La dama del lago

di 1984
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La chiave ***
Capitolo 2: *** Il dubbio ***
Capitolo 3: *** La storia ***
Capitolo 4: *** L'irrazionale incubo di Nimue ***



Capitolo 1
*** La chiave ***


O mio dio. Apro un occhio e guardo la sveglia rossa sul comodino improvvisato: 10.56. E' mattina e qualcosa di peloso mi ha toccato la mano che ora sfiora il pavimento. «Oh mio dio», urlo. Cosa diavolo può essere stato? Mi sporgo a testa in giù e scruto con lo sguardo sotto al letto. «Un gatto! Ma... che diavolo ci fai qui sotto?». Quello mi guarda, tremante. Non mi pare di aver notato niente di strano ieri sera. Poi sento la brezza leggera proveniente dalla finestra aperta. Scendo dal letto e mi sporgo fuori. Le fronde di un'alta quercia toccano praticamente il davanzale della finestra, ed ecco come si spiegherebbe l'entrata del gatto in camera mia. A meno che non ci fosse già da prima, ma escluderei quest'ipotesi a priori. Il gatto porta un collarino rosso con un campanellino d'argento tintinnante, e poi è estremamente pacifico, lo prendo in braccio senza troppa difficoltà e quello inizia a fare le fusa.
Scendo in cucina, dove trovo mia madre intenta a leggere un nuovo libro dalla copertina giallo canarino. «Mamma», dico per attirare la sua attenzione.
«E quello da dove spunta?», dice alludendo al gattone che tengo tra le braccia.
«Era in camera mia».
«In camera tua?», alza un sopracciglio. «Ecco spiegate le urla».
«Già. Si deve essere arrampicato su per l'albero che sfiora la finestra di camera mia», aggiungo.
«Beh, non mi pare un gatto randagio, non è un collarino quello?».
Annuisco e poso il gatto per terra.
«Tuo padre è allergico al pelo di gatto, non farglielo vedere». Non credo che non facendogli vedere il gatto si risolverà qualcosa.
«Non bisognerà portarlo ai veri proprietari?».
«E tu sai chi sono?», alza lo sguardo.
«No, ma non può essere arrivato da lontano».
«Prova con i vicini, allora», e rincomincia a leggere.
E' un quartiere piccolo e ci sono circa una decina di villette come la nostra. La più vicina ha un grande giardino non curato, dall'aria triste.
«Okay, io vado a vestirmi e se mai i vicini mi uccidessero, sappi che la colpa è tua, ma ti ho voluto bene». Annuisce, assente.
E' inquietante cambiarsi mentre un gatto leggermente sovrappeso ti fissa con i suoi grandi occhi, ma non ho avuto il cuore di chiuderlo in bagno. Una cosa bella è che è facile distrarlo, così lo faccio giocare con uno spaghetto di uno degli scatoloni.
Poi lo prendo in braccio e quello, senza fare troppe storie, si aggrappa con gli artigli al mio vecchio maglione. Non ho mai avuto animali, se escludiamo una lumaca.
La ghiaia della stradina che conduce alla villa affianco alla nostra scricchiola sotto la suola delle mie vecchie scarpe da ginnastica. Man a mano che mi avvicino alla villetta non solo non posso fare a meno di notare quanto appaia trascurato il giardino, ma anche la casa stessa con l'intonaco che si sbriciola e il tetto di un colore indefinito: tra l'azzurro sbiadito e il marrone scuro.
Il gatto sta buono buono per tutto il tragitto. Non ho mai tenuto in braccio un gatto in vita mia, il suo corpo massiccio ma flessuoso è coperto da un pelo fulvo particolarmente luccicante che mi scivola fra le dita. Arrivata davanti al portone di casa, mi faccio coraggio e busso.
Toc, toc.
Nessuna risposta.
Busso di nuovo.
Toc, toc.
Al quarto tentativo sento una  voce acuta provenire dall'interno esclamare: «Cosa succede? Cosa succede?».
Il portone si spalanca cigolando e mi trovo davanti a una vecchia tutta raggrinzita con una tuta rosa addosso che la fa somigliare a un'inquietante essere alieno uscito da chi sa dove.
