I Wanna Hold Your Hand

di Armstrong_44
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 - Ending ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Heilà gente!
Questa è la mia prima fanfiction sulle tmnt incentrata, come avrete capito, su Leo. L'avevo precedentemente pubblicata in inglese su DeviantArt, convinta che ci fossero troppi/e pochi/e fan italiani/e per ricevere dei commenti alla storia se l'avessi pubblicata nella nostra lingua originale. Ma mi sono dovuta ricredere e così eccomi qui :D
Spero vi piaccia e che mi facciate sapere cosa ne pensate, così che io possa migliorarla per soddisfare voi e allo stesso tempo così che io riceva lo spirito giusto per continuare a pubblicarla (sapete, poche recensioni o visualizzazioni --> autrice depressa)
Beh, detto ciò, spero sia di vostro gradimento! Oh, inoltre, i capitoli sono cortini ma sono praticamente tutti pronti e potrei aggiornare spesso. Mi basta sapere che a voi questa storia interessa ^^
 

Capitolo 1

Ciao a tutti.
Il mio nome è Leonardo Hamato e ho 16 anni.
Frequento la scuola superiore, più precisamente un liceo nella mia città natale, New York, e sono uno studente molto stimato.
Nella mia scuola ho sempre avuto un'alta reputazione grazie al fatto che facevo parte della squadra di Football, ma in fondo mi rendevo conto che nessuno mi avrebbe parlato se non fosse stato per questo.
O almeno, era così fino ad un po' di tempo fa.
E' una storia lunga e complessa, perciò, se avete voglia di sentirla, mettetevi comodi e ascoltate con attenzione.
Tutto è cominciato qualche mese fa, nella mia classe di matematica.
Era il giorno della consegna dei compiti e la prof era entrata con un'espressione più acida che mai. Aveva i capelli grigi raccolti in un'alta coda e gli occhi, nascosti da spessi occhiali rossi, ci squadravano insoddisfatti.
Grugnì i nomi in ordine alfabetico per fare l'appello e toni smorti e stanchi le risposero.
Poi, dopo aver chiuso il registro blu con un tonfo secco, tirò fuori dalla sua cartella marrone un pacco di fogli bianchi ed iniziò a consegnarli.
Quando si avvicinò al mio banco per darmi la mia verifica, fece una smorfia disgustata contraendo la bocca e il naso adunco, e poggiò i fogli sotto il mio sguardo stupito. Abbassai gli occhi e notai una miriade di segni rossi. Insufficiente. Beh, essendo la mia prima insufficienza dell'anno, non era una cosa troppo grave. Se non consideriamo il fatto che per restare nella squadra di Football bisogna avere una buona media. Sospirai sconsolato e mi guardai intorno per vedere se ero l'unico ad essere andato così male.
Dalle facce degli altri, non sembrava. Questo mi tirò un po' su di morale, ma continuava a non migliorare le cose. All'improvviso, il bagliore di un sorriso sul volto di un ragazzo, con cui non parlavo mai nemmeno per salutarlo, mi attirò. Era seduto alla mia destra, perciò cercai di dare una sbirciatina al voto che aveva preso.
Rimasi sconvolto nel vedere che non vi era un singolo segno di biro rossa sul suo compito.
Nemmeno un errore. Quasi caddi dalla sedia. Che diamine? Lo squadrai per bene: aveva i capelli castani leggermente lunghi ed era magro e alto. Non riuscivo a ricordare il suo nome. Sapevo solo che si faceva chiamare Donnie per abbreviazione. Lo vidi girarsi verso un altro ragazzo, biondo e appena un po' riccio, e alzare il pollice sinistro. Non li avevo mai notati in quella classe, nessuno dei due. Infatti, quando fai parte di una squadra popolare a scuola, la tua vita viene magicamente organizzata e scopri che essa ruota intorno ad un'unica e insensata piramide sociale. Loro due sono visti da tutti come qualcuno in fondo agli ultimi gradini. Sapete, il secchione e il bambino.  Sapevo che l'altro si chiamava Michelangelo ma a volte mi era capitato di sentire Donnie chiamarlo Mikey. Erano sempre insieme. Avrei voluto avere anch'io un rapporto così con qualcuno. I miei amici del football non erano veramente... amichevoli.
Passavamo del tempo insieme ma parlavamo solo di sport. Inoltre, loro non volevano frequentassi persone al di fuori della squadra.
Dicevano che "Ne valeva la mia reputazione". Mikey sgranò un attimo gli occhi azzurri e mi guardò confuso.
Non mi ero accorto che stavo continuando ad osservarli fin quando anche il castano non si girò a squadrarmi con le pupille nocciola. Arrossii lievemente e mi girai dall'altra parte, tornando a guardare gli errori che avevo commesso io durante il test. Cose facilissime. Che avrebbe potuto eseguire correttamente anche un bambino. Ma a cosa stavo pensando mentre scrivevo le risposte? Mio padre si sarebbe arrabbiato. O forse no. Non era molto presente nella mia vita.
Sospirai di nuovo. Passammo l'ora a correggere gli esercizi e le domande di teoria poi la campanella suonò, facendo iniziare il pomeriggio. Quello era praticamente l'unico giorno in cui non dovevo fare qualcosa come andare agli allenamenti o al corso di chitarra, a cui mia madre mi aveva iscritto prima di, beh, lasciarci. Non fraintendete, non è morta, ha semplicemente deciso, da un giorno all'altro, di andarsene.
Non so che problemi avesse con mio padre, ma a quanto pare ne aveva anche con me, per abbandonarmi senza nemmeno pensarci. Perché è questo che ha fatto, mi ha abbandonato.
Comunque, io avevo provato a smettere di fare chitarra, per allontanare il ricordo di mia madre una volta per tutte, ma mio padre non voleva. Non so perché. Forse, semplicemente, non voleva che la mia vita cambiasse troppo. Così, tra allenamenti e chitarra, l'unico giorno libero era il mercoledì.
Senza divulgarci troppo, consegnai il compito all'insegnante e iniziai a radunare le mie cose e ad infilare i quaderni e le penne a raffica nella mia borsa a tracolla.
Mormorai un lieve e sommesso "arrivederci" e uscii dalla porta, pronto a recarmi a casa.
Passai per i corridoi e salutai con un cenno i miei amici del Football, poi mi recai all'autobus. Mi sedetti al mio solito posto. Mentre aspettavo che partisse e finisse di riempirsi, mi misi a guardare fuori dal finestrino, su cui il sole batteva cocente.
Appoggiandovi una mano sopra, potevo sentire le dita bruciare. Osservai i diversi soggetti salutarsi e tornarsene a casa.
Improvvisamente ebbi un sussulto quando vidi Donnie, accompagnato da Mikey, camminare per i marciapiedi chiari. Possibile che in tutti questi anni non li avevo mai notati e, quel giorno, era la seconda volta che li incontravo? I strani casi della vita. Comunque, ebbi un sussulto ancora più grande quando mi accorsi che si erano voltati verso di me e, vedendomi, mi avevano salutato con un cenno della mano. Okay. Strano. Molto strano. Che cosa volevano ottenere salutandomi? Forse speravano di salire e diventare più popolari. O magari volevano trascinare me più in basso. Okay, non giudicate i miei pensieri contorti: dopo una vita come la mia è normale dubitare di tutto.
Non sapevo cosa fare, ero indeciso se salutarli o no. Ma poi per una questione di cortesia e alzai una mano in risposta. Accennarono ad un sorriso e se ne andarono. Rimasi letteralmente stupito.
Mi spiegherò meglio: io ero convinto che le persone in fondo alla "piramide" odiassero quelli in cima. E avrebbero anche ragione, insomma, venivano trattati malissimo a causa di... cosa? Nulla di particolare, solo perché non erano "nessuno".  
Sentii l'autista mettere in moto l'autobus e mi guardai intorno: molti ragazzi erano costretti a stare in piedi, poiché non vi erano abbastanza sedili, e tutti quanti erano appiccicati a qualcuno, a causa del poco spazio disponibile. Per questo mi piaceva stare accanto al finestrino, mi sentivo come se ci fosse più aria.
Mi resi conto che un ragazzo si era seduto accanto a me. Lui lo conoscevo bene. Era il mio vicino di casa, ma non ci parlavo mai. Anche lui, infatti, non era proprio in cima alla piramide.
Si chiamava Raphael, o Raph. Aveva i capelli castani spettinati e gli occhi verdi si fermarono nei miei azzurri nello stesso momento in cui io mi girai verso di lui. Non l'avevo sentito sedersi.
Fece un'espressione confusa, ma poi mi guardò quasi offeso: "Qualche problema?" mi chiese, brusco.
"No" risposi seccamente io.
Raph non mi stava antipatico ma nemmeno mi piaceva. Era troppo.. arrogante? O forse sembrava solo a me? Magari lui era uno di quelli che odiavano le persone con un'alta reputazione.
Ad ogni modo, mentre l'autobus iniziava a svuotarsi, mi resi conto che in effetti, a me sarebbe piaciuto non avere un'alta reputazione. Anzi, mi succedeva spesso di rendermene conto. Quando mi perdevo nei miei pensieri era un argomento che risaliva spesso a galla. Voglio dire, non ci guadagnavo niente ad essere così popolare.
Mi sentivo vuoto. E la mia vita non era niente di così stupendo. Mi chiesi momentaneamente come sarebbe stato sedersi a pranzo con Donnie e Mikey. Passare i pomeriggi con Raph. E fare un sacco di altre cose con altra gente.
La mia fermata mi fece riportare alla realtà; presi lo zaino e scesi.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Hey! Eccomi tornata, pronta con il secondo capitolo :D
Sono contenta che la storia, per ora, stia piacendo, e spero di non dEeludervi col prossimo capitolo ;)
Ringrazio chiunque abbia messo la storia tra i preferiti/storie da ricordare/storie seguite, lo apprezzo davvero tantissimo! <3 E grazie molte alle persone che hanno recensito, visto che è dalle recensioni che traggo la voglia di continuare ^^ Queste persone sono:
piwy ; Serytia ; Leader96 e LisaBelle_99
Spero il capitolo vi piaccia!
Godetevelo e, se volete, lasciate una recensione ^^
 

CAPITOLO 2

Aprii il cancello che dava sul mio giardino verde e mi voltai momentaneamente verso Raph. Stranamente, si voltò anche lui. Pensai un attimo a Donnie e a Mikey, e a come mi ero sentito io quando mi avevano salutato. Allo stesso tempo cercai di collegare il suo viso a qualche compagnia. Niente. Non riuscivo a ricordare di averlo visto con qualcuno. Forse era solo quanto me.
Senza accorgermene, alzai la mano in un saluto e gli sorrisi in modo lieve. Mi guardò stupito. Cavolo, ditemi che non ho fatto anch'io quella faccia con gli altri oggi. Non ci credetti nemmeno quando lo vidi: ricambiò il saluto. Non il sorriso, ma il saluto sì.
Aprii la porta di casa mia spingendola lievemente verso l'interno, per poi chiuderla dietro di me.
Buttai lo zaino sulle scale in pietra e andai in cucina, dove mi aspettava un pranzo assolutamente disgustoso, cucinato dalla nuova fidanzata di mio padre. Già, mamma se ne va, papà ne trova un'altra. Odiavo tutto questo.
"Ciao Giulia" la salutai stancamente, per niente contento di vederla. Lei si era sposata con mio padre due anni fa e, assieme al suo "adorato" figlio, Drake, si era trasferita qui da noi. Drake è più grande di me di un anno ma è stato bocciato e, fortunatamente, fa una scuola diversa dalla mia, così non devo vedere continuamente la sua faccia che prenderei volentieri a pugni. Perché? Beh, diciamo che si comporta con me come noi con un'alta reputazione ci comportiamo con quelli con una bassa reputazione.
Comunque, mi accomodai su una delle sedie in legno e aspettai che mi venissero serviti i maccheroni mezzi crudi assieme ad una salsa di pomodoro decisamente bruciata.
"Ciao tesoro!" mi salutò con voce stridula.
Odiavo la sua voce. Mi sentivo un po' cattivo nei suoi confronti perché lei almeno provava a essere gentile, ma non potevo farne a meno. La detestavo e non potevo evitarlo.
"Dov'è mio padre?" le chiesi, un po’ più freddo di quel che volevo essere.
"E' uscito per questioni di lavoro! Sarà a casa questa sera" mi rispose "Ah! Io oggi devo uscire quindi sarete solo tu e Drakeuccio!"
Proprio in quel momento, la porta di casa sbatté forte e Drake entrò in cucina, sedendosi senza nemmeno salutare sua madre e pretendendo di essere servito.
Non potei trattenermi "Ciao Drakeuccio" gli mormorai.
Lui, seduto di fronte a me, alzò la testa coperta di capelli, scuri come i miei, e mi fissò con i suoi occhi nocciola. Fece una smorfia di odio e tornò a mangiare.
Soffocai una risata. Se oggi eravamo in casa da soli, di sicuro me l'avrebbe fatta pagare. Ma sapete cosa? Mi avrebbe dato una lezione anche se non gli avessi detto niente, quindi tanto valeva godersela. Sparecchiai e salii le scale per raggiungere camera mia. Non era niente di speciale. Il letto era ancora disfatto, la mia vecchia scrivania era coperta di disegni e matite, e in un angolo c'erano una batteria e una chitarra. Perché avessi una batteria non me lo so spiegare, nemmeno la sapevo suonare.
Mandai un messaggio a mio padre con scritto del brutto voto. Non pregai per il suo perdono ne dissi frasi da ragazzine. Glielo dissi direttamente. Lui mi rispose che se recuperavo non importava, altrimenti ne avremmo parlato. Ad essere sincero, me l'aspettavo. Lui è sempre stato il tipo che, quando succede qualcosa, aspetta a dare il giudizio finale. Così, passai un'oretta a fare i compiti del giorno dopo, che erano davvero pochissimi, e a scarabocchiare sul libro di matematica distrattamente. Appena terminai, chiusi il quaderno con un tonfo secco, mi buttai sul letto e mi addormentai.
E, velocemente come mi addormentai, mi svegliai, ricoperto di acqua gelida dalla testa fino ai piedi. Il mio letto zuppo. Il pavimento scivoloso. La risata di Drake, intanto, rimbombava nella mia mente, mentre lui si teneva lo stomaco dal ridere con una mano e con l'altra sosteneva un secchio. Scherzate? Queste sono cose da film! Non lo sa che rischio di prendermi una polmonite così? Che domanda stupida, certo che lo sa. Anzi, probabilmente lo spera.
Mi sono alzato di scatto dal letto, troppo confuso per capire cosa stava succedendo davvero, quando mi sono sentito tirare per il colletto della maglia e scaraventare contro il muro. Caddi a terra, ma non feci in tempo a rialzarmi che Drake mi calciò il fianco ripetutamente. Gemetti per dolore, sebbene stessi facendo del mio meglio per soffocare qualunque suono.
Dovete sapere che lui, nella sua scuola di carnefici, fa parte della squadra di Rugby. Non solo, era anche grande come un armadio.
Già, bella sorpresa, ritrovarselo come fratello.
Mi sollevò nuovamente per il colletto della maglia e mi trascinò per il corridoio. Ribellarsi era inutile, era molto più forte di me, e qualunque cosa io provassi veniva velocemente fermata.
Quasi cascò dalle scale per colpa mia, però.
Purtroppo, quasi.
E in questo modo gli diedi anche una bell'idea per finire il suo lavoro. Senza capire cosa stesse succedendo, mi ritrovai in fondo alla prima rampa di scale, con il petto che doleva ad ogni respiro e la voce del mio fratellastro che risonava in tono divertito. Rimasi immobile per il dolore, che iniziava a farsi sentire anche alla testa.
Una fitta mi colpì il fianco e sentii i passi di Drake allontanarsi fino a camera sua. Passarono circa venti minuti, prima che mi alzassi e camminassi fino al bagno, dove cercai di asciugarmi al meglio i vestiti e i capelli con un phon. Non avevo intenzione di risalire le scale per andare a cambiarmi, perché sapevo che lassù c'era anche lui. E inoltre, sollevare le gambe era già abbastanza faticoso camminando al piano terra, figuriamoci facendo le scale.
L'unico problema sarebbe stato il ritorno di mio padre. Purtroppo, per quanto odiassi Giulia, lui era felice così, con questa nuova vita, e da bravo figlio non gli raccontavo mai cosa succedeva. Essendo appena primavera, però, mi sarei di sicuro ammalato se fossi rimasto bagnato (perché no, il phon non aiutava per niente).
Così mi venne in mente un'idea. Strana, assurda, stupida, impossibile, ma pur sempre un'idea. Meglio che niente.
Aprii lievemente la porta di casa, assicurandomi che nessuno fosse nei paraggi. Uscii timorosamente per poi correre rapido nel cortile di Raph, ignorando le fitte al ginocchio destro.
Non avevo pensato a una cosa:
Se mi apriva suo padre?
Beh, non vedevo la sua macchina nel parcheggio, quindi supposi fosse uscito. Non sapevo molto di Casey Jones, solo che gli era morta la moglie quando Raph era ancora piccolo.
Suonai il campanello, cercando qualche spiegazione da dire e pensando a quanto imbarazzante sarebbe stato se lui avesse deciso di non aiutarmi.
Dopo qualche minuto che sembrò eterno, passato a congelare a causa del vento che mi passava trai vestiti, la porta si aprì, rivelando Raph. Tirai un sospiro di sollievo, ma esitai quando lo vidi squadrarmi strano.
"H-hey!" Balbettai, lievemente imbarazzato.
"...Hey..." lui tossì, schiarendosi la voce "Che cosa vuoi?"
"Emh, beh, ecco, mi chiedevo se.. M-mi chiedevo se.." Presi un respiro rendendomi conto di star facendo una gran figuraccia "Non è che potresti prestarmi qualche vestito? Giusto una felpa e dei jeans? Ti porto tutto lavato e stirato e se vuoi non lo dirò a nessuno."
Okay, il primo passo era fatto.
Continuò a squadrarmi, perplesso, probabilmente chiedendosi se non fosse uno scherzo di cattivo gusto.
"Beh, ecco, potresti decidere in fretta? Fa un po' freddo" chiesi, cercando di non sembrare scortese.
Lui si spostò un po' di lato e mi fece cenno di entrare e seguirlo per le scale. Arrivammo in camera sua, vuota quasi come la mia. Aveva un letto con le coperte rosse, una scrivania su cui sostava un computer e una sacca da box pendeva dal soffitto. In una bacheca lì accanto erano appese alcune foto. Vidi una donna che non riconobbi e supposi fosse sua madre. Lui si avvicinò ad un armadio e tirò fuori le prime cose che trovava.
Una felpa nera e dei jeans blu. Lo ringraziai e mi cambiai velocemente, un po' imbarazzato per non aver chiesto dov'era il bagno ed essermi cambiato davanti a lui. Fortunatamente però lui non diede cenno ad esserne sconvolto, come se nemmeno se ne fosse accorto, continuava semplicemente a fissare i miei vestiti bagnati sul suo pavimento.
"Scusa, ti ho bagnato il pavimento" dissi, ricordandomi di dover ancora trovare una soluzione per asciugare il letto "Se vuoi pulisco"
"Non importa" rispose, lievemente freddo. Mi sentii un po' a disagio, poi notai che la sua espressione divenne leggermente diversa, quasi di compassione. Forse non si aspettava che proprio io chiedessi il suo aiuto. Così come io non mi aspettavo che lui accettasse di darmelo.
"Perché eri bagnato?" chiese schiettamente. Quella domanda, così diretta, mi ricordò il tono di un bambino.
Esitai, non sicuro di volergli raccontare la verità. Ma alla fine mi resi conto che sarebbe stato molto più semplice che inventarsi una scusa. E infondo, lui era Raph. In un giorno si sarebbe dimenticato di tutto. E in teoria a lui non sarebbe dovuto importare nulla di me.
"Problemi col mio fratellastro" spiegai, non approfondendo l'accaduto.
"Drake?" chiese. Lo fissai confuso. Non sapevo lo conoscesse.
"L’ho visto in giro ogni tanto..." lui rispose al mio sguardo.
"Oh" dissi "Beh, sì, lui è il mio unico fratellastro"
"E... ti ha bagnato?" chiese fingendosi ingenuo, cercando di tirare fuori la verità. Si leggeva chiaramente tra le righe il suo intento.
"Qualcosa del genere" mormorai "Beh, adesso dovrei andare"
"Oh, davvero?!” esclamò "Ti presenti qui tutto bagnato, mi chiedi dei vestiti e nemmeno mi dai una spiegazione?"
Sorrisi tristemente. Era davvero strano avere una conversazione con lui. Era l'ultima cosa mi sarei aspetto succedesse.
"Diciamo che non ho avuto un gran risveglio. Mi ha gettato un secchio d'acqua addosso" gli scappò un ghigno, che non sopportai "Poi mi ha preso a calci e spinto giù dalle scale" terminai.
Ho quasi goduto nel vedere il suo sorriso sparirgli dalle labbra.
"Oh"
"Già" dissi, girandomi per scendere le scale.
"Quindi eri tu che... beh, ecco.. urlavi?" mi chiese con un soffio di voce.
"Come...?" chiesi, girandomi lentamente.
"Beh, ho sentito qualcuno gridare prima..." accennò alla finestra. Era aperta e si affacciava sulla mia, aperta anche quella. Vero, dopo un po’ avevo smesso di resistere e mi ero lasciato andare agli istinti, lasciando che urla sfuggissero dalla mia bocca. Ma forse urla, comunque, è un termine esagerato.
"Devo andare" affermai, poi mi voltai, scesi le scale, e tornai a casa, evitando di rispondere alla sua domanda. Non sentii passi dietro di me e capii che aveva deciso di non seguirmi. Bene, meglio così. Come ho già detto, era Raph. Si sarebbe dimenticato di tutto.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Ciao a tutti :D
Sono tornata :) Sono davvero felice di vedere che questa storia a quanto pare non è così brutta come pensavo ma sono ancora più felice a vedere che ci sono un sacco di persone disposte a lasciare un commento per farmi sapere che cosa ne pensano ^-^ Perciò, grazie mille recensitori (anche se non sono scura si dica come parola O.o)
Ringrazio chiunque abbia messo questa storia tra preferite/seguite/da ricordare ma anche chi ha semplicemente letto e continua a seguire la lettura <3!
Un ringraziamento speciale rivolto a LisaBelle_99 ; Serytia ; piwy ; Leader96 e I LOVE RAPH per aver recensito!
Un abbraccio,
spero vi piaccia il capitolo!
 

Capitolo 3

Non trovai un modo per asciugare il letto e quindi usai ogni scusa per evitare che qualcuno entrasse in camera mia. Dissi che dovevo studiare, che avrei dormito un po' e che non volevo essere disturbato. Scesi in cucina venti minuti prima della cena per evitare che venissero a chiamarmi e poi, subito dopo, mentii dicendo che sarei andato a letto perché il giorno dopo sarebbe stato faticoso e avrei dovuto riposarmi. Beh, alla fine nessuno entrò in camera mia. La notte la passai avvolto in una coperta calda per terra e puntai la sveglia mezz'ora prima, così avrei potuto rimettere tutto a posto. Mi alzai mal volentieri e misi via la coperta. Con mia sorpresa, il letto era ancora umido. Lo rifeci, poi vi misi sopra una coperta di lana. In questo modo, anche toccandolo, nessuno si sarebbe dovuto accorgere che c'era qualcosa di sbagliato. Mi vestii con una maglietta a mezze maniche blu e dei jeans scuri. Poi, pensando che avrei passato la giornata fuori casa, misi i vestiti di Raph in fondo ai miei nell'armadio, lontani da ogni possibile scherzo di Drake.
Mi pettinai, lavai viso e denti. Non feci una colazione abbondante, bevetti solo un bicchiere di succo d'arancia.
Poi tornai in camera e mi misi le scarpe.
Infine, salutai mio padre e Giulia, uscii di casa e mi recai alla fermata dove Raph stava già spettando l'autobus.
C'era un gran silenzio tra di noi e io lo ruppi involontariamente con una serie di starnuti. Accidenti a Drake.
"Mi dispiace" mormorò lui.
"Cosa?" lo guardai sorpreso, voltandomi di scatto verso di lui. Okay, ora iniziavano le cose strane. Raph era conosciuto per essere una testa calda, un ragazzo impulsivo, prepotente, arrogante... direi che vi siete fatti un'idea.
"Sì, sai... Per tuo fratello, mi dispiace per te"
Dentro di me sorrisi appena, ma esteriormenti apparivo totalmente stupito "Beh, suppongo non si possa scegliere la famiglia" fu tutto ciò che seppi dire.
Ghignò un po' "No, suppongo di no" disse.
Arrivò l'autobus e l'autista, che ormai ci conosceva, ci salutò.
Era una donna riccia e dai capelli color carota, un po' grassa e che usava sempre troppo rossetto rosso. Portava enormi orecchini a forma di cerchio e un cappellino blu.
Presi posto vicino al finestrino e, con mia grande sorpresa, Raph si sedette accanto a me. Non dissi niente, tanto sapevo che nessuno della squadra di Football prendeva l'autobus e quindi non sarebbe stato un problema.
Man mano che i ragazzi salivano, e il mezzo di trasporto si riempiva, tra noi si era creato nuovamente un gran silenzio.
"Perché hai chiesto aiuto a me?" domandò Raph all'improvviso.
"Non lo so" risposi alla stessa domanda che io stesso mi ero posto.
Arrivati a scuola, ci separammo senza nemmeno dirci niente.
Camminai verso gli armadietti e, quando presi ciò che mi serviva lasciando ciò che invece non sarebbe stato per niente utile per le prime due ore, mi diressi verso la classe di chimica.
Non sapevo ancora con precisione chi era nelle mie classi, ma notai che Michelangelo era in questa. Per la settimana successiva, mi era stata assegnata una relazione in base all'esperimento eseguito in mattinata da fare, indovinate con chi? Mikey. Stranamente, me lo aspettavo. I soliti scherzi del destino. Quando raccolsi le mie cose, il biondino mi si avvicinò chiedendomi quando sarei stato libero per fare la relazione. Ci pensai un po' su, rendendomi conto che mercoledì, il mio tipico giorno libero, sarebbe stato oltre la data di scadenza. Decidemmo quindi di fare il venerdì, ovvero il giorno dopo: io avrei saltato la lezione di chitarra, e mio padre sarebbe stato d'accordo perché era a causa dei compiti.
"Se ti va, puoi venire tu da me! Abito vicino a Donatello, che è un genio in queste cose e potrebbe anche aiutarci" mi informò, sorridendo. La cosa che mi lasciava più stupito di lui era il fatto che sorrideva praticamente sempre.
Mi passò un pezzo di carta con su scritto il suo indirizzo.
"Certo, vengo verso le quattro?" domandai, fissando l'inchiostro nero sul foglietto.
Annuì euforicamente e, dopo avermi salutato, se ne andò. Fissai il punto in cui era scomparso perplesso. Poi scrollai le spalle infilai nella tasca della mia giacca il biglietto. Presto, alla porta della classe apparirono i miei compagni della squadra di football. Li guardai sconcertato, non capendo cosa ci facessero tutti lì. Il mio migliore amico, Robin, si fece spazio, mi venne in contro esultante ed esclamò, euforico:
"Siamo in finale!!"
Tre parole. Tre semplici parole che mi fecere dimenticare di tutto quello che era successo in questi tre giorni. Di Donnie, Mikey, Raph e persino di Drake.
Iniziai a saltare per la classe assieme agli altri, fino a quando loro non mi sollevarono e portarono in giro per i corridoi sulle spalle, acclamando il mio nome. Se avessimo vinto la finale, ci sarebbero state buone probabilità che alcuni di noi, specialmente io in quanto capitano, ottenessero borse di studio. Saremmo andati ai nazionali. In televisione. Avremmo avuto la possibilità di essere scelti da alcune squadre famose. Certo, erano ancora sogni, ma ci stavamo avvicinando pian piano e non mi ero mai sentito così felice negli ultimi tempi. Nemmeno quando Mikey e Donnie mi avevano salutato. Nemmeno avevo capito che non mi odiavano. Nemmeno quando avevo capito che neanche Raph mi odiava. In quel momento, mi importava solo vincere quella partita.
Dopo mi diressi con Robin ad educazione fisica. L'insegnante era assente. Sembrava che dall'emozione di scoprire che eravamo in finale si fosse preso un giorno libero. Nessuno osò immaginare come avrebbe speso il tempo. Quindi avevamo un'ora buca. Assieme a me e a Robin, notai che anche Raph aveva ginnastica a quell'ora. Altra cosa di cui pensai non essermi mai reso conto. Ad ogni modo, io e il mio migliore amico passammo il tempo a scherzare prendendoci in giro e immaginando cosa sarebbe successo se avessimo vinto. E lì, assieme a tutta quell'euforia, mi resi conto anche di provare un po' di malinconia, sapendo ciò che NON sarebbe successo: non sarei diventato amico degli altri ragazzi più sfigati di me. Sebbene, lo ammetto, ci sperassi.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Ciao a tutti! Sono di nuovo qui! ^-^ Chiedo scusa per non aver aggiornato prima ma una leggenda giapponese mi ha tenuta bloccata agli origami. Sul serio, secondo loro a chiunque riesca a fare 1000 gru di carta viene concesso un desiderio. E così... ammetto di essere rimasra attaccata a questa cosa. Per ora sono a 27 gru! Speriamo di farcela :P
Ad ogni modo, smetto di spaziare e procedo coi ringaziamenti!
Ringrazio chiunque abbia messo questa storia tra preferite/seguite/da ricordare ma anche chi ha semplicemente letto e continua a seguire la lettura <3!
Un ringraziamento speciale rivolto a LisaBelle_99 ; Serytia ; piwy ; Leader96 e I LOVE RAPH per aver recensito!
Grazie di cuore!
Spero il capitolo sia di vostro gradimento! E scusate se è un po' corto

Capitolo 4

Guardai fuori dalla mia finestra verso quella di Raph, solo per vedere la sua stanza vuota.
La vicinanza delle nostre due case era sorprendente, eppure non mi era mai sembrato di vedere il ragazzo il camera sua. Chissà se qualche volta anche lui si era affacciato per vedere se ero in camera.
Ad ogni modo, oggi lui non si era seduto vicino a me in autobus. Non che mi importasse più di tanto, ma sapendo che non mi era praticamente concesso passare del tempo con gli altri più in basso di me nella piramide sociale, il mio istinto mi diceva di fare il contrario. Succede sempre così a me. Proibitemi qualcosa, e io farò di tutto per ottenerla. Non mi piace sentirmi limitato nelle mie scelte. Nemmeno se sono io stesso a impormelo. Sospirai. Anche Robin se ne era accorto. A mensa, oggi, mi aveva tirato in disparte e mi aveva detto con espressione seria: "Senti, lo so che sono loro che cercano te" io non dissi che non era affatto vero "Però adesso rischiamo di perdere la nazionale. Devi stare lontano da loro. Per favore, fallo per la squadra, ok?".
Annuii e confermai "Per la squadra".
E così eccomi qui, a cercare di far arrivare le quattro per poi andare a casa di Mikey e provare a vedere se Raph è nella sua stanza.
Mi sono scostato rapidamente dalla finestra a causa della scarica di pugni sulla porta. Già, io e Drake. A casa da soli, di nuovo. Sono stato previdente e ho chiuso a chiave la mia stanza ma a quanto pare a lui non è piaciuta la sorpresa. "So che non butterà giù la porta perché altrimenti mio padre se ne accorgerebbe" pensai. Mi sono girato urlando: "Vattene via, Drake!" con tutto il fiato che avevo. Lui smise un secondo di bussare, ma poi ricominciò: "Escì di lì! Dovresti essere il capitano della squadra di Football, invece sei un codardo!"
Rimasi un attimo scioccato dalla definizione: probabilmente lo ero. Non vi è altro modo per definire qualcuno che non riesce nemmeno a decidere per sé i propri amici. Però poi mi ripresi e dissi: "Ho detto, Vattene via!" Non mi ascoltò e continuò a bussare. Sbuffai di nuovo e iniziai a preparare la tracolla per andare da Mikey. Dopo pochi minuti ero pronto. Mi infilai le scarpe e mi avvicinai alla finestra. Arrossii vedendo che Raph mi stava fissando confuso . Sicuramente per avermi sentito urlare contro Drake.
Gli sorrisi imbarazzato e poi mi comportai come se non l'avessi visto. Mi sedetti sulla finestra e, cautamente, mi avvicinai alla grondaia li accanto come avevo già fatto altre volte. Era molto difficile rimanere appesi senza scivolare, ma con gli anni avevo perfezionato "la tecnica". Sentii gli occhi di Raph su di me fino a quando non fui sceso a terra. Anche lì riuscivo a sentire le grida furiose di Drake contro di me. Risi appena pensando alla sua faccia. Poi sentii un rumore fortissimo, come se la casa stesse per crollare. Impanicai. Non poteva essere vero. Drake non poteva aver sfondato la porta, giusto? Sarebbe stato ridicolo! E invece, con orrore, spalancai gli occhi vedendo il mio fratellastro affacciarsi alla mia finestra e imprecare contro di me, cercando un modo di scendere. Rimasi lì sconvolto, fin quando non lo vidi avvicinare una mano alla grondaia. Lì per lì pensai di correre verso casa di Mikey ma sentii Raphael chiamare il mio nome e farmi un cenno di andare verso casa sua. Presi fuori il telefono dalla mia tasca, mentre correvo verso l'altro giardino. Arrivato alla staccionata la scavalcai con un po' di fatica, dovendo scostare più volte i pantaloni che si impigliavano nelle viti grigie.
Nel frattempo Drake era caduto sceso a terra e mi fissava con odio.
"Sei morto" affermò.
Cazzo. Quella frase bastò per farmi vedere il mondo colorato di rosso. Ultimamente, il mio fratellastro era stato mandato da uno psicologo a causa di più richiami da parte della sua scuola, che si trovava cinque o sei ragazzi in infermeria al giorno. Beh, senza offesa ma non potevo fare a meno di pensare che quel tizio non sapesse fare il suo lavoro. Corsi ancora più velocemente e vidi il mio vicino di casa aprire la porta e incitarmi ad entrare.
Senza esitare mi tuffai all'interno di casa sua, poi sentii Raph sbattere la porta. Temevo che lui potesse sentire il mio cuore battere a raffica, specialmente quando il pulso aumentò a causa dei pugni sulla porta di casa sua.
Ancora una volta, urlai "Vattene via, Drake".
All'improvviso sentii una voce acuta e stridula, provenire da casa mia:
"Sono a casa!"
Giulia! Giulia era tornata! Non avevo mai amato così tanto la sua voce! Beh, non l'avevo mai amata e basta. Sentii Drake correre via, e io non seppi che cosa volesse dire a Giulia come spiegazione.
Respirai profondamente, mentre inviavo un messaggio a Mikey dicendo che sarei arrivato un po' più tardi.
Notai che le mie dita tremavano. Non avevo mai visto così arrabbiato il mio fratellastro e temevo quello che sarebbe successo dopo. La porta sfondata, mio padre furioso, un matrimonio rovinato... Non mi piaceva la prospettiva, sebbene odiassi la mia nuova famiglia.
Stavo ancora cercando di regolare il respiro quando Raph mi chiese: "Tutto okay?"
Annuii stancamente, poggiando il capo contro il legno dell'uscio. Poi, dopo aver ingoiato, dissi "Ti sei messo contro Drake. Adesso si arrabbierà con te"
"Ah sì?" lui commentò sarcasticamente "E tu? Che cosa hai fatto di sbagliato per mettertelo contro?"
"Niente. Agisce così da quando sua madre si è sposata con mio padre" risposi. Raph assunse una faccia contrariata.
"Ti picchia?" chiese schiettamente. Che domanda era? Ovvio! Si era davvero già dimenticato di quando mi ha fatto volare giù per le scale? Annuii.
"E tu non gli hai mai fatto niente?!" sembrava a me, o iniziava ad arrabbiarsi? Annuii di nuovo.
"E i tuoi non gli dicono mai niente?"
"Beh, no... Non lo sanno..."
Stetti bene attento alle mie parole, cercando di non fare capire di essere io stesso la persona che nascondeva ai miei genitori tutti gli avvenimenti.
"Ottimo!" commentò, sprezzante. Non so spiegarlo, ma quella situazione sia mi piaceva, sia no. E' complicato... Beh, mi piaceva sapere che Raph prendeva le mie difese...
"Devo andare" borbottai, rimettendomi in piedi.
"Aspetta!" esclamò, ma poi divenne taciturno. La sua faccia assunse un'espressione che bene conoscevo. Anche a me, spesso, capitava di averla. Succedeva quando cercavo un qualunque pretesto per non fare andare via qualcuno, per continuare a parlarci e portare quindi avanti una conversazione. Dopo qualche minuto sembrò trovare un buon argomento e chiese "Come hai fatto l'altro giorno...? Coi vestiti, il letto..."
Lo squadrai. Poteva essere che lui avesse già capito tutto?
"Andiamo Leo" disse, roteando gli occhi "Lo so che sei tu che non vuoi che i tuoi sappiano ciò che succede."
Sì, possibile.
Così gli raccontai tutto, sentendo allo stesso tempo un peso sollevarsi dalle mie spalle.
"Oh, giusto! Scusa, adesso torno a casa ti riporto i vestiti "
Lui scosse la testa.
"Non importa. Preferisco che essi restino là"
"Perché?" chiesi. Poi capii. La mia faccia si contorse un sorriso che andava da un'orecchio all'altro. Si stava davvero preoccupando per me. Quasi iniziai a piangere . Okay, lo so, mi comporto da ragazzina a volte, ma provate voi a spendere la vita con dei falsi amici che ti vogliono solo per le partite di Football. In fondo, nessuno di loro avrebbe fatto lo stesso. Forse Robin.
"Tranquillo" mormorai "queste cose succedono solo quando siamo a casa da soli. Adesso c'è Giulia."
"Davvero, non importa" ripeté. Lo osservai attentamente e poi scrollai le spalle.
 "Comunque, devo andare a casa di un ragazzo per un progetto di scuola... Sai dov'è questo indirizzo?"
Gli passai il foglio che era avvolto nella tasca dei miei pantaloni, lui lo fissò e infine disse "Sì, ti ci posso portare, se vuoi"
"Sì, grazie" lo ringraziai.
Poi, ci avviammo verso la casa di Mikey. Camminammo, senza sapere che Robin era nella via accanto alla nostra, ad osservarci sconvolto e quasi offeso. Per casualità, passava di lì mentre lo facevamo noi anche noi.
Ma questo lo scoprii solo giorno dopo a scuola.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Heilà :D Eccoci con il quinto capitolo!
Scusate se ci ho messo del tempo a rispondere alle recensioni, non ho avuto molto tempo. Inoltre, sto davvero diventando pazza a cercare della musica da ascoltare :( Sul serio, dopo un po' che ascolto sempre le stesse canzoni comincio ad annoiarmi e stancarmi. Così ho bisogno di cambiare. Peccato che non abbia la più pallida idea di che cosa cercare. C'è qualche santo tra di voi che sarebbe così gentile da dirmi qualche titolo (va bene anche solo uno) di canzoni che ascoltate quando non sapete cosa fare?
Sarebbe davvero molto gentile :):)
Ad ogni modo.... come sempre, ringrazio chiunque abbia messo questa storia tra preferite/seguite/ricordate e rivolgo un particolare grazie alle persone che hanno lasciato una recensione!
Le quali sono: LisaBelle_99 ; Serytia ; piwy ; Leader96 ; I LOVE RAPH e JessTheKiller
Infine, un ulteriore grazie a TE che stai leggendo questa storia e continui a seguirla!
Godetevi il capitolo, spero vi piaccia!
P.s= chiedo scusa se questi capitoli sono un po' banali e corti! Miglioreranno più avanti, promesso!

