Il destino dei Dioscuri

di kk549210
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: La ricerca delle radici ***
Capitolo 2: *** Il giovane Polluce ***
Capitolo 3: *** Il giovane Castore ***
Capitolo 4: *** Il Generale Castore ***
Capitolo 5: *** Il Magnifico Polluce ***



Capitolo 1
*** Prologo: La ricerca delle radici ***


NdA:  Questo racconto, scritto appositamente per il Contest “V’è un piacere nello scrivere”, bandito da Chloe R. Pendragon e AmahyP sul Forum di efp, trae ispirazione dai “Fasti” di Ovidio. Ho voluto riprendere in chiave attuale la coppia mitologica dei Dioscuri, semidei gemelli dal destino inscindibile, seguendo il percorso parallelo di due personaggi; seminando qua e là piccoli indizi, ho inteso rendere il mio modesto omaggio all’allusività della grande poesia augustea - di Virgilio prima, e di Ovidio poi – e di creare, a mio modo, una sorta di percorso eziologico, di cui il prologo (intitolato proprio “La ricerca delle radici”) costituisce parte integrante.

 
Il destino dei Dioscuri
 
 
Prologo: La ricerca delle radici
 

Castelfranco Emilia (MO), marzo 2015
 
- Non so come si riesca ad accumulare tanta roba!
- Dai, Anna… lo sai! Nonna era davvero tremenda da questo punto di vista… non a caso il suo motto era “Perché buttare quello che prima o poi può servire?”. Questi mobili tra un po’ esplodono… Altro che roba utile: questa è la sagra dell’inutile!
- Ragazze! Sono tornato! - gridò Fabrizio dall’ingresso, chiudendo alle sue spalle la porta dell’appartamento.
- Bene… ora possiamo fare i sacchi per la Croce Rossa - osservò Michela, accennando ai vestiti già ripiegati sul letto matrimoniale e a quelli che ancora dovevano essere tirati fuori dall’armadio.   
Anna abbozzò un timido sorriso. In quella stanza avevano passato innumerevoli pomeriggi della loro infanzia, a saltare sul lettone di nonna Antonietta o a giocare a Barbie. Lei, la strana orfana, e Michela, la cuginetta di appena un anno più grande. La sorella maggiore che il Tribunale dei Minori le aveva donato dopo che sua madre era stata dichiarata incapace di intendere e di volere. Ora quel passato di giochi, scherzi e segreti era irreparabilmente perduto, reciso da una forbice inesorabile. Da tre settimane la nonna non c’era più: il suo cuore indebolito da due infarti e da tanti dispiaceri non aveva retto all’ultimo episodio di angina, e ora loro due  dovevano compiere il doveroso e pietoso compito di svuotarne l’appartamento, per fare spazio al futuro inquilino.    
Con l’aiuto di Fabrizio, le due ragazze riempirono i sacchi. Era stata una giornata faticosa e si sentivano tutti e tre molto stanchi e provati, e non solo fisicamente.
- Che ne dite di farci un tè? - propose Michela. In fondo, a pranzo avevano mangiato solo un panino e ora erano già le quattro e mezzo.
“Un tè leggero” pensò Anna con dolce amarezza, richiamando alla memoria l’abitudine della nonna di lasciare in infusione le bustine per pochissimo tempo, per timore di propinare alle sue bambine una bevanda eccitante.
- OK, Michi… però prima è meglio finire di svuotare anche questi cassetti. Se ci fermiamo ora, dopo ci passa la voglia e non finiamo più.
Il senso pratico di Fabrizio ebbe la meglio: in fondo, ci sarebbe voluta giusto una mezzoretta. “Se non ci fosse lui, come farei?” si disse Anna, pensando a quanta gioia e sicurezza avesse portato lui nella sua vita. Da sempre si era sentita come una pianta senza radici: non aveva mai saputo chi fosse suo padre e sua madre era per lei solo una sbiadita immagine. E la serenità della famiglia pareva sempre minacciata da un alone di gravoso mistero: gli occhi grigi della nonna talora si velavano d’una nebbia di malinconia e lo zio Gigi, il suo nuovo papà, aveva aspettato che Anna fosse maggiorenne per raccontarle la storia. E ora, quelle giornate passate a svuotare il vecchio appartamento di via Bertelli rappresentavano per lei non solo un’amara incombenza, ma una inconfessata speranza di ritrovare il bandolo della matassa mai completamente sbrogliata. Erano una sorta di ricerca delle radici, da cui ripartire per formare con Fabrizio un albero saldo, la loro futura famiglia.
Michela stava svuotando l’ultimo cassetto, selezionandone e distribuendone il contenuto negli scatoloni.
- È  incredibile! - gridò a un tratto, attirando l’attenzione degli altri due.
- Cosa c’è? - chiese Anna incuriosita.
La cugina le porse un grosso fascio di fogli, alcuni dattiloscritti, con cancellature e annotazioni a penna, ma la maggior parte completamente manoscritti.
“Studi e ricerche su Ovidio: il quinto libro dei Fasti - Emma Baraldi, 1983”: una tesi di laurea, evidentemente. La tesi di sua madre. 
- Ma mamma non si è mai laureata…
- Però la tesi l’aveva già scritta: guarda, sono più di 200 pagine…
- Il tuo babbo mi ha detto che le mancavano ancora due esami quando è stata ricoverata la prima volta…
- Avrà cominciato a scriverla prima di finire gli esami. Trent’anni fa l’Università era organizzata in modo diverso - fece Fabrizio.
- Il quinto libro dei Fasti… dove ho già visto qualcosa del genere? - pensò Michela ad alta voce.
- Non so, l’avrai studiato in uno dei tuoi esami di Latino… Non ti ricordi quanto ti ha fatto penare, quel professore?
“Ah, ecco dove l’ho letto” si disse la maggiore, scorrendo con le dita sullo schermo dello smartphone alla ricerca di un curriculum accademico. Quel fetente era nella rosa dei candidati a Rettore. “Trema, trema… il tuo trono sta per crollare”.
 

