Eroi

di Bess Black
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Infamia ***
Capitolo 2: *** Buio ***
Capitolo 3: *** Di spalle ***
Capitolo 4: *** L'arte della solitudine ***
Capitolo 5: *** Vergogna ***
Capitolo 6: *** Tradimento ***



Capitolo 1
*** Infamia ***



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Grimmauld Place, numero dodici – 13 Maggio 1969
 

 

«…Tre, due, uno!»
Regulus fece appena in tempo a nascondersi dietro il portaombrelli, sul corridoio dell’entrata.
Aveva avuto più di trentacinque secondi per pensare ad un nascondiglio più recondito, più riparato, meno rischioso ed esplicito – ed in un certo senso l’aveva fatto, solo che alla fine si era recato spontaneamente al primo tra tutti i nascondigli che gli erano venuti in mente. Dietro il portaombrelli.
«Se ti trovo di nuovo sotto il vecchio comò dello zio Phineas, me ne vado da Andromeda e ti lascio a giocare a nascondino con Kreacher che fa finta di non sapere dove sei.»
Sirius scivolò lungo il corrimano, risparmiandosi più di una ventina di gradini. Si accasciò immediatamente a terra, contro tappeto indiano che dava sul salotto per controllare sotto il tavolo prima di entrare, in modo da poter avere, il tempo di tornare indietro di fretta. Accertato che suo fratello non era nascosto sotto nessuno dei tre tavoli del soggiorno, si azzardo ad entrarvi. Saltò con un balzò sopra il divano, appurando immediatamente che non era nemmeno lì. Si avvicinò alle tende e le spostò agilmente, nonostante fosse già certo che di Regulus non vi avrebbe distinto nemmeno l’ombra. Si fermò al centro della stanza e sbuffò sentitamente.
«Per favore, dimmi che non sei nascosto nello stanzino di Kreacher.» Si voltò verso la cucina, guardandola sospettoso. «Non ho intenzione di entrarci, ti avverto!»
Si fermò sulla soglia, senza attraversarla, ed incrociò le braccia al petto.
«Ti dico che non ci guardo nella cuccetta, tanto vale che vieni fuori.» Brontolò imbronciato, voltando il capo dalla parte opposta rispetto allo stanzino dell’elfo domestico, mentre lo scrutava diffidente con la coda dell’occhio, nello spiraglio tra il quale si chiudevano le ciglia dell’occhio destro e si aprivano quelle dell’occhio sinistro.
Il flutto di ciglia si ricongiunse accerchiando la pupilla non appena lo sguardo di Sirius si fu riassestato perpendicolarmente sulla porticina del ripostiglio. La scrutò avveduto, senza risparmiarsi una smorfia infastidita, risentita. Allungò la manica della camicia prima di toccare la maniglia dello stanzino ed abbassarla.
«Avanti, ora puoi venire fuori.»
Spinse un poco la porticina e fece un passo indietro, spiando nello spiraglio di polvere e muffa che intravvedeva.
«Cosa stai facendo in cucina, razza di disgraziato?»
Ad evitargli di sobbalzare sul posto fu solamente l’orgoglio. Sirius si allontanò dallo stanzino dell’elfo domestico, voltandosi e fronteggiando la madre.
«Io e Regulus stiamo giocando.» sillabò con tono sufficiente, instaurando un contatto visivo fermo.
La donna gli sorrise. «Giochi babbani, non è vero?» si abbassò a livello del suo sguardo, poggiando le mani sulle ginocchia. «Non è vero?»
Sirius non spostò lo sguardo e ricambiò lo stesso sorriso della madre in risposta.
«Sono questi gli esempi che dai a tuo fratello?»
Si appoggiò al bancone della cucina prima di risponderle, nonostante fosse fin troppo piccolo per arrivarci quanto bastava. «Hai ragione, sai?» concordò, annuendo. «Dovrei insegnargli a torturarli, i babbani, magari a partire dai nostri vicini, che dici?»
