Bird With a Broken Wing di SinisterKid (/viewuser.php?uid=225968)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Capitolo I ***
Bird With a Broken Wing Prologo
Capitolo I (SinisterKid) - Hai capito? - chiese con aria arrogante,
sbattendo il bastone su cui si reggeva sul vetro della cella di stasi che aveva
di fronte. – Hai capito cosa devi fare? Il Soldato d’Inverno abbassò il fucile e rivolse uno sguardo privo
di espressione alla lunga fila di uomini privi di coscienza che l’HYDRA si
aspettava che lui addestrasse a dovere. Notò che il numero di americani era
aumentato di parecchio nelle ultime settimane: reduci di guerra, ragazzini del
ghetto, invalidi pronti ad essere perfezionati. In poche parole, gli scarti di
cui l’America voleva solamente sbarazzarsi. Il Soldato annuì prima che il suo
superiore potesse nuovamente inveire contro di lui. Gli ordini non vanno
contrastati e alle domande va data una risposta, gli avevano ripetuto più volte
e altrettante volte egli avrebbe dovuto ripeterlo ai suoi sottoposti
attualmente dormienti. - Aizzare un esercito di americani contro la loro maledetta madre
patria sarà la nostra mossa vincente e del tutto inas … - Herr Reinhardt, ne abbiamo trovato un altro – proclamò
solennemente un agente circondato da un gruppo di uomini che sorreggevano un
corpo apparentemente deceduto. Il Soldato D’Inverno e Werner Reinhardt si girarono di scatto. - Fatemelo vedere, stolti – tuonò il superiore. – e non osate mai
più interrompermi durante una conversazione. La vittima venne mostrata, priva di gambe e dell’orecchio sinistro,
con il torace marchiato da varie cicatrici. Sembrava inutilizzabile per
qualunque mansione, ma sulle labbra del grande capo era già apparso un sorriso
compiaciuto che lasciava poco all’immaginazione. Il Soldato faticava a
comprendere tale entusiasmo e si limitò a seguire la discussione e ad aspettare
nuovi ordini. - Gambe bioniche, decisamente sì. Con un paio di gambe bioniche,
questo rifiuto umano diventerà il nuovo fiore all’occhiello dell’HYDRA – disse
Reinhardt scrutando attentamente la nuova recluta. Si rivolse al Soldato che lo
seguiva come una guardia del corpo – Peccato che tu abbia perso solo un braccio,
saresti potuto essere molto più efficiente con un paio di arti artificiali in
più. Vedrai cosa sarà in grado di fare questo qui. Gli agenti annuirono, compiaciuti a loro volta. Sentendosi
minacciato, il Soldato alzò appena il fucile verso di loro, senza farsi vedere. - Da dove l’avete pescato? L’avete identificato? - L’abbiamo salvato in tempo dal fiume Hudson. Supponiamo sia stato
aggredito dalla Vedova Nera, Herr Reinhardt. Reinhardt sgranò gli occhi, incredulo, per poi scoppiare a ridere
rumorosamente. Il Soldato aspettava solamente l’ordine di sterminare chiunque
in quella stanza. - Questo sarebbe un agente dello S.H.I.E.L.D.? Vorreste farmi
credere che un agente dello S.H.I.E.L.D. sia stato fatto fuori da una donna? - Agente David Hoffman in persona, uno dei collaboratori più stretti
della direttrice Carter, Herr Reinhardt. Reinhardt fece una smorfia udendo quel nome. L’odio per quella donna
era talmente forte da competere solamente con quello provato per il dannato
Capitan America. - E a proposito della direttrice Carter, i nostri infiltrati hanno
confermato quello che sospettavamo: quella cagna sta indagando su di noi,
malgrado i nostri stiano tentando di dissuaderla. - Ma davvero? – fece sarcasticamente Reinhardt che da tempo non
aspettava altro che un pretesto qualsiasi per far fuori Peggy Carter. – Suppongo
sia giunto il momento di agire, amici miei. Si voltò verso il Soldato D’Inverno, pronto ad obbedire agli ordini. - Soldato, sai esattamente cosa fare. HAIL HYDRA! Si alzò un coro unanime, mentre il Soldato D’Inverno restò in
silenzio. - HAIL HYDRA!
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Capitolo 2 *** Capitolo II ***
Bird With a Broken Wing I
Peggy
si domandava quand'è che aveva ceduto al caos. La direttrice dello
S.H.I.E.L.D. era sempre stata l'esatta definizione di precisione e di
organizzazione ma, da qualche tempo, le parole "precisione" e
"organizzazione" non erano proprio le prime che sarebbero venute in
mente a chiunque avesse avuto modo di osservare il suo
ufficio. Da mesi, ormai, sulla scrivania non facevano che
ammassarsi pile e pile di fascicoli e di rapporti, ad un ritmo
che lei non riusciva più a gestire. Che nessuno, in effetti, sarebbe
riuscito a gestire. Peggy si massaggiò gli occhi con una mano mentre si
abbandonava sulla sedia, esausta. Le indagini le sembravano arrivate ad
un punto morto: decine e decine di fatti e di eventi a cui non riusciva
a trovare un collegamento, un nesso logico, un senso qualsiasi. Sapeva
di avere tra le mani qualcosa di grosso, ma non riusciva a venirne a
capo. Indagava, ma non sapeva nemmeno bene su cosa. Di certo c'era
soltanto il chi:
l'HYDRA. Dieci
anni dopo la fine della guerra, la divisione scientifica nazista era
strisciata fuori dall'ombra in cui si era nascosta, decisa a
tormentarla e a mettere in discussione tutto ciò che aveva costruito
fino a quel momento. E proprio "Fuori dall'ombra,
alla luce del sole" fu il
messaggio che le venne recapitato personalmente, per far sì che
sapesse, e con lei tutto lo S.H.I.E.L.D., che i loro guai erano appena
cominciati. Inconsciamente infilò una mano nella tasca ed estrasse il
suo distintivo, quasi a volersi assicurare che fosse intatto: tutto
quello che aveva costruito, infatti, era rappresentato da quel piccolo
oggetto di pelle nera, da quell'aquila stilizzata incisa sul davanti.
Restò ad osservarla, tracciandone i contorni con un dito. Nel
farlo, Peggy non riusciva a smettere di pensare a quanto
calcolato sembrasse il tempismo di quel ritorno: in piena guerra
fredda, con ogni agenzia governativa, compresa la
sua, impegnata a contrastare l'Unione Sovietica e il KGB con
un dispiego di risorse senza precedenti, l'HYDRA non avrebbe
potuto scegliere un momento peggiore per uscire allo scoperto. E un
attacco diretto… la direttrice non era certa che sarebbero stati in
grado di respingerlo. Sicuramente
era la stanchezza a parlare, ma Peggy si chiedeva spesso se avesse
fatto tutto il possibile. La ricomparsa dell'HYDRA era qualcosa che
avrebbe potuto prevedere? O che avrebbe dovuto prevedere?
Con la mente tornò a quando, nel maggio del 1945, subito dopo aver
ritrovato Steve, era stata richiamata in Europa. Lei e il 107esimo
reggimento, l'Howling Commando, erano riusciti a prendere finalmente
possesso dell'ultima base HYDRA conosciuta, tanto da convincerli di
averla finalmente sconfitta. Si erano sbagliati, adesso era più che mai
evidente, ma c'era, fin da allora, qualche indizio che lo facesse
presagire, oltre alle parole di Werner Reinhardt? Qualche
indizio che lei non aveva colto? "Tagliata una testa,
ne cresceranno due al suo posto" aveva minacciato
l'Obergruppenführer delle SS mentre veniva arrestato e preso
in consegna dall'SSR. "Allora suppongo che
continueremo a tagliarle" era
stata la risposta spavalda di Peggy, convinta che si trattasse soltanto
della minaccia a vuoto di un fanatico che in quel momento aveva perso
tutto. Negligente?
No, non era stata negligente. All'epoca non avrebbe potuto fare niente
di più di quanto avesse già fatto. Il problema, non faceva che
rimuginare Peggy, era ora. Ora che esisteva lo S.H.I.E.L.D., e
che era stato affidato al suo comando. Per quanto assurdo potesse
sembrare, a volte pensava che durante la guerra fosse tutto più
semplice. Durante la guerra gli ordini doveva soltanto eseguirli, ora
invece era quella che li impartiva. E nel farlo, il dubbio se
stesse o meno agendo nel migliore dei modi era sempre lì ad
angosciarla. Da lei dipendeva non solo l'esistenza
dell'organizzazione, ma la vita stessa degli agenti che vi lavoravano.
Ora che più che mai avvertiva il peso del mondo sulle spalle, e temeva
di non riuscire a reggerlo. Sì,
invece. Sì che ci sarebbe
riuscita, le avrebbe ribattuto Steve, perentorio. Era sempre stata
brava nel suo lavoro, probabilmente la migliore, e lui odiava quando la
vedeva sminuirsi in questo modo. "C'è
un motivo se hanno chiesto proprio a te di esserne la direttrice, no?". Con
il pensiero che era corso a casa, il suo sguardo venne attratto
dell'unico oggetto sulla sua scrivania capace di infonderle un senso di
pace: una foto incorniciata che ritraeva lei e Steve abbracciati, e i
loro due cuccioli. Bucky avrebbe di sicuro obiettato, dall'alto della
saggezza dei suoi otto anni, l'uso di quell'appellativo. "Ma
mamma, non sono un cucciolo, sono grande!". Poi
Bianca avrebbe replicato in qualche modo, e due avrebbero iniziato a
battibeccare. Peggy sorrise: rispetto a quello che stava vivendo al
lavoro, quello era tutto un altro genere di caos, un caos che qualche
anno prima non avrebbe mai pensato avrebbe amato così tanto. Per un
attimo, il suo mal di testa parve affievolirsi. Il sollievo, però, durò
fin troppo poco, e un lieve bussare alla porta la riportò alla
realtà. La direttrice si lasciò sfuggire un sospiro. -
Avanti. -
Signora, il rapporto su David Hoffman. -
Grazie, Underwood. L'agente
girò sui tacchi e richiuse la porta dietro di sé, lasciando Peggy a
fissare il fascicolo con aria stanca. Non lo aprì nemmeno, sapeva già
cosa vi era scritto: la scomparsa, e la probabile morte, di uno dei
suoi uomini migliori. Non solo. David era, prima di tutto, un amico.
Incredibile pensare a quanto pesanti, in termini di responsabilità,
potessero apparire dei semplici fogli di carta. Perché anche in questo
caso, Peggy non poté fare a meno di pensare che, forse,
quel rapporto appena arrivato sulla sua scrivania
fosse solo colpa sua. Aveva sottovalutato il nemico affidando
il caso ad una squadra ridotta, seppur estremamente capace ed esperta.
