La Fanciulla e l'Invisibile

di TuttaColpaDelCielo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Autunno ***
Capitolo 2: *** Inverno (I) ***
Capitolo 3: *** Inverno (II) ***
Capitolo 4: *** Primavera ***
Capitolo 5: *** Estate ***
Capitolo 6: *** Autunno ***



Capitolo 1
*** Autunno ***


Ἡ Κóρη καί ὁ Ἀίδηλος

La Fanciulla e l'Invisibile



Come spiegare.
Come spiegare il calore esausto dell'estate che appassiva, ultimo immane inutile sforzo di giorni sempre più brevi, a chi invisibile viveva moriva di freddo e di buio. Come spiegare le camomille tardive e l'odore di lavanda, e artemisia partorita tra spasmi di temporali estivi. Come spiegare le unghie aggrappate alla vita luce sole calore fioriture, mentre già l'aria si faceva fredda e la stanchezza avanzava, avanzava...
Come spiegare la lenta inesorabile sconfitta a chi invisibile trionfava.
Tra i miei capelli, una spiga bianca colta una volta e sfiorita mai più.
Tra le mie dita, lavanda secca che la brezza portava via.
Come spiegare la presa che si allentava, la resa, oh vita luce sole calore fioriture addio sembrava non dovessero tornare.
Odore di malinconia e mani vuote.



Autunno

Eravamo un cerchio di colori, ruotavamo mano nella mano con fiori ai polsi e un canto sulle labbra. Sentivo quella danza ridente arrossarmi le guance e scompigliarmi i capelli, ma ancora continuavo, senza fiato, ridendo danzando cantando con le altre in quel tripudio di vita. I mortali, da qualche parte, esultavano con noi: la gioia di Ciane e Sangaride nutriva le fonti, Euthemía con i suoi passi ammorbidiva il terriccio e io, io, io ero la vita che sfidava l'autunno imminente. Lontana, mia madre benediceva le messi dell'Attica; chiesi ai ranuncoli e ai crochi di sbocciare dorati come i suoi capelli e fu come averla lì, terra fertile e grano. Calligeneia, a quella vista, rise di cuore e sollevò le braccia stanche per battere il tempo.
«Che fai, nutrice?» la chiamai «Non danzi?»
«E sia, Kore!»
Non era donna da rifiutare una sfida: nonostante la vecchiaia si alzò dal prato e si unì a noi. A quel punto sciolsi la stretta e abbandonai il cerchio di ninfe, accusandola con voce squillante di farmi sfigurare. Ridemmo ancora. Mi lasciai cadere a terra, a rotolare giù dalla collina verso il lago, tra erba tenera e fiori. Quando mi rialzai, a metà del pendio, scoprii che dalla mia gioia erano fioriti narcisi bianchi e pratoline; punteggiavano il verde dal cerchio danzante fino alla riva e io corsi giù, seguendo il candore della mia innocenza.
Inciampai, ridendo rotolai di nuovo, e quando finalmente riuscii a fermarmi mi trovai sotto gli occhi un narciso con la corolla ancora chiusa. Lo sfiorai con due dita e quello abbandonò l'indecisione per fiorire nell'autunno imminente. Mi piacque tanto che lo colsi, chiedendogli scusa ma senza pentirmi davvero: tra le mie mani sarebbe rimasto vitale come ancora affondato nella terra.
Ma fu proprio la terra a tradirmi: sotto le gambe la sentii farsi fredda e tremare, tanto forte che sarei caduta, se già non mi fossi trovata in ginocchio. Mi scavava sotto le unghie come aghi di ghiaccio.
Durò un istante, e un altro istante lo impiegai per trovare il coraggio di voltarmi in direzione del boato. Poco lontano, dove le pieghe verdi dei pendii avevano costeggiato il lago, si apriva uno squarcio osceno. Il canto delle ninfe si trasformò prima in silenzio e poi in urlo, nel vedere i cavalli neri che avanzavano da quell'abisso; io invece tacqui, un po' per lo spavento, un po' per l'incoscienza – ero una dea, cos'avevo da temere?
Un istante di scossa e uno di incertezza e uno per pormi quella domanda, tre istanti e già i cavalli erano vicinissimi, le redini tese a fermarli, pochi passi ancora e mi avrebbero travolta. Mi alzai in piedi e anche così mi sentii minuscola in confronto, ma almeno oltre i loro corpi frementi riuscii a scorgere il carro che trainavano, enorme e nero quanto loro. La mano pallidissima che stringeva le redini si era abbandonata sul bordo di legno; lì accanto, trattenuto dall'altra mano, poggiava un elmo scuro che riconobbi dai racconti di mio padre, dono d'invisibilità da cui il dio stesso aveva preso il nome. Finalmente vedevo la kunée.
Con un brivido, sollevai il viso per guardare oltre il bordo del carro. Dal basso vidi una tunica scura, il lembo di una clamide rossa gettata sulla spalla, risalii e risalii fino a incontrare il volto di uno spettro bianco – bianca la pelle bianchi i capelli nero lo sguardo. Mi scrutava dall'alto con le palpebre socchiuse, ombre violacee sotto le palpebre, lineamenti aguzzi sotto le ombre. Nero lo sguardo bianchi i capelli bianca la pelle che si tendeva troppo sulle ossa. Nero lo sguardo. Nero lo sguardo, nerissimo, il Tartaro doveva essere nero così.
Cos'avevo da temere, mi ero chiesta. Lo capii.
Ade schioccò le redini e il carro riprese a muoversi.
Chinai il viso.
Tra le mie mani, il narciso era appassito.

 
*

Di Asclepio ricordavo lo sguardo compassionevole e il sorriso quieto. Questo e poco altro avevo scorto, spiandolo quando leniva lo strazio di qualche ninfa reclamata con troppa forza – mia madre non chiamava mai Apollo per guarigioni simili. Meglio quel figlio che non aveva l'abitudine allo stupro, o le figlie del figlio, Igea e Panacea che da Asclepio avevano appreso l'arte del conforto.
Pareva, però, che il dio dalle mani gentili non fosse gradito a tutti.
Strinsi la ciotola d'ambrosia tra le mani mentre mia madre ci riferiva ciò che aveva udito. Il timido fuoco, acceso per proteggerci dalla notte troppo fredda, giocava con le ombre fino a rendere inquietante anche il suo volto.
«Ade lamenta che gli giungono poche anime e pretende che Asclepio abbandoni le arti mediche.» disse mia madre «Non tornerà nell'Averno finché la sua richiesta non sarà soddisfatta.»
«Poco accomodante.» commentò Calligeneia.
«Davvero. Apollo è furioso.»
«Provocherà pestilenze?» chiesi a mia madre, con la bocca amara.
«Non avrebbe senso, Kore. Ade ne trarrebbe solo soddisfazione.»
Abbassai lo sguardo. Sorbii l'ambrosia fino ad annegare nel suo sapore dolce, ma continuai a percepire quell'amarezza pungente.
Calligeneia mi posò una mano sul ginocchio e chiese: «Zeus si è espresso?»
«Non ancora.»
«Pensi che Asclepio cederà, madre?»
«Cederà, se è saggio. Neppure suo padre potrebbe proteggerlo da Ade.»
Rabbrividii. Quanti potevano proteggersi dalla morte? Eravamo dèi, eppure persino noi – lo sguardo nerissimo di uno spettro bianco mi strinse lo stomaco al ricordo – avevamo di che temere.
Mi uscì solo un filo di voce: «E se non cederà...»
Mia madre mi cinse le spalle e mi baciò la tempia. Sapeva di terra umida e mai come in quel momento il suo profumo mi era parso così rassicurante.
«Perdonami, Kore, non avrei dovuto parlartene. Discorsi simili non sono adatti alle bambine.»
Ma ero già abbastanza adulta da capire perché avesse evaso il mio dubbio.
«Penso...» mi schiarii la voce «Penso che andrò a riposare, madre. Nutrice.»
Mia madre mi drappeggiò il suo himation sottile sulle spalle ed entrambe mi augurarono una notte serena. Il mantello mi scivolò lungo un braccio e strisciò a terra mentre mi allontanavo, ma non lo sistemai. Avrei dovuto: oltre il cerchio di luce tiepida attorno al fuoco, l'aria fredda mi morse la pelle. Forse era il sole che, offeso per l'affronto ad Apollo, si rifiutava di scaldarci. Forse era la morte che avanzava.
Pensai ad Ade, ai suoi occhi neri di Tartaro su di me. Al mio povero narciso sfiorito. Pensai ad Asclepio con lo sguardo compassionevole e il sorriso quieto, le mani gentili, le corone di fiori che gli avevo intrecciato per ringraziarlo della sua dolcezza. Pensai al conforto e al dolore lenito e alla gioia di un mortale che sfugge al destino ancora un giorno, alla vita che io nutrivo e Asclepio custodiva, a tutto ciò che Ade voleva negare. Bestemmiai la morte sottovoce.
Mi abbandonai sul giaciglio di fiori e foglie e mi strinsi nell'himation, desiderando che fosse più pesante. Ebbi la tentazione di riavvicinarmi al fuoco, stringermi tra Demetra e Calligeneia che ancora mormoravano; ma non erano discorsi adatti a me, Kore impressionabile, e allora mi accontentai del profumo avvolgente della stoffa.
Ombra scurissima che si stagliava contro le fiamme, mia madre non mi era mai sembrata così irraggiungibile.
Quella notte piansi in silenzio.
 
*

Non dissi di Ade a mia madre.
Euthemía e Sangaride erano tornate a casa precipitosamente, oltre il mare, senza molta voglia di parlare di ciò che era successo; Ciane restava accanto alla sua fonte e io avevo cura che Demetra non volgesse i suoi passi da quella parte.
Nemmeno Calligeneia parlò. Allora pensai che non volesse dare altre preoccupazioni alla sua signora, ma forse fu semplicemente lungimirante: notò che io non ne facevo parola e mi imitò, perché capiva – a differenza di mia madre – che non ero più una bambina. Ero una dea e alla volontà di una dea una ninfa si deve adeguare, per quanto sia stata sua nutrice. Io tacqui, quindi, perché sapevo che altrimenti mia madre non mi avrebbe più permesso di vagare sola per la Trinacria; e Calligeneia tacque di riflesso, perché sapeva che stava succedendo solo ciò che doveva succedere. Crescevo. Serbavo segreti. Il chitone mi andava corto e a volte, svegliandomi, lo trovavo macchiato di rosso tra le gambe; l'himation schermava in egual modo il freddo all'esterno e miei pianti improvvisi all'interno. Nulla che la mia anziana nutrice non avesse già visto.
«Un uomo si è fermato a guardarti.» mi disse una mattina, per chiudere del tutto l'argomento «Era il signore dell'Averno, e allora? Significa solo che anche il signore dell'Averno ha gli occhi.»
Ammirai la sua tranquillità. Era posa, sollecitudine di nutrice per non farmi preoccupare, e lo intuivo; tuttavia quella posa mi permise di non sentirmi troppo in colpa per l'omissione a mia madre.
D'altronde neppure lei diceva di Ade a me. Parlava spesso a bassa voce, interrompendosi quando mi avvicinavo, e mi blandiva con sorrisi e dolcezze per non farmi pesare quell'improvviso silenzio imbarazzato. Non funzionava. Non era piacevole sentirsi come un'estranea, né restare ignara delle sorti del povero Asclepio dalle mani gentili. Nel buio, quando avevo il viso nascosto dai capelli e lo premevo contro un lembo dell'himation, la frustrazione rabbiosa si scioglieva in lacrime e singhiozzi soffocati.
Anche quella notte, dal mio giaciglio voltai il capo verso il cerchio attorno al fuoco. Si erano raccolte molte ninfe a scaldarsi: avevo sanguinato una sola volta dall'incontro con Ade, ma dalla tarda estate eravamo già passati al freddo e alle foglie ingiallite. Si stringevano l'una all'altra per non disperdere calore, nei loro abiti leggeri inadatti alla stagione, e mormoravano tra loro a capo chino. Mia madre annuiva grave e dispensava sorrisi rassicuranti.
E io, Kore, ombra tra le ombre a guardarla da lontano.
Credeva che non potessi capire i loro discorsi, che non dovessi essere turbata dal nome di Ade. Ma oltre al nome avevo incontrato il suo sguardo e mi ci ero specchiata, scoprendomi abbastanza interessante da rallentare il passo alla morte.
Credeva che riposassi nel suo himation, Kore cullata da sogni di miele. Ma la notte non mi appesantiva le palpebre e in quel grembo oscuro l'inquietudine scalciava, scalciava, dando inizio alle doglie.
L'himation mi scivolò dalle spalle mentre mi alzavo, si ammucchiò ai miei piedi con un fruscio. I miei passi invece non fecero rumore e nessuna voce si alzò a richiamarmi – forse Nyx velò loro gli occhi, dopo che Hypnos mi aveva negato la sua carezza. Poteva essere, tutto quello, segno di una volontà ineluttabile che ancora non comprendevo?
Ma il travaglio di Persefone era appena iniziato e Kore, nella sua ingenuità, non ci pensò: non cercai i segni. Notai – quello sì – che il freddo si faceva più intenso man mano che i miei passi silenziosi mi conducevano lontano; eppure era un freddo che lambiva le mie braccia nude senza farmi rabbrividire, come un fuoco che scaldasse invece di bruciare. Era la mano di un titano che pur potendomi schiacciare sceglieva una carezza.
Oh, sì: i segni ci furono tutti. Ma Kore ingenua continuò a inoltrarsi tra gli alberi, rifuggendo la solitudine soffocante di ninfe che le davano le spalle. Camminai e camminai e poi corsi, con l'oscurità che si apriva ai miei piedi perché non inciampassi, quando fui sicura che nessuno avrebbe più potuto udirmi. Con respiri troppo rapidi ingoiai aria e la sensazione meravigliosa di essere nel posto giusto, finalmente, nessuno a pesare le parole e a zittirsi e ad allontanarmi e a dirmi non sono discorsi adatti a te, Kore, e per la prima volta da giorni non ebbi più la bocca amara. Dalla mia esultanza fiorirono campanule ai miei piedi e risate sulle mie labbra addolcite, passavo tra querce dalle foglie ingiallite e quelle rinverdivano gioiose. Nyx si ritraeva sotto i miei occhi per permettermi di ammirare la mia opera, ma io non mi fermai mai, corsi, corsi, ormai dovevano essersi accorte della mia assenza.
Mia madre non sarebbe stata contenta. Non m'importò.
E poi Nyx tornò densa e il freddo divenne gelo nelle ossa e io dovetti arrestare la mia fuga.
Inquietudine.
La consapevolezza improvvisa e bruciante di essere lontana da mia madre, dalla mia nutirce, dalle mie ninfe. Lontana, lontana, lontana.
Ingenua Kore.
Ade comparve che aveva ancora le braccia alzate a sfilarsi l'elmo, uomo e dio e morte e fiore pallidissimo cresciuto al buio. Sentii senza vederli che gli altri fiori, le campanule nate dalla mia gioia, appassivano – e le sentii chiedermi aiuto nell'agonia, e le querce ingiallirsi di nuovo, ma che potevo farci? Nulla poteva sottrarsi ad Ade.
Non Asclepio.
Non le mie campanule.
Non io.
Mi specchiai nel suo sguardo di buio e fui all'improvviso consapevole del chitone troppo corto stracciato nella corsa, del mio corpo adolescente per nulla celato dalla stoffa – la cascata scompigliata dei miei capelli e guance arrossate e labbra socchiuse per riprendere fiato, il seno che si sollevava al ritmo del respiro rapido, ciocche scure come la terra fertile contro pelle nuda giovane invitante.
Incespicai un passo indietro ma seppì che era inutile, perché Ade era così vicino che avrebbe potuto tendere una mano e agguantarmi, soffocare tra le braccia ogni ribellione.
«Ferma.» ordinò invece, e capii perché non si fosse neppure mosso.
Un re non ha bisogno della forza per ottenere obbedienza: gli basta una parola. Una parola di re e di morte, poi, è semplicemente ineluttabile.
Nella voce di Ade c'era autorità e intransigenza e la certezza che se ferma mi avera ordinato, ferma sarei rimasta. Non gelo, quello no; più la durezza inflessibile di una volontà che non ammetteva obiezioni.
E ferma rimasi.
Lo sentii scrutarmi in silenzio, il peso del suo sguardo sulla pelle più eloquente delle parole. Tremai. Chinai il capo, lasciai che i capelli scendessero a coprirmi il viso e il petto e approfittai della barriera di ciocche e ciglia socchiuse per studiarlo a mia volta. Se fosse stato umano, avrei potuto sfuggirgli: ombre violacee sulla pelle e ossa troppo evidenti non promettevano un corpo energico. Ma Ade era Ade e anche nella magrezza riusciva a sembrare imponente; non era certo Efesto, ma io non gli arrivavo al mento e davanti agli occhi avevo una clamide rossa appoggiata su spalle forse ossute ma larghe, tutt'altro che fragili. Ebbi la conferma che sì, se anche mi fossi mossa lui avrebbe avuto il tempo di agguantarmi e dalla sua stretta non sarei mai riuscita a liberarmi.
Ma avrebbe fatto differenza, se Ade fosse stato più gracile di me?
Chissà se per mano sua potevano morire anche gli dèi.
«Kore.» chiamò «Fanciulla.»
Nyx scostò i suoi veli d'ombra dal mio corpo, mi lasciò esposta sotto lo sguardo del suo signore.
Sulle labbra di Ade il mio nomignolo non aveva nulla d'innocente.
Richiamai l'incoscienza che mi aveva guidata fino a lì, raccolsi il coraggio sulle labbra e sollevai il capo per guardarlo.
«Ade.» sussurrai «Invisibile.»
Ero goffa e troppo rigida e per niente sicura, nel mio tentativo di fronteggiare ritta quello scrutinio, e questo dovette divertirlo molto: distese le labbra.
«Un invisibile che guardi in faccia, Fanciulla.»
«Agli immortali è concesso.»
Il sorriso arrivò a scoprirgli i denti.
«Agli immortali scelgo di concederlo.»
Mi rifiutai di abbassare lo sguardo. Non ero, mi dissi, una donnetta mortale a cui era vietata la vista di Ade: la morte per me poteva avere un volto senza che venissi strappata alla vita. Mi sforzai di nutrire il terreno, ma sentii solo la pelle formicolare, i miei tentativi infrangersi contro zolle indurite come ghiaccio. Ritentai, perché la vita era un mio diritto.
«D'altronde» commentai «sarebbe eccessivo scatenare faide tra gli immortali per un'occhiata in viso.»
«Sottovaluti l'orgoglio degli immortali.»
Strinsi i pugni. Le radici che tentavo di estendere vinsero la resistenza delle zolle dure, si allungarono a nutrirsi della mia benedizione; fu come stiracchiarsi dopo un lungo sonno, fatica piacevole di sangue che torna a scorrere, germogli verdi ai miei piedi. Sorrisi ad Ade, contro Ade, nella mia vittoria puerile.
Soffio gelido contro la pelle.
Germogli anneriti ai miei piedi.
«...potresti smettere di uccidere i miei fiori?»
Ade continuò come se non lo avessi mai interrotto: «Sottovaluti l'orgoglio degli immortali, Fanciulla, e il loro attaccamento a formalità e apparenze. Non hai ancora un tuo culto, vero? Cammini all'ombra degli onori di tua madre.»
«I mortali mi ringraziano» lo corressi «quando porto la fioritura. Mi offrono frutta e miele.»
I germogli nascevano e morivano ai miei piedi ma io ne facevo crescere altri, ancora e ancora, e ogni volta riuscivano a durare un po' di più nonostante l'influsso di Ade: i resti anneriti delle mie creature ammorbidivano il terreno, nutrivano i fratelli ancora in vita.
Mostravo ad Ade la prova che anch'io ero una dea, che anch'io avevo potere e venivo adorata. Futile, ridicola prova; ma allora mi sembrò una vittoria enorme.
«Hai scelto onori umili, Fanciulla. Da ninfa più che da dea.»
Ovviamente la mia vittoria non poteva durare.
«Sono gli onori che voglio.» ribattei, alzando il mento.
Sorrise ancora, ma in quel sorriso c'era qualcosa di inquietante che mi scivolò addosso come un brivido. Un taglio che si apriva a mostrare il bagliore dei denti.
«E odi le voci dei mortali, nel tuo culto da ninfa?»
«Ringraziamenti e preghiere. Invocazioni, talvolta.»
...sì, quel sorriso a denti scoperti era inquietante.
«Sapevi, Fanciulla, che si odono anche le bestemmie?»
Mi pentii di averlo sfidato.
Abbassai lo sguardo, mi strinsi le braccia al corpo per proteggermi dal freddo e dal suo sguardo. L'aria, ormai, era talmente gelida che sembrava di sentire vetri rotti sulla pelle. La presenza di Ade mordeva feriva bruciava.
«Chiedo perdono.» mormorai.
«Non puoi morire, ma nel mio regno c'è posto anche per te, Fanciulla. Anche gli immortali temono la mia giustizia; o forse tu ti ritieni invulnerabile?»
Aveva la voce atona, quasi gentile nella sua indifferenza, come se fosse una presa d'atto più che una minaccia. Serrai gli occhi mentre la mia recita di sicurezza moriva, schiacciata da un potere che per terrorizzarmi non aveva neppure bisogno di palesarsi.
«Fanciulla. Fanciulla. Possibile che tu sia tanto ingenua? Potrei spalancare un baratro sotto di te, gettarti nel Tartaro tra i Titani. Potrei squarciare la terra e lasciarti a gelare nel Cocito, o ad ardere nel Flegetonte. Sai che la tracotanza non si perdona facilmente, Fanciulla. O dovrei forse permettere a chiunque di insultarmi?»
Ancora indifferenza vellutata nella voce, avrebbe potuto parlare di qualsiasi cosa con quel tono che era solo mancanza di inflessione – dell'autunno o dell'ennesima amante di Zeus o dei miei fiori. E invece parlava del mio supplizio, con lo stesso interesse che avrebbe riservato alla morte di un mortale: un fatto ovvio. Lapalissiano. A crimine corrisponde pena e la tracotanza è il crimine piu grave, persino per una dea; questo poteva significare solo una cosa e lui ne prendeva atto con divina indifferenza.
E poi la ferocia esplose inaspettata: «Guardami!»
Tentai di ritrarmi a quello scoppio improvviso ma fu più rapido di me: mi afferrò il viso e mi costrinse ad alzarlo, a incontrare quello sguardo che era nero come il Tartaro che mi prometteva. Sentire la morte sulla pelle fu strano, perché dove è morte non è vita e io sono vita, ero vita, gemma e germoglio e fioritura incipiente, e avevo addosso inverno e ghiaccio e aridità. L'impressione assurda di essere-nonessere-essere, conflitto insanabile, dove è vita non è morte eppure c'era, c'era Ade e c'ero io, essere-nonessere-essere, il suo tocco mi negava e nella negazione trovavo identità.
«...sei ancora acerba.» mormorò a un soffio dalle mie labbra, e il suo fiato sapeva di pioggia e foglie marce.
Mi lasciò andare con la stessa rapidità con cui mi aveva afferrata. Non mi diede il tempo di capire: indossò di nuovo la kunée, la notte si richiuse sui miei occhi e io mi ritrovai sola nel tempo di un respiro. Sentivo il viso bruciare di gelo e calore ritrovato e assenza, dove le sue dita erano affondate, e libera dal suo tocco mi chiesi per un attimo chi sono? perché non c'era più nulla a definirmi nella negazione. E sentivo la pelle formicolare, la carne intiepidirsi, fuoco di vita che mi avvisava di quel che era successo.
Attorno a noi erano fioriti gli asfodeli.
La negazione della negazione.

