The proper time di Sibylla (/viewuser.php?uid=34476)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Everything I can't be ***
Capitolo 3: *** Get lost in the beauty ***
Capitolo 4: *** Someone I've been missing ***
Capitolo 5: *** Their own place, trying to make it right ***
Capitolo 6: *** Tired of justifying ***
Capitolo 7: *** Come Home -Parte I ***
Capitolo 8: *** Come Home -Parte II ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
And
right now there's a war between the vanities
But all I see it's
you and me
The fight for you is all I've ever known
(Come
Home - One
Republic)
«...Così
gli avevo detto che se un giorno avesse sperato in un mio
sì,
avrebbe dovuto fare di meglio di un elastico per capelli. È
romantico certo, ma queste cose vanno bene per le protagoniste dei
film, non certo per me..., voglio il pacchetto completo io! Beh,
comunque stavo scherzando allora -più o meno-, non credevo
mi stesse
davvero ascoltando. Ma devo dire che alla fine ha fatto davvero un
gran bel lavoro...»
«È meraviglioso Lanie, davvero»
Comodamente
acciambellata sul divano, Kate rigirò ancora una volta la
mano
dell'amica tra le proprie, delicatamente, come se temesse che a un
tocco più deciso la pietra sul suo indice potesse
sgretolarsi.
Non
era mai stata un'amante dei gioielli: nelle occasioni speciali le
piaceva stupirsi ad ammirare il proprio riflesso impreziosito da
qualche ricercatezza, ma nella vita di tutti i giorni l'anello di sua
madre, l'orologio di suo padre e la pistola erano tutto il metallo di
cui necessitava per sentirsi completa.
Tuttavia dovette ammettere
che quel diamante meraviglioso lo era davvero -e grosso anche-, e per
qualche istante le venature argentee, e il contrasto che queste
creavano contro la bronzea carnagione della sua amica, la lasciarono
sopraffatta.
Non poté fare a meno di chiedersi da quanto Esposito
meditasse quella proposta: doveva essere parecchio tempo se era
riuscito a risparmiare tanto da comprarle quell'anello -si disse,
mentre lo osservava incantata.
«Sai, ero piuttosto indecisa se
venire qui o meno. Non ero certa se fosse il caso, vista la tua
ultima esperienza con anelli del genere...»
Lo sguardo di Lanie
si velò di un cupo rammarico, attraverso cui la pietra
appariva ora
meno luminosa -appannata da un senso di colpa che aveva segretamente
premuto per uscire sin da quando lei aveva messo piede in quella
casa.
Il vino ondeggiò mesto nel bicchiere sotto la pressione
delle dita che, a disagio, cercavano un controllo su qualcosa
-qualsiasi cosa- che potesse distrarla da quel pensiero.
«Non
dire sciocchezze Lanie, è ovvio che dovessi dirmelo! E
vantarsi
dell'anello rientra nei compiti di una futura sposa, perciò
stai
tranquilla. Oltretutto è passato tanto tempo...»
Non c'era
ipocrisia in quelle parole, o dolore. Avrebbe facilmente potuto dare
l'impressione di riferirsi a una vita non sua, se non fosse stato per
quella punta di malinconia nello sguardo, tipica di chi sta
ripercorrendo con la mente la scia antica di un ricordo.
Avrebbe
voluto risponderle che ormai quella storia faceva parte del suo
passato -che non provava più nulla per quell'uomo il cui
nome
aleggiava ora, pesante e impronunciato, nella stanza- e che la vista
di quell'anello, così simile ma così diverso da
quello che avrebbe
potuto incorniciare il proprio di anulare, non l'aveva portata a
domandarsi "e se...".
Ma la donna seduta di
fronte a lei era la sua migliore amica, e le doveva
sincerità, più
di quanta ne riservasse a se stessa. Così, tacque.
Perché la verità
era che, nonostante fosse felice della propria vita attuale e delle
proprie scelte, quando si chiedeva se avesse potuto o voluto fare
diversamente, l'unica risposta che riusciva a darsi era che non lo
sapeva.
E probabilmente non voleva neanche saperlo.
Erano
già passati due anni.
Due anni dal suo nuovo inizio.
Due anni
dalla loro fine.
Lo aveva detto lui, entrambi meritavano di più:
più della paura di rivelarsi cosa fossero, e più
di un forse.
E
un forse era proprio ciò che gli aveva dato lei. Non a
parole, non
ce n'era stato bisogno, lui lo aveva letto nei suoi occhi: tutta
l'esitazione concentrata nel rapido scatto delle sue iridi verdi.
Avevano ceduto un solo istante all'attrazione dei loro sguardi, per
posarsi su un punto troppo distante da loro due, tradendo il proprio
desiderio di fuga.
Si era rialzato così come si era
inginocchiato: rapido e deciso -un sussulto di lei coperto dal secco
richiudersi della scatoletta.
E poi aveva sorriso.
Un sorriso
mesto ma sincero, di chi sembrava aver scoperto la più
grande delle
verità del mondo.
Quel sorriso non era più riuscita a
dimenticarlo: veniva a trovarla nella solitudine della notte, quando
poteva permettersi di essere debole, e lei vi si nascondeva dentro,
rannicchiata al sicuro tra le piccole rughe -affascinanti tracce del
tempo sulla sua pelle- che avevano incorniciato anni prima il viso di
lui, e che le si erano appiccicate addosso, ciascuna custode di un
ricordo di quei cinque anni passati insieme.
In quel momento aveva
sentito una parte della sua vita scivolarle via dalle mani e lei non
aveva potuto far altro che stare a guardare, inerme: impedirlo
sarebbe stato impossibile, come cercare di acchiappare l'acqua.
E
di acqua ce n'era troppa: tra le sue dita, nelle sue lacrime...
E
ogni goccia le strappava via un nuovo pezzetto di sé, di
lui, di
loro.
Troppo rapide per darle il tempo di capire se stesse
piangendo per il sollievo di una spiegazione che le era stata
risparmiata o per la disperazione dovuta alla consapevolezza di
averlo perso per sempre, maturata troppo tardi per tornare sui propri
passi.
Ricordava ancora come si era sentita allora: quella
sgradevole impressione di non essere più in grado di provare
nulla
-perché non aveva più nulla- finché,
da molto lontano, non le era
arrivato il tocco leggero della fronte di lui contro la propria, e in
quel vuoto una nuova consapevolezza aveva preso piede. Era finita.
Si
amavano ancora? Forse. Sicuramente.
Ma quell'ultimo ti amo
che lui le stava regalando non era stato che la parola conclusiva a
un sentimento cui avevano appena messo fine, prima che fosse lui a
finirli.
Ne aveva riconosciuto ogni lettera nel lento sillabare
delle sue labbra sulla propria pelle, ardente, come se quelle due
parole non fossero state semplicemente sussurrate, ma marchiatele a
fuoco sulla fronte.
Ma non era più abbastanza: in quell'universo,
in quella vita, o forse semplicemente in quel momento, loro non erano
abbastanza.
Dovevano andare avanti.
E così, lo aveva guardato
allontanarsi a passi lenti e stanchi -quasi che sulle sue spalle
fosse improvvisamente piombato il peso di un migliaio di anni-, ma
l'ombra del sorriso era ancora sul suo volto, e Kate era riuscita a
vederla anche quando lui aveva voltato l'angolo, sparendo per sempre
dalla sua vista e dalla sua vita.
Da quel giorno non aveva mai più
visto Rick.
Castle, invece, lo aveva incontrato altre volte.
Dopo
un ragionevole silenzio di sei mesi, le loro strade si erano
nuovamente incrociate, più spesso di quanto avrebbero
voluto.
Ma
era stato inevitabile. Se anche ad accomunarli ormai era solo il 12Th
distretto, quest'ultimo era di per sé una presenza
abbastanza
ingombrante da insinuarsi prepotentemente nel loro dolore.
E in
fondo, era anche giusto così: la nascita della
figlia di Ryan,
l'anniversario della morte di Montgomery... erano tutte occasioni
più
grandi di loro e dei loro problemi.
Non erano più Rick e Kate, ma
erano ancora Beckett e Castle, e in un modo penosamente illogico
questo era in qualche maniera rassicurante.
In un modo penosamente
illogico, lui era ancora la sua casa.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Everything I can't be ***
Everything
I can't be
And
right now
there's a war between the vanities
But all I see it's you and
me
The fight for you is all I've ever known
(Come
Home - One
Republic)
L'orologio
a muro dell'ingresso segnava le nove e quaranta, quando Kate
finalmente rientrò a casa.
Gettate le chiavi sulla prima
superficie piana disponibile, si trascinò stancamente fino
al bagno,
lasciandosi dietro una scia di vestiti frettolosamente dismessi e
malamente abbandonati sul pavimento.
In altre circostanze si
sarebbe rimproverata per quell'incuria, ma in quel momento -lanciata
una breve occhiata dietro di sé, prima di svoltare l'angolo
del
corridoio- ritrovò in quello scenario l'esatta
riproduzione
della sua mente: un motore che si ostinava a tirare avanti, perdendo
ad ogni passo un piccolo pezzo di sé.
Raccogliere quei vestiti,
mettere ordine, avrebbe reso tutto sbagliato. E
fasullo.
Sarebbe stato l'ennesimo ipocrita tentativo di fingere
che tutto fosse a posto, di costringersi dentro uno schema di
abitudini e di regole che, se non interrotto ogni tanto, rischiava di
soffocarla.
C'erano momenti in cui semplicemente sapeva di dover
allentare la presa su sé stessa e lasciare che un po' di
verità
trapelasse da quella fortezza di mattoni entro la quale si era
di nuovo rifugiata: in parte perché -si ripeteva- aveva
anche lei il
diritto di essere debole qualche volta, ma soprattutto per evitare
che, in assenza di sbocchi controllati, tutto quel ribollire
rischiasse di farla esplodere in situazioni in cui davvero non
avrebbe potuto permettersi di farlo.
Protetta dalla sola
biancheria intima, si sedette sul pavimento, rabbrividendo al
contatto con le fredde piastrelle del bagno, e abbandonata la testa
sul bordo della vasca, si perdette nel lento scroscio dell'acqua che
presto avrebbe ospitato il proprio corpo.
Quella appena trascorsa
si era già preannunciata come una giornata pesante fin dalle
prime
luci dell'alba: un arresto e una pila inattesa di scartoffie non
avevano fatto altro che rubarle quell'ultimo briciolo di energia
rimastole.
Lasciarsi avvolgere dal calore di un bagno le era
sembrata l'unica soluzione logica al proprio stato d'animo, e
mentalmente ringraziò per l'ennesima volta sé
stessa di non aver
dato retta al suo agente immobiliare nell'anteporre la
comodità di
una doccia ai benefici di una vasca.
Guardarla colmarsi pigramente
sotto i propri occhi si era poi rivelato uno spettacolo ipnotico, e
mentre le dita distrattamente disegnavano timidi archi sulla
superficie dell'acqua, la mente si era ritrovata a rievocare un
ricordo che non sapeva d'aver custodito fino ad allora: davanti a lei
le volute di vapore avevano così preso le forme di sua
madre,
Johanna, intenta a districare i capelli di una Kate ancora bambina,
il cui viso livido e macchiato di fango raccontava una qualche
delusione ormai persa nel tempo. La voce della donna invece sembrava
essersi conservata intatta nelle sue memorie, e stava ora dolcemente
ripetendole ancora e ancora parole a cui Kate aveva adesso un
disperato bisogno di aggrapparsi: “Katy
potrà sembrarti
sciocco, ma un bagno è molto più di quello che
appare. È magico.
Se sei abbastanza coraggiosa da lasciare che i tuoi pensieri
scivolino indisturbati fuori dalla tua mente, e non hai paura di
affrontarli, allora finiranno per sciogliersi nell'acqua, e alla fine
andranno via con lei giù per le tubature”.
Gli occhi le si
fecero umidi, e non seppe dire con sicurezza se per colpa del
vapore.
Quaranta
minuti dopo Kate era già stesa sul letto, in
pigiama; le mani
giunte sopra lo stomaco e il relax di qualche istante prima
già un
lontano ricordo.
Per quanto il bagno l'avesse aiutata, alleviando
la sua stanchezza, adesso che era rimasta sola con sé stessa
-senza
l'acqua o la schiuma a distrarla- il peso dei suoi pensieri si stava
facendo insopportabilmente pressante.
Ruotò la testa verso destra
e la sua guancia si beò del tocco fresco delle lenzuola di
cotone,
mentre lo sguardo si andava a posare sul disordine in fondo alla
stanza, reduce ancora della seppur breve permanenza di Lanie in casa
sua.
Una settimana era passata in fretta: tra giri della città,
cene nei ristoranti più stravaganti e chiacchiere notturne,
il tempo
era volato, ed entrambe avevano avuto l'impressione che il giorno
della partenza fosse arrivato prima del previsto. D'altronde avevano
tanto da recuperare, ora che erano lontane, e anche se questo
fortunatamente non sembrava aver intaccato il loro rapporto, la
felicità di vedersi per un periodo tanto lungo le aveva
chiaramente
travolte.
Quando quella mattina l'aveva infine accompagnata in
aeroporto, nel vederla scomparire dietro la porta a vetri
dell'edificio col suo trolley rigonfio di abiti, non aveva
però
potuto non notare la punta di sollievo che l'aveva colta sul
momento.
Adesso che ci ripensava, al buio e nella ritrovata
solitudine della propria camera, si sentiva in colpa per aver gioito,
seppur lievemente, della partenza della propria migliore amica; una
parte di lei tuttavia continuava ad essere in disaccordo, e per
quanto Kate si odiasse per questo, non poteva davvero
biasimarla.
Quei pochi giorni in sua compagnia avevano riportato
nella propria vita, insieme a un'allegria smarrita da tempo, anche un
turbinio di emozioni tale da farla cadere nel più nero
sconforto.
Era stata brava a nasconderlo -o quantomeno, Lanie era stata brava a
farglielo credere-, ma era certa che non sarebbe potuta andare avanti
per molto.
E se all'inizio aveva creduto di poter gestire la
propria mente, e l'intero mondo di cui Lanie -come anche lei in
passato- faceva parte, c'era poi stata una sera, la quarta per
l'esattezza, in cui si era davvero resa conto di stare scivolando in
un pericoloso abisso di fantasticherie.
Lanie di fianco a lei
aveva già preso sonno, stremata da un'intera giornata di
passeggiate
per le vie del centro, mentre lei come al solito era stata colta
dalla più vispa delle insonnie. La stanchezza, se anche ci
fosse
stata, era ormai rassegnata, e da molto tempo aveva smesso di farsi
sentire in quelle circostanze, conscia del fatto che non sarebbe
comunque riuscita a convincere Kate ad addormentarsi; si sarebbe
riproposta più tardi, nei momenti meno adatti, durante i
peggiori
turni di lavoro, a presentarle il conto e vendicarsi per
essere
stata così arrogantemente ignorata durante la notte.
Era il
plenilunio e i raggi di luna entravano a sprazzi nella camera,
attraverso le fessure della tenda, creando pozze argentee e nastri di
luce pallida tutto intorno a lei. Uno di questi le si era posato
addosso, e quando Kate aveva mosso le mani nell'oscurità
alla
ricerca della coperta, il filamento argenteo le si era appollaiato
sulle dita creando un insolente gioco di luci tale da farle sembrare
di stare indossando un impalpabile anello. Senza che se ne rendesse
conto era stata rapita da quella vista e solo parecchi,
interminabili, istanti dopo si era scoperta assorta in imprudenti
congetture circa il come indossare un altro tipo di anello -uno
più
materiale- l'avrebbe fatta sentire.
Quel pensiero l'aveva
terrorizzata.
Quando aveva affrontato la discussione con Lanie, la
loro prima sera insieme, le aveva detto che vedere un anello al suo
dito non le aveva fatto male, che era passato ormai tanto tempo
dall'ultima volta in cui si era sentita trafiggere dalla semplice
vista di un solitario. Ed era stata sincera.
Passare davanti le
vetrine delle gioiellerie, incappare erroneamente su programmi tv di
matrimoni, non erano più cose che la costringevano a
scappare via,
lontano da tutto e da sé stessa. Anche il semplice
immaginarsi
sposata, in un lontano futuro -un'eventualità su cui il suo
lato più
femminile amava rimuginare talvolta, sebbene distante anni luce dalle
sue reali intenzioni- era adesso diventata una fantasia
sostenibile.
Non necessariamente tutto riportava a lui ormai; e
comunque lei col tempo era diventata brava a capire in anticipo
quando mettere un freno ai propri pensieri.
Ma quella notte al suo
anulare non aveva immaginato un diamante qualsiasi: a contornarlo era
stata invece una pietra ben precisa e fin troppo familiare, una
pietra che l'ultima volta aveva visto sparire tra le pieghe di
tessuto blu di un'incriminata scatoletta, e a cui non sapeva di aver
prestato tanta attenzione da poterne ricordare perfettamente le forme
ancora oggi, a distanza di anni.
Se Lanie non fosse stata lì, a
un paio di centimetri di distanza da lei, probabilmente avrebbe
scaraventato contro il muro la lampada sul comodino, colpevole di
essere l'oggetto più prossimo alle sue mani, che invece
erano
rimaste ancorate al lenzuolo, tremanti e imperlate da una patina di
freddo sudore, e al sicuro finalmente dall'ingombrante presenza di
quei fasci di luce incriminata.
A ripensarci adesso, Kate riusciva
ancora a sentire i residui di angoscia albergare tra le pieghe della
propria anima, e non poté trattenersi dal lanciare una
rapida
occhiata alle proprie mani, le cui dita affusolate giacevano
placidamente intrecciate tra loro, vestite di un rassicurante buio
pesto. Le tende erano state accortamente tirate a coprire l'intera
finestra, e la luna sembrava troppo stanca per tentare di violare
quella barriera, limitandosi a qualche bagliore annoiato contro il
davanzale.
Quella notte sarebbe riuscita a dormire -questo fu
l'ultimo pensiero di Kate, prima di crollare esausta in un sonno
senza sogni, giunto così improvviso da non
permetterle nemmeno
di scivolare prima sotto le coperte.
La
pioggia ottobrina la colse impreparata.
Avvolta nel suo cappotto
blu Kate affrettò il passo, zigzagando tra marciapiede e
ballatoi
degli edifici, sperando potessero darle una seppur breve tregua dalle
gocce sempre più fitte.
Quando l'acqua aveva iniziato a
minacciare anche le sue calze, oltre che le scarpe, scorse finalmente
l'insegna de “Le Café Charbon”,
ed evitando l'ultima
pozzanghera, ne afferrò la maniglia e vi si
fiondò dentro.
Il
tepore del locale l'avvolse all'istante, mentre l'aroma ormai
familiare dei croissant già le solleticava le narici e il
palato.
Aveva scoperto quel posto dopo appena un mese da che si
era trasferita: una domenica mattina, la prima che aveva avuto
davvero libera da quando era a Washington, si era finalmente decisa a
dare un primo sguardo rilassato alla città che aveva ora il
privilegio di chiamare casa, e
per pura fatalità aveva finito per imbattersi nelle vetrine
colme di
paste di quel caffè.
Era stato amore a primo sguardo.
Non
seppe dire se ad averla convinta ad entrare fosse stato più
il
profumo che si sprigionava dall'interno ogni volta che un cliente ne
usciva , o l'atmosfera intima e accogliente che già da fuori
era in
grado di respirare; l'unica cosa certa era che, nel momento in cui
aveva varcato la porta del locale, aveva già deciso che il
tintinnio
di quel campanello, posto in cima all'infisso, avrebbe accompagnato
tutte le sue giornate da lì in avanti.
Nonostante fosse ancora
piuttosto presto, il locale era già colmo di gente.
Le ci vollero
ben due ricognizioni, ma alla fine Kate scorse un tavolino vuoto in
un angolino appartato del caffè, e un sorriso fece
timidamente
capolino tra le labbra: era uno dei suoi preferiti. Insieme a un paio
di altri tavoli, quello era il solo abbastanza vicino alla vetrata e
sufficientemente distante dal resto dei presenti da permetterle di
osservare il mondo circostante senza venirne osservata a sua
volta.
Accomodatasi sulla sedia, e liberatasi dell'ingombro del
cappotto umido, Kate allungò le braccia sulla superficie di
legno e
le incrociò davanti a sé, lasciando le proprie
dita libere di
giocare distrattamente col menù e con i bordi ruvidi del
tovagliolo.
Non dovette aspettare troppo prima che il viso
bonaccione di Alan, il proprietario, prendesse a trotterellare verso
di lei, solcato da un profondo sorriso che Kate trovò, come
al
solito, irrimediabilmente contagioso.
«Buongiorno
Katherine, come andiamo stamattina?»
«Alan, lo sai che non devi
farmi certe domande prima che abbia preso il mio
caffè»
Il
sorriso dell'uomo si trasformò in una grassa risata,
incrinata forse
dagli ultimi strascichi di una bronchite.
«Piuttosto, dov'è
Sabine? È strano non vederla dietro al bancone»
«È in cucina.
Stamattina ha bruciato un'intera infornata di biscotti, il che l'ha
resa particolarmente nervosa, e quando Sabine è nervosa si
sfoga
andando nel retro e dando ordini a chiunque, giusto per il piacere di
tormentarli»
Un'alzata di spalle rassegnata accompagnò
quelle sue ultime parole, ma a tradirlo furono gli occhi, traboccanti
di adorazione per quella donna che pure lo faceva esasperare a
volte.
Alan infatti amava enormemente Sabine, e Kate riusciva
facilmente a capirne il motivo.
Prese singolarmente erano due
delle persone migliori che lei avesse avuto la fortuna di incontrare,
uniti formavano un sodalizio perfetto. Erano la classica coppia fatta
per stare insieme che, dopo anni di duro lavoro per costruirsi una
famiglia e un futuro, si erano goduti i frutti di tanti sacrifici
viaggiando alla scoperta del mondo, e ora che gli anni iniziavano a
farsi più ingombranti per entrambi, avevano deciso di
realizzare il
sogno di una vita: aprire un loro locale.
Sabine era figlia di un
panettiere, e l'amore per certe preparazioni l'aveva sempre avuto nel
sangue. Alan invece era stato un giovane avventuroso che, prima di
mettere la testa a posto al college, aveva deciso di concedersi
l'ultima follia adolescenziale andando a vivere a Parigi per un anno,
mantenendosi facendo il garzone proprio per il padre di Sabine. Si
erano conosciuti così, e da allora erano stati inseparabili:
seguire
Alan in America, per quanto sofferta, era stata una decisione
semplice, ma la Francia era rimasta sempre nei loro cuori, e quando
il sogno di aprire un locale si era fatto realtà non c'erano
stati
dubbi su che direzione far prendere a quel progetto.
Più aveva
modo di frequentarli, più Kate se ne innamorava: avevano un
coraggio, un'energia e una fiducia l'uno nell'altra che lei non era
certa sarebbe mai riuscita a provare. Quando li osservava poi, aveva
la curiosa e confortante sensazione di stare guardando i propri
genitori: se le cose fossero andate diversamente, e sua madre fosse
stata ancora viva -si era detta-, probabilmente lei e suo padre nella
vecchiaia le sarebbero apparsi esattamente così.
Alan e Sabine
erano stati i primi a farla sentire davvero a casa una volta arrivata
a Washington.
Conoscerli le aveva dato una ragione in più per
legarsi a quel posto.
Cinque
minuti dopo, Kate stava già assaporando una squisita brioche
alla
crema.
Trascorse il resto del tempo a osservare fuori dalla
vetrata, sorseggiando di tanto in tanto il proprio caffè,
persa nel
groviglio confuso dei propri pensieri. Uomini e donne sepolti sotto
strati di vestiti le passavano davanti sollevando spruzzi d'acqua
che, puntualmente, finivano per posarsi su qualcun altro, la cui
espressione corrucciata rendeva perfettamente l'idea di quanto poco
gradita la cosa fosse loro.
Apparentemente nessuno in quella città
amava la pioggia, fatta eccezione per i bambini che avevano
inaugurato il salto della pozzanghera come nuovo sport
nazionale.
Lei era come uno di quei bambini.
Non perché
avesse voglia di abbandonare il contegno imposto dalla propria
età
per andare a infangarsi senza troppi pensieri per strada -non solo
almeno-, semplicemente amava la pioggia.
L'odore di erba bagnata,
il freddo pungente che preannuncia le prime gocce... erano tutte cose
che avevano il potere di rasserenarla.
Inoltre, in quel momento,
quella vista unita al profumo di croissant, che l'avvolgeva in una
vellutata spirale di dolcezza, le ricordavano intensissimamente il
viaggio in Francia di tanti anni addietro, e una dolce nostalgia
aveva preso possesso del suo corpo.
«Sembra che l'inverno sia
arrivato in anticipo quest'anno»
Alan, giunto all'improvviso a
pulire i resti della colazione della donna, ne interruppe il corso
dei pensieri.
«Già, non che mi dispiaccia. Anche se sembra che
l'inverno abbia aspettato che io finissi di mangiare, e dovessi
uscire fuori, per dare il via al diluvio. E stamattina ho fatto il
grosso errore di non controllare il tempo prima di scendere, quindi
niente ombrello»
Kate rivolse un ultimo sghembo sorriso al suo
interlocutore – un mix di mestizia e ironica esasperazione-,
prima
di tornare a studiare le gocce di pioggia infrangersi sulla
vetrata.
Per quanto amasse quel tempo dovette ammettere che
raggiungere il posto di lavoro sotto un acquazzone del genere non si
prospettava come una bella avventura. Senza la protezione di un
ombrello, e senza la sua macchina -ancora in officina per la
revisione-, giungere asciutta alla meta appariva come un'impresa
impossibile.
Come se avesse letto nei suoi pensieri, Alan tornò
pochi istanti dopo con il conto e un ombrello color porpora tra le
mani. Kate gli lanciò uno sguardo esterrefatto,
già pronta a
rifiutare, ma Alan fu più svelto a parlare.
«Come ho già detto,
Sabine è parecchio nervosa oggi, e mi ha incaricato di dirti
che se
non lo accetti con le buone sarà costretta a venire lei e
fartelo
accettare con le cattive. Personalmente non te lo consiglio»
il
volto di Alan si illuminò di un bonario sorriso mentre le
porgeva
l'oggetto «Potresti anche tenerlo, ma poichè sono
certo che non lo
farai, riportalo tranquillamente domani. Ho il sospetto che ti
troverò di nuovo qui»
Detto questo si allontanò, l'andatura
traballante a causa del peso non indifferente.
Alternando lo
sguardo tra lui e l'ombrello, adesso stretto tra le proprie mani,
Kate non riuscì a trattenere un sorriso.
Dopo
un paio di minuti da che aveva lasciato “Le
Café Charbon”,
Washington sembrava aver concesso ai suoi abitanti una breve
tregua dalla pioggia, che era notevolmente diminuita. Kate comunque
ringraziò di avere un ombrello sopra la testa
perché senza, anche
in assenza del diluvio di alcuni minuti prima, non se la sarebbe
cavata di certo altrettanto bene.
Quella mattina, essendo priva
dell'auto, era scesa un po' più presto del solito da casa,
per cui
aveva potuto fare le cose con maggiore calma prima che il momento di
timbrare il cartellino arrivasse, e adesso poteva concedersi una
passeggiata piuttosto che una forsennata corsa verso l'ufficio.
Col
senno di poi si sarebbe pentita amaramente di quella scelta.
Aveva
appena superato la libreria lungo Grosberry Street che qualcosa in
quella vetrina catturò la sua attenzione. Aveva in
realtà dato un
breve sguardo distratto al suo contenuto, ma il proprio inconscio era
stato abbastanza rapido da registrare qualcosa di anomalo in quello
scenario. Titubante rallentò il passo e fece dietro front,
temendo
già di conoscere la risposta a cosa avrebbe trovato una
volta faccia
a faccia con la vetrina.
E infatti eccolo lì, in piedi nel suo
solito abito scuro, con un libro in mano e la solita espressione di
tronfio orgoglio scolpita in viso. Erano tutti così i suoi
cartelloni pubblicitari, tanto che a volte si era chiesta se non ve
ne fosse in realtà soltanto uno cui puntualmente cambiavano
soltanto
copertina al libro.
Era così impegnata ad essere sorpresa che non
sentì la sgradevole fitta che, ostinata, stava premendo per
trafiggerle lo stomaco. Inoltre, si sentiva infastidita: innanzitutto
da quel sorriso, che lui aveva smesso di rivolgerle da tanto tempo -e
a buon diritto- ma che ora stava generosamente concedendo a chiunque
passasse da lì, e poi perché quella era la sua
città adesso, e per
quanto potesse essere lei quella in torto, lui non aveva il diritto
di disturbarla nella sua città.
E fu allora che la notò, la
scritta alla base del cartonato: Richard Castle vi
aspetta il
22 novembre in occasione dell'uscita del suo nuovo libro. Ai primi 25
fan che si presenteranno una copia autografata in omaggio, non
mancate!
Dovette rileggere parecchie volte prima che il
suo cervello fosse in grado di processare la cosa, e le ci vollero
parecchi profondi respiri per calmarsi non appena ci fu riuscito. In
fondo, si disse, non era nulla di così catastrofico.
Washington
era una grande città e lei era sempre oberata di lavoro: le
probabilità di incontrarlo erano minime, e anche in quel
caso
sarebbe stata in grado di gestire la situazione. Non sarebbe certo
stato il loro primo incontro da quando la loro relazione era finita e
stavolta le circostanze erano persino più favorevoli, non
essendoci
di mezzo alcun evento che richiedesse la loro contemporanea
presenza e che li costringesse a passare insieme più del
tempo
necessario a un breve saluto.
Mentre rifletteva su questo, e il
cervello iniziava a metabolizzare lo shock iniziale, le gambe avevano
preso però un'altra direzione, così come ogni
muscolo del suo
corpo, e nel giro di pochi istanti si era ritrovata a chiedere
al gestore del bar adiacente alla libreria dove fosse il bagno.
Senza
sapere come o perché fosse arrivata lì, due
minuti dopo era già
chiusa in uno dei loculi, seduta a gambe incrociate sulla tavoletta,
col telefono in una mano.
Uno squillo, due squilli, tre
squilli...
«Pronto»
«Lanie, ciao»
«Kate, non
pensavo di sentirti così presto, è successo
qualcosa?»
«Lui
è qui Lanie. Cioè non ancora, ma lo
sarà tra due settimane. Castle
intendo»
«Oh...»
«Oh? Che vuol dire “oh”? Tu lo
sapevi?»
«Beh, sì... senti tesoro mi dispiace,
pensavo di
dirtelo mentre ero lì da te, ma non ho mai trovato il modo o
il
momento adatto per tirare fuori l'argomento...»
Kate si agitò
scomodamente sull'improvvisato sedile di plastica sul quale era
appollaiata: il telefono incastrato tra la spalla e l'orecchio,
mentre con le mani tentava di aiutare le gambe a sistemarsi in una
posizione, se non confortevole, quantomeno stabile.
«Ma per te
non è un problema, no? Tu stessa mi hai detto che ormai non
ti fa
più effetto la cosa. E poi non è neanche detto
che lo incontrerai,
ti basterà evitare la zona dell' Hartfort Hotel,
è lì che
starà»
Prima che potesse rispondere, il rumore dello
sciacquone e di una porta sbattuta distrassero entrambe dalla
domanda, e forse evitarono a Kate una risposta scomoda.
«Tesoro...
ma dove sei?»
«In un bagno. Di un bar. Non so il nome, non
c'ero mai entrata prima»
«Ok... e perchè mi chiami da un
bagno di un bar che non conosci?»
«Beh avevo bisogno di
parlarti, e non potevo aspettare di arrivare in ufficio. Inoltre non
potevo restare per strada. Mi stava fissando.»
«Chi ti stava
fissando?»
«Lui, Castle! Dovevi vederlo, con quell'aria
boriosa e soddisfatta. Se non ci fosse stata una vetrina a dividerci
probabilmente gli avrei sferrato un pugno in faccia»
«Immagino
tu stia parlando del cartonato pubblicitario...»
«Beh sì,
certo... non sferrerei mai un pugno a Castle, quello vero.
Credo.»
Una risata cristallina risuonò attraverso l'apparecchio
telefonico e Kate si sentì leggermente rinfrancata. E anche
un po'
stupida. In effetti, ora che ci pensava, l'essersi rinchiusa
in
un bagno pubblico per parlare al telefono con la propria migliore
amica del proprio ex fidanzato aveva del ridicolo. Era dai tempi del
liceo che non si dava a certi comportamenti, e forse neanche allora
avrebbe reagito in quel modo.
«Ad ogni modo Kate ripeto, se
anche doveste incontrarvi dov'è il problema? Non sarebbe
certo la
prima volta, e forse sarebbe anche un bene. È
da mesi
che non avete contatti, magari il fatto di rivedervi prima del
matrimonio, in una situazione meno... carica, potrebbe essere di
aiuto»
«No, hai ragione Lanie. Non c'è nessun problema
infatti. È stato solo strano, credo: quando torno a New York
sono
consapevole che lo vedrò, e sono preparata. Non mi aspettavo
di
vederlo qui, ecco tutto»
«Ma certo, lo capisco»
«Adesso
ti saluto, sarebbe anche ora che uscissi dal bagno e andassi a
lavorare. Ti chiamo più tardi»
«D'accordo tesoro, buon
lavoro»
Kate riattaccò subito, ma le ci vollero cinque
minuti buoni per decidersi ad alzarsi e ad uscire da quel bagno. Col
telefono ancora tra le mani non riusciva a non ripetersi nella mente
le parole di Lanie: aveva ragione lei, se anche si fossero incontrati
dove sarebbe stato il problema?
Da nessuna parte. Il problema
non esiste.
Era come aveva detto lei, non si era rintanata in
bagno per paura o per dolore, soltanto per la sorpresa di trovarselo
davanti all'improvviso, anche se fatto di cartone -e a testimoniarlo
c'era il fatto che nel vederlo non era stata male, non come lo
sarebbe stata tempo addietro.
Forte di queste riflessioni si
rimise in piedi, uscendo finalmente dal loculo dentro cui si era
rinchiusa.
Prima di lasciare la stanza si diede un'ultima occhiata
allo specchio e si lavò le mani, giusto per dare
l'impressione di
aver usato il bagno per scopi più maturi di quelli reali.
Lo
specchio le rimandò un'immagine contorta: l'aspetto sembrava
normale
ma i suoi occhi parevano deriderla.
E Kate tornò a chiedersi se
invece un problema non ci fosse. E se questo suo neo-riacquistato
senso di impotenza e ansia legati alla sua presenza -o alla mera
possibilità di essa- non fosse per caso dovuto alle fantasie
della
notte recentemente trascorsa.
L'ombra dell'anello sembrava essere
tornata, indelebile sul dito come il segno di un'abbronzatura lunare.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Get lost in the beauty ***
ro
Get lost in the beauty
And
right now there's a war between the vanities
But all I see it's
you and me
The fight for you is all I've ever known
(Come
Home - One
Republic)
Il
tramonto non lo aveva mai particolarmente affascinato.