Le sue intenzioni erano quelle di non metterlo in allarme, ma alla fine
la sua decisione si era rivelata un imperdonabile errore di giudizio di
cui - era certa - avrebbe dovuto rendere conto alla famiglia Hoffman.
Era corsa ai ripari, è vero, istituendo una task force addetta soltanto
ad indagare sulla Vedova Nera, ma troppo tardi. Sicuramente, tardi per
David. Non poteva permettersi di fare lo stesso errore anche con
l'HYDRA, no. Per quella, avrebbe impiegato tutte le risorse a sua
disposizione, ma aveva paura che non sarebbe stato sufficiente. A
differenza, infatti, della contrapposizione con l'Unione Sovietica,
iniziata apertamente appena dopo la fine della guerra, con l'HYDRA
partivano con uno svantaggio di ben dieci anni, un'enormità. Certo,
Steve le era d'aiuto, collaborando con lo S.H.I.E.L.D. come risorsa
esterna, ma nemmeno Capitan America poteva fare più di tanto nei
confronti di un nemico uscito sì alla
luce del sole, ma comunque invisibile. Ed era stato proprio
Steve, in effetti, a consigliarle più volte di cercare assistenza anche
da qualche altra parte. Un cambio di prospettiva, diceva, forse
l'avrebbe aiutata a dare una svolta alle indagini. Peggy
afferrò la cornetta del telefono e compose un numero a memoria. La
persona che stava cercando rispose al secondo squillo. - Ciao,
Daniel - esordì,
sorridendo leggermente. Sperava che la stanchezza e la frustrazione non
avessero la meglio sul suo tono di voce, perché, al di là delle
spiacevoli circostanze che l'avevano spinta a telefonargli, era davvero
felice di sentirlo. - Avrei bisogno di una mano.
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Capitolo 3 *** Capitolo III ***
Bird With a Broken Wing II
Capitolo II (SinisterKid)
Daniel Sousa guardò distrattamente l’orologio
che portava al polso e diresse il suo sguardo verso la fine della strada. Allo
scoccare esatto delle quattro del pomeriggio, il suo fidato braccio destro
Danny Rand fece capolino all’uscita di una delle pasticcerie più stimate di
Manhattan con in mano quella che Daniel presumeva fosse una torta. - Agente Sousa - salutò cortesemente il giovane Rand sorridendo. - Hey, Danny! - ricambiò entusiasta Daniel che per quel nuovo
arrivato provava un’immensa stima. “Eccitato all’idea di entrare a casa di due
leggende viventi?” Danny Rand lo fissò intensamente negli occhi e sul volto apparve uno
strano sorriso sbilenco. – Non può neanche immaginare quanto. A volte Danny sapeva essere inquietante a causa di certe occhiate o
battute, eppure Daniel aveva riposto in lui tutta la sua fiducia nelle sue
mani, come aveva fatto con Peggy. L’agente Rand era arrivato allo S.H.I.E.L.D.
da poco più di sei mesi e fin da subito aveva attirato l’attenzione di Sousa
che aveva scorto in lui un certo potenziale e per il quale provava una grande
compassione. Arruolarsi allo S.H.I.E.L.D. in un momento critico come questo era
una scelta davvero coraggiosa per un ragazzo che non aveva più di una ventina
d’anni e non aveva neanche combattuto in guerra. Danny aveva guadagnato la
stima del magnanimo Sousa in primis per questo e, in un secondo momento, per
avergli salvato la vita durante una colluttazione con un membro dell’HYDRA. Di Danny ci si poteva fidare e Daniel aveva costretto anche Peggy a
farlo, rendendolo partecipe in varie operazioni di primaria importanza. La
direttrice Carter diffidava dell’agente Rand, ma, allo stesso tempo, era
convinta che la smisurata fiducia che Sousa provava nei suoi confronti
significasse pur qualcosa e dopo vari ripensamenti, aveva deciso di inserirlo
nel caso della scomparsa di David Hoffman. Steve le aveva detto di fidarsi ed era quello che Peggy stava
cercando disperatamente di fare.
Una volta saliti in auto, Daniel non fece altro che studiare con
devota attenzione il dossier sulla scomparsa dell’agente David Hoffman mentre
attendeva pazientemente di arrivare a destinazione. Il traffico pomeridiano
newyorkese era quanto di peggio potesse esistere per un uomo che andava di
fretta, ma la lettura di quel rapporto era più che sufficiente per distrarlo
dalle imprecazioni scurrili dell’autista e dai vari clacson che si alternavano:
l’enigmatica e improvvisa scomparsa di uno dei migliori agenti in circolazione
avrebbe tenuto sveglio per ore chiunque. Danny Rand sembrava ipnotizzato dal panorama che scorgeva dal
finestrino, mentre Daniel non riusciva a capacitarsi di come il fidato braccio
destro della direttrice Carter si fosse dissolto nel nulla facendo perdere ogni
traccia di sé. Probabilmente era morto, probabilmente era vivo, chi poteva
saperlo? Possibile che fosse semplicemente annegato nel fiume Hudson come un
comune barbone alticcio? Ma allora perché il cadavere era impossibile da
trovare? Che la Vedova Nera lo avesse trasportato altrove? Che l’HYDRA lo avesse
rapito e seviziato per lanciare un chiaro segnale a Peggy? Diamine, quante
domande e pochissime risposte. Daniel sentiva di trovarsi di fronte ad un
intricato puzzle del quale non aveva nemmeno i pezzi. E le migliaia di
sparizioni di invalidi e senzatetto c’entravano qualcosa con questa storia?
C’era davvero un filo conduttore? E se c’era, conduceva all’HYDRA? - Maledetti fanatici - mormorò tra sé e sé. - Come ha detto, signore? -, domandò l’autista distrattamente con un
marcato accento polacco. - Nulla, nulla. Continui a guidare, Kaminski. - Uhm -, brontolò quest’ultimo, abituato ormai ad origliare
conversazioni degli agenti dello S.H.I.E.L.D senza capirne mai nulla. - Ha
notato l’ottimo lavoro che la polizia ha fatto con quei senzatetto, agente
Sousa? Guardi come sono sicure le strade adesso! Daniel chiuse di scatto il dossier e strabuzzò gli occhi. - La
polizia, ha detto? Da quando in qua la polizia ripuliva i marciapiedi dai senzatetto?
Era assurda solamente l’idea. - Certo, signore. Chi dovrebbe occuparsi di noi, Eisenhower in
persona? - ribattè divertito Kaminski. - E’ da un paio di settimane che vedo
uomini in divisa raccattare handicappati e ubriaconi in ogni quartiere come
fossero cani randagi. Dovrebbe vedere com’è ridotta adesso Hell’s Kitchen … altro
che inferno, adesso è un paradiso! - Mi sembra una sciocchezza, Kaminski. Guardi troppa televisione, a
mio parere - , fece con velata arroganza Rand distraendosi per un attimo dalla
sua ipnosi. - Agente Rand, so quello che ho visto! – sbottò furioso Kaminski che
detestava venir contestato dalle nuove reclute. Daniel si bloccò per un istante, tentando di mettere ordine tra
tutte le informazioni che aveva ricevuto. Non c’era soltanto qualcosa di strano
in questa faccenda, no. Questa faccenda era qualcosa di totalmente e
inequivocabilmente assurdo. La polizia non raccattava uomini dalle strade, cosa
avrebbe dovuto farne poi di loro? Dovrebbe riempire le galere con invalidi e
ubriaconi? No, non aveva alcun senso - Solo che … c’era qualcosa di strano in quei poliziotti, capisce
cosa voglio dire, agente Sousa? Rand sbuffò e Daniel pensò che Danny fosse ancora troppo inesperto
per vedere lo zampino dell’HYDRA in qualunque cosa li circondasse. Pregò
Kaminski di accostare per raccontagli meglio cosa avesse visto. - Qualcosa di quanto strano? L’autista, impallidito, si voltò verso Daniel. Gli occhi in preda al
panico e la bocca appena aperta. - Il loro modo di parlare, il loro atteggiamento … mi hanno
ricordato i nazisti contro cui ho combattuto in guerra – rifletté per un istante guardando dritto
negli occhi Daniel. – Mia moglie dice sempre che vedo nazisti ovunque vada,
eppure quei poliziotti mi hanno gelato il sangue nelle vene. Giurerei che
fossero tedeschi, ma quei bastardi ormai sono morti e sepolti, dico bene,
signore? L’agente Sousa si sforzò di ridere, anche se di divertente c’era ben
poco. L’HYDRA si aggirava per la città
ed era più potente e inarrestabile di quanto lo S.H.I.E.L.D. potesse
immaginare. Stasera a cena dai Rogers ci sarebbe stato molto su cui discutere,
a quanto pareva. - Dice benissimo. Il nostro è un paese libero, ormai, vecchio mio –
esultò Danny che non vedeva l’ora di chiudere questa discussione insensata. - Non ha niente di cui preoccuparsi, Kaminski – disse Daniel. O quasi.
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Capitolo 4 *** Capitolo IV ***
sjfpasoijf Capitolo IV (PieraPi)
L'auto accostò davanti al vialetto di casa Rogers in perfetto orario, nonostante il traffico infernale incontrato in centro. -
Capolinea, signori - annunciò Kaminski. Come sempre, quando
accompagnava Daniel Sousa, l'autista ruotò appena lo specchietto
retrovisore per assicurarsi che l'agente non avesse problemi a uscire
dall'abitacolo: Sousa aveva perso una gamba in guerra, e camminava con
l'ausilio di una stampella. Anni addietro, la prima volta che era stato
il suo chauffeur, era ripartito prima che il passeggero avesse avuto il
tempo di scendere, e sarebbe stato imbarazzante ripetere di nuovo
quell'errore grossolano. Per sua fortuna, l'agente l'aveva presa con
molta sportività, come tutto, del resto, ciò che riguardava la sua
disabilità. Kaminski lo ammirava per essere stato in grado di mantenere
il suo carattere solare, nonostante quello che aveva dovuto subire in
guerra: lui era tornato tutto intero ma, come gli faceva notare spesso
sua moglie, più scontroso. Osservò Daniel Sousa infilarsi i fascicoli
sotto braccio e uscire dall'auto senza evidente difficoltà. L'autista
riposizionò lo specchietto in modo che fosse adatto alla guida, e
ripartì sgommando. I
due agenti si avviarono su per il vialetto. Una piccola bicicletta,
abbandonata al centro del giardino, attirò l'attenzione di Danny Rand. - Ci saranno anche i bambini, stasera? - Credo di sì - rispose Daniel. - È un problema? Rand
ci mise un po' a rispondere, ancora intento a studiare la bicicletta. -
No - rispose infine, alzando lo sguardo sul suo collega, e
rivolgendogli un sorriso caloroso. - Affatto.
