Lo specchio dell'anima

di moonlight97
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***


Capitolo I




Il sole era quasi completamente sparito dall'orizzonte ed il vento soffiava incessante e tagliente. Avvolto in uno scuro e spesso mantello, Adalhard camminava lungo il sentiero semi innevato che dal bosco conduceva a casa sua, portando sotto il braccio destro della legna per accendere un fuoco. L'inverno non era mai clemente, ma quell'anno era stato particolarmente rigido: nevicate e gelate avevano devastato le colture e soltanto in quel momento la neve sembrava dar segno d'esser sul punto di sciogliersi. All'ennesima folata di vento, si portò istintivamente la mano sinistra sul capo, per calare il mantello, così che gli coprisse il volto. Il vento gli sferzava le gote già rosse, ma ormai non mancava molto: solo qualche passo e sarebbe stato finalmente al riparo. Certo non poteva considerare casa sua come il massimo del confortevole, ma era pur sempre meglio che rimanere fuori. Si udirono da lontano i lugubri rintocchi della campana dell'abbazia: era giunta l'ora dei Vespri. Adalhard lasciava una dopo l'altra impronte nella neve. Un altro cupo rintocco. Arrivò alla porta di casa e l'aprì; una volta dentro, dopo essersi tolto il mantello ed averlo distrattamente gettato su di una sedia, andò al camino ed accese un fuoco. Poteva dunque godersi un po' di tepore. Si abbandonò su una sedia davanti al camino, il capo reclino, gli arti intorpiditi e i ricci umidi appiccicati alla fronte. Tirando un sospiro liberatorio, alzò il capo e, con sguardo vuoto e assente, si mise a fissare il crepitio della fiamma nel camino. In quel mentre ripercorse mentalmente tutto ciò che gli era successo negli ultimi tre anni e mezzo: lui, Adalhard, primo cavaliere di Engelhard, duca di Ingelheim, calunniato, tradito, ridotto ad un povero pezzente e costretto a... Si alzò di scatto e andò al tavolo, su cui si trovavano una bottiglia di vino e una coppa. Con fare nervoso versò il contenuto della bottiglia all'interno della coppa e bevve tutto d'un sorso.
“Me la pagheranno” sussurrò, il bicchiere tenuto a mezz'aria. “Quel vecchio ubriacone e tutta la sua corte di sicofanti... Sì, tutti loro me la pagheranno”. Si sedette e fissò nuovamente il suo sguardo sulla fiamma. Questa volta però i suoi occhi brillavano, animati com'erano dal desiderio di vendetta: ardevano in maniera splendida e allo stesso tempo terribile e rifulgevano come lingue di fuoco, quali gli astri più luminosi del firmamento.

 