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Capitolo 2
*** Il giovane Polluce ***


Il giovane Polluce 
 


Ravenna, giugno 1979
 
- No, di nuovo! Anche quest’anno mi toccano greco e latino, uffa!
- A me solo greco, per fortuna… ma l’estate è rovinata lo stesso! Mia madre col cavolo che mi fa venire in spiaggia… mi manderà a lezione un giorno sì e uno sì!
- Certo che la Savini è una vera stronza! Ma cosa si aspetta, che studiamo questa roba vecchia? Mica siamo delle matusa come lei! Fortunata te, Patrizia: sei salva!
- La solita paracula! Tutti sei, a parte nove in ginnastica!
Appena diffusasi la notizia dell’uscita dei quadri, le Fantastiche della 1^B si erano date appuntamento in piazza Anita Garibaldi, appena fuori dall’Alighieri, per entrare tutte e tre insieme, compatte: l’etica del gruppo imponeva di farsi coraggio l’un l’altra in quel momento topico. E ovviamente di spettegolare senza pietà sui voti dei compagni. La Fortuna non le aveva particolarmente baciate nell’uscita dal tunnel del Ginnasio: al Liceo il Consiglio di Classe della sezione B era composto di autentiche carogne, vecchie cariatidi sopravvissute persino al terremoto del Sessantotto, che continuavano imperterrite a pretendere che gli studenti studiassero.
- La classe non è acqua! - esclamò la leader del gruppo, facendo un’aggraziata piroetta che mise ancor più in risalto le sue belle gambe sempre abbronzate che uscivano dagli shorts. Ma la Patrizia Mariani aveva un asso nella manica. C’era sempre Faustino a darle una mano e a strapparla al fiero pasto della Savini, che tanto amava massacrarli con camionate di Omero, Erodoto e Tucidide e montagne di esametri di Virgilio che inciampavano nella lingua. Per non parlare di Cicerone! Quasi quasi veniva da rimpiangere il caro, sadico Tabanelli con tutti i suoi aoristi e  sintassi dei casi in omaggio! Ma Faustino era bravissimo, al punto che aveva addirittura saltato un anno di scuola - forse alle elementari o alle medie - e non c’era testo latino che riuscisse a metterlo alle corde.  
- Guarda la Spadoni: ha fatto la media del nove anche quest’anno! - esclamò invidiosa la Marinella, atteggiando a una smorfia di disprezzo il visetto smunto incorniciato dai riccioli.
- È una secchiona schifosa! La prima della classe…  Ma non l’ha ancora capito che al Classico non c’è posto per i poveracci come lei? - le diede manforte la Simonetta, a cui le due materie a settembre bruciavano cocentemente.
- Non ti curar di lei, ma guarda e passa - fece la Patrizia, superiore. - E Faustino? - chiese con fare da ammiraglia, ordinando alle sue attendenti di scandagliare scrupolosamente il tabellone.
- Otto in Italiano, Dieci latino, Otto Greco, Sette Filosofia, Otto Storia, Sei Matematica, Sei Ginnastica…
