Ydalir, le Foreste degli Dei

di FabTaurus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Il Vecchio ***
Capitolo 2: *** 2. Il Ragazzo ***
Capitolo 3: *** 3. Lo Jarl(pt.I) ***
Capitolo 4: *** 4. Lo Jarl(pt.2) ***
Capitolo 5: *** 5. Il Vecchio ***
Capitolo 6: *** 6. Il Ragazzo(pt.I) ***
Capitolo 7: *** 7.Il Guerriero Con L'Ascia ***
Capitolo 8: *** 8. Il Ragazzo(pt.II) ***
Capitolo 9: *** 9. Il Volto nella Luna ***
Capitolo 10: *** 10. L'Uomo Dei Boschi ***



Capitolo 1
*** 1. Il Vecchio ***


 
 

 

 
1. Il Vecchio     

 

    La pioggia aveva ammorbidito il terreno. Il vecchio affondò la zappa fra il muschio invernale e le erbacce, e rivoltò una nuova zolla di terra. Con un secondo colpo ruppe il terriccio, sparpagliando sassi e radici. Dopo il riposo invernale la terra aveva bisogno di arieggiarsi, di asciugarsi; così gli aveva ordinato il Secondo Sovrintendente Agricolo durante l'assegnazione settimanale. Un suolo che non respirava in primavera, con la bella stagione non avrebbe dato altro che piante malate e asfittiche.
    Compiacere i Sovrintendenti non era tuttavia cosa cui il vecchio potesse rassegnarsi con facilità. Le sue ginocchia non si erano rammollite nemmeno dinanzi al Re dei Re, e non sarebbero stati certo i morsi di quattro cani da guardia a piegarlo. Ma più delle bastonate e delle privazioni, ciò che gli accendeva il sangue era l'arroganza del loro sorriso e la vuota stupidità dei loro occhi. Così concentrati a rimarcare il loro finto potere, non si rendeva conto del terribile sbaglio commesso.
     “ Un giorno non molto lontano le parti si invertiranno di nuovo.” si disse fra sé, affondando nuovamente la zappa nel terreno, immaginando al tempo stesso di incontrare sotto la lama non molle torba ma il cranio del Terzo Sovrintendente Agricolo.
    
Il vecchio si guardò attorno: in una cornice di biondi capelli arruffati e braccia sporche di fango fino ai gomiti, si muoveva qualche passo più indietro, un ragazzetto pelle e ossa. Portava un cesto di canne legato alla schiena che era più grande di lui e mano a mano che avanzava nel campo dissodato, ripuliva la terra appena smossa dalle erbacce e dai sassi. Era metodico e attento; capitava di rado che ci fosse bisogno di riprenderlo.
    
La semplice vista del ragazzo gelò i suoi propositi di vendetta. Quel tempo sarebbe di certo giunto, ma era ancora lontano tanto quanto le navi di Karthark, suo figlio, da qualche parte nella Cintura Esterna. Nel frattempo la cosa più importante era la sicurezza di Thorulf.
    
Lavorarono per tutto il giorno, senza una parola. Il loro silenzio non era però dettato dal rispetto di qualche proibizione, ma come spesso succede fra persone abituate alla presenza reciproca, tra loro la parola non era necessaria. Il vecchio era di indole quieta e il ragazzetto taciturno per natura. L'uno insegnava coi gesti, l'altro imparava con gli occhi. Erano fatti così e si bastavano. Si erano concessi una pausa giusto a metà giornata, quando il Sole si era aperto un varco fra le nubi. Il vecchio, appoggiato alla zappa, si era raddrizzato la schiena dolorante godendosi i caldi raggi e la brezza marina. Poi con un fischio aveva richiamato a sé il ragazzino e senza aspettarlo si era avviato verso la scogliera. Qui avevano pranzato con alcune fette di pane scuro e del pesce salato, le gambe a penzoloni nel vuoto e il fragore del mare a occupare le loro orecchie. Poco prima di tornare ai campi, il vecchio aveva tirato fuori dalla sua bisaccia due uova di gabbiano; le aveva trovate quella mattina, in un nido incautamente troppo vicino al margine delle scogliera e ora se le passava fra le dita con aria meditabonda. Avrebbero potuto mangiarle subito, tuttavia un'idea lo tormentava.
    Pur avendo tutti gli anni che i suoi capelli bianchi suggerivano, sentiva di avere ancora mani leste. La pelle certo ridotta ad un intrico di cicatrici, ma ancora tutte e dieci le dita al loro posto, una rarità per un Danzatore delle Lame. In quel momento sentì la mancanza del sacchetto colmo di ossa mutilate ai suoi avversari, ognuna incisa co
n una runa di potere. Ora quel trofeo gli era stato tolto, così come gli abiti e le armi. Gli era stato addirittura proibito il possesso di un knifr, un semplice temperino da lavoro che qualsiasi altro schiavo portava legato al collo.
    Rigirò le uova fra le mani ancora per pochi istanti, giusto il tempo di un ultimo respiro e poi le lanciò in aria, passandole da una mano all'altra.
    La Danza delle Lame era un'arte e in quanto tale non si poteva certo insegnare senza un minimo di preparazione. Ancora ben vividi erano i ricordi della sua gioventù, quando suo zio lo aveva introdotto ai primi segreti.  
La danza delle uova che aveva in mente però si avviava già alla conclusione, perciò il vecchio si esibì nell'unico, vero lancio rischioso. Le uova schizzarono in cielo, mentre lui batteva il tempo con le mani. Al terzo colpo falciò l'aria davanti a sé e concluse tutto con una posa teatrale a braccia spalancate e palmi aperti. Il suono umido delle uova che finivano in acqua, sessanta piedi più in basso, arrivò l'istante seguente.
   Il ragazzino, che fino a quel momento aveva osservato con grande meraviglia quello sfoggio di abilità, s'impietrì. Il vecchio lo vide con la coda dell'occhio mentre si sporgeva oltre la scogliera, verso il mare sotto di loro.
    
Incapace di trattenere un sorriso unì i palmi vuoti. Quando li dischiuse, i gusci screziati delle uova di gabbiano brillavano nelle sue mani chiuse a coppa. Il ragazzo sgranò gli occhi, incredulo mentre il suo stomaco gorgogliava per una fame neanche lontanamente saziata. Sempre sorridendo, il vecchio gli porse quindi l'uovo più grande. 
    
In seguito tornarono al lavoro, poiché era ancora molta la terra da dissodare. Pesando le loro ossa assieme non si faceva la stazza di un uomo adulto, eppure, il Secondo Sovrintendente Agricolo gli aveva affibbiato due volte la terra degli altri schiavi. Il vecchio guardò sconsolato la distesa di muschio ed erba giovane che si allungava per decine e decine di passi in tutte le direzioni. In tutti i suoi anni da guerriero non aveva mai immaginato una fine tanto ingloriosa: ridotto a quattro ossa smagrite, debole e sfinito, a lavorare la Terraferma dell'Helmborg come l’ultimo dei disertori. Proprio lui che dell'isola di Helm era stato Jarl, e che in tale veste, per dieci anni, aveva combattuto al fianco del Re del Sale e del Legno. Lui che aveva guidato la flotta del Kraken durante la Terza invasione del Greenland. Una vita a lottare per sopravvivere alla furia del mare all'acciaio degli uomini per terminare i propri giorni come uno scoglio eroso dal tempo, uno stanco relitto dimenticato dagli Dei.
    
Digrignando i denti, il vecchio aggredì la terra a colpi di vanga. La lama di ferro si aprì la strada nel terreno con un suono stridente di ossa scheggiate e denti spezzati. Ma per quanta ferocia menasse la vanga non una goccia di sangue stillò dalle ferite del terreno e la sua sete di vendetta non trovò sollievo. Ci volle parecchio tempo prima che la stanchezza avesse il sopravvento e lo obbligasse a fermarsi, ansante. Diversi passi più indietro il ragazzino lo osservava. Incapace di sopportare quello sguardo semplice e preoccupato, soffocò la propria vergogna sotto altra terra, con nuovi colpi di vanga. 
    
Così il pomeriggio lasciò spazio alla sera. Solo il suono del corno del Primo Sovrintendente fu capace di strapparlo dall'oblio della fatica. Quando alzò finalmente lo sguardo la luce del giorno cominciava ormai ad affievolire e le ombre ad allungarsi sulla terra smossa. In lontananza gli altri schiavi avevano ormai abbandonato i loro appezzamenti e confluivano ormai verso la spiaggia. Alcune barche erano addirittura già in mare dirette al Recinto.
    
Poco lontano stava invece il ragazzo, ancora chino nel fango. Il vecchio si rammaricò di non avergli prestato più attenzione. Perso come era fra vecchi ricordi e feroci rancori, era giunto a dimenticarsi non solo dove fosse, ma persino cosa stesse facendo. Il ragazzo d'altro canto, sempre così silenzioso, non gli aveva certo dato motivi per ritornare alla realtà. 
    
Solo una volta giunto al suo fianco si accorse però con quale zelo avesse lavorato. Non restava che un fazzoletto di terra smossa da pulire, una striscia lunga appena un paio di passi. Poco lontano, a distanze regolari erano ammucchiate invece cataste di sassi, belli e grandi, ottimi per rafforzare i muretti a secco dei frutteti, mentre le erbacce giacevano ammassate sul bordo della scogliera, pronte per essere gettate a mare. Senza indugiare oltre il vecchio pose una mano sul capo del ragazzino. Meritava una ricompensa. Con un gioco di dita ripescò l'uovo superstite dalla bisaccia e lo consegnò nelle mani del fanciullo. Prima che questi potesse dire anche solo un ringraziamento, si liberò della propria bisaccia indicandogli gli attrezzi. Quella sera, se le sue intuizioni erano giuste, Vargh del Recinto, Primo Sovrintendente Agricolo, sarebbe arrivato a ricordargli quanto spiacevole fosse la sorte di uno schiavista finito sotto il giogo dei suoi stessi schiavi, e lui preferiva sapere il ragazzo il più lontano possibile per quell'ora.
    
Il fanciullo non aveva ancora raccolto tutto il necessario che il vecchio cominciò a spingerlo delicatamente verso la via del ritorno.

 





Chiacchiere e affini: salve gente, sono passati secoli dall'ultima volta che ho pubblicato qualcosa eppure non son morto. Eccomi qua con una storia che per la prima volta giungerà alla conclusione. Come faccio a dire ciò? semplice, è già stata scritta e attende solo una blanda revisione.  
L'ambientazione che qui ho voluto ricreare è grim and dark e prende come spunto usi e costumi scandinavi alto medioevali, e in particolare vichinghi. Spero vivamente possa piacervi, attendo la vostra opinione.
Vorrei inoltre chiedere scusa in anticipo per gli eventuali errori di stile presenti nei primi due capitoli di questa storia. Sono un residuo bellico di oltre un anno fa che non sono riuscito a migliorarli come volevo per mancanza di tempo. Nei prossimi mesi lancerò le versioni riviste e corrette. Dal terzo capitolo le cose si dovrebbero fare meno schifose ;) quindi tenete duro



 

 

 

 

 


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Capitolo 2
*** 2. Il Ragazzo ***


 
 

 

 
2. Il Ragazzo




 
     Thorulf avanzò incespicando sotto il peso degli attrezzi,  troppo concentrato a non seminare nulla per strada per badare invece a dove mettere i piedi. 
     Da est spirava un gelido vento che odorava di notte. La sera si faceva ormai vicina. In lontananza, oltre gli scogli e la foschia, si vedevano già brillare alcuni fuochi: qualcuno al porto di Helm si apprestava per il buio. 
     Il ragazzo si sentiva la schiena in fiamme e le braccia a pezzi dopo un'intera giornata chino al suolo; alla vista di quelle luci familiari la nostalgia per il suo vecchio giaciglio si fece sentire con forza inaspettata. Sapeva bene che fantasticare di pagliericci caldi e coperte infeltrite non gli avrebbe restituito quanto aveva perso, così come sognare una pentola di stufato che sobbolliva o del burro salato spalmato sul pane non avrebbe migliorato il sapore delle gallette stantie e della carne affumicata che mangiava ogni sera; eppure in quel momento, potersi crogiolare nei ricordi fu qualcosa d'irresistibile. 
    Rallentò i suoi passi sino a fermarsi sul limitare della scogliera, mentre gli attrezzi da lavoro gli scivolavano dalle braccia con un rumore di legna secca e ferraglia.
    Liberasi di quel peso fu un sollievo. La giornata era stata lunga e faticosa, ancora più del solito. Star dietro al vecchio per tutto il giorno gli era costato ogni briciola di energia possibile. Ora non desiderava altro che raggiungere il Recinto, trovare un posto nella cerchia di Ivarr e poter chiudere gli occhi fino al mattino successivo.
     Il Recinto. Gli era ancora difficile considerare quel rudere puzzolente come il suo solo, unico rifugio. Fino a tre mesi prima dormiva nel suo letto, sotto il tetto della casa lunga di suo padre al sicuro dietro le mura dell'Helmborg, la piazzaforte che controllava l'Isola di Helm. Come figlio di un uomo libero non aveva altri obblighi che ubbidire al volere di suo padre e degli Anziani. Tutto quanto si era però capovolto nell'arco di una notte. Ora, ridotto a poco più che un animale da lavoro, dopo aver sgobbato per tutto il giorno assieme agli altri schiavi non gli restava che scrutare avvilito il profilo dello Scoglio precipitare via via nelle tenebre della sera. 
    La cosa che infatti saltava subito all'occhio osservando il profilo della piccola isola al centro della Baia di Helm, era la totale assenza di luci. Nel Recinto il fuoco era proibito. Scivolando fra i costoni erosi dal mare e i brulli rilievi, il suo sguardo giunse infine alla sagoma tetra del Recinto: una fitta al costato gli ricordò come ad aspettarlo non ci fosse altro che il suo  giaciglio di nuda roccia. 
     – Ascolta bene giovane principe, da oggi tu non sei più chi eri. Da oggi tu sarai uno dei molti ragazzi-bestia e vivrai come tutti gli altri uomini-bestia. Ti chinerai in presenza dei Capi e striscerai davanti agli uomini liberi. Raglierai il giusto durante le sferzate, perché questo non è posto per eroi né vermi. Lavorerai al ritmo del tuo cerchio, righerai dritto quando i Sorveglianti ti osservano e rispetterai i Divieti. Per il resto dimentica, dimentica tutto tranne queste parole, perché questo uomo-bestia dice solo parole che è bene ascoltare. –
    Le parole di Ivarr gli risuonarono nelle orecchie come la prima volta che le aveva udite. “Dimentica, lavora e riga dritto”; pochi, semplici concetti. Era così preso a rimuginare sulla cattiva sorte che si era dimenticato dei propri doveri. “ La barca, il nonno mi ha mandato alla spiaggia per preparala prima che scenda la sera! ”
     Il timore di disubbidire al vecchio gli alleggerì improvvisamente le braccia e gli mise le ali ai piedi. Mentre correva per il sentiero diretto alla barca, già si immaginava di essere ormai tardi, di trovarvi il vecchio già seduto ad aspettarlo.
     Fortunatamente non successe nulla di tutto ciò. La   barca, l'ultima rimasta sulla spiaggia, era la loro. Giaceva arenata sul fianco, ben in secca per proteggerla dalle onde d'alta marea, lo scafo sbiancato dal sole e dal sale. 
Si avvicinò apprezzando la sensazione dei ciottoli sotto le suole di cuoio. Il freddo che gravava sul Recinto i primi giorni gli aveva quasi portato via le dita di un piede. Nei punti in cui la carne era diventata scura e fredda portava ancora i segni dolorosi dei geloni.
   Il ragazzo aveva sempre vissuto fra pellicce e mantelli di lana, giubbe imbottite e calzoni di feltro. Ritrovarsi così da un giorno all'altro vestito solo da una giubba da lavoro e poco altro lo aveva quasi ucciso. 
     Durante l'inverno il Recinto diventava un inferno gelido, battuto dal vento e ricoperto di ghiaccio. In quei mesi persino il calore corporeo era qualcosa di prezioso, una merce di valore difficile da acquistare. Ma era anche la più importante moneta di scambio per stringere alleanze e giuramenti.
     Gli ci era voluto qualche giorno per capire come funzionassero le cose. Tutto questo si palesava soprattutto di notte, quando la temperatura scendeva e gli uomini si raccoglievano gli uni agli altri, in gruppi che raramente cambiavano, cerchie di uomini uniti dal bisogno di sopravvivere.
     Senza la benevolenza di Ivarr, un guerriero pellediferro dell'Isola della Luna, lui e il vecchio sarebbero senz'altro  morti in poco tempo.
     Il cielo, in bilico fra luce e tenebra, si scuriva a vista d'occhio; da qualche parte a ovest, dietro la coltre di nubi, il sole stava sicuramente tramontando. Il ragazzo adagiò gli attrezzi sulla battigia. La loro barca avrebbe avuto assoluto bisogno di una calafatata, il vecchio lo ripeteva ormai da alcune settimane.
    
