Cordelia

di Rov
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


~~Mio nonno una volta mi disse che Dio aveva creato i cavalli per dare un corpo il vento.
Ma si sbagliava. L'evoluzione ha creato i cavalli, così come ha creato i cani, i conigli e i pappagalli; solo che li ha fatti pesare di più.
Insomma insieme a quelle fandonie tipo Babbo Natale, l'amicizia eterna e l'amore vero qualcos'altro devono pur dirti.
Il cavallo di mio nonno si chiamava Zar; credo avesse scelto quel nome per il suo portamento, la sua eleganza, la sua passione.
Era l'animale più bello del rench e il nonno non poteva fare altro che sentirsene fiero.
Parlare in pubblico non era mai stato il suo forte. Lui preferiva restarsene con in mano il bicchiere di whisky e tenere per sé i propri pensieri, ma tutto cambiava quando si parlava di Zar.
Il nonno ne parlava fino a sembrare eccessivo, per poi piombare nuovamente nel silenzio con il suo liquore e raccontava di quell'animale dal manto scuro, color del caffè, di un marrone monotono e rassicurante, dalla muscolatura possente e l'ossatura vigorosa.
Gli occhi bui.
Poi si soffermava a parlare della sua bravura nella corsa, del suo carattere equilibrato, della sinuosità dei salti, della resistenza al galoppo e di quanto fosse stato fortunato a trovarlo all'asta della fiera regionale.
"Vero, Delia?" diceva poi sorseggiando dal bicchiere e guardandomi sorridere.
Cordelia ero io.
In seguito, riflettedo su quanto era poi è accaduto, avrei affermato senza alcuna esitazione che quelle cose non erano vere: quel cavallo non aveva nulla di speciale a parte i 500 chili che erano stramazzati sulle mie gambe.
E sulla mia spina dorsale, dimenticavo.
Oggi sono ancora Cordelia, solo che adesso non vorrei esserlo più.

Avevo cavalcato Zar solo una volta, alla gara di equitazione della festa d'autunno.
"Ti porterà fortuna, vedrai Delia! Quel tipetto è speciale, devi crederci."
Speciale un paio di palle!
Anzi, un paio di gambe…
Avevo volato spesso su quel vento: spesso montavo senza sella per il gusto di farlo, sulla groppa di Artax, il mio cavallo. Gli avevo dato quel nome perché avevo letto la storia infinita ed era uno dei miei libri preferiti.
Avete presente la parte in cui Atreio vola a dorso di drago? Ecco, era così che mi sentivo.
Provavo qualcosa che pensavo di non poter dare nemmeno me stessa: era come un bruciore così forte, potente fino a spezzarmi e mi domandavo che cosa centrassi più con la realtà.
Dov'era il mondo in tutto questo? Dov'era la campagna intorno a me, il ranch, i confini del mondo e delle mie paure?
Dov'era finita Cordelia?
Forse è impossibile non sentirsi amati quando ci si sente bene con se stessi, facendo ciò che più infiamma, ciò che più libera, ciò che più appassiona.
E le mie pupille si dilatavano con quelle di Artax, i polmoni affamati, le membra stanche.
Completamente, per la vita e per la morte.
Era stato così fino a che il mio cavallo non si era ammalato.
"Laminite" aveva detto il veterinario.
È una malattia che colpisce gli zoccoli e  l'osso triangolare spinge verso l'alto e buca il cuscinetto poroso della zampa.
Prima che potessi rendermene conto Artax era diventato zoppo e non importava più a nessuno che fosse un cavallo meraviglioso, un compagno di vita o le mie ali.
Mio padre approvò l'abbattimento proprio due settimane prima della corsa ippica della festa d'autunno e mi ero sentita scoppiare il cuore: della competizione non mi importava più e mi sentivo così male al pensiero che io ed Artax non avremmo mai potuto correre insieme.
Continuavo a ripetermi che saremmo stati grandi, che saremmo stati i migliori e che non c'era stato il tempo di provarlo.
D'altra parte, ora mi rendo conto che non era importante perché migliori lo eravamo davvero e lo avevamo sempre saputo correndo liberi.

"Cavalca Zar!" aveva insistito il nonno.
"Non lo so portare..."
Lui aveva scosso la testa e aveva cominciato a sbuffare nelle sue quattro parole di rimprovero.
"Si che lo sai fare, Delia! Ho visto come correvi con Artax."
I miei occhi si erano riempiti di lacrime: io nemmeno ci volevo andare a vedere quella stupida corsa!
Ma su quel furgone c'ero salita lo stesso, anche se più in là me ne ero pentita; forse l'ho fatto soltanto perché ero fiera di essere una Morgan, la più grande famiglia di allevatori di cavalli di tutta la contea.
Sei generazioni, mica sciocchezze!
Oppure era stato perché sapevo che era giusto così: bisognava andare avanti, metabolizzare le cose brutte e trattenere soltanto i ricordi più cari.
"Vedrai..." aveva detto poi il nonno.
"Non devi mai negare a nessuno la possibilità di renderti felice. Mai nessuno, tantomeno a te stessa."
E quella sensazione di tradimento nei confronti di Artax era scemata nel momento in cui avevo preso quella stupida penna di plastica omaggio per iscrivermi alla gara.
"Nome del fantino: Cordelia Morgan. Nome del cavallo: Zar"

Zar era il cavallo del nonno.
Un animale docile che non aveva mai alzato la cresta in nessuna occasione, che si faceva accarezzare dai bambini e non si sentiva troppo disturbato dai cani che scorrazzavano per il ranch.
Il cavallo del nonno, non il mio.
Era un po' più grande di Artax, ma non altrettanto testardo.
"Può funzionare." avevo bisbigliato quando ci avevano chiuso nel box di partenza.
Per via di quella cancellata sterile che ci separava dalla pista avrei odiato il numero 4 per tutta la mia vita.
Zar sembrava tranquillo: non era la prima volta che gareggiava ed era abituato ad essere cavalcato da condicenti diversi. Tutto sarebbe andato per il verso giusto.
"Fantini pronti!"
Il cuore mi batteva all'impazzata: aspettavo che quella totalità, quella fusione si accendesse tra me e il mio nuovo destriero. Dovevamo essere una cosa sola se dovevamo cavalcare insieme, anche solo per quei pochi metri.
La campanella ad un tratto scoppiò nelle mie orecchie come uno sparo assordante e il cancello del boz si aprì.
L'istinto prevalse; mi abbassai per spronare le redini.
Volevo che Zar corresse come il vento, e lui lo fece.
Le corse a cavallo sono una fusione di anime e per un attimo mi parve di percepire così forte quella di Zar da dimenticare che cosa fosse la mia intesa con Artax. Lo vidi scivolare agilmente accanto ad un altro animale d'aria, color del bronzo, e lo sentii vibrare mentre i suoi zoccoli aravano lo sterrato della pista.
Passammo il primo segmento in linea retta, poi curvammo inclinandoci leggermente.
Davanti a noi c'era soltanto un fantino in groppa ad un cavallo nero: era un animale decisamente sinuoso, forse non con una gran tecnica ma probabilmente con molta resistenza alle spalle, e scalpitava come se lo inseguisse il demonio.
Nonostante avesse il paraocchi, quella bestia continuava a scuotere la testa, mentre il suo conducente cercava di richiamare la sua attenzione gridando e dandogli piccoli colpi con il frustino.
Sembrava avesse paura.

Il primo giro lo concludemmo da secondi.
Il nonno strepitava e vedevo papà applaudire sugli spalti.
Non c'era bisogno che un altro cavallo Morgan vincesse un'altra coccarda e nemmeno che la vincessi io, che sugli scaffali della mia camera da letto aveva una collezione di trofei già abbastanza traboccante.
Ma quella era la gara del cambiamento.
L'accettazione della crescita.
Ricordo che su quella sella mi sentii grande, matura abbastanza per affrontare ogni cosa potesse accadermi perché potevo essere tutto quello che volevo: potevo essere Cordelia, potevo essere Artax, potevo essere qualsiasi cosa.
Dio avrebbe dato il corpo del vento a me.
Fu proprio in quel momento che arrivammo di nuovo alla prima curva; Zar cominciò ad emettere una serie di piccoli sbuffi irregolari, a frenare e a scuotere la testa in su o in giù come si starnutisse.
"Cosa fai?" strillai.
"No! No!"
Avevamo perso terreno, anche se non abbastanza da farci superare ma la nostra natura ne era rimasta ferita: eravamo barcollanti e non armonici.
Spronai le redini, mentre avvertii un momento di sussulto da parte del fantino in groppa al cavallo nero al primo posto: aveva lanciato un'occhiata verso di me e qualcosa lo aveva distratto.
Zar continuò scuotere la testa in su e in giù come se provasse fastidio al muso: doveva trattarsi di un'ape, o di qualche insetto che gli era entrato nel naso.
Stavamo per imboccare la seconda curva.
Correre più veloci.
La virata verso sinistra.
Più veloci.
La sterzata dell'aria.
Ancora più forte.
Poi di nuovo il rettilineo.
Ma qualcosa andò storto.

Zar puntò le zampe anteriori e sgroppò con il posteriore, facendomi scivolare in avanti.
Mi ritrovai in pochi secondi quasi in braccio al suo collo a sostenermi su un paio di redini troppo molli perché potessero essere un valido appiglio.
Il cavallo non si fermò e, sbilanciato dalla mia posizione innaturale, continuò a correre fino a farmi cadere rovinosamente a terra.
Non era successo nulla fino a quel punto: ero caduta un sacco di altre volte da cavallo e mi ero sempre rialzata, più o meno dolorante, forse con qualche osso rotto e l'orgoglio un po' ammaccato.
Quella fu la prima volta in cui anche il cavallo che governavo prese parte alla rovinosa caduta con me e mi finì addosso.
Oggi mi dico che se devo prendermela con qualcuno, dovrei farlo con la fisica: quando un corpo ruota attorno a un centro, sempre più forte, sempre più velocemente, esiste una forza centrifuga che lo spinge verso l'esterno.
Fu proprio per questo che Zar mi cade addosso con i suoi cinquecento chili e una sella di almeno altri dieci.
Fece male all'orgoglio, più di quanto una vita di cadute non avevano provocato dolore.

Da ragazzina di diciassette anni paralizzata dalla vita in giù, ero sempre un po' indietro con i tempi, ma perfino io avevo sentito parlare del film "Quasi amici".
Sinceramente non importava un granché di andarlo vedere, tanto meno di andare al cinema che era troppo lontano e troppo faticoso da raggiungere.
A quasi un anno dalla mia paralisi mi ero resa conto che avevo dato per scontato un sacco di cose: scendere dalle scale come quando volevo per scendere a fare colazione e poter prendere un barattolo di marmellata da sopra il frigorifero, riuscire ad infilare un paio di calze di nylon e sentirmi sexy davanti allo specchio o decidere di scappare di casa, anche se non lo avevo mai fatto, e andare ovunque volessi.
Non ero mai stata una femminista, non mi era mai importato nella lotta per il salvataggio delle balene e nemmeno della politica; tuttavia mi era successo di affezionarmi molto ad alcune cause di cui sentivo parlare spesso in tv e di cui ormai parlavo di continuo.
"Dovremo mandare una donazione a questa associazione che salva i delfini spiaggiati in Giappone." avevo detto a colazione, immergendo il cucchiaio in una tazza di cereali mentre staccavo gli occhi dalla televisione.
Papà aveva mugugnato qualcosa, mentre la mamma aveva preso a rimestare più velocemente nella ciotola dell'impasto delle frittelle.
"Cordelia, perchè non vai fuori un po'?" domandò il nonno seduto sulla sua poltrona in soggiorno.
Me ne stavo là, seduta sulla mia sedia a rotelle del piano terra; questo perché ormai in famiglia ne avevamo ben due in modo che potessi salire e scendere dal montascale in completa autonomia e andare dove volessi.
Era veramente stupido da dire.
Ora papà stava impostando i documenti per l'iscrizione di alcuni cavalli a un concorso di bellezza che si sarebbe tenuto Sussex: esami del sangue, idoneità a gareggiare, certificati di salute dei fantini, cose così...
Quando impostava quelle scartoffie creava sempre un ingombro sul tavolo della cucina, un gran disordine che poteva anche sembrare un bello spettacolo; era un bene che non avesse smesso di lavorare a ciò che più amava.
"Allora?" chiese ancora il nonno come per attirare la mia attenzione.
"Fuori c'è l'erba: faccio più fatica con le ruote."
Il nonno aveva bofonchiato.
"Non c'è mica erba dappertutto..."
"Beh, con lo sterrato è lo stesso!"
Non avevo sorriso all'idea anzi mi sentivo arrabbiata e frustrata perché quel vecchio gentiluomo da divanetto del salotto pareva non capire: a distanza di un anno era ancora all'unico che cercava di convincermi a fare le stesse cose che avevo sempre fatto.
"Potremo aprire un'area per tipo terapia!" aveva esclamato un giorno tutto tronfi un felice ritornando da una passeggiata.
"Oppure fare dei piccoli corsi di equitazione rieducativa per disabili."
Ma per favore...
A chi poteva importare quella roba?
Sapevo che l'aveva detto per me, ma io ero diventata nervosa e gli avevo sbattuto in faccia che non volevo più sentire stronzate del genere e che sarebbe stato meglio che pensasse a tirare avanti con l'allevamento, come avevamo sempre fatto.
Da quella sfuriata avevo guadagnato un incontro con uno psicologo e la decisione di farmi ritornare a scuola.
Fantastico!
Non avevo mai fatto caso a quanto quell'istituto fosse pieno di barriere architettoniche, così quando ci ero tornata dopo una decina di mesi avevo scoperto che mi sembrava anche tutto più grande: le porte che prima aprivo con una mano sola, ora doveva spalancarmele qualcun altro e per raggiungere la mia classe ero costretta ad utilizzare il montacarichi con cui i fattorini della mensa trasportavano gli scatoloni o riponevano i vecchi banchi rotti in soffitta.
La mia non era il genere di famiglia che si prendeva a cuore le questioni burocratiche; tuttavia, non appena si presentò il problema fecero in modo che la scuola disponesse un banco speciale per me davanti alla cattedra e finanziarono la costruzione di una rampa con cui potessi entrare senza difficoltà nella palestra.
Assurdo!
Era un controsenso che ci fosse interessa farmi entrare in quel posto, come se potessi mettermi i vestiti e prepararmi per una corsetta...
Non voglio iniziare a raccontare storie strappalacrime su quante volte mi è stato offerto il pranzo o su quanti si siano premurati di farmi compagnia durante la ricreazione; mi rendevo conto che all'interno di quell'ambiente protetto non avevo nulla da temere.
Nessun episodio di bullismo, nessuna parola fuori posto.
"Delia è caduta da cavallo, l'autunno scorso!"
"Quell'animale l'ha calpestata quattro volte!"
"Mio padre mi ha raccontato che non era la prima volta in cui ha rischiato di morire..."
"Stava per vincere la corsa più importante della sua vita!"
E' così che nascono le leggende.
Mi sono domandata che cosa sarebbe successo se avessi smentito tutto: magari potevo raccontare di essere stata aggredita da uno squalo, oppure di aver partecipato ad una rapina in banca finita con un inseguimento alla 007 e un incidente d'auto con tanto di scoppio della macchina della polizia.
Sarebbe stata una storia molto più figa di quella vera.