- È un mito, il nostro Faustino! - cinguettò la Marinella entusiasta. Quel ragazzino magro magro, allampanato, con gli occhioni chiari e le membra un po’ rigide era proprio simpatico, per non dire molto carino, oltre a essere un fedele rifornitore di versioni, cosa che tornava utile durante le interrogazioni o i compiti in classe. Peccato che lei in Prima Liceo non fosse ancora riuscita ad imparare nemmeno il verbo eimì e che quindi l’intervento salvifico del loro eroe giovasse assai poco al suo caso disperato.
- Peccato che Attilio sia nella A! - osservò la Simonetta puntando il dito sul quadro della classe parallela- Ha nove in matematica! Con la premiata ditta Corradini, avremmo risolto tutti i nostri problemi.
- Macché matematica! - rise la Patrizia - Dilla tutta… gli muori dietro!
- Bè sì… Hai visto che figo in costume? Bisogna essere cieche per non svenirgli davanti…
- Anche Faustino ha un suo perché - disse timidamente la Marinella - I suoi occhi azzurri sono bellissimi!
Le amiche non poterono non darle ragione: il loro compagno di classe più giovane - avrebbe compiuto sedici anni solo alla vigilia di Natale - era un  ragazzo proprio bellino. Di buona famiglia, simpaticamente goffo ma spiritoso, timido narciso quando suonava la tastiera o la chitarra alle feste, Faustino affascinava le ragazze, forse perché, al contrario del fratello maggiore, risvegliava in loro un inconfessabile istinto materno.
- Evviva Oreste e Pilade, i due fratelli mitici! - esclamò la Simonetta, dando sfogo alla sua risata equina.
- I due fratelli sono Castore e Polluce, ignorante! - la rimbeccò la Patrizia, con arie da finta intellettuale. Quelli forse erano gli unici personaggi della mitologia che in tre anni di Classico fosse riuscita ad imparare.
 
 


Quell’anno era stato impegnativo: il Liceo non era certo la passeggiata che gli amici più grandi avevano più volte favoleggiato. La filosofia gli aveva dato alcuni grattacapi, per non parlare della matematica che era proprio la sua bestia nera. “Unicuique suum… in famiglia ci sono già abbastanza scienziati!”
Ma ora la lunga estate calda gli si offriva davanti, e lui desiderava godersela appieno, sulla spiaggia, con gli amici e il suo fratellone. L’unico suo cruccio era quello di essere dannato a una interminabile astinenza, poiché fino a settembre non avrebbe rivisto la Patrizia Mariani. Altro che Bagno Nettuno! Era ricchissima, lei, e passava le vacanze tra la villa in Sardegna e favolosi viaggi in altri continenti.
Il ragazzo ripose il Rocci e il Castiglioni Mariotti, insieme ai Carmina di Orazio che aveva appena acquistato: la preparazione al Certamen poteva attendere. Adesso era il momento del riposo del guerriero: era proprio così che si sentiva il giovane Corradini. A dispetto delle apparenze, egli aveva infatti la grintosa tempra di un pugilatore, mentre Attilio, il maggiore, era sempre stato dotato di un estroso intuito e dell’audacia un po’ folle di un domatore di cavalli.
Il clacson di un motore[1] chiamò Fausto dalla strada.
- È fantastico! - esclamò qualche minuto più tardi, balzando in sella dietro a suo fratello – Gigi te l’ha rifatto nuovo!
- Vedrai come voleremo, su via Trieste, sul mio Cavallino rampante!
E via, verso la libertà…
 