Capitolo 5

Nella strada per andare a casa di Mikey, Raph mi fece qualche domanda, prima sulla mia vita poi sulla mia famiglia e infine su Drake. Era un po' imbarazzante parlarne, specialmente con qualcuno che avevo sempre giudicato male senza averne motivo. Al contrario, Raph è davvero più socievole di quel che sembra. Magari non lo è con tutti, ma se lo conosci bene, allora è un ottimo amico.
Amico. Già, non ebbi la forza, o la voglia, di rinunciare a questa amicizia. Robin forse sarebbe stato un problema, ma pensai che alla fine avrebbe capito anche lui.
Perché sì, tra di noi si era instaurato un buon rapporto senza che nemmeno ce ne accorgessimo.
Raph mi disse che, quando io e Drake saremmo stati a casa da soli, sarei dovuto andare a casa sua, senza pensarci due volte. Io accettai, perché l'idea mi piaceva molto.
Arrivati suonammo il campanello e, mentre Raph fece per andarsene, la porta si aprì rivelando Mikey che, contento, esclamò:
"Che bello! Hai portato un amico anche tu! Venite dentro!"
Ci prese ciascuno per un braccio e ci tirò dentro casa sua, facendoci togliere le giacche e saltando tutto intorno contento di avere tanti amici a casa sua. Beh, in realtà eravamo solo in quattro, ma a quanto pare lui ne era contentissimo.
Io e Raph ci scambiammo un sorriso.
Dall'altra stanza arrivò Donatello, dicendo:
"Mikey, lasciali respirare!" con un sorriso divertito.
La camera di Michelangelo era davvero stupenda: le pareti erano costernate da poster, il letto era adagiato in un angolo, le lenzuola stampate con un qualche supereroe sopra, le mensole attaccate ai muri erano ricoperte di fumetti e pupazzi. Aveva persino una tv, con diverse console e videogiochi, un mini frigo e delle poltrone sofficissime, in cui sprofondare solo appoggiandocisi.
Grazie a Donnie la relazione per scuola fu terminata in pochissimo tempo e ci rimase qualche oretta da passare insieme a parlare.
Non so come siamo arrivati all'argomento, ma io spiegai la mia situazione famigliare agli altri, chiedendo loro di non dirlo a nessuno. Era stranissimo. Non l'avevo mai detto a qualcuno e in un giorno solo tre persone che ne erano venute a conoscenza.
Raph ci raccontò che sua madre è morta quando aveva cinque anni e che anche ora, a undici anni di distanza, ne risentiva. "Fortunatamente, ho mio padre, ma non lo vedo spesso perché, per assicurarsi di potermi dare una buona vita, ha due lavori, che lo tengono molto impegnato. Io gli ho detto che non importa, ma lui non vuole ascoltarmi. Non vuole nemmeno che mi prenda un lavoro per aiutarlo. Dice che mia madre voleva che studiassi..."
Mi dispiacqui tantissimo per lui. Mikey gli saltò al collo in un abbraccio, e si vedeva che Raph non sapeva come reagire.
Il biondo e Donnie non avevano un passato particolare. I loro genitori erano ancora vivi ma l'unico problema era che non gli importava molto dei loro figli. Erano sempre fuori, indisponibili alle loro esigenze e li trascuravano in continuazione. Perciò, essendo vicini di casa, i due si sono sempre confortati a vicenda.
I nostri discorsi furono interrotti dall'arrivo di un gatto dal pelo arancione con un'espressione davvero dolcissima. Mikey ci spiegò che il suo nome era Klunk. Passai il tempo a grattarlo dietro alle orecchie per un po' ma poi mi di ricordai che dovevo tornare a casa. Ho ringraziato per l'ospitalità e mi sono diretto assieme a Raph verso la porta.
"Rifacciamolo prima o poi!" esclamò Mikey.
Donnie e Raph si voltarono entrambi verso di me, senza che io ne capissi il motivo. Poi capii. Già, solita storia: capitano di Football. Probabilmente si aspettavano che io dicessi di no. Beh, me lo aspettavo anch'io. Invece esclamai, senza nemmeno rendermene conto: "Certo!"
Sulle facce stupite di tutti comparvero dei sorrisi.
E io mi sentii bene.
Erano le sette di sera e il cielo era ormai di un blu scuro, con qualche sfumatura violetta-rossiccia all'orizzonte, dove il sole era tramontato da poco.
Gli alberi ormai sembravano colorati di nero e l'unica fonte di luce erano i lampioni accesi di giallo e arancione.
"Non me l'aspettavo" confessò Raph. Sapevo di cosa stava parlando.
"Posso capirti"
"E' strano. Pensavo che tutti i membri delle classi alte fossero arroganti e presuntuosi. Tu non lo sei.. Sei okay"
Risi, senza un motivo preciso "Grazie. Anche voi"
Dopo non parlammo più finché non arrivammo a casa. Ci congedammo ma prima Raph mi sussurrò: "Se succede di nuovo, o tu lo dici ai tuoi, o tu ti trasferisci a casa mia"
"Trasferirmi a casa tua? Mi piace l'idea, scelgo questa"
Lui sorrise, ma in realtà ero serio. Cioè, ovvio che non intendevo andare a vivere a casa sua, però mi sarebbe piaciuto. Casa mia... non era esattamente la mia idea di "casa".
Entrai e udii delle grida provenire dalla cucina. Rimasi paralizzato.
Mi ero totalmente dimenticato della porta rotta fin quando non ho visto mio padre infuriato parlare con Drake. Origliando la loro conversazione, restai a dir poco sorpreso. A quanto pare i vicini era un po' di tempo che sentivano delle urla. E un certo Casey Jones aveva informato papà. Il padre di Raph.  Un motivo in più per amare la loro famiglia.
Drake inventò la prima scusa sul momento: disse di aver bevuto ed essere andato fuori di testa, ma che non sarebbe successo più.
Poi, quando ho visto lui e sua madre uscire di casa, capii che quella notte non sarebbero tornati. Drake sussurrò qualcosa del tipo "Spostati" e mi prese contro la spalla volontariamente. La differenza tra i nostri pesi si fece sentire e io quasi persi l’equilibrio. Se ne stavano forse andando per sempre? No, troppo ottimistico. Però non li avrei avuti in giro per un po’ di tempo. E se, una volta tornato, Drake si fosse arrabbiato ancora di più? Scrollai le spalle impercettibilmente.
Non ero sicuro di come sarebbero andate le cose tra me e lui ma almeno... Avrei avuto qualche ora di pace.
Quando la porta si fu chiusa alla mie spalle, mio padre mi abbracciò forte e io ricambiai. Semplicemente restammo lì, fermi e immobili.
"Staranno qualche notte in hotel" mi informò con un soffio di voce.
Subito mi rattristii al pensiero di "qualche" e non "tutte le notti" ma mi rallegrai. Drake, adesso, sarebbe dovuto stare più attento e questo significava che non poteva picchiarmi ogni volta che voleva. La vita iniziava a migliorare.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Scusate per il ritardo!!!!
Mi dispiace di averci messo così tanto ad aggiornare, speravo di riuscire a fare più in fretta, ma tra un impegno e l'altro non ho mai trovato il tempo :(
*chiede miseramente perdono*
Allora, grazie a tutti per aver risposto alla mia richiesta di canzoni, ero davvero disperata per trovarne di nuove! Mi avete fornito idee tutte diverse e un ampio elenco di generi e tracce! Esattemente quello che cercavo!
Ringrazio infinitamente chiunque abbia messo la storia tra le preferite/seguite/da ricordare, ma anche chi ha semplicemente letto e sta seguendo questa storia fino in fondo!
Come sempre, un particolare grazie a piwy ; LisaBelle_99 ; I LOVE RAPH (Amo la tua immagine! <3) ; Serytia e Leader96 ! Grazie di cuore <3<3<3
Beh, non aggiungo altro, mettetevi comodi, preparate del cibo da sganocchiare e godetevi il capitolo B)
Spero vi piaccia!
P.s= scusate se è un po' patetico questo capitolo ^^;

Capitolo 6

Quando mi svegliai, il giorno dopo, i ricordi mi precipitarono addosso violentemente e io li accettai tutti volentieri.
E' stato stupendo svegliarsi con mio padre in cucina che faceva colazione, mentre mi informava che aveva intenzione di chiedere un permesso a lavoro per essere più tempo a casa. Cioè, si sarebbe trattato al massimo di avere una o due ore in più a settimana ma io mi accontentavo.
Ero felicissimo. Non toccai cibo, però, a causa di un po’ di nausea. Mio padre mi disse che non importava e che mi salvava dei pancakes per il giorno dopo.
Uscii in giardino e, dopo aver salutato mio padre, presi un'enorme boccata d'aria e respirai come per la prima volta. Raph mi venne in contro: "Ehi! Mio padre mi ha detto quello che è successo, mi dispiace io ti giuro che non gli ho detto niente-" Lo interruppi dicendo:
"Non sono mai stato meglio prima d'ora"
Lui sorrise e mi diede un piccolo pugno sulla spalla.
Ci incamminammo verso la fermata del bus, aspettando l'autista. Mi sedetti nuovamente verso il finestrino ma invece di passare il tragitto in silenzio, come al solito, parlai a bassa voce con Raph di ciò che era accaduto il giorno prima e poi passammo a discutere di diversi argomenti. A scuola non mi importava più di essere visto con lui. Alla prima ora avevamo entrambi fisica quindi siamo andati in classe assieme. Il professore ci scrutava da sotto le folte sopracciglia con un sorriso, dandoci come sempre il benvenuto alla lezione. Abbiamo notato che, seduto in prima fila, c'era Donnie. Lo salutammo e io mi sedetti dietro lui, Raph alla mia sinistra. La mia mente, libera da preoccupazioni o affanni, riusciva a stare al passo con ciò che veniva illustrato alla lavagna scura.
Riuscii perfino a capire quello che l'insegnante stava cercando di spiegarci sulle forze e la lezione non fu affatto spiacevole.
Durante l'intervallo incontrai Mikey per i corridoi e, insieme, andammo alle macchinette per prendere qualcosa da mangiare.
Mi stava raccontando di un sogno strano che aveva fatto la notte: era qualcosa che aveva a che fare con noi. Eravamo delle tartarughe mutanti ninja e cercavamo in continuazione di sconfiggere un certo Shredder. Me lo descrisse nei minimi dettagli, così preciso che quasi mi sembrò di vedere le scene. Fervida immaginazione, devo ammettere.
Iniziai a ridere. Però mi piaceva l'idea e, velocemente, feci un piccolo disegno del suo sogno sopra ad un foglio del suo diario a quadretti e glielo regalai. I suoi occhi assunsero un luccichio brillante quanto inquietante. Lo fissai confuso, indeciso su cosa fare.
“Mikey?”
Si riscosse da qualunque tipo di pensiero stesse avendo e disse che gli piaceva moltissimo. Per me era un semplice schizzo, ma a quanto pare lui lo adorava.
Mi mise moltissima allegria passare del tempo con lui: è il ragazzo più solare che io conosca.
Io gli raccontai a bassa voce quello che era successo con la mia vecchia famiglia e gli spiegai che avrei avuto Drake fuori dai piedi per almeno qualche giorno.
"Sono felice per te, Leo!" esclamò "Allora quand'è che passiamo un altro pomeriggio insieme?"
Io ci pensai un po' su e risposi "Non saprei, oggi è sabato quindi ho gli allenamenti, domani è domenica perciò c'è la finale e... Aspetta! La finale!"
Lui mi guardò confuso. Iniziai andai letteralmente in panico, mormorando una serie di ‘no’ infinita. Mi scusai e corsi via, dirigendomi alle palestre a cercare il coach. Riuscivo già a sentire l'odore degli attrezzi da lavoro, del sudore e i suoni del fischietto dell'istruttore, mentre gridava qualcosa alla squadra che si esercitava.
Gli avevo promesso che, prima della partita, avrei parlato con lui dello schema da utilizzare.
Poi mi bloccai: Io non avevo uno schema!
Velocemente feci per andarmene ma la sua voce mi bloccò:
"Ah Leo! Vieni, vieni! Allora, ho qualche suggerimento da darti, ma prima voglio sentire le tue idee, ci hanno sempre fatto vincere!" Si avvicinò a me, ignorando la partita in corso.
"Veramente... Io pensavo che forse, per la finale, dovremmo ascoltare te! Insomma, tu sei quello che mi ha insegnato tutto ciò che so!"
Lui mi guardò stupito, ma non lusingato. Oh-oh. Conoscevo quello sguardo. Sembrava ferito, deluso:
"Leo, tu non hai uno schema?"
Merda. Come aveva fatto a capirlo? Abbassai la testa, in vergogna.
"No"
"Ti rendi conto che questa è la partita più importante?! Leonardo ma dove hai la testa?!?! I tuoi compagni contano su di te, io conto su di te, tutta la scuola conta su di te! Il risultato dipende solo da te e tu cosa fai? Decidi di prendertela comoda e di dormire sugli allori! Voglio uno schema per questo pomeriggio! Oppure non osare venire agli allenamenti!"
"Sì, coach"
Uscii a testa bassa. Come avevo fatto a dimenticarmi di una cosa così importante? Beh, Drake, Mikey, Donnie, Raph, Papà...
In soli quattro giorni, era successo di tutto e di più e non avevo nemmeno avuto il tempo di assimilarlo.
Uscito dalla palestra ero arrivato agli spogliatoi, stavo per raggiungere la porta quando sbattei contro gli armadietti. La mia schiena si lamentò in dolore. Il braccio di qualcuno mi teneva bloccato, premendo contro la fine del collo. Poi spalancai gli occhi, nel capire che quel qualcuno era Robin.
"Che cazzo fai?!" esclamai, cercando di scostarlo, ma inutilmente.
Lui era la persona che mi aspettavo mi comprendesse di più. Beh, avevo decisamente sbagliato.
"No, Leo, che cazzo fai tu!" rimasi scioccato dalle sue parole "Ieri eri con quel reietto di Raphael! Avevi detto che ci saresti rimasto lontano!"
"Non è un reietto!" urlai, per poi aggiungere in fretta "E' un mio amico e non ho intenzione di stargli lontano"
Fu in quel momento che sentii qualcosa di caldo, mischiato ad un dolore lancinante e un odore metallico, scendermi lungo il naso fino al mento.
Robin mi aveva dato un pugno. Okay, adesso voi mi spiegate perché in questo mondo tutti picchiano esclusivamente me! E se ancora non mi credete, aspettate la fine di questa lunghissima storia. Credetemi, questa non sarebbe stata l'ultima volta.
Lo osservai furioso. Non potevo, non volevo crederci. La campanella suonò.
"Non sei più il mio capitano. E nemmeno il mio migliore amico" disse, poi lasciò gli spogliatoi, mentre la classe che avrebbe avuto ginnastica a quell'ora entrava piano piano. Donnie e Mikey erano in mezzo al gruppo.
Spalancarono la bocca in orrore, probabilmente collegando il mio naso sanguinante a Robin che usciva dalla porta.
Io scossi la testa, facendogli segno di lasciare stare. Poi uscii e invece di andare a lezione di inglese con Raph andai all'infermeria della scuola.
Mentre l'infermiera andava ad avvisare la classe che per un'ora avrei saltato le lezioni, cercai di immaginare la faccia di Raph. Fortunatamente, quella era l'ultima ora di scuola per quel giorno.
Un'altra donna pulì il sangue e mise un cerotto sul mio naso, che miracolosamente non era rotto. Lei disse che chiunque fosse stato non mi aveva colpito con l'intenzione di farmi male. Beh, novità? Mi aveva fatto male, eccome! Mi aveva colpito e insultato, in un modo o nell'altro.
Perciò, Fine. Avevo ufficialmente chiuso con lui. Che cosa c'era di così sbagliato in me?
Non riuscivo a capire.
Rimasi sdraiato su un letto per l'intera ora a riposarmi, ignorando i giramenti di testa. Perfino quando furono passati, continuai a fingere di averli. Non volevo assolutamente andarmene da lì: la pace, tranquillità, fresco del condizionatore. Finalmente un luogo in cui riposare.
Pensai a mio padre. La vita aveva appena cominciato ad andare bene. Non poteva precipitare così in fretta.
Quando sentii nuovamente la campanella, odiai quel suono più di quanto non avessi mai fatto. Mi alzai, sebbene non ne avessi per niente voglia, preparandomi ad andare a casa.
Mi pettinai appena i capelli guardandomi allo specchio accanto ad un lavandino, poi mi avvicinai alla porta.
Non feci in tempo ad uscire che una massa vagante mi travolse in pieno. Sentii una stretta al bacino e abbassai il capo per vedere Mikey che mi abbracciava. Non ero abituato a tante dimostrazioni di affetto, ma ricambiai.
"Ehi, è tutto a posto!" dissi, rompendo l'abbraccio e ridendo appena.
Donnie era dietro di lui che mi guardava preoccupato e dopo non molto arrivò anche Raph, che rimase sconcertato a vedere le garze coperte di sangue nel cestino accanto al letto.
"Che cosa è successo al tuo naso? Perché l'infermiera ha detto che non potevi venire a lezione?"
"Niente di grave! Adesso andiamo, o perderemo il pullman" risposi.
"Che. Cosa. E'. Successo?!" domandò di nuovo Raph, quasi in un ringhio e scandendo ogni singola parola. Umh, sapeva essere convincente.
Mi spaventai un attimo, ma mi ripresi subito. Cercai un modo semplice per spiegarlo, ma Donnie mi precedette:
"E' stato Robin, vero?"
Io balbettai qualcosa di indistinto e, come se nemmeno mi avesse sentito, Raph esclamò confuso:
"Robin? Ma non siete amici voi due? Parliamo dello stesso Robin?"
"Sì" confermò Mikey "Quando siamo entrati negli spogliatoi lui stava uscendo ed era arrabbiato"
Inspirai profondamente, espirai e li guardai uno ad uno.
"Sentite..." e spiegai quello che era successo.
Gli raccontai tutto e, anche se esitai prima di riferire ciò che Robin aveva detto di Raph, non tralasciai dettagli.
"E' per questo che ti ha rotto il naso?!" sbottò il mio vicino di casa.
"Non è rotto!" lo corressi e aggiunsi, mentendo "E poi, probabilmente era arrabbiato perché non avevo uno schema, mentre avrei dovuto progettarne uno giorni fa. Ha ragione ad essere arrabbiato"
"No che non ha ragione, Leo!" esclamò Donnie "Come faceva lui a sapere che non avevi uno schema? Non lo sapeva nemmeno il tuo coach qualche momento prima!"
Perché Donatello deve sempre puntualizzare? Non poteva reggere il gioco per  una volta?
"Già" confermò Mikey "E poi... è ovvio che è arrabbiato perché sei nostro amico..."
Tutti abbassarono il viso, sentendosi in colpa, e io affermai, deciso:
"A me non importa. Voi rimanete miei amici"
Alzarono le teste in sincronia, quasi in modo robotico e spaventoso, sgranando gli occhi.
Arrossii un po'.
Mikey mi abbracciò di nuovo e quasi non riuscii a respirare.
Ripeto: non ero abituato a tante dimostrazioni di affetto.
Osservai l'orologio sopra la porta dell'infermeria.
"Fantastico” mormorai “Raph… abbiamo appena perso il pullman"

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Heilà gente! Ci stiamo addentrando sempre di più nella storia, eh?
Scusate se il mio angolo dell'autrice oggi è molto corto, ma mi si è cancellato tutto quello che avevo scritto e non ho la forza di riscriverlo.
Ad ogni modo, ringrazio chi abbia inserito questa storia tra le preferite/seguite/ricordate ma anche chi si ferma solo per leggere.
Un particolare grazie alle persone che hanno recensito lo scorso capitolo, che mi danno la voglia di continuare!
Queste sono:
I LOVE RAPH; LisaBelle_99; piwy e Serytia
Grazie a tutti :D
E ora, ecco a voi il settimo capitolo! Spero vi piaccia!
 

Capitolo 7

Casey Jones era un uomo davvero simpatico. Aveva lunghi capelli scuri ed un viso amichevole. Non solo si era offerto di venire a prenderci a scuola, ma aveva anche deciso di ospitare tutti noi a casa sua.
Diceva di essere felice che finalmente suo figlio avesse dei veri amici, specialmente se erano "così leali da prendersi un pugno sul naso" e mi aveva guardato. Arrossii un po', ma cercai di nasconderlo.
Comunque a me andava benissimo andare a casa sua, visto che mio padre era nuovamente al lavoro e sarebbe rimasto là fino a tardi.
"Mi dispiace" aveva poi aggiunto Casey "Sia per tuo fratello che per Robin. Si direbbe che il mondo ce l'ha con te"
Suo figlio si rabbuiò ma io risposi, ridendo "Già, così sembra"
"Non scherzare" mi disse quella testa calda di Raph "E' praticamente colpa mia"
"Non è vero!" esclamai immediatamente e, senza nemmeno rendermene conto, saltai sul posto, sbattendo la testa contro il finestrino. Mentre tutti ridevano, io premetti una mano contro la zona dolente e continuai "E' lui che non sa accettare che io abbia anche altre amicizie. Peggio per lui"
"Così si dice, Leo!" concordò Mikey, saltando giù dalla macchina non appena arrivammo.
Io lo guardai sorridendo poi mi rivoltai verso Raph "Davvero, non pensarci"
Lui mi sorrise e io squizai lievemente la sua spalla.
Fissai l'erba verde sotto i miei piedi mentre annusavo il profumo che i frutti degli alberi lì intorno emanavano.
Adoravo la primavera
Entrammo in casa e ci accomodammo a tavola, mentre Casey ordinava una pizza.
Mi ricordai improvvisamente che alle tre avevo gli allenamenti. Erano le due.
Rifiutai di toccare cibo, sebbene stessi morendo di fame e avessi saltato la colazione. In quel momento i pancakes di mio padre non mi sarebbero dispiaciuti troppo.
Gli altri subito cercarono di convincermi a mangiare ma poi, vedendo che non ero disposto a cedere, si gustarono la loro pizza.
Aiutammo tutti a sparecchiare e poi salimmo di sopra in camera. Lì, Mikey iniziò subito a prendere a pugni la sacca da box, citando qualche frase dei suoi personaggi preferiti dei fumetti. A quanto pare anche Raph li conosceva perché si unì a lui e iniziarono a parlare in sincronia. Lo spettacolo più strano che avessi mai visto. Il mio stomaco brontolò e io cercai di sopprimere il suono coprendolo con le braccia.
"Sul serio Leo, non è buono per la tua salute" mi informò Donnie "E' da ieri che non mangi e stai per chiedere un grande sforzo al tuo corpo, con l'allenamento di Football"
"Tranquillo, non preoccuparti" risposi, mettendomi la giacca e preparandomi ad andare a casa a prendere la borsa degli allenamenti. Salutai i ragazzi e corsi davanti al portone in legno di casa mia. Cercai le chiavi nella tracolla, tastando le diverse zone e tasche. "Andiamo!" esclamai, non trovandole.
Dunque... erano le due e mezza. Avevo mezz'ora di tempo per trovare le chiavi, prendere il borsone degli allenamenti e correre fino a scuola.
Problema numero 1: la scuola era lontanissima.
Problema numero 2: non trovavo le chiavi.
"Ah, certo la giacca!" pensai mentalmente, cercando le chiavi nelle tasche di quella. Niente da fare non le trovavo.
Notai che la finestra di camera mia era aperta.
"Va bene, come sono sceso, posso salire" mi dissi, per farmi coraggio.
Mi aggrappai alla grondaia ma non riuscii ad arrampicarmi nemmeno di un metro. Le mani mi scivolavano e i piedi non riuscivano ad aggrapparsi a niente. "Nota per me" dissi "Mettere le chiavi di riserva sotto lo zerbino"
Imprecai mentalmente. "Va bene, calma Leo. Potresti farti prestare qualcosa da qualcuno della squadra... ma sai già che nessuno ti presterà niente. Non puoi giocare a Football senza la divisa e se non ti presenti è sicuro che domani perderete la partita"
Andai in panico. Decisi di riprovare ad arrampicarmi con la grondaia, afferrando con mani il tubo verticale e tenendo i piedi fermi contro il muro.
"Leo!" sentii Donnie gridare, ma non ci feci caso e nemmeno prestai attenzione a ciò che lui urlò dopo.
Al terzo tentativo riuscii ad arrivare alla mia finestra. Con un lieve balzo mi ci buttai contro e mi aggrappai alla sporgenza sotto di essa. Il gomito bruciava e capii che si era sbucciato. Decisi di ignorare quel piccolo dettaglio. Mi scaraventai letteralmente dentro casa, prendendo il borsone, che poi buttai giù dalla finestra con un tonfo secco.
Riscesi dalla grondaia senza nemmeno preoccuparmi di fermare la caduta e, quando finii con il mio fondoschiena per terra, mi maledissi infinitamente. Tuttavia, sebbene sentissi i miei amici gridare il mio nome dalla camera di Raph, chiedendomi se stessi bene, mi rialzai ed osservai l'orario: Tre meno un quarto. Cazzo.
Okay, potevo farcela. Mi misi il borsone a tracolla e iniziai a correre senza nemmeno fermarmi. Per i giardini, i marciapiedi e le strade. Corsi così tanto che alla fine avevo la nausea fino al collo. Mi avevano anche quasi investito... due volte. Respirai affannosamente mentre i miei muscoli pregavano per del riposo. Riposo che io non concessi. Ripresi a correre e arrivai a scuola con solo due minuti di ritardo. Gli altri avevano appena iniziato a cambiarsi. E io non avevo uno schema.
Mentre gli altri mi chiedevano dove fossi stato, io risposi semplicemente che, per colpa di qualcuno, ero dovuto restare in infermeria, quindi avevo perso l'autobus e,  mi inventai sul momento, ero dovuto correre a casa, lavarmi, prendere la roba e correre di nuovo qua.
Non appena finii di cambiarmi, mi arrivò un messaggio da parte di Donnie. Mi aveva mandato la foto del disegno di uno schema.
Non avevo mai amato così tanto qualcuno.
Mi promisi di ringraziarlo in tutte le lingue del mondo appena arrivato a casa e, mentre ingoiavo un po' di zucchero per evitare di svenire, capii che era uno schema perfetto. Nel messaggio diceva di dire che lo avevo inventanto io. Se lo poteva scordare.
"Okay ragazzi, tutti qui" dissi, e gli altri e il coach si strinsero attorno a me. Gli illustrai lo schema e, una volta che mi fui accertato che piacesse, aggiunsi "Il mio amico Donnie mi ha aiutato a inventarlo. E' un vero genio per queste cose. Ha fatto più lui che me" Ovviamente non potevo dire di non aver partecipato neanche un po'.
Erano contrariati dall'idea di accettare lo schema di qualcuno che non facesse parte della squadra ma, quando il coach esclamò "E' perfetto!", non ci pensarono più e si limitarono a evitare l'argomento "autore". Questo mi diede parecchio fastidio. Non potevano riconoscere a Donnie il merito della possibile vittoria?? Lasciai perdere e mi ritrovai a morire di stanchezza, soprattutto pensando che avrei dovuto fare la strada di ritorno a corsa. Di nuovo.
L'allenamento procedette a meraviglia, lo schema era stupendo e Robin mi chiese perfino scusa. Incredibile. Tuttavia sentivo che c'era qualcos'altro nascosto dietro lo sguardo che mi aveva lanciato. Qualcosa di brutto. Non sembrava davvero pentito. Negli spogliatoi mi cambiai e ascoltai tutti i ragazzi parlare di come avremmo battuto gli altri il giorno dopo.
Notai che Robin stava parlottando a bassa voce con altri due ragazzi. Feci spallucce e me ne fregai altamente.
Presi il borsone e uscii.
Il cielo era, naturalmente, scurissimo, e non mi piaceva l'idea di dover tornare a casa così tardi per trovarla vuota. Altro problema a cui non avevo pensato: Come entravo in casa? Mi ero dimenticato di prendere le chiavi con me. Non mi andava di disturbare Raph, perché questa era una delle pochissime sere libere di suo padre. Quindi, iniziai a correre, distrutto, cercando di trovare una soluzione. Inciampai più volte e alla fine ero tutto sporco di terra, con della ghiaia attaccata alla mia faccia. Non pensai nemmeno a pulirmi. Arrivato nel mio giardino mi sentivo morire dalla voglia di mangiare qualcosa, qualunque cosa. Tornai sotto la mia finestra che, sebbene sembrasse chiusa da fuori a causa delle tende, io sapevo benissimo fosse aperta.
Sospirai. Ero troppo stanco al pensiero di arrampicarmi, ma era una cosa che andava fatta. Stupide chiavi. Mi promisi che avrei seguito un corso di scassinamento.
Presi il borsone, lo caricai sulle braccia e lo lanciai dentro la finestra, centrandola incredibilmente. Udii un forte schiocco provenire dalla mia camera ed esclamai, esasperato: "Fantastico! Ho appena distrutto la mia scrivania!"
Avrei voluto aspettare prima di salire in camera ma ero studatissimo e faceva freddo.
Sentii Raph chiamarmi e qualcuno ridere della mia ultima esclamazione. Mi sentivo totalmente all'interno di un film.
"Leo! Che fai?"
"Non è ovvio?" risposi sarcastico, continuando a fissare la grondaia.
"Coraggio, figliolo, vieni qui!" mi incitò Casey.
Adoravo quell'uomo. E anche Raph. E proprio per questo non sarei andato da loro a guastargli la festa.
"Naaaah! Non voglio rovinarvi la serata padre-figlio!" dissi sinceramente, ridendo e senza girarmi "Dico sul serio, io sto bene"
"Sei un... testone!" mi urlò Raph, trattenendosi dal dire qualcos'altro perché c'era suo padre. Tuttavia sentivo che la sua simpatia nei miei confronti era cresciuta dopo quel momento.
"Ci vediamo domani alla partita!" mi urlò Casey, lasciandomi capire che sarebbero venuti ad assistermi. Motivo numero milleundici  per amare Casey Jones: era un tifoso sfegatato di sport. Le sue esclamazioni contro la tv erano sempre le migliori.
"Ci conto!" risposi. Poi li sentii rientrare in casa. E io rimasi lì, a fissare la grondaia al freddo. Non vedevo niente da quanto era buio e sentivo di stare per svenire di fame.
Iniziai ad arrampicarmi e cadetti anche un paio di volte. Ma alla fine ce la feci. Entrai in camera mia e vidi che, come mi immaginavo, avevo fatto schiantare il mio zaino sulla scrivania. Si era smontata in qualche pezzo. Mi feci una doccia e, dopo essermi lavato, scesi a prendere le chiavi e a metterle nella tracolla di scuola.
Mai più pensai.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Heeeeeeey :D
Chiedo immensamente scusa per essere così in ritardo! Speravo di riuscire a caricare parecchi capitoli prima del week-end, visto che poi vado in vacanza per due settimane, ma i miei hanno improvvisato una gita in montagna e non sono più riuscita a fare niente.
Chiedo perdono!!!
Comunque, sono davvero felice che si siano aggiunti dei nuovi recensori! Mi ha resa davvero orgogliosa e contenta!
Quindi, come sempre, ringrazio chiunque abbia messo questa storia tra le preferite/seguite/da ricordare ma anche chiunque stia leggendo.
Un particolare grazie rivolto verso le persone che hanno recensito lo scorso capitolo! (Vi amo tutti!!!)
Queste sono:
I LOVE RAPH ; LisaBelle_99 ; CatWarrior ; Serytia e AleJ_and_Mizu grazie mille!!
Spero di non deludere nessuno di voi con questo capitolo! Fidatevi, presto miglioreranno ;)
Allora, godetevi il capitolo!
Scusate se è corto ^__^"
 

Capitolo 8

La domenica è sempre stato il mio giorno preferito.
La mattina puoi dormire, il pomeriggio hai una partita e la sera ceni con una pizza.
Mi sono svegliato con un ottimo profumo per casa e scesi le scale per arrivare in cucina e vedere mio padre che preparava la colazione. Sorrisi felice e genuino. Di solito la preparava sempre Giulia e il risultato era una sempre una mostruosità assurda. Quella di mio padre invece... Era davvero squisita.
Mangiai fette biscottate con diversi tipi di marmellata, mentre bevevo un succo di frutto all'arancia fresco. Gustai anche i pancakes di ieri, ancora buoni sebbene fosse trascorso del tempo dalla loro preparazione.
Osservai l'orologio: undici del mattino.
Perfetto.
Andai in bagno per cambiarmi vestiti, lavarmi denti e faccia.
Mi pettinai i capelli mori e osservai il risultato allo specchio. Tornai in cucina.
"Papà, vado da Raph!"
Uscii da casa e iniziai a dirigermi verso la casa del mio vicino, con passo leggermente indeciso. Non ero sicuro di voler andare a casa sua. E se stava facendo colazione con suo padre come me prima con il mio? Non sarebbe stato molto carino interromperli. Così, iniziai a correre come se stessi facendo jogging e superai l'abitazione del mio migliore amico.
La città era in movimento e le persone giravano per le strade serenamente. Una volta arrivato in centro mi recai ad un bar non troppo affollato. Adoravo la tranquillità. Mi sedetti a un tavolo e ordinai un caffé. Mentre aspettavo, la visuale si oscurò, sentii le mani di qualcuno sopra ai miei occhi e una voce chiese:
"Indovina: chi sono?"
"Donnie?"
Tornai a vedere.
"Com'è andata ieri?" mi chiese, sedendosi di fronte a me.
Giusto, non l'avevo ancora ringraziato!
"Benissimo, grazie davvero Donnie! Il tuo schema è stato stupendo, i ragazzi l'hanno adorato! E ho detto che sei stato tu a inventarlo" sorrisi quando lo vidi arrossire.
"G-grazie..." mormorò.
"Nah, non dirlo neanche, sono io che devo ringraziare te!" risposi. Poi, lui mi chiese cosa stessi facendo ieri sulla grondaia e mi riproverò dicendo che era pericoloso. Io, ridendo appena, spiegai la storia delle chiavi e aggiunsi perfino la distruzione della mia scrivania. Lui scoppiò a ridere in pochissimo tempo. Poi un piccolo suono melodioso ci interruppe.
"Oh, Mikey mi ha mandato un messaggio. Dice che è a casa di Raph e vuole che noi li raggiungiamo. Casey è andato al supermercato ha prenderci delle pizze surgelate per stasera" mi informò Donnie.
"Perfetto, andiamo!" esclamai, ingoiando l'ultimo sorso di caffè "Ah, aspetta, vado a pagare il conto" mi allontanai per recarmi al bancone. Una giovane ragazza bionda dagli occhi verdi mi diede il conto e mi chiese di aggiungere a penna il mio numero su un foglietto di carta. Mi sentivo molto imbarazzato in quella situazione perché, sebbene lei fosse molto carina, non ero davvero interessato.
Stavo pensando a come fare quando sentii delle voci dietro di me.
"Oh no, non adesso" mormorai, vedendo Robin e altri due della squadra di Football avvicinarsi a Donnie. Perché non potevo avere una giornata tranquilla? Capirete tra poco quello che voglio dire. Sganciai qualche moneta sul bancone senza aspettare il resto e tornai indietro al tavolo dove avevo lasciato il mio amico.
Vedendomi mentre mi avvicinavo al castano, i ragazzi arrestarono la loro marcia verso di lui, che di loro nemmeno se ne era accorto. Allegro si alzò e insieme ci avvicinammo all'uscita. Prima di andarcene, senza che Donatello vedesse, mi girai a lanciare un'occhiataccia agli altri. Sperai che questo li fermasse e non li facesse infuriare.
Camminammo lentamente, fino a quando non vidi che i ragazzi della squadra avevano deciso di seguirci. Non mi sarebbe importato se stessero seguendo solo me ma ero sicuro che a loro interessava più che altro il mio amico. E non credo che volessero congratularsi per lo schema. Schema che tra l’altro ci avrebbe fatto vincere! Ingrati. Ero davvero arrabbiato con loro. Voglio dire, era così grave per loro che avessi anche altri amici?
Presto, fortunatamente, arrivammo a casa di Raph e, fu per me un dispiacere notare, gli altri ci erano ancora dietro. Avrei voluto fermare Donnie dal suonare al campanello del mio vicino e andare a casa mia, così da evitare di far vedere a quelli del Football dove viveva un mio amico, ma era troppo tardi. E, per mia sfortuna, non venne Casey ad aprire ma Raph.
Fece per farci entrare quando vide gli altri della squadra si bloccò sulla soglia. Capii che era ancora arrabbiato con Robin per le cose che aveva detto su di lui. Anticipando qualunque sua possibile mossa, spinsi dentro Donnie per evitare li vedesse e sussurrai a Raph: "Lascia stare, ci penso io". Mi girai e camminai verso di loro, sentendo la porta chiudersi dietro di me. Con orrore, però, udii anche dei passi. Era venuto con me. Ringhiai leggermente.
Non mi piaceva la situazione perché sapevo quanto impulsivo Raph potesse essere.
Non appena li raggiunsi, mi voltai verso di lui: "Torna dentro, davvero"
"Già, Raphie, torna dentro!" mi fece il verso Robin. Quasi non ci credetti. Quando erano cambiate così tanto le cose? Il mondo di certezze stava lentamente crollando.
"Ma cosa dite?!" esclamò Marco, uno degli altri "Raphie non lascerebbe mai solo il suo ragazzo"
Mentre io li ignoravo vedevo i suoi pugni contrarsi
Avanti Raph, lascia stare. Ti stanno solo provocando pensai.
"Non potrebbe lasciare si facesse del male" aggiunse Lucas, l'ultimo rimasto. Ci misi circa un microsecondo a capire cosa intendesse, ma ci impiegai comunque troppo tempo.
Sentii un dolore al collo, mentre cadevo faccia a terra con qualcuno sopra di me. Avevo quasi ingoiato della terra e sentivo che il mio naso stava ricominciando a sanguinare.
Non feci in tempo vedere chi era sopra di me che Raph gli volò letteralmente addosso, togliendolo dalla mia schiena e iniziando a colpirlo con una raffica di pugni.
Robin. Non potevo credere che fosse stato proprio lui a colpirmi. Di nuovo. Mi affrettai ad accorrere e separarli: mentre io trascinavo via quella testa calda del mio vicino, Lucas e Marco soccorrevano quel deficiente di Robin.
"Lasciami andare Leo!" urlò il mio amico, cercando di liberarsi dalla mia stretta. Io tuttavia resistetti e lo allontanai ancora di più dagli altri. Rabbrividii pensando a cosa avrebbero voluto fare a Donnie. Nel frattempo la testa aveva iniziato a girarmi a causa del colpo al collo e della caduta.
"Raph, smettila, torna dentro!" gli ordinai.
"Come fai a dire una cosa simile? Quello lì ti ha picchiato due volte e tu lo perdoni come se niente fosse!"
"Non ho mai detto che l'ho perdonato, ma non voglio che tu finisca in guai per cose che non ti riguardano" dissi, mollando la presa che esercitavo su di lui. Ci allontanammo di qualche metro l'uno dall'altro e ci fissammo dritti negli occhi
"Oh, guardatelo come cerca di difendere il suo amichetto" mi prese in giro Robin, per poi avvicinarsi pericolosamente a Raph.
Senza pensarci due volte mi gettai su di lui, spingendolo di lato e facendolo cadere lontano da dove era il mio amico.
Gli atterrai addosso e lo tenni stretto contro il suolo bloccandolo per i polsi e guardandolo negli occhi.
"Adesso smettila! Nessuno qui ti ha fatto niente di male perciò vattene e basta!"
Lui iniziò a ridere e la sua risata iniziò a confondersi con le grida che Raph e gli altri facevano.
"Sei patetico, Leo. Lasci la popolarità per andare a giocare con i reietti. Mi fai ribrezzo. Non sei altro che un traditore"
Mi tirò una ginocchiata nello stomaco che mi fece mollare la presa e cadere all'indietro. Lui mi saltò addosso e mi inchiodò al suolo come io avevo fatto con lui. Mi guardò disgustato e iniziò a colpirmi il volto ripetutamente. Sentii un crack e gemetti appena, mentre mi rendevo conto che il mio naso si era sicuramente rotto.
Sentii Donnie e Mikey gridare. Cazzo, no, da quanto tempo erano usciti? In effetti, i rumori avrebbero attirato l’attenzione di chiunque si trovasse in una casa dei dintorni. Temevo che gli altri avrebbero preso di mira anche loro ma, fortunatamente, sentì un clacson suonare e un auto fermarsi nel giardino di Raph. Presto la voce di Casey risuonò per il giardino. Udii Robin mormorare "Ricordati Leo, non sei più il mio capitano" come il giorno degli spogliatoi. Poi lo sentii alzarsi e correre via con gli altri. E fu in quel momento, quando vidi gli altri avvicinarsi a me, Raph con un labbro spaccato e sanguinante, che capii che era successo anche qualcosa di molto più profondo dietro tutto questo.
Se davvero Robin non mi considerava più il capitano della squadra di Football, allora non avrebbe seguito lo schema. Avremmo perso la partita. Non ci sarebbe stata nemmeno una possibilità di vittoria. Non avremmo avuto il nostro futuro che tanto desideravamo.
Scossi la testa mentre gli altri mi aiutavano a mettermi in piedi e Donnie dava istruzioni su come comportarci in quel momento. Dove aveva imparato tutte quelle cose? Sembrava un dottore vero e proprio. Comunque, ci ripensai. Probabilmente Robin intendeva dire avrebbe seguito i miei comandi per l'ultima volta e poi più. Cambiare schema a solo quattro ore di distanza significava perdere. Dopo quella partita non sarei stato più il leader della squadra. In quel momento, comunque,  avevo cose più importanti a cui pensare.








