Remember how we were, shuckface?

di Edith Edison
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: True Friends ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Those big amber eyes ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: What happened to you when I wasn’t there? ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: I’ll help you ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: There’s an energy and, when you touch me, it’s so powerful ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: My inspiration burns like fire ***



Capitolo 1
*** Prologo: True Friends ***


Remember how we were, shuckface?

 

Prologo: True Friends


11 anni prima

« Newt! » Newt roteò gli occhi e sbuffò scocciato, osservando Thomas che correva nella sua direzione.
« Newt! » Ripeté forte quello, salutandolo con un cenno della mano e sorridendogli nel momento in cui i loro sguardi si incontrarono. 
Newton, dal canto suo, rimase impassibile e si sedette meglio sulla poltrona, incrociando le braccia sul petto.
Era un tipo solitario, lui: non gli piaceva stare in compagnia, specie dei suoi coetanei. Per questo motivo, non riusciva a capire tutti quei bambini che desideravano un fratellino o una sorellina; Newt era figlio unico e gli andava più che bene.
A scuola il comportamento antipatico che aveva cominciato ad adottare era abbastanza per tenere lontani i suoi compagni, i quali col tempo avevano imparato a lasciarlo in pace.
In generale, l'unica compagnia che Newton tollerava era quella del suo album da disegno e di una matita: disegnare era la cosa che più gli piaceva fare, lo faceva stare bene.
« Domani vuoi venire a mare? » Gli chiese Thomas affannato dalla corsa, appoggiandosi contro il corrimano dei quattro scalini che portavano dal giardino alla veranda. « Mia mamma ha detto che potevo invitarti. »
Ecco, se Newt non sopportava i suoi compagni di scuola, Thomas lo odiava.
Aveva sempre ritenuto che fosse un bambino di quelli della peggior specie: perennemente in movimento, non la smetteva mai di parlare e fare domande, troppo incuriosito da tutto ciò che lo circondava, un sorrisone sulle labbra e la battuta sempre pronta. 
« No. » Il sorriso di Thomas, alla risposta secca del biondino, si allargò ulteriormente - Newt si chiese come fosse possibile, visto che andava già letteralmente da un orecchio all'altro - e fece scoccare la lingua sul palato, come se si aspettasse quel trattamento.
Ed, in effetti, probabilmente se lo aspettava veramente, visto che Newt si era sempre comportato male con lui, più che non chiunque altro, spesso pregandolo di andarsene via e lasciarlo in pace perché 'con te non ci voglio stare'.
Eppure Thomas non si era mai lasciato intimorire, sembrava voler diventare suo amico a tutti i costi.
« Dai, ci sei mai stato al mare? » Salì gli ultimi due gradini e poi si fermò per parlare ancora con gli occhi nocciola che gli luccicavano per l'entusiasmo. « Possiamo fare il bagno, costruire castelli di sabbia o conoscere altri bambini! »
Il biondino si paralizzò sul posto; quell'ultima prospettiva lo allettava meno di qualunque altra. 
« Thomas, ho detto di no. Vattene. »
Ma prima che il moro potesse ribattere, dalla porta di casa uscì la mamma di Newt, la quale si sorprese nel vedere il bambino. 
« Ciao, Thomas! Come stai? » Il suo sguado si addolcì e scompigliò affettuosamente i capelli al moro con la mano. 
« Bene. Domani vado a mare con Ben, mamma e papà, può venire anche Newt? » La donna, la quale tra le altre cose era molto amica della mamma di Thomas, aveva sempre voluto che Newton socializzasse con altri suoi coetanei. 
Eppure era ben consapevole delle lamentele che la maestra spesso e volentieri le aveva rivolto, di quanto suo figlio risultasse scorbutico e reticente nei confronti degli altri bambini. 
Vedeva i suoi disegni appesi dappertutto nella sua camera e, se da un lato adorava il suo lato artistico, dall'altro si era ritrovata a pensare di preferire che Newt trascorresse quel tempo in compagnia di qualche amico, magari.
Non era solita fargli pressioni, sapeva com'era fatto, quanto fosse intelligente ed amabile a modo suo, ed inoltre si era convinta del fatto che fosse solamente un periodo della crescita.
Però Thomas era davvero troppo dolce e gentile, nonostante le risposte fredde ed antipatiche che il biondino gli aveva sempre rifilato e di cui a volte era anche stata testimone, era sempre passato per invitarlo a giocare con lui o a fare merenda.
Quel bambino, non sapeva perché, ci teneva seriamente ad essere amico di suo figlio e lei non poteva fare altro che apprezzare questa sua dedizione. 
Proprio per questo motivo, gli sorrise per l'ultima volta e « Certo. » disse.
Newt spalancò la bocca, scioccato in primis dalla sfacciataggine che Thomas aveva dimostrato più di una volta davanti ai suoi occhi ed in secundis dalla risposta affermativa di sua madre.
Si erano per caso coalizzati contro di lui?
Thomas saltellò sul posto tutto contento. « Evvai! » Si rivolse a Newt. « Domani ci vediamo qui fuori alle nove. » Poi si voltò e corse verso casa sua di fronte. 
« Ma mamma... » Provò a protestare il biondo. 
« Ti divertirai. » Sapeva che non si sarebbe arrabbiato, non con lei; le avrebbe tenuto il broncio per tutta la giornata e avrebbe risposto a gesti e a monosillabi, ma non le avrebbe urlato contro. « Ti divertirai, Newt. » Gli sussurrò prima di lasciargli un leggero bacio sui capelli e rientrare in casa loro.


10 anni prima

Newton si stava annoiando a morte.
'Nemmeno ci volevo venire a questa stupida festa', pensó mentre ingurgitava una manciata di patatine al formaggio.
Aveva deciso di partecipare solo perché Tommy, il giorno precedente, era riuscito a strappargli una promessa mentre si rincorrevano per il quartiere. 
« Sei il mio migliore amico, come puoi non esserci al mio compleanno? » Gli aveva ripetuto più di una volta il moro, lasciandolo interdetto altrettante volte, visto che nessuno prima - a parte Thomas, s'intende - gli aveva mai rivelato di considerarlo il proprio 'migliore amico'.
Il fatto che avesse lasciato entrare quel ragazzo sempre troppo pimpante e curioso nella sua vita non significava che improvvisamente fosse diventato socievole. Continuavano a piacergli la solitudine e la tranquillità, però adesso parlava con qualche compagno a scuola, persino con qualche femmina. 
Eppure l'unico a cui faceva vedere i suoi disegni era Tommy. L'unico che avesse mai invitato a casa sua era Tommy.
L'unico a cui avesse mai fatto un regalo era Tommy.
E non un regalo qualsiasi, bensì l'intera collezione dei film di Star Wars. Newton si sentiva quasi consumare dalla voglia di vedere il suo sguardo nel momento in cui avrebbe scartato il pacchetto azzurro e oro.
Nonostante ciò, si ritrovava seduto ad un angolo della stanza, in disparte, ad osservare i bambini che giocavano e ridevano insieme a Thomas.
Perché il moro non era come lui e Newt, questo, lo aveva capito da tempo ormai. 
Era simpatico e gentile, trattava sempre tutti bene ed aveva un mucchio di amici che sembravano voler trascorrere l'intera durata della festa in sua compagnia.
Per questo, Tommy aveva passato pochissimo tempo con Newt quel giorno, coinvolto più di una volta da qualcuno sempre diverso a giocare insieme agli altri. 
Quindi continuava ad annoiarsi, consapevole del fatto che avrebbe fatto bene a starsene a casa sua a guardare un cartone animato in tv, piuttosto che vestirsi di tutto punto per andare in quella pizzeria e sussurrare imbarazzato gli auguri di buon compleanno al bambino.
Inoltre, si sarebbe arrabbiato con Tommy quando quest'ultimo gli avrebbe chiesto perché gli stesse tenendo il muso: non stava facendo nulla per liberarsi di quei mocciosi e stare con lui.
Ma non era il suo migliore amico?
Newt sospirò affranto e prese un'altra manciata di patatine, poi si riempì un bicchiere d'acqua.
'Pazienza', disse fra sé e sé, 'se esiste un buon motivo per annoiarmi, quello è Tommy'. Perché anche se Newt non aveva avuto dei veri amici nella sua breve vita, sapeva che Thomas Edison sarebbe rimasto il migliore che avesse mai potuto desiderare. 
Ne fu certo quando gli altri cominciarono a cantare 'Happy Birthday to you' e Thomas lo prese per un braccio, trascinandolo con sé dietro il tavolo sul quale era stata sistemata in bella vista la grande torta di compleanno.

E la sua rabbia scemò del tutto quando lo strinse forte e sorrise all'obiettivo, ché 'la prima foto devo farla col mio migliore amico'.


9 anni prima

« Non posso ancora crederci che oggi me ne vado. » 
« Non essere tragico, testa di caspio. » 
Thomas e Newt erano seduti l'uno accanto all'altro sugli scalini di legno bianco della veranda del biondo.
« Non sono...tragico. » Fece una smorfia. « Solo...non voglio trasferirmi, non voglio lasciare Londra. » Thomas sospirò, piano piano si stava arrendendo alla realtà.
Non c'era più nulla che potesse fare, i suoi genitori avevano preso quella decisione molto tempo prima e il giorno del trasferimento era arrivato. A nulla sarebbero servite le ennesime lamentele da parte sua e del suo fratellone Ben. « Mi mancherai persino tu, pive. »
Newt sorrise beffardo, poi ritornò di colpo serio. Nemmeno lui voleva che partisse: era il suo migliore amico e gli voleva bene, con chi avrebbe trascorso le sue giornate? Con chi avrebbe preso in giro i tizi dei reality show e con chi avrebbe riso per la più piccola stupidaggine?
« Ti farai altri amici, Tommy. »
« Ma non saranno te. » Borbottò l'altro e per la prima volta, Newton sentì forte l'impellenza di scoppiare a piangere.
Di colpo si voltò verso di lui e gli mise una mano sulla spalla, fissando i suoi occhi nocciola in quelli dell'amico color marrone scuro, ostentando serietà come mai prima di allora. « Devi promettermi una cosa. »
Il biondino roteò gli occhi, ma rimase in attesa, sinceramente incuriosito da quel comportamento insolito. 
« Anche tu devi farti degli amici. »
Newt inarcò un sopracciglio e quasi gli scoppiò a ridere in faccia. 
« Newt, sono serio. » Fece scivolare via la mano. « So che sei una brutta sploff e che vorrai rimanere in casa tutto il tempo, ma devi farti degli amici. Degli amici veri. Capito? » 
Newton annuì in silenzio, scandagliando il suo volto e tentando di trovare qualcosa che lo tradisse, che gli facesse capire che lo stava solo prendendo in giro. Eppure Thomas non scherzava e sembrava essere seduto su delle spine perché stava aspettando la sua risposta con un'espressione preoccupata in viso, i muscoli di tutto il corpo tesi e il piede che batteva freneticamente sul terreno.
« Te lo prometto, Tommy. »
E lui si aprì in un sorriso, uno di quelli che gli andavano da un orecchio all'altro e sprizzavano gioia da tutti i pori. Uno di quei sorrisi che Newt vide solo poche altre volte nella sua vita. 

Prima di salire in macchina, finalmente pronti per lasciare il quartiere di Londra nel quale aveva sempre vissuto, la famiglia Edison permise al figlio Thomas di salutare per l'ultima volta il suo migliore amico Newton. 
I due bambini si strinsero forte in un lungo abbraccio e si lasciarono con un sorriso sulle labbra, un sorriso che da entrambe le parti nascondeva del dolore.
Nonostante ciò, quando Thomas se n'era ormai andato da venticinque minuti esatti, Newt si accorse di sentire ancora la sensazione delle sue braccia intorno al proprio esile corpo; ce l'aveva marchiato sulla pelle, quell'abbraccio.
E fu in quel momento, quando Newt sentì più che mai il vuoto che Tommy aveva lasciato - accanto a sé, dentro di sé -, quando realizzò che il suo migliore amico se n'era andato seriamente, che si permise di piangere.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Those big amber eyes ***


Remember how we were, shuckface?


Capitolo 1: Those big amber eyes

Presente

« Teresa, sei una palla al piede quando fai così. » Osservò le labbra rosa della ragazza formare prima una 'o' perfetta e poi piegarsi in un broncio infantile.
« Vaffanculo. » Incrociò le braccia sotto il seno e fece per andarsene, ma Newt roteò gli occhi e sospirando le afferrò un polso e la fece voltare nuovamente verso di sé.
« Dimmi. » Sospirò arrendendosi di fronte all'estrema cocciutaggine della sua migliore amica. 
« Ipotizziamo che oggi avessi un appuntamento. » Cominciò sfuggendo alla salda presa di Newt e portando le dita ad arrotolare una lunga ciocca di capelli neri. Nel notare che il biondino non le rispondeva, alzò i grandi occhi azzurri su di lui e lo scoprì a guardarla, attendendo che continuasse. « Potrei dire a mia madre che sono a casa tua? » 
Newton sospirò, pur essendo sollevato: si trattava di una stupidaggine, si erano coperti in quella maniera a vicenda un milione di volte. 
« Certo. » Rispose. 
Lei esultò e gli lasciò un bacio sulla guancia prima di andare via. « Grazie. Sei il migliore. » 
Il ragazzo sorrise scuotendo la testa e prese il libro di biologia dall'armadietto. Teresa non sarebbe cambiata mai, era incorreggibile. 
Sobbalzò quando Minho gli diede una pacca sulla spalla, ridendo allo spavento che Newt si era preso.
« Buongiorno, mio compagno di avventure! » Esclamò tutto contento.
Newt inarcò un sopracciglio e si incamminò verso l'aula numero 24.
Minho lo seguì senza esitazione.
« A cosa devo quest'allegria? »
L'asiatico sbuffò. « Ti direi che quando rido sono estremamente bello, ti direi che ho visto una biondina niente male, ti direi che oggi è una bellissima giornata di sole... » 
« Ma oggi piove. » Ribatté Newt sempre più confuso dal comportamento insolito dell'amico.
« Appunto! » Accordò il ragazzo, rendendo il biondo ogni secondo più incerto. « Non mi crederesti, amico mio! »
« Okay? » Avrebbe dovuto essere un'affermazione, eppure suonò tanto come una domanda, tanto non sapeva cosa dirgli. « Allora che ne dici di arrivare dritto al punto? »
Minho annuì e si fermò con lui di fronte all'aula di biologia. Di lì a poco sarebbe suonata la campanella, quindi doveva proprio darsi una mossa. 
« Oggi ci saranno anche i pivelli... » Così erano chiamate le nuove reclute della squadra di atletica della loro scuola, di cui Minho era il capitano da ben due anni. « ...ma sabato abbiamo una gara e voglio sottoporre gli altri ad un allenamento più intenso. Soprattutto per ora che il coach non c'è, non voglio che quelle teste di caspio si adagino sugli allori.» Quello era il loro 'senior year' e l'asiatico aveva ben chiarito il suo desiderio di 'lasciare un segno indelebile in quella scuola di merda'. Tuttavia proprio non riusciva a capire cosa c'entrasse lui. Non faceva parte della squadra di atletica. Non più, ormai. « So quanto ti faccia male, ma...non potresti allenarli tu? Solo per oggi, per favore, Newt. »
Minho era serio e lo stava praticamente pregando, lo stupì talmente tanto che non poté fare a meno di accettare.
« Sei un mito, amico! » Urlò il ragazzo prima di allontanarsi saltellando nel corridoio della scuola, sotto lo sguardo divertito di Newton e quello stranito di una manciata di studenti.

Minho aveva velocemente fatto un discorsetto di inizio allenamento a tutti, blaterando sulla costanza e l'impegno necessari per far parte di quella squadra, delle alte aspettative che il coach aveva di loro e bla bla bla.
Newt nel frattempo aveva cercato di studiare chimica, ma non era in alcun modo riuscito a concentrarsi.
Era tanto ormai che non tornava in quel campo di atletica; sì, aveva assistito a qualche allenamento di Minho e a tutte le sue gare, ma non era così vicino all'azione, all'allenamento vero e proprio dal suo ultimo giorno in quel club.
E sentiva l'adrenalina, gli sembrava quasi di poter odorare l'emozione mista a timore che caratterizzava tutti i novellini, spaventati nel profondo di non essere all'altezza. Così non era riuscito a stare fermo, si era alzato dagli spalti e aveva cominciato a camminare avanti ed indietro alle spalle del suo migliore amico, ascoltandolo distrattamente parlare con gli altri, mentre tentava di ricordare quanto fosse bello sentire l'aria fresca sferzargli il viso durante una staffetta, quando doveva correre più veloce che poteva.
Minho lo ridestò dai suoi pensieri chiamandolo ed annunciando ai pivelli che sarebbe stato lui ad allenarli per quel giorno, visto che i titolari avevano una gara importante venerdì pomeriggio.
« Allora, pivelli. » Iniziò Newt, dopo che Minho e gli altri si allontanarono per cominciare l'allenamento. « Iniziamo con un po' di stretching, che ne dite? » Udii delle parole di poco apprezzamento, ma la maggior parte dei ragazzi annuì senza fare storie. 
Stavano eseguendo una serie di saltelli sul posto, quando Newton notò che un ragazzo era appena arrivato e si era sistemato tra gli spalti. 
Non era di certo la prima volta che qualcuno si fermava ad assistere agli allenamenti e, di fatti, non fu quello a colpire il biondino, quanto una forte sensazione di familiarità che alla vista dello sconosciuto lo pervase. 
Lo osservò per un minuto buono, finché uno dei pivelli non lo chiamò, distraendolo. « Newt oggi ci farai correre? » 
Lui sbatté le palpebre almeno tre volte prima di comprendere la domanda che gli era appena stata posta; stava ancora pensando a quel ragazzo e alla sensazione di conoscerlo che continuava a provare. 
« Certo. » Poi si rivolse a tutti loro. « A terra. Venti addominali! » E si allontanò di qualche metro per parlare con Minho.
« Ehi Min... » Quello gli scoccò un'occhiata e si divise dal gruppo che continuò a correre indisturbato. « Sai chi è quello là? » E con un cenno del capo gli indicò il ragazzo sugli spalti.
Minho lo squadrò con attenzione, poi scosse la testa. « Mai visto. Perché? »
« Non so... » Rifletté il biondino. « Mi sembra familiare. »
L'asiatico sorrise. « Non vorrai far ingelosire Teresa. » Scherzò facendogli l'occhiolino. 
Newt fece una smorfia schifata. « Per favore, è praticamente mia sorella. » 
« Sì, sì... » E riprese a correre. 

Newton alzò le maniche della t-shirt fin sopra i gomiti e si asciugò la fronte sudata con un asciugamano.
Anche se aveva eseguito solamente pochi esercizi - a causa della gamba -, sentiva di aver comunque bisogno di una doccia, tanto faceva caldo quel giorno di metà ottobre.
Quando superò la curva del campo di atletica, scorse Minho intento a parlare con qualcuno. Non con un semplice qualcuno, ma col ragazzo degli spalti, il quale era rimasto ad osservare l'intero allenamento. 
Li raggiunse. « Newt, questo è Thomas! » Glielo presentò Minho, tutto affabile e sorridente. 
Il biondino gli strinse la mano, mentre quella strana sensazione ormai radicava in lui. C'era qualcosa di estremamente familiare in ogni sua caratteristica: negli occhi nocciola, quasi ambrati – decisamente ambrati -, incredibilmente brillanti, nei capelli castani, il naso dritto e le labbra carnose.
Eppure non riusciva a capire perché; forse lo aveva visto da qualche parte, ma non ricordava dove.
Thomas sorrise - anche quello stesso sorriso gli pareva familiare - e ricambiò la stretta. 
« Mi stava giusto dicendo che si è appena trasferito e che vorrebbe fare parte della squadra di atletica. » Spiegò l'asiatico all'amico.
« Ma le selezioni sono appena terminate. » Newt si passò nuovamente l'asciugamano dietro il collo. 
« Glielo stavo dicendo... » 
« Speravo... » Intervenne Thomas e Newt riconobbe un leggero accento americano. « ...che potessi chiudere un occhio per un tuo vecchio amico. » Concluse posando lo sguardo sul biondo.
Lui, per tutta risposta, sorrise e scosse la testa. « Non capisco. » Disse semplicemente quando anche Minho lo guardò.
« È passato tanto tempo, lo so, ma non pensavo che ti fossi dimenticato di me. » Il biondino aggrottò le sopracciglia e cominciò a scavare nella sua memoria, alla ricerca di un ricordo che in quel momento non riusciva ad afferrare. « Ero quel bambino fastidioso che abitava di fronte a casa tua, quello che ti chiedeva aiuto nei compiti anche se tu lo chiamavi 'faccia di caspio' e...»
E finalmente capì. « Tommy... » Lo interruppe sussurrando il soprannome che ricordava avergli affibbiato durante un afoso pomeriggio di luglio.
Sorrise di nuovo, di uno di quei sorrisi che Newt si era sempre chiesto come riuscisse a farli, che andavano da un orecchio all'altro e parevano non smettere mai di allargarsi e, allo stesso tempo, di brillare di luce propria. 
Fu impossibile non ricambiare. 
« Perciò vi conoscete? » Chiese Minho, palesemente stupito.
Annuirono. « Newt era praticamente il mio migliore amico. Ma mi sono trasferito a Los Angeles all'età di otto anni. »
L'asiatico scrutò con attenzione il suo amico, il quale sembrava perso nei suoi pensieri, troppo coinvolto per poter star dietro a quel discorso.
Si schiarì la gola. « Beh...immagino che per un vecchio amico di questo pive potremmo fare un'eccezione. »
Il biondo non rispose, lo sguardo fisso sul pavimento del campo di atletica.
« Che ne dici di provare domani? Alle quattro e mezza? »
Thomas gli lanciò un'occhiata furba e sicura di sé. Poi gli promise: « Non te ne pentirai. »
« Questo dipende da te. » Non poté fare a meno di aggiungere, prima che salutasse con un cenno entrambi e andasse via correndo.
Nessuno dei due disse una parola, così un imbarazzante silenzio si instaurò, secondi che Newt aveva l'impressione fossero minuti sotto lo sguardo indagatore di Thomas.
« Quando sei ritornato? » Chiese infine.
Piano piano stava passando in rassegna tutti i momenti trascorsi in sua compagnia, le risate e gli infantili litigi, i giochi inventati insieme a quel bambino sempre troppo attivo per i suoi gusti.
L'unico che fosse stato in grado di demolire il muro che aveva costruito intorno a sé, che non aveva mollato alla prima difficoltà, al primo insulto o rifiuto.
« Una settimana. » Rispose semplicemente. « Non pensavo frequentassi questa scuola. » 
« Perché? » Gli domandò sinceramente incuriosito da quel suo pensiero.
« Questa è una scuola statale e ricordo tuo padre. » Mormorò, ma non lo stava guardando. Poi balbettò imbarazzato qualcosa che non riuscì a capire. « Ehm...cioé... »
Newt ridacchiò e gli diede una pacca sulla spalla. « Intendi dire che ricordi il suo essere uno stronzo snob? Tranquillo, non devi vergognarti. »
L’altro sorrise leggermente. « Non intendevo... »
« Sì, è ancora come lo ricordavi. Forse è addirittura peggiorato. Ma non ho più il cuore di stargli dietro e rimanere male di fronte ad ogni suo sguardo deluso. » Strinse l'asciugamano fra le dita. Odiava parlare di suo padre, di quanto non andassero d'accordo e di come, qualunque cosa facesse, non riuscisse a renderlo orgoglioso di lui.
Thomas seguì attentamente il gesto con i suoi occhi color nocciola. « Mi dispiace, Newt.»
Ma lui sorrise e scosse la testa. « Figurati! » Cominciò a dirigersi in direzione dello spogliatoio, ormai avrebbe dovuto essersi quasi svuotato. « Piuttosto...dove abitate? »
Il moro lo seguì con le mani nelle tasche della felpa. « In realtà, non molto lontano dalla nostra vecchia casa. Qualche metro più avanti. » 
Questo significava che lui e Thomas al mattino avrebbero percorso lo stesso tragitto per raggiungere la scuola, pensò Newton. « Ti hanno già fatto fare il giro della scuola? » 
« Sì. Ci ha pensato un certo Alby. Lo conosci? » 
« Certo, chi non conosce Alby? » Newt sorrise pensando a quel ragazzo che lo aveva accettato senza pensarci due volte all'interno del comitato studentesco dopo aver saputo ciò che gli era accaduto. 
Inizialmente si era comportato male con lui: non voleva la pietà di nessuno, tanto meno di uno sconosciuto che non gli aveva mai rivolto la parola. Ma le intenzioni di Alby erano genuine; voleva solo aiutare un ragazzo che si sentiva perso, privato della sua più grande passione - la corsa - e non c'entrava nulla la compassione. 
« Già, beh...è un po' scorbutico ed arrogante... »
Newt si sentì in dovere di interromperlo, lanciandogli uno sguardo truce. « Alby è una brava persona. »
Thomas sembrò sorprendersi ed arrossire leggermente, mortificato. « Scusa. È solo che odio queste cose. Sai...essere il 'nuovo arrivato' ed integrarmi in un nuovo ambiente. Il tour della scuola, gli sguardi delle persone, il dover ricominciare: non lo sopporto. » 
E solo allora si rese conto che non avrebbe potuto capire ciò che il suo vecchio amico stava passando; dopotutto per lui non era la prima volta.
Tentò di mettersi nei suoi panni perché era sicuro che, se fosse stato al suo posto, anche lui avrebbe odiato trasferirsi in un'altra città, lasciandosi alle spalle la vita che si era costruito. 
Così sospirò. « Tranquillo, Tommy. » Ed eccolo, quel soprannome gli scivolò fuori dalle labbra con naturalezza, talmente tanta che in un primo momento non si accorse nemmeno di averlo effettivamente pronunciato, quasi come se lui e quel ragazzo moro ormai cresciuto non si fossero mai separati. 
Fu per questo che, nel momento in cui notò che Thomas stava sorridendo e si rese conto del 'Tommy' infantile con cui lo aveva appellato, percepii il sangue affluirgli all'altezza delle guance.
‘Sto arrossendo’, pensò. ‘Cacchio, sono un fottuto stupido.’ 
Si schiarì la gola nel vano tentativo di dissimulare l'imbarazzo che si era venuto a creare e si guardò intorno cercando di ostentare noncuranza. 
« Beh, ci vediamo domani, Tomm...Thomas, Thomas. Volevo dire Thomas. » Balbettò ripetutamente sentendosi ancora più imbranato. 
Il suddetto Thomas - il quale dal canto suo si stava trattenendo dallo scoppiare a ridere in faccia al biondino - si limitò a tenere il labbro inferiore ben incollato a quello superiore facendo finta di star solo sorridendo. 
Però quando Newt arricciò le labbra e gonfiò le guance ricordandogli quel bambino gracilino e terribilmente scontroso, non ce la fece più e proruppe in una grassa risata divertita. 
Questi si voltò, dandogli le spalle e fece per entrare nello spogliatoio senza più degnarlo di uno sguardo o rivolgergli una parola. 
Così Thomas si impose di calmarsi e gli rispose: « A domani, Newt. » 

***

Newt quel pomeriggio lo trascorse chino su innumerevoli album fotografici e fotografie sfuse di qualche anno prima.
Non che si sentisse particolarmente nostalgico o altro: il rivedere Thomas aveva acceso in lui una bruciante curiosità che lo spingeva a voler paragonare il ragazzo moro con il bambino energico di anni prima.
Così era arrivato a domandarsi come diavolo non avesse fatto a riconoscerlo, perché quei grandi occhi nocciola da cerbiatto erano impossibili da dimenticare. 
Sorrise nel ricordare il suo settimo compleanno, come si fosse annoiato per la maggior parte del tempo e come, invece, era finito per sorridere al fianco di Tommy mentre gli invitati intonavano 'Happy Birthday to you'. 
Quando si era trasferito a Los Angeles, il piccolo Newton ne aveva sofferto enormemente. Thomas Edison non era soltanto il suo migliore amico: era anche il suo unico amico. 
Aveva lasciato nel suo cuore un vuoto indescrivibile che il biondino era arrivato persino a pensare di non essere capace di colmare con nessun altro.
Si era arreso all'idea che sarebbe rimasto in quel modo, come lui lo aveva lasciato: un giocattolo rotto e troppo brutto, con cui nessun bambino avrebbe più voluto giocare. Ma poi si era ripetuto con determinazione e costanza la promessa che aveva fatto a Thomas; lui avrebbe voluto saperlo felice, circondato da veri amici, non chiuso nella sua camera ad osservare quella tela bianca che non aveva più saputo come riempire.
Aveva cercato di mettere da parte l'antipatia ed abbassare le sue difese, sorridendo di più e tentando di essere gentile. 
Finché alle medie non aveva conosciuto Minho: totalmente diverso da se stesso, un vulcano di energie dal quale si era lasciato travolgere senza troppi ripensamenti.
E piano piano si era guadagnato un posto nella vita di Newt, tra risate e pomeriggi trascorsi davanti ai videogiochi, tra litigi mai troppo seri e fiducia reciproca.
Poi in seconda media era arrivata Teresa: non sapeva come o perché, ma la ragazza aveva subito sviluppato una forte simpatia nei suoi confronti che li aveva portati a stringere un legame solido e duraturo. 
Teresa era la sorella che non aveva mai avuto - che non aveva mai voluto - e l'adorava, non sarebbe riuscito ad affrontare la giornata senza prima aver visto un suo sorriso.
Così si ritrovava ad osservare più che altro foto di lui in compagnia di Minho e Teresa ed a riflettere su quanto fossero cresciuti e quanti anni fossero effettivamente trascorsi da quando si erano conosciuti. 
Loro che non lo avevano mai abbandonato, nemmeno in quel periodo: quando non poteva confidare su se stesso, loro erano stati la sua ragione, la sua mente e le sue gambe.
Newt sapeva di dovere tutto a Minho e Teresa perché non ce l'avrebbe fatta mai senza il loro supporto, la loro presenza costante accanto a sé. E sapeva anche che era un pessimo migliore amico: non avrebbe potuto ripagarli per quello che avevano fatto per lui. Il loro aiuto era semplicemente inestimabile ed indispensabile.

