibile reazione violenta dall’angelo, – era un essere spirituale millenario, non una mogliettina isterica in menopausa – anzi, solitamente Castiel reagiva in quel modo quieto ma intenso che Dean paragonerebbe vagamente ad un broncio di un bambino stufo di piangere o alle espressioni seccate che hanno i gatti appena usciti da un bagno indesiderato, in altre parole, in modo esilarante; eppure, in quel momento, i pensieri di Dean avevano ormai tagliato ogni ponte logico che ci fosse stato tra di loro e il suo subconscio si trovava già sotto le coperte. Per esperienze vissute, Dean sapeva di non volersi addormentare con un angelo imbronciato e fin troppo conscio accanto a sé.

 

“Non ha tutti i torti,” replicò infine Dean avvicinandosi a Castiel, il quale gli dava ancora le spalle. Allungò una mano sulla nuca scura e gli scompigliò i capelli in una carezza, osservando con divertimento il tremore che passò lungo la spina dorsale di Castiel come reazione, oltre ad una sua rotazione di centottanta gradi.

 

Nella sua vista leggermente annebbiata dalla stanchezza, Dean vide il dolce sorriso appena accennato sul volto dell’angelo e sentì le sue mani calde circondargli il viso. “Dean.”

 

“Mh?” replicò in modo assente, chiudendo gli occhi in anticipazione – se di un bacio o di un po’ di sonno, non sapeva decidere.

 

“Vai a dormire, Dean,” lo incitò gentilmente Castiel, facendo scivolare le mani fino alle sue spalle per sospingerlo meglio verso il suo letto.

 

Dean riaprì gli occhi. “Vieni con me?” chiese, con quella che sperò fosse meno della metà della speranza che provava.

 

Il sorriso indulgente di Castiel, però, gli fece capire che, in qualche modo, ne aveva espressa più del doppio. “Certamente,” lo rassicurò, facendolo sedere infine sul materasso del suo letto e inginocchiandosi appena come per accompagnarlo nella discesa.

 

Dean approfittò del momento per afferrare i lembi del suo trenchcoat e tirarseli contro, accogliendo una morbida collisione che non era ancora avvenuta quella sera, fino a quel momento. Dei leggeri gemiti d’affetto accompagnarono il casto bacio e dopo pochi secondi i due si separarono.

 

Avendo ancora il tessuto dell’impermeabile tra le dita, Dean mosse le braccia attorno alle spalle di Castiel, spogliandolo pazientemente del soprabito per poi gettarlo con noncuranza ai piedi del letto.

 

Castiel osservò la traiettoria del vestito con disapprovazione negli occhi e fece per alzarsi dalla sua posizione quando Dean lo precedette e lo tirò con sé sul materasso.

 

“Shh,” soffiò, ridacchiando nell’orecchio di Castiel che cercava di rialzarsi dal letto. “Lascia la giacca dov’è. Se poi si piega puoi fare il tuo bibidi-bobidi e pace.”

 

Con uno sbuffo quasi divertito, Castiel si lasciò ricadere di peso sulle coperte, mentre Dean poggiava sgraziatamente la testa sul suo petto, scatenando una risata più decisa dall’angelo. Castiel portò una mano sulla fronte di Dean e pizzicò una lentiggine tra le sue dita con dispetto infantile, per poi accarezzare i capelli disordinati come scusandosi.

 

“Dormi, Dean,” gli sussurrò Castiel, lasciandogli un’ultima carezza sulla tempia.

 

Dean cercò di augurargli la buona notte, ma non si era reso conto di quanto i suoi occhi fossero appesantiti dal sonno: infatti, dopo aver chiuso le palpebre non trovò la forza di riaprirle, né tantomeno di aprire la bocca. Si addormentò all’istante, il calore rassicurante di Castiel sotto alla sua guancia e il fantasma delle sue dita sul viso.

 

***

 

L’aria calda e soleggiata del mezzogiorno sopprimeva ogni sollievo rinfrescante tentato da Dean, che si lasciò cadere sul letto con uno sbuffo d’impazienza.

 

Nel suo letto, Sam dormiva ancora profondamente nella stessa posizione di come lo avevano fatto sdraiare la notte prima, una mano si alzava e si riabbassava lentamente insieme al suo petto e da un angolo della bocca si distingueva l’impronta di un rivolo di bava essiccata.

 

Dean appoggiò il mento sulle sue dita intrecciate, picchiettando il piede destro a terra in un ritmo nervosto e incostante, per poi fermare il tamburellio e cominciare a dondolare i piedi in avanti e indietro. Dopo una decina di sequenze del movimento si lasciò cadere sul materasso con un gemito sofferente e concentrò lo sguardo sul soffitto azzurro, analizzando pigramente la leggera nell’intonaco sopra al suo letto.