Quella
sensazione di fine e di indefinitezza insieme lo aveva sempre
lasciato piuttosto indifferente; talvolta aveva persino trovato
irritante l'idea di tanto sfarzo solo per annunciare la fine
dell'ennesimo, ordinario, giorno.
In passato, nel pieno di alcuni
dei suoi periodi più neri, avvolto dalla propria spirale di
debolezze e sconforto, quella luce così calda e abbagliante
non era
stata che una violenza, una beffa al buio del suo animo.
Solo
poche volte si era ritrovato a contemplarlo e a viverlo appieno, e
quasi sempre c'era stata di mezzo una donna: in fin dei conti era pur
sempre un uomo di mondo, un amante dell'amore, e conosceva bene il
valore aggiunto all'attrattiva romantica di un tramonto ben
gestito.
Ma era tutto qui.
Potendo scegliere, lui preferiva
l'alba.
E non solo per la luce fredda che svuota il cielo, da
riempire ogni giorno con mille nuovi propositi e aspettative,
né per
la fragile quiete che porta con sé. Amava l'alba per queste
e altre
cose insieme, che ne facevano il perfetto coronamento di un momento
ancor più perfetto: la notte.
Era nella notte che i crimini più
efferati e le passioni più brucianti si consumavano, e i
segreti più
oscuri venivano rivelati, affidati sottovoce al più nero dei
silenzi.
Alla notte aveva commissionato gran parte del proprio
successo, dedicandole libri e fervidi racconti, e tra le pieghe della
notte in cambio lui si era guadagnato un riparo per i momenti
peggiori.
Sì, lui di gran lunga preferiva la notte.
Guardare
il tramonto infrangersi sulle nuvole attraverso l'oblò di un
aereo,
quella però era tutta un'altra storia.
E quella sera di
nuvole intorno a lui ce n'erano tante, troppe forse: ed ognuna era
orlata di una delicata luce rosea.
Dopo tutto era uno scrittore,
un cultore dell'arte: sapeva riconoscere la bellezza quando la
vedeva. Anche in un tramonto.
E quel tipo di bellezza era rara, e
violenta.
Poche altre cose al mondo avevano quella stessa
graffiante semplicità. Ancor meno donne potevano vantarla:
nella
vita eri fortunato se riuscivi a incontrarne anche solo una
così
lungo il cammino. Lui, un tempo, era stato fortunato. Ma,
com'è
noto, la fortuna gira.
Di tramonti così, invece, in certi periodi
poteva bearsi anche ogni mese.
E ogni volta era come la prima.
A
rompere l'idillio venne la voce gracchiante del capitano, che
dall'interfono invitava i signori passeggeri ad allacciare le cinture
in vista dell'atterraggio.
Nel regolare la fibbia metallica si
lasciò distrarre dalla spia rossa che aveva preso a
lampeggiargli
insistente sopra la testa, e quasi non si accorse dell'arrivo
dell'hostess, sobbalzando quando la sua chioma rossa si
insinuò
prepotentemente nel proprio campo visivo.
«Mi scusi signore,
dovrebbe chiudere il finestrino. Stiamo per atterrare»
Castle
annuì, celando dietro un affabile sorriso il sussulto di
qualche
istante prima, sorriso che gli fu prontamente ricambiato insieme a un
lieve rossore sulle gote.
Con le dita ancora appese al perno di
plastica del finestrino, attese che la donna si fosse allontanata a
sufficienza per poi riaprirlo indisturbato.
Ormai era diventato un
gesto automatico, spesso portato a termine per puro istinto di
ribellione all'ingiusta regola che gli impediva di gustarsi il
panorama proprio nel momento in cui questo acquisiva maggiore
interesse.
Ogni volta si riprometteva di chiedere il perché di
tale regola, e ogni volta puntualmente se ne dimenticava: magari in
tutti questi anni aveva attentato alla sicurezza propria e degli
altri passeggeri senza saperlo... Non che questo l'avrebbe fermato
con sicurezza dal farlo. Specie oggi, che si preannunciava un raro
spettacolo di luci rosee e grattacieli dai riflessi laminati.
Nel
pieno della discesa, le nuvole avevano già preso a
diradarsi,
rivelando qua e là frammenti della città sotto di
lui, e man mano
che l'aereo scendeva di quota poteva scorgere sempre nuovi dettagli:
le chiazze verdi dei parchi, le saette variopinte che erano le
macchine... finché anche gli uomini non si svelarono ai suoi
occhi.
Improvvisamente una morsa alle budella attentò al suo
stomaco, quando si rese conto che in quel groviglio ancora confuso di
forme e colori c'era anche Kate.
D'istinto chiuse il finestrino,
chiedendosi come questo piccolo dettaglio potesse essergli venuto in
mente soltanto adesso. Eppure, non era proprio per questo che aveva
mostrato tanta esitazione nell'accettare l'invito a Washington?
Non
che fosse un dramma rivederla, ci era ormai abituato e
inevitabilmente col tempo era andato avanti, lasciandosi alle spalle
quella storia. Tuttavia aveva pur sempre trascorso cinque,
densissimi, anni in compagnia di quella donna e conosceva
perfettamente l'effetto che aveva su di lui, quindi per esperienza
sapeva che era sempre meglio evitare d'incontrarla quando
possibile.
Perché dopotutto lui era sempre un uomo, e Kate era
sempre Kate.
E ogni tanto, quando la sua vena letteraria lo faceva
scivolare in quei poetici momenti bui dell'esistenza che rendono tale
uno scrittore, si ritrovava a incappare in scomodi ricordi del loro
passato. Come stava accadendo adesso, per esempio.
A distanza di
anni non facevano più così male in effetti, e lui
aveva imparato a
smettere di rimproverarsi di colpe che in fondo non aveva, ma era
come con alcuni ritornelli di tormentoni musicali: gli entravano in
testa, e magari li ripassava con gioviale nostalgia, ma erano pur
sempre fastidiosi. Si riproponevano di continuo, ad ogni sosta del
suo cervello -di numero non indifferente, oltretutto- e non riusciva
a scacciarli per giorni, se non sostituendoli man mano con altri suoi
ricordi, finché questi non si esaurivano o non giungevano
reminiscenze più ingombranti da sopportare, che gli
fornivano la
determinazione necessaria ad alzare la guardia di fronte al potere
delle libere associazioni.
Di questi ultimi, il più gettonato era
chiaramente il ricordo della sua proposta, e della loro conseguente
fine.
Per ovvie ragioni questo scenario aveva sempre conservato un
certo potere irritante e, arrivato ad esso, Castle sapeva di stare
sfiorando incautamente la linea rossa del pericolo e di doversi
fermare.
L'ultima volta che aveva ritardato nel farlo, aveva
finito per scaraventare un vaso Ming da 5000 dollari contro la parete
del suo studio, e si era fermato solo perché le urla di sua
madre di
fronte ai cocci si erano fatte più forti delle voci nella
sua
testa.
Eppure non era tutta colpa sua, non si trattava di semplice
autocontrollo, come le aveva candidamente ripetuto più volte
Martha,
e Alexis, ed Esposito e chiunque altro si fosse sentito in dovere di
consigliarlo.
Se loro avessero potuto vedere quello che aveva
visto lui, se la avessero vista piangere, lei che non aveva il
diritto di versare alcuna lacrima perché segretamente gli
aveva
detto addio molto tempo prima di quel giorno, allora forse avrebbero
capito.
Ancora adesso che il tempo, la rassegnazione, la scrittura
e l'affetto delle persone care avevano ampiamente lenito il suo
rancore, rivivere quel flashback gli procurava una scarica di
adrenalina lungo la schiena.
Ancora adesso ricordava alla
perfezione ogni più piccolo movimento: l'avvicinarsi della
propria
fronte alla sua e quello sfiorarsi, un tocco persino più
intimo del
bacio che non era riuscito a darle. Come se con quel contatto avesse
potuto comunicarle tutto ciò che lei era stata per lui, e
ciò che
ancora era.
Ma era già finita, lo sapevano entrambi.
Ed era
stato giusto così. Inevitabile.
Non c'era stato rimorso o rancore
nel suo sguardo, -quello era venuto dopo insieme alla solitudine e al
dolore- ma solo tenerezza per una donna che in realtà non
aveva mai
davvero avuto.
Quel muro non lo aveva che appena scalfito, e colei
che aveva creduto di vedere dall'altra parte era stata solo una
marionetta, i cui fili erano stati sapientemente tirati dalla donna
nascosta al sicuro dietro la propria, impenetrabile, torre di
mattoni.
«Signor
Castle, da questa parte!»
Appena fuori dalla porta scorrevole a
vetri, Castle non fece in tempo a muovere un altro passo nella zona
arrivi dell'aeroporto che si sentì chiamare.
Scandagliando
rapidamente la folla di parenti e chauffeur di fronte a sé,
notò
infine una tozza bionda sulla quarantina, di altezza normale ma
troppo bassa per la propria massa corporea, che a forza di spinte e
svicolate era riuscita a farsi largo tra la gente fino alla prima
fila.
Nonostante la sua presenza fosse del tutto inattesa,
individuarla non era stato certo difficile: a parte la stazza non
indifferente, la donnina aveva preso a sbracciare come per liberarsi
da uno sciame d'api, sventolando a mo' di ventaglio il cartello con
su scritto il nome dello scrittore, con una veemenza decisamente non
necessaria.
Leggermente intimorito, l'uomo prese ad andarle
incontro con passo dubbioso, finché non le fu davanti. Solo
allora
notò il logo dell'Hartforth Hotel cucito sulla camicia.
«Signor
Castle, è un onore incontrarla di persona, io adoro i suoi
libri!»
«La ringrazio, signorina...»
Castle tese la mano
verso la donna che, dopo qualche attimo di ammirata esitazione,
gliela strinse, agitando l'intero busto piuttosto che il solo
arto.
«Patricia, Patricia Belson!»
«È un piacere Patricia.
Non vorrei sembrarle scortese ma posso sapere come mai è
qui? Non
ricordo di aver richiesto di essere prelevato all'aeroporto»
«Oh,
è stata la signora Haas a farlo»
«Paula, ma certo...» soffiò
Castle a mezza voce tra un sospiro e un'alzata d'occhi «Aveva
paura
che scappassi, magari»
L'ironia tagliente con cui il commento era
stato fatto non era sfuggita a Patricia che, indecisa su come
rispondere per evitare di impelagarsi in una discussione chiaramente
scomoda, si limitò a sorridere candidamente, rasserenando di
poco lo
sguardo corrucciato di Castle.
Ora che la guardava meglio, con le
labbra distese in un ampio sorriso e il volto paffuto illuminato
dalla dentatura bianchissima e curiosamente perfetta, doveva
ammettere che, sotto quegli strati di stoffa variopinta e
quell'abbondanza di carne, si nascondeva una donna piacevole e forse,
se opportunamente agghindata, piacente.
Inoltre il suo sorriso
sincero e vagamente imbarazzato suonava rassicurante, lasciando
presagire una piacevole, seppur non richiesta, compagna di
viaggio.
L'entusiasmo iniziale andò comunque smorzandosi man mano
che la coppia procedeva lungo l'aeroporto, con Patricia che, rotto il
ghiaccio, rivelò la sua parlantina nonché il suo
fare autoritario
nell'impedire all'altro qualunque sosta o spostamento non
precedentemente autorizzato da Paula, e Castle che si trascinava
stancamente dietro di lei, con il trolley in una mano e risposte
unicamente monosillabiche in gola.
Quando avevano infine raggiunto
l'uscita, Castle sapeva già che Patricia aveva due figli, un
marito
sfaticato, un gatto grasso e un'improbabile passione per le barrette
ai cereali. La sola cosa che salvò le sue orecchie
dall'imminente
suicidio fu il suono del proprio telefono squillargli nei
pantaloni.
«Paula, proprio la donna a cui stavo
pensando...»
«Richard,
anche per me è sempre un piacere godere
delle tue parole da migliaia di dollari, spero che il volo sia andato
bene! Hai già incontrato Patricia?»
«Intendi il cane da guardia
che hai mandato a prendermi?»
«Suvvia, non
essere esagerato,
l'ho fatto solo per rendere il tuo viaggio il meno faticoso
possibile, e ti ho evitato l'impiccio del taxi. È deliziosa,
non
trovi?»
Prima di rispondere Castle lanciò un'occhiata in
direzione della donna, che aveva con successo chiuso il portabagagli
con la sua valigia all'interno e lo stava ora invitando a
raggiungerla in auto, già seduta al posto di guida col
solito
sorriso a incorniciarle il volto.
«Sì, forse anche troppo. Ora
devo andare, ci risentiamo domani»
La voce all'altro capo del
telefono lo salutò di rimando, e un sospiro dopo Castle si
incamminò
verso l'auto prendendo posto accanto alla sua guida.
Quaranta
minuti dopo Richard Castle aveva già raggiunto l'hotel,
fatto il
check in, scaricato cordialmente Patricia, rifiutato una cena, ed era
giunto al termine di una rinfrancante conversazione telefonica con
Alexis.
Vinto da uno sbadiglio, scambiò un ultimo saluto con la
figlia, con l'augurio di una buonanotte e la promessa di richiamarla
l'indomani, non appena terminata la presentazione del libro.
Chiuse
la chiamata e con un tonfo distese le braccia all'indietro, lasciando
che il cellulare rimbalzasse mollemente sul materasso.
Rimase
così, in una posizione a stella marina che ricordava
vagamente
quella di una tortura in voga in passato, per quelli che sembrarono
un'ora e invece furono solo venti minuti.
Troppo stanco per
scendere al ristorante e rischiare d'intrattenere ulteriori
interazioni sociali, chiamò il servizio in camera ordinando
una
bistecca, un'insalata e un buon bicchiere di vino rosso. Una doccia
fu il passo successivo, che lo tenne occupato fino a quando il
cameriere -un tipo lungo dall'aria assonnata- non si
presentò alla
sua porta con la sua cena.
Quando i piatti dinanzi a lui furono
finalmente svuotati, il cielo era diventato ormai nero e la
città
oltre la sua finestra era stata completamente rivestita di Notte.
A
passi lenti si avviò verso il letto, facendo il giro largo
per poter
passare accanto la vetrata e ammirare la sua amata notte in tutta
calma. Sotto di lui, tra le fronde danzanti degli alberi e l'insegna
di un supermercato aperto ventiquattro ore, vide sfrecciare un'auto
della polizia, a sirene spiegate in mezzo al traffico onnipresente di
Washington, il che per vie traverse e per le motivazioni più
sbagliate, gli ricordò che gli toccava fare un'ultima
telefonata
prima di potersi finalmente concedere a Morfeo.
La
mattina successiva arrivò troppo presto e non nel migliore
dei modi:
un'ustione da caffè alla lingua e un freddo pungente non
avevano
aiutato a rendere veloce o indolore il distacco da uno dei letti
più
comodi che avesse mai provato. Inoltre un'ora dopo si era aggiunta
anche Patricia e la sua immensa mole di aneddoti e storie, cui Paula
aveva apparentemente dato il compito di pedinarlo in ogni suo
spostamento.
Fortunatamente lui era stato piuttosto abile a far
perdere le proprie tracce all'angolo tra la Ronson e la
Ventiquattresima, e giunti a metà mattina sembrava che la
sua
giornata dovesse infine iniziare a prendere una piega migliore.
Una
volta liberatosi dall'impiccio della compagnia, Castle poté
per
prima cosa concedersi una lunga e solitaria passeggiata per la
città,
beandosi dei dettagli e degli scorci che la sua vena scrittoria era
in grado di percepire, senza il rischio di venir distratto o di dover
condividere le sue scoperte con qualcuno ad alta voce.
Quando fu
sazio del paesaggio urbano e della sua fumosa frenesia, si diresse
verso il quartiere di Capitol Hill.
Sullo sfondo di quei
meravigliosi parchi, le sue orecchie godettero del conquistato
silenzio -lì ancor più apprezzabile- e i suoi
occhi si imbatterono
sull'imponente edificio del Campidoglio, che tuttavia si
limitò a
osservare da lontano, avendo altre mire.
Raggiunse la sua meta una
decina di minuti dopo.
La Biblioteca del Congresso era per lui una
tappa obbligata ogni qualvolta si trovava a Washington, fin da quando
da bambino vi si era recato la prima volta in compagnia di sua
madre.
Era probabilmente un trito cliché -lo scrittore che visita
la biblioteca- eppure non poteva farne a meno: sia il maestoso
neoclassicismo degli esterni, che l'aria polverosa, quasi sacra, che
si respirava all'interno riuscivano ad affascinarlo come pochi altri
luoghi al mondo.
Com'era frequente quando si circondava di parole
scritte, sia proprie che altrui, il tempo passò
incredibilmente
veloce, e quando infine uscì dall'edificio era
già ora di pranzo:
frettolosamente si recò in un ristorante e
consumò un rapido
pranzo, per poi tornare in hotel dove una doccia e un cambio abiti lo
attendevano, in vista della presentazione del proprio libro di quel
pomeriggio.
Ogni
presentazione si svolgeva in modo pressoché identico.
Per prima
cosa c'era qualcuno a presentarlo, poi arrivava lui accolto da una
folla più o meno urlante -a seconda del genere e
dell'età dei
presenti-, seguivano un breve discorso, la presentazione del libro,
la lettura di un breve estratto, i ringraziamenti del caso e, per
ultimo, la firma delle copie.
Era però una monotonia piacevole:
gli dava l'occasione di interagire con ciò che amava fare e
con
persone che amavano ciò che lui faceva, e occasionalmente
lui.
Era
buffo pensare a come centinaia di ragazze affermassero di essere
innamorate di lui senza averlo mai conosciuto, solo sulla base di
parole che lui metteva in bocca a personaggi fittizi e che non
necessariamente condivideva. Eppure eccole lì, in
fila, in
trepidante attesa di una sua parola o di un suo autografo su cui
poter fantasticare più tardi.
A questo Richard Castle pensava,
mentre la penna correva veloce una pagina dopo l'altra, in un gesto
-quello del firmare- ormai diventato automatico negli anni, ma mai
totalmente disinteressato.
Del resto era sinceramente grato a
quelle persone, anche se a volte si sentiva comunque solo nonostante
loro.
Mentre il proprio sorriso e i propri occhi incontravano
quelli sognanti della fan di turno, e una carrellata di volti
sconosciuti gli sfilava dinanzi, l'ennesimo scomodo pensiero si
affacciò alla sua mente, forte della cattiva strada che il
suo
cervello aveva imboccato il giorno prima in aereo.
Così,
tra un autografo e un saluto, prese forma il ricordo di quel giorno
in cui l'ennesima voce aveva chiamato il suo nome, ma stavolta a
pronunciarlo era stata una bocca familiare, come familiari erano
stati gli occhi, i capelli, e quella rughetta d'espressione tra le
sopracciglia.
Quello era stato un periodo difficile per loro, e
non uno fra i tanti ma forse il peggiore. Quello in cui lui, con
l'ombra del suo sangue ancora tra le mani, era finalmente venuto a
patti con i propri sentimenti, e lei lo aveva allontanato come
sempre, ma con più forza.
Lo aveva sorpreso, negativamente,
cacciandolo senza motivo -così credeva lui al tempo- dalla
propria
vita e rifiutando la sua presenza, e poi, quando si era ormai
rassegnato al fatto di avere avuto a che fare con la solita donna
caparbia, impaurita e meschina della sua vita, lei lo aveva sorpreso
di nuovo. Nel bene stavolta.
Si era presentata di fronte a lui, a
testa bassa come non avrebbe mai pensato di vederla, ma con la stessa
determinazione di sempre negli occhi.
Quel giorno lui
l'aveva ritrovata, o forse l'aveva scoperta per la prima volta,
attraverso quella breccia che aveva creduto di vedere aprirsi nel suo
muro.
Molte volte, dopo essersi lasciati, aveva immaginato di
rincontrarla così, di ritrovarsela davanti inaspettatamente,
identica a come l'aveva l'asciata ma forte di un nuovo coraggio. In
ogni sua fantasia, in ogni scenario che la sua mente aveva costruito
nel corso dei giorni successivi al loro addio -quando il cuore ancora
sperava di riaverla- l'aveva sempre immaginata tornare da lui con tra
le mani una nuova breccia sul proprio muro, come quella volta alla
presentazione del libro: una nuova breccia che, insieme alla prima,
gli avrebbe permesso di infilare entrambe le braccia attraverso la
sua barriera di mattoni e afferrarla per non lasciarla più
andare
via, per non permetterle di avere paura e scappare da lui un'altra
volta.
Chiaramente non era mai successo.
E col tempo si era
convinto che in realtà quella prima fessura che aveva
creduto di
vedere era stato solo un abbaglio, o che se c'era stata davvero era
stata prontamente richiusa in seguito, silenziosamente, senza che lui
se ne accorgesse. Approfittando del fatto che lui -che giornalmente
la studiava per
accertarsi che
la breccia fosse ancora lì- aveva poi smesso di controllare,
rassicurato da quell'amore che lei finalmente si era concessa di
dargli.
«Signor
Castle, è stato un immenso piacere. Speriamo di riaverla al
più
presto qui, magari col suo prossimo libro!»
Quando l'ultima copia
era stata firmata, le porte della libreria erano state chiuse, e
Castle aveva creduto di poter finalmente godere di un attimo di
respiro, il gestore dell'attività gli era letteralmente
corso
incontro inondandolo di ringraziamenti e complimenti che solo dieci
minuti pieni e una copia con dedica per ogni membro della famiglia
dell'uomo erano riusciti a fermare.
Esauriti
gli ultimi convenevoli Castle fu finalmente libero e, alzato il
bavero del cappotto, si addentrò nell'aria umida di pioggia
di
Washington. Per un breve istante valutò la
possibilità di fermare
un taxi, di cui le strade erano piene, ma la prospettiva di
passeggiare tra i palazzi di Washington, con l'illuminazione stradale
che lentamente cedeva il passo alla luce del sole nonostante fossero
ancora le cinque del pomeriggio, lo convinse a desistere. Inoltre
l'aria fresca sembrava un buon rimedio alla stanchezza, oltre che
perfetta rinfrescarsi le idee.
Procedendo
a passi lenti per godere più a lungo della città
e della leggera
brezza contro il suo viso, impiegò il doppio del tempo
necessario
per arrivare all'hotel.
Quando infine svoltò l'ultimo angolo e
intravide in lontananza l'insegna dell'Hartforth si decise ad
accelerare il passo: ora che la destinazione era stata raggiunta e il
letto era a soli tre piani di distanza, infatti, tutta la stanchezza
accumulata durante la giornata aveva deciso di potersi manifestare
senza il rischio di controproducenti conseguenze.
Pertanto, quando
Castle arrivò a un paio di metri dall'ingresso, fu proprio
alla
stanchezza che imputò la sagoma slanciata stagliata di
fronte a sé,
e sempre alla stanchezza attribuì la strana impressione che
gli
occhi di quella sagoma stessero puntando proprio a lui, con un
qualcosa di bizzarramente familiare.
«Kate?»
Il nome
uscì prima che il cervello potesse metabolizzarlo. Il tono
interrogativo della voce a sottolineare quanta incredulità
ci fosse
nel solo immaginare l'eventualità che si trattasse di lei.
«Ciao,
Castle»
La voce di lei arrivo a spazzare ogni dubbio, riportando
a galla quella speciale irritazione che solo lei era in grado di
procurargli.
Eccola lì, in piedi di fronte a lui, come aveva
sempre immaginato: le mani in tasca, un sorriso sfacciatamente
accennato sul volto in contrasto con l'imbarazzo disegnato nei suoi
occhi, pur tuttavia illuminati dalla solita, meravigliosa,
caparbietà
di cui solo Katherine Beckett era capace.
Solo che stavolta era
vero.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Someone I've been missing ***
Someone
I've been missing
And
right now there's a war between the vanities
But
all I see it's you and me
The
fight for you is all I've ever known
(Come
Home - One
Republic)
Coney
Island.
Era
lì che andava quando aveva bisogno di pensare.
La
sua via di fuga -così amava
chiamarla.
Il
suo posto sicuro.
Quattro
miglia di costa fattesi custodi, nel corso degli anni, di ogni suo
grande momento: dalla morte di sua madre fino alla decisione di
trasferirsi a Washington.
La
stessa Washington che, in oltre due anni di convivenza, non era
ancora stata capace di offrirle una valida alternativa -un'altra
Coney Island- in cui potersi rifugiare quando le circostanze lo
rendevano necessario. Come adesso.
Così
Kate aveva dovuto imparare ad adattarsi, scendere a compromessi con
una città che le stava dando tanto quanto continuava a
toglierle
ogni giorno, e lavorare d'immaginazione. Immaginare,
ad esempio, che il rumore della sabbia bagnata suonasse come lo
scalpiccio umido dell'erba sotto i propri piedi, o che le forme
sbiadite, riflesse sul più modesto specchio d'acqua del
National
Mall, altro non fossero che le giostre dipinte sulla superficie del
mare cui era tanto affezionata, dormienti sotto la morsa del gelido
inverno NewYorkese. A
volte fingere era più facile, e chiudendo gli occhi Kate era
persino
in grado di rievocare l'aroma pungente dell'oceano e il tramestio
delle onde di risacca sulla battigia; altre volte lo sforzo era tale
da vanificare ogni suo tentativo, e l'erba tornava ad essere
semplicemente erba.
Oggi
era una di quelle giornate, una in cui persino l'oceano -quello vero-
avrebbe fatto fatica ad alleviare i suoi pensieri.
Con
gli ultimi scampoli d'alba a intiepidirle il viso, aveva voltato le
spalle al Monumento a Washington e si era incamminata verso la
propria auto -assopita all'ombra di un albero, parecchi metri
più
avanti. Alle
sue spalle, il sole la spiava in un timido capolino, ancora ben
nascosto dietro la cupola del Campidoglio, regalandole di tanto in
tanto qualche pozza di luce più brillante sull'asfalto, in
cui
immergere i piedi. E Kate ne era avida, poiché il calore del
sole
era la sola cosa immutata in quello scenario, l'unica che non doveva
sforzarsi d'immaginare per poter rivivere: indugiava ad ogni passo,
dondolando mollemente il proprio corpo al vento, finché
quest'ultimo
non la sospingeva un po' più avanti e lei inciampava su un
nuovo
raggio di sole, e la danza si ripeteva ancora, e ancora...
finché
non ne fu sazia. E
ciò accadde solo quando ormai i contorni del volante erano
ben
visibili attraverso il lunotto, e un leggero odore di benzina
bruciata prese a solleticarle le narici tanto era vicina al serbatoio
dell'auto.
Coney
Island.
Solo
un'altra voce da aggiungere alla lista di ciò a cui aveva
dovuto
rinunciare.
Spiegare
cosa l'avesse spinta in quel quartiere, a quell'ora tarda del
pomeriggio, davanti un albergo che poteva a malapena permettersi
d'ammirare, le costò parecchia fatica nonché una
buona dose di
orgoglio ferito da ingollare in unico boccone amaro.
Il
perché volesse trovarvisi non era in effetti un mistero
così arduo
da decifrare: ciò che davvero le sfuggiva era il quando
“ciò che
voleva” era diventato anche “ciò che
avrebbe fatto”.
Di
certo c'era che lavorare le era risultato più difficile del
solito
-sicuramente non più del previsto. E
che ad un certo punto della sua giornata doveva esserci stato un
momento, breve ma intenso, in cui aveva deciso che era stanca di
sentirsi in difficoltà e, al contempo, di negare
strenuamente
d'esserlo. Fingere
che la data volutamente non cerchiata sul calendario fosse passata
altrettanto inosservata al suo cervello era un esercizio fisico
-oltre che mentale- infruttuoso, cui non era più
intenzionata
sottoporsi.
Così,
uscita dall'ufficio, aveva semplicemente lasciato che le gambe
procedessero autonome, schiave di un pensiero preciso, rimasto
inespresso fino alla fine solo per testardaggine che per sincera
ingenuità. Quando
infine si era scoperta di fronte l'ultimo luogo in cui avrebbe dovuto
trovarsi, a un passo dall'ultima persona che avrebbe dovuto
incontrare, aveva provato un certo sconcerto -ma certo non aveva
potuto dirsi particolarmente sorpresa.
Sin
da quando Lanie aveva incautamente -incautamente? Non ne era
più
nemmeno tanto certa- nominato il nome del suo albergo due
settimane prima, questo si era fatto misteriosamente di passaggio in
ogni suo spostamento. Era come essere precipitati in un labirinto in
cui tutto appariva familiare eccetto per quei muri, furbi e invisibili,
tutt'intorno a lei che, a prescindere da quale direzione lei
prendesse, conducevano tutti verso l'unica uscita apparentemente
esistente: quella con vista sull'Hartfort Hotel.
Così,
tra un insulto all'amica e a uno a se stessa, aveva trascorso i
successivi venti minuti a tracciare coi propri piedi una
circonferenza invisibile di fronte l'ingresso specchiato
dell'edificio, suscitando tra l'altro la curiosità del
portiere,
indeciso se considerarla come una minaccia o per ciò che
era: una
donna adulta e indipendente in preda a una sindrome da regressione
adolescenziale.
Esitante
e concitata, un pollice sequestrato dai denti per l'agitazione, era
l'esatta riproduzione esteriore del suo conflitto interiore: ad ogni
passo mosso a destra ne seguivano due a sinistra, ad ogni cenno fiero
del capo seguiva il titubante contrarsi di un sopracciglio... La
folle danza del suo corpo s'interruppe solo quando, dal fondo della
strada, riconobbe il familiare incedere di una testa mora, appena
picchiettata da sprazzi argentei sulle tempie, irrimediabilmente
diretta verso di lei.
Un'intensa
ondata di panico la travolse nel veder scivolare via quel poco di
controllo sulla situazione che sentiva d'aver mantenuto, nonostante
tutto, fino a quel momento.
Nello
scenario che aveva immaginato era lei a tenere in mano le redini del
gioco, sempre lei a decidere, alla fine dei conti, se scegliere o meno
di
entrare e chiedere di lui. Aveva del tutto ignorato
l'eventualità di
un ribaltamento dei ruoli, in cui fosse stata lei -non più
lui- a
trovarsi incastrata. Decisamente
un grave errore d'ingenuità, dovette ammetterlo: non erano
forse
stati sufficienti cinque anni per capire che, quando si trattava di
loro, il destino era sempre stato pronto a scombinare ogni suo piano,
rimescolando le carte in tavola?
In
un estenuante conto alla rovescia, scandito dal lento e cadenzato
ritmo dei passi di lui, Kate comprese di avere a disposizione ancora
un momento, uno soltanto prima che l'uomo di fronte a lei alzasse lo
sguardo e incontrasse il suo.
In
altre circostanze quel momento sarebbe stato più che
sufficiente:
una donna con la preparazione tattica e i riflessi come i suoi ne
avrebbe facilmente ricavato una ritirata dignitosa e del tutto
inosservata. Eppure
quel nervosismo, che solo fino a qualche istante prima le aveva
impedito di star ferma, adesso le stava ostacolando qualsiasi
movimento. Rassegnata
quindi all'ineluttabilità di quell'incontro, decise
quantomeno di
prendere da esso tutto ciò che v'era da prendere, compreso
il lusso
di osservarlo come non faceva da anni: senza fretta o sotterfugi,
senza celarsi nel e dall'imbarazzo e risentimento che si erano
aggrovigliati, ormai così saldamente, al loro filo rosso.
E
il mondo sembrò rallentare nell'istante in cui lui
alzò gli occhi
da terra, prima che questi si riempissero di lei e della
consapevolezza di chi aveva davanti: per Kate fu come sbirciare
attraverso la serratura di una camera chiusa, a cui non aveva
più
accesso. Una camera profonda e accogliente e intima, piena di oggetti
familiari e di ricordi, immersi nel chiarore delle sue iridi blu. Poi
lui la vide, e tutto cambiò: un attonito battito di palpebre
e lo
spioncino fu brutalmente richiuso, lasciandola ancora una volta sola,
fuori dalla stanza. Davanti a lei, adesso, solo un misto di
smarrimento e rabbia, che dagli occhi si riversò lentamente
sulle
labbra fino a sfociare nel lento sillabare di quello che riconobbe
come il proprio nome.
«Kate?»
«Ciao,
Castle»
Rispose
in maniera quasi sfrontata, il capo torreggiante di un'improvvisa
fierezza. Una reazione istintiva di difesa a quello sguardo
distaccato e rovente sulla pelle, cui era ormai
largamente
allenata, ma che le provocava ogni volta una violenta contrattura al
cuore.
«Cosa
ci fai qui?»
«Ero
da queste parti per via di un caso, sai al lavoro.... dovrei essere
io a chiederlo a te piuttosto»
La domanda non
giunse inattesa, e tuttavia la risposta che ne seguì fu a
dir poco raffazzonata, lasciando a Kate la spiacevole sensazione
di aver detto la bugia peggiore della sua vita, dove il
tono incerto della voce non fece che minare la già scarsa
plausibilità della scusa in sè.
«Giusto...
Beh, io sono qui per-»
«Per
la presentazione del nuovo libro, lo so»
interromperlo le venne spontaneo, ma col senno di poi non si
dimostrò
la migliore scelta da fare, non avendo fatto altro che rafforzare i
sospetti di lui, già piuttosto netti a
giudicare dal modo in cui la stava studiando «Ho
visto i cartelloni pubblicitari»
«Ah
sì, come al solito si fanno notare...»
Uno
sprazzo di sorriso, chiaramente di circostanza, rese il suo volto
meno indagatore e più cordiale. E pur consapevole che questo
non ne
aveva, comunque, attenuato la freddezza, Kate si sentì
leggermente
rincuorata a proseguire senza l'imbarazzo di qualche istante prima.
«Ho
sentito che il nuovo libro sta andando bene»
«Sì,
infatti. Fortunatamente per me sembra che la gente non si sia
ancora stancata delle mie storie...»
«Mi
fa piacere, davvero»
«Grazie...
E tu, come vanno le cose qui?»
«Oh
tutto bene, davvero»
Terminato il rigido scambio di convenevoli, un presagibile e
inesorabile silenzio calò tra loro,
lasciandoli scomodamente ancorati ai loro posti in preda a un nervoso
dondolio di corpi e di sguardi.
«So
che sarai molto impegnato ma pensavo... Potremmo prendere qualcosa
insieme uno di questi giorni, se ti va. Un caffè magari...»
«Non
credo di potere, in effetti sono parecchio impegnato... Inoltre
riparto fra due giorni, quindi ho i tempi molto stretti»
«Certo,
capisco... Proprio una toccata e fuga, eh?»
«Purtroppo
è lo svantaggio dei tour: se dovessi fermarmi
a lungo in ogni
città che visito non avrei tempo per scrivere e nessun libro
da
promuovere»
Di
nuovo il sorriso di circostanza fece capolino, di nuovo la sua
espressione si ammorbidì, ma stavolta Kate fu
ben lungi dall'esserne rincuorata.
«Giusto...
Beh, adesso devo proprio andare. Mi ha fatto piacere rivederti
comunque, buona
fortuna per il tour»
«Grazie»
Nascose
le mani in tasca e rimase ancora qualche istante tentennante sulla
propria posizione, con lo sguardo scomodamente saldo al suo.