 
*

L'ambrosia mi bagnava le labbra, densa e dolce, profumata tanto da stordirmi. Quando terminai di sorbirla, nella ciotola ne restava ancora la metà.
«Che succede, Kore? Non ti piace?»
Cristallina e ambrata al tempo stesso, rifletteva il mio viso alla luce abbagliante di un sole freddo. Ruotai il polso: il liquido ondeggiò e la mia immagine si distorse, gli occhi che mi fissavano si sciolsero in onde scure. Sollevai lo sguardo su Calligeneia.
«Credi che sia bella?»
L'avevo chiesto anche a mia madre. Naturalmente, mi aveva risposto; naturalmente sei bella, Kore, come le gemme e il primo verde. Aveva parlato del sorriso innocente delle bambine e della freschezza dei fiori mai calpestati.
A volte mi sembrava fosse cieca, mia madre.
«È davvero la mia opinione a interessarti, Kore?» mi ribatté invece la mia nutrice.
Riabbassai lo sguardo. Nell'ambrosia tornata quieta, incontrai di nuovo i miei occhi.
Ero bella? Lo ero stata, certo, bambina paffuta e rosea con gli occhi dolci dei cerbiatti, ma lo ero stata non era una risposta. Il corpo mi si era allungato addosso troppo in fretta e mi ero ritrovata spigolosa, prima, ramo nodoso in cui non mi riconoscevo più; e poi impacciata da curve che avevano addolcito gli angoli e modellato insenature, come l'aratro che solca e ammorbidisce e dissoda. Dovevo essere bella, per molti – mia madre e Calligeneia e altri dèi, troppi dèi, dalla cui attenzione dovevo guardarmi. Per i mortali, anche, perché ero dea e giovane e primavera, e primavera è vita, e vita è un altro respiro strappato all'Averno. Ai loro occhi dovevo essere bella quanto il seme cullato dalla terra, quanto il primo verde e i germogli teneri, spighe che promettono di divenire alte e fiori che promettono di divenire frutti. Amavano me quanto temevano l'inesorabile, i mortali; e nella mia mente riverberavano sempre invocazioni e ringraziamenti e la preghiera di spezzare presto l'autunno.
...era un autunno strano, quello. Troppo lungo e troppo freddo e troppo crudele. Tre volte avevo sanguinato dalla fine dell'estate, eppure ancora le zolle dure si opponevano all'aratro, ancora i rami restavano spogli. Mia madre vagava senza sosta per benedire la terra, ma quel conforto non durava mai: quando abbandonava un luogo, con lei se ne andavano la fertilità e la speranza. Io potevo solo stringermi nell'himation e far sbocciare qualche fiore che appassiva subito.
(non appassivano, gli asfodeli. Nascevano dai miei passi e sfidavano l'autunno con le loro spighe bianche floridissime, o forse era l'autunno stesso a benedirli con il suo favore. Ma preferivo non pensarci)
La morte camminava tra noi, senza deporre la sua ira contro Asclepio, e a pagarne lo scotto era un mondo drenato di vita. Che importava alla morte del seme cullato dalla terra e del primo verde e dei germogli teneri? Le spighe potevano promettere di divenire alte e i fiori di divenire frutti, ma era una promessa che non aveva valore né senso né attrattiva, per una creatura dell'Averno.
Tornai a sorbire l'ambrosia. Non riuscì ad addolcirmi la bocca amara.
Dovevo essere bella, per mia madre e Calligeneia e altri dèi, troppi dèi, e per i mortali affamati di vita; ma non era la loro opinione che importava.


 

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Capitolo 2
*** Inverno (I) ***


Inverno

C'era una nuova costellazione in cielo. L'Ofiuco portava un serpente senza peso, luce che rischiarava quella notte di lutto – anche allora, Asclepio confortava i mortali.
Restai a fissarlo a lungo, con il capo reclinato all'indietro, il collo che doleva.
«Almeno ora Ade si placherà.» commentò una ninfa.
«Vero.» rispose mia madre «La morte tornerà nell'Averno e nel mondo tornerà la vita.»
Mi avvolse la mano tra le sue. Ricambiai la stretta distrattamente, senza abbassare lo sguardo.
Asclepio non era morto. Asclepio sarebbe vissuto per sempre nella gloria e nella luce ed era, quella, la migliore sorte che potesse toccargli. Ade aveva voluto punirlo e invece la decisione del padre Zeus lo aveva strappato all'ombra eterna dell'Averno; placato Ade, perché il medico non avrebbe più esercitato la sua arte, e placato Apollo, perché il figlio era divenuto immortale. Una duplice vittoria e un trionfo per il mondo, che finalmente si liberava del passo pesante di uno spettro bianco.
Eppure.
Eppure.
Eppure i mortali erano in lutto e di Asclepio restavano solo quelle stelle a consolarli. Non le sue mani, mai più le sue mani. Mai più gentilezza e sorrisi e la pazienza di rappezzare cucire risanare le carni che altri avevano offeso. Mai più, mai più, mai più, e davvero Apollo gioiva per la sorte del figlio?
Gioite avrei voluto sibilare alle ninfe troppo allegre, gioite pure pensando che Ade si sia placato, e invece ha preso quel che voleva e l'ha divorato e ci ha lasciato le ossa come se fossero una grande offerta. E ci credete anche. Gioite. Gioite sciocche voi che non l'avete visto in faccia e non sapete che è implacabile
(implacabile eppure ero viva, io che avevo bestemmiato la morte in pena per Asclepio e avevo guardato negli occhi l'Invisibile, implacabile eppure mi aveva lasciata andare, ma io ero l'eccezione a cui preferivo non pensare)
vi prego gioite anche per me perché io questa notte non ci riesco.

Non ci riesco.
Non ci riesco.

Mi risvegliai che non era ancora l'alba. Il cielo aveva un tono spento che non era nero e non era azzurro, schiarito da un lucore soffuso senza provenienza – non la luna crescente di Artemide, non il sole di Apollo. Forse non era neppure lucore, in realtà, ma semplicemente non-buio, oscurità che si assottigliava appena per mostrare i contorni. Era Eos che si avvicinava lentamente, concedendo un altro respiro alle ombre; era la lotta tra Nyx ed Helios, più quieta e più dolce di quella sanguinosa del tramonto, uno scontro che univa e mescolava e che forse era un amplesso. L'Ofiuco impallidiva in quella luce vaga e io lo salutai con un sorriso, augurandogli un riposo sereno. Sperai che non soffrisse troppo per il lutto dei mortali.
...io soffrivo.
Con l'attesa dell'aurora viene l'ora più fredda, ma io mi sentivo immersa nel tepore, così avvolta dall'himation e rannicchiata contro il corpo sempre caldo di mia madre. La scostai piano, mi rialzai per sciogliere i muscoli stando attenta a non urtare le ninfe addormentate. Ero stordita, sfiancata da un sonno irrequieto e da quel mal di testa che viene al risveglio quando la sera si è pianto troppo, con il viso nascosto e i singhiozzi soffocati.
Allungai le braccia verso l'alto. L'aria fredda mi rinfrancava e a ogni respiro ingoiavo lucidità per buttare fuori nausea. Mi sentivo ancora stanca – avevamo cantato e danzato fino a cadere a terra stremate, celebrando l'Ofiuco e il ritorno di Ade all'Averno. Avevano gioito e io avevo finto di riuscirci con loro.
Vedevo le linee dolci dei crinali increspare l'orizzonte, dalla sommità del colle su cui avevamo passato la notte. Iniziai a scendere a piccoli passi, andando incontro a prati e campi e altri prati e altri campi nascosti dalla penombra; e pensai all'esultanza della sera, alla certezza che quella mattina li avremmo ritrovati morbidi e fertili, benedetti dal nostro canto, finalmente liberi dal passo fatale di Ade.
Perché Asclepio era salvo e Ade se n'era andato.
I miei piccoli passi si trasformarono in falcate, via, via, a vedere quei campi pur sapendo già cos'avrei trovato, e poi in corsa perché io non ero mai stata capace di camminare piano, io ero vita irruente e divorante e
e
e
e non la sentivo, la vita, quella mattina.
Correvo e dietro di me non fiorivano primule e crochi e narcisi, dentro di me non sentivo la carne formicolare e scaldarsi mentre le loro radici affondavano nella terra morbida. Correvo passando per prati dall'erba rada e campi di zolle dure, correvo seminando solo fiori di morte.
Mi fermai solo quando non ebbi più fiato, con la gola bruciante e le gambe stanche. Il colle era lontano, mille passi di distanza segnati da asfodeli bianchi; e lontana era Eos, superata dalla mia corsa sfrenata, lontana Emera, trattenuta alle porte dell'Averno da Nyx sua madre – ma non mi serviva la luce per sapere cosa avrei visto, come non mi serviva la luce per percepire la mia mano o i miei capelli. Il gelo che mi divorava aveva il sentore nettissimo di una condanna inflessibile.
(Asclepio era salvo e Ade se n'era andato e oh scusatemi scusatemi scusatemi avrei dovuto dirvi che è implacabile, avreste dovuto dirmelo, e adesso è troppo tardi e)
Ed era impossibile non capire che era lì – per me, almeno, che sentivo nella carne la violenza del contrasto. La sua presenza negava tutto ciò che ero; e mi ritrovai all'improvviso consapevole dei miei confini, di dove iniziava il mondo e finivo io, come se una luce abbagliante fosse giunta a tracciare ombre più nette.
«Invisibile.» chiamai, perché se anche lui non era intenzionato a comparire, io non potevo ignorarlo. Non con la morte tutt'attorno e gli asfodeli che seguivano i miei passi.
Ade si tolse la kunée e me lo trovai al fianco.
«Fanciulla.» mi rispose con quella sua voce monocorde.
Restammo fermi, il suo sguardo su di me, il mio sguardo su campi deserti e asfodeli. Un respiro. Due respiri. Il mio era rapido e affannato, il suo calmo, più profondo, un respiro dei suoi erano due dei miei e questo mi faceva perdere il conto. Uno due cinque dieci non sapevo più quanti, quanti di quei respiri ingoiati stando immobili. Poi sentii le sue dita scostarmi i capelli dietro una spalla – vicino vicinissimo le sue dita a un soffio dalla mia gola ma non mi sfiorò e il gelo si trasformò in calore che era assenza e attesa. Tornò a parlare con tono appena più espressivo, velato di ironia: «E anche oggi correvi. Cammini mai, Fanciulla?»
Io deglutii, e cercai di chiedermi cosa ci trovasse di divertente, ma Ade ancora tratteneva una delle mie ciocche scure, avrebbe potuto sfiorarmi la gola flettendo appena l'indice e ogni pensiero logico naufragava contro lo scoglio delle sue dita. Ricordai com'era stata la sua stretta sul viso, gelo morte vita primavera e assenza improvvisa quando mi aveva lasciata, dovetti deglutire ancora e scuotere piano il capo per non annegare in quel pensiero. Polpastrelli lungo il collo, urtati nel movimento – gelo morte vita primavera, assenza improvvisa quando raddrizzai il capo. Rabbrividii. Non ero comunque sicura se avessi freddo o caldo.
Continuai a fissare i campi infertili e mormorai: «Sapevo che eri ancora qui.»
«Naturalmente.»
«Avevi promesso di andartene, quando Asclepio...»
Quando Asclepio.
Quando Asclepio e basta. Asclepio e fine. Asclepio e mai più.
«Avevo promesso di non andarmene fino a quando Asclepio fosse rimasto. Sul seguito, non ho mai detto nulla.»
Voltai il capo per guardare l'Invisibile. Lui indossava una maschera impassibile; io, la rabbia negli occhi perché potesse esserne investito. Non sembrò turbarlo troppo.
«Impedirai di mietere i raccolti.» sibilai.
«Parli con il sovrano dell'Averno, Fanciulla, non con la dea delle messi.»
«La carestia affamerà gli uomini. La malattia li piegherà. E chi resterà, poi?»
Aveva un'indifferenza spaventosa nello sguardo, mentre rispondeva: «Trovi tanto orribile che i mortali muoiano?»
Faceva male. Male. Male. Male.
Vóltati e capelli che sferzano e un passo due passi e le gambe ancora stanche dalla corsa ma via via via via fa troppo male qui via via via...
Mi agguantò il gomito al terzo passo. Trattenuta, mi lasciai sfuggire un grido acuto, ma un nuovo strattone mi spinse a voltarmi e sotto il suo sguardo la voce mi morì.
Nei suoi occhi bruciava qualcosa che era ira e ferocia e urla rosse.
«Dimmi, Fanciulla, lo trovi tanto orribile?» scandì contro le mie labbra, lentamente, calcando ogni sillaba come se dovesse aiutarmi a comprendere – sarcasmo grondante e sfida a contraddirlo.
Sì avrei voluto gridare, rispondergli con la mia rabbia dolente, ma oh ghiaccio nelle vene e terrore e nei Cronidi scorre sangue violento di Titani. Abbassai lo sguardo.
«Forse» continuò, atono «forse rimpiangi le leggi che ci reggono. I mortali muoiono; te ne dispiaci? Assapora il Caos per un istante, Fanciulla, e non disprezzerai l'ordine del Cosmo.»
«Non lo disprezzo.» mormorai.
«Non lo apprezzi.»
«Posso andare?»
Mi strattonò più vicino.
«Mi biasimi, non è così? Per Asclepio, per la carestia, per ogni lutto che ti sfiorerà da qui all'eternità.»
Aveva la voce indifferente e la stretta furiosa, feroce attorno alle ossa del mio gomito.
«Mi domando se tu sia troppo giovane o semplicemente ottusa, Fanciulla, per non capire che il Cosmo non è retto dai tuoi germogli.»
La kunée cadde a terra. Mi spinse contro di sé, un braccio attorno alla vita, l'altra mano a stringermi la nuca. Annegai in quella stretta tremando di freddo e di timore e di respiro spezzato nel sentirlo solido contro il mio corpo morbido di donna; mi sentii accarezzare da ciocche candide sul viso, con la guancia premuta contro la sua spalla, e da una voce all'improvviso vellutata.
«Non capisci, non è così?» sussurrò al mio orecchio, sfiorandomi il collo con un sospiro «Gioisci della gioia dei mortali, soffri delle loro sofferenze e non capisci. Mi biasimi. Oh, mi biasimi, Fanciulla, come se io avessi scelta
Mi serrò ancora, forte. Non riuscivo a respirare.
«Credi davvero che io possa permettere che i mortali sfuggano alla morte grazie ad un medico, Fanciulla?»
Non riuscivo a respirare. Non... non... spinsi con le mani contro le sue spalle, febbrile, mentre la testa pesava e la vista si oscurava e oh quanto ancora poteva bruciarmi la gola? Mi agitai ma non lo smossi, restai intrappolata in quella morsa di asfissia e gelo.
Chinò il capo su di me, affondò il naso contro i miei capelli.
«Sai di terra, Fanciulla. Sei così viva. Non puoi capire.»
Mi spinse via.
Incespicai all'indietro, annaspai tossendo in cerca di aria – non potevo morire, non potevo soffocare, ma potevo soffrire e agonizzare e implorare un respiro. Ero un cuore impazzito pulsante di terrore e rabbia, rabbia e terrore, reagivo per non annegare in quell'aria di morte che si respirava attorno a lui, oh l'odio per ciò che mi diceva l'odio l'odio l'odio quell'odio mi colmò e straripò e gli asfodeli appassirono uno a uno, risecchirono e ingrigirono mentre io li RIFIUTAVO.
«Posso capire che nulla ti obbliga a portare qui il gelo dell'Averno. Posso capire che questi luoghi non appartengono alla morte.»
Urlavo, furiosa e stridula con quella mia gola bruciante, e nel silenzio dell'alba imminente le mie urla risuonavano, squarciavano i veli di quiete in cui Nyx ci avvolgeva.
E continuai, nonostante negli occhi di Ade rilucessero braci, fiamme del Flegetonte, furia implacabile del dio più implacabile, continuai perché il dolore era troppo, l'odio era troppo, il rifiuto era troppo, lui SI SBAGLIAVA e dovevo urlarlo al mondo.
«Che ne è dell'ordine del Cosmo, Ade? La terra non deve forse dare frutti? I mortali non nascono per vivere? Al sovrano dell'Averno appartiene l'Averno, non il regno dei vivi. Non la terra fertile.»
Ma come io non potevo capire la morte, lui non poteva capire la vita. Spettro di un pallore livido, scosse la testa e un sorriso gli tagliò il viso. Oh la furia nei suoi occhi. Mi rispose, monocorde: «Ti sbagli, Fanciulla. La terra mi appartiene per un terzo.»
«La terra appartiene a mia madre. E a me
«Quella rivoltata dall'aratro, forse; ma, come vedi, non mi è impossibile reclamarla.»
Non era giusto. Chiusi gli occhi per un istante, li strinsi forte per scacciare le lacrime che minacciavano di scorrere. Con un impegno disperato che mi mozzò il respiro tentai di far fiorire qualcosa, qualsiasi cosa, trovai i semi nel terreno e ordinai vezzeggiai implorai ma nulla. Nulla. Neppure gli asfodeli ormai. Avevo freddo e, dentro, l'acuta consapevolezza di essere viva, viva, in quel mare di mortegelonulla io ero così sfacciatamente viva ma quella vita pulsante era condannata a essere inutile, vuota, tentavo di lasciarla fluire attorno a me e quella si spegneva in una sterilità irrevocabile. Lo smarrimento mi mangiava dentro perché no, no, no, no, non era assolutamente giusto.
«E tu parli di ordine del Cosmo. Davvero.» mormorai, annegando all'improvviso nella sconfitta amara. Non potevo vincere contro di lui e quella consapevolezza mi strinse la gola – lottai ancora contro le lacrime, ma non vinsi neppure contro quelle, e le sentii rigarmi le guance senza singhiozzi.
«È predisposto che vi sia una stagione fredda.»
«Mai così fredda. Mai così morta.»
Lo era, in realtà – ma in altri luoghi, lontani, dimenticati, all'estremo margine del dominio di Gea. Luoghi che appartenevano a lei, madre del padre di mia madre, e a nessun altro; luoghi che non erano neppure abitati, troppo inospitali per offrire attrattive ai mortali. Luoghi che non erano la Trinacria, l'Ellade, perché quelle terre devote a mia madre meritavano di non conoscere inverno.
Eppure il gelo mi attanagliava le ossa, tra campi infertili e morte.
«Mai così.» ripetei – sussurro senza forze «Mia madre protegge i mortali.»
L'ira negli occhi di Ade sembrò spegnersi, si placò in una calma che sembrava quasi... quasi tenerezza, quasi condiscendenza. Il taglio sul suo viso divenne uno stiramento di labbra lieve, appena divertito.
«E ne sei convinta, Fanciulla.»
Tese una mano. Io indietreggiai per scostarmi, ma lui fu più rapido e mi strinse il mento – senza violenza, solo con decisione sufficiente a non farmi sfuggire. Tremai sotto il suo tocco gelido mentre distendeva la mano, passava a stringermi il collo, piano, così piano che sembrava una carezza.
«Non...» mormorai, incapace di reagire.
Negava tutto ciò che ero e oh quanto mi faceva sentire viva quella negazione, mi sembrava di bere vita dalle mani della morte. L'Invisibile risalì dal collo al viso, mi sfiorò la guancia con il pollice, seguì le tracce delle lacrime.
«Questo ti farà piangere ancora.»
Fu un mormorio lieve, carezzevole. Mi confondeva con quel suo tono che sembrava sempre indifferente, ma di un'indifferenza da sondare, indagare, per scoprirne la sfumatura – che fosse furia o dolcezza. Sorriso morbido a tendergli le labbra e serietà negli occhi, senza che io potessi capire di cosa fidarmi, in quella ridda di segnali che non combaciavano.
«Vieni, Fanciulla. Voglio mostrarti quanto ti sbagli.»
«Dove?»
«Vieni.»
Indurì la voce. Alle mie orecchie, abituate a canti di ninfe e risa gioiose e al miele nelle parole di mia madre, sembrò il tono imperioso con cui doveva comandare le Erinni; ma una stilla di quella sicurezza gocciolò in me e mi spinse a chiedere ancora: «Dove?»
«A nord del Ponto.»
Spalancai le palpebre. Io che non avevo mai lasciato la Trinacria, io che a malapena potevo muovermi da sola in quelle terre conosciute palmo a palmo, avrei dovuto attraversare due mari e visitare un deserto? Tentai di scostarmi – fallendo.
«Non posso. Non posso, no, non posso, davvero.»
«Vieni.»
«È un deserto disabitato, non m'interessa, non posso, non-»
«Ah, disabitato
«Cosa...»
L'Invisibile mi fissava dall'alto in silenzio, senza accennare a muoversi ma neppure a cedere: mi tratteneva il viso con la mano, e io dovevo guardarlo, così, voleva che lo guardassi, voleva che non gli sfuggissi, mi sentivo addosso il suo respiro di pioggia e foglie marce, e io sapevo sapevo sapevo che avrei dovuto essere furiosa e intimargli di lasciarmi, andarmene vomitando bile per Asclepio e per i campi infertili e per la morte tutt'attorno.
Morte? Quale morte? Quanto avrei voluto solo restarmene lì e nutrirmi del contrasto, della vita che esplodeva in me lottando contro il gelo che mi circondava.
(quale morte? Oh, ma cara, la lista è troppo lunga: Asclepio, gli uomini, i germogli, la primavera
ah la primavera
la primavera
non arriverà più la primavera
rimandata all'infinito e cristallizzata nel ghiaccio e inaridita prosciugata spezzata strangolata uccisa)
Ero io la primavera.

