L'imbarazzante piacere del TuttoTondo

di MedOrMad
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione: L'assoluto bisogno ***
Capitolo 2: *** Mutazione Shopping ***
Capitolo 3: *** Casanova/CasaNuova ***
Capitolo 4: *** L'eleganza del Pigiama ***
Capitolo 5: *** Due per Due ***
Capitolo 6: *** Sotto il cappuccio Verde ***
Capitolo 7: *** Come quando hai sete ***
Capitolo 8: *** Quello che succede in Bagno, resta in Bagno! ***
Capitolo 9: *** I Discorsi Interrotti ***
Capitolo 10: *** Never Smile at The Crocodile ***
Capitolo 11: *** Do ut Des ***
Capitolo 12: *** Mia nonna non vuole ***
Capitolo 13: *** Pan per Focaccia ***
Capitolo 14: *** Fragole e Vongole ***
Capitolo 15: *** Dove? ***
Capitolo 16: *** A Twist in the night ***
Capitolo 17: *** Importuni e in-opportunità ***



Capitolo 1
*** Prefazione: L'assoluto bisogno ***


Preface TuttoTondo
L'imbarazzante piacere del TuttoTondo


L'assoluto bisogno







"Sei tu che decidi quanto tempo concedere alla tua vita. Non lasciare che gli altri scandiscano il tuo tempo. Però ricordati che al mondo non importa se tu sia raggiante o arrabbiata. Il mondo non aspetta che tu ingrani. Impara a sorridere di più e a gioire di più ogni mattina."


by

La mia bisnonna Maria



Ecco, la mia bisnonna era una di quelle vecchie matrone con gli attribuiti, che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno e che vedeva il lato positivo di ogni cosa. Viveva la vita secondo le proprie regole e sapeva leggere le persone come se fossero ricettari da cucina.

Durante la Seconda Guerra Mondiale si è categoricamente rifiutata di condividere il proprio tetto e cibo con i fascisti e ha preteso che le restituissero il suo amato Franceschino - suo marito, di sinistra fino al midollo osseo, che si è fatto una settimana poco piacevole dopo aver dichiarato "Viva il socialismo" in piazza al paese. Lei se l'è portato a casa e l'ha insaccato di epiteti poco carini per non aver usato il cervello, ricordandogli che l'olio di ricino era la cosa minore che gli poteva capitare.

Donna con i controcazzi, la definiremmo oggi.

Amava svegliarsi la mattina presto, col sorriso sulle labbra. L'alba per lei era il massimo della vita.

Apparentemente io da lei ho ereditato solo la costituzione fisica, però.

Io odio svegliarmi la mattina, come credo almeno il 78% della popolazione mondiale, ma soprattutto ho la tendenza a non riuscire a proferire parola per almeno mezza’ora da quando apro gli occhi. Sono anche allergica ad ogni tipo di interazione umana per i primi quarantacinque minuti della mia giornata.


Oltretutto - non lo dico con orgoglio - sono abbastanza sicura che il mio cervello non si inserisca fino a quando non introduco una sufficiente quantità di caffeina nel mio sistema.

Da quanto ho capito è una cosa ereditaria perché sia mia madre che mio fratello paiono avere lo stesso problema. Al contrario di mio padre, invece, che nell’istante in cui suona la sveglia dimostra un’insaziabile necessità di conversare; necessità che va scemando poi nell’arco della giornata, ma che parrebbe implacabile non appena riesce a accalappiare un membro della nostra famiglia.
Ma è in minoranza; di solito finisce con l'allontanarsi borbottando la sua disapprovazione e chiedendosi perché la sua famiglia è composta solo da stronzi. Suppongo che un giorno se ne farà una ragione.

Ritengo che sia da considerare illegale il fatto che si effettuino attività prima delle dieci del mattino: sfortunatamente, però, i potenti della Terra non convengono con la genialità insita in questa mia convinzione. Ragion per cui resteremo tutti assonnati e burberi fino a che io non sarò eletta regina della Terra e cambierò queste assurde usanze.

Personalmente porto ancora i segni dei risvegli traumatici di mia madre: quando avevo sette anni in genere lei, con infinita dolcezza, spalancava la porta della mia stanza starnazzando senza sosta il mio nome. Se ci penso percepisco ancora la rabbia che mi invadeva e il desiderio di prendere a calci le lenzuola pur di sfogare quell’ira implacabile dentro di me.

In questo istante, nonostante siano trascorsi oltre diciassette anni, la sensazione che si fa strada dentro di me è pericolosamente simile a quella che il buongiorno di mia madre provocava allora.

C’è un buio confortevole nella mia stanza. Quel tepore perfetto per coccolare il sonno sacro del week-end e, fino a pochi secondi fa, un silenzio tombale che proteggeva la mia fase REM.

Ma l’incanto del mio riposo è stato odiosamente frantumato dalla suoneria del mio cellulare: Halo della regina del pop, Beyoncé.

Con gli occhi ancora chiusi mi volto sul fianco, muovo il braccio in modo scoordinato fino a che la mia mano si posa sulla fonte di disturbo e, con enfatizzata fatica, lo avvicino all’orecchio.

Io faccio sempre un sacco di scene.

“Mmm?” gorgheggio con fastidio mentre cerco di prolungare di dieci secondi il mio riposo.


Regola d'oro: persevera nel tuo riposo più a lungo che puoi. Ogni istante è essenziale per la tua rigenerazione neurale.
Se la sveglia suona, spegnila e dormi finché non scatta la seconda. E poi la terza. Io di questi tempi rimando fino all'undicesima. Ma io sono una professionista, voi cominciate con due.

“Alzati, culo pesante.” una voce allegra e sicura starnazza dall’altro capo della comunicazione.

Allegro e sicuro non sono cosa buona e giusta prima delle dieci. Anche questa sarà una legge quando sarò regina.
“Bet?” domando io tenendo gli occhi serrati.
“No, sono lo spirito del Natale passato.” risponde lei ironica.
“Simpatica come un dito nel naso, come sempre-”
“Siamo raggianti stamattina! Sei in sindrome premestruale o sei così affettuosa solo con me?”.

Io sono sempre in sindrome premestruale di prima mattina, è ovvio. Credo, però, che sia convinzione comune che il sabato mattina sia pressoché sacro. Lo è per tutti, tranne che per la mia migliore amica che, inspiegabilmente, ritiene di necessitare della mia presenza in questo momento: ciò richiede che io mi porti in posizione verticale e mi diriga all’esterno dell’edificio in cui abito, apparentemente.


“Cagacazzi...” paleso la mia opinione nei suoi confronti sbadigliando, mentre cerco di farla diventare polvere con la forza del pensiero.


"Falla finita. Tanto ti saresti dovuta svegliare tra poco.”
“E perché, di grazia? È sabato mattina! Persino mia madre mi lascia in pace il sabato.”
“Perché ho assoluto bisogno della mia migliore amica!” ridacchia lei divertita.

Lei sostiene di avere assoluto bisogno di me: suppongo come io ho assoluto bisogno di bucarle le ruote della macchina.

“Definisci assoluto bisogno. Perché dal tono della tua voce percepisco che sei fastidiosamente allegra” ribatto rinunciando al sonno e strofinandomi un occhio con un pugno “ il che mi porta a differenti ipotesi e conclusioni. Nessuna delle quali sufficienti a risparmiarti un calcio nel culo quando ti vedo”.
“Tu hai decisamente bisogno di scopare.”

Una cosa da sapere riguardo la mia adorata amica è che lei è assolutamente incapace di stare immobile ma, non amando alcun tipo di attività sportiva, ritiene che il sesso sia la soluzione per un’infinità di problemi: mantiene giovani, fa bruciare le calorie, scarica lo stress e, stimolando le produzione di endorfine, combatte la depressione. Ed è piacevole, il che non guasta. Motivo per cui mi suggerisce di dedicarmi alla suddetta attività almeno un paio di volte in ogni conversazione che abbiamo. Sì, io non sono una persona particolarmente solare, o almeno non lo sono più. E credo di essere anche abbastanza misantropa. O in ogni caso buona parte delle persone che incontro mi stanno sulle palle.

O sono tutti sfigati, o io sono una persona orribile. Sospetto la seconda ipotesi, ma la cosa non mi preoccupa più di tanto.

“No, quello di cui ho bisogno è dormire il sabato mattina, senza che la mia cosiddetta migliore amica mi svegli, vibrando eccitazione da tutti i pori, quando io non riesco a pensare a un solo motivo valido per essere allegri. C’è un tempo orrendo, mi scoppia la testa, ho una relazione sentimentale del cazzo e non so che cosa fare della mia vita . Quindi, a meno che tu non sia stata arrestata e/o non ti trovi in pericolo di vita e/o non sia stata fotografata da un tuo famigliare in posizioni decisamente poco consone per una che ha studiato dalle suore, ti dispiacerebbe lasciarmi in pace?!” .

Prendo fiato con un pesante sospiro una volta finito il mio piccolo sproloquio e attendo che la persona all’altro capo del telefono si offenda per i miei modi scortesi. Ma quella persona è Bet e, fortunatamente o sfortunatamente per me, in tanti anni di amicizia, ha imparato a non farsi sfiorare dai miei modi isterici.

Ovviamente la sua indifferenza mi urta orribilmente: più io mi indispettisco, più lei si distacca e mi lascia sbollire. Io con Bet non posso vincere: lei è sempre due passi avanti a me. E io, come ogni testa calda che si rispetti, cado nelle sue trappole con tutti i piedi.
Ma di questo posso solo essergliene grata: negli anni, avere accanto qualcuno così, mi ha impedito di perdere il controllo e fare a botte più di una volta. Bet non è una psicologa, ma con la mia testa ci gioca come se fossi un Nintendo 64.

“Hai finito? Senti di aver liberato a sufficienza la tua negatività per oggi?” ribatte lei tranquilla.
“Un’ ultima cosa: vai a fare in culo e dimmi che c’è!”
“Wow, ci baci tua madre con quella bocca?”
“Bet…” le sibilo nel telefono con fare minaccioso.

“Ok, troveremo il modo di stillare un po’ di positività nel tuo sangue, non ti preoccupare. Comunque, trascina le tue regali meline fuori dal letto, vestiti e converti quel broncio in un solare sorriso. Ho bisogno di fare shopping, mi serve assolutamente uno spolverino.”

Resto in silenzio a contemplare la demenziale affermazione appena sfuggita dalle labbra della mia migliore amica, e, d’improvviso, sono incredibilmente confusa. Siamo ancora a Febbraio, il che sono certa implichi una temperatura al di sotto dei 15° C. Capirei se si trattasse della nostra amica comune affetta da shopping compulsivo, Jules, ma Bet è abbastanza equilibrata quando si tratta di shopping, e in ogni caso questa sua supposta necessità non sembra essere tanto impellente da giustificare una telefonata alle nove di sabato mattina.

“Non ho più niente da mettere e la primavera è alle porte. Meglio ancora, voglio un cappottino primaverile!” canticchia lei sempre più euforica.
Io, in risposta, mi accanisco sul piumone, affondando le unghie nelle lenzuola e meditando semplicemente di attaccarle il telefono in faccia.
Le persone come me sono anche poco pazienti: una volta ero uno zuccherino che annuiva sempre, restava in attesa di tutti e aveva un livello di sopportazione piuttosto alto. Poi crescendo questi miei deliziosi pregi si sono rivoltati e si sono aggiunti alla mia splendida lista di difetti.

Ora, essenzialmente, io maltollero. Sì, tutto attaccato in un respiro solo, che rende di più l’idea. Jules dice che è una cosa passeggera. E che se non lo è, troverà il modo di curarmela. O mi prenderà a sberle finché non diventerò simpatica.

Bet non si lascia scalfire neppure dalla mia evidente voglia di concludere la conversazione.

“Ho bisogno di te perché lo shopping da sola è noioso. E perché sono stressata da questi fottuti esami.” sospira Bet determinata e mi sembra di percepire una vena di tristezza nella sua voce.  Questo particolare stride terribilmente con la solarità congenita da cui è affetta la mia migliore amica, motivo per cui concedo all’ira che ribolle dentro di me di attenuarsi lievemente.

“Di sabato mattina alle 9?”  incalzo con un po’ più di calma.
“Sì, di sabato mattina alle 9, cazzo! Mi sono svegliata alle 7 e 30 perché ormai sono abituata a svegliarmi a quell’ora e non sono più riuscita ad addormentarmi. Sono rimasta quaranta minuti a fissare il soffitto, pensando a quanto questo esame mi stia risucchiando l’anima. Dai, Med... ti prego, ti supplico, vieni con me. Ho bisogno di fare qualcosa che non sia stare piegata su un libro per qualche ora. Certo, forse il tuo pisolino è più importante di me?”.


Quando uno è una merda, è una merda. E Bet con i colpi bassi è una fuoriclasse. Non posso non amarla ancora di più per questo: è il mio Guru per la malvagità.

Ma a questo punto la voce di Bet si è fatta stranamente aggressiva: ha calato la maschera di allegria e mi sta facendo vedere che è proprio sull’orlo di una crisi.

“Med, seriamente, ho bisogno della mia migliore amica. Mi sto esaurendo.”

 Non riesco a dirle di no, nonostante la mia recente pseudo - agorafobia, non posso negare un po’ di sostegno a una delle persone più importanti della mia vita.
Il mio silenzio sembra permetterle di capire che ha vinto perché, in una frazione di secondo, il colore della sua voce torna brillante ed ogni traccia di tristezza pare svanire. Come se non fosse mai stata lì.

“Allora mi accompagni?” squittisce serena, ora nuovamente sicura di sé e piena di energia, in quella parte di se stessa che meglio padroneggia.
“Preparo il caffè, portami un cornetto alla marmellata…” gorgoglio io spingendo con forza il piumone verso il fondo del letto con le gambe e rabbrividendo per l’inaspettato sbalzo di temperatura. Cerco di spolverare le miei parole con una credibile dose di acidità per non rovinarmi la reputazione, ma fallisco miseramente.
“Sapevo che avresti ceduto..” sussurra lei vittoriosa, e non so se avesse in programma di farsi sentire o meno dalla sottoscritta.

Di nuovo, che merda!

“L’hai fatto apposta, vero?”.
“Fatto cosa, tesoro?” risponde lei.

La posso quasi immaginare, sorriso smagliante, una ciocca di capelli biondi e setosi che le rigira sull’indice della mano sinistra e occhioni blu grandi e sgranati, mentre sbatte le ciglia con innocenza. Che maledetta doppiogiochista.

Bet mi conosce meglio di quanto io conosca me stessa e mi si rigira come un calzino. Potrebbe disegnare a occhi chiusi la mappa della mia anima, le mie passioni e i miei punti deboli. E, per quanto la consapevolezza di sentirsi così interiormente nuda di fronte a qualcuno possa talvolta rivelarsi frustrante ed imbarazzante, oltre a concederle un evidente vantaggio su di me, non cambierei questa condizione per nulla al mondo: lei è la rappresentazione fisica della parte razionale di me.

“Sarò lì tra dieci minuti. Fatti gnocca che magari ti troviamo un compagno migliore di quel perdente che ti porti a letto in questi giorni!”.

Riattacca il telefono senza darmi la possibilità di controbattere.

Sconfitta ripongo il cellulare sul comodino, sbadiglio e alzo entrambe le braccia sopra la testa, allacciando le mani e tirando i muscoli, nella speranza di strizzarci fuori un po’ di quell’energia che mi sarà necessaria per correre da un negozio all’altro. Non serve a nulla. Mi sento ancora più stanca di prima.
Mi lascio cadere all’indietro, sprofondando nel buco tra i due cuscini del mio nuovo matrimoniale e lascio scorrere gli occhi sul soffitto. Il mio sguardo si posa su una crepa nell’angolo. La fisso per qualche secondo, cercando di assorbire la forza che immagino vi sia nascosta dietro: come una fonte segreta di energia. Ma anche in questa improbabile impresa faccio cilecca.
Sorrido arrendevole e comando ai miei muscoli di contrarsi e portare il mio corpo in posizione verticale.
Appoggio i piedi a terra e sento il freddo del pavimento sfiorarmi la pelle. E questo, stranamente, mi offre un po’ di sollievo. Adoro camminare per casa a piedi nudi. Quando lo faccio avverto un inebriante senso di libertà e controllo sulle mie azioni. Il mio umore sta migliorando. Con uno sforzo sovrumano mi sollevo dal letto e mi dirigo verso il bagno. È l’inizio di un’altra meravigliosa giornata.

Mi viene da vomitare!



AN: Ciao a tutti e grazie per avere dedicato un po' di tempo a questa storia. Se vi suona in qualche modo familiare un perchè c'è:  questo racconto è nato da davvero parecchio tempo e, quasi due anni fa, avevo deciso di pubblicarla su EFP nel suo "formato" e "stile" d'origine, senza mettervi mano.
Però, proprio per questo motivo, era rimasta una storia incompiuta.
Dopo lunga riflessione, non essendo soddisfatta dello stile espositivo, di certe "falle" della narrazione e dei personaggi, ho deciso di cancellarla dal sito e revisionarla, adattandola alla me di oggi, al mio stile odierno, per cercare di renderle giustizia e di restare fedele al mio progetto. Non averla terminata mi è sempre dispiaciuto parecchio.

Ecco spiegato il motivo per cui, a qualcuno potrebbe essere parso di averla già letta: era originariamente intitolata "My way".

Io tengo molto a questi miei personaggi e alla vicenda di Med ed è per questo che mi è sembrato giusto cercare il modo di sentirla nuovamente "mia": spero avrete voglia di scoprire come si concluderà questo viaggio.

Spero, soprattutto, che vi farete qualche risata con i personaggi e le bizzarre vicende di questa storia e che, magari, ritrovarete qualche cosa di voi, sparsa qua e là.

Grazie ancora per avere letto e se avete domande o commenti, sono tutti ben accetti!

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Capitolo 2
*** Mutazione Shopping ***


Licenza Creative Commons
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia LIPDTT cap 1 Mutazione shopping



mutazione shopping




Quando hai ventiquattro anni il mondo si aspetta tante cose da te. A volte molto di più di quello che sei disposto a considerare.
Quando hai ventiquattro anni sei legalmente un adulto, una persona che, in qualche misura deve assumersi le responsabilità di quello che pensa e fa. A ventiquattro anni devi sapere chi sei: se ancora non l’hai capito, sei fregato.

Sono un’adulta, sì, ma questa adulta ha dimenticato cosa dovrebbe essere e allora evita: evita i giorni, evita gli sguardi, evita le domande e aspetta le risposte.

E a vivere da soli, si fa presto ad evitare tutto e tutti.
Nel mio minuscolo appartamentino io posso essere una ragazzetta insicura fino a quando mi pare: ma oggi mi trovo costretta ad uscire e a ricordare che ho ventiquattro anni e che sono grande.

Mentre sospiro consapevole di quello che mi aspetta, sento la porta d’entrata sbattere con un suono sordo, seguito da passi rapidi: poi il rumore degli armadietti della cucina che cigolano confermano che ho visite.
Sorrido ed esco dal bagno raccogliendo la felpa che ho lanciato ieri sera sul servo-muto: i miei piedi nudi lasciano degli aloni di umidità sul pavimento della camera e dai miei capelli cascano piccole gocce d’acqua, ma la cosa non mi preoccupa: ho smesso di essere una maniaca dell’ordine e della pulizia dopo i primi 15 giorni in cui vivevo qui. Ora vivo felice nel mio calcolato disordine.

Dal salotto mi ci vogliono circa sette secondi per scorgere una bionda chioma sfrecciare da una parte all’altra del mio minuscolo appartamento.

“ Ma tu bussi mai prima di entrare in casa altrui e trasformare la loro cucina nel tuo regno?” ridacchio io mentre mi strofino i capelli bagnati con un asciugamano. E, indossando un paio di jeans e la mia felpa con lo stemma Universidad de Salamanca, raggiungo la mia amica nella mia mini cucina.

“ Allontanati all’istante dai miei fornelli, Bet! L’ultima volta che hai provato a fare il caffè, ti sei dimenticata di mettere l’acqua. E quella macchia nera sul mio muro ne è l’inconfutabile prova!” proseguo divertita, osservandola mentre cerca di nascondere la polvere marrone di caffè tostato che ha sparso per metà del mio pavimento.
“ Oh Med, eccoti finalmente!” ridacchia lei distratta, cercando inutilmente di porre rimedio al pasticcio che giace sul mio pavimento “ Mi chiedevo che fine avessi fatto.”
“ Beh B., questa è casa mia. E considerato che ho avuto all’incirca otto minuti per uscire dal letto e lavarmi, dove pensavi che fossi? A giocare a pulce con le volpi del deserto?” le domando sarcastica.

Giusto per la cronaca, sarcasmo è il mio secondo nome. Imparerete ad amarmi in ogni caso. O forse no, dato che la sopracitata caratteristica non rende particolarmente amabili. Ma che sono una stronza l’ho già anticipato, quindi, in fondo, suppongo non vi stupirete troppo.

Strizzo gli occhi, mentre la guardo dimenarsi scoordinata in un movimento che ricorda una puzzola che vuole ballare la Macarena.

“ Bet, stai per caso cercando di distrarmi mentre infili con il piede destro il caffè che hai rovesciato sotto il mio tappeto?” le domando sorridendo e l’espressione colpevole che si dipinge sul suo volto è qualcosa di impagabile.
“Assolutamente no! Cosa te lo fa pensare?! Non farei mai una cosa simile!” mi risponde lei indignata, raccogliendosi con naturalezza la cascata dorata che le incornicia il viso; poi, con un rapido movimento del polso, acconcia una perfettamente disordinata coda di cavallo.

Ho sempre adorato i capelli di Bet. Avete presente quelle ragazze con folte chiome naturali e spettinate, eppure sempre perfette? Di quelle che non vedono mai fon o spazzola, eppure, nel loro disordine, sono sempre impeccabili e seducenti? Ecco, Bet è esattamente così.

“Allora vuoi spiegarmi, di grazia, perché ti muovi come la bambina dell’esorcista?” ribatto lasciando cadere l’asciugamano su una sedia e appoggiandomi all’intelaiatura della porta.

“ Ho un attacco di colite...” prova a fingere lei con un’espressione contorta sul viso: se quello sia il suo tentativo di simulare sofferenza o il risultato dell’incapacità di trattenere una risata, non mi è chiaro. So solo che è comica. E pure brutta.

“ Che cosa?” scoppio a ridere “Tesoro, credimi, se tu avessi la colite, considerata la tua soglia di sopportazione del dolore, avrei già ricevuto lamentele da tutti gli inquilini del palazzo. Comunque, deponi quel cucchiaio, che tra parentesi in mano tua è un’arma estremamente pericolosa, e fai due passi indietro. Devo ancora pagare l’affitto, e vorrei evitare di dover sborsare anche per i danni causati da un incendio.”
“ Quanto sei nevrotica! Guarda che il caffè a casa mia lo faccio anche io!” borbotta la mia migliore amica offesa.

“ Si, quello solubile però! Forza, siediti e tira fuori il mio cornetto. E lascia la cucina a chi ci sa stare.” Mi faccio strada verso i fornelli e, raggiungendo la mia amica bionda, le afferro le guance con una mano, stringendo e facendo sporgere le sue labbra e rido al suo mugolo di protesta.

“I cornetti sono nel tostapane” borbotta a fatica prima di spintonarmi per liberarsi dalla mia presa e trotterellare lontano da me.

All’insorgere di uno sguardo di puro orrore sul mio viso lei sorride tranquilla, mentre stacca un acino d’uva dal grappolo deposto nel portafrutta al centro del mio tavolo e se lo lancia in bocca.

“ Scusa?! Bet, dimmi che non hai davvero messo i cornetti nel tostapane?”
“ Ma si erano raffreddati!”

La mia amica è una deficiente.

“ Bet, sei proprio domesticamente handicappata. Ma ti voglio bene lo stesso” le sorrido, estraendo le due brioches - che ormai hanno l’aspetto di schiacciatine debordanti confettura arancione - dal povero elettrodomestico e inizio a preparare la moka.
“ Come sei caritatevole! In ogni caso, si può sapere che fine hai fatto ieri sera? Ti prego, dimmi che non eri a concedere di nuovo le tue grazie a quella sottospecie di decerebrato babbuino che, per rispetto, chiameremo L?”
“ L? In che senso?”
“ L come loser. Che in italiano vuol dire perdente.”
“ Non puoi chiamarlo con il suo nome?” ridacchio immaginandomi una enorme L stampata sulla fronte di David, il mio attuale Friend with benefits: visto il rapporto che abbiamo, ci sta giusto la definizione perché non siamo un gran che friends e i benefits ci sono solo quando gli gira a lui. E non sono neppure benefici di grande qualità, se dobbiamo proprio dirla tutta.

“ No, è uno sfigato. Non merita tanto rispetto da essere chiamato per nome. È un perdente, uno stupido e un viscido. Puoi ricordarmi perché ci scopi?” Non riesco a trattenere la risata e, in fondo, so che lei ha ragione.

“Boh, sarà una cosa di chimica.” rispondo io pigramente mentre recupero il latte dal frigorifero e cerco di addentare quella sorta di schiacciatina molliccia eruttante marmellata che la mia amica ha il coraggio di definire brioche.

Tento è la parola chiave perché mentre spiego che l’ignoranza e la mancanza di sinapsi di L non sono invalidanti per l’unica reale attività che svolgiamo assieme, un rivolo di confettura di albicocca - credo - si fa strada dall’angolo della mia bocca fino a metà del mio collo.

“ Med, quel ragazzo è brutto. È così brutto che il suo epiteto fisso - e qui ti cito testualmente - é gabinetto a pedali!” continua lei facendo il segno delle virgolette con le dita. “E poi è stupido, molto stupido. Dimmi quante conversazioni degne di nota hai avuto con lui in tre anni?”
“ Nessuna” rispondo io senza esitazione, togliendo il caffè dal gas e versandolo in due grosse tazze all’americana.

Io adoro le tazzone di caffè. A essere sincera io adoro tutto quello che è americano. Mi piace la filosofia del tutto big. Forse perchè anche io sono in formato oversize; o magari perché in America sembra tutto più confortevole e più luccicante.

Voi normal size non capirete mai fino in fondo l’orda di goduria e il senso di appagamento che deriva dallo shopping in USA per una che qui è un po’ troppo.
Perché là, pure la sottoscritta, quando entra in un negozio, si sente normale: il mio giunonico corpo trova la taglia per tutti gli indumenti e, improvvisamente il mondo si tinge di rosa. O di verde, visto che cerco di spendere più dollari possibili.

Non giudicatemi, solo lì posso trovare tutto ciò che mi serve.

“Il nostro rapporto è puramente fisico. Non ha abbastanza cervello  per sostenere una conversazione. Ma cosa vuoi che ti dica? Mi fa sesso!”

“ Med, cazzo, ma come fa una cosa del genere a farti sesso? Ha il QI di una cimice ubriaca, ha la fisicità di un Mocho Vileda, si veste come un tronista, e in tutto questo si sente pure figo. Dai, è uno sfigato fotonico!”

Mi fa morire.

Bet se ti deve dire una cosa, te la dice. Punto. Non si cura della forma o delle parole. Si limita a esporti i fatti. Con un tocco di delicatezza che, forse, solo io, lei e Jules, la terza parte di me, possiamo apprezzare.

 Se io fossi Brenda Walsh di Beverly Hills 90210, Jules e Bet sarebbero le mie Kelly e Donna. Non certo per personalità. Ma noi siamo un trio. Loro sono le mie migliori amiche da più di dieci anni. Sono le due parti perfette per completarmi. Talmente diverse tra loro, sotto ogni forma, da incastrasi a pennello con la mia anima.

“ Non lo so, Bet. Io ci provo a farla finita con lui! Ogni volta mi riprometto che sarà l’ultima. Ma quando poi lui viene all’attacco, la mia capacità di resistenza va sotto zero.”
“ Allora deve essere una specie di Priapo!”
“ Ma quale Priapo! A letto non è certo un gran che!”
“ Che schifo! Ma vedi che è un perdente! E poi Med, dai, non hai neanche l’esclusiva! Lo sai che appena può intingere il biscottino lo fa!”

“ Lo so! C’ho messo tre anni ad ammetterlo, ma lo so che si fa tutte quelle che può” dico io, imbarazzata, tenendo lo sguardo basso verso la mia tazza.

Livello di autostima di Med : -340.

Ogni tanto penso che se potessi sdoppiarmi, la me n°2 prenderebbe a calci sui denti la me n°1 per mancanza di dignità e rispetto per se stessa. E, che resti tra noi, a volte sono sicura del fatto che concedo a L le mie grazie solo perché sospetto che il numero di probabilità che altri mi si facciano, diminuisca di pari passi con l’aumento della mia ciccia e dei miei anni.

La scelta è quello o un pisello posticcio: sì, forse il vibratore sarebbe più affettuoso.
Grazie per il suggerimento. Valuterò la cosa.

“ Lo vedi perché sei nervosa, tesoro? Sei sessualmente frustrata, non ti piace quello che studi e stai sempre a dieta! Dai, che vita di merda!” mi risponde lei dolce, accarezzandomi la mano per darmi conforto.
“ E allora cosa dovrei fare?” sussurro io, lasciando cadere le spalle in segno di sconfitta.
“ Cambiare la tua vita!” squittisce Bet tutta allegra, manco avesse trovato la formula per la fusione fredda e io la guardo con aria stupita.

Bionda e scema: è tipico.

 “ Hai ragione!” strillo io fingendo euforia e sorpresa, picchiettandomi l’indice della mano sinistra sul mento.
“Che sciocchina che sono! In fondo è facile come obliterare un biglietto del treno!” e un sorriso finto mi si appiccica sul viso.

“ Ti odio quando fai così! Io sto cercando di darti una mano! Sei infelice, e non cercare di negarlo! E se sei infelice, devi cambiare le cose. Punto. A piccoli passi, Med. Non sarà facile, ma io ci sarò, ok?” mi dice lei seria. Nei suoi occhi leggo la determinazione che la rende tanto speciale e che mi ha fatto impazzire per lei sin dal primo giorno.

Io resto zitta, con la testa china, a osservare le nostre mani intrecciate. Lei mi legge dentro. L’ha sempre fatto. Però non mi dice mai niente. Aspetta che sia io ad andare a cercarla. Mi fa pressione solo quando capisce che sto troppo male per chiedere aiuto di mia iniziativa. Quando la vergogna mi frena, quando sono troppo in basso per farmi sentire, lei mi afferra, mi sorride e, con due parole, mi tocca il cuore.

Questa è Bet.

Riesco solo a sussurrare un timido ok. Sono troppo orgogliosa, cinica e fiera. E quando mi sento esposta e vulnerabile mi chiudo a riccio. Ma chi mi conosce lo sa. Sa che le parole mi si frenano in gola. E un monosillabo è già una conquista. Restiamo in silenzio per qualche minuto. Bet mi sorride, mi stringe un’ultima volta la mano, quasi fosse un tentativo di trasferire in me un po’ della sua forza, poi la lascia.
Io so che ha ragione, ma ammettere che la tua vita ha preso il binario sbagliato fa paura. Ammettere che negli ultimi quattro anni ogni tua scelta non era quella giusta, fa male. E accettare che il castello ha iniziato a crollare quando uno, che merita solo di essere chiamato L dalla tua migliore amica, ha bussato alla tua porta, ti fa sentire ancora più uno schifo. Ma, a volte, è la vita che fa schifo. E, o lo accetti e la combatti, o ti schiaccerà col suo peso.

I miei pensieri sono improvvisamente interrotti da un sonoro “ Merda!” che echeggia nel silenzio delle mie pareti. Alzo lo sguardo e di fronte a me si presenta un’immagine magnifica di Bet con il viso imbronciato, una mano nei capelli, l’altra che stringe la tazza e una serie di grossolane macchie che adornano la sua maglia bianca, fresca di lavatrice.

“ Ma che...? Bet, che hai fatto?” le domando lentamente, con le labbra separate per la confusione.
“ Porca paletta! Ho puciato troppo il pezzo di cornetto e mi è ricascato nella tazza per il peso!” risponde lei altrettanto stupita, ripiegando la testa verso la tazza, con gli occhi larghi e alla ricerca del pezzetto di dolce perduto.

“ E come c’è finito tutto il caffè sulla tua maglia?” domando guardando nella sua stessa direzione.
“ Eh, prova tu a essere un pezzo di cornetto e a lanciarti dalla mia bocca....ha fatto lo tzunami! Maledetto dispensatore di adipe!” afferma lei a denti stretti. Sembra quasi che la brioche abbia minacciato di ucciderle la famiglia mentre, con spiccata cocciutaggine intinge il dito nel caffè e lo fa girare, sollevandolo a intervalli regolari, sperando di ripescare il pezzo di brioche perduto.

Scoppio in una fragorosa risata “ Sai che c’è? Che ne dici se ti allontani dal tuo nemico, prendi una maglia dal mio cassetto, e ce ne andiamo a fare questo benedetto shopping?” ridacchio io, afferrandola per un gomito e spingendola in camera mia.
“Secondo me è casa tua che emana energia negativa! E se la sottoponessimo a un po’ di feng shui?” ridacchia lei frugando tra le mie cose.
“Tieni giù le tue zampe dal mio appartamento. Io e la mia energia negativa stiamo bene così. E se non ci lasci in pace, veniamo a prendere a calci il tuo terzo chakra!
“ Cazzo, come sei aggressiva. Probabilmente in te aleggia solo magia nera.”
Gira sui tacchi ed esce. Io, scuotendo la testa, la seguo e rido.

Forza e coraggio.


Tre ore dopo non mi sento più i piedi, sono accaldata, spettinata e irritata.

In due abbiamo comprato solo un tristissimo maglione grigio, perfetto per casa -come l’ha definito Bet - e una sciarpa, perché era in liquidazione.

Insomma fallimento su tutta la linea.

“Però il mio maglioncino è morbido!” bisbiglia Bet alla mia destra.
“ E la mia sciarpa era economica!” le rispondo senza fermarmi.
“Bet, siamo veramente due principianti dello shopping. Deve esserci qualcosa di mutato nel nostro DNA.” ipotizzo prendendo atto della sconfitta ottenuta durante la nostra uscita. “Mia madre dice che non è naturale per una donna non avere l’istinto  per lo shopping.”
“Nel tuo caso, amica mia, c’è un corto circuito ogni volta che entriamo in una boutique.” riflette Bet appallottolando il suo acquisto con poca cura e gettandolo nella busta di carta che ha appesa al braccio.

“A che ti riferisci di preciso?” domando sospettosa.
“Nello specifico al fatto che entri in un negozio, sostieni che ti piaccia praticamente tutto, provi mezzo reparto, poi esci dal camerino dicendo che ci devi pensare e alla fine compri il capo più brutto che si trova nel cesto accanto al bancone” mi spiega con un ghigno malefico sul viso.
“Beh, perché faccio attenzione alle mie finanze. Lo faccio per risparmiare.”
“Non potresti risparmiare comprando cose che non siano fondi di magazzino?”

L’ironia di Bet ha un piccolo difetto: non c’è. Vi assicuro che quando lei dice cose  così, sostiene che le sue siano chiaramente affermazioni ironiche, ma secondo me non ha chiaro di che si tratti.
Bet è un po’ come Sheldon di The Big Bang Theory: lui non capisce il sarcasmo, la mia amica ignora cosa sottintenda l’ironia.

“Meglio la mia indecisione della tua mutazione genetica.” rispondo io frugando nella mia borsa alla ricerca di un elastico con cui legare i miei capelli depressi.
“Che sarebbe?”
“Hai un gene tronco, è ovvio.”
“E quale?”
“Quello del buon gusto.” chiudo la mia spiegazione sogghignando come una cretina alla mia stessa battuta.

“Fottiti!” mi risponde spintonandomi per poi cambiare argomento.
“Med, ti prego, un caffè! Un caffè e una panchina mi renderebbero la ventiquattrenne più felice della città!” si lamenta lei rallentando il passo.

Facciamo marcia indietro e ci dirigiamo verso il piccolo caffè all’angolo alle nostre spalle. Bet si lascia cadere sulla prima sedia che trova ed io la fisso curiosa.
“Mi prendi un caffè macchiato? Per favore? Sarò la tua migliore amica?” mi domanda con tono zuccherato e sbattendo le ciglia.
“ Non cercare di sedurmi, sgualdrina! Non sei il mio tipo! Vuoi il caffè? Poi?Una fetta di culo vicino all’osso tagliata fina fina?”

“Dai! Ti pre..” Bet si interrompe bruscamente “ Jules!” strilla così forte che faccio un passo indietro.

Mi volto e vedo la bruna chioma leonina di Jules che avanza verso di noi a passi lunghi. Stivali neri ai piedi, jeans stretti a vita bassa e un grosso e caldo maglione bianco che le spunta dal cappotto nero di cachemire. Jules strizza gli occhi, cercando di metterci a fuoco. Dimenticavo, Jules è cieca come una talpa. E per di più terribilmente distratta quando passeggia per la città.

“Jules! Jules siamo noi!” le urlo agitando una mano. Sul suo viso si dipinge un sorriso, e inizia a zompettare verso il nostro tavolo.

“Perché saltella? Sembra una tarantola!” dico io voltandomi verso Bet che si limita a fare spallucce e sorride alla nostra scoordinata amica.
“Ciao, ragazze dai facili costumi! Che ci fate qui? E, ancora più importante, perché io non sono con voi?”.

Io e Bet ci scambiamo uno sguardo confuso.

“ Jules, senti di nuovo di essere fuori dal tuo corpo?” le domando io cauta.

Jules è la più stramba delle tre e quella che, spesso, adduce a scuse assurde per quello fa. La maggior parte delle volte accusa Jules Crux dei suoi misfatti e afferma che non era nel pieno possesso delle sue facoltà e che Cruxie - sì, le abbiamo dato un tenero soprannome - aveva preso i comandi.
Ho provato a farle notare che, se continua così, prima o poi le diagnosticheranno qualche forma di psicosi: ma lei, pur di non ammettere la colpa, si ostina a dire che non è colpa sua.

“Cosa? Ma no, cretine! Intendevo, perché io non sono stata invitata a fare shopping con voi! È un gesto molto scorretto!” risponde lei indignata.
“ Perché tu di solito dormi fino alle due il sabato!” risponde Bet mentre io abbasso lo sguardo verso le mani di Jules. Avrà almeno sei shoppers diverse, quattro delle quali di dimensioni XXL.
“ Ragion per cui, vederti sveglia a quest'ora, considerate le tue usanze e manie, unite alla quantità di roba, - inutile e di cattivo gusto, senza dubbio - che sembra essere contenuta nei tuoi pacchetti, e ipotizzando che tu abbia appena speso metà della cifra che tuo padre ti passa al mese, mi sento di insinuare che il tuo sia stato un attacco di shopping compulsivo. Di nuovo.” esclamo io squadrandola da cima a fondo e osservando il suo linguaggio del corpo.
Alle ultime due parole è evidente un sussulto, seguito da un brivido.

Bingo!

“ Ora, unendo tutti i dati a mia disposizione e, essendo a conoscenza del fatto che attacchi di tale gravità si verificano con una percentuale più alta quando di mezzo c’è una specifica persona, mi sentirei di azzardare che...rullo di tamburi...hai litigato con Cucciolo.”

Concludo con enfasi da presentatore del circo, poi indico Bet con un palmo e lei si porta le mani alla bocca accennando finto stupore
“ Oh! Shock! Sbigottimento! Ma questo non succede mai! Non so se mi riprenderò!”.
Jules ride per nulla offesa dalla nostra sceneggiata poi ribatte:
“ Siete due stronze. Si, ho litigato con quel ciccione! E avevo bisogno di svagarmi!”

“ Quel ciccione è il tuo ragazzo, Jules. Non che la nostra stima nei suoi confronti possa essere ritenuta superiore a quella che abbiamo per l’alito della vicina di Bet, ma si può sapere che ha fatto questa volta?” le domando.
“Niente di nuovo. È stato solo....” Riflette qualche istante “se stesso, direi.” conclude soddisfatta.

Cucciolo, all’anagrafe Giorgio, è il ragazzo di Jules da ormai cinque lunghi anni. È un bestione con i modi raffinati di un leone marino, la voce da cavernicolo, il carattere lunatico di una donna in menopausa e la sensibilità di un bue muschiato. Lui e Jules si sono lasciati una quantità innumerevole di volte e, per nostra sfortuna, anche ripresi. Hanno un rapporto assurdo: un continuo di liti, urla, tensione, seguiti da periodi di idilliaca felicità. Quando chiedi a Jules se è innamorata risponde “ Non lo so. Ora ci sto bene!”

Affascinanti creature.

“Beh, ora che sapete il perché della mia presenza qui, mi dite che ci fate voi due, di sabato mattina, in giro per negozi?” domanda Jules sedendosi al tavolino con Bet e allungandomi il suo portafogli, facendo cenno con il mento verso il bancone del bar.
“Med, un caffè liscio per me” conclude sorridendo.
“Vi sembra per caso che io indossi l’uniforme di questo bar? Perché devo farvi da cameriera?” borbotto io a testa bassa.
“Sei scesa col piede sinistro dal letto, stamattina?” mi domanda lei, ridacchiando.
“Anche, come ogni mattina. Ma soprattutto trovo voi due estremamente irritanti” esclamo allontanandomi e dirigendomi verso la cassa.

Dal bancone le vedo chiacchierare allegramente, probabilmente stanno commentando il mio pessimo umore, divertite. La cosa, stranamente, fa sorridere anche me. Mi volto verso il barista e chiedo tre caffè. Mentre aspetto che siano pronti, sento Jules che mi chiama. Mi giro tranquilla, fino a che non vedo che sta sventolando il mio cellulare.

“È la padrona di casa. Dice che ha trovato la persona con cui devi condividere l’appartamento.” mi strilla lei.

Oddio no! Un nuovo essere umano con cui imparare a comunicare no!

Dovete sapere che io ho un gravissimo problema con gli estranei. L'interazione con un agglomerato di sconisciuti fa emergere a tutta spiano la timidezza che mi ha sempre caratterizzato.   O forse la mia è di fatto solo misantropia. Anche se non penso, perché, una volta che mi sciolgo, non mi stanno proprio tutti sulle palle.
Sono sempre stata una bambina piuttosto evitante e timorosa: per intenderci, ero la classica bimba che si nascondeva - letterlamente - sotto la gonna della mamma, quando signori estranei le rivolgevano parola.
Sta di fatto, però, che non sono molto brava con i primi incontri. Non so perché ma, quando mi si piazza in un gruppo di persone che non conosco, improvvisamente la mia capacità oratoria viene meno e faccio cilecca su ogni fronte. Me ne resto lì, annuendo, sorridendo ed esprimendomi a monosillabi. Risultato? La metà delle volte mi prendono per una decerebrata, l’altra metà per una insopportabile spocchiosa che si sente superiore a tutti. E stronza. Il che, come abbiamo già convenuto, è anche parzialmente vero.

Diciamo che, non evito più come facevo a sei anni però, senza dubbio, se si tratta di prendere l'iniziativa nella conversazione, non contate su di me. Per carità, se mi poni delle domande, dopo anni di lotta con la mia emotività, ho raggiunto il traguardo di riuscire a rispondere con frasi di senso compiuto. Però, se aspettate che sia io ad intavolare una discussione interessante o a dare il via a qualche tipo di interezione, state freschi.

Capirete, dunque, quanto nervosa mi renda l’idea di dover imparare a vivere con una persona sconosciuta e dividerci l’appartamento. Il vero problema è che, anche se la casa è piccola, per le mie possibilità costa una fortuna. Non mi posso permettere di pagare tutto l’affitto da sola. Quindi la proprietaria, per venirmi incontro, ha accettato di cercarmi un coinquilino.
Con le spalle chine e lo sguardo teso mi dirigo verso il tavolo delle mie amiche.

No, non sono affatto pronta. Non voglio sapere chi ha trovato. Non voglio sentire che non potrò più girare mezza nuda per casa, ballando Barry White in mutande, mentre pulisco - per così dire - il pavimento. Non sono pronta a farmi vedere appena sveglia la mattina, con i capelli che sembrano essere sopravvissuti all’uragano Katrina, l’occhio semi aperto, gonfio e con occhiaie che mi fanno assomigliare ad un panda, mentre indosso i miei orrendi pigiami dell’anteguerra. Di cui, tra l’altro, in realtà io vado molto orgogliosa ma che sembrerebbero essere socialmente inaccettabili.

Ho l’aria di chi sta andando al patibolo quando raggiungo la mia meta e, insicura, allungo la mano verso Jules per prendere il telefono. Lei mi sorride cercando di incoraggiarmi e mi sussurra: “Vedrai che non sarà così male. Almeno non soffrirai di solitudine!”.

Certo, per loro è facile parlare. Loro non devono dividere un minuscolo spazio vitale con una persona mai vista.

Bet vive con l’amore della sua vita, Federico, che noi chiamiamo teneramente Jimmy H. per la sua passione per le chitarre, in uno splendido appartamento in pieno centro. Jules possiede una casa tutta sua, in comune con la sorella, che la nonna ha deciso intestarle un anno fa, praticamente a 50 metri da Bet.
Io invece, da vera fallita, mi sono trovata un appartamento troppo caro e troppo piccolo persino per i Puffi, lontano dal centro e senza parcheggio. Ma loro non amano sentirmi dire queste cose.

Titubante afferro il cellulare e me lo avvicino all’orecchio, scambiandomi un’occhiata con Bet, alla disperata ricerca di aiuto. Lei ammicca e sorride. Sempre in silenzio mi volto nuovamente verso Jules, sperando in un salvataggio, ma anche lei mi annuisce e fa gesto con la mano di iniziare a parlare.

“ Pronto?” domando insicura e mi rendo conto che la mia voce trema. Sono patetica! Sembro una ragazzina di dodici anni!
“ Med, cara ragazza! Come va? Tutto a posto?” mi domanda la signora Riposi. La mia affittuaria è un tantino affettuosa con qualsiasi forma di vita. Lei adora tutti. È piuttosto in là con l’età e ha una vera venerazione per i giovani. Dice che è perché non ha nipoti e che noi siamo il futuro. E, non so come, ritiene tutti estremamente educati e piacevoli.
“Buongiorno Signora Riposi. Tutto benissimo, grazie. Lei? Come stanno i suoi cagnolini?” le chiedo sfoderando il tono più cortese che conosca.
“Benissimo tesoro, ti ringrazio! Allora, bando alle ciance. Ho una meravigliosa notizia per te!” mi strilla nell’orecchio.

Meravigliosa notizia, dice lei. Catastrofe e fine della mia serenità, penso io. Che seccatura!

“Ah sì, la mia amica mi ha accennato qualcosa” le rispondo vaga, lanciando un’occhiata a Jules, che persevera nel mantenere il suo entusiastico sorriso.
“ Sarai al settimo cielo immagino. Finalmente ti ho trovato qualcuno con cui dividere la spesa! Sono così felice! Non mi piaceva pensarti in quell’appartamento tutta sola.”.

Eh, capirai, manco fossimo nel Bronx! Poi penso al fatto che l’ha chiamato appartamento: esiste un termine per definire un orifizio anale in termini immobiliari?
Casa mia è un buco, su questo non ci piove. Però è ben tenuta e la signora Riposi  paga la metà delle spese condominiali. Non mi è ancora chiaro il perché: lei dice che è la cosa più giusta. In ogni caso, scusate se è poco!
 
Sospiro e alzo gli occhi al cielo mentre lei continua, estasiata.
“ Comunque ora non abbiamo più motivo di preoccuparci. Vedrai che tesoro che ti ho trovato. Sarà a casa tua tra circa mezz’ora. Già con le sue cose, cara. Entrerà in casa già da oggi. Mi ha pagato stamattina caparra e primo affitto. Forza, corri a casa. Ci sentiamo presto. Ciao Med cara.”

 Questa donna usa la parola cara troppe volte per i miei gusti.

“Aspetti signor...” troppo tardi. Ha riattaccato. Non mi ha lasciato neanche parlare. Era troppo eccitata all’idea di avermi procurato una deliziosa compagnia. Che strazio!
Sospiro e richiudo il telefono, sconfitta. Perché questa giornata continua a peggiorare? Io non voglio qualcuno con cui dividere casa. Io voglio pagare di meno e vivere nel mio disordinato appartamento formato Polly Pocket da sola. E in santa pace.

“ Ahahah! Dovresti vedere la tua faccia! Sembra che tua madre ti abbia appena detto che darà fuoco alla tua collezione di libri!” ride Bet, abbracciandosi lo stomaco e piegandosi in avanti.
“Ridi, ridi, iena ridens! Tanto sono io che devo prendermi una sconosciuta in casa!”  mi lagno io sempre più irritata, lasciandomi cadere nella sedia accanto a lei e praticando l’arte del broncio.
Sono bravissima: aggrotta la fronte, sguardo insoddisfatto, mento verso il petto - e visto che il mio è grosso, richiede uno sforzo minimo - e boccuccia a trombetta.
Sono ventiquattro anni che mi esercito. Ormai sono una professionista. Per chi volesse offro consulenze e ripetizioni private.

“ Med, la pianti? Scusa, ma hai appena saputo che pagherai la metà dell’affitto e che avrai una persona con cui dividerti le pulizie di casa. E per di più che ti farà compagnia! Non sei contenta?” mi domanda Jules, spazientita.
“No, non sono contenta! Io non voglio compagnia! Io non voglio dovermi controllare e essere simpatica e gentile 24 ore su 24! Le pulizie le so fare benissimo da sola e a me piace starmene da sola sul mio divano, in tuta, guardando la tv e compatendomi, ok?” rispondo io arrabbiata.
“ Ok, adesso basta, Med. Una coinquilina non è la fine del mondo, anzi. Forse la smetterai di essere così scorbutica e imparerai a controllare tutta questa rabbia!” mi risponde lei severa.
“ Jules, non mi psicanalizzare! Io non sono una tua paziente!” la aggredisco io.

“Beh, forse invece dovresti esserlo. Ti farebbe bene un po’ di terapia. Sei diventata una pazza piena di rancore. Sei una stronza, aggressiva e isterica. Ce l’hai con tutti e non ti va...”

“ Fatela finita! Tutte e due! Fermatevi prima di dire cose che non pensate!” si alza in piedi Bet e ci guarda con sguardo di rimprovero.
Io stringo i pugni e lancio a Jules un’occhiata ferita e piena di irritazione. Lei mi guarda con aria colpevole e poi abbassa il viso. Abbiamo esagerato tutte e due. Non avrei dovuto scaricare su di lei la mia frustrazione.

“ Dai ragazze, basta! Fate pace e andiamo a vedere questa nuova inquilina, ok?” ci suggerisce Bet con voce materna.
Sussurriamo un contemporaneo scusa, raccogliamo le nostre borse con i nostri acquisti e ci incamminiamo verso la macchina.



A/N: Ringrazio nuovamente chi ha dedicato un po' del proprio tempo alla lettura di questa storia e tutti quelli che l'hanno aggiunta tra i preferiti e quelle da seguire. Spero che, con l'evolversi dei capitoli, le avventure/disavventure di Med possano allietarvi un po' le giornate e, perché no, magari offrirvi una finestra di libertà.

Un doverso ringraziamento va alla mia instancabile e estremamente dedita Beta, Leti. Credo che abbia letto questa storia più volte di me e, nonostante ciò, ancora si prodiga al controllo e alla revisione delle bizzarrie insite nella mia fantasia. E lo fa con puntualità (è una macchina!!), passione e molto stile! Med e tutti gli altri ti sono infinitamente grati! E senza di te questa storia si chiamrebbe CaccaPupù, lo sai.

Ora, so che vi starete interrogando sul lato sentimentale della storia: abbiate fede e presto sarete ripagati. Scusate, era una vita che sognavo di dirlo.

Augurandomi di aver strappato un sorriso a qualcuno e di avervi aiutato a capire qualcosa di più di quello che sono Med, Bet e ora anche Jules, ringrazio di nuovo tutti.

Se avete voglia fatemi sapere che ne pensate!

M.o.M

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Capitolo 3
*** Casanova/CasaNuova ***


Licenza Creative Commons
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia Cap 2 Casanova/Casanuova



 
Casanova casanuova



Di norma ho una spiccata capacità di perseverare nello sfoggiare un'espressione stizzita e di disapprovazione: quando ho a che fare con le mie migliori amiche, però, i miei meccanismi di autodifesa e i miei superpoteri di stronzaggine fantasmagorica, vengono meno.

Probabilmente dipende dal fatto che le loro menti riescono a partorire un elevatissimo numero di baggianate e, in genere, hanno tutte lo scopo di farmi scoppiare in una fragorosa risata. Se non altro per la qualità delle offese che gli escono dalla bocca. Non che io mi titi mai indietro in fatto di improperie, lo ammetto.

Ricordo distintamente una delle liti più accese avvenute tra noi tre, in cui le espressioni meno offensive che ci siamo rivolte devono essere state Hai la faccia come il culo, con elegante riposta costituita da Almeno io ho una faccia, tu sei tutto culo: e tu sei una merda, l'ultima parte rivolta alla terza interlocutrice, e Tra merda e mignotta, preferisco merda.
Sì, l’imbarazzo per l’incomparabile livello di volgarità che ci caratterizza dovrebbe, in qualche misura, crearmi disagio: invece, quando penso alle cose diciamo, riesco solo a ridere. Da vere classiciste le nostre espressioni colorite si sviluppano, spesso, in una varietà di figure retoriche.
La metafora la fa da padrone, ma anche la metonimia è di uso corrente (ad esempio, quando voglio esprimere, come oggi, la mia stima per Jules, la chiamo Culo: una parte per il tutto) e la crasi è la specialità di Bet quando si innervosisce troppo e, nel pronunciare insulti, fonde una parola con l’altra: non si capisce una fava di quello che dice. Noi diciamo che ha la lingua diversamente abile, lei che è una letterata anche nell’ira.

E questa volta, nonostante il mio attuale non equilibrio mentale, non è diversa dalle altre: durante il percorso verso casa la tensione tra me e Jules si allenta.
È bastato che nel salire in macchina Bet si intrappolasse nella cintura di sicurezza e, cercando di liberarsi, sbattesse la testa, il ginocchio e poi il gomito contro il finestrino per farci dimenticare del nostro piccolo scontro per concentrarci su un bersaglio più facile.

Fino a che Bet non ha minacciato di sbatterci giù dall’auto in corsa, che per Bet sono i 35 all’ora, e di caricare su youtube il video di noi due che, in balia dei fumi dell’alcool, commentiamo con interesse la trama di un porno scaricato da internet accidentalmente. A quel punto ci siamo viste costrette a deporre l’ascia di guerra e abbiamo iniziato a fantasticare sulla mia futura compagna di appartamento.

Sulla strada verso casa il dibattito si fa acceso: c’è chi scommette che sarà una secchiona, frigida, bigotta, fissata con l’ordine e la cucina macrobiotica. E anche un po’ sporca. Chi cerca di incoraggiarmi dicendomi che sarà sicuramente una ragazza piena di energia e di iniziative. Io non commento, ma al momento, entrambe le possibilità ai miei occhi risultano fastidiose.

Arrivate sotto casa mia Bet parcheggia, scende dalla macchina e inizia a zompettare elettrizzata verso il mio portone. Io e Jules la seguiamo ridendo.
“La giusta punizione per la tua acidità sarebbe che ti capitasse una Amish, puritana che non ti permette di usare l’acqua calda. Ti immagini la sua faccia a sentire i tuoi gemiti simulati, mentre L fallisce miseramente nel tentativo di procurati un orgasmo?” sghignazza Jules mentre saliamo le scale.

Io sopprimo una risatina e, aggrappandomi al corrimano e voltandomi verso di loro, ribatto:
“Per mia fortuna e non certo per merito di L, non ho mai dovuto fingere! Credo che se fossi un maschio soffrirei di eiaculazione molto precoce. Forse è una malattia congenita, ma l’orgasmo lo raggiungo alla rapidità del suono. Mi basta uno schiocco di dita ed è fatta! È abbastanza imbarazzante.” rispondo sorridendo vittoriosa e mostrandomi per nulla colpita dal dito medio di Jules rivolto alla sottoscritta, la quale riceve una tirata di ricci da Bet come punizione.
Poi, mentre ancora riesco a mantenere l’equilibrio in questa - per me - impresa di salire la scala all’indietro, vedo gli sguardi delle mie amiche spostarsi alle mie spalle e, inspiegabilmente, l’aria attorno a me si fa elettrica.

Ed è allora che una voce sicura e profonda dietro di me, afferma:

“C’è chi la definirebbe una benedizione al posto tuo. Ma credo, così a prima vista, che la tua sia effettivamente una patologia.”

Fa una pausa breve, durante la quale io cerco di rendermi conto se sono caduta, ho battuto la testa e sono chiaramente in coma e sto sognando la surreale vicenda di cui sono vittima.
 “Forse sei una ninfomane. O forse non sai lasciarti andare e, la verità, è che tu un orgasmo non l’hai mai avuto. Hai l’aria di chi l’amore non lo sa fare. Di chi si convince di abbandonare le inibizioni, ma in realtà dentro di sé è talmente tesa che non si accorge nemmeno se è eccitata o meno.”.

Mi volto lentamente con gli occhi sgranati e le labbra separate per lo shock.

“Guardandoti negli occhi, opto per la seconda. Sessualmente incapace direi.” conclude l’inopportuno e assurdo individuo di fronte a me, con un sorriso arrogante.

Tengo lo sguardo fisso sul padrone di quella voce. I suoi occhi sono magnetici. E terribilmente fastidiosi. Di un azzurro così carico che fa male. Sicuri, superbi e arroganti. Tanto profondi e penetranti da farti sentire esposta e vulnerabile. Tanto intensi da fare arrossire.
Capelli biondo scuro, tendenti al castano, mossi e ribelli. Tanti capelli. Mi piacciono i tanti capelli.

Vorrei affondarci la mano e tirarli. Sarebbe sconveniente?

Proseguo nello scrutarlo e incontro il suo naso, dritto e armonioso. Poi, con lo sguardo, raggiungo le sue labbra. E che labbra. Di quelle belle. Davvero belle. Sembrano così soffici e lisce.

 Sono arricciate in un sorriso sfrontato; il sorriso di chi crede di avere la soluzione ad ogni quesito e di chi è talmente presuntuoso da non mettersi mai in discussione.


 I lineamenti del suo viso sono delicati ma sicuri. È alto, con un fisico asciutto. Indossa un paio di vecchi jeans consumati e una maglietta a maniche lunghe tirate su fino al gomito, dello stesso blu dei suoi occhi. Tiene le braccia incrociate sul petto e si appoggia al muro, caricando tutto il peso sulla spalla destra e sulla gamba sinistra, in una posa insolente e distaccata.

Decreto che è un discreto gnocco senza ritorno e un paio di miei ormoni cercano di prendermi a sberle e di spronarmi ad tiragli un limone, prima di dargli un colpo ben assestato sull’inguine e liberarmi della sua scultorea persona. Quando faccio progetti criminali mi sento molto fiera di me.

Dall’alto della scala mi scruta di rimando da testa a piedi, come ho appena fatto io con lui, e il suo sorriso si fa più ampio, più divertito e più strafottente.

“Sessualmente incapace, ma il materiale per lavorare sembra esserci, tranquilla!” mi dice attirando i miei occhi sui suoi.

Il sorriso ha raggiunto il suo sguardo e il mio desiderio di mettere in pratica il mio piano omicidiario si fa sempre più pronunciato.

L’assurdità di tutto quello che sta succedendo mi spinge a smarrirmi per pochi attimi e, per un istante, le sue parole riecheggiano dentro di me. Sono rintronata e cerco di capire se ho ancora l’uso delle mie corde vocali.

“Scusami?” domando io, ringhiando tra i denti.
“Ah, sei anche sorda oltre che impedita tra le lenzuola? Al secondo problema posso rimediare. Per il primo mi dispiace, ma non è il mio campo” risponde lui, sempre più baldanzoso.

“Ok, hai dieci secondi per sparire dalla mia vista. Dopo di che, puoi dire addio ai tuoi cari gioielli di famiglia.” Sibilo io.
Mi sono irrigidita per la rabbia e le mani mi prudono. Voglio picchiarlo. Voglio prenderlo a pugni fino a che non gli si cancella quel sorrisetto dalla faccia.
È vero che sono una ragazzetta timida, ma è altrettanto indiscutibile che io sia una testa calda, con gravi problemi di controllo e piuttosto facile all’ira.

Lui non fa nulla per trattenere una sottile risata, mentre continua a fissarmi negli occhi, per nulla intimorito.
“Dieci secondi, piccolo Lord impotente. Ti concedo dieci secondi, e ti assicuro che, quando si tratta di numeri, sono molto propensa a barare!”
Il mio tono è minaccioso e stizzito. I miei occhi sono più scuri per la rabbia e la mascella mi si serra mentre una scarica di adrenalina mi fa ribollire il sangue nelle vene: l’aria si fa sempre più tesa e sento le mie amiche bisbigliare qualcosa di incomprensibile alle mie spalle quando la risposta di lui arriva puntuale e pungente.
 
“Come probabilmente bari sul numero dei ragazzi con cui sei andata a letto? Mi verrebbe quasi da scommettere sulla possibilità che tu sia vergine!” mi sorride mentre sputa tutti queste illazioni ed io percepisco una propensione allo strangolamento che raramente si palesa dentro di me.

E non sono nemmeno una ragazza violenta. Beh, non lo sono la maggior parte delle volte per lo meno.

Sto per lanciarmi su di lui, pronta a fargli ingoiare quei meravigliosi e lucenti denti, quando sento una mano sulla spalla e un po’ della tensione che mi attanaglia, si allenta dal fondo del mio stomaco.

Mi blocco e ruoto la testa verso Jules. I suoi occhi incrociano i miei. C’è una strana luce che li orna, uno scintillio che non promette nulla di buono. Dentro di me sorrido, consapevole del fatto che ho in lei una malefica alleata.

Forse più porca che malefica, ma senza dubbio sufficientemente pungente.
 
Guardo Bet, altrettanto capace di atterrarti con una sola frase, convinta di trovare nei suoi occhi lo stesso brillio. Ma mi sbaglio. Questa volta vi leggo un severo rimprovero. Il suo viso è scuro e fermo e prendo atto del fatto che la mia bionda amica  non è dalla mia parte.

Sto per sussurrare qualcosa a Jules, quando Bet avanza verso di me.

“Non ora, Med. Appoggerei i tuoi malefici progetti, data l’assurdità dell’evento, se al momento non avessimo altre priorità. Non abbiamo tempo da sprecare con il bello e dannato sconosciuto” all’espressione faccio roteare gli occhi. Lei mi ammonisce severa con lo sguardo, prima di proseguire imperterrita.
“Che ti frega di fare rissa con l'estraneo? Dovresti provare solo compassione per uno che si comporta così. Per quello che sai è appena stato a letto con l’inquilino del terzo piano. Il che richiede uno stomaco non indifferente, se vuoi il mio parere. Comunque, non è questo il punto.” Scuote la testa ripetutamente, quasi fosse un tentativo di ritrovare il nocciolo della questione.

“E quale sarebbe il punto, Miss Io Non attacco Briga con gli stronzi in momenti poco convenienti, ma non ho problemi a mettere verbalmente KO il macellaio perché mi ha dato il crudo scadente?” le domanda con aria di sfida Jules.

Non posso fare a meno di ridere. Jules mi tira uno scappellotto e, in risposta, io emetto un suono di dissenso dal profondo della gola, massaggiandomi la testa. Jules ride.
“Basta, cretine! Il punto è che siamo in ritardo. La coinquilina di Med sarà alla porta ad aspettare. Devo fare pipì e il Casanova dei poveri alle vostre spalle, non ne vale la pena” conclude soddisfatta di aver riguadagnato il filo del discorso e di essere, per l'ennesima volta, la voce della ragione e quella responsabile.


“Il Casanova dei poveri è ancora qui e vi sente!” ci urla lui dalla sua posizione.
“Ti dispiace stare zitto e sparire? Anzi no, ancora meglio, perché non implodi? Perché non ti fai i mille granelli di sale?” gli rispondo girando sui talloni per guardarlo.

“Così puoi raccogliermi e cospargere di me il tuo prossimo bagno caldo, sperando che i miei granelli riescano a regalarti quello che tanto aneli? E nel caso non fosse chiaro, mi riferisco sempre all’orgasmo che ancora non hai provato” ridacchia lui con fare di sfida e, controlla le reazioni delle mie amiche alla sua esilarante battuta. Ero sarcastica, nel caso non fosse evidente.

“ Senti, piccola sottospecie di cetriolo gonfiato…” rispondo io.
“…è pallone gonfiato” mi corregge Jules annoiata e io scelgo di ignorarla, prediligendo l’opzione rissa a quella della superiorità morale: ‘sti cazzi.
“Perché non porti il tuo bel sederino lontano dalla mia vista e dalla mia bassisima soglia di tolleranza?” gli propongo estremamente irritata e lo scintillio che gli attraversa il viso fa partire un brivido dal profondo del mio ventre.

Lui alza le mani in segno di resa e, ridendo divertito, mi risponde “Va bene, va bene. Ritira dentro le unghie, micetta. Non c’è bisogno di scaldarsi tanto.”

Si scosta dal muro facendo qualche passo all’indietro e io sorrido vittoriosa.

Sì, io mi accontento delle piccole soddisfazioni.

“Ma mentre me ne vado, lascia che ti dica due cose. Primo, mi hai chiamato cetriolo gonfiato, e il cetriolo è un simbolo fallico, sai?” mi lancia un altro di quei sorrisi taglienti e, per l’ennesima volta ho l’impressione che l’aria si carichi di elettricità.
Sto per rispondere quando sento Bet sussurrarmi:
“Med, cerca di comportarti da persona matura, per favore!”

Prendo un respiro profondo e lo fisso fingendo indifferenza, mentre tento - con pessimi risultati - di recuperare il controllo sui miei istinti. Se omicidi o sessuali è da chiarire. Sempre di mancanza di padronanza di istinti si tratta.

“E la seconda?” domando con la voce più piatta che riesco a emettere.
“La seconda è che pensi che abbia un bel sedere” ribatte lui soddisfatto mentre scende le scale e ci sorpassa, mantenendo le distanze e con lo sguardo fisso su di me. Quel maledetto sorriso sempre sul volto.

Prosegue nella sua discesa verso l’uscita del palazzo e quella demente di Jules gli sorride e fa ciao con la mano, quando lui le passa vicino. Non vedo la sua reazione, ma sono abbastanza sicura di percepire una risatina che si allontana insieme a lui.
 
Resto imbambolata a fissare davanti a me, mentre la rabbia si dissolve lentamente e il mio respiro si fa più calmo. Sospiro pesantemente e lascio che il mio corpo, teso per l’ira, si rilassi. Poi sento una pressione sul mio braccio. Mi volto e vedo che Bet ha ricominciato a salire la scala, e Jules mi sta leggermente spingendo, sperando di smuovermi dal gradino su cui, negli ultimi dieci minuti, ho piantato le radici.

Bet mi sorpassa e mi colpisce leggera sulla nuca, ridendo.
“Forza, attaccabrighe, abbiamo una puritana da incontrare!” dice, saltellando su per la scala verso il quarto piano, dove si trova il mio appartamento.
“ Pensavo ti venisse un embolo per l’irritazione a un certo punto. Eri così rossa che sembravi un personaggio dei cartoni animati giapponesi!” ride Jules tirandomi su per la scala. “Però, io ero pronta a saltargli al collo con te!”
“ Ti ringrazio, amica fedele” le rispondo seguendola.
“ Ero pronta a saltargli al collo e fargli un succhiotto! Ma hai visto che maschione che era! Mamma mia, altro che hop-hop!” ridacchia lei.

Hop-hop, per la cronaca, è una delle espressioni con cui noi esprimiamo la nostra approvazione per l’estetica di un uomo: sta a significare che ce lo faremmo da più angolazioni. Nello specifico lei avrebbe fatto hop-hop con faccia di caccola appena smaterializzatosi: non scandalizzatevi, ve l’ho detto che Jules è una deviata.

“Jules, sei una schifosa. Adesso capisco la luce nei tuoi occhi. Volevi fartelo, non perorare la mia causa!” le rispondo divertita.
“Certo che ero con te, piccola rissosa amica! Però non sta scritto da nessuna parte che, mentre lo picchiavo, non potevo farci tutto il Kamasutra versione semi-violenta!”
E io sghignazzo all’immagine della mia amica riccia in tutina aderente e frustino.

"Allora vi date una mossa? Me la sto facendo addosso! Raccogliete i medaglioni di bava che vi penzolano da quando Casanova è apparso, e venite ad aprirmi la porta” urla Bet dalla tromba della scale e noi, divertite, acceleriamo il passo.
 

Non appena apro la porta di casa Bet schizza come un razzo verso il bagno ed io mi lascio cadere sul divano distrutta, appoggiando la testa sul bracciolo. Quasi contemporaneamente accendo la tv.

Jules si rannicchia accanto a me e muove le braccia nell’aria nella mia direzione, come una bimba, cercando di strapparmi dalle mani il telecomando.

“Voglio vedere le repliche di Grey’s Anatomy!” si lamenta lei, continuando ad agitare le mani.
Io rido e allungo il braccio dietro la mia testa, lontano dalla sua presa.
“Te lo scordi! È casa mia e si guarda quello che dico io! Ti devi disintossicare dalla televisione!” la rimprovero, fingendomi sua madre.
“Disse la teledipendente che senza telefilm americani non sopravvive!” esclama Bet alle mie spalle, mentre si avvicina sorseggiando un bicchiere d’acqua. Poi si siede rilassandosi sulla poltrona accanto a noi, si leva le scarpe, ripiega le gambe sotto di sé e si abbandona all’indietro nella poltrona, sospirando.

“Sono a pezzi! Non ce la faccio a tornare a casa a studiare. E poi Jimmy. non c’è! È a finire uno dei tanti progetti per la tesi. Che uomo palloso.” si lamenta sfregandosi la fronte con il palmo della mano, cercando di allontanare la frustrazione.
“Come sta J? Non avevi in progetto una seratina a luci rosse nell’intimità della vostra casetta?” le domando girandomi a pancia in giù sul divano. Subito dopo sento un tonfo sordo e vedo Bet alzare la testa di scatto, sgranare gli occhi e sopprimere una risata. Seguo il suo sguardo, giro la testa e vedo Jules sdraiata a terra supina, tipo pelle di leone, che si massaggia il fondo schiena.

“Cazzo Jules, quanto sei goffa!” scoppio a ridere e nascondo la testa tra i cuscini per limitarne il suono.
“Sei tu che ti muovi con la grazia di una balena. Culona! Fammi risalire. Con i tuoi modi delicati mi hai scaraventato giù dal divano” borbotta lei con la testa bassa, mentre si rialza in piedi, continuando a strofinarsi il coccige. Io prendo qualche veloce respiro mente la mia risata si spegne, mi siedo e apro le braccia verso di lei.
“Dai vieni qui, sacco di patate! Mi dispiace. Ti sei fatta molto male?” le domando, inscenando una tenera interazione tra mamma e figlia. Lei spinge in fuori il labbro inferiore, lo fa tremare e annuisce con la testa. Poi finge di asciugarsi una lacrima e di tirare su col naso.

“Che faccia di culo!” tossisce Bet sorridendo.
“Mi fa male il sederino, mamy.” Prosegue la scenetta Jules, ignorandola
“Sederino..” bisbiglia Bet scherzosa “…la porta aerei vorrai dire!”
Jules solleva la testa dalla mia spalla e, mordendosi il labbro, fa il terzo dito a Bet, che sghignazza. Io stringo le labbra per non cedere all’ilarità della finta lite tra le due e domando “E cosa possiamo fare per farti passare la bua?”

Lei strizza gli occhi e si mordicchia un’unghia, fingendo di pensare. Poi mi guarda con un sorriso enorme e esclama “Una torta salata ai carciofi, prosciutto cotto e fontina mi farebbe stare molto meglio!”
Io e Bet ci lasciamo andare e scoppiamo in una incontrollabile risata.
“Sei una cloaca! Ma pensi sempre a mangiare?” le chiede Bet tra i veloci respiri.
“Ho fame. Non ci posso fare nulla! Ero così arrabbiata con Cucciolo che non ho neanche fatto colazione!” ribatte lei unendosi alle nostra risa e massaggiandosi lo stomaco con movimenti circolari.

Bet si blocca all’improvviso, mi guarda con occhi sospetti e poi mi interroga:

“A proposito di maschi; vogliamo parlare della tensione sessuale che c’era tra te e Casanova poco fa?”
“Tensione sessuale? Ma fammi il piacere, Bet!” rispondo io, sentendo la rabbia risalire lungo il mio corpo al solo pensiero delle indelicate insinuazioni di quel tizio.
“Non fare la finta tonta! Lo guardavi con tanta lussuria da finire dritta all’inferno solo per il pensiero!” ribatte Jules, dandomi una spinta e facendomi rovinare a terra, prona.
“Che cavolo! Credo di essermi spappolata il fegato cadendo!” mi lagno io cercando di rialzarmi e, appoggiando una mano sul bordo del tappeto, scivolo senza grazia, sbattendo il naso sul parquet.

“Cazzo che male!” mugolo, raggomitolandomi sulle ginocchia. Mi porto le mani al viso e ci incapsulo il naso, stringendo forte, nella speranza di alleviare il dolore. Strizzo gli occhi e mi piego in avanti, appoggiando fronte e gomiti sul pavimento.

Dalla mia posizione sento il campanello della porta suonare. Bet ride e grida: “E’ aperto!” poi si volta verso di me e dice: “E’ arrivata la puritana!”
Io grugnisco senza alzare la testa e mantenendomi nella mia posizione. Il mio sedere, in tutta la sua non gloria, accoglierà la mia nuova coinquilina. Poco male. Capirà che non sono molto socievole.

“Med, ti senti bene?” mi chiede Jules mentre si volta verso la porta “forse dovremmo alzarci ad aprire”  suggerisce dubbiosa.
“Io da qui non mi muovo finché non ricomincio a sentirmi il naso” rispondo io sofferente.
“E’ aperto!” ribadisco io alzando la voce ma senza muovermi di un centimetro dal mio angolo di pavimento.

Sento il cigolio della mia porta d’ingresso, seguito dalla voce calda che ancora è stampata nella mia mente e mi fa ribollire il sangue:
“Meraviglioso! Sei già pronta ad accogliermi con la tua parte migliore?”
 
No, non è vero! Ditemi che è uno scherzo!
 
Sgrano gli occhi, sconvolta e sento Jules e Bet trattenere il respiro. Mi sollevo di scatto e, sempre più veloce mi alzo in piedi. Pessima idea! La testa mi gira e mi vengono le vertigini. Sento che le ginocchia mi tremano. Sto per cascare nuovamente a terra quando due braccia forti, rapide e ferme, mi afferrano la vita, impedendo la caduta verso il basso. Non riesco a tenere su la testa e allora lascio appoggiare la mia fronte sulla spalla più gloriosa che abbia mai visto.

“Sei rimasta abbagliata dalla mia bellezza?” mi domanda lo spocchioso padrone delle braccia che mi sorreggono.
“Lasciami andare, pervertito!” sussurro debolmente e senza spostare il viso dall’incavo della sua clavicola.
“Così puoi fare il buco nel pavimento?” mi risponde lui divertito.
"Io l'avrei lasciata cadere..." commenta Jules e sono certa che Bet trovi il modo di rimproverarla.

Respiro profondamente dal naso e inalo il suo odore. Oddio come profuma di buono. E se lo mordessi?
Agito la testa il più lentamente possibile, per bloccare il flusso di pensieri. Appoggio le mani sul suo torso e spingo piano, cercando di allontanarmi un po’.
“Levami le mani di dosso, imbecille.” esclamo. Ma la mia voce è ancora debole e tre risate differenti mi avvolgono all’unisono: e il che mi urta ancora di più.
 
“E’ questa la tua riconoscenza per averti afferrata prima che ti spaccassi il naso?” mi chiede lui, senza allentare la presa dai miei fianchi.
“E’ stato un gesto inutile. Il naso me lo sono appena rotto grazie alla mia ex migliore amica” ringhio io, cercando ancora una volta di allontanarlo.

Ma a quanto pare le mie spinte non sono forti come mi sembrano.


“La smetti di agitarti?! Stai ferma e respira profondo, così la testa finirà di girarti. Ti suggerirei di bere acqua e zucchero ma, considerando l’immagine che mi si è presentata appena entrato, direi che è meglio se eviti le calorie” mi sussurra lui all’orecchio e sento il suo respiro sul collo.


“Stai dicendo che sono grassa?” rispondo io rabbiosa tra i denti con un po’ più di forza sollevando di qualche centimetro la testa. Non avevo calcolato, però, che avrei incontrato quelle due pozze d’acqua blu che ha al posto degli occhi.

Madre Natura è decisamente scorretta. Non si mette un individuo tanto irritante dentro un corpo così appetitoso.

È vero che è un cafone stratosferico, ma io sono una giovane nel fiore degli anni e con degli ormoni piuttosto indisciplinati. Mi sta sulle palle, ma è innegabilmente affascinante. 
“Non ti preoccupare. A me le ragazze piacciono in carne.” Mi bisbiglia lui guardandomi dritto negli occhi ammiccando, con un’espressione a metà tra il malizioso e il malvagio.

Sì, certo, come no.

“Ma per cortesia...” borbotto cercando di liberarmi per l’ennesima volta e la sua presa si fa più sicura: poi il sorriso raggiunge quei cazzo di occhi e la mia testa ricomincia a girare.

Apparentemente l’ossigeno è essenziale per la sopravvivenza. Altra realtà che cambierò quando sarò regina del mondo. Così, giusto perché mi va. Così potremo tutti pomiciare non-stop senza doverci interrompere per recuperare fiato.


“Respira...” mi dice lui con una voce talmente flebile che non sono sicura abbia davvero pronunciato le parole.
Inspiro il più profondamente possibile e spingo con tutta la forza che ho contro il suo petto. Non credo di aver fatto chissà quale impressione, il risultato però è lo stesso. Lui ride e molla la presa, facendo un passo indietro. Ma non prima di aver lasciato scorrere le dita lungo la mia vita e i fianchi.
Sento come se una scossa elettrica mi attraversasse il corpo.

“Era un brivido quello?” mi domanda inarcando le sopracciglia. Cavolo, non pensavo fosse stato così evidente. Devo lavorare sulle mie doti di simulatrice. O almeno imparare a mascherare certe cose. Le donne di polso sanno sempre simulare.

La simulatio è un must.


“Sì, lo era. È stato scatenato dal disgusto per l’odore che emani. Ti fai la doccia con le ghiandole di moffetta o hai il PH più acido della terra?” ribatto difensiva anche se ho abbastanza coscienza di non incutere grande timore.


Sento qualcuno che si schiarisce la voce alle mie spalle seguito da una risatina.
Bet e Jules non me la faranno mai passare liscia. Mi prenderanno in giro per settimane per questa scena.
Mi allontano da lui di un altro passo, chino la testa imbarazzata e mi scosto i capelli dal viso con una mano, assicurandoli dietro un orecchio. Mossa che sicuramente non fornisce un’immagine meno goffa e più sicura di me. 

“Hai una mente contorta, te l’hanno mai detto?” mi chiede lui incrociando le braccia sul petto e sorridendo.

Posso strozzarlo a mani nude? Mi darebbe una grandissima soddisfazione. Meglio ancora se anche lui è nudo.

“Esci all’istante da casa mia stupido…coso!” minaccio stringendo i pugni e pestando forte un piede.
“Coso?” domanda incredula Jules “Che fantasia!”
“Hai davvero appena pestato un piede? Cosa sei? Una bambina capricciosa di tre anni?” dice sbigottita Bet ed io scelgo di ignorare entrambe per mantenere quel poco di credibilità che mi convinco di aver conquistato.

Il sorriso del mio fastidioso e indesiderato ospite si fa più ampio.

“Cosa? Che cosa c’è di così esilarante?” gli chiedo infuriata.
Lui non risponde. Mi fissa per qualche secondo dritto negli occhi, restando immobile.

Poi si lecca le labbra divertito e risponde :
“Non me ne posso andare.”
“Perché no?” chiede Bet, incuriosita.

Il suo sguardo non lascia mai il mio.

“Perché questa è anche casa mia da oggi.” conclude lui.

Oh, porca vacca!


AN: Come al solito un doveroso ringraziamento va alla mia incredibile Beta  Leti10 che, con tutta la sua attenzione e le sue indagini sugli agiti di questi personaggi, fa in modo che io non vi propini capitoli senza senso. E un grazie a tutti quelli che seguono questa storia e che le concedono un po' del loro tempo!
 

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Capitolo 4
*** L'eleganza del Pigiama ***


Licenza Creative Commons
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia L'eleganza del pigiama vintage






L'eleganza del pigiama
 
 
 
Avete presente quelle scene in cui le stanze sono così silenziose che nelle orecchie cominci ad avvertire un ronzio e ti porti i palmi delle mani ai lati della testa premendo, quasi a cercare di chiudere quel fischio sordo fuori da te? E più premi, più il sibilo si fa forte. E allora cominci a chiederti se l’assenza totale di rumore non fosse meglio di quella sensazione di pressione che spinge contro i tuoi timpani. Tutto attorno a te sembra essersi paralizzato. Sembra che qualcuno abbia messo pause alla tua vita.

Ecco, in questo momento qualcuno si è alzato per andare a fare pipì e ha bloccato il film della mia esistenza.

Io, Bet, Jules e l’insopportabile sconosciuto restiamo fermi immobili e ci fissiamo.
Le sue parole mi rimbombano nella testa. Sento caldo. Il silenzio è diventato quasi troppo rumoroso. Non riesco a pensare. Che cosa vuol dire che questa da oggi è anche casa sua? Io devo vivere con la Amish puritana. Lei deve arrivare, bussare alla mia porta, portare dentro due pecore e staccarmi la corrente. Io devo scandalizzarla con i miei gemiti provenienti dalla camera da letto e girarle in biancheria intima per casa.

Non può dire sul serio. Io non posso vivere con lui.

“ Che…che…cosa vuol dire?” balbetto inebetita.
“ Vuol dire che da oggi io e te avremo tantissimo tempo per fare l’amore in ogni stanza della casa.” Mi risponde lui facendomi l’occhiolino.
Questo mi manda ancora più fuori di testa.
“ Tu sei tutto scemo! Io vivrò con la Amish che non si lava, non con uno la cui priorità è il proprio pisello!” urlo io.

“ La Amish?” chiede lui confuso, e per la prima volta assume un’espressione seria.
“ Lascia perdere. È un po’ nervosa. Sta avendo un piccolo attacco isterico, ma ora le passa. Ti consiglierei di aumentare la distanza di sicurezza comunque, se ci tieni al tuo apparato genitale.” Si intromette Bet, avvicinandosi a me e appoggiandomi un mano sul fianco.

“ Med? Med? Ci sei? Mi senti?” mi domanda sventolandomi la mano davanti agli occhi.
“ Toccale una tetta! Vedi come si riprende!” risponde Jules da dietro di noi.
“ Vuoi che ci pensi io?” chiede l’idiota, avvicinandosi.
“ Beh, sicuro preferisce essere palpata da te che da Bet “ scherza Jules di rimando.

Le lancio uno sguardo di puro e profondo odio, prendo fiato e mi volto verso l’uomo senza nome che ormai sta a un paio di passi da me.
“ Avvicinati ancora di mezzo centimetro e ti eviro, te lo giuro! Ora spiegami questa cosa!” dico sempre meno controllata, chinando la testa e facendo in modo che i capelli mi coprano il viso. Ma perché mi sto scaldando tanto?
“ Ok, tregua di dieci secondi, principessa” sospira lui fermandosi.
"Principessa ci chiami una tua chiappa." ringhio con livore, non facendo nulla per trattenere il mio astio.

Tutto questo non rientrava nei miei piani: la mia misantropia minacciava già di rendere difficile la convivenza con una ragazza, figuriamoci con un tizio cafone e arrogante. Senza contare che a mio padre potrebbe venire un embolo al pensiero che io condivida lo spazio vitale con un esemplare di maschio adulto, che risponde agli standard fisici di desiderabilità sociale e che sembra non aver conosciuto le regole della civiltà moderna in fatto di interazione.

“ Ci scusi un secondo…ehm…?” gli sorride Bet, schioccando le dita verso Jules per attirare la sua attenzione e indicandole camera mia.

“ Alex” risponde lui “ Mi chiamo Alexander. ”

“ Alexander? Ma che hai fatto di male ai tuoi per essere chiamato Alexander? I nomi belli li avevano già presi gli altri?” gli chiede Jules con gli occhi larghi.
“ I miei sono Americani. Ci siamo trasferiti in Italia quando avevo otto anni.” Risponde lui con voce seria e un po’ imbarazzata.
“ Oh…. Americano!” sorride Jules verso di me, con lo sguardo di chi sta elaborando una teoria tutta sua, e vedo gli angoli della sua bocca arricciarsi verso l’alto.

 Oh, no. Che cosa starà progettando?

“ Sì, ok Alex. Piacere, io sono Bet, la riccia con la battuta pronta è Jules e la furia accanto a me, non che inquilina di questo appartamento, è Med. Ora,  ti dispiace se scambiamo due parole con la nostra amica psicopatica in privato?” continua Bet tirandomi per un polso verso la camera da letto, preceduta da Jules e dal suo ghigno malefico, e chiudendo la porta alle mia spalle.
 
“ Ditemi che è uno scherzo. Ditemi che siete due infami e avete architettato tutto questo come punizione per la mia acidità” le supplico appoggiandomi alla porta e lasciando che la mia nuca vi sbatta contro.
“ Secondo me è la cosa migliore che ti potesse capitare!” afferma Jules mentre si siede sul bordo del mio letto e, con indifferenza, afferra un cioccolatino dal mio comodino e se lo appoggia tra i denti.

Mangia anche il mio cibo, quella stronza.

“ La cosa migliore? Ma io non posso vivere con quel tipo! Ma l’avete visto?”
“ Certo che l’abbiamo visto! È un succulento giovane ed è Americano. Americano, Med! È perfetto per te! Tu adori tutto ciò che viene dagli USA!” prosegue lei entusiasta.
“ Sì, uno statunitense con l'educazione di una pianta carnivora. Non avete visto cosa ha fatto?” domando io voltandomi verso Bet, augurandomi che almeno lei mi dia ragione.
È impensabile che io possa vivere con quel troglodita e Jules è troppo selvaggia per capire il problema. Le mie speranze vanno necessariamente riposte nella mia amica bionda.

Sfortunatamente, però, lei mi sorride e risponde:

“ Med, l’unica cosa che abbiamo visto è stata tanta tensione sessuale da scaraventarci fuori dal palazzo!”
“ Io mi sono quasi eccitata” ride Jules dal letto, rubando un altro cioccolatino.
“ Jules…” la apostrofa Bet sfoderando la sua voce da maestra dell'asilo, ma lei alza solo gli occhi al cielo e persevera nel divorare i miei cioccolatini.

Io le guardo incredula e penso che vi sia qualcosa di terriblmente malefico che aleggia nelle loro anime. O è quello, oppure sono due grossissime idiote.
“ Voi siete serie! Voi credete davvero che dovrei accettare di condividere casa con lui! Con un tipo che mi ha ricoperta di frasi offensive da quando mi ha visto e che, probabilmente, è un maniaco?” chiedo con gli occhi spalancati, sbalordita.
“ Oh piantala! Capirai che grossi insulti! E poi non è che rischi che si prenda la tua virtù! Quella l’hai persa prima di incontrare lo zuccherino dal passaporto a stelle e strisce” mi fa notare Jules.
“ Dai Med, in fondo che alternative hai? È la padrona di casa che sceglie gli inquilini. E lei ha già affittato la stanza a lui. Tu non hai voce in capitolo. Quindi, a meno che tu non voglia perdere la caparra e cercarti una nuova casa, devi accettare che lui sarà il tuo nuovo coinquilino” Bet sorride mentre mi dice queste cose. Sta cercando di incoraggiarmi e Jules di sdrammatizzare la cosa e rendermela più accettabile.

“ A me piace questa casa. Mi  piace il mio piccolo buco di periferia” sussurro.
“ Ecco appunto, quindi basta lagnarsi. Vedrai che sarà divertente!” mi fa forza Jules.
Io le osservo con gli occhi sgranati e mi rendo conto che hanno ragione. C’è poco da fare. D’ora in poi dovrò vivere col Casanova dall' eloquio inopportuno .
 
Sconfitta, sconfortata e irritata apro lentamente la porta della mia stanza e faccio un passo fuori.

Alex se ne sta seduto sul margine del divano, dandoci le spalle, come se il resto del sofà scottasse. Se ne sta sul bordo tutto teso, quasi in ansia. Sembra in attesa di un verdetto.

E in effetti un po’ lo è.

Tiene i gomiti poggiati sulle ginocchia e le dita delle mani allacciate di fronte a lui. Vedo la sua testa voltarsi ogni tanto a destra e a sinistra per rubare un’occhiata furtiva a qualche angolo della casa. La sta studiando. Sta cercando di memorizzarne i particolari, i colori e l’ordine delle cose. Fa quasi sorridere come spia il salotto, muovendo appena il collo per poi riportarlo veloce nella posizione originale.  Scommetto che se gli stessi davanti in questo istante, lo vedrei far roteare gli occhi il più lateralmente possibile per vedere all’angolo estremo del suo campo visivo.

Continuo a fissare il retro della sua testa mentre mi avvicino a lui in silenzio, a questo punto,  molto poco conscia delle mie amiche dietro di me.

Vedere finalmente in questo tizio arrogante un po’ di insicurezza mi provoca un'enorme soddisfazione.
Sarà pur vero che non ho alternative e che dovrò condividere il mio microscopico spazio vitale con questo irritante soggetto, ma almeno potrò concedermi il lusso di vendicarmi rendendogli la cosa piuttosto spiacevole. Non mi dovrò sforzare più di tanto, data la mia poca piacevolezza caratteriale e, considerate le mie attuali condizioni psicologiche, suppongo che la cosa sarà ancora più spontanea.

Quando l’ho quasi raggiunto, Alex si volta di scatto verso di me e si alza in piedi. Mi fissa con uno sguardo interrogativo e si frega i palmi delle mani sulle cosce.

“ Sembra che la giuria abbia deciso che puoi restare” gli dico fredda. Le sue labbra accennano un sorriso, che io smorzo all'istante con l'ammissione del mio dissenso.

“ Non ti illudere, io ho votato contro.” concludo, con un tono privo di emozione, facendo riabbassare gli angoli della sua bocca.

“ Ah, ecco…giusto…senti io…” inizia lui insicuro e deluso.
“ Non provo alcun interesse nel sentire ciò che la tua mente fatica a produrre. Io non gioirei se fossi in te. Vivere con me non è per nulla piacevole, ma lo scoprirai col tempo.” Proseguo dirigendomi verso la porta accanto alla mia. “ Ora, il salotto l’hai visto. Lo stesso vale per la cucina. Se ti serve qualcosa, arrangiati. Il bagno è in fondo al corridoio. Questa è la tua stanza “ spiego, aprendo la porta “ C’è un letto singolo, un armadio, un cassettone e la scrivania. Internet è compreso nell’affitto, sempre che tu sappia usare un computer. Cosa di cui dubito.”

Mentre parlo sento all’improvviso il suo respiro solleticarmi il retro del collo.
“ E camera tua?” mi sussurra piano dalla sua posizione, a pochi centimetri dalla mia schiena.

Resto immobile, i miei polmoni smettono di funzionare per qualche secondo; la mano che ho sulla maniglia si stringe, cercando supporto. Separo le labbra e, per un solo istante, non riesco a pensare ad altro che al calore che proviene dal suo corpo. Poi mi risveglio bruscamente, la diffidenza ha dato una scossa ai miei sensi, ma mi rendo conto di non avere ancora il controllo della mia voce. Quindi, senza muovermi, bisbiglio di rimando:

“ Quella per te è off limits. Non ci puoi entrare, non ti ci puoi avvicinare, e non puoi neanche spiarci dentro. È come se non esistesse”
“ Fingere che non esista sarà la cosa più difficile al mondo, sapendo che sarai là, distesa nel buio, pensando a me.”

Che arrogante, tronfio idiota. Il sangue mi va alla testa per la rabbia. Ma questo che cavolo si è messo in testa?

Recupero il controllo di me stessa, mi volto e sorridendogli con sguardo malizioso, gli poggio le mani sul petto.  Gli occhi seguono le dita che disegnano cerchi sui suoi pettorali. Non so di preciso se sia il mio terribile ed incontrollabile orgoglio a guidare le mie azioni ma ho una irrefrenabile voglia di essere scorretta e rendergli pan per focaccia. Ma so di non possedere la vera arte della seduzione e di essere provocante come un treppiede. Eppure lui non deve essere molto scaltro perchè quando sposto lo sguardo sul suo viso, vedo che mi osserva compiaciuto. Mi lecco le labbra e  lo spingo con tutta la forza che ho.

 Lui traballa all’indietro, probabilmente colto alla sprovvista dal mio repentino cambio di atteggiamento, poi recupera prontamente l’equilibrio e mi fissa sconvolto.

“ Stammi a sentire, Alex l’imbecille! Piantala di farti viaggi mentali. Io e te non faremo mai nulla. Io con i perdenti non ci scopo” gli dico sicura, agitandogli un dito davanti al naso. Lui resta zitto e mi guarda: nei suoi occhi sono evidenti divertimento e curiosità.
“ L…” tossisce Jules dalla soglia di camera mia.
“ Non ora Jules” le risponde Bet per me.

“ Il fatto che sia costretta a dividere il mio spazio vitale con te, non implica che tra noi ci debbano essere contatti, ok? Fino ad ora non hai fatto nulla per dimostrarmi che tu sia degno anche solo della mia cortesia, e dubito che in futuro sarai in grado di smentirti. Quindi, fattene una ragione. Io sono una lunatica isterica che non sa controllare la rabbia. Sono facilmente irritabile, permalosa e non particolarmente socievole. Ora che sono stata così gentile da darti tutte queste informazioni, limitati alla tua porzione di appartamento e fai in modo di evitarmi, se ami il tuo fondo schiena e ci tieni a vedere il tuo prossimo compleanno!”
Ecco nuovamente calare il silenzio nella stanza. Sono così tesa che se mi sfiorassero probabilmente morderei. Non so perché lui mi dia così sui nervi.
Bet e Jules sembrano imbarazzate per me. Si scambiano un’occhiata complice e recuperano le loro cose.

Alex resta fermo per qualche secondo, guardandomi negli occhi. Sta cercando di leggermi dentro, lo percepisco. Con l’intensità del suo sguardo mi sento praticamente nuda. Non riesco a reggerlo troppo a lungo. Devo rompere la connessione che ha creato, prima di affogare nel blu elettrico di quelle iridi e ritrovarmi fottuta.
Distolgo lo sguardo e lui fa un passo verso di me.

“ Tranquilla Scintilla, non ti toccherò. Hai la mia parola” ribatte, cercando i miei occhi.

“ Bene. Siamo d’accordo allora” rispondo io tenendo il viso voltato, lontano da quei magneti blu.
“ Per ora direi di sì.” conclude lui, mentre mi sfiora il collo con un dito “ Per lo meno fino a che non sarai tu a chiedermi di farlo” aggiunge sicuro. La sua voce si è fatta più grave di un’ottava.

Ci metto qualche secondo per registrare le sue parole. Sto per aggredirlo nuovamente quando Bet mi ferma:
“ Sì, ok, d’accordo. Quando avete finito di flirtare senza pietà ditecelo così possiamo farci largo tra i vostri ormoni e salutare.”
Jules scoppia a ridere “ Non avrei potuto trovare parole migliori”

Che amiche di merda!
Io resto imbambolata a guardarle, poi apro e chiudo la bocca come un minorato pesce rosso alla ricerca di una risposta sufficientemente pungente e ad effetto.

“ Stai zitta Med, ti prego. È stato molto divertente vedere questo porno in proiezione astrale, ma ho un esame tra cinque giorni e me ne devo andare” mi ammutolisce Bet, avvicinandosi per darmi un bacio a schiocco sulla guancia.
“ Io devo andare a fare pace con Cucciolo, prima che la situazione degeneri. E poi vogliamo lasciarvi tempo per conoscervi” ridacchia Jules dandomi una pacca sul sedere e facendomi l’occhiolino.

“ E’ stato un piacere incontrarti, Alex. Trattamela bene, mi raccomando. Ah, e giusto per la cronaca, non so per quale ragione, ma a lei piace stare sotto” canticchia uscendo dalla porta d’ingresso.
“ Ahahah! E ha un punto erogeno sul basso ventre!” aggiunge Bet , seguendo Jules fuori da casa mia.
“ Stronze!” grido io alle loro spalle, ma se ne sono già andate.
Fisso la porta, conscia del fatto che Alex se ne sta in piedi accanto a me. Sento i suoi occhi che mi scrutano. Ma non mi voglio voltare; se lo faccio si accorgerà di quanto sono imbarazzata e non voglio dargli questa soddisfazione.

“ Molto interessante!” sussurra lui
“Non farti strane idee, impotente” dico marciando verso la mia stanza, ben decisa a porre una maggiore distanza tra me e l'atteggiamento strafottente e invadente di questo Alex.

“ Hey, ma non mangiamo?” mi chiede facendo qualche passo nella mia direzione.
“ Mangiamo? Perché il plurale? E poi non hai detto che sono grassa? Se hai fame ordinati una pizza. Non penserai certo che io abbia intenzione di dividere il mio cibo con te o di deliziarti con la mia cucina?”
“ Ah, sei una brava cuoca?”
“ Bravissima. Peccato che non avrai mai l’occasione di scoprirlo” fingo di sorridere mentre gli sbatto la porta in faccia.
 
Resto chiusa in camera per buona parte del pomeriggio. Leggo, scrivo, fingo di studiare. Cerco di fare qualsiasi cosa per distrarmi dal pensiero di Alex nella stanza accanto. Non so se mi attizza di più o se mi fa più incazzare. In ogni caso, lo voglio lontano da me. L’ho sentito muoversi per la casa, mentre portava dentro tutte le sue cose e riordinava la sua nuova stanza.
Oddio, questa giornata era cominciata male ed è finita in modo disastroso.
Sapevo dall’istante in cui ho aperto gli occhi che era uno di quei giorni in cui non mi sarei dovuta alzare dal letto. Perché quando c’è il giorno nero, te lo senti nelle ossa.

Apri gli occhi, annusi l’aria e ti guardi attorno. Afferri il cellulare e non trovi nulla. Ti alzi per fare il caffè e ti accorgi che ce n’è a sufficienza solo per riempire metà del filtro della moka. E allora sai che berrai acqua sporca.
Ti fai la doccia e, a metà resti senza acqua calda. Così esci infreddolita e con i capelli insaponati e te li sciacqui nel lavandino. Ma è una sensazione fastidiosa. Hai i polpastrelli rigati per il calore della doccia, e il contrasto con il getto freddo del lavabo fa solletico e ti fa venire voglia di morderti le dita. E poi ti sembra che i capelli non siano mai ripuliti completamente dalla schiuma.
Esci dal bagno e ti ricordi del caffè. Che ovviamente è già salito, debordato ed in fase di bruciacchiatura. Lo spegni, ti abbandoni a qualche parolaccia e vai ad asciugarti i capelli.
E stai sicura che ti verranno in modo orrendo. Se ne staranno spiaccicati sulla testa, tutti elettrici e con onde che non riesci a eliminare. E così assomiglierai alla Maga Magò tutto il giorno. E come ciliegina sulla torta magari hai anche un meraviglioso brufolo sul mento! Et Voilà! Tutti sintomi del fatto che stai per vivere una giornata infernale.

Mentre faccio questa riflessione, sdraiata a pancia in su sul letto, sento il telefono di casa che squilla. Salto in piedi e corro in salotto per rispondere.
 
Spalanco la porta di camera mia, salto sul divano e afferro la cornetta.
“ Accidenti che atleta! Mi ricordavi un ippopotamo con due zampe rotte!” ridacchia Alex dalla cucina.
Volto la testa e, portandomi il cordless all’orecchio, gli faccio una linguaccia.

“ Molto maturo, Med!” dice lui sorridendo e scuotendo la testa.

“ Pronto?” canticchio io nel ricevitore, continuando a guardarlo e portandomi un dito alle labbra per fargli capire di tacere. Lui alza gli occhi al cielo e ricomincia a imbottire il suo panino. Devo ricordarmi di chiedergli dove ha preso gli ingredienti. Se è roba mia, mi sente.
“ Che stai facendo?” sento rispondere dall’altro capo della comunicazione.
“ L!” esclamo un po’ troppo entusiasticamente io, tenendo lo sguardo fisso sul ragazzo nella mia cucina. 
“ L?” mi chiede lui confuso.

Ops, nome sbagliato. Distolgo l'attenzione da Alex e recupero il controllo della conversazione:
“ L... love, ovviamente!” Ah! Salvata in corner.
“ Love? Med, sai perfettamente che tra noi è solo un rapporto fisico. Siamo amici, io ti adoro, sei una persona fenomenale. Ma non sei il mio tipo. Io non me la sento di fidanzarmi con te.” Mi dice lui serio ed io, con un morso allo stomaco, non posso fare altro che alzare gli occhi al cielo.

Che delicatezza.

Pensavo di essermi salvata e, invece, mi sono tirata la zappa sui piedi.
“ Rallenta. Chi ti ha detto che stavo parlando d’amore. Era in senso lato. Nemmeno io voglio qualcosa di più”.
Grande bugia. Ma non farò certo la parte di quella debole.
In realtà il mio è uno sforzo superfluo: è abbastanza evidente a chiunque ci conosca chi dei due ha il coltello dalla parte del manico.
Il mio viso si fa più scuro per la vergogna e per la delusione: io ho piena coscienza di come stanno le cose. Ci ho messo tanto per accettarlo, ma so che questa è una storia senza futuro. Ma sentirselo dire non fa piacere.

Alex si avvicina lentamente al divano e, alzando la testa, mi rendo conto che mi sta osservando. I nostri occhi si incontrano e, per l’ennesima volta, realizzo che sta cercando di vedermi dentro. Non esiste. Non ora! Quando vedo che si piega verso di me per curiosare meglio, distolgo lo sguardo e inizio a giocare con il bordo dei jeans.
Le persone con gli occhi così magnetici mi danno sui nervi: godono di uno spregevole vantaggio, oltre che di uno spiccato favoritismo estetico, ovvio. Ma è abbondantemente scorretto usare il proprio potere stile Pokemon per fregare noi poveri inutili individui dagli occhi normali e, nel mio caso, pure un po' insulsi.
Penso che Alex se ne dovrebbe andare e, per farglielo capire, mi allontano e mi concentro su L che sta ripetendo il mio nome all'infinito; fa sempre così quando distogli l'attenzione da lui per qualche secondo. È un egocentrico patologico.

"Med? ... Med? ... Med?!" una vera e propria cantilena.
“Sì, ci sono. Dimmi, che c’è?” gli rispondo mettendomi ad accarezzare i dorsi dei miei libri stipati sulla minuscola mensola del soggiorno.
“Senti, ho bisogno di una mano. Lunedì ho l’orale di farmacologia, e non ho ancora studiato nulla. Mi aiuti?” mi chiede con voce gentile.
Farmacologia? Ma io l’ho data sei mesi fa!
“ Certo, come no.” Rispondo io con un po' di noia, senza voltarmi: so che Alex sta ascoltando e mi sta fissando e ritengo incredibilmente necessario fare il possibile per impedirgli di farsi gli affari miei. Tentativo vano visto che il salotto sarà sì e no 12 mq, ma almeno ci provo.

“ Solo se non è un problema.” Continua la sua opera di "corteggiamento" L, fingendo una cortesia che non gli appartiene. Sa benissimo che non so dirgli di no. E sa benissimo che lo aiuterei a prescindere. E lui non si fa certo scappare l’occasione.
“ Ma no, figurati, nessun problema.” Sussurro io, a questo punto assolutamente conscia di avergliela data vinta. Come sempre, d'altronde.
“ Ok, perfetto. Arrivo tra dieci minuti, ok?” cinguetta lui, soddisfatto.
“ Ok, ti aspetto...” ma lui ha già riattaccato. Che affettuoso.
 
Schiaccio il pulsante rosso del telefono e mi porto una ciocca di capelli dietro l’orecchio: lo faccio quando sono a disagio ma, fortunatamente Alex questo non lo sa.
“ Stiamo per ricevere visite?” mi domanda Alex ora comodamente affondato in una delle poltrone e addentando il sandwich.
“ No, io sto per ricevere visite. Tu stai per sparire dalla mia vista.” Rispondo con la giusta dose di acidità e dirigendomi verso la cucina con il chiaro intento di allontanarmi da questo sconosciuto.
Lui deposita il panino sul tavolino da caffè al centro del salotto e mi segue, per nulla scoraggiato dai miei modi scortesi.

“ E dai, non essere così scontrosa! Sto solo cercando di fare conversazione.” afferma restando in piedi di fronte a me, dall’altra parte del piccolo bancone della mia, anzi, nostra cucina, e posandoci sopra le mani a sorreggere il suo corpo.
“ Oh, che carino! Ma ti consiglio di smettere di provare.” Rispondo mentre appoggio la moka sul fornello e distolgo nuovamente il viso dalla sua traiettoria.
“ Avanti, Med! Dobbiamo vivere insieme, cerchiamo di rendere le cose più facili!” mi dice porgendomi una tazza e trovo la sua cortesia vagamente urtante: sono una stronza sensibile, io. Mi è difficile mantenere l'atteggiamento scostante con chi ha atteggiamenti educati. Ragion per cui mi auguro la smetta con una certa rapidità.

“ Alex, quale parte di stai lontano da me non hai capito?”
“ Oh, mi è chiarissima quella parte. Ma non sono bravo ad applicare le regole.”
“ Beh, ti consiglio di imparare. Io non ho alcuna intenzione di avere a che fare con un arrogante cafone che si permette di dire le cose che tu hai detto a me, ad una sconosciuta.”
“ Senti, mi dispiace, ok? Lo so che ho esagerato, ma non sono riuscito a controllarmi. Tendo a non pensare prima di aprire la bocca. E poi tu me l'ha servita su un piatto d'argento.”
“ Io neppure sapevo che tu fossi lì! E in ogni caso, conserva le tue scuse forzate per qualcuno che se le beva. Tu stai solo cercando di ammorbidirmi per poterlo usare a tuo vantaggio. Io quelli come te li conosco bene. Ve ne approfittate di tutti e di tutto, sfoderando charme e gentilezza quando sapete che andrà a vostro favore. Sei un ipocrita e un opportunista.”

Quante cazzate che dico: io questo tizio non so neppure come fa di cognome. Eppure mi piace millantare saccenza. Vengo da una famiglia di tuttologi: è un problema ereditario.

“ Come l’ospite che ci sta per raggiungere?” azzarda lui e devo ammettere che ha la giusta concentrazione di sfacciataggine.
“ Cosa? Tu non sai nemmeno di cosa parli, ok? Fatti gli affari tuoi Alex, o questa convivenza sarà ancora di più difficile del previsto”

“ Sai cosa penso?”

“ No, e sinceramente non mi importa nemmeno.” Dico tenendo la testa bassa mentre osservo il caffè salire nella moka. Anche senza guardarlo, avverto i suoi occhi su di  me e mi accorgo che si sta muovendo nella mia direzione. Cerco di ignorarlo fino a quando non vedo la sua mano accanto alla mia tazza, e non percepisco la sua presenza vicino al mio braccio sinistro.
“ Oh sì invece che ti interessa. Ma hai paura di ascoltare, perché temi che ti dica esattamente ciò che non vuoi sentire.” Mi sussurra piano.
Arrossisco per qualche strana ragione, ma lascio che i capelli mi ricadano attorno al viso, creando un muro protettivo e impedendogli di vedere l’effetto che mi sta facendo.
Avanti Med, piantala di comportarti come una scolaretta alle prime armi.

Non rispondo. Resto in silenzio, versandomi un po' di caffè per mantenermi impegnata, fino a che lui non ricomincia a parlare.

“ Perché ti chiamano Med?” bisbiglia, ed è talmente vicino che il suo respiro fa muovere una ciocca di quei capelli che mi proteggono dai suoi occhi.

“ Perché avrei voluto fare il medico.” Rispondo guardando dentro la mia tazza.

Med, stai zitta.

“ E che è successo?” mi domanda, senza allontanarsi.
“ La vita è successa” ribatto, cercando di nascondere l’emozione nella mia voce.

Med, che cazzo fai? Stai zitta!

“ Che cosa vorrebbe dire?” mi chiede.
Credo che i battiti del mio cuore stiano accelerando, e non so se la causa è la sua vicinanza o il fatto che questo è un tasto sensibile per me. Mi schiarisco la gola, poi alzo la testa e la ruoto verso di lui. Il suo viso è talmente vicino al mio che sento le guance andarmi a fuoco.
Ed ecco di nuovo quegli occhi intensi cercare di scrutarmi dentro: meledetti superpoteri da Pokemon.

Voglio distogliere la sguardo, ma non ci riesco. Ci fissiamo per qualche istante, poi mi accorgo che sto per rispondergli. E la cosa drammatica è che sto per dirgli la verità. Sono un'imbecille.
“ Vuol dire che…” vengo interrotta dal suono del campanello, che mi risveglia dall’incantesimo in cui i suoi occhi mi avevano intrappolata. Sposto il peso da un piede all’altro mentre lui solleva il viso e respira profondamente, irritato da ciò che ci ha interrotti.

Lui sarà anche infastidito, ma io ringrazio L per avere il tempismo migliore del mondo.

Gli tocco il braccio e faccio un po’ di pressione per fargli capire di spostarsi. Lui esita un secondo, guardandomi; poi fa un passo indietro e lascia libero il passaggio.
“ Forza Alex, vai in camera tua” dico dirigendomi verso la porta per aprire.
“ No grazie, mamma. Penso che resterò qui ancora qualche minuto. Credo che sarà interessante.” Sorride versandosi il caffè rimasto e portandosi la tazza alla bocca.
Io faccio una smorfia di disapprovazione mentre mi allontano da lui e mi dirigo verso l'entrata di casa, e lui ride. Afferro la maniglia e, abbassandola, dico:
“ Ehi, mi sembrava di averti detto di non toccare il mio cibo!”
Lui finge di non avermi sentito e alza le sopracciglia soddisfatto, spostando lo sguardo da me alla porta. Cazzo quanto è curioso!

L cammina dritto nell'appartamento, senza degnarmi di un saluto. Non mi guarda nemmeno, mi sorpassa come se non esistessi. È proprio un troglodita.
“ Ciao anche a te” sussurro tra i denti richiudendo la porta e riconsiderando la brillante idea di sostituirlo con un vibratore.
L si è fermato a qualche passo dall’entrata e vedo che fissa verso la cucina. Magnifico!
“ Ciao, tu chi sei?” domanda guardando sospettoso Alex.
Lui non fa una piega. Lo fissa e gli risponde:

“ Alex.”

L si volta nella mia direzione “ E chi è Alex?”
“ Puoi chiederlo a me, non sono scemo. So rispondere anche io alle domande” ribatte Alex mentre lo avvicina e proseguendo afferma con un sorriso smagliante:
“ Sono il nuovo coinquilino di Med.” Gli tende la mano “ Piacere.”

L abbassa gli occhi verso il suo braccio, poi li rialza  e risponde “ Ah. Piacere.” e riprende a camminare verso il salotto.
“ Educato il tuo amico.” Mi dice Alex sottovoce, alzando le spalle. Io cerco di nascondere un sorriso.
“ Beh, penso che vi lascerò studiare in pace. Vado a vedere se trovo un supermercato aperto. Devo fare un po’ di scorte” esclama afferrando il suo giaccone “ visto che non mi è permesso toccare il cibo già presente in casa” ride voltandosi verso di me e facendo l’occhiolino. Io lo ignoro e lo saluto con la mano.
“ Ok…ciao Alex…e se ci riesci, non tornare proprio” rispondo dirigendomi verso il salotto.
“ Cazzo, quanto sei cattiva” sghignazza lui aprendo la porta “ Ciao uomo che non ha un nome. È stato un piacere” grida richiudendosela alle spalle e, con la sua uscita, mi sembra d'improvviso che in casa ci sia più ossigeno. Questo ragazzo è estenuante, lo percepisco.
 
Sospiro e raggiungo L sul divano, già annoiata al pensiero di quello che mi aspetta e cercando di ricordarmi perché ho accettato di aiutarlo.
Mi rannicchio all’estremità destra del sofà e lo osservo mentre tira fuori i libri.

C’è poco da fare, L è proprio bruttino e più lo scruto, più cerco di capire perché tiro avanti questa pseudo relazione. La nostra non è nemmeno amicizia. Non è nulla. È un rapporto inutile, che va solo a suo vantaggio e che mi spinge ad accettare cose che, per il mio carattere e la mia morale, sarebbero fuori discussione. Eppure le rotelle del mio cervello smettono di girare quando si tratta di lui; il mio amor proprio va sotto le scarpe e accetto qualsiasi cosa. E la cosa mi fa incazzare con me stessa in modo non indifferente.
 
Siamo proprio una specie assurda, noi esseri umani: certe volte rincorriamo ciò che ci fa più male, ciò che non ci rende persone migliori, anzi. Impegniamo ogni nostra cellula nel conseguimento di quell’obiettivo, anche se siamo consapevoli che è fuori dal nostro controllo.
Forse lo facciamo perché la sentiamo come una sfida: cambiare e modellare l’oggetto del nostro desiderio, in modo da renderlo come noi lo vorremmo. Mera illusione. Ci convinciamo di riuscire a gestire situazioni che non dipendono da noi e, nel processo, la presa di coscienza del non riuscire nella nostra impresa, ci fa sentire peggio ogni secondo che passa.
Inseguire qualcosa che è sbagliato per noi, che lentamente ci distrugge e ci trasforma in ciò che non vogliamo essere. A quale scopo? Forse ci fa sentire vivi. Forse crediamo che la felicità sia un’utopia, e allora, qualunque cosa ci faccia sentire emozioni, persino il dolore, è meglio dell’apatia. È meglio del vuoto e dell’assenza totale sensazione. Perché se non provi nulla, hai l’impressione di vivere in una bolla di staticità. Di osservare il mondo da lontano e di non riuscire a seguire con lo sguardo le immagini che ti passano davanti.
E allora corri verso quel film, quell’insieme di fotogrammi, pieno di squallore, ipocrisia e egoismo; e ti ci tuffi dentro. Ti aggrappi alla prima scena che ti trovi a portata di mano e ti ci immergi. Perché non sentirti escluso è l’unica cosa che conta. Vuoi farne parte. Vuoi appartenergli, anche a costo di dover provare sofferenza. Perché sai che almeno sentirai qualcosa. Che non osserverai più da lontano, ma ci starai vivendo dentro.

Che splendida sega mentale sono appena riuscita a fare? E tutto usando la bruttezza di L come perno. Sono davvero una professionista.

“ A che pensi?” L interrompe i miei pensieri fissandomi.
“ Nulla di importante” rispondo con un sorriso e afferrando un quaderno. “ Allora, non hai proprio nemmeno letto nulla?”
“ No, speravo mi avresti aiutato tu a imparare le cose fondamentali”. Certo, come sempre. Non sforzarti troppo, eh?
“ Va beh, direi che ci conviene cominciare” rispondo sfogliando le pagine.
Inizio a ripetere ciò che mi ricordo, mentre lui mi osserva. Non sono sicura che mi stia ascoltando o che stia capendo le mie spiegazioni, ma proseguo comunque.

Dopo un’oretta di ipotetico studio, sento una delle sue mani sulla mia coscia, e mi blocco. Alzo gli occhi dal libro e incontro i suoi. Lui non dice nulla, accenna un sorriso e poi si piega verso di me e mi bacia.
“ Credevo dovessimo studiare.” mormoro contro le sue labbra
“ E’ quello che stiamo facendo...” mi risponde, facendo salire le dita verso la parte superiore della mia gamba “ ma credo che ci meritiamo una pausa.”.

Non sono neppure sicura di aver voglia di stare con lui, ma poi la sua bocca sfiora il mio collo e decido di bloccare fuori ogni pensiero razionale.
Lascio cadere il libro a terra e afferro il retro della sua nuca con entrambe le mani, e perdo la cognizione del tempo e dello spazio, abbandonandomi all’unica cosa che so non mi permetterà di pensare troppo. Perché se dovessi farlo, non ne verrebbe fuori nulla di buono.

Quando apro gli occhi e mi risveglio dal sonno, mi rendo conto che attorno a me tutto è avvolto dal buio e dal silenzio.
Cerco di scrutare la stanza, ma è talmente scuro che non vedo nulla. Chissà che ore sono. E che cavolo di fine ha fatto L?
Mentre la mia mente si attiva e la stanza attorno a me comincia ad assumere nuovamente consistenza e forma, percepisco una presenza immobile alle spalle del divano: per un istante penso sia L, poi mi ricordo che è un verme e che è impossibile che sia ancora qui.

Per un attimo, quindi, valuto la possibilità che si tratti di un fantasma: sono sempre stata convinta che nella mia vita ce ne fosse uno che mi segue ovunque. Io lo chiamo Johnny.

Poi sento una risatina soppressa e mi ci vuole qualche secondo per ricordarmi che da oggi non ho più il lusso di essere l'unica residente dell'appartamento 3B e rendermi conto che si tratta, in realtà, di Alex.

Oddio, sono vestita, vero?

"Sei sveglia, roomie?" la sua voce ha una punta di ilarità che gratterei via con una pietra pomice e, sfortunatamente per me, il mio tentativo di ignorarlo non lo scoraggia dal cercare nuovamente l'interazione.
"No" grugnisco.

Eh già Med, mossa geniale. I dormienti rispondono sempre.

"Lo sospettavo: erano un paio di minuti che non russavi più." ribatte lui chinandosi sullo schienale del divano e appoggiandovisi con tutto il peso.
Come si manda via un molesto gnocco Statunitense? Lo spray per gli scarafaggi non funziona, vero?

"Io non russo. Ho il respiro pesante.” puntualizzo nella speranza che, una volta percepito il mio distacco, si levi dalla mia presenza. Eppure la mia nota scontrosa sembra avere solo l'effetto opposto con Mr Invadenza che da oggi abita con me.
"Med, non puoi rimanere qui."
"Certo che posso. È il mio divano."
"Nostro divano. E non puoi perchè russi troppo e io non riesco a dormire." sento una delle sue mani sulla spalla scuotermi per assicurarsi che io resti sveglia.
"E come lo sai? Stavi lì a fissarmi al buio come un maniaco sessuale."
"Speravo di riuscire a fermare con la forza del pensiero il rumore che producevi." all'affermazione mi volto per guardarlo con aria indispettita "Turns out che sei molto più potente di me. Suppongo che la tua superiorità sia da attribuire alla tua possente cassa toracica." conclude abbozzando un sorriso fastidioso, mentre i suoi occhi si dirigono a sud e si posano sul mio seno.

Porco impudente.
Oddio, non ho verificato se sono vestita o no!

Velocemente abbasso le mani e controllo se porto una maglietta e, una volta appurato che ho - non so quando - indossato il pigiama, ammonisco il simpatico Alex:
"Come sospettavo. Sei un deviato."

Lui inclina la testa di lato e mi osserva curioso; il suo silenzio e questa mania di scrutare il viso altrui mi mettono a disagio.

"Che vuoi?!"
E sorride. Lui sorride. Io mi urto e lui sorride!
"Sembra che qualcuno ti abbia abbandonata sul divano. Che fine ha fatto il tuo amico?"
Sento una morsa di dispiacere attanagliarmi l'esofago alla sua domanda, perché le sue parole non fanno che ricordarmi come si è comportato L.
 Evito di rispondere e, levandomi la coperta di dosso, mi alzo dal mio posto sul sofà e mi dirigo verso camera mia.

"Oddio, quel coso che indossi è un pigiama?" mi domanda seguendomi fino alla soglia della mia stanza.
"Vaffanculo" borbotto sperando che si decida a lasciarmi in pace.
"Ci vado più volentieri con te" canticchia appoggiandosi allo stipite della mia porta e proseguendo con la sua opera di insulto libero nei confronti del mio abbigliamento notturno.

"Credo di non avere mai visto un pigiama più brutto. Ti hanno pagato i tizi del negozio per far sì che tu lo comprassi?"
A questo punto ho ampiamente superato il mio limite di sopportazione, ragion per cui mi volto e, regalandogli un sorriso inacidito, rispondo:

"E’ vintage, coglione!"

E, per la seconda volta nel giro di poche ore, gli sbatto la porta in faccia.
Lo sento sghignazzare mentre se ne torna in camera sua augurandomi una serena notte.
Ma proprio con un tipo del genere dovevo finire col dividere casa? Quel tizio peggiorerà la mia già labile stabilità psico-emotiva.
Sufficientemente provata dagli eventi della giornata, accarezzo il bordo del mio bellissimo pigiamino e, sospirando stanca, mi lascio cadere sul letto.

Che fatica essere un membro attivo del mondo!


AN: sappiate che senza leti10 vi sareste probabilmente fatti delle risate impareggiabili incontrando l'altissimo numero di errori di battitura con cui avevo farcito questo capitolo (ad es: solatto al posto di salotto, possaporto, chiandosi...): fortunatamente tutto ciò passa prima sotto le sue preziose e attente orbite oculari.

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Capitolo 5
*** Due per Due ***


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due per due



Due per Due



L. Parliamo un po' di L e di come è finito col divenire anche solo vagamente rilevante nella mia vita.

In tutta sincerità non lo so bene neppure io: un bel giorno me l'hanno presentato e, in qualche maniera, lui ha iniziato a provarci. Non vi dirò sciocchezze: pensavo scherzasse finché non mi ha baciata. Poi ha proseguito nella sua arte del tampinamento perenne ed io, nella mia palla di insicurezza, ho lentamente cominciato a sentirmi bene e importante; più lui mi cercava, più io vedevo cose positive in questo ragazzo dagli occhi nocciola, l'aspetto non propriamente affascinante ma, senza dubbio, un potente carisma che catalizza un po' l'attenzione di tutti, vuoi perché è a tratti divertente.

Sta di fatto che, un bel giorno, lui aveva smesso di essere quello che mi cercava ed io ero diventata quella che palpitava all'idea di uscire a cena con lui o che restava in attesa della sua proposta di passare per un film da me: ha giocato bene le sue carte, ha saputo manipolare con arte la mia insicurezza finché io non sono diventata quella che pendeva dalle sue labbra e che elemosinava la sua attenzione.

Dentro di me ho sempre saputo di non avere l'esclusiva: ma a me non importava. Mi interessava sapere che - gira che ti rigira - alla fine lui tornava da me.

Nel processo di sedimentazione di L nella mia esistenza, insomma, ho disintegrato ogni forma di rispetto per me stessa e di dignità personale. Non ne vado fiera ma non posso neppure negare ciò che ho fatto e che ancora, in qualche misura, trascino avanti.

Diciamo che sono stati fatti grandi progressi negli ultimi mesi: ora sono in grado di ammettere che lui è uno stronzo ripieno, con la curiosità intellettuale di un frullatore e la sensibilità di un caterpillar. Sul fatto che sia brutto non commento: deve essere il classico caso in cui il carisma si riflette sul lato estetico e lo fa risplendere. Io ora sono ancora vittima del potere originario di questa cosa e, benché sappia che non sia propriamente bello, quando mi bacia l'ormone parte in automatico.

E poi neppure io sono una gnocca, ragion per cui non miro troppo in alto. Forse.

Sta di fatto che l'idea che io non possa aspirare ad altro o che mi debba tenere stretto L perché rischio che nessun altro mi si voglia fare, balena nella mia mente più spesso di quanto mi piaccia ammettere: sì, lo so, è mortificante. Ma ve l'ho detto che con L ho ridotto in poltiglia la mia stessa dignità.

Se la vedete in giro e riuscite a ricostruirla, mi trovate sulla Pagine Bianche.

Ho preso 25 in Botanica. Sono stato bravo, vero? Tu non l'hai ancora dato, giusto? Adesso sono più avanti di te ehehehe. 

Leggo il suo sms con disinteresse e con un briciolo di umiliazione: sono passate due settimane dalla sera in cui l'ho aiutato a preparare Farmacologia (che, per la cronaca, ha passato con un pingue 21) e, dopo essersi pavoneggiato per qualche ora mentre prendevamo un caffè al Bar dell'Università insieme ad alcuni compagni di corso, è sparito dalla circolazione per ricomparire stamattina con questo insopportabile messaggio.

Se ve lo state chiedendo, sì, L è la classica persona che si fa grande delle sconfitte altrui, invece che delle proprie vittorie. Ed è di un'arroganza al limite del legale.

Imbarazzata e pure un po' incazzata cancello il messaggio senza degnarlo di una risposta e lascio cadere il cellulare nella mia borsa, raccogliendo un paio di libri da terra e infilandomi un maglione, prima di scaraventarmi fuori dalla mia stanza ed essere salutata dalla schiena di Alex che sta armeggiando in cucina.

Il mio molesto coinquilino si ostina a materializzarsi in casa quando ci sono io e ancora non sono riuscita a convincerlo a cercarsi una nuova collocazione immobiliare: sostiene che il mio morbido culo abbia poteri paranormali che lo hanno spiritualmente incatenato a questo appartamento e al suddetto sedere.

Nelle due settimane di condivisione dello spazio vitale, io ho perseverato nella mia crociata di rendergli impossibile la vita in appartamento e di manifestargli tutto il mio fastidio nei suoi confronti; lui, da parte sua, ha continuato a divertirsi un sacco lanciandomi frecciatine, sfottendomi e cercando di interagire con me. Sospetto che il mio approccio lo stimoli e lo incoraggi: forse dovrei cambiare modus operandi ma il baldo giovine mi sta eccessivamente sui cosiddetti ed io non riesco a trattenermi.

Manco totalmente di autocontrollo per nascita. Apparentemente non vi è rimedio: Jules dice che neppure la psicologia azzarderebbe un passo nella mia direzione. Sostiene che Hannibal Lecter sarebbe un caso con maggiori speranze di me.

“ Ah! Sono in ritardissimo!” strillo, correndo verso la cucina e Alex si volta a guardarmi curioso. Come sempre.
“ In ritardo per cosa?” risponde, versandosi il caffè.
“ Devo andare in segreteria a consegnare delle carte. E non ho sentito la sveglia. Non che questi siano affari tuoi, comunque” ribatto mentre estraggo uno yogurt dal frigorifero e zompetto da una parte all'altra della cucina, raccogliendo il necessario per la mia colazione take away.

“ Ovviamente” dice lui sottovoce.

Ignorandolo, mi volto e osservo la tazza che si sta avvicinando alle labbra.

“ E’ caffè quello?” chiedo sospettosa.
“ No, è sangue di pipistrello! Certo che è caffè!” sorride alzandolo orgoglioso e sul mio viso prende vita un'espressione contrariata.
“ Mi sembrava di averti detto di non usare le mie cose” puntualizzo facendo qualche passo nella sua direzione.
“ Magari l’ho comprato anche io, no?” continua lui.
“ Ne dubito” concludo, togliendogli la tazza fumante dalle mani.


“ Ehi!” si lamenta lui, avendo apparentemente qualcosa da ridire sul mio comportamento mattutino: io decido di non curarmi delle sue proteste e faccio qualche passo lontano dal suo corpo.
“ Tanto è mio, e poi sono in ritardo. Tu te lo puoi rifare” rispondo soddisfatta, accingendomi a sorseggiare il mio carburante alla caffeina. 
“ Tu quello non lo puoi bere!” mi ferma lui e appoggia una mano sul mio avambraccio per impedirmi di portare la tazza alla bocca.

“ Perché no?” chiedo guardando nel caffè confusa.
“ Perché c’è lo zucchero.”
Io lo osservo disorientata e resto in silenzio nell'attesa che si decida a elaborare il suo insignificante pensiero.

“ Credevo avessimo stabilito che le calorie sono veleno per te. Il tuo sedere ha già fenomenali poteri esoterici così com'è. Se cresce ancora, conquisterà la Terra.”

Oh, l'idiota si sente in vena di battute questa mattina.

“ Ringrazia solo che il mio didietro non abbia una mente propria o a quest'ora ti avrebbe già denunciato per molestie e stalking” ribatto sorseggiando la mia fonte di energia.
“ Se avesse una mente sua si sarebbe sbarazzato di te e della tua acidità e saremmo accoccolati a contemplare la sua delizia in questo momento. Io e Lui. Tu sei di troppo.” ridacchia lui preparando una seconda moka.

“ Tutto ciò mi rincuora. Quindi non mi potrai ritenere responsabile quando Lui si siederà su di te e progetterà di farti fuori. Chiederò a Bet se questa difesa potrà mai reggere in tribunale. Ora, se non ti dispiace, non ho altro tempo da sprecare con te” taglio corto, girando sui tacchi e prendendo il cappotto.
“ Puoi fare una cosa per me, Alex?” gli chiedo con voce melliflua.
“ Sarebbe?” domanda curioso.

“ Non farti trovare quando torno. Sparisci per sempre. Questo porterebbe il voto medio di questa giornata a dieci!” Sorrido, appoggio la tazza vuota nella lavastoviglie e mi dirigo verso l'uscita.
“ Sei adorabile già di prima mattina, eh? Comunque no, non posso fare quello che mi chiedi.” Ricambia il mio sorriso e addenta una fetta di pane e marmellata.
"Sono certa che il mio Signor Morbido Sedere scoprirà il modo di sbarazzarsi di te, allora" minaccio poi, aprendo la porta.
"Oppure io e Lui scopriremo come liberarci di te e potremo vivere serenamente la nostra inevitabile passione." arriva prontamente la sua risposta ed io posso solo sospirare e dichiararmi sconfitta per questo round.

Non ho proprio tempo di discutere con questo pomposo imbecille.

Incamminandomi verso la fermata del tram che mi condurrà in università - meglio nota come l'Inferno -, immersa nell'aria pungente e nel frastuono del traffico della città, mi impongo di non pensare. E mi rendo conto che è una cosa che faccio spesso da un po’ di tempo a questa parte. Pensare mi fa male. Mi annebbia la vista. Mi sento debole e in preda agli eventi ogni volta che lo faccio. L’unico modo per non cancellare il mio sorriso è impedire alla mia mente di riflettere su quello che mi succede. Perché ogni volta che mi fermo e osservo dove sono e valuto i perché di questi miei ultimi mesi, vengo attanagliata da un'angoscia che non so controllare. Ho come l'impressione di essere schiacciata ogni secondo dalle mie scelte, di essere costretta a valutare cosa e quando ho sbagliato, a decidere come rimediare a certi errori: e forse non sono pronta a farlo.
Forse non sono ancora in grado di alzarmi in piedi e ammettere che ci sono tante, troppe cose che devo cambiare. O, molto più semplicemente, non so come voglio cambiarle.