 Se solo avessimo l'occasione di bollire della resina... borbottava tutto preso a scrutare Il Dono Verde, le Foreste della Dea che si estendevano nell'entroterra. Tuttavia fino a quando il lavoro nei campi non li avesse lasciati più liberi, l'unica alternativa era tappare le fessure con stracci vecchi ed alghe intrecciate, pregando il dio Njørd di sostenere la loro chiglia. 
     Il ragazzo guardò dietro di sé ma non vide traccia del vecchio. Era davvero in ritardo. Il rischio di dover navigare al buio si faceva ogni istante più reale.
    Solo all'idea gli si attorcigliarono le viscere. Il mare pareva d'animo calmo, certo, tuttavia la brezza serale che ne increspava la superficie e il cielo coperto non lasciava intendere nulla di buono. Il ragazzo tornò a voltarsi vero il sentiero che portava ai campi, in preda al dubbio. Era una salita ripida ma breve, facile da coprire in poche falcate. E se una volta salito fino in cima se lo fosse trovato proprio lì, a due passi? No, il vecchio lo aveva mandato via dai campi perché si occupasse della barca, E in definitiva non era ancora notte.
     Per prima cosa cavò i remi dal ventre dell'imbarcazione e li sistemò negli scalami. Quindi impacchettò gli attrezzi e li avvolse in una vecchia vela sdrucita, legando poi il tutto con stringhe di cuoio morbido. Una volta sicuro che pala, vanga e zappa e rastrello non sarebbero rotolati per la barca alla prima ondata, sollevò il fagotto dal suolo e lo adagiò sul fondo dello scafo, incastrandolo bene fra le due sedute. 
     Gli attrezzi non erano una loro proprietà, come non lo era la barca, il cibo, i vestiti che indossavano o la vita stessa. Erano  proprietà dell'Helmborg, perderli significava saldarne il prezzo. Se fossero stati uomini liberi, avrebbero potuto ripagare l'eventuale debito in oro, ferro o alimenti. Loro tuttavia avevano perso questo diritto. L'unico pagamento accettato da uno schiavo debitore era quello in carne e sangue. La propria carne.
     Dentro il Recinto viveva uno schiavo che sembrava più antico dello Scoglio stesso e diceva di avere più di cinquanta inverni. Sopravviveva nascosto dentro una buca nell'angolo sud est del Recinto, aspettando la carità degli altri schiavi, raccontando vecchie storie in cambio di qualche avanzo. Trenta libbre di carne era stata la sentenza che lo aveva privato di entrambe le gambe, un braccio e le dita della mano superstite.
     Thorulf rabbrividiva alla vista di quel corpo martoriato. Tremando da capo a piedi controllò nuovamente di aver deposto tutto secondo il giusto ordine. 
     Quando finì, sistemò quindi la barca per il viaggio di ritorno. Con le ultime forze rimaste si buttò contro lo scafo, con l'intenzione di farlo scivolare delicatamente verso il mare. 
     Nel frattempo in cielo non vi era più alcuna luce eppure in terra non vi era ombra del vecchio. Il ragazzo si stropicciò le mani, i palmi sudati. Ad attardarsi per più tempo non solo rischiavano di rientrare nel buio più assoluto, ma soprattutto di violare la Vecchia Legge. 
    Le pietre degli Antichi, erano ancora parzialmente visibile contro il cielo. Fino a quando la notte non le avesse oscurate, a Vecchia Legge non sarebbe stata infranta. 
     “ Deve essergli successo qualcosa. ” Senza attendere oltre il ragazzo si lanciò sulla scarpata che conduceva all'altopiano. Aveva appena abbandonato la spiaggia quando si rese conto della nebbia. 
     Campi interi di terra umida, prati a riposo, siepi e arbusti, tutto era stato inghiottito dalla bruma. Il ragazzo rallentò fino a fermarsi. Conosceva molte storie della Terraferma, e in quei racconti la bruma non era mai un segno da prendere alla leggera. Bestiemorte, Cambia-pelli, Succhia Ossa: le creature che si acquattavano fra i veli e i flutti in attesa di carne umana erano molte. 
     Tuttavia la Vecchia Legge era chiara e inviolabile. Dal sorgere del sole al calar della notte la Terra ferma era degli uomini.
     Riprese a correre, seguendo d'istinto la via che l'avrebbe condotto dal vecchio. Corse a lungo quasi in un mondo onirico, senza tempo. Non aveva molti punti di riferimento cui far fede ma per fortuna il senso dell'orientamento non gli mancava. 
     Per poco non cadde malamente scivolando sull'erba di un prato, che si trovava nel posto sbagliato. 
     Rabbrividì quando un alito gelido gli accarezzò il collo. Non era la prima volta che vedeva la nebbia, ma era di sicuro la prima che osava affrontarla invece di scappare verso il mare. In vita sua aveva visto la furia delle onde e la rabbia del vento,  aveva scorto l'ombra del demone che abita in ogni fiamma e aveva sentito addirittura la terra tremare sotto i colpi di Jütund, la bestia imprigionata sotto il mondo. Mai nulla però lo aveva preparato alla nebbia e ai suoi misteri.
    Mentre il paesaggio che conosceva si trasformava sempre più in qualcosa di alieno, tutt'attorno cominciarono ad agitarsi sospiri e lamenti. 
     Il ragazzo si guardò attorno per fare il punto della situazione. Pur sforzandosi non riuscì a capire in che luogo fosse finito. Tutto acciaccato per la scivolata, si alzò. Sapeva di aver corso in direzione dei campi, eppure era finito in mezzo ad un prato a maggese. O forse era un pascolo di confine? 
    Il ragazzo strappò qualche manciata d'erba e le portò al viso. L'odore verde dell'erica selvatica si mescolava al profumo resinoso degli aghi d'abete e all'afrore delle foglie di betulla. Un brivido lo scosse all'istante. 
    Cercò di confutare quello che il suo olfatto aveva riconosciuto in un attimo, sgranando gli occhi e studiando da vicino le erbe sul suo palmo, percuotendo il suolo. Di lucerna, che alcuni chiamano erba medica, non ne trovò nemmeno una foglia. Quello non era un prato a maggese.
    Confuso e spaventato  il ragazzo si mosse in avanti. Aveva capito di aver sbagliato strada eppure sentiva il bisogno di quella conferma. Non gli ci vollero che pochi passi. Sentiva le gambe molli, e il respiro corto. D'innanzi a lui si alzava un abete dalla rossa corteccia. E dietro quel tronco si apriva il Dono Verde. Solo poche centinaia di passi lo separavano da Ydalir, la selva degli spiriti, il giardino degli Dei.
     Nello stesso istante in cui la notte scacciava la luce del giorno il ragazzo percepì un freddo morso alla nuca. Non vi era più alcuna Legge a proteggere la sua vita.
    Un rumore alla sua destra lo fece sussultare. Rami spezzati, passi pesanti, un respiro affannoso. Il ragazzo trovò finalmente il coraggio di voltarsi e correre via.  Nella sua mente quei suoni evocarono le tremende sembianze di un verme di ferro dalle scaglie rugginose, o di un Villsvyn, una razza di cinghiali grossi come orsi, sempre alla ricerca di sangue umano.
     Il ragazzo scappò tra i campi e i passi della creatura lo inseguirono. Corse via senza più una direzione, semplicemente in fuga. Ma l'ansare del mostro non lo abbandonò. 
    Davanti a lui la nebbia si addensava in spirali sfocate. Già solo vedere dove metteva i piedi era un impresa che richiedeva tutta la sua concentrazione. Per un attimo sentì l'alito della belva così vicino da accapponargli la pelle. Si voltò giusto in tempo per vedere due ombre artigliate agitarsi nella bruma esattamente dove si trovava pochi istanti prima.              Balzò a destra, in un repentino cambio di direzione, nella speranza di  confondere il suo inseguitore, ma nel farlo si distrasse. Inciampò in qualcosa acquattato al suolo e cadde nella terra umida. Finì con il viso dritto nel fango e l'urtò gli mozzò il respiro. Con le narici piene di melma e in bocca il sapore viscido della torba cercò di rialzarsi, ma quando mosse le gambe si rese conto di avere i piedi legati. Un grido strozzato gli s'incastrò in gola. Provò a scalciare e dopo una leggera resistenza sentì una serie di scricchiolii. La presa si allentò.
     Quando andò a liberarsi dei resti della trappola che lo aveva preso prigioniero si accorse di avere in mano i frammenti della gerla da lavoro del vecchio. L'idea che potesse essere lì vicino gli scosse il corpo come una secchiata di acqua gelida. In un attimo fu di nuovo in piedi e incurante di tutto cominciò a chiamare il vecchio a gran voce.
     
Einar! gracidò al primo tentativo.
     
Einar! Vecchio! stillò dopo essersi schiarito la gola Dove sei!
     Ma non una voce si alzò in risposta. Il silenzio gravava sui campi come la cappa della notte.
    
Thorulf indietreggiò ormai sull'orlo delle lacrime, continuando a invocare il nome dell'uomo, mentre gli echi della sua stessa voce ritornavano a lui dai meandri nebbiosi, ricuciti in cantilene beffarde senza più significato: – Nareinarein? Narreiin! Vesseiioo? Nareinn? –
    
Cadde sulle ginocchia, ormai sull'orlo del pianto. Da qualche parte intorno a lui ricominciarono i rumori. Il ragazzo vide un balenare vermiglio saettare fra le nebbie. Qualcosa stava fiutando le sue tracce. Qualcosa di incredibilmente vicino.
    
Il ragazzo si zittì. Lentamente, nell'aria, cominciava a diffondersi un effluvio selvatico di terra e sudore, di sangue e di legno. Era un odore così estraneo per il suo olfatto abituato alla salsedine che all'inizio faticò a riconoscerlo. Poi l'immagine di una carcassa nera e contorta gli schiarì i ricordi. Era l'odore delle profondità di Ydalir. L'odore del cuore della Foresta e delle bestie che l'abitavano.
    
Strisciando fra il fango e la torba, il ragazzo si mosse cercando di mettere quanta più distanza possibile fra sé e le cose che lo inseguivano. Così, ventre a terra, avanzò per un tempo scandito esclusivamente dal battito del suo cuore. ad un certo punto tuttavia sentì che il terreno sotto le sue mani cambiava. Era roccioso, disseminato di muschi ed erba spontanea. Il rumore delle onde e il profumo del mare gli diedero la conferma definitiva. 
    
"La barca. " fu l'immediato pensiero del ragazzo. Doveva solo costeggiare la scogliera e sarebbe stato...
    
Il vecchio Einar. Il pensiero corse subito a suo nonno, disperso sulla Terraferma. Il senso di impotenza gli stringeva la gola.  
     
Una fulmine ribollì nel cielo coperto, oltre il velo di nebbia. Per un instante le nubi diventarono livide come ossa sbiancate. "Non può alzarsi una tempesta proprio ora! Se il mare si ingrossa..."
    
Thorulf capì tuttavia di non avere che una manciata di secondi per decidere. Ritornare nella nebbia o scappare verso il mare, come gli avevano sempre insegnato.
    
Infine arrivò il rombo dei tuoni. Mentre il fragore aumentava di volume, così forte da squassare perfino il terreno, Thorulf si alzò da terra e corse via con quanta forza aveva nelle gambe. Ma non aveva fatto i conti con un secondo e infine un terzo fulmine, che squarciarono le tenebre in sequenza con la loro luce. Il ragazzo si voltò giusto in tempo per vedere tre ombre ispide e ringhianti che convergevano verso di lui, gli occhi vermigli. Poi la notte calò di nuovo accecandolo. 
     
Una creatura si avventò su di lui e caddero entrambi al suolo. Il ragazzo scalciò e strillò, mentre la belva si avventava contro di lui. Sentì lo schioccare delle mascelle a un soffio dal suo viso, poi una fiammata di dolore lo stordì. Fu una scudisciata, quattro strisce di fuoco che si scavavano la strada nella sua carne, dalla fronte fino al petto. Sentì la testa scattare all'indietro e colpire il suolo. 
     Lontano, da qualche parte fra le nebbie, una voce gridò qualcosa. Dal cielo sopra la scogliera le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere, mescolandosi al sangue.
     

 





Chiacchiere e affini: salve gente, eccomi di nuovo a fare rapporto. Come promesso ecco il secondo capitolo, questa volta visto da un altro POV. Sappiatemi a dire se questo cambio di Voce è reso con criterio. 
Se avete dubbi o perplessità mi raccomando scrivete.
Anzi scrivete in ogni caso, anche un semplice smile. A me è sufficiente.