Si bloccò nel momento in cui si accorse dell’oggetto che stesse tenendo fra le mani.
Da quanto tempo non vedeva il suo vecchio album da disegno?
Newt si rese improvvisamente conto di non ricordare minimamente l’ultima volta che aveva retto una matita tra le dita magre ed affusolate, con gli occhi marrone scuro incollati sul foglio e sul disegno che lentamente prendeva forma sotto il suo sguardo, con la mente proiettata per intero in un altro mondo in cui l’ispirazione faceva da sovrana, controllava i suoi muscoli e le sue articolazioni, gli permetteva di disegnare.
Disegnare.
Quasi scoppiò a ridere quando pensò che effettivamente lui non era più riuscito a disegnare dopo che Thomas era andato via.
Dopo che il suo migliore amico lo aveva lasciato da solo.
Newton si era sentito prosciugato di ogni emozione per così tanti giorni e l’unica cosa che avrebbe voluto fare era disegnare, azionare quel semplice meccanismo tramite il quale sentiva di potersi esprimere libero da ogni costrizione.
Eppure prendeva il pennello, lo intingeva nella pittura colorata e restava con la mano sospesa a mezz’aria perché l’ispirazione non c’era e i suoi muscoli e le sue articolazioni erano come paralizzate. Afferrava con rabbia una matita ed un foglio bianco, ma nulla prendeva forma sotto i suoi occhi, solo un’accozzaglia di linee che non sarebbero in alcun caso potute divenire qualcosa.
Newt si era reso conto con crescente orrore di non sapere più disegnare.
La sua ispirazione se n’era andata con Thomas.
O forse Thomas era la sua ispirazione.
Si stupì dei suoi stessi pensieri e scosse la testa come a cacciare quelle ipotesi assurde che si stava prendendo il lusso di formulare e ripose l’album nella scatola, evitando di sfogliarlo come aveva inizialmente intenzione di fare.

Sobbalzò quando udii la suoneria squillante del suo cellulare e si ricordò perché preferiva tenerlo in modalità silenziosa; sapeva bene che non sarebbe riuscito a sopravvivere senza utilizzare quell’aggeggio infernale per una lunga durata di tempo, così come la gran parte dei suoi coetanei. Era impossibile, la sua generazione era innegabilmente dipendente da quei dispositivi tecnologici, eppure Newton non poteva fare a meno di domandarsi come dovesse essere vivere in un tempo in cui le fotografie in bianco e nero erano considerate una vera e propria rivoluzione.
A volte li odiava, i cellulari: tutte quelle chat e quelle relazioni virtuali che non facevano altro che sminuire i rapporti veri, reali, quelli che si costruivano di presenza, indovinando i sentimenti delle persone scrutando il loro sguardo e non meditando sull’emoticon posta alla fine del breve messaggio.
« Ehi, Min. » Rispose senza troppi preamboli.
« Newt! Che stavi combinando, amico? » Il biondino corrugò la fronte quando udii della musica rimbombante provenire dall’altro capo del telefono.
« Niente di che, stavo sfogliando vecchi album fotografici. Tu, piuttosto…c’è una festa, per caso? »
L’asiatico rise e Newt sentii il volume abbassarsi radicalmente. « E’ solo Yun che ascolta la musica ad alto volume. Adesso mi sono chiuso nella mia camera, non ne vuole sapere di abbassare il volume. »
« Yun? » Ripeté scettico il ragazzo. « La tua adorabile sorellina di otto anni sta ascoltando della musica house ad alto volume? Sul serio? »
« I miei sono ad un cena di lavoro e lo sai che ascolta solo te quella peste. »
Newt sorrise teneramente al pensiero. Quella bambina dai tratti asiatici spaventosamente simile al fratello andava matta per lui.
« Sei una pappa-molle, Minho. » Lo prese in giro perché, dai, come faceva a non essere capace di badare alla sua sorellina? Era grande, grosso e vaccinato e, okay, i bambini potevano davvero risultare complicati e testardi, ma Minho era una frana in quelle cose.
« Stai zitto, faccia di caspio. Sono sicuro che quel mostriciattolo abbia una cotta segreta per te. » Sbuffò una risata. « E’ quel dannato accento inglese. Davvero, esiste una persona in questo modo a cui non piaccia il tuo accento? »
« Minho. » Lo ammonì Newt seppure fosse divertito, il suo migliore amico stava divagando alla grande, ma loro due non erano esattamente i tipi che trascorrevano ore e ore al telefono. Minho lo aveva chiamato perché doveva chiedergli qualcosa.
« Okay, okay. » Sospirò pesantemente. « Oggi sei stato grande con i pivelli. »
« Minho… » Ripeté, sebbene quella volta per un motivo diverso; non è che non gli piacesse ricevere complimenti, semplicemente non pensava di meritarne per aver fatto così poco.
« No, Newt. Sono serio, amico. » Boccheggiò un paio di volte prima di riprendere a parlare. « So di averti chiesto tanto, ma tu te la sei cavata benissimo. Quei ragazzi erano stremati dopo l’allenamento, eppure tutti stavano sorridendo soddisfatti. »
Il biondino prese a torturarsi le mani, nervoso.
« Due si sono persino fermati a chiedermi se li avresti sempre allenati tu in futuro. E poi tu eri così contento, avevi quell’espressione… »
Si sentì in dovere di interromperlo, perché non avrebbe retto un’altra delle sue parole, sarebbe crollato e quella era l’ultima cosa che volesse fare.
« Minho non ero poi così entusiasta. »
L’asiatico sembrò infuriarsi. « Vai, Newt, raccontami le tue solite stronzate. Dimmi che non eri felice, che non ti ha fatto bene allenare quei ragazzi. »
Uno strano silenzio calò fra di loro: era un silenzio di riflessione.
Minho aveva ragione, Newt non avrebbe potuto in qualsiasi modo negare le conclusioni alle quali era arrivato.
Rimettere piede in quel campo di atletica era stato un toccasana per lui, aveva sentito come se un peso sul petto si fosse dissolto ad un tratto e si era divertito da morire ad allenare quei pivelli. Era anche rimasto piacevolmente sorpreso dal suo corpo visto e considerato che fosse riuscito ad eseguire una serie di esercizi.
Forse non era completamente da buttare.
« Sì, mi è piaciuto. E allora? » La voce che uscì dalle sue labbra era roca, graffiava la sua gola secca, feriva come il pensiero di ciò che aveva perso.
« E allora potresti allenarli anche domani, mentre io guido gli altri e testo il tuo amichetto. »
Deglutì e si inumidì le labbra, poi si alzò con l’intenzione di riempirsi un bicchiere d’acqua fresca. « Thomas? »
« Mhm-mhm. » Assentì quello. « A proposito, non me ne avevi mai parlato. »
« Cosa avrei dovuto dirti, Minho? » Aprì il frigorifero e ne tirò fuori una bottiglia in vetro trasparente. « Non lo avevo nemmeno riconosciuto. » Aggiunse dopo quasi sussurrando, come se si vergognasse di quel particolare.
« Per questo quel tuffo nei ricordi? » Le sopracciglia del biondo scattarono verso l’alto, si conoscevano da parecchi anni eppure lo sorprendeva sempre il modo in cui Minho riuscisse a comprenderlo in ogni situazione.
« Sì. Anche se più che altro ho trovato foto di me, te e Teresa. »
L’amico ridacchiò. « Foto che resteranno per sempre in quegli album, mi auguro. »
Anche Newt si lasciò andare ad una risata, con la gola finalmente idratata e la tensione di poco prima ormai scivolata via dal corpo. « Vi ricatterò a vita. »
« Sei terribile, Link. »
Il ragazzo roteò gli occhi e sbuffò rumorosamente. « Ancora con questa storia? »
« Com’era? Ah, sì. ‘Ti ricatterò a vita’. »
« Ti odio. »
« In realtà, nascondi il tuo immenso amore nei miei confronti servendoti di queste false dichiarazioni perché sai che non potrei mai e poi mai ricambiarti in senso strettamente amoroso. »
Rise. « Sei ridicolo. »
C’era questa ragazza, una loro amica che frequentava un’altra scuola dall’altra parte della città e che avevano conosciuto durante una festa, Brenda, che lo aveva soprannominato ‘Link’, come il protagonista dei numerosi videogiochi di ‘The legend of Zelda’.
Insomma, il destino volle che una serie di sfortunati – per Newt, ma decisamente fortunati per i suoi crudeli amici – eventi lo portassero a perdere una stupida scommessa con Minho la quale prevedeva che, nel caso in cui lui avesse perso, avrebbe dovuto travestirsi dal suddetto Link in occasione della festa di carnevale organizzata dal comitato studentesco della sua scuola.
“Tranquillo, Newt!”, lo aveva rassicurato ottimista come non mai Brenda. “Siete praticamente uguali, dobbiamo solamente trovare il vestito e recuperare un arco con le frecce.”
In un primo momento, aveva pensato che la ragazza stesse scherzando e che alla fine si sarebbero arresi e lo avrebbero lasciato andare alla festa come aveva previsto di parteciparvi: con un paio di jeans blu ed una semplice maglietta colorata.
Invece, quando Brenda e Teresa gli mostrarono sorridenti l’ordine ormai spedito su Amazon, aveva capito di essere spacciato.
« Quelle foto devono rimanere nel tuo portatile. » Sibilò tentando di apparire minaccioso.
« Così come le tue. » Ribattè altrettanto seriamente il suo migliore amico.
« Affare fatto. »

***

10 anni prima
« Wow,Newt! » Un piccolo Thomas saltava da una parte all’altra della stanza di Newton, facendo quasi venire il mal di testa a quest’ultimo a forza di seguirlo con lo sguardo.
Sembrava una trottola impazzita: sfogliava l’album da disegno abbandonato sulla scrivania, poi balzava dall’altro lato della stanza per saggiare le linee colorate tracciate sulla tela ordinatamente riposta sul cavalletto di legno, subito dopo aveva la faccia praticamente schiacciata alla parete e il capo leggermente piegato verso destra mentre studiava attentamente i dipinti e i disegni attaccati gli uni accanto agli altri al muro della camera dell’amico.
« Come fai? » Gli domandò prima di osservare la collezione di matite dell’amico e prendere in mano la tavolozza, fingendosi un pittore. « Sono tutti così belli i tuoi disegni! »
« Non è vero. » Lo contraddisse il bambino. « Molti li staccherò dalla parete e li butterò. »
« Perché?! » Esclamò Thomas, il quale si voltò nella sua direzione e gli rivolse uno sguardo talmente tanto triste che Newt percepii una strana stretta al cuore.
Di nuovo si chiese cosa avesse di speciale quel moccioso.
« Perché sono brutti. »
Gli si avvicinò e gli mise entrambe le mani sulle spalle, guardandolo con un piccolo sorrisetto dipinto sulle labbra. « Beh, a me piacciono. Quindi li lascerai. »
E schizzò di nuovo via a giocare con le setole dei suoi pennelli.
Newt gli andò dietro, pronto ad urlargli contro perché ‘quei pennelli non sono giocattoli, idiota!’, ma scoppiò a ridere quando Thomas sbuffò e li rimise al loro posto.
Davvero, non sapeva perché ai suoi occhi quel bambino fosse diverso dagli altri.
Eppure di una cosa era sicuro: non avrebbe buttato quei disegni.

***

Presente
Newt fu svegliato dalla suoneria squillante del suo cellulare.
Doveva essersi addormentato poco dopo cena con la luce accesa, il computer ancora acceso sul letto e i vestiti indosso.
Prese il dispositivo fra le mani; il suo sguardo si posò prima sull’orario – erano solo le undici e mezzo, ma a giudicare dal silenzio che regnava in casa sua, i suoi genitori dovevano già essere andati a dormire. Successivamente notò il nome stampato a chiare lettere sul display: Teresa.
« Teresa? »
In risposta, non udì nulla. Solo un respiro affannato, come se la ragazza avesse corso per una decina di minuti, e qualche singulto che fece preoccupare il biondino.
« Teresa? » Provo di nuovo, stavolta a voce più alta. Ormai si era completamente svegliato.
« Apri la finestra. » Ed attaccò.
Newton obbedì in fretta. Spalancò le ante e lanciò un’occhiata al suo giardino, dove individuò chiaramente una figura in procinto di arrampicarsi.
Quella non era di certo la prima volta che utilizzavano quel metodo per incontrarsi: svariate volte Newton era sgattaiolato in quel modo dalla sua stanza sotto lo sguardo divertito dell’amica per poter andare a qualche festa o al cinema a vedere un film horror.
Eppure quando Teresa fece il suo ingresso nella sua camera da letto, era evidente che ci fosse qualcosa di diverso: il volto della ragazza era bagnato dalle stesse lacrime che avevano fatto sbavare il trucco sotto gli occhi azzurri.
Teresa aveva pianto.
« Teresa, ma cosa…? » Cominciò prima di vedere che la ragazza stava stringendo con le dita qualcosa: il suo polso sinistro. Newt le fece delicatamente allentare la presa ed inorridì alla vista dei segni rossi che marchiavano la pelle dell’amica, segni che era evidente sarebbero diventati lividi.
Poi si ricordò dell’appuntamento.
« Con chi sei uscita? »
La ragazza dai capelli corvini tirò su col naso. « Gally. » Disse solamente ed ogni muscolo del corpo di Newt si tese perché non aveva mai sopportato quel gradasso.
Lo avrebbe ucciso.
« Vieni qui, Tess. » Le disse dolcemente, chiamandola con quel nomignolo che utilizzava solamente per calmarla o quando doveva farsi perdonare per aver combinato un casino; allargò le braccia e, servendosi di un’occhiata abbastanza eloquente, la incitò ad avvicinarsi.
Teresa si rifugiò contro di lui e si lasciò stringere e consolare, strofinando il viso sulla sua maglietta, mentre ritornava a piangere.

Oh, sì, non l’avrebbe passata liscia.











Ed ecco il primo capitolo!
Innanzitutto volevo ringraziare - grazie, grazie, grazie davvero - tutti coloro
che hanno dedicato del tempo a leggere la mia storia, in particolare a chi 
l'ha recensita, ma anche alle persone che l'hanno inserita fra le seguite 
e fra le preferite. Non potete capire quanto mi avete resa felice.
Ho tentato di scrivere il primo capitolo in fretta per darvi un'idea della
storia che sto delineando. Certo, siamo ancora al primo capitolo e questo,
insieme al prossimo (che, a titolo informativo, è quasi del tutto pronto), 
saranno dei 'capitoli di presentazione'. Voglio dare spazio alle relazioni 
che esistono fra i personaggi, descrivendo per bene le amicizie che Newt
e Thomas hanno costruito nel periodo in cui sono stati lontani. 
Proprio per questo motivo alternerò i punti di vista. 
Il prologo, così come questo primo capitolo, sono P.O.V. Newt, mentre
il prossimo sarà P.O.V. Thomas e successivamente si alterneranno, ci 
tengo ad analizzare per bene entrambi i personaggi :)
Come mi hanno giustamente fatto notare in una recensione, non si riesce
a capire bene l'età dei personaggi e visto che cotruirò questa fan-fiction
su un intreccio di passato e presente, è importante che si sappia: 
frequentano tutti l'ultimo anno delle scuole superiori (il così detto 'Senior
Year), perciò hanno diciassette anni, anche se sono in procinto di compierne
diciotto.
Ho intenzione di pubblicare un capitolo a settimana e proverò davvero a farcela,
ma non prometto nulla visto e considerato l'imminente arrivo della scuola.
*piange in un angolino*
In ogni caso, spero che la storia vi piaccia e che vi strappi qualche sorriso,
spero di non deludervi. 
Al prossimo capitolo!

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: What happened to you when I wasn’t there? ***


Remember how we were, shuckface?



Capitolo 2: What happened to you when I wasn’t there?
 

Presente

Quello era solo il secondo giorno e già Thomas non ne poteva più.
Non ne poteva più di fingere sorrisi e rispondere cordialmente alle persone che lo riconoscevano per strada e gli chiedevano della sua famiglia.
Era stanco.
Terribilmente.
Avrebbe voluto rintanarsi nella sua stanza e restare accoccolato tra le coperte del suo letto, senza pensare ai minuti che scorrevano.
O alla scuola.
Thomas sbuffò rumorosamente.
Stava seriamente valutando l'idea di marinarla quel giorno, probabilmente nemmeno quella notizia sarebbe riuscita a perforare la maschera di mutismo che aveva adottato suo padre.
Poi però si ricordò delle prove per la squadra di atletica e si sentì un po' meglio: gli avevano concesso una possibilità e non aveva alcuna intenzione di sprecarla. 
Soprattutto se avrebbe potuto rivelarsi la sua personale distrazione, un modo per sfuggire alla realtà soffocante nella quale si ritrovava a vivere giorno dopo giorno.
Aveva bisogno di evadere.
E correre, sentire il vento fresco sferzargli il viso, le gocce di sudore che solcavano lente la sua pelle, il cuore che cominciava a pompare il sangue più velocemente lo aveva sempre fatto sentire stranamente vivo.

Fece una doccia e si vestì di fretta e furia perché aveva trascorso fin troppo tempo a letto a riflettere e presentarsi in ritardo a scuola dopo solo un giorno non era esattamente uno dei modi migliori per dare una buona impressione.
La casa che avevano affittato non aveva nulla a che vedere con quella in cui viveva a Los Angeles o con l’immobile che possedevano anni prima a Londra ed avevano venduto quando si erano trasferiti: si sviluppava tutta su un solo piano e, pur non essendo esageratamente grande, le camere da letto erano molto spaziose e luminose; nonostante ciò, vi era un solo bagno e la cucina dava l’impressione di essere piuttosto angusta. Ma, tutto sommato, non era poi così male.
Si avvicinò al frigorifero con l’intenzione di bere qualcosa di fresco prima di andare via e notò un post-it arancione fluo attaccato alla superficie in alluminio.
Diceva solo:

 

Emergenza in ufficio,
ci vediamo stasera.
Ti voglio bene
                              Papà


Thomas sospirò, indossò la giacca ed afferrò al volo la borsa a tracolla nera; avrebbe fatto colazione per strada.
Mentre si chiudeva la porta di casa alle spalle, non poté fare a meno di chiedersi quanto amore ci fosse in quel ‘ti voglio bene’.


***

Thomas osservò la porta dell'ingresso secondario spalancarsi per lasciare entrare un Newt visibilmente incazzato e una ragazza dai lunghi capelli corvini proprio dietro di lui.
Lui manteneva un passo veloce, ma strascicato e quella fu la prima volta che Thomas notò che nel suo modo di camminare c'era qualcosa di sbagliato.
Perché Newt zoppicava.
E non poteva di certo essere una malformazione congenita visto che ricordava perfettamente le giornate passate a rincorrersi anni prima. 
Ricordava il suo sorriso spavaldo quando si voltava verso di lui dopo aver tagliato il traguardo che avevano stabilito momentaneamente.
Ricordava quei momenti talmente tanto bene, gli risultavano limpidi a tal punto che vedere Newton zoppicare gli provocò un dolore sordo al petto.
Un dolore che Thomas proprio non seppe spiegarsi.
Ma che comunque passò in secondo piano di fronte all'immagine dell'inglese che si dirigeva spedito verso un ragazzo biondo e dai capelli corti che stava ridendo insieme ad un altro paio di ragazzi accanto agli armadietti.
Lo afferrò per il colletto della camicia a quadri che indossava e lo fissò minaccioso, incurante della piccola folla che si stava andando a creare intorno a loro. Thomas si ritrovò ad avvicinarsi, curioso di comprendere cosa stesse accadendo.
« Non ho idea di quello che tu le abbia fatto. » Sputò glaciale. « Ma avvicinati un'altra volta a lei e non risponderò delle mie azioni. » 
La ragazza dai capelli neri e gli occhi azzurri posò una mano sulla spalla di Newt. « Smettila, Newt. »
A questo punto, intervenne anche il ragazzo dai capelli biondi e corti. « Che cosa gli hai raccontato?! » Le urlò spietato.
Newt lo sbatté con violenza contro gli armadietti, l'impatto provocò un rumore poco rassicurante che fece strizzare gli occhi ad alcuni ragazzi che stavano assistendo alla scena. « Non ti azzardare a trattarla male. Mai più, Gally, hai capito?! »
La ragazza si fece da parte - doveva essere la fidanzata del suo vecchio migliore amico, pensò Thomas - tentando di nascondere un'espressione palesemente tormentata, mentre Newt e Gally si guardarono negli occhi per un lungo lasso di tempo. Alla fine fu proprio quest'ultimo ad annuire distogliendo lo sguardo e così permettendo a Newt di calmarsi e voltargli le spalle.

***

Da che ne aveva memoria, Thomas aveva sempre frequentato AP Biology.*
In realtà, aveva sempre frequentato corsi avanzati e mai gli erano sembrati troppo complessi o impegnativi come gli altri suoi compagni ci tenevano a vantare.
Gli avevano sempre detto di essere portato, più di una persona aveva idolatrato le sue capacità logiche e, in particolar modo, scientifiche, a tal punto che Thomas si era portato avanti negli studi anche per conto suo, imparando ad amare ogni piccola sfaccettatura della scienza. 
Nel bel mezzo di un'importante quanto affascinante spiegazione, la porta dell'aula 56 si spalancò per lasciare spazio ad una figura minuta dal viso provato. 
« Signorina Agnes, non ci speravo quasi più. » Disse la professoressa Vernon annotando alla lavagna l'argomento della lezione di quel giorno. « Non arriva mai in ritardo. »
 E fu allora che Thomas riconobbe la ragazza: era quella dai capelli corvini e vaporosi che aveva visto quella mattina al fianco di Newt, quella per cui lui e Gally avevano litigato.
« Già, mi scusi. » Rispose lei esaminando attentamente l'aula e verificando che l'unico posto libero rimasto fosse accanto a Thomas nella terza fila.
Si sedette accanto a lui senza proferire parola, semplicemente sfilò il libro ed un quaderno dalla borsa che portava con sé, prese una penna fra le mani e cominciò a scribacchiare qualche appunto.
In ogni caso, Thomas avvertì con esattezza il momento nel quale la ragazza smise di scrivere e si perse nei suoi pensieri, seppe che non stava ascoltando una parola della lezione, per questo, quando la professoressa fece il suo nome per invitarla a continuare a leggere dal punto nel quale il suo compagno si era interrotto, Thomas gli indicò distrattamente la parola sul suo libro. 
Lei gli sorrise grata. 
Suonò la campanella e la ragazza, incurante del fatto che il moro stava raccogliendo le sue cose con l'intenzione di concludere al più presto quella giornata straziante, gli tese la mano piccola ed elegante e si presentò.
« Piacere, sono Teresa. » 
‘Teresa’, pensò Thomas. ‘Quindi è cosi che si chiama la ragazza di Newt.’
« Io sono Thomas. »
Lei aprì la bocca per dire qualcosa, ma sembrò ripensarci, così la richiuse pur non riuscendo a mascherare una luce di comprensione che si era stabilita nei suoi grandi occhi azzurri.
Lui capì al volo. « Sì, sono 'quello nuovo'. »
Teresa arrossì fino alla punta dei capelli.
« Non preoccuparti, so come funzionano le cose al liceo. Arriva qualcuno di nuovo e tutti si chiedono chi sia, perché si sia trasferito e tutte quelle piccole domande che non nascondono un reale interesse. » Sospirò. Stava blaterando, lo sapeva. Tentò di fermarsi, perché probabilmente quella ragazza lo avrebbe preso per matto, però la sua bocca sembrava non volerne sapere di collegarsi al suo cervello e poi guardò fuori dalla finestra e… « Oh, andiamo! Perché piove sempre qui a Londra? Odio questo tempo. »
E lo odiava sul serio: era sempre così umido e nuvoloso lì, quello era un dettaglio che non era mai riuscito a dimenticare. Los Angeles, d’altro canto, era in pratica la patria del sole; scavò nella sua mente con l’intento di scovare una giornata in cui non avesse usato gli occhiali da sole – che per altro, portava sempre con sé.
Fece scivolare le braccia lungo i fianchi – non solo aveva parlato a vanvera, ma si era persino messo a gesticolare, enfatizzando ogni singola parola avesse pronunciato – e scandagliò il viso della ragazza.
Di contro ad ogni propria aspettativa, Teresa lo stava guardando con le braccia conserte all’altezza del petto e un’espressione mezza divertita sul volto.
« Credo che tu abbia bisogno di un caffè. Che lezione hai adesso? » Gli disse semplicemente e Thomas era talmente tanto stralunato da quella risposta inaspettata che rimase per qualche secondo in silenzio contemplando le lentiggini sparse sul naso e sulle guance leggermente arrossate della ragazza di Newt.
Del suo ex-migliore amico Newt.
Lei e lui stavano insieme.
E Thomas doveva decisamente smettere di fissarla e di soffermarsi sul modo in cui i suoi capelli neri si arricciassero alle punte, perché sì, era dolorosamente bella con la pelle diafana – non pallida, diafana – e le labbra rosa sottili, ma sarebbe stato sbagliato provarci con lei.
Comunque ciò non significava che non avrebbe potuto bere un caffè con lei. O magari offrirglielo.
« AP Chemistry.* » Concluse con un’alzata di spalle noncurante, tentando di ignorare il fatto che l’avesse osservata imbambolato come un pesce lesso.
Quella sorrise. « Bene, anche io. Il professore oggi è assente, quindi abbiamo un’ora libera. » Gli diede le spalle e si diresse verso l’uscita.
Quando si accorse che il moro non la stava seguendo, si voltò nella sua direzione, un sorriso furbo dipinto sul volto e… « Allora, questo caffè? »
A Thomas non restò che raggiungerla.