*
- Sveglia, direttrice Carter, che la guerra è finita. Peggy,
seduta sul piccolo divanetto del suo studio, alzò lo sguardo dalle
carte che stava leggendo, e lo posò su Steve, fermo sull'uscio della
porta, le mani in tasca e una spalla appoggiata allo stipite. - Dipende a quale guerra ti riferisci. -
Dettagli. Se non altro, vedo il bicchiere mezzo pieno. Tu ultimamente
non vedi più nemmeno il bicchiere! Non ne avete di oculisti, lì a allo
S.H.I.E.L.D.? Peggy si lasciò sfuggire un sorriso - Attento, Capitano, potrei mandarti a dirigere il traffico! Suo marito alzò le mani in segno di resa, entrò nella stanza e le sedette accanto. - No, seriamente, oggi mi sembri più pensierosa del solito. Che c'è che non va? L'indagine? -
Tra le altre cose. È che… non lo so, ero al telefono con Daniel, prima,
e ha confermato la presenza di quel Danny Rand. Ecco, c'è qualcosa in
lui che non mi convince. Steve
non aveva mai incontrato Danny Rand, e di lui sapeva solo quello che
aveva sentito dire: giovane, molto capace, aveva dimostrato in più di
un'occasione di essere uno che sapeva il fatto suo. Però Peggy, per
qualche ragione, dubitava di quell'agente. Steve si fidava dell'istinto
di sua moglie, ma qualunque cosa la turbasse, lui non era in grado né
di confermarla, né di smentirla. Dal canto suo, Peggy aveva
deliberatamente evitato di confessargli, ogni volta che gli parlava dei
suoi dubbi su Rand, la cosa che più di tutti l'aveva colpita: l'aria
incredibilmente familiare. C'era qualcosa, nelle sue espressioni, negli
occhi, perennemente nascosti dietro un paio di eleganti occhiali da
vista, e nella sua voce, che le ricordava il sergente James Barnes…
Bucky, il miglior amico di Steve. La sua morte, avvenuta in guerra
dieci anni prima, era ancora una ferita aperta per suo marito, e lei
non voleva sollevare la questione al solo - inutile - scopo di fare
conversazione. D'altronde, Steve conservava tantissime foto di Bucky, e
avevano un figlio che portava il suo nome, così Peggy aveva finito per
convincersi che era quasi normale vedere Bucky in una persona che gli
assomigliava tanto. - Vedrai che ne verrai a capo. - Di cosa? Di Rand, dell'HYDRA…? - Di tutto. - Dici? - Mi sono mai sbagliato? - Beh, ti ricordi quella volta in cui… - iniziò Peggy, ma Steve la interruppe. - Era una domanda retorica. La
direttrice Carter si lasciò finalmente andare ad una vera risata, e per
un brevissimo istante le sue preoccupazioni scomparvero. Almeno fino al
trillo del campanello, che le ricordò il motivo per cui attendevano
ospiti. Udì provenire, dal piano di sotto, lo scalpiccio di due piccole
paia di piedi che si affrettavano verso la porta. - Andiamo noi, andiamo noi! - annunciò la voce di una bambina. Il portone d'ingresso si aprì sui due agenti che parlottavano tra loro. - Daniel! - esclamarono Bianca e Bucky in coro. I due bambini stravedevano per lui, che praticamente li aveva visti crescere. - Ciao, ragazzi! Fate voi gli onori di casa? Bucky lo guardò con aria interrogativa. - Vuol dire accogliere gli ospiti - intervenne Bianca. - Guarda che lo so che cosa vuol dire fare gli odori di casa! - Gli "onori", tonto! - replicò a sua volta la sorella, sotto lo sguardo divertito di Daniel. Peggy e Steve si guardarono. - Sarà il caso di sedare la rissa, prima che degeneri - propose lei.
Bucky
e Bianca non avevano occhi che per Daniel, e Rand era rimasto in
disparte, ma non sembrava che la mancanza di attenzioni lo disturbasse.
A lui le cose piaceva di più osservarle a distanza. -
Vuoi sentire una storiella? - iniziò Bucky, proseguendo senza attendere
una risposta. - Dice così: c'è un tizio con una gamba di legno di nome
Smith. E poi c'era un altro tizio, e quest'altro tizio dice: come si
chiama quell'altra gamba? -
James! - lo rimproverò Peggy, sopraggiunta proprio in quell'istante.
Lanciò a Daniel uno sguardo mortificato, poi tornò a rivolgersi al
figlio più piccolo - Che ne dici di comportarti bene? -
Ma no, Peg, tranquilla! - Daniel le sorrise divertito - Anzi, potrei
usare quella storiella per rompere il ghiaccio al bar. Lo sai, le
ragazze adorano gli zoppi col senso dell'umorismo. -
Davvero? - si intromise Bucky, ma Bianca lo prese per un braccio e
iniziò a trascinarlo via - Tranquilla mamma, controllerò che faccia il
bravo. -
Eh, i figli! - sospirò Peggy - Comunque, prego, accomodatevi pure.
Steve è di sopra al telefono, ci raggiungerà tra un momento. Agente
Rand, è un piacere rivederla. Danny Rand strinse la mano che la direttrice gli aveva porto, ma non proferì parola. -
Loquace come sempre - commentò Peggy. La sua era una semplice battuta,
senza alcun tono polemico, anche per rispetto nei confronti di Daniel,
che di Rand aveva così grande stima. Ma come sempre in queste
situazioni, appena terminata la frase ebbe timore di poter essere stata
fraintesa. Daniel sembrò quasi percepire il suo imbarazzo, e decise di
smorzare un po' la tensione. - Non farci caso, credo che la sua scorta mensile di parole sia esaurita durante il tragitto in macchina.
Fogli,
fascicoli, documenti e pile di rapporti coprivano ogni centimetro del
tavolo del soggiorno, tanto che Steve amava scherzare che nemmeno
ricordava più di che colore fosse. -
Wow, Peg! Vedo che, più che portarti il lavoro a casa, hai deciso di
trasferire direttamente metà dell'ufficio - commentò Daniel,
appoggiando a sua volta i documenti che ancora teneva sotto braccio - E
questa è l'altra metà. Mentre
il suo collega e la sua direttrice scherzavano sul disordine che
regnava sovrano, l'agente Rand aveva già iniziato a sfogliare, con
un'espressione estremamente concentrata, alcuni dei documenti
sparpagliati sul tavolo, quasi volesse raccogliere più informazioni
possibile nel minor tempo possibile. L'agente Sousa non tardò a
notarlo, e ne approfittò per lodarne lo zelo e la dedizione al lavoro. - Ehi, Danny, non vorrai mica risolvere il caso tutto da solo, eh? - Oh, no, anzi. Non c'è pericolo, te l'assicuro - rispose Rand, senza alzare gli occhi dalle carte. Per
qualche minuto, nel soggiorno regnò un operoso silenzio, rotto soltanto
dallo spaginare dei fogli e dai gridolini di Bianca e Bucky, che
stavano giocando sul pianerottolo in cima alle scale che portavano alle
camere da letto. -
Steve cosa pensa di tutto questo? - domandò Daniel ad un certo punto.
Peggy fece per rispondere, ma venne anticipata dalla voce dello stesso
Steve. - Scusate il ritardo. Peggy
osservò suo marito scendere le scale a piccoli saltelli, e gli andò
incontro - Tesoro, vorrei finalmente presentarti l'agente Danny Rand. Per
Steve fu come se il tempo si fosse fermato all'improvviso, e fosse
tornato indietro. Dieci anni indietro. Lì, sulle Alpi, su quel
maledetto treno. Uno squarcio nella carrozza, e il suo migliore amico
che precipita nel vuoto. - Bucky? - sussurrò Steve, in un soffio incredulo.
*
Danny
Rand odiava l'imprevedibilità. Le variabili. Non che non fosse in grado
di gestirle, ma era un tipo pratico, e per questo pianificava con
precisione certosina ogni sua azione. L'incarico, d'altronde, era
semplice: raccogliere più informazioni possibili sull'indagine che la
direttrice Carter stava portando avanti sull'HYDRA, e infine ucciderla.
Nel corso dei sei mesi trascorsi da quando aveva ricevuto l'ordine da
Werner Reinhardt, però, non aveva mai avuto occasione di fare né l'una,
né l'altra cosa: era stato impossibile accedere alle informazioni
dall'esterno, ed era stato altrettanto impossibile avvicinarsi a Peggy
Carter quel tanto che bastava a ucciderla senza ritrovarsi addosso
tutto lo S.H.I.E.L.D. sul piede di guerra. Per non parlare di Capitan
America. Ci aveva provato, sì, ma era maledettamente difficile
coglierla con la guardia abbassata. Per questo aveva deciso di
infiltrarsi, per risolvere due problemi in un colpo solo. Tutto il suo
lavoro sotto copertura, tutta la sua accurata pianificazione, aveva
infine condotto a quel pomeriggio. Addirittura un invito in casa. Aveva
finalmente avuto pieno accesso a tutte le informazioni di cui aveva
bisogno, e sfruttando piccoli istanti di distrazione alcune le aveva
anche fotografate con una piccola macchina nascosta in una penna. Non
restava che far fuori la direttrice. Avrebbe atteso che Steve Rogers
non fosse più nei paraggi, o lo avrebbe allontanato lui con una scusa,
e avrebbe portato a termine l'incarico. E per quanto riguardava lo
S.H.I.E.L.D., oltre alla vittima designata c'era un solo agente.
Storpio, per di più. Rand strinse la mano a Steve, e indirizzò un sorriso al suo sguardo confuso. - Mi spiace, non conosco nessun Bucky.
I
quattro lavoravano immersi in un silenzio concentrato, e se qualcuno
parlava era per esporre una teoria o fare un commento in merito
all'indagine. Per questo la domanda che Peggy rivolse a Rand suonò
strana: - Agente Rand, cosa sta facendo? Rand alzò su di lei uno sguardo interrogativo. Merda, pensò, ma cercò di dissimulare il proprio nervosismo. - Prego? - chiese, con voce più calma e onesta possibile. Peggy ripeté la domanda, con tono fermo. - Cosa sta facendo con quella penna? Rand
era sicuro di essere stato attento, ma evidentemente la direttrice, che
non aveva mai fatto mistero di fidarsi poco di lui, lo stava tenendo
particolarmente d'occhio. Peggy Carter continuò. -
È un'invenzione di Howard Stark, me la mostrò anni fa. Ormai è
piuttosto popolare nel nostro ambiente. Una penna con una macchina
fotografica miniaturizzata all'interno. Una piccola pausa. - Per chi lavora, agente Rand? Sconcertato,
Daniel Sousa osservò il suo collaboratore estrarre la pistola che
teneva sotto la giacca, e rivolgerla contro Peggy. Poi, fece fuoco.
*
L'imprevedibilità.