 

Castiel era uscito a prendere il pranzo per i due fratelli e non era ancora tornato e Dean non poteva né chiamarlo al telefono che l’angelo aveva deliberatamente lasciato sul tavolo della stanza né tanto meno poteva uscire e andare a cercarlo, nonostante non ce la facesse più a starsene con le mani in mano ad aspettare seduto in una silenziosa e cocente stanza di motel.

 

Stupido signor sono-un-angelo-e-non-dormo-quindi-esco-quando-voglio-non-puoi-fermarmi.

 

Okay, ora stava diventando davvero ridicolo. Meglio pensare al caso.

 

Dean si tirò a sedere raddrizzando la schiena e raddrizzando le gambe davanti a sé e cominciò a riflettere su tutti gli elementi che avevano raccolto.

 

Le vittime erano coppie omosessuali sposate e il reverendo officiante; già da questo si poteva capire il movente del colpevole. I cadaveri presentavano arrossamenti, irritazioni, dei sintomi abbinati per le coppie e unici per il reverendo: da questo si poteva capire, invece, la natura del colpevole.

 

Stringendo con forza il copriletto verde tra le dita, Dean ricercò nella sua mente i casi di stregoneria che aveva affrontato nella sua vita e analizzò i cadaveri ritrovati, gli elementi simili o addirittura ricorrenti. Non era affatto raro trovare degli ematomi insoliti sulle vittime degli stregoni, ma non si ricordava di aver mai visto degli sfoghi differenti e abbinati per le coppie. Probabilmente ogni coppia era stata soggetta ad una fattura diversa. Quella dannata branca di magia era decisamente vasta, rifletté Dean con irritazione, e gli stregoni più potenti sono anche i più informati.

 

Ma come arrivare al colpevole? Era ovvio che dietro agli omicidi ci fosse un intento omofobo. Ma erano molti i pazzi della città che sarebbero arrivati a tanto. E non erano i buonisti quelli che sceglievano di studiare le arti della magia oscura.

 

E qual è il posto in cui tutte e sette le vittime sono state?, aveva ragionato Cas il giorno prima.

 

Ma non era detto, però, che il colpevole fosse necessariamente interno al convento. Poteva essere un esterno che aveva assistito a tutti i matrimoni— no.

 

Le cerimonie dovevano essere decisamente private. In pochi, in questa città, sarebbero andati ad una celebrazione omosessuale. Lo stesso individuo, notoriamente omofobo per giunta, che si fosse invitato a tre matrimoni di fila sarebbe apparso decisamente sospetto. Quindi no— il colpevole doveva essere interno alla chiesa.

 

Ma questo equivaleva alla ricerca di un ago in un pagliaio.

 

Trovare un omofobo in un convento, tsk. In Texas. Dean preferirebbe gettarsi nel pagliaio.

 

Inoltre, chiunque fosse lo stregone, doveva essere in rapporti stretti con Dunnets. Così stretti da sentirsi tradito dalla sua propaganda di uguaglianza tra le coppie.

 

Eppure, c’era una cosa che continuava a sfuggirgli: secondo quello che aveva detto il reverendo Gilbert, le cerimonie erano state molto affrettate e decisamente intime, quasi segrete; la coppia arrivava direttamente nel convento assieme a due testimoni e chiedeva al reverendo di essere sposati. Nessun annuncio, nessuna voce anticipata. Da sposata, la coppia ripartiva—ed entro un’ora, tornavano in sacchi di plastica.

 

Come faceva lo stregone ad intercettarli in tempo?

 

Dean si strofinò le tempie, sentendo una leggera fitta attraversargli il cranio mentre continuava a ragionare sul paradosso che gli si presentava. Scoraggiato, fece vagare lo sguardo per la stanza, posandolo infine sul pc di Sam, abbandonato la mattina precedente nel suo borsone da viaggio.

 

Si alzò, illuminato da un’idea improvvisa, raccolse il computer e andò a sedersi al tavolo, nel posto che fronteggiava sia la porta d’ingresso che il letto dove Sam stava dormendo. Accendendolo, aprì poi il motore di ricerca e ricercò nella cronaca cittadina. Andò oltre gli articoli riguardanti gli incidenti dell’ultima settimana e navigò per una decina di minuti tra notizie riguardanti incidenti domestici e riforme del sindaco.

 

Quando stava per cambiare ricerca, trovò una notizia risalente a febbraio di quell’anno e riguardante una morte decisamente misteriosa per i giornali locali e decisamente interessante agli occhi di Dean.

 

“Ucciso davanti al convento: Emerson senza cuore”

 

L’articolo riportava il caso – irrisolto – dell’omicidio del reverendo Emerson. Due ferite di pistola nel torace, che con perfetta precisione colpirono il cuore che, però, non c’era. Non era stato rimosso, era semplicemente scomparso, senza lasciare nemmeno una traccia di sangue o ulteriori tagli.