***

Teresa lo aveva guidato per le strade di Londra finché non giunsero in un piccolo bar dall’aria calda e familiare, non molto lontano dalla scuola a dirla tutta, il che era un bene visto e considerato che avrebbero dovuto sorbirsi un’altra ora di lezione prima di tornare a casa o – come nel caso di Thomas – dedicarsi ad attività extra quali la squadra di atletica.
Si accomodarono in un tavolino vicino alla finestra, l’uno di fronte all’altra ed ordinarono due caffè, lei macchiato di latte, lui semplicemente nero.
Thomas cominciò a guardarsi intorno: il soffitto era di legno scuro, così come i tavolini sparsi per tutto il locale, il quale era arredato sui toni del rosso e del verde muschio, una combinazione che gli fece molto pensare al periodo natalizio, ma che in quel posto doveva essere all’ordine del giorno. Lucernari rustici che emanavano una luce giallastra e soffusa erano stati posizionati sui posti a sedere e sopra il lungo bancone bar in mattoni, dietro il quale si poteva ammirare una vasta collezione di alcolici. In fondo era stato sistemato un pianoforte nero a mezza coda e Thomas pensò che probabilmente di sera dovesse trasformarsi in un piano bar, piuttosto che rimanere un antro tranquillo all’angolo della strada.
« Ti piace? » Chiese cordialmente Teresa, poggiando il mento sulle mani intrecciate.
Il moro annuì semplicemente, non trovando nulla da aggiungere all’assenso.
Lei sospirò e si fece più seria. « Sono stata la nuova arrivata in seconda media e per quanto fossi terrorizzata, non è stato poi così disastroso. Anzi, ho subito conosciuto il mio attuale migliore amico e altre persone con cui sono tuttora molto vicina. »
Thomas si ritrovò ad ascoltarla particolarmente interessato e a domandarsi quando avesse conosciuto Newton. Quasi scosse la testa nel tentativo di scacciare quel pensiero ricorrente dalla sua mente.
« Sono nata a Sunderland e lasciarla è stato un po’ come abbandonare una parte di me. » Lui annuì e lei lo prese come un invito a continuare. « Però adoro Londra, adoro questi piccoli bar sparsi per la città e l’umidità che respiro ogni giorno camminando per strada. Ormai la sento ‘mia’. » Concluse sorridendo teneramente, appoggiando la schiena alla poltrona di pelle bordeaux ed abbassando lo sguardo.
Thomas si rese improvvisamente conto che Londra era realmente la sua città natale, eppure non la considerava ‘sua’ da parecchio tempo ormai. Il fatto era che a Los Angeles non aveva lasciato solo una parte di sé stesso.
E non avrebbe potuto recuperare ciò che aveva perso. Mai più.
Si passò una mano tra i capelli e un po’ si sorprese nel momento in cui notò che Teresa aveva seguito quel gesto per la sua intera durata, senza perdersi nemmeno un millesimo di secondo. Si sarebbe anche concesso un ghigno soddisfatto se solo l’immagine di Newt non avesse nuovamente fatto capolino nella sua mente.
‘Dannazione’, si ammonì per l’ennesima volta in quei pochi minuti.
I loro caffè arrivarono giusto prima che il silenzio che si era instaurato fra loro due potesse diventare irrimediabilmente imbarazzante, cancellando l’atmosfera confortevole che si era andata a creare.
Dopo aver ringraziato la cameriera, Thomas si affrettò a prendere la parola. « Io sono nato a Londra. »
Teresa si corrucciò all’istante, ma non disse nulla, in attesa che il ragazzo potesse spiegarsi meglio, così avvolse la tazza turchese con le mani e si protese impercettibilmente in avanti.
« All’età di otto anni mi sono trasferito a Los Angeles. E adesso sono tornato. » Il moro scartò una bustina di zucchero e si perse ad osservare come il liquido scuro seguisse il movimento circolare dettato dal cucchiaino in acciaio. « In nessuno dei due casi ho avuto una brutta esperienza, sono solo… » Si fermò un attimo, riflettendo sul termine giusto da utilizzare e quasi si stupì quando si rese conto di quanto fosse – sembrasse - banale quella parola e di quanto quotidianamente venisse utilizzata da tutti. « …stanco di crearmi una vita per poi lasciarmela alle spalle come se niente fosse. »
Ripensò alle lacrime che Chuck aveva versato quando lo aveva salutato per l’ultima volta prima che partisse e gli si strinse il cuore: quel piccoletto era diventato come un fratellino per lui, se avesse potuto lo avrebbe portato con sé a Londra.
Thomas si riscosse solamente quando percepii un peso caldo posarsi delicatamente sul dorso della propria mano e stringerla in una morsa comprensiva; il ragazzo modificò la traiettoria del suo sguardo e scoprii che non si trattava altro che della mano di Teresa, la quale gli stava sorridendo con tutta l’intenzione di apparire incoraggiante.
Il moro apprezzò il tentativo – davvero, lo fece -, così ricambiò il sorriso.
Ma non si dovrebbe sorridere solo quando si è felici?
Un sorriso non dovrebbe far sentire più leggeri?
E allora perché a Thomas sembrava di star portando sulle spalle un carico fin troppo pesante? Perché sentiva di spegnersi sempre di più ogni volta che prendeva coscienza del fatto che nessuno avrebbe potuto pienamente comprenderlo?
« Non hai vecchi amici qui a Londra che puoi chiamare per avvertirli del tuo ritorno? » Gli domandò la ragazza dagli occhi azzurri e Thomas proruppe in una risata ironica.
Perché quella situazione era fottutamente ironica e il karma doveva seriamente smetterla di giocare con lui.
« Il tuo ragazzo era praticamente il mio migliore amico prima che mi trasferissi in America. » Silenzio.
Teresa ritirò la mano come scottata e corrugò le sopracciglia, allucinata. Poi sembrò di colpo diventare triste.
Era perché gli aveva ricordato il suo fidanzato? Cosa c’era di sbagliato? Avevano forse litigato?
« Teresa, cosa c’è che non va? Ho detto qualcosa che ti… »
Lei non gli fece neanche terminare la frase. « Nulla, Thomas. » Si affrettò a chiarire e lui tirò un sospiro di sollievo, non ci teneva ad allontanare o addirittura ferire l’unica persona che stesse mostrando uno straccio di genuino interesse nei suoi confronti. « E’ solo che io e Gally non siamo mai stati fidanzati. Siamo solo… »
« Aspetta, cosa? » Stavolta fu il turno del ragazzo interromperla ed aggrottare la fronte, confuso. Gally? Chi diamine era Gally? « Io intendevo Newt. »
Ed inaspettatamente, come un fulmine a ciel sereno – probabilmente Thomas comprese il significato del paragone in quel preciso istante -, Teresa scoppiò a ridere.
Talmente tanto rumorosamente che alcuni si voltarono per accertarsi di cosa stesse accadendo; rise finché una lacrima non le lasciò una scia bagnata lungo il viso.
« No, Tom! » Sentii il sangue affluirgli all’altezza delle guance. Gli aveva dato un soprannome e solo gli amici si davano soprannomi a vicenda. « Newt è mio fratello! »
Teresa – se possibile – rise più forte nel vedere Thomas letteralmente sgranare gli occhi alla sua esclamazione, leggeva la confusione nei suoi bei occhi ambrati e non poteva non divertirla da morire quell’espressione da Bambi smarrito che aveva stampata in faccia. Era esilarante.
Tentò di darsi un contegno e si schiarì la gola, aveva intenzione di spiegargli chiaramente come stessero le cose. « Non è veramente mio fratello. E’ il mio migliore amico, il ragazzo con cui ho subito stretto amicizia in seconda media. Non potrei mai fidanzarmi con lui, sarebbe un incesto per me o roba del genere… » Si lasciò andare ad un’ultima risata. « Mi hai migliorato la giornata, sai, Tom? Sei davvero simpatico. »
Thomas avrebbe voluto fermare il flusso dei suoi pensieri per fare tesoro delle sue parole e magari ammiccare con un sorriso – dopotutto non era la ragazza del suo ex-migliore amico, di conseguenza, non vi era nessun ostacolo che gli impedisse di provarci con lei – e lo avrebbe fatto, se solo non fosse stato impegnato a spingersi contro la poltrona del bar con forza, desiderando ardentemente che questa lo risucchiasse e lo facesse scomparire.
‘Oh. Mio. Dio.’, si ripeteva. ‘Che figura di merda.’
« Lo hai pensato per stamattina? » Non gli restò che annuire. Avrebbe dovuto valutare l’idea di esprimersi a gesti, appurato che con le parole fosse un disastro.
« Ieri sera sono uscita con Gally. » Prese a raccontare Teresa e il ragazzo capii finalmente a chi si stesse riferendo poco prima. Gally era il ragazzo dai capelli biondi e corti con cui Newton aveva quasi fatto a botte quella stessa mattina. « Ma lui era brillo e abbiamo litigato e… » Deglutì e si fermò.
Aveva gli occhi lucidi, notò Thomas. E dava l’impressione di aver visto un fantasma. Si toccò distrattamente il polso e fu allora che notò che portava un polsino. Sarebbe stato anche normale, se, nel momento in cui le sue dita vi si poggiarono al di sopra, il viso non le si fosse contratto in una smorfia addolorata.
Quello che fece dopo fu del tutto automatico. Si allungò sul tavolo, stando ben attento a non rovesciare il caffè e combinare un pasticcio e sostituì le dita della ragazza con le proprie. La scandagliò, si soffermò sulla bocca socchiusa e sullo sguardo perso, cercandovi un qualche tipo di permesso a proseguire, ma Teresa era troppo pensierosa e il moro sapeva che voleva aprirsi con lui e che, allo stesso tempo, non ci sarebbe riuscita senza un piccolo aiuto.
Thomas le sfilò piano il polsino, stando attendo a non farle male e una strana rabbia montò in lui quando vide come quei segni violacei marchiavano la pelle diafana della ragazza. Percepii distintamente le mani prudergli dalla voglia di picchiare Gally e conosceva Teresa da poco meno di due ore, figurarsi quello che aveva dovuto provare Newt.
« Gally non era in sé, non è un cattivo ragazzo, lo so. »
Thomas continuava a rigirarsi davanti agli occhi l’arto e a saggiare il modo in cui i lividi rappresentassero approssimativamente la forma di dita umane.
« Ti ha picchiata? »
Teresa scosse la testa vigorosamente e ritirò il braccio al petto, indossando nuovamente il polsino. « Ha solo stretto con troppa forza. Ma poi mi ha urlato in faccia e mi ha guardata in quel modo…spaventoso. Ero sconvolta quando sono andata da Newt. » Si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e gli sembrò fragile a tal punto che Thomas si chiese come fosse possibile fare del male ad una creatura del genere, ubriachi o non. « Newt è molto protettivo e, sì, in un primo momento mi ha calmata. Ma stamattina ha dato di matto ed io non voglio farlo innervosire in questo modo. Non vorrei mai che stesse male di nuovo, quando è arrabbiato mi ricorda… » 
La ragazza spalancò gli occhi - Thomas avrebbe giurato che le stessero fuoriuscendo dalle orbite, se non fosse stata un’opzione totalmente assurda – e scattò in piedi all’improvviso. « Mi dispiace, mi sono appena ricordata di dover sbrigare una commissione urgente. Ci vediamo in giro, Thomas. » Poi scomparve dalla sua vista in un battibaleno.
E Thomas le avrebbe anche creduto, se solo avesse ignorato tre semplici dati di fatto.
1. Non lo aveva guardato negli occhi neanche per sbaglio, nonostante avessero mantenuto il contatto visivo per gran parte della loro lunga conversazione.
2. Pochi minuti dopo sarebbe iniziata la loro ultima lezione della giornata – a proposito, era incredibilmente in ritardo.
3. Si era bloccata nel bel mezzo di un discorso e gli aveva dato l’impressione di aver detto troppo o di aver persino rivelato qualcosa di strettamente intimo e personale.

Perciò, la domanda che adesso Thomas doveva porsi era: cos’era successo a Newton mentre lui era a Los Angeles?

***

un anno prima

Winston gli passò la sigaretta e Thomas la prese fra le dita ridendo ancora alla battuta di Rachel.
Quel pomeriggio lo stavano trascorrendo nel garage di Winston, spaparanzati sul vecchio divano consunto parlando delle sciocchezze più assurde riuscissero a tirare fuori.
Prese una boccata di nicotina e si ritrovò a tossire come un imbecille alle prime armi: non che Thomas fosse un accanito fumatore – a differenza di quel dark di nome Winston che aveva come amico -, ma quella non era certo la prima sigaretta che provava. Aveva la squadra di atletica a cui pensare, dopotutto.
Si aprì in una smorfia disgustata, mentre Aris nascondeva un sorrisetto soddisfatto; quante volte gli aveva detto che fumare faceva male?
« Queste schifezze puoi fumarle solo tu, Win. »
Winston rise terribilmente divertito alle parole del moro. « Sei solo uno stupido pive. »
Thomas alzò gli occhi al cielo ed ignorò l’insulto, poi si sistemò meglio sul divano e fece un altro tiro. Quella volta andò molto meglio.
« Sapete di essere un pessimo esempio per Chuck, giusto? »
Chuck era il più piccolo del gruppo; mentre Thomas, Aris e Rachel condividevano tutti la stessa età – avevano sedici anni, erano nel pieno della loro vita adolescenziale – e Winston fosse un anno più grande di loro, il ragazzino riccioluto aveva la bellezza di tredici anni.
Perché frequentava quegli scalmanati?
Perché quando Chuck aveva conosciuto Thomas due anni prima, aveva pensato che fosse in assoluto la persona più figa che avesse mai avuto il piacere di incontrare. Non era come tutti i ragazzi della sua età, presuntuoso, ma essenzialmente tutto fumo e niente arrosto: Thomas era vero, intelligente e di buon cuore.
Per questo motivo il ragazzino lo aveva preso a modello e quale miglior modo di conoscerlo alla perfezione se non quello di frequentarlo e divenire suo amico?
Così era in pratica diventato la sua ombra.
« Chuckie è un bravo bambino, giusto piccoletto? » Winston gli fece un occhiolino e gli mandò un bacio con la mano.
Quello per tutta risposta gli lanciò uno sguardo di sufficienza e si voltò dall’altro lato, gonfiando le guance ed arricciando le labbra in un broncio offeso.
« Non è un bambino. » Accorse in suo aiuto Thomas, sorridendo. « Giusto, Chuck? »
Il ragazzino sembrò rianimarsi. Annuì vigorosamente e ricambiò il sorriso, regalandogliene uno a trentadue denti.
Il filtro della sigaretta fu di nuovo tra le labbra del moro, al ché Winston inarcò un sopracciglio e gli chiese: « Devo dedurre che non la riavrò più? »
« A-ha. » Affermò Thomas pur sentendo lo sguardo truce di Aris su di sé.
Aris era il suo migliore amico: si erano conosciuti esattamente quando si era trasferito a Los Angeles e da allora non si erano più separati. Avevano instaurato un profondo rapporto di amicizia in brevissimo tempo, talmente poco che nemmeno lo stesso Thomas sentiva di averci capito qualcosa. Non sapeva proprio spiegarsi come lui e Aris fossero giunti a raccontarsi ogni singola cosa capitasse nelle loro vite, anche la più sciocca e banale. Forse era stato che avevano percepito di possedere un’affinità particolare, forse era che all’epoca entrambi adoravano costruire vulcani di cartapesta per poi escogitare un modo sempre diverso e funzionale di farli eruttare, forse era che a nessuno dei due aveva mai fatto troppa impressione Fringe ed erano finiti per guardarne gli episodi in prima serata alternativamente a casa dell’uno e dell’altro.
Fatto sta che non esisteva persona al mondo che lo conoscesse meglio di Aris.
Winston fece spallucce e si accese un’altra sigaretta, provocando uno sbuffo irritato del migliore amico di Thomas.
« Considerato il tempo che trascorro in vostra compagnia e la spropositata quantità di nicotina che consumate voi due insieme, morirò di cancro ai polmoni. A causa del fumo passivo. Grazie, amici. » Il moro scoppiò a ridere tenendosi la pancia, estremamente divertito, mentre il dark non fece una piega.
« Allora non passare tutto questo tempo con noi. » Rise più forte; sapeva che Aris si stava trattenendo dal tirargli un pugno in volto. Quei due avevano un rapporto complicato: apparentemente sembrava che non potessero tollerarsi a vicenda, ma Thomas sapeva in quante situazioni si fossero aiutati e che ci sarebbero stati sempre per l’altro.
Semplicemente loro erano così, un gruppo fuori dal comune, composto da persone dai caratteri diametralmente opposti che non si sarebbero potute completare meglio.
« Perché non parliamo della festa di domani? » Introdusse il discorso dopo essersi calmato e aver riacquistato un minimo di contegno – che comunque non gli sarebbe servito visto che, andiamo, quelle teste di caspio lo avevano visto e assistito nei suoi momenti peggiori – e schiacciò la sigaretta contro il vetro del posacenere.
« Io non voglio andarci. » Sentenziò Rachel, l’unica ragazza sulla faccia della terra che riuscisse a sopportarli ventiquattro ore su ventiquattro.
« Perché? » Chiese curioso Chuck.
« E’ stata Beth ad invitarci. O, meglio, ad invitare Thomas. » Precisò Winston.
Rachel non aveva mai sopportato Beth, la capo-cheerleader della squadra della loro scuola. Avevano litigato durante il primo anno di liceo e da allora non si erano più rivolte la parola, quindi era piuttosto ovvio a tutti che Rachel non volesse partecipare alla sua festa di compleanno.
« Non ha invitato solo me. » Balbettò il moro, in imbarazzo. Immaginava dove volessero andare a parare i suoi amici.
« Sì, invece. » Lo contraddisse prontamente la ragazza. « Sei popolare e le sue amiche adorano ricordarle quanto tu sia sexy dopo un allenamento di atletica. »
« Intendi quando sono completamente sudato? » Domandò scettico indicandosi con la mano.
« Disgustoso. » Sputò Aris con una smorfia a deformargli i lineamenti del viso.
« Certo! Ascolta me, Thomas, quella non vede l’ora di… » E si bloccò, arrossendo da capo a piedi e sgranando gli occhi, rendendosi conto di ciò che stava per dire.
Thomas rimase a fissarla in attesa che completasse la frase, sinceramente curioso riguardo a ciò che Rachel voleva spiegargli.
Winston sospirò. « Ok, ho capito, lo dico io. Quella vuole scopare con te, Thomas. »
« Winston! » Esclamò Rachel. « C’è Chuck! »
« Non fare la puritana, adesso. Il pensiero era tuo. » Anche lui spense la sua sigaretta e si alzò per versarsi un bicchiere d’acqua fresca.
« Io avrei scelto delle parole più…appropriate. » Concluse balbettando ancora imbarazzata dall’uscita spontanea dell’amico.
« Ricordate? Non sono un bambino. » Si intromise Chuck, ma tutti lo ignorarono e neanche Thomas quella volta riuscì a sentirsi male per lui.
Il moretto era troppo impegnato a riflettere sulle parole di Winston; non era propriamente scandalizzato, si trattava più di imbarazzo, però non poteva dargli torto: ricordava bene gli sguardi maliziosi che Beth gli lanciava e il modo in cui si arrotolava i capelli biondi intorno alle dita mentre lo invitava alla festa a casa sua.
« Disgustoso. » Ripeté Aris. « Che poi una volta non erano i ragazzi a voler portare le ragazze a letto? »
« Che differenza fa? L’importante è… »
Ma Thomas lo interruppe sovrastandolo con la sua voce, prima che Winston potesse dire qualcos’altro di sconveniente. « In ogni caso, non andrò a letto con lei. Rachel ci saranno talmente tante persone invitate che non noterà nemmeno la tua presenza. Andiamo per divertirci, passare una serata diversa, che dite? »
I suoi amici si scambiarono delle brevi occhiate fra di loro, poi lo guardarono ed annuirono.

***

Presente

Minho lo aveva strigliato per bene.
Aveva iniziato con un corsa di velocità per duecento metri e, se inizialmente l’asiatico aveva un’espressione tremendamente annoiata, quando aveva visto il tempo segnalato dal cronometro, aveva sgranato gli occhi e la sua bocca aveva assunto rapidamente la forma di una “o”.
Thomas aveva ghignato e fatto scoccare la lingua sul palato, spavaldo.
« Non pensavi di avere a che fare con un pivello, giusto, capitano? »
Quello si era ricomposto e aveva risposto con un sorriso beffardo ed un’alzata di spalle.
« Vediamo un poco cosa sai fare, velocista. »
Ed affermare che Thomas gli avesse dato filo da torcere sarebbe stato un eufemismo.
Aveva messo tutto se stesso in quel “test” – se così si poteva definire -, si era concentrato a tal punto da non percepire nulla a parte la sfida che gli era stata posta dinanzi, aveva incanalato tutte le sue emozioni – positive o negative che fossero – nelle azioni che si apprestava a compiere.
In quella ora non aveva pensato al trasferimento e a tutti i suoi problemi, non era stato “il ragazzo nuovo”, non lo aveva nemmeno sfiorato l’idea che lo sguardo critico di Minho lo stesse attentamente valutando, quasi come se avesse dovuto scommettere su di lui e stesse tentando di stimare il suo effettivo valore; era stato solo Thomas Edison, il ragazzo determinato e testardo che sua madre gli aveva sempre assicurato di essere – a volte anche in preda alla rabbia, perché era consapevole di come suo figlio spesso e volentieri ignorasse i consigli che gli venivano impartiti dagli altri per seguire solo i suoi ragionamenti -, quello che amava la corsa con ogni particella del proprio essere e faceva pazzie pur di ottenere ciò che desiderava.
Thomas era stato se stesso.
Ed aveva funzionato.
Mentre Minho parlava al telefono con il coach della squadra, Thomas si era concesso del meritato riposo seduto sugli spalti del campo di atletica, con una bottiglia d’acqua quasi vuota fra le mani – la sensazione che gli provocava il liquido fresco scorrendo nella sua gola secca e bruciante era un’altra delle cose che gli ricordavano perché amasse tanto l’atletica leggera – ed un asciugamano intorno al collo.
Dopo aver dato una veloce occhiata in giro, il moro si era rassegnato a seguire l’allenamento dei pivelli condotto da Newt.
‘Avanti, Thomas!’ si disse fra sé e sé. ‘Non raccontare balle. Tu stai fissando Newt.’
Ed era la verità.
Thomas stava spudoratamente fissando Newt da qualche minuto ormai.
Gli occhi ambrati erano scivolati su tutta la figura del suo vecchio amico, sui pantaloni grigio scuro della tuta e la canottiera nera che lasciava le braccia scoperte.
Newton era sempre stato gracile, uno scricciolo; anche adesso era estremamente magro, eppure era piuttosto alto, osservò Thomas, probabilmente quanto lui stesso, ed erano abbastanza evidenti dei muscoli seppur non troppo pronunciati – dopotutto era un bene non appesantire eccessivamente il fisico un atleta.
Si soffermò sui capelli biondi, leggermente umidi a causa del sudore, sull’espressione mutevole del suo volto: seria ed accigliata quando impartiva un ordine agli altri ragazzi, pensierosa ed attenta negli attimi nei quali li valutava, gentile nei momenti in cui li aiutava a migliorare le loro prestazioni.
Era perfetto.
Quel pensiero si materializzò nella mente di Thomas pian piano, ascoltando il suo accento inglese – pareva quasi che accarezzasse le parole, non poteva semplicemente ‘pronunciarle’. Gli altri le pronunciavano, Newt le accarezzava -, le battute che faceva per non rendere l’allenamento pesante e noioso, la sua risata cristallina che stuzzicava piacevolmente il proprio nervo acustico, dandogli l’impressione di isolarla dai suoni che percepiva intorno a sé, e che lo faceva sorridere di risposta.
E non avrebbe potuto, in nessun caso, negarlo. Non c’era nulla da negare, perché quella era la pura ed intoccabile verità.
Decise di avvicinarsi; il biondino era arrivato poco dopo Thomas, il quale stava già eseguendo le prove che Minho aveva programmato per lui, di conseguenza non avevano avuto la possibilità di salutarsi. Inoltre, quel giorno non avevano parlato per niente: quella mattina aveva preferito non disturbarlo visto lo scontro con Gally, a pranzo non lo aveva scorto nemmeno in lontananza e, come se non bastasse, non avevano avuto nemmeno una lezione in comune.
Newt lo notò e si scusò con i ragazzi. « Facciamo una pausa di cinque minuti, dopo continuiamo con qualche altro esercizio e infine il defaticamento. »
« Com’è andata? » Gli chiese subito, senza troppi convenevoli.
« Bene, credo. » Thomas si morse il labbro inferiore. « Sembrava sorpreso. E’ un buon segno? »
Il biondo rise e gli diede una pacca sulla spalla. « Non tutti riescono a sorprendere Minho. » Gli sussurrò come se gli stesse rivelando un segreto e gli fece l’occhiolino.
Sorrise e scartò il pensiero che gli stesse piacendo fin troppo il calore che il braccio di Newt adagiato su entrambe le proprie spalle - quasi a circondarlo – irradiava.
Poi si accorse che si stavano muovendo in direzione di Minho, il quale non stava più parlando al telefono. Alla fine, era uno stupido braccio, un gesto da amici. Anche lui lo faceva con Aris e Winston, a volte.
« Sembrate due compari. » Sbottò l’asiatico inarcando un sopracciglio, vagamente divertito.
« Ti ha fatto il culo, non è vero? »
Thomas ridacchiò confuso quando Minho sbuffò ed incrociò le braccia all’altezza del petto, quasi scocciato dalle parole dell’amico. Dopo infilò una mano nella tasca del pantalone e porse a Newt un foglietto.
Thomas intuì che doveva trattarsi dei propri tempi e si sporse per dare una breve occhiata anche lui: beh, sembravano degli ottimi tempi.
Il biondo sgranò gli occhi proprio come aveva fatto l’asiatico dopo la sua prima corsa, forse con meno stupore, ma pur sempre con eguale enfasi.
« Cacchio, Tommy, immaginavo fossi bravo, ma non così tanto. »
Si ritrovò a sorridere esattamente come un ebete alle sue parole – al soprannome che aveva utilizzato nuovamente senza accorgersene - e a seguire con attenzione le sue pupille muoversi e fermarsi sui numeri segnati con l’inchiostro nero, le labbra arricciarsi di tanto in tanto e le sopracciglia aggrottarsi quando non capiva bene un appunto.
Quando alzò gli occhi marroni dal foglio, un sorrisetto saccente aveva già fatto capolino sul suo volto ed era senza alcun dubbio rivolto a Minho.
« Avevo ragione. » Cantilenò derisorio. « Ho vinto. »
L’asiatico non si trattenne dallo sbuffare una seconda volta.
« Tutte, Minho. Le cancelli tutte quelle dannate foto. »

***

Dopo aver atteso che Newt terminasse l’allenamento ed essersi fatti una doccia e cambiati, lui e Minho avevano insistito per dargli un passaggio a casa, così si era ritrovato nella Toyota dell’asiatico.
Gli aveva raccontato della risposta positiva del coach e il biondo gli aveva battuto il cinque sorridendo: Thomas era ufficialmente nella squadra di atletica.
A dispetto di quella stessa mattina, Newt pareva parecchio di buon umore.
« Quindi, questa testapuzzona qui presente… »  Continuò a raccontare ridendo di tanto in tanto, soddisfatto. « …ha pensato di scommettere con me. Perché – testuali parole -‘andiamo, Newt, sarà un pive!’. »
Il moro lanciò un’occhiataccia a Minho. « Non posso crederci che non avresti scommesso su di me. Questo non è un buon modo per iniziare la nostra amicizia. »
Quello scosse la testa e ridacchiò. « Mi dispiace, Mr. Thomas. » Lo guardò brevemente, dopotutto stava guidando e tutte le volte che distoglieva lo sguardo dalla strada Newt irrigidiva le spalle e gli urlava di stare attento – Minho gli rispondeva con uno sguardo dispiaciuto, quasi mortificato e Thomas non poteva fare a meno di domandarsi il motivo. « Rimedieremo diventando bff. » Concluse con un’alzata di spalle.
Scoppiò a ridere. « Bff? »
« Minho, in realtà, è una ragazzetta della peggior specie. » Lo prese in giro il biondo sorridendo apertamente. « Ed anche un fan-girl repressa, ma questo è un altro discorso. »
« Chiudi quella fogna. » Sbottò il ragazzo in questione. « Ammettilo che saresti geloso marcio se io e Thomas fossimo bff. »
Newt roteò gli occhi e si sistemò meglio sul sedile dell’auto. « Più che altro sarei dispiaciuto per lui. Sei così insopportabile, Min! » Concluse con teatralità, gesticolando animatamente e marcando ulteriormente il suo accento inglese.
L’asiatico gli riservò un sorrisetto sghembo. « Ah, sì? Bene, Thomas, sei ufficialmente il mio nuovo bff. »
« Non potrei mai prendere il posto di Newt. »
« Prenditelo pure. » Borbottò il biondino.
« Avanti, Newtino…lo sai che nel mio cuore ci sei solo tu. » Gli diede un buffetto sulla guancia al quale l’altro rispose con uno sbuffo apparentemente scocciato.
Ma la verità era che Newt era divertito: lo poteva vedere dal sorriso che minacciava di prendere il possesso delle sue labbra, dagli occhi marroni che davano l’impressione di essere più chiari e dalla posa rilassata del suo corpo.
Di nuovo, Thomas pensò alla furia che quella mattina aveva riversato su Gally. Ed automaticamente pensava a Teresa, a ciò che gli aveva raccontato, ai lividi che spiccavano sulla pelle del polso e sentiva la rabbia montare dentro sé.
Avrebbe voluto parlargliene, confrontarsi con il ragazzo e farsi raccontare di più su questo Gally che tanto detestava pur non conoscendolo realmente.
Eppure non era certo del fatto che la ragazza dagli occhi azzurri avesse detto proprio tutto a Newt: ricordava le parole che il biondino aveva pronunciato.

Non ho idea di quello che tu le abbia fatto.

E poi c’era anche Teresa; sembrava così preoccupata per Newt, che gli potesse accadere qualcosa.

Newt è molto protettivo e, sì, in un primo momento mi ha calmata. Ma stamattina ha dato di matto ed io non voglio farlo innervosire in questo modo. Non vorrei mai che stesse male di nuovo, quando è arrabbiato mi ricorda…

Avrebbe decisamente dovuto chiederle spiegazioni.
« Tommy? » La voce di Newt lo destò dai propri pensieri. Lo stava scrutando attentamente e Thomas si sentì quasi a disagio sotto il suo sguardo indagatore.
« Sì, scusa. Dimmi. »
Ma gli occhi marroni del ragazzo non accennarono al minimo movimento, parevano trovarsi nel bel mezzo di un'importante analisi: le sopracciglia erano aggrottate, contratte in un tipico cipiglio attento e l'espressione seria e vigile, pronta a cogliere qualsiasi microscopico cambiamento del suo volto.
Per questo motivo Thomas si scoprì a trattenere il respiro con l'intenzione di restare il più immobile possibile, quasi avesse qualcosa da nascondere.
'Ce l'ho?'. La domanda rimbombò nel silenzio della sua mente. 'Ho qualcosa da nascondere?'
E subito le sopracciglia di Newt scattarono verso l'alto - come se lo avessero letto nel pensiero - e il moro, sopraffatto, distolse lo sguardo.
Aveva avuto paura.
Già, paura.
Nessuno nella sua vita lo aveva guardato così intensamente, si era letteralmente sentito scavare dentro per tutta la durata di quel contatto visivo; ogni istante in cui quei laghi scuri e profondi indugiavano su di sé, Thomas percepiva una strana sensazione addosso, appiccicata sulla pelle, sui vestiti. 
Inquietudine? Imbarazzo? Fastidio? Tensione? 
Avrebbe tanto voluto essere capace di identificarla, ma non aveva la benché minima idea di cosa si trattasse, aveva l'impressione che nessun termine esistente e riportato sul vocabolario potesse calzare a pennello le emozioni che gli provocava.
'Non ho nulla da nascondere." Sentenziò definitivo nella sua testa.
Se fosse riuscito ad ingannare se stesso, convincendosi di non avere alcun segreto, allora Newton non avrebbe potuto scoprire nulla, non avrebbe letto le parole non dette di Thomas nei suoi occhi - perché sembrava sul serio in procinto di leggere, come se le lettere di quelle frasi nascoste brillassero nelle sue iridi e davanti avesse non una persona, ma un tomo da sfogliare per intero.
Solamente quando fu sicuro che il biondo non lo stesse più osservando, si voltò nuovamente verso i due ragazzi. 
Più che altro diede un'occhiata alle strade di Londra e al paesaggio che cambiava finché non furono vicini a casa di Thomas.
« Okay, continua per sei isolati. » Guidò l'asiatico con pazienza, il quale continuò a guidare tenendo d'occhio di tanto in tanto Newt con la coda dell'occhio. Il ragazzo, infatti, si era chiuso in se stesso: aveva poggiato il mento sulla mano e si era perso con lo sguardo - e con la mente - fuori dal finestrino, l'aria scherzosa e leggera ormai era scemata.
« È questa casa tua? » Minho indicò un immobile color prugna con un cenno del capo.
Thomas scosse la testa. « No. È quella dall'altro lato della strada. »
Il suo nuovo amico sorrise. « Carina. »
« Già. » Il moro sospirò; quando quell'ammasso di legno, cemento e vetri sarebbe sul serio divenuto casa sua? « Grazie per il passaggio, ci vediamo domani. »
I due lo salutarono, Minho più energicamente rispetto a Newton che era ancora distratto da qualunque cosa gli stesse frullando in testa.
Aprì lo sportello e scese dalla Toyota, attraversando la strada rapidamente e rintanandosi nell'entratina dell'immobile.

Ce l'aveva fatta. 
Era nella squadra.
 
Sapeva che avrebbe dovuto saltare ed urlare ed essere felice, magari chiamare suo padre ed informarlo della notizia, sorridere e mandare un messaggio sul gruppo WhatsApp che condivideva con Aris, Winston, Rachel e Chuck - 'The Gladers' -, fare qualche registrazione vocale e lasciarsi trasportare dall'entusiasmo che era sicuro i suoi migliori amici avrebbero dimostrato. 
Eppure i suoi pensieri confluivano in un unico soggetto, rifiutando di concentrarsi su qualcos'altro.
Newton.
Thomas si diede uno schiaffo sulla fronte, come se in quel modo avesse potuto farlo uscire dal suo cervello, nel quale oramai sembrava essersi insinuato senza rimedio.
Sarebbe impazzito. Newt lo avrebbe fatto impazzire. 