*

 
Forse erano state le mie lacrime a convincerlo; o forse, più probabilmente, il signore dell'Averno si era assentato troppo a lungo dal suo regno. Si era chinato a riprendere la kunée ed era scomparso senza una parola, ma lo avevo sentito indugiare ancora, non visto eppure evidente, come avrei potuto non sapere che era lì? Bruciavo. Poco dopo, con il cielo che finalmente si schiariva in un'alba ritardata troppo a lungo, con Emera che finalmente varcava le porte dell'Averno, se n'era andato.
Il sole scaldava.
Io avevo freddo.


Mia madre sorrideva, mentre addolcivamo la terra camminando tra i campi. Io seguivo i suoi passi, senza correre avanti, ed erano passi lenti, allegri ma grevi, appesantiti da Calligenenia sempre troppo stanca. Non mi ero mai resa conto, prima di allora, di quanto la mia nutrice dovesse affannarsi per non rimanere indietro.
«Sei felice, Kore?» mi chiese mia madre, voltandosi con la luce nello sguardo «La terra sarà morbida e fertile in pochi giorni. Tornerà la primavera.»
Annuii.
«Intrecciami una corona di crochi, domattina. La porterò con me in Beozia.»
Annuii di nuovo, e chiesi con un tono troppo allegro: «Domani sarà una bella giornata per la Beozia. Non trovi, nutrice?»
Calligeneia ansimò un assenso ma dovette fermarsi, come se parlare e camminare le togliesse il fiato. Le offrii il braccio per sostenersi. Non lo rifiutò.
I crochi, pensai, i crochi domattina cresceranno e io li coglierò e ne farò una corona e saranno bellissimi e dorati e pronti ad appassire. I crochi domattina risponderanno al mio richiamo, scuoterò i capelli e ne cadranno semi tra le zolle morbide, riderò e i germogli solleveranno il capo in risposta alla mia gioia.
Il sole scaldava.
Io avevo freddo.


I crochi non crebbero. Tentai e tentai ancora, quando ancora le altre dormivano, versai semi dalle mani e li ricoprii di terra fertile, e poi li chiamai, ordinando, implorando, ma non accadde nulla. Ebbi quasi timore che nascessero asfodeli al loro posto – e invece no, neppure quelli, con una stilettata in petto che era speranza delusa, non sollievo.
La primavera non tornava, perché la primavera era stata rimandata all'infinito e cristallizzata nel ghiaccio e inaridita prosciugata spezzata strangolata uccisa.
Quando mia madre si destò, pronta ad attraversare il mare per benedire la Beozia, finsi di dormire e lei non volle svegliarmi per una corona di fiori. Se ne andò lasciandomi un bacio leggero tra i capelli, attenta a non disturbare il mio sonno.
«Ti ho preparato dell'infuso.» mi disse Calligeneia, quando infine finsi di svegliarmi «Fa ancora un po' freddo, non ti pare? Riscaldati la gola, prima di perdere la voce.»
Io sorrisi per quella premura e non le dissi che nessun infuso avrebbe potuto riscaldarmi, e che non era un freddo da perdere la voce, il mio. Da perdere il senno forse – e mi riecheggiavano le parole dell'Invisibile in testa, senza sosta, vieni vieni vieni a vedere quanto ti sbagli, e pensavo al Ponto, al confine estremo dei passi mortali, terra ancora fertile e poi quel mare troppo a nord e poi, più oltre, un nulla di gelo e desolazione. Ah, disabitato. L'Invisibile se n'era andato dal regno dei vivi e restava nella mia mente, e che significava, quello?
Ero diventata regno di morte.
«Non rattristarti per non aver salutato tua madre, Kore.» Calligeneia mosse una mano, come a scacciare quel pensiero «Fa' crescere comunque quei crochi. Le faranno piacere, al suo ritorno.»
Io le sorrisi di nuovo, senza allegria, e mi alzai per drappeggiare il mio himation su quelle spalle fragili.
«Riguardati, nutrice. Hai ragione: fa ancora un po' freddo.»
Il sole scaldava.
Io avevo freddo.


Nella mia testa esplodevano ringraziamenti, come un fiore che sboccia all'improvviso, colorato e fresco e ferocemente vivo. Nei campi spuntavano i primi germogli, affondati nella terra morbida e fertile, proprio come aveva promesso mia madre; e tra quei germogli i mortali sceglievano quelli più teneri, da tagliare e intrecciare e gettare nei prati, con una preghiera di gioia e di gratitudine – con una domanda inespressa e tuttavia chiarissima nella mia testa. Grazie, risuonava, grazie, e poi timidamente qualcuno osava perché?, e io lasciavo che a rispondere fosse un'altra voce, non mia, non allegra, non gentile, ah, disabitato, voce tagliente di gelo e sarcasmo, i mortali non potevano udirla ma io sì e tremavo dentro per questo. Non passavo a raccogliere le corone e dopo un po' qualcuno lo notò, e allora iniziarono le offerte di miele, di pane dolce, ma non accettai neppure quelle, e i perché? si moltiplicarono, sempre più evidenti e angosciati e sfacciati. Perché non accetti i nostri doni, chiedevano, vuoi forse sacrifici? Mi colmai d'orrore quando avvertii sulla pelle che preparavano una pira modesta, che strappavano il piccolo alla scrofa, e a quello risposi: gridai di fermare il coltello e di non togliere il figlio alla madre – oh, l'ironia. I mortali restarono a guardarmi per un po', incerti di fronte a quella dea con i capelli scarmigliati e il respiro pesante per la corsa; poi abbandonarono il sacrificio e a quel punto non ci fu modo di evitare la domanda. Arrivò dalle labbra di una ragazzina magra e pallida, troppo giovane per frenare la lingua.
«Perché non sbocciano i fiori?»
«Non voglio sacrifici.» risposi senza rispondere. Lasciai scorrere lo sguardo su quella manciata di mortali riunita in cerchio e per un attimo pensai che erano già tutti morti. Inghiottii la bile e mi dissi che no, erano vivi, volti scavati e occhi stanchi e vita che rifiutava la morte. Vita che versava sangue caldo per ingraziarsi gli dèi.
Caddero in ginocchio, guardandomi con una luce folle nello sguardo, come disperata, come implorante. Una donna dovette strattonare la ragazzina per un gomito, per farla inginocchiare.
«Senza fiori non nasceranno frutti. Non avremo erbe. Ti prego.» disse qualcuno – non seppi chi. Non li guardavo più. Non volevo, non potevo. Non ero una dea davanti a cui inginocchiarsi, io, non lo ero mai stata e non volevo diventarlo in quel momento. Mi voltai.
«Ti prego!» esclamò la stessa voce, ma ancora non volli vedere chi fosse e iniziai ad allontanarmi, a passi lenti. Non mi ero mai sentita così pesante.
I mortali avevano bisogno dei frutti, i frutti avevano bisogno dei fiori, i fiori avevano bisogno di me, io avevo bisogno che tutto finisse. Non finiva. Quanto avrei voluto scomparire, confondermi tra le ombre del pioppeto, e invece dovetti camminare con quegli sguardi nella schiena e le loro preghiere nelle orecchie, nella mente, riecheggiavano insieme a una voce non mia non allegra non gentile e stavo impazzendo. Stavo impazzendo. Ero la primavera e la primavera mi rifiutava, e i mortali davano la colpa a me, come se io avessi potuto farci qualcosa, cambiare le cose. Capii l'Invisibile, per un istante, ma prima che potessi seguire quel pensiero una bestemmia sostituì le preghiere – urlo rabbioso nella mia testa, che mi assordò e mi stordì e mi ferì dentro, a fondo, mi squarciò il petto, e forse avrei dovuto infuriarmi e punire il blasfemo ma aveva ragione. I mortali mi maledicevano, assaporando gli inizi della carestia, e potevo davvero biasimarli? Avevo gridato la mia rabbia contro l'Invisibile per la morte che portava, avevo ringhiato dell'ordine del Cosmo, proprio io. L'ironia della situazione mi strappò una risata, un latrato feroce. Scoppiai a piangere.
Il sole scaldava.
Io avevo freddo.

*

 
Trascorsero ancora alcuni giorni, prima che la domanda esplodesse anche sulle labbra di mia madre. Giorni di sole e di germogli e di gioia, di alberi che rinverdivano e di gelo nelle mie ossa, voci nella mia testa. Notti d'insonnia e di terrore che Nyx non se ne andasse, che Emera non varcasse la soglia dell'Averno, che l'Invisibile mi chiamasse a sé. Sapevo che avrei obbedito.
Quando infine la domanda esplose, lo fece con premura materna così delicata che mi sentii soffocare sapendo che non potevo, non potevo, non potevo dirle nulla. Si sarebbe preoccupata, infuriata, angosciata, mi avrebbe rinchiusa in una gabbia. Non avrei mai potuto vagare senza controllo per la Trinacria, se avesse saputo qualcosa – e quanto mi era cara la libertà di correre, raccogliere offerte, assaporare giorni di solitudine malinconica. Le notti, quelle mai: non mi era permesso trascorrerle senza Calligeneia, e per la prima volta mi chiesi da cosa avrebbe potuto proteggermi una vecchia. Mi odiai per quel pensiero.
E quindi la domanda esplose, calda e angosciata, amore di madre e carezza non voluta, e io avrei solo voluto ripiegarmi su me stessa accartocciarmi svanire.
«Non ti senti bene, Kore?»
Io mi schermai dietro la ciotola d'ambrosia. Lei mi strinse un ginocchio e tentò di sorridermi, ma a piegarle le labbra fu solo una smorfia preoccupata, oscena nella sua finta allegria.
«Non vuoi allietare di fiori la crescita del grano, amore mio? Non è primavera senza di te, lo sai, non davvero. Sei preziosa.»
L'ambrosia era terminata, ma non scostai la ciotola dalle labbra, continuai a fingere di nutrirmi pur di non doverle rispondere.
Mia madre, troppo delicata per parlare di fame, non aggiunse quello che già sapevo: senza fiori, gli alberi non avrebbero dato frutti. Invece mi chiese, sollecita: «Sei in collera, Kore? Qualcuno ti ha offesa?»
Ormai doveva essere evidente che nella ciotola non poteva essere rimasto nulla. Lei me la abbassò a forza e sibilò: «Ti hanno offesa?»
Il sottinteso, anche lì, era troppo osceno ed evidente perché mia madre potesse lordarsene le labbra. Spinta dal terrore furioso nei suoi occhi, risposi piano: «Non è successo nulla, madre. Non preoccuparti.»
«Cosa, allora?»
Scossi il capo, lasciai che ciocche scure mi ricadessero davanti al viso per nascondermi. Maledetta voce non mia non allegra non gentile che assordava la mia mente.
«Kore!»
Maledetta, maledetta, non mi lasciava in pace e affondava e affondava e affondava nei punti più morbidi, nell'incertezza, nell'irrequietezza adolescente, ah, disabitato, e allora, mentre mia madre iniziava a elencarmi tagliente i miei doveri di dea, la interruppi: «Qual è il limite dei regni mortali, madre?»
La sua esitazione fu troppo ovvia perché potessi crederle, quando mi rispose: «Il Ponto.»
Maledetta maledetta voce. Chissà quali erano i doveri della dea delle messi, quali i suoi limiti, se quel deserto a nord del Ponto era ah, disabitato. Dubbio maligno che non avrei mai potuto fugare con i miei occhi, perché le mie benedizioni superavano il mare e arrivavano in Attica, in Asia, ma i miei passi si arrestavano sulle coste dell'isola e il Ponto era lontano.
«E il mio limite è la Trinacria.» sibilai, con la voce troppo dura. Non se lo aspettava: le sue soppracciglia si sollevarono di stupore, poi si aggrottarono, scavarono rughe d'irritazione nella sua fronte.
«Domani tornerò in Ellade. Calligeneia, resta con lei.» sibilò «E tu, figlia, richiama la primavera, prima che tuo padre si irriti perché non adempi ai tuoi doveri.»
Restammo entrambe sedute, a fissare davanti a noi. Alzarsi e andarsene con rabbia era un gesto troppo infantile perché una delle due si arrendesse a compierlo. Respirai furia e silenzio finché il sole non calò, poi mia madre andò a coricarsi sull'erba senza una parola e io restai ritta nel buio. Sospirando, Calligeneia mi si avvicinò e si sfilò il mio himation per drappeggiarmelo sulle spalle, ma io la fermai stringendole una mano rugosa.
«No, nutrice, tienilo. Avrai freddo.»
E lo aveva, sempre, alla maniera dei vecchi che non sanno più scaldarsi. Lei tornò ad avvolgerselo addosso, senza lasciarmi la mano, anzi me la strinse con forza e sotto le dita fragili sentii tutta la sua forza. Non c'era luna, ma alla luce delle stelle potei scorgere il suo sguardo fisso su di me, serio e riflessivo, e pensai – pensai ai singhiozzi soffocati nell'himation, alle fughe notturne, alle corse lontano lontano lontano mentre tutte riposavano, ai crochi che non erano sbocciati in una mattina d'autunno non più autunno. Pensai al sonno che l'aveva sempre colta in quei momenti, a quanto poco i vecchi abbiano bisogno di dormire, e seppi che sapeva. Aveva visto e udito e capito, la mia nutrice, e quanta sconfinata fiducia doveva riporre in me per permettermi di allontanarmi di notte? Eppure me lo aveva permesso. Sapeva dell'Invisibile? Immaginava? Qualcosa, in quello sguardo greve, mi disse di sì. Poi Calligeneia allentò la stretta e andò a coricarsi in silenzio.
Era un assenso?
Sopra di noi, l'Ofiuco osservava. Gli chiesi perdono e se per favore, per favore, poteva non odiarmi troppo per quello a cui mi preparavo, perché io gli avevo voluto bene con la sincerità dei bambini e avevo sputato rabbia feroce sul suo carnefice, ma non c'era altro modo, davvero. Chissà se anche le stelle, come gli dèi, potevano udire invocazioni e preghiere.
Mi alzai, infine, stanca di attendere una luna che quella notte non si sarebbe mostrata. Ricordai l'himation che avvolgeva Calligeneia addormentata e seppi che avrei sofferto il freddo; glielo lasciai comunque. Iniziai a camminare, senza meta, pensando solo ad andarmene di lì – dalle menzogne e dal tepore e da mia madre che non sapeva, non capiva. L'oscurità si scostò dal terreno perché non inciampassi e seppi che invece lui sapeva, capiva, e sapendo e capendo attendeva. Tremai, cogliendo l'enormità, la stupidità delle mie intenzioni, ma questo non fermò i miei passi. Chiesi ancora perdono ad Asclepio, e poi alla mia nutrice, voltando il capo per gettare un'ultima occhiata di scuse a Calligeneia addormentata (addormentata?). Mia madre avrebbe incolpato lei, ne ero certa, ma la vecchiaia porta con sé l'inviolabilità, oltre a stanchezza e gelo e insonnia: nessuno l'avrebbe toccata.
«Sta' attenta, Persefone.» sussurrò Calligeneia, che no, non dormiva.
Nel mio nome colsi il suo assenso.