«Salve», la voce mi tremola un po' così mi faccio coraggio e continuo. «Sono la figlia dei nuovi vicini. Io e i miei genitori ci siamo trasferiti qui ieri sera e... beh, stamattina ho trovato in camera mia quest...»
«Ercole!», esclama la vecchia, strabuzzando gli occhi.
«Ho trovato... Ercole, sì, ecco, e credo che sia suo, no?»
«Ma certo che no! Non mi sognerei mai di tenere un gatto in casa. Hai idea di quanti germi porti l'accumulo di polvere? L'accumulo di polvere causato dai peli di gatto, intendo!».
No, non ne ho la minima idea, e se non si decide a smettere di urlare, il gatto finirà per cadere terra e scappare. «Va bene, sì, portano un sacco di malattie», annuisco per farla zittire. «Ora mi può dire chi è il padrone di questo gatto?».
«Ercole è della signora Gill», dice come se io conoscessi la-signora-Gill. Poi continua: «Abita proprio di fronte a casa mia».
«Va bene, allora grazie mille e arrivederci».
«Guarda che non portano malattie, ma germi!», urla la vecchia mentre mi allontano.
 
Il problema di aver perso così tanto tempo è che ora ho il maglione tutto rovinato. E il gatto ha incominciato a miagolare istericamente. Attraverso velocemente la strada e busso al portone bianco della villetta. Al primo squillo un cane inizia ad abbaiare, il che fa infuriare ancora di più il gatto e mi porta a domandare come possano mai vivere un cane e un gatto nella stessa casa senza tentare di sbranarsi a vicenda.
«Arrivo subito!», urla qualcuno dall'interno dell'appartamento. E' una voce femminile, molto più calma e rassicurante di quella della vicina. «Oh, Achille, smettila subito! Fai il bravo, così, giù, resta lì e non tentare di assalire nessuno».
Una signora tutta capelli bianchi cotonati e occhiali ricoperti di strass fa capolino dalla porta laccata. «Oh, e tu chi sare... ma quello è Ercole! Oh, Ercole, ma dove ti eri cacciato?».
«In camera mia, l'ho trovato sotto al letto», sorrido. Immagino che perdere un animale leggermente sovrappeso metta in ansia ogni buon padrone di questo mondo.
«Ah, Ercole, la signora e il signor Harrison sono morti da un anno, è inutile continuare a intrufolarsi in casa loro», la sua voce è improvvisamente cambiata, sta parlando al gatto come si parlerebbe a un neonato.
«E tu cara, vieni, non stare lì impalata», dice prendendo il gatto affettuosamente tra le braccia.
Il cane mi annusa sospettosamente appena poso piede in casa – una casa che sembra uscita da una rivista di casalinghe, non che io ne abbia mai letta una, ma mamma ha scritto un bel po' di articoli circa la difficoltà della donna negli anni '50.
«Allora, tu sei la figlia dei nuovi vicini, no? Se vuoi un po' di tè... ecco qui, tè all'arancia», dice versandone un po' in una tazza finemente decorata. «Siediti, siediti pure... Achille, togliti subito da lì, su, sei grande e grosso, non puoi metterti sul divano... devi scusarlo, sai, è solo un bambinone viziato...».
Annuisco sorridendo. Certo che io capisco, sicuro.
Assaggio il tè che però è freddo. Poso la tazza sul piattino di ceramica e la posiziono sul tavolino di legno che si trova davanti al divano su cui sono seduta.
E' una casa davvero deliziosa, fin troppo deliziosa.
«E' da ieri sera che sto cercando Ercole, sapevo che c'erano grosse probabilità di trovarlo in casa tua, lui andava sempre a dormire dai signori Harrison perché lo rimpilzavano di cibo, però non volevo disturbare, non la sera del trasloco... non ho nemmeno chiesto come ti chiami... Che gran maleducata sono! Come ti chiami, tesoro?»
«Oh, non si preoccupi, io sono Nimue». Perfetto, ora ci manca solo che le stringa la mano per sancire un accordo di lavoro. Riafferro la tazzina.
«Nimue, davvero un nome particolare», sorride, ma i suoi occhi tradiscono quel sorriso forzato. «Beh, mi sa che ti ho rubato un po' troppo tempo e non vorrei trattenerti ancora per molto... solo...», si alza e si avvicina a una vetrina curata e tirata a lucido, proprio come il resto della casa.