Ed eccoci al secondo capitolo!
Spero davvero che vi sia piaicuto :)
Ringrazio tutti coloro che l'hanno recensita ed inserita
tra le preferite e le seguite, ma anche i lettori silenziosi!
In ogni caso, ci sono delle cose che vorrei chiarire:
1.(*) AP Biology/AP Chemistry (Corso avanzato di biologia,
   corso avanzato di chimica); la sigla 'AP' sta, infatti, per 
   'Advanced Placement'. Si tratta di corsi avanzati che gli
   studenti americani tendono a frequentare, in particolar 
   modo durante l'ultimo anno.
2. No, non siete finiti in una Thomesa hahahaha questa è una  
    Newtmas al cento per cento, ho voluto comunque dare spazio
    al rapporto che si sta formando tra Thomas e Teresa, perché
    nel libro sono inevitabilmente legati e mi piacerebbe non
    stravolgere completamente questo lato della storia.
    In ogni caso, l'amicizia tra Newt e Teresa avrà un ruolo 
    fondamentale, perché...beh, non so, sono carini, mi sarebbe
   piaciuta tanto un'amicizia fra di loro nel libro!
3. Riguardo all'aspetto dei personaggi, li immagino esattamente
    come nel film, tranne Winston (che descriverò meglio nel quarto 
    capitolo, insieme al rapporto tra Aris e Rachel) che lo immagino
    un tipo tutto dark hahahaha:)
4. Quando Newt dice a Minho di cancellare tutte le foto si riferisce
     a quelle in cui è travestito da Link che ho citato nello scorso 
     capitolo. Thomas Brodie-Sangster è praticamente uguale!
Al prossimo capitolo!
    

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: I’ll help you ***


Remember how we were, shuckface?



Capitolo 3: I’ll help you

Presente

Newt si stava guardando allo specchio da un bel po’ ormai.
Aveva scelto quello alla fine del corridoio, perché il suo obiettivo non era saggiare il suo fisico, sistemarsi i capelli biondi alla bell’è meglio, evitare di abbottonare la camicia storta.
Voleva guardarsi camminare.
A volte – ma solo a volte – il ragazzo si svegliava la mattina con la sensazione che fosse cambiato qualcosa, qualcosa di fondamentale importanza visto che gli sarebbe stato impossibile avvertire una variazione demenziale.
E lui, ogni singola volta, sperava di essere tornato come nuovo.
Eppure eccolo lì, davanti ad uno stupido specchio, un’effimera superficie riflettente, a far scivolare le iridi sulla propria figura.
Zoppicava.
Zoppicava come avrebbe fatto per il resto della sua vita.
Non era cambiato nulla, il suo corpo gli aveva teso per l’ennesima volta una trappola, lo aveva reso protagonista di uno scherzo di cattivo gusto.
Perché ci cascava sempre?
Perché non riusciva ad accettare la realtà?
Un battito di ciglia dopo era a terra, premeva forte le mani sulla gamba malandata e gemeva perché faceva male, faceva un male del diavolo.
Alzò gli occhi colmi di lacrime mai versate al cielo e chiese a se stesso se si trattasse di un promemoria.
Cosa stava esattamente tentando di dirgli quel dolore?
Ma Newt lo sapeva bene, conosceva quelle parole a memoria.
Non sarebbe mai guarito. Non c’era niente da fare.
Si sarebbe portato quel dolore dietro per sempre, senza se e senza ma, quella sensazione pungente, un viscido e strisciante ricordo di quel giorno infernale.
Non si sarebbe mai ripreso.
Semplicemente non era possibile.
Gettò nuovamente un’occhiata allo specchio, nel masochista ed insano desiderio di vedersi a pezzi, distrutto sul pavimento di casa, irrecuperabile nella propria sofferenza, ma quello stava riflettendo un’altra persona.
Stava riflettendo Thomas.


Newt si portò di scatto la mano destra agli occhi, come per asciugarsi il viso dalle lacrime salate, e lo avrebbe fatto se solo non si fosse accorto di non star piangendo.
Poi si sorprese a sorridere amaramente; lui non piangeva.
« Ridi di te stesso? » Per quanto assurdo potesse essere, Thomas aveva parlato.
Così il biondo si voltò, sicuro di trovarlo dietro se stesso; non avrebbe saputo descrivere il senso di vuoto e stranezza che lo colse quando si rese conto di essere da solo.
« Sono davanti a te, Newton. » Ed era strano, perché Tommy non lo aveva mai chiamato Newton, per l’amico c’era stato sempre e solo Newt.
« Come fai ad esser… »
« Sono davanti a te. Non ti basta? »
Lo guardò negli occhi e il cuore cominciò a battergli all’impazzata, sembrava stesse partecipando ad una gara di velocità. Quegli occhi ambrati erano così…assenti.
Perciò Newt avrebbe voluto urlargli che no, non gli bastava, perché non era materialmente possibile che lo specchio lo stesse riflettendo pur non essendo presente nel corridoio, avrebbe voluto avvicinarsi e provare a toccarlo e, nel caso in cui fosse stato reale e consistente, lo avrebbe spinto e graffiato e gli avrebbe detto che i suoi occhi privi di alcun sentimento, glaciali e distanti non avevano senso.
Gli avrebbe voluto sussurrare che quello sguardo lo stava lacerando dentro, che faceva male quasi quanto la sua gamba.
Ma rimase zitto ed in silenzio, il suo corpo non accennava al minimo movimento, la sua bocca pareva aver perso la capacità di articolare le parole.
« Rispondimi, Newton. Ridi di te stesso? »
Annuì piano, ripromettendosi di comporre una frase di senso compiuto alla prossima domanda che gli avrebbe rivolto – sapeva che lo avrebbe fatto.
Thomas sorrise; e nemmeno quello sembrava appartenergli, non era uno di quei sorrisi che Newt da piccolo aveva detestato con tutte le sue forze, uno di quelli che gli andavano da un orecchio all’altro e che – Newt aveva notato durante i giorni precedenti – non aveva mai smesso di fare.
Quello era un ghigno, crudele e derisorio.
Ebbe l’impressione che un migliaio di spilli gli avesse perforato la carne della gamba, provocandogli un ulteriore dolore che lo fece piegare su se stesso e lamentarsi senza riuscire a trattenersi, strizzando gli occhi e distendendo le labbra in una linea sottile.
« Perché ridi di te stesso? » Perfino il tono della voce era diverso: roco e grave, quasi bisbigliato, ironico e…sbagliato.
Già, era tutto sbagliato.
Quell’aura di malvagità stonava intorno a Thomas come una dissonanza.
Perché Tommy lo chiamava Newt, non Newton.
Perché Tommy lo riscaldava con una sola breve occhiata, non lo immobilizzava sul posto.
Perché Tommy non lo derideva e non ghignava, Tommy lo appoggiava e sorrideva.
Tommy non gli faceva del male.
« Chi sei? »
Quello scoppiò a ridere, quasi Newt avesse raccontato la battuta del secolo.
« Cosa intendi, Newton? »
« Non sei Thomas. Chi sei? » Replicò. Non percepiva più il dolore alla gamba, tutto ciò che i suoi sensi riuscivano a visualizzare era quella figura.
Figura che – il biondo continuò a chiedersi per l’intera durata del processo cosa stesse succedendo, come diamine fosse possibile una cosa del genere – stava uscendo dallo specchio e gli si stava avvicinando, la postura fiera e priva di insicurezza, lento ed impavido. Quando fu esattamente davanti a lui, si inginocchiò; era ad un palmo dal naso di Newt, i loro respiri si confondevano e il biondo sgranò gli occhi quando respirò il suo odore e si rese conto che si trattava dello stesso di Tommy.
« Sono il tuo peggior incubo. »

***

Newt quel giorno aveva seriamente considerato l'eventualità di rimanere a casa rannicchiato nel suo letto ed avvolto dalle lenzuola di cotone: si era svegliato alle tre e mezza di notte con il fiatone ed il sudore appiccicato alla pelle, il cuore in gola ed una sensazione di paura al petto che non si era dissolta facilmente.
Poi non si era più riaddormentato.
Aveva osservato la notte lasciare il posto al giorno, accarezzato con gli occhi la prima luce del mattino che entrava timida dalla tapparella.
E la gamba pulsava, come beffeggiandosi di Newt stesso, quasi suggerendogli che l'incubo non fosse stato solo tale, che ci fosse una parte di verità in quella visione terrificante alla quale aveva dato uno scorcio nel sonno.
Aveva pensato di prendersi una giornata per se stesso, di pensare alla sua salute.
Ma la verità era che Newt non aveva la minima intenzione di restare esclusivamente in compagnia dei suoi pensieri, l'idea lo faceva rabbrividire. 
Più volte quella notte aveva ardentemente desiderato una distrazione, pregato che il tempo trascorresse più rapidamente del normale, invece che continuare a scandire con esasperante continuità secondi e minuti.
Così aveva chiamato Minho per chiedergli un passaggio, ingoiato frettolosamente un paio di antidolorifici - e ne aveva infilato qualcuno nello zaino, non si sapeva mai - e salutato sua madre che lo aveva guardato con sospetto.
Il suo migliore amico era arrivato davanti casa del biondo in un battibaleno, a dispetto di tutto l'asiatico era un tipo estremamente puntuale, portava al polso un orologio digitale che non abbandonava mai, in particolar modo mentre correva e doveva calcolare i suoi tempi, verificando se fosse migliorato o peggiorato - anche se, in pratica, non succedeva mai.
Appena si era accomodato nella Toyota rigorosamente nera e tirata a lucido - teneva molto alla sua macchina -, Minho aveva messo in moto ed era partito senza alcuna esitazione.
« Che succede? »
Newt roteò gli occhi. In alcuni momenti odiava essere un libro aperto per i suoi migliori amici.
« Niente. Che intendi? »
L'asiatico fischiò. « Wow, Newt. Resto sempre più impressionato dalla tua capacità di raccontare stronzate. » Gli lanciò una breve e tagliente, quanto seria, occhiata. « Hai una faccia pessima. Cioè sei sempre brutto, ma oggi particolarmente. »
Newt si lasciò andare ad una risata divertita. Quel mucchio di sploff sarebbe riuscito a tirarlo su di morale anche nel suo giorno peggiore, anche quando avrebbe rischiato di affondare definitivamente. Minho - così come Teresa - era la sua ancora.
L'asiatico sorrise, deliziato dalla reazione del biondo. « Hai dormito? »
« Poco e male. Ho le occhiaie? »
« Già. » 
Newt maledisse mentalmente il proprio pallore, ogni qualvolta fosse stanco o particolarmente spossato, le occhiaie violacee si stagliavano sulla propria pelle focalizzando l'attenzione di chiunque lo osservasse. 
« Ti fa male la gamba? »
Il biondo borbottò qualcosa d'incomprensibile e si ostinò a far vagare lo sguardo fuori dal finestrino del passeggero.
« Cosa te lo fa pensare? »
Minho, per tutta risposta, sbuffò scocciato. « La smetti? Ti conosco, sei un rincaspiato che preferisce farsela a piedi ogni mattina, mi chiedi un passaggio solo quando ti fa male la gamba. » Gli spiegò tutto ad un fiato. « Anche se non ti dico niente, non vuol dire che non ci faccia caso. » Aggiunse poi più piano, come se temesse l'effetto che le sue parole avrebbero potuto sortire sul suo migliore amico.
Comunque fosse, solamente nell'udire quell'ultima frase, Newton decise di osservarlo, la bocca socchiusa a causa dello stupore. 
Non che non lo sapesse. Cioè, era consapevole delle occasioni in cui gli occhi di Minho indugiavano più del dovuto sul suo corpo, dei momenti in cui lo controllava, concentrandosi sulla sua camminata e tentando di comprendere se zoppicasse o no come il giorno precedente.
Sebbene si rendesse conto di tutti questi piccoli gesti, la cosa che lo sorprese maggiormente fu il timore che l'asiatico provava nei confronti della sua reazione: un sentimento talmente tanto presente da fargli mantenere il silenzio e farlo riflettere con cautela sui termini di cui servirsi. 
« Ho preso degli antidolorifici. » Bisbigliò solamente, sperando che l'argomento fosse esaurito.

Di fatti, non parlarono di nient'altro finché non arrivarono a scuola. 
Teresa li stava aspettando con il cellulare fra le mani, le dita che si destreggiavano freneticamente sul touch-screen e la schiena poggiata all'armadietto di metallo grigio di Newt. 
Li salutò nel vederli arrivare, ma il biondo notò distintamente come il sorriso che le era nato sulle labbra si stava spegnendo progressivamente. 
Così come osservò lo sguardo che si scambiarono lei e Minho, uno sguardo che sapeva benissimo cosa significasse. 
Si stavano accordando per tenerlo d'occhio per tutta la durata della giornata scolastica.
La ragazza dai grandi occhi azzurri gli si avvicinò e gli lasciò un dolce bacio sulla guancia. « Ciao, Newt. »
Eppure lui non rispose, non le sorrise. Si diresse semplicemente in direzione del suo armadietto e vi infilò dentro la testa, mostrandosi completamente assorbito dal proprio orario. 
Udii il sospiro rassegnato di Teresa e si sentì un po' in colpa, ma se c'era una cosa che lo infastidiva a tal punto dal fargli accelerare il respiro dalla rabbia, era l'essere trattato come un bambino.
Come una bambola di porcellana in procinto di rompersi in mille pezzi, una bomba ad orologeria che sarebbe potuta esplodere da un momento all'altro.
Stava bene. Perché dovevano trattarlo con quell'accortezza e delicatezza esagerate? 
Svitò il tappo della bottiglietta e bevve un sorso d'acqua con l'intento di rinfrescarsi le idee. 
Doveva pensare razionalmente; Minho e Teresa erano i suoi migliori amici, lo avevano visto nei suoi momenti peggiori, quando si era sentito così stanco da non parlare per giorni, quando aveva percepito una furia cieca e distruttiva montare in lui e diretta al mondo intero, a se stesso.
A se stesso che era così sbagliato.
Comunque fosse, era perfettamente normale che si preoccupassero per lui, non doveva fargliene una colpa, anzi, avrebbe dovuto ringraziare Dio, Buddha, Allah o chiunque stesse vegliando su di lui dall'alto per avergli donato delle persone del genere.
« Io... » Boccheggiò piano; un paio di occhi furono subito sulla propria figura. « ...mi dispiace, ragazzi. Ciao, Tess. » E le rivolse il miglior sorriso che fosse riuscito a mettere su. 
Lei ricambiò all'istante. « Non preoccuparti, Newt. Andiamo a lezione? »
Annuì. Letteratura inglese era l'unica materia che avessero loro tre in comune, insieme a storia, così si sedevano sempre vicini in modo da poter comunicare fra di loro ogni qualvolta le lezioni divenivano troppo noiose.
Afferrò frettolosamente l'occorrente - il libro, un quaderno per gli appunti ed il portacolori - e lo gettò alla rinfusa nello zaino, poi mise il lucchetto all'armadietto.
Percorsero il corridoio con estrema lentezza, come se possedessero tutto il tempo del mondo per raggiungere l'aula 72, ed, in effetti, non erano in ritardo. Come se non bastasse, l'intera scuola quel giorno pareva crogiolarsi in una calma strana ed apparente, futile e sfuggente; Newt avrebbe potuto palpare l'agitazione contenuta che vigilava nell'aria, se solo avesse provato. 
Se ne domandò il motivo. 
Prese posto al quarto banco, vicino alla finestra - immaginava che si sarebbe perso nell'osservare fuori da essa, magari nel definire i contorni dei nuvoloni grigi che non promettevano nulla se non pioggia - con Teresa alla sua destra e Minho davanti. 
Gli era sempre piaciuta letteratura inglese, certo, lo avevano sempre affascinato quegli scritti che nascondevano sempre un significato profondo, l'idea di scavare tra le righe, fra le ridondanze delle lettere lo aveva attratto come un falena con la luce.
Era come una passione innata, che non aveva mai saputo spiegarsi; negli ultimi tempi, aveva cominciato a credere che amasse a tal punto la letteratura perché la ritenesse una forma d'arte, pura ed incontaminata, e la vedesse molto simile a se stesso in primis e al disegno in secundis. 
Se non era capace di disegnare o pitturare, poteva rifugiarsi in mezzo alle pagine di un libro e farsi avvolgere dalle sensazioni inebrianti che gli provocava, giusto? 
In ogni caso, qualsiasi pensiero lo abbandonò di colpo quando i suoi occhi di posarono sulla persona che aveva appena varcato la porta della classe: Thomas. 
Indossava dei pantaloni neri ed una camicia blu scuro
, era affannato, come se avesse corso per arrivare in tempo, e aveva tutti i capelli disordinati.
Il suo sguardo si posò prima su Teresa, la quale gli sorrise e lo salutò con un cenno della mano – e da quando quei due si conoscevano? -, poi su Minho ed, infine, su Newt.

« Sono il tuo peggior incubo. »

Si voltò dal lato opposto restando impassibile, prima ancora che il biondino potesse fare la stessa cosa, nel vano tentativo di ignorarsi a vicenda.
Ma Thomas era come una calamita e sembrava richiamare gli occhi di Newt ogni secondo sempre di più, con costanza e determinazione, finché questi non decidessero di arrendersi e scivolare lenti sulla sua figura così nuova e, allo stesso tempo, così conosciuta.
Sospirò; quella sarebbe stata una lunga giornata.

***


Non fece neanche in tempo a mettere piede in casa che subito sua madre gli si parò davanti, le mani sui fianchi ed un’espressione accigliata in volto.
Newt fece mente locale e rivisse rapidamente gli ultimi giorni, perché doveva aver fatto per forza qualcosa di sbagliato per meritarsi uno sguardo tanto severo da parte della donna.
In ogni caso, ostentò noncuranza e si chiuse la porta alle spalle, si sfilò la giacca e le sorrise visto che era certo di non aver fatto nulla di male.
« Non sorridermi in quel modo, signorino. » Incrociò le braccia al petto e lo guardò con disapprovazione, scuotendo leggermente il capo.
Newt inarcò un sopracciglio. « Che succede? »
Solo dopo qualche secondo si accorse che sua madre indossava un grembiule da cucina blu macchiato di farina e quello che sembrava cacao in polvere e che nell’aria aleggiava un buon profumino di torta che gli fece venire all’istante l’acquolina in bocca.
Il problema era che sua madre non cucinava mai dolci.
Mai.
Quindi doveva necessariamente esserci qualcosa che non andava.
« Non capirò mai voi adolescenti. Così riservati! » Borbottò la donna dai lunghi capelli biondi raccolti in un’alta coda di cavallo, dandogli le spalle e dirigendosi in cucina.
Il ragazzo la seguì.
« Mamma, per favore, non vuoi iniziare questo discorso. » Sospirò e si sedette su uno degli sgabelli sistemati intorno alla penisola in granito scuro. « Anche tu sei stata un’adolescente. » Newt avvistò la ciotola che sua madre doveva aver utilizzato per preparare la torta, così se lo avvicinò e raccolse un po’ della pastella rimanente con l’indice. « La nonna mi ha raccontato quanto fossi ribelle alla mia età. » L’assaggiò e si lasciò andare ad un gemito di puro piacere. Sua madre poteva anche cucinare dolci una volta ogni mille anni, ma che dolci!
Lei gli lanciò un’occhiataccia e schiaffeggiò la mano che stava nuovamente per avventarsi sulla ciotola in plastica, la quale si premurò di spostare nel lavello, insieme alle altre stoviglie sporche.
Lui mise su un broncio infantile. Come aveva potuto privarlo del suo unico vero amore?
E poi aveva avuto una giornata stressante, meritava quegli zuccheri!
« Mi dici cosa ho fatto? Sono in punizione? » Per un attimo lo sfiorò il pensiero che potesse aver scoperto che quella mattina aveva preso almeno quattro pillole di antidolorifici a causa del dolore alla gamba – del quale, ovviamente, non le aveva parlato.
La donna sospirò e controllò come stesse procedendo la cottura della pietanza al cioccolato. « La signora Dickinson… »
‘Classico’, si disse Newt. ‘Quando c’è di mezzo quella vecchia pettegola, non può trattarsi di buone notizie.’
« …mi ha detto che la famiglia Edison è di nuovo in città! »
Le sopracciglia di Newt si sollevarono in alto sulla fronte, in un chiaro ed eloquente gesto che voleva significare di arrivare al punto della situazione.
« E che Thomas frequenta la tua scuola. ‘Ma come, Madison, Newton non ti ha detto niente?’ » Concluse imitando l’anziana signora.
« Quindi? » Si specchiò negli occhi azzurri della madre e si domandò perché non li avesse come i suoi, perché doveva guardarsi allo specchio e riconoscere suo padre nelle due pozze scure che si ritrovava.
« Come ‘quindi?’?! » Borbottò lei. « Thomas è tonato! Perché non mi hai detto nulla? »
« Scusa tanto, la prossima volta affiggerò dei manifesti in giro per la città. » Rispose ironico, adocchiando una barretta ai cereali e afferrandola prontamente. 
La donna gliela prese dalle mani. 
« Mi vuoi far nutrire?! » Sbottò il biondino.
« No. » Ribattè quella telegrafica e glaciale come solo una madre sapeva essere. « Adesso tu verrai con me a casa degli Edison, porteremo loro la mia fantastica e prelibatissima torta e ci comporteremo da amabili vecchi amici. »
'No, no, no!' Si ripeté nella sua testa. 
Non poteva fargli questo, non sua madre almeno!
Thomas aveva trascorso l'intera giornata tentando di evitarlo senza alcun motivo apparente, sebbene - in generale - anche Newt si fosse comportato alla stessa maniera. Il fatto era che appena fissava quegli occhi ambrati, i quali, pur continuando ad essere incredibilmente caldi ed intensi, provavano a mantenersi distanti dalla sua figura, l'incubo vissuto con estrema nitidezza la notte precedente lo investiva con la stessa violenza di un treno in corsa. 
Era solo un sogno, frutto del suo subconscio, Newt lo sapeva bene.
Eppure non poteva fare a meno di riflettere costantemente sul suo significato, su Thomas che crudelmente derideva le sue debolezze ed, infine, gli sussurrava di essere il suo peggior incubo, sul dolore alla gamba che si era rivelato reale. 
Quell'incubo lo aveva scosso profondamente ed il biondo sperava di riprendersi velocemente, altrimenti non sarebbe più stato capace di guardare Tommy come faceva una volta.
Beh, sempre se Tommy avesse voluto far incontrare nuovamente i loro sguardi.
« Mamma, oggi pomeriggio dopo la scuola ha avuto gli allenamenti di atletica, sarà stanco. Poi hanno traslocato da poco, saremmo sicuramente di disturbo. »
« Quindi ci hai parlato! »
Newt roteò gli occhi. « Non è detto. »
« Per entrare nella squadra di atletica deve aver parlato con Minho e, se ha parlato con Minho, ha parlato anche con te. Tu e quel ragazzo siete una sola. »
« Continuo a sostenere che li disturberemmo. »
Sua madre lo studiò con sincera curiosità: non doveva aspettarsi un rifiuto. « Sono le sei, si sarà riposato abbastanza. E poi non vedo l'ora di rivedere Karen! » 
Lei e la madre di Thomas erano sempre state molto amiche, sin da prima che i figli stringessero amicizia - o meglio, che Newton finalmente accettasse gli innumerevoli tentativi di Thomas di diventargli amico. Probabilmente in quegli anni si erano telefonate più di una volta; non avevano completamente reciso i contatti a causa della lontananza. Non come lui e Thomas.
Diamine, non lo aveva nemmeno riconosciuto!
La donna spense il forno e si tolse il grembiule. « Vedrai che ne saranno felici. »

Newt, alla fine dei conti, era stato costretto ad accompagnare sua madre, ad indicarle la strada per giungere a casa di Thomas ("Non ci posso credere, sei anche andato a casa sua!", "No, mamma, io e Minho lo abbiamo solo accompagnato a casa" e "Cosa ho fatto di sbagliato con te?" seguito dall'ennesimo sbuffo scocciato del biondo) e - come se non fosse abbastanza - a reggere il vassoio verde mela sul quale aveva accuratamente sistemato la torta e ricoperta di zucchero a velo.
Ne avrebbe preteso come minimo una fetta. 
Avevano camminato per circa tre isolati, quando Newton sentì formicolare la calma e si rese conto che il dolore sarebbe ritornato di lì a poco. 
Fortunatamente la casa degli Edison distava solo cinque isolati da quella dei Richardson, così pochi minuti dopo si trovavano esattamente di fronte all'immobile indicato dal ragazzo.
Sua madre suonò il campanello, ma tutto ciò che riuscirono ad udire fu un rumore assordante seguito da una sfilza di finissime imprecazioni da parte di quello che doveva essere Tommy.
Newt lasciò le proprie labbra tendersi automaticamente in un sorriso. 
« HO DETTO CHE NON SONO INTERESS... » Il moro si interruppe sgranando gli occhi e boccheggiando almeno un paio di volte prima di riuscire a formulare una frase di senso compiuto. 
Newt si stava letteralmente trattenendo dal ridere, mentre sua madre era impegnata a squadrare Thomas dalla testa ai piedi con gli occhi che le luccicavano dall'emozione.
« Scusate, pensavo fossero...oh. »
La donna lo abbracciò - lo stritolò - esclamando parole sconnesse del tipo " Thomas!", "Mamma mia, quanto sei cresciuto!", "È passato così tanto tempo!", "Perché voi teenagers siete così alti?! Anche Newt è uno spilungone...non capisco come sia possibile!", "Che bello che siete tornati!" e cose del genere.
Il moro ricambiò l’abbraccio dopo un momento di esitazione, probabilmente dettata dalla sorpresa che aveva provocato in lui quel gesto d’affetto.
Newton spesse volte nella sua vita si era chiesto come potesse avere un carattere così introverso quando sua madre era un terremoto vivente, a dire il vero molto simile al piccolo Thomas che da bambino non lo lasciava mai in pace.
E il pensiero che fosse più simile a suo padre era bastato a scavargli una voragine nel petto, un doloroso segno che insieme alla promessa fatta al suo vecchio migliore amico lo avevano spronato ad uscire definitivamente dal suo guscio.
« Newt. » Si sentì chiamare. Alzando lo sguardo dalle sue scarpe, sulle cui punte si era incantato, incontrò gli occhi ambrati del ragazzo, il quale gli sorrise e gli rivolse un cenno con il capo in direzione dell’interno dell’immobile. Solo allora si accorse che sua madre era già entrata. « Entri? » Annuì.
La prima cosa che avvertì fu una terribile puzza del bruciato.
« Mia madre ha cucinato una torta per voi. »
« Dimmi che è al cioccolato. »
« E’ al cioccolato. »
« Dio, amo tua madre. » Thomas prese il vassoio e si beò del profumino che la pietanza emanava. Chiuse gli occhi con un sorriso birichino stampato sulle labbra e l’annusò soddisfatto e deliziato, come già a pregustare il momento in cui l’avrebbe assaggiata.
La seconda cosa che notò fu che il moro, a dispetto dell’impressione tranquilla e gioiosa che stesse tentando di dargli, era incredibilmente teso.
Newt lo vedeva: l’innaturale postura delle spalle, che a chiunque altro sarebbe potuta apparire perfettamente normale –ma non a lui che lo conosceva così bene -, le vene delle braccia e delle mani – mani grandi, dalle dita lunghe e affusolate – più evidenti del solito, la maniera in cui deglutiva regolarmente e nervosamente.
E Newt lo sentiva; come se fosse capace di percepire a pelle ogni emozione provata da Tommy, il biondo sembrava inalare particella per particella il suo turbamento; come se avesse potuto nutrirsi voracemente del suo stato d’animo, i propri sensi ne percepivano la forma, i contorni, la consistenza.
La terza cosa di cui fu improvvisamente consapevole, era che Thomas lo stava scrutando ormai serio e che sembrava essere a conoscenza dei suoi pensieri, doveva esserlo, perché Newton altrimenti non avrebbe saputo spiegare la sensazione che lo aveva invaso da capo a piedi: similmente al momento in cui tua madre ti coglie con le mani nel pacco dei biscotti o quando vieni scoperto a fare qualcosa di sbagliato, il biondino si era sentito nudo sotto quegli occhi dorati.
« Ho provato a cucinare. » Spiegò Tommy e Newt ci provò davvero a credere che fosse quella la muta domanda che era riuscito a cogliere con il suo sguardo indagatore; non riuscì in ogni caso a convincersene.
Si diressero in cucina in silenzio. Sua madre si era accomodata su una delle sedie in legno scuro sistemate intorno al tavolo da pranzo.
« I tuoi genitori non sono in casa, Thomas? »
Lui scosse la testa.
« E quando tornerà Karen? » Domandò con un sorriso luminoso ad illuminarle il volto, impaziente alla sola idea di rivedere l’amica di vecchia data. « Ho così tante cose da raccontarle! »
E fu come poco prima: il biondino fu investito da un’ondata di frustrazione e tristezza, tutti sentimenti che provenivano dall’altro ragazzo.
Thomas dal canto suo aveva poggiato il vassoio verde mela sul ripiano in granito della cucina ed aveva chinato la testa, i capelli arruffati gli coprivano gli occhi ed anche a Newt – il quale era in piedi vicino al moro – risultava impossibile vederli.
Stava per dire qualcosa, quando…
« Non credo sarà possibile. » Lui e sua madre si scambiarono un’occhiata confusa, le sopracciglia aggrottate e le labbra arricciate. Poi lo guardò e l’unico impulso che arrivò al cervello di Newton fu di tipo visivo: Tommy aveva gli occhi pieni di lacrime.
« Perché? » Lo spronò sua madre, nonostante sapessero di aver capito tutto.