 

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Capitolo 3
*** Inverno (II) ***


Camminai, quella volta, senza che la corsa irrompesse. Avrei dovuto sfruttare il novilunio, quando né sole né luna potevano vedermi, ma sperai che anche quella notte durasse a lungo e che questo bastasse. Camminai e camminai, le gambe instancabili e il petto greve, odiandomi per la mia debolezza, per essere caduta nella trappola, e quei pensieri mi rallentarono il passo. Ma ancora camminai e camminai fino a scorgere le pendici del vulcano, in quella notte scura, e fu solo allora che osai enormità e stupidità.
«Invisibile.» chiamai. Il silenzio non rispose. Lasciai che la vita scorresse da me, allora, primavera infeconda: irrorai la terra morbida e circondai i semi sopiti, li nutrii, ma le profondità del sottosuolo inghiottirono il mio calore avidamente e per i fiori non restò più niente. Offrii all'Averno quella vita mancata, sottratta, negata. Quando chiamai ancora, sotto i piedi avvertii il tremore dello squarcio lontano.
In quel momento capii che avevo scelto. Che avevo riposto.
E non seppi quali fossero le opzioni, né quale fosse la domanda: vi fu solo l'angoscia nettissima dell'aver mosso l'ultimo passo, come il suono implacabile del catenaccio alla porta.
Da lì, potevo solo andare avanti.
Da lì, io ero Persefone.


L'Invisibile giunse e frenò i cavalli a un soffio da me, ma non tremai, quella seconda volta. Li guardai sentendomi piccolissima e adulta; alzai lo sguardo oltre i loro corpi frementi e trovai la kunée sul bordo del carro, e lì m'incagliai, senza osare altro, come chiedendomi lo sto facendo davvero? Davvero. La mano pallidissima che tratteneva l'elmo si mosse e io obbedii a quel gesto, camminai attorno al carro. Dietro trovai l'Invisibile già a terra, che mi scrutava e sorrideva di quel suo sorriso oscenamente feroce.
«Fanciulla. Ti-»
«Taci.» lo zittii «Andiamo e basta.»
Lui ringhiò una risata mentre mi stringeva a sé, forte, affondando con le dita nei miei fianchi. Mi sfiorò la tempia con le labbra, avvertii il suo sorriso sulla pelle prima che mormorasse: «Sei tu, Fanciulla, ma non esagerare.»
Dietro la minaccia, nel suo tono indifferente da sondare, trovai divertimento e condiscendenza per la ragazzina che ero, per le zanne da latte che snudavo nel tentativo di suonare imperiosa. Dovette piacergli molto, quel tentativo.
Mi sollevò per la vita, ignorando il mio sussulto di sorpresa: mi aggrappai alle sue spalle per non sbilanciarmi, gliele avvolsi avvinghiandomi a lui e scoprii che, sotto le creste d'ossa della magrezza eccessiva, l'Invisibile era solido quanto le querce centenarie. Indugiò un istante più del necessario, stringendomi tra le braccia, prima di posarmi sul carro. Sotto il mio sguardo oltraggiato lui inarcò le sopracciglia, come per proteste del tutto irragionevoli di fronte a un atto pienamente accettabile.
«Incivile.» borbottai.
L'Invisibile salì e mi strinse al suo fianco, affondò le labbra tra i miei capelli.
«Non esagerare.» ripeté, ma aveva il riso nella voce.
Lasciatami, riprese le redini. Non parlò più e nel silenzio, nel novilunio, al suo fianco e sotto i suoi occhi, fui Persefone.


Dovetti aggrapparmi al bordo del carro, non per gli scossoni o l'instabilità, ma perché nel vento che mi sferzava il viso capii che era vero, stava succedendo, io avevo deciso che succedesse. Quasi mi cedettero le gambe. Io che non avevo mai lasciato la Trinacria, io Kore ingenua e impressionabile, io? Io avevo deciso tutto quello?
Oltrepassammo campi silenziosi facendo appassire il grano, c'insinuammo tra le colline come volendoci annidare tra le ombre, ma non ci fermammo mai, mai, vento e freddo e silenzio e occhi lacrimanti, e asfodeli dietro di noi, fiori pallidi cresciuti al buio, mi riempii i polmoni dell'aria gelida della notte e risi fino a non avere più fiato, ero libera, libera, libera, mi terrorizzava e mi esaltava, e asfodeli dietro di noi, crescevano, sbocciavano, primavera livida e inquietante ma fertile, madre che partoriva deformità e gioiva nel sentirsi feconda. Erano tantissimi, un fiume candido, così tanti che l'Invisibile socchiuse gli occhi e strinse le labbra, mi sentii combattuta e schiacciata e quando tutto finì degli asfodeli c'erano solo resti secchi, dispersi dal vento. Spalcai le palpebre, sconvolta, e lui si scusò sfiorandomi i capelli con le labbra.
«Discrezione. La conosci?» commentò con un tono vagamente contrito – il che, immaginai, per il signore dell'Averno doveva equivalere al dirsi desolato.
Io risi ancora, senza riuscire a frenare quell'esplosione vitale del fiore dei morti. Scorsi il mare, lontano: luccichio tremolante sotto la luce delle stelle. In una manciata di respiri non fu più lontano ma davanti, l'Invisibile mi mormorò qualcosa che ero troppo entusiasta per ascoltare, e poi il mare fu sotto, e io gridai aggrappandomi al suo braccio mentre attraversavamo l'aria, respirai sale e terrore e oh quell'esaltazione che non avrei mai potuto dimenticare, era vita vita vita e sapevo che presto ci sarebbe stata morte, ci sarebbe stato ghiaccio, ma in quel momento volli solo trasformare il mio grido in una risata senza fine.
«No, non conosci la discrezione, pare.» sospirò l'Invisibile. Si divincolò dalla mia stretta, mi porse la kunée da tenere ferma sul bordo e con il braccio ora libero mi cinse la vita, per assicurarsi che non scivolassi. Mi lasciai stringere al suo fianco, posandogli il capo contro la spalla, sicura che no, non avrebbe lasciato che accadesse.
Respirai a fondo l'aria straniera, di cielo e di mare, e mi sembrò che avesse un odore diverso da quello della Trinacria. Non ero più lì, realizzai, non ero più a casa, quelle acque che erano state confini invalicabili s'increspavano sotto di me come in saluto. Soffocai l'ennesima risata contro la spalla dell'Invisibile, vi soffocai anche lo smarrimento e il timore. Solo avanti, mi ripetei. Salimmo ancora, l'aria si fece più fredda; se prima avevo rimpianto l'himation, ora lo agognavo reprimendo i brividi, stringendo i denti perché non sbattessero. L'altezza, la velocità folle, il corpo freddo dell'Invisibile congiuravano per congelare la mia ilarità – non mi dichiarai sconfitta.
Mi sporsi appena per vedere il mare, trattenuta dalla stretta all'improvviso più decisa, come ammonitrice. Mi stupii – velocità folle, dovetti ripetermi – nello scorgere la costa che si avvicinava, in basso, così in basso da darmi il capogiro, e capii perché mi avesse stretta più forte. Era Esperia? L'Ellade? Non ne avevo idea. Credevo ci saremmo abbassati, invece i cavalli continuarono la loro corsa nell'aria, sempre più fredda, sempre più sferzante. Mi irrigidii per non rabbrividire, ma la schiena si scosse comunque e l'Invisibile, senza una parola, mi lasciò per slacciarsi la clamide. Tentai di rifiutarla, stringendogli la mano come avevo fatto con Calligeneia – non era Calligeneia, scoprii. Mi posò a forza il mantello corto sulle spalle, zittendo con uno sguardo implacabile il mio mormorio di protesta falsissima; me lo allacciai alla gola con il capo voltato per nascondere il sorriso, poi avvolgendomi nella stoffa mi sporsi di nuovo, solo perché mi stringesse.
Sotto di noi non più acqua ma terra, prima morbidamente ondulata, poi irta di cime aguzze; e poi non più terra ma nubi, sagome vaghe rilucenti nell'oscurità, e poi di nuovo cime e poi colline e poi campi coltivati, grumi scuri che dovevano essere villaggi, e i marmi e le fiaccole di una città sconosciuta, gemme di fuoco nel buio, e, e, e, quando Eos infine squarciò il cielo io avevo le gambe deboli e il collo indolenzito e ne volevo ancora, ancora, vi prego ancora, ma non avevo più riso né parlato perché lo sentivo – lo sentivo, il gelo che si avvicinava, dita ossute protese a ghermirmi. Di nuovo cime, sotto di noi, candore contaminato dai riflessi rosati dell'aurora. Lo trovai bellissimo e orribile. Ma il gelo, il gelo, quel gelo mi chiudeva la gola e mi artigliava il petto, e io tentai di ritrarre il busto in risposta, ma l'Invisibile mi tenne ferma, contro di lui, davanti al gelo, violenza di dita che stringono, volli chiedergli di fermarsi, ordinargli di tornare indietro, urlargli che avevo cambiato idea e per favore basta non volevo non volevo non volevo ma lessi nei suoi occhi che già lo sapeva e che non sarebbe cambiato nulla. Solo avanti, Persefone. Verso il Ponto e l'inverno.


Fu lacerante. Mi spezzò il respiro e mi piegò le ginocchia, e non fu perché ormai il sole era alle nostre spalle, mezza notte e mezzo giorno in piedi a intirizzirmi, no più di mezza notte, non c'era stata la luna in cielo a scandire i ritmi del buio, ore e ore e ore e occhi lacrimanti e labbra secche e gambe che cedevano, dea sì ma anche il corpo immortale ha dei limiti; non fu per il lungo viaggio, per la stanchezza e la fame e la sete, per la certezza che ormai Demetra doveva essere folle di angoscia, e neanche per la vista della terra lontanissima, giù, che se fossi caduta mi sarei spezzata ogni osso e avrei trascorso l'eternità come un ammasso di carne maciullata. Fu perché nel vedere le coste meridionali del Ponto allontanarsi, nell'abbandonare quell'ultimo baluardo di fertilità, lo strappo giunse così secco da lacerarmi dentro strappandomi un urlo.
Non c'erano benedizioni.
Non c'erano preghiere e offerte e ringraziamenti.
Un nulla gelido mi avvolse, mi scavò dentro cercando la vita, per rubarmela, succhiarmela, perché oltre quelle coste – confine nettissimo – di vita c'era un disperato bisogno e un'ineluttabile assenza.
E io non volevo. Non volevo, non volevo, non volevo. Mi avrebbe inghiottita. Non volevo. Non volevo. E lo sentivo avvicinarsi, invece, no, ero io che mi avvicinavo, era il braccio di Ade che non frenava i cavalli, quanto dovevano essere esausti?, era la conseguenza inevitabile della mia scelta. Lo odiai, mi odiai, con una ferocia che non sapevo di possedere. E peggiorava, quel gelo: mordeva e scavava e annichiliva, brutalità di belva, affondava sempre di più e noi continuavamo ad andargli incontro, e il sole alto del meriggio non serviva a riscaldarmi, e l'aria fredda mi apriva i polmoni come lame, e il Ponto sotto di noi che scorreva scurissimo sussurrando non puoi più tornare indietro. Terrore. Gelo. Inevitabile, implacabile, già lo sapevo ma odiai Ade comunque. Non volevo. Non volevo. Gli affondai le unghie nel braccio. Non volevo e lui lo sapeva e mi ignorava, perché era troppo tardi ormai, troppo tardi, solo avanti, il sole non scaldava più e io non avevo mai avuto così freddo.


Presto scomparve anche il Ponto. Calammo insieme al sole, superato il meriggio e il mare scuro; sopra di noi non più azzurro cupo di notte vicina ma bianco, nubi compatte e densissime, come roccia a tagliare fuori il cielo. Filtrava luce opaca, che spegneva i colori di un mondo già spento – quasi non riconobbi la nuda terra, grigia, sabbiosa, non aveva nulla del bruno caldo dei miei capelli, pagai con un lamento l'addio alla fertilità mite delle coste e mi trovai nell'aria tagliente di gelo, sospesa tra grigio sterile e bianco, la desolazione mi voleva, mi chiamava, quando avevo smesso di aggrapparmi ad Ade? Non riuscivo più a toccarlo, era insostenibile, intollerabile, soffocavo. Chiusi gli occhi. Quando li riaprii, mille anni dopo, il grigio sterile aveva lasciato posto al bianco e dalle nubi piovevano trafitture di luce, schizzi di sangue al tramonto.
Il vento che mi sferzava cambiò inclinazione e ci abbassammo ancora, dolcemente, finché gli zoccoli non affondarono nel suolo cedevole. Il carro ricadde con più pesantezza, sussultai assecondando la scossa, rallentammo piano per non contrastare il movimento. Ci fermammo in mezzo al candore e al nulla che chiamava.
Impiegai un po' solo per allentare la stretta al bordo di legno, con le dita rigide e le unghie scheggiate, icore a grumi e striature scure. Non era mai stato pallido, il mio icore, né dorato né trasparente, ma rosso di vita morsa a fondo. Mi piaceva. Portai le dita alla bocca per suggere quel sangue immortale e velenoso, dolciastro. Sì, mi piaceva. Violenza caldissima contro il candore gelido. Inghiottii un grumo dall'unghia del pollice.
«Vieni.»
La voce di Ade mi strappò un sussulto, era l'Invisibile cercai di ricordare, ma quel pensiero non aveva senso, naufragò, la comprensione mi sfuggiva tra dita sanguinanti, vieni ripeté, mi sfiorò il gomito e io scattai di lato come un coniglio che sfugge alla tagliola, l'Invisibile, non aveva senso, silenzio troppo a lungo perché la sua voce potesse suonarmi familiare, restai a fissarlo a occhi sgranati mentre Ade ricambiava il mio sguardo e ritirava la mano. Si allontanò, scese, fu come tornare a respirare. L'aria gelida mi affondava nei polmoni come lame, apriva faglie e orridi. Perdita dolente inesplicabile, comprensione naufragata, l'assenza affondava più del freddo.
«Fanciulla.»
L'assenza mi spinse a rispondere al richiamo, mosse pochi passi al posto mio, gambe stanchissime rigide tremanti che incespicavano verso la sua voce. Ade non tendeva più la mano, e mi dissi distrattamente che ci voleva coraggio a tendere una mano e rischiare un rifiuto, lui questo coraggio non l'aveva, o forse non aveva la volontà di accettare un rifiuto ma neanche l'impazienza di forzare un assenso, e allora quella mano non la tese e lasciò che al bordo del carro ci arrivassi da sola. Ci volle un po', poi, più di quanto c'era voluto perché staccassi le dita, molto più di un po' in effetti, prima che io scendessi sul terreno, sulla neve, restai a fissarla per quel molto più di un po' e Ade non osò neppure affrettarmi a parole. Molto più di un po' restammo lì, lui a terra e io sul carro, il dislivello portava gli occhi alla stessa altezza e lui mi guardava ma io guardavo in basso, neve, bianco, terra pronta a drenarmi di vita pur di nutrire un solo fiore, ma poi pensai che per un fiore ne valeva la pena e saltai giù.
Incespicai e tremai sulle mie gambe rigidissime, neppure allora Ade tentò ancora di toccarmi, se lo avesse fatto sarei morta, lì, in quell'istante, lo sapevo, lo sentivo, non sfiorarmi perché di vita da offrire non ne ho più, sotto i miei piedi nudi la neve era gelida e umida, la terra ghiacciata e implorante, ti prego ti prego ti prego ti prego tipregotipregotipregotipregotipregoaiutami mormorava sommessa nella mia testa, risaliva dalla pelle alla mente, non urlava, no, ma quel bisbiglio era incessante e speranzoso ed esausto e io credevo che avrebbe preteso, invece no, chiedeva, pregava, io non ero mai stata brava a dire di no, e quella terra ghiacciata aveva la fiducia assoluta che un no non glielo avrei detto mai. Non c'era bisogno di forzare un assenso perché sarebbe arrivato comunque, forse più lento, è vero, ma la rapidità è ben poca cosa, quando si ha davanti l'eternità; e lo sapeva la terra, lo sapeva lui, per la prima volta lo seppi anche io, che sì quell'assenso sarebbe arrivato. Sì, sì, sì. La vita fluì da me come se volesse lasciarmi vuota, affondò sotto la neve a cercare i semi e li riscaldò, li cullò in un abbraccio che era la promessa del futuro, sì, sì, e quelli allora non germogliarono ma dissero va bene, aspetteremo, si scioglierà la neve. Sì, sì, sì.
Quando alzai lo sguardo, Ade era tornato l'Invisibile.
Allungò le braccia ad afferrarmi mentre mi accasciavo, troppo esausta per reggermi ancora in piedi, mi diede della sciocca perché che bisogno c'era di stancarmi così?, sì, sì, sì, non glielo dissi ma lo sapeva, doveva saperlo, mi aveva portata lì per quello, mi fece sedere sul bordo del carro ma io mormorai no, voglio stare sulla neve, fammi stare sulla neve, glielo ripetei finché quelle parole non persero di senso, l'idea di separarmene era intollerabile, l'idea di restarci era spaventosa e angosciante e stanchezza pura ma l'idea di separarmene era peggio, voglio stare sulla neve, fammi stare sulla neve, mi trovai distesa tra bianco e freddo e umido e lui mi guardava dall'alto seduto accanto a me ed era bianchissimo contro un cielo bianco di nubi e allora sorrisi. Mi addormentai così.

 
*

Mi risvegliai che non era ancora l'alba. Il cielo aveva un tono spento che non era nero e non era azzurro, schiarito da un lucore soffuso senza provenienza – succedeva di nuovo, ancora, ma quella seconda volta la notte non era trascorsa con saluti gioiosi ad Asclepio e angoscia inghiottita a forza. Era stato un millennio prima, mi pesava nelle ossa, l'angoscia era rimasta uguale, la gioia era diventata feroce. Fiumi di asfodeli. Gelo divorante.
E la terra indurita dal ghiaccio che ringraziava, e sperava, e attendeva sapendo che la vita resisteva. Che la primavera c'era ancora.
Non avrebbe dovuto, eppure mi sembrò un risveglio infinitamente migliore del primo, quello.
Mi misi a sedere, avvolgendomi le ginocchia con le braccia. Avevo un fianco intirizzito e l'altro ghiacciato, infradiciato dalla neve che si era sciolta sotto il mio calore. Ponderai per un istante la contraddizione di forzarmi un mantello sulle spalle e poi lasciarmi una notte sulla neve, e mi venne da ridere – suono arrochito ed esausto.
«Fanciulla.»
«Invisibile.»
Lo fissai dal basso nella luce che filtrava dalle nubi, spenta, grigia, eppure riflessa mille volte nei bagliori di neve fino a diventare abbacinante. Era vestito di bianco, notai, bianco bianco bianco occhi neri e solchi violacei e bianco. Bianco. Accecante. Mi alzai con le gambe rigidissime e mormorai che ero ancora stanca.
«Ti avrebbe trovata subito, se avessi toccato terra prima del Ponto.»
Era un modo poco contrito di scusarsi per il viaggio interminabile, ma lo accettai comunque con un cenno del capo. Sperai si fosse scusato anche con i cavalli, almeno – mi voltai a cercarli ma vidi solo i paramenti, orme sulla neve, li aveva lasciati liberi certo che sarebbero tornati. Non erano ancora stanchi di muoversi, loro. Io avevo i muscoli contratti e le labbra secche, le viscere torte dalla fame, mi sentivo pronta ad accasciarmi.
Doveva essere abbastanza evidente, perché l'Invisibile mi strinse un gomito. Attraverso la stoffa fradicia della clamide, le sue dita in confronto sembravano quasi calde.
«Non puoi restare vestita così.»
La contraddizione, di nuovo, mi strappò una risata sommessa. Per la notte era andato più che bene. Scossi le spalle e il movimento tirò la stoffa leggera del chitone, aderente alla pelle bagnata, affondando nelle ossa una stilettata di ghiaccio furibonda. Il collo bruciava, da quanto la massa aggrovigliata dei capelli lo raggelava.
«Va bene così.»
«Hai le labbra blu.»
«Va bene così.» ripetei. Di più, mi slacciai la clamide per porgergliela – la rifiutò, ovviamente. Ritentai: «Va bene così, davvero. Non ho freddo.»
«Non mentire.»
Rimase con le braccia nude mentre io tornavo ad avvolgermi in quel rifugio gelido, con una gioia sciocca e insensata, il compiacimento di sentirmi importante. Bagnato, il rosso diventava quasi nero, e mi piacque come spiccava contro l'azzurro scurito della mia veste – era il segno nettissimo della presenza.
«Andiamo.» mormorai, perché c'era poco tempo. Demetra mi cercava, lo sentivo tra i sussurri di supplica nella mia mente, Kore, Kore, Kore dove sei? Rispondi ti prego Kore Kore Kore ti prego. La neve mi avrebbe nascosta dalla terra fertile e le nubi mi avrebbero schermata dal cielo, ma per quanto? Rimpiansi di aver perso una notte a riposare, per riposare avrei avuto l'eternità, per quello avrei avuto un'occasione.
Sullo sfondo del cielo coperto, dell'aria tagliente che si stendeva piatta in quel deserto infinito, volute grigie di fumo si stagliavano nettissime, consolazione tiepida nell'ora di ghiaccio prima dell'alba.