La mattina seguente Adalhard si recò a piedi al villaggio, che da lì distava un po' meno di mezzo miglio; pur non essendo quella la prima volta che vi andava, da quando aveva fatto ritorno nella sua terra natale, ad Adalhard faceva ancora un certo effetto presentarsi fra persone che lo conoscevano o di persona o per sentito dire, ragion per cui cercava di limitare il più possibile le sue uscite in pubblico. Si stava in quel momento allontanando dal banco della frutta, quando la sua attenzione fu colta da un gruppo di una quindicina di persone radunate intorno ad un palchetto in legno in fondo alla piazza.
“Felici abitanti di Ingelheim, oscure e demoniache presenze hanno cominciato a vagare nei dintorni del nostro beneamato villaggio” diceva con voce tonante l'uomo al centro del palco e che con tutta probabilità era l'abate. “Io stesso ho visto uno di questi servi del demonio aggirarsi per i nostri boschi: portava una maschera, che riproduceva l'effigie di una creatura infernale”. Adalhard si distrasse un attimo ad osservare le reazioni che queste parole provocavano nella gente intorno a lui: sgomento, paura e... indifferenza da parte dei più scettici. “Fratelli, dobbiamo rivolgerci con cuore sincero al Signore Nostro Dio, che rivolga il Suo sguardo benevolo su questi suoi figli e ci protegga da questa imminente disgrazia”.
Non appena l'abate ebbe finito il suo discorso, la folla si disperse e qua e là si formarono piccoli gruppi di persone che commentavano quanto avevano appena sentito. Adalhard, dopo essersi allontanato, imboccò una strada secondaria: era stato improvvisamente preso da uno strano desiderio. Camminò di fretta e a testa bassa per un po', percorrendo sempre vicoli e viuzze, finché non giunse davanti alle mura che circondavano il palazzo. Vi erano a presidio alcune guardie e le porte si stavano, con sua sorpresa, aprendo. Chiunque fosse uscito non avrebbe dovuto vederlo, per cui si nascose nella penombra di un vicolo. Stette qualche istante all'erta e poi... Quella voce, la voce di Polyxenia: l'avrebbe riconosciuta tra mille altre. Si sporse leggermente, perché sentiva il bisogno di rivederla. Prima che lui si sottraesse alla vista di lei, i loro sguardi ebbero modo di incrociarsi per un breve istante, che fu sufficiente a ricordargli tutti i dolci ricordi legati a lei, le parole gentili che lei gli aveva rivolto, tutte le volte in cui lui aveva cercato di incrociarla nei corridoi del castello e il suo sorriso, e ad infliggerli un nuovo profondo dolore: Polyxenia camminava infatti sorreggendosi al braccio di un uomo, Thorsten, il figlio del duca.
“Quel maledetto bastardo” pensò. “mi ha portato via anche lei”. Un impeto di cieca rabbia si impossessò di lui; mentre la sua mente era ancora offuscata, sentì la mano di qualcuno sulla sua spalla destra. Agì di scatto, mettendo il suo aggressore con le spalle al muro.
“Quindi è così che si saluta un vecchio amico, eh? Devi aver vissuto proprio fra dei bruti negli ultimi anni, Adalhard”.
“Tristan?” disse lui, lasciando andare la presa e abbracciandolo.
Non ricordava di aver avuto in tutta la sua vita amico più caro di lui: erano cresciuti praticamente come fratelli. Da quando sua madre era morta, lasciandolo orfano all'età di cinque anni (il padre era morto prima in guerra prima che lui nascesse), erano stati proprio la madre e il padre di Adalhard a crescerlo; inoltre Tristan era stato l'unico a prendere le sue difese, quando era stato accusato di aver progettato di assassinare il Duca. Prima di riprendere la sua strada, Tristan si fece promettere dall'amico che si sarebbero rivisti il prima possibile: erano troppe le cose entrambi avevano da raccontarsi. Dopo aver accettato di buon grado ed aver salutato l'amico, Adalhard, rimasto solo, si incamminò sulla via del ritorno; c'era però qualcosa che lo turbava, che lo opprimeva. Era una sensazione sgradevole, come se un respiro freddo gli penetrasse le membra e le intorpidisse. Un brivido gli corse tutto lungo la schiena. Adalhard, voltato di spalle com'era, non poteva di certo sapere che in quell'istante effettivamente qualcuno lo stava osservando, anzi, che qualcuno lo aveva osservato da quando quella mattina aveva messo piede nella piazza del villaggio.

 