Le variabili. I proiettili di Danny Rand avevano sempre colpito, con
precisione letale, i loro bersagli. Non stavolta. Perché uccidere Peggy
Carter doveva essere così maledettamente difficile? Nell'istante esatto
in cui Rand premeva il grilletto, i riflessi di super soldato di Steve
scattarono: strinse Peggy a sé e gettò entrambi a terra. Il proiettile
andò a conficcarsi sul muro alle loro spalle. - Danny! - urlò Sousa - Che cazzo stai facendo? - Eseguo gli ordini. Daniel
osservò incredulo quello che fino a trenta secondi prima considerava il
suo braccio destro. Lanciò un'occhiata a Steve e Peggy che,
confusi quanto lo era lui, si stavano rialzando. -
Che vuol dire "eseguo gli ordini"? Che ordini? - lo esortò Daniel. Il
suo tono amareggiato spinse Rand a voltarsi verso di lui, cosa che
diede a Peggy il tempo di estrarre a sua volta la sua pistola. Dopo
Hoffman, aveva deciso che sarebbe stata meno ingenua, e poiché la
presenza di Rand la metteva a disagio, si era persuasa a portare
un'arma a quello che doveva essere un semplice incontro di lavoro tra
amici e colleghi. - Rispondi! - ordinò perentoria. Rand
non parlò, limitandosi solo a ricambiare lo sguardo di sfida della
direttrice Carter. I due erano ad uno stallo, le pistole spianate l'una
contro l'altro. Steve, dal canto suo, ormai non aveva più dubbi: quello
era Bucky. Il suo migliore amico. Non sapeva come potesse essere
possibile, ma era certo di non sbagliarsi. - Bucky - ripeté, ma stavolta in maniera più decisa. Rand iniziava a perdere la pazienza. - Chi diavolo è Bucky? Peggy
notò l'espressione affranta di Steve al suono di quelle parole, e anche
lei si convinse che quello che aveva davanti, e che aveva appena
tentato di ucciderla, fosse il sergente Barnes. Lei aveva liquidato le
sensazioni di familiarità come una semplice coincidenza, o
auto-suggestione. Ma la reazione di Steve valeva più di mille parole.
Dopotutto, pensò, anche la famiglia che si era costruita era nata da un
qualcosa che tutti ritenevano impossibile: il fatto che Steve potesse
essersi salvato dallo schianto dell'aereo di Teschio Rosso. Alla luce
della scoperta dell'identità di chi aveva davanti, lei non avrebbe mai
aperto il fuoco, ma questo Rand non poteva saperlo. Forse Peggy poteva
usarlo a suo vantaggio, mentre cercava disperatamente di trovare una
soluzione a quella situazione assurda. Fu
Daniel, però, a prendere per primo l'iniziativa. Era evidente che si
sentiva tradito, ad un livello che non lei non avrebbe mai potuto
comprendere, e si avventò su Rand, con tutta la forza che la sua
disabilità gli poteva concedere. Rand non ebbe nessun problema a
respingere l'attacco, scaraventando il suo assalitore sul pavimento,
facendolo atterrare malamente sulla schiena, qualche metro più in là.
Nella caduta, Daniel batté violentemente la testa. La furia con cui
Rand si liberò di lui turbò Peggy: non aveva mai visto in nessuno una
forza fisica simile, tranne in Steve, e lui la doveva tutta al siero
del professor Erskine. Si chiese cosa potesse essere capitato a Bucky.
Fu
il turno di Steve a scagliarsi contro Bucky. La sua intenzione era
quella di disarmarlo, farlo ragionare, farlo ricordare, ma il suo
avversario, evidentemente, era di diverso avviso: non solo parava senza
apparente fatica ogni singolo colpo di Steve, ma non esitava nemmeno ad
attaccare con incredibile violenza. Capitan America arretrò di qualche
passo, sotto la spinta incalzante delle scariche di pugni di Bucky.
Peggy vide Steve vacillare, e notò quanto fosse restio a
contrattaccare. E quando lo faceva, a Peggy sembrò che tentasse di
trattenersi, di non usare tutta la sua forza. Non era difficile
comprendere la ragione: Steve non riusciva a concepire il suo
avversario come un nemico. Bucky non lo era mai stato. Peggy avrebbe
voluto essere d'aiuto, ma era inerme. Continuava a tenere la pistola
puntata, ma la velocità con cui si svolgeva il corpo a corpo le
impediva di prendere la mira. Rischiava di colpire Steve, o di colpire
fatalmente Bucky, e Steve ne sarebbe stato distrutto. Lo
scudo, pensò. Se fosse almeno riuscita a dare a Steve il suo scudo,
forse le sorti dello scontro sarebbero andate a loro favore. Osservò
Bucky spingere Steve contro il muro, e decise che non poteva più
permettersi di tergiversare. Si diresse di corsa verso le scale,
salendo i gradini il più velocemente possibile, e si precipitò in
camera da letto. Lo scudo era appoggiato sopra una cassapanca, in bella
vista: bene, non avrebbe sprecato tempo prezioso a cercarlo. Lo
afferrò, e di corsa tornò alle scale. Si rese conto di non aver visto i
bambini. Forse il frastuono proveniente dabbasso li aveva indotti a
nascondersi. Pregò con tutto il cuore che fosse così, e pregare era la
sola cosa che poteva fare, perché era Steve che in quel momento aveva
più bisogno di lei. Tornò
in fretta in soggiorno. Steve era al centro della stanza, in ginocchio,
ansimante. Sanguinava copiosamente da un taglio sulla fronte. Bucky si
trovava a diversi metri di distanza. Era in piedi, ma anche lui
sembrava iniziare ad accusare la fatica dello scontro. Il suo sguardo,
però, era vigile. E gelido. Peggy
corse da Steve e gli si inginocchiò accanto, sempre tenendo Bucky sotto
il tiro della sua pistola. Posò la mano libera sulla spalla di suo
marito, come per rassicurarlo del fatto che lei era lì con lui. Solo
per un attimo, si trovò ad accarezzare l'idea di premere il grilletto:
forse avrebbe potuto colpire Bucky alle gambe e renderlo inoffensivo,
ma da quanto aveva avuto modo di osservare della sua tecnica di
combattimento, era giunta alla conclusione che avrebbe evitato il
proiettile con la stessa prontezza con cui Steve aveva fatto in modo
che lo evitasse lei.
Steve
afferrò l'impugnatura dello scudo e, con un balzo rapidissimo, si
scagliò nuovamente contro Bucky. La sorpresa sul suo volto durò solo
una frazione di secondo, e anche stavolta l'attacco di Capitan America
non risultò del tutto efficace. I
due ingaggiarono un altro serratissimo corpo a corpo, e Peggy, non
potendo più essere d'aiuto in alcun modo, andò a sincerarsi delle
condizioni di Daniel. Era rimasto incosciente per diversi minuti, e
proprio in quel momento si stava risvegliando. - Ooohh - gemette lui, massaggiandosi la nuca. Peggy lo aiutò a mettersi seduto. - Ti senti bene? - Che diavolo sta succedendo, Peg? Peggy lo guardò, afflitta. - Non lo so. - L'HYDRA? - Non lo so, Daniel. Non lo so. - Aiutami ad alzarmi. Peggy
si mise in piedi e sostenne il peso di Daniel, mentre questi cercava di
appoggiarsi sulla gamba sana. La sua stampella era finita chissà dove. Un
fracasso tremendo attirò di prepotenza la loro attenzione: Bucky aveva
fatto schiantare Steve sulla balaustra in legno delle scale, che si era
sfondata a seguito dell'urto. Capitan America restò esanime sui
gradini. - Steve! - urlò Peggy. Steve non rispose, né si mosse. - Steve! - chiamò di nuovo Peggy, il panico che si faceva strada nella sua voce. Questa volta Steve reagì al suono del suo nome, e barcollando si rimise in piedi. Il cuore di Peggy riprese a battere. La
direttrice Carter, che ancora sorreggeva Daniel, puntò nuovamente la
sua arma contro Bucky. Questa volta era decisa a sparare, non c'era
altra soluzione. Esplose uno, due, tre, quattro colpi. Ne andarono a
segno due, uno alla spalla e uno, ma solo di striscio, al fianco. Bucky
gridò di dolore, ma era ancora pronto a reagire. Estrasse il suo
pugnale e lo lanciò contro la persona che era venuto ad uccidere.
L'estenuante scontro con Steve, però, doveva averlo provato, così
come le due pallottole di Peggy. La mira era imprecisa, la traiettoria
imperfetta. Il pugnale si conficcò nel petto di Daniel Sousa.
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Capitolo 5 *** Capitolo V ***
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Capitolo V (SinisterKiddo)
- Daniel, no! - urlò Peggy in preda alla disperazione più
accecante. - No, no, no, Daniel, no! Estrasse immediatamente il coltello dal suo petto e provò,
perfettamente consapevole dell’inutilità del gesto, a frenare l’emorragia per
salvare il suo amico. - No, no, no, Daniel! No! Resisti, devi farcela. Premette forte, fortissimo, più di quanto un essere umano
potesse fare, ma per Daniel Sousa non c’era più niente da fare. Il suo cuore
gentile aveva smesso di battere prima che Peggy potesse accorgersene e invece
del dolore, iniziò a montare in lei una rabbia feroce verso la bestia assassina
che aveva provocato tutto ciò, verso il meschino bastardo che aveva abusato
della cieca e ingenua fiducia di Daniel. Peggy Carter abbandonò il cadavere del suo più caro amico e
afferrò l’arma dell’atroce delitto a cui aveva assistito. Nel suo volto si
dipinse la più furiosa e spietata espressione che si fosse mai vista e corse
verso Danny Rand, o meglio, Bucky. Steve, ancora frastornato, riuscì a bloccare la moglie, beccandosi
quasi una pugnalata. Peggy lo guardò stravolta, incredula. Perché l’aveva
fermata? Perché? Per caso non aveva visto ciò che era successo? - Che diavolo stai facendo? - , chiese dimenandosi dalle
robuste braccia del marito. - Dobbiamo fermarlo, dobbiamo ucciderlo! Quella minaccia fece tremare Steve che strinse con maggiore forza
la moglie e tentò di strapparle le armi dalle mani. La mente di Peggy era
annebbiata dal disprezzo e dall’agitazione, non capiva cosa stesse accadendo,
perché suo marito, la sentinella della libertà, volesse farla passare liscia ad
un assassino dell’HYDRA. Provò ancora a divincolarsi dalla stretta di Steve,
con scarso successo. L’irrazionalità aveva preso il sopravvento sulla mente
dell’uomo che amava. - Noi dobbiamo proteggerlo - ribattè Steve con un filo di
voce e gli occhi lucidi rivolti a quello che credeva essere il suo Bucky. - Io
devo proteggerlo. - Pro … Proteggerlo?! Ti sei bevuto il cervello?! Ha ucciso
Daniel, sei diventato cieco? Peggy perse l’ultimo briciolo di dignità e controllo che le
era rimasto e tirò un violento schiaffo al marito, la cui condotta era
inaccettabile per un uomo giusto come lui. Cosa diavolo gli stava prendendo?