«Andiamo.» mi fece eco l'Invisibile.

 
*

La fame aveva gli occhi di una madre con le guance scavate e il seno vuoto. Lo sentii piangere a lungo, il bambino, disperato ed esausto. Non avevo idea che in polmoni tanto piccoli potesse passare tanta aria.
Alla fame non importava niente della promessa del futuro, perché la fame era ora, adesso, subito. Vidi i crampi che mi torcevano le viscere riflettersi e amplificarsi mille volte in quell'indifferenza. I porri e le rape che scavavano nicchie di vita nel suolo ghiacciato, quelli sì, avrebbero ricevuto attenzione – ma l'inverno non era generoso di frutti.
Me ne andai che il bambino piangeva ancora, stretto al seno vuoto di sua madre. Spalancai la porta senza garbo, come un colpo di vento, ma uscendo me la riaccostai alle spalle dolcemente, perché quella donna non dovesse alzarsi a richiuderla. Forse non l'avrebbe neanche fatto. Non c'era disperazione, negli occhi della fame, solo rassegnazione vuota, accettazione sconfitta di quel che doveva succedere. Non pensava neanche più a pregare.
Lasciai orme a cui nessuno avrebbe fatto caso, trascinai i miei passi lontano, non vista, tremavo troppo scoperta e affondavo i piedi nudi nella neve, chissà se anche a vedermi non sarebbe stato uguale, avevano tutti occhi troppo vuoti. Sembrava che l'inedia avesse divorato qualcosa più profondo della carne.
Lo trovai in piedi nella neve, e in quel candore accecante nessuno lo avrebbe notato prima di essere a pochi passi di distanza. Lui, sì, si accorse delle orme nella neve e mi sorrise. Era un sorriso strano.
Mi sfilai la kunée, la lasciai cadere ai suoi piedi senza grazia.
Lui sorrideva.
Io avevo voglia di urlare.
«Perché.» chiesi invece, con un tono che non era domanda ma sibilo rabbioso. Mi stupii di sentire la mia voce così ferma.
«Sai perché.» e sorrideva, sorrideva, quanto avrei voluto sfregiargli quel sorriso assurdamente gentile «Ridondante.»
«Perché.»
«È predisposto.»
«No.»
Quello non mi valse neppure una risposta, solo sopracciglia inarcate, a evidenziare l'ovvio.
Sibilai: «In Trinacria, no.»
«Siamo oltre la Trinacria.»
«Fino al Ponto, no.»
«Siamo oltre il Ponto.»
«Perché.»
Sospirò, ma non abbandonò il sorriso. La sua voce suonava carezzevole quando infine mi rispose: «Perché l'inverno esiste, e se anche la dea delle messi sceglierà di risparmiarlo a qualche isola, continuerà ad esistere.»
«Posso risparmiarlo anche-»
«Non puoi.»
«Posso
Addolcì il tono: «È predisposto. È Demetra, la barriera contro il gelo, e anche quella barriera ha dei limiti. Fino al Ponto e non oltre.»
«E io? Non sono forse barriera contro il gelo?» sibilai. Mi mozzai il respiro pur di scavare sotto la neve, ammorbidire il terreno, risvegliare i semi. Il futuro, mi risposero loro, il futuro, arriverà il futuro.
...nessuna barriera contro il gelo. Solo la vita che ritorna.
Ma io volevo che la vita non se ne andasse mai.
«Doveva essere disabitato.» mormorai, e nei suoi occhi lessi la pena e qualcos'altro di più oscuro che non volli indagare «Doveva... me lo aveva detto. Ripetuto. I mortali si fermano al Ponto. I mortali non conoscono inverno. Me lo aveva detto.»
«Chi si compiace di lodi e ringraziamenti, Fanciulla, preferisce dimenticare le delusioni di cui è causa.»
Demetra, non potendo proteggere tutti i mortali dall'inverno, negava l'esistenza di quelli che lasciava esposti al gelo. Era un pensiero così assurdo che latrai una risata.
«Non è giusto
«Continuo a preferirlo al Caos.» ribatté, brusco all'improvviso, distruggendo il sorriso in un assottigliarsi di labbra.
Mi ritrassi.
In quel momento, sotto gli occhi nerissimi e taglienti e ancora assurdamente in pena dell'Invisibile, decisi che se inverno doveva essere, sarebbe stato un inverno generoso.
Cercai quel che c'era di buono per nutrirlo e custodirlo, perché questo facevo io, portavo alla luce la vita nascosta, mai come allora mi fu chiaro perché la primavera arrivasse dopo il gelo, non c'era altro modo, davvero, e combattere non avrebbe cambiato nulla. Ero nata per servire l'ordine del Cosmo, non il contrario, ma quel che non potevo piegare potevo assecondarlo e sfruttarlo e anche l'inverno ha i suoi frutti, basta saperli cercare. Nicchie di vita scavate nel suolo ghiacciato, porri e rape e anche l'inverno ha i suoi frutti, sì, e sarebbe stato generoso, lo decisi e l'inverno obbedì docile senza che neppure dovessi ordinarlo, come se non avesse aspettato altro, non ero barriera contro il gelo ma la mano che nonostante il gelo scava e libera i germogli dalla neve, ero vita che torna senza essersene andata.
Non abbassai lo sguardo un istante, come a sfidare l'Invisibile.
Lui tornò a sorridere di un sorriso diverso, non compassionevole, non gentile, ma di una malinconia dolente che mi fece male al cuore. Si chinò su di me, mi sfiorò i capelli con le labbra mentre sussurrava: «Sapevo che dovevi essere tu. Non poteva essere nessun altro.»
E poi, senza vederli, sentii che dalla neve si levavano corolle bianche, non asfodeli, non fiori di morte, ma promessa. Tornerà la primavera, torneranno i giorni lunghi. Si scioglierà la neve. Tornerà la primavera, giuro, giuro, tornerà, tornerò, l'inverno è nell'ordine del Cosmo ma così lo sono anch'io, tornerò, tornerò, sono già qui. Non disperate, tornerà la vita. Sentii la carne scaldarsi e non m'importò più del ghiaccio, delle vesti troppo leggere, perché d'inverno, scoprii, nascono i bucaneve.

 
*

Non avevo mai fatto un bagno caldo, da che ricordassi. Avrei dovuto fermarmi al chiuso, presso un tempio o una reggia, e attendere che qualcuno mettesse l'acqua sul fuoco, riempisse la vasca, mi ungesse di olii, e sicuramente avrebbero voluto districare il groviglio dei capelli e acconciarli, prepararmi al banchetto, farmi restare, ringraziarmi con sfarzo, e io avrei dovuto ringraziare a mia volta, e no, davvero, troppo, meglio acqua fredda di torrente e solitudine.
Immersa in una vasca di acqua bollente, dopo aver convinto le ancelle che per un istante potevano andarsene, decisi che la solitudine era meglio godersela al caldo. Lavai via la fatica e l'indolenzimento con un sospiro soddisfatto. Le contratture si rilassavano, il riposo ristorava, e avevo ancora le labbra sporche di briciole dalla focaccia inghiottita voracemente. Tra le mie gambe scorreva il segno dell'infecondità, disfava la culla preparata nel ventre, ma il calore scioglieva i crampi e le tensioni. Sì, molto, molto meglio.
Socchiusi gli occhi. Le due ancelle rientrarono, portando olii profumati e teli di lino, solerti disturbatrici della mia quiete. Eravamo a Eleusi, che potevo aspettarmi? Che mi riservassero meno di tutti gli onori? Nessuno voleva contraria mia madre ulteriormente. Avevano il volto tirato ma furono le preghiere a convincermi, sussurri discreti nella mia testa, non era me che i mortali dovevano placare ma qualcuno ancora mi si rivolgeva, fa' passare il freddo imploravano, fa' che finisca presto, fa' che tua madre deponga la sua ira, intercedi, convincila. Le ancelle chiedevano solo di poter compiacere una dea furiosa; ebbi la tentazione di avvertirle che sarebbe stato inutile, ma poi pensai che in fondo era anche quella una speranza e allora permisi docile che mi strofinassero la pelle con i sali, che mi sciogliessero i nodi tra i capelli. In un'altra occasione avrei scalpitato per muovermi; in quella, restai abbandonata nell'acqua bollente a godere dei miei privilegi. Avevo quasi dimenticato l'esistenza del calore. Sussultai quando mi toccarono il fianco, dove spiccavano segni violacei come dita impresse sulla pelle, ma ancora non protestai e nel mio silenzio morirono anche le loro scuse.
Mia madre era furiosa, di una furia che non le avevo mai visto negli occhi. Terrore cieco e istinto. Lo sentivo anche lì, tra vapore e tocchi gentili, nell'unico rifugio che forse era stato risparmiato appena più degli altri – lo sentivo, il soffio di ghiaccio della sua furia. Un inverno nato non dall'ordine ma dalla volontà di punire, ferire, annichilire: la barriera contro il gelo era crollata e ci schiacciava tra le macerie. La dea delle messi ritirava il proprio favore e quella era una perdita ben più dolorosa di qualche fiore non sbocciato.
Buffo che nelle liti divine a pagare fossero sempre i mortali.
Come poi Demetra sperasse di contrariare il signore dell'Averno con uno sterminio, quello mi era ancora oscuro.
«Devi... dovresti uscire, signora.» mormorò l'ancella più giovane.
Nessuno mi aveva mai chiamata signora. Ero stata lontana due giorni ed era cambiato tutto.
«Di già?»
«Non avremo più tempo di asciugarti i capelli, signora.»
Mi avvolsero nel telo tiepido prima ancora che potessi rabbrividire, fuori dall'acqua bollente. Restai seduta su uno sgabello mentre ancelle estranee asciugavano, ungevano, pettinavano una signora sconosciuta, e alla fine mi ritrovai con la pelle che sapeva di miele e nessuna idea di come fossi arrivata a quel punto.
Un refolo d'aria, porta socchiusa e riaccostata in fretta per non disperdere calore. Un'altra ancella, pensai fissandomi le unghie pulitissime, altri occhi a controllarmi, come se potessero impedire quello che era già successo. Alzai lo sguardo solo quando udii la voce familiare di Ciane: «I tuoi vestiti.»
«Credevo fossi in Trinacria.» mormorai.
«Lo stesso credevo di te.»
Mia madre intendeva andare a fondo, quindi. Non mi piacque.
Lasciai che mi vestissero con il chitone dell'Attica, più lungo di quello a cui ero abituata. Mi strinsero il seno in una fascia, ma direttamente sulla pelle, in modo che non si notasse; sopra il chitone, a vista, annodarono solo una cinta sottile che evidenziava la modestia, non le forme. Fissarono la stoffa bianca con delle fibbie per coprirmi le braccia il più possibile, mi avvolsero le spalle in uno scialle di lana, già preparavano l'himation per proteggermi dal gelo dell'esterno. Chissà cosa avrebbero pensato, sapendo che avevo sfidato una spanna di neve armata solo di un chitone al ginocchio e una clamide fradicia.
«Possiamo andare.» annunciai.
Ciane annuì a labbra strette. Non seppi interpretarlo. Le ancelle invece protestarono debolmente, perché avevo ancora i capelli bagnati, avrei preso freddo, rischiavo febbre e tosse e...
Scacciai la loro premura con un cenno della mano e con la rassicurazione che nessuno, in quel caso, le avrebbe ritenute responsabili – parole magiche che sedarono ogni protesta. Dovetti aspettare ancora un po' che mi intrecciassero i capelli e me li coprissero con lo scialle, gettandomi le falde attorno alla gola, ansiose che almeno mi riparassi dal vento. Mi fecero quasi pena.
Mi accompagnarono fuori, ovviamente, ma mia madre doveva aver dato ordine che nessuno ci disturbasse, perché incrociammo solo capi chini e schiene voltate che si allontanavano in fretta. Ciane sembrava persino più a disagio di me, e chiese se per favore anche le due ancelle potevano lasciarci, perché quella deferenza era esagerata e imbarazzante. Eravamo a Eleusi, dominio di mia madre, rifugio sicuro, che poteva accaderci? Le ancelle si rifiutarono. Chissà che altri ordini aveva dato, mia madre, oltre a quello di non disturbarci.
Fuori l'aria pungeva la pelle come spilli, sotto un cielo biancastro che vomitava fiocchi grevi d'acqua. Mossi qualche passo lungo i gradini, sentii il ghiaccio scricchiolare sotto le suole dei sandali e la neve fresca fare attrito, impedendomi di scivolare. Mi scossi di dosso lo scialle per sentire i fiocchi sulla pelle, baci gelidi tra i capelli, morsi di freddo e di rabbia; mia madre doveva essere ancora all'interno, a colloquio con il sacerdote, ma era come averla lì – e questa volta non erano più crochi d'oro come in autunno. Udii appena che le ancelle protestavano ancora, non avevo addosso l'himation e non mi stavo riparando i capelli e...
«Portateci dell'altra focaccia, e qualcosa di caldo da bere.» le interruppi. Poi, voltando il capo verso Ciane, notai che tremava e aggiunsi: «E un himation per la ninfa. Grazie.»
Mi piacque e mi spaventò come mi obbedirono, a capo chino e passi veloci. Sì, era cambiato tutto.
Ciane mi sorrise senza molta convinzione e si sedette sui gradini, e all'improvviso mi sembrò così stanca, così fragile, aveva occhi spenti e pelle smunta, il volto persino più tirato delle ancelle. Loro dovevano soffrire la fame, ma lei soffriva l'ira di Demetra, maledizioni, favore negato, la terra fertile rivoltava il mondo con la sua furia e da quella furia le ninfe erano consumate. L'autunno non l'aveva sfiorata, forse non l'avrebbe fatto neanche l'inverno del Ponto; ma quello, pensai con la pelle morsa dalla neve, quello era inverno di furia e angoscia e vita negata, non semplicemente sopita, e chissà quanto la testa di Demetra scoppiava di preghiere e invocazioni e richieste imploranti. Non ordine, non legge a reggere il mondo, ma maledizione a punirlo. L'eredità della follia di Crono, del sangue violento dei Titani, si svelava dietro occhi luminosi e capelli di grano; la madre di tutti partoriva mostri e incubi. Niente più mortali, niente più fedeli, niente più fumi ristoratori delle offerte. Niente più potere, perché il potere sul nulla di morte è nulla a sua volta, e per il potere la mia famiglia era stata dilaniata dal parricidio, Urano, Crono, Zeus, la colpa peggiore, sangue del padre sulle mani del figlio. Il sangue dei figli sulle mani della madre, quello non l'aveva ancora immaginato nessuno – fino a quel momento. Niente più potere, niente più vita, niente più campi fertili e gioia.
Due giorni, pensai ancora, due giorni e già Ciane aveva il volto scavato di una madre senza latte.
«Scaldati.» mormorai, porgendole il mio himation. Lei se lo avvolse attorno, coprendosi le braccia nude, senza nemmeno fingere di rifiutarlo – quanto soffriva, la mia Ciane? Colpa mia, pensai, colpa mia colpa mia colpamiacolpamiacolpamiacolpamia, le presi una mano gelida tra le mie come a confortarla e sedemmo insieme sui gradini senza preoccuparci della fanghiglia. In quel momento erano altre, le preoccupazioni.
«Mia madre ti ha chiesto qualcosa?»
«Solo di... del dio.»
«E hai incontrato Calligeneia?»
«È ancora in Trinacria. Non credo che verrà.»
Annuii. Aggiunsi in un sussurro: «Calligeneia non c'era.»
«Cosa...»
«Quel giorno a Pergusa, Calligeneia non c'era.»
Tra le mie, la mano di Ciane tremò. Gliela strinsi più forte per impedirle di sottrarsi, la fissai negli occhi con urgenza mentre sussurravo: «Non ti chiedo di mentire, solo di non nominarla. Per favore.»
«Se me lo chiederanno-»
S'interruppe non appena udimmo i passi dietro di noi. Voltai il capo verso il mare che si scorgeva dall'alto, per non vedere più quel suo sguardo terrorizzato, e restai con il dubbio soffocante che Ciane non avesse capito, che si sarebbe tradita, che a pagare le conseguenze non sarei stata io.
«Dimmi che finirà.» mormorò, appena prima che arrivassero le ancelle.
Deglutii.
«Dimmi che finirà.» tentò di insistere «Dimmi che tornerà l'estate.»
Dalla terra battuta, in quell'inverno innaturale, i bucaneve spuntarono a fatica.
«Finirà. Sono sicura che finirà, Ciane. Ti prometto che andrà tutto bene.»
Pregai che l'Invisibile fosse stanco di punire gli spergiuri.

 
*

«Ti ha disonorata?»
Non c'era molto interesse, nella voce di quel padre che mi aveva vista forse tre volte – l'onore di una vergine doveva apparirgli un argomento terribilmente banale. O almeno un onore che non poteva strappare lui stesso.
A occhi bassi, tentai di suonare convinta: «No.»
L'interesse era tutto da parte di mia madre, attenzione angosciata e incredulità che ruppe gli argini: «Hai intenzione di crederle?»
Non mi rivolgeva direttamente la parola dal mio ritorno.
Scossi il capo e ripetei: «No. Non è per pudore che non lo ammetto, madre. Non mi ha disonorata.»
«Un dio che rapisce una fanciulla... sappiamo tutti come finisce.» sibilò lei «È terrorizzata, Zeus. Lo teme. Non parlerà mai.»
«Non è neanche per timo-»
«Non le crederai, spero. Già un'altra volta quel... quello ha mostrato interesse per lei, e Kore me l'ha tenuto nascosto. È ovviamente troppo spaventata per parlarne.»
L'ombra di mio padre, sul marmo del pavimento, si allungò come se si fosse sporto in avanti dal seggio. Chiese, appena più attento: «Già un'altra volta, dici?»
«Ho portato con noi una ninfa che era presente.»
«No. Persefone, racconta.»
Io deglutii e mormorai: «Forse mia madre ha... udito delle esagerazioni. Non è stato nulla.»
«Parla, Kore.» sibilò mia madre – quasi preferivo quando non si rivolgeva a me, perché almeno quella rabbia era stornata su un altro bersaglio. Doveva odiarmi, in quel momento, per non averle raccontato dell'Invisibile.
«In autunno, ero con qualche ninfa a Pergusa. Lui ci è passato accanto con il carro, si è fermato un istante e se n'è andato.»
«Né lei, né la sua nutrice, né le ninfe me ne hanno parlato.» la voce di mia madre ormai era un ringhio «Vedi, Zeus? Il terrore chiude la bocca.»
«Calligeneia non c'era.» la corressi «Riposava. È sempre molto stanca.»
L'ombra di mio padre tornò a ritrarsi. Commentò: «Mi pare poco, Demetra, per parlare di interesse.»
«Lo voglio lontano da lei.»
«È ragionevole. Ma prima-»
«Lo senti questo inverno, Zeus? È ancora niente. Proibisci a quello stupratore di avvicinarsi a mia figlia, o...»
Non ascoltai il seguito. Quella parola, stupratore, mi richieggiò in testa e rimbalzò da una tempia all'altra, me la rigirai sulla lingua assaporando il suono aspro; ebbi uno scorcio di come doveva sentirsi mia madre, tradita, ferita, angosciata, ma non trovai le parole per spiegarle che non ce n'era bisogno, e anche se le avessi trovate non mi avrebbe mai creduto. Lei aveva la certezza incrollabile che l'Invisibile mi avesse presa a forza, terrorizzata e rovinata e rotta dentro. Io non riuscivo davvero a conciliare l'immagine di uno stupratore con lo spettro bianco che aveva seminato in me asfodeli e bucaneve.
Discussero ancora, mentre io tacevo a occhi bassi. Si chiesero se credermi, se ordinare alle figlie di Asclepio di controllare il mio stato, se confinarmi a Eleusi; o meglio mia madre pretese e mio padre assentì senza impegno, di certo intento a cercare una soluzione che non lo incomodasse e che non scontentasse nessuno.
«Se almeno convocassimo anche Ade...» tentò alla fine, prima che mia madre esplodesse furiosa gridando che quello non si sarebbe mai più avvicinato a sua figlia, se non volevano un inverno lungo un'eternità.
«Rifletti, Demetra.» mediò ancora «Se accettasse di rimediare al disonore-»
«E sia.» ringhiò lei, alzandosi e agguantandomi il polso «Chissà che non cambierai idea, quando tutte le fanciulle che intendi violentare saranno morte di fame.»
«Demetra!» esclamò mio padre, esasperato, battendosi il pugno sulla coscia.
Trascinata in piedi, ebbi uno scorcio della barba scura di mio padre, ma riabbassai subito lo sguardo. Con lui riuscivo a conciliarla benissimo, l'immagine di uno stupratore.
«Demetra.» ripeté «Parlerò con Ade.»
Lei gli rispose con un sibilo: «Voglio essere presente.»
«...lascia che gli parli da solo, prima. Sarà ragionevole.»
Neppure mia madre poteva sfidare a lungo il signore dell'Olimpo. Nella sua marcia furibonda verso l'uscita mi strattonò per il polso, lasciandomi appena il tempo di un cenno del capo in saluto a mio padre; lui neppure mi rispose, già troppo assorto a ponderare chi, tra la dea delle messi e il dio della morte, gli convenisse accattivarsi.