 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Heeeeilà gente :D
Sono spiacenti di comunicarvi che lunedì partirò per le vacanze e non sarò capace di caricare nulla per due settimane.
Peeerò, prometto che avrò scritto tutti i capitoli per quando sarò tornata!
Ad ogni modo, vedo che Robin è finito sulla lista nera di parecchie persone, eh? Bene, perfetto, perché era il mio intento ^-^ Non ricordo bene cosa succede in questi capitoli perché li avevo scritti tanto tempo fa, ma direi che ci stiamo avvicinando al punto più importante (che dovrebbe essere verso il 12°/13° capitolo).
Allora, prima di cominciare vi avviso che è un po' corto e che purtroppo temo questo sia l'ultimo caricamento per un bel po' -sempre che domenica io non trovi un po' di tempo libero- e inoltre vi chiedo una domanda personale: cosa ne pensate delle T-CEST?
Ringrazio chiunque abbia messo la storia tra preferite/seguite/da ricordare e particolarmente le seguenti persone, che hanno recensito lo scorso capitolo (vi amo gente, davvero! <3):
piwy ; I LOVE RAPH ; LisaBelle_99 ; Serytia e AleJ_and_Misu
Spero il capitolo vi piaccia!
P.s= chiedo scusa se non ho descritto la partita ma sono passata alla conclusione, semplicemente non sono brava in queste cose ^^;
 

Capitolo 9

La squadra di Football esultava il mio nome a grande voce nel campo verde, mentre festeggiavamo la nostra vittoria, ottenuta grazie a me. Mi ero letteralmente schiantato a terra ma l'avevo fatto segnando il punto finale.
Solo io non stavo godendo i festeggiamenti.
Non volevo nemmeno giocare quella partita. Della fama non me ne importava più nulla. Però l'avevo fatto, perché sapevo che altrimenti anche gli altri avrebbero dovuto rinunciare ai loro sogni. Una volta negli spogliatoi, mentre tutti erano occupati ad esultare e schizzarsi con l'acqua delle bottiglie, io mi cambiai rapidamente e mi avvicinai al coach.
Lui mi strinse in un abbraccio che mi tolse il respiro e invece di lasciarmi parlare mi continuò a dare delle pacche sulla schiena, euforico. Ogni mio tentativo di dirgli qualunque cose fu vano. E io mi stavo già stancando di quella situazione.
"Mi ascolti!" tuonai, facendo zittire lui e gli altri. Bene, avrei preferito farla finita più discretamente, ma forse era meglio così "Questa era l'ultima, io ho chiuso"
Lui mi fissò stranito, poi scoppiò a ridere. Gli altri non lo fecero. Io neppure. Si interruppe e mi fissò di nuovo, questa volta confuso: "Come sarebbe a dire? Non puoi mollarci adesso! Manca solo la nazionale"
"Non importa!" sbottai "Ho giocato questa partita perché non potevo lasciare la squadra con solo quattro ore di anticipo. Ma adesso mancano mesi alla nazionale. Perciò dovrete trovare un modo di arrangiarvi. Ormai è ovvio che non sono più il benvenuto in questa squadra perciò, Josh, tu sei il nuovo capitano" terminai, riferendomi al compagno che ritenevo più fedele tra tutti.
Lasciai gli spogliatoi e me ne andai, incurante delle grida che mi seguivano da parte del coach "Come sarebbe a dire che non sei più il benvenuto? Torna qui! Subito! Mi hai sentito?! TORNA QUI!"
Mi sentii così leggero e felice che quasi iniziai a piangere.
Uscii dalla scuola e mi incontrai con i miei migliori amici che, assieme a Casey, avevano fatto il tifo per me ed erano pronti a congratularsi. Sorrisi nel vedere il pollicione di gomma nella mano destra del padre di Raph.
Senza nemmeno dargli tempo di dire un "bravo" o "congratulazioni", spiegai di aver lasciato la squadra.
Tutti mi fissarono con occhi sgranati.
"Che c'è?" borbottai, sentendomi leggermente a disagio.
"Leo..." mormorò Raph.
Donnie inghiottì semplicemente un gruppo alla gola e Mikey, come potrete immaginare, mi buttò le braccia al collo e non si staccò per almeno un quarto d'ora, continuando ad urlare:
"Sei il migliore amico migliore al mondo!"
Risi sonoramente per tutto il viaggio in macchina, perché Casey stava facendo le imitazioni di tutti i fail dei giocatori. Imitò persino me che mi schiantavo per segnare e in quel momento risi ancora più di prima.
"Avanti ragazzi!" ci incitò il padre di Raph "Scendete dalla macchina e accomodatevi in casa! C'è una bellissima pizza calda e fumante che ci aspetta"
Passai una delle serate più belle della mia vita: non mi ero mai sentito così libero. Mangiammo e scherzammo tutto il tempo.
"Ragazzi, ho mangiato troppa pizza!" disse Mikey, portandosi le mani allo stomaco e facendo finta di vomitare.
"Già, la prossima volta lascia qualche pezzo anche a noi" scherzò affettuosamente Donnie.
Io e Raph ci guardammo sorridendo, mentre gli altri due iniziavano un'allegra discussione su tutte le volte in cui Michelangelo si era abbuffato ed era stato male per una settimana.
"Ne è valsa la pena" affermava sempre lui, dopo che Donnie elencava un esempio.
"Come no" borbottava l'altro.
"Okay, voi due, basta" si intromise Raph sorridendo.
"Hey, ragazzi, vi va di venire a casa mia?" chiesi, dopo un attimo di esitazione.
"Umh.. Va bene, perché?" chiese Mikey, lanciandomi uno sguardo confuso.
"Beh, mio padre è a casa e non ho ancora avuto modo di presentargli i miei migliori amici. E poi mi è appena venuto in mente che ho una sorpresa in soffitta. Cioè, non fraintendetemi, non sono sicuro di averla ancora, ma da piccolo c'era qualcosa che adoravo davvero usare" risposi.
Gli occhi del biondino si espansero fino ad inghiottire la sua faccia: "Sorpresa??? Che cos'è Leo, dimmelo, dimmelo, dimmelo!"
"Spiacente, non te lo dirò finché non l'avremo trovato. Non vorrei illudervi" dissi sorridendo.
Così, insieme, ci recammo a casa mia.
Il cielo era ancora sereno, rossiccio all'orizzonte dove il sole presto sarebbe tramontato, segnando la fine di questa giornata.
Erano tutti molto euforici di scoprire di cosa stavo parlando ma in quel momento notai qualcosa che mi fece mancare il respiro e bloccare il passo. C'era una macchina nel mio parcheggio. La macchina di Giulia.
No pensai Non possono essere già qui, sono stati via solo due notti!
Raph seguì il mio sguardo e capì ciò che stavo pensando.
"Leo..." iniziò, ma non aggiunse altro.
Se Giulia era tornata, allora con lei aveva portato indietro anche il suo amato figlioletto.
E se Drake era di nuovo sotto il mio stesso tetto, allora voleva dire che qualcuno mi odiava davvero molto.
Donnie e Mikey si scambiarono occhiate confuse, non riuscendo a decifrare il motivo della mia esitazione.
Non era giusto. Due giorni non erano abbastanza per ripagare i sei anni da incubo che finora avevo vissuto con lui.
"Penso di non sentirmi bene, meglio fare un'altra volta. Ci vediamo domani a scuola, ricordati di portare la relazione di scienze Mikey" dissi, congedandomi senza aspettare risposta, per poi correre dentro casa mia e andare a sbattere contro Giulia.
Il rossetto rosa e l'ombretto viola sembravano stati applicati da una scimmia sulla sua faccia ormai invecchiata, che continuava a sprizzare gioia da tutte le parti. Mi veniva da vomitare solo al sentire le enormi quantità di profumo di cui erano impregnati i suoi vestiti.
"Oh, caro! Sono così contenta di vederti!" esclamò, stringendomi in un abbraccio.
Di nuovo, sentii la pizza calda di prima risalire il mio stomaco.
Io la scansai, dimenticando le buone maniere una volta per tutte, e corsi su per le scale, fino ad arrivare in camera mia.
Qui chiusi a chiave la porta nuova e mi gettai sul letto.
Avrei dato qualunque cosa per avere una sacca da box come quella di Raph da prendere a pugni.
Ero così felice solo fino a qualche minuto prima. Avevo deciso di fare una sorpresa ai miei amici e adesso era tutto andato a rotoli. Se Drake era di nuovo a casa non c’era possibilità di portare a casa i miei amici. Vidi con la coda dell'occhio Raph che mi osservava dalla finestra di camera sua. Donnie e Mikey non c'erano, probabilmente Casey li stava accompagnando a casa.
Alzai lo sguardo al soffitto e saltai fino a raggiungere una cordicella. La tirai fino a far scendere una scala a terra.
La salii di corsa e la richiusi sotto ai miei piedi. Ero nella mia soffitta. Era da tanto che non ci entravo ma avrei dovuto farlo più spesso. C'erano tutti i miei ricordi degli anni passati. Mi avvicinai a un baule coperto da un lenzuolo verde scuro, che spostai e gettai di lato, sollevando una nuvola scura di polvere. La luce in quell’ambiente tendeva al color seppia, come nelle vecchie foto di famiglia che i nonni nascondono negli album pesanti e rilegati. Osservai il baule colorato di smeraldo scuro.
Ci misi un po' a far scattare la serratura ma dopo qualche tentativo lo aprii. Dentro vi erano tutti i miei peluche di quando ero bambino, un album fotografico e diversi giocattoli. Vi era perfino un fascicolo con i disegni che facevo da bambino: in maggioranza erano macchie colorate, cicloni di colori nei quali si potevano a malapena intravedere delle sagome. Altri disegni rappresentavano la mia vecchia e ‘allegra’ famiglia: mio padre, alto fino al cielo, mia madre, che indossava una gonna triangolare, ed io. In basso, al centro, un omino più basso mi osservava. Non ero un vero artista da piccolo, ma quell’immagine mi commosse al punto che scoppiai in un pianto senza suoni. Passai ad osservare i giocattoli, raccogliendoli tra le mie mani tremanti. Li guardai uno ad uno, ricordando i momenti felici che avevo vissuto anche grazie a loro.
Presi fuori quello che era il mio peluche preferito da bambino: rappresentava una tartaruga verde, gli occhi circondati da una bandana blu e un sorriso rassicurante dipinto in volto. Chiusi il baule e mi sedetti in un angolo. Mi raggomitolai e mi coprii con il lenzuolo che prima sostava sopra al baule. Sentivo i brividi di freddo percorrere la mia schiena, le voci dei familiari che mi chiamavano e qualcuno bussare alla porta di camera mia. Ignorai qualunque cosa e lentamente scivolai in un sonno senza sogni.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Ciao a tutti cari lettori! <3
Vi informo che questo è ufficialmente l'ultimo capitolo che caricherò prima del mio ritorno dalle vacanze! Come ho già detto negli scorsi capitoli, vi libererete di me per ben due settimane!
Contenti, eh?
Beh, spero che il capitolo vi piaccia e non vi deluda!
Ringrazio chiunque abbia inserito la storia tra le preferite/seguite/da ricordare e particolarmente le persone che hanno recensito! (E noto con piacere che si sono aggiunti due nuovi recensori! <3)
Queste sono:
_Bara no Yami_ ; LisaBelle_99 ; Serytia ; AleJ_and_Mizu ; Tigre Rossa ; piwy e CatWarrior
Grazie mille davvero <3<3<3!!
Mi raccomando, quando torno voglio vedere tante belle recensioni ;);)
E ora, passiamo alla storia!

Capitolo 10

Quando mi svegliai, ci misi un po' a capire dove fossi e perché. Quando ricordai, però, desiderai non averlo fatto.
Mi alzai e sbattei la testa contro il soffitto basso.
Imprecai ad alta voce, quasi urlando, ormai stanco di trattenermi.
Mi strofinai la mano contro la zona in cui avevo subito l'urto e risistemai la coperta in cima al baule, dentro al quale misi il peluche a forma di tartaruga. Scesi dalla scala con un salto e produssi un secco tonfo.
Mi ero dimenticato di cercare la sorpresa per i miei amici ma in quel momento era l'ultima cosa che volevo fare.
Osservai l'orologio in cima al mio comodino.
9.30
Ormai sarei dovuto essere solo in casa. Papà di sicuro era al lavoro, Drake a scuola e Giulia.. Beh, anche se fosse stata in casa sarebbe stato semplicissimo evitarla e sgattaiolare fuori casa.
Sbloccai la serratura della mia camera e andai al bagno del primo piano, dove mi cambiai e sciacquai il viso. Avevo ancora i solchi delle lacrime.
Uscendo dal bagno, tornai in camera mia e mi buttai sul letto, provando a dormire ancora un po'. Non sentendo rumore da nessuna parte della casa, capii che ero effettivamente davvero solo. Perfetto. Era tutto ciò che volevo.
Sebbene mi pareva fossero passati solo cinque minuti da quando avevo chiuso gli occhi, li riaprii e vidi che erano le 11.00
Scesi in cucina, preparai una leggera colazione e la gustai. Sentivo il profumo di Giulia invadere la stanza e mi affrettai a terminare di mangiare e andarmene. Tolsi la giacca dall'attaccapanni, la indossai e, ricordandomi di prendere le chiavi, uscii.
Non avevo un'idea precisa su dove andare. Feci un giro per la città, andai al parco e al centro commerciale. Osservai le persone, i loro gesti, le loro espressioni facciali e origliai le conversazioni. Cercai di capire come funzionavano. Esatto, come funzionavano le persone. Cercai di darmi una spiegazione sul perché proprio a me capitassero tutte quelle cose e mi permisi di essere egoista sperando che fossero capitate a qualcun altro. Due signore si erano sedute al tavolo sporco di un bar e, mentre una versava una bustina di zucchero nel suo caffè, l’altra raccontava di un incidente accadutole con la lavatrice. “Povera, mi spiace” disse l’altra, mostrando comprensione “Proprio dopo che ti si era già rotto il forno. Certo che la fortuna è proprio cieca” No. Non è cieca. E’ semplicemente stronza. Premia chi gli pare e punisce chi non le ha fatto niente. Non è cieca. Decide solo chi ignorare e chi no. Solo quando il mio orologio da polso segnò le 12.30, mi girai e iniziai a tornare a casa.
Camminai il più lentamente possibile. Quella mattina era stata troppo breve. Il tempo era passato troppo in fretta. Arrivato a casa notai l'auto di Giulia. Fantastico, quindi era tornata. Bene, se mi vedeva entrare potevo tranquillamente far sembrare di aver passato la notte fuori, senza dover raccontare della soffitta. Nessuno si sarebbe dovuto ricordare dell'esistenza di quella stanza: avevo deciso che sarebbe stato un posto mio e solo mio.
Infilai le chiavi nella toppa della serratura e aprii la porta. Ovviamente la mia matrigna mi venne in contro preoccupata ma sinceramente la sua preoccupazione poteva tenersela per sé.
Non le rivolsi nemmeno un "ciao", alzai semplicemente la mano nel cenno del saluto. Salii in camera e feci i compiti per il giorno dopo in circa mezz'ora. Adoravo il martedì, perché avevamo le ore più leggere di sempre. Quando chiusi il mio quaderno lo gettai a terra. Poi, all'improvviso, il mio umore si rallegrò. Senza gli allenamenti del Football, avevo i pomeriggi liberi. Okay, ci sarebbero state un sacco di volte in cui io e Drake saremmo rimasti a casa da soli ma, ehi, avevo sempre Raph!
Quasi per caso, proprio in quel momento sentii il mio migliore amico chiamarmi dalla finestra di camera sua. Leggete bene: migliore amico! Mi affacciai alla mia finestra e lo salutai.
"Come stai?" mi chiese.
"Sono stato meglio" risposi.
"Vuoi venire qui?" mi propose.
"Certo. Credo che tra un po' Drake sarà a casa e ne faccio volentieri a meno di lui" dissi.
Poi sentii il portone di casa sbattere e capii che il mio fratellastro era arrivato.
Se ne accorse anche il mio migliore amico, che mi incitò a sbrigarmi.
"Appunto" mormorai con voce monotona: la mia vita ormai era così prevedibile.
Subito dopo udii anche Giulia mettere in moto la sua macchina e andarsene. Okay, dovevo assolutamente fare in fretta.
Però, prima uscire dalla finestra, chiusi a chiave la mia stanza per guadagnare un po' di tempo e mi gettai a frugare nel mio armadio. Vedevo i miei vestiti che volavano da tutte le parti ma io dovevo trovare quelli di Raph.
Dei passi si facevano pesanti per la scala e le grida arrabbiate del mio vicino non aiutavano. Perché non stava zitto per un momento? Mi sbrigai, tirai fuori la felpa e i jeans che cercavo e tornai alla finestra. Drake non era ancora venuto a cercarmi. La cosa mi sorprese davvero ma decisi di non guastarmi da solo la festa.
"Raph, prendi!" gli dissi, lanciandogli i suoi abiti. Da subito non se lo aspettava ma riuscì ad aggrappare tutto quanto. Poi, velocemente, mi lanciai sulla grondaia e atterrai sul terreno verde e rigoglioso di cui era costituito il mio giardino. Corsi e scavalcai la staccionata, per poi essere accolto da Raph.
Chiuse la porta dietro di noi e mi diede un lieve pugno sulla nuca.
"Ahia!" esclamai "E questo per che cos’era?"
"Lasciamo stare" sbottò. Capii cosa lo stesse turbando ma decisi di lasciare perdere come aveva detto lui.
"Quindi... Cosa vuoi mangiare per pranzo?" mi domandò.
Non ero veramente affamato ma non volevo metterlo a disagio quindi risposi che mi andava bene qualunque cosa.
Quel giorno Casey non era a casa. Ora che la settimana era ricominciata, lui sarebbe rimasto a lungo a lavoro.
"Gli altri oggi a scuola si sono preoccupati" mi informò "Donnie ha chiesto se questo pomeriggio li raggiungiamo a casa sua. Mi ha dato l'indirizzo" mi mostrò un pezzetto di carta "Sai dov'è?"
"Ummmmmh, no." risposi, senza rifletterci troppo sopra. Quella era una via che non avevo mai sentito nominare.
"Bene... Hai voglia di andarci?"
Esitai. Non ero davvero in vena ma alla fine sapevo che se non ci fossi andato neanche Raph lo avrebbe fatto. Oppure, io sarei dovuto rimanere a casa con Drake.
"Sì, certo" risposi, tentando un sorriso.
Lui mi squadrò e sospirò.
"Non sei obbligato..." lo interruppi subito dicendo: "No, davvero, ho voglia di vedervi tutti"
Pranzammo con un paio di hot dogs e salimmo in camera sua.
"Hai dormito lassù?" mi domandò dopo qualche minuto di silenzio.
"Sì. E' la nostra soffitta ed è il luogo più tranquillo di casa" affermai, leccando i residui di ketchup sul mio labbro mentre mi sedevo per terra.
"E non se ne sono accorti?"
"Nah. Drake e Giulia non sanno della soffitta sebbene vivano con noi da molti anni e mio padre... Beh, penso che se ne sia dimenticato. Cioè, lassù ci sono tutti i ricordi di mia madre. Credo abbia deciso di eliminare dalla sua memoria quella stanza. E, sinceramente, va bene così. Almeno, è un nascondiglio da Drake" terminai con una risatina nervosa.
"Non mi piace quel tizio" disse, tutto a un tratto.
Risi "Nemmeno a me" concordai, per poi rattristirmi "Avrei sempre voluto chiamare degli amici a casa mia, ma per colpa sua non potevo"
"Temevi si fosse arrabbiato anche con loro?"
"Già"
"Pensi sempre agli altri, eh?" mormorò, sdraiandosi sul suo letto e osservando una crepa sul soffitto.
"Cosa?" domandai, confuso.
"Avanti" disse "Da quando ti conosco non ti ho mai visto fare qualcosa di egoistico"
"Emh..." mi sentii a disagio "Veramente, non sono sempre così. Per esempio... Tratto male Giulia"
"Fai bene"
"Desidero continuamente che lei e suo figlio vengano buttati fuori da casa mia" Continuai.
"Fai bene" lui ripeté "Però, vedi. Tu queste cose non le dici a tuo padre. Preferisci sapere che lui sia felice"
"Possiamo cambiare argomento?" domandai.
"Certo. Torniamo al discorso di prima. Quindi non hai mai chiamato nessuno a casa tua? In effetti, ora che ci penso, non ci siamo mai trovati a casa tua. Perfetto! Cambio di programma, oggi verremo tutti da te! Andremo domani da Donnie. Così oggi può spiegarci meglio come andare a casa sua"
"Eh, cosa?? No, no, no, no, no! Non hai sentito niente di quello che ho detto?" esclamai "Drake-"
"Non importa! E poi, voglio davvero vedere camera tua! Sono curioso..."
"Non è davvero questo granché. Specialmente ora che ho frammenti di scrivania in tutta la stanza" ammisi.
"Cosa? Frammenti di scrivania?"
"Ah, giusto, a te e a Mikey non l'ho ancora detto..." E gli raccontai di quello che era successo sabato sera, dopo che avevo salutato lui e suo padre.
Scoppiò a ridere: "Ma come hai fatto a dimenticare le chiavi? Due volte? A due minuti di distanza!"
Iniziai a ridere con lui.
"Coglione" gli dissi scherzando, tra una risata e l'altra. Lui, per vendetta, prese a strofinare il suo pugno sulla mia testa. Credetemi, fa male.
Ma il tutto era amichevole e io ne fui completamente felice.
Alla fine mandò un messaggio ai nostri amici dicendogli di venire a casa mia. Loro avevano accettato. L'idea non mi piaceva nemmeno un po'.
"Senti, meglio che vada ad avvisare Drake e a mettere a posto la stanza" mormorai, per niente entusiasta.
"No, no, no, no e... no!” esclamò, ripetendo la mia precedente frequenza di ‘no’  “Adesso ci andiamo insieme”




 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Genteeeeeeeeeeeee!!!! Sono finalmente tornata!!!!
Che bello, mi siete mancati tutti!
Vi ringrazio davvero tutti cari lettori, specialmente chi ha messo questa storia tra preferite/seguite/da ricordare!
Un ringraziamento ancora più grande alle persone che hanno speso parte del loro tempo per lasciare una recensione!
Queste sono:
AleJ_and_Mizu ; _Bara No Yami_ ; piwy ; LisaBelle_99 e Serytia
Mi raccomando, mettetevi comodi, prendete qualcosa da sgranocchiare, spegnete i cellulari e... leggete il prossimo capitolo :D
Spero di non deludervi!

CAPITOLO 11

Drake stava dormendo.
Era stato un vero colpo di fortuna averlo trovato in quel momento. Raph subito voleva gettargli un secchio d'acqua come lui aveva fatto con me ma io lo fermai. Avevo un'idea migliore: le porte di casa nostra avevano tutte la stessa serratura. Così, dopo aver preso la chiave da camera mia, chiusi la camera di mio fratello e feci fare diversi giri alla serratura. Misi le chiavi, la mia e la sua, nella tasca dei pantaloni. Poi, sentendo una macchina arrivare nel mio giardino, io e il mio migliore amico uscimmo di corsa, ma silenziosamente, e andammo in giardino. Vidi che a guidare era una certa April O' Neil, la zia di Donnie. I nostri due amici scesero dai sedili posteriori e, non appena il parente se ne andò, spiegammo loro la situazione. Mi sentii veramente in imbarazzo a costringere i miei migliori amici al silenzio totale. Loro, però, non sembrarono turbarsene.
Mikey era entusiasta di dover fare tutto di nascosto, come un ninja: "Sarà l'operazione Attento-A-Non-Svegliare-Drake!"
"Se urli però rovinerai il piano" borbottò Donnie.
Io ero molto meno felice della decisione di trovarsi a casa mia ma mi rallegrai un po' quando Raph mi strizzò la spalla in gesto amichevole. Facemmo merenda con fette biscottate e nutella, con grande approvazione da parte di tutti.
"Avanti Leo, voglio vedere la tua stanza!" esclamò il biondino.
"Shhhh!" Lo zittì Donatello, portandosi un dito alle labbra.
Io sussultai e mi accertai che il mio fratellastro stesse ancora dormendo. Sentii russare e mi rilassai.
"Okay Mikey, niente più urla del genere" mormorai "E comunque la mia stanza non è così bella. Anzi, non è bella e basta"
Salimmo in silenzio le scale di casa e arrivammo in camera mia.
Chiusi la porta dietro di noi.
Dovetti spiegare di nuovo la storia della scrivania a tutti quanti. Già, perché il biondino ancora non la conosceva.
La mia stanza, lo sapevo benissimo, non era un granché. Specialmente considerando che non dovevo mai prestare troppa attenzione per evitare che mio padre e Giulia entrassero e si lamentassero per il disordine. Infatti, solitamente, erano poche le volte in cui gli adulti di casa nostra salivano al piano superiore. Era un po' come se fosse il territorio di noi più giovani.
Cosa diamine sto facendo? Quando Drake si sveglierà saranno problemi seri. Non dovevo coinvolgere i miei amici.
Mi risvegliai dai miei pensieri sentendo mormorii di eccitazione.
Cosa diamine...? pensai.
"Sono bellissimi Leo!" mi sussurrò Mikey. Feci scivolare lo sguardo per vedere di cosa stessero parlando e sbiancai quando vidi che tenevano tra le mani il mio album di disegni.
Mi morì un urlo in gola mentre cercavo di toglierlo dalle loro mani.
Tentai di dissuaderli dall'idea di guardarli ma sembravano così convinti che continuarono a sfogliare le pagine. C'erano disegni di ogni cosa: vita reale, sogni, schizzi, opere senza senso, ritratti di persone inesistenti...
A loro sembrò piacere la prima categoria.
Avevo disegnato tutti e quattro diverse volte e spesso avevo rappresentato situazioni davvero accadute. Come quando mi ero presentato tutto bagnato a casa di Raph. O quando avevo sfondato la mia scrivania con lo zaino che conteneva la divisa da Football e avevo urlato al cielo. Era divertente farlo.
"Oh, posso tenerlo???" mi chiese euforico Mikey, indicando un disegno rappresentante noi quattro che mangiavamo una pizza.
Annuii sorridendo.
Dopo aver rimesso a posto il mio album ci buttammo sul letto.
"Cos’era quel suono?" domandò Donnie allarmato.
"Sono le molle del letto" risposi "E' successo un anno dopo del loro trasferimento qui. Sapete, non ero ancora così diffidente nei suoi confronti perché era meno aggressivo. Però una volta Drake era in vena... artistica, e mise un sonnifero nel mio té a pranzo. Vi giuro, la sua mente è veramente perversa. Esiste per torturare le persone nei modi più originali. Mi risvegliai legato qui sopra con lui che mi osservava sorridendo. E' una persona abbastanza inquietante. Comunque, da legato non avevo molte via di fuga. Penso che fosse parecchio stressato in quei giorni e avesse bisogno di sfogarsi"
Fecero espressioni sconvolte. Io risi nervosamente, grattandomi il retro del collo,
"E ti ha fatto molto male?" chiese Mikey, quasi ingenuamente. I miei amici avevano l’abilità di chiedere le cose con il tono dei bambini: diretti, con parole semplici, sguardi falsamente innocenti…
Sospirai "Beh.. ecco" non ero sicuro di volerglielo mostrare, ma alla fine spostai il cuscino. Su una delle due pareti vi erano due leggere e piccole tracce rosse. Non era stato niente di troppo grave a dire il vero, la vista peggiorava molto la realtà.
Sentii Raph esclamare e ringhiare.
"...Non ho mai saputo come togliere il sangue dal muro...Sapete, se strofinate quello si sparge di più" vidi i loro sguardi terrorizzati "Ma non è più successo dopo quella volta. Però era per questo che non volevo veniste qui... A volte è incontrollabile. Sospetto soffra di qualche problema mentale... Il suo psicologo non è molto bravo" ammisi.
"Mai pensato a della vernice?" chiese Donnie, cercando di sdrammatizzare.
"Coprirlo con la vernice? Wow, no non ci avevo mai pensato! Che stupido che sono stato, era praticamente ovvio"
Mi sembrò che Raph stesse per esplodere ed urlare qualcosa ma per mia fortuna (o sfortuna?) sentii Drake urlare:
"Leoooo!!!"
Il mio cuore fece un tuffo.
Stava cercando di aprire la sua porta. Avevo dato parecchi giri per guadagnare tempo perché sospettavo, e avevo ragione, che avesse imparato a scassinare una serratura in quei tre giorni in cui non era stato qui.
"Raph, la soffitta!"gli dissi, ma non troppo forte. Lui capì, fece segno agli altri di restare e muti e corse a tirare la cordicella. Mentre sentivo gli altri salire la scala, io chiusi a chiave anche camera mia. Presi l'album dei disegni. Drake aveva aperto la sua porta. Io corsi a spalancare la mia finestra e, dopo un grido di Raph, mi infilai di corsa nella soffitta, chiudendo la scala sotto di noi. Restammo tutti muti. Poi dopo un rumore metallico, Drake aprì l'uscio di camera mia.
"Dove diamine...?" lo sentii digrignare. Poi udii i suoi passi dirigersi frettolosamente verso la finestra e scendere la grondaia. Dopo qualche minuto, ci fu totale silenzio.
Sospirai di sollievo e guardai gli altri: Donnie stava abbracciando leggermente Mikey per confortarlo, mentre Raph si guardava attorno.
Non era nei miei piani mostrare a tutti loro la soffitta. Non tutti in una volta. Ma alla fine era andata così. Io feci per aprire di nuovo la scala ma Mikey urlò, fermandomi:
"Aspetta!"
Io mi bloccai e girai a guardarlo.
"...Rimaniamo qui ancora un po' " mormorò con una voce molto bassa.
Tutti mi fissarono aspettando una risposta. Sapevo che volevano restare ma ero troppo terrorizzato al pensiero che quello sarebbe stato l'unico momento in cui sarebbero potuti uscire da casa mia. Altrimenti, dopo, Drake sarebbe tornato a casa.
"Mi dispiace... Davvero, ma è meglio di no" E, dicendo questo li feci scendere uno ad uno di nuovo in camera mia.
Poi, li accompagnai alla porta di casa mia, dove ci congedammo:
"Venite a casa mia, è ancora presto, sono solo le cinque" propose Raph.
Gli altri concordarono subito.
"Io passo" dissi, e tornai in casa senza aggiungere altro.
Chiudendo la porta dietro di me, ascoltai le loro proteste in silenzio, fingendo di non essere lì e non esistere.
Poi, dolcemente, scivolai a terra e abbracciai le mie ginocchia, nascondendo il mio viso tra le braccia. Le maniche della mia maglia iniziarono a bagnarsi e diventare più scure, mentre io non riuscivo più a trattenere i singhiozzi.
Era colpa mia. Solo colpa mia. Erano passati sei anni e ancora non riuscivo a dimenticare. Non potevo, non volevo credere che i miei genitori non si amassero più. Non volevo accettare una nuova famiglia. Non volevo più essere così debole. Tutto ciò che avrei voluto fare era riuscire ad andare avanti senza farmi sottomettere o iniziare a piangere. E specialmente volevo essere egoista. Volevo pensare a ciò che era bene per me e realizzare i miei sogni. E per farlo, dovevo rompere i collegamenti con il passato.
Mi sollevai di peso e barcollai fino alle scale.
Chiusi il pugno attorno al corrimano poi iniziai a salire le scale in fretta, distrutto da quella giornata così pesa.
Passai per il bagno, dove entrai nella doccia senza nemmeno togliermi i vestiti e aprii l'acqua fredda, inzuppando tutto il mio corpo. Poi corsi in camera mia, incurante del pavimento bagnato. Aprii la scala e salii in soffitta, dove misi tutto in disordine, cercando il mio album fotografico.
Aprii il baule gettando a terra il lenzuolo verde e iniziai a scostare tutti gli oggetti finché non trovai la cosa che cercavo.
Starnutii, forse per la polvere, forse per l'acqua fredda che grondava dai miei vestiti, e mi sbrigai a scendere in cucina.
Qui, accesi il fornello del gas e, una ad una, bruciai ogni fotografia di mia madre, continuando a piangere. Infine, bruciai l'intero album.
Corsi in cantina, scendendo i gradini in legno che scricchiolavano ad ogni passo che facevo e accesi l'interruttore della luce, ricoperto di ragnatele scure.
Appena riuscii a vedere qualcosa, mi avvicinai ad una parete. Grazie a una chiave appoggiata in cima ad una lavatrice, potei togliere il lucchetto bronzo che chiudeva un armadio grigio e azzurro. Le ante cigolarono a causa della loro vecchiaia e aprendosi rivelarono dei barattoli di vernice: ne presi uno bianco e poi raccolsi una cassetta degli attrezzi che giaceva in terra.  Tornai di nuovo in camera mia e spostai il letto per rivelare le pareti di camera mia. Le riverniciai e guardai lentamente il sangue, il mio sangue, sparire da esse. Poi mi inginocchiai sul pavimento, vicino ai resti della scrivania distrutta, e iniziai a rimontarla come meglio potevo. Grazie al corso di falegnameria della scuola, feci un buon lavoro. Abbandonai gli attrezzi sul pavimento e trascinai il mio materasso fino in camera di Drake.
Qui, lo scambiai con il suo che sistemai a posto del mio vecchio.
Risistemai i vestiti sul pavimento nel guardaroba e mi gettai sul letto.
La mia schiena gemette di gioia ad avere un sostegno decente. E così, mentre piangevo e congelavo, mi addormentai, con i vestiti bagnati appiccicati al mio corpo.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Heilà cari e amatissimi lettori!
Se avete aperto questo capitolo vuol dire hce la storia vi sta davvero piacende e che mi state accompaniando passo dopo passo! E vi ringrazio davvero per ciò!
Come vedete, sono già col nuovo capitolo! Che come noterete fin dalla prima riga, avrà qualcosa di diverso :P Evento più unico che raro :D
Non perdo troppo tempo in queste descrizioni barbose che pochi di voi leggono e passo subito ai ringraziamenti!
Come sempre ringrazio chiunque abbia messo questa storia tra le preferite/seguite/da ricordare e rivolgo un grazie particolare alle persone che hanno lasciato una recensione! (vi adoro!)
Queste sono:
Tigre Rossa ; I LOVE RAPH ; LisaBelle_99 ; AleJ_And_Mizu ; _Bara no Yami_ ; Serytia e CatWarrior
Davvero ragazzi, grazie di cuore <3!
E ora... passiamo al capitolo!
Spero di non deludervi!


Capitolo 12

Raph's POV


Ero completamente furioso.
Tutti noi avevamo sentito Leo piangere, al di là della porta di casa sua, ed eravamo rimasti immobili, senza sapere cosa fare.
E una volta andati a casa mia, eravamo rimasti in silenzio, fino a quando non avevamo sentito qualcuno andare nella soffitta di Leo. E, avvicinandoci alla mia finestra, le nostre facce sbiancarono completamente. Stavamo fissando completamente terrificati il nostro amico correre dentro e fuori dalla sua stanza, bagnato dalla testa ai piedi, con accendini, vernici, attrezzi, foto e materassi. Donatello iniziò a piangere e tremare. Mentre osservavo Leo gettarsi sul proprio letto e non alzarsi più, il cielo si inscurì e notai che delle nuvole grigie e nere erano arrivate sulle nostre case.
Sentivo la rabbia ribollirmi nel sangue non appena vidi Mikey diventare triste e osservare il disegno che gli aveva regalato il nostro migliore amico. Nessuno - ripeto nessuno - può permettersi di rubare il sorriso a Michelangelo.
O a Donatello.
O a Leonardo.
Tirai un pugno contro il muro, provando sollievo nel sentire il dolore espandersi nella mano e nel polso, fino alla spalla.
Il mio naso iniziava già a sentire l'odore della pioggia nell'aria e le foglie per strada si sollevavano in cerchi.
Solitamente amavo l'atmosfera che si crea durante i temporali, ma in quel momento ero troppo concentrato a riflettere sul problema di Leo e non prestai attenzione a nient'altro.
Dopo pochi minuti sussultai a causa del telefono di Donnie, che squillò nelle sue tasche. Donatello lo prese con le dita tremanti e lo portò all'orecchio:
"P-pronto?" balbettò "Ah! Mamma... Sì, okay... Va bene... Però adesso siamo a casa di Raph quindi devi venire qui... Va bene, a presto" riagganciò il telefono e si voltò verso Mikey "Mia madre sta venendo a prenderci, sarà qui tra poco"
Loro due iniziarono a parlare per alleggerire la tensione ma io continuai ad osservare la stanza di Leo, non notando movimenti.
Un tuono ruppe l'aria e un fulmine lo seguì. Poi, la pioggia iniziò a scendere insistente, bagnando tutto ciò che raggiungeva. I tetti scintillavano ormai e il forte rumore delle gocce sulle tegole rimbombava nelle mie orecchie amplificata.
Una macchina si fermò nel mio giardino e presto Donnie e Mikey se ne andarono, salendovi sopra. Un ultimo sguardo, un saluto scambiato al di là del finestrino e qualche lacrima spazzata via con una manica.
Così rimasi da solo in camera mia, a pensare a mia madre: mi mancava tantissimo. Il suo profumo che mi accoglieva quando mi passava accanto, gli abbracci caldi, la protezione delle sue parole dagli incubi, la sua presenza nella mia vita e il suo sguardo attento, calmo e comprensivo. La sua improvvisa scomparsa. Ci aveva lasciati, sì, ma almeno mio padre cercava di farmi avere ogni cosa di cui avessi bisogno. E gli ero talmente grato per non essersi sposato di nuovo. Era sempre rimasto fedele a Lei. Continuava ad amarla, a pregare per lei la sera e a parlare alla sua foto sul comodino di legno. Non so cos'avrei fatto altrimenti. Leo, invece... suo padre non riusciva a vedere che lui non aveva bisogno di un fratello o una seconda madre. Non capiva che suo figlio necessitava solo suo padre con sé. Al suo fianco. Lui amava la vita. Si vedeva nei suoi occhi, l’amore che provava. Si notava nel piccolo luccichio che si nascondeva dietro alle iridi. Si sentiva nella sua voce sicura e calda. Si gustava nei suoi gesti. Si toccava nei  solchi che la sua matita faceva nei disegni. Che diritto avevano gli altri di rovinarglielo? Di rovinare un amore così puro?  Era un ragazzo come chiunque altro, che aveva bisogno di protezione. E se nessuno si occupava di lui, allora sarei stato io a proteggerlo.
Aveva già sofferto abbastanza.
Mi voltai di nuovo verso la casa del mio migliore amico e vidi che la pioggia aveva iniziato ad entrare nella sua finestra. Tuttavia, nessuno si stava alzando per andare a chiuderla.
Fu in quel momento che mi venne un'idea.
Mi avvicinai alla mia finestra e guardai giù. Okay, non ero troppo in alto. Mi aggrappai con le mani alla grondaia scura accanto alla mia finestra. Non sembrava sicuro. Ma dovevo farcela. Potevo. Volevo. Tenendo una presa salda, mi buttai fuori da camera mia. Le mie mani iniziarono a scivolare sul tubo e, sebbene stessi cercando di restare aggrappato, caddi per terra e atterrai sul mio fondoschiena.
"Aah! Come cazzo fa Leo?!" esclamai, cercando di ignorare il dolore.
Mi rimisi in piedi e mi avvicinai alla sua grondaia.
"Ok, l'ultimo passo" mi dissi.
Provai a salire ma caddi molte volte.
Digrignando i denti, pensai "Avanti, devo farcela per Leo"
Con un ultimo ma deciso tentativo, riuscii ad arrivare fino alla sua finestra, che aggrappai con forza. Mi tirai di peso dentro camera sua e atterai sul pavimento bagnato dalla pioggia.
Mi tolsi le scarpe bagnate e le lasciai in un angolo.
Leo continuava a dormire, nonostante avessi fatto molto rumore.
Prima di tutto, avevo bisogno di asciugare il suo pavimento.
Andai in camera di Drake, che era vuota, e presi una delle sue maglie. Mi guardai intorno: quel bastardo aveva un sacco di cose, mentre Leo non aveva praticamente niente.
Notai un grande borsone in un lato della stanza: lo svuotai (conteneva una divisa da rugby) e lo portai in camera di Leo.
Con la maglia asciugai il pavimento alla meglio e dopo chiusi la finestra, cercando di non fare rumore.
Mi avvicinai all'armadio di Leo e presi fuori diversi vestiti, che infilai nel borsone.
Poi, silenziosamente, presi anche l'album dei suoi disegni e libri di scuola. Con un po' di fatica, riuscii a far entrare tutto nella borsa.
Poi mi avvicinai al letto di Leo e lo scossi dolcemente.
Lui inizio piano ad aprire gli occhi e quando mise a fuoco la visuale mi osservò confuso.
"Hey Leo..." dissi. Non sapevo esattamente cosa dire, ma all'improvviso i suoi occhi diventarono acquosi e iniziarono a scendergli delle lacrime.
"Cristo..." pensai: ero molto a disagio in situazioni del genere però feci il mio meglio e lo circondai con le braccia.
"E' tutto okay Leo... adesso ce ne andiamo. Coraggio alzati e cambiati, non puoi restare con i vestiti bagnati"
Lui si cambiò i vestiti in fretta e poi guardò lo zaino di Drake e la maglia sul pavimento.
"Come sei entrato?" mi chiese.
"Alla tua maniera" dissi con un sorriso, accennando alla finestra.
Poi io aggiunsi "Ti ho preparato uno zaino con qualche vestito e delle cose di scuola o per disegnare. Ma se vuoi prendere qualcos'altro fai pure. Per un po' di giorni verrai a stare da me"
"Cosa?? No, aspetta, mio padre..." stavo per interromperlo ma lui si corresse da solo "Anzi, no, vengo con te"
Sorrisi e lo aiutai a prendere qualche altra cosa e infine andammo a casa mia.
"Aspettami in camera, io prendo qualcosa da mangiare" gli dissi e lui iniziò a salire le scale.
Mi avvicinai al frigorifero e guardai dentro. Sfortunatamente tutto ciò che vidi fu verdura, carne da hot dog e coca cola. Tra l’altro, di quelle poche cose, non riuscivo a dire cosa non fosse scaduto. Chiudendo il frigo cercai nello studio di casa, quello in cui mia madre era solita lavorare, e presi un post-it arancione. Appoggiandolo sulla scrivania, presi un pennarello nero dal portapenne e scrissi un appunto per ricordarmi di fare la spesa.  Tornai in cucina e lasciai il biglietto sul tavolo di legno circondato da sedie e poi tornai verso il frigo bianco. Scrollando le spalle, sperai che Leo si accontentasse di ciò che sarei riuscito a preparare.
Presi la carne scura e, grazie al pane che trovai nella dispensa in soggiorno, preparai due hot-dog. Aggiungendo mostarda e ketchup il mio lavoro fu completato. Poi, all’improvviso, mi venne in mente qualcosa di importante: dove avrebbe dormito Leo? Grugnii mentre cercavo una soluzione accettabile. Ricordandomi del materasso gonfiabile in cantina mi affrettai ad andare a recuperarlo e poi lo lasciai in salotto. A portarlo di sopra ci avrei pensato più tardi.
Salii le scale stanco e affaticato, portando gli hot-dog con me. Arrivando in camera mia, notai che Leo si era addormentato di nuovo sul mio letto. Sorrisi e appoggiai i panini sulla mia scrivania.
Avrei aspettato che Leo si svegliasse e poi li avremmo mangiati insieme.
Lui rabbrividì nel sonno a causa del freddo e io gli rimboccai una coperta e mi avvicinai per chiudere la finestra. Mi sentii molto imbarazzato, visto che non era da me rammollirmi così. Ma, in fin dei conti, lui, Mikey e Donnie erano ciò che aspettavo da tempo. Non avrei dovuto fingere di essere più duro di quel che non fossi.
Quando scostai le tende della finestra, però, vidi Drake in fondo alla via.
Tempo di fare una chiaccherata.
*
Quando uscii di casa, feci attenzione a non sbattere la porta troppo rumorosamente e mi avvicinai con passo deciso a Drake.
Lui subito non mi notò ma continuò a fissare la strada calciando i sassi con le scarpe rovinate.
Non sembrava stesse bene ma non mi importava.
All’improvviso alzò lo sguardo ed incontrò il mio.
"Drake" dissi, digrignando i denti.
"Che vuoi?" rispose lui, guardandomi.
"Lascia Leo in pace" ordinai, incrociando le braccia.
"Nessuno mi dice cosa devo o non devo fare"
"Nessuno tranne me" risposi io, afferrandolo per il collo della maglietta: probabilmente lui stava davvero male perché non provò nemmeno a reagire al mio tocco.
Meglio così.
Lo spinsi con abbastanza forza da farlo cadere all'indietro sul marciapiede e io lo fissai dall'alto al basso.
Gli diedi un piccolo calcio e dissi:
"Ti voglio lontano da Leo"
Mi girai e tornai a casa.
In cucina mi tolsi le scarpe sporche e appoggiai la felpa su una sedia di legno. Presi fuori il telefono da una tasca dei miei jeans e digitai il numero di mio padre.
Dopo alcuni "tuu-tuu" sentii la voce di mio padre chiedere:
"Raph, tutto okay? Non mi chiami mai a quest'ora, è successo qualcosa? Se sì dimmelo che torno subito da lavoro, posso tranquil- "
"No, papà, non preoccuparti. Volevo solo dirti che per un po' di tempo Leo si fermerà a casa nostra"
"...Cos'è successo?"
Pensai ad una risposta da dargli e capii di potermi fidare di mio padre abbastanza da dirgli la verità:
"Problemi con Drake... Di nuovo... Per te è okay se Leo resta da noi, vero?"
"Certo" rispose mio padre "Digli che può restare quanto vuole"
Amavo mio padre: "Eheh, grazie"

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Ciao a tutti cari lettori!
Spero stiate passando delle buone vacanze estive!
Okay, oggi non ho molto da scrivere nel mio angoletto, perciò taglio corto ^-^
Ringrazio chiunque abbia inserito questa storia tra le preferite/seguite/da ricordare ma anche chi sta semplicemente leggendo i capitoli! Come sempre, rivolgo un grazie particolare alle persone che hanno lasciato una recensione al capitolo precedente! Queste sono: _Bara no Yami_ ; Tigre Rossa ; AleJ_and_Mizu ; Catwarrior ; Serytia e LisaBelle_99
Grazie di cuore! E ora, torniamo alla fanfiction!
Ecco a voi il prossimo capitolo!