 

Ora un po' di Storia: troverete nella narrazione vari nomi e alcuni concetti che potrebbero non esservi chiari nell'immediato. Nessun problema, poichè ho intenzione di mettere qua sotto le cose basilari per poter approfondire

Calafataggio
Njord
Ydalir
Casa lunga



 



 

 

 

 

 


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Capitolo 3
*** 3. Lo Jarl(pt.I) ***


  
 

 

  3.Lo Jarl (pt.I)




 
    La notizia arrivò all'alba, solcando un mare che si faceva sempre più irrequieto. A quell'ora Dakken la Vipera Nera, Jarl di Helm, dormiva ancora il sonno dei giusti, la pancia gonfia di birra e la testa vuota dai pensieri. Era malamente steso a pancia in su fra cuscini e pellicce, il ventre prominente che si alzava e si abbassava al ritmo del suo russare quando un lontano rumore di tafferugli giunse al suo orecchio.
    –Che sta succedendo, per tutti gli Déi?– grugnì nel dormiveglia. Sentiva tutta la birra della sera precedente battergli ancora nelle tempie con la forza di un maglio. Anche se a ben giudicare dall'entità del cerchio alla testa che percepiva, le ore di sonno che lo separavano dalla sera precedente non dovevano essere state poi molte. “Qualunque cosa stiano combinando là dabbasso, è meglio per tutti loro che finisca immediatamente. ”
    Brontolando imprecazioni si voltò a pancia in giù e seppellì il volto sotto un cuscino per attutire i suoni. Se c'era una cosa che mal tollerava era essere disturbato il mattino seguente a una sonora bevuta.
    Era appena riuscito a scivolare nel buio ventre del sonno alcolico che il clangore di mobili rovesciati e urla furiose tornò a disturbarlo.
    –La morte cali su di voi, sui vostri padri e sui vostri figli!– gracchiò. Aveva la gola riarsa “Dov'è finita quella mezza fiasca di idromele... Era qui da qualche parte...” Con la testa ancora seppellita fra i cuscini mosse un braccio alla cieca, tastando tutta la superficie del pagliericcio. Il mal di testa continuava a crescere, avvelenando il suo umore come un dente marcio. Non riuscendo a trovare l'oggetto dei suoi desideri si decise ad alzarsi, le mani pervase da un pericoloso prurito.
    Rotolò giù dal letto trascinandosi dietro una buona metà delle pellicce e avanzò incespicando per la stanza, i visceri che gli ribollivano e un orribile sapore sulla lingua. Gemiti di protesta si alzarono improvvisamente dal pavimento, quando inciampò su due corpi stesi a terra. Idith e Mexera, le due schiave da letto che gli avevano tenuto compagnia per tutta la notte, alzarono la testa da sotto la pelliccia di leone nero che le ricopriva e si guardarono attorno con occhi assonnati.
    –Per tutti gli Abissi, toglietevi dai piedi maledette baldracche. Cosa ci fate sotto quella pelliccia? La mia pelliccia! Via, fuori da qui, prima che vi faccia cavare la pelle dei piedi a forza di frustate.– e con ciò sollevò da terra il manto ossidiana e se lo drappeggiò sulle spalle. Alzarsi non era stata una buona idea: il cerchio alla testa non era che peggiorato. Provando un forte desiderio di tornare a letto, raggiunse invece la porta della camera. Si concesse giusto il tempo di un respiro nella speranza che servisse a schiarirgli le idee e poi oltrepassò l'uscio.
    Non aveva ancora attraversato il corridoio che separava i suoi alloggi dalla sala del focolare, che il vociare rabbioso della rissa ricominciò.
    “Se hanno osato svegliarmi, litigandosi l'ultimo fondo di birra del barile, oggi qualcuno dovrà raccattare i propri denti per tutta la piazza d'armi.” Pensò stringendo i pugni. Tuttavia giunto al ballatoio che dava sulla sala, la scena che si trovò davanti lo lasciò di stucco.
   In casa sua regnava il caos. Due schieramenti si fronteggiavano armi alla mano fra tavoli rovesciati e stoviglie calpestate, nel vociare generale. La cosa che tuttavia lo sorprese maggiormente fu vedere Oryk dello Scoglio, il Conte degli Stracci, alla testa di quella scaramuccia.
    “Per le Tempeste di Ghiaccio degli Inferi, cosa ci fa quel rognoso piantagrane nella mia sala, armi in pugno?”
    Oryk, uno dei sette capifamiglia dell'isola di Helm, aveva infatti sguainato la propria spada e la agitava davanti a sé come un anatema, gridando oscenità. Ekberg primo degli Huskarli, lo fronteggiava forte dei suoi sette piedi d'altezza, gambe divaricate e scudo ben saldo al braccio, bloccando la scalinata che portava alle stanze private della fortezza.
    –Maledetto caprone troppo cresciuto, figlio di un cane e un'orsa, togliti dalla mia strada e vai a svegliare lo Jarl prima che ti tagli la gola! Porto informazioni di massima importanza! Sveglia lo Jarl! –
    –Te lo ripeterò per l'ultima volta Oryk. Lo Jarl sta riposando, perciò riponi quello spiedo prima che qualcuno si faccia male...– la voce dell'Huskarl era pacata ma ferma. Dakken, dall'alto del ballatoio non lo vedeva in viso, ma sapeva bene che sotto l'elmo del capitano due occhi inflessibili come la punta di lancia non avrebbero concesso neanche mezzo centimetro all'uomo di fronte a lui. –…e ordina ai tuoi cani di smetterla con questo chiasso. Lo dico per il tuo bene Conte degli Stracci, se sveglierete lo Jarl, sarà nel vostro interesse avere un'ottima scusante.–
    Sull'onda di quelle parole, prima che la faccenda degenerasse ulteriormente, Dakken decise di passare all'attacco.
   –Dici il vero Ekberg, mio fido capitano.- disse, affacciandosi alla sala, così che tutti potessero vederlo. E continuò, avviandosi verso la sclinata:
    – Oryk, nobile amico. Riponi quella tua lama, finché puoi farlo da uomo libero e raccontami cosa mai ti spinge a portare la discordia e la guerra in casa mia.–
    Nella sala calò improvvisamente il silenzio. L'unico suono rimasto era dato dai suoi stessi passi mentre scendeva i gradini di pietra.
    –Cos'è, avete tutti quanti perso la lingua per magia? E con essa anche le orecchie? A me non pare, non ancora almeno.     Giù le armi ho detto a voi genti dello Scoglio. Miei Huskarli con cortesia, accompagnate questi signori alla porta, nel caso ne avessero lasciata una. –
    Mentre gli uomini di Oryk si ritiravano sotto la minaccia delle lance, lo Jarl affiancò Ekberg. Il guerriero teneva ancora le scale, una roccia inamovibile che Dakken fu ancora una volta felice di avere come guardia del corpo. Raggiunse quindi il penultimo gradino e si fermò. In questa maniera era abbastanza in alto da sovrastare anche Ekberg. Ignorando deliberatamente Oryk, ammirò nuovamente la confusione che regnava per la sala.
    Panche, sgabelli e tavoli erano rovesciati, ma probabilmente più per uno scatto dei suoi Huskarli che per colpa degli uomini di Oryk. Sangue non era stato versato, per quello che aveva visto.
    Scese ancora di un gradino, rimuginando su cosa dire. “Questa sala ha visto banchetti dieci volte più violenti degli eventi di poco fa. Cosa devo farne di questi imprudenti? Dannazione, se questo mal di testa mi desse tregua.”
    –Grazie Ek, puoi farti da parte.– disse quindi. E continuò, rivolgendosi al suo ospite:
   –Oryk, infine, eccomi. Come da te richiesto, mi pare di capire. Qual buon vento ti porta sulle nostre coste questa mattina? Hai per caso perso il piacere per il buon sonno? –
    Nella sala risuonò però solo l'eco delle sue parole.
   –Parla per gli Abissi, così che io possa valutare se annegare tutta la tua stirpe in pozzo o condividere con te un pasto in amicizia! –
    Oryk indietreggiò di un passo, la spada ancora nella mano destra. Dakken si fece guardingo. Anche Ekberg si irrigidì.
    “Che sia impazzito? Cosa pensa di fare con quella spada? Ammazzarmi qui in casa mia, circondato dalle mie guardie?E perché?” si ritrovò a pensare, scrutando il suo avversario con l'occhio del guerriero e la mente dello Jarl.
    La punta dell'arma però, era rivolta al suolo e grattava mollemente il pavimento di terra battuta, quasi che l'uomo che la stringeva si fosse dimenticato di averla ancora in pugno.
    “Forse è ubriaco. Dopotutto quando mai è stato sobrio?”
    Provò ad addolcire i toni.
    –Vecchio pirata, flagello dei mari, forza! Dimmi cosa ti turba? Parla, non ti verrà fatto alcun male. –
    Oryk si passò allora una mano sulla barba, aggrappandosi a quei rovi grigi quasi cercasse di aprirsi la bocca a forza.
Poi a voce sommessa balbettò qualcosa.
    Dakken provò l'intenso desiderio di scaricare un pugno su quella bocca balbuziente, ma si trattenne, chiudendo gli occhi per un istante. Il mal di testa continuava a crescere.
    Fece appena in tempo a riaprirli per vedere Oryk che piegava un ginocchio a terra, la testa inclinata ad offrirgli il collo nudo.
   –Abbiamo perso il ragazzo mio Jarl. Il figlio di Karthark, è svanito nella notte e non sappiamo dove.– disse.




Salve gente, scusate ma oggi ho un po' fretta quindi non posso permettermi troppi salamelecchi. il contest scade domani e devo finire la revisione di almeno altri tre Capitoli..... Aiuto!!!!
Nella speranza che questo capitolo sia all'altezza vi saluto ;)

 
 

 



 

 

 

 

 


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Capitolo 4
*** 4. Lo Jarl(pt.2) ***


 
 

 

Lo Jarl (Pt.2)




 
    Il vecchio giaceva ai suoi piedi, le braccia legate dietro la schiena, bloccate da un bastone così che la posizione risultasse scomoda e dolorosa. Einar il Guerriero del Kraken, Einar la Lancia di Helm, Einar lo Jarl.
   Dakken lo osservò in silenzio. Per la seconda volta nell'arco di pochi mesi era davanti all'uomo più famoso che l'Isola di Helm avesse mai avuto, a decidere della sua sorte.
   –Dov'è il ragazzo?–
   La domanda echeggiò nella sala e si spense nel silenzio.
   Il vecchio teneva lo sguardo basso, quasi cercasse la risposta fra la cenere e la terra. 
   –Dimmi dove lo hai nascosto.–
   –Non l'ho nascosto.–
   –Io non ti credo. Nessuno in questa sala ti crede. Non c'è persona sull'isola che ti crede.– Dakken sottolineò ogni frase battendo il pugno sul tavolo.
    “Maledetta, vecchia faina. Per stasera tu avrai parlato o sarai cibo per i vermi.”
   – Il ragazzo. Dov'è? Dimmelo e ti farò grazia della vita.–
   Il volto rugoso dell'anziano guerriero si contorse in un sorriso.
   –Mi trovi divertente? Tutto questo ti sembra comico?–
   –Tu neanche lo immagini.–
   Il ceffone mandò il vecchio a finire con il viso nella polvere. Dakken assaporò il formicolio che gli accese la mano con lo stesso piacere con cui avrebbe accolto la bocca di Mexera attorno al cazzo.
   –Tiratelo su e portatemi un otre di vino– comandò.
   Due Huskarli affiancarono Einar e lo alzarono di peso. Un rivolo di sangue gli rigava un sopracciglio, lì dove aveva battuto al suolo.
   –Allora? Ci trovi ancora tutti così spassosi?–
   –Come guitti vestiti di pizzo.–
   Dakken si lasciò andare ad un sorriso.
  “Infame volpe grigia, il fegato non ti manca eh.”
  Il secondo ceffone fu un manrovescio. Colpì di sottano sinistro, diretto allo zigomo. (Un colpo crudo e violento.) Gli anelli che portava alle dita artigliarono il viso del vecchio e il sangue schizzò il suolo.
   –Lo sai che posso andare avanti tutto il giorno, Einar figlio di Knut?–
   Il vecchio non rispose. Le guardie lo riportarono sulle ginocchia e lo tennero fermo per le spalle così che non si lasciasse cadere.
   Dakken aprì e chiuse la mano, godendosi la sensazione di calore che gli pervadeva le dita.
   –Abbiamo moderato i toni vedo. Un po' mi dispiace, ti credevo fatto di una pasta più dura.–
   Il vecchio sorrise di nuovo, in rimando al ghigno di Dakken.
   –Ti lasciavo solo riprendere fiato, Dakken figlio di un cagna.–
   Lo jarl rovesciò la testa all'indietro tenendosi la pancia per le grosse risate.
   –Pensi forse di farti uccidere a forza di botte? Tutto questo era solo per scaldarci un po' il sangue finché non arriva da bere. Potrai essere anche stato il guerriero più forte del tuo tempo, Einar il Thraitl, ma ora non sei che un ombra tutta ossa dimenticata persino dalla morte.–
   –Non osare chiamarmi a quel modo. Tu maledetta serpe velenosa...–
   La punta dello stivale affondò nello stomaco del vecchio, mozzandogli il respiro.
   –Risparmia il fiato per cose più importanti. Ad esempio, dove hai nascosto il ragazzo?–
   Il vecchio tuttavia non era in grado di rispondere, scosso dai conati, porpora per la mancanza d'aria.
   Annoiato dalle sofferenze dell'anziano guerriero, Dakken si guardò attorno alla ricerca di qualcosa da bere. Menare le mani gli metteva sete.
   – La birra la state forse razziando nel Greenland? Dove è la birra che ho chiesto!– ruggì. Un servo che fino a quel momento si era tenuto in disparte, si fece avanti in tutta fretta, il capo chino.
   –Spero per te che questa non sia qualche brodaglia acquosa– disse strappandogli l'otre di mano.
   Il liquido fresco gli corse lungo la gola e il sapore leggermente maltato gli alleggerì l'umore. 
   Si avvicinò di nuovo al vecchio.
   –Allora, sei tornato in te povero stolto? Ma guardati. Ormai sei uno schiavo, e come tale devi imparare a piegarti alla volontà del tuo signore. Dimmi dov'è il ragazzo.–
   Ancora senza fiato, il vecchio sibilò:
   –Io sono un uomo libero ingiustamente privato dei miei diritti...–
   Il ceffone lo colse che ancora stava parlando.
   La reticenza del vecchio cominciava ad essere irritante.
   –Tu non sei altro che un pezzente. Eri un uomo libero, come eri un guerriero. Ora sei un debitore che deve all'Isola di Helm la bellezza di sei navi lunghe! Ringrazia tuo figlio per le tue disgrazie! Lui ne è l'unico responsabile.–
   Dakken si concesse un secondo sorso di birra mentre le guardie sollevavano nuovamente il vecchio da terra.
   –Mio figlio ha salvato l'onore dell'Isola e il tuo, Jarl Dakken.–
   Dakken si sentì punto sul vivo. Quella storia era ancora una ferita aperta.
   –Tuo figlio e i suoi uomini hanno messo in pericolo quest'Isola per un loro sogno di gloria! Non siamo più ai tempi del Re del Sale e del Legno. Le vecchie faide di sangue sono tornate più forti e violente di prima. E per colpa della tua famiglia, all'Helmborg mancano una mezza dozzina di skeid e qualcosa come di cento uomini validi.–
   –Damsy aveva inviato una richiesta d'aiuto! Devo forse ricordarti come durante la rivolta del Re Piovra, la flotta di Damsy abbia spezzato l'accerchiamento delle navi nemiche salvando tuo padre? –
   “Te la sei cercata maledetta vecchio impudente”
   Il calcio questa volta colpi il costato. Il vecchio si lasciò andare ad un gemito.
   –IO SONO LO JARL! IO, NON KARTHARK! METTITELO BENE IN TESTA, VECCHIO.–
   Dakken si allontanò per riprendere il controllo. La rabbia era un rogo che gli offuscava la mente e non poteva permetterselo.
   –E ora vedi di finirla. Il consiglio dei capifamiglia ha decretato decaduta la tua casata. I figli di Wylf sono polvere sotto i miei piedi. E tu e tuo nipote siete dei Thraitl, schiavi per debito.–
   –Ti diverti a pestare un uomo legato.–
   Era stufo di quella pantomima. In tono secco si rivolse a Ekberg.
   –Passami la tua daga.–
   Due spanne d'acciaio ben oleato strisciarono sul fodero di cuoio. Dakken non poté che apprezzare la semplice bellezza di quell'arma. L'impugnatura di legno era liscia e scurita dall'uso, ma asciutta e confortevole, la lama tanto affilata da rasare la guancia di un bambino.
   –È ora di finirla, con questa pagliacciata– disse mettendosi alle spalle del vecchio e posandogli la lama alla gola.
   –Ultime parole?– disse beffardo.
   –Morte su di te e sulla tua stirpe. Cenere nel tuo cibo e sale nel tuo vino. Sangue sulla tua casa e fuoco nei tuoi campi. Veleno nel tuo letto e acciaio alla tua gola. Così io ti maledico Dakken figlio di Segard. –
   Lo Jarl rise.
   –Era meglio se risparmiavi il fiato– e detto ciò calò due rapidi fendenti.
   Le corde che legavano il vecchio caddero al suolo.
   –Che non si dica che lo Jarl di Helm tema un vecchio denutrito. – Sempre sorridendo gli gettò l'otre ancora pieno per metà.
   –Bevi, non è veleno.–
   –Preferirei bere acqua di mare e piscio di vacca. No grazie, tirali pure ai tuoi cani gli avanzi– rispose il vecchio.
   Dakken lo squadrò. La rabbia non si era ancora sopita, e l'impudenza di quell'uomo era carbone sulle braci.
   “Quanto vorrei batterlo fino a frantumargli le ossa.” pensò, stringendo i denti. Tuttavia contenendosi disse:
   –Dillo ancora una volta e per la fine del giorno ti ritroverai ad implorare per un sorso di piscio di vacca. Abbiamo perso abbastanza tempo. Ora dimmi dov'è il ragazzo. Questa è la tua ultima opportunità–
   Il vecchio si alzò in piedi.
   –Cosa vuoi, forse uccidermi? Morire non mi spaventa. Fa pure.– Nel dire quella frase si aprì la camicia, scoprendo le coste smagrite e il ventre indifeso.
    –Affonda la tua lama, sferra il colpo. Io non mi sposterò.–
    Dakken raccolse la ghirba. Fissò divertito la scena, passandosi la birra da una guancia all'altra. Infine la sputò. In faccia al vecchio.
    Einar scattò in avanti, gli occhi accesi d'ira. Ekbert, dimostrandosi sempre pronto, gli arpionò i piedi con la testa della propria ascia. Il vecchio cadde ventre a terra, senza fiato.
    Dakken sfruttò quella caduta per affibbiare al vecchio un calcio in pieno viso. Sentì le cartilagini del naso spostarsi sotto la punta dello stivale con uno scricchiolio e il sangue esplose in un fiotto intenso.
    Dakken si avvicinò. Il vecchio non si muoveva più. Non un rantolo, non un insulto. E il sangue continuava ad allargarsi sulla terra battuta.
   Con la punta dello stivale provò a punzecchiargli il costato, ma la cosa non sortì effetto. “Dannazione, mi serve a poco da morto.”
   Non avrebbe dovuto lasciarsi trasportare dal momento.
   –Ekbert, controlla che non sia morto, e portalo via. Mettilo ai ceppi, e fa chiamare un cerusico.– disse quindi, mentre finiva l'ultimo sorso di birra.
   Il gigante si caricò il corpo svenuto in spalla e si allontanò.
   Nella sala non rimaneva più nessuno. Con il vecchio fuori combattimento e un ostaggio di valore svanito nel nulla, non gli restava che convocare l'Hertug, il consiglio degli anziani.
   “ Finirà mai questa giornata di merda?”
 