Quando nell'immobilità delle sue labbra lesse la certezza
che non
avrebbe aggiunto altro a quell'ultima scambio di battute, gli
dedicò un ultimo cenno di commiato del capo, e si
voltò rassegnata
in direzione di casa propria.
Fu
solo dopo aver mosso i primi passi che la voce di lui la raggiunse:
esitante e incerta nel fermarla dall'andarsene come lo era stata lei,
pochi istanti prima, nel decidersi a farlo.
«Magari
solo un caffè...»
Con
gli zigomi tirati in un tiepido sorriso, ed evidentemente colta di
sorpresa, Kate fece dietro front e replico con un semplice
“ok”.
«Domani
mattina ho un intervista e poi un pranzo di lavoro, ma nel tardo
pomeriggio sarò libero. Sempre che tu non debba lavorare»
«No,
domani pomeriggio andrà benissimo. Alle cinque e mezza qui?»
«D'accordo.
A domani allora»
Una
ventata gelida lo colse di sorpresa, costringendolo a stringersi
ancor di più nel suo cappotto beige, un attimo prima di
varcare la
soglia dell'hotel .
Lo
sguardo di Kate lo seguì per tutto il tempo,
finché la porta
girevole non si richiuse sulla sua schiena, restituendole ora solo il
riflesso sbiadito della propria immagine.
E in
quello sfarfallio di lampioni, stagliati contro le ombre ormai
pronunciate della sera, con la voce di lui a risuonargli
ancora
nelle orecchie, un ricordo le si affacciò alla mente e lei
stavolta gli permise d'entrare, lasciando che prendesse forma sulla
superficie
specchiata della porta.
Loro
due,da soli, al distretto.
La sera della chiusura
del fascicolo di Melanie
Cavanaugh,
uno dei primi loro casi insieme.
Riusciva ancora a vedere le tracce di
stanchezza e coatta sopportazione sul proprio viso per la negligenza di
cui tante e tante volte s'era macchiata la Polizia anche prima del caso
Cavanaugh: un pensiero allora irrimediabilmente
legato alla morte di sua
madre.
Castle le era rimasto accanto, e lei quella
sera gli aveva aperto il suo cuore per la prima volta. Per la
prima
volta aveva scorto in lui qualcosa di più dello scrittore
playboy e
annoiato che appariva, e aveva percepito un legame: piccolo, ancora
acerbo, ma sufficientemente intenso da spingerla a raccontargli di
sé
e della sua famiglia. E lui l'aveva ascoltata, aveva divorato la sua
storia con la stessa voracità con cui scriveva le proprie,
ma con
altrettanto rispetto e delicatezza. E poi l'aveva semplicemente
salutata, ma le
sue parole -come accadeva spesso- le erano rimaste impresse per
ragioni che non sapeva spiegarsi: forse più per il modo in
cui
venivano dette che per ciò che realmente significavano.
«Allora
a domani, detective»
«Non
puoi dire notte?»
«Sono
uno scrittore, è una parola noiosa.“Allora a
domani” è più...
ottimista»
«Già,
invece io sono un poliziotto. Notte»
E
mentre il mondo reale lentamente tornava a rivivere intorno a lei,
rivide la sè stessa di sette anni prima allontanarsi verso
l'ascensore e il vetro tornò a riflettere la Kate del
presente, in
uno sfondo meno familiare del distretto qual'era per lei Washington.
«A domani...»
E
avvolta nella sera, scomparve dietro l'angolo.
Il
domani arrivò con tempi diversi per
entrambi.
Da
una parte c'erano Rick e la sgradevole impressione che lo spazio
temporale si fosse misteriosamente dilatato durante la notte, una
sensazione che non provava dai tempi dei suoi migliori
e peggiori dopo-sbornia tardo adolescenziali: i minuti duravano il
doppio, le ore il triplo e persino
gli One Republic, dalla radio, sembravano aver aggiunto qualche
ritornello di troppo alla loro canzone.
Dal
canto suo, Kate si era invece svegliata con una strana fretta in
corpo: con la sensazione di aver mille cose da fare e tempo per
nessuna di esse.
E
in effetti, quando la lancetta segnò le cinque, quel
pomeriggio,
dovette ammettere che, sepolta com'era dalla pila di improvvise
scartoffie abbattutesi sulla sua scrivania, di tempo iniziava davvero
ad averne poco. Alle
cinque e venti fu infine costretta a scendere a patti con la
realtà, e
ammettere ad alta voce che non sarebbe mai arrivata in tempo
all'appuntamento. Il
pensiero di disdire la sfiorò per un breve minuto, prima di
venire
del tutto accantonato in un recesso del suo cervello: a conti fatti
sarebbe stata la migliore cosa da fare. Chiamare il suo albergo e
fargli comunicare che aveva avuto un contrattempo e non ce
l'avrebbe fatta a raggiungerlo le sarebbe costata ben poca fatica,
sicuramente molta meno di quanta ne sarebbe servita per affrontare
l'incontro stesso.
Di
cosa avrebbero parlato? Come
l'avrebbe fatta sentire?
Se
la semplice idea di parlare con lui senza ricorrenze e amici intorno
a proteggerla, pronti a offrire vie di fughe ove necessario, riusciva
a innervosirla, come avrebbe reagito trovandosi effettivamente nella
situazione?
Tutte
domande legittime le sue, e piuttosto pressanti, che tuttavia non la
convinsero a desistere dal suo discutibile progetto di cacciarsi
volontariamente in quella scomoda situazione.
Così,
mentre il suo lato razionale tentava ancora invano di dissuaderla, le
dita si erano già tuffate nella borsa alla ricerca del
cellulare, e
poi nella rubrica veloci sino alla lettera “C” di
Castle.
Nell'osservare il suo nome, campeggiante a chiare lettere tra i primi
posti, un attimo prima che la chiamata fosse inoltrata, Kate
rifletté
su quanto assurdo fosse stato tenere quel numero per tutto quel
tempo, e poi su quanto familiare le fosse sembrato selezionare quella
voce, nonostante fossero passati oltre due anni dall'ultima volta in
cui lo aveva fatto. La
mente di Kate virò allora rapida su un nuovo pensiero: due
anni
erano davvero tanti, in tutto quel tempo Castle poteva anche aver
cambiato numero...
Così,
quando il cellulare finalmente esalo a fatica il primo squillo, Kate
per qualche ragione tirò istintivamente un sospiro di
sollievo. Al quarto squillo l'impazienza aveva già preso
possesso
del suo corpo e delle sue mani, al sesto finalmente l'altoparlante
sputò fuori una voce familiare e le dita presero a
picchiettare sul
tavolo per un altro genere d'agitazione.
«Pronto?»
«Ciao
Castle, sono Kate. Ho avuto un
contrattempo a lavoro,
un problema burocratico col caso di cui mi sto occupando, e sono
rimasta bloccata in ufficio. Non credo di farcela ad essere
lì tra
mezz'ora...»
«Certo,
lo capisco... Vuoi che annulliamo quindi?»
Lo
voleva? Una parte di lei continuava a ripetersi che, quantomeno,
sarebbe stato più saggio farlo.
«No,
in realtà pensavo che potresti raggiungermi qui. Non dovrei
averne ancora per
molto, e potremmo prendere qualcosa in uno dei locali qui intorno, una
volta che avrò finito»
Per una manciata di secondi il telefono le rimandò indietro
solo silenzio, e Kate immaginò che Castle dovesse essere
rimasto spiazzato quanto lei da quella proposta.
Prima di chiamarlo aveva pensato a cosa
voleva fare -vederlo- ma non a come far sì che questo si
incastrasse con l'entrata in scena improvvisa del suo lavoro.
L'idea
di farsi raggiungere era nata spontanea come risposta ad una domanda
che, se qualcuno avesse dovuto scommettere -lei compresa-, avrebbe
portato alla disdetta dell'appuntamento. Nulla di strano, quindi, se
lui stava ora esitando a rispondere. La vera questione era, avrebbe
accettato o avrebbe approfittato della situazione per evitare
quell'incontro, come avrebbe forse dovuto fare lei sin dall'inizio?
«Certo,
perché no... Ne approfitterò per una passeggiata
sin lì, e un
ultimo giro della città»
L'esitazione
che aveva saturato il silenzio di qualche istante prima aveva
semplicemente cambiato sede, riversandosi sulla sua voce; nonostante
tutto aveva accettato e Kate si sentì improvvisamente
più pesante,
gravata di un sorriso che prima non c'era.
«Perfetto,
a tra poco allora!»
Un
ultimo saluto, e l'altro capo del ricevitore si fece nuovamente muto.
Smaltita
di colpo la tensione accumulatasi sulle spalle, riverso all'indietro la
schiena, fino far reclinare di qualche grado la
poltrona, e rimase immobile così per qualche minuto: le
braccia
distese verso l'alto, e un cipiglio pensieroso a incorniciarle il
volto. Poi un pensiero infantile le si affacciò alla mente,
e il
sorriso che ancora le adombrava lo sguardo lasciò posto
all'irrequieto mordersi di un labbro. Aveva risposto al
telefono con un semplice “Pronto”: non aveva
pronunciato il suo
nome ma neanche chiesto chi fosse... E una piccola parte
della sua mente non potè fare a meno di domandarsi se anche
lui, come
lei, avesse tenuto il suo numero per tutto questo tempo.
Se avesse
risposto sapendo che all'altro capo c'era lei, o se invece non ne
avesse avuto idea sino a che non aveva sentito la sua voce.
Quest'ultima
eventualità, per quanto logica e più che
comprensibile, non le
piacque affatto.
Erano
le sei quando un pensieroso Castle raggiunse gli uffici
federali.
Alle sei e cinque una Kate meravigliosamente scompigliata fece la sua
comparsa nell'androne, anticipata dal risuonare dei tacchi attraverso
la tromba delle scale. Una nuova serie di scuse e l'allettante
offerta di curiosare in giro in sua attesa -colta al volo dallo
scrittore- e scomparve nuovamente tra le porte dell'area riservata
agli impiegati.
Solo
quando le lancette segnarono infine le sei e mezza, Kate riapparve
nell'androne, stavolta libera da qualunque obbligo e giusto in tempo
per evitare a Castle un arresto per visione indebita di documenti
segretati. Chiaramente non tutto doveva essere cambiato in quegli
anni, e i cartelli di divieto alle porte, nonché le
restrizioni
ufficiali, dovevano ancora essere, senza dubbio, fonte di disturbo e di
fascino per
Castle.
Risolto
l'inconveniente con l'ufficiale di polizia, e lasciatosi alle
spalle sia lui che l'intero edificio, i due si incamminarono verso
Dupont Circle e la
sua chiassosa vita sociale.
In
rigoroso silenzio, saltuariamente interrotto da qualche vuoto
commento sul tempo e sul panorama, procedettero fianco a fianco
attraverso la matassa di stradine e localini disseminati ovunque
intorno a loro. Nonostante
l'ampia scelta a loro disposizione, optare per uno piuttosto che per
un altro si rivelò un compito assai difficile, probabilmente
per
ragioni più prettamente legate alla loro situazione
personale attuale che ad
effettive pecche di tali posti.
«Temo
che l'ora del caffè sia passata ormai da un
pezzo...»
Fermi
ad un semaforo, Castle puntò gli occhi sull'asfalto,
spingendo la
donna accanto a sè a fare altrettanto: le loro ombre, come
quelle di chiunque altro intorno, erano ormai scomparse, inghiottite
dall'avanzata
della luna sopra di loro.
«L'ora
del caffè non passa mai, dovresti saperlo»
«Giusto.
Ma hai capito cosa intendo»
L'accenno
di sorriso sul volto di Castle, il primo segno d'ilarità da
che si
erano incontrati, la contagiò, alleviando di poco la
sensazione di
disagio attanagliata al suo stomaco, il che le permise di constatare
che lui aveva ragione senza per questo farsi prendere dal panico.
«Magari
potremmo cambiare programma, optare per una cena. Qualcosa di poco
impegnativo, tipo hamburger e patatine... »
L'ultima
frase fu aggiunta con una certa premura, avendo notato un lampo di
allarme nello sguardo dell'uomo alla parola cena.
Tuttavia
la prospettiva di un hamburger sembrò incontrare il suo
favore, e
Kate ebbe la sensazione che fosse stato il suo stomaco a rispondere
per lui prima ancora che un convinto
“sì” venisse emesso dalla
sua gola. Cambiato
target, la ricerca riprese ma stavolta mostrò rapidamente i
suoi frutti e,
individuato il più invitante tra i fast food nelle
vicinanze,
vi entrarono con un entusiasmo quasi puerile. In
effetti, si rese conto Kate, a pranzo non aveva toccato che un mezzo
toast sfatto preso dalle macchinette, per cui, almeno nel suo caso,
quella
foga poteva dirsi proporzionata alla sua fame.
Un
po' per caso un po' per calcolata scelta, puntarono entrambi allo
stesso tavolino, l'unico con le sedie disposte l'una di fronte
all'altro anziché vicine, e posizionato in modo tale da
affacciare
direttamente sulla strada: un punto abbastanza tranquillo per parlare
ma non troppo appartato da creare ulteriori imbarazzi.
Contro
ogni prospettiva la conversazione, fino ad allora fiacca e languida,
prese una piega diversa non appena i loro stomaci cominciarono ad
essere riempiti. Nonostante i discorsi vertessero su temi volutamente
superficiali e ciarlieri, gran parte del disagio e dell'imbarazzo che
li aveva accompagnati lungo la strada sembrava aver deciso di
concedere loro almeno un pasto in tranquillità,
cosicché anche i pochi silenzi tra loro potevano, almeno
esteriormente, essere
scambiati come l'innocuo effetto di un panorama distraente piuttosto
che di tensioni personali.
Quando
Kate si era ormai rilassata, abbandonatasi alla piega positiva che
sembrava aver preso la serata, tuttavia la situazione cambiò
di
nuovo, e i loro compagni “disagio” e
“imbarazzo” tornarono
prepotenti a farsi ingombranti presenze invisibili tra loro. E
Kate
ebbe la sensazione che ad invitarli ad entrare fosse stata la
chiamata giunta improvvisa sul cellulare di Castle, e da lui
prontamente rifiutata: un gesto la cui urgenza non le era passata
inosservata. Da
quel momento e per una buona ventina di minuti, la conversazione
tornò a farsi scarsa e impersonale, con alti e numerosi
picchi
d'impaccio, per cui nel complesso a mandare avanti la discussione
furono più gli sguardi e le cose non dette che le parole
pronunciate
ad alta voce. E mentre Kate si crucciava, interrogandosi su cosa
fosse appena successo, Castle continuava ad agitarsi scomodamente
sulla sedia, con la testa altrove e una mano distrattamente posata
sul cellulare, schiavo di un pensiero fisso a cui evidentemente non
trovava soluzione.
Solo
sul finire della cena la sua mente sembrò tornare a
rilassarsi,
insieme alla sua postura e, probabilmente, al suo stomaco che stava
ora recuperando le distanze da quello di Kate, divorando
letteralmente la porzione di patatine ancora sana sul vassoio.
Lentamente
le cose tornarono a farsi distese, la tensione calò
nuovamente e la
serata riacquistò quell'andamento gradevole che sembrava
aver
smarrito strada facendo.
Una
manciata di minuti più tardi erano fuori dal fast food, con
le menti
piene e gli stomachi stracolmi, e solo allora si resero conto che
avevano trascorso più di un'ora dentro quel locale.
Ciononostante
nessuno dei due accennò all'eventualità di
terminare la serata e
tornare ognuno alle proprie case, piuttosto si lasciarono guidare
dalla città, procedendo tra le strade senza alcuna meta. Ad
ogni silenzio o pausa nella conversazione, Kate non poteva fare a
meno di chiedersi che cosa stessero facendo insieme, da soli, a
quell'ora tarda in una città come Washington, dopo tanti
anni di
distanza sia fisica che emotiva, in quello che chiaramente era qualcosa
ben
oltre il “semplice prendere un caffè”.
Non poteva non domandarsi
perché, in primo luogo, lei glielo avesse proposto,
né poi perché
lui avesse accettato, o ancora perché entrambi non
mostrassero ancora
segni di voler porre fine al tutto come ci si sarebbe aspettato ormai
da ore. Ma ciò che davvero la tormentava era la strana
sensazione di
essere nel giusto in quel momento lì con lui, e il come
fosse
possibile che, con una storia come la loro e con tutto ciò
di
inespresso che aleggiava chiaramente loro intorno, riuscissero
nondimeno a passeggiare e parlare come stavano facendo: come fosse
una cosa normale e consueta, dove questa normalità
riusciva
persino a superare quell'intensa sensazione d'esser fuori posto che
li travolgeva a ondate, come ad esempio era accaduto solo qualche ora
prima a cena. A cena,
quando aveva ricevuto quella misteriosa chiamata che
aveva trasformato rapidamente il suo umore...
«Posso
farti una domanda?»
«Dimmi»
«È
un po' personale...»
Gli
occhi di Castle si strinsero, e un velo di preoccupazione
calò sulle
iridi blu, offuscandone la naturale vitalità; tuttavia
nessuna
parola seguì a quel mutamento d'espressione, e Kate tradusse
quel
silenzio in un'esortazione a proseguire.
«Prima
a cena, quando hai ricevuto quella chiamata, si trattava della
tua...»
Lasciò
la frase in sospeso, un po' perché indecisa su come
definirla, un
po' perché non ci teneva a scoprire che effetto le avrebbe
fatto
dirlo ad alta voce, specie di fronte a lui.
«Sì»
il velo nel suo sguardo si ispessì, fino a incupirsi, e un
sospirò
sfuggì alle sue labbra prima che potesse riprendere a
parlare « si
chiama Laura, stiamo insieme da un paio di mesi»
«E
lei com'è?»
Kate
non fece in tempo a mordersi la lingua che la voce era già
uscita, e
con essa tutta l'impellenza e l'inadeguata curiosità che con
tanta
fatica aveva tentato di reprimere all'inizio, quando con estrema
cautela e noncuranza aveva posto la prima domanda.
«Scusami
forse non è il caso di parlarne...»
«Tutta
questa giornata “non
è il caso” Kate»
«Già,
credo tu abbia ragione...»
Lo
vide infilare le mani in tasca con fare rassegnato, e spostare lo
sguardo dritto davanti a sé -accuratamente lontano da lei-
prima di
riprendere la propria marcia a spalle curve.
«È
mora, quasi corvina, non molto alta ma, come te, ha una smodata
passione per i tacchi, quindi a conti fatti credo di non averla mai
guardata dall'effettiva prospettiva, cioè dall'alto... Fa
l'avvocato, ed è anche piuttosto affermata, qualche tempo fa
ho
avuto una piccola bega legale e lei mi ha aiutato a risolverla,
è
così che l'ho conosciuta...»
Rimasta
indietro di qualche passo, Kate si era subito affrettata a
raggiungerlo non appena questi aveva preso a parlare, suo malgrado
desiderosa di sapere di più su questa donna, e Castle
sorprendentemente sembrava essere disposto ad accontentarla, pur con
un certo riserbo, nonostante per tutto il tempo si curò di
tenere lo sguardo
fisso sulla strada, senza mai voltarsi verso di lei.
Nell'adocchiare
il sorriso timidamente affacciato sul suo viso o il fulmineo
scintillio delle pupille quando raccontava qualche aneddoto
divertente relativo a Laura, Kate non poté comunque ignorare
le
capriole del proprio stomaco, evidentemente maldisposte nei confronti
della seppur
tiepida allegria che trapelava dal suo volto.
«Sono
contenta per te, sembra davvero una bella persona.... E sembra che
tu sia felice»
«Lo
è, una bella persona...»
A
Kate non sfuggì il fatto che avesse risposto a una sola
delle sue
affermazioni e si chiese se questo avesse un qualche significato. Si
chiese anche in che modo poterlo scoprire, riformulando più
e più
volte nella propria testa centinaia di frasi che potessero farlo
cadere in tranello e spingerlo a rivelarsi. Tuttavia, alla fine, ognuna
di queste
fu saggiamente abbandonata, temendo di potersi spingere troppo
oltre e incrinare quella surreale armonia venutasi a creare tra
loro.
Così
lasciò che la conversazione migrasse verso altri lidi, e
tornasse a
esplorare territori meno pericolosi e intimi, ma una parte di lei
continuò a tenere a mente l'espressione apparentemente
serena
apertasi sul suo volto durante la parentesi di
Laura. E per tutto il
resto della serata fu come se Kate fosse impegnata in una gara a
distanza contro quella donna, in un continuo tentativo di suscitare
in lui, con le proprie parole, quella stessa espressione e quello
stesso sorriso che ora veniva forse giustamente, ma non per questo meno
irritante, dedicato a un'altra donna.
Fu
così che, tra una passeggiata e una chiacchiera, si fecero
le nove,
e poi rapidamente le dieci... e sarebbero andati avanti ancora e
ancora, se non fosse stato per i piedi di Kate che, lasciati liberi
di vagare senza meta, avevano inconsciamente imboccato la via a loro
più familiare: quella di casa.
«Questa
è casa mia...»
Lo
esclamò con una nota di stupore, talmente evidente da non
passare
inosservata neanche a Castle, nei cui occhi Kate lesse un misto di
sensazioni tanto indecifrabili quanto ipnotiche.
E
ancora una volta si ritrovò a parlare senza pensare, vittima
inerme
della presa del suo sguardo su di lei.
«Pensi
che se ti chiedessi di salire da me, adesso, sarebbe strano... o
inappropriato?»
«Sì...»
La
sua risposta si perse in un flebile sussurro, essendo tutte le sue
energie -Kate ne era certa, perché lo stava provando anche
lei-
impegnate adesso a sfuggire al magnetismo dei loro sguardi,
pericolosamente incatenati, e troppo pigri per per separarsi di propria
volontà.
«Ma
vorresti salire? Solo per un drink...»
«Sinceramente,
non so come rispondere a questa domanda...»
«Castle,
sali?»
Le
mani si strinsero a pugno, fino a che le nocche non divennero nivee, e
Kate semplicemente si lasciò trasportare dagli eventi
,schiava ormai
della propria ugola e del suo arbitrario parlare senza prima
consultarla. E, egoisticamente, si ritrovò a pregare che
anche lui
si lasciasse andare, e nello spazio apparentemente eterno che
separò
la sua risposta dalla propria domanda, sentì il proprio
cuore accellerare fino a scontrarsi contro le costole, mozzandole il
fiato, facendole tremare le gambe...
Provò a distrarsi seguendo il
percorso di una solitaria gocciolina di sudore, che dalle sue tempie
stava scivolando rapida giù lungo il viso, fino alla gola e
al prominente
pomo d'adamo, chiuso in una morsa da cui Castle stava tentando di
riemergere, deglutendo continuamente e a fatica.
E poi il suo sguardo prese a risalire, lungo la linea del collo e
ancora su verso la sporgenza del mento, finchè la sua corsa
non venne arrestata dal rapido e improvviso aprirsi della
mandibola, che a fatica articolò un unico, sordo suono.
«Sì...»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Their own place, trying to make it right ***
Their
own place, trying to make it right
And
right now there's a war between the vanities
But all I see it's
you and me
The fight for you is all I've ever known
(Come
Home -
One
Republic)
Una
volta, da bambino, era quasi annegato.
Sette anni e l'aroma
incosciente dell'infanzia ancora appiccicato addosso -insieme a una
netta inclinazione al pericolo, una smodata curiosità e la
noia
tipica dei bambini ricchi, soli e viziati- avevano maturato in lui
una notevole predisposizione per ciò che lui chiamava avventure
e il resto del mondo guai.
Una di queste un giorno gli era
inevitabilmente sfuggita dalle mani, portandolo ad un passo dalla
morte.
La sua mente di bambino lo aveva protetto da uno shock
potenziale, di modo che l'unico ricordo che conservava di
quell'evento era il riflesso del proprio volto sulla superficie
schiumosa del torrente un attimo prima di cadervi dentro, e poi
più
nulla, fino al momento in cui si era risvegliato sul divano di una
baita di Aspen, immerso in una pozza di stoffa bagnata e con lo
sguardo di sua madre puntato addosso -terrorizzato come l'avrebbe
visto poche altre volte nella sua vita.
Non sapeva come vi fosse
finito, nè chi lo avesse salvato o quanto tempo gli ci fosse
voluto
per riemergere.
Tuttavia, nell'operare quella rimozione, il suo
inconscio aveva tralasciato di cancellare l'evento anche dalla sua
memoria sensoriale, cosicchè ogni volta che si soffermava a
pensare
a quel giorno veniva colto da un'inspiegabile ansia generalizzata in
tutto il corpo, e dalla sgradevole sensazione di venir ripetutamente
colpito ai polmoni fino a non avere più ossigeno da
respirare.
Adesso, in un certo senso, Rick aveva l'impressione di
stare rivivendo quei momenti.
Non sapeva in che modo vi fosse
arrivato, né quanto tempo fosse effettivamente trascorso da
che
aveva accettato di salire: tutto ciò che ricordava
era la vista
delle mani di Kate, intente a girare le chiavi nella toppa del
portone, accompagnata dalla spiacevole impressione d'esser stato
trascinato da una qualche violenta corrente su per le scale -o erano
saliti in ascensore?- senza possibilità di scampo, sino al
divano in
cui se ne stava ora timorosamente seduto.
La sola differenza
era che a stordirlo -e a martellargli il petto- non era stata
stavolta la potenza dell'acqua, ma con tutta probabilità il
profumo
di Kate. Lo stesso di sempre.
Ancora
spaesato, e leggermente stordito, si diede pena di guardarsi intorno
e capire dove fosse, quantomeno per distrarsi dalla donna di spalle
davanti a lui, intenta a versare qualcosa di ambrato -scotch forse?-
in un bicchiere.
Aveva una bella casa, moderna e piuttosto grande
-non grande quanto la sua certo, ma sicuramente molto più
degli
appartamenti in cui l'aveva vista vivere in passato.
Non poté
fare a meno di chiedersi se davvero quella casa la
rappresentasse, o se fosse stata l'ennesima sua scelta dettata dal
puro pragmatismo: nuova, spaziosa, vicina al lavoro e in un buon
quartiere. In un certo senso, una parte di lui spero che fosse
così,
perché per quanto poco vigile potesse essere al momento la
sua mente
non aveva potuto non notare un dettaglio fondamentale: era spoglia.
Terribilmente spoglia.
E la possibilità che quello stato di cose
riflettesse l'intimo della proprietaria gli procurò una
fitta allo
stomaco, sebbene lei non fosse più affar suo da molto tempo.
Che
Katrine Beckett non avesse mai mostrato una particolare passione per
gli arredi non era certo un mistero: la sua vita per lungo tempo non
era stata che una mera ricerca dell'essenziale e del funzionale, e
anche dopo aver assistito al rimarginarsi delle sue ferite e a un
conseguente cambiamento nelle sue priorità, lo spettro delle
vecchie
abitudini aveva continuato a vivere in lei, facendone una donna
tutt'altro che fronzoli.
Un aspetto che aconti fatti gliela aveva
fatta amare ancor di più in passato, semplicemente
perché l'aveva
resa diversa da tutte le donne in cui si era imbattuto fino ad
allora.
L'essenziale di Kate non era mai stato sinonimo di
impersonale, tuttavia.
Se infatti era vero che nella sua casa
potevano contarsi davvero pochi oggetti di arredo, era altrettanto
vero che ognuno di essi era lì per un motivo, ognuno aveva
una sua
storia. All'esterno potevano apparire comuni -come la famiglia di
elefantini sulla sua scrivania- o suscitare immediata
curiosità
-come nel caso del feticcio di legno scovato nel suo cassetto anni
prima- ma su una cosa si poteva sempre scommettere: c'era sempre un
perché dietro la loro presenza.
Kate era, ed era stata
sempre, una donna con una storia da raccontare, già prima
del suo
arrivo: lui aveva semplicemente deciso di mettere quella storia per
iscritto.
Eppure, nel osservarsi intorno con rinnovata curiosità,
Rick si rendeva sempre più conto di quanto quella casa fosse
vuota,
e di quanto stonasse con la sua proprietaria – o almeno col
ricordo
che lui ne aveva in memoria: nessun quadro alla parete, solo un paio
di foto dei suoi genitori, una scarna libreria con grossi spazi vuoti
riempiti -se il caso- da oggetti d'uso comune come candele o ciotole.
Di lato alla finestra, due borsoni gonfi se ne stavano dimenticati in
un angolo della stanza, e a giudicare dal loro aspetto ingiallito e
polveroso dovevano essere stati parcheggiati lì da un bel
po' di
tempo, conferendo alla casa un'aura precaria, quasi fosse stata
reduce da un trasloco.
A parte quell'unica nota stonata la casa
però era perfettamente ordinata -il che non fece che
avvalorare la
tesi di Castle: nulla che fosse fuori posto, nulla che spiccasse o
che si facesse notare.
La sola cosa che davvero colpiva era la
vista: dietro di loro la città si ergeva oltre la grande
vetrata,
offrendo uno spettacolo davvero notevole, che culminava nel piccolo
parco in fondo alla strada, illuminato dal fioco bagliore dei
lampioni le cui tinte aranciate donavano ad erba e cespugli un che di
surreale. Ancora una volta la sua conoscenza approfondita di quella
donna gli venne in aiuto, non richiesta e inopportuna come al solito,
e Rick si convinse con una certa sicurezza che doveva essere proprio
quella vetrata il motivo per cui Beckett aveva scelto quella casa
così distante da sè.
«Tieni»
La sua visuale venne di colpo
occupata dalle forme affusolate di una mano, delicatamente ancorate a
un bicchiere colmo sino a metà, spazzando via il flusso dei
suoi
pensieri.
«Grazie»
Le dedicò un fuggevole sorriso per poi
affondare lo sguardo nel bicchiere -la vista dei cubetti di ghiaccio
fattasi improvvisamente interessante- così da evitare di
guardarla
mentre lei, afferrato un secondo bicchiere, si accingeva ora a
raggiungerlo sul capo opposto del divano. Sapeva che lei lo stava
guardando adesso, e sapeva quanto dovesse apparire ridicolo assorto
com'era, col naso praticamente immerso nel suo drink. Tuttavia non
aveva ancora trovato il coraggio di alzare gli occhi e incrociare i
suoi: sapeva che a guardarla davvero non ci sarebbe stato nulla che
non avrebbe fatto, più nessun libero arbitrio a
spalleggiarlo.
Con
i palmi sudati e scivolosi d'irrequietezza, rafforzò la
presa sul
bicchiere e se lo portò finalmente alla bocca, ingollando
una
generosa sorsata d'alcool. Rapido ne sentì il calore
attraversagli
le viscere e scorrergli nel sangue, in un abbraccio rassicurante che
gli diede infine il coraggio necessario ad alzare lo sguardo su di
lei.
Era bellissima: con le guance arrossate dall'alcool e i
capelli che le ricadevano sul viso in ciocche scomposte seguendo la
sottile linea del collo, libero ora dalla morsa del cappotto. Le
dita, screpolate dal freddo, giocavano ora col bordo umido del
bicchiere ora con un lembo della giacca nera sagomata.
Quella
giacca la ricordava, tante volte gliel'aveva vista indossare al
distretto e altrettante si era divertito a sfilargliela a fine
giornata, al punto che poteva perfettamente immaginargliela addosso,
sebbene da seduta le naturali pieghe della stoffa ne falsassero la
forma. Era incredibile come ancora, dopo tanti anni, la sua mente
fosse piena di lei.
Rimasero in silenzio per alcuni minuti, le
parole sospese nell'aria ma ben leggibili.
Di tanto in tanto Kate
tornava a sorseggiare il suo drink, mentre Rick giocava col ghiaccio
sciolto del suo bicchiere ormai vuoto o distrattamente si lanciava in
nuove perlustrazioni della stanza, posandosi ad ogni nuovo
giro
su un diverso angolo del viso di kate, con finta noncuranza, fino a
ottenerne una fotografia completa in memoria da studiare senza per
questo doverla fissare direttamente. Con la coda dell'occhio la vide
mordersi un labbro -lo sguardo basso sulle proprie mani- e si
sentì
attraversare da un'ondata di calore che temeva poco avesse a che fare
con lo scotch, giungendo alla conclusione che aveva bisogno di
un'altra dose per poter sedare le rimostranze del proprio corpo, o
tutt'al più avere qualcosa da incolpare se fossero tornate a
farsi
sentire.
« Un altro giro?»
La voce gli uscì roca,
disabituata a parlare.
«Perchè no»
La vide annuire con la
bocca impastata d'un sorriso, e si allungò verso di lei per
afferrarne il bicchiere. Nel farlo le loro dita si sfiorarono in un
breve contatto.
Si alzò dal divano con una celerità non
necessaria per avvicinarsi al piccolo mobile bar sul lato della
stanza e riempì entrambi i bicchieri, riservando al proprio
un
trattamento di favore particolarmente generoso, mentre con l'altra
mano si slacciava il primo bottone della camicia, in un'improvvisa e
impellente difficoltà a respirare.
Le andò incontro porgendole
il bicchiere, stavolta ben attento a evitare qualsiasi contatto
superfluo, ma invece che superarla e riguadagnare la propria
posizione sul divano, rimase in piedi di fronte a lei in una
rigidità
che si faceva via via più bizzarra ad ogni secondo passato a
fissarla, immobile.
La sua risata giunse infine a ridestarlo e,
schiaritosi la gola per smorzare il proprio disagio, si diresse verso
la vetrata guardando, senza vederlo davvero, il panorama che questa
offriva loro, quasi che se ne fosse appena accorto.
«Hai davvero
una vista magnifica da qui»
«È per questo che l'ho scelta»
Un
sorriso fece capolino indisciplinato sul suo volto, mentre la testa
si autocompiaceva in un inutile crogiolo di ragione.
Nonostante la
vista fosse effettivamente stupenda, motivo per cui aveva scelto di
piazzarvisi davanti in cerca di una distrazione, suo malgrado i suoi
occhi agirono di testa proprio mettendo a fuoco sulla vetrata non
più
la città ma il riflesso di lei che, alle sue spalle,
acciambellata
sul divano con la testa voltata verso di lui, si stava liberando ora
anche dell'impaccio della giacca.
Tutto il resto passò in secondo
piano di fronte alla vista del tessuto bianco della sua canotta
contro la pelle, scurita dai toni vellutati della notte.
Un'altra
ondata di calore lo colse sul posto, dalle origini stavolta
innegabilmente compromettenti.
Fu il campanello di allarme che gli
serviva.
«È meglio che io vada adesso»
Il tono risoluto
della sua voce mal si sposava con i suoi movimenti lenti e indecisi,
e tuttavia fu in grado di mantenere quel tanto d'autocontrollo
necessario a fargli recuperare giacca e cappotto, e a non capitolare
neanche di fronte allo sguardo fattosi improvvisamente preoccupato di
Kate.
«Te ne vai?»
Era scattata in piedi; il contenuto del
bicchiere traboccante per il movimento improvviso si riversò
in
gocce sul tappeto.
«Si è fatto tardi, Kate. E siamo entrambi
stanchi...»
