Il violinista di Dooney

di Whatadaph
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Lesioni da Incantesimo ***
Capitolo 3: *** 2. Al Cluricauno Ubriaco ***
Capitolo 4: *** 3. Euan Abercrombie ***
Capitolo 5: *** 4. The Banshee Boys ***
Capitolo 6: *** 5. Questione di Quidditch ***
Capitolo 7: *** 6. Zuppa al pomodoro ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 
PROLOGO
 
14 giugno 2027
Westminster, Londra
Tarda sera
 
Due bustine di zucchero non erano bastate a mascherare il retrogusto amaro del caffè.
Rick Murphy poggiò i gomiti sulla superficie di resina del piccolo tavolo, circondando con le dita il bicchiere di carta nonostante la dicitura Attenzione, scotto impressa a grandi lettere sulla striscia di cartone ondulato che vi correva intorno. Chiuse gli occhi per un istante più di quanto gli sarebbe bastato per sbattere le palpebre, mentre un lieve sbuffo gli sfuggiva suo malgrado tra le labbra.
La filiale di Caffè Nero era ormai vicina all'orario di chiusura, constatò con un'occhiata all'orologio, dunque aveva ancora una mezz'ora di tempo prima di andare al lavoro. Voltò appena la testa verso la vetrata alle sue spalle: le luci di Trafalgar Square e la fontana illuminata sembravano tremolare appena, nella pioggerellina sottile di quell'umida sera di giugno
La cameriera gli passò accanto per andare a sparecchiare il tavolo accanto al suo. Rick rilassò la schiena contro la sedia, allungando le gambe sotto al tavolo mentre la scrutava di sottecchi. Era una ragazza sui vent'anni, con i capelli rossi raccolti in una coda, un viso morbido e grandi occhi castani. Sembrò accorgersi del suo sguardo, perché sollevò la testa dalle tazze che stava raccogliendo e gli gettò un'occhiata a propria volta, accennando un sorriso.
“Serata spenta, Rose?” buttò lì.
Lei scrollò le spalle. “Come al solito, Rick.”
La osservò andare via, buttando giù un ultimo sorso di caffè. Un giorno o l'altro si sarebbe deciso a chiederle di uscire, pensò. Da cliente abituale qual era, non sarebbe stato difficile farle scivolare tra le mani un biglietto con il proprio numero o qualcosa del genere.
Alle ragazze piacciono queste stronzate.
Guardò di nuovo l'orologio. Doveva darsi una mossa.
Si tirò su, recuperando il giaccone nero della divisa dallo schienale della sedia e il cellulare dal tavolo. Come sempre, lasciò tintinnare sul piano di resina qualche spicciolo di mancia per Rose. Dunque la salutò con un cenno – lei sorrise di rimando – e abbandonò il locale, uscendo nell'aria umida e spugnosa della notte, frastagliata di fari e strisce brillanti. Sulla sua testa nuda picchiettava una pioggerellina placida e la città era una gran confusione di macchine e luci, sotto un cielo che sembrava promettere un bel diluvio.
Nottataccia, eh, Rick?
Attraversò la strada dopo aver guardato da una parte e dall'altra, le mani affondate in tasca; con le dita della mano destra giocherellava con la copertina del cellulare, facendo scattare la calamita che la chiudeva. La prospettiva di passare l'ennesima notte rinchiuso nella saletta telecamere del museo quella sera non lo attraeva affatto. Gli sarebbe piaciuto avere un lavoro normale, staccare alle sei e avere tempo per uscire la sera con qualche bella ragazza...
Con Rose, ad esempio.
Glielo chiederò domani, si disse, risoluto. Le chiederò di uscire nella mia serata libera.
Risalì verso il monumentale ingresso affacciato su Trafalgar Square; entrò, timbrò la presenza, salutò con un cenno il guardiano notturno dell'ala Est. Attraversò l'atrio, adorno dei manifesti delle esposizioni in corso alla National Gallery: dopo aver voltato con sicurezza lungo un paio di corridoi si ritrovò davanti all'ascensore giusto. Premette il pulsante del terzo piano, percependo il familiare tonfo allo stomaco mentre iniziava a salire. Nel silenzio vibrante dell'abitacolo si udiva solo lo scatto della calamita del suo cellulare.
Click, clock. Click, clock.
Un suono limpido di campanello precedette le porte che si aprivano con un ronzio, seguito da un leggero tonfo. Ted si incammino per le sale deserte dell'ala Sainsbury1.
Il suono dei suoi passi risuonava nel silenzio. Il museo, anche se vuoto, era come sempre completamente illuminato, dal pavimento di parquet chiaro fino ai quadri di diverse dimensioni appesi alle pareti, ciascuno dotato della sua lampada e del suo cartellino; passando concesse uno sguardo all'autoritratto di Rembrandt2, uno dei suoi preferiti.
Mamma dice che gli somiglio...
E il bello è che lo considera pure un complimento.
Comunque quell'opera gli piaceva lo stesso: dallo sguardo concentrato del pittore – vagamente malinconico, disperso nell'aria – alle sue labbra tese, che parevano sul punto di schiudersi per dire qualcosa.
Chissà cosa, eh, vecchio mio?
Comunque sempre meglio che somigliare agli Ambasciatori di Holbein3...
Con un sospiro passò oltre il Rembrandt, infilandosi nel corridoio che portava alla saletta in cui lavorava. Schiuse la porta e come al solito fu accolto dalla parete ricoperta di monitor, che riprendevano da varie angolazioni le diverse sale dell'ala Sainsbury, nella solita immobilità che quasi dava l'impressione che l'immagine fosse bloccata.
“Ciao, Nick,” si rivolse all'uomo-telecamere del turno pomeridiano.
Quello – un uomo più grande di lui, già sulla quarantina – si passò una mano tra ciocche di capelli biondi, sbadigliando. “Finalmente me ne vado a letto.” Passandogli accanto gli battè una mano sulla spalla. “Notte, Ted.”
“Notte, Nick,” lo riecheggiò.
Attese che la porta si chiudesse alle spalle di Nick prima di grattarsi la testa e lasciarsi cadere sulla comoda sedia girevole che l'altro aveva occupato fino a pochi istanti prima.
È ancora calda, constatò distratto, preparandosi a una nottata di lavoro in compagnia della sempre fedele macchina espresso.
Tre ore e due caffè dopo si stava annoiando da morire. Come al solito, per fortuna, non succedeva un bel niente; staccò per un momento gli occhi dagli schermi per gettare un'occhiata anelante allo zaino. Si portava sempre dietro un libro, quando andava al lavoro, ma mai aveva osato tirarlo fuori in due anni di lavoro come uomo-telecamere notturno alla National Gallery; aveva come la certezza insindacabile che se si fosse messo a leggere sarebbe stato fatale.
Fissò di nuovo gli occhi sulle sale immobili.
Ma quello...
Voltò la testa di scatto verso il monitor alla sua destra, dove con la coda dell'occhio gli era parso di veder muoversi qualcosa. Riprendeva l'ingresso all'ala Sainsbury e appariva tutto immobile. Mi sarò sbagliato, pensò, ma una sensazione di disagio sembrava persistere. Innervosito, fece scattare di nuovo la calamita del cellulare.
Click, clock. Click, clock.
Poi, di punto in bianco, gli schermi si fecero completamente neri.


 
 
L’Ala Sainsbury è quella parte della National Gallery che ospita la collezione di dipinti rinascimentali e si affaccia su Trafalgar Square;
 Per l’autoritratto di Rembrandt: qui;
 Ed ecco gli Ambasciatori di Holbein;
 
Note dell’Autrice
Ebbene, ci siamo. Inizia un’altra avventura.
Come ho scritto un po’ di tempo fa, citando Albus Dumbledore: “Per i nuovi lettori, benvenuti. Per i vecchi, bentornati.” Quello che avete appena letto è il prologo di una long sulla Nuova Generazione, sequel di un’altra intitolata “Sulla tua pelle”.
Ora, per i nuovi lettori: in teoria questa storia potrebbe essere tranquillamente leggibile anche senza aver letto la precedente. Tuttavia devo avvisarvi che se dal punto di vista della trama è autoconclusiva, naturalmente non vale lo stesso per i personaggi, che sono quasi tutti gli stessi della precedente, dunque la lettura potrebbe risultare probabilmente meno godibile perché vi sfuggirebbero alcuni aspetti delle dinamiche tra di loro. Detto questo, io ho cercato di renderla leggibile separatamente anche sotto questo punto di vista, ma non sono certa di esserci riuscita.
Ora, a titolo informativo: ho qualche capitolo già pronto per evitare di restare indietro con gli aggiornamenti, che si terranno a cadenza bisettimanale (con l’eccezione del Capitolo 1 che pubblicherò invece la prossima settimana).
Spero di aver stuzzicato la vostra curiosità! Ci vediamo tra una settimana con l’aggiornamento, fatemi sapere cosa ne pensate.
Bacioni, Daph
 
 
 

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Capitolo 2
*** 1. Lesioni da Incantesimo ***


CAPITOLO PRIMO
Lesioni da Incantesimo
 
 
16 settembre 2027
Notturn Alley, Londra magica
Primo mattino
 
Il sole sarebbe sorto da un minuto all'altro su Notturn Alley.
Il percorso labirintico dei vicoli era ancora immerso nel buio, ma il cielo visibile tra le case alte e strette già cominciava a schiarirsi. Le stelle sbiadivano lentamente, appannate, mentre la volta sfumava verso un brillante azzurro cupo.
Ci sarebbe stato bel tempo, almeno per un paio d'ore, prima che le nuvole fitte che opprimevano il Nord della Scozia calassero fin sull'Inghilterra a ingrigire i cieli di Londra.
Gwyneth Parkinson aveva l'impressione che il vicolo stretto e serpeggiante che stava percorrendo le  precipitasse letteralmente incontro. Camminava silenziosa, pigiando furtivamente i piedi sul lastricato umido della strada, gli occhi che osservavano guardinghi le case tutto intorno per poi tornare a fissarsi sulla schiena dell'uomo che procedeva davanti a lei e che si arrestò di scatto, all'imbocco di un vicolo perpendicolare a quello che stavano già percorrendo.
Lo imitò nel restare immobile, a ridosso del muro, mentre i suoi sensi allenati coglievano la presenza di Scorpius, fermo dietro di lei allo stesso modo. Sentiva il cuore martellare contro le orecchie ma si impose di mantenere la calma, emettendo cauti, profondi respiri finché le pulsazioni non si furono nuovamente regolarizzate.
Il cielo sopra le loro teste andava schiarendosi ancora, sciogliendosi in un azzurro più chiaro; non appena il sole fosse sorto sarebbe stata un'alba trionfale.
“State pronti,” mormorò serissimo Louis Weasley nel silenzio, rotto solamente dal lontano schiamazzo di un ubriaco.
Gwyneth annuì semplicemente e lo stesso fece Scorpius.
Tirò un sospiro profondo, concentrata. Mancava poco. Davvero poco.
“Andiamo.”
Non ebbe un istante di esitazione prima di seguire Weasley lungo il vicolo a bacchetta tratta. I suoi pensieri sembravano essere stati del tutto sopraffatti dalla lucidità del momento presente, azzerati dall'adrenalina che le percorreva le vene a rotta di collo.
“Questo è l'edificio.”
Si appostarono ai lati del malridotto portone di una casa fatiscente: Gwyneth serrava le dita attorno alla bacchetta magica, gli occhi che saettavano da una parte all'altra, attenti e vigili.
Poi Scorpius, ad un cenno di Louis, si fece avanti e spalancò la porta con un calcio.
Gwyneth sentì la mano di Weasley serrarsi attorno al suo braccio per trascinarla via e per un momento si domandò cosa diavolo stesse accadendo e perché mai l'altro l'avesse tirata indietro così.
Almeno finché la porta non esplose, facendola cozzare con la schiena dalla parte opposta del vicolo. Nell'impatto il suo braccio scivolò via dalle dita di Weasley, invisibile nel fumo provocato dallo scoppio... Poi udì un lamento provenire da alcuni metri più in là.
Dannazione... Scorpius!
 
 
*
 
 
16 settembre 2027
Reparto Lesioni da Incantesimo, San Mungo, Londra
Neanche un'ora dopo
 
“Un giorno mi spiegherai cosa ci trovi nel rischiare quotidianamente di farti saltare in aria.”
Dalle finestre del San Mungo si poteva vedere un cielo azzurro tenue, ancora venato di rosa. Nubi spugnose simili a garza avevano gia cominciato ad addensarsi sopra i tetti di Londra.
Jacob Greengrass, in piedi accanto al carrello medicinali, diede un colpo di bacchetta ad un unguento già pronto perché raggiungesse la temperatura adeguata.
Ma dove sono i Medimaghi quando servono?!
Scorpius, disteso sul lettino da ospedale, roteò gli occhi – praticamente l'unica superficie del suo corpo libera da bende e lozione per bruciature.
“E soprattutto mi chiedo come fai a rischiare le penne sempre quando io sono di guardia.” Rincarò Jake, spalmando con la bacchetta magica l'ennesimo unguento sul braccio dell'amico, praticamente ridotto a carne viva esposta dalle scottature. Decisamente: ci voleva uno stomaco robusto per lavorare al Reparto Lesioni da Incantesimo.
“Ahia,” si lamentò Scorpius flebilmente. “Brucia.”
“Non fare il bambino,” lo riprese in tono neutro. “L’hai deciso tu di rischiare di bruciare vivo.”
L'altro accennò un sorrisetto che deviò ben presto in una smorfia dolorante. “Davvero lodevole il modo in cui ti preoccupi per me.”
“Sai com’è, è il mio lavoro,” replicò Jake, prima di dare un colpo di bacchetta alle bende che attendevano sul carrello; quelle si sollevarono e iniziarono ad avvolgere il braccio di Scorpius in una complessa fasciatura. Concentrato, prese la cartella clinica del paziente, decisamente fitta, considerando che ormai era di casa in Reparto...
Ci finisce quantomeno a settimane alterne... Ha perso definitivamente il cervello nel momento in cui è entrato in Accademia.
“Dov'è finito il tuo spirito di autoconservazione, Scorpius?” borbottò distrattamente, dopo aver tracciato in uno scarabocchio pressoché incomprensibile – la grafia da Guaritore gli riusciva tutta – la cura somministrata sulla cartella, che rimise poi al suo posto sul comodino.
L'altro aprì la bocca per ribattere, senza curarsi di camuffare l'ennesima smorfia di dolore che gli aveva distorto il viso; tuttavia non fece in tempo prima che la porta della stanza si aprisse. Tra le file di lettini bianchi si fece strada una figura familiare, con capelli scuri e un'uniforme verde da Guaritore identica a quella che indossava Jake, salvo per il cartellino che lo identificava come Psicomago tirocinante.
Quando Bernie giunse accanto al lettino, riposato e fresco come una rosa, Jake preferì non pensare a quale potesse essere l'aspetto della propria faccia.
Odio le guardie notturne.
Non appena avesse finito con Scorpius sarebbe tornato a casa per dormire qualche ora, prima di recarsi di nuovo al San Mungo per il turno pomeridiano.
“Cosa ti è successo stavolta?” chiese Bernie, accomodandosi sulla sedia accanto al letto.
Scorpius scrollò le spalle. O meglio: tentò di farlo, ma il risultato fu un movimento indistinto delle bende che gli immobilizzavano il torace. “Un edificio in cui stavamo facendo irruzione,” rispose in tono noncurante. “È esploso.”
“Gwyneth sta bene?”
“Non si è fatta nulla,” borbottò Jake al suo posto. L'ex compagna di scuola – ed ex-ragazza, come gli ricordava talvolta Lily in tono assai eloquente – era stata portata in ospedale assieme a Scorpius per un rapido controllo. “Sembra che il Capitano Weasley le abbia evitato la stessa fine di Scorpius per un pelo...”
Anche Louis Weasley era stato lì, con un lieve trauma cranico, che tuttavia non gli aveva impedito di sfoderare tutto il suo fascino da mezzo-Veela con la Medimaga Viviana Davis. Era incredibile come i Medimaghi, terribilmente bravi a volatilizzarsi quando Jake aveva bisogno di loro, riuscissero a convergere tutti nella stessa stanza quando c'era Weasley come paziente.
“Non chiamarla fine,” protestò Scorpius. “Sono ancora tutto intero.”
“Già, sei solo un po' abbrustolito.”
Bernie sollevò brevemente le sopracciglia. “È incredibile. Hai già rischiato di farti ammazzare prima che io finissi di fare colazione.” Sorrise leggermente, un brillio fugace negli occhi castani.
Jake faticò a soffocare uno sbadiglio. “Io ero qui a lavorare, mentre tu eri a casa a farti coccolare da Alice,” gli fece notare.
All'udire il nome della fidanzata, il sorriso di Bernie si fece più largo.
Improvvisamente, Jake percepì la stanchezza dovuta alla nottata insonne crollargli addosso. Gettò un'altra occhiata all'orologio. “Io vado.” Sospirò, rimettendo la bacchetta in tasca. “Vedi di essere ancora tutto intero quanto tornerò, uhm?”
 
 
*
 
16 settembre 2027
Sala Grande, Hogwarts, Scozia
Otto del mattino
 
La mattina del sedici settembre, Elizabeth Dursley entrò in Sala Grande qualche minuto più tardi rispetto al solito, veramente di umore nero... E il non aver ancora fatto colazione di certo non aiutava. Non sapeva bene cosa fosse successo quel giorno: fatto sta che non aveva sentito il fischio della Magisveglia sul suo comodino; quando finalmente aveva aperto gli occhi le altre ragazze avevano già cominciato a vestirsi e nella stanza c'era un disordinato viavai. Le compagne di casa le erano parse così riposate e graziose, mentre lei si sentiva la faccia pesante e sapeva di avere gli occhi gonfi e i capelli in uno stato pietoso.
Dovrei proprio tagliarmeli. Non le era sfuggita l'occhiata che le aveva lanciato Bernice... Di solito non dava retta a quell'imbecille classista, ma era costretta a riconoscere che su certe cose avesse un metro di giudizio abbastanza valido. Come i capelli... Dio, sono inguardabili.
Elizabeth era abituata ad alzarsi presto, e soprattutto prima delle sue compagne di stanza. Non avrebbe saputo dire perché, ma ridestarsi quando le altre erano già sveglie e in piedi le risultava destabilizzante.
Le piaceva aprire gli occhi quando tutto era ancora immerso nel buio e nel silenzio, approfittare del bagno senza paura che finisse l'acqua calda, vestirsi furtiva in dormitorio e poi salire nella Sala Comune deserta, già carica dei libri per la giornata, rimanendo poi in contemplazione del fuoco – e in beata solitudine – finché non fosse arrivata Lucrezia, per avviarsi con lei alla volta della Sala Grande.
Quella mattina non aveva neanche avuto il tempo di farsi una doccia come si deve e lo stato dei suoi capelli ne aveva decisamente risentito: ne ebbe la conferma gettando una rapida occhiata al proprio riflesso su una caraffa piena di succo di zucca, lasciandosi cadere seduta al tavolo di Serpeverde.
Al suo fianco, Lucrezia scavalcò con grazia la panca e si accomodò a propria volta, scuotendo la testa per rigettare dietro le spalle i folti capelli castani. Le rivolse un sorriso, sporgendosi in avanti per servirsi di uova e pancetta. A Elizabeth non sfuggì il modo in cui Ramsey Goyle – una sorta di scimmione brufoloso del Quinto seduto proprio di fronte a loro – fissava il davanti della camicetta dell'amica.
“Ehi, Goyle,” buttò lì con voce distratta. “Asciugati la bava.”
Il ragazzo dapprima parve non capire la battuta: dopo qualche secondo la guardò malevolo, diventando paonazzo per la rabbia. Non disse nulla, tornando a dedicarsi alla montagna di uova fritte che aveva nel piatto.
Lizzie gli sorrise placida e si servì di una tazza di tè, sentendosi leggermente meglio. Prese un paio di toast e si voltò verso Lucrezia, preparandosi allo sguardo di rimprovero che – lo sapeva – la stava aspettando.
Non si era sbagliata: Lucrezia la stava osservando, con una forchettata di uova come pietrificata a metà strada fra il piatto e la bocca. Le sue sopracciglia erano aggrottate e gli occhi chiari erano tinti di una vena accusatoria.
Elizabeth sospirò. “Avanti,” la esortò, sbocconcellando un toast ricoperto di burro e marmellata di fragole. “Criticami.”
L'altra roteò gli occhi. “Perché devi sempre sfogare sugli altri il tuo cattivo umore?” la redarguì. “Non è colpa sua se è brufoloso e vorrebbe avere una ragazza.”
“Non è colpa mia se è stupido,” replicò Lizzie in un'alzata di spalle, continuando a mangiare come se nulla fosse.
Lucrezia non trattenne un sospiro e finalmente completò il tragitto delle sue uova, masticando con sguardo pensieroso. “Comunque non è corretto prendersela con i più piccoli.”
“Non è più piccolo. È grosso il doppio di me.”
“Sai cosa intendevo. Non far finta di essere stupida.” Suo malgrado era divertita, Lizzie poteva vederlo benissimo: un angolo della sua bocca si contraeva verso l'alto, come se stesse cercando di trattenersi dal sorridere.
Cosa che probabilmente sta facendo.
Le sorrise a propria volta, accogliendo il consueto moto d'affetto nei confronti dell'amica. “Come farei senza la mia coscienza?” recitò in tono teatrale, poggiandole una mano sulla spalla.
Lucrezia non si trattenne e ridacchiò. “Come se servisse a qualcosa... Non mi dai mai retta!”
Elizabeth roteò gli occhi. Adorava l'amica, nonostante il suo perenne tentativo di farle la predica: non era una sciocca e sapeva riconoscere una critica costruttiva quando ne vedeva una.
Poi se dare ascolto ai consigli o meno, quella era un'altra storia.
La Sala Grande era immersa in un quieto chiacchiericcio e nel tintinnio di bicchieri e posate. Le vivande sui tavoli erano in continuo autorifornimento e il cielo rappresentato nel soffitto sopra le loro teste andava sempre più ricoprendosi di fitte nubi grigie, in parallelo con il clima all'esterno. Si ritrovò a sorridere nel sorseggiare il suo tè: il suo umore stava prendendo una piega leggermente più positiva, grazie al cibo e all'elastico prestatole da Lucrezia per legare quello schifo di capelli. Per fortuna, Bernice e Candida si erano sedute come sempre il più possibile lontano da loro, mentre Adelaide Nott ovviamente era da sola, presa a fissare il suo caffè con aria omicida.
… Sì, mi piace fare colazione in santa pace.
Un momento dopo si maledì di averlo pensato troppo presto.
Mai, Lizzie, si disse, mentre le sue orecchie venivano raggiunte da un improvviso frastuono. Mai dare giudizi prima che la colazione sia finita...
Sollevò lo sguardo: l'aria divertita di Lucrezia confermava la sua ipotesi. Sentendosi improvvisamente abbattuta si decise a guardare verso il tavolo dei Grifondoro, dove l'allegra combriccola – come la chiamava sempre Stanley Warrington inarcando un sopracciglio – ovviamente non poteva sedersi tranquillamente senza risultare molesta per tutti gli occupanti della Sala.
Aveva appena deciso di tornare a concentrarsi sull'ennesimo toast – al mattino sapeva essere estremamente vorace – quando Fred Weasley iniziò a improvvisare un concertino suonando la batteria sui piatti dorati.
Guardò verso Lucrezia, sconsolata: “Come fanno a essere così–”
Buongiorno, sorella!” esclamò qualcuno dietro di lei, battendole robustamente una mano sulla spalla e facendola quasi schizzare giù dalla panca.
“Maledizione, Max...” borbottò cercando di non cadere sotto al tavolo, supportata da una tempestiva Lucrezia che l'aiutò a tirarsi su. Suo fratello non era mai stato in grado di rendersi conto di essere grosso il triplo di lei, e di conseguenza non riusciva a bilanciare le proprie dimostrazioni d'affetto alle sue proporzioni. Ogni volta che l'abbracciava – un po' troppo spesso per i suoi gusti – rischiava di spaccarle un paio di costole e comunque finivano sempre in una colluttazione di un qualche tipo.
Max sorrideva a trentasei denti, ben dritto nella sua divisa da Tassorosso, con la spilla da Prefetto a brillargli sul petto. Aveva preso la stazza dal loro papà, ma temperava la tendenza a mettere su pancia con attività sportiva già dal secondo anno.
“Buongiorno, Lucrezia!” lo udì proseguire, prima di aggiungere con la consueta aria euforica: “Oggi è un grande giorno! Ci sono le selezioni! Spero che mi riconfermeranno in squadra!”
Lizzie inarcò le sopracciglia. “Come mai riesci a parlare solo per frasi esclamative?” replicò piatta.
L'altro sorrise allegramente. “Sono un tipo entusiasta!”
“Dovresti bere meno caffè.”
Lucrezia scoppiò a ridere e lei le gettò un'occhiataccia, fingendosi infastidita.
Riuscì a scansare un'altra pacca fraterna sulla spalla per un pelo.
“Ehi, Max!” gridò Bastien Leclerc dal tavolo di Grifondoro. “Quanto ci metti?”
“Arrivo!” tuonò l'idiota di rimando. “Buona giornata!” aggiunse rivolto a loro, prima di defilarsi con molta poca discrezione verso i suoi amici altrettanto idioti.
Lizzie sospirò, mascherando un sorrisetto. Adorava suo fratello, anche se non lo avrebbe mai ammesso con anima viva.
“Come fa ad avere tutta quell'energia prima ancora di aver fatto colazione?” osservò Lucrezia.
“Di certo non è di famiglia,” replicò acida Elizabeth.
D'un tratto si udì un fischio acuto e frotte di gufi presero a irrompere nella Sala, descrivendo larghi cerchi sopra i quattro tavoli alla ricerca del loro destinatario. Lizzie non distolse neanche lo sguardo dalla sua colazione: non aspettava posta, visto che i genitori avevano scritto a lei e Max giusto un paio di giorni prima.
Non si accorse che una grossa civetta era planata proprio verso di lei, atterrando in mezzo al tavolo di Serpeverde. O meglio: se n'era accorta benissimo ma la ignorò, dando per scontato che fosse per Lucrezia.
Tuttavia pochi istanti dopo l'amica le diede di gomito. “Penso sia per te, Lizzie...” mormorò.
Aveva ragione. Elizabeth sollevò la testa, sorpresa, e tese la mano al volatile, che a propria volta allungò la zampa artigliata per permetterle di slegare un piccolo rotolo di pergamena, su cui qualcuno aveva scritto rapidamente il suo nome.
La civetta tuffò il becco nella caraffa di succo di zucca prima di tornare a decollare in direzione delle finestre.
Perplessa, sotto lo sguardo incuriosito di Lucrezia, Lizzie si affrettò a srotolare la pergamena, per poi darsi della stupida un istante dopo: avrebbe dovuto capirlo che quella era la civetta di zio Harry... Si apprestò comunque a leggere, chiedendosi quale fosse il contenuto della lettera: non accadeva così spesso che Harry Potter le scrivesse, dopotutto.
 
Cara Elizabeth,
come stai? Sono andate bene le prime settimane di scuola?
Devi sapere che il prossimo finesettimana sarà in Inghilterra Charlie Weasley, uno dei fratelli di zia Ginny. Quello che studia i draghi in Romania, per intenderci – tu non lo hai mai conosciuto, ma di certo ne avrai sentito parlare da qualcuno della famiglia.
 
Lo zio Harry aveva ragione: Lizzie aveva sentito parlare di Charlie più di una volta, in particolare da Fred, che nutriva per lui un'ammirazione profondissima.
Ma trattandosi di Fred Weasley, pensò, c'era proprio da preoccuparsi.
 
Molly ha deciso di organizzare una grande festa alla Tana per l'occasione e le farebbe molto piacere la presenza tua e di Max. Ho già parlato con la Preside, che si è detta disponibile a darvi il permesso di trascorrere la notte fuori per l'occasione.
Per favore, parlane con Max e fammi sapere cosa deciderete di fare. Spero davvero che sarete dei nostri, sarà proprio una bella festa.
Stammi bene. Un abbraccio anche da zia Ginny.
Harry
 
“Allora?” le domandò Lucrezia, curiosa. “Che cosa dice?”
“È un invito a cena,” rispose serissima.
L'altra fece tanto d'occhi. “Un invito a cena... Ma chi–”
“... Da parte di zio Harry,” concluse Elizabeth, prima di scoppiare a ridere mentre l'altra roteava gli occhi.
“Quanto sei stupida,” iniziò a redarguirla. “Poi dici tanto di Fred Weasl–”
Non osare paragonarmi a quel cretino,” minacciò lei. Ma sorrise.
 
*
 
 
16 settembre 2027
Londra, Inghilterra
Dieci del mattino
 
Hugo Weasley si svegliò di colpo al ribattito costante di qualcosa contro la finestra. Si tirò a sedere tra le lenzuola sfatte, stropicciandosi gli occhi ancora appannati e assottigliando le palpebre per distinguere la sagoma di un gufo che agitava le ali contro i vetri.
Ancora mezzo addormentato, recuperò a tentoni la bacchetta dal comodino, puntandola verso la finestra; quella si aprì di scatto, lasciando entrare il volatile, che planò nella sua direzione, depositandogli una pergamena arrotolata in grembo prima di precipitarsi di nuovo a volare per i cieli di Londra. Rabbrividendo alla brezza settembrina che si insinuava nella stanza, Hugo richiuse la finestra con un altro colpo di bacchetta.
Solo allora, passandosi una mano tra i capelli arruffati, si guardò intorno.
Il sole grigio di quel mattino coperto illuminava la sua stanza solo parzialmente. Era piccola, ingombra di pochi mobili anonimi da studente, con pile di libri dappertutto. Sulla scrivania prendeva posto un tomo di Aritmanzia Comparata con il segnalibro più o meno a metà. Lo stava studiando la sera precedente, prima di...
Ecco.
Guardò alla propria destra. Metà del letto ad una piazza e mezzo era occupato dalla figura di un ragazzo che dormiva a pancia in giù, la schiena coperta per metà dalle lenzuola. I riccioli biondo scuro solitamente perfetti erano schiacciati contro il cuscino e avevano preso una piega strana. Una bella soddisfazione per Hugo, che quei capelli così perennemente ordinati glieli aveva sempre invidiati parecchio.
Nonostante il sonno si ritrovò a sogghignare, osservando Herman ancora per una manciata di istanti, prima di sbadigliare e grattarsi di nuovo la testa, mentre cercava di schiarirsi il cervello.
Gettò un'occhiata al rotolo di pergamena ben stretto che il gufo gli aveva lasciato cadere sulle gambe. Riconobbe il nastro rosso cupo e il sigillo dell'università... Poteva trattarsi solo di una cosa. Tuttavia, non aveva ancora la mente abbastanza lucida per leggere quella lettera.
Caffè. Ho bisogno di caffè.
Buttò le gambe giù dal letto, lasciando scivolare la bacchetta nella tasca del pigiama. Prese il cellulare dal comodino e indossò i confortevoli calzettoni sferruzzati da nonna Molly, per poi alzarsi in un cigolio di molle.
Alle sue spalle, Herman emise un lamento nel sonno e si voltò a pancia in su, iniziando a russare leggermente.
Hugo uscì in corridoio chiudendosi con cura la porta alle spalle. L'appartamento era immerso nel silenzio, segno che i suoi coinquilini dovevano essere già usciti; tanto meglio: poteva usare la magia senza rischiare una violazione dello Statuto di Segretezza.
… I lati positivi del venerdì mattina libero.
Entrò in cucina: le sagome dei mobili lo attendevano statiche, nella stessa luminosità spenta che aveva lasciato dietro la porta chiusa della sua camera. Con un colpo di bacchetta fece scattare il pulsante del bollitore elettrico, già ricolmo d'acqua.
Accio biscotti.” Le prime parole della giornata suonarono rauche, come al solito. Il pacco di biscotti al burro spinse sulle ante della credenza, spalancandole, per schizzare nella sua direzione; Hugo lo acchiappò al volo, con le prestazioni da Cercatore che riusciva a dedicare solamente al cibo.
Un fischio leggero lo avvisò che l'acqua stava bollendo. La versò nella sua tazza preferita, aggiungendo del caffè solubile e diversi cucchiaini di zucchero. Si sedette in tavola e iniziò a mangiare i biscotti mentre aspettava che il caffè raggiungesse una temperatura sufficientemente bassa da non ustionargli il palato. Nel frattempo, i gomiti poggiati sul tavolo, accese il cellulare; trovò cinque messaggi, tutti da persone diverse.
 