« Perché è morta. »

***

« Si chiama ‘morte cardiaca improvvisa’. » Prese una boccata d’aria. « In pratica, un momento prima sei sano e quello dopo il tuo cuore ha smesso di battere. »
Thomas raccontava, raccoglieva a sé una manciata di parole e tentava di metterle una dietro l’altra per formare delle frasi di senso compiuto. E Newt sentiva letteralmente il proprio cuore stringersi nel vederlo – sentirlo – in quello stato.
« È successo quasi due mesi fa. Papà si è messo in testa di ritornare qui a Londra ed io ho dovuto seguirlo. »
Non gli sfuggì di certo l'uso che fece del verbo 'dovere', né tanto meno l'accenno di rabbia che trapelò dalle sue parole. 
« Ben come sta? » Domandò cortesemente sua madre.
Thomas rise, ma Newt rabbrividì da capo a piedi perché non lo aveva mai visto ridere in quel modo: non ricordava di aver percepito tanta amarezza, tristezza e delusione provenire da quel moro tutto pepe. « Non lo sento dal giorno in cui è morta. » 
Il biondo pensò di aver sentito male; Ben era suo fratello, come poteva non essere stato vicino alla sua famiglia in un momento del genere? 
« Non è venuto al funerale? » 
« No. » Thomas aveva tenuto lo sguardo basso dal momento in cui quella difficile situazione era iniziata. « Però forse ha fatto bene a non partecipare. È stato terribile. Lei lo avrebbe odiato. » 
Newt sentì lo strano impulso di allungarsi sul tavolo e prendere fra le proprie le sue mani - le stesse che non smetteva di torturare da ormai innumerevoli minuti. Dovette trattenersi con tutte le sue forze dal non compiere quel gesto. 
« Thomas, non le ha detto addio. » Spiegò con calma sua madre e il biondino si scoprì a scrutarla affascinata. Sperava con tutto se stesso che non stesse psicoanalizzando il suo migliore amico - o il suo ex-migliore amico, o il suo amico d'infanzia, o il suo vecchio amico...quello che era. A Newt i titoli non erano mai piaciuti particolarmente - e che quella visita di gentilezza non si fosse trasformata in una vera e propria seduta. Nonostante ciò, ammise a se stesso che avesse una delicatezza invidiabile ed un'accuratezza decisamente consona alla situazione che stava affrontando: poneva le domande giuste, era misurata ed attenta, non appariva mai invadente o inopportuna. Pensò a quanto l'avesse odiata in quel periodo in cui tendeva a studiarlo a tempo pieno, non perdendosi una sua sola reazione, con la sola intenzione di comprendere suo figlio, di tirargli fuori dalla bocca quelle parole che sapeva bene non avrebbe mai pronunciato. Ma Newton non aveva saputo sfogarsi decentemente con lei, c'erano state urla e crisi e pianti - non avrebbe dimenticato le lacrime che sua madre aveva versato per colpa sua - per superare la sfiancate situazione che avevano vissuto. E, benché ne fossero usciti - non indenni, anzi con più cicatrici del previsto -, il ragazzo faceva ancora fatica a parlare con lei di certe cose. 
Non l'avrebbe mai superata, Newt ne era ben consapevole.
« Ed io l'ho fatto? Le ho detto addio? » 
In ogni caso, Thomas sapeva che sua madre fosse una psicoanalista, si stava sfogando con lei non solo perché si fidava, ma anche per via del suo lavoro. « Perché a volte ho la sensazione di sentire il suo profumo e...non lo so, mi fa sentire pazzo. » 

Mi fa sentire pazzo.

Mi fa sentire pazzo.

Mi fa sentire pazzo.


Quella semplice frase gli entrò dentro, a Newt sembrò di averla tatuata sulla pelle, a marchiarlo per il resto della sua vita. Poteva percepirne le lettere, era sicuro che avrebbe potuto seguirne i contorni con i polpastrelli delle dita se solo avesse tentato. 

« A volte ho l'impressione di poter camminare di nuovo come prima. Di poter ritornare a correre, magari nella squadra di atletica. È normale? Perché questa sensazione mi fa sentire pazzo. »

Scosse la testa nel vano tentativo di cancellare quel ricordo dalla sua mente; non poteva pensarci, non adesso che Thomas stava così male. 
« Tu le hai detto addio, Thomas. Te lo posso assicurare. Sei qui a parlarne adesso, giusto? »
Lui annuì.
« Era tua madre, è giusto desiderare che sia ancora qui insieme a te. »
Fu solo allora che Tommy alzò lo sguardo, fissando gli occhi - intrisi di un dolore che fu una pugnalata al petto di Newt - in quelli di sua madre Madison.
« Io l'ho abbandonata. » 
« Che intendi? » Newton quasi si chiese il perché il moro avesse spostato l'attenzione sulla sua figura; poi capì di essere stato proprio lui stesso a parlare, a porgli quella domanda. La sue corde vocali avevano finalmente trovato il coraggio di vibrare nuovamente.
Thomas mantenne il contatto visivo per l'intera durata della risposta. « La sua tomba è a Los Angeles. L'ho abbandonata, non capisci? Sono qui a Londra, adesso. Mio padre non riesce nemmeno a guardare una sua foto e Ben fa finta che non sia successo nulla. Chi andrà a trovarla? Chi le porterà un mazzo di girasoli al cimitero? » 
Newt si ritrovò a comprenderlo più di quanto credesse fosse possibile; sebbene non avesse mai affrontato una perdita del genere, i sentimenti che stava provando gli erano familiari.
« Tommy, ascoltami bene, okay? Anche se ti sembra di essere l'unico al quale importi qualcosa, devi cercare di comprendere che non è così: sai quanto tuo padre e Ben amassero tua madre. Tu devi aiutarli a superare questo rifiuto. » Si fermò, aspettandosi un'interruzione da parte del moro, il quale, invece, era tutto preso ad ascoltarlo e non osò aggiungere nient'altro. Percepiva gli occhi di sua madre su di sé, sapeva che lo stava valutando e non seppe se esserne lusingato od infastidito. Prese una boccata d'aria e continuò. « Tu non l'hai abbandonata. La sua tomba potrà anche essere a Los Angeles, il suo corpo potrà anche essere in Antartide, ma il suo ricordo, il suo sorriso, saranno per sempre dentro di te. Tua madre sarà per sempre con te, ti proteggerà come solo una madre sa fare, senza che neanche tu te ne accorga. Ti apparterrà per il resto della tua vita, Tommy. » 
E Newt in quel preciso istante fu sicuro del fatto che non sarebbe riuscito a cancellare dalla sua mente il modo in cui Thomas si asciugò una lacrima che era sfuggita al suo controllo. 
Si agitò sulla sedia; aveva peggiorato tutto, avrebbe fatto meglio a rimanere in silenzio e non pretendere di sapere come gestire un dolore simile. 
Ma poi Thomas gli sorrise ed ogni pensiero negativo lo abbandonò. 
La gioia per quel muto ringraziamento lo portò a ricambiare il sorriso e a provare una insolita soddisfazione, tutta rivolta nei propri confronti. Non era mai stato così fiero di se stesso, nemmeno quando aveva vinto una gara di atletica o preso un buon voto in matematica - materia scolastica in cui aveva non poche difficoltà. 
Furono entrambi distratti da sua madre, la quale si mise in piedi, le mani sui fianchi ed un'espressione impercettibilmente fiera stampata sul volto.
'Fiera di me, forse?' Newt fece una smorfia. 'Nah.'
« Hai l'occorrente per una bella teglia di lasagna? » 
Thomas sbuffò una risata. « Penso di sì. Perché? »
La donna adocchiò un grembiule da cucina abbandonato lì vicino e lo indossò senza pensarci due volte. « Perché hai bruciato la cena e si dà il caso che le mie lasagne siano il paradiso su questa terra. Diglielo, Newt! »
« Posso confermare. » Accordò quello.
« Poi oggi mi sento in vena di cucinare. Quindi su, smammate, Newt ti aiuterà a svuotare gli scatoloni. »
Il biondo si imbronciò. « Mamma, davvero, devi smetterla di decidere per me. » Lei, per tutta risposta, inarcò un sopracciglio.
« Non devi farlo se non vuoi. » Lo sorprese Thomas. 
« Certo che voglio. »
Ecco, era successo di nuovo; la sua bocca si era mossa, articolando frasi di senso compiuto senza che se ne rendesse conto. 
Arrossì - a quanto pare neanche il suo corpo voleva saperne di ascoltarlo e si perdeva in reazioni decisamente imbarazzanti - e si aspettò una risata da parte del moro che però non arrivò. 
Lo stava semplicemente osservando; dopo qualche secondo, gli fece un cenno e a Newt non restò che seguirlo.

***

9 anni prima

Newton si era fiondato fuori da casa sua ed era schizzato dall'altra parte della strada, diretto verso casa di Thomas. 
Bussò, forse con fin troppa veemenza, ma lui doveva vedere come stava il suo migliore amico, ne aveva bisogno. 
Ad aprirgli la porta fu Karen, ma lui non le rivolse nemmeno un'occhiata di sfuggita, le passò sotto il braccio e salì rapidamente le scale, impaziente di entrare nella camera del moro. 
Sua madre gli aveva raccontato che il bambino quel giorno era tornato prima da scuola perché era svenuto durante l'ora di educazione fisica e, sebbene avesse insistito sul fatto che stesse bene e che fosse stato solamente un calo di zuccheri, il piccolo cuore di Newt aveva perso almeno due battiti prima che potesse precipitarsi fuori dal soggiorno con l'intenzione di verificare con i suoi occhi le condizioni di Tommy.
Lo trovò seduto sul suo letto, un lecca-lecca in bocca ed il joystick della PlayStation fra le mani, concentrato come al solito nel suo videogioco preferito, quello al quale non si sarebbe annoiato a giocare. 
« Newt! » Trillò Thomas tutto allegro, mettendo in pausa il gioco e voltandosi a guardarlo. « Cosa ci fai qui? »
Quello con due rapide falcate e gli prese il volto fra le mani, scrutandone ogni centimetro da vicino, intento a cogliere qualsiasi diversità all'istante. La sua espressione tramutò da gioiosa a confusa, una piccola ruga si formò in mezzo alle sopracciglia scure. 
« Si può sapere che caspio stai fac... »
« Zitto, testapuzzona. » E Thomas ammutolì, come se gli fosse stato impartito un reale ordine.
Solo quando Newton si allontanò, si sentì in dovere di parlare, seppure sotto il suo sguardo indagatore. « Che ti succede? »
« Che succede a te, rincaspiato. Perché sei svenuto? » 
Gli occhi di Tommy sembrarono diventare più chiari e brillare come non mai, mentre anche le sue labbra si stendevano in un largo sorriso. « Sei preoccupato. »
« No. » Rispose Newt, ma non risultò convincente persino a se stesso, la sua voce lo aveva tradito, risultando più alta almeno di un'ottava rispetto al normale.
« Sì. Sei preoccupato. Per me. »
« Ho detto di no! » Esclamò battendo un piede a terra, infervorato. 
Tommy rise e lo trascinò con sé sul letto, prendendo a scompigliargli i capelli biondi con la mano, in quel gesto che sapeva lo avrebbe infastidito da morire.
« Smettila, Tommy! » Piagnucolò, infatti, il biondino. « Lasciamiiii! »
« Non ci posso credere che il sempre-imbronciato-Newt si sia preoccupato per me. » 
Newt riuscì infine a divincolarsi dalla stretta del moretto, ma rimase seduto accanto a lui sul piumone blu notte, mentre il petto di quello continuava ad essere scosso dalle risate. 
Incrociò le braccia sul petto e sbuffò; lo odiava quando faceva l'idiota in quella maniera. Poi pensò che Thomas era un idiota a tempo pieno e che forse non gli dispiaceva così tanto quel suo lato demenziale. 
« Sei il mio migliore amico, per questo mi sono preoccupato. E smettila di ridere. » Ma la verità era che il bambino aveva smesso di ridere già prima che Newt gli dicesse di farlo. Non che non gli avesse mai rivelato che fosse il suo migliore amico, era solo che il biondino non era esattamente la persona più espansiva che esistesse al mondo ed era raro vederlo lasciarsi andare ad affermazioni del genere. Per questo, ogni volta che Thomas lo sentiva ammettere ad alta voce - beh, non proprio ad alta voce, erano più che altro borbottii o sussurri o grugniti seguiti da una smorfia infastidita, giusto per compensare il troppo affetto che quelle parole nascondevano - lo fissava con gli occhi da cerbiatto spalancati e smarriti e le labbra socchiuse, palesemente stupito. 
« E non sono "sempre imbronciato". » Si sentì in dovere di aggiungere.
Solo allora Thomas si riprese. 
« Oh, sì che lo sei. » Newt non si accorse nemmeno di aver messo di nuovo su un broncio infantile. « Vedi?! » Colse la palla al balzo il bambino. 
Il biondino roteò gli occhi. 
« Comunque stamattina non avevo fatto colazione, per questo sono svenuto. Il dottore ha detto che mi mancavano lo zucchero o qualcosa del genere. »
« Si dice che hai avuto un "calo di zuccheri". » Lo corresse Newton.
« Sì sì, quello. » Dissimulò la questione Thomas, agitando la mano destra in aria. « Comunque sto bene, quindi non devi preoccuparti. » 
E nonostante tutto, Newt si sentì davvero tranquillo solo dopo aver udito quelle parole provenire direttamente dal suo migliore amico; si fidava di lui più che delle sue capacità di osservazione e constatazione.
Si fidava di Tommy più che di chiunque altro.
Sebbene cercò di essere più silenzioso possibile, era sicuro che Thomas non si fosse lasciato scappare il sospiro di sollievo che gli scivolò fuori dalla bocca.
In ogni caso, gli sorrise e gli porse il joystick della PlayStation che stava utilizzando poco prima, andando a recuperarne un altro per sé.

« Comunque anche io al tuo posto mi sarei preoccupato. » Gli disse distrattamente dopo, non distogliendo lo sguardo dallo schermo del televisore. « Come farei senza il mio migliore amico? »

***

Presente

E Newt, mentre lo aiutava a svuotare i numerosi scatoloni in quella che avrebbe dovuto essere la sua stanza, si chiese davvero come avessero fatto l'uno senza l'altro.
Non poté fare a meno, avvolto nel confortevole silenzio che sapeva di familiarità e di casa, di chiedersi come sarebbe stata la sua vita se Thomas non si fosse mai trasferito. Cercò di immaginare cosa ci sarebbe stato di diverso in se stesso, nella sua personalità e cosa in quella del moro, cosa avrebbero fatto in quel momento. Sarebbero stati stravaccati sul divano a guardare una stupida commedia da quattro soldi oppure in macchina, con la musica a tutto volume, i finestrini abbassati, i visi sorridenti e i cuori leggeri? Avrebbe stretto amicizia con Minho e Teresa? Sarebbero stati così importanti - fondamentali - nella sua vita?
Erano davvero troppe le domande che affollavano la sua mente, nel frattempo che, con gesti meccanici e ripetuti, svuotava quelle trappole da trasloco.
Eppure tutto cessò quando i suoi occhi si posarono su un oggetto che conosceva bene: il cofanetto dei film di Star Wars.
« Non posso credere che tu ce l'abbia ancora. » Sorrise a trentadue denti e se lo rigirò fra le mani, incredulo, osservandone ogni particolare.
Thomas fu subito accanto a lui. « È il miglior regalo che abbia mai ricevuto. » 
Newton gli dedicò una delle sue migliori espressioni scettiche. 
« Ehi! » Si difese l'altro, mostrandogli i palmi delle mani in segno di resa. « È l verità. Amo ancora Star Wars e ho perso il conto delle volte in cui ho rivisto ogni film. » 
« Idem. » Gli passò il cofanetto. « Penso che non smetterà mai di piacermi. »
« Allora uno di questi giorni dobbiamo organizzare una maratona. Riesci a guardare tutti i film in un solo pomeriggio? » 
Il biondo colse la sfida e fece scoccare scaltro la lingua sul palato. « Ovvio. »
« Perfetto. » Replicò Tommy, dal canto suo, estremamente divertito.
Si alzò per riporre accuratamente il vecchio regalo sulla mensola posta poco sopra la scrivania e Newt non si perse – al contrario, si gustò, soddisfatto – la cura con cui il ragazzo lo maneggiava, quasi fosse un oggetto fragile e di inestimabile valore.
Forse lo considerava seriamente tale.

Terminò di svuotare l’ennesimo scatolone e lo ammucchiò insieme agli altri in corridoio, provando ad impilarlo dentro altri più grandi nel tentativo di occupare meno spazio e facilitarne il trasporto. Thomas gli aveva chiesto di tornare anche il giorno seguente perché suo padre lavorava davvero molto in quel periodo, probabilmente stava tentando di guadagnarsi con fatica la fiducia e la stima del capo e dei suoi colleghi, e mettere in ordine la casa era compito suo. Ma quegli scatoloni erano davvero troppi ed altrettanto numerosi erano gli oggetti da stipare al loro posto, per non parlare della sistemazione dei mobili che probabilmente avrebbe dovuto essere rivista. Newton aveva accettato, felice di potergli dare una mano.
Quando tornò nella stanza trovò Thomas impegnato ad osservare una pallina da baseball autografata fra le mani, immobile e pensieroso, corrucciato a tal punto che il biondo non poté fare a meno di avvicinarsi per domandargli cosa avesse.
« Tommy? » Bisbigliò solamente.
« Prima hai detto che il mio compito è quello di aiutare mio padre e Ben. » Cominciò cupo, assottigliando per qualche secondo lo sguardo, per poi puntarlo in direzione di Newt. Gli fu chiaro che non avrebbe mai e poi mai potuto abituarsi a quella esagerata quantità di sofferenza contenuta in quel mare d’ambra. Annuì leggermente, incitandolo ad andare avanti. « Ma, allora, chi aiuterà me? »
Il biondo in un primo momento sgranò gli occhi.
« Io. » Poi rispose e non vi era nulla di forzato in quell’affermazione. Non provò nemmeno a tenere a bada i propri istinti quella volta, gli sfilò la pallina da baseball e la posò sul comodino, dopodiché prese una sua mano fra le proprie. « Io ti aiuterò. »




 







Okay, questo capitolo è stato un parto.
Mi scuso davvero per il ritardo, ma a causa della scuola
non penso riuscirò ad essere sempre puntuale. In ogni
caso, spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Ho tentato di non escludere totalmente
il lato divertente della fan-fiction – mi
piacerebbe strapparvi qualche sorriso -,
ma il capitolo doveva essere angst e così è stato.
Era necessario per poter raccontare cosa
fosse successo a Thomas e perché si fosse
trasferito nuovamente a Londra.
Vorrei tanto sapere cosa ne pensate della
storia, se vi incuriosisce, se vi piace il modo
in cui la sto portando avanti, la piega che sta
prendendo. Mi piacerebbe che lasciaste più
recensioni, ma non per la recensione in sé,
quanto più per il confronto che desidererei
instaurare con voi! :)
A presto!



 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4: There’s an energy and, when you touch me, it’s so powerful ***


Remember how we were, shuckface?



Capitolo 4: There’s an energy and, when you touch me, it’s so powerful


10 anni prima

Thomas suonò il campanello ed aspettò pazientemente che qualcuno gli aprisse la porta, sperando che fosse Newt, perché non vedeva davvero l’ora di fargli vedere come aveva imparato a risolvere il cubo di Rubik.
Prima che potesse premere nuovamente il pulsante bianco, Madison gli si parò davanti con un dolce sorriso sulle labbra.
« Ciao, Thomas. » Si fece da parte per farlo entrare e il moretto saltellò dentro quella casa che ormai aveva imparato a conoscere come le sue tasche.
« Sai che so completare questo? » La informò dondolando sul posto e mostrandole soddisfatto il cubo stretto in mano.
« Davvero? » Lei si mostrò sorpresa. « Sei bravissimo, Thomas. Nemmeno io saprei riuscirci! »
Il bambino ridacchiò deliziato dal complimento e si guardò rapidamente intorno, cercando il suo migliore amico, aspettandosi di trovarlo a disegnare sul divano.
« Sei qua per mostrarlo a Newt? »
Thomas annuì. « E’ nella sua stanza? Posso andare? »
Madison si inginocchiò per essere alla sua altezza e fissò i suoi occhi azzurri in quelli ambrati e brillanti del moro. « Ascoltami, Thomas. Newt non è di buon umore oggi. »
Lui stava per domandarle quando Newt fosse di buon umore, ma la donna non gli lasciò il tempo d’interromperla che subito continuò a parlare. « E’ molto triste, ha litigato con il suo papà. Non offenderti se dovesse trattarti male. Non è arrabbiato con te, okay? »
« Okay. » Rispose semplicemente. Il suo migliore amico, in realtà, non andava parecchio d’accordo con suo padre: litigavano spesso e altrettante volte si era sfogato con lui su quanto non sopportasse l’atteggiamento che teneva nei suoi confronti.
Madison gli sorrise e gli fece cenno col capo di andare, perciò Thomas non se lo fece ripetere due volte e salì veloce come un raggio le scale, impaziente di parlare con il biondino e, magari, di tirargli su il morale.
Bussò piano; quella era forse la prima volta che aveva timore di dargli seriamente fastidio. Di fatti, non gli rispose nessuno.
Decise, allora, di aprire gradualmente la porta ed osservare attentamente l’interno della cameretta con l’intenzione di individuare la figura del bambino e farsi notare.
Solo dopo essere entrato notò la testa bionda di Newt: era seduto a terra, la schiena poggiata contro il letto e lo sguardo rivolto fuori dalla larga finestra.
« Vattene. » Aveva gli occhi gonfi e rossi, il volto ancora umido e rigato dalle lacrime, i capelli tutti scompigliati e le labbra screpolate, probabilmente a causa dei morsi con cui tendeva ad aggredirle nei momenti in cui era nervoso.
Il moro si avvicinò ulteriormente.
« Ti ho detto di andare via, Thomas. » E Thomas sul serio non riuscì a spiegarselo quella fitta all’altezza del petto, quel battito mancato del suo cuore, perché Newt spesse volte lo aveva trattato male, ma nulla gli aveva provocato del dolore quanto quel Thomas – non Tommy – pronunciato con freddezza e distacco.
Così deglutì tutta la sua amarezza e si fece coraggio, ripetendosi le parole di Madison in mente quasi si fosse trattato di un mantra, aspettandosi un altro rifiuto che, però, non udì.
« Sei così testardo, Thomas. » Gli disse, invece. E anche quella frase fece inspiegabilmente un male del diavolo, sembrava quasi intrisa di disprezzo. « Non mi ascolti mai. »
Il fatto era che Newt non dimostrava la sua età, dava l’impressione di essere più grande; era il modo in cui parlava, i termini che utilizzava, quell’aria di austerità che lo circondava come se fosse parte integrante del proprio essere, quel cipiglio attento che era ormai divenuto una sorta di marchio di fabbrica.
E Thomas spesso e volentieri si era ritrovato a pensare di non esserne all’altezza. In realtà, forse era proprio a causa di quel motivo che era voluto diventare suo amico a tutti i costi: era stato curioso di scoprire se quel biondino imbronciato fosse davvero intelligente come sembrava, se fosse capace di provare qualsiasi altro sentimento a parte la rabbia. Aveva desiderato sapere perché covasse quella stessa rabbia.
Il fatto che fossero diventati migliori amici, poi, era un altro discorso; il moro non l’aveva programmato, non aveva nemmeno valutato la possibilità che Newt avesse potuto piacergli tanto, che fosse persino più intelligente di quello che dimostrava e che, in fondo in fondo, avesse solo il disperato bisogno di fidarsi di qualcuno.
Si sedette accanto a lui in rigoroso silenzio.
« Lo odio. »
« Non lo odi. »
« Hai ragione. Ma lui odia me. »
Thomas sapeva che non sarebbe servito a niente rassicurarlo, affermare che suo padre non avrebbe mai e poi mai potuto odiarlo, perché Newton probabilmente lo avrebbe cacciato a calci dalla sua stanza.
« Che è successo? »
« A scuola un amico della maestra ha visto un mio disegno e mi ha fatto i complimenti. Dice che ho ‘un tratto da artista’ o qualcosa del genere. Lui è un pittore e ha una scuola d’arte, mi aveva detto di andare a trovarlo. » Newt tirò su col naso e Thomas sbuffò, recuperò un pacco di fazzoletti sulla scrivania e glielo porse. Il biondo roteò gli occhi, ma lo accettò di buon grado. « Io mi sarei voluto iscrivere. »
« Ѐ fantastico, Newt. »
« Ma papà non vuole. Dice che l’arte è stupida e che devo smetterla di sognare. » Sospirò affranto. « Ha detto che è una perdita di tempo. »  Gli occhi gli si riempirono nuovamente di lacrime salate. « Io amo dipingere e disegnare. Perché dice così? »
« Perché è una testa di caspio. »
Fu in quell’esatto momento che Newton finalmente alzò lo sguardo ed incontrò le iridi nocciola del bambino, che brillavano di convinzione e determinazione. Gli rivolse un’espressione confusa, perché Thomas non aveva mai usato un termine del genere.
« Che significa che è una “testa di caspio”? »
Posò le mani sui fianchi. « Che è stupido e non capisce niente. Sai dov’è questa scuola? » Gli chiese. Non poteva sopportare di vedere il suo migliore amico così abbattuto. Non era giusto che suo padre dovesse sempre distruggere il suo sorriso – già di per sé non comune – e le sue speranze con le sue convinzioni da uomo razionale e disilluso qual era. Maledizione, Newt era suo figlio, non avrebbe dovuto appoggiare la sua creatività ed aiutarlo a coltivare le sue passioni piuttosto che demoralizzarlo?!
Il biondino annuì lentamente stranito.
« Bene, allora alzati. » Gli tese una mano. « Ci andiamo adesso. »

***

Presente

« Secondo me, è semplicemente troia. »
« Minho, tu e Newt non avete speranze in matematica. Non c’entra niente la professoressa Tonkin. » Teresa gli rivolse uno sguardo di sufficienza e poi dedicò l’attenzione alle proprie unghie.
« Mi scusi tanto, signorina “organizziamo un funerale, ho preso una B”. Non tutti sono dei geni come lei. » La ragazza fece una smorfia. « E come quest’altra sploff qua. » Concluse Minho indicando con un cenno del capo Thomas.
« Non sono un genio. » Lo contraddisse il moro divertito.
« Per favore, Thomas, sta’ zitto. » L’asiatico intinse una patatina nel ketchup e la mangiucchiò lentamente. « Secchioni di merda. » Borbottò.
« Se vuoi posso darvi ripetizioni. » Si propose ignorando volontariamente l’ultimo insulto. « Tanto casa mia è sempre libera. »
Erano seduti tutti e tre in uno dei numerosi tavoli rotondi sparsi per la spaziosa mensa della scuola. Era passata esattamente una settimana e due giorni dal momento in cui Thomas aveva rivelato a Newton e Madison che sua madre fosse morta da due mesi, da quando il biondo gli aveva assicurato – in una tacita e solenne promessa – che lo avrebbe aiutato e non solo a sistemare la nuova casa.
Lo avrebbe sorretto e riportato a galla quando avrebbe toccato il fondo, sarebbe stato il migliore amico che aveva perso nove anni prima, Thomas ne era certo.
Fatto sta che si erano visti tutti i giorni, in particolar modo durante il weekend; domenica avevano guardato stravaccati sul divano di casa del moro, finalmente sistemato appropriatamente al centro della salone, tutti i film di Star Wars, dal primo all’ultimo e dopo avevano ordinato qualcosa alla pizzeria di fiducia di Newt, mentre commentavano entusiasti e con le iridi brillanti quella saga che aveva rubato il cuore ad entrambi molto tempo prima.
Così Thomas era finito per conoscere meglio anche Teresa e Minho, amici inseparabili del biondino, pranzando insieme a loro e sedendosi vicini durante le lezioni che avevano in comune.
« No, Tom. » S’intromise la ragazza dagli occhi azzurri, arricciando le labbra rosa. « Non puoi immaginare quanto sia esasperante studiare con Minho e Newt. »
L’asiatico scoppiò  a ridere. « Andiamo, Tess. »
« “Andiamo, Tess” un corno. E poi smettila, mi fai impressione quando mi chiami in questa maniera. » Aggiunse con tono apparentemente disgustato. « Minho è completamente senza speranze- »
« Ehi! »
Teresa finse di non udire la lamentela. « Newt all’inizio cerca di seguire e di capire ciò che dico, ma tempo mezzora ed ha cominciato a ridere con Minho. »
Thomas si lasciò andare ad una risata.
« Ridiamo per disperazione. » Puntualizzò l’asiatico dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua fresca tutto ad un fiato. « La matematica semplicemente non fa per noi. »
« Chi è che sta pronunciando il mio nome invano? » Newt si avvicinò a loro velocemente e si sedette tra Teresa e Minho. La ragazza con uno slancio gli gettò le braccia al collo e lo strinse forte a sé.
« Anch’io sono felice di vederti, Tess. » Ridacchiò divertito. Lei gli mollò un pugno sulla spalla e poi gli sussurrò qualcosa che Thomas non riuscì ad udire all’orecchio.
Lo facevano spesso. Non parlarsi nell’orecchio, s’intende, ma comunicare fra di loro ignorando il mondo circostante ed escludendolo come se non avesse alcuna importanza. La mente del moro corse subito ad Aris e forse quella fu la prima volta che ne percepì realmente la mancanza, talmente tanto da sentirsi lo stomaco stringere in una morsa dispettosa che gli fece passare completamente la fame.
Abbandonò la forchetta sul piatto e si appuntò di chiamarlo e farlo esasperare come solo lui era capace.
Quando si separarono Newt lasciò un tenero bacio sulla fronte a Teresa, poi gettò un’occhiata a Minho, il quale parve porgergli una tacita domanda con il solo sguardo, dato che il biondino annuì cautamente e stendendo le labbra in un sorriso.
« Tommy. » Irruppe poi e quegli occhi marrone scuro furono subito sul proprio viso, curiosi. « Scommetto che questi due ti hanno annoiato a morte. »
« Ehi! » Esclamarono offesi all’unisono.
« Tom è stato bene con noi, giusto? » La ragazza dai grandi occhi azzurri lo scrutò gentile. Teresa era sempre stata particolarmente gentile con lui, avevano legato facilmente: Thomas si sentiva a proprio agio al suo fianco.
« Certo. » Rispose, infine. « Non screditarli in questo modo, Newt. »
« Non li scredito affatto. » Gli diede corda l’amico. « Solo che non è che siano poi questo pozzo di simpati- »
Minho sbuffò e con molta gentilezza gli tappò la bocca con un patatina intinta nella maionese, sporcandogli la faccia in più punti. Lui e Teresa si guardarono a vicenda e scoppiarono a ridere, incoraggiati anche da Newt che, rosso come un peperone, stava tentando di rendergli pampa e focaccia, mentre l’asiatico gli stava goffamente bloccando le braccia.
Quando la campanella suonò, Thomas aveva le lacrime agli occhi e gli faceva male la pancia. Non rideva così tanto da troppo tempo; a dire la verità, non credeva nemmeno sarebbe tornato a ridere in quel modo.
E, beh, se stare con Newt, Minho e Teresa significava divertirsi a tal punto, ridere spensierati senza percepire il peso opprimente della vita sulle spalle, allora credeva che avrebbe fatto di tutto per tenersi stretta quell’amicizia.