La scuola era diventata una normalità.
Facevo lezioni di biologia, letteratura, matematica, laboratorio d'arte... insomma niente di speciale, ma mi permetteva di dare una cadenza al passare delle ore.
Non volevo tornare a quei mesi passati a letto a realizzare che il formicolio che sentivo non sarebbe passato mai, o peggio, che sarebbe passato subito, e la consapevolezza che ormai quelle gambe erano soltanto due estensioni di me su cui non avevo più alcun controllo.
Nel frattempo, per quanto ne sapevo, Zar se ne stava tranquillo nel suo box.
Il resoconto della gara di quell'autunno si era concluso con un fantino handicappato e un cavallo illeso; certo che la vita è buffa...
Non mi ero mai informata sul perché il cavallo si fosse imbizzarrito: non avevo chiesto se avesse visto qualcosa che potesse averlo spaventato, se fosse stato punto da un insetto, o se semplicemente glii fossero girate le palle per i fatti suoi!
I box e i recinti del ranch erano ormai una parte della casa che non esploravo più, semplicemente perché nella mia mente ormai non corrispondevano nemmeno più ad un'area della casa.
Il giardino finiva dopo i tre gradini dell'ingresso; gradini che peraltro avevano un corrimano di legno su cui era stato impossibile montare un saliscendi per le scale...
Avevo chiesto alla mamma almeno di rimuovere tutti i miei trofei dalla camera da letto; lei aveva protestato per un po', ma poi li aveva inscatolati e messi da qualche parte.
Mi sembrava giusto, quella era roba mia e ci facevo quello che volevo.
Papà mi aveva anche chiesto se potesse farmi sentire meglio se avesse rimosso gli articoli di giornale appesi in soggiorno che parlavano del nostro ranch, le coccarde sul cammino e i ferri di cavallo utilizzati come fermacarte, ma avevo detto di no: la casa era talmente piena di quegli ammennicoli che probabilmente avrebbero dovuto chiamare un arredatore se avessero rimosso tutto! Apprezzai molto quella proposta, come se tutti quei piccoli gesti potessero significare dei passi importanti per la mia accettazione.
Non si poteva dire lo stesso del nonno: sembrava uscito da uno di quei musical di Brodway in cui tutti sono felici e cantano la loro contagiosa gioia di vivere.
"Dai, Delia! Fuori c'è il sole!"
Ogni tanto veniva da me dicendo che l'aveva contattato un allevatore proponendogli una monta parecchio vantaggiosa, oppure che il veterinario era impazzito e gli aveva chiesto ben 100 cucuzze per vaccinare quattro animali.
Alla fine sorrideva speranzoso, ma non me ne importava nulla.
Fanculo a Zar e alla giumenta che l'aveva messo al mondo.

Quella mattina era stata abbastanza insolita per il fatto che nessuno avesse mostrato entusiasmo per la donazione all'ente benefico che salvava i delfini; di solito i desideri di un'handicappata sono sempre assecondati di buon grado...
Il nonno era fin troppo tranquillo per non essere intento a fare nulla di particolare: si vedeva lontano un miglio che stava archiettendo qualcosa.
Sorseggiò il suo caffè e poi si lisciò i baffi.
"C'e la fiera equina della contea." disse poi distrattamente, mentre io alzai gli occhi al cielo.
"E allora?"
"Beh, io dovrò andarci di certo!" si intromise mio padre lasciando correre il discorso e facendo saltellare le buste sulla superficie della tavola.
Decisi di concentrarmi sulla colazione: quel discorso non avrebbe portato assolutamente a nulla.
"Andiamo, Diana! Vacci anche tu!"
Fulminai mia madre con lo sguardo mentre il nonno si era alzato dalla poltrona per avvicinarsi.
Non avrebbe dovuto andare, non quando io ero a casa in quello stato.
"Che c'è di male, Delia?" domandò poi mister ottimismo over settanta.
"Non ho detto ninete."
"Hai alzato gli occhi."
Sorrise e io sbuffai.
"Penso solo che non dovrebbe lasciarmi quì da sola così!"
"Così come?"
Lo guardai con odio. Lo sapeva benissimo come, anche se io non riuscivo ancora a dirlo.
Avrei voluto andarmene correndo e sbattendo la porta, ma sarebbe stato tutto così lento che sarebbe stata uno schifo di dimostrazione di ribellione adolescenziale.
"Sarebbe solo per una sera." commentò mia madre.
"Una sera e una mezza mattinata. Rimarremo per la cena e torneremo per il proanzo del giorno seguente."
Stronza traditrice! Ci aveva già pensato.
Tutti d'accordo ad attendere il consento del cadavere dentro casa.
Fu come rendermi conto che il mondo intorno a me avrebbe continuato a giraree e io avrei fatto lo stesso, con l'unica differenza che io lo avrei fatto più lentamente e sarebbero stati gli altri a doversi preoccupare che tenessi il passo.
Avrebbero guardato con agoscia innanzi a loro pur desiderosi di proseguire, terrorizzati di correre troppo veloci e si sarebbero guardati alle spalle con il terrore di perdermi di vista.
Erano loro ad essere sospesi, non io.
"Non importa." concluse mia madre.

I miei genitori uscirono di casa pieni di scartoffie, falsi sorrisi e bugie.
"Sarà un noia mortale; il solito lavoro."
Non era vero, ma feci finta di crederci lo stesso anche quando il nonno prese tra le mani il volantino della fiera ippica e lo buttò nel cestino della spazzatura sotto il lavello.
"Beh, hai programmi per la giornata?" mi chiese poi.
"Sono stanca. Penso tornerò a dormire."
Lui si tolse il cappello e allungò una mano per trattenere uno dei manici della mia sedia a rotelle del pian terreno.
"Delia... io..." sussurrò.
"Tu cosa?"
"Io voglio che tu venga a vedere una cosa." disse venendo verso di me e guardandomi negli occhi.
Rimasi lì a fissarlo per un lungo minuto: avevo uno strano sospetto su cosa mi avrebbe chiesto di guardare.
"Si tratta di Zar."
"Oh, tu non puoi chiedermi..."
"Cordelia!"
"No!"
Avanzai bruscamente con la mia sedia verso il montascale.
"Tu non puoi costringermi a vederlo! Nè lui nè gli altri! Vattene via!"
Lo sapevo.
Lo sapevo da come si rigirava il suo giornale tra le dita, da come cercava di parlarmi negli ultimi tempi: era finito il momento degli incoraggiamenti, dei suggerimenti ad uscire e  degli sguardi di rimprovero.
"Delia!"
"Stai zitto!" strillai di nuovo, ma non avevo scampo. Non avrei mai potuto continuare ad urlare e contemporanamente issarmi sul montacarichi senza perdere il controllo di me stessa.
"Delia, Zar sta morendo."
Lo sputò come una verità assoluta. Un dogma. Un postulato.
Come se fosse l'unica cosa giusta da dire e l'ultima cosa vera.
Rimasi immobile, ansimando forte e non potendo credere a quelle parole orribili.
Il nonno tornò verso la porta d'ingresso e la aprì leggermente, come se l'ingresso della brezza autunnale fosse una conferma di realtà.
Il mio cuore si era improvvisamente riempito di gioia.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