Quel mostro aveva ucciso Daniel e, probabilmente, avrebbe sterminato tutti loro.
Il Bucky che lui pensava di conoscere era deceduto anni addietro, quello che
voleva proteggere non era altro che un fantoccio dell’HYDRA. Per quale motivo
non riusciva a capirlo, perché non riusciva a distinguere il vero nemico da un
ricordo evanescente che viveva solamente all’interno della sua mente? - Lui non sa quello che sta facendo. Dobbiamo aiutarlo. - Sei tu a non sapere quello che stai facendo, Steve Rogers. - Io lo so eccome - ribattè Steve duramente. Peggy si sentì tradita dall’uomo in cui aveva riposto eterna
e indubbia fiducia e smise di farsi domande. Che Steve l’avesse voluto o meno,
quella minaccia sarebbe stata fermata. - Quel mostro non va protetto! Quel mostro va ucciso! - urlò
furente. - Ma ti stai ascoltando? Lo Steve Rogers che conosco non si
comporterebbe in questo modo. Steve massaggiò la guancia che la moglie aveva colpito e
ignorò le sue parole. Bucky stava scappando e il resto non aveva più
importanza. Doveva seguirlo, fermarlo, capire cosa gli era successo. Quell’uomo
era Bucky, ma allo stesso tempo non era Bucky. Era stata opera del Teschio
Rosso? Di Zola? Chi diavolo lo aveva reso una marionetta? Steve doveva scoprirlo,
altrimenti non avrebbe mai avuto pace. Buck non avrebbe mai tolto la vita ad un
uomo, Buck non si sarebbe mai comportato come un nazista, n’era certo. Non lui,
non il sergente Barnes, non il suo Bucky. - Capitano Rogers - Peggy sfoderò la sua austera e
determinata voce da direttrice. - Le ordino di attaccare il nemico. ADESSO! - No - le rispose seccamente. Steve liberò Peggy dalla sua presa e rincorse quello che
riteneva ancora essere il suo migliore amico. Peggy avrebbe capito, e anche lo
S.H.I.E.L.D. - Se esci da questa casa, non ti permetterò mai più di
rientrare - tuonò Peggy, la voce decisa e le dita premute sul grilletto, pronta
a colpire. Steve si fermò. - Bucky conta su di me, non posso deluderlo. - Però puoi deludere me. Me e i nostri figli. - Peggy, io … Un vetro si infranse, così come la fiducia della moglie nei
suoi confronti, e Steve si rese conto di non avere più tempo da perdere. Le
voltò le spalle e corse via, dietro il suo più caro amico. Non era riuscito a
salvarlo la prima volta, su quel maledetto treno, ma questa volta sarebbe stato
diverso. Questa volta lo avrebbe salvato dagli inferi e riportato in vita:
Bucky contava su di lui. Peggy buttò la pistola per terra ed emise un grido di pura
frustrazione. Ritornò in sé per chiamare i soccorsi e venne informata che una
pattuglia dello S.H.I.E.L.D. sarebbe arrivata presto. Coprì con amarezza il
cadavere di Daniel con una tovaglia, affinché i bambini non potessero vederlo,
e non ebbe la più pallida idea di cosa raccontare ai suoi figli. Come poteva descrivere una tale immotivata barbarie a cui
nemmeno lei sapeva conferire una spiegazione? - Verrai vendicato, Daniel. È una promessa - recitò
solennemente. - Ucciderò quel figlio di puttana con le mie stesse mani.
*
Bianca e James avevano sicuramente ereditato il coraggio dei
loro genitori. Avevano assistito a tutto, senza coprirsi gli occhi neanche per
un secondo: la visione del pugnale conficcato nel petto di Daniel era qualcosa
che non avrebbero mai dimenticato, la visione degli ultimi istanti di vita di
un uomo prossimo alla morte era qualcosa che aveva fatto rabbrividire entrambi.
Così come li aveva fatti rabbrividire e sconvolgere la scoperta della vera
identità del taciturno agente Rand. James teneva gli occhi e bassi e ripensava alla sua breve
vita, alla sua intera piccola esistenza caratterizzata dal mito indiscutibile
dell’uomo di cui portava orgogliosamente il nome. Il sergente Barnes era tutto
ciò che aveva sempre conosciuto e che associava al coraggio e al sacrificio:
James Buchanan Barnes era un eroe, papà non smetteva mai di ripeterlo con
quella voce squillante e carica di emozione. Non c’era stato un giorno in cui
Bucky jr non fosse stato orgoglioso di portare quel nome e desiderasse
ardentemente che un giorno suo padre parlasse di lui nello stesso modo in cui
narrava le gesta del suo fidato compagno. Non c’era stato giorno in cui Bucky
jr. non avesse guardato, pieno di ammirazione, la foto del suo omonimo e
pregato Dio di poter diventare alto e forte e coraggioso come lui. Diventare un
uomo che suo padre avrebbe amato e stimato. Adesso tutto quello che provava era ribrezzo e disgusto nei
confronti della bestia che aveva portato via da lui e dalla sorella il loro
amato Daniel. Adesso Bucky jr odiava quella bestia, la odiava talmente tanto da
voler prendere a pugni il muro e calpestare i piedi per terra. Papà aveva detto
che Bucky non avrebbe fatto del male ad una formica, papà aveva detto che Bucky
era la migliore persona che avesse mai conosciuto, papà diceva che avrebbe dato
la vita pur di riportare indietro quel valoroso amico. Papà aveva mentito, papà
aveva difeso un assassino. James sentì montare dentro sé un’inarrestabile rabbia verso
chi gli aveva mentito e pensò di cambiare nome. Non poteva più portare il nome
di un mostro. - Lo odio, lo odio, lo odio - gridò il piccolo scalpitando
contro la ringhiera della scala a cui era aggrappato. -Lo odio! Anche per Bianca, Bucky Barnes aveva sempre rappresentato
tutto ciò che di buono potesse esserci al mondo, qualcuno da emulare e
ammirare, l’uomo che avrebbe voluto sposare una volta cresciuta. Il bellissimo,
impavido, esuberante Bucky, compagno di mille avventure di suo padre e eroe
delle altrettante mille avventure nella mente di suo fratello James. Bianca
sentiva l’impulso di scoppiare in lacrime: non aveva mai visto i suoi genitori
rivolgersi quelle parole pesanti come macigni e quegli sguardi distanti,
estranei. La bambina aveva tremato quando sua madre aveva schiaffeggiato il
marito e sarebbe corsa da loro, se solo avesse potuto. Avrebbe voluto mettersi
tra di loro e farli ragionare, far capire ad uno le ragioni dell’altro. Nessuno
dei due aveva torto, secondo Bianca, eppure lei si sentiva più vicina alle
ragioni del padre più di quanto lo fosse sua madre. Bucky Barnes era tutto ciò che suo padre avesse mai
conosciuto, tutto quello che per suo padre aveva rappresentato una famiglia
prima di sposarsi e dar vita a lei e James. Bucky, per suo padre, era stata la
persona più importante della sua vita e, anche se aveva solamente dieci anni,
Bianca si sforzò di capire cosa questo stesse a significare. Le vennero in
mente gli occhi lucidi di papà quando l’anniversario della scomparsa di Bucky
era alle porte, le vennero in mente i sorrisi malinconici di papà quando gli
Howling Commandos venivano a cena da loro e raccontavano le loro vecchie gesta
ed elogiavano il sergente. Le venne in mente il momento in cui, una sera, papà
le augurò di trovare qualcuno che la capisse appieno come Bucky Barnes aveva
capito lui. Bianca pianse, in silenzio, senza singhiozzare, e afferrò la mano
del fratellino. - Vai da mamma - gli disse. - Ha bisogno di te. - E tu dove vai? Bianca guardò oltre la finestra. - Papà ha bisogno di me.
*
Il Soldato D’Inverno non riusciva a percorrere neanche una
decina di metri. Perfettamente consapevole del rischio che correva a restare
nelle vicinanze, fu costretto ad accasciarsi nel giardino dei Rogers. Il
braccio metallico aveva smesso di funzionare correttamente e il movimento della
dita era dettato da una volontà estranea a quella del Soldato. Quella maledetta
cagna gli aveva dato del filo da torcere e, a quanto pareva, la tecnologia
tedesca non era stata all’altezza della forza di Peggy Carter. Il Soldato urlò
come un agnellino che stava per essere macellato e credette, per un istante,
che la testa gli sarebbe esplosa. Un dolore lancinante, indescrivibile, colpì
le sue tempie e gli diede l’impressione di essere ad un passo dalla morte. La
sua missione era fallita e giustificarsi con Herr Reinhardt sarebbe stato
impossibile. Forse la sua migliore opzione era davvero la morte piuttosto che
le torture del suo superiore e vedersi rimpiazzato da quel Hoffman con le gambe
bioniche. Il Soldato si morse le labbra e sentì le tempie in procinto di
scoppiare un’altra volta. Provò ad alzarsi, invano. Tremava da capo a piedi. - Buck. La voce di Steve era spezzata, cupa, ma perfettamente
udibile. Il Soldato non ebbe la forza di rispondere e attaccare: adesso gli si
era annebbiata anche la vista. - Buck. Steve si inginocchiò al suo cospetto con il cuore in gola e
lo sguardo affranto. Avrebbe voluto gettargli le braccia al collo e toccargli
la faccia, le braccia, rendersi conto di non stare sognando. Non poteva essere
uno dei tanti incubi che lo tormentavano da dieci anni a quella parte, non
poteva. No, impossibile. Eppure, proprio nel suo peggior incubo, Steve aveva
sognato che il suo Buck non lo riconoscesse. Proprio nel suo peggior incubo,
Buck guardava Steve con distacco e non aveva idea di chi lui fosse. Nel suo
peggior incubo, Buck era il nemico, proprio come adesso. Il Soldato D’Inverno gli diede un pugno in faccia, un
riflesso involontario, e poi uno al ventre e un altro in faccia. Si chiese
perché accidenti il celeberrimo e imbattibile Cap non reagisse e si lasciasse
colpire dal mal funzionante braccio metallico di un nemico accasciato al suolo. Steve restò lì, immobile. Non avrebbe mai alzato un dito su
Buck. - Potresti benissimo uccidermi, Bucky Barnes, e io non farei
nulla per impedirtelo. Io non ho fatto nulla per impedire che tu morissi e
rimpiango questa scelta ogni secondo della mia esistenza. Steve Rogers pregò di venir ricordato, di venir riconosciuto
dal fratello che aveva appena ritrovato. Poteva sopportare le maldestre
percosse, gli insulti, il terribile omicidio di Daniel Sousa, ma non che il
ragazzo che aveva davanti non ricordasse più chi fosse stato e chi fosse Steve.