Mentre cammino con passo spedito respiro a pieni polmoni e deglutisco le lacrime che, troppo spesso, accompagnano questi pensieri. Io odio piangere: non perché sia segno di qualche tipo di debolezza ma perché in me, la maggior parte delle volte, sono segno di rabbia, non di tristezza.
Quando sono stizzita, io piango: e più piango più mi arrabbio. E sembra che io non riesca a fermare questo circolo. Le lacrime sembrano essere uno dei pochi modi in cui riesco a sbarazzarmi dell'ira e, sfortunatamente, la maggior parte delle persone sembra non voler capire che funzione abbiano per me: in genere mi consolano, mi compatiscono oppure mi spronano a non disperarmi. Insomma, le lacrime mi fanno apparire anche più patetica di quello che sono: sminuiscono il mio livore e l'impeto della mia forza emotiva. La gente associa sempre le lacrime alla debolezza e, forse, visto il pasticcio emozionale che si impasta dentro di me ultimamente, non ha poi tutti i torti.

Il mio insopportabile flusso di coscienza viene, per mia grazia, interrotto da una voce che urla il mio nome dall'altra parte della strada: mi blocco e, strizzando gli occhi, metto a fuoco la snella figura che si sbraccia sul marciapiede opposto al mio, nel tentativo di attirare la mia attenzione.

E sorrido. È la mia adorabile e saccente cugina Terry.

Teresa, per gli amici Terry, è fondamentalmente la sorella che non ho mai avuto. Sono cresciuta ogni giorno della mia vita con lei. In qualsiasi cosa io faccia, in qualunque momento della mia esistenza, Terry c'era. 
Nel corso degli anni siamo cambiate tanto tutte e due, la vita si è messa in mezzo e ha separato i nostri sentieri, ma la connessione emozionale che esiste tra noi, non è qualcosa che spazio e tempo possono rompere.

Terry è una ragazza di successo, matura e consapevole degli eventi attorno a lei.

Sì, lei è l'opposto di me, insomma.

È anche una di quelle persone che ho il terrore di deludere. Una di quelle per cui vorrei avere più consapevolezza di me, per poterle dimostrare che le sue parole e il suo affetto nei miei confronti, non sono sprecati.

Quando sei confuso e spaventato, quando ti sembra di vivere in una vita che non è la tua e di cui non hai il controllo, ciò che temi di più è perdere i capisaldi della tua esistenza. Nei momenti di crisi, ognuno di noi cambia talmente tanto da non sapersi riconoscere. Spesso odiamo le persone che stiamo diventando. E la paura più grande è quella di allontanare e ferire coloro che sono sempre stati con noi.

La guardo stringere al petto una montagna di libri mentre attraversa la strada velocemente e mi raggiunge con un grosso sorriso sulle labbra:
"Buongiorno!"
"Ciao a te, deliziosa creatura sepolta in un cappotto due taglie più grande del necessario..." ridacchio squadrandola e lei, per nulla offesa, si sistema la borsa su una spalla e allaccia la cintura di quella cosa che indossa e che io - più per intuizione che altro - ho definito cappotto.

"Hai intenzione di essere la causa di un'inattesa Apocalisse?" mi chiede dandomi un bacio sulla guancia e scrutandomi attenta.
"Perché?" chiedo confusa dalla strana affermazione e lei si limita a strizzare gli occhi prima di proseguire: "Sei uscita di casa. È un evento piuttosto raro ultimamente. Potresti causare qualche squilibrio elettromagnetico."

"Divertente, Terry. Molto divertente. Non dovresti prenderti gioco della mia agorafobia: non si scherza con i pazzi" minaccio ricominciando a camminare e trascinandola lungo la strada con me.
"Beh, io ho la legge dalla mia parte."

Sì, anche Terry - come Bet - ha intrapreso la carriera legale. Non so se questo sia un bene, ma sono tutte e due destinate a galleggiare nelle scienze giuridiche. Penso fosse scritto nelle stelle.

"Dove stiamo andando?" mi chiede spostando i libri da un braccio all'altro e cercando il mio sguardo.
"Io in segreteria. Tu non lo so."

"Io stavo andando in Biblioteca. Direi che possiamo fare un pezzo di strada insieme, così mi puoi finalmente parlare della principale novità della tua vita..."
"Sarebbe?"
"Gli astri sussurrano che mi devi parlare di una nuova presenza."
"Chi te l'ha detto?" domando mentre voltiamo l'angolo e arriviamo di fronte agli edifici amministrativi del nostro ateneo. Poi sospiro, consapevole di conoscere già la risposta alla mia domanda.

"Bet. Dai, rendiamolo ufficiale. Dimmelo come se non lo sapessi già." suggerisce lei, sghignazzando.
"Ho un nuovo coinquilino. La carogna più grande che tu ti possa immaginare. L’arroganza fatta maschio, con un viso d’angelo e un fisico fantastico. Lo detesto."

"Sì, mi dissero che è un discreto manzo. Quando me lo fai conoscere?"
"Per il tuo bene dovrei risponderti mai. Non è un uomo, credimi." rifletto legandomi i capelli e mettendole un braccio attorno alle spalle.
"Come si chiama?"

"Satana?" propongo un epiteto alternativo per il mio inquilino, sentendomi molto spiritosa.

Lei continua a ridere, poi spalanca gli occhi per cercare di convincermi a dire il vero nome del ragazzo che ora vive con me.

"Ok, si chiama Alex" concludo facendo una smorfia.
"Ah già, è straniero!"
"Sì, americano. Non dire nulla ti prego. Jules ha già speculato a sufficienza sulla cosa."
" Peccato, per una volta volevo essere io quella divertente." risponde lei sorridendo e guardando di sfuggita l'orologio.
Io so perché l'ha fatto: si sente in colpa perché non è già seduta in biblioteca a studiare. Ve l'ho detto che lei è la quella brava.

La nostra conversazione viene interrotta dalla musica del mio cellulare che riproduce Halo a tutto volume.
"Oh, scusa, Beyoncé mi cerca" scherzo affondando la mano in borsa e frugando alla ricerca di quel rumoroso oggetto.

"Pronto, qui ragazza triste e insoddisfatta".

"Med, Med una tragedia!" grida Bet all’altro lato del telefono.

"Bet, calmati! Tragedia del tipo ho fatto bruciare il sugo e ora non riesco a togliere il fondo nero o tragedia stile ho effettivamente corroso le piastrelle del bagno perché non so che razza di sostanza chimica ho usato?” le domando divertita.
"No, simpaticona. Tragedia nel senso che io e J abbiamo le zecche in casa!" mi risponde lei sull’orlo delle lacrime.
"Le zecche in casa?!" chiedo sbalordita "E come ci sono arrivate? Non avete nemmeno un cane!"
"I piccioni, Med! Tu lo sapevi che i piccioni portavano le zecche? Io non ne avevo idea."

"Ok, aiutami a capire. Hai deciso di fare l’originale e prendere dei piccioni come animali domestici?" dico dubbiosa.
"Ma no, stupida! Noi abitiamo all’ultimo piano, giusto? Beh, quei pennuti maledetti amano appollaiarsi sopra la nostra finestra! Sul tetto Med! E quei disgustosi parassiti succhia sangue hanno pensato che casa nostra fosse il luogo perfetto per nidificare, a quanto pare" sento che ringhia imbestialita.

Io appoggio una mano sulla cornetta, mi volto verso Terry e chiedo sconvolta:

“ Le zecche nidificano?”

Lei alza le spalle e, insicura, risponde "Che vuoi che ne sappia? Io odio gli animali!"
"Sei proprio una brutta persona" ridacchio io.
“ Med, mi stai ascoltando?” sento Bet starnazzare.
“ Sì, sì, B. Ti ascolto. Mi dispiace molto per la tua…mmmh…invasione. Vuoi che ti trovi il numero della disinfestazione?”
“ Ma quale disinfestazione. Li ha già chiamati J. Vengono mercoledì...“ ribatte lei aggressiva.
“ Ok, perfetto. Allora problema risolto. Mercoledì ti libererai delle zecche!” concludo soddisfatta.

 Per quale motivo poi non si sa. Non ho fatto nulla per cui abbia il diritto di sentirmi compiaciuta.

“ No, tu non hai capito niente! Io qui non ci resto un secondo di più.” starnazza Bet rumorosa e in procinto di avere un probabile attacco di panico.
“ Oh, va bene. E dove andate?”

“ Med, me le sento tutte addosso. Sento le loro zampette dimenarsi. Mi immagino le loro mandibolucce che mi si conficcano nella carne. E poi, grazie al mio sangue, danno vita a tanti zecchini!”
“ Zecchini?”
“ Sì, zecchini! Med, io non voglio gli zecchini sotto pelle! Oddio se mi finiscono vicino alla patatina? Oh, che schifo! Mi sto sentendo male! Vuoi che mi senta male, Med?”
“ No Bet, certo che non voglio che tu ti senta male. Ma che posso fare io per te e J?” chiedo sempre più confusa. Tra zecchini, mandibolucce e patatine mi sembra la fiera dei vezzeggiativi.

Sono un po’ disorientata.

“ Bet…?” Lei non risponde e dopo qualche secondo di silenzio, capisco cosa vuole.

“ Oooh no, no, no, no, no. Non esiste Bet! Non potete venire a stare da me! Scordatelo!” alzo la voce in ansia, iniziando a camminare su e giù per la strada.
“ Med, ti imploro! Non mi puoi lasciare qui con le zecche! Vuoi che mi prenda qualche malattia e che si succhino il mio dolcissimo sangue? Certo, se fossi tu il problema non sussisterebbe. Hai il plasma talmente acido che vomiterebbero subito” divaga lei un po' distratta e io mi mordo un labbro nella speranza di contenere qualche insulto di risposta.

“ Oh, davvero? Bet, non potete venire da me! Dove vi metto? Casa mia è un buco! E ora che c’è anche quel demone dagli occhi blu, l’ossigeno da dividere è troppo poco!” cerco di convincerla io.
“ Apriremo le finestre. Io e J stiamo uscendo di casa. Ci vediamo da te tra mezz’ora” e riattacca il telefono.

Io fisso il cellulare cercando di capire in quale momento ho accettato di ospitarli. Ma non ci riesco proprio.

“ Che succede?” mi chiede Terry curiosa e, probabilmente anche confusa.
“ Ci sono le zecche” rispondo io con voce da ebete mentre valuto gli effetti di altre due persone in casa mia. E immagino l'ira funesta di Alex per non avergli chiesto il permesso di ospitare Bet e J in quella che - purtroppo - è ora anche casa sua.
“ Dove Med?” mi domanda lei confusa quanto me.
“ Da Bet. Si devono essere alleate con Alex per rovinarmi la vita” sussurro pensierosa e insospettita, immaginandomi come la vittima in una partita di Cluedo: Alex e le zecche, in cucina, con arguzia e mandibolucce.

“ Non capisco.” Esclama lei osservandomi con i suoi grandi occhi neri.
“ Neanche io. So solo che ho appena vinto due nuovi inquilini. E non mi riferisco alle zecche.”

Sul suo volto è sempre più evidente il dubbio ma, al momento, non ho tempo di essere più chiara. Devo andare a casa ad avvisare Alex della situazione o rischio pericolose ripercussioni, tipo scarafaggi nel letto. O che tagliuzzi tutti i miei pigiami.
Quello è demoniaco, non dimenticatelo mai.

"Tesoro, devo scappare. Ti spiegherò meglio quando avrò capito anche io." dico a mia cugina, abbracciandola e fuggendo a gambe levate verso il mio appartamento.

Quando arrivo a casa sono trafelata e nel panico (oltre che bisognosa di un polmone d'acciaio). Sto infilando le chiavi nella serratura, quando la porta si spalanca e incontro all’istante due occhi azzurri che mi fissano. E lo sguardo che li adorna è stranamente scuro. Oserei dire arrabbiato.
Separo le labbra per dire qualcosa, qualunque cosa, ma Alex mi blocca, alzando una mano.

“ Spiega.” Esclama freddo, ma nella sua voce avverto un tono decisamente infastidito.

“ Le zecche!” è l’unica risposta che riesco a produrre.

“ Questa non è una risposta, Med. Sono tre sillabe” ribatte facendomi spazio per entrare.
“ Lo so. Alex, non ho capito nulla neanche io. Hanno le zecche in casa.” Dico dirigendomi verso la cucina, mentre lui mi segue.
“ Questo l’avevo afferrato dai deliri di Bet sulla possibilità di avere o meno una famiglia di parassiti infilati nel canale vaginale” dice lui seguendomi in cucina e la voce assume per un attimo un tono disgustato.
“ Ma che schifo!”
“ Pensa al piacere che ho provato io nell’immaginare la cosa.” borbotta Alex aggrottando la fronte. “ Comunque, non cercare di distrarmi. Perché gli hai detto che potevano venire qui? Med, ma l’hai guardata questa casa? È minuscola! Come ci stiamo in quattro qui dentro, secondo il tuo piccolo cervellino?”

“ Primo, il mio cervello non è piccolo: è proporzionato a tutto il resto. Secondo non ho esattamente detto che potevano venire qui!”
“ E allora che cosa hai detto, esattamente?” mi domanda appoggiandosi al bancone di fronte a me e incrociando le braccia, con fare inquisitorio.
“ Beh, non molto. Nel senso che prima ho detto che non potevano…”
“ E poi…?” mi incalza sospettoso.

“ E poi non ho detto nulla.” Bisbiglio imbarazzata.

“ Med!” si lamenta lui, chiudendo gli occhi e affondandosi le mani nei capelli.

Uh, posso affondarci anche le mie? Sono pressoché certa che mi farebbe stare molto meglio.

“ E’ stata colpa di Bet, Alex! Te lo giuro! Mi ha raggirata!” lo imploro pateticamente, e il fatto stesso che io debba scusarmi con la versione belloccia di Ade, mi urta incredibilmente.
“ Lei gioca sporco, quella two face!” sibilo tra i denti, abbassando lo sguardo e stringendo i pugni.

Lui tace per quello che sembra il minuto più lungo della giornata, probabilmente con l'unico scopo di torturarmi.
Poi, così, dal nulla, comincia a ridere.

“ Cosa mi sono persa?” chiedo, guardandomi attorno.
“ Solo tu potevi farti raggirare dalla tua migliore amica!”
“ Ehi, tu non sai niente di me!” rispondo indignata e offesa. Anche se ha ragione. Solo io potevo farmi raggirare da una persona che conosco bene come Bet.
“ Beh, adesso so che sei un’allocca!” ribatte sorridendo.
Sto per partire all’attacco, quando lui mi ferma, apparentemente poco interessato alla mia difesa e per nulla desideroso di discutere: cosa che un po' mi delude. Litigare con Alex, a volte, ha una funzione liberatoria. E anche un poco terapeutica.

“ No Med, ne riparliamo in un secondo momento. I tuoi amici sono di là che ti aspettano, carichi di valigie e tutti scompigliati. Sembrano profughi. Prima sistemiamo questa cosa. Abbiamo tutto il tempo del mondo per litigare” dice mentre si solleva dal bancone, dirigendosi verso il soggiorno ed io lo seguo, sospirando.

“ Ecco la vostra eroina” mi annuncia con un tono divertito e gli occhi di Bet e J si posano veloci su di me.
“ Oh Med!” urla Bet lanciandomi le braccia al collo.
“ Mollami, drama queen!” borbotto staccandomela di dosso e sorrido a Jimmy.
“ Med, mi dispiace tanto, ma Bet stava per andare in iperventilazione quando ha visto le zecche. Cercheremo di dare il meno disturbo possibile. E di andarcene appena la casa sarà agibile. Giovedì saremo fuori di qui. Promesso!” mi risponde lui un po' imbarazzato.
“ Non ti preoccupare J, non ti posso condannare per aver scelto una psicopatica come compagna di vita. L’amore è cieco.” ridacchio facendo una linguaccia nella direzione della mia migliore amica.
“ Va all’inferno” si limita a bofonchiare Bet.
“ Ehi, controllati se non vuoi andare a fare un pigiama-party con le zecche!” minaccio severa e compiaciuta all'insorgere di un'espressione di panico suoi lineamenti.

Lei mi fa una boccaccia e Alex e J ridono.
“ Allora, dobbiamo decidere gli arrangiamenti per dormire, direi” suggerisce quella sciocca bionda che mi sono scelta come amica.
“ Voi prendete camera mia. C’è il letto matrimoniale. Io dormirò sul divano” decreto fingendo allegria, benché senta già dolori ovunque al solo pensiero. Il mio sofà è la cosa più scomoda dopo le rotaie del tram, senza dubbio.
“ No Med, non possiamo sbatterti fuori dalla tua stanza” dice J mentre Bet gli tira un calcio. Io rido e rispondo:
“ Tranquillo J, meglio qualche dolorino che sentire B. che si lamenta per quattro giorni!”
“ Ok, mi sembra tutto sistemato” conclude Alex alzandosi dal bracciolo della poltrona e dirigendosi verso il bagno.

Io indirizzo il mio sguardo infastidito verso la sua schiena: che cafone. Il minimo che poteva fare era offrirsi di dormire in soggiorno al mio posto.

Bet e J cominciano a sistemarsi in camera ed io afferro il mio pc e mi posiziono sul bancone della cucina: apro lo schermo e inizio a scrivere.
Non penso. Scrivo e basta: racconto i miei pensieri ad un file che li custodirà e che non mi farà domande. E mi perdo nelle parole: sento i miei amici muoversi per casa, J uscire per andare da qualche parte e Bet lamentarsi per l'ennesimo esame da preparare. Ma io non li ascolto: scrivo e basta.

A volte mi perdo così tanto nella confusione di pensieri nella mia mente, che l’unico modo per tirarli fuori è scriverli. Lascio che le parole prendano vita e scorrano fuori dalle mie dita senza regole. Ma so che sono frasi sconnesse, senza un filo logico che faccia da guida a quell’insieme di lettere nero su bianco. Non li rileggo mai: credo che mi creerebbe quasi imbarazzo vedere cosa davvero penso. Come se quelle cose non le avessi scritte io. Come se non fossero frutto della mia mente.
Ho provato, in passato, a dare uno sguardo veloce a cosa avevo prodotto e, l’unico risultato è stato un forte senso di vergogna e un punto di domanda stampato in fronte.
Sembra quasi che, nel momento in cui le parole lasciano il mio cervello, non mi appartengano più. Quasi non fossero realmente proiezioni del mio inconscio, ma verità di una persona che non sono io. E allora l’istinto mi spingerebbe a cancellarle. A eliminare le prove del percorso di pensieri in cui mi ero trovata qualche istante prima.

Una volta qualcuno mi ha detto che chi scrive, quando inizia a buttare giù le parole, in realtà vuole esprimere un concetto totalmente diverso da quello che sarà il risultato finale. Ed è per questo che gli scrittori spesso non sono soddisfatti dei loro lavori. Perché non era il messaggio che volevano trasmettere. Non era la storia che volevano raccontare.

Non so se sia vero; non so se valga per tutti. Ma è una possibilità.

Quando il lampione sotto casa mia si accende, mi rendo conto che si sta facendo buio fuori e allora abbasso lo schermo del portatile e chiedo:

“ Ragazzi, che volete mangiare per cena?”
“ Quello che preferisci tu, Med. Ci affidiamo a te” risponde Bet da camera mia.
“ Primo o secondo?”
” Primo. Qualcosa di pesante e calorico! Ho fame, e J non ha l’occasione di mangiare bene molto spesso” ridacchia lei, consapevole della propria mancanza di abilità culinaria.
“ Carbonara va bene?”
“ Sì! Bona la carbonara!” strilla entusiasta e poi si rivolge a J “Sei contento, amore?”
Non sento la sua risposta, ma inizio comunque a raggruppare gli ingredienti necessari.

Mi accuccio alla ricerca di una pentola per la pasta, infilandomi dentro uno degli armadietti.
“ Sono invitato anche io a cenare con voi?” chiede Alex alle mie spalle. Spunta sempre fuori dal nulla, ma la cosa non mi stupisce: l'ho detto che è un demone.
“ Solo per questa volta. Solo perché abbiamo ospiti” rispondo inghiottita dal buco nero in cui tengo l’occorrente per cucinare.
“ Med, ti dispiace uscire di lì? Non è il momento di avere una conversazione con il tuo sedere” ride lui, avvicinandosi.
“ Peccato, perché è il massimo in cui tu possa sperare” ribatto restando immersa fino alla vita dentro la credenza.

Massimo nel senso che più grosso di così non può diventare?” scherza lui, ormai dietro di me.

“ Cosa?!” domando indignata e faccio un goffo tentativo di uscire dal buio in cui mi sono infilata. Ovviamente, visto che la mia coordinazione è pari a zero, nel movimento tiro una testata contro la parte superiore dell’interno del mobile. Dico qualche parolaccia e sento Alex ridere. Indietreggio un po’ ed estraggo buona parte di me stessa da quella trappola.

Quando posso considerarmi quasi libera, sbatto con poca grazia contro lo spigolo superiore dello sportello. E fa male. Molto male.
“ Dolore!” mi lamento, sedendomi sul pavimento e appoggiando la schiena all’armadietto accanto mentre mi massaggio la botta.
“ Mamma mia, quando sei maldestra! Fammi vedere...” constata lui e si inginocchia alla mia sinistra, prima di cercare di sfiorare il mio testone.
“ Non toccarmi, Belzebù!” ribatto con le lacrime agli occhi e muovendo la testa.
“ Smettila di dimenarti. Voglio solo vedere se sanguini!”  ordina un po' scocciato e afferra il mio viso tra le mani per bloccarmi.
“ Così poi puoi succhiarmi il sangue da vampiro quale sei?” ringhio per protesta, guardandolo negli occhi. Mamma mia come sono belli con quelle striature più chiare attorno alla pupilla. E come brillano. Sembra che abbiano vita propria. 

“ Un gran bel vampiro, però” bisbiglia lui sorridendomi.
Non rispondo e, con mio grande orrore, mi rendo conto le lacrime stanno iniziando a scendere. Ma perché piango? Non mi sembrava facesse così male.

“ Fa male?” mi domanda piano.
“ No, fa bene” sussurro con voce sarcastica.
“ L’avevo capito dalle lacrime. Credi di riuscire a non staccarmi un braccio a morsi mentre vedo se ti sei causata danni permanenti?” mi chiede, con voce divertita.
Io annuisco e lui lascia andare il mio viso, piegandomi la testa in avanti per vedere meglio.
“ Nulla di grave, non stai morendo. Solo un bel bernoccolo. Ci mettiamo un po’ di ghiaccio, così non sembrerà che tu abbia due teste” annuncia dopo l'ispezione e tornando a guardarmi negli occhi.
“Ok? Facciamo che tu ti siedi e la carbonara la faccio io? Non vorrei che ti affettassi le dita mentre grattugi il formaggio.”
“ Io sono brava in cucina” borbotto in modo puerile, abbassando il mento.
“ Non lo dubito. Ma immagino che tu sia più brava quando non hai una botta enorme che ti si gonfia sul retro della testa. Avrai altre occasioni per dimostrarmi che perfetta chef tu sia, tranquilla” dice tenendo la voce bassa e offrendomi l'ennesimo sorriso serafico, per farmi capire che non sta scherzando, poi si alza e continua:

“ Resta qui, ti prendo qualcosa dal congelatore.”
“ Perché sei così gentile con me? Stai cercando di entrare nelle mie grazie? Rinuncia, Alex. È fatica sprecata” rispondo seguendolo con lo sguardo, mentre si riavvicina e si riabbassa alla mia altezza. O bassezza, che dir si voglia.

Lui non risponde, ma ammicca con fastidiosa delicatezza e mi appoggia un surgelato sulla botta. Che scena poetica.
“ Che c’è di divertente?” chiedo indispettita dal onnipresente sorriso.

 Non gli vengono i crampi alle guance a forza di usare i muscoli?

“ Forza, vai a sederti e non levarti la busta dalla testa!” conclude, evitando i miei occhi e sollevandomi per un braccio.
Io eseguo sospettosa e raggiungo Bet e J in salotto, sbuffando per una serie di motivi, tra cui il fatto che, ora che lui è stato civile con me, prima o poi io lo dovrò essere con lui.

“ E’ pronto?” domanda Bet, alzando la testa dal libro del suo prossimo esame.
“ Che ti è successo Med?” mi chiede J con gli occhi spalancati
“ Niente, ho dato ripetute testate alla cucina” dico lasciandomi cadere nella poltrona.
“ E il nostro cibo?” domanda Bet nel panico.
“ Ci pensa il figlio di Lucifero.” 

“ Ohhhh, Alex” ride lei maliziosa.
“ Non dire nulla, B.” e chiudo gli occhi abbandonandomi alla stanchezza.


Tre ore dopo la testa mi fa ancora male. Sono sdraiata sul divano, nel buio, ma non riesco a dormire. Questo sofà è scomodo, è duro e punge. E poi non posso mettermi a pancia in giù.
Mi rigiro una decina di volte, guardo l’orologio e mi chiedo come facciano i miei coinquilini a dormire; in fondo è solo mezzanotte. Non dovremmo essere in giro a vivere come fanno i ragazzi della nostra età? Ma chi prendo in giro? Io non sono mai stata una viveur. Non mi ha mai entusiasmato girare per locali e ubriacarmi. Forse sono vecchia dentro.

Non so perché la mia mente divaga su L. Perché non riesco a dare un taglio netto a questa storia? Perché accetto di avere a che fare con lo schifo che lui mi offre?
È come quando mangi il cioccolato. Sai che ti farà male, che finirà tutto suoi tuoi fianchi, e che poi dovrai faticare per mandare giù l’adipe. Ma non riesci a fermarti. Tu lo devi avere fino a quando puoi. Non ti puoi far sfuggire l’occasione di assaporare quel cioccolatino.

Credo che il problema sia che io vivo nell’attesa di rivedere il ragazzo che mi ha abbindolata all'inizio. Non era la sua capacità oratoria, o quanto brillante fosse, o la sua cultura o il suo livello di intelligenza, che mi attraevano. Anche perché L non possiede nulla di tutto ciò. Non sa mettere insieme tre parole in forma corretta, è assolutamente incapace di sostenere una conversazione, non sa motivare le sue posizioni ed è talmente inconsistente che non ci si può avere una discussione di livello superiore a quella sul prossimo trucchetto per evitare un ostacolo. Il suo carisma è tutto fumo, è di un’ignoranza imbarazzante e di una povertà verbale e spirituale spiazzante. E non è nemmeno intelligente. E’ solo furbo. Ma furbizia non sempre è sinonimo di acutezza mentale. In questo caso non lo è.
Quello che mi piaceva di L durante il primo periodo, era come mi faceva sentire. Come mi trattava e mi parlava. Solo ora capisco che era una sceneggiata. Che era un trucco per incastrarmi. Ma ai tempi mi aveva dato un po’ più di sicurezza nelle mie capacità.

“ Med, perché non dormi?”
Mi volto verso il retro del divano e vedo Bet venire verso di me.
“ Potrei chiederti la stessa cosa” le rispondo rannicchiandomi per farle spazio.
“ Pensavi così rumorosamente che mi hai svegliata.” Ribatte accarezzandomi il braccio.
“ Hai voglia di dirmi che ti stava frullando in testa?”
“ Non lo so. A volte mi sembra che il mio cervello vada troppo veloce per capirlo.”
“ Perché non cominci a dirmi quella che ti stava divorando ora?” domanda infilando i piedi sotto la mia coperta.

“ L...” rispondo evasiva.

“ Ah, il brutto babbuino stupido” finisce lei per me.
“ Non ti piace proprio, eh?” le chiedo sollevando lo sguardo da un buchino nella trapunta.

“ No, non piace nemmeno a te, come puoi pretendere che io lo approvi? Non mi piace come ti tratta, non piace come ti fa sentire, e non mi piace che si approfitti del fatto che sei buona e disponibile. Tesoro, non spetta a me dirti che fare. E sai perfettamente che non mi piace esprimere pareri su L proprio per questo, ma credi davvero che sia una persona che può darti qualcosa di buono?”
Io esito un po’, torturo lo strappo nella coperta e poi gioco con il fondo del suo pigiama e, senza guardarla in viso dico:
“La settimana scorsa l'ho chiamato per parlare un po' e gli ho detto che ero particolarmente giù ma non sapevo bene perché.”
“ Mmh-hmm!” risponde lei annuendo
“ Sai, ho pensato che magari, per una volta potessimo parlare anche di me e dei miei problemi...”
Bet resta in silenzio, aspettando che continui.

“Lui si è limitato a interrompermi e a deviare la conversazione su di sè e sulla sua preoccupazione per i suoi problemi, cercando in me appoggio e conforto. So che L è un pirla, ma mi sarei aspettata qualche parola di più. Non lo so…non so cosa mi aspettavo” concludo chinando il viso e nascondendo la tristezza dietro una tenda di capelli.

Lei avvicina una mano e mi scosta una ciocca dal viso, poi mi sorride e dice
“ Forse ti aspettavi qualcuno che L non è. Tu sai cosa devi fare Med. Non sta a nessuno decidere per te. Tu hai già gli elementi per fare la tua scelta. Devi solo aspettare il momento in cui sarai davvero pronta ad accettarla.”
Io la fisso negli occhi per qualche secondo, lasciando che le sue parole vengano assorbite dalla Med dentro di me. La Med che ancora si deve convincere. E prendo atto del fatto che quando sarà pronta lei, lo sarò anche io.
Annuisco e ricambio il suo sorriso mentre lei mi abbraccia e si stende sul divano.

“ Forza, ora dormiamo. Devo studiare domani” dice, battendo la mano sullo spazio accanto a lei.
Io muovo la testa e mi lascio cadere sui cuscini. Stiamo strette e scomode. Ma lei sa che in questo momento, averla vicina conta di più di un sonno riposato.
In questo preciso istante mi sento al sicuro. E non mi sento sola. Ed è l’unica cosa che conta.


AN: Grazie, come ogni volta, a tutti quelli che leggono, seguono e commentano questa storia. Ogni vostro click è una gioia! E ringraziamo tutti in gruppo leti10 per la sua tenace lotta alla pagliuzza: la sua testardaggine le è costata il diritto di esprimersi in tema di occhi e dintorni, ma alla fine (almeno in questo capitolo) i buoni hanno vinto. Dal canto mio, avendo fallito nella scoperta del nome scientifico dell'oggetto della discussione, mi dichiaro sconfitta e rivendico il diritto di chiamarlo come mi pare. Anche caccapupù, in futuro, che sta bene con tutto.

Ah, per chi non è familiare con Cluedo, la frase con il riferimento a questo gioco in scatola può essere parsa priva di senso: per aiutarvi vi spiegherò che, nell'universo ludico che ha preso forma nella mia mente, Med era chiarmanete la vittima, Alex e le zecche erano i responsabili del crimine, la cucina era il luogo in cui il crimine è avvenuto e l'arguzia e le mandibolucce l'arma del delitto. Detto questo, se non avete mai giocato a Cluedo, vi consiglio vivamente di farlo: è un must!

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Capitolo 6
*** Sotto il cappuccio Verde ***


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IPTT- CAP 5- Sotto il cappuccio verde
CAPITOLO 5


- Sotto il cappuccio Verde -



 

La mia mattina non è cominciata nel migliore dei modi. Da quando mi sono svegliata quella lumaca narcisista che mi hanno assegnato come coinquilino ha invaso il bagno e non sembra dare segni di vita, ragion per cui cerco disperatamente di tenermi occupata e di distrarmi preparando la colazione, nel vano tentativo di non farmi pipì addosso.

"Uomo dell'hamburger, se non esci da quel bagno entro tre minuti ti avviso che ti faccio la pipì sul letto!" strillo dalla cucina e mi compiaccio della scorrettezza che mi scorre nelle vene già di prima mattina. Sono veramente portentosa.
Sorrido soddisfatta e mi metto ad imburrare una fetta di pane mentre aspetto che il caffè sia pronto e sento le voci di Bet e J che si avvicinano alle mie spalle.

"Oh, gli innamorati..." sorrido mentre loro entrano in cucina.
La mia amica è ancora in pigiama, il che mi fa intendere che passerà la giornata a ripetere. Il suo ragazzo, invece, è già pronto per uscire.
Quando mi volto per salutarli, vedo che entrambi si bloccano e i loro volti assumono un'espressione di stupore: restano in quello stato qualche secondo, e io inclino la testa di lato per cercare di capire che cosa abbia attirato la loro attenzione.

"Ho della marmellata sulla bocca?" domando allora con curiosità e Bet deglutisce a fatica e, per un istante sembra sul punto di dirmi qualcosa. Poi però J si schiarisce la voce e, sorridendo, mi risponde.
"No, no, niente marmellata."

"Perfetto. Buongiorno, giovani cuori in amore."
“ Buongiorno a te, cicciona!” mi risponde Bet afferrando la moka e versandosi il caffè.
“ Perché in questa casa pensate tutti che sia grassa?” chiedo offesa.
“ Per due ragioni: la prima è che non sei proprio un’acciuga; e la seconda è perché dormire sul divano con te è stato terribile” brontola lei, aggiungendo il latte nel caffè.
“ Oh, va bene signorina Slim Fast, allora la prossima volta cercherò di pressarmi di più”
 
“ Brava!” replica la mia amica in uno sbadiglio e dandomi degli strani colpetti sulla testa.
"Che stai facendo?" le domando cercando di scacciare la sua manina tozza, ma lei non si arrende e persevera nel picchiettamento.
"Non fare domande. Lo faccio per il tuo bene." risponde semplicemente Bet prima di leccarsi un pollice e avvicinarlo pericolosamente alla mia faccia.
"Ti sei fatta una canna? La tua saliva sulla mia pelle delicata non ce la metti" mi ribello io scappando dall'altro lato del bancone.
"Med, fidati.."
"Col cazzo..."
E iniziamo una sorta di danza della fuga dal pollice sbavato prima che questo delicatissimo momento venga interrotto dalla risatina di J che, infilandosi il giaccone, richiama la nostra attenzione.
“ Voi due non siete normali, lo sapete vero?”

“È lei che è una stupida malfidata." borbotta Bet additandomi come se fossi una criminale ed io rispondo dandole una spinta leggera.
"Malfidata? Vorrei ricordarti che tu sei quella che periodicamente mi mette il dentifricio sotto il naso mentre dormo per vedere se mi farò la pipì addosso!"
"È una ricerca scientifica. Lo faccio per il bene dell'evoluzione umana. Voglio capire se è solo una leggenda metropolitana e tu dovresti immolarti per la causa."
"Lo so io dove ti immolo, tu e la tua stupida testa bionda."

La risata genuina di J ci distrae nuovamente dalla nostra discussione, Bet smette di darmi importanza e, con lo sguardo disgustosamente innamorato, si allontana da me.

"Esci già, Amo’?” gli chiede Bet raggiungendolo alla porta d’ingresso.
“ Sì, devo correre in università. Ma ti chiamo dopo, ok?”le risponde lui chinandosi e dandole un bacio.
“A stasera.” Lei lo incontra a metà strada, facendo schioccare le labbra sulle sue e sorridendogli. Poi gli accarezza i capelli e lo spinge gentilmente fuori di casa.
“Vi supplico, non cambiate mai voi due !” sento che grida lui scendendo le scale e andandosene.
“ Ciao J, buona giornata” ricambio io ridendo mentre Bet richiude la porta e torna a sedersi sullo sgabello della cucina.

Io la raggiungo, timorosa che la nostra lotta non sia del tutto terminata quando la porta del bagno si spalanca (finalmente) e la voce di Alex mi saluta con un:
"Allora? Hai compiuto atti di vandalismo in camera mia, Scintilla?"
Sospiro e mi volto per rispondere come si deve e sento Bet che suggerisce alle mie spalle di non farlo assolutamente, ma io scelgo di ignorare quella donna dai pollici insalivati e porto gli occhi sul mio coinquilino. Per onore di cronaca specificherò che l'incivile ha l'ardire di mostrarsi in nostra presenza a petto nudo, col capello tutto spettinato e goccioline di acqua che cascano di qui e di là.

Suppongo che, se non mi stesse così sulle palle, in questo momento considererei l'ipotesi del limone duro: invece penso solo che questo tizio sta sgocciolando su metà del nostro parquet.
"Oddio Med, che cosa cazzo hai fatto?" domanda invece lui con un evidente accenno di panico nella voce.

E adesso che c'è?!

"Perchè?"
"Cosa è successo alla tua faccia?" insiste lui, ora indicando il mio viso e sgranando gli occhi
"Cosa è successo alla mia faccia?" chiedo a questo punto io, investita da una scarica di terrore.

E se ho subito una mutazione? O magari ho avuto una reazione allergica alla bava di Bet! Già non ero una gran gnocca, se poi muto, sono a posto.

I due ragazzi con cui mi trovo in casa in questo momento tacciono per quelli che sembrano i secondi più lunghi della storia e io strillo angosciata:
"Che cosa è successo alla mia faccia?!"

Alex lascia cadere una mano lungo il fianco, inclina di lato la testa e mi osserva con grandissima attenzione, aggrottando la fronte e aguzzando la vista:
"Sembra che un elefante con il sedere sporco ti si sia seduto sopra, credo."

Un campanello di allarme inizia a squillare insistente nella mia testa e mi muovo come il suddetto elefante per spintonare Alex via dalla porta del bagno e raggiungere uno specchio per verificare le condizioni del mio - una volta piacevole - viso. E, con mio orrore, scopro che stamattina sono bellissima. I miei capelli hanno assunto la forma di una frittata verticale, con una sorta di oasi spiaccicata all'altezza del cervelletto, stile cerchi nel grano. Ieri sera non mi sono struccata e l'esito è uno splendido decoro nerastro che si estende verso le mie tempie e che potrei tranquillamente spacciare per henné e, in ultimo, avendo tentato di dormire sul divano con Bet, sul lato sinistro della mia faccia si stagliano gloriose una serie di linee rosse che, stranamente, hanno proprio la forma dei decori dei cuscini che mi ha regalato mia madre. Come dicevo, dunque, sono un fighino da competizione.


Resto imbambolata a fissare la mia immagine riflessa per un minuto, poi urlo rabbiosa il nome della mia amica che, con indifferenza, mi raggiunge e mi domanda:
 
"Allora, che programmi hai per oggi?"
"Bet, ma perchè non mi hai detto come ero ridotta?"
"Senti, io ho provato a renderti presentabile ma tu ti sei ribellata..."
"Tu volevi ricoprirmi di sputo!"
"Era un gesto materno, ingrata."
E con aria scocciata se ne torna a fare colazione in solitudine: seguendola vedo Alex sghignazzare e dirigersi verso camera sua, perseverando nella fastidiosa azione di sgocciolare sul parquet.

"Comunque, dopo che ti sarai levata tutto quello schifo dalla faccia e io mi metterò a studiare, tu che farai?" si informa Bet, masticando con poca eleganza una fetta biscottata.
"Suppongo che andrò a fare la spesa: il frigorifero è vuoto e ci sono più bocche da sfamare qui dentro. Speravo mi avresti accompagnata..." spiego mentre mi specchio nel vetro del forno a microonde e lego i capelli con un elastico tutto sfilacciato. Almeno quel problema l'abbiamo risolto.
"Non posso proprio, tesoro. Sono indietro di almeno due libri" e, alla sua risposta, non riesco a trattenere un piccolo broncio al quale lei risponde sorridendo teneramente, "Oh, su avanti! Ce l'ho io la soluzione alternativa!"

E io sorrido deliziata. Stupida ingenua!

Bet salta giù dallo sgabello e corre verso la zona notte per poi fermarsi davanti alla stanza di Alex.

Oh, no! Per quanto è vero che sono nata magra, no! Non sta per fare quello che io penso stia per fare!

"Alex?" domanda con voce stucchevole alla porta chiusa e sento lui rispondere dall'altra parte.
"Bet, no!" sibilo tra i denti, raggiungendola.
"Avrei bisogno che accompagnassi Med al supermercato a fare la spesa. È un problema?"
"Brutta donna dalla testa periforme, giuro che questa me la paghi." mugolo a denti stretti e dandole un pizzicotto sul braccio giusto prima che l'insopportabile sorriso di Alex spunti da dietro la porta.

"Come potrei rifiutarmi..." sogghigna lui compiaciuto, spostando gli occhi su di me e aggiungendo: "Restaurati roomie, ti porto al supermercato."

Ma porca di quella cotoletta!

Con la tensione che mi attraversa il corpo mi infilo nel bagno e cerco di sistemare, per quanto possibile, il Picasso che adorna i miei lineamenti prima di uscire di casa e raggiungere quel luogo meraviglioso che è l'Esselunga. Alex non la pianta di ridere per tutto il tragitto e trova incredibilmente esilarante la mia presa di posizione che consiste nel non rivolgergli la parola e fingere che non sia lì.

Varcando le porte del supermercato, mi volto e, porgendogli un euro per il carrello, affermo con voce secca:
"Nel caso non l'avessi intuito, tu sei qui solo ed esclusivamente per aiutarmi a portare le borsine."
"Sei sempre così dolce. Non possiamo fare un po' di conversazione mentre facciamo scorte per il nostro nido d'amore?"
"Alex, c'è un limite alla tua stupidità o sarò costretta a sostenere la molestia della tua voce a lungo?"
Lui non risponde ma ammicca ripetutamente mentre si allontana.

Io lo guardo e alzo gli occhi al cielo. Non voglio fare l'ipocrita: il ragazzo ha senza dubbio un piacevole didietro ed è pure belloccio. Forse non è esattamente il mio tipo - anche perché a me, di solito, piacciono bruttini e un po' Biafra - ma è senza dubbio un esemplare di maschio che buona parte della popolazione femminile non disdegnerebbe.
Se non fosse per quella irritante personalità e per il fatto che ha scelto di occupare metà del mio appartamento: questi sono due enormi difetti che mi rendono difficile l'idea di imparare a tollerarlo.
E poi ha l'occhio bionico scrutante. Quello è forse la cosa che più mi altera: probabilmente perché, al momento, io ho milioni di cose che gradirei tenere nascoste e Mr. Curiosity continua a fare lo scanner della mia anima ogni volta che mi distraggo.

Io non posseggo lo stesso superpotere, quindi ho il diritto di maltrattarlo.

"Andiamo?" chiede facendo ritorno col suo carrello tutto storto (il fenomeno non sa neppure procurarsene uno che non tiri tutto a destra ogni volta che fai due passi) e indicandomi il reparto frutta.
Io non rispondo e mi incammino verso le mele, determinata a interagire il meno possibile con il mio coinquilino e pregando che ci sia poca gente alla cassa una volta che avrò terminato i miei acquisti.

Mezz'ora più tardi sono ferma immobile di fronte ad una infinita sfilza di preparati per dolci e contemplo quale marca mi offra il miglior rapporto qualità-prezzo: sono una studentessa fuori corso, disoccupata e che ancora fa affidamento sulla famiglia d'origine per il proprio sostentamento. Il risparmio è un dovere, non un'opzione.
Alex, che a questo punto ha rinunciato a ricevere risposta alle inutili domande che mi rivolge nel tentativo di intavolare una conversazione, se ne sta piegato sul carrello, con i gomiti appoggiati sul manubrio, le mani intrecciate e una postura che urla disperazione.

Io lo ignoro.

"Med, ti prego, ti dai una mossa? Non è una decisione difficile: sono tutti preparati uguali. Fanno schifo allo stesso modo!"
Io sventolo una mano nella sua direzione per fargli comprendere che non sono interessata al suo parere e poi afferro due scatole che recano la scritta muffin. Bet ama i muffin.
Cercando di essere il più lenta possibile, leggo attentamente tutte le scritte superflue che sono stampate sulle confezioni e, con mio piacere, vedo Alex dare segni silenziosi di insofferenza.
Sicura di avergli arrecato sufficiente disagio, opto per la marca che dichiara "Real American Blueberry Muffin" e la lancio nel carrello, pronta a dirigermi verso la sezione formaggi.

"Questa porcheria in casa mia non ci entra." dichiara, però, il ragazzo alle mie spalle e, per la dodicesima volta nello spazio che va dal reparto frutta a quello colazione, mi trovo a non riuscire ad impedire ai miei occhi di roteare verso l'alto.
"Che c'è che non va in quel prodotto?!" domando scocciata, pentendomi all'istante di avergli rivolto parola.
"Questi non sono veri blueberry muffin americani." ribatte lui impugnando la scatola e riponendola sullo scaffale.
"E chi lo dice?" protesto dunque io, recuperando il preparato e gettandolo nuovamente nel carrello.
"Lo dico io!"
"Ma cosa vuoi saperne tu..." borbotto e, all'inarcarsi dei un suo sopracciglio, resto con la bocca aperta e con la battuta a mezz'aria.

Merda! Alexander, Med. Alex è americano.

"Senti, se ci tieni tanto a mangiare i muffin te li faccio io, ma questa roba non la compriamo. Punto."
"Io non voglio niente da te." rispondo cocciuta. Io voglio il mio preparato per muffin: lo voglio essenzialmente perchè lui non lo vuole.
"Finiscila, Med. Ho detto no."

Ah, il capo ha detto no? Ma te lo somministro io il no, cretino.
"Chi sei, mio padre?"
"No, sono quello che paga metà della spesa."
"Ecco, io avrei da ridire su questa cosa. Non capisco perchè tu non ti puoi fare la tua spesa e io la mia, come fanno tutti i coinquilini del mondo."

Ora quello che non risponde è lui e, spingendo il carrello, se ne va, dirigendosi verso una nuova corsia.
Io recupero i miei Real American Blueberry Muffin e lo seguo, arrendendomi. Più o meno.
Mentre cammino dietro di lui una domanda balena all'improvviso nella mia mente e non riesco a trattenerla.

"Di dove sei, Alex?"

Il mio quesito sembra stupirlo per un attimo, poi mi guarda e sorride:

"Cleaveland, Ohio."

Non sono mai stata in Ohio. Non sono neppure sicura ci sia qualcosa di interessante da vedere in Ohio. Chiaramente Alex non poteva venire da qualche fascinosa città come Chicago o Buffalo, da cui, quantomeno, si possono raggiungere le cascate del Niagara.
Vorrei esprimergli il mio disappunto per non avermi detto che, invece, veniva da New York, quando mi accorgo dello sguardo perso e vagamente riflessivo che decora i suoi occhi e, forse posseduta dall'essenza del saccarosio dopo aver soggiornato troppo a lungo nella corsia dei dolci, mi trovo a domandargli:

"Ci sei più tornato da quando vi siete trasferiti?"
Lui sembra ricordarsi di me solo al suono della mia voce e agita impercettibilmente la testa, prima di rispondere di no.
"Non ti manca?"

Med, che razza di domande fai? Ma soprattutto, perché le fai?
Lui accenna il fantasma di un sorriso e ammette di sì.
"Ogni tanto. Mi piace stare qui, non fraintendermi, però, onestamente, casa mia quasi non me la ricordo più."

Occhi da Pokemon, occhi da Pokemon, mi ripeto insistentemente in testa, sperando che anche le mie orbite inizino a sberluccicare come fanno le sue quando fa l'impiccione, e invece niente; i miei tutt'al più hanno l'effetto panda, che non sembra servire a niente, dato che il mio coinquilino ha ricominciato a camminare e a spingere il carrello mezzo pieno.
Ma io sono improvvisamente assetata di informazioni. Non so perché, ma sospetto che abbia qualcosa a che fare con la strana espressione che ha mostrato qualche minuto fa. E io ora sono curiosa. E penso anche di averne diritto: posso sapere se vivo con uno psicotico serial killer americano, no?

"Perchè siete venuti qui?" strillo alle sue spalle senza rendermene conto, e una decina di paia di occhi si piantano sul mio faccino paonazzo, inclusi quelli di Alex che lasciano trapelare una buona dose di imbarazzo.

"Parlavo con lui..." mi giustifico con un sorriso insicuro e poi raggiungo il mio spingi-carello-porta-spesa.
"Allora?" lo incalzo, sperando di ottenere una risposta nonostante l'evidente disagio che trasuda dalla sua postura, ma veniamo interrotti da una gracchiante e acuta voce dietro di me che urla in modo isterico:

"ADRIANA!"
Io sobbalzo per lo spavento e mi giro nella direzione della voce, restando con la punta della scarpa incastrata nel carrello e traballando verso Alex che, senza fare una piega, mi rimette in posizione verticale con una mano e osserva la fonte dello strillo.
A due passi da me compare una vecchietta tanto tenera, all'incirca venti centimetri più bassa di me e che mi ricorda tanto Serenella de La Bella Addormentata nel bosco- trent'anni dopo.
Ci fissa severa e con le mani sui fianchi tondeggianti mentre la borsa le penzola lungo una gamba e i piccoli occhiali rotondi le scivolano sulla curva del naso; e i suoi occhi puntano proprio a me!

"Adriana! Cosa ti avevo detto?"

Chi cazzo è Adriana? Sono io?

Guardo Alex per capire se sto avendo un'allucinazione ma, dalla sua espressione, direi di no.

"Non si corre via dalla nonna, per andare a fare sconcerie con i ragazzi, per di più!"

Io non ce l'ho più la nonna. E non faccio sconcerie in pubblico da quando avevo quattordici anni.

Alex sopprime una risata e la signora si avvicina alla mia faccia e mi sventola sul naso un ditino tondo che reca uno smalto perlato:
"Adriana, rispondimi!" e io deglutisco, sorridendo.
"Si-Signora, io non sono Adriana..."

Lei mi osserva per qualche secondo e poi sembra recuperare la lucidità. Lascia cadere il braccio lungo il corpo e, d'improvviso, sembra smarrita.
Io mi scambio un'occhiata veloce con il mio coinquilino e poi richiamo l'attenzione della donna su di me.

"Si sente bene?"
Lei mi guarda e accenna un sorriso per nulla convincente prima di rispondere.
"Certo. Ora andiamo a casa, Adriana?"

Ancora? Io non mi chiamo Adriana!

"Signora, credo ci sia un errore..."
"Quello sfrontato è il tuo fidanzatino? Che cosa ti ho detto sui ragazzi? Non devono entrare nel tuo prato e impollinare il tuo fiore!

Oh, con calma. Qui nessuno impollina niente. E soprattutto non Alex.

"Signora, io glielo dico che non dobbiamo fare certe cose, ma lei insiste..." interviene quel demente accanto a me con un'espressione deliziata.
"Che cosa?!"

Ecco, ora le viene un colpo apoplettico perché Alex le mente sulle abitudini della mia vagina.

"No, signora si calmi. Qui nessuno entra nel mio prato." poi sposto la mia attenzione su Alex e sussurro "Cretino, credo che la signora si senta male. Una vecchietta è in preda alla pazzia e tu ci scherzi?"
"Non scherzavo con lei, scherzavo con te."
"Ah, non mi è sembrato proprio. Che facciamo? Non possiamo lasciarla qui."
"Sei tu Adriana. Trovala tu la soluzione."

Sbuffo e gli vorrei tirare un ceffone ma temo che la signora mi potrebbe mettere in castigo gridandomi "giochi di mani, giochi di villani", quindi mi limito a cercare di far girare gli ingranaggi del mio cervello. No, niente. Non so che fare.

"Finisci la spesa, io la accompagno al banco informazioni..." ordina Alex sospirando e, prima che io possa protestare, si avvicina dolcemente alla vecchietta e le sussurra qualcosa che io non sento, per poi allontanarsi e mollarmi lì come una scema a contemplare se sia il caso di cambiare il mio nome in Adriana.

Quando sono in coda alla cassa, annoiandomi a morte nell'attesa che la cassiera finisca di combattere con la macchinetta delle carte di credito che si rifiuta di accettare il pagamento del tizio prima di me, il mio cellulare vibra nella mia scadente borsa a tracolla per indicarmi che ho ricevuto un sms: dopo una faticosa operazione di recupero, riesco ad estrarlo e faccio scorrere il dito sullo schermo per leggere il messaggio.

Qui la cosa va per le lunghe. Torna pure a casa. Io trovo il modo di riportare a casa la tua cara nonna. Alex.

Fisso la scritta per una manciata di secondi e poi comincio a guardare attorno a me, alla ricerca del mio coinquilino; poi lo vedo appoggiato al bancone dell'ingresso che chiacchiera con fare civettuolo con la responsabile delle informazioni.

Che porco...

Alzo gli occhi al cielo per l'ennesima volta e poi mi arrendo alla presa di coscienza che mi toccherà scarpinare fino a casa carica come un mulo. Ed ecco che il ragazzo perde anche l'unica utilità che avevo scelto di vedere in lui.



INTERVALLO

 SI CONSIGLIA PAUSA PIPì PRIMA DI PROCEDERE CON LA LETTURA


 
Quella sera, dopo che Bet si è cortesemente offerta di aiutarmi a sistemare la spesa - e nel processo è riuscita a ingurgitare 2 Camille e una scatola di tonno (sì, lei le mangia così, col cucchiaio) ogni volta che mi distraevo - decidiamo di concederci un'ora di relax insieme, ingozzandoci di Ringo e godendoci una puntata di uno dei telefilm che, al momento, attraggono maggiormente il nostro interesse: One Tree Hill.

“ Ma quanto sono teneri Haley e Nathan? Comunque io proprio non capisco come Lucas e Brooke possano lasciarsi dopo, si amano così tanto!” si lamenta Bet mentre spegne la tv.
“ Forse perché l’amore non basta?” chiedo stiracchiandomi prima di alzarmi in piedi e andare a caccia delle mie Silver.
“ Ma perché devi sempre essere cinica e distruttiva?” mi domanda lei con una nota di disappunto nella voce. Me lo dice sempre che sono fastidiosa, ma io non lo so controllare.
“ E’ la mia natura. Noi ragazze single e non desiderate cerchiamo sempre una giustificazione alla nostra solitudine” le sorrido infilandomi le scarpe.
“ Ok, me ne devo andare, L mi aspetta...” continuo legandomi i tristi capelli in una roba che chiamo coda. Lei mi guarda insicura e poi sospira, delusa.
“ Sì, lo so, lo so. Ma non tutte troviamo l’uomo della nostra vita a ventun' anni, Bet.” mi giustifico con un sorriso forzato e afferrando il cappotto.
“ Non ho detto niente. Va, divertiti, per quanto ci si possa divertire con L, e usa sempre il preservativo” mi raccomanda.
Io rido e, uscendo, dico: “ Ovviamente, il sesso sicuro al primo posto. E poi vorrei risparmiare al mondo la sua progenie!”.
 
Mentre cammino per strada osservo le persone che mi passano accanto. È buio e fa freddo ma, nonostante tutto, mi viene da sorridere.
 
È come se io avessi un  passo molto più lento di tutto ciò e chi mi circonda. Come se avessi una visione privilegiata delle cose attorno a me in questo momento e fossi l’unica in grado di notare i particolari. Loro si muovono; guardano ma non vedono. La loro mente è troppo impegnata a pensare. Io invece, grazie al mio trucco di bloccare tutto fuori, non immagino  nulla. Assorbo solo le informazioni che il mondo mi passa in questo istante.
 
E tutto ciò mi fa stare bene. È come se mi venisse offerta la possibilità di vivere per qualche secondo in una vita diversa da quella che devo imparare a gestire. Come se chi sono, cosa faccio e sento, in questo minuscolo frangente di tempo, non avesse alcuna importanza. L’unica cosa che conta è l’odore dell’aria, più pungente e più fresco del solito. I colori, rumori e movimenti del traffico, tanto banali da affascinare nella loro ripetitività. Le espressioni della gente sono quelle che mi vanno più sotto pelle.
 
Adoro immaginare o cercare di indovinarne i perché. Osservare il volto di un estraneo per una frazione di secondo e inventarne la vita. Fingere di sapere perché qualcuno sorride o perché ha l’aria di chi, come me, ha perso la chiave che apre il lucchetto della propria esistenza. C’è chi sembra felice, e di quella persona vorrei rubare il segreto, vorrei fermarla e chiedere come fa, implorarla di insegnarlo anche a me.
 
Chi fa di tutto per trattenere le lacrime, così  sconfortato da farmi venire voglia di abbracciarlo. Chi controlla la rabbia e la frustrazione accumulate. Chi sogna senza fare a caso a dove va.
È bello vederli camminare nella vita, sopravvivere come si riesce, perché è questo che facciamo tutti. Cerchiamo la nostra verità; quella verità che permette di sopravvivere a modo nostro ed andare avanti.
 
Sono praticamente arrivata a destinazione, e mi viene da sorridere quando vedo due ragazzi che si baciano. Sono stretti l’uno all’altra, lui preme la schiena di lei contro la porta, mentre cerca di infilare alla cieca la chiave nella serratura, senza rompere mai il bacio. Continuo a guardarli, schiavi di chissà quale passione o voglia, mentre mi avvicino sempre di più. E quando ormai sono a una decina di passi da loro mi fermo.
 
Mi blocco e sento che le orecchie mi si tappano. Il mio sguardo fisso sulle spalle di lui. Di questo lui, che fa scorrere affamato le mani sulla lei senza volto. Ma lui un volto ce l’ha. Non ha bisogno di voltarsi e mostrarmelo. Conosco bene quella schiena, come conosco bene quel corpo.

E ancora meglio conosco quel giubbotto. Gliel’ho regalato io due Natali fa.

E in questo preciso istante mi rendo conto che quando le mie amiche hanno deciso di soprannominare questo ragazzo L, sono state anche troppo benevole.
 
Non so per quanto tempo resto ferma sull’altro lato della strada a fissarli. Nella mente mi scorrono mille immagini, nelle orecchie risuonano i  te l’avevo detto di chi avrebbe tutto il diritto di dirmelo.
 
Vorrei urlare, ma le mie corde vocali sembrano non saper vibrare. E la cosa peggiore è che non posso urlare. Non posso picchiarlo. Non posso dirgli nulla. Ed è solo colpa mia.
Non ho nessun diritto come fidanzata. Perché non sono la sua fidanzata.
 
Sono solo un’amica con cui va a letto. Ed è colpa mia perché ho accettato questa condizione. Posso prendermela solo con me stessa se, adesso che lo vedo baciare un’altra, non ho diritto di spaccargli la faccia. I ruoli sono sempre stati chiari: il fatto che io fingessi di essere l’unica con cui stava, è esattamente il motivo per cui ora mi sento una lama nello stomaco.
Mi volto lentamente e  ricomincio a camminare verso casa. Qualche metro più in là sento il rumore del portone che sbatte, indice del fatto che sono riusciti  ad entrare, e penso che, tra poco, nel suo letto, al posto mio, ci sarà lei.
 
E per la mia stupidità, non ho voce in capitolo.
 
Mi muovo a rallentatore, cercando di prolungare la strada che mi ricondurrà al mio appartamento: sembro uno zombie mentre i miei piedi si spostano per inerzia.
E in questo momento, probabilmente, qualcuno che mi incrocia sul marciapiedi, sta facendo il mio stesso gioco. Sta cercando di immaginare perché sul mio viso è scolpita la faccia della delusione e della consapevolezza.
Mentre mi avvicino a casa inizia a piovigginare. Quella pioggia leggera e fastidiosa.
 
L’unica cosa che mi protegge è il sottile cappuccio della mia amata felpa verde, ma quella non può aiutare a riparare quel cuore e quell'orgoglio che hanno incassato l'ennesimo colpo. Non basterebbero mille felpe per custodire l'ultimo frammento di amor proprio che credevo di aver conservato: sono stata la carnefice di me stessa quando ho scelto che, stare male con lui, era meglio che stare male senza di lui. Ed ora che lo stare male con lui si è trasformato nello stare male con me stessa, rivoglio indietro il mio tempo; rivoglio la mia saggezza, rivoglio l'occasione di tornare indietro e decidere che no, io non sono una ragazza da scoparsi quando gira a lui. Non lo sono mai stata.

Salendo le scale cerco di capire quanto tempo sono rimasta fuori. Ma è inutile, non lo so quantificare. 
Apro la porta di casa e mi accorgo che dentro è tutto spento: c’è solo tanto silenzio. Forse è tardi e dormono già tutti. Forse non sono ancora rientrati.

Non lo so e non mi importa.
 
Mi levo le scarpe e mi sdraio sul divano senza togliermi nemmeno i vestiti inzuppati. Non ne ho voglia. Non ne ho la forza. Mi alzo la coperta fino al mento e chiudo gli occhi.
 
Non voglio piangere perché sarebbe come regalargli quell'ultima oncia di me che ero riuscita a conservare, eppure gli occhi pizzicano in modo insopportabile: è forse delusione? O è semplice e banale dolore? Quel dolore degli innamorati di cui parlano sempre tutti.

L'amore è sofferenza, dicono. Beh, io questa sofferenza non la voglio. Non ho bisogno anche di questa. E poi quello che provo verso L non è amore.
E allora capisco che, forse, questo dolore non è per lui; è per me. Soffro per quello che ho fatto a me stessa per lui: ed è lì che tutto si trasforma in rabbia.
 
Stringo un pugno attorno alla trapunta e cerco di sfogare il rancore.
 
L’odio verso un ragazzo che non merita di sfiorare il mio dito mignolo.
 
L’ira verso me stessa e la mia stupidità.
 
Tra i miei pensieri confusi e la vista che comincia ad appannarsi di lacrime - che non voglio lasciar scorrere -, non mi accorgo nemmeno del rumore di una porta che si apre.
Poi una voce calda mi chiede “ Med?”
 
È Alex. No, cazzo, non Alex!

Io non mi volto. Resto ferma cercando di controllare il respiro e sperando che, per una volta, si faccia gli affari suoi e se ne vada; chiaramente non sono così fortunata.
“ Med, che ti è successo?” mi domanda appoggiandosi allo schienale del divano per essere più vicino. Io continuo a tacere e a respirare il più profondamente possibile per ricacciare le lacrime da dove sono venute.
 
Lui aggira il sofà e si accuccia di fronte a me.
“ Ti senti bene?” mi sussurra scostandomi una ciocca zuppa di pioggia dal viso.
“ Direi di no” bisbiglia fissandomi i capelli dietro l’orecchio e io tremo appena.

Oh, perché si allarga? Al momento la mia capacità di intavolare un battibecco con lui è andata a correre la maratona di New York. E il suo superpotere della lettura dell'anima, unito alle mie difese abbassate, sono un mix terribile.

Annullare la missione. Annullare la missione. Recuperare il controllo e rispedire demone dallo sguardo languido da dove è venuto.

Io lo guardo negli occhi ma non parlo. Gli arriva la mia richiesta di andarsene?
 
“ Bet ha detto che eri dal tuo amico non molto simpatico” dice piano. Io annuisco e i suoi occhi si muovono sul mio viso sempre più intensamente, cercando di leggermi dentro; ora però non ho davvero voglia di combattere.

“ Sei tutta bagnata, Scintilla. Non puoi dormire così.”
 
“ Perché no?” borbotto io, arricciando il naso e strofinando un polso su un occhio nella speranza di far passare il bruciore causato dalle lacrime che continuano a minacciare di cadere.
 
“ Perché mi inzupperai il divano” scherza lui “ e perché, se ti viene il raffreddore, russerai ancora più forte”
“ Ok.” rispondo senza pensare a ciò che dico e senza accennare il minimo movimento.

Mi sento come se qualcuno mi avesse staccato la spina e all'improvviso avessi perso la capacità di essere me stessa. Oppure adesso la solita me stessa si è stancata di proteggermi ed è andata a raggomitolarsi in un angolo pacifico di me, lasciando la parte più cretina di Med a gestire il tutto. Beh, questa Med sta fallendo su ogni fronte.

“ Che ne dici se stanotte il divano lo prendo io?” mi bisbiglia tenendo saldo il sorriso e alzandosi in piedi. 
 
“ Io non voglio dormire sul pavimento!” ribatto, contemplando l'idea di un incontro ravvicinato con il mio parquet impolverato.
 
Lui trattiene una risata e risponde:
“ Non era esattamente quello a cui avevo pensato.”
“ Oh. E cosa avevi pensato tu?” chiedo tirando su col naso e cercando - con scarsi risultati - di mettermi a sedere in modo vagamente femminile.
“ Su, alzati.” mi dice prendendomi le mani e cercando di tirarmi, fingendo che il mio galattico culo non stia opponendo resistenza. Lo scruto qualche attimo e poi decido che non è carino da parte mia  costringerlo ad alzare proprio tutto il mio peso e allora collaboro e lascio che mi aiuti a sollevarmi.
 
“ E ora?” domando confusa. Lui ride.
“ E ora vai in camera mia.” afferma lui indicandomi la sua porta.
“ Perché?”
 
“ Perché sì. Dai, scintilla, non fare tante storie.” e mi prende per un polso, conducendomi verso la stanza.
“ Alex…” sussurro quando siamo sulla soglia “ perché lo fai?”
“ Perché sì. Perché devi sempre fare tante storie? Sto cercando di essere una persona gentile, per una volta...” mi mormora, fermando una lacrima lungo il mio viso, con il pollice. E quella da dove è sbucata?
"Vorrai in cambio la mia anima, come minimo." protesto con voce asciutta e deglutendo a fatica. Forse ho mandato giù un po' di senso di colpa?
"Come si fa a farti smettere di protestare? C'è un modo? Non puoi semplicemente accettare l'offerta e basta?"
“ Ma tu non mi conosci, io sono un’estranea” dico confusa.
“ Sei anche la mia coinquilina” risponde lui sorridendo
 
“ E allora?”
“ Ma tu fai sempre tutte queste domande?” mi chiede ridendo.
“ Sì.” rilancio perdendomi nei suoi occhi.
 
Lui scuote la testa e mi spinge dentro la sua stanza, che profuma di qualche bizzarra spezia. Io lo lascio fare.
"Camera tua sa di femmina." constato voltandomi nella sua direzione e lui scoppia a ridere.

Ma che si ride sempre?

“ Dove sta quella cosa che usi per dormire e definisci vintage?” 
“ Nel bagno.”
“ Vai a mettertelo...“ mi comanda dandomi le spalle e iniziando ad armeggiare con qualche cosa sul letto.
Vorrei dirgli che non accetto ordini dagli stronzi, ma in questo momento mostra accenni di umanità, invalidando il mio diritto alla scortesia, quindi faccio come dice, indossando il mio pezzo forte notturno - composto da un pantalone con fantasia militare, rigorosamente felpato, abbinato ad una casacca extra-large che reca la faccia di una mucca sul davanti e, lascio a voi intuire cosa, sul di dietro: però ha in più l'impareggiabile particolare della coda attaccata sul retro che si può muovere ed alzare. Pigiami così impazzavano negli anni '90: l'abbinamento con la parte inferiore, però, è tutta roba mia. Lo faccio per dare un tocco di personalità.

Nella vestizione non ho neppure acceso la luce e, velocemente, torno in camera di Alex, muovendomi nel buio. Sono Occhi di Gatto.
Quando entro nella stanza lui si volta verso di me e storce il naso non appena prende atto del mio outfit per la notte.
Medito di rispondergli per difendere il mio pigiamino ma, d'improvviso, mi torna in mente l'immagine di L con quella ragazza e Alex e la sua opinione sul mio guardaroba tornano ad essere irrilevanti.
Sento gli occhi ricominciare a pizzicare e temo che questa volta non riuscirò a fermare quelle sciocche lacrimucce.
 
“ Che strano, sembri quasi piccola in questo momento” mi dice lui sorridendo.
“ Sei uno stronzo” rilancio avvicinandomi al letto.
“ E tu sei una ragazza molto scurrile” il suo sorriso si fa più grande mentre mi scosta il piumone per farmi entrare.
Io mi raggomitolo sul materasso e mi copro in fretta. Appoggio la testa sul cuscino, lui mi fa l’occhiolino e si dirige verso l’uscita.
 
“ Alex..” lo fermo io e la saggia e intelligente Med che aveva lasciato spazio a quella debole, impreca.
“ Che c’è?” mi chiede guardandomi, probabilmente sorpreso che, per una volta, io abbia qualcosa da dire.
 
“Ecco, dunque... sai una cosa? Non fa niente. Non era importante.”
“ Sputa il rospo, Med” ride lui in silenzio e, con mio orrore, mi trovo a domandargli:
“ Se ti chiedo di restare prometti di non rinfacciarmelo?”
Lui mi fissa smarrito e sospetto si stia chiedendo se io abbia completamente perso il senno.
“ Resta...” ripeto, senza sollevare la testa.

Sono chiaramente posseduta.

“ Come?” domanda lui sempre più confuso e non posso biasimarlo.

Forse sono schizofrenica. Forse ho un disturbo da personalità multipla e quella incompetente di Jules non me lo ha diagnosticato.

“ Solo un po’…resti qui un po’?”

Ma cosa sto dicendo?! No, no, non restare. Lasciami qui da sola nella tua camera che sa di femmina.

Nei suoi occhi leggo incertezza e titubanza.

Siamo in due, fratello!

"Io? Vuoi che io resti qui? Non vuoi che ti chiami Bet?"
"Tu o un peluches senza un occhio sarebbe più o meno lo stesso. È la presenza che conta..."
"Ah, sì, così mi sento proprio amato e mi convinci senza dubbio."
"Dovresti sentirti lusingato anche solo da fatto che io te lo chieda e che ingoi il mio orgoglio..."

E ancora con i suoi silenzi carichi di tensione: mi guarda e mi contempla.
"Per favore..."
 
Le mie ultime parole sembrano convincerlo, perché torna verso di me. Io gli faccio spazio e lui si sdraia sopra la coperta. Si mette su un fianco e incrocia il mio sguardo.
Restiamo in silenzio e ,a quel punto, mi accorgo che una sola lacrima si è fatta un giro sulla mia guancia.
“ I tuoi occhi sono belli quando piangi” si lascia sfuggire Alex e poi si ferma, imbarazzato.
 
“ Anche i tuoi” rispondo stupidamente io per allentare la tensione e lui ride.
 
“Quanto sei stupida..."
“Non ne hai idea... “ bisbiglio io, continuando a fissare i suoi occhi. Sembra che abbiano un effetto calmante, perché ho l’impressione che la rabbia stia un po' scemando e che la stanchezza si stia, piano piano, diffondendo nelle mie vene. Forse è un altro potere dell'occhio bionico; o probabilmente sono solo stremata da tutto quello che mi ha attraversato la mente.
 
“ Cerca di dormire, così il tuo russare mi farà da ninna nanna” mi prende in giro lui e questa volta io rido e chiudo le palpebre.
Restiamo avvolti dal buio e dal silenzio. Poi lui mi chiama:
 
“ Ehi, Med?”
“ Mmmh?” mugolo io
“ Lo sai che te lo rinfaccerò, vero?” domanda, e nella sua voce riconosco un sorriso.
“ Lo so,  Alex” dico, lasciando che gli angoli delle mie labbra guardino verso l’alto.
 
Poi, forse completamente impazzito, sfida la fortuna e mi accarezza i capelli: di norma gli avrei fatto uno strizzacapezzolo, ma la mia bisnonna diceva che bisogna sempre mostrare gratituidine. Io forse non lo so fare, ma posso almeno evitare di maltrattarlo per qualche ora, visto come sono andate le cose.
So bene che Alex non resterà. So che non sarà qui al mio risveglio. Ma non voglio che ci sia. 
 
Ed è proprio questa consapevolezza che mi permette di abbandonarmi e di entrare nel mondo onirico.


AN: Come ogni volta, il mio primo immenso grazie va a quella santa di leti10 che, con una pazienza infinita, si pippa il cumulo di roba che la mia mente riesce a partorire: in questo caso, come lei ben sa, la mia gratitudine è doppia, data l'impossibile lunghezza di ciò che le avevo spedito!
E non posso non ringraziare tutte quelle persone che hanno scelto di dedicare un po' del loro tempo a questa storia, leggendo le assurdità che ci piazzo dentro e commentandola: avete ampiamente contribuito alla mia ispirazione (e, forse, la mia Beta non ha troppo apprezzato eheheh).
Sperando di non avervi tediato troppo e che nessuno di voi si sia addormentato prima di arrivare alla fine del capitolo, vi saluto caldamente ;)

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Capitolo 7
*** Come quando hai sete ***


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IPTT 06 - Come quando hai sete -

CAPITOLO 6



- Come quando hai Sete -



Quando mi sveglio la mattina seguente, Alex è già uscito di casa. Sulla sedia accanto al letto ci sono i miei vestiti della sera prima asciutti e piegati. Sopra c’è un biglietto che dice:

 Hai russato divinamente. Nelle pareti del salotto rimbombavi così forte che quasi non ho chiuso occhio. E, tra l'altro, sei violenta anche nel sonno. Nottata magnifica.

Seguito da un post-it con una faccina che sorride.

Io mi metto a ridere e mi alzo. Mi fanno male gli occhi e mi scoppia la testa. Ma non voglio distrarre Bet nel suo ultimo giorno di studio; le racconterò cosa è successo dopo l’esame. La sento ripetere ad alta voce dalla mia camera così, il più silenziosamente possibile, mi preparo ed esco di casa, determinata a trovarmi qualcosa da fare per tenermi impegnata fino a sera ed optando per rinchiudermi in biblioteca a fingere di studiare.

Camminando per strada mando un messaggio a Jules avvisandola che L ne ha fatta una delle sue e che urge una riunione a base di pizza, al quale lei risponde con un:

Sei anche nella fase di negazione da anni. Servirà anche il karaoke. Vi aspetto domani sera da me.

Fase della negazione. Da anni.

Non penso la mia amica si renda conto di quanto effettivamente abbia ragione e, mentre ci rifletto, sento le mani che si stringono in due pugni, per poi rilasciare la tensione e rilassarsi. Io non ho grandi scuse da accampare o forze superiori di incolpare.

Ho fatto tutto da sola. Come sempre, d’altronde. Nella vita, apparentemente, i danni li ho sempre causati con grande maestria e con un’incredibile consapevolezza.
Vi siete mai sentiti estranei nella vostra pelle? Come se non riconosceste la persona che vi abita dentro? O, quantomeno, non apprezzaste le scelte che fa?
Io da sei mesi a questa parte non sono assolutamente in accordo con la parte di me che sembra essersi arrogata il diritto di parola sulle decisioni importanti.

No, galattica balla. Sono anni che questa cosa va avanti ma sta avendo ripercussioni emozionali sono negli ultimi mesi.

È come se io non sapessi più davvero cosa voglio, cosa mi piace, cosa mi fa stare bene. O, probabilmente, non l’ho mai saputo.

Una volta mi importava davvero di quello che gli altri pensavano di me: no, più precisamente era fondamentale la loro approvazione. Come se, attraverso il loro giudizio positivo, io mi sentissi legittimata ad apprezzare me stessa.

Sì, ci sono dei colossali crateri nella mia sicurezza e autostima: francamente, se non fosse perchè ne parlano tutti, credo che quest’ ultima parola sarebbe insignificante per me.

Ho sempre vissuto nella speranza di compiacere gli altri, ma non capivo come fare. Era sempre come se ci fosse qualcuno più simpatico di me, più intonato di me, più volenteroso, più brillante e - la costante immutabile - più magro.

Perciò, quando ho capito che naturalmente non ero in grado di soddisfare le loro aspettative, ho iniziato a modellarmici sopra, a dare agli altri quello che volevano: le bambine permalose non piacciono a nessuno? Perfetto, quelle divertenti e autoironiche riscuotevano grande succeesso: e allora io sarei stata autoironica.

Più o meno il modus operandi era questo: studiavo le reazione degli altri alla vera me, poi prendevo atto del loro entusiasmo di fronte agli altri e, infine, assumevo l’atteggiamento stimato. E improvvisamente erano tutti contenti. Tutti tranne me: perché con gli anni non c’ho capito più nulla e ho smesso di comprendere cosa ero e cosa volevo.

Forse è così che sono arrivata qui. In genere, quando si cerca di non deludere gli altri, si finisce con deludere se stessi. Ma io ho fatto anche di meglio: ho deluso sia loro che me.

Il primo passo verso l’oblio me lo ricordo come se fosse impresso a fuoco sulla mia amigdala: la tristezza sul viso della mia famiglia quando uscirono i risultati di quel maledetto test di Medicina.

La tristezza la potevo sopportare, ma la compassione, Dio, quella no.

Il viso di mio zio si accomodò in una sorta di maschera incoraggiante, ma io sapevo che dentro era rammaricato quasi quanto lo sarebbe stato se a fallire fosse stata Terry. Perché lui era un grande medico e aveva sperato, forse, che qualcuno di noi scegliesse di seguire i suoi passi: io l’avevo fatto. E avevo fallito.

“Non sono entrata.” è bastato quello per far calare un silenzio tombale. Sembrava quasi un’elaborazione di un lutto. La morte di qualcosa. Ma di che cosa, veramente? Di me? Dei miei sogni? Delle aspettative degli altri? Di che cosa?

Tutt’oggi non lo so dire. So, però, che la prima curva a gomito è stata quella. E io l’ho presa in quarta e senza cintura di sicurezza. Mi ci sono schiantata contro a 100 all’ora.

Fallimento: quanto pesa su di me questa piccola parola. Io, che non ho mai accettato di perdere, neanche a Risiko. Io, la piccola ragazzina testarda che puntava al successo. Io, quella che, in realtà, il successo non sapeva davvero in che cosa lo voleva raggiungere. Io, che a ventiquattro anni ancora non lo so.

Il viso di mio padre resta la cosa che più mi colpì, carico di speranza e di fiducia:

“Magari ti ripescano...”

1.212

“Non mi ripescano...”

Ero arrivata alla posizione 1.212: chi l’avrebbe mai detto che un 1 e un 2 potevano pesare così tanto?

“... sono troppo in là in graduatoria.”

Le lacrime che ho versato quel giorno sapevano di veleno: perché da quelle lacrime nasceva una piccola morte di me.

“Ci puoi sempre riprovare l’anno prossimo.” era la voce densa di emozioni dello zio.

“Sì.”

No, non ci avrei riprovato neanche sotto tortura.

“Non era la tua unica possibilità.” questa era Terry, speranzosa come sempre.

“Già...”

Ma era l’unica che mi sarei concessa.

Però loro questo non lo sapevano. E non lo avrebbero saputo se non molti mesi più tardi. Ma non avrebbero comunque saputo la verità.

Perché quegli 1 e quei 2 decretarono la fine del mio sogno e segnarono i confini della mia decisione: io quel test non l’avrei rifatto. Non avrei sopportato un’altra volta una delusione così vivida e profonda. Non sarei stata in grado di reggere di nuovo quest’aria rarefatta di compassione.

E non avrei tollerato ancora questo fallimento.

Ma non lo dissi ad alta voce. Non lo dissi mai. Loro non capirono e non avrebbero saputo: quella paura, quel gesto di codardia fu il primo tradimento verso me stessa.

“Dai, ora rimboccati le maniche. Ora quello che devi fare è...” la voce di zia partì a raffica coi suggerimenti, ed io registrai solo quello che devi fare.

Devi. Ora non potevo più scegliere. O magari avrei potuto. Ma non lo capii e non lo feci. Lasciai che mi consigliassero nel migliore dei modi e, come sempre, mi modellai alle loro richieste.

Milano. Biologia. Un anno. Poi rifai il test.

Tutto liscio fino all’ultimo punto. Quello lo ribaltai con una bugia:

“Mi piace bilogia. Resto a questa facoltà.”

Cavolo, se solo avessi saputo che cosa stavo facendo. Ma non ne avevo idea e non sapevo che quelle parole mi avrebbero portato qui, oggi, infelice e incapace di leggere la mia stessa anima. E non sapevo che la biologia mi avrebbe condotta a L.

Una porta che sbatte e mi risveglio dai ricordi; mi allontano dall’analisi profonda dei fatti che mi hanno guidata dove sono oggi, e mi ritrovo di nuovo in biblioteca, nascosta dal mondo che preme per sapere e dalla parte di me che supplica per avere una direzione.
Sbatto ripetutamente le palpebre e torno a sfogliare il libro di genetica, riscoprendomi incredibilmente rapita dalle mutazioni del DNA pur di non ripensare a ieri sera. O a me stessa.

Fortunatamente non trovo inservienti molesti che mi rendono ancora più odioso il soggiorno in quell'edificio e si fa presto l’ora di scappare da un luogo chiuso per rifugiarsi in un altro.
È come vivere sottovuoto: ed è così rassicurante.

Quando quella sera rientro a casa, vengo subito accolta dalla voce di Bet che riempie la casa.

Entro in cucina per prendere da bere e, guardando verso il soggiorno, davanti ai miei occhi si presenta una scena di una dolcezza spiazzante.

J è seduto sul divano, con una gamba distesa sulla seduta e l’altra che tocca terra e, al centro, con la schiena appoggiata alla sua pancia e la testa che riposa sulla sua spalla, c’è Bet.
Lei tiene sulle cosce un libro aperto, ma non lo guarda nemmeno. Con la fronte contro il collo di J tiene gli occhi chiusi: le dita di una mano di lui sono intrecciate con quelle della mia amica, mentre con l’altra le accarezza i capelli a intervalli regolari e fa girare tra le dita una ciocca bionda.

Dalla mia posizione vedo che lei muove le labbra, e sento qualche parola; ma sta parlando piano, quasi sussurrando, per far sentire le parole solo a lui.

Ogni tanto lui annuisce e dice qualcosa. Le bisbiglia all’orecchio e le bacia una tempia, poi lei volta pagina e solo allora capisco che lui la sta ascoltando ripetere.
Lei si ferma, si tocca la fronte, come se stesse cercando di ricordare qualcosa, e lui indica una riga sul libro, leggendo ad alta voce per lei. Bet annuisce e sbuffa, frustrata. J ride e fa scorrere le braccia attorno alla sua vita, abbracciandola. Lascia cadere un bacio sul suo collo, confortandola e, probabilmente le dice qualcosa, sussurrando contro la sua pelle, perché subito dopo lei sorride e avvicina la mano di lui alle sue labbra. Poi riprende l’esposizione di chissà quale legge e lui, con pazienza, ricomincia ad ascoltarla.

“È più di un’ora che sono in quella posizione” esclama la voce di Alex alle mie spalle e io sussulto, presa in contropiede.

Mi giro di scatto, sorpresa, e gli offro un mezzo sorriso. Sono imbarazzata. Non so come comportarmi dopo ieri sera. E forse sono a disagio anche per l’aria trasognata che si riflette nei miei occhi, dopo aver spiato la scena tra i nostri ospiti.

“Ciao” dice lui, fissandomi e avvicinandosi pericolosamente.

Vade retro, tu e il tuo sguardo penetrante. Lo penso ma non lo dico. Rispondo invece un incisivo “Ciao” , abbassando lo sguardo.

Che fantasia.

“ Che c’è? Perché sei in imbarazzo?” domanda lui aggrottando la fronte e cercando i miei occhi.
“ Non sono in imbarazzo” rilancio io tenendo la testa bassa.
“ Ah no? E allora perché non mi guardi?” mi provoca lui e la sua voce lascia trapelare divertimento.
“ Perché…perché…” tentenno, poi rinuncio “ Ok, hai ragione, sono in imbarazzo.”

“ Va bene, ma è la motivazione che mi sfugge.” prosegue lui sedendosi sul bordo del tavolo, di fronte a me.
“ Per tante ragioni…” rispondo, alzando il viso.
“ Comincia a dirmene una.” mi suggerisce, inclinando la testa a destra.
“ Per ieri sera, tanto per cominciare.” Dico tutto d’un fiato e poi allontano di nuovo i miei occhi dai suoi.

"Med... Med, guardami” mi ordina ed io, senza riuscire a controllarmi, eseguo.

"Prima di tutto, se non ricordo male ora io posseggo la tua anima, giusto? È il prezzo che devi pagare per aver usufruito della mia cortesia."
" Simpatico! Sei esilarante! Hai mai pensato di fare il comico?” gli chiedo, spingendolo.

"No, preferisco fare il tuo coinquilino.” Dice riavvicinandosi a me. Io indietreggio, fino a che non sbatto con la schiena contro il bancone che separa la cucina dal soggiorno, e lui avanza senza remore.
“ E poi…” sussurra a pochi centimetri dalle mie labbra
“ Che cazzo fai?” bisbiglio senza un minimo di forza.

Lui trova di nuovo i miei occhi e vedo che i suoi sorridono.
“ Non illuderti, Scintilla” sussurra. Poi sposta lo sguardo oltre me, verso il salotto.
“ ... Pensavo solo che, magari, avresti voluto riprendere a guardarli ora” dice continuando a osservare J e Bet.

Io resto appoggiata al bancone, e giro la testa. E li vedo.

Sono passati solo pochi minuti ma, in qualche modo, Bet sembra essersi addormentata con la testa appoggiata sul torso di lui, mentre ripeteva. Lui sfoglia qualche pagina e abbandona il libro sul divano. Poi J cerca di svegliarla dandole una serie di volatili baci sulle labbra. Dopo poco lei sorride tra i baci e spalanca gli occhi. Si sussurrano qualcosa e lei sbadiglia. Gli accarezza la nuca con una mano e annuisce in risposta a qualche domanda che lui le ha bisbigliato all’orecchio. Si solleva da lui, dandogli spazio per alzarsi; poi lui le prende le mani e la aiuta a tirarsi su. Bet gli cinge la vita da dietro e lui appoggia una delle mani sulle sue mentre si dirigono verso la camera da letto. E in tutto questo non sono mai stati consci di me e Alex, come se al mondo fossero esistiti solo loro due. Entrano nella stanza dandosi un bacio e richiudono la porta.

E io resto immobile, immersa nella tenerezza della loro interazione.

“ Non c’è niente di male nello spiare da lontano una scena come quella” mi mormora Alex sul collo, riportandomi alla realtà. Mi volto e i nostri occhi si incrociano e il suo naso ad un respiro dallo sfiorare il mio.

Io non dico nulla e arrossisco. Lui mi sorride con un’ insopportabile espressione furba e aggiunge:
“ E non c’è niente di male nel desiderare quello che hanno loro...”
“ Non tutti possono avere quello che hanno loro.” rispondo io piano e, mentre continuo a scrutare il suo viso, sento che le mie difese inziano a capitolare.
“ Però a volte qualcuno lo trova.” ribatte lui, sorridendo. Poi, all’improvviso si allontana e io ricomincio a respirare.

Dio, ancora qualche secondo e avrei commesso l'infattibile: avrei cercato di pomiciarci come un'adolescente.

Lui ammicca e si incammina verso la sua stanza. Io faccio un sospiro e mi muovo in direzione del bagno, determinata a recuperare il controllo dei miei indisciplinati ormoni e infilarmi nel mio pigiamino. Quando accendo la luce vedo che sullo specchio svetta l'ennesimo post-it e mi avvicino per leggerlo:

Desolato, Scintilla. Per quanto l’idea di te nel mio letto abbia movimentato i miei sogni, stanotte il divano tocca a te.
Però se piangi e supplichi di restare, magari cambio idea.

Accartoccio il biglietto, mi mordo il labbro inferiore e rido. Che faccia di culo!

Le docce fredde funzionano anche con le donne?

Poco conta: l’indomani Alex sarebbe tornato ad essere irrilevante e io avrei scelto il vino rosso e l’ Häagen-Dazs  come unica realte fonte di sollievo.
Credetemi: ciò che vi può regalare il gelato è insostituibile.
E così mi ritrovai ad affondare un cucchiaio nella scatola da mezzo chilo di Belgian Chocolate, considerando l’ipotesi di affogarlo con del Groppello, e a fare un dettagliato resconto delle ultime quarantotto ore alle mie migliori amiche.

“Mi stai prendendo per il culo?”  questiona Jules lasciando cadere una manciata di pop corn dal pugno e stringendo i denti.
“Vorrei poterlo fare!”  borbotto nascondendo la testa in un cuscino.
“ Fammi capire: tu sei andata a casa di L e l’hai visto che si limonava una sotto il portone...” riepiloga Bet leccando il retro del cucchiaio che ha appena piantato nel cartoncino di gelato che ho appoggiato sulle ginocchia. Io annuisco.

“ E non hai fatto assolutamente nulla?” mi domanda e io scuoto il capo in risposta, facendo nascere in lei altre supposizioni “Non gli hai gonfiato la faccia di sberle , non l’hai reso incapace di avere un rapporto sessuale ? Niente di niente? ”  chiede incaponita e sbalordita.

“ Nada.” mi limito a sospirare io riempiendomi la bocca con un Chicken Mc Nuggetz. Sì, quando è una situazione di emergenza, noi mischiamo tutto. Proprio tutto.

“ Ma sei scema?” mi interroga con disappunto la mia amica bionda, restando in stato di shock.
“ Non potevo fargli una scenata. Io ho fatto finta di accettare la relazione di sesso-tra-amici, e ora ne pago le conseguenze” ribatto, arrabbiata con me stessa .
“ Sei un’idiota.” Dice Jules placidamente mentre stappa l’ennesima bottiglia di vino e si china verso di me per riempire il mio bicchiere  “ Ma un’idiota che ha ragione. Non avevi alcun diritto di parola. Ma questo non toglie il fatto che lui sia il più grosso pezzo di cacca mai partorito.”

“ E ora che devo fare?”
“ Vuoi la verità o quello che vorresti sentirti dire?” chiede Jules sdraiandosi accanto a me.

“ La verità.” rispondo con una colorazione incerta nella voce e sicura che la verità non è quello che mi piacerebbe udire.

“ Te ne liberi, Med!” sorride lei, soddisfatta per una volta di aver potuto dire le cose con franchezza.
“ Facile a dirsi.” Mugolo e mi copro gli occhi con un braccio.
“Dovrebbe... Med, vuoi davvero sprecare il tuo tempo con un idiota così?” afferma Bet dalla poltrona.
“ Soprattutto quando a casa hai un boccino dagli occhi blu che io mi farei volentieri.” ridacchia Jules.
“ Tu ti faresti chiunque, Jules. E poi tra me e Alex c’è giusto un pelo di conflitto.” rispondo secca, limitandomi ad esporre le mie supposizioni.

“Non è conflitto. È tensione, Med.” specifica Bet, affondando nei cuscini e azzannando un altro cucchiaio di gelato.

“... tensione sessuale.”  aggiunge infine Jules e io le tiro una ciocca di ricci.

Lei borbotta un brutta vacca e io le chiarifico che è una psicologa ossessionata dal sesso e che si deve fare curare.

“ Non capisco perché non te lo vuoi fare. Lui ti si farebbe un sacco...” aggiunge Bet facendomi l’occhiolino.
“ Le tue sono banali illazioni...” le ringhio alzando la testa, per lasciarla ricadere subito dopo contro un cuscino mezzo vuoto che Jules ha prontamente appoggiato sulla traiettoria del mio cranio.

“ Cazzo, quanto sei falsa. Sai perfettamente che ha provato in tutti i modi a interagire con te.” rilancia Jules costringendomi a sedermi.
“Dicendomi quanto grosso sia il mio culo, o quanto forte io russi o quanto brutti siano i miei pigiami?” chiedo con aria di sfida.
“ Tutte cose vere, tra l’altro.” ride Bet.
“ Va bene, ma non capisco perché mi devo per forza fare qualcuno!”
“Non per forza. Francamente per me l’importante è che non ti fai L...” mormora la sempre premurosa Bet, benché Jules non sembri condividere il suo pensiero.

“No, no. Io non ne convengo: Alex è mediamente figo e deve essere fatto!”
“Senti Jules, ma il tuo terapeuta che ne dice di sta fissa per il sesso?” domanda Bet ricevendo solo un gesto poco creativo in risposta e, quindi, decide di riportare la conversazione su di me e su quello che è successo.

“Med, io capisco che tu ti senta la parte debole in questa... cosa che tiri avanti con L ma, non credi che fare qualcosa in proposito potrebbe essere un buon punto di partenza?”
“Per che cosa?”
“Per la svolta alla tua vita che continui a dire di volere e per cui ti ostini a non fare niente.”

Ah, la verità nuda e cruda: non esiste nulla di così tagliente e al contempo rassicurante che avere due migliori amiche che sanno cosa ti danna. E che, con scadenza settimanale, te lo rendono noto.

“Che tatto, Culo...”

“Senti io non sono la tua coperta di Linus: non puoi pensare che solo perchè ti voglio bene passerò ogni istante della nostra vita a tenerti sotto una campana di vetro. Sei infelice, questo è noto anche al parcheggiatore del supermercato, ma che hai intenzione di fare in proposito?”

“Certo, per te è facile parlare così...”
“Pensi seriamente che non mi costi fatica dirti queste cose? Ma che considerazione hai di me?”

Ecco, c’è da dire che il genere di discussioni che ho con Jules sono, di norma, più feroci di quelle che ho con Bet: ma questo soprattutto perchè la mia amica riccia è senza dubbio più dominante e asciutta.

“Med, L è un buon punto di partenza. Meriti una storia d'amore vera, non quello schifo.”

Alla menzione della parola amore non riesco a controllare un accenno di risata incredibilmente cinica e vedo Jules serrare la mascella in segno di disapprovazione.

"Non tutte le storie d'amore finiscono bene, Bet..."
"Neanche quelle d'affetto... ma te ne basta una sola vera per sentirti completa."
"Che differenza c'è tra amore e affetto?"
"Molta, e anche se entrambe dovrebbero essere espressione di bene, la verità è che  l'amore che ti può dare un solo buon amico, un inutile rapporto come quello che hai con L non te lo darà mai."

“Che diavolo vuol dire?”
“Che non ti serve una relazione insulsa come quella che hai avuto con L per sentirti amata: io e Jules ti diamo più amore di quanto L te ne abbia mai dato in tutti questi anni...”
“E allora perché devo cercarlo anche altrove questo amore?”
“Non è un dovere: voglio che ti metta in testa che quello che ti ha propinato L non è amore. Non sono così le relazioni, Med...”

“Ma questo lo so pure io! Lo so che tra me e L non c’è amore!”

“Neanche amicizia. Quella merda che accetti non è dimostrazione di affetto...” prosegue Bet con la sua immancabile dolcezza.
“Med, non ha mai funzionato e quel ragazzo non sa cosa sia il rispetto. È troppo innamorato di se stesso per vedere gli altri” mi mormora Jules aiutandomi ad alzarmi.

Io resto zitta. Faccio scorrere gli occhi da lei a Bet e ritorno. E loro guardano me.

Ed è in quel momento che capisco che non sono più disposta ad accettare quello L che mi fa passare. Le sue regole non mi vanno più. Sono stufa di essere la bambola gonfiabile di un ragazzo senza materia grigia. E la verità è che non lo voglio più nella mia vita. Punto.

Non vale come persona, non vale come amico, e non vale come amante.

“ Ok. Credo di essere pronta” affermo sicura, rompendo il silenzio.
“Sul serio?!” chiede attonita Jules, cercando nei miei occhi.
“Sì, sul serio. Forse non servirà a ridarmi il sorriso e certamente non mi spingerà alla ricerca del vero amore. Ma in fondo L l’unica cosa che ha saputo darmi in tanti anni è qualche scadente orgasmo. E si è preso tutto. Non mi ridarà quello che gli ho permesso di portarsi via...”

“Parli della tua verginità?”

“Ma come fai ad essere sempre così inopportuna, Jules?!” chiede Bet alla ragazza alla sua destra, che non può fare che alzare le spalle in segno di resa e dedicare la propria attenzione ad un pop-corn inesploso.

“Non mi riferivo a quello, ma grazie per aver perfettamente riassunto la sua funzione...” rifletto io e, alla sua specificazione “Di tappabuchi?”, scoppio a ridere.

Poi le osservo e nei loro sguardi c’è solo appoggio: perché? Perché sono sempre dalla mia parte? Perché ci ho messo così tanto ad ammettere che avevano ragione? Perché mi è servita anche quell’ultima umiliazione per decidermi a mandarlo a quel paese?

La verità è che non è L l’importante; non sono i torti che lui fa a me o il modo sconsiderato in cui mi tratta. Non serve dare spessore e rilevo a qualcosa che è inconsistente più del nulla: non è lui che conta. Quello che conta è ciò che io gli ho permesso di fare a me.

Lui è nato stronzo: fin qui non ci piove.
Ma mi ha usata solo perché io gliel’ho permesso.

Appena esco dal portone di Jules, inizio a formulare in testa le frasi che dirò a L tra poco. Non ho bisogno di riflettere. Questa scelta io l’ho fatta tanto tempo fa, dovevo solo trovare il coraggio di metterla in pratica. E ora che sono pronta a farlo, non intendo aspettare un secondo di più.

Non sono mai stata brava a prendere decisioni. E’ colpa della mia insicurezza: quando mi trovo davanti a un bivio, tentenno per un tempo illimitato, con la paura di fare la scelta sbagliata. Poi, quando arriva il momento di muovermi, opto per la soluzione che sembra essere la più gettonata e che, alla fine si rivela quella giusta per il pensiero comune, e quella errata per il mio cuore. E così rimango intrappolata nella mia stessa ragnatela di bugie, illudendomi di aver agito secondo quello che era il mio desiderio.

E’ un circolo vizioso.

Entro in casa di corsa ed è tutto silenzioso: solo in quel momento mi ricordo che i miei ospiti hanno fatto ritorno nella loro abitazione (finalmente libera da zecche e zecchini) quel pomeriggio. Cerco di restare concentrata sul mio proposito e, accendendo la luce del salotto, afferro il telefono con decisione. Devo fare questa cosa in fretta, prima che il terrore di affrontarlo mi blocchi. Compongo il numero di L e aspetto che risponda, con il cuore in gola. Sarà una cosa rapida. Non ho intenzione di prolungarla più del dovuto. Dovrà essere come togliere un cerotto. Un colpo secco, veloce e deciso.

“ Ehi!” canticchia L nel ricevitore. “Stavo giusto per...”
“ Sì, certo. Senti, ti devo parlare.” lo interrompo io ansiosa.
“ Oh, d’accordo. Che succede?”

“ Ascolta, è un po’ che ci penso e ho deciso che non ti voglio più vedere.” dico ostentando sicurezza.

“ Che cosa? E perché?” mi chiede lui con voce ingenua e incredula: ma come è possibile che non si aspettasse qualcosa del genere prima o poi?

“ Perché sì. Perché ho capito che…che non sei quello di cui ho bisogno. Questa storia l’abbiamo tirata avanti anche troppo. E sappiamo tutti e due che è tempo sprecato. Tu non mi aiuti ad essere una persona migliore, anzi. Da quando sei entrato nella mia vita ho fatto cose che non sono da me. Ho accettato condizioni che mi fanno rabbrividire ed è come se avessi accantonato tutti miei principi e la mia morale. Io credo che i rapporti, di qualunque forma siano, debbano lasciarti qualcosa, debbano aggiungere qualcosa alla tua anima, aiutarti a crescere e a diventare un po’ meglio di quello che eri prima di incontrare quella persona. E dal nostro rapporto io non ho avuto niente di buono. E la verità è che tu, come persona, non mi piaci. Non mi piace come ti comporti e come affronti la vita. Abbiamo concezioni diverse del bene e del male e, siccome credo che, in linea di massima, tu peggiori la mia vita, non ti voglio più vedere o sentire.”

Non so nemmeno se ho respirato mentre gli esprimevo il mio punto di vista. Lui tace qualche secondo e poi dice:

“ Ma che cosa ho fatto per farti pensare queste cose?”
“ Non è una cosa in particolare. È come sei. Non sei una persona che può combaciare con me” rispondo con stanchezza e, dopo qualche attimo di silenzio, lui aggiunge.

“ Devo vederti. Mi devi guardare in faccia mentre mi dici queste cose.”
“ NO! Non dobbiamo vederci, io quello che dovevo dire l’ho detto. Mi dispiace ma questa è la mia decisione, e non c’è nulla che tu possa fare per farmi cambiare idea.”

“ Med, aprimi, sono qui fuori.” Taglia corto lui riattaccando il telefono.

“ Che cosa?” grido io nel panico.

Poi sento che L bussa forte alla porta e mi urla:
“ Apri, Med! Devi guardarmi negli occhi mentre dici che non vuoi più la mia amicizia.”

Io mi avvicino alla porta e gli dico piano.

“ Vattene, per favore. Mi dispiace, ma le cose stanno così. Non sono io, sei proprio tu il problema” giusto per la cronaca, ho sempre sognato di poter rigirare quella frase paraculo e, per mia estrema fortuna, in questa circostanza ho anche il diritto di farlo. E’ lui che è un uomo di merda. “Io non ti voglio più nella mia vita”.

“ E cosa ne è di tutto quello che abbiamo vissuto insieme? Cosa dovrei fare di tutti i ricordi che abbiamo? Bruciarli come vuoi fare tu?” dice furioso attraverso la barriera che ci separa, battendoci forte un pugno contro.

Chi ha parlato di appiccare incendi? Questo ragazzo è melodrammatico quanto Bet.

“Non lo so. Conservali. Non sta a me dirti cosa fare. Ora non fare il sentimentale.” sto praticamente sussurrando.

“ Voglio che mi dici che cosa ho fatto per farti arrivare a questo punto!” strilla con rabbia.
“ Non è una cosa in particolare. È quello che sei. Come sei. E come divento io quando ci sei tu!”
“ Med, piantala. Apri la porta...” e credo che la sua voce sia praticamente rotta dal pianto.

Oltre che stronzo è pure un debole. Cosa piangi? Non te ne è mai fregato nulla di me. Ora piagnucoli solo perché non sopporti che sia io a scaricare te.

“ Non ho più niente da aggiungere. Vai via, per favore”.

“ No, questa non è una cosa che puoi decidere da sola. E io non sono d’accordo”.

Sto per rispondere, quando sento una mano che mi allontana dalla mia posizione e vedo Alex afferrare la maniglia e spalancare la porta. Resto paralizzata a fissare la sua schiena.

Che cosa sta facendo?

“ Med...” dice L, poi si blocca quando i suoi occhi incrociano quelli, scuri per la rabbia, di Alex.

“No, Alex.”
“Fatti gli...”
“Non riesco a capire se sei testardo o semplicemente stupido.” dice Alex, e nella sua voce avverto un tocco di gelo che non avevo mai sentito prima.
“ Che cazzo vuoi tu? Stanne fuori.” Gli ringhia L in risposta, facendo un passo avanti.
“ Voglio che ti levi dalle palle e fai quello che lei ti ha chiesto. Mi sembra che sia stata più che chiara. Non ti vuole più vedere.” Risponde il mio coinquilino con un tono di voce tanto secco da fare rabbrividire.

Cazzo, forse è davvero un pazzo. Magari è Scream?

“ Tu non sai nulla. Sei un estraneo che si è piantato in casa sua. Fatti gli affari tuoi e fammi parlare da solo con Med...”
Io resto due passi indietro ad osservare con gli occhi spalancati lo scontro tra i due.
“No, non ti faccio parlare con Med perché quello che voleva dirti già l’ha detto. E mi sembra che ti abbia ripetuto più volte di andartene. Ti conviene farlo finché l’orgoglio è l’unica cosa danneggiata che hai.” abbaia Alex con fare terribilmente minaccioso.

“ Oh, davvero? E cosa vorresti fare? Picchiarmi?”
“ Non necessariamente. Ma se non sparisci di qui, non so se avrò voglia di controllarmi a lungo.”

È uno scherzo? Dovrebbe essere divertente o anche solo lontanamente credibile?

Alex non rischierebbe mai il suo bel faccino facendo a botte e L è uno smidollato che se si imbatte in una rissa, si nasconde dietro la sua accompagnatrice. Tutto questo rasenta l’assurdo.

“ Alex...” cerco di attirare la sua attenzione, sfiorandogli un braccio. Ma lui non si volta, non mi guarda. Resta zitto e fissa L.

Forse è proprio un po’ incazzato.

“ Senti, ” dico rivolgendomi a L “ per favore, va  a casa e dimenticati di me. Dico davvero. Non ho intenzione di vedere voi due che vi picchiate. Tra l’altro sei talmente fragile che probabilmente ne usciresti a pezzi. E poi non fare improvvisamente il coraggioso. Tu gli scontri li eviti come la peste. Va a casa e lascia perdere, va bene? Ti ripeto che mi dispiace, ma qualsiasi tipo relazione tra me e te, finisce qui.” gli comunico con una sicurezza che non ricordavo di avere.

Alex tiene lo sguardo fisso su L e, standogli accanto, mi rendo conto di quanto sia realmente teso .

L scuote la testa sconfitto, lancia un’occhiata d’odio ad Alex e inizia ad indietreggiare.

“ Come vuoi, Med.” conclude, dandomi le spalle e allontanandosi.

Io tiro un sospiro di sollievo e mi sposto dall’entrata mentre Alex chiude la porta e noto che si rilassa, piegando la testa verso il basso, ma senza voltarsi.

“ Non sapevo fossi in casa” mormoro alle sue spalle.
“ E invece c’ero” risponde lui e ancora non mi guarda.
“ Già...” bisbiglio io, più che altro per riempire il silenzio che si sta creando e che mi mette terribilmente a disagio.

A questo punto lui lascia andare la maniglia, ruota verso di me e cerca il mio sguardo.

“ Stai bene?” mi chiede.
“ Sì. Sì, certo.” Sorrido “ L non era certo una minaccia. Ha solo un ego molto grande ed è terribilmente cocciuto.”

Lui ricambia il mio sorriso e si avvicina a me.

“Ok.”

Io resto intrappolata dai suoi occhi, respiro profondo e gli sussurro:
“ Grazie comunque. Hai decisamente accelerato i tempi.”
“Figurati. E’ stato un piacere. A che serve altrimenti avere un cavernicolo come coinquilino?” scherza contemplandomi e poi i suoi occhi si illuminano.

Mentre temo di perdermi in quello sguardo indagatore e vivace, dall’altra parte della porta sento d’un tratto le note di una canzone a me ben troppo nota:

Solo che pensavo a quanto è inutile farneticare, credere di stare bene quando è inverno e te, togli le tue mani calde...

Strabuzzo gli occhi e non so se sia per l’assurdità della cosa, se per un flebile fremito di orgoglio e compiacimento, o se perché penso che L stia rasentando i confini della Palude dei patetici (palude chiaramente appena inventata da me), ma mi viene improvvisamente voglia di ridere a crepapelle.

Alex volta il capo verso l’entrata di casa e poi torna a osservare me. Sui suoi lineamenti è stampata la più banale delle domande: che cosa diavolo è?

Emetto un suono indecifrabile, una sorta di incrocio tra una risatina e un vagito (sì, ho detto proprio vagito) e poi rispondo:

“Dovrebbe essere la nostra canzone. O meglio: lo è sempre stata secondo me. Lui ha sempre precisato che non eravamo una coppia, quindi non potevamo avere una canzone.”

Case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale che anche se non valgo niente per lo meno a te, ti permetto di sognare e sei hai voglia...

Alex sta facendo di tutto per non cedere all’ilarità della situazione: io ho appena scaricato il mio amico di letto, che non mi ha mai voluta e mi ha umiliata in molti modi in cui si può umiliare una donna, e ora l’imbecille mi fa la serenata (con le casse dell’IPhone come strumento) fuori dalla porta per non perdermi.

E poi succede l’imprevedibile, ma soprattutto, l’insopportabile: L si unisce a Tiziano Ferro e canta (oddio, no, diciamo che emette note a caso) la parte finale della canzone.

“Scusa sai non ti vorrei mai disturbareeeee...”

“You’ve got to be fucking kidding me...” si lascia sfuggire Alex (che, parafrasando, vuol dire “Certamente mi stai canzonando”: io ve l’ho detto in forma elegante) guardando la porta ed io penso che se parla ancora in inglese in mia presenza, io me lo faccio.

Giuro.

Ma mentre io mi abbandono ad una fantasia che non avrei mai voluto avere - io che palpeggio Alex sbattendolo contro la porta mentre lui mi recita il sonetto 116 di Shakespeare (che mi eccita in modo incomprensibile) in lingua originale - il mio coinquilino spalanca la porta proprio sul  “Non me lo so spiegare, io...” di L.

“Neppure io...” si limita a ribattere Alex e poi aggiunge “pensavo avessimo stabilito che avevi capito l’antifona e te ne stavi andando.”

L è pronto a ribattere e, a questo punto, sono più che certa che il motivo della contesa non sia più Med ma si tratti più che altro di territorialità; per lo meno lo è senza dubbio per L.

Un maschio si è messo in mezzo e ha pisciato su uno dei suoi giocattoli e lui non lo può tollerare; immagino che se Alex non fosse intervenuto, L avrebbe già rinunciato alla mia virtù.

Non avendo alcuna voglia di assistere ad altre manifestazioni testosteroniche, sorpasso velocemente Alex e lo spingo delicatamente indietro, dicendogli:

“Stai buono lì, maschio Alfa” per poi rivolgermi verso L, esasperata “Perché fai tutte queste storie? Non te ne è mai fregato un cazzo di me. Non puoi semplicemente rispariamare ad entrambi la fatica di questa discussione ed andartene?”

“Ma lui...” comincia in risposta indicando Alex ed io lo fermo all’istante.
"Lui niente. Lui non c’entra nulla con me o con te” e alle mie parole percepisco distintamente che il ragazzo alle mie spalle fa un passo indietro e non so per quale ragione.

Ma ora è essenziale che mi sbarazzi di L.

“Basta. Basta, dico sul serio. Ho raggiunto il limite di sopportazione: va a casa, vai a cercarti una ragazza, vai a farti un panino, non mi importa. Vattene e basta. È finita e non ho intenzione di cambiare idea.”
I suoi occhi nocciola brillano ancora una volta per le lacrime e a quel punto perdo seriamente la pazienza: basta con le lagne. Io ho chiuso.

“Abbiamo chiuso.”
E per essere più incisiva, mentre pronuncio il mio distaccato addio, spingo la porta e lo lascio fuori.
Fuori da casa mia. Fuori dalla mia vita. Fuori dal mio cuore.

E mentre penso alla parola cuore mi rendo conto che non fa male: non punge come avrei immaginato. Non c’era posto per quello stronzo nel mio cuore. Ma ora c’è, spero, di nuovo spazio per me. Nel mio cuore.

“Maschio Alfa, eh?” la voce boriosa di Alex mi richiama all’ordine e non riesco a nascondere un sorriso, prima di rispondere con controllato astio:
“Se mi pisciavi anche in testa oltre che attorno avrebbe sentito prima l’odore.”
E lui ride. Ride di gusto. Ride di cuore.

Cuore.

“ Sicura che stai bene?” mi domanda poi accarezzandomi un braccio.

Al contatto sento un brivido che parte dal fondo dello stomaco e il mio corpo si irrigidisce. E lui se ne accorge. Mi scruta e sembra turbato dalla mia reazione: lascia ricadere la mano lungo il fianco e mi osserva.
Non ha capito che la mia tensione non era causata dal fastidio. Lo supplico con lo sguardo di capire che si è sbagliato, ma lui non coglie il mio messaggio silenzioso.

Fa un passo indietro e si allontana.

“È stato divertente, però. Il tuo amico è un codardo.” scherza dirigendosi verso la sua stanza. Quando sta per entrare io lo chiamo e lui si volta nella mia direzione.
“ Grazie, dico davvero.” sussurro con occhi sinceri.

Lui sorride per l’ultima volta e chiude la porta dietro di sé ed io mi ritiro nelle mie stanze, stavolta, levandomi velocemente i vestiti e infilandomi sotto le coperte pronta ad abbandonarmi ad un meritato riposo.

Un riposo che, però, dura meno di quello che avrei voluto perchè poche ore dopo arriva lei: la sete.

Insopportabile, incredibile, mortale sete.

Sono le 2.28 di notte quando il miscuglio di cibo che io e le ragazze abbiamo ingurgitato e l’eccesso di roba salata che mi sono divorata iniziano a manifestare i propri effetti.

Sete. Datemi dell’acqua prima che mi prosciughi come un ruscello in estate.

Prego la mia buona stella che io mi sia scordata la bottiglia d’acqua sul comodino in una delle notti precedenti l'arrivo dei miei amici e inizio a tastare nel buio: ovviamente nessuna traccia di recipienti che plachino la mia arsura.

Senza neppure accendere la luce e prendendo a calci il piumone - come se fosse tutta colpa sua - mi tuffo giù dal mio letto e, ondeggiando come uno zombie (no, stasera non sono per nulla Occhi di Gatto), guadagno l’uscita dalla mia stanza e mi addentro nell’oscurità del resto dell’appartamento.

E, mentre cerco di raggiungere il frigorifero che finalmente mi regalerà quel litro e mezzo di acqua che anelo, sbatto rumorosamente contro qualcosa. Qualcosa di alto. Qualcosa che non dovrebbe essere lì. Qualcosa di morbido. Qualcosa di caldo.

Qualcosa di nudo.

“Ma che...”
“Attenta, Scintilla...”
“Idiota, mi hai spaventato!”
Borbotto prendendo le distanze dal suo petto nudo.

“Sei tu che vai in giro ad occhi chiusi.”
“Che cosa ci fai nel cuore della notte in salotto tutto nudo?”

Alla mia domanda sento che libera una risatina silenziosa e poi il calore del suo corpo è nuovamente in prossimità del mio.

Sete.

“Veramente non sono tutto nudo, ma se vuoi posso provvedere con rapidità...” sussurra sul mio viso e il tono scherzoso è evidente nella sua voce.
“Preferirei che ti spostassi e mi lasciassi arrivare in cucina.” bisbiglio, e sento le sue dita cercare il mio mento e sfiorarmi la pelle.

Sete.

“Perché parliamo piano?”
“Perché è notte.”
E con una piccola pressione dal basso mi solleva il volto: sento il suo respiro solleticarmi uno zigomo e il suo torace sfiorare il mio ad ogni inalazione d’aria.

“E allora? Ci siamo solo io e te qui dentro.”

I suoi polpastrelli abbandonano la mia pelle e all’improvvisa assenza di contatto il mio corpo grida “Sete!”

“Posso andare a bere o hai qualche cosa di rilevante da comunicarmi?” domando mantenendo basso il volume della voce e cercando di costringere il mio corpo ad allontanarsi. Ma è inutile: ha sete.

“Sei più simpatica quando mi supplichi di restare...”
“Che pezzo di cacca.”
“Mi piace quando mi dici le parolacce!” scherza facendo la voce da uomo delle nevi ed io non posso fare a meno di unirmi a lui in una semplice risata.

“Vedi che non sono così odioso?” suggerisce, offrendomi una mano per condurmi in cucina.
“Sei insopportabile.”
“Eh dai, è notte. Fai finta che sia un sogno e che noi siamo due coinquilini normali con un rapporto civile... E che io non ti stia sulle palle."

Impossibile.

“Effettivamente molti dei miei incubi iniziano con uno stronzo semi nudo che mi assale in salotto...” constato, cercando di capire dove stia il suo braccio nel buio.

Sete.

“Perfetto: oltre che maniaco sono anche un assassino nel tuo immaginario. Sono quasi lusingato...” e mi afferra la mano con sicurezza.

Sete.

Ma in questo momento non so più se di acqua o altro.

Con forza le parole di Jules risuonano nel mio sangue.

Tensione. Sessuale.

Ah, no! Proprio no! Col cazzo! rispondo baldanzosa ai miei stessi pensieri che, d’improvviso, assumono la voce di Jules che, ridacchiando, ribatte:

Eh sì, direi col cazzo. Decisamente non con altro.

“Scintilla, non avevi sete?” domanda il mio coinquilino e sento che tira la mia mano verso di sè; io tentenno un secondo - la voce di Jules nella mia testa che ripete il suo mantra di incoraggiamento a liberare la bestia (riferendosi ai miei ormoni) - e poi lascio che mi trascini in cucina. Solo perché ho sete, ovvio.

Poi lui si ferma nel buio ed io sbatto di nuovo contro il suo corpo.

“Med, devo pensare che lo stai facendo apposta?”
“A fare che?”
“A venirmi addosso. È il tuo modo di corteggiarmi?”

“Alex, piuttosto di corteggiare te mi farei fare un piercing all’ombelico da un cane con la rabbia...” rispondo cercando di aggirarlo per raggiungere il frigorifero nell’oscurità e lui si lascia sfuggire una risatina sottile.

“Sei sempre così seducente...” ed è di nuovo a pochi centimetri alle mie spalle. E mi manca l’aria. E, soprattutto, ho sete.

Oh, spazio personale. È chiaro che Alex non ha mai visto Dirty Dancing!
“Baby, quello è il tuo spazio, questo è il mio. Io non entro nel tuo, tu non entri nel mio. Rigide le braccia...”

Il suo braccio destro si allunga accanto alla mia spalla ed io trattengo il respiro; poi la luce del frigo si diffonde debolmente nella stanza ed io socchiudo le palpebre per tollerare l’improvvisa e fredda illuminazione.

“Ne passi una anche a me?” bisbiglia nei miei capelli e io, per combattere il brivido che freme nel mio sangue, faccio un passo in avanti e borbotto: “Serviti da solo...”

Mi sporgo verso i ripiani dell’elettrodomestico e ne estraggo una bottiglietta d’acqua, poi mi volto rapidamente e mi accorgo che i suoi occhi divertiti sono ad un respiro dai miei.
Deglutisco a fatica e recupero il controllo dell’ormone impazzito e, abbassando lo sguardo per stappare l’acqua, domando spazientita:

“Che cazzo Alex, mai sentito parlare di spazio personale?”
“Ti sto dando fastidio?” e il suo torace si appoggia sulle mie mani che stringono - con un po’ troppa forza - la bottiglia, facendo fuoriuscire un po’ di acqua e sento che il suo respiro bollente riscalda l’incavo del mio collo.

Ride alla mia reazione di stupore (sì, chiamiamola così) e, restando immobile, domando:

“Ma cosa fai?!”

“Mi servo da solo...”

Io smetto di inalare aria e lui si ritrae da me, sorride cercando sul mio viso e poi, con irritante supponenza, mi sventola la sua bottiglia d’acqua davanti al naso.

Ormai un’espressione attonita adorna i miei occhi e la cosa sembra procuragli un inebriante piacere, ragion per cui desidero spezzargli il naso; resto immobile un paio di secondi mentre pondero come rispondere, ma lui mi anticipa:

“Io torno a letto. Spero che tu abbia appagato la tua sete.”

Mi rivolge l’ennesimo occhiolino e, con una rapidità degna di un supereroe, svanisce dietro la porta di camera sua.

Appagato?! All’improvviso credo che neppure abbeverandomi direttamente da una fonte naturale potrei placare questa sete (per nulla gradita).

Ricomincio finalmente a respirare a pieni polmoni non appena mi ritrovo sola nel buio e, dopo aver deglutito mezza bottiglia in un unico sorso, torno a rannicchiarmi sotto il mio piumone.

È solo una questione di istinti, unita al fatto che non vengo intrattenuta da un soddisfacente incontro intimo da non so più quanto tempo: è tutta colpa dell’ormone. Starò certamente ovulando. Ecco spiegato tutto.

Sbuffo, lievemente irritata da me stessa, poi mi allungo verso il comodino e afferro il telecomando dello split: e aria condizionata a Marzo sia.

18 gradi basteranno?


AN: I miei ringraziamenti cominciano ad essere incredibilmente ripetitivi e, sospetto, anche superflui. Ci tengo però che sappiate quanto mi fa piacere sapere che c'è chi segue questa storia con entusiasmo e che qualcuno si sia appassionato alle vicende della cara Med.  Il capitolo è arrivato un po' in ritardo rispetto al solito per incombenti impegni accademici della sottoscritta (purtroppo la sessione d'esame estiva è un impegno inderogabile): a tal proposito ringrazio infinitamente tutte le persone che hanno lasciato un commento. Ho adorato tutte le vostre recensioni e, non avendo potuto rispondere prima (sempre per colpa dell'esame), provvedo subito a farlo. Scusate il ritardo!
Un profondo grazie anche alla mia adorabile Beta: la tua pazienza e i tuoi occhi attenti privano chi legge dei miei divertentissimi errori di battitura, è vero, ma sono una benedizione per questa storia!
Grazie


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Capitolo 8
*** Quello che succede in Bagno, resta in Bagno! ***


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Per chi fosse interessato ora di tondo c'è pure il gruppo su FB "Di TuttoTondo in TuttoTondo"
Se avete domande, insulti, commenti, perplessità, se volete qualche spoilerino, se siete artisti incompresi o se, semplicemente, vi va di vedere che si fa, noi siamo come le chiese... sempre aperti. NB: Facebook sta dando qualche problema quindi, se vedete che fate richiesta e non venite aggiunti, mandatemi un mp qui che provvedo a sistemare i danni che FB fa.
I segreti dei bagni

CAPITOLO 7


Quello che succede in Bagno resta in Bagno




Problema cacca.

Ora, potrebbe sembrare qualcosa di irrilevante agli occhi di chi non condivide casa con un individuo di sesso maschile, belloccio e che, fino a poco tempo fa, era uno sconosciuto.
Ecco, però non è affatto un problema irrilevante: perché io sono umana, non vengo da Pandora e la faccio pure io. Però gradirei che Alex non ne prendesse atto.

Fino ad oggi ero riuscita a mettere in atto una sofisticata routine studiata nei minimi dettagli e dedicarmi a tale “mansione” solo ed esclusivamente quando il mio coinquilino era fuori casa (il che si verifica incredibilmente spesso, grazie al cielo.)
In genere lui esce di casa piuttosto presto e, a giorni alterni, io posso agire indisturbata e fare come se vivessi ancora da sola: lui non c’è e io sono la regina della casa.

Stamattina è una di quelle giornate in cui sono sola: o meglio, lo era fino a quattro minuti fa quando, contro ogni previsione, la porta d’entrata ha sbattuto, annunciando l’inaspettato arrivo di Alex e scatenando un lieve attacco di panico nella sottoscritta.
Dopo aver valutato se fosse il caso di fingere di non esserci, anche questa opzione è stata vanificata dal pugno di Alex che batteva sulla porta domandando se ne avevo per molto.

Ne avrei per moltissimo, visto che non ho alcuna intenzione di uscire da questo bagno per almeno venti minuti: opto per aprire l’acqua della doccia, sperando di sviarlo ma la sua voce mi ferma.

“No, Med! Non entrare in doccia ora! Sono in ritardo per un appuntamento e sono tutto sudato.”

Interessante suggerisce la sciocca voce nel mio cervello, prima che la parte saggia di me la metta a tacere.

“Che schifo! Perché sei sudato?” chiedo con estrema curiosità e lui mi risponde prontamente:
“Perché in questa casa abita qualcuno che, ogni tanto, va a correre. Ora apri che ho fretta.”

L’ansia mi assale inesorabile: come diamine posso fare? Mi guardo attorno e afferro ogni flaconcino custodito nel mobiletto sopra il lavabo, alla ricerca di qualcosa da spruzzare copiosamente: morirà per le esalazioni, ma non scoprirà il mio segreto (cioè che anche io faccio la cacca).

“Alex, sono spiacente ma tu hai avuto tempo di renderti presentabile al mondo mentre io ancora dormivo...”
“Tu dormi sempre, Scintilla...” mi interrompe lui “ Poche storie. Ti puoi lavare quando ho finito, io ho davvero fretta.”

Il fatto stesso che pretenda di avere la precedenza mi spinge a non aprire la porta: quello, e la consapevolezza che l’aria non sarà tornata normale prima di almeno dieci minuti.
Mentre rifletto su come gestire la situazione, vedo la maniglia della porta che si abbassa e, indignata, mi ci appoggio contro, starnazzando:

“Alex, sono nuda!”
“Una ragione in più per farmi entrare...”
“Idiota... Se la porta non fosse stata chiusa a chiave?”
“La porta è sempre chiusa a chiave... E se non lo fosse stata l’avrei interpretato come l’ennesima prova del fatto che cerchi velatamente di spingermi a corteggiarti.”
Lancio un urletto isterico di disapprovazione e ribatto:
“Io non voglio che mi corteggi...” ma lui sembra essere poco interessato a cosa ho da dire e pare aver più che altro fretta.
“Med, apri questa porta, non sto scherzando. È un appuntamento importante.”

Al suo ribadire che la fretta è dovuta ad un appuntamento non riesco a frenare l’acidità che mi invade e sgorga dalla mia bocca insieme alla mia pungente risposta:
“Puoi avvisare la tua accompagnatrice che farai tardi...”
“Avverto una nota di gelosia, Scintilla?” e la sua voce tradisce una buona quantità di spocchia.
“Ma per favore!”
“Ok, ora basta. Per quanto mi piaccia stare qui a punzecchiarti, non ho proprio tempo. Quindi, se non apri entro trenta secondi...” e si blocca, interrotto dal suono del mio cellulare che riempie con prepotenza l’appartamento.

Forse è il caso che abbassi il volume di un paio di tacche; sembra di essere a un concerto di Beyoncé.
Mi mordicchio un’unghia riflessiva e combattuta prima di afferrare lo spazzolino da denti e cospargerlo di dentifricio: non posso parlare se mi sto lavando i denti, giusto?

“Il tuo telefono sta suonando” mi informa lui con una risatina vittoriosa “ora devi per forza uscire.”

“Oon oosso isooneere, bmi sdoo avadoo i densi”
“Che cosa?”
Alzando gli occhi al cielo mi rassegno a sputare il dentifricio per ribadire la mia posizione.
“Ho detto: non posso rispondere, mi sto lavando i denti.”
“Ora non più...” mi fa notare Alex e non sta neppure provando a mascherare il suo compiacimento per avermi fregata.
“Se non esci rispondo io.” minaccia infine, spazientito dal mio silenzio.

Non oserebbe!

Oh, sì che oserebbe, quel troglodita. Però, d’altra parte io non posso uscire di qui: l’ossigeno non è ancora tornato ad essere l’elemento principale in questa stanza.
La mia riflessione si fa sempre più complicata e l’aggiunta delle variabili non rende più facile la decisione: mi appoggio ancora una volta al legno della porta e ascolto i rumori provenienti dall’esterno e, mentre Halo continua a riempire le pareti di casa, penso che non posso permettergli di entrare.

Io e Alex non saremo in buoni rapporti, ma da che mondo è mondo i maschietti non prendono atto del fatto che le signorine usano il bagno per altre funzioni al di fuori della doccia e del trucco. Oddio, forse ammettono che ci depiliamo, ma per loro sarà qualcosa tipo pubblicità del Silk Èpil: una tizia glabra già depilata che depila le sue gambe depilatissime e dice che non fa male e che sei liscia come il culo di un bambino. Maschi, non è affatto così.

“Med, io rispondo...”
“No!”
“Pronto?”

Troppo tardi.

“No, sono Alex, il suo coinquilino.” fa una lunga pausa intramezzata da un “Piacere mio” e poi ascolta attento.
Con chi cazzo sta parlando?
Mi appiattisco contro la porta con tutto il corpo e appiccico l’orecchio al legno il più possibile per cercare di cogliere qualcosa in più, prima di ricordarmi che sta parlando al mio telefono.

“Brutto cafone, riattacca!” sibilo, decidendo poi di controllare ancora una volta l’aria per vedere se posso uscire o no.

No, non posso.

“Ah, capisco. Mi dispiace. Un secondo che la cerco e la avviso.” continua a conversare Alex imperterrito; sento che si avvicina al bagno e appoggia una mano sulla maniglia.

“Med, devi uscire di lì...” fa un sospiro e poi prosegue “È tuo fratello Michele.”

Ecco, questo potrebbe costringermi ad uscire: mio fratello non mi chiama mai.

“Dice che è un’emergenza. Niente di grave ma devi andare in ospedale.”

Alle sue parole giro la chiave nella toppa senza pensare e spalanco la porta, ritrovandomi faccia a faccia con lo sguardo vittorioso di Alex.

“In ospedale?! Che è successo?”
“Dice che non è niente, ma che tua madre si è sentita poco bene nella notte, tuo padre l’ha portata in ospedale e che ora uno di voi deve andare a prenderli.”
“Perché?”
“Non ne ho idea, ha solo detto che lui è a Pisa e che quindi devi provvedere tu.”

Vi starete chiedendo perché io non abbia già avuto un attacco isterico sapendo che mia madre è in ospedale. Il motivo è uno solo: mio padre si fa prendere dal panico anche quando gli entra una scheggia nel dito e, fino a che io e Michele vivevamo con loro, se c’era qualche problema, lo risolvevamo noi. Ora che ce ne siamo andati, fosse per lui si trasferirebbero in un appartamento accanto all’ospedale: giusto per sicurezza.

“Med, ti devi muovere...” mi incita Alex, prendendomi un polso e cercando di farmi uscire dal bagno.

Cacca. Med, cacca!

“No, no, no, aspetta. Non ho finito con il bagno...” cerco di tergiversare io “...devo ancora...”
“Non devi niente. Sei anche già vestita e, se non avessi fatto tante storie, io sarei già al mio appuntamento di lavoro.”

Ah, lavoro. Chissà che lavoro fa questo ragazzo. Non me lo sono mai chiesta prima.
Mentre decido che potrei indagare ora, però, lui mi cinge la vita con entrambe le braccia e io perdo la capacità polmonare. Poi mi solleva di qualche centimetro da terra (facendosi uscire un’ernia, suppongo), mi sposta lontana dalla porta e fa un passo nel bagno.

Merda! Ecco, sì, proprio merda.

“No, Alex!”
“Ma che diavolo ti prende?!”

Resto in silenzio fino a che non lo vedo inalare, prima di scoppiare a ridere ed io assumo una colorazione purpurea: che figura!

“Era questo il problema?!”
“Beh, ecco...”
“Neanche fosse la prima volta.” afferma lui appoggiando una mano sull’angolo della porta, accingendosi a chiuderla.
“CHE COSA?!” chiedo in ansia, emettendo un urletto strangolato e, immagino, diventando a questo punto color KitchenAid rossa.
“Med, viviamo insieme da un po’: pensavi davvero di non avere mai fatto la cacca con me in casa?”

Non lo pensavo. Ne ero certa. Di sicuro lui non l’ha mai fatta quando c’ero io, me ne sarei accorta.

“Se lo pensavi, hai sbagliato di grosso...” risponde sbattendomi la porta in faccia e ridendo come un pazzo.

Quindi la mia convinzione di essere un perfetto agente dei servizi segreti e di avere salvaguardato la mia immagine di donna di fronte ad un esemplare medio di maschio, era tutta una stronzata.
Perfetto. Davvero perfetto.

Con lo sguardo basso e le guance che vanno ancora a fuoco, recupero il mio telefono e la borsa dalla mia camera da letto, prima di dirigermi in ospedale, cercando di indovinare per quale sciocchezza mio padre abbia dato di matto.

La mia entrata nella stanzetta di pronto soccorso in cui hanno piazzato mia madre, però, ha qualcosa di così squisitamente comico che potrebbe passare per uno scherzo: la mia mammina se ne sta sdraiata su un lettino che somiglia di più ad una barella, con addosso, credo, il suo pigiama più vecchio di seta blu (che ormai si mostra al mondo liso e sfilacciato) e si passa insistentemente una mano tra i corti capelli, mentre con l’altra regge una sorta di bacinella d’acciaio per specchiarcisi dentro. E in tutto questo, signori, mia madre indossa gli orecchini di perle.

“Mamma...”
“Amore! Meno male che sei arrivata. Papà non mi sta aiutando per niente.”
“A fare che?” chiedo confusa.

Fino a prova contraria in un ospedale mio padre può aiutare, al massimo, porgendo la tessera sanitaria di sua moglie: cosa potrà mai aver fatto?