 



 

 

 

 

 


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Capitolo 5
*** 5. Il Vecchio ***


 
 

 

5. Il Vecchio





   Un cielo di piombo si rifletteva in un mare grigio acciaio. Einar era rimasto per molto tempo a scrutare la superficie delle acque, oltre le foschie e gli scogli, verso l'orizzonte. Costretto com'era su quel pilastro di basalto, non poteva fare altro che fissare le acque che di lì a sera lo avrebbero ucciso.
   – Ah, Thorulf…– Il nome gli uscì in un sibilo, mentre un accesso di tosse lo scuoteva da capo a piedi. Il suo corpo martoriato rispose a quei sussulti improvvisi con stilettate lancinanti. Il dolore arrivò feroce e inaspettato soprattutto da entrambe le mani, due pezzi di carne che ormai pensava e sperava di aver perso.
   Guardò i chiodi ritorti che lo trattenevano alla parete di roccia. La pelle era grigia e fredda da ore, come morta, eppure rivoli vermigli gli arrossavano di nuovo i palmi.
    Il dolore dell'acciaio che gli scavava le carni era stato talmente forte da piegarlo. Mentre la testa del martello si alzava e si abbassava a conficcare i rostri metallici sempre più a fondo, Einar si era sentito annegare in un mare di fuoco. Ad un certo punto, quando la sofferenza era stata insopportabile qualcosa in lui si era spezzato. Fra i sussulti e i conati aveva invocato pietà. Non una ma molte volte. In risposta aveva ricevuto solo una corda di cuoio attorno al collo.
    Ora a mente fredda il peso della vergogna lo schiacciava come un macigno.
   “Il Lupo Bianco si sarebbe strappato la lingua a morsi per non implorare misericordia. Io invece morirò senza onore su questo scoglio dimenticato dagli Dèi.” si disse.
    La sentenza era stata eseguita all'alba, con il sole che sorgeva pallido e smunto dalle acque. A quell'ora Einar non si era ancora ripreso dalle percosse di Dakken e solo mentre i suoi aguzzini lo legarono allo scoglio, aveva compreso tutto.
   L'Ordalia della Corda e dell'Acqua era una forma di condanna a morte molto antica, così antica da essere in disuso presso i Vareghi. Erano passati ormai decenni dall'ultima ordalia, tanto era raro ricorrere a tale tipo di giudizio. Solo un verdetto unanime dell'Hertug poteva averlo approvato.
   Einar strinse la mascella. Il dolore di denti malati e spezzati gli penetrò la mascella alla stregua di mille uncini da pesca conficcati nelle gengive. Soffrire lo aiutava a placare la furia e a ragionare con lucidità.
   Fino a pochi mesi prima lui stesso sedeva all'Hertug, assieme agli altri quattro capifamiglia. Ora invece della casata di Wylf non restavano che edifici saccheggiati e un vecchio incapace.
   La rabbia gli montò in petto e non riuscì a trattenersi.
  – Dakken della casa di Loth, io ti maledico. Oryk dello Scoglio, io ti maledico. Svennurl della casa di Krom, io ti maledico. Rhogbord della casa di Borr, io ti maledico.– Le sue parole echeggiarono fra le onde e gli scogli. Il riverbero della sua voce non si era ancora spento che il suo grido già montò nella brezza: – Io vi maledico per Njord e per Jord, così che le vostre navi giacciano senza vento e i vostri remi marciscano divorati dalle larve. Che le vostre spade si spezzino nel momento del bisogno e i vostri scudi si infrangano alla prima parata. Che i vostri figli muoiano giovani e la vostra stirpe sprofondi nelle selve dell'oblio. Einar il Dannato, vi maledice. Mille e mille volte vi maledice. –
    Gli avevano tolto la possibilità di morire armi in pugno, gli avevano tolto la possibilità di conservare l'onore.
   Un coro di risate rispose alle sue urla. Sembravano le voci dei suoi nemici e si rincorrevano nel vento, solleticando le sue orecchie con sussurri beffardi e parole crudeli. –Ormai sei un vecchio, Einar. Non sei più il guerriero del Kraken.–    Questo dicevano le voci. – Non c'è più nessun Re a Sala dei Relitti, non c'è più nessuno pronto a soccorrerti. Non hai amici a Helm, come non ne hai da nessuna parte fra le isole della Cintura. Dovevi piegarti e insegnare altrettanto alle ginocchia di tuo nipote. E invece sei stato uno stolto. –
   La verità di quelle parole aveva denti affilati, ed Einar accusò quei morsi fino in fondo. Sapeva di aver commesso errori.
    Tacque.
   Se c'era un colpevole di tutta quella situazione era lì, riflesso nell'acqua, e aveva la sua faccia. Nel lanciare tutte quelle maledizioni che ancora risuonavano nell'aria si era dimenticato di nominare il principale colpevole.
–Cieco idiota!– ringhiò alla propria immagine –Tu, sì. Inutile vecchio. Saresti dovuto morire molti anni fa e invece guardati: hai portato solo rovina sulla tua casata. Maledetta la tua anima, debole quanto il tuo corpo.–
    Sopraffatto dalla vergogna, il vecchio si abbandonò al proprio supplizio, lo sguardo perso nel vuoto.


   E la bruma di fronte a lui si dirada. È riverso a terra, coperto di sangue, un sangue non suo. La testa del Terzo Sovrintendente Agricolo giace nel fango a un soffio dal suo viso. È quasi buio, eppure anche con così poca luce vede le tremende ferite che ne deturpano i tratti: un lato del cranio sembra scuoiato fino all'osso, pelle e capelli che pendono in lembi scomposti come in un frutto sbucciato a colpi di spada. Mentre le orecchie smettono di fischiargli, un suono gli gela il sangue nelle vene. Poco lontano, da qualche parte alle sue spalle, un uomo rantola e geme sopraffatto dal dolore.    Invoca pietà, implora la morte. Einar riconosce quella voce: è il Secondo Sovrintendente Agricolo, quello che ama picchiare con il bastone borchiato.
   Raggomitolato in posizione fetale, Einar non osa muovere un muscolo. Anche respirare gli sembra pericoloso. Si sente confuso, la testa annebbiata.
   Un attimo prima era giorno, ed era da solo in mezzo ai campi. L'attimo dopo, è fra il fogliame del sottobosco, attorniato dagli alberi e immerso nel buio. Una fitta al costato gli fa tornare alla mente il pestaggio. I Sovrintendenti lo stavano punendo.
    I ricordi affiorano lenti.
  Sa di essere stato trascinato per le braccia, ma è un'immagine sfocata. Lo hanno bastonato a dovere, ne sente i postumi. I suoi aguzzini non si sono risparmiati.
   Sa anche di essere stato impiccato. Una corda gli ha stretto la gola. Una corda che è ancora attorno alla sua gola. Quella sera non volevano punirlo, volevano ucciderlo. Il primo pensiero è per il ragazzo disperso e solo, ma è anche l'ultimo.
    Improvvisamente ricorda lo strappo alla base del cranio, il suolo che si allontana di colpo. In quegli attimi forse vengono pronunciata delle frasi, ma Einar non se le ricorda. Non può. L'ultima immagine prima di svenire è quella di un'ombra dagli occhi di fiamma, una massa di pelo che irrompe dal folto della foresta. Poi una coltre di tenebra cala sui suoi occhi, fino al suo risveglio pochi istanti prima.
   Quegli stronzi volevano fargli la pelle, ma qualcuno l'ha fatta a loro. Einar si porta le mani alla gola e si sfila via il cappio. D'un tratto i lamenti del Secondo Sovrintendente si spengono.
   Gli unici rumori che permangono sono gli scricchiolii di ossa frantumate a forza di mascelle e i viscidi echi prodotti da brandelli di carne ancora appiccicosi di sangue.



    La febbre gli bruciava ormai le carni, di questo Einar ne aveva certezza. La sentiva negli occhi, secchi e ruvidi come avesse sabbia fra le palpebre, e la sentiva annidarsi anche nei polmoni, colmi di muco sanguinolento.
    Si sentiva debole. Le gambe non lo avrebbero retto ancora a lungo. Guardò in basso.
   “Non voglio morire abbandonato alla corda, come un ladro di bestiame. Se Edwyk il Folle è stato capace di amputarsi da solo la mano dello scudo ridendo fino alle lacrime, Einar della stirpe di Wylf attenderà la marea per morire annegato. ”
   Già lo immaginava, il suo corpo. Gonfio e livido in balia delle correnti, divorato dai pesci. E una volta spolpato, le sue ossa sarebbero rimaste fra le rocce come monito per tutti. Il suo tuttavia non era il destino peggiore. Per un uomo di mare, un guerriero come lui, morire fra i flutti era la minore fra i disonori. Per troppo tempo gli Déi delle profondità erano rimasti in sua attesa. Sarebbe morto in mare, come suo padre e il padre di suo padre, e la sua anima avrebbe navigato per sempre le buie correnti degli abissi.
   L'anima del ragazzo, invece, era destinata a vagare per i regni fatati dei folletti, prigioniera dei malefici degli orchi, costretta a a rimanere sulla Terraferma fino alla fine dei tempi.
    Il pensiero del ragazzo era una ferita aperta impossibile da suturare. Dov'era in quel momento? E cosa stava passando?    Avrebbe più abbracciato suo padre e rivisto il mare? O sarebbe stato solo un cadavere senza nome, un corpo fra le foglie? Domande, domande che si accavallavano nella sua mente senza risposta.



   La creatura sta ancora rivoltando il cadavere del Secondo Sovrintendente. Einar lo deduce dai rumori umidi e appiccicosi che arrivano alle sue spalle. Disteso a terra, pensa. Pensa alla sua situazione, al ragazzo. Tuttavia non sa cosa fare. Teme che anche il più piccolo movimento possa tradirlo, ma d'altro canto non vuole trovarsi lì quando la bestia smetterà di provare interesse per i cadaveri che sta smembrando e cercherà qualcos'altro.
    Einar non è spaventato: non è la prima volta che si trova in territorio sconosciuto, ad affrontare nemici più forti o in numero soverchiante. È però la prima volta in vita sua che si trova completamente disarmato. Non un coltello, né uno scudo. Si accontenterebbe anche di una semplice pietra, ma con le tenebre che avanzano non ne vede a portata di mano.
    E poi c'è il ragazzo. Solo sulla spiaggia, alla barca. Già lo vede a torcersi le mani sudate, tormentato dal dubbio e dall'indecisione. Il vecchio prega solo che il ragazzo non abbia la sciagurata idea di venire a cercarlo. “ Oh Jord, che di foglie verdi ti vesti, ti prego veglia su mio nipote. Portalo in mare, allontanalo da me.”
    Sta ancora pregando a questa maniera quando qualcosa lo interrompe. Nel bosco è sceso il silenzio. La bestia non fiuta il terreno e non spezza più ossa. Non lappa il sangue e non rovista fra le interiora. Tutto è fermo, ogni cosa è immobile.
    Poi lo sente. È una voce che grida il suo nome.
   “Thorulf” pensa, ma è già troppo tardi.
   La bestia scatta fra gli alberi, pronta alla caccia.