~~Gli operai avevano creato una rampa apposta per me, demolendo la scala che separava la porta della cucina dall'uscita sul retro.
Sarebbe stata una cosa furba anche quella di rimuovere la ghiaia del porticato e mettere una bella colata di cemento per permettermi di uscire in maniera autonoma; tuttavia non era stato fatto anche perché non avevo mai espresso il desiderio di mettere naso fuori da quella porta.
Beh, metterci piede era già parecchio difficile di per sè.
Il nonno mi accompagnò proprio da quell'uscita; tutto nel giardino sembrava molto più grande, comprese le strutture per lo sgambo dei cavalli e l'area del maneggio.
Non voglio dire che quella fu la prima volta in cui uscii perché non è vero: passavo di lì tutte le mattine per andare a scuola vedevo tutte quelle costruzioni sovrastarmi e guardarmi dall'alto in basso, ma quella volta fu come se tutto fosse un pochino più alla mia altezza.
Il nonno mi spinse faticosamente sul ghiaietto producendo quello strano suono rasposo che mi infastidiva le orecchie, lasciando che le ruote della sedia a rotelle arassero quella coltre di sassolini.
Zar, a quanto ricordavo, era al terzo box della stalla più piccola, quella dove tenevamo i nostri cavalli di famiglia.
Al numero due c'era sempre stato Artax.
Guardando il lontananza si poteva intravedere la boscaglia e il cielo non molto limpido, con qualche nuvola di pioggia che minacciava di riversarsi sulla nostre testa, se il nonno mi avesse spinta abbastanza in fretta.
"Sai, ho contattato un'associazione ippica per disabili." disse ad un tratto lui, tutto sorridente.
"E allora?"
Il nonno d'un tratto si incupì.
"Dobbiamo a tutti costi utilizzare questo sarcasmo?"
"Si, dobbiamo." esclamai.
"Beh, almeno dovremo cercare di ridurne la frequenza, non credi?" arrivammo davanti alla porta della stalla dove il nonno si fermò per un lungo minuto a guardarmi.
Chinò il capo, gli occhi fissi sulla mia sedia a rotelle, poi sospirò.
"Te lo devo tantissimo."
"Che cosa mi devi?"
Ma lui mi ignorò le fece scivolare il perno di apertura della stalla, per poi riposizionarsi nuovamente alle mie spalle e continuare a spingere.
Non feci in tempo ad alzare gli occhi per cercare di scorgere Zar all'interno del suo box, perché la mia visuale fu investita da quella di una sella nuova appesa a due ganci proprio davanti all'ingresso.
"Guarda cosa ho fatto arrivare per te!"
Il nonno mi diede un buffetto sulla testa; tuttavia, quel dono mi scatenò  una gran rabbia.
Avrei voluto scappare via con tutta la forza che avevo nel cuore se proprio non avessi potuto più trovarla nelle gambe.
Quella non era una stella normale: sulla parte superiore aveva una specie di manubrio con cui potersi sorreggere con entrambe le mani e, al posto delle staffe, c'era una sorta di intelaiatura rigida che poteva essere regolata a seconda della grandezza e dell'altezza del cavallo.
Era una sella da passeggio: quelle che si usano nei centri per fare ippoterapia. Nessuno avrebbe mai potuto cavalcare seriamente con una sella del genere: ci sarebbe dovuta essere sempre una persona accanto a me per utilizzarla, ma io non l'avrei mai fatto.
"Beh?!" chiese il nonno tutto contento, avvicinandosi al suo regalo.
"Che ne pensi?" domandò.
"Avevi detto che Zar stava morendo, e invece siamo venuti qui per questo? Una sella da passeggio? Per farmi fare i giri della pista del maneggio come i bambini al circo?"
Gli occhi del nonno si rigarono di lacrime.
Mi guardò con aria incredula, ma era stranamente sereno.
"Non ti piace?"
Non diedi nessuna risposta perché sapevo che ne avrebbe sofferto e non volevo fare del male alla mia famiglia più di quanto ciò che era accaduto non avesse già fatto.
"Delia, mi dispiace..." sussurrò.
"Mi dispiace per tutto quello che è successo e credevo fosse un modo per renderti felice. Pensavo che ti sarebbe piaciuto scoprire che puoi fare tutto quello che prima ti piaceva. Tornare a cavalcare."
Anchi i miei occhi cominciarono a lacrimare.
"Andiamo, perché piangi?"
"E' proprio qui il problema che non capisci."
"Equale sarebbe?"
Presi un profondo sospiro.
"Che a me non piace più. . Lo odio. Ho smesso per sempre."
Rimanemmo per un secondo a guardarci l'uno negli occhi dell'altra, terribilmente dispiaciuti del grande dolore che stavamo provocanto all'altro ma le cose stavano in quel modo e bisognava farse il primo  passo per prenderne consapevolezza.
Temevo che dicesse che non era possibile che non mi piacesse più cavalcare, che gli avevo detto troppe volte che era la cosa che amavo fare di più al mondo e che si mettesse a dire una di quelle frasi da Mister simpatia o da Mister gioia di vivere in cui cercava di spiegarmi che non era importante il modo in cui facevo qualcosa, ma semplicemente amare ciò che facevo nel modo in cui potevo farlo.
Amarlo perché era giusto così.
"Delia, io..."
"Non fa ninete, l'importante è che ora hai capito. Ora possiamo tornare in casa?"
Fece un gesto come per incitarlo a  procedere e prendere le maniglie della sedia a rotelle, ma lui per tutta risposta si avvicinò al box numero tre.
"Delia, io non ti ho mentito quando ti ho detto che Zar stava morendo."
Le sue mani si appoggiarono sul legno della struttura e poi scivolarono lentamente sull'apertura a gancio e spalancarono la cancellata del box.
Zar se ne stava semisdraiato sul terriccio della stalla, accanto ad alcune sterpaglie che erano state adagiate poco distante.
Era diverso da come lo ricordavo: il pelo aveva iniziato a schiarirsi come se fosse vecchio e il viso era terribilmente deturpato da una specie di escrescenza che gli rendeva il cranio asimmetrico.
In un punto addirittura gli era quasi impossibile chiudere l'occhio destro e sembrava che quel bozzo gli avesse tolto la visione laterale.
"Il veterinario dice che ha un tumore senonasale. Una cosa abbastanza comune, ma dato che è così grande credo che ci sia ben poco da fare." disse il nonno chiudendo gli occhi aspettando che io mi avvicinarsi quanto desiderassi.
Avevo pensato che avrei affrontato quel momento con trionfo: avrei guardato Zar negli occhi e avrei detto "occhio per occhio dente per dente".
Ma non fu così.
Provai compassione e desiderai, dentro di me, che non dovesse morire.
"E' successo tutto ad un tratto?" domandai.
Lo sguardo del nonno si rischiarò di una luce speranzosa, come se fosse felice del fatto che avesse accettato di parlarne.
"No, veramente è da diverso tempo che sta così. Quell'escrescenza è cresciuta in poco meno di un anno."
Sentii un groppo salirmi alla gola.
"Un anno?"
"All'inizio era piccolo, una specie di cisti che gli cresceva in mezzo agli occhi che gli dava solo un fastidio di tipo estetico. Passerà, avevo pensato, anche perché anche il mio vecchio cavallo aveva avuto una cosa del genere... Il veterinario aveva parlato di un accumulo di grasso, una specie di palla fibrosa che si sarebbe riassorbita ma poi ha iniziato a peggiorare; quando quel bozzo è diventato grande come una palla da biliardo abbiamo optato per una biopsia. È venuto fuori che si tratta di un'escrescenza ossea, una specie di sindrome delle ossa di granito, una cosa così."
"E non si può rimuovere?"
Il nonno sospirò.
"Non ne varrebbe la pena e probabilmente è già fin troppo tardi; oltretutto negli ultimi mesi sta crescendo sempre più."
Guardai in direzione di Zar, sentendomi molto triste.
"Quanti tempo ha ancora?"
"Non ne ho idea: so soltanto che non lo lascerò sopprimere, né che lo lascerò morire così. Penso che debba tornare dal posto in cui è venuto."
"Alla fiera regionale?" domandai, mentre il nonno si sedette su un piccolo sgabello di legno.
"No, nella foresta."
Rimasi per un attimo ammutolita. Un rumore improvviso fece l'effetto di una scossa elettrica. Attutita e distante. Era il guaito di un cane.
Il nonno sorrise, come se avesse mantenuto per tanto tempo un piccolo segreto; poi, senza aggiungere una parola, si portò una mano sui radi capelli bianchi e mi guardò.
"Hai sempre detto di averlo comprato li."
"Beh, la verità non è esattamente questa. In realtà questo cavallo l'ho trovato."
"Cosa vuol dire che l'hai trovato?"
"Delia, lascia che ti racconti una storia. Hai presente Jim?
"Il cane?"
"Sì, esatto! Una mattina, all'alba, eravamo andati a cercare funghi nella radura, quando ad un tratto lui si è scagliato nella foresta senza più voltarsi indietro! L'ho aspettato invano per quasi tutto il giorno, chiamandolo con quanto fiato avessi in gola ma poi... insomma, era sparito quella mattina e sapevo che non sarebbe più tornato se non fossi andato a prenderlo: poteva essere caduto da qualche parte, essersi rotto una gamba e non essere più in grado di ritrovare la strada di casa, perciò andai. La foresta quì accanto, oltre la collina, non è molto fitta ma è... sospesa."
Sgranai gli occhi: "Sospesa?"

"Ci sei mai stata nella foresta, Delia?"
Scossi la testa.
"Vedi, quando andavo a scuola, e ti parlo di tanti anni fa, ci insegnavano la storia, la geografia, i confini del mondo e tutto ciò che c'era stato in queste terre prima di noi."
"Sì, ma questo cosa c'entra?" domandai mentre capivo che il nonno aveva iniziato quel discorso così alla larga perchè era come se fosse imbarazzato.
"Quando andai tra quegli alberi anche le cicale avevano smesso di cantare. Era come se fosse tutto sospeso dal tempo; dopo pochi minuti non sapevo nemmeno più se la luce che penetrava dall'alto fosse quella del sole o della luna. Iniziai a chiamare il cane a gran voce "Jim! Jim!" gridavo. Sapevo, ovviamente, che  non poteva rispondermi ma proprio quando avevo perso le speranze di ritrovarlo e mi ero inoltrato probabilmente più di quanto non avrei dovuto, lui è comparso dal nulla, è corso verso di me ed è stato quel punto che ho visto!"
"Visto cosa?"
"Il cane, Delia! Il cane non era più lo stesso di quando si era allontanato quella mattina. Jim aveva tredici anni ormai, e quando mi è corso incontro i suoi occhi erano diversi, più vivi, e le sue zampe più forti: era più giovane, Delia! Non so spiegarti come, ma sono sicuro che in quella foresta sia successo qualcosa, qualcosa che lo ha cambiato per sempre."
Rimase zitta davanti a quello strano racconto, praticamente assurdo, che non avevo mai sentito uscire dalla bocca di mio nonno: avevo sempre pensato che fosse un uomo razionale, che non credeva alle superstizioni e alle storielle di fantasia.
Forse il cane gli era corso incontro con molto slancio semplicemente perché aveva fame e non mangiava da diverse ore, o forse perché semplicemente sapeva di essersi perso era contento di vedere qualcuno di familiare. Gli occhi più vivi, bah... sciocchezze!
"E' stato proprio lì ho incontrato Zar!"
Soffocai un pensiero divertente e mi impegnai per non alzare gli occhi al cielo, come mio solito.
"Se ne girava nella foresta da solo?"
"Te lo assicuro, Delia! Ha trotterellato dietro al cane e si è avvicinato a me docilmente, non come avrebbe fatto qualunque altro cavallo selvatico."
"Megari si era perso anche lui: chissà, magari da qualche parte ha disarcionato qualcun altro che è rimasto sepolto nella foresta con le gambe rotte e lui se n'è andato per i fatti suoi!"
"Io so soltanto quello che ho visto! E quello che ho visto era che una bestia sconosciuta si stava avvicinando. Avevo una sola mano nella tasca laterale, dove avevo portato con me dei biscotti, ma il cavallo non li ha voluti. C'era uno strano clima, come quello di una fiaba: l'aria calda, opprimente, e nonostante questo io avevo la pelle d'oca. È come se qualcosa mi avesse detto che dovevo portare quell'animale con me."
Il nonno fece una pausa: la storia doveva essere finita.
Guardai il nonno con tristezza, come se quella fosse soltanto l'ennesima ammissione di un terribile errore che nemmeno il più stupido degli allevatori avrebbe dovuto fare: prendere un cavallo così, trovato in giro da qualche parte, senza avere nessuna notizia sulla sua discendenza, sulla sua linea genetica, sulla disponibilità dei propri genitori a farsi ammaestrare!
Ecco perché quel cavallo si era ribellato. Probabilmente se l'era svignata da qualche ranch dove era stato reputato inadatto per le cavalcate, o magari in lista di macellazione insomma; le motivazioni potevano essere tante, ma di giustificazioni non ce n'erano.
"Perciò? Perché mi raccontato tutta questa storia? Hai trovato un cavallo a zonzo nella foresta e adesso sta morendo: sono cose che capitano!"
"No, Delia! Questo cavallo sta morendo troppo giovane e troppo malato per la sua età: penso che la sua risposta, il suo destino sia quello di tornare nella foresta da dove è venuto. Dobbiamo riportarlo lì."
A quel punto la mia risata sarcastica fu incontrollabile; sperai che si trasformasse in una risata di cuore, tuttavia il nonno non fece neanche una smorfia.
Guardò in direzione del cavallo inerme e poi cercò di parlare: sentii che le parole gli morivano in gola, come se si sentisse ritenuto un pazzo, un esaltato o qualcuno che aveva visto troppi telefilm.
"Io voglio che ci venga anche tu." sospirò in un filo di voce.
"Perchè? Perché portare lì quel cavallo potrebbe essere utile a qualcosa?"
"È questo che non capisci: dopo quell'episodio sono tornato di nuovo a ranch e mi sono sentito diverso. Ero più forte, sentivo che la mia vecchiaia mi aveva abbandonato. Mi mancavano le parole per esprimere la gioia, il vigore, il fremito che provavo dentro di me e lo dico con gran riguardo, di chi è invecchiato, di chi è morto, di chi ha provato il dolore. In quel momento ho creduto di non doverlo provare mai più. Ed è per questo che devo portarti lì: per le tue gambe."
Rimasi ammutolita.
"Lo sai quanti anni ha Jim?"
Non risposi.
"Quasi venti. E lo sai quanti anni ho io?"
"Non lo so!"
"Sì, che lo sai! Ne ho ottantaquattro suonati! Ti sembra possibile, Delia?! Pensa solo a come sono attivo, al fatto che non provo la fatica dei miei anni e che..."
"Questo non vuol dire niente."
Lo sapeva che l'unica sua abilità era quella di poter affermare tante cose, ma la realtà non sarebbe stata fedele alle sue parole.  Ero convinta della sua buona fede, della sincerità delle sue affermazioni e delle sue speranze ma, tuttavia, mi stava illudendo, e illudermi su una guarigione miracolosa non era una cosa sbagliata.
Era malvagia.
"Tu sei pazzo!" esclamai tirandomi indietro, quasi non volessi nemmeno che mi toccasse.
"Cordelia, lasciami provare!"
Cominciai a spingere le ruote della mia sedia a rotelle, cercando di spostarmi verso l'esterno: non volevo rimanere in quella stalla.
"No! Ti senti solo in colpa e per questo cerchi di costruirti delle strane storie di fantasia in cui dei folletti della foresta batteranno le mani e io mi alzerò, ballerò e farò tutto quello che facevo un tempo, non è così?"
Il nonno era tremolante e mortificato.
"Delia, non ha mai parlato di folletti! Ho parlato solo della foresta: dopo quell'episodio con Jim, ci sono tornato di nuovo ma non sono mai  più riuscito a percepire lo stesso vigore che ho provato quella volta. Non so secondo quale criterio funzioni, non so nemmeno cosa potresti provare ma ti chiedo soltanto di provarlo per me. Ti prego."
lo guardai nuovamente, nel suo oscuro tormento.
"Lasciami provare."