Sua mamma gli accarezzò la guancia. «Dico che sei in punizione e che se ti trovo ancora una volta a ficcargli robaccia babbana in testa, non vi lascio più giocare assieme.»
«Questo dovrebbe illuminarmi e convincermi a cambiare?»
«No, certo che no.» ridacchio, scuotendo il capo e smuovendo la pettinatura curata che le inquadrava il volto. «Però questo dovrebbe.» lo prese dai capelli saldamente, avvicinandoselo per guardarlo meglio, prima di spingerlo verso il ripostiglio dell’elfo domestico. «Magari una notte o due senza cibo e al freddo riusciranno ad illuminarti.»
Sirius permise che lo calcasse dentro, senza reagire in alcun modo, nemmeno quando richiuse la porticina e pronunciò un incantesimo per sigillarla.
«E lo sporco dovrebbe aiutarmi a cambiare?» domando sinceramente incuriosito, il bambino.
Ci mise qualche secondo di troppo a rispondergli ed, in realtà, fu questo ad allarmarlo, ancor prima che lei parlasse.
«Io non mi aspetto che cambi, Sirius.» Stava sorridendo, lo capì da quanto attillate ed appiccicose le uscivano le pause tra le parole che pronunciava. «Però illuminati.»
«Certo, vai pure a contare le teste degli elfi domestici, quando sarai tornata avrò compreso i valori etici ed istruttivi ai quali stai cercando di educarmi. Il tempo di un giretto e mi sarò illuminato.»
«Dolce amore di mamma, pensi davvero che lascerei la tua punizione in mano al tempo? O al freddo e la fame?»
Voleva vederla, guardarla mentre pronunciava quelle parole, voleva ricordarsi quel momento. Resistette alla tentazione di spiare dalla serratura. «In effetti, trovo più minacciosi i germi di Kreacher.»
«Il freddo non ti piace, ma non lo ripudi; la fame ti compiace, la sete ti gratifica; le punizioni non hanno alcun effetto su di te, l’ho capito da un bel po’, ormai.» si avvicinò alla porta e gli sussurrò la sua condanna, con la dolcezza di una ninna nanna. «Ora so qual è il tuo punto debole, Sirius.»
La signora Black sorrise un’ultima volta allo stanzino, piegando il capo di lato, compiaciuta della sua opera, giusto prima di completarla. Uscì dalla cucina, spegnendo le candele con un repentino soffio di bacchetta e chiudendosi la porta alle spalle. Attraversò il salone, uscendo sull’atrio, pratica nei movimenti.
«Piccolo, perché non vieni fuori?» si fermò davanti al portaombrelli, facendo una pressione sonora sui tacchi.
«Shh, mamma!» bisbiglio affiatato Regulus, ancora ben nascosto. «Mi farai scoprire!»
«No, la mamma non ti farà scoprire.» promise.
Il bambino azzardò un’occhiata oltre l’ombrello del padre. «Dov’è Sirius? Ancora nel salone?» domandò un poco imbarazzato.
«Ma, tesoro!» sospirò la sua mamma, abbassandosi il giusto per accarezzargli una guancia. «Sirius è andato dagli zii.»
«Cosa? E perché?»
La donna scrollò le spalle. «Voleva giocare un po’ con Andromeda.» spiegò, paziente. «Ha preso la Metropolvere.»
«E non mi porta con lui?» chiese, spostandosi verso il lato più luminoso dell’angolo, permettendo alla madre di contemplare l’opera finalmente completa. «Io sono stato bravo, non ho fatto nulla di male!»
«Tesoro, alcune persone non aspettano che tu faccia loro del male, per fartene a loro volta.» sancì la donna, fedele ai suoi principi. «La vera cattiveria non ha ragioni.»
«Ma…»
La signora Black si rimise in piedi, lisciandosi la gonna. «Lo so, Regulus.»
No, non lo sapeva.
 