 

Di qualche giorno più vecchi erano altri articoli, riguardanti altre morti inspiegabili e disorientanti, più simili, però, a quelle a cui stava investigando Dean: corpi ritrovati con strani sintomi sul corpo, nonostante l’ottima salute. Anche questi casi erano rimasti irrisolti. Le morti – quattro in totale, senza contare quella di Emerson – risalivano alla fine di gennaio di quello stesso anno.

 

Con tanti pensieri diversi che si rincorrevano nella sua testa, Dean si tirò indietro, appoggiandosi contro lo schienale della sedia di legno chiaro abbinata al tavolo e si terse la fronte da qualche goccia di sudore. Si strofinò le dita bagnate sulla parte bassa della sua maglietta per poi riportare la mano all’altezza dei suoi occhi e poggiarci la fronte contro, sospirando.

 

Fu in quel momento che dal suo letto Sam cominciò a svegliarsi. Un grugnito sofferente si liberò nella stanza. “Dean?”

 

Dean alzò lo sguardo e trovò Sam e i suoi gloriosi capelli scompigliati guardarlo con aria confusa e assonnata. “Buongiorno, principessa,” lo riprese, controllando l’ora sul suo polso sinistro. “E’ quasi l’una e mezza, complimenti.”

 

Sam si strofinò una mano sugli occhi e si tirò a sedere; dopo aver sbadigliato rumorosamente, rimosse la mano e rivelò un livido bluastro sulla guancia destra, un graffio sullo zigomo corrispondente e uno sul labbro superiore.

 

“Ah!” gli fece Dean con un ghigno, alzandosi e avvicinandosi al fratello. “Quante gliene hai date in cambio?”

 

Sam batté stupidamente gli occhi mentre Dean gli prese il viso tra le mani, osservandolo in modo critico dall’alto e spostandolo da un lato all’altro alla ricerca di altri lividi. Era un po’ gonfio anche sull’altra guancia, notò, ma l’insieme non era poi così grave. “Te la caverai,” sentenziò infine, lasciando la presa e sedendosi sul suo letto, di fronte a Sam, “ora, mi vuoi dire cosa è successo o no?”

 

Sam batté un’altra volta le palpebre.

 

Dean sentì il bisogno di lanciargli qualcosa.

 

Dopo qualche attimo di silenzio, Sam domandò “Come sono arrivato qui?”

 

Dean roteò gli occhi, “Ti ha portato Cas.”

 

“Oh.” Fu la replica.

 

“Già,” concordò Dean.

 

“E come mi ha—“

 

“L’ha chiamato la tua Bambie,” lo interruppe subito Dean. “Ed era piuttosto scossa. Che cosa hai fatto?”

 

Sam sbatté di nuovo le palpebre e Dean dovette concentrarsi sull’ipotetica espressione di rimprovero sul viso di Cas se scoprisse che anche Dean aveva la sua parte sulle contusioni di Sam. Aiutò, ma poco. Il pensiero gli fece venire subito fame, per qualche ragione.

 

“Beh,” cominciò Sam, con lentezza, “i miei ricordi sono un po’ confusi.”

 

“Ma non mi dire,” commentò aspramente Dean, incrociando le braccia sul petto.

 

“Eravamo andati a fare un giro per la città,” riprese Sam, ignorando il fratello, “e verso le sette siamo andati in un pub a mangiare.”

 

“Tu sì che sei un Romeo provetto,” lo schernì Dean.

 

“Senti chi parla,” replicò Sam, schiarendosi finalmente la voce dalla nota roca che aveva assunto, “al vostro primo appuntamento portasti Cas a vedere Mad Max!”

 

“Allora,” fece Dean, improvvisamente serio e colpito nel profondo, puntandogli un dito minaccioso contro, “quel film è maledettamente epico se tu non—“

 

“Okay, Dean, comunque—“ Sam si fermò ancora prima di cominciare e si guardò attorno per poi assottigliare lo sguardo sul fratello. “Dove—“

 

“E’ andato a prendere il pranzo,” gli rispose subito Dean, con noia e irritazione in mostra. “Vai avanti.”

 

Sam scrollò le spalle e riprese. “Allora, siamo andati in questo pub dove lei va spesso,” raccontò, “e ci siamo seduti ad un tavolo vicino alla cucina.

 

***

 

“…quindi, Meg era riuscita a non cadere per tutto il giorno, ma nel momento in cui stava uscendo dalla pista, perde l’equilibrio, afferra d’istinto una signora di mezz’età che non stava nemmeno con i pattini e la tira giù con sé sul ghiaccio! Ricordo ancora la sua faccia—oddio, e la signora era così arrabbiata!”

 

La narrazione di Amber viene spezzettata dalla sua risata contenuta e da quella più liberatoria di Sam mentre i due si sistemano al tavolo che avevano scelto.

 

“Quindi, se l’è portata giù con sé?” domandò ancora Sam, con un sorriso divertito.