Non poteva sopportare il peso di centinaia di ricordi spazzato via da un
probabile lavaggio del cervello dalla mente di Buck, non poteva sopportare la
vista di quel paio di occhi morti privi delle più primordiali emozioni. Dov’era
il ragazzo che aveva conosciuto? Quanto in profondità era precipitato? Adesso,
se gli avesse teso una mano, l’avrebbe afferrata? Buck Barnes era lì, da
qualche parte, e Steve si sarebbe strappato la mente dal cranio pur di ridargli
la memoria e la vita. Avrebbe ucciso per lui, avrebbe ucciso anche se stesso,
pur di non perderlo di nuovo. Afferra la
mia mano, Bucky. Adesso puoi. Il Soldato tentò di sferrargli un altro pugno dritto in
faccia, ma questa volta Steve si oppose e gli bloccò il polso. - Ricorda chi sei - gli urlò fissandolo nei suoi spaventosi
occhi. - Sarò con te fino alla fine, amico. Ricorda chi sei. Ricorda me. Il Soldato urlò in preda ad un male più grande e
insostenibile di quello che aveva patito precedentemente. Si agitò
violentemente, scalciando in ogni parte, l’arto metallico ormai fuori
controllo. La sua mente venne invasa da attimi che non aveva mai vissuto,
persone che non aveva mai visto e parole mai pronunciate da lui. Ricordi che
non gli appartenevano, ricordi felici, alcuni, ricordi strazianti altri: la
caduta, il vuoto, il freddo, siringhe che attraversavano la sua pelle e scosse
elettriche che si propagavano per tutto il corpo. E un volto, un unico volto
familiare ad illuminare ogni tragedia. Il volto di Steve Rogers. - Io non sono il tuo stra maledetto Bucky! - gridò con
impeto tirandosi miracolosamente in piedi. - Io ti odio, Capitan America. Io
odio te e tutti quelli come te, compresa quella cagna che hai come moglie! Steve rimase apparentemente impassibile di fronte a quelle
parole e non proferì risposta. Il Soldato D’Inverno montò su tutte le furie e
rischiò di crollare nuovamente al suolo. Era come se dentro di sé si stesse
combattendo una battaglia senza esclusione di colpi tra quello che era certo
essere e quello che Steve Rogers pensava lui fosse. - HAIL HYDRA! - ringhiò dileguandosi. Steve impresse nella propria mente l’espressione smarrita e
poco convinta con cui Buck aveva recitato quelle battute e decise che da quel
momento in poi lo avrebbe cercato in ogni angolo del mondo, se fosse stato
necessario. Alzò gli occhi al cielo, esausto. - Papà. Steve si girò di scatto e trovò Bianca, sporca di erba e
fango, dietro di lui. La prese tra le braccia e la strinse dolcemente,
ricambiato a sua volta. - Stai bene, piccola? La bambina annuì, lo sguardo fisso verso la strada. - È
Bucky a non stare bene, papà. Dobbiamo aiutarlo, lui non è cattivo. Steve si sforzò di non scoppiare a piangere davanti la
propria figlia. - E tu come lo sai? - le domandò conoscendo già la risposta che
avrebbe ricevuto. - Perché assomiglia al nostro James e quando il nostro James
è arrabbiato, non dice mai quello che pensa davvero … Steve rise, una vera e propria liberazione. - E si limita a
urlare e scalciare, non è così? Bianca rise e Steve sentì il cuore finalmente più leggero.
Vide arrivare in massa gli agenti dello S.H.I.E.L.D. e si chiese quanto sarebbe
state diverse le versioni che lui e Peggy avrebbero dato come testimonianza. Lei era ferita, accecata dall’odio. Lui era ferito, accecato
dall’affetto. Non ci sarebbe stato alcun vincitore. - Capitano Rogers - lo chiamò Peggy dalla finestra, senza
mostrare alcuna emozione. - Mi serve qui, ora.
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Capitolo 6 *** Capitolo VI ***
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Capitolo VI (PieraPi) Il
piccolo Bucky non aveva mai visto sua madre piangere. L'aveva vista
triste, sì, malinconica, soprattutto quando ricorreva l'anniversario
della morte di sua sorella, ma piangere mai. I bambini piangevano: lui
l'aveva appena fatto, e anche Bianca. Ed erano le mamme, in genere, a
consolare i bambini che piangevano. Ora, a ruoli invertiti, credeva di
non essere all'altezza del compito che gli era stato affidato. Bianca
aveva detto che la mamma aveva bisogno di lui, ma faceva presto a
parlare, lei. Lei che aveva sempre la risposta pronta per tutto. Bucky
non era così. Bucky era più impacciato, più timido. Non ci sapeva fare
con le parole. Pensò a Rand, cioè, all'altro Bucky. Da quelle battute
che aveva colto prima che succedesse tutto, anche lui parlava poco.
Rendersi conto di assomigliargli lo disgustò. Portava il nome di un
assassino. - Mamma? - domandò timidamente, in fondo alle scale del soggiorno. Peggy
si voltò nella direzione di quella flebile vocina, asciugandosi le
lacrime col dorso della mano. Un gesto che il piccolo Bucky giudicò
estraneo. Un gesto che non apparteneva a sua madre. Il bambino non
attese risposta, e corse tra le sue braccia, scoppiando di nuovo a
piangere. Voleva davvero essere forte per lei, ma forse Bianca
pretendeva troppo da un bambino di soli otto anni. - Tu stai bene? - chiese Peggy, prendendogli dolcemente il viso tra le mani e guardandolo negli occhi. Bucky annuì. Fisicamente, all'esterno, stava benissimo, se era quello che lei intendeva. Dentro, però, si sentiva morire. - Avete visto tutto? Bucky ci pensò un istante. -
All'inizio ci eravamo nascosti. Poi, però, quando hai preso lo scudo,
abbiamo sbirciato. Abbiamo visto quando … - la voce di Bucky si incrinò. Peggy
restò in silenzio. Aveva sperato fino all'ultimo che i suoi figli non
avessero assistito all'omicidio del loro adorato "zio" Daniel. Peggy
strinse il suo bambino a sé, non trovando le parole per rispondere. Il
suo migliore amico era appena stato ucciso, e i suoi bambini l'avevano
visto morire. Chi mai avrebbe potuto trovare le parole per una cosa del
genere? - Dov'è Bianca? - volle allora sapere Peggy. - È con papà. Il
pensiero di Steve le fece male. Che sensazione strana, quella. Soltanto
nelle sei settimane in cui l'aveva ritenuto morto il solo pensare a lui
la faceva soffrire. Mai avrebbe creduto che sarebbe successo ancora.
Con lui vivo. Daniel non era solo amico di Peggy, ma anche di Steve, e
lui aveva comunque deciso andare a cercare quella bestia che l'aveva
appena ucciso, non perché voleva catturarla, ma perché voleva
proteggerla. Pensava che non avrebbe mai provato una sensazione di
tradimento come l'aveva provata Daniel nei confronti di Rand, ma si
sbagliava. A tradirla era stato proprio suo marito, l'amore della sua
vita, il suo migliore amico. L'ultima persona al mondo che pensava
l'avrebbe mai potuta ferire. Il suono di una sirena in lontananza
l'avvertì che lo S.H.I.E.L.D. stava arrivando. Chiamò Steve dalla
finestra, perché avrebbero dovuto fornire un resoconto per il rapporto.
- Capitano Rogers. Mi serve qui, ora.
La squadra dello
S.H.I.E.L.D. che aveva risposto alla segnalazione non aveva idea di
cosa avrebbe trovato in casa. La direttrice non aveva fornito alcuna
spiegazione al telefono, aveva solo chiesto dei rinforzi il più
velocemente possibile. L'agente Underwood fu il primo ad entrare, e
notò il mobilio a pezzi, segno evidente di una violenta colluttazione.
La sua direttrice e il Capitano Rogers si trovavano ai lati opposti
della stanza, entrambi con lo sguardo basso. Al centro della stanza,
sotto ad un telo, Underwood riconobbe subito l'inconfondibile sagoma di
un cadavere. - Direttrice … - iniziò lui, e Peggy si ricosse. Gli
andò incontro, le braccia strette al petto. Steve alzò lo sguardo, ma
non si mosse. - È Daniel - disse lei in un soffio. Sul volto di Underwood si dipinse un'espressione dapprima di incredulità, e poi di dolore. – Da … Daniel? - balbettò. Peggy si avvicinò al corpo e scostò il telo per scoprirne il viso. Underwood si portò le mani alla bocca, sconvolto. - Come …? Chi è stato? - riuscì a dire, sforzandosi di trattenere un singhiozzo. -
Danny Rand - lo informò Peggy. Nel dirlo, Underwood notò che non si era
rivolta a lui ma a Steve. Lo sguardo della sua direttrice era carico
d'odio. In effetti, l'intera scena parve strana agli occhi dell'agente.
Perché mai Peggy Carter e Steve Rogers sembravano, tra loro, due
perfetti estranei? Perché non si guardavano nemmeno in faccia? -
Lavora per l'HYDRA - continuò Peggy. - Era qui per uccidere me, ma
invece … - lasciò la frase a metà: era troppo doloroso constatare
l'ovvio.
Steve ascoltava il resoconto degli eventi senza mai
intervenire. Notò, però, che Peggy non fece mai ai suoi uomini il nome
di James Barnes. Continuava a riferirsi a lui come Danny Rand. Steve
provò a chiedersi cosa potesse significare quel gesto, ma non seppe
trovare una risposta al suo interrogativo. Osservò l'agente Paisley
appuntare qualcosa su un taccuino, mentre Underwood, Musgraves e McGraw
si stavano attrezzando per recuperare il corpo senza vita di Daniel
Sousa. Fu in quel momento che anche Steve realizzò appieno la portata
degli eventi: il più caro amico di Peggy era stato ucciso dal suo
migliore amico, dal suo Bucky. Era una situazione assurda,
inimmaginabile. Avrebbe tanto voluto consolare sua moglie, stringerla
tra le braccia e rassicurarla che sarebbe andato tutto bene, ma sapeva
di non potere. Lei non glielo avrebbe permesso, non ora. La rabbia che
Peggy provava nei suoi confronti gli pesava addosso come un macigno.
Lui la capiva. L'aveva ferita, e non se lo perdonava. Ma avrebbe
rifatto quello che aveva fatto altre cento volte, se fosse servito a
salvare Bucky. Non si era pentito: Bucky aveva bisogno di lui, e lui
non aveva intenzione di abbandonarlo. Il fatto che Daniel ci fosse
andato di mezzo lo devastava, ma non poteva cambiare il passato.
Poteva, però, provare a rendere migliore il futuro. Anche solo un po'.