***

Quella sera lui, Newt e Teresa erano stati invitati a casa di Minho; il biondino gli aveva raccontato che almeno una volta a settimana tendevano a ritrovarsi a casa di uno dei tre per trascorrere del tempo insieme, così, dato che ‘ormai sei ufficialmente parte del nostro gruppo di rincaspiati’, l’asiatico aveva dato a Thomas il suo indirizzo.
In ogni caso, alla fine lui e Newt avevano deciso che sarebbe stato più conveniente andare insieme visto che abitavano a dieci minuti scarsi l’uno dall’altro ed il moro avrebbe dovuto raccattare la sua bicicletta perché avevano una macchina sola ed era suo padre ad utilizzarla.
« Ti dico che stava praticamente dando i numeri perché Clint aveva comprato degli striscioni rossi e non arancioni. Sembrava impazzita! »
A quanto pareva, Newton faceva parte del comitato studentesco, il quale, insieme ad un piccolo gruppo di volontari, in quel periodo si stava occupando dell’organizzazione di una festa di Halloween, che si sarebbe tenuta una settimana dopo.
Nonostante ciò, quando il coach era tornato ed aveva saputo dai pivelli stessi quello che il biondo avesse fatto durante la sua assenza, gli aveva proposto di continuare ad allenarli in giorni alterni, ovviamente sotto la sua supervisione.
Thomas aveva pensato di non aver mai visto Newt così felice come in quel momento dal giorno in cui lo aveva incontrato dopo nove anni a scuola. Aveva comunque deciso di non abbandonare il comitato studentesco, sostenendo che non lo impegnasse poi così tanto e che, tutto sommato, si divertiva.
Il moro ridacchiò, mentre l’altro ragazzo girava la chiave nella toppa. « Davvero, Tommy, se avessi visto la scena saresti morto dalle risate. Io ed Alby eravamo piegati in due. » Rise. « Non posso proprio pensarci, aveva gli occhi fuori dalle orbite! »
Ecco, poi c’era quell’Alby; Thomas non aveva ben capito quanto esattamente fossero amici, ma ricordava come lo avesse guardato male quando lo aveva apostrofato come ‘scorbutico ed arrogante’, quindi supponeva ci tenesse parecchio.
Il fatto era che non lo convinceva, forse era l’aura di saggezza che lo circondava sebbene fosse all’ultimo anno come loro, forse quell’aria da ‘ehy-sono-io-il-capo-qui-pive’, forse quel sorrisetto che tentava di apparire rassicurante, ma a Thomas dava solo l’impressione di essere di sfida. Insomma, non gli piaceva.
Newt spalancò la porta ed il moro vide le sue spalle letteralmente abbassarsi dallo sconforto; sospirò e sussurrò un non troppo silenzioso: “Dio, no.”
Solo quando Thomas entrò in casa comprese a cosa il suo amico si stesse riferendo: il padre del biondo era in piedi nell’entrata impegnato a sfogliare una cartellina dall’aria piuttosto importante.
Alzò lo sguardo, eppure non sorrise a suo figlio. « Ciao. »
Il suo amico poggiò le chiavi sul tavolino in vetro accanto alla porta e si tolse il giubbotto, poi fece un cenno a Thomas per invitarlo a fare lo stesso.
« Ciao. Felice di vedere che vivi ancora in questa casa. » Rispose con un’ironia tale da attirare particolarmente l’attenzione del moro.
Era stato abituato ad un Newt accondiscendente ed infinitamente triste quando si trattava del signor Richardson, un filino combattivo, certo, perché dopotutto quello era il carattere del biondo e non è che si volatilizzasse completamente in certe situazioni.
Solo non lo aveva mai visto così sarcastico e strafottente con quell’uomo troppo simile al ragazzo stesso, con gli stessi occhi marrone scuro e le labbra sottili; anni prima non avrebbe nemmeno pensato che un giorno Newt sarebbe stato capace di parlare in quella maniera a suo padre, l’unica persona sulla faccia della Terra che fosse sempre riuscito a distruggerlo con una sola occhiata, con una sola esclamazione inaspettata.
« In realtà, sei tu ad essere sempre fuori. Vorrei proprio sapere dove vai. »
« Nah, non lo vuoi davvero sapere: so che non ti interessa. »
L’uomo scosse la testa e chiuse con uno scatto la cartellina turchese, poi si sporse verso sinistra e puntò lo sguardo serio ed autoritario su Thomas.
« Ciao, Thomas. Sono felice di vedere che stai bene. »
Il ragazzo abbozzò un sorriso e si fece avanti per stringergli la mano, la quale il signor Richardson accettò di buon grado. La stretta era ferma e possente, così come il suo aspetto ed il suo atteggiamento: tutto in lui trasudava sicurezza ed autorevolezza.
« E’ un piacere, signore. » Sobbalzarono tutti e tre nel momento in cui la suoneria del cellulare dell’uomo rimbombò improvvisamente nel piccolo spazio.
Newton gli sfiorò distrattamente il gomito per attirare la sua attenzione e poi con un segno lo invitò a spostarsi in cucina, stanza in cui Thomas lo seguì, approfittando del fatto che il padre del ragazzo fosse impegnato in non sapeva quale discussione al telefono, immaginava una particolarmente noiosa e frustrante a giudicare dall’espressione contrariata e scocciata allo stesso tempo.
« Vuoi un succo? » Gli offrì il biondo, assorto in chissà quale pensiero.
Lui semplicemente annuì; l’amico sembrava essere stato prosciugato di ogni goccia di gioia ed entusiasmo che aveva dimostrato di possedere per tutto il tragitto da scuola a casa sua. Rimasero in silenzio per almeno cinque minuti, il moro a corto di parole, l’altro totalmente assente.
« Stanotte sarò bloccato all’ospedale e la mamma ritornerà a casa tardi visto che è a cena con quella sua amica spagnola. » Il signor Richardson irruppe in cucina con quell’informazione, digitando distrattamente qualcosa sul suo smartphone.
« Buona a sapersi. Tommy vuoi altro succo? »
« No, grazie. » La voce gli uscì un po’ roca, ma la verità era che quella situazione lo stava mettendo leggermente in soggezione: la tensione fra il suo amico e suo padre era palpabile ed incredibilmente presente, se ne poteva percepire il peso.
« Comunque stasera sono a casa di Minho. Non so a che ora torno. » Ripose la bottiglia in frigorifero con tutta la tranquillità del mondo, come se stessero discorrendo dell’esito delle proprie giornate.
L’uomo incrociò le braccia sul petto ampio ed inarcò un sopracciglio, sembrava star sentenziando di avere avuto ragione nell’affermare che fosse il figlio a non trovarsi mai in casa e non viceversa. A Newt parve non importare minimamente.
« A dire la verità, dovresti essere in punizione. »
Newt rise e pure quella risata sprizzava sarcasmo da ogni poro. « E perché? »
« Un’altra F in matematica dovrebbe essere un buon motivo, giusto? »
« Ah, non ne ho idea, dovresti essere tu a saperlo. Ma dopotutto non hai mai saputo fare il padre. » E se fino a quel punto le frecciatine che si erano mandati a vicenda avevano dato l’impressione di non sortire alcun effetto da entrambe le parti, quella volta Thomas studiò distintamente il modo in cui la mascella del signor Richardson scattò alla severa accusa del figlio. Avrebbe giurato di aver visto i suoi muscoli fremere dal desiderio di tirargli uno schiaffo, eppure quello non si scompose.
Che fosse avvezzo a comportamenti del genere?
« Devi prendere ripetizioni di matematica e fisica, hai una media da far pena. » Un sorriso soddisfatto si dipinse sulle labbra del biondino, quasi non stesse aspettando di udire altro.
« Sono negato, mi dispiace. » Ma non sembrava dispiacergli per niente.
« Rischi di perdere l’anno. »
« E allora? » Le risposte di Newt erano sempre repentine, non lasciavano quasi il tempo a Thomas di riprendere il respiro che a volte si ritrovava a trattenere; era che quella discussione si era trasformata in un rapido scambio di battute, un dialogo in cui entrambi gli interlocutori si lanciavano occhiate di fuoco e scoccavano dardi dalla cavità orale, intenzionati ad attaccare e ferire l’altro.
« La tua ammissione al college ne risentirebbe e non credo sia il caso. »
Il biondo si sporse sul ripiano in granito della penisola e abbracciò il volto con le dita pallide ed affusolate, poggiando il mento tra i palmi delle proprie mani.
« Non andrò al college, papà. » Sebbene quella fosse la prima volta in cui Newt lo avesse chiamato ‘papà’, quella semplice parola composta da quattro lettere sembrava non nascondere alcuna forma di affetto. Era vuota; forse derisoria.
« Tu andrai al college. E prenderai ripetizioni. » Il tono dell’uomo variò impercettibilmente; divenne più grave, mentre anche la sua espressione acquisì maggiore austerità. Non ammetteva repliche. « Thomas come vai in matematica ed in fisica? »
Thomas quasi rabbrividì nel sentirsi nominare. Non aveva riflettuto sulla possibilità che potesse essere lo stesso signor Richardson ad intrometterlo in un discorso del genere.
Ma, alla fine dei conti, non si erano fatti troppi scrupoli ad affrontare un botta e risposta dalla simile intimità davanti a lui, perciò non vedeva il motivo per il quale dovesse essere proprio lui a crearsi dei problemi.
« Bene. » Disse in maniera più schietta possibile; non è che amasse vantarsi dei suoi buoni voti a scuola ed, inoltre, non sapeva nemmeno se a Newt avesse fatto piacere nel caso in cui avesse deciso di nominare la sfilza di ‘A’ ed ‘A+’ che solitamente riceveva.
Il biondo sbuffò. « E’ nella classe avanzata. Ed è il migliore del corso insieme a Teresa. »
« Cosa vuoi fare al college? » Il moro cominciò a pensare di trovarsi sotto lo sguardo indagatore di un detective, il quale era intento a studiare ogni sua reazione ed a soppesare qualsiasi parola decidesse di pronunciare.
« Neuroscienze. » 
Le sopracciglia dell'uomo schizzarono verso l'alto, in una palese dimostrazione di stupore - pensò di non averlo mai visto così emotivamente coinvolto -, sgranò gli occhi e si grattò sovrappensiero il mento ricoperto da uno strato di barba rada.
« In quale college vorresti entrare? »
« California Institute of Technology. » Thomas non ebbe bisogno di rifletterci sopra per rispondere a quella domanda. Aveva accarezzato più volte l'idea di se stesso nel campus del MIT, ma, infine, aveva deciso che il Caltech sarebbe stato sicuramente la soluzione migliore.
Non avrebbe dovuto organizzare trasferimenti impossibili, in quanto il campus a Pasadena non era troppo lontano dal quartiere nel quale viveva - beh, questo prima che si spostasse a Londra. 
« Impressionante. » Fece quello. « Ha una delle migliori facoltà di neuroscienze. »
« Lo so. » Aggiunse il moro sicuro, con una sfacciataggine che raramente si permetteva. « Altrimenti non l'avrei preso in considerazione. »
Il signor Richardson, contro ogni sua possibile aspettativa, sbuffò una breve e sinceramente divertita risata, tant'è che fu Thomas a sgranare gli occhi, quella volta. 
« Mi piaci, ragazzo. Darai tu ripetizioni a Newton. » Indossò con eleganza il cappotto grigio scuro che fino ad allora aveva tenuto poggiato sull'avambraccio. Si ritrovò a calcolare quanto l'ossatura di quell'uomo fosse differente da quella del suo amico; probabilmente era l'unico aspetto che li contraddistingueva veramente l'uno dall'altro - insieme al colore dei capelli, s'intende -, perché per il resto erano due gocce d'acqua. 
« Non ho bisogno di prendere ripetizioni. » Lo prese in contropiede il figlio, perdendo quell'ironia che lo aveva accompagnato per tutta la durata del discorso. « E ti ho detto che non voglio andare al college. » Concluse perentorio.
Suo padre infilò l'ultimo bottone nel corrispondente occhiello e, quando alzò il capo per incontrare gli occhi identici ai suoi del figlio, Thomas si chiese come Newt riuscisse a non sudare freddo sotto quello sguardo furioso. Ed era una furia controllata, per questo rabbrividì; prima o poi sarebbe scoppiato e quel pensiero lo terrorizzò più del dovuto: lo sapeva che i sentimenti controllati e repressi per tanto tempo erano i peggiori. Deleteri e pericolosi, sarebbe stato difficile arginarne i danni. 
Poi l'uomo distese le labbra, gli angoli della bocca che puntavano verso l'alto senza, però, nascondere alcuna gioia. « Davvero? E cosa farai nella tua vita, Newton? » Lo stava prendendo in giro.
Il biondo se ne accorse e digrignò i denti, tornando in posizione eretta. Una scintilla che il moro non seppe definire gli attraversò le iridi, mentre gonfiava il petto e rispondeva: « Imparerò a suonare uno strumento o a recitare, magari. Gli artisti di strada hanno un che di affascinante. »
« Tu non sei un artista. »
E forse fu quell’affermazione ad infastidire Newt più di ogni altra. « Perché non riesco più a dipingere? O a disegnare? » Si passò una mano fra i capelli e ne tirò qualche ciocca. « Cosa so fare, papà? Non mi è rimasto nulla. La matematica non mi aiuterà di certo. »
‘Non gli è rimasto nulla?’, ripeté Thomas fra sé e sé. ‘Che significa?’ e poi ‘Non posso credere che Newt non riesca più a dipingere’.
Per un attimo credette che il signor Richardson si sarebbe lasciato andare ad una qualche dimostrazione di affetto, che lo avrebbe guardato con apprensione, oppure che si sarebbe sporto per prendere il figlio fra le proprie braccia.
Invece, non accadde nulla. Rimase impassibile, freddo ed invalicabile come un iceberg.
« Prenderai ripetizioni da Thomas. »  Lo liquidò così, con tono disinteressato.
« Smettila di dirmi cosa devo fare. » Sibilò con rabbia. « Ѐ la mia vita! » Esclamò subito dopo, alzando il tono della voce.
« Ed io sono tuo padre. » Si voltò nuovamente in direzione del moro. « Ti pagherò. »
« Non è neces- »
« Adesso devo andare. » Lo interruppe, senza neanche ascoltarlo o dare peso alle occhiate truci che il figlio continuava a lanciargli. Semplicemente verificò che ore fossero sul suo cellulare e diede le spalle ad entrambi, scomparendo dalla loro vista.
Si riscossero solamente quando sentirono il rumore della porta di casa sbattere.

« Non voglio i vostri soldi. » Fu la prima cosa intelligente che gli venne in mente di dire.
« Prenditeli pure. Sono i suoi soldi; non mi interessa. »
‘Perfetto’, pensò Thomas. ‘Sono un idiota’.
« Newt non ti darò ripetizioni se non vuo- »
« Non c’entra niente questo, Thomas! » Sbottò Newt, scattando in piedi dallo sgabello sul quale era rimasto seduto per un po’. « Tu non c’entri niente. »
Il moro si sentì inspiegabilmente ferito dalle parole del moro, non perché lo avesse praticamente accusato di pensare solamente a se stesso o perché lo avesse chiamato Thomas – che poi, perché mai dovrebbe offendersi per una cosa del genere?! -, piuttosto perché sembrava lo stesse incolpando di qualcosa.
« E allora cosa c’è, Newt? Spiegamelo. » Lo osservò camminare avanti e indietro per la luminosa stanza, continuando a torturarsi il viso ed i capelli biondi, nervoso.
« Lasciami in pace. » Bisbigliò alla fine ed i pensieri di Thomas furono attraversati da un ennesimo vivido ricordo di parecchi anni prima.

***

11 anni prima

Thomas pedalava felice, un sorrisone ad incorniciargli il volto: quel giorno era riuscito a convincere Newt a giocare con lui.
Certo, il bambino aveva fatto non poche storie, sbuffato e roteato gli occhi come sua abitudine, ma alla fine aveva ceduto. E, ovviamente, non era rilevante il fatto che lo avesse corrotto informandolo di avere una vaschetta di gelato alla vaniglia nel freezer che aspettava solo di essere aperta.
Così stavano pedalando sulle loro biciclette in giro per il quartiere e notare che Newt non stesse tenendo il broncio rendeva Thomas doppiamente soddisfatto.
Non è che non sapesse che, in fondo in fondo, il biondino si divertisse in sua compagnia. Si faceva desiderare, era riservato e scontroso.
Spesso, quando gli rispondeva davvero male, aveva pensato di andarsene, lasciarlo da solo e non tornare a trovarlo mai più. Eppure sapeva che sarebbe stato impossibile.
Lui e Newt erano legati. Thomas non aveva idea di come e quando fosse accaduto, ma era successo e non gli sarebbe stato possibile tornare indietro e pretendere di comportarsi come se nulla fosse.
Girarono intorno alla casa dei Wilde e successivamente a quella di Thomas, ma fu proprio in quel momento che il bambino udì un forte rumore che lo spinse a frenare inaspettatamente.
Si guardò indietro e lasciò andare con un gesto secco il manubrio della bicicletta, facendola cadere a terra quando si alzò per precipitarsi sul biondino.
Su Newt che era appena caduto.
« Stai bene? »
Lo aiutò nel mettersi a sedere e con gli occhi da cerbiatto spalancati lo scandagliò tutto, per cogliere ogni eventuale ferita. Si era sbucciato le ginocchia - quello sinistro stava sanguinando - e le mani, un lungo graffio gli marcava la pelle nivea dell'avambraccio destro. 
Gli scrutò gli occhi, aspettandosi di vederlo piangere o quantomeno di trovarli lucidi, ma non si stupì più di tanto quando si rese conto che nessuna delle sue due ipotesi si era rivelata veritiera; Newt era forte, aveva la pellaccia dura.
« Sì. » Si schiarì la voce, un po' roca ed impastata. « Vai a casa, Tommy. »
« No. » S'impuntò lui. « Rimango con te. »
Il biondino sbuffò scocciato. « Lasciami in pace, Thomas. » 
Il moro si immobilizzò; il suo migliore amico era arrabbiato con lui e voleva che se ne andasse - effettivamente non era neanche la prima volta che esprimeva ad alta voce quel suo premente desiderio -, lo stava istintivamente accusando per essersi fatto male.
Così il grande peso del senso di colpa cadde violentemente su Thomas, il quale si diede dello stupido ripetutamente, perché se non fosse stato così capriccioso, Newt non sarebbe mai caduto dalla bicicletta.
Era colpa sua.
Gli occhi che si colmarono di lacrime furono i suoi, era mortificato, non voleva che si ferisse.
Thomas non voleva fargli del male.
Era il suo migliore amico, come avrebbe potuto?
Sebbene tali pensieri lo stessero abbattendo ogni secondo che trascorreva sempre di più, il moro ritornò in se stesso ed osservò acutamente che piangere sul latte versato era inutile: non poteva tornare indietro, doveva affrontare le conseguenze delle proprie azioni.
Fu allora che il bambino si alzò, pulendosi i pantaloni blu scuro con le mani ed entrò correndo in camera sua. 
Scomparve per qualche minuto, giusto il tempo di recuperare del disinfettante, del cotone e la scatola dei cerotti. 
Quando tornò fuori, sorrise nel vedere che Newton non si era mosso di un millimetro e che, a dispetto dell'antipatia che ancora si ostinava ad utilizzare nei confronti del moretto, appariva più triste e deluso che mai.
Per questo parve illuminarsi nell'istante in cui scorse la piccola figura dell'amico avvicinarsi nella sua direzione: socchiuse la bocca e spalancò gli occhietti scintillanti. 
Thomas sentiva lo sguardo vigile di Newt su di sé mentre bagnava un batuffolo di cotone con un'abbondante quantità di disinfettante e si dedicava alle sue ferite.
Sebbene il bambino non avesse fiatato, aveva percepito chiaramente ogni flessione improvvisa dei suoi muscoli ed i pesanti sospiri nei momenti in cui il disinfettante sfrigolava sulla sbucciatura e sui graffi. 
« La mamma fa sempre così quando cado e mi faccio male. » Gli sussurrò come per giustificarsi, mentre premeva con delicatezza un cerotto color carne sul ginocchio dell'amico. « Dopo qualche giorno passa tutto, ma devi mettere questo anche stasera. » Gli raccomandò indicandogli la boccetta di disinfettante verde. Newt annuì.
Thomas si premurò di raccogliere entrambe le biciclette dal vialetto retrostante e di sistemarle una accanto all'altra davanti la porta del suo garage.
Poi diede una mano al biondo ad alzarsi e lo invitò silenziosamente ad entrare in casa propria.  
Il loro era un rapporto particolare; Thomas parlava così tanto e Newton così poco che la maggior parte delle volte davano l'impressione di compensarsi a vicenda; nonostante ciò, la loro amicizia - perché ormai sarebbe stato da stupidi non considerarla tale - era fatta soprattutto da gesti: sguardi d'intesa, sguardi che discutevano al posto delle loro bocche, sguardi significativi e carichi di un qualcosa che solo loro erano capaci di identificare; espressioni stupite, espressioni di rabbia, espressioni di gioia e di dolore, espressioni che dicevano tutto, anche ciò che non avrebbero saputo esprimere a parole; mani che comunicavano, mani che erano pronte ad aiutare l'altro in un momento di difficoltà, mani che si articolavano frasi semplici o complesse, mani che si cercavano.
Era tutto un loro sistema, un linguaggio del corpo che condividevano solo ed esclusivamente insieme.
Per questo non fu difficile cogliere il 'grazie, Tommy' che Newt gli stava riferendo con gli occhi marrone scuro ed una sincerità disarmante addosso.
Thomas gli sorrise.

« Sai, Tommy? » Gli disse con la bocca piena di gelato alla vaniglia - a quanto pareva, era il suo preferito - ed il cucchiaino già pronto vicino alle labbra. « Il dolore è già passato. Sei un bravo amico. »

***

Presente 

Era sempre stato il suo compito prendersi cura di Newt, a prescindere da quanto quest'ultimo lo avesse trattato male o quante volte lo avesse rifiutato, intimandogli di andarsene e lasciarlo da solo. Thomas non lo aveva mai abbandonato; Thomas era rimasto.
« Perché non vuoi andare al college? » 
Newton sospirò ed il moro sapeva bene che quello non era altro che un sospiro di rassegnazione; non sarebbe potuto sfuggire alle sue domande.
« Non è che non voglio andarci. Più che altro lo dico per farlo arrabbiare. » Si appoggiò con il fondoschiena al piano cottura della cucina. « Solo che non so davvero cosa fare. Non sono bravo in nulla. »
« Stai scherzando, vero? » Iniziò il moro con evidente scetticismo. « Hai una media invidiabile, il tuo unico problema sono matematica e fisica. » 
« Sì, lo so, è che... » Si osservò le dita delle mani, una ad una. « Non c'è niente che mi piaccia abbastanza da dedicarci la vita, capisci? »
Thomas si morse il labbro inferiore; porgli quella domanda o non porgli quella domanda? « Non dipingi più? » Infine, decise di sganciare la bomba. Dopotutto non poteva di certo vivere nell'incertezza per il resto della sua vita. 
« E non disegno più. Solo... » Prese una lunga boccata d'aria. « Non ci riesco, Tommy. » Non si dissero nulla per una manciata di secondi. Fu di nuovo il biondino a prendere parola. « Ero entrato nella squadra di atletica tempo fa, sai? Poi le...circostanze non mi hanno permesso di continuare. Credo tu sappia anche il perché, non sei cieco. »
E Thomas era certo che si stesse riferendo al motivo per il quale zoppicava. Decise comunque di non insistere sull'argomento, Newt si era aperto fin troppo per i suoi standard in così poco tempo e non aveva intenzione di forzare la mano. Gli avrebbe raccontato quello che desiderava venisse a sapere, poteva fare qualsiasi cosa lo facesse sentire meglio.
« In che senso non ci riesci più? » 
Forse la domanda alle orecchie di chiunque altro sarebbe potuta sembrare sciocca, infantile, eppure Newton parve intenderla alla perfezione.
« Seguimi. » 