 

“Oh, sì,” annuì Amber mentre le scappava un’altra risata al ricordo. “E non è nemmeno il pezzo migliore.”

 

“Dimmi, allora,” la incoraggiò Sam, curioso, e sorridendo al rossore delle guance pallide.

 

“Dopo essersi rialzate entrambe, e dopo le mille scuse che Meg ha fatto alla signora, si era finalmente aggrappata in modo stabile alla ringhiera e stava uscendo, quando David, un altro nostro amico, la prende per un braccio per tenersi in equilibrio – non è molto bravo a pattinare – e la rimanda giù per terra!”

 

Sam rise di nuovo, in modo contenuto ma allegro, e incontrò lo sguardo altrettanto felice di Amber. “Spero per Meg che non le succeda spesso,” commentò.

 

“Speri male,” rispose Amber, con un sorriso un po’ più nostalgico, “lei cade sempre, anche da seduta.”

 

Sam la osservò con occhi comprensivi e le sorrise, “Ti manca?”

 

Amber batté velocemente le palpebre, abbassando lo sguardo. “Certo che mi manca,” disse piano, “sono mesi che non la vedo.” Ricomponendosi, rialzò lo sguardo e sorrise di nuovo, un po’ più spavalda. “Sono sicura che andreste davvero d’accordo. Magari un giorno te la presenterò.”

 

Sam alzò le sopracciglia all’ultimo commento, ma sorrise in fretta per non farle notare il suo stupore. “Dovrò avere i riflessi pronti per afferrarla, quindi?” propose, in tono scherzoso.

 

Con un’altra risata di Amber l’argomento si chiuse da sé e arrivò un’alta cameriera dal sorriso grande e una parlantina alta e chiara a prendere i loro ordini. Con un cenno di saluto verso Amber e un sorriso di cortesia verso Sam, si allontanò verso le cucine a ordinare un’insalata di tonno e un cheeseburger e Sam diede uno sguardo più dettagliato al grande pub in cui si trovavano.

 

Le pareti in legno, le casse dello stereo, le varie cornici colorate appese in giro assieme a dei souvenir ancora più strani – era un dinosauro rosso quello sopra all’ananas gigante? – davano una sensazione di calore e familiarità ai clienti del locale che dove posavano lo sguardo trovavano un effetto che sarebbe stato benissimo nel loro salone. Il soffitto era tanto alto da permettere un soppalco dove erano posti altri tavoli e divanetti di pelle, ma meno di quelli presenti al piano inferiore. La zona del bar era moderatamente affollata, più per le conversazioni in cui i consumatori impegnavano i baristi che per vero bisogno di bevande e il resto del locale era altrettanto affollato, con appena una manciata di tavoli vuoti. L’ambiente allegro e il via vai di camerieri tra la sala e la cucina promettevano un esito decisamente positivo.

 

“Che ne dici? Ho buon gusto, eh?” gli chiese Amber, con un’infantile curiosità simile a quella di Castiel, e Sam sorrise.

 

“Devo ammettere che almeno ha stile,” le concesse Sam, fingendo un’espressione irritata e Amber ridacchiò in risposta, per poi sbuffare con tono oltraggiato.

 

“Beh,” fece poi Amber, sorseggiando il suo tè freddo, “ti ho raccontando delle mie avventure con i miei amici. E tu, invece? Scommetto che con quel tuo gruppetto ne avete combinate di memorabili.”

 

Sam non batté ciglio. “Scommetti male,” rispose un po’ troppo in fretta. Amber alzò un sopracciglio, la serietà delle sue labbra stirate che nemmeno si avvicinava alla curiosità persistente nel suo sguardo.

 

“Voglio dire,” riprese Sam, schiarendosi nervosamente la gola, “ora come ora non mi viene in mente nulla. Anche se ci sono state delle situazioni. Ad alcune nemmeno crederesti,” concluse, prendendo un sorso della sua birra e quasi sospirando dal sollievo della freschezza della bevanda.

 

“Okay,” commentò Amber, chiudendo l’argomento.

 

Quando poi il silenzio si fece troppo lungo, Sam fece per aprire bocca, ma Amber lo precedette, “Cosa pensi dell’ultima stagione del Trono di Spade?”

 

Sam sorrise e iniziarono a discutere sulla preferenza dei libri rispetto alla versione televisiva e ai vari cambiamenti dei produttori. Da lì, la conversazione procedette tranquillamente su altri sentieri, tra cui la letteratura fantasy, la letteratura generale, il cinema, la televisione, la musica, la politica, la società. Parlare con Amber risultò più semplice di quanto avesse mai potuto sospettare, realizzò Sam con sollievo e sorrise in modo un po’ più genuino di prima alla cameriera – Nancy – che con un occhiolino giocoso per entrambi portò i loro ordini e gli augurò una buona degustazione.

 

E stavano davvero avendo un’ottima degustazione quando vennero interrotti.