Riuscii ad uscire dalla stalla in maniera autonoma con l'idea di tornare a fatica nella mia camera e lasciarmi andare in un silenzio incredulo.
Prima che il nonno potesse raggiungermi nuovamente per spingermi lungo il vialetto di ghiaia osservare la scena davanti a me: si intravedeva la foresta in lontananza, una piccola porta collina verde e l'orticello di mia madre accanto ai box dei clienti, dove durante l'estate qualche ricco signore ci lasciava i suoi animali perché potessimo farli muovere mentre loro se ne stavano in vacanza.
Era un lavoro divertente, e spesso lo facevo io.
Mi sentivo frustrata, ma anche speranzosa: in fondo, non era stata una brutta idea quella di uscire di casa per un po' perché lì, al di fuori delle stalle, a guardare da una nuova angolazione tutto ciò che mi era familiare mi ricordava che non avevo ancora abbandonato del tutto il mio piccolo mondo.
Era soltanto più lontano, ma comunque ero sempre lì che potevo continuare a vederlo.
Ad un tratto la mia attenzione fu attratta da qualcosa che si mosse velocemente accanto alla mia sedia, sfrecciando di corsa arando i sassi del ghiaietto.
"Jim!" esclamai, mentre un grande cane nero dal muso simpatico aveva preso a girarmi intorno vorticosamente.
Faceva sempre così quando era euforico: prendeva a correrti intorno disegnando dei cerchi concentrici sempre più larghi, prima avvicinandosi un po' e poi correndo sempre più lontano.
Continuò quella danza per qualche minuto, fino a che la sua attenzione non fu attratta da una canna da giardino rimasta aperta che saltellava a destra e a sinistra provocando delle enormi pozzanghere di fango.
Sembrava felice.
Sembrava giovane.
L'unico che sembrava aver subito l'incedere violento del tempo pareva essere stato Zar, che se ne stava ricurvo come un vecchio mentre una malattia lo divorava dall'interno.
Pensai che forse la malattia non poteva essere paragonata alla vecchiaia: essere malati non significa essere vecchi, come essere vecchi non significa necessariamente essere in punto di morte.
E il nonno si era fermato a sistemare la sella per disabili che mi aveva regalato, a toglierla dai ganci e a riporla su un apposito supporto che doveva essere stato inviato in dotazione con l'articolo.
Pensare a quante volte mi è capitato di galoppare attorno quella foresta con Artax; non c'eravamo mai addentrati semplicemente perché un posto pieno di alberi incolti e di sterpaglie urticanti di chissà quale natura non è esattamente il posto perfetto per cavalcare.
Non c'era mai nemmeno venuta la voglia di esplorarla.
Quel luogo, ai miei occhi, aveva sempre avuto un alone di finta indifferenza: non ne aveva mai spaventato ma nemmeno intrigato al punto di potermici ad entrare per fare una piccola esplorazione.
La realtà era che poter considerare che le storia del nonno fossero vere era qualcosa di talmente lontano dalla mia persona, dalla mia razionalità, che mi faceva sentire debole.
Mi avevano sempre infastidito le cose che non conoscevo perché non avevo modo di controllarle.
Senza accorgermi mi ritrovai a fare pensieri su come poteva essere semplice arrivare a quella foresta a bordo di una macchina, o sulla groppa di un cavallo; di certo arrivarsi con una sedia a rotelle era pressoché impossibile.
Magari con un aiuto...
No! No! Era inutile mettersi a fantasticare su certe sciocchezze.
Il cane era tornato ad interessarsi a me e si era seduto proprio lì, accanto alla sedia, con gli occhi persi in direzione foresta erbosa.
Allungai una mano e gli accarezzai la testa.
A quanto sentivo dai racconti del nonno, Jim era sempre stato un buon cane; erano andati a cercare tartufi dappertutto, si erano riscaldati davanti al fuoco del soggiorno e avevano anche condiviso il pranzo ben più di un paio di volte!
Jim era sempre stato un buon cane e, a conti fatti, se proprio ciò che il nonno aveva raccontato era vero, se l'era meritata una magia; ciò non si poteva dire lo stesso di Zar.
Forse era per quello che stava morendo.
Mi trovai a fissare quell'orizzonte proibito, domandandomi se avrei potuto meritarmelo anche io.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


~~Le nuvole apparivano scure, senza uno spiraglio che i raggi del sole riuscissero a penetrarla con la loro luce. Mano mano che il piccolo camioncino del nonno proseguiva verso la macchia di alberi pareva che il cielo avesse perso tutto il suo calore e splendore.
Avrei detto che quello era proprio il genere di giornata fredda e grigia di cui non avevo mai avuto paura: quale più rassicurante scusa, se non quella del tempo atmosferico, per rimanere in casa?
Quella poca luminosità fredda, gli alberi che protendevano verso il cielo le loro dita nude, dai quali lesporadiche foglie erano quasi tinte di grigio, punteggiate da qualche sporadica punta rossa per via dell'autunno che le percorreva come crepe, faceva apparire quell'ambiente cangiante e mutevole.
Zar camminava con lentezza accanto al furgone, trattenuto da un paio di briglie morbide che il nonno stringeva con il pugno della mano destra mentre con l'altra mano dirigeva il volante.
Il cavallo non sembrava sentire il peso di quel tragitto e quando il nonno aveva preso il morsetto e le briglie dal gancio della stalla, immediatamente aveva fatto segno di volersi alzare in piedi spingendo con le gambe anteriori e cercando di raddrizzarsi con tutte le sue forze.
Il nonno poi aveva preso il montacarichi per farmi salire sul furgoncino; mi ero posizionata come d'abitudine sulla struttura che mi avrebbe alzata all'altezza del sedile dell'automobile, poi sarebbe bastato darmi un colpo con le mani e spostare le gambe inerti verso di me per sedermi comodamente accanto al posto di guida.
Il furgoncino non era esattamente la vettura più adatta per un disabile, ma a mali estremi…
fu proprio quel punto che guardai in alto osservare il cielo: non riuscivo a distinguere le nuvole dai raggi del sole che sembravano opachi, come nascosti da un vetro smerigliato.
Sembrava tutto così grigio da non potersi rischiarare mai più.
Procediamo in silenzio, esattamente come in silenzio il nonno si era avvicinato a me, portando il montacarichi a rotelle alle mie spalle, come se mi volesse suggerire di essere perfettamente a coscienza dei miei pensieri e delle mie paure.
Era stato un suggerimento velato, tuttavia aveva funzionato: avrei voluto dire che la frustrazione mi aveva fatto aprire il becco molto più sfacciatamente di quanto in realtà pensassi, ma sarebbe stata una bugia perché quelle cattiverie che gli avevo sputato in faccia le avevo pensate tutte.
Il nonno scalò nuovamente la marcia perché in quel punto la collina si stava facendo sempre più ripida e anche il cavallo sembrava iniziare ad innervosirsi, cominciando sbuffare a muovere le orecchie all'indietro.
La frenata d'arrivo fu brusca e con qualche scossone, come quella di un pilota poco esperto, e quando aprii la portiera mi limitai a sospirare profondamente e guardare dei piccoli sprazzi di luce giallastra che rimbalzavano sulla carrozzeria lucida del veicolo.
"Siamo arrivati!" annunciò inutilmente il nonno, come se non l'avessi capito.
Mi ci volle un quarto d'ora soltanto per uscire dal furgoncino: non saremmo mai riusciti a portare il montacarichi fino a quel punto, così il nonno aveva caricato la sedia a rotelle nel bagagliaio, in modo che non dovessi sedermi per terra o peggio, rimanere sull'auto.
Visti da vicino, quegli alberi non erano scheletrici anzi, erano forti, dai tronchi vigorosi e dalle radici sporgenti; appena notare questa caratteristica peculiare del terreno mi resi subito conto che la sedia a rotelle non sarebbe stata in grado di proseguire più in là di quel punto.
Nel frattempo il nonno era rimasto un po' più in disparte, verso il furgone: teneva per le briglie Zar bisbigliando qualche parola per tranquillizzarlo.
Nell'aria c'è un profumo che non avevo mai percepito: una specie di aroma di tabacco, una litania per l'olfatto che faceva sì che quella situazione assumesse un alone di calma quasi narcotizzante.
Pareva avesse calmato perfino il ritmo confortante e pacato dei soffi del vento.
Volta il capo in direzione del nonno, ma ciò che attrasse la mia attenzione fu bensì il cavallo.
Zar muoveva la testa con il suo solito ritmo a scatto, quasi stesse annuendo e sul suo dorso qualcuno aveva appena finito di legare una stella.
"L'hai portata qui?" domandai.
Il nonno sorrise, stringendo le briglie più forte e costringendo il cavallo proseguire nella mia direzione; l'animale si mostrò docile e accondiscendente mentre il tumore che aveva sul volto sembrava essere diventato quasi più grande di come lo ricordassi da poche ore prima.
Forse era un po' nervoso perché non riusciva a vedere bene davanti a sé; probabilmente la presenza rassicurante di qualcuno che lo guidasse lo rendeva più sicuro.
Ebbi un fremito: Zar si accucciò accanto alla mia sedia, con l'unico occhio sano puntato in direzione della foresta.
"Credo che voglia che tu ci salga sopra." disse il nonno, sorridendo felice.
Effettivamente proseguire da quel punto in poi senza la sedia a rotelle sarebbe stato necessario e, per quanto mi disgustasse l'idea di salire su una sella per handicappati sul cavallo che mi aveva ridotto in quello stato, capii che c'eravamo spinti troppo in là.
O così o nulla.
Il nonno si protese in avanti, in modo che potessi stringere le braccia attorno al suo collo e che lui potesse sollevarmi leggermente dalla vita; saldi in quell'abbraccio di quella sgraziata danza, mi appoggiò sulla sella di quella sgradita cavalcatura con le gambe da un lato, come se avessi dovuto cavalcare all'amazzone. L'ultima mossa anche la più difficile: mi sorresse con la schiena e io, con le mani spostare la mia gamba sinistra al di là del dorso di Zar.
Era fatta: ero sopra.
Mi abbarbicaci con insicurezza alla maniglia di supporto, facendo istintivamente un po' pressione con il mio corpo per attecchire alla schiena del mio destriero.
Non avevo dimenticato le regole di un buon equilibrio.
"Alzati Zar, sù!" incitò il nonno.
Il cavallo si alzò in piedi un po' tremolante ma conscio del peso che aveva sul suo corpo, poi avanzò un piccolo passo in avanti.
"Le sicure!" esclamai terrorizzata, notando che il nonno non aveva richiuso i ganci di sicurezza che avrebbero dovuto contenere le mie gambe all'interno degli appositi supporti per assicurarmi la giusta postura e rigidità.
"Shhh, dobbiamo solo fare quattro passi in avanti."
Quel tono era rassicurante, ma tuttavia non riuscii a sorridere.
"Mi ammazzerò!"
"No, non succederà niente. Vi guido io."
E rimasi su quella sella,immobile; forse condizionata da quella strana ambientazione, da quell'aria pesante dal sapore di tabacco o forse inconsciamente felice di essere di nuovo su uno di quegli animali meravigliosi che tanto avevo amato.
Tuttavia, mi rendevo conto che qualcosa era cambiato: non ero più in grado di trasmettere sicurezza al mio cavallo perché io non avevo alcuna. Non c'era feeling, non c'era più emozione; ma in fondo, erano solo quattro passi.
Effettivamente furono proprio quattro di numero, quelli che bastarono ad avvicinarci alla radura della foresta dove l'odore di tabacco lasciò il posto uno strano profumo di camomilla; mi domandai se riuscisse a percepirlo anche il nonno.
Sicuramente quel posto doveva essere estremamente sensoriale per un cavallo: un'esaltazione del senso dell'olfatto e della gioia della natura; peccato che Zar potesse vederlo con i propri occhi soltanto parzialmente.
Ci fermammo all'ombra di un albero al limitare della foresta che apriva gli orizzonti su una schiera arbusti irregolari che si distribuivano su  piccola discesa, un minimale dislivello, per poi riprendere una collocazione sul piano erboso che lasciava intervallo ad alberi dai tronchi giganteschi.
Il cavallo sembrava essere più calmo: cercava di muovere la testa in maniera simmetrica, a destra e a sinistra, e lo sentivo respirare affannosamente come se avesse fame d'aria, con ritmo e il rigore.
"Tutto qui?" chiesi.
Il nonno si calò il cappello floscio in testa e proseguimmo di un altro paio di passi.
Sembrava che i suoi occhi cercassero qualcosa che non sarebbe arrivato, ma il vento urlava normalmente tra le foglie e i piccoli suoni boschivi che si potrebbe percepire in qualunque radura si facevano strada alle nostre orecchie.
Una pura, sana, banale normalità.
"Forse non siamo abbastanza..."
Scossi la testa: addentrarci o meno non aveva importanza e non avrebbe fatto alcuna differenza.
Rimanemmo ancora per un po' a fissare il grigiore di quello spettacolo, mentre il cavallo di menava le orecchie e ogni tanto mi priva nervosamente come si provocasse dei piccoli starnuti.
Sembrava impossibile essersi lasciati convincere fino a quel punto, eppure ora eravamo lì.
Immobili.
Avrei voluto dire che eravamo anche speranzosi, ma la verità è che la speranza soltanto il nonno; o almeno io pensavo che così fosse ma qualcosa d'un tratto mi smentì.
"Andiamo a casa." bisbigliò lui dandomi un colpetto sulla schiena.
Più tardi, ripensando a ciò che accadde in quel momento, avrei detto che la chiave di tutto era stata in quella perdita di speranza; come se qualcosa nell'oscurità percepito che nessuno più oltre quello sparuto gruppo di creature umane che deve qualcosa di più grande.
L'inesplicabile, di proibito.
Il nonno si girò leggermente come per riprendere il passo verso il furgoncino, ma qualcosa lo colpì violentemente.
Fu un sibilo livido di rabbia.
Una specie di ritardo, una punta primordiale simile a una grande spina venne scagliata come una freccia in direzione del nonno.
"Delia!" esclamò lui, prima di lasciare che le briglie di Zar scivolassero inerti al fianco dell'animale.
Ebbi paura: la più forte che avessi mai provato in vita mia.
Trovai gridare il suo nome ma accadde tutto troppo in fretta: il cavallo fece uno strano movimento nervoso, indietreggiò scalpitando come se volesse guardare la scena da una prospettiva più lontana.
Anche lui aveva paura; forse avevo perso la capacità di trasmettere il mio cavallo le emozioni che provavo, ma le sue riuscivo ancora a distinguerle con assoluta nitidezza.
Era successo qualcosa e qualunque cosa fosse quella bestia nera perfettamente consapevole.
"No, ti prego!" strillai, ma le sue orecchie parvero non sentirmi e quello fu il momento più orribile.
Da qualche parte venne scagliato un secondo dardo, questa volta nella nostra in direzione, e dando a conficcarsi proprio all'altezza del collo di Zar.
Fu l'inizio della corsa.
L'esplosione della paura.
"Nonno!" strillai un'ultima volta, ma il mio fu semplicemente unn girdo che si perse nello scalpiccio furioso degli zoccoli della mia cavalcatura che si addentrava nella foresta.