Regulus rimase nascosto tutta la notte, ad aspettare che Sirius lo venisse a cercare, senza la pretesa che lo trovasse.





 

 
 

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Capitolo 2
*** Buio ***



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Grimmauld Place, 21 Luglio 1969
 
 


 
«Regulus, sotto il tavolo del salone c'è qualcosa che si muove! Vai a vedere cos'è!»
«D'accordo, mamma!»
Il bambino salì di corsa le scale con le sue scarpette nere e lucide che stridevano sull'ebano liscio. Tirò su col naso e prese a saltellare lungo il primo corridoio.
«Padron Regulus, non potete entrare! Dovete allontanarvi!»
Piegò il capo di lato e guardò l'elfo domestico sbattendo più volte le lunghe ciglia.
«La mamma vuole che me ne occupi io.»
«No!» Gemette la creatura. «C'è una cosa malvagia lì sotto che voleva fare del male a Kreacher, ma Kreacher è scappato! Kreacher ha paura che faccia del male anche al padrone!»
Il piccolo Regulus scosse il capo facendosi subito avanti ed entrando nel salone. Si avvicinò al tavolino di vetro scuro e, abbassandosi, tentò di sbirciare sotto di esso.
«Padron Regulus!»
Un cadavere cereo, smunto e deperito strisciò da sotto il tavolo, prostrandosi in avanti per mezzo delle unghie sfregiate e dei piedi storti, dinanzi al bambino. Gli occhi ciclopici e grotteschi latravando fame fino all'inedia, fino alla più misera e peccaminosa delle avidità, mentre la gola digiuna emetteva versi animaleschi e cannibali, ma rotti come singulti della più proibita delle colpevolezze.
Regulus incespicò sui suoi stessi passi nel vano tentativo d'indietreggiare. Piagnucolò e cacciò un paio di urli tra un avvento improvviso d'ansia e un altro d'isteria.
Poi l'infero fece il suo primo passo e Regulus non urlò più.
Il vuoto gli pesò sulle corde vocali, strozzandogli il fiato in gola e la vista gli si appannò diverse volte. Si accucciò su stesso, portandosi le mani ai capelli e tirandosi qualche ciocca con forza, per placare il tremolio ed accertarsi dei propri sensi, che oscillavano su un bivio di gelo e rogo. Quando l'infero avanzò ancora ed i suoi versi si fecero più vicini e forti, avvertendo il vuoto della gola spargersi e scendere per divorarlo nelle sue stesse membra, portò le piccole mani a circondargli la pancia.
Tenne la testa china tra le ginocchia e quando avvertì il fiato freddo e fetido soffiargli sulla nuca, si strinse le spalle e sentì la vulnerabilità della schiena lasciata scoperta al predatore pungerlo tra ogni singola colonna vertebrale.
Il vuoto gli si concentrò in un vortice preciso dello stomaco. Si fece caldo, caldissimo; poi si fece freddo. E freddo rimase.
Gli si appesantì il respiro che lottava per farsi largo tra quel vuoto, ma Regulus non aprì bocca - certo che così facendo avrebbe vomitato - e si chiuse in un'interna lotta per la sopravvivenza.
Dovette concentrarsi per placare il tremolio e appena ci riuscì si rese conto che l'odore nauseabondo del cadavere era completamente sparito, lasciando in aria un genuino odore primaverile.
Rialzò il capo e riconobbe l'amico del fratello, coi capelli ribelli ed un paio di occhiali rotondi che teneva per mano una ragazzina dai capelli rossi e folti, e grandi occhioni verdi. Gli undicenni si si guardavano negli occhi e si sorridevano.
«Riddikulus!» Abbaiò la voce di Sirius al suo fianco.
Non appena pronunciò l'incantesimo, la rossa allontanò la mano del ragazzino e lo schiaffeggiò.
Sirius rise ed il Molliccio scoppiò.
E Regulus crollò sul pavimento, accasciandosi e rimanendo fermo, immobile, incapace di muovere anche solo le palpebre per chiudere gli occhi.
«Ti ho detto che non dovevi intervenire, incosciente!»
«E... lasciarlo morire?»
Qualcuno però urlava.
«Se la sarebbe cavata!»
«Ha nove anni, diamine! Non ha nemmeno una bacchetta! Non è in grado di combattere contro un Molliccio!»
«Sì, invece! Il suo sangue puro...»
«Il sangue non c'entra nulla! Tu... sei una psicopatica!»
«Razza di insolente! Come osi rivolgerti con questo tono a tua madre?!»
Decise che non voleva ascoltare perché quella conversazione non gli piaceva. Decise che il pavimento era abbastanza comodo e che avrebbe trovato la forza di chiudere gli occhi. Decise che avrebbe dormito e che non avrebbe sognato.
Decise di far parte del buio che dominava dietro le sue palpebre, di un buio tutto suo in cui si sarebbe nascosto... non per forza da qualcuno o qualcosa. Decise che voleva solo nascondesri. E così fece.
Il buio non distrugge mai ciò che nasconde.
 