Da: Lily
 
Oggi sono in BMB tutto il giorno, scrivi quando arrivi. E comunque sappi che l'ho VISTO BENISSIMO  Hessler aggirarsi nei pressi di casa tua, ieri sera!
 
Hugo sollevò brevemente le sopracciglia, sorridendo leggermente: dopo sette anni in cui a Hogwarts non aveva fatto altro che campare di rendita, da quando era entrata nella facoltà di Magisprudenza Lily svernava nella Biblioteca Magica Britannica di Londra – siglata BMB – e studiava quasi più di lui. Quasi.
Ma non aveva certo smesso di essere una tremenda ficcanaso.
Provò a sorseggiare con cautela il caffè. Era ancora troppo caldo: si cacciò in bocca un altro biscotto, scorrendo verso il messaggio successivo.
 
Da: Mamma
 
Buongiorno Hugo, come va? Il prossimo finesettimana verrà zio Charlie dalla Romania. Siamo tutti invitati dai nonni. Buona giornata, poi fammi sapere se stasera vieni a cena.
 
Il caffè aveva raggiunto finalmente una temperatura decente. Buttò giù qualche sorsata, sentendosi improvvisamente più sveglio.
 
Da: Rose
 
Hugo, ha detto mamma che sabato prossimo verrà zio Charlie, quindi saremo tutti alla Tana. Domani mattina lavoro, ma se vogliamo vederci il pomeriggio va bene. A Piccadilly alle 4?
 
Digitò un laconico Okay prima di recuperare l'ultimo biscotto dal fondo della scatola.
 
Da: Cindy
 
È finito il detersivo per piatti, lo compri tu? Ricordati che questa settimana è il tuo turno per le pulizie.
 
Roteò gli occhi, dando un colpo di bacchetta per spedire la scatola vuota dei biscotti nella pattumiera. Cindy – la ragazza della stanza accanto alla sua – a volte si rivelava veramente petulante... Decise che avrebbe pulito in tarda mattinata, approfittando dell'assenza dei coinquilini per fare tutto con la magia.
Si fa davvero prima, e poi odio pulire i sanitari a mano...
Bevve l'ultimo goccio di caffè e decise di essere ormai sufficientemente sveglio per leggere la lettera dell'università. Armeggiò cautamente con il sigillo di ceralacca, facendo attenzione a non romperlo, e finalmente aprì la pergamena.
Sapeva perfettamente quale fosse il contenuto della missiva, ma il suo cuore mancò comunque un battito mentre faceva scorrere lo sguardo sulle prime righe.
 
Gentile signor Weasley,
la informiamo che, dopo aver preso visione dei suoi risultati accademici, è stato deciso di accogliere la sua domanda di tirocinio come Assistente presso la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. È stato assegnato al docente di Aritmanzia, il professor Wilbur Fortebraccio.
La invitiamo a presentarsi lunedì 19 settembre alle ore 15 presso l'Ufficio competente, per discutere di ulteriori dettagli circa il suo prossimo trasferimento a Hogwarts.
Cordiali saluti,
Thomas Appleton, Responsabile dell'Ufficio Collocamento
 
Non poteva dire di non esserselo aspettato. Sapeva perfettamente di essere in assoluto il migliore studente della Facoltà di Arti Magiche Avanzate, che il tirocinio sarebbe stato suo anche solo per aver fatto domanda, eppure... Eppure.
Gli parve che il cuore si stesse gonfiando nel suo petto; le sue labbra si incurvarono spontaneamente in un sorriso. L'idea di tornare a Hogwarts, di imparare a fare il professore, di avere di nuovo a disposizione quell'enorme Biblioteca...
Sembrava quasi troppo bello per essere vero.
“Buone notizie, Weasley?”
Senza smettere di sorridere – perché mai avrebbe dovuto? – Hugo si voltò verso Herman, in piedi sulla soglia della cucina, intento a sbadigliare e a stropicciarsi gli occhi. I capelli rialzati dal cuscino stavano già cominciando a ricadere al loro posto, in riccioli ordinati sulla fronte.
“Eccome,” si limitò a dire. “Vuoi un caffè?”
Conoscendo già la risposta, puntò subito la bacchetta verso il bollitore elettrico, mentre di sua iniziativa l'altro prendeva una tazza dalla dispensa e il barattolo del caffè solubile.
Hugo arrotolò la lettera e riannodò con cura il nastro rosso scuro, mentre Herman si lasciava cadere su di una sedia, dal lato del tavolo adiacente al suo.
“Allora?” lo udì dire. “Ti hanno preso per il tirocinio?”
“Naturalmente,” assentì fiero, concedendogli un'occhiata. Non riusciva a smettere di sorridere: stava rischiando un crampo alle guance, lo sapeva. Miseriaccia, era così felice da ritrovarsi a fare uso persino delle espressioni più tipiche di suo padre.
Herman roteò gli occhi. “Non sembri molto sopreso, eh?”
Hugo sorrise ancora, felice che l'altro fosse lì con lui a condividere il suo trionfo. Lo osservò di sottecchi versarsi il caffè, rigorosamente non zuccherato.
Erano amici. Dopo quasi sei anni di reciproca conoscenza poteva proprio dirlo: Herman Hessler era il primo, vero amico che avesse mai avuto. Il che poteva apparire ironico, viste le circostanze che avevano portato a questo: ricordò come avesse sospettato di lui per mesi, cinque anni addietro, prima di rendersi conto di aver preso un colossale granchio e che l'altro aveva un'altrettanto colossale cotta per lui.
Per fortuna l'infatuazione era stata sopita in fretta, pensò, o adesso le cose sarebbero state certamente diverse. La sbandata adolescenziale era sfociata in un'amicizia salda; nonostante talvolta finissero per andare a letto insieme.
Un po’ come stanotte, insomma.
“Non sono sorpreso, infatti,” sogghignò in direzione di Hessler, che adesso era intento a sorseggiare il suo caffè.
L'altro alzò lo sguardo, sollevando un sopracciglio. “Sono contento per te.”
Anche io sono contento per me, pensò Hugo.
Tornerò. Tornerò a Hogwarts.
 
 
*
 
16 settembre 2027
Westminster, Londra
Ora di pranzo
 
La filiale di Caffè Nero in Trafalgar Square a quell'ora era sempre al pieno.
I tavolini di plastica erano affollati di gente di tutte le nazionalità, principalmente turisti appena usciti dalla National Gallery, il cui monumentale ingresso era visibile dalla grande vetrata del locale. Non mancava neanche qualche londinese in pausa pranzo, alcuni in piccoli gruppi e altri invece da soli, presi ad armeggiare con i loro smartphone con aria assente.
Babbani, pensò Gwyneth con un mezzo sorriso. Che cosa avranno da fare, poi, con quei feletoni...
Era seduta presso un piccolo tavolo in un angolo, presa a osservare il continuo viavai di camerieri dalle braccia cariche di tazze di caffè e fette di torta. Dal lato opposto del locale scorse una familiare testa rossa, che di lì a poco l'avrebbe come sempre raggiunta per prendere la sua ordinazione.
Fece una smorfia quando un improvviso dolore la colse a metà della schiena. Al San Mungo le avevano fatto un rapido controllo e somministrato una pozione lenitiva, ma comunque non si era ancora del tutto ripresa dalla botta causata dall'esplosione di quella mattina.
Finalmente Rose riuscì a liberarsi di un gruppetto di turisti giapponesi e virò dritta nella sua direzione, blocchetto alla mano e la solita espressione scocciata in volto.
“Ehi, Gwyn,” la salutò non appena ebbe raggiunto il tavolo. “Che fine hai fatto stamattina?”
Gwyneth fece un gesto vago con la mano. “Sono uscita presto, missione all'alba,” replicò. “Mi sa che avrei dovuto avvisarti.”
“Fa nulla,” borbottò Rose di rimando. Si guardò attorno guardinga prima di sedersi di fronte a lei. I suoi colleghi sapevano che erano amiche e avrebbero chiuso un occhio con il capo, come al solito. “Non sono mica tua madre.”
… Di buon umore oggi, eh, Rosie?
Decise di stuzzicarla un po'. “L'edificio in cui stavamo facendo irruzione è esploso.”
Rose sembrò non fare una piega, ma a Gwyneth non sfuggi la rapida contrazione della sua bocca. Avevano condiviso il dormitorio per sette anni e adesso ne erano passati tre da quando avevano iniziato a vivere nello stesso appartamento: poteva dire di conoscerla bene, e sapeva che Rose Weasley non era poi così brava a nascondere le proprie emozioni come avrebbe voluto.
Così come sapeva che non sarebbe riuscita a porle la domanda che tanto le stava a cuore.
“Scorpius sta bene,” l'anticipò quindi. “Ha un po' di ustioni ma entro domani lo dimetteranno dal San Mungo.”
Rose annuì senza cambiare espressione, anche se dai suoi occhi trapelava un palese sollievo. Non commentò, alzandosi invece di nuovo in piedi. “Che cosa prendi?”
“Il solito,” replicò Gwyneth. “Una fetta della torta più grassa che c'è e un cappuccino.” Non avrebbe mai avuto il coraggio di dirlo davanti a sua madre, ma i Babbani avevano proprio delle invenzioni geniali.
Rose aggrottò le sopracciglia, appuntando tutto sul suo quadernetto, prima di levare lo sguardo su di lei e sorriderle in quel modo che significava chiaramente Grazie, Gwyn, per avermi comunicato che il mio ex-ragazzo di cui sono ancora follemente innamorata non è esploso.
Gwyneth scosse la testa, osservando l'amica andar via. Ultimamente Rose stava ricominciando a prendere quella sua brutta piega apatica. Pensò che avrebbe dovuto organizzare una serata con la loro coinquilina Cecilia e con Christine, che più o meno da sempre aveva messo le tende a casa loro. Chi l'avrebbe mai detto, eh, che Christine De Bourgh soffrisse la solitudine!
Rose probabilmente si sarebbe lagnata, ma Gwyneth sapeva benissimo che era tutta una posa.
Un'altra fitta alla schiena la distolse dai propri pensieri. Si morse il labbro per il dolore, pensando che quella mattina davvero l'aveva scampata bella.
Se non fosse stato per Weasley, avrei rischiato di esplodere anche io.
 
 
*
 
 
 
“È tutto pronto, mago?”
Si lasciò sfuggire dalle labbra una boccata del suo sigaro aromatico, allungando le gambe sul tavolino davanti al caminetto. Accanto a lui, il Babbano sedeva piuttosto rilassato, almeno in apparenza, rigirandosi tra le mani un bicchiere di Firewhiskey.
“Mi hai sentito?” Ancora, la voce del Babbano rimase calma, immutata in quella sua inflessione melliflua.
“Tutto pronto,” confermò, distogliendo lo sguardo da lui per posarlo sul caminetto acceso, dove le fiamme danzavano vivaci.
Il Babbano, al suo fianco, buttò giù un altro sorso di Firewhiskey. “Non male questa roba,” commentò. “Ti mette il fuoco dentro.”
Sospirò. Anche suo socio in affari non era male, dopotutto, e si dimostrava estremamente sicuro di sé nel rapportarsi con la magia – curioso, in un Babbano. Se solo non avesse avuto tutta quella voglia di chiacchierare...
“Sarà tutto come l'altra volta?” continuò infatti.
“Tutto come l'altra volta,” gli fece eco. Stava cominciando a stancarsi e per fortuna l'altro parve capirlo, perché non disse altro, perdendosi anche lui a osservare il fuoco.
Fuori dalle finestre, la pioggerella che cadeva su Londra ormai da qualche ora iniziò a trasformarsi in un diluvio.
 
 


 

 
Note dell’Autrice
Salve a tutti! Spero che il capitolo precedente vi sia piaciuto. Vi ringrazio per le recensioni, ma soprattutto un grazie speciale a coloro che seguono questa saga fin dall’inizio e non mi hanno mollato mai, nonostante i ritardi e le assenze. Vi amo.
Baci, Daph
PS: risponderò alle recensioni che mi mancano quanto prima!

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Capitolo 3
*** 2. Al Cluricauno Ubriaco ***



CAPITOLO SECONDO

Al Cluricauno Ubriaco
 
 
17 settembre 2027
Londra, Ministero della Magia
Mattina (piuttosto presto)
 
Quella mattina Scorpius rientrò in ufficio di buon'ora, le sopracciglia aggrottate mentre a passo rapido si avventurava nel familiare corridoio rivestito di fogli di giornale.
Aveva fatto ormai l'abitudine a passare quotidianamente per quello che sembrava l'interno di uno scatolone da imballaggio, con le figure animate di criminali ancora in movimento nelle fotografie, incastrate tra blocchi di fitte linee in caratteri scuri. Non aveva mai avuto modo di guardarli tutti con attenzione e neanche aveva tutta questa gran voglia di farlo, ma alcune facce non aveva potuto fare a meno di notarle: il suo sguardo finiva sempre per cadervi sopra.
Ciao, zia Bellatrix, borbottò nei propri pensieri quasi per automatismo. Ciao, nonno Lucius.
Mormorii indistinti e il ticchettio di macchine da scrivere dietro le porte socchiuse dei vari uffici tenevano compagnia al suono dei suoi passi. Incrociò un paio di colleghi e rivolse loro un cenno, prima di grattarsi la spalla; sotto le sue dita, oltre la spessa stoffa rinforzata della divisa da Auror, percepiva il tessuto ruvido delle bende che gli aveva cambiato Jake la mattina stessa.
“La pelle sulla spalla si sta ancora rigenerando,” gli aveva detto il Guaritore con una smorfia. “Non toglierti la benda, non sapresti rimetterla. Ti pruderà tutto il giorno a meno che tu non te ne resti buono qui a farti cambiare tutto ogni due ore dalla Davis.”
“Ma in linea teorica potrei essere dimesso?” aveva chiesto lui speranzoso.
L'amico aveva sbuffato, scuotendo la testa. “Non vedi l'ora di rischiare la pelle di nuovo, eh?”
Eccome.
Ed era di nuovo in Dipartimento. La spalla prudeva fastidiosamente, ma poteva sempre sforzarsi di ignorarla. Gli anni in Accademia e poi finalmente in prima linea erano bastati a fargli capire una cosa: non aveva paura di farsi male perché non era poi così importante, a meno che non lo tenesse bloccato a letto impedendogli di andare a lavoro. Gli era accaduto una volta dopo una maledizione lieve combinata ad un qualche tipo di fattura... Era stato orribile. Giorni e giorni passati al San Mungo e poi a casa senza niente da fare se non guardare il vuoto e fumare – cosa che non avrebbe dovuto fare: il fiato gli serviva.
Tanto ci sarà sempre un Guaritore a rimettermi a posto le ossa...
Eh, Jake?
Tra quei corridoi rivestiti di giornale si sentiva a casa. E se suo padre scuoteva la testa – Dev'essere stato quel Bolide che l'ha preso alla testa al Quinto Anno... Che ne pensi, Astoria, potrei aver ragione? – lui era terribilmente entusiasta di quello che faceva, nonostante Bernie e Jake gli dessero del fanatico, del Grifondoro mancato e altre sciocchezze del genere. Gli piaceva l'adrenalina che gli dava andare in missione; lo agitava ma riusciva a rimanere lucido, padrone dei propri sensi più del solito, sicuro di sé come non era mai stato.
Certo, forse il fatto che l'ultimo caso grave sia stato cinque anni fa aiuta, pensò saggiamente, visto che non era diventato del tutto stupido.
Svoltò in un corridoio più piccolo, che portava alla stanza assegnata alla sua squadra.
Sulla soglia, quasi andò a sbattere contro Louis Weasley che usciva.
“Ben trovato, Malfoy,” lo udì dire in tono allegro. “Come va la ferita?”
Le ferite,” lo corresse automaticamente. “Ventidue ustioni più o meno gravi.” Quella di esibire gli infortuni come medaglie al valore era un'abitudine abbastanza tipica tra i più giovani del Dipartimento. Si era ritrovato ad assumerla quasi senza farci caso, ma almeno su questo una parte dei suoi amici si era rivelata comprensiva. Specialmente Al – che a dire il vero approvava anche tutto il resto – ma anche Jake, forse perché così poteva a propria volta vantarsi di averlo curato i tre quarti delle volte.
Weasley gli diede una pacca sulla spalla – quella già guarita, fortunatamente.
“Capiti al momento giusto, Malfoy,” gli disse. “Zio Harry ha convocato la squadra... Intanto andiamo noi.”
Se non l'avesse sentito fare da Rose per anni, probabilmente non si sarebbe mai abituato a sentir chiamare zio Harry il Direttore del proprio Dipartimento.
Annuì, per poi seguire Louis per il dedalo di corridoi tappezzati. I loro passi riecheggiavano sulla pietra scura che pavimentava il Ministero; da una stanza chiusa si udirono il fragore di un bicchiere rotto, un'imprecazione e un Reparo.
L'ufficio di Harry Potter era il solito caos di pergamene, detector oscuri e foto di famiglia. Ad aspettarli c'erano il Direttore stesso, Ron Weasley e Theodore Nott, un vecchio amico di suo padre che lo salutò con un cenno del capo.
“Ah, siete arrivati.” Harry Potter sollevò la testa arruffata dalla pratica che stava firmando – probabilmente l'assegnazione alla squadra della missione di cui avrebbe parlato loro a momenti – e fissò su entrambi uno sguardo verde chiaro, attraverso le lenti rotonde degli occhiali. “Louis, Scorpius. Dove sono gli altri?”
Aveva apprezzato il fatto che il Direttore si fosse sempre sforzato di chiamarlo per nome, fin dal suo  primo ingresso al Dipartimento. Forse c'entrava qualcosa il fatto che all'epoca fosse ad un passo dal matrimonio con Rose, ma comunque essere trattato con familiarità l'aveva fatto sentire accolto, in un ambiente che in teoria non doveva essere proprio l'habitat naturale per un Malfoy, almeno secondo l'opinione comune.
“Arriveranno tra non molto,” rispose Louis per entrambi.
Il Direttore annuì, riassestandosi gli occhiali sul naso. “Allora nel frattempo comincio con voi.” Sospirò e trasse una pergamena dalla cima della pila disordinata che aveva di fronte. “Ci è stata segnalata una rapina di una certa entità al Museo d'Arte Magica Britannica, qui a Londra...”
Scorpius sollevò brevemente le sopracciglia. Era stato al Museo un paio di volte, da piccolo... Non ricordava granché, se non file e file di dipinti magici che faticava a sbirciare tra la folla, vista la sua statura infantile.
“Sono stati trafugati quadri di enorme valore,” proseguiva il Direttore, “alcuni dei più preziosi tra quelli custoditi al Museo. Le circostanze sono abbastanza strane... Dalla denuncia che mi è stata recapitata sembra che uno dei guardiani notturni abbia semplicemente aperto una porta e i quadri siano spariti uno dopo l'altro, almeno stando alle Magicamere di sicurezza.” Sbuffò. “Non è chiarissimo, erano tutti molto agitati... Al momento sono stati messi sotto custodia tutti i dipendenti del Museo.” Tornò a fissare lo sguardo su di loro. “Recuperate le opere e mettete dentro il colpevole,” borbottò semplicemente. “Abbastanza chiaro?”
Era abbastanza chiaro, convenne Scorpius dentro la propria testa.
Naturalmente, non vedeva l'ora di iniziare.
 
 
*
 
 
17 settembre 2027
Hogwarts, Scozia                    
Mattina (ancora piuttosto presto)
 
Il sabato mattina, da sette anni a quella parte, Elizabeth Dursley faceva colazione da sola. Questo perché Lucrezia reputava inconcepibile alzarsi allo stesso orario dei giorni di scuola durante il finesettimana, mentre a lei non era mai piaciuto svegliarsi tardi o restare a letto a poltrire.
All'inizio aveva pensato che fosse perché sua madre non aveva mai permesso a nessuno, in famiglia, di passare la mattinata in completa inattività: poi anche Max era arrivato a Hogwarts e Lizzie aveva capito di essere proprio fatta così, dal momento che al fratello non era parso vero di potersi alzare all'ora di pranzo, fuori dal raggio di controllo materno.
Anche quel sabato era uscita dai sotterranei in sommo anticipo rispetto a quasi tutti i suoi compagni di casa. In dormitorio Lucrezia ancora dormiva della grossa, e così Bernice e Candida. Non avrebbe saputo dir nulla di Adelaide Nott: le tende serrate del suo baldacchino avrebbero potuto celare la sua presenza o la sua assenza allo stesso identico modo.
Non aveva incontrato nessuno per i corridoi, con l'esclusione del Barone Sanguinario e di un grasso gatto a pelo lungo, dal manto di una curiosa tinta argento-bluastra, di cui non conosceva il proprietario. Nel vederla, il felino aveva sollevato la coda infastidito per poi allontanarsi in un trotto silenzioso e sparire dietro un angolo. La cosa l'aveva fatta sentire sollevata: era allergica al pelo di gatto e non le sarebbe piaciuto strozzarsi con il tè a forza di starnuti.
Anche la Sala d'Ingresso era deserta, con l'esclusione di un paio di Tassorosso mattinieri e della figura massiccia del professor Hagrid, che stava entrando nel castello tirandosi dietro un grosso sacco di cui davvero Elizabeth non voleva conoscere il contenuto.
Dietro di lui intravvide un cielo di un azzurro tenue, visibile nel rettangolo ritagliato dal portone di quercia aperto a metà.
Decise di fermarsi.
“Buongiorno, professore,” gli si rivolse con cortesia. Una volta aveva parlato a suo padre di Hagrid; Dudley era sbiancato e si era defilato in tutta fretta in un'altra stanza, borbottando qualcosa a proposito di un codino di maiale e di un ombrello rosa.
Non aveva mai capito perché, ma si era ripromessa che un giorno avrebbe chiesto allo zio Harry delucidazioni al riguardo.
Hagrid udendola sollevò la testa di scatto, puntando su di lei gli occhi neri come scarafaggi da sotto le folte e cespugliose sopracciglia. Le rivolse un sorriso burbero in mezzo alla crespa barba grigia. “Ehilà, Lizzie,” borbottò affettuoso. “Vai a colazione, adesso?”
Elizabeth annuì. Hagrid le piaceva, forse perché aveva capito di starle simpatico anche se lei aveva cercato di nasconderglielo in tutti i modi.
Era una cosa che faceva spesso.
Insieme al professore attraversò la Sala d'Ingresso, immersa nel silenzio se si escludevano i passi di Hagrid – forti abbastanza da coprire quelli di Lizzie – e il costante frusciare del grosso sacco contro il pavimento. Gettò un'occhiata guardinga alla grezza tela marrone, con l'impressione che qualcosa si stesse dibattendo al suo interno.
Non resistette più.
“Hagrid, cos'hai lì?”
Gli occhi dell'altro scintillarono in modo poco rassicurante. “Oh, una bella robetta. Vedrai alla lezione di lunedì...”
Ma erano giunti in Sala Grande e lì si separarono, Hagrid per raggiungere il resto del corpo insegnanti e Lizzie diretta al tavolo di Serpeverde.
Come si aspettava, la Sala era semivuota. La tavolata di Corvonero e quella di Tassorosso contavano più o meno un terzo degli studenti, ma quelle di Serpeverde e Grifondoro erano occupate da non più di una decina di persone ciascuna. Si sedette più o meno a metà del proprio tavolo e neanche si guardò attorno prima di sporgersi verso un bricco di tè e una pila di pane tostato.
“Ciao, Dursley.”
Sobbalzò, la mano che quasi si era stretta attorno al manico della teiera. Alzò lo sguardo, sperando con tutto il cuore che i suoi capelli avessero un aspetto migliore rispetto al giorno prima.
Conosceva quella voce.
“Ehi, Warrington,” rispose incolore, fissando gli occhi sul suo interlocutore – un ragazzo pallido, con il volto magro e capelli di un castano cinerino. “Come mai sveglio così presto?”
L'altro roteò gli occhi chiari, riemergendo da una tazza di caffè. Aveva l'aria di qualcuno che è stato appena buttato a calci giù dal letto, ma Lizzie lo trovò comunque piuttosto carino.
“Candida.” Lo udì rispondere. “Ha prenotato il campo da Quidditch per tutto il giorno.”
Elizabeth sollevò brevemente le sopracciglia. “Sono uscita dal dormitorio un quarto d'ora fa e Candida stava ancora dormendo,” obiettò.
Stanley le gettò uno sguardo ironico. “Infatti. Ci ha detto di iniziare a scaldarci... Ci raggiungerà tra un paio d'ore.”
“E perché non ve ne siete fregati? Potevate restare a dormire.”
“Infatti era quella l'idea originaria.” Il ragazzo sospirò, prima di bere un altro sorso di caffè. “Ma ovviamente Candida ha preso misure precauzionali... Almeno credo, visto che non so chi altro avrebbe potuto lanciare sui nostri letti una fattura urticante. Sembra di avere le chiappe su un mazzo di ortica a sedercisi sopra.”
Lizzie scoppiò a ridere. Candida Flitt non le dispiaceva, nonostante non fossero esattamente amiche: l'altra passava tutto il tempo tra Bernice e gli allenamenti di Quidditch – si frequentavano il minimo indispensabile – e nel complesso era troppo piena di sé per i suoi gusti, ma doveva ammettere che a volte aveva dei veri e propri picchi di genialità.
Stanley finì il proprio caffè e si passò le mani in mezzo ai capelli. “Marcel e Harvey stanno cercando un controincantesimo, ma dubito che ce la faranno.”
“Certo,” convenne Lizzie prima di riuscire a trattenersi, “se lasci il testimone a un cretino come Higgs che cosa puoi aspettarti?”
Non appena vide l'espressione del ragazzo capì di aver fatto un errore.
Lizzie, sei una stupida. Ma non imparerai mai a tenere chiusa quella ciabatta?!
Stanley le scoccò un'occhiata furente. “Stronza già alle prime ore del mattino, Dursley?” disse freddamente.
Stupida stupida stupida.
Mai, mai, mai insultare gli amici di Stanley. Quei tre vivono in simbiosi, dannazione.
“Solo prima di colazione,” replicò scrollando le spalle e ostentando indifferenza.
L'altro continuò a squadrarla in cagnesco ancora per diversi secondi prima di sbuffare e tornare a dedicarsi alle sue uova strapazzate. Elizabeth finì di sbocconcellare il tuo toast continuando a sbirciarlo di sottecchi, finché Stanley non intercettò uno dei suoi sguardi.
“È un modo indiretto per chiedere scusa, Dursley?” Nell'udire il tono della sua voce, ancora sostenuto ma non più così freddo, capì che le cose erano tornate a posto, più o meno.
“Neanche con una bacchetta puntata alla tempia, Warrington,” scherzò.
E fu certa che lui avesse capito quello che intendeva.
Proprio per questo Stanley Warrington le piaceva: era intelligente, non come quegli altri caproni dei suoi amici o dell'allegra combriccola Grifondoro di Fred Weasley. Aveva ottimi voti, era un Prefetto e rispetto agli altri limitava anche il numero di apprezzamenti dementi sulle ragazze, cosa che Lizzie apprezzava moltissimo (soprattutto perché sapeva perfettamente che quei commenti non la riguardavano).
Continuarono a mangiare in silenzio per diversi minuti, l'uno di fronte all'altra. Elizabeth, il volto immerso nella sua tazza di tè, decise poi improvvisamente che non avrebbe avuto senso sprecare l'occasione di essere sola con lui senza tentare un minimo di conversazione. Nonostante gli esiti disastrosi della precedente.
“Senti,” esordì, senza avere un'idea chiara su come continuare. Tuttavia non poté proseguire, perché qualcuno parlò dietro di lei, con la voce sgraziata che avevano gli adolescenti quando cercavano di camuffare i loro nuovi suoni da baritono.
“Prefetto Dursley, prefetto Warrington...”
Si voltò in fretta, intimamente sollevata che qualcuno avesse interrotto la sua frase dalle incerte conclusioni. Posò gli occhi sulla sagoma allampanata di Merlin Arbuthout, il tremebondo prefetto Corvonero del Quinto anno.
“Dì pure, Arbuthout,” lo esortò Stanley in tono neutro, l'espressione indecifrabile.
Merlin si schiarì la voce. “Ozzie mi ha detto di dirvi che oggi pomeriggio ci sarà una riunione dei Prefetti.”
Cosa?!” udì sbottare Stanley. Era molto compassato, come la maggior parte dei loro compagni di casa, ma di tanto in tanto perdeva davvero le staffe, e questo a Lizzie piaceva un sacco. “Oggi ho gli allenamenti di Quidditch!”
Ozzie Omega Ramkin era un Corvonero ed era anche Caposcuola, oltre che capitano della squadra di Quidditch della sua casa. Non era improbabile che avesse fissato di proposito la riunione proprio durante l'allenamento dei Serpeverde.
Lizzie capì che avrebbe potuto approfittare dell'occasione per farsi perdonare da Stanley la pessima uscita di poco prima. “Non preoccuparti, Stan,” disse rapidamente. “Andrò io alla riunione e ti dirò tutto quello che è stato detto.”
Dall'espressione sollevata del ragazzo capì di aver fatto centro. Camuffò un sorriso, rivolgendosi a Merlin. “Grazie, Arbuthout. Messaggio recepito, adesso puoi andare,” lo congedò in tono gelido. Il piccolo Corvonero la guardò atterrito e si allontanò più in fretta possibile.
Davvero, non ho ancora capito come mai faccio così paura.
Non è che io sia alta tre metri, abbia le zanne o che.
Tornò a voltarsi verso Stanley in tempo per vederlo ridacchiare; a quel punto dovette trattenersi dal sorridere euforica. Il ragazzo sembrò sul punto di dirle qualcosa, probabilmente qualche parola di ringraziamento, ma fu distratto dall'arrivo di un ragazzo dai capelli scuri e la pelle olivastra.
Era Marcel Buckley, un altro Serpeverde del loro anno che Lizzie non trovava granché simpatico.
Anche se di certo potrei dire di amarlo rispetto a quel troll di Higgs.
Decise di andarsene con un saluto sbrigativo, decisamente allegra nonostante cercasse di non darlo a vedere. Era sempre più convinta che ci fossero ottime ragioni per alzarsi presto il sabato.
 