CAPITOLO   13

Mi svegliai lentamente, mettendo pian piano a fuoco una stanza che non era la mia. Il suono calmo e ritmico della pioggia su un vetro mi informò del temporale in corso. Muovendomi appena nel letto sul quale ero adagiato, iniziai ad associare gli oggetti e la camera a ricordi e pensieri.
Raph
Non ci misi molto a capire che la stanza era la sua. Inoltre, dopo tutto quello che era successo non molto prima, era impossibile dimenticare gli avvenimenti.
Quel lunedì, e di conseguenza quella settimana, era cominciato davvero male.
L’unica cosa positiva che ero riuscito a fare è stata accettare di andare a vivere a casa di uno dei miei migliori amici. Mi dispiaceva abbandonare mio padre così, ma anche se quella era la vita che lui aveva scelto per sé, non sarebbe di sicuro stata quella che io avrei scelto per me. No, Giulia e Drake non sarebbero mai entrati a far parte della mia famiglia. Mai. E poi, la persona più simile ad una figura paterna, in quel momento, era Casey Jones. Sebbene lui fosse a lavoro per buona parte della giornata, era sempre riuscito ad informarsi sulla mia salute, era venuto a vedere la mia partita di Football e mi avrebbe addirittura permesso di abitare sotto il suo stesso tetto.
Mi sentii un po’ in colpa nei confronti di mio padre per quei pensieri, ma scacciai via il rimorso tutto in un momento, scuotendo la testa e mordendo fortemente il labbro inferiore. Un lieve sapore metallico di sangue riempì il mio palato.
Era il momento di pensare a me stesso prima di tutto. Per lui, oramai, avevo già sacrificato sei anni della mia vita convivendo con il mio fratellastro.
Raccolsi dalle tasche dei miei jeans consumati il mio telefono scuro, aprendo lo schermo per controllare l’ora.
Ad attirare la mia attenzione, però, non fu la scritta nera composta da un orario e una data. No, fu ciò che la sottostava:
quattro chiamate perse e cinque messaggi. Uh. Mi addormento per un attimo e succede il finimondo. Curioso, tolsi il blocco inserendo il pin e notai che ad avermi chiamato così ripetutamente era stato mio padre.
Anche quattro messaggi erano suoi, mentre uno era del papà di Raph.
Leggermente sconvolto, iniziai a preoccuparmi.
Ero solo in camera, perciò non ebbi occasione di chiedere al mio migliore amico se ne sapesse qualcosa.
Indeciso, pensai sul da farsi: richiamarlo oppure no?
Non avevo ancora trovato un modo per informarlo del mio momentaneo trasferimento.
Scrollai le spalle rilasciando un sospiro stanco e passai a controllare ciò che mi aveva scritto nei suoi SMS.


Leo sono tornato a casa dal lavoro prima oggi ma quando sono venuto a cercarti non eri in camera tua, dove sei?
 




Leonardo, rispondi per favore. Lo sai che non mi piace non sapere dove sei.






D’accordo Leonardo, sto incominciando a preoccuparmi. Dove sei?

 





Leonardo, spero per te che questo non sia uno scherzo di pessimo gusto, mi sto preoccupando da morire



Ups. Aveva scelto il momento peggiore per scrivermi. Stavo per rispondergli quando mi ricordai dell’ultimo e quinto messaggio.
Premendo il tasto indietro e andando nei ‘ricevuti’, scorsi l’elenco con lo sguardo ed arrivai al più recente.


Hey, Leo!
Ho sentito Raph, mi ha detto che ti fermerai da noi per un po’ di tempo! Beh, benvenuto a casa Jones!
Non sarò molto presente a causa del lavoro, ma voglio tu sappia che sono davvero felice di ospitarti da noi!
Ah, un’altra cosa! Non preoccuparti, mi ha chiamato tuo padre e ci ho pensato io a spiegargli la situazione. Non ho accennato completamente alla storia di Drake, perché so che non ne saresti stato felice, ma comunque tuo padre ha detto che va bene per lui se ti fermi da noi.
Ad ogni modo, adesso devo andare.
Se il mio capo mi trova al telefono posso dire addio al lavoro!
Stammi bene e di a Raph che il suo vecchio lo saluta!

 
Sorrisi leggendo l’ultimo messaggio. Quell’uomo lo adoravo già.
Comunque, mi resi conto di dover andare a cercare Raph, anche perché non mi trovavo veramente confortevole nel essere da solo nella casa di qualcun altro. Sperai perciò vivamente che lui non fosse uscito.
Mi alzai il meno rumorosamente possibile e mi voltai, per poi cercare di risistemare il letto togliendo le pieghe che si erano formate.
Quando le coperte rosse tornarono a giacere in un piano lineare, mi recai con passo insicuro verso la porta della stanza, la aprii grazie alla maniglia dorata e la feci involontariamente cigolare accanto ai miei piedi.
Quando il rumore ruppe il silenzio che si era formato nell’aria, potei udire qualcuno fare dei passi al piano di sotto e fermarsi improvvisamente.
Ingoiai un groppo che mi si era formato in gola e costrinsi le mie gambe a muoversi verso le scale chiare.
Le scesi velocemente, saltando qualche grandino di tanto in tanto.
Alla fine della rampa, mi ritrovai ad allungare lievemente il collo in direzione della cucina, dove potei vedere parte della sagoma di qualcuno sulla soglia della porta.
Mentre mi mossi per andare nella stanza, le mie scarpe pestarono i loro stessi lacci bianchi, ormai sporchi e consumati, e io dovetti dare prova del mio equilibrio per non inciamparmi e cadere in avanti, faccia a terra.
“Hey, Leo” mormorò una voce a me familiare. Alzai la testa, incontrando con gli occhi il sorriso divertito di Raphael.
“Hey” risposi, per poi inginocchiarmi e portare le mani ai laccetti, unendoli con una presa salda e creando un nodo, sovrastato da un fiocco.
Le due asole toccavano appena terra, ma ero sicuro che non le avrei più sentite sotto le suole “Tuo padre ti saluta” riferii, cercando di fare conversazione e non attirare l’attenzione sulla mia goffaggine.
Già, per essere un ex-giocatore di Football ne avevo molta.
Lui sollevò un sopracciglio in uno sguardo curioso, domandando silenziosamente una domanda a cui io risposi con una lieve scossa del capo. Aprii nuovamente il messaggio e lanciai il mio telefono al castano, il quale lo afferrò facilmente con la mano destra.
Mentre lui leggeva, io osservai il mutare delle sue espressioni, collegandole ad un ipotetico pensiero.
Raph sorrise verso alla fine e mi ridiede l’apparecchio elettronico.
“Cosa stavi facendo?” chiesi, sentendomi ancora un po’ imbarazzato per essermi addormentato in camera sua senza preavviso. Nemmeno io mi aspettavo succedesse, suppongo fossi semplicemente troppo stanco e distrutto. Fisicamente ed emotivamente.
Mi accomodai in una delle sedie intorno al tavolo scuro e aspettai la risposta alla mia domanda. Dondolando le gambe in modo alternato, presi ad osservare i soprammobili e le vecchie foto, tutte con una cornice dorata o argentea.
Col mio olfatto ero riuscito a cogliere una buona scia nell’aria, che pian piano vinceva sull’odore tipico della casa.
Entrambi i profumi erano di mio gradimento.
“Prima che tu crollassi sul mio letto, ci avevo preparato un paio di hot dogs. Ormai si erano raffreddati, quindi ho pensato di metterli nel microonde per riscaldarli”
“Oh” mormorai, indeciso su come rispondere “Beh, grazie”
Offrii un sorriso, il quale venne ricambiato.
Aspettando in silenzio che il tempo passasse, sempre accompagnati dal suono della pioggia, capii che non vi era bisogno che specificassi che quel ‘grazie’ non era solo per i panini. Ma anche per avermi permesso di andare ad abitare da lui. Anzi, per averlo proposto.
E in buona parte quel ‘grazie’ era anche rivolto a Mikey e Donnie.
Tutti e tre erano davvero il meglio che potessi chiedere.
E anche se non eravamo ancora nel pieno della nostra amicizia, potevo sentire che presto, insieme, avremmo davvero imparato a prenderci cura l’uno dell’altro.
E la cosa migliore era sapere che anche loro si sentivano come me. Perché io ero sicuro lo facessero. Ne avevo la consapevolezza.
Non vedevo l’ora di incontrarmi anche con gli altri, volevo stringerli tutti in un abbraccio. Inoltre, ero convinto che non passassimo abbastanza tempo tutti e quattro insieme.
Presto il mio palato fu cosparso di un sapore davvero delizioso, mentre ingurgitavamo la nostra merenda.
Il calore che scendeva lungo l’esofago era più piacevole che fastidioso e l’essenza della carne si faceva sentire in tutta la sua squisitezza.
Mente ingoiavo l’ultimo pezzo notai qualcosa di gonfio e scuro sostare in soggiorno, davanti ai divani.
Con sguardo confuso osservai il mio migliore amico “E quello?” chiesi, indicandolo con un cenno del capo.
Raph smise di mangiare e seguì il mio sguardo, capendo poi a che cosa mi riferivo.
“Beh, a meno che tu non voglia dormire sul pavimento, direi che abbiamo bisogno di un letto no?” rispose, sollevando le spalle per poi riabbassarle.
Annuii, ammettendo mentalmente di aver fatto una domanda parecchio stupida e riconoscendo nell’ombra della sala un materasso gonfiabile.
“Dopo dovremo portarlo su, comunque” affermò, tornando a portare le sue attenzioni a ciò che rimaneva del suo hot dog.
“Uh-uh” confermai, muovendo la testa in alto e in basso.
Ci ritrovammo presto in un silenzio imbarazzante.
“Dunque…” iniziai, cercando qualche fattibile argomento di cui discutere.
“Hey, mi è appena venuta in mente una cosa!” esclamò ad un tratto, ignorando completamente ciò che avevo tentato di dire prima. Cosa per cui fui, comunque, totalmente grato.
“Che cosa?” domandai, interessato nel vedere tanto entusiasmo nel suo volto.
“Guarda qua!” gridò, uscendo dalla stanza correndo, per poi ritornare altrettanto di corsa, con qualcosa di colorato che si muoveva nella sua mano.
Lo appoggiò sul tavolo sotto al mio naso ed io potei vedere un volantino dai colori sgargianti.
La scritta in alto, grande quanto metà foglio, citava: ‘CORSO DI NINJUTSU’ a caratteri cubitali.
Sotto, più in basso, numeri di telefono ed indirizzi erano mischiati ad informazioni sui costi dei corsi, suddivisi in base a livello di esperienza ed età. Notai con ammirazione che i prezzi non erano per niente alti. Al contrario, anche fin troppo bassi. Non che mi lamentassi, ovviamente.
Non potei negare di esserne affascinato.
“Non è una cosa fantastica?!” mi chiese. Uscii dai miei pensieri e annuii euforicamente.
“Ne ho già parlato con mio padre e ha detto che per lui va benissimo se mi iscrivo. Certo, dovrò frequentare il corso con una sola ora a settimana, visto che è più conveniente per i soldi e tutto ma… E’ comunque perfetto! Potremmo andarci, io, te, Mikey e Donnie!”
Lo guardai tristemente.
“Mi piacerebbe tantissimo Raph, davvero, ma mio padre deve già affrontare i costi del corso di chitarra e, sebbene quelli di questa palestra non siano elevati, non credo sia giusto nei suoi confronti chiedergli di pagarmi anche un secondo corso. Specialmente ora che non abito più a casa”
“Cosa?! E non puoi… Non so, rinunciare alla chitarra?”
“Credimi, Raph, lo farei molto volentieri, ma ho già provato a smettere. Mio padre semplicemente vuole che io continui ad andarci”
Sulla sua faccia comparvero diverse espressioni: delusione, seccatura, tristezza e perfino rabbia.
Suppongo di avergli rovinato i piani.
Poi però tornò normale e affermò deciso:
“Facciamo così: noi andiamo ad una serata-prova per dare un’occhiata a questo allenamento di ninjutsu. Se ci piace, allora convinceremo tuo padre a lasciarti frequentare la palestra e lasciare la scuola di musica! E, se lui continuerà a non volere che tu smetta di suonare, beh, lasceremo che mio padre parli con lui!”
Stavo quasi per ribattere ma poi mi ricordai di ciò che mi ero prestabilito quel giorno stesso: i miei desideri, le mie passioni e me stesso prima di tutto.
Annuii di nuovo e ci scambiammo un sorriso d’intesa.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


LEGGETE PER FAVORE!

Salve a tutti! Scusate se l'intro sarà mooolto breve, perché sono davvero di fretta! Perdonatemi quindi se non ho messo i ringraziamenti o ancora risposto alle recensioni, ma adesso ho proprio poco tempo e lo devo usare per la cosa più importante: implorare perdono. Scusatemi davvero tantissimo per essere sparita così, ma poco dopo aver aggiornato il mio computer è andato in palla e l'ho dobuto aggiustare, una settimana dopo sono partita per la montagna (di nuovo) e avevo a disposizione pochissimo 3G col telefono (che ho usato principalmente per DeviantArt). Perciò mi inginocchio virtualmente e chiedo davvero scusa. Perdonatemi per non avervi fatto avere notizie!
Spero il capitolo vi piaccia! (Domani se riesco risponderò alle recensioni dello scorso capitolo)
Adesso scusate ma devo andare, incollo il capitolo e aggiorno!
Spero non ci siano errori (non ho avuto il tempo di aggiustarlo e volevo davvero caricare)


CAPITOLO  14

Il giorno dopo, né io né Raph andammo a scuola, ancora troppo stressati per gli avvenimenti precedenti. Avendolo deciso la sera precedente, io e il mio amico ci eravamo recati a letto solo verso una tarda ora. Casey a riuscito ad essere a casa per cena, perciò i nostri stomaci si erano riempiti con qualcosa di più di un semplice hot dog.
Ad ogni modo, quando la mattina mi sveglia, la mia schiena si lamentò del materasso gonfiabile, che era meno comodo di quel che sembrava, e dovetti scrocchiarla eseguendo un torsione.
Non che mi dispiacesse, comunque, dormirci sopra. Ho passato cinque anni su un letto con le molle rotte.
Mi guardai intorno con vista annebbiata e sbadigliai, il sonno ancora presente nel mio corpo.
Mi voltai per essere faccia a faccia con Raph che, a quanto pare, era immerso in sogni profondi. Lanciando un’occhiata al soffitto della stanza, potei notare l’orario scritto in rosso, proiettato grazie alla sveglia sul comodino del castano.
Grugnii il più silenziosamente possibile cercando di non svegliare quest’ultimo, mentre mi rendevo conto che, essendo solo le sette del mattino, sarebbe passato parecchio tempo prima che il mio compagno di stanza decidesse di alzarsi.
Chiudendo gli occhi, cercai di rimettermi a dormire, provando nel frattempo a rallentare il respiro e a regolarizzarlo, agevolando così il sonno. Quando riaprii gli occhi, notai con stupore che erano ormai le 9:57 del mattino, sebbene sembrava fossero passati solo pochi minuti.
Mi misi a sedere sul letto, facendo correre una mano per i miei capelli spettinati e cercando di capire se anche Raph fosse sveglio o meno.
Le mie dita raggiunsero gli occhi, dai quali tolsero delle fastidiose cispe.
Sentii un lamento sommesso alla mia destra e mi voltai per vedere le palpebre del mio vicino (potevo ancora considerarlo un vicino?) sollevarsi lentamente, mentre i suoi occhi verdi scintillanti si mostravano pian piano.
Devo ammetterlo, lo invidiavo per i suoi occhi. Erano davvero magnifici e non so cosa avrei dato per averli.
Osservai di nuovo l’orario. In quel momento, a scuola, ci sarebbe probabilmente stato un cambio d’ora ed io ebbi la premura di mandare un messaggio a Donnie per dirgli che stavo bene, dopo quello che era successo ieri. Ieri. Tutto ciò era successo in meno di ventiquattro ore eppure sembravano essere passati secoli da quando avevo camminato l’ultima volta tra le mura di casa mia.
Il castano nel letto accanto al mio materasso premette il viso nel cuscino bianco,  stringendone i bordi accanto alle sue orecchie.
“Ugh, odio le mattine” mormorò.
“Non lo avevo notato” risposi, ridendo appena. All’improvviso dal mio stomaco si levò un ruggito implorante, chiedendo di essere riempito con un pasto sostanzioso.
Sentì una lieve risata riempire la stanza e sostituire la mia.
“Si direbbe che qualcuno qui ha fame” disse.
Quando scendemmo in cucina, trovammo Casey seduto a tavola, il giornale in una mano e aperto sulla pagina sportiva, una tazza fumante di caffè nell’altra.
Alzò lo sguardo e ci vide entrare nella stanza.
Il suo volto si illuminò in un sorriso che partiva da un orecchio e finiva dall’altro.
“Ragazzi, volete qualcosa da mangiare? Preparo io! Oh, Leo, piaciuta la tua prima notte a casa Jones?”
“Ovviamente sì ” risposi, sentendo il mio umore migliorare.
Raph roteò gli occhi a tanta eccitazione da parte del padre, poi affermò deciso:
“Preparo io la colazione non preoccuparti” si girò verso di me “Abbiamo dei pancakes, vanno bene?”
Annuii.
Poco dopo eravamo seduti sulle sedie di legno anche noi, gustando quel cibo delizioso e impugnando bicchieri di vetro riempiti con del succo.
“Scusate ragazzi, ma adesso devo andare a lavoro” ci informò Casey, infilando una giacca beige e stringendo una cravatta al collo. Essendo io abituato a vederlo in abiti sportivi, maglie larghe e jeans cascanti, rimasi parecchio sconvolto alla vista.
Cercai di non darlo a vedere ed assunsi un’espressione neutrale
Sì avvicinò a suo figlio, gli prese il viso tra le mani e gli diede un bacio sulla testa. Raph si scostò bruscamente: “Ew, papà!” Il suo lamento causò la risata mia e di Casey.
Quest’ultimo mi scompigliò i capelli e raccolse una valigetta marrone da terra, poi uscì di casa e si chiuse la porta scura dietro alle spalle.
Dopo non molto, potemmo sentire il motore della sua macchina essere messo in moto.


****
Seguii Raph per le strade polverose mentre il sole batteva sulle nostre teste e scaldava il cemento sotto i nostri piedi.
Il vento muoveva le fronde verdi degli alberi, situati sui lati più esterni dei marciapiedi grigi.
Un dolce profumo riempiva l’aria mentre passavamo davanti alla pasticceria, la porta del negozio era aperta e una lunga fila sostava davanti alla cassa, sebbene fosse pieno pomeriggio.
Un motorino ci passò accanto velocemente, fino a scomparire in fondo alla via.
Un forte riflesso luccicava sui cofani colorati delle macchine per colpa della luce solare che li colpiva.
Stavamo andando a casa di Donatello, che ci aveva invitati dopo aver scoperto ciò che era successo ieri.
Fissai intensamente la testa di Raph, ancora sconvolto per quello che aveva fatto solo un’ora prima.
Osservai quelli che dovevano essere capelli castani… e che invece erano di un rosso tendente al rame.
Non completamente, quelli più interni e bassi erano ancora scuri ma… non era per niente la stessa cosa.


Non stava male, assolutamente no, però... era comunque strano guardarlo.
“Hai finito?” chiese bruscamente, ma cercando di nascondere un sorrisetto.
“Sìsì” risposi ridendo.
Riuscivo a vedere il volantino della palestra nella tasca della sua felpa. Si poteva dire che quel corso era la chiave della sua felicità.
Quando arrivammo di fronte alla casa di Mikey, la superammo e cercammo trai campanelli il nome ‘Stockman’, cognome di Donatello.
Era una villetta a schiera di mattoni marroni e la porta principale era sovrastata da un arco a volta bianco, così come le finestre.
Il cancello di ferro era affiancato da due colonne, anch’esse in mattoni.
La vista era molto elegante e noi esitammo a suonare, notando il contrasto tra tale dimora e il nostro abbigliamento.
“Uh…” mormorai, insicuro di cosa dire.
A un certo punto la porta di casa si aprì, rivelando il nostro migliore amico tecnologico, seguito da Michelangelo.
“Ehi ragazzi!” esclamò Donnie “Vi abbiamo visti dalla finestra in cucina venite dentro” premette un pulsante nascosto alla nostra visuale, il quale si trovava infatti dentro accanto al citofono.
Il cancello fece uno strano rumore e si aprì.
Spingendolo in avanti, riuscimmo a liberare la strada e ad entrare.
Attraversando il giardino, arrivammo fino alla soglia ed entrammo, pulendoci prima i piedi sullo zerbino.
L’esterno non era nulla in confronto all’interno: foto incorniciate, diplomi appesi al muro, un mobilio elegante e pregiato e tantissimi oggetti di vetro scintillante. Il tutto dava alla casa una aria fragile ma sofisticata.
Non riuscii a trattenere un ‘wow’ e quasi non mi accorsi di Mikey che saltava tutto intorno a Raph commentando positivamente il suo nuovo look.
“Andiamo di sopra, in camera mia” offrì Donnie. Tutti lo seguimmo per le scale di marmo.
Al primo piano trovammo diverse porte chiuse e il nostro amico si fermò di fronte ad una, aprendola lentamente.
Nell’aria c’era un che di misterioso. Mi sarebbe piaciuto continuare a salire i gradini fino al secondo piano e scuriosare in ogni stanza ma ero consapevole che non sarebbe stato proprio ‘cortese’.
A differenza mia e di Raph, Mikey sembrava a suo agio in quella abitazione, e filò tranquillamente dentro alla camera del genio.
Esitai, ma infine entrai anch’io, seguito dal rosso.
Rimasi a bocca aperta. Altro che scrivania rotta e sparsa sul pavimento. La mia camera era letteralmente orribile in confronto alla sua: le pareti erano di un viola scuro tendente al blu, come il cosmo, il letto a due piazze ben rifatto, due librerie riempite di libri che non avrei mai compreso e una scrivania riempita di oggetti strani e aggeggi tecnologici. Potevo vedere un computer, un microscopio e diversi fogli con calcoli infiniti.
Il pavimento era pulito e nella stanza non si vedeva un granello di polvere.
Su degli scaffali vi erano altre cose, probabilmente costruite da lui, e cartelle ordinate in ordine alfabetico.
In un lato della stanza sostava un acquario basso e aperto in alto, con dell’acqua che riempiva fino a metà del vetro e delle grandi rocce in un angolo. Accanto vi era tutto il necessario per occuparsi di esso e del mangime. All’interno, però, non vi erano pesci dai colori sgargianti. No, vi erano quattro, piccole, tartarughe.
Ci disse di averle comprate due giorni fa e di averle nominate come noi.
“Davvero?” chiesi, non aspettandomelo.
“Già” confermò, con un sorriso soddisfatto e gli occhi chiusi “E’ stat un’idea di Mikey. Dice che gli ricordavano un sogno che aveva fatto”
Sorrisi guardando il biondino, mentre alzava il pollice destro. Ci scambiammo un veloce occhiolino.
“E chi è chi?” domandò Raphael, osservando i piccoli rettili.
“Mikey è la tartaruga che nuota in continuazione, è fin troppo energetica per essere così piccola” spiegò, mentre io notavo uno dei quattro esseri nuotare da una parta del vetro all’altra, senza fermarsi. Capivo il punto di vista di Donnie.
Il biondino si avvicinò e la prese in mano, strusciando la guancia contro il guscio.
“Donnie è la tartaruga con più puntini nel piastrone, visto che osserva sempre quello che faccio quando lavoro. Cioè, okay, lo so che non ha molto senso, ma mi sembra la più curiosa e di conseguenza mi riconosco di più in lei”
Annuii, imitato dal rosso.
“Raph è quella lì” disse, indicandone una “Si riconosce perché il guscio ha un colore leggermente più scuro. E’ stato quello più diffidente e aggressivo dall’inizio. Quando l’ho preso in mano la prima volta ha provato a mordermi”
Il  volto del rosso assunse un sorrisetto soddisfatto.
“E invece Leo è questa. E’ la più calma di tutte. Sembra bilanciarle, diciamo”
Sembra bilanciarle…Cercai di riflettere sulle sue parole e ad applicarle alla nostra vita. Non mi sembrava trovarvi un senso, ma forse era qualcosa che non potevo capire. D’altronde, era il punto di vista di Donnie. Tuttavia dovetti confermare sulla parte ‘più tranquilla’.
“Okay ragazzi, passiamo a cose più importanti!” affermò deciso Raph.
Sapevo già dove stava andando quella conversazione.
E come mi aspettavo infilò la mano nella tasca e tirò fuori il biglietto piegato in quattro parti. Lo aprì e lo mostrò agli altri.
“Allora?” chiese, con un sorriso.
“Un corso di ninjutsu? Forte!” esclamò deciso Mikey.
“Mi piace l’idea” approvò Donatello “Dice che si può assistere a una serata prova venerdì”
“Già” confermò Raphael “E noi ci andremo!”
Ero un po’ insicuro, ma vedendo lo stupore e l’approvazione sul volto degli altri non ebbi il cuore di rovinargli i programmi.
Annuii agli altri:
“D’accordo”



 
 

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Ehilà bella gente :D
Allora, sono davvero felice di informarvi che i personaggi si stanno ampliando. Tra questo e il prossimo capitolo dovrebbero essercene due o tre nuovi :) E, sebbene all'inizio fossi un po' incerta sulla loro comparsa, adesso sono veramente soddisfatta. Continuo comunque a temere che i personaggi siano un po' OOC, spero non vi dispiaccia e di averli resi il più realistici possibile.
Prima di lasciarvi il capitolo ringrazio fortemente chiunque abbia messo la storia tra le preferite/seguite/da ricordare e particolarmente chi ha lasciato una recensione! Quest'ultimi sono:
_Bara No Yami_ ;  AleJ_and_Mizu ; Ser Barbs ; CatWarrior ; LisaBelle_99 e attemptastic
Grazie di cuore gente <3!
 

CAPITOLO 15

Non che l’idea di imparare il ninjutsu non mi piacesse ma mi sentivo parecchio nervoso a chiedere a mio padre i soldi per il corso.
Era il pomeriggio del giorno dopo. La scuola era finita con un’ora d’anticipo grazie all’assenza di un insegnante e noi quattro avevamo speso il tempo che ci avanzava vagabondando per le vie vicine in compagnia.
Donnie e Mikey non avevano avuto problemi a fermarsi con noi per aspettare il pullman: da loro, a casa, non c’era nessuno che li aspettava.
Il castano aveva un braccio attorno le spalle del biondo mentre eravamo seduti su una panchina rossa.
Avevamo parlato dei primi argomenti che ci erano passati per la mente ma, soprattutto, del corso di arti marziali.
Stando a una ricerca del nostro accurato genio, l’insegnante si faceva chiamare da tutti gli allievi per il suo cognome, Splinter.
Il nome non era riuscito a procurarselo.
Quando il mezzo di trasporto pubblico si fermò davanti ai nostri piedi, salutammo gli altri e vi salimmo sopra.
Anche sul bus, Raph non riusciva a fare a meno di parlare della palestra. Stava diventando davvero noioso, se non fastidioso. Ma non ebbi il cuore di dirglielo, dopo tutto quello che stava facendo per me.
“Ah, giusto…” mormorò verso la terza fermata. “Dopo pranzo io e mio padre abbiamo un impegno… Vorrei tu potessi venire, ma è per un lavoro quest’estate. Sono riuscito a convincere mio padre a farmene prendere uno e forse abbiamo trovato quello giusto. Perciò, sì, ecco…”
“Non preoccuparti, nessun problema!” affermai, deciso, sebbene di problemi ce ne fossero eccome. Non ero proprio eccitato all’idea di annoiarmi tutto il pomeriggio, figuriamoci passare la giornata a casa del mio migliore amico da solo. Proprio adesso che avevo la possibilità di avere sempre qualcuno al mio fianco “Che tipo di lavoro si tratta?” cercai di mostrare il più interesse possibile nel mio tono. Ci riuscii; Cosa di cui fui letteralmente grato, visto che il rosso sembrava essere sollevato ed euforico “E’ un’officina di moto. Cercano qualcuno che gli dia una mano”
“Moto? Te ne intendi davvero?”
“Già. Mio padre mi ha sempre insegnato un sacco di cose e adesso posso tranquillamente mettere le mani su un motore senza farlo scoppiare. E’ per questo che vado là oggi, vogliono farmi provare a smontare pezzi, rimontarli… Sai, cose del genere”
“Beh, allora complimenti. Io probabilmente non potrei nemmeno toccare qualcosa senza mandarla a fuoco” ammisi, strofinando il retro del mio collo col palmo della mano.
Lui rise e insieme continuammo a parlare del più e del meno.
Arrivati alla nostra fermata, raccogliemmo gli zaini e scendemmo i gradini del mezzo di trasporto,  fino a toccare terra.
Ci gustammo una pizza surgelata per pranzo e aspettammo che Casey tornasse dal lavoro.
Quando l’uomo rincasò, salutò entrambi e si affrettò a mandare suo figlio a prepararsi.
“Ehi, Leo! Raph ti ha già detto tutto, immagino” annuii “Saremo a casa verso sera, perciò…non so… tu fa come se fossi a casa tua! O se preferisci puoi uscire e andare a fare un giro, oppure-”
“Ha capito papà, sa badare a sé stesso” sbottò il mio migliore amico mentre scendeva le scale.
“Giusto! Giusto…” rispose l’altro, e potevo dire si stesse sentendo imbarazzato.
Non riuscii a trattenere una risatina prima di dire “Raph ha ragione, starò bene”
Entrambi mi salutarono e si avviarono verso la porta: la aprirono, lasciandola cigolare piano, si voltarono per salutarmi ed uscirono, richiudendola dietro di loro.
Mi avvicinai all’uscio e vi poggiai la fronte sopra, ascoltando lentamente i rumori esterni: dei passi sulla ghiaia scricchiolante, due portiere che si aprivano fendendo l’aria e che si richiudevano con altrettanta velocità, una macchina che veniva messa in moto e la stessa lasciare il vialetto.
Il suono si attutì fino a scomparire, mentre immaginavo la strada che l’auto stesse facendo.
Mi lasciai scivolare dolcemente contro il legno scuro, fino a quando il mio fondoschiena non toccò le piastrelle del pavimento.
Seduto per terra, nell’ingresso di una casa non mia, con le gambe divaricate e stese, non potevo fare a meno di chiedermi cosa avrei fatto per le prossime ore.
Alzai lo sguardo per incontrare l’antico orologio di quercia attaccato alla parete di fronte a me: il pendolo dorato oscillava docilmente da una parte all’altra e le lancette indicavano le due e trentacinque.
Uh. Sarebbe stato un lungo pomeriggio.
Mi alzai lentamente con malavoglia espressa in tutto il mio viso.
Adesso, vi starete chiedendo cosa c’entri la prima frase di questo capitolo con tutto il resto. Beh, quando mi avvicinai al lavandino della cucina per prendere un bicchiere d’acqua, qualcosa al di fuori della finestra attirò la mia attenzione.
Dimenticandomi completamente della mia sete, mi avvicinai al vetro e cercai di vedere bene oltre alla staccionata che separava casa mia da quella di Raph.
Sgranai gli occhi: al posto della macchina di Giulia, vi era parcheggiata quella di mio padre.
Ricontrollai l’orario. Non doveva essere a lavoro in quel momento?
All’improvviso, come se qualcuno mi avesse letto nella mente, sentii il mio telefono vibrare contro la superficie del tavolo in cucina.
Mi avvicinai e lo raccolsi tra le mie dita, sollevando lo schermo con un gesto secco.

1 nuovo messaggio: papà


Ingoiai un groppo in gola che non sapevo di avere.
Lo aprii velocemente, desiderando che Raph fosse stato lì con me in quel momento. O Donnie. O Mikey. O anche Casey.


Leo, come stai?

Mi rincresceva ammettere che io e lui non ci eravamo sentiti per niente in quei tre giorni.
Nemmeno un ciao.
Mi morsi il labbro inferiore, insicuro su cosa fare. Cercai di pensare a che cosa potesse mirare mio padre. Ma, in effetti, oltre a riavere suo figlio a casa non c’era nulla che potesse volere da me.
Digitai le parole schiacciando i tasti della tastiera fortemente:



Bene. Tu?


Mi sedetti su una delle sedie per timore che le mie gambe cedessero. Una situazione così normale, ma allo stesso tempo delicata, era abbastanza per rendere il mio corpo gelatinoso. Sentivo il cuore pompare il sangue più velocemente per una sensazione che associavo sempre la paura.
Paura? Perché? E di cosa? Di mio padre? Non lo sapevo. Però ero sicuro che quello fosse timore. Le fitte e i crampi allo stomaco, quelle vibrazioni che partivano dal petto fino alle ginocchia e un mal di testa nella parte bassa del retro del mio capo.
La sua risposta tardò un po’ ad arrivare.


Starei meglio se tu fossi qui. O se almeno mi parlassi dei tuoi problemi.
Tutto quello che so è che mio figlio non è qui al mio fianco. Non vuole più abitare nella mia stessa casa e nemmeno ne conosco il motivo… Non pensi che qualunque padre meriti una spiegazione? Anche un pessimo padre come me?



Un forte senso di colpa si diffuse completamente nel mio corpo, lasciandomi senza fiato.
Non immaginavo tenesse tali opinioni dentro di sé.
Mi affrettai a digitare il testo del messaggio che avevo intenzione di spedirgli. Le parole comparirono sullo schermo senza che io nemmeno me ne rendessi conto. I miei pensieri si stavano riversando senza che io realmente ci pensassi, per quanto strano possa suonare. Era il mio cuore a parlare, non il mio cervello.
La parte irrazionale aveva preso il sopravvento su quella razionale.



Non sei affatto un pessimo padre! Mi dispiace per averti indotto a pensare qualcosa del genere. Ti prego, smettila di parlare così, tu davvero non ne hai colpa… Senti…Sono venuto con Raph perché non vado d’accordo con Drake. Niente di cui tu ti debba preoccupare, ma finalmente ho degli amici qui accanto a me. Robin? L’ultima cosa che ho sentito da lui è stato il suo pugno sul mio naso. La squadra di Football? Te l’ho detto che l’ho lasciata? Giusto dopo averle fatto vincere una delle partite più importanti.
Papà io nuovi amici adesso. Sono stato solo per sei anni. Adesso Michelangelo, Donatello e Raphael sono sempre al mio fianco. E io al loro. Io capisco che hai bisogno del tuo lavoro, ma io ho bisogno di qualcuno. Trasferirmi qui ha fatto sì che ognuno avesse ciò di cui ha bisogno.



Inviai il messaggio prima di realizzarlo.
Le lancette ticchettavano e il suono in quel silenzio era più forte di un temporale.


Leo, ma perché non mi hai mai detto niente? Sei mio figlio, ti amo con tutto il mio cuore e ho bisogno che tu mi dica che cos’è meglio per te così che io possa aiutarti.
Mi dispiace di non esserti stato accanto in tutti questi anni.
Non c’è modo di rimediare, vero?




Pensai alla sua domanda e ancora una volta frasi iniziarono a comparire sullo schermo del cellulare.


Penso di sì. Ma bisogna fare un passo alla volta per evitare di inciampare.
Penso di sapere con che cosa potremmo iniziare.
Hai presente il corso di chitarra? Non voglio più andarci. Sul serio, basta. Io e i ragazzi abbiamo trovato un corso di ninjutsu a basso prezzo e mi piacerebbe davvero poterlo frequentare.



Corso di ninjutsu? Sì, ho visto il volantino nella nostra cassetta della posta. D’accordo, se è ciò che vuoi, possiamo iniziare da quello.
Sono felice tu abbia deciso di darmi un’altra possibilità, Leo.
Lo ripeto e non mi stancherò mai di farlo: Sono tuo padre e ti amo.
Sono fiero di te.



Sentii lacrime calde solcarmi il viso. Abbandonai il telefono sul tavolo di legno della cucina di Raph e corsi a casa mia, suonando il campanello  ripetutamente finché non vidi il suo viso venire ad aprirmi.
Abbracciai mio padre fino a stritolarlo, stringendolo forte mentre lui si aggrappava a me per non lasciarmi andare. I nostri singhiozzi si unirono in un unico suono.
 
***
 
Non rimasi a lungo da mio padre. Gestire tutte quelle emozioni in un momento era troppo anche per me. Felicità, confusione, tristezza, commozione… erano ancora vivide sulla mia pelle.
Però, quando uscii da quella porta, sentii una scarica di gioia percorrere il mio corpo, dal capo ai piedi.
Ero tentato da andare a ‘casa’ ma notai con tristezza che erano solo le tre e venti. Sarebbe passato molto tempo prima che il mio vicino di casa tornasse.
Avrei volentieri chiamato Donnie  e Mikey, ma sapevo che il primo era ad una conferenza con il padre mentre il secondo era andato ad una strana conferenza sui fumetti. Peccato perché mi sarebbe davvero piaciuto passare più tempo con loro due.
Mi incamminai allora per le zone più esterne della città, cercando un posto tranquillo.
Comprai una pezzo di pizza in un forno sulla strada e continuai a camminare fino a quando nell’aria non si iniziò a sentire un profumo salato. Mi ricordai del molo in cui mia madre era solita portarmi di sera.
Decisi che quella sarebbe stata la mia destinazione per un po’.
Mi guardai attorno, rendendomi conto che man mano che avanzavo, le persone per le strade iniziavano a scarseggiare.
Accelerai il passo fino a trasformare una passeggiata in una corsa leggera.
La mia meta iniziava a farsi sempre più insistente nei miei pensieri.
Non appena la raggiunsi, rallentai fino a fermarmi. Sentivo l’odore di mare entrare nelle mie narici mentre qualche gabbiano in volo mi sorvolava e strideva.
Camminai sulle travi di legno del pontile e raggiunsi l’estremità finale, dove mi sedetti facendo ciondolare le gambe in modo alternato.
Il cielo rispecchiava le sfumature del mare, che si inscurivano man mano si saliva con lo sguardo e rischiaravano sulla linea dell’orizzonte.
Non vi era un’anima in giro.
Mi sembrava di essere in pace con l’ambiente intorno a me, mentre mi perdevo nei miei pensieri.
Il silenzio non regnò a lungo.
“Buongiorno” sentii una voce dietro di me annunciarsi e mi voltai, incontrando il volto di un uomo.
“Buongiorno” risposi subito, alzandomi in piedi per inchinarmi, come mi era solito fare per mostrare rispetto. Molte persone, come Raph, lo trovavano imbarazzante o stupido, ma per me era importante tenere fede alle abitudini dei miei antenati giapponesi.
Già, mia nonna era di quelle parti.
A mio stupore, l’uomo ricambiò l’inchino.
“Cosa ci fa un ragazzo giovane come te da queste parti? Non mi sembra di ricordare di averti mai incontrato” disse, mentre l’osservavo attentamente.
“In effetti, io abito molto lontano” risposi, interrompendo il contatto con gli occhi per l’imbarazzo “Stavo semplicemente cercando un posto silenzioso in cui riflettere”
L’uomo sembrò capire, mentre passava una mano sulla barba bianca che copriva il mento.
“Devo ammettere che hai scelto un ottimo posto. Io spesso vengo qui per meditare” affermò.
Mi resi subito conto che era molto più alto di me. I suoi capelli castani erano dello stesso colore degli occhi.
“Meditare?” la domanda lasciò la mia bocca prima che me ne accorgessi.
Annuì.
“Wow” mormorai “Ho provato una volta ma non sono mai riuscito a resistere più di dieci minuti”
Quando mi resi conto quello che avevo detto, pensai che l’uomo potesse averlo inteso come un’offesa e mi portai le mani alla bocca, cercando di zittirmi una volta per tutte.
Tuttavia, con mia grande sorpresa, lui si limitò a ridere.
“Magari un giorno potrei insegnarti” offrì.
Pensai un attimo alla proposta.
Mi hanno sempre detto che non dovevo fidarmi degli sconosciuti, ma avevo un buon presentimento su questa persona.
“Mi farebbe piacere” risposi.
“Allora, qual è il tuo nome?” mi domandò.
“Leonardo” rimasi un secondo in silenzio, e poi dissi “Potrei chiedervi il vostro?”
“Dammi pure del tu” asserì, sorridendo “E puoi chiamarmi Splinter”
Spalancai gli occhi.
Cosa?!
Lui era Splinter?! Il corso di ninjutsu mi piaceva sempre più.
Sembrò capire che il suo nome aveva provocato una mia reazione particolare e lo dimostrò quando parlò:
“Qualcosa ti turba Leonardo?”
Mi riscossi dai miei pensieri con un impercettibile movimento del capo.
“Voi… Cioè, tu, sei il proprietario della palestra di arti marziali?”
Il suo sorriso si allargò.
“Temo la risposta sia un sì. Tu come faresti a saperlo?” qualcosa, nella sua voce, mi diceva che lui già conosceva la risposta.
“Beh, ecco, io e dei miei amici volevamo iscriverci” ammisi, arrossendo lievemente.
“Mi fa molto piacere. Permetti?” chiese, porgendo una mano verso la mia fronte.
Quando annuii ve la poggiò sopra e sentii qualcosa di strano sfrecciare dentro di me.
Una scarica mi percorse l’anima.
Tolse la mano.
“Sì. Non vedo l’ora di diventare il tuo maestro, Leonardo. Tuo e dei tuoi amici. Una persona dall’anima pura come la tua non può che essere un ottimo studente”
Mi passò accanto e andò oltre, continuando a camminare mentre io fissavo le onde infrangersi sulla costa, ancora sconvolto dalla sensazione che avevo provato.
Sentii un sussurro “Arrivederci Leonardo”
Mi voltai di scatto, ma con mio stupore ero solo.
L’unica compagnia, i gabbiani bianchi all’orizzonte.