 

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Capitolo 3
*** Di spalle ***


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III.
Di spalle

 




Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts - I Settembre, 1970



«Regulus Arcturus Black.»
La voce di Minerva McGranitt gli giunse lontana, soffocata da qualche risata distratta in fondo alla Sala Grande, da commenti indiscreti e bisbigli poco più prudenti che il suo cognome aveva suscitato sugli studenti. Riuscì a ridestarsi in tempo solo perché il tono arcigno della vicepreside stonò con l'ordine dei suoni che gli rimbombavano contro.
Si mosse più velocemente di quanto aveva creduto che sarebbe riuscito a fare, ma esattamente come aveva deciso: passi lunghi, ritmo costante, andatura leggera. Quando si voltò, sedendosi sullo sgabello, tenne il mento alto e gli occhi fissi davanti a sé senza concentrare lo sguardo su nulla, imitando l'espressione fiera che aveva visto spesso il padre assumere.
«Mmm... un altro Black?»
La vocina bassa del Cappello Parlante con il suo timbro teatrale gli giunse, invece, immediata.
«Vediamo... Dove ti metto, eh? No, nemmeno tu sei Serpeverde... Per niente. Eppure nemmeno Grifondoro. Non vedo né orgoglio né egoismo, né coraggio né viltà. Dove ti metto?»
«No, aspetta!» Bisbigliò Regulus al Cappello, agitandosi sullo sgabello. «Voglio essere assegnato alla Casa Serpverde!»
Il Cappello tacque un istante, prima di rispondergli con voce ferma. «Tu non ne sei all'altezza, Regulus.»
«Devo essere un Serpeverde.» Insistette l'undicenne.
«Sei riflessivo, paziente, diplomatico e passivo. Tu sei buono: un Tassorosso in tutto e per tutto!»
Regulus scosse il capo, con convinzione. «No, devo essere un Serpeverde. Io sarò un Serpeverde.»
«Non ne sei in grado, Regulus. Non reggerai. Te ne pentirai.»
L'avvertimento del Cappello Parlante suonava come una promessa.
Eppure Regulus se n'era fatto una ragione, molto tempo prima: certo che se ne sarebbe pentito. Avrebbe singhiozzato per il rimpianto e urlato per la frustrazione; avrebbe sudato d'ansia, mentre lo stomaco gli si strozzava per l'angoscia; si sarebbe nascosto sotto il letto, dentro l'armadio, dietro le armature e nei ripostigli pur di stare un po' con se stesso e permettersi di essere finalmente "Riflessivo, paziente, diplomatico, passivo" e la bontà l'avrebbe sepolta, tra astuzia ed egoismo storpiati dalla sua incontrovertibile debolezza.
La sua bontà era la sua debolezza.

Quando il Cappello Parlante annunciò a gran voce il risultato del suo smistamento, il tavolo Serpeverde lo acclamò con lo stesso orgoglio che Regulus mostrò sul viso, dietro pieghe più profonde e ben camuffate che celavano la sua condanna.
Sirius, dall'altra parte della Sala Grande, gli dava le spalle - deluso e amareggiato - mentre le budella di Regulus si annodavano ed incespicavano nella sua bontà infossata.
Se n'era già pentito.

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Capitolo 4
*** L'arte della solitudine ***


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L'arte della solitudine



 
 
Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts – 21 Ottobre 1972
 
 
Il ripostiglio delle scope del settimo piano era freddo ed odorava di polvere e pelle d’oca.
Regulus era accucciato accanto ad una piccola vetrata che dava sul prato anteriore del Castello e cercava di capire se stesse piovendo o meno poiché non si vedeva con precisione da tutti quei piani d’altezza.
Era sera e di lì a poco sarebbe dovuto scendere in Sala Grande per la cena, indossava ancora la divisa e teneva sottobraccio il tomo di Trasfigurazione dell’ultima lezione pomeridiana. Non appena avevano terminato la lezione e la professoressa si era allontanata, Serpeverde e Grifondoro avevano iniziato una disputa volutamente accesa, e lui si era allontanato in fretta senza che nessuno se ne accorgesse. Non gli piacevano i Grifondoro, non gli piacevano i Serpeverde; si somigliavano eccessivamente ed in modo parallelo, erano gli uni il riflesso distorto degli altri. Non gli piaceva nessuno in verità, non si piaceva nemmeno lui. Preferiva stare da solo, in disparte dagli altri e da se stesso. Non gli piaceva alcuna compagnia, nemmeno quella che era in grado di offrirsi da solo.
Era questa la vera solitudine: non avere nessuno per obbligo e per scelta, e non avere nemmeno se stessi. Era ritirarsi in un piccolo spazio nel proprio Io, avere un frammento della propria persona come unica arma contro il mondo, quello esterno e quello interno. Era biasimare il proprio esilio, incolparlo, mentre lo si costruisce attentamente.
Contrariamente a ciò che si credeva, Regulus si era sacrificato molti anni prima della propria morte, si era sacrificato rinunciando alla vita stessa.
«Tu!»
Un ragazzino magrolino avanzò tra il buio e le ragnatele del ripostiglio puntandogli la bacchetta contro.
«Pagherai tu per il tuo amico!» Sbraitò, avvicinandosi affannosamente. «Levicor-»
Balzò a sedere, facendo cadere il Primo Manuale di Trasfigurazione che si aprì ed attirò l’attenzione dell’altro. Regulus recuperò precipitosamente il libro, tenendo ugualmente gli occhi puntati sul ragazzo che si era intrufolato nella sua solitudine, in silenzio e senza chiedergli il permesso.
«Oh.» Disse solo quello, il cui tono si era ristretto in una vocina acuta, ansimante e stridula. «Credevo fossi… Mi sembravi… Scusami.» Mise velocemente via la bacchetta, con uno scatto schizzante.
Regulus lo guardò, limitandosi ad un cenno. Il ragazzo portava anch’egli la divisa – sulla quale era ricamato lo stemma Serpeverde, come nella propria –, tuttavia questa era stropicciata e sgualcita in alcuni punti; dedusse che fosse reduce della precedente disputa tra le due Case. Cercò di adattare la propria vista, ancora pennellata dalla pioggia che cercava oltre la vetrata, all’effettivo buio in cui era fermo l’altro, giusto in tempo di distinguere il pallore della sua pelle.
Il Serpeverde, che Regulus identificò poco dopo come uno studente del secondo anno, annuì. «Posso stare anche io qui?» Chiese gettando occhiate attente alle sue spalle.
Lo guardò senza replicare, creando un silenzio durante il quale non prese nemmeno in considerazione la possibilità di rispondergli. Strinse il Manuale sotto braccio e tornò a sedersi dov’era esattamente qualche minuto prima e questa volta non faticò a notare le gocce di pioggia che picchiettavano contro la vetrata.
Il ragazzo si sedette nella parte opposta.«Black, non è vero?»
«Regulus Arcturus.» Precisò prontamente, sull’attenti.
«Lo so.» Sbuffò l’altro, annuendo. «Severus Piton.» Aggiunse con un cenno, prima di incominciare anche lui a guardare oltre la vetrata.
Regulus annuì e sospirò, senza voltarsi. 
 
Era l’arte di stare soli, in compagnia.

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Capitolo 5
*** Vergogna ***


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V. Vergogna


 

 
Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts – 21 Ottobre 1972
 
 
 
«Mocciosus!»
«Mocciosus, lo sappiamo che sei lì dentro!»
Una risata galleggiò e arrivò in onda al fiato fin dentro il ripostiglio; l’altra galoppò ed arrivò fin dentro Regulus. Una era divertita ed allarmante; l’altra era divertita, dolce perché cara, ed allarmante.
I due Serpeverde si guardarono. Calcolarono quanto erano soli e quanto, di conseguenza, erano in compagnia; sottrassero dal risultato che ne trassero simultaneamente quanto era concesso loro esser soli e quanto, inversamente, conveniva loro esser in compagnia. Essere soli in compagnia era pittoresco, sublime perché splendido e spaventoso – splendido perché spaventoso e spaventoso da quanto splendido – ma la solitudine ne era l’imperativo. Potevano esser soli in compagnia solo quando avevano la possibilità di essere soli e la possibilità di scegliere di esserlo; la solitudine doveva essere imposta e voluta; doveva esser accusa e confessione; castigo ed espiazione. Assassinio e sacrificio.
Con lo sguardo, con lo sguardo solo si chiesero il permesso e se lo negarono. Con lo sguardo solo si accusarono e si confessarono, reclamando una tregua e rifiutandola. Con lo sguardo solo si castigarono ed espiarono per aver esatto un armistizio e averlo respinto. Con lo sguardo solo si assassinarono e sacrificarono per aver sporto e ritirato un congedo dal loro diritto all’esilio. Coi soli occhi fecero una strage della solitudine in quanto principio ed in quanto diritto all’egoismo, e mai nessuno poté testimoniarlo o commemorarlo.
«Mocciosus, guarda che se non vieni fuori entriamo noi!»
«Spostati, ci penso io!»
Non smisero di guardarsi perché negarsi la compagnia nella solitudine significava premettere l’egoismo, accettare la definizione di Serpeverde egoisti e farla propria – e, soprattutto, non vergognarsene. L’avevano rifiutato prima di proporlo ed avevano scelto la solitudine senza compagnia in nome dell’egoismo che spettava loro, per non vergognarsene. Ma fieri perché egoisti o egoisti perché fieri? Egoisti perché soli o soli perché egoisti? Che vergogna.
Al di là della porta le risate si sovrapposero e non fu più prioritario distinguerle. In quel momento, che nessuno avrebbe mai riportato alla memoria, la porta di legno sfregiato del ripostiglio fu la più artistica asse di simmetria che la scienza, in tutte le sue forme, avrebbe mai vantato.
Perché Regulus Arcturus Black e Severus Piton non furono mai amici, ma seppero come vergognarsene.
 