 
*
 
17 settembre 2027
Museo d'Arte Magica Britannica, Londra
Tarda mattinata
 
Gwyneth era stata diverse volte al Museo d'Arte Magica Britannica, da bambina, di solito per mostre organizzate dalle amiche di sua madre. Lo ricordava come un posto davvero splendido, con lucidi pavimenti di legno che scricchiolavano sotto i piedi, pareti pitturate di un neutro color crema per mettere in maggior rilievo le opere esposte e una luce soffusa a pervadere l'intero ambiente.
Adesso non era cambiato quasi nulla, in realtà.
Le uniche grosse differenze rispetto ai suoi ricordi infantili erano il continuo viavai di gente in totale agitazione e il nastro di plastica viola del Ministero a isolare le zone circostanti alcune postazioni per dipinti di diversa grandezza, rimaste vuote.
Ah, e il fatto che io sia qui in veste di Auror.
Che figata.
Si voltò verso Scorpius, in piedi a fianco a lei, preso a grattarsi furiosamente una spalla; Gwyneth inarcò un sopracciglio, certa che avesse insistito per andar via dal San Mungo il prima possibile. Scosse la testa, reprimendo uno sbuffo. Era diventato un malato del lavoro, da quando...
Ma in fondo non sono affari miei, no?
Si riscosse dai propri pensieri quando vide il Tenente Weasley venir loro incontro con espressione seria.  “È ora di andare.” 
Scorpius smise immediatamente di grattarsi e assieme seguirono Louis a passo marziale per un paio di corridoi immersi in un'atmosfera asettica, dalle pareti coperte di ritratti che li sbirciarono con curiosità, saltando da una cornice all'altra per sussurrarsi borbottii all'orecchio...
“Tutte queste persone...”
“Ma che razza di intromissione!”
“Davvero inaudito.”
Gwyneth fece una smorfia e accelerò appena il passo, affiancando Louis. “Weasley, a qualcuno è venuto in mente di interrogare i quadri?”
Lui scrollò le spalle di rimando, allontanando una ciocca bionda dalla fronte con la punta delle dita. “Tenente Weasley, Parkinson. Quante volte dovrò ripetertelo?”
“Non fare l'idiota.” Sbuffò. Come se davvero gli importasse delle formalità...
Per alcuni istanti non si udì altro suono che quello dei loro passi sul pavimento. Scorpius non disse nulla, ma Gwyneth sapeva che aveva le orecchie tese.
“Sì, ci hanno provato,” sospirò poi Louis. “Tutto inutile, purtroppo. Sembra che il ladro sia riuscito a eludere persino il loro controllo... Dormivano tutti, probabilmente a causa di qualche incantesimo... Gli Spezzaincantesimi ci stanno lavorando.” La sua mano salì nuovamente a spostare una ciocca ondulata: portava i capelli leggermente più lunghi sul davanti, adesso. Gwyneth non si stupì nell'udire sospirare un gruppo di giovani donne dalle lunghe vesti quando passarono davanti al loro quadro. Lavorava assieme a Louis da quasi tre anni e ormai aveva fatto l'abitudine alla sua influenza Veela, ma questo non valeva per chi lo incontrava per la prima volta... Aveva fatto l'abitudine anche a questo, ma non si trattenne dal voltarsi e fare la linguaccia alle damine vittoriane, che si ritirarono indignate.
Alle sue spalle, Scorpius trattenne una risata.
Finalmente s’inerpicarono su di una scaletta scivolosa e buia, ben diversa dalle luminose aree di esposizione, per poi entrare nel locale dov'erano piazzati gli schermi di controllo delle Magicamere di sicurezza. Era una stanzetta dall'aria angusta ma dai soffitti piuttosto alti, ingombra di schermi Levitanti, ciascuno dei quali mostrava un'ala diversa del museo – alcune completamente vuote, altre ingombre di Tiratori che facevano su e giù cercando di raccogliere tracce o indizi o a srotolare nastri viola per isolare le zone sospette.
Facendosi strada tra gli schermi sospese a diverse altezze finalmente raggiunsero un piccolo gruppo di persone in fondo alla stanza, distribuiti tra una scrivania di medie dimensioni e diverse sedie pieghevoli probabilmente Evocate per l'occasione.
Automaticamente si mise sull'attenti quando riconobbe due delle persone lì presenti: il Maggiore Holly Greengrass, una giovane donna bionda dall'aria volitiva, accompagnata da un ragazzo dai capelli neri cronicamente scompigliati.
“Parkinson, Malfoy,” constatò la donna in tono sbrigativo, ma non antipatico: semplicemente appariva estremamente concentrata su quello che stava facendo. Il ragazzo al suo fianco, nientemento che il Sergente James Potter, li salutò con un cenno e una smorfia.
Gwyneth chinò la testa a mo' di saluto, prima di spostare lo sguardo sugli altri membri del gruppo. Vide un uomo panciuto che continuava ad asciugarsi il sudore dalla fronte con un fazzolettino di seta ricamata – le ricordava qualcuno, ma non avrebbe saputo dire chi – e un signore di mezz'età dall'aria distinta e assai poco affabile, con capelli biondo paglia e un profilo affilato, assieme a una donna grassottella che indossava un sobrio tailleur Babbano.
Dietro di loro c'erano altre due persone di spalle, che Gwyneth non ebbe modo di guardare con più attenzione perché Louis mosse un passo avanti.
“Gwyn, Scorpius: conoscete già il Maggiore Greengrass e il Sergente Potter.” Sorrise sghembo alla volta del Maggiore, che gli gettò un'occhiataccia di rimando. “Vi presento il signor Victorius Lumacorno, direttore del Museo.”
Si fece avanti assieme a Scorpius per stringere la mano all'uomo grassoccio dal fazzolettino di seta, improvvisamente consapevole di chi fosse la persona che le ricordava. Fu poi il turno di Zacharias Smith, l'uomo biondo dall'aria antipatica che era socio in affari del signor Lumacorno, e infine della signora Marple, segretaria del direttore.
Infine, le due persone di spalle si volsero verso di loro. Dapprima lo sguardo di Gwyneth si concentrò sul primo dei due, un professore di Storia dell'Arte Magica che si presentò come Heribert Bulstrode – un uomo imponente con una curata barbetta grigia che sorrise mentre le stringeva la mano con garbo.
Non ebbe bisogno che l'altro individuo si presentasse per riconoscerlo, come non ne ebbe bisogno Scorpius – Gwyneth lo sentì chiaramente irrigidirsi al suo fianco.
Era una figura più esile rispetto a quella del professor Bulstrode, la sagoma slanciata di un ragazzo non più grande di loro, con capelli castani che ricadevano morbidamente sulla fronte a ombreggiare gli occhi chiari. La mascella squadrata si contrasse in un leggero spasmo, né il resto del volto rimase impassibile: anzi parve storcersi appena, mentre gli occhi si socchiudevano in uno sguardo rancoroso... Durò solo un istante: subito il giovane si ricompose in un'espressione neutra.
“... Anthony Menley, il mio assistente.” Concluse la voce del professor Bulstrode, che a Gwyneth parve come giungere da un altro mondo.
Gwyneth fissò Menley dritto negli occhi mentre gli stringeva la mano, e lui sostenne il suo sguardo, sorridendo appena. Era il fratellastro di Christine, e adesso che lo sapeva Gwyneth si chiedeva come avesse fatto prima, in tutti quegli anni a Hogwarts, a non ravvisarne le somiglianze nella forma del naso, la linea delle sopracciglia e degli occhi, l'attaccatura dei capelli... Persino quel sorriso somigliava a quello dell'amica, enigmatico e sottilmente inquietante.
Non si fidava di lui, sebbene anni prima fosse stato assolto da tutte le accuse fuorché quella di essere stato a conoscenza di parte del reato. La sorella Georgia, invece, era stata condannata a dieci anni per utilizzo di magia illegale, sequestro di persona, collaborazione ad attività criminali e ripetute aggressioni ad altri studenti: la pena era tuttavia stata ridotta a cinque anni per buona condotta e adesso era in libertà vigilata.
Georgia Menley... Per colpa sua Christine e Bernie erano quasi morti e Rose aveva rischiato di perdere irreversibilmente la memoria.
Gettò uno sguardo a Scorpius, che si stava sforzando di sorridere a Menley – anche se a Gwyneth non sfuggì la rigidezza del suo braccio mentre gli stringeva la mano. Immaginò che quello sforzo di risultare amichevole fosse dovuto ad una sottesa solidarietà: dopotutto Scorpius era nato in una famiglia di criminali ed ex-criminali, dunque sapeva bene come fosse vivere al vaglio dei pregiudizi altrui.
Fu la voce bassa e melodiosa di Louis a distoglierla dai propri pensieri.
“Vorremmo esaminare le riprese,” disse il Tenente. “Si potrebbe...”
Il signor Lumacorno si schiarì la voce. “Ah, ehm. Sì, naturalmente...” Estrasse di tasca la bacchetta magica, picchiettando ripetutamente sul più vicino degli schermi: l'immagine in bianco e nero iniziò a scorrere al contrario, mostrando gruppi di Auror fare avanti e indietro a tempo accelerato, simili ad un gruppo di gamberi che si muovevano a scatti. La ripresa si riavvolse finché la data e l'ora che capeggiavano in un angolo di ogni schermo non retrocessero fino alle 22:14 della sera precedente. Allora il signor Lumacorno le bloccò con un altro colpetto della bacchetta magica, e l'immagine tornò a scorrere normalmente.
Riprendevano da diverse angolazioni le varie aree del museo, immerse in un'immobilità quasi mortuaria, se non per il guardiano notturno che percorreva a passo calmo i corridoi, scomparendo e riapparendo da uno schermo all'altro come facevano i protagonisti dei ritratti tra le cornici.
Quasi involontariamente lo sguardo di Gwyneth finì per seguire i movimenti del guardiano da un'immagine all'altra. Lo vide percorrere gallerie di ritratti, stanze affollate di sculture. Lo vide scendere scale, superare porte e poi scendere ancora, fino al piano terra, in prossimità dell'uscita del museo, vicino al negozio e alla caffetteria.
Allora lentamente, con mosse quasi da sonnambulo, il guardiano notturno estrasse la bacchetta magica e iniziò a muoverla in cerchio in direzione della porta. Gwyneth vedeva le sue labbra muoversi nel pronunciare incantesimi che non poté udire, dal momento che il filmato era privo di audio.
Immaginò che stesse disinnescando incantesimi di protezione.
Lo vide poi armeggiare con il mazzo di chiavi che portava alla cintura e infine aprire la porta secondaria per poi farsi da parte e ricominciare a percorrere i corridoi... Tutto era immobile tranne il guardiano notturno, proprio come prima. Almeno finché alcuni quadri non iniziarono a scomparire di punto in bianco.
Uno, due, tre, quattro... Ne contò cinque in tutto.
Il guardiano notturno tornò al pianterreno e chiuse la porta, prima di ricominciare a camminare, lento come un Infero. Per qualche ragione, Gwyneth si sentì profondamente inquietata.
La sua mente iniziò a lavorare velocemente. Era proprio come aveva detto il Direttore Potter: il guardiano aveva aperto la porta e puff, i quadri erano scomparsi nel nulla. Come era potuto accadere? Forse un Evanesco particolarmente efficace? O forse i ladri si erano Smaterializzati assieme ai quadri, una volta abbassate le protezioni del Museo...
La voce di Louis giunse improvvisamente alle sue orecchie, distogliendola dai suoi pensieri per l'ennesima volta. “Chi è il guardiano?” chiese spiccio, la voce priva della solita inflessione flautata.
“Euan Abercrombie,” rispose il signor Smith in tono freddo.
“Lavorava qui da tanti anni,” intervenne Lumacorno, passandosi nuovamente il fazzolettino sulla fronte. “Non avremmo mai pensato...”
“Dove si trova adesso?” lo interruppe Scorpius.
Il direttore fece per rispondere, ma Holly Greengrass lo anticipò. “Lo abbiamo arrestato due ore fa, agente Malfoy,” li informò nel solito tono sbrigativo. “Vi aspettavamo per interrogarlo, ma siamo stati costretti a spedirlo al San Mungo perché ha avuto una specie di crisi isterica, è come impazzito. Non era nelle condizioni di darci una qualsivoglia informazione. Christakos e Zabini sono lì a tenerlo sott'occhio.”
“Sospettiamo che ci sia qualche incantesimo di mezzo,” aggiunse James.
Gwyneth assottiglio gli occhi. “Imperio?” domandò semplicemente.
Il Maggiore sospirò. “Non possiamo saperlo, Parkinson. Non ancora.”
 
*
 
17 settembre 2027
Sala Grande, Hogwarts (Scozia)
Ora di pranzo
 
 
Fred Weasley Jr si sentiva un figo.
Andiamo, non era da tutti raccogliere da solo l'eredità malandrina di plurime generazioni della sua famiglia, acquisita o meno. Certo, gli sarebbe piaciuto davvero condividere le sue bricconate con qualche altro membro del parentado, ma i suoi cugini avevano finito Hogwarts da un pezzo ed era rimasto solo lui, quindi aveva dovuto imparare a cavarsela con i propri mezzi.
Trovare qualche buon amico aveva aiutato, davvero, e Tessie Scamandro come diversivo funzionava incredibilmente bene da anni. L'ultima volta che Fred aveva organizzato uno scherzo grosso con i suoi compagni – verso la fine dell'anno precedente... torme di topolino da laboratorio mutanti liberati in tutta la scuola: Madama Chips aveva dovuto preparare litri di Bevanda della Pace per far calmare tutti – per non farli scoprire Tessie aveva usato il megafono magico di DJ Jordan e improvvisato una conferenza sui Thestral in Sala d'Ingresso con un bel po' di death metal in sottofondo.
Era stato epico.
"Se continui a gonfiare il petto così finirai per esplodere."
Improvvisamente la sua apoteosi enfatica di se stesso si sgonfiò come un palloncino bucato e Fred tornò alla realtà della Sala Grande e della sua confusione di chiacchiere e tintinnii di stoviglie.
"Ti odio, Winifred." Digrignò i denti.
La ragazza accanto a lui roteò gli occhi scuri e si sistemò dietro l'orecchio una ciocca dei capelli castani tagliati corti. "Quante volte ti ho detto..." cominciò, ma Fred non le permise di proseguire.
"Nessuno interrompe i miei sogni di gloria, Wins. Nessuno."
Compiacendosi per quella frase a effetto, tornò con soddisfazione a dedicarsi alla sua porzione di carne arrosto, mentre Winifred tagliava con coltello e forchetta le verdure grigliate che aveva nel piatto.
"Allora, Freddie?" disse dopo un po'. "Ormai la scuola è iniziata già da due settimane e ancora non avete combinato niente. La tua testa è tornata al suo posto in cima al collo?"
Fred sogghignò. "Neanche un po'."
"Sempre il solito," commentò lei, ma rideva.
"Andiamo, Winifred," intervenne una voce alle loro spalle. "Se non facessimo più scherzi inizieresti a trovarci terribilmente noiosi e non vorresti più essere nostra amica." Con una smorfia e un sorriso che gli scoprì i denti, Bastien Leclerc scavalcò la panca e si lasciò scivolare elegantemente accanto a Winifred, che gli scoccò uno sguardo a metà tra l'affettuoso e il rassegnato.
Fred l'osservò per un istante ma non si curò neanche di salutarlo, visto che dietro di lui era comparso Darren Jude Jordan.
"Ehi, DJ!" esclamò subito rivolto all'amico di sempre. "Com'era quella barba di Divinazione?"
Darren gli lanciò un'occhiataccia e si sedette accanto a lui, servendosi di polpette di manzo. "La solita noia, Freddie. La Cooman mi ha chiesto più o meno dieci volte perché non fossi a lezione." Serrò i denti, che spiccavano bianchissimi sulla pelle scura. I suoi occhi castani lo fulminarono. "Piantala di fare assenze senza avvisare. Potevo saltare anche io e mi sarei evitato l'interrogatorio."
Fred sospirò teatralmente. "Scusa, DJ. Non hai tutti i torti."
Darren parve soddisfatto – lui sapeva che a volte gli bastava sentirlo scusarsi – e si dedicò al proprio pranzo, mentre Fred lo osservava pensieroso, pensando a Divinazione.
La professoressa Cooman era ormai piuttosto avanti con gli anni, e già dal loro terzo anno cominciava a perdere colpi e ripeteva le stesse cose anche tre o quattro volte di fila. Gli sarebbe dispiaciuto per lei se la professoressa non si fosse convinta che lui fosse dotato dell'Occhio Interiore fin dalla primissima lezione – solo perché aveva fatto finta di avere una visione un filino troppo teatrale!
Ad ogni singola lezione lo costringeva a sedere accanto a lei per testare le sue capacità. E se all'inizio era stato anche divertente – specie perché Divinazione si era rivelata un Eccezionale garantito agli esami – adesso Fred aveva esaurito le sue scorte d'inventiva nel profetizzare eventi sempre più catastrofici.
Quindi aveva bigiato. E fatto arrabbiare Darren.
Ma sapeva che avrebbero fatto la pace presto. Di solito all'amico bastava che lui si scusasse.
Come gli capitava da un po' di tempo a quella parte, Fred dovette faticare per distogliere lo sguardo dal profilo di DJ, ma la cosa si stava facendo imbarazzante e perciò tornò a rivolgere la sua attenzione a Bastien e Winifred, che stavano parlottando di... di qualcosa.
Non riuscì a inserirsi nella loro conversazione, che evidentemente era giunta ad un punto assai avanzato.
Giunse a salvarlo una figura sottile e pallida, con una nuvola di vaporosi capelli biondo sporco.
"Buon pomeriggio," li salutò Tessie Scamandro con voce sognante, insinuandosi tra Fred e Darren. "Non esagerare con le polpette, DJ. Sono piene di Stereotipi."
Darren quasi si strozzò con il boccone. "Che cosa?!"
Tessie sbuffò e li guardò con aria di sufficienza. "Siete proprio ignoranti. Gli Stereotipi Altalenanti sono invisibili e hanno la forma di batuffoli. Si nascondono nel cibo e mangiandone troppi non si vede più a tre dimensioni ma solo a due."
"Caspita, Tessie," buttò lì Fred, gettando un braccio attorno alle spalle dell'amica, che si stava sporgendo verso una zuppa di patate e broccoli. "DJ, molla le polpette. Hai detto di voler fare i provini, no? E ci serve un nuovo Cacciatore. Un Cacciatore non può vedere solo a due dimensioni."
Darren gli gettò l'ennesima occhiataccia e continuò a mangiare, imperterrito, anche se Fred si accorse che stava contraendo la mascella nello sforzo di non sorridere.
... Stai iniziando a notare troppi dettagli, eh, Freddie?
La cosa non gli dispiaceva fino in fondo, doveva ammetterlo.
Improvvisamente Winifred tornò a rivolgersi a lui. "Allora? Perché ancora niente scherzi?"
Fred sorrise, pensando che una piccola anticipazione poteva pur dargliela. "Abbi pazienza, Wins." Ammiccò. "La settimana prossima ne vedrai di belle."
Dopotutto quello era il suo ultimo anno a Hogwarts. Doveva essere grandioso.
 
 
*
 
 
Londra, pomeriggio
 
La serratura scattò e la porta si aprì con un lungo scricchiolio sull'ingresso immerso nel buio.
La ragazza non cercò l'interruttore ma si mosse con cautela nella stanza, sfiorando con le dita il profilo dei mobili per orientarsi, le chiavi che ancora pendevano tintinnando dalla sua mano.
Si fece strada fino in soggiorno e lì finalmente accese la luce, rendendo visibile il proprio riflesso sullo specchio appeso dietro la poltrona, coperto in parte da una grossa pianta. Si studiò per alcuni istanti: i capelli rossi che aveva tagliato sopra le spalle pochi mesi prima già scivolavano disordinati a sfiorarle le scapole, scomparendo tra le pieghe della sciarpa di cotone.
Lily Luna Potter scambiò un sogghigno con se stessa prima di lasciar cadere a terra la borsa piena di libri e guardarsi attorno.
L'appartamento che Jake condivideva con Scorpius era sempre relativamente in disordine, proprio alla soglia del livello di caos sopportabile, ma non si muoveva da là. C'erano giacche, tazze e bicchieri ovunque, ma neanche l'ombra di calzini sporchi o avanzi di cibo, ringraziando Merlino. E soprattutto, c'era quiete: entrambi gli inquilini lavoravano per gran parte della giornata, il che lo rendeva un posto perfetto per studiare il sabato pomeriggio, quando la Biblioteca Magica Britannica era chiusa.
Lily si lasciò sfuggire un sospiro soddisfatto prima di togliersi sciarpa e giacca, recuperare la borsa dal pavimento e dirigersi in cucina, la stanza più luminosa della casa.
Intendiamoci, avrebbe potuto anche restare a Godric's Hollow a studiare nella sua vecchia camera. Solo che quel pomeriggio entrambi i suoi genitori erano a casa, quindi aveva pensato bene di togliersi dai piedi.
Finita Hogwarts, le era bastato pochissimo per rendersi conto che i suoi genitori si erano ormai abituati a vivere praticamente da soli, con l'esclusione dei mesi estivi. Dopotutto, sia Jamie che Al se n'erano andati di casa appena finita la scuola – il primo viveva a Londra con Grace e Clara e il secondo a Wimbourne con Quinn Baston, visto che erano entrambi titolari delle Vespe – e Lily aveva capito benissimo che i suoi, nonostante fossero felicissimi di averla lì con loro, avevano pur sempre bisogno dei propri spazi. Quindi sapeva bene quando scomparire per qualche ora, e aveva anche un posto perfetto dove rifugiarsi.
Le piaceva stare a casa di Jake, persino quando lui non c'era. Nonostante il disordine sostenuto e la pressoché totale mancanza di cibo cucinabile in frigo, si era affezionata all'appartamento. Amava il proprio ragazzo, aveva finito per voler bene a quel matto di Malfoy e le piaceva il posto in cui vivevano.
Entrata in cucina il suo sguardo cadde subito sul posacenere lasciato sul davanzale della finestra, con abbandonato vicino un pacchetto di sigarette. Strinse le labbra e li fece sparire entrambi in un cassetto con un colpo di bacchetta, resistendo alla tentazione di controllare se nella confezione fosse rimasta qualche cicca.
Sia lei che Jake avevano smesso di fumare da luglio, di comune accordo. Le sigarette erano di Scorpius, che da quando si era lasciato con Rose un paio d'anni prima aveva cominciato a fumare regolarmente. Non ammetteva di aver preso il vizio e sosteneva di poter smettere quando voleva, ma Lily non gli credeva affatto.
Malfoy era dipendente dal fumo e dal lavoro, e Rose...
Ma non era il momento di pensare a sua cugina. Era il momento di mettersi al lavoro.
Spedì il bollitore sul fornello con un colpo di bacchetta e tirò fuori dalla borsa un quaderno di appunti, l'astuccio e lo spesso manuale di Diritto Goblinese.
Forza, Lily, pensò. Mettiti sotto.
Tre ore e due pause dopo – i momenti in cui fumare le mancava di più erano proprio gli intermezzi di relax tra un round di studio e l'altro – un rumore improvviso la fece riscuotere da un complicatissimo passo sulle consuetudini di trasmissione patrimoniale dei Goblin.
La serratura era scattata e la porta si era aperta con uno scricchiolio. Lily si tirò più dritta sulla sedia: non poteva vedere chi fosse arrivato, ma in qualche modo sapeva che si trattava di Jake e non di Malfoy.
"Lily?" La voce del suo ragazzo provenne infatti dall'ingresso. "Sei tu?"
Doveva aver visto la luce accesa in cucina.
"Sono qui!" esclamò lei di rimando, mettendo una matita tra le pagine del libro per tenere il segno.
Pochi secondi più tardi Jake entrava in cucina con ancora la divisa da Guaritore addosso e l'aria stanca. Nonostante ciò, i suoi occhi chiari scintillarono nel posarsi su di lei, sotto i capelli scuri che piovevano ordinati sulla fronte, con l'eccezione di una ciocca spostata un po' di lato.
"Ehi..." Si chinò a baciarla appena e Lily gli allacciò le braccia al collo. "Come va lo studio?"
Lei scrollò le spalle. "Procede. Tu al lavoro?"
Jake roteò gli occhi e si sedette accanto a lei, Appellando una tazza per servirsi a propria volta un po' di tè. "Nulla di che. Solo una ragazza con un ritorno di fiamma mentre cercava di far fuori un ragno che l'aveva spaventata... Ah, e un tizio che chissà come è riuscito a farsi esplodere la bacchetta su per il-"
"Okay, okay," Lily lo fermò con un gesto. "Ho capito, non c'è bisogno che continui. Altro?"
"Ho dimesso Scorpius stamattina," fece Jake, e si scambiarono uno sguardo complice. "Già è tanto che sono riuscito a fargli passare la notte in ospedale."
Lily sospirò. "Sono pazzi. È così anche con mio papà: quando andava in missione più spesso finiva al San Mungo almeno una volta al mese. Sono proprio contenta che almeno Jamie sia un po' più responsabile e che Al abbia deciso di giocare a Quidditch invece di combattere maghi oscuri."
Jake ridacchiò e a Lily venne in mente una cosa.
"A proposito di Jamie," disse. "Mi ha scritto stamattina che sia lui che Grace sono in missione stanotte... Mi ha chiesto se posso stare con Clara."
James e Grace si erano fatti mettere in due squadre separate dal Dipartimento Auror per evitare il più possibile di finire in missione contemporaneamente, ma di tanto in tanto capitava. E Lily adorava la sua nipotina – che tra l'altro le assomigliava incredibilmente – quindi era ben felice di risolvere a simili incombenze.
Nonostante quella sera lei e Jake avessero un impegno con una persona molto speciale. Ma sapeva che lui avrebbe capito.
"Non preoccuparti," le disse infatti. "Possiamo andare a cena fuori domani sera."
"Infatti," annuì lei. "Salutami Christine!"
Jake assentì a propria volta per poi sorriderle furbo, con uno sguardo che Lily conosceva benissimo.
Il suo cuore palpitò più in fretta mentre lui si sporgeva verso di lei per coinvolgerla in un bacio appena accennato, ma comunque carico di aspettativa.
"Hai finito di studiare, per oggi?" soffiò Jake contro le sue labbra.
Lily pensò che lasciarsi sollevare di peso e portare in camera da letto fosse una risposta più che eloquente, quindi lo lasciò fare.

 
*
 
17 settembre 2027
Nocturn Alley, Londra
Sera
 
Sulle viuzze tortuose di Nocturn Alley pioveva appena: piccole gocce ticchettavano piano sulla pavimentazione di pietra sconnessa e sulla testa dei passanti discretamente numerosi, perlopiù abitanti del quartiere – sempre leggermente sospetti, col loro passo guardingo e l'aria losca, sebbene i tempi bui fossero ormai trascorsi.
C'erano anche alcuni ragazzi in giro a divertirsi, che si affrettavano in direzione dei due o tre locali aperti in quella zona che iniziava ad essere di moda proprio per la sua fama Oscura: adesso che il buio aveva smesso di far paura iniziava ad assumere un certo fascino da brividi per la gente, specialmente per coloro che erano nati dopo la guerra e quindi non l'avevano vissuta sulla propria pelle.
Uno di essi – un giovane non molto alto, un cappuccio sollevato a ripararlo dalla pioggia e il passo cauto, misurato – infilò un vicolo laterale, in direzione di un piccolo pub dall'aria leggermente trascurata, all'insegna del Cluricauno1 Ubriaco.
La porta del Cluricauno si aprì e si richiuse, facendo tintinnare i campanelli appesi sopra l'uscio. L'interno, a dispetto delle apparenze, era relativamente curato e abbastanza allegro e chiassoso da far sorvolare sullo scarso senso dell'igiene. Ciò nonostante il giovane ebbe un brivido: la sua tendenza germofobica era stata accentuata dall'avere a che fare tutto il giorno con l'ambiente totalmente asettico e disinfettato del San Mungo... Per contrasto lo sporco pareva più sporco.
Calò il cappuccio e srotolò dal collo la sciarpa che aveva indossato per proteggersi dai primi freddi; scansò dagli occhi una ciocca di capelli scuri e gocciolanti e si guardo attorno, alla ricerca di qualcuno in particolare.
Non impiegò molto tempo a trovarla, seduta presso un tavolo accostato alla parete. Una giovane donna dai capelli scuri e ricciuti sciolti sulle spalle e la carnagione olivastra, impegnata ad accarezzare appena con la punta delle dita il profilo del boccale che aveva di fronte. Aveva occhi neri che sollevò di scattò, come se avesse percepito la sua presenza: gli sorrise appena.
Christine De Bourgh non era tipa da passare inosservata.
Jake Greengrass sorrise a propria volta, di un sorriso simile ad un piccolo sogghigno d'intesa, prima di raggiungerla al tavolo. Lasciò cadere la sciarpa sullo schienale della sedia, si sfilò il cappotto e poi la guardò. “Ciao, Christine.”
“Ciao, Jake,” fece lei melodiosa. “Dove hai lasciato la piccola Potter?”
Jake sbuffò appena. “Alla fine è rimasta con Clara, sia Grace che James sono in missione stasera.”
“I vostri spavaldi eroi,” commentò Christine roteando gli occhi, senza nascondere il sarcasmo.
Decise di soprassedere sul fatto che avesse appena velatamente schernito i suoi futuri parenti. “Vado a prendermi una Burrobirra, d'accordo?”
Lei annuì appena e neanche due minuti più tardi Jake fu di nuovo di ritorno, con una Burrobirra fumante tra le mani; tornò a sedersi di fronte a lei.
“Allora?” le domandò, dopo aver sorbito una sorsata bollente. “Come vanno le cose?”
Christine scrollò le spalle mentre beveva un po' del suo Firewhiskey. “Vanno bene, come sempre. Gwyneth è sempre in missione e anche io lavoro molto, quindi praticamente parlo solo con Rose. Come puoi immaginare, ultimamente non ho avuto occasione di fare grandi conversazioni,” ironizzò.
Jake alzò gli occhi al cielo. “Immagino che il tuo ego ne stia risentendo molto.”
“Non ti affliggere, ci vuole ben altro per scalfirlo,” replicò lei in un'alzata di spalle.
Scoppiò a ridere. Erano passati quasi sei anni da quando lui e Christine avevano messo in piedi quella stramba amicizia tra di loro. Nel frattempo erano cambiate molte cose e altre dopo lunghi giri avevano finito per tornare come prima – come il fatto che Christine, Gwyneth e Rose Weasley fossero diventate coinquiline dopo svariate peripezie, tornando paradossalmente alla situazione del dormitorio femminile di Serpeverde – ma le dinamiche tra di loro non erano cambiate granché, fuorché che Christine aveva meno scheletri nell'armadio e questo, oltre che farla sembrare lievemente meno una pazza con manie di protagonismo, la rendeva molto più simpatica.
“E tu?” gli disse, scoccandogli uno sguardo. “Come va?”
Jake sorrise leggermente. “Direi che non va male... Ho dovuto di nuovo aggiustare Scorpius.”
“Che cosa gli è successo questa volta?”
Roteò gli occhi. “Ha pensato bene di abbracciare un edificio che stava per esplodere. Ustioni su tutto il corpo. E dopo neanche ventiquattr'ore è tornato al lavoro.” Sbuffò teatralmente. “Temo che lo abbiamo perso definitivamente, Christine.”
Lei fece una smorfia. “È impazzito, eh?” convenne, prima che il suo sguardo si facesse meditabondo e le sue dita tornassero a sfiorare il bordo del boccale. La sua espressione si fece di colpo distante, come se si fosse distratta.
Ma Jake la conosceva bene ed era consapevole che fosse tutta una farsa: sapeva cosa stava per accadere perché quel momento veniva a verificarsi ogni volta che si incontravano, lo sapeva perché per una cosa, una sola, Christine era diventata prevedibile.
Dunque come sempre attese alcuni istanti per permetterle di fingere che fosse una domanda posta così, tanto per fare, così da poter fingere di crederle e lasciare il suo orgoglio intatto.
“E Bernard?” lasciò cadere poi Christine in tono leggero, ma Jake sapeva che non vedeva l'ora di chiederglielo da quando l'aveva raggiunta al Cluricauno. “Come sta?”
Come sempre, ebbe un istante di esitazione prima di rispondere. “Sta bene,” mormorò, cauto.
Christine incurvò le labbra in un sorrisetto dei suoi. “Bene,” commentò. “Cosa dicevi del lavoro di Scorpius?” fece dopo una pausa, come se nulla fosse.
Jake sospirò interiormente di un sollievo vigliacco, prima di rispondere e riprendere a chiacchierare come se nulla fosse. Christine sorrideva e beveva il suo Firewhiskey e insieme si ritrovarono a ridere complici, a scambiarsi chiacchiere sul passato e sul presente, sempre punzecchiandosi appena, così come era sempre stato.
Erano passati sei anni, ma loro non erano cambiati poi così tanto.
 