I
quattro agenti presero commiato dalla direttrice, e tornarono alle
auto. Sul marciapiede si era ammassata una folla di curiosi, attirata
prima dal chiasso della lotta, poi dal suono delle sirene. Quello era
sempre stato un quartiere tranquillo. Tra la gente spiccava un
vecchietto elegantemente vestito, gli occhi curiosi dietro ad un paio
di occhiali da aviatore dalle lenti leggermente ambrate. Si domandò il
perché di tanto trambusto. - Capitan America ha dato una festa?
*
Peggy
chiuse dietro di sé la porta della camera, si lasciò scivolare a terra
e si abbandonò ad un pianto disperato. Dopo qualche minuto udì qualcuno
bussare gentilmente, ma lei non rispose. - Peggy? - la chiamò allora Steve, dall'altro lato della porta. - Peggy, ti prego, apri. Di nuovo nessuna risposta, ma Steve era intenzionato ad insistere. - Per favore, parliamone. La porta si aprì di scatto. -
Ne vuoi parlare? Di cosa dobbiamo parlare, eh? Spiegami! - urlò Peggy.
Quando Steve vide gli occhi di lei gonfi di pianto si rese conto di non
essere in grado di sostenere il suo sguardo, quindi lo rivolse a terra.
Voleva parlarle, doveva parlarle, ma non riusciva a trovare le parole
giuste. - Allora? - lo incalzò lei. Era incredibile come riuscisse ad essere tanto vulnerabile e tanto determinata allo stesso tempo. Steve prese un profondo respiro. - Dovevo agire così, Peggy. Dovevo! Non c'era più niente che potessimo fare per Daniel! - Catturare la bestia che l'ha ammazzato come un cane non ti sembrava abbastanza? - Ci ho provato, ma... - No, Steve, non ci hai provato! Non ci hai provato! Tu lo volevi proteggere e basta. È un mostro, e tu vuoi proteggerlo! - Bucky non è un mostro! -
Quello non è Bucky! - ribatté Peggy, livida di rabbia, provando a
metterlo davanti alla realtà. - Il Bucky che conoscevi è morto dieci
anni fa! - Gli è accaduto qualcosa. Gli hanno fatto qualcosa! Non lo
posso abbandonare, non ora che l'ho ritrovato! - replicò a sua volta
Steve, assolutamente determinato a far valere le sue ragioni. - Quell'uomo va fermato. - Peggy, ti scongiuro, ascoltami. - Quell'uomo è una minaccia alla sicurezza nazionale, un assassino. E va fermato. Anche a costo di ucciderlo, Steve. - È Bucky! - gemette lui - Non è una minaccia, è Bucky! Non puoi chiedermi di scegliere, Peg, ti prego. - Non ti sto chiedendo di scegliere! Maledizione, Steve, ti sto chiedendo di fare la cosa giusta! L'aveva
messo di fronte ad un dilemma morale. Ricordò le parole del professor
Erskine: "Non un soldato perfetto, ma un uomo buono". Razionalmente,
Peggy aveva ragione. Un uomo buono, un uomo giusto, non avrebbe
permesso che un assassino fosse lasciato impunito. Lui credeva nella
giustizia, anzi, ne era il simbolo, l'incarnazione. Ma era anche vero
che un uomo buono, un uomo giusto, non avrebbe mai permesso che una
vittima innocente delle circostanze e della follia degli uomini, quale
era Bucky, venisse punito per i peccati degli altri. Steve non replicò alle parole di sua moglie. Lei lo osservò per un secondo. - Pensaci - gli disse infine, e richiuse la porta.
*
-
Non avevano mai litigato così, prima d'ora - sospirò il piccolo Bucky,
rannicchiato sul letto della sorella. Bianca guardava fuori dalla
finestra, lontano. - Cosa pensi che accadrà? - chiese il fratellino. - Non lo so, Bucky. - Non chiamarmi così! - strillò lui. - Non chiamarmi mai più così! Il piccolo James Rogers scoppiò a piangere per l'ennesima volta. Non vedeva l'ora che quell'orribile giornata finisse.
*
Soldato
d'Inverno, Danny Rand, Bucky Barnes: chi era davvero? Chi era, prima di
tutto questo? Prima dell'HYDRA, l'unica realtà di cui avesse memoria? Aveva
appena ucciso un uomo col quale aveva trascorso a stretto contatto gli
ultimi sei mesi, ma la cosa non lo aveva turbato. Era stato addestrato
ad essere freddo, a non provare emozioni. La morte di Daniel Sousa era
stata uno spiacevole incidente, che gli aveva impedito di portare a
termine il suo incarico, ma nulla di più. Era stato addestrato così.
D'altro canto, non riusciva a smettere di pensare alla reazione di
Capitan America. Era stato un avversario formidabile, senz'altro, ma si
era infine reso conto che il vero Capitan America, a quella lotta, non
si era presentato. Il vero Capitan America sarebbe stato in grado di
fermarlo, ne era sicuro. Lui si era scontrato con una versione confusa,
incerta ed emotiva della Sentinella della Libertà, come la gente amava
chiamarlo. Lo aveva trattato come se fosse una vittima da salvare, non
un nemico da sconfiggere. Continuava a chiamarlo Bucky, e questo,
questo sì che lo aveva turbato. Non la morte di Sousa, ma il nome
"Bucky". Era come se qualcosa, dentro di lui, scalpitasse per uscire
fuori. Frammenti di vita che lui non ricordava di aver vissuto.
Immagini, suoni, odori, sensazioni che era certo non gli
appartenessero, ma che comunque trovava incredibilmente familiari e
perfino rassicuranti. Era nascosto in un vicolo, in una zona
periferica della città che non conosceva. Non sapeva come ci fosse
arrivato: ferito e confuso, voleva solo mettere più distanza possibile
tra lui e la casa dei Rogers. Tra lui e Capitan America, e chiunque il
Capitano credeva che fosse. Contemplò il braccio metallico, ormai
completamente fuori uso. Un uccello con un'ala spezzata, ecco chi era.
Un solitario sopravvissuto, dimenticato in un mondo buio e mortale.
Ripensò alle parole del Capitano. "Sarò con te fino alla fine, amico".
Come si può dire una cosa del genere ad una persona che ha appena
provato ad uccidere tua moglie, e poi te? Bucky si sforzò di ricordare
il proprio passato, ma era come provare a comprendere cosa vi fosse
oltre i confini dell'universo. Era impossibile. Era fisicamente
doloroso. E lui era un assassino. Non si era mai chiesto se quello che
faceva fosse giusto o sbagliato, non gli era mai interessato. Gli
chiedevano di uccidere e lui lo faceva, senza problema. Eppure, le
parole di Capitan America continuavano a vorticargli in testa. Parole
di perdono, di speranza. Parole che nessuno che avesse fatto quello che
faceva lui avrebbe mai meritato. Voleva crederci. Il sergente James Buchanan Barnes decise che era tempo di un nuovo colpo di scena nella sua storia.
*
Steve
ci aveva pensato. Aveva riflettuto tutta la notte sulle parole di
Peggy: non solo su quelle che gli aveva rivolto sulla soglia della loro
camera, ma anche su quelle che lei aveva usato per descrivere
all'agente Underwood le modalità dell'attacco. La circostanza che non
avesse mai fatto il nome di Bucky, ma solo quello che lui aveva usato
come copertura. Ci aveva pensato e ripensato, e non era giunto a
nessuna spiegazione soddisfacente. Anzi, in verità ad una sì, ma non
aveva alcun senso. Soprattutto, non alla luce di quello che Peggy gli
aveva detto dopo, cioè che Bucky andava fermato ad ogni costo. Ma
perché, allora, non aveva dato ai suoi uomini tutte le informazioni di
cui disponeva? Steve si chiese se non ci fosse una piccolissima,
remotissima possibilità che Peggy volesse dare a lui, e non all'agenzia
che dirigeva, l'occasione di trovare Bucky. Perché se fosse stato lo
S.H.I.E.L.D. a trovarlo per primo, lui sarebbe stato estromesso, e a
quel punto nemmeno Peggy avrebbe potuto fare qualcosa al riguardo.
Avrebbe voluto chiederglielo, ma con che coraggio avrebbe tirato fuori
il discorso, considerato quanto in quel momento sua moglie stava
soffrendo per colpa sua? E poi, forse, era solo uno scherzo della sua
immaginazione. Voleva così disperatamente ritrovare Bucky, che non
riusciva più a vedere razionalmente la realtà. Lei gli aveva
rimproverato proprio questo. E forse aveva ragione.
Neanche
Peggy dormì, quella notte. Aveva messo a letto i bambini e si era
chiusa nel suo studio. Seduta alla scrivania, con la testa tra le mani,
aveva iniziato a pensare a quanto, di quello che era successo quel
pomeriggio, fosse anche una sua responsabilità. Gli stessi pensieri con
cui già si torturava per David Hoffman. Era stata lei a chiamare Daniel
per chiederle di darle una mano. Lui era perfino in congedo, ma aveva
accettato di buon grado di aiutarla. Come faceva sempre. Peggy si
sentiva come se l'avesse tirato in trappola lei stessa. E il fatto che
fosse morto solo per un tragico errore rendeva la realtà ancora più
insopportabile. Sarebbe dovuta morire lei. Lei era a capo dell'indagine
sull'HYDRA, lei li aveva spinti ad attaccare. Lei, lei e nessun altro.
Non Daniel. Squillò il telefono. Peggy guardò l'orologio appeso al muro: le lancette segnavano la mezzanotte passata. Alzò il ricevitore. - Peggy - disse la voce di Howard Stark dall'altro capo del telefono - Ho appena saputo, mi dispiace tantissimo. - Ciao Howard - rispose Peggy con voce piatta. - Posso fare qualcosa per te? Ti mando Jarvis? Potrà aiutarti con i bambini, per qualsiasi cosa. Edwin
Jarvis era il maggiordomo di Howard Stark, l'unico che si fosse mai
dimostrato in grado di gestire le stranezze del suo datore di lavoro. - Grazie, Howard, ma non serve. Ce la caviamo. - Poche storie, Carter. Sarà da te domattina. Non transigo.
Jarvis
non aveva figli ma sapeva come prendere i bambini. Si presentò a casa
Rogers alle otto in punto, preparò loro la colazione e li accompagnò al
parco. I bambini ne furono felici, per quanto potessero esserlo in
quella particolare situazione. Steve e Peggy erano rimasti da soli,
e prima o poi sarebbero stati costretti a parlarsi. Quando Peggy entrò
in soggiorno, trovò Steve in piedi accanto alla finestra dalla quale
era scappato Bucky. Lo scudo era ancora a terra. Lo raccolse, anche
solo per avere le mani occupate. Cercava di capire se e come iniziare
il discorso. Steve non si era nemmeno accorto della sua presenza.