 

***

 

Con insolito impaccio e più chiasso di quanto si potesse evitare, Castiel fece ingresso nella camera con due buste di carta artigliate contro il petto. Chiudendo la porta con un piede, si avvicinò al tavolo, chiuse il computer lasciato aperto da Dean con una gomitata e vi poggiò sopra le buste.

 

“Ce ne hai messo di tempo,” commentò Dean, alzandosi in piedi e avvicinandosi al tavolo, passando accanto a Castiel e accarezzandogli appena una spalla come saluto.

 

“In questa città non sanno dare le indicazioni,” ringhiò Castiel, se come giustificazione o sfogo personale, a Dean non è dato saperlo. “Ciao, Sam.”

 

“Hey, Cas,” salutò di rimando Sam, tentando un sorriso nonostante l’irritazione per essere stato interrotto nel bel mezzo del suo racconto.

 

“Cosa hai preso?” chiese Dean, aprendo una delle buste e tirandone fuori un quotidiano; in prima pagina vi era scritto: “Gli omicidi del mistero: nessun progresso, oggi i funerali”. Dean serrò la mascella e chiuse il giornale con un po’ troppa decisione, poggiandolo sul tavolo.

 

“Per te, un cheeseburger, delle patatine e una bottiglietta d’acqua, poi la ricarica del telefono che mi hai chiesto,” illustrò Castiel, porgendogli la busta che Dean non aveva preso – quante chance c’erano, dannazione – e togliendogli l’altra dalle mani. “Sam,” fece poi, avvicinandosi all’amico, “non sapevo se avessi voluto fare la colazione o il pranzo e non sapendo nemmeno cosa avresti voluto mangiare ti ho preso un caffè, una banana, una cialda, un hamburger e un’insalata – e l’acqua, ovviamente,” si mordicchiò il labbro e alzò lo sguardo tormentato su di lui. “Ho sbagliato?”

 

Tutta l’irritazione che avrebbe potuto provare si sciolse mentre il profumo del caffè raggiunse le narici di Sam e sorrise dolcemente a Castiel. “Grazie mille, Cas, davvero.” E diceva sul serio: non si era accorto di quanta fame avesse fino all’ingresso dell’angelo – e sì, aveva davvero tanta fame.

 

Prese la busta dalle sue mani e tirò fuori il bicchiere di caffè caldo con attenzione e lo poggiò sul tavolo. Cominciò poi a sbirciare il resto dei contenuti della busta ma prima che potesse decidere da cosa iniziare sentì due dita sulla fronte e il formicolio seguito dal familiare senso di pace conseguenti alla guarigione angelica. Riaprendo gli occhi chiusi d’istinto, sorrise a Castiel ringraziandolo di nuovo, il quale rispose con un altro sorriso e una timida reverenza della testa.

 

A quel punto Castiel si sedette sul letto di fronte a Sam, nello stesso punto in cui Dean era seduto pochi minuti fa e chiese: “Di cosa parlavate?”

 

Dean afferrò la busta contenente il suo pranzo e si andò a sedere accanto a Castiel, spiegandogli, “Sam mi stava raccontando la sua serata con Amber.”

 

“Oh, interessante,” commentò Castiel, lanciando a Sam un’occhiata sospettosa e lontana mille miglia a quella piena di gentilezza di un attimo fa.

 

“Posso andare avanti?” domandò con un sopracciglio alzato a Dean, mentre questi scartava casualmente il suo panino.

 

“Certo— oh, prima faccio un riassunto a Cas,” fece Dean, voltandosi meglio verso Castiel e gli disse, con tono professionale, “Sono andati in un pub – la cameriera ci provava con Sam – Amber e Sam parlavano del Trono di Spade – lei beveva del tè come se fossimo nel maledetto Yorkshire. Fine.”

 

Castiel corrugò la fronte, non in perplessità, tanto più per processare le informazioni e annuì lentamente, voltandosi poi verso Sam. “E poi?”

 

Sam sospirò, prendendo un morso della sua cialda. “Quindi,”

 

***

 

Sam ed Amber stavano passando una davvero piacevole serata: la comunicazione tra i due era ottima, il cibo lo era altrettanto e tra i due la conversazione procedeva senza intoppi né imbarazzo.

 

Amber si sentiva così a suo agio da allungare la mano e cominciare a rubacchiare qualche patatina dal piatto di Sam, sorridendo in modo raggiante quando questi spostò il piatto verso il centro del tavolo in un invito chiaro e accettato.

 

Fu in quel momento che qualcuno li interruppe.

 

“Hey, Amber! Non si saluta più un amico?”

 

Sam si voltò verso l’origine del richiamo e trovò un ragazzo – non più di trent’anni e non meno di venticinque, la stazza generosa e i capelli scuri e scompigliati abbinati a una carnagione abbronzata – che, dal bancone del bar, si avvicinava al loro tavolo con un tumbler pieno fino a metà di quello che Sam giudicò essere scotch. Con un sorriso che mostrava pienamente i denti dritti e bianchi, il ragazzo si fermò nello stesso punto in cui Nancy si era fermata poco prima per chiedere come stesse procedendo la serata.