 
1Cluricauno: personaggio del folklore irlandese. Sono dei folletti piuttosto brutti che vivono nelle cantine sotto i pub e detengono il segreto della creazione del whiskey.
 
 
 
Note dell’Autrice
 
Dopo questo capitolone interminabile (davvero, devo farvi i complimenti per essere arrivati fino alla fine e cercare di essere un po’ meno prolissa la prossima volta) vi ringrazio prima di tutto per le recensioni e per aver inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate.
Spero che vi sia piaciuto. Sono cosciente che da qui inizia ad essere forse difficile seguire certe dinamiche, per chi non ha letto Gossip Witch ma soprattutto Sulla tua pelle, ma sono disponibile per qualsiasi chiarimento!
Vi mando un bacio. Sarei molto contenta se mi lasciaste un parere sul capitolo.
Daph

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Capitolo 4
*** 3. Euan Abercrombie ***


 

CAPITOLO TERZO
Euan Abercrombie
 
 
 
19 settembre 2027
Nocturn Alley, Londra
 
 
 
Gentile professor Bulstrode,
siamo lieti di informarLa che la Sua proposta di un seminario di Arte Magica Rinascimentale presso la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts è stata accolta con entusiasmo dal neo-Preside Filius Vitious.
Pertanto La invitiamo a recarsi il prima possibile presso l’Istituto, dove è stato predisposto un alloggio per Lei. La Scuola di Magia e Stregoneria si dichiara lieta di ospitarLa e ansiosa del Suo arrivo.
Attendiamo una Sua risposta via gufo.
Cortesi Saluti
Hemerick Blade, Responsabile dell’Ufficio Relazioni con l’Esterno dell’Università Magica Britannica
PS: Da Hogwarts ci comunicano che saranno lieti di ospitare anche il Suo assistente, il signor Anthony Menley. Ancora cortesi saluti.
 
Tony abbandonò le spalle contro lo schienale della poltrona del salotto, socchiudendo gli occhi. La stanza era immersa nella penombra, gli spessi tendaggi accostati; i mobili antichi e imponenti erano tutti ammassati in uno spazio decisamente troppo angusto: grosse sagome dai molti spigoli che incombevano da ogni angolo.
Cinque anni prima, uscito dal maledetto orfanotrofio in cui l’avevano rinchiuso per due mesi dopo che la sua famiglia era stata condannata in blocco – quegli unici, patetici due mesi che lo separavano dalla maggiore età – si era ritrovato da solo, unico erede di tutti i loro averi. Che si erano notevolmente ridotti: tutti i beni immobili erano stati sequestrati e Tony era stato condotto in un deposito ministeriale per riprendersi pezzi di arredamento e qualche anticaglia. Li aveva visti lì, malamente imballati e ammucchiati l’uno sull’altro: il letto dei suoi genitori, il grosso baule che aveva contenuto i giochi della sua infanzia, i candelieri e le argenterie.
Aveva preso tutto quello che era riuscito a infilare nel piccolo appartamento che aveva trovato a Nocturn Alley. Aveva concluso gli studi a Hogwarts, si era iscritto all’università e da allora viveva lì.
“Brutte notizie?” parlò una voce melodiosa alle sue spalle.
Tony non si voltò. Le sue dita si strinsero spasmodicamente attorno ad un angolo della pergamena che gli aveva girato il professor Bulstrode, stropicciandone un angolo.
Facendosi strada quasi veleggiando tra i mobili affollati, sua sorella lo raggiunse e si acciambellò su di una poltrona gemella, foderata di velluto ricamato ad un motivo di foglie, con i piedi a zampa di leone. Gli gettò un lungo sguardo da sotto qualche ciuffo scuro e scompigliato, sorridendo vagamente con le labbra carnose, identiche alle sue. Tony la osservò di sottecchi: il suo sguardo cadde automaticamente sui suoi piedi nudi, la caviglia destra carica di uno spesso bracciale di cuoio rossastro, su cui erano incise delle rune e che mandava bagliori a intervalli regolari.
Lui sapeva che se Georgia avesse violato la libertà vigilata anche solo di un minuto la cavigliera avrebbe cominciato a brillare a intervalli sempre più vicini e che da qualche parte, all’ufficio Auror, sarebbe suonato un allarme: in men che non si dica un gruppo di agenti si sarebbe Smaterializzato dove si trovava lei e l’avrebbe circondata a bacchette puntate.
Le avevano anche messo addosso una Traccia: poteva usare la bacchetta solo per incantesimi di bassa e lieve potenza. Era pesante, ma almeno non erano più costretti a vivere circondati da Auror.
“Tony?”
Sollevò di nuovo lo sguardo sul suo viso: i suoi occhi lo guardavano fisso, indagatori, ma lei non disse altro.
Così fu costretto a schiarirsi la voce. “Che cosa c’è?”
Georgia sospirò leggermente. “Mi chiedo cosa ti turbi così tanto di quella lettera che hai appena letto.”
Senza una parola, Tony le porse la pergamena. Tornò a fissare il nulla di fronte a sé mentre lei la leggeva in silenzio… Pensava a Hogwarts, a come sarebbe stato tornarvi. Per sei anni era stato felice lì, finché non era iniziato quell’anno infernale in cui la gente si sforzava di essere gentile con lui, ma lui non era così stupido da non accorgersi che lo evitavano, che la sua presenza li metteva a disagio…
“Allora te ne vai.”
Quasi sobbalzò quando Georgia parlò. “Così pare,” disse cauto, studiando le sue reazioni: appariva impassibile. “In realtà penso sia per via della rapina al Museo,” gli scappò detto. “Sai, con i precedenti della nostra famiglia…”
Georgia inarcò le sopracciglia. “Pensi che ti credano coinvolto?” domandò flautata, ma a Tony non sfuggì lo scetticismo del suo tono di voce.
Scosse la testa. “Non credo, no, o mi avrebbero già interrogato ormai.” Sbuffò. “Penso che stiano cercando di allontanarmi dal fronte, non so se mi spiego.”
Non voleva guardare Georgia, quindi rivolse gli occhi al caminetto pieno di cenere e polvere, chiedendosi come sarebbe stato essere uno sbuffo di fumo che sbuca fuori dal comignolo e viene trascinato via dal vento: finalmente puro, finalmente libero…
Non voleva guardarla, no, perché sapeva cosa avrebbe letto nei suoi occhi scuri e brillanti: esasperazione, già, e qualcosa di simile ad uno sgradevole compatimento. Tutte cose che Tony non sopportava: lo facevano sentire umiliato e morire d’invidia, paradossalmente, nei confronti di sua sorella, che anche dopo un pubblico processo e cinque anni di carcere era più sicura di sé di quanto lui non fosse mai stato.
Sospirò brevemente.
Non era un idiota. Si rendeva perfettamente conto di quanto il suo atteggiamento, dall’esterno, potesse apparire quello di un ragazzino egocentrico con manie di persecuzione, di quanto le sue ipotesi fossero assolutamente improbabili, eppure… Eppure non riusciva a liberarsi della sensazione che davvero lui c’entrasse qualcosa con l’assegnazione di quel seminario al professor Bulstrode, che qualcuno ce l’avesse con lui, che fosse sospettato, ancora, chiacchierato… Era un tarlo di cui non riusciva a liberarsi.
Si sforzò di ricacciarlo in un angolo del cervello abbastanza recondito perché riuscisse a ignorarlo.
“Ma magari mi sbaglio,” buttò lì, mentre Georgia continuava a guardarlo in modo strano. “Il professor Bulstrode mi ha detto che partiremo già domani mattina.”
Lei annuì. “Mi lasci sola, quindi…”
“Fai la brava,” scherzò lui infelicemente, ma Georgia emise lo stesso una risatina tetra. “Davvero, mi spiace di lasciarti sola. Spero che non sia per molto…”
Lei si sporse verso di lui, gli scostò una ciocca di capelli dalla fronte con le dita tiepide. “Me la caverò, non preoccuparti.” Tornò a scostarsi, a mettersi comoda contro lo schienale della poltrona. “Non dovresti fare i bagagli?”
Tony annuì, passandosi nervosamente una mano sulla nuca mentre si alzava e si avviava verso la propria stanza, pronto a riadoperare il suo vecchio baule per tornare alla sua vecchia scuola.
Chissà perché, il grumo d’ansia nel suo stomaco parve annodarsi più strettamente.
 
*
 
19 settembre 2027
Hogwarts, Scozia
Mattina
 
Il lunedì mattina il cielo era annuvolato solo appena, ma prometteva di schiarirsi in quella che probabilmente sarebbe stata l’ultima giornata di bel tempo della stagione.
Sulla sommità di un crinale erboso una figura si ergeva solitaria: Fred Weasley stirò le braccia verso l’alto nella pallida luce del mattino, respirando a pieni polmoni l’aria fresca e umida. La giornata era cominciata nel miglior modo possibile – e non era solo la sua indole da inguaribile ottimista a farglielo dire, nossignore: il clima era perfetto per volare e per giunta aveva due ore libere fino alle undici…
Così si avviò di buon passo alla volta del campo da Quidditch, scopa in spalla e un gran sorriso sulle labbra. Louie Anderson, un ragazzino del Terzo Anno che voleva tentare l’ammissione alla squadra come Portiere, aveva promesso di allenarsi con lui quella mattina, in vista delle selezioni, ma alla fine aveva dato forfait per un test di Trasfigurazione. Fred aveva fatto spallucce e pensato che questo di certo non gli avrebbe impedito di volare.
Aveva provato a coinvolgere Darren in quella prova mattutina – dopotutto anche lui avrebbe partecipato alle selezioni per la squadra, quel sabato – ma l’amico aveva declinato dicendo di avere Aritmanzia.
Fred proprio non lo capiva, questo bisogno di frequentare tutte le lezioni.
E poi gli sarebbe piaciuto passare quelle due ore con Darren, specialmente perché l’aveva visto volare solo raramente e desiderava che si allenasse prima di tentare la prova del sabato. Perché Fred voleva che Darren fosse in squadra con lui: ci sperava da quando avevano dodici anni e ogni maledettissimo anno provava e riprovava a insistere, ma l’altro era sempre stato irremovibile.
Almeno fino a poche settimane prima. “Non mi perdonerai mai se non proverò neanche quest’anno, vero, Freddie?” gli aveva detto l’amico in una sera di agosto, sorridendo appena, i denti bianchissimi che spiccavano sulla pelle scura.
Fred, che avrebbe perdonato a Darren qualunque cosa, davvero qualunque, aveva colto la palla al balzo. “Diciamo che ci resterei molto ma molto male,” aveva borbottato, mettendo su un’aria triste e derelitta.
E così l’aveva convinto.
Prese a fischiettare allegramente mentre scendeva l’ultimo crinale che l’avrebbe condotto al campo da Quidditch. Il sole aveva finalmente fatto capolino tra le nuvole e come previsto la luminosità era trionfante e faceva brillare il prato di rugiada a seconda di come lo inclinava il vento.
Tuttavia facendo ingresso in campo Fred si accorse subito che qualcosa non andava. La prima cosa strana furono le voci che raggiunsero le sue orecchie: grida indistinte, in lontananza, mangiate dal vento. Non capiva cosa dicessero ma andavano e venivano, come se i proprietari di quelle voci stessero…
Stavano volando. Li vide non appena fu entrato nell’ovale erboso del campo ed ebbe guardato in alto, attratto dal rumore: l’intera squadra di Quidditch di Serpeverde sfrecciava a mezz’aria a gran velocità, lanciandosi rapidamente la Pluffa mentre i bolidi scattavano da una parte all’altra cercando di disarcionare i giocatori, tenuti a bada da Norman e Nolan Gamp, i Battitori.
Fred rimase a bocca aperta: era chiaro che i Serpeverde si allenassero già da un po’. Erano in splendida forma e lui non ricordava di averli mai visti tanto agguerriti.
Si accorse troppo tardi di una piccola figura smeraldina che scendeva in picchiata dritta verso di lui, gli abiti al vento e la mano tesa a pochi centimetri da una minuscola pallina dorata…
Candida Flint prese il Boccino e lo travolse in pieno.
Più tardi, Fred avrebbe dichiarato di non essere del tutto certo di quanto fosse accaduto dopo. L’impatto a quella velocità l’aveva stordito: ricordava solo un groviglio confuso di braccia e gambe, diversi colpi piuttosto dolorosi e la propria voce che gridava.
Poi qualcosa gli si era incuneato nel fianco, provocandogli una dolorosa fitta: era il gomito della Flint, che riuscì a liberarsi, il Boccino ancora stretto in mano, e si allontanò da lui.
Weasley!” sibilò, e lui rabbrividì.
Candida Flint – minuta, pallida, con lunghi capelli rossi e un viso da bambola – aveva assottigliato gli occhi in due fessure e gli stava lanciando uno sguardo che avrebbe trasformato chiunque in una statua di ghiaccio. Era il Capitano di Serpeverde e riusciva ad essere spaventosa anche così, semidistesa al suolo e completamente ricoperta di terriccio ed erba.
Tu,” proseguì Candida, “essere spregevole!”
“Buona!” fece Fred in tono allarmato, andando subito sulla difensiva. “Stai buona! Sei stata tu a volarmi addosso!”
Nel frattempo il resto della squadra era atterrato e stava scendendo dalle scope, avvicinandosi per vedere che cosa stesse accadendo.
Fred si alzò reggendosi alla scopa e offrì una mano a Candida, che gli rivolse lo sguardo disgustato che avrebbe potuto dedicare a un Vermicolo e si tirò in piedi senza accettare il suo aiuto. “Stavo inseguendo il Boccino, razza di mentecatto. Avresti dovuto spostarti.”
“Non ti ho vista arrivare!” tentò di difendersi Fred.
La ragazza inarcò brevemente le sopracciglia, mentre il suo labbro superiore si arricciava in un’espressione sprezzante. “Mi chiedo come tu faccia a giocare a Quidditch, visto che i tuoi riflessi fanno pena.”
Fred si passò una mano tra i capelli scuri, che scoprì pieni di fango e terriccio, osservando cauto gli altri membri della squadra di Serpeverde, che avevano formato un piccolo semicerchio attorno a loro e lo scrutavano torvi. Si schiarì la voce, a disagio, mentre istintivamente faceva mente locale su dove diamine avesse messo la bacchetta.
Io li odio, i Serpeverde…
Li guardò uno per uno e si accorse che erano solo in sei… Mancava un Cacciatore. “Vi stavate allenando?” domandò brusco. “Prima delle selezioni?”
Candida, che stava raddrizzando la fascia argentata da Capitano che aveva sul braccio, sorrise leziosa e agghiacciante al tempo stesso. “Naturalmente,” replicò cristallina, come se stesse sottolineando l’ovvio. “Siamo una squadra forte ed è assai probabile che tutti i giocatori già presenti saranno confermati in squadra. Perché perdere due settimane di vantaggio sul resto della scuola solo perché abbiamo un Cacciatore in meno?”
Non aveva tutti i torti… Fred la detestò: fin dalla prima volta in cui si erano scontrati in campo, Candida aveva sempre avuto questa capacità di farlo sentire un vero stupido.
“E tu cosa ci fai qui, Weasley?” intervenne Norman Gamp, il robusto battitore del Sesto Anno.
“Cercavi di ricordarti come si sale su un manico di scopa?” rincarò Nolan, che invece era del Quarto e prometteva di diventare anche più grosso del fratello maggiore.
Marcel Buckley, il Portiere, ridacchiò. Al suo fianco, Stanley Warrington assisteva alla scena con aria annoiata, i capelli castani scompigliati dal vento e il viso pallido appena arrossato dall’aria fredda.
Candida Flint sbuffò leggermente. “Già, Weasley. Perché sei venuto a disturbare il nostro allenamento?” disse aggressiva.
Fred non si lasciò intimidire. “Volevo allenarmi anche io. Per questo sono–”
“Allenarti? Senza la tua squadra? Senza il tuo capitano?”
“Che cosa sta succedendo qui?” si intromise improvvisamente una voce familiare. Fred si voltò di scatto nella direzione da cui era provenuta e i suoi occhi incontrarono la sagoma slanciata di Bastien, che sorrideva sfacciato con il solito ciuffo di capelli a piovergli in mezzo al viso, il distintivo da Capitano dei Grifondoro a brillargli sul petto.
“È arrivata la cavalleria,” il borbottio sarcastico di uno dei fratelli Gamp raggiunse le sue orecchie.
Candida, nel frattempo, sorrideva deliziata. “Leclerc, quale gioia.”
“Il piacere è tutto mio, Flint.” Bastien ammiccò sornione. “Che cosa sta succedendo?” ripeté, rivolgendo a Fred uno sguardo d’intesa. Lui ricambiò con uno sguardo esasperato.
“Sono venuto ad allenarmi ma ho trovato loro.” Rispose seccamente. “Flint mi è finita addosso con la scopa e ha pensato bene di prendersela al posto mio.”
Bastien sbuffò. “Che pensiero gentile, Candida.” Sollevò lo sguardo verso di lei, che gli lanciò uno sguardo gelido da sotto le sopracciglia leggermente sollevate. “Vi stavate allenando voi serpi?”
La ragazza improvvisamente sorrise. “Proprio così,” modulò angelica. “E a giudicare dall’espressione stupefatta di questo idiota, direi che abbiamo buone probabilità di vittoria.”
“Ehi–” cominciò Fred, sentendosi dare dell’idiota, ma si azzittì quando vide l’altro scrollare le spalle e stamparsi in faccia un sorriso smagliante. Bastien era davvero bello, specie quando sorrideva così, la testa sollevata e lo sguardo fiero negli occhi assottigliati, ma Fred non ebbe difficoltà a riconoscere qualcosa di strano nel suo sorriso.
“Questo è tutto da vedere, Flint,” disse in tono leggermente forzato. “Chi ti dice che anche noi non abbiamo un asso nella manica?” Ammiccò nuovamente alla volta della Serpeverde, per poi rivolgersi a Fred. “Andiamo?”
Assieme si avviarono su per le colline che conducevano al castello, ignorando le voci dei Gamp che gridavano: “Battete in ritirata, eh?!”
Una volta che furono fuori dalla portata di occhi e orecchie dei Serpeverde, l’espressione sorridente e impavida di Bastien sembrò appassire e ripiegarsi su se stessa per un attimo, salvo poi ricomporsi in un’aria concentrata e aggressiva, come quella di una belva che si prepara ad attaccare. I suoi pugni si strinsero mentre restava un attimo in silenzio, la bocca socchiusa e lo sguardo fisso da qualche parte; si lasciò sfuggire un lieve sbuffo dal naso nello sciogliere i pugni, per poi dire: “D’accordo, Fred. Dobbiamo fare qualcosa per la squadra. Dobbiamo assolutamente fare qualcosa.”
“Sei tu il capitano,” obiettò lui. “Tu ordini. Noi ci alleniamo. È così che funziona.”
“Freddie…” Bastien si fermò improvvisamente a metà di una collina. Chiuse gli occhi per un attimo, poi sollevò di scatto la testa con un largo sorriso di nuovo impresso sulle labbra. “Ce la faremo, lo so. Adesso vado a prenotare il campo per più giorni possibile e inizieremo un nuovo regime di allenamento. E dobbiamo trovare dei buoni elementi per completare la squadra.”
Fred penso a Darren e sperò. Sperò con tutte le sue forze. “Aye, Capitano!” si portò la mano alla fronte nella perfetta imitazione di un saluto militare.
Bastien scoppiò a ridere, posandogli una mano sulla spalla e scuotendo la testa, prima di avviarsi di nuovo alla volta del castello. Fred lo seguì.
 
*
 
Ancora 19 settembre
… e ancora Hogwarts, Scozia. Biblioteca
 
 
 “Tutti i giorni!” sbottò Bastien, dando un robusto pugno contro il piano del tavolo, facendo volare pergamene ovunque.
Nel corridoio della biblioteca parecchie teste si voltarono verso di loro. Viola Tremlett sospirò appena, prima di posare la penna d’oca accanto al lungo e difficile tema di Aritmanzia che stava finendo di scrivere, sollevare lo sguardo e iniziare a raccattare le pergamene che l’altro le aveva fatto spargere su tutto il tavolo.
“Di cosa stai parlando, Bastien?” sussurrò nel silenzio della sala.
Le nocche del ragazzo sbiancarono, serrate attorno al bordo del tavolo. Viola era sempre più perplessa: conosceva Bastien da sette anni e non l’aveva mai visto così fuori di sé; di solito erano Fred e Laurie quelli che perdevano la testa e si mettevano a fare a pugni con i Serpeverde…
La testa di Bastien era china, i capelli discesi a coprire la fronte e gli occhi. “Candida Flint,” disse semplicemente, in un mugugno.
“Ah, già,” replicò Viola in tono inespressivo. “Che cosa ha combinato questa volta?”
Scaramucce con i Serpeverde erano all’ordine del giorno, tra quelli del loro anno. Non avrebbe saputo dire come mai, dato che il resto degli studenti di Grifondoro convivevano pacificamente con quelli che erano i loro storici avversari, salvo che per una sottesa, sottile rivalità che emergeva quasi essenzialmente sul campo da Quidditch. Tuttavia, per quanto riguardava loro, le cose erano diverse fin dal primo anno, da quando quell’imbecille razzista di Bernice Hessler aveva iniziato le prime scaramucce con Winifred, e Lizzie Dursley aveva deciso di non essere amica di Fred.
Da quando poi, da un paio d’anni a quella parte, Bastien e la Flint erano diventati capitani delle squadre di Quidditch delle rispettive case, le cose avevano potuto solo peggiorare.
Bastien era quello che perdeva meno facilmente la calma, tra i loro compagni di classe – esclusa Tessie che viveva fuori dal mondo e Viola stessa, abbastanza disciplinata da saper esercitare su se stessa un forte autocontrollo – eppure quando si trattava di Quidditch, quando si trattava della Flint, tendeva a innervosirsi parecchio.
In quel caso, tuttavia, doveva trattarsi di una cosa grossa, e non delle solite scaramucce con Candida per cui Bastien correva subito da Viola a leccarsi le ferite, dal momento che la ragazza non lo aveva mai visto in quelle condizioni.
“Ha prenotato il campo da Quidditch!” fece infatti Bastien digrignando i denti e faticando a controllare il proprio tono di voce. “Per tutti i giorni di questa settimana! Mattina e sera!”
“Mattina e sera?” replicò Viola automaticamente. “Probabilmente la sua squadra l’accopperà prima di sabato e avremo un problema in meno.” Al di là degli scherzi, non poteva negare che la cosa la preoccupasse non poco. Dopotutto faceva anche lei parte della squadra e ne aveva a cuore le sorti…
“E non è finita qui.” Da Bastien, che aveva nascosto la faccia tra le mani per lo sconforto, giunse un mugugno soffocato. “Fred li ha visti volare e ha detto che hanno messo su una squadra fortissima, quest’anno.”
Viola aggrottò le sopracciglia e gli assestò una lieve pacca sulla spalla. “Suvvia Bastien,” disse cauta. “Anche noi siamo una squadra niente male.”
Bastien alzò la testa improvvisamente, puntando su di lei gli occhi chiari, dalla forma allungata. Il cervello di Viola registrò il proprio stomaco fare una capriola. “Abbiamo una formazione solo a metà, Vi. E se non riuscissimo a trovare nuovi giocatori in grado di tenere testa ai Serpeverde? O ai Corvonero? Da quel che so Omega è parecchio agguerrito quest’anno.”
Viola sbuffò. “Adesso basta,” mormorò perentoria. “Tu sei un bravo Cercatore e noi Cacciatori siamo ben affiatati. Del resto della squadra ci preoccuperemo quando saremo al completo… È inutile abbattersi prima del tempo. Sabato ci sono i provini… E se ci saranno problemi li affronteremo. Senza disperarci.” Strinse le labbra. “E piantala di farti spaventare dalla Flint, d’accordo?” aggiunse, cercando di non far trapelare il fastidio dal suo tono di voce. “Non capisco come mai vi faccia diventare tutti dei rammolliti.”
Bastien fece spallucce e la guardò chinando la testa, di sotto in su. “È semplice, Vi. Quella ti guarda come un Basilisco. Come se potesse farti fuori da un momento all’altro.” Fece una breve pausa, fissando il nulla. “Un po’ come la Dursley, solo più carina.”
Viola si sforzò di ignorare l’ultimo commento e per un po’ calò il silenzio, rotto solamente dal fruscio di pagine e dal saltuario raschiare delle penne d’oca su qualche pergamena. Ozzie Omega Ramkin, il capitano dei Corvonero, qualche metro più in là, era chino su un compito, le sopracciglia corrugate in un’espressione concentrata, come estraniato da tutto ciò che lo circondava.
Parlando di cose che non riguardassero strettamente il Quidditch, Bastien sembrava essersi rilassato: aveva incrociato le braccia dietro la testa e sorrideva pigramente, osservando Viola di sottecchi. “Ehi, Vi,” disse dopo un po’. “Sai cosa mi ha detto Laurie qualche giorno fa?”
Lei scosse la testa.
Il ragazzo sogghignò: “Mi ha detto,” proseguì guardandola fisso, “che sabato, per far alzare dal letto la squadra, la Flint ha scagliato una fattura urticante sui loro letti.”
“Ah, sì?” replicò Viola in tono piatto, sollevando la pergamena su cui aveva quasi finito di scrivere il suo tema. Bastien allungò il braccio e abbassò il rotolo che lei stringeva tra le mani, per continuare a guardarla in faccia.
“C’è dell’altro,” fece il ragazzo abbassando la voce di un tono, in un mormorio divertito. “A quanto pare ha affatturato anche il letto di Harvey Higgs.”
“Higgs?” ripeté Viola, dimentica del tema. “Ma lui non fa parte della squadra.”
“Sì, lo so,” Bastien fece spallucce. “Immagino che non abbia resistito all’idea di vedere Higgs correre per tutti i sotterranei con il fondoschiena che andava a fuoco.”
Viola lo guardò. “Beh, le probabilità che i Serpeverde ammazzino Candida prima di sabato stanno salendo, allora,” commentò, e Bastien scoppiò a ridere, tirandosi finalmente indietro i capelli che gli coprivano la faccia e attirandosi sguardi infastiditi da mezza Biblioteca.
“Max e Freddie volevano scriverci una canzone,” disse una volta che si fu calmato. “Il didietro ardente o qualcosa del genere…”
“Pensateci su,” fece Viola, roteando gli occhi. “Ora vuoi lasciarmi studiare oppure no?”
 