[1] Modo tipicamente romagnolo di chiamare la motocicletta

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Capitolo 3
*** Il giovane Castore ***


NdA: In questo capitolo e nei seguenti, che fanno chiaro riferimento a fatti e circostanze storiche reali (più o meno recenti e note), tutti i personaggi sono deliberatamente inventati o ne è stato mutato il nome, a parte uno chiaramente famosissimo e un altro la cui identità sarà spiegata a suo tempo in nota.

 
Il giovane Castore  


Base aerea di Istrana (TV)
10 settembre 1995
1642 ZULU[1]
 

"La fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte; e l’altro quarto ai loro delitti”[2]. Accarezzandosi sul petto della tuta da volo il gatto con i sorcetti verdi, simbolo del 51^ Stormo, il capitano Attilio 'Korra' Corradini si sentiva in pace con se stesso: la sua mano e i suoi riflessi non erano stati guidati da nessun intento delittuoso, ma solo dall'abilità e dalla perizia tecnica acquisite in tante ore di volo e dopo tante missioni rischiose, sfidando le leggi della fisica e a volte anche quelle della metafisica. Quanto alla Fortuna, la formidabile dea bendata adorata dagli schiavi dell'invitta Roma, l'amica machiavelliana dei giovani, non si sentiva a lei particolarmente debitore.
Quella notte ‘Korra’ avrebbe guidato di nuovo la squadriglia in un attacco su Novo Sarajevo, il quartiere totalmente controllato dall’esercito serbo. Erano venti giorni che le forze aeree della NATO erano impegnate nell’operazione Deliberate Force: notte e giorno i caccia europei si alzavano dalle basi italiane e i presuntuosi Top Gun venivano catapultati dal ponte della Roosevelt, per sferrare l’assalto decisivo alle posizioni nemiche. “Un’operazione chirurgica”, come era stata definita dall’Alto Comando e come riecheggiavano i mezzi di comunicazione: colpire uno dopo l’altro i punti nevralgici della forza occupante, lasciando indenne la popolazione civile. E da quel giorno, anche il lancio degli invincibili missili Tomahawk, deliberato dalla Casa Bianca,  avrebbe contribuito alla risoluzione del conflitto. “Sarajevo è assediata da tre anni, e noi ci siamo mossi solo da venti giorni”: le atrocità compiute al di là dell’Adriatico erano note a tutti, e l’Occidente era rimasto a guardare troppo a lungo. Nonostante l’indignazione, Attilio sapeva che le decisioni non spettavano certo a lui. Obbedire e combattere: questo era ora il suo compito, e il suo animo di ravennate lo spingeva ad agire con ancor più coraggio e ardore a dare il suo apporto per far cessare la guerra fratricida nel cuore dell’antico Impero Bizantino. Quella notte, lui e i suoi uomini avrebbero volato audaci e implacabili nel cielo sopra Sarajevo: un cuor solo e un’ala sola, per scendere in picchiata a 7G e riportare la pace in quella terra violentata.            
Poco gli importava che alla fine gli Americani si sarebbero presi tutto il merito di quella complessa operazione. Pur portando già con orgoglio diverse decorazioni sulla divisa d’ordinanza, il capitano Corradini non era interessato alla fama e alla gloria. Infatti, ripercorrendo di pensiero in pensiero, di azione in azione la sua vita in aeronautica, egli aveva sempre più la ferma convinzione che essa fosse il risultato di una salda e radicata volontà di servire il Paese e di mantenere la pace e la sicurezza là dove fosse necessario e doveroso, e al contempo l'incarnazione di quello che riteneva il suo desiderio più intimo, che aveva coltivato in sé fin dalla fanciullezza. Il sogno di volare. Una passione che si era accesa in lui grazie agli immortali versi di Ovidio letti in Quarta Ginnasio.
 