    Un colpo secco al torace lo svegliò.
  Einar aprì gli occhi, le palpebre collose e disidratate. In basso, oltre lo stretto gradino di roccia che lo separava dall'impiccagione il livello delle onde gli bagnava i piedi.
   Il colpo si ripeté.
   Un bastone, con la punta irrobustita da fasci di bronzo, picchiò fra le sue coste.
   Einar alzò il capo. Alla sua destra una piccola barca a remi lottava coi flutti. A bordo due uomini, entrambi armati. Il vecchio riconobbe il gigante ai remi. Nonostante il mezzo elmo calato in testa, erano in pochi a vantare una stazza del genere. E nessuno maneggiava un'ascia lunga come quella che giaceva sul fondo della barca.
   Un nuovo colpo, più forte gli mozzò il respiro. Digrignando i denti, Einar girò il capo per la misura concessa dalla corda al collo. All'altro lato del bastone c'era Dakken.
   – Se sei vivo grida, per gli Déi.– disse sferrandogli un colpo al basso ventre. Einar accusò la botta, trattenendo un gemito. Un solo movimento sbagliato e si sarebbe ritrovato a ballare la giga del ladro.
   – Cosa vuoi ancora da me?– la voce gli uscì rocaa, flebile. Sputò una boccata di muco che gli ostruiva la gola e poi continuò. – Dimmi cosa vuoi e poi lasciami alla mia condanna. –
   – Non implori pietà quindi? Stare appeso a quella maniera ti ha fatto ritrovare un po' di onore, vedo. –
Einar lo fulminò con lo sguardo.
   – Lo Jarl di Helm deve avere proprio una vita vuota se non ha di meglio da fare che tormentare un vecchio agonizzante.–
    Dakken posò la lancia e si sporse dal parapetto dell'imbarcazione.
   – Lo Jarl di Helm tenta solo di scongiurare una guerra, vecchio stolto. Ho una proposta, se le tue orecchie non sono ancora state mangiate dai granchi.
   Einar avrebbe stretto i pugni se solo avesse avuto ancora il controllo delle proprie mani. Una fitta gli percorse le braccia. Ringhiando fra i denti rispose. – Hai raso al suolo la casa di Wylf e rapito un ragazzo innocente, corrotto l'Hertug e usato tradimenti e inganni. Nulla ti salverà dall'ira di mio figlio. –
   Lo Jarl scosse il capo. – Io ho cercato di proteggere il ragazzo. L'avevo affidato a te, quando Oryk l'avrebbe venduto come schiavo da miniera. Io volevo solo costringere Karthark alla ragione!–
    – Ti sei fidato di Oryk e ti sei trovato un pugnale sul cuscino. Il conte degli stracci guarda solo al proprio tornaconto. Quando mio figlio verrà a reclamare la tua testa, chi credi che si solleverà in tua difesa? Oryk vuole il titolo di Jarl quanto l'avido brama l'oro. Alla fine tutto si concluderà con una faida di sangue fra la casata di Wylf e quella di Loth. Il vostro acciaio contro il nostro. –
    “E a vincere saranno le casate che ci hanno messo l'uno contro l'altro. La tua vita è appesa a un filo tanto quanto la mia è appesa a questa corda e a questi chiodi.” pensò fra sé, ma non lo disse.
    Lo Jarl si concesse una pausa, quasi non riuscisse a trovare le parole, a formulare una frase. Quando alla fine smise di boccheggiare disse:
    – Se io fossi disposto a liberarti… A curarti…– La voce dello Jarl era ormai un sussurro. Einar lo fissò negli occhi e vi lesse solo disperazione.
    – Guardami Dakken. Guardami bene. Con che onore vieni qua dopo avermi infamato e storpiato.–
    – Ti sto offrendo la vita!–
   – Mi stai offrendo pochi giorni da moribondo, nella speranza che le mie parole o la mia stessa vita possano farti da scudo. Sei un vile Dakken, e pure uno stupido se credi che io possa accettare quello che offri. –
    Con un ruggito lo Jarl affondò la lancia. La furia nei suoi occhi bruciava come fuoco. Einar poté solo voltare il capo e stringere i denti. Un dolore acuto gli accese la coscia destra e aumentò a dismisura quando la punta della lancia si rigirò nella carne.
    Poi l'acciaio vene strappato via.
   – Brucerò le tue ossa, vecchio, e impasterò le ceneri con il piscio di cane e la merda di porco. Poi brucerò tutto di nuovo, ballando intorno al fuoco e lanciando maledizioni sulla tua anima. Infine seppellirò quello che rimane nel bosco, così che la tua memoria scompaia per sempre e la tua anima diventi polvere. Questo io lo giuro.–
    – Urla pure quello che vuoi, per allora io sarà morto.– borbottò Einar, stremato da quella discussione, sofferente per la nuova ferita. Dakken tuttavia si stava già allontanando. Lui ed Ekbert erano ai remi e in pochi attimi sparirono alla vista lanciandolo solo.
    Einar provò a guardarsi la gamba per valutare la ferita, ma dalla sua posizione non vide altro che una macchia rossa sui calzoni, che andava allargandosi a vista d'occhio.
   Si sentiva debole e tutte le sue energie residue fuggivano dalla carne lacerata assieme al sangue.
   “Non mi resta poi molto.” pensò “Chissà cosa ne è del ragazzo. Povero nipote…”
   Quella domanda lo straziava più dei chiodi conficcati nei polsi, più della ferita alla coscia e più della corda di cuoio che minacciava di strangolarlo ad ogni movimento.
   Il figlio di suo figlio era disperso fra le selve di Ydalir, prigioniero della Dea, fra i selvaggi e le belve. Morto o peggio ancora.
   “Per colpa mia Thorulf non diventerà mai un uomo, non calcherà mai la tolda di una nave né tingerà il ferro della propria scure col sangue dei nemici.”
   Era venuto meno al proprio compito non una, ma due volte. La vita del ragazzo gli era stata affidata prima da Karthark e infine da Dakken e lui aveva tradito quella fiducia. Avrebbe dovuto annegarlo quando ne aveva avuto l'occasione, quando giorno dopo giorno avevano navigato dal Recinto alla Terraferma. Avrebbe dovuto salvare l'anima del ragazzo e poi suicidarsi, così che Karthark potesse condurre la propria faida fino in fondo.
    Lacrime scesero a rigargli il volto. 
  – Oh Dei, siate misericordiosi. Come posso io sopravvivere ai miei figli e ai miei nipoti? Come può questo uomo assistere in silenzio mentre la rovina si abbatte sulla sua casata? Prendi questo mio corpo, Njord. E tu, Jord afferra la mia anima! Oh Dei del Mare e della Terra, divorate il mio spirito ma vegliate sul ragazzo… Questo io vi offro… ve ne prego accettate l'ultimo sacrificio di un uomo disperato–
    Gli Dei tuttavia non si degnarono i rispondere.


    I lampi squarciano il cielo, illuminando a sprazzi la notte. Einar si muove attraverso i prati e i campi, seguendo la voce del ragazzo.
    Le belve della foresta sono almeno tre. Creature ursine, dai volti smagriti. Due si sono aggiunte alla prima, sbucando dalla nebbia.
   Einar cerca di stare sottovento, di nascondersi ventre a terra durante i fulmini. Tuttavia è sicuro di essere stato avvistato. La creatura più piccola, poco più massiccia di un cane, scrutava nella sua direzione. Einar tuttavia non ha paura, non per sé. Fra i resti dei Sovrintendenti ha recuperato una spada corta e un bastone borchiato. Con quelli fra le mani si sente di nuovo giovane.
    Il fulmine squarcia il cielo. Einar la vede, ma è troppo tardi. La creatura gli è addosso.
   Il vecchio reagisce senza nemmeno pensare. Colpisce di sottano destro con la spada, a salire verso il ventre e il volto. Il metallo striscia contro qualcosa, ossa con ogni probabilità. La bestia cade a terra, deviata dal colpo. Soffia di rabbia, con fare felino.
   Fulmine. La bestia è di nuovo in piedi, alla sua sinistra, e gli sta girando attorno. Einar scatta di lato, menando una finta con il randello e affondando invece di spada. La creatura balza indietro.
    Buio. Einar si raccoglie in difesa le armi davanti a sé, mentre il rumore dei tuoni copre ogni cosa.
   La bestia attacca. Einar accusa un morso alla caviglia. Trattiene un grido e risponde di randello. La creatura molla la presa.
    Fulmine. La creatura è ancora a portata. Einar falcia il terreno davanti a sé con la spada in andata e ritorna indietro. Il secondo colpo va a segno. È un colpo mortale. La creatura stramazza al suolo, mentre la testa rotola via.
    Einar si volta.
    Fulmine. Una bestia salta addosso al ragazzo.
   Gridando di rabbia Einar si lancia all'attacco.


   La giornata volgeva ormai al termine e con essa anche la forza nei suoi muscoli. Sentiva il proprio corpo farsi sempre più pesante, scivolare verso il basso fino a tendere la corda intorno al suo collo, fino a stringere il nodo scorsoio.
   Assieme alla febbre, anche la sete aveva ormai cominciato a consumargli le viscere. Dopo un'intera giornata esposto alla salsedine, ferito e sanguinante, il miraggio dell'acqua era erotico quanto il sesso. La semplice vista dei liquidi abissi che gli si apriva davanti era insopportabile.
   Ci fosse stato il sole, la sete e il caldo, i crampi o i deliri lo avrebbero ammazzato in poche ore, questo lo sapeva. Tuttavia la giornata appena trascorsa era stata fredda e uggiosa, il vento del nord aveva portato solo nuvole grigie e rade piogge, aggiungendo poco più di una manciata di sabbia alla sua clessidra.
    Einar tuttavia sapeva che la notte non avrebbe concesso sconti. La marea ormai montava con furia e di lì a poco le acque sarebbero state abbastanza alte da lambirgli le ginocchia. Le onde si sarebbero abbattute su di lui, bagnando le sue vesti, rendendo la roccia scivolosa. Un minimo movimento, la minima debolezza e si sarebbe ritrovato a penzolare appeso per il collo.
    Ricordi vaghi e confusi cominciavano ad affiorare mano a mano che perdeva lucidità, di tanto in tanto come relitti alla deriva. Frammenti di quella notte sulla Terraferma e di molte altre notti della sua vita.
    La piazza dell'Helmborg illuminata a giorno dalle torce di Assemblea .
    Il riflesso metallico che accedeva gli occhi di una Bestiamorta. 
    Mille skeid che fendevano le onde al ritmo dei tamburi di guerra.
    I fuochi sacri di Imbolc nel Tempio Verde.
   Una lancia d'argento che squarciava le tenebre, bruciando con fiamme azzurre le creature della notte.
   Uno schiaffo gelido lo riportò al presente.
   Acqua salmastra gli invase la gola, scorrendogli lungo le mucose riarse, bruciando come liscivia. Einar boccheggiò, in cerca di aria. Scosso dalla tosse e in preda ai conati di vomito, per un'istante perse la presa sul gradino di roccia.
   D'un tratto ebbe la percezione di essere senza peso. Ma fu qualcosa che durò appena il tempo di un battito di ciglia. Poi precipitò verso il basso.
  Mentre il suo corpo cadeva, le braccia, inchiodate alla roccia, si aprirono. Portate all'estremo, entrambe le spalle si lussarono con uno schiocco sonoro, mentre la carne delle mani si lacerava attorno ai chiodi. Nello stesso momento in cui le spalle uscivano dalle loro rispettive articolazioni, Einar si sentì trafiggere da due lame incandescenti.
    Infine la corda attorno attorno al suo collo si tese di scatto, stringendo il nodo scorsoio alla sua gola e bloccando la sua caduta.
   Non perse i sensi. Lucido ma incapace di risollevarsi, Einar si agitò in modo inconsulto, i piedi che annaspavano ormai senza controllo fra le onde e il torace che si accartocciava su se stesso per la mancanza d'aria.
    In cielo, una falce di luna sbuca dalle nubi.


     Einar corre nella pioggia, pronto a morire.
   Poche braccia lo separano dalla bestia che ha aggredito Thorulf. Poi un fulmine colpisce la creatura. Una saetta crepitante, che non cala dal cielo, ma scintilla attraverso la nebbia alla sua destra.
   Il mostro viene sbalzato via, oltre il bordo della scogliera, avvolto dalle fiamme. Einar si ferma, accecato. A pochi passi di distanza giace il corpo del ragazzo. È sporco di sangue, una ferita gli deturpa il volto.
   Avanzando a tentoni Einar lo raggiunge. Si getta carponi, le ginocchia urtano la roccia procurandogli un intenso dolore. Raccoglie il corpo riverso a terra e se lo stringe al petto.
    Poi lo sente. La terza bestia è lì intorno. Ne vede gli occhi, ne sente l'odore.
   Fulmine. Uomo e bestia si fronteggiano. Einar finalmente vede con chiarezza la creatura che ha davanti. La pelliccia è lurida e gonfia d'acqua. Cade a brandelli, e sotto si intravedono muscoli rossi di sangue. Ma è il muso la parte più spaventosa. Dove un tempo c'era un volto, ora non resta che un teschio. L'osso è secco, morto, ma due occhi metallici scintillano al chiarore dei fulmini.
  La bestia soffia, pronta ad attaccare, tuttavia una seconda lancia di luce saetta fuori dalla nebbia fermando la sua corsa. La bestia viene avvolta da fiamme bianche e blu. Si dibatte, soffia e strilla così forte da superare il rumore dei tuoni.
   Einar non crede ai propri occhi. Davanti ai lui compare una figura umana avvolta in un pallido mantello. Luci fatate gli saettano fuori e dentro le pieghe della veste, e una maschera di legno gli copre il volto.
  L'aria si fa improvvisamente più densa, un sentore di sottobosco avvolge tutto. La figura avanza nella nebbia con sicurezza. Si dirige verso la Bestiamorta alzando una lancia che sembra un arpione per la caccia alla balena. Infine affonda l'arma e la creatura rimane immobile. Mentre nuovi tuoni squassano l'aria, le fiamme si spengono nella pioggia sfrigolando. Nell'aria si libera un sentore bruciato.
   Einar è ancora immobile, non sa cosa fare.
   – Chi sei? – grida.
   Ma la figura non lo bada. Adesso è accucciata sulla sua preda, intenta a recitare formule e incantesimi. Brandisce un coltello, che affonda nel cadavere. Poi cala il buio.
   – Chi sei? – grida Einar, di nuovo e nuovi fulmini saettano fra le nuvole illuminando l'altopiano.
  La figura è ferma davanti a lui, i lembi della veste che si agitano nell'aria come reti da pesca in balia dalle correnti. Una seconda selva di fulmini si apre nel cielo dietro alla sua testa, a disegnare un immenso palco di corna.
   –La sua vita mi appartiene – dice l'uomo indicando il ragazzo, e con il manico della propria arma vibra un colpo. Einar sente il legno battergli sulla tempia. Poi il buio.




Chiacchiere e affini: Questo capitolo si è fatto attendere lo so, ma per problemi interni alla storia non è stato possibile pubblicarlo prima. Se avete dubbi o consigli prego esprimetevi pure, io sono qua per darvi tutte le info che volete!!

 

 

 


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Capitolo 6
*** 6. Il Ragazzo(pt.I) ***


 
 

 

6. Il Ragazzo (pt.I)



 

   Tutto attorno regnava la notte. Thorulf, figlio di Karthark, si avvicinò al laghetto dalle acque immobili e sedette sulla riva muscosa. Riflessa nello specchio d'ossidiana splendeva una Luna d'avorio. Il chiarore era molto intenso, così forte da cancellare le stelle dal cielo. Il ragazzo tuttavia si trattenne dal distogliere lo sguardo; anche se gli occhi scrutavano le nere profondità che gli stavano davanti, la mente era persa fra ricordi lontani e preoccupazioni vicine.
    
Vagava in quella foresta da molto tempo, muovendo un passo dopo l'altro senza riuscire a trovare una via da seguire. Ci fosse stato suo padre assieme a lui si sarebbero aperti un varco fra la vegetazione, ascia in pugno, fino a trovare il mare.
  
Gli mancava suo padre, per quanto cercasse di negarlo. Lui e il suo modo di gridare oscenità. Lui e i suoi abbracci che toglievano il fiato. Lui che con un' occhiata era capace di far indietreggiare qualsiasi uomo.
    
Ammetterlo gli costava fatica, soprattutto dopo che le navi erano salpate lasciando a terra solo lui ed Einar.
  
Era incupito da quel genere di pensieri, quando qualcosa di strano catturò la sua attenzione. Infastidito come se calzasse gli stivali alla rovescia aguzzò la vista. Nell'acqua, o meglio nell'immagine che si rifletteva nell'acqua, c'era qualcosa di surreale.
   
“Per tutti i remi della flotta del Re!” pensò d'un tratto alzando lo sguardo verso il cielo. Oltre le cime degli alberi, fra le ombre di rami e foglie, una Luna diversa dal solito si stagliava nella notte.
    
Ammaliato da quella stranezza, Thorulf continuò a fissare il cielo, gli occhi ridotti a due fessure. Si sentiva stupido, come quando suo zio Hykvik aveva provato a insegnargli i rudimenti dell'intaglio.
    
-È tutto nel legno che hai per le mani, ragazzo - diceva lui. -Non devi fare altro che capire cosa si nasconde sotto i trucioli. Senza fissarti troppo sul resto. Ai nodi e alle fibre ci pensi dopo e non impazzire dietro le linee della corteccia, questa non è una mappa… Per certi versi è più come giocare con le nuvole: un'occhiata e l'idea è già lì, bella e chiara...-
   
Thorulf scosse la testa. Belli i discorsi di suo zio; peccato che lui nei pezzi di legno, o nella luna, non ci vedesse nulla. Niente con un senso, almeno.
    
“Però che alternative ho?” si disse, portando le mani alla nuca.
   
Si guardò attorno, senza concentrarsi su nulla. Voleva sgombrare la mente, preparare i propri sensi, risolvere l'arcano. “La Luna cambia aspetto… Se lo racconto al vecchio Einar rischio anche di prendermi una bastonata per averlo preso in giro. Incredibile.”
    
Alla fine fu pronto e alzò la testa a fissare la volta notturna. Era seduto fra il muschio e le foglie secche quando vide la chiave di tutto, il dettaglio che dava il senso all'insieme. Chiuse gli occhi, perché temeva di avere traveggole. Quando li riaprì, la Luna era ancora là nel cielo buio, sbagliata come prima.
   
Il disco d'avorio era un poco imperfetto sulla destra, allungato e crepato come un osso secco. Ma era fra le ombre lunari che si nascondeva il grande mistero. I tratti semplici anche se un poco rudimentali, l'inconfondibile disposizione di occhi e bocca…
   
Il ragazzo si grattò il capo, sentendosi a disagio. La Luna nel cielo era in realtà un volto, un volto d'avorio che galleggiava nel buio.
   
- Tutto questo non è reale – disse a mezza voce. Parlava per sé, ma una voce gli rispose nelle tenebre.
   