*
 
Ospedale San Mungo per Malattie e Ferite Magiche
Pomeriggio
 
La stanzetta riservata del San Mungo aveva un’aria impersonale, asettica, ed era al tempo stesso curiosamente tiepida, per mantenere la temperatura ideale per il paziente.
Gli Auror entrarono uno dopo l’altro, in silenzio, seguendo il Medimago di mezz’età che li condusse nel piccolo ambiente e poi si defilò discretamente, chiudendosi la porta alle spalle con un lieve tonfo.
Scorpius sollevò gli occhi, che fino a quel momento aveva tenuto dritti davanti a sé, e osservò l’ambiente, registrando il contenuto e la conformazione della stanza. Era piccola, rettangolare, con il soffitto alto e le solite sfere luminescenti che fluttuavano a ridosso delle pareti; c’erano due armadietti e al centro un lettino dalle tendine verdi tirate, al fianco del quale sostava un carrello carico di flaconi. Accanto attendevano due figure in piedi: una donna minuta, dalla pelle scura e capelli ricci che sfuggivano ai fermagli dietro la testa, vestita del camice verde da Psicomaga e un giovane dall’aria vigile, con un viso dai tratti regolari e morbidi riccioli scuri sulla fronte.
… Ber?
I loro occhi si incrociarono e Bernie sorrise quasi impercettibilmente, chinando leggermente la testa in segno di saluto verso Scorpius e Gwyneth.
Subito dopo, la sua espressione tornò a farsi grave. Dopotutto, erano lì per una faccenda seria.
“Sono il Tenente Weasley,” si presentò Louis in tono formale, facendosi avanti in direzione della Psicomaga. “E loro sono l’agente Parkinson e l’agente Malfoy,” proseguì, indicando Gwyneth e poi lui.
La donna gli strinse la mano in una presa dall’aria salda. “Hannah Roberts,” si presentò. “Vi presento lo Psicomago Boot, il mio tirocinante. Sarà lui ad assistervi mentre vi occupate del signor Abercrombie.” A Scorpius parve di percepire una certa vena di rimprovero frammisto ad avvertimento nel suo tono di voce, come se la Psicomaga Roberts temesse che quei brutti e cattivi Auror potessero far del male al suo paziente e avesse quindi lasciato Bernie a fare la guardia. “Non siate troppo… duri, con lui,” aggiunse infatti la Roberts prima di uscire dalla stanza. “Ha subito un grave shock ed è in uno stato di forte instabilità. È fragile, fragile come un ramoscello…” pronunciò le ultime parole quasi tra sé e sé, pensierosa, mentre la porta si chiudeva alle sue spalle.
Non appena fu uscita, l’atmosfera si fece più rilassata. Si scambiarono sguardi d’intesa con Bernie, che sorrise loro mestamente prima di agitare la bacchetta per Evocare tre sobrie sedie di legno chiaro, senza cuscini ma dall’aria confortevole.
Proprio nel suo stile.
I tre Auror si accomodarono, mentre Bernie rimase in piedi accanto al lettino, posando lievemente una mano sulla tendina verde con fare protettivo.
“Siete pronti?” disse, parlando per la prima volta da quando erano entrati in quella stanza, con voce sommessa e seria.
Louis diede in un cenno d’assenso e allora Bernie aprì le tende.
Sulle prime, Scorpius ebbe qualche difficoltà nell’accomunare il paziente smagrito che aveva di fronte con il guardiano notturno, l’uomo longilineo dall’aria dignitosa che aveva potuto osservare nei video delle Magicamere di sicurezza mentre percorreva i corridoi del Museo con fare da sonnambulo.
Davanti a sé vedeva un essere in sofferenza. Non aveva avuto torto la Roberts nel definirlo fragile, perché quella era proprio la prima sensazione che trasmetteva: l’immagine di un’anima in tormento, come un filo teso allo spasimo, sempre più sottile, sempre più vicino a spezzarsi… Sedeva tutto rannicchiato, tutto ingobbito, la testa incassata nelle spalle, dita lunghe e magre che serravano convulsamente il bordo delle lenzuola; i suoi occhi vagavano scattanti da una parte all’altra: guardinghi, spaventati, atterriti.
Scorpius deglutì: sentì il cuore sprofondare e la testa girargli, perché Euan Abercrombie – o quel che restava di lui – gli aveva ricordato un altro uomo, in un altro luogo. Nella mente rivide la sagoma scheletrica di Otto Murray pararglisi di fronte, avanzare verso di lui, pronunciare le sue ultime, spezzate parole prima che la vita abbandonasse per sempre i suoi occhi…
“Non è stato lui.”
Dovette vedere i volti degli altri tre puntati su di sé con aria vagamente perplessa prima di realizzare di aver dato voce tra i denti al proprio pensiero. Bernie lo fissava in volto con il suo solito sguardo fermo, limpido e imperscrutabile; Gwyneth lo stava osservando con occhi assottigliati.
Louis semplicemente lo guardò. “Spiegati,” lo esortò placidamente, ma con aria concentrata.
Scorpius si schiarì la voce. “È troppo stupida come cosa, no?” borbottò automaticamente. “Se davvero era un complice del ladro allora perché se n’è rimasto buono al Museo invece di scappare? Perché si è fatto arrestare?” le parole gli uscivano spontanee come le rimuginava dal giorno precedente. “Dev’essere stato stregato. Avete visto anche voi le riprese, ieri… Non era normale. Camminava in modo strano. E guardatelo…” Nel frattempo Abercrombie, che probabilmente aveva intuito che si stesse parlando di lui, aveva rifugiato la testa tra le braccia, rannicchiandosi il più possibile nell’angolo del letto più lontano da loro. “Non è solamente sotto shock. Si vede benissimo che c’è un incantesimo di mezzo.”
L’espressione di Gwyneth non cambiò affatto, ma Scorpius avrebbe giurato che fosse d’accordo con lui.
“Non fa una piega,” convenne Louis secco. “E sono d’accordo con te. Ma dobbiamo interrogarlo lo stesso… Se c’è qualcuno che può darci qualche informazione su chi sia il ladro, quello è lui.” Si rivolse a Bernie. “Possiamo parlargli?”
Lo Psicomago annuì. “Aspettate solo un attimo.” Si voltò verso il paziente. “Signor Abercrombie,” disse con voce calma, rispettosa e rassicurante. “Signor Abercrombie, ci sono delle persone che vorrebbero parlare con lei.”
“Sono degli Auror…” Un mormorio esile giunse dall’angolo in cui l’uomo si era rifugiato.
“Proprio così,” convenne Bernie, sempre in tono molto calmo. “Ti vogliono parlare perché hanno bisogno di capire chi sia stato a farti del male.”
“Vogliono arrestarmi?”
Bernie poggiò un mano sul materasso. “Non vogliono arrestarti,” disse. “Vogliono solo aiutarti. Ma anche loro hanno bisogno del tuo aiuto.”
Ci fu qualche istante di silenzio. Poi, lentamente, Abercrombie sollevò la testa che teneva nascosta tra le braccia. “Va bene,” mormorò, senza guardarli.
 
*
 
19 settembre 2027
Londra
Più tardi
 
“Alice?” chiamò Bernie, chiudendosi alle spalle la porta dell’appartamento. “Sei in casa?”
“Sono qui!” rispose una voce, proveniente da qualche parte in fondo al corridoio.
Lui sospirò leggermente e si tolse il cappotto per appenderlo all’attaccapanni, lasciò la borsa da Guaritore nell’ingresso e si sfilò le scarpe.
Allora si rassestò i riccioli scuri sulla fronte e si incamminò lungo il corridoio dalle pareti chiare, in calzini contro la moquette. Voltò alla prima porta a destra, in una stanza piccola che tuttavia ospitava una grande scrivania, ingombra di fogli e libri tutti ammucchiati. Davanti ad essa c’era Alice, appollaiata sulla sedia girevole, con addosso dei lifting o come si chiamavano – quei pantaloni Babbani estremamente attillati, simili a calze, che Bernie trovava estremamente sexy – e qualcosa di simile a tre maglioni uno sopra l’altro.
In effetti nell’appartamento faceva piuttosto freddo. “Perché non hai acceso il riscaldamento?” chiese Bernie divertito, rabbrividendo.
Alice sollevò la testa dal foglio su cui stava scrivendo degli appunti e gli rivolse un sorriso luminoso. Aveva i capelli biondi raccolti in cima alla testa e gli occhiali da lettura indosso. Se li sfilò mentre rispondeva in tono allegro: “Non volevo interrompere il lavoro, quindi ho Appellato un maglione.”
“E poi un altro e un altro ancora?” rise Bernie, provando un improvviso moto di tenerezza nei suoi confronti.
Alice era adorabile e buffa. Ed era bella, ma in un modo che si notava solo alla seconda occhiata, quando lo sguardo si soffermava sulla vivacità dei suoi occhi e la bellezza del suo sorriso. La vide scrollare le spalle. “Avevo freddo,” replicò, come se questo spiegasse tutto. “Invece adesso ho fame,” aggiunse. “E tu?”
Bernie sorrise ancora.  “Andiamo a preparare la cena?” le propose.
Alice saltò giù dalla sedia con aria soddisfatta e insieme si avviarono in cucina, dove Bernie accese il riscaldamento e lei piroettò verso i fornelli appellando qualche pentola, del pollo e delle verdure, che si misero a tagliare insieme, seduti al tavolo, alla Babbana. Era come una specie di rituale.
“Allora, com’è andata oggi?” domandò Alice dopo un po’, sfilandosi un primo maglione visto che la stanza stava cominciando a scaldarsi.
“Stressante,” rispose Bernie. “E a te? La tua ricerca?”
Lei si mordicchiò il labbro. “Non c’è male. Mi sto impegnando e spero che i risultati si vedranno,” disse con la solita modestia da Tassorosso. Bernie sapeva benissimo che i risultati si sarebbero visti eccome, visto che Alice era veramente brava. “E quel paziente che mi dicevi ieri?”
Bernie aggrottò le sopracciglia. “Il signor Abercrombie, dici?” sospirò. “Oggi sono venuti a interrogarlo, sai.”
Alice socchiuse gli occhi e inclinò appena la testa, osservandolo. “Gli Auror?”
“La squadra di Scorpius e Gwyneth,” confermò, osservando la ragazza sfilarsi anche il secondo maglione e spedirli entrambi in direzione della camera da letto con un colpo di bacchetta.
Per qualche istante ci fu silenzio: si udiva solo il suono dei coltelli che battevano sui taglieri.
“E com’è andata?” lo esortò a continuare Alice.
Bernie poggiò il coltello sul tavolo e abbandonò la testa sulla mano. “In realtà non male. Hanno riconosciuto che è assai improbabile che abbia agito di sua spontanea volontà.”
Lei sollevò le sopracciglia. “Ma… ?”
“Ma non hanno abbastanza materiale per scagionarlo, dal momento che non ha fornito informazioni sull’incantesimo subito… Ne ha ammesso di averne subito uno,” sbuffò. “Quindi dovrà andare sotto processo.”
Alice parve indignata. “Nelle sue condizioni? Come possono pensare di fargli una cosa del genere?!” Con gesti stizziti, si alzò e con la bacchetta spedi i pezzi di pollo e di verdure dritti nelle pentole. Quelli atterrarono violentemente, con un certo fracasso.
Bernie scrollò le spalle. “Non dipende da loro, purtroppo.” Sollevò gli occhi, incontrando quelli di Alice, così carichi di bontà. “Dovrò affiancare nel processo il MagiAvvocato che si occuperà della difesa,” aggiunse in un mormorio.
La ragazza gli gettò uno sguardo consapevole. Non era la prima volta che Bernie doveva testimoniare in un processo, e l’ultima era ancora impressa a fuoco nella sua mente, così gravida di incubi, di paura e tensione…
Non sarà come l’altra volta, si disse. Non lo sarà.
 
*
 
20 settembre 2027
King’s Cross, Londra
Quasi le undici
 
Hugo Weasley si lasciò sfuggire un sospiro tra i denti prima di chinare appena il capo e incamminarsi risoluto verso la barriera tra i binari nove e dieci.
Fu un istante: la oltrepassò e si ritrovò sulla banchina fumosa, stranamente silenziosa, con la rossa locomotiva sbuffante ad attenderlo. Hugo si incamminò un po’ a caso lungo il binario, spingendo il suo carrello carico di bagagli – libri, essenzialmente – indeciso su dove sedersi.
Era felice di tornare a Hogwarts, ma chissà perché si sentiva assalito da una curiosa mestizia, come se gli mancasse un pezzo o avesse dimenticato qualcosa. Un tempo si sarebbe mosso tra vapore e grida di famigli assieme a sua sorella e ai suoi cugini, alla ricerca di uno scompartimento libero, ma adesso le carrozze del treno erano tutte vuote e lui era solo.
L’appuntamento del giorno precedente con il Responsabile dell’Ufficio Collocamento era stato breve e conciso. Aveva solo dovuto sbrigare qualche formalità, mettere un paio di firme e poi tornare a casa per fare i bagagli.
Stava per decidersi a salire su di una carrozza a caso quando dietro di sé udì l’inconfondibile rullio delle ruote di un carrello bagagli contro la superficie, macchiata di fuliggine, della pavimentazione del binario. Udì anche due voci concitate che parlavano tra di loro; una sconosciuta e l’altra terribilmente familiare, anche se apparteneva ad un altro tempo, ad un’altra vita.
Si voltò di scatto: due figure emergevano dal vapore che ammantava l’intero ambiente. Uno dei due era un uomo di mezz’età dall’aria placida e vagamente distratta, l’altro una figura più snella e slanciata, che Hugo conosceva benissimo. Lo conosceva per avervi soffermato lo sguardo così tante volte, prima con l’ammirazione dedicata alla sua primissima cotta, poi con sospetto e rabbia, e infine… Infine aveva semplicemente evitato di guardarlo.
“… Professore, ma non capisco…”
“Basta così, Anthony. Non sono stato io a richiedere la tua presenza, te l’ho già detto, ma è perfettamente normale che abbiano invitato anche te in qualità di mio assistente. Dovresti esserne contento.”
“Ma lo sono, professore. So bene che è un’occasione unica, ma…”
Ma poi fu come se Anthony Menley si fosse accorto di essere udito, perché alzò la testa di scatto e lo vide.
Hugo si sentì mortalmente a disagio. Non ce l’aveva con l’altro, non più, ma di certo non desiderava d’incontrarlo. Deglutì e sollevò automaticamente la mano a sollevare una ciocca di capelli lisci, che adesso portava lunghi fino alle spalle e raccolti in un codino bruno-rossiccio. In qualche modo finivano sempre per sfuggire all’elastico.
L’altro non era cambiato granché. Faceva uno strano effetto vederlo vestito con abiti Babbani e non con la sua divisa da Corvonero, ma era sempre bello, con gli occhi un po’ infossati e la mascella squadrata. Sembrava sorpreso, poi parve incupirsi.
Hugo si domandò cosa per le mutande di Merlino ci facesse lì.
“Ma cosa, Anthony?” lo esortò a continuare il professore di mezza età, che evidentemente non si era reso conto del loro scambio di sguardi.
Tony aggrottò le sopracciglia brevemente, senza smettere di guardare Hugo. “Niente, professore,” disse in tono neutro. “Ha ragione: dovrei essere contento ed è stato sciocco da parte mia protestare.”
Finalmente, il professore si accorse della direzione dello sguardo di Tony e posò gli occhi su di lui.
“Ma c’è un giovanotto lì?” lo udì dire. “Bene, allora viaggeremo in compagnia!”
Hugo deglutì e iniziò a spingere il carrello verso di loro; sapeva di non poter fare altro: era troppo tardi per ignorare la loro presenza e sgattaiolare non visto in qualche scompartimento.
A volte vorrei tanto essere un Serpeverde.
Riescono sempre a tirarsi fuori dalle situazioni scomode…
Perciò continuò a spingere il suo carrello fino ad affiancarli, cercò di assumere un’aria educata e affabile e strinse la mano del professore.
“Sono Heribert Bulstrode,” si presentò questi. “Mi reco a Hogwarts per un seminario di Storia dell’Arte Magica.”
Hugo si schiarì la voce. “Hugo Weasley,” disse. “Ho un tirocinio con il professor Fortebraccio.”
Il professor Bulstrode sorrise. “Aritmanzia, eh, ragazzo? Devi essere un mago di talento.” Hugo non fece in tempo a sorridere imbarazzato e a schernirsi con finta modestia – So perfettamente di essere un mago di talento, grazie – perché il professore posò una mano sulla spalla di Tony, il quale a giudicare dalla sua espressione avrebbe preferito trovarsi in una fogna intasata anziché lì. “Ti presento il mio assistente, Anthony Menley. Anche se magari vi conoscerete dai tempi di Hogwarts, eh?”
“In effetti sì,” disse Tony, in tono compassato e vagamente pomposo. Gli strinse comunque la mano, evitando di guardarlo in faccia, e lo stomaco di Hugo sembrò fare un salto e andare a piazzarsi da qualche parte all’altezza dell’ugola. Si sentiva a disagio, spaventosamente a disagio. “Eravamo entrambi in Corvonero.”
Suo malgrado, Hugo dovette seguirli a bordo del treno e poi sedersi nel loro stesso scompartimento, sforzandosi di sostenere un’amabile conversazione con il professor Bulstrode; per tutto il tempo, Tony rimase sprofondato in un tetro silenzio, senza curarsi di nascondere un’espressione rancorosa e decisamente scontenta, come se stesse continuando a rimuginare su qualcosa. Alle undici in punto il treno uscì dalla stazione con un fischio e uno sbuffo di vapore più consistente, lasciandosi poi alle spalle le città per addentrarsi nella campagna circostante.
Il professore sembrava aver una grande voglia di chiacchierare; di tanto in tanto Hugo gettava un’occhiata guardinga a Tony e lo trovava sempre nella stessa posizione, con una gamba poggiata traversalmente sull’altra – si vedeva un pezzo di caviglia in un calzino a righe – un gomito sul bracciolo della poltrona e il mento sul pugno. Il suo sguardo era fisso sul paesaggio fuori dal finestrino e non si schiodava mai da lì, con le palpebre socchiuse, volontariamente estraniato dagli altri occupanti dello scompartimento.
All’ora di pranzo passò il solito carrello carico di dolciumi. Hugo ne acquistò parecchi con soddisfazione, godendosi quel momento che non poteva vivere da anni.
“Un pacchetto di piume di zucchero, grazie,” fece Tony flemmatico, e quelle furono le uniche parole che pronunciò per tutto il viaggio.
Il pomeriggio proseguì con pochi cambiamenti: erano appena entrati in Scozia quando il professore si addormentò e iniziò a russare; Hugo non tentò neanche di fare conversazione, ma si limitò a tirare fuori un grosso libro dal baule con un incantesimo di Appello e sprofondare nella lettura.
Ad un certo punto dovette addormentarsi anche lui, perché si ritrovò con indosso la sua vecchia divisa di scuola, ad aggirarsi per i corridoi di Hogwarts senza una meta, con un mazzo di carte francesi tra le mani, quasi tutte con i bordi recanti eleganti messaggi in inchiostro di un blu stinto*. Solo che le carte cominciavano a scivolare giù dalle sue mani: Hugo cercava di raccoglierle freneticamente ma quelle continuavano a cadere, a cadere…
“Weasley! Weasley, svegliati.”
Qualcuno lo stava scuotendo. Spalancò gli occhi e si ritrovò di nuovo nello scompartimento dell’Espresso per Hogwarts. Il professor Bulstrode russava e davanti a sé vide il volto di Tony Menley, chino su di lui, che lo osservava con espressione indecifrabile tra le palpebre socchiuse.
Si accorse di avere il fiatone e che sudori freddi gli scivolavano sul volto e lungo la schiena.
“Ti stavi agitando nel sonno,” lo informò Tony, che ad un secondo sguardo gli parve leggermente stranito. “Va tutto bene?”
Hugo aggrottò le palpebre e si lasciò sfuggire un sospiro, tirando su gli occhiali che nel sonno gli erano scivolati sin quasi alla punta del naso. “Tutto bene,” replicò in tono leggermente incerto. “Solo un brutto sogno.”
Tony continuò a guardarlo ancora per un lungo istante con aria indagatrice, prima di tirarsi su e tornare al proprio posto vicino al finestrino.
Ormai era calato il buio.
Passata un’altra manciata di minuti, il treno girò attorno ad un’altura e finalmente lo videro: il profilo del castello in lontananza, con le innumerevoli finestre illuminate, le sue torri e torrette illuminate dalla luna. Era una notte serena, e nel posare gli occhi sulla sua vecchia scuola Hugo ebbe la sua sensazione che qualcosa di caldo e vivo battesse le ali nel suo stomaco.
Poi posò gli occhi su Tony, sul suo volto corrucciato, chiedendosi cosa avesse fatto di tanto terribile nella propria vita precedente perché il karma ce l’avesse così tanto con lui.
… Possibile che a Hogwarts non si possa mai stare tranquilli?
Tuttavia, era contento di essere tornato a casa.
 
 
 


 
Note dell’Autrice
Ed eccoci qui al terzo capitolo!
Come vedete ancora bisogna entrare nel vivo della vicenda, ma intanto ne ho approfittato per presentarvi un po’ di personaggi (specialmente quelli “nuovi nuovi”, che in Sulla tua pelle comparivano solo di sfuggita) e Alice, che spero non venga odiata dai vecchi lettori perché la adoro e mi sento in colpa ad averla messa in un ruolo così scomodo.
Per i nuovi lettori: Otto Murray è un uomo che aveva subito una maledizione e che Scorpius ha visto morire. Per ulteriori chiarimenti sono qui!
Risponderò alle recensioni appena avrò un momento, ma ne approfitto per chiarire (probabilmente l’avrete capito benissimo ma mi è venuto il dubbio) che le rapine sono due: una è quella alla realmente esistente National Gallery nel prologo, l’altra quella al Museo Magico Britannico. Spero che fosse chiaro :)
Grazie a tutti!
Bacioni, Daph
 
(a proposito, che ne dite del cambio di nickname? Ho voluto una specie di ritorno alle origini!)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** 4. The Banshee Boys ***



CAPITOLO 4

The Banshee Boys
 
 
20 settembre 2027
Ospedale San Mungo per Malattie e Ferite Magiche
Londra
 
La caffetteria del San Mungo era quasi vuota, ma tra i tavoli albergava un chiacchiericcio sommesso e sonnolento, da prime ore del mattino.
Due maghi in abiti verdi da tirocinanti sedevano dai lati opposti di uno dei tavolini di plastica. Avevano entrambi  capelli scuri ma due atteggiamenti fisici molto diversi: uno dei due, il più basso, con i capelli lisci e fumosi occhi azzurrastri, era stravaccato con aria sfacciata e sembrava decisamente assonnato. L’altro sedeva composto e nel complesso aveva un’aria abbastanza riposata.
Due tazze fumanti erano posate sul piano del tavolo. Una era colma di caffè bollente, l’altra sprigionava un intenso odore di bergamotto.
Jake sbuffò, mentre Bernie prendeva la propria tazza e sorseggiava un po’ di Earl Grey.
“Sono stufo di questi doppi turni,” sbadigliò il primo, passandosi una mano sugli occhi. Il suo guaritore responsabile sembrava averlo preso di mira e lo faceva sgobbare come non mai.
“Vedi il lato positivo: stai facendo esperienza,” osservò Bernie, in apparenza innocentemente e in realtà non senza una nota di scherno.
Jake gli scoccò un’occhiataccia ma decise di ingoiare il rospo, visto che aveva troppo sonno per replicare debitamente. Bevve qualche sorso di caffè, salutando con un cenno Viviana Davis e un Medimago che non conosceva. Bernie a malapena si voltò per gettare ai due un’occhiata distratta.
Jake lo osservò con aria indagatrice. C’era qualcosa di leggermente sospetto nel modo in cui i movimenti dell’altro apparivano studiati e troppo precisi, come se stesse aspettando il momento giusto per dire qualcosa.
E Jake sapeva perfettamente cosa, perciò attese senza parlare. Era consapevole di cosa dovesse aspettarsi.
“So che sabato hai visto Christine,” fece poi Bernie in tono leggero, rompendo il silenzio. Lasciò cadere le parole dall’alto, con costruita casualità. “Come l’hai trovata?”
Jake roteò gli occhi; iniziava ad essere vagamente esasperato dall’atteggiamento di quei due. “In forma,” replicò, senza curarsi di nascondere una sfumatura di sarcasmo nel proprio tono di voce. “Quando deciderete di piantarla di usarmi come intermediario e vi manderete un gufo?”
“Non so di cosa tu stia parlando,” fece Bernie in tono piatto.
Ma Jake aveva un doppio turno e il suo caffè ancora non era finito: decisamente non era il momento migliore per mettere alla prova la sua pazienza. “Ogni volta che la vedo mi chiede come stai facendo finta che non le importi… E tu fai lo stesso se sai che l’ho vista. Se vuoi sapere come sta, mandale un gufo.”
Bernie gli gettò un’occhiata infastidita. “Non posso semplicemente mandarle un gufo.”
Jake inarcò le sopracciglia. “Non puoi? E perché?” sbuffò. “Dubito che per Alice sarebbe un problema.”
“Infatti probabilmente non lo sarebbe.” Tagliò corto Bernie in tono freddo, alzandosi in piedi. “La prossima volta le manderò un gufo. Ci vediamo dopo.”
Si allontanò senza neanche lasciargli il tempo di replicare. Jake sospirò e scosse la testa… Anche se inevitabile, era sgradevole pensarlo, forse anche ingiusto, ma gli pareva evidente che tra Bernie e Christine ci fosse ancora parecchio di irrisolto.
 
*
 
22 settembre 2027
Hogwarts, Scozia
Mattina
 
Alla mattina del giovedì, dopo due intere giornate trascorse al castello, la presenza di Tony Menley si era ormai rivelata meno molesta del previsto. Fino a quel momento, a dire il vero, si erano a malapena incrociati, dal momento che Hugo non aveva fatto altro che correre da un’aula all’altra in compagnia del professor Fortebraccio e l’altro era stato probabilmente rintanato in camera sua o chissà dove, dal momento che il seminario di Arte Magica non era ancora iniziato.
Il tempo più lungo che avevano trascorso insieme – dopo naturalmente il viaggio in treno, che a Hugo era parso interminabile – era stato quello della cena, alla sera del loro arrivo.
Avevano preso posto al tavolo degli insegnanti. Era stata una prospettiva bizzarra, che aveva fatto fare un balzo nel petto al cuore di Hugo: come se avesse avuto davanti agli occhi ribaltata la sala in cui aveva trascorso colazioni, pranzi e cene per ben sette anni. Invece di voltarsi e vedere le tavolate delle altre Case, scorgere quella delle autorità solo con la coda dell’occhio, di traverso rispetto a loro, da dove era seduto aveva potuto vedere i quattro tavoli uno in fila all’altro, occupati da studenti e attraversati da un chiacchiericcio costante.
Si era sentito strano, come se il suo posto non fosse quello tra il professor Fortebraccio e il professor Lumacorno, bensì in mezzo alla tavolata di Corvonero, con indosso il mantello nero e la spilla da Caposcuola al petto.
Per un istante solo si era chiesto se anche Tony si sentisse così e gli aveva gettato uno sguardo; l’altro sedeva quasi al capo opposto del tavolo e mangiava in silenzio, lo sguardo fisso sul proprio piatto. Hugo aveva concluso che dovesse semplicemente sentirsi molto ma molto a disagio.
Dopo due giorni, la sensazione di sedersi alla tavola sbagliata non era ancora scemata del tutto, ma Hugo sorrise mentre varcava la porta della Sala Grande, con tutte le intenzioni di affrontare la colazione con molto entusiasmo.
Il soffitto incantato rimandava l’immagine di un cielo a momenti sereno e attraversato da nuvole, come se fosse un po’ indeciso su come proseguire la giornata. I tavoli delle quattro case erano occupati solo a tratti: più fittamente quelli di Corvonero e Tassorosso, con più spazi vuoti Grifondoro e Serpeverde.
Anche il tavolo delle autorità era ancora semivuoto: Hugo salutò con educazione il professor Paciock, il professor Dodge di Antiche Rune, Hestia Jones che insegnava Difesa Contro le Arti Oscure; infine rivolse un sorriso allegro ad Hagrid e diede il buon giorno al preside Vitious, che sedeva sul suo scranno dorato sopra una pila di cuscini.
Si sedette vicino ad Hagrid. Il professore stava bevendo una tazza di tè che appariva minuscola tra le sue mani grosse almeno il doppio del normale; gli rivolse un sorriso pieno di calore.
“Allora, Hugo, come ti va questo inizio, eh?”
Lui si versò del caffè. “Mi sembra bene,” disse, prendendo lo zucchero e cominciando a rovesciare nella tazza un cucchiaino dopo l’altro. “Per adesso mi limito ad ascoltare le lezioni e assistere il professor Fortebraccio nella correzione dei compiti, più avanti farò qualcosina in più.”
Gli occhi di Hagrid scintillarono da sotto le sopracciglia cespugliose, mentre impilava nel proprio piatto una quantità considerevole di toast imburrati. Hugo sogghignò e frugò con lo sguardo la tavola alla ricerca di biscotti al burro: ne trovò un vassoio con tre o quattro tipi diversi che tirò verso di sé, prima di imitare Hagrid cominciando ad ammucchiarli nel proprio piatto senza vergogna.
Probabilmente sua madre gli avrebbe scoccato un’occhiataccia, come a dire che non era tanto dignitoso.
Ma dopotutto le tavolate sono in continuo auto-rifornimento…
Che inconsapevolmente sia stato questo a spingermi a voler tornare a Hogwarts?
Meglio non condividere mai e poi mai questo pensiero con Lily, o l’avrebbe preso in giro a vita.
Stava per bere un sorso di caffè quando Tony attraversò le porte aperte della Sala Grande, per una volta solo e non alle spalle del professor Bulstrode. Aveva un’espressione assonnata e leggermente seccata, come si fosse svegliato con la luna storta; un ciuffo di capelli castani sembrava non volerne sapere di stare giù, di traverso rispetto agli altri da un lato della fronte.
Hugo riuscì a evitare di bere proprio all’ultimo secondo, accortosi appena in tempo che il suo caffè era ancora ustionante.
Nel frattempo qualche altro docente aveva raggiunto il tavolo dell’autorità: Madama Bumb e Madama Chips si erano sedute vicine all’estremità destra del tavolo, a una sedia di distanza dal professor Cattermole di Trasfigurazione e Jenkins di Babbanologia. L’unico punto del tavolo in cui ce n’erano due libere una accanto all’altra era alla sinistra di Hugo: i due posti vuoti lo separavano dal professor Rüf, che ovviamente non mangiava, essendo un fantasma, ma si limitava a fissare un piatto colmo di salsicce con espressione tetra.
Tony attraversò la Sala Grande senza guardare nessuno, con il fare circospetto e stizzoso di un gatto braccato. Quando giunse di fronte al tavolo delle autorità si diresse verso il lato sinistro e si fermò per un istante, esitando. Gli unici posti liberi erano quello alla sinistra di Hugo e due posti ai lati del professor Rüf.
Ma nessuno voleva mai mangiare vicino al professor Rüf. Era noioso, un filino inquietante e sentirlo parlare dell’argomento delle sue lezioni del giorno dalle prime ore del mattino, con quella sua voce monocorde, non era proprio il modo migliore di iniziare la giornata.
Tony dovette decidere che tra i due Hugo era il male minore, perché girò intorno al tavolo e si lasciò cadere sulla sedia accanto alla sua.
Fino a quel momento, capì Hugo, aveva evitato accuratamente di farlo.
Lo scrutò di sottecchi sporgersi verso qualche fetta di pane tostato che Hagrid aveva risparmiato e metterla nel proprio piatto. Una ruga di concentrazione gli solcava la fronte, proprio in mezzo alle sopracciglia, e non sollevò gli occhi da quello che stava facendo nemmeno per un secondo mentre tagliava sottili fette di formaggio salato e le depositava sul pane, per poi versarsi del tè e aggiungere una dose generosa di zucchero alla tazza.
“Ciao,” disse Hugo automaticamente.
L’altro parve irrigidirsi appena. “Ciao,” rispose senza guardarlo, cortesemente ma in modo definitivo, con un tono che sembrava dire che, per quanto lo riguardava, quella conversazione finiva lì.
Hugo aggrottò le sopracciglia, avvicinando la tazza alle labbra solo per scoprire che il caffè era ancora troppo caldo. Provava la netta sensazione di essere respinto. Non avrebbe saputo bene spiegarlo, perché non era razionale, ma si sentì come se ci fosse un muro attorno a Tony, un muro che faceva rimbalzare via tutto quello che lo circondava, che faceva rimbalzare via Hugo stesso.
Non era maleducazione né freddezza, ma era invalicabile.
Meglio così, no? pensò Hugo.
Dopotutto la presenza dell’altro lo metteva tremendamente a disagio, e gli sarebbe stato estremamente grato se avesse continuato a evitarlo come nei giorni precedenti. Se Tony avesse mantenuto le distanze, non si sarebbe dovuto preoccupare di mantenerle lui.
Avvicinò la tazza alle labbra e iniziò a bere il caffè. Adesso, per i suoi gusti, era un filino troppo freddo.
Improvvisamente gli venne in mente qualcosa. Stava per dirlo a Tony, quando un frastuono improvviso si levò oltre il portone di legno massiccio.
“Ma che diav–”
Saltò su dalla sedia e scattò alle calcagna degli altri professori, che adesso si stavano precipitando verso la Sala d’Ingresso.
 