E ubriachi.
Questo non lo disse ma dovette
quantomeno ammetterlo a sé stesso.
Erano ubriachi, se di alcool o
di loro stessi non lo sapeva.
Vide le sue labbra aprirsi in quello
che immaginò fosse il disperato tentativo di trattenerlo
lì, e le
fu grato quando la vide richiudere la bocca senza aver emesso alcun
fiato.
Disperato o meno che fosse, lui attualmente lo era di più.
E già quel silenzio era una grave minaccia alla sua
resistenza.
Il
sollievo provato tuttavia si dissolse ben presto nello sguardo di
lei, ora carico di una nuova e misteriosa sfumatura che non riusciva
a interpretare.
Il secondo campanello d'allarme risuonò nel suo
inconscio.
C'era qualcosa, nel modo in cui lo stava guardando
adesso, che non riusciva a spiegare ma che lo stava turbando nel
profondo, e sebbene nient'altro in lei -né il suo corpo
né la sua
espressione- fosse cambiato, Rick si sentì improvvisamente
in
trappola.
Rimase col fiato sospeso, cercando di indovinare cosa
sarebbe venuto dopo, ma lei non fece e non disse nulla. Si
limitò ad
allentare la pressione della propria mano, lasciando che le nocche
sbianchite delle proprie dita, strette a pungo, riprendessero
lentamente colore, e con un sospiro filtrato attraverso i denti,
impegnati in una morsa con le labbra, si voltò dandogli le
spalle e
si diresse a passi lenti verso la porta dinanzi a sé.
«Allora
buonanotte, Castle...»
Lo sussurrò appena, con quello sguardo
ancora negli occhi, e sparì dietro la superficie legnosa
della
porta.
Rick, che l'aveva osservata in silenzio durante tutto quel
processo, rimase spiazzato nel vederla dargli le spalle in un
turbinio di tacchi e capelli.
L'aveva seguita con lo sguardo,
incerto su quanto stesse accadendo o su come dovesse sentirsi, e solo
quando l'aveva vista chiudersi dentro quella stanza aveva
capito.
Nella sua mente già vulnerabile e priva di difese, il
ricordo vivido di loro due in un hotel di Los Angeles lo travolse
violento, e la somiglianza tra le due scene non gli sfuggì,
facendolo precipitare in un pericoloso e conturbante deja-vu.
Era
come essere ripiombati nel passato, e lui era di nuovo lì,
in piedi
e da solo tra due porte, ognuna delle quali l'avrebbe condotto verso
un differente destino: un destino in solitaria e uno con lei.
Quella
volta la scelta non era stata sua, come sempre.
Aveva atteso,
speranzoso, finché lei non lo aveva ancora una volta chiuso
fuori
barricandosi dietro la sua protezione, per l'occasione vestitasi
delle eleganti spoglie d'una suite di grand hotel.
Stavolta invece
nessuna barricata.
Lei lo aveva ancora una volta lasciato
solo in una stanza che era più un bivio, in un limbo da cui
sarebbe
potuto uscire in due modi diversi, sì. Ma stavolta laveva
lasciato
la porta socchiusa. E Rick, pur non conoscendo quell'appartamento,
non dovette faticare molto a indovinare cosa ci fosse dietro quella
porta.
E la sua immaginazione, sempre prodiga di aiuti nei suoi
confronti, gli era subito venuta in soccorso, dipingendogli dinanzi
agli occhi un quadro tutt'altro facile da
ignorare.
«Maledizione»
Gettò con violenza cappotto e giacca
nuovamente sul divano, barattandoli col bicchiere di scotch
nuovamente riempito per l'occasione.
Lo svuotò in pochi i
secondi, lasciando che il liquido gli bruciasse la gola e gli
mozzasse il fiato, per poi sbatterlo con forza sul tavolino di
mogano.
No, quella volta la scelta non era stata sua, come
sempre.
E con un groppo in gola Rick dovette ammettere a sé
stesso che anche stavolta la scelta non era sua, come sempre.
La
porta si aprì con un lieve gemito, che suonò
assordante nel
silenzio pesante della casa.
E tuttavia lei di spalle, in piedi al
centro della stanza, non diede segno di averlo udito, se non per la
tensione che sembrò improvvisamente abbandonarle le scapole:
il capo
leggermente ruotato verso destra, di modo che la luce della strada,
filtrando attraverso le tende, lo accendesse di un alone opaco,
delineandone il profilo delicato.
«Speravo capissi, ed
entrassi...»
«Ma non ne eri certa »
Non era una domanda la
sua, ma una semplice constatazione.
«No...»
Abbandonata la
soglia, mosse qualche passo verso di lei, fermandosi a pochi
centimetri dalla sua schiena. La sua pelle, lasciata nuda dalla
canottiera di lino, era un richiamo troppo invitante perché
potesse
sottrarsene, e non poté opporre resistenza neppure quando
due dita
della propria mano si posarono indisciplinate sul suo braccio,
percorrendolo in tutta la sua lunghezza.nPoteva sentirne la pelle
rabbrividire sotto il proprio tocco, il suo calore tra le proprie
dita, la morbida peluria bronzea del suo braccio sollevarsi turbata
da quel contatto, e non nascose di provare un briciolo di
soddisfazione nel constatare l'effetto che ancora aveva su di
lei.
«Neanche io...»
Dio, quanto le era mancata.
Se fino
ad allora non gli era stato chiaro, adesso questa nuova
consapevolezza trafiggeva ogni fibra del suo essere, stupefacente e
terrificante insieme. Pensò che era così che
dovevano sentirsi i
drogati recidivi dopo la disintossicazione: liberi e sereni, e
convinti di aver trionfato sulla propria ossessione, finché
non
viene loro offerta una nuova dose.
E di nuovo sono condannati.
La
misera distanza tra loro venne annullata da un fiacco movimento del
capo che, tuffatosi nell'incavo tra la spalla e il collo di lei, reso
invitante dal soffice giaciglio offertogli dai suoi capelli, rimase
lì a bearsi del suo odore misto al profumo dello shampoo,
cosicché
quando Rick parlò la sua voce le giunse ovattata.
«È una
sciocchezza, Kate...»
Il suo tono era stanco. Non avrebbe mai
convinto lei, tanto meno sé stesso. E d'altronde, questo non
era il
suo obiettivo: sapeva di aver già oltrepassato il limite
quando
aveva varcato la soglia della sua camera da letto, e ancora prima,
quando il giorno prima aveva preferito la sua compagnia a un cortese
saluto di circostanza. Ormai non poteva più fermarsi,
né andarsene,
e una parte di lui -una parte considerevole- neppure
voleva.
«Castle...»
Un sospiro, il suono incrinato della sua
voce, un corpo che ruota e due mani che lo afferrano: nel giro di un
istante i suoi occhi non videro più le pieghe del lino
addormentate
sulle estremità della clavicola, ma altri due occhi, verdi e
penetranti, che ricambiavano il suo sguardo.
Le mani, dapprima
timidamente adagiate sulle braccia di lei, erano adesso strettamente
ancorate a quelle della donna che, lentamente, lo stava conducendo
oltre il cono di luce, verso il letto. Si fermarono solo quando le
ginocchia di lei urtarono il materasso, ma fu un breve momento di
esitazione: guardò le dita di Kate sfilarsi dalle proprie, e
poi la
vide sdraiarsi, facendo leva sugli avambracci per spostarsi indietro,
finché non fu totalmente distesa. Per ultimo vide le sue
braccia
aprirsi in una sorta di abbraccio: un incoraggiamento, più
che un
invito a raggiungerla, semmai lui ne avesse avuto bisogno.
Un solo
passo lo separava da lei: un passo che le sue gambe mossero prima
ancora che il cervello desse istruzioni.
Si ritrovò a
sovrastarla, a cavalcioni sul letto, reggendo il peso del proprio
corpo con le mani, aperte sul materasso ai lati del viso di
Kate.
Trascorsero così alcuni minuti, a studiarsi in silenzio,
come per essere sicuri che in quegli anni di lontananza nulla fosse
cambiato e che l'immagine dell'altro combaciasse ancora con quella
impressa nelle loro menti. E in effetti nulla in loro era cambiato,
sebbene attorno a loro fosse invece cambiato tutto.
Ma in quel
momento, dove tutto non
contava, c'era solo qualche ruga in più sui loro volti a
tradire il
passare del tempo.
Si sorprese di nuovo a riscoprire quanto
fosse bella.
Non che lo avesse dimenticato -e come
avrebbe potuto?- ma adesso che poteva sentirla sua ancora una
volta gli era concesso di abbassare le difese e lasciarsi travolgere
interamente da quella bellezza: i lunghi capelli a incorniciarle il
viso, pallido nella notte, facendo risaltare maggiormente i suoi
occhi, pozze verdi e torbide di desiderio, e le sue labbra. Quelle
labbra...
Fece pressione sulle braccia per sollevarsi di qualche
centimetro e poter guardare meglio la causa di anni di
fantasticherie, ma uno strattone a livello del petto lo
fermò.
Kate
lo aveva afferrato per un lembo della camicia, temendo forse che
volesse alzarsi e lasciarla lì, e nel guardarla Castle
intravide
chiaramente un lampo di paura attraversarle le iridi.
Credeva
davvero che l'avrebbe rifiutata?
Pensava che, arrivati a quel
punto, avesse altra scelta se non restare?
A quel pensiero non
riuscì a trattenere un sorriso rassegnato e nel vederlo Kate
si
rilassò, senza però lasciare la presa su di lui.
Sembrava così
indifesa, eppure lui sapeva quanta forza e determinazione si
nascondessero in quella donna... L'aveva desiderata per questo, e per
lo stesso motivo l'aveva poi persa.
La bocca di Rick si dischiuse
appena, autonoma, ma lui riuscì a fermarsi in tempo e
fortunatamente
non ne uscì alcun suono.
Il “ti amo” quasi sfuggito al
suo controllo stava ancora sulla punta della lingua, in attesa di un
solo istante di debolezza da parte sua, che però non
sopraggiunse.
Non poteva permettersi passi falsi, o il fragile
equilibrio che aveva strenuamente raggiunto e che gli consentiva
adesso di stare lì con lei, in quel modo, senza andare in
mille
pezzi, sarebbe andato perduto per sempre.
Lui stesso si sarebbe
perso.
Aveva ceduto a qualunque
cosa ci fosse stata -o ci fosse ancora- tra loro, sì, ma a
patto di
non darle un nome, qualunque esso fosse. E “ti
amo”
non solo era un nome, ma era anche il più pericoloso di
tutti.
Quelle labbra, che ancora lo guardavano con aria di sfida,
erano la sua migliore possibilità: vi si gettò
con foga, incrinando
l'aria satura di attesa che aleggiava nella stanza, costringendole ad
aprirsi sotto le proprie. Sperò che la lingua di lei, nella
folle
danza a cui aveva preso parte, lavasse via dalla sua quelle due
parole tanto rischiose. Si staccarono solo quando non ebbero
più
ossigeno nei polmoni, ansanti e tanto vicini da sentire il fiato
caldo dell'altro infrangersi sulla propria pelle.
Quando la
necessità di respirare divenne meno impellente di quella di
averla,
Rick tornò su di lei. Abbandonata la bocca,
iniziò a tracciare un
sentiero con le proprie labbra: prima sul collo, poi sulla spalla e
il ventre passando dal seno, e via sempre più
giù, attento a non
risparmiare neanche un centimetro di pelle.
Era una tortura tanto
per lei quanto per lui.
Ma era anche un gioco a cui anni prima
erano stati soliti prestarsi, le cui regole imponevano all'uno di
resistere e andare avanti finché l'altra ,consumata dal
desiderio,
non l'avesse implorata di farla finita e prenderla subito. Quando non
era lui a cedere per primo, certo.
Stavolta però, nel suo agire,
c'era un velo di perfidia: se lui era destinato a star male dopo
quella notte -e sapeva che sarebbe successo- allora perché
lei non
avrebbe dovuto soffrire almeno un po' durante? Pazienza se sentiva
bruciare la carne sotto i propri vestiti. Voleva sentirla supplicare,
e forse neanche allora l'avrebbe accontentata.
«Castle, ti
prego...»
La sentì gemere quando le sue labbra si posarono sotto
l'ombelico. Avvertì le mani di lei afferrarlo tremanti per
la testa,
tentando di tirarlo a sé, troppo deboli perché
potessero scuoterlo
anche solo di un centimetro. Man mano che scendeva udiva suoni sempre
più indistinti provenire dalla sua gola, ma non si
fermò ad
ascoltare. Non aveva bisogno di capire cosa dicesse per comprenderne
il senso. Sapeva di essersi spinto ben oltre i propri limiti, ma
continuò ad avanzare finché lo strazio di un
impellente bisogno di
appagamento non lo costrinse a fermarsi. Ora che anche lui
aveva
raggiunto la soglia massima di sopportazione, la voce di Kate, seppur
ridotta a un sussurro lamentoso, aveva preso a risuonargli assordante
nelle orecchie.
Riportò il proprio capo alla stessa altezza di
quello di Kate, soffocando la sua voce in un ultimo violento bacio.
La mano sinistra andò a inchiodare quella di lei, che si
agitava
spasmodica sul materasso, mentre con la destra liberò
entrambi
dall'impaccio di un pantalone troppo stretto. Nella frenesia di quel
gesto un bottone saltò via da quell'accozzaglia di tessuti,
rotolando indisturbato sul pavimento, mentre un ginocchio di Rick si
insinuava tra le gambe di Kate aprendo la strada ad un piacere che
non tardò ad arrivare.
Più di una volta i loro corpi si
ritrovarono tra le coperte, quella notte.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Tired of justifying ***
Tired
of justifying
And
right now there's a war between the vanities
But all I see it's
you and me
The fight for you is all I've ever known
(Come
Home - One
Republic)
L'illuminazione
stradale aveva da poco ceduto il passo alla luce naturale.
Le parve di scorgere
il sole nel timido riverbero dello specchietto retrovisore, il primo
raggio da che era sveglia, e non riuscì a soffocare
l'ennesimo
sbadiglio al pensiero di aver battuto sul tempo l'alba, di nuovo.
Ancora una volta
l'America, aiutata dal soave strepitio del cellulare, le aveva dato
il buongiorno nel modo che le era più congeniale: con un
omicidio. E ancora una volta
non si era curata di chiedersi se le cinque e mezza, un'ora come
tante per una città come Washington, fossero altrettanto
adatte a
lei, che di dormire invece ne avrebbe avuto bisogno. Svoltò
per
Cannabeel Street con il piede un po' troppo in sintonia con
l'acceleratore, approfittando del fatto d'essersi finalmente lasciata
alle spalle il centro cittadino con il suo traffico e i suoi semafori
rossi, troppi per essere appena le sei di un banale giovedì
mattina.
Dopo una decina di
minuti raggiunse finalmente l'ingresso del centro di demolizione.
L'insegna in ferro
battuto campeggiava alta e imponente sopra il cancello principale,
stridendo fortemente col cimitero di rottami e vecchie carcasse
d'auto che si stagliava tutto intorno. Improvvisamente la
sua malandata vettura le sembrò perfetta.
Posteggiò al centro
di uno spiazzo, e sufficientemente lontano dalla pila di automobili
ammassate le une sulle altre, timorosa che in un impeto di gelosia
queste decidessero di franare sulla propria. Estrasse con
lentezza la chiave, lasciando che le spie luminose del cruscotto
venissero inghiottite dall'oscurità, e si
abbandonò col capo
all'indietro.
Era esausta ancor
prima di cominciare.
Attraverso le
palpebre chiuse, percepì il fastidio di un raggio di sole
più
violento degli altri, e si costrinse ad aprire un occhio per
esaminarlo ad armi pari.
Non le ci volle
molto per individuare la fonte di quel fastidioso riflesso di luce,
fastidioso quanto l'oggetto che l'aveva causato: il bottone blu di un
pantalone oscillava vanesio davanti al suo viso, sospeso allo
specchietto tramite un sottile filo di cotone, mosso da un vento che
non c'era. Al centro, il minuscolo inserto in metallo che avrebbe
consentito al bottone di chiudersi, se opportunamente accompagnato da
un secondo pezzo -attualmente disperso-, catturava avido il sole da
ogni angolatura possibile, rispedendone il riflesso al mittente in un
continuo e generoso do ut des.
Delicatamente, Kate
lasciò che le proprie dita tracciassero in aria quella
piccola
circonferenza, inducendone una modifica nella traiettoria che
alleviò
temporaneamente il suo fastidio. Non sapeva perché
avesse deciso di costruire quell'insolito pendaglio, né
tanto meno
perché, di tutti i posti possibili, avesse scelto di
posizionarlo
proprio in auto.
Aveva trovato quel
bottone una mattina di quasi due mesi prima, qualche giorno dopo la
loro notte insieme e non le ci era voluto molto per
indovinare chi
fosse il proprietario di quel piccolo disperso. La fattura elegante
e la costosa marca incisa sul retro avevano spazzato poi via ogni
dubbio, se mai ne avesse avuti. Sul momento aveva ovviamente pensato
di gettarlo via, come avrebbe fatto chiunque altro di fronte a un
ritrovamento tanto insignificante e privo di valore, ma arrivata a un
passo dal cestino aveva sviluppato un improvviso e morboso
attaccamento per quel pezzetto di plastica, e non aveva avuto cuore
di separarsene. Al contrario, aveva passato un'intera giornata a
rigirarselo tra le dita, e prima di rendersene conto vi aveva
già
fatto passare un filo attraverso e lo aveva appeso esattamente
lì
dove era ora.
Piccolo com'era,
c'erano giorni in cui neanche vi faceva caso o in cui esso stesso si
nascondeva alla sua vista, dietro la superficie dello specchietto
retrovisore. Altre volte invece, Kate aveva come l'impressione che
fosse
cresciuto in dimensioni durante la notte, e si ritrovava
così a fare
i suoi viaggi per le strade di Washington con una presenza
silenziosa, ma considerevolmente ingombrante, al suo fianco.
L'aspetto peggiore di quei giorni, comunque, non era tanto la compagnia
in
sé -talvolta quasi piacevole- quanto i discorsi che, senza
spreco di
parole, venivano puntualmente affrontati e che sfociavano
regolarmente nella rievocazione della mattina
dopo.
Anche adesso, che
pure il bottone era rimasto bottone e non s'era fatto passeggero
inopportuno, Kate sentiva la sua mente scivolare inarrestabile lungo
la pericolosa china di quel ricordo.
Un
fruscio di stoffe l'aveva svegliata dal suo sonno. Stanca e confusa,
e disabituata com'era alla compagnia nel suo letto, aveva dovuto
allungare la mano e scoprire il calore insolito sull'altro lato del
materasso per ricordarsi di ciò che si era appena consumato
in
quella camera, e rendersi conto dell'uomo in piedi, nel buio, di
fronte a lei.
«Castle...»
Una
punta d'allarme aveva sfaldato le barriere della sua stanchezza,
donando alla sua voce ancora impastata dal sonno un tono tuttavia
straordinariamente vigile. Non
aveva avuto bisogno di accendere la luce per capire che si stava
rivestendo.
«Devo
andare. Se sarò fuori di qui prima che faccia giorno forse
potrò
illudermi di aver semplicemente immaginato tutto questo, come sempre»
«Castle,
aspetta...»
Sebbene
le sue intenzioni le fossero state chiare sin dall'inizio, quando lo
aveva scoperto ad aggirarsi furtivo nell'oscurità, il
sentirsi
confermare ad alta voce la prospettiva di una fuga nel cuore della
notte l'aveva trafitta con una violenza tale da spingerla a credere,
per un attimo, che lui l'avesse colpita con qualcosa di molto grosso
e appuntito. Solo parecchi profondi respiri dopo, insieme alla
certezza -tastata con mano per maggiore sicurezza- che facendolo non
sarebbe morta dissanguata, l'avevano convinta a muoversi. Colta da un
brivido di freddo per l'abbandono improvviso del suo caldo
giaciglio, non aveva avuto il coraggio di scendere fisicamente dal
letto e separarsi così dal calore delle lenzuola, piuttosto
s'era
trascinata fino al bordo del materasso e aveva allungato una mano nel
buio, nel disperato tentativo di acchiapparlo pur non riuscendo a
vederlo.
«Aspetta,
Rick. Ti prego!»
«No
Kate! Non parlare, per favore... Perché se tu ora mi dicessi
di
restare io lo farei, lo farei senza pensarci un attimo, e non posso
permetterlo. Tu non sei rimasta per me, non sei rimasta con me...»
Aveva
scorto un rapido e indistinto movimento nel buio, e aveva immaginato
le sue spalle irrigidirsi sotto la durezza di quelle parole. Avrebbe
voluto poggiare una mano su quelle scapole, rubare da esse la
tensione che sapeva essersi accumulata, ma tutto ciò che le
sue dita
riuscivano ad acchiappare erano l'aria e la minaccia sempre
più
vicina della sua assenza.
«Se
me lo chiedessi ora direi di sì. Se tu mi chiedessi di
sposarti,
adesso, io ti direi di sì»
«Il
tuo adesso arriva troppo tardi»
Non
lo aveva visto uscire, non aveva udito nemmeno il rumore dei suoi
passi allontanarsi dalla camera. Aveva solo smesso di sentire il suo
respiro risuonare per la stanza -e fino ad allora neanche si era
accorta di quanto normale suonasse alle sue orecchie la presenza di
quel sottofondo e di quanto fosse sbagliata la sua assenza. E poi era
arrivato il
fragore della porta, sbattuta violentemente contro lo stipite.
Quel
tonfo sordo aveva spazzato in un sol colpo ogni cosa dalla sua mente,
lasciandola sola senza neanche più un pensiero a cui
aggrapparsi. Le
mani, ancora tese verso il nulla, erano ricadute inermi sul
materasso, ma con l'adrenalina ancora non smaltita del tutto erano
andate a chiudersi intorno alla prima cosa che avevano trovato: le
lenzuola. Senza mollare mai la presa, se le era avvolte intorno al
corpo ripetutamente, fino al punto da non potersi più
muovere, e si
era poi rannicchiata sul lato del letto in cui fino a qualche istante
prima aveva giaciuto lui, accoccolandosi tra le spire del suo calore
ancora vivido sul materasso. Si era addormentata così, senza
cuscino
e con la sola compagnia di una lacrima solitaria, venuta ad animare
il suo viso altrimenti inespressivo.
Un urlo e
l'inconfondibile odore di copertoni bruciati riportarono la sua
attenzione al presente.
Già da lì poteva
vedere la piccola folla di uomini della scientifica e poliziotti
riunita, presumibilmente, attorno al cadavere: come schegge impazzite
saettavano da un lato all'altro del perimetro, quasi che un omicidio
nell'alba americana fosse una cosa rara a vedersi. Lei invece, per
quanto si sforzasse, non riusciva a farsi coinvolgere da quella
frenesia, forse perché ancora troppo assonnata e con una
grave
insufficienza da caffeina, forse perché distratta da altri
pensieri
o forse perché, semplicemente, troppo avvezza ormai ai
morti. Rassegnata mai, ma
l'abitudine era talvolta un inconveniente del suo lavoro.
Un lavoro che si era
scelta e che adesso la reclamava.
Fece schioccare le
dita sul volante, come a volersi dare la carica, e finalmente si
decise ad uscire dall'abitacolo, richiudendosi la portiera alle
spalle con un colpo secco.
Procedette spedita
in direzione dei suoi uomini, ben stretta nel suo cappotto blu per
ripararsi dall'umidità notturna di cui l'aria era ancora
satura. L'eco dei suoi
tacchi si fuse gradualmente con le voci dei presenti e, quando ormai
mancavano solo pochi metri alla sua meta, riuscì a scorgere
una mano
penzolare fuori dal sedile di un catorcio arrugginito. Un sorriso amaro
le
si disegnò sul viso.
No, forse -e per
fortuna- non si sarebbe mai abituata alla morte.
Era stata una
giornata pesante, complicata ulteriormente da un assassino con la
passione per la piromania e una vittima dal volto troppo noto e dalla
vita privata insospettabilmente vivace. Gran parte del
pomeriggio lo aveva trascorso ad ascoltare il suo capo dipartimento
sottolineare, per l'ennesima volta, i rischi del trovarsi tra le mani
un caso di così dominio pubblico quale prometteva di essere
quello.
In pratica aveva, e in maniera neanche troppo velata, ricordato loro
che per quanta libertà d'agire gli fosse concessa dal
proprio distintivo, c'erano comunque
dei limiti che era necessario non superare, mai.
Era forse questo ciò
che odiava di più del suo lavoro attuale: una gran dose di
potere,
ma solo apparente, tenuto al guinzaglio dalle macchinazioni della
politica e del governo. Scaraventò con ben
poca delicatezza i fascicoli del caso sul divano, e si versò
un
bicchiere di vino, prima di prendere posto accanto a loro. Per quanto
portarsi
a casa il lavoro non fosse un ostacolo alla sua vita sociale
pressoché inesistente, la sua capacità di
concentrazione quella
sera languiva così come la sua voglia di cercarla.
Arrivata al fondo
del suo bicchiere, non aveva ancora nemmeno aperto il primo fascicolo
e dovette venire a patti con la consapevolezza che, almeno per quella
sera, non sarebbe mai successo. Decisa ad
assecondare la piega che i suoi pensieri avevano preso sin da quella
mattina in auto, e conscia che combatterli sarebbe stato estenuante
oltre che prevedibilmente inutile, si diresse quindi verso la porta
sull'estremità destra del soggiorno, non prima
però di aver fatto
tappa intermedia in cucina per versarsi un altro bicchiere di rosso.
Lo stanzino era
polveroso, come ci si poteva aspettare da una stanza piccola e tenuta
sempre chiusa, e tuttavia stipata com'era di scatoloni -ordinatamente
impilati gli uni sugli altri- non lo era al punto da risultare
sporco: probabilmente lì dentro teneva così tanta
roba che anche la
polvere faticava a trovar posto.
E in effetti Kate
aveva rinchiuso in quel loculo di due metri per due tutta la sua vita
passata: dai ricordi dell'infanzia a quelli del Dodicesimo, compreso
lui.
Più volte aveva
tentato di dare una collocazione definitiva alle centinaia di ninnoli
e oggetti che si era portata da New York, ma ogni volta che li aveva
tirati fuori da quello stanzino non erano durati che pochi giorni
nella loro nuova sistemazione, i più fortunati anche una
settimana. Non sapeva
esattamente quale fosse il problema di quella casa, ma sembrava
decisa a sputar fuori qualunque cosa non trovasse di proprio
gradimento: e apparentemente aveva gusti estremamente
difficili.
Era
come se in qualunque modo, o zona, Kate sistemasse i suoi effetti
personali, questi stonassero violentemente con il resto al punto da
risultare persino fastidiosi.
Alla fine aveva
semplicemente smesso di provarci.
Certe volte una
vocina nella sua testa le sussurrava che quella divergenza di
opinioni non era un banale problema di stili d'arredamento,
ma
piuttosto era il segnale di un disagio più grande: un
disagio tutto interiore, e
non davvero legato alla casa. Quando quella vocina tornava alla
carica, riesumava dal mucchio qualche foto -quelle erano più
facili
da collocare- e le disseminava per la casa a dimostrazione che, se solo
avesse voluto, avrebbe potuto riversarvi dentro anche l'intero
stanzino. Per il resto quando
ne aveva bisogno, o semplicemente voglia, apriva quella porta e faceva
un tuffo nel proprio passato, seduta sul limitare della soglia, in un
punto che -come in un limbo- era una realtà a sé
stante: né parte né
non parte di quella casa.
Col bicchiere
sapientemente adagiato sul parquet, a distanza di sicurezza dalle
proprie gambe, guadagnò la solita postazione, e trascinato
verso di
sé uno scatolone lo aprì.
Odorava di chiuso
con un vago sentore di lavanda.
Una ad una estrasse
le piccole cornici, custodi di fotografie per lo più
sbiadite dal
tempo e dal sole: una in particolare appariva più usurata
delle
altre, a causa di tutto il tempo passato ripiegata tra le piccole
tasche del suo vecchio portafoglio. Risaliva al matrimonio di Ryan.
Erano tutti lì: dagli sposi, raggianti in primo piano, a
loro
quattro -accoppiati anzitempo, e nel giusto ordine, per un strano
scherzo del destino. A voler prestare maggiore attenzione, sullo
sfondo si sarebbero potuti facilmente intravedere persino i
rispettivi -e improbabili- accompagnatori di Lanie ed Esposito, ma i
veri protagonisti della foto erano indubbiamente loro sei, in quella
che facilmente sarebbe potuta essere un'esaustiva anticipazione del
futuro. Se le cose fossero andate diversamente.
Accantonato quel
piccolo attentato fotografico al suo cuore, si dedicò ad
altre
memorie passando così in rassegna l'intero scatolone e
procedendo
indietro lungo il suo passato da poliziotto, fino alla foto del suo
ultimo giorno all'Accademia. In piedi e sull'attenti, avvolta nella
sua divisa, lo sguardo fiero di chi sa di aver trionfato sulle
proprie avversità, ma velato dall'ombra di una ferita ancora
troppo
fresca. Aveva ancora quella divisa, conservata da qualche parte
proprio in quello stanzino: ormai consunta e troppo stretta, non era
mai riuscita a disfarsene sebbene negli anni ne avesse accumulate di
più nuove e più conformi alla sua taglia. Sorrise
nel
ripercorrere il proprio profilo più giovane, immortalato tra
le sue
mani; poi, quando ne fu sazia, rimise di nuovo tutto accuratamente
dentro la scatola e la spinse fino in fondo allo stanzino, facendole
riguadagnare il suo posto.
Non sentendosi
ancora pronta a terminare quel viaggio lungo il viale dei ricordi,
perlustrò con gli occhi lo spazio di fronte a sé,
decisa a passare
a una nuova scatola, e la sua scelta si orientò -in un puro
e
consapevole atto di masochismo- su una appena visibile da dietro le
altre, ricoperta da uno strato di polvere talmente spesso da apparire
quasi come un voluto imballaggio. Fu necessario tirar
fuori altri tre scatoloni prima di poter raggiungere quello
prescelto, ma alla fine eccolo lì, torreggiante tra le sue
gambe e
sigillato così bene che aprirlo quasi le dispiacque.
Con le dita
leggermente madide di sudore, scivolose ad ogni tocco, dovette
combattere un bel po' contro lo scotch prima di poterlo ridurre tutto
in una palla appiccicosa e disordinata sul pavimento. Quando infine la
scatola fu aperta, una leggera nuvola di polvere si sollevò
dallo strato
superiore facendola starnutire. Liberatasi così
dall'impaccio delle
vie respiratorie ostruite, fu colta dal forte e inconfondibile odore
di carta, tipico di quando ci si tuffa col naso tra le pagine di un
libro
mai aperto o aperto troppo poco.
La copertina di Heat
Rises in cima alla pila, leggermente avulsa in alcuni punti e
scolorita in altri, si pavoneggiò delle sue tinte brillanti,
decisa
a recuperare tutto il tempo trascorso chiusa in quella scatola, dove
nessuno aveva potuto ammirarla. Passando con
disinvoltura dalle avventure di Nikki Heat a quelle di Derrick Storm
e viceversa, ad uno tutti i volumi vennero tirati fuori dalla loro
angusta
dimora, e impilati ordinatamente sulle assi del parquet.
Nel farlo, Kate si
costrinse a non capovolgerli mai, per non doversi imbattere nella sua
faccia tronfia e nella profondità recriminante del suo
sguardo
puntato su di lei. Prima di riposarli al proprio fianco li sfogliava
però distrattamente, catturando qua e là qualche
parola o qualche
frase scelta a caso tra i milioni di caratteri dormienti su quelle
pagine. Solo Heat Wave venne aperto con intenzione, esattamente alla
seconda pagina: quella custode della famosa dedica. Nel ripassarla,
le dita esercitarono una maggiore pressione sulle sue iniziali in
grassetto, fino a percepire il leggero ripiegarsi della carta verso
il fondo, lì dove la macchina da stampa aveva impresso in
eterno la
K e la B.
"Lui
dedica i suoi libri solo alle persone a cui tiene molto..."
Le
parole di
Kira
Blaine
ogni
tanto
tornavano a farle visita. Chissà a chi
avrebbe dedicato adesso ai suoi libri. A Laura, forse?
Il solo pensiero
bastò a rimestarle le budella nello stomaco.
Di slancio si alzò
da terra, e sicura si diresse all'armadio della sua camera da letto,
spalancandone le ante. Lì, in basso, ben nascosta tra
sciarpe e
borse d'ogni tipo, la busta rossa del suo ultimo acquisto in libreria
giaceva intonsa e ancora chiusa. Con un gesto deciso
l'afferrò e ne
strappo la sommità, lasciando che il libro al suo interno
vedesse
finalmente la luce. E con una punta di puerile orgoglio
notò, con
scorretto piacere, che nessuna dedica introduceva quelle pagine.
Forte di quella
nuova scoperta, si sedette sul bordo del letto con il libro stretto
tra le mani.
Una parte di lei
fremeva dalla curiosità di sapere se in esso si parlasse
ancora di
lei, o se anche Nikki Heat -come Derrick Storm prima di lei- aveva
ormai appeso il distintivo al chiodo, lasciando spazio alle nuove
leve. D'altra parte a vincere fu l'altra Kate, quella che invece non
voleva sapere, preferendo restare a sguazzare nel mare di
possibilità
che l'ignoranza le apriva dinnanzi.
Non sapeva
esattamente perché lo avesse comprato: non aveva mai avuto
nessuna
intenzione di leggerlo, e probabilmente non lo avrebbe mai fatto. Si
era data della vigliacca per questo, più di una volta, ma
era
qualcosa cui -nella sua condizione attuale- non era disposta a
cedere. Tuttavia aveva
sentito comunque di doverlo comprare: quasi che a rompere la sequenza
ordinata di quella collezione, anche l'ultimo filo che ancora li
teneva legati si sarebbe spezzato per sempre.
Tornata in soggiorno
alcuni minuti dopo, trascinò tutti i libri fuori dal
perimetro
sicuro dello stanzino, verso il divano, e sedutasi a terra con la
schiena appoggiata ai cuscini, li dispose in ordine di uscita,
lasciando che il libro ancora stretto tra le sue mani andasse a
occupare l'ultimo posto rimasto. Quando ebbe finito,
si concesse qualche istante per osservarli: le mani giunte di fronte
al viso, col pollice a picchiettare meditabondo la punta del suo
naso.
A vederli così,
tutti insieme uno dietro l'altro, era come osservare la sua stessa
vita concentrata nello spazio rilegato di alcune pagine. Ogni libro,
oltre la propria trama, raccontava infatti anche un periodo ben
preciso della sua vita: così in un capitolo della saga di
Derrick
Storm rivedeva se stessa alle prese con l'omicidio di sua madre,
mentre in un altro si vedeva nel momento in cui aveva iniziato a
maturare la decisione di diventare poliziotta. E ancora, nel primo
Nikki Heat ritrovava la se stessa di sette anni prima, alle prese con
il primo Castle in quello che -avrebbe capito solo dopo- sarebbe
stato un importante momento di svolta della sua vita.