E già si erano lasciati a sinistra Samo, sacra a Giunone, e Delo e Paro,
e a destra avevano Lebinto e Calimne ricca di miele,
quando il fanciullo cominciò a prender gusto all’audace volo
e si staccò dalla sua guida, e affascinato dal cielo si portò più in alto[3].

O forse, quello che nell’abitacolo lo faceva sentire protetto come in una culla era un istinto atavico, una predestinazione che aveva sentito nascere ancor prima, ascoltando i racconti epici del nonno su Francesco, eroe della Grande Guerra. E ora, sentendosi scorrere ancora nelle vene qualche stilla di quel sangue glorioso, seduto ai comandi del suo aereo, fasciato nella corazza d'acciaio, ‘Korra’ si librava agile, potente e adrenalinico, uccello invincibile nel più alto dei cieli, macchina perfetta di salvezza per i giusti e di inesorabile castigo per i malvagi.  
 

- Che fai lì imbambolato? Non vieni a mangiare? - il tenente Mauro ‘Silvius’ Silvestri si era appena affacciato sulla soglia dell’alloggio. Mauro, il suo navigatore. L'angelo guida in ogni missione, la luce nelle tenebre a ogni atterraggio notturno, la fresca e corroborante compagnia che andava oltre la comunanza cameratesca e la condivisione del rischio. La prospettiva dell'ennesima cena frugale alla mensa ufficiali non lo allettava granché: anche se non particolarmente abominevole, la cucina della base non era certo segnalata sulla Guida Michelin e gli faceva rimpiangere i cappelletti al formaggio di sua madre. Ma il sorriso di ‘Silvius’ era così accattivante che ‘Korra’ lo ricambiò annuendo e lo seguì. Da quel giovane sottoposto emanava una speciale energia, una sorta di malìa ineludibile che lo turbava profondamente e gli faceva rivivere sensazioni dell’adolescenza, sopite ma mai completamente domate. Le spalle larghe e ben costrutte, la linea armoniosa del corpo atletico, il taglio deciso e virile della mascella italica gli richiamavano alla memoria lo scultoreo bagnino di quella famosa estate del ’78, a Lido Adriano.        
Ma il capitano Corradini non poteva certo gettare via la sua promettente carriera per quello. Novello Attilio Regolo, doveva e voleva essere fedele fino in fondo alla Patria e all’Onore e non lasciarsi distrarre in nessun modo dal sentiero che il destino aveva tracciato per lui.
“Alla prossima licenza, chiederò a Maria Teresa di sposarmi”. 
 
[1] Sistema orario militare che fa riferimento all’Ora Zero (GMT)
[2] Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis (dalla lettera del 4/12/1798)
[3]  Ovidio, Metamorfosi VIII 220-225 (traduzione di  Piero Bernardini Marzolla)

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Capitolo 4
*** Il Generale Castore ***


Il Generale Castore


Lugo (RA), 23 maggio 2015

 
- È per me un onore e un privilegio essere qui con voi, oggi, a celebrare la memoria del vostro più illustre e glorioso  concittadino. Ringrazio il sindaco per avermi invitato a questa cerimonia…
 
- Secondo te ne avremo per molto, qui? - bisbigliò la giovane fotografa, già stanca ancor prima di cominciare.
- Insomma, Samantha… lo so che dopo vuoi andare al mare, ma ora dobbiamo lavorare! - la zittì il collega.
Per Martino Fabbri, ultima ruota del carro alla redazione bolognese di “Repubblica”, era arrivata finalmente la grande occasione di scrivere un pezzo vero. Non uno di quei soliti trafiletti invisibili sulle vecchiette scippate alla Barca, o sull’inversione del senso di marcia in via dei Falegnami. Il capo l’aveva mandato a una cerimonia ufficiale, che rappresentava per l’Emilia Romagna una sorta di prova generale delle celebrazioni del centenario della Grande Guerra: la riapertura del Museo Baracca nella sua sede naturale, la casa natale dell’eroe, alla presenza delle autorità locali e di un pluridecorato alto ufficiale dell’aeronautica, lontano parente dello stesso pioniere del volo.
        