La camera di Newton era cambiata da cima a fondo, sia nella disposizione dei mobili, che nel colore dei muri.
Il giallo spento che il biondo aveva sempre dichiarato di odiare era stato sostituito da un blu notte che infondeva una calda sensazione di raccoglimento e pace. Parte della parete al di sopra la scrivania in legno di faggio era stata occupata da foto di Newt in compagnia dei suoi amici - in particolar modo, di lui insieme a Minho e Teresa, ma a Thomas non era di certo passata inosservata una sua fotografia con Alby - o di semplici paesaggi, per lo più nordici. 
Si ripromise di domandargli se avesse in programma di viaggiare in futuro.
La seconda cosa che aveva irrimediabilmente attirato l'attenzione del moro era stata la libreria. Una grande libreria, estesa per gran parte della parete antistante al letto, piena zeppa di libri.
Si avvicinò e notò che ve ne erano di qualunque genere: dai classici, ai gialli, ai filosofici, agli scientifici. Era sbalorditiva una varietà simile, tanto quanto l'idea che l'amico li avesse letti tutti o, comunque, la maggior parte.
Nel frattempo Newton aveva tirato fuori una grande scatola bordeaux da sotto il letto che si era rivelata contenere quel cavalletto che a Thomas da piccolo era sembrato fin troppo alto per dei bambini come loro, ma che adesso appariva addirittura un tantino basso. 
Il biondino lo montò con gesti meccanici, come se avesse ripetuto lo stesso ed identico processo così tante volte da averlo ormai stampato in mente ed impresso nei polpastrelli: sistemò con accuratezza una tela bianca, poi spremette qualche tubetto di colore - nero, rosso, blu e giallo - sulla vecchia e macchiata tavolozza e pose accanto a sé il barattolo in vetro che conteneva i pennelli dalle setole pulite e lucenti. Ricordava con quanta cura li lavasse dopo averli utilizzati con uno shampoo particolare che Madison gli aveva regalato. Lei, a differenza del signor Richardson, aveva sempre incoraggiato la passione del figlio, adorando la maniera in cui la sua vena artistica si palesava nel corso della giornata: perché non vi era un giorno che Newt trascorresse con le mani in mano.
Afferrò un pennello piccolo - l'attenzione che dedicava ai particolari non era mai stata un segreto; probabilmente era la caratteristica più interessante del suo tratto, così delicato e preciso - e lo intinse nel blu - Thomas ci avrebbe giurato.
Sebbene tutto in quella situazione promettesse bene - la postura del corpo del biondo, il capo leggermente inclinato che ricordava Newton avesse solo quando rifletteva sul soggetto da rappresentare -, vi erano delle differenze che non poté fare a meno di notare.
La verità era che al moro era sempre piaciuto osservare l'amico dedicarsi alla sua più grande passione: gli sarebbe stato impossibile staccargli gli occhi di dosso, era semplicemente intrigante.
Un piacere per la vista, tanto risultava ammaliante; ogni suo movimento era armonioso, si sposava con quello precedente e quello successivo come in una danza leggiadra ed ipnotizzante.
Perciò fu piuttosto semplice identificare lo sguardo tormentato - no, era letteralmente oppresso, come se fosse stato imprigionato in una gabbia - del ragazzo, l'insicurezza con cui stringeva il pennello tra le dita, emozione che non gli era mai appartenuta quando si trattava di arte, della sua arte.
Tracciò una semplice linea orizzontale poco sotto metà della tela, poi si bloccò. Provò nuovamente; tracciò un'altra linea, stavolta ondulata. Allontanò bruscamente il pennello dalla superficie ormai irrimediabilmente tinta e lo gettò sulla tavolozza con un sospiro frustrato. 
« Non posso. » Boccheggiò un paio di volte, Thomas ebbe quasi l'impressione che stesse per soffocare, tanto sembrava bisognoso d'aria. « Non ci riesco. »
« Qual è il problema? » Si ostinò a continuare il moro. 
« Sento di avere così tanto da esprimere, così tanto, Tommy, non puoi immaginare. » Si massaggiò le palpebre con l'indice e il pollice. « Eppure quando sto finalmente per rappresentare qualcosa, la mia mente si svuota del tutto. Ogni idea svanisce ed io ritorno uno stupido con un pennello in mano. » Gettò un'occhiata malinconica al cavalletto e Thomas sentì come un pugno allo stomaco colpirlo ad un tratto, fu incredibile la violenza con cui percepì la sofferenza di Newt, quasi fosse stata la propria, quasi gli stesse scorrendo nelle vene. 
Era allucinante e destabilizzante, una sensazione tanto potente da consumarlo fin nelle viscere - un mare in tempesta -, affondò nella sua pelle con ferocia e ne prese il possesso come non avesse bisogno di reclamarne la proprietà. Perché le apparteneva incondizionatamente. 
E allora fu tutto naturale.
« Riprova. » Scandì con una serietà che dimostrava di rado. 
« Tommy, è inutil- »
« Riprova, Newt. » Dopo si addolcì. « Per favore. »
Quello lo scandagliò negli occhi per un minuto buono, pareva stesse cercando le spiegazioni a quell'atteggiamento inconsueto nel mare d'oro del ragazzo.
Infine si arrese; scosse la testa con un lieve sorrisetto a tendergli le labbra e prese il pennello fra le dita una seconda volta e lo intinse nel colore, scaricandolo subito dopo quanto necessario sul legno della tavolozza.
Ma prima che potesse poggiare la setola macchiata di blu sulla tela, Thomas fu dietro di lui. Mise la propria mano su quella di Newt e strinse.
Il biondino sobbalzò e: « Che cosa stai facendo? » 
« Chiudi gli occhi. »
« Starai scherzando, spero. »
« Chiudi gli occhi, testa di caspio. » 
L'amico ridacchiò. « Non se ne parla. Qualsiasi cosa tu stia pensando, non funzionerà. » Per tutta risposta, il moro intensificò la presa sulla sua mano. « L'unica testa di caspio qui sei tu, se pensi che ci sia ancora speranza. » 
Il ragazzo sbuffò; possibile che dovesse essere così ostinato?! « Ti piace ancora il gelato alla vaniglia? »
« Che cosa?! » Newt si voltò e i loro visi si ritrovarono più vicini di quanto entrambi si aspettassero. In ogni caso, Thomas avrebbe negato fino alla morte di aver abbassato lo sguardo sulle labbra rosa e sottili del biondo e di aver deglutito un fastidioso pensiero che gli suggeriva di avvicinarsi ulteriormente. Perché chiaramente non lo aveva fatto. « Sì, è il mio preferito. » Aggiunse, ma la sua voce era quasi un sussurro, perfino l'accento inglese si era ammorbidito.
« Bene. » Sentenziò Thomas, anch'egli senza alzare il tono - più che altro non pensava ne sarebbe stato capace, vista e considerata quella vicinanza. Non capiva proprio perché il suo corpo si fosse irrigidito a tal punto e come potesse fremere allo stesso tempo; non aveva mai provato una sensazione del genere. « Adesso facciamo a modo mio. Se non otterremo alcun risultato, ti comprerò due vaschette di gelato alla vaniglia. »
« Quattro. »
« Tre. »
« Affare fatto. » Si girò borbottando qualcosa sul fatto che tanto non aveva nulla da perdere e che il moro avrebbe solamente speso soldi.
"Soldi tuoi, problemi tuoi, io voglio solo il gelato." Thomas era scoppiato a ridere e, in quel preciso momento, si era accorto di avere parte del petto a contatto con la schiena di Newt. 
Quando si era avvicinato così tanto?
« Ho chiuso gli occhi, Tommy. Ti sbrighi o dobbiamo stare qui tutta la dannata giornata? »
« Zitto e concentrati. » Prese un bel respiro e raccolse le idee rapidamente. « Allora ispira ed espira lentamente. » 
« Vuoi ipnotizzarmi? No, perché lo sai che ho una cacchio di paura per queste cos- »
« La smetti? » Thomas gonfiò le guance e fu grato che Newt non potesse vederlo in quel momento. « Il patto non vale niente se non mi ascolti. »
« Okay, okay. Solo per il gelato. » 
Sorrise quando lo sentì inspirare ed espirare adagio, proprio come gli aveva detto di fare. « Adesso figura i tuoi sentimenti, riconoscili e non lasciarli scappare da te. » Thomas avvicinò le loro mani alla tela. « Una volta mi hai detto che dipingere per te era uno sfogo; permetti alle tue emozioni di uscire fuori. » Tracciarono un'altra linea, lontana dalle altre due, ma pur sempre in orizzontale.
« Cosa vedi, Newt? »
Lo sentì rabbrividire ed una strana ondata di calore lo attraversò da capo a piedi, stordendolo. 
« C'è un'immagine. » Si umettò le labbra screpolate. « Ma non riesco ad afferrarla. Non ce la faccio, Thomas. » 
« Ce la fai. » Tentò di rassicurarlo lui. « Concentrati. Non c'è posto per l'ansia, Newt. » Udì il suo respiro accelerare e poi rallentare cautamente. 
Non aveva mai notato quanto fosse particolare l'odore di Newt fino a quel momento: gli arrivava alle narici speziato, quasi fosse cannella. Eppure quella nota esclusiva era pressoché nascosta da un profumo più forte, tipicamente da uomo, probabilmente al muschio bianco. Non si capacitò nemmeno di come avesse potuto distinguere le due essenze.
« Cosa vedi? » Domandò di nuovo, quando si riscosse. 
« Un mare di emozioni. » E cominciò a muovere il pennello sulla tela con agilità, sorprendendo lo stesso Thomas, spiazzandolo a tal punto dal lasciarlo senza parole ad osservare i movimenti della sua mano - che continuava ad essere abbracciata dalla propria. 
Non seppe quando Newt sollevò le palpebre, fissando le proprie iridi sul quadro che stava prendendo forma piano piano; non fece caso al proprio braccio che, infine, gli era scivolato lungo il fianco, facilitando il lavoro al biondino, il quale ormai si era isolato nella sua bolla personale; non notò il ticchettio delle lancette dell’orologio che normalmente lo avrebbe infastidito: il suo mondo iniziava con Newt che pasticciava con il bianco e l’azzurro per ottenere nuove sfumature del colore e finiva ugualmente con lui che si asciugava il sudore sulla fronte col braccio.
Thomas, quel giorno, si perse in Newt.
E non se ne pentì nemmeno per un istante.

Il sorriso che gli regalò a quadro ultimato, comunque, fu la cosa più bella che avesse mai visto.

***

« Dov’è la birra? » Domandò Newt, lasciando un bacio sulla guancia a Teresa che aveva aperto la porta ad entrambi e sorpassandola per raggiungere Minho senza troppe cerimonie.
La ragazza rivolse a Thomas uno sguardo interrogativo e lui fece spallucce, non sapendo cosa risponderle; la verità era che probabilmente conosceva bene il motivo per il quale il biondino si era nuovamente rabbuiato nei suoi pensieri.
Lei era bellissima come sempre: aveva stirato i capelli neri e voluminosi, che ora le ricadevano lisci sulle spalle, ed indossava un maglioncino azzurro che risaltava ulteriormente il colore intenso e sbalorditivo dei suoi occhi.
In ogni caso, non godette a pieno di quella celestiale visione, poiché la sua mente era occupata dagli occhi di un’altra persona, delle iridi totalmente diverse, scure e profonde.
Non che fosse successo poi chissà cosa: Newton, un grosso sorriso stampato sul volto, aveva in pratica trascinato Thomas al supermercato più vicino a casa sua per comprare ugualmente il gelato alla vaniglia. Ne avevano preso quattro vaschette perché il biondo aveva messo su il broncio e l’amico davvero non ce la faceva a smontare i suoi desideri, non quando era così felice. Avevano comprato anche delle patatine e dei biscotti di pastafrolla con le gocce di cioccolato per quella sera e, quando alla fine Thomas aveva insistito per dividere il prezzo totale, Newt gli aveva riservato uno sguardo truce da far accapponare la pelle, ma lo aveva lasciato vincere.
Il fatto era che quando erano tornati a casa del ragazzo, il moro aveva afferrato la vaschetta di gelato che avevano deciso di mangiare ed era corso via, con un cucchiaino in mano e l’altro che lo seguiva ad un passo da lui.
Poi tutto gli era sfuggito dalle mani.

***

Pochi minuti prima…

« Tommy se ti azzardi a mangiare il mio gelato da solo, giuro che ti faccio ingoiare anche il cucchiaio. » Lo minacciò e lui rise forte, così forte che gli occhi gli diventarono lucidi.
« Tommy!» Lo chiamò di nuovo, mentre Thomas stava cercando un posto sicuro in cui nascondersi per qualche minuto.
Peccato che Newt conoscesse ovviamente meglio dell’amico casa propria e lo sorprese alle spalle, gettandosi con uno scatto felino sopra di lui.
Caddero ridicolmente a terra, simili più a due sacchi di patate che a delle persone, tant’è che loro stessi non poterono fare a meno di scoppiare a ridere.
« Ti ho preso! » Esclamò vittorioso Newton, sorridendo sornione.
« Potresti alzarti? Pesi. » Già, perché il biondo era letteralmente spalmato sulla schiena di Thomas, il quale era bloccato tra il pavimento e il corpo dell’altro.
Fece per prendergli il gelato dalle mani – non ci aveva pensato a mollare il tanto ambito bottino! -, eppure si ritrovò ad osservare l’amico ritirare il braccio, come scottato.
Avevano preso entrambi la scossa.
E fu inverosimile rivivere ogni contatto fisico che i due si erano concessi in quei giorni, a partire dal momento in cui si era incontrati dopo nove anni; un unico flash attraversò la mente di Thomas e non c’era istante in cui lui non fosse presente: Newt che gli prendeva la mano e gli prometteva di aiutarlo, Newt che gli dava una gomitata scherzosa, Newt che lo sfiorava per sbaglio, Newt che si lasciava guidare dalla sua mano quel pomeriggio stesso, Newt sopra di lui.
Poi, quasi lo avesse letto nel pensiero, il biondo si mise in piedi ad.un tratto e si schiarì la voce, mentre Thomas aggrottava le sopracciglia e lo imitava: si sentiva come se fosse appena stato investito da un treno.
C’era questa energia che – non riusciva a spiegarselo -, quando le loro pelli entravano in contatto, era incredibilmente potente.   
Ed il non sapere se avesse dovuto averne timore, lo spaventava anche di più.

***
 
Presente
 
Quell’elettricità statica fra di loro, quella scossa aveva ridestato entrambi, ma allo stesso tempo aveva fatto in modo che si creasse un’asfissiante atmosfera di imbarazzo che gli  fece consumare il gelato tanto desiderato in silenzio.
Teresa si chiuse la porta alle spalle e gli passò un braccio intorno alle spalle, poi lo guidò in direzione della cucina che era collegata ad un vasto salone arredato da un chilometrico divano grigio ed un televisore immenso.
Thomas sgranò gli occhi perché era veramente fantastico.
« Minho è schifosamente ricco. »
« Ti ho sentito bella bionda. » Ribattè l’asiatico mentre armeggiava con uno shaker in alluminio. Il ripiano in granito era pieno zeppo di frutta – tantissime arance spremute facevano bella vista di sé -, ghiaccio, alcolici e stuzzichini di ogni tipo.
Newt era seduto di fronte all’asiatico e stava sorseggiando la sua tanto agognata birra, mentre osservava l’amico spostare il frullatore per fare spazio ad un bicchiere in vetro.
« Non sono bionda. » Si oppose la ragazza, accigliata.
« Dettagli, bambolina. »
« Ti spacco la faccia, Minho. » Sibilò il biondino, lanciandogli uno sguardo truce.
« E chi te la tocca, la tua Teresina. » L’asiatico si lasciò andare ad una smorfia sarcastica; nel frattempo, Teresa sospirò rassegnata – e forse anche abituata a quelle scene – e spinse Thomas ad avvicinarsi con quale colpetto sulla schiena. « Piuttosto, prova questo, brontolone. » E gli passò un cocktail dal colore rossastro e vagamente invitante.
« Minho adora provare sempre nuove combinazioni di gusti e Newt è praticamente dipendente dai suoi cocktail, perciò…gli fa da cavia. » Gli spiegò con premura la ragazza dagli occhi azzurri.
« E’ pazzesco. » Sentenziò quello, dopo averlo sorseggiato avidamente.
« Questo è il mio ragazzo! » Applaudì Minho, soddisfatto. Poi riempì altri due bicchieri e li offrì a Teresa e Thomas.
« Cos’è questo retrogusto acidulo? » Chiese lei, dopo averne bevuto un sorso.
Il ragazzo fece scoccare la lingua sul palato, deliziato dalla domanda. « Ribes rossi. Non sai quanto ci ho messo a trovarli, li cercavo da una vita. »
« Geniale, amico. » Newt e Minho si batterono il pugno e Thomas ridacchiò, prima di ingoiare un altro po’ di quella bevanda rinfrescante. Doveva ammettere che era davvero buona.
« La chiameremo ‘Bloody’, in onore di Newt. » Se ne uscì Teresa suscitando le risate ilari degli altri due ragazzi. Nel frattempo il biondino li osservò circospetto ed inarcò un sopracciglio.
« Con questo cosa vorresti dire? »
« Nulla, nulla. Assolutamente nulla. » Newt ne bevve un altro bicchiere tutto in un sorso, raggiunse la ragazza -  la quale aveva provato a scappare da lui senza successo – e cominciò a farle il solletico senza pietà.
« Sono felice che tu sia venuto questa sera, Thomas. » Il moro distolse l’attenzione dalla scena divertente e puntò i propri occhi su Minho.
« Felice che tu mi abbia invitato. » Ribadì con un cenno di ringraziamento.
L’asiatico fece spallucce. « Sei simpatico. Teresa ti adora e Newt è più felice da quando ci sei tu. »
Per poco non si affogò o sputò la il cocktail. « Ma-ma-ma…ma che cosa stai dicendo? » Balbettò come un ragazzetto timido di seconda media.
« Sì. » Continuò l’asiatico tranquillo, mentre grattugiava la buccia verde di un lime all’interno del frullatore. « Gli ha fatto bene ritrovare un vecchio amico. »
Thomas sospirò di sollievo; un vecchio amico, certo, si riferiva all’amicizia che avevano condiviso lui e Newton tempo prima. Perché avrebbe dovuto essere altrimenti?
« Ha fatto bene anche a me. » E non c’era frase più vera che potesse dire. Newt gli aveva fatto bene, Newt tuttora gli faceva bene.
Ormai non era più solo lui a prendersi cura del biondino, erano entrambi che vegliavano sull’altro a vicenda, in un solido rapporto che non avevano mai del tutto lasciato da parte. Perché erano ancora legati.
Perché non si erano mai veramente lasciati.

Quella sera si erano divertiti da matti.
Avevano guardato un film che aveva fatto schifo a tutti e quattro, eppure non era realmente importato a nessuno di loro, visto e considerato che lo avevano interrotto spesso e volentieri con battutine stupide e parodie improvvisate.
Poi c’era Newt che chiedeva a Minho di lanciargli i pop-corn dalla poltrona direttamente in bocca – ed era sbalorditivo, perché era riuscito a prenderne la maggior parte – e Teresa che si lamentava a gran voce quando ne faceva cadere qualcuno che le andava a finire in faccia, dato che si era sdraiata sul divano e aveva sistemato la testa sulle cosce del biondino.
Thomas era sicuro che dovessero essere un po’ brilli quando avevano brindato con i bicchieri colmi di un liquido dall’acceso colore verde foglia, il cocktail che Minho aveva ideato dopo aver saputo che il moro andava pazzo per la menta e che avevano battezzato come ‘Greenbean’ proprio in onore del nuovo arrivato, per suggellarne ufficialmente l’appartenenza al loro gruppo. Era, invece, certo di essere decisamente brillo quando avevano messo su a tutto volume quella canzone dall’accenno tropicale ed avevano improvvisato un balletto hawaiano, con tanto di fianchi e braccia ondeggianti. Mentre doveva senza alcun dubbio essere irrimediabilmente ubriaco nel momento in cui aveva inviato un messaggio a suo padre, per avvertirlo che sarebbe rimasto a dormire da Minho, trattenendosi a stento dal non scrivere qualcosa di sconveniente con Teresa che ridacchiava vicina al suo padiglione auricolare.
Avevano deciso di rimanere tutti a casa dell’asiatico visto che nessuno era nelle condizioni di guidare senza essere coinvolto in un incidente stradale potenzialmente mortale e i genitori di Minho erano partiti per un viaggio in onore del venticinquesimo anniversario di matrimonio. Così si erano sistemati alla bell’è meglio su quel tappeto che – Thomas ci scommetteva – in altre circostanze non sarebbe potuto risultargli più comodo e mormorarono qualche altra frase disconnessa prima di crollare uno dopo l’altro.

« Sei un bravo amico, Tommy. » Strascicò Newt prima che Thomas si abbandonasse inerme tra le braccia di Morfeo con un marcato accento inglese che gli fece salire un brivido lungo la spina dorsale. « Sei proprio un bravo amico. »
Poi si perse nei suoi sogni.








Okay, questo capitolo è la bellezza di 9o60 parole, mi sono superata, penso di non avere
mai pubblicato un capitolo così lungo. 
Che poi probabilmente avrei dovuto chiamarlo "Vanilla ice cream" visto il mezzo di 
corruzione utilizzato da Thomas dal 1953 - ed approvato dagli specialisti!
Alla fine, però, non ho potuto fare a meno di prendere il prestito parte del lyrics
di una canzone che mi ha letteralmente rapito il cuore questa settimana perché,
bloody hell, era perfetta per loro! (se non avete capito di che brano si tratta
e avete qualche minuto, cliccate
qua). Grazie Major Lazer e anche a te,

Ellie Goulding, che hai una voce pazzesca.
Anyway, i parallelismi fra il primo flash-back e l'intero capitolo non sono frutto
della mia testa bacata - okay che sono rimbambita, ma non fino a questo punto -, 
sono completamente voluti, volevo sottolineare come il rapporto fra Newt e Thomas
non fosse morto con lo scorrere del tempo e, anzi, fosse rimasto intatto. 
Anche se in questo capitolo forse i due baldi giovani cominciano a rendersi conto
che forse fra di loro c'è qualcosa di più, qualcosa che li destabilizza.
Ah...ne vedremo delle belle!
Ho pensato che sarebbe stato piuttosto sensato far studiare 'Neuroscienze' al college 
a Thomas, in quanto - come sappiamo bene -, prima di entrare nel labirinto, aveva 
lavorato parecchi anni alla WCKD, osservando gli altri insieme a Teresa, Aris e Rachel.
A proposito, prometto che nel prossimo capitolo P.O.V. Thomas inserirò una 
telefonata tra lui ed Aris ed un flash-back in cui spiegherò meglio il rapporto tra Rachel 
ed Aris - giusto perché nel libro mi si era spezzato il cuore nel leggere la parte in cui lui
raccontava di aver perso la sua migliore amica, perciò sento di dover dare loro una 
possibilità. 
Comunque non vedevo l'ora di scrivere questo capitolo, lo avevo in mente sin dal momento
in cui avevo cominciato a scrivere il primo capitolo, in particolar modo la scena di Thomas
e Newt di fronte alla tela. Era ora che Newt ritornasse a dipingere!
E Thomas non sa neanche che Newt non è più riuscito a farlo giusto da quando lui si era trasferito!
Glielo dirà mai? Chissà. Forse. Probabilmente sì. Boh.
La parte di Minho che lancia i pop-corn  a Newt è ispirata ad un'intervista che Ki Hong Lee e 
Thomas Brodie-Sangster hanno fatto in Korea e che mi ha fatta piegare in due dalle risate. 
Quei due insieme sono spassosi e non vedo l'ora di vedere The Scorch Trials al cinema.

In ogni caso, ringrazio tutti coloro che l'hanno recensita (avevo letteralmente gli occhi che brillavano
per le recensioni dello scorso capitolo, grazie per avermi dato la possibilità di sapere cosa ne pensate
della storia!), che l'hanno inserita fra le preferite/ricordate/seguite e anche i lettori silenziosi!
Spero che il capitolo sia stato all'altezza delle vostre aspettative, ci tengo molto e spero davvero
che mi farete sapere se vi è piaciuto o no!
A presto! :)




 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5: My inspiration burns like fire ***


Remember how we were, shuckface?



Capitolo 5: My inspiration burns like fire


Cinque giorni prima…

« Su, bimbi belli, alzate i vostri leggiadri culi dal mio tappeto! »
Newt fu sicuro di aver udito Thomas mugugnare infastidito dalla voce squillante dell’asiatico e Teresa masticare qualche insulto pesante rivolto senza alcun dubbio all’amico. Si sistemò meglio su quel cuscino che, dannazione, aveva davvero un profumo sublime. Vi strusciò il naso contro e sorrise quando un’ondata fresca e pungente lo avvolse in un caldo abbraccio. Doveva decisamente chiedere a Minho che ammorbidente utilizzasse sua madre, poi avrebbe chiesto alla sua di lavarci le proprie lenzuola perché avrebbe seriamente potuto drogarsi di quell’odore.
Newt si sentì toccare con un piede e l’idillio nel quale aveva creduto di vivere per una manciata di secondi scomparve in un battibaleno.
« Che. Cazzo. Vuoi. Minho. Lasciami. Dormire. » Sibilò torvo con le palpebre ancora calate sulle iridi, ma non con meno enfasi nella voce.
« Okay, Newtie, allora farò finta di non averti visto strusciarti su Thomas. »
« STRUSCIARMI SU CHI? » Urlò tirandosi a sedere con uno scatto ed un’espressione sconvolta stampata in viso. Ruotò leggermente il capo e verificò da sé che il cuscino sul quale credeva di aver dormito non era altri che il torace di Thomas. Quindi era il moro che aveva quel buon profumo appiccicato addosso, quello stesso ragazzo che stava continuando a ronfare indisturbato.
Newt sgranò gli occhi ed arrossì dalla punta dei piedi fino alla radice dei capelli, mentre Minho si era ormai lasciato andare ad una grossa e grassa risata da un po’ di tempo.
« Ma che merda di problemi avete voi due?! » Proruppe Teresa in tutta la sua finezza femminile di prima mattina, il mascara sbavato sotto gli occhi rossi e gonfi.
« Buongiorno, raggio di sole. Sei splendida, quest’oggi. » Scherzò Minho con teatralità e Newt non poté fare a meno di scoppiare a ridere. In ogni caso, ritornò subito serio, messo in riga da uno sguardo truce della ragazza.
« Ti ammazzo. Giuro che ti ammazzo. » Borbottò minacciosa mentre tentava goffamente di mettersi in piedi.
« Dai, Tess. » Minho prese posto – si stravaccò, in pratica – sul divano e sorrise birichino. « Se prometti di essere meno scontrosa, ti racconto un segreto. »
« Che segreto? » Domandarono lui e la ragazza dai capelli corvini incredibilmente disordinati all’unisono. Nonostante ciò, nell’istante in cui Newt saggiò l’espressione sorniona che Minho aveva rapidamente assunto, seppe precisamente cosa aveva intenzione di svelarle.
« Oh, no. » Si lamentò affondando la faccia in un cuscino – uno vero, stavolta.
« Oh, sì. » Ribattè l’asiatico estremamente divertito da quella situazione e dall’imbarazzo che l’amico stava dimostrando.
« Parla se non vuoi morire. » Lo avvertì Teresa per l’ennesima volta.
« Okay, bambolina. » Newt li stava osservando con un solo occhio e non riuscì a non guardarlo male nel momento in cui lo sentì appellarla con quel soprannome. Lo riprendeva sempre quando faceva il cascamorto con Teresa. « Poco fa sono tornato qua dentro per darvi fastidio e ho sorpreso Newt che tutto contento strusciava il nasino contro la maglietta del nostro Tommy. »
« CHE COOOSA? » Gridò la ragazza sbalordita, voltandosi in direzione del biondino e chiedendogli in silenzio delle spiegazioni.
« Pensavo fosse un cuscino. » Disse in sua discolpa. 
« Quindi ci hai dormito tutta la notte? »
« Tuuutta la notte. » Rispose per lui il castano. 
« E, per la cronaca, com'era questo cuscino? Ha gli addominali, per caso? »
« Teresa! » La rimproverò Newton sollevandosi leggermente da terra facendo leva sul braccio destro. Minho, dal canto suo, aveva ripreso a ridere come se non ci fosse un domani. 
« Che c'è? Sono curiosa! » Si morse il labbro inferiore. « Minho tu ti alleni con lui. Ce li ha questi addominali o no? »
« Secondo te, mi metto ad osservare Thomas negli spogliatoi? » Ribattè il ragazzo riprendendo fiato gradualmente. « Mica sono Newt. » Aggiunse.
Il biondino roteò gli occhi e sbuffò già esasperato da quell'assurdo discorso. « Di nuovo con questa storia?! »
« Quindi mi volete dire che nessuna di voi facce di caspio mi sa dire se Thomas è ben fornito o no?! »
« Definisci "ben fornito", dolcezza. » Si sporse in avanti con la schiena ed avvicinandosi a lei, passandosi in maniera provocatoria la lingua sulle labbra. Newt a volte non riusciva a capire se ci stesse realmente provando con la sua migliore amica. 
Teresa divenne di un colore molto più simile al bordeaux che al rosso fuoco e boccheggiò almeno tre volte prima di riuscire a formulare una frase di senso compiuto. 
« Vaffanculo, Min. » Lo insultò con in viso un sorriso talmente tanto dolce e zuccheroso che a chiunque altro, dall'esterno, sarebbe sembrato che gli stesse rivelando l'immenso amore che provava nei suoi confronti. « Comunque, visto che voi due siete più inutili di Matt Donovan in 'The Vampire Diaries', scoprirò io stessa ciò che voglio sapere. »
« Che significa? » Volle informarsi il biondino, timoroso.
« Chi diavolo è Matt Donovan? » Decise, invece, di voler sapere Minho, il quale doveva aver rivisto le sue priorità. 
Perché, andiamo, a chi non importava di Matt Donovan?!
Teresa li incenerì con una lunga occhiata assassina e gattonò lentamente vicino a Thomas. 
« ODDIO! » Esclamò l'asiatico portandosi entrambe le mani davanti alla bocca. « Vuole stuprare Thomas! »
« Sta' zitto, cretino. » L'amica gli fece cenno di abbassare il tono della voce. « Voglio solo vedere se ha gli addominali. »
Newt soffocò una risata. Non avrebbe mai ammesso quanto, in fondo, fosse curioso anche lui di conoscere quel piccolissimo particolare.
Thomas era magro e slanciato, ma aveva le spalle piuttosto larghe e le braccia muscolose, nonostante ciò non indossava magliette particolarmente aderenti, così era difficile indovinare se avesse realmente allenato i propri muscoli. Senza dimenticare che faceva parte della squadra di atletica ed appesantire eccessivamente il suo fisico non era di certo una mossa intelligente. 
« È violazione della privacy. » Decise di dire quando le dita di Teresa si trovavano ad un passo dalla maglietta nera del ragazzo. 
« Non rompere le palle, Newt. » Lo liquidò lo stesso Minho; persino lui sembrava curioso! « Teresa se non ti sbrighi qui facciamo notte. »
« Ho deciso: ti strangolo quando meno te lo aspetti. » Gli disse quella, vagamente infastidita dalla fretta che le stava mettendo. Avrebbe dovuto stare attenta, non voleva che Thomas si svegliasse e la vedesse intenta a sollevargli la maglietta: l'avrebbe presa per una maniaca e non le avrebbe rivolto più la parola.
« Ti amo, Tess. Lo giuro. » Teresa sorrise amorevolmente a quella improvvisa e scherzosa dichiarazione d'amore proveniente dal suo migliore amico e poggiò i polpastrelli sull'orlo del tessuto.
Ma...« Porca puttana, voi non avete un mal di testa allucinante? » Irruppe il moro nella discussione, con voce ancora impastata dal sonno e le dita che corsero alle palpebre per massaggiarsele cautamente. 
Inutile constatare che Teresa schizzò letteralmente indietro, come se fosse rimbalzata contro una molla, e finì con la schiena a contatto con il divano, sul quale era seduto un Minho sempre più sfinito dalle risate che quei due pive dei suoi amici gli stavano provocando.
Newt era rimasto immobile nell'osservare la scena, inaspettatamente i ricordi della giornata precedente e di pochi minuti prima lo travolsero, facendo radicare delle strane sensazioni lungo tutto il suo corpo. Che cosa gli stava succedendo?
« Bu-buongiorno, Tom! » Esclamò la ragazza scattando in piedi e sorridendo nervosamente. 
« 'Buongiorno' un cazzo. » Scandì bisbetico come non mai. Thomas era sempre gentile ed energico, non si sarebbe aspettato di vederlo in quello stato. Sbloccò il cellulare e poi grugnì con frustrazione. « Sono le nove di mattina, avete dieci secondi per spiegarmi perché non posso dormire. Uno... »
« Voi tre siete impossibili. » Bofonchiò Minho prima di sgambettare in cucina. 
« Tre, quattro... »
« Vi ho gentilmente preparato il mio rimedio post-sbronza, quindi, a meno che non volete assomigliare a degli zombie per almeno due giorni, vi conviene berne almeno un po'. » Teresa si gettò nuovamente sul divano, ignorando le parole dell'asiatico, e spiegò il pile verde petrolio che si trovava sul bracciolo per raggomitolarsi in un caldo bozzolo, chiaro segno che non voleva essere disturbata per minimo un'ora.
Newt - il quale era ancora scompostamente stravaccato sul tappeto, il cuscino contro l'orecchio ed una gamba piegata sotto l'altra, rotolò sulla pancia senza rifletterci molto.
Fatto sta che si trovò ad urtare contro il braccio di Thomas, che abbassò il viso per capire cosa fosse successo e, soprattutto, chi lo avesse disturbato ancora una volta - anche lui, infatti, aveva abbassato le palpebre, volendo palesemente ristorarsi con un'altra dormita. 
Rimase incantato nell'osservare lui e i suoi occhi stanchi; aveva delle leggere occhiaie ed un'aria assonnata che lo facevano sembrare più piccolo, le labbra disidratate ed i capelli sparati in ogni direzione. Quella forse fu la prima volta in cui Newt ammise finalmente a se stesso di trovare Thomas bello.
« Hai gli occhi color whiskey. » Bisbigliò come ipnotizzato e, seriamente, non esisteva cosa più stupida e da rincaspiato che potesse dirgli.
« E tu mi hai lasciato addosso il tuo odore di cannella. » Sentì il suo caldo respiro infrangersi sulla pelle del proprio naso. 
« Penso sia lo shampoo che ho usato ieri. Di solito prendo il primo flacone che capita. » Il moro gli sorrise e Newt stava per ricambiare quando con orrore si rese conto di una cosa. 
'Merdamerdamerda', continuò a ripetersi fra sé e sé. 'Non può essere. Nonono!'
Erano sdraiati sul tappeto di Minho, ad un battito di ciglia l'uno dall'altra, mentre parlavano del suo shampoo come se fosse totalmente normale e naturale e sarebbe anche potuto esserlo, se solo Thomas non avesse saputo che il biondino non si era fatto troppi scrupoli ad utilizzarlo in veste di cuscino quella notte. Diamine, lo sapeva!
E, se lo sapeva, significava che lo aveva lasciato fare perché, evidentemente, il gesto non lo aveva infastidito oppure temeva che Newt se la prendesse, così aveva deciso di patire una notte d'inferno solo per non essere sgarbato con lui.
Rotolò dal lato opposto a quello in cui si trovava il ragazzo suscitandone la risata ilare, visto che doveva sembrare ridicolo, poi prese un bel respirò e si alzò.
Aveva decisamente bisogno del rimedio post-sbronza del suo migliore amico.
Si trascinò in cucina e si abbandonò senza forze su uno degli sgabelli posti vicino alla larga penisola, poggiando il capo sulle braccia conserte. 
Solo in quel momento cominciò ad avvertire un tedioso mal di testa martellare all'altezza delle tempie. Quel 'Greenbean' che Minho aveva ideato la sera prima lo aveva messo K.O., era forse uno dei cocktail più alcolici che si fosse mai permesso il lusso di assaggiare.
« Ecco un 'Good That' per il mio migliore amico. Offre la casa. » Il ragazzo gli fece l'occhiolino e Newt scoppiò sinceramente a ridere, afferrando possessivamente il bicchiere colmo di uno strana bevanda densa color crema accompagnata da due cubetti di ghiaccio ed un baccello di vaniglia. Quelli erano concretamente gli unici due ingredienti che Newt sapeva Minho utilizzasse per ottenere il miscuglio giallognolo. Non gli aveva mai voluto rivelare la ricetta del 'Good That', lo preparava ogni qualvolta si sbronzavano, ma per quanto avesse insistito, gli aveva sempre rifilato la scusa del "è top secret, off limits. Non riuscirai ad estorcermi nulla, nada, nisba".
Così si era convinto del fatto che, in realtà, fosse un intruglio bello e buono, e che conoscere il modo in cui l'amico lo otteneva lo avrebbe disgustato talmente tanto da non poterne sopportare neanche la vista. Quindi si era arreso.
Inoltre, credeva che utilizzasse la vaniglia proprio per quello stesso motivo, sapeva bene che la dolce spezia era il punto debole del biondino. In ogni caso, finché le sue papille gustative trovavano il 'Good That' delizioso a tal punto, non aveva di che lamentarsi, perciò si limitò a berlo senza fare storie.
« Però che peccato che Thomas si sia svegliato. Avrei potuto ricattare Teresa per il resto della sua vita! » Si picchiettò il mento con l'indice e questo voleva dire solo una cosa: Minho stava pensando. E ciò non prometteva nulla di buono, il castano stava probabilmente escogitando uno dei suoi piani malefici.
Di fatti, ghignò in direzione di Newt e, dopo essersi illuminato come un albero di Natale, cadenzò: « Ho avuto un'idea. »