Velocemente afferra un oggetto e me lo porge «Ecco qui. Prendila e non perderla assolutamente di vista, al momento opportuno tutto ti sarà  più chiaro, stanne certa, cara... Nimue».
È oggetto così normale e comune che non capisco tutta questa cerimoniosità da parte di una sconosciuta nei miei confronti.
Sorrido, ma  il mio sorriso risulta più forzato di quello della vecchietta che ho di fronte, allora mi allontano, ma finisco con lo scontare una sedia riccamente decorata con fiori e colombe.
La signora Gill mi si avvicina, sconvolta, così sconvolta che gli occhi le hanno incominciato a lacrimare. 
«Oh, sei così giovane...», sussurra, mentre mi allontano dalla villa, la chiave di ferro stretta tra le mani.
 

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Capitolo 2
*** Il dubbio ***


*
Corro a più non posso.
Poi mi fermo. Ho il fiatone, ma sento che non dovrei fermarmi; dovrei continuare a correre. Poi mi guardo intorno e a malincuore mi raccapezzo: non conosco questa strada, non conosco questa gente, non conosco questo maledettissimo posto. Sarei una stupida se continuassi a correre verso una meta imprecisata, se non verso casa.
La mia nuova casa. E spero definitiva. Mamma ha fatto di tutto per trasferirsi qui, un posto tranquillo, poco abitato e soprattutto silenzioso - il che conta non poco visto che l'ultima volta ci siamo trasferiti vicino a una stazione ferroviaria. Ho corso parecchio e ormai la casa della vecchia dista abbastanza da farmi sentire al sicuro.
Apro la mano sinistra chiusa a pugno di scatto, con un moto di repulsione. La chiave è ancora con me e mentre scappavo l'ho stretta a più non posso, come se mi stessi aggrappando a un oggetto amico. Ma questo oggetto proprio non mi piace. Emana un non so che di assolutamente normale e, al contrario, di sbagliato. Come se questo non fosse il suo posto, come se fosse stato rubato o sottratto ai veri proprietari.
Lo raccolgo. E' solo una stupidissima chiave di ferro, una di quelle che non danno mai nell'occhio, sembra quasi una di quelle chiavi che da piccola utilizzavo per chiudere diari segreti o salvadanai rosa confetto, solo più grossa e incrostata di ruggine. Sono tentata di gettarla lontana, verso il bosco, ma non lo faccio. La ficco in tasca mentre mi allontano, procedendo lentamente verso casa.
Trovo mamma ad aspettarmi sui gradini di casa, furiosa. «Non mi stupirei se i vicini ti avessero davvero uccisa», esclama sarcasticamente alzandosi.
«Scusa se ci ho messo tanto», dico.
«Beh, ti ho lasciato il pranzo in cucina, ora devo andare, ma con te faccio i conti dopo», dice allontanandosi. Non ho idea di quanto tempo ci abbia messo, ma per mamma il tempo è più importante di quanto si creda: ha orari e turni precisi da rispettare e mi capita spesso di mangiare da sola con papà, che al contrario lavora di notte. Sbuffo ed entro in casa. Trovo mio padre in cucina, intento a montare il tavolo. «Papà, devi proprio montarlo adesso?». Lui mi guarda di sbieco e si sistema gli occhiali con l'indice. «Certo. Ma... ora non ho tempo, Nimue. Mangia sul divano».
Ottimo, davvero ottimo. L'unica cosa che è riuscito a montare decentemente mio padre è il divano.
I letti li abbiamo montati io e mamma, un lavoraccio, ma ne è valsa la pena, altrimenti dovremmo dormire sul pavimento. Mi accoccolo sul divano e pranzo con piazza fredda e succo di frutta.

** «Oh, questo non è per niente da considerarsi un buon segno». «E si da il caso che sia mezz'ora che cerchi di dirtelo, mio prode cavaliere».
Sbuffo.
Odio quando il Dottore è troppo occupato ad ascoltare i suoi di pensieri, invece che le mie lamentele. Io non mi lamento mai senza un motivo, devo ricordargli anche questo?