 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Non uccidetemi.
Davvero.
Non sono sicura vi piacerà questo capitolo, sebbene io speri vivamente che lo faccia. Si ampliano un po' i personaggi e ad un certo punto probabilmente succede qualcosa di inaspettato.
Non sono bene come continuare la storia ora, ma vi assicuro che dovrebbe risolversi tutto. Però mi serviva un capitolo in cui succedesse qualcosa di... non so nemmeno come definirlo e non voglio darvi degli spoiler.
Perciò reggetevi forte perché state per leggere un capitolo più lungo di 5000 parole.
Ringrazio chiunque legga o inserisca la storia tra preferite/seguite.
Un particolare grazie rivolto a: AleJ_and_Mizu ; I LOVE RAPH ; LisaBelle_99 ; CatWarrior; Ser Barbs e _Bara no Yami_  Dedico il capitolo a tutte loro, specialmente a quest'ultima che in questi giorni mi ha tenuto molta compagnia ;)
Chiedo scusa per eventuali errori, ma l'ho scritto ieri sera tardi e non ho avuto molto tempo per ricontrollarlo. Volevo assolutamente caricarlo oggi ;)
 


CAPITOLO 16

Inutile dire che quell’incontro mi aveva lasciato parecchio perplesso, se non stupito.
Continuavo a chiedermi come avesse fatto ad andarsene così velocemente, e silenziosamente, e cosa fosse realmente successo nel momento in cui aveva poggiato la sua mano sulla mia fronte.
Le sue parole continuavano a risuonare nella mia mente:
Una persona dall’anima pura come la tua non può che essere un ottimo studente
Anima pura? Non avevo assolutamente nessuna anima pura. Proprio in quel momento invece di essere felice per la possibilità nel futuro di Raph, ero dispiaciuto perché lui mi aveva ‘abbandonato’. Non era quello un pensiero egoista? A mia opinione sì, molto. Stavo reagendo in modo esagerato per qualche ora di solitudine. E, sempre a mio parere, una persona egoista come me non poteva certo avere un’anima pura.
Quando rincasai, notai che il rosso sarebbe tornato a momenti.
Non passò infatti molto tempo prima che sentissi la porta aprirsi con un scatto di serratura e richiudersi con un tonfo.
Scesi le scale di corsa e vidi Raph festeggiare assieme a suo padre.
‘Si direbbe che l’incontro sia andato bene’ pensai, iniziando a sorridere alla vista.
“Oh, Leo!” mi salutò il rosso “L’incontro è andato alla grande! Mi hanno preso subito!”
“Grande!” esclamai. Mi sarebbe piaciuto raccontargli dell’incontro con Splinter ma tra la sua euforia e quella di Casey, gli unici argomenti delle nostre conversazioni erano motori di moto e officine. Non che ci capissi molto, ad essere sinceri.
Riuscii ad accennare al permesso che mio padre mi aveva dato ma il mio migliore amico era tornato a parlare del suo lavoro estivo una seconda volta.
Stavo iniziando a stancarmi. E a sentirmi di nuovo solo.
Invece di rimanere in cucina ad ascoltare per la millesima volta la stessa identica storia, mi scusai dicendo di avere un lieve mal di testa e andai a letto.
Sapevo che era ancora troppo presto per addormentarsi ma avevo un forte bisogno di andare a riposarmi. Avevo passato un paio di notti insonni, la giornata era stata sovraccaricata con diverse emozioni e una forte confusione si stava facendo strada nel mio cervello.
Chiusi gli occhi e ripercorsi mentalmente le mie azioni, cercando di schematizzare mentalmente una mappa che conducesse al molo.
Senza rendermene conto, sprofondai in un sonno profondo.
 
***
Presto arrivò il venerdì.
Ero troppo eccitato al pensiero di rivedere Splinter.
Iniziavo a sentirmi come Raph qualche giorno prima, quando non faceva altro che parlare di tecniche, colpi e palestre.
Mi ero dimenticato di raccontare agli altri del maestro e sinceramente morivo dalla voglia di vedere le loro reazioni quando l’avrebbero scoperto.
Quel giorno, mio padre aveva deciso di accompagnare me e il mio migliore amico alla palestra, cosa di cui fui estremamente felice. Era bello ricominciare ad avere mio padre al mio fianco. Il rosso sembrava diffidente, quasi insicuro. Probabilmente, se avesse ascoltato tutto ciò che avevo da raccontargli, non lo sarebbe stato.
Io d’altra parte chiacchierai con l’uomo seduto al volante tranquillamente, esprimendo le mie emozioni ad alta voce. Mi persi nel suo rassicurante sorriso prima di voltarmi dall’altra parte.
Osservai dal finestrino le case che scivolavano velocemente via dalla mia visuale, così come gli alberi, i lampioni e tutto ciò che si trovava sulla strada.
Un cartello fu presto visibile. Su esso, erano incise a caratteri cubitali le parole:

SCUOLA DI NINJUTSU
Mi trattenni dal saltare sul sedile della macchina, ma un piccolo grido di gioia sfuggì comunque alle mie labbra.
L’edificio non era imponente, al contrario sembrava molto semplice. Era di un colore rosso tendente al marroncino, composto da solo due piani e abbastanza largo.
Da fuori, grazie alle basse finestre, riuscivo a vedere diversi combattenti e individui perfezionare kata, affrontarsi in combattimenti e altri ancora meditare in un angolo.
Fui molto sorpreso di vedere che tutte le diverse attività venivano eseguite su di un singolo ma enorme tatami verde e rosso.
Ovviamente, noi che ci eravamo recati in quella palestra per una semplice lezione-prova, potevamo rimanere con i vestiti normali, evitando di indossare la casacca.
Slaccia la cintura che mi legava al sedile e scesi dalla macchina, seguito dal mio migliore amico, e presi una boccata d’aria, sentendo il profumo di fiori che la componeva.
Iniziai a sentirmi leggero.
Presto anche Mikey e Donnie si unirono a noi. Salutai mio padre con un gesto della mano, che lui ricambiò, e mi avviai verso la porta bianca e chiara.
Prendendo un respiro, appoggiai la mano sulla maniglia ferrea e spinsi in avanti, solo per notare che non si apriva.
Riprovai nuovamente e, ancora una volta, quella rimase chiusa.
“Devi tirare, non spingere, genio” affermò Raph, indicando con un gesto del capo il cartello rettangolare che stava esattamente di fronte ai miei occhi.
Come avevo fatto a non notarlo? Mi sentii arrossire, ma riuscii comunque a lanciare un’occhiataccia al rosso, leggermente infastidito dal suo tono.
Poi procedetti e, finalmente, dischiusi la porta. Entrammo uno dopo l’altro, inosservati da tutte le persone che vi erano all’interno, le quali continuavano a rimanere concentrate su ciò che stavano facendo.
Leggermente insicuro, mi guardai intorno in cerca di Splinter.
Ci facemmo strada verso la stanza in cui era scritto ‘Segreteria’, convinti che forse qualcuno del personale avrebbe potuto aiutarci.
Prima che ci arrivassimo, però, qualcosa sentii qualcosa colpire il lato destro del mio corpo. Mi ritrassi massaggiando con la mano la zona dolente. Quando mi voltai per capire cosa fosse stato, notai un ragazzo dai capelli mori stare proprio in fronte a me.
“Oh, scusami, non ti avevo visto!” esclamò, gli occhi azzurri che osservavano il mio volto in cerca di una qualche espressione.
Doveva essere uscito dagli spogliatoi proprio mentre noi ci passavamo davanti.
“Non preoccuparti” risposi, sorridendo nervosamente. Mi inchinai un po’ e mi presentai “Mi chiamo Leonardo Hamato”
Per mia sorpresa, anche lui si inchinò “Il mio nome è Usagi Miyamoto”
Per un attimo ebbi un Deja-vu.
Il giovane continuò “Vedo con piacere che anche tu hai origini giapponese”
Subito, provai un forte senso di rispetto verso quel giovane. Annuii alla sua affermazione. Presto anche gli altri si introdussero.
“E così state cercando Splinter-Sensei” mormorò, quando gli avemmo spiegato la situazione “Prego, seguitemi, probabilmente è rimasto ai piani di sopra per questioni riguardanti questa scuola. Spesso i genitori vanno da lui per chiedere conferme su diverse cose, specialmente in questo periodo che siamo a corto di personale”
“Che genere di cose?” chiese Donatello, alzando un sopracciglio.
“Come ben sapete, sono molto comuni incidenti durante la pratica delle arti marziali. Perciò la maggior parte delle volte i tutori, parenti o genitori preferiscono essere rassicurati dal maestro stesso sulla sicurezza della palestra”
Il castano annuì, trovando un senso logico in quello che gli era appena stato detto.
Michelangelo, invece di essere silenzioso e calmo come tutti noi altri, emetteva gridulini di eccitazione ogniqualvolta succedesse qualcosa. Una tecnica strepitosa eseguita, qualcuno vincente su qualcun altro o l’utilizzo di armi particolari.
Mentre Usagi ci conduceva al piano di sopra, non potei fare a meno di notare una katana ancora nel fodero nella sua mano destra. Non ne avevo mai vista una da così vicino, eppure era qualcosa che mi era sempre interessato. In quel momento, senza accorgermene, diventare uno spadaccino si era aggiunto alla mia lista di obiettivi.
Nei diversi corridoi, appesi ai muri, vi erano diplomi conseguiti da diverse persone e fogli con scritture giapponesi. Più di una volta mi chiesi cosa volessero significare e il moro li tradusse, capendo il significato dei miei sguardi confusi.
Iniziavo a sentirmi in sintonia con quel ragazzo. A occhio e croce avrei detto che aveva la nostra stessa età, ma quando glielo domandai affermò di essere un anno più grande di noi.
Gli altri rimasero abbastanza silenziosi, specialmente Raph –che aveva uno sguardo che non riuscii a decifrare- mentre io iniziavo e portavo avanti diverse conversazioni con la nostra guida. Mi rivelò di essere molto attratto dalla cultura del Giappone e dai codici morali dei Samurai.
“Bene. Questo è lo studio di Splinter-Sensei” aprendo leggermente il braccio ci indicò una porta di legno chiaro. Mi piaceva il modo in cui parlava. Elegante, rispettoso e persino divertente. “Dovrebbe essere al suo interno. Io devo andare, sono già in ritardo per il mio corso. Spero di rivedervi presto” mentre gli altri lo salutarono a parole o, nel caso di Mikey, con un cenno della mano, io mi inchinai. Il mio gesto venne ricambiato poco dopo dall’altro. “Alla prossima, Leonardo-San”
Il ‘San’ ebbe un forte impatto dentro di me. Nessuno prima d’ora mi aveva mai trattato con tanto omaggio.
Sorrisi “Alla prossima, Usagi-San”
Quest’ultimo poi si allontanò e ci lasciò soli di fronte alla stanza nella quale presto saremmo entrati.
Guardai le facce dei miei migliori amici, cercando di leggere le loro emozioni. Michelangelo, come sempre, era emozionato dalla testa ai piedi; Donatello sembrava nervoso e concitato allo stesso tempo; e Raph… Mi corrucciai quando il volto del rosso mi parve carico di emozioni negative.
Non riuscivo davvero a capire che cosa gli stesse passando per la mente.
Sospirando, mi feci coraggio e bussai un paio di volte, attendendo una risposta dall’interno.
“Prego, entrate pure” Riconobbi la sua voce gentile, difficilmente dimenticabile. Aprii la porta con un cigolio sommesso e feci qualche passo in avanti, colto da un forte ma delizioso odore di incenso. Tutti noi entrammo nella stanza nervosi, con quella strana sensazione di vuoto nello stomaco e il rumore dei battiti forti nelle nostre teste.
Contemplai l’arredamento, cercando di imprimere quanti più dettagli possibili nella mia memoria: ai nostri lati vi erano diverse librerie, che correvano lungo le pareti giallognole ricoperte da libri e carpette contenenti chissà quali documenti importanti. Nella parete di fronte a noi, invece, ve ne era una molto più piccola rispetto alle altre, ricoperta da varie enciclopedie di arti marziali e libri rilegati con scritte giapponesi. Accanto ad essa, più in alto nel muro, erano appesi diplomi di varie specializzazioni, tutte intestate all’uomo che avevo conosciuto l’altro giorno. Più a sinistra era collocato un mobiletto di legno che costudiva diverse armi pregiate, protette da uno spesso vetro. Sullo stesso mobile vi erano tre piccole piante, tra cui un elegante bonsai.
Infine, al centro della stanza, un’enorme scrivania in ciliegio prendeva la maggior parte dello spazio: su di essa erano poggiati alcuni tomi e fogli ordinati, vicino ai quali si ergeva con gran classe una penna nel suo corrispondente calamaio e un telefono nero scuro. Dietro questa scrivania vi era una grande poltrona rossa, su cui era seduto Splinter.
“Ah!” esclamò non appena ci vide all’interno del suo ufficio, sebbene ebbi l’impressione che non fosse davvero sorpreso. Si alzò e ci raggiunse. “Sono felice di vederti qui, Leonardo” Si inchinò e ricambiai il gesto “Questi devono essere i tuoi amici” aggiunse, guardando alle mie spalle. Annuii un po’ troppo euforicamente. “Sono onorato di vedere che questa sera ci farete compagnia durante il nostro allenamento”
“L’onore è tutto nostro” risposi prontamente e, con la coda dell’occhio notai Donatello annuire concordando.
“Potrei sapere i vostri nomi?” domandò agli altri. Mi voltai per osservare le loro espressioni per la terza volta quel giorno. Michelangelo era letteralmente eccitato e proprio in quel momento aveva risposto al maestro. Il rosso sembrava già più tranquillo rispetto a prima, ma potevo affermare che c’era ancora qualcosa sul suo volto. Con un piccolo grugnito mormorò “Raphael”. Infine, Donnie mi lanciò un’occhiata perplessa poco prima di dire ad alta voce il proprio nome.
“Molto bene. Potete chiamarmi Splinter” affermò l’uomo “Prego, seguitemi. Per voi quattro ho in mente in un allenamento speciale, essendo una semplice prova”
Si mise in testa al nostro gruppo, guidandoci giù per le scale e i corridoi che poco prima Usagi ci aveva mostrato.
“Allenamento?” ripeté Donnie con un tono dubbioso. Si accostò di più al maestro in attesa di una risposta.
“Esatto” confermò lui “Che cosa ti aspettavi da questa vostra prima serata?”
“Umh…” il castano ingoiò un groppo in gola, mentre ci scrutava con gli occhi nocciola cercando sostegno “Qualche semplice esercizio? Spiegazioni sul programma?”
Splinter si abbandonò in una lieve risata mentre sul suo volto si dipingeva un sorriso divertito “A mio parere, Donatello, penso sarebbe meglio iniziare a testare le vostre capacità. In questo modo, se sarete interessati a tornare, potremo cominciare nel suddividervi e a lavorare sia su ciò in cui eccellete sia in ciò in cui non lo fate tramite allenamenti diversi”
Il nostro amico sembrò soddisfatto dalla risposta ed annuì due volte col capo, un’espressione appagata sul volto.
Mentre seguivo l’uomo sentii qualcosa afferrare la manica della mia maglia all’altezza del gomito e tirarla un paio di volte indietro. Mi voltai confuso verso la persona che mi stava chiamando –Raphael- la quale mi lanciò uno sguardo interrogativo “Conosci Splinter?”
“Più o meno” dissi prontamente. Avendo immaginato questa scena più volte mentalmente, mi ero preparato per diversi tipi di approccio “Ricordi quando sei andato a guardare per un lavoro estivo e io sono rimasto a casa tua da solo? Beh, dopo essermi riappacificato con mio padre…” e gli raccontai velocemente ciò che era successo, riassumendo ma cercando di non escludere dettagli importanti.
Quando mi domandò perché non gli avevo rivelato in antecedenza del nostro incontro, gli risposi i più sinceramente possibile “Ci ho provato”.
Questa frase sembrò colpirlo nell’esatto modo in cui intendevo, poiché all’improvviso smise di scendere i gradini e si bloccò per qualche secondo.
Lo osservai in silenzio ma poi mi resi conto che gli altri si stavano allontanando troppo da noi e non volevo fare brutta figura con il mio futuro sensei.
“Andiamo” mormorai, cercando di assumere un tono sereno per fargli capire che non c’erano rancori tra noi, sebbene mi avesse ignorato per tre giorni di fila.
Una volta raggiunto il piano terra, Splinter ci indicò un angolo in cui toglierci scarpe e calze, per poi accompagnarci fino al tatami verde. Chiamò a sé quattro diversi studenti e, con mia grande sorpresa, tra questi vi era anche Usagi. Il moro mi lanciò un sorriso che velocemente ricambiai.
“Questi ragazzi” spiegò ai suoi allievi mentre con un ampio gesto del braccio ci indicava “Sono con stasera per avere una dimostrazione di questo corso. Sareste così gentili da aiutarmi a trovare l’allenamento giusto per ciascuno di loro?”
Ovviamente, tutti annuirono. Ad ognuno di essi fu assegnata un particolare campo in cui ci saremmo cimentati a turno.
In modo altrettanto ovvio, io mi avvicinai ad Usagi fin da subito: non solo perché mi ispirava già molta fiducia e simpatia, ma anche perché a lui era stata affidata la tattica con le armi. Inutile affermare che non stavo più nella pelle solo al pensiero.
“Leonardo-San” mi disse “Vieni” mi condusse in un lato della stanza, dove si trovava un armadio di legno chiaro. Lo aprì e rivelò una vasta gamma di armi riposte in modo ordinato nelle loro custodie.
Mi lasciai sfuggire un piccolo ‘wow’ di meraviglia a cui il mio amico rispose con una risata sincera e non di scherno.
“Scegli pure quella che preferisci per il momento. Ma ricorda: come dice sempre Splinter-Sensei, è l’arma a scegliere te”
Senza troppe cerimonie gli indicai la katana nera nel ripiano superiore, chiedendogli silenziosamente il permesso di prenderla.
Quando lo vidi scuotere il capo in assenso, mossi lentamente il braccio destro in avanti, avvicinandolo all’oggetto desiderato.
Ci feci scivolare sopra le dita leggermente, quasi terrorizzato di poterla rompere, e le feci passare da un lato all’altro più volte, sentendo il materiale sotto i polpastrelli. Quella katana sembrava avere una forza propria, contagiando il mio spirito e la mia anima come desiderava. Sentii un brivido di eccitazione correre all’interno del mio corpo, dalla punta delle dita fino ai piedi.
Poi, dopo aver preso un respiro profondo, la raccolsi tra le mie mani, impugnandola prima fortemente e poi dolcemente, lasciandola libera da un palmo all’altro. La sfilai dal fodero attentamente, rimanendo affascinato dal suono metallico che produsse. Quell’arma doveva essere mia. Assolutamente. Non mi sarei mai arreso e avrei perfezionato qualunque cosa non andasse in me pur di imparare a maneggiarla.
Mi voltai verso il moro e notai che la sua bocca era tirata in un sorriso.
Sentendo la tensione scivolare dal mio corpo sorrisi a mia volta.
Purtroppo dovetti fare cambio e prendere una katana in legno, visto che non avevo la minima esperienza.
“Coraggio, seguimi sul tatami e diamo un’occhiata alla tua presa. In seguito proveremo qualche kata da principianti” non l’aveva inteso come un insulto perciò non me ne preoccupai. Inoltre ero anche meno di un principiante.
Una volta raggiunto un punto tranquillo e lontano dagli altri allievi mi disse di impugnare la mia arma. Feci come aveva richiesto e lui si avvicinò, sistemandomi le dita nella posizione corretta, che osservai molto attentamente. In seguito mi fece posare la katana a terra e riprenderla in mano, questa volta aspettandosi che io rieseguissi gli stessi movimenti con le dita. Non me la cavai male, infatti dopo solo due volte si complimentò.
“Appoggia la katana in quel angolo un momento, per qualche minuto non ne avremo bisogno”
Usagi mi mostrò qualche esercizio di stretching che servisse a riscaldare e allungare i muscoli che avrebbero interessato i movimenti che avrei dovuto eseguire in seguito.
Mentre io mi concentravo per eseguirli correttamente, lui mi spiegò diverse cose interessanti su quel particolare tipo di spade: mi narrò delle origini, della sua lunga forgiatura e caratteristiche tipiche.
Ciò che mi raccontò mi affascinò tantissimo e mi spinse a voler sapere sempre di più. La cultura di quel ragazzo era davvero incredibile. Rimasi colpito quando mi disse che la katana veniva vista come una vera e propria divinità –kami- dai samurai.
Osservò come stavo eseguendo gli esercizi “Può bastare. Coraggio, afferra la tua arma per la sua tsuka”
Lo guardai con la testa inclinata. La sua che?
Rise e mi spiegò “E’ l’impugnatura”
“Oh” affermai, sentendomi particolarmente stupido. Arrossii un po’ per la brutta figura, ma presto mi ripresi e feci come mi era stato chiesto.
Mi mostrò dei movimenti non troppo difficili ma pur sempre complicati, spiegandomi nei dettagli altezze delle braccia rispetto al corpo e ampiezza degli angoli che si andavano a creare tra le gambe.
Provai ad eseguirli a mia volta, pregando mentalmente che stessi facendo tutto, o quasi tutto, bene.
Quando terminai, la prima cosa che fece Usagi fu spiegarmi i miei errori e farmi davvero come avrei fare per compiere bene quei kata.
Cercai di sopprimere un grugnito di disapprovazione (disapprovazione per me stesso) e ascoltai attentamente le sue parole.
“Tuttavia” affermò alla fine, guardando con un’espressione divertita “Hai fatto davvero bene per essere la tua prima volta”
Ci misi qualche secondo a digerire e capire quello che mi aveva detto.
Poi iniziai a ridere come un idiota e chiesi “Davvero?!”
Annuì un paio di volte e io non resistetti la tentazione di saltare e prendere a pugni l’aria.
“Ma non montarti troppo la testa, hai fatto degli errori da novellino che da te proprio non mi aspettavo” affermò, ridendo.
“Ehi!”
La seguente lezione fu di meditazione. Subito al pensiero non ne ero molto entusiasta ma al termine mi sentii veramente libero e leggero. Lo studente di Splinter si congratulò dicendo che nessuno aveva mai resistito tanto senza lamentarsi la prima volta. Scherzammo un po’ e in infine mi recai verso la prossima sfida, pensando che meditare davvero non mi dispiaceva.
Infine, dopo una lezione basata semplicemente sul rafforzamento dei muscoli e sulla resistenza, mi avvicinai all’ultima persona che mi avrebbe insegnato qualcosa quella sera. Era una ragazza mora a occhio e croce della nostra stessa età, con corti capelli che, verso il basso del retro del capo assumevano un colore giallogno, in netto contrasto con il resto.
Aveva un’espressione divertita ma allo stesso tempo arrogante sul volto, mentre mi squadrava con un piccolo ghigno.
“Emh…” mormorai dopo qualche secondo di silenzio “Io sono Leo e t-” non feci in tempo a finire la frase che mi ritrovai pancia a terra, il braccio sinistro schiacciato sotto il corpo e il destro tirato in una stretta morsa sopra di me. Un piede premuto contro la schiena mi toglieva il respiro.
“Karai” ripose con un sorrisetto alla domanda che non ero riuscito a terminare.
Okay. Le opzioni erano due: o quella ragazza aveva qualcosa contro di me o aveva un necessario bisogno di uno psicologo per controllare scatti d’ira o qualcosa del genere.
“…Piacere” borbottai, suonando ovviamente poco convinto.
Quando mi lasciò libero dalla sua presa, rotolai sul dorso per trovarmi faccia a faccia con lei e mi alzai in piedi.
“Okay…” dissi, insicuro di quali parole usare “Emh…”
“Attaccami” s’impose, schietta.
Io la guardai come se le fosse cresciuta una seconda testa, cercando di rielaborare e assumere ciò che mi era stato richiesto.
Se all’inizio ero incerto per paura di poter ferire una ragazza, adesso a frenarmi era la pungente sensazione che il giorno non mi sarei alzato dal letto.
“Attaccarti?” domandai.
“Devo ripeterti le cose due volte? Attaccami. Fammi vedere cosa sai fare”
Osservai intorno a me cercando qualcuno che potesse intervenire e farle cambiare idea ma eravamo abbastanza lontani da chiunque conoscessi.
Posando nuovamente lo sguardo su di lei, presi un respiro e riflettei su come muovermi.
“Vuoi farmi aspettare ancora molto? In questa palestra non c’è posto per gli scansafatiche”
Leggermente imbarazzato per il rimprovero, decisi di affidarmi alla prima tattica che mi sarebbe venuta in mente.
Mi lanciai quindi di scatto su di lei, programmando di atterrarla e renderle in seguito inutili le braccia.
L’unico problema, però, fu che qualcosa mi afferrò per il polso e fece cambiare traiettoria, mandandomi a sbattere contro il materassino.
Mi concessi in un lieve ‘Ow’ mentre tentavo di capire cosa fosse successo.
“Troppo patetico. Non sottovalutarmi solo perché sono una ragazza” mi schernì la voce di Karai.
Mi rialzai strofinando con due dita il naso, che avevo precedentemente battuto contro il tatami.
“Forza, riprova!” mi incitò, con voce dura e severa. Dovevo ancora capire se quella ragazza mi stava simpatica o meno.
Provai nuovamente ad atterrarla e questa volta il dolore fu addirittura più acuto di prima.
Andammo avanti un paio di volte, da cui lei usciva sempre vincente e io perdente.
Mi alzai a fatica, le gambe stanche da tutto quell’allenamento e il respiro corto, ma una strana carica di adrenalina nelle vene.
Ricapitolai mentalmente tutti i nostri combattimenti: non mi venne in mente nulla di utile fino a quando non notai che ogni singola volta mi aveva bloccato praticamente nello stesso modo.
E non appena un piccolo ma importante dettaglio fece capolino trai miei pensieri dovetti nascondere un sorriso: lasciava sempre scoperta una minuscola zona nel fianco destro.
Nuovamente l’attaccai sebbene con più decisione e spirito.
Ripetei gli stessi movimenti di prima, nello stesso ordine.
Premetti coi talloni nel materassino verde, per poi lanciarmi in avanti grazie a una lieve spinta verso il basso. Allargai il braccio destro come avevo fatto precedentemente, ma tenni il sinistro lungo il corpo.
Sincronizzata come una sveglia, lei si preparò a ricevermi e ad afferrare la mia spalla con la mano destra e il mio polso con quella sinistra.
All’improvviso, però, io portai la mia sinistra sulla sua spalla destra, imitando ciò che lei aveva eseguito con me e alzai il ginocchio nell’esatto momento in cui Karai mi sbilanciò in avanti, facendolo scontrare con la zona che aveva lasciato scoperta per l’ennesima volta.
Facendo ciò, la portai giù con me, cadendo parzialmente sopra di lei. Sebbene pensassi di aver finalmente vinto, lei si riprese in fretta da quell’azione inaspettata e scivolò agilmente di lato, per poi bloccarmi gamba e braccia destra in una forte stretta.
Gemetti appena e un piccolo grido sfuggì ai miei denti.
Poi il dolore sparì nel nulla quando lei mi lasciò libero.
“Non male” commentò, e in seguito aggiunse “Ma non sei nemmeno un po’ al mio livello”
Simpatica, vero?
Non ebbi il tempo di replicare o ringraziarla per il suo dolcissimo commento, visto che Splinter annunciò la fine del corso per quella serata.
Sospirai, felice e allo stesso tempo esausto, lasciandomi cadere a terra mentre gli alunni abituali si inchinavano in saluto davanti al sensei.
Presi fiato e chiusi gli occhi per qualche secondo.
Sentii un forte senso di gratitudine nei confronti di Raph, senza al quale non avrei mai provato il ninjutsu.
Sollevai le palpebre e mi misi a sedere, cercando per la stanza i miei amici. Quando li vidi, li raggiunsi e insieme ci avvicinammo al punto in cui avevamo lasciato le nostre scarpe mentre commentavamo allegramente la serata, ciascuno di noi soddisfatto e deciso a tornare.
Ringraziammo il maestro Splinter poco prima di uscire, con il quale concordammo per iscriverci al corso. Tutto ciò che dovevamo fare era passare un modulo ad uno dei nostri genitori perché lo compilasse.
Io, ovviamente, lo avrei dato a mio padre.
Ci congedammo e uscimmo dalla struttura, facendoci cogliere da una ventata d’aria fresca.
Ci infilammo i giubbotti ed aspettammo seduti su di una panchina verde accanto al parcheggio.
“E’ stato semplicemente epico!” esclamò Michelangelo ad un tratto, saltando in piedi “E-PI-CO”
Donatello lo guardò sorridendo e annuì “Non posso fare a meno di concordare! Voglio dire, c’è un così vasto repertorio di cose da fare qui dentro!”
“Già” si compiacque Raph “A parte la meditazione, mi è sembrato tutto abbastanza figo”
“A me la meditazione non è dispiaciuta” riflettei ad alta voce “Ma non potrei essere meno d’accordo su tutto il resto!”
“Anche voi avete avuto la possibilità di scegliere un’arma?” domandò Donnie.
Scuotemmo tutti il capo in segno di assenso contemporaneamente.
“Ovviamente io ho scelto il Bo” affermò il castano “E’ un’arma sofisticata, semplice all’apparenza ma incredibilmente letale”
“Nah, un bastone non può vincere contro i nunchaku” disse Mikey con un enorme sorriso che mostrava i denti bianchi. Si infilò un cappello in testa al contrario, schiacciando i capelli ribelli e facendo scivolare un ricciolo davanti al viso, che scostò con una mano.
“Io ho preferito la katana” informai “Un giorno spero di essere abbastanza bravo da maneggiare la doppia katana”
“All’inizio ero tentato anch’io di scegliere quell’arma” mi rivelò Raph “Ma poi ho notato i sai in un angolo ed è stato amore a prima vista”
Ridemmo tutti sonoramente a quella confessione.
Notai con piacere che quelle strani sensazioni negative erano sparite dalla faccia del rosso finalmente.
Presto una macchina arrivò nel parcheggio e una giovane donna veramente bellissima ne uscì: aveva boccoli arancioni che le scendevano fin sotto le spalle e un dolce sorriso sul volto.
La riconobbi come la zia di Donnie, April. Alla vista il castano si alzò dalla panchina e le corse letteralmente incontro, dandole un piccolo abbraccio e un bacio sulla guancia.
Capii immediatamente che era qui per portare Donatello e Michelangelo a casa. Quest’ultimo si voltò verso me e il mio vicino di casa, mise un braccio attorno il mio torso e uno attorno al suo, portandoci tutti vicini in una mortale stretta. Non appena l’abbraccio terminò i due salirono in macchina e ci salutarono con un cenno della mano, che noi ricambiammo.
La loro auto si allontanò e scomparì in fondo al vialetto, girando a destra.
Sentii la porta della palestra aprirsi e quando mi voltai notai Usagi che ne usciva.
Incontrò il mio sguardo e sorrise, avvicinandosi a noi.
“Leonardo-San!” esclamò “Speravo di trovarti ancora qua”
Alzai un sopracciglio “Posso aiutarti in qualche modo?” mi piaceva essere formale con lui.
“Non esattamente” rispose, i lati delle labbra rivolti verso l’alto “Volevo semplicemente lasciarti il mio numero. Sentiamoci qualche volta”
Mi tese un pezzetto di carta su cui era stato scarabocchiato qualcosa. Lo presi in mano e lo ringraziai alzandomi e inchinandomi.
Dopo che ebbe ricambiato il gesto mi disse: “Ora devo proprio andare. Spero di risentirvi presto. Arrivederci Leonardo-San e Raphael-San”
Lui grugnì in risposta mentre io sorrisi.
“A presto”
Si allontanò e sparì all’interno di una macchina blu.
Mi rimisi a sedere e infilai il biglietto in una tasca della mia giacca, per poi voltarmi verso il mio migliore amico.
Con mio profondo orrore, mi accorsi che vi era di nuovo quel turbinio di emozioni negative sul suo volto.
Con un sospiro profondo, mi sforzai di mantenere un tono calmo “Cosa c’è adesso che non va?”
“ ‘Che non va’ ? Niente. Assolutamente niente” iniziò con un tono irritato, facendo strisciare i denti tra loro “A parte forse il fatto che credevo fossi il mio migliore amico”
Lo guardai sconvolto, ma soprattutto confuso.
Non capivo da cosa fosse arrivato a quei pensieri.
“Non lo sono?” domandai, sentendo che la mia voce si era spezzata. Quella sua frase mi aveva lasciato ferito.
“Non lo so, dimmelo tu!” esclamò “Sono giorni che non parliamo, quando sono tornato a casa dal lavoro non hai mostrato un minimo di entusiasmo per me e da quando è saltato fuori quell’Usagi mi hai ignorato completamente!”
Lo guardai sbalordito, privo di parole.
Ignorato? Non stavamo chiacchierando allegramente fino a pochi minuti prima?
Ingoiai un groppo in gola e mi umidii le labbra per riprendere voce.
“Io davvero non ti capisco” dissi con un filo di voce, gli occhi che bruciavano nel provare ancora una volta quella delusione nell’amicizia con qualcuno “Quando sei tornato a casa eri così preso dal tuo prossimo lavoro estivo che non hai nemmeno trovato il tempo per ascoltarmi. La prima cosa che mi hai detto quando sei tornato a casa è stato che l’incontro era andato bene. Non mi hai nemmeno chiesto se mi ero annoiato o meno tutto il giorno da solo. Non parliamo da giorni perché mi sembra che non ti importi nemmeno. Non mi sembra di averti ignorato. Almeno non quanto tu abbia ignorato me. E non ho mai pensato ad Usagi come un migliore amico. Pensavo che noi due lo fossimo”
Lo shock sulla sua faccia era evidente, ma non disse nulla.
Voltai lo sguardo, fissandolo sulla macchina di Casey Jones che entrava nel parcheggio veniva a prenderci per portarci a casa loro. Salimmo in macchina silenziosamente, ognuno voltato verso il finestrino del proprio sedile, rimuginando su ciò che era appena successo.
Suo padre deve aver avvertito la tensione che c’era tra noi perché dopo aver inutilmente provato a romperla con qualche battuttina lasciò perdere e rimase muto anche lui.
Non volava una parola in quell’auto, che attraversava nel buio la strada che conduceva al nostro quartiere.
Desiderai che Usagi fosse uscito quando c’erano ancora gli altri. O che mi avesse dato il numero quando Raph non era ancora tornato di buon umore.
Qualunque cosa sarebbe stata meglio di quel maledetto silenzio…
Silenzio…
Silenzio…
Silenzio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



 


 
 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Buonsalve a tutti voi cari lettori!
Scusatemi per questo immane ritardo, ma sinceramente mi ero proprio bloccata.
Per fortuna, però, un piccola idea l'ho avuta e grazie ad essa so già come scrivere i prossimi capitoli ^-^
Mi spiace se questo capitolo è un po' corto e succede pressoché poco, ma era davvero necessario.
Ringrazio chiunque abbia letto, inserito tra le preferite/seguite/da ricordare questa storia e particolarmente chi ha recensito!
Queste persone sono AleJ_and_Mizu _Bara no Yami_ ; I LOVE RAPH ; LisaBelle_99 e Ser Barbs
(come vedete ho scoperto la magia dei colori)
E ora... godetevi il capitolo!
P.s= chiedo scusa per eventuali errori!