«Bombarda Maxima!»
Regulus ebbe i riflessi pronti, senza volerlo; riuscì ad indietreggiare fin dove poté e ad urlare a Severus d’imitarlo, allo stesso tempo. Non ce ne fu alcun bisogno perché il ragazzo aveva già evocato un Sortilegio Scudo tra loro e le schegge di legno che esplosero, abbastanza efficace laddove risparmiò loro lesioni o abrasioni, ma non abbastanza padroneggiato da evitar loro di schiantarsi contro il muro.
Si rimisero in piedi in fretta perché le risate – seppure non più filtrate da una porta, ma da un varco – erano ancora sovrapposte, incastrate tra loro come rime incatenate nelle quartine di un sonetto. Regulus spazzò via la polvere prima dal libro di Trasfigurazione e poi dai propri vestiti e dai capelli, con le mani.
Si guardarono ancora, ancora, ancora. Sempre la logica sarà grata all’ambiguità dei rapporti tra cause e conseguenze per il solo modo in cui si guardarono: seppur decisero che sarebbero stati egoisti e – e perché – soli, seppur decisero di esser soli e – e perché – fieri, continuare a domandarselo era conferirsi una possibilità seppur ritrattandola, ammetterla attraverso la negazione. Era confessare in poesia il coraggio, solo abiurandolo.
Ogni volta che Regulus e Severus si guardavano, si chiedevano l’un l’altro il permesso di non essere egoisti, non esser soli e vergognarsene; se lo negavano, certo, ma per domandarselo ancora, ancora, ancora. Che vergogna.
James Potter spinse il suo sorriso tra la polvere e l’aria, fino a toglierne a Regulus. Inforcò al meglio gli occhiali, nonostante le lenti rotonde fossero imbrattate di polvere, per vederlo meglio; tuttavia non si avvicinò, non s’inginocchiò al suo livello, piuttosto lo afferrò dall’avambraccio, e lo alzò con uno strattone garbato.
Regulus si sollevò sollecitato da tale garbo, inciampando nella maniglia della porta finita tra i suoi piedi e negli occhi di James Potter. «Avevi ragione, Sirius.» continuò a guardare lui, ma parlò a qualcuno alle proprie spalle. «Sei più bello tu.»
«Bene bene, Mocciusus. Sei furbo a scegliere i nascondigli, quanto a scegliere le compagnie.» rise, risero entrambi, ma le loro voci non si sovrapposero questa volta perché quella di James fu solo una smorfia più distratta che sinceramente divertita, un riflesso involontario di chi è abituato a vedere solo il lato comico dell’ironia.
Regulus non seppe muoversi e forse fu questo a far sì che nemmeno James smettesse di stringere il suo avambraccio sinistro. «Perché mi guardi così?» sussurrò, infine.
Scosse il capo, lasciando il braccio proteso affinché l’altro non smettesse di stringerlo.
«Che c’è?» chiese ancora, bisbigliando con la voce e col sorriso che stava solleticando le guance e lo stomaco di Regulus. Che vergogna.
 
Nessuno dei due avrebbe potuto saperlo, ma James Charlus Potter aveva la mano intorno al punto esatto in cui sette anni dopo sarebbe stato inciso il Marchio Nero sulla pelle di Regulus Arcturus Black.
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** Tradimento ***


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Tradimento


 

Peter Minus lo guardava mentre rideva.