L'allungarsi del suo
braccio per afferrare il cordless del telefono fisso fu la
conseguenza diretta di quel continuo osservare la propria esistenza
venir fuori dalle copertine dei manoscritti. Non dovette neanche
pensare, le dita digitarono il numero autonomamente, rapide quanto il
battito del suo cuore adesso.
Non sapeva cosa gli avrebbe detto una
volta che avesse risposto, certa che, come l'ultima volta, le parole
giuste sarebbero sgorgate fuori da lei spontaneamente. Qualunque
cosa fosse ad ogni modo le morì in gola nell'esatto istante
in cui a risponderle
fu una voce femminile, che a malincuore non riconobbe nè
come quella di
Alexis né di Martha.
Il tono di quella
voce, e la serena insistenza con cui ripeteva "Pronto", le
impedirono di agire con prontezza e chiudere immediatamente il
telefono. Solo al terzo richiamo riuscì nell'impresa di
riagganciare, quando ormai aveva avuto tempo a sufficienza a che
quella voce le si imprimesse in profondità nella
mente.
Era la voce
di una donna bella, giovane e felice. Una donna, ne era certa, con un
buon profumo sempre addosso, e che risultava sempre perfetta
qualunque cosa indossasse. Il tipo di donna in grado di
lavorare, avere una famiglia e tanti amici, e contemporaneamente
trovare sempre il tempo per sorridere alla vita. L'esatto opposto di
lei, insomma.
Con un moto di
stizza calciò i libri di fronte a lei, mandandone in pezzi
l'ordine
di pochi istanti prima, e rabbiosa ricacciò indietro le
lacrime che
cercavano ostinatamente di venire a farle visita.
Si era comportata da
sciocca. Aveva sbagliato tutto.
Quella chiamata era
stata solo l'ultimo della sfilza di errori stupidamente commessi quel
giorno, fin dal dialogo mattutino col bottone.
Decise tuttavia che
riversare tutta la sua frustrazione e la sua rabbia su di lui e su
quella donna perfetta sarebbe stata una scelta molto più
salutare
così, ricacciati con furiosa fretta i libri dentro lo
scatolone e
rimesso quest'ultimo al proprio posto, si sedette sul divano con
l'intera bottiglia di vino al suo fianco, pronta a venirle in
soccorso se necessario, e decise che avrebbe passato il resto della
serata ad odiarlo. Giusto per provare qualcosa di diverso, una volta
tanto.
Il
mercoledì sera all'Old Haunt era divenuto per loro tre un
appuntamento fisso.
Eccetto
che nei giorni in cui un omicidio li reclamava a lavoro: in quei casi
era lui a raggiungerli al distretto, approfittandone per dar loro
una mano col caso. Un tuffo nel passato. Piccole collaborazioni messe
in piedi per lo più in concomitanza di omicidi particolari o
eccentrici, del tipo che piacevano a lui; un modo come un altro per
tenere viva la tradizione. Sorprendentemente
la Gates non si era mai mostrata contraria a queste sue
saltuarie incursioni, limitandosi alla solita aria indifferente -e
sofferente- con cui Castle aveva imparato a conoscerla e ad
apprezzarla fin dal suo primo giorno. Non sapeva se questa sua
tolleranza fosse dovuta all'abitudine, alla semplice convenienza di
una mente in più a lavoro su cui contare, o al fatto che
anche lei
talvolta sentisse quasi la mancanza di quell'atipico equilibrio
maturato negli anni della sua collaborazione col dipartimento.
Personalmente
lui amava pensare fosse quest'ultima la ragione, per quanto
improbabile che fosse.
Di
certo c'era che nessuno si era aspettato di rivederlo tanto presto da
quelle parti, sicuramente non appena un mese dopo la partenza
di
Beckett.
Lui
stesso era stato il più sorpreso da quel ritorno.
In
cuor suo mai avrebbe creduto di poter rimettere piede in quel luogo
tanto in fretta, e con la relativa e ammirabile dose di disinvoltura
che aveva invece sfoggiato nel varcare la soglia. Ed era era certo
che in fatto di incredulità si era trovato in ottima
compagnia,
avendola chiaramente letta negli occhi di Esposito e Ryan la prima
volta che li aveva rivisti e per tutto il mese successivo. E
d'altronde tutti e due, per i primi giorni, non avevano fatto altro che
trattarlo con i guanti, muovendosi con la stessa cura e
professionalità con cui tante volte li aveva visti aggirarsi
tra i
detriti di una scena del crimine particolarmente cruenta, e questo
non aveva fatto altro che far crescere il lui il dubbio di stare agendo
in
maniera sbagliata o inopportuna, sebbene essere lì con loro
gli
apparisse nonostante tutto ancora come la cosa più naturale
del
mondo.
E
alla fine aveva capito: al di là di lei, e di quello che
loro erano
stati lì dentro, in qualche modo quelle quattro mura erano
diventate
anche sue. In qualche modo, per quanto inizialmente fosse entrato da
ospite in quel distretto e pur non essendo davvero un poliziotto, col
tempo questo aveva finito per diventare anche la sua casa. E solo
dopo la loro. Era
sempre stato certo che tornare lì avrebbe significato
accettare
l'idea di vedere tanta lei quanta ne aveva respirata in quei cinque
lunghi anni, al punto da uscirne annientato. E in effetti era
stato così, specie all'inizio.
I
corridoi, l'ascensore, la scrivania, persino l'ufficio della Gates,
tutto
parlava di lei... Eppure l'annientamento non era arrivato: in
compenso erano arrivati, dolore, nostalgia, frustrazione e una buona
dose di rabbia inespressa.
Si
era così velocemente reso conto che, per quanto quegli spazi
fossero
pieni di lei, non lo erano meno di quelli del suo loft. Il Dodicesimo
era solo un'altra casa da cui lei era andata via, ma non per
questo l'assenza di lei l'aveva resa meno sua. Questa cosa l'aveva
rassicurato, e inondato di una nuova e tiepida iniezione di gioia.
Rendersi conto che quegli ultimi anni gli avevano regalato, oltre a
un amore vinto, anche dei veri amici, una scappatoia dalla sua
quotidianità, la voglia e l'ispirazione per tornare a
scrivere e in
generale slancio al suo futuro, gli aveva dato la forza per riprendere
a frequentare quel mondo con regolarità.
Certo,
ancora adesso passare accanto alla sua scrivania e non cercare gli
elefantini gli costava fatica, come anche dura era perdere
l'abitudine a fare due caffè anziché uno: quando
questo capitava,
per salvare le apparenze ed evitare gli sguardi carichi di sincero e
pesante cordoglio dei suoi amici, fingeva di averli preparati per
loro e andava a farsene un altro, o tutt'al più ne cedeva
uno alla
Gates o a qualche poliziotto di passaggio spacciandolo per un gesto
programmato. Anche la sua sedia, per anni rimasta immobile al suo
posto accanto alla scrivania di lei, tanto da lasciare segni di
usura su quel fazzoletto di pavimento, era stata ora sapientemente
spostata tra quelle di Ryan ed Esposito. Ma a
parte questo la vita al distretto era sufficientemente sopportabile,
spesso addirittura piacevole.
Le
serate all'Old Haunt tuttavia erano un'altra storia: in quelle ore
era loro concesso di abbandonare chi i panni dello scrittore, chi del
poliziotto per tornare ad essere semplicemente tre amici riuniti di
fronte a una buona birra, a parlare del più e del meno e
magari
sfidarsi a freccette. E per quanto si sforzasse, Rick faticava a
ricordare serate del genere prima delle loro: nonostante,
grazie soprattutto al suo lavoro, fosse in effetti sempre stato pieno
di
amicizie di numerose conoscenze, dalle più altolocate alle
meno
raccomandabili, poteva affermare con assoluta certezza di non aver
mai avuto prima d'ora degli amici veri e sinceri quali erano quelli
seduti di fronte a lui in questo momento.
«Parlando
di cose serie, Jenny è incinta o no?»
Nell'ultima
mezz'ora la conversazione aveva preso una strana piega, dando vita a
un'accesa discussione tra Ryan ed Esposito riguardo i pro e i contro
delle lampade abbronzanti: Esposito affermava che nessun vero uomo
avrebbe mai accettato di farsi innaffiare di colorante dentro una
doccia, Ryan invece si era dimostrato più aperto
all'argomento
affermando che anche gli uomini, se non dotati per natura di una
carnagione sfacciatamente
ispanica, dovevano
poter avere il diritto di non mimetizzarsi con la spuma del mare,
senza per questo minare la propria virilità, sebbene lui
giurasse di
non averne mai provata una. Inizialmente Castle aveva partecipato
divertito alla discussione, raccontando di un episodio del suo
passato che coinvolgeva una donna particolarmente procace, un set di
accappatoi trafugati da un hotel e una doccia abbronzante, per
l'appunto. Quando però venti minuti dopo la discussione
sembrava non
aver ancora raggiunto un punto di svolta e gli animi avevano preso a
surriscaldarsi, annoiato aveva iniziato a pensare a qualcosa che
potesse distrarli e permettere di andare avanti con la serata. Ryan
era senza dubbio la preda più facile. Focalizzate tutte le
sue
attenzioni su di lui, non gli ci volle molto per ripescare dalla
memoria l'aggancio adatto, l'unico argomento che sapeva avrebbe
smosso nell'immediato l'animo dell'irlandese: Jenny.
E
infatti basto quella domanda ad ottenere l'effetto sperato:al solo
sentire il nome di sua
moglie, il viso di Ryan, prima serrato in un agguerrito cipiglio, si
era immediatamente disteso in un sorriso raggiante -che più
tardi
Esposito avrebbe definito ebete, minacciando di riaccendere la miccia
della
battaglia- e la querelle sull'abbronzatura era stata ben presto
accantonata.
«Ancora
niente di certo, aspettiamo l'ecografia per dare la notizia. Visto
l'ultimo falso allarme non vogliamo sbilanciarci, sapete
com'è»
«Sì,
dillo alla tua faccia»
Il
tono piccato di Esposito sfogò gli ultimi strascichi di
adrenalina
rimasti dalla conversazione precedente, ma il suo volto rabbonito
fece ben sperare sulla bontà delle sue intenzioni. E
d'altronde, che
lo ammettesse o no, l'ispanico aveva sviluppato una sorta di adorazione
per Sarah Grace, la primogenita del suo partner, per cui all'idea di
un secondo pargolo era animato da una sincera ma ben celata
eccitazione, specie perché tutti sapevano -senza bisogno di
dirlo-
che, esauriti cugini e parenti con la precedenza, il prossimo turno
per fare da testimone -o da padrino, in questo caso- sarebbe spettato
a lui. Fatto che segretamente lo riempiva d'orgoglio. E a vederlo
così entusiasta per una famiglia non sua, Rick proprio non
riuscì a
trattenersi dall'infierire sul suo raro lato sentimentale
-né, a
essere sinceri, ci provò.
«Di
questo passo, una volta sposato dovrai impegnarti parecchio per
raggiungerlo Espo»
La
battuta ebbe l'effetto desiderato, ed Esposito quasi si
strozzò con
la birra. L'urgenza di rispondere fu tale da spingerlo a parlare
quando ancora non aveva smaltito il colpo, alternando le parole a
colpi di tosse e schiarimenti di gola.
«Vacci
piano, non che non voglia una famiglia ma prima vorrei potermi godere
un po' la mia signora, se capite che intendo»
«Beh
a guardare Ryan sembra che una cosa non escluda l'altra»
«Beh,
ecco... Oh, fatela finita!»
Ad
essere imbarazzato era Ryan adesso, che sentendosi al centro del
mirino, e privo di difese, non trovò di meglio da fare che
nascondersi dietro un generoso sorso di birra. L'argomento bambini
correlato all'evidente darsi da fare dei due sposini novelli, Ryan e
Jenny, era infatti un tema particolarmente caro agli altri due,
più per il
piacere di metterlo in difficoltà che perché
sinceramente stupiti
dal loro, come lo definiva sornionamente Castle, fare
le cosacce con una bambina in casa.
Era
una cosa più che normale per qualunque coppia di genitori,
lo stesso
Castle non si era certo risparmiato ai tempi di Alexis neonata,
quando ancora Meredith non aveva abbandonato la nave. Tuttavia Ryan
viveva l'argomento con sincero disagio e questo chiaramente non era
che un invito per gli altri due a rincarare la dose.
«Davvero
Bro', è il terzo falso allarme quest'anno, vi date parecchio
da
fare...»
«E
basta!»
Le
risate del gruppo soffocarono definitivamente, almeno per quella
sera, la discussione e ben presto anche Ryan si unì a loro,
incapace di tenere il broncio troppo a lungo, specie di fronte a
un Castle deciso a ordinare da bere in russo.
«Quest'ultimo
giro lo offro io, ragazzi, e poi vado. Sarah Grace ha le coliche e ho
promesso a Jenny che oggi non avrei fatto tardi»
«La
mogliettina ti tiene al guinzaglio, eh latte e miele?»
«Ne
riparliamo tra tre settimane, Javier»
«Non
tutti gli uomini sposati sono remissivi come te, alcuni li pretendono
i loro spazi»
«Ma
non tutti gli uomini sono sposati con una Lanie, ricordalo»
Quest'ultima
imbeccata di Ryan suscitò l'ilarità di Castle ma
non, ovviamente,
quella di Esposito, che si limitò a uno sbuffo superbo pur
non
trovando modo di controbattere.
«E
a proposito di questo, so di non essere il tuo primo testimone ma
vorrei comunque chiedere il permesso di organizzare io il tuo addio
al celibato. Innanzitutto perché, in mano mia, è
certo che ci
divertiremo...»
Con
fare presuntuoso, Rick sollevò un dito in aria, nell'atto di
contare
le innumerevoli ragioni per cui avrebbe dovuto poter prendere in mano
i festeggiamenti. Chiaramente non fece in tempo a sollevare del tutto
la prima nocca che venne interrotto dai commenti sarcastici
dell'amico.
«Oh
sì certo, perché ce lo ricordiamo tutti l'addio
al celibato di
Ryan...»
«…
E secondo perché finanzierei io, e io sono ricco»
Un
secondo dito si alzò a fare compagnia al primo, e negli
occhi dei
due compari Rick lesse che non avrebbe avuto bisogno di aggiungerne
un terzo.
«Permesso
accordato, senza offesa bro'»
«Nessuna
offesa»
«Meraviglioso!
E a questo riguardo ho una domanda da fare: spogliarelliste
sì o
spogliarelliste no?»
«Sì
Javier, cosa dice la sposa?»
Il
tono di Ryan era chiaramente ironico, teso ad affondare il coltello
su una piaga aperta anni prima, ai tempi del suo di addio al celibato
in
quel
di Atlantic
City.
Allora quella stessa domanda era stata posta a lui, e la sua risposta
non era particolarmente piaciuta ai suoi amici.
«A
differenza tua, Ryan, io sposerò una donna dalle larghe
vedute per
cui le spogliarelliste sono accettate purché viga la regola
del “si
guarda ma non si tocca”»
«Mi
sembra accettabile»
Castle
ascoltava ridicolmente assorto, il mento poggiato sulle mani
intrecciate e la stessa serietà e concentrazione che avrebbe
dedicato al resoconto di un omicidio da risolvere, o tutt'al
più a
una partita di poker particolarmente agguerrita.
«Però
Lanie ha precisato che se io avrò le spogliarelliste al mio
addio al
celibato, lei avrà i spogliarellisti al suo addio al
nubilato... Uno
scambio equo, così l'ha definito. Ma sinceramente non ho
ancora
deciso se questa equità mi stia bene oppure no»
«Beh,
c'è tempo per quello, pensiamo ad altro…tipo la
location!»
Abbandonato
l'atteggiamento grave e riflessivo di qualche istante prima, il viso
di Castle tornò ad accendersi di una puerile esaltazione,
che ben
presto contagiò anche gli altri due compagni. La successiva
mezz'ora passò così a discutere di dettagli come
il cibo, la
componente alcolica e soprattutto il dove organizzare il tutto,
passando da location più comuni -come un nightclub o lo
stesso Old
Haunt- ad altre più eccentriche -come gli Hamptons- fino a
quelle
decisamente improbabili quali la luna -candidamente proposta da
Castle perché :chi mai non vorrebbe un addio al
celibato
spaziale?
Se
Ryan a un certo punto non si fosse responsabilmente imposto di
alzarsi, avrebbero facilmente potuto continuare a discuterne per
ore.
Salutato l'amico, i due reduci decisero per un ultimo giro prima di
tornare anche loro alle rispettive case. Traendo vantaggio dalla
scarsa clientela, Rick ne approfittò per versare da bere a
sé e
all'amico lui stesso, assecondando così la sua poco appagata
passione per lo spillare la birra. Nonostante l'ora non troppo tarda,
infatti, nelle sere infrasettimanali all'Old haunt non c'era mai
particolare movimento. Era anche per questo che avevano scelto di
riunirsi il mercoledì: ciò consentiva loro di
stare più raccolti e
di poter parlare senza il fastidio dell'eccessiva confusione tipica,
invece, del weekend.
Castle
tornò al suo tavolo tenendo tra le mani due birre
traboccanti di
schiuma, segno che, se avesse dovuto effettivamente gestire il locale
da sé, sarebbe ben presto fallito e anche miseramente,
ché neanche
un mese di pratica sarebbe bastato a compensare un'evidente mancanza
di talento naturale. Nell'osservare
il proprio boccale lo sguardo di Esposito era evidentemente
perplesso, e Castle immaginò stesse decidendo se
risparmiargli o
meno il commento sarcastico di rito, di quelli che puntualmente gli
venivano rivolti ogni qualvolta decideva di cimentarsi in imprese
simili dinanzi i suoi amici.
«Con
tutto questo parlare di matrimoni e bambini, ho dimenticato di
chiederti come è finita con l'esercito! Hai deciso se
accettare o
meno la loro proposta?»
«A
dire la verità no. Si tratterebbe di tenere un corso di
tecniche
investigative di base di fronte a dei pivelli, quindi minimo sforzo e
ottimi guadagni. D'altra parte però non so se mi vada l'idea
di
rientrare nella realtà dell'esercito... Non tutti i ricordi
legati a
quel periodo sono piacevoli»
«Lanie
che dice?»
«Secondo
lei sarebbe una buona opportunità, ma lascia che sia io a
decidere.
Quindi penso mi prenderò un altro po' di tempo, se non altro
per
indispettire qualcuno ai piani alti»
Una
risata increspò le loro labbra, che Castle
soffocò tuffando le
proprie oltre la coltre di schiuma del boccale, attendendo
pazientemente che della birra sopraggiungesse a destinazione. Quando
ne ebbe ingollata una generosa sorsata allontanò il boccale
dal
proprio viso, per scoprirsi così oggetto d'attenzione di
Esposito, intento a osservarlo ora con un strano cipiglio in volto,
perso
in chissà quale riflessione.
«E
a te invece le cose come vanno? Successo qualcosa di interessante
oggi?»
La
domanda suonò strana alle orecchie di Castle tanto quanto il
fatto
che a pronunciarla fosse stato un tipo come Esposito, raramente
interessato alla quotidianità degli altri. Il
chiacchiericcio era
più una prerogativa sua, o tutt'al più di Ryan,
cui Esposito si
sottoponeva esclusivamente per necessità sociali.
«Niente
di speciale, in effetti. Le solite beghe con l'editore, qualche
commissione e poi ho cenato da Laura. È in giornate piatte
come
queste che smanio per qualche bell'omicidio intricato da
risolvere»
«Se
fossi costretto a farlo per lavoro smanieresti meno, te lo assicuro.
E con Laura come vanno le cose?»
«Con
Laura va tutto benissimo, come sempre»
L'improvviso
interesse per la sua vita sociale mostrato dall'ispanico
iniziò a
insospettire Castle che, indeciso su dove questi volesse andare a
parare con le sue domande, settò il proprio cervello
anticipatamente
sulla difensiva, giusto per preucazione. Col senno di
poi non si pentì della sua scelta.
«Hai
presente quel tacito accordo tra noi, per cui quando siamo soli
non si parla di Beckett, mai in nessuna occasione? Bene, sto per
romperlo, per quest'unica volta sia chiaro, dopodiché le
cose
torneranno come al solito»
«Che
c'entra Beckett adesso?»
«Andiamo
amico, questo...» Esposito si
lasciò andare ad un ampio gesto della mano, a indicare la
faccia di
Castle e l'ombra funerea che l'aveva accompagnata per tutta la sera,
nonostante i suoi evidenti sforzi di tenerla sottopelle
«c'entra sempre con
Beckett. Per cui te lo chiederò una volta sola. Che
è successo?»
Castle
sembrò ponderare attentamente la situazione, indeciso se dar
libero sfogo o meno
alla fiumana di parole che, a quanto pareva, portava scolpita a
chiare lettere sul volto da che era arrivato. Da giocatore di poker
esperto quale si reputava, si sentì offeso nel profondo
dalla
propria mancanza di autocontrollo, specie di fronte a due detective
la cui esperienza nello scoprire indizi nascosti avrebbe dovuto anzi
spingerlo ad alzare ulteriormente le proprie difese. Quantomeno con
Laura aveva avuto successo.
Non
che non avesse intenzione di parlarne ai suoi amici, soltanto che non
gli era sembrato il momento adatto, con tutta quella
felicità che,
tra i non-troppo-falsi allarmi di Ryan e le imminenti nozze di
Esposito, si respirava in quel gruppo ultimamente. Alla fine
comunque, l'inaspettato presentarsi dell'occasione, lo sguardo di chi
non ammetteva replica di Esposito, e il sincero bisogno di formulare
a voce alta i propri pensieri a qualcuno che non fosse invisibile, lo
convinsero ad aprirsi, non prima però di aver cercato
coraggio in
una nuova dose di birra ghiacciata.
«L'ho
incontrata, il week-end in cui sono stato a Washington»
«Lo
sapevo! Ma insomma Castle, che ti dice la testa? Perché
diavolo sei
andato a cercarla, cosa speravi di ottenere?»
«Ad
essere chiari è stata lei a presentarsi davanti al mio
albergo, non l'ho cercata io! D'altra parte però non ho
neanche
girato i tacchi quando l'ho vista, quindi immagino di avere anche io
la mia buona parte di responsabilità...»
«E
che è successo? Perché dubito che il tuo malumore
sia dovuto al
semplice averla rivista, è una cosa a cui dovresti essere
abituato
ormai»
«No,
infatti...»
Il
capo di Castle si fece pesante, sotto il peso di immagini
evidentemente più grevi delle precedenti. A Esposito non
sfuggì
quel repentino cambio di atteggiamento, e avendo letto nel gesto
dell'amico un totale crollo di difese, abbandonò anch'egli i
toni
incalzanti mantenuti fino a quel momento, e gli lasciò
invece il suo
tempo per rispondere, attendendo pazientemente che mettesse in ordine
le parole
prima di proseguire.
«Abbiamo
cenato insieme, non so neanche perché, ma inaspettatamente
non è stato poi troppo strano o imbarazzante, anzi
è andata
piuttosto bene... Finché non siamo finiti a letto. Il giorno
dopo
sono ripartito»
«Wow...
»
«Già,
wow»
Quell'ultima
parola lasciò l'amaro in bocca a Castle, e lui
tentò di lavarlo via
con un altro consistente sorso dal suo boccale.
«Non
imparerò mai, ogni volta penso di essermela lasciata alle
spalle e
poi...»
Esposito
ritenne di dover dire qualcos'altro, per evitare che il suo unico
contributo a quella discussione consistesse in una serie di domande e
in un lapidario monosillabo dalla scarsa utilità, tuttavia
per
quanto si stesse sforzando non riusciva a ripescare nella sua mente
nulla di adatto alla situazione, o comunque niente che immaginava
avrebbe potuto portare sollievo alla frustrazione evidente del suo
compagno di bevute, cosicché alla fine ad uscire dalla sua
gola fu
l'ennesima domanda.
«Questo
però è successo quasi un mese e mezzo fa, no?
Quello che non
capisco è perché tu ci stia ripensando proprio
adesso»
«Prima
di venire qui ho ricevuto una chiamata sul cellulare da un numero
fisso sconosciuto. Io ero in bagno e ha risposto Laura, ma ha detto
che all'altro capo non c'era nessuno...»
«E tu pensi
che fosse lei?»
«Sono
certo che fosse lei, Javier... Ma tanto per non lasciare dubbi ho
controllato il numero, il prefisso è di Washington. Chi
altri
potrebbe essere»
Non
era una domanda la sua, ma una lucida constatazione.
«E
Laura? Pensi sospetti qualcosa, è questo che ti preoccupa?»
«No,
lei non sa nulla, non ha neanche fatto caso alla chiamata. E anche se
fosse, detto sinceramente sappiamo entrambi che la nostra non
è una
cosa così seria da far sorgere preoccupazioni, non ancora
almeno...»
Mentre
ancora stava parlando, Castle vide la sua stessa mano sbattere
violentemente il boccale sul tavolo, in un impeto di sfogo totalmente
arbitrario che immaginò fosse dovuto alla rabbia che
lentamente
sentiva risalire lungo il proprio corpo, e che il suo braccio doveva
aver
colto prima ancora che questa divenisse accessibile alla sua
coscienza.
«Perché
fa così? Io davvero non riesco a capirla! Cosa vuole ancora
da me,
perché diavolo mi chiama?»
«Beh
in questa storia vi ci siete cacciati in due, però...»
«Lo
so, maledizione! Lo so...» il
tono si fece di nuovo pacato, e la frustrazione tornò a
dominare
sulla rabbia «Ma come hai detto tu è passato
più di un
mese, quindi perché adesso?»
«Non
lo so Castle, forse qualcosa l'ha fatta ripensare a..»
«No
Espo, basta tentare sempre di giustificarla. La verità
è che lei ha
sempre fatto il bello e il cattivo tempo nella mia vita, a suo totale
piacimento. E io l'ho sempre lasciata fare. Se ne va, poi torna, poi
mi lascia, mi riprende... ora sono davvero stanco»
«Mi
dispiace amico»
Non
trovò nient'altro da dire, e in cuor suo sapeva che nulla
comunque
avrebbe mai davvero potuto sortire un qualche effetto positivo
sull'umore dello scrittore. E in fondo, se lo aveva spinto a
parlare
non era per elargire consigli, ma soltanto per dargli la
possibilità
di sfogarsi, convinto che al momento attuale quella fosse la sola
cosa a potergli portare un qualche beneficio. O comunque l'unico modo
in cui lui poteva provare ad aiutarlo. Aveva sempre creduto in loro,
in Castle e Beckett, e ancora adesso nonostante tutto ciò
che era
successo, nonostante tutto il tempo che era passato e tutte le cose
che erano cambiate nel frattempo, una parte di lui ancora credeva in
loro.
Non era
mai stato un tipo sentimentale, niente colpi di fulmini o anime
gemelle: per lui l'amore erano semplicemente due persone che si
incontravano, si piacevano e decidevano di stare insieme. Libero
arbitrio, nessun intervento del destino. Se con una non andava allora
ce n'era un'altra ad aspettarlo dietro il prossimo angolo, senza
troppe complicazioni: non temeva la fine di una relazione, per
importante che fosse, perché non credeva nell'esistenza di quella
giusta. Esisteva solo
quella del momento,
quanto a lungo durasse quel momento, quella era un'altra storia. Con
Lanie si augurava sarebbe durato per sempre.
Eppure
più volte osservare Castle e Beckett insieme aveva fatto
vacillare
le sue certezze: non sapeva se fosse stato per l'ostinazione mostrata
da Castle in tutti quegli anni in cui era rimasto al suo fianco,
aspettando fiducioso una sua apertura, o per l'aver assistito
in prima persona, giorno
dopo giorno, al cambiamento di Beckett da chiusa e intransigente
detective a donna sorprendentemente vitale e completa. Anche adesso,
quel dolore ancora vivido nello sguardo di Castle gli dava ragione di
credere che non tutto era perso. O ancora, forse era solo
colpa del
troppo tempo passato con Lanie, che in loro aveva riposto
incondizionata
fiducia sin da subito, prima ancora che quel rapporto assumesse
connotati reali.
Senza
più alcuna parola da poter essere aggiunta, entrambi
lasciarono che il discorso cadesse, finché le ultime gocce
di birra
non furono smaltite in silenzio e arrivò il tempo
dei saluti. Castle
fu il primo a uscire dal locale, una pacca sulle spalle dell'amico e
sparì dietro la spessa porta legnosa dell'Old haunt,
inghiottito
dalle luci della città. Esposito
invece si attardò ancora qualche minuto, intento a esaminare
una qualche
riflessione apparentemente emersa dal fondo opalino del bicchiere,
che giocava a far oscillare di fronte al proprio naso.
«Quei
due mi faranno impazzire...»
Poggiò
con rassegnazione il boccale sul bancone, fece un cenno di commiato
al barista -ormai vecchio amico- e afferrata la giacca se la
buttò
malamente sulle spalle, cacciando le mani dentro le tasche mentre
anche lui si tuffava nell'umida sera NowYorkese.
La
mano destra prese a frugare nel piccolo antro di tessuto in cui
s'era adagiata fino ad estrarne il telefono. Pigiò,
senza neanche
guardarlo, un numero sulla tastiera e attese che la chiamata rapida
venisse inoltrata.
«Hey
Javier, che succede?»
«Mi
devi venti dollari Bro'»
«Cos...
Oh, ma andiamo!»
«Consolati,
in compenso io ne devo cinquanta a Lanie»
«Vuoi
dire che... Loro hanno...»
«Sì»
«Che
casino»
«Già,
proprio un gran casino»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Come Home -Parte I ***
Come
Home -Parte I
And
right now there's a war between the vanities
But all I see it's
you and me
The fight for you is all I've ever known
(Come
Home - One
Republic)
Impazienza.
Se
avesse dovuto dare un nome alla sensazione che in quel momento gli
attanagliava lo stomaco, non sarebbe potuto essere altri che
quello.
Evidentemente, calma e sopportazione non erano doti a lui
congeniali. O più semplicemente non lo erano a quella
situazione, in
cui sussultare ad ogni rumore sembrava essere l'inevitabile condotta
associata al suo ruolo di sposo agitato.
Tentò di concentrarsi
sulle pieghe della giacca -che ostinate continuavano a riapparire, a
prescindere da quante volte lui vi passasse la mano sopra- e sul nodo
della cravatta -fattosi improvvisamente opprimente-, ma ogni suo
tentativo era vanificato dall'agitazione delle dita, incapaci di
eseguire correttamente anche il movimento più elementare, e
soprattutto dal mellifluo frastuono delle flûtes
di vetro,
che da quasi dieci minuti aveva preso a tintinnargli senza sosta
nelle orecchie.
«Hey amico, vacci piano! È già il
quarto
bicchiere quello»
Insoddisfatto del tono esageratamente pungente
con cui gli si era rivolto, Esposito in aggiunta dedicò
anche
un'occhiata storta a Castle, in piedi accanto al piccolo rinfresco
alcolico, le cui labbra si bloccarono a mezz'aria, l'attimo prima di
potersi ricongiungere con l'orlo del bicchiere.
«Avanti Esposito,
non risparmierai sullo champagne, spero! È il giorno del tuo
matrimonio, bisogna festeggiare! Questi sono eventi che capitano una
volta sola, di solito...»
«Sì, ma vedi di non arrivare ubriaco
alla cerimonia. Preferirei evitare la parte in cui uno dei miei
testimoni sviene sull'altare»
«Per favore, ricordati con chi
stai parlando. Questo fegato ha visto tempi più duri...e
migliori,
in effetti»
Con fare scocciato Esposito colse l'occhiata poco
convinta che, nonostante tutto, l'amico aveva appena osato rivolgere
al contenuto del proprio bicchiere, il cui sdegno non sembrava
tuttavia trovare riscontro nelle sue azioni. Tornò
così a dedicarsi
all'altro uomo -quello agitato ed eccitato dentro lo specchio- giusto
in tempo per sorprendere il riflesso di Castle a scolarsi in un unico
sorso il resto del calice, con un'espressione di agitazione e
aspettativa che aveva appena visto espressa a chiare lettere sul
proprio di viso, e che vedere riflessa anche su quello dell'amico non
gli piacque affatto. Soprattutto perché, nel suo caso, non
la si
poteva imputare all'imminenza di un matrimonio.
«Se mi rovina le
nozze giuro che lo ammazzo...»
La frase uscì esasperata e con un
tono volutamente troppo basso perché il diretto interessato
potesse
udirla, ma giunse comunque a destinazione attirando l'attenzione del
secondo dei tre uomini riuniti con lui in quella stanza, e fino ad
allora rimasto in disparte, immerso in un'agguerrita lotta con i
polsini della camicia.
«Andiamo, adesso rilassati. Filerà tutto
liscio»
«Ah sì? Allora perché ho la continua
impressione che
qualcosa debba andare storto?»
«Solo un po' di sano panico da
matrimonio... Vedrai che nel giro di un anno sarà quasi
sparito»
Ryan gli fu presto accanto, senza nemmeno curarsi di
nascondere il sorriso eloquentemente divertito maturatogli sul volto
alla vista del partner in preda a un vero e proprio attacco di
panico, a prescindere che lui volesse ammetterlo o no.
E in
effetti, se anche fosse stato conscio della curiosa e irrazionale
scarica di terrorizzato eccitamento che stava provando al pensiero
che da lì a un'ora sarebbe stato sposato, come avrebbe mai
potuto
ammetterlo ad alta voce?
Lui, perennemente a contatto con
l'ingiustizia e il dolore -se non suo, di altri-, che aveva
incontrato la morte più volte di quanto dovesse poter essere
concesso a un solo uomo, e ancora prima aveva visto la guerra -quella
vera-, riflessa sulla canna del proprio fucile... Lui, che aveva
sparato ad assassini e obiettivi militari a distanze incalcolabili ad
occhio nudo, e che adesso non riusciva a tenere le proprie dita ferme
neanche per il tempo necessario ad abbottonarsi la giacca. Aveva
conosciuto lo stress post-traumatico, sapeva cosa volesse dire
convivere con l'ansia ogni giorno e sentirla divorare le proprie
viscere: come avrebbe mai potuto ammettere, anche solo a sé
stesso,
che dopo tutto ciò che aveva vissuto e sopportato, bastasse
la
semplice idea di sposare la donna che amava -e con cui avrebbe
comunque passato il resto della sua vita, a prescindere dalla firma
apposta su un documento- a mandarlo in panico adesso? L'orgoglio e il
disperato tentativo di conservare la propria virilità non
gli
avrebbero mai permesso di venire deliberatamente a patti con quel
pensiero, pur tuttavia già ben noto al suo subconscio:
ciò
nonostante quel paradossale contrasto tra il sapere e il non volerlo
ammettere non lo aveva del tutto privato della sua lucidità,
almeno
non al punto da non rendersi conto che la sua ansia era sì
in gran
parte, ma non del tutto imputabile a sé stesso e alla
propria
sciocca paura. Quella cricca sparuta di neuroni dissidenti, che
popolava l'angolino del suo cervello rimasto immune alla frenesia da
matrimonio, continuava infatti a riproporgli a ondate informazioni
non pertinenti compreso, tra le altre, il ricordo dei recenti
avvenimenti tra due dei suoi più cari amici che -aveva
realizzato
con orrore quella stessa mattina- si sarebbero incontrati dopo mesi
proprio al suo matrimonio. Quindi, in un moto di amaro compiacimento,
dovette concludere che la sua preoccupazione nei confronti della
labilità di controllo di Castle era del tutto giustificata.