 
*

«Torna alla tua fonte, Ciane.»
«Non voglio lasciarti qui da sola.»
«Starò bene.»
Rubandomi un pezzo di pane dolce dal piatto, ne approfittò per allungarmi una gomitata.
Sospirai: «...starò meglio di come stai tu ora. Torna a casa, davvero. Devi riprenderti.»
«Non è la lontananza a indebolirmi.»
No, non lo era. In quei pochi giorni le ancelle di Eleusi si erano fatte ancora più magre e tirate, ma Ciane era peggio – pelle screpolata tesa sulle ossa, occhi arrossati, spalle curve. Avrei voluto prenderla tra le braccia e cullarla cantando a bassa voce di sole e calore e giorni lunghi, radici profonde che il gelo non poteva uccidere, rami gravidi di frutti piegati sotto il peso dell'estate. Invece le strinsi una mano e sospirai.
«Dianthe.» chiamai.
L'ancella avanzò dall'angolo verso di noi, sedute sul pavimento accanto al letto. Non avevo voluto l'ingombro di un tavolo e, anche se sotto di noi c'era roccia levigata anziché l'erba morbida, mi sembrava quasi di essere ancora in Trinacria. Mi ero sempre seduta a terra senza preoccuparmi di infangarmi, che le zolle fossero secche di sole o pregne d'acqua, e mi ero un po' stupita di sentire le ancelle protestare che sul pavimento mi sarei sporcata. Mi sembrava protestassero per tutto, quelle ancelle.
«Apri le imposte, per favore.» ordinai.
«Ma...»
Appunto.
Mi alzai per aprirle io stessa. Dal cortile interno entrarono stille d'acqua, raffiche di vento, finalmente l'aria si muoveva. Nessun tuono: mio padre non partecipava a quella furia. Mi sembrava di non respirare, con la cappa immobile del tempio tutto attorno a me, marmo sotto i piedi, sopra la testa, e dov'era il cielo? Dov'erano le giornate seduta sul terreno a riscaldarmi di tisane e risate, con la pioggia che batteva sulla pelle e la sensazione violentissima di essere viva? Mordere gioia e frutta e offerte di mortali che ringraziavano senza implorare. Il cibo del tempio aveva il sapore stantio delle dispense.
Mi appoggiai al bordo della finestra, lasciai che la pioggia mi sferzasse il viso. Odore di terra bagnata che non avrebbe nutrito semi.
«Torna alla tua fonte, Ciane. Per favore.» mormorai «Controlla che Calligeneia stia bene.»
Avevo ordinato che riempissero la stanza di vasi, così io avrei potuto riempire i vasi di vita, ma a cosa serviva? Il mio letto profumava di camomille, il pavimento era imbiancato di bucaneve, e fuori i mortali cadevano sotto la carestia, era predisposto sì, ma non così, non con quella rabbia, non proprio lì in quel bacino fertile, per favore. I bucaneve non servivano a niente, senza la certezza della primavera.
«...chiudi, Kore?» mi rispose Ciane «Ho freddo.»
Mi riempii i polmoni del temporale.
Era amore di madre o orgoglio ferito? Violenza bestiale, angoscia, qualcuno aveva sporcato la sua bambina e ora lei si rifiutava persino di guardarla. A toccarle il cucciolo troppo presto, una coniglia non lo riconosce più e usa quei suoi denti da erbivoro mite per lacerargli le carni. Una madre è uguale alle belve, perché una madre è soprattutto ventre rigonfio ed è nel ventre che germoglia l'istinto più feroce – non nel cuore di donna morbida e tiepida, non nella testa di raziocinio e pensiero, ma nel ventre, viscere bollenti, sangue pulsante. Imperativo insopprimibile – nutri. Proteggi.
Non era stata in grado di proteggermi, nella sua testa: aveva fallito con la figlia più preziosa. Doveva aver deciso che non valeva la pena neppure nutrire, e così un mare di mortali la chiamava madre e moriva di fame tra le sue braccia gelide.
«Kore...» ripeté Ciane, debolmente.
Non mi avrebbe mai chiesto di escludere la pioggia, prima, ma quella non era una pioggia che potesse appagare la sua sete di natura. Chiusi le imposte e le ordinai: «Porta un bucaneve a Calligeneia, quando la vedrai. Dille che tornerò presto.»
Non arrabbiarti troppo, bisbigliai all'Invisibile. Mi aveva detto di non mentire e non era una menzogna – solo una verità un po' incerta.

 
*

Si vedeva il mare, quando il cielo tornava limpido e l'aria sembrava farsi sottile, nessun ostacolo, nessun velo, per i miei occhi avrei potuto allungare la mano e afferrare le onde. Spazio contratto dalle colonne alle acque, giù, giù per il promontorio e poi oltre le case dei pescatori e infine la spiaggia e i bagliori azzurri, solo allungare una mano, distanza come inesistente, un passo, due passi, scesi l'ultimo gradino e ancora vidi il promontorio e le case e la spiaggia e i bagliori azzurri, nessun ostacolo, nessun velo, davvero?, una grata invisibile tutt'attorno al tempio.
Avevo imparato a sentirlo sulla pelle, quel che c'è di invisibile.
Quando mossi ancora un passo oltre il tempio il gelo mi strinse d'un tratto, mi morse, affondò nelle carni con rabbia. Io restai immobile, lasciando che mi illividisse le labbra, che mi facesse tremare, non abbassai lo sguardo e ingoiai bile amara. Se avesse potuto, lo sapevo, lo sentivo, quel gelo mi avrebbe squartata. Lacerata e violata e lasciata in pezzi per l'eternità.
Forse poteva.
«...mi dispiace.» sussurrai «Mi dispiace aver causato tutto questo.»
Non mi ero davvero aspettata che rispondesse. Continuai: «Mi dispiace avertici trascinato. Ho cercato di parlarle, di convincerla, ma non... non mi guarda neanche. Non vuole ascoltarmi. Pensa che...»
Mi inumidii le labbra, scossi il capo senza dare voce a quell'immagine assurda e violenta. L'aria di morte mi morse i polmoni quando inspirai.
«Pensa che io sia troppo spaventata per dirle la verità.»
E lo ero, davvero, spaventata e angosciata e con la voce sempre più incerta, sempre più acuta. Il silenzio mi apriva squarci slabbrati nel petto. Mi forzai a ingoiare il tremito salato di cui vacillavano le mie parole.
«E io non posso... non posso ignorarla, capisci? È mia madre. È Demetra. Mi protegge qui e io non posso... lo senti quest'inverno? Non è vivo, non è giusto, questo è sterminio. Non è quiete o ordine, non è legge, e io... io non posso. Non posso, so che è giusto che anche qui ci sia l'inverno, che Demetra smetta di impedirlo ma questo non è smettere di impedirlo, è... è...»
Deglutii. Presi un respiro, piano, poi un altro, come per calmarmi. Il gelo furioso che mi straziava i polmoni riuscì solo ad agitarmi di più.
«Te lo ricordi, come mi sono accasciata quando ho toccato terra? E a nord del Ponto la terra prega a bassa voce di tornare alla vita, qui urla e prentede e mi divora, mi strappa ogni energia, ho voluto fermarmi qui, ti ricordi? Ho voluto fermarmi qui perché la terra mi chiamava e il tempio mi chiamava e i mortali mi chiamavano, e tu non l'hai visto perché ti ho detto di andar via, ma quando sei sparito io non ce l'ho più fatta, non ho resistito, mi avevano strappato così tanto che sono diventata bianca e gelida, mia madre mi ha trovata che ero solo un fantoccio immobile per terra, sembravo una bambola rotta. Sai che poi ho dovuto passare ore nell'acqua calda, prima di sentirmi meglio? E meglio non è bene. Meglio non è sana o felice o anche solo, ah, non desiderosa di sparire. E se non ti ho pregato per tutto questo tempo, se non ti ho chiesto se per favore potevi strapparmi dai vivi, è perché lo faresti. So che lo faresti. Con te tutto finirebbe e io non dovrei più stare qui con l'inverno troppo freddo e mia madre che non mi guarda.»
Chiusi gli occhi, serrai le palpebre scavandomi rughe profonde sulla fronte, ma a che serviva? Era sulla pelle, non sotto lo sguardo, che sentivo la sua furia dolente.
«E io, mi dispiace, mi dispiace, non voglio. Così è abbastanza. Non voglio che peggiori, che sia così per sempre, ho bisogno della primavera, capisci? Non ho più neanche la forza di discutere con mia madre, voglio solo che finisca, però deve finire per tutti, se finisse solo per me che senso avrebbe? Posso decidere di discutere e allontanarmi e nascondermi dove lei non potrà uccidere la vita, posso chiederti aiuto, posso dirti di andare da mio padre e fare a pezzi questa farsa, e poi? Lasciarli tutti qui a morire di fame? Hanno bisogno della primavera, ma così io non posso offrirgliela, prometto che tornerà sapendo che non può tornare, non così, non con questa rabbia. Demetra non si placa, lo leggo nei volti scavati delle ninfe, ed è colpa mia. È colpa mia e non sono io a pagare, sto impazzendo, li sento sempre supplicare, sempre, non smettono mai, non riesco a dormire, stanno soffrendo perché io ho avuto paura della reazione di mia madre e le ho detto tutto troppo tardi. Per un'idiozia del genere. Non so neanche come sta la mia nutrice, se le ha fatto del male, se l'ha punita, se...»
M'interruppi, inghiottii a forza il picco acuto nella mia voce. Sperai quasi che mi dicesse qualcosa, che smentisse o almeno mi togliesse da quel dubbio atroce, se, lui l'avrebbe saputo, l'avrebbe vista nelle processioni dei morti. E invece nulla, restò in silenzio a straziarmi la carne di gelo.
«Non posso, capisci? Non posso ribellarmi e lasciarli a morire di fame, non ho le forze per nutrirli io sola, non...»
Sembrava che non potessi mai, quando ero con lui. Forse era, semplicemente, troppo oltre i miei limiti.
Avrei voluto trovare un addio più adatto, degno di tracciare nettissimo il confine – perché dopo quel confine c'era un'eternità intera e quell'ultimo istante meritava di valerla tutta, di strapparmi ogni dubbio. Quell'addio doveva ricordargli e ricordarmi a ogni respiro che era l'unica scelta possibile, quell'addio doveva essere saldo e sicuro e sussurrarmi all'orecchio, la notte, che avevo fatto bene. Che non dovevo avere rimpianti. Che lui avrebbe capito, che io avrei smesso di sentirmi la vittima sacrificale sull'altare, avevo salvato il piccolo di una scrofa solo per finire al suo posto?
Quell'addio doveva darmi la forza di offrire la gola al sacerdote, e invece fu solo un bisbiglio mangiato dai singhiozzi.
«Perdonami.»


 

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Capitolo 4
*** Primavera ***


Primavera

L'inverno morì quella notte, spalancando i miei occhi sul buio. Mi sentii vibrare e bruciare mentre la terra si scaldava all'improvviso, spezzava il ghiaccio che l'aveva avvolta, si offriva morbida alle benedizioni e alle preghiere. Mi chiamava – grido di gioia e di orgasmo. L'inverno era morto, morto, ora stava alla primavera tornare.
Nessun ordine di mia madre avrebbe potuto negarmelo, né Demetra avrebbe mai permesso a mia madre di farlo.
Per una notte ero libera.

Ci sarebbero stati miti, poi, e tradizioni e culti. Canti del rapimento e dell'ira e dei misteri che da quell'ira e da quel rapimento sarebbero nati.
Nessuno avrebbe mai ricordato di come i Piccoli Misteri li partorii io, madre di fecondità, piegata dalle doglie sulle sponde dell'Ilisso. Nessuno sfuggì alla carezza di Hypnos, nessuno rifiutò l'abbraccio dolce di Nyx: ornati di papaveri, quegli déi antichissimi obbedirono a me fanciulla come se fossi stata una regina, assicurandosi che né uomo né dio si destasse a disturbarmi. La mia veglia sarebbe stata il sonno del mondo, una morte durata una notte.
Ma non ero la sola a vegliare, in quella notte di rinascita e rito.
Lo realizzai solo quando già udivo il mormorio dell'Ilisso e ne scorgevo i bagliori d'acqua oltre gli ultimi ginepri. Sibilo d'angoscia, freddo strisciante nella gioia tanto attesa. Non disse niente: restammo a guardarci in silenzio, io ombra tra gli alberi, lui spettro sulla riva. Volevo urlare e piangere e andarmene, ma sentivo che doveva accadere lì, lì avevano preparato, lì ero stata guidata; e come Demetra non permetteva a mia madre di rinchiudermi un'altra notte, Persefone non permetteva alla Fanciulla di voltarsi e fuggire. Avanzai, abbandonai la protezione fragile dei ginepri per espormi al suo sguardo, non più ombre ma luce pallida di luna piena che mi mostrava impietosa. C'era odore di terra bagnata e di spezie dolciastre, stordenti. Gli passai al fianco senza guardarlo, me lo lasciai alle spalle con la consapevolezza nettissima di averlo ad un soffio, restai lì sulla riva a specchiarmi nell'acqua insieme alla luna. Avevo gli occhi spalancati di una preda terrorizzata e la mascella tesa, e una pelle pallida che forse era la carezza della luce e forse era angoscia livida.
«Sei soddisfatta, spero.»
Deglutii. L'indifferenza era insondabile.
«Lo sono. Ma non dovresti essere qui.»
«Ah. Non dovrei.»
«Mia madre... Zeus le ha assicurato che...»
Che? Qualcosa che l'aveva soddisfatta, di certo, ma l'avevo scoperto quella notte; non sapevo neppure che promesse avesse strappato sul mio futuro, sulla mia vita, senza avermi rivolto la parola per giorni.
«Zeus le ha assicurato che saresti stata al sicuro. Come lei abbia voluto interpretarlo non è affar mio.»
Avrei voluto distogliere lo sguardo dal mio riflesso, ma quell'espressione sconvolta era quasi ipnotica. Sospesa tra pianto e urla.
«E lo sono?»
Non mi rispose. Sospirai, aggiunsi in un bisbiglio: «Per favore. Non voglio che si adiri ancora. Non ora che è finito l'inverno.»
«Ti ho accontentata, ho accettato un compromesso. Non è abbastanza?»
«Mia madre...»
«Tua madre non può contestare il mio accordo con tuo padre.»
«Mio padre mi ha vista tre volte in tutta la mia vita. Mia madre-»
«Tuo padre resta tuo padre. E Zeus.»
Faceva così male. Così male.
«Ti ho chiesto perdono, Ade, e adesso te lo chiedo ancora, ma ti prego...» così male, così male, così male «ti prego, basta. Ascolta-»
Mi trovai premuta contro di lui, una mano sulla gola e l'altra ad artigliarmi il fianco. Il suo volto si rifletteva nell'acqua accanto al mio, lo preferivo di spalle, oh, meglio di spalle, sì, non potevo sopportare il peso di quello sguardo troppo nero. Chiusi gli occhi.
«Ho ascoltato abbastanza.»
Mi affondò i denti nel collo, gridai, era gelido, male, male, il sangue pulsava e io gridavo, mi tenne ferma mentre ancora straziava la giunzione con la spalla là dove la carne era esposta e tenera, tremavo tra le sue braccia senza la forza di dibattermi, avrei voluto che non finisse mai. Finì, invece, con le sue labbra sulla pelle come un bacio e il ringhio profondo della sua rabbia.
«Ho giurato di non privare il mondo della primavera e di onorarti. Puoi chiedermi tutte le gemme del sottosuolo, puoi chiedermi un trono e uno scettro e di portare la vita in Averno, ma non chiedermi di abbandonarti, Fanciulla, non chiedermi di trascorrere l'eternità fingendo che tu non esista, perché non accadrà.»
«È l'unica cosa che ti chiedo.» bisbigliai «È l'unica, ti prego, non voglio che-»
Sentivo le sue mani sui fianchi, mi avvolgeva per premermi contro di sé, mi stringeva da far male.
«Non accadrà.»
«Non-»
«Cosa temi? Che tua madre neghi il suo consenso? Ho parlato con tuo padre.»
«E con me hai parlato?»
Ringhiò esasperato, mi scosse, io mi strappai alla sua stretta e incespicai con i piedi nell'acqua, sui sassi taglienti del fondale. Mi afferrò il braccio, vi affondò le dita con violenza, gliele artigliai a mia volta senza che riuscissi a smuoverle di un soffio. Sembrava diventato di roccia, immobile con lo sguardo fisso e la furia sospesa sul volto, come in attesa. Quando parlò era calmo, calmissimo, di quella calma che spezza le ossa.
«Dimmi che non vuoi, Fanciulla. Osa.»
Inspirai.
«Non voglio.»
Mi strattonò, feci resistenza e il mio bisbiglio si trasformò in un grido, di rabbia, di disperazione, perché non capiva? Perché doveva rendere tutto più difficile e mostrarmi un futuro che non potevo avere e ricordarmi a ogni respiro quello che stavo perdendo, e spezzare sotto le dita la mia decisione, e-
«Non voglio.» ripetei, mordendo le parole per inghiottire i singhiozzi «Non voglio l'inverno, non voglio l'ira di mia madre, non voglio che muoia la primavera e i mortali muiano di fame, te l'ho spiegato, non posso, non voglio, non-»
«Finiscila.»
Mi strattonò ancora contro di sé, mi afferrò il mento perché non potessi sfuggire al suo sguardo, costretta a sostenere quella sua furia calmissima e implacabile.
«Finiscila adesso. Credi che Demetra possa sovvertire l'ordine senza che gli altri olimpi intervengano? Io ho accettato di non strappare la primavera al mondo, credi che lo permetterei a lei? Se devo combatterla perché lei non ti strappi a me, sia. Ha il potere di negare la vita; io ho il potere di portare la morte. Credi davvero che, se minacciassi di spalancare le porte dell'Averno, gli altri olimpi sosterrebbero le sue pretese assurde? È sola, in questa sua follia. Non ha tanto potere da maledirci con un inverno eterno.»
Scossi il capo, tentai di sfuggire alla sua stretta, male male male malemalemalemalemale, aveva terribilmente senso, lui mi strinse il viso con entrambe le mani e me lo tenne sollevato a forza.
«No, ascoltami. Non ha tanto potere, e se anche l'Ellade dovrà affrontare la maledizione ogni anno, tu nutrirai la primavera. O trovi tanto orribile l'inverno? Trovi tanto orribile che i mortali muoiano?»
Era l'eco di altre parole, mi sembravano trascorsi mille anni dalla prima volta che le avevo udite, ma ora l'indifferenza si era sciolta in una forza violentissima che voleva tenermi stretta e ricordai i bucaneve a nord del Ponto, l'attesa, la speranza, lo trovavo tanto orribile? Tremai realizzando che non c'era orrore, solo malinconia dolente, sotto quello sguardo nero di Tartaro che a me era permesso incrociare.
Mi sciolsi piano dalla sua stretta, gli appoggiai la fronte contro la spalla.
Ma poi il pensiero scivolò dal Ponto all'Ellade, alla maledizione rabbiosa e folle. Calligeneia dalla sorte ignota e Ciane con un volto d'ossa e mia madre che non mi guardava, Demetra che rifiutava le offerte. Preghiere che non mi facevano dormire.
«Tornerò in autunno.»
«Non tornare.»
«Tornerò.»