Avanzava disordinato, scoordinato, noncurante dei rami che gli frustavano il manto scuro.
Era iniziato un rodeo di morte.
Già sentivo che sarei caduta di nuovo e se tutto fosse andato per il verso giusto mi sarei semplicemente rotta nuovamente la schiena, con l'unica differenza che nessuno sarebbe stato lì a soccorrermi.
Cercavo di stringermi al gancio di sostegno con tutta la forza nelle braccia che avevo, ma il problema erano le gambe!
L'impalcatura di quella sella per handicappati non era stata saldata al mio corpo con nessun tipo di sicura e le mie cosce non avrebbero potuto stringersi per attutire il colpo di un salto, una sgroppata o una curva troppo brusca.
Da quel momento in poi avrei pensato che non è vero che il lupo perde il pelo e non il vizio; e il cavallo non perderlo.
Di tanto in tanto Zar faceva quello strano movimento con il collo con la testa, come se cercasse di disorientarmi. In breve capii che stava semplicemente correndo a casaccio, impazzito dalla paura e dal desiderio di fuggire.
Ero riuscita a trovare una sorta di equilibrio, come un sacco appoggiato precariamente a rimorchio di un carretto; pregai che quel bastardo continuasse a correre se non altro ad una velocità costante, per permettermi di mantenere quella postura.
Ma come al solito, esprimere un desiderio era troppo.
Ad un tratto Zar puntò le zampe anteriori e lanciò un calcio all'aria con quelle posteriori.
Sentii il peso del mio corpo spostarsi in avanti, investire il gancio di sostegno che ruotò lateralmente come un perno e accasciarsi precariamente sul suo collo.
Preso dal panico mi resi conto che la sala stava per sganciarsi, ruotare sotto la pancia del cavallo e questo poteva significare due cose: la caduta e il calpestamento o un'occasione di salvezza.
Dopo quel calcio, Zar ebbe un momento di esitazione; l'ultimo prima di indietreggiare leggermente per poi riprendere a correre all'impazzata.
Mi lasciai scivolare su un fianco, in un punto che avevo considerato potesse essere relativamente erboso, anche se ricoperto principalmente di erba secca e qualche sporadico cespuglio muschioso.
Quando tocca il terreno osservare quell'animale in tutta la sua grandezza, un po' per paura che mi stesse cadendo addosso, un po' con la speranza che fosse già sparito: il passante della sella ormai era aveva compiuto un giro di quasi novanta gradi e il punto di seduta era ormai precariamente orientato sul suo fianco.
In un attimo Zar continua la sua corsa lasciandomi in quello spiazzo.
L'ultima cosa che vidi furono altre tre punte velenose conficcate nelle sue cosce.

Non avevo urlato, o almeno non lo avevo fatto per il dolore per la paura; l'ho fatto semplicemente perché avevo considerato che il cavallo poteva aver percorso una distanza irrisoria, girando in tondo, e che il nonno potesse essere a pochi passi da quella radura.
Ma il nonno non rispose.
Erano successe troppe cose, almeno per una ragazza che aveva trascorso la maggior parte della sua vita da paraplegica in una specie di casa-mausoleo.
L'ambiente intorno a me non sembrava essere ostile, ma semplicemente sconosciuto e proibito.
Cerca di mantenere la calma: al limitare della foresta, poco distante dal punto in cui avevamo iniziato ad addentrarci, doveva essere rimasto il furgone del nonno e forse qualcuno si era già accorto che mancavamo da ranch da ormai troppo tempo.
Quanto tempo era passato, a proposito?
Non avevo mai avuto l'abitudine di portare un orologio con me, anche perché da quando stavo in casa mi bastava semplicemente alzare gli occhi verso la parete sopra la mia scrivania.
Avrebbe potuto benissimo essere ora di pranzo, ma il mio stomaco non riusciva a percepire la fame.
Tutto sommato, non essendo poi un'inguaribile ottimista, pensai che fosse già qualcosa il fatto che non fosse caduta completamente nel panico inneggiando a una morte dolorosa per bocca di qualche strano animale selvatico.
Già, gli animali...
Nessuno mi aveva mai raccontato di lupi, orsi, serpenti o altre strane creature che si annidavano in quel sottobosco; e in effetti l'unico essere vivente che riuscirono a percepire i miei occhi un vecchio corvo sul ramo di un albero basso.
C'era odore di spezie.
Quella foresta, quel preciso punto, aveva un indistinguibile sapore orientale; forse te, o coriandolo.
Mi coricai per un lungo istante sulla schiena, pervasa da quell'odore inebriante e osserva il cielo nascosto dalle fronde: assomigliava ad un grande tetto sicuro che proteggeva dall'immensità e dalla dispersione del mondo.
Discese una lacrima.
Perché il nonno rispondeva?
Un effluvio di pensieri, che mi investì come un profumo, mi fece realizzare che forse le sue labbra non avrebbero più potuto schiudere una parola per sempre.
Gridai il suo nome di nuovo, prima a gran voce e poi sempre più piano.
Mi ritrovai a cercarlo in quei piccoli sprazzi di cielo che potevo intravedere da quella posizione  supina.
Quell'odore si fece più forte nelle mie narici; se avessi dovuto assegnargli un colore avrei detto che quell'odore era giallo, bruciante accecante come la luce del sole.
Il nonno era morto.
Non potevo negare l'evidenza, anche se qualcosa intorno a me sembrava trascinarmi in una dimensione di incoscienza in cui l'affetto, l'autoconservazione, i ricordi, il pudore  e le paure lasciavano spazio ad una quiete lasciva.
L'odore penetrò tra i miei seni nasali fino a provocare in me la sensazione che qualcuno stesse premendo due dita sullo spazio di fronte che separava i miei occhi.
Mi sentii come una bambina che piombava in un sonno profondo è perfetto, al riparo dal dolore.
Il nonno era morto.
Zar era scappato.
Io mi ero persa.
La mia storia non apparteneva più a nessuno: nessun colpevole da incolpare, nessuna compassione da trattenere, nulla da nascondere.
Nessuna rabbia.
Il profumo si fece strada per tutta la superficie frontale del mio volto, scavando fino alle profondità dei nervi e delle terminazioni: divenne parte di me.
E chiusi gli occhi.

Intorno a me era tutto buio, silenzioso.
Ci mise un po' a realizzare che ero nuovamente distesa nella foresta, in un punto non indefinito di una macchia di alberi, in mezzo al nulla.
Aprì gli occhi come quella bambina che si risveglia dal sonno perfetto prevalsa da un fremito di paura.
Da lontano arrivarono un rombo, dei fischi e uno stridio crudele.
Cerca di mettermi a sedere puntellandomi con le mani, ma il terreno sotto di me si era fatto umido e stagnante come se ci trovassimo vicino ad una fonte d'acqua.
Pareva tutto fin troppo silenzioso per essere una foresta vera, eppure la realtà davanti ai miei occhi pareva essere esattamente la stessa di quella del momento in cui mi ero addormentata.
Feci mente locale sul da farsi, sul provare a strillare di nuovo o spostarmi dalla mia posizione verso un punto più riparato, dove mi sarei sentita più protetta.
Osservare tutto ciò che mi circondava: c'era un grande tronco poco distante con le sue radici accoglienti, una piccola serie di cespugli che lo contornavano gemelli, un altro piccolo gruppo di alberi dai tronchi più su sottili e un rivestimento lievemente muschioso.
Poi mi meravigliai: era notte e io riuscivo a scorgere tutto questo nitidamente.
Non poteva essere possibile!
Mi solleva leggermente sui gomiti e continuai a guardarmi intorno: tutto pareva tinto di una strana luce bluastra, come se improvvisamente avesse acquistato una specie di miracolosa visione notturna.
I miei gomiti urtarono qualcosa di umido.
Mi voltai.
No, quello non era esattamente lo stesso posto in cui qualche strana droga da inalazione mi aveva fatto piombare nel sonno!
Dietro di me era apparso un innaturale specchio d'acqua dai colori cangianti e immutabile al suono del vento leggero; l'acqua non si increspava nemmeno, sembrava un miracoloso specchio nato dalla pietà della foresta.
Mi rannicchiai sul terreno limaccioso in modo da potermici avvicinare e allungare una piccola mano a cucchiaio per poterne estrarre un sorso.
Non sapeva esattamente se si trattasse di una buona idea; tuttavia mi sembra una condizione così favorevole che sarebbe stato possibile per la mia sete non approfittarsene.
Mi portai la mano alle labbra e bevvi avidamente per più volte.
Forse non aveva ragione, in quella foresta c'era davvero qualcosa ma non pareva avermi regalato il dono della salute o della giovinezza.
Abortii immediatamente quel pensiero, pensando che quegli strani nuovi occhi erano l'unica cosa che mi separava dalla completa ossessione di essere rimasta in un ambiente ostile completamente sola e al buio.
Ero un inguaribile ingrata e lo ero sempre stata; quando tutti si erano stupiti del fatto che non fossi morta durante l'incidente, io mi ero domandata perché non fosse accaduto.
"Avrei preferito." avevo detto alla psicologa.
"Devi pensare di essere stata fortunata."
"Bella fortuna..." avevo risposto con un sibilo monocorde, poco prima di dire a mia madre che io non quello studio non ce l'avrei mai più rimesso piede, ruota, pedana o qualsiasi altro diavolo di attrezzo mi avrebbe potuto condurre lì.
Ad un tratto qualcosa cominciò a tremare: me ne accorsi dal pelo dell'acqua che si era increspato leggermente producendo una piccola onda che mi era venuta incontro.
Anche la terra aveva prodotto un breve sussulto, impercettibile e vago.
Istintivamente cercai di sorreggermi appoggiandomi con una mano sul fondo di quell'incredibile stagno e le scosse aumentarono.
Non c'era più nessuno odore nella foresta, solo un perpetuo tremore del suolo che a mano a mano si faceva più intenso:  qualcosa stava per emergere da quelle acque.
Sapevo che il suo corpo era possente e le sue membra nervose, un corpo levigato dall'acqua e forgiato dall'onda. Sentivo il suo strepitare mentre ammontava al pelo dell'acqua e ruggiva la sua presenza selvaggia.
Non era ancora emerso, ma era lì.
Lo sapevo perché percepivo il suo sangue caldo e, cosa ancor più incredibile, quel calore lo avevo percepito con i miei nuovi occhi.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


~~Le acque presero vita in un tumulto dello specchio, circondato da un buio freddo e da uno strano puzzo limaccioso; se qualcuno mi avesse chiesto di descrivere quell'odore, avrei detto che era quello delle profondità, dell'oscurità e dell'ignoto.
Il rumore che ne seguitò fu quello di un limpido respiro.
Non faceva movimenti bruschi; la creatura sembrava emergere con un incedere nettamente viziato e solenne, a testa alta e con la sicurezza di chi era abituato ad indossare una corona.
Era un Kelpie.
Non avevo mai conosciuto quella parola, non avevo mai letto di creature simili o nemmeno sentitoner parlare; eppure, quando il mio nuovo sguardo incrociò il suo gli occhi bestiali, alle mie labbra affiora quel nome.
Il suo aspetto era simile a quello di un frisone, un cavallo robusto, possente e infaticabile, dal manto morello e reso lucido dall'acqua. Con un fremito violento scuoteva leggermente il capo dimenando la sua criniera folta e barocca, che gli conferiva un aspetto elegante e slanciato nonostante l'enorme stazza del suo corpo asciutto.
Lo guardavo come si osserva una divinità palesata, in cui non si ha mai avuto speranza, e fu proprio in quel momento che notai che le uniche parti del suo corpo ad essere zuppe erano la criniera e la coda.
Quello era un Kelpie, senza ombra di dubbio.
"Cerchi aiuto?" domandò, schiudendo leggermente le labbra della sua bocca equina.
L'odore limaccioso si fece sempre più intenso.
Continuare a ripetermi che non avevo mai sentito parlare dei Kelpie in vita mia; eppure, quando quella creatura mi parlò, fu come se tutte le informazioni del mondo si affollassero nella mia mente.
Il Kelpie è uno spirito dell'acqua, per lo più un demone di natura ingannevole, alla ricerca eterna di un cavaliere.
"Che aspetti?!" intimò di nuovo la bestia.
Esitai ancora per qualche istante.
"Non posso."
L'animale non sembrò scoraggiarsi e fece scivolare la propria criniera umida all'atto del proprio collo, con un rapido movimento. Mi guardava stringendo forte le mascelle, mentre le sue orecchie ondeggiavano avanti e indietro in un piccolo movimento che tradiva il suo nervosismo.
"Oh, lo dici per quelle, vero?"
Non risposi.
"Le tue gambe." bisbigliò.
I miei nuovi occhi ascoltarono il profumo del suo alito: le sue parole erano vellutate, antiche e odoravano di speranza.
"Io posso essere le tue gambe."
Cercai di passare velocemente una mano sui ciuffi di capelli umidi e infangati che mi ricadevano sulla fronte: dentro di me stava crescendo un istinto molto forte, qualcosa che avrei potuto definire solo come un'infondata sicurezza, che mi spingeva ad arretrare.
"Io so correre, sai? Come il vento che frusta le onde."
Ma non volevo ascoltare.
Quella forza dentro di me era troppo graffiante per potermi sforzare razionalmente di dare ascolto a quella creatura: così puntai i palmi delle mani sul terreno e cominciai a spingere all'indietro con la schiena.
"No, no! Perchè stai scappando?" protestò  lo spirito.
"Lo sai cosa sono io?"
Cercai di fare appello alle mie conoscenze razionali, a quello che avevo conosciuto, imparato e visto per tutti gli anni in cui avevo vissuto con la mia famiglia.
L'atroce realtà che mi colpì, fu che non era rimasto nulla: non era come essere consapevoli di non riuscire a fare qualcosa in un determinato momento perché se è troppo agitati o spaventati; era semplicemente il vuoto.
Sentii che quella razionalità era sparita e non avevo modo di cercarla in nessuna parte di me stessa perché tutto quanto era stato sostituito dai colori notturni, dagli odori penetranti e dall'istinto.
Un istinto animale.
"Un Kelpie." sussurrai, come se quella parola fosse un'ammissione delle mie colpe.
"Oh!" esclamò quello, come preambolo di una cantilena beffarda.
"E dimmi, cosa sai dei Kelpie?"
Ripresi a guardare nella direzione di quello spirito, reprimendo il desiderio di allontanarmi il più velocemente possibile.
Era la mia unica speranza di avere delle spiegazioni.
Adesso, subito.
Cercai di concentrarmi sulla domanda che mi aveva posto e di far affiorare alle labbra tutto ciò che la mia nuova memoria custodiva a mia insaputa.
"So che cerchi un cavaliere."
"Esatto! Cerco soltanto qualcuno con cui poter essere una cosa sola. Un cavaliere che possa portare con me."
"Chiunque accetti di cavalcarti non riuscirà mai più a scendere, lo porterai nelle acque con te."
La mia voce si fece tremante.
"E annegherà."
Il cavallo scosse leggermente la criniera facendo sì che una serie di piccole gocce ne percorressero il crimine sinuoso, perdendosi nuovamente nel limpido specchio d'acqua.
"Ma io ho qualcosa che vuoi."
"Che cosa?"
"Ho delle gambe, ricordi?"
Scossi la testa e puntai nuovamente i palmi per spingermi ancora un po' più indietro.
"Non è quello che hai sempre desiderato?"
"Stai cercando di ingannarmi."
"No! E' la verità! Hai memoria di un Kelpie che mente?"
Effettivamente non ne avevo.
Pensai che potesse semplicemente trattarsi del fatto che quelli, per natura, erano dei demoni manipolatori in grado di rigirare conversazioni, domande, interazioni in modo che ogni situazione volgesse a loro vantaggio. Il Kelpie aveva diritto di uccidere chiunque si concedesse volontariamente alla propria stella, e per questo non potevano mentire.
"Sei un abile manipolatore."
L'animale scosse nuovamente il capo, come se non fosse d'accordo.
"Allora morirai divorata dalle bestie della foresta."
Quella frase morì nel mio udito e fece male come uno scoppio: un'altra peculiarità dei Kelpie era quella di essere in grado di predire il futuro.