Checché
ne dicesse Ryan.
«Signori, è ora»
La porta della camera
d'albergo si aprì e la testa dell'organizzatore -una pertica
pallida
dalla barba curata, avvolta in un elegante completo beige- vi fece
capolino, facendo sobbalzare Esposito, colto proprio nell'unico
istante in cui -troppo occupato a riflettere- non aveva prestato
orecchio all'avvicinarsi dei passi nel corridoio, che gli avrebbero
consentito di realizzare che era ora di andare con almeno qualche
secondo d'anticipo, così da potersi preparare mentalmente.
Avendo
sprecato quei preziosi istanti, fu così costretto a
respirare
profondamente e contemporaneamente a camminare verso l'uscita; una
doppietta che gli costò parecchia fatica, specie dopo
l'occhiata
ebete e sorridente che spiò nel suo riflesso allo specchio
un attimo
prima di voltargli le spalle, e che gli provocò un irritante
moto di
auto-derisione.
Odiava comportarsi in quel modo, si sentiva
così... Ryan.
Le mani leggermente sudate d'eccitazione, si
posizionò di fronte alla porta d'un passo indietro rispetto
all'organizzatore, in attesa di un suo cenno per procedere finalmente
fuori dalla stanza, lungo il corridoio, e poi giù per le
scale fino
al giardino, dove un gazebo e un'ottantina di invitati lo stavano
già
attendendo. Dietro di lui Castle e suo cugino Oliver stavano adesso
prendendo posto, sfruttando quegli ultimi attimi per mettere a punto
le proprie mise, mentre un Ryan già pronto e sorridente gli
si era
posto quasi a fianco, sostenendolo discretamente come ogni giorno da
che erano diventati partner.
«Hai la pistola con te?»
«Certo
che no, perché mai dovrei portarmi la pistola al tuo
matrimonio?»
Ryan gli rivolse un'occhiata confusa e sbalordita,
indeciso su come interpretare quella richiesta. Gli fu tuttavia
sufficiente seguire il suo sguardo, posatosi sullo scrittore alle
loro spalle per un breve ma intenso istante, per capire che non era
autolesionismo da stress ciò di cui avrebbe dovuto
preoccuparsi, ma
un potenziale omicidio di primo grado.
«Pazienza, vorrà dire che
nel caso me ne occuperò a mani nude»
Febbraio nella
Hudson Valley era un spettacolo mozzafiato. Di per sé
sufficiente a
giustificare la scelta di uno dei mesi più freddi
dell'inverno New
Yorkese per celebrare un matrimonio con rito all'aperto.
All'orizzonte la natura si apriva libera e incontaminata in una
vallata nebbiosa, spruzzata qua e là d'argento -ricordo
forse di una
recente nevicata. A chiudere quella conca erbosa, fitti filari
d'alberi ancora sopiti sotto le spire brumose dell'inverno,
attraverso cui il sole tentava faticosamente di filtrare, diffondendo
nell'aria, quando vi riusciva, una luce soffusa e quasi eterea che
riempiva gli occhi. E tra un ramo disadorno e l'altro, ogni tanto
Kate riusciva persino a spiare il riverbero del lago, distante poco
più di un chilometro, sfuggente e abbagliante come uno
specchietto
lasciato a giocare col sole.
Il rigido contrasto tra quella vista
selvatica e la perfezione artificiosa del giardino dell'hotel non era
che il coronamento di quel panorama, contribuendo ad aumentare
l'impressione di trovarsi in una piccola oasi di perfezione isolata
in mezzo a un paradiso arboreo.
La sensazione di essere fuori
posto, per una cittadina come lei, era però sempre in
agguato. Così
Kate, affacciata alla finestra della stanza adibita alla preparazione
della sposa, si premurava di non indugiare troppo su nessun dettaglio
che potesse farle prendere reale coscienza di dove si trovasse e
perché: onde evitare che il rientro nella sua
città natale -vista
di sfuggita dal finestrino del taxi, un attimo prima di venire
inghiottiti dal traffico delle strade provinciali- non fosse reso
più
traumatico dal distacco dal suo ambiente naturale, fatto di cemento e
fumosità.
Privata dell'unica distrazione disponibile, il cambio
d'abito, negli ultimi dieci minuti i suoi sforzi avevano
però
iniziato a far cilecca lasciando così campo libero ai
pensieri che,
come le foglie fuori dalla finestra, avevano preso a ornargli le
centinaia di ramificazioni gemmatesi nella sua mente. Alla fine Kate
aveva escogitato uno stratagemma, e aveva ripreso a osservare il
panorama attraverso l'alone di condensa che ad ogni respiro
contribuiva ad alimentare sul vetro, attraverso cui la vista di quel
luogo si faceva quasi accettabile. Lei si sentiva come quell'alone:
una presenza incorporea e quasi invisibile, dai contorni confusi,
tenuta in vita dal gesto automatico del respirare e nulla
più. E
intanto il corpo, elegantemente avvolto nell'abito vinaccio, flirtava
con le vertiginose décolleté, prendendo parte ai
festeggiamenti che
si stavano consumando alle sue spalle, e a cui la testa sembrava
invece non essere stata invitata. Persa in quel groviglio mentale,
l'unico legame attuale col suo corpo era infatti il peso irrisorio
dello chignon basso, che costringeva i suoi capelli in una morbida
morsa e che, sottomesso alla forza di gravità, era l'unica
cosa ad
assicurarle di rimanere con i piedi ben piantati a terra.
In quel
brusio indistinto di voci e di brindisi, e di pensieri turbinanti, ci
volle il suono rassicurante del proprio nome, pronunciato da una voce
altrettanto rassicurante e familiare, per convincerla a riemergere da
quell'apatico stato di quiete.
«Kate, cosa ne pensi?»
Voltate
le spalle al vetro, una visione altrettanto ragguardevole le si
parò
davanti quando una splendida Lanie vestita di bianco raggiunse il
centro della stanza, raggiante come poche altre volte nella vita.
L'abito -un gioiellino di alta sartoria scovato mesi prima in un
outlet- la fasciava delicatamente sulla vita, accentuando il seno
già
prosperoso senza scadere nel volgare, per poi aprirsi in una morbida
gonna ampia che terminava con un piccolo ma raffinato strascico.
Nella sua semplicità, il vestito si sposava perfettamente
con la
carnagione scura di Lanie e con il pendente d'oro e ametista verde
che le adornava il collo -unica nota eccentrica nel suo aspetto.
«Sei
magnifica, Lanie»
Il sorriso sbocciato radioso sul volto della
sposa raggiunse rapidamente anche le labbra di Kate, contagiando in
breve tempo anche le altre donne presenti nella stanza che, con
commenti estatici e gridolini eccitati, s'erano unite al coro di
complimenti inaugurato dalla damigella d'onore. Jenny in particolare,
complici gli ormoni, si sciolse in un appena accennato pianto di
commozione che costrinse Marla, la storica compagna di
università di
Lanie, a intervenire prontamente con dei fazzoletti, onde evitare che
il trucco dell'altra si distribuisse dagli occhi anche sul resto del
viso. La scena ebbe il merito di smorzare la tensione, che palpabile
s'era sostituita all'aria della stanza nel momento in cui Lanie era
uscita dal camerino e tutte avevano definitivamente preso atto che
stava per sposarsi. Ne derivò che, quando la proprietaria
dell'hotel
si materializzò tra loro invitandole a seguirla, non ci
furono altri
pianti o contrattempi emotivi.
«Lo sposo la attende, signorina
Parish»
Sotto lo sguardo gioviale di Mrs Nasser, la proprietaria,
e quello decisamente più composto di sua madre, Lanie
lasciò che
Kate le appuntasse il velo, e si concesse un'ultima rimirata allo
specchio prima di incamminarsi lungo il corridoio. Dietro di lei, il
piccolo esercito di parenti, addetti e damigelle -Kate compresa-
procedeva disordinato, col picchiettare dei tacchi sul parquet a far
loro da colonna sonora. L'assembramento si ruppe non appena
raggiunsero l'androne, col giardino che faceva capolino dall'angolo
di portone spalancato appena visibile dalla loro posizione. Lo stesso
portone di legno che Kate aveva l'impressione la stesse spiando,
minaccioso e imponente, oltre la colonna dietro cui lei stava
pazientemente attendendo il proprio turno. Troppo distante per
restituire lo sguardo, poteva tuttavia sentire il mormorio indistinto
della gente verosimilmente assiepata lì fuori, appena
qualche metro
più avanti, in trepidante attesa del loro arrivo. Non aveva
avuto
modo di vedere l'allestimento finale, essendo arrivata quando ancora
i camerieri stavano disponendo le prime sedie sul prato sotto il
gazebo, e questo non fece che aumentare la sua ansia. Sarebbe
riuscita a non cadere? Sarebbe stata capace di arrivare fino alla
fine di quel tappeto di petali senza cedere all'impulso di
scappare?
Vide la madre di Lanie allontanarsi con altri membri del
gruppo e sparire oltre l'uscio, segno che la cerimonia sarebbe presto
iniziata e che tutti, eccetto sposa e damigelle, dovevano affrettarsi
a prendere posto. Ancora pochi istanti e la marcia nuziale avrebbe
preso a suonare, segnalandole che era giunto il momento di aprire le
danze. Si guardò brevemente intorno: accanto a lei ormai
solo Jenny
e Marla, e Lanie ovviamente, insieme all'onnipresente signora
Nasser.
«Sei pronta?»
Lanie, profondamente concentrata sulla
delicata operazione dell'alternare l'inspirare all'espirare, parve
sobbalzare quando Kate si rivolse a lei, ma tutto il suo stupore
morì
rapidamente nella dolcezza di un nervoso sorriso sbocciato a fior di
labbra.
«Credo di sì»
Kate le strizzò con forza la mano,
decisa a infonderle un coraggio di cui in verità non era
certa di
disporre attualmente, ma negli occhi di lei lesse la gioia e non ebbe
dubbi che, a dispetto del suo tono incerto, il resto di Lanie era
più
che pronta a quel matrimonio.
E lei, lei era davvero pronta a
uscire lì fuori? La sua mente continuava a ripeterle di
sì, ma le
mani erano in chiaro disaccordo, intente a torturarsi e torturare il
piccolo bouquet di rose bianche e lavanda. Il bouquet sbagliato, si
disse, mentre l'aroma le invadeva prepotente le narici fino a farle
girare la testa. Gelsomini e fiori di ciliegio: quello sarebbe stato
giusto. Il che le ricordò che anche febbraio non era il mese
adatto:
la primavera infatti avrebbe dovuto fare da sfondo a qualunque cosa
la aspettasse là fuori.
No, non era pronta.
Fu un fruscio di
stoffe a riportare la sua attenzione alla realtà e alla
sposa
-quella vera-, che sotto preciso ordine di Mrs Nasser era andata ad
occupare l'ultimo posto di quella sontuosa carovana composta da lei,
Jenny e Marla. E con un moto di sgomento dovette faticare per far
notare alla propria mente quanto insensati fossero quei pensieri, e
ricordarle che quello era il matrimonio di Lanie, non il suo.
Nonostante sentisse che la stessa agitazione che imporporava
-legittimamente- le guance di Lanie, fosse attualmente dipinta sul
proprio di viso, sebbene in realtà non potesse vantarne
alcun
diritto. Intercettata l'amica con lo sguardo, le rivolse un sorriso
d'incoraggiamento, dietro cui nascose il senso di colpa che l'aveva
di colpo investita, tentando di rimettersi addosso i panni della
damigella d'onore e svestire quelli di qualunque cosa il suo cuore
cercasse di farla sentire in quel momento. E tuttavia, un attimo
prima che la musica la raggiungesse, quello stesso cuore si
premurò
di farle notare come, in realtà, non avesse avuto occasione
di
vederlo neanche una volta da che era arrivata all'hotel,
così che
quello di fronte all'altare sarebbe stato il loro effettivo primo
incontro dopo mesi di silenzi, caricando quel momento di ulteriore
attesa che, tirando a indovinare, avrebbe persino potuto superare
quella di Lanie e del suo futuro sposo.
Il che, ridicolmente, la
fece sentire ancora di più come la diretta interpellata di
quella
marcia nuziale che aveva appena iniziato a suonare.
Percepì solo
con gli occhi il cenno del capo della proprietaria che la invitava a
muoversi, mentre la testa era troppo impegnata a ricordarsi di
alternare ad ogni passo un respiro, onde evitare un'insufficienza
d'ossigeno prima dell'arrivo.
Se Kate avesse potuto vedere Castle,
avrebbe capito di non essere l'unica a provare la buffa sensazione
d'essere lei la protagonista di quella corsa all'altare. Avrebbe
visto le sue gambe impegnate in un'impercettibile quanto nervosa
danza, di cui le mani, sfregate senza sosta l'una contro l'altra,
scandivano il ritmo. Avrebbe spiato il disagio degli occhi, incapaci
di fermarsi a riposare su un punto abbastanza agevole da chiamare
casa, costringendolo piuttosto a guizzare con lo
sguardo a
destra e a sinistra, incespicando ogni qual volta nel suo viaggio si
posava erroneamente su di lei. E avrebbe poi scorto i rapidi e
intermittenti movimenti del suo torace quando, con profondi e
spezzati respiri, riemergeva da apnee che non sapeva d'aver tentato,
e l'espressione di irritato sgomento quando s'accorgeva d'esser
ricaduto in un altro digiuno d'aria.
Se avesse potuto, ma non
poteva. Poiché non alzò mai gli occhi, non
finché non ebbe
compiuto l'ultimo passo almeno.
Procedette invece lungo la navata,
aprendo la strada a Jenny e a Marla, e tutto ciò a cui
poté
aggrapparsi per evitare di crollare, e tradire così la
propria
agitazione, era il bouquet, stretto nella morsa d'acciaio delle sue
dita. Ad ogni passo la ciocca in cima alla testa minacciava di
sfuggire all'intricata tela dell'acconciatura, allentandosi sempre un
po' di più, e Kate avrebbe voluto redarguirla, interrompere
il
fastidio di quel delicato sfregamento contro la propria fronte, ma
temeva che a reggersi con una sola mano al suo appiglio odoroso
sarebbe crollata. Quando infine giunse di fronte all'altare furono le
sue gambe, immuni dalla schiavitù del cuore, a evitarle la
pessima
figura dell'occupare il posto ritualmente spettante alla sposa, di
cui condivideva quantomeno lo stato d'animo se non il ruolo, e a
spingerla un po' più a destra nel posto che invece spettava
a lei,
semplice damigella d'onore. La fonte di tanta confusione le stava ora
dinnanzi, e pure con cinque metri e due sposi a dividerli, i loro
sentimenti erano talmente ingombranti da schiacciare lo spazio
circostante al punto da far quasi avvicinare l'altare e il prete,
quel tanto che bastava a far sì che entrambi, nello
sfarfallio di un
istante, riconoscessero negli occhi dell'altro la consapevolezza
curiosamente condivisa d'essere in un punto troppo pericoloso per
loro, quasi sull'orlo di un burrone, in cui le uniche alternative
erano tuffarsi o rimanere seduti ad aspettare. Forse per qualche
minuto, forse per sempre.
La cerimonia per fortuna procedette
comunque distesa e senza intoppi.
E talora qualche momento di
commozione la spinse persino a concentrare la propria attenzione sui
due protagonisti, per il resto ostinatamente ed egoisticamente
concentrata su un altro di smoking, quello del secondo
testimone.
Nonostante quella cura nello studiarlo però, non seppe
mai se Castle si fosse tuffato o meno nel loro personalissimo mare
emotivo. Lei sicuramente non lo aveva fatto, preferendo ancora una
volta la strada più prudente e meglio delineata: quella
dell'attendere al sicuro, al riparo dall'imprevedibilità
delle
correnti che avrebbero in un istante spazzato via ogni sua
possibilità decisionale futura. E dentro di sé
sapeva d'averlo
fatto più per paura di scoprirsi capace di nuotare in quel
mare
inesplorato, che per timore di non esserne in grado. E tuttavia, pur
non tuffandosi, non trovò neanche mai il coraggio di
smettere di
immergere i propri piedi nell'acqua, e di chiedersi come sarebbe
stato tuffarsi dentro quelle due pozze cristalline che la stavano
silenziosamente e discretamente fissando di rimando.
Quando il
prete infine dichiarò Lanie ed Esposito “marito e
moglie” la sua
attenzione le concesse l'ultimo dei suoi rari scarti, consentendole
di dare a quel momento -e ai suoi due amici- l'importanza che
meritavano. Si commosse nel sorriso eccitato di Lanie, si sciolse
nello sguardo umido di Esposito, gioì nel vedere quegli
sguardi e
quei sorrisi fondersi nel primo loro, appassionato, bacio
coniugale... Ma di nuovo, al separarsi di quelle labbra, sul
sottofondo di uno scrosciante applauso generale, le sue ultime
energie si dissiparono non nel battere le mani a tempo con gli altri,
ma piuttosto nell'intercettare lui ancora una volta, dipingendo
quella scena finale con un ultimo loro sguardo.
Preceduti dai
novelli sposi, lei insieme agli altri cinque occupanti della scena si
incamminarono infine lungo il corridoio erboso -per l'occasione
improvvisatosi navata- tra petali di fiori, chicchi di riso, applausi
e urla. E per uno strano scherzo del destino, che spinse Ryan -primo
testimone- a intercettare Jenny -seconda damigella-, portandosi al
suo fianco e catturandola in un abbraccio che valse loro il primo
posto di quella passerella umana, l'ordine venne invertito e Kate si
ritrovò a camminare accanto alla persona più
sbagliata: Castle.
Con
poco spazio a disposizione e un'andatura confusamente accelerata, le
loro dita finirono irrimediabilmente con lo sfiorarsi più e
più
volte ad ogni passo, in una scarica elettrica che l'attraversava da
parte a parte: dalla mano destra a quella sinistra, ancora salda al
bouquet. Quando infine mossero l'ultimo passo di quella sfilata, il
primo impulso fu quello di separarsi: decisi e senza esitazioni, uno
da una parte e uno dall'altra. Eppure, nell'istante in cui la brezza
fredda di febbraio tornò a lambirle la mano, lì
dove prima s'erano
posate le sue dita, l'urgenza di prolungare quel contatto si fece di
colpo più impellente di quella di sfuggirgli, prendendo la
forma di
un suono che, come un seme maturato nella gola, si fece strada verso
alla bocca, fino a fiorire nel suo nome. D'altra parte quel suo
bisogno non sembrò trovare riscontrò in Castle
che, pur fingendo di
non averla sentita, non riuscì però a impedire
alle proprie spalle
di irrigidirsi prima di proseguire diritto per la propria strada, in
una determinazione che Kate tradusse come il più chiaro
degli inviti
a non cercarlo.
Per un secondo valutò di assecondarlo in quella
che, forse, si sarebbe rivelata la scelta migliore per entrambi, a
dispetto della vocina nella sua testa che, imperterrita, continuava a
chiamare il suo nome. Alla fine comunque Kate non poté che
arrendersi a quella voce, conscia che l'impulso a parlargli era
troppo forte per resistervi per un'intera giornata, così
come quello
di toccarlo e di guardarlo senza dover ricorrere a languide occhiate
rubate.
«Castle fermati, non puoi evitarmi per sempre. Hey sto
parlando con te!»
Stretti i pugni contro i fianchi accelerò il
passo. E sebbene la sua andatura fosse alquanto affrettata, Kate non
ebbe particolari problemi a stargli dietro, forte anche di quella
particolare abilità di correre sui tacchi maturata in tanti
anni di
lavoro come detective. Un'unica sosta in effetti la
rallentò, quella
necessaria ad abbandonare il bouquet sulla prima superficie che
incontrò sulla strada, e che la costrinse a girare l'angolo
con
qualche secondo di scarto rispetto a lui: il proprio arrivo preceduto
dall'ennesimo, perentorio, richiamo. Fu allora che la vide.
Il
sapore ancora fresco del suo nome sulle labbra, smorzato dall'amaro
di quella visione: Castle, finalmente arrestatosi, accanto a quella
che, senza ombra di dubbio, doveva essere Laura. Si bloccò a
metà
strada, seguendo l'esempio di polmoni e cuore che, solo dopo parecchi
interminabili istanti, riprese a pomparle violento il sangue nelle
vene.
La donna, di cui possedeva solo l'ombra tuttavia vivida di
una voce, s'era ora vestita di un corpo tutt'altro che irrisorio,
ornato d'un delicato vestito blu ardesia che contrastava
armonicamente con l'incarnato luminoso e la chioma corvina. Riconobbe
i tacchi vertiginosi con cui Castle l'aveva dipinta ai suoi occhi, in
un portamento rilassato e sereno con cui lei non riusciva a
immedesimarsi, specie se immaginandosi accanto a lui, che era invero
sempre stato capace di d'investirla d'una agitazione tutta
particolare ed estatica.
Concessasi un paio di secondi
supplementari per smaltire lo shock, comprese di colpo la fretta
dell'uomo come di colpo ne condivise l'urgenza di sospendere ogni
loro contatto. Tuttavia ciò che lei aveva vissuto come
lunghissimi
minuti non erano state che frazioni di secondo il che, unito al modo
tutt'altro che discreto con cui aveva chiamato in precedenza il suo
nome, le fecero realizzare con orrore che non solo non sarebbe potuta
sparire senza destare sospetti, ma che con la sua irruenza aveva
attirato anche l'attenzione di Laura, la quale aveva preso a guardare
nella sua direzione con un cipiglio curioso in volto.
«Rick,
tesoro. Credo che quella donna laggiù ti stia
cercando»
Come
paralizzata, Kate rimase ferma nella sua posizione a osservare il
dito della donna alzarsi e puntare diritto verso di lei, seguito
subito dopo dal viso di Castle che, ormai in trappola, non
poté fare
a meno di voltarsi a guardarla.
«Oh, Beckett, ciao!»
Il tono
di finta noncuranza di cui si vestì quella frase la
colpì con tutta
la forza e l'irritazione di un pugno allo stomaco, mentre una parte
di lei -quella razionale- lo stava invece ammirando per il modo
encomiabile, e apparentemente disteso, con cui era riuscito a
dissimulare l'intera faccenda. D'altra parte lei, del tutto
impreparata a quell'incontro, dovette fare appello a tutte le sue
forze per decidersi a muoversi e uscire da quell'impasse alquanto
imbarazzante. E mentre malvolentieri si apprestava a raggiungerli, si
dette della stupida per non aver considerato
quell'eventualità, che
in realtà era più una certezza considerato che,
essendo
perfettamente al corrente che stavano ancora insieme, il portare al
matrimonio la propria ragazza -e qui il cuore di Kate fece una
capriola- sarebbe stata una mossa più che ovvia da prevedere.
«Devi
scusarlo, è sempre così distratto»
«È vero, ma potrebbe
essere anche colpa di tutti quei brindisi con i ragazzi, prima della
cerimonia»
Una risata cristallina si levò dalla donna di fronte
a lei, stemperata dal sommesso sorriso del suo compagno, e Kate si
sentì in dovere di partecipare a quel surreale scambio di
ilarità,
sorridendo a sua volta nel modo più naturale che le
riuscì.
«Comunque io sono Laura, piacere. La fidanzata dello
svagato, qui presente. E tu se non sbaglio sei una delle damigelle
della sposa...»
«Sì, piacere Katherine Beckett»
«Oh ma
certo, Beckett! L'amica poliziotta di Lanie che lavora a Washington!
Ho sentito dire grandi cose sul tuo conto»
L'entusiasmo sincero
con cui furono pronunciate quelle parole la lasciò di
stucco, certa
che quel primo incontro si sarebbe consumato sotto il segno della
circospezione e del disagio, e non dell'aperta cordialità.
Eppure le
sue spiccate doti investigative non colsero alcun segno di ipocrisia
nel suo atteggiamento né altro di avverso, se non
un'eccessiva
espansività tipica di quella categoria gente solare e
genuinamente
spensierata, di cui Kate aveva sino ad allora ritenuto Castle l'unico
sopravvissuto rimasto.
Nel ringraziarla di quei complimenti, Kate
comunque continuò a soppesarne le parole, indecisa se
sentirsi più
lusingata o più svilita dalla poca apprensione che quella
donna
sembrava nutrire nei confronti del suo passato con Castle. Qualche
altro minuto e un paio di frasi scambiate, la portarono infine a
concludere che con tutta probabilità Laura non avesse idea
di che
lei fosse -o fosse stata- per Castle, certa che tanta spigliatezza
non sarebbe potuta essere naturale neanche in una
personalità del
genere. E di nuovo Kate si sentì combattuta tra due
sentimenti
contrapposti: tra il sollievo cioè d'essere scampata a un
incontro
potenzialmente molto imbarazzante, e lo strano risentimento
repentinamente maturato nei confronti di Castle, che sembrava non
aver ritenuto il loro passato qualcosa di sufficientemente importante
da metterne a parte la nuova arrivata.
«Scusatemi è il lavoro,
devo rispondere. Torno subito»
Lo squillo di un cellulare giunse
a mettere fine a quel surreale quadretto di vita sociale,
costringendo Laura ad allontanarsi e contemporaneamente Rick e Kate
ad avvicinarsi in un inevitabile e necessario confronto. Non prima
però di aver condito la scena d'un rapido e sgradevole bacio
a
stampo di commiato, che attorcigliò le budella di Kate con
tanta
violenza da farne riversare la bile all'esterno, dritta sulle sue
parole.
«Lei non hai idea di chi io sia, vero?»
«No»
«Come
è possibile che non sappia nulla di noi?»
«Quando l'ho
incontrata era già da un pezzo che non esisteva
più un noi,
Kate. Inoltre non è una fan dei miei libri»
Il fatto che Laura
non fosse una sua fan, sebbene sufficiente a farle perdere qualche
punto ai suoi occhi, non era per Kate un'informazione esauriente,
essendo la sua domanda mirata a sapere come lui avesse potuto non far
neanche cenno a lei in tutti quei mesi, più che al come lei
potesse
essere tanto estranea al loro mondo da non averne mai sentito mai
parlarne. Non seppe dire se lui non avesse davvero inteso il senso
della sua richiesta, o se avesse deliberatamente virato sui libri per
evitare di rispondere. Ad ogni modo, dopo averlo sentito
puntualizzare quel noi a denti stretti, non ebbe
più cuore di
approfondire la faccenda. Specie perché al momento c'erano
questioni
più urgenti da dirimere.
«Rick ho bisogno di parlarti, ti
prego»
«Sinceramente Kate, non credo ci sia nulla di cui
parlare»
«Nulla, davvero? E quello che è successo a
Washington
lo chiami nulla? Non puoi fare finta che non sia accaduto niente,
Castle!»
«Non faccio finta, Kate. So perfettamente cosa è
successo, e cioè ci siamo fatti trascinare dagli eventi e
abbiamo
commesso un errore. Fine della storia. Per cui come vedi non
c'è
nulla di cui parlare»
«Tutto qui? Trascinati dagli eventi, un
errore... Andiamo Castle, non ti sembra troppo semplicistica come
storia. Sappiamo entrambi che non è il tuo genere»
«Le persone
cambiano, Kate. A volte. Ora scusami, c'è un matrimonio in
corso e
vorrei andare a congratularmi con gli sposi»
Da quando Castle
l'aveva lasciata da sola in mezzo al giardino, Kate aveva deciso di
interrompere ogni contatto sociale con chiunque. Una decisione
temporanea la sua, e terribilmente egoistica -ne era consapevole-, ma
necessaria affinché nessuno si accorgesse dei suoi occhi
rossi e le
chiedesse spiegazioni. Un ritiro preventivo, atto a proteggere il
giorno di Lanie ed Esposito dai suoi problemi, ma soprattutto a
preparare lei -era inutile negarlo- al prossimo inevitabile incontro
con Castle. Per tutta la durata dell'aperitivo, allestito nel piccolo
portico adiacente al luogo della cerimonia, Kate s'era dunque
rifugiata in un angolino appartato del muretto di cinta: abbastanza
vicina da seguire i movimenti del convito, ma sufficientemente
lontana da non venirvi coinvolta. L'unica eccezione era consistita
nella rapida e calcolata incursione al tavolo delle bevande, grazie
alla quale Kate si era accaparrata il gelato calice di bianco,
custodito ora gelosamente tra le proprie dita. I suoi venti minuti di
tranquillità vennero fatalmente interrotti dall'arrivo di
Ryan, una
presenza tuttavia neutrale e che Kate si scoprì sinceramente
lieta
di accogliere nella propria solitudine.
«Beckett»
«Ryan,
ciao!»
Abbandonato il suo tesoretto alcolico per un istante, Kate
scese dal muretto su cui era appollaiata per arricchire quel saluto
di un allegro abbraccio, che l'ex collega non tardò a
ricambiare. Un
gesto inusuale per loro, ma giustificato da una lontananza prolungata
a cui nessuno dei due, a dispetto del tempo trascorso, era ancora
totalmente abituato.
«Ti trovo benissimo!»
Si separò da lui
per concedergli una rapida occhiata, mentre il suo corpo aveva
già
riguadagnato posizione nel suo sedile di fortuna e presa sul
bicchiere di vino. Non passò molto tempo prima che l'amico,
liberatosi dell'impaccio della giacca, arrivasse a farle compagnia
sedendosi a sua volta.
«Anche tu sembri in forma, un po' stanca
forse... A Washington vi fanno faticare, eh?»
L'ultima frase
venne palesemente aggiunta per smorzare la profondità di
quell'appunto sulla stanchezza, che Kate imputò alla vista
del suo
sguardo, evidentemente ancora non del tutto scevro di lacrime. Una
premura che apprezzò particolarmente, avendo colto in essa
la
preoccupazione dell'uomo per il suo stato e contemporaneamente tutta
la delicatezza e la discrezione che facevano di Ryan l'amico prezioso
che era.
«Diciamo che a volte rimpiango la flemma dei killer di
New York»
«Posso immaginarlo, anche se credo che Washington ti
porti a idealizzare un po' troppo il crimine di New York... Forse lo
hai scordato ma anche i nostri assassini sanno essere particolarmente
creativi, se vogliono»
Quello scambio di battute si perse in una
risata condivisa, che andò a riempire lo spazio vuoto di cui
Kate
aveva faticosamente tentato di circondarsi fino a quell'istante.
«Ho
saputo di Jenny, congratulazioni. Sarai eccitatissimo all'idea,
immagino»
«Grazie! In effetti non sto nella pelle. Non pensavo
che dopo quello che ci ha fatto passare Sarah Grace i primi tempi
sarei stato così ansioso di tornare ad avere a che fare con
coliche,
pappe e notti insonni... ma a quanto pare l'istinto paterno annebbia
la mente»
Un'altra risata tornò ad increspare le labbra di Kate,
fomentata dalla smorfia comparsa indisciplinata sul viso dell'amico,
probabilmente al ricordo dei suoi drammi neo-paterni.
«Ah, eccovi
voi due!»
«Jenny!»
La conversazione venne interrotta proprio
dall'arrivo di Jenny, quasi fosse stata richiamata dalle loro parole.
Approfittando dell'ilare distrazione dei due, si era infatti
avvicinata a loro con discrezione, ed era passata inosservata
finché
lei stessa non si era annunciata parlando. Ryan, la giacca malamente
gettata su una spalla, non aveva sprecato neanche un attimo per
balzare giù dal muretto e guadagnarne il fianco.
Adesso che
l'aveva di fronte, Kate si prese qualche minuto per studiarla, con
una cura che non aveva potuto prestarle prima: perché seduta
durante
il cambio d'abiti della sposa, e perché semplicemente meno
interessante di altri durante la cerimonia. La pancia non era che
accennata, una lieve curvatura sulla striscia di tessuto che le
avvolgeva il ventre; sarebbe facilmente passata inosservata a chi non
vi avesse ricercato intenzionalmente i segni d'una gravidanza, come
lei. E tuttavia il suo viso era più eloquente di qualunque
rotondità, roseo e florido come appena baciato dal sole,
nonostante
si fosse in inverno: una stagione tutt'altro che coerente con la
solarità che sprigionava da ogni poro della sua pelle. Nel
guardarli
adesso, con Ryan a cingerle la vita con un braccio, in un
inconsapevole abbraccio protettivo, Kate fu colta da un inatteso moto
di tenerezza, fiera, e quasi onorata, di esser stata testimone di
quell'amore fin dai suoi albori, quanto Jenny non era ancora che la
metà della coppia aperta di Ryan. Come
lui stesso aveva
candidamente sottolineato in passato, durante un caso che l'aveva
vista sorprendentemente coinvolta.
«Il pranzo sta per essere
servito, Lanie e Javier mi hanno chiesto di venirvi a
chiamare»
«Grazie, tesoro. Vogliamo andare allora?»
Il
braccio era stato porto a Jenny, ma il resto di Ryan aveva invece
posto quella domanda a Kate, ancora indugiante sulla soglia del suo
rifugio. Ma non c'era scelta, doveva seguirli. E del resto non
avrebbe potuto nascondersi lì tutto il giorno, né
voleva farlo: era
il matrimonio dei suoi migliori amici, dopotutto. Forte di una nuova
determinazione -per cui, per qualche motivo, sentì di dover
ringraziare Ryan- si decise quindi ad alzarsi e a seguirli oltre il
giardino, dentro la sala ricevimenti dove la festa li attendeva.
A
dodici anni i suoi genitori l'avevano portata in vacanza in Italia.
A
dispetto della suggestività dei paesaggi e delle campagne
toscane,
il suo animo di bambina aveva trovato maggiore soddisfazione
nell'esplorazione dell'agriturismo in cui soggiornavano, e dove i
suoi genitori -dopo parecchie rimostranze- si erano infine convinti a
lasciarla in occasione di escursioni particolarmente faticose, e meno
appetibili quindi per la figlia. In quegli sprazzi di esotica
solitudine, Kate aveva finito per fare amicizia con la figlia dei
proprietari e, in breve, con il resto della piccola ma ardita
compagnia di coetanei che sembravano affollare le camere di quella
provvisoria sua dimora. Superate le difficoltà delle
barriere
linguistiche, grazie a quella particolare capacità, tutta
infantile,
di non notare le diversità altrui percependole come un
problema,
s'erano lanciati in avventure che non richiedevano necessariamente
l'uso della parola, finendo con l'instaurare una singolare afona
amicizia. Un gioco in particolare aveva occupato i loro pomeriggi
più
afosi, le cui regole vennero apprese grazie all'intervento mediatore
del proprietario che, tra una spiegazione in italiano e una in
inglese, aveva concesso loro di cimentarsi in divertenti sfide a
carte: un gioco noto come “Lupus”.