- Tutto questo è reale tanto quanto te. -
  
Thorulf trasalì. La maschera nel cielo era immobile. Non un'ombra, né una linea si era mossa sulla sua superficie, tuttavia il ragazzo non aveva dubbi.
   
- Se questo è reale, forse sono quindi morto? - disse al cielo.
  
- Se tu sei morto forse questo allora non è reale. - fu la replica. Il ragazzo si guardò attorno. Solo buio e alberi.
   
- Sono forse impazzito?-
   
- Stai parlando con un volto di legno che fluttua nel cielo, tu che dici?- continuò la voce, ora con una nota beffarda.
   
- Chi sei?-
   
- Una voce nelle tenebre. Un' anima persa. Un volto nella Luna. Un cacciatore silenzioso.-Thorulf si fece pensoso. Cominciava a scocciarsi. Tutti quei giochi di parole, il tono ironico di quella voce...
   
- Comunichi solo per enigmi tu?-
   
- Solo quando chi mi ascolta ha le orecchie troppo piene delle proprie parole - fu la pronta risposta. Il tono della voce era divertito. In cielo il disco si mosse per la prima volta, rotolando sottosopra.
   
Stupito, il ragazzo corrugò la fronte.
   
- Dove sono? Tu lo sai?- Tentò di incalzare il ragazzo.
  
- Certo che lo so e lo sapresti anche tu se invece di blaterare a vuoto ti fossi fermato a ragionare. -
   
- Sto sognando? -
   
- A te che pare? - La voce era sempre più beffarda.
   
- Se sto sognando come faccio a svegliarmi? -
   
- Se stai sognando non devi fare altro che svegliarti. - rispose la Maschera quasi con una risata.
   
- Non sei d'aiuto - lo accusò Thorulf.
  
- Non mi dai retta - si giustificò in risposta la Luna. Ma poi continuò: - Ci sono alcune cose che devi capire da solo. Anche se te le dicessi ti servirebbero a poco. E oltre tutto non sarebbe divertente.-
   
- Perché tutto questo ti diverte?-
   
- Certo.-
   
- Aiutami ti prego. Un indizio. Io non so da dove cominciare... -
  
- Il fatto è, ragazzo mio, che nel tuo caso cominciare e finire sono… la stessa cosa!- e detto questo la maschera d'avorio compì un altro mezzo giro e tornò dritta.
   
- Non capisco. -
   
- Quindi bisogna proprio dirti tutto... -
   
- Sì. -
  
Sulla foresta scese il silenzio. Le due ombre scavate sulla sua superficie si fecero improvvisamente più scure.
   
- Apri gli occhi, ragazzo.- disse infine la Luna.
   
Thorulf si fermò. Apri gli occhi.
   
D'un tratto la luce della luna si era fatta più forte. Il volto di legno occupava quasi metà del cielo ora.
   
- Apri gli occhi, Thorulf. -
  
La luce si fece abbacinante. Ora il disco d'avorio occupava tutto il mondo e i suoi occhi neri si aprivano nel cielo come due pozzi senza fine.
   
- Apri…-


   -...gli occhi- borbottò. In alto, puntate verso il cielo, le cime degli alberi si agitavano nella brezza del pomeriggio.
  
Thorulf si accorse di essere disteso su di una pelliccia adagiata su un letto di felci. Si sentiva stordito, rallentato nei pensieri e nei movimenti come in balia di acque dense e furiose.
    
Davanti a lui un fuoco da campo fumava placido, a causa della legna umida.
   
Cercò di sollevarsi su un gomito, ma un senso di vertigine lo precipitò al suolo. Foglie marce e terra umida si appiccicarono alla sua fronte e il contatto con il terreno gli accese la faccia di un vivo dolore.
   
Cercò di sollevarsi, ma quando provò non ci riuscì. Poi sentì le corde.
   
Era legato. Mani e piedi.
   -
 Ehi ma allora siamo svegli.- disse una voce alle sue spalle.

 

 

 

 

 

 



Chiacchiere e affini: Ehi gente come avete passato ferragosto? Io molto bene e per questo il capitolo si è fatto attendere. Tuttavia ora ci avviciniamo agli ultmi colpi e agli ultimi capitoli quindi cecherò di essere bravo e diligente così da chiudere il tutto entro la fine del mese. Fatemi sapere cosa ne pensate!
 

 


 

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Capitolo 7
*** 7.Il Guerriero Con L'Ascia ***


7. Il Guerriero Con L'Ascia




 

    Ekbert si sedette sulla seggiola davanti al focolare, contento di potersi finalmente godere il silenzio della Sala vuota. In qualità di Capitano della Guardia aveva diritto a una stanza privata, tuttavia la usava di rado. Dormire chiuso fra quattro mura di pietra non gli piaceva.
    -Se devo dormire cieco e sordo in un buco di pietra, tanto vale che mi tappi le orecchie con del fango, gli occhi con una benda e le narici con della cera.- Così aveva detto a Dakken il giorno in cui era stato nominato Primo fra gli Huskarli. -Se qualcuno si avvicina alle mie palle, voglio poterlo udire prima che sia alla porta con la spada in pugno. No, grazie, ma dormirò con gli altri nella Sala.-
   Quella sera, però, gli altri Huskarli erano giù, nella città bassa. La morte del vecchio Einar aveva portato solo malumori perciò aveva concesso a tutti loro un congedo straordinario fino al mattino; sapeva per esperienza che una serata passata fra taverne e bordelli, avrebbe aiutato a sbollire gli animi e curare i malumori.
   Immerso nella quiete, riscaldato dal fuoco che ardeva vivace, si poggiò l'ascia lunga in grembo.
   “Attento al filo delle tue lame, figliolo. È come con le donne, se ci presti poca attenzione prima o poi ti tradiranno.” Quell'ammonimento lo faceva ancora sorridere. Era stato Seagard, il padre di Dakken, a impartirgli quella lezione, il giorno stesso in cui lo aveva reclutato sul proprio skeid. Ekbert era poco più di un ragazzo all'epoca, un imberbe giovinastro che sapeva menare l'ascia solo per spaccare la legna. Ora invece, i capelli e la barba si ingrigivano di giorno in giorno e non aveva ancora incontrato un uomo capace di tenergli testa. Ritornare con la mente a quei giorni, tuttavia, gli metteva una grande nostalgia. Erano stati anni duri, ma i migliori della sua vita.
   Dalla bisaccia tolse la pietra a grana fine, la immerse in una tazza d'acqua che stava sul tavolo lì vicino, e si mise al lavoro. Mentre rifiniva l'affilatura della propria ascia lunga, il guerriero ripensò al primo viaggio a bordo dell'Abisso, ai suoi passi incerti su quel ponte di legno che gli aveva cambiato la vita.
    Fu come non essere mai sceso. Sentì il suono del tamburo di guerra che batteva il ritmo di vogata alla stregua del cuore di un leviatano; l'odore di pece bollita e lana affumicata che impregnava lo scafo, gli uomini e persino il cibo; il senso di vertigine provato davanti alla prima tempesta in mare aperto, fronteggiata a forza di remi.
   Sentì in bocca il sapore del sangue nemico, quello che seguiva un colpo d'ascia ben piazzato, e nelle narici fiorì l'odore di morte che aleggia dopo ogni battaglia. Si rivide piccolo e affamato, a lottare alla fonda del porto di Helm. Il più grande fra gli straccioni, sempre pronto a menare i pugni per qualche mollusco in più.
   E sentì di nuovo il dolore della prima ferita ricevuta, un colpo d'ascia che gli aveva spezzato lo scudo e anche il braccio. La frattura in seguito si era rinsaldata bene, tuttavia per parecchi mesi il timore di rimanere storpio e di non essere più utile sull'Abisso, aveva tormentato le sue notti.
    Quei giorni era stato Seagard in persona a prendersi cura di lui. Una gentilezza che non aveva mai dimenticato.
   Quando l'ascia lunga fu tagliente a dovere Ekbert ripose la cote e cavò fuori un panno oleato. Peggio di un'arma smussata c'era solo un'arma arrugginita; la mistura di oli animali che dava sul proprio acciaio era un segreto che custodiva gelosamente. Intinse un angolo del panno nella scatoletta di corno che conteneva la preziosa mistura e cominciò quindi a ingrassare il metallo appena affilato. Quella routine era da sempre in grado di placare il suo animo irrequieto, e quella sera aveva proprio bisogno di tranquillità.
   Il pensiero volò al pomeriggio appena passato. Condannare il vecchio guerriero all'Ordalia dell'Acqua e della Corda era stato un gesto crudele. “Quando Karthark lo verrà a sapere brucerà la casata dei figli di Wyrm fino alle fondamenta. Dakken è stato uno stupido” pensò Ekbert soppesando la propria arma.
    Quell'ascia era un dono di Seagard, l'ultimo prima che l'Abisso svanisse nelle nebbie del Mare di Mezzo. Quattro libbre e mezzo per oltre sei piedi di legno e metallo. Forgiata da una scaglia di drago, recava incisa su ambo i lati la Spina, un'antica runa di potere.
   Non aveva mai incrociato le proprie armi con il figlio di Einar, tuttavia non avrebbe esitato un solo istante qualora si fosse presentata l'occasione. Karthark era un grande guerriero, combattere contro di lui avrebbe portato onore e gloria a entrambi, qualunque fosse l'esito dello scontro. 
    Con gli ultimi colpi di straccio finì di lucidare l'arma. Soddisfatto del risultato, il capitano si fermò a rimirare le sfumature che danzavano sull'acciaio bagnato dal fuoco. “Molto è il sangue che è corso lungo questa lama ed Einar sarebbe caduto volentieri sotto i suoi colpi, piuttosto che morire appeso per il collo. Una faida di sangue fra le famiglie dell'isola sarà la morte di tutto l'Helmborg” pensò fra sé. “Seagard non avrebbe mai commesso un errore del genere.”
    Assorto in questo genere di riflessioni Ekbert incastrò la testa dell'ascia in una fessura del tavolo alla sua destra, quel tanto che bastava all'arma per non cadere. Ripescando la cote dalla bisaccia, cominciò quindi ad ispezionare la seaxa, la spada corta, l'arma degli uomini liberi.
   Il fruscio della pietra sul metallo risuonava ancora nella Sala, quando un rumore di passi lo costrinse a voltarsi.
   -Calmo Ekbert, sono io.- Avvolto nella pelliccia di leone nero, lo Jarl di Helm si avvicinò a lui, prendendo posto su una panca poco distante. Puzzava d'alcol e un'espressione cupa gli scuriva il viso.
   Ekbert continuò impassibile ad affilare le proprie armi, senza pronunciare una parola. Conosceva Dakken a sufficienza da capire quando scherzare e quando invece stare in silenzio. Se pensieri torbidi, o ancor più nere preoccupazioni, lo avevano allontanato dalle sue puttane, quello era il momento di tacere.
    Era per lo più soddisfatto del risultato, tanto da pensare già alla lama della daga, quando Dakken uscì dal suo silenzio.
    -Com'è che stasera non c'è nessuno, qua in giro?- disse guardandosi attorno.
    -Ho mandato i ragazzi a divertirsi.-
    -Come mai?-
    -Per stasera potevo cavarmela da solo- fu la secca risposta di Ekbert, mentre rifoderava la seaxa.
    Dakken annuì e tornò a fissare le fiamme. Dalla cintura recuperò un otre di pelle.
    -Idromele?-
    Il guerriero afferrò la ghirba, ringraziando con un cenno del capo, e se la portò alla bocca, bevendo una lunga sorsata.
    -Ho fatto un'enorme cazzata, Ekbert- disse lo Jarl.
    L'uomo si grattò una guancia e bevve una seconda volta prima di parlare. -Lasciar morire il vecchio è stato uno sbaglio, è vero. E ancora di più, è stato uno sbaglio condannare all'Ordalia un guerriero della sua fama.-
    Dakken sputò nel fuoco. -Quel maledetto caprone doveva solo stare alle mie regole e tutto sarebbe filato liscio.-
    Ekbert vide le fiamme della rabbia riflettersi negli occhi dello Jarl. -L'hai messo nelle mani di Oryk. Conoscendo quello scorpione e sapendo come alleva quei cani dei suoi Liberti, puoi solo immaginare le umiliazioni che gli avranno fatto patire.-
    -E così era giusto che fosse! É stato suo figlio a rubare le mie navi e a tradire la mia fiducia! La casa di Wylf aveva bisogno di una dura lezione. Sia dannata l'anima di Einar e il suo orgoglio inflessibile. Doveva solo piegare quelle sue ginocchia di pietra e fare atto di sottomissione per tutti i figli di Wylf. Io pretendo il rispetto che mi è dovuto. Sono o no lo Jarl di questa maledetta isola?-
     La domanda rimase sospesa nel silenzio della Sala. Dakken si alzò, rovesciano la panca su cui era seduto. Drappeggiandosi la pelliccia sulle spalle, si mosse fra i tavoli, puntando al barile di birra.
     Ekbert seguì i suoi movimenti con lo sguardo.
    -Qua c'è ancora idromele, se è quello che cerchi- disse.
    -Per quello che mi riguarda puoi buttarlo nel fuoco. Mi sembra di avere una lama piantata nelle viscere a causa di quella roba. Ho bisogno di bere qualcosa di leggero.-
    Sorridendo, il guerriero stappò la fiasca con i denti e bevve un sorso generoso. Il liquido scese come fuoco lungo la sua gola, diffondendo in tutto il torace un senso di calore.
    Dopo poco, Dakken fu di ritorno, reggendo un grosso corno colmo di birra scura.
    -Skoll- grugnì, prima di concedersi un lungo assaggio.
    -Skoll- replicò Ekbert, alzando l'otre verso l'alto.
    Quando la sua sete fu placata, lo Jarl si trovò una seggiola e la portò vicino al focolare.
    -Com'è la situazione sull'Isola? Siamo pronti ad affrontare il ritorno di Karthartk?- chiese.
   -Ci sto lavorando. Ho richiesto altri schiavi a Oryk, una ventina. Lui ha fatto le solite storie, tuttavia, vedrai che arriveranno e l'ampliamento dei terrapieni e il rinforzo delle palizzate esterne sarà completato nei tempi previsti. Se inoltre mi dai il permesso, vorrei garantire agli schiavi che lavoreranno con più efficienza la possibilità di incontrare le schiave che coltivano i campi dell'isola. Sullo scoglio gli uomini invecchiano ed è sempre più difficile trovare carne fresca ora che le incursioni a sud sono diminuite.-
    -Ci penserò. Altro?-
    -Le mie fonti, giù al porto, dicono che alla fonda sosta una nave di Tyyr. Una nave lunga che ha visto tempi migliori, giunta in porto questo pomeriggio.-
    -Tyyr era scesa in guerra a fianco dei Figli della Luna contro Damsy- mormorò Dakken.
    -Non proprio…-
   Ekbert si concesse un ultimo sorso di idromele prima di rispondere. -A quanto riporta il capitano, sembra che lo Jarl di Tyyr abbia tradito i Figli della Luna dopo l'arrivo di Karthark. Soverchiati per numero e circondati su tre lati, i Figli hanno capitolato in pochi giorni.-
    Dakken impallidì.
    -Karthark… le mie navi…-
    -Tutte alla fonda di Damsy, tranne la Lancia di Wotan.-
    -Lo skeid di Karthark? É stato affondato?-
    -No, tutt'altro. Sembra sia svanito fra le nebbie del Mare di Mezzo inseguendo lo skeid di Ivald Ascia di Pietra, che guidava la flotta dei Figli.-
    Dakken si concesse un nuovo sorso di birra e si chiuse nei propri pensieri.
    Ekbert si schiarì la gola. -Devi trovare il modo di riappacificarti con Karthark.-
    -Oppure devo trovare il modo di estirpare la Casa di Wylf dalle Isole della Cintura.-
   -Karthark ha dalla sua l'appoggio di Damsy e di Tyyr. Se vuoi davvero ucciderlo, la tua furia non deve risparmiare nessuno. L'Helmborg non può permettersi una faida interna e una guerra con altre Isole. A nord le navi di Urragon il Corvo si fanno sempre più vicine...-
    -Io… io…- ma non continuò la frase. Stretto nella pelliccia, lo Jarl di Helm si chiuse nel silenzio.
   Ekbert lo guardò con compassione. Aveva protetto la sua nascita montando la guardia fuori dalla capanna della levatrice, il viso dipinto e le armi rituali in pugno per scacciare gli spiriti malvagi. Lo aveva visto crescere, farsi un uomo e infine diventare Jarl. Lo aveva sempre sostenuto e amato come fosse suo fratello minore e ne conosceva il valore in battaglia; nonostante ciò non aveva mai approvato la sua elezione a Conte dell'Isola. Seagard sarebbe potuto diventare un grande Jarl; Dakken al contrario non era mai stato uomo adatto al comando e lo dimostrava sempre di più col passare del tempo. Fu proprio mentre rifletteva su queste cose che Dakken lo colse di sorpresa con una domanda scomoda:
   -Ekbert, tu sei sempre stato al fianco di mio padre. Cosa farebbe lui ora, nella mia situazione?-
     Il guerriero sentì la bocca farsi arida, la lingua impastata.
    -Dakken... Jarl, io…-
    -Te ne prego, parla pure.-
   Seagard? Segard avrebbe ucciso gli altri capifamiglia e offerto le teste mozzate a Karthark; così in un colpo solo avrebbe rimarcato il proprio potere, eliminato infidi alleati e allo stesso tempo placato la sete di vendetta dell'avversario più pericoloso. Dakken, tuttavia, non aveva l'astuzia di organizzare una congiura di quella portata.
    -Devi ritrovare il ragazzino- disse in un fiato.
    Lo Jarl lo fissò incredulo. -Il ragazzino? Quello che abbiamo perso sulla Terraferma?-
    Ekbert annuì. -È l'unica via. Io l'ho visto. È un ragazzo sveglio, forse è ancora vivo.-
   Dakken scosse il capo. -Ydalir non perdona. Quel ragazzetto starà già marcendo fra i cespugli, il cadavere fatto a brandelli dalle ombre della foresta e dalle creature nella nebbia.-  
    Ekbert prese un ciocco di legno e lo buttò fra le braci, sollevando una torma di scintille.
   -Oryk non la racconta giusta. Ci sono stati movimenti in questi giorni sullo Scoglio. Uomini armati e cani da caccia.-
    -Cosa?- Dakken sgranò gli occhi. -Quell'infido pezzente…-
    -Credo voglia arrivare al figlio di Karthark, in segreto, così da avere salva la vita qualora le cose si mettessero male per te.-
    -Avrei dovuto tagliargli la testa quando ne avevo l'occasione.-
    Ekbert Annuì. -Precisamente. Tuttavia ora non ti resta che organizzare una contromossa.-
    -Cosa consigli?-
   -Quattro dei miei ragazzi. Ho già in mente i nomi. Fammi un cenno e domani mattina saranno già nella foresta.-
     Dakken si accarezzò la barba, pensieroso.
   -No, questo è un compito troppo importante. Ekbert, voglio che sia tu a ritrovare il ragazzo.-