“Ma mi hai visto? Gli ho detto che mi avrebbe dovuto quantomeno cambiare il pigiama prima di portarmi qui e lui mi ha risposto che era troppo occupato a salvarmi la vita...”
“Non mi sembri in fin di vita.”
“Non lo sono mai stata, ma tuo padre è ipocondriaco anche con gli altri. E quando gli ho detto di andare a casa a prendermi un pigiama presentabile, mi ha letteralmente detto di andare a quel paese.”

Alla spiegazione non posso fare a meno di ridacchiare: nulla di più probabile che mio padre mandi qualcuno a fare in culo, in modo particolare quando si percepisce sotto stress.

“Mamma, il tuo pigiama va benissimo così.”
“Appunto. Il fatto stesso che tu lo approvi è terribilmente allarmante.”

Forse è il caso che specifichi che, come buona parte dei miei conoscenti, mia mamma non apprezza i miei abbinamenti notturni e sono anni che mi regala pigiamini in seta o camicie da notte con pizzi incorporati, che io vado matematicamente a cambiare con calze, babbucce e accappatoi: la roba che mi propina lei è di una scomodità incredibile. I pigiami con tutti i bottoni si aprono ogni volta che mi rotolo nel letto e diventano elettrici appena oso muovermi.
E quelle cosine tutte striminzite, per quanto io apprezzi il gesto e sappia che, in fondo, è un incoraggiamento a cercarmi un uomo a cui mostrarle, onestamente non sono in grado di contenere il mio abbondante corpo ma, soprattutto, il mio seno.

Sorelle, se avete le tette grandi, sembrerete dei cetacei che indossano lingerie, è assodato.

“Hai per caso un pettine?”
“Un che?” sono consapevole del fatto che mia madre cambia argomento spesso e senza un filo logico, ma dal pigiama al pettine mentre siamo in ospedale perché, apparentemente, lei non è stata bene, è un po’ troppo.

“Un pettine. Guarda che capelli ho: sembra che io abbia una merda secca spiaccicata in testa.”
“Mamma! Non dire merda che mi fa impressione...”
“Oh, taci e pettinami un po’. Che figuraccia... oddio, i piedi!”
“Che c’è?! Che senti ai piedi?” domando improvvisamente nel panico, ignorando la sua richiesta di occuparmi della sua capigliatura e fingendo di saperne davvero qualcosa di biologia.
“Non sento niente...”
“Sei paralizzata?!”
Con calma: Michele ha detto che mamma sentiva un dolore al petto e al centro della schiena e che si sentiva debole, papà ha chiaramente pensato all’infarto. Io non ci capisco niente ma il fatto che non senta i piedi a cosa mai può essere dovuto?
Allungo una mano per premere il pulsante che richiama l’attenzione di un’infermiera, ora evidentemente un po’ scossa: è vero che io e mia madre abbiamo, ultimamente, un rapporto complicato ma è la mia puffetta. Lei e il suo metro e cinquantadue sono sempre il mio punto di riferimento più sicuro.

“Ma no, sciocchina! Ho camminato scalza tutto il giorno e sono andata a letto senza lavarmeli...”
“Beh, ma che schifo!”
“Stavo male! Ora avrò i piedi lerci e tutti me li vedranno!” il tono della sua voce è impastato di indignazione. Mia madre, sempre curata nell’aspetto e nei minimi particolari, che si mostra al mondo con i capelli piatti e i piedi sporchi?

È l’apocalisse.

“Mamma, a chi vuoi che importi?”
“Cielo, a me! Non posso farmi vedere con i piedi sporchi dai medici. Per di più colleghi dello zio.”
“Li hanno già visti ormai...”
“Puliscimeli!”
“Ma che dici? Con che cosa?”
“Non lo so, sputaci sopra, fai tu...”

Io la fisso con aria sconvolta e la vedo dimenare i suoi piedini numero 35 mentre cerca di valutare la gravità della situazione: c’è qualcosa di incredibilmente tenero nel modo in cui tenta di ricomporsi nonostante il suo evidente affaticamento e vederla così piccola e comica mi fa dimenticare per qualche istante i nostri problemi di comunicazione e la mia impossibilità di aprirmi con lei e con il mondo.

“Allora signora, non è nulla di grave. Si tratta di reflusso grastro-esofageo...” annuncia la voce di una dottoressa alle mie spalle e penso che mia madre sia melodrammatica anche nel nome dei suoi problemi medici.

“Sapevo che papà stava esagerando.” risponde lei con voce rilassata e vedo dipingersi sul suo viso un sorriso rassicurante.
“Lei è la figlia?”
“Sì, sono qui per placare le manie di mia madre e impedire a mio padre di finire nel panico...”
affermo stringendo la mano della giovane donna in camice di fronte a me e, per una frazione di secondo, un velo di rammarico corre sui miei occhi mentre penso che anche io avrei potuto indossare quella divisa.
“Allora, può riportare a casa la sua simpaticissima mamma. Se vuole raggiungere suo padre, nel frattempo spiego a sua madre cosa fare nei prossimi giorni e come comportarsi in futuro.”

Sorridendole annuisco e, dopo aver ringraziato e comunicato a mia madre che la aspettiamo fuori, raggiungo papà in sala d’attesa, pregando che questa giornata giunga al termine rapidamente.

La fortuna vuole che oggi lui sia di poche parole - probabilmente a causa del poco sonno - e ciò mi offre l’occasione di sperare che entrambi saranno troppo stanchi e/o ansiosi di arrivare a casa loro per attaccare con l’interrogatorio sulla mia situazione accademica.
Quindi, per una volta, non sarò costretta a inventare scuse poco credibili e a mostrare loro l’ennesima espressione insicura: odio assumere un atteggiamento distante e scostante nei loro confronti ma, più avanzano richieste, più la confusione aumenta e le mie difese si fanno alte.
I minuti passano rapidi nel silenzio della sala d’attesa del pronto soccorso e, con la coda dell’occhio, vedo le palpebre di mio papà chiudersi sotto il peso del sonno mentre dalle porte del pronto soccorso esce finalmente mia madre, col suo pigiamino liso, delle carte strette nella mano e dei copri calzari da sala operatoria ai piedi. A passettini piccoli ci raggiunge e, sorpassandoci, mormora:
“Veloci, andiamo a casa che sono impresentabile!”

Seguendoli in direzione della mia macchina, ringrazio tutti i santi per l’evidente stanchezza che si riflette nel linguaggio del corpo dei miei e che mi assicura il dribblare il solito interrogatorio sulle decisioni che intendo prendere sul mio futuro: sono così “evitante” ultimamente che mio fratello Michele dice di essere quasi fiero di me.
Durante il breve percorso verso casa papà non proferisce parola, limitandosi ad accendersi una sigaretta mentre mamma si appisola sul sedile posteriore; quando finalmente accosto al marciapiede di fronte al loro cancello mio padre lancia la sigaretta fuori dal finestrino, esala con forza l’ultima boccata di fumo inalata e porta il suo sguardo stanco su di me.

E il sangue nelle vene mi si gela.

“Sai che dovremo parlare seriamente prima o poi, vero?”
Io annuisco, guardando di fronte a me, e l’imbarazzo e il timore sembrano trasudare dal mio linguaggio del corpo.
“Non so davvero che fare con te. Con tuo fratello è più facile: io urlo, lui urla, poi se ne va. Ma tu con noi non parli...” sospira intensamente prima di infilare le dita nella maniglia della macchina e tirare con forza, aprendo la portiera “Sono stanco dei silenzi. Ho diritto di sapere che stai combinando e come finirà questa storia. Rivoglio la ragazza che eri una volta.”

Avevo sperato di cavarmela velocemente e in realtà i miei timori erano rivolti verso un possibile interrogatorio di mia madre: non avevo preventivato la possibilità che a interagire con il mio muro di cinta potesse essere papà. E, proprio per questo, il senso di colpa e di inadeguatezza che nuota dentro di me diventa sempre più grande e insopportabile.

Devo andarmene velocemente. Devo tornare a casa mia. Qui c’è troppa luce, troppa aria, troppa realtà.

Il mio silenzio lascia intendere a mio padre che, anche oggi, non avrà le risposte che vorrebbe e che anche questa battaglia è persa.
Rassegnato sguscia fuori dall’abitacolo e, con cura, apre lo sportello posteriore e sveglia mamma: lei sbatte veloce le palpebre, si solleva dal sedile e si allunga verso di me per darmi un bacio.

“Ciao tesoro, grazie.” sussurra saltando fuori dall’auto e tirando papà dietro di sè. Lui mi osserva per un istante e poi mi saluta con la mano, prima di sparire dietro il cancellino pedonale che si chiude alle loro spalle.

Mi concedo finalmente di ricominciare a respirare con regolarità e, riavviando il motore, spero di riuscire a buttare fuori tutte queste emozioni che mi annodano i polmoni: sono una figlia di merda. E anche un persona di merda.

Voglio tornare nel mio inutile appartamento dove essere di merda è concesso e lecito.

Guardate Alex: lui è una grossa merda e vive benissimo.

Per mia immensa sfortuna non mi potrò, però, rifugiare nelle candide mura di casa mia troppo a lungo perché, dopo innumerevoli week-end di latitanza, i miei amici hanno preteso di avermi con loro almeno per stasera e, nonostante i miei accorati appelli e una simpatica varietà di scuse, non c’è stato verso di convincerli a lasciarmi in pace. La giuria si è espressa: questo sabato sera dovrò mettere da parte le ansie che mi guidano ogni volta che esco di casa e mi toccherà fingere di sopportare per qualche ora il resto della popolazione umana.

Ed è con questa consapevolezza  (accompagnata da immenso sollievo alla realizzazione che la casa è vuota) che, entrando nella mia tana, approccio il mio armadio pieno di indumenti out e mi dedico alla ricerca di un qualunque vestito che possa essere considerato socialmente adeguato.

Non ho nessuna voglia di girare per locali, ma lo devo ai miei amici. So di essere una persona difficile con cui avere a che fare in questo periodo e sapere che loro mi tollerano è un sollievo. Non so se la loro sia davvero sopportazione o, molto più semplicemente abbiano rinunciato a me, alla Med che conoscevano, perché questa nuova versione non è compatibile con loro. In ogni caso, quando sto con loro, mi trattano come sempre, e questo mi fa stare bene.

Recupero senza troppa attenzione uno dei pochi vestiti che Jules è riuscita a costringermi a comprare e, senza curarmi degli abbinamenti, opto - come sempre - per un abito nero e stivali: non sbagli mai. Almeno, a me piace pensare che sia così. E non amo stare troppo a lungo di fronte allo specchio interrogandomi su cosa mi stia meglio: mi sta tutto allo stesso modo.

Uscendo dal portone del mio sgangherato palazzo vedo che ad attendermi non c’è Jules, come invece mi sarei aspettata: appoggiato al cofano della macchina mentre invia messaggi a tutto spiano c’è Leo, uno dei miei più cari amici.
Tra i ragazzi è sempre stato quello che più mi sapeva prendere, quello a cui volevo più bene, quello che mi faceva più ridere. Ed oggi è quello da cui sto prendendo più le distanze, quello che sembra non accettare i miei atteggiamenti scostanti, quello che si mostra più severo e che io tendo ad evitare quanto possibile.

Leo ha un carattere molto particolare e un modo singolare di relazionarsi con noi: non ti dirà mai che ti vuole bene, ma saprà dimostrartelo nei modi più strani nonostante abbia, in linea di massima, la sensibilità di un elefante. Non si può certo definire un ragazzo affettuoso, ma è forse una delle persone migliori che io conosca: è acuto e pungente, e pare chiuso come una cozza ma, nei suoi silenzi, si è sempre preso cura di tutti noi, senza dare nell’occhio. È un ragazzo forte che  sembra non avere bisogno di nessuno e che raramente mostra attimi di debolezza: chiaramente, per non farmi mancare il cliché più probabile della storia, nei miei floridi diciotto anni ho avuto una potente cotta per lui che si è risolta in una umiliante ammissione dei miei sentimenti che, a sua volta, ha portato a qualche anno di distacco.

Poi, come se nulla fosse successo, un bel giorno mi sono ritrovata seduta in macchina con lui, ad ascoltarlo raccontare dei suoi ingarbugliati problemi sentimentali e a confessargli le mie disavventure con L: e mi è bastato quello per capire che avevo scambiato l’affetto per altro e che di Leo non volevo più fare a meno.

È sorprendente come, a volte, costruiamo marmorei castelli di drammi emozionali sulla base del nulla e come, alla fine, tutto quello che ci serve per capire l’inconsistenza del nostro dolore è una sigaretta fumata alla 4 di mattina parcheggiati sotto casa, ridendo dei propri pasticci romantici con una persona di cui ci si è ingiustamente privati, solo perché non abbiamo ancora imparato a parlare col nostro cuore.
Ricordo che quella notte gli dissi che era un idiota e che con i suoi modi da vichingo si prevaricava la possibilità di trovarsi una fidanzata; lui mi disse che, dal canto mio, mi stavo invischiando in qualcosa che non avrei saputo sopportare e che L non era la persona per me.

Risi e lo mandai a fare in culo scendendo dall’auto e dicendogli che mi era mancato.

Sono passati quattro anni e, non so come, mi ritrovo di nuovo incastrata in quel macello, in quell’incapacità di comunicare con una delle persone a cui tengo di più e lui lo sa.

“Perché sei qui?” domando scendendo i gradini del mio palazzo e avvicinandomi al mio amico che, distrattamente, solleva lo sguardo nella mia direzione.
“Perché nessuno voleva vedere la tua brutta faccia e Jules mi ha ricattato...”
“Ricattato in che senso?”
“Se non ti venivo a prendere, avrei dovuto sposarla.” afferma con sguardo terrorizzato e io comincio a ridere mentre apro la portiera e attendo che lui si allontani dal cofano per tornare al posto di guida.
“Jules non ti sposerebbe neppure sotto tortura.”
“Perché no?”
“Devo davvero rispondere?”
“No, il tuo giudizio sul mio fascino è fottutamente falsato.” decreta una volta salito in auto. Avvia il motore e inserisce la prima, regalandomi un’espressione altezzosa e superba.

“Tu non hai fascino, Leo...”
“Devo rimembrarti che mi ti saresti volentieri fatta qualche anno fa?”
“Errori di valutazione di gioventù. Non puoi rinfacciarmeli.” ridacchio mentre si immette sulla strada e guida verso il pub dove ci attendono gli altri.

“Avrei potuto comunque raggiungervi a piedi se era tutto questo disturbo. Per cinque minuti di macchina...”
“Non cominciare a fare la maledetta rompiballe. Se fosse stato un problema mi sarei inventato qualcosa” mi interrompe lui con voce scocciata proseguendo lungo la breve strada che ci separa dalla nostra meta “O ti avrei semplicemente detto di muovere le chiappe.”

“Beh, non è che casa mia sia così lontana.” cerco di difendermi e la cosa scatena in lui ilarità perché, sogghignando, ribatte:
“Med, onestamente a me sorprende perfino che tu non vada a comprare le sigarette con la macchina.”
“Io ci vado in macchina a comprare le sigarette.”
“E sono duecento metri da casa tua. Immagina la tua faccia superato il chilometro: entreresti in coma volontario pur di non continuare a camminare.”
“Sottostimi la mia resistenza fisica...”
“Ne dubito. Ora scendi che vado a cercare parcheggio.” mi ordina, accostando di fronte all’entrata del pub e invitandomi ad uscire con una certa rapidità prima che gli automobilisti alle sue spalle lo lincino.

Io, con la grazia di un pachiderma, faccio un saltellino giù dall’auto - rischiando di slogarmi una caviglia - e mi avvicino alla grossa porta in legno che mi separa dall’interno del locale: spingo con forza e mi addentro nel pub, sforzandomi di sfoggiare un sorriso il più credibile possibile.

Cammino lentamente, facendo scorrere lo sguardo sulla marea di persone che si accalca attorno al bancone in attesa di ordinare qualcosa da bere e, una volta giunta al centro della stanza, osservo attorno a me in cerca dei miei amici.

“Med!” sento la voce di Jules che mi chiama e cerco di capire da che direzione provenga e, ruotando su me stessa, i miei occhi incontrano la figura della mia amica riccia, inginocchiata sulla sedia a dieci passi da me, che muove le braccia come se stesse cercando di acchiappare un virtuale colibrì svolazzante sulla sua testa: la coordinazione non è proprio una delle sue doti.

Agito una mano nella sua direzione per farle capire che l’ho vista e sposto lo sguardo sul resto dei miei amici che sono accomodati al tavolo con lei e Bet: alla destra della mia amica bionda siede Roberto, nostro amico dotato di una assolutamente irraggiungibile genialità.

Membro ufficiale del nostro gruppo dai tempi del liceo, Roby è la parte razionale, saggia e logica di quel puzzle di stranezza che noi 7 costituiamo. È sempre stato quello intelligente, bravo in ogni cosa che faceva e con abilità, indipendenza e lucidità come linea guida del suo essere.
Roby è di una curiosità assurda, ma si limita a quello. Lui le cose le deve sapere. Punto. Ma non tradirà mai la tua fiducia. È una delle poche persone con cui riesco a parlare in questo periodo senza sentirmi giudicata, ma sapendo di ricevere conforto e consigli saggi e sinceri.

Accanto a lui si illumina il sorriso della persona più eccentrica tra noi, Marco. Soprannominato Jack dal giorno in cui si è fatto stampare la fotografia dell’attore che interpreta Jack in ‘Will & Grace’ su una maglietta, suo idolo per la sua stranezza e totale follia.
Jack è uno di quei personaggi che adora stare al centro dell’attenzione ed ha una vera, profonda, sfrenata passione per la moda e per i vestiti firmati. Spesso il gusto passa in secondo piano rispetto alla marca, ma è in fondo quello che lo fa spiccare in mezzo al gruppo. Sotto la corazza di supposta superficialità, si nasconde un cuore grande ed una persona piena di qualità, sempre pronta ad ascoltarti e consigliarti. Certo, è anche una portinaia assurda quanto si tratta di gossip, ma un grande amico: non fraintendetemi, è anche egocentrico come pochi  e a volte capriccioso e permaloso, ma molti dei suoi difetti diventano poco rilevanti se paragonati alle qualità che nasconde.

Decido che vista la folla, prima di raggiungere il tavolo dei miei amici, sia più conveniente prendere qualcosa da bere ora che sono già in prossimità del bancone: agitando le braccia faccio capire a Jules le mie intenzioni e, spintonando qua e là, raggiungo lentamente il bar.

Ecco, questa calca faticosa, il rumore che ti impedisce di capire cosa la gente stia dicendo e l’aria calda, umida ed irrespirabile sono uno di quei motivi per cui non vorrei uscire: l’imbarazzo di non avere nulla da dire in queste situazioni si fa ancora più problematico.

Nel caos acustico e nel movimento attorno a te sul tuo viso si dipinge un’espressione demenziale con un sorriso di circostanza ogni volta che incroci lo sguardo di qualcuno e a volte, per uscire dal disagio derivante da tutto ciò, ti ritrovi a muovere le labbra dicendo qualche banalità del tipo “Caspita, quanta gente!” o “Quindi tu e Roby andate a lezione insieme”; insomma, frasi terribilmente non interessanti e che non aprono decisamente un dialogo (che tanto non potresti sostenere visto il rumore attorno) e che, in genere, non vengono comprese dal tuo interlocutore il quale, sorridendo e avvicinandosi (realtà che ti fa improvvisamente temere di avere l’alito pesante), urla un “Eh?” e tu ti ritrovi a gridare quella frase inutile ancora una volta.

Risultato? L’altro si limita a annuire e il livello di imbarazzo, in realtà, si è moltiplicato.
E ora, vuoi per l’agitazione, vuoi per la densità demografica del piccolo locale in cui ti trovi, ti accorgi che hai ancora più caldo, stai sudando pure in faccia e ti senti tutto appiccicaticcio: solo che adesso, visto che sei stato tanto geniale da cercare di comunicare, l’altra persona è più vicina al tuo viso grondante.

Durante la mia riflessione sul casino dei locali il sabato sera, ovviamente, io comincio ad avere un caldo pazzesco e divento insofferente all’attesa: non mi va di metterci due ore per avere un bicchiere di vino.

Facendomi largo con poca eleganza, quindi, raggiungo a forza la cassa e chiedo al barista un Traminer, sorridendogli quando non capisco cosa cavolo mi risponde e porgendogli una banconota da 10 euro. Lui mi restituisce il resto e si appresta a servirmi, rinunciando a comunicare con me: appoggiata al bancone con aria annoiata aspetto qualche minuto e cerco di isolare i rumori che mi circondano, fino a che non sento una mano che sfiora una spalla e mi irrigidisco.

“Ancora assetata, Scintilla?”

Mi volto di scatto e il mio desiderio di trovarmi in un altro universo incrementa in modo esponenziale: cosa ho fatto di male?
Di fronte, ovviamente, mi si presenta il sorriso strafottente del mio coinquilino che, sorseggiando una Coca Cola, fa scorrere gli occhi su di me, scrutandomi dalla testa ai piedi e un brivido di puro imbarazzo mi pervade quando realizzo che mi sento incredibilmente esposta.

“Tu porti le gonne?”
“Certo che porto le gonne, cretino!” rispondo dandogli una piccola spinta e facendolo sbattere contro la folla che, per tutta risposta, lo rimanda indietro con maggiore forza; senza opporre grande resistenza Alex si lascia guidare dall’inerzia verso di me e lascia che il suo corpo si appoggi pesantemente al mio.

“Oh, scusa, non è colpa mia...” sussurra per nulla dispiaciuto di avermi appena fatto collassare un polmone e appoggiando la mano che non regge la Coca sul bancone dietro di me e sento il barista che mi avvisa del fatto che il mio vino è pronto. Ma Alex non si cura neppure di questo e ricomincia a sorseggiare la sua bibita senza neanche provare a sollevarsi da me; io inarco un sopracciglio e decido che, se lui vuole fare l’idiota anche in pubblico, quantomeno posso rendergli il gioco imbarazzante.

Con la coda dell’occhio mi accorgo che alla mia destra ci sono due fanciulle che ci guardano con insistenza e ipotizzo che il motivo del loro interessa sia il biondino che si diverte a torturarmi: il che mi offre un fantastico mezzo di umiliazione per il suddetto ragazzo.
Facendo appello ad ogni  claudicante cellula di sensualità che spero risieda da qualche parte in me, sollevo un braccio verso l’alto e lascio scorrere le dita lungo il suo avambraccio, salendo verso le spalle e lui si immobilizza con la bottiglia appoggiata sulle labbra; sposta lo sguardo sul mio viso e mi osserva con sospetto ma senza muoversi di un millimetro.

Probabilmente ha già capito che sto cercando di fregarlo, ma è incuriosito dal perché io lo voglia fare, quindi lascia che io prosegua nella mia messa in scena, completamente ignaro degli occhi che lo stanno studiando accanto a noi.
Determinata a rendere questa cosa il più credibile possibile, guido le dita verso il collo della sua maglietta azzurra, stringendo il materiale in un pugno e tirandolo impercettibilmente verso di me, mormorando:
“Ti vesti come un ragazzino.”
“Perché sono bello e me lo posso permettere.” bisbiglia lui contro il collo della bottiglia e studiando con attenzione i miei lineamenti.

Le due giovani signorine sono ancora nel mio campo visivo e sospetto che il loro interesse nei confronti del mio coinquilino stia incrementando perché mi pare che siano più vicine di un paio di passi, ragion per cui stabilisco che  è ora di rendere più evidente la mia sceneggiata.
Con l’altra mano afferro la bevanda di Alex e, bevendone una lunga sorsata, cerco di appoggiarla sul bancone alle mie spalle, pregando Zeus che mi impedisca di rovesciarmela addosso.

Perfetto, zio Zeus è dalla mia. Niente Coca Cola sui vestiti.

“Che diavolo ci fai qui? Devo sopportarti anche nei luoghi pubblici ora?”

Quando appoggio la mano sul suo polso, lo stupore sul suo viso si fa più evidente e sembrerebbe non essere più interessato alle mie motivazioni ma solo a scoprire fin dove mi voglio spingere.

Sono sul punto di scoccare la mia freccia e umiliarlo di fronte alle donzelle che parrebbero sbavargli dietro, quando lui sorride guardingo e sussurra:

“Dovrai impegnarti più di così, Scintilla...” e tutte le mie convinzioni di aver messo il gatto nel sacco vanno a farsi fottere.
Riesco a reggere ancora qualche secondo la mia facciata e sono determinata a portare a termine questa scenetta quando una voce dietro Alex afferma:

“Med, che stai combinando?”

Leo.

“Tu devi essere Alex...” prosegue il mio amico e credo che sulla mia testa spunti un fluttuante punto interrogativo.

Prima di tutto Leo non poteva aspettare altri 15 secondi prima di comparire e rovinare il mio bellissimo piano di umiliazione? E in secondo luogo, come sa che questo è Alex?

Sospirando stizzita per non essere riuscita nel mio intento, distolgo lo sguardo dal viso di Alex che ora è illuminato da una nota di ilarità e che, probabilmente, si sente un eroe per aver avuto l’ultima parola.

Il che, chiaramente, mi urta ancora di più.





Fine Primo Tempo

OGGI LA DIREZIONE, DATA L'ORA, SUGGERISCE LA DEGUSTAZIONE DI UNA FETTA DI ANGURIA COME SPUNTINO PRIMA DI RIPRENDERE LA LETTURA; IN ALTERNATIVA, PER I VIZIOSI, LA SALA FUMATORI è ALL'ESTERNO.




Faccio forza contro il petto di Alex e lo allontano da me, portando l’attenzione sul mio amico e domandando:

“E tu che ne sai che lui si chiama Alex?”
“Beh, siamo usciti per conoscere Alex, il coinquilino di Med. Quindi non ci vuole una scienza per capire che quello che sta con Med è il coinquilino di Med.”

Io resto imbambolata per qualche centesimo di secondo mentre ciò che Leo ha appena dichiarato viene assorbito dal mio cervello e lo shock si manifesta sul mio viso con la mia mandibola che precipita verso il basso.

Che cazzo vuol dire che siamo usciti per conoscere Alex?! Io non ho autorizzato nulla del genere.

“Io sono Leo, piacere di conoscerti e mi dispiace tanto per quello che ti è capitato...”

Alex stringe la mano del mio amico sorridendo e, dando voce alla domanda che mi frulla in testa, chiede:

“Che cosa mi è capitato?”
“Ti sei ritrovato Med come coinquilina. Deve essere un’esperienza terribile...” risponde il mio amico ridacchiando e il mio gomito si muove secondo la propria volontà, finendo dritto contro il suo stomaco.

“Sono una persona tenace: non è facile, ma me la sto cavando.”
“Ehi!” mi intrometto io, mostrandomi offesa dalle loro parole e Leo mi strizza una guancia compiaciuto.

“Posso sapere chi ha organizzato questa serata?” chiedo curiosa e innervosita allo stesso tempo e, con mio stupore, è il biondo con cui divido casa che mi risponde.

“Bet e Jules. Mi hanno chiesto se avevo da fare stasera e se mi andava di conoscere il resto dei tuoi amici...”
“E, naturalmente, tu non avevi altri impegni, vero?”
“Che fortuna, eh?”
“Un culo così l’ho avuto poche volte nella mia vita, guarda...”

Sento Leo sghignazzare accanto a me e rivolgo la mia stizza verso di lui:
“E tu non potevi condividere con me questo particolare quando sei venuto a prendermi?”
“In realtà pensavo lo sapessi.”

Io lo guardo dubbiosa e lui mi fa una linguaccia prima di tornare a rivolgersi a Alex e chiedere se ha già conosciuto gli altri.

“Sì, sono arrivato da un po’ e ho già sentito un sacco di aneddoti divertenti sul vostro passato” poi sposta gli occhi su di me “Le storie su di te erano particolarmente divertenti, Scintilla...”

Io lo guardo terrorizzata da cosa i miei amici potranno mai avergli raccontato - e meditando di strangolare Bet e Jules - e Leo domanda confuso:

“Perché la chiami Scintilla?”
“È una testa calda! Si infiamma per niente e anche la prima volta che mi ha rivolto la parola si è infervorata per niente. Così, all’istante.”
“Hai una memoria selettiva? O ti sei dimenticato le cose che ti sei permesso di dirmi?” ribatto guardandolo con stupore e sentendo Leo che mi afferra per un braccio e mi tira, suggerendomi di recuperare il mio drink e di raggiungere gli altri.

“Ah, allora ha senso. Pensavo fosse, tipo, un riferimento alla sua inesistente sensualità...”
“Ma vaffanculo!”
“In fondo una scintilla tra noi è scoccata, Med.” aggiunge spocchioso Alex seguendoci, mentre mi ritrovo a sollevare una mano e a mandarlo a farsi benedire a gesti.

Quando siamo a pochi metri dal tavolo a cui sono seduti il resto dei miei amici, i miei occhi volano su Bet e Jules e, forzando lo sguardo più truce che posso, e mi faccio scorrere un dito da una parte all’altra della gola per manifestare il mio pensiero riguardo alle loro azioni.

“Med non è contenta...” ridacchia Roby guardandomi e salutandomi con la mano e la voce di Jack risponde indispettita:
“Chi se ne frega. Neppure io sono contento di dover tollerare la vista dei suoi abbinamenti, eppure lo faccio.”

Io chino il capo e allargo le braccia delusa, domandando cosa non vada nel mio abbigliamento e il mio amico si limita a rispondere:
“La domanda è cosa c’è che va nel tuo look.”
“Sempre carino, eh?” borbotto e Alex alle mie spalle allunga un braccio e mi batte due volte la mano al centro della schiena.

“Vedo che è un’opinione diffusa, vecchia roccia!”
“Io l’ho detto che questo ragazzo mi piace!” dichiara Jack alzando il suo Martini e brindando con le mie due migliori amiche.

Sono circondata da facce di merda.

“Ma non mi hai preso da bere?!” chiede Leo indignato una volta che ci siamo tutti seduti e che ha preso atto del fatto che è l’unico senza bicchiere.
“Ovviamente no. E non me ne dispiaccio, visto il tiro mancino che mi hai tirato.” ribatto sorridendogli e allungandomi verso Jules per darle una sberla.

“Ehi!” protesta lei massaggiandosi la guancia e guardandomi stupita.
Io alzo un dito minacciosa e avvertendola che non è il caso di protestare, prima di indicare Bet alla sua sinistra e suggerire:
“Se ne dai una anche alla bionda, poi te la ritorno.” e lei sorride contenta di non essere l’unica a subire le mie ire e si accinge a prendere a sberle anche alla ragazza accanto a lei; poi si ferma e, con aria dubbiosa, si volta verso di me e domanda:

“Ma così io ne prendo due...”
“Appunto.” spiego allontanando dalla mia faccia la mano di Alex che cerca di strizzarmi una guancia.

“La fai finita?!”
“È da quando ho visto Leo farlo prima che voglio provarci anche io. Dai, solo una strizzatina.”
supplica lui cercando di raggiungere il mio viso e scatenando l’ilarità dei miei amici.

“Allora, Alex, dicci un po’: com’è vivere con Med?” indaga Roby, sorridendo al mio coinquilino e facendo l’occhiolino nella mia direzione.

C.v.d: curioso da fare schifo.

“Il momento più imbarazzante da quando sei costretto a condividere casa con lei?” incalza Jack, appoggiandosi al tavolo e i suoi occhi scintillano al solo pensiero di farsi quattro risate a mie spese.
“La cosa più umiliante che ha fatto di recente?”
“La cacca...”
“Io la faccio sempre. Più volte al giorno. Non è umiliante...” constata Jack con spiazzante naturalezza, rendendo evidente il fatto che in questa compagnia non esiste più neppure l’ombra di pudore. Ciò che mi sorprende, però, è che non provino neppure a limitarsi in presenza di Alex e, dal canto mio, non so se prendere la cosa con serenità o meno.

“No. Ha cercato di convincermi che non fa la cacca.” chiarifica il mio coinquilino con voce stoica.

Bet, alla sua affermazione, si agita sulla sedia mentre fruga nella borsa alla ricerca di, non so, un horcrux forse, e esclama piena di comprensione:
“Oh, beh, tranquilla Med, io ti capisco. Io mando Jimmy a buttare la spazzatura quando la devo fare. Se non ce n’è, lo spedisco fuori sul pianerottolo di casa.”
“Legittimo: la cacca è una cosa personale. Med, hai fatto bene a impedirgli di prendere parte ad un rito tanto intimo.” sopraggiunge presto anche il sostegno di Jules, seguito da Leo con il suo “Cazzo, che schifo. Potrei vomitare...” e io mi guardo attorno imbarazzata per assicurarmi che nessuno abbia colto il topic della nostra discussione.

“Non era esattamente quello il mio intento.”
“E quale era, allora?” mi domanda Alex incuriosito, e tutti gli occhi dei presenti si piantano su di me in attesa di una risposta.

“Volevo evitare... ecco...” tentenno insicura, cercando una risposta che abbia senso ma, più mi fissano, più le mie spiegazioni suonano ridicole persino nella mia testa. Opto quindi per non rispondere: incrocio le braccia imbronciata  e taglio corto con un Cacca mia, affari miei, il che sembra divertirli ancora di più.

Alex tenta per l’ennesima volta di aggrapparsi alla mia faccia e sento che dietro al suo sorrisetto dice: “So charming...” e, spostando gli occhi severi su di lui, penso che siamo di nuovo di fronte al problema della lingua: tu parli la lingua inglese e io mi sento costretta a usare la mia di lingua e farmitisi.

È una specie di riflesso innato.

Il che è terribilmente inquietante se penso che, allo stesso tempo, vorrei potergli far salire le gonadi in gola con una ginocchiata: sento un complicato conflitto interiore farsi strada dentro di me e scelgo coscientemente di affogarlo nel vino bianco, trangugiando in un’unica sorsata il mio Traminer e lui continua a sorridere.

“Oh, scusa, ne volevi un goccio?” domando con voce acida.
“Assolutamente no...” ribatte lui mentre un’ombra seria gli attraversa per un attimo il viso.
Per un intero secondo sembra che il suo sguardo mi attraversi, veda oltre la mia figura come se io fossi trasparente: poi Leo gli domanda se gli piaccia il basket e i suoi occhi tornano ad illuminarsi.

“Sono americano, no?” risponde sorridendo e dal nostro tavolo si solleva un rumore di protesta.
“Dai, Leo, che palle!” gorgheggia Jules, legandosi i ricci in una coda alta e Bet, accanto a lei, si alza e annuncia:
“Alex, non vorrai finire sulla mia lista nera, vero?”
“Dio mio, Bet, non dare spettacolo.” la richiama Jack non appena colto l’incrementarsi del volume di voce della mia amica, ma io guardo il mio coinquilino e mi stupisco, per un istante, del fatto che non sapevo gli piacesse il basket: non so veramente niente di ciò che gli piace. Non so un cavolo di lui e non posso fare a meno di chiedermi se sia perché lui è misterioso o se la colpa sia mia e del mio disinteresse.

Certamente sarà sua.

Lo osservo interagire per un po’ con i miei amici con allarmante naturalezza e disinvoltura: non si comporta come se li avesse appena incontrati e non sembra aver alcun problema a creare ponti di confidenza con loro. E la cosa mi preoccupa: io non mi sono ancora rassegnata ad Alex e alla sua presenza in casa e avrei gradito mantenere le distanze tra lui e la mia vita.

Purtroppo, invece, questo ragazzo pare trovare l’approvazione di tutti quelli attorno a me: persino quello zotico di Leo pare apprezzarlo e la cosa si potrebbe rivelare incredibilmente controproducente.

“Piantala di preoccuparti...” mi redarguisce Jules a voce bassa e porgendomi il suo bicchiere di vino; io porto l’attenzione su di lei, senza mascherare il mio disappunto per il fatto che le mie migliori amiche abbiano organizzato tutto questo senza neppure consultarmi.

“So cosa stai pensando, ma tutti chiedevano di lui ed è un po’ che convivi con Alex: era normale che prima o poi si dovessero incontrare.”
“E non avete pensato che sarebbe stato il caso di avere la mia approvazione, prima?”
“No, perché la tua approvazione non ci sarebbe mai stata. Med, non puoi continuare a vivere la tua vita a compartimenti stagni...” si intromette Bet arrotolandosi una ciocca bionda sull’indice e non facendo nulla per nascondere un’espressione di rimprovero.

“Alex è un estraneo che mi hanno piazzato in casa, non me lo sono scelto. Vorrei evitare di farlo entrare nella mia vita.” borbotto con voce testarda e Jules si limita a bofonchiare che Alex è già parte della mia vita e che farlo conoscere ai miei amici non mi farà cascare improvvisamente le orecchie.

Decido che sto combattendo una battaglia persa e opto per conversare amabilmente con Roby, evitando con maestria ogni sua domanda e guidando la conversazione su di lui e ciò che gli capita.

Sarà passata un’oretta da quando ci siamo seduti e la calca che affollava il bar si è dispersa per il locale, ora più interessata ad ondeggiare al ritmo dell’assurda musica che un DJ alternativo sta insistentemente cambiando da dieci minuti.

Fa sempre più caldo e immagino che tra poco saremo costretti a urlarci in faccia per comunicare tra noi, ragion per cui credo che presto Jules suggerirà di alzarci e abbandonare il pub in favore di un altro locale.

La vedo guardarsi attorno con aria distratta prima di irrigidirsi per un millesimo di secondo, chinare la testa verso l’orecchio di Bet e bisbigliare qualcosa: i grandi occhi blu della bionda si velano di dubbio misto stupore e vedo che si allontana per guardare in faccia Jules.

Poi, voltandosi verso il mio lato del tavolo, si scambia un’occhiata con qualcuno che non sono decisamente io e fa ruotare tutto il corpo alle sue spalle, come in cerca di qualcosa; tento di capire che cosa stia attirando la sua curiosità, ma poi sento la mano di Alex che si stringe attorno al mio polso e mi annuncia:

“Ce ne andiamo.”
Lo sgomento non impiega molto a farsi strada dentro di me quando capisco che il suo ha tutta l’aria di essere un ordine.

“Prego?”
“Prendi il cappotto che ce ne andiamo...” ripete lui con voce irremovibile e nessuno dei presenti sembra intervenire.
“Alex, senza offesa, faccio quello che mi pare. Se vuoi andare fai pure, io resto dove sono.”

Ma lui non sente ragioni: senza fare una piega si alza in piedi, raccogliendo il mio cappotto   dal retro della sedia e, stringendo ancora il mio polso tra le dita, tira delicatamente verso l’alto per spronarmi a sollevarmi.

“Per favore...” avanza insistente e non credo sia incline a riceve un no come risposta.

Peccato per lui: io di qui non mi muovo. Mi alzo dalla mia attuale posizione per mettermi al suo livello e gli faccio notare che mi sta mettendo in imbarazzo e che sta mettendo a disagio i miei amici. Ma la cosa non sembra sconvolgerlo per niente: attorno a noi il chiacchiericcio dei ragazzi seduti al nostro tavolo pare chiarire rapidamente la situazione.

“Per una cazzo di volta puoi fare quello che ti chiedo?! Una sola, Med, per cortesia.”
“Ma chi sei, mio padre?” ringhio tra i denti quando vedo che fa roteare gli occhi al cielo,  spostando il focus alle mie spalle e, stavolta, non mi lascio sfuggire l’attimo: mi giro rapidamente nella direzione in cui sta guardando lui e il mio cervello smette di elaborare dati per qualche secondo.

Nell’angolo destro della pista da ballo, accanto alla postazione del Dj, c’è L che si abbandona ad effusioni non troppo contenute con un altro ragazzo e la sicurezza nella mia femminilità vacilla sempre più fino a precipitare sotto terra quando sento Leo affermare:

“Ah, perfetto. Di male in peggio.”

Faccio scorrere gli occhi su tutti i presenti al mio tavolo fino ad Alex e ho la sensazione che la mia percezione del tempo si sia dilatata in modo insostenibile.
È come se tutti attorno me avessero improvvisamente perso consistenza e l’aria preoccupata dipinta sui visi dei miei amici è qualcosa che non ho intenzione di sopportare: mi guardo attorno allarmata, alla ricerca di una via di fuga che non mi costringa a passare accanto ad L ma, vista la folla che si ostina a bloccare l’entrata del locale, il rifugio più sicuro che riesco a trovare sembra essere la porta del bagno che si trova a pochi passi da noi.

Spingo indietro con foga la mia sedia e mi dirigo velocemente verso la toilette, sentendo il mio coinquilino dichiarare:

“No, vado io...”

Va lui dove? Non penserà certo di venire a palesare la sua pietà per la sottoscritta, vero?

Sufficientemente allarmata, mi infilo nel bagno delle signore, pregando che nessuno abbia intenzione di usarlo fino alla chiusura e, soprattutto, che Alex sia abbastanza educato da non entrare.

Tenendo strette le dita attorno alla maniglia, appoggio la fronte alla porta e faccio un respiro profondo e l’unico pensiero che mi attraversa la mente è: ma quanta diavolo di gente si è fatto L mentre gli concedevo le mie grazie?!

Stranamente non sono particolarmente toccata dal fatto di averlo appena visto in atteggiamenti intimi con qualcuno, il che mi solleva incredibilmente e mi dimostra che sono riuscita con successo a chiudere quello stronzo fuori dal mio cuore: quello che più mi disturba è l’umiliazione che questa situazione sta provocando in me.
I miei amici mi guardavano come se temessero che, nel giro di qualche secondo, sarei scoppiata in lacrime e la presa di coscienza che, questa volta, l’oggetto dell’attenzione di L fosse un ragazzo, fa precipitare verso il basso la mia fiducia nel mio sex appeal femminile.

Sotto la mia presa la maniglia si abbassa e vengo spinta con forza all’indietro, mentre la porta si apre e il mio coinquilino si intrufola rapidamente dentro l’angusto spazio in cui mi ero rifugiata.

“Alex, è il bagno delle ragazze.”
“Tutto ok?” chiede richiudendo l’accesso alla stanza e portando gli occhi sui miei.
“Ma sì, certo. Ora te ne puoi andare?”
“No.”
“Che significa no? Nessuno ha richiesto un tuo intervento!” rispondo cominciando ad indispettirmi.

Tutto questo imbarazzo è solo colpa sua: non mi sarei neanche accorta di L se Alex non avesse fatto tutto quel casino per portarmi via.

“Perché diavolo hai dovuto fare quella pantomima? Nessuno si era reso conto di niente e ora, per colpa tua, i miei amici sono di là a compatirmi.”
“Ehi, datti una calmata! L’ho fatto perché non volevo che ci rimanessi male. Scusa tanto...”
ribatte lui facendo un passo verso di me e lasciando che il sarcasmo goccioli lungo le sue parole.

Io indietreggio, tentando di mantenere la distanza tra noi, e lui continua ad avanzare, tenendo gli occhi fissi sui miei. Poi, con aria di sfida, mi chiede:

“Se va tutto bene per quale motivo sei corsa a nasconderti qui dentro?”
“Perché non sopportavo di vedere quegli sguardi preoccupati!” rispondo raggiungendo il lavabo alle mie spalle e appoggiandoci le mani “La smetti di fare così?”

“Fare come?”
“Così... Di guardarmi in quel modo e di avvicinarti con quell’aria da predatore!”

Lui inarca le sopracciglia divertito e, indicandomi, domanda:
“E tu saresti la preda?” e continua a camminare, facendomi d’un tratto sentire incredibilmente stupida.
“Che vorresti dire? Perché, io non potrei essere la tua cazzo di preda?”

Lui si ostina a ridacchiare e poi si ferma a un respiro da me: se era venuto per assicurarsi che stessi bene non ci sta riuscendo affatto. Il fatto che trovi divertente l’idea che io possa essere la sua preda rende ancora più debole la mia sicurezza, già decapitata da L e dal suo amico.

“Scintilla, a me tu pari tutto fuorché indifesa...” mormora con quell’espressione consapevole negli occhi e io non posso fare a meno di stringere i bordi del lavandino tra le dita.
“Possiamo parlare di quello che è successo?”
“Sono stanca di parlare,  Alex. Non faccio altro che parlare...”
“Quindi vuoi dirmi che quella scena là fuori non ti ha fatto nessun effetto?” scruta il mio viso in cerca, probabilmente, di qualche segno di cedimento e il fatto che non mi ritenga indifesa ma mi reputi debole, mi fa andare il sangue al cervello.

“Non più di quanto mi abbia stupito vederlo limonare con un’altra.” rispondo evasiva e cerco di spostarmi dalla mia posizione ma lui mi ferma, intrappolandomi tra sè e il lavandino.
“Questa è una grossissima balla.”
“Ah sì?”
“Sì. Ce la fai ad abbassare il muro per qualche secondo? Sto cercando di esserti amico...”
“Non mi serve la tua amicizia. Ne ho tanti di amici, grazie.”
“E allora di cosa hai bisogno?”

Oh cazzo, questa domanda non me la aspettavo.

“Io... non lo so.”

Lui resta in silenzio, guardandomi, cercando di leggermi dentro senza riuscirci.
“Non ho bisogno di niente...” aggiungo mentre cerco di ricompormi e di decidere un piano d’azione: da questo cesso prima o poi dovrò uscire.
Alex non parla, ma solleva una mano verso il mio viso e mi fissa i capelli dietro un orecchio in un gesto terribilmente delicato e i miei occhi incrociano quelli da Pokemon.

“Vuoi andare a casa, ora?” chiede con voce bassa e accennando impercettibilmente un sorriso.
“Non lo so. Non riesco a pensare se tu mi stai così addosso...” ribatto con ritrovata energia e cercando di spostarlo.
“Perché non ci riesci?”
“Alex, non ricominciare. Non è il momento per sfottere” mi lamento alzando gli occhi al cielo spazientita e lui ride.

Ride sempre, lo stronzo.

“Ti alteri proprio per niente, lo sai?”
“Senti, la mia autostima ha appena subito un brutto colpo. Puoi concedermi un attimo di tregua?!”
“Credevo andasse tutto bene...”
“Va tutto bene, solo...” mi fermo per un attimo, chiudo gli occhi e inalo profondamente una massiccia dose di ossigeno, sperando di capire cosa mi stia davvero frullando in testa.
Ma ogni mio tentativo di chiarirmi le idee viene vanificato da ciò che mi riempie i polmoni e che scorre nelle mie narici perché, tra le molecole di aria che si insinuano nei miei bronchi, serpeggia a tradimento il profumo di Alex. Spalanco gli occhi e, senza riuscire a farmarmi, chiedo:

“Ma che profumo usi?”
“Perché?!” e la confusione più assoluta gli si stampa sulle labbra.
“Rispondi e basta!”
Armani Code.

Oh. Merda.

Quel maledetto profumo a me fa un sesso fuori di misura. Come lo sento, zac, vado in calore. Manca giusto che mi metta a miagolare.

Il che fa squillare infiniti campanellini nella mia testa e sembrano urlarmi che il pericolo è decisamente troppo vicino e che l’ormone sta partendo.

Ormone. Maschi. L e il suo fidanzato. Io e L. Forse a L piacciono solo i ragazzi e tale pensiero demolisce la mia minuscola autostima: se gli piacciono sia maschi che femmine è un conto, ma se è gay... che ci stava a fare con me? Vuol dire che proprio non gli piacevo?

“Med?” Alex mi riporta fuori dalla mia accennata pippa mentale e io ricomincio a respirare.

Pessima, pessima idea: Armani Code è in agguato.

Devo assolutamente uscire da questo bagno: occorre che io vada a ricucire il mio orgoglio ferito, che mi legga un libro di auto-aiuto sulla sensualità nascosta in ogni donna (anche quelle che, forse, sono state scelte da un ragazzo come copertura per la sua omosessualità) e, soprattutto, devo evitare Alex, il suo gusto in fatto di profumi e i suoi occhi inquisitori.

Oh, devo fare un sacco di cose!

“Sì, senti, scusa, potresti uscire? Perché devo davvero fare pipì...” lancio lì l’unica scusa che mi sovviene in tale situazione di emergenza e lui, stranamente, si convince e si allontana da me.

La sua distanza provoca un piccolissimo brivido di freddo dovuto all’assenza del calore che  il suo corpo emanava e lui se ne rende conto e ammicca, ; poi si volta verso la porta e si appresta ad uscire.

Mi sento un po’ in colpa per averlo allontanato in modo così brusco: in fondo il gesto di venire ad assicurarsi che stessi bene era un passo avanti per la sua personalità da demone. E non posso negare che la sua attenzione in qualche modo mi compiaccia. O forse è solo colpa della chimica?

Quando Alex si gira, il suo corpo causa un massiccio spostamento d’ aria e sono costretta di nuovo a inalare una gran quantità del suo profumo (chiedendomi come sia possibile che non mi fossi accorta che lo indossava prima e rispondendomi che Angel di Jules coprirebbe anche l’odore della morte) e rendendo più difficile la mia impresa di autocontrollo.

Mi considero quasi salva quando lui, impugnando la maniglia, si congeda dicendo:

Take your time.

Ed è allora che dichiaro la mia resa e mando a ‘fanculo tutto: la ratio, l’orgoglio e il pudore.
Sono umana e la mia capacità di resistere alla lingua anglofona è stata annientata dall’arma chimica, nota come profumo firmato Armani.

Faccio due passi velocissimi e pianto il palmo della mano sul legno della porta, impedendogli di aprirla; lui si immobilizza, preso alla sprovvista, e poi si volta lentamente verso di me.

“Che cosa hai detto?”
“Di fare con calma...” spiega lui traducendo la sua ultima affermazione inglese e fissandomi con un filo di incertezza.
“No. Ho capito quello che hai detto” riprovo io spostando le dita sulla sua spalla e attirando in quel punto le sue orbite “Voglio che lo dici di nuovo.”

Alex è chiaramente confuso dal mio comportamento da incredibile Hulk e il suo viso lascia trapelare il dubbio e, mentre le mie unghie giocano col cotone della sua maglia, il suo sguardo mi studia.

“In questo momento mi sento io la preda.” bisbiglia quando i miei occhi rovinano per un secondo sulle sue labbra che si muovono lente. Poi si schiarisce la voce e ripete:

“Ho detto take your time...”

Verificato che no, non ho alcuna voglia di trattenermi, e tenendo gli occhi fissi sui suoi, mi alzo sulle punte dei piedi e faccio scivolare una mano fino alla sua nuca; il mio naso ad un nulla dal suo e tutto il mio buon senso chiaramente andato a farsi benedire.

“Ok...” sussurro soddisfatta, come se stessi davvero rispondendo al suo suggerimento di fare con comodo, e poi reggendomi alle sue spalle, lascio scivolare le mie labbra sulle sue lentamente, come a tastare il terreno e lui resta immobile.

Oddio, l’ho fatto davvero. Oddio sono una vera testa di cazzo.

I suoi occhi si fanno brevemente più grandi per lo stupore e per la confusione che il mio gesto ha scatenato ma continua a non muoversi e decido di prendere la cosa come un buon segno: raccogliendo ogni briciola di audacia che posseggo sposto una mano sulla sua guancia e, inclinando di pochi millimetri il suo viso, guido con energia la sua bocca sulla mia, sospirando alla natura corposa delle sue labbra.

Avevano proprio l’aria di essere belle da baciare, e lo sono. Dio, se lo sono.

Sono tiepide e voluttuose, hanno la consistenza della frutta d’estate, così piena e polposa che vorresti solo affondarci i denti, eppure ti va di giocarci un po’ prima di morderla: la fai scorrere sulla bocca e tra le dita, ne tasti la pienezza e ne immagini il sapore, pregustandone il succo fresco e corposo. E più aspetti, più senti di volerla assaggiare: ecco, le labbra di Alex non mi hanno affatto deluso al primo assaggio.

Il contorno della sua bocca perde in morbidezza in favore di una lieve barba, di quelle di poche millimetri, risultato di qualche giorno lontano dal rasoio e che, a volte rischia di pungere ma che, stranamente, non mi infastidisce per niente: è come se conferisse energia alla sua bocca e quel contorno irsuto delimitasse i confini di ciò che è delicato.

Mentre valuto il livello di follia che questa mia azione implica e mi chiedo se anche lui sta pensando che le mie labbra sono apprezzabili quanto io ritengo siano le sue (perché vorrei tanto che qualcuno ritenesse la mia bocca appetitosa), affondo le dita nei suoi capelli, decidendo che tanto vale che me lo goda ‘sto limone.

Scelgo di non far trapelare un briciolo di quella insicurezza che scalcia dentro di me e, dopo pochi istanti dal mio tocco di labbra, percepisco la sua bocca cominciare a rispondere al bacio e a muoversi con la mia.

Oddio, cosa fa? Mi bacia anche lui?

Sento le sue mani che si aggrappano con energia ai miei fianchi e da quell’istante in poi tutto assume un ritmo concitato, frenetico, irrazionale.

La sua bocca preme con prepotenza contro la mia, catturando tra i denti per pochi attimi il mio labbro inferiore, per poi massaggiarlo delicatamente, accarezzandolo con la lingua prima di liberarlo e intensificare il bacio.

Voto all’azione: 12. L non capiva una fava neanche di baci. Questa è una pomiciata degna di nota e effettuata con impegno, non quei moulinex bagnaticci di cui L si vantava.

Ma che scadenti esperienze erotiche mi ha propinato l’imbecille? Se penso a cosa mi ero persa, un po’ mi dispiaccio di non aver attaccato il mio coinquilino in precedenza: sarebbe stata la perfetta soluzione per farlo stare zitto e scoprire i piacevoli usi della sua bocca.

Le sue braccia si stringono con foga attorno alla mia vita e il suo petto premuto così violentemente contro il mio mi rende più coraggiosa e esigente.

Sospiro staccando le labbra dalle sue e lui, facendo forza contro le mie spalle, fa in modo che ruotiamo su noi stessi,  ed io mi ritrovo con la schiena premuta contro la porta al posto suo.
Le sue dita abbandonano il mio corpo e una delle sue mani sbatte con vigore contro il legno accanto alla mia testa quando, dopo aver spostato di qualche centimetro la stoffa della sua maglia, risucchio tra i denti la pelle che delimita l’incontro tra il suo collo e la spalla.

Il suo respiro si immobilizza per un secondo e io insistito nel torturare quel lembo di lui, provocando l’accelerazione del suo battito che pulsa sotto l’epidermide e si scatena contro le mie labbra. 

Le sue dita scivolano in risposta lungo il mio corpo, volando all’altezza delle anche e stringendo rabbiosamente il tessuto del mio povero vestito nero: poi prosegue la sua esplorazione, sfiorando la mia pancia col dorso della mano e io trattengo il respiro per evitare che realizzi quanta ciccia alberga su quella parte di me.

Cercando di spostare la sua attenzione su altro che non mi renda tanto insicura, riporto la sua bocca sulla mia e, imitando i miei gesti, incaglia le dita tra i miei capelli e stringe energicamente, tirandomi verso di sé e costringendomi a seguire i suoi movimenti.


Sono più che certa che alla mia gola sia sfuggito un imbarazzante gemito di piacere ma ogni timore scompare quando sento che Alex fa pressione contro il mio corpo per farmi  voltare e indietreggiare: mi guida con frenesia verso il lavandino alle mie spalle, contro il quale sbatto pochi passi dopo e, per trattenere un lamento, stringo le dita attorno al suo braccio.

Lui non smette di concentrarsi su quello che stiamo facendo e - dimostrandosi molto multitasking - con una strana mossa, mi aiuta a salire sul ripiano del lavabo e il marmo gelido contro le cosce mi fa rabbrividire.

Le sue braccia tornano veloci a cingermi la vita, io rido piano per il solletico che le sue dita  fanno contro i lati del mio corpo e lui si ferma per un attimo; ben decisa, però, a non permettergli di smettere, lascio scorrere la lingua sulle sue labbra che si aprono quasi istintivamente concedendomi l’accesso e, stavolta, quello a cui scappa un suono gutturale è lui.

Allargo le ginocchia, tirandolo verso di me per il bavero della maglia e, quando il suo corpo si scontra con il mio, mi chiedo se sono per caso posseduta o se davvero sto valutando l’idea di farmi il mio insopportabile coinquilino in questo angusto bagno di un pub.

Le sue mani corrono lungo i miei fianchi e arrivano ad incorniciarmi il viso, accarezzandomi, e sento lo stomaco che si stringe: stacca le labbra dalle mie con un sonoro schiocco e i suoi occhi mi sorridono prima che sfiori il naso contro il mio per farmi inclinare la testa di lato e accarezzare la mia pelle con la sua bocca.

Basta quello per farmi decretare che non sono una maniaca dell’igiene e che ho sempre voluto farlo in un luogo pubblico.

Gli sfilo la giacca con fretta e poca delicatezza e i miei movimenti sono irregolari a causa delle scosse di delizia che mi scorrono nelle vene ogni volta che la sua lingua accarezza un punto preciso sul mio collo; poi cerco di aggrapparmi con una mano a uno dei lembi inferiori della sua maglietta per potergliela sfilare e con l’altra stringo i suoi capelli in un pugno, riportando la sua bocca contro la mia e sospirando compiaciuta quando sento di nuovo il calore del suo respiro contro la mia pelle.

Le sue dita si posano sulle mie cosce e il bacio si fa più delicato; a quel punto dedico tutta la mia attenzione alla sua maglia e, sollevandola con sicurezza, gliela tolgo, abbandonando a malapena la sua bocca, per poi ricominciare a baciarlo con ancora più forza.

Una delle sue mani  sale verso l’alto e si muove leggera sul mio corpo, raggiungendo la scollatura e mi benedico per aver indossato qualcosa che non richieda troppo impegno per essere abbassato; e credo che lui sia d’accordo con me quando sposta con facilità il tessuto che ricopre il mio torso e sfiora la mia pelle.

Accarezzo la superficie della sua pancia e incontro la lieve peluria che mi guida verso i suoi pantaloni, sospirando senza smettere di baciarlo: afferro la sua cintura con entrambe le mani e, in risposta, le sue dita ancora sulle mie gambe, sollevano con prepotenza la mia gonna, spezzandomi l’aria nei polmoni.

Inizio a armeggiare con la fibbia e d’improvviso lui si blocca. Libera le mie labbra dalle sue e mormora:

“Med...” appoggia la fronte alla mia e sospira “Med, fermati...”

Incontra le mie dita e mi impedisce di proseguire nella mia opera di svestizione; sollevo le palpebre e trovo il suo sguardo, ora con la mente confusa e annebbiata dagli ormoni.

“Non posso farlo...” sussurra guardando la mia bocca e il mio stomaco si contrae in una morsa di delusione e imbarazzo.

Questa situazione schizza dritta in cima alla lista dei momenti più umilianti della mia vita.

“Perché no?” lo interrogo, lasciando cadere gli occhi verso il basso e lui mi costringe a tornare a guardarlo.
“Perché non è quello che vuoi...”

Oh, cazzo, sì che lo voglio!

“E in ogni caso non è quello che voglio io.” dichiara perentorio e penso che, se non fosse che aumenterebbe l’imbarazzo, potrei puntualizzare che il suo corpo inviava segnali contraddittori.

Niente male come risultato: un “ex” che potrebbe preferire i maschi a me e un coinquilino mediamente figo, che bacia secondo i sacri crismi e che, dopo avermi baciata, dichiara di non volermi.

Indicatemi il cratere più profondo della terra, così che io mi ci possa buttare dentro.


AN: Prima di tutto mi scuso per la lunghissima attesa... La vita vera, lo studio, l'estate e un maledetto blocco dello scrittore hanno reso la pubblicazione di questo capitolo terribilmente difficile! Per cercare di farmi perdonare ho tentato di renderlo abbastanza lungo. 
Ok, non voglio fare perdere tempo a nessuno e vorrei poter rispondere alle recensioni che mi avete lasciato in precedenza: ergo, ringrazio tutti per aver letto e per aver pazientato fino ad oggi e ringrazio la mia awesome beta per avermi assistito duante tale blocco e, soprattutto, durante l'ultima scena.






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Capitolo 9
*** I Discorsi Interrotti ***


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Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia


discorsi interrotti

CAPITOLO 8








AN: Buona sera a tutti... Per non farci mancare niente e per chi fosse interessato e per chi volesse fare domande, lamentarsi o che so io... insomma, per ogni cosa che riguarda TuttoTondo (e non solo), ora su FB trovate la pagina Di TuttoTondo in TuttoTondo ... se volete unirvi a noi e Tuttotondeggiare, le nostre braccia sono aperte.
Vi lascio alla lettura, prima che mi sbraniate.






I Discorsi Interrotti



L’aria nei miei polmoni sembra essersi pietrificata al suono delle sue parole e il mio orgoglio si è crepato fino a dare vita ad un piccolo cumulo di schegge pungenti.


D’improvviso mi rendo davvero conto della sciocchezza che ho appena fatto e non so reggere il peso della cosa: i suoi occhi restano fissi sul mio viso e le sue dita intrecciate con le mie, d’un tratto, sembrano aghi conficcati nella carne.

Ha la pelle bollente e sento che se non fuggo velocemente da questo bagno, non sarò mai più in grado di conservare un briciolo di autostima. Deglutisco con incomparabile sforzo e cerco di sbarazzarmi delle sue mani, agitandomi contro di lui, attanagliata da un disagio che non sapevo di poter provare.
Lui cerca di placare di miei movimenti scoordinati e tutto questo mi rende ancora più conscia delle mie rotondità e del suo rifiuto.

“Aspetta...” prova a spiegarmi ma, in tutta onestà, al momento non ho alcun desiderio di sentire i motivi dietro al suo blocco: voglio solo uscire da questo bagno, che avrebbe dovuto offrirmi un riparo dall’imbarazzo e che, nel giro di dieci minuti, è diventato il covo dell’incertezza.
Ignorando il mio coinquilino e le sue mani che tornano a poggiarsi sulle mie ginocchia per impedirmi di aggirare il suo corpo ed uscire, riesco a spingerlo lontano da me di qualche centimetro e a scendere da questo ripiano duro come il muro che tra poco innalzerò.

Mi sistemo la gonna del vestito, evitando con impegno di incrociare il suo viso e, forzando una risatina, affermo:

“Ho fatto una cazzata.”
“Med...”
“No, senti. Direi che hai già detto a sufficienza: ma, se me lo concedi, io ora uscirò da questo bagno e mi porterò dietro la mia inadeguatezza.” rispondo millantando una risatina per nulla credibile e cercando di mostrare autoironia.

“No, aspetta. Non è proprio che non lo volevo fare...”
“E allora perché mi ha fermata?”
“Perché mi hai baciato?” chiede lui di punto in bianco con un’espressione provocatoria e avvicinandosi di un passo.
Visto l’angusto spazio in cui è stato sviluppato questo bagno, un passo è parecchio e i miei sensi tornano ad attivarsi: sono un’ allupata, è evidente.

“Perché mi andava...” rispondo, quasi indignata dal fatto stesso che me lo abbia chiesto.
Non è rilevante il perché, quello che conta è che l’ho fatto. E che mi è pure piaciuto, nonostante l‘esistenza di quella sua molesta personalità. E che sarei andata ben oltre.

“Quindi io dovrei credere che dal nulla tu abbia stabilito che infilare la lingua in bocca a una persona che, fino a prova contraria, non sopporti, fosse un gesto ragionato.”
“Che stai insinuando?”
“Niente, sto dicendo quello che penso.”
“L’hai già detto quando mi hai dichiarato di non volerlo fare.”
“Oh, credimi, lo volevo fare. Eccome. Ma ho troppo rispetto per me stesso per...”
“Ma vaffanculo, Alex!”
“Oh, con calma, Scintilla! Perché salti sempre alle conclusioni?”

Lui fa un altro passo nella mia direzione e i miei sistemi di difesa iniziano ad innalzarsi inesorabilmente. Non avevo mai fatto la prima mossa e il suo rifiuto ha definitivamente decapitato ogni mia futura possibilità di avere spirito di iniziativa: se è difficile per le fighe longilinee, immaginate cosa può essere per una come me.
Se poi aggiungiamo al tutto il mio carattere socialmente inadeguato e la mia atrofizzata sensualità, il risultato finale è una ritrovata immobilità verso il sesso maschile.

Che cosa cavolo mi è saltato in testa?!

“La tua affermazione non richiedeva grande interpretazione.”
“Posso finire di parlare?” e fa un altro passo verso di me, riducendo la distanza di troppi centimetri e costringendomi ad avvicinarmi alla porta.

No, alt! ‘Sta porta è stato il punto di partenza.
Riesco a scivolare di lato prima che lui mi blocchi tra le sue braccia e ad afferrare la maniglia, aprendo la porta.

“Lascia perdere. Non avrei dovuto farlo.” dichiaro guardando in quegli occhi perplessi e confusi.

Che avrà mai da essere confuso pure lui, è un mistero.

“Ci vediamo a casa.” mormoro prima di inforcare l’uscita e cercare di allontanarmi da quest’ultima umiliazione.

Ma cosa mi è saltato in testa? Io e Alex? Che diavolo stavo pensando?


“Senti, non hai capito niente...” la sua voce alle mie spalle torna a raggiungermi ma non ho davvero voglia di stare a sentire.
Senza smettere di camminare, mi giro e sollevo una mano per zittirlo.
“La mia dignità stasera è stata colpita abbastanza, non credi? È stato un errore e non so neppure perché l’ho fatto. Mi stavi davvero sulle palle e ora mi ci stai ancora di più. Fortunatamente, dato che non ci sopportiamo, non ho rischiato di rovinare nulla.”

Bum!

Muro di cinta di cemento armato di Med: innalzato.

Orgoglio di Med: pugnalato, in prognosi riservata ma fuori pericolo.
Sguardo di dubbio di Alex: attivo ma assolutamente fuori luogo, quindi mi sento in diritto di dargli le spalle e raggiungere velocemente il tavolo dei miei amici.

Lui mi segue in silenzio e me lo ritrovo accanto anche una volta raggiunto il tavolo: affonda le mani nelle tasche dei jeans - gli stessi jeans che ero assolutamente intenzionata a levargli - e si stringe nelle spalle, facendo scorrere lo sguardo sui miei amici e mordicchiandosi nervosamente l’interno del labbro inferiore.
Tra i ragazzi della mia compagnia regna un silenzio teso ed insicuro mentre scrutano i miei lineamenti sperando di tradurre le mie espressioni in possibili segnali del mio stato d’animo ma trovandosi, immagino, confusi dal mio sorriso tirato.

Poi Alex inizia a spostare il peso da un piede all’altro e si stringe nelle spalle, chiaramente a disagio e con l’aria di qualcuno che vorrebbe dire qualcosa ma che si morde la lingua pur di non farlo.
I suoi movimenti attirano in gruppo gli occhi dei miei amici sul mio coinquilino e, di riflesso, lui si volta verso di me.

E io cosa faccio? Ovviamente arrossisco facendo saltare miseramente la mia debole copetura e provocando la reazione di Jules.

“Che avete fatto voi due in quel bagnetto?” e sorride come una bambina il giorno della Befana.
Alex si schiarisce la gola, dubbioso su cosa rispondere, mentre Leo inarca un sopracciglio incuriosito e io divento ancora più rossa.

“Alex se ne sta andando...” affermo con voce roca e girandomi verso di lui per indicarlo, sperando di spostare l’attenzione di nuovo sul ragazzo al mio fianco.
L’ imbarazzo è una delle poche cose che non so mascherare e questa sera sono riuscita ad accumularne una dose eccessiva: tra L e il rifiuto di Alex credo di aver battuto ogni mio record e non mi piace essere esposta in questo modo.

“Ah sì?” domanda lui con una punta di fastidio e il mio primo istinto sarebbe quello di prenderlo a badilate sul pisello.
“Credo che sul fatto che la serata sia giunta al termine non ci sono grandi dubbi...” borbotta Jack sorseggiando il suo drink mentre osserva con divertimento l’interazione forzata tra me e il mio coinquilino.

Non capisco perché Alex debba essere così stronzo da rendere le cose ancora più difficili.
I suoi occhi sembrano tradire un’improvvisa voglia di discutere con me e il mio disagio per il nostro precedente incontro si scioglie velocemente in rabbia.
Ha anche l’ardire di continuare a rompere le palle?

“Sì, lo è. Sono certa che Alex dovrà svegliarsi presto per qualche misteriosa ragione...”
“In realtà...”
“...ragione che a nessuno di noi interessa in modo particolare.” lo interrompo, cercando di fargli capire che averlo attorno al momento è allettante quanto l’idea di una visita ginecologica.

“A me interessa...” ridacchia Leo e, in risposta, riceve uno scappellotto da Bet, seguito da un “Ma i cazzi tuoi te li fai mai?”

“Scusate, starei parlando!” protesto additandoli mentre si danno dell’ idiota vicendevolmente e Alex, accanto a me, mugola:
“Non è bello quando non ti lasciano finire di dire qualcosa, vero?”

Un’ imponente ondata di irritazione mi sale dal fondo delle vene quando mi rendo conto che nessuno mi permette di congedarmi con la velocità che avrei voluto e, scegliendo consciamente di ignorare la frecciatina di Alex, torno a comunicare con il resto del tavolo.

“Ragazzi, grazie per la bella serata ma sono un po’ stanca...”
“E provata dagli eventi, suppongo...” avanza Roby sorridendo comprensivo mentre Jules completa la frase a modo suo, domandando:
“...dagli eventi successi nel bagno?”

Io inspiro spazientita e mi strofino il viso con entrambe le mani: perché sono saltata addosso a quest’imbecille? Sarebbe stato più semplice andare a complimentarmi con L per l’evidente prestanza fisica del suo compagno per la serata.

“Ce ne possiamo andare?” chiedo arrendendomi al peso emotivo dell’ultima mezz’ora e sperando in un’ approvazione generale.

Cerco gli occhi di Bet e poi quelli di Jules e, in una frazione di secondo, sembrano capire che se non esco da questo pub potrei trasformarmi in Robocop e sfogare la mia frustrazione su chiunque. Un bersaglio a caso? Alex. O Jack, perché continua a fissarmi con quel sorrisetto consapevole.

“Voi andate, noi magari restiamo un altro po’. Si sa mai che riesco a trovare qualche fanciulla interessante e tirare su patata, come dicono i giovani oggi.” risponde Leo gonfiando il petto e raddrizzandosi sulla sedia.
“Innanzitutto nessuno dice tirare su patata al di fuori del fratello di Med. E in secondo luogo tu puoi tirare su patata come io posso sopportare l’idea di indossare le tue scarpe puzzolenti...” risponde Jack alzandosi dalla sedia “Vado a ordinare due birre per me e Roby: voglio proprio godermi i tuoi ridicoli tentativi di seduzione.”

Le mie amiche si infilano veloci i cappotti e aggirano il tavolo per raggiungermi.

Alex si allontana da me e Armani Code, per una frazione di secondo, invade l’aria che mi circonda, costringendomi a smettere di respirare.

Cosa cazzo mi è saltato in testa?!

Raccatto tutte le mie cose evitando accuratamente di incontrare il suo viso, evidentemente fisso su di me, e saluto rapidamente i miei amici, promettendo di farmi sentire presto.

Bugia. Grossa bugia.

 Lo so io e lo sanno anche loro: per mia fortuna, però, scelgono di non palesare la cosa e ciò mi permette di girarmi verso l’uscita per seguire Bet e Jules, borbottando a Alex:

“Ci vediamo a casa.”

Ma lui, che deve sempre avere l’ultima parola, mentre io mi allontano, risponde a mezz’aria:
“Lo spero bene. E forse lì mi sarà concesso di finire di parlare.”

Ero lontana di qualche passo ma abbastanza vicina da cogliere l’ennesima frecciata: grazie ad Odino posso fingere di non averlo sentito e, senza indugiare oltre, spintonando qua e là per farmi strada nel fiume di gente, raggiungo l’uscita con le mie amiche.

“Che è successo?” domanda Bet una volta richiusa la porta del pub dietro di noi.
“Niente.” ribatto secca, camminando velocemente in direzione del parcheggio.
“Med...”
“Niente, Jules.”
“Devo andare a chiederlo ad Alex?” chiede ridacchiando e Bet si unisce a lei rumorosamente.
“L’ho baciato.”

Si bloccano in mezzo alla strada e le loro risate si spengono: mi fissano inebetite e stupite e un senso di potere mi invade. Non capita molto spesso che io riesca a zittire entrambe e, per la singolarità dell’evento vorrei tornare nel pub ad annunciare a tutti questo mio enorme successo. Poi mi ricordo che lì c’è ancora Alex - e forse pure L, benché non me ne sia più curata - e che, forse, sta per uscire: l’idea di sbatterci contro non è poi così allettante, ragion per cui opto per la soluzione più semplice.

“Qui urge una riunione sul cofano della Circe. Andiamo a prenderla a casa mia e poi andiamo a nascondermi da qualche parte.” annuncio ricominciando a camminare e sentendo i passi delle mie amiche, ancora attonite, alle mie spalle.

La Circe è la mia sacra macchina, della tenera età di 15 anni, a cui sono affezionata più di ogni altro oggetto al mondo. È ormai un rottame, ma abbiamo trascorso i momenti migliori, noi tre, immerse in profonde discussioni adolescenziali e non, sigarette alla mano, sedili reclinati e piedi appoggiati sul cruscotto di quella macchina.
È vecchia e assolutamente out, ma è cresciuta con noi.
Quella macchina ha assorbito ogni nostro respiro, nell’intimità di confessioni e confronti tra tre amiche, a volte spaventate, altre sconsolate, altre ancora semplicemente confuse.
La Circe è ricordo fisico di nottate trascorse al buio delle strade vuote del centro, sussurrando parole che non avrebbero mai lasciato il metallo di quel tempio con le ruote. Ricordo di anni passati a combattere contro un mondo che non capivamo. Monito perenne di quello che eravamo e di quello siamo diventate.
La Circe è una cosa solo nostra, siamo noi: e, soprattutto, è il nostro posto preferito in cui rifugiarci quando qualcosa ci turba.

Un’ora più tardi io, Jules e Bet siamo sdraiate sul cofano caldo della Circe, guardando il cielo nero, alla ricerca disperata di qualche stella, in un confortevole silenzio.

“Quindi... l’hai baciato, brutta porca.” chiede d’un tratto Jules rompendo la tranquillità in cui eravamo immerse e facendo nascere una risatina dal fondo della gola di Bet.
“Che ci sarà mai di così divertente?”
“Ad esempio il fatto che millanti di odiarlo: se ti fosse stato simpatico che gli avresti fatto? Un pompino sull’uscio di casa il secondo giorno in cui condividevate l’appartamento?” ribatte la mia amica bionda in preda all’ilarità e ridendo sempre più forte, mentre Jules allunga una mano verso di lei e si battono il cinque.

“Ma... non l’ho fatto apposta!” protesto stringendo i pugni per enfatizzare la mia posizione e mi accorgo che le mie parole suonano demenziali, al punto che devo abbassare la testa in segno di vergogna.
“Med, puoi dire tutte le cazzate che vuoi ma Alex non ha super poteri e questo non è un fantasy: nessuno bacia una persona solo per il profumo che indossa.” dichiara Bet e mi sventola una mano di fronte al naso.

Non so perché, di preciso.

Indicando a mia volta Jules e aumentando di un decibel il volume della mia voce mi lamento dicendo:
“Jules se ne è scopati per molto meno!”
“Ma cosa stai dicendo?!” si indigna la ricca alla mia destra e cerca di affondare le sue mani sporche di gelato dentro la ciccia che risiede da anni sui miei fianchi.

“Almeno a lei piacevano nella loro totalità. Erano brutti, ma a lei piacevano.”
“A starvi a sentire sembra che mi sia fatta l’armata Brancaleone!” borbotta Jules spingendo in fuori il labbro inferiore prima di ricordarsi che quella sotto processo sono io.

“Med, hai baciato Alex. Tipo, gli hai proprio tirato un limone in profondità, con tanto di maglietta levata e mano sulla cintura. Quello non era accidentale, amica mia. Quello è intenzionale e assolutamente condivisibile, se lo chiedi a me...”
“Ma ha parlato in inglese...”

I guess drama is on the way...” mi sfida Bet, incrociando le dita sul petto e arricciando la bocca in attesa di un bacio. Poi, tenendola in quella posizione a culo di gallina, mi sfida:
“Dai, infilami la lingua in bocca... Su, illustraci come il solo suono della lingua inglese ti trasformi in Lady Mutanda Volante...”

Resto zitta fissandole con sguardo impassibile, mentre loro si sbellicano dalle risate e so che non hanno tutti i torti: non si bacia qualcuno solo perché indossa un profumo che ci piace e perché parla una lingua deliziosamente sensuale.

“Io credo che, in fondo, Alex ti piaccia...”
“No. Non mi piace. È uno stronzo. E in ogni caso io non sono quello che vuole lui... ‘sta faccia di cazzo.”
“... con un bel culo però e che sa pomiciare, a quanto dici.”
“Scusate, non avevo finito.” si ribella la psicologa accanto a me e ricomincia con la sua analisi “Lui ti piace, ma non è quello il problema. Il problema era L.” asserisce e spera, probabilmente, di ricevere qualche genere di reazione da me.

Io rimango imperturbata e non so se lo sono davvero o se sto innalzando una facciata.

“Ne parliamo?”
“Di che cosa? Della possibilità che le piaccia l’americano o di L?” domanda Bet al posto mio.
“Di L... Med, è comprensibile che tu sia scossa...”

Rifletto per una frazione di secondo e poi torno a guardarle, dicendo:
“In realtà non lo sono. Non più di tanto. Sono più che altro confusa e vorrei sapere se è gay o bisessuale.”

Loro sembrano sorprese dalla mia risposta e Bet si consola azzannando un Chicken Mc Nuggetz e chiedendo:
“Cosa cambia? Resta il fatto che gli piacciono anche i maschi. A me importa sapere quanto questo particolare ha effetto su di te.”
“Non è il particolare in sé che mi turba: vorrei sapere se ero una copertura o se gli piace sia la carne che il pesce. Se gli piacessero solo i ragazzi credo che avrebbe un impatto più forte sulla mia autostima...”

“Tesoro, non è qualcosa che puoi sapere per certo. Magari al momento non lo sa neppure lui.”
“Sì, forse...” mormoro facendo passare la lingua sulla superficie del mio labbro inferiore e contemplando le parole di Bet.

Poi con la mente mi distraggo sia dal problema di L che dal rifiuto di Alex e penso che per una sera ho accettato di uscire ed è stato un disastro.
Rimugino impercettibilmente - perché farlo seriamente è qualcosa che mi ingarbuglia l’anima ogni volta - su come sono diventata e su cosa sto facendo.

Io fuggo. Obiettivamente: posso raccontarmi tutte le balle di questo mondo e posso sentirmi vittima di un destino crudele finché mi pare, ma la verità è che se non affronto le cose non si sistemerà mai nulla.

Con la storia di L ci sono riuscita ed è stato anche molto più facile del previsto: ed è questo il problema. Credo che intimamente io sapessi che non era una questione troppo spinosa.

Ma affrontare me stessa, il mio futuro, le risposte che non so dove trovare e gli errori madornali che ho fatto? Tutta un’altra storia, gente.
Se poi aggiungiamo la paura di doverlo confessare e di renderne conto ai miei genitori e l’umiliazione di raccontarlo a chi mi circonda, il risultato è una Med fuggiasca assicurata.

“ Un penny per i tuoi pensieri.” mi bisbiglia Jules, accorgendosi della mia mancanza di coinvolgimento nella discussione.
Io ruoto il viso verso di lei e le sorrido, prendendo tra le dita uno dei suoi lunghi ricci e giocandoci.
“ Nulla. Tante cose.” rispondo soffiando sul riccio per vederlo rimbalzare lontano dal mio tocco.
“ Tesoro, deciditi o nulla o tante cose.” mi dice Bet, passando ripetutamente la mano sul cofano caldo della Circe e incrociando gli occhi di Jules.
Sui loro volti aleggia un'ombra di preoccupazione e vorrei saper scavare nel fondo della mia gola per tirare fuori parole che abbiano senso.

Ma non so come si fa.

E allora resto in silenzio per pochi secondi mentre loro attendono pazienti.
Poi torno a scrutare il velo buio sopra di noi e chiedo:
“Quando è successo che le nostre vite sono diventate così strane? Io mi ricordo quando eravamo piccole e la vita non era così ingarbugliata. I rapporti umani non erano così difficili. Le scelte da fare non erano così...definitive.”
“ Med, che ti prende? Non stai più parlando di Alex e L adesso.” sussurra Jules con una delicatezza che raramente le appartiene, prima di domandare:
“ Stai parlando di te?"
"Perché ti è così duro ammettere che stai male, Med?” mi chiede Bet mettendosi a sedere e abbandonando sul parabrezza il cartone di gelato ormai sciolto.
“ Perché ammetterlo implicherebbe doverlo affrontare.” la mia voce esce flebile come la colpa che sembra avvolgere la mia confessione e non so frenare l'imbarazzo che mi si scioglie nello stomaco.

A che pro? Con loro non servono gli scudi. Mi leggono dentro. Sempre.

“ E perché questo ti spaventa? Non vuoi stare meglio?” domanda silenziosamente Jules, quasi intimorita dalla risposta che io potrei dare.

Voglio stare meglio? Forse no. Forse è più comodo fingere che tutto questo insopportabile disagio non l’ho costruito con le mie mani: è più facile pensare che non ho fatto scelte che mi hanno portata qui.

È più semplice pensare di non aver complicato le cose con il mio insopportabile - ma parecchio allettante - coinquilino; ed è più comodo credere di aver agito senza pensare.

“ Voglio stare meglio, voglio capire cosa c’è che non va. Voglio scoprire chi sono davvero e cosa voglio. Ma ho paura di farlo... Ho paura di realizzare che non sono mai stata me stessa e sono terrorizzata all’idea di rendermi conto che la vera Med non mi piace affatto.” rispondo, facendo ciondolare le gambe nel vuoto oltre il cofano della mia automobile.

C’è un silenzio innocente e irreale attorno a noi. E il fatto che tutte e tre teniamo il volume della voce così basso, non volendo violare la quiete di questo istante, mi fa sorridere.
“Med, è una paura che tutti prima o poi abbiamo. Io temo che sia qualcosa che va più in là del semplice timore. Ma non credo tu sia ancora pronta a sentirmi pronunciare quella parola.” bisbiglia Jules, scostandomi i capelli dagli occhi mentre io annuisco flebilmente.
Credo di aver capito di che cosa parla, ma non sono davvero pronta a dare un’etichetta al mio fottuto disordine emotivo e psicologico.

Non ancora.

“Jules...” rispondo incrociando per un secondo i suoi occhi cioccolato e lei scuote la testa.

“Che ne dici se vieni a dormire da me stanotte?”
Io sposto lo sguardo verso l’alto, annuendo, e sospiro un banalissimo “OK”.

Ma per loro è più che sufficiente. Loro mi conoscono. Non hanno bisogno di altre parole. Loro sanno tutto di me.
Conoscono il valore dei miei silenzi e il significato delle mie dita che torturano una ciocca vicino all’attaccatura dell’orecchio: sanno che stanotte non troveremo le risposte che i miei genitori tanto vorrebbero.

Ma hanno ben chiaro che l’ultima dichiarazione di Jules ha portato tutto ad un livello più alto.

Restiamo zitte ancora per un po’, l’unico rumore che si sente è quello del vento che canta attraverso le foglie di un albero solitario accanto a noi.

Poi Jules salta giù dalla Circe, apre entrambe le portiere anteriori, si infila nella macchina e accende la radio, alzando il volume al massimo.
Torna a sdraiarsi accanto a me e la pace di questa notte viene improvvisamente rotta dalle note di “Oh Carol” che riempiono l’aria e le nostre orecchie: ci sarebbero milioni di cose da dire e infiniti silenzi da analizzare me questa notte mi concedo una tregua.

“Andiamo a nanna?” chiede Bet, scendendo dal cofano e porgendo una mano a me e una a Jules, ed entrambe ci lasciamo aiutare a tornare per terra prima di infilarci in macchina e portarla a casa.

Quando arrivo all’appartamento di Jules sono così stanca che penso di non arrivare neppure al letto senza cadere in uno stato di semi-coma: la mia amica si diverte a spegnere le luci ogni volta che entro in una stanza, rendendomi l’impresa di raggiungere il bagno ancora più complicata.

Per quattro volte di fila sbatto contro qualche ostacolo: alla quinta il mio malleolo subisce le conseguenze dello scherzo della cretina che mi segue e mi ritrovo a imprecare contro di lei e a confessare che se non la pianta, sarò costretta a fare la pipì in una delle altre stanze.

Alla mia ammissione Jules pare essere colpita da un moto di pietà e mi conduce velocemente al bagno, richiudendosi la porta alle spalle e raccomandandomi di centrare il buoco.

Mentre mi sciacquo il viso per liberarmi dai pochi residui di trucco, dentro di me spero di riuscire a cancellare qualche traccia degli eventi di stanotte: non credo che sarei in grado di dare una forma verbale alle sensazioni che si sono susseguite dentro di me, ma so che sono arrivata al capolinea delle scuse.

C’è qualcosa di terribilmente gelido nel fondo del mio stomaco da un po’ di tempo a questa parte e, più ne nego l’esistenza, più si diffonde nei tessuti del mio corpo e, soprattutto, in quelli del mio essere: a volte penso sia semplice paura, altre credo si tratti di inadeguatezza.

Dicono che essere scontrosi porti a restare soli e, più penso a me e ai miei recenti atteggiamenti, più temo che un giorno mi sveglierò e neppure Bet e Jules avranno resistito: se continuo a scappare da tutti e da tutto potrei scoprire che non era “la vera Med” che non piaceva agli altri, quella che ho tanto paura di esplorare. La realtà è che il mio costante stato di fuga mi permettere di fingere: ma se un domani tutti gettassero la spugna, sarebbe solo per colpa della Med di oggi.

Il tempo stringe, le corde si tirano, i mesi passano e io mi devo decidere: non esiste nessuno al mondo oltre me stessa che può guardare dentro quel gelo e capire perché è lì.

Solo io. Perché sono stata io a metterlo lì: l’ho creato con gli anni di silenzi, con le mie insofferenze, con l’incapacità di reagire come avrei dovuto. Con la totale mancanza di fiducia e di stima in me stessa.

E ora la vita mi chiede il conto: il problema è che non voglio fermarmi a pensare davvero neppure per lei.

“Sei stata risucchiata dal mostro del gabinetto?” grida Jules da dietro la porta e io sussulto, forse colpevole di non riuscire a esternare queste emozioni o forse solo grata alla mia amica per avermi offerto l’ennesima occasione di fuga da me stessa.

“Arrivo.”
“Senti, io non ho nessun pigiama più vecchio del 2010 quindi ti ho preparato l’elegantissima tuta da yoga che ha scartato mia madre... È orrenda. Ti sentirai a tuo agio.” risponde lei, aprendo la porta e sventolandomi sotto il naso un completo color caco marcio.

“Questa è brutta persino per me...” sogghigno, afferrandola e levandomi in fretta gli stivali mentre Jules mi trascina verso il letto.
“Poche storie. Di fronte ai tuoi pigiami, questa è alta moda.”

Io scuoto il capo e mi arrendo all’unica possibilità di non dormire nuda e, una volta infilata la tuta, constato che è deliziosamente comoda; mi intrufolo sotto il piumone di Jules e lei mi si raggomitola contro, in cerca di calore mentre io provo a tenerla lontana.

“Buona notte testa vuota!” le rispondo mettendo un cuscino in mezzo a noi e ridacchiando vittoriosa.
Lei allunga la mano in un moto di tenerezza - di solito più caratteristico di Bet - e, facendomi una carezza sui capelli, sussurra:
“Notte a te, amica.”

Poi, con la consapevolezza che presto dovrò mettere ordine dentro la mia anima, lascio che lo stress di questa serata scivoli via dalla mia mente e lasci spazio ad un sonno che, spero, sia - per una volta - ristoratore.

Mera illusione: non lo è principalmente perchè Jules ha delle lunghe conversazioni con se stessa nel sonno e perché, più di una volta, benché addormentata, ha discusso con la sottoscritta sul fatto che io mi sia indebitamente appropriata della sua parte del letto e che, sempre secondo la Jules dormiente, io potrei in realtà essere un’agente dell’area 51, inviata fino al suo materasso per svelare la sua possibile natura aliena.




Pausa pipì



LA DIREZIONE, COME DI CONSUETO, VI OFFRE QUALCHE MINUTO DI PAUSA E VI SUGGERISCE DI COGLIERE L'ATTIMO PER FARE PIPì!.




L’indomani mattina, nonostante le mie ripetute suppliche di offrirmi asilo politico finché io non mi sia procurata uno di quegli affari sparaflasha memoria che ci sono in Men in Black, così da poter evitare qualunque tipo di imbarazzante confronto con Alex, Jules decreta che io e il mio “atteggiamento evitante” dobbiamo abbandonare la quiete della sua casa.

“E se lui è là?!” mi lagno restando agganciata alla maniglia della porta del suo appartamento.
“Considerando che ci vive prima o poi ci sarà ...” risponde lei a denti stretti mentre mi spinge con tutta la forza che ha e cerca di liberare la suddetta maniglia dalla mia morsa.

Sono Iron girl: c’ho la presa d’acciaio. La stretta che ti uccide. E il coraggio che ti seppellisce, lo so: un difetto ce l’ha ogni super eroe.

“Io a casa, se c’è quello, non ci vado!”
“Oh, eccome se ci vai!”
“No, non mi puoi costringere.” e alla mia affermazione lei aggrotta la fronte con aria di sfida, azione alla quale mi limito a rispondere con una linguaccia e poi guardandola con occhi di supplica.

“Quanto sei immatura! Ora o stasera che cosa cambia?! Prima o poi ci dovrai parlare!”
“Per sentirmi dire di nuovo che lui non mi si vuole fare, umiliandomi per l’ennesima volta e facendomi sentire molto molto piccola?”
“Io resto convinta che ti si voglia fare e che una spiegazione ci sia.”

“Certo, come no. La spiegazione è che probabilmente mi avrebbe lasciato fare se avessi avuto venti chili di meno e una personalità più docile.” borbotto riguadagnando terreno all’interno dell’appartamento della mia amica.
“Sulla personalità più docile non posso che convenire. Sul sovrappeso un po’ meno, visto che mi pare che il suo piacevole corpo da americano da esposizione abbia risposto positivamente ai tuoi accumuli di ciccia e lardominali.”

“Stronzate...”
“Senti, e se chiamo a casa vostra per vedere se c’è? Se non c’è ti levi dalle palle?” propone alla fine rinunciando a battere la mia presa di ferro e sospirando distrutta.
Alla sua proposta mi rilasso e lascio finalmente andare la maniglia, annuendo.

“Che cavolo di bambina che sei!” e si allontana dalla porta per raccogliere il telefono dal tavolo da pranzo; compone rapidamente il numero di casa mia e resta in silenzio in attesa, osservandomi con aria di stizza.

“Siamo al nono squillo: possiamo dedurre che non c’è e te ne vai, o cosa?”
“Magari ha il sonno pesante, aspetta ancora un attimo.” ribatto portandomi il pollice alla bocca e rosicchiando un’unghia.

“Ok, ora basta. Alex non c’è e tu ora vai a casa e aspetti che torni. Ci devi parlare e devi stare a sentire cosa diamine ha da dirti riguardo al vostro conturbante limone, va bene?!” esclama spazientita, tenendo ancora il ricevitore appoggiato all’orecchio e parlandoci dentro.
“Squillo duemilaquattrocentoquarantaquattro. Alex non c’è. Vattene!”

Con aria atterrita acconsento ad abbandonare casa di Jules per tornare alla sicurezza del mio appartamento, ma solo perché ho appurato che l’oggetto dei desideri dei miei ormoni - solo loro, ovviamente, assolutamente non mio - non è là ad attendermi.

Quando arrivo sul pianerottolo di casa, giusto per sicurezza, appoggio l’orecchio sulla porta e sto in attesa qualche secondo, pronta a cogliere il più impercettibile rumore che mi faccia sapere che lui è rientrato. Nada. Silenzio tombale.

Sono salva, grazie a cielo.

Infilo la chiave nella toppa e la faccio ruotare con fatica due volte in senso orario, tirando l’ennesimo respiro di sollievo; poi abbasso la maniglia e, ora finalmente serena, apro la porta e faccio un passo dentro casa, accingendomi a richiuderla alle mie spalle e, mentre un senso di sicurezza e protezione si diffonde lentamente dentro le mie ossa, un cigolio che ben conosco, riattiva tutti i miei sistemi d’allarme.
Con fastidiosa rapidità, in salotto compare la figura - recante un goloso paio di jeans, un maglione blu e un paio di converse verde bottiglia - di Alex che, mani in tasca, mi guarda in silenzio mentre una luce vittoriosa adorna i suoi occhi e un’espressione consapevole lascia intendere che sapeva sarei arrivata presto.

Io resto imbambolata qualche momento a fissarlo, confusa dal suo atteggiamento, e lui, in risposta, solleva il mento verso l’alto e accenna un sorriso di sfida.
Torno rapidamente in me e i miei sensi gridano una sola cosa:

“Fuggi, cretina!”

Provo a girarmi per riguadagnare l’uscita il più in fretta possibile, consapevole di quanto sciocca questo gesto mi farà apparire, ma per nulla turbata dalla cosa: meglio quello che essere di nuovo costretta a sentire perché non sono soggetto scopabile agli occhi di un maschio.

Colpendomi, chiaramente, l’alluce con l’angolo della porta (e resistendo al desiderio di imprecare), sono quasi riuscita ad aprirmi del tutto una via di fuga, quando entrambe le mani di Alex sbattono con vigore contro il legno, richiudendo la porta e privandomi dell’unica possibilità di sfuggirgli.

“Non così in fretta, signorina.”
“Credevo non ci fossi...”
“Sì, lo so.”
“Come fai a saperlo?...” chiedo, appoggiandomi al legno dietro di me e osservandolo confusa mentre nella mia mente riaffiora l’immagine di Jules che parla dentro il ricevitore e capisco che sono stata raggirata.

Di nuovo. Ma come si fa a farsi fregare così da entrambe le proprie amiche più care?!

“Quella vacca dal pelo infeltrito!” sibilo rabbiosa, abbassando lo sguardo e stringendo un pugno.
Lui sorride vittorioso e poi schiocca le dita per attirare la mia attenzione.

“Possiamo parlare?”
“Non sono un cane. Non schioccare le dita con me.”
“Possiamo parlare?!”
“Dovrei davvero...” cerco una scusa per liberarmi di lui “... andare a fare la cacca.” e lui ride.

Ma cosa dico? Cosa cazzo dico?!

“Ora che abbiamo superato l’imbarazzo non ti fai più tanti problemi, eh?”

Sono ancora con le spalle appoggiate all’entrata e una delle sue mani è tornata a nascondersi dentro una tasca dei jeans mentre l’altra, ancora a contatto con la porta, si è chiusa in un debole pugno mentre gioca nervosamente con l’unghia del pollice.

Sollevo lo sguardo e lui torna a chiedermi di smetterla di evitare la conversazione e lasciarlo parlare.

“Alex, seriamente, non è che ci sia granchè da dire. Io ti ho baciato e non avrei dovuto farlo e tu non volevi essere baciato da me. Punto. Fine del confronto. È stato bello. Ciao” dichiaro spostandomi dalla porta e cercando di raggiungere la mia camera.

Ma il mio coinquilino è insopportabilmente cocciuto e, recuperando uno dei miei gomiti, mi tira verso il salotto.

“È affascinante vedere qualcuno che se la canta e se la suona da sola. Però io avrei qualcosa obiettare e, soprattutto, non ho molto tempo visto che devo andare al lavoro.”
“Ah, lavori ogni tanto?”
“Come pensi che lo paghi l’affitto? Concedendo favori sessuali alla signora Riposi?”
“Dio, spero di no. Ha tipo settanta-cinque anni: non reggerebbe l’emozione della tua prestanza fisica.” ribatto lasciando che lui mi spinga sul divano e rassegnandomi all’idea di doverlo stare a sentire. “A meno che, certo, tu non concluda anche con lei ogni incontro con un piacevolissimo rifiuto.”

Alex si siede nella poltrona di fronte a me e, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, mi osserva per nulla divertito.

“Se hai finito col sarcasmo avrei qualcosa da dire su quella storia.”
“E chi te lo impedisce? Siamo in un paese libero.” borbotto con una punta di acidità e incrociando le braccia sul petto.
“Tu. Tu me lo impedisci.” ribatte lui alzando un po’ la voce e la cosa mi stupisce incredibilmente “Tu e le tue cazzo di barriere alte 20 chilometri. Tu e il tuo sarcasmo. Tu e la tua paura di sentire cosa hanno da dire gli altri.”

“Calmati. Non ho detto niente.”
“Io qualcosa da dire ce l’avrei da circa dodici ore.”
“E dilla allora! Facciamola finita perché onestamente sono a disagio da ieri sera ed è tutta colpa tua in ogni caso.”

Lui fa un sospiro per cercare di calmarsi e poi si massaggia la fronte, chiudendo gli occhi  e ribatte:
“Sei così difficile. Una cosa alla volta, ok?”

Io resto muta e assumo un’aria disinteressata, che si traduce rapidamente in un atteggiamento difensivo.
So che non dovrei essere così scontrosa, in fondo sono stata io a prendere l’iniziativa e a creare questa situazione, ma il mio orgoglio non è disposto a incassare l’ennesimo colpo e lo è ancora meno quando a infliggerlo è un ragazzo di cui ancora non so molto e che cerca perennemente di darmi sui nervi.

E che mi fa un sesso fuori di misura mentre mi fissa con gli occhi oscurati da un accenno di fastidio, le labbra strette in una linea e le dita intrecciate di fronte a sé.

Annuso timorosa l’aria: niente Armani code.
Lui per ora non si è azzardato ad esprimersi nella sua lingua madre.

E allora perché più mi fissa più me lo vorrei fare?
Comincio a sentire caldo e ad agitarmi e, mentre lui ricomincia a parlare, inizio a pensare che le mura di questa casa siano troppo spesse e la stanza troppo stretta.

“Riprendiamo da dove mi hai interrotto, d’accordo?” chiede, e io non credo di poter contare sulla mia voce, quindi mi limito ad annuire e a recuperare un grosso cuscino da appoggiare sul mio ventre per coprirmi la pancia.

Le ragazze con la pancetta sanno perché.

“Non sono un ragazzino e, in tutta onestà, negli anni ho imparato ad avere rispetto per me stesso...”
“Ancora?! Cazzo, non sono una gnocca da vetrina, ma non faccio poi...”
“Ma puoi farmi finire questa maledetta frase almeno una volta?!” chiede lui con voce irritata e a pieni polmoni e spingendosi un po’ più avanti sulla poltrona e aggiungendo a bassa voce un “Jesus...” e un brividino mi guizza all’altezza dell’omberlico.

Devo farmi un giro in farmacia: ci deve essere qualcosa per curare sta cosa dell’ormone impazzito al suono dell’inglese. Non è normale.
Alex aggrotta la fronte, come a chiedere se può continuare e io, imbarazzata, serro le labbra e sollevo una mano in gesto di scusa, indicandogli di proseguire.
La nonna me lo diceva sempre che avevo il brutto vizio di interrompere la gente e, osservando l’espressione inasprita di Alex, comincio a pensare che forse dovrei darmi una regolata.

“Io non sono disposto ad essere usato come distrazione o come scusa. Senza offesa ma credo di meritarmi qualcosa di più.”
“Di che parli?”
“Del motivo per cui mi hai baciato.”
“Cosa vuoi saperne tu del motivo per cui ti ho baciato?! L’ho fatto perché eri lì con i tuoi occhi da Pokemon e il tuo fare predatorio...”
“Stavo cercando di essere gentile, non di mangiarti.” puntualizza lui ma io resto immersa nel mio monologo mentre nella mente prende di nuovo vita l’immagine della sera precedente e ricordo perfettamente i sapori e gli odori di quel minuscolo bagno.

Dio, fa caldo qui dentro.

Mi guardo attorno sperando di trovare il telecomando dell’aria condizionata e continuando a blaterare:
“... e te ne stavi lì in piedi tutto... biondo e tutto... americano!”
“Che cazzo vuol dire?” domanda lui scoppiando a ridere e richiamandomi fuori dal mio momento di delirio ormonale.

Torno a fissarlo e all’incontro del mio viso lui placa lentamente il suo divertimento e torna a farsi serio.
“Sono lusingato. Credo. Ma il punto è che io penso che tu mi abbia baciato perché vedere il tuo ex in effusioni con un ragazzo ha fatto vacillare la fiducia nella tua femminilità.”
“Grazie al cazzo. Non ci voleva Freud per capirlo...” dichiaro con voce secca, lievemente urtata dal fatto che abbia colto così semplicemente la mia debolezza la sera precedente.

Lui mi ammonisce con lo sguardo e riprende a spiegare le sue ragioni, che io mi ostino a non voler sentire. Io lo so perché gli sono saltata addosso. Almeno penso di saperlo. È perché lui non mi ha lasciato slacciare la cintura dei suoi pantaloni che forse vorrei sapere.

“Ecco, è proprio di questo che parlo. Senza offesa ma se devo andare a letto con qualcuno gradirei farlo perché quel qualcuno vuole fare sesso con me, non perché deve provare a se stessa che è scopabile.”
“Certo, e il fatto che io sono cicciona e antipatica non ha nulla a che fare con il tuo improvviso calo del desiderio. Dai! Non è credibile! Quale uomo si lascia sfuggire l’occasione di una sana scopata senza conseguenze se davvero è attratto dall’altra persona?” ribatto alzandomi dal divano per andare in cucina e lui, quasi allarmato dal mio spostamento, si solleva rapidamente dalla poltrona e mi raggiunge a grandi passi, parandomisi davanti e assicurandosi che io non fugga di nuovo.

In realtà volevo solo dei biscotti ma ora che me lo trovo così vicino mi ricordo di quella sera in cui avevo così sete che pensavo di dare i numeri e, quando il suo viso lievemente irritato si staglia di fronte al mio, penso che al posto dell’acqua mi ci vorrebbe della tequila.

“Primo, se hai problemi con la tua fisicità non farli ricadere su di me e non dare per scontato che io ne abbia. Non ho mai nascosto il mio apprezzamento per i tuo culo, per cui fammi il favore di non mettermi parole in bocca o decidere di sapere che cosa mi passa per la testa.” asserisce con voce bassa ma sicura e nei suoi occhi si riflette un rimprovero severo mentre io mi ritrovo a deglutire colpevole e a trattenere il fiato quando lui palesa il suo pensiero sulle mie forme.
“Secondo, ho ventotto anni e ho passato da tempo la fase della caccia alla scopata libera: non ho bisogno di fare sesso giusto per.”
“Certo, tu hai le mani...” borbotto sperando di smorzare la tensione ma lui sembra non essere interessato al mio brillante senso dell’umorismo.
“Terzo, credimi, una scopata tra me e te sarebbe tutto tranne senza conseguenze.”

Io resto parzialmente immobile, l’unica cosa che riesco a muovere sono gli occhi, incrociati con i suoi, mentre sposto lo sguardo da una delle sue pupille all’altra, cercando di assorbire il valore delle sue ultime affermazioni e di comprendere quanto di vero ci sia in quello che ha appena detto.

“Non ti sto dicendo una stronzata. Non ho motivo di farlo. Avrei semplicemente potuto non rispondere al tuo bacio.” prova ad insistere e più lui spiega, più io sento pulsare il sangue nelle tempie. Ma non so bene come rispondere a quello che mi sta dicendo.

Non sono abituata a parlare di queste cose e, certamente, non pensavo che un giorno mi sarei trovata a discuterne proprio con un manzo da traino - passatemi l’espressione - americano e che mi ha dato sui nervi sin dal primo momento.

D’accordo, posso (non troppo) candidamente ammettere che a volte abbiamo ecceduto in energia flitareccia, ma era più che altro mirata ad un obiettivo malefico finale, non alla vera e propria seduzione. Penso.

“Scintilla, sarebbe stato decisamente più facile se non mi ti fossi voluto fare pure io.” dichiara ammiccando e io mi trovo fastidiosamente lusingata da questa sua affermazione.

Non riesco a trattenere un’espressione divertita e lui ridacchia aggiungendo:
“Sospetto tu ti sia già montata la testa.”
“Assolutamente.” ribatto ricordandomi, però, che lui ha volontariamente scelto di non lasciarmi continuare la sera precedente e la stessa delusione minaccia di tornare a farsi sentire, soprattutto perché, durante la spiegazione, ho l’impressione che si sia avvicinato a me e il mio sistema nervoso si è iperattivato, mandando impulsi di pericolo a tutto spiano, insieme ad altri che paiono spingermi alla ricerca di un secondo round.

“Quindi, credimi, scegliere di non essere il tuo mezzo di distrazione ieri è stato sufficientemente frustrante. Se poi aggiungiamo la tua insopportabile tendenza alla fuga, capirai che stanotte mi sono girate le palle ad elica.”
“Meglio le palle che girano che le palle...”
“Ti prego non finire quella frase. Suona disgustosamente sporca.”

“Io penso che dovremmo levarci il pensiero e farlo, a questo punto.” dico senza pensarci e temo di aver perso ogni controllo sul mio buon senso.
“Fare cosa?” i suoi occhi lasciano trapelare il dubbio che la mia proposta ha scatenato e sembra voler avere la conferma di aver capito bene a che cosa mi riferisco.

E allora sposto lo sguardo sul suo maglione di lana e allungo la mano verso un’area che sembra essersi riempita di pallini all’improvviso ed inizio a giocarci insistentemente, evitando di incrociare i suoi occhi che, dopo aver seguito la mia mano fino al suo torso, sono tornati a studiare i miei lineamenti.

E ora mi sento di nuovo insicura ma cerco di nasconderlo alla bell’e meglio.

“Sesso.”
“Non credo sia una buona idea, Med.”
“Perché no? Continuerai a starmi sulle palle ma ci saremo liberati di tutta questa tensione sessuale, no?”
“Resta il fatto che non è venendo a letto con me che ti sentirai più femminile e che non sono del tutto convinto che tu sia davvero attratta da me.” spiega lui con lo sguardo sempre sul mio viso e credo che lo sposti per qualche secondo sulle mie labbra perchè, d’un tratto, porta una mano sull’angolo della mia bocca e libera una ciocca che era rimasta intrappolata contro la mia pelle.

E io sospiro affaticata da tutto sto popò di tensione. Sì, sì, me lo devo fare così potrò ricominciare a vivere serenamente i nostri scontri verbali e a non immaginarmelo nudo mentre mi fa un succhiotto.

“Ah, lo sono, fidati. Dio solo sa quanto vorrei che tu e il tuo stupido fisichetto tutto armonico non mi eccitaste ma, apparentemente, hai bevuto qualche cosa che ha attivato le mie ovaie. E ora oltre a innervosirmi, mi attrai inspiegabilmente.”
La mia confessione scatena la sua ilarità e io mi ritrovo a ridacchiare con lui come una scema.

Cosa cazzo rido, testa vuota che non sono altro?!

“Sai, onestamente ci ho pensato tutta notte.”
“A cosa?”
“Alla possibilità di ritrattare una volta che saresti tornata a casa.”
“Oh, perfetto. Quindi lo possiamo fare?”
“No.”
“Motivazione?”
“Se lo facciamo poi non smetteremo di farlo. E viviamo in questa casa assieme... E se le cose si complicano?”
“Tanto per cominciare scommetto che non sarai un granchè quindi non penso che lo vorrò rifare. E non capisco dove vuoi andare a parare.”

Lui si scosta da me, inspirando profondamente prima di saltare sul bancone della cucina e battere la mano sul piano accanto a sé, come ad invitarmi a sedermi accanto a lui.
Faccio spallucce e mi arrampico - ovviamente non con la stessa eleganza di Alex - sul marmo accanto al mio coinquilino e lui allunga una mano per aiutare la mia maldestra e per nulla aggraziata salita.

Che fatica: corta e cicciona non sono una bella combinazione quando stai cercando di convincere qualcuno che fare sesso con te sarebbe una brillantissima idea.

“Sarei il migliore sesso della tua vita, Scintilla. Ma, al contrario di quello che pensi, personalmente ho sempre trovato te piacevole e il tuo modo di maltrattarmi molto... entertaining?”
“Divertente.”
“... divertente. Il sesso complica sempre le cose, Med. E io non so se lo saprei gestire.”

Io lo guardo con disapprovazione e constato che sembra che stiamo contrattando qualcosa quando sarebbe stato molto più semplice farlo e basta. Lui sorride e risponde:

“Senti, in tutta onestà, anche se fosse che improvvisamente ho titillato i tuoi ormoni...”
“Titillato? Non sai come si dice entertaining in italiano e conosci la parola titillare? Che americano strano che sei.”
“... stavo dicendo: ci ho pensato e non vedo perché accelerare così i tempi. Ieri mi odiavi e io pensavo che il gesto più carino che avresti fatto nei miei confronti sarebbe stato un cucchiaino di zucchero nel caffè. Prendiamoci del tempo per rifletterci, ok?”

Io lo guardo delusa e piuttosto perplessa sulla faccenda:
“Altro a cui pensare? Alex, a me esploderà la testa a forza di pensare! Non posso agire per una maledettissima volta?”
“Almeno cerchiamo di avere un rapporto civile e di conoscerci prima di levarci i vestiti, no?”
domanda ridacchiando e girandosi un po’ verso di me.

Imito i suoi gesti e decido che la sua proposta richiede troppo tempo e troppe riflessioni; posso provare di nuovo a sedurlo. Almeno adesso so che se si ferma non è perché gli faccio schifo.

“D’accordo... come ti pare. Ma non so se i miei ormoni saranno ancora interessati a te una volta scoperto che hai una personalità ancora più irritante di quello che già so.” sussurro appoggiandogli una mano sulla spalla e avvicinandolo a me, fino a pochi centimetri dal mio viso.

Lui rimane un po’ sorpreso dalla mia audacia e, per un attimo, si lascia distrarre dalla mia lingua che scivola ad inumidire le mie labbra.

Ce l’ho fatta! Sono una cazzo di regina della seduzione. Ora me lo faccio.

Guido le mie dita fino al retro del suo collo e guardo nei suoi occhi che, in questo momento, di Pokemon non hanno proprio nulla.
Sto per partire all’attacco quando il fottuto campanello di casa mia suona a ripetizione e Alex, per lo spavento, scende dal ripiano con un salto.

“Sei una bruttissima persona!”
“Ce l’avevo quasi fatta.” rispondo ridendo esultante e scendendo dal bancone della cucina per andare ad aprire.

“Ora non esagerare. Guarda che io dicevo sul serio.” borbotta lui seguendomi fino all’entrata e fermandomi per un secondo.
“Med, davvero. Giù le zampe tu e giù le zampe io, ok? Io devo chiarirmi le idee su questa cosa e voglio che lo faccia anche tu. Io non sono il tappabuchi di nessuno e non lo posso essere nemmeno per te. Mi spiace.” è incredibilmente perentorio nella sua affermazione e capisco che è assolutamente certo di quello che dice.

Il che mi fa provare un moto di rispetto verso di lui che trovo piuttosto inaspettato: non è disposto ad essere usato e non vuole ricevere nulla di meno di ciò che sente di meritarsi. Non è da tutti avere così tanto controllo e rispetto per se stesso.

“Ok. Ora posso aprire la porta prima che la persona dall’altra parte vada in autocombustione per la noia?” chiedo indicando la porta con un pollice e lui annuisce ridendo, quindi allungo la mano e afferro la maniglia, spalancando l'ingresso e mi bloccandomi di fronte alla figura sorridente di mia madre.

“Mamma?”
“Ciao Sofia.” mi sorride lei allungando un braccio per farmi una carezza prima di farsi strada dentro il mio appartamento.

Sofia?” sento domandare con tono incredulo alle mie spalle. Mi volto e vedo Alex osservarmi con una punta di ilarità negli occhi.

Sì, beh, Sofia è il mio nome di battesimo ma non mi ha mai entusiasmato e mi chiamano tutti Med da così tanto tempo che lo trovo più personale.

“ Chiudi il becco” gli ringhio, sentendo mia madre schiarirsi la gola alle mie spalle e, sentendomi costretta a riportare l'attenzione su di lei,  incontro il suo più compiaciuto sorriso.
“ Ciao, io sono Eleonora, la mamma di Sofia...” dice osservando incuriosita Alex e ammiccando verso di me.

Le madri non dovrebbero mai ammiccare alle figlie. È qualcosa che distruba. Soprattutto quando il motivo per cui lo fanno è un ragazzo.

La storia della mamma e della figlia che sono migliori amiche è una realtà che disturba entropia dell’universo. Oh è l’entalpia? Beh, poco conta. Io sono una capra, si sa.

“ Oh, mi scusi, che maleducato, non mi sono nemmeno presentato.” risponde l’imbecille con cui divido casa prima di avvicinarsi alla mia cara mammina e porgendo educatamente la mano a mia madre.
“Io sono Alex, il coinquilino di...” si ferma, mi lancia un'occhiata divertita per poi proseguire “...Sofia. É un piacere conoscerla, signora.”

Che attore talentuoso. Meriterebbe un Oscar: in due secondi ha sfoderato il suo charme e conquistato mia madre e potrei scommettere che ha usato la stessa tattica con la padrona di casa.
“ Piacere mio, Alex.” si scioglie lei, lasciandosi incantare dall’occhio azzurro e dal sorriso delicato che lui le regala.

Poi si volta verso di me e la gioia le invade il viso.

Sono certa che la sua mente abbia già dato vita ad un minimo di 20 domande su di lui e, probabilmente, si è creata una teoria tutta sua: senza dubbio, una volta che le avrò detto chi è davvero Alex, lei gonfierà a dismisura i fatti, raccontando come io e lui siamo prossimi all'altare.

Io attualmente mi accontenterei di prossimi al materasso.

“ Mamma, non che non apprezzi, ma come mai sei qui?”

Lei non fa mai visita a me o a Michele perché dice che entrare nelle nostre case è come un colpo al cuore: siamo la prova vivente che i suoi insegnamenti sull’ordine e sulla pulizia sono stati vani e, su quel versante, la facciamo sentire una mamma fallita.

Io penso di essere ordinatissima. Ma non tutti convengono con me.

“ Sofia, offrimi un caffè.” chiede appoggiando la borsa sul bancone della cucina e, rivolgendosi ad Alex, aggiunge: ”Alex, ti unisci a noi?”
Il mio coinquilino apre la bocca per accettare, fino a che non incontra il mio sguardo intimidatorio e il mio terzo dito sollevato in aria, a palesare che potrebbe pagarla cara.

“ Mi piacerebbe moltissimo, ma stavo giusto per uscire.” risponde scegliendo di non rischiare la sorte e sorridendo a mia madre. Lei va in brodo di giuggiole e io vorrei morire.

Lo ama già, lo so.

“ Oh, che peccato. Sarà per un'altra volta allora?”
“ Con enorme piacere!” ribatte lui, lanciandomi un sorriso che fa intendere che la cosa è solo rimandata.

“Se volete scusarmi devo proprio uscire. M... Sofia mi ha distratto e mi ha fatto fare tardi. Spero di rivederla presto, Signora.”
Si congenda stringendole la mano e ridacchiando nella mia direzione prima di indossare il giubbotto, raccogliere le sue chiavi di casa dal mobiletto all’entrata e uscire di fretta salutando con la mano.

“ Che carino! “ mi sussurra mia madre, mentre preparo la seconda moka della mattina.
“ Sì, carino...” rispondo cercando di essere indifferente.
“ E poi è così educato!” puntualizza lei affascinata.

Sarà meglio farlo forte questo caffè. Si accorgerà se lo correggo con un po' di...mmhm... vodka?

“ Perchè non mi hai detto che era un ragazzo quello con cui dividevi casa?” domanda entusiasta ed eletrizzata all’idea di potermi accasare con un bel giovanotto di suo gusto.
“Perché papà avrebbe dato fuori di testa e mi avrebbe costretta a tornare a vivere da voi”
“ Effettivamente...” conviene lei alzando gli occhi al cielo. Poi sembra ricordarsi di qualcosa di spiacevole e domanda:
“Che fine ha fatto quel ragazzo...quello che studia con te? Credevo steste insieme”.

“ No, mamma, non stavamo insieme e comunque direi che è fuori dal quadro ora.” ribatto concentrandomi sul caffè e sulla moka nelle mie mani per non farmi coinvolgere dai suoi interrogarori.

“ Oh, e Alex invece? È nel quadro?”
“ No, io e Alex siamo solo coinquilini. Dividiamo l'affitto. Tutto qui!”

“È che mi era sembrato di percepire un'intesa, tutto qui. Insomma, quell'altro ragazzo sparisce, ne appare uno che è carino... e vivete insieme. È lecito pensare che ci sia qualcosa di cui parlare.”

“E invece non c'è nulla da dire. Siamo due estranei che, per risparmiare, dividono l'appartamento. Punto.” taglio corto io, sbuffando e sperando che questa conversazione giunga presto ad una fine.

Tutti questi problemi e queste conversazioni in un arco di tempo così limitando stanno mettendo davvero alla prova il mio sistema nervoso e fatico a controllare la rabbia e la frustrazione che si agitano in me.

“ Siamo di buon umore come sempre vedo! Si può sapere che hai in questo periodo? Non ti si può mai dire nulla!” si lamenta lei mentre le porgo il caffè e nei suoi occhi è evidente la delusione e il dispiacere derivati dai miei modi.

Mi appoggio stanca una mano sulla fronte, cercando di controllarmi e poi mi scuso.
“ Lo so mamma, mi dispiace, davvero. È che questa mattina non è iniziata nel migliore dei modi. Non per essere insistente, ma come mai sei qui, mamy?” chiedo cercando di moderare i toni.

“ Ah sì, ecco. Ero in realtà di passaggio. Mi sono fermata per dirti che domenica prossima devi venire a pranzo da noi”

Io la osservo confusa, cercando di fare mente locale e capire se mi sono dimenticata di qualche anniversario o del compleanno di qualcuno.

“ Come mai? Per quale occasione?”
“Credo che tu sappia perché, Sofia.”

Le sue parole fanno nascere un brivido di terrore di ansia che mi corre lungo tutto il corpo, così intenso che non posso fare a meno di appoggiare la tazza con il caffè per evitare di rovesciarlo.

Ah, sì. So decisamente perché.

Il vero problema è che io sono ancora a corto di risposte e di chiarezza, il che significa che ci ritroveremo in una lite furibonda che si concluderà con mio padre che strilla e io che resto in silenzio, prima di alzarmi da tavola e defilarmi.

“Sofia, come vanno gli esami? Insomma, quando li fai? Quando la prendi questa maledetta laurea? È ora di concretizzare le cose.”

“Lo so, mamma. So perfettamente in che situazione mi trovo ma, in tutta onestà, non è venendo a pranzo da voi che le cose cambieranno.” rispondo sulla difensiva e sperando di chiamarmi fuori da un disastro assicurato.

“Beh, le cose non cambiano neppure se te ne stai chiusa qui dentro evitando i problemi!”
“Io non evito i problemi e tu non sai niente di cosa sto facendo per risolverli...”
“Certo che non lo so! Tu non mi racconti mai nulla...” risponde lei arrabbiata, alzandosi dalla sedia e sventolandomi in dito davanti al naso.

“Dammi tempo, mamma...”

“No, Sofia, adesso basta. Ti abbiamo lasciato fare fino ad ora, e non hai concluso niente.È arrivato il momento di fare il tuo dovere. Se hai un problema dillo: dicci che problema è e lo risolviamo, ma così non si va avanti. Insomma, si laureano tutti tranne mia figlia? Mi dispiace se biologia non ti piace, ma, dopo tutti questi anni non ti concederò di abbandonare a pochi esami dalla fine. Non si buttano via 5 anni così. Insomma, cosa ti ci vorrà per finire questi esami e prendere la laurea?” mi rimprovera, lei alzandosi e recuperando le sue cose.

“Io ora devo andare: che hai intenzione di fare?” mi chiede con sguardo severo e, probabilmente sperando di risvegliare qualcosa in me.

Purtroppo l’unica cosa che si anima in me è il senso di colpa e mi trovo a sussurrare:
“ Ci vediamo domenica”

Lei tace per qualche secondo, studiando il mio viso e lasciando che io mi accorga di quanto è preoccupata: poi lascia che io l’accompagni fino all’uscita e, con il consueto bacio di congedo, sparisce dietro la porta, senza aggiungere altro.

Quando fa così, di solito vuol dire che è angosciata: mia madre ha un modo tutto suo di farti capire come sta.
È strana, lo so. Da qualcuno devo pur aver preso, no?

Nel momento in cui giro la chiave nella serratura è come se, dopo settimane, un cubo di cemento armato mi fosse sollevato dalle spalle.

Rinchiusa in questi pochi metri quadrati, la pressione della realtà sembra essere ovattata dal senso di sicurezza che la solitudine riesce ad offrirmi ed è come se potessi davvero ricominciare a respirare per la prima volta dopo giorni di agonia.

Non è facile capire il peso che un solo passo fuori dalla sicurezza del proprio appartamento può avere per qualcuno che si sente in crisi: non è facile capirlo perché non esiste un modo facile per spiegarlo.
È come se una mattina ti svegliassi e ti rendessi conto di aver perso il tuo posto: ti senti a disagio fuori di casa e ti senti opprimere quando ci ritorni. Le ore sembrano interminabili nella solitudine della tua stanza e allora pensi che la compagnia di te stesso è diventata così insopportabile che l’unico modo per resistere è allontanarti da te.

Ma non puoi: l’unica cosa che vorresti è poter smettere di sentire disagio e stanchezza.
Pensi che in presenza di altri il peso delle ore e la rarefazione delle tue emozioni potrebbero alleggerirsi, e invece ti ritrovi in una stanza a cercare di isolare i suoni fuori da te perché tutto è un vortice di ansia, di fatica, di rabbia. Tutto ti è insopportabile.

Vorresti dormire perché pensi di non esserti sentito mai così stanco nella tua vita non lo sei mai stato, eppure il sonno è una di quelle cose che non arriva; altre volte potresti dormire per giorni e, ad ogni risveglio, sentirti come se avessi corso la maratona di New York raccontando a tutti le tue peggiori paure.

Non esiste un modo facile per raccontare quando il disagio emotivo ti arriva alle ossa perché non esiste un modo facile per viverlo. E io temo di essere arrivata al punto di non saperlo più raccontare.

Ma per oggi la casa e il silenzio sono miei: per oggi queste mura sembrano l’unica membrana in grado di regalare ossigeno più profondo frammento di me, quello che ha paura e che non vuole parlare o pensare.

Solo per oggi.

Ed è per quello che, concedendomi di fermare ogni singolo pensiero e ogni maledetta paura, costruendo una fittizia giornata di serenità, le ore mi volano tra le dita e, troppo presto, mi ritrovo sola nel buio del mio salotto a guardare “The Strangers” con una lattina di Cocacola tra le mani e un pacchetto di patatine poggiato sulle gambe.
Guardo Liv Tayler che si muove in questa enorme casa e, per l’ennesima volta, va a rispondere alla porta senza aver imparato nulla dai più banali film dell’orrore.

La musichetta da colpo al cuore in agguato attiva tutti miei sistemi d’allarme e, anche se io amo i film di paura, penso che sono una vera testa di cazzo per aver scelto di vedere questo film proprio nel bel mezzo di una notte in cui, da circa mezz’ora, ha pure cominciato a piovere.

Liv recita la sua scena di stupore e sospetto, avvicinandosi all’entrata con andamento lento e con le labbra socchiuse: poi apre lentamente la porta e il sottofondo musicale si fa più intenso e la mia attenzione si concentra tutta su quel suono.

“Le ragazze normali guardano le commedie romantiche quando sono da sole...” sussurra l’improvvisa voce alle mie spalle e io faccio un fantasmagorico salto sul divano, lanciando non so dove la cocacola, ma chiaramente salvando le patatine.

È questione di priorità.

Nel frattempo, come reazione vocale, a dispetto dell’elegante urletto che mi sarei aspettata di produrre in una situazione di terrore, dalla bocca mi esce un imbarazzante:

“Porca puttana babbana, che cazzo di paura.”

Come altrimenti non poteva essere, di fronte a me se ne sta Alex, in piedi con le mani in tasca a scrutarmi come se avessi otto tette.

“La tua raffinatezza mi conquista ogni istante.”
“Ma dico, sei pazzo?! Mi è sicuramente scoppiato un follicolo dallo spavento.” rispondo, mantenendo lo stesso volume di voce e inginocchiandomi sulle sedute del divano.

“Se abbassi la voce magari non rischiamo la denuncia, Med...”
“Ma non potevi essere un po’ meno silenzioso?”
“Sono le tre di notte. Pensavo dormissi e non sono solito fare di tutto per disturbare la quiete pubblica.” risponde lui aggirando il divano e lasciandosi cadere accanto a me, mentre i suoi occhi si fissano sulla tv che, al momento, resta l’unica fonte di illuminazione.

Solo allora mi accorgo che i suoi tratti sembrano stranamente tesi, quasi rattristati e che il suo linguaggio del corpo comunica in modo diverso rispetto al solito: sembra essere affaticato da qualcosa, come schiacciato da un peso invisibile e i suoi movimenti nervosi, non fanno altro che confermare la mia sensazione.

“Va tutto bene?” mi ritrovo a chiedere, inclinando la testa di lato e aspettandomi di vederlo voltarsi verso di me. E invece non lo fa: incrocia le mani dietro la testa, tenendo gli occhi fermi sullo schermo torturandosi il labbro inferiore tra i denti, con un’espressione riflessiva. Poi scuote i capo e risponde:

Not really.” e io mi irrigidisco.
“Alex, ho seriamente bisogno che limiti l’uso della lingua inglese solo a quando è indispensabile.”

Non si muove e non mi guarda quando mi domanda perché e io, conscia di non potermi esporre sulla questione, soprattutto vista la conversazione di questa mattina, mi limito a dirgli che un giorno gli spiegherò, per poi riportare l’attenzione sulla sua risposta precedente.

“Perché dici che non va tutto bene? È successo qualcosa?”

Non so bene perché mi riscopro tanto curiosa ma più la sua vulnerabilità di questa notte diventa evidente, più desidero scoprire cosa gli è preso: immagino che sia perché, da quando lo conosco, Alex non ha mai mostrato segni di cedimento e la cosa mi fa incazzare parecchio, soprattutto quando io mi sgretolo senza controllo ogni notte nel silenzio che mi inghiotte e fingo di non avere più consistenza.

O forse la mia sete di informazioni ha una radice molto più banale ma, vista la sua ultima e perentoria dichiarazione di questa mattina, non vi è modo che io possa puntare ad altro.

“Non è successo nulla di cui mi vada di parlare...” risponde con voce assente mentre un flash dalla tv illumina il suo viso per qualche secondo e la tensione sembra farla da padrone sui suoi lineamenti: la fronte aggrottata pare essere contratta in un groviglio di pensieri che l’hanno bloccata in quella posizione senza via d’uscita.

I suoi occhi da Pokemon, normalmente morbidi e tersi, sono stretti in due fessure di pura angoscia e la cosa mi turba in modo incredibile; ogni muscolo del suo viso è contratto e sembra vibrare sotto scosse di tensione che si sfogano impietose sul suo labbro inferiore, stretto - a tratti con violenza - tra i suoi denti, in qualcosa che somiglia ad una lieve e regolare tortura.

Tutta la tensione evidente sul suo viso si diffonde come elettricità a tutto il resto del corpo e il silenzio serve solo a rendere più evidente il suo stato di instabilità.
Sono improvvisamente disturbata dalla presa di coscienza che c’è qualcosa che non va con il ragazzo seduto accanto a me e la consapevolezza di non avere idea di come affrontare un Alex vulnerabile mi mette in agitazione.

“Alex?” provo a portare la sua attenzione su di me ma è come se neppure mi sentisse e allora, allungo un braccio e gli appoggio una mano sul gomito, ottenendo come risultato uno scatto improvviso di tutto il suo corpo che si volta nella mia direzione.

Cazzo, che spavento!

Finalmente incrocio i suoi occhi e, per un breve istante, vorrei non averlo fatto: sono carichi di apprensione e completamente in stato di allarme. Non ricordano per nulla gli stessi occhi divertiti che ho visto fino ad ora o che si sono presi gioco di me più di una volta e, presa dal panico, mi allungo sul divano e, impugnato il telecomando, spengo la tv.

Io. Non. Sono. Brava. Con. Le. Persone. In. Crisi.

Non posso aiutare lui perché sono un disastro emotivo di mio e, come minimo, data la mia  scarsa sensibilità, rischierei di farlo scoppiare in lacrime.

“Credo che me ne andrò a letto. Buona notte.” squittisco come una cretina quando mi alzo dal divano sempre più in ansia e cercando la mia felpa verde che ricordo di aver lanciato da qualche parte, prima.

Troppo lenta, Med. Troppo lenta!

Siamo totalmente avvolti dal buio e una delle sue mani trova il retro di una delle mie ginocchia e mi tira a sé: poi sospira quasi affaticato e, quando si accorge che non mi muovo dalla mia posizione, si allunga verso di me per sfiorare anche l’altra gamba e, aggrappandosi a me, scivola sul divano di qualche centimetro nella mia direzione.

Io resto pietrificata e penso che, forse, se non mi muovo, succederà qualcosa che mi toglierà da questa imbarazzante posizione.

E invece no.

Le cose peggiorano quando lui appoggia la fronte sulla mia pancia e l’unico pensiero che si fa strada dentro di me è quello di trattenere il fiato nella speranza che lui non si renda conto di quanto consistente sia il mio ventre “morbido”; lui fa pressione con entrambe le mani sul retro delle mie ginocchia e le gambe mi cedono, facendomi cadere verso di lui.

Penso che tra qualche secondo ucciderò il mio coinquilino schiacciandolo sotto il peso del mio abbondante corpo ma poi sento che i suoi polpastrelli si ancorano alle mie cosce, frenando la mia rovinosa caduta e guidandomi a cavalcioni sopra di lui.

Nell’istante in cui il mio sedere si scontra con i suoi quadricipiti, l’insicurezza ha la meglio su qualunque altro pensiero e, l’unica reazione che Alex ottiene da me, è un disarmonico movimento del corpo, mentre cerco di scendere da lui per paura che si renda di conto di quanto peso.

Ora, posso scegliere di credere che le mie curve siano di suo gradimento, ma lasciare che prenda atto del fatto che sono un pachiderma... quella è un’altra storia.

Lui sospira spazientito e la sua stretta sulla mia carne diviene più ferma e meno comprensiva: mi arrendo alla sua evidente superiorità muscolare ma sussurro un po’ umiliata:
“Per favore, non mi sento a mio agio.” e lui sembra recepire il messaggio perché la sua presa si scioglie, liberando i miei fianchi.

Resto in attesa di scoprire se mi posso effettivamente alzare quando, nel buio, avverto le sue braccia muoversi verso l’alto e le sue mani, tutto d’un tratto, sono ad incorniciare il mio viso.

“Alex, che fai?!” domando a mezz’aria con voce acuta e lui si mette a ridere, muovendo le dita di una mano fino alla mia nuca e togliendomi l’elastico che teneva stretti in una piccola coda le deboli onde dei miei capelli.