«Cavi... è solo una questione di cavi, ne sono più che sicuro, deve essere per forza questo il problema», dice alzando le sopracciglia per poi riaggrottarle subito dopo. Alza un braccio, l'aggeggio luminescente che manda strani raggi blu.
«Aaah... togliti di lì», mi urla una frazione di secondo dopo. Abbasso la testa appena in tempo per evitare una specie di corda rossa partita da chi sa dove che si va a schiantare contro un groviglio scomposto di altre simili corde.
«Cavi che si staccano, questo è il problema!».
«Tu sì che sei un uomo capace di prevedere il futuro», esclamo infuriata. Odio quelle corde che lui chiama cavi. Spuntano dappertutto e mi circondano come sanguisughe. Alzo lo sguardo e lo osservo trafficare con leve e levette, senza concludere nulla che io possa constatare visivamente, poi si blocca, si gira verso di me e mi fissa in modo enigmatico.
«Ora ho capito. Sei tu il problema».
Alzo un sopracciglio. «Io?!».
«Sì, tu. In verità il problema non sei tu, ma ciò che hai in tasca».
«Non ricominciamo...», sospiro, spazientita.
«Cosa hai detto esattamente quando hai raccolto quel groviglio di ferraglia prima di scappare via inseguita da un intero esercito di uomini pronti a sgozzarti?», domanda. Colgo una punta di sarcasmo e ciò non mi piace affatto.
«Non ha alcuna importanza, ora. Devi riuscire a riportarmi a casa, me lo hai promesso e io non starò qui ad aspettare con le mani in mano mentre fai precipitare questa macchina infernale...».
«Il suo nome è TARDIS, non offendere ciò che ti ha salvato, mia cara maga da quattro soldi». Vorrei non dargliela vinta, ma alla fine cedo: «Ho già visto questa... cosa. Non so spiegarti né come, né dove. Ma... ecco, io l'ho già stretta tra le mani, l'ho già... trovata».
«E tutto questo non rappresenta un buon segno. Ah, se solo fosse stato un semplice problema di cavi... Ora dammela», il suo sguardo si è fatto improvvisamente serio e concentrato su di me, su ciò che nascondo. Mi sfilo un guanto e recupero la massa informe di ferraglia arrugginita dalla tasca foderata del mio abito e gliela porgo. Poi mi risiedo sullo scalino forellato e circondato di cavi. Lui tira fuori quella sua specie di torcia rimpicciolita e dalla strana luce blu ed esamina il pezzo arrugginito.
«Ah! Ma questo è molto più di ciò che mi ero immaginato! Lady Nimue, ora ho capito, ma... oh, cosa succede?».
Non lo seguo più, sono accasciata sullo scalino, la testa in fiamme.

Gli occhi mi hanno sempre affascinata. Ce ne sono di vari tipi di forme, dalle ciglia lunghe e folte, ma anche sottili e rade.
Una volta, da bambina, mi capitò di incontrare uno straniero arrivato da chi sa dove nel nostro villaggio. Quando si girò a guardare quella bambina vestita di stracci e dai capelli arruffati che ero stata un tempo mi accorsi che aveva gli occhi più strani che avessi mai visto: di un nero così profondo inespugnabile che mi fece molta più paura di ciò che mia madre raccontava nelle sue fiabe per tenermi buona la sera.
Ora, mentre spalanco pian piano gli occhi - occhi, i miei, di un azzurro indefinito che ho sempre disprezzato – non posso fare a meno di provare quella stessa paura infantile che mi travolse quell'unica volta in cui incontrai lo sguardo di quello straniero. Perché io ho già visto gli occhi che ora mi guardano sorridenti e sereni, ma al tempo stesso profondi e... infiniti.
«Quell'uomo, quell'uomo eri tu!», urlo disperata.
Il Dottore scoppia a ridere. «Oh, lady Nimue, ci sono cose di me che non immagini neanche. O dovrei chiamarti piccola Nimue un po' cresciuta?».
Il suo arrivo al villaggio in cui abitavo con mio padre e mia madre era stato seguito da distruzioni e macerie e ciò non doveva essere certo una coincidenza. «Perché ridi? La mia intera esistenza è cambiata da quando la mia famiglia e la mia casa vennero distrutte da quelli esseri... inumani».