*
 
22 settembre, pochi minuti più tardi
Giusto una sala più in là
 
 
Elizabeth Dursley era rimasta a bocca aperta, ma si affrettò a richiuderla prima che qualcuno si accorgesse che era rimasta di stucco. Lucrezia, al suo fianco, non si trattenne dallo sgranare gli occhi dalla sorpresa, mentre le sue labbra si incurvavano in quella che era inequivocabilmente una risatina divertita. Le loro orecchie erano colme di un frastuono assordante e di quelle che a Lizzie parevano urla inconsulte, con l’aggiunta di qualche fischio e un paio di strilletti entusiastici.
Come possono essere così idioti?!” sbottò prima di riuscire a trattenersi, in un’esclamazione abbastanza forte che tuttavia riuscì a malapena a lambire le orecchie di Lucrezia.
CHE COSA?” le gridò infatti l’amica di rimando; aveva cominciato a saltellare sul posto passando  da un piede all’altro.
Lizzie roteò gli occhi. “TI HO CHIESTO COME FANNO AD ESSERE COSÌ IDIOTI!” ripetè.
Lucrezia scosse la testa e sollevò le spalle, mentre si picchiettava leggermente l’indice sull’orecchio a indicare che non riusciva a sentirla. Adesso aveva anche cominciato a dondolare i fianchi a ritmo della musica.
Se poi musica si poteva chiamare quell’ammasso di suoni confusi e scoordinati a volume tanto alto da perforarle i timpani.
Ma come possono essere così idioti?! si ripeté tra sé e sé.
L’accesso allo scalone di marmo era stato bloccato da un piccolo gruppo di persone radunato su diversi gradini, a impedire la circolazione degli studenti, che a dirla tutta per la maggior parte non sembravano particolarmente scontenti della cosa.
Era stato interrotto il passaggio sia a scendere che a salire, cosicché l’accesso alla Sala d’Ingresso era stato impedito a parecchi studenti che adesso affollavano le scale, sporgendosi dalle balaustre per guardare. Anche nella sala una piccola folla si era radunata all’imbocco dello scalone di marmo, acclamando stupidamente quattro imbecilli armati di strumenti musicali, uno dei quali era ovviamente suo fratello Max.
Ancora non riusciva a credere che si potesse essere così stupidi, e ancora di più era sconvolta dal comportamento di Lucrezia, che invece di comportarsi con dignità aveva iniziato a ballare scatenata sul margine della piccola folla stupidamente sovreccitata.
Guardò nuovamente verso le scale, dove il gruppetto di ragazzi suonava sotto uno striscione ricavato da un vecchio lenzuolo con su scritto Banshee Boys chiaramente in fretta e furia con un’orribile vernice fluorescente. Proprio lì sotto, Fred Weasley suonava la batteria a torso nudo – la faccenda diventava meno dignitosa ogni secondo che passava – DJ Jordan pizzicava le corde del suo basso elettrico con aria lugubre, Bastien Leclerc, con la chitarra a tracolla, sbraitava parole incomprensibili nel microfono dandosi un sacco di arie e infine Max – che nel giro di mezz’ora sarebbe stato strozzato dalla sua stessa sorella – suonava anche lui la chitarra, con la cravatta di Tassorosso allacciata intorno alla testa.
Qualcuno le batté una mano sulla spalla. Si voltò di scatto, trovandosi di fronte Bernice e Candida. La prima stava atteggiando la sua graziosissima faccia nella solita smorfia a metà tra il disgusto e lo scherno, con le sopracciglia sollevate e il labbro superiore leggermente arricciato. Mosse la testa per scacciare dietro le spalle la massa di lunghissimi, folti e lucenti capelli biondi – facendo come sempre ingoiare a Lizzie un moto d’invidia.
Candida Flint, invece, poco dietro di lei, aveva i capelli rossi legati in una coda e si guardava intorno con espressione indecifrabile, probabilmente registrando informazioni su quello che vedeva.
CIAO, DURSLEY!” strillò Bernice per farsi sentire.
Lizzie la salutò con un cenno. Nel frattempo avevano fatto capolino dai sotterranei anche Harvey Higgs, Marcel Buckley e – il suo cuore diede nel solito tonfo – Stanley.
CIAO, RAGAZZE!” gridò Marcel quando le raggiunsero. “SECONDO VOI PER QUANTO TEMPO LI METTERANNO IN PUNIZIONE?”
I professori avevano cominciato a sciamare nella Sala d’Ingresso, attratti dal frastuono. Tuttavia, con sommo orrore di Lizzie, non intervennero immediatamente: il più di loro si limitava ad assistere alla scena con aria basita.
Dannati Grifondoro.
… E dannati Tassorosso!
Si voltò per gettare uno sguardo a Stanley, solo per scoprire che la sua visuale era coperta da Harvey e Bernice, impegnati a scambiarsi il bacio del buongiorno, rituale che Lizzie trovava quantomeno vomitevole.
Così fece il giro attorno a loro e raggiunse Stanley. Reputando il mettersi a strillare per ottenere la sua attenzione una cosa troppo poco dignitosa perché fosse disposta a farla, si limitò a battere una mano sulla sua spalla, pentendosi un istante dopo perché davvero non aveva idea di cosa dirgli.
Fu salvata, inaspettatamente, dai Banshee Boys. Infatti, improvvisamente la loro musica prese un ritmo più facile e orecchiabile e le parole si fecero più chiare, in una melodia burlona…
… NON È UN PETARDO, NON UN RAZZO…”
Elizabeth fu colta da un inspiegabile e inconfondibile brutto presentimento.
“… CHE GLI FA IL DIDIETRO ARDENTE…”
Aveva capito. E anche Stanley doveva aver capito, a giudicare dalla sua espressione e dal modo in cui aveva irrigidito le spalle.
… NON UN DRAGO, NÉ ARDEMONIO…
Lizzie era certa di aver visto la mano di Stanley subire uno spasmo involontario in direzione della bacchetta magica.
“… È PROPRIO HARVEY COTTO AL DENTE!
Non era sicura che nel complesso il periodo avesse una vera e propria logica sintattica. Sapeva solo che un gorgoglio aveva aggredito la bocca del suo stomaco non appena aveva sentito la presa in giro ai danni di Harvey Higgs, un gorgoglio che si tramutò presto in una risata impossibile da trattenere, nel vedere quel totale imbecille mutare la solita espressione di superiorità e scherno – per niente diversa da quella di Bernice – in una costernata e arrabbiata.
Non vedendo altra soluzione, scappò in Sala Grande prima che Stanley potesse rendersi conto che stava ridendo a crepapelle.
Decise di tenere a mente che avrebbe dovuto stringere la mano a suo fratello. Dopo averlo strozzato, naturalmente.
 
*
 
23 settembre 2027
Parco di Hogwarts, Scozia
Mattinata
 
Era stato semplicemente grandioso: di rado Fred si era divertito così tanto nella sua intera vita. Certo, adesso erano in punizione per una settimana, dopo aver fatto tutto quel casino, ma ne era valsa la pena.
Era stato pazzesco ed emozionante stare lì a suonare di fronte all’intera scuola, e quando avevano fatto quel pezzo su Higgs, beh… L’espressione dei Serpeverde era stata impagabile.
“Secondo me si vendicheranno,” stava dicendo Winifred con voce divertita ma anche un filo apprensiva.
Si trovavano al parco, approfittando di due ore libere e una mattinata serena per prendere un po’ di sole. Fred aveva la schiena appoggiata al tronco del grande faggio e Winifred era sdraiata con la testa sulla sua pancia. Viola sedeva a gambe incrociate davanti a loro, impegnata a scrivere un tema con aria estremamente dignitosa, ostentando una calma ammirevole, dal momento che solo pochi passi più in là DJ, Laurie e Bastien giocavano a Sparaschiocco facendo più confusione di un gruppo di scimmie urlatrici.
Era bello avere degli amici così allegri, pensò Fred con soddisfazione, stringendo un filo d’erba tra i denti, mentre i suoi occhi scivolavano sulla figura di Darren che lanciava una pallina con un tiro perfetto – davvero, con quella mira poteva essere un ottimo Battitore – ed esultava, tuffandosi all’indietro sul prato. Come sempre aveva la divisa abbastanza in disordine, la camicia spiegazzata fuori dai pantaloni e la cravatta allentata – anche se Fred era l’ultimo a poter dire qualcosa in proposito, dato che solitamente lui non l’annodava nemmeno, lasciando che le due bande piovessero come capitava ai lati del colletto, come due strisce rosso-oro.
Darren era bello, con la sua liscia pelle scura e gli occhi profondi. Fred continuò a studiarlo nella luce del mattino, assorto, finché…
“… Freddie, mi stai ascoltando?”
Si riscosse e chinò la testa per guardare Winifred, che lo stava ancora usando come cuscino.
“Scusami, mi sono distratto,” arrangiò in tono incerto.
La ragazza roteò gli occhi. “Me ne sono accorta, sai?”
Fred sorrise in segno di scusa, ma colse con la coda dell’occhio Viola scoccargli un’occhiata indagatrice. Avrebbe dovuto fare più attenzione, si ripromise, soprattutto quando lei era nei paraggi… Certe volte sapeva essere fastidiosamente intuitiva.
“Che cosa stavi dicendo?” disse in fretta a Winifred, eludendo in anticipo ogni possibile domanda.
Lei girò gli occhi di nuovo. “Stavo dicendo che sono seria! Questa volta non ve la faranno passare liscia. Non ho mai visto Warrington e Higgs più arrabbiati di così.”
Fred scoppiò a ridere. “Andiamo, Wins! Che cosa mai possono farci quelle serpi umidicce?” Rise di nuovo per la sua stessa battuta. Era consapevole che non fosse una freddura brillante, ma non gli dispiaceva immaginare i Serpeverde a battere i denti nei loro sotterranei mentre l’aria dei dormitori si riempiva di condensa per l’umidità.
“Non ridere!” lo rimproverò Winifred. “Quando ridi ti trema tutta la pancia, sembra un terremoto.”
“L’hai scelto tu di sdraiarti sopra di me!” protestò Fred.
Da pochi passi più in là, Bastien rise, voltandosi con espressione luminosa. “Detto così potrebbe avere un doppio, triplo e quadruplo senso, Freddie.”
Fred roteò gli occhi e gli fece una pernacchia. Winifred, inspiegabilmente, non disse nulla ma arrossì appena.
Per alcuni istanti si udirono solo gli scoppi di Sparaschiocco. Poi, all’improvviso, qualcun altro prese la parola.
“Winnie non ha tutti i torti,” si intromise Viola in tono piatto. Tutti guardarono verso di lei mentre chiudeva la boccetta d’inchiostro e arrotolava il proprio tema, sempre con i suoi caratteristici movimenti calmi e misurati. “In realtà volevo complimentarmi con voi,” proseguì con la stessa voce priva di inflessione. “Eravamo vicini a liberarci della Flint grazie alla sua stessa squadra. Adesso però avete dato loro un motivo per smetterla di scannarsi a vicenda… Dovremmo iniziare a guardarci alle spalle.”
Fred non era avrebbe saputo dire con certezza se stesse scherzando o meno; a giudicare dall’aria attonita di Laurie e DJ, non ne erano in grado neanche loro, mentre dall’espressione di Winifred sembrava che non stesse ascoltando affatto.
Solo Bastien incurvò le labbra in un pigro sorriso, mentre si lasciava cadere all’indietro sul prato, incrociando le braccia dietro la testa. La ciocca che gli cadeva sempre in mezzo alle sopracciglia scivolò indietro, scoprendogli la fronte. “Adoro il tuo catastrofismo, Vi, ma non penso che succederà nulla di che. Si prenderanno la loro piccola vendetta e finirà lì, come al solito.” Sogghignò. “E tu potrai fare il tuo dovere di Caposcuola andando a denunciarli da Vitious.”
“Ah, sì?” Viola lo guardò, inarcando un sopracciglio. “E davvero pensi che io lo farò?”
Bastien le rivolse un sorriso acceso. “Andiamo, Vi! Dobbiamo fare buon uso dei tuoi nuovi superpoteri.”
“Farne buon uso significa abusarne e approfittarne biecamente?”
“Non così biecamente,” precisò Bastien. “Solo un pochino.”
Fred chiuse gli occhi, godendosi il sole che gli pioveva sul viso. Una mano salì automaticamente ad accarezzare i lisci capelli di Winifred, tanto corti da sfuggirgli tra le dita; la ragazza ridacchiò e mosse la testa incontro alla sua mano, come un gatto che vuole le coccole.
Nel frattempo, Laurie e DJ avevano ripreso la partita a Sparaschiocco e Viola e Bastien continuavano a battibeccare.
“Ma è per una buona causa!”
“Continua pure, Bastien. È un piacere guardarti mentre ti impegni inutilmente.”
“Sei sadica, Viola.”
“Sono una persona garbata e d’indole mite.”
Fred scoppiò a ridere di nuovo, beccandosi un brontolio da Winifred, che si tirò su dalla sua pancia sbadigliando e riassestando con la mano la corta zazzera scura. La vide assottigliare gli occhi verso il castello. “Ehi, Freddie,” disse. “Ma quello non è tuo cugino?”
Fred guardò nella direzione indicata da Winifred. Una figura alta e snella stava discendendo sul verde crinale di una collina. Aveva capelli rossicci raccolti in un codino sulla nuca e occhiali dalla montatura sottile; Hugo muoveva passi rapidi nella sua direzione, ma era ancora troppo lontano per carpirne l’espressione.
Oh, no, pensò Fred, perché nel giro di una frazione di secondo aveva pensato ai possibili motivi per cui suo cugino avesse bisogno di parlargli, e gliene era venuto in mente solo uno. È per il concerto… Oh, no.
 
 
Hugo sollevò le sopracciglia nel vedere l’espressione atterrita che si era dipinta sulla solitamente disinvolta faccia da schiaffi di Fred. Era la faccia di quando da piccolo veniva sorpreso a fare qualche monelleria e aveva paura di essere sgridato.
Ah, già. Il concerto. Ha paura che io impersoni l’autorità familiare e lo sgridi.
No, grazie. Non sono interessato. Sono qui per un tirocinio, non per stare dietro al cuginetto.
“Ciao, Fred,” gli si rivolse in tono piatto. “Non sono qui per metterti in punizione, quindi sentiti pure libero di respirare.”
Visibilmente, Fred smise di trattenere il fiato e parve estremamente sollevato.
“Allora che cosa succede?” gli domandò, ritrovando il tono allegro e l’espressione sfacciata.
Hugo emise un piccolo sbuffo. “Sarai stato informato della riunione familiare di questo finesettimana.”
Senza alcun preavviso, Bastien si intromise. “Questo finesettimana? Non mi avevi detto nulla, Fred! E le selezioni?”
L’espressione di Fred si fece colpevole mentre si batteva una mano sulla fronte. “Le selezioni! Zio Charlie!” esclamò incoerentemente. “Per le mutande di Merlino, me n’ero dimenticato.”
Hugo inarcò un sopracciglio. “Vedo,” commentò acido. “Ma non preoccuparti, possiamo partire di sabato pomeriggio, ero venuto a dirti questo. Il preside mi ha autorizzato ad accompagnarvi con Materializzazione Congiunta, così non dovremo andare a disturbare nessun professore per la Metropolvere.” L’espressione di Fred era talmente felice, adesso, che Hugo pensò seriamente che l’avrebbe abbracciato da un momento all’altro – e tenne la bacchetta pronta per Schiantarlo, all’evenienza. Non gli piacevano tutte queste manifestazioni d’affetto. “Dillo tu ai Dursley, così mi risparmio di dover andare a cercare anche loro.”
Lasciò a malapena a Fred il tempo di un saluto sbrigativo e fece per dirigersi nuovamente verso il castello, salvo poi cambiare idea all’ultimo e decidersi per una camminata intorno al lago. Dopotutto era una bella mattinata di sole, e da quando era arrivato a Hogwarts ancora non si era concesso neanche cinque minuti per una passeggiata nel parco.
Si incamminò attorno al perimetro della grande polla d’acqua, sorvolata di tanto in tanto dalla discesa obliqua di qualche corvo. Il sole scintillava sulla cresta delle piccole onde e qualche volta un grosso tentacolo si distendeva pigramente sopra la superficie dell’acqua, liberando increspature concentriche che si allargavano fino a scomparire.
Hugo sorrise, sfilandosi gli occhiali perché il riflesso del sole sulle lenti lo infastidiva. Li fece scivolare nel taschino sul davanti del mantello, godendosi la sensazione di essere di nuovo a Hogwarts e sperando una volta in più di potervi restare per il resto dei suoi giorni, come insegnante.
Il vento soffiava fresco, ma il sole era abbastanza caldo, perciò dovette togliere il mantello e proseguire in maniche di camicia dopo un po’ che camminava.
Giunse poi in un punto in cui il perimetro del lago formava un’ansa e quasi si pietrificò sul posto. Non si era accorto che ci fosse qualcuno proprio a causa della forma della riva, oltre che per un grosso salice piangente che oscurava la scena, con il suo fogliame che sfiorava il suolo.
Per una frazione di secondo rimase immobile, indeciso sul da farsi. Una parte di lui non avrebbe voluto altro che andarsene immediatamente, ma sapeva che non avrebbe potuto allontanarsi senza far rumore, e non voleva che Menley si accorgesse che lo stava evitando.
Era proprio Tony Menley a sostare seduto sul bordo del lago, seminascosto dalla chioma del salice. Aveva le braccia attorno alle ginocchia, che invece erano piegate e avvicinate al petto; i capelli gli cadevano sul viso ma a Hugo parve che stesse scrutando la superficie del lago. Come sempre, appariva decisamente teso.
Deglutì, perché se il suo cervello gli diceva di salutarlo e andarsene, il suo istinto strepitava per essere ascoltato. E Hugo ascoltò.
“Ciao,” disse in tono disinvolto, avvicinandosi a Tony.
Nel sentirsi interpellare, il ragazzo sollevò la testa e lo guardò con aria guardinga e sospettosa, come se fosse subito scattato sulla difensiva, per poi distogliere gli occhi, tornando a fissarli sul lago – o forse nel vuoto. “Ciao,” replicò in tono distaccato.
Hugo si sforzò di non apparire troppo imbarazzato. “Posso sedermi qua o–”
“Come vuoi.” Tony scrollò le spalle, come a dire che la cosa non lo riguardava. 
Lui trattenne uno sbuffo e si lasciò cadere al suo fianco sulla riva del lago. La sua mano scivolò automaticamente sopra le pietruzze della riva, finché le sue dita non si chiusero su di un sasso tondo e piatto. Lo lanciò sul lago, osservandolo rimbalzare una, due, tre volte. Anche Tony aveva seguito la traiettoria del sasso, per poi voltarsi verso Hugo: i loro occhi si incrociarono per una frazione di secondo.
“Allora, come sei finito a studiare storia dell’arte?”
“Non è stata una scelta di riserva,” precisò Tony in tono immediatamente polemico. Non lo guardava neanche, ma perlomeno aveva risposto. “Mi è sempre interessato. Nell’Arte Magica contemporanea le applicazioni della magia sono sempre nuove e originali.”
Hugo aggrottò le sopracciglia. “Dunque ti interessi di arte contemporanea.” Constatò. “Come mai sei finito a occuparti di arte rinascimentale?”
Tony scrollò le spalle. “Abbiamo dei tirocini obbligatori. Io ho scelto il tirocinio di Magimuseologia, quindi affiancavo il professor Bulstrode nell’allestimento di mostre temporanee al Museo Magico Britannico di Londra.”
“Non ne so molto,” ammise Hugo francamente, “ma sembra un lavoro interessante e stimolante.”
“Lo è,” convenne Tony, brusco.
“Ma quindi come mai adesso siete a Hogwarts e non al Museo?”
Gli era parsa una domanda normale, ma evidentemente si sbagliava, visto che Tony parve rabbuiarsi, si alzò in fretta e si rassettò i pantaloni con le mani per rimuovere foglie e terriccio. “Mi dispiace, Weasley, ma adesso devo andare,” biascicò in un evidente tentativo di apparire educato, nonostante apparisse – inspiegabilmente – vicino ad entrare in panico, per poi allontanarsi prima di lasciargli il tempo di salutarlo a propria volta.
Hugo rimase seduto lì dove si trovava ancora per parecchi minuti, lanciando sassi sul pelo dell’acqua e chiedendosi cosa mai avesse sbagliato.
 
 


 
Note dell’Autrice
E anche questo capitolo è andato!
Mi scuso del ritardo nel rispondere alle recensioni, ma in questi giorni sono stata impegnatissima. Cercherò di rispondere quanto prima!
Grazie a tutti voi <3
Daph
 

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Capitolo 6
*** 5. Questione di Quidditch ***




CAPITOLO QUINTO

Questione di Quidditch
 
 
24 settembre 2027
Sala Grande, Hogwarts, Scozia
 
Nel giro di pochi giorni la faccenda di Harvey e del suo didietro ardente era sulla bocca di tutta la scuola: con l’esclusione dei Serpeverde, non c’era nessuno tra gli studenti che non avesse imparato a memoria il ritornello dei Banshee Boys.
Sembrava che la melodia risuonasse per la testa di tutti, dal momento che si udiva di continuo canticchiata a mezza voce dagli studenti e da qualche quadro; c’era chi diceva che persino Gazza fosse stato sorpreso a fischiettarla con aria tetra, mentre lavava con uno straccio grigiastro le finestre di un corridoio del terzo piano.
Ovviamente i Serpeverde erano furiosi, e Viola era certa che meditassero vendetta.
Le giornate trascorsero tra sguardi in cagnesco in classe e da un tavolo all’altro, tacite minacce e frecciatine tra i banchi, ma nonostante tutto la mattina di sabato ancora non c’era stato odore di rappresaglie.
La sera precedente, davanti al fuoco scoppiettante della Sala Comune, Fred le aveva fatto notare con tono carico di soddisfazione che ancora non c’era stato segno di reazione da parte dei Serpeverde, ma Viola si era limitata a scrollare le spalle. Sapeva di avere ragione: di solito evitava di esprimersi se non era assolutamente certa di quanto stava per dire. Ma come al solito, nessuno dei suoi amici aveva abbastanza buonsenso da darle retta.
… La vendetta va servita fredda, e quelle serpi lo sanno fin troppo bene.
Quella mattina, tuttavia, i pensieri del gruppo erano concentrati su ben altra materia. Viola sedeva in Sala Grande sotto un cielo solo leggermente brumoso, con già indosso la divisa da Quidditch. Alla sua sinistra c’era Fred, le cui chiacchiere continue non mascheravano del tutto una leggera tensione, intento ad abbuffarsi di una colazione che sarebbe stata più che sufficiente per altre tre persone. Viola conosceva benissimo il motivo della sua ansia: sapeva quanto ci tenesse a giocare in squadra assieme a Darren.
Il quale, dal canto suo, sedeva alla destra di Viola, e a giudicare dalla sua faccia doveva essere sul punto di vomitare.
Viola aprì la bocca per tentare di rassicurarlo – anche se a dire il vero non era tanto brava in queste cose: probabilmente avrebbe detto qualcosa del tipo “Se non ti calmi le selezioni non le passi davvero” – quando le sue orecchie furono raggiunte da una risatina nervosa da parte di Fred.
Si voltò di scatto: chissà come, il ragazzo era riuscito a spedire un po’ di marmellata di ciliegie sul naso di Winifred, che adesso era presa a brontolare con aria stizzita. Fred smise di ridere e le rivolse un sorriso di scuse, per poi affrettarsi a pulire la macchia con il tovagliolo.
Sul volto lentigginoso di Winnie si allargò un inconfondibile rossore. Viola distolse lo sguardo da loro, pensosa.
A Winifred piace Fred, che però ha una cotta per Darren da secoli…
Oh, Freddie. Pensi davvero che non si noti?
La sua attenzione fu improvvisamente distratta dall’arrivo di Bastien, che sorrise allegro – aveva questa capacità di apparire sempre rilassato e perfettamente a suo agio, ma non la dote di trasmettere tranquillità anche agli altri. Lo stomaco di Viola parve sprofondare.
Cosa dicevi di Fred e Winnie? Non sono certo i soli ad avere una cotta totalmente irrealizzabile.
Io lo sapevo che il Settimo Anno sarebbe stato incasinato. Ci sono troppi ormoni in giro.
Bastien le sorrise, mentre lei si scostava per fargli posto sulla panca. Lo osservò servirsi di un’abbondante porzione di toast al prosciutto; naturalmente non le sfuggì il modo in cui i suoi occhi erano saettati in direzione del tavolo di Serpeverde. Seguì la traiettoria del suo sguardo e prevedibilmente incontrò la figura minuta di Candida Flint, che faceva colazione attorniata da Warrington, Buckley e i fratelli Gamp. Scorse anche Lucezia Goldstein, impegnata a sbadigliare, ed Elizabeth Dursley, che sorseggiava il suo tè con aria scontrosa, sistemandosi nervosamente i capelli mentre gettava di sottecchi occhiate a Warrington.
Ci sono così tanti ormoni nell’aria da renderla irrespirabile. Qualcuno ci salvi, per favore.
In effetti, quasi tutti i Serpeverde del loro anno sedevano a fare colazione. Viola non pensò neanche per un momento che fosse strano vedere Candida in piedi a quell’ora, specie di sabato mattina, perché la sua mente aveva già fatto il passo successivo.
Non c’era niente che non le tornasse nel fatto che i capitani avversari assistessero alle loro selezioni – anche Ozzie Omega Ramkin faceva colazione al tavolo di Corvonero, probabilmente in attesa di seguirli in campo. Se a questo si aggiungeva che senza dubbio i Serpeverde meditavano vendetta per lo scherzetto del concerto, beh… C’erano parecchi elementi per non essere sorpresi dalla presenza di Candida al tavolo della colazione.
Vedere arrivare Harvey Higgs pochi istanti dopo non fece altro che incrementare i suoi sospetti.
 
 
*
 
Stesso giorno, poco più tardi
Spalti del campo da Quidditch
Hogwarts, Scozia
 
Con l’ovvia eccezione di quello spirito solitario di Aidi Nott, sulle tribune del campo da Quidditch erano radunati tutti i Serpeverde del loro anno.
Elizabeth si guardò attorno. Candida sedeva diritta, senza dar retta a nessuno, scrutando i giocatori in volo attraverso le lenti del suo Omniocolo; di tanto in tanto si sistemava una ciocca di capelli rosso fiamma e appuntava qualcosa sul taccuino che teneva in grembo.
Bernice guardava Higgs con aria adorante, mentre quest’ultimo parlottava a voce bassa con Marcel – entrambi avevano un’aria assai cospiratoria; Lucrezia, dal canto suo, si sporgeva in avanti per parlare con un tipo della squadra di Tassorosso che sedeva proprio davanti a loro.
Stanley sedeva vicino a Lizzie e si rigirava la bacchetta tra le mani con aria distaccata, sorridendo di tanto in tanto con espressione soddisfatta.
Elizabeth aveva deciso di andare al campo non perché le importasse qualcosa del Quidditch, bensì per passare un po’ di tempo con Stanley e tenere nel frattempo d’occhio la situazione. Se fosse successo qualcosa, voleva essere presente per approfittare del suo ruolo di Prefetto nel caso ci fossero problemi. E di problemi ce n’era proprio l’aria. Stanley sapeva essere estremamente vendicativo ed era abbastanza propenso a perdere le staffe; in quanto ad Harvey… Beh, lui era un idiota, quindi c’erano molte probabilità che dimostrasse ancora una volta di essere un troll.
A volte era talmente poco Serpeverde che Lizzie si chiedeva cosa diamine ci facesse in mezzo a loro, salvo poi ricordare che era anche uno stronzo calcolatore – e allora i conti tornavano tutti.
Automaticamente sollevò gli occhi su di lui e lo scoprì a fissarla con la bocca contorta, prima che distogliesse lo sguardo in fretta. Perplessa, Lizzie si chiese se avesse qualcosa di strano in testa o se semplicemente i suoi capelli fossero più orribili del solito.
Grazie al cielo zia Ginny ha promesso di portarmi dal suo parrucchiere oggi. Finalmente potrò andare in giro senza dare l’impressione che una cicogna mi abbia fatto il nido in testa.
Trattenne l’impulso di sollevare una mano per sfiorare i capelli, gettando l’ennesima occhiata a Stanley, che naturalmente non la stava guardando, bensì aveva gli occhi fissi sui movimenti dei giocatori sospesi in aria nel campo di Quidditch. Continuava a giocherellare con la bacchetta – ed era stata solo un’impressione di Elizabeth o aveva sussurrato qualcosa?
Le cose stavano per mettersi male, pensò, mentre le labbra di Stanley si incurvavano in un inconfondibile sogghigno.
 
*
 
24 settembre 2027
Londra, Inghilterra
Mattina
 
Rose non aveva così tanta voglia di andare alla Tana. Non aveva mai così tanta voglia di andare alla Tana, e non era perché non tollerasse i suoi parenti o qualcosa in particolare le desse fastidio.
Semplicemente si sentiva scordata, vagamente fuori posto, come se fosse rimasta un passettino indietro rispetto a tutti gli altri e quel passettino fosse sufficiente per inquadrarla male. Per tenerla fuori dai giochi.
Allora si sforzava di ripetersi che quel passettino non era all’indietro, ma era verso fuori, ed era stata una mossa che aveva compiuto volontariamente, in piena consapevolezza, nonostante non tutti avessero compreso il perché della sua scelta; aveva deciso di abbandonare il suo mondo e di cercare il suo spazio nell’altro, di mondo: il mondo dei Babbani inconsapevoli, quell’universo composto dalla gente più varia ed estremamente più vasto di quello Magico. Si era ritagliata un suo angolino proprio lì, nella sterminata Londra senza magia, dove nessuno poteva riconoscerla per strada o sapere che era un ex-campionessa Tremaghi o che i suoi parenti avevano sconfitto Voldemort.
Un mondo dove poteva essere semplicemente Rose Weasley, una ragazza normale che studiava letteratura inglese e giornalismo all’università e si manteneva facendo la cameriera da Caffè Nero.
Non aveva abbandonato del tutto il suo mondo, quello dei maghi. Lì c’erano tutti i suoi affetti: la sua famiglia, che restava tale nonostante tutto e nonostante non tutti le andassero proprio a genio; lì c’erano anche le sue amicizie: c’era Gwyneth, con la quale il legame si faceva di anno in anno più saldo, c’era Christine, importante per lo spazio che di volta in volta si prendeva perché ne aveva bisogno e perché ne avevano bisogno anche loro.
Un rumore improvviso di passi la fece riscuotere dai suoi pensieri.
Si trovava nella cucina del loro appartamento; era seduta vicino alla finestra, da cui poteva vedere la fila di alberi che percorrevano quella via laterale, poco trafficata, dove si affacciava la palazzina londinese in cui vivevano. Non pioveva ma era una giornata grigiastra, annuvolata.
Gwyneth era entrata in cucina sbadigliando senza curarsi di mettere la mano davanti alla bocca, e adesso era impegnata a tirarsi via dal viso i folti capelli neri, in quel momento piuttosto arruffati. Aveva gli occhi gonfi di sonno e la voce roca quando si rivolse a Rose.
“Caffè?” disse solamente.
“Grazie,” annuì lei di rimando, osservando Gwyn sbadigliare di nuovo e mettere su il bollitore. “Non sei in missione, oggi?” le domandò, continuando a guardarla mentre si faceva cadere su di una sedia dal lato opposto del tavolo.
“No, oggi no,” bofonchiò l’altra. “Tuo zio ci ha assegnato un’indagine più a lungo termine, ma siamo abbastanza in stasi. Più tardi andrò in ufficio per un po’ di brainstorming con Louis e Scorpius.”
Ormai aveva smesso di colpirla la naturalezza con cui termini Babbani comparivano sempre con più frequenza sulla bocca di Gwyneth – probabilmente si trattava anche di un’irriverente e scherzosa ribellione nei confronti della madre – ma sentire il nome del suo ex-ragazzo come sempre le provocò una sensazione strana nel petto, una via di mezzo tra il voler far finta di niente e il desiderio di spingere la conversazione in quella direzione anche solo per avere una scusa per parlare di lui.
“Più tardi?” disse invece, mentre Gwyneth si alzava e versava il caffè in due tazze. “Questo pomeriggio c’è una riunione di famiglia dai miei nonni.”
Gwyn annuì, spingendo verso di lei una delle due tazze, quella blu con i pinguini che giocavano a hockey e la scritta ‘Happy Xmas’. “Louis ce l’ha detto,” convenne. “Ci incontreremo per pranzo.”
Rose avvolse le dita attorno alla sua tazza con i pinguini, da cui si sollevava un filo di fumo e il deciso aroma di caffè. L’altra versò nella propria bevanda un po’ di latte e mezzo cucchiaino di cannella; per sé aveva tenuto la tazza che usava sempre, a righe orizzontali bianche e rosse, che ricordava moltissimo uno di quei bastoncini di zucchero che si appendevano all’albero di Natale.
Per un momento, Rose si chiese come mai la maggior parte delle loro tazze recassero decorazioni natalizie, poi ricordò della passione di Gwyneth per la tradizione Babbana dei mercatini invernali – sospettava che anche questo fosse in parte dovuto a quella sua spiritosissima tendenza di voler far irritare la madre a tutti i costi. Fissa che era stata fomentata dalla loro coinquilina Cecilia, una ragazza stravagante e unica strega della sua famiglia, che invece aveva un gusto spasmodico per le cose inutili dall’aspetto imbarazzante e in particolare per i gadget legati alle festività. Aveva colmato la loro abitazione delle cose più stupide e trash, dal poggiapiedi a forma di maialino –  che grugniva soddisfatto quando qualcuno vi allungava sopra le gambe – al Colibrì Asciugacapelli, che Rose si era sempre rifiutata categoricamente di utilizzare, dal momento che era semplicemente ridicolo.
Cecilia raccattava la maggior parte di quelle scemenze in negozi Babbani di oggettistica e poi li incantava per renderli ancora più imbarazzanti, salvo alcune eccezioni che provenivano dai Tiri Vispi Weasley, dove neanche a dirlo la ragazza lavorava, come la moffetta di peluche che iniziava a emanare odori sgradevoli quando non si puliva il pavimento per troppo tempo.
Ogni anno Rose aveva il terrore del momento in cui arrivavano le festività natalizie, perché allora le sue coinquiline impazzivano letteralmente: prima o poi la sua salute mentale ne avrebbe ricavato danni seri, almeno a detta di Hugo.
Gwyneth era adesso intenta a divorare un’abbondante colazione a base di pane, marmellata e succo d’arancia. Rose sorrise tra sé, puntando di nuovo lo sguardo fuori dalla finestra.
Era stata quasi una casualità quella che aveva portato loro tre – o quattro, dal momento che Christine era spessissimo da loro e che inspiegabilmente andava molto d’accordo con Cecilia – a vivere insieme.
Era iniziato tutto quando Rose aveva rotto con Scorpius e si era ritrovata improvvisamente con la necessità di qualcuno con cui dividere l’affitto dell’appartamento in cui conviveva con il ragazzo. Sarebbe stato decisamente troppo per le sue finanze continuare a vivere lì da sola, ma era in una posizione molto comoda e per giunta non se la sentiva di abbandonarlo così in fretta, di rinunciare subito a tutto ciò che era stato.
La situazione era caduta a fagiolo, perché Gwyneth aveva deciso di essere stufa di vivere nel maniero di sua madre; tuttavia la casa aveva tre stanze, non due, e quando suo zio George le aveva detto che la sua nuova commessa stava cercando un posto a Londra, Rose ne aveva approfittato.
Proprio in quel momento, Cecilia fece il proprio ingresso in cucina, avvolta nella sua vestaglia da panda, appellando una tazza gigante a forma di rana, incantata per gracidare davvero.
Rose sorrise.
 