"Aspetta!" urlai, ma sembrò troppo tardi perfino per quella richiesta.
Il Kelpie aveva preso ad indietreggiare e a sparire al di sotto del livello dell'acqua verdastra, facendo frustare al vento il crimine della coda.
Non pareva intenzionato fermarsi.
"Aspetta!"
La foresta era commossa, convulsa in un silenzio bramoso di scoperta. Era strano, ma era come se tutto intorno a me fosse vivo e consapevole di ogni cosa che succedeva al suo interno.
Tremaglia al pensiero che le presenze vitali che riuscivo a percepire fossero in realtà animali crudeli pronti all'agguato, semplicemente spaventati dalla presenza del Kelpie.
Avrebbero aspettato che si fosse inabissato prima di aggredirla?
"Kelpie, aspetta!" esclamai nuovamente, senza ottenere alcun risultato è ormai quella figura scura si era ormai immersa fino a metà del busto.
"Ti prego."
L'animale si fermò.
Qualcosa nella supplica l'aveva convinto perlomeno a ritardare la sua sparizione solenne; scosse leggermente il capo sbuffo con il naso.
"Che begli occhi, che hai..." sibilò poi in un ghigno crudele.
Ebbi l'istinto di portarmi uno dei miei palmi infangati al volto, ma non lo feci.
"Dove siamo?" chiesi.
"Nella foresta, ti pare?"
Il Kelpie emise uno strano suono rauco, qualcosa che interpretai come una strana risata canzonatoria. Mi sentii una stupida perché anche quella era stata una domanda inutile: sapevo perfettamente dove mi trovavo, o meglio lo sapeva la mia memoria.
"Glam." bisbigliai.
"Esatto, sei a Glam."
Il Kelpie si esibì in una leggera sgroppata e la sua testa s'inchinò leggermente, con uno sguardo che interpretai come carico di comprensione.
"La terra delle meraviglie, non credi?"
"Meraviglie..."
"Oh, sì! Proprio come i vuoi occhi..."
Ma io non potevo vederli, potevo soltanto sentirsi come una nuova parte di me stessa senza comprendere da dove fossero arrivate o che cosa fosse accaduto.
"Cos'hanno di speciale?" chiesi in un filo di voce.
Il Kelpie sembrò irrigidirsi come se avessi posto la domanda sbagliata e non rispose.
"Cosa mi è successo?"
"Siete stati attaccati, e qualcuno deve averci rimesso la pelle."
Ripensai immediatamente al nonno e a tutto ciò che era accaduto; cercai di scavare nei miei nuovi ricordi se da qualche parte ci fosse un nome, un sentimento una consapevolezza che potesse farmi identificare che cosa potesse averci attaccato.
Il nonno era un uomo pacifico e non riuscivo nemmeno a immaginare chi...
"Naturalmente tutto dipende da chi è morto, non credi?" bisbigliò il Kelpie reclinando il capo in un movimento interrogativo.
"Che cosa intendi dire?"
Quello sbuffò.
"Non capisci proprio niente, ragazzina!"
"Allora aiutami a capire." disse con tono rabbioso, stanca di essere presa in giro da quello spocchioso atteggiamento di sufficienza.
Il Kelpie alzò gli occhi e fissò un punto indefinito della foresta alle mie spalle. Sembrò prendere un lungo respiro in un'improvvisa fame d'aria.
"Quegli occhi saranno la tua rovina. Io lo vedo, lo sento."
"Perchè?"
"Ti sono stati donati da qualcuno che non avrebbe potuto portarli con sé. Io quegli occhi li conosco, li ho visti tanto tempo fa."
Riuscii a percepire il battito del mio cuore sempre più forte, come un richiamo animale, un alito della natura. Era così incessante, così squarciante che il mio petto quasi vibrava incredulo alle parole di quella creatura.
"Sono occhi poteti e saranno la tua rovina."
A quel punto fu praticamente impossibile resistere alla tentazione di spingermi nuovamente in avanti, verso la superficie dello specchio d'acqua, per poter guardare il mio volto.
Per potermi guardare negli occhi e riconoscere quelli del nonno, che probabilmente aveva saputo molte più cose di quante non ne avesse mai detto.
Forse non era stato consapevole fin dall'inizio dell'esistenza della foresta, di Glam e di ciascuna delle sue assurde malevole creature.
Qualcuno di quegli strani esseri avrebbe potuto compiere il miracolo? Quanta reale speranza aveva il nonno che le mie gambe potessero riprendere a camminare?
In un attimo realizzai che probabilmente, quella speranza, il nonno non l'aveva mai avuta.
Forse mi aveva portato in quel luogo maledetto solo per poter morire e per potermi donare la sua conoscenza, il suo sguardo aperto sul mondo.
I suoi occhi.
"Vieni, avvicinati!" esclamò il Kelpie non appena intuì il mio desiderio.
"Non ti farò del male, lo prometto."
Ma qualcosa mi tratteneva ancora. Il mio istinto mi aveva portato quella distanza per non essere ignorato, e se mi ero allontanata da quella pozza d'acqua seguendo quelle strane voci che ormai erano parte di me doveva esserci un motivo.
Mi soffermai sulla grandezza di quella pozza.
Si trattava di una specie di piccolo stagno, grande poco più di una piscina. L'aria fredda pareva non scalfirne la superficie e i piccoli arbusti che ne delimitavano il confine gli conferivano delle piccole ombreggiature di profondità.
La profondità, certo!
Chissà quanto poteva essere quella di quello stagno.
Guardai in un attimo il Kelpie, mentre a sua volta rimirava lo specchio dell'acqua: il suo sguardo sembrava triste e solitario.
"Vivi da solo lì dentro?" domandai.
Lui esitò e un'ombra fuggevole si fece strada sul suo volto: era da molto tempo che qualcuno non gli poneva una domanda del genere.
Fu strano, ma ero certa che ne fosse felice.
"Sempre solo. E' la mia natura."
Scosse di nuovo rapidamente la testa in modo che la criniera si liberasse al vento, umida e limacciosa.
"Il più vecchio dei nostri antenati venne catturato durante la guerra delle ceneri. I nemici lo costrinsero a lavorare nella miniera, trainando carri colmi di sacchi pesanti quanto lui. Nessuno ricorda il suo nome, qualcuno dice che lo abbia dimenticato anche il tempo."
Fece una piccola pausa in cui cercò l'approvazione nei miei occhi.
Fu incredibile: io conoscevo quella storia!
"Qualcuno lo aiutò a scappare, non è così?" domandai.
"Esatto! Qualcuno tra coloro che lo avevano catturato lo cavalcò fino ai confini del regno di Glam, dove c'è il mare, e fu proprio lì che si ribellò. Uccise il suo cavaliere lanciandosi tra i flutti e facendolo annegare e calpestandolo verso le profondità. La leggenda racconta che l'anima di quel cavallo fu dannata per sempre e dopo quel gesto non riuscì mai più ad uscire dall'acqua, come noi altri. Generati dal tradimento e dall'onda"
Il suo sguardo cadde tristemente verso il confine dello stagno, mentre io rimasi immobile con i palmi induriti dalla coltre di fango secco.
"Perchè cerchi un cavaliere?"
Ma il Kelpie scoppiò in una risata fragorosa e più beffarda delle precedenti.
"Perchè è la mia natura. Nessuno è mai riuscito a farsi condurre a riva da un cavaliere; è più forte di noi. Appena sentiamo il peso di un condottiero sulla nostra groppa ci invade una forza primordiale, potente ed eccitante. E andiamo giù."
Rabbrividii.
"Così siete voi a scegliere di non essere mai liberi."
"Oh, non si tratta di questo! Lo facciamo per il piacere che ne comporta, e non si tratta del piacere nell'uccidere, ma semplicemente del potere di dominare e decidere della sorte.
Non c'è libertà che ci conceda la stessa libido."
Ascoltai il battito del mio cuore, l'immobilità dei rami silenti e le parole dolorose di quella creatura.
In un certo senso era come se fossimo riusciti a trovare un contatto.
Riuscivo a comprendere quella rassegnazione, quella consapevolezza di dover rimanere costretta sempre nello stesso ambiente, nelle stesse quattro mura.
L'unico limite che si poneva quell'animale era imposto proprio da sè stesso: non era costretto ad uccidere, ma sceglieva di farlo perchè infondo era giusto così.
Era una realtà amara, ma era la sua e non poteva cambiarla.
"Quindi tu.."
"Attenta!" esclamò il Kelpie bruscamente impennandosi e rompendo il perfetto equilibrio dello stagno.
Il tonfo di ricaduta fece alzare un'onda selvaggia che si riversò crepitante sulla riva e dagli alberi scuri un frullio d'ali indiscret si dileguò nella notte.
Mi guardai intorno, immeditamente nel panico.
Sapevo che le mie considerazioni andavano ben oltre le mie vecchie capacità intellettive e stavo cercando di catalogare le informazioni che il mio sguardo percepiva.
C'era un nuovo odore pungente e fumoso che contrastava con il limaccioso profumo selvaggio di quel demone d'acqua.
Mi sentivo come la più fallibile delle creature.
La più facile delle prede.
Era cambiato qualcosa e il Kelpie si era immediatamente inabissato: la sua discesa verso le profondità non era stata altrettanto solenne come la sua comparsa, anzi, aveva assunto una posizione scomposta in cui la criniera zuppa aveva preso a frustare con violenza lo speculo d'acqua e il suo collo vigoroso si era fatto contratto e nervoso.
Sapevo che i demoni delle acque avevano paura soltanto di due cose, dei fulmini e del fuoco, e che non erano esattamente delle creature spaurite per quel bastasse un semplice fra scheggiare del vento per metterli in fuga.
Istanti successivi mi volarono davanti come una pioggia confusa: voltai la testa e qualcosa di incredibilmente luminoso, distante qualche metro, e incredibilmente sfuggente apparve alle mie spalle.
Osservai il mio nemico immersa nel fango e con le gambe inerti.
Stringeva nel pugno una torcia impregnata di un liquido oleoso, che puzzava di pece.
Teneva la fiaccola con il braccio leggermente piegato davanti a sé, in modo che il bagliore illuminasse tutto ciò che lo circondava.
Era troppo lontano perché potessi intuirne le fattezze con chiarezza, ma il suo corpo sembrava ruvido, dimesso ed ingarbugliato sotto una coltre pelosa.
Ebbi la sensazione che quella torcia potesse trattarsi non solo di una fiaccola, ma di una luce che avrebbe segnato la sua posizione ad altri suoi simili.
Sapevo che stava fissando me, da quella posizione riuscivo a vederne le lunghe gambe che lo sorreggevano in quell'atto scrutatorio; avrei potuto definirlo come un inquietante vedetta apparsa dal nulla nelle tenebre.
La foresta attorno a noi aveva assunto il colore del piombo è una piccola sensazione di freddo mi fece rabbrividire più della paura.
Ad un tratto la creatura si inginocchiò al suolo ed estrasse qualcosa dalla tasca che non riuscii a vedere.
Sentii un guizzo e un attimo dopo udii i miei sensi affievolirsi: il fruscio degli alberi si era inebetito per tendere l'orecchio e origliare quello strano spettacolo.
Avevo male agli occhi.
Nessun odore.
Poco prima che le mie forze mi abbandonassero quasi del tutto osservare gli il pallido disco bianco della fiaccola farsi sempre più intenso verso di me: quella creatura si è avvicinata e ora mi sedeva accanto, in attesa di chissà cosa.
La mia vista si stava appannando e riuscivo a vedere solo le sue mani sfuocate, appoggiate sulle proprie ginocchia mentre tamburellava leggermente con le dita.
Il vento aveva cominciato a soffiare e avevo freddo mentre lo guardavo scompigliare il pelame che ricopriva il corpo di quell'essere.
Cercai di fare appello alla mia nuova memoria alla ricerca di un'immagine su cosa potesse essere e su quali fossero le sue intenzioni; tuttavia mi stupii del fatto di non avere provato nessuna paura al momento in cui si era avvicinato a me.
Il torpore aveva ormai preso possesso dei miei sensi e quando una delle sue mani mi toccò il volto percepii quel tocco come un formicolio fastidioso.
Mi accarezzò la pelle, mi scostò i capelli e appoggiò il suo pollice sulla mia palpebra sinistra per impedirmi di chiudere del tutto gli occhi.
D'improvviso, sentii la pressione che il suo dito provocò nell'alzarmi quel piccolo lembo di pelle per osservarmi meglio è una piccola immagine scherzosa di mio nonno che controllava le gengive dei giovani puledri alla fiera della contea mi fece sorridere di un ghigno inebetito.
La creatura indietreggiò immediatamente, la fiaccola si fece più lontana.
"Oh!" esclamò nel sobbalzare.
Non riuscire a distinguere se si trattasse di un'esclamazione di stupore o di paura.