«Quelli esseri, come tu li definisci, non erano altro che Dalek, e i Dalek non sono degni nemmeno di essere chiamati inumani», dice alzandosi. «Vedi, a volte si devono fare delle scelte... scelte che possono portare all'estinzione o un intera specie o... un piccolo villaggio. La morte dei tuoi genitori e di tutte le altre persone, animali, insetti e vegetali di quel piccolo tratto di terra portò la Terra stessa a non scomparire. Lady Nimue, ricordi cosa ti salvò dalla morte quella volta di tanti anni fa?», chiede con un pizzico di dolcezza, appoggiandosi alla ringhiera. Lo guardo disperata.
«Quella ferraglia una volta non era... è stata quella chiave a salvarmi. Lo ricordo perfettamente. Me la diede il vecchio del villaggio, lui sapeva, tu... tu gli avevi detto ogni cosa e gli avevi dato una speranza di salvezza. E lui preferì salvare una piccola bambina vestita di stracci e spaventata invece che... Oh», la voce mi si spezza e scoppio a piangere. Rivedo mia madre, i suoi occhi vividi e limpidi, intenta a mostrare solo a me la sua spilla d'oro, unico ricordo di quella che un tempo fu la sua casata; e poi mio padre, mani sporche di terra e animo velato di tristezza, colui che aveva amato mia madre più di quanto avrebbe mai dovuto fare... «Io non sono una lady, ti prego di non chiamarmi mai più così, ma Dottore, cosa succede?», domando.
Sono spaventata, i suoi occhi profondi ora brillano di una strana luce sinistra, le sopracciglia sono aggrottate. Mi sorride debolmente.
«Vedi, Nimue, io non ho mai dato al vecchio del tuo villaggio questa chiave, non gli ho mai raccontato del destino che vi avrebbe colpito. Ora, Nimue, devi fidarti assolutamente di me, anche se tutto ciò che vedrai non avrà senso. E ciò che vedrai non avrà alcun senso, te lo garantisco. Fidati di me e ti prometto che riuscirai a tornare sana e salva a casa».
Mi aggrappo alla mano che mi porge e non posso non fidarmi dei suoi occhi, così come non posso non fidarmi di lui.

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Capitolo 3
*** La storia ***


**
Chiariamo subito una cosa, non sono una maga.
Non più di quanto sia una lady.
E' facile ingannare le persone ed è una cosa che ho imparato non grazie ai miei poveri genitori, ma a coloro che mi crebbero dopo la scomparsa del mio villaggio, una coppia di anziani girovaghi dalla pelle color oliva e dalle orecchie piene di cerchi.
Non li ho mai considerati come dei genitori sostitutivi, avevo solo quella maledetta chiave a ricordarmi chi ero davvero e cosa mi era accaduto. La morte della mia gente da un giorno all'altro non venne nemmeno presa in considerazione... credo siano stati quegli esseri, i Dalek, come li ha chiamati il Dottore, ad aver influenzato le menti di chi non c'era ad assistere alla distruzione. 
Ma ovviamente hanno dimenticato qualcuno, sennò io sarei cresciuta come una normale ballerina o acrobate da circo. Ma madame e mister Zazzy (così si erano sempre fatti chiamare da me e scrivevano nei cartelli che poi dovevo appendere alla loro carrozza), non mi avevano destinato a giochi acrobatici, bensì trucchetti mentali, a leggere le carte a ingannare i miei poveri clienti. Avevo solo tredici anni quando mi costrinsero ad andare in giro come una piccola madame Zazzy, mi fecero sei buchi per orecchio e insegnarono a truccarmi pesantemente.
Dovevo apparire ai loro occhi come una miniera d'oro, giovane e pronta da sfruttare. E io eseguivo i loro ordini alla perfezione, cercando di imparare il più in fretta possibile. Da piccola avevo provato a scappare, col tempo mi ero rassegnata assecondandoli in tutto e per tutto, sperando che mi avrebbero lasciata andare quando avrei dimostrato loro di aver imparato tutto ciò che avrebbero voluto insegnarmi. Ma le cose non cambiarono per una decina d'anni, io li seguivo dappertutto come un bravo cane ammaestrato: ingannavo le persone, soprattutto giovani donne innamorate o che speravano di cambiare il loro futuro. Ero diventata un'esperta di erbe, la prima donna che avevo aiutato ad abortire era una ragazzina: aveva a malapena quattordici anni e non volle nemmeno vedere il feto... Se i miei genitori avessero visto quello che ero diventata non avrei potuto sopportarlo. 