*
 
24 settembre 2027
Hogwarts, Scozia
Ora di pranzo
 
Poche ore più tardi, avviandosi in Sala Grande per pranzare dopo essersi fatto una doccia negli spogliatoi, Fred Weasley si sentiva decisamente sconfortato. Le selezioni erano state come al solito lunghe e stressanti, e lui non riusciva neanche a rallegrarsi che fossero finalmente concluse, dal momento che con sua grande delusione Darren non era stato ammesso in squadra.
Bastien aveva selezionato come portiere Louie Anderson del Terzo Anno, mentre i nuovi Battitori erano Camden Shaw e Pip Antwis, rispettivamente del Sesto e del Quinto.
Fred era veramente triste e neanche la doccia calda l’aveva fatto sentire meglio. Sbuffò, risalendo lungo un crinale ricoperto d’erba. Aveva aspettato che tutti avessero abbandonato gli spogliatoi prima di chiudere l’acqua e uscire dal bagno, tamponandosi i capelli gocciolanti con un asciugamano. Non voleva incontrare Darren perché sapeva che non sarebbe riuscito a mascherare la delusione e non voleva ferirlo e al tempo stesso era arrabbiato e –
Ma non c’era nulla che potesse fare adesso, no? Poteva solo proseguire verso il castello e rallegrarsi della partenza prevista subito dopo pranzo, alla volta della Tana. Aveva bisogno di starsene un po’ lontano dai suoi amici per stemperare la delusione.
Gli sembrava di sentire la voce di sua sorella nelle orecchie.
Oh, Freddie, non farne una tragedia,” gli avrebbe detto Roxanne, scompigliandogli i capelli. “Non essere così melodrammatico.”
Ma era inutile immaginare cosa avrebbe detto Roxanne, perché Fred comunque non sarebbe riuscito a darle retta, non con questo stato d’animo. Era consapevole di esagerare un po’, ma la cosa che lo faceva davvero andare fuori dai gangheri non era tanto la mancata ammissione di Darren – okay, sì, anche quella – ma soprattutto il fatto che gli errori dell’altro fossero stati così stupidi
Doveva essere una giornata no.
Probabilmente anche Bastien l’aveva pensato, ma da Capitano non aveva potuto agire altrimenti. Non poteva dare la possibilità di una seconda prova a Darren solo perché era suo amico e l’aveva visto giocare altre volte, o anche gli altri candidati avrebbero chiesto un’altra opportunità.
E poi, anche se a Fred costava ammetterlo, Pip e Camden ai provini erano parsi funzionare proprio bene insieme: una coppia di Battitori davvero affiatati.
E Darren… D’accordo, forse Fred avrebbe dovuto prendere in considerazione che c’era la possibilità che non riuscisse ad entrare in squadra. Ma un conto era una prova non eccellente, un conto quello che DJ aveva combinato quella mattina! Sembrava proprio che stesse male o qualcosa del genere: mancava un bolide dietro l’altro – cercava di colpirli ma finiva per agitarsi a vuoto – e quando li colpiva finiva sempre per spedirli nella direzione sbagliata.
Non è giusto non è giusto non è giusto, pensava Fred martellando le parole tra i denti mentre finalmente superava il portone di quercia. C’era qualcosa che continuava a non tornargli: diamine, aveva visto Darren giocare in altre occasioni! Magari non era un fuoriclasse, ma neanche gli era mai parso tanto pietoso.
Si rassegnò a doverlo affrontare quando lo incontrò in Sala d’Ingresso: erano tutti lì – DJ, Bastien, Viola, Laurie, Winnie, Tessie e anche Max Dursley, che stava dando una pacca sulla spalla di Darren con aria dispiaciuta. D’altronde era un po’ presto per il pranzo, dunque era probabile che gli elfi domestici ancora non avessero Materializzato le portate dalle cucine.
Sospirò e si accodò a loro nel superare la soglia della Sala Grande. Per fortuna lo conoscevano abbastanza da sapere quando era il caso di lasciarlo stare, dunque si limitarono ad accoglierlo tra di loro senza dirgli nulla, anzi proseguendo la conversazione già in corso – anche se Viola gli gettò una lunga occhiata penetrante e Bastien gli sfiorò il braccio.
“… Non crucciarti, Darren!” stava dicendo Max, che continuava ad assestare all’altro robuste pacche sulla spalla – Fred temeva di vederlo sprofondare nel pavimento da un momento all’altro. “Magari Shaw cadrà dalla scopa prima della partita e potrai giocare comunque!” aggiunse il Tassorosso, nel suo solito inscalfibile ottimismo, dalle tinte a volte inconsapevolmente macabre – diamine se era bravo con i loro testi musicali più sinistri!
Entrarono nella Sala Grande ancora praticamente vuota, seguiti da gran parte degli studenti, tra cui i Serpeverde tutti in gruppo; li osservò di sottecchi dirigersi verso i loro posti: notò che Warrington stava sussurrando qualcosa all’orecchio di Harvey Higgs, con le labbra incurvate in un sorrisetto freddo. Higgs scoppiò a ridere rumorosamente e gettò un’occhiata beffarda in direzione… In direzione di DJ?
Fred aprì la bocca per dar voce all’improvviso, folle pensiero che aveva sfiorato la sua mente, ma non fece in tempo, perché non appena fece per sedersi sulla panca – e assieme a lui i suoi amici e il massiccio numero di Grifondoro che li avevano seguiti oltre la soglia della Sala Grande – un bruciore terribile si diffuse rapidamente su tutto il suo fondoschiena, costringendosi ad alzarsi di scatto. In pochi, rapidi istanti si accorse che anche i suoi amici e l’intera Casa di Grifondoro era stata costretta a fare lo stesso: quelli che avevano cercato di resistere si premevano le mani sul didietro contorcendosi in smorfie di dolore.
Una fattura urticante! Maledetti… Aveva ragione Viola, come al solito, e come al solito siamo stati stupidi a non darle retta!
Cercò lo sguardo dell’amica, che tuttavia era palesemente concentrata per resistere al dolore senza grattarsi… E allora Fred si rese conto che il bruciore si stava diffondendo su tutto il resto del corpo: si guardò le mani e le scoprì a ricoprirsi di piccole piaghe rossastre che pizzicavano tantissimo, e a giudicare dal prurito e da quel che vedeva sui volti altrui doveva essere così anche sulla sua faccia.
Questo era decisamente troppo. E Fred era davvero di cattivo umore.
Fu così che si precipitò al tavolo dei Serpeverde per dirne quattro a quei maledetti; non si voltò a controllare, ma sapeva che i suoi amici lo stavano seguendo con lo stesso fare bellicoso.
“Non provate neanche a dire che non siete stati voi!” sbottò, arrestandosi vicino a dov’erano seduti.
Stanley Warrington, che si trovava molto vicino a Fred, si voltò senza neanche alzarsi dalla panca, guardandolo con aria sprezzante.
“Sei sempre così agitato, Weasley,” osservò freddamente, con un’incredibile faccia da schiaffi. “Dovresti farti vedere.”
Elizabeth Dursley, seduta dall’altro lato del tavolo, monitorava la scena con occhi attenti.
“Che cos’è quella schifezza sulla tua faccia, Weasley?” fece invece Higgs, sghignazzando convulsamente.
Darren si fece avanti a testa alta, e Fred lo trovò stupendo nonostante tutte quelle bolle. “Credo proprio che stavolta non vi risparmierete una punizione,” fece in tono sorprendentemente calmo e con un’immensa dignità, nonostante fosse impegnato a grattarsi selvaggiamente una pustola sulla fronte. “Siete stati poco furbi.”
Warrington voltò ancora di più il capo verso di loro, con un sorriso sottile sulle labbra. “Ancora scosso per le selezioni, Jordan?” disse suadente. “Dev’essere stata una così grande delusione…”
Fred scattò in avanti, senza vederci più. “Che cosa hai detto?!” sbottò, afferrando Stanley per la collottola per costringerlo ad alzarsi.
Il Serpeverde superò con un passo la panca e si scostò bruscamente dalla sua presa, continuando a guardarlo dritto negli occhi quella sua aria beffarda, prima di sibilare tra i denti: “Ho detto che il tuo amico mi sembrava confuso, Weasley.”
Fu allora che Fred perse del tutto la testa, e non valsero a nulla le braccia di Bastien che erano corse a cercare di fermarlo. Si avventò contro Warrington a testa bassa e per un intervallo di tempo non misurabile il suo mondo si ridusse ad un universo decisamente ristretto di colpi e di pugni: un intervallo di tempo che finì probabilmente pochi secondi dopo, quando la forza magica di un Protego lo allontanò dal Serpeverde. Dolorante si guardò attorno, mentre l’adrenalina dello scontro sfumava e a tratti si accorgeva di Bastien che lo teneva ben saldo per evitare che si scagliasse di nuovo verso Warrington; i suoi occhi misero a fuoco Viola, che con la sua espressione più arrabbiata e le labbra che si assottigliavano faceva paura anche ricoperta di urticaria. La ragazza teneva la bacchetta sollevata – doveva essere stata lei a lanciare il Protego – e lo fissava gelidamente.
Fred si ritrovò a vergognarsi moltissimo. Si accorse di avere il labbro inferiore spaccato e passandoci sopra la lingua sentì il sapore del sangue.
“Venti punti in meno a Grifondoro per questa bravata così poco dignitosa, Fred,” fece Viola  con voce sferzante. Si voltò poi a guardare Stanley, che aveva un inizio di occhio nero e il viso pallido arrossato per lo sforzo. “E dieci punti in meno a Serpeverde per averlo provocato, Warrington,” sibilò ancora.
Apparentemente dal nulla comparve Ozzie Omega Ramkin, l’altro Caposcuola, che affiancò Viola, scandagliando la situazione. “Ci sono problemi?” domandò in tono professionale.
“Li ho risolti, Omega,” replicò Viola, scambiandosi uno sguardo d’intesa con il Corvonero. “Anche se noi Grifondoro siamo impossibilitati a pranzare, dal momento che quei furboni dei Serpeverde hanno gettato una fattura sul nostro tavolo.”
Alcuni professori e il preside giunsero in tempo per sentire le ultime parole di Viola.
“Chi è stato?” domandò subito Vitious, stringendo gli occhi.
“Non lo so esattamente, Preside,” fece lei, improvvisamente calma. Fred ringraziò ancora una volta di dover andare via con Hugo, perché sapeva che altrimenti lo avrebbe aspettato un discorsetto in Sala Comune, e i discorsetti di Viola riuscivano sempre a farlo sentire tremendamente in colpa. “Ma non ho dubbi che sia stato qualcuno di loro. Ne può vedere la prova su di noi.”
Fred guardò i suoi amici: avevano davvero un aspetto pietoso con tutta quella roba sulla pelle, ed era certo di non essere da meno. Non aveva mai detestato i Serpeverde come quel giorno.
Assieme a Vitious erano arrivati il professor Paciock e il professor Lumacorno, direttori delle due Case implicate. Il Preside si rivolse a quest’ultimo, guardandolo da sotto in su.
“Horace, lascio valutare a te se sia o meno opportuno cercare di individuare il colpevole,” disse con la sua voce sottile. “Nel frattempo, ritengo opportuno togliere venti punti a Serpeverde per questo scherzo.”
“Ma professore,” intervenne improvvisamente Warrington, “non ha le prove…”
“Mi fido abbastanza delle parole della signorina Tremlett e della reazione del signor Weasley da non ritenere necessarie altre prove, signor Warrington,” lo interruppe Vitious con un tono che non ammetteva repliche. “In quanto a Weasley…”
“Viola ha appena provveduto a togliere venti punti a Grifondoro per le azioni di Weasley, signor Preside,” intervenne allora Omega, scostandosi un ricciolo scuro dalla fronte.
Vitious annuì. “Bene. La professoressa Jones sta provvedendo a togliere la fattura dalle vostre panche, Grifondoro, così potrete mangiare anche voi.” Gettò un’occhiata di rimprovero a tutti quanti. “Spero che una simile eventualità non si ripeta più.”
Detto ciò voltò loro le spalle e si avviò al tavolo dei professori, seguito dal passo ballonzolante di Lumacorno.
Il professor Paciock, invece, si avvicinò a loro. Sembrava veramente arrabbiato.
“Sono costernato dal suo comportamento signor Weasley,” disse seccamente. “Penso che le siano stati tolti abbastanza punti, ma la violenza non è tollerata a Hogwarts. Pertanto, lei e il signor Warrington sarete in punizione con il signor Gazza una volta a settimana per un mese e mezzo.”
In punizione?!” sbottò Warrington indignato.
Insieme?!” esclamò Fred, orripilato.
Il professore li guardò. “Non una parola di più,” concluse, prima di allontanarsi a passo spedito.
Fred e gli altri si incamminarono insieme verso il tavolo di Grifondoro, dove finalmente gli studenti avevano cominciato a sedersi. Winnie, Darren, Max e Laurie parlottavano a mezza voce, probabilmente dicendo peste e corna dei Serpeverde; Tessie aveva un sorriso vago impresso sul volto e camminava ondeggiando, Viola sembrava ancora molto, molto arrabbiata.
Fred si scambiò uno sguardo con Bastien: come sempre, si capirono senza bisogno di parlare.
I Serpeverde vogliono la guerra? Allora, che guerra sia!
 
 
*
 
24 settembre 2027
Ottery St Catchpole
Pomeriggio
 
Per fortuna il tempo si era rimesso in sesto.
Sopra il giardino della Tana, le nuvole si erano aperte lasciando spazio ad un cielo di un azzurro un po’ annacquato e a tiepidi raggi di sole. Naturalmente nonna Molly ne aveva approfittato per apparecchiare fuori per il tè, aiutata da figli e nipoti che spediva fuori uno dopo l’altro carichi di dolci, pasticci e tazzine.
Nell’aria albergava una certa confusione: sembrava che tutti stessero parlando contemporaneamente e tutti a voce abbastanza alta; la piccola Clara correva in giro insieme a Remus, il multicolore figlio cinquenne di Teddy, probabilmente inseguendo gnomi da giardino.
Lily era contenta di rivedere lo zio Charlie e di passare una giornata con la propria famiglia al completo, per una volta, ma nonostante tutto era un po’ nervosa. Di lì a pochi giorni avrebbe avuto un esame e si sentiva stupidamente agitata all’idea di star passando il tempo mangiando e divertendosi invece che china sui libri.
… Forse ha ragione Al e sto diventando un’esaurita.
Rilassati, Lily. Ti farà bene una tregua.
Suo fratello era in piedi pochi passi più in là con Quinn, Freddie e zia Angelina; era assai probabile che stessero parlando di Quidditch, visti i soggetti.
Albus era cambiato abbastanza in quegli anni: giocare a livello professionale lo aveva irrobustito, nonostante mantenesse sempre il fisico esile di un Cercatore, proprio come loro padre; portava i capelli più corti e aveva smesso l’abitudine di passarci i capelli in mezzo per arruffarli ancora di più. Quinn invece era rimasta abbastanza simile, ma perse la goffaggine e l’impaccio dell’adolescenza si era rivelata decisamente più allegra e simpatica.
Lily osservò Fred: il cuginetto aveva ormai diciassette anni ed era diventato davvero un bel ragazzo, con la pelle color caffelatte ricoperta di lentiggini più scure; di solito aveva un’espressione spavalda e sfrontata, ma oggi…
Chissà perché le parve mogio.
“Sei riuscita a riemergere dal tuo antro di studio?” domandò una voce sottilmente beffarda.
Si voltò di scatto, affrettandosi a tramutare il sorriso spontaneo che le stava affiorando sulle labbra in una smorfietta. Se gliel’avessero detto quando erano ancora a Hogwarts, non avrebbe creduto che vi sarebbe stato un giorno in cui Hugo l’avrebbe presa in giro per l’ossessione per lo studio e non viceversa.
Gli assestò una leggera gomitata nelle costole. “Come sempre sei l’unico a trovare divertente il tuo umorismo,” lo rimbeccò, sollevando la propria tazza per sorseggiare un po’ di tè.
Accanto a lei, Hugo pescò l’ennesimo biscotto al burro dal piatto da portata che aveva direttamente tolto dal tavolo per portarlo con sé. “Non è vero,” disse con la bocca piena. “Il mio gemello cattivo mi trova esilarante.”
Questa volta non poté fare a meno di ridacchiare. Si voltò a guardarlo di sotto in su: Hugo indossava dei jeans e un pullover a trecce di lana verde scuro sferruzzato da nonna Molly. Portava i capelli legati in un codino sulla nuca e i sottili occhiali da vista appesi al collo del maglione.
Non lo avrebbe mai ammesso, ma sapeva che il cugino le sarebbe mancato molto nei mesi a venire. Si era ormai abituata a quella routine in cui studiavano tutti i giorni insieme alla Biblioteca Magica Britannica e inoltre adorava Hugo e ammirava tantissimo la sua intelligenza; tutte quelle cose brutte successe sei anni prima avevano sortito anche una conseguenza positiva: le avevano insegnato ad apprezzare ancora di più la presenza di coloro che amava, e Hugo era una delle persone a cui voleva più bene al mondo.
“Perché stai sorridendo così, Lily?” le domandò il cugino con aria sospettosa, brandendo un biscotto al burro come se fosse stato uno scudo. “Sei agghiacciante quando sembri dolce.”
“Allora?” gli chiese con un’altra gomitata, stavolta più scherzosa, evitando di rispondere. “Come vanno le cose a Hogwarts?”
Come prima cosa, Hugo scrollò le spalle, e Lily non poté fare a meno di pensare che non fosse esattamente un buon segno. “Freddie si è messo nei guai, oggi.”
Decisamente, non era un buon segno neanche il fatto che Hugo stesse cercando di sviare la conversazione. Tuttavia, per il momento gli diede corda.
“Solo oggi? Mi è giunta voce che abbia organizzato un concerto metal in Sala d’Ingresso, qualche giorno fa.”
“Vero anche quello.” Hugo sospirò. “Stavolta però l’ha fatta più grossa. Ha preso a pugni un ragazzo del suo stesso anno.”
Lily sbuffò. “Fammi indovinare, un Serpeverde?” Gettò un’occhiata in direzione del cugino più piccolo. “Non mi sorprende che abbia un’aria così depressa: immagino che zia Angelina sia stata furiosa.”
“Non ne hai idea,” fece Hugo. “Ero presente quando si sono incontrati. La zia aveva già ricevuto una lettera da Neville riguardo a quello che è successo, ed era furiosa. Penso che anche più del gesto in sé la faccia arrabbiare che Fred non cerchi minimamente di limare la rivalità tra le Case.”
“E lo zio George cosa ha detto?”
“Lo conosci, ha detto a Freddie che non approvava affatto però poi ha fatto un paio di battute per sdrammatizzare.”
Lily annuì. “Ho capito.” Gli scoccò un’occhiata in tralice. “Ma io volevo sapere di te, Hugo. Come sta andando?”
“Va tutto bene,” le disse lui con una voce che non la convinse neanche un po’. “Il lavoro è impegnativo ma mi piace. Vado abbastanza d’accordo con il Professor Fortebraccio ed è bello essere di nuovo a Hogwarts con la prospettiva di potervi insegnare, magari, un giorno. In più mi hanno messo a dormire nella Torre di Corvonero, mi piace essere di nuovo lì… Va tutto bene.” ripeté.
Lily sollevò le sopracciglia. “Ma… ?”
Le spalle di Hugo scrollarono di nuovo mentre la sua fronte si aggrottava. Lo vide deglutire. “Ma a Hogwarts c’è anche Tony Menley.”
Le parole del cugino impiegarono qualche secondo prima di essere assimilate dal cervello di Lily. “Che cosa?!” non riuscì a fare a meno di sbottare a voce un po’ troppo alta, attirando lo sguardo vagamente sospettoso di buona parte del parentado.
Dall’aria ansiosa di Hugo capì che non aveva la minima intenzione di parlare di Menley con chiunque della famiglia che non fosse lei. “Ma quindi terrai anche tu delle lezioni?” rimediò in fretta, con un tono di voce abbastanza alto perché tutti potessero sentirla senza che sembrasse strano.
“No, non ancora, hai capito male…” Hugo stette al gioco finché l’attenzione dei familiari non fu riassorbita dalle precedenti conversazione e loro due riuscirono a tornare alla propria.
“Scusami,” fece poi Lily con un tono più basso, “non volevo alzare così tanto la voce, è che sono rimasta sconvolta! Che cosa ci fa Menley di nuovo a Hogwarts? Ti sta perseguitando, per caso?”
“Tutt’altro, non sembra per niente felice di essere tornato,” replicò Hugo in tono vagamente amaro. “Sta facendo un tirocinio con un professore di Storia dell’Arte Magica, un tale Bulstrode: è stato obbligato a seguirlo a Hogwarts per un seminario. Li ho incontrati già martedì mattina sul treno e sono stato costretto a fare tutto il viaggio con loro per non essere maleducato con il professore.”
Lily non riusciva a crederci. “Certo, Hugo, che hai proprio una bella sfiga,” commentò comprensiva. “E com’è andata? Come si sta comportando?”
Ancora una volta, il cugino scrollò le spalle. “Perlopiù mi evita.” Le sue sopracciglia erano tornate ad aggrottarsi e le labbra a stringersi mentre il suo sguardo si perdeva nel vuoto: sembrava preoccupato. “È strano, Lily. Ho come l’impressione che voglia isolarsi, come se stesse costruendo un muro che lo separa dal resto del mondo. L’ho incrociato solo raramente, ho parlato con lui pochissimo e ogni volta riesce a rendere la conversazione sterile… Mette intorno a sé una barriera che è impossibile superare perché non sembra minimamente interessato al contatto umano.”
Lily sospirò leggermente, dispiaciuta e al contempo sottilmente irritata. Detestava vedere Hugo così teso quando avrebbe meritato di essere tranquillo e non sopportava Tony Menley, che era adesso era rispuntato per portargli via la serenità.
Inoltre, non le piaceva che Hugo apparisse tanto coinvolto. “Ma tu vuoi superare quella barriera, Hugo?” chiese direttamente. “Perché mi sembra che te ne preoccupi un po’ troppo.”
Dal sospiro di Hugo, seppe che lo stesso pensiero doveva aver sfiorato anche la mente del cugino, nei giorni passati. “Lo so, Lily,” fece con voce venata di stanchezza. “Solo che non riesco a liberarmi della sensazione che ci sia qualcosa di strano. So che non dovrebbe essere una mia preoccupazione, ma vorrei capire perché si comporta in questo modo.” Detto ciò tacque, abbassando lo sguardo.
Lily sbuffò leggermente. “Vuoi sapere quello che penso?”
Il cugino alzò gli occhi. “Sì, anche se sono sicuro che non mi piacerà.”
Lei strinse per un istante le labbra, risoluta, prima di procedere in tono sicuro ma gentile. “Penso che dovresti lasciarlo perdere, Hugo. So che ti senti in qualche modo legato a lui per tutto quello che è successo sei anni fa, ma non deve essere così. Se anche ha cercato di aiutarti, l’ha fatto in un modo inquietante e di nascosto, con l’unico effetto di terrorizzarti ancora di più.” Automaticamente, sollevò il braccio per accarezzare appena il braccio del cugino. “In tutti questi anni ogni volta che ti scriveva una di quelle sue stupide lettere restavi sconvolto. Non è riuscito a capire che doveva solo lasciarti in pace.”
“Ma mi ha scritto a malapena un paio di lettere l’anno,” replicò Hugo flebilmente.
Lily scosse la testa, piegando appena il collo. “Non è questo il punto, Hugo. Ti stai facendo carico dei suoi problemi senza neanche sapere quali siano. Mi sembra di aver capito che la sua presenza ti mette solo a disagio, quindi dai, pensa che almeno non devi essere tu a evitarlo. Ci sta pensando lui!” gli fece l’occhiolino per sdrammatizzare, visto che Hugo sembrava sempre più triste e confuso.
Questa non ci voleva. Non adesso che nella sua vita stava andando tutto per il meglio…
Hugo parve apprezzare il tentativo, perché abbozzò un sorriso e le strinse la mano che lei ancora non aveva tolto dal suo gomito. Lily pensò che fosse un bene che si fosse confidato con lei invece di rimuginare in solitudine sulla questione, eppure…
Eppure aveva l’impressione che le proprie parole non avessero sortito alcun effetto.
 
*
 
24 settembre 2027
Ottery St Catchpole
Pomeriggio
 
Nel giardino della Tana albergava un allegro caos e Rose tutto sommato poteva ritenersi contenta di essere lì, dal momento che era circondata da persone che le volevano bene e per loro poteva sopportare una certa dose di confusione.
Fino a pochi secondi prima stava parlando con Ted Lupin dell’ultimo corso su Shakespeare che aveva seguito all’università, ma poi l’altro era dovuto correre a sedare un litigio tra il figlio Remus e la piccola Clara e lei era rimasta in piedi appoggiata alla staccionata, con tra le mani una tazza di tè che si stava raffreddando. Ridacchiò nel vedere i capelli di Ted imitare il colore che stavano prendendo quelli di Remus per consolarlo della litigata.
Si guardò intorno e individuò presto sua madre, minuta e con una selva di ricci crespi ancora completamente castani; era in piedi accanto allo zio Harry, nei cui capelli corvini si iniziava invece a intravvedere qualche filo grigio. Con loro c’era suo cugino Louis: Rose suppose che Hermione si stesse facendo raccontare qualcosa delle ultime indagini – nella sua famiglia vigeva un concetto assai elastico di segreto professionale, mentre da Gwyneth non riusciva mai a cavare un ragno dal buco a caso ancora in corso – dunque si avvicinò senza esitare, incuriosita.
“… E sono scomparsi così, all’improvviso?” stava chiedendo sua madre.
Lo zio Harry sospirò, ma fu Louis a parlare: “Stiamo ancora cercando di capire esattamente come, e una volta chiarito questo sarà già un punto di partenza.”
“Capisco,” sua madre annuì con aria concentrata. Rose a volte si chiedeva per quale stupidissima ragione non avesse fatto l’Auror, dal momento che le sarebbe palesemente piaciuto moltissimo e probabilmente aveva più cervello di tutto il Dipartimento messo assieme – nulla togliendo a suo padre, lo zio e i cugini, ovviamente – ma poi ricordava che si trattava nientemeno di Hermione Granger, paladina dei deboli, e la sua scelta di essere un MagiAvvocato le appariva nuovamente sensata. “Dunque non c’è ancora modo di capire come sia avvenuta la rapina… Mi sembra di aver letto qualcosa–”
“Che rapina?” la interruppe però Rose, reputando che fosse un momento adeguato per intervenire.
L’attenzione dei tre si rivolse verso di lei e Louis, dispettoso come al solito, si sporse per buttarle un braccio sulla spalla e scompigliarle tutti i capelli con la mano libera. Rose si divincolò, in tempo per sentire le ultime parole di una frase pronunciata dallo zio Harry.
“… Museo Magico Britannico.”
“Al Museo Magico Britannico?” ripeté Rose, aggrottando le sopracciglia. “Una rapina?”
“Proprio così,” replicò Louis. “Ma non li leggi i giornali? Era in prima pagina.”
“Non, molto, ultimamente,” ammise lei, passandosi le mani tra i capelli in un tentativo di riordinarli almeno un po’. Aveva improvvisamente rammentato un episodio dell’estate appena trascorsa. Doveva essere successo a metà giugno o giù di lì… Uno dei suoi clienti abituali, un bel ragazzo poco più grande di lei di nome Rick Murphy, era stato sospeso dal lavoro perché era avvenuta una rapina proprio mentre lui era un servizio. Rick lavorava alla National Gallery di Londra, come guardiano notturno o qualcosa del genere; la filiale di Caffè Nero in cui lavorava Rose si trovava proprio in Trafalgar Square, dove si affacciava un’ala del grande museo Babbano.
È mai possibile
Probabilmente non c’entrava niente, rifletté: era anzi assai poco probabile che i due furti avessero qualcosa a che fare l’uno con l’altro, dal momento che erano avvenuti in due musei letteralmente appartenenti a diversi mondi. Tuttavia le pareva di ricordare che i Babbani non avessero saputo che pesci prendere, almeno a giudicare da quello che aveva sentito da Caffè Nero, e in ogni caso sarebbe stato sciocco non condividere quell’informazione con gli Auror.
“Zio Harry,” disse in fretta. “Quest’estate è avvenuta una rapina alla National Gallery.”
“È vero,” le fece eco improvvisamente una voce. Lizzie Dursley sembrava essersi Materializzata al suo fianco – aveva sempre avuto questa inquietante capacita di comparire senza preavviso – e Rose notò che portava un nuovo taglio di capelli molto grazioso, corto alle orecchie. “Mi ricordo di averlo sentito al telegiornale quest’estate.”
Vide Louis strabuzzare gli occhi – probabilmente si stava chiedendo cosa fosse un telegiornale – e subito dopo farsi estremamente attento. “Una rapina ad un museo Babbano? Riuscite a ricordare altri particolari.”
Lizzie si mordicchiò il labbro inferiore e scosse la testa, ma Rose aggrottò le sopracciglia, sforzandosi di ricordare le parole di Rick.
 