Con il peso di troppi anni
a gravarle sulla memoria, Kate non era certa che avrebbe saputo
prendervi parte adesso con la stessa abilità di allora, e
tuttavia i
ruoli almeno le erano rimasti ben impressi per la loro
particolarità:
così, a seconda della carta estratta, vi erano i semplici
passanti,
i lupi -il cui obiettivo era quello di eliminare ad uno ad uno i
primi con un abile e discreto gioco di sguardi-, e il cacciatore,
chiaramente votato alla ricerca dei suddetti predatori.
Mentre la
portata principale del pranzo veniva consumata, Kate -tra una
chiacchiera e un boccone- continuava a pensare a quel gioco e, pur
non capacitandosi del perché, aveva il forte sospetto che
quella
passeggiata lungo il viale dei ricordi avesse a che fare con
l'intensissima guerra di sguardi che si stava compiendo a quel tavolo
da quasi due ore, da quando cioè ognuno aveva preso posto
scoprendo
la carta assegnatagli. Si era così venuto a instaurare un
inquieto
equilibrio: loro due, inevitabili membri dello stesso branco, intenti
a scambiarsi occhiate eloquenti e sguardi fuggevoli ma fin troppo
insistenti, in un'evidente distorsione delle regole, tale per cui non
minacciavano di morte gli astanti ma sé stessi e il proprio
autocontrollo. E il cacciatore tra loro, nelle rassicuranti e
voluttuose vesti di Laura, inconsapevolmente preposta alla ricerca di
un canale comunicativo che neppure sospettava esistesse, confidente
in una ferrea sicurezza di sé o semplicemente nell'ignoranza
circa
il passato del suo uomo e della donna che gli sedeva di fronte. E
così, a parte loro, nessuno dei presenti sospettava nulla,
vittime
tutte inconsapevoli di quel conflitto a fuoco tra iridi che avrebbe
facilmente potuto trasformarsi in un massacro se solo una piccola
scintilla di consapevolezza avesse attraversato gli occhi del
cacciatore.
«Prima di passare alla prossima portata, faremo una
pausa. Nel frattempo fate un bell'applauso e accogliamo tutti il
primo ballo degli sposi»
La voce del cantante del gruppo -una
piccola band neo-melodica le cui cover avevano conquistato Lanie
già
ad un precedente matrimonio- si levò sopra il festoso
frastuono di
stoviglie, posate e chiacchiere gioviali, attirando l'attenzione di
tutti i presenti. Dal fondo della sala che -con una magnifica vetrata
affacciata sul giardino a fare da sfondo- accoglieva il tavolo degli
sposi, emersero quindi Lanie e Javier, i quali un po' impacciati, una
per l'abito l'altro per l'agitazione, raggiunsero il centro della
sala, incoraggiati dalle urla e dagli applausi dei tavoli
intorno.
Quando infine fu soddisfatto della loro posizione, il
cantante abbandonò i toni irruenti dello speaker per passare
a
quelli suadenti che più si confacevano al suo ruolo, e ben
presto
l'atmosfera nella sala cambiò. Lanie e Javier, evidentemente
poco
pratici dei ritmi rilassati di un lento, dopo un inizio un po'
incerto iniziarono però a carburare, e ben presto la coppia
prese a
volteggiare abilmente per la pista. Kate conosceva già le
doti
danzerecce di Esposito -avendo avuto modo di apprezzarle durante i
talent annuali della polizia a cui immancabilmente lui e Ryan si
esibivano- e conosceva la passione di Lanie per le discoteche e per
il ballo, che in tempi meno rigidi aveva condiviso con lei. Tuttavia
vederli in quella veste, di sposi e ballerini insieme, era uno
spettacolo nuovo e attraente, specie perché mai, anni
addietro,
avrebbe potuto immaginarseli così: felici e innamorati,
cullati
dalle note di una canzone così lenta da scontrarsi con
l'effervescenza delle loro personalità.
Col passare dei minuti lo
scenario cambiò, e dopo una breve sostituzione di partner
per Lanie
-che passò da Esposito al padre, e poi di nuovo ad Esposito-
alla
coppia principale se ne aggiunsero pian piano tante altre,
finché i
tavoli non iniziarono a svuotarsi e la pista a riempirsi. E al
cambiare dello scenario, arricchito di volta in volta da nuovi
protagonisti o da diversi appaiamenti dei precedenti, anche i ritmi
cambiavano, con un frizzante altalenio tra motivi dance e melodie
romantiche che in breve contagiò quasi la
totalità della sala.
Compresi Castle e Laura.
Nel vederli alzarsi, mano nella mano, e
prendere poi a loro volta parte alle danze, Kate si sentì
trafiggere
al petto, per l'ennesima volta quel giorno. Se già doverli
osservare
a tavola era stato un boccone duro da digerire, adesso doverli
guardare piroettarle gioiosamente davanti agli occhi si stava
rivelando quasi impossibile da sopportare.
Indugiò nell'alzarsi
per il semplice fatto che la sua posizione attuale le garantiva una
certa discrezione, essendo rimasta da sola in quel tavolo, tale da
permetterle di poter continuare a godere della vista di Castle senza
timore di essere scoperta, approfittando della confusione generale da
cui tutti sembravano distratti. Tutti, tranne Castle, che di tanto in
tanto, quando la folla lo permetteva, spiava oltre la spalla della
sua compagna per restituirle lo sguardo, con un intensità
che valeva
più di qualunque parola Kate avrebbe potuto sperare di
sentirsi dire
da lui.
Desiderio, questo leggeva infatti nei suoi occhi.
Desiderio e turbamento.
E per quanto si ripetesse che non era
possibile -sereno com'era tra le braccia di Laura-, e che anche
essendo vero non avrebbe fatto alcuna differenza per loro, Kate non
riusciva a smettere di crogiolarsi in quella consapevolezza. La
consapevolezza che dopotutto, per quanto lui l'avesse definita una
storia semplice, quella di Washington -lungi
dall'essere
semplice- era una ferita ancora aperta.
Fu un bacio infine a
farla desistere da ogni proposito. Qualunque idea malsana stesse
tentando di affacciarsi alla sua mente, venne spazzata via
dall'incontro delle loro labbra -un incontro decisamente più
appassionato di quello a cui aveva assistito precedentemente in
giardino- e che le fornì la dose di dolore necessaria a
farla alzare
dalla sedia. Un'ultima occhiata languida, sfuggita erroneamente al
suo controllo, andò a colorare i suoi occhi, riflettendosi
poi in
quelli dell'uomo,e certa che a lui non fosse sfuggita Kate
accelerò
il passo, fuggendo letteralmente dalla sala.
Varcato l'uscio, ben
poche prospettive le si aprirono dinanzi e, visto il rossore che le
infiammava le guance, concluse che il bagno sarebbe stata una scelta
più idonea del giardino. La prospettiva di rinfrescarsi si
tramutò
infatti in un'urgenza, e raggiunti rapidamente i servizi,
aprì al
massimo il rubinetto del piccolo lavello marmoreo, lasciando che il
getto d'acqua fredda le imperlasse le dita. Lentamente prese poi a
picchiettarsi la faccia con le mani umide, non potendo permettersi di
sciacquarsi davvero considerate le quantità di trucco che
aveva
addosso. Quando alzò il capo per incontrare il riflesso
nello
specchio, ringraziò di non riuscire a distinguere se quelle
sul suo
viso fossero lacrime, gocce d'acqua o un insieme di entrambe. Il suo
orgoglio non avrebbe retto a un altro pianto.
Le ci vollero
parecchi minuti prima che si sentisse pronta a uscire e tornare alla
festa, e quando finalmente si disse soddisfatta del suo aspetto e
predisposta a un secondo round, si augurò con tutto il cuore
che il
momento delle danze si fosse concluso. Avrebbe preferito mille volte
doversi sorbire la faccia di Laura di fronte a un buon pasto, che
vederla ancora abbarbicata a Castle. Troppo presa da quei pensieri,
si accorse a malapena della presenza appostata fuori dalla porta del
bagno, e saltò in aria quando una mano le planò
con violenza sul
braccio, afferrandola con una forza bruta e non necessaria.
«Castle,
fermati. Mi fai male!»
«Vieni con me»
Il tono della sua voce
era duro e perentorio, quanto la presa sul braccio: le dita talmente
spinte in profondità nella sua carne che Kate era quasi in
grado di
sentirne le protuberanze ossee delle falangi premerle contro le vene.
Nella concitazione del momento, pose tuttavia in secondo piano il
dolore che aveva preso a irradiarle l'arto, cercando piuttosto di
capire il perché di quel gesto, e soprattutto di indovinarne
le
intenzioni, ora che aveva preso a trascinarla per il corridoio,
verosimilmente verso le scale.
«Si può sapere dove mi stai
portando?»
La voce le uscì meno combattiva di quanto avrebbe
voluto, ma a giudicare dallo sguardo febbrile che gli illuminava gli
occhi, Kate dubitò che il tono di voce avrebbe potuto
sortire alcuna
differenza: parlare non sembrava infatti essere una priorità
per
lui, attualmente troppo concentrato a trainarla al piano di sopra.
Solo quando raggiunsero una stanza nell'ala destra dell'hotel -in cui
lei non aveva mai messo piede, ma che tirando a indovinare doveva
aver ospitato il cambio d'abito dello sposo-, Castle finalmente si
decise a lasciarla andare, non prima di averla cacciata a forza al
suo interno e d'essersi richiuso la porta alle spalle.
«Si può
sapere che ti è pres-»
«Devi smetterla, Kate! Smetterla di
guardarmi, e di cercarmi... Smettila! Dammi tregua, per l'amor di
Dio!»
«Lo dici come se fossi l'unica a farlo, ma siamo in due
Rick! Anche tu mi guardi, e mi cerchi! Non dare la colpa a me di
qualcosa che in realtà vuoi anche tu!»
«Io voglio essere
lasciato in pace, Kate! Questa è la sola cosa che
voglio!»
«E
io non ti credo!»
Vide la sua mascella fremere e le labbra
tremare, pressate l'una contro l'altra con tanta violenza da ridurle
a nient'altro che una sottile fessura nel suo volto. Le mani, strette
a pugno, caddero pesanti lungo i fianchi rendendo la sua figura
ancora più rigida, e lo sguardo s'impregnò di
collera,
incupendosi.
In poche altre occasioni aveva visto Castle in quelle
condizioni, ancora meno erano state quelle in cui una tale rabbia era
stata diretta verso lei. Persino nelle loro peggiori litigate, l'ira
era sempre stata stemperata da un'amorevolezza di fondo e dai
silenzi, di cui loro erano abili fruitori: altrettanto incisivi delle
parole certo, ma meno violenti. Prevedere cosa sarebbe venuto dopo,
fu dunque per Kate impossibile. E poi d'improvviso quella furia lui
gliela scaraventò addosso.
Nella violenza della sua presa, nel
modo rude in cui la sollevò, nella mancanza di accortezza
con cui
poi la depose sulla superficie fredda del mobile bar... ogni suo
gesto trasudava rabbia e frenesia. Anche quei baci, appassionati e
roventi, di cui la stava adesso inondando non avevano nulla di
amabile: sapevano solo di sangue e disperazione. Nulla a che vedere
con la tenera e struggente passione che li aveva sorpresi a
Washington mesi prima: quella che stava per consumarsi adesso era la
resa dei conti, in tutta la sua ferocia. In quella foga, nel veemente
sollevarsi della gonna, ostacolo inaccettabile, lei e Castle non si
stavano preparando a fare l'amore, stavano litigando, si stavano
odiando... Dando voce a quel confronto necessario, ma non per questo
meno doloroso, che lei aveva cercato sin dalla fine della cerimonia,
e che lui le aveva strenuamente negato fino ad ora.
Il corpo di
lui era adesso completamento adeso al suo, talmente vicino che Kate
poteva indovinarne ogni curva e sporgenza anche attraverso la spessa
e ruvida fattura della stoffa del suo vestito. E in quella
prossimità, Kate non poté più ignorare
il desiderio che stava
ormai consumando entrambi, reclamando a gran voce appagamento.
Febbrili, le dita si avventurarono verso il basso, sotto la
cintola, alla ricerca di quei bottoni che ostinati ancora si
frapponevano al loro piacere. Con suo enorme disappunto
quell'operazione le richiese più tempo del previsto, avendo
una sola
mano a disposizione, poiché l'altra era stata catturata da
quella di
lui, in un intreccio graffiante ancorato al muro sopra la sua testa.
Quando infine riuscì a liberare la prima asola dal suo
ospite, e
carica di compiacimento si apprestava già a liberare le
altre due
con più determinazione di prima, tutto di colpo si
fermò, e da che
quasi non riusciva a respirare -con il petto pressato dai suoi
pettorali e la bocca a rubarle di baci i pochi scampoli di ossigeno
che riusciva a racimolare- Kate si ritrovò improvvisamente
spoglia,
circondata da più spazio e aria di quanto le fosse
necessario.
Quell'improvviso apporto di ossigeno in esubero quasi le fece
girare la testa, e fu con lo sguardo ancora intontito e ubriaco di
passione che si guardò intorno, tentando di capire cosa
avesse
spinto Castle, a un passo dalla meta, ad allontanarsi con tanta
violenza da lei.
«Non ti fermare...»
La voce le uscì
boccheggiante, ancora in riserva d'ossigeno, ma non ottenne nessuna
risposta. Indispettita, con la frustrazione che cedeva rapidamente il
passo alla confusione, seguì allora lo sguardo dell'uomo, in
piedi
di fronte a lei, che con ancora la sua mano stretta tra le dita ne
osservava ora un punto preciso con sconvolta curiosità.
Quando
la consapevolezza mise radici nella mente di Kate era ormai troppo
tardi per ritirare la presa, e lo stesso sconcerto di lui
arrivò a
devastare anche il suo di sguardo.
«Cos'è questo?»
Il tono
confuso era condito di una nota sufficientemente incisiva d'ira. Kate
ne fu spaventata e tentò inutilmente di ritrarre la mano,
mentre lui
di contro aumentava la presa sul suo polso.
«Ti ho chiesto
cos'è!»
Strappato con violenza l'intreccio delle loro dita dal
muro che le aveva sinora ospitate, Castle le aveva adesso sbattuto
davanti agli occhi il quadrato di pelle incriminata, con una forza e
una veemenza tali da rendere inutile ogni tentativo di divincolarsi
di Kate.
Sentì le ossa scricchiolare sotto la circonferenza
delicata del polso, e dovette mordersi l'interno di una guancia per
impedirsi di gemere.
«Non
è nulla, solo uno stupido tatuaggio! Vuoi lasciarmi andare
adesso?»
«Sappiamo
entrambi che è più di questo, Kate!»
Con
la stessa irruenza con cui l'aveva afferrata poco prima -in un impeto
ben più piacevole di quello attuale- Castle le
restituì infine la
mano.
Sentire il sangue tornare a circolare lungo le sue dita fu
un sollievo doloroso, che Kate tentò di lenire
massaggiandosi
delicatamente la zona di pelle arrossata. Nel farlo istintivamente il
polpastrello del pollice percorse in lunghezza la piccola linea del
tatuaggio, reo d'aver scatenato l'ira dell'altro, lasciando che il
senso del tatto registrasse, ancor prima della vista, ognuna delle
sei piccole lettere che insieme componevano la parola “always”,
marchiata indelebilmente nel suo polso. Piccola, quasi impercettibile
per un occhio non attento, seguiva parallela la linea della vena: una
promessa, un simbolo di qualcosa che le era entrato in circolo e di
cui mai avrebbe potuto disfarsi.
Poteva capire la reazione di
Castle,era prevedibile, e tuttavia non se ne era mai davvero curata:
nessun altro, eccetto loro due, avrebbe potuto riconoscere il reale
valore di quella parola all'apparenza insignificante, e d'altra parte
fino a qualche mese fa era stata convinta che lui non avrebbe mai
più
avuto modo di avvicinarsi a lei tanto da notarla.
Si era
sbagliata, evidentemente.
Quella notte, a Washington, era stata
fortunata: un bracciale, il buio e la passione del momento l'avevano
protetta. Ma adesso, senza maschere e con gli animi a nudo l'uno di
fronte a l'altra, e col sole a baciare ogni centimetro delle loro
pelli, aveva peccato d'ingenuità nel non mettere in conto
quella
scoperta.
«Maledizione Kate, sei tu che mi
hai
lasciato! Che diritto hai di rimpiangerlo adesso? Che diritto hai
di... questo!»
Evidentemente
turbato, Castle camminava adesso avanti e indietro, coi pugni chiusi
ad agitarsi in aria contro nessun obiettivo in particolare, eccetto
per quel breve istante in cui uno di essi andò a scontrarsi
con
forza contro la parete, per la fatica richiestagli dal pronunciare
quell'ultima parola.
Seduta sul suo giaciglio di legno, con il
cestello del ghiaccio ormai sciolto a farle compagnia, e il vestito
ancora malamente sollevato oltre le ginocchia, Kate lo osservava,
turbata e scossa da quella reazione, mentre ostinata ordinava alle
lacrime di tornare indietro. Indecisa su cosa fare, e non ricevendo
nessun indizio da lui -silenziosa presenza di fronte a lei-, scese
allora dal mobile, si sistemò il vestito e
indugiò poi nel
fissarlo, attendendo che facesse o dicesse qualcosa che li tirasse
fuori da quell'impasse.
«Quando lo hai fatto?»
Riprese
a parlarle qualche minuto dopo, vietandosi categoricamente
però di
guardarla negli occhi. E Kate, sentendo le sue gambe cedere, ritenne
opportuno sedersi di nuovo: il mobile che prima l'aveva ospitata era
però ancora rovente della loro passione, il che non lo
rendeva un
luogo ospitale, e alla fine non trovò nulla di meglio del
pavimento.
Si sedette così contro la spalliera del letto, lasciando che
il peso
intollerabile del suo capo gravasse sul materasso e non più
sul
collo, già troppo provato.
«Qualche
settimana dopo essermi trasferita a Washington»
«Perché?»
La
rabbia di Castle sembrava essersi notevolmente ridotta: il tono si
ammorbidì, le mani si aprirono in un incerto tremolio, e un
sospiro
rassegnato ne addolcì la piega dura delle labbra. La
tensione si
alleviò al punto che l'uomo osò persino venirle
vicino, sedendosi
accanto a lei, pur ben attento a non sfiorarla mai.
«Perché mi
hai cambiato la vita. Coi tuoi libri già prima che ci
incontrassimo,
dopo rimanendomi ostinatamente vicino, e ancora adesso, Rick, tu me
la cambi. Ogni volta che ho una decisione difficile da prendere, o
che vivo un brutto momento, non riesco a non chiedermi “Cosa
farebbe Castle?” o
“Cosa mi direbbe
lui?”.
Quando ho un caso complicato la mia mente d'impulso ripercorre tutte
quelle teorie strampalate con cui mi hai riempito la testa negli
anni, non mi forniscono praticamente mai la soluzione, ma in compenso
mi aiutano ad aprire la mente, a ragionare fuori dagli schemi. Come
mi hai insegnato tu. Tu mi hai cambiato la vita, Rick, in un modo che
non credevo possibile. Hai lasciato un segno indelebile in me, per
sempre...»
Con uno sbuffo di ilarità che in nessun modo
suonò
allegro, le labbra di Castle si incresparono in un riso amaro, e la
ridicolezza di quella situazione vinse persino sui suoi propositi di
non voltarsi a guardarla. L'occhiata che si scambiarono fu comunque
ben lontana dall'essere rassicurante per Kate.
«Malgrado ciò, tu
mi hai lasciato andare Kate»
«Sì, l'ho fatto, ma non perché
non ti amavo abbastanza. Anzi, è perché ti amavo
troppo, e avevo
paura. Tutte le persone a cui tengo si feriscono, muoiono o mi
lasciano. Dirti di sì, quel giorno al parco, avrebbe
significato
abbandonarmi completamente a te, includerti a pieno titolo nel mio
mondo, e a quel punto non avrei avuto più difese e se tu mi
avessi
lasciato... »
«Non lo avrei mai fatto.»
«Non puoi saperlo»
Le avversità che aveva dovuto affrontare in passato la
spinsero
a rispondere istintivamente a quella frase, con i residui di cinismo
della sua vecchia vita che ancora trovavano modo di riemergere in
situazioni ad alto coinvolgimento emotivo, come quella attuale.
Bastò
però uno sguardo all'uomo accanto a sé, per far
sì che i toni si
smorzassero.
«Ma sì, forse non mi avresti mai lasciato, non
volutamente almeno. Ma sai come sono fatta, lo sai forse anche meglio
di me: non riesco a non pensare al peggio, specie quando le cose
vanno bene. Non riesco a non pensare alla fine, perché sono
abituata
a vedere le cose finire. So che avrei potuto avere la mia
indipendenza e questo lavoro e te, lo so adesso, ma allora ero troppo
spaventata anche solo per provare a immaginarlo, e ti ho lasciato
andare... E di questo mi pentirò per sempre.»
Non seppe dire se
a spingerla a proseguire in quella, già oltre i limiti,
presa di
coscienza fosse stata l'incapacità di fermare la propria
ugola dal
parlare -ora che finalmente le era concesso di farlo per la prima
volta-, l'aver maturato quella consapevolezza solo adesso, o lo
sguardo di Rick e il modo in cui era mutato durante il suo discorso,
tale da indurla a covare una sciocca e rediviva speranza in un loro
futuro. Ciò che fece fu semplicemente smettere, per una
volta, di
mettere paletti ai propri desideri, e le parole scivolarono leggere e
indisturbate fuori dalla sua gola, senza alcuno sforzo.
«Io ti
amo, Rick, ti amo ancora. E tu? »
Si sentì sciocca
nell'ascoltare la propria voce formulare quella frase e porgli quella
domanda così infantile, eppure così logicamente
bisognosa di
risposte. E istintivamente la sua mano cercò conforto e si
posò su
quella di lui, adagiata sul parquet a qualche centimetro di distanza,
e nonostante qualche attimo di rigida esitazione, alla fine le sue
dita si rilassarono, in un gesto che Kate tradusse come una resa ad
accoglierla.
La resa durò poco tuttavia, giusto il tempo
necessario all'altro per metabolizzare quella domanda e vederne, in
tutta la loro pericolosità, le implicazioni.
«Non ho intenzione
di risponderti, perché so già che la risposta non
mi piacerebbe. E
dirlo ad alta voce non servirebbe a nulla, se non a rendere tutto
questo ancora più complicato»
Con uno scatto rapido delle gambe,
Castle si alzò, allontanandosi da lei e deciso senza ombra
di dubbio
a mettere fine a quella discussione.
«Rick...»
«Devo tornare
di sotto adesso, e anche tu»
«Rick, ti prego!»
Di fronte al
suo sguardo implorante -consapevole che ormai tentare di
salvaguardare l'orgoglio era sforzo vano- Rick sembrò per un
attimo
capitolare, ma alla fine fu più determinato di lei nelle sue
intenzioni.
«No, Kate. Di sotto c'è una donna che mi aspetta,
una donna onesta e intelligente, che non si merita niente di tutto
questo... Abbiamo entrambi le nostre vite da vivere, e nessuna delle
due prevede più la presenza dell'altro ormai»
Le voltò le
spalle e si diresse verso la porta della camera, a passo di carica.
Kate dal canto suo rimase immobile, seduta nello stesso angolo di
parquet, con la testa voltata verso di lui che invece non la guardava
più. E che non la guardò nemmeno quando, con la
mano già sulla
maniglia della porta, riprese a parlare.
«Sai Kate, io non
rimpiango nulla di quei cinque anni, e forse quello che sto per dire
ti sembrerà assurdo... E in effetti lo è,
perché non saremmo le
persone che siamo senza quella parte della nostra vita che abbiamo
condiviso. Eppure sono convinto che se la Kate e il Rick di oggi si
conoscessero, adesso per la prima volta, senza un passato come il
loro alle spalle, si piacerebbero, e stavolta avrebbe funzionato.
Sarebbero stati solo una comune donna e un comune uomo davanti a un
comune caffè, a parlare di sé e a scoprirsi,
innamorandosi ad ogni
parola. Rick senza dubbio. E forse adesso avremmo il nostro lieto
fine, il nostro Always.
Forse eravamo le persone giuste, Kate, ma era il momento ad essere
sbagliato. E di questo non ha colpa nessuno, né tu
né
io»
Quell'ultima frase le si abbatté addosso, pesante come un
macigno, e nel momento in cui il rumore della porta sbattuta contro
il telaio di legno segnalò la sua uscita dalla camera, le
lacrime
presero a scenderle copiose lungo le guance e giù fino al
vestito,
punteggiandolo di piccoli nei umidi e scuri. E Kate non poté
opporvi
resistenza.
In quel trambusto del suo animo, sentì a malapena la
porta riaprirsi, mentre la mano tremante si alzava nel vuoto a
ghermire l'aria per posarsi poi spasmodica sulla bocca, a soffocare i
singhiozzi del suo cuore.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Come Home -Parte II ***
i
Come
Home -II Parte
And
right now
there's a war between the vanities
But all I see it's you and
me
The fight for you is all I've ever known
(Come
Home - One
Republic)
Kevin
Ryan aveva
sempre avuto un rapporto privilegiato con i numeri.
Forte di una
particolare dedizione allo studio, e di uno spirito competitivo tutto
irlandese che lo costringeva ad eccellere
quantomeno a scuola
nel confronto con le sorelle, per il resto sempre in netto vantaggio
su di lui per una mera questione anagrafica, Kevin aveva infatti
scoperto fin da bambino un'intensa e promettente alchimia con la
matematica. Nel corso degli anni, molte volte s'era ritrovato a
pensare che, se non fosse entrato in polizia, probabilmente sarebbe
stato proprio lì, verso la matematica, che la vita lo
avrebbe
sospinto.
Kevin Ryan era poi anche un uomo molto scrupoloso, oltre
che un detective dallo spigliato acume, e sin da quando Esposito lo
aveva nominato suo testimone, parecchi mesi addietro, lui si era
calato con estrema serietà nella parte, dedicandosi alla
buona
riuscita di quel matrimonio con forse persino più cura di
quanta ne
avesse riservata al proprio.
E del resto, Javier Esposito sposo
era un fatto ben più degno di nota di Kevin Ryan sposo.
Sicuramente più sorprendente.
Nulla di strano quindi se, nel bel
mezzo di un trascinante ricevimento, con un centinaio di persone a
riempirgli la visuale, i suoi occhi si fossero intestarditi giusto
sugli unici due grandi assenti del momento, che per quanto
significativi non erano in fondo che puntini irrisori in confronto
alla massa di gente che popolava la sala.
Non che la loro
improvvisa sparizione fosse in qualche modo inattesa, o misteriosa:
Kevin aveva messo in conto quella possibilità fin dal
momento
dell'aperitivo, quando aveva scorto quel gonfiore sospetto negli
occhi troppo arrossati di Beckett, e forse persino da prima, quando
Esposito un mese addietro lo aveva messo a parte della recente
ricaduta dei loro due migliori amici.
No, non era l'assenza
in sé a preoccupare Kevin, né le conseguenze a
cui inevitabilmente
avrebbe portato -certo che un confronto tra loro fosse necessario, a
prescindere dalla bontà dell'esito. Ciò che
realmente lo stava
mettendo in ansia da ormai una ventina di minuti era piuttosto la
consapevolezza che quella sua presa di nota non era purtroppo
attribuibile al suo raro talento investigativo, né alla sua
passione
smodata per il calcolo matematico, bensì alla
semplicità di
un'operazione che persino un bambino sarebbe stato in grado di
eseguire, giungendo al medesimo risultato. L'ansia era tuttavia
qualcosa che lui aveva imparato a controllare, se somministrata a
piccole dosi -e di questo doveva ringraziare principalmente Sarah
Grace e l'ingenua incoscienza della sua età. Di fronte a
tuffi
spericolati dal seggiolone, attrazioni fatali verso le prese di
corrente e la minaccia imminente dei primi passi -che avrebbero
mandato in frantumi anche l'ultimo ostacolo alla sua sconsiderata
passione per il mondo-, la scomparsa di due adulti consenzienti non
era che un'inezia, un dettaglio facilmente gestibile da un misero
dieci percento del suo cervello.
Se infatti era certo che chiunque
in quella sala sarebbe stato capace di dedurre che, sottraendo
centotrentuno invitati a un totale di centotrentatré, da
qualche
parte doveva nascondersi il resto di due -e più questo si
nascondeva
più, in effetti, rischiava di rendersi visibile-, era al
contempo
rassicurato dal fatto che la maggioranza di quei potenziali testimoni
non avrebbe trovato la cosa parimenti interessante. Eppure adesso,
incrociando i suoi occhi e vedendoli offuscarsi d'un rapido ma
eloquente scintillio di complicità, quella magra
consolazione a cui
aveva affidato il sereno prosieguo del matrimonio stava iniziando
pericolosamente a vacillare. Se persino Javier Esposito -dal tatto
discutibile e una marcata antipatia per i numeri, e con tutta la
giustificata noncuranza che ci si sarebbe aspettati da uno sposo il
giorno delle proprie nozze- se n'era accorto, cosa avrebbe impedito
anche ad altri, e ad altre sopratutto, di
accorgersene a loro
volta? E sebbene il numero degli interessati alle loro faccende fosse
troppo ridotto per rischiare davvero di minare la buona riuscita del
matrimonio, cosicché il giorno di Lanie ed Esposito sembrava
essere
al sicuro anche senza un suo diretto intervento, rimanevano comunque
Castle e Beckett: in quanto amico, proteggerli era suo compito tanto
quanto lo era proteggere gli sposi in quanto testimone.
Rapido si
era quindi congedato da Jenny -un sorriso e un casto bacio sulle
labbra-, e aveva raggiunto i novelli sposi al loro tavolo, cingendo
da dietro le spalle di entrambi in un abbraccio fraterno che
dissimulasse l'aria di cospirazione che si apprestava a
instaurare.
«Quindi che facciamo adesso?»
La domanda uscì
senza troppi fronzoli. Non servivano premesse: se lui e Javier se
n'erano accorti allora era indubbio che anche Lanie sapesse, e con
tutta probabilità da molto prima di loro.
«Noi non facciamo
assolutamente nulla»
I suoi sospetti furono confermati dal
sentirla rispondere per prima, con una flemma invidiabile nel tono: a
contornarlo, un sorriso disegnato sulle labbra e lo sguardo leggero,
in una delle sue più magistrali interpretazioni
d'indifferenza.
Javier d'altro canto non pareva altrettanto capace, più
simile a un
libro aperto che ad un attore affermato, per giunta con l'indice
fermo sulla pagina più compromettente -e guardandolo Ryan si
disse
ironico che no, non avrebbe avuto alcuna speranza in quel matrimonio
se non avesse imparato al più presto a dissimulare, e bene
almeno
quanto la sua compagna. Anche da dietro, con una scarsa visuale,
Kevin riuscì infatti a vedere chiaramente la sua bocca
contorcersi
in una smorfia contrariata e leggermente basita, segno che non pareva
aver gradito l'intervento della moglie. E anche lei pareva essersene
accorta.
«Senti Javier, anche io vorrei tanto sapere cosa sta
succedendo tra quei due, ma è proprio questo il punto: sta
succedendo qualcosa. Proprio adesso. E di qualunque cosa si tratti
dubito chi ci vogliano tra i piedi, non credi?»
«Sì,
ma...»
«Niente ma. Quindi ora rilassati,
intrattieni gli
invitati e bacia tua moglie»
Sporgendosi leggermente in avanti
scoccò un rapido bacio sul broncio di un poco convinto
Javier,
giusto un attimo prima di alzarsi e d'invitare suo marito a fare
altrettanto.
«Quando quei due torneranno a farsi vedere allora
hai il mio permesso per tornare a giocare al detective»
«Sono un
detective, Lanie. Non gioco io.»
«D'accordo d'accordo, ora
va»
Un colpetto lascivo al fondo schiena e lei lo congedò,
inoltrandosi nel labirinto di tavoli aperto dinnanzi a loro: la sua
figura traballante li accompagnò per alcuni istanti, col
vestito che
ad ogni passo ne minacciava l'equilibrio, in un silenzio che
sembrò
loro opportuno spezzare solo quando ormai non erano più in
grado di
vederla.
«Forza, andiamo a cercarli»
«Ma Lanie ha appena
dett-»
«Ho sentito cosa ha detto Lanie, fratello. E infatti io
non voglio mica star loro tra i piedi, voglio solo assicurarmi che
vada tutto bene, che Beckett non sia in qualche angolo a deprimersi,
e soprattutto che Castle non stia combinando qualche casino»
Ryan
esitò, spostando nervosamente il proprio peso da un piede
all'altro,
con lo sguardo che viaggiava alternatamente tra l'amico -già
proteso
verso la porta- e un punto impreciso della sala in cui, a giudicare
dall'accorpamento di gente e di gridolini eccitati, immaginò
dovesse
trovarsi Lanie.
«D'accordo, ma credo lo stesso che Lanie abbia
ragione. Non è il caso di curiosare»
«Qui non si tratta di
curiosità Ryan, la mia è preoccupazione. E
ampiamente giustificata
oltretutto. Abbiamo visto entrambi Castle stamattina, e non sei stato
tu prima a dirmi che Beckett ti sembrava turbata?»
«Sì, è
vero...»
«Solo un giro veloce, promesso. Se è tutto
regolare
torniamo qui immediatamente. Anche perché se dovesse
scoprirci,
Lanie ci ammazza»
Il
ticchettio dei
mocassini contro il parquet risuonava prepotente nel corridoio, e
Ryan iniziava ad aver l'impressione che le sue stesse scarpe fossero
intenzionate a smascherarlo, generando più rumore del
necessario.
Non sapeva come avesse fatto a farsi coinvolgere in
quella specie di caccia all'uomo, non era mai stata questa la sua
intenzione, fatto sta che ora era lì: al seguito di un
Esposito
particolarmente determinato, forse anche troppo.
A conti fatti
l'amico non gli aveva poi dato ampio margine di scelta: dopo un paio
d'altri fiacchi tentativi di convincerlo a parole, si era
semplicemente voltato, e spedito aveva preso a camminare alla volta
delle scale. E cos'altro avrebbe potuto fare lui, da anni suo partner
nella vita e nel lavoro, se non spalleggiarlo in quell'improbabile
pedinamento? Oltretutto, se pure fosse rimasto alla festa, avrebbe in
ogni caso dovuto affrontare la furia di Lanie prima o dopo, e dopo un
rapido calcolo aveva concluso che preferiva di gran lunga farlo dopo,
di fianco all'amico, piuttosto che prima, da solo senza alcun
supporto o spiegazione esauriente da dare.
Quando infine dal fondo
del corridoio la porta di una camera a loro ben nota si
aprì,
rivelando un viso familiare, Kevin non seppe se sentirsi sollevato o
tremendamente imbarazzato. Esposito d'altra parte non sembrava
essersi neanche posto il problema; piuttosto nel giro di un'istante,
e senza alcuno scrupolo, incalzò l'altro con la domanda
peggio posta
e meno delicata di cui fu capace.
«Castle finalmente, si può
sapere che diamine sta succedendo? E dov'è
Beckett?»