 

“Neil,” lo accolse Amber con un sorriso gentile e un cenno del capo, “non ti avevo visto. Come stai?”

 

Neil scrollò le spalle sorridendo bonariamente, “Non male, non male. E tu, invece? E’ da tanto che non ci facciamo una bevuta insieme,” fece, ammiccando giocosamente. Solo in quel momento sembrò notare Sam e lo salutò alzando appena il bicchiere nella sua mano, per poi sorseggiarne la bevanda.

 

“Oh, capisco,” disse poi, appoggiando il tumbler sul tavolo e osservando Sam dall’alto in basso, per poi indirizzare un ghigno divertito verso Amber. “Chi è il tuo ragazzone?”

 

Amber alzò gli occhi al cielo e le sue lentiggini risaltarono con il rossore che le adombrò le guance. “Lui è Sam,” lo presentò, abbassando lo sguardo sul suo piatto di insalata ancora mezzo pieno.

 

Sam, intanto, aveva occhieggiato in modo guardingo Neil: non sembrava esattamente ubriaco, più che altro un po’ brillo, ma abbastanza lucido da camminare con sicurezza e parlare in modo chiaro; Amber non sembrava a disagio, forse in imbarazzo, ma Sam pensava di poter credere che tra loro ci fosse un buon rapporto.

 

Allungò una mano verso Neil, alzandosi dalla sedia, “Ciao, Neil,” lo salutò, stirando appena le labbra.

 

Neil afferrò la sua mano e la strinse nella sua in modo sicuro e deciso, agitandola una volta e mollando completamente la presa subito dopo, in modo veloce, ma non affrettato: tutto in lui dava l’impressione di un carattere sicuro e misurato.

 

Afferrando una sedia da un tavolo vuoto accanto al loro, Neil la trascinò a uno dei lati liberi tra Sam ed Amber, dicendo, “Vi dispiace se mi siedo qualche minuto con voi? Sapete, non è bello stare da soli in un bar così pieno.”

 

Amber alzò lo sguardo su di Sam, alzando le sopracciglia in una domanda e Sam annuì, rispondendo.

 

“Certo,” gli rispose quindi Amber, ma Neil si era già seduto.

 

“Allora, Sam,” fece Neil, voltandosi verso di lui. Sam afferrò la bottiglia di birra e si rilassò contro lo schienale della sedia, mettendosi a proprio agio, per poi berne un breve sorso. “Non ti ho mai visto da queste parti,” commentò Neil. “Di dove sei?”

 

“Vivo in Kansas,” rispose Sam.

 

Neil alzò le sopracciglia, sorpreso, e lanciò un’occhiata ad Amber, che sorrise; poi, tornando a Sam, gli chiese ancora, “hai conosciuto lì Amber?”

 

Sam scosse la testa. “No, l’ho conosciuta l’altro giorno.”

 

“Al motel,” concluse Neil, annuendo. Prima che Sam potesse dire altro, Neil riprese, “Cosa ti porta qui, quindi?”

 

“Lavoro,” rispose Sam, scrollando le spalle.

 

“Di cosa ti occupi?” Sam non sapeva se quello di Neil fosse semplice curiosità o se lo stesse interrogando per qualche ragione a lui oscura; in ogni caso, la situazione cominciava ad irritarlo.

 

“Sam sta investigando sugli omicidi,” intervenne Amber con un sorriso cordiale, e Sam si ricordò improvvisamente di tutte le volte in cui Dean si ritrovava a dover collaborare con qualcuno a cui avrebbe preferito sparare che sorridere.

 

“Oh,” soffiò Neil, e qualcosa sembrò come spegnersi in lui. “Senza offesa, ma per me è una perdita di tempo.”

 

Sam alzò le sopracciglia. “Davvero?” disse, “e perché mai?”

 

Neil scrollò le spalle, quasi incurante. “Trovare un colpevole in mezzo a tante possibilità mi sembra un po’ impossibile,” spiegò, finendo in un colpo solo tutto il contenuto del suo bicchiere.

 

Sam provò a rispondere, ma Neil aveva chiuso l’argomento, voltandosi verso Amber e chiedendole dell’università.

 

Sam decise quindi di estraniarsi dalla conversazione e riflettere sulle parole di Neil e su quanto fossero tristemente vere. Erano davvero indietro su questo caso e Sam non aveva la minima idea su cosa iniziare. Che fosse un caso di stregoneria ormai era chiaro e questo elemento avrebbe potuto aggravare i nervi di Dean, già messi duramente alla prova dalla natura propria degli omicidi, e a buona ragione. Anche Sam ribolliva di rabbia solo a ripensarci.