Wanna make out?” sussurra nel silenzio del salotto e il suo respiro è a un niente dal mio collo.
“Mi stai chiedendo se voglio pomiciare con te?” chiedo incredula e, a scanso di equivoci, lui palesa il suo volere poggiando le labbra sulla mia carotide e succhiando delicatamente la pelle che ha intrappolato.

Sì, direi che vuole proprio limonare.

Lascio cadere le palpebre, assolutamente incapace di controllare il mio respiro quando la sua lingua sfiora la carne appena sotto la mia mandibola e mi ritrovo a riempire i bronchi con tutta l’ossigeno che mi è possibile: le mie dita si muovono senza difficoltà lungo le sue spalle fino ad infilarsi tra i suoi capelli.

All’improvviso non me ne frega niente se, con il mio dolce peso, gli leverò la sensibilità dalla gambe tra meno di 3 minuti.

L’unica cosa che al momento mi preoccupa è riuscire a spostare la sua bocca dal mio collo alle mie labbra e, quando una delle sue mani mi tira con prepotenza verso il suo grembo, approfitto di un suo istante di distrazione, che coincide con un rumoroso sospiro, per stringergli con forza capelli e guidare il suo viso al mio.

Senza perdere troppo tempo lui inizia a baciarmi con rabbia e penso che ci sia qualcosa di sbagliato in questo bacio: è come se lo stesse usando per sfogare l’ira o per liberarsi di quell’ansia che ho letto poco prima sul suo viso.

Ed è per quello che, respirando a pieni polmoni il caro Armani Code e ricordandomi le sue raccomandazioni di questa mattina, lascio andare il suo viso e lo allontano da me, scendendo dalle sue ginocchia e accendendo la luce del salotto.

“Alex, che cazzo fai?”

Lui mi scruta stupito dalla rapidità con cui mi sono allontanata e, immagino, dal fatto stesso che mi sia chiamata fuori dal una promettente pomiciata.

“Ti baciavo...”
“E tutti i discorsi di questa mattina?” gli ricordo mettendo le mani sui fianchi con aria di rimprovero.

Non voglio che poi mi possa rinfacciare quello che stiamo facendo e, onestamente, gradirei un po’ di coerenza almeno in lui: di aree oscure e confuse in questa casa ce ne sono già troppe e sono tutte opera mia.

Lui sembra ricordarsi all’improvviso della nostra conversazione precedente e, alzandosi dal divano, si avvicina mortificato.

“Assolutamente, valgono ancora. Non avrei dovuto farlo...”
“Mi confondi e non voglio essere accusata di non aver rispettato quello che volevi.” rispondo abbassando la testa e facendo cadere i capelli attorno al mio viso.

Lui sospira e fa un passo verso di me.
“Hai perfettamente ragione e ti chiedo scusa. Stavo facendo quello che ieri hai fatto tu con me e non è giusto.”
“Sarebbe?”
“Ti stavo usando per sentirmi meglio e non è accettabile.” afferma passandosi una mano prima tra i capelli e poi sul viso.

“No, beh... oddio, se mi vuoi usare io resto del parere che tentar non nuoce.” ridacchio sperando di alleggerire l’aria e lui sorride “Però non posso accettare la tua incoerenza: non puoi convincermi di qualcosa e andare contro a te stesso poche ore dopo...”

“Però posso ammettere di volerti...” sussurra incrociando il mio viso e alle sue parole mi si attorcigliano le budella dall’emozione.
“Sei tu che fai le regole in questa cosa: non ti dico che non puoi cambiare idea, ma ti chiedo di rispettare le tue stesse regole. Tutto qui.”

Fair enough...” accetta lui allungando una mano verso la mia guancia destra e dandomi un buffetto.
“E di rispettare la mia di non parlare in inglese se non in casi rari!” ribatto io massaggiandomi la pelle e allontanandomi da lui, prima di aggiungere: “Visto che dobbiamo conoscere, blah, blah, blah... vuoi dirmi che ti è preso?”

Alla mia domanda lui si irrigidisce per qualche secondo, come se avesse alzato le difese  e i suoi occhi ricominciano a mostrare la tensione di qualche minuto fa: è successo qualcosa, è evidente. Non ho idea di che cosa, ma qualcosa l’ha turbato e su questo non ci piove.

Agita la testa cercando di sdrammatizzare e, ammiccando, mente spudoratamente:
“Niente, Med. Non ti preoccupare.”

Io aggrotto la fronte per fargli capire che non me la bevo, ma lui forza un sorriso e si allontana da me, indietreggiando verso camera sua e dichiarando:

“Non pensarci, Scintilla... Io vado a letto. Tu... torna pure al tuo bellissimo film.” e, senza concedermi possibilità di risposta, sparisce dietro la porta della sua stanza.



AN: Questo capitolo è dedicato a due persone in particolare: una è la mia santa Beta che, affinchè io potessi pubblicare stasera, credo sia uscita con un occhio truccato e l'altro no e che fa sempre un fantastico lavoro per questa storia. I nuovi Med e Alex te ne sono immensamente grati.
L'altra è una mia cara amica, che mi limiterò a nominare come S., che mi ha tampinato via whatsapp pretendendo l'aggiornamento e che ne ha "assoluto bisogno". Ci sono delle parti solo per te, S.
In tutto questo non posso non ringraziare tutte le persone che seguono questa storia, che con i loro commenti mi aiutano a superare i vari momenti di blocco e che mi incoraggiano quando mi faccio prendere dallo sconforto. Scrivere per ognuno di voi è gratificante e incredibilmente stimolante.
Mi scuso se ho ancora qualche recensione arretrata a cui rispondere: come avrete capito sono una ritardataria di natura e, quando si tratta di gestire il tempo, sono un disastro. Vi assicuro che le ho lette e amate tutte!

Vi ricordo, se vi va, di fare un giro sul gruppo FB "Di TuttoTondo in TuttoTondo"

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Capitolo 10
*** Never Smile at The Crocodile ***


Licenza Creative Commons
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia


Never smile at the croccodile

CAPITOLO 9


AN: Per chi fosse interesssato, ricordo che su FB ora abbiamo il gruppo per la storia, curiosità, spoiler e quello che vi pare, Di TuttoTondo in TuttoTondo.





Sono le 5 di mattina e io sono sveglia: da mesi ormai o non riesco a prendere sonno , o dormirei a vita. Più la prima opzione però: è come se in me aleggiasse costante un flebile flusso di angoscia, sempre lì, latente ma incredibilmente potente.

È come la sensazione di calore che si porta con sè una scarica di adrenalina quando, all’improvviso, ti ricordi che hai scordato di fare qualcosa di importantissimo; è come la perenne impressione di avere qualche scadenza e non sapere come rispettarla; come una paura che pulsa giorno e notte senza confessare da cosa dipenda.

È angoscia pura. Ti leva il sonno. O ti sopisce in modo così opprimente che non sai come sollevarti dal letto. Ti annienta la capacità di respirare a pieni polmoni. Ti toglie la forza di aprire la porta.
La maggior parte delle volte a me tiene sveglia come un grillo: come se dormire volesse dire cedere all’oscurità che spaventa. E allora resto vigile, proprio come oggi.
Non riuscendo a riposare ho optato per uscire dal letto e ho girato per mezz’ora in camera prima di pensare:

“Io, nel dubbio, mangio.”

Dopo essermi addentrata nella zona giorno senza neppure curarmi di accendere le luci e aver raggiunto gli armadietti della dispensa, però, è cambiato tutto: un brivido mi ha attraversata e ho capito che era lì. Nel buio della cucina non posso vedere chiaramente e non riesco a scorgere nessun contorno, ma sento i suoi occhi su di me.

Io so che è qui. Eccome se c'è.

Il suo sguardo mi fissa, mi squadra, mi punta: è pronto all'attacco e, al solo pensiero, ogni fibra del mio corpo vibra in modo incontrollabile. Mi muovo lentamente, sollevando i piedi nudi dal parquet della cucina e aggrappandomi al bordo del bancone, prima di darmi una spinta per arrampicarmici sopra: poi di nuovo la sensazione di essere osservata e di essere ad un nulla da lui.

È lì, nascosto nel buio che aspetta il momento giusto. Il mio respiro accelera al limite dell'iperventilazione e continuo a guardarmi attorno nervosamente.
Dove cavolo è?
Allungo una mano verso l'interruttore della luce e decido che farò saltare il suo piano. Oppure morirò dallo spavento.

Per non perdere tempo ad azzeccare il tasto gusto, premo l'intero palmo della mano contro i pulsanti e poi comincio ad urlare come se non ci fosse un domani:
"ALEX!"

Non succede niente. Io resto appollaiata come un gufo a mezzanotte sulla penisola della cucina e non succede assolutamente niente. I miei occhi scattano da un angolo all’altro della stanza, indagando ogni anfratto certa che, benché io non l’abbia visto, lui sia lì e i suoi occhi mi fissino meditabondi.
Mi metto a sedere sul bancone  e incrocio le gambe, provando a calmare il respiro e cercando di fissare un punto preciso: è lì, sono sicurissima che è lì!
Non riesco a stare ferma e, in preda all’agitazione, mi divincolo sul ripiano finchè non mi ritrovo carponi ad esaminare lo spazio attorno a me.

“Dove cazzo sei?” sussurro pensierosa, prima di riempire nuovamente i polmoni e gridare con forza: “ALEEEEEX!”

All’ennesimo richiamo del suo nome il mio coInquilino si precipita fuori dalla sua stanza, barcollando con un’espressione terrorizzata sul viso, gli occhi semichiusi per l’improvviso fascio di luce che li ha colpiti e una capigliatura degna di una scarica elettrica.

Tiene una mano sul petto all’altezza del cuore e, mentre i miei occhi si spostano su quel punto, prendo atto del fatto che Alex stanotte - per qualche astrusa ragione - non dorme con un pigiama.
Se ne sta a petto nudo con un paio di pantaloni a quadrettoni blu e verdi e, cercando di mettermi a fuoco e abituarsi alla luce della stanza, mi chiede nel panico:

“Cosa c’è??”

Non rispondo ma mi concentro a spostare lo sguardo dal suo torso nudo e tornare a cercare quegli occhi che, sono certa, continuano a scrutarmi.

“Cosa cazzo è successo?! Mi hai fatto prendere un infarto!” afferma stizzito ora che i suoi occhi si sono aperti e adattatati al nuovo bagliore. Poi accenna un passo nella mia direzione strofinandosi una mano sui capelli disordinati.
“FERMO! Non muoverti...” gli ordino nervosa. Lui si blocca in quel punto della stanza, guardandomi confuso quando io ricomincio ad analizzare gli angoli della stanza; a quel punto il mio coinquilino mi domanda se mi sono per caso fatta un acido, ma io alzo l’indice verso la bocca per fargli capire di tacere e afferro un canovaccio abbandonato accanto a me sul bancone.

Ce ne sono due. Ottimo. Ho più munizioni.

“Med, mi stai spaventando. Che droga era quella che hai preso?”
“Non ho preso droghe, cretino.” sussurro additando il mobile grigio tortora su cui svetta la televisione del salotto e gesticolando in modo che capisca che voglio che lo tenga d’occhio.

“Perché diavolo mi hai svegliato?!”

Silenzio.

Il mio coinquilino attende ma io resto concentrata sul mio obbiettivo. Poi, dandomi un ridicolo slancio, scaglio il canovaccio verso il mobile: ma, poiché non sono una grande tiratrice, c’è poca forza e lo straccio atterra a mezzo metro dalla meta.

“Ma cosa stai facendo?!”
“Cacchio!” impreco io e tutto ciò non fa che aumentare la sua frustrazione.
“Ok, ora basta. Io torno a letto, tu fai come ti pare... donna... appollaiata sul bancone della cucina.” annuncia lui innervosito, dandomi le spalle e camminando verso la sua stanza.

“No, no, no, Alex aspetta! Mi serve una mano!” strillo mentre gattono da una parte all’altra del mobile e credo di somigliare ad un cane in questo momento, ma più che decisa a non abbandonare la mia postazione strategica.
Lui sbuffa spazientito e lasciando cadere all’indietro la testa in un gesto di stanchezza, si ferma di nuovo; si gira verso di me e, con una contrazione delle sopracciglia, mi invita a spiegare il perché.

Io indico la zona del salotto verso cui ho lanciato lo straccio e dichiaro seria:

“C’è uno scarafaggio.”

Lui assume un’espressione interdetta, spostando alternativamente lo sguardo da me al mobile grigio e io ne approfitto per dare una sbirciatina al suo petto nudo: non è muscoloso, non è scolpito, eppure è piuttosto curato. È scompigliato, asciutto e armonioso, con il suo accenno di addominali  e i suoi pettorali equilibrati.

Sì, ecco, è equilibrato. È indiscutibilmente figo nel suo insieme, ma non è pieno di particolari che gridano alla perfezione e c’è qualcosa di incredibilmente naturale nella sua fisicità. Come se per ottenere quell’aspetto non ci si dovesse sforzare.

Non è bello come i modelli delle pubblicità, è affascinante in modo così “normale” da renderlo ancora più appetitoso.

“Ma tu sei completamente scema!” mi distrae dallo scanner del suo corpo e io mi agito ancora di più, pregando il cielo che lui non si sia accorto della radiografia che gli ho appena fatto.
“No, te lo giuro!”
“Med, è un cazzo di scarafaggio! Chi se ne frega.”

“Io ho il terrore degli insetti...” sussurro muovendo la testa a scatti sperando di scorgere il mostro e dimostrare ad Alex che non sono pazza.

Il viso del mio coinquilino è livido e spazientito: trovo che tutta questa sua ira sia eccessiva, soprattutto perché io sono chiaramente in pericolo e lui, che millanta di desiderarmi, dovrebbe essere più che propenso a salvarmi.
“E io cosa ci dovrei fare, di preciso?”

Resto in silenzio. Non è evidente? Deve uccidere l’insetto per me.

Ma il mio sguardo confuso e l’assenza di una risposta da parte mia, vengono letti nel modo sbagliato da Alex il quale, allargando le braccia scocciato, decreta:
“Ecco appunto. Ho lavorato fino all’una e, se non ti spiace, vorrei poter tornare a letto visto che è l’alba.”

“Ti prego, non mi mollare qui. Ti giuro che c’è!” sto assumendo l’aria di una pietosa marmotta, tutta schiacciata sul bancone mentre cerco di protendermi verso di lui, nell’impossibile tentativo di convincerlo.
“Ma che vuoi che faccia?!”
“Uccidilo!”
“Med, non so dove sia nascosto! Come faccio ad ucciderlo?” ora la sua voce si è appiattita e suona come se stesse parlando con una idiota. E forse è proprio così.

Ma la cosa non mi sfiora perché, onestamente, tengo di più alla mia pelle che al suo rispetto.

O forse no. Ora non riesco a pensare: percepisco solo quella presenza zampettata e corazzata nascosta nel mio salotto.

“È là sotto, ne sono sicura” e indico il mobile della tv.
“L’hai visto andare là?”
“No... ma...”

“Buona notte, Sofia!” conclude lui e lo dice con una voce che ricorda terribilmente quella di mio padre quando mi congedava dopo un no.

“Guarda! Vieni qui e guarda!”
Alex si avvicina disinteressato, palesando tutta la sua irritazione e si capisce anche da come cammina che è arrabbiato.
Tiro il canovaccio una volta che lui ha raggiunto la penisola e sbaglio di nuovo mira.

“Dovevo vedere quanto male tiri? L’avevo visto anche dalla mia posizione precedente. Vai a letto. Non c’è nessuno scarafaggio e, anche se ci fosse, sei così rompi coglioni che ti starebbe lontano.”

Ringhia esasperato e, senza degnarmi di un secondo sguardo, attraversa il salotto a gradi passi per arrivare alla porta della mia stanza.

Certo che quando è arrabbiato è proprio simpatico come una ceretta all’inguine, eh!

“Fai come ti pare, ma piantala di fare casino.” Poi, guardandomi severo, indica la mia camera e conclude: “O se vuoi, fai casino in camera tua.”

Demoralizzata scendo dal mio rifugio e, senza incrociare il suo viso stizzito, raccolgo i due canovacci rimasti a terra per rimetterli a posto. Mi sento proprio quando da piccola mia madre mi diceva che non potevo dormire a casa di Terry e mi indicava severa la macchina per farmi capire che era ora di smetterla di fare i capricci. E tutto ciò non è per nulla piacevole.

Comprendo che sia stanco ma non capisco perché non poteva semplicemente uccidere la blatta per me, invece di fare lo stronzo.

“Meno male che ti piaccio, eh... Pensa se ti facevo schifo. Me lo avresti fatto ingoiare questo insetto?” borbotto sottovoce, ma lui resta in silenzio lasciando che io raccolga gli stracci per rimetterli dove stavano.
Mentre sollevo il secondo, atterrato a metà strada tra il divano e la credenza, sento che qualcosa mi sfiora le dita e, avviluppata dalla paura, vedo questo disgustoso ed enorme scarafaggio marrone correre sulla mia mano.

E perdo completamente la testa.

Inizio a gridare come se mi stessero facendo a pezzi, sbattendo le mani da una parte all’altra così forte che non sembrano neanche attaccate ai miei polsi e, lasciandomi trasportare dal panico, agito freneticamente la testa di qua e di là, facendo dei saltelli alla cieca.

Tutto questo urlando e imprecando, incurante dell’ora e del vicinato.
L’unica cosa che mi importa è che quell’affare ha appena camminato sulla mia mano e io sento di non avere più controllo sulla mia mente.
Poi, dal nulla, avverto il corpo di Alex che si incolla alla mia schiena e  una delle sue mani si pianta sulla mia bocca.

“Sei impazzita? Sveglierai tutto il quartiere!” mi ammonisce con voce bassa non appena riesce a voltarmi verso di sé.

Il suo palmo mi impedisce di parlare e la stretta sulla mia spalla non mi permette di fuggire: le mie orbite sono umide a causa dello spavento e dell’ansia mentre i suoi lineamenti mostrano un accentuato fastidio.
Preme la mano un po’ più forte contro le mie labbra, fissandomi dritta negli occhi, spostando lo sguardo prima su uno e poi sull’altro per poi mormorare teso:

“Calmati, porca puttana!”

Io inspiro dal naso, fingendo di aver recuperato il controllo e, non appena lui lascia andare il mio viso, ne approfitto per saltare sul divano in cerca di riparo: lui segue i miei movimenti sconcertato e sono certa che vorrebbe prendermi a calci.

“Med, sei ridicola...”
“Io ho paura!”
“Ma di che cosa?! È uno scarafaggio... ha più paura lui di te e del tuo sedere.”
“Ti prego schiaccialo.”

Alex stringe i pugni lungo i fianchi ed è chiaro che è scocciato dal mio comportamento folle: mi lancia l’ennesimo sguardo di disappunto e poi si allontana dal divano di due passi, dicendo:
“Non sei una bambina e io non trascorrerò la notte a dare la caccia ad uno scarafaggio solo perché tu sei irrazionale.”

“Tu non hai paura di qualcosa?!” lo provoco, sperando di risvegliare in lui un po’ di compassione e certa che, se quel mostro resterà nel mio salotto, io non potrò fare altro che cercarmi una nuova casa.

Io sono terribilmente aracnofobica e il mio terrore si estende, per riflesso, a tutto ciò che ha delle zampette. Se poi hanno l’esoscheletro, è la fine.
Quando Alex non c’era e spuntava un insetto in questa casa, io andavo da Jules finché qualcuno non mi assicurava che l’orribile creatura aveva lasciato questo appartamento.
Cosa me ne faccio di un coinquilino maschio se neppure mi uccide gli insetti?!

“Certo che ho paura di qualcosa, ma non di un minuscolo scarafaggio.” ribatte lui per nulla impietosito e sempre più adirato.
“Per favore!”

A questo punto sono a pochi millimetri dalla supplica, ma non serve proprio a niente. Sospetto che Alex sia un po’ costipato perché, altrimenti, non mi spiego cotanta testardaggine nel mal tollerare la mia fobia.

“Med, no. Sono stanco e ho bisogno di dormire. Scendi da quel divano e vai a letto.” mi ordina porgendomi una mano per rendere più incisive le sue parole.

Io borbotto che è una persona terribile e che non lo perdonerò per non avermi salvata, mentre, con cautela e in allarme, scendo dal divano, non curandomi della sua mano tesa verso di me; in risposta Alex sbuffa, dicendo che sopravviverà lo stesso e mi sorpassa per arrivare prima in camera sua.
Mentre cammino guardinga, però, lo scarafaggio schizza fuori da sotto il divano e fugge in camera mia.

Chiariamo una cosa: quando dico che io perdo il controllo, non lo dico in senso lato. Intendo che non mi importa di quali saranno le conseguenze delle mie azioni e non me ne frega un cacchio se, per salvarmi, devo perdere il rispetto del mondo o camminare sulle teste di Jules e Bet.
L’unica cosa che frulla nella mia mente è di mettermi in salvo. Il resto è noia.
Ed è evidentemente in questa condizione di totale incoscienza che, astenendomi dall’urlare per paura che Alex mi strangoli, mi limito a spalancare le fauci e a fare uscire un grido sussurrato.

Infine, senza riflettere, spingo con forza sulle ginocchia e salto dritta sulla schiena di Alex, aggrappandomi al suo collo e stringendogli le gambe attorno alla vita.

“Ouch!” sbuffa lui preso alla sprovvista e piegandosi in avanti, ma le sue mani si spostano sotto le mie cosce per evitare di finire a terra con me.
“Cazzo, quanto pesi!”

Panico: perché sono sulla schiena? Ora si è reso conto di quanto peso e vedo andare in fumo le mie possibilità di sedurlo.

“È andato in camera mia!”

Ah, ecco perché. Chi se ne frega di Alex e del possibile sesso: devo salvarmi la vita.

This isn’t happening...
“Che ti ho detto riguardo all’inglese?”
“Scendi.”
“No.”
“Med, lasciami andare.”
“Non ci penso nemmeno.”

Lui inspira con stizza e libera l’aria dai suoi polmoni borbottando qualche cosa di incomprensibile e cercando di farmi scendere: io, indifferente, aumento la stretta attorno alle sue spalle e affondo la faccia contro la sua pelle.

“Ti sto odiando.”
“Odiami dopo. Prima uccidi il mostro.” poi faccio un respiro profondo e, invece di essere invasa dal solito pericoloso Armani Code, le mie narici si trovano sommerse di profumo di vaniglia.

“Perché sai di vaniglia?”
“Perché non ti fai gli affari tuoi?”

Poi fa qualche passo verso camera mia e io mi irrigidisco contro di lui, sospettando che non abbia intenzione di aiutarmi.
“Mi stai facendo collassare un polmone.” brontola mentre si addentra in camera mia e si avvicina al mio letto sfatto: poi, nonostante le mie proteste, ci si butta sopra, portandosi dietro me, ancora avvinghiata a lui.
Che àncora di salvezza inutile: mi ha portata proprio dove non volevo andare.

A quel punto capisco che il mio coinquilino non ha intenzione di aiutarmi e di eliminare la ributtante creatura che si è addentrata nella mia stanza; allora sconfitta, mollo la presa e lascio che i miei arti si rilassino.
Alex, finalmente libero, si rotola a pancia in giù e porta la sua attenzione su di me: il suo viso è teso e stanco ed è chiaro che ne ha avuto abbastanza della mia scenata, ma io non riesco a pensare ad altro che a quell’ animaletto infilato da qualche parte in camera.

“Sei uno stronzo.” bisbiglio fissandolo e abbandonando la testa contro il materasso.
“Non sono tuo padre, Med. Ora la pianti di fare l’isterica per un insettino.” risponde lui sicuro, tenendo lo sguardo sul mio viso e giocando con un angolo delle lenzuola.
“Non posso andare a dormire in camera tua?” provo a suggerire speranzosa osservando i suoi occhi ma, in risposta, lui non trattiene una risata.
“Neanche per sogno...”

Ah, adesso ride? Prima sembrava che gli avessero permanentemente trapiantato uno stendibiancheria nel retto, e adesso ride. Questo è lunatico peggio di me.

“Non potevi semplicemente ucciderlo?”
“Puoi ucciderlo tu. Sei grande e grossa...”
“No. Ho paura, Alex, come te lo devo dire?”

“E ora facciamo che la tua paura la superi, così guadagniamo tutti qualcosa e al prossimo insetto non ti trasformi in Psycho.”

Mi indispone che non prenda seriamente la mia fobia e penso che sia ingiusto considerarla stupida.
Sono convinta che tutti abbiamo paure ridicole ed irrazionali, che agli occhi degli altri appaiono solo stranezze o capricci, ma questo non le rende meno reali o angoscianti per noi.

“Di cosa hai paura, Alex?” gli chiedo allora, cercando di attirare i suoi occhi sui miei e, quando ci riesco, lui mi fissa diffidente.
“Dimmi una cosa di cui hai paura. Hai detto che ci dobbiamo conoscere, se no non mi ti farai mai...” scherzo ridacchiando e lui mi tira una pacca leggera sulla fronte, sorridendo piano.

“Ho paura che se continuo a vivere qui non dormirò più e diventerò pazzo come te.” mormora, prendendosi gioco della mia domanda, e l’abilità con cui cerca di aggirare sempre ogni domanda su se stesso mi sorprende e mi affascina allo stesso tempo.
Vorrei saperlo fare così bene. O forse è proprio perché so lo fare anche io che lo trovo interessante. Stavolta però sono spinta dalla curiosità e dalla realizzazione che di sé lui non mi ha mai parlato.

“Dico davvero. Non deve essere qualche segreto o qualcosa di intimo. Ce l’avrai anche tu una semplice e sciocca paura, no?”

Lui strizza lievemente gli occhi mentre li fa scorrere sul mio volto e poi stringe le labbra come a valutare se sia il caso di rispondere o meno. Sembra che le rotelle nella sua testa si stiano muovendo e stia considerando se, in questa circostanza, io sia degna o meno della sua fiducia.
È qualcosa a cui non avevo pensato molto ma, senza dubbio, Alex non è solo riservato: è incredibilmente cauto e, nonostante viviamo insieme da qualche mese, io non so neanche le informazioni più banali di questo ragazzo. So chi è quando è con me e so che, per quanto irritante, ha una personalità interessante. Ma di chi è Alex all’infuori del mio universo, io non ne ho idea.

Lui continua a meditare, probabilmente ponderando se può concedermi almeno un piccolo dettaglio di sè, cosa che dovrebbe fare se vuole davvero farsi conoscere e, mentre attendo che si decida, gli levo un ciglio che è caduto su una delle sue guance: al mio tocco si ritrae appena, incerto su cosa io voglia fare e prima di decidersi a parlare.

“Ho paura dell’acqua.”
“Che cosa?” chiedo stupita e ritraggo la mano dal suo viso per guardare nei suoi occhi.
“Acqua. Ho paura di nuotare.”
“È una balla...”
“No, ti assicuro. Non so neanche perché, mi mette l’angoscia e basta. E pensa che i miei hanno pure la piscina...”
“Ah! L’ironia della sorte!” scherzo ridendo della sua espressione e lui si limita a pizzicarmi la guancia in segno di vendetta.
“Non è che ho proprio il terrore, però mi mette a disagio...”
“E perché io devo sconfiggere la mia paura degli scarafaggi e tu ti puoi tenere la tua dell’acqua?”

Ammicca e si alza dal letto, tirandomi con forza e costringendomi a mettermi a sedere per poi rispondere:
“Perché non abbiamo una piscina, ma abbiamo uno scarafaggio...”

Si abbassa ai piedi del letto e raccoglie una delle mie Converse rosse per poi porgermela e bisbigliare:

“Dai, Scintilla... Fammi vedere che sai fare.”
“Non so dove si è nascosto. Credo che scambiarci le camere sia la cosa migliore.”
“Codarda, io lo so. È sotto il tuo comodino.”

Rabbrividisco. Così vicino al letto, così vicino a me.

Afferro la scarpa sicura e penso che, se riesco ad affrontare il mio terrore per gli insetti, mi sarò levata un grosso impiccio e, forse, potrò sentirmi un po’ orgogliosa di me. Il che, in questo periodo, non guasterebbe.
Però mi serve un incentivo.

“Se lo faccio cosa ottengo in cambio?” domando con una vocina che vorrebbe apparire suadente ma che, probabilmente, suona come quella di una signora col raffreddore.
“Ottieni che non sei più una cretina che ha paura degli scarafaggi... che altro vorresti?”
"Non me ne faccio niente di quello. Ho campato 24 anni anche così, grazie. Dammi un incentivo!”
“Un incentivo di che tipo, di preciso?” strizza gli occhi divertito e guardingo mentre mi pone la domanda e io mi lamento, offesa:
“Idiota! Non lo so... Uh! Facciamo così: se ci riesco un giorno di questi mi offri un pranzo.”
“Che banale. E se non ci riesci?”
“Ci riuscirò... Ma se non ci riesco io dormo da te.”

Alex scuote la testa ridendo della mia codardia e del nervosismo che inizio a mostrare quando si avvicina al mobiletto accanto al mio letto: si ferma e, con un cenno del capo, cerca di capire se io sia pronta. Mordendomi costantemente il labbro inferiore e spostando lo sguardo verso terra, annuisco e stringo con forza la mia scarpa nella mano destra.

Lui aspetta che io mi decida a scendere dal letto e, quando appoggio i piedi a terra e mi protendo verso di lui, Alex sposta il comodino con un gesto secco.
La blatta inizia a scappare terrorizzata e io mi armo di coraggio e lancio la scarpa verso di lei.
Credo di averla beccata ma non ho alcuna intenzione di restare per verificare la cosa, quindi, lanciando uno sguardo disperato ad Alex, corro fuori dalla mia stanza gridando:

“Portami il mio cuscino!” e mi rinchiudo in camera del mio coinquilino.

A piccoli passi e con il fiatone mi addentro nella stanza di Alex e mi siedo sul suo letto, incrociando le gambe di fronte a me e guardandomi attorno: questa stanza è fastidiosamente ordinata, tranne per il comodino e il servomuto ai piedi del letto, coperto di magliette e felpe abbandonate lì alla bell’e meglio. Non so se sia così immacolata perché Alex è poco in casa o perché mi sono beccata un control freak, ma per lo meno lui i turni delle pulizie li rispetta.

Hi-hi-hi-hi ridacchio nella mia mente consapevole che, al contrario, io ne salto almeno due su tre e pensando che mi è andata bene che vivo con un maschio perché una donna si accorgerebbe in fretta della mia disonestà.

Scivolo in giù lungo la testata del letto e accanto a me se ne sta abbandonato un libro, appoggiato aperto a faccia in giù sul materasso: lo sollevo, facendo attenzione a non perdere il segno, e ne leggo il titolo.

Follia.  A posto. Stiamo freschi.

Tenendo un dito al centro del libro al punto in cui sembra essere arrivato Alex nella lettura, sfoglio qualche pagina distrattamente e, nella penombra, noto che ci sono righe e frasi sottolineate a matita qui e là.
E sorrido. Sorrido perché quella è una cosa che faccio anche io.
Poi il mio sorriso si spegne quando realizzo che non sapevo neanche che gli piacesse leggere.

In quel momento credo che abbia ragione lui quando dice che ci dobbiamo conoscere e che sarebbe ora di scoprire qualcosa di più, ma penso anche che la sua sia solo una scusa: dove sta scritto che devi sapere tutto di una persona prima di frequentarla?
Forse non è sicuro di piacermi, e non ha tutti i torti perché in tutta onestà fino a tre giorni fa mi indispettiva anche solo come riponeva nel cassetto le posate, ma non sta a lui decidere se mi piace o no e, senza dubbio, non posso scoprire se mi piace finché non si fa conoscere.

Questo duo è un disastro: siamo una evitante con tendenza alla fuga e un riservato giovane con eccesso di diffidenza.




Ricreazione


PAUSETTA PIPì O MERENDINA PER PRENDERE UN RESPIRO DA MED E ALEX: L'AMMINISTRAZIONE VI RICORDA CHE È OPPORTUNO REIDRATARSI CON REGOLARITA'.



“Ora puoi tornare a letto, rompi scatole...” dichiara lui entrando nella stanza e strofinandosi il viso con stanchezza. Forse ho veramente abusato della sua tolleranza perché sembra davvero distrutto e, quando mi afferra una mano e mi tira qualche centimetro verso il bordo del letto, io non posso non notare che la forza che mette nel gesto è quasi inesistente.

Appoggia una mano sulla mia fronte e mi spinge più in giù contro il cuscino, prima di piegarsi verso il materasso e scavalcarmi con gesti appesantiti. Si lascia cadere sopra le coperte accanto a me e si gira verso la mia figura, facendo pressione sulle mie spalle e ridacchiando:

“Pussa via.”
“E dove pusso?!”
“In camera tua.”
Giammai!”
“Med, te lo chiedo per favore: io ho bisogno di dormire.” supplica lui, provando ancora una volta a farmi scendere dal letto ma senza alcun successo.
“L’ho ucciso?” chiedo guardinga e terrorizzata all’idea di tornare in camera col mostro ma lui mi rassicura con un’affermazione quantomeno criptica:

“Non c’è più.”

Quindi? L’ho ucciso? L’ho ucciso io o l’ha ucciso lui? O io l’ho ucciso e lui l’ha buttato via? O vivo con Ace Ventura e l’ha salvato accompagnandolo fuori dalla porta

“Ho schifo.”
“Io ho sonno!” ribadisce lui sbadigliando e io scelgo di cambiare tattica. E argomento:
“Ti piace leggere?”
“E ora questo che c’entra?”
“Ti voglio conoscere...”
“Alle 5 di mattina?” i suoi occhi stanchi luccicano di confusione alla mia insistenza e perseveranza e, con quell’aria assonnata, mi ispira più due carezze che qualche cosa di poco pudico. O forse tutti e due. Non lo so.

“C’è un turno a cui mi devo segnare per scoprire qualcosa di te?”
“Non mi ero accorto fossi così fastidiosa. Credo che tu non mi piaccia più.”
“Peccato perché io penso che tu potresti davvero piacermi...” rispondo senza pensarci prima di rendermi conto della dichiarazione che sto facendo e, quando mi accorgo dell’errore, alzo gli occhi e i suoi sorridono divertiti.

“Non intendevo...”
Lui scoppia a ridere e inizia a stroppicciarsi un occhio con un pungo in un gesto che lo fa apparire più piccolo; si mette supino e chiude gli occhi, lasciando cadere una mano sul suo ventre e, all’improvviso, mi ricordo che è seminudo.

“Sì, mi piace leggere.”
“Ti devi vestire...” farfuglio contenta che abbia risposto alla mia domanda ma nel panico per la sua tenuta notturna. Lui mi ignora e prosegue:
“Leggere mi svuota la testa e me la riempie allo stesso tempo. Mi rilassa ed è come se mi si offrisse uno sguardo avvantaggiato sulle possibili vite di tutti...”

Lui parla con gli occhi serrati e nella sua voce c’è quella punta di delicatezza che avvolge le parole di chi racconta una passione.

“Vivo di più quando leggo.” conclude voltandosi sul fianco e ricominciando a spingermi via.
Io mi ribello, perché ora voglio sapere altro: voglio che mi racconti dei libri che gli hanno cambiato la vita, voglio vedere se ce n’è uno che coincide con i miei, voglio sapere se c’è altro che ama fare, voglio che mi dica chi è il ragazzo con cui vivo.

“Sei figlio unico?” domando tirandomi su, sorreggendo la testa con una mano.

I suo occhi si aprono piano per portarsi su di me e scivolare sui miei lineamenti, studiandomi con cautela e, credo, chiedendosi perché improvvisamente io faccia tutte queste domande.
Non lo so neanche io. Sono incredibilmente curiosa e meno lui parla, più io voglio sapere; d’improvviso la mia insonnia sembra essere qualcosa di positivo e vorrei usare le mie ore notturne per interrogarlo.

Che cazzo mi prende?

“No.” risponde secco lui, senza approfondire e richiudendo le palpebre e io gli scuoto una spalla per costringerlo a tornare a guardarmi.
“Dai... quanti fratelli hai?”
Lui sbuffa e si rotola a pancia in giù, cercando di farmi capire che vuole tornare a dormire ma io mi sento assetata di risposte.
“Un fratello. Ora posso dormire?” sbuffa lui facendo sgusciare entrambe le mani sotto il cuscino e i miei occhi volano sulle sue scapole che si muovono lente.

E deglutisco a fatica.

“Raccontami, dai! Che lavoro fai?” insisto provando a fargli aprire di nuovo gli occhi strizzandogli il viso tra le mie mani e lui si irrigidisce.
“Vuoi fare la biologa?”

Cazzo, che colpo basso.

“Stiamo parlando di te: perché non mi vuoi dire che lavoro fai?”
“Perché non rispondi mai alle domande sulla tua università?”
Il suo viso si rilassa una volta che sa di aver sfoderato la carta dell’università ed è consapevole che, toccato quell’argomento, io mi defilerò. Inclino la testa e sussurro:

“Perché non le ho le risposte...” e alla mia candida ammissione lo stupore si diffonde sui suoi tratti. Si solleva appena, spostando tutto il peso sui gomiti che affondano nel materasso.
Sta sfoderando l’occhio da Pokemon e, anche se il buio rende difficile vederli con chiarezza, credo di poter ipotizzare che si siano fatti più vivaci.

“Le stai cercando?”
“Ogni fottuto giorno.” rispondo asciutta con naturalezza e lui sembra stranamente soddisfatto dalla mia dichiarazione mentre si solleva del tutto dal materasso e si mette a sedere, senza spostare lo sguardo dal mio viso.
“È già parecchio, no?” e io accenno un sorriso, ribattendo:
“Dipende dai punti di vista.”

Mi allungo verso la testata del letto e premo l’interruttore che comanda l’abat-jour accanto al suo letto e, un attimo dopo, i suoi occhi sono investiti dalla luce: basta quello per farmi capire che è davvero a pezzi e che io sono una maledetta stronza che l’ha svegliato per un insetto e che non lo lascia dormire.

Le sue iridi sono lucide per la stanchezza e il resto degli occhi sfoggia un rossore degno di ore di fronte ad un pc; ha le guance arrossate - cosa che trovo tenera e ridicola allo stesso tempo - e la fronte contratta mentre mi guarda senza parlare. Poi uno sbadiglio gli sfugge e una delle sue mani si solleva verso di me per scusarsi, mentre l’altra si sposta davanti alla sua bocca per coprirla.
Quello è l’ultimo segnale che mi serve per capire che, per stanotte, ho approfittato abbastanza e che, solo perché io non dormo, non significa che anche gli altri debbano privarsi del sonno.

Raccogliendomi i capelli in una coda e legandoli con l’elastico che ho sempre al polso, mi sollevo finalmente dal suo letto, pronta ad affrontare lo schifo che mi invaderà una volta in camera.
"Ok, ricevuto. Ti lascio dormire. Grazie per non avermi salvato, comunque.” annuncio osservandolo mentre sistema il cuscino e le coperte che io, con i miei movimenti continui, ho stropicciato.

“Ti sei salvata da sola. Dovrebbe essere più bello.”
Io sorrido e borbottando un Come no, mi chino verso di lui istintivamente per dargli un bacio sulla guancia.

Mentre mi abbasso mi rendo conto di cosa sto facendo e mi fermo a mezz’aria con il suo sguardo divertito fisso su di me: sono una vera imbecille! Non si passa da zero confidenza al bacio della buonanotte con una persona che ti sta - o stava, al momento sono confusa - sulle palle.
Lui sghignazza silenziosamente, conscio della figura che sto facendo, e decide di peggiorare il mio imbarazzo, sollevandosi verso di me per ricambiare il bacio di cortesia.

Non posso passare per un totale idiota; non posso e non lo farò ma, soprattutto, non gli concederò il lusso di essere quello in vantaggio quindi, armandomi di faccia tosta, lo incontro a metà strada e devio la mia traiettoria dalla guancia all’angolo della bocca, spingendomi giusto un pelo troppo in là e i suoi occhi riflettono il suo stupore per il mio gesto.

E io, dentro di me, mi abbandono a cori da stadio per festeggiare la mia superiorità.

Mi ritraggo e mi dirigo verso la porta inebriata dal piacere di aver vinto la battaglia ma, come metto un piede fuori dalla stanza, i miei cori si spengono quando lui dice ridendo dietro di me:

Night, crazy girl.”

Ma vaffanculo!
E con un simil raffinato pensiero, ma ne vado in camera mia, speranzosa di non ritrovarmi una colonia di blatte nel letto.

Ma il mio problema più grande per le prossime dodici ore non sarà Alex, i suoi misteri (che accentuano il mio desiderio di avvicinarmi a lui, ovviamente) e i suoi sciocchi ragionamenti da uomo adulto. Il mio assillo di oggi sarà l’incubo di ogni fuori corso: la cena di laurea di qualcuno.

Io e i miei amici abbiamo ricevuto in massa l’invito alla laurea di un nostro compagno del liceo e, ignorando le mie suppliche di dichiarare che mi ero rotta una gamba, Bet, Jules e Leo mi hanno fatto promettere sulla Circe che ci sarei andata. Almeno Jack e Roby hanno promesso di occuparsi del regalo, mentre Jules e Bet si porteranno dietro le loro metà, il che potrebbe offrirmi un numero maggiore di individui “non minacciosi” con cui parlare durante la serata.

Io e Leo, invece, non facciamo niente. Il che ci fa sentire VIP.

Ora, le cene di laurea sono quei momenti che tu, piccolo studente in ritardo, non puoi evitare in eterno e che ti sbattono in faccia senza rimorsi il fatto che tu, ‘sta benedetta laurea, non la stai festeggiando.

In tutta onestà ormai sono a corto di scuse e, a peggiorare la situazione, si aggiunge il fatto che, ad ogni raduno, il numero dei Dottori aumenta e il numero dei laureandi diminuisce: e io non appartengo ancora a nessuna delle due categorie.

E, mentre Alex si defila per “delle commissioni” misteriose e io mi arrendo al fatto che è una settimana che rimando i miei turni delle pulizie, penso che stasera dovrò ingoiare un numero poco piacevole di rospi e deviare un sacco di domande che io reputo moleste.

Per loro sarà solo una cena come tante altre. Piena di gente che ce l’ha fatta. Affollata di futuri medici e avvocati, architetti e psicologi che muovono i loro primi passi nel mondo dei laureati. Nel mondo degli adulti. Nell’universo reale. Loro si muovono, a volte insicuri certo, ma consapevoli delle loro scelte.
Le piccole conversazioni che rumoreggiano attorno a me in questi eventi hanno il cuore dell’aspettativa che batte a ritmi regolari: progetti di giovani che fanno il loro ingresso nella società delle persone cresciute, piani pronti ad essere messi in atto, colmi di certezze e tenacia.

Carichi di concretezza e sicurezza. Due realtà che io non ho. E pensandoci mi proietto oltre stasera: mi proietto a domenica a pranzo a casa dei miei.

È un continuo di Ora lavorerò per e di vorrei fare un colloquio a...
E ogni volta io, nel mio silenzio di immobilità, sento salire dentro di me la vergogna di chi non è riuscito nel suo intento. Di chi ha smarrito il centro del proprio essere. Di quella piccola nicchia di inconcludenti, confusi e incapaci di credere di poterlo fare.
Allora vorrei alzarmi in piedi e gridare forte a tutti loro di tacere. Di smetterla di parlare del futuro. Di non comportarsi da persone adulte e consapevoli.
Vorrei chiudere le loro voci fuori da me. Escludere le vibrazioni delle loro corde vocali dal raggio di percezione dei miei timpani. Vorrei smettere di sentire, così da poter ignorare quel blocco di cemento che mi ha incatenata nel buio. Che ha incagliato i miei piedi su quel sentiero che io non conosco. Su quella strada a me sconosciuta ma che, sono ormai certa, non è la mia.

Ogni evento di questi mesi sembra essere mirato ad un’unica cosa: farmi prendere una decisione.
Ma, che decisione, in fondo? Prima o poi le cose cambieranno anche se io non faccio nulla, no?

No.

Di nuovo la sensazione di angoscia si fa strada dentro di me al ricordo di cosa aspetta domenica e, presa dal panico, blocco ogni riflessione e ogni pensiero per concentrarmi sull’aspirapolvere, prima di concludere ogni turno di pulizia arretrato e rendermi conto che è decisamente ora di prepararmi per la cena di stasera.

Sono sotto la doccia quando sento le voci delle mie due migliori amiche urlare:
“Soccorso vestiti arrivato, signorina priva di gusto!”

Io rido e, sciacquandomi i capelli con gesti secchi e frizionandomi la cute, rispondo: “ Parlano le regine di Glamour!”

Jules infila la testa nel mio bagno e, avvolta da una nuvola di vapore, ridacchia:

“Io sono una orgogliosa Cosmogirl!”
“Non so cosa sia Glamour, ma Vanity Fair è la mia bibbia!” aggiunge Bet, scostando Jules dalla porta ed entrando con prepotenza per richiudersi la porta alle spalle.
Le sento ridacchiare in sordina, poi, mentre mi levo il sapone dagli occhi, vedo una mano suntare da dietro la tenda e afferrare la manopola dell’acqua, girandola verso il getto freddo.

“AAAhhhh!” urlo sconvolta e improvvisamente congelata, mentre loro due esplodono in una fragorosa risata.

“Punizione meritata! È tardissimo e non arriveremo mai in tempo se non trascini il tuo tondeggiante corpo fuori di lì!” esclama Jules avvicinandosi alla tenda della doccia.
“Med, non farmi entrare lì dentro con te, se no non rispondo delle mie azioni!” aggiunge minacciosa e vedo le sue dita appoggiarsi al bordo del telo che ci separa.
“E cosa vorresti fare maledetta stronza? Strapparmi il capelli?” chiedo arrabbiata, battendo i denti per il freddo che l’acqua ha scatenato.
“Oh, che ottimista. Punterei a qualcosa di più permanente!”

“Ok, ok, esco...” rispondo interrompendo il flusso di acqua “... se mi viene una polmonite vi riterrò responsabili della mia morte” bofonchio allungando una mano in cerca del mio accappatoio, che Bet , prontamente, mi porge.

“Dio, quante scene. Per un po' di acqua fresca!” afferma poi, ridacchiando soddisfatta e uscendo dal bagno.

Mi copro con il morbido tessuto spugnoso ed esco dalla doccia, ritrovandomi Jules,  agghindata per la serata, seduta sul ripiano del lavabo mentre si specchia e si disegna una linea perfetta sulla palpebra con l'eyeliner.

“Un po' di privacy?” chiedo guardandola nello specchio.
“Come se non avessi mai visto le tue tettone cadenti!”
“Ehi! Non sono cadenti...” rispondo io offesa. Poi mi avvicino a lei e scruto la mia immagine riflessa.

“O forse sì...” ci ripenso guardando il mio petto e appoggiando le mani alla base dei miei seni.
“Oddio è vero! Mi sono scese le tette!” strillo sconvolta.
“Med, le tue tette sono enormi di natura, non possono diminuire!” si intromette Bet starnazzando dalla mia stanza, disinteressata al fatto che io ho dei vicini di casa.

“No! Non sono più piccole, sono cadenti. Guarda! A 15 anni le avevo qui. E ora...” dico sollevandole e poi rilasciandole “... guarda! Sono scese, la gravità le sta uccidendo. Oddio, nel giro di due anni arriveranno all'ombelico!”

“E credi che le mie stiano su da sole?” mi risponde Jules scettica e chiude l’eyeliner con un gesto secco.
“Med, abbiamo un balcone consistente. Che ti aspetti, che restino sode in eterno?”
“No, ma ho 24 anni! Non posso avere le tette cadenti. E poi le tue non cascano come le mie. Guarda qui che sfacelo!” mi lamento sconsolata.

“Tranquilla che anche le mie iniziano a guardare verso il basso” sospira lei, rimirando il proprio torace.
"Dimostramelo!”
“Che cosa? E come?” mi risponde lei, spiazzata.
“Levati il reggiseno” le ordino, poi urlo “Bet, porta le tue grazie in questo bagno e togliti il reggi poppe”

“Facciamo un party saffico di cui non ero a conoscenza?” chiede lei raggiungendoci.
“No, voglio essere consolata e vedere se anche le vostre tette sono in caduta libera”.

Sembriamo tre cretine quando, io con l'accappatoio addosso, e Bet e Jules nei loro vestiti da sera, senza nulla che sostenga i nostri décolleté , iniziamo ad analizzare la situazione.
Tutte e tre, tette alla mano, le alziamo e le abbassiamo, osservandoci nello specchio.

“Che cosa state facendo?!” sentiamo Leo chiedere sconvolto. “Oddio credo di essere appena diventato cieco!” continua coprendosi gli occhi con le mani, borbottando scioccato.

“Leo, cazzo, ma tu non sai usare il campanello prima di entrare in casa altrui?” rispondo io stringendomi la stoffa attorno al corpo.
“Capirai che shock. Sono tette. Viste un paio, le hai viste tutte” gli fa notare Jules raccogliendosi i ricci in una coda e ignorando il nostro amico.
“Ringrazio il cielo di non avervele davvero viste.” continua Leo senza spostare le mani e cercando di capire in che direzione parlare.

Bet e Jules si ricompongono e io mi avvicino al mio amico e dico piano:
“Puoi guardare ora...”
“No, grazie, mi fanno troppo male gli occhi. Si può sapere che cosa stavate facendo? Vi stavate toccando le tette! Se non foste voi tre mi sarei potuto eccitare...”

“Per eccitarti vedendo delle tette devi essere maschio, Leo, e tu non sei molto virile.” lo prende in giro Jules.
“ Ha parlato il travestito” ribatte lui. “Comunque, dovete darvi una mossa!”
“Perché tutta questa fretta?” chiede Bet.

“Perché Cucciolo sta ripetendo BIRRA BIRRA BIRRA, in stile uomo delle nevi da circa 5 minuti. Il che mi fa intuire che abbia voglia di bere. Ma non ne sono sicurissimo. E perché io e J...beh...non sappiamo che dirci.”
Noi lo guardiamo incredule restando zitte e il nostro silenzio lo spinge a separare le dita della mano che ancora gli copre gli occhi.

“Oh, insomma, ma che volete? Ci siamo rotti di aspettare. Quindi fate in fretta. Tanto qualsiasi cosa facciate non servirà a nulla. Brutte siete e brutte restate” conclude una volta notate le nostre espressioni sbigottite, prima di voltarsi e scappare fuori brontolando.
“Che faccia di culo!” gli grida Bet.

Poi si gira verso di noi e sorridendo dice:
“Abbiamo fatto shopping per te!”
“Oh, no... non posso venire in pigiama?” chiedo, poco fiduciosa, uscendo dal bagno e addentrandomi nella zona giorno, seguita dalle mie amiche che mi pedinano come sentinelle.

Non posso certo scappare da casa mia in accappatoio quindi non capisco il motivo di tanta premura.

“Già sei socially awkward, se poi vieni con quegli obbrobri con cui dormi, ti internano...” borbotta Jules sedendosi su uno degli sgabelli della cucina.
“...o arrestano per oltraggio alla pubblica decenza.” aggiunge Bet azzannando uno dei plum cake che riposavano nel cesto sul bancone e che, sono abbastanza certa, non facciano parte della mia spesa o del cibo in comune.
“Quello è di Alex...” rispondo io indicando il dolce e prendendo un bicchiere dalla credenza.
Lei posa gli occhi sulla merendina e arrossisce mentre la voce del mio coinquilino risponde alle sue spalle:

Era di Alex.”

Tutte e tre portiamo l’attenzione su di lui che, trafelato e un po’ scompigliato, esce dalla sua stanza cercando di infilarsi il giubbino in modo maldestro: ha gli occhi lucidi per la stanchezza, il viso lievemente arrossato e una leggera barba che cresce da qualche giorno che gli incornicia i lineamenti e non fa altro che accentuare la sua figura stanca.

“Scusami...” sussurra Bet abbassando gli occhi e lui ride, rispondendo che non è un problema.
“Che ci fai qui? Credevo dovessi essere al lavoro...” chiedo con voce sospettosa e Jules mi sussurra in un orecchio:
“Ma che lavoro fa?!”
“Non lo so. Non me lo vuole dire.”

“Dunque è qualcosa di imbarazzante... Magari fa il prostituto.” riflette mantenendo un volume di voce bassissimo per assicurasi che Alex non la senta.

“Avete finito?” domanda però lui sempre sghignazzando, per poi risponde al mio precedente quesito “Sì, dovevo essere al lavoro ma mi sono addormentato perché stanotte non ho dormito affatto. Mi chiedo di chi sia la colpa...”
Nei suoi occhi c’è un accenno di divertimento e io non posso non cogliere il riferimento alla mia scenata notturna e alla mia insistenza nelle domande, ragion per cui faccio la gnorri e mi verso dell’acqua.

Lui si ferma vicino alla zona cucina, inclina quella testolina scompigliata e aguzza la vista, studiandomi:
“Senti, dobbiamo affinare le regole: se io non parlo inglese, tu non giri per casa in accappatoio.”
“Perché? Ti tento?”
“Tu che dici?”
“Che figata, non avevo mai tentato nessuno aggirandomi in accappatoio. Sei un ragazzo strano.”

Dico ridacchiando e facendo scivolare un po’ la stoffa giù dalla spalla.
"E tu una persona sleale.”
“Abbandonati all’inevitabile...”
“Lo farò quando capirò perché lo vuoi..”
“Ma c’è un limite prestabilito di tempo da aspettare? Comunque credo che si sia attuato qualche bizzarro meccanismo psicologico. Jules, tu che dici?”

“Che non si è attuato niente e che ti attizzava dal principio...” risponde lei alzandosi e optando per la brutale onestà, come d’altronde fa sempre. A volte ti spiazza, ma è una cosa che amo in lei.

“Chissà perché sospettavo che sapeste già tutto” ride lui scuotendo il capo, rassegnato e consapevole di come funzionano le dinamiche tra noi tre.
“Se ti attizzavo dal principio cambia qualcosa?”
“Non lo so... ci devo pensare. Per ora mi appello al quinto emendamento e prendo atto che abbiamo fatto un passo avanti, per lo meno nella confidenza”.

“In Italia non c’è il quinto, Mr Ohio...” specifica la bionda giurista tra noi, continuando a masticare il plum cake.

“D’accordo. Ci rifletterò al lavoro.” risponde lui aprendo la porta ed indicando Bet e il suo spuntino.
“Quale lavoro?” tento ancora una volta e Bet, con la bocca piena, batte più volte le mani divertita.

Curiosity killed the cat...” sghignazza lui uscendo, compiaciuto dal mio sguardo insoddisfatto, e Jules scoppia a ridere:

“Se non fa il prostituto è per forza un esattore delle tasse in incognito. E noi siamo tutte nella merda e non lo sapevamo.”
“Bet, tu le paghi le tasse?” prosegue, voltandosi verso la nostra amica bionda che sta mandando giù a fatica l’enorme bolo che ha in bocca.

Si ingozza sempre come un tacchino!

“Le tasse? Io... pago quelle universitarie e quelle dello sporco. C’è altro?”
“Secondo me allora è qui per spiare te, bionda criminale!” le annuncia additandola e sul suo viso nasce l’incertezza:
“Ma io sono una dottoressa in scienze e tecniche giuridiche! Non posso essere la legge e infrangere la legge...”
“Tu sei la legge come io sono una taglia quarantadue... Ora, posso vedere cosa avreste comprato?” mi intrometto per arginare l’assurdità della conversazione.

Loro si scambiano uno sguardo complice e, in preda all’euforia, corrono verso camera mia mentre io, sospirando, le seguo stringendomi nell’accappatoio e temendo di ritrovarmi in un completo di latex che mi farà apparire come un cetaceo: paura che diviene concreta quando, entrata nella stanza, Jules mi sventola davanti agli occhi un abitino rosso.

Rosso!

“ Che cosa? Ma voi siete matte! Io  quello non me lo metto neanche morta!”
“ Perché no?” chiede Bet confusa e allunga una mano per sfiorare con le dita la stoffa purpurea che hanno scelto per me.
“Perché è rosso!”

La mia protesta, però, sembra solo confonderle di più: ovviamente loro, non portandosi dietro adipe superflua, non possono capire il pericolo insito in qualunque indumento che non sia di colore nero.

“Ragazze, il rosso metterebbe in risalto tutte le mie pieghe di ciccia! Quante volte mi avete visto indossare un vestito che non fosse nero? È la regola di base! Il nero sfila!” esclamo con le mani suoi fianchi, cercando di comunicare l’origine del mio disagio ma loro si mostrano solo sbigottite e per nulla propense a cedere.
“Mettitelo e basta. Secondo te ti faremmo indossare qualcosa che ti sta male?” la voce di Jules reca con sé una silente minaccia e le sue braccia allungano la gruccia che regge l’indumento verso di me.

“ Per punirmi? Sì, lo fareste.”
“ Sì, hai ragione, per punizione lo faremmo, ma non hai fatto  nulla di male, quindi puoi fidarti.”

Alle sue parole abbasso il viso e loro colgono all'istante il flash di colpevolezza che mi passa sul volto.

“ Med..?” chiede Bet cauta e si avvicina a me insospettita “ Che cosa hai fatto?”
Io sto zitta per pochi secondi, chiedendomi se abbia realmente fatto qualcosa di male.
“Sto cercando di convincere Alex a cedere...”.

“Med!” mi rimprovera Bet ad alta voce, facendomi arrossire per l’imbarazzo.

“Stai lentamente diventando il mio idolo!” ridacchia Jules.
“ Non la istigare, cretina!” sibila Bet alla mia amica riccia, poi si volta verso di me e aggiunge
“Scusa ma se lui ti ha chiesto di chiarirti le idee, perché non ti prendi del tempo, invece di pressarlo?”
“Perché non credo di averne bisogno.” mi lamento sedendomi sul letto.

“Quindi ho ragione io e ti piace?” suggerisce Jules afferrandomi un polso e costringendomi a rialzarmi dal letto per vestirmi.
“Temo di sì...” mugolo mentre apro il cassetto dell’intimo e frugo alla ricerca di due pezzi che possano stare bene.

Ecco, altro particolare sul mio abbigliamento e che è diretta conseguenza delle mie curve: i completini intimi sexy o vagamente carini per chi ha un corpo, e soprattutto un seno, abbondante, non esistono.

O sono tutte cose rinforzate e che appartengono alla collezione Nonna Papera, o non vengono neppure considerati.

“Fino a ieri ti stava sulle palle e oggi ti piace?” cerca di capire Bet analizzando le mie scarpe e scartandole tutte, paio dopo paio.
Immagino che ci andrò in ciabatte a questa cena.
“Non ha senso, vero?” chiedo conferma levandomi l’accappatoio e dando loro le spalle per indossare mutande e reggiseno.

“No, Med. Non ha senso. E la scusa dell’inglese e del profumo è una stronzata.”
“Aspetta, quando parla in inglese mi eccita davvero. Però, non lo so... Forse un po’ mi piaceva già ma ero troppo occupata a trovarlo fastidioso.” rifletto ad alta voce tornando a guardarle, prima di rivolgermi a Jules e domandare: “Può essere un effetto collaterale della mia orribile personalità?”

“Sì, può essere. O magari è conseguenza della tua demenziale insicurezza e, poiché lui ti corteggiava, tu, di riflesso, per timore che non fosse serio e che fosse come L, alzavi le difese...”

Prendo un calzino sporco da terra e lo tiro nella direzione della mia amica riccia, borbottando:
“Freud, mi stai sulle palle...”
“Perché ho ragione.” ridacchia lei, schivando la mia arma chimica e porgendomi il vestito che sarò costretta ad indossare.
“Comunque ora non abbiamo tempo per questa storia. Infilati quel maledetto affare e truccati.” mi ordina.

Io socchiudo le labbra per controbattere ma lei mi ferma.

“No Med, è fatto apposta per te. Scende morbido da sotto il seno, mette in risalto le tue favolose tettone, arriva poco sopra il ginocchio e il rosso, che tu lo sappia o no, è il tuo colore. Ora chiudi quella bocca e fai come ti diciamo noi. Ti aspettiamo in salotto.” conclude prendendo Bet per mano e trascinandola fuori dalla camera con sé.




RICREAZIONE


SI RITIENE SIA IL CASO CHE SI VALUTI SE, A SEGUITO DELLA PRECEDENTEMENTE SUGGERITA IDRATAZIONE, ORA SI NECESSITA FARE PIPì PRIMA DI RIPRENDERE CON LA LETTURA.




Sbuffo di nuovo, per nulla propensa a seguire i suoi ordini ma assolutamente consapevole che non cederanno finché non l’avrò fatto; quindi, senza entusiasmo, prendo quel maledetto abito rosso e lo indosso.Poi mi osservo nello specchio e inarco un sopracciglio, sorpresa dal fatto che, effettivamente, scivola come olio sui miei fianchi abbondanti e, controllando come mi sta sul retro, mi stupisco di scoprire che neanche i miei rotolini posteriori si mostrano ingloriosi sotto la stoffa.

Dunque questa è magia: cos’è questa stregoneria?!

D’accordo: 1 a zero per Bet e Jules. Ciò non toglie che non lo ammetterò mai.

Mi allontano dallo specchio e corro in bagno a truccarmi il più velocemente possibile, senza grandi virtuosismi artistici: in tutta onestà non sono particolarmente abile, nonostante mi sia guardata qualche puntata di Clio Make up. Se mi impiastriccio troppo il viso mi sento sempre troppo appariscente e, come abbiamo più volte constatato, io odio stare al centro dell’attenzione.
Mentre finisco di colorarmi le guance con un filo di fard (il minimo indispensabile per togliermi il colore cadaverico che mi accompagna dalla nascita), Bet entra alle mie spalle e mi sorride.

“Te l'avevamo detto che ti sarebbe stato bene. Sei uno schianto” dice dandomi un colpetto sul fianco e appoggiandosi al ripiano del lavandino a braccia incrociate.
“Scordatevi che metta i tacchi.” le rispondo io sciacquandomi le mani e evitando di ammettere che avevano ragione mentre Jules appare alle mie spalle e, ridacchiando, raccoglie qualche forcina dal cassetto accanto a noi e me le infilza senza preoccuparsi di avere il mio consenso.

Bet la osserva armeggiare e poi mi squadra dalla testa ai piedi, fa un saltello gioioso e applaude euforica.
“Sei una bomba.” annuncia Jules “Ora andiamo, Tigre!”conclude spintonandomi fuori dalla porta me quando faccio notare che sono scalza, Bet mi allunga un paio di ballerine e, senza aspettare, mi trascina fuori di casa.
Sia ringraziato il cielo, almeno sulla calzatura si sono mantenute su ciò che mi è possibile indossare.

Quando arriviamo al ristorante, la maggior parte degli invitati è già seduta al tavolo.
Dopo pochi passi dall'entrata sento Jack sussurrare: “Oh cazzo!” e allora cerco di individuare la traiettoria dei suoi occhi, ma prima che riesca a farlo

“Che succede?”

Il mio gruppo di amici si scambia sguardi interrogativi, cercando di decidere cosa fare.
Finché Leo, prendendo in mano la situazione, mi bisbiglia:

“C'è L...”

Mi giro lentamente verso la tavolata e i miei occhi trovano subito il viso di L, immerso in una probabilmente inutile discussione.
“Med?” mi richiama all'attenzione Bet.
“ Che facciamo?” chiede J, accarezzando distrattamente il braccio della mia amica bionda e attendendo una risposta.

Mentre penso, L ruota la testa e mi vede: suoi occhi si fanno grandi per lo stupore, poi si riempiono di risentimento.

Non capisco di che cosa possa mai risentirsi proprio lui ma suppongo sia semplicemente una questione di orgoglio: in fondo L è sempre stato abituato ad avere l’ultima parola con me e non credo che digerisca facilmente l’idea di non essere stato quello che ha stabilito la fine dei nostri incontri.

“Non facciamo niente.” rispondo secca, compiacendomi del fatto che, in tutta onestà, l’unica cosa che provo nei confronti di questo ragazzo è un briciolo di rancore per avermi trattenuta in quella malsana relazione troppo a lungo.

“Med, sei sicura?” mi chiede Roby, appoggiandomi una mano sulla spalla.
“Sicura. Non mi importa di lui, dico davvero. Mi infastidisce che pensi di avere qualche genere di potere su di me, ma che ci sia o meno, non fa differenza.” rispondo sorridendo e invitandoli a dirigersi verso il laureato, prima di sederci negli ultimi posti liberi.

Dalla mia posizione posso chiaramente vedere L, seduto all'altro capo del tavolo, non troppo distante da noi. I miei amici partono subito all'attacco con discussioni, in realtà poco consistenti, ma mirate a riempire il silenzio e la tensione che minacciano di crearsi.

“ Ok, direi che è ora di bere, così almeno non sarò costretto a dire a Leo che, per l’ennesima volta, è uscito vestito come uno dei Teletubbies” propone Jack, schioccando le dita verso un cameriere mentre il povero Leo abbassa lo sguardo verso il suo discutibile maglione verde mela.
“Dio quanto sei cafone, Jack! Non è educato chiamare il cameriere come se fossi un reale!” lo rimprovera Jules, sistemandosi il tovagliolo sulle ginocchia e spostandosi i ricci dal viso.
“Taci essere inferiore con una meravigliosa collana.” le risponde lui, sollevando il mento e facendoci tutti ridere.

“Cazzo Jack, la devi smettere di notare cose come le collane delle donne.” si lamenta Leo, borbottando a bassa voce per non farsi sentire dagli altri invitati e noi tutti ridacchiamo di fronte al loro infantile modo di comunicare.
“Primo, se tu non sai osservare, non è colpa mia. E secondo io non  accetto consigli da uno che esce in pigiama!” ribatte lui sereno, perseverando nella sua impresa di farsi notare da qualche cameriere.

“Non sono in pigiama, demente!” si difende Leo.
“Beh Leo, bisogna ammettere che la tua tenuta non è esattamente elegante.” incalza Bet.
“No, fa proprio schifo” conclude Jules, ridacchiando con Roby che inizia a consultare con aria professionale la carta dei vini.

Fa sempre l’esperto ma in realtà non ne capisce nulla e la sua è solo una scusa per poter assaggiare ogni volta una bevanda nuova. Roby è un vero genio ma manca totalmente di cultura enologica.
La loro conversazione prosegue, ma io smetto di ascoltarli quando, voltandomi per un secondo, incontro gli occhi di L , che mi fissano pieni di astio: non fa nulla per nascondere la propria irritazione nei miei confronti e io non posso fare altro che trovarlo ancora più ridicolo.

Tengo il suo sguardo con fermezza e, decidendo di mostrargli la mia netta superiorità morale, forzo un sorriso di circostanza e lo saluto con una mano; al gesto lui sembra indispettirsi ancora di più, al punto che smette di guardarmi e volta completamente la testa nell’altra direzione.

Che imbecille.

“Vuoi che lo picchi?” sento J sussurrarmi, con un tono a metà tra il serio e l'ironico.
Io mi obbligo a lasciare il volto di L per guardare il ragazzo di Bet e, sorridendogli, scuoto la testa, spiegando:
“Per carità, J... Bet non smetterebbe più di farti la ramanzina. Davvero, per me L non è un problema. Sembra più che altro che lo sia io per lui.”
“Il che è ridicolo, visto come ti ha trattata per anni.” considera Leo a denti stretti, spintonando Jack, il quale cerca in ogni modo di afferrare il cellulare del mio amico per leggere i suoi messaggi.

“Giusta osservazione, Teletubby.” ribatto sollevando il bicchiere per brindare alle parole del mio amico e poi aggiungo:
“Seriamente, problemi suoi. Fa due fatiche: una a incazzarsi e l’altra a farsela passare.”

Per un po’ l’aria si alleggerisce notevolmente e le conversazioni si fanno più ridicole e poco incentrate sul futuro, sul presente e sull’università. E di questo sono incredibilmente grata.
So che tra pochi giorni dovrò rendere conto alla mia famiglia di me e di quello che intendo fare, ma per stasera mi concedo il lusso di lasciare che i miei amici mi distraggano il più possibile, per quanto ci si possa distrarre ad una cena di laurea.
La fortuna sembra, però, essere dalla mia e, il fatto che la compagnia sia così numerosa, mi permette di restarmene isolata con i miei amici in fondo al tavolo e non essere bombardata di domande sui miei risultati universitari e scolastici.

La gente ha il terribile vizio di non farsi mai gli affari propri.

“Quel coglione continua a guardare da questa parte.” sibila infastidito ad un tratto Leo, suscitando lo stupore generale.
Leo non è mai così aggressivo e devo ammettere che non sapevo fosse così interessato ai problemi che L mi potesse causare: il che è sciocco da parte mia, visto che lui ha sempre palesato la sua disapprovazione nei confronti del ragazzo che frequentavo.

“Lascialo perdere.” gli consiglia Roby offrendogli una fetta di pane che il mio amico accetta, senza spostare l’attenzione da L e scuotendo la testa in un gesto di disapprovazione.
La cosa mi lusinga ma mi preoccupa allo stesso tempo: mi chiedo se Leo abbia capito che di L non me ne frega più niente.

“Uno che si veste così e si mette tutto quel gel nei capelli, non merita nemmeno un secondo sguardo” sentenzia Jack, sistemandosi il bavero della giacca, compiaciuto.
“Giusto, parliamo d’altro...” suggerisce Cucciolo, e solo in quel momento mi ricordo della sua presenza.
E sono estremamente impressionata - positivamente - da come si sta comportando stasera, dato che, di norma, Cucciolo non viene ricordato per il proprio contegno o per la sua abilità di non farsi notare.

Mi volto verso Jules con sguardo interrogativo e lei mi sorride orgogliosa, sussurrando:

“Visto? Mi aveva promesso che non mi avrebbe dato motivo di preoccuparmi.”
“Sono stupita.” le rispondo con sguardo divertito e alzando una mano perché lei possa battere il cinque con la sua.
“Non dirlo a me. Sembra un vero signore!” ridacchia Jules fiera, riempiendomi per l’ennesima volta il bicchiere di vino rosso che io trangugio in un solo sorso.

E siamo al numero...? Non ne ho idea. Ho perso il conto dei drink e non mi interessa saperlo.

Quando finisce questa serata? Quando posso tornare a casa mia? Adoro i miei amici e gli sono grata per avermi reso più godibile questa uscita ma, ogni volta che metto piede fuori di casa, dopo qualche ora comincia a mancarmi l’aria.

Fortunatamente sento l’alcol iniziare a fare effetto: la testa è più leggera, inizio a sentirmi accaldata e molto meno tesa e, che ci crediate o no, comincio a non sentire più gli incisivi e le labbra sono intorpidite.
No, non è il principio di qualche patologia: è quello che capita a me quando sono ufficialmente molto più che alticcia. Se mi passo la lingua sui denti e li sento strani, ho la conferma che sono abbastanza ubriaca.

Spostando gli occhi sui miei amici realizzo che non sono l’unica ad avere subito gli effetti dei fumi dell’alcol: la cretinaggine si è dilagata quanto il vino e, nel controsenso che è la vita, la persona più controllata al momento a questo capo del tavolo è Cucciolo.

L’ironia della vita è mia amica.

Ridiamo tutti a frasi stupide, a battute non divertenti e siamo decisamente poco controllati fino a che Jack, in totale buona fede, domanda:
“Ehi Med, come va con Alex?” ed io, Bet e Jules ci blocchiamo con espressioni poco affascinanti sul viso.

Ah! Bella domanda.

“Altro vino?” propone Bet, scuotendo la chioma bionda, nella speranza di segnalare la inopportunità della domanda e Roby coglie al volo il segnale
“Ok, argomento errato, suppongo”
Io annuisco e abbasso lo sguardo: come glielo racconto quello che è successo negli ultimi giorni senza fare la figura dell’ idiota e incoerente?

Per qualche secondo tra noi cala un silenzio imbarazzato e tutti sembrano cercare qualcosa da dire per annientare la tensione; poi, dal nulla, ci pensa Leo ad aprire la bocca e a decapitare ogni genere di ilarità.
“Ehi Med, ho un’idea. Perché non ci fai una lista di argomenti di cui ci è concesso parlare, così evitiamo di toccare i tasti proibiti?” chiede con una punta di rabbia e so che, stavolta, con il mio amico ho passato il limite.

Leo non è dotato di grande pazienza, questo si sa, ma soprattutto non sopporta di dover camminare in punta di piedi attorno alle persone. E, più di ogni cosa, non tollera l’idea di vedermi fragile.
Io lo fisso ferita e un po’ spiazzata dalla sua reazione anche se sapevo che prima o poi avrebbe smesso di fingere che i miei silenzi andavano bene.
Gli occhi azzurri di Leo restano paralizzati suoi miei: sembra stupito anche lui di quello che ha detto e, forse, è dispiaciuto di aver scoccato una freccia così appuntita che ha colpito dritto al centro, ma sembra  allo stesso tempo sollevato.

Quasi avesse finalmente detto quella frase che vibrava sulle labbra di tutti, quasi non riuscisse più a sopportare l’obbligo di maneggiarmi come una bambola di porcellana, trattenendosi e costringendosi a ponderare continuamente ogni parola.
Faccio scorrere rapidamente gli occhi sui visi dei miei amici, rendendomi conto che tutti evitano di incontrare il mio sguardo. Tutti, tranne le mie due amiche. 

“Che cazzo, Leo...” sussurra Jules, schiarendosi la voce.
Lui tace, e poi distoglie lentamente lo sguardo dal mio.

Quella che fino a pochi secondi fa era un’atmosfera leggera e divertita, si è improvvisamente caricata di un peso enorme. Il peso del mio essere tanto inadeguata alle situazioni più normali, da qualche tempo.

“Va beh, comunque è tutto a posto...” prova a stemperare la tensione Bet ma io la interrompo:
“No, non lo è. E mi dispiace ragazzi. Alex non è un argomento tabù. Solo un po’ troppo complicato da spiegare in una serata come questa.” affermo cercando gli occhi del mio più caro amico che, però, continua ad evitarmi.
“Possiamo parlare di me e di Alex, davvero, solo non stasera: in questo istante c’è troppo vino nel mio sangue per riuscire a spiegarmi coerentemente.” concludo, vedendoli annuire e sforzarsi di capirmi ancora una volta, ma sui loro volti si riflette improvvisamente una punta di compassione, e per me è troppo.

Non voglio che provino pena per me. Sono troppo orgogliosa per sopportare la consapevolezza di suscitare pietà nelle persone che mi vogliono bene.

Io non sono una debole, cavolo! Non lo sono: sono una stronza, scorbutica e sarcastica, non sono questa sorta di fantasma di me che minaccia di prendere il sopravvento.

“Che hai da guardare?” sento Jack chiedere e, spostando l’attenzione sulla persona con cui sta parlando, mi rendo conto che le sue parole sono rivolte a L.
Mi giro e i suoi occhi rabbiosi si scontrano ancora una volta con i miei, lasciandomi intendere che ha sentito quello che ho appena finito di dire.
“Vado in bagno...” annuncio appesantita da tutto quel nervosismo e alzandomi rapidamente.
“Med...” mi chiamano Bet e Jules in contemporanea, ma io sorrido a entrambe e le rassicuro sussurrando un “Sto bene, ragazze. Tranquille, devo solo fare pipì...”, senza attendere una loro risposta e allontanandomi dal tavolo.

“Scusa, dove trovo il bagno?” chiedo a due camerieri fermi vicino alla cassa, cercando di apparire sobria e controllata.

“In fondo a quel corridoio. Dopo la porta della cucina” mi risponde sorridendo uno dei due e credo si sia accorto del fatto che sono visibilmente ubriaca.

I miei passi si fanno veloci, mentre raggiungo quell’angolo di solitudine di cui ho bisogno per riprendere controllo di me stessa e delle mie emozioni e, trovata la porta che reca l’insegna Donne, mi ci fiondo dentro, raggiungendo il lavandino e osservando la mia immagine nello specchio.
Gira che ti rigira, finisco sempre per rifugiarmi nei bagni: c’è davvero qualcosa di assurdo in me.

Guardo il mio riflesso e noto, per nulla stupita, che sono un disastro.
Come sempre quando bevo un po’ troppo, i miei occhi si sono fatti lucidi e la matita nera ai loro angoli si è lievemente sfumata.
L’acconciatura che Jules aveva creato si è lentamente scomposta e i ciuffi che mi incorniciano il viso si sono fatti più numerosi e ribelli.

Bella gnocca, insomma.

Mi bagno le dita di entrambe le mani e risistemo con accuratezza il mio trucco e i miei stupidi capelli e, sospirando, cerco di risvegliare il mio cervello dal suo stato di torpore da vino.

“Forza, Med! Basta fare l’idiota. Smetti di fare la debole.” ordino al mio stesso riflesso e penso che, quando faccio la persona severa, ho un certo polso, il che mi solleva perché potrebbe voler dire che la parte stronza che è in me può ancora avere la meglio.

Obbligo un sorriso ad apparire sul mio viso, apro il rubinetto e faccio scendere un po’ di acqua fredda, passandoci sotto i polsi, nel tentativo di attenuare i vapori dell’alcol.
Poi apro la porta del bagno, tornando nel corridoio della cucina, con gli occhi bassi, e continuando a ripetere a me stessa che non sono una debole.

Mentre cammino guardando a terra per controllare la direzione dei miei piedi, sento una voce fin troppo conosciuta dire:
“Ah, ora parli anche da sola?”

Alzo di scatto la testa e mi ritrovo davanti la figura di L che, con uno sguardo duro, mi scruta da cima a fondo.
“Che cosa vuoi?” gli chiedo tra i denti, restando ferma sul posto e pensando che il mio livello di ubriachezza ha decisamente superato la soglia che mi permette di avere i riflessi pronti.
“Niente che non voglia anche tu.” ribatte lui con un mezzo sorriso, avvicinandosi.

Credo che L abbia del tutto lasciato a casa i neuroni e viva in una sorta di universo parallelo: non posso credere che, dopo il modo in cui gli ho detto che non lo voglio più vedere, dopo aver fatto la figura dell’idiota con la sua serenata e dopo aver puciato il biscottino in ogni dove mentre io gli sbavavo dietro, questo ragazzo pensi davvero che io voglia qualcosa da lui.

Cerco di ignorarlo e di sorpassarlo, ma riesco solo a fare un paio di passi, prima che lui mi afferri per un braccio e mi blocchi.

“Lasciami.” gli ordino senza voltarmi e sbuffando, trovandolo sempre più patetico.

Il fatto che, al momento, sono certa che crede di essere l’uomo più sexy sulla faccia della terra, mi fa venire voglia di ridere. Cosa che inizio a fare incontrollabilmente quando lui mormora un “Eh, dai, Med..” con una voce che dovrebbe suonare suadente ma che, nel mio stato intossicato, mi fa pensare alle parodie delle voci delle hotline.
Lui, irritato dalla mia reazione e approfittando della mia distrazione, mi tira forte e mi intrappola contro il muro, posizionandosi di fronte a me e appoggiando un palmo sulla parete accanto alla mia testa.

Io, invece di preoccuparmi della sua cocciutaggine e della sua dimostrazione di orgoglio ferito, con la mente volo a quando contro la mia schiena c’era la porta di un bagno e in una posizione simile a quella di L c’era Alex.
Un sorriso si anima sulle mie labbra. Sono proprio ubriaca, non c’è alcun dubbio.

Alle spalle di L vedo la porta a vetri della cucina e le persone che si muovono veloci al suo interno e penso che siano molto più interessanti dell’idiota che persevera nel parlarmi.

“Ti trovo bene.” mi sussurra L ad un orecchio, e i miei sensi annebbiati percepiscono vagamente che il suo viso è troppo vicino al mio ma la luce pallida del corridoio e il caldo che si diffonde dalla cucina mi rintronano sempre di più.
“Ti ringrazio. È la tua lontananza che mi conferisce questo aspetto meraviglioso.” borbotto provando a spingere sulle sue spalle ma l’unica risposta che ottengo è un suo ghigno divertito.

La testa mi gira fortissimo e i miei riflessi sono molto più rallentati di quanto mi fossi resa conto: faccio pure un po’ fatica a mettere a fuoco gli oggetti e mi maledico per aver bevuto così tanto.

“Non dici sul serio.” sorride lui borioso senza neanche accorgersi del fatto che la mia attenzione è fissa sulle ante che dondolano avanti e indietro di fronte a me.
“Falla finita.” biascico cercando di mantenere stabile il mio baricentro e tentando ancora una volta di allontanarlo da me.

Ma io sono visibilmente ubriaca, lui no e i miei tentativi di assumere il controllo sono patetici e inutili. Quando cerco di spostarmi dal muro, lui mi afferra un polso e mi spinge contro la parete, fermandomi con il suo corpo.

Il suo volto è a pochi centimetri dal mio ed è adornato da un ghigno compiaciuto.
I miei occhi sono carichi di rancore e ira, ma lui non sembra per nulla intimorito.

“Med, smetti di fare la dura. Quanto credi di poter continuare ad inscenare questa cosa?” bisbiglia sfiorandomi il collo con le labbra ed io rabbrividisco per lo schifo.
“Perché è tanto difficile per te capire che non rientri più nei miei interessi?” sibilo tra i denti infuriata.
Ma lui sorride alla mia acidità e mormora: “E il biondo con cui vivi lo è?” e la sua voce riflette l’astio evidente sin da quando sono arrivata. Poi aggiunge:
“Sei sexy quando fai così”

“Ma cosa stai dicendo?! Non ti rendi conto di quanto sei ridicolo?”

Lui ammicca, ignora le mie parole e, prima che me ne accorga, le sue labbra sono sulle mie, e la sua lingua si è fatta forzatamente strada dentro la mia bocca.
I miei occhi si serrano stretti per il disgusto che pervade all’istante tutto il mio corpo, poi si spalancano per lo shock. Maledetto vino, maledetta me per essere ubriaca e per i miei riflessi da geriatria!
Lui lascia andare le mie labbra con il sonoro rumore di un bacio bagnato e piega di lato la testa. Ed è allora che il mio sguardo, ancora incredulo, incrocia quello dell’ultima persona al mondo che avrei voluto vedere ora.

Solo il vetro della porta della cucina ci separa e, guardando dentro quegli occhi blu, vorrei scomparire.


AN: Ok, questo capitolo era lungo. Ma parecchio lungo... se siete riuscite a non addormentarvi immagino vorrete tirarmi qualche pomodoro marcio: li trovate nella dispensa di Med, in basso a destra.
Considerando che sono ben conscia delle macumbe che mi starete tirando, infilo un rosario al collo e proseguo con i ringraziamenti.
Sono ormai un disco rotto, lo so ma, se vi siete unite al gruppo di FB, sapete quanto questo capitolo ci ha fatto penare e quanto sudore SoFreakingBecky (previously known as leti10), cioè la mia Beta, ha versato per correggere tutta sta roba a tempo di recordo. Ergo, unitevi a me nel ringraziarla immensamente per la disponibilità e per lo splendido lavoro. Anche da cattiva.

Poi ringrazio S. perché, quando siamo a cena, mi mostra tutto il suo entusiasmo, facendomi domande inopportune sui prossimi capitoli e dandomi suggerimenti "di pancia". S., I love ya.
E poi lo dedico alla mia D., perché sono fiera di te.


Io non posso non ringraziare ogni singola persona che legge, commenta e si entusiasma per questa storia: non credevo che avrei visto certi numeri accostati alla mia storia e vi ringrazio di cuore di tutto.

Come ho anticipato sulla pagina, so di avere parecchie risposte alle recensioni in arretrato: per postarvi il capitolo ho dovuto posticipare le risposte ma le ho lette e apprezzate tutte e provvederò a rispondere ad ogni persona. Davvero.

Ah... Se vi siete chieste a che cosa si riferisce il titolo, specifico che è un rimando al fatto che Med sorride cortesemente a L... e poi il vecchio L fa quello che fa...

Ok, ora vi lascio in pace. Sperando che siate sopravvissute a sto capitolo e ringraziandovi ancora per ogni preferito/seguito/ricordato e per ogni commento che lasciate.



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Capitolo 11
*** Do ut Des ***


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IPTT capitolo 11 (10 efp) Do ut des




Per chi avesse domande sulla storia, sui personaggi, sugli sviluppi futuri o che so io, c'è il mio simpatico profilo formspring... http://www.formspring.me/MedOrMad




CAPITOLO 10




Do ut Des




Esiste un confine netto tra la coincidenza e la sfiga prestabilita e programmata da quel simpaticone del Destino? C’è una percentuale di sfortuna che ognuno di noi è costretto a preventivare ogni volta che mette piede fuori di casa? E, soprattutto, c’è una maniera delicata per mandare a quel paese il suddetto Destino senza inimicarselo a vita?

No, perché, seriamente: quante potevano essere le probabilità che, in un mio momento di poca lucidità, quel cretino di L avesse l’ardire di baciarmi di nuovo e che il tutto avvenisse sotto gli occhi sbigottiti del ragazzo su cui ora sono concentrate le mie attenzioni e da cui, da almeno quaranta secondi, non riesco a spostare lo sguardo?

Il mio cuore deve aver iniziato a battere allo stesso ritmo di quando i miei mi chiedono delucidazioni sui miei esami (quindi parecchio, parecchio veloce; al limite del panico) nell’istante in cui ho incrociato le sue orbite blu e sul suo viso ha preso vita un’espressione di totale stupore. All’improvviso è come se tutto l’alcol che ho ingerito fosse affluito alle mie tempie e la mia capacità di vedere in modo nitido fosse venuta meno.

Non riesco a spostare lo sguardo da Alex e dalla sua postura tesa: se ne sta fermo immobile, protetto da un vetro che fa da barriera ai suoi pensieri, ma non alla scena che ha appena avuto luogo. È vestito con una divisa, suppongo da cuoco, nera; in una mano regge una padella e nell’altra un canovaccio: i suoi occhi restano allacciati ai miei e, quando per un istante sposto lo sguardo su una delle sue mani, realizzo che le nocche sono bianche per quanto forte sta stringendo l’oggetto che impugna.

Torno a cercare il suo viso che ora è concentrato sul retro della nuca di L, ed è allora che le mie attività cerebrali si riattivano e mi rendo conto di cosa sta succedendo e, per la seconda volta, capisco di essere una grandissima testa di cazzo (sia per aver bevuto, che per essermi distratta): quel verme di L sta baciando con insistenza il lato del mio collo, assolutamente ignaro di ciò che accade alle sue spalle e dello scambio di sguardi appena avvenuto tra me e Alex.

Sembra davvero troppo preso dal suo tentativo di farmi sapere che, nonostante tutto, io sono territorio suo, per essere cosciente di quanto assente io sia e di dove realmente sia con la mente: da Alex. Perché più i suoi occhi assorbono i movimenti di L contro la mia pelle, più il suo viso si rabbuia e più io mi sento intorpidita.

Questo deve essere uno dei quei sogni surreali in cui lo scopo di Morfeo è quello di farti imbarazzare il più possibile e di farti percepire la situazione con il più alto livello di disagio: come quando sogni di essere a scuola e di non avere le scarpe. E tutti se ne accorgono. O come quando sogni di spogliarti in mezzo al supermercato e sai di avere addosso un paio di mutande orrende, ma non riesci a fermarti. Ecco, questo deve essere uno di quei sogni, per forza, perché la delusione sul volto di Alex è qualcosa che mi sta facendo entrare in uno stato di fortissima ansia.

“Quell’Alex non ti sa baciare così, vero?” mormora L contro la mia pelle, ed io mi risveglio dal mio fottuto stato di incredulità e recupero il controllo della situazione.

L ha veramente passato ogni limite: se non capisce con le buone quale sia il confine che può avvicinare, lo capirà con le cattive.
Il mio coinquilino non si è ancora mosso dalla sua posizione e io vorrei non dover lasciare il suo viso, per paura di rompere una connessione di cui ho bisogno; ma ho seriamente necessità di chiudere definitivamente ogni possibile strascico a cui L si aggrappa e dimostrargli che non gli permetterò mai più di trattarmi come una ridicola pezza da piedi.

Recupero ogni pagliuzza di forza nel mio corpo e la concentro contro le spalle di L, spingendo con rabbia e repulsione.

“Sei un vero coglione.” ringhio, spingendolo lontano da me e lui oppone resistenza, ridacchiando meschinamente di fronte alla mia inferiorità muscolare per poi cercare di aggrappare nuovamente le sue dita attorno ai miei fianchi.

“Che ti prende? Lo sai che lo volevi anche tu.”

Dopo la cazzata della settimana appena proferita dal presente imbecille, lo faccio: quello che ogni donna rancorosa sogna di fare ma che le convenzioni sociali e la morale vietano.

Siccome sono ubriaca, arrabbiata, e ho fretta di raggiungere Alex - oltre al fatto che sono una brutta persona e che le convenzioni sociali mi hanno stancato - io lo faccio: concentrando tutta la rabbia che conservo da tempo nei suoi confronti, lo allontano e, con infinita soddisfazione, gli tiro uno schiaffo.

Bello forte. Di quelli che, spero, lasciano le cinque dita stampate sulle pelle: lui barcolla indietro, sconvolto dalla mia reazione e, massaggiandosi la guancia, mi guarda allibito.

“Sei impazzita?” mi chiede balbettando. Priva di qualunque desiderio di spiegare (per l’ennesima volta) a L perché non lo voglio più nella mia vita, mi limito a sibilargli di starmi lontano e, oltrepassandolo, spalanco la porta a vetri dietro cui Alex - immobile - continua a guardarmi.
Ma L sembra non voler capire l’antifona: cocciuto, mi prende per un gomito, nel tentativo di fermarmi; poi il suo viso incontra quello di Alex e sulle sue labbra prende vita un sorriso vittorioso. I due si fissano, in un silenzioso scambio di parole, mentre Alex aggrotta le sopracciglia, confuso e arrabbiato.
“Vattene...” sibilo un’ultima volta ma L non risponde: i suoi occhi restano incrociati con quelli del mio coinquilino ed è evidente che l’unica cosa che conta in questo momento è la sua erronea convinzione di aver vinto l’inesistente confronto tra loro.

“Falla finita. Hai veramente superato il limite: vai via, ok? E piantala di fare a gara con Alex: se davvero ci fosse competizione, tu perderesti.”

L sposta lo sguardo da me ad Alex; si decide ad allentare la presa e lascia ricadere il mio braccio lungo il fianco. Poi indietreggia, ignorandomi e alzando le braccia in segno di finta resa e si allontana: quel ghigno consapevole sempre stampato sul suo volto ed i suoi occhi ancora su Alex.

Io sospiro, decisamente sconcertata dagli ultimi eventi ma più che decisa a cancellare L dai miei ricordi per concentrarmi su Alex: spingo la porta della cucina, scuotendo il mio coinquilino da quello stato pietrificato in cui era rimasto fino a quell’istante.
“Signorina, mi dispiace, ma non può entrare qui!” mi fa notare un collega di Alex, parandomisi davanti e invitandomi ad uscire con un gesto della mano.

Io ignoro il ragazzo e mi faccio strada dentro la stanza, ma Alex, una volta realizzato il mio intento, si allontana veloce da me ed inizia a muoversi con frenesia tra i fornelli.

Ma io non mollo.
“Alex, non è come sembra...” sussurro alle sue spalle, mentre lui prosegue con abilità nel suo lavoro.

Che frase idiota: ovviamente io non me ne potevo uscire che con una frase inutile come questa.

“Med, devo lavorare.” risponde semplicemente lui, senza guardarmi e portando tutta la sua attenzione su un delizioso risotto ai funghi.

Per qualche istante mi lascio distrarre dalla leccornia e mi domando se sarebbe inopportuno chiederne un assaggio: voglio dire, ha davvero un’aria invitante! Poi mi ricordo che qui c’è in gioco qualcosa di più delle mie golose papille gustative quindi, scuotendo il capo, mi porto alla sua destra e sparo la successiva ovvietà:

“Alex, ti giuro che non è andata come pensi tu.”

Oh, mio Dio: sono veramente patetica! Sono le regina delle ciccione patetiche. Oltre ad essere una vera imbecille e, probabilmente, essermi bruciata ogni occasione con Alex. Le mie sorelle sovrappeso mi rinnegherebbero a vita e mi caccerebbero dal club Solo per taglie forti.

“Med, io non penso niente. Ora vattene. Non ho tempo per te o per queste cose, adesso.” ribatte aggressivo, mescolando rabbiosamente il risotto e allontanandosi da me di qualche passo: e più si sposta, più mi convinco che non posso uscire di qui prima di avergli spiegato.

Non so perché è così importante che mi ascolti, ma poco conta.

“Signorina, per favore, devo chiederle di uscire...” incalza il ragazzo di prima, distraendomi dal mio complicatissimo compito di chiarire la mia posizione, ma io continuo a fingere di non sentirlo.<

“Alex, cazzo, fermati un secondo. Devi starmi a sentire.” insisto continuando a muovermi dietro di lui, incurante degli occhi dei suoi colleghi fissi su di noi.

Alle figure di merda ci sono abituata.

“Io non ti devo niente. Onestamente, non me ne frega nulla di quello che hai da dire.” rilancia, voltandosi di scatto verso di me ed i suoi occhi sono gelidi. Gli stessi occhi che di solito sembrano scintillare, ora paiono di vetro.

Ho fatto una... No! L ha fatto una cazzata!

“Che vuoi dire?” chiedo io tentennante.
Il silenzio che segue è completamente intriso del suo rancore, ma non è assolutamente sufficiente a prepararmi alla risposta che lo rompe poco dopo:

“Voglio dire che voglio che tu esca da quella porta, ok? Non ho tempo di stare a sentire quello che vuoi dirmi. Sei libera di fare quello che ti pare della tua vita. Avrei dovuto capirlo prima che ti avevo sopravvalutata.”

Le sue parole tagliano come rasoi. Sono volutamente cattive ma, cercando nei suoi occhi, spero di trovare un segno che mi faccia capire che non pensa davvero quello che ha detto. Al mio primo tentativo di incontrare le sue iridi, Alex abbassa il viso e riprende a lavorare con frenesia.
“Ti sbagli...”

“Ti chiederei di dimostrarmelo, ma non è questo il momento.” risponde secco, lasciando andare gli strumenti che impugnava e voltandosi verso di me così in fretta che mi ritrovo a indietreggiare di un passo; le sue mani si stringono in due pugni pieni di astio e i suoi occhi evitano i miei, optando per fermarsi sulle mie labbra.

Tento il tutto per tutto, consapevole del rischio che corro, appoggiando una mano sul collo: tutto il suo corpo si irrigidisce al contatto, ma riesco a costringerlo a guardarmi e, soprattutto, lui non si ritrae.
I suoi occhi, intensi più che mai, collidono con i miei, e sono carichi di rabbia, incertezza, disapprovazione.

“Perché non mi hai detto che lavoravi qui?“ gli mormoro piano mentre, con una eccessiva dose di audacia, lascio scivolare due dita tra i capelli sulla parte bassa della nuca.

Se si incazza, mi arriva un ceffone come quello che ho appena tirato io a L; e me lo meriterei tutto. Se scherzi col fuoco, sentirai odore di pollo bruciato perché ti sarai incenerito i peli delle braccia. È scientificamente provato.

Per qualche ragione, però, lui non reagisce al mio azzardo, molto più interessato a sottolineare quanto inopportuna sia la mia domanda.

“Credi davvero sia questo il momento di parlarne?” chiede quindi scettico, esternando il suo dissenso per la mia curiosità con una risatina incredula.

Unitevi a me, oh gente, nell’applauso alla mia stupidità. Sto peggiorando la mia situazione ad ogni frase proferita e, guardandolo in faccia, sento un nodo formarmisi in gola: cosa diavolo sto facendo?

“No, hai ragione, non lo è. Ti lascio lavorare, ma promettimi che quando torniamo a casa mi lascerai parlare.”
“Med, non mi devi dire nulla. Io non sono il tuo ragazzo.”

Nella sua voce si percepisce solo irritazione e la tensione che ha irrigidito ogni muscolo del suo collo è viva sotto il palmo della mia mano:

“Lo so, ma voglio che ne parliamo.” ribatto impedendogli di distogliere lo sguardo da me.
I suoi occhi blu, scuri per la rabbia e per il carico emotivo che li adorna, scrutano i miei per pochi attimi e so che lo sta facendo di nuovo: cerca ancora di leggermi dentro ma io, questa volta, non pongo barriere. Lascio che cerchi le risposte che vuole.
Poi, da un secondo all’altro, rompendo il pesante silenzio con un rapido “ok”, cerca di voltare la testa e di liberarsi della mia mano che ancora giace appoggiata sul lato del suo collo.

“Alex, non sei in pausa. Torna a lavorare!” urla una voce alle mie spalle. Scosso dall’ordine, si libera della mia presa e si concentra sul suo risotto.
“Sei arrabbiato?” mi trovo a bisbigliare, sicura che qualunque risposta non sarà quella che avrei voluto.

Perché se dicesse sì, mi sentirei in colpa per averlo deluso e perché, per una sciocchezza, ho rovinato qualcosa che doveva ancora nascere. E se dicesse no, sarebbe ancora peggio: vorrebbe dire che non gli importa, che non c’era alcuna possibilità che nascesse qualcosa e che sto facendo solo la figura dell’idiota.

“No.” risponde secco, ma non mi guarda mentre lo dice.

Tac! Ovviamente... Però la sua voce lascia trapelare esattamente il contrario: e, poiché sono di natura una a cui piace illudersi, sceglierò di credere che ha mentito e che c’è ancora qualcosa che posso fare.

“Alex, guardami!” gli ordino piano. Ma lui non lo fa.
“... per favore” supplico un’ultima volta.

Ruota per un secondo il viso verso di me, aggrotta la fronte sorpreso e mi chiede.
“Sei ubriaca?” Io arrossisco per l’imbarazzo ed annuisco.
“Abbastanza. Anzi, parecchio direi.”

Lui scuote la testa, credo in un gesto di disapprovazione, ma, conoscendolo, potrebbe anche essere per divertimento.
Cerco di sussurrare il suo nome ancora una volta, ma lui mi blocca.
“Ti prego, Med, lascia stare, ok? Ho un sacco di lavoro da fare e tu non dovresti essere qui. Mi metterai nei casini...”

“Ehi, San Francisco, se ci tieni a mantenere il tuo posto di lavoro, chiedi cortesemente alla signorina di uscire e rimboccati le maniche, o puoi anche non scomodarti a tornare domani.” strilla la stessa voce autoritaria di prima alle mie spalle e la cosa allarma incredibilmente il mio coinquilino che, d’un tratto, assume una postura preoccupata e di subordinazione.

“Hai sentito? Te lo chiedo per favore, vattene.” sussurra, distogliendo l’attenzione da me e regalando il suo sguardo ad una pentola fumante di risotto. 
“Ok, scusami.... mi dispiace” bisbiglio, lasciando andare il suo braccio e voltandomi.

Fatto il primo passo, sento la sua mano afferrare le mie dita e, con uno strattone veloce ma delicato, voltarmi nuovamente verso di lui.

“Ci vediamo a casa” sussurra guardandomi negli occhi, con uno sguardo che non so decifrare “E, sì Med, sono arrabbiato. Ora vai...” conclude, lasciando cadere la mia mano e dandomi le spalle.
Mentre mi avvio fuori dalla cucina, sono consapevole delle occhiate confuse e curiose che i colleghi di Alex mi lanciano furtivamente, ma non mi importa.

Appoggio entrambi i palmi sul vetro della porta e spingo, lasciando un Alex infuriato, mille domande, nessuna risposta e tante parole soffocate, alle mie spalle.

Non posso restare un minuto di più e non voglio rischiare di finire di nuovo in qualche situazione assurda con L; sono ancora ubriaca e non ho più le forze di proseguire con una serata che avevo predetto sarebbe stata difficile, ma che non potevo immaginare sarebbe andata così male.
Cercando di barcollare il meno possibile torno al tavolo dai miei amici per raccogliere la mia roba e lasciare i soldi: i loro sguardi interrogativi si piantano tutti sul mio viso ma il mio bisogno di fuggire da lì è più forte di qualunque altra cosa.

Bisbiglio a Bet e Jules che racconterò tutto domani, ma che ora me ne devo davvero andare e gli occhi irritati di Leo sfrecciano sul mio viso nuovamente: strike 2, Med.

Se c’è una cosa che ha sempre creato problemi tra me e Leo, è la mia tendenza a tenere tutto dentro finché non scoppio: è un atteggiamento che lui ritiene inutilmente doloroso e potenzialmente deleterio per i rapporti.

Ha ragione, ma a me non è mai importato più di tanto: stasera mi interessa ancora meno. Il mio amico dovrà conservare l’ira per quando sarò sobria e, soprattutto, quando non avrò un L che mi fissa soddisfatto e il pensiero degli occhi gelidi di Alex stampato in testa.

“Ma come pensi di tornare a casa?” chiede preoccupata Jules mentre io mi infilo il cappotto in modo goffo e stringo tra i denti il manico dell’unica pochette che posseggo.
“Prendo un taxi. Prometto che vi spiegherò tutto: ora però ho davvero bisogno di andare via di qui...” mi limito ad asserire dopo aver dato un bacio veloce ad ognuno di loro e dirigendomi velocemente verso l’uscita.

Appena metto piede fuori dal locale il mio cellulare suona, avvisandomi dell’arrivo di un sms di Bet che, allegando una faccina preoccupata, chiede cosa diavolo mi è preso e se lei e Jules mi devono seguire. Rispondo con un telegrafico “No, tranquille. Ho solo bisogno di stare da sola, ma grazie!” per poi dedicarmi all’impresa di fermare un taxi: venti minuti più tardi mi trovo sul sedile posteriore di una macchina che puzza di fumo di sigaretta, mentre un simpatico autista croato - che è sposato con tre figli, a suo dire e che mi invita ad andare in vacanza nel suo splendido paese l’estate prossima - mi racconta di quanto bravo sia a scuola il suo secondogenito.

Io sorrido come una marionetta ad ogni sua affermazione ma, in realtà, l’unica cosa che faccio è ripensare ad Alex e chiedermi perché, all’improvviso, è così importante per me che lui capisca cosa è successo. Perché dopo quel bacio il mio coinquilino è passato dal podio della lista di quelli che mi stanno sulle palle, al primo posto di quella di ragazzi con cui vorrei stare?

E più ci penso, più credo che Jules abbia ragione: Alex mi è sempre piaciuto. Il suo stupido modo di flirtare mi irritava perché mi piaceva: perché mi lusingava e perché, per una volta, sentivo che le attenzioni di qualcuno nei miei confronti erano genuine. E, per una come me, la cosa era talmente surreale che non potevo fare altro che risentirmi nei suoi confronti: perché aveva invaso il mio spazio vitale; perché si era insinuato nella mia quotidianità con naturalezza; perché quando discutevo con lui mi dimenticavo che avevo un grosso nodo in fondo allo stomaco che da sei mesi mi divorava; perché lui era un bel ragazzo e i bei ragazzi non flirtano con le ragazze stronze e col sedere grosso.

Mi irritava perché non era il ragazzo perfetto e dolce per cui avrei dovuto perdere la testa nelle mie recondite fantasie: era un frizzante ventottenne che si divertiva a provocarmi e che se ne usciva con frasi inopportune, che non si faceva problemi a invadere la privacy altrui (ricordiamo il problema cacca) e che si faceva i fatti miei senza raccontare assolutamente nulla di sé. Non era ciò che sognavo quindi, per questo stesso motivo, era proprio quello che volevo.

Che voglio.

Perché è reale.
Perché è imperfetto.
Perché è genuino.
Perché è Alex.

Non ho un’idea precisa di quanto tempo ho passeggiato distrattamente per il quartiere dopo che mi sono fatta lasciare all’angolo di casa mia dal taxista (combattendo con un fortissimo desiderio di fumarmi un intero pacchetto di sigarette), prima di ritrovarmi sotto casa ma, guardando lo schermo del cellulare, vedo che è passata l’una di notte e sono certa che, ormai, anche Alex sarà a casa.
Con l’ansia che sale, apro il portone del palazzo e mi trascino con cautela su per le scale con la tensione che si accumula nel mio corpo, mano a mano che mi avvicino al mio appartamento: arrivata al terzo piano mi faccio coraggio e mi avvicino alla porta.

Poi, a conferma di quanto codarda realmente io sia, appoggio un orecchio contro il legno per cercare di capire se il mio coinquilino è dentro e, con mio stupore, sento Alex gridare in inglese:

“That’s not why we are talking. This has nothing to do with me.... No, I’m not asking, I’m telling you...” poi una pausa breve, prima che la sua voce torni a riempire il silenzio.

“Well, I appreciate the interest and I don’t mean to be rude, but this is none of your business... No, no, I don’t care what Adam told you. He wasn’t supposed to say anything and I really don’t know what you expect me to do... I don’t wanna discuss that with you, for God’s sake! No, dad, don’t put her on the phone I really don’t... dad? Dad?! Damn!”

La curiosità inizia a farsi insopportabile mano a mano che le proteste di Alex proseguono e, quando rivela che il suo interlocutore è il padre, mi ritrovo a spiaccicarmi come una platessa contro la porta, nel tentativo di non farmi sfuggire neppure una parola. I genitori di Alex sono ancora svegli all’una di notte? I miei sono in fase di mummificazione a quest’ora, ne sono certa.

“Hi yeah, no, everything is fine. No, mom, I’m sorry but I don’t need this: I’m 28 and I can take care of myself.”

Beato lui.

“I’m not discussing this kind of things with you guys... I did! Well, it obviously didn’t work out or we wouldn’t be having this conversation. I... maybe Adam should pay more attention to his own problem and keep his nose out of my business... Are you kidding me? You seriously don’t know what his problem is? That’s amazing... Ok, well--”

Il mio coinquilino si interrompe di colpo nel momento in cui io infilo la chiave nella serratura; poi lo sento tagliare la telefonata e abbassare il tono della voce.

“Listen, I’ve gotta go now. Thanks for asking but, like I said, I’m a grown ass man, I can handle my business.”

Conclusa la telefonata, l’appartamento cade nel silenzio più totale e io ripeto nella mia testa le parole che ho appena sentito dire da Alex.

Dunque: litigava con i genitori perché sembravano chiedere spiegazioni su qualcosa che un certo Adam gli aveva riferito. Apparentemente qualche problema personale di Alex che, però, pare pensare che il suddetto Adam dovrebbe preoccuparsi di più del suo problema e tenere il naso fuori dagli affari suoi. In conclusione Alex ringraziava, si fa per dire, per l’interessamento ma rifiutava un aiuto perché sostiene di avere ventotto anni e potersi occupare da solo dei propri affari.

Perfetto: non ho capito assolutamente nulla e ora sono divorata dalla curiosità.

Scuoto la testa. Per quanto mi sforzi di capire la conversazione, continua a non avere senso. È inutile provarci.

Aspetto ancora qualche secondo fuori dalla porta: un po’ per concedere ad Alex il tempo di ricomporsi, e un po’ perché ho una paura fottuta di affrontarlo.

Come ho fatto a creare tutto questo casino?

Sospiro e faccio ruotare la chiave nella toppa. Basta tergiversare.
Spingo piano contro il legno della porta e, silenziosamente, mi faccio strada dentro il nostro appartamento.
Quando raggiungo il salotto, l’immagine che mi si presenta davanti agli occhi crea un nodo di tristezza nel mio stomaco.
La stanza è immersa nella penombra, illuminata solo dalla luce dei faretti della cucina: il cellulare di Alex è appoggiato sul tavolino e si illumina ad intermittenza, segnalando una chiamata in arrivo.

Una chiamata a cui lui non sembra essere intenzionato a rispondere.

Il mio coinquilino è seduto sul bordo del divano e mi dà le spalle: i palmi delle sue mani sono premuti contro gli occhi, quasi cercasse di nascondersi dal mondo; la testa china e le spalle basse, come se si fossero lasciate andare sotto il peso che le opprimeva. Ha addosso un paio di jeans e una maglia a maniche lunghe nera: ai miei occhi sembra estremamente vulnerabile, ma intimidatorio allo stesso tempo.

Non so se si è accorto della mia presenza nella stanza, ma se l’ha fatto, sembra che la cosa non lo tocchi perché non si muove dalla sua posizione: rimane zitto e fermo, intrappolato in non so quale spirale di pensieri.
Aggiro il divano e mi fermo in piedi di fronte a lui; poi gli sfioro i capelli e la sua reazione mi sconvolge: si ritrae all’istante dal mio tocco, si alza in piedi velocemente e, in un battito di ciglia, è dall’altra parte della stanza.

Io mi volto verso di lui e incontro i suoi occhi: sono così scuri da sembrare quasi neri e il suo sguardo equivale a un centinaio di lame conficcate nel petto.

“Ce ne hai messo di tempo. Immagino la tua serata si sia conclusa nel migliore dei modi.”

Io ignoro la sua domanda, piena di sarcasmo e cattiveria, e domando:
“Stai bene? Che è successo?”
“Non sono affari tuoi.” sputa lui, lanciandomi l’occhiata più crudele che abbia mai visto sul suo viso.
“Alex...”
“No, stanne fuori, Med. Fatti i cazzi tuoi, ok?”
Io resto quasi inebetita dalla potenza del suo tono; Alex non mi ha parlato così ed io non so cosa rispondere.

Deglutisco a fatica e abbasso il volto: normalmente arriverebbero le sue scuse per come mi ha riposto, ma nessuna sillaba lascia la fessura tra le sue labbra.
“Credevo dovessimo parlare...”
“E invece ho cambiato idea. Ho deciso che non ne vali la pena, Med.” ringhia senza spostare gli occhi da me.

A questa frase il mio viso scatta in su e non riesco a controllarmi. Attraverso il salotto a lunghi passi e mi posiziono di fronte a lui, cercando nei suoi occhi. Che cosa di preciso non lo so, ma almeno qualcosa che mi suggerisca che non sta dicendo sul serio.

Ma non trovo nulla al di fuori della rabbia.

“Che cazzo ti è preso?!” bisbiglio appoggiando una mano sul suo braccio.
“Non toccarmi, Med.” ribatte lui scrollandosela di dosso.

Il fatto che continui a ripetere il mio nome, non so perché, ma rende le sue parole ancora più cattive. Forse perché inconsciamente avrei voluto credere che tutta questa rabbia non fosse rivolta davvero verso di me.
Io lo fisso e prendo un sospiro vibrante: i suoi occhi si addolciscono un po’ e mi illudo che, a breve, le sue labbra sussurreranno un sottile “mi dispiace”.

Ma quelle parole non arrivano; al loro posto ne escono invece alcune che mi distruggono.

“Devo complimentarmi per la performance?”
 E allora resto davvero a corto di risposte.

Come si controbatte ad una frase simile?

A questo punto il silenzio diventa troppo pesante, faccio un passo indietro, mi volto e, lentamente, mi dirigo verso la mia camera.
“Dove pensi di andare?”

È pazzo. Sono certa che converrete con me che è fuori come un balcone.

Io mi blocco nuovamente perché, a questo punto, l’orgoglio ha la meglio. Devo per forza essermi persa un passaggio, perché non c’è nulla che io riesca a trovare che possa spiegare la crudeltà che si è impossessata di Alex.

“Che vuoi che ti dica?” gli chiedo sospirando spazientita e ancora stupita dal suo modo di affrontare la cosa.
“Voglio che mi dici se ti è piaciuto. Voglio sapere se hai così poco rispetto per te stessa da provare piacere nel farti sbattere da uno che si è approfittato di te per anni e nel frattempo si divertiva a giocare al dottore con mezza città. Voglio che mi dici perché nel mio cervello era giusto starti lontano per non rischiare di complicarci ancora di più la vita o ferirci. Voglio sapere perché alla fine invece mi hai dimostrato che sei solo senza morale e che non ha un briciolo di amor proprio.” mi urla in faccia, pietrificandomi.

“Mi stai dando della puttana?”
“L’hai detto tu, non io...”

E le sue parole sono così taglienti che il mio cervello non riesce a formulare nessuna risposta se non un patetico:
“Avevi detto che mi avresti lasciato parlare.”
“Le parole sono sopravvalutate, Med. Quello che conta sono i fatti. E i fatti mi dicono che la stronza sei tu, e quello ferito sono io.” conclude lui voltandosi e allontanandosi da me.

Poi lo vedo raccogliere la giacca dal bancone della cucina ed estrarre il suo mazzo di chiavi, prima di raggiungere l’entrata di casa a lunghi passi e abbassare la maniglia.

“Ma dove vai?!” domando alzando la voce, ma il mio quesito resta senza risposta: l’unico rumore che segue le mie parole è quello della porta che sbatte quando lui esce.

Ed io mi ritrovo sola in mezzo al salotto, nel silenzio di questo appartamento che, all’improvviso, sembra enorme e terribilmente freddo: resto imbambolata al centro della stanza per non so quanto tempo, convinta che, da un momento all’altro, il gemello buono di quell’Alex con cui ho appena litigato (non si sa bene neanche perché, visto che fino a prova contraria io e lui non stiamo insieme; il che dovrebbe ridimensionare ogni tipo di sceneggiata che uno può fare all’altro) rispunti da dietro la porta e mi dica che mi stava prendendo per il culo.

E invece nulla di tutto ciò succede: due ore dopo mi infilo sconsolata il mio pigiamotto e sguscio sotto le coperte, sicura che il mattino seguente lui si sarà calmato (e avrà preso delle medicine per quel suo evidente disturbo psicologico!) e potremo parlare civilmente.


Take a break

SI INVITA IL GENTILE LETTORE AD ALLONTANARSI DAL PC E INSERIRE UNA MASSICCIA DOSE DI CAFFEINA O TEINA NEL PROPRIO ORGANISMO: LA STRADA VERSO LA FINE DEL CAPITOLO è ANCORA LUNGA.


Ma anche la mia seconda ipotesi viene confutata: al mio risveglio la casa è esattamente come l’avevo lasciata la notte prima e di Alex non c’è alcuna traccia.
La porta della sua stanza è spalancata: dopo essermi avvicinata con un’aria un po’ sconsolata, mi appoggio allo stipite della porta, decidendo che può andare a farsi benedire e che non aveva alcun diritto di trattarmi in quel modo.

Dunque, con l’eleganza che mi contraddistingue da sempre, mi spingo lontana dalla porta e mando a ‘fanculo la stanza di Alex con il terzo dito: e mi sento subito incredibilmente meglio.
Mi dedicherò a questo rito più volte durante la giornata odierna, fino al ritorno di quel troglodita.

Poi, sollevata, mi abbandono ad una serie di insulti più che leciti nei confronti sia di L che di Alex, facendo colazione in conference call su Skype con Bet e Jules, per aggiornarle come si deve sui fatti della sera precedente.

Bet avanza l’ipotesi di denunciare L per molestie sessuali; poi però ritratta perché dice che, avendolo schiaffeggiato, se lo provocassi rischierei una querela per percosse. Io, con la bocca stracolma di plum cake inzuppato di caffè (plum cake di Alex, si intende: il furto di cibo fa sempre parte della mia vendetta, insieme al dito medio verso la stanza), domando:

“Scusa, ma la legittima difesa?”
“Sei più grossa di lui: non ti crederebbe nessuno.” risponde lei prima di imprecare perché, come ogni santa mattina, ha immerso troppo a lungo il biscotto nel caffellatte e le è ricascato nella tazza.
“Che stronza, Bet!” la apostrofa Jules masticando i suoi special K e dichiarando estasiata:
“Io sono troppo felice di tutta questa storia!”
“Ma che... Jules, ma vai a farti benedire!”
“No, cioè, mi dispiace che tu abbia dovuto tollerare la lingua di L nella tua bocca e mi rammarico che tu abbia visto svanire il pisello di Alex...”
“... così, da davanti al naso...” incalza Bet, ridendo.
“... insomma, ce l’avevi in pugno!” conclude Jules mentre io osservo indifferente lo schermo del pc.

“Aveva il pisello di Alex in pugno?!” urla Bet euforica e stupita “Ma quando l’ha detto? Me lo sono persa!”

“Non ho mai avuto il pisello di Alex in pugno, bionda stupida!” mi intrometto per un attimo, prendendo un secondo plum cake e fissandolo con aria minacciosa: ne mangerei un altro solo per rendere la mia vendetta più realistica. Poi, però, Jules ricomincia a parlare e io mi distraggo dai miei intenti criminali:

“Testa di gallina! Parlavo in senso metaforico! Comunque, sono molto contenta perché Alex è chiaramente pazzo e io posso fare una tesi su di lui!”

Da quel momento in poi il delirio ha la meglio su qualunque auspicabile parvenza di senso; per più di un’ora me ne sto in pigiama a ridere con le mie diversamente intelligenti migliori amiche.
Quando le saluto, però, il silenzio della casa torna a farsi sentire freddo e costante: credo che oggi potrebbe essere una giornata no.

Osservo la mia immagine riflessa nel vetro del forno e, come un vera cretina, mi faccio una domanda che, ad alta voce, non mi sono mai rivolta:

“Med, ma che cos’hai? Che c’è che non va?”

Ma il mio riflesso non parla: resta zitto a fissarmi e aver sentito quelle parole pronunciate dalla mia voce, è stata una delle cose più brutte degli ultimi sei mesi.

Certe volte me ne sto sdraiata sul divano, con un libro appoggiato sulla pancia, a pensare. E in quei momenti mi rendo conto di quanto la vita non aspetti nessuno. Di quanto i piccoli e grandi problemi che ci affliggono siano irrilevanti nello scorrere dei giorni. La giostra del tempo non si ferma solo perché noi vorremmo trovare il pulsante per farla smettere di girare, anche solo per un attimo.
E quello che più ti lacera è la presa di coscienza che, attorno a te, le persone continuano a muoversi, al passo giusto, al ritmo che le lancette dell’orologio battono, camminando sui nastri della quotidianità che conoscono e che hanno, con fatica, costruito.

Mentre tu te ne stai fermo, nel piccolo buco che il peso della tua inadeguatezza ha creato, osservandoli. E la tua mente non lavora. Il tuo corpo non collabora. La tua anima non respira più come tu vorresti. Il tuo cuore batte al tempo sbagliato. La tua voce non si sente, perché il frastuono del mondo è troppo forte, e il soffio del tuo grido di aiuto, troppo silenzioso e incomprensibile.
E allora resti immobile, sentendo un male dentro che cresce, vedendo i treni di quelli che ami, correre lungo i loro binari, e gli occhi di chi ha vissuto accanto a te voltarsi indietro ogni tanto per guardarti con aria interrogativa, senza capire perché il tuo vagone si è fermato.

Il mio flusso di riflessione viene interrotto dal suono del campanello della porta. Sospiro grata e contraggo i muscoli, sollevandomi dalla fossetta che il mio corpo ha creato sul divano e dirigendomi verso la porta.
Aprendola vengo salutata dagli occhi azzurri e consapevoli di un amico che, proseguendo sulle rotaie della sua vita, non ha capito perché io abbia smesso di viaggiare.
“Oh, ciao Leo.”
“Posso entrare?” domanda lui con aria seria.
“Certo, vieni.”
La mia voce è incerta e, aprendo di più l’entrata per fargli spazio, mi chiedo se voglio davvero parlare con lui.
Il mio amico si fa strada nel mio appartamento senza ostacoli e poi, in silenzio, si siede sul divano.

Da quell’istante si crea una strana atmosfera: tesa e inusuale per me e Leo.

“Allora, che succede?” dico, tentando di rompere un ghiaccio che non so come si sia formato.
Lui si sfrega i palmi l’uno contro l’altro e appoggia i gomiti sopra le ginocchia, cercando le parole giuste, ma dalla sua bocca escono solo una serie strana di formalità che appesantiscono ancora di più l’aria.
Leo continua ad evitare il mio viso e a far ruotare la testa, fingendo di osservare gli oggetti attorno a noi, come se questa casa gli fosse estranea.

Tace.

“Leo?” lo richiamo all’attenzione e lui si volta verso di me.
“Mmm?”
“Che sei venuto a fare qui?”

“Oh, scusa, ti ho disturbato? Non ci ho pensato. Io...” accenna ad alzarsi in piedi.
“Leo finiscila! Perché ti comporti così? Perché sei così teso?”

“Ok, hai ragione. Non so di preciso perché sono qui. È solo che io...ecco insomma....” balbetta, cercando la frase giusta e, dopo vari tentativi, sembra trovare il coraggio di buttare fuori il peso che lo schiaccia:

“Mi dispiace per ieri sera.”

Io lo fisso sbigottita e confusa: non sono sicura di sapere se si sta scusando per quello che mi ha detto o per altro, ma Leo raramente si scusa, anche quando ha torto; quando lo fa in genere si tratta di un problema che lui considera grave e questa cosa manda in cortocircuito i miei sistemi di difesa.

“Per cosa?”
“Per quello che ti ho detto. Sì, insomma, per averti accusata di avere troppi argomenti tabù” mi spiega guardandomi negli occhi; il mio disagio si manifesta in un insistente tic di ostinata tortura dell’unghia del pollice. No, non la mangio: io la mordicchio fino allo sfinimento; compio un’opera di assottigliamento per usura e la cosa mi rilassa molto più di quanto un morso netto potrebbe mai fare.

“E’ solo che certe volte è frustrante: basta una parola sbagliata e tu scatti.” continua, nella speranza di ricevere un segno da me.

Ma io mi sento improvvisamente inadeguata e mi vergogno per averlo costretto ad arrivare a questo punto: perché avrei dovuto aprirmi con lui come ho cercato di fare con Bet e Jules. Ma la cruda verità è che di Leo io avevo paura. E imbarazzo. Profondo e semplice imbarazzo.

Il mio amico è una persona pratica: non si sofferma su lunghe introspezioni logoranti, non l’ha mai fatto. Il ruolo dell’analisi è sempre spettato a me; io sega-mentalizzavo, lui ideava il piano d’attacco.

Ora: è risaputo che, quando si tratta di problemi degli altri, siamo tutti dei gran fenomeni. Parliamo con cognizione di causa, usiamo un occhio critico e razionale, diamo consigli ponderati e su misura per l’amico di turno: è una scienza collaudata e lo scoprirci così maturi e così arguti e sensibili ci inorgoglisce in modo schifoso.

Ma siamo dei falsi smisurati: o meglio, il consiglio lo diamo sempre col cuore ma, e non provate neppure a negarlo, usiamo costantemente due pesi e due misure quando poi si tratta di noi.
Tanto per cominciare, diveniamo dei sottosviluppati mentali al punto che non siamo più neppure in grado di prendere le decisioni più scontate; poi, allorché ci trovassimo ad affrontare un evento simile a quello per cui abbiamo dato un suggerimento ad altri in passato, d’un tratto, chissà perché, quello stesso consiglio per noi “non andrà bene”.

E, infine, chicca di superlativa dimostrazione di errata percezione, c’è la drammatizzazione; l’incremento del vittimismo e della gravità: noi soffriamo e ci torturiamo molto di più perché, ovviamente, il nostro problema è molto più grave. Dunque, siamo ampiamente legittimati a gongolarci nell’autocommiserazione e non ci è più possibile usare i due neuroni che abbiamo per razionalizzare.

Sto generalizzando? Sì. Sto attribuendo a tutti l’atteggiamento di pochi? Forse. Sono più che certa che, in qualche misura, questa teoria si applichi a chiunque? Assolutamente sì.

Capirete, di conseguenza che, quando la consigliera ero io e Leo era il soggetto con quesito a cui trovare la risposta, la mia analisi dei fatti era puntuale e profonda: e lui agiva di conseguenza. Processo rapido e, per me, anche indolore, direi.

Ma, con l’inversione di ruoli, si è invertita anche la mia capacità oratoria e, piuttosto di risultare patetica ai suoi occhi, ho taciuto.

Sì, è vero, ho sperato di farla franca e che la sua sensibilità da mandria di gnù impazzita gli impedisse di percepire la realtà dei fatti: beh, ho fallito e il mio amico è più scaltro del previsto.

Mi alzo dalla mia posizione sulla poltrona e mi dirigo verso la cucina, senza proferire risposta.
“Med...” si lamenta lui, vedendo la mia reazione.
“Leo, non fa niente, davvero. Tranquillo. Va tutto bene. Io sto bene.” ribatto dandogli le spalle.
“No Med, non va tutto bene. Io sono stato sgarbato ma, porca vacca, non riesco più a capirti.”

“Che vorresti dire?” chiedo indignata, ma in realtà so da dove vengono le sue parole, e non lo posso biasimare. Io sono cambiata negli ultimi mesi, e non certo in meglio.
“Che non so più chi sei. Non ti capisco. Non capisco come ci si deve comportare con te. Non so se sei diventata una stronza a cui non frega più nulla dei suoi amici, o se...se....vedi? Non ho neppure un’alternativa. Non so più nulla.”

“Va tutto bene, è solo un periodo un po’ così. Ho avuto da fare, non mi sono sentita bene e..” cerco di giustificarmi io, accampando scuse banali.
“E cosa, Med? Sono mesi che vai avanti con queste cazzate. Sempre e solo scuse. Quando ti fai vedere sembra che non ti importi più di nulla. Ed è evidente che non te ne fotte niente se sei con noi oppure no!” mi ferma lui, alzando la voce e appoggiando entrambe le mani sul bancone della cucina.

“Leo, non è come pensi.”
“E allora dimmelo tu com’è! Dimmi che ti passa per la testa, Med! Quando è successo che hai smesso di fidarti di me? Non mi parli più. Perché non mi racconti più della tua vita? Che cosa è cambiato?” incalza lui, cercando di spingermi ad aprirmi.

Ed è in quel preciso istante che realizzo che i miei amici non hanno capito. Non hanno visto. Non hanno percepito che stavo sprofondando in qualcosa che, ancora oggi, non so classificare. E quello che più mi spiazza è che non so se è colpa mia o loro. Non so se mi sono inconsciamente chiusa troppo, bloccando i cancelli della mia mente e del mio cuore ai miei amici, o se sono stati loro troppo ciechi per notare cosa stava succedendo.

No, non è vero: so che sono entrambe le opzioni. Le cose si fanno in due: io ho fatto il riccio e loro hanno evitato di andare in profondità. Hanno evitato: però ora Leo ci sta andando in profondità.

“Ti sbagli, io non ho mai smesso di fidarmi di te. Insomma, sei il mio migliore amico!”
“Oh, alla faccia del migliore amico!” ribatte lui, innervosito. “Così migliore che non sa nemmeno che diavolo è successo nella tua vita negli ultimi sei mesi.”

Io abbasso lo sguardo, colpevole.

“Parlami cazzo. Rispondimi. Io so di non avere un carattere facile, di non essere l’amico affettuoso o che se ne esce con frasi poetiche e perle di saggezza profonde. Ma tu sai come parlo. Tu sai che nelle mie risposte scherzose cerco sempre di darti una mano.” mi dice stanco e arreso.
“Non so cosa vuoi sentirti dire...”

“Voglio sapere che cosa ti è successo, perché questa nuova versione di te non la capisco, e, ad essere sincero, non mi piace affatto.” sentenzia lui, spazientito.

Io alzo il viso di scatto alle sue parole e realizzo che sta mollando. Sta dicendo che non ha più intenzione di provare a capirmi, che non ne può più e che rinuncia. Sta dando voce alla mia più grossa paura: quella di perdere i miei amici per quello che mi sta succedendo.
“Dici sul serio?” mormoro timorosa.

“Sì, Med, dico sul serio. Io ci ho provato in tutti i modi, te lo giuro. Ho provato a mandare giù la rabbia che sentivo salire ogni volta che inventavi una balla per non uscire. Ho cercato di non volerti prendere a calci tutte le volte che ti facevi vedere e che ponevi veti su ogni conversazione. Ti assicuro che mi sono sforzato di accettare questa nuova Med; che ho detto a me stesso che mi sbagliavo. Ma la verità dei fatti è che tu mi hai allontanato e io sono stanco di fingere che tutto vada bene, che tu sia la stessa persona di un anno fa.”

Le sue parole sono pungenti; sono esattamente le parole che ho temuto di sentirmi dire per mesi e che sapevo sarebbero prima o poi arrivate. I suoi occhi mi fissano potenti, mentre attende che io dia una risposta a tutte le sue domande: scrutando dentro quegli occhi chiari sento la rabbia salirmi al cervello.

“Quindi tutte le colpe sono mie?” e la mia accusa sembra stupirlo terribilmente.
“Che vorresti dire?”
“Ti sei accorto che ho qualcosa che non va, giusto? E allora perché non hai fatto nulla? Sono la tua migliore amica, eppure non mi sembra che il mio telefono abbia squillato miliardi di volte e che il mio amico abbia cercato di capire che stava succedendo...”

Dio, io non sono capace di chiedere aiuto, e questa è una mia colpa. Ma lui lo dovrebbe sapere: eppure è qui a farmi il processo, dandosi piena assoluzione e condannando me. Visto? Sto facendo la vittima. E anche lui. Due pesi, due misure: tutti vittime e nessun carnefice.

“Se avevi bisogno di me, perché non l’hai detto?”
“Perché non dovrei avere necessità di dirtelo, Leo...”
“Io non leggo nel pensiero, Med.”
“Bet e Jules non hanno avuto bisogno che glielo dicessi.” accuso senza riflettere e poi mi porto una mano sulla bocca, sconvolta dal fatto che quelle parole siano uscite proprio dalle mie labbra: lo sguardo di dolore che scoppia dentro ai suoi occhi è qualcosa che non penso riuscirò mai a scordare.

“Oddio, mi dispiace! Non... non volevo dirlo, davvero.”
“Beh, se è quello che pensi, sì.”
“Non lo è. Dio, Leo...” sussurro soffocata dal senso di colpa e, d’istinto, mi avvicino a lui e porto le mani attorno al suo collo, abbracciandolo.

Premessa: Leo non è affatto una persona fisica. È assolutamente allergico alle dimostrazioni di affetto tra amici che includano il contatto e, in genere, la sua frase preferita è Tirami giù le mani!, che non vuol dire un cazzo, ma che lui non cambia da anni.

Non riesco a credere di avergli detto che è un amico peggiore di Bet e Jules e, mentre premo il mento contro la sua spalla, gli occhi mi si riempiono di lacrime al pensiero di aver dato la stoccata finale a questa amicizia.

“Non lo penso, mi... mi dispiace...”
Lui resta immobilizzato per i dieci secondi più lunghi della mia vita e poi, contro ogni mia previsione, le sue mani sgusciano attorno ai miei fianchi. Pochi attimi dopo, Leo sta ricambiando il mio abbraccio.

“Med, devi darmi una mano qui... Io non so cosa devo fare.” la sua voce è solo un sussurro e, per una volta, mi concedo di lasciar scendere le lacrime.

Piango perché ho deliberatamente ferito il mio migliore amico: quanto dice questo di me e della persona che sto diventando?
“Se tu non mi parli, io non lo so capire cosa c’è che non va.”
“Il problema è che me lo chiedo ogni giorno e non lo capisco neppure io...” mormoro spingendomi sulle punte per mantenere la stretta sul suo collo, ben più in alto della mia normale bassitudine.


“Hai paura?”
“Sì.”
“Di che cosa?”
“Di me stessa.”

Non l’avevo mai detto ad alta voce in modo così diretto: cazzo, ho davvero paura di quello che potrei diventare se non trovo il modo per cambiare le cose.

“È l’università?”
“Anche...”