Restò solo il mormorio gentile dell'Ilisso e quell'aroma stordente di spezie, più intenso. Mi inginocchiai sull'erba secca per lavarmi il viso e le braccia, mi specchiai in quell'acqua da cui la luna piena era già scomparsa, troppo avanti nel suo corso lungo il cielo. Ciò che doveva accadere era già accaduto, e non c'era bisogno che vedessi ancora quel globo candido di fertilità riflettersi nel mio viso: ero piena e tonda anch'io. Avevo sanguinato di infecondità e ora mi preparavo a farmi culla un altro mese, a ospitare il seme del futuro e la possibilità infinita. Dopo il sangue, il ventre accogliente. Dopo l'inverno la vita. Avevo combattuto la morte e vinto, e tentai di compiacermi anche se dentro ero in lutto, ero un cuore pulsante di rimpianto.
Avvertii le ombre accarezzarmi, mi posarono tra le mani una tazza bollente da cui si levava quell'aroma stordente. Papavero. Annebbiò appena il dolore, la lacerazione dell'assenza, mi sentivo ancora come sui gradini gelidi di un tempio che non potevo lasciare. Era un ciclo, un eterno ritorno, sempre le stesse parole, gli stessi rimpianti, quante volte ci eravamo già salutati e abbandonati e ritrovati, e quante volte mi ero negata, quante volte gli avevo chiesto perdono, e quante volte lui era stato implacabile e mi aveva negato di negarmi e... inspirai ancora, pregai il papavero di obnubilarmi la mente.
Ringraziai Nyx e Hypnos, e Thanatos che quella notte restava lontano, e ancora chiesi perdono e ringraziai e chiesi perdono a chi non si poteva nominare né guardare.
Solo allora, ancora inginocchiata, portai alle labbra l'infuso che avevano preparato per me. Mi abbandonai alla dolcezza speziata e stordente, rovesciai indietro il capo a occhi chiusi. Il mio corpo era tiepido. L'aria era tiepida. La terra era tiepida. Affondai le dita tra le zolle, scoprendole morbide e umide, e pensai ai campi pronti per l'aratro, all'attesa palpitante della semina. Il calore rotolò dalla lingua allo stomaco e da lì esplose, mi invase, pulsò nel petto e nel ventre. L'abbraccio e la culla, radici che spezzavano la guaina del seme e affondavano, si nutrivano, le sentii scavarmi nella carne e urlai con la voce attutita dallo stordimento del papavero. Germogli con le cime tenere alzate al cielo, acqua e terra come il seno di una madre, gemme a grappoli più preziose delle pietre. Ansimai mentre il calore cresceva, bruciava, contraeva il ventre in spasmi e onde. Corolle che si schiudevano piano, petali distesi, e polline e spore e già sulla lingua il sapore dei frutti futuri. Il calore si sciolse tra le mie cosce, mi pulsò nelle vene strappandomi ancora un grido acutissimo, mente obnubilata e vita che esplodeva tutt'attorno, divorava quel poco che restava dell'inverno, e poi... e poi... qualcosa di freddo e malinconico e amaro, tentai di coglierlo ma era troppo lontano, evanescente, restò solo come retrogusto sulla lingua e ben presto fu travolto dalla primavera dolcissima. Bruciai ancora. Lasciai che il mondo si nutrisse di me sentendomi più viva a ogni stilla di vita sottrattami, a ogni ondata di calore stordente, carezze miti e poi picchi da urlare, la marea mi sommerse e mi vinse.

 
*

«Finisco da sola, Dianthe, tu va' a prendermi il chitone azzurro e il velo.»
Lei smise di frizionarmi la pelle con il telo e incrociò il mio sguardo nello specchio, incerta.
«Desideri uscire, signora?»
«Andrò a raccogliere le offerte nei campi. Mi accompagni?»
«Chiedo se posso.»
Andava a chiedere se potessi io, probabilmente.
Mi asciugai da sola. Dal lino del telo emergevano le mie braccia, ancora pallide per i troppi giorni al chiuso, e su quel pallore aloni violacei che nascondevo con scialli leggeri. La cascata scura dei capelli riposava su una spalla, copriva il segno violento dei denti; la strofinai senza grazia e vi passai il pettine fino ad appiattire le onde e a sentirla appena umida, la intrecciai per gettarla indietro sulla schiena. Scoperto, quel livido tra spalla e collo insultava il candore, segnava la pelle di sofferenza e assenza. Ne studiai l'ombra nello specchio, piegai il capo per esporlo meglio sentendo la pelle tendersi e gemere. Era lo spettro e il ricordo e il dolore caldo che mi teneva sveglia di notte, ancora vivido dopo quasi una luna.
«Kore.»
Sussultai. Riportai la treccia davanti, posata sulla spalla e sul seno, e mi voltai verso la donna alla porta. Stirai le labbra in un sorriso che era più una smorfia circospetta.
«Madre.»
«Verrai... andremo insieme a raccogliere offerte. Preparati.»
Tornai a voltarmi verso lo specchio con un cenno d'assenso. Il suo riflesso era appena un'ombra alle mie spalle, che già si voltava e se ne andava lasciando la porta socchiusa.
«Asciugati bene i capelli, l'aria è ancora un po' fredda.»
Oh, la voglia di riderle in faccia.


Sotto il sole tiepido, sopra la terra morbida, i ringraziamenti sbocciavano nella mia testa a mazzi interi. Sorrisi, chinandomi a raccogliere una corona di narcisi e alloro che quasi si disfaceva a guardarla – da mani infantili, indovinai. Le offerte più gradite. Scelsi i fiori più colorati da infilarmi tra i capelli – il velo mi riposava sul collo e sulle spalle come una stola, lasciandoli scoperti – e sparsi il resto attorno a me, affinché nutrendo altra vita portassero le mie benedizioni fino alle radici. Camminavo tra ulivi bassi, che offrivano un po' d'ombra ai lati del campo e mi accarezzavano con foglie appuntite senza graffiarmi. Dai rami pendevano altre corone che non toccai, dedicate ad Atena e alle ninfe del luogo.
Mia madre camminava nel campo, mormorando al grano di crescere forte, alla terra di nutrire i germogli con gioia. La risposta era un calore festoso tanto intenso che lo sentivo bruciare nella carne, ne volevo ancora, ancora, mi chinai ancora per affondare le dita tra le zolle e salutarle perché ero lì, finalmente, ero lì, ero tornata, niente più neve ma sole a scaldare e spighe che si tendevano al cielo. M'infangai il chitone e ne fui felice.
«Sono contenta, Kore, stai riprendendo un po' di colore.»
Io, ancora accovacciata, mi voltai verso mia madre, sorridendo dolcissima e velenosa.
«Ultimamente non ho avuto molte occasioni di stare al sole.»
Con lo sguardo di nuovo sugli ulivi, lasciai che il sorriso svanisse in una smorfia di labbra arricciate. Mia madre incassò la stoccata con un sospiro.
«Almeno» mi disse «ora sei al sicuro.»
Ah, ma davvero.
«Quando potrò tornare in Trinacria?»
«...vedremo. Non ti piace l'Attica?»
Mi passai un sassolino tra le dita, lo ripulii dalla terra con le unghie già sporche senza mai alzare lo sguardo.
«Calligeneia come sta?»
«Sta bene.»
«Voglio vederla.»
«È un lungo viaggio, Kore, e Calligeneia ormai è molto anziana. Non è detto che possa venire a trovarci.»
Strinsi il sasso nel pugno fino a farmi male.
«Lasciami tornare a casa, madre.»
«Sono tutti molto felici di averti qui.»
«Come possono esserne felici, se tu dai ordine che nessuno m'incontri? Il santuario è deserto. Persino i campi sono deserti, oggi che li visitiamo noi.»
Un altro suo sospiro e la sua ombra a coprirmi, la sua mano tra i capelli. Da quella posizione sembrava che accarezzasse un cane.
«Ho solo cercato di darti un po' di tranquillità, Kore. Dovevi riprenderti e riposare, non essere tormentata dai fedeli, ma se lo vuoi organizzeremo una celebrazione per la nuova primavera. Ne saranno tutti entusiasti.»
«Voglio tornare a casa. Per favore, madre, voglio solo tornare a casa.»

 
*

Mi gettai tra le sue braccia ridendo, me la strinsi contro così forte che lei dovette sbuffare di far piano, io risi ancora e mi allontanai appena per guardarla. Calligeneia mi portò le mani al viso, accarezzandomi le guance.
«Sei dimagrita.» mi disse.
Coprii le sue mani con le mie e gliele strinsi – rami nodosi, ossuti, fragilissimi. Se io ero dimagrita, lei si era consumata. Starle accanto era come sentire un soffio gelido sul collo.
«E sei cresciuta.» s'interruppe per tossire «Sei cresciuta molto, Persefone.»
«Andiamo.» c'interruppe mia madre, con la voce piatta e le spalle rigide, conducendo davanti a noi i cavalli del suo carro.
«Sì, andiamo.» convenne Calligeneia «Ben ritrovata, Demetra.»
Mia madre non rispose.

 
*

Non mi ero mai accorta di quanto gli occhi di Calligeneia sembrassero profondi, due pozzi scuri affondati tra zigomi sporgenti e rughe. Ci scrutavamo indisturbate, noi due sole, con il mormorio della brezza tra i papiri d'Ortigia e le ninfe ancora addormentate nella tarda mattinata, esauste da una notte di festa; e sotto il suo sguardo sentii tutto il peso di quella profondità, le lessi addosso tutta la stanchezza e la preoccupazione e i cambiamenti che vedeva in me.
«È andato tutto bene?» mi chiese a bassa voce.
Le sorrisi senza allegria.
«È andato come doveva andare, nutrice.»
«Allora è andato bene.»
«Vorrei che non fosse mai successo.»
«È stato un inverno duro, ma è tornata la primavera. È giusto così.»
Annuii distogliendo lo sguardo.
Lei non demorse: «O non è l'inverno che ti duole, bambina mia?»
«Oh, se sapessi.»
«Spiegami.»
«Non credo di avere le parole.»
Calligeneia mi strinse la mano, mormorando: «Ti ha violata?»
«...cosa ti ha detto mia madre?»
«Non ha importanza.» tossì «Ma, ti prego, toglimi questo peso: ti ha violata?»
«Non mi ha mai toccata, per quanto mia madre possa credere il contrario.»
Il sollievo le incurvò le spalle, con un sospiro che s'inasprì in un altro accesso di tosse.
«Grazie. Non avrei sopportato il peso della colpa, se ti avesse fatto del male.»
«Mi ha fatto più male di quel che posso dirti, nutrice.»
Si sporse per accarezzarmi i capelli. Sotto la treccia il livido del morso pulsava come il sangue nelle mie vene, vivo e furioso e impossibile da dimenticare. Era come averlo lì.
«Crescere non è mai indolore, bambina mia. Persefone. Ne verranno altri: non dolerti troppo, se ti ha rifiutata.»
«Oh, tutto il contrario.»
Chinai il viso.
«Persefone?»
«A volte mi sembra di odiare mia madre, per quello a cui mi costringe a rinunciare.»
«Non sei costretta.»
«Lo sono. Due giorni e guarda cos'è successo.»
«...avrebbe dovuto portarti in Averno e farti sua sposa. Neppure tua madre avrebbe potuto chiedergli di ripudiarti.»
«E maledire il mondo con la mia assenza?»
«Nessuna madre è mai morta per aver riconosciuto nella figlia la donna.»
«Di mortali ne sono morti, però. Non ho scelta.»
«Ce l'hai. Ce l'hai, non vedi? Devi solo accettare le conseguenze.»

 
*

Il profumo delle fragole era quasi stordente, mentre mi districavo dagli arbusti del sottobosco per chinarmi a raccoglierle. Ciane, accanto a me, mi teneva il cesto – sempre misteriosamente vuoto.
«Non ci provare!» sibilai, colpendo la mano di Ciane.
Lei ridacchiò senza lasciarsi scoraggiare e anche le ultime fragole sparirono dal cesto, una mi finì tra le labbra per zittire le mie proteste. L'asprezza mi mandò un brivido piacevole sulla lingua.
«Ti si carieranno i denti, vedrai.» profetizzai, brandendo un tralcio come poco probabile paramento sacerdotale «E allora riderò, oh, quanto riderò!»
«Dai, prendine qualcun'altra, o vuoi lasciar senza Calligeneia?»
«Non hai il minimo pudore, eh?»
Ciane inclinò il capo con aria innocente. Scoppiammo a ridere entrambe, con la mano davanti alla bocca e le spalle che sussultavano, appoggiandoci l'una all'altra per non cadere. Ovviamente rovinammo a terra.
«...mi hai spinta?» mormorai, a voce bassa e minacciosa.
«Come ti viene in mente?»
Ancora quell'aria innocente – e un ghigno che faticava a trattenere. Le gettai il tralcio in faccia, ridemmo ancora fino a non avere più fiato, e alla fine restammo sdraiate tra arbusti e lame di luce.
«Penso di aver battuto la testa. Prima il mondo non girava così.» mormorai. Appena sopra il mio naso una foglia profumatissima si sdoppiava e si ricomponeva, divertendosi a darmi la nausea.
«Io ho marmellata di fragole sotto la schiena, temo.»
«Mh, buona. Calligeneia apprezzerà.»
Cercai la sua mano a tentoni, gliela strinsi, ma lei ricambiò debolmente con un sospiro. Mi voltai a guardarla e incontrai il suo profilo rivolto al cielo, labbra strette e occhi socchiusi.
«Sai...» mi disse a bassa voce «credevo che non le avrei più viste.»
«Le fragole?»
«Anche tutto il resto.»
Mi alzai a sedere, combattendo lo stordimento, e le accarezzai una guancia con la mano libera. Era umida.
«Oh, Ciane.»
«Scusami.»
«Non ti scusare.»
«No, scusami, io...» sciolse la mano dalla mia stretta, se la passò sugli occhi «Non dovrei essere io a lamentarmi, con quello che ti è successo.»
«Ancora? Non mi è successo niente, Ciane. Non è successo niente. È finito, vedi?»
Sfiorai i tralci, che al mio tocco sollecito rinverdirono, esultarono con altri fiori dove già c'erano le fragole, e poi – non era mai successo, mai, impiegai un istante a realizzare – quei fiori divennero altre fragole, crescevano, si scurivano, ne colsi alcune e le altre caddero a terra marce. Posai i frutti maturi tra le mani di Ciane, le strinsi le dita per forzarla a trattenerli e le ripetei: «È finito tutto. Sono tornate, vedi? E se continueranno così, invaderanno tutto il sottobosco. Non sono mai state così forti e vitali.»
«Kore... oh, Kore, sei così buona. È solo che... l'inverno...»
Mi chinai a baciarle i capelli.
«L'inverno è finito. Ora è tempo della primavera. Il giorno non viene dopo la notte? Anzi, è proprio la notte a portarci il giorno, perché è Nyx ad aver generato Emera.»
«Non parliamo... non parliamo di loro, per favore.»
La ignorai. Caddero a terra altre fragole mature, incapaci di sostenere il peso di troppa vitalità.
«Come dopo ogni notte Emera varca le porte dell'Averno, così la primavera tornerà sempre dopo l'inverno, e sarà ancora più viva, te lo prometto, per compensarti dell'attesa.»
I suoi occhi erano pozze azzurre di cielo riflesso, umide di acqua salata. Spalancate d'inquietudine e angoscia.
«Ma perché parli dell'inverno, Kore? Non torne-»
C'interruppe un accesso di tosse, Calligeneia che ci raggiungeva.

 
*

«Va' a riposare, Kore.»
«No.»
«Posso pensare io a lei, va' a riposare.»
«No.»
Con un sospiro, mia madre mi abbracciò stretta e io mi immersi nel suo calore tentando di non tremare. Le gettai le braccia al collo, nascosi il viso contro i suoi capelli mentre lei mi cullava piano, dondolava con la schiena mormorando bugie rassicuranti.
«Domani non puoi restare?» la interruppi.
«Perdonami, Kore. Tornerò il prima possibile, ma non posso rimandare ancora il colloquio con Zeus, e la Beozia ha bisogno-»
«Va bene.» mi sciolsi dall'abbraccio «Riposati, allora, è un lungo viaggio. Resto io qui.»
Mia madre lasciò la porta socchiusa. Una bambina si affacciò curiosa, forse la figlia dei nostri ospiti, prima che una mano adulta arrivasse a chiuderla del tutto.
Seduta accanto a Calligeneia, immersi la mano nella caraffa d'acqua e gliela passai sulla fronte – scottava. La luce impietosa del fuoco scavava solchi e ombre sul suo volto già segnato, riempiva la stanza di odore di legna bruciata e calore soffocante, ma quel corpo vecchio che riconoscevo a stento tremava comunque. Avevamo dovuto chiedere ospitalità a una famiglia di contadini, perché persino la brezza gentile dell'estate imminente era troppo fredda per Calligeneia.
Mi stesi accanto a lei, la abbracciai per scaldarla. Era come stringere una bambola fragilissima ed estranea, perché in quella debolezza estrema non c'era nulla della mia nutrice, occhi profondi e sorriso beffardo e voce sicura.
«Andrà tutto bene.» le bisbigliai, mi bisbigliai «Andrà tutto bene, vedrai.»

 

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Capitolo 5
*** Estate ***


Estate

Il prima possibile, per mia madre, si rivelò essere più di un giorno, due giorni, tre giorni. Al quarto, Calligeneia combatté lo stordimento febbrile e mi fissò con occhi annebbiati ma presenti.
«Riportami a Ortigia.»
«...stai delirando.»
«Sono lucida.»
«Hai la febbre, non... aspetta di rimetterti un po', almeno.»
Lei si addolcì in un sorriso e sollevò una mano a fatica per accarezzarmi il viso.
«Sono nata a Ortigia, dalla naiade della fonte. Voglio...»
Non commentai nulla, per pietà di me stessa.


«...e anche là in fondo, dove abbiamo trovato i pastori...» si coprì la bocca con la mano per tossire «anche... anche là c'era solo papiro. Quando ero bambina, mia madre non riusciva mai a tro-»
La sostenni per le spalle mentre l'ennesimo accesso di tosse la piegava. Faticava sempre di più a parlare, ma non smetteva mai di raccontare e raccontare e raccontare, da sua madre a lei a mia madre a me si snodavano generazioni di donne di cui ora raccoglievo la memoria. Non erano visioni annebbiate di vecchia, ma giorni lontanissimi che descriveva come se li vivesse in quel momento; erano ciò che voleva io ricordassi di lei, e io allora accettavo quell'offerta e la custodivo con il terrore che ogni parola sarebbe stata l'ultima.
«Andiamo, nutrice?» mormorai «È quasi il tramonto. Torneremo domattina.»
Lei, di nuovo, sorrise e mi accarezzò il viso. Un intero pomeriggio al sole non era bastato a toglierle i tremiti di dosso.
«Dormiamo qui.» mi rispose.