- È vero che a breve le sarà affidato il Comando Squadra Aerea? - l’inviato della “Voce di Romagna” si era già scatenato con le domande a raffica.
- Non ne so nulla. E comunque, non mi occupo di politica… - si schermì il generale con un sorriso.
- E suo fratello, pensa che diventerà rettore dell’Università di Bologna? - chiese Liverani del “Carlino”.
- Spero che i suoi colleghi lo scelgano: mio fratello Fausto è una persona di onestà cristallina e uno studioso geniale. Potrà essere un’ottima guida per l’ateneo.
Pronunciato da chi aveva due lauree con il massimo dei voti, una in Ingegneria e una in Fisica, quell’elogio poteva suonare un po’ ipocrita. A maggior ragione perché Attilio Corradini aveva anche scalato con sorprendente agilità il cursus honorum da ufficiale aviatore, distinguendosi con audacia ed onore in tutti i conflitti dell’ultimo quarto di secolo. Iraq, Bosnia, Kossovo, Afghanistan. Qualche anno prima era balzata agli onori della cronaca una sua rocambolesca missione di pace, durante la quale aveva portato in salvo dalla Sierra Leone cinque padri comboniani, a bordo di un C-130 con un motore in avaria.  Ma quell’uomo in divisa blu, con un tappeto di decorazioni sul petto, sembrava schietto e sincero. Anzi, quasi simpatico, con i suoi modi diretti e la sua gradevole facondia.
- Sorprendente che sia lei che suo fratello siate arrivati così in alto… - commentò maliziosa la cronista dell’”Unità”.
- Si vede che l’uovo da cui siamo usciti era buono… siamo italiani, ma l’arte della raccomandazione non ha mai fatto per noi - tagliò corto il generale ‘Korra’ - Signori, vi ringrazio per l’interesse che dimostrate nei confronti miei e della mia famiglia, ma siamo qui per ricordare Francesco Baracca e, insieme a lui, tanti altri giovani che hanno dato la vita per portare a compimento l’Unità nazionale. Dulce et decorum est pro patria mori[1]. Non dimentichiamo che siamo proprio alla vigilia del 24 maggio, data storica che ogni Italiano dovrebbe ricordare e onorare…  
“Questa visita è anche un affare di famiglia, però…” pensò Martino. Sotto sotto l’ospite d’onore voleva far parlare un po’ anche del suo privato, visto che si era presentato a Lugo accompagnato dalla moglie e dai figli, Cecilia e Francesco, oltre che dal suo attendente Bellavia. E la guerra - o meglio, la guerra dei cieli – sembrava registrata nel DNA di Corradini, visto che il  fu Attilio Biancoli, suo nonno materno, oltre ad essere un ragazzo del ’99, era cugino di Baracca e meccanico ed aviatore dilettante.
- Certo che il generale non è mica da buttare! - commentò Samantha, che dopo alcuni scatti sembrava aver recuperato miracolosamente la voglia di lavorare.
“La solita cretina” pensò Rossi, anche se non poteva darle torto: ‘Korra’ portava davvero bene i suoi cinquantatré anni. Con le tempie affascinantemente imbigite, un volto dai tratti gentilmente virili e uno sguardo vivo e penetrante, nonostante la rigidità militaresca della postura, emanava l’innegabile fascino che nella maturità sottentra alla bellezza giovanile.  Grazie a quella moglie così distinta e ai due ragazzi da copertina al suo fianco, più che un ufficiale dell’aeronautica, sembrava il candidato a futuro premier. “Di sicuro, vicino a Barack Obama non ci farebbe fare brutta figura”. Quello lì era troppo perfetto per essere umano.
Per un secondo, durante la visita al Museo, a Martino sembrò di cogliere qualcosa di strano. Uno sguardo, un cenno tra Corradini e il sergente maggiore Tancredi Bellavia. “No, non può essere!” si disse, scacciando via quel lampo importuno che non poteva che condurre la sua mente di giornalista su un periglioso fuoripista. Forse aveva ragione Giordano, il suo coinquilino, quando lo canzonava accusandolo di vedere gay dappertutto…
Brutto affare, essere single!
 