“Med, lasciala. Lasciala. Se contribuisce a farti stare così, lasciala. Non è così importante: e non è quello che vuoi fare. Lasciala.”

“Ok.” mi esprimo in modo telegrafico perché ho il terrore delle cazzate che potrebbero uscire di nuovo dalla mia bocca.
“Sì?”
“Sì.”

“Che altro c’è? È successo qualcosa di preciso?”
“Non lo so. Non trovo la risposta.”

È una conversazione al limite del senso compiuto quella che stiamo avendo, eppure - oltre alle analisi costanti che ho con Bet e Jules - questo è il modo più diretto in cui io abbia mai affrontato il malessere che mi cresce dentro.

“Lo vuoi il mio aiuto?” è una domanda onesta, sincera, preoccupata; così spiazzante che le mie lacrime aumentano e il respiro diviene difficile per i miei polmoni premuti contro il suo petto.
“Sì. Sì, lo voglio.” 
“Ok.”

E continuo a piangere come una cretina perché ho quasi perso il mio migliore amico e perché sono una vera e grossa merda. Mancano pochi giorni al pranzo con i miei genitori e questa domenica dovrò rispondere alle stesse domande che mi ha fatto Leo: eppure, nel terrore di perdere lui, una risposta ho avuto finalmente il coraggio di darmela.

Io questa università non la voglio fare. E non la finirò. Anche se lo facessi e prendessi la laurea, obiettivamente, a che cosa servirebbe? Fossi un datore di lavoro, non mi assumerei mai. Sono una biologa terrificante e darmi quel titolo è un vero insulto alla categoria.
Basta piangersi addosso: sto distruggendo con le mie mani tutto quello che mi circonda e, se non mi smuovo, rischio davvero di perdere tutto e affogare nel buio.

Una delle mani di Leo accarezza un paio di volte i miei capelli e la cosa mi sconvolge: l’emotività di questa conversazione, probabilmente, ha traumatizzato lui al punto da forzarsi in gesti che, in genere, gli farebbero venire l’orticaria.

Poi mi spinge delicatamente lontano di qualche centimetro e, guardandomi in faccia, il suo viso si contorce in una smorfia di disagio di fronte alle mie lacrime.
“No, senti, cazzo... non piangere. Già mi sento violentato da tutto questo appiccicume. Se poi frigni, vado in autocombustione per evitare la situazione!” esclama asciugandomi una guancia e io rido.

È il mio Leo. È il mio imbecille preferito.

“Mi dispiace davvero per come mi sto comportando e per quello che ti ho detto.” sussurro fissando il suo volto ancora contratto dall’imbarazzo e, per un attimo, lo vedo sussultare; forse la mia accusa di prima ha attraversato la sua mente come la mia.
“A me dispiace di aver capito e di non aver fatto niente.”

“Non spettava solo a te fare qualcosa.”

Sorride appena e, per sconvolgermi definitivamente, si china verso di me e lascia cadere un bacio sulla mia fronte.
“Ma è l’apocalisse?” scherzo di fronte al suo eccesso di umanità e lui, in risposta, mi tira una sberletta sotto il mento.

“Cazzo, sì. Mi sento quasi sporco dopo tutta questa sincerità. Potresti dire qualche porcata, così che io possa nuovamente sentirmi vivo?”

Io ridacchio alla sua stupidità e, dopo un paio di battute ad hoc per stemperare la tensione, lui annuncia che è arrivato il momento di salutarci perché lui non è un fancazzista come me e deve andare a servire la comunità.
Sono tutte cazzate, ma a Leo piace fare uscite idiote tipo questa.

Quando arriviamo sulla porta e lui fa un passo sul pianerottolo, ci scambiamo un insolito saluto:
“Scusami.”
“Anche tu.”

Quando richiudo la porta alle mie spalle, faccio un respiro profondo e sorrido: in quel buio devastante che sono io, ci sono piccole luci e, se trovo il coraggio di guardarle, forse posso smettere di avere paura.



Bathroom break


La direzione calcola che, a questo punto, potreste necessitare di una pausa pipì e di rinfrescarvi: nell'attesa, riordineremo per voi la vostra stanza. (No, grossa bugia.)



Sono passati tre giorni dalla sera della cena di laurea: tre fottutissimi giorni da quando ho discusso con Alex. Tre maledetti giorni dall’ultima volta che l’ho visto.

Non è più tornato a casa e i miei tentativi di entrare in contatto con lui sono andati a vuoto: la mia prima telefonata è stata prontamente respinta e il mio sms - nel quale gli chiedevo se potevamo risolvere la discussione come persone civili - non ha ricevuto risposta. Da quel momento in poi il suo telefono è rimasto spento.

Tre cazzo di giorni di trattamento del silenzio da parte di qualcuno che non è neppure il mio ragazzo: silenzio e astio per qualcosa che non ho fatto e non ho avuto modo di spiegare.

Tutto questo è così ridicolo che, per sfogare la frustrazione, mi sono ritrovata a svuotare interamente la libreria del salotto per risistemare i volumi in ordine di altezza e alfabetico: la cosa è così demenziale che ora, a metà dell’opera, avrei solo voglia di raccogliere tutti i libri impilati a terra e rimetterli sul mobile accompagnati da un cartello con scritto ‘Fanculo a tutti. Alex per primo.

Mentre mi sfogo sulla mia copia usurata dell'Amleto, sfogliando con rabbia le pagine e provando rancore nei confronti dell’atteggiamento immaturo di Alex, sento le chiavi che girano nella toppa della porta e il cigolio delle cerniere che annuncia l’arrivo del mio coinquilino.

Mi alzo di scatto dalla mia posizione sul tappeto e mi volto verso l’entrata, incontrando la sua figura che, a testa bassa, si addentra nel nostro appartamento.
Alex non alza lo sguardo e resta concentrato sul mazzo di chiavi che fatica ad uscire dalla serratura; lo osservo silenziosa e prendo atto del fatto che indossa gli stessi jeans di tre giorni fa - constatando che continuano a fargli un sedere appetitosissimo - e che i suoi capelli sono così spettinati che sarebbe lecito ipotizzare che ci abbia affondato le mani più e più volte.

Mentre lo scruto da cima a fondo senza proferire parola, lui finalmente si volta e si accorge di me: il viso sbigottito e il corpo improvvisamente di nuovo teso.

Oh, ma te la darò io una motivazione per essere teso, stupido idiota!

Lascio cadere il mio amato Amleto a terra e, aggrottando la fronte, incrocio le braccia sul petto, in attesa di sentire cosa abbia da dire.

Alex mostra tutto il suo disagio lanciando le chiavi sul bancone della cucina e iniziando a trafficare con la zip della giacca, accuratamente impegnato nell’evitare di incontrare di nuovo i miei occhi, prima di dirigersi verso camera sua e borbottare:

“Ciao.”
Io resto interdetta di fronte all’indifferenza che mostra e, ben decisa a chiarire le cose, non mi lascio sfuggire l’occasione.

“Ciao? Ciao?!” domando con voce acuta e incredula, ottenendo in risposta un altro borbottio distante:
“È ancora il modo educato di salutare, no?”
“Alex, sono tre giorni che non torni e te ne esci con ‘ciao’?!”

“Dovevo uscirmene con quando ti compri un pigiama guardabile?”
“Vaffanculo!”

Lui fa scorrere lo sguardo sul mio viso per qualche secondo, quasi stesse contemplando se sono degna di una risposta ma dopo averci riflettuto un po’, pare decidere che non ci sia motivo di proseguire la conversazione e, quando mi volta le spalle per entrare in camera, sembra porre fine ad ogni interazione.
A quel punto, stabilito che ne ho veramente troppo del suo atteggiamento, lo seguo con passo sicuro e, impedendogli di chiudere la porta della stanza, entro con prepotenza.

“Tu predichi bene e razzoli male, vero Mr. Maturità?”
“Med, vattene.”
“No.”
“Non era una richiesta...”

La sua voce è impregnata dello stesso gelo che recava qualche giorno fa e, più si mostra distaccato, più la rabbia dentro di me aumenta.
Il mio problema è che non tollero di essere giudicata senza aver avuto modo di spiegarmi; so perfettamente che sono responsabile di non aver fermato L, ma vorrei tanto che mi lasciasse raccontare la mia versione dei fatti e, soprattutto, mi logora l’idea di non aver neppure avuto l’occasione di scoprire se quel maledetto bacio nel pub potesse portare da qualche parte.

Qui siamo passati da troppo a niente in pochi secondi!
Per di più, la realizzazione che tutto finisce in nulla solo perché quell’idiota di L si è intromesso, mi fa impazzire.
Ho permesso a L di monopolizzare la mia vita e le mie azioni già a sufficienza: questa volta non lascerò che qualunque possibile fallimento di una conoscenza più profonda con Alex possa essere anche lontanamente collegato a quel cretino.

Ancora meno, lascerò che il mio coinquilino si comporti da quattordicenne: aveva detto che avremmo parlato. E ora parleremo.

Lui non sembra propenso a cambiare idea e, voltandosi, si avvicina a me, portando una mano sul bordo della porta.

“Med, te ne vai, per favore?”
“No. Mi hai detto che mi avresti lasciato parlare e invece mi hai dato della puttana e te ne sei andato per tre giorni. Ti rendi conto? Che cosa dovrei pensare io di te, ora?”

Lui chiude gli occhi per un attimo e inspira a fatica; il suo viso è così teso che i muscoli della mandibola continuano a contrarsi a ritmo regolare e, più si irrigidisce, più il suo volto si rabbuia.

“Ok, ascolta, di quello mi scuso. Di... averti dato della.. della...” si interrompe, come se non volesse dare voce a quella parola, come se non volesse ripetere l’insulto.

Ma così è troppo facile. Non mi ci ha chiamata direttamente, ma mi ha fatto capire che lo stava pensando e, visto come ha fatto sentire me, non vedo perché mai io debba rendergli la cosa più facile.

“... puttana. Mi hai dato della puttana.”
“No, io non l’ho detto.” prova a sviare lui e il mio sguardo incredulo lo porta ad alzare le braccia e a concludere: “Comunque, non avrei dovuto.”
“No, non avresti dovuto. Non me lo meritavo e in ogni caso non ti devi permettere di...”
“Senti, mi sono scusato, ok? Piantala, ora.”

Mi interrompe alzando la voce e spostando la propria attenzione sul bordo inferiore della sua felpa, prima di stringerla tra le dita e tirare verso l’alto per togliersela con un gesto sicuro; nel movimento anche la maglietta che porta sotto si solleva di parecchio, scoprendogli la pancia fino a oltre l’ombelico e i miei occhi cascano involontariamente là.
I jeans sui suoi fianchi cadono di un paio di centimetri sotto ai boxer e l’assenza di una cintura li rende pericolosamente morbidi, lasciando intravedere quelli che io identifico come la quintessenza del sesso: i muscoletti.

Sì, io ho stabilito che il loro nome scientifico è muscoletti: possiamo fare muscolettos gnocculis, per renderlo più pomposo e molesto ma, cambiando il nome, il fatto resta.
Lo diceva anche Shakespeare che quella che chiamiamo rosa, anche un altro nome, profumerebbe ugualmente.

Ecco, il muscoletto, anche se lo chiami caccapupù, a me fa sangue allo stesso modo.

Poiché sono una pessima biologa, non sono certa di come si chiamino ma sono sicura che non esista donna al mondo che, al comparire dei quei muscoli sul basso ventre che formano una V verso il pube, non pensi al sesso. Ecco, quando in un ragazzo quei muscoletti sono evidenti, io percepisco un segnale sinaptico ben preciso dal mio sistema nervoso: accoppiamento.

Quest cosa con Alex era già sedimentata: il muscolettos goncculis sta solo peggiorandole cose.
Soprattutto vista la situazione disastrosa in cui ci troviamo al momento.
Il mio sguardo incantato si sposta lungo il suo ventre e, per un attimo, temo mi sia venuta la bava alla bocca: poi lui, conscio di dove è concentrata la mia attenzione, si schiarisce la voce ed io, come una demente con le fauci spalancate, torno a guardare il suo viso che, per la prima volta, reca un sorriso. Cioè, è più un ghigno divertito e consapevole, ma meglio dello sguardo di ghiaccio.

“Like what you see?” chiede prima di sistemarsi, abbassando la t-shirt e ricoprendosi la pancia, mentre ride di me.

Cazzo, sì! Sì che mi piace quello che vedo e, per colpa di quel carciofo di L, le mie chance di averlo si assottigliano come il fianco della torta mano a mano che io ne taglio fette sottili (convincendomi che, se non è una fetta vera e propria, è come se non l’avessi mangiata).
“Possiamo parlare di quello che è successo?” chiedo fissandolo dritto negli occhi con voce bassa prima di entrare nella sua stanza, sedermi sulla sua scrivania e aggiungere piano:

“... Per favore.”

Appoggio i palmi delle mani sul legno sotto di me, ai lati delle mie gambe, stringendomi nelle spalle e restando in attesa del verdetto, ma lui non vacilla.
“Non ho proprio voglia o bisogno di infilarmi in un’altra lite con te.”
“Io non voglio litigare, ma...” provo a protestare ancora ma, con mio stupore, lui ne ha abbastanza e, con un gesto secco, sbatte la porta della camera, chiudendola.

“Niente ma, Med. Senti, non è davvero il caso che ti giustifichi. Io non sono il tuo ragazzo.”

Se esistesse un modo alternativo per pugnalare qualcuno, il suo sguardo e le sue parole sarebbero senza dubbio la scelta migliore.
Peccato che io mi sia stancata di tutta questa aggressività: questo non è il ragazzo con cui ho vissuto gli ultimi mesi e, in ogni caso, anche se questo dovesse essere il suo modo di affrontare un conflitto, non ha alcun diritto di trattarmi così. Proprio per il fatto che non sono la sua ragazza, come ha tenuto a sottolineare più volte lui.

“Hai ragione, non lo sei. Quindi piantala di comportarti come un orso. Se non sei il mio ragazzo e non ti importa di sapere cosa è successo con L, non hai ragione di essere arrabbiato con me.” Mi rendo conto che la mia sia una provocazione pericolosa e che potrei bruciarmi ogni brandello rimasto di possibilità di conoscere davvero Alex, ma mi rifiuto di credere che tutto questo astio derivi da un’incomprensione.
La sua espressione lascia intendere che la mia risposta l’ha lasciato interdetto e, per un istante, credo di aver vinto lo scontro; ma la mia speranza svanisce in fretta quando lui abbassa lo sguardo e borbotta:

“Sei tu quella che ci tiene tanto a spiegarsi. Immagino sia perché hai la coda di paglia.”
“Ehi, imbecille! Io non ho scopato con L, quindi finiscila! E, viste tutte le tue chiacchiere su quanto ti piacevo e sul fatto che dovevamo conoscerci, chiarire con te mi sembrava la cosa giusta da fare.”

Sento il mio petto gonfiarsi di gloria di fronte al suo sguardo stupito e contemplo la possibilità di aver esorcizzato il mio coinquilino dal mostro che ha abitato il suo corpo nelle ultime ore: non sono una persona particolarmente brava quando si tratta di confronti.

Mi incarto quando devo difendermi e manco assolutamente di tempismo nel trovare risposte coerenti o ad effetto; di solito, dopo che ho rimuginato sul confronto, mi mordo le mani perché, riflettendoci, mi sovvengono innumerevoli battute taglienti che avrei potuto dire. Ma sono orribilmente orgogliosa, non sopporto che mi si attribuiscano colpe che non ho: e Alex con me sta giocando sporco.

Lo osservo muoversi dalla porta alla sedia accanto al suo letto: resta zitto e mi ignora come se fosse infastidito dalla mia sola presenza e i suoi gesti sono riflesso dell’irritazione che la mia testardaggine sta provocando. Fruga tra i vestiti abbandonati sulla seggiola, senza trovare quello che cercava e non posso fare a meno di chiedermi che cosa diamine stia frullando dentro quella sua testolina bionda.
Poi si volta, lanciandomi uno sguardo tagliente al quale io reagisco inarcando le sopracciglia e lui espira con forza; si incammina verso l’armadio e lo spalanca, ricominciando finalmente a parlare:

“Stai facendo un dramma per due bacetti...”
“Uno. Uno. Lui ha baciato me e l’ha fatto una sola volta ed io ero...”
“Parlavo di noi.” mi interrompe, mentre afferra un paio di jeans scuri e li lancia sul letto.
“Alla fine ci siamo baciati un paio di volte. Tutto qui: cos’era, la tua prima volta? Non hai mai baciato nessuno senza aprire lunghe e complicate relazioni?”

La sua voce è attutita dalle pareti e dalle ante aperte del guardaroba e continua a non guardarmi mentre parla: stavolta sta sparando per colpire, punta proprio a ferirmi. E direi che sta riuscendo perfettamente nel suo intento.
E la cosa mi basisce: perché, personalmente, avrei creduto che il mio coinquilino fosse innocuo da quel punto di vista. Non avrei mai pensato che avesse problemi - come la sottoscritta - a gestire la rabbia e che il risultato fosse un suo deliberato tentativo di fare male con le parole: dovrei decretarlo riprovevole, ma non posso. Io faccio una cosa molto simile quando mi sale il sangue al cervello e, in quel momento, capisco che ogni possibile discussione tra me e Alex in futuro, rischia di essere estremamente viscerale.

La rabbia è un sentimento ignobile, ne sono consapevole, ma è anche l’unico che mi fa sentire reale di questi tempi: mi pulsa dentro e mi parte dal fondo dello stomaco. Come se tutte le altre ore trascorse nella confusione e nell’apatia gridassero giustizia all’improvviso.
L’ira non ha nulla di buono: ma è una forma di passione che non ho mai imparato a gestire.

E, poiché sappiamo tutti che sono stronza, lui ferisce me e io non mi ritraggo dal replicare:
“Fottiti, Alex. Ho sempre pensato che fossi un coglione. Ma non immaginavo fossi della stessa pasta di L...”

Ho sputato consciamente veleno e non riesco a non compiacermi nell’osservare la reazione alla mia risposta: il suo corpo si tende, mentre le mani volano su una delle ante aperte e sembrerebbe essere sul punto di sbattere anche quella.
“Oh, scusa, ho detto qualcosa che ti ha offeso?” chiedo sarcastica e scendendo dal ripiano della scrivania per dirigermi verso la porta.

La conversazione è finita e, visto che lui non pare propenso al dialogo o interessato a sentire cosa ho da dire, per quello che mi riguarda può affogare nella sua stronzaggine; sono a pochi passi dall’uscita ma la sua voce, improvvisamente molto più bassa e insicura, mi ferma, domandando timidamente:

“Davvero non ci sei andata a letto?”
Il respiro mi si smorza in gola e l’indignazione per il fatto che continui a credere che io sia stata di nuovo con L, è così potente che si manifesta tutta in un mio inaspettato innalzamento della voce.
“Non ci posso credere!” strillo voltandomi verso di lui a bocca aperta e rischiando di slogarmi la mandibola quando me lo ritrovo a petto nudo che si sgancia i bottoni dei jeans.

“Beh, che ti aspettavi? Io ti vedo baciarti col tuo ex...”
“Cosa fai?! Perché ti spogli?”
“Mi devo cambiare...” risponde con voce confusa, come se fosse naturale discutere con me in mutande e fosse ovvio che il bisogno era così impellente da non poter attendere.
“Ma lo devi fare proprio ora?!” chiedo incredula, indicando la sua figura seminuda che si staglia di fronte a me e che, a breve, avrà annullato ogni mia abilità oratoria.

Echecazzo! Non si possono fare queste cose: io sto cercando di litigare, per l’amor del cielo.

“Che problema c’è? Mai visto un uomo in mutande?”
“Non... non... non ti levare i jeans, Alex!”
“Non pensavo fossi così pudica...” constata lui con voce dubbiosa e aggrottando la fronte prima di far saltare l’ultimo bottone e alzare le mani per mostrarmi che si sta fermando.
“Non lo sono... Mi... mi distrai!” balbetto come una vera liceale e sono incapace di controllare la direzione dello sguardo che, chiaramente, si posa sul triangolo di cotone scoperto dai lembi aperti dei suoi pantaloni. E lui ride.

È bipolare, è ovvio.

Inspiro stanca e confusa dalla conversazione sconnessa che sta avendo luogo; strizzo gli occhi, prima di coprirmeli con entrambi i palmi delle mani e supplico:

“Ti prego, ti puoi rivestire? Tutto questo è ridicolo: io stavo provando a spiegarti una cosa e tu hai prima dato fuori di matto e ora mi distrai col tuo fisichino tutto conturbante. Se non vuoi starmi a sentire, va bene, non farlo. Lasciamo perdere tutto e mi farò...” il mio monologo isterico viene interrotto da un improvviso calore che prima mi sfiora le spalle e poi mi afferra entrambi i polsi, per allontanarli dal mio viso.

Poi la sua voce, la sua voce vera, quella divertita e limpida di sempre, mi invita ad aprire gli occhi e a inspirare profondamente.

Quando lascio che le palpebre tornino ad aprirsi, incontro i suoi occhi ma, con mio disappunto, li trovo ancora rabbuiati da qualche cosa che lo turba; non posso fare a meno di chiedermi se sia colpa mia o se ci sia qualcosa di più.
Faccio scivolare impercettibilmente lo sguardo sul resto della sua figura e, per il bene della mia sanità mentale, scopro che si è cambiato e che è nuovamente vestito.

In realtà un po’ mi dispiace: era una visione così succulenta, ma non potevo seriamente discutere con lui che si spogliava! Non è umanamente possibile; avrei solamente rischiato di imbavagliarlo con la sua stessa maglietta e fare di lui ciò che volevo.
Mentre fantastico su questa sconceria, lui afferra i due laccetti della mia felpa verde tra le dita e fa un fiocchetto, smettendo di guardare il mio viso e dichiarando:

“Che ne dici se usciamo a prendere una boccata d’aria?”
“Adesso?! Alex, scusa se te le chiedo ma... ti hanno mai diagnosticato un disturbo di personalità?” e lui fatica a trattenere una leggera risata prima di ignorare la domanda e spiegarmi:
“Non è solo per quello che è successo che sono così... io... io ho altri problemi in questo momento.”

“Quali problemi?”

La mia voce è quasi un sussurro, nella speranza di non allarmarlo, ma la delicatezza sembra non essere sufficiente: la sua postura cambia senza preavviso e, quando solleva il mento verso l’alto, capisco che con la mia curiosità ho attivato tutte le sue difese.
“Non mi va di parlarne...” borbotta lasciando andare i lacci della felpa e allungandosi dietro di me per aprire la porta.

“Dai, usciamo. Andiamo a mangiare qualcosa qui attorno. Pensa cosa vuoi, io ti aspetto di sotto...” il suo viso evita accuratamente il mio quando esce dalla sua stanza e si addentra nel salotto, dirigendosi verso l’uscita e io resto imbambolata a fissare la sua schiena mentre si allontana.



Pausa


QUESTA È L'ULTIMA PAUSA PROGRAMMATA DALLA DIREZIONE E, PER IL MAGGIOR COMFORT DEL LETTORE, LO SI INVITA A COGLIERE QUESTO MOMENTO PER LA PAUSA SIGARETTA (CHE, PER OVVI MOTIVI, CI SENTIAMO DI SCONSIGLIARE), L'INCURSIONE AL FRIGORIFERO IN CERCA DI CIBO, LA DOCCIA (SE VI STATE ADDORMENTANDO) E VARIE ED EVENTUALI.


Alzo bandiera bianca e dichiaro ufficialmente che io, quel ragazzo, proprio non lo capisco; penso di doverlo far analizzare a Jules perché credo fermamente di non essere l’unica con evidenti turbe mentali in questo appartamento.

La porta di casa si richiude con un tonfo sordo alle sue spalle e, sospirando, corro in camera mia per sostituire la mia tenuta di casa con un paio di leggings (grande invenzione per chi lotta disperatamente con la chiusura dei pantaloni ogni volta che si deve strizzare dentro un capo di abbigliamento, temendo di veder debordare la propria adipe), rigorosamente neri e un maglione grigio lungo fino alle ginocchia: non sarà un completo particolarmente seducente ma, per lo meno, non ho l’aspetto di una barbona.

Senza curarmi di osservare la mia immagine riflessa, raccolgo i miei fedeli stivali (che hanno visto giorni migliori ma che credo non butterò mai) e, zompettando come un’antilope ferita, me li infilo raggiungendo la porta di casa; mentre recupero il mio cappotto mi accorgo della giacca di Alex abbandonata sullo schienale del divano, così la raccolgo dal bancone e la porto con me, fiondandomi giù dalle scale.

Ho stranamente fretta di raggiungerlo, come se ogni secondo fosse rischioso e aumentassero le possibilità che lui cambi di nuovo idea: ogni cosa di Alex ora mi incuriosisce e, più ci penso, meno mi ricordo perché gli facevo ostruzionismo.

Arrivata agli ultimi tre gradini mi trovo a rallentare e a cercare di regolarizzare il mio respiro: il portone è aperto e, inspirando profondamente, percorro la breve distanza che manca per raggiungere il mio coinquilino, stringendo tra le dita la sua giacca.

Alex è appoggiato con la schiena al muro accanto all’entrata e guarda fisso la punta di una delle sue scarpe; le mani stanno nascoste dentro le tasche dei suoi jeans mentre si stringe nelle spalle per ripararsi dal freddo. Sembra assorto in qualche pensiero complesso e ha la fronte aggrottata a segnalare il suo stato riflessivo: allungo la giacca nella sua direzione, chiamandolo per nome, ma lui non si muove e non mi guarda finché, per attirare la sua attenzione, non appoggio una mano sulla sua spalla.

“Alex?”

Il mio coinquilino scuote la testa, quasi sorpreso di trovarmi già lì e, alzando il viso, mi scruta da capo a piedi; accennando un sorriso forzato accetta il giaccone e sussurra:

“Sei carina.”
“Grazie.” borbotto a disagio, voltandomi verso il semaforo alla nostra destra e invitandolo a seguirmi.

“Ci mangiamo una piadina?”

Alex, ancora alle mie spalle, non risponde e non accenna a muoversi dalla sua posizione: il suo silenzio mi preoccupa e provo a proporre un’alternativa, ma, appena mi giro nella sua direzione, percepisco la tensione sul suo viso che non presagisce nulla di buono.
“Pizza?”

“Med, credo che non sia una buona idea...”
“Credevo di doverci pensare...”
“E invece l’ho fatto io... e alla fine non mi pare sia una buona idea.”

Alla sua affermazione sento il sangue gelarmi nelle vene e l’espressione che si increspa sul suo volto sembra confermare i miei timori; eppure ho bisogno di sapere se sto arbitrariamente intuendo male. Mi serve sentirglielo dire così che io possa capire perché, nel giro di qualche giorno, le cose hanno preso una piega così diversa.
Lui, silenziosamente, sposta l’attenzione sul portone di casa. Ha cambiato idea su di noi. E suppongo si stia chiedendo se sia il caso di risalire nel nostro appartamento o mollarmi qui e andarsene da solo.

“Stiamo ancora parlando della cena?”
Alex si volta velocemente verso di me e, strizzando gli occhi, continua a torturarmi con i suoi silenzi: poi un lungo sospiro, seguito da un Non lo so appena bisbigliato.

Non lo so è meglio di un no: vuol dire che me la posso ancora giocare.
Mi guardo attorno velocemente e poi faccio tre passi per piantonarmi di fronte a lui, sfiorandogli una guancia col dorso della mano: i suoi occhi scuri trovano subito i miei e, vederli così confusi, fa nascere un groppo gelido nel mio ventre.

“Alex, che è successo? Che hai?”
“Med, forse dovremmo lasciar perdere.”
“Per L?”
“Per tante cose... anche per quello. Come faccio a sapere che non ti interessa davvero più?” la sua domanda è talmente sciocca ai miei occhi che vorrei sinceramente dargli della testa di cazzo per essere giunto ad una conclusione tanto assurda, ma mi rendo conto che insultarlo non aiuterebbe la mia causa e, ingenuamente, mi ritrovo a sussurrare:

“Non puoi. Ti devi fidare di quello che dico.”
“Io non so niente di te. Perché dovrei fidarmi?”

Alla faccia. Ottimo inizio, direi.

Provo a impedire al mio cervello di partire con travagliate seghe mentali e mi ostino a costringerlo a non spostare lo sguardo da me: poi, mentre cerco dentro ai suoi occhi, mi ricordo di una frase che il mio professore di italiano ripeteva spesso e, nell’espressione latina, intravedo una misera possibilità di tentare il tutto per tutto.

Do ut des.
“Do che?” chiede perplesso con una buffa espressione sulle labbra.
“Facciamo un gioco. Do ut des.”
“Che cazzo di gioco è?!” ride di me mentre lo stupore continua ad essere evidente suoi lineamenti.


Sto seriamente facendo la figura della scema ma punterò tutto sulla mia sagacia. Quanto mi piace dire che sono sagace anche se non è vero.

Do ut des: tu hai ragione, non sappiamo nulla l’uno dell’altra e, per ora, non abbiamo motivi di fidarci. In fondo tu liquidi ogni mia domanda...”
“E tu vai in giro a baciare i tuoi ex.”
“Alex, stai giocando con il fuoco.” lo ammonisco lasciando andare il suo viso scocciata, appoggiandomi al muro nello stesso punto dove lui prima aspettava me.

“Ok, d’accordo. Sentiamo in che cosa consiste questo gioco...”
“Chiedimi qualcosa e io ti risponderò sinceramente. Poi però sarà il mio turno e tu dovrai fare lo stesso.”
“È un gioco del cazzo. Potresti comunque mentirmi.”

Ora lo prendo a calci: io non sono una persona dolce e non sono una persona paziente e il biondino di fronte a me sta fortemente mettendo alla prova la mia tolleranza.

“Ti avviso che stai sfiorando il mio limite di sopportazione” annuncio, incrociando le braccia dietro la schiena e lanciandogli un’occhiata minacciosa a cui lui risponde con un gesto del capo e una risatina trattenuta.

“Ok, ok... e dove pensi che ci potrebbe questo gioco così geniale?”
“Il sarcasmo è roba mia, Americano. Lascialo ai professionisti.” ribatto stringendo gli occhi in due fessure inquisitorie che lo fanno sorridere.

“L’ultima volta hai detto che dovevamo conoscerci e che volevi essere sicuro che tu mi piacessi...” inizio a spiegare e lui annuisce, avvicinandosi di qualche passo, forse incuriosito “Beh, io non posso farmi conoscere se non so cosa vorresti sapere, e non posso conoscere te se ti ostini a non lasciarmi entrare.”

“Dovrei essere io quello che dovrebbe voler entrare...” sghignazza continuando ad avvicinarsi e la sua battuta demenziale solleva un peso stratosferico dal mio petto.
“Il permesso ti era già stato dato. Sei tu che non hai colto l’occasione.” ribatto ammiccando e facendolo ridere di nuovo.

Non avrei mai pensato di poter apprezzare così tanto la sua molesta risatina.

“D’accordo. Do ut des sia...” annuncia quando è arrivato di fronte a me e, additandomi, chiede:
“Dici che ho frainteso e che non sei andata a letto con l’idiota. E allora cosa è successo?”
“Ero ubriaca...”
“Complimenti!” e la sua intromissione è inzuppata di dissenso, ma io lo ignoro e proseguo nella mia difesa:

“...e lui mi ha seguita fino al corridoio. Quando sono uscita dal bagno mi ha incollata al muro e mi ha baciata. Punto. Ecco cosa è successo...”

“E tu l’hai lasciato fare?” è un quesito appena accennato: il conflitto che si scatena in lui è evidente nella sua postura, nel modo in cui sposta il peso da un piede all’altro.
Vorrebbe credermi e, allo stesso tempo, non riesce a farlo: studia il mio viso con attenzione mentre io continuo a parlare e a giustificare i fatti di quella sera.

“Non ne vado orgogliosa: non sono fiera del fatto che ero alticcia e non sono fiera di non essermi accorta che mi stava per infilare la lingua in bocca. Ma io non ho ricambiato quel cazzo di bacio.”

“Come facevi ad essere così ubriaca da non accorgerti che ti stava per baciare, Med?!”
“Ero distratta, ok?!”
“Da che cosa?” “
Da te!” rispondo alzando la voce e irritata dal suo incalzante interrogatorio: mi indispone principalmente il fatto che si ostini a non credere alla mia buona fede e, in tutta onestà, non volevo proprio sputtanarmi del tutto. Ma ormai l’ho fatto.

È disorientato dalla mia risposta e, per un attimo, sembra arrabbiarsi ancora di più.
“Quindi mi avevi visto?”

Ma chi? Io? Visto lui? Oddio, anche Alex è un demente.

“No, non ti ho visto. Ero distratta da te perché, nel mio stato alterato, il fatto di essere fuori dal bagno e contro un muro... mi ha ricordato la sera in cui ho baciato te.”

Eccoci: sana e pura onestà che si traduce in infinito imbarazzo per una persona che, per carattere, cerca di mostrarsi il meno possibile. Ma la mia rivelazione sembra far scattare qualcosa in lui perché i suoi lineamenti si addolciscono e, dopo qualche istante di esitazione, un sorriso si fa strada sulle sue labbra.

“Stai dicendo una cazzata?”
“No, purtroppo.” bisbiglio, schiarendomi la voce per poi trovare ancora una volta il suo sorriso soddisfatto “Oh! Per lo meno, cerca di mascherare l’entusiasmo!”

La sua risata alle mie proteste si spegne piano piano e il suo viso torna serio quando una delle sue mani si appoggia al muro dietro di me: nei suoi occhi un’ammissione di colpa che non tarda ad arrivare.
“Sono un coglione. Mi dispiace.”

“Per fortuna ne sei consapevole.”

La mia risposta è decorata da un broncio imbarazzato e la cosa sembra divertirlo ancora una volta: inclina il viso verso il mio e, attirando i miei occhi ai suoi, mormora onestamente:
“Sono uno stronzo.”
“E un cretino...” suggerisco accentuando la mia espressione infantile e i suoi occhi sorridono.

“E un cretino.”
“Mi hai fatto rimanere malissimo... e mi hai trattato di merda.”
“Mi dispiace. Scusami.”
“Facile dire scusa, adesso...”
“Che posso fare? Lo so che non avrei dovuto trattarti così... dimmi che posso fare?”

È una richiesta sincera: il rimorso per come si è comportato è palpabile nel colore della sua voce e, quando lo vedo torturarsi un labbro tra i denti, mi viene un’idea impura su come potrebbe farsi perdonare ma, stupidamente, dalla mia bocca esce un’altra domanda:

“Perché hai pensato subito male?”
“Perché non ti conosco e non so cosa pensi e cosa vuoi...”

Sbuffo: possibile che un ragazzo come lui sia così incredibilmente lento ad apprendere e così insicuro? Sposto le mani da dietro la schiena e le porto con un gesto deciso sui lembi del collo della sua giacca aperta, affermando tra i denti:

“Te, stupido brontolone. Non so perché, ma voglio te. Quindi piantala di fare la donnetta isterica: se avessi voluto L, non avrei passato gli ultimi tre giorni a regalare il terzo dito alla tua stanza ogni volta che ci passavo davanti. E non avrei aspettato che tornassi per spiegarti...”

Mentre parlo il mio battito accelera e lui afferra il mio viso tra le mani; poi il suo pollice destro preme contro le mie labbra e la mia salivazione si azzera.

“Ti chiedo scusa. Per tutto, ok?”

Chiedimi scusa per il fatto che mi sto eccitando come una scolaretta in mezzo alla strada, ragazzo dall’occhio comunicativo! Deglutisco a fatica e poi, non fidandomi della mia stessa voce (parliamoci chiaro, potrei ruggire come un leone, in questo momento) annuisco debolmente.

“Tocca a te. Chiedimi qualcosa...”
“Quali sono i problemi di cui parlavi prima?” chiedo senza aspettare che lui finisca di parlare e dalla mia gola esce una vocina acuta, quasi come se avessi respirato da un palloncino pieno di elio.

“Woah. Ok, qualcosa di meno... personale?”
“Non lo decidi tu cosa posso chiedere...” “
Diciamo che di quello non sono ancora pronto a parlare... Non c’è altro che vuoi sapere?”
“Voglio sapere un sacco di cose.”
“Chiedi, allora.”

Mentre Alex attende in silenzio che io scelga il topic della mia domanda, mi ricordo di cosa ha cercato di nascondere fino a che non l’ho scoperto e, scostando una delle sue mani dal mio viso, domando piano:
“Perché non mi hai detto che facevi il cuoco? Perché fai il cuoco, vero?”

Passa qualche secondo prima che lui si decida a rispondere e, nel silenzio rotto solo dal rumore di qualche macchina che sfreccia davanti al nostro palazzo, lui lascia che io mi concentri sulle sue dita e che ci giochi lievemente.

“Sì, faccio il cuoco... È stupido. Non te l’ho detto perché non ero sicuro di rimanere. Ero ancora in prova e... beh, non mi andava di dover dire che mi avevano licenziato se le cose non fossero andate bene.”

“Solo per quello?”
“No, anche perché, e mi rendo conto che sia un’ insicurezza ridicola, quando vi sentivo parlare di università mi sentivo... non lo so... un po’ inferiore.” ammette a fatica e la sua voce è appena più alta di un respiro.

Mentre ascolto le sue parole sento la pelle scaldarsi nonostante le insistenti folate di vento e, scorgere insicurezze anche in una persona come Alex, mi intenerisce incredibilmente: le sue mani hanno abbandonato la mia pelle e, mentre una è tornata a riposare contro il muro alle mie spalle, l’altra si è rifugiata nella tasca del suo giaccone.

Lo sto a sentire in silenzio: non può rendersi conto di quanto io, nella mia indecisione su quale sia il destino giusto per me, invidi la sua posizione. Di quanto anche io vorrei aver scoperto il mio talento; e mentre lo osservo evitare il mio sguardo, non riesco a non interromperlo bruscamente.

“È un pensiero idiota. La metà delle nostre lauree non ci servirà a un bel niente.”

Alza la testa di scatto alla mia affermazione e mi scruta dubbioso: ha un’espressione così buffa e così intrigante allo stesso tempo che, tentando la sorte, affondo le dita nei suoi capelli e sussurro:
“Mia madre è una cuoca. Ha un ristorante.”
“Davvero?”

Io annuisco con un sorriso e, ammiccando, aggiungo: “E io adoro mangiare!”

Allora, finalmente, dopo tanti giorni, lo sento ridere davvero.
Di gusto.
Di cuore. Come ha sempre fatto da quando è prepotentemente entrato nella mia vita.

Le sue labbra si stanno seccando per il vento insistente ma i suoi occhi sono tornati ad avere quella sorta di alone divertito che ci ho sempre visto dentro e, mentre lo sento spegnere la risata, una richiesta fugge alla mia gola:

“Basta aspettare, Alex.”
“Che cosa?”
“Io non voglio aspettare di scoprire altro: voglio scopriti in corso d’opera, ok?”

Un motorino alle sue spalle rallenta, passando vicino a noi, e suona il clacson ripetutamente ma io sono in attesa di scoprire l’effetto che le mie parole avranno su di lui: l’ho rischiata grossa perché, fino a poco fa, ero più che certa che Alex avesse deciso di accantonare l’idea di vedermi in veste diversa da quella di coinquilina.
Io, ora, sto dando per scontato che lui condivida ancora una volta il mio desiderio di... beh, non so di che cosa: ma, qualunque cosa sia, mi auguro includa baci e annessi.

“Se non funziona? Che facciamo dopo?”
“Se non funziona tu ti trovi un’altra casa. Però almeno ci saremo levati lo sfizio di un po’ di piacevole sesso...” ridacchio e Alex si china verso di me per battere piano la sua fronte contro la mia.

“Scema...”
“Corriamo il rischio?” faccio il mio ultimo penoso tentativo.

Visto che ormai mi sono giocata quasi tutte le carte, per enfatizzare la mia richiesta, tiro il suo viso ad un soffio dal mio: quando i nostri nasi sfiorano, lo sento trattenere il respiro.
L’occhio da Pokemon torna a farsi vivo in men che non si dica e, dopo una scrupolosa analisi delle mie orbite, un ghigno superbo si fa strada sui suoi tratti.

“Chiedimelo.”
“Che cosa?”
“Non ti bacio se non me lo chiedi.”
“Baciami, cretino!” mormoro ridendo e lui mi zittisce, premendo con forza le sue labbra contro mie.

Non sapevo di essere capace di sorridere in un bacio ma, con la sua pelle contro la mia, distinguo nettamente gli angoli delle nostre bocche che puntano verso l’alto in sincronia: ed è la cosa più divertente che io riesca a ricordare in questo momento.
La sua lingua scivola pretenziosa contro la mia e mi ritrovo a sospirare come un’imbecille, assolutamente incurante del fatto che siamo in mezzo alla strada e che tutti i nostri condomini potrebbero vederci.

Che me ne frega? Sto pomiciando graziosamente con Alex. Tutto il resto è irrilevante!

Con Alex la mia audacia diviene deliziosamente incontrollabile: mentre lui si concentra sulla piacevole tortura che la sua bocca e i suoi denti stanno infliggendo al mio labbro inferiore, io mi ritrovo a spingere contro le sue spalle per invertire le nostre posizioni: quando la sua schiena si scontra con il muro del palazzo, un suono gutturale si libera nel fondo della sua gola per spegnersi tra le nostre bocche ancora incollate.

Affondo le dita in quei suoi capelli disordinati e, aggrappandomi a lui, mi sollevo sulle punte dei piedi per riuscire a baciarlo da una angolazione più comoda.
Lui sorride contro di me: una sensazione di calore mi si scioglie dentro al petto e, non appena sento le sue mani intrufolarsi dentro il mio cappotto e stringere i lembi del maglione per alzarlo un po’, mi fermo.

Le nostre labbra ancora premute e i miei occhi che guardano dritti dentro ai suoi: restiamo immobili, respirando lentamente l’uno sul viso dell’altro e l’unica cosa che si muove accuratamente sono le sue dita.

Facendo attenzione a non lasciare che il cappotto si apra - e che il resto del quartiere veda che succede sotto la stoffa nera - solleva lentamente l’indumento grigio che protegge la parte superiore del mio corpo e, quando l’ha portato all’altezza della vita, le sue mani scivolano sotto, fino a toccare la mia pelle e a pizzicare il bordo dei leggings.

Azione involontaria: trattengo il fiato conscia del mio corpo ma, stranamente, poco interessata a cosa potrebbe pensare lui e, senza rompere il contatto visivo con le sue iridi, accarezzo le sue labbra con le mie e poi mordo piano contro la sua pelle: e Alex inspira incerto.

Poi tutto rallenta e diventa più sussurrato, più impercettibile, più delicato: una delle sue mani lascia il mio corpo e si appoggia con gentilezza sul mio collo e, con una lieve pressione, mi invita a sollevare il mento. Le sue labbra avvolgono le mie in un bacio molto più leggero degli altri; mi tira piano contro il suo petto e poi mi invita - con una gesto delle spalle - ad assumere la sua posizione contro il muro.

Io eseguo curiosa e riscaldata dal suo bacio, poi gli sussurro provocatoria:
“Tutto qui quello che sai fare?”
Do ut des.” propone lui e io sbuffo, perché non mi sembra proprio il momento.
“Che vuoi sapere?”
“Se sei davvero sicura di questa cosa.”
“Che domanda del cazzo.” ribatto spostando il viso contro il suo collo e lasciando cadere baci leggeri mentre le sue mani si piantano contro il muro ai lati della mia testa.

“Sì, sono sicura.” concludo soffermandomi con insistenza sullo stesso frammento di pelle che al pub lo aveva fatto tremare.

C’è qualcosa di gratificante nello scoprire il punto erogeno di qualcuno e la reazione di Alex ogni volta che la mia lingua accarezza quel centimetro del suo collo, è qualcosa che mi fa venire voglia di strappargli i vestiti, fregandomene del setting in cui ci troviamo.

Succhio contro il suo collo e lui non riesce a trattenere un “Fuck!” appena respirato e i cori da stadio porno che si agitano nella mia mente sono la vittoria più grande.

Gratificazione, in inglese, sussurrata con quella sua vocetta languida ed è pure una parolaccia.

Sono in paradiso.

Le mie mani premono contro il suo petto e decido che mi va di fare una domanda imbarazzante:
Do ut des.

“Dimmi...” sussurra lui sollevando il mio volto per baciare la mia bocca tra una parola e l’altra.
“Hai mai fatto cilecca?” domando e, aprendo gli occhi, Alex si ferma per un secondo prima di rispondere, ridendo piano:
“Uuuh! Hai voglia!”

Non so perché ma la sua sincerità, oltre a costringermi ad unirmi a lui nello sghignazzare, me lo fa desiderare ancora di più: imperfetto.

È imperfetto e io lo voglio.

Mentre rido la situazione ricomincia a scaldarsi e i movimenti e i baci tornano ad essere concitati e incontrollati.

Appoggio le mani sui suoi fianchi, tirandolo contro il mio corpo, faccio collidere i nostri bacini: per un attimo, considero oggettivamente l’idea di farmelo qui in mezzo alla strada.
Un gemito si smorza nel suo petto quando il suo ventre tocca il mio: poi lascia le mie labbra e sussurra contro uno dei miei lobi:

Do ut des.” In risposta io cerco di recuperare il respiro che i suoi baci mi hanno tolto e lui prosegue, mormorando:
Let’s go upstairs...”
“Non è una domanda...” sospiro contro la sua spalla e lui ridacchia.
“Sì, cazzo, portami su!”

Le sue mani stringono con frenesia il mio viso e mi bacia con violenza, con fretta, con forza: io con la mente lo sto già spogliando e, nella mia svergognata testolina, Alex è ormai in mutande ma, con il disappunto di entrambi, qualcosa vibra tra i nostri corpi.

“A meno che tu non abbia un pisello vibrante o una protesi tra le gambe, credo che il tuo telefono stia squillando, Alex.”
 Lui sghignazza alla mia affermazione sciocca e, accarezzandomi la testa, estrae il cellulare dalla tasca dei jeans.

What the fuck?” borbotta tra sé e sé e, spiando sul display, chiedo:
“Chi è Adam?”

Lui fissa lo schermo con un’espressione dubbiosa, poi risponde:
“Mio fratello.”




AN: Buongiorno a tutti e grazie, come sempre, di non esservi addormentati durante la lettura. So che questo capitolo non è ricco di eventi ridicoli come al solito e che ci sono tanti momenti piuttosto tesi, però ho dovuto mettere da parte un po' di risate per fare spazio ai confronti.
Ora: qualcuno (probabilmente) odierà Leo perché non è comprensivo quanto Bet e Jules o perché non asseconda Med: ci tengo a sottolineare che, nella vita reale, sono molte di più le persone che non capiscono di quelle che accettano senza metterci in discussione. E non sarebbe realistico credere che tutti quelli attorno a Med le stanno accanto senza comprendere e senza chiedere spiegazioni. Neppure quando si tratta del proprio migliore amico: a volte, anche la persona che più ti vuole bene, ha bisogno di urlarti contro.

Mentre scrivevo ho pensato ad una serie di momenti topici e di che sentimento avresto potuto provare verso di me. Vado con ordine:

Odio
Odio
"È pazza e anche io voglio fare colazione con i plum cake"
Odio. Leo è stronzo.
Oh... (qui non mi esprimo perché non posso dare per scontato che tutti reagiscano alla discussione tra Med e Leo allo stesso modo)
Odio
Doppio odio
Oh, Alex si spoglia! Accenno di affetto
Mmmhh... Alex ha smesso di spogliarsi ed è ancora stronzo: Odio al cubo.
Odisssssssssimo
Ora la uccido
LIMONE!
Schiaffeggiamo questo Adam.

Molto bene: sappiate che io vi amo, invece. Il mio più enorme, sentito e sincero grazie va ad ogni singola persona che ancora sta leggendo questa storia; a chi l'ha aggiunta nelle varie categorie di EFP, a chi mi lascia fenomenali recensioni (che hanno l'effetto di farmi scordare i libri e mettermi a scrivere capitoli come questo); a tutte le ragazze che animano la pagina FB di TuttoTondo e che mi fanno sorridere: l'affetto che mostrate per questa storia rendono la scrittura una cosa incredibilmente piacevole e gratificante.
Un grazie davvero a tutte le nuove arrivate che, con il loro entusiasmo, hanno contribuito a farmi mettere il turbo nella stesura di questo capitolo e a chi, ogni volta che ho un momento di sconforto, trova le parole giuste per farmi rivalutare la situazione.
Ora, so che vi starete chiedendo: "Ma le risposte alle nostre recensioni?! Avevi detto che sarebbero arrivate!"
C'avete infinitamente ragione e ribadisco che arriveranno: settembre è stato un mese complicato e il tempo per la storia davvero poco. Le ragazze del gruppo sanno che gli esami hanno ridotto al minimo i minuti che potevo dedicare a qualcosa che non fossero i libri: ecco, mi sono trovata a dover scegliere tra concentrarmi sul nuovo capitolo e rispondere ai vostri bellissimi commenti. Purtroppo la musa è instabile e, per evitare di lasciarvi mesi in attesa di un seguito, ho optato per regalare le mie pause studio al nuovo capitolo.
Ma, dalla settimana prossima dovrei tornare vagamente libera e, prometto su Alex e Med che, prima di mettermi a scrivere altri chaptersssss, risponderò ad ognuno di voi. Vi prego, siate clementi: l'imprevisto sessione è davvero una seccatura.

Ora la smetto di dire stupidaggini e, prima di salutarvi, rinnovo il mio grazie più profondo alla nostra amata Beta SoFreakingBecky che si è pippata tutta questa pappardella in stato di coma, dopo una serata fuori e che ho appena scoperto aver passato ore notturne a correggere 15.000 parole ... che ha resistito, non si sa come e che, anche se ha la memoria di un toporagno, ama questa storia anche più di me. Grazie, Leti: io, senza i tuoi atti di bullismo, sarei abbandonata al mio destino.

Ricordo, a chi volesse unirsi a noi, che su FB c'è la pagina Di TuttoTondo in TuttoTondo per spoilerssss, curiosità, domande, rivolte, insulti alla sottoscritta e, in realtà, un sacco di altre cose che con TuttoTondo potrebbe non avere nulla a che fare.
Se avete voglia di farmi sapere il livello di odio che avete raggiunto in questo capitolo, io sarei felicissima di leggerlo hahahahahah.

Baci e grazie ancora.

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Capitolo 12
*** Mia nonna non vuole ***


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Mia nonna non vuole


CAPITOLO 11



Mia nonna non vuole





AN: ATTENZIONE! Il nome del fratello di Alex, prima noto come Jake, è stato sostituito con Adam. Il motivo è quasi imbarazzante: non mi era sovvenuto che Jake e Jack (l'amico di Med) sono due nomi praticamente identici.
Secondo: nel corso del capitolo trovere dei link alle canzoni citate... In realtà io suggerisco di tenere a portata di mano soprattutto il primo, così, perché sì. Il secondo è più che altro per rendervi l'idea del mood.
Terzo: Previously on Tuttotondo:

Dunque, lo facciamo tipo riassunto fiction di canale cinque? No, vi prego, poi mi sembra che Tuttotondo diventi Elisa di Rivombrosa.
Ok, ho preso spunto da un post che ho letto su FB per rendermi conto che, effettivamente, a distanza di più di tre mesi, è molto probabile che non vi ricordiate dove eravamo rimasti: quindi, andiamo per punti salienti.
Che L ha braccato Med al ristorante e le ha tirato un limone davanti agli occhi Alex e che Med gli ha (finalmente) tirato un ceffone, ve lo ricordate? Bon.
Che abbiamo scoperto che Alex fa il cuoco in quello stesso ristorante, è pure conservato nella vostra memoria? Ottimo.
Che Mr. "Occhio da Pokemon" ha mostrato la sua stizza per ciò a cui ha assistito? Siete dotate di fenomenali doti mnestiche, molto più di me e della Beta.
Perfetto: al suo ritorno a casa Med origlia una telefonata tra Alex e i suoi genitori in cui coglie particolari confusi del coinquilino e del suo rapporto con la famiglia... in modo particolare col fratello Adam. Ovviamente Med non ci capisce niente, se non che Alex è inviperito. Al confronto col biondello le cose vanno male e Alex si defila, salvo ricomparire giorni dopo, mostrandosi piuttosto sostenuto e per nulla interessato alle spiegazioni di Med.
Poi si susseguono simpatici botta e risposta tra i due, Alex mostra i muscoletti, Med sbava, finiscono per strada -con l'intento di andare a mangiare, non di essere arrestati per atti osceni in luogo pubblico- e, con la proposta di un giochetto, (Do ut Des) Med riesce a spiegarsi... Alex, che ben sappiamo essere bipolare, a quel punto la sbaciucchia... Cioè, nel capitolo aveva più senso, ma coi riassunti io sono una vera frana.
Ora, limonami di qui che ti limono di là, i due fanciulli si trovano costretti a interrompere le loro attività a causa dell'arrivo di una telefonata sul cellulare di Alex da parte di Adam...
Ed è qui che ci eravamo interrotti:

"“Chi è Adam?”
Lui fissa lo schermo con un’espressione dubbiosa, poi risponde:
“Mio fratello.”


Ed è da lì che riprenderemo.





Not a good time, dude...” accenna Alex portandosi il cellulare all’orecchio e per un attimo le sue labbra si fermano sull’incavo del mio collo, lasciando che la mia pelle reagisca rapidamente al contatto con lui. Prima che io possa aver davvero compreso l’ affermazione in inglese, però, la sua voce si interrompe bruscamente:

What’s wrong?

Normalmente la domanda dovrebbe mostrare una qualche traccia di interesse verso il suo interlocutore, eppure, mentre chiede al fratello cosa non vada, il tono del ragazzo di fronte a me sembra assolutamente privo di affezione: quando giunge prontamente una risposta che non mi è concesso sentire, Alex serra la mascella e i suoi muscoli, ancora in contatto con il mio corpo, sembrano contarsi sotto un’ondata di tensione.

Call your girlfriend...

Resto immobile cercando di non respirare troppo rumorosamente nel patetico tentativo di sentire cosa dice il fratello dall’altro capo della comunicazione; tutto quello che riesco a cogliere, però, è un vago fruscio in cui non distinguo alcuna parola di senso compiuto.

Alex tace per qualche secondo, accarezzando distrattamente l’incavo del mio collo con la punta del naso e prestando attenzione a ciò che Adam borbotta.

Espira con impazienza contro di me, scaldando la mia pelle per pochi istanti, costringendomi a rabbrividire non appena l’aria fredda torna a avvolgermi l’epidermide: al mio sussulto lui solleva il viso, incrociando i miei occhi e aggrottando la fronte confuso. Mi limito a stringermi nelle spalle non sapendo come spiegare a gesti la mia reazione, facendolo ridere: ma il divertimento si smorza nella sua gola quando torna a concentrarsi sulla conversazione con il fratello e lo vedo rabbuiarsi.

Is this a sick joke? Of all the people you know, I’m the one you call for this shit?

In silenzio ascolto mentre Alex chiede al fratello perché abbia chiamato proprio lui per il problema che, apparentemente,  Adam da solo non sa risolvere e  cerco di immaginarmi in che sordida situazione il fratello del mio coinquilino si trovi al momento, ovviamente senza alcun successo.
Il viso del ragazzo di fronte a me è duro e seccato proprio come il tono della sua voce, il che mi eccita in modo del tutto sconveniente, considerato che mi sembra evidente che lui e suo fratello siano sull’orlo di una lite.

Io il fratello di Alex non ho idea di che faccia abbia ma, più penso ai geni che possono condividere e sento il mio coinquilino adirarsi, più mi trovo a considerare seriamente l’idea di un ménage à trois. La qual cosa, nello specifico, mi porta a sentirmi grandiosamente maliziosa e accaldata alla splendida prospettiva dell’unione di due fratelli arrabbiati, americani e piacevoli all’occhio.

Devo aver assunto un’espressione demenziale perché, mentre mi perdo nel mio sistema di pensiero perverso e assolutamente inadeguato, Alex inizia a sventolarmi una mano davanti agli occhi, scrutandomi dubbioso.

Hold on a sec...” comunica nel ricevitore del telefono prima di rivolgersi a me.
“Che problema hai? Sei in trance?”
“Testa di cazzo.” borbotto dandogli un pizzicotto sul fianco, provocando l’insorgere dell’ennesimo sorriso beffardo sulle sue labbra.
“A che diavolo stavi pensando?”

Se glielo dico potrei ottenere due risultati ben differenti.
Nell’opzione A, quella in cui io sono particolarmente fortunata, alla mia confessione Alex si mostra incredibilmente entusiasta e si offre di invitare il fratello a raggiungerci. Il che ha, persino nella mia testa malata, qualcosa di vagamente sbagliato. E utopico, me ne rendo conto.
L’opzione B, ben più probabile, vedrebbe la sottoscritta risalire le scale da sola, essendosi del tutto bruciata ogni possibilità di consumare con il coinquilino e dovendo incassare qualche epiteto che possa apostrofare le mie evidenti perversioni e turbe psichiche.
Se fossi una persona religiosa, forse, ora mi confesserei.

A fronte degli scenari possibili, realizzo che l’unica strada percorribile è quella di sviare la sua attenzione da me e riportarla sulla sua conversazione telefonica.

“Al fatto che dovresti concludere la telefonata con una certa rapidità: io avrei un paio di cose in mente.”
"E che vuoi da me?” scherza lui, assolutamente consapevole del genere di cose a cui mi riferisco.
“Sono cose che richiedono la tua presenza...”
“Ah, sì?” sussurra facendo scivolare una mano fino al mio fianco con fare languido e spocchioso, ammiccando compiaciuto quando non riesco a non liberare un impaziente sbuffo.

Sembra in procinto di proseguire la sua discesa lungo il mio corpo, assolutamente determinato a provocare altre reazioni in me, ma la sua attenzione viene prontamente catalizzata dalla voce del fratello che chiama insistentemente il suo nome.
Alex fa schioccare un bacio veloce sulle mie labbra, seguito da un “Later” sussurrato e torna a interloquire con Adam. Segue un lungo minuto di silenzio in cui Alex si limita ad ascoltare con interesse misto a disappunto; i suoi occhi si muovono sbadatamente sul mio viso e le sue mani tornano ad intrappolarsi nei miei capelli in un movimento distratto e regolare.

In realtà vorrei fargli sapere che, se prosegue, mi ritroverò aggrovigliata come il filo degli auricolari del mio iPod o, cosa forse ancora più possibile - e mortificante - pelata, ma la storia sembra seria e il linguaggio del corpo del mio coinquilino tende ad essere molto più comunicativo di quella sua bocca tanto carina ma così poco convincente.
A confermare la tensione sempre più palpabile, dopo l’ennesimo morso auto inflitto al proprio labbro inferiore (gesto che ho imparato compie in situazione di particolare irritazione), la sua voce, ora profonda e tagliente, ribatte a una probabile provocazione:

“Yeah, I’m your fucking brother! Why don’t you keep that in mind next time you choose to tell on me?!” che, in parole povere vuol dire che Adam ha rivelato qualche segreto di Alex, che gli rinfaccia il loro legame di sangue - al quale sembra appena essersi appellato il fratello - condito da un bel fucking, che non fa mai male.

La sua rivelazione di sputtanamento fraterno attiva le rotelline del mio cervello e alimenta la mia sete di informazioni: nascondo il volto contro la sua spalla nella speranza che non sia del tutto conscio della mia presenza e provo a mettere insieme qualche pezzetto del puzzle che Alex sta rivelando di essere.
Adam deve avergli fatto un torto: fin qui non ci piove. Uno sgarbo che, riflettendoci, potrebbe avere a che fare con la telefonata che Alex ha ricevuto dai suoi genitori qualche giorno fa. Se non rimembro male il nome di Adam era stato fatto nella discussione.
Mi perdo nel mio ragionamento investigativo, inspirando a pieni polmoni il ricordo di Armani Code rimasto debolmente vivo sulla pelle del ragazzo che, immagino sovrappensiero visti i toni della discussione, fa scorrere il palmo della mano su e giù lungo la mia schiena.
Nel frattempo gli animi tra i due fratelli sembrano scaldarsi ulteriormente quando Alex prosegue nella sua missione di rispondere per le rime, rinfacciando a Adam realtà che io ignoro.

E la curiosità mi divora parola dopo parola.

“An eye for an eye, big bro... yeah, well, apparently I’m not the smart one. Yet, somehow, I end up being the responsable one to call for help when you...”

Sulla considerazione di essere reputato il fratello responsabile su cui contare quando c'è qualcosa di cui occuparsi e non quello intelligente, l’inflessione della sua voce subisce un colpo di rammarico e, anche se l’intera conversazione continua ad essere priva di logica alle mie orecchie, vorrei potermi intromettere nel tentativo di sedare il conflitto in atto o, quantomeno, di tranquillizzare il mio coinquilino.

Parliamoci chiaro: ha avuto più sbalzi umorali lui nell’ultima ora di quanti ne ha Jules in sindrome premestruale. Tutto ciò non può essere salutare. Forse è una forma di disturbo ormonale anche la sua? Potrebbe causare ipertensione?

Alt, l’ipertensione che effetti ha sulla libido e sulle capacità amatoriali? Perché se rischio di rimetterci io, mi sento in dovere di intervenire in difesa di Alex.
Ma lui sembra del tutto in grado di combattere le proprie battaglie e, sfortunatamente per me, pare essere tornato sulla scia della riservatezza perché, sollevando il mio viso dalla sua spalla, lascia la frase a metà, evidando di rivelare cosa abbia combinato suo fratello e aggiunge con una punta di astio:

Anyway, I’m with someone right now.”

Oh, sono io quel someone con cui è adesso! Sono io il suo passatempo.

Mi sento importante: insomma, se un ragazzo scarica il fratello per fare del salutare sesso con te devi per forza avere un certo peso, no? E io quello ce l’ho a prescindere!

I don’t have time for you.”

Non ha tempo per il fratello perché deve - finalmente - mettersi nudo di fronte a me!
Evvai!

Certa di aver vinto il mio Alex-pacchetto-regalo-da-spacchettare-fino-alle-mutande, però scopro il suo viso rabbuiarsi ancora una volta: resta in silenzio ad ascoltare le parole che provengono dal fratello; appoggia la fronte alla mia, socchiudendo gli occhi e sospirando prima di bisbigliare:

“Mi dispiace, Med.”

Svanite le possibilità di spacchettarlo fino alle mutande ed oltre.

Sono una pessima ragazza e una donna insensibile? Immagino di sì, ma penso che sarei molto più propensa all’empatia dopo aver avuto accesso a una mezz’oretta di fuoco con Alex.
Ogni donna è più sensibile dopo un orgasmo. È biologia, credetemi.
Provo un irrefrenabile desiderio di rispondere “Mi dispiace un cazzo!”, ma riesco a deglutire la mia protesta, riprendendo a farmi gli affari di Alex che nomina qualcuno di nome Andie, affermando che correrà in aiuto del fratello per il bene di tale Andie.

Ora, chi cazzo è Andie? È maschio o femmina? È figa? Oddio, non è che è tipo l’oggetto dei desideri di entrambi? Come quella Elena in The Vampire Diaries?

Sono in procinto di farmi sommergere da un sentimento che mi rifiuto di identificare come gelosia - del tutto infondata, tra l’altro - quando Alex, riposto velocemente il cellulare nella tasca posteriore dei jeans, poggia entrambi i palmi contro le mie guance e, ammiccando, domanda:
“Perché sei tutta rossa?”

Poggia piano le labbra sulle mie, impedendomi di confessare il mio ennesimo quanto ridicolo viaggio mentale e catturando la mia incondizionata attenzione. Mia e dei miei ormoni, si intende.
Ma è un bacio troppo breve, interrotto dalle sue dita che scivolano un paio di volte sulla mia bocca.
“Devo andare...”
“L’avevo capito.” sussurro cercando di nascondere il mio disappunto, conscia del fatto che sarebbe sconveniente mostrarsi capricciosa di fronte a un probabile problema di famiglia.

La verità è che non vorrei fare la persona matura: vorrei dirgli che io aspetto da quattro giorni e che ora che abbiamo parlato, non può andarsene un’altra volta. E vorrei che non ci spostassimo da qui se non per tornarcene a casa nostra. Che vorrei andare avanti nella simpatica esplorazione che avevamo intrapreso poco fa, possibilmente a porte chiuse, vestiti levati e telefoni spenti.

E, se non fosse per le sue mani contro la mia pelle che continuano a distrarmi, forse lo farei, incurante del fatto che ciò mi farebbe apparire per la tronfia egoista che, in questo preciso istante, avvinghiata ad Alex, so di essere.

“Vuoi che ti accompagni?” suggerisco accarezzandogli la pancia e, per un attimo, un flash dei suoi succulenti muscoletti si insinua nei miei ricordi e la mia salivazione aumenta.
“Non è il caso...”

Ovviamente.

Sarei tentata di forzare la mano e proporre un Do ut des a riguardo, ma temo che con Alex le questioni di famiglia siano tasti troppo delicati per tentare di strappargli informazioni quando non è ancora disposto a condividerle.
Mi guarda a sorride, con quel suo sorriso pungente che mi fa attorcigliare l’ombelico: il mio viso ancora tra le sue mani e il suo petto premuto contro il mio che si muove impercettibilmente ad ogni respiro.

“Ma tu stai bene?” provo a chiedere, nella speranza di non risvegliare la bestia isterica che ogni tanto sembra impossessarsi di lui.
“Starò bene quando sarò tornato a casa.”

Affonda i polpastrelli nella la mia nuca e guida di nuovo la mia bocca sulla sua, facendo schioccare una serie di baci veloci e rumorosi sulle mie labbra, rendendomi difficile articolare le parole. Immagino sia il suo patetico tentativo di zittirmi. Illuso.

“Ma...” Bacio.
“Tu e...” Bacio.
“Alex, aspet...” Bacio.
“Mmmhh... Shh!” Bacio. Bacio. “Sto cercando di baciarti!”
Bacio. Bacio con lingua.

Esasperata quanto combattuta, scosto il viso dal suo, porto una mano sulla sua bocca, ignorando il grugnito di protesta che si fa sentire nella sua gola, e lotto per porre la mia logorante domanda.

“Ma tu e la tua famiglia parlate sempre in inglese?”
“Che ne sai di come parlo con il resto della mia famiglia?” chiede ammiccando vittorioso, liberandosi della mia mano e ridendo di fronte al mio evidente imbarazzo.

Beccata!

“Origliare non è da signorine...”
“Mai stata una signorina.”

La mia risposta lo diverte incredibilmente e, non so per quale motivo, sembra scatenare in lui l’ormone impazzito perché, pochi secondi dopo, preme con prepotenza il suo corpo, tutto il suo corpo, contro il mio, sussurrando sul il mio collo:

“Beh, sì, siamo americani...”
“Allora non invitarmi mai a casa tua!” annuncio quasi disinteressata, ormai completamente concentrata su una sola meta: portare i miei adorabili palmi delle mani sul suo culetto d’oro!

“Credevo capissi l’inglese.” puntualizza sfiorando la punta del naso sulla mia clavicola mentre la mie dita si fanno strada lungo il bordo dei suoi jeans.
“Lo capisco.” sussurro mentre la sua bocca si sposta sulla mia “Ma se mi trovo in mezzo a voi che comunicate in inglese, rischio di ritrovarmi eccitata per ore...”
Mordo delicatamente il suo labbro inferiore, i suoi occhi sorridono per un istante, prima che le sue pupille si dilatino di colpo per lo stupore.

Meta, ladies! Mano destra di Med in F5, che identificheremo come “il sedere di Alex”.

“Sei una svergognata!” sghignazza in risposta al mio gesto audace, sospirando scocciato quando gli ricordo che non lo scoprirà mai se non si sbriga ad andare ad aiutare il fratello.
Un ultimo bacio leggero e sorridente e lo spingo lontano da me: se non me ne vado lo spoglio in mezzo alla strada tra 4 secondi.

“E tu che fai intanto?” chiede mentre io apro il portone di casa con la rapidità di un bradipo sotto formalina.
“Andrò a sostituirti con un sacchetto di Lindor.” rispondo riuscendo nell’impresa di fare ruotare le chiavi nella serratura e voltandomi verso di lui per salutarlo con la mano.
“Ti ci vorrà molto di più di un po’ di cioccolato per supplire a ciò che ti avrei fatto io...”
“Le parole se le porta il vento, mio caro. Quelli hanno la scioglievolezza...”
I’ll show you la scioglievolezza...” ride allontanandosi e estraendo le chiavi della macchina dal giubbotto.

Io lo osservo mentre se ne va e solo due pensieri si fanno strada dentro di me:
Perché aveva le chiavi della macchina in tasca? E, a questo punto, vorrei avere un pacchetto di cioccolato da due chili o essere Jules e possedere un vibratore?
Salendo le scale, però, l’unica risposta che mi sovviene è: nessuno dei due. Vorrei Alex.
Stupidi problemi di famiglia!

Mi ricordo quando io e Michele avevamo un rapporto orribile: io gli dicevo che gli volevo bene e lui, simpaticamente, mi rispondeva:

“Io invece ti odio”.

Mi chiamava Palla. Diceva che si faceva prima a saltarmi che a girarmi attorno. Detto tra noi: aveva ragione.
La sua battuta migliore era: “Il volume di Palla sai qual è? Quattro terzi, pi greco, r tre.” Insomma, il volume della sfera.

Io, a quel punto offesa, gli davo del Callacalla: parola priva di un vero significato ma che, se pronunciata con vocina acuta e stridula, in unione al caratteristico viso piangente con bocca spalancata da deprivazione totale di ossigeno, sembrava causargli un fastidio incomparabile.
Quindi la cosa proseguiva: lui mi chiudeva nell’armadio più alto e mi diceva di lanciarmici giù sparando ragnatele dai polsi e proclamandomi Spiderman. Il tutto finiva quando io sceglievo di sparare le ragnatele dalla bocca sputando sui suoi capelli corvini.

Poi arrivava madre Eleonora che, borbottando, si chiedeva cosa avesse mangiato in gravidanza per partorire due animali da trifola e, prendendomi in braccio, mi portava in cucina dove, di fronte ad un panino alla nutella (o al salame, o a quello che offriva la casa) io mi placavo placidamente e tornavo serena, completamente inebriata dagli zuccheri e dei grassi fluttuanti in me.

Overdose d’amore, altro che ciccia!

Se anche Alex e suo fratello fossero capaci di risolvere i problemi bene come me e Michele, ora non sarei sprofondata sotto il mio piumone da sola, azzannando una scatola di Grizbì e ascoltando “Straight to number one”  per simulare un virtuale rapporto sessuale.
Ma la vita è ingiusta. Quindi, con astio, dopo aver inviato un sms a mio fratello con scritto “Siamo una cazzo di potenza.”, mi accascio tra i cuscini e, tempo due minuti, russo come un facocero.

Non so se sia merito della frustrazione sessuale o semplicemente della stanchezza accumulata negli ultimi giorni ma, per una volta, il mio è un sonno così profondo che giurerei di essermi addormentata da pochi minuti quando sento una cascata di pizzicotti e morsetti leggerissimi precipitare sul retro del mio collo.

È qualcosa di così delicato e fresco che, per una volta, non vengo avvolta dall’istinto omicida che mi accompagna ad ogni risveglio ma, al contrario, mi riscopro a ridacchiare con la faccia affondata nel cuscino quando Alex, che come un ninja è salito a cavalcioni sulla mia schiena, soffia contro la mia pelle per fare una pernacchia.

“Molto maturo, Alex...”
“Svegliati!” protesta lui quando non mostro alcun desiderio di sollevarmi dal letto ma mi limito a sghignazzare al suo tono infantile.
Mostrando la sua tenacia, però, il mio coinquilino muove piano le ginocchia sul materasso e le fa scivolare lungo le mie gambe fino a che non si sdraia completamente sul mio corpo: intrufola le mani sotto il cuscino in cerca delle mie e riprende la sua deliziosa tortura alternando ai morsi baci leggeri.

Vivo con un alieno, è ovvio.

“Sofia, apri gli occhi.” mormora sfiorandomi la nuca e ridendo di fronte alla mia ostinata negazione.
“Dai, alzati. Ti porto a fare colazione...”

Mi porta a fare colazione? Dove?

“Se pensi di potermi sollevare fino alla cucina, sopravvaluti i tuoi muscoli o sottovaluti il mio peso.”
“Non sottovaluterei mai il tuo peso, Scintilla.”
Ecco tornato in tutto il suo splendore il mio coinquilino faccia di guano.

“Quando sei tornato?”
“Poco fa... c'mon, get up!” borbotta solleticando la mia scapola, ma io sono ancora piuttosto titubante all’idea di sollevarmi dal letto, tanto più che sotto il suo corpicino si sta una meraviglia: lui non sembra condividere la pigrizia che aleggia in me, però. Intreccia le dita con le mie sotto il cuscino e trascina le nostre braccia allo scoperto; poi, con una mossa che conferma il mio sospetto che sia un ninja in incognito, mi fa rotolare così che, inaspettatamente, mi ritrovo supina accanto a lui.

“Buongiorno!”
E io ribatto con una sorta di grugnito.
“Sensuale, molto.” sussurra con quel suo sorriso compiaciuto e gli occhi colmi di entusiasmo.
“Ma che ti prende?”
“Voglio che andiamo a fare colazione fuori!” mi spiega scendendo dal letto e tirando le mie mani verso di sè; quando riesce a costringermi a mettermi in posizione verticale, picchietta l’indice sulla punta del mio naso un paio di volte e mi annuncia:

“Hai quindici minuti per renderti presentabile e per raggiungermi in macchina.”

Io in quindici minuti forse mi sposto dal letto al water. Questo si è pippato un barattolo di zucchero a velo se pensa che io possa cambiarmi in un quarto d’ora.
“Ma che ore sono?”
“Le 8:30...” risponde lui uscendo dalla mia stanza e l’impulso assassino che latitava pochi minuti fa sale come un’onda devastante dentro di me.
“Ma vaffanculo, Alex! È l’alba!”
“Quindici minuti, o la colazione la paghi tu.” lo sento ridere dal salotto prima che chiuda la porta d’ingresso dietro di sé.

Resto imbambolata qualche secondo cercando di capire dove io possa trovare una Giratempo così da potermi travestire da essere umano prima di andare a fare colazione ma, nel bel mezzo della riflessione, mi rendo conto di un fatto assai più importante che si articola in due rilevanti sottoproblemi: prima di tutto, io non sono mai stata portata fuori a colazione da nessuno che avesse un pene.

Cosa diavolo ci si mette per andare a colazione con un ragazzo?
E, dilemma numero due, questo è una specie di primo appuntamento tra me e Alex?

Perché se lo fosse dovrei probabilmente chiamare Bet o Jules e chiedere istruzioni.

Attanagliata dal dubbio, dunque, mi sollevo rapidamente dal letto e corro alla finestra, aprendola e spalancando con pochissima cura le imposte: mi sporgo e scruto attentamente il marciapiede in cerca di Alex.
Appena poso gli occhi sulla sua testolina bionda mi metto ad urlare il suo nome come la peggiore piazzista e il mio coinquilino, precedentemente appoggiato al cofano della sua macchina, sussulta - non saprei se per il volume della mia voce o se per la sorpresa - per poi guardare nella mia direzione.

“Med... che stai facendo?!” domanda con un tono che potrebbe risultare di rimprovero, cosa che io ignoro volutamente.
“Ma questo è un appuntamento?”
“Che cosa?”
“La colazione. Tu che mi porti a colazione, intendo. È un appuntamento?”

Non lo posso vedere dal terzo piano, ma azzarderei che Alex sia appena arrossito a causa delle mie parole: forse era una cosa sottintesa e chiederlo è stata una mossa idiota? O è stata una domanda da ragazzetta appiccicosa e ora lui pensa che io lo stia pressando?

Perché giuro che non è così: io punto al sesso e al muscoletto.

“Med, ti dispiace?!”
“Cosa?”
“Potresti non urlare i fatti nostri dalla finestra?”
“Perché, io e te abbiamo dei fatti in comune?”

Poi, senza rispondermi, si mette a camminare verso il portone: ho appena il tempo di sporgermi come una giraffa dalla finestra per cercare di capire se è effettivamente entrato nel nostro palazzo o meno prima di sentire la porta d’entrata che sbatte e la sua voce che mi intima di “ritirare il mio stupido corpo all’interno della nostra proprietà prima che un piccione mi caghi in testa”.

Alex è uno sciocco: questo appartamento è della signora Riposi, non nostro.

Rientro e chiudo la finestra sbuffando quando lo vedo entrare in camera mia con uno sguardo scocciato:
“Ti sembra il modo?”
“Che modo?”
“Il tuo!”
“Quale mio modo?”

Sembriamo due aborigeni che comunicano come tacchini gloglottando e credo che Alex si sia appena pentito di avermi proposto di uscire a colazione. Fa un respiro profondo e si avvicina all’ armadio di fronte al letto a cui sono appoggiata, gli occhi fissi su di me.
“Stai per ritirare il tuo invito?” chiedo un po’ preoccupata.

Io ora ho fame! Pregustavo un cornetto alla marmellata.

“Prima di tutto vorrei che il resto del mondo non sapesse se e quando porto qualcuno ad un appuntamento. E, in secondo luogo, chiamalo come ti pare: io volevo solo che uscissimo insieme a fare colazione. Non c’è bisogno di dare un’etichetta ad ogni cosa...”
“Questo lo so, imbecille...” borbotto sottovoce, incurante della sua risatina che segue la mia protesta.

“Quindi?”
“Che ne so! Pensavo che se fosse stato un appuntamento mi sarei dovuta acchitare come si deve. Insomma, non è così che si fa?”
“Scintilla, io ho un lavoro da raggiungere tra non molto e, onestamente, le formalità le trovo frustranti...”
“Io pure...” confesso ridendo e ripensando alla mia inadeguatezza sociale.

“Mettiti quello che avevi addosso ieri sera.”

“Perché?” chiedo ammiccando e avvicinandomi a lui.
I suoi occhi ricominciano a sorridere e, quando i miei rovinano sulle sue labbra, lo sento inspirare. Fa scorrere le mani sui miei fianchi e intreccia le dita dietro la mia schiena, chinandosi lievemente su di me.

“‘Cause it was sexy as hell...” e libera l’aria sulle mie labbra, quasi sfiorandole con le sue.

Poi, senza preavviso, mi tira un leggero sculaccione, spostandosi da me, e mi ordina:

“Ora muovi il culo.”

Con gli occhi fissi sulle sue spalle che abbandonano la mia stanza e la mandibola a penzoloni per il tiro mancino appena incassato, constato di essere affamata in tutti i modi possibili: il dubbio è se ho più fame di cornetto o di Alex.
Sto per abbandonarmi ad una fantasia perversa su Alex con addosso solamente un grembiule da cucina che mi prepara brioches alla marmellata e la cosa mi intriga in modo quasi grossolano; poi sento l’oggetto della mia fantasia urlare “Sbrigati, Scintilla!” e, ormai rotta la magia, finalmente mi decido a vestirmi.



Pitstop



Se il lettore è sopravvissuto fino a qui, la direzione invita a fare un giro del letto saltando su una gamba sola e provando a toccarsi la punta del naso con la lingua: se il lettore ne è capace, ora può bere un bicchiere d'acqua per riprendere la lettura. In caso contrario... può riprendere lo stesso: La direzione ha il cuore tenero.




“Trovo irritante che tu stia mangiando come un caimano e che le dimensioni del tuo sedere non ne risentano.”

Siamo seduti al tavolino di un bar a un paio di chilometri da casa nostra dove, di solito, vengo a bere il caffè con Leo e, mentre io mi sono fatta portare un canonico cornetto alla marmellata con cappuccino, Alex si è dato alla colazione internazionale: cioè, non proprio internazionale, più che altro cibo in quantità industriali. E con accoppiate che solo un americano può tollerare.
Oltre ad essersi scolato una spremuta d’arancia non appena ci siamo seduti, ha scelto di iniziare la sua giornata con un toast, un Kinder Bueno e un cornetto alla Nutella; il tutto accompagnato da un - a mio avviso imbevibile- caffè d’orzo.

Non che io abbia realmente qualcosa da discutere sulle sue scelte gastronomiche (anche se penso che, in qualità di cuoco, dovrebbe avere uno spiccato senso del gusto e, di fronte alle sue scelte, mi sento in diritto di metterlo in dubbio), ma mi chiedo dove spedisca tutti i grassi annessi alla Nutella e al Kinder Bueno.
Insomma, ogni volta che vedo la pubblicità che inneggia alla leggerezza di quello spuntino, mando a cagare i magrissimi attori che lo divorano come se fosse un pezzo di sedano: “a cuor leggero e a culo pesante” dovrebbe essere il vero slogan. È pubblicità ingannevole.

Mentono sapendo di mentire e lo fanno a spese della gola che, si sa, è prerogativa di chi l’adipe la combatte da una vita.

Invece il biondino seduto accanto a me sembra addentare quello snack a culo leggerissimo, la qual cosa, ovviamente, mi provoca un vago istinto omicida.

“Non mi risulta che il sedere sia propriamente un punto critico nei ragazzi.” bofonchia lui deglutendo un quadratino di Kinder e scrutandomi con aria boriosa.
È evidente che lui e il suo fisichetto asciutto e scolpito non sanno neppure cosa sia il calcolo delle calorie: legittimamente, quindi, per questo lo odio.
“Non lo è quando non ne hai uno...” borbotto sorseggiando un po’ di acqua naturale e evitando di guardarlo.

“Mi sembrava non avessi da ridire sul mio sedere ieri sera. Anzi.”
“Ero eccitata. Non sono attendibile quando sono eccitata.” è la mia risposta sostenuta che, come al solito, sembra essere motivo di ilarità per il ragazzo alla mia destra.

Ci hanno posizionati ad un tavolino quadrato in un angolo del bar, nonostante i tavoli fossero praticamente tutti i liberi ma la cosa, in realtà, mi fa sentire più tranquilla: l’angolo del muro mi garantisce un po’ di privacy e mi copre le spalle, evitandomi di prestare attenzione alla posizione in cui dovrei piazzare il cappotto per coprire i rotolini di ciccia che, inevitabilmente, si palesano ogni volta che mi metto seduta.

Le persone magre, infatti, non sanno che la scelta del posto a tavola per una persona in carne è quasi sempre in parte condizionata dalla prospettiva che gli altri commensali e gli altri clienti avranno di lei e delle sue rotondità: di solito io individuo il posto più “coperto” - se c’è un angolo sono praticamente a cavallo - e, una volta posizionato il cappotto (rigorosamente appeso allo schienale della sedia per coprire possibili pieghe o segni visibili in zona posteriore e/o sulla schiena da altezza elastico del reggiseno), studio la strategia più consona per mascherare la presenza del rotolino (o rotolone, nel mio caso) che prende vita sulla pancia e che, disgraziatamente, spesso è visibile anche da una prospettiva laterale.
Il fatto è quantomeno spiacevole, soprattutto perché non sempre hai a disposizione una sciarpa da posarti in grembo; poi c’è il problema che tenere la borsa sulle gambe è contro il bon ton ed è un’azione terribilmente sospetta.

Stamattina con Alex, nel nostro tavolino protetto, ho potuto impossessarmi del posto nell’angolo, fatto che mi rende molto più rilassata: lui si è piazzato alla mia destra e, da quando è arrivata la nostra ordinazione, continua a tirarmi gomitate accidentali ogni volta che muove una mano per afferrare qualcosa.

“Sei mancino, non si può mangiare seduti accanto a te.”
“Altro di cui lamentarti, Scintilla?” ridacchia lui per nulla offeso dalla mia accusa e facendo collidere volontariamente il suo gomito sinistro con il mio polso, azione che gli fa guadagnare un’occhiata rancorosa da parte mia.

“Sì, c’è una cosa che non ho mai tirato fuori ma che mi assilla dalla prima volta che ho ritirato la posta anche per te...”
“E tu sei riuscita a tenertela fino ad ora?”

Alex mi fissa con un’espressione ironica che sembra illuminargli i tratti: si diverte, il mio coinquilino. Gli piace tantissimo prendermi in giro: deve esserci qualcosa di sbagliato in me perché la cosa mi piace. Quando ride per ciò che faccio o dico ho vagamente l’impressione che rida con me e non di me: è molto diverso. Se avete mai provato un forte senso di mortificazione di fronte alle persone che, pur mascherandolo, ridevano di voi, potete capire la differenza.

Sapere che lo diverto a volte mi fa veramente girare le palle, non lo nego; posso anche mostrarmi offesa ma, onestamente, il suo divertimento non mi ferisce.
Non so se perché negli anni la mia corazza si sia indurita di fronte a certi sfottò o se perché, quando ride per me, lo fa sempre il modo onesto, senza rendere la cosa umiliante: gli piace che sia ridicola e inopportuna. Lui lo trova interessante, non pietoso: capisce quello che voglio dire e perché lo dico in un preciso modo. A volte mi rendo conto della comicità di certe mie uscite solo quando lui si mostra divertito: ed è allora che rido anche se sono irritata. Rido con lui che ride con me. E non fa male come ha fatto a volte in passato.

Fa bene.

“Sì, ho fatto appello alla mia discrezione perché pensavo potesse essere un tasto delicato.”
“Ah, quindi la nostra colazione sta diventando seria?”
“Tu ti chiami Alex Aleman.”

Dichiaro voltandomi verso di lui e additandolo: non che sia colpa sua, però è davvero un nome che non si può sentire.
“Quindi?” domanda fissandomi con aria confusa, assolutamente ignaro del perché io abbia appena annunciato il suo nome completo come se fosse quello di un serial killer ricercato. Devo anche spiegargli perché la cosa è discutibile?

“Ti chiami Alex Aleman.”
“So come mi chiamo...”
“Alex Aleman, cioè... Ale- Ale-... I tuoi non ti volevano?”

Il mio coinquilino continua ad avere un’aria interdetta e, per qualche strana ragione non sembra cogliere l’orrenda assonanza a cui faccio riferimento io: insomma, parliamoci chiaro, sembra che i suoi l’abbiano volutamente bollato con un nome che suona ridicolo. Se hai un cognome che inizia per Ale-, è davvero assurdo scegliere per la tua progenie un nome che richiama le stesse identiche lettere.

“È la seconda volta che sento questa domanda da quando ti ho incontrata. Comincio a pensare che sia così...”
“Senti, non è che io voglia... ecco... dai, ma con un cognome così non ti potevano chiamare Bill?”

Rispondo io cercando di rendergli noto dove sta l’evidente problema; lui inclina la testa di lato, senza smettere di fissarmi e, inarcando le sopracciglia con aria di sfida, domanda:

“Andresti a letto con uno che si chiama Bill?”
“Mi credi così orribile da farmi problemi per un nome?”
Non posso dirlo ad alta voce ma, voglio dire, sono andata con L che aveva tratti molto più imbarazzanti di un brutto nome: non sono così selettiva.

“Stiamo discutendo di come suona il mio nome accanto al mio cognome.”
“Beh, non prendertela ma sembra una presa per il culo.”
“Io mi chiamo Alexander Aleman... è più lungo. E poi ho un secondo nome in mezzo.”

Ribatte lui difensivo e, potrei giurare, pure con una punta di orgoglio, come se fosse possibile rendere meno brutta l’accoppiata dei due nominativi.
Resto a fissarlo per qualche secondo con lo sguardo imperturbabile, aspettando che finisca di cercare di convincermi che, in qualche modo, io mi sbagli.
Ma la sua arringa finale è decisamente debole ed io non posso non farglielo notare dicendo:

“Fa schifo lo stesso.”
“Sì, è vero, è orrendo...”

Ammicco vittoriosa alla sua ammissione e provo ad indagare oltre chiedendo quale sia il suo secondo nome ma Alex opta per fare il misterioso, rispondendomi con aria sostenuta:

“Non te lo dico... Il mio secondo nome te lo devi guadagnare...”

Ride insieme a me e addenta un pezzo di cornetto alla Nutella, incurante delle calorie che si celano dietro ad un solo morso. Non che io ci badi molto, ma la Nutella è Il Peccato per eccellenza.

“Buona?” chiedo spostando lo sguardo sulla bustina di zucchero di fronte a me e giocandoci col cucchiaino.
“Molto. Vuoi assaggiare?”
“Mi piacerebbe ma, sfortunatamente, non riesco a levarmi dalla testa il fatto che tu hai ripetutamente apostrofato il mio culo come grosso. Da allora vivo male il rapporto col cioccolato.”
“Questa è una cazzata, tu di cioccolata ne mangi un sacco.” ridacchia lui, lanciandomi un tovagliolino che io schivo - fingendomi offesa - per poi mettermi a sorseggiare il mio cappuccino ancora intatto.

Alex non smette di ridere neanche quando appoggio la tazza e mi volto verso di lui per lanciargli uno sguardo fulminante ma, al contrario, appena il mio viso trova il suo, lui allunga una mano, afferra una delle gambe della mia sedia e con un gesto deciso mi tira a sè: in una frazione di secondo mi ritrovo con un ginocchio tra le sue gambe e la sua mano sulla coscia.

Dio. Mio.

“So io come fartela assaggiare a calorie zero...” sussurra chinandosi verso di me e sfiorandomi l’angolo della bocca col pollice. Io deglutisco a forza e cerco di mantenere una parvenza di controllo mentre lui toglie un po’ di schiuma di cappuccino dalle mie labbra.

Siamo in un luogo pubblico, non posso abbandonarmi ai miei istinti!

Ma lui non sembra preoccuparsi dell’audience perché libera un sospiro vibrato, appoggia piano la mano sul mio collo e, senza tanti fronzoli, trascina il mio viso contro il suo: intrappola il mio labbro superiore tra le sue labbra e succhia lievemente, facendomi dubitare di avere la capacità di mantenermi stabile sulla sedia, mentre le sue dita scivolano sulla mia spalla e mi guidano un po’ più vicino a lui.
Sorridendo solleva anche l’altra mano e la porta sulla mia nuca, premendo la bocca sulla mia e lasciando scivolare la lingua tra le mie labbra in un gesto lentissimo, rilassato, calmo.

Il tutto senza mai chiudere gli occhi o spostare lo sguardo dai miei.

Quando il suo pollice tocca nuovamente il mio collo e la sua lingua sfiora la mia, però, perdo ogni battaglia e lascio cadere le palpebre, cercando di capire il perché di questo bacio, qui, ora e così.
Poi le sue labbra si muovono contro le mie rendendo il bacio più profondo, e allora lo sento: cioccolato.
Sa di cioccolato.
Un bacio al cioccolato non l’avevo mai avuto prima. E a calorie zero.

Sento debolmente il gusto della Nutella e le mie papille gustative fanno scintille: quel flebile sapore di nocciola fuso con la cioccolata è qualcosa di così fottutamente buono che, alla realizzazione che è accoppiato con un bacio “strappa mutande”, penso di aver raggiunto l’apoteosi del piacere.
O, quantomeno, quella per una cicciona con gli ormoni attivi.
Poi, veloce come è iniziata, la gustosa tortura finisce. Lui fa schioccare un ultimo bacio sulla mia bocca e, sorridendo, sussurra:

“Buono anche il tuo cappuccino, però.”

Resto un pelo stordita dalle sue azioni, fissando quel suo faccino furbo con un’espressione attonita mentre lui ammicca e muove a intervalli regolari il pollice sulla mia guancia: è estremamente soddisfatto di sè, è evidente. Io cerco di trattenere ancora per qualche istante il gusto di Alex alla nutella, muovendo impercettibilmente la lingua e facendola passare tra le labbra in un gesto che sembra colpire il mio coinquilino perché, subito dopo, lo vedo tornare alla carica.
Ben decisa a non concedergli il controllo della situazione - e della mia indisciplinata libido - fermo il suo viso, appoggiando una mano sulla sua bocca e inarcando le sopracciglia con aria minacciosa.

E l’idiota ride. Ma perché ride sempre?!

“Regola n° 1: io odio le manifestazioni d’affetto in pubblico. Mi imbarazzano e le trovo irrispettose nei confronti dei poveracci che vi assistono.”

Alex si scosta dalla mia presa, dopo aver dato un bacio al palmo della mia mano - cosa che trovo carina in modo disgustoso e che allo stesso tempo fa scoppiettare le mie ovaie - ricomincia a bere il suo orrendo caffè d’orzo e risponde:
“Scintilla, attualmente noi due ci siamo baciati praticamente solo in pubblico.”
“Esattamente!” ribatto io con vocina acuta e additandolo “e guarda che risultati!”
“Che vuoi dire?”

“Che non portiamo mai a termine quello che cominciamo. Tu ti metti a fare il provocatore in pubblico e, alla fine, io vado sempre in bianco...” è palpabile il rammarico che cola dalla mia voce quando rispondo, scegliendo di tracannare il mio cappuccino come se fosse uno shottino di vodka per rendere la mia risposta più drammatica.
“Ti sei sporcata di nuovo...” sussurra lui avvicinandosi, causando un brividino nei pressi del mio ombelico. “... e non sei solo tu quella che finisce in bianco.”

E mi bacia piano. Ancora.

“Non lo trovi frustrante?” mormoro contro le sue labbra mentre mi concedo di godermi per un attimo la sensazione della sua bocca sulla mia.

“Da morire...” ribatte accarezzandomi le spalle, prima di scendere sulle braccia e di premere un po’ più forte il suo viso sul mio. 

Alex ha qualcosa nel modo di muoversi quando ti bacia che sa di ludico, di divertente anche quando non dovrebbe esserci nulla da ridere; lo fa con curiosità e con cura. Non ti bacia solo con le labbra; lo fa con tutto il corpo. Ogni parte di lui si muove al ritmo giusto, come se ci fosse un accordo preciso tra tutti i suoi muscoli: ogni respiro è in sintonia con ogni singolo fremito e l’unica cosa che tu puoi fare è lasciare che lui finisca la sua “opera”.

Quando la sua bocca si allontana dalla mia non riesco a trattenere un lamento che sale dal fondo della gola e che prende la sembianze di un nodo quando lo sento mormorare:

“Perché cazzo ti ho portata fuori?”

Non posso evitare la risatina che libero perché, in una forma altrettanto volgare, mi stavo chiedendo la stessa identica cosa.
Gli do una piccola spinta e il sorriso abbozzato che mi regala lo fa sembrare molto più giovane e, malgrado il vago senso di decenza che scalpita in me, mi sento ancora più accaldata di pochi secondi fa.

Ma mi ha sempre fatto tutto ‘sto sangue il mio coinquilino? Perché io non ero neppure consapevole di essere allupabile fino a questo punto.

Alex torna a concentrarsi sulla sua colazione senza smettere di ridacchiare quando io mi lascio sfuggire un commento che sembra inorgoglirlo ancora di più.
“Tu e la tua lingua di velluto dovete imparare un po’ di disciplina...”
“Di velluto, eh?” sghignazza lui inarcando le sopracciglia e sentirglielo ripetere ad alta voce mi fa sentire vagamente imbecille.
Vorrei mascherare l’imbarazzo ma la sua espressione compiaciuta e il suo viso divertito mi urtano e mi fanno ridere allo stesso tempo: Alex certe volte è così trasparente e spontaneo che non capisco come la stessa persona possa essere tanto riservata e silente su molte altre cose.

“Finiscila di pompare il tuo ego, pallone gonfiato.” borbotto ridendo mentre lui gongola e si leva la felpa.

Perché diavolo si spoglia, ora?!

“Parliamo più tardi del mio ego e di cose che si gonfiano” mormora malizioso, avvicinandosi al mio viso.
“Porco!” rispondo sorridendo, appoggiandogli un palmo sulla bocca per fermarlo “No! Niente effusioni in pubblico.”
Sento il sorriso prendere nuovamente forma sulle sue labbra premute contro la mia mano, poi mi afferra il polso e lo sposta.

“Tu hai troppe regole.” ma, questa volta sembra optare per la disciplina; torna ad allontanarsi e, in un gesto vendicativo, prende il sacro cornino della mia brioches, lo stacca e se lo mangia.

“Oppure sei completamente priva di autocontrollo e non mi puoi più resistere?”
“Tu ti sopravvaluti, Alex.”
“Davvero?”

No, non è vero. Non si sopravvaluta affatto: me lo farei qui e ora senza neppure sentirmi in colpa, lo ammetto. Solo che non voglio che lui lo sappia. Lui ride e io rafforzo la mia posizione - fintissima - di donna con autocontrollo.

“Io sono una donna e le donne sanno resistere ai loro beceri istinti, ricordatelo.”
“E io invece non ne sarei capace?”

È arrogante al punto giusto, con quell’insopportabile viso sempre arricciato in un sorriso a metà strada tra il divertimento e la provocazione: più lo guardo e più comincio a pensare che avesse ragione Jules e che la mia attrazione per Alex abbia radici meno recenti di quello che vorrei far credere a me stessa.
Ma io resto una persona con un carattere orribile e, se c’è una cosa che non posso sopportare, è l’idea di perdere qualunque tipo di battaglia: non lascerò certo che il mio coinquilino si convinca di essere quello con il potere.

Mi guardo attorno e non posso fare a meno di notare che al tavolo accanto al nostro sono sedute quattro ragazze - piuttosto fighe, aggiungerei - e che una di queste guarda ripetutamente nella nostra direzione cercando di non farsi notare: per un istante mi sento a disagio nel mio corpo.
L’insicurezza vibra lievemente nel fondo del mio stomaco e non riesco a non chiedermi se stia guardando me o Alex: sta contemplando le dimensioni del mio corpo e mi compatisce perché lei è filiforme e io rotolo? Sta sbavando dietro ad Alex? O, peggio ancora, si starà chiedendo perché il biondino carino è a colazione con la Palla?

“Scintilla?”

Basta la sua voce per scuotermi dal momento balenottera insicura e, tornando a guardarlo, penso che sarò anche sexy come un imbuto ma, per qualche strana ragione, a lui la mia sensualità da cono di plastica sembra intrigare.
Le signorine con l’aria da vagina placcata d’oro possono anche scrutarmi: però, per una volta, lo faranno mentre il ragazzo carino si concentra sulla sottoscritta e non su di loro.

Spinta da un moto di sicurezza che non mi appartiene, mi volto completamente verso Alex: accavallo una gamba con la sua e, ignorando il suo sguardo sorpreso, stringo nel pugno il collo della sua maglia e lo guido verso di me. Non sono propriamente esperta nell’arte della provocazione ma lui sembra trovare tutte queste moine piuttosto allettanti perché, quando le mie labbra si appoggiano sul suo collo, smette di respirare e piega leggermente la testa di lato per incoraggiarmi a proseguire.

Lascio qualche bacio sulla sua pelle, accarezzandogli i capelli e succhiando pianissimo mentre lui libera un sospiro e sussurra:
“Che stai facendo?”
“Marco il territorio...” dichiaro sfiorandogli la vita e senza staccare la bocca da lui.
“Ok.”

Non so di preciso per quanto tempo mi dedico allo sbaciucchiamento del collo di Alex e non posso negare di sentirmi in imbarazzo per aver scelto di essere così plateale in un luogo pubblico, ma l’orgoglio ha avuto la meglio e non riesco a trattenermi.
Alex respira in modo affaticato, stringendomi la vita ogni volta che con la lingua passo accanto all’incavo del suo collo e, stranamente, le sue reazioni sembrano far passare in secondo piano tutti i motivi per cui dovrei smetterla.

Poi, però, lui se ne esce con un “Med, you are killing me...”, che è interpretabile come “Mi stai torturando piacevolmente”, e tanto basta per farmi recuperare lucidità e decenza.
Scosto le labbra dal suo collo, incontrando i suoi occhi contrariati, per concedere un bacio a stampo alla sua bocca prima di accarezzargli una guancia e dichiarare:

“Credo sia il caso che tu te ne vada...”
“Perché?”
“Perché se continuiamo così degeneriamo, non credi Mr. Io-mi-so-controllare-e-tu-no?”

Alex si lascia sfuggire un debolissimo broncio prima che lo sguardo gli cada sul display del telefono e, recuperando la giacca, si alzi in piedi dicendo:

“Devo andare al lavoro, ma se non fosse stato per questo non te la saresti cavata.”
“Che peccato. Vedi perché non dobbiamo fare certe cose in pubblico? Ennesima occasione sprecata.” brontolo accettando la sua mano e lasciando che mi aiuti ad alzarmi in piedi.
Mi infilo il cappotto anche se credo che la mia temperatura corporea abbia superato il punto di ebollizione dell’acqua; lui mi porge la borsa prima di avviarsi verso la cassa, borbottando:

“Ha iniziato lei a farmi succhiotti e ora è colpa mia”

Io lo seguo sorridendo e penso che, se tenessi un diario, oggi potrei davvero andare a casa e scriverci sopra qualcosa tipo:

Caro Diario,
oggi ho pomiciato con Alex seduta al tavolino di un bar...

Sarei curiosa di voltarmi a guardare nella direzione del tavolo Patatine Dorate ma, una volta arrivata alla cassa e recuperato il portafogli, Alex appoggia una mano sul mio braccio e con la fronte aggrottata mi domanda:

“Cosa fai?”
“Pago...”

Mi sembrava abbastanza evidente che non puntavo a ferire il barista con il mio portafogli di Furla rosa elettrico (chiaramente un regalo di Jules): il suo volto però sembra assumere un’aria offesa e sospetto che si stia facendo sopraffare da qualche orgoglio maschile o roba del genere.

“Sono io che ti ho portato fuori a colazione.”
“E io sono quella che ha introdotto consciamente il cibo nel mio corpo.”
“Ma... pago io.”

Credo che il mio volto completamente indifferente rifletta il mio disaccordo con la sua ultima affermazione perché, per un secondo, sembra intimorito.
“Alex, sono una persona indipendente. Cioè, sono indipendente con i soldi dei miei genitori, ma sono comunque una ragazza che paga per sè.”

Io sono una persona pratica e, soprattutto, detesto certe formalità: non penso che il ragazzo debba pagare ogni cosa e non credo che dividere il conto declassi il tempo passato insieme o sminuisca il valore del gesto di essere invitata fuori a mangiare qualcosa.
“Ma non si fa così!”

Ora Alex sembra un bambino confuso e la cosa mi fa sorridere perché l’immagine si scontra fortemente con l’idea generale che ho del mio coinquilino.
Gli batto due volte la mano sulla spalla e, sorridendo, lo rassicuro:
“Con me si fa così. Tranquillo, dividere il conto non sminuisce la tua virilità o il tuo ruolo di maschio alfa.”

Recupero una banconota da 5 euro e la deposito sul bancone del bar per poi voltarmi verso Alex, sorridendo:
“Paga la tua parte, maschio alfa.”

Lui ride della mia testardaggine, si china e mi bacia con forza sulle labbra, rispondendo:
“Dio, quanto sei strana!”

Lo sono veramente perché le sue parole alle mie orecchie suonano come un complimento: lui paga il resto del conto e, aggrappandosi alla mia borsa, mi guida fuori dal bar.
“Forza che sono in ritardo.”
“Vai, io torno a piedi.” rispondo respirando a pieni polmoni l’aria fresca.

Il ragazzo di fronte a me scuote la testa per farmi sapere che non condivide la mia idea ma, per una volta, la prospettiva di passeggiare non mi sembra così orribile e, in fin dei conti, temo che se mi facessi accompagnare a casa, lo trascinerei nel mio letto, portandolo a licenziamento sicuro.

“No, davvero. Ho voglia di fare due passi e, dopo le tue performance, ho proprio bisogno di un po’ di aria fredda.”

Non è convinto di quello che dico, glielo leggo in faccia, ma dopo qualche istante di titubanza, sembra decidersi; fa un passo verso di me e, cingendomi la vita, mi bacia di nuovo.
Piano, solo una bacio leggero; labbra contro labbra. Delicatamente e per pochi attimi.
Poi libera la mia bocca e, con un sorriso, mi dice:

“Grazie per l’inusuale e inopportuna colazione.”
“Grazie a te per aver fatto esplodere le mie ovaie.”

Continua a sghignazzare di me mentre si allontana e si congeda con un: “A stasera, Scintilla.”

Resto a guardarlo salire in macchina per poi avviare il motore e sento una strana sensazione ribollirmi dentro: queste ore insieme sono state confortevoli e spontanee. Non ero a disagio e non ero perennemente sull’attenti con Alex e la cosa, per la durata di un respiro, mi terrorizza.
Io sono completamente inesperta in fatto di relazioni e sono una persona strana, soprattutto in questo momento della mia vita: ripensando alla semplicità con cui i momenti trascorrono quando sono con Alex, un po’ mi intimorisco.

Espormi ultimamente è una cosa troppa pericolosa per me e farlo con lui sembra una cosa tanto strana quanto inevitabile: non so se sia perché sto imparando a conoscerlo o perché lui sembra impassibile di fronte alla mia acidità, ma con Alex non mi preoccupo di risultare troppo stronza o troppo irritabile. Sarà perché mi ha incontrata al peggio di me? O perché siamo partiti con i battibecchi sin dal primo giorno e, ormai, si è abituato ai miei atteggiamenti poco femminili?

Non lo so, so solo che quando stavo con L sentivo sempre l’angoscia di dire o fare la cosa sbagliata: ogni mia azione era potenzialmente disastrosa e ogniparola era perennemente sottoposta a giudizi; con Alex è esattamente l’opposto.

Mentre passeggio con passo pigro verso casa e, come al solito, analizzo ogni cosa in modo eccessivo, il mio cellulare comincia a squillare insistentemente: estraendolo dalla tasca leggo sul display il nome di Jack accompagnato dalla sua foto in cui si atteggia a modello della Calvin Klein.

“Buongiorno, uomo più bello del mondo!” lo saluto, lasciando che un sorriso di faccia strada sulle mie labbra.
“Buongiorno un cazzo..." arriva la risposta dura e inaspettata. “... ma ti ringrazio per aver ammesso che sono una creatura di incomparabile bellezza.”

“Perché non è un buongiorno?”
Jack ha la capacità di far apparire aberranti anche le cose più semplici e, in genere, per lui anche l’aver finito il dentifricio può assumere sembianze apocalittiche, ragion per cui quando si mostra di cattivo umore, optiamo tutti per partire dal presupposto che sarà una stupidaggine.
Quindi, non mi allarmo più di tanto al tono isterico con cui mi parla e, al contrario, attendo che parta con uno dei suoi monologhi incomprensibili

Stranamente però la voce del mio amico non lascia trapelare isteria: sembra solo molto preoccupato.
“Med, è un’emergenza. Ho un servizio di catering nel pomeriggio e mi manca una cameriera...”
Il fatto che lasci la frase sospesa a metà mi inquieta ancora di più: conosco Jack a sufficienza da poter pensare che, qualunque cosa abbia in mente di dirmi, non mi piacerà affatto.
Lascia sempre le frasi a metà quando sa che non sarò entusiasta di qualcosa.

“E...?”

Pochi secondi di silenzio seguono la mia domanda, preziosi attimi che mi permettono di intuire dove sta andando a parare Jack e che mi portano a pensare una sola cosa: oddio.
“Devi venire tu. Ho bisogno di te.”

Come volevasi dimostrare: oddio.

Completamente presa dal panico e innervosita dalle - almeno dieci - ragioni per cui io non voglio essere coinvolta in questa cosa, esclamo in preda all’ansia:
“ No, Jack, non esiste. Scordatelo!”
“Sono nella merda fino al collo. Ho bisogno di te.”
“Jack, io sono la donna più maldestra sulla faccia della terra. Non posso fare la cameriera. Sappiamo entrambi che sarebbe un disastro.”

Ora, onestamente, quale essere pensante considererebbe mai l’idea di chiedere a una come me di maneggiare oggetti delicati (suppongo, tra l’altro, che la cosa dovrebbe essere fatta con una certa grazia), quando l’unico momento della mia esistenza in cui sono riuscita ad avere il controllo sul mio baricentro o sugli spostamenti d’aria causati dal mio culo è stato nei miei primi sei mesi di vita e solo perché non avevo sufficienti abilità motorie?

“Avanti, ti assicuro che anche una scimmia potrebbe fare quel lavoro.” tenta di convincermi lui con voce suadente, incurante del fatto che io persevero nell’emettere mugolii di dissenso.
“Le scimmie camminano appoggiandosi anche sui pugni, io non so fare neppure quello. La scimmia è più qualificata di me. Non puoi chiederlo a lei?”
Sono arrivata praticamente sotto casa e il portone del mio palazzo mi trasmette improvvisamente un fittizio senso di benessere: se riesco ad entrare nel mio condominio sarò al riparo da Jack e dalle sue richieste irragionevoli?

Ovviamente la risposta è no .

“Non te lo chiederei se non fossi davvero nei guai. Ti imploro, dammi una mano!” supplica lui con voce disperata, e il mio senso di colpa inizia a farsi avanti.
Resto in silenzio per un po’, cercando di decidermi, e lui attende trepidante una risposta.

“Che cosa mi devo mettere?” domando alla fine, cedendo alla sua supplica.
“Grazie Med, grazie, grazie, grazie!” esclama lui euforico.
Io sospiro e aggiungo:
“Aspetta a ringraziarmi. Dimmi che devo indossare per rendermi ridicola davanti a tutti.”

“Camicia bianca e pantaloni neri. Ti passiamo a prendere tra un’ora.” risponde, e percepisco il sorriso stampato sul viso nella sua voce prima che mi saluti, chiudendo la comunicazione.

Io osservo il telefono per dieci secondi, cercando di capire per quale assurda motivazione ho accettato. Poi ripenso alle sue parole: camicia bianca.

Io non ho una camicia bianca! Io non ho proprio camicie. Ho le tette troppo grosse per riuscire a comprimerle in una camicia.
Entro di corsa in casa e, levandomi il cappotto, corro in camera iniziando a frugare nell’armadio alla ricerca di un indumento che so gia non troverò.
Quando tutti i miei vestiti sono sparsi per la stanza rinuncio, rassegnandomi all’idea di non poter trovare una camicia bianca.
Infilato uno dei mille pantaloni neri che possiedo, cammino come una cretina per casa con addosso solo quelli e un reggiseno tristissimo, attendendo un’illuminazione su come risolvere il problema.

Poi mi blocco davanti alla porta di Alex e la osservo. Tutti i maschi hanno una camicia bianca, giusto?

Sulle mie labbra si forma un malefico sorriso. Apro furtivamente la stanza, stile Lupin III, come se non fossi oggettivamente in casa da sola e stessi compiendo chissà quale crimine e inizio a frugare tra gli abiti del mio coinquilino: nel momento in cui le mie dita trovano quello che cerco, lancio un urletto euforico in segno di vittoria.
Osservo la camicia per un attimo: sembra piuttosto bella. L’occhio mi cade sull’etichetta e realizzo che lo è perchè deve essere costata una fortuna, vista la marca stampata sul colletto.

Beh, poco male, non si accorgerà nemmeno che l’ho presa in prestito.
Scrollo le spalle e infilo entrambe le braccia nelle maniche, abbottonandomi l’indumento per poi specchiarmi.
È piuttosto evidente che non è una camicetta femminile e è innegabile che mi stia da cani. Mi fa ancora più cicciotta e, nonostante le spalle larghe di Alex, ha ancora il coraggio di tirarmi un po’ sul seno, ma non ho grandi alternative.
Quando il citofono suona, afferro le chiavi di casa e il cappotto e mi precipito giù per le scale, raggiungendo i miei amici che mi aspettano fuori dal portone.

Non appena Jack mi intravede esclama indignato:

“Ti prego, dimmi che è uno scherzo!”
“Che c’è?”
“Che cosa ti messa addosso? Cosa dovrebbe essere quella specie di sacco bianco che avvolge la parte superiore del tuo corpo?” afferma lui, scrutandomi disgustato.
Io abbasso il viso, lasciando che i miei occhi si posino sull’indumento e ribatto:
“È quello che mi hai detto di mettermi.”

“No, io ti ho detto di metterti una camicia bianca, non... di avvolgerti le tette nella Sacra Sindone. Che diavolo dovrebbe essere quella cosa? Med, cazzo, è una delle dieci cose più orrende che ti abbia mai visto indossare. E ti assicuro che tu ti vesti da schifo.” sentenzia senza spostare lo sguardo dalla camicia di Alex.

“D’accordo, non è mia. Io non ho una camicia bianca, ok?” spiego lasciando cadere le spalle.
“E di chi è?” chiede Jules alle spalle di Jack, sporgendosi dal finestrino e sorridendomi con un’espressione eccitata sul viso.
“Di Alex...”
“Ohhhhhh, di Alex!”  canticchia la mia amica riccia muovendo le sopracciglia su e giù prima di aggiungere estasiata “Io vi shippo un sacco.”

“Sì, questo l’avevo capito.” borbotto avvicinandomi alla macchina e spingendo la testa di Jules nell’abitacolo; nel frattempo lei ride e mi domanda:
“Te lo sei fatto?”
“No, non ancora.” annuncio aprendo lo sportello e la mia amica mi blocca con un piede, scrutandomi severa.
“E cosa diavolo stai aspettando?!”

Quando mi accingo ad aggiornare Jules sugli sviluppi delle ultime ventiquattro ore, Jack spunta alle mie spalle e, spingendomi delicatamente in macchina, dichiara:
“Potete parlarne mentre andiamo? Siamo in ritardo.”
“Ma se siamo in anticipo di tre quarti d’ora!” si lamenta Jules facendomi spazio sul sedile posteriore e allungando le mani verso di me per sistemarmi la camicia.
“Lo scopo è infiltrare Med in zona cucina prima che qualcuno la scambi per un mendicante.” bofonchia avviando il motore e ingranando la marcia.

Tre ore più tardi sono in preda a una crisi di nervi e molto vicina all’accoltellare Jack che, nelle ultime ore non ha fatto altro che lamentarsi delle mie limitate capacità di equilibrio, senza mancare di rimarcare in continuazione che con la camicia di Alex addosso sembro un baco da seta, ma meno pregiato.

“Baco di poliestere, hai rotto più bicchieri tu in qualche ora che l’intera squadra nel giro di un anno...”

Ora gli spacco il malleolo a colpi di porcellana, lo giuro!

Il mio amico sembra esasperato dalla mia scarsa performance ma, in tutta onestà, non capisco proprio per quale motivo: io l’avevo avvisato che sarebbe stata una strage.
Sbuffando, lancio un canovaccio sul bancone d’acciaio dell’enorme cucina in cui ci troviamo, circondati da non so quanti altri camerieri e, con voce irritata domando:

“Jack, ma cosa cazzo vuoi da me?! Io ti avevo detto che non ero la persona adatta... Fatico a tenere in mano una sigaretta, come pensavi me la sarei cavata con flûte e piatti giganti?”
“Meglio di così di sicuro...” mugugna lui facendo un rapido conto dei miei disastri e constatando in seguito:
“Med, con tutta la roba che hai rotto praticamente non riesco manco a pagarti.”
“Me ne farò una ragione, basta che mi lasci andare a casa.”

Sono ore che marcio dentro e fuori da questa cucina, portando piatti enormi a tavolate di commensali dall’aria ingessata e che sono tanto sciocchi da pagare per mangiare porzioni per puffi: é una festa per il lancio di un prodotto lettone dal nome impronunciabile, dalla funzione incomprensibile nonostante la presentazione, che ha come caratteristico colore l’ocra e che se ne vanta pure.

Siamo seri: che attrattiva può mai avere un oggetto che punta sul colore ocra per avere successo? L’ocra a me ha sempre fatto pensare ai problemi intestinali, come i cachi. Non so perché. So però che non pagherei mai per un utensile che mi ricorda qualcosa legato al colon e penso che questi signori siano dei pazzi per aver accettato di assistere al lancio di un prodotto color pupù di neonato.

Non capisco come Jack possa tollerare di lavorare per un servizio di catering: le persone che stiamo servendo sono orribilmente rumorose e trovano deliziose le tartar formato mini pony che i cuochi gli propinano. Già questo dovrebbe essere sufficienti a farglieli trovarli insopportabili: come si fa a complimentarsi con uno chef che ti propina cibo non cotto grande come un bottone, coperto di rucola - unico ingrediente che riempie davvero il piatto - e se la tira pure per l’idea raffinata? Anche il mio macellaio ha della bellissima carne cruda, ma non me la fa pagare come un Cartier!

E poi questi commensali sono delle lumache: io sono qui che sudo come un porcellino d’India per distribuire pietanze - per così dire - ad ogni angolo della sala e loro hanno l’aria di pasteggiare come se fossero al matrimonio di William e Kate.

L’ultimo piatto che ho dovuto portare era immacolato: al centro una sola, microscopica capasanta e la signora a cui ho servito la portata l’ha studiata, annusata e contemplata per una cosa come tre minuti. Suvvia, mangiatelo quel minuscolo mollusco e facciamola finita, no?
Questo lavoro richiede una tolleranza verso l’essere umano che io non posseggo e una coordinazione che non conquisterò mai.

Mentre cerco una via di fuga da questa situazione umiliante, Jules compare alla mia destra, posando una pila di piatti fondi e complimentandosi con se stessa per la sua forza:

“Sono un portento in questo lavoro. Jack, credo mi dovresti dare una gratifica.”
“Jules, è già tanto se non uso i tuoi soldi per pagare i danni causati da Med... mi hai detto tu di chiamarla.”
La mia amica riccia ridacchia e mi accarezza la testa quando vede l’espressione mortificata che dipinge il mio viso e, voltandosi verso Jack, suggerisce:

“Scusa, ma perché non la metti a lavare i piatti se nel servizio è così negata?”
“Declassata a lavapiatti: è imbarazzante...” bisbiglio coprendomi il viso con le mani, ma sentendomi sollevata quando Jack conviene con Jules e mi guida di fronte ad un lavandino pieno di stoviglie.
“Credi di essere in grado di fare almeno questo?” chiede lui scrutandomi con un sorrisetto di sfida che vola dritto contro il mio orgoglio.

“Ti faccio vedere io, spocchioso despota!” gorgoglio rimboccandomi le mani della camicia e mandando a quel paese la mia migliore amica che, in tutto questo, scatta foto di me tutta sudata e trafelata: se le posta su Facebook potrei perdere quel poco di dignità sociale che mi è rimasta.

Inutile dire che oggi non me ne viene bene una: appena apro l’acqua del rubinetto, il getto rimbalza su un piatto sporco di una strana salsina che inizia a zampillare impietosamente sulla camicia di Alex e io mi lascio sfuggire un’imprecazione, guadagnandomi l’ennesimo rimprovero da parte di Jack e ispirando Jules a passare dalle fotografie alla registrazione video per documentare la mia incapacità cosmica.
Poi, quando penso che peggio di così non possa andare, tocco il fondo: tutta concentrata sul mio dovere, raccolgo un coltello grosso come un machete e inizio a strofinarci sopra la spugnetta intrisa di detersivo; l’unico problema è che, mentre sfogo la mia frustrazione sull’utensile, me lo faccio scivolare tra le dita e, senza rendermene conto, faccio scorrere una parte della lama al centro della mia mano.

E vedo i sorci verdi.

“Porca puttana!” mi ritrovo ad esclamare con la mia solita grazia, portandomi la mano alle labbra nel tentativo di succhiare il taglio e attirando l’attenzione di Jack che, in pochi passi, è accanto a me.

“Oddio, Med, ti fa male?” domanda allarmato, prendendomi per un polso e avvolgendomi la mano in un canovaccio.
“No, non molto... è un taglietto.” rispondo seguendo con lo sguardo i suoi movimenti e sentendo Jules entrare dalla cucina.
La mia amica si avvicina preoccupata per capire cosa sia successo e, di fronte alle mie rassicurazioni, sembra tranquillizzarsi per poi chiedere:

“Ma come hai fatto?”
“Boh, non lo so di preciso...”
“Sicura che non fa male?”
“No, pizzica solo un po’...”

Nel frattempo Jack continua a trafficare con il mio taglio, lanciandomi occhiatine incerte prima di dichiarare che in quelle condizioni non gli servo a nulla e proponendomi di andare a casa. Inutile dire che io colgo la palla al balzo e, annodandomi lo straccio attorno alla mano, fuggo a gambe levate non appena ne ho l’occasione.





ricarica batterie




Con un calcolo matematico abbiamo stimato che, a questo punto, è scientificamente certo che le vostre batterie saranno esaurite: la direzione suggerisce quindi di farsi un pisolino e, come sempre, di sfruttare questo momento relax per fare pipì e procacciarvi del cibo.




Diverse ore più tardi me ne sto accoccolata sul divano e, afferrando il mio PC poggiato sul tavolino di fronte a me, me lo appoggio sulle ginocchia e apro il mio “documento dei pensieri”.

Faccio partire The blowers daughter” di Damien Rice, e la faccio andare a ripetizione, mentre le mie dita iniziano a battere sulla tastiera del mio portatile. Che cosa stia scrivendo non lo so. So solo che lascio, come faccio sempre, che le mie dita diano voce ai pensieri che non so esprimere a parole.

Sono talmente immersa nel mio delizioso stato di autocommiserazione che non mi accorgo nemmeno della porta di casa che si apre, o dei passi che si avvicinano alle mie spalle, fino a che non sento una voce dire:

Talking about depression!

Le mie mani si bloccano sulla tastiera e mi volto velocemente incontrando il sorriso ironico di Alex.

“Ehi, non sono depressa.... solo.... mi sto concedendo un momento di...” cerco di giustificarmi, pensando alla parola giusta e balbettando come una cretina.
“... depressione?” ripete lui divertito, chinandosi verso di me e spostando gli occhi sul mio PC, azione che mi allarma all’istante, ergo abbasso velocemente lo schermo e, voltandomi, incrocio i suoi occhi.

“Che scrivi?”
“Niente di sensato.” borbotto per liquidare la domanda il più velocemente possibile e lui, benché mostri uno sguardo dubbioso, sembra decidere di lasciar cadere la cosa - per ora - poi si mette a sedere all’altro capo del divano e chiede:
“Allora, a cosa dobbiamo il piacere della tortura musicale?”

“È stata una giornata disastrosa, Alex!” grugnisco affondando un po’ di più nei cuscini del sofà e appoggiando le gambe sulle sue cosce.
“Non ti aspetterai che massaggi i tuoi piedi puzzolenti solo perché hai avuto una brutta giornata, vero?”
“Ma senti questo! I miei piedi non puzzano!”
“Oh, come siamo irritabili! Dai Scintilla, raccontami le tue tragedie greche!”

“No! Non ti racconto niente, sono già stata presa in giro a sufficienza per oggi.” mi lamento dandogli un piccolo calcio e mostrandomi terribilmente offesa: lui, per tutta risposta, ride del mio comportamento infantile e si avvicina un po’.
“Su avanti, non fare la musona. Che ti è successo?” chiede facendomi il solletico ed io cedo come una smidollata, confessando ogni mio disastro e pizzicando la sua guancia ogni volta che scoppia a ridere.

Poi lui abbassa gli occhi e nota lo straccio ancora avvolto attorno al mio taglio: prende il mio palmo tra le dita e lo solleva per osservarlo meglio.
“E così  ti sei pure ferita?” domanda sopprimendo una risata.
Io annuisco e ritraggo il braccio quando accidentalmente lui fa pressione al centro della mano: i suoi occhi osservano i miei lineamenti con fare curioso, animati sicuramente dal desiderio di capire se la ferita mi fa seriamente male o se sto drammatizzando tutto.

Alla fine è noto che io faccio scene per tutto, quindi immagino che il suo dubbio sia più che lecito: in realtà non sento quasi più nulla, ma il fatto stesso che lui si mostri tanto divertito dalla sfiga che mi ha perseguitato oggi, mi spinge a  comportarmi come se la mia mano fosse in cancrena. Insomma, alla fine la mia è una ferita di guerra, no?
Alex continua a sghignazzare silenziosamente mentre io sfodero il mio broncio infantile, nascondendo la mano dietro di me per allontanarla da lui.

“Se mi devi prendere per il culo anche tu, puoi andare in camera tua!”

Lui mi ignora e allunga un braccio nella mia direzione: una cosa importante da sapere su di me è che se faccio una cosa, la faccio bene. Diversamente, mi astengo. Almeno, va così quando non si tratta di cose a lungo termine: con quelle fallisco sempre su tutta la linea, essenzialmente perché sono troppo volubile e mi annoio alla rapidità del suono.
Quindi, in prossimità del contatto con lui, schizzo in piedi e lo fulmino con lo sguardo come farei se mi avesse appiccicato una gomma da masticare tra i capelli, ma neppure questo sembra sfiorarlo: al contrario si alza in piedi e si avvicina a me con aria minacciosa.

“Ho un’idea migliore. Perché non diamo una ripulita a quella mano? Credo ci voglia un po’ di disinfettante.”

Chiaramente, alla proposta io reagisco come la persona razionale e matura che sono: lancio un urletto di protesta, cercando di piazzare più spazio possibile tra me e lui e mi nascondo dietro uno degli sgabelli della cucina.
È il caso di dire che io sono una vera cagasotto e ho una soglia del dolore bassissima: in qualunque circostanza evito ogni possibile incontro con tutto ciò che potrebbe causarmi un fastidio fisico.

E questo include, ovviamente, il disinfettate.  Insomma, qualunque bambino che si rispetti da piccolo si è ritrovato seduto sul tavolo della nonna con il suo bel ginocchio sbucciato e la temibile bottiglietta di plastica trasparente che recava minacciosa la sua etichetta con scritto “Alcol”. Ecco, io quando mi faccio male non mi preoccupo tanto del danno in sè, ma più del bruciore che dovrei tollerare in seguito.

“No.” rispondo avvicinandomi il polso al petto, cocciuta.
“Perché no?”
“Perché brucia.”
“Prometto che sarò delicato.”

Provo a fuggire, aggirando il divano per nascondermi in camera e mettermi al riparo dei malefici piani di disinfezione di Alex ma, vuoi perché sono agile come un leone marino, vuoi perché lui ha le gambe più lunghe, non so come me lo ritrovo davanti, col suo sorriso spocchioso e un’espressione di rimprovero sul viso.

“Med, per cortesia, non fare la bambina. Mio nipote è più coraggioso di te.”
“Hai un nipote?”
“Ho un’intera famiglia. Shocking!”
“Fottiti!”
“Più tardi.” risponde ignorando le mie proteste e spingendomi verso la porta del bagno.

“Avresti dovuto dire che quello era compito mio...” mugolo opponendo resistenza e cercando in ogni modo di liberarmi delle sue mani che stringono le mie spalle mentre mi guida nella stanza dove, sono certa, mi infliggerà insostenibili pene.

Suppongo che, a questo punto, non abbia più molto senso lottare: io sono più grossa, ma lui è decisamente più veloce di me e qualunque mio tentativo di fuga si tradurrebbe in nulla di fatto, data la limitata lunghezza delle mie gambe.
Non per questo, però, devo necessariamente mostrarmi cooperativa e mansueta: quindi, sbuffando, lascio che mi spinga sopra il ripiano di marmo vicino al lavandino, sfoderando il broncio più pronunciato possibile. Gli occhi di Alex si posano su di me per un istante mentre traffica nell’armadietto dei medicinali, e ride scuotendo la testa divertito dal mio atteggiamento.

Poi mi afferra il polso con decisione e inizia a tamponare con del cotone imbevuto di disinfettante il taglio sulla mia mano. Io inspiro, contorcendo il viso in una smorfia di dolore e lui ricomincia a ridere.

“Smettila di fare le scenate. Non brucia davvero. Lo stai facendo apposta.” mormora, restando concentrato sulla mano.
“ Che ne sai? Sei il mio taglio? Senti quello che sento io?”

La mia voce è colma di rabbia ma in realtà ha ragione lui, è tutta finzione. Il disinfettante pizzica a malapena e la ferita è talmente superficiale che, osservandola da vicino, mi chiedo perché stiamo perdendo tempo a pulirla quando potremmo dedicarci ad attività più interessanti.

Lui non spreca nemmeno fiato per rispondermi; si limita a sciacquarmi il taglio e a ricoprirlo con un cerotto; il tutto mantenendo vivo il suo sorrisetto e facendo roteare gli occhi ogni volta che io sbuffo o emetto qualche suono infastidito.

“Ecco fatto, Miss Sofferenza. Tutto finito.”
“Non sei stato per niente delicato.”
“Ti ho fatto male?” chiede abbassando il volume della voce e chinandosi un po’ per incontrare i miei occhi che fissano il cerotto mentre mi massaggio il palmo in modo teatrale.
“No...”

Lui sorride di nuovo e si avvicina di più a me, ancora seduta sul ripiano di marmo, posizionandosi tra le mie ginocchia e premendo le dita sulla mia vita con delicatezza.

“Ciao.” sussurra quando finalmente riesce a trovare le mie orbite, accarezzandomi le labbra con le dita e sfregando piano per cancellare il broncio che si ostina a decorarle.

“Ciao...” mormoro in risposta, distogliendo lo sguardo e soffiando piano contro la sua pelle: improvvisamente comincio a sentire caldo, ma sono determinata a portare avanti la mia posizione di invalida ferita nell’orgoglio.
Ma la cosa si dimostra più complicata del previsto quando lui, fregandosene del mio atteggiamento scostante, avvicina le labbra alla mia tempia e mi fa notare:

“Non mi hai dato neanche un bacio.”
“Non te lo sei meritato. Hai riso di me tutto il tempo.”

Le sue labbra lasciano una scia di baci accarezzando ogni centimetro del mio collo, fino a scendermi sulla spalla e scaldarmi la pelle, rendendomi veramente difficile ogni genere di resistenza.

Ora, è vero che il mio scopo era quello di porre l’accento sul mio graffietto e di recitare un po’ la parte della vittima - principalmente per molestarlo un po’ - ma più la sua bocca si concentra sulla mia carne, più il mio corpo mi invia dei segnali completamente diversi da quelli del dolore.
Senza contare che il suo profumo si sta facendo sentire con prepotenza, cosa che mi rende difficile anche solo pensare, figuriamoci recitare la parte di quella stizzita.

“Però ho curato la tua mano.”
“Capirai che operazione complicata. Derek l’avrebbe fatto con molto più stile.”
Le sue dita volano sotto il mio mento e i suoi occhi tornano a incrociare i miei quando mi chiede:
“Chi cazzo è Derek?”

Se ne sta lì, di fronte a me, con lo sguardo confuso e le sopracciglia inarcate: in quel momento mi rendo conto che mi fa così sesso che, se esistesse un limite ormonale legale, io lo supererei ogni volta che entro in una stanza in cui c’è anche lui.
Non voglio dire che la cosa mi stupisca, ma mi fa dubitare di quanto, effettivamente, io conosca me stessa: c’è una netta differenza tra quello che provo in questo momento e quello che il mio corpo mi comunicava in presenza di L. Eppure fino a pochi giorni fa non ero completamente conscia delle reazioni fisiche che Alex mi causava: volevo solo prenderlo a calci.

Ora preferirei scalciargli i pantaloni di dosso.

Le sue dita stanno accarezzando con regolarità l’interno delle mie ginocchia, distraendomi da qualunque pensiero che non abbia a che fare con lui, ma in qualche modo riesco a concentrarmi a sufficienza da spiegargli:

“È il protagonista figo di Grey’s Anatomy...”