Scelse la notte più breve dell'anno, per andarsene.
...andarsene. La delicatezza dell'eufemismo neppure mi sfiorò, quando spalancai le palpebre, destata da un colpo improvviso contro lo sterno che mi tolse il respiro. La stringevo ancora tra le braccia, come se ci fossimo appena addormentate.
«Hai paura?» sussurrai.
«Sì.» mi rispose qualcosa che non era voce ma... ma altro. Distante e irraggiungibile e diverso ma sempre lei, in qualche modo che non riuscivo a capire. L'ombra di ciò che era stata.
Nel buio, il mio respiro non trovava eco.
Serrai le palpebre, serrai le braccia attorno al suo corpo, e c'era qualcosa di incredibilmente angosciante nel toccare un cadavere, avevo il terrore e la speranza che all'improvviso ricambiasse la mia stretta, ma sapevo che non era lei, perché lei era altrove, distante e irraggiungibile e diversa, avevo sentito quel colpo sordo contro lo sterno che mi aveva svegliata e... e poi venne la realizzazione lacerante e per fermare il dolore chiusi fuori il mondo e la mia mente.
Non potevo sopportarlo.
Non potevo.
Volevo dormire.
E non ci fu il rimpianto e il ricordo e il pensiero del futuro spezzato, perché era troppo, troppo, per Asclepio c'era stato ma quello non era Asclepio, quello era un pezzo di me che si strappava e si perdeva. L'assenza pulsava alle tempie insieme al sangue, mi spezzava il respiro con il suo rimbombo implacabile.
Dormire, solo dormire.
Mi raggomitolai contro il suo corpo mentre i ginepri crescevano a nasconderci, affondavano le radici nel terreno e si tendevano intrecciati versi l'alto. Li nutrii delle mie carni fino a non scorgere più la luce della luna sulle mie palpebre chiuse.


Aveva la pelle bluastra e rigonfia di umori e fredda, oh così fredda là dove il mio abbraccio non arrivava a scaldarla. Aveva la gola congestionata, anche, che talvolta emetteva come un rantolo asmatico, quando un falso respiro si faceva strada. Gli insetti mi camminavano addosso per arrivare fino al suo corpo e deporvi uova a grappoli, e le larve che già strisciavano erano la misura del tempo trascorso.
Nel rifugio di ginepri l'aria era ferma, vi stagnava l'odore che hanno i corpi quando si disfanno. Oltre la rete intricatissima di arbusti, la voce di mia madre era un richiamo stridulo che mi spingeva a coprirmi le orecchie con le mani.
«Kore? Kore, ti prego-»
La tagliai fuori – solo dormire, solo non sentire.


Mi sentivo viva con un'intensità quasi assurda e al contempo soffocata da una cappa di nulla e ghiaccio e angoscia. Era come addormentarmi nella neve e svegliarmi tra le braccia dell'Invisibile, diventava sempre peggio, sempre più contrastante e stridente e nauseante.
Non lasciavo mai il corpo che era stato Calligeneia e che ormai era culla e rifugio e nutrimento di mille zampe.
Riuscivo solo a dormire, consumata da una fame che non poteva uccidermi. Sognavo viscere putrescenti e fosse scavate da larve affamate, paura e quel qualcosa distante e irraggiungibile e diverso, asfodeli in distese senza fine. C'erano davvero, gli asfodeli – per la prima volta dall'inverno. Affondavano le radici nella carne annerita per nutrire spighe bianche, fiorivano dal mio lutto lacerante e non capivo se fossero consolazione o sbeffeggio. Li odiai.
«Maledetto.» bisbigliai «Maledetto, maledetto, maledetto...»


«Fanciulla.»
L'aria di morte era tanto densa che non mi accorsi neppure del suo arrivo, così il suo richiamo mi colse impreparata. Non ebbi la forza di sussultare, ma socchiusi gli occhi restando rannicchiata. Dall'orbita vuota del corpo, proprio davanti al mio viso, una grossa larva tentò di strisciarmi sulla guancia.
«Fanciulla.»
Sospirai, la scacciai con una mano – troppo forte. Il suono della carne spappolata diede la nausea a uno stomaco già contratto.
Sentii che l'Invisibile tentava di violare il mio rifugio spezzando la vita dei ginepri. Nemmeno mi sforzai di resistere: semplicemente, quelli restarono ritti e vivi di fronte al dio della morte. Buffo, pensai. Io ero in lutto e il mio potere sembrava più intenso che mai. Non ebbi la forza di interrogarmi su quel contrasto.
Ma gli arbusti si piegarono, modellarono il loro intreccio come serpi per aprire un varco alle mie spalle – troppo intenso per controllarlo, quel potere. Traditori. Dallo squarcio nella mia bolla di pace filtrarono la luce e il calore bruciante dell'estate, cappa umida e soffocante, e aria pulita che non sapeva di morte. Affondai il naso tra i capelli radi e secchi del corpo.
Ogni passo sembrò un tuono, al mio udito inutilizzato troppo a lungo. Giunto alle mi spalle l'Invisibile coprì la luce che filtrava dal varco e mi avvolse di nuovo nell'ombra, ma ormai la bolla era scoppiata, l'illusione incrinata, il mondo esisteva e io non potevo più dormire. Mi forzava a esistere e a vivere.
Sospirai.
«Sii buono con lei, ti prego.»
La mia voce era arrochita da un silenzio di giorni. La sua, tiepida di distacco gentile.
«Hai ancora la sfacciataggine di chiedermi qualcosa?»
«...per lei, sì.»
«Alzati.»
Mi rannicchiai di più contro il corpo. Fu il suo turno di sospirare.
«Fanciulla.»
La sua ombra si abbassò, la luce tornò a filtrare mentre lui si inginocchiava accanto a me.
«Non...» mormorai «non ti avvicinare. So di morto.»
Lui rise piano e mi sfiorò il capo.
«Oh, Fanciulla. Questo dovrebbe fermare me
Non gli risposi, ma non mi ribellai al suo tocco e allora mi accarezzò ancora, fece scorrere le dita tra i miei capelli districando i nodi.
Mi sollevai a fatica, tenni ancora un braccio attorno al corpo di Calligeneia mentre l'altro ritrovava la mobilità. Colsi un asfodelo che cresceva dalla carne e lo porsi all'Invisibile a occhi bassi. Un'offerta ridicola, per quel che gli chiedevo. Sfacciata fino all'ultimo.
«Questo, almeno, non appassirà perché ci sei tu.» bisbigliai.
L'Invisibile ritirò la mano senza rispondere.
Aggiunsi: «Ti prego. Mi ha sempre fatto del bene.»
Mi prese l'asfodelo dalle dita, me lo mise tra i capelli con la goffaggine di chi un gesto simile non l'aveva mai neppure concepito. Mi sollevò il viso con una stretta che era quasi una carezza e guardandolo scoprii che era serio, ma di una serietà malinconica e morbida.
«Mi hai già chiesto qualcosa che non ti concederò mai. Su questo, posso accontentarti.»
Gli coprii mano con la mia, lui si chinò fino a toccarmi la fronte con la sua.
«Quando arriverai, lei sarà accanto al trono ad attenderti.»
Ogni risposta morì contro le sue labbra. Mi schiusi per lui mentre mi baciava, mi lambiva con la lingua quasi mi assaporasse, mi sfiorava morbido e lieve come mai si sarebbe detto a sapere che era Ade. No, era l'Invisibile. Era una dolcezza che bisbigliava sei preziosa, si prendeva le mie labbra senza pretenderle perché per la conquista e la battaglia ci sarebbe stato tempo ma non quel giorno, non quel giorno. Mi sfiorava con dita delicate che avrebbero potuto lasciarmi i lividi, e io mi scioglievo nella consapevolezza che anche se poteva non voleva. Sulle guance avevo solchi umidi; sulla lingua, sapore aspro di carne marcia. Mi piacque.
Nel mio rifugio di ginepri, con un cadavere al fianco e le larve che ci strisciavano addosso, l'Invisibile ingoiò il mio respiro e il mio lutto.

*

Le vidi storcere il naso e voltare il capo, quando arrivai portando il mio odore di morto e consunzione. Sussultarono e rabbrividirono e solo mia madre osò avvicinarsi per prendermi una mano – non mi abbracciò.
Il silenzio era assordante.
Mia madre mi accompagnò al torrente per lavarmi di dosso quell'odore. Abbandonata nell'acqua fresca, trovai finalmente sollievo dal calore bruciante dell'estate.
«Come stai?» le chiesi a bassa voce, mentre mi sfiorava una gota con i polpastrelli tiepidi.
«Tu?»
«...bene, credo.»
L'aria sapeva di lavanda e di alloro, e per la prima volta da giorni mi sembrò di non soffocare nell'odore di putrefazione.
Passò a pettinarmi con le dita.
«No, lascialo.»
Le fermai la mano prima che mi sfilasse l'asfodelo dai capelli. Candido tra le ciocche scure, era contrario e uguale a un livido violaceo sulla pelle chiara – segno della presenza, consolazione nell'assenza.
«Starà bene, lo sai?» mormorai, voltandomi a guardare mia madre. Aveva gli occhi lucidi.
«Lo spero.»
«Le ho gettato una manciata di terra sul petto e messo l'obolo in bocca per il traghetto. Arriverà incolume al giudizio, e dal giudizio non ha nulla da temere.»
«...chi ti ha spiegato i riti funebri?»
Sorrisi senza rispondere. L'Invisibile aveva persino portato l'obolo, immaginando che io non lo avessi con me.
...chissà a cosa servivano le monete, al traghettatore infernale.
Forse un giorno glielo avrei chiesto di persona.
«Intrecciami i capelli per il lutto.» le chiesi, con il sorriso appena più incerto.
«Ti procurerò delle vesti bianche, se vuoi.»
Il bianco era il colore del lutto e della neve e dell'Invisibile. Del narciso che per la prima volta mi aveva condotta a lui, del bucaneve che mi aveva dato forza in inverno, dell'asfodelo che portavo tra i capelli.
«Voglio.»

*

Quell'estate passò in fretta, tra vesti bianche e l'asfodelo che non sfioriva e il lutto che la notte, in solitudine, pesava sulle spalle. Tra sogni umidi e ninfe che avevano l'ordine di non lasciarmi mai sola e l'eco delle parole che Calligeneia avrebbe detto, dei sorrisi che Calligeneia avrebbe rivolto. Frutti di bosco asprigni il cui succo mi macchiava le dita come sangue, fiori nutriti delle mie risate. Malinconia dolce e nostalgia e il pensiero di Calligeneia che piano sfumava, e mi sembrava di non sentire più così spesso una voce che non c'era, di non aspettarmi più così tanto una carezza che non poteva arrivare.
Morsi quell'estate come un frutto dolcissimo e risi e corsi e vissi sotto il sole, con il caldo bruciante e l'acqua fresca e i fiori che nascevano dai miei passi. Gli asfodeli premevano sotto il terreno ma io li rispingevo giù, chiedendo loro perdono, perché già le ninfe stornavano lo sguardo pur di non vedere la spiga bianca tra i miei capelli. Già ammutolivano troppo spesso quando parlavo, e non ridevano con me, e faticavano a toccarmi. Mi intrecciavano corone di fiori, di alloro e rosmarino, e chissà che odore cercavano di coprire credendo che non capissi.
Nel caldo i loro doni seccavano subito.
La spiga tra i miei capelli restava viva e florida.
E allora risi e corsi e vissi ingoiando la solitudine, tentando di non preoccuparmi dei doni e del silenzio, godendo dell'estate in spregio al lutto.
Il primo giorno d'autunno ebbe il sapore di una sentenza inappellabile.

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Capitolo 6
*** Autunno ***


Autunno

Il sole si avvicinava alla linea delle colline, gemendo sprazzi di rosso nel cielo. Ne studiai i riflessi sul lago, sui capelli delle mie compagne immerse fino alle cosce. Da lontano, potevo ancora sentirle ridere – giocavano tra i bagliori rossi di un'agonia.
Tornai a guardare il sole, chiedendomi se si risentisse di quell'indifferenza.
«Ti rovinerai gli occhi.» commentò Ciane, accoccolata al mio fianco.
«Pare» sorrisi «che non sia concesso guardare neppure questa, di morte.»
Non feci caso al sussulto della ninfa. Sussultavano tutte così tanto, ultimamente, che avevo anche smesso di trovarlo interessante.
«...è così presto per il tramonto. M'intristisce.» mormorò Ciane.
Sorrisi ancora, ma questa volta debolmente, persa in una dolcezza distante.
«Torneranno i giorni lunghi.» promisi. E poi: «Intrecciami una corona.»
Fui costretta a distogliere gli occhi lacrimanti dal sole, li abbassai sulle dita abili della ninfa che torcevano lavanda. Le spighe già seccavano nell'autunno imminente, si spezzavano invece di piegarsi – di già, pensai con una fitta di malinconia, di già giorni brevi e fiori secchi. Il sole moriva piano nel cielo rossastro e così anche l'estate negli ultimi temporali, nell'ultima calura che sfumava verso il fresco. Avrei potuto ravvivare la lavanda, avrei potuto far sbocciare pratoline e chiedere ai narcisi di spuntare, ma non lo feci, perché si era fatto il loro tempo, e di nuovo al loro tempo sarebbero tornati floridi, ma non quel giorno. Non quel giorno, nonostante la malinconia, nonostante la compassione, perché era giusto così, così doveva accadere. Neanche i miei fiori sarebbero sfuggiti al fato.
E allora, godendo di quella malinconia giusta, accettai la corona di spighe spezzate che pungevano le dita.
«Grazie.»
«Andiamo?»
«Va' a chiamare le altre. Vi raggiungo.»
«Ma...»
L'obbedienza a mia madre le imponeva di non lasciarmi sola.
«Non c'è nessuno. Che potrebbe accadermi?» accennai con la mano al lago «Va'.»
L'obbedienza a me non sarebbe neppure stata contemplata, un anno prima, ma qualcuno mi aveva insegnato a indurire la voce e suonare imperiosa. Ciane andò.
Restai sola con il sole che quasi sfiorava le colline, le ombre che si allungavano e quella malinconia giusta, quella malinconia dolce. Nostalgia languida di qualcosa senza nome. Raccolsi le gambe al petto, strinsi la corona tra le mani e tornai a guardare il cielo, sentendomi sola, solissima, nonostante Ciane a pochi passi e le altre ninfe a portata di voce e... e.
E.
Assaporai la stasi, attimi d'attesa scanditi da un respiro che echeggiava appena più distante, appena più profondo del mio. Il sole sfiorò le colline e fu in quell'istante che comparve: ombra densa a oscurare il sole, e poi contorni solidi, sagoma nera a torreggiare su di me.
«Così teatrale.» mormorai. L'Invisibile non rispose e io non potei vederlo in viso, da quella prospettiva scorciata; ma le mani le avevo all'altezza degli occhi, pallidissime contro l'elmo nero, e nel silenzio quella stretta violenta era un urlo.
«Ti aspettavo.» tentai ancora. Ancora non ottenni nulla. Mi parve che dal lago salissero grida, ma era così difficile capirlo, con quel silenzio assordante nelle orecchie; e altre voci indistinte, e poi quella di Ciane che si avvicinava e ancora gridava e poi più niente.
La cosa più terribile fu che non mi importava. Quel silenzio annichiliva il mondo e io lo sapevo, oh, lo sapevo quel che significava, e cos'erano le grida di una ninfa in confronto?
Chinai il capo e chiusi gli occhi, forte, come a impedirmi di piangere.
«Ti prego, non chiedermelo.»
«Lo chiedo.» rispose l'Invisibile.
Fu per la sua voce che mi rannicchiai ancora, per il clangore dell'elmo gettato a terra che sussultai, ma furono le sue mani, gelo gelo gelo gelo di morte oh quanto mi era mancato, a trascinarmi in piedi. Mi strappai da quella stretta, o forse lui mi lasciò andare, e incespicai all'indietro con un grido che premeva in gola. Mi strinsi l'avambraccio, là dove bruciavano i segni delle sue dita, premendomelo contro il seno come a consolarlo dell'offesa. O della perdita. Il calore era insulto, solitudine straziante, mi sentivo pronta a sfaldarmi se le sue mani fredde non fossero tornate a reggermi.
L'Invisibile non mi toccò, ma restò con la mano tesa, vicina abbastanza da sfiorarmi se solo anche io avessi teso la mia. Se solo, se solo... non potevo. Mi premetti di più le braccia al petto, la lavanda che ancora stringevo mi graffiò il collo – corona ridotta a un fascio di spighe spezzate, fragilissime, come se i fiori fossero seccati all'improvviso.
«Non chiedermelo.» ripetei, implorandolo con la voce, con gli occhi, con tutto il corpo tremante per quel gelo assente che agognavo.
L'Invisibile serrò le labbra – lo vedevo in volto, ora, e se le mani erano state un urlo questo era era era troppo perché potessi sopportarlo. Chinai il capo, eppure ce l'avevo ancora davanti, impresso sulle palpebre, il sole morente dietro di lui e i riflessi di sangue sui suoi capelli, il pallore livido della sua pelle inasprito da ombre violacee.
«Guardami.» ordinò l'Invisibile e io gli obbedii, perché che altro potevo fare? Era stato lui a insegnarmi a indurire la voce e suonare imperiosa. Ma guardare la morte non doveva essere concesso neppure a me, perché mi ritrovai incatenata negli abissi del Tartaro, occhi neri come pozzi di morte che mi inghiottivano e- «Ti chiedo solo fino a primavera, Persefone.»
Non mi aveva mai chiamata per nome.
«Non posso. Non...» oh quanto sarebbe stato dolce accettare, perdermi nel gelo, bastava allungare una mano, bastava- dovetti artigliarmi il polso per costringermi a non farlo «Io servo qui.»
«Servi all'inverno, forse? Alle foglie cadute e alla terra ghiacciata?»
«Non esisterà inverno, se resterò. Mia madre non avrà moti-»
«Io.» mi interruppe a denti stretti, la mascella tesa «Io avrò motivo.»
Nei suoi occhi il Tartaro riluceva delle vampe del Flegetonte. Intrappolata sotto quello sguardo, sotto il peso di quella volontà implacabile, mi trovai a un soffio dal cedere, e allora scossi la testa con forza come a dire che no, no, non potevo non potevo non potevo perché doveva farmi così male? perché non mi lasciava in pace? e pensai a mia madre che benediceva la terra gravida di frutti e a Ciane intristita dai giorni autunnali, alle distese di neve, angoscia e freddo e fascino oscuro, oh quanto sarebbe stato dolce ma pensai ancora, pensai alle ninfe tremanti e allo sconforto nei volti scavati e non potevo non potevo non potevo perché
«Chi farà fiorire i bucaneve per sperare?»
«Fioriranno.»
«Tardi. Così tardi. Conosci le foglie cadute e la terra ghiacciata, tu, e non sai dell'attesa dei germogli a primavera, né i colori dell'estate, e l'angoscia oh questa angoscia che assale quando i giorni diventano più brevi. Non posso. Non posso, devo... hanno bisogno di me. L'estate, morirà l'estate, servirà la promessa del futuro. Non posso lasciare che... che...»

Come spiegare.
Come spiegare il calore esausto dell'estate che appassiva, ultimo immane inutile sforzo di giorni sempre più brevi, a chi invisibile viveva moriva di freddo e di buio. Come spiegare le camomille tardive e l'odore di lavanda, e artemisia partorita tra spasmi di temporali estivi. Come spiegare le unghie aggrappate alla vita alla luce sole calore fioriture, mentre già l'aria sapeva di freddo e la stanchezza avanzava, avanzava...
Come spiegare la lenta inesorabile sconfitta a chi invisibile trionfava.
Tra i miei capelli, una spiga bianca colta una volta e sfiorita mai più.
Tra le mie dita, lavanda secca che la brezza portava via.
Come spiegare la presa che si allentava, la resa, oh come spiegare a chi non sapeva o forse sapeva capiva s'immaginava la vita la luce sole calore fioriture sembrava che niente potesse tornare.
Odore di malinconia e mani vuote.

«...non posso.»
«Puoi.»
«L'estate...»
«L'estate morirà comunque.»
«Serviranno i bucaneve.»
«Tornerai per loro.»

Schiusi ancora le labbra, ma non trovando null'altro da dire
sfilai dai capelli la spiga bianca colta una volta e sfiorita mai più;
dita tese verso altre dita tese, e in quel tendersi
l'asfodelo che lentamente
sfioriva.

E allora sorrisi, perché nell'Invisibile vidi
la dolcezza dell'abbandono.

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