A vent’un anni, undici anni dopo essere stata 'salvata' da quelli che erano diventati degli sfruttatori, mister Zazzy morì. Non so bene come spiegarlo, ma era stata quella chiave a causarne la morte, di questo ne sono più che certa. Il fatto che con il tempo avessi acquisito, stando agli occhi della gente, dei poteri magici non lo credevo possibile, ma sapevo che c'era qualcosa vero nelle predizioni che facevo o negli incantesimi che impartivo ai poveri malcapitati, e sempre grazie alla chiave arrugginita. Potrei citare moltissime volte in cui ebbi la possibilità di constatarlo, ma la morte di mister Zazzy è stata di sicuro quella che mi fece capire il potenziale di quella ferraglia, che allora portavo con una catenina di argento, legata al collo.
Mister Zazzy, al contrario della moglie, era sempre stato gentile nei miei confronti. Gentile può risultare fuori luogo visto che ero da quella coppia ero stata rapita, ma se ciò non fosse accaduto, probabilmente sarei morta congelata nei boschi o uccisa dagli stessi Dalek. Aveva una faccia barbuta e un naso costantemente rosso in inverno per il freddo, in primavera per le allergie e d'estate per le grosse scorpacciate di cibo. Non beveva mai e da giovane era stato uno dei più famosi solleva pesi dell'intera Inghilterra. Anche se aveva ormai passato la sessantina, tutti i giorni si allenava con costanza e non perdeva mai occasione di mostrare al pubblico i suoi soliti numeri. 
Una mattina di maggio e andando a raccogliere l’acqua al pozzo, madame Zazzy era andata a comprare nel villaggio più vicino leccornie per festeggiare la buona riuscita dei guadagni ricavati la serata di spettacoli a cui avevamo partecipato il giorno prima, mentre mister Zazzy era rimasto dentro alla carrozza-alloggio a riposare. La difficile manovra di sollevare l’acqua dal pozzo consisteva in un gioco di muscoli e prese ben forti, tutte cose che io non possedevo e, come molte altre volte, stavo faticando a più non posso. Può sembrare ben giusto che uno degli uomini più forti d’Inghilterra di fine settecento non fosse disposto ad aiutare una giovane a raccogliere l’acqua dal pozzo che per di più trattava come una figlia, ma il motivo era che l’eccessivo sforzo della scorsa sera l’aveva stancato più del solito, e lui non era più resistente come una volta. Non riesco ancora a capire come non abbia fatto ad accorgermene, ma la catenina d’argento che mi aveva donato madame Zazzy e che nella quale avevo appeso la chiave, dopo anni di resistenza, si ruppe proprio nel momento cruciale in cui l’acqua è dentro il secchio e tutto quello che devi fare è tirare con forza la catena, pregando che non si strappi e sperando di non perdere troppa acqua durante la risalita. La catenina andò persa nella profondità del pozzo, mentre la chiave cadde nell’acqua appena raccolta. Nessun tonfo richiamò la mia attenzione e così portai con fatica il secchio alla carrozza. Madame Zazzy non era ancora tornata e appena spalancai la porta svegliai mister Zazzy, assetato e rosso in viso, come suo solito. Allora io… io versai l’acqua e gliela porsi. Ricordo ancora i suoi occhi vecchi e buoni che mi guardavano e le sue scuse per non essere venuto in mio aiuto, rivedo ancora i suoi baffi scomparire e il pomo d’Adamo andare su e giù mentre trangugiava con avidità l’acqua avvelenata. Appena ebbe finito di bere ebbe come uno spasimo, gli occhi gli si spalancarono di colpo e una bava biancastra cominciò a colargli dalle labbra dischiuse. Urlai e corsi ad aiutarlo, chiedendomi che cosa fare per aiutarlo. Tutto mi faceva pensare a un caso acuto di avvelenamento e corsi a cercare le erbe adatte. Ero sconvolta, non avevo ancora collegato che l’acqua potesse essere avvelenata, d’altronde, come poteva essere? Era la stessa acqua che avevamo bevuto la sera prima ed eravamo ancora tutti vivi. Feci il più in fretta possibile, e per la prima volta l’esperienza acquisita nel corso anni fu del tutto inutile… Mister Zazzy morì fra le mie braccia, sentendomi del tutto impotente e in un qualche modo colpevole. Come in preda a una rabbia febbrile, mi alzai di scatto, toccandomi il collo. Collegai immediatamente e, ancora con le lacrime che scendevano copiose giù per le guance mi fiondai alla ricerca della chiave, che trovai dentro il secchio dell’acqua. Madame Zazzy sarebbe arrivata a momenti e cos’altro avrebbe potuto pensare se non che io le avevo avvelenato il marito? Mi sentivo dannata come mai prima d’ora, ero una disgrazia per chiunque mi avrebbe incontrato e in quanto dannata non avrei potuto fare altro che andarmene via il più velocemente possibile, augurandomi di trovare la morte durante il cammino. Con la chiave stretta in pugno, corsi fuori. 