 

CAPITOLO   17

Mi svegliai per colpa della mano di qualcuno sulla mia spalla, che la scuoteva con delicatezza cercando di destarmi.
Dapprima con la vista offuscata, cercai di mettere a fuoco il volto della persona che si trovava davanti a me, rivelando niente meno che Casey Jones.
Pian piano mi ricordai di tutto ciò che era successo precedentemente e grugnii infastidito quando realizzai che mi ero addormentato durante il viaggio di ritorno a casa.
Notando che fuori le tenebre dominavano ancora sulla luce, capii che non doveva essere passato molto tempo, forse un quarto d’ora, dalla mia discussione con Raph.
Scesi dalla macchina e riconobbi il giardino di quest’ultimo.
Sentii una forte stanchezza invadermi improvvisamente e desiderai essere ancora tra le braccia di Morfeo.
Le gambe continuavano a dolermi per la sessione con Karai e quella con Usagi.
Avvicinandomi lentamente alla casa nella quale stavo attualmente soggiornando, vidi con la coda dell’occhio Raph osservare le proprie scarpe mentre mi seguiva.
Ci fermammo tutti e tre davanti alla soglia, aspettando che Casey trovasse le chiavi.
Quando tirò l’oggetto scintillante fuori dalle sue tasche, lo infilò nella toppa della serratura e, con un lieve tintinnio, aprì la porta. La spinse in avanti e poi si spostò di lato, facendoci spazio per entrare per primi.
Insicuro, lasciai che fosse Raph ad essere in testa al gruppo.
Una volta all’interno dell’abitazione, ci togliemmo le scarpe e salimmo in silenzio le scale, le dita sul corrimano.
Odiavo quella quiete che si era creata tra di noi, ma non sarei stato il primo a romperla. Ero diventato troppo orgoglioso per farlo.
Riflettendo sul nostro litigio, mi resi conto che, in fondo, quella che Raph aveva provato non era solo la sensazione di essere ignorato –che si fondava sul nulla- ma anche… gelosia. Non quel tipo di gelosia. Ma probabilmente temeva che io e Usagi diventassimo più amici di quanto io non lo ero con lui.
Anche questa teoria, però, era infondata e il modo in cui me ne aveva parlato non mi era piaciuto. Mi aveva accusato di cose orribili senza che ne fossi veramente colpevole.
Alzai lo sguardo al soffitto crepato, incontrando tante piccole ragnatele filose e bigie, abitate dai loro costruttori.
Mi sbrigai a salire gli ultimi gradini e osservai il mio migliore amico buttarsi sul suo letto di peso subito dopo aver messo piede nella sua camera.
Incerto, rimasi muto e mi avvicinai al mio materassino gonfiabile sul quale avevo dormito per le precedenti notti.
Sospirai pesantemente, già stufo di quella situazione. Raph era diventato un amico indispensabile per me e il pensiero di poter perdere la sua amicizia in un modo tanto stupido mi stava innervosendo in maniera esagerata.
Mi infilai velocemente un pigiama estivo –perché ormai la primavera stava lasciando spazio all’estate- e mi infilai sotto il leggero lenzuolo blu.
Sdraiato sulla schiena, col viso rivolto verso l’alto e le mani dietro la nuca, chiudo gli occhi lentamente, convinto che non sarebbe passato molto tempo prima che io mi riaddormentassi.
E invece, con mio grade fastidio, tutto il sonno che sembrava avvolgermi fino a solo dieci minuti prima sembrava avermi totalmente abbandonato.
Sbuffai un paio di volte, rigirandomi in cerca di un’agognata posizione più comoda. Con uno scatto del capo cercai di togliermi i capelli del ciuffo dalla faccia, fallendo miseramente e dovendo ricorrere all’aiuto della mia mano destra, con la quale li spostai dagli occhi.
Nuovamente sbuffai, stanco, desideroso di addormentarmi e risvegliarmi solamente quando tutto sarebbe tornato ad essere a posto.
Quanto sarebbe andata avanti quella cosa? Il non parlarsi, l’essere arrabbiati l’uno con l’altro, il fingere di essere da soli in quella stanza. Ad essere sinceri io non ero più arrabbiato con lui. Gli occhi iniziavano a bruciarmi per l’esasperazione, li riaprii e ripresi a fissare il soffitto scolorito.
Una piccola crepa nell’angolo destro sembrò attirare particolarmente la mia attenzione.
Rilasciai un respiro che non mi ero accorto di stare trattenendo.
“Non è che Usagi ci sta provando con te?” mi chiese improvvisamente una voce divertita.
Mi voltai verso di lui con le pupille sgranate, osservando sconvolto il sorriso sulle sue labbra.
Poi a tutto un tratto, scoppiai a ridere istericamente,  provando un’immensa felicità nel vedere che tutto si stava risolvendo e divertito dall’approccio che aveva scelto di usare.
Cercai di lanciargli un ‘Coglione’ ma ormai stavo ridendo troppo, le lacrime che scendevano dalle guance e la pancia che si contraeva del dolore.
Anche lui si era unito al mio coro, rotolandosi e tenendosi una mano sopra alla zona in cui corrispondeva lo stomaco.  Cercai di riprendere fiato a grandi boccate.
“S-sei un i-idiota” affermai, tra un respiro e l’altro. Per un momento temetti di non riuscire più a respirare.
Ci calmammo dopo qualche minuto, un’espressione stupidamente euforica sulle nostre facce.
Di tutti i modi in cui mi ero immaginato che quella storia sarebbe finita, questo era assolutamente il più assurdo. Nemmeno se mi fossi sforzato mi sarebbe venuto in mente.
Mi sentivo ubriaco: lì, a ridere per una pessima battuta fino a star male, con qualcuno che avrebbe dovuto chiedere il mio perdono in principio e che mi aveva insultato senza motivo.
Ma in fondo era giusto che tutto terminasse così, senza vincitori o vinti. Un “scusa” aleggiava nell’aria, ed entrambi potevamo udirlo e pronunciarlo senza dirlo davvero.
“Allora, ci torniamo vero?” chiesi, con tono gentile.
“Certo che ci torniamo!” rispose, ripetendo le mie stesse parole.
Bloccammo la conversazione non appena sentimmo un pugno battere dolcemente sulla porta in legno della stanza. Poco dopo si aprì e la testa di Casey Jones fece capolino da dietro di essa:
“Avevo sentito dei rumori” disse a mo’ di scusa “E volevo essere sicuro che non steste uccidendo”
Io e Raph ci guardammo, condividendo un sorriso che nascondeva più di un significato, diversi per ciascuno di noi.
“Nah” dichiarò lui infine “Tutto a posto”
Annuii felicemente mostrando i denti bianchi.
Suo padre ci guardò un secondo confuso, grattandosi il capo con una mano mentre l’altra restava appoggiata allo stipite.
Sembrava indeciso se credere o meno alla nostra affermazione, squadrandoci perplesso e registrando ogni nostro minimo movimento.
Sembrò infine cedere: facendo spallucce, chiuse lentamente la porta della camera e per qualche minuto potemmo udire i suoi passi farsi sempre più lontani mentre raggiungeva la sua stanza al piano terra.
Non sapendo bene cosa fare a quel punto, tornai a sdraiarmi e chiesi al mio migliore amico di spegnere l’interruttore, che si trovava accanto al suo letto.
I miei occhi crogiolarono gioia non appena la luce sparì dalla loro vista.
Lanciando una rapida occhiata all’orario riflesso sul soffitto da una sveglia, mi sorpresi nel leggere ’00:07’.
Avevamo sei ore da passare dormendo e poi ci saremmo dovuti alzare per prendere l’autobus e recarci a scuola.
Che pessimo pensiero con cui addormentarsi.
***
Sentendo per la millesima volta il mio professore di biologia spiegare la scissione procariotica dovetti sommettere un borbottio di parole incoerenti, in cui mi sfuggiva anche qualche imprecazione, contro la manica della mia maglia.
Ero da solo a lezione quella mattina; A parte per Robin e qualche altra persona, non c’era nessuno con cui avessi mai parlato.
Non che mi interessasse più di tanto, ma se ci fosse stato Donatello il nostro insegnante l’avrebbe veramente ascoltato quando gli avrebbe detto che quella lezione c’era già stata spiegata più di un semplice paio di volte.
Con Michelangelo avrei probabilmente avuto una riserva di dolci da smangiucchiare e videogiochi di cui usufruire e con Raphael mi sarei semplicemente divertito e distratto sufficientemente da far passare un’ora.
E invece erano passati cinque minuti appena dalla tipica frase “Andate a pagina 67 del capitolo 5”.
Coraggio Leo mi feci forza mentalmente Mancano solo ventisette giorni. Ventisette stramaledettissimi giorni.
Infatti ormai la scuola era quasi al limite ormai e nei corridoi si udivano i bisbigli eccitati che raccontavano ciò che il loro proprietario avrebbe fatto durante l’estate.
Ovviamente io ero una di quelle persone che, invece di piangere come una fontana al pensiero di non rivedere tutte le persone che si conoscevano al liceo, saltava dalla gioia non appena sentiva la parola ‘vacanza’.
Adesso che finalmente avevo stretto amicizia con i miei tre attuali migliori amici e che avevo scoperto il corso di ninjutsu non vedevo come potessi non divertirmi.
Aspettavo con impazienza il giorno in cui avrei contato alla rovescia i secondi attendendo il dolce suono della campanella.
Fingendo di prendere appunti, iniziai a disegnare qualche schizzo privo di senso sui fogli a quadretti, ignorando le occhiate che mi rifilava Robin ogniqualvolta che poteva.
Quanto mi sarebbe piaciuto dargli una lezione una volta diventato abile nel ninjutsu.
...Non era una cattiva idea.
Nooo. No. Leo, stai iniziando a suonare come Raph Mi ripresi mentalmente, ma non riuscii a nascondere il sorriso che si stava facendo strada sulla mia bocca.
Quando, incredibilmente, l’ora di biologia terminò, mi affrettai a cacciare disordinatamente le mie cose nella mia borsa a tracolla.
Uscii dalla stanza energicamente, ripassando il programma e pensando a quale sarebbe stata la mia prossima ora.
Arte
Mentre mi superava per i corridoi, Robin non esitò a darmi una spallata contro il mio braccio destro.
Fissai con odio la sua figura che si allontanava recandosi a matematica.
Espirai lasciando uscire la mia rabbia.
Rafforzando la presa che esercitavo sulla tracolla, mi affrettai per le scale, scendendo i gradini velocemente e rischiando di inciampare un paio di volte.
Continuai dritto fino a quando non mi trovai accanto una scalinata non illuminata e voltai a destra per scenderla.
Alla fine mi incontrai con la vista della biblioteca della scuola, di cui si occupava una strana signora da me mai vista e il suo stranissimo assistente, nonché terrificante.
Uscendo dalla porta-vetro arrivai nel giardino interno, che attraversai fino ad entrare dall’altra parte. Lì, una volta superato un paio di classi, soggiornava il laboratorio di arte.
Mi sedetti in uno dei banchi in seconda fila, finalmente contento di avere una bella lezione.
Dopo pochi minuti, anche Michelangelo arrivò e si sedette puntualmente vicino a me.
Ci salutammo e iniziammo a parlare mentre aspettavamo che l’insegnante arrivasse.
“Leo!” annunciò con tono solenne “Non vedo l’ora di tornarci!” capii al volo a cosa si stava riferendo.
Annuii “Idem. Non sto più nella pelle! Ma purtroppo devo ancora dare i fogli a mio padre da firmare e inoltre abbiamo scelto il corso con solo una volta a settimana. Perciò dovremo aspettare venerdì prossimo”
“Già” mormorò, poi aggiunse “Mia madre invece ha già firmato i moduli. So che Donnie deve aspettare dei giorni prima che suo padre torni a casa da una conferenza”
“E sua madre?” domandai.
“Via anche lei. Per lavoro. Resterà a casa mia per un po’” mi rispose.
Pensai a ciò che mi aveva detto “Potremmo trovarci tutti e quattro, uno di questi giorni” proposi “A dormire, intendo”
L’idea sembrò piacergli e dopo aver finto per qualche secondo di pensare con la lingua tra le labbra e una mano che massaggiava il mento, affermò: “D’accordo!”
“Bene!” esclamò un’allegra e gentile voce. Voltandoci notammo l’anziana insegnante entrare nella classe “Mi fa piacere vedervi” ci disse.
Dopo aver fatto l’appello e aver aperto le finestre per accumulare aria buona e fresca affermò “Quest’oggi vorrei che ci soffermassimo sulla proiezione delle ombre a seconda del luogo in cui la luce colpisce un oggetto”
Mentre il biondino si lamentava, desideroso di esprimere la sua libertà senza regole, io ascoltavo attentamente e prendevo addirittura appunti.
“Per martedì prossimo” annunciò alla fine dell’ora, come ogni sabato “Voglio che rappresentiate una scena di vita comune applicando ciò che abbiamo studiato oggi. Mi raccomando, non è la prima volta che affrontiamo l’argomento, perciò darò pari peso all’impegno e alla tecnica”
Nessuno diede veramente importanza alle ultime parole, ormai pronunciate talmente tante volte che erano scolpite chiaramente nella testa di noi studenti.
E così, non appena il suono squillante della campana risuonò per i corridoi e le aule della scuola, tutti si recarono velocemente verso la futura meta, salutando con un cortese congedo la bassa professoressa che ruotava coi talloni sulle vecchie ballerine marroni per voltarsi velocemente verso tutti.
Sia io che il biondo sapevamo di dover attendere un’ora di storia, dedicata interamente alle guerre persiane, affrontate anch’esse migliaia di volte in quel quadrimestre.
Alla stessa lezione ci saremmo dovuti incontrare con gli altri, infatti era una delle poche in cui ci era stato concesso il privilegio di poter restare tutti insieme.
Proprio per questo rimasi molto sorpreso quando notai un banco restare vuoto. E non un banco qualsiasi. Il banco della prima fila, posto accuratamente davanti alla cattedra, dove si aveva un’ottima visione della lavagna e si poteva udire perfettamente la spiegazione.
Il banco di Donatello.
Tutti noi sapevamo che il castano amava non solo essere presente tutte le volte che poteva, ma anche arrivare in anticipo per accaparrarsi il suo posto preferito –non che ce ne fosse il bisogno, visto che nessuno era davvero tentato da sedersi
così apertamente davanti al professore-.
Lanciai un’occhiata interrogativa a Raph, sollevando un sopracciglio e indicando l’oggetto di mia confusione.
Lui seguì con lo sguardo il mio dito e capì immediatamente a cosa mi riferivo: scrollò le spalle con disinvoltura, socchiudendo involontariamente gli occhi e alzando le mani al cielo accanto alle spalle.
Mi informò che Donnie non era stato presente nemmeno a fisica l’ora precedente, il che diede il via all’espansione di preoccupazione e ansia nel mio petto.
Fui tentato dal pensiero di mandare un messaggio al cellulare del mio amico, nella speranza di ricevere una risposta rassicurante dallo stesso, ma l’arrivo dell’insegnante bloccò ogni mio gesto e mi costrinse a rimanere seduto immobile fino alle dodici, quando terminò l’ora.
Per tutto il resto del tempo rimasi a fissare l’orologio e la sua lancetta che sembrava muoversi molto più lentamente del normale, apposta, rendendo quell’attesa più angosciante di quanto mi aspettassi.
Lanciai un bel dito medio all’orario, per poi catapultarmi fuori dalla porta seguito dai miei due migliori amici.
Le mie dita si mossero più velocemente degli impulsi nel mio cervello, digitando un testo che non avevo pensato e trovandovi subito un destinatario a cui mandarlo.
Fosse stata una persona qualsiasi, non avrei reagito così.
Ma Donatello era uno di quei ragazzi che veniva a scuola anche con la febbre a quaranta, le guance rosse come le mele mature e la fronte calda imperlata di sudore.
Il che, ovviamente, significava che c’era qualcosa di sbagliato nell’aria.
 

 
 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Heilà cari carissimi amati amatissimi lettori lettorissimi!
Sono finalmente riuscita a trovare un po' di tempo libero tra tutto quello studio di insensati verbi deponenti di latino -.-
E così mi sono decisa ad aggiornare!
Purtroppo il capitolo non è lunghiiiiiiiiissimo, ma spero vi soddisfi lo stesso!
Voglio avvisarvi che in questa NON ci sarà tcest (è corretto in questo caso o.O?) almeno che non ce lo vediate voi. Perciò, qualunque sia il vostro gusto continuate pure a leggere! Un giorno però caricherò una tcest!
Devo ammettere che ero molto tentata, ma ho deciso che è meglio lasciarla normale.
Uscirei troppo fuori tema ;)
Ad ogni modo ringrazio chiunque abbia letto o inserito la storia tra preferite/seguite/ricordate e specialmente chi ha recensito lo scorso capitolo! Quest'ultimi sono:
AleJ_and_Mizu; LisaBelle_99 ; I LOVE RAPH ; Ser Barbs;  _Bara no Yami_ ; Alcione e CatWarrior
Grazie a tutti!
Finalmente scopriremo cos'è successo a Donnie! *tan taan taaaaan*
Godetevi il capitolo, spero di non deludervi!

CAPITOLO 18



Sto bene non preoccupatevi. E’ solo un po’ di febbre, tornerò a scuola il prima possibile!

Chissà perché, quel messaggio non mi aveva rassicurato nemmeno un po’. Al contrario, aveva avuto completamente l’effetto opposto. Come ho già spiegato in precedenza, il nostro amico tecnologico non rinuncerebbe ad una singola ora di lezione per nulla la mondo.
Era successo diverse volte in passato che Donatello non fosse al massimo della salute. Essendo poi molto cagionevole, era ancora più frequente.
Ecco perché c’era qualcosa che davvero non mi tornava.
Il problema, però, era capire cosa ovviamente.
E sebbene subito gli altri sembravano essersene fatti una ragione, si erano convinti anche loro della mia opinione non appena a Michelangelo era arrivato un messaggio da Donnie per informarlo che non sarebbe più andato a casa sua per evitare di contagiarlo e per riposarsi di più.
Il rilevatore di pericolo era schizzato alle stesse.
Qualunque cosa fosse successa, ero certo che non ci era stata raccontata.
Così, subito dopo scuola, ci recammo a casa di Raph come avevamo precedentemente stabilito, buttando giù qualche ipotesi tra un boccone e l’altro.
Mikey sembrava essere diventato improvvisamente un’altra persona: non aveva quasi toccato cibo e il sorriso eterno del suo volto si era consumato una volta per tutte.
Non mi ero mai reso conto di quanto tenesse veramente al suo vicino di casa, nonché amico fin dall’infanzia.
“Sentite” affermai a un certo punto, poggiando la forchetta sul piatto sottostante con un rumoroso ‘clang’ “E’ ovvio che Donnie non ci sta  dicendo la verità. Perciò propongo di sbrigarci a finire di mangiare e di organizzarci per andare da lui senza avvisarlo. Prepariamo tre sacchi a pelo, facciamo una piccola spesa e poi lo raggiungiamo a casa sua”
Il rosso e il biondo si scambiarono un’occhiata di intesa e infine annuirono con estasi, gli angoli della bocca finalmente tirati verso l’alto.
Mi lasciai sprofondare contro lo schienale in legno della sedia e calciai ripetutamente l’aria con i piedi, socchiudendo gli occhi mentre programmavo mentalmente il nostro piano, se così possiamo definirlo.
Non ci mettemmo molto a terminare il pranzo, in fondo erano dei semplici toast, leggermente bruciati inoltre.
Io e Michelangelo aiutammo a sparecchiare e infine, dopo aver riposto la parte prospicente sotto al tavolo ci allontanammo dalla cucina e avviammo verso il salotto.
Sapevo con certezza, grazie a tutte le volte in cui ero rimasto a casa da solo e avevo dovuto trovare un modo per cavarmela, che il supermercato in centro apriva dalle due del pomeriggio e restava aperto fino alle otto e mezza di sera.
A piedi avremmo impiegato circa un quarto d’ora di tempo per sopraggiungervi, così decidemmo di lasciare casa verso l’una e tre quarti,
Quel giorno il sole sembrava particolarmente intenso mentre batteva cocente sulle nostre teste e sui tetti delle case, scaldando qualunque cosa incontrassero i suoi raggi impercettibili, come le ringhiere di metallo o i corrimani sporchi e arrugginiti.
Nell’aria aleggiava un dolce profumo, un misto del croccante e salato sapore del pane e il mielato aroma della pasticceria che stavamo superando.
Gli unici suoni in quel pomeriggio sordo era il motore di una qualche moto lontana o il verso di un animale passeggero, come un corvo alto nel cielo o un cane solitario in cerca del suo padrone.
La città era particolarmente tranquilla rispetto al solito moto con cui era accompagnata ogni giorno, e difatti erano poche le persone che si potevano vedere per strada.
Probabilmente, mi dissi, erano tutte concentrate nelle zone verdi come i parchi o nelle rinfrescanti piscine.
Il supermercato, invece, era tutta un’altra storia: donne che spingevano il proprio carello per mettersi in fila davanti alla cassa, bambini che tentavano insistentemente di convincere i genitori a comprargli qualche dolciume in più e commessi che viaggiavano spediti da un reparto all’altro per sistemare negli scaffali i nuovi prodotti arrivati o per rimuovere quelli ormai troppo vecchi per essere venduti.
Non totalmente sicuri su cosa acquistare, ci dirigemmo verso le bevande per mettere nel nostro cestino una bottiglia di coca cola e una di aranciata.
In seguito vi ponemmo anche un sacchetto di patatine e delle barrette di cioccolato.
Ci dividemmo le spese per poi tornare nuovamente a casa del mio vicino, dove aspettammo impazientemente che Casey tornasse a casa da lavoro.
Quando ciò accadde, dopo che gli avemmo raccontato tutta la storia, non esitò un secondo a prendere le nostre borse della spesa e i sacchi a pelo e infilarli nel baule della macchina, mentre noi tre salivamo fieri e ci accomodavamo sui sedili.
Il viaggio in auto sembrò durare più di quello che avrebbe dovuto, tanta era l’ansia e il nervosismo che mi stava salendo in gola.  Mi morsi il labbro inferiore talmente forte da lasciare il solco degli incisivi impresso nella carne.
Non so spiegare bene perché, ma ero convinto che ci fosse qualcosa di sbagliato. Che il problema non fosse una semplice influenza.
Me lo sentivo che era così.
 
***
“Come hai potuto non dircelo subito?!” la voce di Raph risuonò potente sui muri della cucina di Donatello.
Sospirai fortemente, tenendo tra i palmi delle mani il capo, che penzolava sconfortato sul petto, il mento al livello della fine del collo.
Erano ore che andavamo avanti così. Letteralmente.
Ormai il cielo all’orizzonte si stava colorando di un dolce rosa salmone mentre la nostra stella tramontava rossa accesa come la metà di un’arancia ribaltata.
Le nuvole che si intravedevano dalla finestra avevano iniziato a tingersi di un porpora cremisi e un leggero stava muovendo le fronde degli alberi con un ritmo veloce e non costante.
Il mio ‘presentimento’ si era rivelato giusto. E non ci era voluto molto ad accorgersene.
Al contrario, la faccia coperta di lividi violacei e graffi rossicci di Donatello era risaltata subito davanti ai nostri occhi non appena il ragazzo stesse ci ebbe aperto con riluttanza.
Ovviamente, le nostre reazioni furono dapprima sconvolte e in seguito arrabbiate, sia con il nostro amico per aver deciso di non accennare nulla al riguardo, sia con coloro che avevano osato commettere tale atto.
Alzai lo sguardo e cercai di riportare un po’ d’ordine nella stanza, affermando con decisione “Fate silenzio!” sentivo già un’emicrania che si diffondeva veloce come un’epidemia nella parte sinistra della mia testa.
Stropicciai entrambi gli occhi col dorso della mano destra, cercando di schiarirmi le idee.
Con mio immenso stupore, le diverse persone nella stanza sembrarono ascoltarmi e  ammutolirono all’istante, voltandosi sincronizzati verso di me.
“Donnie, per la millesima volta” iniziai con tono di domanda, guardando dritto negli occhi la persona alla quale mi ero rivolto “Vuoi dirci chi è stato?”
Il silenzio governò solenne per qualche istante.
Il castano sembrò tentato dal dire qualcosa e per un momento aprì anche la bocca ma la richiuse subito dopo, accompagnando il gesto con un segno negativo del capo.
Potevo già udire la protesta di Raph ancora prima che la pronunciasse ma d’altronde io non glielo permisi e asserii “Allora ce lo dirai quando sarai pronto”.
E quella mia affermazione nascondeva un diretto ordine di tacere per il mio migliore amico dai capelli fiammanti.
“Andiamo a letto” dissi poi, deciso di scrollarmi quella giornata di dosso.
Per fortuna quel giorno era un sabato, perciò il mattino seguente non eravamo tenuti ad andare a scuola.  
Mentre salivamo le scale la tensione tra di noi era talmente densa che mi sembrava di poterla vedere o persino toccare.
Una volta giunti nella camera di Donatello ci scambiammo un’occhiata infastidita nel realizzare che ci era sfuggito un piccolo ma importante dettaglio: non c’era abbastanza spazio per quattro sacchi a pelo.
L’acquario delle tartarughe con gli appositi filtri d’acqua occupava una buona parte della stanza, così come la scrivania, le due librerie e tutti i marchingegni scientifici accantonati per terra.
Fortunatamente il nostro amico genio aveva un letto matrimoniale, ma era scontato che ci avrebbero dormito lui e Michelangelo, come erano soliti fare quando capitava l’occasione. E nel loro caso, abbandonati a sé stessi per la maggior parte dei pomeriggi, accadeva molto spesso.
E perciò il problema si limitava a me a Raph.
Avevamo proposto al castano di spostare i suoi esperimenti ingombranti in un’altra stanza per la notte, ma lui si era rifiutato testardamente affermando che erano in una posizione ‘strategica’ e che se fossero mai stati mossi vi era una probabilità del 89,7% che non sarebbe più riuscito a collegare cosa apparteneva a cosa.
E così, in un modo o nell’altro, io e il rosso ci ritrovammo attorcigliati all’interno dei nostri due sacchi a pelo letteralmente schiacciati l’uno contro l’altro.
Il peggior ‘effetto collaterale’ di ciò, era che se si muoveva uno, reciprocamente anche l’altro subiva le conseguenze di ciò.
Dunque, non solo eravamo talmente vicini da poter fastidiosamente sentire il respiro l’uno dell’altro ma eravamo anche limitati nei movimenti.
Il mio ultimo pensiero prima di addormentarmi, quella notte, fu rivolto a coloro che avevano osato posare anche solo un singolo dito sul mio amico.

Mi svegliai ai primi albori, colpito direttamente sul volto dai raggi luminosi del sole, mentre le nuvole ad oriente assumevano un dolce bordo dorato sul cielo roseo e rispecchiavano i colori di ciascuna delle linee sottili lungo le quali la luce del sole sembrava propagarsi.
Mi alzai leggermente col busto per vedere se Donnie e Mikey erano svegli, ma entrambi sembravano ancora tranquilli tra le braccia di Morfeo, gli occhi chiusi e le braccia del biondo attorno alle spalle del castano. Sorrisi, notando quanto sembravano fratelli.
Il mio volto assunse velocemente un’espressione sorpresa non appena sentii qualcosa muoversi accanto a me e mi voltai lentamente per vedere Raph dischiudere e sollevare le palpebre, il tutto seguito da un grugnito sommesso.
Come me si mise a sedere e osservò la stessa scena che avevo ammirato con incanto precedentemente. Anche lui sembrò rimanerne ammaliato, ma decise comunque di non darlo troppo a vedere.
Al contrario, sul suo viso apparve un’espressione arrabbiata e vendicativa e senza doverci pensare su due volte capii velocemente perché.
In questi mesi ci eravamo tutti avvicinati moltissimo, e per la prima volta sia io che il mio vicino di casa avevamo avuto delle amicizie vere al nostro fianco.
Il rosso aveva persino iniziato ad essere meno chiuso o scorbutico. Cioè, verso di noi intendo.
E di questo piccolo mondo magico che ci eravamo lentamente costruiti attorno a noi stessi eravamo molto gelosi. Dovevamo, volevamo proteggerlo. Niente e nessuno avrebbe mai dovuto provare a distruggerlo o intaccarlo. Era nostro. Esclusivamente nostro.
E proprio a causa di ciò ci promettemmo in silenzio di non lasciare più che qualcosa del genere accadesse.
Fu un giuramento che entrambi potemmo leggere negli occhi e udire dalle labbra dell’altro, sebbene non fu mai pronunciato.
Stanchi, ci coricammo nuovamente nei nostri sacchi a pelo a distanza ravvicinata.
Mentre scivolavo nel sonno, sentii le braccia di Raph sfiorare pesantemente la tela che lo avvolgeva, mentre le sgusciava fuori dal sacco e per poi avvolgerle attorno al mio torace.






 
 







 

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


103 RECENSIONI!!!!!!

Ragazzi non ci posso credere! Grazie grazie grazie grazieeee di cuore!!!!
E' stata davvero una sorpresa stupenda!
Ho finalmente battuto le 100 recensioni con questa storia!!!
Grazie mille davvero!!!
Un grazie speciale ai recensori dello scorso capitolo!
Che sono:
_Bara no Yami_ ; AleJ_and_Mizu ; CatWarrior ; Ser Barbs ; piwy ; Alcione
GRAZIE DAVVERO!!!

 

CAPITOLO   19

Destarsi, per la seconda volta quella mattina, a causa della luce mi parve fastidiosamente monotono, mentre cercavo di trarre conforto dal calore del mio sacco a pelo e dal gesto affettuoso che Raph stava ancora dimostrando sebbene inconsciamente.
La presa che esercitava in quell’abbraccio amichevole non mi diede minimamente fastidio. Al contrario, sentivo di poter affermare finalmente che, dopo tutto quello che avevamo passato in quei nove mesi di anno scolastico, era definitivamente il fratello che Drake non era mai stato. Un fiume di ricordi invase velocemente la mia mente assonata, i particolari annebbiati e confusi, mentre dettagli assurdi di avvenimenti importanti fecero capolino dagli angoli più nascosti del mio cervello.
Come il rossetto sempre troppo abbondante sulla bocca della signora dell’autobus, specialmente quel primo giorno in cui io e il rosso andammo d’accordo –che, a proposito, era ancora castano a quei tempi. Il gesto della mano semplice e spontaneo dei due ragazzi che in questo momento stavano dormendo tranquilli sull’enorme letto accanto a me; La partita che Casey era venuto ad assistere come mio padre non aveva mai fatto; la frase ‘non sei più il mio capitano’ che continuò a riecheggiare tra le pareti della mia testa anche molto tempo dopo averle sentite pronunciare; L’incontro con Splinter…
Mai avrei mai detto che sarei arrivato fino a questo punto.
Ero partito da una situazione della mia storia ed ero arrivato ad una totalmente diversa.  Io ero diverso. Mi sentivo completamente un’altra persona. Dovetti soffocare una risata quando mi venne in mente che, in un certo senso, era anche grazie a Drake se le cose si erano rigirate fino ad arrivare in questo modo.
Incredibile. Se lui non avesse deciso di farmi prendere una polmonite di certo non sarei andato da Raph a chiedere aiuto.
E la mattina dopo lui non mi avrebbe parlato. Così come non mi avrebbe parlato due mattine dopo e quelle dopo ancora. Ed era anche grazie alla professoressa di chimica se ero stato assegnato in coppia con Michelangelo per l’esperimento di primavera.
Il mio fratellastro e la mia insegnante… due persone così insignificanti che senza volerlo avevano fatto moltissimo per me.
E fu così che, un po’ per la confusione che impastava la mia mente, un po’ per le tipiche cose insensate che si è tipici fare durante i momenti di dormiveglia, presi ad elencare persone che avevano assurdamente contribuito alla mia felicità sebbene non le odiassi o trovasse altamente irritabili: Robin –se fosse stato un amico migliore non avrei avuto bisogno di cercare conforto in altre persone–, Giulia, grazie alla quale Drake era entrato nella mia vita assieme alle sue cattiverie, I genitori dei miei migliori amici e così via, fino a sprofondare nuovamente in un sonno profondo. Quando, per la terza e buona volta, aprii gli occhi sollevando le pesanti palpebre , le braccia attorno a me e il calore che procuravano erano ancora lì.
Questa volta diedi un’occhiata al viso di Raph, notandolo ancora spento e rilassato, il respiro regolare controllato in un’alternanza da naso e dalla bocca dischiusa involontariamente.
I capelli rossicci cadevano sul viso giovane.
In un primo momento pensai con sconforto di essere l’unico alzato, ma suoni di passi per le scale mi costrinsero ad assumere un’espressione turbata e incerta.
Mi mossi quel che bastava per non svegliare il mio compagno e allungai il collo tentando di vedere il più che potevo sopra al letto di Donatello.
Spariti. Entrambi.
La mia testa sprofondò nuovamente sul cuscino. Erano probabilmente andati a preparare la colazione o a vestirsi e, come prova della mia tesi, presto l’aria portò un dolce profumo dalle scale, lasciando spazio alla mia immaginazione mentre ipotizzavo che cosa potesse essere ciò che stava cuocendo e mentre cercavo di associare odore ad alimento.
Non appena avvertii il ragazzo dentro al sacco a pelo accanto al mio irrigidirsi, primo sintomo che il caro Morfeo lo stava rispedendo nel mondo della realtà, mi affrettai a chiudere gli occhi, sperando di aver fatto appena in tempo e che il movimento veloce non avesse attirato la sua attenzione sul mio volto.
Sapevo che Raph, per quanto potesse essere cambiato, non era pratico in dimostrazioni di affetto e avrebbe preferito che io non mi fossi accorto di niente.
Non c’era una pecca nel mio ‘piano’. Dovevo semplicemente aspettare che rimuovesse gli arti dal mio corpo e si muovesse, per poi fingere che il movimento mi avesse improvvisamente richiamato da chissà quale sogno.
Rimasi leggermente sconcertato quando, prima di lasciarmi, strinse leggermente la presa, facendomi sentire ancora più vicino a lui. Non appena però le sue braccia mi abbandonarono, procedetti con ciò che avevo ideato, riuscendo a non fargli sapere che ero ormai sveglio. Così, dopo una decina di minuti, anche noi raggiungemmo gli altri in cucina.
E quest’ultimi, per fortuna, ebbero la cortezza di non accennare parola riguardo alla posa in cui ci avevano di sicuro trovati al loro risveglio.
Notai con piacere che i lividi sulla pelle di Donatello stavano iniziando a schiarirsi e a tornare della normale tonalità olivastra della sua pelle.
Non volevo rimanesse alcun segno di ciò che era sfuggito alla nostra stretta. I waffle sul mio piatto fecero in fretta a sparire, così come il succo d’arancia che riempiva il bicchiere cristallino davanti a me.
Mentre chiacchieravamo tranquillamente attorno al tavolo di vetro non potei fare a meno di rendermi conto che c’era qualcosa che non andava con Raphael quella mattina: non solo era molto più taciturno del solito ma i suoi lineamenti erano tesi e contratti in un’espressione che mi fece preoccupare a dir poco.
Fui tentato di chiedere spiegazioni in proposito ma mi accorsi che sarebbe stato molto meglio attendere fino al ritorno a casa.
E dunque aspettai.
Non molto, ad ogni modo: lui aveva deciso che era meglio se, per quel giorno, il ritrovo finisse subito dopo pranzo.
“Ho qualcosa da fare” aveva affermato, ma fatto sta che nessuno di noi riuscì a fargli dire cosa.
Ovviamente io me ne andai con lui, deciso ad arrivare fino in fondo alla questione, ma pur sempre con un approccio lento e delicato. Conoscendo il carattere irritabile del mio compare, sicuramente era la scelta più giusta.
Dopo pochi chilometri a piedi raggiungemmo l’inizio del nostro quartiere, che si sviluppava dall’incrocio con una delle vie principali della città.
Sui giardini verdi splendeva a tratti la luce del sole, fino a quando la stella non veniva offuscata da una bigia nuvola passeggera.
Il tragitto era stato troppo silenzioso per i miei gusti.
Stavo giusto per aprire bocca e prendere parola quando il mio migliore amico parlò con un filo di voce ma gravemente:
“Aspetta okay?” Suonava come un ordine perciò mi limitai ad annuire mestamente mentre lo fissavo con aria affranta.
Interruppe i suoi passi e io lo imati. Presto fummo entrambi fermi in mezzo alla strada.
Continuò a parlare, non notando il mio sguardo e facendo il possibile per non incrociare i miei occhi “Non ti mentirò dicendoti che è tutto a posto, ma è una storia lunga e prima devo andare da mio padre”
Uno strano presentimento scavò affondo nella mia pelle e il mio stomaco si contrasse turbato al tono gelido e distrutto che stava usando.
Perché era diventato improvvisamente così?
Temetti che qualcosa di serio fosse successo.
No, non temetti.
Lo seppi.

Mi sforzai di annuire una seconda volta, sebbene il mio capo sembrava improvvisamente pesantissimo, il resto del corpo paralizzato.
Quando lui riprese a camminare, realizzai di aver iniziato a tremare; Le mie braccia erano rivestite da pelle d’oca e tutto d’un tratto desiderai che le maniche della mia maglia non fossero corte ma bensì lunghe.
Passo dopo passo incomincia a riassumere il controllo del mio corpo, mentre i secondi scivolavano via troppo lentamente rispetto ai battiti accelerati del mio cuore, che martellavano fortemente e in modo quasi doloroso contro le mie tempie.
Il respiro tremò sotto il mio mento.
La casa del mio vicino era ormai a pochi metri da noi ma quella breve distanza sembrasse particolarmente lunga ora che il mio spirito si rifiutava di aspettare anche solo un altro minuto per venire a conoscenza di ciò che stava accadendo.
La prima cosa che vidi ma a cui non diede la giusta importanza fu che la macchina di Casey era parcheggiata nel vialetto li accanto. Da ciò dedussi che non era al lavoro ma a casa.
E, se non avessi la mente confusa e assalita dai dubbi, mi sarei soffermato su tale dettaglio riflettendo su quanto la cosa fosse insolita.
Finalmente le dita del rosso sfiorarono la maniglia, prima paurosamente ma poi decise, e l’afferrarono.
Entrammo in casa e il silenzio che incombeva minaccioso fermò i miei passi per un attimo.
Infine chiusi la porta dietro di me e seguii Raph fino in cucina.
La seconda cosa strana che notai fu una cornice dorata poggiata su una tovaglietta argentata sul tavolo in legno.
Dallo stipite della porta non riuscii a vedere cosa vi fosse sopra, ma quando vidi i due familiari abbracciarsi ipotizzai con un sussulto sconvolto che potesse esservi la foto della signora dalla dolce espressione che li aveva abbandonati molti anni prima.
Che fosse l’anniversario della morte della madre di Raph?
Subito sembrò un’ipotesi considerevole, la più probabile anche.
Ma qualcosa nel retro della mia mente mi disse che non era così.
Che giorno era pure?
12 maggio.
No. Qualcosa non quadrava. Ricordo bene che, quando ero ancora un bambino, io e mio padre ci eravamo recati ai funerali della stessa, eppure il paesaggio era ricoperto da neve candida e pallida come il viso della donna.
Quando quel ricordo affiorò scartai sollevato la prima ipotesi che mi ero proposto.
Il momento di sollievo, comunque, durò veramente poco.
Qual era allora il problema che li affliggeva? Cos’altro poteva essere successo.
I due si separarono velocemente dall’abbraccio e notai con un tuffo al cuore le piccole gocce luccicanti che circondavano gli occhi di entrambi.
Mi sentii in colpa in seguito per aver interrotto il loro momento ma davvero non resistetti alla tentazione di chiedere “Vi prego ditemi cosa sta succedendo”
Si voltarono entrambi verso di me e, in seguito ad un’occhiata colma di significati nascosti, Casey si allontanò dalla stanza.
Una volta rimasti soli, ci fissammo intensamente, uno sguardo carico di domande e l’altro di risposte difficili da dare.
Dopo aver ingoiato a vuoto a causa della bocca secca che mi ero ritrovato, pronunciai il suo nome esitante e incerto “R-Raph?”
Lui prese un respiro profondo, gonfiando il petto e allargando la gabbia toracica.
Infine si avvicinò alla cornice scintillante sotto la luce del lampadario acceso e me la porse.
Allungando un braccio, afferrai con stretta salda il piccolo oggetto, temendo che potesse scivolare via dalle mie dita come lo avrebbero potuto fare dei minuscoli granelli di sabbia.
Una volta trovati il coraggio e la forza necessari abbassi lo sguardo sul vetro sotto i mie polpastrelli.
Per  un attimo non mi trovai più in quella cucina muta e chiusa, ma in un parco rigoglioso e verde, con tanti bambini che correvano sullo sfondo.
Davanti a me, in particolare, stavano due di loro che mi sorridevano immobili, aspettando il flash che da lì a poco avrebbe accecato momentaneamente i loro occhi.
Il maggiore, castano con gli occhi verdi smeraldo, teneva un braccio attorno alle spalle dell’altro e uno dei suoi piedi schiacciava una palla rotonda e in bianco e nero.
Il minore, invece, era moro con gli occhi azzurri e assomigliava a me quando avevo la sua età.
All’improvviso mi ritrovai di nuovo nella casa del mio migliore amico.
“Non capisco” affermai, sinceramente confuso.
Chi era quel bambino?
Perché era diventato così importante saperlo tutto d’un tratto?
E come mai sia Casey che suo figlio avevano assunto un carattere totalmente fuori luogo per le loro personalità?
Il rosso chiuse gli occhi passando su uno il pollice e sull’altro l’indice della mano destra, abbassando il capo e cercando le parole più adatte per spiegarmi la situazione.
“Raph?” tentai incerto.
Lui sollevò nuovamente lo sguardo.
“Quel bambino” disse poi, alludendo ovviamente al corvino dei due “E’ morto undici anni fa esatti. Era stato da poco il suo terzo compleanno, quando si ammalò di una malattia di cui non si conosceva la cura. Certo, non sempre era mortale, ma a quanto pare la sorte gli giocò un brutto tiro” la sua voce tremò un attimo, poi mormorò sotto il suo respiro “Dio, era uguale a te…”
Il mio cuore aumentò la velocità del battito una seconda volta in quel giorno.
“Avrebbe avuto quattordici anni”
Mi parve di vederlo agitarsi e cercai invano di posargli una mano sulla spalla che mi era più vicina. Ovviamente si spostò ancora prima che potessi toccarlo.
Si prese la testa fra le mani, pensando angosciato.
Una parte di me voleva dirgli di smetterla, di non raccontarmi più nulla perché oramai non importava ma l’altra parte invece sapeva esattamente che avrebbe solo peggiorato la situazione.
Dovevo aiutarlo a liberarsi di quel peso e così mi accucciai accanto a lui sul pavimento, dove si era da poco seduto di peso.
“Raph” ripetei un’altra volta il suo nome “Raph chi era quel bambino?”
Non mi rispose, invece continuò a bisbigliare frasi che non riuscivo a cogliere interamente sotto i denti, stringendo gli occhi tanto da far male.
Di nuovo, una voce dentro di me propose di lasciar perdere e cercare invece di calmarlo ma ero ben consapevole che l’unico modo per dargli veramente una mano era quello di fargli compiere l’ultimo grande salto.
“Raph?” tentai di nuovo, questa volta con un tono esigente.
Tolsi le sue mani dal suo capo e le presi tra le mie, mentre aspettavo che incontrasse il mio sguardo.
“Chi?” domandai soltanto.
Prese un respiro profondo, e poi affermò, senza nemmeno rendersene conto:
“Michael Jones” cosa? “Mio fratello”
Mi allontanai di scatto, balzando in piedi sconvolto mentre scene di un secondo funerale frattagliate mi vennero in mente.
Un bambino castano di cinque anni che stringeva la mano al padre e piangeva col viso nascosto nel suo cappotto.
Lo fissai atterrito,  e in seguito mi affrettai a tornare alla sua altezza e a gettargli le braccia al collo, tenendolo vicino e sentendo il suo volto nell’incavo del mio collo mentre io stringevo i pugni dietro le sue spalle.
Una bara che lentamente sfilava davanti a tutti i presenti, al suono di pianti sommessi contrapposti a quelli delle persone che non riuscivano più a tenersi dentro represse le emozioni e si scusavano per poi uscire dalla piccola chiesa e andare a sfogarsi dove nessuno poteva vederli.
Il mio amico si abbandonò ad un pianto che teneva dentro da chissà quanti anni, mentre io facevo lo stesso nel vederlo così vulnerabile e distrutto, cercando mentalmente una soluzione per porre rimedio al problema. Inutilmente, ovvio.
Una piccola cerimonia, durante le parole del prete rimbalzavano sulle pareti in marmo dell’edificio e la luce del sole filtrava dalle finestre colorate.
Il tempo era ironicamente sereno e il cielo azzurro come gli occhi del bambino che si era spento.

Mormorò qualcosa ma non riuscii a comprendere tutte le parole. Disegnai con le dita dei cerchi immaginari sulla sua schiena, tentando di rassicurarlo.
“Era dannatamente uguale a te” la sua voce era sommessa contro il colletto della mia maglietta, che diventava scuro dove le lacrime lasciavano traccia del loro passaggio.
La fine della messa in suo onore, e gli invitati che si avvicinano verso l’uscita
“Leo?” mormorò dopo qualche minuto, la voce impastata dal pianto.
Per un qualche motivo, seppi che di ciò che stava per chiedermi era insicuro anche lui.
Una persona che all’uscita consegna a tutti gli invitati un piccolo rettangolo, su cui era stato stampato più volte il viso di un bambino troppo giovane per aver già lasciato coloro che lo conoscevano.
“Sì?” risposi, cercando di suonare tranquillo e di infondere un po’ di serenità anche a lui.
Le parole che pronunciò dopo sembrarono infantili per qualcuno della sua età ma me ne fregai altamente e le conservai per sempre come un grande tesoro nel cuore:
“Vuoi essere il mio fratellino?”
Prendo un santino anch’io, imitando mio padre e osservando incerto la faccia sorridente del giovane, notando poi che sul retro vi è una scritta.
Improvvisamente un fiume di lacrime lasciò i miei occhi.
“Ne sarei onorato” affermai, dopo aver ingoiato quelle lacrime che avevo sentito scendere in gola.
Lo volto, scandendo lentamente le lettere e numeri che vi erano, non capendo veramente ciò che volevano dire.
MICHAEL JONES
28 APRILE 19XX – 15 MAGGIO 19XX










 

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


Avviso importante: lo so che nel capitolo quattro avevo scritto che la madre di Raph era morta quando lui aveva cinque anni, ma con questa nuova uscita di Michael ho preferito renderla meno recente.