Ed era grottesco: Peter che rideva, come Peter rideva e Peter che lo guardava mentre rideva in quel modo.

Era bastato il Levicorpus di James e la conseguente battuta azzeccata di Sirius: era bastato Severus Piton a testa in giù e Peter aveva squittito la più acuta e fastidiosa risatina che Regulus avrebbe mai udito in un totale di diciannove anni di vita sacrificata.

Eppure Severus a testa in giù non era, davvero non lo era, così divertente –  anche da quello che poteva essere l’altro punto di vista; così come la battuta sulle sue mutande: davvero nulla in quel momento faceva ridere.

«Non fa ridere.» aveva osato proferire quando Peter aveva suggerito di far sparire gli indumenti del Serpeverde ancora a testa in giù.

«Ah, allora parli!» James Potter gli aveva sorriso ed era stato quel sorriso, in quell’istante spropositato, a fargli davvero paura: il Grifondoro sembrava piacevolmente sorpreso sul serio, quasi aspettasse solamente la sua reazione. Ma quanta paura gli facesse la bellezza del sorriso di James era un’altra storia che  non potrà mai essere raccontata perché non sarà mai vissuta.

«Mettetelo giù.»

Per un istante, mite e frazionario, che Regulus avrebbe rivissuto ed alimentato di significato fino alla morte pochi anni dopo, gli sembrò che James Potter avesse sinceramente ascoltato le sue due parole, che le avesse sinceramente prese in considerazione. Ma Peter Minus aveva nuovamente riso, squittito acutamente, facendo delle sue parole, due parole, due soltanto, grottesca intromissione ed allora gli occhi di Potter si erano improvvisamente illuminati, distratti.

«Difendi Mocciosus?»

Aveva una voce fresca, vigorosa ed intonata, omogenea nella melodia. Regulus avrebbe avuto tristi possibilità, in occasione e in contesto, di sentirla nella vita; mai l’avrebbe dimenticata.

«Reggie, sul serio?» S’era intromesso suo fratello - suo chi? «Non dirmi che in tutto il castello la cotta te la dovevi prendere proprio per Mocciosus?»

James Potter sorrise, non a lui, ma guardandolo; l’orgoglio di chi ama aver ragione e la fierezza di chi gode nel piacere.

«Nah, lascialo fare, è tenero.» l’aveva provocato James, ancora rivolto verso Regulus, le spalle voltate a chiunque altro nella stanza; mai più sarebbe riaccaduto: da quel giorno in poi, lui sarebbe stato l’unico a cui James Potter non si sarebbe rivolto, l’unico a cui avrebbe dato solo e soltanto spalle. Ma Regulus sapeva di non aver posto nella vita di James Potter; non pretendeva altro: almeno dalle sue spalle, sporgendosi un poco al limite, avrebbe potuto scorgere un terzo del suo sorriso senza precipitare.

«Fottiti, James!» aveva sbottato Sirius Black alla battuta accorta del migliore amico, provocandogli sul volto una risata per la quale Regulus sarebbe sempre stato grato al fratello.

«P-potrebbero espellervi per questo.» era stato istintivo rispondere alla provocazione con un’altra; che si trattasse di due tipi dissimili di provocazione era contribuito dal fatto che la sua non era altro che una reazione.

«P-prima dovrebbero venirlo a sapere.» Aveva sorriso James, imitando la sua stessa balbettante labiale sorda. Aveva poi fatto un passo in avanti, ma Regulus non non aveva saputo indietreggiare - e si vorrà sempre bene per non averlo fatto nell’unico momento in vita in cui avrebbe avuto quell’occasione. «Cos’è, sei una spia?»

Sirius aveva fatto un verso di disgusto a cui Regulus non era più famigliare, ma che aveva saputo riconoscere. «Reggie, va bene tutto, ma non la spia.» aveva commentato. «Non li scagioniamo i traditori.»

«Già, ci fanno schifo i traditori!» s’era intromesso Peter Minus.

«Oh oh, Mocciosus deve essere svenuto, ragazzi.» Sirius aveva aspettato di comunicarlo a voce lampante, prima di piegarsi in due dalle risate.