Mi allontanai il più possibile dal villaggio, vagando nei boschi. Ho vissuto come una vagabonda per circa tre mesi, e con il sopraggiungere della stagione estiva non ebbi difficoltà a sopravvivere. Ma se sopravvivere era facile, vivere con i sensi di colpa non lo era per nulla. Durante il cammino che mi aveva portata il più lontano possibile da coloro che avevo inconsciamente tradito, avevo provato a liberarmi della chiave, sotterrandola, gettandola in burroni e laghi, ma come avevo ben presto capito quella chiave faceva parte di me e in quanto tale mi sentivo la colpevole della morte di mister Zazzy. Il frangente che mi fece incontrare il Dottore, altrimenti ribattezzato da me, in preda alla rabbia, ‘’uomo dalla testa porcospinata’’ fu del tutto casuale e… beh, devo riconoscere che se lui non fosse arrivato in quel momento, probabilmente sarei morta. Una donna che vaga nei boschi e che si nutre di ciò che la natura le può offrire e che sa ricercare le piante come ben so fare io, grazie all’esperienza acquisita, non passa inosservata. Finché si tratta di intrattenere donnine spaventate durante una festività, facendo credere loro e te stessa di saper leggere il futuro in una mano, la cosa finisce per non destare molti sospetti, perché ritenuta falsa. 
Senza saperlo, avevo attirato su di me una vera e propria azione di caccia alla strega, ma io che mi spostavo relativamente in fretta e senza dare nell’occhio, non me ne ero mai accorta. Fino a quel maledetto giorno in cui mi trovavo vicino a un villaggio a nord dell’Inghilterra e mi imbattei in un gruppo di uomini armati per andare a caccia. Mi riconobbero come la strega ricercata e mi assalirono. Io non potei fare altro che scappare come un cerbiatto braccato, ma non avendone ovviamente la forza e la velocità non riuscii a disperdere le mie tracce. Avevo perso ogni speranza, quando sentì uno strano rumore, come mai mi era capitato di sentire in vita mia e vidi una testa arruffata uscire fuori da quella che mi sembrava una specie di capannetta minuscola degli attrezzi, o qualcosa di simile, tutta dipinta di un blu intenso. 
Stavo piangendo e il mio stato era pietoso, non appena vidi la porta spalancarsi e l’uomo uscire mi ci gettai contro e quello, capita al volo la situazione mi afferrò per le spalle e chiuse la porta dietro di sé, poi caddi svenuta fra le sue braccia.

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Capitolo 4
*** L'irrazionale incubo di Nimue ***


*
Mi chiamo Nimue Fallen, ho quindici anni e amo la matematica.
Ho una mente piuttosto logica e guardo alla realtà il più razionalmente possibile.
E tutto ciò che è successo oggi è assolutamente irrazionale: la chiave arrugginita di cui non riesco a sbarazzarmi è una fatto irrazionale, la vecchietta che ha fatto capire di avermi già conosciuta è irrazionale e questo sogno dal quale non riesco a svegliarmi è solo un sogno quindi le cose irrazionali possono accadere, vero?