La giornata seguente passò nella relativa normalità: dopo aver lavorato tutto il giorno nel suo piccolo appezzamento di terra, Adalhard era tornato a casa poco prima del calar del sole (il campo distava né troppo né poco da casa sua, però per raggiungerlo doveva attraversare una parte del bosco e alcuni campi altrui, per cui aveva preso l'abitudine di portarsi solo un tozzo di pane per pranzo) e aveva consumato un pasto frugale, prima di coricarsi. Il mattino arrivava per lui sempre troppo presto e portava con lui nuove fatiche e nuove sofferenze: l'onta subita gli bruciava ancora troppo, impedendogli di trovare pace nel nuovo tipo di vita, e le fatiche quotidiane erano il solo modo che lui aveva di scaricare la sua rabbia e la sua frustrazione. Erano passati due giorni da quando aveva rivisto Tristan e quella sera sarebbe stato ospite per cena dall'amico; questi viveva con la moglie, Liesl, in una piccola casa nel centro del villaggio. I due coniugi accolsero il loro ospite con affetto e con garbo e il pasto si svolse in maniera più che piacevole per tutti.
“Adalhard, ma, se posso chiedere, dove sei stato in tutto questo tempo? In tutta onestà, sono stato molto in apprensione per te, amico mio; quasi non credevo ai miei occhi, quando ti ho visto di nuovo al villaggio, sano e salvo!”
“Ah, sei sempre così drammatico, Tristan! Se non avessi intrapreso la carriera militare, saresti stato senz'altro un ottimo attore tragico. Comunque, devi sapere che non appena fui allontanato dal castello, cambiai subito regione e peregrinai per molte settimane, in condizioni assolutamente precarie e che preferirei non dover ricordare fin quando non ebbi trovato ospitalità presso una famiglia di contadini della Baviera; ho lavorato per loro fino a non molto tempo fa, quando mi giunse una lettera in cui mi si informava della morte di mio padre. Infatti non sono altro che poche settimane da quando sono tornato di nuovo qui: ho ereditato il podere che mio padre possedeva fuori dal villaggio, che mi fornisce un'occupazione e una dimora”. Dopo aver concluso il suo resoconto e aver ascoltato i commenti dei suoi due ospiti, Adalhard chiese che cosa fosse successo al villaggio e al castello durante la sua assenza; da Tristan apprese che il vecchio duca continuava a governare saggiamente e che, a parte qualche raccolto poco favorevole, la vita per tutti era stata più o meno soddisfacente.
“C'è anche un'altra cosa che devi sapere” proseguì Tristan, diventando improvvisamente serio. “e voglio che tu la sappia da me, che ti sono amico. Polyxenia è stata promessa in sposa al figlio del Duca, Thorsten, si sposeranno alle calende del nuovo mese”.
Tristan si accorse subito che l'amico si era notevolmente rabbuiato, avendo udito quella notizia; non passò infatti molto tempo, prima che Adalhard decidesse di ritornarsene alla sua dimora, nonostante l'ostinazione con cui i due ospiti lo invitavano a passare lì la notte.




Spazio Autore

Salve, gente!
Rieccomi qua con una nuova storia, che spero vi piaccia!
First things first: questa storia è nata per il contest "Est quaedam scribere voluptas" qui sul forum di EFP.
Che arrivi o non arrivi poco importa, perché comunque questo contest mi ha dato modo di sviluppare un'idea che avevo già da tempo ma che non trovava mai il verso di prendere forma. Non so che altro dire. Lettori, leggete. Recensori, recensite. Amen.

 

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Capitolo 2
*** II ***


Capitolo II




Presa una fiaccola, Adalhard si incamminò sulla via del ritorno; che potesse morire sbranato dai lupi o essere attaccato da dei briganti poco gli importava, tanto ormai che altro gli rimaneva nella vita? Con questi cupi pensieri varcava il limitare del bosco e subito si accorse di un fruscio sospetto.
“Chi è là? Mostrati, codardo che non sei altro, e affrontami, se sei un uomo!” gridò, puntando in qua e là la torcia. Non era stato così sprovveduto da partire di casa disarmato: teneva infatti un coltello nascosto nel mantello. Dopo qualche istante riuscì a intravedere nella penombra un volto... No, anzi, una maschera: aveva due corna perfettamente diritte sul cranio, così come perfettamente dritto era il prolungamento all'altezza del naso, mentre gli occhi non erano altro due cavità nere. L'inquietante e statuaria figura, senza scomporsi minimamente, emise un suono cupo, gutturale e stridente, come un ruggito, e poi cominciò ad allontanarsi rapida verso il folto del bosco. Adalhard si maledisse mille e più volte per quello che stava per fare, ma ancor di più si sarebbe maledetto, se avesse saputo cosa sarebbe accaduto dopo; corse dietro all'uomo mascherato, perché ipotizzava che di un uomo si trattasse, e alla fine riuscì a bloccarlo con la schiena contro un albero.