 

Almeno erano riusciti a restringere il raggio d’azione del colpevole: la chiesa.

 

Ma anche in questo modo si ritrovavano con decine di sospettati e non potevano certo cercare libri di stregoneria sotto a ogni letto per tutto il convento.

 

“Sam?”

 

Sam alzò lo sguardo su Neil. “Come scusa?”

 

Neil gli sorrise. “Ti avevo chiesto se volessi favorire o meno,” gli ripeté, accennando alla bottiglia di scotch apparsa in mezzo al tavolo.

 

Sam batté un paio di volte le palpebre, prima di annuire piano. “Sì, grazie.”

 

“E tu Amber?” le offrì Neil, riempiendo un terzo del bicchiere per l’acqua di Sam.

 

Amber scosse la testa. “No, grazie, oggi mi accontento del tè,” lo assicurò e prese un sorso dal suo bicchiere come per dimostrazione.

 

I due amici tornarono a chiacchierare tra loro e Sam fu grato di poter essere lasciato in pace a pensare.

 

Non fu più così grato quando, senza quasi accorgersene, finì il terzo bicchiere di scotch e si era immerso nella conversazione degli altri due.

 

Parlarono delle facoltà universitarie, dell’esperienze del college, del Kansas e delle famiglie e degli amici e dei film usciti quell’estate; infine, parlarono della nuova sentenza della Corte Suprema.

 

“Voglio dire,” cominciò a dire Neil, “non è che io giudichi le perversioni altrui. E’- è solo che, non siamo mica in Europa, non si può chiudere un occhio su ogni pazzia, la coppia è uomo e donna e—“

 

“Se non fossi ubriaco fradicio ti picchierei fino a farti implorare pietà per i tuoi peccati,” commentò Amber e Neil scoppiò a ridere, nonostante sul viso di lei non c’era altro che serietà e malcelato disgusto. Sam sul suo viso notò solo come i suoi occhi scuri risaltassero rispetto alla pelle chiara.

 

“Ha ragione, sai,” fece Sam rivolto a Neil, che intanto si era calmato. “L’amore è amore, amico. Fattene una ragione.”

 

Neil lo fissò per un po’ di tempo, assottigliando gli occhi. “Sei una checca, per caso?” gli domandò poi.

 

Sam aggrottò la fronte e azzardò un’occhiata a Amber che, con una mano a coprirsi una guancia, osservava lo scambio con lieve allarme. “Eh, direi di no,” rispose quindi, facendo abbassare appena lo sguardo di Amber e scatenando un altro sbuffo divertito da Neil.

 

“Allora, beh, perché te ne importa?”

 

“Beh, perché se non sono le persone non direttamente interessate ad interessarsi anche a ciò che non li interessa non si potrebbe mai arrivare ad un comune… interesse,” articolò piano Sam, imbronciandosi al suono di tutte le ripetizioni.

 

Amber rise e fece, “Abbiamo un vincitore.”

 

Sam fece un gran sorriso sornione e si domandò se anche prima di tutto quell’alcol avesse avuto tanta voglia di toccare i capelli di Amber. Poi di domandò esattamente quanto alcol avesse bevuto.

 

“Secondo me invece sei una checca,” intervenne poi Neil, guardandolo in modo un po’ troppo cattivo. “E quelli come te dovrebbero finire all’inferno, a bruciare, come diceva Emerson.”

 

La mente di Sam viaggiò subito a Dean e un’ondata di irritazione si risvegliò nel suo petto. S’impose la calma e decise, invece, di versarsi un bicchiere d’acqua.

 

“Scommetto che lo siete tutti in famiglia,” continuò Neil. “Tu, tuo fratello—“ (come faceva a sapere che aveva un fratello? Oh—glielo aveva detto prima, giusto) “—anche vostro padre, scommetto.”

 

A quello, Sam sbatté un pugno sul tavolo, rovesciando buona parte dell’acqua attorno a sé e fece per alzarsi, ma Amber si alzò e lo intercettò, ponendosi tra lui e Neil, davanti all’ultimo.

 

“Secondo me avete esagerato per stasera,” disse piano Amber. “O anche per tutta la vita.”

 

Neil sbuffò, sorseggiando ancora il suo scotch e Amber si allungò a prendere la borsa poggiata sul tavolo e, tornando diritta, tirò Sam su con sé, e serrò una mano attorno al pugno ancora stretto, cercando di rilassarlo.

 

“Buonanotte, Neil,” salutò gelidamente l’amico, cominciando ad allontanarsi e spingendo Sam a fare lo stesso.

 

“’Notte, Amber,” ricambiò Neil con un sorriso, per poi ghignare verso Sam e dire, “Ci vediamo, Sam. Saluti calorosi alla famiglia,”

 

E lì Sam si disse stufo.

 

***

 

“Tutto qui?” domandò Dean, a metà tra il perplesso e il deluso.