Vide
l'altro sobbalzare al suono di quella voce, evidentemente sorpreso
dalla loro presenza, e gli parse di vederlo esitare qualche istante,
con un'espressione in volto in cui Ryan non fiutò nulla di
buono. Fu
tuttavia questione di secondi: una scrollata di capo sembrò
infatti
bastargli per rimettere in moto il cervello, e i piedi assieme a
quello, e con passo di carica li superò entrambi, parlando
senza
neanche voltarsi a guardarli.
«Me ne vado. Scusami Espo, davvero,
ma devo andare. Tornerò in tempo per la fine della festa,
promesso.»
«Aspetta, che vuol dire che te ne vai! E dove vuoi
andare?»
«Ovunque, ma via da qui. Scusami»
Kevin osservò
Castle procedere senza indugio in quella che, a tutti gli effetti,
poteva essere definita una fuga in piena regola, e se fino ad allora
era stato ancora indeciso verso quale umore dovesse sbilanciarsi
l'ago della sua bilancia, se l'imbarazzo o il sollievo, ciò
che
accadde l'istante dopo a quella riflessione non gli lasciò
più
alcun dubbio: imbarazzo, sicuramente. Dal fondo del corridoio, con
una precisione quasi sospetta, si materializzò infatti
l'ultima
persona che avrebbe dovuto assistere a quello spettacolo: sguardo
spaesato e andatura affrettata, Laura aveva infatti appena svoltato
l'angolo. A nulla valsero i suoi tentativi di richiamare il
fidanzato: apparentemente senza neanche vederla -e tuttavia,
Ryan ne era certo, avendola vista benissimo- la superò in
poche
falcate, passandole accanto con invidiabile indifferenza, e pochi
istanti dopo aveva già voltato l'angolo a sua volta,
sparendo dalle
loro viste.
«Era Rick quello, vero?»
La domanda superflua
uscì quasi da sé, dalla gola di una Laura che
più che contrariata
pareva essere confusa e consapevole insieme.
«Emh,
sì...»
L'imbarazzo e la tensione erano palpabili nella voce di
Esposito, e Kevin sentì chiaramente lo sguardo dell'amico
posarsi su
di sé, in una chiara richiesta di aiuto: tuttavia lui pareva
avere
altro da fare, impegnato nel delicato -e più complicato del
previsto- compito di decifrare Laura, e lo sguardo con cui stava
studiando loro e l'ambiente insieme.
«E dove stava andando?
Sembrava sconvolto...»
«Oh no, era solo di fretta. Ecco lui
sta...lui sta andando a prendere dei parenti di Lanie, sì!
Hanno
avuto un problema con l'auto e sono rimasti in panne, così
Castle si
è offerto di andarli a prendere visto che Ryan è
il mio primo
testimone e mi serve qui. E poi sai, con la Ferrari si fa
più in
fretta, no Kev?»
Disegnandosi forzatamente un sorriso sulle
labbra, Esposito assestò una gomitata decisa all'amico il
quale,
riscossosi brevemente dai suoi pensieri, annuì energicamente
alla
donna, pur ignorando a cosa avesse appena assentito. Qualunque cosa
fosse sembrava comunque non aver riscosso il favore di Laura, il cui
sguardo si era acceso ora di una nuova, strana, luce. Non dovette
passare troppo tempo prima che Kevin potesse darle un nome.
«Ti
ringrazio Javier, il tuo è davvero un nobile tentativo ma a
questo
punto credo sia meglio che io vada. Per favore, dillo tu Rick qualora
dovessi sentirlo, e ancora congratulazioni per le tue nozze»
Un
sorriso di circostanza stemperò la gravita delle sue parole,
ma si
trattava di mera apparenza -e tuttavia non fece una piega: li
salutò
educatamente, e con più calore e sincerità di
quanto si sarebbe
aspettato, e si congedò, abbandonando con passo fermo il
piano senza
mai perdere in dignità. E Kevin a quel punto non ebbe
più dubbi
sull'acume e la grazia di una donna che, evidentemente, tutti loro
avevano ampiamente sottovalutato.
«Vado a chiamare Lanie, pensaci
tu qui»
La voce di Esposito lo riportò alla realtà,
giusto in
tempo per vedere il suo sguardo puntato verso la porta incriminata,
col sotteso e implicito ordine di varcarla.
«Io? E cosa dovrei
fare?»
«Non lo so, parlale... o non parlarle. Solo, tienila
d'occhio finché non arriva la cavalleria»
Non gli fu concesso
tempo per ribattere: si ritrovò solo nel corridoio, con la
sola
compagnia del proprio sguardo che, nervoso, aveva preso a girargli
intorno nella speranza forse che qualcuno -Jenny magari?- facesse la
sua provvidenziale comparsa, salvandolo da quella scomoda
situazione.
Nessuno apparve tuttavia, e dopo un paio di
minuti dovette arrendersi all'idea che quel compito toccava a lui e a
nessun altro. Non che non volesse aiutare Beckett, o parlarle, o
capire cosa stesse succedendo... Ma aveva visto Castle, il suo
sguardo sconvolto... Aveva solo paura di ciò che avrebbe
trovato in
quella stanza, temeva di non essere in grado di poterla aiutare.
Aveva poi anche paura di violare in qualche modo l'intimità
di
Beckett: aveva notato conn quanta cura si fosse premurata di
nascondere le proprie lacrime solo qualche ora prima, e quando le si
era avvicinato aveva avuto la conferma che parlarne non fosse tra le
sue priorità.
Adesso, pensava, la situazione non poteva che
essere peggiorata.
Timoroso entrò infine nella stanza, affondando
ogni passo nel pesante silenzio di cui l'aria s'era resa satura,
scosso a tratti dal leggero sussultare della donna seduta di spalle
ai piedi del letto. Da lì ne poteva scorgere soltanto la
chioma, che
s'alzava e s'abbassava a ritmo di quell'inusuale melodia. Chiuse la
porta dietro le proprie spalle, un attimo prima di vedere la sua
mano, tremante, alzarsi nel vuoto a nascondere i singhiozzi, e la
sensazione di essere di troppo in quella stanza si fece, se
possibile, ancora più forte.
«Beckett...»
Fu più un
sussurro che un richiamo, ma in qualche modo ebbe la sensazione che
la donna ne fosse uscita rassicurata, avendo notato la tensione
scivolarle impercettibilmente via dalle spalle.
Le mani adesso
sfregavano contro le gote, a catturare coi palmi le stille saline che
le avevano invase probabilmente, e solo dopo parecchi di quei
movimenti Ryan la vide finalmente girarsi -seppur lievemente- verso
di lui.
«È tutto a posto?»
Si morse la lingua dandosi dello
stupido non appena ebbe sentito l'ultima sillaba di quella domanda
così retorica scivolargli via dalla gola. Bastava uno
sguardo per
capire che no, non era tutto apposto. E tuttavia, cos'altro avrebbe
potuto dirle -o chiederle- senza apparire indiscreto?
Un timido
accenno di sorriso le solcò però il volto, e Ryan
ne fu
egoisticamente rinfrancato, pur consapevole che, lungi dall'essere
spontaneo, Kate s'era costretta a farlo per aiutare lui.
Seguirono
sguardi e silenzi, accompagnati dallo sporadico sussultare di lei e
dal rumore dei passi di lui che, diligentemente, lo avevano guidato
fino al letto per poi con saggezza consigliargli di sedervisi, giusto
accanto a lei che, posizionata sul pavimento a un soffio da lui,
sembrava essergli grata di quella silente offerta di conforto. Lo
ringraziò strizzandogli brevemente il palmo della mano, in
un gesto
intimo che in tanti anni mai s'erano concessi, ma che suonò
normale
a entrambi, addestrati a volersi bene in un modo professionale ma
ugualmente intenso. Trascorsero così alcuni minuti,
fisicamente
vicini ma mentalmente lontani, con la testa di lei che -Ryan lo
sapeva- era distante anni luce da quella stanza, approdata verso
luoghi a lui ignoti e senza dubbio dolorosi, da cui però non
sentiva
più l'urgenza di strapparla con discorsi vuoti, avendo ora
chiaro in
mente che il suo solo compito in quel momento era attendere che lei
fosse pronta a tornare, e a parlare, di sua sponta -attendere, come
per i migliori detective negli interrogatori più importanti
«Dovrei
alzarmi da qui, è una cosa così
ridicola...»
«Non c'è alcuna
fretta»
«Sì invece, giù è pieno di
sedie comode e invece io
me ne sto seduta qui sul pavimento ghiacciato, perdendomi oltretutto
il matrimonio dei miei amici. E per cosa, poi? Dio, Lanie
sarà in
pensiero... »
«Non preoccuparti di questo, Espo è andato a
chiamarla»
Quest'ultima frase sembrò sortire un effetto
insperato sulla donna che, come risvegliatasi da un letale torpore,
quasi inciampò nella frenesia del rimettersi in piedi,
dimentica
d'improvviso di tutta la fatica che pareva averle ostacolato ogni
movimento fino ad allora.
«No, mio Dio. Sto già trattenendo te
qui, ho già fatto abbastanza. Non finirò per
rovinare la giornata
anche a loro, no. Assolutamente no»
«Beckett, non stai rovinando
la giornata a nessuno. Ti assicuro che sia Lanie che Javier
preferirebbero di gran lunga passare la giornata qui con te che
rimanere di sotto ad ascoltare lo zio Fulgenzio cimentarsi col
karaoke»
Per la prima volta da che l'aveva raggiunta in quella
stanza, Ryan vide l'accenno di una sincera risata fare capolino tra
le labbra di Beckett, e un moto d'orgoglio gli gonfiò
scioccamente
il petto.
«Non è comunque necessario. Io sto bene, beh...
starò
bene. Possiamo almeno fingere che sia così?»
«Sono certo che il
resto degli invitati scambierà i tuoi occhi rossi per
commozione nei
riguardi della sposa»
«Direi che è perfetto. Vogliamo andare
allora?»
«Certa di sentirti pronta?»
«Sì»
Eppure la
sua mano rimase fermamente avviluppata intorno alla maniglia della
porta. A dispetto della sicurezza nella voce, il resto del corpo era
in aperto conflitto, e non ebbe difficoltà a indovinarne il
perché
ancora prima che lei desse un nome alla sua esitazione.
«Castle...
lui è di sotto?»
«In realtà credo se ne sia andato»
«Bene,
andiamo»
Quella risposta si rivelò essere quella giusta, e come
una chiave si intrufolò nella serratura della porta
facendola
scattare, liberandoli entrambi dalla prigionia di quelle quattro
soffocanti mura.
«E, Kevin...grazie»
«Non dirlo neanche.
Solo, Beckett» quel richiamo a un passo dall'uscita gli fece
guadagnare un'occhiata curiosa dalla bruna, ora in attesa, con gli
occhi puntati su di lui «qualunque cosa voi due stiate
combinando
non fateci aspettare troppo, intesi?»
La curiosità lasciò il
posto a un risolino privo d'alcuna ilarità, sullo sfondo di
un
sorriso ben più amaro di quanto si fosse augurato.
«Dubito ci
sia qualcosa da attendere ormai, Ryan»
«Se avessi un nichelino
per ogni volta che l'ho creduto anche io...»
Era un pensiero
sincero il suo, e ai suoi occhi fortemente fondato, tuttavia attese
che l'udito di lei fosse fuori portata per esternarlo: aveva intuito
che la ferita era ancora troppo fresca e profonda per sperare che
almeno lei, in quella coppia di stolti, potesse ragionare con
lucidità e vedere quello che a lui appariva così
chiaro e lampante
da sfiorare quasi il ridicolo. Il rapido cambio di sguardo e di tono,
nonché il subitaneo restauro della solita
formalità -incarnata
dall'aver ripreso a chiamarlo per cognome, dopo un momentaneo slancio
di intimità- lo persuasero ulteriormente circa la
bontà di questa
sua ultima decisione. E anche volendo non avrebbe avuto tempo e modo
di cambiare idea, preceduto dal rumoroso e ingombrante arrivo della
sposa, in una nuvola di bianca e vaporosa agitazione.
«Tesoro,
stavo venendo da te! Cosa è successo? Siete spariti e poi ho
visto
Castle andarsene via come una furia e...»
«Lanie, dopo»
«Ma
Kate...»
«No, questo è il tuo giorno. Dobbiamo solo pensare
a
festeggiare e divertirci. Per il resto ci sarà
tempo»
Lo sguardo
risoluto di Kate non lasciò alternative, e l'amica non ebbe
altra
scelta che piegarsi alla sua volontà. E in quel momento Ryan
fu
nuovamente pervaso da una calda ondata di orgoglio, e non per
sé
stesso stavolta, bensì per la donna che a lungo aveva avuto
l'onore
di chiamare collega e che con altrettanto onore sarebbe stato lieto
di chiamare capitano un giorno, se le cose avessero preso una piega
diversa anni addietro. E in alcun modo riusciva a capacitarsi di
come, dietro la fierezza di quello sguardo, potesse
contemporaneamente nascondersi tutta quella fragilità e
insicurezza
che il rapporto con Castle aveva, negli anni, portato lentamente alla
luce.
«D'accordo allora. Andiamo a bere!»
«Mi sembra un
ottima idea»
Braccio nel braccio le due donne si allontanarono,
con una nuova spensieratezza a guidare i passi di Kate, mentre lui ed
Esposito temporeggiavano sulla porta: il suo sguardo livido, chiaro
segno di una recente sfuriata di Lanie a cui lui, fortunatamente, era
almeno per il momento riuscito a scampare.
«Beh, che ti ha
detto?»
«Niente»
«Come niente? E tu non hai indagato? Ma
che razza di detective sei?»
«Uno che non è in servizio! Prima
la pistola, poi l'interrogatorio... vuoi anche chiedermi di inseguire
il sospettato o pensi di potermi lasciar fare soltanto il testimone
del mio migliore amico oggi?»
«Scusami, hai ragione, è
che..»
«Lo so»
«Ok, ci penseremo più tardi a queste cose.
Oggi si pensa solo al matrimonio!»
«Bene, perché ho un discorso
da fare nei prossimi cinque minuti e con tutto questo trambusto non
ricordo assolutamente più nulla di ciò che dovevo
dire»
Aveva
lasciato
quella camera con l'intenzione di tornare alla festa.
Aveva
lasciato lei in quella camera con l'intenzione di
tornare
dall'altra alla festa.
Eppure, nel momento stesso in cui la
mano aveva accarezzato la maniglia, una scarica d'esitazione lo aveva
pervaso lungo tutto il corpo. L'attimo dopo essersi richiuso la porta
alle spalle l'esitazione era divenuta dubbio, e nell'esatto istante
in cui Laura aveva incrociato la sua strada il dubbio era infine
maturato in certezza: doveva andarsene.
Mai, in nessun modo,
neanche ricorrendo alla migliore delle sue facce da poker, sarebbe
stato in grado di tornare da Laura e fingere indifferenza.
Né
tantomeno avrebbe potuto affrontare nuovamente Kate, quando
inevitabilmente anche lei fosse scesa a raggiungerli, con l'altra
stretta slealmente tra le braccia. E se un briciolo di orgoglio
personale e di riguardo nei confronti degli sposi avevano continuato
ad attardare i suoi passi anche dopo che, risoluto, aveva superato
Esposito, Ryan, Laura e chiunque altro avesse incontrato lungo il
tragitto, ogni traccia d'incertezza era stata poi spazzata via
dall'orrenda presa di coscienza d'aver ingenuamente -e del tutto
inconsciamente- etichettato nella propria mente Kate come la lei
e
Laura come l'altra. Un pensiero inammissibile, non
tanto
perché lontano dalla verità quanto
perché vi era troppo
vicino.
Era, in effetti, la cosa più sincera che si fosse
concesso di pensare da che l'aveva rivista, quel giorno.
Anche
adesso che sfrecciava senza meta per la strada deserta sulla sua
Ferrari, col vento a scompigliargli i capelli e a schiaffeggiargli il
volto -con tanta violenza da impedirgli di scoprire se ciò
che
sentiva scheggiargli le gote erano lacrime o solo fruste d'aria-, non
riusciva a capacitarsi di come la sua mente potesse essere ancora
tanto irrimediabilmente pregna di lei.
Soprattutto non riusciva a
liberarsi del suono della sua voce, e di quelle due parole che da
minuti ormai facevano da sottofondo ad ogni suo altro pensiero: ti
amo.
Glielo aveva confessato con una naturalezza quasi
disarmante, tanto che confessione non sembrava neanche il termine
giusto per descrivere ciò che era accaduto. Nessun
impronunciabile
segreto era infatti stato svelato, nessuna verità disarmante
s'era
di colpo manifestata in quella stanza. Constatazione
sarebbe
stato un vocabolo più adatto. Che in fondo entrambi sapevano
benissimo di amarsi ancora senza alcun bisogno di dirlo, per quanto
strenuamente si fossero impegnati a nasconderlo -chi fuggendo, chi
inveendo contro l'altro. Ed era proprio questo a segnare la
tragicità
della situazione: si amavano e tuttavia s'erano persi. Nel momento
decisivo non erano stati abbastanza: abbastanza forti, abbastanza
coraggiosi, abbastanza fiduciosi...
Eppure, lei lo aveva
detto.
Nonostante l'ovvietà di quella affermazione, nonostante il
dolore e l'orgoglio ferito, lei lo aveva detto. E quel gesto lo aveva
spiazzato più delle parole stesse.
L'aveva guardata, per un
minuto che era parso interminabile, e di fronte a sé aveva
visto la
stessa donna di sempre: bellissima e caparbia, dallo sguardo fatale e
il sorriso salvifico. Un concentrato d'opposti, dannatamente nocivo
per chiunque non fosse stato in grado di possedere contemporaneamente
i suoi occhi e le sue labbra, la sua anima e il suo corpo -come un
tempo a lui era stato concesso. Fino al giorno in cui quella stessa
donna che lo aveva amato, -uccidendolo e riportandolo in vita ad ogni
tocco-, non lo aveva poi messo da parte, fuggendolo e spezzandogli il
cuore, dandogli infine il colpo di grazia.
Solo adesso, a distanza
di anni, quando ormai s'era rassegnato all'idea che nessuna
redenzione sarebbe venuto a trascinarlo fuori dall'inferno in cui era
scivolato insieme al loro amore, lei era infine tornata a salvarlo,
riportandolo in vita ancora un'altra volta, col solo potere delle
parole.
Eppure, nonostante all'apparenza nulla sembrasse cambiato
in lei -nulla a parte l'ospite d'inchiostro inciso sul suo polso-, i
suoi gesti, la sua irruenza, la sua ostinazione a mostrarsi
vulnerabile ai suoi occhi senza più nascondersi, tradivano
la
presenza di una donna nuova, una donna diversa.
Sei ancora
quella che eri, o no?
Quella domanda imperterrita continuava a
riaffiorargli dalle pieghe dell'inconscio, sovrapponendosi alla voce
di lei, facendo a pugni con quel “ti amo”,
amoreggiando
con quel “e tu?”. Ciò
che era peggio, Castle non riusciva
a darsi pace, inabile a capire cosa avrebbe preferito: se scoprire
che Kate era davvero cambiata in quei due anni, o se rendersi conto
che in fondo non era che la stessa donna di sempre, semplicemente
catapultata in una situazione troppo complicata per non uscirne
scalfita.
Del resto, già in passato lei aveva dimostrato d'essere
in grado di annullare le proprie barriere solo volendolo, come quella
sera in cui si era presentata alla sua porta, bagnata di pioggia e di
lacrime, e lo aveva baciato. E in fondo era di quella donna che lui
si era innamorato, per quanto frustrante quella relazione sapesse
essere alle volte.
La strada accanto a lui scorreva rapida, quasi
quanto i suoi pensieri. Forme indistinte e macchie di vegetazione dai
contorni sfumati gli riempivano gli occhi, mentre il piede flirtava
con l'acceleratore un po' di più ad ogni chilometro percorso.
Stava
scappando, non aveva problemi ad ammetterlo. E lei del resto lo aveva
fatto in così tante occasioni che, si disse, come avrebbe
potuto
adesso rimproverarlo per aver invertito i ruoli, una volta tanto?
Anzi, doveva ammettere che solo adesso, in qualche maniera, poteva
capirla: scappare era un gesto vigliacco, non risolutivo e
decisamente immaturo, ma era anche terribilmente ristoratore.
Liberatorio quasi, nella misura in cui, col solo obiettivo in mente
di andare via -ovunque questo via conducesse- si
era in grado
di distrarsi al punto da alienarsi, da scappare persino da se
stessi.
Lo squillo del cellulare interruppe momentaneamente quel
filo di pensieri, riportandolo di colpo alla realtà.
Allentata la
pressione su volante e pedali, iniziò a rallentare fino a
fermarsi
del tutto, al riparo in una rientranza sul ciglio della strada. Non
aveva alcuna intenzione di rispondere, anzi tolse la suoneria mentre
il viso di Esposito campeggiava ancora sul display del telefono. A
convincerlo a interrompere la sua corsa folle era stato piuttosto il
repentino rendersi conto di non riconoscere quasi più il
paesaggio
intorno a sé, segno che si stava allontanando troppo dal
luogo del
ricevimento. Andare oltre, perdersi nelle vastità della
valle o
giungere persino ai confini della città, non gli avrebbe
tratto
alcun giovamento. E d'altronde lui voleva solo una pausa da
quell'ambiente, non era certo una fuga definitiva che cercava.
Sapeva
che presto o tardi sarebbe dovuto ritornare sui suoi passi.
Quel
“presto o
tardi” arrivò in effetti più
tardi del previsto, quando il
crepuscolo aveva già preso a cancellargli l'ombra intorno,
sfiorando
più e più volte le sue scarpe coi timidi raggi di
sole che ancora
sapevano sfuggire indisciplinati al suo controllo.
Il velo scuro
della sera aveva già inghiottito l'asfalto, e sul nero del
bitume
apparivano ora più nitide le stille salate che solo adesso
si
rendeva conto di stare versando da quelli che, a giudicare dagli
umidi indizi, dovevano ormai essere parecchi minuti. Non sapeva se a
guidare l'avanzata di quel pianto fosse il solito dolore ,vecchio
amico di bevute, o qualcos'altro: nel dubbio non ebbe cuore di
impedirgli di fargli compagnia in quella presa di consapevolezza che
stava poco a poco schiarendo i suoi pensieri, incamminatisi su un
sentiero che mai avrebbe pensato di percorrere di nuovo. Mai di nuovo
con lei almeno.
Ma c'era quel sorriso, timido e nostalgico, che
aveva appena scoperto sul proprio viso insieme alle lacrime, e che
non lasciava dubbi. E sebbene la sua presenza non lasciasse presagire
nulla di buono circa il suo futuro stato d'animo, trovava che troppo
bene si intonasse a quel suo pianto per poter pensare di sopprimere
uno dei due, o persino entrambi, suoi compagni di viaggio.
Lui
l'amava.
Seduto contro il cofano dell'auto, con lo sguardo perso
in un tramonto che non stava davvero osservando, era come se ogni
cosa intorno a lui portasse il suo nome, e il suo nome trascinava
irrimediabilmente dietro di sé questa piccola, affilata
verità:
l'amava.
Nel momento esatto in cui si era concesso quel pensiero
-dopo averlo strenuamente ostacolato, convinto che gli avrebbe
divorato l'anima-, e lo aveva abbracciato in tutta la sua
ineluttabilità, era come se un grosso macigno fosse
scivolato via
dal suo petto, e lui si era infine reso conto di quanto stupido fosse
stato a combatterli, anziché semplicemente arrendersi a quei
sentimenti.
Era risalito in auto un momento dopo, e aveva preso a
percorrere la strada del ritorno con una fretta che nulla aveva a che
fare con quella che gli aveva guidato le mani solo un'ora prima. Le
dita, tremanti, scivolavano continuamente sul volante, reso umido
dalla patina di sudore freddo ed eccitato che gli imperlava i
polpastrelli, e dalle lacrime che ancora gli inondavano ostinate le
gote.
Sapeva quanto folle fosse. Sapeva di star rinunciando
definitivamente ad ogni speranza di poter sopravvivere a quella
guerra.
Lei sarebbe partita l'indomani e nulla sarebbe
cambiato. Nessun tentativo sarebbe valso a qualcosa, perchè
era già
finito tutto tra loro -forse anche prima che cominciasse.
Lo
sapeva, sapeva tutto. Ma saperlo non serviva a nulla giacchè
-che
lei ci fosse per un giorno o per sempre, che lo amasse davvero o lo
odiasse, che fosse cambiata o fosse la stessa persona- era lo stesso.
Non faceva alcuna differenza perché lui l'amava.
È questo adombrava
ogni altra cosa..
Tutto ciò a cui riusciva a pensare, adesso che
era libero da sè stesso e dalle regole che si era imposto in
quegli
ultimi anni, era che doveva vederla, ancora e ancora. Finché
avesse
potuto. Finché lei glielo avesse concesso. Finché
il tempo a loro
disposizione non si fosse esaurito. E sperava, pregava, che lei fosse
ancora lì. Perché sì, lei l'indomani
sarebbe ripartita, ma in che
modo questo avrebbe potuto interessare al suo amore? In che modo
questo avrebbe potuto scalfirlo o ridurre in lui il desiderio di
lei?
Sapeva a cosa stava andando incontro, e a che velocità. Il
tachimetro continuava ostinatamente a ricordarglielo, attirando la
sua l'attenzione su di sé forse nel vano tentativo di
dissuaderlo da
una resa che non avrebbe portato alcun beneficio, alcun cambiamento,
se non la possibilità di donargli ancora qualche minuto -o
magari
un'ora, chissà- con lei. Ma non era forse abbastanza? Non
era forse
questo un motivo valido per correre da lei?
Nel migliore dei casi
l'indomani ne sarebbe uscito distrutto, nel peggiore non sarebbe
arrivato incolume neanche alla notte; l'euforica rassegnazione che lo
stava conducendo da lei adesso, avrebbe forse guidato i suoi
passi
il giorno dopo dietro il suo taxi, verso l'aeroporto, incontro al suo
aereo... nell'insano e futile tentativo di impedire una partenza
inevitabile.
Ma il piede non vacillò mai sull'acceleratore, la
mano non esitò mai sul cambio: che in qualunque circostanza,
a
qualunque costo e con qualunque conseguenza, lei ne valeva la pena.
Lei ne valeva la pena sempre.
Elegantemente
accomodata sulla sedia, Kate vagava con lo sguardo per la sala senza
davvero fermarsi a osservare nulla, dimentica di sé e di
tutto ciò
che aveva intorno.
Aveva provato ad affrontare con sé stessa ciò
che era accaduto solo un'ora prima in quella camera da cui lui era
letteralmente fuggito, ma ogni pensiero o conclusione a riguardo
s'erano rivelati semplicemente troppo pesanti da gestire in quel
frangente, dove l'idea di mettersi a nudo col proprio dolore era
inevitabilmente impossibile da attuare. Aveva dunque provato a
concentrarsi sul resto, su ciò che non erano loro,
ma nonostante un inizio promettente aveva capito d'aver nuovamente
fallito quando, dal discorso di Ryan agli sposi, s'era
improvvisamente trovata catapultata nel pieno di una nuova sessione
di balli, incapace di dire cosa fosse successo tra un episodio e
l'altro, e soprattutto che ruolo avesse avuto lei in quel lasso di
tempo che pareva aver rimosso. E quasi avrebbe persino potuto credere
che non fosse affatto trascorsa un'ora tra i due fatti, se a tradire
il trascorrere del tempo non ci fosse stato il crepuscolo, che fuori
dalla finestra stava lentamente inghiottendo ogni ombra sul suo
passaggio.
In quello stato di dolce apatia in cui era lentamente
scivolata gli giungeva solo qualche stralcio di musica di tanto in
tanto, che ovattata la cullava sul posto. Non riusciva a distinguerne
le parole, troppo concentrata a mantenere il silenzio nella propria
testa, ma a giudicare dagli assaggi di melodia che riusciva a
racimolare, sapeva che avrebbe amato quella canzone -se solo si fosse
data pena di ascoltarla.
Persa in quel groviglio d'indolenza
a malapena lo vide avvicinarsi, e solo quando una mano -grande e
forte, e sicura- le fu tesa davanti agli occhi prese coscienza di chi
avesse di fronte, sobbalzando vistosamente per la sorpresa.
Sulle
note di Strangers
in the night l'orchestra
pareva ora sospingerla verso quello che dal di fuori aveva tutto
l'aspetto di un invito a ballare.
Eppure l'uomo in piedi davanti a
lei era lo stesso che solo un'ora prima era fuggito abbandonandola
sul pavimento freddo di una stanza d'albergo, chiudendosi dietro la
porta di quella stessa camera e del suo cuore, e negandole ogni
speranza di poter tornare ad essere felice. Era lo stesso uomo
sì,
ma lo sguardo era cambiato, tintosi di una sfumatura a cui lei non
riusciva in alcun modo a dare un nome.
Si chiese se dovesse
odiarlo. Se dopo quello che era successo, dopo il modo in cui era
fuggito e l'aveva rifiutata, lei dovesse mettere da parte
ciò che
voleva per salvaguardare gli ultimi scampoli del proprio orgoglio
ferito. Si chiese se fosse davvero in grado di ballare con un uomo
che aveva appena frantumato tra le proprie dita il suo cuore, a
prescindere da chi avesse ferito chi per primo.
Ma la propria mano
aveva deciso,già protesa in aria verso la sua, e
ognuna di
quelle domande contava poco adesso che il calore delle sue braccia
tornava a ghermire il proprio corpo.
«Io non capisco...»
«Solo
un ballo. A questo punto, che vuoi che sia»
Non ci furono altre
parole, se non quelle della canzone: incisive e taglienti, parevano
descrivere la loro storia. Due sconosciuti le cui strade s'erano
intrecciate in una notte qualunque, con gli sguardi e i sorrisi e una
palpabile attrazione a far da sfondo al più improbabile
degli
incontri, e l'amore -caldo e accogliente- ad appena un passo, senza
averne ancora la consapevolezza e senza il coraggio di buttarsi per
maturarla. Fino a quella seconda notte, la loro
notte,
in cui la porta era stata finalmente
varcata, rendendo quegli sconosciuti, soli al mondo, un'unica cosa. E
adesso in un ballo rieccoli insieme, l'equilibrio finalmente
ristabilito seppur per il breve tempo di una canzone. E Kate, stretta
al suo petto come se da questo dipendesse la sua intera esistenza,
non riusciva a non chiedersi come avrebbe fatto a lasciarlo andare
quando inevitabilmente fosse giunto il momento, ora che ricordava la
sensazione di stare semplicemente tra le sue braccia, senza
passionali pretese a sconvolgere la dolce semplicità di quel
gesto.
La melodia era cambiata adesso, ma il ritmo dei loro
passi era rimasto immutato, così come il sordo martellare
del
proprio cuore, che non accennava a rallentare neanche adesso che lui
si stava delicatamente allontanando da lei.
Con ancora la presa
ferrea sulla sua vita, percepì ogni movimento del suo corpo
pur
senza avere il coraggio di alzare lo sguardo dal tessuto stropicciato
della camicia di seta finché non fu lui a costringerla a
farlo,
quando posizionò il proprio viso esattamente davanti al
suo.
Nonostante i tacchi, lui la superava di un paio di
centimetri, quel tanto che bastò a far sì che gli
occhi
incontrassero le sue labbra prima delle iridi azzurre. Una sosta che
le costò parecchia fatica e un'aritmia.
Sul viso accaldato
dall'emozione e dal prolungato contatto col tepore del suo torace, il
tocco delle dita lui -venuto a scacciare una ciocca ribelle dal suo
viso- giunse fresco e ristoratore, al punto che un brivido la colse,
scivolandole mellifluo lungo tutto il corpo, fino ai piedi. Con
calcolata lentezza lasciò che indice e medio ne disegnassero
il
delicato profilo, scendendole dallo zigomo verso la curva sottile del
collo: ad occhi chiusi, Kate ne seguiva il tracciato, guidata dal
formicolio che voluttuosamente stava rigenerando i nervi sottopelle,
sopiti da tempo, e che le rimaneva impresso anche quando le dita
avevano abbandonato un angolo di pelle per accarezzarne un
altro.
Lo
sentì esitare all'altezza della gota, in un tremolio di
polpastrelli
che si diffuse al suo intero volto, e d'istinto piegò il
proprio
viso di appena qualche grado, quei pochi millimetri necessari a che
l'inclinazione cambiasse e le dita potessero tornare a scivolare
indisturbate lungo la linea del collo.
In quel tocco sentiva di
starsi gradualmente sciogliendo. Ma ebbe la forza necessaria a
riaprire gli occhi, bramosa di godersi con ogni senso -vista inclusa-
quel risveglio del proprio corpo sotto lo sguardo ardente e
imperscrutabile di lui. Quando quella traversata fu conclusa, conscia
che presto lo spazio sarebbe tornato a separarli, lei tuttavia non si
mosse ancora, lasciando a lui il compito di terminare quella danza in
cui si erano incomprensibilmente lanciati e che in quel tocco si
stava esibendo nell'ultima spettacolare piroetta.
Era la Morte del
Cigno, la fine dello spettacolo: Kate lo sapeva ma non fece nulla per
andarle incontro, rimase invece in attesa del suo arrivo, annunciato
dall'ultimo gesto di Castle, il cui viso si sporse in avanti verso il
suo, accostandovisi, fino a che le loro gote non si sfiorarono.
Fu
appena un sussurro, un mormorio impercettibile confidatole
all'orecchio come il più terribile dei segreti. Il soffio
caldo del
suo alito contro la pelle, già rovente, del lobo la
raggiunse ancor
prima del suono della sua voce, e un' ondata di calore le avvolse le
viscere in un misto di piacere e turbamento insieme. Il dolore
arrivò
dopo, insieme alle sue parole, lame affilate spinte senza
pietà
dentro le sue carni ormai prive di difese.
«Sono stanco
Kate, così stanco... Io mi arrendo, ufficialmente»
Rimase
pietrificata, una statua di sale in mezzo a una pista da ballo
gremita di gente. Unica nota stonata di uno scenario di festa
altrimenti perfetto.
Immobile lo sentì scivolargli via
dalle dita ancora una volta -per l'ultima volta?-, sempre immobile lo
vide allontanarsi, guadagnando l'uscita stavolta per sempre.
La
ciocca ribelle le ricadde sul viso, lì dove prima s'erano
posate le
sue dita.
-----------------------------------------------
Non
mi dilungherò
in scuse che non interessano a nessuno. È passato
un secolo, lo
so. Sono imperdonabile, so anche questo. Estate, studio e mancanza di
ispirazione sono un mix tossico, specie di fronte a capitoli come
questi, così dannatamente difficili per motivi che ancora
ignoro.
L'attesa carica di aspettative e spero di non averle deluse. Mi
auguro che il ritardo degli aggiornamenti non vi abbia scoraggiato
troppo, questa storia finirà è una promessa: un
ultimo capitolo, un
breve prologo e finalmente la vedrete conclusa -spero nel minore
tempo possibile. Nel frattempo, se vorrete, sarò come sempre
felice
di sapere cosa ne pensate.
S.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2703173
|