“Sei forse uno di quegli idioti che se ne vanno in giro per il bosco a venerare il demonio e che al villaggio chiamano col nome di Maschera?” domandò Adalhard, puntandogli il coltello alla gola.
L'uomo non rispose; il suo respiro era regolare, come se non avesse alcun timore.
“Rispondimi, o giuro su Dio...”
“Attento coi giuramenti, cavaliere” fu l'asettica risposta dell'uomo.
Adalhard fece pressione col coltello, sperando che questo avrebbe indotto l'altro a parlare, ma fu con suo grande stupore e forse anche terrore che vide l'uomo smaterializzarsi nel nulla, quasi fosse fumo, e il coltello cadergli di mano. Come poteva averlo fatto? No, non poteva essere vero: non voleva crederci.
“Povero, piccolo, cavaliere in disgrazia! Ecco un'altra delle sue certezze che va in fumo...” disse una voce alle sue spalle. “Mi chiamo Octavius e sì, mi sembra ovvio che faccia parte della Maschera” concluse, ridendo beffardo. “Oh, ma guardatelo! Il coraggioso Adalhard, ma per favore! Credevi di avere la situazione sotto controllo, non è vero? Sciocco! Non mi avresti mai preso, se io non avessi voluto questo”. Vedendo che quello stava per muoversi, Octavius, con un gesto abbastanza stufo, gli lanciò contro un incantesimo, che lo paralizzò da capo a piedi. “Non seccarmi oltre e stammi a sentire: abbiamo visto in te... O meglio: la nostra congrega ha visto in te un certo potenziale, io non ci ho visto un bel niente, ma, ahimè, fra i servitori del demonio funziona la democrazia. Strani, no? I cristiani, dico. Si professano tutti uguali e tutti fratelli e poi scelgono il sistema feudale; ma valli a capire! Sono proprio un mistero della fede! Comunque, tornando a noi, sono stato mandato qui per proporti un patto: se e soltanto se ti unirai a noi, potrai avere tutto quello che vuoi. Hai un giorno di tempo per pensarci. Quando avrai deciso, saprò io come trovarti” disse e, nell'istante in cui liberò Adalhard dall'incantesimo, si smaterializzò di nuovo. Il nostro cavaliere si allontanò immediatamente da lì. Aveva il corpo scosso da brividi continui e anche quando fu a casa la situazione non migliorò; gli sembrava quasi di aver assaggiato il male ed era come se mille aghi lo stessero pungendo in quel momento. Nella notte, mentre turpi pensieri gli balenavano in mente, Adalhard si contorceva nel letto, come in preda a spasmi febbrili.

La mattina seguente la passò a recuperare le forze e a perderle nuovamente, pensando in maniera ossessiva all'offerta che gli era stata fatta e a quanto potesse essere giusto accettarla. Pur non avendo ancora preso una decisione definitiva, afferrato d'impulso il mantello, uscì di casa; non sapeva bene come sarebbe stato contattato e certo questo non lo rassicurava. Si recò fino al limitare del bosco e si mise ad aspettare con la schiena appoggiata ad un albero, mentre il vento non dava segno di non voler smettere di soffiare. Che fosse per raccogliere informazioni sulla Maschera o per accettare veramente la loro offerta, bisognava comunque che si recasse fino al loro covo.

“Allora, possiamo andare o vuoi sprecare altro tempo in inutili elucubrazioni?” disse Octavius, che era apparso nel frattempo. I due si incamminarono, o meglio: Octavius procedeva spedito e sembrava quasi non toccare terra, mentre Adalhard faceva del suo meglio per stargli dietro.
“Se posso chiedere, Octavius, esattamente com'è che mi avete scelto?” domandò.
“Ti abbiamo pedinato ogni giorno da quando sei tornato al villaggio, mi sembra ovvio. La tua rabbia, la tua sete di vendetta, il tuo temperamento focoso sono caratteristiche particolarmente apprezzate ecco, purché non si scada nella volgarità. Alla Maschera preme di mantenere un certo profilo”. Passò qualche istante di silenzio, poi la guida fu interrogata nuovamente.

“Mettiamo che io acconsenta a fare questa cosa; non c'è alcun prezzo da pagare?”
“Caspita! Mi sembri ancora più sciocco di ieri sera! È naturale, caro mio, che ci sia un prezzo. Ma non ti preoccupare, è un qualcosa di cui puoi fare benissimo a meno. Tutto quello che dovrai... Oh be'! Ma perché rovinare la sorpresa!” fu quanto Adalhard ottenne in risposta.