“E io non c’entro niente, Rose. Le telecamere sono diventate nere di punto in bianco! Ho subito fatto partire l’allarme, ma quando è arrivata la polizia quelli erano già scomparsi. Mi hanno sospeso… Ma l’hanno visto anche loro, dopo, che le telecamere erano tutte nere.
 
“Conosco un ragazzo che lavorava lì,” fece Rose, guardando prima lo zio Harry, poi Louis e infine sua madre. “Un Babbano. Era di turno la notte della rapina. Mi ha detto che i video di sorveglianza sono diventati di colpo completamente neri e dev’essere accaduto tutto in pochissimo tempo, visto che i ladri se n’erano già andati quando è arrivata la polizia.”
Osservò distintamente lo zio scambiarsi uno sguardo con Louis, ed era uno sguardo che conosceva benissimo per esserselo scambiato ripetutamente con suo fratello e i cugini, nel corso dell’ultimo anno di scuola.
Quello sguardo rivelava che l’informazione che lei aveva fornito poteva avere una certa importanza, dopotutto; ma soprattutto, significava guai.
 
 
 


Note dell’Autrice
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Mi scuso per il preannunciato ritardo, ma ho ritenuto opportuno far slittare l’aggiornamento di una settimana per avere pronte più parti dei capitoli successivi (mi si prospetta un mese d’inferno, da adesso a Natale!).
Spero che la storia vi stia piacendo! Se avete tempo/voglia, lasciate un cenno del vostro passaggio, ché qualche commento fa sempre piacere e mi rassicurerebbe sull’andamento della storia.
Grazie <3
Daph





 

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Capitolo 7
*** 6. Zuppa al pomodoro ***


CAPITOLO SESTO
 
Zuppa al pomodoro
 
 
 
 
Non era la prima volta che Rose metteva piede nel Dipartimento Auror. Dopotutto suo padre lavorava lì sin da quando era piccola: ricordava benissimo quelle volte in cui Ron Weasley si era caricato lei e Hugo per mostrar loro “dove lavora papà” e li aveva portati con sé al Ministero della Magia.
Da bambina il Dipartimento le aveva impresso un senso di soggezione e timoroso riguardo: il corridoio le sembrava enorme e infinito, le facce dei criminali in movimento attaccate alle pareti le avevano trasmesso una profonda inquietudine. In quel luogo tutti i suoni parevano riecheggiare confusamente e tutto le era parso così serio, così grave
Ma poi aveva raggiunto l’ufficio che suo padre divideva con lo zio Harry ed ecco foto di famiglia e disordine, un senso di calore ben diverso dall’oscurità dei lunghi corridoi.
Anche adesso, a ventitré anni compiuti, il nervosismo le stringeva lo stomaco mentre percorreva quello stesso corridoio, che appariva meno enorme ma ugualmente interminabile e vagamente opprimente. Ogni tanto incrociava qualche Auror; si sforzò di non far caso a loro, concentrando lo sguardo sulla schiena di Gwyneth, che la precedeva in mezzo alle pareti rivestite di giornali.
Aveva ventitré anni e il nervosismo che non mollava la presa nel suo petto adesso si era arricchito di diverse sfumature.
D’un tratto, troppo presto per i suoi gusti, Gwyneth s’infilò dentro una porta e Rose non poté evitare di seguirla, mentre il cuore le risaliva in gola per poi ricadere giù, con un brusco tonfo sullo stomaco.
Sapeva chi avrebbe trovato in quella stanza: lo sapeva fin da quando aveva accettato di lasciare una deposizione agli Auror riguardo quel che sapeva sulla rapina alla National Gallery.
“È necessario che tu venga a rilasciare una deposizione ufficiale, Rose,” le aveva detto lo zio Harry, spiegandole poi con un certo imbarazzo che non si poteva fare altrimenti, visto che in teoria ci sarebbe stato il segreto professionale e in quanto Capo del Dipartimento era lui stesso a rispondere al Ministro del modo in cui veniva a conoscenza delle informazioni.
Naturalmente Rose aveva accettato: non voleva certo rifiutarsi di collaborare a un’indagine!
L’ufficio assegnato alla squadra di Gwyneth era piccolo e affollato di oggetti, a un livello di disordine che probabilmente Lily avrebbe trovato ai limiti del sopportabile. La finestra incantata mostrava un falsissimo cielo terso e sgombro da nubi, smentito dal diluvio che in realtà stava precipitando su Londra.
Chissà come, nell’angusta stanzetta erano state incastrate tre scrivanie e due schedari traboccanti di carte; le pareti erano fitte di ritagli di giornale, fotografie, mappe e fogli ricoperti di appunti in cui si accavallavano tre diverse grafie.
Rose si costrinse a distogliere l’attenzione dall’ambiente in cui si trovava, per concentrarsi invece sulle persone presenti nella stanza. Suo cugino Louis era seduto in una posa languida dietro una delle scrivanie, con le mostrine e il distintivo da tenente a brillargli sull’uniforme. Accanto alla finestra era invece in piedi un giovane uomo piuttosto alto, dai capelli biondi più in disordine e corti di quanto Rose ricordasse. La sua espressione era seria e gli occhi grigi puntavano su di lei.
Era più di un anno che non lo vedeva; nel posare lo sguardo su di lui percepì una morsa stringerle il petto. Si sentì curiosamente molto felice e molto triste al tempo stesso.
“Ciao, Rose,” disse Scorpius; lei si ritrovò a sorridere incerta e a salutarlo a propria volta, prima di concentrarsi su Louis e rispondere al suo cenno di benvenuto.
“D’accordo, cugina,” le disse allegramente lui. “Bando ai convenevoli.” Con un gesto la invitò a sedersi su una sedia accanto alla propria scrivania. Rose obbedì, scavalcando una pila di fogli per raggiungere il posto libero.
Adesso dava le spalle a Scorpius, ma le pareva di percepire con chiarezza la sua presenza e lo spazio che occupava nel piccolo ufficio, forse persino il suo sguardo fisso sulla propria nuca.
Con uno sbuffo, Gwyneth si sedette su un angolo della scrivania di Louis. “Allora, Rosie,” le disse in tono spiccio, “spiegaci tutto dall’inizio.”
Anche Scorpius si spostò dalla finestra fino a piazzarsi in piedi alle spalle del collega. Rose deglutì. “D’accordo,” esordì. “Da circa un anno ho iniziato a lavorare al Caffè Nero di Trafalgar Square. È un locale Babbano che fa parte di una catena,” si affrettò a spiegare, visto che Scorpius aveva sollevato leggermente le sopracciglia in segno di perplessità. Nel frattempo, una Prendiappunti aveva iniziato a segnarsi qualche nota su un piccolo blocco con la spirale. “Uno dei clienti abituali è un ragazzo Babbano di nome Chris Murphy, che lavorava alla National Gallery come guardiano notturno.” Aggrottò le sopracciglia, sforzandosi di pensare a cosa potesse essere utile sapere per gli Auror. “La National Gallery si affaccia su Trafalgar Square,” proseguì. “Il lavoro di Chris era tenere d’occhio le telecamere di notte; veniva sempre a prendere un caffè nel posto in cui lavoro prima di iniziare il suo turno.”
“Per che ora iniziava?” la interruppe Scorpius in tono professionale.
Lo stomaco di Rose si strinse nuovamente al suono della sua voce. “Intorno alle nove.”
L’Auror assottigliò gli occhi. “Grazie,” borbottò, “prosegui pure.”
Si mordicchiò il labbro. “Questa estate, in giugno, è accaduta una rapina alla National Gallery. L’ho saputo perché se ne parlava al lavoro… Da quel giorno non ho più visto Chris per un paio di mesi. È passato a trovarmi in agosto dicendomi che era stato licenziato dal museo… Ma una settimana prima aveva trovato un nuovo lavoro come portiere in un albergo.” Deglutì. “In quell’occasione mi ha anche detto qualcosa sulla rapina al museo… Ha detto che non era stata colpa sua, che c’era stato un guasto alle telecamere. Qualcuno doveva averle manomesse, perché gli schermi sono diventati improvvisamente scuri. Tutto dev’essere accaduto in pochissimo tempo. Chris ha dato subito l’allarme, ma quando è arrivata la sicurezza i ladri erano già spariti con alcuni quadri molto preziosi.” Si concentrò col pensiero sul ricordo di quel giorno d’estate, appena un mese prima, cercando di raccogliere dai recessi della memoria quali altre parole avesse pronunciato Chris. “Il guardiano notturno è stato trovato svenuto senza alcun ricordo dell’accaduto.” Aggrottò le sopracciglia. “I Babbani hanno pensato che avesse ricevuto un colpo alla testa, mi ha detto Chris… Ma ricordo di aver pensato che somigliasse tutto molto ad uno Schiantesimo seguito da un incantesimo di memoria.”
Per qualche istante nella piccola stanza calò il silenzio, con l’eccezione del lieve grattare della Prendiappunti sul block-notes. Poi anche quella tacque, tornando a depositarsi ordinatamente nel portapenne su una delle tre scrivanie.
Allora Louis parlò. “Avevi pensato bene.” Si passò una mano tra i capelli. “Riguardo allo Schiantesimo e all’incantesimo di memoria, dico. Probabilmente le cose sono andate proprio così. Avresti dovuto fare l’Auror, cugina.”
A quelle parole, Rose non riuscì a impedirsi di provare un caldo moto di soddisfazione all’altezza dello stomaco. Sentì su di se gli occhi di Scorpius, quindi sollevò lo sguardo su di lui e lo trovò a osservarla con le labbra incurvate in quello che sembrava un sorrisetto nostalgico.
Fu allora che Rose capì perché si era sentita tanto felice e tanto triste al tempo stesso.
È perché ti è mancato, stupida.
 
Pochi minuti dopo la deposizione di Rose era finita e lei stava percorrendo a passo calmo un corridoio del Dipartimento. Nonostante non fosse andata poi così male, sentiva l’urgenza di andarsene al più presto, di tornare nel mondo Babbano lì fuori appena fosse stato possibile; sperava con tutto il proprio cuore di non incontrare nessuno che conoscesse.
La presenza di Gwyneth e Scorpius ai suoi lati come due guardie del corpo era, doveva ammetterlo, in qualche modo rassicurante.
“Cosa farete adesso?” domandò a bassa voce.
Scorpius la guardò, sorridendole dall’alto. “Andremo alla National Gallery a chiedere di vedere i video della sorveglianza… Mi è venuta una mezza idea.”
“Scorpius.” Gwyneth intervenne severa. “Segreto professionale ti dice qualcosa?”
“Ah, già,” replicò il giovane con voce annoiata. Il suo sguardo incontrò quello di Rose ed entrambi rotearono gli occhi.
Subito dopo, lei sentì come un colpo nel petto.
Notò improvvisamente che erano passati ad un’ala del dipartimento molto meno silenziosa, che anzi riecheggiava di tonfi, strilli e botti. Gwyneth rispose al suo sguardo interrogativo con una scrollata di spalle. “Hanno spostato qui un paio di classi dell’Accademia,” spiegò.
Passarono davanti ad una porta aperta: Rose rimase indietro di un paio di passi per dare una sbirciata dentro, incuriosita.
Fu in quel momento che accaddero più cose in rapida successione, quasi in contemporanea: la ragazza udì un grande botto e vide un alone di densa luce aranciata investirla in pieno, ributtandola indietro fino ad andare a sbattere sulla parete opposta del corridoio. Allora percepì un dolore a entrambe le gambe così forte da farla strillare.
“Rose!” la vista annebbiata dal dolore, riconobbe vagamente la figura di Scorpius che si precipitava al suo fianco. “Rose,” udì come da molto lontano. “Ora ti portiamo al San Mungo.”
“No,” si sentì dire con una voce che non pareva la sua. “Voglio andare ad un ospedale Babbano...”
“Non essere ridicola, Rose.” Questa era Gwyneth, ma Rose non poté udire altro, perché non sentì più nulla e tutto divenne nero.
 
 
*
 
 
Quando Rose aprì gli occhi, scoprì di trovarsi in un ambiente soffice e ovattato, innaturalmente illuminato dal freddo bagliore di sfere luminescenti sospese a mezz’aria.
Si sentita intontita e per adesso riusciva solo ad essere consapevole di trovarsi distesa in un letto comodo, tra lenzuola pulite, finché una voce familiare non costrinse il suo cuore a fare un balzo; le sue orecchie raccolsero poi il suono di una porta che si chiudeva e un rumore di passi.
Poi vide qualcuno avvicinarsi.
“Scorpius?” domandò con voce rauca, che risultò stranamente stridente rispetto al silenzio morbido di quella stanza.
“Mi dispiace, Weasley,” disse allora un’altra voce, altrettanto familiare ma decisamente meno gradita. “Scorpius è appena andato via.”
Rose aggrottò le sopracciglia e sollevò lo sguardo, incontrando il viso di un giovane uomo dai capelli neri e l’aria beffarda.
“Greengrass?!” sbottò, senza riuscire a impedire al proprio tono di uscir fuori scocciato.
Aveva accettato che gli occhi di Lily fossero solo per qualcuno che lei non apprezzava minimamente e non aveva problemi a tollerarne la presenza alle cene di famiglia, ma questo di certo non significava che Greengrass avesse cominciato a piacerle.
“Proprio io,” disse Jake, e Rose fu certa di vederlo sogghignare. Doveva trovare la cosa tetramente divertente. “Non sei felice di vedermi?”
Ignorò la sua uscita e si guardò attorno, anche se ormai le era abbastanza chiaro di trovarsi al San Mungo. Ricordava l’incantesimo che le era finito addosso per sbaglio spezzandole le ossa delle gambe; ricordava anche di aver perso i sensi per il dolore poco dopo. Scorpius si era precipitato al suo fianco quando l’aveva vista cadere… Avrebbe desiderato non sentire il cuore gonfiarsi come un palloncino al solo pensiero.
Solo io potevo essere così sfigata da beccarmi in pieno l’incantesimo sbagliato di uno stupido allievo Auror passando davanti ad una porta. Solo io.
“Perché mi hanno portata qui?” domandò brusca a Greengrass, che nel frattempo aveva cominciato ad armeggiare con un carrello di pozioni e fischiettava tra sé, mostrandosi del tutto rilassato – Rose era certa che lo facesse per farle saltare i nervi. Doveva averle fatto qualcosa alle gambe, dal momento che non sentiva più dolore.
Il giovane sollevò la testa e la guardò inarcando le sopracciglia. “Come, scusa?”
Appariva piuttosto serio e anche vagamente seccato.
Rose sbuffò. “Perché mi hanno portata qui?” ripeté. “Avevo chiesto di andare in un ospedale Babbano.”
Greengrass le parve alquanto seccato. “Perché in ospedale Babbano ti avrebbero operata e ingessata, e non avresti potuto camminare per chissà quanto,” rispose con il tono di un brusco rimprovero. “Invece io posso farti tornare in piedi tra mezz’ora. Sono qui per fare il mio lavoro e aggiustarti le ossa, non per costringere a restare tra noi più tempo del necessario.”
Rose rimase in silenzio, perché non avrebbe mai ammesso ad alta voce che l’altro avesse ragione. Quanto meno, se le cose stavano come aveva detto Greengrass, di lì a mezz’ora avrebbe potuto allontanarsi da lì e tornare a immergersi nella caotica, inconsapevole, rassicurante folla delle strade londinesi.
Osservò Greengrass agitare la bacchetta, mandando una lozione a depositarsi sulle sue gambe.
“Bevi questo,” le ordinò poco dopo, porgendole un bicchiere colmo di un trasparente liquido verdastro dall’aria poco gradevole. Rose lo prese storcendo il naso, per scoprire con sorpresa che era dolce ma quasi insapore, come acqua zuccherata.
Non vedeva l’ora di andarsene da lì.
“Nessuno cerca di obbligarti a tornare tra noi,” ripeté Greengrass pigramente, quasi avesse indovinato il suo pensiero. “Anche se, certo, alcuni lo vorrebbero.” Nel frattempo continuava ad agitare la bacchetta, facendo chissà cosa. “Non è che vorresti avere le gambe un po’ più lunghe? Forse potrei farti guadagnare qualche centimetro in più d’altezza,” aggiunse in tono sarcastico, come per stemperare l’affermazione di poco prima.
Questa volta lei raccolse la provocazione. “Non è che tu sia particolarmente alto, Greengrass,” borbottò.
L’altro scrollò le spalle. “Mi piaccio moltissimo così come sono,” si limitò a replicare, per poi tornare a lavorare in silenzio.
Mentre lo lasciava fare, la mente di Rose corse improvvisamente alle parole udite poco prima.
“Anche se alcuni lo vorrebbero.”
Che si riferisse a Scorpius?
Ma quanto sei stupida, si disse. Certo che si riferiva a Scorpius. Chi altri, sennò?
Proprio come poche ore prima, durante la sua deposizione agli Auror, il suo stomaco sprofondò mentre si trovava costretta ad affrontare la realtà del fatto che Scorpius le mancava.
Sentiva una profonda nostalgia della presenza del ragazzo nella propria vita. Nei primi tempi dopo la rottura si era detta che questo fosse dovuto alla quotidianità, all’abitudine di averlo sempre al proprio fianco. Ma adesso erano passati due anni, la sua vita aveva preso nuovi ritmi da un pezzo e la routine di ogni giorno non comprendeva affatto la presenza di Scorpius.
Eppure quella mattina si era ritrovata ad ammettere che, nonostante si fosse abituata alla sua assenza da un pezzo, non aveva mai smesso di sentire la sua mancanza. Quando l’aveva visto all’ufficio Auror si erano scambiati pochissime parole e lei si era ritrovata a desiderare che ne seguissero molte altre, a pensare a quanto sarebbe stato bello sedersi in un pub a bere una Burrobirra e parlare, parlare per ore come facevano un tempo…
Nessuno era mai stato in grado di capirla come faceva Scorpius, eccetto per suo fratello Hugo.
“Ho finito.” La voce di Greengrass la riportò improvvisamente alla realtà, ma non ne fu troppo contenta. “Sei libera di andare.”
Rose annuì, sentendosi stranamente assente, e buttò le gambe oltre la sponda del letto per alzarsi. Il Guaritore aveva fatto un buon lavoro: le pareva che l’incidente della mattinata non fosse mai avvenuto e anche il dolore al ginocchio destro che sentiva di tanto in tanto pareva essere sparito. Le sue gambe erano tornate come nuove, ma pareva che Greengrass alla fine non l’avesse fatta diventare più alta.
Peccato.
Sentì un rumore secco e si accorse che l’altro aveva chiuso le tendine attorno al suo letto con un colpo di bacchetta per consentirle un po’ di privacy nel cambiarsi. Rose si tolse in fretta il pigiama del San Mungo, tornando a infilarsi rapidamente i jeans e la camicia a scacchi. Abbottonò il golfino, si ravviò i capelli e infine aprì le tende.
Con la coda dell’occhio vide che Greengrass stava mettendo in ordine la stanza agitando la bacchetta. Le parve di udirlo brontolare qualcosa riguardo al fatto che i Medimaghi fossero pagati per scomparire quando aveva bisogno di loro.
Sospirò e si chinò per allacciarsi le scarpe, prima di raccogliere le proprie cose e alzare di nuovo lo sguardo sul ragazzo.
“Beh… Grazie?” fece esitante.
“Non devi ringraziarmi,” replicò lui seccamente. “Ho fatto solo il mio lavoro.”
Rose annuì. “Già. È vero.” Si ritrovò ad accennare un sorrisetto. Improvvisamente si sentiva sfinita, e anche la testa aveva cominciato a girarle.
Ovviamente questo non sfuggì alla vista acuta di Greengrass, che immediatamente le si accostò, assottigliando gli occhi, e le agguantò il polso.
“Hai la pressione bassa,” la informò. “Hai saltato il pranzo, dovresti mangiare qualcosa.”
“Va bene,” Rose annuì in fretta, pensando di prendere dei tramezzini al primo minimarket che avrebbe incontrato lungo la strada.
Tuttavia, Greengrass pareva di tutt’altro avviso; gettò un’occhiata all’orologio da polso prima di dire: “Il mio turno finisce ora. Ti accompagno a prendere qualcosa al caffè dell’ospedale.”
La testa di Rose girò più forte… Doveva riconoscere che si trattava di un’offerta ragionevole e a dire il vero temeva di svenire di nuovo da un momento all’altro, dando ancora più spettacolo.
Sospirò, prima di seguire Greengrass fuori dalla stanza.
 
 
*
 
 
Seduta al caffè del San Mungo con davanti una scodella di zuppa al pomodoro e una tazza di tè verde, Rose si sentì subito meglio, nonostante la bizzarria della situazione attuale fosse incarnata dalla persona di Jacob Greengrass, seduto di fronte a lei e intento a sorseggiare un caffè.
Prese del pane e iniziò a ricoprirlo di burro con un coltellino. La zuppa era calda e gustosa e con suo grande sollievo i tavolini di plastica della caffetteria erano quasi vuoti; non avevano incontrato nessuno che conoscesse durante il percorso per l’ultimo piano, con l’eccezione di Viviana Davis. La ragazza era stata una Serpeverde dell’anno di Dominique e a Rose non era mai piaciuta molto. Greengrass doveva essere dello stesso avviso, dal momento che aveva liquidato la Medimaga a tempo record. Con suo enorme sollievo.
Ironico il fatto che ci detestiamo ma abbiamo gli stessi gusti in fatto di persone. Lui sta con la mia cugina preferita, io stavo con il suo migliore amico ed entrambi siamo amici di Gwyneth e Christine.
Ma era poi vero che Greengrass la detestava? Dopotutto era stato gentile ben al di là di quanto il dovere professionale avrebbe imposto.
Gli scoccò un’occhiata di sottecchi. Non avrebbe mai capito cosa ci trovasse Lily in lui: era strafottente, arrogante e neanche troppo carino, per i suoi gusti.
Forse perché preferisci i biondi?, osservò una vocina nella sua testa, inquietantemente simile a quella della cugina.
Sta zitta, Lily, pensò. Si concentrò sul cibo: Greengrass aveva avuto ragione sul calo di pressione… Una fetta di pane e burro, poche cucchiaiate di quella densa zuppa e già si sentiva decisamente meglio.
“Allora, Weasley?” disse il giovane all’improvviso, distogliendola dai suoi pensieri. “Come vanno le cose? Infortuni a parte.”
Rose scrollò le spalle e sbocconcellò una seconda fetta di pane ricoperta di burro, prima di rispondere: “Non c’è male.”
Era così, in effetti. Le piaceva la direzione che aveva preso la sua vita, era appassionata alle materie che studiava e apprezzava molto la libertà di cui godeva nella Londra Babbana. Era complessivamente soddisfatta… Ma felice?
A volte si sentiva improvvisamente apatica e irritata. Erano momenti in cui percepiva un moto d’insoddisfazione, di solitudine investirle il petto, quasi d’abbandono; si ritrovava improvvisamente a chiedersi che senso avesse quel che stava facendo, e se quel senso di noia e mestizia l’avrebbe perseguitata per tutta la vita.
“Non c’è male,” ripeté. “Mi piace il mondo Babbano.”
Jacob annuì. Aveva un’aria distratta, ma Rose ebbe la sensazione che invece fosse piuttosto attento.
“E tu?” gli domandò.
L’altro scrollò le spalle. “Vorrei avere meno turni di notte,” replicò nel solto tono vagamente arrogante. “Ma sono piuttosto entusiasta della direzione che ha preso la mia vita.”
Rose capì che stava pensando a Lily, nonostante l’altro fosse estremamente bravo a non mostrare ciò che provava. La sua espressione era rimasta del tutto immutata ma il suo sguardo si era in qualche modo riscaldato.
Lo osservò per qualche secondo sorseggiare il suo caffè americano, prima di distogliere lo sguardo per tornare a posarlo sulla densità rosso scuro della zuppa al pomodoro.
“Weasley.” La voce di Greengrass raggiunse di nuovo le sue orecchie. “Hai ripetuto due volte non c’è male.”
“E allora?” replicò secca.
“Se fosse veramente così non avresti bisogno di rimarcare il concetto per convincertene.”
Rose sbuffò. Avrebbe dovuto sapere che c’era la fregatura, nascosta da qualche parte; non era possibile che stesse davvero sostenendo una conversazione gentile e priva d’imbarazzo con quel ficcanaso.
Avrebbe voluto rispondergli che non erano affari suoi, ma invece si ritrovò a dire. “Sei peggio di Christine e Lily messe insieme.”
Jacob sorrise serenamente. “Lo prendo come un complimento.”
“Come vuoi,” strinse le labbra. “Comunque non c’è male davvero.”
Lui inarcò le sopracciglia. “E siamo a tre, Weasley. Sei quasi meno credibile del teatrino di Bernie e Christine.”
Rose si sentì indignata. “Sei proprio un pettegolo,” commentò.
Greengrass scrollò le spalle. “Perché secondo te è normale preoccuparsi perennemente per qualcuno senza convincersi mai a mandare un gufo e basta?” Assottigliò gli occhi. “O è normale che due persone adulte vivano come anime in pena per anni perché non hanno il coraggio di parlarsi?”
Il cucchiaio di Rose tintinnò contro la scodella della zuppa. “Dove vuoi arrivare?” disse irritata. “Mi sembra che tu ti stia mettendo in mezzo a faccende che non ti riguardano.”
Lui le scoccò un’occhiata seria che le ricordò Christine. “Io cerco solo di aiutare i miei amici,” replicò calmo.
La rabbia di Rose si sgonfiò leggermente, anche se continuava a credere che quel comportamento fosse tutto meno che appropriato. “Non credo che Bernard sia infelice,” rispose. “Alice è meravigliosa e Christine è contenta per loro. E anche Scorpius è felice così,” aggiunse, nonostante il suo istinto, da qualche parte in fondo al cuore, le dicesse il contrario. “E comunque non hai il diritto di entrare nei loro affari e cercare di manipolare le loro vite.”
“Scorpius felice?!” sbottò Greengrass costernato. “Scorpius ti sembra felice? Lo conosci quasi meglio di me, Rose. Davvero ti sembra felice?”
Decise di non rispondere alla sua domanda. “Ad ogni modo la sua felicità non è più affare che mi compete,” mugugnò.
Jacob la scrutò da sotto le sopracciglia aggrottate. “Questo non lo metto in dubbio,” disse a voce bassa. “Volevo solo sapere se ti manca quanto tu manchi a lui.”
Allora era questo il punto! Rose si domandò come mai l’altro non glielo avesse chiesto direttamente e avesse dovuto farla arrabbiare prima di arrivare al punto focale del discorso.
“Non sono affari tuoi,” riecheggiò quanto detto in precedenza. “Non capisco cosa vuoi. Io e Scorpius ci siamo lasciati per tutta una serie di motivi e tu non hai il diritto di metterci becco.”
Jacob roteò gli occhi. “Dannazione, Rose, ti ho forse chiesto di rimetterti con lui?” sbuffò. “Io so solo che Scorpius sente la tua mancanza e credo che anche tu senta la sua. Penso che a ventitré anni siate abbastanza maturi da poter tornare amici, no?”
Rose non rispose.
“Insomma, sono passati anni da quando vi siete mollati,” proseguì Jacob. “E chiaramente ancora vi mancate come persone.” La fissò dritta negli occhi. “So che può sembrare presuntuoso da parte mia pretendere di sapere che cosa è meglio per voi,” aggiunse. “E ti assicuro che non è così. Mi dispiace di non essere riuscito ad affrontare il discorso con più delicatezza o tatto, ma devi ammettere che è difficile capire come avere delicatezza e tatto con te.”
Rose abbassò gli occhi. “Hai affrontato il discorso nel modo più stupido e stancante che avresti potuto trovare,” brontolò.
“Avrei voluto vedere te ad affrontare un discorso così personale con qualcuno che ti detesta, Rose,” replicò Jacob. Questa volta lei non rispose, ma per la prima volta si accorse che aveva iniziato a chiamarla per nome.
Forse è vero che non ti sopporta, eh? Quanto sei stupida.
Ma lui è piu stupido.
Come indovinando i suoi pensieri, il giovane si passò una mano sulla fronte. “Sì, insomma, non volevo essere indiscreto e sgarbato ma è quello che sono stato. Mi dispiace?” tentò. “Quello che volevo dirti è che a Scorpius manchi. Mi chiedevo se anche a te mancasse e se ci fosse qualche possibilità che tornaste amici. Forse potrebbe rendere entrambi più felici e tranquilli. Fareste anche pace con i sensi di colpa che avete per esservi fatti soffrire a vicenda, non credi?”
L’assurdità della situazione la fece scoppiare a ridere. “Non potevi affrontare il discorso in questo modo calmo, diretto, civile e complessivamente meno da stronzo fin dall’inizio?”
Anche Jacob rise. E Rose, senza preavviso, sentì la rabbia scivolare via.
Quasi nello stesso istante, decise che avrebbe scritto a Scorpius quella sera stessa.
 
 
 
 


 
Note dell’Autrice
 
Mi scuso per il giorno di ritardo nel pubblicare, ma ieri ho avuto una giornata davvero impossibile. Sono stata fuori di casa dalle otto di mattina alle otto di sera e appena tornata ero troppo stanca per mettermi al computer.
Allora: avrete sicuramente notato che questo capitolo è completamente Rose!centric. Non è stata una decisione premeditata: mi è semplicemente venuto fuori così. Dovevano esserci altre scene in mezzo, su altri personaggi, ma comunque il filo conduttore doveva essere Rose e a ben vedere POV di altra gente piazzati in mezzo così avrebbero stonato. Quindi ho tagliato via un paio di scene, rimandandole al prossimo capitolo, e mi sono concentrata su di lei.
Ora vi chiedo: cosa ne pensate? Perché mi sono trovata bene a scriverlo così, il capitolo, e ho riflettuto che scrivere capitoli mono-POV di tanto in tanto potrebbe essere una buona idea, specie quando, come in questo caso, affronto uno snodo cruciale nello story-line di qualcuno. Perché può sembrare che accadano poche cose in questo capitolo, ma le conseguenze sono importanti nella vita di Rose.
Vorrei chiedere un parere a voi lettori su questa “novità” nella struttura di alcuni capitoli.
Detto ciò, alla prossima!
Daph
 
 

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