[1] Orazio, Carmina III 2, 13

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Capitolo 5
*** Il Magnifico Polluce ***


Il Magnifico Polluce
 

Bologna, 30 giugno 2015
 

“Siamo alle ultime battute nella corsa al Rettorato. Oggi, fino alle sedici, gli oltre cinquemila aventi diritto tra docenti, studenti e ATA dell’Alma Mater sono chiamati alle urne per decidere chi guiderà l’Ateneo bolognese per il prossimo sessennio. Al ballottaggio Fausto Corradini, di Lettere, e Giuseppe Maria Agosti, di Giurisprudenza. Corradini, 51 anni, ravennate, accademico dei Lincei, latinista di fama internazionale…”
 
Afferrò il telecomando e, con un gesto quasi stizzoso, fece ammutolire il fastidioso apparecchio. Cominciava a essere stanco di sentire i cronisti di Rai Regione tessere il suo panegirico in pillole,  gettare in pasto al pubblico all’ora di pranzo o di cena quasi trent’anni di carriera, neanche fosse ragù sulle tagliatelle. Quella percorsa fino ad allora era stata una strada lunga fatta di studi, sacrificio, rinunce, passione: un cammino a cui si sentiva destinato, quasi fin da ragazzino, quando l’incontro con le lingue classiche – con il latino in particolare – si era rivelato un autentico colpo di fulmine. E ora era a un passo dalla vetta più alta che un accademico potesse mai desiderare. “Sublimi feriam sidera vertice”[1]  pensò, insieme al suo Orazio, anche se una parte di lui desiderava ardentemente che lo spoglio di quel pomeriggio acclamasse vincitore Agosti e gli scaricasse sulle spalle quel pesante fardello politico. Essere rettore avrebbe comportato per il brillante filologo una lunga pausa nell’attività accademica, che era fatta di ricerca, didattica e dialogo con gli antichi e i moderni. “Se vinco, nei prossimi sei anni mi potrò permettere al massimo di scrivere le mie res gestae”, si disse con acre ironia. Fausto Corradini, ordinario di Letteratura Latina,  provava ora pentimento, delusione, rammarico, senso di vuoto. E l’impellente necessità di stringere tra le dita ingiallite l’ennesima sigaretta, per bruciare insieme al tabacco il macigno che gli gravava sulla coscienza. Dove aveva messo l’accendino? Il filo di fumo che repentino lo avvolse gli parve infinito, come quell’eternità che durava da trent’anni, e  dall’altro capo, ben chiara e visibile, c’era la sua prima sigaretta. 23 novembre 1984: sotto il portico, davanti al Trentadue[2],  appena volato giù dallo studio di Traina[3] dopo avergli presentato la sua proposta di tesi di laurea, si sentiva leggero e allo stesso tempo inquieto. Colpevole ma ingenuamente soddisfatto, aveva spento la sua ansia correndo al Tabacchi di Piazza Verdi, facendosi largo tra studenti e punkabbestia.
Il professor Corradini andò alla finestra dello studio, che si affacciava su Strada Maggiore: sulla via, persone di ogni età si affrettavano, chi a piedi, chi in scooter, all’appello pomeridiano dell’esame, a pranzo prima di rientrare in ufficio, o semplicemente a comprare le cipolle ai chioschi pakistani di piazza Aldrovandi. Dall’alto gli sembrava che tutti quegli esseri errassero smarriti, in cerca di una via nella vita[4]. Pur trovandosi nella sua turris eburnea, nemmeno lui era fuori dalla mischia: aveva percorso una strada di allori e di soddisfazioni, ma aveva perduto se stesso.
Fausto aveva tradito Emma, anche se mille volte si era detto che in fondo aveva reso onore al suo acume e al suo talento di filologa, consegnando al loro professore quella brillante ricerca che altrimenti non avrebbe mai visto la luce. Una scusa, come quella che la pericope dedicata ai Dioscuri contenuta nel quinto libro dei “Fasti” rappresentasse un chiaro segno che il destino gli offriva. O che in fondo, in un curriculum impeccabile come il suo, una macchiolina fosse perdonabile, a maggior ragione in quanto invisibile agli altri. Ma la sua coscienza l’aveva ben presente e gliela poneva continuamente dinanzi agli occhi: non una, ma mille volte avrebbe potuto tirarsi indietro, dire a tutti la verità, almeno in parte. Perché aveva insistito per far leggere quel lavoro a Traina, che avrebbe invece voluto affidargli una ricerca sui Carmina oraziani, a entrambi più congeniali? Sì, in quell’autunno dell’84 le schede di Archeologia romana del Torelli lo stavano mettendo in crisi, ma sarebbe riuscito ugualmente a scrivere una bella tesi e a laurearsi in corso, senza deludere nessuno. “Quante cazzate si fanno, a ventun anni”. La sua pigrizia e la sua vanità avevano partorito la sua nemesi: avrebbe voluto studiare Orazio o al limite Catullo, dedicando le sue energie e la sua vita all’elegante leggerezza della lirica latina, ma si era trovato legato a filo doppio alla più insincera delle opere di Ovidio. Correndo su quella strada non sua, era divenuto Ordinario a soli 34 anni, collega stimato di esimi antichisti di mezzo mondo. Peritissimo delle origini del calendario romano, più di tutto conosceva l’eziologia del suo male: aver immolato la sacralità dell’amicizia e l’onestà intellettuale sull’altare dell’ambizione e dell’orgoglio.
Emma Baraldi non c’era più da tanti anni, perduta nell’inferno delle strutture psichiatriche, ancor prima che decidesse di spegnere la propria infausta esistenza, all’età di 28 anni. Fausto non aveva conosciuto in vita sua una creatura più geniale e più fragile allo stesso tempo. Instancabile e sicura nello studio, piena di incertezze e pavida nella quotidianità dei rapporti, al punto di scrivere un’intera tesi di laurea e di farla leggere solo al suo migliore amico. Poi c’erano stati il crollo nervoso, la diagnosi di disturbo dissociativo e il ricovero. La ricerca sui “Fasti” era finita dimenticata in un cassetto, fino a quel maledetto autunno che aveva trascinato all’inferno anche lui.
 