 

 

 


 

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Capitolo 8
*** 8. Il Ragazzo(pt.II) ***


 

 

8. Il Ragazzo (pt.II)
 




   Thorulf e il suo rapitore camminavano da ore avanzando veloci fra gli alberi e il rado sottobosco. Oltre i rami protesi e le cime ancora più in alto, un cielo scuro gravava sulle loro teste. L'aria, resa pesante dall'afrore di pioggia e resina, muschio e terra, si coagulava in una cappa soffocante.
   
“Non piove, non ancora, ma prima di sera saremo zuppi” pensò Thorulf, guardando le nubi che si addensavano.
  
Distratto da quello che succedeva sopra la sua testa, il ragazzo incespicò su una sporgenza del terreno e perse l'equilibrio. Un tappeto di aghi rossicci fermò la sua caduta, ma il movimento brusco tese la corda che aveva attorno al collo, stringendo il nodo scorsoio.
   
Sentendosi mozzare il respiro il ragazzo cercò di chiamare aiuto, senza però riuscire a pronunciare più di qualche rantolo soffocato. La bocca gli si riempì di foglie morte.
    
L'Uomo dei Boschi, tuttavia non sembrava essersi accorto di niente. La corda si tese con impazienza una, due volte. Infine arrivò un secco strattone che serrò ancora di più il cappio e trascinò il corpo del ragazzo per qualche spanna.
    
Con le mani legate dietro la schiena, Thorulf annaspò nel terreno morbido e spugnoso, cercando di rimettersi in piedi. Nel petto la fame d'aria bruciava come fuoco di ramaglie, consumandogli i polmoni. Si sentiva come un pesce preso all'amo.
    
Stelle luminose esplosero davanti ai suoi occhi, mentre un intenso formicolio gli mordeva il viso. Infine, lentamente scesero le tenebre, accompagnate da un brusio di mille api.
   
Quando riprese conoscenza, era appoggiato con la schiena a un tronco, le mani libere abbandonate in grembo. Il suo rapitore stava davanti a lui, in piedi nel silenzio della foresta di abeti.
  
Thorulf alzò lo sguardo. L'uomo indossava un mantello di pelli animali chiazzato di fango, ed era appoggiato alla sua strana lancia con aria infastidita. Quel giorno non portava maschere, ma si era dipinto la pelle del viso con pigmenti blu.
    
-Ci sei, Ragazzo?- chiese con tono burbero.
    
Thorulf lo fissò ancora un istante, cercando di mettere a fuoco dove fosse e con chi stesse parlando. Poi emise un suono rauco senza significato. Sentiva la gola stretta dalla corda, ma quando portò le mani al collo, lo trovò libero dal cappio. Cercò di schiarirsi la gola, di tossire, ma il senso di oppressione non se ne andò.
     
L'uomo gli tese una mano. -Rimettiti in piedi, forza. Non possiamo fermarci. Non qui. Non ora.-
    
A fatica il ragazzo si alzò; si sentiva malfermo sulle gambe, le ginocchia deboli. Un capogiro lo colse ma l'uomo fu veloce a prenderlo per le spalle.
   
-Guardami- grugnì -negli occhi. Ora respira. Piano. Più piano. Sta fermo.- La corda era ricomparsa fra le sue mani.
    
Thorulf cercò di dimenarsi, di sfuggirgli, ma l'uomo fu più veloce.
    
-No, ti prego- gridò il ragazzo in un urlo senza voce. -Non scapperò, te lo giuro. Ti prego, non legarmi!-
    
In qualche modo l'uomo sembrò capire. -Stai fermo, maledizione, o ti ci strangolo io con la corda, questa volta.-
  
-Ti prego, ti prego- implorò il ragazzo, cadendo in ginocchio. Lacrime bollenti gli solcarono le guance.
   
-Non ti sto legando per il collo. Unici le mani.- Le parole dell'uomo erano taglienti come lame.
    
Thorulf obbedì, il viso bagnato di lacrime e il torace ancora scosso dai singhiozzi.
  
La corda passò attorno ai suoi polsi a formare un solido nodo. Quando l'uomo fu soddisfatto del risultato, legò l'altro capo della corda al proprio braccio destro. 
   
-Stammi dietro che di tempo ne abbiamo perso abbastanza. Cammina dove cammino io e fai silenzio: stiamo per entrare in una parte di foresta abitata da creature ostili. Se vedi qualcosa che ti spaventa, abbassa lo sguardo e tira la corda due volte. Hai capito?-
    
Thorulf annuì.
   
Erano in marcia dall'alba, ma erano ormai ben tre giorni che non facevano altro che camminare. Si sentiva sfinito tuttavia aveva troppa paura di irritare il suo rapitore chiedendo una pausa.
    
Dal suo risveglio dopo lo strano sogno infatti, egli era sempre stato molto duro. -La prima volta che cerchi di scappare ti taglio un dito del piede. La prima volta che cerchi di urlare ti affetto la lingua in due. Come le bisce. Vuoi essere un ragazzo biscia?- E nel dirlo aveva estratto un coltello dalla lama affilata. -I patti sono questi ragazzo delle Isole. Cammina veloce dietro di me e non ti succederà nulla. Pensi di buttarti a terra o rallentarmi? Ti giuro che ti appendo all'albero più alto e aspetto che le bestie della foresta vengano a rosicchiarti gli stinchi.-
    
Certo, i primi giorni sarebbe forse riuscito a scappare e guadagnare la costa, ora tuttavia non poteva fare altro che fidarsi del suo aguzzino. Rispetto al primo giorno e a quel crudo risveglio, l'uomo sembrava essersi ammorbidito. Risparmiargli la corda al collo poteva sembrare quasi una gentilezza. Thorulf scacciò le lacrime con una mano e si esibì in un piccolo inchino.
     
-Grazie- disse.
    
Per tutta risposta, l'Uomo dei Boschi gli diede le spalle e riprese la marcia.


   
   Alla fine cominciò a piovere. Metà della giornata sembrava ormai trascorsa quando le prime, sottili gocce di pioggia cominciarono a cadere sulle loro teste. In breve Thorulf si ritrovò ad ansimare nell'aria satura d'umidità, le vesti fradice che pesavano come catene.
    
Nonostante le difficili condizioni l'Uomo dei Boschi non rallentò mai. Sembrava aver molta fretta.
     
Abbandonarono così la macchia di abeti per un bosco di faggi, continuando a camminare ancora per parecchio tempo. Quando però arrivarono ai piedi di una bassa collina, l'Uomo rallentò fino a fermarsi. Nei suoi occhi, Thorulf vide per la prima volta una traccia di dubbio.
     
La foresta si allargava da tutte le parti, procedendo in relativa pianura, eccezion fatta per un piccolo rilievo davanti ai loro occhi. L'Uomo scrutava la zona circostante con impazienza, muovendosi da un tronco all'altro.
  
Ci siamo forse persi?” fu il primo pensiero di Throulf. Osservando meglio il suo aggirarsi furtivo il ragazzo giunse ad un'altra conclusione. Non sembrava aver smarrito la strada, quanto cercare qualcosa di preciso.
    
Il ragazzo si avvicinò a lui, intenzionato a offrire aiuto, ma in cambio ottenne solo un muto gesto di silenzio.
    
Rimasero a lungo in quella zona del bosco, tanto che ad un certo punto la luce cominciò a scemare e l'Uomo si lasciò cadere vicino a uno dei numerosi massi disseminati lungo quel tratto di foresta.
  
-Ci accampiamo qui per stanotte, ma staremo senza il fuoco. Non amano il fuoco da queste parti.- disse in un sussurro. Poi si strinse nel mantello e chiuse gli occhi.

 



     Aveva smesso di piovere da qualche tempo, ma a causa dei vestiti ancora zuppi d'acqua Thorulf non riusciva a prendere sonno. Un freddo terribile gli attanagliava le membra, trasformando le sue articolazioni in pezzi di legno rigidi e doloranti. Era appoggiato contro un tronco, le braccia strette al petto e le ginocchia raccolte. Tremava in silenzio, mascella contratta e denti stretti per non svegliare l'Uomo dei Boschi. Aveva ancora ben presente le minacce dei primi giorni e non sarebbe bastato certamente un solo gesto gentile a fargli dimenticare la ferocia che si nascondeva dentro i suoi occhi.
    
Tremante e affamato, stava fantasticando di calderoni fumanti pieni di zuppa di pesce quando uno strano rumore cominciò a diffondersi nell'aria.
    
All'inizio Thorulf pensò di essere impazzito, ma il rumore crebbe in intensità, fino a diventare un rombo cupo e costante, come di onde lontane. Per qualche istante infatti Thorulf si illuse di essere a pochi passi dalla costa. Si alzò incerto sulle gambe indurite dal freddo, pronto ad arrancare verso la salvezza. Una folata gelida lo riportò però alla realtà. Davanti ai suoi occhi si apriva un'infinita distesa di ombre, legno e foglie. Del mare nessuna traccia, se non un rumore che andava già scemando. 
     
Spaventato e sempre più intirizzito, il ragazzo scivolò contro il tronco dell'albero, fino a tornare nella buca fra le radici che aveva scelto come giaciglio. Con il cuore colmo di tristezza, chiuse gli occhi e scivolò in un sonno agitato.

 



    Quando si svegliò era giorno e si sentiva al caldo. Il pesante mantello dell'Uomo dei Boschi gli copriva le membra, sebbene del proprietario non ci fosse alcuna traccia.
     
Stretto sotto quella coperta animale il ragazzo si guardò in giro. Dai pochi scampoli di cielo che era in grado di vedere, la giornata si annunciava serena; la cosa lo rese felice. La seconda buona notizia arrivò quando un insetto cominciò a camminargli sul viso. Con un veloce colpo di mano l'intruso venne scacciato e Thorulf scoprì di essere libero anche dalla corda che per tutto il giorno precedente gli aveva bloccato i polsi.
    
“Sono libero” fu il primo pensiero. Già, lo era, era libero di scappare e correre via lontano. Era praticamente pronto a saltare in piedi, euforico per quella scoperta, quando il sospetto di essere osservato lo congelò.
      
“Deve essere qua intorno” si disse, aguzzando la vista.
     
Ma lì intorno non sembrava muoversi anima viva. Incerto sul da farsi, il ragazzo decise di rimanere sotto quel mantello che puzzava di cane bagnato, a godersi un po' di riposo e di calore.
     
“Anche riuscissi a scappare dove potrei andare…”
  
Almeno tre giorni di cammino lo separavano dalla costa. Senza cibo, senza vestiti adeguati e solo una vaga idea della strada da percorrere non lo avrebbero portato molto lontano.
     
Di lì a poco l'Uomo ricomparve, cancellando qualsiasi possibilità di fuga. Portava con se uno zaino voluminoso che scaricò al suolo. 
    
-In piedi giovane- esordì -ho ritrovato la mia sacca d'emergenza.- Senza aspettare una risposta cominciò a tirare fuori vari oggetti.
     
Senza farselo ripetere Thorulf si alzò, rabbrividendo per il brusco calo di temperatura.
    
-Tieni, metti questo- disse l'Uomo porgendogli un telo in lana marrone.
    
-Grazie- rispose con titubanza il ragazzo.
    
-Se la scorsa notte avevi freddo potevi svegliarmi. Ti avrei fatto posto sotto la mia cappa- disse. Quindi gli lanciò un sorriso sghembo. -Ti ho preso perché mi servi vivo, se mi muori di freddo o ti si congelano i piedi poi potrò solo macellarti e seccare le tue carni.-
     
Thorulf rabbrividì, questa volta non per il freddo.
     
-Perchè mi ha preso?- chiese d'un fiato.
    
L'Uomo che ancora se la stava ridendo, con la testa ficcata nel sacco, si fermò.
    
-Perchè eri in pericolo maledetto ingrato. Ti ho salvato dalle Bestiemorte.-
   
Thorulf non si aspettava una risposta e rimase spiazzato. Tuttavia ebbe la prontezza sufficiente di deviare il discorso. Era la prima volta che l'Uomo lo degnava di attenzione, non avrebbe perso l'unica occasione per capire qualcosa del suo destino. -Perchè non hai portato con noi anche mio nonno, anche lui era lì, nei campi.-
     
L'Uomo lo guardò un istante poi tornò a concentrarsi sul contenuto dello zaino.
     
-Non c'era nessuna vecchio, non dove ho guardato io.-
     
Thorulf ebbe un tuffo al cuore.
     
-Allora riportami indietro, ti prego, mio nonno ti pagherà.-
    
-Se il tuo vecchio era nei campi come dici, ora sarà morto. E anche non lo fosse, nei campi voi fate lavorare solo gli schiavi. Cosa mai potrà darmi uno schiavo.-  
      
La sua voce era venata di fastidio. Thorulf tuttavia proseguì.
      
-No, ti prego ascoltami. Noi non siamo schiavi, noi…-
      
-Ora basta. Non c'è più futuro per te sulle Isole.- disse, guardandolo negli occhi.
      