Erano quasi usciti dal bosco e già si intravedeva il grigio profilo dell'abbazia; nel mentre in cui Adalhard si distrasse a guardare l'edificio, l'altro svelò l'ingresso di un tunnel.
“Che diamine?!”
“Nessuno è a conoscenza di queste gallerie, nemmeno quel panzone dell'abate!” esclamò Octavius ridendo. Scesero una ripida rampa di scale, che terminava all'ingresso di un lungo corridoio buio. Octavius, una volta accesa una fiaccola che si trovava lì posizionata, guidò Adalhard per quell'antro. Il cavaliere poté notare graffi sulle pareti, su cui tra l'altro si presentavano inquietanti teschi.

“Guarda! Questo è il mio preferito: si chiama Mikael!” esclamò la sua guida, con una gioia perversa. Octavius si arrestò improvvisamente e spense la loro unica fonte di luce.
Completamente avvolto dall'oscurità, Adalhard tratteneva il respiro in attesa di qualcosa. Non sentiva più la presenza della sua guida accanto a lui.

I servi dell'Ombra noi siamo.
Baciati dalle tenebre dell'Erebo,
la nostra anima arde d'amore
per le fiamme dell'Averno

Si accesero intorno alla stanza, che acquistò quindi una forma circolare davanti agli occhi del nostro cavaliere, delle fiammelle, che incastonavano cinque losche figure, avvolte da un mantello rosso come il sangue e il cui volto era naturalmente coperto da una maschera; tra di esse riconobbe quella di Octavius. I cinque sedevano e le loro voci erano profonde e cupe come il suono delle campane dell'abbazia.

Cavaliere, accetta la nostra offerta,
diventa potente oltre ogni misura,
inchinati alla potenza della Maschera,
o muori!

“Di morire non se ne parla proprio, miei cari” disse Adalhard in tono quasi beffardo. “Cosa devo fare?” domandò. Si guardò di nuovo attorno ed analizzò con attenzione la stanza: proprio davanti a lui c'era una specie di altare in pietra e su di esso una coppa dorata, che recava su di sé incisioni in una lingua che non riusciva a comprendere.

Versa, Cavaliere, il tuo sangue
all'interno della coppa e taci mentre noi
intoniamo il sacro canto.

Adalhard fece quanto gli era stato ordinato; preso dalla concitazione del momento, non riusciva ancora a capire se fosse saggio o meno, né ad immaginare quale fosse il prezzo di cui Octavius gli aveva parlato.

Principe delle Tenebre, Signore delle schiere infernali,
Sovrano assoluto delle regioni d'Averno, noi, tuoi umili servi,
ti invochiamo: volgi il tuo sguardo dal trono di sangue su
cui sei assiso e infondi a questo sangue versato
la tua essenza.

Per un istante una fiamma brillò maestosa all'interno della coppa, per poi spegnersi.
Adalhard aveva praticamente smesso di respirare; era divenuto come di pietra. Del fumo nero sorse ora dalla coppa e calò rapido giù dall'altare come un fiume in piena, una volta rotti gli argini; si radunò tutto in un sol punto, speculare rispetto a quello in cui si trovava il cavaliere. Cominciò ad addensarsi ancora e ancora fino ad assumere consistenza di carne. Adalhard era esterrefatto: davanti a lui si trovava un qualcosa che aveva le sue stesse fattezze, ma era come vuoto, pareva quasi una statua modellata su un blocco di onice nero. Questi si pose una maschera bianca e dai connotati semplici, quasi asettici, si sul volto, prima di rivolgerlo sul cavaliere.

Adalhard non poteva, non voleva crederci. Eppure doveva; doveva riconoscere che tutto quello a cui assistito era realmente accaduto. Egli aveva dato vita alla propria ombra.
“Salve, me stesso” disse l'ombra.






Spazio Autore
Salve! Bene, sono molto lieto di dirvi che da ora le cose peggioreranno un titillino *risata malefica*.
Comunque, domandina: voi cosa fareste se poteste usare la vostra ombra come Adalhard? Boh, io avrei ceduto al lato oscuro della Forza (lol). Prima di chiudere vi voglio dire che proverò a pubblicarla tutta prima che mi inizi la scuola. Alla prossima! 

 

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