 
Un’interferenza interruppe il flusso dei suoi pensieri. Al citofono, la voce della portiera gracchiava qualcosa a proposito di una consegna importante.
- Mi scusi, professore. Quando è rientrato mi sono scordata di darle la posta di oggi – disse la donna affacciandosi sull’uscio.
- La ringrazio, Ottavia.
La lettera di ringraziamenti del Festival del Mondo Antico, una cartolina di Cecilia da Brighton, una raccomandata dalla busta verde, l’estratto conto della MasterCard. Una busta verde? Com’era possibile, visto che in tanti anni di guida non aveva mai commesso un’infrazione, e anche negli ultimi tre mesi si era sempre comportato da automobilista modello?                     
“Querela di plagio a carico di Corradini Fausto, nato a Ravenna il 24/12/63 da parte di Baraldi…”
Le Erinni erano giunte alla sua porta a reclamare il loro conto di lacrime e sangue. Un uragano stava per travolgere la sua intera esistenza, ma Faustino si sentiva pronto a rinascere in quel lavacro lustrale.  



NdA: 
Una delle tradizioni mitologiche su Castore e Polluce vuole che dalle due uova dischiuse di Leda uscisse una doppia coppia di gemelli (una maschile e una femminile)…
Grazie di cuore a tutti i lettori per avere seguito questo racconto fino alla fine.

 
 

[1] Ibid. I 1, 36
[2] Il civico 32 di Via Zamboni, al terzo piano, ospita tuttora il Dipartimento di Filologia Classica e Medievale dell’Università di Bologna
[3] Alfonso Traina, ordinario di Letteratura Latina all’Università di Bologna fino al 1997
[4] Traduzione adattata di Lucrezio, De rerum natura II 20

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