Ma non credo che la cosa lo interessi più di tanto: sospirando, infatti, appoggia le mani sulle mie cosce prima di chinarsi in avanti e avvicinare la bocca alla mia.
“Interessante. Ora possiamo liberarci di Derek e concentrarci sul mio bacio?”
“Non credo proprio.” rispondo senza la minima forza nella voce.
“Perché no?”

“Non me lo ricordo più...” bisbiglio quando sento una delle sue mani salire fino alla mia vita: è talmente vicino a me che il suo respiro non lascia spazio al mio e, più i suoi occhi scrutano nei miei, più i miei istinti scalpitano per avere la meglio.

E chi sono io per negargli la vittoria? Insomma, siamo animali istintivi, no? La storia della ratio è tutta una cazzata per farci sentire meritevoli dell’appellativo di “specie superiore”.
Ecco, a me degli appellativi pomposi in questo momento non potrebbe fregare di meno: io ora sono istinto e voglio esserlo con Alex.

“Allora non era importante.” mormora prima di sfiorare la sua bocca contro la mia.
Si ferma per scrutare il mio viso prima di liberare un sorriso enorme e intrappolare le mie labbra nelle sue.
“Sei così fastidioso...”
“Che ho fatto adesso?” domanda con poco interesse, portandosi la mia mano alla bocca e premendo le labbra contro l’interno del mio polso: io non ribatto, anche perché non ho una vera risposta da dargli, e mi godo quel pizzicorio alla base del collo che la sensazione della sua lingua sulla mia pelle ha scatenato.

Le parole smettono di essere rilevanti quando solleva il viso da me, fa cadere un bacio a stampo sulle mie labbra e, incrociando le braccia davanti a sè, si sfila velocemente la maglia.

Dio, sì!

Allungo istintivamente una mano verso il suo ventre (e tutti i muscoletti che mi osservano di rimando) e lui segue i miei movimenti senza dire nulla: poi le mie dita sfiorano la sua pelle, facendolo sospirare lievemente quando lascio che scorrano lungo la linea che dal suo ombelico va al bordo dei jeans.
Incaglio le dita nella fibbia della sua cintura, tirando con forza verso di me; lui non perde tempo e, incorniciandomi il viso tra le mani, fa scontrare le labbra con le mie.

È questione di pochi attimi prima che la sua bocca torni a muoversi in modo convulso: le sue dita cadono sulla zip della mia felpa e con un colpo secco la slacciano.
Ora, cerchiamo di capirci: io vengo da scadentissime esperienze intime con L il cui massimo di iniziativa era togliersi i calzini prima del rapporto e che credeva di essere una potenza anche solo se mi spingeva sul letto.

È inevitabile, dunque, che la concitazione e la frenesia con cui si muove Alex contro di me siano una specie di mondo nuovo a cui solo recentemente ho avuto accesso: ovviamente tutto questo si traduce in un livello di tempesta ormonale che io non avevo idea di raggiungere. Il che mi riempie di iniziativa e sembra annullare ogni genere di inibizione.

Faccio scivolare lentamente una mano dalla sua cintura sull’esterno dei suoi jeans, pensando a che genere di sporcacciona io sia: se mia madre mi vedesse ora le verrebbe un coccolone. Poi lui, al contatto con il mio tocco, libera un piccolo gemito e io mi convinco che pensare a mia madre ora potrebbe portare a esiti catastrofici.
Per un attimo rompo il bacio e Alex protesta rumorosamente, guardandomi torvo: ha le labbra arrossate, gli occhi lucidi e mentre respira in modo affannato le sue spalle si alzano e abbassano con ritmo irregolare.

Ha un’aria talmente appetitosa!

“Che succede?” mi domanda recuperando fiato mentre si china per baciarmi una clavicola lentamente, concentrandosi a lungo su ogni centimetro che incontra.

Io sto in silenzio, ma faccio sgusciare le braccia sotto le sue per abbracciarlo e ricambio il bacio, dedicando attenzione alla sua spalla sinistra; le sue mani si fanno strada sotto i lembi aperti della mia felpa e, mentre con una mi tira più vicino a sè, con l’altra mi slaccia il nodo dei pantaloni, ridendo del sussulto di stupore che l’azione provoca in me.

“Devo fermarmi, Scintilla?” chiede ironicamente e le sue labbra tornano a cercare le mie.
“Non ti azzardare!” ribatto io minacciosa, cercando di tirare in dentro la pancia ogni volta che la sua pelle tocca la mia.

L’insicurezza-rotondità si attenua però nell’istante in cui le sue dita scivolano sotto l’elastico della mia tuta.

Tell me what you want...

Eh.

Cosa voglio. Eh.

Non rispondo, ma cerco di fargli capire che non voglio certo andare a controllare la posta elettronica, ecco.

Trattenendo il respiro, affondo le unghie nella sua schiena e sento lo stomaco contorcersi nell’attimo in cui, ritrovata la mia bocca, la sua lingua scivola calma contro le mie labbra.
Sembrano ore interminabili gli istanti in cui le sue dita giocano con il bordo dei miei pantaloni mentre ricambio il suo bacio con forza e ne prendo il controllo, facendo scorrere la lingua contro la sua.
Quando spingo le unghie contro la sua pelle una seconda volta, Alex non trattiene un gemito profondo che si spegne nel nostro bacio ma, in cambio, lascia scendere la mano più in basso e, con un lieve movimento, la intrufola oltre i miei slip.

Mentirei se negassi che, nella mia testa, è partito un coro gospel che canta l’halleluya.

Non so quanto tempo passi dalla sua prima carezza al momento in cui smette di baciarmi e trova i miei occhi, ma sono quasi certa che quando le sue iridi incontrano le mie, il mio viso assuma una colorazione più rosea perché lui mi sorride e la sua mano inizia a muoversi sempre più lentamente.

O era prima che si muoveva lentamente e ora sta accelerando? Dio, non lo so davvero. Fatico a fare congetture quasi quanto a trattenere qualche parolaccia - assolutamente di gratifica per quello che sta facendo, intendiamoci!

Non è che io voglia fare paragoni ma, a fronte di quello che Alex sta facendo laggiù, sono più che certa di poter affermare che no, L non sapeva fare neppure quello; il pensiero un po’ mi rattrista. Non per L, ma per me e per tutto quello che mi sono persa fino ad ora.
Torno ad accarezzare la sua pelle, lasciando cadere baci sparsi sulle sue spalle e stringendo le dita attorno alle sue braccia ogni volta il suo tocco si fa più deciso: poi il caldo si fa più intenso, il mio respiro diventa così irregolare che credo di non riuscire a trovare abbastanza ossigeno e i muscoli mi sembrano indolenziti al punto che devo appoggiare la fronte contro la sua spalla.

Passeranno forse pochi secondi, o venti minuti, magari la sua mano è sgusciata nei miei pantaloni da due ore e io non lo so: la verità è che ho completamente perso la cognizione del tempo e, soprattutto, il controllo delle mie reazioni.

“Scintilla, sei con me?”
“Sono un tantino distratta al momento...” balbetto, provocando una leggera risata soffocata nella sua gola, ma fregandomene altamente: l’unica cosa a cui riesco a pensare è al caldo che ormai mi appanna la vista e al fatto che, benché io sia una persona poco rumorosa, sono sul punto di lasciarmi sfuggire qualche suono imbarazzante.

Le labbra di Alex, ancora arricciate in un sorriso, si posano sull’incavo del mio collo e succhiano piano allo stesso ritmo con cui le sue dita non smettono di sfiorarmi: poi sento un pizzicore divenire sempre più intenso appena sotto l’ombelico, trattengo il respiro e mordo con forza l’angolo della spalla di Alex. È una scarica elettrica quella che mi attraversa, che parte dallo stomaco e arriva dritta fino alle punte dei piedi e, per sette secondi, sono in Paradiso.

Espiro con una fatica incredibile alla fine di quei secondi e sento tutto il mio corpo: ogni singolo frammento è sensibile, prima teso, poi fiacco e rilassato.
La sua mano ora è ferma contro la mia pelle e l’unica cosa che si muove sono le sue labbra che sfiorano in continuazione il mio collo, mentre i miei denti allentano la presa sulla sua spalla.

Santo cielo!

Quando riesco a recuperare il controllo dei miei muscoli sollevo il viso e, trovati i suoi occhi compiaciuti, afferro la sua mano e la sposto dal suo nascondiglio nei miei pantaloni. Stringo i suoi capelli in un pugno e lo bacio con tutta la forza che ho, scendendo dal mobiletto e camminando all’indietro per guidarlo con me in salotto.

Do ut des...” bisbiglio sulla sua bocca e lui protesta con un gemito di dissenso.
“Non il gioco. Dare per ricevere...” ridacchio maliziosa e i suoi occhi si illuminano con un guizzo di gioia.

Che ragazzino!

Raggiungiamo velocemente il divano e Alex lascia che mi ci sdrai sopra prima di raggiungermi ridacchiando piano, stendendosi sopra di me mentre riprendiamo a limonare come due formichieri senza spostare le mani l’una dal corpo dell’altro.
Completamente distratta dalla sua pelle contro la mia, quando sento la maledetta suoneria del mio cellulare rimbombare nelle pareti del salotto, mi trovo a pormi spontaneamente una domanda: che diavolo di problema ha il cosmo con me, Alex e il sesso?

Me lo chiedo perché comincio a pensare che mia nonna, dall'aldilà, mi stia inviando qualche strano segnale per farmi sapere che è meglio che l'Americano non tiri nella mia porta.

Nonna? Anche se non ne vale la pena, io sto ragazzo me lo devo fare: ormai è una questione di principio.

Mi fermo per un momento, le mie dita strette alle sue spalle e le sue, ora immobili, contro la mia pelle. Con un cenno del capo cerco di fargli capire che non mi importa dell'interruzione; pochi secondi dopo, le mie mani riprendono il loro delicato movimento e un sospiro sfugge esile alle sue labbra mentre respira contro la mia bocca:
“Non rispondere.”
“Non ho intenzione di farlo.”
E lui ride quando guido di nuovo il suo viso contro il mio e faccio scorrere le mani fino a trovare di nuovo la fibbia della sua cintura.

"Sappi che penso che tu stia sul cazzo a mia nonna, comunque..."
"Med... "
"Mmmmhh?"
"Shut the fuck up!"

"Certo che anche tu dici un sacco di parolacce." sul suo viso spunta un'espressione incerta che mi diverte inaspettatamente: potrei essere dispettosa e fargli credere che la mia sia una critica, ma poi i suoi occhi dubbiosi mi inteneriscono e non riesco a trattenermi: "Mi eccita. Continuiamo”

Mi chiedo se sia normale ridere così spesso durante il petting, visto che con L era già tanto se emettevo un suono, ma la cosa perde rilevanza quando mi decido a slacciargli la cintura e a sbottonare un paio di bottoni dei suoi jeans. Lui sospira molto lentamente e io rido.
“Femminuccia...” lo accuso baciando le sue labbra ormai gonfie e lui sghignazza fino a quando il telefono di casa comincia a squillare.

Stavolta è lui a bloccarsi su di me, ma io veloce bisbiglio:
“C’è la segreteria.”
Mi convinco di aver trovato la soluzione ad ogni nostro problema ma vengo subito smentita dalla voce singhizzante di Jules nella segreteria:

“Med, richiamami. Per favore.”

Al suono delle parole della mia migliore amica, Alex si ferma e allontana la sua bocca dalla mia: mi fissa per pochi, brevi istanti, poi mi bacia un’ultima volta e si solleva da me.
Afferrandomi per i polsi mi aiuta a mettermi in posizione seduta e all’improvviso mi sento un po' troppo esposta, seduta lì mezza svestita, ma poi lui mi sorride, sfiora il mio collo con le labbra, mentre allunga un braccio e afferra il cordless, porgendomelo.

“Richiamala...” mi ordina, spostandomi i capelli tutti arruffati dal viso. “... io preparo la cena”
“Mi dispiace.” sussurro.
“Credimi, dispiace più a me...” sghignazza baciandomi la spalla ancora nuda e poi aggiunge contro la mia pelle “... stavolta ti ho baciata in casa e quello che va in bianco sono di nuovo io.”

“La tua costanza verrà ripagata... Sempre se mia nonna smette di scatenarci contro le forze cosmiche e ci lascia battere chiodo.”
Sghignazzando si solleva dal divano e mi bacia un’ultima volta, chiedendo:
“Che vuoi mangiare?”

“Quello che vuoi. Sei tu il cuoco. Mostrami quello che sai fare.”
“Ok, farò del mio meglio.”

Alex si sistema la cintura semi aperta e, fischiettendo, si dirige verso la cucina; nel frattempo io compongo velocemente il numero di casa di Jules, guardandomi attorno alla ricerca di qualcosa con cui coprirmi. I miei occhi si posano per un attimo sulla schiena nuda del mio coinquilino che si muove tra i fornelli e rischio di affogare nella mia stessa bava proprio mentre Jules sussurra nella cornetta:

“Pronto?”
“Jules, che è successo?” chiedo individuando la felpa di Alex, stabilendo che è molto meglio che lui resti svestito e che l’indumento serve più a me e alle mie rotondità esposte: mentre mi vesto la mia amica tace e sento che sopprime dei silenziosi singhiozzi.

“Jules? Mi dici che succede?”
“Io...ero in ritardo.”
“Per cosa?” domando confusa.
Quel ritardo, Med. Il ciclo.” mormora lei con la voce rotta e la cosa mi manda dritta sull’orlo di un attacco di panico. Jules non piange: lei è una donna dalla lacrima difficile e sentirla così mi terrorizza.

“Ok, stiamo calme. In che senso eri?”
“Poi ho fatto il test.”
“Ok, e cosa dice il test, Jules?” e, alla mia domanda, lei comincia a piangere.
“E’ positivo, Med!”

Oh, merda.



AN: Buongiorno a tutti. Inutile dire che le mie scuse per questi mesi di assenza sono dovute e che mi dispiaccio moltissimo per aver lasciato tutti voi a bocca asciutta così a lungo.
Chi si è unito al gruppo di Facebook "Di TuttoTondo in TuttoTondo" sa che lo stop degli aggiornamenti è dipeso esclusivamente da alcuni problemi personali che hanno occupato il mio tempo e la mia testa per diverso tempo: questa storia è molto importante per me e non l'avrei abbandonata se non per ragioni estremamente valide.
Non era mia intenzione allontanarmi da EFP per così tanto tempo e non avevo in programma di smettere di scrive per tutti questi mesi, davvero. Mi scuso immensamente per chi è rimasto in attesa e mi ha lanciato qualche Macumba. Spero che potrete perdonarmi!
Innanzitutto mi devo scusare per la lunghezza del capitolo: mi rendo conto che sia pressoché infinito, ma vi assicuro che alcune scene sono già state posticipate al capitolo successivo e che più di così non ho potuto tagliuzzarlo.
Spero che almeno qualcuno sia sopravvissuto fino alla fine.

Secondo: sì, siete autorizzati a colpirmi con una mazza per l'ennesimo finale aperto... Tenendo conto, però, che questa volta non volevo lasciarvi in sospeso; l'operazione "dividiamo il capitolo in due perché è TROPPO lungo" è la responsabile di questo cliffhanger... Ho lottato contro di lei, ma ho perso.

Terzo: ci sono un gruppo di persone, note ai più come le "Tuttotondine", a cui va la mia più immensa gratitudine per la fiducia, il sostegno e l'entusiasmo che mi hanno dimostrato ogni giorno, anche durante la mia assenza. È un po' anche per loro che non ho abbandonato Med e che questa storia va avanti. Siete insostituibili!

All'interno di questo meraviglioso gruppo di donne, ci sono poi le "Ragazze del WannaMakeOut" a cui devo un bello shout out: mi hanno dato un sacco di forza con il loro affetto, e il loro regalo si è conquistato un posto speciale nella mia top ten del cuore. Siete tutte quante meravigliose e non so davvero come ringraziarvi per tutto l'amore che mostrate a me e a questa storia sgangherata.

E, in ultimo, una dedica: il capitolo è, chiaramente, in onore di ogni singola persona che non ha abbandonato questa storia, ma ci sono due persone a cui - per i temi trattati - sento di dover dedicare questo aggiornamento. Una è S.... perché se la storia va avanti è anche perché lei è certa che troverà un fidanzato solo quando io avrò finito Tuttotondo... e perché le avevo promesso un po' di baci.
L'altra è la rockstar del gruppo fb di Tuttotondo, la Beta migliore che io potessi trovare e, da qualche settimana mia musa: Letizia. I motivi per cui ti ringrazio te li ripeto ogni giorno in skype, ma un riconoscimento pubblico mi pareva il minimo. Sei la mia life coach, la persona che trova sempre il modo di tirarmi fuori dalla scene assurde che progetto e quella che mi ha spinto un po' oltre il mio limite. È un primo tentativo, probabilmente neanche troppo ben riuscito, ma tu sai quanto tabù fosse per me. Ergo, grazie di cuore. Per Tutto.

Un grazie ancora gigantesco a chi ha resistito fino qui e le mie più sincere scuse per l'attesa.
PS: mi scuso anche per tutte le recensioni che sono ancora senza risposta... La ragione per questo mio imperdonabile agire è la stessa dello stop degli aggiornamenti: attualmente sono in piena sessione d'esame ma cerco subito di recuperare! Abbiate pazienza, sono terribile, lo so.

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Capitolo 13
*** Pan per Focaccia ***


IPTT cap 12 Pan per Focaccia



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Durante una dignitosa pomiciata per strada i nostri coinquilini vengono interrotti da una strana telefonata da parte di Adam, il fratello di Alex, che porta il nostro biondino a dover lasciare le braccia di Med per accorrere in aiuto del fratello. Nel frattempo la suddetta fanciulla si ritrova costretta a lavorare con Jack e Jules ad un servizio di catering che, per Sofia, si rivela un’impresa impossibile. Rispedita a casa per la sua incapacità e per essersi pure tagliata una mano, la nostra protagonista accoglie volentieri il ritorno di Alex che, tra una chiacchiera e l’altra, finisce col… ehm… deliziare Med dell’abilità delle sue mani. La situazione sembra prendere la piega giusta e i due paiono di proncito di… beh, ecco… insomma… darci dentro. Ma contro la sfiga non ci si può dannare: una inaspettata telefonata da Jules arriva a guastare l’atmosfera. La riccia in lacrime rivela di aver fatto un test di gravidanza che ha dato esito positivo.




CAPITOLO 12

Pan per Focaccia


Non sta succedendo davvero. La mia migliore amica non è gravida.
Non è possibile.
Insomma, è pieno il mondo di donne amorevoli che sono nate per essere mamme. Ma è impensabile che Dio - o chi per lui - abbia acconsentito a mettere un essere umano nel cantiere di Jules. La mia Jules. Quella che è materna come un sacchetto dello sporco.
Guido con l’agitazione che si spande nelle vene, chiedendomi come sia potuto accadere e rimpiangendo di aver dovuto abbandonare Alex con le sue succosissime labbra; abbassando il finestrino della Circe, con gli occhi piantati sulla strada, tengo una mano stretta con forza sul volante mentre con l’altra frugo nella borsa per estrarre una Marlboro e, con dita tremanti, la accendo, aspirando nervosamente.
Sono ormai a pochi chilometri da casa di Jules; avvicinandomi al suo palazzo, non posso non rimpiangere il fatto di aver abbandonato Alex nella nostra cucina, a petto nudo aggiungerei.

Ripensare alla mezz’ora trascorsa col mio coinquilino in una situazione di emergenza come questa mi fa sentire una persona orribile, ma non posso fare a meno di domandarmi se le costanti interruzioni non siano un modo dell’universo per farmi sapere che è il caso che lasciamo perdere. In fondo il mio desiderarlo con tutta questa costanza non fa che mostrare che razza di incoerente io sia: in poche settimane la mia intolleranza per Alex si è trasformata in lussuria. L’unica cosa che è rimasta invariata è l’intensità del sentimento. Per lo meno da quel punto di vista ho conservato credibilità.

Sono bravissima a rigirare le frittate, ma la verità è che non è solo il calore che mi provoca ogni volta che mi bacia a farmi sorridere: la sua strafottenza ora è diventata divertente, il suo senso dell’umorismo è ridicolo, il suo essere misterioso un costante stimolo. Ora Alex è una distrazione piacevole. Forse un po’ troppo, al punto che comincio a temere che potrebbe rammollire il mio spirito di stronza, ma non me ne importa nulla. Soprattutto non me ne deve importare ora: la mia testa deve restare concentrata su Jules e sul guaio in cui potrebbe essersi cacciata.
Ci sono momenti sbagliati per diventare mamma e questo non è decisamente l’anno giusto per Jules: lei e Cucciolo vivono in un costante stato di “ti-amo-ora-vai-a-farti-fottere”, la mia amica non ha un’indipendenza economica e non è ancora neppure una professionista riconosciuta dallo Stato. È troppo presto, è tutto troppo sbagliato.

Parcheggio l’auto dietro quella di Bet, proprio di fronte al cartello “Passo Carraio” del cancello di Jules e, contemplando la bizzarra idea di recitare il rosario in favore della mia amica riccia, mi attacco al campanello: pochi secondi dopo dall’altoparlante gracchiante esce la voce di Bet che mi apostrofa per il mio ritardo:
“Ce ne hai messo di tempo!”
“Aprimi, Bet.”

Lei esegue senza protestare ed io accenno una cosa che potrebbe essere classificata come corsa per raggiungere rapidamente la porta d’entrata. Aprendola, la prima immagine che mi si presenta davanti agli occhi è quella della mia amica riccia con il viso affondato nel collo di Bet.

Vedere Jules fragile non è qualcosa che mi capita spesso: proprio per questo, incontrando i suoi occhi scuri e lucidi di pianto, sento la gola contrarsi per la preoccupazione. Questa situazione è oltre le nostre possibilità: noi siamo tre ventiquattrenni - anzi, a dirla tutta Jules ne ha ancora ventitre - che giocano a fare le donne. Ma se la mia amica fosse davvero incinta?
“Che cosa faccio, ora?”
“Cerchiamo di stare calme.” le dico mentre Bet le sposta i ricci umidi di lacrime dal viso.

La mia richiesta non può che suonare ridicola, me ne rendo conto: nessuna donna al mondo di fronte ad un test positivo può mantenersi calma. Se poi la donna è una giovane legalmente adulta ma che della vita non ha ancora capito niente, il panico è la reazione più logica.
“Facile per te, non sei tu che porti in grembo il figlio di Cucciolo!” protesta giustamente lei, rabbiosa, asciugandosi una guancia.
“Questi test non sono sicuri al 100%!” cerca di tranquillizzarla Bet, ma la cosa non sembra rasserenare per nulla la nostra amica che, mettendosi a vagare per casa come un topo in trappola, puntualizza sconsolata:
“Lo sono per l’un sacco per cento, però.”
Ecco, io la percentuale precisa non la conosco, ma un sacco per cento mi pare accurato. O, quantomeno, sufficientemente accurato da rendere il terrore sul viso di Jules più che legittimo.

“Sì, ma solo perché è uscito positivo non vuol dire che non possa esserci un errore, giusto Med?” risponde Bet, voltandosi verso di me e, d’un tratto, mi sento una merda ancora prima di aprire bocca, perché quello che ho da dire non piacerà a nessuna delle due. Non piace neppure a me.
Non essendo dell’idea di ricevere un sicuro insulto, quindi, resto in silenzio, causando evidente fastidio ad entrambe.
“Giusto?”

Okay, io sono la scienziata delle tre, quindi è giusto che metta la mia ignoranza al loro servizio: sono la peggior biologa della storia e chiedere un parere a me su qualcosa di scientifico è come domandare a un neonato di non rigurgitare post-poppata. È stupido e inutile.
“Veramente mi pare di aver sentito che i test di gravidanza possono dare falsi negativi, ma che falsi positivi sono rari.”
“Che cosa?!”
L’urlo angosciato delle mie due amiche è assolutamente all’unisono e, se mi posso permettere, è anche piacevolmente armonizzato. Ma questo è meglio che non lo dica.
“Cazzo, perché devi sempre peggiorare le cose?” sibila Bet.
Mi sento vessata: viene richiesto il mio scarsissimo parere professionale per poi rimproverarmi per aver diffuso la conoscenza. Echecazzo!

“Spiegati meglio, Med.” mi supplica Jules.
“Io non sono un medico né sono una grande esperta ma, da quello che mi risulta, sono test che evidenziano la presenza nelle urine dell'ormone gonadotropina corionica, che non esiste in una donna non incinta, ed è l'ormone prodotto dal trofoblasto nel momento in cui l'embrione si impianta nell'utero...”
“Non parlare strano. Usa una lingua umana o non tratterrò il mio istinto di prenderti a pugni!” mi rimprovera Jules. Io sospiro aprendo il suo pc, digitando “test di gravidanza positivo”, mentre cerco di spiegarmi meglio:

“In parole povere i falsi negativi possono esserci per tanti motivi. Tipo se lo fai troppo presto.”
“Oppure?” mi chiede Bet accucciandosi alle mie spalle e facendo scorrere gli occhi sullo schermo “Dai, ma cosa fai?! Lo chiedi a Google?”
“Ti sembro una ginecologa? Cercavo conferma... Diciamo che in linea di massima, da quello che so io, è molto raro un falso positivo, perché le cause sono più complicate e meno frequenti.”

Faccio scorrere le dita sul touchpad del pc di Jules: ispeziono ogni link che trovo, sperando di capire anche solo qualche parola e di trovare qualcosa a sostegno delle mie affermazioni. Sono sicura che qualcuno mi ha spiegato perché i falsi negativi sono più frequenti, ma non ricordo proprio chi. Soprattutto non riesco a rimembrare i casi in cui era possibile avere un falso positivo. E noi ora avremmo davvero un sacco bisogno di un falso positivo!

Esaminando la seconda pagina del motore di ricerca, sento Jules bofonchiare:
“Ti detesto quando fai la saccente!”
Poi la mia amica mora torna triste, sussurra: “Non posso essere incinta!”
Il silenzio si diffonde denso come la paura: per me e Bet è l’apprensione di non poter aiutare una delle persone più importanti della nostra vita. Per Jules il terrore di dover prendere una decisione. O di non poterla prendere. L’inquietudine di non sentirsi la donna che la vita la chiama ad essere. L’angoscia di ritrovarsi da sola a portare questo peso.
È un silenzio protratto più a lungo di quello che io posso tollerare e allora, nella speranza di risvegliare la mia amica dai suoi pensieri, le appoggio una mano sul ginocchio, suggerendo piano:
“Proviamo a farne uno nuovo. Poi, in caso, lunedì chiamiamo il ginecologo, okay?”
Lei annuisce con aria un po’ assente; alzandosi in piedi, si avvia verso il bagno e noi la seguiamo.
Una volta chiusa la porta alle mie spalle, Jules prende la scatola del test e me la porge, estraendo prima il bastoncino bianco che potrebbe confermare i nostri timori.

Facendo girare la confezione tra le mani, mi stupisco di trovarla ammorbidita e umida: controllo il ripiano su cui era appoggiata, ma sembra perfettamente asciutto, il che mi confonde ancora di più.
Inizio ad ispezionare attentamente il contenitore, cercando qualche scritta che possa illuminarmi mentre le mie amiche cominciano a battibeccare sull’indecenza insita nel fatto che Jules faccia pipì quando noi siamo nel bagno.
“Ma pensi di farla con noi due qui dentro?”
“Beh, capirai, lo faccio sempre!” risponde Jules sbottonandosi i pantaloni senza farsi sfiorare dal disgusto che avvolge la voce della nostra amica bionda.

“Che schifo, non puoi farla in un bicchiere e poi intingerci il test?”.
“Cioè, vorresti che facessi la pipì in un bicchiere in cui un giorno tu potresti bere e che ci lasciassi dentro per tre minuti questo candido stick, mentre noi restiamo a osservare il colorito delle mie urine per il tempo necessario a confermare che sono gravida?”
“Oddio, potrei vomitare!”
“Quindi posso farla?” domanda Jules inarcando le sopracciglia.
“Se ti pisci sulla mano giuro che mi sento male.”

Durante la loro discussione però i miei occhi restano fissi sulla scritta grigia quasi illeggibile sul lato della confezione che Jules mi ha passato.
“Jules, dove hai preso questo test?” chiedo attirando l’attenzione su di me.
“In farmacia.” ribatte lei calandosi i pantaloni e fissandomi come se fossi stupida.
Bet continua a dare alla nostra amica della schifosa guardandola di sottecchi, ma Jules non si lascia sfiorare: si siede sul wc, poi scarta il test dalla busta in cui è conservato.
“Sì, questo mi era chiaro, solo...”
“Sta zitta, devo fare la pipì su un bastoncino, mi serve concentrazione.” mi fa notare lei, zittendomi.

Perché nessuno mi lascia parlare? In questa scatola ci sono molte cose che non vanno e se ho ragione io, Jules è una vera demente.
“Jules...”
“Med, taci, non riesco a farla se parli.”
“È che...” provo un’ultima volta, cercando di porre fine alla ridicola serie di avvenimenti che potrebbe essere in atto, ma Bet si spazientisce. Forse solo desiderosa di vedere Jules riabbottonarsi i pantaloni, spingendomi fuori dal bagno protesta:
“Okay, basta, Med esci. Questa cosa è già abbastanza lunga.”
Poi si premura di sbattermi la porta in faccia, intenta a comunicare a Jules che se non la fa entro tre secondi si procura un catetere e ci pensa lei.
Vomito.

Girando sui tacchi rassegnata, tento di capire il mistero nascosto dietro la scatola che ho in mano. Mi dirigo verso la cucina per procurarmi qualcosa da bere che aiuti le mie facoltà cognitive, quindi contemplo la confezione intravedendo dei numeri nella scritta sbavata: accarezzando il cartone umido mi rendo conto che dove c’è l’inchiostro i numeri sono anche incisi e, aprendo il frigorifero di Jules per prendermi una coca, muovo l’oggetto per capire cosa ci sia scritto. Spostando lo sguardo all’interno dell’elettrodomestico, la mia attenzione finisce dritta su una scatola identica a quella che ho in mano.

Che è in frigorifero. Lo ripeto: in frigorifero.

Lo stupore sul mio viso diventa disapprovazione quando, abbandonata l’idea della bibita, avvicino a me la confezione ancora intatta e trovo, nello stesso punto in cui è stampata quella sbavata sull’altra scatola, una scritta chiara e pulita.
Jules è una grossa, grossa testa di cazzo.

Le mie amiche spalancano la porta del bagno proprio mentre richiudo lo sportello del frigorifero, ormai più che certa della stupidità che ha invaso il cervello di Jules in questa circostanza.
“Allora?” domando incrociando le braccia e lasciando che sul mio volto troneggi un'espressione indifferente quando Jules biascica:
“Non è chiaro…”
“Ti spiace elaborare?”
“Dice non interpretabile…” ribatte lei avvicinando lo stick al viso per esaminarlo meglio.
“Che significa non interpretabile?! O c'è la linea del positivo o non c’è…”

Questa del non interpretabile mi giunge nuova: ma perché nel nostro secolo anche i Test di gravidanza si devono complicare? Una volta era una questione di linee: una o due. Positivo o negativo. Punto. Niente fronzoli e niente terze possibilità di discutere di massimi sistemi. Se anche il test di gravidanza deve mostrarsi dubbioso sulla sua capacità di analizzare la tua urina, una che lo fa a fare? Cioè, il caso di Jules è traviato dal suo essere un'inetta, ma a sentire non interpretabile sembra che abbia chiesto alla Magica Palla 8 di dirle se diventerà mamma.

“Palla, il mio utero s'è fatto casetta per un marmocchio?” “Concentrati e rifai la domanda.”

Per rispondere alla mia confusione, Bet fa girare il bugiardino tra le mani e lo dispiega con cura, leggendo ad alta voce:
“Se la linea compare a sinistra il risultato non è interpretabile.”
“Oh, ma sta venendo fuori anche la linea di destra!” la interrompe Jules con voce tonante che reca una comprensibile nota di panico assoluto; la mia amica bionda mi lancia in faccia il foglietto illustrativo prima di afferrare il test con forza ed esaminarlo come se lei fosse un membro della Scientifica.
“Come cazzo è che prima mi dice che non lo sa ma ora mi accusa di essere inguaiata?”
“Strano davvero, mi chiedo cosa sia successo…” sibilo io accartocciando il foglio e spostando gli occhi da Jules a Bet, consapevole che nessuna delle due si sia fatta un'idea del perché il test stia dando i numeri.
“Jules, l'hai rotto!”
“Ma cosa dici?!”
Cominciano a strillarsi in faccia l'un l'altra, ignorando la mia presenza e dando il via ad una delle loro delicate liti a base di insulti; per una volta mi posso godere lo spettacolo.
“Per forza, dai! Qui non c'è scritto da nessuna parte che può segnare sia positivo che non interpretabile!”

Ah, questo test non contempla neanche il negativo? O sei gravida, o lui non lo sa? Ma che cazzo di test è?

“Leggi bene… ci deve essere per forza! Sei tu che sei analfabeta: non sai leggere neanche le istruzioni."
“Almeno io so usare i contraccettivi!”
“Imbecille, non è un iPad… i test di gravidanza non si rompono!”
A questo punto Jules ha assunto una colorazione tendente al fucsia, mentre Bet si è messa ad agitare le sue dita porcelline come eliche; poi si blocca come se le avessero spento un neurone e, con lo sguardo perso, biascica:
“Ehi, magari c'è un’applicazione che funziona come test di gravidanza…”
Alla sua affermazione mi rendo conto che, se non intervengo, Jules potrebbe soffocare Bet ostruendole la gola con lo stick. Quindi senza esitazione, attiro i loro occhi su di me esclamando:

“No, non si rompono.” incrocio lo sguardo di Jules “Ma scadono, deficiente!”
Il silenzio diventa la miglior ricompensa che potessi sognare; unito ai loro sguardi da triglia, mi regala i miei 20 secondi di gloria: se non fosse per il fatto che il dubbio che Jules possa comunque essere incinta sussiste a prescindere dal suo test scaduto, a questo punto potrei assaporare il gusto della vittoria. Ma - in qualche misura - so che non abbiamo ancora esorcizzato il fantasma della gravidanza e, se provo a mettermi nei panni dalla mia amica, mi vengono le vertigini: ad essere onesta mi vengono in ogni caso. Jules non può essere incinta.

Guarda, Dio, non è davvero il caso, credimi.

“Che vuoi dire?” la voce della riccia di fronte a me vibra di una ritrovata speranza e i suoi grandi occhi nocciola mi fissano intensi e confusi.
“Voglio dire che questo test di gravidanza è scaduto nel 2008, vale a dire quattro anni fa, rincoglionita!”
“2008?” mormora Bet stupita.
“Sì. Jules, quando cazzo hai comprato questo test?”
“Chi se lo ricorda! Ho pensato che averne qualcuno a portata di mano fosse utile. Sai, nel caso ne avessi avuto bisogno.”
“Sì, idea fantastica. Peccato che questa idea tu non l’abbia rinnovata di recente. Il test è scaduto, quindi può essere che non abbia funzionato in nessuno dei due casi!”
“Ma io come facevo a saperlo?”
“Per esempio controllando la data di scadenza e soprattutto non conservandolo in fondo al frigorifero.” le faccio notare, sventolandole la scatola davanti al viso.

“In frigorifero?” si indigna Bet “Jules, quello non l’avrei mai fatto neppure io!”
“Mia madre tiene sempre le medicine in frigorifero!”
“Dipende dalle medicine... e questo è un test, non un fermento lattico.”
“Senti, è molto probabile che il primo test che hai fatto abbia dato un falso positivo, visto che questo test non è più valido, e dato il risultato del secondo.” dico sospirando. Bet si fa più vicina a me, piantandomi un dito accusatorio sulla tetta, mentre afferma:
“Med, tu non ne sai un cazzo di queste cose…”

Sì, beh, pensavo che la mia ignoranza fosse stata assodata durante i primi quaranta secondi della nostra conversazione, ma non credo che per leggere una data di scadenza sia necessario essere informati.
Jules sembra contemplare l'affermazione di Bet per qualche secondo e la cosa mi indigna non poco: insomma, non sono un genio della scienza, ma non sono certo io quella che ha pisciato su due test di gravidanza scaduti!
Bet si allontana in direzione della sua borsa, estraendone l'iPad di J, che lei, appena può, ruba.

“Chiamiamo Leo.”
“Perché?! Non serve Leo per capire che se un test è scaduto da quattro anni è il caso di rifarlo…” puntualizzo con voce scocciata, venendo prontamente zittita da Jules che, sollevando una mano, afferma:
“Sì, ma tu di queste cose non capisci niente. Ci serve un parere informato. E meno stronzo…”

Borbottando irritata, mi siedo accanto a Bet che nel frattempo si è appollaiata sul divano e ha acceso Skype, cliccando prontamente sul contatto di Leo, segnalato come online.
Due squilli più tardi il viso scompigliato del nostro amico compare in tutto il suo splendore sul display dell' iPad: ci fissa contorcendo il viso  avvicinandosi il più possibile allo schermo un paio di volte.
Poi si ritrae a distanza ragionevole, si leva gli occhiali e comincia a massaggiarne le lenti col bordo della sua maglia rossa, dicendo:

“Oh, guarda, ho aperto il pc per guardarmi un porno e mi sono ritrovato un horror. Avete delle facce mostruose.”
“Tu guardi i porno?”
Mi rendo conto che sia una cosa piuttosto in voga tra i ragazzi, ma questo è un particolare che non avrei voluto sapere; personalmente chiuderei qui la faccenda, ma le mie amiche sembrano essere di un parere diverso. Bet inizia un dialogo che ha del surreale, domandando:
“Con Skype acceso?”
“Ho anche la luce accesa, se è per questo…”

Io persisto nel provare un enorme senso di disgusto, ragion per cui lo paleso, borbottando:
“Che schifo, guardi i porno.”
“Li guardano tutti. Li guardo anche io.”
“Ovviamente, Jules…”
“Scusa ma se ti chiama qualcuno mentre sei lì col pipino…”
“Bet, smetti di parlare…” la minaccio, cercando di porre fine al dialogo delirante che si sta palesando di fronte a me, ma ottenendo in risposta solo un terzo dito, accompagnato dal solito Tu devi scopare di più.
Fortunatamente Leo sembra averne avuto già abbastanza di noi tre, quindi, inforcando gli occhiali, chiede spazientito:
“Che succede?”
“Cosa ne sai di test di gravidanza?”

“Perché?”.
Momento di silenzio.
“Ditemi che nessuna di voi si è fatta ingravidare…”
Noi tre optiamo per tacere, mostrandogli le nostre facce di bronzo.
“Chi è l'imbecille?”
Io e Bet additiamo prontamente Jules senza spostare gli occhi dal display.
“Chissà perché pensavo fosse Med…”
“Sei piacevole come uno sbiancamento anale, Leo…”
“Ti sei fatta lo sbiancamento anale?!”
“Che vacca!”
“Non mi sono fatta lo sbiancamento anale, Jules... possiamo tornare sul motivo della nostra telefonata?”

Senza perdere troppo tempo Bet inizia ad esporre la situazione a Leo che, con aria professionale, ascolta ogni dettaglio, annuendo ma lanciando occhiate di rimprovero verso Jules.
“Ho sempre pensato che la più scema tra voi fosse Bet” afferma il mio amico affondando le mani nei suoi capelli neri “Grazie per aver confutato la mia tesi.”

Poi, per aggiungere carne al fuoco, con grandissima nonchalance Jules rivela l’ennesimo particolare che invalida il primo test, confessando di averlo fatto la mattina prima del servizio di catering senza aver avuto il tempo di controllare il risultato: ovviamente ottiene in risposta da noi tre un corale “Testa di cazzo”.

“Non avevi tre minuti per una cosa del genere?” domanda Bet spazientita e sconvolta dall’atteggiamento di Jules.
“No, perché Jack è arrivato prima per andare a prendere Med...”
“E non potevi portartelo dietro?”
“Avevo paura di leggere il risultato. Ho preferito rimandare l’angoscia alla sera...”
Tutta questa storia sembra una grossa presa per il culo; se non fosse per il ritardo nel ciclo, a questo punto credo che uno di noi si sarebbe assunto l’onere di prendere a sberle Jules fino a riattivarle le sinapsi.
Restiamo tutte in silenzio per qualche secondo, attendendo il verdetto di Leo con gli occhi fissi sullo schermo dell’ iPad.

“Sentite, odio dare ragione a Med, ma non c’è un solo motivo per considerare il test attendibile. Suggerisco che cerchiate una farmacia di turno e troviate il modo di rassicurarmi sul fatto che non dovrò assistere al parto di Jules...”
“Non vuoi?!” chiede la mia amica riccia, indignata.
“Se vedo la tua vagina viro all’omosessualità.”
“Almeno potresti dire di averne vista una...”
“Travestito.”
“Segaiolo.”

Bet e io restiamo in silenzio ad assistere al momento di alta intelligenza per qualche secondo; poi la bionda al mio fianco piazza una mano sulla bocca di Jules mentre, con stizza, annuncia:
“Finitela prima che mi incazzi sul serio. Ora, tu - ordina indicando Leo - grazie per l’aiuto. Torna pure alla tua pornografia. Un giorno ti cadrà il pisello…” quando Bet decide di diventare autoritaria fa un po’ paura. “Voi due alzate il culo e andiamo a comprare questi cazzo di test. Mi sta venendo l’emicrania.”
La frase si conclude con la mia amica che, alzandosi di scatto, si dirige verso la porta, seguita da una parzialmente sconvolta Jules.

“Devo andare prima che si trasformi nel Babao!” dico a Leo alzandomi in piedi e accingendomi ad interrompere la chiamata, ma lui mi blocca, chiedendo impaziente:
“Aspetta, pranziamo insieme in settimana?”
La proposta mi lascia perplessa, sia perché noi due pranziamo da soli in rarissimi casi, sia perché penso che il nostro equilibrio sia ancora troppo precario per sopravvivere a un pranzo a due. Ma so di dover fare uno sforzo e che non ho ragione per rifiutare: lui ha già fatto la sua parte, ora tocca a me.
“Volentieri… Chiamami tu che decidiamo dove e quando.” Rispondo esagerando un sorriso. Poi, salutandolo, corro fuori dalla porta per raggiungere le mie amiche.

Un’ora più tardi mi ritrovo nuovamente intrappolata nel gabinetto rosa di Jules, con un sacchetto stracolmo di confezioni di test di gravidanza pieno di stick che, grazie a Dio, segnano “negativo”.
Io non so se capita a tutte le ragazze di chiudersi nel bagno con le proprie migliori amiche per fare test di gravidanza in serie, ma questo evento mi segnerà per la vita. L’esperienza si è svolta in sequenza, tipo catena di montaggio, in cui io e Bet lanciavamo i test con frenesia, mentre Jules ci faceva pipì sopra e li gettava alle sue spalle, urlando:

“Veloci però, perché una volta che apro i rubinetti io non riesco a fermarmi."

Inutile dire che nella mia testa il tutto era accompagnato da Momenti di gloria come sottofondo musicale.
 
“Il tuo utero è salvo.” le dico sospirando.
“Cazzo ragazze che paura! Non sono pronta a diventare madre!” esclama lei sdraiandosi sul pavimento del bagno con lo sguardo fisso sul soffitto. “Credo di aver imparato una cosa importante.”
“Sarebbe?”
“Che non voglio il figlio di Cucciolo.” l’affermazione è quantomeno criptica e sottintende un’implicazione che non vorrei dedurre per libera interpretazione; per cui, inginocchiandomi accanto a lei, la incoraggio a spiegarsi meglio.

“Forse è il momento che faccia due chiacchiere col mio ragazzo.”
“Jules, secondo me stai esagerando. Hai appena avuto un’esperienza stressante, secondo me ti stai facendo sopraffare dall’irrazionalità."
“No, invece. È proprio la mia testa che parla al posto del cuore: lasciate stare i problemi relativi all’età, al fatto che sono immatura e non ho un lavoro... Ciò che mi tormentava più di tutto era il pensiero di dover dividere la mia vita con una persona inaffidabile come lui. Pensavo che il suo bambino io non lo volevo... Non è un bel pensiero quando stai con qualcuno da così tanto tempo."

“Stai dicendo che non immaginavi il tuo futuro con Cucciolo?” domando confusa dall’improvvisa epifania che sembra aver attraversato la mia amica.
“Sto dicendo che sentivo di non volerlo. Oppure sto solo dicendo stupidaggini ed ero solo fottutamente terrorizzata.”
Jules si solleva da terra con uno sforzo sovrumano, dondolandosi sul coccige come se fosse una tartaruga ribaltata sul carapace.

“Una cosa è certa: non farò più sesso fino al mio trentesimo compleanno.”

“Che ne diresti di darti ai contraccettivi?” suggerisce Bet raccogliendo tutte le cartacce che abbiamo sparso per il bagno mentre io mi trascino verso la porta, seguendo Jules in soggiorno.
“Secondo me sarebbe più semplice se non comprassi test del paleolitico, se non li surgelassi e se non li facessi quando non hai modo di guardare il risultato per ore.”
Quando, lasciandosi cadere sul divano, la mia amica si limita ad annuire con aria assente, io capisco che sta già stilando una lunga lista di ragioni per cui è il caso di rivalutare il ruolo di Cucciolo nella sua vita. Jules è così: si porta dietro pesi morti e realtà controproducenti finché non ci sbatte il muso così forte che inverte la rotta.
Ma quando inizia a soppesare qualcosa non la fermi più e sembra che lo spavento di stasera abbia fatto scattare qualche interruttore nel suo cervellino.
Diventa irrequieta per qualche minuto, sollevandosi dal sofà e riordinando ogni soprammobile posato nel suo salotto mentre io e Bet la lasciamo fare in silenzio fino a che, una volta che sembra essersi calmata, ci chiede di restare a dormire, accantonando completamente il problema e rifugiandosi con noi nel caldo della sua camera.




Give me a Break

Alt! Livell numero 1, superato. Se avete resistito durante i test di gravidanza, siete delle grandi e avete vinto il passaggio al livello successivo. Caramelle da regalarvi la Direzione non ne ha, ma vi consiglio di sfruttare questo momento per procurarvi dell'acqua e, come sempre, per fare pipì. La strada che conduce alla fine è ancora bella lunga!
La Direzione ritiene opportuno che il lettore faccia anche un po' di rilassamento muscolare: ci tendiamo alla vostra salute.





Sollevarmi dal letto di Jules si prospetta una delle cose più faticose l’indomani mattina, ma è domenica: volente o nolente, oggi non posso nascondere la testa nella sabbia.
Perché è domenica. Quella domenica. La giornata in cui mi recherò a casa dei miei per pranzo e dovrò decidere se sono donna abbastanza da ferire consciamente la mia famiglia.
Ho paura, è inutile negarlo: fino a ieri potevo comportarmi come se il tempo si fosse preso una pausa dallo scorrere, ma oggi non c’è più modo di rimandare a più tardi i pensieri.
Fare i conti con me stessa è qualcosa che ho procrastinato senza troppi problemi ogni giorno e, mentre abbandono l’appartamento della mia migliore amica, realizzo che non ho ancora idea di che cosa potrò dire ai miei genitori. La verità? La verità può essere relativa. Quella che per me è un dato di fatto, per un altro può essere un’enorme cazzata.
Ad esempio, ammettere che voglio lasciare l’università perché non sono portata per la biologia per me è stata una piccola conquista, ma sono piuttosto certa che, per i miei, sarà la peggiore delle sconfitte. L’ennesimo fallimento. Il peggiore. Ma la domanda è: leggendo la delusione nei loro occhi, cambierò idea anche io?

Infilo la chiave nella toppa di casa cominciando a pensare che continuerò a mentire un altro po’: non sarà un comportamento onesto o da figlia dell’anno, ma mi farà guadagnare un altro po’ di tempo. Io, di tempo, ne ho disperatamente bisogno.
Aprendo la porta, mentre i pensieri sui miei genitori mi ribollono tra le sinapsi, incontro il viso del mio coinquilino che, con la bocca colma di cibo, cerca di sorridermi senza far debordare il boccone che sta tentando di ingoiare.
Contorcendo la faccia in una smorfia poco affascinata, assorbo l’immagine di Alex che, seduto sul bancone della cucina, trangugia la sua colazione come se avesse i minuti contati: indossa ancora i pantaloni del pigiama e il suo torso è avvolto in una t-shirt color carta da zucchero.
Mi osserva curioso quando, levandomi la giacca, gli dico:
“Se mi ammazzi ora, dopo ti faccio un bonifico di 3.000 euro…”
Alex ammicca posando la forchetta: ha sempre l'aria di chi non sa proprio lasciarsi stupire dalle mie uscite idiote e, indicandomi, risponde:
“Nel tuo stato di morta?”
“Io tutto posso… anche da morta.”
“Lo farei serenamente, se non fosse per un piccolo impedimento…”
Parlando abbandona il piatto sul ripiano della cucina, scendendo dalla sua posizione sul mobile per procurarsi un tovagliolino con cui asciugarsi la bocca.
“Sono troppo grossa perché tu possa sbarazzarti del mio cadavere?”
“No… ora che mi ci fai pensare anche quello potrebbe essere difficoltoso… Ma io mi riferivo alla mia coscienza.”
“Tu non ce l'hai una coscienza.” ribatto allontanandomi dalla porta per avviarmi verso il bagno con il proposito  di rendermi almeno presentabile. Cosa che, tanto, per mia madre non sono mai. Alex mi fissa, seguendo ogni mio passo, cercando di decifrare i miei respiri: ormai ho imparato a capire quando sta provando a farmi un'ecografia all'anima o quando prova a leggere i miei pensieri, ma la cosa comincia a diventare meno molesta.
“Allora, riguardo al mio omicidio? Abbiamo un accordo?”
“No. Con i tuoi pidocchiosi 3.000 euro non ci pagherei neppure le spese legali.”
“Non ti serve un avvocato. Sei colpevole.”
“Solo perché mi hai incastrato!”
Il broncio sulle sue labbra è così comico che non riesco a trattenere una risata, sbattendo la porta del bagno e cercando di darmi una mossa.

Poco dopo mi ritrovo in camera, inveendo contro il mio armadio che sembra essersi inghiottito qualche mio indumento; Alex, attirato dal mio inquinamento acustico si materializza sulla porta, appoggiandosi allo stipite per ammirarmi mentre lancio per aria il 75% dei miei vestiti.

“Med?”
“Dove cazzo è quell’agghiacciante gonna?”
“Med...”
“L’avrò buttata. Ma io non butto mai niente... Deve essere qui.”
“Sofia.”
“Sono una accumulatrice compulsiva? Morirò soffocata dai miei orribili vestiti? Sarebbe ottimo: avrei un alibi per evitare le domande cretine delle persone che mi assillano...”
“Scintilla!”
Al suo richiamo mi blocco, voltandomi verso di lui e scrutandolo come se potessi spostarlo con la forza del pensiero. Non ce l’ho con lui, ma sono agitata: entrando per fare domande Alex si sta mettendo in pericolo. Una femmina isterica è una femmina che riversa la rabbia su tutto ciò che è vivo.

“Mi dici che cosa sta succedendo?”
“Devo andare a pranzo dai miei...”
“Fai sempre così quando ti invitano a mangiare? Perché hai l’aria di una psicopatica.”
“Alex... ti prego, lasciami preparare in pace. Ho fretta e sono nel panico.”
“Lo vedo. Mi spieghi perché?”

Lui e la sua faccia curiosa sono una splendida visione, non lo nego, ma non avendo tempo per la discussione riprendo a smistare gli innumerevoli capi sparsi sul mio letto - praticamente tutti di colore nero, ma che io distinguo al tatto. Purtroppo per me, però, Alex sembra volere una risposta: mi afferra per la coda e mi tira delicatamente verso di sé.
“Cosa fai? Violenza domestica!”
Il ragazzo alle mie spalle mi ignora e mi invita a voltarmi verso di lui, accarezzandomi la testa e scrutando serenamente nei miei occhi isterici:
“Pranzo dai tuoi. Elabora, Scintilla...”
“Vogliono discutere la mia attuale situazione accademica.”

Forse se gli dico la verità si leva dalle scatole.
“Ah, ora capisco...”
“Capisci?” domando stringendo le dita attorno al suo polso per allontanarlo dai miei capelli.
“Capisco perché ti sei trasformata in un mostro psicopatico e capisco che, se ci tengo alla vita, devo uscire da questa stanza rapidamente.” risponde dandomi una pacca sul sedere e facendo dietro front per avviarsi verso la porta.

“Tutto qui?”
“Sì, tutto qui. Tu sei polemica e pure parecchio stronza. Io alla mia vita ci tengo. Preferisco ricordarti sexy e accaldata come ieri, piuttosto che pazza e sanguinaria.”
Alla menzione del nostro incontro di ieri le mie ovaie fanno qualche scintilla; per un attimo penso che il sesso mi permetterebbe di allentare la tensione: però, con tutta la fatica che abbiamo fatto, preferisco dedicarmi a quella attività con Alex quando non sono in preda al panico e non mi sento Ursula, la strega de La Sirenetta.
Il mio coinquilino pone fine ad ogni scambio verbale abbandonando tranquillo la mia stanza in favore della sua. Per quanto stupita sia dalla sua remissività che dalla facilità con cui è evaporato, ne sono davvero contenta: il tempo stringe e Alex è una distrazione piacevole ma, in questo istante, sconveniente.

Arresa all’idea che, indipendentemente da ciò che indosserò, mia madre avrà da ridire, mi infilo un anonimo vestito nero lungo fino al ginocchio, accoppiato ai miei inseparabili leggings contenitivi Calzedonia - che pushano anche l’utero ad altezza polmoni - e mi rassegno al mio destino, portando le mie nervose membra alla porta di casa.

Alex, sentendomi abbassare la maniglia, si sporge solo con la testa fuori da camera sua:
“Ci vediamo più tardi, Scintilla.”
“Devi uscire?”
“No...”
“Mi aspetti qui?”
Non so perché, ma so che vorrei tanto trovarlo qui al mio ritorno: per un secondo temo di essermi rammollita, poi lui annuisce dandomi uno strano senso di conforto e allora ne ho la conferma. Sto perdendo i colpi.

“Devo andare.”
“Okay...”
Esco dalla porta, mi volto nella sua direzione un’ultima volta, implorando:
“Dimmi che andrà bene.”
“Andrà. Punto. Prima ci vai, meglio è.”
“Sei una merda come life coach...”
“Infatti faccio il cuoco.”

Cosa me ne faccio di un maschio che non riduce le mie ansie non lo so, ma sono troppo in ritardo per farmi trascinare in un’altra conversazione con Alex; insoddisfatta, chiudo la porta alle mie spalle mentre la risata di Alex mi saluta.

Quando entro nel cortile di casa dei miei la prima cosa su cui poso gli occhi è la macchina (praticamente sfigurata dalle ammaccature in ogni dove) di Michele e, appoggiato al cofano, intento a giocare col suo smarphone, se ne sta mio fratello: jeans, felpa rossa col cappuccio, con una scritta gialla stile cartoon che recita Bazinga!, Tiger bianche che hanno visto giorni migliori e espressione indifferente. È conciato come un barbone, come ogni volta: a dispetto dei suoi trent’anni, sembra essersi vestito da 012. Ma mio fratello è così: intellettuale e lontano da ogni convenzione.

Parcheggio dietro di lui e, scendendo dalla macchina, il rumore delle mie scarpe contro la ghiaia sembra distrarlo dal suo telefono perché pochi secondi dopo fa scivolare l’oggetto nella tasca posteriore dei pantaloni, voltandosi verso di me:
“Ciao fratello...”
“Potresti chiamarmi Sheldon.”
“Ti sei dato al role playing di The Big Bang Theory?”
“No, penso solo che si siano ispirati a me per quel personaggio.”
“Per i disturbi di personalità o per la possibile forma di autismo?”
Lui sceglie di non cedere alla mia provocazione e si avvia insieme a me verso la porta di ingresso.
“Controllavi la posta, Fisico teorico di ‘sto cazzo?”

Sì, io non riesco a prendere una laurea triennale in Scienze Biologiche ma ho un fratello laureato con menzione d’onore in Fisica.

“No, giocavo ad Angry Birds...”
“Non capisco come abbiano potuto dare la laurea a uno come te.” borbotto infilando in borsa le chiavi della Circe. Mio fratello, assoluto sostenitore del concetto "la scuola italiana fa schifo", affonda le mani in tasca, rispondendo serio:

“Perché in questo paese di vecchi danno troppa importanza allo studio e troppo poca al cervello delle persone. E io di cervello ne ho tanto. Il titolo è irrilevante, mi ci pulisco il culo con quello. Il mio valore lo dimostro con i dati, non con i pezzi di carta.”

Di che dati stia parlando non ne ho idea, visto che del suo lavoro io non ci capisco nulla, ma resta il fatto che almeno lui il pezzo di carta l’ha preso. Facendo, tra l’altro, sfigurare me, fatto di cui spero un giorno di farmene una ragione.
Evitando di proseguire il dibattito, allungo la mano per suonare il campanello, ma lui mi ferma prontamente afferrandomi un polso.

“Aspetta, ti devo parlare.”
Negli ultimi cinque anni Michele e io abbiamo trovato una specie di equilibrio, basato su un rispetto reciproco probabilmente dovuto al fatto che non siamo più due ragazzini, ma il nostro rapporto raramente implica momenti di confronto intimo e, quando succede, non è mai un buon segno.
A nessun secondogenito piace doversi sorbire la paternale da parte dei fratelli maggiori. A nessuno. È umiliante: ti fa sentire doppiamente in difetto e sotto esame.

“Senti, sei consapevole del perché di questo pranzo, vero?” mi chiede sicuro, senza mostrare troppa preoccupazione.
“Sfortunatamente sì; devo anche ammettere che vederti qui oggi mi lascia un po’ perplessa.”
Pensavo che lui fosse dalla mia parte, o almeno lo speravo. Ma il fatto che sia qui mi fa temere il contrario.
“Perché non hai afferrato che io sono qui per aiutare te.”
“Che vuol dire? Non è una guerra, non ho bisogno di aiuto...”

Stronzate, ne avrei bisogno eccome.

“Se io fossi al posto tuo lo sarebbe. Io non soccomberei così. Ma tu, diversamente, cerchi sempre di accontentarli per non doverli contraddire."
La voce di mio fratello lascia trapelare un lieve disappunto, ma i suoi occhi mi sfidano a trovare il coraggio di contraddirlo, cosa che - ovviamente - non posso fare.
Fisicamente Michele è una specie di copia testosteronica di me (anzi, lui direbbe che io sono la brutta copia di lui, perché lui è nato prima): ha solo i capelli più corti, qualche pelo più folto e trenta cm in più di altezza.
Ah,  non ha neppure il culo grosso come il mio: lui ha delle caviglie da ballerina fenomenali e si vanta spesso delle sue mani nobili, affusolate come quelle di tutti i chitarristi. Sì, mio fratello ha anche ereditato il gene artistico di mio padre, quindi suona divinamente oltre alla chitarra – in ogni sua forma o declinazione – altri tre strumenti, tra cui il sax tenore, che ho cercato di fregargli più volte, rischiando l’embolo perché non sapevo come suonarlo e sputacchiandoci dentro.

Sono certa ritenga che parte della sua genialità risieda nell’armonia dei propri arti. Ma i suoi occhi sono lo specchio dei miei: stesso taglio, stesse espressioni, solo che i suoi sono color cioccolato, non verde insipido.

“Per te è facile, tu consideri sempre solo te stesso, io non posso fare come te.”
“Smetti di condurre la tua vita in base a quello che rende felici gli altri!” afferma estraendo un pacchetto di Marlboro Medium morbide dalla tasca destra dei jeans per portarsene una alla labbra, offrendone un’altra a me e accendendole rapidamente con il suo adorato zippo.

“Non posso entrare in quella casa dandogli una delusione del genere...”
“Ma tu quella laurea non la vuoi!” la sua voce si alza impercettibilmente per un attimo, prima che sospiri profondamente e aggiunga:
“Una volta varcata quella porta io non dirò nulla, a meno che non sia strettamente necessario... Però una cosa te la dico ora: se continui così finirai per deludere sia te stessa che loro.”
Mio fratello tira una lunga boccata di sigaretta, restando in attesa di una mia risposta, ma più lui parla, più mi rendo conto che non riesco a fargli comprendere perché per me è così difficile.

“Michele, tu non capisci...”
“Dici sempre così, però poi non cerchi mai di spiegarti.”
Alla sua affermazione mi gelo. Se sei mesi fa mi avessero detto che avrei avuto una conversazione del genere con mio fratello probabilmente mi sarebbe venuto il singhiozzo per lo stupore: il problema è che lui ha ragione. Parlare della cosa in generale mi crea un disagio così prepotente che la fuga è la soluzione più facile. Ovviamente questo implica non spiegare neppure le mie ragioni: insomma, io se devo evitare lo faccio per bene, non certo a metà.
Come può mio fratello, così orribilmente bravo in quello che fa, capire che io sono così incapace da non riuscire neanche a finire una banalissima triennale in Scienze biologiche? Soprattutto come gli spiego che manco di attribuiti al punto di non riuscire ad ammettere che sono così limitata. E inferiore. E stupida. E inutile.

Come dici a tuo fratello, Fisico teorico, che magari si aspettava tante cose dalla sua sorellina stronza, che tu hai fallito?

“Sofia, posso chiederti una cosa? Hai sempre detto di voler essere medico, ma il perché me lo sai spiegare?”.
È una domanda talmente semplice, eppure non me l’aveva fatta nessuno. In realtà non me lo sono posta neppure io, il quesito; mentre guardo negli occhi consapevoli di mio fratello, mi trovo a ipotizzare che fare il medico non fosse neanche un sogno. Forse era solo un modo diverso di fuggire. Era una risposta facile e sicura. Era uno scudo conforme alle aspettative per non dover chiedere a me stessa cosa cazzo sapevo davvero fare. E adesso, che sono costretta a chiedermelo, mi trovo a non averne idea. Butto la sigaretta fumata solo a metà, quasi in segno di resa. Poi, evitando il suo sguardo, borbotto:

“No, non credo. Probabilmente non è mai stato quello che volevo.”
“E allora sai cosa devi fare.” sentenzia pacifico e sospetto che le cannette che si faceva all’università con i suoi amici nerd abbiano avuto effetti devastanti sui suoi neuroni geniali.
“Potresti essere più prolisso, sai, per noi umani...”

“A te della scienza non te ne frega nulla. Sai di cosa ti sento parlare con passione? Di libri, di musica, di cinema...” mi spiega lui, ma io lo interrompo, dicendo:
“Quelli sono hobby!”
“Chi l’ha detto che da un hobby non può nascere una professione?” mi domanda sicuro di ogni parola, per poi proseguire dicendo:
“Senti, non per essere crudo, ma tu stai alla scienza come il ciclo sta ad uomo.”
“Beh, ma fai cagare!” protesto alla sua equazione, ma lui prosegue senza mostrare considerazione per il mio disgusto.
“Fatti un paio di domande e smetti di lasciar decidere loro per te.”

Poi, senza darmi modo di lamentarmi per l’ennesima volta della mia terribile situazione, spalanca la porta di casa dei nostri genitori annunciando:
“Madre, Favorite Son è giunto a te! E ha un sacco voglia di cotoletta.”
Mio fratello è una fogna.

Mio padre ed io lo chiamiamo Figlio preferito perché riesce ad intortare mia madre come vuole: quando Michele fa gli occhi da cerbiatto, mamma si scioglie. Sempre. Senza eccezione.

I nostri genitori ci accolgono con il solito entusiasmo e, dopo che mia madre ha puntualizzato che siamo entrambi vestiti come due reietti della società ma che ci vuole bene ugualmente, ci invita a prendere posto a tavola. In tutto questo mio padre non proferisce parola escluso un sussurrato:
“Buona domenica, figli latitanti.”

Frecciatina n°1: check.

Per fortuna la prima mezz’ora di conversazione viene monopolizzata da mio fratello che, a dispetto della confusione e del disinteresse di tutti, si premura di intavolare un monologo sull’origine dell’universo, divagando poi sui neutrini. Intanto io e papà divoriamo la nostra porzione di lasagne, fingendo di non percepire lo sguardo di rimprovero di mia madre che si sposta da lui a me.

La logorrea di Michele, però, viene interrotta quando passa a qualcosa chiamata “Teoria delle Stringhe” dal vocione di papà che, schiarendosi la gola, dichiara:
“Non ho capito niente, ma va bene lo stesso. L’importante è che questa non fosse una delle tue introduzioni per poi arrivare a chiederci un prestito per pagare il commercialista.”
L’affermazione sulla tendenza a sperperare denaro che affligge mio fratello dalla nascita sembra sortire i suoi effetti perché Michele, borbottando “non stavolta”, smette di delirare prendendo a sorseggiare la sua birra.

Dal breve silenzio che si diffonde sul nostro pranzo capisco che è arrivato il mio turno e a darmi ragione ci pensa prontamente mia madre.

“Sofia...”

Cazzocazzocazzo.

“Come sei messa con gli esami?”

Cazzommerda Cazzommerda Cazzommerda.

Al quesito di mia madre, papà appoggia la forchetta sul bordo del piatto, deglutendo con forza, porta gli occhi su di me e attende.
Non sono pronta a mettere le carte in tavola; non me la sento di vedere dipinta sui loro visi la totale perdita di fiducia nei miei confronti.

Quindi, lanciando un’occhiata furtiva a mio fratello, opto per non dare una risposta.
“Mamma, la sessione è a giugno. Gli esami ancora non si possono fare.”
“Va bene, ma come sei messa? Quando chiedi la tesi?”
Michele nasconde una risata dietro alla bottiglia di birra, divertito dalla abilità di mamma di vincere contro ogni mio tentativo di fuggire dal problema e io comincio a sentire caldo.
Non glielo posso dire. Non c’è verso che io trovi il coraggio di essere onesta, sputtanandomi così.

“Non la chiedo.”

Oh.

Tre parole e l’inferno è pronto ad aprirsi.
Mio fratello rischia di strozzarsi con la birra che gli va di traverso uscendogli dal naso; il sopracciglio sinistro di papà schizza verso l’alto come ogni volta in cui si incazza in modo potente e mia mamma assume un colorito cremisi. Ho sterminato la mia famiglia con poche parole.

“Che vuol dire?”
Ormai il danno è fatto: non so quale neurone nella mia testa abbia fatto cilecca, ma a questo punto almeno quella parte di verità è fuori. Tanta fatica per salvarmi da questa risposta e, in pochi giorni, sto ammettendo la verità con cani e porci.

Mamma resta con la bocca semi aperta ad attendere una spiegazione: a questo punto, non posso più salvarmi.
“Mi dispiace, so che non capirete e che non avreste mai voluto sentirmelo dire, ma vi ho detto un sacco di balle...” mentre mostro la mia disonestà con le persone che hanno dato tutto per me sento la coscienza che mi si blocca in gola e si scioglie in lacrime che, in pochi secondi, mi riparano dalla tortura delle emozioni dipinte sui loro volti.
“Non mi mancano pochi esami. Me ne mancano dieci.”

“Oddio! Come quel ragazzo del telegiornale che ha comunicato ai suoi la data della laurea e poi è venuto fuori che non aveva fatto neanche un esame!”

No, va beh, non sono arrivata a quel punto. La laurea non sarei mai stata in grado di simularla, io. Mia madre esagera sempre.
“Aspetta, mamma, lasciala parlare.” Michele cerca di stemperare la tensione, ma quello che mi terrorizza davvero è il silenzio di mio padre. Mutismo che viene rotto dalla sua voce gelida che ordina:

“Avanti, spiega.”

Facendo un respiro enorme, sviscero tutto, trattenendo le lacrime perché peggiorerebbero solo le cose e pregando mia nonna di palesarsi ora, infondendo un po’ di clemenza nei miei genitori. Insomma, si mette in mezzo in momenti inopportuni, che almeno venga in mio aiuto adesso!
Tentenno quando arriva il momento di spiegare cosa mi sta divorando dentro ma, all’espressione confusa di Michele, mi è chiaro che non posso far capire agli altri qualcosa che non comprendo neanche io.
Quando smetto di parlare, lo shock è talmente evidente che potrebbe compattarsi in forma di uomo e sedersi tra i miei genitori.

Poi, quello che mi attendevo dall’inizio del pranzo, avviene: mia madre scoppia in lacrime, chiedendomi se sono impazzita.
Me lo domando ogni giorno anche io, quindi scelgo di restare in silenzio sperando che col passare dei secondi loro riescano ad incassare il colpo.
“E questi anni hai intenzione di buttarli via così?”
“Dai papà, non ha buttato via niente. Ha fatto un errore. Un errore per non deludere voi, ma ora sta cercando di essere onesta.”

Per la prima volta in ventiquattro anni vedo mio fratello proteggermi e la cosa mi fa sentire al sicuro. Per poco, ma è comunque piacevole.
“Quindi ora è colpa nostra?”
“Papà, mi dispiace. Credimi, non avrei mai voluto darvi questa notizia.”
“Infatti sei riuscita a tacerla per un bel po’ di tempo.”

Touché.

All’accusa non posso controbattere: l’unica cosa che riesco a fare è abbassare il viso, imbarazzata e colpevole.
“Quindi? Che cosa vorresti fare?” domanda mia madre soffiandosi il naso mentre i suoi occhi verdi brillano di dolore. E io sento il cuore darmi della vacca per aver fatto piangere la mia mamma.

Che figlia di merda.

Solo che proprio la mamma mi ha fatto l’altra temutissima domanda, ma io a quella proprio non so rispondere.
“Vuoi iniziare un’altra università? Se è quello che vuoi va bene, Sofia. Ho solo bisogno di sapere che starai bene.”

Mia madre è una donna che non si merita una figlia di merda come me: di fronte a quello che le ho appena confessato, lei riesce a darmi una seconda possibilità. Ma io non me la merito. Soprattutto non posso dirle di sì, perché io non so cosa voglio fare. Non so neppure se ho la voglia di ricominciare dall’inizio.
“È questo il motivo per cui non ve lo avevo detto.” rispondo senza alzare il viso “perché non ho idea di cosa voglio fare da grande.”

“Sei già grande, Sofia.”
“Lo so, mamma. Ma non so che altro dirvi se non che mi dispiace”

La mia famiglia cade per l’ennesima volta in un sofferto silenzio, intramezzato solo dai singhiozzi soffocati di mamma e il mio desiderio di essere inghiottita dall’inferno torna prepotente.
Non era così che doveva andare: non avrei dovuto confessare tutto ora, quando ancora non sono in grado di difendere la mia causa.
Mio padre si alza in piedi di scatto, spingendo indietro la sedia con forza, attirando l’attenzione di tutti noi su di lui: il sopracciglio sinistro ad altezza vertiginosa e la delusione cristallina sul viso.

“Mi dispiace, ma non è abbastanza. Le tue scuse non sono abbastanza e io sono troppo vecchio per mantenerti ad un’altra università.” dichiara, rafforzando il nodo che mi stringe lo stomaco in una morsa di ansia “se vuoi la laurea, finisci Biologia. Diversamente, chiarisciti le idee. Trova un’alternativa alla tua vita, perché il tempo passa e tu sei adulta. È ora che ti decidi una volta per tutte. Sofia, trova una risposta alla domanda di tua madre e fallo in fretta.”
“Daniele, non essere irragionevole...” lo interrompe mamma, ma lui si rifiuta di tacere ancora.
“No, Eleonora. Io amo i miei figli più di ogni altra cosa, ma non permetterò a Sofia di continuare ad approfittarsi di me. Basta con le bugie. Basta con i silenzi. Ora le carte sono in tavola e io non sono un Bancomat: pretendo di sapere che progetti ha.”

Poi, quando si volta verso di me, la sua voce vira da dura a ferita.

“Non avrei mai pensato che proprio tu potessi farmi sentire come l’ultimo uomo della tua vita. Io ti voglio bene e non ti volterò le spalle. Ma d’ora in avanti la mia fiducia te la devi guadagnare."

Eccola la frase che ogni figlio teme: hai perso la mia fiducia.
Quella è l’affermazione perfetta per far sentire un discendente come un vero verme. Ma io me lo merito, perché la loro fiducia l’ho tradita. L’ho tradita con i miei silenzi, ma non avrei mai voluto ferirli.
“Vai a casa, prenditi il tempo che vuoi e capisci che donna vuoi essere. Dovrò convivere con l’idea che mia figlia ha rinunciato all’occasione di avere un titolo di studio migliore del mio, ma non starò in silenzio mentre tu non concludi niente. Voglio che tu sia felice, voglio che tutti noi siamo felici: se per farlo devo costringerti a guardarti dentro, lo farò."

Il cuore mi si ferma con prepotenza quando lo vedo lasciare la sala da pranzo e mia madre si alza in piedi per seguirlo:
“Sofia, ne riparliamo. In questo momento è meglio se ci lasciate da soli."
“Mamma...”
Si volta per incontrare il mio viso e vorrei tanto non essere venuta qui oggi per non essere la responsabile di tutte le lacrime che non smettono di scendere dai suoi occhi.
“Mi dispiace.”
“Lo so.”
E abbandona la sala da pranzo in favore dello studio di mio padre, nel quale entra, affermando:
“Forse la dobbiamo far ricoverare. Guarda che è un po’ che è strana. Nella tua famiglia di pazzi ce ne sono tanti, magari è quello...”

Coprendomi il viso con le mani faccio un sospiro affaticato, lasciando che mio fratello recuperi la mia borsa e mi accompagni alla macchina.
“Non è andata così male.”
“Fottiti.”
“Poteva andare peggio. Potevano farti internare davvero.”
“Forse lo faranno...” ribatto aprendo la portiera della macchina “Grazie per essere stato dalla mia parte.”

Lui sorride piano, fa scrocchiare il collo in un movimento che sembra celare il suo imbarazzo, per poi rispondere:
“Da quando sei diventata tu la pecora nera, non mi stai più così sulle palle.”
“Ti ringrazio.”
“Di niente.” mi fa l’occhiolino, battendomi una mano consolatoria sulla spalla per aggiungere “Tranquilla, andrà bene. Peggio di come stava andando non era possibile. Almeno ora lo sanno. Al massimo puoi sempre venire a pulire casa mia al posto di Fatima. Lei vuole sempre lavarmi le finestre: io lo trovo inutile e sciocco.”
Poi, con un saltello, si dirige verso la sua auto tutta fracassata:
“Vengo a trovarti uno di questi giorni, così mi presenti il tuo coinquilino.”

Alex. Ora voglio solo andare a casa da Alex.

“Se inviti anche Jules io non mi oppongo…” aggiunge facendo scattare la serratura del suo macinino. L’affermazione mi fa rabbrividire, eppure non riesco a non chiedere:
“Perché?”
“A lei io la teoria delle stringhe la spiegherei molto volentieri.”
Oddio che schifo!
“Michele, mi hai appena traumatizzata!” strillo basita mentre lui mette in moto, andandosene tutto serafico.

Rammaricata per come sono andate le cose ma sollevata all’idea di poter fuggire da qui, salgo in macchina; lanciando un ultimo sguardo dispiaciuto verso l’uscio dei miei, metto in moto e guido verso la sicurezza di casa mia.


Pause


Livello n°2: superato.
Quanti superstiti abbiamo? Se siete riusciti ad arrivare anche alla seconda pausa senza indurvi un coma volontario... Beh, avete la stima della direzione! Ora, la faccenda sta per farsi lunghina senza ulteriori pause e il rischio, oltre al colpo di sonno, è la disidratazione e/o esplosione della vescica e/o attacco di fame. Provvedete a tutti i vostri bisogni primari prima di proseguire e poi (se ce la fate) addentratevi nel terzo e ultimo livello.




Mi trascino tristemente su per le scale di casa e, raggiunta la porta, ci appoggio contro la fronte, chiudendo gli occhi e respirando piano. Non posso credere di averlo fatto davvero: ho aperto il vaso di Pandora. Ho fatto quello che ho cercato di evitare per mesi e ora lo sguardo deluso di mio padre mi perseguiterà per settimane.
Ma quando mi decido ad aprire la porta lui è lì, impegnato a mescolare non so cosa sul bancone della nostra cucina e, per un attimo, mi sento sollevata. Non so perché: non è che la presenza di Alex faccia evaporare i casini che creo ogni volta che metto piede fuori di casa, ma io qualcuno da cui tornare a casa non l’avevo mai avuto. Non che ora ce l’abbia, visto che questa è anche casa sua, ma almeno so che se voglio evitare di parlare posso sempre ripiegare sul sesso.

Anzi, devo ripiegare sul sesso. Ormai è una questione di principio.
Alex si volta quando sbatto la porta dietro di me e mi guarda senza fiatare e senza smettere di lavorare col cibo disteso sul ripiano. Lascio passare un minuto, certa che presto arriverà qualche parola per me scomoda, e invece lui non apre bocca. Mi osserva con quei suoi occhi magnetici e basta.

“Non mi chiedi niente...”

La mia non è una domanda: sto constatando che il mio coinquilino impiccione non sta ficcando il naso nei miei affari per la prima volta da quando lo conosco.
“Se me lo volessi dire avresti già iniziato a parlare, senza fissarmi come un pesce lesso.”
“E se io volessi che me lo chiedessi?”

Non giudicatemi: tutte le donne dicono il contrario di quello che pensano.

“E se tu la smettessi di essere così contorta e ti limitassi a dire quello che vuoi?”
Io non rispondo, ma mi avvicino lui e, in un gesto così lontano dal mio normale essere, guido le sue mani a distanza dal cibo che è intento a cucinare e mi faccio strada tra le sue braccia, nascondendo il viso contro la sua maglia. Alex resta sorpreso per pochi istanti poi, con le dita sporche di farina e di qualcosa di appiccicaticcio, inizia un goffo abbraccio.
Ed io sorrido. Siamo l'apoteosi del maldestro. Confusi da cosa è opportuno fare e indecisi su quale sia il limite dell'altro.

“Vuoi che te lo chieda?”
Non mi serve la sua domanda, mi è sufficiente sapere che è disposto ad ascoltare qualche frase senza senso che sento di dover pronunciare.
“Mio padre mi odia. Mia madre mi farà internare e io non mi opporrò...” annuncio facendo scorrere le labbra contro il cotone che mi separa dalla sua pelle “però mio fratello mi vuole bene.”
Not bad. Uno su tre. È un buon risultato.”
“Gli ho detto che non mi laureerò.”

A questo punto mi aspetto che lui inizi a chiedere maggiori dettagli o, almeno, esprima il suo parere su quello che ho appena dichiarato; invece fa qualcosa che mi lascia completamente interdetta: mi accarezza la testa facendo scivolare il mento sui miei capelli e poi mi chiede se sono orgogliosa di averlo fatto. Per un istante temo che la sua sia un’accusa, una specie di insulto velato, ma i miei timori svaniscono quando, lasciando cadere un bacio sulla mia testa e allontanandosi di poco da me per afferrare un canovaccio con cui pulirsi le mani, aggiunge:

“Dovresti.”
“Lo sguardo di mio padre era delusione mista rabbia, Alex. Come posso essere orgogliosa di quello? Mia madre non smetterà di piangere per giorni."
“Devi essere felice di te, non delle reazioni degli altri. Hai avuto il coraggio di dirgli la verità. Quando abbiamo parlato stamattina ero certo che non l’avresti fatto."
“Però ora loro mi odiano. E mi presseranno ancora di più.”

La mia voce si è lentamente trasformata in una specie di cantilena: più mi lagno, più gli occhi di Alex si stingono in due fessure inquisitorie. Forse la mia vocetta da bambina lo sta infastidendo, oppure sta cercando di capire meglio, non so. In entrambi i casi risponderei con un pugno in testa, ma per oggi mi sono inimicata già abbastanza persone.
Lui lascia cadere il canovaccio nel lavandino e allontana lo sguardo da me mentre si infarina le mani e chiede:
“È il fatto di averli feriti che ti turba o il problema è che non sopporti che possano pensare male di te?”

Questo ragazzo comincia a fare troppe domande. Cioè, è vero che me le aspettavo, ma ora che mi ha fatto questa, così azzeccata nell’identificare un possibile problema, vorrei tappargli la bocca con quella roba che sta attualmente lavorando con le mani sul nostro marmo.
“Che cosa stai facendo?”
“Focaccia.” risponde senza guardarmi “pensavo fosse il caso di offrirti abbondanza di carboidrati al tuo ritorno. Dicono che aiutano l’umore. E tu sei sempre incazzata.”

Stava facendo la focaccia. Per me. Faccia di culo Alex, il coinquilino coi muscoletti e la personalità molesta, quello che non fa altro che ricordarmi che ho il culo grosso, mi stava facendo la focaccia. Con quelle sue manine esperte. La cosa mi sconvolge e scongela un po’ il mio cuore da stronza acida, lo ammetto. Anzi, molto, perché a me nessuno aveva mai fatto una focaccia per tirarmi su l’umore. A parte Bet e Jules. Ma la loro focaccia era certamente comprata all’Esselunga e bruciacchiata sui lati.

Alex la sta impastando per me. Il demone dall’occhio bionico si sta rivelando una specie di marshmallow: e a me piacciono parecchio i marshmallow.
Il mio silenzio sembra insospettirlo e smette di premere con forza i palmi delle mani contro il composto, inclinando la testa mentre i suoi occhi tornano a posarsi sul mio viso.

“Che c’è?”

Me lo chiede anche? Ovviamente non è ammissibile che io mostri la mia debolezza e gli faccia sapere che il suo gesto mi ha rammollita dentro più o meno come la polpa di un caco. E io odio i cachi. Mi fa senso persino il nome. Vorrei capire chi gliel’ha dato. Caco. Ricorda altro. Immaginate quanto piacere mi faccia essere molle come un caco!

Sorrido con indifferenza e non rispondo: vorrei baciarlo, ma comincio a pensare che non facciamo altro. Ogni volta che ci vediamo ci baciamo, e la cosa è assurda: due persone, per quanto attratte, non possono sbaciucchiarsi ogni santissima volta che si vedono. È ridicolo: io e Alex dobbiamo trovare qualcosa da dire e da fare che non implichi una pomiciata o qualche gesto melenso ogni santissima volta. Gli adulti non si baciano sempre. Almeno, io non credo.

“Che ne dici di darmi una mano?”
“Vuoi che ti aiuti a cucinare la focaccia per me?”
“Così forse la smetterai di guardarmi come se ti avessi comprato una stella.”

Immagino che il mio coinquilino stia lentamente annullando la mia capacità di mascherare i miei pensieri: o lui è troppo bravo a interpretare le mie espressioni da triglia, o io ho perso il mio dono. In ogni caso è poco importante: quello che importa è che ora sono a casa, lontana dal senso di colpa e dal dolore sul viso di mia madre. Rinchiusa qui dentro posso lasciare che Alex mi distragga, potrei anche litigarci; non importa. Quello che importa è che fino a domani io, per la vita e per il mondo, sono in vacanza. Con Alex.

Sono in Focaccialandia con Aleman.

“Io la focaccia non la so fare...”
Lui ammicca e si sposta di poco dal ripiano, indicandomi di posizionarmi tra lui e il bancone: io mi faccio attraversare da un pensiero sporchissimo, poi accetto l’invito e faccio come vuole lui.
“Farina...” mi indica porgendomi il sacchetto, facendo scorrere le sue dita contro le mie per imbiancarle mentre io ruoto di poco la testa per incontrare i suoi occhi.
“Senti, cosa stiamo per fare? Una specie di Ghost: Kitchen edition?”

Lui scoppia a ridere e, baciandomi il collo, si sposta alla mia sinistra.
“Direi di no... Forza, Sofia, fammi vedere che sai fare.”

Che significa che so fare?! Lui stava impastando per me. Lui, non io. Che gesto carino è se la focaccia me la faccio da sola?
“Non fissarmi in quel modo, mi fai sentire nudo.”

Eh. Ecco, quello sarebbe più apprezzabile.

“Sei tu il cuoco, falla tu! Io preferisco vivere nell’ignoranza.”
“L’idea era quella di farti sfogare un po’ di frustrazione sulla pasta.”
Alle sue parole fatico a trattenere un sorriso e sono più che convinta che, con l’accumulo emotivo che ho nelle vene, rovinerò la cena che lui aveva imbastito per me, ma non me ne frega nulla.
“Devo seguire qualche regola particolare?”
“Hai mai impastato prima d’ora?”
“Solo il Didò... e il pongo. Se la tecnica è quella, me la posso cavare."

Lui sghignazza alla mia spiegazione, poi mi mostra come manipolare il cibo prima di lasciarmi campo libero. Si siede sul ripiano accanto a me e resta in silenzio ad osservarmi mentre i suoi occhi si spostano dalle mie mani al mio viso.
Per qualche minuto è come se lui non fosse lì. È come se non ci fossi neppure io. C’è solo tutta la mia frustrazione che si riversa sulla focaccia ancora informe, come se la colpa di tutto l’avesse lei: all’inizio mi muovo con accortezza, staccando i pezzetti che mi si incollano sui polpastrelli, cercando di trattare tutto con cura. Poi, piano piano, ogni mia stretta si fa più potente, ogni spinta sul marmo più arrabbiata, ogni movimento del palmo più energico. Ho fatto la cosa giusta? Essere onesta ora cosa comporterà? Cosa devo fare adesso? Come faccio a riconquistare la fiducia dei miei senza finire di nuovo nella catena di errori che ho già fatto?

È difficile capire se sono arrabbiata con me stessa per essere arrivata fin qui o con i miei per non aver capito. O forse sono arrabbiata perché io non ho capito che, come ha detto mio fratello, stavo deludendo tutti, me compresa.

Ma c’è una cosa di cui sono certa: sono rabbiosa perché ora che ho confessato la verità, non ho messo fine alle preoccupazioni di nessuno. Sì, forse mi sono tolta il peso delle bugie dal petto, ma continuo a non aver un progetto per il futuro. E questo ci riporta esattamente a pagina 1.
Spingo con tutta la forza che ho con i palmi delle mani contro la pasta che ormai sta diventando compatta sotto la mia pelle e non mi accorgo che sto stringendo con forza l’angolo della bocca tra i denti, finché Alex non allunga un braccio verso il mio viso, raccoglie una ciocca che mi ciondola con ira di fronte agli occhi e la trascina indietro. A quel punto mi immobilizzo e riporto lo sguardo su di lui che mi fissa in modo strano.

“Tutto bene, Scintilla?”

Non va bene un cazzo. Va peggio di prima.

“Lascia, finisco io.” ordina saltando giù dal bancone e spostandomi piano di lato per impastare un paio di volte e poi compattare tutto in una grossa palla liscia e soffice.
Lo osservo mentre accarezza quella sfera e la solleva piano, depositandola in una ciotola alta e coprendola con uno straccio umido.
All done. Ora la lasciamo riposare un paio d’ore.”

Io annuisco con gli occhi bassi, spostandomi per lasciare che metta la ciotola nel forno.
Lui se ne sta lì, in piedi di fronte a me, in silenzio e normale come nulla nella mia vita in questo momento. Mi scruta, mi contempla, ma non parla.

È così naturale che mi sembra la cosa più bella che abbia mai visto: così a suo agio nella sua pelle come io non sono mai stata nella mia. Così imperturbabile e così tranquillo oggi, l’opposto di quello che era solo pochi giorni fa. Con quegli occhi scuri nella terribile illuminazione della nostra cucina, che mi osservano senza l’ombra di un giudizio. O forse sono io che non voglio sapere davvero quello che pensa della sua coinquilina. Non me ne importa nulla adesso: lui, le sue labbra e il suo sguardo pacifico mi paiono l’unico rifugio di serenità che il mondo mi vuole concedere.

“Perché mi guardi così?” domanda quando ormai lo sto squadrando da almeno due minuti, spostando il peso da un piede all’altro e apparendo all’improvviso a disagio sotto il peso dei miei occhi.
“Così come?”
“Non lo so, in modo strano.” spiega mentre si massaggia il retro del collo con una mano e, più si mostra imbarazzato, più io sento l’impulso di avvicinarmi. Senza rispondere faccio qualche passo nella sua direzione e, con il suo sguardo incerto che segue i miei movimenti, mi appoggio con un fianco al bancone della cucina a pochi centimetri dal suo corpo; gli occhi incollati ai suoi e le mie dita che trovano uno dei suoi fianchi per tirarlo verso di me.
“Vieni qui...” sussurro e lui obbedisce, costringendomi a voltarmi finché la mia schiena non è premuta contro il bordo del ripiano in marmo.

Poi, senza parlare, i suoi occhi mi sorridono. Con le mani mi avvolge il viso, posando la fronte sulla mia e inspirando piano: restiamo così per qualche minuto, guardandoci senza parlare e nel silenzio posso sentire il mio sangue che comincia a pulsare forte e veloce.
Non so che cosa stia aspettando di preciso, ma il calore del suo corpo contro il mio e l’intensità dei suoi occhi diventano l’unica cosa di cui sono consapevole: cingendogli la vita lo avvicino quanto più possibile a me.

“Aleman, che stai aspettando?”

Il sorriso più furbo che gli abbia mai visto fare si anima sulla sua bocca: poi le sue dita premono in modo impercettibile sulla mia pelle. Seguendo i suoi gesti, lascio che le mie labbra si posino sulle sue, chiudendo ogni ricordo di oggi fuori dalla mia mente e lasciando che il mio corpo senta solo Alex.
Più che decisa a godermi ogni secondo con lui, incurante della possibilità che le mie mani siano gelide, muovo le dita contro la sua maglia, alzandola per andare ad accarezzare loro: i muscoletti.
Lui rabbrividisce in modo evidente e spezza per un attimo il bacio, tenendo gli occhi chiusi e facendo scivolare un pollice sulla mia bocca.

Dio, ma come fa a essere così fottutamente sensuale pure mentre sono io che dirigo i giochi?
Io non sono mai stata dotata di grande spirito di iniziativa, ma in questo momento non riesco a pensare in modo razionale e lascio che le mie mani facciano ciò che vogliono.
Con le palpebre ancora chiuse Alex ridacchia della sua stessa reazione e sposta le mani sulla mia vita, invitandomi a saltare con tutta la mia grazia sul bancone della cucina: poi, senza tanti convenevoli, abbassa il viso fino al mio ventre, solleva l’estremità del mio vestito e lascia cadere un’infinità di baci sulla mia pelle, mentre nella sua risalita verso il mio viso porta con sé la stoffa da cui, una volta ritrovate le mie labbra, mi libera definitivamente.

Nel panico più totale per l’esposizione del mio corpo ai suoi occhi alla luce della cucina, mi stacco da lui per allungarmi verso l’interruttore alle mie spalle, ma Alex mi ferma, riportando il mio corpo contro il suo e sussurrandomi:
“Falla finita.”

Certo, logico che lui voglia mostrare tutto il suo corpicino asciutto con orgoglio, ma io credo che sarebbe molto più facile abbandonarmi alla situazione se non mi dovessi preoccupare di ogni piega di ciccia che lui vede.

“Fammela spegnere...”
“No, non ce n’è ragione.”
“Ma...”
“Niente ma, Scintilla. Non pensare. Baciami e non pensare.” mormora con una voce lieve come la distanza tra le nostre labbra e l’effetto di Alex su di me corre lungo ogni sinapsi del mio cervello.
Stringo le braccia attorno alle sue spalle e lascio che ricominci a baciarmi con ritrovato entusiasmo, mentre i suoi sorrisi si scontrano con i miei e il suo respiro torna a farsi appena un po’ più accelerato.

Oh, ‘sti cazzi! Tanto anche se non vedesse, la ciccia la sentirebbe comunque. Facendo questa considerazione, però, mi ricordo di eventi poco piacevoli durante la mia intimità con L e decido che con Alex non voglio provare nessuna forma di disagio.

“Alex, una regola...”
Lui sembra ignorarmi, continuando imperterrito a far scivolare le dita sulla mia pelle.
“Alex!”
“Mmh?” il suo è un mugolio appena accennato e che mostra debolmente la sua frustrazione per la mia cocciutaggine.
“Mi ascolti?”
Ma sono abbastanza convinta che l’unica cosa che sta ascoltando sia il pulsare del suo sangue che, dalla periferia, sta emigrando con grande gioia verso sud. Il che mi va benissimo ma, visto che l’aria si sta riscaldando e che la nonna sembra aver deposto l’ascia di guerra contro il mio accoppiamento, sento un’improvvisa necessità di porre un veto.

Quando la mia intimità era condivisa con L si verificava matematicamente un evento alquanto spiacevole per la sottoscritta: la strizzatura. Non è una pratica sadomaso, né un gioco di ruolo; è qualcosa che, per le ragazze in carne, ha una connotazione umiliante. È qualcosa che, quando vanti un più o meno prominente salvagente di adipe, temi con ogni tua molecola.

Qualcosa che, però, sembra essere inevitabile quando fai sesso.
La strizzatura si traduce in quell’insopportabile gesto che loro compiono ogni volta che incontrano una piega di ciccia: la afferrano e la strizzano.
La stringono con passione, come se potesse essere anche solo lontanamente sensuale, come se da questo stritolamento tu dovessi trarne giovamento e avvicinarti più velocemente all’orgasmo: ecco, non è così. Ha esattamente l’effetto opposto: d’improvviso perdi il focus, ti dimentichi che stai correndo verso la meta e il tuo touch down rischia di diventare solo un miraggio. Diventi improvvisamente conscia di quei manigliotti a cui lui si regge e, invece di focalizzarti sul tuo piacere, cominci a fare una stima possibile della misura in centimetri del grasso che tiene tra le dita e cominci a chiederti se, in realtà, anche lui stia cercando di soppesarne la mole. O se si stia chiedendo come avevi fatto a nascondere quell’abbondante cuscinetto fino a quel momento.

L lo faceva sempre. Ogni benedetta volta. Come se avessi bisogno di un promemoria di dove si trova distribuito il mio sovrappeso.
Mentre Alex, assolutamente disinteressato a quello che io ho da dire, accompagna le mie mani sul bordo della sua maglia e mi aiuta a levargliela, io penso ad un’unica cosa. Non voglio sentirmi umiliata e non voglio sentirmi insicura. Voglio sentirmi bene con lui e voglio sentirmi una donna di serie A, almeno questa volta.

I suoi baci sulla mia pelle si fanno più rapidi quando, con un movimento del bacino, separa le mie ginocchia e ci si intrufola in mezzo con frenesia, ricordandomi che l’universo è contro di noi e, se non colgo l’attimo, rischio di andare di nuovo in bianco.
“Alex, stammi a sentire...”
“Parla!” la sua voce è quasi spazientita e le sue dita intrappolano il mio viso nella sua stretta per guidare la mia bocca dritta contro la sua, lasciando cadere baci prepotenti e frettolosi.
“Non si afferra.”

Lui si blocca per un secondo e quei suoi occhietti blu si fanno grandi e confusi:
“Che cosa?”
“Non si impugna niente. È questa la regola.” bisbiglio stringendo le mani attorno ai suoi polsi per poi accarezzarli piano; lui si lecca lievemente le labbra con aria riflessiva, inclina il capo e poi chiede:
“Che cazzo vuoi dire?”
“Non voglio che, mentre sei tutto annebbiato dalla tua mascolinità, ti metti ad afferrare parti di me a caso...” provo a spiegare sopprimendo una risata di fronte al panico che sfreccia per un attimo nel suo sguardo e capisco che non posso trovare un modo di spiegargli cosa non voglio senza suonare patetica e insicura e senza portare la sua attenzione proprio sui miei problematici accumuli lipidici.

“Non ho capito...” confessa infatti studiandomi con aria disorientata: “Potrò afferrare qualcosa spero...”
“No...”
“Neanche le tette?”
“Non chiamarle tette!”
“Come le devo chiamare... boobs?”
“Alex...”
“Posso o no?”
“D’accordo, diciamo che non puoi aggrapparti all’adipe ma che ammetto eccezioni...”
“Mi sembra un buon compromesso...” poi sembra scegliere di non approfondire cosa lui non potrebbe fare ma di concentrarsi su altro:
“Tu puoi afferrare, vero?” ridacchia speranzoso, gioendo quando annuisco.

Allenta per un attimo presa sulla mia vita e si allontana di qualche passo, salta sul bancone accanto a me, levandosi le scarpe, e porta una gamba dall’altro lato del bancone.
Mi tira a sé con un gesto deciso, fino a che il mio fianco non si scontra col suo corpo: basta una lieve pressione per riattivare ogni singolo ormone nel mio corpo e farmi sorridere soddisfatta alla constatazione dell’effetto che io, proprio io, stavo avendo su di lui.
La sua bocca è nuovamente premuta contro la mia in un bacio che diventa velocemente molto più forte, pretenzioso e irregolare: più le sue labbra sembrano non controllarsi contro le mie, più il mio istinto di strapparmi i leggings si fa prepotente.

Rispondo ai suoi tocchi smettendo di pensare e sentendo solo il sapore delle sue labbra contro la mia lingua e, per non so dire quanto, l’unica cosa che i miei sensi percepiscono è Alex.
Poi, ammiccando contro la mia bocca, le sue mani premono contro il mio corpo, sulle mie spalle, e pochi secondi più tardi, mi ritrovo sdraiata sul bancone della nostra cucina con il mio coinquilino che come un gatto si sta allungando sopra di me, lasciando baci illegali lungo la strada. Spinge le mie ginocchia lontane l’una dall’altra, distendendosi completamente sopra di me con quel sorrisino compiaciuto che è ormai un marchio di fabbrica. E, dopo un brevissimo momento di stallo, capisco.

Sto per fare sesso sul bancone della mia cucina. E la cosa mi inorgoglisce schifosamente.
L’ho sempre voluto fare su questo maledetto bancone, ma mi bloccava il pensiero che ci faccio colazione sopra. E l’iniziativa più ardita di L è stata di propormi con insistenza la doccia come setting alternativo.

Ma Alex non me l’ha proposto: Alex non me l’ha chiesto. Lui mi ha invitato a farlo, senza parole, solo con le carezze. E il mio corpo ha risposto a quelle: il mio corpo è assolutamente d’accordo. Mentre la sua bocca si sposta dalla mia per scendere verso le spalle, però, sembra avere un’illuminazione: si ferma, si mette in ginocchio - donandomi la visione del suo appetitoso petto nudo - e mi sfiora l’ombelico.

“Dammi il tuo telefono.”
“Perché?!”
“Fallo e basta, Sofia!”
C'è una punta di autorità nella sua risata che mi porta ad obbedire. Sbuffando, mi ritrovo ad arrotarmi sul fianco in un movimento agile quanto un ippopotamo: infilo la mano nella borsa appesa alla sedia, recupero il mio cellulare e glielo passo.

Lui sorride come se gli avessi appena regalato un pacco di orsetti gommosi e, posando gli occhi sui miei, lo spegne. Poi fa lo stesso col suo.
Lo osservo con curiosità perché non capisco tutta questa fretta di disconnettere i nostri telefoni ma, quando lo vedo scendere dal bancone e staccare prima il telefono di casa e poi il ricevitore del citofono, capisco.

“Basta interruzioni. Ora si fa come dico io.”

E torna a sdraiarsi su di me, riprendendo da dove ci eravamo fermati.
Le mie dita impazienti si fanno strada sul suo corpo, fino a trovare il bottone dei jeans. Quando lo faccio saltare abbassando poi piano la zip, faccio scorrere le dita sul cotone che si scopre, accarezzando Alex attraverso il tessuto: al mio tocco lo sento smettere di respirare e soffiare contro il mio collo qualche cosa in inglese che non riesco a capire, ma che mi fa sentire in paradiso.

I minuti passano, scanditi solo dalle carezze e dal sangue che mi pulsa insistente contro le tempie, fino a che lui non sussurra il mio nome, spezzando il bacio e premendo lentamente un dito contro le mie labbra.
“Med...”
Poi comincia a ridere con il viso nascosto contro la mia spalla e reggendo il suo peso sui gomiti.

Che cosa c’è di divertente?

La sua risata, prima silenziosa e lieve, si fa piano piano più forte, meno controllata e vibra contro la mia carne: cosa cazzo ha da ridere come un cretino?
Io sono qui, seminuda, eccitata come un cammello e convinta di aver dato fino ad ora il meglio di me, e lui sembra avere un attacco respiratorio, tanto si sta divertendo.

“Cosa c’è? Che ho fatto?!”
In un primo momento lui non mi risponde e io, stizzita, gli tiro piano i capelli, pretendendo una risposta: solleva il viso e non sembra riuscire a smettere di sghignazzare. Ha persino le lacrime agli occhi.
“Alex...”
Fa uno sforzo sovrumano per spegnere lentamente la sua risata e poi fa schioccare le labbra sulle mie, inspirando dal naso.
“Cosa è successo?”

“Ho un problema...” ridacchia accarezzandomi un orecchio e continuando a divertirsi come un matto.
“Che problema? Che c’è?”
Lui resta zitto per un po’, cercando di sopprimere l’ennesimo ghigno, per poi confessare:
“Ho l’ansia da prestazione.”

È uno scherzo? Mi sta prendendo per il culo? È stato un mandrillo con l’ormone volante fino a ieri e ora che stiamo per battere chiodo, mi dice che gli si è rotto l’impianto idraulico?

“Stai facendo cilecca adesso?!”
“Non sto facendo cilecca... Oddio, magari sì...” e riprende a iperventilare per il divertimento.
“Alex, non è divertente!”
“È esilarante! Mi sono vantato come un coglione di fare magie sotto le lenzuola e poi mi viene l’ansia da prestazione."

Adesso: so che le donne dovrebbero mostrarsi comprensive e affettuose in queste situazioni, ma io voglio il mio sesso. E lo voglio ora!

“Senti, fatti una camomilla perché questa è l’ultima volta che ci proviamo: se non vai in buca oggi, io rinuncio!”
Mi metto a sedere, costringendolo a seguire i miei movimenti e non riuscendo a controllare il broncio sul mio viso, cosa che lui trova esilarante.
“Non sei per nulla comprensiva...”
“Se mi dici che non ti funziona perché tieni troppo a me, giuro che te lo rompo del tutto.” biascico schivando la sua mano che cerca di catturare il mio viso e sbuffando.

So che sto facendo i capricci, ma non è che questo evento aiuti la mia autostima!

“Non ho detto che non mi funziona! Ho detto che ho l’ansia...”
“Ma di che cosa?! Anche la tua peggior prestazione otterrebbe un punteggio altissimo rispetto a quello a cui sono abituata!” mi lagno facendolo ridere di nuovo.

Non è che bisogna essere dei re del porno per fare meglio di L.
Alex si muove con agilità, scendendo dal bancone e portandosi di fronte a me per riprendere a baciarmi, nonostante le mie proteste.
E lo fa fottutamente bene, il che rende la sua ansia da prestazione ancora più ridicola.

Con i suoi baci riprendo a rilassarmi e le mie braccia si muovono fino a trovare le sue spalle.
“Ti prego, dimmi che ti stai rianimando...”
Alex sghignazza ancora una volta e ricambia il mio abbraccio, annuendo piano: sento le sue dita sulla mia schiena e, pochi secondi dopo mi accorgo che ha fatto saltare il gancetto del reggiseno.

Sopprimo l’ennesimo sussulto di panico che si fa strada dentro di me per il timore che le mie tette siano, in realtà, più cadenti di quello che mi ricordo:
“Andiamo in camera.”
“No.” protesto stizzita, premendo il mio petto nudo contro Alex per cercare di nascondere alla sua vista i difetti del mio corpo. “Io lo voglio fare qui."

La cucina è perfetta per noi. Riflette chi siamo e cosa amiamo; è il nostro terreno comune. È il luogo in cui siamo entrambi a casa ed è quello in cui sento di aver visto più di Alex.
Non c’era un posto più azzeccato per la nostra prima - e spero non ultima - volta.

Mi sussurra di non muovermi e promette di tornare subito prima di zompettare come un grillo verso camera sua, suppongo a caccia di precauzioni.
Pochi secondi dopo è di nuovo tra le mie braccia, sghignazzando come un cretino e baciandomi come se fossi la cosa più gustosa del mondo, mentre sale per l’ennesima volta su di me e, nel processo, si sbarazza anche degli ultimi indumenti che ci separavano.

Non ho il tempo di imbarazzarmi e non ho modo di far scorrere gli occhi su di lui perché, con due baci, ho di nuovo perso la capacità di concentrarmi: non so più se il tempo attorno a noi si è fermato o no ma, tra una carezza e un sospiro, mi trovo ancora con la schiena premuta sul marmo gelido e il calore di Alex su di me.

God, I want you so bad...” sussurra contro le mie labbra e le sue parole spengono l’ossigeno nei miei polmoni.

Lui vuole me. Vuole davvero me, non il sollievo che un po’ di squallido sesso può dargli. Vuole me, con la mia orribile personalità e i miei chili in eccesso.
Non mi ero mai sentita desiderata così, con tutta l’emozione che sento nella sua voce e con l’attenzione con cui le sue mani sfiorano la mia pelle. E questa consapevolezza mi fa agitare come se fosse la mia prima volta.

All’improvviso mi sento di nuovo insicura e la paura di non essere all’altezza si fa più reale quando il suo corpo si fonde con il mio: è un movimento lieve, gentile e delicato. Si muove lentamente, lasciando che la pelle dei suoi fianchi sfiori molecola dopo molecola l’interno delle mie cosce e il solletico del suo corpo sul mio diventa una dolorosa attesa che precede il disciogliersi di un calore che non so raccontare: così dolce, così scivoloso, così completo che sento ogni frammento della mia pelle rispondere a lui.
Una delle sue mani si sposta sul mio bacino, accompagnandolo verso il suo e nello stesso momento lo sento lasciare scorrere piano il ventre contro la mia carne, succhiando le mie labbra allo stesso ritmo con cui i suoi fianchi trovano i miei.

È una percezione così intensa che la scopro diffondersi dall’epidermide fino a dentro, la assaporo sulla lingua, la avverto assordante nelle orecchie e involontariamente, mi irrigidisco: allora Alex si ferma, baciandomi piano e accarezzandomi il collo con le labbra, conscio del mio improvviso nervosismo.

“Tutto okay?”
Sono più che okay. Sono incredula, suppongo.

Un cenno della testa sembra rassicurarlo e lentamente ogni cosa attorno a me diviene inconsistente, ovattata: ci sono solo Alex e i nostri movimenti lenti.
All’inizio sento le mie mani che tremano mentre gli accarezzo la schiena: i miei polpastrelli si nascondono tra i capelli morbidi che sembrano raccontare le sue reazioni a me. Mentre li sfioro e il suo respiro si spezza contro la mia gola, li sento alzarsi tra le falangi e li stringo con energia: una delle mie mani si muove involontariamente lungo il suo collo, seguendo il contorno della sua mandibola per arrivare ad accarezzargli la guancia calda e tesa. Quando scorro l’indice sul suo zigomo, un sospiro sfugge dalle sue labbra e il mio nome esce appena accennato insieme al suo respiro.

Stringe delicatamente le dita contro la carne del mio ginocchio, violando la regola che avevo imposto, ma sapere che è il suo modo di chiamarmi sua mi rende più audace: affondo le unghie nella sua nuca, tremando ogni volta che un impercettibile freddo accarezza la mia pelle quando i suoi fianchi si allontano dai miei, per tornare a baciarli pochi attimi dopo.

Ed è di nuovo calore. È ancora morbidezza. È sempre più sapore.

Le mie unghie lambiscono ogni centimetro della sua schiena: è una discesa calma, energica. Affondo nella sua pelle, sentendola increspare appena e trascino le dita lungo il suo corpo, diventando più vigorosa quando incontro una delle scapole e recuperando delicatezza sull’incavo appena prima del bacino. Lì mi fermo più a lungo per accompagnare il suo movimento contro di me.
Poi torno a esplorarlo piano, rallentando fino a trovare la curva tornita dopo i suoi fianchi, stringendo i polpastrelli attorno alla sua carne: faccio pressione invitandolo a trovare di nuovo una sintonia più profonda con me e ottenendo in regalo un bacio violento.

Il marmo è freddo e scomodo e per un secondo dubito di riuscire a seguire i suoi movimenti: ma le mie preoccupazioni si fanno polvere quando lo vedo ridere della nostra mancanza di sincronia e lo sento sussurrare di stare calma.
“Med, va tutto bene…”
“Sì, benissimo.”
“Perché sei così tesa?”
“Non lo so…” rispondo con onestà e le sue mani si spostano sul mio corpo con la stessa delicatezza con cui lui si muove con me, anche se le sue parole e le sue carezze non aiutano molto a farmi calmare.

Forse è la sensazione di essere sua finalmente. Anzi, probabilmente è più il fatto che lui sia mio: il modo in cui si lascia baciare, in cui cerca il mio tocco, quello in cui sfiora il mio corpo come se dovesse trattarlo bene.
Più le mie molecole si tendono, più il mio corpo diventa sensibile ad Alex e percepirlo così intensamente rende ogni mio senso più vivo.

“Sofia…” sussurra lui strofinando con languore il naso contro la mia clavicola e sentirgli pronunciare il mio nome così e adesso mi fa ridere.
“Dimmi Alexander…” rispondo sogghignando e la vibrazione ci fa perdere la sincronia per l’ennesima volta.

Lui si unisce a me nella risata, sollevando il viso e fermandosi su di me: mi fissa per qualche secondo dritto negli occhi, poi muove lentamente il bacino ed io non riesco a controllare le palpebre che si chiudono, assaporando i suoi gesti attenti.
“Apri gli occhi, Med…” è una richiesta appena sussurrata, ma il mio corpo non risponde ai miei ordini. Il caldo che irradia da lui sembra l’unica cosa che guida il mio essere e, quando si china sul il mio viso, il ricordo di Armani Code mi avvolge impercettibilmente e mi guida verso il suo collo: accarezzo il naso sulla sua pelle, alla ricerca disperata di quel frammento che, per un attimo, ha invaso il mio respiro. Poi la sua voce, leggermente tremante, mi distrae di nuovo e la sua richiesta fa diffondere un tepore ancora più penetrante nel fondo del mio ventre:

“Baciami…”

Sembra stupido, ma sentirgli chiedere di essere baciato mi fa sentire importante, come se lui avesse bisogno di me: è una realtà nuova, una gratificazione che non conoscevo. Quello che Alex mi sta facendo provare in questo momento tinge il sesso di sensazioni che non conoscevo.
 
I secondi passano e si fanno respiro quando smetto di preoccuparmi e mi decido ad assaporare lui.

Noi.

E, contro ogni mia previsione, siamo prefetti: imperfetti e impacciati a tratti, incerti e fuori tempo in alcuni momenti, ma sono a mio agio come non mi era mai successo con L. Le carezze ogni tanto si spezzano in risate e i suoi baci a volte mi fanno il solletico, ma il mondo si ferma e il mio corpo parla con il suo in un modo che non pensavo fosse possibile.

È tutto delicato, tiepido e piacevole.

Rido e mi sento viva. Il sesso non era mai stato divertente, non era mai stato ridicolo: ma con lui sto scoprendo una nuova me, che non si preoccupa di un atto meccanico ma che si diverte e ride mentre cerca una sintonia così difficile da trovare. La timidezza e l’incertezza svaniscono e lui diventa il mio complice, non il mio obiettivo.

Sento lui e sento me stessa più di ogni altra cosa al mondo. Per il tempo in cui siamo un’unica cosa il mio cuore accelera insieme al sangue che si diffonde nelle mie vene: il suo respiro affannato e spezzato diventa ossigeno per me, si fonde sulle mie labbra, posandosi leggero sulla punta della mia lingua e rendendo il gusto di Alex amplificato fino ad entrarmi nella pelle, correndo lungo i miei nervi, giungendo potente fino all’incontro di noi.

Laggiù. Dove non so più dire dove finisce lui e dove comincio io. È una cascata di calore che ha il sapore della sua carne che si appoggia alla mia, della sua pelle che sfrega contro la mia sempre più piano, ma più a lungo, come qualcosa che non riesco ad afferrare del tutto.

È lì, proprio, ad un niente da me: si fa rincorrere e si fa aspettare per non costringermi a smettere di sentire. Toccare. Assaporare.

Poi la sua pancia tesa si abbandona sulla mia per un secondo di troppo e, all’improvviso, mi trovo a respirare in modo affannato e a percepire i muscoli del mio corpo tendersi con una scossa che si scioglie in calore e, contro volontà, le mie cosce si stringono con dolorosa forza attorno ai suoi fianchi, animate da uno spasmo costante mentre tutti miei muscoli si contraggo attorno a lui. È il mio corpo che lo tira a sé, che lo avvolge, che lo tiene vicino con prepotenza e gratitudine.

Contratto. Rilassato.

Come se non sapesse se tenerlo stretto più a lungo o lasciarlo andare del tutto. Come se non capisse se lo vuole con sé o lontano da sé.
Le orecchie mi si tappano, o forse l’urlo del mio corpo è troppo forte per sentire altro. Le guance sembrano scottare, le mie dita diventano più sensibili alla morbidezza della sua pelle e le mie narici inspirano un odore che sa di piacere. Non vedo nulla e, nello spasmo interminabile, chiudo gli occhi percependo il caldo che si solidifica in piccole macchie di luce nel buio che pulsa sotto le mie palpebre.

Attento a ciò che il mio corpo gli sussurra, Alex si ferma per un momento, baciandomi forte e intrecciando le nostre dita, mentre il mio cuore cerca di tornare a battere ad un ritmo costante e il mio respiro si fa più lungo.

“Porca puttana.” esclamo in modo decisamente poco elegante e lui scoppia a ridere, affondando il viso contro la mia pelle e aspettando che io mi rilassi abbastanza da permettergli di ricominciare a muoversi.

That was fast...” sussurra stupito dalla rapidità con cui il mio corpo ha risposto al suo.
“Te l’ho detto che io sono veloce.” sghignazzo soddisfatta, prima di baciarlo e lasciare che recuperi il tempo perso e riprenda il ritmo leggero che, poco fa, mi ha tolto il controllo su me stessa.
Alex si prende il suo tempo e sentirlo con me, percependo il suo corpo che si tende e si rilassa, sembra dilatare lo spazio: non so per quanto i suoi respiri scandiscono i miei minuti ma, mentre incontro i suoi gesti e le mie dita corrono sui suoi capelli, i suoi denti mordono lievemente le mie labbra e la sua reazione a me diventa la cosa più bella che abbia mai assaporato.

Quando sussurra “Shit...”, sollevandosi per reggere il suo peso e rallentando, cerco di accompagnarlo come ha fatto lui con me, baciando la sua pelle e accarezzando il suo viso: stringe gli occhi con forza e smette di respirare per un secondo, abbassando la testa per incitarmi ad accarezzarlo ancora e ancora, mentre le sue braccia cedono. Si appoggia delicatamente contro di me, cercando veloce le mie labbra e, mentre mi bacia, riprende a sorridere.

“Dio mio...”
“Preferisco se ti rivolgi a me come a una donna.” scherzo premendo i polpastrelli contro la sua pelle per tenerlo vicino più a lungo e lui soffia l’ennesima risata sulla mia bocca.
Il silenzio si espande piano tra di noi e l’unico rumore che posso percepire è quello del suo cuore che pulsa contro di me: non si muove, rimane disteso sopra di me, accettando ogni carezza che accompagno sulla sua schiena e facendo scivolare ogni tanto le labbra sulla mia spalla.

È qui, ancora fuso con me mentre cerchiamo di ritrovare un respiro regolare e mi rendo conto che anche questa parte è nuova: nella mia vita intima, di solito, al piacere seguiva un senso di disagio, alimentato dal non sapere che gesti fare, se restare o alzarmi.

Per la cronaca, con L finiva sempre che, una volta ottenuto quello che voleva lui si spostava e si rivestiva, levandomi dall’impiccio di capire che posto prendere nei minuti successivi.
E invece Alex non accenna a muoversi: resta disteso contro la mia pelle, respirando il mio odore e dicendomi piano:
“Sai di buono.”
“So di te, cretino.”

Sollevo il suo viso, guardandolo dritto negli occhi, confesso:
“Dio, se ne valevi la pena.”

E il sorriso che si anima sulle sue labbra è qualcosa che non avevo mai conosciuto.







AN: Non so come qualcuno possa essere sopravvisuto fino a questa nota d'autore finale ma, se qualcuno è vivo, sento il dovere di dirgli: io ti stimo.
So che è stato (forse) il capitolo più lungo e mi scuso con chi non ama aggiornamenti simili: sono, in qualche misura, parte del mio stile, ma faccio ammenda per aver affaticato i vostri occhi. Ho eliminato l'eliminabile, poi è arrivata la Beta e ha richiesto aggiunte... quindi, per gli insulti, mi sento di smezzare con lei la responsabilità :D

Confesso che questo è stato (fino ad ora) il capitolo più difficile in assoluto da scrivere per me: costringere Med a affrontare la sua famiglia e raccontare la sua intimità con Alex sono state due imprese che mi hanno prosciugata. Sul serio. Per il racconto... ehm... caliente è una novità e sono una principiante... quindi mi ha richiesto diversi sforzi.

Inutile dire che sono mortificata per l'attesa e per il tempo che questo capitolo ha richiesto: chi è nel gruppo sa che, per la mia non-gioia, le lezioni si succhiano quasi tutto il mio tempo durante la settimana e le ore per scrivere che mi restano sono molte meno di quelle che avevo previsto di potermi ritagliare. In più il mio portatile è deceduto improvvisamente, portando con sé il 75% di quello che avevo già scritto e costringendo a ricominciare dal principio.
Spiegazioni a parte, capico che l'attesa sia frustrante e non posso che rinnovare le mie più sentite scuse a tutti: mi dispiace davvero tanto. Ho cercato di fare il possibile e (forse) il capitolo è così lungo anche per cercare di farmi perdonare per la lentezza.
Mi scuso anche se ci sto mettendo 25 anni a rispondere alle splendide recensioni che mi lasciate: ho la rapidità di una tartaruga anche con quelle ma sto cercando di recuperarle tutte... Ne riesco a fare solo poche al giorno ma, lento lento riuscirò a ringraziarvi singolarmente. Le vostre parole sono il regalo più bello e mi ricordano perché TuttoTondo non la posso e non la voglio abbandonare.
Il mio più sentito grazie a chi ancora resiste, alla mia Beta Letizia (senza cui io conoscerei un decimo di quello che scrivo e che mi spinge oltre ogni mio limite e confine) e alle instancabili TuttoTondine che, ogni giorno mostrano la loro passione, allegria e affetto: siete state tutte la scoperta più bella che EFP mi potesse regalare!

Grazie di cuore a tutte e perdonatemi!









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Capitolo 14
*** Fragole e Vongole ***


Capitolo 14


Licenza Creative Commons
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia

Previusly on TuttoTondo:


Con qualche disavventura si scopre che Jules non ha messo in cantiere un piccolo bebé, ma le ansie per Med non sono destinate a svanire. Arrivato il giorno del pranzo a casa sei suoi, messa alle strette, confessa di non voler concludere l'università. La cosa provoca una comprensibile stupore e rabbia nei suoi, in particolare nel padre. Deluso si mostra meno compresivo della madre, incitandola a decidere cosa vuole per il proprio futuro e interrompendo il dialogo; fortunatamente Med può contare sul sostegno del fratello Michele.

Al ritorno dal pranzo, la nostra pasticciona, trova Alex che la attende impastando una focaccia; poche parole sull'incontro con la famiglia e l'aria si scalda, portando i due coinquilini - finalmente - a consumare sul bancone della loro cucina. E lì li abbiamo lasciati:

"E invece Alex non accenna a muoversi: resta disteso contro la mia pelle, respirando il mio odore e dicendomi piano:
“Sai di buono.”
“So di te, cretino.”

Sollevo il suo viso, guardandolo dritto negli occhi, confesso:
“Dio, se ne valevi la pena.”
E il sorriso che si anima sulle sue labbra è qualcosa che non avevo mai conosciuto."




Capitolo 13


Fragole e Vongole



Post-coito: dicesi post coito l'imbarazzante momento successivo al rapporto in cui non si sa bene cosa fare o dire. Non c'è una modalità standard da mettere in atto. Dipende dal partner e dalle circostanze.

Ecco, le mie circostanze non sono delle migliori: sono nuda sul bancone della mia cucina con il mio coinquilino in procinto di abbandonare le mie rotondità e io non ho idea di cosa fare. Salto giù dal ripiano e corro verso la mia camera sperando che non si accorga della vibrazione budinosa del mio corpo? O mi fingo una languida donna sensuale e mi muovo con gesti lenti, distraendolo con la mia arte oratoria? O, ancora, mi copro con tutti i canovacci della cucina prima che lui sia riuscito a dire focaccia?
Inutile annunciarvi che io opto per la prima ipotesi, lasciando un Alex che si rimette le mutande attonito alle mie spalle.
Pochi minuti dopo compare sulla soglia di camera mia in boxer e maglietta, dandomi della pazza nevrotica e avvicinandosi placido al letto.

Post-post-coito: dipendentemente dalla situazione, le persone tendono a condividere il tempo successivo all'atto o meno, dedicandosi a diverse attività. C'è chi fuma e chi mangia. C'è chi si fa le coccole. C'è chi discute la propria performance. E c'è chi dorme insieme.
Poi c'è chi se ne va e chi si trova da solo.

Io sono spesso rientrata nell'ultima categoria.
Alex non lo so, ma da come si è seduto sul mio letto sospetto rientri nei gruppi chiacchierata o dormiamo insieme. Fatto che potrebbe rivelarsi problematico, perché io non condivido il mio spazio. Il mio letto è... Beh, mio.
"Che succede?" Chiede divertito mentre traffico col copriletto per assicurarmi che non mostri troppo del mio corpo. È ridicolo, me ne rendo conto.
"Nulla..."
"Hai intenzione di diventare tutta strana, ora?"
"Sono già strana."

Poi un insopportabile silenzio ci avvolge.
Ecco, questa era una cosa che non avevo preventivato e che mi spaventa un po’: non avevo calcolato che tra me e Alex potesse crearsi un pesante disagio post sesso. Il che è stupido, dato che lui stesso aveva avanzato il timore che farlo avrebbe complicato tutto, ma ora che siamo uno di fronte all’altra non so bene cosa dobbiamo fare.
“Med, è inutile che ti copri... Ho già visto tutto.”
“Beh, ma prima non avevi tempo di analizzare nel dettaglio col tuo occhio bionico.”
“Ti assicuro che ho osservato tutto quello che volevo” ridacchia piegandosi verso di me per darmi un bacio e, involontariamente, mi irrigidisco.

Ora cosa devo fare? No, davvero, cosa devo fare con lui? Abbracciarlo? Offrirgli di dormire con me? Parlargli della qualità della sua prestazione? Cosa?
Io non sono pratica; non sono brava nel prima o nel dopo, forse sono mediocre anche nel mezzo e non ho esperienza della parte più umana delle relazioni con un maschio. Rischio costantemente di fare qualche cazzata.
Al contrario lui non sembra per nulla attraversato dai miei stessi dubbi amletici: anzi, pare a suo agio forse anche più di prima. Fatto assurdo, considerato che l’ho visto nudo come un verme e ha pure rischiato di fare cilecca.
Si alza dal letto tirando le coperte fino a coprirmi il viso; poi, ridendo, si sposta in salotto mentre mi chiede:
“Che mangiamo? Ordiniamo giapponese?”
“Mi fa cagare il giapponese.” bofonchio cercando di liberarmi dalle mie malefiche lenzuola.

“Sempre delicata, eh... Cinese?”
“Schifo uguale.”
A questo punto sono seduta sul materasso, le braccia incrociate sul petto a stringere il copriletto per proteggere il mio torso ancora nudo e lo osservo starsene lì in piedi in mezzo al soggiorno in boxer e maglietta, mentre si gratta la testa dubbioso.
“Scintilla, sei una rompiballe.”

Sparisce per qualche minuto dal mio campo visivo e io ne approfitto per cercare di raggiungere il pigiama ma, prima che io faccia in tempo ad alzarmi, lui ricompare sulla soglia di camera mia con un pacco di Cipster in mano e, con fare rilassato, si siede ai piedi del letto. La cosa - ovviamente - mi pone in una situazione problematica: per raggiungere le patatine sarei costretta ad abbandonare le lenzuola, ma abbuffarmi accanto al mio coinquilino in stato di nudità non è esattamente una situazione ideale. Il dilemma si fa più reale quando lui si sdraia sul letto, allontanando sempre di più la confezione da me per poi chiedere:
“Ne vuoi? Avanti Sofia, vieni a prenderle.”

Certo che ne voglio, ma se mi piego in avanti per arrivare a lui, il mio culo troneggerà su di noi... nudo. Non è un bello spettacolo, contrariamente a ciò che Alex sembra pensare.
“Non ho fame, grazie.”

Cazzata. Enorme cazzata. Quando ci sono le patatine di mezzo io non dico mai di no, ma non vedo come potrei raggiungere il cassetto della biancheria senza esporre le mie pudicizie;  Alex è assolutamente consapevole della cosa.
“Sì, invece.”
“No.”
“Med, tutto ciò è ridicolo. Abbiamo appena fatto sesso, so benissimo cosa nascondi lì sotto, quindi smetti di fare la ritrosa e fammi dare un’occhiatina più attenta.”
“Tu ti sei rivestito. Perché io devo restare nel mio outfit naturale?”
“Per il mio piacere personale.”
“E il mio di piacere?” lo provoco, cercando di spostare l’attenzione altrove.
Lui sorride prima di abbandonare le Cipster a terra: posa le mani sull’elastico dei suoi boxer e li fa scivolare verso il basso di qualche centimetro, tenendo gli occhi fissi su di me.
“Cosa fai?”
“Pareggio la situazione.”
“Spogliandoti?”
“Non devo?”

La sua provocazione è arguta: se dico di sì, sarò costretta a restare senza vestiti. Se mi oppongo al suo strip tease, non potrò godermi i suoi muscoletti e mi dovrò comunque alzare dal letto per trovare dei vestiti. Praticamente sono fregata.

“No, cioè... devi... Oddio, ecco... puoi.”
Se fossi in lui ora mi stringerei la mano per la figura pietosa che sto facendo; quindi, schiarendomi la voce, cerco di assumere un'aria indifferente e autorevole.
“Non lo so... però potresti levarti dalle palle due minuti, così io posso rivestirmi senza sentirmi in vetrina.” protesto indicando la porta speranzosa, ma lui sembra avere un’altra idea.
I suoi occhi sorridono e, lentamente, si inginocchia sul letto.
Senza spostare lo sguardo da me, afferra il bordo della sua maglia, sollevandolo verso l’alto piano e scoprendo millimetro per millimetro prima il suo ventre, poi il torso. Io mi ritrovo a scrutarlo con le fauci spalancate, un po’ per lo stupore, un po’ per il languore che le sue azioni sembrano risvegliare in me.
Assaggerei volentieri un altro po’ di Alex al posto delle patatine.

Mentre rifletto sulla cosa, lui si sbarazza della t-shirt e gattona verso di me a petto nudo: si muove piano sul copriletto, sicuro e divertito da se stesso. Pochi secondi dopo il suo naso sfiora il mio costringendomi ad indietreggiare e abbandonarmi un po’ al materasso. Una delle sue mani raggiunge le mie, invitandomi a spostarle sui suoi fianchi: inutile dire che io non mi oppongo, restando in balia dei suoi gesti quando mi costringe a sdraiarmi.

Le sue dita, poi, si impossessano delle lenzuola e, con gli occhi ancora incollati ai miei, le fa scivolare fino al mio basso ventre. Deglutisco a fatica per un secondo, cercando di ricordarmi come si fa a respirare, un po’ a disagio ma terribilmente curiosa di scoprire cosa abbia in mente.

Il suo sorriso svanisce per qualche attimo e, lentamente, le sue labbra si spostano in prossimità del mio ombelico, per poi incontrare la mia pelle: lascio che gli occhi si chiudano e mi concentro solo sulla sua lingua che scivola contro di me, alternandosi a baci impercettibili e lievi morsi.
“Che stai facendo?” chiedo piuttosto sicura di sapere la risposta alla domanda, ma il suo silenzio non mi offre informazioni. Sento che intrufola le mani sotto di me, stringendo le dita attorno ai miei fianchi prima di lasciarle correre fino alla parte bassa della mia schiena. Facendo pressione mi invita a sollevarmi un po’ verso di lui, sposta la bocca lungo la mia carne e risale verso il mio seno. Lì le sue labbra indugiano, premendosi ripetutamente contro la mia epidermide e succhiando con delicatezza: accarezzandogli i capelli, lascio scorrere le unghie lungo le sue spalle, ogni imbarazzo ormai lontano dalla mia mente e tutta la mia attenzione catalizzata da quello che la sua bocca mi sta facendo.

Ma Alex non finisce mai di stupirmi e, proprio quando penso di sapere tutto questo a cosa stia conducendo, le sue braccia mi sollevano con forza dal letto, mentre il suo viso trova il mio e preme qualche bacio sulle mie labbra.

“Su le braccia.” ordina in un sussurro contro la mia bocca e enfatizzando le parole con i gesti: tira i miei polsi verso l’alto, abbandonando le mie labbra e afferrando la sua maglia, dimenticata pochi minuti prima accanto a noi.
Io me ne sto lì imbambolata, con le braccia tese e il busto scoperto, osservando confusa quando sbatte un paio di volte l’indumento e, sorridendomi, intrufola i miei pugni nelle maniche della t-shirt; scorre le dita sulla mia pelle lentamente, fa cadere un bacio sulla mia bocca e, quando sono distratta, lascia scorrere il collo della maglia oltre la mia testa, infilandomela.

“Ma che stai…”
Shhhh... let me play.” sibila Alex mentre le sue mani guidano il cotone oltre le mie spalle, per poi portare nuovamente il viso sul mio corpo; scende con una lentezza dolorosa dalla mia clavicola fino al mio seno, leccando la mia pelle mentre trascina con sé la maglia lungo il mio corpo, in una discesa di baci spezzati da momenti in cui scopre i punti sensibili che lo invitano a succhiare delicatamente la mia carne. Prima sullo sterno. Poi sul lato di un seno. Poi ancora oltre, più in basso, dove si incontrano le coste. E più giù, sulla vita, proprio dove ho sempre pensato di soffrire il solletico; lì sento pizzicare lo stomaco dall’interno e trattengo il respiro.

Strofina il naso sulla mia pelle, accarezza impercettibilmente il mio ombelico con la lingua, per abbandonarlo un secondo più tardi in favore della parte più bassa del mio ventre.
Lungo tutta la discesa le sue dita non abbandonano mai il tessuto della maglia, che guida fino alla fine del mio busto e l’unica cosa con cui studia il mio corpo, è la sua bocca: poi, con un bacio più rumoroso, la sistema con cura e si rotola accanto a me, cercando i miei occhi.
“Dove tieni le mutande?”
“Io dormo senza...” sussurro senza pensare e lui mi guarda come se avesse vinto al SuperEnalotto.

Forse non lo dovevo dire: forse dovevo atteggiarmi a gatta morta e dirgli che quelle di pizzo le tenevo accanto ai preservativi.
Il problema è che io non possiedo né mutande di pizzo – che personalmente ritengo dannose per la salute, con tutte quelle decorazioni che riescono ad infilarsi in posti impensati e a grattare ogni strato epidermico presente, passato e futuro -, né preservativi: se Alex non avesse sfoderato il suo, avremmo dovuto sospendere la sessione. Di nuovo. Il che sarebbe stato inaccettabile.