-Ma…-
    
-Basta!- gridò l'Uomo, il volto contratto dall'ira. Fece un respiro e i suoi lineamenti si rilassarono.
    
-Ora taci o ti imbavaglio. Tieni, questo è cervo affumicato. Devi ammorbidirlo con la saliva prima di masticarlo.-
    
Thorulf aveva esperienza con pesce secco e carne salata, tuttavia quando si portò alla bocca il pezzo di carne, per poco non lo sputò. Sapeva di cuoio vecchio e terra, con un vago sentore di fumo di legna.
     
Stava per protestare quando l'uomo gli porse altre cose.
   
-Butta via quelle due croste vecchie che hai nei piedi e vedi se questi possono andarti bene. Devi stringere i lacci sugli stinchi, come me, hai capito. Abbiamo ancora molti giorni di cammino davanti a noi.-
     
Thorulf prese gli strani calzari che gli venivano offerti e provò a indossarli.
     
-Sono larghi- mormorò.
     
-Mettici delle foglie di tiglio. Quell'albero là in fondo.-
     
-Chi sei tu?-
     
-Ma non fai troppe domande?-
     
-Puoi almeno dirmi il tuo nome?- 
    
-Per i Becchi di Pietra, un uomo non può pronunciare il proprio nome senza offendere gli spiriti.- 
   
-Tu non sei uno dei Becchi di Pietra. Gli abitanti dei boschi non parlano il Variag. Dimmi chi sei tu?-
     
-Senti ragazzino, oggi il sole splende alto nel cielo e io sono d'animo buono. Tuttavia non ti conviene sfidare la mia pazienza con le tue stupide domande o quando torneranno l'oscurità e la nebbia, potresti scoprirti solo e abbandonato. Quindi ora va' e vedi di non sbagliare albero. Se scambi il tiglio con l'edera velenosa dovrò tagliarti i piedi...-
     
-...e seccare le mie carni- borbottò il ragazzo, allontanandosi.

 


    Gli uomini della Torre Abbandonata si fecero vedere nei pressi del guado, verso metà pomeriggio.
    
-Ora sta zitto- gli intimò l'Uomo dei Boschi.
     
Erano tre ed erano appiedati.
    
Thorulf ne individuò uno seduto sopra un tronco caduto, intento ad affilare la punta della lancia. Era un uomo magro e alto, i capelli lunghi che scendevano pesanti sul viso barbuto. Non doveva essere comunque molto vecchio, visto che il nero della sua zazzera era ancora molto. Vestiva di pelli, e alla cintura portava una ascia corta e vari coltelli.
     
Il secondo uomo invece era arrampicato su di una quercia larga quanto un carro. Stava a cavalcioni di un ramo, un arco lungo stretto in pugno. Non aveva capelli né barba, e tutto il viso era decorato con pitture blu.
    
Il terzo uomo invece era in piedi, a poca distanza dagli altri due. Era alto e grosso, almeno quanto Ekbert, la Guardia dello Jarl, e sfoggiava un mazza dalla testa di pietra. Anche lui era senza capelli, sebbene compensasse il cranio glabro con una folta barba bianca. 
    
Erano in una posizione sfavorevole, questo lo poteva vedere persino Thorulf. Stretti nel letto del fiume, circondati da argini ripidi, senza un riparo erano la preda perfetta, tuttavia il suo accompagnatore non sembrava nervoso.
  
“Li conosce!” Quel pensiero colpì il ragazzo come una frustata. Forse lo stavano aspettando. Un'irrefrenabile voglia di scappare si impossessò delle sue gambe. Gli ci volle tutta la sua forza di volontà per non votarsi e darsela a gambe.
    
Poi l'arciere gridò qualcosa, facendo ridere l'uomo armato di lancia.
    
L'Uomo dei Boschi rispose nella stessa lingua, un misto di suoni gutturali e cupe vocali.
  
Ridacchiando l'arciere incoccò una freccia e la scagliò. L'asta si piantò a un soffio dai piedi di Thorulf, che saltò via, il cuore a mille.
    
L'arciere gridò di gioia e rotolò giù dall'albero, toccando terra con la grazia di un gatto. In un attimo fu di nuovo in piedi, e sempre ridendo cominciò a saltellare in giro, in un'assurda parodia del gesto appena compiuto da Thorulf.
    
A interrompere quella pantomima ci pensò il vecchio gigante, che ruggì un ordine e si mise in marcia presto seguito da tutti gli altri. Per qualche istante Thorulf rimase immobile, troppo spaventato per muovere anche solo un passo. Quando però vide l'arciere dirigersi nella sua direzione corse via, affiancando l'Uomo dei Boschi.
    
-Shami è un pezzo di merda, ma non ti avrebbe mai colpito. Voleva solo spaventarti. Sei stato bravo a non fartela addosso- sussurrò dandogli un colpetto alla schiena.
   
La marcia tuttavia fu breve. Ben presto, infatti, davanti agli occhi increduli di Thorulf, comparve una vecchia torre di pietra. I rovi coprivano completamente la porta di quell'edificio diroccato e un albero secolare cresceva al suo interno.
   
Mozziconi di antiche mura emergevano dal terreno circostante come dita mozzate di qualche gigante di pietra. Thorulf rimase a bocca aperta. Sapeva che nella foresta vivevano altri uomini, ma dai racconti che gli erano stati tramandanti non si faceva menzione di città o fortezze. Gli uomini delle foreste erano poco più che animali selvatici, creature schive o feroci, rese pazze dalla Dea-Strega Jord.
     
La struttura, per quanto abbandonata, era una chiara traccia umana. 



Ehi, la sentite la fine che arriva? Un solo capitolo ancora e poi la prima parte di questa storia vedrà la fine. Voi leggete, mentre io preparo i fuochi d'artificio!!!!


 

 

 


 

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Capitolo 9
*** 9. Il Volto nella Luna ***


 

 

9. Il Volto nella Luna




 
 

   

   L'alba ormai si apriva sopra Broch Henelyag, dipingendo di luce le fronde del Vecchio Salice.
  
Il barbagianni zampettò sul ramo di faggio su cui era appollaiato, facendo attenzione a non perdere di vista il territorio degli umani. Non che fosse un compito difficile: la zona era talmente impregnata di odori-uomo che il nero volatile avrebbe potuto rintracciare la zona anche a occhi chiusi.
    
Su una traccia di terra e fogli decomposte si stendeva un sentore di cervi e cinghiali, lupi e addirittura orsi. Erano però odori vecchi e sciupati, così contaminati dal fetore del sangue, del fumo e del ferro da essere quasi irriconoscibili.
    
Infastidito da quell'olezzo il barbagianni strofinò il becco contro le piume.
  
Di lì a poco gli uomini sarebbero usciti dai loro nidi di pelli e legno, e per allora il barbagianni avrebbe dovuto studiare un riparo più sicuro, un riparo che avrebbe confuso i loro occhi miopi ma che gli avrebbe permesso di continuare la sua posta. Sfruttando quindi gli istanti che aveva, l'uccello spalancò le ali color gaietto e si alzò in volo con pochi e rapidi colpi.
  
Non gli fu necessario cercare poi molto. Un frassino dalla florida chioma svettava alto proprio a pochi passi dalla radura. Il barbagianni si preparò quindi a una virata, direzionando le piume della coda nella giusta angolazione.
    
Stava ormai per raggiungere il ramo su cui appollaiarsi quando un ombra colpì da destra strappando via penne e piume.
   
Il barbagianni strillò di rabbia, cercando di correggere la propria direzione, ma una seconda colpo calò dall'alto mutilando le sue penne posteriori.
    
Messo alle strette il volatile cercò di riprendere quota, scandagliando il cielo in cerca del suo aggressore.
   
Ma il cielo era vuoto e così la terra. Solo le fronde del Salice si muovevano. Ondeggiavano placide, ma non un alito di vento le stava sospingendo.
    
Spiriti, sussurrò una voce dentro il barbagianni, spiriti verdi senza pace.
   
Gli uomini là sotto non erano soli, dopo tutto. Alleanze potenti proteggevano il loro nido.
   
Dovremo fare più attenzione, mia cara, disse la voce. Già, dovremo fare molta più attenzione, d'ora in poi.

 

 


    A molte leghe di distanza, dentro una buia caverna, Papa Owle si cavò dall'orbita destra l'occhio d'ossidiana, gridando la sua frustrazione.
    
Il Ragazzo era ancora con il Variago e i suoi cacciatori. Già una volta quel moccioso gli era sfuggito. Non avrebbe commesso di nuovo lo stesso sbaglio.
   
No, non avrebbe inviato altri Incubi, non prima di aver allontanato il ragazzo dai quattro lupi selvatici.
   
-Prima di tutto devo trovare il modo di entrare di nuovo nei suoi sogni- disse ad alta voce.
   
Aveva la gola fragile e riarsa, e il suono stentato che uscì gli provocò un senso di fastidio oltre ogni immaginazione. Papa Owle era vecchio, vecchio oltre ogni umana possibilità. Per questo voleva il ragazzo: doveva trovare il modo di avere la sua carne.
   
“L'eclissi avverrà fra sole sei settimane” pensò, stringendo la pietra nera fra le mani.
   
Per allora doveva essere in grado di manipolare la mente del ragazzo. Solo una volta c'era riuscito, quando il ragazzo era stato sul punto di morire.
   
Sorridendo Papa Owle si alzò e andò a prendere la Maschera Onirica. Sul legno bianco e levigato, era intagliato un volto di gufo.



Chiacchiere e affini: Ehi gente, come non detto, l'ultimo capitolo si è trasformato in penultimo!  xD Non vi sto prendendo in giro, l'ultimo è scritto e già pubblicabile e uscirà dopodomani, solo che dalla sua stesura è nato anche questo. Sperando di avere vostre notizie, vi lascio alla lettura.
 

 


 

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Capitolo 10
*** 10. L'Uomo Dei Boschi ***


  
 

 

  10.L'Uomo Dei Boschi




 
    

    Quando la pioggia cessò, Bjarnen, l'Uomo dei Boschi, era sveglio. Seduto su di un letto di felci, al riparo dentro la sua tenda, ascoltava lo sgocciolio dell'acqua muoversi di foglia in foglia.
   Il ragazzo delle isole dormiva alla sua sinistra, nascosto sotto un muschio di pellicce. Il suo respiro era calmo e regolare. L'uomo si perse un istante a guardare le coltri che si alzavano e si abbassavano. Invidiava i suoi sogni placidi.
   Un po' gli dispiaceva doverlo vendere agli schiavisti delle miniere. Certo, l'incursione sulla Costa era stata misera. Avesse trovato qualche altra persona da scambiare per sale e ferro...
    “No, se mi oppongo alla vendita del ragazzo gli altri mi fanno la pelle” si disse, cercando di convincersi.
   Uno squarcio però si aprì fra le nubi e la Luna comparve nel cielo, illuminando con il proprio splendore la radura del Vecchio Salice.
    Era giunta l'ora.
   Muovendosi con cautela Bjarnen uscì all'aperto. L'accampamento sorgeva a ridosso della parete di pietra del Broch, il torrione abbandonato. Gli sarebbe bastato sfiorare le altre tende per chiamare i suoi compagni, tuttavia tirò dritto.
   La sua ombra silenziosa si mosse nella notte umida, girando attorno alla torre, fino a raggiungere l'ingresso invaso dai rovi. Qui si fermò e una lama d'ossidiana balenò alla luce della luna. Un colpo veloce e dall'avambraccio partì una fitta di dolore.
    Mentre una piccola ciotola d'osso si riempiva di sangue, il suo sangue, Bjarnen cominciò a mormorare una cupa litania:

    Linfa della vita raccolta nel cranio del nemico.
   
Sangue fresco e osso secco.
   
L'uno donato, l'altro strappato.
   
Linfa della vita raccolta nel cranio del nemico.
   Cibo degli spiriti, bevanda degli Dei.


   Quando la coppa fu colma, Bjarnen chiuse la ferita con un impasto vegetale e la raccolse. Con estrema lentezza entrò nel Broch.
   Davanti ai suoi occhi il tronco massiccio del Vecchio Salice si ergeva come una colonna contro il cielo, la corteccia muscosa bagnata di pioggia e di luce lunare. Un passo dopo l'altro l'uomo avanzò con molta cautela. Le radici della pianta avevano infatti divelto il pavimento da decenni e ora si accavallavano le une alle altre in una complessa scalinata naturale.
   Salendo quei sacri gradini Bjarnen chinò il capo in segno di rispetto e alzò in alto la sua offerta.
   -Bren, Looch, Wudan, Norr.- La sua voce era un sussurro. -Ogma, Bolch, Nadea, Gadh-
  -Bren, Looch, Wudan, Norr. Ogma, Bolch, Nadea, Gadh.- disse di nuovo, questa volta sentendo vibrare i nomi nel petto.
  -Bren, Looch, Wudan, Norr. Ogma, Bolch, Nadea, Gadh. Ascoltate Alti Spiriti della Foresta: io, Bjarnen, offro a voi questo sangue- e detto ciò versò fra le radici il contenuto della coppa.
   Il liquido nero colò sul terreno e filtrò nel sottosuolo. In risposta, un fruscio di foglie si levò tutto attorno.
    Vieni Bjarnen figlio di Brenn, la tua offerta è accolta.
   
Gli Spiriti gli erano favorevoli quella notte.
  L'uomo ubbidì. Sentiva le ginocchia fiaccate dalla paura tuttavia sapeva di doversi dimostrare saldo e fiero.
    Cosa vuoi uomo mortale.
    
Era a domanda, ma che suonava quanto un comando.
   -Grandi Spiriti, io vi chiedo di poter guardare nello Specchio.-
   Silenzio. Poi un forte colpo di vento fece turbinare le fronde dell'albero e un raggio lunare colpì una polla d'acqua piovana racchiusa fra due grosse radici.
   Concesso.
   
Bjarnen si avvicinò ancora e una volta giunto davanti alla pozza cadde in ginocchio.
   -Mostrami cosa devo fare- sussurrò all'acqua. Poi vi immerse il viso.
   E infine vide.
    
    Vide un Orso fare a pezzi la foresta in cerca di qualcosa.
    Vide un Barbagianni aprire le sue ali nere fino ad oscurare la luce del sole.
    Vide quattro lupi accudire una ghianda d'argento.


   Riemerse affamato d'aria. Rivoli d'acqua segnavano la sua barba, mentre la frequenza del respiro tornava normale.
   -Grazie- sussurrò, prima di alzarsi.





E così siamo arrivati alla fine di questa avventura. Una fine che (eh eh) lascia molto alla vostra fantasia e molta libertà d'azione a me, qualcora volessi( e vi dico già, lo voglio) ritornare a Ydalir. Questa è un'avventura durata quasi tre mesi( e solo nella stesura che avete letto voi) il periodo per me più continuativo su una stessa storia. Lo dirò con sincerità, non pensavo sarei mai arrivato a questo punto. Però eccomi, contro ogni aspettativa. 
Spero vivamente che seguire questa storia vi sia piaciuto almeno un decimo di quanto è piaciuto a me scriverla, perchè io ne sono felicissimo. Non è una versione perfetta, è tutto fuor che una versione perfetta, tuttavia editing e riscrittura dovranno attendere domani. Oggi Voglio solo godermi la bellissima sensazione che si prova arrivando alla fine di un percorso. 
Ora tuttavia mi cedo costretto a lasciare la parola a Bilbo, perchè non c'è niente di meglio di una citazione quando non si sa più cosa dire.

"
Conosco la metà di voi solo a metà e nutro per meno della metà di voi metà dell'affetto che meritate. Io... Io ho da fare. Ho rimandato troppo a lungo. Mi duole annunciare che questa è la fine. Io me ne vado. Vi saluto dal più profondo del cuore. Addio."


p.s. Un ringraziamento speciale alla mia Salamandra, per aver tenuto sempre accese le braci di questa storia.  



 
 

 



 

 

 

 

 


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