Il mio risveglio fu stranamente molto dolce, come quello di una carezza amichevole, che ci sorprende in un momento di dolore. I miei occhi fecero fatica ad abituarsi alla fioca luminosità di quell'ambiente: doveva certamente essere ancora notte ma non mi trovavo più nella foresta.
Inspirare profondamente lasciando che un profumo penetrante di resina di pino, di foglie umide e di terra bagnata mi invadesse i polmoni.
Le mie dita si fecero strada su una ruvida superficie legnosa che andava costituire una sorta di pannello verticale con uno strano foro nel centro, da cui scorgevo il leggero fascio di luce di una candela. Ero rintanata in un ambiente protetto e caldo, come se qualcuno mi avesse chiusa in un armadio.
Impiegai qualche minuto per comprendere che quello non era effettivamente un armadio, ma bensì un'alcova; un letto con un pannello scomparsa simile alla cuccetta di un treno  che conferiva alla persona che dormiva in quel giaciglio una buona quantità di calore e di privacy.
Il legno era piuttosto rustico, niente lavorazioni o disegni intrecciati e tribali; semplici assi levigate disposti secondo un sistema di incastro per cui potessero scorrere in un buco nel muro.
Diedi una sbirciatina dal foro, mia unica finestra sull'ambiente in cui mi trovavo e immediatamente spalancare la bocca per lo stupore.
I colori di quella stanza erano ammantati di una luce calda, conferita dalla sola illuminazione di qualche candela disposta qua e là. La tavola era sufficientemente grande per ospitare un proprietario e un paio di ospiti, tuttavia non riuscivo a vedere sedie; il portone sembrava essere pesante e la maniglia era stata realizzata con un vecchio ferro probabilmente proveniente dallo smontaggio di un attrezzo agricolo.
Più in là, proprio all'ingresso, stavano un paio di stivali di cuoio lunghi fino alle ginocchia con accanto un bastone a tre piedi che doveva fungere da attaccapanni; non esattamente un dettaglio rassicrante che mi spinse a roteare gli occhi alla ricerca del proprietario di quelle scarpe.
C'era una dispesa con uno sportello leggermente socchiuso e un buon profumo di erbe bollite, anche se non c'era alcun fornello nè segni di un'avvenuta cena.
Nell'angolo più lontano stava una cesta con un drappo rosso accartocciato sul fondo, una scopa dalle setole ruvide e quattro tronchetti di legna da ardere. Nessuna ascia.
"Consolante..." pensai tra me e me mentre le mie mani avevano preso a far scorrere il pannello di chiusura dell'alcova.
Ebbi un momento di esitazione: la stanza che stavo osservando non era a livello delle mie abituali osservazioni quando stavo seduta, ma avevo una visuale leggermente più alta, così devisi di lanciare uno sguardo furtivo proprio ai piedi del giaciglio, oltre il buco.
Una scaletta.
Ma era fantastico!!
Mi sopresi nel ritrovare la mia vecchia ironia punzecchiante e fastidiosa, poi dentro di me pensai che al nonno, quella battuta,  non sarebbe piaciuta.
Decisi di proseguire con la mia esplorazione sileziosa, standomene al sicuro aldilà del pannello; tanto, chiunque avesse avuto la brillante idea di stordirmi con qualche robaccia magica e di portarmi in quel luogo avrebbe sicuramente assecondato la mia richiesta di scendere da lì e di riaccompagnarmi a casa, o per lo meno al limitare della foresta.
A patto che non mi volesse mangiare...
Accantonai brevemente quel pensiero assurdo, catalogandolo come una scopacciata infantile di insulsi libercoli sulle streghe cattive e cavolate del genere.
"Questo è un dono!" esclamò ad un tratto una voce soffocata con tono di protesta.
"No, il punto non è questo!"
"Invece è proprio questo, Gathel! Ormai è stato scelto così e dobbiamo accettarlo."
C'era qualcuno in quella casa, ma la visuale conferita dal mio spioncino non mi permettere di capire nè quanti fossero nè che aspetto avessero.
Le loro voci erano ferme e sicure; discutevano pacatamente, con tono acceso ma modulato.
"Quando ho riconosciuto quegli occhi io..." ma quella voce si strozzò come in un lamento; era quella di una donna
Tesi le orecchie, ma non mi occorreva ulteriore conferma che stessero parlando di me e del dono del nonno e mi pervase un calore famigliare al pensiero che qualcuno li conoscesse. Sentii improvvisamente di essere al sicuro.
"Gathel, non temere. Certe cose accadono per volontà più grande di noi e dobbiamo solo saperle accettare, col tempo e le responsabilità che comportano." quell'affermazione aveva un suono più profondo e arrotato, come se provenisse da labbra più antiche.
"Ma noi non abbiamo tempo!" esclamò un terzo.
"Ha ragione!"
"Fermi!" li interruppe il vecchio. "Quella ragazza ha ricevuto un dono prezioso e pericoloso; non l'ha preteso, non lo ha rubato. E' accaduto, e lei sarà sicuramente sorpresa e spaventata quanto noi, ma dobbiamo fidarci." fece una pausa.
"Zar ha compiuto la sua ultima scelta, e quest'erede è l'unica speranza che abbiamo."
Una fitta di dolore bruciante mi percosse il petto come uno spillo rovente e soffocai con mani una negazione amara e carica di disprezzo per me stessa.
Chiusi gli occhi e li strinsi così forte fino a farmi del male.
Un tonfo improvviso mi fece trasalire: qualcuno aveva battuto un pugno sullo scomparto di legno e un paio di severi occhi color del legno fecero capolino dal pertugio.
"Si è svegliata!" sbuffò.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


~~La ragazza mi fissò con aria truce, facendomi sentire in soggezione.
Portava una zazzera di capelli impolverati e disordinati che le interrompevano la fronte ad intervalli irregolari, incorniciando un profilo dagli spigoli duri e squadrati.
Avevo incrociato il suo sguardo solo da pochi minuti e, dentro di me, speravo lo abbassasse, ma non sembrava affatto il genere di persona che si concede un momento di distacco dopo la prima conoscenza.
Quegli occhi bruni erano prepotenti, invasivi a tal punto che fui la prima a cedere, concentrandomi sugli altri personaggi apparsi in quella stanza.
Il primo ad incrociare il mio sguardo fu il più vecchio: aveva il volto contornato da una sottile cascata di capelli grigiastri che portava legati e sul lato sinistro da un nastro di cuoio, facendo cadere la chioma lungo il busto. Notai inoltre una cicatrice sulla tempia, dai margini rosei e antichi, all'estrema punta dell'occhio, dal lato della spartana pettinatura.
Le sue mani erano nodose e il suo corpo rivestito da un abito scuro e pesante, probabilmente per via del freddo.
Rimanevano soltanto altri due uomini accanto alla porta d'ingresso: uno di loro aveva il naso a punta e gli zigomi che sembravano ripidi pendii mentre esibiva uno sorriso piatto, mentre l'altro sembrava essere molto più giovane  ma simile ad una vecchia grondaia arrugginita; vestito di scuro, completamente cosparso di fanghiglia e qualche goccia sporca che colava dai suoi capelli color caramello.
Rimasi immobile ad osservarli: niente lasciava presagire qualcosa di brutto; tuttavia nemmeno qualcosa di positivo.
Mi domandai se anche loro si stessero soffermando sul mio volto, piuttosto che sul mio handicap o sulle dinamiche a me ignote su come mi ero trovata in quella stanza e tra i loro occhi cercai una risposta amichevole, un assenso.
Nelle mie narici era comparso uno mix di odori, che non riuscivo ad associare a ciascuna di quelle creature perchè era come ricevere un turbinio di sensazioni tutte insieme: uno era più penetrante degli altri ed odorava di pino.
Il vecchio dagli occhi scintillanti mi fissava come un animale sperduto, con aria innocente, tuttavia ospitale e in un certo senso mi trasmetteva una calma quasi spirituale.
Seguì con gli occhi i movimenti delle mie labbra, che cigolarono come cardini di una porta nel tentativo di articolare una frase o una domanda.
Poi guardai Gathel, l'unica di cui conoscessi il nome: non sorrideva mai, il che le dava un'aria autorevole ma anche un po' spaventosa.
Le parole mi morirono in gola.
"Ti ho trovata nella foresta." spiegò con voce incolore, indietreggiando di qualche passo e lanciando uno sguardo ai due alle sua destra.
Inizialmente nessuno aggiunse altro, tantomeno io, poi aprii bocca quando la giovane fece un lungo sospiro.
"Grazie."