Devo farmi un post-it: comprare un autotreno di preservativi. Entro domani.

“Dormi davvero senza mutande?” mi chiede squadrandomi con occhi adoranti e io non posso non ridere: ai maschi basta poco per andare in estasi.
“È un problema?”
“Solo se stai mentendo...” sghignazza prendendo un cuscino e cercando di scagliarmelo in faccia.
“E con questa mossa ti sei perso qualunque possibilità di scoprire se è vero.”

Basta questo per trasformare la sua espressione divertita in una più simile a quella legata ad un lutto e, di fronte al suo sguardo deluso, non posso che dire:
“Però puoi ancora scoprire se porto i pantaloni del pigiama...”
“Pigiama... quello che indossi tu ha più l'aspetto di un sudario.”
“Testa di cazzo!”
“Solo tu mi sai sedurre con un insulto!” sghignazza afferrando i miei polsi e bloccandoli contro il materasso. “Ora guidami verso i tuoi elegantissimi pj... Devo ancora scoprire metà di te, coprendoti.” il suo è un ordine appena sussurrato contro la mia carotide e, con la mia ormai nota  forza di volontà, mi trovo a dichiarare con voce impotente:
“Nel primo cassetto dell'armadio...”

Le sue labbra seguono tutto il mio corpo, dalla spalla destra, baciando la pelle anche se coperta dal cotone della sua maglia, fino alla coscia ancora scoperta; quando giunge a contatto con la carne nuda, però, il suo tocco si fa più rapido e meno accurato, con mio enorme disappunto.
“Torno subito, Scintilla. Non tirare fuori delle mutande dalla manica e, soprattutto, non te le infilare!”

Quanto è cretino. È un vero imbecille, e io lo rivoglio qui. Ora.
Mi dà le spalle, piegandosi verso uno dei cassetti del mio guardaroba e chiedendo istruzioni su dove cercare, spazientito quando io decido di non rispondere; opto, invece, per godermi ogni muscolo delle sue spalle che si contrae e si distende. E la cosa mi rende schifosamente felice.
L tutta quella roba lì non ce l'aveva: era secco come una prugna e esile come non sarò mai io nei miei sogni più remoti. Ma Alex... Ah, Alex ha una graziosa schiena asciutta ma gradevolmente
consistente: niente di troppo muscoloso. Anzi, a guardarlo credo che non abbia mai sollevato un peso in vita sua, ma le sue spalle hanno tutta l'aria di essere solide. Lo erano pure al tatto, a dirvela tutta.

Mentre io mi abbandono alla piacevolezza della sua figura, lui si volta con aria trionfante e sventola un paio dei miei pantaloni a quadrettoni.
“Se non avessimo già consumato, questi invaliderebbero ogni mio desiderio di scoprire la tua zona sud.”
“Che tanto è già scoperta, quindi i tuoi pareri inutili sul mio guardaroba perdono di importanza. Ora lanciameli che inizio a sentirmi a disagio con tutto di fuori.”

Lui, però, ignora la mia richiesta e, senza tanti fronzoli, raggiunge rapidamente i piedi del letto; con gli occhi fissi sul mio viso, si porta i pantaloni alla bocca.

This is my game, I'm still not done playing.” e stringe l'elastico della vita tra i denti.

Il suo gioco. E lui non ha finito di giocare.
Beh, chi sono io per interrompere un così essenziale momento ludico? Nessuno, non sono proprio nessuno. Se vuole smontarmi e rimontarmi come un puzzle, potrei anche lasciarglielo fare.
Le sue mani si avvolgono attorno alle mie caviglie, tirandomi con forza verso di lui: io penso solo che la mia zona sud – come l'ha chiamata lui – è completamente esposta e che, dalla sua posizione, c'è ben poco da coprire.
Poi, per grazia divina, lui si siede sul materasso accanto a me, mentre le sue dita disegnano la mia pelle: dal collo del piede, correndo lungo il polpaccio, passando oltre le ginocchia, fino alla coscia, dove l'epidermide è più sensibile e la carne più morbida.
Sale lentamente di qualche centimetro prima di fermarsi e ripercorrere la strada al contrario: con un movimento deciso infila i miei piedi nei fori del pigiama, accompagnando i pantaloni fino a dove si era fermato poco prima.
Stavolta, però, ad anticipare le sue mani sono le labbra che con sicurezza fanno cadere baci lunghi e attenti: prima su una caviglia, poi sull'altra. Mi invita a poggiare i talloni contro di lui, piegando le gambe così da permettergli di raggiungere il retro delle mia ginocchia e, anche lì, indugiare con la bocca contro di me, con la lingua che sfiora per un attimo la mia pelle.

Non vorrò mai più vestirmi da sola, credo.

La sua risalita lenta è una vera e propria agonia: agonia con cui potrei tranquillamente convivere per molti anni a venire. Convivere con lei sarebbe più facile che convivere con Alex.

Sale ancora, solleticandomi la carne con le dita, ridendo quando un sospiro ridicolo mi sfugge, ma senza fermarsi; i baci si fanno più ravvicinati e sento il cotone dei pantaloni sfiorarmi quasi i fianchi, mentre la sua voce mi sussurra:

“Ho bisogno di una mano, qui.”
Quindi alzo di poco il bacino e, dopo un ultimo tocco di labbra sull'interno coscia, Alex assicura il pigiama sul mio corpo lasciando andare l'elastico con un po' troppo entusiasmo, sollevandosi fino a trovare la mia bocca per un bacio veloce e forzato.

A questo punto sarei propensa a levarmi tutto di nuovo. Bel gioco. Lo dobbiamo fare più spesso.

Sorridendo contro di lui, porto le mani tra i suoi capelli cercando di spingerlo un po' più vicino:
“Che bei giochi conosci, Aleman. La prossima volta lo faccio io...” e lui emette un suono gutturale che credo sia di approvazione.
“Non ho ragioni per cui oppormi. Però ora ho fame.”

Ammettiamolo: una frase del genere sembra richiedere assolutamente una risposta del tipo“Di me?”, ma se dovessi davvero pronunciarla la mia immagine ne uscirebbe ancora più danneggiata.
Accompagnandolo giù dal mio corpo fino al materasso, quindi, decido che – vista le delizia che mi ha appena dedicato – posso anche cedere sul cibo e farmi portare un riso alla Cantonese. O qualcosa di commestibile.

Nelle ore che seguono, dunque, mi trovo seduta sul pavimento del nostro salotto; la schiena appoggiata al vetro spalancato della porta-finestra del nostro soggiorno e Alex accovacciato di fronte a me.
Uno dei suoi piedi è poggiato sulle mie ginocchia, mentre tiene l'altra gamba piegata e trangugia una cosa che odora di schifo: cioè, per chi ama il cinese sarà una leccornia, ma io fatico a non insultare il mio riso alla cantonese. Che poi è riso bollito con piselli, semi di soia e qualche altro mistero.

Appoggio la testa contro il vetro dietro di me, godendo di una fresca brezza che soffia da fuori e ascoltando Alex mentre mi spiega come funziona una brigata di cucina: non so come siamo arrivati a parlare di questo, e sono cose che più o meno già so – visto il lavoro di mia madre – ma  lo sento parlare con così tanta passione ed entusiasmo che non posso interromperlo.
Spesso allontana gli occhi da me per osservare il contenuto del suo piatto, sorseggiando una Coca-Cola – cosa diavolo ci azzeccherà una Coca-Cola col cinese? - e mi rendo conto di non averlo visto mai così sciolto.
Di non essermi mai sentita così rilassata con lui neppure io.

Niente frecciatine, niente rabbia, niente tensione sessuale, niente provocazioni: solo la piacevole sensazione di sentirsi a proprio agio comunque, senza costruzioni e senza elucubrazioni mentali.
Forse è proprio l'aver smesso di pensare, di proteggersi: la stanchezza, o la sua voce, hanno alleggerito tutto e, mentre parla, sorrido piano e sento le palpebre farsi più pesanti.

Non so quanto stiamo seduti lì, a parlare di cucina e di cibo e a rinfrescarci con la poca aria che giunge fino al nostro appartamento: non mi importa molto dello scorrere dei minuti.
Non mi sembra più neppure la stessa giornata: i ricordi dei miei genitori e delle mie confessioni sono lontani anni luce da me.

“Mi porti in braccio a letto?” chiede ad un tratto lui sbadigliando e i miei occhi cercano l'orologio appeso alla parete, per scoprire che si è ormai fatta notte.
“No, sei un ciccione. Pesi troppo. Se vuoi possiamo strisciare come vermi verso le camere.” sorrido muovendomi verso di lui, stiracchiandomi e enfatizzando il più possibile il plurale camere.
E lui coglie al volo.

“Non vuoi che dormiamo insieme, vero?” sussurra quando le mie labbra sfiorano le sue; per un momento temo che la cosa possa essere un problema, eppure annuisco lo stesso.

No, non voglio che dormiamo insieme; non voglio condividere il mio letto con qualcuno: non ho mai condiviso il mio letto con un ragazzo con cui sono stata a letto.
Certo, a dirla tutta non era esattamente una scelta mia, ma non riesco a dirgli di sì.
“Non sarebbe la prima volta, lo sai vero?”
“Non abbiamo mai dormito tutta la notte insieme: tu te ne sei andato dopo un po' che mi ero addornemtata, no?"
"Yup... scalciavi come un toro."
"E non eravamo nel mio letto, ero nel tuo. Io, da persona altruista, avevo ceduto il mio a Bet e J.”
“Se è un problema il mio è ancora disponibile...” suggerisce sollevandosi da terra e porgendomi una mano.
“Tu vuoi che dormiamo insieme?”
“Onestamente, Scintilla? Non lo so.” risponde mentre una delle sue mani si intreccia con la mia e  trascinandomi attraverso il soggiorno, fino alla porta della mia stanza.

Mi appoggio contro lo stipite, cercando di non sentirmi in colpa per avergli rifiutato l'ingresso al mio letto e provando sollievo quando si china a baciarmi un'ultima volta, sussurrando:

“Direi che possiamo tenere questa prima volta per altre occasioni...”
“Non è che non ti voglio qui... è che mi fa strano.”
“A dirla tutta, credo sia un bene: viviamo insieme, qui è difficile muoversi a tappe... Una cosa alla volta, giusto?”
“Giusto...” bisbiglio tirando il suo viso al mio e premendo le nostre labbra tra loro.

Poi si allontana, mi tira un piccolo sculaccione e mi invita ad andarmene a letto; quando esce dalla mia stanza e chiude la porta dietro di sé, l'ultima cosa che gli sento dire è:

“Sognerò di te e di quelle mutande latitanti...”

Il week-end si avvicina ed io, Bet e Jules ce ne stiamo sdraiate al parco: io nascosta sotto l’ombra di un albero, mentre tengo un libro appoggiato sulle ginocchia, gli occhiali da sole che mi riparano da una luce fastidiosa, e gli occhi chiusi. Le mie amiche, a pochi passi da me, hanno le magliette arrotolate fino sotto il seno e cercano di catturare con la loro pelle qualche raggio di sole di città.
Jules sfoglia un mensile distrattamente mentre Bet, accanto a lei, riassume le mie ultime rivelazioni.

“Quindi hai confessato tutto alla famiglia e consumato con Alex in un solo giorno.”
“Med, la mia stima nei tuoi confronti aumenta di ora in ora da quando ti sei liberata di L. Quindi che pensi di fare con i tuoi?” annuncia Jules senza spostare gli occhi da un trafiletto del suo giornale, ma la nostra amica bionda la interrompe prontamente:
“Aspetta, di quella roba ne riparliamo: io prima voglio sapere di Alex.”
“Che c’è da sapere? Abbiamo fatto sesso, mica progettato l'idraulica di una casa fatta di Lego!”
Le ragazze di fronte a me scuotono contemporaneamente il capo, riportando la conversazione su ciò che le interessa.
“Come ce l’ha?”
La domanda di Bet giunge poco chiara alle mie orecchie e, per un secondo, spero che la mia amica non stia affrontando in un giardino pubblico l’argomento pacchetto di Alex.
“In che senso?”
“Hai capito benissimo, non fare la finta tonta.” ribatte Jules, prima di levarsi gli occhiali da sole e portare lo sguardo su di me.
“Normale...” rispondo aggrottando la fronte e cercando di immaginarmi di nuovo l'oggetto in questione, salvo rendermi conto che le immagini sono poco nitide nella mia mente e arrossire quando realizzo cosa sto cercando di ricordare.

“Normale... normale vuol dire piccolo.” puntualizza Bet con un’espressione triste “Che delusione; non aveva la faccia da piccolo.”
Jules annuisce, battendo un cinque con la bionda al suo fianco per mostrarle sostegno e approvazione.
"Non ce l'ha piccolo! È normale! Non è un Nautilus, ma è dignitoso." protesto accorrendo in difesa di Alex, lievemente imbarazzata per la piega che la conversazione minaccia di prendere.
Le mie parole, però, non sembrano soddisfare a pieno Jules che, con aria sempre più curiosa, insiste:
“Comunque normale non vuol dire nulla: cerca di essere più dettagliata!”
“Non sono stata ad analizzarlo centimetro per centimetro!”
“Perché no?”
“Perché ero troppo occupata ad assicurarmi che questa volta...”
“... entrasse nel tuo garage?” conclude lei di fronte al mio indeciso silenzio, sorridendo maliziosa e inarcando un sopracciglio.
“Esattamente!”

Bet si mette a sedere e si scambia uno sguardo complice con Jules che si limita ad ammiccare:
“Dai, descrivicelo! Voglio dire: è elegante?…”
All'aggettivo mi trovo ad assumere un'espressione confusa: elegante in che senso? Nei modi o nell'aspetto? Perché mi sembra di ricordare i modi fossero abbastanza educati.

Non posso credere che ci stiamo addentrando in questa conversazione mentre siamo in un parco con gente che passeggia e padroni che fanno fare i loro bisogni ai cani.

Ma le mie amiche non sono intimidite dall'ambiente che ci circonda e proseguono sempre più entusiaste, abbandonandosi ad una serie incomprensibile di attributi che potrebbero essere associati a qualunque cosa, tranne a quello di cui stiamo parlando. Io resto ad ascoltarle basita, un po’ dalle parole che dicono e un po’ da quanto lungo stia diventando l’elenco: insomma, non pensavo certo che - con le sue due funzioni - potesse essere descritto in modo così entusiastico. Soprattutto, però, mi inquieta la possibilità che le mie amiche abbiano conosciuto tutti qugli uomini in senso biblico, ma Jules mi rassicura affermando che il variopinto elenco è da ricondursi ad anni di confronti con le amiche.

Credo che non riuscirò mai più ad approcciare il sesso nello stesso modo: ogni volta che ho conversazioni tipo questa, mi chiedo se noi tre siamo un caso anomalo o se tutte le donne parlano in modo così esplicito. Onestamente ho sempre ritenuto menzognera l'idea che solo i maschi avessero scambi pochi raffinati nei racconti dei loro incontri sessuali.
"Sentite: ha un pisello normale. A forma di pisello e con tutte le proprietà di un pisello. Punto."
"Almeno è oligominerale?" scherza Bet, divertendosi in modo fastidioso per la sua battuta troppo cretina e ricevendo un lieve spintone da Jules.

Mentre loro si abbandonano a qualche insulto acido, io mi trovo a riflettere su una cosa: la mia durata.
Non che non abbia apprezzato la cosa ma, a dirla tutta, credo ci sia stato un problemino conseguente alla velocità con cui sono giunta alla meta.
Quale occasione migliore per confrontarmi con le mie amiche?
Quindi, gattonando verso di loro, chiedo a voce bassa:
"Voi ce l'avete il periodo refrattario?"
So che è un evento che non concerne le donne, ma non saprei come spiegarlo diversamente.

Alla mia domanda Bet e Jules si voltano confuse e restano in silenzio con uno sguardo interrogativo dipinto sul viso.
"Capite di cosa parlo?"
"No." ribatte Bet secca, agitando la testa; ma Jules continua a non parlare, in attesa che io spieghi meglio il mio dilemma .
"Una volta che avete raggiunto l'orgasmo… Voi siete fresche e attive come prima? Non… beh, ecco… non avete una specie di blocco?"
"Di blocco…" ripete la mia amica riccia incrociando le braccia.
"Sì. Come se aveste bisogno di un pit stop…"
"Come un calo del desiderio?" prova a suggerire Bet indecisa, probabilmente disorientata dalle mie parole: lei, chiaramente, non ha mai sperimentato nulla di simile. Jules, diversamente, con il suo silenzio, sembra avere un'idea di quello che sto dicendo.
"Sì. Come se, fatto quello che dovevate fare, non aveste più tutta questa voglia di proseguire. Insomma… Come se riprendere fosse fastidioso… stancante."
"Ti si affatica la pisella?!"

La pisella. Non lo posso sentire.

"Non la chiamare pisella! Comunque sì, più o meno."
"No, a me non capita mai. Io sono sempre in attesa del bis…" riflette la bionda di fronte a me, picchiettandosi l'indice sul mento e alimentando il mio timore di avere qualche disfunzione.

Errata corrige: forse il sesso non mi piace come penso.

"A me capita." dichiara Jules orgogliosa e un sorriso si dispiega sulle sue labbra. "Che problema c'è? Io a volte mi distraggo: è normale, la mia parte l'ho fatta."
Le sue parole mi fanno tirare un breve respiro di sollievo ma, allo stesso tempo, mi conducono alla domanda successiva:
"E che cosa fai?"
Bet ha un'aria allibita e, in silenzio, sposta lo sguardo da me a Jules.
"Niente. Cosa devo fare? Aspetto che anche lui faccia quello che deve."
"E lui non se ne accorge?"
"Ovviamente: più di una volta sono stata invitata a mettere le mani da qualche parte per mostrare un minimo di coinvolgimento."

Il sangue mi si gela nelle vene. Quindi, assodato che la mia frinfi non ha malfunzionamenti, Alex potrebbe essersene accorto.
"Med, dove sta il problema?"
"E se Alex l'ha sentito? Oddio, magari sono stata una scopata di merda!"
"Perché sei venuta per prima? Tesoro, ne dubito. Credo che la cosa lo abbia solo gratificato."
Ma le parole di Bet non mi fanno sentire affatto meglio: nessuno può apprezzare una vagina non collaborativa e non ricordo proprio quanto la mia lo sia stata con Alex.
Di fronte alla mia espressione perplessa, la mia amica bionda prosegue con le sue argomentazioni:
“Med, mica ti si liofilizza appena raggiungi l’orgasmo! Ti fai troppi problemi...”
“Che ne sai? Magari sono davvero stata mediocre e la mia flash vagina ha compromesso la mia prestazione!”
“La difficile vita di una Flash pisella...”
Mentre io e Bet contempliamo i pro e i possibili contro dell’orgasmo veloce, Jules recupera il suo giornale e scorre velocemente le pagine, alla ricerca di qualcosa; poi, avvicinando la rivista al viso, annuncia:
“Se hai timore di essere mediocre, potresti provare questo. Senti qui...” e comincia a leggere:
Seduci i capezzoli: Se hai confidenza con i principi del Qi e del Prana...”
“Del che?!” chiede Bet, ma la domanda resta ignorata, mentre Jules prosegue.
“... sappi che labbra, capezzoli e genitali sono collegati da un circuito energetico. Con lui, fai una prova: durante il coito, ferma il bacino. Poi comincia a toccare i capezzoli del partner. piano, con un pizzico, quindi tirandoli...”

“Jules, per l'amor del cielo, smetti di leggere! Non voglio sapere come prosegue! Che giornale è?!” sono sempre più inorridita e la sola idea di sedurre i capezzoli crea in me la disturbante immagine di due capezzoli come individui. Come due gemelli, nello specifico, che camminano l'uno accanto all'altro in attesa che qualche donna li corteggi. Uno dei due fuma anche una sigaretta e sfoggia un piercing ad anellino che lo avvolge tutto.
Terribile.
“È Glamour!”
“Ma perché leggi Glamour? Sei psicologa, non si leggono quelle porcherie!” la apostrofa Bet, anche se potrei scommettere una mano che, durante la lettura, ha preso appunti nella sua testa per verificare se i capezzoli di J sono seducibili.
“Sono anche femmina!”
“Va bene, ma non vedo come quella roba risolva il mio problematico dubbio sul periodo refrattario.”
“Non lo fa. Cercavo di cambiare argomento perché stavi drammatizzando troppo.”

Drammatizzando troppo: non è mai troppo quando c'è di mezzo la possibilità che le tue prestazioni sessuali siano scadenti. E io ho fatto un solo tentativo con Alex: se ho fatto flop, c'è il rischio che non mi conceda il bis. Alla fine mi ha rivestita quando mi aveva lì tutta nuda: è stato possibilmente più eccitante di quando mi ha spogliata, ma potrebbe anche essere un cattivo segnale.

“Mi ha rivestita, dopo.” confesso alle mie amiche che si limitano ad attendere che io elabori il concetto.
“Ero a letto nuda e lui si è levato la maglia e me l'ha infilata. Poi mi ha messo i pantaloni.”
“Detto così suona malissimo...”
“No, Bet. Mentre lo faceva mi sbaciucchiava in ogni dove.”
Jules fa un sospiro incantato e deglutisce pesantemente.
“Come è stato?”
“Quando ha finito, dentro di me urlavo perché mi strappasse tutto di dosso.”
“Che cazzo di culo che hai!"
“Med, sei decisamente stata una buona scopata: non ti avrebbe leccata come un Calippo dopo se non fossi stata di suo gradimento.”

Immagino che non abbiano tutti i torti. O, quantomeno, me lo auguro.

Più tardi, quando le conversazioni sul sesso hanno lasciato spazio al bisogno di schiacciare un pisolino al sole, mi ritrovo a pancia in giù e osservo la gente attorno a noi. È pieno di persone: in città basta un raggio di sole per mandare tutti in estasi e sentirsi in vacanza anche solo per un pomeriggio. Poi, se quel raggio di sole è accompagnato da un'afa killer, fa niente. C'è il sole, e tanto basta.

Sdraiata all'ombra, osservando quello che accade attorno a me, come il mondo continua a muoversi, come la gente porta avanti la vita che ha costruito, la consapevolezza che mi sono accompagnata al capolinea da sola si fa intensa: confessando la verità ho eliminato ogni possibilità di tergiversare.

Ora devo capire cosa devo fare: ammettere che lasciavo l’università era la parte più dolorosa, ma non certo la più difficile. Adesso il mondo mi chiede il conto e non credo mi sia concesso di sbagliare di nuovo: gli anni sono volati e io devo ricominciare da zero. Ma non ho idea di quale sia il mio zero e verso quale porto mi debba rivolgere: mi va ancora di studiare? Onestamente no, non molto.
Ma cosa sa fare, Med? Cosa voleva davvero Sofia quando era piccola? Quali delle mie passioni potrebbero condurre a un lavoro?

“Pensavo una cosa.” dichiara ad un tratto Bet, trascinandomi fuori dalla attenta analisi delle mie attitudini. Poi si blocca e strilla:
“Jules, ma che schifo! Mi hai sbavato sulla spalla!”
La mia amica bionda, sdraiata accanto a Jules, ha allontanato la riccia con uno spintone, laciandola stesa sull’erba calda con un’espressione disorientata. I suoi capelli scuri sono sparsi ovunque sul suo viso, le labbra divaricate, mentre cerca di ricordare dove si trova e cosa è successo.

Bet, a questo punto seduta accanto lei, continua ad emettere suoni di dissenso mentre cerca disperatamente nella borsa qualcosa con cui pulirsi la spalla.

“Sei una schifosa. Sbavi, Jules. Sbavi mentre dormi!”
“Capirai, per un po' di saliva! È bauscia santa.” ribatte Jules sorridendo e asciugandosi il viso. “Ora, senza fare l’isterica, ci dici a cosa stavi pensando?”
Bet piagnucola ancora qualche secondo con il viso contratto in un broncio per poi spiegare:
“Che abbiamo bisogno di una vacanza.”
“Giugno è un po’ presto per le vacanze estive, non credi?”
“Beh, ma fa un caldo fotonico in città. E noi siamo sotto stress... Andiamo in montagna da me qualche giorno!”

In montagna qualche giorno: il mio primo pensiero è che se dovessi dire ai miei che me ne vado in montagna qualche giorno, potrebbero decidere di chiudermi in un armadio per evitare di prendermi a sberle, dopo le mie ultime confessioni.
“Io ci sto.” canticchia serena Jules, conquistando un abbraccio di Bet e uno sguardo indeciso dalla sottoscritta.

Non è che io non voglia andare: anzi, ad essere onesta quando arriva il caldo la città diventa invivibile e l'idea di qualche giorno al fresco mi alletta quanto un brownie.
Le mie migliori amiche mi ammoniscono con lo sguardo quando, senza riflettere, protesto:
“Bet, sta per iniziare la sessione d'esame...”
“Già. Sessione d'esame che non ti riguarda più, visto che tu lasci l'università.”

Oh.

Sentirglielo dire risveglia in me un moto di vergogna, però: quello che sento non è associabile al sollievo, ma solo ad un vago senso di fallimento.
“A maggior ragione. Come lo dico ai miei che la loro figlia fancazzista, mentre tutti si spaccano il culo per studiare, si sente pure in diritto di farsi una vacanza?”

Non credo che la mia protesta sia irragionevole, eppure poi Bet dice qualcosa che mi fa vacillare:
“Stacca la spina, Med. Usa questi giorni per pensare: andare via da qui potrebbe aiutarti a riflettere su quello che vuoi e devi fare. Vivi il viaggio come un momento per allontanarti da questa te e dalle pressioni.”

D'accordo, mi rendo conto che le parole di Bet siano pura manipolazione per costringermi a dire di sì, eppure – in qualche misura – potrebbe aver ragione: forse ho davvero bisogno di allontanarmi da tutto questo per vedere le cose con più razionalità e concentrazione.
Dicono che per ritrovarsi bisogna perdersi: io – metaforicamente – quello l'ho già fatto. Forse ho bisogno di perdermi anche geograficamente parlando?
Oppure non succederà nulla e i miei avranno una ragione in più per mandarmi a cagare: tanto che differenza fa? Mi disprezzano già; nella peggiore delle ipotesi mi sarò rinfrescata un po'.
Non so come, quindi, mi trovo ad acconsentire alla loro proposta e, pochi minuti dopo, Bet ha assegnato ad ognuna di noi il compito di contattare uno dei ragazzi per chiedergli di unirsi a noi.
Compito che io rimbalzerò su Jules non appena Bet si sarà voltata.

Ma questo non è necessario che lei lo sappia.

Poi, secondo una dinamica fisica che non mi è chiara, mentre Jules esulta per la prospettiva della montagna gettandosi a terra come un tricheco, Bet si lascia cadere all’indietro soddisfatta e rilassata, affondando nell’erba con un sospiro.

E si zittisce.

Io aggrotto la fronte, confusa dal suo silenzio e Jules inclina la testa, altrettanto sorpresa dall’improvviso blocco di Bet.
Tutto resta immobile per una decina di secondi, finché io non chiedo:
“Bet?”
Ma lei non risponde.
Che è successo? È svenuta per la mancanza di aria? Le è venuta una sincope?
“Bet? Sei viva?” chiede Jules con più insistenza cercando prima il mio sguardo, poi tornando a fissare la bionda accanto a lei: Bet resta silenziosa per qualche istante e poi sussurra.
“Sono caduta con la testa su una cacca.”
Io spalanco gli occhi e ci metto qualche attimo per registrare le sue parole, e lo stesso vale per Jules che, stupita, domanda:
“Che cosa?”
“Ho la testa su una cacca.” strilla all’improvviso Bet, senza muoversi, come se fosse paralizzata.
 
La scena è tragicomica: è paralizzata dal collo in su, sventola gli arti come se questo potesse aiutare, e urla in preda  al panico.
Nei secondi che passano io e Jules ci rimbalziamo l'onere di accorrere in soccorso della nostra amica e, per distrarmi dalle mie argomentazioni – con le quali sostengo che Jules abbia qualche tipo di dovere etico di aiutare i bisognosi, a causa della professione che ha scelto – lei cerca di infilarmi un dito nel naso.

La maturità la fà da padrone, insomma.
“Jules stai ferma che dobbiamo tirare fuori Bet dalla merda!” protesto evitando il suo indice, pericolosamente vicino alla mia narice destra, e un grugnito di dissenso si solleva dal petto della mia amica bionda.
“Mi dispiace, non ho saputo resistere!”
“Si può sapere perché non ti alzi?”
“Jules, non posso... ho la testa piena di cacca.”
“Eh già, sei proprio nella merda fino al collo. Anzi, fino a sopra la testa.”
“Med, la fai finita con queste battute del cazzo?” brontola Bet ai miei piedi, ma non sembra avere alcuna intenzione di muoversi: le braccia divaricate sull’erba, le gambe piegate e la testa rigida.

“Ti dovrai muovere di lì prima o poi!” le faccio notare abbassandomi per aiutarla ad alzarsi.
“Non esiste! Io non vado in giro con una macchia di escremento sui miei capelli! Tutti mi vedranno!”
“E odoreranno, aggiungerei. Credo fosse fresca, perché sento la puzza da qui.” esclama Jules sorridendole.

“Perché non poteva succedere a Med?”
“Ehi! Che c’entro io?”
“Beh, in primis sei sfigata, quindi non ti si sarebbe cacato nessuno.” spiega lei e io la fisso indignata.
“Io lascerei stare il cacare, se fossi in te.” ridacchia Jules, guadagnandosi uno sguardo omicida dalla nostra amica a terra.
“E poi sei castana. E la cacca è marrone. Non si sarebbero accorti di nulla.” conclude sospirando.

“Davvero gentile da parte tua dire queste cose. Ma ora falla finita e alza il tuo regal sedere. Dobbiamo portarti a casa. Ha ragione Jules, si sente la puzza da qui.” ribatto prendendole una mano, mentre Jules, alla sua sinistra, fa la stessa cosa ed entrambe tiriamo con forza. Bet lotta per restare a terra, ma ogni suo tentativo si rivela vano quando, dopo qualche strattone, riusciamo a sollevarla senza troppo sforzo.

“Vacche!” sibila lei guardandosi attorno per accertarsi che nessuno la stia guardando e comincia a trotterellare imbarazzata verso il parcheggio.
“Metti la testa fuori dal finestrino, altrimenti poi anche la Circe puzza!” Jules ride fragorosamente e scuote la testa, mentre ci dirigiamo verso la macchina il più velocemente possibile.


stop

Signori e Signore, le uscite di emregenza sono posizionate qui, lì, là, quà e lontano da vostro pc; ipotizziamo che le vostre diottrie siano in procinto di calare e che il vostro corpo sia debilitato e necessiti di un po' di nutrimento. Per prepararvi al seguito, la direzione suggerisce delle fragole... anche se sono fuori stagione.
Pausa pipì, sigaretta per le tabagiste e cioccolata per tutte: quella la regala la direzione.

Se avete eseguito tutte le indicazioni, potete proseguire con la nostra benedizione; diversamente siete invitate a tornare al pulsante Stop.

Buona continuazione.

start



Quando torno a casa, appena metto piede nell’appartamento, vengo avvolta da un calore insopportabile. L’afa e il caldo di città sono insostenibili: casa mia, con le finestre chiuse e il sole che batte quasi tutto il giorno sulla facciata principale, sembra un forno.
Lascio cadere la borsa vicino all'ingresso e mi affretto ad aprire ogni vetro, nella speranza di fare entrare qualche flebile alito di vento e far girare un po' l’aria.

Marcio dritta nella mia stanza per liberarmi dai vestiti umidi di sudore e che odorano di erba: li lascio cadere incurante a terra e mi affretto a sostituirli col primo abito estivo che individuo nell'armadio. È qualcosa di impresentabile: indubbiamente fresco e svolazzante, di quei tessuti leggerissimi che paiono impalpabili, ma ormai la stoffa è lisa e, lisciandomelo addosso, constato che la fantasia pop che lo decora è davvero anni '90. Ma è comodo e sufficientemente morbido per farmi aria con la gonna mentre mi aggiro per casa scalza, in cerca di refrigerio.

Avviandomi verso la cucina, sento il telefono squillare e sono costretta a fare una deviazione per afferrare il cordless abbandonato sul tavolo del salotto: leggendo il numero di Bet, scelgo di lasciarla attende un po' mentre estraggo una ciotola di fragole dal frigorifero.
Mi arrampico maldestramente sul bancone, sedendomi a gambe larghe e appoggiando la frutta alla mia destra e mi decido a premere il tasto verde per avviare la conversazione.

“Che vuoi?”
“Come sapevi che ero io?” chiede lei stupita; una punta di fastidio colora la sua voce.
“Ho un telefono molto avanti che mi dice chi mi chiama.” ribatto fiera.
“Almeno il telefono ce l'hai avanti...”
“Bet, sono accaldata e ho fame. Dimmi che vuoi, così mi posso liberare di te.”

“Roby e Leo hanno detto che vengono con noi... però non possono prima di domenica.”
“E quando vorremmo partire?”
“Noi partiremmo sabato. Io l’ho chiesto anche a J, che sabato ha un gruppo di studio per un progetto di non so che esame. È perfetto!” cinguetta lei contenta e io aggrotto la fronte confusa.
“Che vuol dire perfetto? Hanno praticamente detto tutti no!”
“Vedi? É per questo che io sono la mente e tu....il nulla.”
“Se fossi qui ti affonderei la faccia in una cacca... Oh, aspetta! Quello l'hai già fatto da sola” ridacchio felice eppure la mia battuta va a vuoto perché lei ignora la frecciatina e si concentra sulla ragione del suo entusiasmo. Più o meno.
“È tutto okay perché, visto che nessuno dei tre può muoversi prima di domenica, io ho appena ideato un piano C!”

“Ma non dovrebbe esserci un piano B, prima?” chiedo ridendo.
“Sì, ma fa cagare, quindi passiamo subito al C.”
“Okay, credi che lo condividerai con me questo geniale piano C?” domando insistente addentando una fragola e lasciando che il succo scorra lentamente sulla mie papille: un dolciastro senso di freschezza si diffonde tra i miei denti, alleggerendo lievemente la calura che ancora sento premere sul mio viso.
Non sono una fruttofila, preferisco la roba che ingrassa, ma le fragole sanno sedurmi in modo inspiegabile: mi abbandono al gusto intenso dell'ennesima fragola, sospirando per un semino che sembra incastrarsi tra i miei denti e provando una ridicola soddisfazione quando riesco a schiacciarlo tra gli incisivi; nel frattempo Bet mi spiega che il suo piano geniale prevede che noi tre partiremo un giorno prima, mentre i ragazzi ci raggiungeranno di domenica.
Il che, stranamente, ha senso.

“Ah, sai che non sei stupida? Allora non è vero che le bionde sono tutte cretine.” ridacchio deglutendo a fatica, prima di addentare con foga un'altra fragola e rendermi conto che ne sto trangugiando come una balena filtra il krill. Ma è frutta, quindi non vi è traccia alcuna di senso di colpa in me.
“Perché non lo chiedi anche ad Alex?” domanda Bet eccitata e io rischio di strozzarmi con i semini che, fino a poco fa, mi davano tanta soddisfazione.
“Perché dovrei?”
“Perché sì. Dai, sarà divertente!”
“B, non sono sicura che sia una buona idea.”

Giusto per non sfatare il mito del parli del diavolo e spuntano le corna, in quel momento la porta di casa cigola, annunciando l'arrivo del mio coinquilino. Coinquilino che io non vedo da ieri sera, aggiungerei. E che, col suo faccino tutto accaldato, mi ricorda perché abbandonarmi alla lussuria sia stata un'ottima idea.
Appena mi individua, appollaiata come un tacchino sul bancone della cucina, i suoi occhi si spostano sul ripiano, prima di incrociare i miei e di ammiccare malizioso.
La sua evidente allusione a ciò che abbiamo fatto qui sopra, mi fa chiudere lo stomaco per una frazione di secondo, mentre il suo sguardo va a posarsi sulla gonna che mi accarezza leggera le cosce. Senza spostare gli occhi da lì, sbatte la porta di casa con un calcio, lancia la giacca per terra e comincia a marciare verso di me con aria decisa; poi raggiungendomi si china per darmi un bacio veloce sulle labbra.

“Quanto rompi! Non capisco perché devi sempre polemizzare su tutto!” si lamenta nel frattempo Bet, riportandomi alla nostra conversazione: scanso appena il viso da quello di Alex, lanciandomi un pezzetto di frutta tra le labbra.
“Perché le tue proposte sono troppo spesso idiote.”

Mentre parlo Alex resta immobile di fronte a me: gli occhi sono ancora fissi sulle mie cosce e i pugni stretti attorno alla mia gonna.
Alzo la testa e gli rivolgo uno sguardo interrogativo.

Quando l'ha afferrata?

Sul suo viso prende vita un'espressione indecifrabile che ricorda quella di un bambino in procinto di fare qualche dispetto; gli zigomi si sollevano quando la sua bocca si increspa appena e i suoi occhi riflettono qualche pensiero curioso che non so interpretare.
Sento Bet spiegare i motivi per cui dovrei assolutamente invitare anche Alex, ma la sua voce sembra d'un tratto lontana quando le labbra del mio coinquilino si avvicinano alle mie, rubandomi la fragola dalla bocca.

Di fronte al mio stupore lui sorride in modo quasi arrogante; lo sguardo fisso nel mio mentre mastica lentamente il frutto e gioca con pigrizia con la stoffa del mio abito.
Ricordo a malapena che sono al telefono con Bet: in realtà sono divorata dalla curiosità di sapere cosa stia architettando la testolina del mio coinquilino.

Quando lo vedo chinarsi nuovamente verso di me, le sue mani premono impercettibilmente il tessuto della gonna contro la mia carne mentre il suo respiro precede la sua bocca contro la mia: non c'è delicatezza, non ci sono sospiri. Fa scivolare il pollice sotto il bordo della gonna e, lasciando scorrere l'unghia contro la pelle della mia coscia, ordina sulle mie labbra:

Join me, will ya?”

Join you? Unirmi a te? C'è bisogno di chiederlo? Limonami come se fossi una bambola gonfiabile. Guarda, puoi anche picchiarmi: non sono un'estimatrice di quella roba, ma se me lo chiedi così, mi faccio pure incatenare alla marmitta della Circe.

“Med, ho bisogno della tua abilità culinaria” sento Bet divagare e, da pessima amica, penso che potrei brutalmente interrompere la telefonata; ma la lingua di Alex scorre insistente contro il mio labbro inferiore e parlare smette di essere una priorità.

Pomiciare, invece, assume un ruolo cruciale. Pomiciare. Solo pomiciare con Alex.

Bet blatera frasi che neppure capto, concentrata solo sull'improvviso disappunto causato dall'inattesa distanza della bocca di Alex che rompe il bacio, ridacchiando.

La stessa espressione furba presente nei suoi occhi provoca in me un piacevole pizzicore all'altezza dell'ombelico: non sapere cosa progetta, non riuscire ad anticipare le sue azioni, la sua costante imprevedibilità, attivano una stranissima voglia di capire lui e i suoi pensieri.

È in piedi di fronte a me, si è fatto strada in mezzo alle mie gambe e le sue mani si appoggiano sulle mie ginocchia, trascinando la gonna verso l'alto mentre le sue labbra si muovono impercettibilmente contro la mia spalla.
Cerco in ogni modo di trattenere il respiro e al contempo di sussurrare con voce ferma risposte coerenti alle domande di Bet, nella speranza di non farle capire che in realtà il mio cervello in questo momento è annebbiato da quello che le mani e la bocca di Alex stanno facendo al mio corpo.

Poi, senza preavviso, lui si allontana; con un po' di delusione mi convinco che il nostro incontro sia giunto al capolinea e, schiarendomi la voce, torno alla conversazione con Bet aspettando che Alex si allontani del tutto.

Fortunatamente pochi secondi dopo scopro che mi sbagliavo e mi trovo a benedire il ripiano della cucina di casa mia.
Alex spinge con decisione contro le mie spalle, costringendomi a inarcare la schiena all’indietro e a cercare di sostenere il mio peso mentre lui mi solleva velocemente il vestito fino alla vita.

Raccogliendo una fragola, incrocia brevemente il mio sguardo, appoggiando il frutto nel mio ombelico, il sorriso ora enorme e il viso completamente rilassato.
La mia prospettiva sul potere seduttivo delle fragole diviene più consistente quando lui si premura di lasciare baci leggeri e umidi sulla strada che va dal mio collo fino alla pancia; un rapido movimento e recupera la fragola con la lingua, affondando per un attimo la punta al centro dell'ombelico e accarezzandone il contorno con i denti. Le mie dita scorrono sul suo collo, come un ringraziamento silenzioso a cui lui risponde massaggiando più intensamente la mia pelle.

“Che stai facendo?” mi chiede a quel punto Bet, possibilmente insospettita dal mio respiro che si sta facendo più profondo e rumoroso.

“Una cosa che non bisognerebbe fare.” rispondo con la voce che mi si strozza in gola, mentre sento la pelle d’oca formarsi sulla pancia, grazie a qualunque magia Alex stia facendo contro il mio ventre.
“Sarebbe?” chiede la mia amica curiosa e la sua voce echeggia dal ricevitore che lascio cadere per un secondo sul torace.

Alex mi sorride di nuovo e, tenendo la fragola tra le dita, la fa scorrere dalla fossetta dove si incontrano le mie clavicole, fino al torace, il suo viso a un respiro da me, sussurrando:
“Sì, sarebbe?” prima di chinarsi e, finalmente, mordere il frutto.

Dio benedica le fragole. E i coltivatori di fragole. E il loro potere di seduzione innato. E pure i semini.

“Giocando col cibo.”
Osservo Alex risalire verso il mio volto e lasciar cadere metà della fragola tra le mie labbra separate: la premo con la lingua contro il palato, ansiosa di sentire ancora il suo sapore quasi stucchevole espandersi nella mia bocca. Quando il succo si scioglie, ha un sapore più intenso, meno fresco. Più pungente.
Forse sa un po' di Alex, o forse i miei sensi sono diventati più attivi e capisco che non morderò più una fragola allo stesso modo.

Bet sembra soddisfatta della mia risposta, perché ricomincia a chiacchierare:
“Che faccio con le vongole?”
“In che senso?” domando distratta dalla lingua di Alex che è tornata ad assaggiare la mia pelle.
“Sono chiuse. E poi avranno la sabbia:” spiega lei dubbiosa.
“Oh, vuoi sapere come pulire le vongole?” chiedo con voce vuota, completamente disinteressata e più che altro intrigata dall'idea di rovesciare le fragole rimaste e spalmarci sopra Alex.

Sono una persona malata.

Lui sorride sulla mia pelle, sposta le labbra vicino al mio orecchio e sussurra:
“Dille di metterle in acqua e sale per una notte.” Poi mi morde il lobo delicatamente.
“Oh Gesù!”

“Che c’entra Gesù! Non mi sembra di aver chiesto chissà che cosa!” si lagna la mia amica, sempre più coinvolta dal suo progetto culinario. Progetto al quale io non sono per nulla interessata, essendo sulla buona strada per pianificarne uno mio che vede Alex e le fragole come ingredienti principali.

Sono gravemente disturbata. Cibo e sesso. Ora penserò per sempre al cibo con ancora più entusiasmo. Non sarò mai magra.

Ripetendo distrattamente a Bet le parole di Alex, provo ad allontanarlo, nella speranza di non perdere del tutto il controllo sui miei pensieri: sfortunatamente, però, l'unico scopo nella vita di Alex sembra quello di eccitarmi e farmi fare una figura di merda.
Sento i suoi polpastrelli accarezzarmi l'interno coscia con la stessa intensità con cui le sue labbra scorrono contro la mia spalla. Premono. Sfiorano. Succhiano. Salgono lungo il collo, seguendo la corsa del mio sangue che pulsa nella giugulare: e lui traccia anche quella con la lingua.

“Riattacca.”
“E una volta che le ho fatte aprire che faccio?”

Eh, ma che cazzo! Non sono multitasking! Una richiesta alla volta.

“Le cucini.” rispondo semplicemente io, bloccando Alex nel suo tentativo di ripartire all’attacco e ammonendolo con lo sguardo.
“E come? Aspetta, perché si muovono?” chiede la mia amica inorridita.
“Come si muovono?” dico io confusa, abbassando la guardia per un attimo.
Il ragazzo di fronte a me, che sfoggia orgoglioso un'espressione famelica, ne approfitta per afferrarmi il polso e iniziare a mordicchiarmi le dita. Poi, tra le risate, mormora:
“Si muovono perché sono vive.”

“Come sono vive?!”
Bet, sentendo le mie parole, va nel panico:
“Che cosa? Sono vive? Oddio, che schifo! Quindi devo ucciderle?”
“Sì, devi ucciderle. Che cosa macabra.”
Il nostro disgusto non pare colpire Alex più di tanto che, imperterrito, si accanisce per l'ennesima volta sulla mia spalla: la mordicchia, la bacia ancora, soffia divertito sulla mia pelle e sta a contemplare un attimo la pelle d'oca che si forma.

Se non fosse per la constatazione che le povere vongole vengono cucinate vive, probabilmente mi lascerei scappare qualche suono lussurioso, ma la voce inorridita di Bet mi distrae e la sua isteria mi fa sorridere:

“Ti rendi conto che sto per fare una strage? Oh Gesù, magari faccio fuori un’intera famiglia di vongole. E le brucio vive. Oddio, sono l’Hitler delle...che specie sono?”
“Bivalvi, credo.”
“Che nome del cazzo! Comunque, ti rendi conto? Vuoi che diventi l’Adolf dei bivalvoli?”

Mentre la mia amica si dispera, Alex mi tira verso di sé con prepotenza, lasciando scomparire le mani sotto il mio vestito fino a raggiungere la mia vita e avvicina l'orecchio alla cornetta per ascoltare la conversazione; il mio sguardo di rimprovero per essere il solito impiccione non ha alcun effetto, se non quello di farlo sghignazzare ancora un po'.
“Bivalvi, non bivalvoli. E poi non è che puoi farci molto. Vuoi tenerle per sempre nel lavandino?”
“Potrei metterle in un acquario e fare una specie di parco dei divertimenti per le vongole!”

Il respiro di Alex conto di me mi fa venire i brividi e la sua risata alle parole di Bet mi solletica la pelle, mentre sorride strofina ripetutamente le labbra sulla mia clavicola: a quanto pare non è per nulla intenzionato a fermarsi.

“B, ma che cavolo stai dicendo?” ma la mia voce trema quando avverto i polpastrelli di Alex scivolare dalla mia vita verso il basso, accarezzarmi impercettibilmente la pancia per poi scorrere un po' più in giù.
Per un attimo accantono Bet; allontano la fronte dalla spalla di Alex e stringo il suo mento tra le dita, costringendolo a incontrare i miei occhi prima di borbottare sotto voce:
“Sei un porcello!”

Lui trattiene una risata e muove in modo suggestivo le sopracciglia in modo così ridicolo che, nel tentativo di sopprimere una risata, emetto qualcosa di molto simile ad un grugnito.

Lui sorride scuotendo piano la testa ma premendo i palmi contro le spalline del mio vestito, le fa scivolare lungo le mie braccia: Bet sembra aver dimenticato il problema della morte di gruppo delle vongole, perché credo stia facendo da sola la lista degli ingredienti con un entusiasmo molto simile a quello che pervade me quando Alex raccoglie l'ultima fragola e la posa con cura sul mio torace.
“Che stai facendo?” mormoro cercando di non farmi sentire e di nascondere il tremore della mia voce.
“Chi sta fecendo cosa?” chiede Bet confusa.
“Mmm... niente, B.”
Ma Alex si china ancora su di me e morde la fragola, premendola sulla mia pelle con la lingua,  un patetico gemito sfugge alle mie labbra:
“Riattacca, Scintilla.” mormora premendo il mio corpo contro il suo.

Ok, la situazione mi sta sfuggendo di mano.

“Chi è quello?” sento la voce di Bet lontana, chiedere curiosa.
“Quello chi?” le vibrazioni della mia voce sono evidenti nel momento in cui Alex solleva il più possibile il mio vestito.
“Quello che ti ha detto di mettere giù il telefono.”

E io taccio.

“Oh mio Dio! Stai facendo le cose sporche con Alex mentre parli al telefono con me? Med, sei una deviata!” urla lei e Alex sospira una risata silenziosa contro la mia pelle.
“Ma che dici! Non farei mai una cosa simile!” mugolo senza speranza sentendo le mani ruvide di Alex sollevare il mio vestito oltre la vita.

Oh. Cacchio.

“Invece sì! Ecco perché ansimi. Sei una porca senza vergogna!” ribatte Bet a metà tra il divertito e l’indignato.
“Direi che questo abitino ha bisogno di una lavata.” suggerisce silenzioso il mio coinquilino, tirando più su il tessuto che mi copre.
“Med, ma che razza di perversione è scopare con la tua migliore amica al telefono?” chiede Bet severa.
“Non sto scopando.”
“Non ancora.” mormora Alex sollevandomi le braccia piano per levarmi l'abito, lasciandomi tristemente in biancheria intima. Dell'orrida biancheria intima, aggiungerei.

“Amica, siete due sgualdrine, tu e Alex.”
“Scintilla...”
“B, ti devo lasciare. Potrei dover fare la lavatrice.”
“Cazzo, sei una porno star!”
E la risata di Bet è l'ultima cosa che sento prima che riattacchi.

Finalmente contenta di poter ricambiare le attenzioni di Alex, allontano le sue labbra dalla mia carne, mormorando:
“Troppi vestiti. Io sono nuda e tu completamente coperto.”
Lui sorride e lascia che io afferri il collo della sua maglia e faccia scontrate la sua bocca contro la mia, tracciando l’incontro delle sue labbra con la punta della lingua; non so bene perché, ma d'improvviso sento di volere il pieno controllo.
Le mie mani graffiano i lati del suo torace, scendendo fino ai fianchi e sento le sue labbra tremare sulle mie. Prendo tra le dita di una mano il lembo della sua maglietta, mentre con l’altra gli slaccio i pantaloni, e in un secondo, lo libero dall’indumento superiore, per concentrare entrambe le mani sui bottoni dei suoi jeans.

Poi lo osservo. Lo studio con attenzione e con immensa soddisfazione, consapevole di essere la causa del suo stato accaldato.

Le sue labbra sono rosse e un po' gonfie a causa dell’irruenza dei nostri baci; gli occhi sono scuri e le guance lievemente arrossate. Le sue spalle si sollevano in modo irregolare e affannato seguendo i suoi respiri veloci.
Lascio andare i lembi dei suoi pantaloni, mentre le sue mani restano appoggiate al mio collo;
“Ci spostiamo di là?”
“Camera da letto?”
“No...”
“Che avevi in mente allora?”
“Mi ispirava di più l’idea della doccia.” ridacchia malizioso, accarezzandomi la schiena.
Sorrido sulla pelle della sua spalla, mentre faccio ruotare il viso contro di lui e inalo il suo odore.
Lui non risponde ma allenta la presa e intreccia le mie dita con le sue, e mi accompagna verso la porta del bagno. Solo nel momento in cui lo vedo allungare la mano dentro da doccia e far scorrere l’acqua, mi rendo conto di quanto esposta io sia.
Alex si volta e mi individua proprio mentre studio un modo per schermare le mie pudicizie: è oggettivamente una mossa poco ragionata, ma mi sento una cretina a starmene qui con la mercanzia all'aria.

“Non farlo.” mi dice sorridendo.
“Che cosa?”
“Non coprirti. Perché ti copri sempre? Pensavo avessimo risolto con la storia dell'insicurezza.”
“Oh, abbiamo sicuramente fatto un passo avanti, ma mi ci vorrà un po' per abituarmi a scodinzolare per casa a culotto nudo.” scherzo e lui ride avvicinandosi a lunghi passi, sfoggiando il suo inconfondibile sorriso.
Le sue dita mi avvolgono i polsi, costringendomi ad allargare le braccia per dargli accesso alla visuale del mio corpo: ogni mio tentativo di non arrossire o di mostrarmi indifferente alla sua analisi va a farsi benedire quando i suoi occhi corrono su di me e lo vedo leccarsi le labbra impercettibilmente
Quando sospira, tutto l'autocontrollo che avevo cercato di sfoggiare viene annientato da un'incontenibile voglia di marchiarlo come mio. Devo ricordarmi di farlo prima o poi: prima o poi, adesso non posso. Adesso, se non proseguiamo, credo che potrei andare in autocombustione.

“Alex, piantala di fissarmi. Sembri un maniaco.”
“Non ne hai idea.” ride lui e mi spinge nella doccia.
L'acqua che scorre tra di noi e su di noi annulla ogni rumore e ogni immagine al di fuori di Alex.

In poco tempo diventa troppo calda per essere piacevole e il vapore che si solleva avvolge il mio corpo in modo opprimente: eppure lo scroscio costante e intenso sembra delimitare tutto a me e lui. Solo i miei baci, le sue mani sul mio corpo e noi, accarezzati dall'acqua che lava via l'idea di ogni altra cosa. Di ogni altro problema. Di ogni altro ricordo.
Sotto questa nebbia calda e dentro questa cabina, non penso a niente: solo che io sono qui con lui. Pervasa da un forte impulso di sentirlo e vederlo mio, lo spingo con un po' troppa forza contro il muro della doccia e, stringendo le sue spalle tra le dita, non riesco a trattenermi dal succhiare la sua pelle fino a che non lascio un segno.

Lì, in quello spazio, scopro ancora Alex: sono più intraprendente di ieri, più prepotente e immensamente più compiaciuta quando lui, per tutto il tempo della nostra doccia, mi segue senza proteste, quasi respirando secondo le mie istruzioni.
E per il tempo in cui il vapore scalda la nostra doccia, per la prima volta da quando ho una vita sessuale, si fa come dico io.

Più tardi, disteso nel mio letto, dorme. Noi abbiamo appena fatto del bellissimo sesso sotto la doccia, saranno passati al massimo venti minuti, e lui dorme. Se ne sta appallottolato dietro di me, praticamente avvolgendomi e seguendo il mio corpo sdraiato in posizione fetale, con il petto premuto contro la mia schiena, un braccio sotto il mio cuscino e l’altro che giace morbido sull’incavo della mia vita. Le sue dita che mi sfiorano la pelle mi solleticano, ma stranamente ora non mi imbarazza più la consapevolezza che lui possa sentire o vedere le mie imperfezioni.
I nostri capelli ancora bagnati hanno inzuppato i cuscini e la mia pelle protesta per il fastidio, ma sento il suo respiro regolare soffiarmi sul retro della nuca e questo fa venire voglia di dormire anche a me. Ma non mi capita spesso di avere tra le mani un Alex inconscio e incapace di rispondere. E allora rotolo piano su me stessa, facendo attenzione a non svegliarlo e a non spostare le sue mani da me, fino a che non mi ritrovo faccia a faccia con lui. E lo osservo.

Studio ogni linea del suo volto, memorizzo ogni neo o piccolo segno sulla sua pelle – soprattutto quello che ho lasciato io, provando un moto di orgoglio verso me stessa - e cerco di immaginare la sua storia. La sua vita.

Ha un’espressione tranquilla e pacifica ed è come se riuscissi a succhiare la sua serenità. Solo ora mi accorgo di una minuscola cicatrice che ha sotto il labbro inferiore e cerco di immaginare come se la possa essere procurata.

Questo ragazzo è ancora così pieno di segreti per me. Ho come l’impressione che in poco tempo lui sia riuscito a disegnare un quadro dettagliato di me e del mio passato, unendo i piccoli punti che ha potuto segnare mano a mano che raccoglieva informazioni sulla mia vita. Eppure, io di lui continuo a sapere troppo poco.

È un cuoco. Un cuoco come mia madre, aggiungerei.
So quello che è quando è con me. Conosco la sua persona, ma non conosco la storia di questa persona.
So come prende il caffè, che cosa mangia a colazione e le posizioni in cui dorme. Mi accorgo quando è a disagio o pensieroso perché si passa la mano tra i capelli a ripetizione e si mordicchia l’unghia del pollice sinistro. So quando è nervoso perché non riesce a controllare il tic della gamba.
Conosco il colore dei suoi occhi quando si sveglia o è eccitato per qualcosa, perché sembrano più scuri.
So che è intelligente e acuto. Protettivo e allo stesso tempo facile all’ira.
Ma di chi era Alex prima di mettere piede nel mio condominio, so poco o niente.
 
E mentre osservo il suo viso rilassato, mi domando se sia davvero importante conoscere il suo passato. E forse la verità è che non lo è. Non è quello che è stato che conta davvero; è chi mi trovo davanti oggi che è rilevante. Forse vorrei sapere la sua storia per pura curiosità, o per equità. Perché vorrei sapere tutto di lui. Magari perché la mia cotta per lui si sta facendo sempre più grande e consistente; il che potrebbe causarmi diversi problemi.
Noi donne siamo una specie meravigliosa: masochismo e autoflagellazione sembrano essere il nostro passatempo preferito quando si tratta di ragazzi. Soprattutto se sono ragazzi che amiamo o abbiamo amato. E che abbiamo perso. E che non abbiamo capito.
Non si può pretendere di decifrare la mente di un uomo con il cuore di una donna.
Come spesso si dice, quando si tratta di ragazzi, la risposta è sempre la cosa più semplice che ti salta in mente.

Ma le femmine sono esseri incomprensibili e, forse, di base provano un malato piacere nel mal d’amore: però facciamo tutto con molto sentimento, eh! Li detestiamo e amiamo allo stesso tempo con una passione quasi incomprensibile.

I miei pensieri vengono interrotti dal suo corpo che si muove piano mentre inspira a pieni polmoni e i suoi occhi si aprono, incontrando il mio sorriso: il suo odore attorno a me e il tepore del corpo rendono ogni cosa così reale che, a dispetto delle sensazioni del mio corpo, mi concentro su come le cose siano cambiate in poche ore.

Quando ieri sono entrata nel mio appartamento avevo il cuore pesante e la coscienza sporca e nella mia mente viveva solo il pensiero del mio futuro e dei miei errori.
Ora i miei sensi sono tutti su Alex e su come mi sento quando lui scandisce i miei minuti: non importa se ciò che risveglia in me sia irritazione, passione, eccitazione o divertimento. Quello che conta è che con Alex io sento, vivo tutto ad un livello più alto. Reagisco.
Mentre penso a quanto le cose siano cambiate, vedo le sue palpebre sollevarsi con pigrizia e i suoi occhi stanchi incrociare i miei.
“Ciao.”
“Ciao... Ti ho svegliato?”
“Non credo... Hai fatto qualcosa per svegliarmi?” accusa ammiccando, ottenendo una risatina e un sicuro no in risposta. “Allora mi sono svegliato da solo.”

Restiamo in silenzio pochi secondi, lui sbattendo velocemente le palpebre e strofinandosi gli occhi; io affascinata da quanto più piccolo sembri ogni volta che si addormenta. Poi lo vedo diventare brevemente pensieroso, un dubbio evidente sul suo viso:
“È un problema se mi sono addormentato qui?”

Stranamente non lo è.
Questa volta non ho neppure pensato al fatto che lo stavo facendo entrare nel mio letto: non ho provato disagio all'idea di condividere con lui il mio spazio. L'ho fatto. Ho lasciato che lo facesse; che si sdraiasse accanto a me e che diventasse parte di quello spazio.
Non c'è stata esitazione perché non è proprio sopraggiunto alcun pensiero a riguardo: è successo spontaneamente e in sordina. Invece di provare fastidio come credevo, ho provato tranquillità.
Lui era lì, perché era l'evoluzione naturale di noi e di quello che avevamo vissuto: e, stavolta, io volevo che fosse proprio lì.
Muovo piano la testa per fargli sapere che, no, non è stato un problema; lui in risposta mi fa l'occhiolino e spinge il lenzuolo lontano dal suo corpo.

“A che pensi?” domanda accarezzandosi con pigrizia la pancia ancora nuda e esaminando il mio viso; la sua naturalezza arriva dritta al mio stomaco e, incontrando il suo sguardo, penso che il suo fascino risieda proprio in questa sua semplicità. Alex non è comune in modo spiazzante: è ciò che non vedi nella perfezione e, proprio per questo, è reale. Non è qualcosa che sogni, è qualcuno che puoi avere, con tutti i suoi odiosi difetti e le sue contraddizioni.
“Alex, chi è Andie?”

Non so perché gli faccio proprio questa domanda e non è esattamente ciò a cui stavo pensando, ma le parole prendono forma da sole, dando voce a uno dei misteri che ancora velano il mio coinquilino.
La sua reazione è di stupore, confuso probabilmente dal fatto stesso che io abbia nominato quel nome.
“Ne hai parlato con tuo fratello l’altra sera.”
Per un momento temo che eviterà per l’ennesima volta di parlare di sé, ma il suo viso si distende e i suoi occhi sembrano addolcirsi all’improvviso; in risposta sento lo stomaco contrarsi e una punta di gelosia annebbia i miei pensieri fino a che la sua risposta non giunge leggera e delicata.
“Mio nipote.”
Sentendogli svelare l’identità di chi si cela dietro ad Andie, mi sento vagamente idiota, ma non meno desiderosa di saperne di più; eppure lui non aggiunge altro, il che - chiaramente - mi obbliga a giocare sporco.

Do ut des...” bisbiglio nascondendo una mano sotto al cuscino e pregando che per una volta si attenga alle regole del nostro gioco. Lui sorride e si volta sul fianco per guardarmi meglio.
“Non vedevi l’ora, vero?”
“Io ho condiviso con te un sacco di cose negli ultimi giorni. Tu, invece, continui a fare il bel tenebroso che nasconde segreti...”
“Med, la mia vita è una noia. Non ho segreti.”
“Quindi non avrai problemi a raccontarmi di tuo nipote.”
“Non c’è nulla da dire. È il figlio di mio fratello...”
Per quanto cerchi di mostrarsi indifferente, però, la sua voce lascia trapelare una punta di irritazione, facendomi intuire che ho toccato un tasto dolente. Se io fossi una persona migliore, a questo punto opterei per concedergli la sua privacy e cambierei argomento; ma essendo io femmina e, nello specifico, piena di curiosità riguardo a diversi argomenti che Alex evita con maestria, decido che è quantomeno equilibrato che - per una volta - sia lui a parlare di sé.

“Okay... E allora dimmi che problema hai con tuo fratello.”
“Non c’è modo di farti mollare la presa?”
“Non questa volta.”
“Perché ti importa tanto?”
“Perché abbiamo fatto un patto... Dobbiamo conoscerci per capire se possiamo piacerci o se devo tornare ad odiarti. Ma fino ad oggi l’unica che ha condiviso intimi segreti sono io.”
La mia insistenza potrebbe essere rischiosa considerando che, alla fine, Alex ha spesso reagito male alle mie pressioni, ma se non lo spingo a raccontarmi qualcosa di sé rimarremo incastrati in questo limbo dove lui si fa strada nella mia vita, evitando di farsi conoscere e usando il sesso per distrarci l’uno dall’altra.
Lui resta in silenzio, probabilmente riflettendo sul da farsi: ho paura che ora che abbiamo consumato si sentirà in diritto di fare un passo indietro, sfruttando un’intimità diversa per mantenere le distanze.

“Alex, non fraintendermi, fare sesso con te ha superato di gran lunga le mie aspettative ed è stato divertente.” mormoro mettendomi a sedere accanto a lui, un po’ oppressa dall’atmosfera tesa che si sta creando “So che sono stata io a spingere per darci dentro a prescindere dalla nostra compatibilità...”
“Sono commosso.” mi interrompe lui, cercando di distrarmi ancora una volta da ciò che vorrei sapere.
“Alex, io ho bisogno di sapere qualcosa di te.”
“Tu sei solo curiosa.”
Mentre parla le sue labbra si increspano in un sorriso appena accennato, come se questa cosa lo divertisse:
“Ovviamente! Perché non vuoi parlarne?”
“Perché è complicato. Ed è personale.”
“E le cose che racconto io sono di dominio pubblico, invece?”
“È diverso...”
“Certo, tu sei speciale; io, invece, sono la povera stronza che deve renderti partecipe di tutto.”

La mia strategia non funziona e non funzionerà: Alex mi manipola e io glielo lascio fare. Ogni conversazione è magistralmente guidata da lui, dove e come vuole.
L’irritazione nella mia voce è evidente e comincio a perdere la pazienza; non dovrebbe essere così difficile. Alex voleva che ci conoscessimo, quando - a dirla tutta - a me sarebbe bastato farci sesso e levarmi lo sfizio; ma lui ha fatto resistenza e l’ha portata su un piano diverso e, senza saper bene come, ho iniziato a voler esplorare quel livello di intimità anche io.
Ma le sue proteste cominciano a spazientirmi: se non è disposto a raccontarmi di sé, non vedo perché io dovrei farlo con lui.
“Fammi capire: stai cercando di litigare?”
“Sto cercando di parlare...”
“Di me...”
“Perché? È vietato? Si può parlare solo di me, dei miei problemi e dei miei disagi?”
I suoi occhi si allontanano dal mio viso e si concentrano sulla parete di fronte.
“Non è quello...”
“E allora dimmi tu che cazzo è!”
“Mio fratello è un tasto delicato, Med...”
“Alex, con te tutto è un tasto delicato. Devo tirarti fuori tutto con le pinze.”
Lui torna a guardarmi e, con il viso che d’improvviso si contorce in un’espressione furba, ribatte:
“Non tutto.”

Allusione sessuale. Ovviamente. Ora che l’abbiamo fatto il sesso diventerà un escamotage per non rispondere.

“Veramente anche lì ho dovuto faticare, Mr. Sono troppo sensibile quindi mi si intimidisce il pisello!”
Lui scoppia a ridere e, senza preavviso, mi scaraventa un cuscino in faccia.
“Ma come ti vengono?”
“Non lo so, è un dono naturale.”

Lentamente si mette a sedere e, dandomi le spalle, mi invita a seguirlo in salotto.
Sarei tentata di chiedere perché non possiamo parlarne qui, ma lui si dirige verso la porta senza aspettare una risposta e io mi trovo a seguirlo in silenzio; dall’ingresso della mia stanza lo osservo aprire il frigorifero per estrarne una Coca-Cola e una bottiglia d'acqua.
“Mio fratello è un pessimo padre.”
Lo dice con una voce così naturale, come se mi avesse appena detto che è pronta la cena, che un brivido mi percorre lo stomaco e mi chiedo se mi sono davvero avventurata in un territorio troppo difficile da gestire.
“Perché?”
“Perché Andie non è al centro del suo mondo. Adam è al centro del mondo di Adam. Nessun’altro.”
Mentre parla i suoi occhi evitano i miei; spinge piano l'acqua verso di me e attende che mi metta a sedere su uno degli sgabelli.
“Essere egocentrici non è necessariamente un crimine genitoriale, Alex...”
“No. Ma quando ti perdi la nascita di tuo figlio perché sei troppo occupato a festeggiare una promozione e troppo ubriaco per portare la tua compagna in ospedale, lo è.”

Oh, che bella merda d’uomo.

“Non credi di essere troppo duro?”
“No.”

Memo per me stessa: Alex potrebbe essere un moralista. Forse un mormone.

“Io avevo 21 anni quando Andie è nato e mi sono ritrovato in una sala parto ad assistere alla nascita di un bambino non mio, semplicemente perché mio fratello non sentiva la necessità di crescere... Il giorno dopo mio padre è dovuto andare a svegliarlo e a comunicargli nuovamente che era diventato papà perché lui era così ubriaco la sera prima che non se ne ricordava neanche.”
“D’accordo, te lo concedo. È da stronzi, però...”
“Med, senza offesa, ma non ho chiesto un tuo parere. Hai voluto sapere del rapporto tra me e Adam, e io te ne ho parlato.”
“Parlato... che parolone. M’hai detto due frasi in croce.”
“Tu non ti accontenti mai?”
“Che è successo la sera in cui ti ha chiamato e mi hai mollato per andare da lui?”

Alla mia domanda, lui si irrigidisce, forse cogliendo erroneamente un’accusa nelle mie parole.
“Suonava meglio nella mia testa.”
Alex sorride appena, concentrandosi sulla linguetta della lattina che sembra non volersi aprire: io ne approfitto per godermi un po’ la visuale del suo petto nudo e il ricordo della sua pelle sulla mia poche ore fa torna a girovagare nella mia mente. E per qualche secondo fatico a capacitarmi di averci finalmente fatto sesso. Due volte. Il che attenua i dubbi di essere stata mediocre.

“Aveva bisogno di uno strappo a casa...” si limita a borbottare prima di incontrare il mio sguardo insoddisfatto e reagire con una leggera risata.
“Non vorrai che ti sveli tutto in un colpo solo? Perderei il mio fascino...”
“Alex...”
“Aveva promesso ad Andie di guardare il basket con lui, ma se ne è ricordato troppo tardi e non era in condizioni di guidare.”
“Perché?”
“Festeggiamenti per l’ennesimo contratto concluso. Alcool...”

Improvvisamente ho la sensazione di capire perché non ho mai visto Alex ingerire neppure una goccia di vino: o è quello, o è una questione religiosa.
Gli Amish bevono? Magari lui è la Amish che aspettavo sotto mentite spoglie. No, forse è Sikh; ma io che cazzo ne so di Sikhismo? Nulla. I Sikh vietano l'alcol? Esistono? O è una religione che mi sono inventata? Potrebbe essere: so a malapena la storia di Gesù e l'ora di religione l'ho sempre prontamente saltata. Non mi volevano neanche cresimare, figuratevi.

“Sei Sikh?”
Chiaramente la sua reazione è di confusione; non volevo chiederglielo davvero. Ora penserà che il sesso mi rende instabile e non ne faremo più.
“Che cosa?!”
Sono un’imbecille: ero riuscita a fargli sputare qualche rospetto e ora lo confondo. Devo avere una malattia autoimmune che mi disattiva l’intelligenza o qualcosa del genere. Non posso essere così cretina di natura.
“Lascia perdere... Quindi la colpa di Adam è di festeggiare i suoi successi professionali in momenti sbagliati?”

“No, è di essere un cazzaro. È di non aver imparato nulla dai suoi errori. È di essere un padre assente. È di essere un papà e di comportarsi ancora come un ragazzino... hai un figlio di sette anni e ti concedi ancora di ubriacarti troppe volte? Sei una testa di cazzo.”
“Alex, sei troppo duro.”
“No, per nulla. Sono solo un cretino che ancora gli dà una mano quando quello si comporta come un egocentrico e insensibile coglione.”
“Qualcosa in comune forse l’avete, se ripenso a certe tue reazioni passate.” borbotto sottovoce, sperando che non mi senta, prima di chiedere:
“Pensi sia un alcolizzato?”
“No... Il suo vero problema è di essere un irresponsabile.”

Ecco, e adesso? Cosa devo dire? Perché, perché ho dovuto parlare di cose serie a tutti i costi? Ora io dovrei dare una risposta intelligente, saggia, imparziale; invece penso solo che non c’è niente di male in un goccetto ogni tanto e che Alex è un giudicone.

“Okay...” Bisbiglio appoggiando la bottiglia d’acqua che non ho neppure aperto e ,aggirando il bancone - al quale ormai sono legati i ricordi più impuri della mia vita - lo raggiungo: le sue spalle sono tesissime e il suo sguardo mi evita con cura. Dalla sua posa capisco che, effettivamente, mi sono addentrata in un argomento molto delicato per Alex e, anche se non sono sicura di capire o condividere fino in fondo le sue ragioni, sono contenta che si sia deciso a mostrarmi qualcosa in più di sé. Benché non sia stata esattamente una decisione spontanea.

D'accordo, ho particolarmente forzato la mano e non ne sono fiera, ma stavamo finendo in una spirale infinita di déjà-vu che non portavano a nessuna progressione.
Cercando di essere delicata, stringo le dita attorno alla sua vita e lo invito a voltarsi, accompagnando i suoi fianchi contro il bancone e intrappolandolo tra le mie braccia, come ha fatto più volte lui con me. Capisco perché i maschi lo facciano; ti fa sentire in una posizione di dominanza, come se la persona che hai di fronte si stesse abbandonando a te.

Lui porta i palmi delle mani sul mio collo e strofina un paio di volte le dita sulle mie guance, studiandomi: vedo nei suoi occhi che vorrebbe mandarmi a cagare e non posso certo biasimarlo. Eppure, per qualche ragione, ingoia l'evidente rancore che le mie pressioni hanno causato. Mentre lo contemplo di rimando, ripenso a quello che mi ha detto, a quello che è successo nelle ultime settimane e a ciò che mi ha detto Bet.
Quindi, senza frenare la lingua e in modo assolutamente insensato, gli domando:

“Vieni in montagna da Bet con noi due giorni?”
Sembra per un secondo stupito dalla mia idea; io non ho ancora avuto il tempo di rendermi conto delle implicazioni di questa proposta quando lui, sorridendo, risponde:

"Quando?"
"Domenica e lunedì..."

“Devo controllare i miei turni, ma il lunedì siamo chiusi, quindi non vedo perché no.”

Oddio.



AN: Eccoci alla fine. Se anche questa volta avete resistito fino qui, io vi stimo immensamente.
Inutile inizare di nuovo con le mie più sentite scuse per aver fatto passare così tante settimane: purtroppo i miei impegni accademici di questo anno sono stati molto più complessi e prolungati di quanto mi sarei mai aspettata e da aprile fino ad una settimana fa sono stata immersa in una sessione d'esame infinita - che ha risucchiato ogni mia giornata e ogni minuto non speso per le lezioni.
Non di meno, però, mi scuso con voi. Vi ringrazio anche di cuore per la pazienza e per non aver abbandonato questa storia, nonostante la mia lentezza nell'aggiornare e nel rispondere alle vostre spnedide recensioni, che sono una costante fonte di ispirazione e che mi ricordano perché non posso abbandonare TuttoTondo :D
A costo di essere ripetitiva, come sempre non posso non ringraziare la persona che si pippa ogni volta i miei capitoli da correggere e che si fa grasse risate imbattendosi nei miei orrori di battitura. Non solo! Ogni volta che vado nel panico per le mie insicurezze, che mi faccio prendere dallo sconforto e dai dubbi, lei è lì... A cazziarmi, a confortarmi, a confrontarsi con me per trovare le "falle" e gli errori nella trama (negli sviluppi futuri) e a essere la persona e la beta spettacolare che è: Letizia. Inutile dirvi che in questo capitolo è stata esattamente tutte le cose sopra elencate... anche più del solito. Grazie di cuore, piccola psycho!
E, per finire, due cose: TuttoTondine, siete parte del cuore pulsante di questa storia... grazie per ogni giorno che reistete e che sostenete Med e tutto il contorno (me in particolare!).

Visto che sono in ritardo di un giorno e che non ho potuto mantenere la promessa di un regalo musicale, questo capitolo - e i suoi contenuti - sono dedicati alla piccola Morgana: happy B-day, piccoletta! Grazie anche a te di essere ancora qui... a minacciarmi e a ricattarmi.




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Capitolo 15
*** Dove? ***





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Capitolo 15 Tuttotondo "QUel maledetto Dove"

Previously on TuttoTondo:

Di importante da ricordare c'è che Alex e Med hanno consumato... nel capitolo prima dell'ultimo. La farina... la focaccia... Ricordate? Ottimo.
Nel capitolo 14 abbiamo Med e Alex che affrontano a modo loro il momento post sesso... e non dormono insieme.
Poi Med, Bet e Jules (ovviamente) analizzano l'intero atto passo per passo, come solo noi donne sappiamo fare.
In un momento di follia, le ragazze decidono di andare un paio di giorni a casa di Bet in montagna... con loro ci saranno anche J, Leo e Roby.
Ecco, per finire ci sono Bet e Med al telefono che parlano di vongole e Alex che gioca con le fragole su Med.
Fanno le cose loro e si addormentano insieme; Alex svela l'identità di Andie (suo nipote) e racconta a Med dei suoi problemi con suo fratello Adam.
Poi Med, su precedente suggerimento di Bet, invita Alex ad unirsi a loro nei due giorni di trasferta.
Che altro? Mi pare tutto. Vediamo le ultime battute del capitolo 14 e poi potete tuffarvi nel nuovo con la memoria più fresca:



“Vieni in montagna da Bet con noi due giorni?”
Sembra per un secondo stupito dalla mia idea; io non ho ancora avuto il tempo di rendermi conto delle implicazioni di questa proposta quando lui, sorridendo, risponde:

"Quando?"
"Domenica e lunedì..."

“Devo controllare i miei turni, ma il lunedì siamo chiusi, quindi non vedo perché no.”

Oddio.






- Dove? -



AN
: a S.



Da quando Alex ha deciso di condividere con me almeno una parte di verità su se stesso e sulla sua famiglia, mi sembra di aver guadagnato qualcosa: non necessariamente la sua fiducia, ma ho l'impressione che sia meno guardingo.
Un'impressione, quindi potrebbe tranquillamente essere pura illusione o uno dei miei caratteristici momenti di fantasia. L'idea di far cadere qualche segreto che lo circonda, però, mi stimola immensamente e, volenti o nolenti, è qualcosa che bisogna fare: non possiamo costantemente succhiarci la faccia a vicenda e basta, sperando di trasmetterci informazioni attraverso la saliva.
E Alex, che fa tanto il maturo, è un vero codardo: se il rischio è che si debba esporre un po', si ritira come una patella contro lo scoglio. Poi, per essere sicuro di non essere più in pericolo, usa il suo faccino per sedurti. Da lì si giunge al fantomatico scambio di verità con lo sfregamento delle lingue: ne sto praticando un sacco ultimamente, ma non ho imparato nulla di nuovo su Alex.

Nel frattempo, tra una pomiciata e l'altra, sabato è arrivato più in fretta di quanto mi aspettassi.

Dovrei già essere seduta in macchina con le mie amiche in questo momento, in viaggio verso la casa di montagna di Bet. È tutto pronto: le provviste sono già stipate nel baule della Circe e Bet - dopo una visita non programmata a casa mia mentre io mi trascinavo per la città a fare la spesa - è stata cacciata al piano terra circa quindici minuti fa, con l’unico scopo di placare Jules e di lasciarmi qualche attimo di privacy con Alex.
Alex, che al momento sta usando ogni grammo del suo testosterone per farmi pagare gli attimi di dubbio riguardo alla sua presenza in questo weekend di trasferta. Apparentemente la mia amica, oltre ad essersi presentata qui con un’ora di anticipo, ha anche pensato di condividere con il mio coinquilino la mia reticenza ad invitarlo, vanificando ogni speranza che avevo di una sveltina contro il muro.

Sospendete il giudizio: in ventiquattro anni io non ho mai avuto il piacere della sveltina contro il muro. Sto scoprendo anche io le mie esigenze, ma sembra che ora Alex non sia troppo entusiasta della cosa.

“Mi hanno detto che hai posto iniziale resistenza alla mia presenza con voi…” sussurra quando gli spingo le spalle contro la porta per guadagnarmi un bacio prima di andare, il mio precedente piano ormai un lontano miraggio.
“Le mie amiche hanno la lingua troppo lunga…” rispondo senza spostare gli occhi dalle sue labbra.
Le dita premute sulla mia nuca allontanano di poco il mio viso dal suo, costringendomi a muovere lo sguardo quando vedo spuntare un leggero sorriso.
“Scintilla, perché non mi volevi?”
Sento i suoi polsi fare forza sul collo per controllare la mia posizione prima di avvicinare la bocca alla mia, evitando di toccarla.

“Alex…”
“Mi sento molto offeso.” continua imperterrito, accarezzandomi la pelle con il respiro ma senza decidersi a baciarmi.

“Alex, devo andare. Mi vuoi dare questo benedetto bacio?”
Gli angoli dei suoi occhi mostrano un sorriso compiaciuto per un secondo, il suo pollice passa tra le nostre labbra lentamente. Poi, quando buona parte del mio sangue sembra essersi concentrata dove le sue mani premono contro di me, il sorriso si trasforma in un piccolo ghigno: mi spinge lontana, aprendo la porta alle sue spalle e sollevando la mia valigia.

“No.”

State condividendo con me la frustrazione e lo stupore? Bene, non vi dico le mie gonadi come la stanno vivendo.

Il mio coinquilino muove la borsa verso di me, in un gesto che mi invita ad impugnarla; chiaramente indignata, però, sollevo il mento verso l'alto ed esco a passi decisi dall'appartamento. Lo sento ridere dietro di me, eppure mi segue senza esitare troppo.
"Non porterò giù la tua valigia, Med."
Mi fermo sul primo gradino, voltandomi per mostrargli il mio migliore sguardo di sdegno.
"Perché no? La cavalleria è proprio morta... Insieme alla tua mascolinità."
"Sfottermi non ti servirà a nulla."

Ma io dico, con tutti i maschi che ci sono in giro, proprio a me doveva capitare quello permaloso? Mi rendo conto che tentennare di fronte all'idea di portarmelo in vacanza non sia stato molto carino, ma abbiamo consumato da poco: credo di meritare un po' di tolleranza.

"Visto che sono una persona ragionevole, ti lascio scegliere," lui inarca scettico le sopracciglia, "hai due opzioni: puoi essere gentile e accompagnarmi alla macchina, oppure puoi essere il passionale americano che tanto millanti di essere e darmi un bacio d'addio."
"Ci vediamo domani, Sofia... non è un addio."
"Sai cosa intendevo. Allora, cavaliere o uomo?"

Alex smette improvvisamente di sorridere.
Appoggia la mia borsa a terra e affonda le mani nelle tasche dei jeans tutti stropicciati che, sotto la pressione delle sue braccia, gli scendono pericolosamente sui fianchi, rendendolo ancora più allettante.
Un paio di passi nella mia direzione mi costringono ad appoggiarmi alla ringhiera alle mie spalle. Il suo viso è ancora una volta vicino al mio: gli occhi scuri ed incredibilmente seri.

"Posso essere entrambe le cose senza cedere alle tue stupide provocazioni."
La sua voce bassa sembra portare una nota pericolosa, così strana se associata ad Alex.
Inspiro per nascondere il lieve vacillare della mia impassibilità e con gli occhi fissi nei suoi, rispondo:

"Potresti.” le sue pupille si dilatano al suono sordo della mia voce, resa diversa dall’effetto del suo corpo così vicino a me, “Ma io potrei anche dubitare."
Una mano sguscia nella tasca posteriore dei miei pantaloni, facendo esultare le mie parti basse per pochi secondi.
"Perché ti piace così tanto fare giochetti?" la punta del suo naso scorre contro la mia clavicola e non mandarlo a ‘fanculo si fa sempre più difficile.
"Alex..."

Sento le sue dita premermi contro la carne mentre si muovono nella mia tasca, la frizione che aumenta il calore della pelle: poi improvvisamente la sua mano si allontana da me. Un momento dopo lo vedo sventolarmi il telefono di fronte al viso.
"Chiama Jules. Dille di andare a prendersi un aperitivo con Bet." il sorriso ritorna impercettibile, "Glielo offri tu."

Spinge la mia valigia in casa e nel frattempo mi afferra per un polso, trascinandomi dentro:
"Che cosa? Scusa, che razza di gentiluomo sei se fai offrire a me?"
"Lo sarò dandoti un orgasmo che non ti meriti prima che tu parta."

Chiude la porta con un calcio e mi slaccia con impazienza i pantaloni, ammiccando.
Un brivido di gioia genera sul mio viso un sorriso. In un attimo vedo lo stesso riflettersi sulle labbra di Alex mentre mi spinge contro il muro e fa scivolare le dita nel bordo dei miei slip.

"Mi sembra sensato..." biascico quando lo vedo abbassarsi per togliermi i jeans e le scarpe.

I suoi gesti sono così decisi che fatico a stargli dietro e mi trovo a starmene lì in piedi, seminuda e collaborativa come una trota.

Mi concentro sul cellulare, cercando di vincere contro il correttore automatico, per scrivere a Jules che devo obbligatoriamente fare sesso prima di raggiungerle.
Quando anche i miei slip seguono il percorso dei pantaloni, mi riprendo e con una mano accarezzo il collo del mio coinquilino, tirando il cotone della sua maglia finché Alex non è a petto nudo.

Molto, molto meglio. Starei realmente a guardarlo per ore quando è senza maglia.
Il modo in cui i muscoli delle sue braccia si flettono senza sforzo, la naturalezza con cui una risata scorre dal suo sorriso fino alla pancia. La delicatezza delle sue dita che giocano con quella invitante strisciolina di peluria che scende stuzzicante dall’ombelico, che si muovono leggere e distratte quando legge o racconta qualcosa che lo rilassa. Pagherei per essere quelle dita. E scenderei decisamente più in basso dell’ombelico. Non credo di dover specificare dove.

Mentre io fantastico sul suo petto e valuto seriamente l’idea di morderlo, lui si inginocchia di fronte a me: i polpastrelli che salgono dalle caviglie verso l'alto e il suo respiro sulla pelle.

"Niente baci, però."
"La sveltina contro il muro senza baci fa così Pretty Woman che è quasi patetico." ridacchio in risposta e la voce mi si spegne nel petto quando lui mi solleva una coscia per ancorarsela sulla spalla.

I suoi occhi tornano a guardare il mio viso:

"Non era quello che avevo in mente."

E no, non lo era affatto. Era qualcosa di decisamente diverso ma ugualmente soddisfacente. Almeno per me.

Ho scoperto talenti di Alex sempre più apprezzabili e sono venuta a conoscenza del fatto che sperimentare quello specifico orgasmo e mantenersi in posizione eretta - per la sottoscritta - è impossibile.

Ho anche avuto modo di notare che Alex guarda: studia, contempla, mi fissa. Probabilmente si compiace quando può vedere sul mio viso l’effetto che sta avendo, perché mentre ero - per così dire - sull’orlo del baratro, i nostri sguardi si sono incrociati. Sorprenderlo a guardarmi in quel preciso istante mi ha stupita (e anche arrapata, lo ammetto); quello che però mi ha fatto stringere lo stomaco è stata quella scintilla di meraviglia che gli ha illuminato il viso nella frazione di secondo in cui ha capito che la sua “missione” era compiuto.

Le iridi chiare, il respiro affannato quasi quanto il mio e il viso curioso mentre scopriva cosa riusciva a farmi. Tutto senza spostare gli occhi da me, credo.

Credo (senza esserne sicura) perché, ad un certo punto, io non ho capito più niente e ho dovuto chiudere gli occhi e serrare la bocca per non attirare l’attenzione dei vicini.

Ma quando mi sono seduta a terra e lui si è accucciato accanto a me, il mio sguardo ha ritrovato il suo, che era pieno di interesse; un bacio sulla tempia e l’ho sentito sussurrare:
Amazing.

A meno che non stesse cercando di complimentarsi da solo, credo stesse parlando della mia faccia e delle mie espressioni quando mi sciolgo il cioccolato a bagnomaria.

Dovrei essere imbarazzata, invece sono soddisfatta in modo schifoso.
Nota a me stessa: sei in debito di un orgasmo. E lui è in debito di un bacio. Pagare i conti il prima possibile.

Mezz'ora dopo sto lottando contro le borse formato famiglia che Bet ha portato per due - due! - giorni di vacanza; occupano quasi tutto il baule della Circe e sono rigide, rendendo impossibile il mio piano di saltarci sopra per comprimerle.

"Bet, io ti scortico la faccia." sibila Jules mentre, assieme a me, preme i bagagli tra loro per cercare di chiudere il baule "Ti strappo tutte le cuticole e poi te le cospargo di acetone."
"Scusa, sei tu quella che eccede sempre il peso dei bagagli: dovresti capirmi. Mi sono fatta prendere la mano." risponde Bet tirando una boccata di sigaretta mentre sta appoggiata alla portiera dall'auto.

Stremata e sconfitta, mi allontano dalla macchina, asciugandomi la fronte con un braccio.
"Chiamiamo Alex. Io non ce la faccio più, ho esaurito le forze."
"Quelle le hai esaurite col sesso acrobatico poco fa." risponde la mia amica riccia, rinunciando poco dopo. "Chiamalo. Digli che io non chiedo orgasmi, mi accontento di partire."

Lui, a differenza nostra, in un paio di manovre da cazzo di ingegnere edile incastra tutto alla perfezione in tempo zero, permettendosi anche di sbeffeggiarci per l'evidente mancanza di capacità logistiche.

Io sospetto abbia solo passato più ore di me a giocare a Tetris.

"Non fare il figo: ti abbiamo dato il tempo di fare sesso tantrico con Med anche se non era previsto. Eri in debito con noi." dice Jules mentre sale al posto del passeggero, confinando Bet sul sedile posteriore e ignorandone le proteste.
"Non era acrobatico?" rido, chiudendo la portiera dietro di lei.
"Veramente avrei una precisazione da fare a riguardo." afferma Alex maligno e io, ben intenzionata a non condividere l'informazione con le mie amiche, lo spintono frettolosamente verso il portone: le sue risa che mi riempiono le orecchie e le guance che vanno a fuoco.

Bet si sporge dal finestrino, strillando alle nostre spalle:
"Veramente sei ancora in debito con noi: un orgasmo vale molto di più di un pidocchioso spritz!"
"Scema tu che hai preso lo spritz." puntualizzo lottando con Alex per chiuderlo nel nostro palazzo e, nel contempo, cercando di stampargli un bacio sulla bocca.
"La pianti di fare il cretino? Dammi un bacio prima che a Jules esploda un occhio per lo stress da ritardo!”
Eppure lui mi schiva ancora una volta, tirandomi dentro il portone con lui.
“Alex, devo andare!”
“Stai calma, ci vorrà solo un minuto.” sussurra lui appoggiandosi alla ringhiera delle scale.
“Scintilla, seriamente: ci sono problemi se vengo con voi?”

Ancora? Alex è peggio di una donna!

“No, Alex. Non ci sono problemi. Ammetto che invitarti non è stato il mio primo pensiero, ma sono contenta che tu abbia accettato.”

Più o meno: in realtà sono terrorizzata. Ma questo credo che non glielo dirò.
Il mio coinquilino è chiaramente scettico e tace qualche secondo, esplorando il mio viso con quegli occhi da Pokemon alla ricerca di non so bene cosa.
“D’accordo.” sembra essersi convinto fin troppo facilmente, “Ci vediamo domani.”

Abbozza un sorriso per poi voltarsi, salendo le scale.
“Aleman, il mio bacio?”
“Tieniti stretto il ricordo di poco fa e fattelo bastare. Il bacio te lo darò domani, se te lo meriti.”
“Come so che manterrai la promessa?”
“Perché mi devi un orgasmo. E a me piace baciare mentre lo faccio certe cose con te.”

Vi sono esplose le ovaie? Sì, anche a me.

Terribilmente eccitata, lancio un ultimo sguardo al suo delizioso sedere: sospiro lievemente contrariata e mi decido a raggiungere le mie amiche in macchina.


 
Primo Stop

Sfortunatamente per voi la strada è lunga, quindi dobbiamo fare un po' di pause:
questa la facciamo breve e neutra, visto che siamo all'inizio. Due flessioni e potete tornare a leggere.



Posizionata al posto del guidatore, sento i loro occhi fissi su di me. A nulla sembra servire la mia indifferenza, al punto che, quando Bet si schiarisce la voce con insistenza, mi volto fingendo sorpresa:
“Cosa?”
“Il sesso ti rende impudente…” afferma Jules, “era meglio quando non scopavi.”
“Veramente scopava anche prima,” risponde Bet accarezzandomi la testa orgogliosa, “solo che quello era sesso scadente.”
Io le porgo il palmo della mano invitandola a batterci contro il suo.

“Errori imperdonabili che ho pagato. Ora solo sesso con i sacri crismi.”

Jules si limita ad additarmi insistentemente, borbottando che per un orgasmo venderei anche lei e che ora verremo azzannate dalle nutrie che si annidano certamente in casa di Bet. Vorrei avere una risposta intelligente da dare alla mia amica, ma la mancanza di logica che permea il suo monologo mi lascia perplessa. Troppo perplessa.

La vedo afferrare un CD dalla borsa: benché ancora intenta a brontolare, me lo porge scocciata, invitandomi ad accendere “il cazzo di motore.”

Premo la frizione, ingranando la marcia e leggo la scritta che occupa praticamente tutta la superficie del CD: “SEG On The Rod.”

Spengo il motore e fisso le parole.
“Ti vuoi muovere?” domanda Bet infilando la testa tra i due sedili anteriori per vedere cosa mi ha nuovamente distratta.

SEG. On the Rod.

“Jules, si scrive "Road" non Rod.” le faccio notare mentre lei si divincola per cercare di girare di nuovo le chiavi e mettere in moto.
“Che mi frega di come si scrive. È il mio CD, non la copertina della tesi.”
Bet, sempre incastrata tra i sedili, si concentra sull’altra parola che ora attrae anche la mia attenzione.

“Si scrive sega, non seg. Fai le seghe on the road? Jules, ma mi pare un disturbo gravissimo.”
“Che cosa?!” si indigna la riccia accanto a me, voltandosi verso di noi disorientata.

“Hai scritto Sega on the road… e hai sbagliato due parole su quattro.”
“Io non ho scritto sega, ho scritto SEG. Maiuscolo.”
“Eh, non è che col maiuscolo cambi molto.”

Jules appare improvvisamente esasperata da quella che lei pare identificare come nostra stupidità; si massaggia le tempie e ribadisce con voce calma:
“Ho scritto SEG. Le seghe le farete voi… Io con le mani il coso non lo tocco.”

Il che fa partire nella mia testa la voce del presentatore del circo che annuncia “Senza mani, siori, senza mani!”: ogni tanto divento come Homer Simpson, solo che le mie scimmiette sono meno dinamiche.

“Tu a Cucciolo fai solo pompini?!” la voce di Bet è schifosamente ammirata; io vorrei solo non aver avuto tra le mani il CD che fa da colonna sonora al petting automobilistico di Jules e Cucciolo.

“Sono le nostre iniziali, cretine.”

Al rimprovero, io e Bet ci zittiamo, gli occhi ancora sulla scritta e le rotelline nei nostri cervelli che si attivano.

S, Sofia. Okay, quella sono io.
E, Elisa. Ah, già, a volte mi scordo anche io che Bet si chiama Elisa. Non è importante: nessuno la chiama così da un po'.
G.

“Tu ti chiami Mariagrazia Giulietta…” le faccio notare inarcando le sopracciglia, cercando di capire. Sì, si chiama davvero così: i suoi non sapevano decidere quale nonna onorare, quindi le hanno dato entrambi i nomi.
“Shhhh! Avevate promesso di non chiamarmi più così!”
“Quando?” domanda Bet accasciandosi sul sedile posteriore.
“In quinta ginnasio.”
“In quinta ginnasio avevo anche promesso di darla solo ed esclusivamente a Nick Carter.”

Io ridacchio al ricordo di una rachitica Bet che giura sul poster dei Backstreet Boys che quello sarà l’unico autorizzato a renderla donna, come diceva sua madre.
“Jules, mezzo mondo ha un nome composto.”
“Sì, ma il mio ricorda troppo le tre grazie.” sbuffa infilando il CD nella radio e invitandomi con un gesto a decidermi a partire. “Grazia, Graziella e Grazie al cazzo.”

“Tu deliri. E in ogni caso non spiega perché ti sei segnata con una G, invece che con la M. O semplicemente la J, se il tuo nome ti urta tanto.” ribatto accendendo l’auto e uscendo dal parcheggio.
“Perché sì. Preferisco perdere il primo nome e tenermi solo Giulietta, okay?”
“Così puoi farti toccare la tetta destra da tutti come la statua di Giulietta Capuleti a Verona?” la voce di Bet giunge stranamente distante alle mie spalle e, guardando nello specchietto retrovisore, capisco che si è sdraiata ed è intenzionata a dormire per buona parte del viaggio.

La conversazione muore in una bolla, perdendo di significato per un po’ e lasciandomi il dubbio sulla grossa avversione di Jules al suo - certamente ingombrante - nome composto.
Mentre imbocco lo svincolo per l’autostrada, la voce fluttuante di Bet giunge a noi lievemente ovattata:
“Med, ma non dovevi pranzare con Leo invece di approfittare di Alex?”

Approfittare. Che brutto termine. Ho saggiato i doni di madre natura e i suoi talenti. Ne avevo diritto: le mie esperienze precedenti mi avevano dato una visione del tutto distorta di alcune specifiche maschili.
“Ha disdetto stamattina. Non so bene perché; ha solo detto che non ce la faceva e che dovevamo rimandare.”

Alla mia sinistra Jules sibila qualche parola rabbiosamente; nulla che io capisca, ma l’irritazione è abbastanza evidente dal tipo di suoni che emette. Le lancio un’occhiata curiosa, ma vedo che si sta lentamente massaggiando le tempie ad occhi chiusi: probabilmente l’accumulo di rabbia le ha causato un meritato mal di testa e non è esattamente connessa con me e Bet.
“E tu non hai indagato?”
“No. Tanto lo vedo domani. E poi anche tu mi hai più volte mollata all’ultimo e ancora non ti ho fatto un processo.”

Jules è ancora silenziosa; la mia amica bionda si mette a sedere, ignora la mia non troppo velata accusa e mi invita ad alzare il volume della radio: si unisce a Etta James armonizzando "At Least". 
Bet canta da Dio. Davvero. Potrebbe far addormentare Big-foot con un sorriso sulle labbra cantandogli una canzone Rap.

Ricordo che al liceo eravamo andati in gita a Venezia e - non so come - un gruppo di noi è ovviamente finito in gondola. Mentre ci muovevamo lentamente sull’acqua e parlavamo del più e del meno, Bet si è alzata in piedi di scatto e ha iniziato a cantare a squarciagola:

“Amami, Alfredo! Amami quant’io t’amo!”

Leo è quasi volato fuori dalla gondola, io ho avuto un ictus per lo spavento, mentre Jules e Jack hanno cominciato ad applaudire eccitati insieme al gondoliere.
La piccola bionda, con le sue doti canore, ci ha guadagnato un giro gratis in gondola.

Mentre Bet prosegue nel suo concerto personale, Jules sembra addormentarsi e io ne approfitto per fare un giro nel mio cervellino, cercando la lista di cose che mi piace fare, nell’inutile tentativo di capire quale debba essere la mia prossima mossa.
Tutto quello con cui mi ritrovo sono comuni passioni che non saprei trasformare in un lavoro neppure se ne fossi un’esperta, cosa che non sono. Il problema sembra essere non tanto che non ci siano cose che mi piacciono; ce ne sono molte. Il problema è che mi mancano le competenze e le conoscenze. Un po’ come se mi piacesse e sapessi un po’ di tutto, ma nulla sufficientemente bene.

Non avrei mai pensato che la parte più difficile sarebbe stata decretare cosa fare una volta mollata biologia; credevo che il macigno sarebbe stato essere onesta con tutti sul mio fallimento. Credevo: credevo un sacco di cose. Non ho ancora imparato che la maggior parte delle volte le induzioni basate sul nulla si dimostrano sbagliate e naïf.

Sulle note di “You & I” di Lady Gaga - mentre Bet improvvisa un controcanto Gospel - vedo l’uscita dell’autostrada che devo prendere e metto la freccia a destra:
“Bet, ora che usciamo dall’autostrada dove devo andare?”
Lei s’interrompe sul ritornello, addenta una caramella a forma di Puffo e, con sguardo confuso, mi domanda:
“E io che ne so?”
Jules si volta di scatto verso di lei, ora sveglissima, e sibila:
“È casa tua.”

“Allora?”

“Allora sei tu quella che deve sapere la strada per arrivarci.” le spiego con tono grave e minaccioso.
Lei incontra i miei occhi nello specchietto retrovisore:
“Ti sembro un fottuto navigatore satellitare? Cosa vuoi che ne sappia di dove dobbiamo andare?”
“Non ci sei mai venuta prima?” le chiede nel panico Jules prima di voltarsi verso di me e continuare: “Oddio come minimo non c’è neanche una cazzo di casa tra quei boschi. Finiremo a dormire in una grotta accerchiate dai lupi e dalle antilopi .”

Che glielo dice che in Italia non ci sono le antilopi? E che l’incontro più probabile sarebbe con una volpe?

“Certo che c’è una casa e sì, ci sono venuta diverse volte.”
“Dunque?” domando io in attesa che continui mentre Jules mi passa le monete per pagare il pedaggio.
“Ci sono sempre venuta con J.”
Io e Jules ci guardiamo per un istante confuse, poi Jules chiede:
“E cosa? Hai passato le due ore di viaggio ricurva su di lui e quindi non sai la strada?”

“Jules! Fai vomitare!” mi lamento cercando di bloccare l’immagine fuori dal mio cervello mentre Bet le tira uno scappellotto e risponde:
“Io non sono te. Non so la strada perché guidava sempre lui e io dormivo.”
“Meraviglioso.” borbotto io sottovoce cercando una piazzola dove accostare appena uscita dal casello. C’è di sicuro una tangenziale da prendere, ma la direzione?
“Tu sei l’amica più stupida che abbia.” si lagna Jules incrociando le braccia sul petto e sprofondando nel sedile.
“E tu sei la più ninfomane.” risponde Bet imitando le sue azioni e mettendo il broncio.

“No, quel premio lo vince Med.”
“D’accordo, ora chiudete il becco tutte e due. Jules, apri Google Maps. Bet, chiama J e chiedigli l’indirizzo. Non vi voglio più sentir fiatare fino a che non arriviamo a quella maledetta casa.” minaccio e sospiro spazientita.
Vedo Bet fare delle smorfie mentre ripete le mie parole con una fastidiosa cantilena ed estrae il cellulare dalla borsa. Quando riattacca sollevo le sopracciglia in attesa di istruzioni, ma lei mi fissa e tace.

“Quindi?”
Lei fa spallucce mentre, con aria di sfida, borbotta in risposta:
“Hai detto che non volevi più sentirci fiatare.”
Io e Jules ci guardiamo incredule per pochi secondi, poi la mia amica riccia si slaccia la cintura di sicurezza e si lancia sul sedile posteriore, allungando le braccia nel disperato tentativo di strangolare Bet. Io mi copro il viso stupita e allarmata, ma comincio a ridere quando vedo le gambe di Jules dimenarsi nell’aria.
Bet si è appallottolata dietro di me, sghignazza indicando la nostra comune amica che è rimasta incastrata tra i due sedili anteriori e che strilla in preda all’ira.
Opto per lasciare che risolvano la questione tra loro con la violenza, sperando che non ci siano eccessivi spargimenti di sangue.
                        
Come per i bambini, la discussione si spegne una volta che Bet è riuscita a disincastrare Jules; la riconoscenza in un’amicizia viene prima di tutto.
Un paio d’ore dopo, giunte alla nostra meta (che si rivela essere una splendida ed enorme casa davvero rustica circondata da un piccolo boschetto privato e munita di una impercettibile vista lago), Bet si rifiuta di aiutarci a sistemare la casa e scaricare l’auto, adducendo ad una fantomatica nausea causata dalla mia pessima guida e dagli innumerevoli tornanti che ci hanno condotte fino qui.

Stranamente Jules non protesta più di tanto di fronte alla pigrizia della nostra amica.

Più tardi, quando tutto è stato stipato nella dispensa della cucina e ognuna di noi ha preso possesso di una delle sei stanze, ci ritroviamo accoccolate sotto il portico con un bicchiere di vino rosso a guardare il tramonto.

“Ho lasciato Giorgio.” mormora Jules nel confortevole silenzio sceso tra di noi.
Jules non chiama mai Cucciolo Giorgio. Mai.

Io e Bet, sedute ai lati della nostra amica, ci solleviamo dagli schienali delle nostre sdraio e ci scambiamo un’occhiata sorpresa.
“Che cosa?” chiedo io confusa.
“L’ho lasciato.” risponde lei senza spostare gli occhi dall’orizzonte e bevendo un sorso di vino dal suo calice gigante.

Improvvisamente il suo comportamento bizzarro di oggi sembra trovare un senso. Anche la sua avversione per parte del suo nome: Cucciolo era l’unico che a volte la chiamava Mariagrazia.

Non erano certo una coppia d’oro, ma rompere con qualcuno non è mai facile. Soprattutto se ci stai insieme da così tanto.

“Per quanto questa volta?” domanda Bet scherzosa, ma non ottiene nessun sorriso dalla nostra amica, che sospira e ribatte:
“Per sempre, credo.”
Le sue affermazioni silenziose e brevi ci fanno capire che questa volta è diverso. Stavolta fa sul serio. Non è una delle tante volte in cui, in un momento di noia o d’ira, ha mandato a casa Cucciolo dicendogli che era un uomo delle caverne senza un briciolo di cervello o rispetto per gli altri.
Mi mordo il labbro inferiore, colta alla sprovvista dalla notizia e dall’ombra di vulnerabilità che oscura il viso di Jules. Appoggio una mano sul suo ginocchio e le sussurro:

“Quando è successo?”
“Due giorni fa.” mormora lei con il viso chino sul suo grembo.
Sembra quasi che le parole che lasciano la sua bocca siano registrate. Come se si stesse sforzando di rispondere alle nostre domande. Come se la sua voce non fosse davvero la sua.
                                        
Cadiamo nuovamente in un silenzio breve e teso, rotto solo dal cinguettio di qualche uccellino e dal frinire dei grilli, fino a che Bet chiede:
“Perché non ce l’hai detto prima?”
Lei sposta gli occhi verso il soffitto e si lascia cadere sullo schienale della sua poltroncina, appoggiando il bicchiere a terra e tirando le maniche della felpa oltre le dita:
                        
“Che differenza avrebbe fatto?”
“Nessuna.” rispondo sinceramente io.
“Esatto. Nessuna. Ormai l’ho fatto.” la sua voce è bassa e un po' tremolante.
“Sei pentita?” provo a capire, preoccupata.
“No, non sono pentita. Solo che è strano.” spiega lei gesticolando, eppure la sua voce sembra riflettere la nostra stessa confusione.

“Che intendi per strano?” le domando fissandole un ciuffo di ricci dietro l’orecchio per riuscire a vederla meglio.
“Insomma, io ho passato gli ultimi anni sapendo che lui era nella mia vita. Non lo so, non riesco a scinderlo bene da me. Non so di preciso come mi sento. Dire che non mi manca sarebbe un’ipocrisia: ero talmente abituata alla sua presenza che, ora che so che non c’è, mi sembra impossibile. Però l’ho fatto perché era il momento di farlo. Io e Cucciolo come coppia non funzionavamo, non abbiamo mai funzionato...”
Lascia la frase sospesa nell’aria, come se non sapesse bene cosa dire. Come se le venisse difficile raccontare quello che sente e pensa. Ma, in fondo, sappiamo tutti che ridurre i sentimenti ed i pensieri a parole è sempre un’impresa impossibile. È come cercare di chiudere un elefante dentro una bottiglia da mezzo litro.

Bet cerca di attirare la sua attenzione pronunciando piano il suo nome, ma Jules sembra proiettata da un’altra parte.
“Jules...” ripete lei più forte.
La nostra amica si volta a guardarla con grandi occhi interrogativi.
“Perché l’hai lasciato?” domanda Bet timida.
Il silenzio torna a dominare per qualche attimo. Posso quasi vedere le rotelle di Jules muoversi nella sua testa mentre cerca la spiegazione giusta.

“Ho scritto una lista di motivi per cui non dovevo stare con lui.” inizia imbarazzata e noi inspiriamo consapevoli dell’abitudine della nostra amica di fare liste di pro e contro per prendere decisioni. Poi lei prosegue.
“Erano cinquantadue. Negli anni ho accumulato più di cinquanta motivi per non stare con lui. E solo cinque per continuare la nostra storia.”
Fa una breve pausa, deglutendo a fatica, probabilmente aspettando un nostro intervento che non arriva.
                        
“Forse l’unica ragione per cui l’ho tenuto con me è che credevo di averne bisogno. Per esistere, ecco.”
“Che vuol dire?” chiedo confusa.

 “Non lo so. Vuol dire che ho come l’impressione che lui fosse un’accentuata proiezione di quello che mi manca. Ma non delle cose positive. Dei difetti.” spiega lei, aumentando la nostra confusione.
“Non ho capito.” dice secca Bet, incrociando le gambe e voltando tutto il corpo verso Jules.
“Neanche io.” ride lei, raccogliendosi i capelli e fermandoli con un bracciale tondo d’argento. Sorrido quando muove la testa e vedo quel piccolo oggetto luccicare tra la cascata nera di riccioli che intrappola.
Il sole ormai è praticamente tramontato e comincia a fare freddo, ma siamo troppo pigre e stanche per muoverci.
                        
“Però mi manca.” sussurra Jules mentre fa scivolare tra le dita una ciocca per poi arrotolarsela distrattamente attorno alla punta del naso.
“Mi pare normale.” puntualizza Bet senza muoversi di un millimetro.
“Jules, sei davvero sicura che sia quello che vuoi?” provo a domandarle cauta.
                        
“ Sì, sono sicura di aver preso la decisione giusta per me. Ma questo non rende le cose più facili.” bisbiglia con voce cristallina, ma senza tristezza.
“Okay, allora. Forse è solo questione di tempo. Dicono che il tempo migliori tutti. Personalmente la ritengo una gran stronzata, ma chi lo sa, magari è vero.” dico pacifica rotolandomi su un fianco e chiudendo gli occhi e Jules sopprime una risata.
                        
“Tu non sei mai d’accordo con le perle di saggezza che il mondo ha accumulato.” esclama senza dubbi.
Io inspiro e sorrido fiera non so neanche di che cosa, ribattendo:
“Non sono perle di saggezza, amica mia. Sono un mucchio di luoghi comuni e banalità inventate da chi aveva bisogno di convincersi di avere una speranza.”
                        
“Quanto sei distruttiva. Vado a farmi la doccia, il tuo pessimismo mi deprime.” annuncia Bet alzandosi e, lasciando cadere un bacio sui capelli di Jules, sparisce dietro la porta di casa.

Jules si solleva dalla sua posizione e mi spintona un po’, costringendomi a farle spazio sulla mia sdraio; si appallottola al mio fianco, abbracciandomi e sprofondando il naso contro il mio collo.
Io le avvolgo le spalle, sussurrando piano:
“Starai bene, amica.”
“Anche tu.” mormora lei rilassandosi e chiudendo gli occhi.


ALT! STOP! FERMi!

So che volete vedere come va avanti, ma se sono stanca io... non oso immaginare come state voi.
Pigliate della cioccolata: potrebbe essere utile per proseguire.
E acqua, tanta acqua.
Se dovete fumare, fatelo ora... Non so ancora quando lo potrete fare. Le pause si decidono in corso d'opera.





Quella sera, dopo aver cenato (con porcherie che farebbero inorridire ogni mamma con una figlia sovrappeso) e aver scolato ben due bottiglie di vino per rendere ufficiale la rottura di Jules e Cucciolo, mi cambio in un - per me molto sobrio - pigiama e mi siedo sul materasso. Fisso lo schermo dell’iPhone, combattuta sul da farsi.

Chiamare o non chiamare Alex.

Dilemma lecito: se lo faccio il rischio è di apparire appiccicosa. Se opto per il no, potrei dargli l’impressione di non essere interessata ad altro che non sia il sesso.
Per una volta, però, decido di lasciarmi guidare dall’istinto: apro l’applicazione di FaceTime e, senza troppi indugi, premo sul contatto di Alex.

Tre squilli dopo il mio schermo si riempie dell’immagine del mio coinquilino seduto al tavolo della nostra cucina, ricurvo su un foglio.
“Ciao, Scintilla…”
“Ciao a te,” borbotto distratta con gli occhi fissi sulla sua mano che fa scorrere la penna sul piccolo pezzo di carta.
“Che stai scrivendo?”

“Facevo una lista molto volgare di modi con cui puoi mostrarmi la tua gratitudine.”  
“Io non ti devo niente… Ti ricordo che non mi hai voluto baciare.”
“Sì, ho considerato anche quello nella mia lista, ma alla fine io ci metterò poco a risolvere quella questione.”
“Sbrigativo… Molto invitante, Alex.” ribatto rotolandomi a pancia in su sul letto e reggendo lo schermo dell’iPhone con un braccio teso.

Alex appoggia la penna sul tavolo e, d’un tratto, i suoi occhi sembrano catalizzati da qualcosa di specifico sulla parte inferiore dello schermo.
“Mi senti?”
“Scintilla, ti spiace abbassare il telefono di una decina di centimetri?”
“Perché?”
“Tu fallo, poi te lo spiego…” insiste con aria sempre più attenta e avvicinando il viso allo schermo.
Io, dubbiosa, piego il braccio in modo che l’iPhone sia un po’ più vicino al mio volto; Alex però disapprova all’istante.
“Non verso la faccia. Verso il basso… Tipo… più giù!”

In momenti come questi mi chiedo se il suo sia un problema linguistico o se è solo incapace di comunicare in modo diverso da Io Tarzan, tu Jane.

“Giù dove?”
Lui gesticola con enfasi indicando il pavimento e, senza pensarci, imito i suoi gesti e sposto il telefono orizzontalmente verso la pancia.
“No, troppo!”

Inverto di nuovo la rotta e torno a inquadrare il mio viso, cominciando ad essere un pelo frustrata.
“Okay, ora un po’ più giù…”
“Così?”
“Ancora qualche centimetro…”
Io ubbidisco, pericolosamente vicina al desistere e ad interrompere la comunicazione, fingendo un guasto al 3G, finché lui non esclama estasiato:
“Perfetto!”
Cerco di spiare nello schermo che cosa diavolo stesse cercando, ma il riflesso del vetro mi impedisce di cogliere il dettaglio tanto bramato da Alex:
“Quindi?”
“Messa così hai delle tette spettacolari!”

Alla sua affermazione, invece di scandalizzarmi, riesco a pensare solo ad una cosa: qualcosa di nuovo, qualcosa di… beh, lussurioso.
“È il tuo modo per chiedermi di fare sesso al telefono?”
“Lo faresti?”

La domanda è complicata: lo farei? No, in tutta onestà non ho mai pensato di essere una da sesso telefonico. Non ho mai capito cosa si dicesse la gente di così particolare da far eccitare l’altro semplicemente con le parole: non credo che due porcherie sussurrate qui e là senza sostanza da toccare possano soddisfare.
Senza considerare il fatto che l’autoerotismo è qualcosa di molto privato; una volta col telefono non c’era il problema del “guardami tu che ti guardo io”. Ora mi sembra di tirare un po’ troppo la corda della mia trasgressione.

Non sono decisamente pronta a farmi vedere da Alex in quello specifico atteggiamento; e - a dirla tutta - non so se sono pronta a  vedere lui.

Dai, siamo onesti: potrebbe essere una delle cose più ridicole del mondo. Inoltre - grazie a quei signori che pensavano che dovessimo essere sempre tutti rintracciabili, visibili, disponibili - c’è il problema telecamera: già, perché quando tu videochiami c’è una maledizione che ti perseguita e ti impedisce di guardare in camera o di osservare effettivamente il tuo interlocutore.
Sto parlando della propria immagine, piccina, appiccicata sopra l’immagine più grande di quello che avete videochiamato; bene, io quando sto parlando ogni sei secondi mi trovo ad abbassare lo sguardo sulla mia immagine, notando ogni mostruosità evidente sul mio viso.
Ecco, ci immaginiamo una situazione del genere durante una videochiamata hot?

“Lo faresti? Con me, intendo…” ritenta Alex, per nulla scoraggiato dal mio silenzio - evidente sintomo di indecisione. D’un tratto mi si annida nella mente un quesito, un dubbio, un sospetto lancinante.
“Tu l’hai mai fatto?”
Way to deflect…” borbotta lui alzando gli occhi al cielo e, per un momento, sono sicura che questo voglia dire che l’ha fatto.
“Non sto tergiversando, è solo una curiosità.”

Una curiosità proprio per un cazzo. Voglio saperlo, perché se la risposta fosse sì, temo di avere un grosso e velenoso problema: la gelosia.

“Se dico di sì che cosa succede?”

Succede che voglio i dati della svergognata con cui l’hai fatto, in modo da poterle andare a tirare uova marce sulla porta di casa.

“Nulla.”
“Bugiarda.” Alex sorride, incrocia le braccia e si avvicina alla telecamera, “Scintilla, sei gelosa?”
“La gelosia è per gli sfigati.”

E io sono una sfigata, perché credo proprio di essere gelosa.

“Allora non hai nulla in contrario se ti insegno come si fa? Lo hanno insegnato anche a me un paio di anni fa.”

Ora riattacco.

“Ovviamente no. Prego, Eros, mostrami l’arte della porno videochiamata!”
La mia è indubbiamente una sfida e Alex lo percepisce nella mia voce, lasciandosi sfuggire una risatina e accarezzando fin troppo il suo ego, avendo possibilmente trovato conferma della mia lieve gelosia.
Essere gelosa in questo caso è alquanto pericoloso.

“Il problema è che ho una insana voglia di sentire il sapore della tua pelle sulle labbra…” mormora pianissimo fissando dritto nello schermo.

Merda.
Indifferenza, Med, mostra indifferenza.

“E non mi dispiacerebbe affondare le unghie da qualche parte.”
“Non suona molto sensuale.” sto balbettando, il che mostra assolutamente che solo immaginare la cosa mi manda in calore.
È anche vero che Alex sembra aver risvegliato certi istinti: forse il mio è un problema di tiroide.

“C’è un punto...” sussurra lui leccandosi le labbra e lascia la frase a metà.
Cinque secondi di silenzio e sto soffocando per l’onda di calore che è salita dalle mie parti femminili fino alla gola; sei secondi e cedo.
“... sì?”
I suoi occhi si stringono in un sorriso orgoglioso e consapevole, che diventa subito contagioso.
Lo vedo ritrarsi dallo schermo per appoggiarsi allo schienale della sedia, in modo da offrirmi una migliore prospettiva; solleva la maglia per mostrarmi il suo ventre.

“Più o meno qui…” le sue dita si posano accanto all’ombelico, “No, più giù,”
il polpastrelli precipitano verso il basso e completamente fuori dalla mia visuale, bloccata dal bordo del tavolo.
Glielo dico?
“Ecco, qui. Qui è il punto in cui si sente di più il profumo della tua pelle.”

Dove? Dove?

“E non so se mi basta immaginare di passare lì e respirati. E vorrei anche provare a morderti lì, per vedere se anche il sapore è così intenso.”

DOVE?!

“Quindi, credo che mi terrò questo piacevole desiderio fino a domani.”
Desiderio? Lui? Io ho il sistema ormonale che grida mayday: ora io cosa faccio?
Forse è arrivato il momento che, ad esempio, emetta qualche suono. Dovrei anche controllare la mia immagine perché credo di aver “arrapata” stampato sulla faccia.

“Sei troppo spaccone, Aleman…” sibilo tra i denti, un po’ imbarazzata per la facilità con cui mi lascio coinvolgere da Alex, ma allo stesso tempo compiaciuta del fatto che per la prima volta il sesso ha come filo conduttore un aspetto ludico e passionale.
Insomma, non è squallido: è una continua esperienza diversa.

“Davvero?”
“Non pensare di poter fare la femmina tra di noi: mi piace un sacco quello che facciamo, ma se pensi di essere l’unico che può usare il sesso come arma, ti sbagli di grosso.”
Ed è lì che ottengo la mini-vittoria della serata: lui impallidisce lievemente e si irrigidisce.
“Non lo faresti…
Stai minacciando di non fare più sesso con me? Non tollereresti l'astinenza.
“Dici? Vuoi mettermi alla prova?”

No, non vuole: mi eccita in modo vergognosamente impuro, ma devo far valere il potere della vagina, o qui finisce che lui diventa quello col coltello dalla parte del manico.
“No, no… cioè…” ora a balbettare è lui, “Non ne saresti capace. ”
“Se te la senti di rischiare.”

Si mordicchia l’unghia del pollice per un tempo non definito: i suoi occhi che si muovono sulla mia immagine sullo schermo e il suo viso che si contrae in piccole microespressioni di indecisione. Poi fa un respiro profondo, ammicca e conclude:
“Fatti trovare nuda domani e nessuno si farà male.”
“Imbecille.”
“Prometto di saldare il mio debito con un bacio degno dell’attesa.”
“Buono a sapersi.”
“E tu? Cosa prometti?”

Ridendo mi muovo sul letto per mettermi seduta, provando un vergognoso piacere nella sola idea di prolungare un po’ la sua sofferenza. Alla fine decido che concludere con un non-detto è la cosa più giusta.
“Prometto di pensare a te come qualcosa di diverso da un semplice oggetto sessuale.”

Sì, lo so, non significa niente: anzi, suona decisamente come una minaccia di deprivazione erotica, ma la sua espressione delusa è una conquista troppo grande per fargli sapere che la cosa turba forse di più me.

“A domani, Aleman.” e riattacco, senza concedergli la possibilità di replicare.
Un attimo dopo lo schermo del mio telefono si illumina, segnalando un messaggio in arrivo.

Stai diventando troppo sicura di te. Sarò costretto a fartela pagare… Una volta che la mia bocca sarà in prossimità di quello specifico punto di cui ti parlavo poco fa.

E, per l’ennesima volta, un brivido si scioglie nella mia pancia mentre nella mia testa risuona uno stizzito “Quale punto? Dove?!”.

Mi scopro a sorridere come una cretina, rileggendo un paio di volte il suo sms, quando la porta della mia stanza si spalanca e le mie amiche si fanno strada fino al mio letto.
Jules, sfoggiando un discutibile pigiama leopardato, solleva le coperte e ci si infila sotto:

“Le pareti di questa casa sono molto sottili, Med. E tu sei una vera vacca.”

Quando anche Bet, con la sua tutina intera da notte (che, concedetemelo, non è certo meglio dei miei pigiami), prende possesso di parte del mio letto, capisco che hanno deciso che vogliono dormire con me.
“Io non ho mai fatto le porcherie al telefono: quell’Alex ti ha tolto i freni inibitori.”
“Non ho fatto sesso al telefono, ma ammetto che ora sono incredibilmente affascinata dall’idea di provarlo.”
Bet si sporge in avanti per trovare lo sguardo di Jules:
“La nostra bimba cresce.”
“Se cresce a questo ritmo tra poco supera la barriera del sesso.”

Che cos’è la barriera del sesso?

“Nah, troppo presto per il lato b.” risponde la bionda alla mia sinistra.

Ah, quella è la barriera del sesso? No, non sono pronta per andare oltre la barriera del sesso con Alex. Decisamente non pronta.
“Nel sesso c’è solo una cosa troppo presto.”
“Che sembra essere il problema di Med.”

Proseguono come se io non fossi attualmente posizionata sul materasso insieme a loro: la loro attenta analisi della mia sessualità ormai è diventata un normale argomento di conversazione. Il che è abbastanza comune tra donne.

“Med, la prossima volta cerca di pensare ai tuoi, magari ti si blocca la libido.” suggerisce placida Jules, sdraiandosi completamente sotto la coperta e mettendosi comoda.

A quel punto suppongo sia arrivato il momento di far notare loro che ci sono altre camere in cui dormire.
“C’è una ragione per cui avete deciso che potevate invadere il mio letto?”
Vedo Bet sporgersi verso l’interruttore e spegnere la luce, prima di degnarmi di una risposta:
“Jules ha detto che la sua camera era inquietante e che tu avresti condiviso con gioia le coperte con lei.”
“Si sbagliava.” mi limito a ribattere mentre tento di conquistarmi un po’ di spazio tra loro per sgusciare sotto le lenzuola. Eppure il mio disappunto non viene registrato dal cervello delle mie amiche.
“Quindi Bet, che non percepisce assolutamente la competizione, ha deciso che se io dormivo con te, era giusto che lo facesse anche lei.”

A poco servono le mie proteste: cinque minuti dopo entrambe hanno liquidato la mia volontà di stare da sola e, dopo avermi assegnato la porzione centrale di materasso, sono rapidamente cadute in un sonno profondo.

La mattina successiva, nel totale silenzio di questo posto incontaminato e privo di sveglie a traumatizzarci, mi alzo dal letto ad un orario socialmente vergognoso: sono le 12 e 53 e, alla mia destra, Jules è ancora immersa in un sonno profondissimo.
Il lato sinistro del letto, però, è vuoto e freddo, ad indicare che Bet si è alzata da un bel po’.

La trovo sotto il portico, avvolta in una coperta leggerissima, mentre sorseggia una cosa che puzza di finocchio.
Con una tazza di caffèlatte tra le mani e un pacco di merendine sotto al braccio, mi siedo sulla vecchia sedia a dondolo accanto a lei e, solo in quel momento, la mia amica si volta verso di me e mi sorride:
“Ho sentito J. Tra qualche ora partono…”

Con il sonno ancora negli occhi, mi limito ad annuire e a sorseggiare lentamente il caffè, cercando di non sentire il suo sguardo fisso su di me.
“Med, hai pensato a cosa vuoi fare? Al posto di biologia, intendo…”

Ah, se ci ho pensato. Sì, ci ho pensato parecchio: e stavolta non l’ho fatto perché so di dover dare una risposta ai miei. L’ho fatto perché capirlo mi serve per comprendere meglio i miei confini.
Non saperlo sfuma i contorni dell’immagine che ho di me: prima di decidere di lasciare l’università avevo qualcosa con cui identificarmi. Per quanto statica fossi, avevo una categoria dentro la quale piazzarmi.
È vero che ciò che scegliamo come mestiere non può definirci come persone, ma è parte di ciò che vogliamo essere.

Ci sto pensando, eccome: mi serve solo un po’ di tempo. O forse qualche suggerimento. O un’occasione. O di crearmela da sola, l’occasione.

“Sto vagliando le possibilità, per ora con scarsi risultati.”
La mia amica sposta gli occhi da me, concentrandosi sullo scorcio di lago che si intravede tra gli alberi del boschetto in cui è immersa la casa.
“So che vorresti una risposta subito, Med. Lo capisco, ma non farti fretta: le risposte giuste non arrivano facilmente.”
“Non ho intenzione di farlo…”
“Bene. E non cercarla in fretta per i tuoi genitori, okay?”

Quando sei trasparente per un amico, rischi di sentirti in pericolo; ma quando l’amico è qualcuno come Bet, puoi solo sorridere, perché nonostante le tue imperfezioni, lei è ancora lì:
“Non stavolta.” rispondo dando una piccola spinta con i piedi e godendomi il leggero ondeggiare della sedia a dondolo.
Cadiamo in un confortevole silenzio per qualche minuto, godendoci l’aria fresca e assaporando una colazione che sa di pace.
“Se ti serve qualche idea, fammelo sapere.” mormora lei sorridendo, la voce leggera nel tentativo di non spezzare il ritmo lento e disteso di questo risveglio. Così diverso dai nostri risvegli in città. Così surreale.

“Per ora vorrei fare da sola.” rispondo piano. Sono grata per l’offerta, però sento il bisogno di essere indipendente. Autonoma. Responsabile per me e di me.
Tutte sensazioni nuove per me: nuove e immensamente piacevoli.
“Così si parla.”

“Sarebbe meglio se si parlasse di meno quando la finestra della camera confina col portico e si lasciasse dormire la propria amica.”

La voce di Jules dietro di noi è appesantita dal sonno, mentre si fa strada verso di noi: i ricci scuri che le coprono il viso e gli occhi ancora  stanchi.
“Med ha deciso che vuole fare da sola…”
Jules si siede accanto a Bet, rubandole la tazza dalle mani e annusando disgustata il suo contenuto.
“Che roba è?”
“Tisana al finocchio.”
“Che schifo.” le restituisce l’oggetto e opta per la scatola di merendine. “Fare cosa da sola? Stasera c’è Alex… Non riesci ad aspettare lui?”
“Non quello, sporcacciona!” l’apostrofa Bet “Vuole scoprire da sola cosa fare da grande.”

Jules mastica lentamente un morso della sua colazione, scrutandomi silenziosa: ricambio il suo sguardo, principalmente perché è ancora troppo presto per elaborare una frase con più di sette parole. La mia amica deglutisce, scambia un’occhiata veloce con Bet e poi mi sorride assonnata:
“Brava, piccola Sofia. Autorealizzazione: punti alla cima della Piramide di Maslow.”
Cosa cazzo stia dicendo non lo so io e - dalla sua espressione - non lo sa neanche Bet, però la lasciamo parlare.

“Intanto posso fare una lista di emergenza di professioni che ritengo perfette per te?”
“Se proprio devi.”
“Devo.” gattona in casa velocemente e ritorna in posizione eretta con il suo telefono tra le mani.
“Jules,” dico sospettosa quando la vedo sogghignare compiaciuta, “Leggimi il primo lavoro…” ma lei scuote la testa.

Bet si alza dalla sua posizione e, in punta di piedi, sbircia oltre il telefono della riccia.
“Rappresentante de La vagina rossa...” dice confusa contorcendo il viso in una smorfia che perdura anche quando Jules la corregge:
"Valigia rossa."
“Cosa cavolo è la valigia rossa?”

Vorrei saperlo anche io, benché qualunque lavoro in cui io debba fare la rappresentante di qualcosa sembra una pessima idea.
“Avete presente le riunioni del Bimby e della Tupperware?” risponde Jules alternando lo sguardo da me a Bet. Quando ci vede annuire, prosegue:
“Ecco, tipo quello, ma con i sex toys!”

Ora, so che degli amici veri non ci si dovrebbe mai lamentare, però di quelli con un pessimo senso dell’umorismo si può, eccome. 
Ma, vista la sua recente rottura, mi sento clemente e lascio che prosegua nella stesura di una lista che non verrà mai presa in considerazione; probabilmente in metà di quei lavori io sarei nuda.


Pausa di emergenza:

sono certa che tra di voi ci sarà qualche temeraria che prima non ha approfittato delle pause
e non ha seguito i consigli della direzione.
Potete correre ora a fare pipì, procacciarvi del cibo, bere (solo acqua per i minori di 18 anni!) e varie ed eventuali!




Passiamo buona parte del pomeriggio in pigiama, oziando, mettendoci e togliendoci lo smalto e cercando di mantenere la conversazione su argomenti leggeri, non del tutto seri: a volte distrarsi serve di più che affondare in strazianti analisi.

Quando si è quasi fatta sera, ormai terminato il nostro giorno di cura personale e di chiacchiere che non vanno da nessuna parte, il rumore di un’auto che arranca per superare la salita che porta a casa di Bet attrae la nostra attenzione.
Pochi secondi dopo vediamo spuntare la macchina di J che attraversa il cancello arrugginito e percorre il breve sentiero di mattonelle che conduce fino al portico da cui noi osserviamo la scena.

Bet schizza in piedi e lancia un urletto estasiato, saltellando in mezzo al prato finché non raggiunge la portiera dal guidatore, spalancandola.
Trascina il suo ragazzo fuori dall’abitacolo, tirandolo per un braccio.
                    
                        
In lontananza intravediamo Leo, Roby ed Alex uscire dall’auto; scaricano le loro borse dal bagagliaio in una perfetta catena di montaggio e, accanto a loro, appoggiati alla portiera, J e Bet si incollano l’uno all’altra.
                    