« Teresa ci ammazzerà. » Sussurrò Newt, mentre si accingeva a scendere le scale stando ben attento a non far cadere dell'acqua dal pesante secchio d'acqua.
« È per questo che bagneremo solo Thomas. Lei dovrà solamente fare una doccia per pulirsi dalla schiuma da barba. » Gli rispose sicuro dello scherzo che aveva architettato poco prima. « Quei due pive rimpiangeranno di essere rimasti a dormire. » Si lasciò andare ad una bassa e rauca risata ad effetto, simile a quella dei cattivi nei cartoni animati. Newt si limitò a scuotere la testa; Minho avrebbe puntato anche lui se solo si fosse azzardato a rifiutare di prendere parte alla beffa e, a dirla tutta, adorava aiutare l'amico nei suoi folli piani suicidi.
Si diressero in punta di piedi nel salone e, dopo aver scosso la bomboletta di schiuma da barba, l'asiatico si avvicinò alla ragazza e cominciò a disegnarle ghirigori sul viso e sul collo, insieme ad un immancabile paio di baffi. Nel frattempo, il biondino aveva poggiato il secchio poco lontano da Thomas visto che di lì a poco avrebbe gettato la quantità spropositata di acqua congelata completamente addosso al suo corpo addormentato. Adesso che osservava quell'espressione angelica, i tratti del viso e i muscoli di tutto il corpo rilassati, il respiro basso e regolare quasi gli dispiaceva prendersi gioco di lui in quella maniera. In ogni caso, fu distratto dal rumore di una fotocamera, segno che il suo migliore amico non si era lasciato scappare l'occasione di immortalare quel ridicolo momento.
« Sei una testapuzzona. » Sghignazzò Newt; Minho gli dedicò un sorriso sornione. 
« Così dicono. » Fece spallucce, indifferente. « Adesso è il suo turno. » Aggiunse indicando il moro con un'alzata del mento. 
Newt prese il secchio e - consapevole che, se avesse aspettato ulteriormente, se ne sarebbe pentito - lo svuotò del tutto su Thomas. Prontamente Minho fece partire il suono di una trombetta a tutto volume, svegliando anche Teresa.
« Ma che diavolo…? » Farfugliò il ragazzo con un leggero accento americano, mentre l'amica lo seguiva a ruota dimostrando con un solo unico insulto tutta la femminilità che possedeva.
Quando poi si accorse di essere sporca di schiuma da barba e Thomas fu consapevole di essere fradicio dalla testa ai piedi ed entrambi compresero il motivo per il quale Minho e Newt stavano ridendo così tanto, i due amici si scambiarono uno sguardo intimorito e seppero che era arrivato il momento di dileguarsi.
Non avrebbero avuto vita lunga con una Teresa incazzata sul serio alle calcagna. 
« Newton Randall ti conviene nasconderti bene perché al mio ritorno la pagherai per esserti alleato con quel cerebroleso del tuo amico! » Strillò la ragazza stringendo i pugni e sbattendo violentemente la porta del piccolo bagno a piano terra.
Il biondino sogghignò e si ripromise di tenere gli occhi aperti da allora in poi: ci avrebbe messo la mano sul fuoco che la ragazza si sarebbe vendicata crudelmente.

« Beh… » Bisbigliò più tardi Minho all’orecchio di Teresa, comunque abbastanza forte perché anche Newt potesse ascoltare. « Almeno abbiamo scoperto che, sì, Thomas ha gli addominali. »
Inutile precisare che la ragazza gli mollò un pugno sul braccio.

***

Presente

« Jack quante volte te lo devo dire che quel dannato striscione è storto?! » Urlò in preda all’ennesima crisi di nervi Harriet.
Dal canto loro, Newton e Alby non poterono fare a meno di scoppiare a ridere per la centesima volta quel giorno. « E voi due smettetela di ridere! » Li riprese la ragazza, non facendo altro che intensificare le risate di entrambi. Sospirò rassegnata e si sbracciò nervosamente, dando altre istruzioni a Jack per sistemare bene lo striscione che recitava solennemente: “Trick or Treat?”.
« Secondo te, arriverà viva alla festa di domani? » Gli domandò Alby, mentre intagliava gli occhi della sua zucca.
Newt rispose facendo spallucce. « Penso che non riuscirà comunque a godersi la festa. Si preoccupa di troppe cose, fa una tragedia anche per la più piccola stupidaggine. » Ghignò. « Immagina il putiferio che scatenerà domani quando scoprirà che qualcuno ha corretto il punch. »
« Sai già chi sarà, non è vero? »
Gettò una manciata di polpa arancione nel cestino e poi alzò le mani coperte da un paio di guanti in lattice in segno di resa. « ‘Si dice il peccato, ma non il peccatore.’ » Liquidò la faccenda con quella espressione idiomatica.
Alby scosse la testa rassegnato; probabilmente aveva già compreso chi il biondino stesse coprendo, ma dopotutto non poteva certo smascherare il suo migliore amico.
Minho fremeva letteralmente all’idea di lasciarsi andare a quelle bravate da cattivo ragazzo, nulla lo avrebbe fermato dal versare dell’alcool nel punch.
« Come va la gamba? »
Si fermò dallo scavare l’ortaggio con il coltello e rimase immobile per qualche secondo; Alby era suo amico, sapeva tutto ciò che era accaduto – glielo aveva raccontato per filo e per segno ed aveva fatto un male cane - e spesse volte aveva trovato conforto nel silenzio confortevole che si instaurava tra di loro dopo che si era sfogato con lui. Lo ascoltava; tentava di capirlo; non lo giudicava: a Newt bastava.
Eppure non poteva fare a meno di sentirsi a disagio quando tirava fuori l’argomento.
« Bene. La cura che mi ha prescritto il medico ha funzionato. » Oramai l’aveva terminata, visto e considerato che lo avesse visitato esattamente una settimana prima – lo stesso giorno in cui si erano sbronzati e avevano dormito da Minho, quello in cui non era andato a scuola, ma aveva raggiunto lui, Teresa e Thomas in mensa.
« Stavo pensando…che forse non dovresti aiutare il coach ad allenare i nuovi giocatori. Potresti darmi una mano con altre questioni del comitato studentesco, ti assicuro che un altro paio di maniche mi farebbero comodo. »
Newt inarcò un sopracciglio, adesso vagamente infastidito. « Perché dovrei? »
« Perché non devi sforzare la gamba. E forse per il tuo corpo guidare l’allenamento dei pivelli è troppo. » Il ragazzo lo stava guardando con il volto contratto in un’espressione mortalmente seria, aspetto che non fece che aumentare il malessere del biondo.
La realtà era che quelle parole lo avevano ferito più del dovuto; ci aveva pensato - diamine se ci aveva riflettuto – a quella possibilità, nonostante ciò l’aveva volutamente ignorata, di conseguenza sentire quell’ipotesi tanto scomoda per se stesso divenire vera e consistente, sentirla fuoriuscire dalla bocca di un’altra persona e osservarla acquistare un senso compiuto, fu straziante.
Così fece quello che aveva sempre fatto: nascose la propria sofferenza con la rabbia.
« Anche se fosse – e ti assicuro che non lo è -, non sono affari che ti riguardano. » Svuotò definitivamente la zucca ed abbassò lo sguardo, facendo bene attenzione a non incrociare quello rattristato di Alby.
Era stato ingiusto ed acido e ne era consapevole, però c’erano dei limiti che sentiva gli altri non avrebbero dovuto superare in sua compagnia; aveva un carattere difficile, Newt era tutto da prendere o da lasciare, non c’erano mezzi termini con lui.
In ogni caso, la sua gamba era una questione di cui non riusciva a discutere decentemente con nessuno o quasi.
Con Minho finiva inevitabilmente per litigare (“Non sopporto quando fingi di non provare alcun tipo di emozione. Ѐ chiaro che ci stai male.”, “Ed ecco a voi ‘l’apatico Newt’, signore e signori.”, “Fottiti, testapuzzona.”), sua madre non la sopportava proprio visto che cominciava a psicoanalizzarlo credendo – sperando – che lui non ci facesse caso, suo padre non ne parlava e basta.
L’unica con cui riusciva ad avere una conversazione civile era Teresa: spesso e volentieri – a parte nei giorni scolastici, come l’ultima volta – lo accompagnava alle visite; gli teneva la mano e regalava sorrisi incoraggianti per tutta la loro durata e Newt si sentiva a tal punto confortato dalla presenza della ragazza che, anche se non glielo aveva mai confessato, desiderava potesse fargli compagnia in circostanze del genere.
« Mi dispiace, Newt. »
« Sì. » Sospirò. « Lo so. » Disse prima di sistemare meglio la sua zucca sul tavolo, sfilarsi i guanti in lattice ed allontanarsi dalla postazione, lasciando che fosse Alby a terminare di intagliarla.

Uscì rapidamente dalla vasta palestra con l’intento di dirigersi nei bagni per lavarsi le mani, ma notò due ragazze guardarsi intorno con aria smarrita e decise di raggiungerle per chiedere se avessero bisogno di informazioni.
Solo quando si avvicinò ulteriormente le riconobbe: si trattava di Brenda e Sonya.
« Oh, grazie al cielo…Link! » Esclamò Brenda, la quale dall’anno precedente non aveva fatto altro che riservargli quel buffo soprannome.
« Cosa ci fate qui? » Sonya lo abbracciò affettuosamente e prima di separarsi da lui, gli lasciò un lungo bacio sulla guancia. Newt sorrise e le circondò i fianchi con un braccio, lei per tutta risposta rimase vicina al corpo del biondino.
« Siete disgustosi. » Sputò l’altra ragazza con una smorfia schifata sul viso. Scosse la testa, come a far scomparire quella visuale dalla sua mente, e riprese la parola. « Eravamo passate per vedere se quell’idiota del tuo amico era qui. Ma, a quanto pare, ci sei solo tu. »
« Minho? » Quella annuì. « Dovevi dirgli qualcosa di importante? »
« No. Solo dargli questa. » Brenda ghignò beffarda, mentre tirava fuori dalla borsa una parrucca verde, gli occhi animati da un luccichio malefico. « Gli servirà per domani. »
Newton scoppiò a ridere rumorosamente. « Che scommessa ha perso, stavolta? »
« Abbiamo scommesso su voi due, a dire la verità. »
Newt e Sonya si scambiarono uno sguardo confuso, ricco di domande.
« Che cosa? » Sibilò l’amica. « Brenda, non puoi averlo fatto davvero. »
« Non è con me che devi prendertela. » Sollevò le braccia, mostrando loro i palmi delle mani, come a dichiararsi innocente. « Io ero convinta che Link ti invitasse al ballo di Halloween. Minho pensava che non ti saresti dato una mossa, invece. »
« Ah, sì? » Il biondino inarcò un sopracciglio. « Dannato bastardo. Dammi questa parrucca. Preparati a ricevere una montagna di foto. »
« Sonya, amica mia, ti ho già detto quanto adoro questo ragazzo? » Lei sorrise imbarazzata ed arrossì leggermente; gli angoli della bocca di Newt si piegarono istantaneamente verso l’alto, intenerito dalla situazione. Fu del tutto naturale ruotare il capo e poggiare le labbra sulla sua tempia.
Brenda aprì la bocca e ne indicò l’interno con l’indice, ad indicargli quanto le facessero venire voglia di vomitare, tanto erano ‘da diabete’. Poi gli passò la parrucca ed insieme si incamminarono in direzione dell’armadietto del ragazzo, dove avrebbe potuto riporla nel frattempo, visto e considerato che sarebbe rimasto a scuola ad aiutare per almeno un’altra ora e mezza. Gli fece anche promettere di trascrivere testualmente le parole che Minho avrebbe pronunciato nel momento in cui gliel’avrebbe consegnata e di inviargliele perché amava davvero rendere miserabile la vita dell’asiatico.
Dopo qualche minuto, si allontanò per rispondere ad una chiamata e lui e Sonya rimasero da soli, ancora stretti in quel mezzo abbraccio. Sin da quando l’aveva conosciuta, qualche mese prima, quella ragazza gli era piaciuta tantissimo: nonostante il suo aspetto dolce e delicato, era dotata di una forza straordinaria che lo aveva subito incuriosito ed interessato. Sonya era bella, intelligente e gentile.
Agli occhi di Newt brillava di luce propria e sarebbe stato da veri stupidi lasciarsi scappare una ragazza del genere.
« Come va? » Gli chiese, premurosa. « Sembri nervoso. »
Fu probabilmente allora che il biondo si rese conto del leggero tremolio delle sue gambe, probabilmente dovuto alla discussione che aveva avuto poco prima con Alby. Ma, a braccetto con quel ricordo, lo investì la consapevolezza di quanto Sonya fosse riuscita a tranquillizzarlo senza neanche accorgersene, cullandolo col suo tenue profumo di zucchero a velo. Le accarezzò il braccio con i polpastrelli delle dita, camminando ritmicamente su e giù sulla sua pelle fasciata da un maglioncino bianco panna.
« Ѐ tutto okay. » La guardò negli occhi, dritto nelle iridi verdi e si sporse gradualmente in avanti, saggiando la sua espressione per scorgere qualsiasi eventuale segno di disturbo.
L’avrebbe baciata sul serio, se solo Brenda non fosse tornata indietro, armeggiando col cellulare ancora rigorosamente stretto tra le mani, inconsapevole del momento che aveva appena interrotto.
Newt e Sonya si allontanarono l’uno dall’altra in un battibaleno, quasi negando l’intima vicinanza che stavano condividendo fino ad un secondo prima.
« Il lavoro mi reclama. Sonya tu che fai? Vieni con me? » Le domandò.
« S-sì! » Il ragazzo si lasciò andare ad un sospirò di sollievo; sarebbe stato oltremodo imbarazzante starle accanto dopo il oro quasi-bacio, perciò si scoprì a ringraziarla mentalmente per la decisione presa. « Ci vediamo domani, Newt! »
Lo salutò con un cenno della mano, poi afferrò il polso di Brenda – la quale non poteva are a meno di fissarli sconcertata – e la trascinò lungo il corridoio.
Newt le seguì con gli occhi finché non scomparvero dietro l’angolo.

***

Newt, nonostante la musica ad alto volume che proveniva dalle casse collegate al portatile - le aveva comprate al mercatino dell'usato e messe totalmente a nuovo, funzionavano perfettamente ed i bassi erano potenti ed evidenti proprio come piaceva a lui -, udì la porta di camera sua cigolare.
« Mamma, non dipingerò quel cacchio di prato fiorito. Puoi scordartelo. » Quando sua madre aveva scoperto che il figlio aveva nuovamente cominciato a dedicarsi al suo astro artistico, non aveva perso tempo ad avanzare richieste su quadri con cui le avrebbe desiderato abbellire la casa. Peccato che le sue idee non avessero allettato il biondino per nulla, portandolo a contrarre il volto in smorfie contrariate più di una volta, mentre la donna si perdeva nell’elenco delle gradazioni di colore che l’allettavano maggiormente o che si intonavano al divano del salone.
Così adesso, quando tornava a casa e lo scopriva intento a dipingere o disegnare, non perdeva l'occasione per insistere su quanto le sarebbe piaciuta una replica del 'Bacio' di Klimt in camera da letto o del 'Prato in fiore' di Adelio Bonacina - che, tra l'altro, aveva trovato con Google Immagini. 
« Da quando TU dipingi? »
Newt si congelò sul posto, il pennello a mezz'aria, le sopracciglia corrugate.
Quella decisamente non era sua madre.
Teresa lo stava fissando palesemente scioccata, la bocca rosa spalancata e gli occhi azzurri sgranati. Dietro di lei un Minho altrettanto confuso alternava lo sguardo da lei al biondino, tutto sotto gli occhi ambrati di Thomas. Occhi in cui Newt non poté fare a meno di perdersi, perché alla fine era tutto merito suo se aveva ricominciato a fare ciò che più amava.
Poi il fatto che i suoi migliori amici non ne fossero a conoscenza era un altro discorso, un discorso che avrebbe preferito non trattare, in particolare in presenza del bruno.
La ragazza e l'asiatico passarono in rassegna tutti i lavori che la sua mente improvvisamente carica di ispirazione aveva partorito nel corso di quella settimana.
Era stato molto impegnato sia con gli allenamenti dei pivelli che con l'organizzazione della festa di Halloween in compagnia dei membri del comitato studentesco, così si era dovuto arrangiare, arrivando a dipingere e disegnare ad orari improponibili, come l'una e mezza di notte o le cinque di mattina. Il problema era che sentiva letteralmente le mani prudere dalla voglia di stringere una matita o un pennello o un carboncino. O semplicemente una penna a sfera. 
Non poteva farne a meno.
Era come se quel giorno, nella sua stanza, mentre il petto di Tommy aderiva perfettamente alla sua schiena, fosse andata in mille pezzi una diga. La violenza del fiume di emozioni che lo travolgevano di minuto in minuto e la sua abbondante portata non potevano di certo essere ignorati. 
Così la sua stanza era diventata un incredibile ed assoluto casino. 
Fotografie, fogli e quadri erano sparsi dappertutto - sulla moquette, sulla scrivania, appesi al muro con il generoso aiuto di un’abbondante quantità di scotch di carta -, bottiglie di colori a tempera e ad olio erano impilate sulla libreria, già vuote per metà seppur le avesse comprate qualche giorno prima, insieme ad un nuovo album da disegno ed uno spropositato numero di tele di ogni grandezza.
« Sei bravissimo. » Sussurrò Teresa, ancora incredula. 
Poi si voltò verso di lui rapidamente, una mano sul fianco destro e l'altra a stringere un paio di depliant. « Quindi, non solo non ci hai detto che sei un artista, ma ci hai anche nascosto di voler frequentare il college?! » Lesse di nuovo i nomi delle due università. « Yale e Oxford. Wow. »
« Amico, sei uscito fuori di testa? » Sbottò stralunato Minho. « Yale fa parte della Ivy League, hai presente? Roba per secchioni. »
Si pulì le mani utilizzando un vecchio straccio che aveva trovato tra le sue vecchie cianfrusaglie. « Ha uno dei migliori programmi di arti figurative. »
« E da quando ti importa? »
« Da sempre. » Newt stesso avrebbe creduto che quelle due parole fossero uscite dalla propria bocca, se solo Thomas non si fosse spostato al suo fianco, le spalle dritte, il petto in fuori. « Mentre io giocavo con i lego, Newt cercava di disegnare un cesto di frutta. »
Grugnì, infastidito. « Odio le nature morte. »
« Sei un pessimo bugiardo. » Rise Thomas, rivolgendogli un breve sguardo, compiaciuto dal falso broncio del ragazzo, il labbro inferiore che sporgeva leggermente rispetto a quello superiore.
« Non ti sopporto, Tommy. » E quel dialogo era così simile alle discussioni che erano abituati ad avere da piccoli che entrambe le loro memorie furono stuzzicate; furono catapultati a parecchi anni prima, quando Newton era ancora un bambino basso e mingherlino che roteava gli occhi ogni qualvolta Thomas gli saltellava intorno, dispensando felicità a destra e a manca, un ottimismo che non era stato capace di trarre dall’instancabile amico.
« Quindi… » Cominciò Teresa, l’indice e il pollice a massaggiare il mento, in una posa riflessiva. « …vediamo se ho capito bene. Tu dipingi sin da quanto eri piccolo. Ma ti conosco da – quanto? Cinque anni? – e questa è la prima volta che ti vedo con un pennello in mano. »
Il biondo si schiarì la gola. « Diciamo che…non ho dipinto per un bel po’ di tempo. » Sentenziò sperando che i suoi migliori amici avrebbero lasciato perdere l’argomento, sorridendogli e magari dandogli una mano nella scelta del college.
Perché non è che Newt non volesse frequentarlo: era per la maggiore una decisione votata ad infastidire suo padre, ma anche dettata dal fatto che le sue due più grandi passioni – la corsa e l’arte – gli erano state strappate via in circostanze differenti.
Ma adesso che pareva essersi ripreso, non aspettava altro che imparare e testare nuove tecniche di pittura, di rappresentare nuovi soggetti e migliorare il suo tratto.
« Per quanto? »
« Nove anni. » E fu inevitabile guardare Thomas, il quale si girò di scatto nella sua direzione, osservandolo con i suoi intensi occhi ambrati sgranati, colmi dello sconvolgimento che quella notizia gli aveva provocato.
Perché Tommy aveva capito, lui capiva sempre. Aveva compreso che Newt aveva smarrito il suo lato artistico dopo che aveva perso il suo migliore amico, la sua ispirazione. E adesso era tornato e tutto sembrava stare finalmente andando per il verso giusto, la sua ispirazione era nuovamente lì accanto a lui ed ogni cosa pareva aver trovato il suo posto, ogni pezzo aveva percorso la via giusta per incastrarsi con il suo corrispondente.
Newt sapeva che con ogni probabilità c’era qualcosa di strano, di destabilizzante nei sentimenti che Thomas riaccendeva con una semplicità disarmante in lui, in fondo sentiva che quello che provava nei suoi confronti era diverso, in un angolo recondito del suo cervello una lenta e ripetuta litania gli supplicava di lasciarlo andare perché ne era spaventata.
Eppure reprimeva quei sussurri, nascondeva tali sensazioni con la scusa che la propria fantasia a volte viaggiasse eccessivamente, che l’amicizia che condivideva con Tommy era a tal punto profonda solo perché si conoscevano sin da quando avevano sei anni ciascuno. Che aveva smesso di dipingere e disegnare alla sua partenza perché distrutto dalla partenza di suo fratello, l’unico amico di un bambino troppo solo.
Relegava l’intensità dei loro sguardi, dei loro tocchi, delle loro parole a superflui motivi di secondo piano, innocue ragioni facili da gestire, le quali non sarebbero potute in alcun caso sfuggire al proprio controllo.
« Bene, allora deve essere un segno del destino. » Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto dal tono di voce entusiasta della ragazza dai grandi occhi azzurri, la quale stava stringendo un tubetto di colore nero in una mano ed un pennello nell’altra.
Newton inclinò il capo a sinistra, domandandole tacitamente cosa intendesse.
« Domani è Halloween, no? » Annuì. « Volevo imparare il face painting- »
« Ovviamente la sera prima della festa. Che sarà mai? Un gioco da ragazzi! »
« Sta’ zitto, Minho. » Lo apostrofò la ragazza, rifilandogli una gomitata nello stomaco alla quale Thomas scoppiò a ridere di gusto. « Ma visto che sei così bravo, che ne dici di provare tu? »

Sostanzialmente, Teresa aveva deciso di travestirsi da scheletro.
Di conseguenza, il trucco che la ragazza gli aveva mostrato si era rivelato il più semplice del previsto da realizzare.
Così, in quel momento, si ritrovava ad ascoltare le lodi della sua migliore amica, la quale, nel frattempo, stava ammirando il viso di Thomas con gli occhi scintillanti.
Già, il viso di Thomas. Adducendo come motivo la scusa che utilizzasse prodotti anallergici e che, nonostante le avessero assicurato più di una volta che i colori non le avrebbero provocato alcun tipo di irritazione alla pelle, preferiva provarne quella stessa notte una piccola quantità sulla mano, onde evitare una terribile reazione allergica; ammaliando entrambi Thomas e Newt con la sua espressione da cucciolo bastonato; ripetendo al moretto che, in quanto suo accompagnatore alla festa che si sarebbe svolta l’indomani, aveva il dovere di concederle quel genere di favori al fine di renderla felice; dicendo che volesse imparare come il biondino procedesse nel dipingere la pelle del ragazzo…insomma, alla fine si erano dovuti arrendere al suo volere.
In ogni caso, sembrava abbastanza soddisfatta del risultato, talmente tanto che permise a Thomas di rifugiarsi in bagno per pulirsi il viso da quel miscuglio di bianco e nero.
« Minho, a proposito di Halloween! » Si ricordò Newt aprendosi in un sorriso birichino, fremendo letteralmente dalla voglia di vedere che faccia avrebbe fatto il suo migliore amico. « Ѐ passata Brenda e mi ha detto di darti questa. » Frugò nel suo zaino e ne tirò fuori la parrucca verde, alla cui vista Teresa scoppiò a ridere.
« Quella traditrice! Le avevo detto di lasciarla nella cassetta della posta di casa mia! »
Rise anche lui, prima di uscire dalla propria stanza ed andare a controllare se Tommy avesse bisogno di un asciugamano, lasciando l’asiatico e la ragazza dai capelli corvini a litigare scherzosamente come usualmente.
Però ciò che vide lo fece bloccare sulla soglia della porta del bagno e sorridere intenerito: davanti al lavello, non vi era altri che Thomas, il quale, adorabilmente imbronciato, stava invano tentando di smacchiare la pelle con un po’ di carta igienica inumidita d’acqua.
« Non verrà mai via in questa maniera. » Lo informò facendosi avanti e dirigendosi verso l’armadietto in cui sapeva avrebbe trovato dei prodotti struccanti appartenenti a sua madre e dei batuffoli di cotone.
« Grazie per l’informazione. » Borbottò scorbutico il ragazzo, appallottolando la carta e gettandola sulla superficie in ceramica.
Newt afferrò tutto l’occorrente e imbevette il cotone di uno strano liquido celestino, poi incitò l’amico a voltarsi con un cenno del capo e posò una mano sulla sua mascella, per tenerne fermo il capo, mentre cominciava a pulire il suo volto.
Thomas sembrò inizialmente sul punto di dire qualcosa, forse di opporsi, ma dovette ripensarci visto che sospirò sommessamente e rilassò le spalle, lasciandosi andare alle cure del biondino.
Passò delicatamente il cotone sulla fronte, intorno agli occhi – quegli occhi ambrati sempre così dannatamente vivi -  e sulle guance, passando poi al naso e successivamente alle labbra. Quelle labbra così piene e carnose che fu costretto a sfiorare più e più volte, tentando di ostentare noncuranza, ma finendo per sentire affluire il sangue all’altezza delle gote.
Si rese effettivamente conto di quanto fossero vicini nell’istante in cui le punte dei loro nasi si toccarono e la consapevolezza che i loro respiri fossero divenuti uno solo si scontrò brutalmente contro il suo corpo, facendolo riflettere su quanto quella situazione stesse diventando bizzarra.
Anche quando gli aveva dipinto la faccia erano stati a quella distanza, il ragazzo non l’aveva quasi notata tanto era concentrato in ciò che stava facendo, impegnato a dipingerne i tratti con clinica attenzione.
Eppure allora pareva così diverso, con il battito del suo cuore che gli rimbombava nelle orecchie e lo sguardo di Thomas su di sé che pareva ardere.


E poi lo baciò.








Mi dispiace, mi dispiace tantissimo per l'enorme ritardo con 
cui ho pubblicato questo capitolo - il quale, tra l'altro non 
mi fa nemmeno impazzire. 
Una serie di motivi, tra i quali anche il fatto che le parole
sembravano proprio non voler uscire e questo capitolo
prendere forma, mi hanno portata a non poterlo
postare. 
In ogni caso, spero di postare il prossimo capitolo tra qualche
giorno, l'idea sarebbe quella di scriverlo prima di una settimana,
ma non prometto nulla!
Ringrazio immensamente tutti coloro che hanno speso parte
del loro tempo a leggere questa storia, le meravigliose persone
che l'hanno recensita ed inserita tra le seguite/preferite/ricordate. 
Grazie!
Ah e...si sono baciati!
Ihihihihi
A presto :)

 

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