Sono distesa supina, indosso gli stessi vestiti di oggi e ho un’emicrania pazzesca. Delle corde mi legano i polsi e le caviglie, costringendomi a stare a terra, che come ho potuto constatare è una terra polverosa e sembra terribilmente reale. Socchiudo gli occhi: ricordo vagamente di essere andata a dormire nella mia nuova camera, ieri sera. Però quando li apro leggermente sembra notte, come se invece di essermi coricata fossi stata rapita e poi legata qui, in un posto che non conosco e che non posso vedere perché terribilmente buio. Sento delle voci in lontananza e richiudo subito gli occhi, cercando di fingermi svenuta. Dopo tutto  è solo un sogno e se riuscissi ad addormentarmi qui magari mi sveglierei dall’altra parte, nel mio comodissimo letto.
“Eccola qui”, la voce è dura e metallica, simile a quella di un robot. Ma ovviamente fa parte del sogno, la mia mente è molto fervida, anche se devo ammettere di non aver mai sviluppato alcun interesse particolare per degli ammassi di ferraglia parlanti, che i film dipingono come futuri distruttori del genere umano.
“Signore, non capisco perché abbiamo dovuto rapirla”, chiede una voce simile a quella precedente. Signorerapirla? Devo decisamente smetterla di guardare thriller o polizieschi.
Sento una risatina maligna, come quelle dei classici psicopatici di un qualsiasi film riguardante un malvagio pronto a distruggere il mondo e un supereroe  che si batte invece per difenderlo. Non è una risata metallica, ammesso che i robot possano ridere, ma è indubbiamente di stampo umano o presunto tale.  
“Non mi aspetto certo che voi comprendiate tutto ciò che sto facendo, cari miei”, trilla la voce, i passi dell’essere si avvicinano e lo sento fermarsi poco distante dalla mia testa palpitante di dolore. Il presunto cattivo di turno si china e sento due dita umanissime premermi un punto indistinto della testa. “C’è del sangue, avevo ordinata di portarla qui sana e in buona salute, non con la testa sanguinante!”, tuona, con la voce rabbiosa. A quanto pare  sono la vittima, la rapita e scomparsa della situazione, chissà se nel mio sogno i buoni sono compresi, perché allora sento proprio che si tratti più di un incubo.
“E’ stato difficile portarla con noi, c’era una forza che si opponeva alle nostre azioni, inoltre è stato molto più sicuro farle perdere coscienza, e quando ciò è avvenuto la forza è diminuita abbastanza da permetterci di portarla da lei”, la voce robotica ha assunto una sfumatura di scusa, o me la immagino soltanto. Se si delude il capo malvagio, si rischia la pelle. O meglio, in questo caso la corazza.
“Una forza? Che genere di forza? Lei dovrebbe essere innocua, non è di certo compresa nei nostri piani, è solo l’esca, la vittima sacrificale… Sarà meglio portarla nella sala delle conferenze, lì potrò guardare più da vicino”.
A quelle aspre parole un sudore freddo mi ha imperlato la fronte e le mani, che ora sono appiccicaticce. Io so che questo è un sogno, o meglio un incubo, eppure… è talmente reale, sento ancora la pressione delle dita nel punto in cui mi ha toccato la testa. Ma non può essere, la parte razionale di me dice di provare ad addormentarmi o di aspettare che la me che giace nel letto si risvegli e di stare tranquilla perché presto accadrà. La parte irrazionale mi sprona invece a pensare a come sfuggire a questo rapimento da parte di un assassino accerchiato da scagnozzi-robot, che vuole fare di me la vittima sacrificale a non so che tipo di rito.
Persino la mia parte irrazionale non concepisce questa situazione assurda! Assassini, robot, vittime sacrificali? Sarebbe un film di pessimo gusto, anche per gli standard a cui sono abituata.
Dei passi si allontanano, e altri si avvicinano. Attraverso le pupille chiuse riesco a scorgere un forte fascio di luce blu e la pressione che mi teneva i polsi e le caviglie legate ora è scomparsa. Resto lo stesso immobile mentre una forza mi solleva da terra e, quando finalmente riapro gli occhi due cose mi colpiscono: fortissime luci simili a laser e robot tarchiati e rotondeggianti che le puntano dritte dritte verso di me .

E nessun incubo mi è mai sembrato reale come questo.

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