Capitolo 20 

Prima che me ne rendessi conto il rosso era sprofondato nel sonno tra le mie braccia.
Ripensando agli ultimi avvenimenti, stimai che fosse normale considerato il grande accumulo di stress a cui era stato sottoposto: il litigio tra noi due, la storia di Donnie, l’anniversario della morte di suo fratello…
Pensai a come mai non vi erano foto di Michael per casa, quando ne avevo invece vista una di sua madre nella camera al piano di sopra.
Forse, supposi, quello era uno dei pochi ricordi che aveva di lei.
E aveva tutto un senso all’improvviso.
Essendo lei morta poco dopo la nascita del secondo genito, Raphael doveva aver avuto poco più di due anni.
E quindi nessun ricordo di lei.
Del piccolo fratellino, invece, poteva probabilmente ancora vedere i momenti che avevano vissuto insieme durante la loro infanzia.
Voltai la testa non appena sentii il cigolio della porta della cucina e notai che Casey era entrato per vedere come stavano andando le cose.
Con un cenno del capo e uno sguardo stanco e implorante gli indicai l’inconscio ragazzo che appoggiava il peso del suo corpo su di me.
Sorridendo appena, l’uomo si avvicinò e mi aiutò a portarlo nella sua stanza per poi adagiarlo sul suo letto ancora fatto.
L’atmosfera si fece cupamente silenziosa mentre due fazioni di me stesso discutevano mentalmente se citare o meno l’argomento.
Certo, una parte di me voleva fare le condoglianze non fatte in tutti questi anni, ma un’altra preferiva lasciare spazio alle cose e rispettare il dolore che quell’uomo provava. Che era molto più di quanto sembrasse. Cosa fareste voi se perdeste l’amata moglie e, dopo soli tre anni, anche uno dei pochi frutti del vostro amore?
Nessun padre dovrebbe mai seppellire il proprio figlio.
Per mia fortuna, la mia incertezza venne interrotta dalla voce dell’uomo, che con voce lieve e bassa disse “E’ sempre così. Ogni anno. Fino al giorno prima si comporta come se nulla fosse, cerca di rimandare il più possibile il momento dei ricordi. E il giorno dopo ricomincia a comportarsi come se nulla fosse” prese un respiro e una piccola pausa, poi continuò “Si è fatto scudo di questo dolore agendo aggressivamente e istintivamente in ogni occasione possibile, ma arriva sempre quel giorno dell’anno in cui smette di fingere per una volta. E’ fragile come tutti quanti, sebbene non voglia ammetterlo”
Spostò il suo sguardo dall’argomento della conversazione su di me “So che probabilmente non te lo ricordi, ma c’erano occasioni in cui anche tu venivi a giocare con i miei figli. Certo, non erano molto frequenti, ma quando succedeva vi trovavate volentieri. Ma dopo quel giorno Raph non ti ha più voluto vedere. Eri troppo uguale a lui. Sembravate gemelli. E proprio per questo anche col tempo ha continuato a trattarti così. Ma poi penso che tu gli sia iniziato a piacere. Sai, in un certo senso era come se lui fosse ancora qui”
Mi vennero in mente diverse frasi e parole da pronunciare, ma la mia bocca non si schiuse nemmeno una volta.
“Non parlargliene, domani” c’era una supplica nel suo tono “Quando le cose riprenderanno come se nulla fosse, non cercare di tornare sull’argomento. Fingi che oggi non sia mai esistito”
Non c’era cattiveria nel suo tono, ma ciò che disse mi ferì. Come potevo fare finta che nulla di ciò fosse accaduto?
Ma tuttavia non espressi i miei dubbi e annuii.
Infine, dopo un sommesso ma sentito ‘Buonanotte’ mi poggiai lentamente sul materasso gonfiabile, e sdraiai nel modo più silenzioso possibile. Osservai dalla finestra le poche stelle visibili nel cielo e infine chiusi gli occhi senza accorgermene, la stanchezza che finalmente scivolava via dalle mie ossa.
Dovetti ammettere che rimasi colpito nel vedere che la predizione di Casey si era avverata con successo.
La mattina dopo, quando mi svegliai, trovai vuoto il letto accanto al mio e sentii un salato profumo di hot dogs che arrivava dalla cucina e si intrufolava nella stanza grazie alla porta dischiusa.
Dalla strada provenivano rumori tipici di una città in movimento e, quando mi sporsi per guardare oltre la finestra, notai degli operai già pronti in divisa che lavoravano sul letto di un edificio lì accanto.
Osservai la macchina di Giulia nel parcheggio di casa mia e presi nota di passare nel pomeriggio per far firmare a mio padre i moduli per iscrivermi al corso di ninjutsu, che ancora non gli avevo mostrato.
All’improvviso la consapevolezza di dover presto tornare a casa mia si fece strada nella mia coscienza e non trovai la forza di respingere il pensiero. Sebbene trovassi alquanto invitante restare per sempre dove mi trovavo in quel momento, realizzai che non era comunque giusto continuare a invadere lo spazio dei miei vicini e lasciare completamente oscurato il ruolo di mio padre nella mia vita.
Certo, in fondo in fondo ero ancora un po’ arrabbiato con lui per non essersi mai reso conto che quella che lui aveva scelto non era la famiglia adatta a me e vigeva ancora la regola ‘D’ora in poi penserò anche a me stesso’, ma allo stesso tempo sapevo che era giusto lasciare che le cose tornassero normali.
L’unico mio rammarico era quello di dover lasciare Raph dopo ciò che era accaduto, ma sapevo che in un certo senso lui stesso avrebbe preferito non farmi quella domanda. In un certo senso, lui aveva sempre optato per tenere nascoste le sue reali opinioni.
Così mi imposi di decidere cosa fare quello stesso giorno.
La testa del rosso sbucò dalla soglia smagliante, dicendomi ‘Vado a farmi una doccia, in cucina c’è la colazione’ per poi sparire e lasciarmi nuovamente solo.
Dopo non molto udii distintamente il rumore dell’acqua che sbatteva contro la superficie solida della vasca nell’altra stanza.
Beh, pensai, sembra essersi ripreso in fretta.
E fu davvero così.
Dopo aver ingurgitato il pane che avevo trovato sul tavolo, essermi vestito e preparato per andare a scuola, io e il mio migliore amico ci affrettammo verso la fermata.
Una volta saliti sull’autobus, Raph mi informò che quel giorno aveva un altro impegno con l’officina in cui sarebbe andato a lavorare quest’estate.
“E’ come una prova” aveva detto “Vado là, aggiusto qualche motore e poi torno a casa. Un po’ come se lavorassi già. Ma è solo per due giorni alla settimana, lunedì e giovedì”
Ovviamente, come mio solito, mi ero limitato ad annuire.
Perfetto, esclamai mentalmente almeno avrò il tempo per decidere cosa fare e per passare da casa
La giornata procedette normalmente.
Quella mattina ad inglese il professore era entrato affidandoci un tema a sorpresa da fare in quella stessa ora, con titolo ‘I don’t trust words, i trust actions’ e io passai non solo quella lezione ma tutto il resto del tempo a pensare a quanto, in un certo senso, fosse una frase vera per tutti.
C’è sempre, o ci sarà, un momento nella vita in cui tutti noi decidiamo di agire senza pensare. Anch’io, che ero sempre stato un ragazzo che non faceva mai nulla senza rifletterci sopra due volte, avevo avuto non molto tempo prima l’impulso di lasciare tutto e fare ciò che sentivo. Ed era stato lo stesso impulso a farmi decidere di trasferirmi a casa del rosso.
Ma, allo stesso tempo, mi resi conto che spesso per prendere una decisione molto difficile è necessario sedersi, mettere le carte in tavola e meditarci sopra a lungo.
Esattamente quello che avrei fatto io quel pomeriggio. Il che, sinceramente, non mi andava nemmeno un po’. Sbuffando, mi feci strada tra i corridoi della scuola, in cerca dei miei amici con cui andare a mensa come ogni giorno.
 
Quel giorno presi l’autobus del ritorno da solo. Quando era venuto a prendere Raph a scuola per portarlo direttamente all’officina, Casey si era offerto di riaccompagnarmi a casa ma con un gesto della mano rifiutai la sua cortese offerta. In quel genere di situazioni mi sentivo sempre in mezzo a qualcosa in cui non c’entravo praticamente in niente e provavo un senso di scomodità estrema.
Così all’una precisa salii sui gradini scuri del pullman e mi infilai nel primo paio di sedili che vidi vuoti, circa a metà del mezzo pubblico.
Infilando le cuffie del iPod nelle orecchie, poggiai un gomito accanto al finestrino e il mento sulla mano chiusa a pugno, osservando il paesaggio ma, allo stesso tempo, qualcosa che nessuno oltre a me poteva vedere. Concentrato su chissà quali pensieri, mi venne improvvisamente in mente che Raphael si era dimenticato di darmi le chiavi di casa oggi a scuola. Il che, facendo due più due, significava che ero letteralmente fuori casa.
Nel mio petto si diffuse una sensazione di panico e agitazione mentre pensavo al rimedio adatto a quel problema. Sperai che mio padre non fosse al lavoro, così da poter andare a pranzo nella mia vecchia abitazione, ma ogni piccola traccia di speranza svanì quando scesi dall’autobus e vidi solo la macchina di Giulia nel cortile verde. Sbuffai e lanciai un’imprecazione al cielo, coprendomi gli occhi con una mano mentre rimanevo fermo impalato alla fermata del mio quartiere.
“Pensa, pensa, pensa” mormorai sotto i denti, portando le dita alle tempie e strizzando gli occhi nel tentativo di focalizzarmi in miglior modo.
“Leonardo-kun?” qualcuno domandò, la voce proveniente da dietro le mie spalle.
Spalancando le palpebre, mi voltai di scatto e mi ritrovai davanti agli occhi il ragazzo conosciuto alla palestra di ninjutsu.
Come sempre, notai una lieve somiglianza tra il nostro aspetto: entrambi coi capelli del color del mogano e un acceso azzurro che colorava le nostre iridi.
“U-usagi-kun?” non so bene perché balbettai, probabilmente ero ancora un po’ confuso da quella situazione
“Va tutto bene, Leonardo-kun?” mi piaceva che ripetesse il mio nome quasi ad ogni frase che pronunciava.
Mi lasciai sfuggire una piccola risata,  sebbene non nascondesse altro che stress “Non esattamente…”
“Posso essere d’aiuto in un qualche modo?”
“Ecco…veramente…”
E fu così che mi ritrovai a pranzo a casa del mio amico di arti marziali.
Suo padre era un uomo dall’aspetto severo, quasi intimidatorio, ma alla fine sapeva rivelarsi davvero gentile e con un inaspettato  senso dell’umorismo.
Era molto simile al figlio, col quale condivideva gli occhi di quell’azzurro-grigio.
Dopo aver mangiato buona parte del cibo che era nel mio piatto mi limitai a giocare con la forchetta con gli avanzi, perdendo interesse nella conversazione e ritrovandomi improvvisamente a pensare nuovamente a mio padre.
Nelle ultime ore, in quella giornata, la mia voglia di ricongiungermi a lui era accresciuta tantissimo. La gola mi divenne improvvisamente secca e iniziai ad ingurgitare sorsate d’acqua dal bicchiere di vetro posto di fronte a me.
La voce del genitore di Usagi mi richiamò all’attenzione, chiedendomi se andassi alla stessa scuola di suo figlio a cui io risposi negando con un cenno del capo.
Poi, dopo aver ingoiato per l’ultima volta, poggiai il bicchiere sul tavolo e aggiunsi:
“Io vado alla Stuyvesant  High School”
Ricevetti un grugnito d’approvazione.
Presto furono le tre del pomeriggio e il signor Miyamoto dovette lasciarci per andare al lavoro.
Mi voltai verso il mio amico della scuola di arti marziali non appena questi mi propose di mostrarmi la sua collezione di katana e con un sorriso annuii euforico.
Così, afferrandomi per il polso, mi condusse per un corridoio lungo e buio sul lato sinistro della casa, che si notava a malapena tra tutte quelle stanze e librerie arricchite di libri che sostavano lungo i muri.
Dopo un paio di metri intravidi un improvviso fascio di luce dall’angolo che svoltata sulla destra: lì, infatti vi era una specie di vicolo cieco, che rientrava di un metro al massimo per dare spazio a una grande finestra sotto alla quale si trovava un termosifone vecchio ma in buone condizioni.
Dalla parte opposta, dunque sulla sinistra, ci si ritrovava su una stanza buia.
Usagi accese la luce e all’improvviso notai il colore verde foglia delle pareti e le numerose teche di vetro che costudivano diverse katana, dalle più antiche alle più recenti, ognuna con una piccola targhetta bianca.
Avvicinandomi con un ‘Wow’ d’ammirazione, potei leggere le diverse informazioni che erano scritte sui bigliettini bianchi: a quanto pareva, alcune di esse erano persino famose. Niente di troppo conosciuto, ma comunque katana importanti che avevano fatto la storia.
Usagi mi narrò diverse leggende e storie legate a quelle armi, che venivano tramandate di generazione in generazione in diverse famiglie giapponesi.
“Mi piacerebbe sapere tante cose quanto te a proposito di ciò”
Senza che nemmeno me ne accorgessi, lui sorrise e mi poggiò una mano sulla spalla destra mentre ero chinato per vedere meglio dentro a uno dei vetri.
Guardai oltre la mia schiena e incontrai il suo sguardo:
“Se vuoi posso prestarti qualche libro” offrì “Io ho iniziato così”
Sgranando gli occhi, domandai incredulo: “Hai libri che parlano di katana?”
Rispose con una risatina lieve “La mia famiglia si tramanda libri su arti marziali di tutti i tipi”
E fu così che verso le cinque del pomeriggio mi rimisi in cammino verso casa di Raph, dove lui sarebbe arrivato in un’oretta, con lo zaino di scuola appesantito da un tomo dall’aspetto antico che Usagi aveva affidato alle mie cure.
A nemmeno metà strada mi sentivo già esausto, ma continuai comunque sempre fermarmi, ben consapevole del fatto che se mi fossi seduto anche solo un momento non mi sarei più alzato.
Il sole all’orizzonte era ancora alto, grazie alla stagione estiva che si stava avvicinando.
Mancava molto poco alla fine della scuola e io già non vedevo l’ora.
Tutto ciò che dovevo fare era riuscire a sopravvivere e superare gli ultimi ostacoli, ovvero le verifiche finali e definitive, e presto sarei stato libero da ogni preoccupazione.
Un piccolo sorriso si dipinse sulle mie labbra mentre pensavo a come avrei trascorso i tre mesi che dovevano venire.
“Leo!” qualcuno urlò alle mie spalle e, voltandomi, vidi una mano sventolare dal finestrino posteriore di una macchina che si avvicinava velocemente.
Non appena questa si fermò accanto a me notai che al volante era seduta la signora April O’Neil mentre il nipote Donatello sostava alla sua sinistra.  Michelangelo invece era nella parte posteriore.
Dopo esserci salutati calorosamente mi offrirono un passaggio che io non ebbi la forza di rifiutare.
Non solo avrei impiegato meno tempo ma mi sarei potuto riposare senza rischiare di crollare per strada all’improvviso. Non appena mi scaricarono davanti il giardino di Raphael, alle cinque e mezza del pomeriggio, mi proposero di fermarsi con me ad aspettare per farmi compagnia, ma io rifiutai gentilmente, non volendo disturbarli o distrarli da ciò che dovevano fare.
Tutto d’un tratto, il forte rumore di una sirena risuonò nell’aria, lacerando i miei timpani e quelli di tutti i passanti per strada.
Lanciando un’occhiata oltre la staccionata mi lasciai sfuggire un gemito sorpreso nel vedere due auto della polizia fermarsi nel vialetto davanti a casa mia, un uomo scendere col volto pallido e giallognolo e avvicinarsi alla porta di casa mia.
Le mie gambe non trovarono la forza di muoversi e per un qualche motivo il mio cuore sembrava aver deciso di accelerare i battiti mentre una sensazione di vuoto si faceva spazio dallo stomaco fino al petto.
Il poliziotto suonò alla porta e aspettò che Giulia accorresse ad aprire, per poi abbassare il capo e togliersi il capello che teneva in testa.
Qualcosa dentro di me si ruppe non appena Giulia si accasciò a terra, con un singhiozzo potente e lacrime amare sul viso.

Angolo dell’autrice :)
                     
Allora non so cosa ve ne pare del capitolo, ma spero vi sia piaciuto!
Chiedo scusa per il tremendo ritardo, ma solo questa settimana ho dovuto studiare per ben quattro verifiche e due interrogazioni >.<
Perciiiiò, perdonatemi :3 Mi spiace se questo capitolo è un po’ corto, ma volevo farlo un po’ noioso all’inizio per poi buttarvi il colpo di scena finale –e per non annoiarvi troppo ho deciso di farlo più corto.
Ringrazio immensamente chiunque abbia messo la storia tra preferiti/seguiti/da ricordare e chi ha recensito, ovvero:
_Bara no Yami_  ; Ser Barbs ; CatWarrior ; AleJ_and_Mizu ; LisaBelle_99 ; Sayan_Lover e I LOVE RAPH

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Chiedo perdono per eventuali errori (molto probabili ^^;) e vi avviso: Siate pronti
 

CAPITOLO 21



Gli antichi greci erano convinti che le gambe fossero una parte molto importante dell’uomo, sia fisicamente che spiritualmente.
Erano soliti dire tramite metafore nei loro poemi epici che la paura si trovava in quegli arti, perché era grazie ad essi se ci si poteva allontanare velocemente.
E io potevo sentirla, la paura, nelle mie gambe.
I miei occhi fissavano ciò che stava avvenendo davanti alla porta di casa mia, mentre i piedi avevano iniziato a prendere piccoli passi esitanti senza che io me ne rendessi davvero conto.
All’improvviso però scattai a correre, rapido, avvicinandomi sempre di più alla mia abitazione, sentendo il terreno sotto le suole delle scarpe ogni volta che toccavo terra.
Il vento fresco si era alzato da qualche minuto e in quel momento stava mandando scariche di gelo per la mia colonna vertebrale, facendomi pentire di aver indossato solo una maglietta a mezzemaniche.
Giunto alla staccionata la scavalcai con un balzo con l’aiuto delle mani, appoggiate sui legni verticali grazie ai palmi.
Le mie vene sembravano in procinto di esplodere per la troppa adrenalina, il cuore che batteva con violenza contro il petto.
Col respiro affannato, annullai la distanza che mi separava da quelle tre persone che si trovavano nel cortile. Quattro, a dire il vero. Drake era sceso non appena aveva sentito le grida disperate di sua madre.
Lo vidi parlare con uno dei due uomini, sbiancare terribilmente in viso e scusarsi mestamente, per poi rientrare in casa.
Non mi sembrava un comportamento da lui. Non lo vedevo da un po’ in effetti, ma poteva essere cambiato così tanto in così poco tempo?
No.
E la sensazione di panico crebbe di nuovo in me.
Uno dei poliziotti si voltò nella mia direzione non appena avvertì la mia presenza farsi più vicina e dopo poco ci ritrovammo faccia a faccia, distanti alcuni centimetri.
Immaginai un discorso mentale preciso e preparato da dirgli, ma quando provai a pronunciare parola notai di avere la bocca impastata, bloccata.
Le frasi sembravano essere intrappolate per sempre tra le mie corde vocali.
L’uomo sembrò intendere la mia difficoltà e mi offrì aiuto venendomi incontro:
“Salve” mi salutò educatamente, facendomi per un qualche motivo sentire la professionalità che c’era dietro tutta quella sceneggiata che ancora il mio cervello sembrava non voler decifrare.
“Salve” risposi, e solo allora finalmente riuscii a ritrovare la voce “Sono Leonardo Hamato” il mio cognome tremò mentre lo annunciavo “Posso sapere che cosa sta succedendo?”
Per quanto ci avessi provato, non ero riuscito a porre nemmeno un briciolo di autorità nel mio tono.
Il viso del poliziotto parve farsi ancora più cupo e orripilato, mentre le sue dite giocherellavano con la visiera del cappello che teneva ancora tra le mani sudate.
Mi disse il suo nome e si presentò formalmente.
Il pianto di Giulia riempiva l’aria e qualche vicino o passante curioso si affacciava agli angoli della strada per cercare di interpretare quella scena di cui noi facevamo parte.
“Mi ricresce davvero informarla” aggiunse il signore dopo una serie di parole dal lessico ampio e ricercato di cui avevo compreso la metà “Che oggi alle ore tredici e cinquanta circa vi è stato un incidente sulla statale qui accanto”
I miei occhi sgranarono, ma dentro sentii di sapere già ciò che mi stava venendo detto.
“E il signor Hamato è stato coinvolto”
Tum-tum. Tum-tum. Tum-tum.
“E’ stato portato all’ospedale con urgenza non appena i soccorsi sono arrivati” proseguì ad informarmi “Ma… Purtroppo sono arrivati troppo tardi e-”
E qui le sue parole persero davvero senso mentre realizzavo ciò che stavo inconsciamente cercando di negare, nonostante l’evidenza.
Udii un certo ‘Ora del decesso…’ seguito da una serie di numeri.
La visuale si offuscò per qualche secondo e quasi caddi in avanti, se non fosse stato per le braccia forti dei due uomini che mi trattennero e cercarono di rimettermi in piedi.
Spinto da rabbia improvvisa, però, li allontanai con ferocia, scostandomi e cercando di mettere più distanza possibile tra noi.
Avvertii le prese sulle mie braccia cercare di farsi più forti, ma riuscii comunque a liberarmene grazie a un ultimo e potente strattone.
Sentivo il bisogno di più aria.
Girandomi verso il lato opposto della strada iniziai a correre, ancora confuso su ciò che stava accadendo, lacrime che solcavano le mie guance seppure il mio cervello non avesse ancora collegato davvero i fatti alla realtà.
Non mi sembrava possibile.
Ovviamente no.
Pensare a mio padre pallido, sotto a un telo ma sul lettino di un qualche ospedale, col torace immobile e i polmoni privi di respiro… no, non sembrava minimamente reale.
Ma più ci pensavo più i miei occhi diventavano lucidi e appannati.
Dietro di me sentivo la mia matrigna urlare contro i due uomini, dicendogli di rispettare il nostro dolore e andarsene, lasciandoci calmare da soli.
E in quel momento, per la prima volta nella mia vita, provai stima nei suoi confronti.
Non mi voltai per ringraziarla, ma probabilmente avrei dovuto.
Di colpo mi venne in mente che l’incidente, stando a quanto mi avevano detto, aveva avuto luogo a pochi kilometri da casa mia.
Cambiai quindi direzione, correndo verso il posto di quella disgrazia di cui avevano parlato.
Devo solo andare là mi ero detto, convinto di quello che stavo pensando devo solo andare là e vedere con i miei stessi occhi che non è successo niente. E poi tornare indietro e dirlo a Giulia. E rinfacciare ai poliziotti che avevano torto.
I miei polpacci implorarono qualche minuto di riposo, distrutti e stanchi, ma continuai anche dopo i mille metri, deciso ad arrivare in fondo a quella questione.
Stavo correndo in una strada vera e propria, in quel momento, e per un momento mi domandai se fosse legale considerata l’alta pericolosità.
Ma alla fine non me ne importò abbastanza da rallentare e non mi fermai nemmeno in quel momento.
Qualche clacson risuonò dietro di me, ma li ignorai completamente.
Dopo una decina di minuti sembravo essermi ripreso, gli occhi si stavano asciugando grazie al vento che mi accarezzava la faccia, tuttavia fu una segnalazione lampeggiante su uno di quei tipici schermi autostradali situati in alto a farmi perdere buona parte della fiducia. Su di esso, infatti, era riportata un’avvertenza per un incidente recente e indicava quale seconda uscita prendere.
Avanzando in quella direzione più che potevo notai infine un paio di auto della polizia, ferme accanto ad una zona circondata da coni arancioni e una macchia rosso spento sul cemento.
Tutto perse decisamente senso.
Le mie gambe si bloccarono definitivamente, rifiutandosi di muoversi anche solo di un altro millimetro.
Caddi sulle ginocchia, forte, sentendo la strada sotto di esse, la rotula che pulsava dolorosamente.
La mia testa era piegata verso il basso e i miei occhi osservavano la mia ombra riflettersi sotto di me.
Qualcosa di bagnato scese lungo il mio volto e cadde a terra, segnando un piccolo cerchio leggermente più scuro dei contorni.
Non ci misi molto a capire che stavo piangendo.
Portai le mani al viso, i palmi premuti duramente contro gli occhi chiusi.
E il primo singhiozzo irruppe nell’aria.
Il vigile che stava facendo deviare le macchine per indirizzarle lontane dal luogo dell’incidente notò la situazione in cui ero e si avvicinò di corsa, chiedendomi se mi stessi sentendo male.
Avrei voluto dirgli di andarsene, che era ovvio che non stessi bene e che volevo rimanere da solo, lì, in mezzo a tutto quel traffico, nello stesso punto in cui mio padre aveva smesso di vivere.
E magari, con un po’ di fortuna, una macchina guidata distrattamente mi avrebbe travolto e ci avrebbe ricongiunti.
Tuttavia dalla mia bocca non uscì un suono, non trovavo la forza di parlare e nemmeno una valida ragione per farlo.
Gli unici rumori che ero capace di emettere erano gemiti e singhiozzi strozzati.
L’uomo mi prese allora per un polso, cercando di alzarmi e mettermi su due piedi.
Nonostante tutte le sue più possibili buone intenzioni, quel gesto mi parve fin troppo invadente e mi tirai indietro, tentando di allontanarmi.
Mi lasci! Urlai, e solo quando lui non lo fece mi resi conto di averlo gridato solo mentalmente.
Sempre opponendo resistenza e implorando col pensiero che mi lasciasse, sgranai gli occhi sconvolto nel constatare che davvero non riuscivo più a parlare.
Qualcuno parve intervenire in mio soccorso, perché dopo qualche minuto passato da parte del vigile ad affermare che non stava cercando di farmi del male, sentii una voce ordinare in lontananza di abbandonare la presa.
Voltandomi, vidi il maestro Splinter scendere da un’auto parcheggiata in mezzo alla strada grigia.
Provai immediatamente vergogna per lo stato in cui mi trovavo, ma subito dopo anche sollievo nel constatare che non vi era più alcuna stretta sul mio polso.
Il proprietario della palestra iniziò a conversare con toni accesi con il vigile ma, scegliendo saggiamente di evitare il litigio che si stava scatenando tra loro, si inginocchiò al mio fianco e chiamò il mio nome gentilmente.
“Leonardo” il tono era rassicurante e solo quello bastò a provocarmi altre lacrime. Per una qualche crudele ragione, tutto serviva a ricordarmi di lui.
“Coraggio, Leonardo” mi disse “Ti riporto a casa”
E lo fece.
Mi prese delicatamente da sotto le ascelle per cercare di rimettermi in piedi,
gesto che gli permisi di fare. Circondando poi entrambe le mie spalle con un braccio mi accompagnò fino alla sua autovettura e mi aiutò a salire nel posto del passeggiero, inserendo perfino la cintura per me.
Lui prese poco dopo posto accanto a me, mettendo in modo e le mani sul volante, occasionalmente scostandone una per darmi una rassicurante stretta sulla spalla o sul ginocchio. I miei occhi avevano ormai smesso di lacrimare ma continuavano comunque a bruciare costantemente. Buona parte della durata del viaggio in macchina la passai guardando fuori dal finestrino, senza davvero vedere ciò che era di fronte a me.
Poi, quando notai il solito albero di ciliegie che era stato piantato molti anni prima nel parco infondo alla mia via, iniziai a riconcentrarmi su ciò che stava accadendo e sentii nuovamente il dolore della perdita di mio padre.
Nel giardino di casa mia si erano radunate un po’ di persone, tra cui, sfortunatamente, anche Casey e Raph. Nel vederli stimai che dovevano probabilmente essere arrivati da una decina di minuti al massimo dall’officina di moto.
Non volevo scendere dall’auto, ma Splinter lo fece e segui dunque il mio esempio.
Osservando bene ciò che stava succedendo di fronte lo stipite della porta di casa mia, intravidi il padre del mio vicino di casa dare un veloce abbraccio a Giulia e il mio migliore amico stesso cercare freneticamente da ogni parte qualcuno.
Me pensai con un sospiro, decisamente non desideroso di ricevere ulteriori attenzioni.
Non appena appoggiai i piedi sull’erba verde gli occhi del mio migliore amico si incrociarono con i miei, e dovevo avere un aspetto davvero orribile perché i suoi sgranarono e anche dalla quella distanza mi parve di sentire il suo sussulto di sorpresa.
Si affrettò a venirmi incontro, ogni falcata lunga almeno un metro pieno, muovendo le braccia inconsciamente avanti e indietro.
Iniziai a sentirmi fortemente a disagio perché ero consapevole del non voler avere contatto fisico con nessuno, nemmeno con lui. La mia voce però sembrava essersi ritirata per sempre e non trovai modo per avvertirlo.
Quando fu a pochi centimetri da me, mi scostai ancora prima che potesse poggiare un palmo sulla mia spalla, e dovetti fare un enorme sforzo per fingere di non aver visto l’espressione ferita e confusa sul suo volto. Per mia fortuna, comunque, scomparve con tanta velocità con quanta era apparsa.
Abbassai il volto nella speranza che potesse sostituire le scuse che non potevo pronunciare.
Allontanandomi dai presenti entrai in casa, e ogni gradino delle scale che salivo sentivo sempre di più la stanchezza che impregnava le mie ossa.
Incrociai Drake sul piccolo pianerottolo e scorsi della tristezza sul suo viso ma come lui andò avanti per la sua strada, io proseguii per la mia.
Appena arrivato in camera mia mi avvicinai alla finestra per chiudere gli scuri, impedendo alla luce di entrare, e subito dopo abbassai la scala che conduceva alla soffitta, percorrendola fiaccamente.
Chiudendola poi dietro di me, mi avvolsi come facevo sempre con la coperta verdognola del baule dei ricordi di mia madre, avvertendo il freddo che penetrava nel mio corpo.
Mentre sprofondavo gradualmente nel sonno iniziai a chiedermi amaramente se presto non avrei iniziato ad avere un ‘baule dei ricordi’ di mio padre.
***
Erano passati due giorni da quell’orribile momento in cui mi era stato riferito dell’incidente mortale di mio padre.
Due giorni passati rinchiuso in camera mia, senza avere la forza di parlare con nessuno, o la voglia per quel che importa.
Subito sia io che Giulia avevamo pensato che fosse un semplice momento di shock e che in poche ore tutto sarebbe passato. Ma, quando anche il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, non una parola era stata pronunciata da me, eravamo giunti alla conclusione che era un vero e proprio disturbo post traumatico. Lei aveva chiamato un medico per accertarsi che l’ipotesi fosse giusta e quest’ultimo ce lo aveva confermato. In quel breve periodo di tempo, che a me sembrò perdurare un’eternità, ero uscito di casa solo due volte: la prima, per recarmi all’ospedale e salutare un’ultima volta mio padre, la seconda per organizzare il funerale, che si sarebbe tenuto in quello stesso pomeriggio.
Ognuno dei miei amici aveva cercato di chiamarmi innumerevoli volte, specialmente Michelangelo. Raphael si era rassegnato dopo solo una ventina di volta. Non fu tanto il numero a farlo smettere, quanto l’avermi visto attraverso le nostre finestre.
Ovviamente, lui fu l’unico a parlare, ma del mio problema vocale aveva avuto notizia attraverso Giulia e Casey.
Non ero molto lucido in quel momento, perché non riesco a ricordare più che due o tre parole di tutto quello che mi ha detto. O forse, molto più probabilmente, lui stesso non ha parlato più di tanto.
Dal resto della gente mi era arrivato un qualche messaggio di condoglianze, a cui io non riuscii a rispondere. Persino Robin mi aveva scritto.
Ad ogni modo, ritornando sulla mattina del secondo giorno, appena sveglio passai qualche istante a pensare a quanto tutto facesse schifo in quel momento e a come le disgrazie sembravano perseguitarmi.
Poi mi alzai e scesi in cucina, dove ad attendermi vi era una colazione che non avrei mangiato.
Giulia mi ricordò che erano già le nove del mattino, e che quindi dovevo iniziare a prepararmi per il funerale.
Annuii e mi diressi verso il bagno, dove trascorsi una buona manciata di minuti ad osservare il mio riflesso sullo specchio.
Per le dieci e mezza ero pronto e salii assieme a Drake nell’auto della mia matrigna.
Davanti alla chiesa alcuni mie parenti mi fecero le condoglianze e mi baciarono sulle guance, alcuni accarezzandomi i capelli pettinati.
Appena arrivati Michelangelo e Donatello mi strinsero in un abbraccio, e io mi aggrappai a loro con tutte le mie forze.
Giulia spiegò nuovamente a tutti del mio piccolo problema, cercando comunque di usare la massima usta nei miei confronti.
“Mi dispiace tanto Leo” mi mormorò Mikey nell’orecchio, mentre strofinava il viso contro la mia spalla e il mio collo “Tanto, tanto, tanto”
Gli passai una mano trai capelli gentilmente, per ringraziarlo del gesto.
Non appena il biondo si scostò anche il castano si avvicinò per un abbraccio singolo, e mi mise le mani dietro la schiena, tracciando dei piccoli cerchi con le dita.
Mi diede un leggero bacio sul lato sinistro della faccia e si separò da me, cancellando col pollice una lacrima che stava scendendo.
Commosso, allacciai le braccia intorno a loro per un’ultima e veloce volta, poi iniziai a cercare Raph in mezzo a tutta quella gente.
Mi ero reso conto di non essermi comportato correttamente nei suoi confronti, stava solo cercando di aiutarmi e io lo avevo respinto. Certo, il mio atteggiamento non poteva essere definito ‘ingiusto’, considerato che avevo appena perso il padre.
L’ultima parte del mio filo di pensieri mi provocò un duro groppo in gola, ma cercando di distrarmi riuscii a mandarlo giù.
Tra le diverse teste trovai finalmente quella che stavo cercando, i capelli rosso accesi che svolazzavano al vento.  Quando anche lui mi vide, i nostri sguardi si agganciarono, entrambi carichi di colpa e risentimento.
Avvicinandoci l’uno verso l’altro, ci stringemmo fortemente in un veloce ma sentito abbraccio.
Poco dopo anche alcuni della palestra di arti marziali, come Karai, Usagi e, ovviamente, il Maestro Splinter, mi fecero le condoglianze.
All’improvviso il suono squillante delle campane ci riportò all’attenzione e tutti entrammo nella chiesa dalle finestre colorate.
I miei migliori amici si sedettero accanto a me nella panchina in legno scuro della prima fila, al mio fianco il biondino e il rosso.
Donatello, che era seduto accanto a Michelangelo, allungò un braccio, ponendolo attorno alle spalle di quest’ultimo e attorno alle mie.
Raph invece annodò timidamente le dita della sua mano sinistra attorno alle mie della mano destra.
Verso la fine della cerimonia, avvicinò la sua testa alla mia e, cercando di non assumere un tono troppo dolce, ma pur sempre tenue e gentile bisbigliò “Mi manca la tua voce”
Mi voltai verso di lui e ci guardammo dritto negli occhi, colmi di emozioni e sentimenti troppo difficili da esprimere. Avrei voluto nuovamente essere capace di parlare e iniziai a rimuginare su quanto dura dev’essere nascere con questo problema.
Poi, capendo di stare spaziando, mi costrinsi a riconcentrarmi su ciò che stava accadendo e rimasi semplicemente in silenzio, dando una stretta rassicurante alla sua mano.
Il funerale non durò molto e, sorprendentemente, non versai più che qualche lacrima.
Sarei rimasto fermo lì, seduto su quella panchina, se i ragazzi non mi avessero dato un leggero strattone, facendomi notare che oramai eravamo in rimasti in pochi. Mio padre era stato cremato e la sua urna l’avremmo conservata noi, motivo per cui non saremmo dovuti andare fino al cimitero.
Ci alzammo lentamente e ci avvicinammo verso l’uscita, dove ci ricomponemmo con i miei famigliari e Casey, che ne approfittò del momento per scompigliarmi i capelli in modo affettuoso.
Prima di poter uscire, però, la mano di qualcuno si posò sulla mia spalla, mentre una voce femminile chiamava il mio nome.
Confuso, mi voltai, e quando lo feci desiderai non averlo fatto, per niente preparato a vedere mia madre vestita in blu scuro e con dei tacchi neri che le aggiungevano almeno cinque centimetri, un braccio che stringeva una borsetta nera e l’altro che si aggrappava a quello di un uomo in giacca e cravatta.