 

“Cosa?” chiese Sam con un’espressione confusa.

 

“Hai fatto a botte, rovinato il tuo flirt con la ragazza della porta accanto e sei stato probabilmente bandito da uno delle poche bettole carine della città, solo perché ti hanno chiamato checca?” Dean aveva tanto voglia di roteare gli occhi, ma non aveva affatto voglia di vedere quell’irritante espressione saccente alla ‘ecco-da-chi-ho-preso’ di Castiel.

 

Sam sbuffò e distolse lo sguardo e Dean poté quasi leggergli il pensiero: Tu non capisci.

 

Oh sì che capisco, pensò. E lo disse ad alta voce.

 

Sam aggrottò la fronte. “Cosa capisci?” domandò.

 

“Lascia perdere,” sospirò stancamente, alzandosi dal letto. Appallottolò la busta di carta bianca del pranzo e la tirò verso il cestino – mancandolo – e si diresse poi verso il bagno.

 

In quel momento, squillò un telefono e dopo pochi attimi, la voce profonda di Castiel rispose. Dean si fermò sull’uscio per l’altra stanza, curioso di sapere chi fosse l’interlocutore. Un piccolo sorriso sul viso dell’angelo glielo fece intuire.

 

“Sì, Charlie, va tutto bene—aspetta un momento, metto il vivavoce.”

 

Dopo un paio di attimi di ricerca del tasto che Castiel non trovava mai, la voce di Charlie si spanse nella camera.

 

“--maledetti, voi non fate altro che fregarvene e far preoccupare gli altri, non avete idea di cosa—“

 

“Charlie!” esclamò Dean. “Di cosa stai parlando?”

 

“Dean!” tuonò il telefono, che Castiel poggiò prontamente al centro del tavolo, “Cercavo proprio te! Ieri mi hai scritto ‘Oggi ho il telefono scarico ti chiamo domani, ciao’. Oggi mi sveglio, aspetto fino a mezzogiorno e nulla, nessuna chiamata,” Dean lanciò un’occhiataccia a Castiel ricordandogli il ritardo di quel pomeriggio e questi ebbe la grazia di distogliere lo sguardo, “allora penso: dai, sono impegnati in un caso, si sarà dimenticato, allora ti chiamo io e nulla, telefono spento/occupato/morto, non mi interessa. Oltre all’aver trovato il bunker vuoto, senza biglietti, né cartelloni stradali, né scritte in cielo che potessero anche solo darmi un’idea che siete usciti a fare qualcosa di utile e non siete stati rapiti da vendicatori assassini come spesso vi succede—“

 

“Oddio,” sospirò Sam, strofinandosi una tempia, “Charlie, ti prego, credici, ci dispiace davvero.”

 

La filippica di Charlie di quietò e dopo qualche attimo, chiese, “Sam, ti sta venendo il mal di testa?”

 

“Sì,” lamentò Sam.

 

“BENE!” gridò allora Charlie, e Dean si fece scappare un risolino di fronte all’assurdità della scena.

 

“Comunque,” riprese Charlie, in un tono molto più civile, “dove siete?”

 

“Lubbock,” rispose Castiel, decidendo di mettersi a sedere.

 

“Lubbock… Texas?” chiese, e dopo l’assenso di Dean, aggiunse. “Ci sono stata qualche mese fa, cos’altro è successo?”

 

“Una serie di omicidi strani,” rispose Dean in modo deliberatamente vago. Incontrando lo sguardo di Dean, si accordarono il silenzio con Charlie.

 

“Che novità,” commentò Charlie.

 

“Non sono un quotidiano,” sbuffò Dean, ma gli sorse un dubbio. “Aspetta, sei stata ad una caccia qui?”

 

“Già.”

 

“Quando ci sei stata?” domandò ancora.

 

“Non ricordo bene,” rispose Charlie. “A febbraio, credo?”

 

 

 

 


Eccola

Guardate, evito direttamente tutte le ridicole e patetiche scuse che potrei tirare fuori, sembrerei solo stupida. E La Somma Autrice non può mai apparire stupida, muahah.
Comunque. Passiamo alle "spiegazioni" del capitolo.
E' un capitolo un po' di passaggio (=/= inutile) costellato da un po' di indizi ed elementi che persino un bambino di tre anni può riconoscere e collegare e che risulteranno molto utili più avanti.
Ma vi prometto che tra poco molliamo questi capitoli statici per tuffarci meglio nell'azione. Credo.
E
quanto
è
bello
scrivere
di
Charlie!!!!?????!?!?!?!!?!??!!??!?!?!?!?!!??!?!?!
Scusate, è l'emozione.
Ah, comunque, prima che mi dimentichi come ho sempre fatto da quando ho iniziato 'sta storia, vorrei dire che il titolo l'ho tratto da questo adorabile tweet risalente al famoso giugno scorso.
Grazie per la vostra attenzione, tanto amore e recensite, cavolo.

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