Avrebbe potuto girare e i tacchi e tornare a nascondersi nel suo
studio, oppure provare ad affrontare la questione. Il pomeriggio
precedente ognuno dei due aveva esposto chiaramente la propria
posizione. Quella mattina, forse, avrebbero potuto trovare un
compromesso. Si fece coraggio. - Steve... Lui si voltò, ma non
disse nulla. Si limitò a guardarla. I suoi occhi erano la definizione
della tristezza. Prima di decidere di parlargli, Peggy aveva cercato di
capire se fosse ancora arrabbiata con lui. La risposta era una via di
mezzo: da una parte sì, perché l'aveva ferita, dall'altra no, perché
aveva capito le ragioni e le emozioni che l'avevano spinto ad agire in
quel modo. Lei aveva vissuto gli stessi sentimenti per sei settimane,
che sì, erano state interminabili, ma non erano nulla in confronto ai
dieci anni di Steve. - Dovremmo… - iniziò Peggy - Dovremmo discuterne. -
Me lo hai già spiegato chiaro e tondo ieri come la pensi - commentò
Steve. Non era arrabbiato. Non era polemico. Era solo scoraggiato. -
Non mi serve il tuo permesso per andarlo a cercare, Peggy. Mi serve
solo il tuo sostegno. Ti prego. Quella supplica disperata ebbe un
effetto devastante su Peggy, ma lui non parve notarlo, e approfittò del
fatto era rimasta in silenzio per farle quella domanda che l'aveva
tormentato tutta la notte. - Perché non hai detto ad Underwood di Bucky? Peggy parve confusa. - Cosa? Sì, gliel'ho detto. - No, intendo… lo hai chiamato Rand. Non gli hai mai detto chi fosse davvero. Steve
fece un passo avanti, speranzoso. Peggy pensò per un secondo alla
risposta. Non pensava che avesse notato quel particolare. Decise di
dirgli la verità, quella che lui probabilmente aveva già intuito, se si
era spinto a farle quella domanda così specifica. Anche se quando
parlava con Underwood era furiosa nei confronti di Steve, si era resa
conto che sarebbe comunque stata dalla sua parte. Magari l'aveva fatto
inconsciamente, ma se aveva omesso un'informazione importante era per
dare a Steve un vantaggio sullo S.H.I.E.L.D. - Per aiutarti, credo - disse infine. - Per essere un passo avanti. Per darti la possibilità di trovarlo prima di no… di loro. Il
cuore di Steve prese a battere all'impazzata. Aveva sperato, aveva
pregato che fosse quella la risposta alla sua domanda, ma sentirlo
davvero, sentirlo dire da lei, lo aveva colto alla sprovvista. Stavolta fu Peggy a fare un passo avanti. - A delle condizioni, però. Steve avrebbe fatto qualsiasi cosa, già quella concessione era una incredibile vittoria. -
Quando lo troveremo, e con "troveremo" intendo noi due, sarà tuo
prigioniero, non dello S.H.I.E.L.D. Ma dovrà comunque consegnarsi
all'agenzia, dove risponderà dell'omicidio di Daniel, e dove faremo
tutto il possibile per farlo tornare com'era. Te lo prometto, Steve. Steve
non parlò. Non c'erano parole che potessero descrivere la gratitudine
che provava nei suoi confronti. Colmò la distanza che ancora li
separava, la strinse in un abbraccio e si abbandonò ad un pianto
liberatorio.
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Capitolo 7 *** Epilogo ***
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Epilogo (SinisterKid)
- Non andrete a raccogliere cavi di rame nelle discariche,
vero?
- No, cara - La voce di Edwin Jarvis era l’emblema della tranquillità. -
Ci saranno i figli dei Rogers con noi e sai quanto il piccolo James abbia paura
dei mostri delle discariche.
- E non andrete nemmeno a raccogliere formiche, vero?
L’apprensione nella voce di Anna, invece, era alquanto palpabile.
- No, cara - ribadì nuovamente Edwin. - Il signor Pym non sarà con noi.
- Per l’amor del Cielo, non mi starai mica mentendo, Edwin?
- No, cara, assolutamente - Edwin le sorrise alla cornetta. - Sarà una semplice
passeggiata al parco con il signorino Tony e Bianca e James Rogers: niente cavi
di rame, niente scosse elettriche, nessun esperimento e nessuna formica. Che io
sia dannato se non sarà così!
Tony Stark, che stava ascoltando la chiamata fin dall’inizio, tirò
impazientemente la manica della giacca al suo maggiordomo e lo pregò di andare
il prima possibile.
- Jarvis, non possiamo perdere tempo! - strillò strappandogli dalle mani la
cornetta. - Signora Jarvis, giuro solennemente di avere buone intenzioni. Lo
giuro sul mio onore di Stark!
Edwin scoppiò a ridere e dovette coprirsi la bocca con entrambe le mani per
evitare che la moglie lo sentisse. Il piccolo Tony non aveva perfettamente
chiaro il concetto di onore nella sua mente, ma quella parola gli suonava
abbastanza solenne da fargli credere che avrebbe convinto la signora Jarvis.
Considerati i guai combinati dal padre, Anna non aveva molti motivi per fidarsi
della parola della progenie di Howard Stark, eppure quella dolce vocina, a
tratti ruffiana, di Tony la fregava ogni volta. L’ultima volta che si era
fidata del bambino, suo marito era tornato con uno braccio rotto. - Lo facciamo
per la scienza, signora Jarvis!, si era giustificato Tony per nulla
mortificato.
- D’accordo, signorino Tony. Mi prometta un’altra cosa, però.
- Certo, signora - rispose il bambino non nascondendo una certa esasperazione.
- Tratti bene Bianca e James, soprattutto lui, capito?
*
Bucky Rogers
se ne stava sdraiato sull’erba, all’ombra di una quercia secolare, e fissava
distrattamente il plumbeo cielo che lo sovrastava. Avrebbe piovuto di lì a
poco, il signor Jarvis non smetteva di ripeterlo da circa un’ora affinché
persuadesse, prima o poi, sua sorella Bianca e Tony ad andare. A Bucky non
importava granché di giocare o di tornare a casa o di qualunque altra cosa: era
stanco, angosciato e nessuno poteva immaginare quanto gli costasse sorridere al
gentile signor Jarvis quando gli chiedeva se ci fosse qualcosa che non andasse.
Bucky rispondeva sempre con un no affatto convincente e si sforzava, con tutte
le sue forze, di sorridergli. In realtà, non c’era una sola cosa che andasse
bene per lui: certo, era felice che mamma e papà non litigassero più e mamma
non avesse più minacciato di gettare papà fuori da casa. Era felice di vederli
sorridere, abbracciarsi … era bello che tutto stesse tornando come prima. Ma
come poteva dimenticare la visione dello zio Daniel che veniva brutalmente
ucciso e, soprattutto, l’eroe delle sue storie che si tramutava nel cattivo?
Bucky rifletteva costantemente su ciò che era successo, sperando che nessuno se
ne accorgesse. Nessuno, soprattutto mamma. Bucky non voleva più vederla
piangere per nessun motivo al mondo, tanto meno per lui.
- Bucky, dai, alzati! Giochiamo a nascondino - lo esortò Bianca, visibilmente
preoccupata dalla passività del fratellino. - Mostriamo al futuro uomo di latta
che i Rogers sono i migliori!
- Voglio proprio vedere, agente 13!
A Bucky sfuggiva il motivo per cui i due si chiamassero a vicenda in quegli
strani modi – parlavano davvero troppo e nessuna persona avrebbe avuto la forza
di ascoltare una loro conversazione per intero - ma poco gliene importava. Si
alzò svogliatamente e per evitare che Bianca lo sgridasse, corse in cerca di un
nascondiglio sicuro.
Corse per una decina di metri, la voce piena di frustrazione del signor Jarvis
che lo implorava di tornare indietro, prima di addentrarsi nel posto più oscuro
del parco, pieno di cespugli e sporcizia. Era qui che di solito i barboni
dormivano e si ubriacano e il fetore che Bucky sentì non fece che confermare la
sua credenza.
Il bambino pensò che avrebbe fatto meglio a tornare indietro, ma i gemiti di
qualcuno nascosto tra le erbacce e la spazzatura, lo fecero restare. La sua
curiosità era pari alla sua timidezza e nemmeno la paura riuscì a bloccarlo. Si
fece spazio tra i cespugli, calpestando diversi resti alimentari, sigarette e
quant’altro, e scoprì quello che mai avrebbe voluto scoprire. Bucky restò
pietrificato e, per un attimo, fu incapace anche di respirare.
Colui che stava piangendo, lurido, puzzolente, abbandonato, era Bucky Barnes,
il maledetto assassino che tanto dolore aveva provocato al piccolo Bucky e alla
sua famiglia. Il bambino non riuscì a muoversi, i piedi incollati al terreno e
i pugni tremanti che non avrebbero mai colpito alcun nemico.
Bucky Barnes adesso piangeva silenziosamente e Bucky Rogers ebbe difficoltà a
capire se lo avesse visto o meno. Non gli pareva più l’uomo brutale che aveva
visto solamente tre giorni prima e qualcosa nel cuore del piccolo Bucky lo
spinse, malgrado tutto, a provare profonda pietà per lui. Lo odiava ancora e
anche tanto, eppure non riusciva a godere della sua sofferenza.
- Steve, aiutami - mormorò appena Bucky Barnes.
Il piccolo Bucky sgranò gli occhi e per una manciata di minuti non seppe cosa
fare. Udiva in lontananza le voci di sua sorella e di Tony e si domandò se
avrebbe dovuto fare ritornare o restare con la persona che più disprezzava al
mondo.
- Aiutami - mormorò nuovamente Barnes, la voce morente.
Bucky sospirò e pensò alle parole di suo padre: - Solo gli spacconi vanno
combattuti, figliolo. Gli innocenti vanno aiutati. E accidenti se in quel
momento Bucky Barnes non sembrasse un innocente agli occhi del figlio di Cap!
Bucky Rogers si sedette a gambe incrociate e iniziò ad accarezzare il viso
sofferente e cadaverico del suo omonimo. Gli strinse entrambe le mani e tremò
quando toccò quella metallica e mal funzionante. Si disse di non aver paura:
gli eroi non devono avere paura.
- Va tutto bene, Buck - lo confortò il bambino. - Resto qui con te per un po’.
Bucky Barnes rafforzò, per quanto gli fosse permesso, la presa e guardò fisso
negli occhi di Bucky Rogers. Quest’ultimo tremò ancora, ma questa volta non per
lo spavento.
- Grazie, Steve - si sentì dire il piccolo Bucky. - Ti prego, non andare via.
Il bambino gli sorrise, uno dei sorrisi più belli che potesse rivolgergli, il
sorriso che tanta gente gli aveva detto simile a quello di suo padre.- Io non
vado da nessuna parte, Buck.
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