Bet, con le braccia agganciate attorno al collo del suo ragazzo, con una piccola spintarella fa un minuscolo salto; le mani di J sono rapidissime nell’afferrarla per sostenere il suo peso, mentre le gambe di lei si avvolgono attorno alla sua vita.
J, con gli occhi chiusi e le mani sotto il fondoschiena della nostra amica, si lascia andare contro la carrozzeria della macchina e china la testa all’indietro, mentre cattura le labbra di Bet in un bacio dolcissimo. I capelli biondi di lei scendono attorno al suo viso e nascondono l’attimo di intimità ai nostri occhi, ma la sentiamo ridacchiare felice mentre gli accarezza il collo e lui le solletica la schiena.
                        
“Se vi dite che vi amate, vomito!” urlo mentre anche io e Jules ci avviciniamo.

Il viso di J spunta dalla spalla di Bet con un sorriso enorme e accompagna con delicatezza la mia amica fino a che i suoi piedi non toccano di nuovo terra. Lei si volta verso di me, solleva una mano e mi porge il terzo dito. Poi, ignorandoci, ricomincia a molestare il suo ragazzo che, ridendo, affonda una mano nelle onde dei suoi capelli e si dimentica di noi.
                        
Jules, una volta raggiunti gli altri, si lancia sulla schiena di Roby e gli strilla nell’orecchio:
“Ehi, secchione! A cosa dobbiamo l’onore di averti qui? Non ti senti in colpa per aver abbandonato i tuoi poveri libri? Non vorrei mai che ti si staccassero pezzi di cervello per la mancanza di informazioni. La devi nutrire questa testolina, se no chi ci mantiene quando saremo tutti disoccupati e infelici?”
                        
Roby lascia cadere la borsa che ha in mano; sghignazza, piegandosi in avanti per assicurarsi di non far cadere Jules.
“Mi preoccupo di più per la mia colonna vertebrale. Sei ingrassata Jules! Pesi quanto una elefantessa incinta!” risponde il mio amico con un sorriso quando Jules emette un suono indignato prima di tirargli uno scappellotto.
                        
“Non te la prendere Jules,” si intromette Leo emergendo dal bagagliaio “basta che ammetti di essere un travestito e il tuo peso non sembrerà più fuori luogo. Gli uomini pesano di più, è un dato di fatto.”
Jules, scesa dalle povere spalle di Roby, borbotta qualcosa che somiglia molto a impotente segaiolo prima di marciare stizzita verso la porta d’entrata.

“Come è andato il viaggio?” chiedo raggiungendo il retro della macchina.
Alex solleva la testa dal bagagliaio e accenna un sorriso, prima di tirare fuori il suo borsone.
“Benone,” risponde con un’espressione poco convincente, “ho sentito un sacco di racconti sulla tua gioventù.”

Rabbrividisco. Altri racconti sulla mia gioventù. Fatti da Leo e Roby: non è un bene.
Vedo Roby sollevare il suo trolley e, non appena le sue parole giungono al mio orecchio, capisco il perché dell’aria severa di Alex.
“Alex non sapeva che sei stata innamorata di Leo.”

E ovviamente era il caso di raccontarglielo, vero?

Deglutisco colpevole e, al sorriso compiaciuto di Leo, devo davvero trattenermi per non colpirlo con una pietra sui denti.
“Innamorata, che parolone.”
“Eri cotta come un cotechino, ammettilo.” si pavoneggia Leo, completamente ignaro degli occhi di Alex piantati sul retro della sua testa, lo sguardo scuro e il viso rigido.

Ehm.
Non dovrei essere esaltata per il suo evidente turbamento, vero?
Pazienza. Lo sono. Molto.

Quando Bet arriva a salutare anche Alex - senza baci con la lingua, ovviamente - Leo si piega lievemente verso di me.

“Ti sei fatta Alex?”
“Leo!”
“Rispondi: sei andata a letto con Alex?”
“Impiccione…”
“Sì o no?”
Trascino il silenzio per qualche altro secondo, godendomi parzialmente la leggera tortura che l’attesa sembra provocargli, e poi rispondo:
“Sì.”
“No, merda!” esclama lui, dandomi una piccola spinta sulla spalla e controllando dietro di sé per assicurarsi che nessuno lo senta.

“Che problema hai?” chiedo confusa e lievemente contrariata.
Dovrebbe solo essere felice per me che sono passata da L a Alex; lui ha sempre disprezzato L ed ero più che sicura che Alex gli facesse simpatia.
“Non potevi tenertela stretta ancora una settimana?”

Me la sono tenuta stretta anche fin troppo: io ad Alex l’avrei donata diversi giorni prima. Solo che le circostanze mi hanno costretta a posticipare.
“Perché?”
“Avevo scommesso con Jack che non avresti consumato prima della settimana prossima.”

Quando i tuoi amici scommettono soldi sull’attività della tua vagina, capisci che è il momento di mettere qualche paletto.
“La prossima volta che fai una cosa così squallida, ti assicuro che dichiaro defunta la nostra amicizia.”
“Il fatto che tu non mi abbia detto che stavi con Alex non è comunque un buon segno per la nostra amicizia. Pensavo ti fidassi di me.”
“Mi fido…” rispondo con sicurezza.

Una sicurezza che, però, non sembra convincerlo più di tanto; comincio davvero a pensare che io e Leo dobbiamo trovare un nuovo modo di comunicare. Tutta le tensioni e le insicurezze degli ultimi mesi sembrano incombere sempre e comunque sui nostri discorsi.
Sto per proseguire, quando alle mie spalle sopraggiunge Alex.

“Mi fai vedere dove devo dormire?” mi chiede costringendomi a voltarmi, “Ho anche una cosa per te, se non sbaglio.”
I suoi occhi rovinano veloci sulle mie labbra, ricordandomi che ho un bacio da riscuotere.
Leo, accanto a me, viene fortunatamente distratto dalla mia amica che gli getta le braccia al collo (credo più in un tentativo di salvare me che per un reale entusiasmo incontenibile di avere Leo qui).
Mi incammino verso l’entrata e Alex - dopo un ultimo sguardo a Leo - mi segue in silenzio fino alla camera che ho scelto ieri.

Quando varco la soglia della stanza, il mio coinquilino chiude la porta alle sue spalle, voltandomi verso di lui con un gesto secco.
"Ti devo parlare." afferma avvicinandosi pericolosamente al mio viso, lo sguardo duro.

"Di Leo?"
"No, ma prima saldo il mio debito."

Non mi lascia il tempo di rispondere: in un attimo le sue labbra sono premute contro le mie e le mani sono scivolate sul mio sedere. Le dita prepotenti contro di me, mentre la sua bocca infierisce quasi irritata.
Dovrei essere infastidita dal suo comportamento infantile, invece ne sono vergognosamente compiaciuta: ogni volta che affonda accidentalmente i denti nel mio labbro inferiore, un senso di vittoria mi avvelena le arterie. Quando lo fa, dura una frazione di secondo, l’azione presto sostituita dalla sua lingua che massaggia il punto su cui ha concentrato la rabbia, quasi come se si scusasse per il gesto aggressivo.

Sarà pure aggressivo, ma io lo trovo delizioso.

Non collaboro quanto dovrei: lascio che sia lui a baciare me, partecipando quanto necessario ma non troppo.
È un bacio maschile; uno di quei baci in cui lui cerca di farti sapere che solo lui può baciarti. Che solo lui deve poterti assaporare.

Lo assecondo, consapevole della sua frustrazione quando le sue labbra reclamano una precisa risposta dalle mie; risposta che arriva molto più debole di quello che lui avrebbe voluto.

Lentamente lascio che nel bacio si accorga di essere irrazionale; gli permetto di fare per un po’ l’Alfa, rilassandomi quando le sue dita salgono più leggere fino al mio collo e il suo bacio diventa più delicato.

La pressione diminuisce, fino quasi a sparire con un’ultima carezza della sua lingua contro la mia pelle e due baci solitari prima al mio labbro superiore e poi a quello inferiore.

Quando ha finito, appoggio la fronte alla sua: gli occhi chiusi e il respiro corto.
"Avevo 18 anni, Alex. Non c'è bisogno di diventare possessivi."
"I don't like to share..."
"Neanche a me piace condividere... Tienilo a mente la prossima volta che  mi racconti dei giochi erotici che ti hanno insegnato."

Accenna un sorriso impercettibile e poi cerca i miei occhi: l’ombra dell’imbarazzo che si scioglie liquida nel suo sguardo.

Med, are we exclusive?”
“Devi chiedermelo in italiano perché, se è quello che penso io, è il caso di evitare fraintendimenti.”

Allontana la fronte da me e sospira profondamente:
“So che dobbiamo andare piano, conoscerci e tutta quella roba lì.”

Quella roba lì. I maschi. Così poetici.

“Però ci ho pensato: l’idea che tu possa uscire con qualcuno non mi piace affatto.” mentre parla le sue mani scendono lungo le mie braccia, avvolgendomi i polsi e portando le mie dita sui suoi fianchi.
Si zittisce per un po’ e credo che si aspetti una risposta.
“Dimmi che anche a te non piace…”
“L’idea di uscire con qualcuno che non sia tu?”
“No. Che io mi veda con altre.”

Alla sola idea mi sale il sangue al cervello.
“No, non mi piace affatto.” sorrido quando le sue spalle si abbassano in un sospiro di sollievo.
“Quindi… Senza fretta, però… siamo esclusivi, giusto?”

Siamo esclusivi è una delle traduzioni peggiori che abbia mai sentito, ma il concetto è chiaro: non vuole che io frequenti altri mentre capiamo cosa vogliamo fare e come gestire il nostro rapporto.
“Esclusivissimi.” sorrido lentamente e, portando una mano sul retro del suo collo, faccio schioccare un bacio possessivo sulla sua bocca.

“Sistema la tua roba. Ti aspetto di là.” e, senza guardarmi indietro, raggiungo gli altri in salotto.
In che direzione andiamo io e Alex ancora non lo posso dire con certezza, ma - a prescindere dal dove - almeno ora è ufficiale che ci andiamo insieme. Solo io e lui.
La cosa mi inebria e mi terrorizza allo stesso tempo.


AN: Se trovate ancora errori, nonostante l'immenso lavoro della Beta, perdonatemi: credo di aver perso anche io la vista a forza di leggere, rillegere e correggere.
Purtroppo Gennaio è mese di esami e io devo rimettermi sui libri... Subito.

Mi dispiace per la lunga attesa: chi è nel gruppo ha avuto qualche aggiornamento passo per passo sui motivi per cui non sono stata presente. Mi scuso con tutti quelli che hanno aspettato l'aggiornamento per così tanto e ringrazio per essere ancora qui dopo tutto questo tempo. 
Avrei voluto saldare il mio debito con le risposte alle recensioni ma, avendo procrastinato troppo a lungo, se mi fossi dedicata prima a quelle non avrei più aggiornato. Sappiate che sono la gioia più grande e che sono la motivazione più forte ogni volta che mi abbatto o che non so come tornare a questa storia. Ogni commento che mi lasciate sa farmi tornare la voglia di scrivere: ve ne sono incredibilemnte grata. Sempre.
La mia riconoscenza più grande va a quella santissima donna di Letizia che riesce sempre a fare magie con le assurdità che metto insieme. E le mie scuse ai suoi capillari. Sono mortificata. Il rene che ti ho promesso in segno di gratitudine è stato spedito. Con uno vivo, senza Beta sono spacciata ahahhaah!
Col cuore in mano dico grazie alle mie TuttoTondine che ancora hanno la voglia e la pazienza di non abbandonare questi due e di pazientare quando la mia vita prende il sopravvento.
Nell'ultima settimana c'è stata una spinta che mi ha "caricato" al punto da riuscire a ricominciare questo capitolo dal principio (la prima stesura era stata un fallimento ed è stata eliminata un paio di settimane fa) e che hanno tenuto viva e attiva la mia ispirazione per giorni: le new entry - spero di ricordarvi tutte - su twitter kikka, annecleire, imma (non proprio new entry), Karen, Rac (che, in realtà, spero si sia salvata da TuttoTondo) e tutte le donzelle che mi hanno incitata su FB e su twitter. Senza il vostro entusiasmo, forse, sarei ancora a pagina due dell'aggiornamento. Voi e il tag #TuttoTondo mi avete messo il turbo!

In ultimo, va una dedica particolare: S., una mia carissima amica, che conosco da sempre e che a breve vedrà arrivare il suo GRANDE giorno. Questo capitolo lo dedico a te e a quel sabato che verrà: consideralo una piccola parte del mio regalo per te. Ti adoro.
       
                
            
        
     

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Capitolo 16
*** A Twist in the night ***


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A twist in the night


A Twist in the night

AN: Previously on TuttoTondo

Med, Bet e Jules, in un poco professionale On Th Road, hanno raggiunto la meta del week-end fuori porta precedentemente organizzato, in attesa di essere raggiunte da J, Roby, Leo e Alex il giorno successivo. Nelle atmosfere di collina Jules confessa di aver interrotto la sua relazione con Cucciolo.
All'arrivo dei ragazzi Med viene a sapere che Alex è stato messo al corrente della sua cotta passata per Leo e il simpatico americano, noto per il suo carattere un pelo possessivo e da maschio Alfa, di fatto si incazza come un biscio. Geloso si confronta con Med e, dopo una sana pomiciata di montagna, definisce la loro relazione come esclusiva.





Awkward
. In inglese è possibilmente la mia parola preferita. Si scrive con un sacco di lettere che una accanto all’altra sembrano fare a pugni e si pronuncia in modo completamente diverso:ˈɔːkwəd.  Okuord, praticamente. Awkward. Cosa significa? Significa un sacco di cose in italiano: imbarazzato, goffo, problematico, scomodo, complicato e via dicendo.
Insomma, strano. Impacciato. A disagio.
Alex non è mai impacciato. Tranne oggi.

Oggi è chiaramente fuori dal suo mondo: sorride quasi a comando e, di ora in ora, sembra aver assunto una posizione più tesa. I suoi occhi si muovono un po’ assenti, cercando di seguire le conversazioni che si susseguono.

Awkward da morire.
La cosa ha dell’incredibile, visto che ho sempre pensato che Alex fosse naturalmente a suo agio con la gente. Almeno, lo è stato ogni volta che l’ho visto incontrare qualcuno di nuovo.
Sono passate più di ventiquattro ore da quando i ragazzi ci hanno raggiunto e, se all’inizio il mio coinquilino sembrava integrarsi abbastanza, da un po’ si è fatto silenzioso e ha assunto un’aria tesa.

Il primo segno di imbarazzo si è palesato a colazione quando - tazza di caffè in mano - si è avvicinato al tavolo un paio di volte, muovendo lo sguardo su di noi alla ricerca di un posto dove sedersi: supponendo che la posizione naturale sarebbe stata accanto a me, questa possibilità è stata scartata all’istante, essendo io seduta tra Roby e Leo.
Fingerò di non aver gongolato quando gli occhi di Alex si sono inchiodati sulla testa di Leo qualche secondo di troppo e hanno mentalmente inviato saette d'ira.

Ah, ‘sticazzi: ho gongolato eccome.

Alex, preso atto del fatto che il suo regal sederino non poteva posarsi sulla seggiola vicino alla mia, ha fatto dietrofront in modo impacciato, tornando in prossimità dei fornelli e cercando di mascherare il suo dilemma.
Pochi secondi più tardi è tornato alla carica, apparentemente armato di un coraggio che si è polverizzato dopo pochi passi: ho visto il suo viso rattristarsi mentre sospirava sconfitto, appena prima di appoggiarsi allo sportello del frigorifero e rassegnarsi a fare colazione lì.

Awkword, assolutamente.

Il secondo momento di dubbio è giunto quando Bet e Jules lo hanno scacciato dal divano su cui eravamo seduti, ordinandogli di andare a giocare coi maschietti perché “le donne dovevano parlare male di lui”.

Jules l’ha sollevato per un braccio come se pesasse quattro chili e l’ha gentilmente accompagnato sotto il portico, dove i ragazzi si stavano sfidando a briscola: si è subito scoperto che l’americano a briscola non sapeva giocare e l’ho osservato dalla finestra starsene seduto una decina di minuti con gli occhi grandi e l’aria disorientata.

L’ennesimo sospiro e il suo prolungato silenzio hanno confermato i miei sospetti.

La cosa strana è che non mi ha cercato: non ha tentato di isolarsi dagli altri e appartarsi con me. È rimasto sempre nel gruppo, ascoltando e osservando.

A cena i suoi tentativi di mostrarsi a suo agio sono lentamente diminuiti: piano piano i sorrisi di circostanza sono diventati rari e ha smesso di cercare di capire pezzi di conversazioni su fatti che non conosceva o di intervenire e si è accomodato in un tranquillo mutismo.

Awkward, appunto, conoscendo Alex.

Non è che sono una stronza cronica: l’ho soccorso in più di un’occasione, cercando di dargli attenzione ma, fino ad ora, lui ha preferito fare il fico e respingere le mie premure.

Ho capito che aveva smesso di fingersi a suo agio quando ha finalmente abbassato la facciata e ha cercato la mia mano: una lieve pressione per farmi avvicinare a lui e le sue labbra sulla mia tempia.

“Come va?” gli ho sussurrato piano spostando l’attenzione su di lui.
“Mi sento un pesce fuor d’acqua…” ha ammesso ridacchiando sui miei capelli e lasciando che mi appoggiassi alla sua spalla.
“Mi chiedevo giusto quando ti saresti deciso ad ammetterlo.”
“Lo sospettavo,” ha brontolato pizzicandomi un fianco, “ma non volevo darti la soddisfazione.”
“Quindi hai preferito soffrire in silenzio?”
Non ha risposto alla domanda, ma l’ho sentito sbuffare piano, borbottando qualcosa che suonava come “I don’t wanna be socially awkward like you.
“A stare con lo zoppo si impara a zoppicare…” ho sogghignato allontanandomi da lui senza aspettare risposta.

Non so bene se il nostro scambio di battute abbia aiutato, ma da quel momento mi è parso più rilassato: ancora a disagio e poco incline a contribuire alle conversazioni, ma indubbiamente più sollevato.

Prima di andare a letto c’è stato l’ultimo piccolo attimo di stranezza che ho potuto osservare solo da lontano. Okay, non è vero: avrei potuto avvicinarmi ad origliare, ma non ero sicura di voler sentire.

Rientrando dal portico l’ho visto in cucina, appoggiato al bancone con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo basso che si muoveva lentamente dal pavimento al volto di Leo.
Non potevo vedere il viso del mio amico perché mi dava le spalle, ma quello di Alex era sufficiente per lasciarmi intuire che non fosse una conversazione divertente.

Il capo del mio coinquilino è rimasto chino quasi immobile tutto il tempo: l’unica cosa che si muoveva erano i suoi occhi, fastidiosamente intensi e concentrati sulle parole di Leo.
Quando sollevava lo sguardo per scrutarlo da sotto le ciglia, ammetto che le mie zone private trovavano quell’espressione lievemente pericolosa e, di conseguenza, iniziavano a cantare cori Gospel per comunicarmi il loro apprezzamento, ma la curiosità era molto più forte.
Alex ha annuito poche volte, un solo sospiro e poi l’ho visto allungare un palmo verso il mio amico: si sono stretti la mano come se avessero appena concluso un affare e un angolo della bocca dell’americano si è mosso verso l’alto nell’istante in cui Leo ha gesticolato nell’universale movimento del “Ti tengo d’occhio.”.

È in quel momento che Alex si è accorto di me e, fingendo indifferenza, prima mi ha sorriso, poi ha indicato il corridoio con un lieve cenno.
Ora, a distanza di una mezz’ora, mi sto dirigendo verso la camera che divido con Alex combattuta tra la curiosità di sapere cosa si sono detti e la voglia di limonare tutta notte e basta.
In fondo non approfitto di lui da un’intera giornata, visto che non mi pare troppo educato esplorare le tonsille di Alex quando i miei amici stanno seduti attorno a noi a parlare della nostra gioventù.

Entro in camera legandomi i capelli in una coda distratta e, per un secondo, sento il respiro incagliarsi nella gola.
Alex è già nel letto, seduto con la schiena appoggiata al capoletto e le gambe distese, leggermente coperte dal lenzuolo; ha addosso un paio di boxer e una maglietta di cotone grigia che gli avvolge in modo piuttosto piacevole le spalle.

La nuca appoggiata pesantemente contro il bordo della testata e un libro dalla copertina rigida tra le mani, mentre gli occhi scorrono sulle parole delle pagine: i capelli disordinati e un po’ troppo lunghi cominciano ad arricciarsi sulle estremità e ricadono leggermente sulla sua fronte, mostrando la loro vera natura.
Alex è riccio. Cioè, forse non proprio riccio, ma c'è un'onda mossa nei suoi capelli di cui io ignoravo l'esistenza. Non me ne ero resa conto fino ad ora. Non mi ero accorta che in questi mesi in cui si è insinuato nella mia vita i suoi capelli si erano allungati tanto e, ogni volta che ho passato le dita tra quelle ciocche, ho probabilmente contribuito a rompere quei riccioli appena accennati.

Non so decidere se lo preferisco con i capelli più corti o meno, ma so ammettere che il particolare successivo mi strapperebbe un sospiro se non mi stessi controllando: gli occhiali. Porta gli occhiali quando legge.

Siamo onesti: gli occhiali su un uomo che legge hanno un non so che di film porno, di intellettuale sensuale e sensibile, di erotico.
Sì, sono consapevole del fatto che ultimamente i miei pensieri hanno la tendenza a trasformare Alex in un oggetto del sesso, ma sfido chiunque a non trovare sexy Alex a letto, con un libro in mano, il viso rilassato, le difese abbassate e degli occhiali birichini che gli fanno brillare gli occhi.

A me fa un effetto “fuochi d’artificio nelle tube di Falloppio”.
E più lo guardo, più fa caldo.
Insomma, non è bello in senso stretto, ma toglie il fiato. Almeno, lo toglie a me.

"Med, ti vieto categoricamente di indossare di nuovo quella roba nel mio letto." la sua voce mi risveglia dal mio temporaneo stato di calore e mi sorprendo nello scoprire che i suoi occhi non si sono spostati dalle pagine su cui ancora si muovono piano.
"Tecnicamente è il letto di Bet, quindi non hai alcun potere." rispondo avvicinandomi e sollevando la coperta per sdraiarmi accanto a lui, cercando di mascherare tutto quello che mi ha attraversato mentre lo spiavo poco fa.

Alex lascia cadere il libro sulla sua pancia e si sfila gli occhiali, fissandomi.

"Non sapevo portassi gli occhiali..." dico una volta preso possesso della mia metà del letto, ma mi astengo dal fargli sapere quanto bene gli stiano.
Non parla quando mi rotolo ripetutamente per trovare una posizione confortevole. Rimane seduto e immobile a osservarmi; poi, quando intuisce che ho finito di agitarmi come un'anguilla obesa, mi scopre e ordina:

"Scintilla, togliti quel pigiama."

"Non farò le cose zozze con te mentre i miei amici dormono con le porte aperte."
"In realtà l'idea ora mi stimola ancora di più," sorride chinandosi per schioccare un bacio sulle mie labbra, "vorrei verificare se è vero che dormi senza mutande."
Oh, avanti! Il suo testosterone è sicuramente invitante, ma io sono una rompipalle e voglio chiacchierare. Voglio sapere di più e voglio che lui sia curioso di scoprire me, di notare l'effetto degli eventi recenti su di me. Il mio fallimento è stata la cosa più potente degli ultimi anni e, poco a poco, cresce il mio desiderio di mostrare a me stessa chi sono.

"Aleman, mettiti a cuccia: l'aria di montagna mi ha stimolato per un do ut des."
Lui si lascia cadere contro il suo cuscino sbuffando e borbotta: "Way to kill the mood."
“Che è successo, Alex?”

Gli angoli delle sue labbra si increspano lievemente verso l’alto in un sorriso appena abbozzato mentre inforca nuovamente gli occhiali e porta lo sguardo sul libro che ha in grembo. Passa qualche secondo in silenzio, lisciando il bordo di una pagina tra l’indice e il pollice e tenendo gli occhi fissi sulle prime righe del foglio.
Decisa a scoprire cosa frulli nella sua testa biondiccia, mi sposto finché non sono a cavalcioni sulle sue ginocchia, coprendo le parole che attirano la sua attenzione con il palmo della mano e scrutando li sue iridi dietro le lenti.
Ora, facciamo una piccola pausa. Nelle ultime ore ho scoperto due cose davvero sensuali: le caviglie dei maschi - o meglio, le caviglie di Alex in jeans senza scarpe e calze - e Alex con gli occhiali. Non è che in genere abbia l’aria da imbecille, ma la montatura scura che ricalca le sue sopracciglia chiare e le lenti trasparenti sembrano delineare ancora di più i suoi occhi e, sui suoi lineamenti in genere divertiti, conferiscono un’aria seria e riflessiva.
“Aleman? Mi dici che è successo?”

Sospira, trattenendo l’ossigeno qualche secondo e poi soffiando con tanta forza, al punto da far oscillare una ciocca dei miei capelli.

“Stai osservando troppo in queste ore…”
“Rispondi, Alex.”
“Prima quando?”
“Lo sai. Prima, quando eri in cucina con Leo. Mi dici cosa è successo? Do ut des.”

Sì, sono una stronza e sfrutto tutto quello che posso a mio vantaggio. Denunciatemi. Brucerò all’inferno?

Cerca di nascondere un sorrisino compiaciuto, mantenendo la testa china e fingendo di ignorarmi.
“Alex, non puoi non rispondere al Do ut des.”
“Posso eccome.”
“Se non me lo dici, non te la darò più.”

“Ancora con i tuoi inutili e poco credibili ricatti.” ribatte allungando le dita sul mio collo e seguendole con lo sguardo.
Il suo viso è sereno, molto di più di quanto lo sia stato tutto il giorno e la cosa mi provoca un pizzicore in prossimità dell’ombelico: non mi ero accorta di quanto mi dispiacesse vederlo teso e di quanto, al contrario, mi rincuori che sia rilassato ora.

Però mi dispiace sapere che a metterlo a disagio sia stata la presenza dei miei amici; è con quella consapevolezza che una domanda mi balena sulle labbra.

“Perché non ho mai visto i tuoi amici?”

Lui sussulta impercettibilmente, in modo così lieve che non me ne accorgerei se le sue mani non fossero sulla mia pelle e non fossi a cavalcioni su di lui.

“Ultimamente non ho molto tempo per i miei amici.”
“Che cosa orribile da dire.” rispondo aggrottando la fronte, “è qualcosa che potrei dire io.”
Alex tossisce una risata e sposta gli occhi fino ai miei.
“Ce li ho gli amici. Non sono asociale.”

Non ne sono così sicura. Non ha mai nominato un solo amico. Tanto normale non è come cosa.
Scuote la testa e ride, ricominciando a parlare.
“Non sto mentendo. Non ho molti amici, ma ho amici che contano.”

Contano. Oddio: non è che è in qualche gang?

“Contano in che senso?”
“Nel senso che contano per me.”
“E perché non hai tempo per loro se contano?”

Sospira, come fa ogni volta che andiamo troppo sul personale: è istintivamente chiuso come una cozza, ma si sta sforzando. Da un po’ si sta sforzando di parlare si sé, anche se lo fa sempre con una nota malinconica nello sguardo e un po’ la cosa mi disturba.
“Devo lavorare.”

Sì, d’accordo, ma anche il resto del mondo lavora e riesce a intrattenere rapporti con i propri amici.

È così faticoso far parlare Alex di sé che la stanchezza si diffonde lentamente nelle mie vene: vorrei non dovergli cavare una parola alla volta come se fosse un segreto di Stato.
Io sono strana e stronza, ma lui ha una paura patologica di esporsi.

Quindi provo con una tecnica nuova: sto zitta.

Il suo respiro è regolare e sento i polpastrelli tornare a muoversi in modo distratto sulla mia pelle, ma senza malizia. Allontana lo sguardo da me, studiando l’area attorno al mio collo. Poi, inaspettatamente, parla.

“Ho mentito.” inspira profondamente “Li vedo ogni settimana. Li ho sempre visti.”

Istintivamente gli darei un pugno sul naso e lo manderei a farsi benedire per la balla, ma sembra che lasciargli spazio e tempo porti frutti migliori della mia precedente insistenza.

“Non mi andava di farli venire a casa, però…” la frase resta in sospeso e alimenta per un po’ la paura che non l’abbia fatto per non fargli conoscere me, i miei sbalzi d’umore e i miei modi poco, ehm, eleganti.
“Loro sono molto diversi da me. Sono più chiacchieroni… soprattutto quando si tratta di parlare di me.”

Insomma, sono esattamente come i miei amici.

“Voglio bene a ognuno di loro, ma per una volta mi andava di farmi conoscere… senza intromissioni. Insomma…” tentenna, indeciso e potrei giurare di vedere un lieve rossore salire dal suo collo verso il viso “... volevo che vedessi me, non l’idea che hanno gli altri di me. Non il mio passato.”

Glielo devo dire che per ora di lui so pochissimo? O è giusto che mi accontenti? In fondo io devo vivere il presente con Alex, non quello che lui è o è stato con gli altri.
Però è più facile a dirsi che a farsi: io vorrei poter immergere la sua testa in un pensatoio e guardare dentro per sapere tutto. Oltretutto noi siamo anche il risultato del nostro passato: posso conoscere davvero Alex senza che lui condivida con me ciò che ha visto e fatto prima? Come faccio a sentirlo davvero se non so cosa l'ha reso la persona che è oggi? Si può conoscere qualcuno solo con il presente?

“C’è un’altra ragione…” sospira e i suoi occhi si fanno chiari di divertimento quando tornano a posarsi su di me, “... i miei amici hanno tutti una predilezione per le tette grandi.”
Sto immobile qualche secondo, le labbra schiuse per lo stupore e gli occhi spalancati; poi lui si lecca le labbra e ride pianissimo, studiando la mia reazione e aspettando che io dica qualcosa.

Dovrei essere offesa perché è stato possessivo o lusingata? Dovrei dirgli che non sono di sua proprietà? Perché io sono proprietà solo di me stessa e lui questo lo deve sapere, ma la verità è che comincio a provare quello stesso istinto primordiale verso di lui.
Chiaramente lui questo non lo può ancora sapere e, non di meno, va punito per il suo solito atteggiamento da maschio Alfa.

Faccio uno sforzo sovrumano per mostrarmi indignata e per dargli una leggera sberla sulla nuca, ma questo scatena solo la sua ilarità: mi afferra i polsi e li blocca dietro la mia schiena, abbracciandomi e ridendo, cercando di strapparmi un bacio prima di spingermi contro il materasso.

“Sono una bestia, lo so.” sussurra ancora ridendo e strofinando il naso contro la mia clavicola.
“Prepotente e arrogante. Ecco cosa sei.” ribatto tirandogli i capelli “Hai bruciato ogni mia chance con i tuoi amici!”
Lui, con la bocca contro il mio collo, emette un suono che somiglia molto ad un ruggito soffocato.

Alza il viso e mi guarda, lasciandosi sfuggire in un sussurro:
“Non l’ho fatto per nasconderti…”

Oh, avanti!

“Non fare il sentimentale. Potrei vomitarti un arcobaleno nell’occhio.”

Fa un sorriso così grande che su una guancia sembra comparire una fossetta mai vista, ma è solo una piccola ruga. Alex ha le rughe?

“Il problema è che sono un po’ territoriale a volte. E sono un po’ istintivo.”
“Sì, ne ero già consapevole.” ridacchio cercando di spostarmelo di dosso, ma le mie mani sono ancora intrappolate sotto di me e, per la cronaca, siccome non siamo molto leggeri, comincio a non sentirle più.

“Credi di essere in grado di educarti da solo o ci devo pensare io?”
“Te l’ho detto che non sono pratico di relazioni. Posso provarci, ma se faccio disastri cerca di essere clemente.”
Mi limito ad annuire, perché so che anche io farò un sacco di cose sbagliate se andremo avanti: vivi e impara, dicono.
“Ora che le tue ridicole manie di possessione e le tue insicurezze sono state esternate, posso avere l’onore di conoscerli?”
“I miei amici? Non sono così simpatici.”
“Alex…”

Scivola già dal mio corpo, finalmente liberando i miei poveri polsi e sdraiandosi sul fianco per guardarmi.
“Se gli dici che sono una pappamolla con te, giuro che ti lascio.”
“Se sono più carini di te, ti lascio io.”

Lo tiro contro di me e lo bacio lentamente, con pazienza: cerco di parlare con lui ancora in po’, solo in modo diverso.

A volte lo guardo e penso che da un momento all’altro esploderemo: ho paura di discutere con Alex perché in questa coppia non c’è la persona razionale. Siamo fuoco contro fuoco. In tutto quello che facciamo, che sia litigare o toccarci e baciarci. A me e Alex manca l’equilibrio, manca la ragione.

Eppure non so se questo sia un bene o un male: insomma, dove sta scritto che c’è un modo giusto per stare con qualcuno? Non c’è uno schema definito, esiste solo il sistema che ci permette di funzionare nel modo che va bene a noi.

Di regole ne abbiamo tante, ma non sono sicura che servano davvero.
Quando esploderemo, perché prima o poi esploderemo per qualche stupidaggine, forse non ci scotteremo troppo.
Magari avrei dovuto scegliere per me qualcuno che pensa, che riflette, che non si fa annebbiare dal sangue. Ma ho scelto lui: lui, così complesso, così difficile da scoprire, così viscerale. Così diverso eppure simile a me.

L’ho scelto e, onestamente, più lo vivo e più lo voglio tenere.

C’è qualcosa che sto scoprendo di me da qualche settimana: una volta messa da parte la paura, sotto sono viva. Voglio di più per me di quello che avevo.
Posso avere di meglio degli scarti affettivi che mi concedeva L e posso scegliere che direzione dare a me e al mio futuro. L’ho sempre saputo, ma per un po’ il timore di prendermi quello che volevo mi ha annebbiato e mi ha nascosto da me stessa.

Non è Alex che mi ha fatto scoprire che posso avere di più: sono stata io. Liberandomi di L, liberandomi del peso dell’università, liberandomi della paura di non essere quello che gli altri volevano.

E prendendomi chi voglio e cosa voglio. Alex. E soprattutto, me stessa.

Dopo non so bene quanto tempo, abbandono il suo viso per spegnere la luce e tirare le coperte su di noi: lui rotola a pancia in giù, affondando le mani sotto il cuscino e con il viso rivolto verso l’esterno del letto. Io faccio esattamente la stessa cosa dalla parte opposta e sprofondo più che posso sotto le lenzuola.
Niente abbracci per noi di notte. Niente arti addormentati sotto il peso del corpo dell’altro, niente caldo e niente paura di muoversi per evitare di svegliare l’altro. Grazie a Dio Alex sembra avere le mie stesse necessità di indipendenza durante il sonno.

Un punto a noi!

Quando sto per addormentarmi borbotto a voce alta:
“Alex.”
“Mmhh?”

“Mi dici cosa è successo con Leo?”
“No.”
“Stronzo.”
“Se non stai zitta mi troverò costretto a sculacciarti.”
“Promesse, promesse…”



Inviatiamo il lettore, come nostro solito, ad allontanarsi dallo schermo per: mangiare, bere, fumare, portare il cane a fare pipì e, se necessario, usufruire della pausa per andare in bagno.




Quando apro gli occhi è ancora notte: la casa è cullata dal silenzio che cola sui vetri delle finestre e striscia sotto le porte come nuvole sottili, leggere e cariche di sogni. Alcuni belli, altri terribili, e altri ancora dimenticabili. I miei da un po' di tempo hanno perso consistenza, colore, azione.
Rotolo su un fianco e faccio sgusciare all’esterno i piedi da sotto le coperte, sperando di trovare un po’ di refrigerio, ma tenendo il resto del corpo al sicuro sotto il piumone.

Mi stropiccio gli occhi con un pugno e scruto l’ambiente attorno a me, chiedendomi che cosa mi abbia svegliato. L’orologio sul comodino segna le tre di notte e lo spazio accanto a me sul letto è vuoto. Mi ci vuole un attimo per registrare le informazioni e, passato qualche minuto, decido di andare alla ricerca dell’Alex Perduto.
Il buio e il silenzio della casa mi fanno accapponare la pelle e i pensieri si mescolano per dare vita ad un horror terrificante in cui la casa è accerchiata da membri di sette misteriose le cui vittime sacrificali sono giovani maschi fighi di origine statunitense e delle chiappe di marmo.

Cercando di fare meno rumore possibile mi alzo e abbandono la stanza a piccoli passi. Restando con la schiena adesa al muro - perché di film dell’orrore ne ho visti una marea, e alle spalle c’è SEMPRE qualcuno che ti frega - guardo dentro la camera in cui dorme Jules, la cui porta è stranamente aperta: è vuota.

Non vorrei e non voglio ammetterlo, ma la cosa mi strozza il cuore nel petto per un brevissimo momento.
Non lascio che lo stupido pensiero prenda forma nella mia mente e mi dico che c’è una ragione se Alex e Jules sono scomparsi. Insieme. Tutti e due.

È ridicolo, giusto? Giusto.
C’è una spiegazione molto più sensata: la setta che ci circonda non è così selettiva e cerca vittime con un terribile senso dell’umorismo. Mi aggrappo a questa certezza e , muovendomi a tastoni nel buio, comincio a preoccuparmi: non c’è una sola luce accesa nella casa e il silenzio fa da padrone.

Mentre avanzo nell’oscurità in attesa che i miei occhi si abituino al nero della notte, col dorso della mano batto accidentalmente sul legno di una porta, facendo molto più rumore del previsto.
Nel fondo della gola impreco: quelli della setta con me hanno vita facile. Faccio anche rumore per attirarli. Che inetta.
Dieci secondi dopo la figura di Leo, in boxer e maglietta, con i capelli spettinati e gli occhi scintillanti di sonno, sbuca da dietro la porta contro cui ho sbattuto.

Il mio amico mi fissa come se fossi pazza, inarca un sopracciglio e con fare curioso mi domanda:
“Che diavolo stai facendo?”
Una ridicola smorfia compare sulle mie labbra mentre cerco di ricompormi e rispondo fiera:

“Ho sbattuto.”
“Questo l’avevo capito.”

“La tua maledetta porta è sempre in mezzo alle palle. Come te.” mi lamento spingendo in fuori le labbra e facendo ridere Leo.
“Posso sapere che cosa stai facendo, oltre a bussare sulle porte altrui e svegliare gli altri?” domanda incrociando le braccia sul petto e appoggiandosi allo stipite  della porta.
Per qualche secondo rifletto su cosa rispondere al mio amico e mi perdo nelle fantasie di messe nere, vittime sacrificali e cerchi infuocati.
“Ho perso Jules.” dico improvvisamente, ricordandomi cosa stavo realmente facendo in giro per casa. Poi aggiungo a denti stretti: “E Alex.”

Il viso del mio amico non si scompone di una virgola: forse lui sa che il mio pensiero è stupido o, molto peggio, sa che me lo dovevo aspettare. O magari è di questo che parlavano lui ed Alex prima: e se Alex si volesse fare Jules?

Dio mio, qualcuno lobotomizzi il mio cervello bacato. Cazzo, L mi ha davvero rovinata, eh?
“In che senso li hai persi?” chiede confuso e divertito dalla mia espressione imbronciata.

“Non so dove siano. Mi sono svegliata e lui non c’era e ora non trovo neppure lei. Dio, non è che quella cretina è sonnambula e mi si è addentrata nel bosco?” balbetto entrando nel panico e volontariamente escludendo Alex dalla frase.
Leo mi guarda dubbioso e, facendo un passo nel corridoio, domanda: 

“Hai provato in cucina?”
“Non ho provato, ma senti che silenzio! Se fossero in cucina sentiremmo rumori, no?”

Insieme. Se fossero da qualche parte insieme sentiremmo.
Il sangue mi ribolle: lui lo sbatto fuori di casa e a lei la cauterizzo. Poi la sbatto fuori da casa sua.
Leo mi sta guardando con curiosità, cercando probabilmente di capire cosa mi stia attraversando il cervello.

“Sei diventata tutta rossa e stai allargando le narici. Sei incazzata. Cosa non mi stai dicendo?”
Faccio un respiro profondissimo e mi vergogno di me stessa: come posso pensare una cosa del genere di Jules?! La mia Jules! Sono vera merda.

Alex, beh, Alex non lo conosco a sufficienza, di lui posso dubitare: ma di Jules? Dio mio, no!

“Niente. Solo un piccolo momento di irrazionalità.”
Leo non dice nulla e sembra poco convinto. Quando comincio a muovermi come se fossi in un episodio di Criminal Minds, la sua voce mi raggiunge profonda e terrificante:

“Chi lo sa, magari in questi boschi fanno riti strani...”
Subito dopo, l’idiota, canticchia la musica di Profondo Rosso: non lo ammetterò mai, ma l’immagine di Jules e Alex appesi a testa in giù in un pentacolo infuocato mi è balenata in testa.

“Sei un imbecille. Forza, aiutami a cercarli.” ordino riprendendo a camminare verso il salotto.
“Ma io ho sonno!” brontola puntando i piedi e lanciandomi uno sguardo avvelenato.

“Poco male, ormai sei sveglio, quindi aiutami. Prima li troviamo, prima puoi tornare a letto.”
Dopo qualche metro aggiungo in un sussurro impercettibile: “E se le palle di Alex sono visibili, tu mi aiuterai a falciarle.”

Lo sento ribollire come una pentola di fagioli alle mie spalle mentre, a grandi passi, mi segue e si addentra con me nel buio del corridoio.
Dopo qualche passo sentiamo il pavimento scricchiolare alle nostre spalle e ci fermiamo allarmati. Poi, in un sussurro, la voce di Alex ci chiede:

“Che sta succedendo? Che ci fate in giro per casa come due ladri?”
Alex. Senza Jules. C'è di meglio?

Io e Leo tiriamo una sospiro di sollievo e io mormoro: “ Che spavento.”
Leo mi tira uno scappellotto leggero e mi risponde:
“Chi credevi fosse? Il fantasma di Canterville?”
“Magari! Ho sempre avuto un debole per i fantasmi della letteratura!”

“Oh, e chi è la tua ultima cotta ectoplasmatica?” domanda ironico, ma io decido di ignorare il sarcasmo e rispondere comunque con aria trasognata:
“Nick Quasi senza testa!”
“Chi?!” chiede Leo confuso e la cosa mi disgusta.

Sono in procinto di ribattere, ma mi rendo conto che la mia rabbia verso Alex si è dissipata ed è stata sostituita dal senso di colpa: quanto merda sono ad aver pensato male di lui e di Jules?
Non lo confesserò mai.

“È uno dei fantasmi di Harry Potter.” risponde Alex al mio posto e, se non fosse sconveniente, mi inginocchierei di fronte a lui e farei ammenda. Il resto lo lascio alla vostra immaginazione.

“Harry Potter è un libro per bambini.” biascica il mio quasi ex-amico (perché rifiutare Harry è un’ottima ragione per rompere un’amicizia di anni).
“La saga di J.K. Rowling è un classico. È praticamente il capolavoro dell’ultimo decennio! Successo mondiale!”
“Ma non dire cazzate!” sussurra Leo mentre Alex mi fissa compiaciuto e in quel momento sento la mia voce domandargli:

“Dove cazzo eri finito?!”
Oh, guarda, quella che riverbera nella mia voce sembra rabbia. Pensavo mi fosse passata. Se non mi riesco dare una regolata qui finisce male.

“In bagno.” ribatte candidamente lui.

“Tutto questo tempo? Hai la vescica di un elefante?”
"Non so come sia la vescica di un elefante, ma... ecco..." arrossisce.
Non sto scherzando, è davvero diventato rosso come l'interno di un'anguria.
"Cosa?" incalzo con la gola arida e assetata di informazioni.
"Non puoi capire." borbotta mentre sposta gli occhi un istante su Leo, il quale risponde allo sguardo con comprensione.

"Qualcuno vuole parlare? Sto pensando malissimo... E, visti i miei precedenti, ne ho tutto il diritto."

È in quel momento che la faccia di Alex passa dal rosso al grigio perla, mentre Leo scoppia in una sorta di grugnito soffocato che - immagino - sia una risata silenziosa.
"What the fuck are you talking about?!" Alex non fa nulla per nascondere l'indignazione: è confuso, imbarazzato e incazzato perché non capisce.

Il mio amico, forse mosso da pietà o, più probabilmente, dal desiderio di tornare a letto, si intromette sorridendo come un bambino in un negozio di Micro Machines.
"Ma voi due come cazzo fate a stare insieme? La vostra capacità comunicativa è terribile. E se lo dico io, vuol dire che fa proprio pena."

Vorrei ribellarmi, ma ha ragione su entrambi i fronti. Forse dovremmo parlare in inglese, perché in italiano io e Alex siamo come un grosso punto di domanda fluttuante.

Leo, assumendo un tono da maestrina, si rivolge ad Alex:
"Alex, Med insinuava che io e te ci stessimo conoscendo su un piano più intimo."
Io taccio, mentre Alex sopprime una risata: "Sei gay?"
"Non mi risulta. Tu?"
"No, mi sento eterosessuale al cento per cento."
"Sei più tranquilla ora?"

Si stanno divertendo come due matti di fronte alle mie paranoie: va bene, sono irrazionali, ma l'esperienza insegna!
Annuisco mostrando un'espressione impassibile e aspetto che qualcuno ora spieghi a me perché Alex ha fatto una pipì di venti minuti.
Indico il mio coinquilino: "E lui? Cosa cercava di blaterare prima?"

Alex diventa di nuovo rosso papavero e Leo di schiarisce la voce per mascherare una risata:
"Mai fatto pipì con un'erezione notturna, Med?"

Mai avuto un'erezione. Mai avuto un pene, anche se mi affascina l'idea di sapere cosa si prova.
"No, ovviamente."
Loro stanno zitti, scrutandomi. Alex si mordicchia il labbro e Leo mi fissa con gli occhi speranzosi di non dover chiarificare oltre. Deve, purtroppo per lui.
"Quindi?!"
"Fare pipì con un'erezione non è una cosa facile, piacevole e, soprattutto veloce."

Interessante, molto. Ne parlerò col mio diario segreto.

"L'amico Alex aveva un durello." conclude il mio amico.

OH. MIO. DIO. Perché l'ho chiesto? Perché non l'ho capito? Perché mi sto chiedendo tutte queste cose: 'sti cazzi. Ma soprattutto, dove cazzo è Jules?!

D’accordo, d’accordo, mi sto lasciando trasportare dalla mia isteria ma, mentre lui parla, un ricordo affiora nella mia memoria. Il ricordo di L che si fa altre quaranta persone.
Gli occhi di Alex bruciano dentro ai miei e ora l’ira si è trasferita da me a lui:

“Dove cazzo pensavi fossi?”

Ehm. Non posso rispondere.
Certo, qualche sciocca insicurezza e reticenza alla fiducia è ancora bella attiva nel mio inconscio, ma non è facile liberarsi di certe brutte abitudine. Non è esattamente una passeggiata imparare a fidarsi di qualcuno. Non dopo L. Non dopo anni di pippe mentali. Non quando me la faccio con un bocconcino come Alex.

“Pensava fossi con Jules.” chiarifica Leo al posto mio.
Se lo lincio è reato? Posso rispedirlo in camera? Non sono più contenta che mi faccia da interprete.
Un’ombra rabbiosa passa velocemente sul viso di Alex, alimentando il mio senso di colpa.

Ci sono un sacco di parole che mi ribollono in gola e non so se siano parole di scuse o di difesa, ma non ho modo di dare voce ai miei pensieri perché, quando schiudo le labbra per parlare, la porta della stanza di Bet e J si spalanca.
“Avete finito di fare casino?” ci rimprovera la mia amica bionda battendo impazientemente un piede a terra e fulminandoci con lo sguardo.

Alex, con un’aria veramente incazzata, tiene lo sguardo fisso su di me e borbotta:
“Ne riparliamo.”
“Non c’è niente di cui parlare.” biascico sperando di tirare fuori da questa scomoda situazione.
“Io non sono L.” la voce di Alex somiglia ad un ruggito silenzioso mentre pronuncia queste parole a denti stretti e sono convinta che se fossimo a casa nostra da soli, a questo punto i toni si sarebbero alzati. Parecchio.

Mi mordo il labbro inferiore per evitare di rispondere, mentre mantengo ben saldi gli occhi sul suo viso: forse sono dalla parte del torto o forse no. Non lo so, ma so che non posso abbassare lo sguardo in segno di resa.
Ho fatto così tutta la vita: c’è sempre stato un momento in cui non sapevo più come proseguire le mie “lotte” e mi arrendevo, diventando ciò che gli altri si aspettavano. Forse Alex ha ragione a sentirsi incazzato perché ho pensato male, ma io ho le mie ragioni. Certo, sono del tutto irrazionali, ma proprio per questo non le posso controllare.

L’interazione rabbiosa tra me e il mio coinquilino viene interrotta quando J, con voce delicata, domanda:
“Perché siete in corridoio?”
“Jules è sparita e Med ha paura che diventi il pasto di qualche creatura mostruosa della notte.” riassume Leo sospirando.
“È demenziale!” esclama Bet fissandomi basita e innervosita per essere stata svegliata. Proprio quando sono sul punto di ribattere, un rumore sordo, che somiglia tanto ad un lamento, si libera alle nostre spalle. Le nostre bocche si serrano e tutti e cinque ci voltiamo a fissare la porta di Roby.

C’è una brave pausa e poi un tonfo, seguito da uno scricchiolio che ci fanno rabbrividire.
“Che cazzo sta succedendo?” sussurra J stringendo la mano di Bet.

Leo apre le danze e si incammina verso la porta la Roby, incurante delle proteste di Bet. Sento il gelo nelle ossa e, complice il buio che fa apparire tutto più minaccioso e pericoloso, allungo una mano verso quella di Alex e la faccio sgusciare nella sua. Con la coda dell’occhio lo vedo ammiccare e tenere lo sguardo fisso sulla schiena di Leo; poi lentamente, fa un passo nella sua direzione e lo segue, portandosi dietro un peso morto che oppone resistenza: me.

Bet agita violentemente la testa quando J le fa segno di unirsi a noi, ma alla fine si arrende e me la ritrovo attaccata a una manica.

Una volta di fronte al legno della porta i rumori sospetti si intensificano e diventano più nitidi: Leo poggia le dita sulla maniglia e si volta verso il gruppo, in attesa di un gesto di assenso.  Respirando a fondo, abbassa lentamente la maniglia e socchiude quando basta la porta, permettendoci di scrutare dentro la camera di Roby.
Alex accanto a me è teso e realizzo stupita che i ragazzi sembrano aver tutti assunto una posizione di attacco, pronti a scattare in caso di necessità.
Ma l’immagine che ci si presenta davanti agli occhi richiede tutto tranne un confronto corpo a corpo.
Anche perché più corpo a corpo di così si muore.



Seconda pausa perché la prima era prestino nel capitolo, ma non vorremmo che qualcuno cadesse in coma prima della fine.
Se non avete seguito le precendenti istruzioni, vi invitiamo a farlo ora. Fatto? D'accordo allora potete proseguire.




Le urla che riempiono la casa nella frazione di secondo successiva all’apertura di quella dannata porta suonano più o meno come lo starnazzare di cornacchie che vengono calpestate da una mucca. Le esclamazioni si susseguono all’incirca così, non necessariamente in questo ordine:

Alex: “ Wow, quello è davvero strano!”
Bet: “Oh, merdosissima! Come fa a stare sulle mani?!”.
Leo, con gli occhi spalancati e una mano che gli massaggia la fronte: “ Cazzo, ho subito danni permanenti al pisello!”
Io: “ Ma come fai a mettere le gambe così, Jules?!”.

J, bocca aperta stile pesce rosso, domanda a Bet: “Amore, perché noi non lo facciamo mai così? Anche io voglio fare...beh, quella così lì.” conclude additando la complicata immagine che riusciamo a cogliere dall’apertura della porta.
“Non riuscirò mai, mai, mai più a fare sesso.” si lagna Bet, soddisfatta quando sente me aggiungere:
“Nemmeno io. Non voglio più sentirne parlare.”

Alex e J emettono dei suoni di protesta, spostando lo sguardo su di noi.
Sono passati solo infinitesimali frazioni di secondi da quando Leo ha socchiuso la porta della stanza che, da oggi, verrà definita “la camera degli orrori”, quando Bet allunga una mano e chiude di colpo la porta.
Restiamo qualche secondo fermi dove siamo fino a quando J non sussurra:

“Ma secondo voi quella... cosa è legale?”
“Sembrava pericolosa.” mormora Alex in risposta.
“Io credo che andrò a cavarmi gli occhi e a sbattere la testa contro il muro finché non mi provoco una commozione cerebrale che mi fa dimenticare tutto.” comunica Leo facendo qualche passo verso la sua stanza, con un’andatura che può essere paragonata solo a quella di uno zombie.

Ma la sua fuga verso la salvezza viene interrotta dalle figure di Jules e Roby che emergono improvvisamente dalla camera da letto: i loro visi rivelano una certa confusione, oltre che un chiaro fastidio per essere stati interrotti. E, contrariamente a ciò che mi era parso di notare dalla fessura della porta, sono ampiamente vestiti.

“Che cazzo di problema avete?” domanda Jules incrociando le braccia e fissandoci inquisitoria.
“L’immagine di voi due che trombate come due antilopi, ecco che problema abbiamo.” rispondo io disgustata.
I miei due amici si scambiano uno sguardo disorientato prima di scoppiare in una fragorosa e gustosa risata.
“Loro ridono. Io sono in procinto di vomitare e loro sghignazzano!” esclama Leo dalla sua posizione, lasciando trapelare una certa intolleranza per gli eventi che si stanno susseguendo durante la nottata.

Ancora in preda agli spasmi dell’ilarità che sembra essersi diffusa solo tra Jules e Roby, quest’ultimo si sforza di placare il proprio divertimento, riconquistando una certa compostezza, prima di schiarirsi la voce e rispondere:
“Ma di che state parlando?!”

A questo punto l’indecisione e la confusione rimbalza da un volto all’altro dei presenti finché Jules, recuperato controllo della propria risata, spalanca la porta della camera di Roby, accende la luce e afferma con voce secca:
“Stavamo giocando a Twister!”
La scena si gela per un attimo, fino al momento in cui tutti i nostri occhi non si dirigono verso il pavimento all’angolo del letto di Roby, ora illuminato dalla luce della potente alogena accanto alla finestra, dal quale spunta chiaramente il tappeto bianco con grossi cerchi colorati del famoso gioco.
“Alle tre di notte?!” esclama ad un certo punto Alex, rompendo il silenzio attonito che avvolgeva la casa e dando voce alla domanda che tutti stavamo pensando.
“Non avevamo sonno!” si difendono Roby e Jules all’unisono.

Noi restiamo tutti attoniti a fissarli per qualche secondo, stupiti dall’assurdità dell’idea stessa, fino a quando Bet, con voce chiaramente scocciata, non domanda:
“E perché non ci avete invitato?”

J scuote la testa sogghignando, poi gira sui tacchi e si dirige verso la cucina, annunciando la propria intenzione di gustarsi una camomilla. Con l’attenzione ancora fissa su Bet, un dopo l’altro lo seguiamo, abbandonando sola e dubbiosa in corridoio la mia bionda amica.

A questo punto necessitiamo tutti di essere ricondotti nella dimensione notturna e di trovare il modo di recuperare il sonno.
In un silenzio confortevole, trascorriamo una buona mezz’ora accoccolati sugli enormi cuscini del salotto di Bet, scambiandoci qualche battuta sulla strana piega che questa nottata ha assunto e sfottendo senza troppe remore Jules e Roby per la bizzarria della loro idea. Io, però, con la testa sono sul mio senso di colpa.
Non tanto per aver pensato male di Alex; lui avrà anche il diritto di incazzarsi, ma il mio senso di colpa è decisamente più forte nei confronti della mia migliore amica.
Se non ho bisogno di andare in terapia, ho probabilmente necessità di essere presa a sberle finché non rinsavisco.

I minuti si susseguono in tranquillità e lentamente, complici la quiete e le tenui luci del soggiorno, le palpebre di tutti si fanno più pesanti: presto i miei amici cominciano a congedarsi per tornare al tepore del proprio letto.

Bet è la prima a crollare e a portare con sé un barcollante J, seguiti da Roby che si trascina lentamente verso la sua stanza.

Me ne sto raggomitolata nell’angolo destro del divano e osservo Jules e Leo discutere mentre si incamminano verso le rispettive stanze. Con gli occhi che pizzicano per la stanchezza osservo Alex immobile di fronte ad una delle finestre: la sua schiena immobile ricambia il mio sguardo, una mano stringe la tazza ormai tiepida di camomilla e l’altra se ne sta appoggiata contro il muro per reggere il suo peso.

Si volta piano verso di me con il viso scuro ma evitando di guardarmi e si viene a sedere accanto a me sul divano. Sto in silenzio per un paio di minuti, incerta sul da farsi e su cosa si potrebbe aspettare lui da me, ma il sonno inizia a reclamarmi con prepotenza e, sbadigliando, stringo le dita attorno al suo polso mentre mi alzo: “Andiamo a letto.”
Lui sembra in procinto di seguirmi ma, appena mi volto, mi tira a sé: il viso serio con uno sguardo duro e al contempo indeciso negli occhi.
Do ut des.

Oh, questa è una novità: Alex non usa mai il do ut des.
“Tu ti fidi me?”

Ah, merda. Grazie Leo.
“Tu?”
E lì sarebbe naturale sentirgli rispondere qualcosa tipo: “Certo che mi fido!
Ecco, però non succede e la cosa fa un po’ male.
“Alex, non ti fidi di me? Pensi che sia una che tradisce?!”

Le sue dita si muovono distrattamente lungo le mie braccia e il gesto affettuoso stona con l’argomento della conversazione.
Il nostro silenzio si espande e si fonde con il buio della notte. Mi dispiace che non si fidi di me: non dopo tutta la storia di L, non dopo le incomprensioni che abbiamo dovuto superare per arrivare qui. Credevo che avesse imparato a conoscermi, a capire cosa è importante per me.
Forse ho peccato di presunzione e mi sono convinta di essere trasparente; o forse è lui che non ha saputo apprendere. O forse tutti questi forse sono solo stupidaggini e per conoscere qualcuno e fidarsi ci vuole tempo.
Il suoi occhi si muovono, scrutando nei miei: poi mi guarda con più attenzione, come se il suo sguardo stesse per anticipare le sue parole.
“Come ti fa sentire sapere che non mi fido di te?”
“Di merda!” rispondo senza neppure inspirare. “Mi fa male.”

Inarca un sopracciglio e l’ombra di un sorriso compare lentamente sugli angoli delle sue labbra.
“Vero? È brutto quando la persona con cui stai pensa che tu sia scorretta e ti tradisca, giusto?”

Una fiammella di emozione divampa nel mio stomaco quando lui pronuncia la parola “stai” e, benché la mia attenzione dovrebbe essere focalizzata sul problema più evidente, non riesco a sopprimere il nodo piacere che mi rimbalza nello stomaco all’idea.

Alex mi riduce ad una quindicenne, ormai non ci sono dubbi.

“Med, guardami…”
“Non trattarmi con superiorità, Alex. Non c’è niente di assurdo nell’essere un po’ gelosi.”
“No, di assurdo no. Anche io sono geloso. Però, c’è una bella differenza tra l’essere possessivi e il pensare che mi scoperei la tua migliore amica.” poi si zittisce un attimo, “O il tuo migliore amico.”

Per un secondo sono tentata di chiedergli se c’è una possibilità che preferisca Leo a Jules, ma l’ombra seria che si riflette sul suo viso mi ferma. Per fortuna.

“È un pensiero irrazionale, Alex. Non si controllano queste cose.”
“Beh, non posso pagare per gli errori di un altro. Puoi essere insicura, lo capisco, ma se non provi almeno a fidarti, questa relazione diventerà un incubo.”

Lo osservo e provo ad immaginare cosa succederebbe: io che non credo a ogni messaggio in cui mi dice che fa tardi al lavoro. Lui che si stanca di giustificarsi. Io che insisto per avere prove di qualcosa che non c’è. Lui che perde la pazienza. Io che lo lascio, perché non mi fido. Lui che mi lascia, perché non c’è più nulla di positivo.

Sì, ho drammatizzato un po’, ma direi che è uno scenario più che plausibile: la gelosia è terribile, lo sappiamo. E ancora peggio è la mancanza di fiducia. Una relazione basata sull'insicurezza e sul controllo non è una relazione sana. E Dio solo sa quanto vorrei avere almeno un rapporto sano con un ragazzo, visti i miei squallidi precedenti. Ma la verità è che il cambiamento, come sempre, deve nascere in me: l'incertezza è un problema mio e sono io a dover trovare il modo di controllarla. In particolar modo perché Alex, fino ad ora, non mi ha dato ragione di dubitare della sua fedeltà: anzi, a dirla tutta è stato proprio lui a voler chiarire che questo doveva essere un rapporto esclusivo.

“Alex, ma è normale che ogni due giorni siamo qui a discutere qualcosa di serio?”
“Non ne ho idea.” sospira abbandonandosi al divano e premendo i pugni sugli occhi.
Mentre non mi può vedere, mi muovo dal mio posto sul divano e mi siedo a cavalcioni su di lui: nell’istante in cui le nostre gambe si toccano, le sue mani si spostano sui miei fianchi e i nostri occhi si incontrano.
Il suo corpo è immobile mentre attende che io parli.

“Tu hai dubitato di me la sera del ristorante.”
“E guarda dove ci ha portato. Se ho già fatto un casino io, non è il caso che tu ripeta i miei errori.”
“Lo pensi davvero o lo dici solo perché oggi i ruoli sono invertiti?”
“Non lo so, ma dobbiamo trovare il modo di fidarci.” gli accarezzo il collo e lui si strofina contro il mio palmo come farebbe un gatto.
“Tutti e due.” sussurro in un sospiro.

“Med, è Jules. Come cazzo hai potuto pensarlo?”
“Mi dispiace.”

Mi dispiace davvero.

Chinandomi su di lui, appoggio il mento sulla sua spalla.
Immaginavo che stare in una relazione fosse complicato, ma non mi ero mai resa conto di quanto ancora dovessi crescere da questo punto di vista: con L non mi sono mai trovata a parlare di ciò che mi turbava e, in tutta onestà, la certezza che non avremmo mai affrontato certi discorsi mi faceva stare tranquilla.
C’è una sorta di comodità nelle relazioni di solo sesso, una specie di sicurezza che ti fa sentire in diritto di cullarti nell’insoddisfazione senza interrogare te stessa: alla fine puoi sempre pensare che lo stronzo sia lui.

Ma questa volta non posso fare la vittima, come non la può fare lui.
“Non sono una che tradisce.”
“Neanche io.”

Almeno, non credo di esserlo. Forse sono solo un po’ a disagio perché le cose con Alex stanno andando parecchio velocemente sul piano emotivo.
Sono a mio agio e baciarlo e sentirlo mio sembra la cosa più naturale del mondo: devo rallentare. Dobbiamo rallentare.

“Sei mai stata innamorata?” sussurra posando le labbra sulla mia spalle e, santo cielo, non posso fare a meno di irrigidirmi.

Ecco, appunto.

Sono mai stata innamorata? Pensavo di sì: l’ho pensato almeno un paio di volte nella mia vita da adulta, ma ora non so rispondere.
“No.” ribatto senza riuscire a fermarmi e trattengo il respiro, attanagliata dall’ansia di sentirgli dire qualcosa che è troppo presto per dire.
“Tu?” sussurro con un enorme groppo in gola.

“Neppure io, credo.”

I miei muscoli si sciolgono come crema al mascarpone e tutto il mio peso si abbandona a lui mentre un sospiro di sollievo scappa dai miei polmoni. Lo sento ridere e borbottare sulla mia pelle: “Cagasotto.”

E sorrido. Sorrido perché lui ha capito. Sorrido perché lui sa parlare davvero col mio corpo. E sorrido perché, nonostante le mie elucubrazioni mentali, saperlo mi fa stare bene.
“Non era una dichiarazione.”
“Lo so…”
No, balla gigante. Ho davvero temuto che mi stesse colpendo con una Avada kedavra: non è che non mi piacerebbe sentirlo dire in generale, è che… beh, non lo so, ma so che non c’è bisogno di affrettare le cose.
“No, non lo sai.”
“Perché me l’hai chiesto?”
“Perché sono geloso.” ride tirandomi i capelli finché non sollevo il viso dal suo collo. “Perché volevo sapere se eri stata innamorata di Leo o di quello stronzo.”
“Ma non ti senti minacciato, vero?”
“No. Non penso che siano rilevanti adesso.”
“E di cosa sei geloso, allora?”
I suoi occhi sembrano spostare l'attenzione su qualcosa di lontano dietro di me, come a riflettere con cautela su quello che vuole dire e su come dirlo:

“Non sono geloso del fatto che ci sia stato qualcuno prima di me. In fondo anche io ho avuto le mie esperienze.” deglutisce e rende più significativa la pausa che intervalla le sue parole.
“Diciamo che è più l'idea che qualcuno sia stato importante per te.”

Vorrei sentirmi indignata perché il mio passato sentimentale non ha nulla a che fare con il mio presente con lui, ma credo di capire l'origine della sua riflessione.
“Perché pensi che potrei tornare indietro?”
“No.” la risposta è secca e decisa, “No, perché vorrei essere più importante io.”

Ancora con i desideri irrazionali: non riesco a soppesare bene il valore di quello che sta confessando o a capire se dovrei fargli una ramanzina o meno.

“Non posso cancellare quello che ho provato per qualcuno prima di te, Alex.”

Lui annuisce, lasciando che lo costringa a incrociare il mio sguardo.
“Non posso e non lo voglio fare. Ma posso dirti che ora le mie attenzioni sono tutte per te, a prescindere dal mio passato.”
“Non sto dicendo che non vorrei che avessi provato qualcosa per qualcuno. Sto dicendo che spero che quello che provi per me sia...”
“Che cosa?”
“Non lo so.” serra le labbra in una linea sottile, cercando le parole giuste per farmi capire. “Non lo so nemmeno io.”
“Di più?” provo a suggerire, anche se non ho ben chiaro cosa gli attraversi la mente.

“Non di più in senso stretto... Tipo, non lo so.” fa un sospiro pesante e poi ride leggermente. “Forse ho solo paura che non proverai qualcosa per me. E allora sapere che hai provato qualcosa per qualcuno ma non per me mi...”
“Lo provo.”
“Che cosa?”
“Non lo so. Qualcosa. Cerchiamo di non andare troppo di fretta, okay? Mi importa di te, Alex. Sei più di quello che mi aspettavo. Può bastare?”
Lui sorride in modo quasi puro mentre ascolta le mie parole.
C’è qualcosa di adorabile nel modo in cui si sente in competizione con le figure maschili del mio passato e, nell’istante in cui gli sento pronunciare quelle parole, capisco che anche io mi irrito al pensiero che lui sia stato di qualcun altro.

Fuoco contro fuoco. Siamo due geyser.
“Fai in modo di non parlarmi mai delle tue donne precedenti, okay?”
“Tutta questa gelosia un po’ mi eccita.” sussurra premendo forte le labbra sulle mie.
“Ti eccita, eppure prima eri incazzato come un bufalo.”
“Perché mi sta sul cazzo la mancanza di fiducia. Ma mi piace l’idea che tu sia una femmina alfa e che mi reclami.”
“C’è qualcosa di passivo in te di cui non ero a conoscenza?”
“No. Anche io sono un maschio Alfa.”
“E la cosa eccita me in modo incredibile.”

“Andiamo a letto?” suggerisco facendo sgusciare le braccia attorno al suo collo e lo sento annuire.

Appena chiusa la porta alle mie spalle lo spintono fino al materasso e attacco le sue labbra con baci e morsi.

Femmina alfa al vostro servizio. Ho sempre pensato di essere una femmina omega, altro che beta. Dio, quanto mi sbagliavo.
“Cosa ti fa pensare di poter fare il capo?” ansima Alex succhiandomi il labbro inferiore.
“Devo farmi perdonare.” mormoro sfilandogli la t-shirt con cui lui pensava di dormire, “e c’è una sorpresa per te.” continuo portandomi le sue mani sui fianchi e esortandolo a intrufolare le dita nell’elastico dei miei pantaloni.

Come le sue trovano la pelle nuda, sopprime un gemito gutturale di piacere e sussurra:
Fuck. No panties.

Che, per chi non lo sa, significa che ha avuto la conferma del fatto che dormo senza mutande.

“Sono perdonata per aver pensato male?”
“No. Ma siccome l’ho fatto anche io, siamo pari.” ride spostandomi i capelli dal viso “Abbiamo imparato la lezione?”

“Io sì.”
“Anche io…” ridacchia quando sente le mie unghie strisciargli sul petto e poi giù, fino all’ombelico. “Ora fammi apprezzare la mia scoperta.”

È quasi l’alba quando il sonno sguscia sotto le mie palpebre e sento la voce stanca di Alex sussurrarmi:
“Come va la ricerca di te stessa?”

Sorrido, perché è una domanda importante, ma è pronunciata in modo così delicato e in un momento così tranquillo, da privarla del suo carico emotivo.
“Sono a un punto morto.”
“Se hai bisogno di una mano…”
“Posso chiedere a te?”

Non risponde e, un secondo dopo, il suo respiro è pesante e regolare. Rassicurante.
Non mi deve aiutare nessuno: ho passato troppo tempo a seguire i pensieri degli altri. Ora scegliere è compito mio, ma non è facile: potrei andare in qualunque direzione e il pensiero di sbagliare di nuovo è sempre lì. Non so bene perché, ma ho la sensazione di non potermi permettere un’altra scelta sbagliata. Ho quasi venticinque anni.
Per mesi ho lasciato che L decidesse per me cosa potevo avere e la codardia mi ha spinta a restare nascosta all'università: oggi, invece, voglio mostrare a me stessa cosa sono.

A partire da me: non lo dovrei ammettere, ma quando ripenso al pranzo a casa dei miei e a come ho finalmente ammesso tutto, mi sento un po’ fiera. Lo stesso vale per quando ho chiuso con L.
Ero titubante entrambe le volte, ma non saprò scordare il senso di sollievo e appagamento che ho provato una volta che ho affrontato le cose.

Alex si muove accanto a me, infilando un braccio sotto il suo cuscino e l’altro sotto il mio, invadendo parte del mio spazio e costringendomi a spostarmi un po’ verso l’esterno del letto.

Cosa sono? Una disoccupata senza direzione. Già, non è un grande passo avanti dalla studentessa fuori corso senza volontà di finire.
E mentre ascolto Alex dormire e penso a me e al mio futuro, la parola "disoccupata" mi si infiltra nei polmoni. Allora realizzo una cosa che mi terrorizza e inorgoglisce allo stesso tempo: mi ci vorrà tempo per capire cosa voglio fare, ma mio padre si sbagliava. Non posso prendermi il tempo di cui ho bisogno per comprenderlo, perché devo essere responsabile di me: devo trovarmi un lavoro di cui campare mentre scopro cosa vorrò essere.
Se non lo faccio subito, resterò lì a coccolarmi nella mia confusione, a tergiversare, a farmi mantenere dai miei: ho rubato loro anni e soldi a sufficienza.
Se davvero voglio ricostruire me stessa, devo cominciare da qui.

Quando l’indomani mattina vengo svegliata dall’insopportabile suoneria del cellulare di Alex, penso che per ricostruire me stessa, forse, devo uccidere prima lui e il suo telefono. Sopprimo un gemito di disapprovazione quando il mio coinquilino si rotola su un fianco, spostando tutto il calore che i nostri corpi hanno prodotto e rispondendo alla chiamata con voce eccessivamente alta.
Qualche attimo di silenzio prima che un’imprecazione sfugga alle labbra del ragazzo accanto a me.
“Ah, cazzo!”

Che delicatezza.

“Grazie mille per la chiamata. Un paio d’ore e dovrei essere lì, d’accordo?”

CosaCosaCosa? Improvvisamente sono sveglissima.
Sollevo la testa dal cuscino proprio mentre Alex si volta verso di me:
“Dobbiamo andare.”
“Dove?”
“A casa…” e si solleva dal letto in cerca dei suoi vestiti.
“Perché?”

Ha un attimo di esitazione: quando mi guarda i suoi occhi sono cauti e la sua voce cristallina.
Don’t freak out, okay?”

Che vuol dire che non devo dare di matto. Il che significa che è qualcosa per cui qualcuno può dare di matto. Ragion per cui comincio a dare di matto subito, ma interiormente .
“Qualcuno ha scardinato la porta del nostro palazzo. Non si sa in che appartamenti siano entrati. Dobbiamo tornare a casa.”

Sono disoccupata: e se qualcuno si è fregato i pochi oggetti di valore che ho? Sono così nervosa che, mentre mi infilo i vestiti e lascio un biglietto ai miei amici, non mi rendo conto dell’atteggiamento silenzioso e dell’ombra agitata che è colata sul viso di Alex. Non me ne accorgo finché non insiste per guidare e, una volta saliti in macchina, lui resta zitto e con lo sguardo fisso sulla strada. Le nocche bianche per quanto stringe il volante e le spalle rigide.



AN: Applausi scroscianti per tutti quelli che sono riusciti a giungere alla fine. Spero che, pisolini a parte, il capitolo sia stato di vostro gradimento.
Come sempre ringrazio di cuore la Beta per essersi sorbita i miei ormai noti orrori di battitura e pasticci vari che, immancabilmente, sfuggono alla mia attenzione.
Un grazie enorme a tutte le TuttoTondine che ancora mi tollerano: continuo ad esservene incredibilmente grata.
Infine un grazie speciale va a quelle meravigliose donne che ho avuto l'onore e il piacere di conoscere negli ultimi mese grazie ai Read Along organizzati dal blog "Please another book" (se ancora non lo seguite, ve lo consiglio fortemente!): siete state una scoperta meravigliosa e un sostegno essenziale in ogni momento, sia della vita vera che di quella virtuale... Per non parlare dell'aiuto e dell'incoraggiamento che avete saputo darmi nei momenti di crisi e panico durante la stesura del capitolo.
Okay, ho davvero finito.
Grazie a chi ancora legge la storia, a tutte le nuove persone arrivate e a chi trova il tempo e la voglia di lasciare un commento.



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Capitolo 17
*** Importuni e in-opportunità ***


AN: Previously on TuttoTondo... Alex e Med, insieme agli amici di quest'ultima, sono in montagna a casa di Bet. Tra tensioni varie, imbarazzi e gente che gioca a Twister nel cuore della notte, Med e Alex si confrontano un po' sui sentimenti che provano l'uno per l'altra... Poi, l'indomani mattina, una telefonata giunge con notizie allarmanti.

Dal capitolo precedente:
“Dobbiamo andare.”
“Dove?”
“A casa…” e si solleva dal letto in cerca dei suoi vestiti.
“Perché?”
Ha un attimo di esitazione: quando mi guarda i suoi occhi sono cauti e la sua voce cristallina.
“Don’t freak out, okay?”
Che vuol dire che non devo dare di matto. Il che significa che è qualcosa per cui qualcuno può dare di matto. Ragion per cui comincio a dare di matto subito, ma interiormente .
“Qualcuno ha scardinato la porta del nostro palazzo. Non si sa in che appartamenti siano entrati. Dobbiamo tornare a casa.”
Sono disoccupata: e se qualcuno si è fregato i pochi oggetti di valore che ho? Sono così nervosa che, mentre mi infilo i vestiti e lascio un biglietto ai miei amici, non mi rendo conto dell’atteggiamento silenzioso e dell’ombra agitata che è colata sul viso di Alex. Non me ne accorgo finché non insiste per guidare e, una volta saliti in macchina, lui resta zitto e con lo sguardo fisso sulla strada. Le nocche bianche per quanto stringe il volante e le spalle rigide.
 

 
Capitolo 17


Importuni e in-opportunità



 


Trattare con la gente non è, in generale, una delle mie migliori qualità. Trattare con un americano molto cocciuto e molto isterico non sarà mai uno dei miei talenti, ne sono certa. In particolare quando sono circa due ore che Alex resta in silenzio e trasuda preoccupazione.

Arrivati a casa, abbiamo constatato che il nostro appartamento non era stato saccheggiato da nessun conquistatore del palazzo più decadente del quartiere. Ad eccezione del disordine che adornava la mia stanza (creato da me stessa medesima), il resto dell’abitazione era esattamente come mi ricordavo di averla lasciata.
Non di meno, fingo di ispezionare con attenzione ogni angolo, più per stare lontano da Alex, che per cercare effettivamente qualcosa: la tensione che ha sprigionato dal momento in cui siamo partiti da casa di Bet mi ha letteralmente stremato.

Quando Alex si adombra, tutto quello che lo circonda viene investito da una specie di onda negativa e tu, sconfitto dalla sua superiore carica energetica, non puoi fare altro che attendere in silenzio: attendere che lui si calmi, che ti dia un segnale. Interrompo la mia finta ispezione per spiare nel salotto, cercando di capire se l’aria si sia alleggerita almeno un po’: niente. Alex si muove in modo isterico per l'appartamento, come se fosse posseduto da un leprecauno, borbottando sottovoce e passandosi incessantemente le mani tra i capelli.

“Che succede?”
 
Niente. Non mi degna di una risposta, mentre resta immerso nella sua nevrosi per qualche secondo prima di voltarsi verso di me con gli occhi preoccupati.
“Ti manca qualcosa?”
“Non mi pare. Ho solo dato uno sguardo, ma mi sembra che sia tutto al suo posto.”
Rispondo avvicinandomi a passo lento come si fa con un animale pericoloso. Non sto esagerando: Alex ha un'espressione di puro panico.
“A te manca qualcosa?”
 
Mentre lo chiedo, non posso fare a meno di pensare che, se c'è qualcosa che non trova, deve essere piuttosto importante per fargli perdere la testa così.
Si guarda attorno in silenzio e non sembra riuscire a decidersi sul da farsi.
 
“Alex, che cosa non trovi?”
 
Al suono della mia voce un po' più insistente, serra la mandibola e anche il suo sguardo sembra irrigidirsi.
“Niente”, risponde d’istinto, ma un istante dopo si correggere: “Mi manca una valigia.”
“Una valigia?”
“Sì.”
 
Io non sono un falco e non ho mai rapinato qualcuno, ma se fossi un ladro, non mi prenderei certo una valigia quando in casa ci sono almeno due computer e una televisione da fregarsi.
 
“Perché qualcuno dovrebbe rubare una valigia vuota?”
 
Gli ci vogliono almeno quaranta secondi per rispondere, durante i quali nei suoi occhi scorrono velocemente dubbio, diffidenza, rammarico, paura e rabbia.
Rabbia che, sospetto, riverserà su di me. Io lo farei.
 
“Non era vuota.”
 
“Ah, capisco.”
 
No, veramente non capisco, ma non sono certa di come ottenere maggiori informazioni. Resta il fatto che in casa non manca niente al di fuori di questa fantomatica valigia.
Il che, per un minuto, mi porta a pensare che Alex sia un trafficante. Non so di cosa, ma ho visto una marea di polizieschi quando ero piccola.
 
“Sei sicuro che fosse in camera? Non è che l'hai messa in cantina?”
“Non la metterei mai in cantina.”
 
Certo, un trafficante tiene la merce sott'occhio.
 
“Che aspetto ha questa valigia?”
 
Alex inizia a camminare per il salotto con impazienza, scrutando ogni angolo di casa e controllando ogni cassetto. Come se una valigia potesse stare in un cassetto!
 
“Non credo che la troverai nel cassetto delle stoviglie.”
“Controllo se manca altro!”
“Mi puoi descrivere questa benedetta valigia che ti manca?!”
“Un trolley, Med! Un banalissimo trolley nero con strisce grigie.”
 
Ed è lì che mi preparo al peggio; ad esempio al fatto che tra mezzo minuto Alex mi lascerà, si trasferirà altrove, poi mi denuncerà e darà fuoco a ciò a cui tengo per ripicca.
 
“Rigido, con una rotella rotta?” dico trattenendo il respiro mentre la mia voce trema, rivelando la mia colpevolezza.
Appena le parole abbandonano la mia gola, lui si immobilizza: la schiena così rigida che sembra fatta di marmo, il collo dritto e - immagino - lo sguardo piantato sul muro di fronte a sé. Oh, e una mano sul ceppo portacoltelli.
 
Non si volta quando, con la voce gelida come i giorni della merla, domanda:
“Devi dirmi qualcosa, Sofia?”
 
Il mio nome di battesimo, di solito pronunciato con una punta di divertimento e troppo spesso con delicatezza, questa volta sembra cianuro nel suo respiro.
 
“Potrei essermi imbattuta in questo trolley il giorno in cui sono partita mentre tu eri in doccia?”
 
Senza voltarsi, chiede guardingo:
“E perché ti ci sei imbattuta?”
 
“Perché era più capiente del mio?”
 
Sì, lo so, faccio schifo. Ma lui era in doccia e io ero in ritardo; non avevo tempo di aspettare che uscisse dal bagno e ho solo guardato sotto il letto, non è che mi sono messa a fare una bonifica di camera sua! Poi volevo dirglielo, ma lui mi ha distratto con il suo saluto porno e mi è passato di mente.
 
Alex lascia andare il manico del grosso coltello che impugnava e con pericolosa lentezza si muove, spostandosi nella mia direzione.
Immagino non sia questo il momento di portare alla memoria il fatto che avevo preso in prestito anche una camicia, vero?
 
“Okay, cerchiamo di non essere affrettati.”
 
Non penso che mi farebbe del male. A meno che quella valigia non contenesse, che ne so, cocaina.
“Tu… tu…” balbetto indietreggiando di qualche passo, “tu bevi il mio latte!”
“Il tuo latte?” Alex smette di camminare verso di me, “quale latte?”
“Il mio.”
“Se produci latte, abbiamo un grosso problema.”
“Imbecille, il latte alle donne gravide viene dopo il parto!”
Non so come sono riuscita a spostare l’attenzione dal trolley alla produzione di latte materno così abilmente, ma resto ferma sul latte, che sembra una zona molto più sicura: “Il latte parzialmente scremato!”
What about it?”
“È il mio, e tu lo finisci ogni giorno. Di quanto calcio puoi aver bisogno?”
 
Alex sembra aver avuto una specie di corto circuito cerebrale: la sua espressione è vuota e attonita per qualche istante. Ma non passa molto prima che si riscuota da questo stato di stupore e riprenda la sua marcia verso di me.
 
Gli occhi duri e la voce bassa: “Ti ricordo che la spesa la facciamo insieme.”
“Sì, ma…”
“Smettila, Med.” mi ordina con un tono di rimprovero. Poi, spostando improvvisamente l’attenzione lontano da me, si dirige verso camera mia.
“Dov'è?”
 
Sospiro mortificata e lo seguo.
“Ai piedi del letto.”
“L'hai aperta?”
“No.”

Perché aveva la combinazione. E non era né 0000, né 1234.
 
Da quel momento scelgo la mia linea di difesa: il silenzio. Parlerò solo in presenza del mio avvocato (quindi o Bet o Terry).
Sento l’ansia di Alex diffondersi dal suo corpo, espandersi nel suo mutismo e nei suoi gesti frenetici mentre entra nella mia stanza e si mette alla ricerca di quel benedetto trolley.
“Alex, mi dispiace…”
“Non importa.”
 
“Mi sono scordata di rimetterla a posto.”
“Non avrei dovuto lasciarla in giro.”
“Non pensavo fosse importante.”
“Ho detto che non importa.”
 
Quando trova la valigia, la tensione abbandona i suoi muscoli in un colpo solo: le spalle si ammorbidiscono e la schiena si rilassa. Afferra il trolley per il manico superiore e lo solleva senza sforzo, voltandosi verso di me senza guardarmi.
“Alex…”
“Ti prego, non me lo chiedere.”
 
Che cosa nasconde? Cosa c’è in quella valigia? Perché ha perso la testa quando non l’ha trovata?
 
È questo che non vuole che gli chieda.
“Perché ogni volta che si tratta di te, mi sento come in una puntata della Signora in Giallo? Devi mantenere un numero minimo di segreti all’anno o ti casca il pisello?”
“Non è quello.”
“E allora cos’è?”
“È che… non lo sa nessuno.” sospira portando il trolley in cucina. Io lo seguo silenziosamente.
 
Una volta pensavo che le persone riservate avessero un vantaggio su tutti: se nessuno sa abbastanza da colpirti, tu sei al riparo. Eppure i segreti non hanno portato nulla di buono nella mia vita. Ho capito perché tacere una verità è davvero come mentire: tempo fa pensavo fosse una cazzata. Credevo che ognuno facesse bene a selezionare le informazioni: lo penso ancora, ma ora so che tacere un fatto scomodo è mentire, perché è dire che va tutto bene quando non è così.
Io non sono una moralista: non credo che non si debba mai mentire, che tutti debbano essere cristallini e nudi, che una bugia ti renda una persona spregevole. Sarei un’ipocrita. E penso che ci sia qualcosa di umano nelle bugie.
Avete presente il termine bugie bianche? Sono quelle bugie innocenti, che diciamo involontariamente, che non ledono nessuno e che ci sfuggono inconsciamente dalle labbra. Piccole distorsioni della realtà. Piccoli “no” quando dovremmo dire “sì”. Ne diciamo tutti un certo numero al giorno; la maggior parte delle volte, non ce ne accorgiamo neppure. Noi stessi crediamo a quelle bugie.
 
Di fatto, quindi, tutti mentiamo. Per quel che mi riguarda, tutti abbiamo diritto di scegliere cosa rivelare e cosa no.
Secondo questa logica e tenendo conto del fatto che io stessa vorrei poter tacere gli affari miei, io non sono nessuno per pretendere ancora verità, ancora confessioni, ancora segreti svelati: sarebbe estenuante cercare di nuovo di farlo parlare. E sarebbe da stronze.
Devo semplicemente rassegnarmi al fatto che ho una relazione con una persona molto riservata. E con un sacco di segreti.
 
L’unico problema è che, porca puttana, lui ha segreti su tutto. È riservato su ogni maledetta cosa. Lavoro, famiglia, amici.
 
Mi dirigo verso il frigorifero evitando di guardarlo e sento i suoi occhi su di me: apro lo sportello, facendo scorrere lo sguardo sui vari ripiani, finché non trovo una confezione di birra che, probabilmente, sta lì da un po’.
 
“A cosa stai pensando?” mi chiede lui, lasciando trasparire un po’ di apprensione.
“Birra?” ribatto, evitando accuratamente di rispondere e lui rifiuta. Ovviamente. Alex non beve.
 
Dio, dovevo capirlo da quello che avrei avuto a che fare con un esemplare di maschio notevolmente troppo complesso per me.
“Med, dimmi cosa pensi.”
 
Faccio un sospiro e, spostandomi in prossimità del lavandino, stappo la birra con il retro di una forchetta come un vero uomo: me l’hanno insegnato mio padre e Michele quando ero piccola ed è tuttora una delle mie abilità da non-femminuccia di cui vado fiera.
“Pensavo... casa nostra era chiusa a chiave, quindi è stato demenziale anche solo pensare che fossero entrati.”
 
È vero: nel panico e nella concitazione iniziale né io né Alex abbiamo avuto la lucidità di renderci conto che in casa nostra non potevano essere passati i ladri, dato che la serratura era intatta e l’appartamento chiuso.
Lui non risponde alla mia asserzione: lentamente, le sue sopracciglia si corrugano, rivelando un accentuato stato riflessivo.
Lo guardo, studiando ogni linea sul suo viso e cercando di capire se un giorno imparerà a raccontarsi da solo: so che la risposta è no e che, per i suoi standard, Alex ha già praticamente aperto i cancelli della sua anima. Spingere ancora sarebbe scorretto. Ma in questo momento non mi va di impegnarmi in chiacchiere fatte solo per riempire il silenzio: dopo una lunga sorsata di birra, trovo i suoi occhi e gli sorrido. Abbandono la bottiglia semi piena nel lavandino e marcio verso la mia stanza.
 
“Dove vai?”
“A sistemare la mia camera.” rispondo senza voltarmi e cercando di assumere un tono di voce rilassato.
Lo percepisco alzarsi dalla sedia del tavolo in cucina e fare qualche passo tentennante per seguirmi; poi, improvvisamente, sembra cambiare idea. Si ferma a qualche passo dalla porta di camera mia. Dal mio letto riesco a vedere la sua ombra immobile: una mano si sposta sul suo mento per massaggiarlo qualche istante prima di tornare rassegnata lungo il suo fianco.

Non passa molto prima che decida di allontanarsi definitivamente e andare nella sua camera.
 
Dovrei effettivamente riordinare la montagna di vestiti sparsi sul mio letto ma, da animale curioso quale sono, non riesco a levarmi dalla testa la reazione di Alex alla possibilità che qualcuno abbia portato via il suo trolley: continuo a chiedermi cosa possa contenere di così importante e perché nessuno lo debba sapere.
Presa da un implacabile dubbio, apro il PC e avvio Skype, sperando che le mie amiche siano connesse.
 
Nel giro di pochi secondi, appare sul mio schermo Bet, intenta a impiastricciarsi la faccia con un eyeliner blu.
“Ma dove cazzo siete andati?” domanda senza scomodarsi in saluti.
“Sono entrati nel nostro palazzo.”
“Chi?”
“Non lo so. Qualcuno ha scassinato il portone del condominio e siamo tornati di corsa.”
“Manca qualcosa?”
“No.”
“Allora tornate?” , giunge rapida la voce di Jules fuori campo.
“Decisamente no.” ribatto abbandonandomi contro i cuscini alle mie spalle, “Ho bisogno di un consulto.”
“Sì, dovresti mettere un allarme.” biascica Bet con la bocca contorta in una smorfia.
“Ma cosa stai facendo?”
“Cerco di riprodurre lo smokey eye che ho visto fare a ClioMakeup l’altro giorno.”
“Sembri una delle prostitute che si vedono nel film Les Miserables. Era questo il tuo intento?” domanda Jules sedendosi accanto a lei e infilandosi mezza fetta biscottata in bocca.
“Cercavo uno stile sensuale e raffinato.”
“Allora hai fallito.” rispondo frettolosamente.
“Che succede, Med?” chiede Jules fingendo di non vedere l’espressione stizzita di Bet riflessa nello schermo e concentrandosi su di me.
 
Mi schiarisco la gola, spostando per un attimo lo sguardo sulla porta per verificare che Alex non sia nei paraggi. Poi spiego a voce bassa:
“Essere in una relazione con Alex mi autorizza a pretendere spiegazioni?”
“Dipende dalle spiegazioni.” bofonchia Bet con tono seccato. Bet odia le critiche ai suoi attacchi d’arte.
“Potrei aver invaso il suo spazio vitale e essere inciampata in un oggetto che nasconde qualcosa.”
“Inciampata in che senso? Hai frugato tra le sue cose?”
“Non esattamente. Mi serviva una valigia più capiente della mia e ho preso la sua.”.
“Senza chiedere, immagino.” specifica Jules con aria di rimprovero.
“Dettagli.” sibilo tra i denti, ben conscia del fatto che la mia amica ha ragione. Mi preme arrivare al punto e confrontarmi su quali sono i limiti oltre i quali non mi posso spingere.
“Parliamo poi di quanto sono cafona. Ora, il punto è che lui ha perso la testa quando ha pensato che quella valigia fosse stata rubata.”.
 
Le mie amiche si mostrano a quel punto curiose quanto me, insospettite da questo particolare.
“Perché mai?”
“Perché c’è qualcosa in quel trolley e lui non mi vuole dire cosa.”
 
Jules apre la bocca per dire qualcosa, ma viene interrotta da una voce che giunge baritonale e seria dalla soglia della mia stanza.
“Scintilla…”
 
Ah, merda! Ora al mio crimine di ragazza invadente e ladra di valigia si aggiunge quello di chiacchierona. Fantastico: le mie chance di restare in questa relazione si assottigliano a ogni respiro che faccio.
“Non gliel’avrai chiesto nel modo giusto.” sussurra Bet col viso più vicino allo schermo, come se questo rendesse impossibile ad Alex sentire le sue parole.

Con gli occhi ancora sul mio coinquilino, sussurro in risposta: “E come avrei dovuto chiederglielo secondo te? Sventolando le mutande?”
Per un secondo un accenno di sorriso fa capolino sulle labbra del ragazzo in piedi sulla soglia della mia stanza, ma non abbastanza a lungo da alleggerire l’espressione gravosa che galleggia nei suoi occhi.

“Se l’hai colpito col tuo umorismo falciante, non mi stupisce che non te l’abbia detto.”
 
Lui fa un passo nella mia direzione e gesticola per farmi capire che “dobbiamo parlare” .

No. No, no, no, no. NO. Dobbiamo parlare è il codice universale per “siamo nei guai”.
 
“Saluta le tue amiche, Sofia.”
 
Di fronte a me Bet e Jules cercano di farmi capire con delle smorfie mostruose che non vogliono perdersi la conversazione che sta per avere luogo, ma persino io mi rendo conto che quello sarebbe troppo.
“Vi chiamo più tardi, ragazze.”
Alex non aspetta di vedere se lo seguirò o meno. Si allontana dalla mia stanza; quando lo raggiungo in cucina, è appoggiato allo sportello del frigorifero: una birra in mano e una bottiglia di vino con accanto un bicchiere posizionati sul bancone accanto a lui.
“Abbiamo solo vino rosso.”
“È per festeggiare qualcosa?” chiedo speranzosa.
“No, è per addolcirti la mia confessione.”

Aspetta che io mi sieda, poi inizia a parlare. Lo fa prima a fatica, sospirando tra una parola e l’altra, fregandosi il mento e sorseggiando a intervalli la birra, poi con meno incertezze, ma spostando in continuazione lo sguardo con movimenti impercettibili: e mi racconta.

“In quella valigia ci sono i miei risparmi. Parte del mio stipendio.”
“Come è possibile? Ti pagano in contanti?”
“Solo una parte… Diciamo un bonus.”
Vuol dire che o lavora in nero, o ha un contratto per un compenso inferiore di quello che gli retribuiscono. Quindi, probabilmente, la somma in più è comunque poco legittima. Oppure c’è qualche altra opzione a me ignota: in fondo sono una studentessa disoccupata e non ne so nulla di stipendi e retribuzioni.
“E in banca?”
“Un po’ di soldi sono lì… per saldare il debito. Un po’ li tengo qui, per non restare a secco.”.
Fa una pausa: tamburella con le dita contro il bancone della cucina, incerto su come proseguire. I suoi occhi si spostano brevemente su di me; dal mio sguardo vuoto capisce che quello che mi ha raccontato non mi ha chiarito le idee più di tanto.

“Un anno fa sono stato licenziato dal ristorante in cui lavoravo per riduzione del personale. Ero l’ultimo arrivato e sono stato il primo ad andarmene, chiaramente.”
“D’accordo…” rispondo incerta di fronte all’ennesima pausa: non mi sembra una confessione così clamorosa. C’è la crisi e conosco più gente che ha perso il lavoro di quella che ancora ce l’ha.
“All’inizio non mi sono preoccupato più di tanto e ero abbastanza sicuro che avrei trovato un nuovo impiego velocemente” continua, mentre con le dita gioca col collo della bottiglia ed evita accuratamente di incrociare il mio viso, “ma mi sbagliavo. Ero troppo ottimista, volevo fare il cuoco e non scendevo a compromessi. Quando mi proponevano un lavoro in cucina diverso dal cuoco, rifiutavo.”.
“Perché?”
“Perché ero un coglione gonfiato. E non mi accorgevo di quanto velocemente i miei risparmi si stessero esaurendo.”.

Vorrei avvicinarmi a lui, dargli conforto di fronte all’evidente fatica che sta facendo a rivivere e a raccontare queste cose; vorrei, ma invadere il suo spazio vitale adesso sembra quasi impossibile.
Mi racconta del primo giorno in cui ha visto l’estratto conto e davanti al saldo c’era un meno: “Quello” mi dice, “è stato il giorno in cui mi sono sentito un vero fallito come adulto. Ho capito che dovevo smettere di fare lo schizzinoso e che ero stato un incosciente.”.
Racconta della fatica fatta per trovare il modo di stare a galla. Del sollievo provato il giorno in cui la signora Riposi ha accettato di affittargli la camera.
Dello sconforto provato ogni volta che consegnava un curriculum e non riceveva risposta. Dei primi giorni trascorsi qui e delle ore passate a leggere annunci al bar; delle sere in cui si addormentava sull'orlo delle lacrime. Del giorno in cui, finalmente, l'hanno assunto. Dice di essersi abbassato a chiedere l'aiuto di suo fratello, ma inutilmente.

“Non so perché ho coinvolto la mia famiglia, ma me ne pento ancora. Lui ha tirato dentro i miei genitori e lì ho capito che dovevo prendere di nuovo le distanze.”.

Credo si riferisca alla sera in cui ero a cena al suo ristorante: quella in cui, dopo che L mi ha baciato, ho finalmente scoperto che Alex faceva il cuoco. Ricordo bene di essere tornata a casa e di aver origliato la sua conversazione anglofona al telefono. Ricordo anche che aveva rifiutato l’aiuto dei suoi e che era davvero tanto, tanto incazzato.
Non mi offre altri dettagli sulla vicenda; parla come se io sapessi, o come se quello che mi ha raccontato fosse sufficiente. O, forse, come se parlare di questa vicenda familiare fosse difficile: conoscendo Alex, lo è di sicuro.

“I primi mesi qui ho arrancato, Med. Non sapevo come pagare la mia parte... Ho chiesto un anticipo al lavoro, ma ero in prova e il proprietario me l'ha rifiutato. È successo la sera in cui...”

Si interrompe e si schiarisce la voce, spostando lo sguardo in giro per l’appartamento.
“Sì?” domando con una lieve cantilena e sorridendo appena.
“In cui ci siamo baciati.”

La sua risposta arriva appena sussurrata. Mentre parla, si alza dallo sgabello: nei suoi occhi torna quello spirito ludico che tanto mi fa impazzire. Per un istante, sembra aver accantonato l’imbarazzo insorto mentre mi raccontava delle sue difficoltà economiche.
“Puoi essere più preciso? Ci siamo baciati diverse volte prima che tu ti rendessi conto che non mi potevi resistere.”
“Idiota.” sorride facendo qualche passo nella mia direzione e raggiungendomi senza fatica, intrecciando le dita con le mie e studiando le nostre mani.
“Eri a casa e ti ho trovato sul divano, mentre ti farcivi di patatine e ti procuravi un embolo di fronte a un film.”

Io ricordo bene di che serata si tratta, ma non c'è bisogno che lui lo sappia, per cui fingo di non capire:
“Non ho memoria di una serata simile…”
“Era un film dell’orrore.” mormora costringendomi a indietreggiare di qualche passo.
“No, non ricordo proprio.”
“Devo rinfrescarti la memoria?”
“Se non ti arreca troppo disturbo.”
“D’accordo. Io faccio Med e tu fai Alex.” Respira sulle mie labbra, stringendo una mano tra i miei capelli prima di guidarmi fino al divano.
Senza toccare la mia bocca, mi ordina di sedermi; l’unica volta in cui mi sono avventurata in un gioco di ruolo nell’intimità non è finita benissimo. Ho provato a fare la segretaria sexy, con tanto di tacchi: ovviamente, data la mia incapacità di portare scarpe alte, ho preso una storta colossale e sono finita al pronto soccorso. Però impersonare Alex non contempla tacchi e non sembra troppo pericoloso.

“Che devo fare?” gli chiedo seguendolo con lo sguardo mentre si aggira per il salotto a spegnere le luci.
“Fai me.”
“Quindi devo fare l’incazzato?”
“Non ero incazzato!”
“Ricordo vagamente un atteggiamento ostile verso il mondo…”.
Mentre parlo, Alex torna di fronte a me e accende l’abatjour accanto al divano.
“Ora concentrati sulla scena.” Sussurra piegandosi verso di me; per continuare a guardarlo in viso, devo appoggiare la testa allo schienale del divano. Alex posa entrambe le mani ai lati della mia testa e, accennando l’ombra di un sorriso, domanda:
“Dove eravamo?”
“Io ero Alex incazzato.”
“Ah, giusto.” Le sue mani si muovono fino ad afferrare i miei polsi, per portare le mie dita sui suoi fianchi, “è andata più o meno così, no?”
“Non saprei…”
“Ora dovresti tirarmi a te, Scintilla.”
Rispondo alla sua richiesta, facendo scivolare le braccia verso il basso e invitandolo con una lieve pressione ad avvicinarsi al mio corpo.
Lui segue i miei gesti senza esitazioni: si muove con movimenti lenti, sedendosi a cavalcioni sulle mie gambe con grazia e fare predatorio allo stesso tempo.
“Cominci a ricordare?”
Non rispondo alla sua domanda: mi limito ad annuire, sfiorando piano il suo viso e cercando le sue labbra con sicurezza. Lui si ritrae appena, impedendomi di baciarlo e borbottando:
“Non è andata proprio così, però.”

Vorrei baciarlo e porre fine a tutto questo; vorrei aiutarlo a dimenticare i suoi problemi per una volta e distrarlo dalla difficoltà che probabilmente prova ancora dopo avermi raccontato la verità. Vorrei ricordargli che io ci sono anche per questo: per sostenerlo come ha fatto più volte lui con me; che lo avrei scelto anche se fosse stato onesto con me dal principio. Vorrei sapesse che ho perso la testa per lui, per quello che è, per la sua ironia e i suoi sbalzi d’umore: per il ragazzo che è davvero, non per l’immagine che mi sono costruita. Vorrei che capisse che da me non si deve nascondere.
Vorrei fargli capire tutto questo con un bacio, ma so che non basterebbe quello per fargli sapere cosa penso e cosa sento: l’unica cosa che posso fare ora è stare al gioco e alleggerire l’aria. Allora incornicio il suo viso con sicurezza, impedendogli di allontanarsi ancora da me; lo guardo dritto negli occhi e in un respiro, domando:

“Wanna make out?”
Bastano quelle parole soffiate per cancellare ogni emozione negativa dai suoi occhi: sospira appena e preme il suo corpo contro il mio, lasciando che la mia bocca scorra contro la sua. Affondando le mani nei suoi capelli, non posso trattenermi e - senza accorgermene - mordo il suo labbro inferiore e cerco di accarezzare il suo bacino con il mio. Un verso di piacere gli si spezza in gola quando la frizione del mio ventre sui suoi jeans sfiora la parte più sensibile di lui: nascosta dal tessuto, la prova del fatto che il mio spirito d’iniziativa è stato apprezzato inizia a diventare evidente.
Lo sento premere il suo corpo su di me, cercando disperatamente quella frizione che io stessa desidero: quando con un gesto rapido si stacca dalle mie labbra, i suoi occhi si fanno più scuri. Il palmo della sua mano scorre dal mio collo fino al lembo inferiore della mia maglietta: le sue dita sgusciano sotto la stoffa e stringono la mia pelle.

“Wanna take it to the next level?”


Non aspetta neppure di sentire la mia risposta, prima di incollare le labbra alle mie e trascinarmi in camera da letto e “portare tutto al livello successivo” , come ha delicatamente proposto.

Credo che non mi stancherò mai di fare l’amore con Alex: non è tanto per la sua tecnica (che va benissimo, intendiamoci), è più che altro per il fatto che è attento ad ogni particolare. Che si tratti di una sveltina o di un momento lento e delicato, Alex si concentra tanto sul dare quanto sul ricevere. Come se ogni carezza, ogni bacio e ogni respiro fosse necessario. Sempre. Alex inizia a fare l’amore dal primo bacio. A volte penso che i preliminari gli piacciano più di tutto il resto. E lo penso anche oggi, mentre con lui imparo a fare l’amore in un modo nuovo: a occhi chiusi. Letteralmente.

Niente nastri e mascherine sensuali: semplicemente mi sussurra all’orecchio di chiudere gli occhi e di non aprirli fino alla fine. Lui farà lo stesso.
E la cosa strabiliante è che io non ho modo di sapere se lo farà davvero o meno: devo fidarmi e credere che ci sia una ragione per quella richiesta.

Accetto la sfida. Poco dopo, tra una carezza e una gomitata accidentale inflitta da me ai suoi denti, capisco la ragione: con un senso attivo in meno, tutto il resto si amplifica.
L’odore della sua pelle, delle sue labbra, della sua pelle dopo che ha sfiorato la mia: è tutto più forte. Forse riesco a percepire persino l’odore della mia, di pelle.
I sapori e i respiri sembrano avere un’intensità nuova e più vivida.
Il tatto, le percezioni del mio corpo e la sensazione di lui contro me si scandisce: all’inizio è tutto solo confusione; poi ogni percezione si fa più chiara, ogni terminazione nervosa sembra vibrare in modo diverso, ogni recettore del tatto si attiva con più intenzione. Io mi attivo con più intenzione.
Con un ultimo bacio delicatissimo, così diverso dal ritmo concitato e passionale con cui ci siamo mossi insieme, Alex mi stringe a sé e lo sento fremere impercettibilmente tra le mie braccia, e un sospiro di piacere si spegne tra la pelle delle mie labbra contro le sue.

Senza parlare, ma sorridendo come una vera imbecille, apro gli occhi, scendo dal suo grembo e mi lascio cadere contro il materasso: Alex scuote piano il capo e si sdraia accanto a me, permettendomi di accarezzargli il viso. Restiamo così a lungo, in un confortevole silenzio e respirando l’uno sulla pelle dell’altra senza toccarci.

Non gli chiedo a quanto ammonta questo debito: non è affare mio e, soprattutto, sarebbe di una maleducazione eccessiva anche per una ficcanaso come me. Vorrei fargli altre domande: vorrei chiedergli perché non ha voluto accettare l'aiuto dei suoi e vorrei sapere di più sul suo rapporto con Adam, ma al momento sono più preoccupata per la sua gestione dei soldi.
Non che io ne sappia qualcosa di stipendi e conti correnti, ma mi pare che tenere i contanti sotto il materasso sia quanto meno azzardato:

“Alex, non puoi tenere tutto quello che possiedi in una valigia in casa.” sussurro fingendo di non sentire le sue dita ancora una volta scivolare lungo la pelle del mio basso ventre.
“Non sono tutti.”
“Non è sicuro: oggi ti è andata bene, ma che succede la prossima volta? Come fai se entrano davvero dei ladri e ti portano via la tua scarsissima cassaforte scassata?”
Mi bacia il collo e mi costringe a voltarmi supina: poi si appoggia lentamente su di me e si lecca le labbra:
“Posso baciarti, Sofia? È per zittirti.”
“Alex...”
“Non ne voglio più parlare, okay? Per oggi ho parlato a sufficienza.”
“Ma...”
“Non ti basta mai? In pratica ho sviscerato le cose più intime di me: puoi darmi tregua? Non ho quasi più segreti... Mi sento nudo!”
“Sei nudo!”
“Sei nuda pure tu. Possiamo parlare di quello?”
“Magari un'altra volta.”
“Ma io vorrei farlo di nuovo!” ribatte indignato.
“E io vorrei parlare. Pare che entrambi ci addormenteremo insoddisfatti.”
“Il tuo è un meschino ricatto.”
“Sì, lo è. Ma sono stanca: ti concedo una tregua dalle mie domande pressanti, se posso posticipare il sesso a dopo un pisolino.” rispondo accarezzandogli il viso e deponendo l’ascia di guerra, mentre lui annuisce contento e torna a sdraiarsi accanto a me.

Questa sera Alex mi ha mostrato se stesso: le sue paure e la parte di sé che, fino ad ora, aveva cercato di nascondere. Mentre lascio che mi abbracci da dietro e che affondi il viso nel mio collo prima di addormentarsi, non posso fare a meno di rimproverare me stessa: piano piano Alex si sta svelando e sta affidando a me tutto quello che ha. Mi sta mostrando fiducia e sta eliminando ogni distanza. E io? Io resto ferma, immobile anche con lui. Non ho fatto grandi progressi, né gli ho permesso di vedere più in profondità: nascondo le mie vergogne e i miei timori. Non gli ho ancora mostrato cosa mi spaventa e non gli ho permesso di aiutarmi a uscire dalla confusione e dall’incertezza.

Il suo respiro contro la mia pelle si fa più lento e regolare. Mentre lui dorme, prometto a me stessa che farò qualcosa: cercherò di dare quanto ho ricevuto in questa relazione. Tenterò di fargli vedere oltre la facciata. Di permettergli di avvicinarsi davvero.


 



PAUSA
PAUSA
Ormai sapete come funziona! Fate pausa responsabilmente... La direzione si chiede quanti effettivamente rispettino la pausa.

 

 
Ci sono due momenti drammatici in una relazione che non dovrebbero mai avere luogo troppo presto: presentare tuo fratello al tuo partner e incontrare due membri della famiglia di quest’ultimo dopo aver fatto tre rampe di scale di corsa.
L’evento si trasforma in tragedia se uno di questi due è un bambino di sette anni con gli occhi tendenti al grigio, lo sguardo da inquisitore spagnolo e i capelli biondo scuro che lo fanno somigliare troppo al tuo ragazzo.
Che cosa fai quando entri in casa con tuo fratello (che si è auto invitato a pranzo) e trovi il tuo coinquilino/compagno seduto al tavolo della cucina con un gran pezzo di figo che non hai mai visto e il sopracitato bambino sulle ginocchia che decora ad arte (pessima) una cosa che somiglia ad una cheesecake? Come agisci quando il tuo ragazzo afferma: “Med, questi sono Adam e Andie, mio fratello e suo figlio.” ? Qual è la mossa matura quando tre paia di occhi da Pokemon (che ora capisci essere un problema genetico) di gradazioni diverse si piazzano sulla tua faccia sudata e paonazza?
Fai come me: ti nascondi in bagno.
Non è probabilmente il modo più adulto di affrontare la vita, ma mi concede il tempo di prendere respiro e di prepararmi all'inevitabile.
 
Quel bambino ha degli occhi più pungenti dello zio: sono di un colore bizzarro, una via di mezzo tra il grigio e il verde (forse è un mutante) e mi scruta come se gli avessi rubato i Lego.
Quando mi decido ad allontanarmi dalla porta del bagno, il suo sguardo mi segue sospettoso e fastidioso.
Alex mi sorride, facendo rimbalzare il simpatico fanciullo sulle sue ginocchia:
“Andie, that’s Med.”
“Do you speak English?” mi chiede abbozzando una smorfia.
 
È la mia occasione: rispondere che non lo parlo è il modo per evitare interazioni dirette con il nipote di Alex. Tiè, beccati questo, bambino giudicone. Mi mette ansia quel biondino liofilizzato in braccio al mio, di biondino.
Ho la sensazione che Andie tenga Alex per le palle senza che il mio coinquilino se ne renda conto: il che significa che io e Andie dobbiamo essere amici.
 
“So? Do you speak English?”
 
“No.”
“Med!” mi rimprovera Alex mentre scoppia a ridere.
“Cosa?”
“Non fare la scema.”
“Non dire scema di fronte al bambino.”
“Tu parli inglese!”
“Io parlo italiano. Occasionalmente, se la situazione lo richiede, mi posso sforzare di produrre suoni anglofoni, ma non lo faccio bene.”.
“Ma non è vero!”
“Tu che ne sai? Io non ti ho mai risposto in inglese.”
“Sei allucinante.” sghignazza Alex scuotendo la testa.
“Purtroppo, Andie, non sono fluente nella tua lingua. Ora lo zio te lo traduce.”
 
Alex non smette di ridere mentre parlo e suo nipote si volta alternativamente tra me e lui: il fratello, di un bello sconcertante, che fa impallidire il mio coinquilino al confronto, si limita a studiarci e a sfoggiare un sorriso appena accennato.
Una carezza sulla testa da parte dello zio sembra risvegliare il piccolo Andie dal suo mutismo:
 
“Alex, è strana.” dice rivolgendosi allo zio, ma continuando a fissare me, “Forse mi piace!”
 
Oh, merda. Il sentimento non è reciproco, bambino.
 
Sarebbe tutto andato benissimo se mio fratello avesse colto la supplica dipinta nei miei occhi e avesse inventato qualche balla per portarmi via dall’appartamento: sfortunatamente per me, invece, Michele è parso da subito molto interessato ad Alex. O meglio, a chiunque alloggiasse nelle mie mutande.
 
Dalla mia destra, il mio adorato fratellone, si è limitato a sibilare con una voce terribilmente dura:
“Quale ti scopi?”
 
C’è questa specie di mito che corre di bocca in bocca e narra che i fratelli maggiori sono gelosi, protettivi e territoriali: ecco, in tutta la mia vita Michele si è pacificamente disinteressato della mia vita sentimentale. Ma non oggi: oggi ha deciso che, improvvisamente, deve guardare con aria minacciosa la persona con cui sono in intimità. E il suo istinto maschile lo ha spinto a portare tutta la sua energia omicida sul bersaglio sbagliato, cioè su Adam: lo fissa come se fosse il demonio.
Incredibilmente, però, quando trovo il viso del più grande degli Aleman nel mio appartamento, scopro che lui sta fissando me nello stesso identico modo.
 
La cosa non è piacevole. Per nulla.
 
“Allora? Con quale te la fai?” sussurra nuovamente Michele.
“Non con quello che stai minacciando di morte tu.”
“Col biondo?”
“Sì.”
“Quello maggiorenne, vero?”
“Idiota.”
 
Lui sbuffa e, senza perdere tempo, si incammina verso Alex.
 
La giornata del parentado diventa ufficialmente la mia preferita quando Adam si solleva dalla sedia in tutto il suo splendore e punta dritto verso di me: volete che ve lo descriva? Perché è più polverizza-mutande di Alex. O forse no: forse lo sono allo stesso modo, ma i colori diversi lo rendono più minaccioso.
Tanto per cominciare Adam è moro: non semplicemente moro, ha i capelli neri come il male e gli occhi con lo stesso identico taglio di quelli di Alex, ma illuminati da una punta più verde. I tratti del viso sono forti, più adulti di quelli del fratello e nettamente più duri, ma la bocca sembra essere stata scolpita nello stesso sorrisetto che decora costantemente le labbra di Alex.
Oggi vantano entrambi una lieve barba incolta che, se ad Alex conferisce un’aria più sensuale, su Adam sembra solo rimarcare la sottile linea di pericolo che si porta dietro. Ha solo pochi centimetri in più del fratello in altezza e lo stesso fisico asciutto ma teso.
 
Come vi dicevo, dunque, è un pezzo di figo. Se non fosse per l’aria poco rassicurante e qualche segno del tempo in più sul viso di Adam, potrebbero passare quasi per gemelli.
 
“Tu sei Sofia.”
 
Stesso accento. In Italia da duemila anni e ancora non si sono liberati della cadenza statunitense.
“Med.” lo correggo cercando di sorridere e stringendo la mano che ha teso nella mia direzione.
“Sì, lo so.”
“Lo sai?”
“Andie mi ha raccontato di te.”
Non mi sfugge il particolare del fatto che il messaggero riguardo alla mia esistenza non sia stato il mio ragazzo, ma il bambino che li costringe ancora ad avere un rapporto: lo stesso bambino che sembra avere un rapporto inimitabile con lo zio.
 
“Capisco…”
“Sofia, tu sapevi che teneva tutti quei soldi in casa?”
Il fatto che si permetta di usare il mio nome di battesimo senza il mio permesso mi irrita quasi quanto la sua insinuazione.
“No, non lo sapevo”, ribatto cercando mio fratello con lo sguardo, pregando affinché non si stia comportando da bestia. “Mi sorprende che lo sappia tu, però.”
“Non dovrebbe. Sono suo fratello.”
 
Lo dice come se il suo ruolo fosse garanzia di una confidenza tra loro che, sono abbastanza certa, non esiste.
“Ne sono al corrente.”
“E sono un assicuratore.”
 
Ecco svelata la ragione della sua presenza qui.
“Interessante: deve essere un lavoro piuttosto affascinante.”
“Non particolarmente, ma non è questo di cui volevo parlarti.” risponde Adam buttando un occhio alle sue spalle e monitorando la situazione, forse per assicurarsi che Alex non lo senta: purtroppo per lui, però, lo sguardo del mio coinquilino è piantato come un chiodo su noi due e non ha un’espressione serena. Per di più sta ignorando mio fratello che, a sua volta, si sta incazzando come un bufalo.
 
In tutto questo Andie è l’unico sereno che, imperterrito, sfoglia le pagine di un libro con una violenza propria solo dei bimbi e blatera come se qualcuno lo stesse ascoltando.
“Alex ha qualche difficoltà economica ultimamente.”
Se non avessi già avuto la notizia da Alex, tirerei un ceffone ad Adam per aver svelato così un fatto tanto privato a una che neanche conosce. Annuisco a denti stretti, evitando di emettere suoni e cercando di sopprimere la rabbia.
“Ha chiesto aiuto a me in passato, ma…”
“Sì, conosco la storia.” non è vero, non la conosco proprio, ma la superiorità con cui sta parando di suo fratello mi sta facendo salire il sangue alla testa.
“Non può tenersi tutti quei soldi in casa, Sofia.”
“Ne è cosciente.”
“Ma non ha tutti i torti: se le cose non migliorano l’affitto potrebbe diventare un problema.”
 
Mentre lui parla, non riesco a spostare lo sguardo dal suo viso e a pensare che le ovvietà che sta dicendo probabilmente servono per portarmi in una posizione scomoda. Oppure Adam è solo molto tronfio e adora sentire il suono della sua voce, eppure non era questa l’idea che mi ero fatta di lui dalle poche informazioni che Alex si era lasciato sfuggire.
 
Istintivamente vorrei appenderlo al muro, sbatacchiarlo e domandargli “quale cazzo è il messaggio che stai cercando di trasmettermi?”, ma mi rendo conto che la cosa potrebbe essere eccessiva. Persino per me.
Non so bene cosa stia succedendo ma, benché io condivida la disapprovazione di Adam per la scelta di Alex di tenere gli stipendi sotto il materasso, l’atteggiamento di Adam ha scatenato in me un senso di protezione: Alex è stato un coglione ed è testardo come un mulo, ma non sta certo a suo fratello venire a sindacare. Un fratello perennemente assente, tra l’altro.
E, a proposito di fratelli, sono in apprensione per il mio, per cui cerco di accelerare i tempi:
“C’era qualcosa di specifico che volevi dirmi e di cui non sono già al corrente?”
Mentre parlo, il mio sguardo si sposta alle spalle del mio interlocutore e trovo nuovamente Alex con gli occhi bui incollati su di noi: incredibilmente nessun segno di rassicurazione sembra alleggerire la sua tensione.
Non l’occhiolino che gli faccio, non il piccolo sorriso che abbozzo. Neppure quando indico suo fratello e faccio roteare gli occhi al cielo: è come se non se ne fosse neanche accorto. Purtroppo per me, invece, Adam ha colto in pieno.
“Ti sto infastidendo?”
 
Ops.
 
“No, no, figurati.”
“Sto infastidendo Alex, allora.” ribatte e si volta di scatto.
Avete presente quelle volte in cui ho detto che Alex faceva paura? Ecco, paura come quando incrocia lo sguardo di Adam non me l’ha mai fatta.

Passa qualcosa di silenzioso tra loro due, uno scambio che non ha voce ma che non per questo è meno intenso: vorrei intervenire, ma non so neppure come gestire un Aleman, figuriamoci due.
Adam tiene gli occhi fissi su Alex mentre torna a rivolgersi a me:
“Credo che dovresti pagare tu l’affitto finché non salda il suo debito.”
 
Che cosa?!
 
“Prego?”
“Sei la sua ragazza, no?”
“Io… Beh… sono la sua coinquilina.”
“Ma sei anche la sua ragazza o qualcosa di molto simile. Alex non ha ragazze, per cui ci deve essere una ragione se tu sei tu.”.
 
Non so se è un problema di lingua o se ad Adam manca qualche nesso logico, ma non ho assolutamente capito la sua affermazione. Il fatto è, però, che non me ne frega molto: mi interessa di più tornare al punto in cui questo stronzo pensava che chiedere alla ragazza del fratello di pagare l’affitto al posto suo fosse una buona idea. Se Alex fosse in piedi accanto a me, di certo, ora Adam avrebbe un occhio nero.
“Adam, ti prego, non prendere le mie parole come un’offesa, ma è la cosa più idiota che abbia sentito nell’ultima settimana.”
 
La mia voce potrebbe colare miele in questo istante. Quando sente il cambio di tono nelle mie parole, lui si volta improvvisamente verso di me: la conseguenza è che Alex si solleva dalla sedia, scansando in modo un po’ brutale mio fratello e dirigendosi verso di noi. Poi ci dovremo occupare anche dell’evidente problema che Alex e Michele si stanno sulle palle.

Quello dopo, però: ora occupiamoci di me e Adam che ci stiamo sulle palle. Se poi consideriamo che anche Michele e Adam potrebbero non amarsi, abbiamo fatto terno.
 
“Convincilo a chiedere aiuto ai nostri genitori.”
“Non posso farlo: è una scelta sua.”
“Pensavo volessi aiutarlo.”
“Certo che voglio aiutarlo, ma non imponendogli qualcosa.”
“Se non vuoi pagare l’affitto per lui...”
“Non posso pagare l’affitto anche per lui. Non ho un lavoro. In ogni caso, anche se potessi farlo, lui non accetterebbe mai.”.
“Allora convincilo a farsi aiutare dai miei genitori.”
 
Non ho tempo di ribattere questa volta perché Alex è più veloce di me: per la prima volta da quando lo conosco, l’inglese non ha su di me un effetto piacevole.
“I asked for your help, not theirs. You were crystal clear when you said no and now you go and ask her to help me? I don’t want her to do shit. I wanted you to step up and do something for me.”

Adam non è neppure scalfito dall’accusa che serpeggia sotto le sue parole: Alex è risentito perché Adam, invece di aiutarlo, ha spifferato tutto ai loro genitori. Ed è indignato perché ritiene inopportuno che il fratello abbia chiesto a me di aiutarlo. Sono perfettamente d’accordo: è proprio inopportuno.
Adam, però, non è neppure scalfito dall’accusa che serpeggia sotto le sue parole: passandosi una mano tra i capelli, risponde. In Italiano.
“Non posso aiutarti, lo sai.”
“Non vuoi aiutarmi, è diverso.”
“Non li ho tutti quei soldi.”
“Bullshit.”
Cacca di mucca
, dice Alex: che tradotto, vuol dire che pensa suo fratello dica stronzate.
“Sei mio fratello, è ovvio che faccia il possibile per te.”
“Cazzate. Non vuoi aiutarmi e usi lei per arrivare a me e liberarti dal senso di colpa.”.
“Alex…”
“Med, stanne fuori.”
 
Eh, ti pareva se io non ne dovevo stare fuori.
“Sei qui per una sola ragione: fammi un cazzo di contratto assicurativo sul furto e poi vattene.”
 
Io sono una di quelle persone che crede che chi fa a botte sia un vero idiota. A prescindere dalle circostanze, dalle attenuanti, dalle scuse: chi si mena è imbecille.
Inutile specificare, quindi, che quando il mio coinquilino alza un pugno bello stretto, vengo pervasa da un brivido di puro e incancellabile disgusto.
“Alex, non fare il coglione.”
“Ti ha messo al guinzaglio? Peccato non sia stata così brava anche a istruirti sulla gestione dell’orgoglio.”
“L’ho ingoiato il giorno in cui ho chiesto aiuto a te, il mio fottuto orgoglio.”

Ed è su questa piacevolissima nota che Andie interviene: per un brevissimo secondo, penso che forse questo particolare bambino potrebbe non starmi del tutto sulle palle. Saltellando come una drosophila melanogaster che svolazza sull’uva, si piazza tra suo padre e suo zio. Alza le mani verso l’alto e, a pieni polmoni, annuncia:
“Mi scappa la cacca!”
Oh, Dio del cielo benedetto. Che schifo.
“E voglio che mi ci porti…” dichiara guardando prima Adam e poi Alex “… lei!”

Lei sarei io, ovviamente. Essendo l’unica con delle ovaie nella stanza.

D’un tratto dei futili motivi di conflitto tra i due Aleman non me ne frega più nulla; perdo interesse anche verso la possibilità che Alex venga derubato di tutti i suoi risparmi. La mia mente si concentra solo su quel bambino diabolico, con la faccia da cherubino, che mi scruta come un leone di fronte a una gazzella e che vuole essere portato a fare i bisognini da me.

La mia espressione inorridita deve essere esilarante, perché anche Adam comincia a ridere al limite del soffocamento: sulla mia mortificazione, improvvisamente i due fratelli trovano l’intesa. Sghignazzano manco fossero a uno spettacolo comico e si danno pacchette sulle spalle, i dementi.

“Bambino, no.” Balbetto rivolgendomi ad Andie, “Io non ti porto da nessuna parte.”
“Allora la faccio qui.”
“Ma anche no.” Poi guardo Alex, “Ma quanti anni ha?! Non è grande per farsela addosso?”

Alex, respirando a fatica, risponde:
“La farebbe consciamente e volontariamente. Per protesta al tuo rifiuto.”
“Ma l’avete fatto vedere da un esorcista? O almeno da uno psicologo?”

Il nipote di Alex ha gravi problemi comportamentali, forse. Jules farebbe subito una diagnosi.
“Med, sto scherzando. Non se la fa addosso. Né volontariamente, né per errore. Lo dice solo per provocarti.”
“Che bambino simpatico.”
“È perché gli piaci.” interviene Adam, cercando di controllare la risata.
Andie, intanto, mi fissa compiaciuto. Non sapevo neppure che un bambino potesse fare la faccia compiaciuta.
“Come sono fortunata…” borbotto sotto voce, affrettandomi poi ad aggiungere:
“Non è grande per aver bisogno di essere accompagnato?”
“Devi solo portarlo fino al bagno e accertarti che ne esca, prima o poi. Per il resto è perfettamente autonomo!” interviene Adam, sempre sogghignando, ma mostrando quasi orgoglio.

Di cosa non lo so: parliamo di funzioni naturali, non della soluzione alla fame nel mondo. E, in ogni caso, è Andie che la sa fare: Adam non ha meriti.
“Io non lo porto a fare la cacca, Alex!”
“Perché no?” domanda il piccolo, iniziando a saltellare sul posto. Sospetto gli scappi anche altro.
“Non ci conosciamo, non è opportuno!”

E mi fa schifo. E non mi piacciono i bambini.
“Sei la fidanzata dello zio, no?” domanda Andie, come se questa cosa potesse relazionarsi alla sua richiesta e i suoi occhi cercano inquisitori il mio viso, prima di spostarsi su quello dello zio. Alex annuisce, asciugandosi le lacrime. Mentecatto.
“Allora sei la mia zia!”

Beh, ma che cazzo. Io non sono la zia proprio di nessuno.
Il mio disagio e il panico che questo bambino sta scatenando in ogni mia cellula devono essere evidenti a tutti i presenti perché, d’un tratto, Adam mostra uno spiraglio di umanità; sollevando Andie per aria e facendolo dondolare, ordina:

“Non importunare Sofia. Ti ci porto io… Oppure ti fa vedere lo zio dove sta il bagno. È casa sua.”
“Ma voi non aspettate fuori dalla porta che io abbia finito… e poi mi fate sempre lo scherzo della carta de sedere.”
“Igienica,” lo corregge Alex.
“Perché anche il nonno lo faceva a noi. È una tradizione di famiglia.”
Mentre parla, Adam si piazza Andie sotto braccio, come se fosse un pallone da football.
“Allora mi ci portate tutti e due, così la smettere di litigare.” Dice agitando i piedini. Poi, con la voce improvvisamente triste, aggiunge: “Non mi piace quando litigate.”

Quel bambino è un fottuto genio.
Adam e Alex si scambiano uno sguardo colpevole per un istante.
“Non stavamo litigando…”
“Sì, papà! Il nonno dice che solo i deboli alzano la voce con gli altri e dicono le parolacce.”.

Nella stanza cola per qualche secondo un silenzio imbarazzato: messi sotto da un bambino che deve fare i bisognini.
Mio fratello, ancora fermo accanto al bancone della cucina, è paonazzo e sta per morire dal ridere cercando di non emettere rumori, mentre le lacrime gli impiastricciano tutti gli occhi: sono circondata solo da idioti.

“Dammi il tempo di portarlo in bagno e poi parliamo, d’accordo?” domanda Adam con una voce completamente diversa da quella usata fino a poco fa.
Forse anche lo stronzo ha un punto debole: suo figlio.
“Penso ancora che ti stia comportando come uno stupido e dovresti chiedere aiuto a mamma e papà, Alex.”
“Lo so.”
“D’accordo. Arrivo subito.”

Scompare dietro la porta del bagno e Alex sospira a pieni polmoni.
“Non è stata un’idea brillante.”
“Quale? Quella di portare qui tuo fratello e tuo nipote o quella di chiedere aiuto a tuo fratello?”

Lui ammicca e, facendo schioccare un bacio sulle mie labbra, dichiara:
“Li conquisti tutti, questi Aleman. Andie era particolarmente affascinato da te e dalla tua capacità di comunicare con i bambini.”
“Che culo! Come se uno non mi bastasse…”

Potrei raccontargli quello che mi ha detto Adam, parola per parola; forse dovrei dirgli che è davvero il caso di accettare l’aiuto dei suoi genitori.
Penso, però, che questa potrebbe essere l’occasione per Adam e Alex di ritrovare un rapporto adulto tra fratelli e aiutarsi. Devo solo sperare che Adam sia molto meno merda di quello che sembra.
Devo sperare che in lui predomini il padre che ho visto comparire per qualche secondo grazie a Andie-Lucifero.

 

AN: Non posso poi dire molto, se non che tornare a scrivere questa storia dopo più di un anno è stato un miracolo in cui non speravo più da un po'. Pubblicare mi causerà indubbiamente qualche attacco di panico...
Ringrazio, in ogni caso, chiunque abbia ancora la voglia e il coraggio di essere qui, nonostante il lunghissimo tempo trascorso: grazie a chi si è fermato su questa storia, a chi l'ha commentata e a chi ha comunque continuato a crederci. Purtroppo ho provato centinaia di volte a scrivere in questi lunghi mesi e, solo dopo aver pubblicato "It's a match!" questa settimana, sono riuscita a dare una forma ai pensieri di TuttoTondo: insomma, l'assenza di aggiornamenti non era voluta e non era menefreghismo... Non pubblicare era probabilmente più molesto per me, che a questa storia tengo profondamente.
Grazie, come sempre, alla Beta Letizia, che c'è ancora. Che - benché non ricordasse se Alex lavora, come si chiama davvero Med e del Wanna make out - ha avuto la forza e la pazienza di ripulire il capitolo dalle mie porcherie e di trovare la logica dove io l'avevo perduta. Grazie perché ancora sei qui e mi sopporti.
Un grazie anche a Chiara e a Cristina che, nonostante tutto, in questi mesi hanno provato sempre a incoraggiarmi a non abbandonare del tutto la scrittura... anche se io continuavo a dire che non ci sarei più riucita.
E grazie a chi è arrivato alla fine del capitolo, a chi ancora segue tuttotondo e a chi ha creduto che prima o poi sarei tornata.


 




 

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