James aveva ridacchiato, ma senza girarsi a vedere la fonte della sua ilarità; solo per continuare a guardarlo e Regulus non poteva che sentirsi vivo. Si sarebbe sentito altrettanto vivo solo in punto di morte, pochi anni dopo: il sorriso caldo di James e la risata gioiosa del fratello addosso assieme a centinaia di inferi che lo stavano già divorando mentre annegava in acque che avevano lo stesso colore degli occhi di sua madre - dei suoi.

 

C’era energia sanguigna, tra Sirius e James. Era chimica, ma in flusso, non statica; rigenerativa. Era a ritmo cardiaco, era integrale e vitale; organica. Era incisa nei lineamenti, rilassati o contratti - in sistole o in diastole - ogni qualvolta ridevano o sorridevano perché era energia vitale e non c’era muscolo che non irrorasse, densa e fluida; non c’era gesto, persino insignificante, che non alimentasse, diramata e reticolata, veloce e ritmica.  E, ancora, non c’era momento in cui non sorridessero o ridessero, dunque era energia autorinnovabile.

Era genetica. James e Sirius erano fratelli.

Erano tutto ciò che poteva essere definito l’ideale fraterno. Ma se Sirius e James erano fratelli dove poteva stare lui? Il flusso tra i due l’avrebbe solo portato via, lontano e tramortito, come la corrente selvaggia di un torrente, la cui sorgente lo rifiutava, destinandolo a stagnare in un emissario buio e fangoso, senza mai sfociare.

Dove poteva mai stare lui in quella stanza polverosa, il cuore a mille come non avrebbe avuto la possibilità di essere mai più, puntato assieme ad una bacchetta tremante contro il fratello di suo fratello?

Dove poteva stare lui laddove non gli spettava posto, dove non gli spettava stare?  Come poteva essere lì dove non poteva stare? Dove poteva mai trovare un punto, uno solo se non aveva le coordinate per tracciarlo? Che dovesse strisciare lungo sul bordo delle assi in attesa di essere collocato anche lui, fino a precipitare? Che dovesse precipitarsi per trovarlo? Che dovesse...che dove... Dove? Dove poteva mai nascondersi per vivere?

Che potesse solo scavarserlo un posto suo?

Se ne sarebbe convinto per i pochi anni restanti di vita, ma noi sappiamo che Regulus Arcturus Black nemmeno in tomba avrà mai posto.

 

Nella realtà presente, quella dove nessuno poteva provare quanto il cuore stesse battendo, solo ridere del perché - e rideva, James rideva, ma la risata era chiave di violino contro la pelle vergine di Regulus. Nella realtà vera, Sirius non aveva capito nulla e Regulus non avrebbe mai potuto saperlo, ma James non gliene avrebbe mai parlato, nemmeno in scherzo: l’unico vero momento di vita di Regulus sarebbe scomparso in segreto all’unica persona che glielo aveva donato, soli due anni dopo la sua stessa morte. Era poco, ma James avrebbe sepolto con sé la vita di Regulus, anche solo nell’unico istante in cui era esistita. Era poco, ma era rispetto e se Regulus lo avesse saputo prima di morire avrebbe avuto una ragione in più per morire lo stesso. Nella realtà reale, Peter Minus rideva di lui ed era una vergogna che dovesse fare da colonna sonora finale all’unico momento della sua vita che Regulus avrebbe voluto ricordare mai. Nella realtà, l’unica possibile, l’unica che aveva, il contorno era nero ed i colori neri, su sfondo nero.

Sì, James gli stava sorridendo, ma James sarebbe tornato a Sirius. E Sirius sarebbe tornato a James. E Regulus sarebbe ritornato al nero.






 

L’unico episodio che Regulus avrebbe rivissuto di quella sera del ventuno ottobre 1972 sarebbe stata la risata roditrice di Peter Minus giungere dal salone di Villa Malfoy otto anni dopo.

Regulus l’avrebbe riconosciuta all’istante ed avrebbe scritto una lettera a James Potter per informarlo di chi fosse la spia, il traditore all’interno della sua cerchia; l’avrebbe bruciata poi e, piangendo, ne avrebbe scritta un’altra con lo stesso contenuto, ma indirizzata ad Albus Silente.

Tale lettera sarebbe stata intercettata da terzi e mai giunta al destinatario.

Ancora oggi si trova tra le pagine dell’enciclopedia nella biblioteca dei Malfoy. Le ceneri della lettera scritta per James le avrebbe spazzate via Sirius Black stesso dal camino di Grimmauld Place, tredici anni dopo.

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