 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Salve a tutti! Prima di uccidermi per l’immenso ritardo, sappiate che non è colpa mia! La scuola! La scuola è il problema! Propongo una rivoluzione contro le scuole! Chi è con me?! Nessuno??Nessuno? Va bene…
Allora, torniamo a parlare del capitolo!
Spero che nessuno di voi diventi improvvisamente affetto da istinti omicidi verso di me per avergli ucciso il padre, ma mi era sembrata una buona idea.
Ringrazio chiunque segua/preferisca/ricordi questa storia e specialmente chi recensisce ovvero:

_Bara no Yami_  ; Ser Barbs ; AleJ_and_Mizu ; LisaBelle_99 ; Sayan_Lover e NightWatcher96
 
 
 
 
 
 
 

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


*Angolo dell'autrice* (LEGGETE PER FAVORE ^.^)
Duuunque… Eccomi con il capitolo 22! Ci stiamo avvicinando sempre più alla fine e per fortuna ho già in mente come gestire tutti i prossimi capitoli! Che non saranno moltissimi, comunque.
Penso che questo sarà l’ultimo aggiornamento per un po’ di tempo, temo di non avere tempo di caricare prima del prossimo il week-end, forse anche dopo.
Lunedì è il mio compleanno (Yay!) e perciò passerò l’inizio settimana a festeggiare. A fine della prossima settimana, invece, è probabile che mi trovi per un pigiama party con le mie amiche, e dubito riuscirò a caricare nel mezzo. Ma farò del mio meglio ^-^ Per questo capitolo ringrazio infinitamente _Neko_ che mi ha dato un’ottima idea per scrivere la scena tra i ragazzi. Perciò, grazie mille :D
Ringrazio anche chiunque abbia messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate e particolarmente chi ha recensito, ovvero: Ayumi Edogawa ; AleJ_and_Mizu ; NightWatcher96 ; _Bara no Yami_ Ser Barbs ; Sayan_Lover e Cody4ever
 
 

CAPITOLO 22

Raph’s Pov

Il mondo si divide sostanzialmente in due categorie:
Ci sono persone a cui nella vita tutto sembra andare per il verso giusto, senza nemmeno il più piccolo intralcio nel loro cammino, e ci sono poi invece persone alle quali, per un ironico scherzo del destino, le giornate sembrano solo peggiorare con lo scorrere del tempo, iniziando con il toast bruciato a colazione e finendo con un gatto che tiene svegli tutta la notte.
Il mio migliore amico Leonardo apparteneva ovviamente all’ultima categoria.
Quel giorno si annunciava già non uno dei migliori, con il funerale a metà mattina del signor Hamato.
Per l’intera durata della cerimonia, se così può essere chiamata, Leo aveva conservato sul suo volto l’immutabile espressione neutra che assumeva ogni qual volta che stava soffrendo e non voleva darlo a vedere.
Quando Giulia, inoltre, ci aveva informati del suo temporale handicap alla voce, avevo supposto che tutto ciò non potesse andare peggio.
Mi ero sbagliato.
Era ormai terminato il funerale quando successe quel che successe e ci fu annunciato qualcosa che ci avrebbe tenuti svegli giorni e notte a cercare di impiegare al meglio il nostro tempo assieme.
Una donna vestita in blu scuro si avvicinò al nostro gruppo lentamente, senza che nemmeno ce ne accorgessimo finché non chiamò per nome il mio migliore amico.
Ci voltammo tutti simultaneamente e ci prendemmo il nostro tempo per squadrare la coppia che ci trovavamo dinanzi, la quale portava abiti eleganti e sembrava fissare intensamente il moro.
Non riuscendo ad associare il viso di quella signora ad un nome, mi voltai verso Leonardo con una domanda sulle labbra, domanda che mi morì in gola non appena vidi quest’ultimo sbiancare in un modo spaventosamente veloce.
Un primo tintinnio d’allarme risuonò gravemente nelle profondità della mia testa mentre mi avvicinavo a Leo inconsciamente.
“Katie…” pronunciò mio padre alle nostre spalle, tristezza e fastidio lievemente percepibili nel suo tono.
Voltandomi rapidamente verso la sua direzione, appurai che quella che vedevo nei suoi occhi era decisamente preoccupazione.
E non quel genere di preoccupazione che si ha quando si è nervosi sull’esito di un esame o di un appuntamento, ma quella che si prova quando ci si rende conto che la situazione in cui ci si trova sta per aggravarsi bruscamente.
E quello fu il secondo campanello d’allarme.
Decisi improvvisamente che quella donna non mi piaceva, sebbene non l’avessi mai incontrata prima.
Qualunque cosa avesse in mente, avrebbe dovuto cambiare i suoi piani e andarsene.
Anche Giulia in quel momento sussurrò acidamente il nome della donna, e l’espressione di quest’ultima si contorse momentaneamente in una smorfia insoddisfatta.
Prese poi la parola, cercando sostegno aggrappandosi al braccio dell’uomo accanto a lei “Leonardo, potrei parlare un secondo in privato con te?”
Il ragazzo in questione si ritrasse di pochi millimetri e se non gli fossi stato spalla a spalla probabilmente non l’avrei notato. Tuttavia lo feci e ciò bastò a farmi provare ancora più disprezzo nei confronti di lei.
Stetti per ribattere con parole non molto educate, quando Giulia intervenne prontamente spiegando che, no, non poteva, perché Leo in quel momento aveva subito uno shock post-traumatico e la sua voce ne aveva risentito.
“Allora potrei forse parlare sia con lui che con te?” propose con voce falsamente gentile, dalla quale si poteva tranquillamene percepire il tono pungente che tentava vanamente di nascondere. Subito avvertii l’esasperazione che componeva le sue parole.
“No.” Affermai seccamente prima che potessi rendermene conto.
Non appena gli sguardi di tutti si puntarono su di me, però, realizzai ciò che avevo detto e non me ne pentii minimamente.
Gli occhi della donna, azzurri come il ghiaccio, mi fissarono occultando una rabbia improvvisa.
“No” ripetei, questa volta ancora più convinto “Se ha qualcosa da dirgli può farlo di fronte tutti noi”
Katie aprì bocca per ribadire ma Giulia la precedette senza perdere tempo “Credo che Raphael abbia ragione”
La osservammo tutti increduli ma grati.
L’altra signora si lasciò sfuggire allora un sospiro sconfitto, mentre con una mano si spostava una ciocca di capelli castani dietro all’orecchio sinistro e abbassava la testa.
“Leonardo, questo è Mark” mormorò, riferendosi per la prima volta all’uomo che aveva al suo fianco e che teneva sotto braccio. Lui fece un piccolo cenno del capo e tentò un sorriso, che comunque risultò più che altro una smorfia a causa dell’agitazione che sembrava comporlo.
Con la coda dell’occhio notai il viso del mio migliore amico ricoprirsi prima di confusione, poi di rabbia, in seguito delusione, e poi di nuovo confusione.
Cogliendo i tratti del suo volto e confrontandoli con quelli della donna, non potei fare a meno di giungere alla conclusione che lei fosse sua madre e involontariamente emisi un suono frastornato.
E non sembravo essere l’unico ad avere capito il loro legame, visto che all’improvviso ci eravamo trovati tutti accerchiati attorno a Leo protettivamente, cercando di fargli capire che eravamo li per lui, se ne avesse avuto il bisogno.
Inoltre, le cose combaciavano. Come avrebbe altrimenti potuto mio padre conoscere questa Katie?
“Noi abbiamo saputo dell’incidente tramite i telegiornali e abbiamo deciso di fare un salto per il funerale…” la fine era sommessa, come se stesse cercando di informarci di qualcosa di più ma non fosse sicura di come farlo.
E quando i nostri occhi si incontrarono nuovamente, ne fui certo.
C’era qualcosa che quella donna voleva. Ed ero sicuro che ciò non mi sarebbe piaciuto.
“In questi due giorni ne abbiamo discusso un po’ e abbiamo pensato che, per il tuo e tuo unico bene, fosse meglio cambiare, ricominciare per lasciarsi il passato alle spalle…”
‘Arriva al punto’ avrei voluto dirle  o semplicemente ordinarle di girare i tacchi e andarsene, ma la voce di Leonardo, che sembrava aver capito dove la conversazione stesse giungendo, mi anticipò “Sei tu il mio passato”
Mi voltai verso di lui internamente euforico, convinto che avesse finalmente ripreso a parlare, ma guardandolo capii non so come che non era così. Che quelle cinque parole sarebbero state le sue sole per molto tempo. Sembrava infatti desiderare dire molte altre cose, cose che non avrebbe mai pronunciato perché la sua voce era nuovamente incastrata tra le sue corde vocali.
Lui si volse verso di me e scosse il capo lievemente e con rassegnazione, confermando la teoria che si era formulata nella mia mente. Anche  lui sembrava comunque colpito da ciò che era appena successo. Non si aspettava di certo che sarebbe riuscito a dire ciò che pensava.
Gli poggiai una mano sulla spalla in segno di conforto, comunque contento di averlo sentito nuovamente parlare dopo due interi giorni. Sebbene siano solo quarantotto ore, possono diventare estremamente lunghe in queste situazioni, specialmente se tutto ciò che si desidera fare è capire come consolare un proprio amico e sentirsi dire direttamente da lui che sta bene, perché non basta supporlo dalla sua espressione.
Sorvolando i dettagli e tornando all’argomento principale, lui aveva capito che cosa stava succedendo e anch’io ero deciso ad andare in fondo alla questione e scoprirlo.
“Leonardo, lo so che questa situazione è molto difficile per te, ti capisco, ma forse è il momento giusto per riallacciare i rapporti, tornare quello che eravamo una volta”
Prima ancora che potessi spalancare gli occhi per il disgusto e l’orrore, mentre il mio cervello assimilava le informazioni che aveva ricevuto, lei si affrettò a terminare il suo discorso “Voglio che tu venga a vivere con me a Boston”
Ora, io non sono mai stato un genio in geografia, ma ero sicuro che Boston fosse parecchio distante da New York.
E la cosa mi piaceva sempre meno.
Chi credeva di essere quella per venire qui e pretendere che facessimo come voleva lei?
Di sicuro non mi conosceva bene. Non le avrei mai permesso di portare via Leonardo. Non glielo avremmo mai permesso.
Lui stesso era contrario e scuoteva la testa da destra a sinistra fermamente.
“Mi spiace, Katie, ma Leonardo è sotto la mia responsabilità, e se lui non desidera venire con te, allora resterà qui dove ha sempre vissuto” affermò Giulia, con il vento che si era alzato da poco che le spettinava i capelli color grano.
La madre di Leo si lasciò sfuggire una risata fredda, mentre scuoteva il capo in disapprovazione “Non credo proprio”
La donna dalla chioma bionda esplose finalmente con l’ultima frase emessa e gonfiò le guance prima di rilasciare con furore ciò stava pensando, sentendosi oltraggiata dal modo in cui stava venendo trattata “L’hai abbandonato!”
“Sono la madre biologica!” gridò allora l’altra, che sembrava aver deciso di lasciar perdere tutte le formalità che aveva recitato fino a quel momento “Ho più diritti di quanti non ne abbia tu! Potrai anche esserti sposata con il mio ex marito, ma non ci sono carte legali ancora che abbiano reso Leonardo sotto la tua tutela!”
Giulia sembrava pronta a ribadire, ma Katie continuò, questa volta aggiungendo cattiveria e imposizione nel suo tono “Lasceremo che sia un giudice a decidere! Procurati un avvocato!”
E detto così se ne andò, seguita a ruota da Mark che esitò una manciata di secondi per lanciarci una scusa affrettata per la reazione della compagna.
Presto le portiere di una cinquecento bianca si chiusero e si sentì il rumore di un motore, mentre la madre di Leo lasciava il vialetto e scompariva in fondo alla via.
Il tutto sotto lo sguardo sconvolto e infranto del moro.
***
Salimmo lentamente i gradini della scala elicoidale che portava al piano di sopra di casa mia, fermandoci un momento all’ingresso per appendere le felpe all’attaccapanni in legno. Mio padre e Giulia si fermarono in cucina per condividere una tazza di caffè e parlare dell’accaduto, e anche dal piano di sopra riuscivamo a sentire il profumo della bevanda.
In tutta la mia vita non mi era mai sembrato di vederli parlare o invitarsi l’uno a casa dell’altra, ma quello era un momento di massima tensione, c’erano molte cose a rischio, tra cui Leonardo stesso.
E questa era di per sé un’ottima ragione per cercare di aiutarsi a vicenda.
Non appena entrammo tutti e quattro in camera mia, Donatello chiuse la porta dietro le sue spalle, cercando di produrre il minor rumore possibile.
Si sedette poi sul pavimento tra me e Michelangelo, che era a sua volta seduto accanto a Leonardo, che chiudeva il nostro cerchio.
Rimanemmo in silenzio per un po’ di tempo, lanciandoci occhiate insicuri su cosa dire, mordendoci le labbra con forza fino a farle sanguinare e stringendo i pugni a causa dell’impotenza in cui ci trovavamo.
Tutti noi odiavamo restare con le mani in mano.
E che cosa avremmo potuto fare, comunque?
Era, come ci aveva spiegato Donnie precedentemente, una questione legale. E Katie aveva ragione, la custodia di Leonardo non era ancora stata affidata a nessuno dalla morte del padre.
Per un paio di minuti si sentirono solamente il suono dei nostri respiri e il rumore delle tazze contro i piattini al piano di sotto.
“Umh…” provai a dire qualcosa, ma sinceramente non trovavo molti argomenti con cui iniziare una conversazione, perché sapevo che da Leo non avrei ricevuto risposte.
“Allooora… tra pochi giorni cominciano le vacanze” iniziò Donatello, e io lo guardai con gratitudine per aver preso parola “Non ho ancora molti progetti, ma tra luglio e agosto andrò due settimane in un campeggio che si svolge qui vicino. Voi?”
“Io sarò impegnato con l’officina per buona parte dei pomeriggi per tutto giugno, ma dopo mi godrò l’estate insieme a voi” affermai, cercando di allungare quella conversazione il più possibile.
“E’ vero!” esclamò improvvisamente Mikey, illuminandosi in volto “Questa sarà la nostra prima estate tutti insieme!”
E mentre lui continuava a snocciolare una serie di attività da fare e luoghi da visitare, anche al resto di noi si generò un sorriso. Io ovviamente, come ero solito fare, cercavo di nasconderlo abbassando il capo e tenendo la testa china, così che si creasse un’ombra sul mio viso.
“Tutto sperando che quella Katie non riesca a portare via Leo” borbottò alla fine, e si lasciò sfuggire uno squittio inspirato mentre realizzava ciò che aveva appena finito di pronunciare.
Gli  occhi di tutti si fiondarono rapidamente sul moro seduto assieme a noi, il quale si era notevolmente rabbuiato e incupito.
Subito gettai un’occhiata di disapprovazione colmata di furore al biondo, ma presto divenni più docile quando mi resi conto che in quel momento lui si stava probabilmente tormentando con i sensi di colpa.
Sospirai e mi passai velocemente una mano tra i capelli, chiedendomi per la millesima volta in quel giorno perché tutto ciò stesse accadendo proprio a noi, proprio a Leo.
Allungai una mano e diedi un’innocente pacca sulla spalla di Michelangelo, tentando di rassicurarlo.
Non appena quest’ultimo si voltò verso di me con un’espressione di riconoscenza, gli lanciai un veloce sorriso e ritirai il braccio, per poi estendere l’altro verso Leonardo e agganciarlo attorno al suo collo, stringendo lievemente per lasciargli intendere che un messaggio era nascosto in quel gesto Coraggio, Leo, fatti forza.
Il moro agganciò il suo sguardo col mio e dietro i suoi occhi oceano lessi il suo ‘grazie’.
Passammo il resto della serata cercando di tirare su il morale al nostro migliore amico, cercando a tastoni il metodo giusto.
Alternammo i tentativi di farlo ridere con quelli di rassicurarlo, cercando di fargli capire che qualunque cosa avesse avuto bisogno noi eravamo lì.
Eravamo certi lo sapesse, d’altronde, sebbene mai in tutta la mia vita avrò il coraggio di ripetere questa frase senza un valido motivo, ci volevamo bene come fratelli.
Ci saremmo sempre stati l’uno per l’altro.
E nonostante Leonardo fosse nato prima di tutti noi, sentivo di dover essere io il ‘protettore’ della nostra ‘famiglia’, come se fossi io il maggiore dei quattro.
Mai avrei esitato se qualcuno di loro mi avesse chiesto aiuto per qualcosa.
Chiunque di loro.
Donatello, Michelangelo o Leonardo.
E sapevo, per uno qualche strano motivo, che anche loro la pensavano allo stesso modo.
Presto venne sera e, dopo aver cenato tutti e quattro assieme a mio padre e Giulia, crollammo esausti addormentati.
Gli altri passarono la notta a casa mia anche per i seguenti due giorni.
La mattina del terzo mi sveglia di soprassalto, senza davvero capirne bene la causa.
Dopo pochi attimi mi resi conto di aver bisogno di andare in bagno, la coca cola bevuta la sera prima che faceva il suo effetto.
Con un grugnito sommesso scostai il lenzuolo leggero che mi copriva e con cautezza mi mossi attraverso i sacchi a pelo in cui dormivano i miei amici, gli angoli della mia bocca che si tiravano verso l’alto in un sorriso non appena notai il pollice che veniva appena appena mordicchiato inconsciamente da Mikey.
Una volta raggiunta la porta in legno scuro abbassai la maniglia nel modo più silenzioso possibile, per poi infilarmi di scatto tra la fessura che si era venuta a creare.
Mi ritrovai subito nel corridoio del piano superiore di casa mia e, dopo il tipico stordimento che segue un brusco risveglio, mi diressi verso la porta in fondo a sinistra.
Stetti per aprirla quando, a pochi centimetri da essa, notai che la luce era accesa al piano terra.
Per di lì pensai che fosse semplicemente mio padre che si era alzato per bere un bicchiere d’acqua e fui pronto a tornare sui miei passi con una scrollata di spalle, ma all’improvviso sentii i sussurri veloci e acuti di due voci.
Completamente dimentico del bagno, mi avvicinai al corrimano continuando a restare nell’ombra e porsi orecchio cercando di decifrare ciò che stava venendo detto.
Una manciata buona di minuti volò via inutilmente ed ottenni scarsi risultati.
Scesi allora qualche gradino, riducendo sempre più la distanza tra me e il luogo da cui provenivano i rumori.
“Non capisci! Fa sul serio!” Sgranai gli occhi quando riconobbi la voce di Giulia.
Lanciando una veloce occhiata al mio orologio da polso, confermai che erano solo le quattro e trentacinque.
Decisi allora di scendere ancora di più, arrivando fino allo stipite della cucina.
Sebbene fossi in piedi in mezzo al salotto accanto alla stanza in cui si trovavano loro, nessuno dei due parve notarmi.
Mio padre cercò ancora una volta di convincerla a calmarsi.
“No, no, no, no” continuava a ripetere la donna, scuotendo il capo innumerevoli volte e stringendo gli occhi disperata.
La mano di lei stringeva un fascicolo a due fogli, tenuti insieme tramite una graffetta.
Tossii per avvertirli della mia presenza e misi piede nella cucina.
Loro ammutolirono e mi squadrarono con spossatezza, incerti sul da farsi, ma io non gli diedi il tempo di pensare a una valida scusa per il loro ritrovo.
Chiesi ovviamente spiegazioni e, dopo aver rifiutato il tipico “Forse è meglio se ne parliamo più tardi”, imposi che mi fosse detta immediatamente la verità, avendo capito che il soggetto della questione era ovviamente Leo.
I due adulti si osservarono con la coda dell’occhio scambievolmente, cercando di decidere sul da farsi.
L’ultima cosa che notai prima di sentire pronunciare la frase successiva fu che Giulia sembrava essersi calmata e ricomposta abbastanza da fare un passo in avanti e affermare: “E’ arrivato il mandato del giudice. Tra due settimane ci sarà il processo per la custodia di Leonardo”

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


Salve a tutti! Dunque, scusate se è un po’ che non carico, ma sono piena di impegni da tutte le parti. Sto cercando di fare del mio meglio per non far passare troppo tempo tra un caricamento e l’altro, ma è più difficile di quel che sembra.
Ci stiamo pian piano avvicinando sempre più alla fine e quindi come sempre tendo ad affrettare le cose e a scrivere peggio del solito.
Ad ogni modo, spero che questo capitolo vi piaccia!
Ringrazio come sempre chi abbia messo la storia tra le preferite/seguite e anche chi sta semplicemente leggendo in silenzio questa fanfic.
Un grazie speciale alle persone che hanno recensito il capitolo 22 ovvero:  AleJ_and_Mizu (a cui dedico questo capitolo) Sayan_lover ; Ayumi Edogawa ; _Bara no Yami_  e cody4ever
GRAZIE MILLE!
So che è corto, perdonatemi!

 
CAPITOLO 23

Raphael rabbrividì inconsciamente mentre la notizia appena ricevuta veniva assimilata lentamente con le rispettive conseguenze.
Un brivido lo percorse dal capo alla schiena, costringendolo a scuotere lievemente la testa.
Non appena suo padre aveva pronunciato quelle parole, il suo stomaco si era trasformato in acqua gelida e una sgradevole sensazione si era fatta strada in lui.
Poteva sentire la sua pelle diventare di ghiaccio con il sudore freddo che la impregnava in ogni parte, dalle dita tremanti al collo nascosto dai capelli che avevano ancora la forma del cuscino.
Le sue gambe formicolavano e colse l’occasione per sedersi su una delle sedie in mogano che accerchiavano il tavolo.
Insicuro e nervoso deglutì, tentando di scacciare via il groppo in gola che non gli permetteva bene di respirare.
“Qual è il piano?” domandò poi, mentre con la mano destra si rigirava trai polpastrelli il bordo della maglia nera del suo pigiama.
Casey Jones intrecciò brevemente il suo sguardo con quello di Giulia e la luce del lampadario sopra di loro di rifletté sulla sua pelle lucida. Con aria stanca si lasciò poi cadere su una delle altre scranne rimaste e portò dietro alla nuca il braccio sinistro per massaggiarsi il collo.
“Non c’è” rispose, evitando gli occhi del figlio “E’ una situazione instabile. E se non troviamo una soluzione al più presto è ovvio che la decisione del giudice non sarà a nostro favore. E il problema principale è che Giulia è sempre fuori per lavoro, ragion per cui è molto improbabile che la custodia sia affidata a lei. Katie, al contrario, ha un compagno al suo fianco con cui alternarsi, in modo che ci sia sempre qualcuno a casa in caso di bisogno”
Raphael schiuse la bocca per pronunciare una protesta ma non appena il suo sguardo si posò su Giulia capì che le cose stavano degenerando davvero, e che una semplice opposizione non sarebbe bastata.
La donna, che pareva avere occhi molto più piccoli ora che non erano cinti da enormi quantità di ombretto azzurro, aveva un’espressione distrutta e sconvolta.
Indossava la giacca di una tuta grigia cacciata alla rinfusa al di sopra di un pigiama roseo e portava ai piedi pantofole di lana.
Il rosso non l’aveva mai vista così e, per la prima volta, cominciò a pensare che forse a lei importava davvero di Leonardo, nonostante la sua attenzione alle futilità di ogni giorno ma la noncuranza rispetto alle questioni più importanti.
“Mi spiace” mormorò lei, stringendosi al petto un fazzoletto di stoffa “Ma dobbiamo ammettere che è ovvio che sarà Katie ad ottenere la custodia”
Sconvolto e seccato da tale affermazione così decisa, Raph si alzò si scatto e, alzando il tono di voce, impose “NO!”
Suo padre si affrettò ad allungare le mani nella sua direzione e a fargli cenno di non urlare, accompagnando il gesto con un “Shh!”.
Indicò col capo il piano di sopra, per far capire che non desiderava che anche gli altri si alzassero e scoprissero in quel modo che il limite di tempo era appena stato fissato.
“No” ripeté allora il giovane, questa volta però sussurrandolo.
I suoi lineamenti si tirarono in un’espressione pensierosa, mentre portava le braccia al petto e guardava il nulla verso il basso.
In seguito, alzando il capo, domandò “Il mandato è arrivato a quest’ora?”
La donna dai capelli color grano scosse la testa, facendo tintinnare i lunghi orecchini che portava ad ogni orecchio “E’ arrivato ieri sera” spiegò “Ma non volevo dare la notizia a tutti, speravo di poter prima trovare una soluzione”
Raphael annuì, assorbendo la risposta.
Si voltò poi verso Casey Jones, con il corpo che sembrava aver riacquisito la sua calma iniziale.
“Non potresti prendere tu la custodia?” chiese.
L’uomo lo guardò con sguardo rattristato “Temo non mi prenderebbero nemmeno in considerazione. Non riuscirei a mantenervi entrambi”
“Però abbiamo entrambi 17 anni adesso e in un anno saremmo abbastanza grandi da poterci mantenere da soli. E inoltre, io ho il lavoro estivo” osservò il ragazzo.
Pensò di nuovo a quello che aveva appena detto e gli sorse un dubbio “In questo caso, Leo non avrebbe voce in capitolo in tribunale?”
I due adulti si guardarono, i visi più rilassati “Beh, ha il diritto di dire la sua opinione, ma non sempre i giudici ne tengono conto” disse Giulia sospirando.
“Però, per quanto mi costi ammetterlo, possiamo fare in modo che il nostro giudice sia uno di quelli che ne tengono conto” affermò Casey, riprendendo le parole della donna.
Quest’ultima si voltò verso di lui con sguardo indignato “Intendi corromperlo ?”
“No, no!” si affrettò a chiarire l’altro. “Dico solo che se riuscissimo a mettere una buona parola dal conto di qualcun altro, l’esito potrebbe cambiare molto”
Il rosso ascoltò questi discorsi con attenzione, per poi portare una mano al viso e tenere il mento tra indice e pollice.
I due adulti continuavano a discutere, ma nelle sue orecchie era rimasto impresso quello che aveva detto suo padre poco prima e aveva smesso di seguire la loro conversazione.
Chi poteva mettere una buona parola per loro?
E, inoltre, come avrebbe fatto Casey a mantenerli entrambi? Sì, avrebbe avuto il lavoro estivo, ma non era sicuro che ciò bastasse.
E mentre si concentrava su questi pensieri, qualcosa parve illuminarsi in lui.
“Ci sono!” esclamò, schioccando forte le dita e spalancando la bocca in un sorriso, improvvisamente attirando l’attenzione delle rimanti persone in quella stanza.
Quest’ultime lo guardarono con un’aria interrogativa ma speranzosa, aspettando che fosse lui stesso a continuare e a esprimere la sua idea.
“Non sono sicuro possa funzionare” borbottò poi però tra sé e sé.
“Cosa?” domandarono Casey e Giulia all’unisono.
Lui li squadrò, facendo balzare le pupille da uno all’altro, e assunse inaspettatamente un ghigno divertito.
“Voi due” iniziò, cercando di contenere una risata “vi dovete sposare”
“Cosa?!” ansimarono, osservandosi poi l’un l’altro scandalizzati.
Raphael dovette trattenersi per non ridere. Stranamente, la cosa gli piaceva.
Certo, nessuno avrebbe mai potuto prendere il posto di sua madre, e l’idea di essere anche il fratello di Drake non era davvero nei suoi progetti di vita, ma per Leo questo ed altro.
Sapeva anche che per nessuno dei due adulti sarebbe stato facile, a Giulia era appena morto il marito, e a Jones era scomparsa la moglie anni prima, ma non poteva fare a meno di convincersi che fosse la soluzione più adatta.
E non solo, più il tempo passava, più non vedeva l’ora accadesse.
“Raphael-“ iniziò suo padre, ma il rosso lo interruppe per spiegargli esattamente ciò che aveva pensato poco prima  “Lo so papà. Lo so che la mamma resterà sempre nei nostri cuori, ma in questo modo abbiamo molte più possibilità di ottenere la custodia. Giulia ha vissuto con lui per molto tempo, mentre Katie l’ha abbandonato. Leo in tribunale dirà di voler rimanere con noi, dove avrà non solo anche una nuova figura paterna, ma anche due fratelli, e quindi non sarà mai solo. Voi avrete due stipendi e potrete lavorare di meno. Drake è già maggiorenne e ha un lavoro. Noi presto lo otterremo. E’ tutto perfetto”
Con l’ultima parola, un grave silenzio calò nella stanza.
L’uomo e la donna non sembravano ancora sicuri, ma parevano più convinti.
“Fatelo per Leo” aggiunse allora il rosso, centrando il punto della questione.
Dopo aver inspirato, Casey gettò fuori l’aria con un “Okay” poi continuò “Okay, mettiamo che decidiamo di sposarci. Come faremo a fare tutto prima del giorno prestabilito?”
“Potreste sposarvi solo in comune, per ora” informò una voce che proveniva da metà scala.
Tre teste si voltarono simultaneamente verso Donatello, che era apparso improvvisamente sui gradini che conducevano al piano di sopra.
“Da quanto sei li?” interrogò il padre di Raphael.
“Abbastanza” replicò il castano, scendendo fino ad arrivare in cucina “Come dicevo, potreste semplicemente sposarvi in comune. Non bisogna organizzare nessuna cerimonia, ne ordinare torte o vestiti”
Il rosso lo guardò sorridendo e gli mise un braccio attorno alle spalle “Visto? Perfetto, ora non resta solo che trovare chi possa mettere una buona parola per noi con il possibile giudice”
“…Veramente” cominciò Donnie, ma non fece tempo a finire che Raph lo strinse ancora di più nell’abbraccio, accostando le loro teste “Lo sapevo che avresti risolto tutti i nostri problemi!”
Il castano arrossì appena, poi, dopo essersi schiarito la voce, informò “Pensavo che avremmo potuto domandare al maestro Splinter”
 
***
A Leonardo quella storia non convinceva.
Certo, era pur sempre l’unica alternativa che avevano, ma c’era comunque qualcosa che non gli piaceva.
Si sentiva veramente in colpa per dover forzare il matrimonio tra due persone, specialmente essendo a conoscenza del dolore che il padre di Raph continuava a provare per la perdita dell’amata moglie.
L’idea che Casey diventasse suo padre e Raphael suo fratello era l’unico aspetto positivo che sembrava riuscir ricavare da quella faccenda.
Stringendosi nelle spalle e incurvando appena la schiena, prese ad osservare i piccoli sassi che i suoi piedi scalciavano dal cemento scuro sotto le suole delle sue scarpe.
Erano passati due giorni da quando Giulia gli aveva riferito che era giunto il mandato di Katie.
Ovviamente, quando lui ne era venuto a conoscenza, i due adulti si erano già impegnati a prendersi come sposi e Raphael e Donatello si erano recati a piedi fino alla palestra, che apriva fin dalle nove del mattino.
Lui e Michelangelo, invece, erano stati allontanati con una scusa talmente banale che l’avevano presa tranquillamente come la verità.
Gli era stato chiesto di recarsi al supermercato per comprare alcune provviste che erano state scarabocchiate su di un pezzo di carta stropicciato.
Gli altri due amici, secondo quanto gli era stato detto, sarebbero rimasti a casa per aiutare Casey a sistemare un qualche impianto guasto.
Inutile dire che quando avevano saputo ciò che era successo davvero, non avevano potuto fare a meno di sentirsi lievemente offesi per essere stati esclusi da qualcosa di così importante.
Specialmente Leonardo, che si era infatti scusato con un cenno del capo e si era allontanato.
E così si era ritrovato a camminare per le strade della città, con al fianco solo la sua ombra che si rifletteva sul marciapiede sbiadito.
Sentì delle grida e risate in lontananza e, quando ebbe alzato il capo, scorse non molto lontano un piccolo parco verde popolato dai bambini che si godevano l’estate.
Inconsciamente si avvicinò ad una delle panchine in legno che lo adornavano nei confini e si sedette su di essa facendola scricchiolare appena.
Poggiando il gomito sulla coscia destra e il mento sopra il palmo, iniziò ad osservare ciò che stava accadendo attorno a lui.
Lentamente, i ricordi della rivelazione di poco prima gli riaffiorarono in mente.
“C’è qualcosa che dobbiamo dirti”  aveva detto Giulia, sistemandosi una ciocca ribelle dietro all’orecchio.
“Non è nessun problema, in fondo ne godremo entrambi se potremo contare su due stipendi anziché uno” aveva aggiunto Casey dopo che tutto era stato rivelato.
“Il maestro Splinter ha detto che farà del suo meglio per mettere una buona parola dalla nostra parte” aveva spiegato Raphael, con un’espressione trionfante in volto.
“Pensa un po’ poi, il padre di Usagi è un giudice! Con il sensei siamo andati a trovarlo e lui ha detto che cercherà di ottenere il caso! E’ perfetto”  aveva infine detto Donatello.
Leonardo, di perfetto, non riusciva a vederci niente.
Sbuffò impercettibilmente, lasciandosi poco dopo sfuggire anche un sospiro.
Perché le cose stavano andando in quel modo?
Perché sembravano avercela tutti con lui?
Si era sempre impegnato in ogni singola cosa, aveva sempre fatto il suo dovere… Però non era mai ricompensato in modo adeguato.
E lui non riusciva a smettere di sentirsi inutile e impotente.
Così, fece l’unica cosa che gli era concesso di fare.
Abbassò le palpebre fino a chiudere completamente gli occhi, pregando che tutto si risolvesse nel modo migliore mentre il vento gli scompigliava i capelli mori.
 

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 - Ending ***


Capitolo 24 – Ending

Leonardo alzò lo sguardo al cielo turchino, sovrastato da un unico filamento di nuvole color perla dalle sfumature di burro.
Si portò le dita della mano destra a sfiorare i capelli cenere mentre un sospiro gli schiudeva le labbra rosee.
Era passato quasi un anno dal giorno del tribunale e dal matrimonio affrettato di Casey e Giulia.
Erano successe molte cose importanti, così tante da perderne il conto.
Innanzitutto, come già accennato, i due adulti erano riusciti a sposarsi con una settimana di anticipo al processo, in una cerimonia talmente sbrigativa che non vi erano stati invitati, vestiti bianchi o smoking.
Due giorni dopo il matrimonio avevano ricevuto la notizia dal padre di Usagi che il giudice sarebbe stato un suo caro collega e amico, punto decisamente a loro favore.
E infine avevano trascorso i restanti giorni in un silenzioso e temuto countdown, tutti cercando di far apparire le cose normali e di ignorare quella gravità che dominava nell’aria pesante.
Improvvisamente l’avvenimento tanto atteso si fece sentire, bussò alle loro porte con le nocche spesse e finalmente si presentò.
Il processo durò ore.
A Leonardo fu consentito essere presente in quella sala dal soffitto alto e rotondo poiché il suo intervento sarebbe stato giustamente preso in considerazione.
Lui aveva salutato i suoi migliori amici non appena si era ritrovato di fronte alla robusta porta di legno color cioccolato e infine era entrato a testa alta, venendo inghiottito da quei piccoli soli che brillavano nei lampadari.
Subito aveva notato le miriadi di persone che sedevano fitte l’una vicino all’altra, borbottando tra i denti parole inudibili e guardando gli orologi da polso per calcolare quanto tempo ancora mancava all’inizio aspettato.
Poi i suoi occhi avevano rotolato dalle diverse teste alla sedia ancora vuota che si trovava in fondo alla stanza, dove presto qualcuno avrebbe preso posto per decidere della sua vita.
Lui si accomodò in una delle poltroncine dietro a Casey, che sedeva in un banco a parte assieme a Giulia e al padre di Usagi, che quel giorno l’avrebbe difeso.
E all’improvviso tutto era cominciato.
Una figura era entrata nella sala enorme e si era seduta nella citata sedia vuota, aveva sfogliato fogli bianchi appesantiti dall’inchiostro color pece e, infine, aveva pronunciato la sentenza finale.
“Leo!” qualcuno lo chiamò in distanza, alle sue spalle, sorprendendolo.
Il moro voltò il capo lentamente, inarcando le sopracciglia e mordendosi l’interno della guancia.
“Lo sai da quanto ti stavo cercando?!” continuò la voce, facendosi sempre più vicina.
Mentre Leonardo si alzava in piedi con una spinta dei palmi verso il basso, delle scarpe da tennis con i lacci sporchi lo raggiunsero velocemente, pestando il terreno con forza.
“Scusa” mormorò, abbassando lo sguardo verso i capelli verdi del prato su cui si trovava.
Raphael lo osservò attentamente, scostando il ciuffo color ruggine per aver la visuale completamente libera.
Erano entrambi cambiati in quel periodo di tempo e avevano completamente abbandonato l’indifferenza che li aveva occupati prima di essersi conosciuti per davvero.
Il rosso sospirò, portando le braccia dal petto lungo i fianchi in gesto rassegnato, per poi avvicinarsi all’altro.
“Non importa” borbottò, portando l’interno della mano sinistra alla fronte.
“Più che altro, siamo in ritardo per il primo anniversario di Papà e Giulia” affermò poi, incrociando i suoi occhi del color vivido dello smeraldo con quelli profondi e blu del ragazzo di fronte a lui.
Quest’ultimo si lasciò sfuggire uno squittio inspirato.
Si era ricordato fino al giorno prima di quell’evento importante, e proprio in quel momento lui se n’era completamente dimenticato.
“Oddio, hai ragione” disse velocemente, terminando col mordersi forte il labbro inferiore per calmare l’agitazione.
“Ecco, appunto, quindi sbrighiamoci”
Leo non se lo fece ripetere due volte.
Arrancarono velocemente mentre il terreno della piccola collina su cui si trovavano scivolava sotto ai loro piedi. Un elicottero passò veloce sopra alle loro teste, dividendo il cielo con una scia bianco latte.
Presto il verde lasciò spazio ai colori un po’ più spenti della città, e le prime case apparvero davanti ai loro occhi che frenetici controllavano gli orologi da polso che indossavano.
Loro e gli altri avevano organizzato una piccola sorpresa per il padre di Rafael e per Giulia, che si erano sposati un anno prima in un disperato tentativo di ottenere la custodia di Leo.
Non vivevano assieme, avevano mantenuto le due abitazioni ben distinte, e la bionda signora dai capelli ribelli aveva deciso di restare col figlio Drake nella vecchia casa del moro. Quando il giudice aveva pronunciato che Leo sarebbe andato a vivere con la madre biologica, il mondo gli era crollato addosso con tutto il suo peso.
Fortunatamente, però, nemmeno dopo due mesi gli era stato acconsentito di vivere con Giulia e Casey, poiché persino Katie si era resa conto di come suo figlio stesse soffrendo. Non mangiava più. Aveva perso notevolmente peso in poco tempo, il mattino scendeva in cucina con gonfie occhiaie e trascorreva la giornata chiuso in quelle quattro pareti che erano diventate la sua nuova camera. Di notte, a Katie capitava di sentirlo gemere e piangere, o di sentire un forte rumore seguito dalla rottura di qualcosa. A volte era una sedia, a volte una mano.
E per la prima volta, fece un gesto da ‘mamma’. Lo lasciò libero. Fece con cura ogni operazione per trasferire la custodia e l’ultimo giorno che passarono insieme, lo vide sorridere. Questo era stato sufficiente per farle sapere di aver finalmente fatto la cosa giusta.
Quando Leonardo era arrivato dopo ben sessantadue giorni nel vialetto di casa Jones, senza che i ragazzi sapessero nulla poiché Casey e Giulia volevano fosse una sorpresa, era uscito chiudendo lo sportello della macchina della matrigna e aveva iniziato a ridere forte, col vento che si intrufolava nei suoi capelli scuri spettinati.
Poteva sentire i rumori che uscivano da una finestra aperta spegnersi pian piano, e un’improvvisa sedia venire scaraventata per terra.
Poco dopo, un incredulo Raph era apparso sulla soglia della porta scura, seguito da un Donatello euforico e un Michelangelo commosso, ripetendo “No, no, non è vero”.
Aveva persino chiuso la porta e l’aveva poi riaperta per controllare che fosse davvero lì.
“Oh mio Dio”
Si era portato una mano sulla fronte sovrastata da un ciuffo fiammeggiante, mentre Leo continuava a ridere senza fermarsi.
Il rosso aveva poi cominciato a correre verso di lui, atterrandolo in un abbraccio bagnato da lacrime calde.
Anche gli altri si erano subito uniti, e insieme erano rientrati, tutti con gli occhi piangenti e le guance umide.
Leonardo poi aveva lasciato a Casey l’onore di spiegare tutta la storia.
E adesso erano lì, che correvano verso casa loro, dove anche Donatello e Michelangelo li stavano aspettando.
Non appena vi arrivarono, si precipitarono dentro togliendosi le scarpe e correndo in cucina, trovando gli altri due intenti a togliere dal forno la base di una torta al cioccolato.
“Finalmente siete arrivati, eh!?” esclamò Mikey, saltando da una parte all’altra della stanza e appendendo festoni colorati.
“Non date la colpa a me questa volta” mormorò Raph, sollevando le mani e indicando poi il moro del gruppo.
Leo soppresse una risatina in gola, coprendola con un piccolo colpo di tosse e sussurrando un “scusate” divertito.
Quanti ricordi in quella casa.
Troppi.
E troppo pochi.
E una felice prospettiva di vederne arrivare ancora molti.
Stando ai racconti di Casey, Leo era già stato in quella casa da piccolo, giocando con i suoi due figli.
Ma il primo ricordo che a Leonardo veniva in mente era stata la sua fuga dal fratellastro Drake, bagnato fradicio fino alle scarpe con il freddo dell’inizio primavera che gli scavava nelle ossa e lo scuoteva da capo a piedi.
Si guardò intorno, sorridendo, osservando Raphael prendere Mikey per un braccio e fingere di atterrarlo con una mossa che avevano imparato a Ninjitsu, corso che avevano ripreso tutti a frequentare dal ritorno di Leo.
Donatello nel frattempo era piegato in due, un braccio a sorreggere lo stomaco e una fragorosa risata che gli tremava tra le labbra per una precedente battuta del piccolo dai capelli biondi e riccioluti.
Il ragazzo dai capelli simili al cielo di notte si avviò su per le scale, verso camera sua e di Raph.
Ovviamente non si era aspettato di avere una stanza tutta sua, considerate le condizioni economiche di Casey non voleva certo che si stesse a preoccupare di comprare un arredamento tutto nuovo per lui. No, a lui era bastato un materasso e la sua vecchia scrivania, rotta di ritorno da un allenamento di football e aggiustata malamente poco dopo.
Inoltre la sua vecchia casa era a due passi; di qualunque cosa avesse avuto bisogno, sarebbe potuto andare a prenderla quando voleva.
Un altro aspetto positivo di quella situazione era il rapporto con Drake: non era più costretto a vedere ogni giorno il suo brutto muso, e sapeva che era anche cambiato in sé grazie all’improvviso arrivo di una ragazza nella sua vita.
Il fatto che Leo continuasse a preferire a restare lontano da lui, poi, era un'altra storia.
Finì l’ultima rampa di scale e corse in camera a cambiarsi la maglietta bianca in cui aveva sudato nella lunga corsa per tornare a casa.
Aprì l’armadio che lui e Raph ora dividevano equamente -“Tanto la mia roba non ne riempie nemmeno metà lo stesso” aveva detto il rosso, anche se il moro sospettava che non fosse proprio così- e indossò una polo che rispecchiava i suoi occhi zaffiro.
Si avvicinò poi a un cassetto, e dopo averlo aperto ne estratte un piccolo pacchetto rosso, abbracciato da un nastro dorato e arricciato sulle estremità. Era il regalo di loro quattro per l’anniversario.
All’interno, incorniciata da legno di un dolce color caramello, si trovava una fotografia scattata qualche giorno dopo la loro riunione.
Non era niente di che come regalo, ma era un gesto che veniva dal cuore e che in effetti raffigurava al meglio il senso di quel matrimonio.
“Leeeoooo!!!” La voce di Michelangelo si arrampicò per le scale, giungendo fino a lui assieme al profumo del dolce che il biondo e il castano avevano preparato con cura.
“Arrivo!” chiamò, prendendo con sé il pacchetto rettangolare e scendendo a due a due i gradini che portavano al piano di sotto.
Sceso in cucina appoggiò la foto incartata sul tavolo di legno e si avvicinò agli altri, che si stavano preparando davanti ad una macchina fotografica grigiastra.
Ridendo e scuotendo la testa, Leo si mise tra Donatello e Raphael, e oltre quest’ultimo si trovava Michelangelo.
In pochi secondi, un flash illuminò la stanza, lasciando momentaneamente storditi i quattro.
Ognuno di loro con un sorriso che gli baciava le labbra, finirono gli ultimi preparativi, assicurandosi che tutto fosse semplicemente perfetto per quel giorno che solo un anno prima temevano non sarebbe arrivato. Presto Casey sarebbe tornato da lavoro, e Giulia sarebbe passata a trovarli.
Cavolo pensò il moro, ritrovandosi improvvisamente tra una battaglia di panna montata del biondo e del rosso mi sento come se fosse sempre dovuta andare così. Ripensò a quando suo padre non era mai presente, a quando i suoi unici amici erano quelli della squadra di football, a cui non importava niente di lui, non davvero, a quando la sua vita cambiò solo grazie a un progetto di scuola. Un progetto di scuola… Rise. Dapprima piano, poi sempre più forte. E anche se gli altri prima lo guardarono in modo strano, presto si unirono a lui, e tutti si strinsero veloci in un abbraccio, capendo esattamente a cosa stava pensando.
“Ragazzi, siamo a casa!” la voce di Giulia invase le stanze.
Già Leonardo sentì un caldo sorriso sfiorargli la gote e una dolce stretta al cuore, mentre una lacrima scivolava lungo la guancia casa.


Ciao a tutti.
Il mio nome è Leonardo Hamato e ho 16 anni.
Frequento la scuola superiore, più precisamente un liceo nella mia città natale, New York, e sono uno studente molto stimato.
Nella mia scuola ho sempre avuto un'alta reputazione grazie al fatto che facevo parte della squadra di Football, ma in fondo mi rendevo conto che nessuno mi avrebbe parlato se non fosse stato per questo.
O almeno, era così fino ad un po' di tempo fa.
Questa era la lunga e complessa storia di cui vi parlavo all’inizio di tutto. Vi ricordate? Forse ho parlato troppo e ve ne siete già dimenticati.
Spero di avervi lasciato quella bella sensazione che si ha quando si finisce un buon libro.
Scusate davvero, ma ora devo andare, Raphael e io abbiamo un appuntamento con gli altri.
D’altronde, le vacanze estive sono appena iniziate! So già che ci aspettano momenti che porterò sempre con me, così come spero voi vi ricorderete di me e della mia storia.
Perciò addio, e grazie per avermi ascoltato!

 
Angolo dell’autrice
Duuuuuuunque! Da dove cominciare? Innanzitutto chiedo scusa per l’orribile enorme ritardo! E soprattutto ringrazio coloro che hanno seguito questa storia dall’inizio e sono arrivati fin qui! Un grazie speciale a chi ha inserito la storia tra le preferite/ricordate/seguite ma soprattutto un grazie speciale per chi ha recensito nel corso della storia! Dedico quest’ultimo capitolo a tutti voi, sia voi che mi avete sempre fatto sentire apprezzata, sia voi che siete semplicemente stati dei lettori silenziosi.
Spero abbiate notato che la fine del capitolo riprende l’inizio della storia ^^”
Mi auguro davvero che vi sia piaciuto e di risentirvi!
Un enorme bacio,
Mar <3

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