Il pavimento era pieno di fango e non avevo notato che sul tavolo ci fosse una ciotola fumante con accanto una piccola posata di legno.
Pensai che forse era quella roba ad avere un profumo di pino così buono e mi lasciai distrarre dai fumi ballerini che riuscivo ad intravedere oltre l'orlo della scodella
"Come sei cambiato, Zar." disse il vecchio dopo avermi osservata a lungo.
A quel punto l'uomo con la bocca piatta e i capelli stopposi raccolse gli angoli di quel sorriso, che si strizzarono in uno strano ghigno.
"Avrai fame."  continuò il vecchio indicando una sedia vuota, probabilmente inconsapevole che non fossi in grado di raggiungerlo.
Lo guardai come una bambina a cui è stato chiesto di prendere un piatto della credenza troppo in alto, in una stanza in cui non ci sono sedie nè appigli.
Forse nemmeno il pavimento.
"Io non..." ma non dissi altro, perché di solito era una frase sufficiente.
Di solito le persone intuivano da sole perchè non potevo avvicinarmi in maniera autonoma ad un tavolo o andare a prendere delle bottiglie d'acqua in cantina; tuttavia realizzai solo il quel momento che probabilmente, in quel contesto, poteva essere un'informazione poi così scontata.
Ma il vecchio annuì con aria grave.
"Capisco."
Il giovane dai capelli color caramello aiutò l'uomo  dal sorriso piatto a farmi scendere dall'alcova leggermente rialzata e mi posizionarono uno su una sedia più consona, dove ci fossero due braccioli a cui potermi sorreggere.
L'aria era calda, un rumore di sottofondo sembrava suggerire la presenza di uno stormo di cicale, e quella strana zuppa densa non aspettava altro che un cucchiaio vi si immergesse e venisse portato alla bocca.
Il vecchio d'un tratto si sedette su una seggiola di fronte a me e mi scrutò con cura mentre immergevo la posata in quel preparato, mentre Gathel si rigirava un bracciale d'argento attorno al polso e mi guardava con l'espressione più serio di tutti gli altri.
Misi in bocca il primo cucchiaio e sentii lentamente  il liquido colarmi giù per la gola: la fatica sembrò scivolare con lei, gli occhi si sentirono meno pesanti e i dolori del cuore cominciarono a lasciare posto al calore.
Cominciai a mangiare con incredibile foga, quasi avessi paura che qualcuno volesse rubare il mio pasto, mentre gli occhi erano ancora puntati come qualcosa di strano e alieno. Nei miei pensieri riflettei sul fatto che probabilmente potevano concepirmi come qualcosa di minaccioso.
"Cosa ti chiami?" mi domandò a quel punto il vecchio.
"Cordelia."
"Io sono Iphannor." disse lentamente, con voce pulita e rifocillante.
Sbirciai dalla mia nuova angolazione quella casa e vidi che c'era un'area più grande adiacente all'alcova; le due pareti che andavano a costituire uno stretto corridoio erano interamente coperte di strani utensili e sul fondo si intravedeva una porta sigillata, che suggeriva la presenza di un'altra stanza.
"Dove sono?" domandai con espressione intimidita, rivolgendomi al vento, nella speranza che uno qualunque dei quattro potesse concedermi la risposta che tanto desideravo.
"Interessante..." commentò il vecchio.
"Dimmi, Cordelia, cosa già sai del luogo in cui ti trovi?"
"Questa è Glam."
"Esatto, e sai anche perchè lo sai?"
Mi sforzai di rispondere a quella domanda: si fecero strada nella mia mente una serie di pensieri confusi, scene di alberi che si muovevano e tratti si sentieri sconnessi.
Sentivo di sapere il motivo per cui ero lì.
Sentivo di capire che qualcosa di me apparteneva a quel posto, tuttavia ne ignoravo l'ordine, ne ignoravo le motivazioni e la logica.
C'era qualcosa che non tornava nelle immagini che si affollavano del mio pensiero: vedevo gente che correva, poi buio, poi di nuovo persone che si affollavano e stralci di tericcio rovinoso, alberi, scuro, di nuovo alberi.
Vedevo la foresta.
"La foresta." bisbigliai.
Il vecchio mi osservò: il locale era troppo pregno dell'odore di ciascuna di quelle creature per potersi concentrare. Se avessi dovuto descrivere quella sensazione, avrei parlato di una sorta di nebbia che premeva sui miei sensi, deviandoli e costringendoli a ricordare immagini, suoni, colori che non mi appartenevano.
A quel punto il vecchio si alzò in piedi, congiungendo le mani in una sorta di muto saluto.
"Per favore, lasciateci soli."
Gli uomini si allontanarono velocemente oltre la porta d'ingresso, come se non aspettassero altro che quell'ivito per dileguarsi nell'oscurità.
Ma Gathel no.
La ragazza rimase immbile solo per un istante in più rispetto ai suoi compagni, l'unico che bastava per sottolineare il suo disappunto.
"Perdonaci, Gathel, per avere occupato la tua casa. Te ne verrà reso il merito. " aggiunse il vecchio rivolgendo anche lei quell'espressione tenera di apprezzamento che avevo percepito su di me.
A quel punto anche la giovane si congedò da quella che evidentemente doveva essere la propria abitazione.
Osservai il vecchio sedersi di nuovo allo stesso posto in cui si trova precedentemente, mentre il mio cucchiaio aveva preso a raspare il fondo della scodella. Si sedette con disinvoltura, non mostrando nessun evidente acciacco della sua età e davanti a lui mi sentii sparire, colpita dalla sua inaspettata agilità.
Ad un tratto mi accorsi  aveva preso a giocare con qualcosa  che cingeva il suo polso.
Anche lui portava un bracciale d'argento simile a quello di Gathel, anche se il suo doveva aver visto ben oiù traversie: non era perfettamente rotondo e lustro come quello della giovane, anzi sembrava essere leggermente aperto, con un taglio profondo come quei bracciali che possono regolare la loro grandezza, ma quel taglio era irregolare, obliquo e non oltrepassava  del tutto il cerchio di metallo.
"Ti piace?" domandò il vecchio mostrandogli il polso.
Mi sorprese, e a quel punto ritrassi gli occhi con il cuore che mi batteva forte, come  mi avesse scoperto nel fare qualcosa di sbagliato.
"Oh no! Non ti devi intimidire, tieni, guardalo!"
E Iphannor si sfilò il bracciale dal polso, ponendolo sul tavolo accanto alla mia scodella.
Fu a quel punto che abbandonai il cucchiaio e l'osservai con sguardo attento, cercando di percepirne ogni piccola incrinatura.
Era bello e sembrava vissuto, vetustro e  prezioso, sferziato dai graffi e dalle pagliuzze del tempo che avevano ormai quasi del tutto nascosto un piccolo simbolo, uno schizzo inciso come una piccola parentesi, un arco.
"E' l'arco degli arcieri." disse il vecchio con voce compiaciuta.
"O almeno, è quello che dovrebbe sembrare, se ancora riesci a vederlo!"
Poi rise di una risata scampanellante e gioiosa, e non potei fare a meno di ridere anche io.
Poi si avvicinò a me sempre di più, guardandomi negli occhi e io riuscii a guardare nei suoi: l'esperienza fu travolgente.
Immobile assistevo a quella scena in silenzio, senza  nascondere la mia evidente sorpresa: i suoi occhi erano grigi come la sua età, di un fitto color del vento e incredibilmente profondi, come vasche di nebbia.
Erano occhi sorridenti, di chi non si è lasciato piegare dalle miserie e capii di averli già visti.
"Oh, sì!" esclamò poi compiaciuto.
"Ha scelto proprio te, ecco!"
"Che cosa è successo?" domandai.
Il vecchio ebbe un attimo di esitazione.
"Dimmi, Cordelia, che cosa ricordi?"
Chiuse nuovamente gli occhi.
"La foresta."
"Esatto, e questo è un buon inizio. Ti è stato fatto un dono molto grande." disse poi con aria seria.
"Non capisco." aggiunsi.
"Guarda tu stessa."
Il vecchio si alzò spostandosi lungo la parete piena di utensili, e ne estrasse un piccolo falcetto semicircolare, lucidato alla perfezione.
Me lo porse tra le mani, come se fosse logico che cosa dovresti farci.
"Guardati."
Mi avvicinai alla lama puntandone il lato piatto in direzione die miei occhi.
Fu quel punto che li vidi per la prima volta.
I miei nuovi occhi.
Erano incredibilmente scuri ed enormi, come se quasi tutto lo spazio occupato dalla mia piccola sclera bianca fosse spatito. La loro forma non era cambiata, a cambiare erano state le iridi, a farsi più dilatate e indistinte.
Sembrò strano ma anche io li rionobbi, quegli occhi enormi e bui.
Lasciai cadere quell'arma a terra e mi portai le mani alla bocca, soffocando un grido, commento a conferma di ciò che già sapevo.
"Che cosa mi ha fatto?" domandai singhiozzando.
"Ti ha fatto il dono più grande che aveva: ti ha dato l'essenza della sua magia."
Rimasi a fissarlo con aria incredula, nel buio dei rumori che mi arrivavano amplificati, il traffico di un pensiero troppo importante, un televisore che rimbombava nella mia mente domandandosi il perchè.
"Magia?"
Il vecchio si sedette nuovamente alla sua sedia e continuò a guardarmi negli occhi, come si fa con un vecchio amico.
"Non te lo ricordi vero?"
Ricordare? Ricordare che cosa? Ma il vecchio non sembrò indisporsi.
"Vedi, Cornelia, la nostra foresta è un regno molto antico, nato nell'alba dei tempi per separare tutto ciò che è come noi da quello che è come voi, capisci?"
Scossi la testa e il vecchio iniziò a raccontare.
"La foresta sorse per proteggere le creature magiche, che si distinsero dall'uomo per le loro capacità sovrannaturali ma vennero presto ghettizzate, bruciate o demonizzate. A poco ogni essere inumano si estraniò da quel mondo di sopprusi e si rifugiò sotto l'ala di questo re muto.
La foresta fu per loro un re che accoglie, che ascolta e protegge le sue creature e li riunì.
Certo, li riunì per etnie, natura della loro magia, ideali, passioni e obbiettivi.
Come gli uomini, né più né meno degli uomini.
Alcuni di loro sono in grado di manipolare il tempo, qualcuno di loro ha sviluppato caratteristiche fisiche come il volo, la resistenza agli agenti atmosferici o l'acqua...
La foresta ha fornito loro tutto ciò di cui avevano bisogno per vivere in armonia con le loro facoltà magiche e quelle di tutti gli altri loro simili. A poco a poco le creature magiche si riunirono in popoli, accomunandosi per le loro similitudini e dividendosi in tanti piccoli regni che vedano tra di loro in pace e in armonia, scegliendo autonomamente la loro tipologia di governo, misurando le loro capacità e confrontandosi l'un l'altro con civiltà.
Fate, creature dell'aria, creature del mare... Da ogni dove il regno prosperò e si isolò e la foresta gioiva della loro prosperità."
Iphannor si accigliò in una pausa.
"Cosa sai degli unicorni?"
"Unicorni" bisbigliai sommessamente, soppesando quella parola.
"Si, Cornelia. Unicorni.
Tra le innumerevoli creature magiche che la foresta prese sotto la sua ala c'erano anche loro: gli unicorni. Sono creature meravigliose con poteri più puri di quelle di tutte le altre creature magiche. Potenti più di ogni altra magia poiché la loro è la magia prima, la più antica.
Furono il primo punto di contatto tra il mondo visibile ed invisibile."
"Mondo visibile ed invisibile." ripertei.
"Esatto, Cordelia! Gli unicorni furono le prime crature ad affidarsi alle cure della forestra, le prime a cui fu concesso il dono nella vista; questo è il nome del tuo dono."
Cercai di soppesare quell'informazione, ma tutto ciò che ottenni doveva essere un'espressione ebete dipinta sul mio volto.
"Pensa alla magia come ad un antico processo di passaggio; molte creature al momento della loro morte scelgono di compiere questo estremo sacrificio nei confronti di chi ritengono più degno o più caro. Prima di oggi ignoravo che anche gli unicorni riuscissero a farlo."
Iphannor sorrise bonariamente, infilandosi il bracciale che avevo ormai abbandonato sulla superficie del tavolo.
"La vista è il potere primo; l'unico strumento che permette ad un unicorno di tornare a casa, verso il mondo invisibile. Furono da guida per tutte le altre creature magiche in cerca di rifugio: questa loro facoltà gli permetteva di entrare e di uscire e di uscire dalla foresta, palesandosi ai loro simili fatati e portroppo anche gli uomini.
A causa loro presto molti di loro persero tragicamente la vista, rimanendo costretti nel mondo visibile: gli uomini rubarono i loro corni, credendo che avessero poteri sovrannaturali e così, quando il sangue sgorgò sul loro manto, persero la purezza e l'essenza della loro magia, perdendo anche ogni speranza di farsi ricondurre a casa."
"Ed era vero?" chiesi.
"Che cosa?"
"Che i loro corni avessero poteri sovrannaturali?"
Iphannor scoppiò in una sonora risata, quasi scomposta per quanti naturale e genuina.
A quel punto i miei occhi cominciarono a bruciare, e le immagini della foresta si fecero sempre più intense. C'era una parola che tamburellava nelle mie meningi come un pensiero sanguinario ed indomabile.
"Maledettamente vero, Cordelia! Ad oggi molte delle potenzialità della magia degli unicorni sono quasi del tutto ignote perfino per le creature del mondo invisibile ed è per questo che alcune di loro..."
"La mattanza!" esclamai.
Iphannor trasalì, ma sembrò assecondare il flusso dei miei ricordi.
"La ricordi?"
I miei pensieri si fecero sempre più nebbiosi: sapevo che quella storia poteva avere qualcosa a che fare con me, ma non avevo assolutamente idea del perchè, mentre i miei occhi non cessarono di bruciare in un turbinio di ombre sconnesse.
"Qualcosa..."
Mi sforzai di fare ordine tra quei pensieri, mentre un forte odore si impossessò delle mie narici e cominciò a premere sulla mia fronte.
Era un'operazione stancante e una goccia di sudore accarezzò il profilo del mio volto prima di scivolare sui miei vestiti.
"Cordelia, basta! Non è necessario."
Riaprii gli occhi ed Iphannor era ora più vicino a me, protesosi in avanti sulla sua sedia senza aver perso la sua espressione pacifica.
"A tuo tempo ricorderai." aggiunse, sollevandosi leggermente e tornando alla sua posizione iniziale.
La stanza non sembrava cambiata, eppure era come se la percepissi più fredda ed insicura: l'alcova sfatta era al suo posto, così come la scodella sul tavolo.
Notai che il cucchiaio era sparito, scivolato sul pavimento emettendo un suono sordo.
"Tu che tipo di creatura sei?" domandai a quel punto, cercando di concentrarmi su altri pensieri.
"Un uomo, come te." rispose Iphannor con assoluta naturalezza.
"E come tuo nonno."
Al sentir pronunciare quella parola, fu come se le lacrime offuscassero la mia visuale e annegassero ogni tentativo di formulare altro pensiero.
"E' morto, non è così?"
Iphannor annuiì gravemente.
"Lo conoscevi?"
"No, ma doveva essere molto speciale."
"Perchè?" domandai.
"Era il cavaliere di un unicorno."
Soppesai quella notizia ma prima che potessi ribattere in qualche modo, Iphannon mi interruppe.
"Un ignaro cavaliere di giovanissimo unicorno, giovane quasi quanto te."
Rise.
"Beh, considerando le proporzioni!"
Lo osservai mente si alzava in piedi e ricomponeva la sua veste scura, quasi volesse congedarsi inspiegabilmente.
"Dove vai?" chiesi con una nota di panico.
"E' molto tardi e avrai tempo di ambientarti presto non appena farà giorno."
Iphannor piegò il capo e si inchinò leggermente in segno di saluto, mentre la sua veste da pioggia ondeggiò all'incedere dei suoi passi verso l'uscio d'ingresso.
"Aspetta!" esclamai.
"Quando mi riporterete a casa?"
Il vecchio rimase in silenzio per un lungo minuto, forse indeciso se sedersi di nuovo al suo posto o uscire dopo aver borbottato qualcosa sull'orario dei preparativi per la partenza del giorno successivo; o almeno mi illudevo che fosse così.
"A questo punto è molto pericoloso per te abbandonare la riserva."
Fu la prima volta che il suo volto apparve serio.
"Perchè?!"
"La casa di Gathel è indubbiamente il luogo più accogliente per ospitarti fin quanto sarà necessario."
"Sì, ma..."
"Un dono così importante va conservato e protetto con giudizio: non possiamo permetterti di allontanarti." disse il vecchio, prosegueando la sua avanzata verso la porta.
"Non potete chiudermi quà dentro."
Iphannor esitò, proprio prima di appoggiare il proprio palmo sulla maniglia.
"Ma non ho affatto intenzione di chiuderti da qualche parte; e anche se fosse, come credi di poterti di poterti allontanare?"

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