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di Lely_1324
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #1 Prologo ***
Capitolo 2: *** Cap2 ***
Capitolo 3: *** Cap3 ***
Capitolo 4: *** Cap4 ***
Capitolo 5: *** cap5 ***
Capitolo 6: *** Cap6 ***
Capitolo 7: *** Cap7 ***
Capitolo 8: *** Cap8 ***
Capitolo 9: *** Cap9 ***
Capitolo 10: *** Cap10 ***
Capitolo 11: *** Cap 11 ***
Capitolo 12: *** Capi 12 ***
Capitolo 13: *** Cap 13 ***



Capitolo 1
*** #1 Prologo ***


And right now there's a war between the vanities
But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known
(Come Home - One Republic)


«...Così gli avevo detto che se un giorno avesse sperato in un mio sì, avrebbe dovuto fare di meglio di un elastico per capelli. È romantico certo, ma queste cose vanno bene per le protagoniste dei film, non certo per me... voglio il pacchetto completo io! Beh, comunque stavo scherzando allora ,più o meno, non credevo mi stesse davvero ascoltando. Ma devo dire che alla fine ha fatto davvero un gran bel lavoro...»
«È meraviglioso Ruby, davvero»
Comodamente acciambellata sul divano, Emma rigirò ancora una volta la mano dell'amica tra le proprie, delicatamente, come se temesse che ad un tocco più deciso la pietra sul suo anulare potesse sgretolarsi.
Non era mai stata un'amante dei gioielli: nelle occasioni speciali le piaceva stupirsi ad ammirare il proprio riflesso impreziosito da qualche ricercatezza, ma nella vita di tutti i giorni la collana di Neal e il laccio di Graham erano tutto ciò di cui necessitava per sentirsi completa.
Tuttavia dovette ammettere che quel diamante meraviglioso lo era davvero, oltre che grosso, e per qualche istante le venature argentee, e il contrasto che queste creavano con la carnagione della sua amica, la lasciarono sopraffatta.
Non poté fare a meno di chiedersi da quanto Victor meditasse quella proposta: doveva essere parecchio tempo se era riuscito a risparmiare tanto da comprarle quell'anello,si disse, mentre lo osservava incantata.
«Sai, ero piuttosto indecisa se venire qui o meno. Non ero certa se fosse il caso, vista la tua ultima esperienza con anelli del genere...»
Lo sguardo di Ruby si velò di un cupo rammarico, attraverso cui anche la pietra al suo dito appariva ora meno luminosa,appannata da un senso di colpa che aveva segretamente premuto per uscire sin da quando  aveva messo piede in quella casa.
Il vino ondeggiò mesto nel bicchiere sotto la pressione delle dita che, a disagio, cercavano un controllo su qualcosa -qualsiasi cosa- che potesse distrarla da quel pensiero.
«Non dire sciocchezze Ruby, è ovvio che dovessi dirmelo! E vantarsi dell'anello rientra nei compiti di una futura sposa, perciò stai tranquilla. Oltretutto è passato tanto tempo...»
Non c'era ipocrisia in quelle parole, o dolore. Avrebbe facilmente potuto dare l'impressione di riferirsi a una vita non sua, se non fosse stato per quella punta di malinconia nello sguardo, tipica di chi sta ripercorrendo con la mente la scia  di un ricordo.
Avrebbe voluto risponderle che ormai quella storia faceva parte del suo passato,che non provava più nulla per quell'uomo il cui nome aleggiava ora, pesante e impronunciato, nella stanza, e che la vista di quell'anello, così simile ma così diverso da quello che avrebbe potuto incorniciare il proprio di anulare, non l'aveva portata a domandarsi "e se...".
Ma la donna seduta di fronte a lei era la sua migliore amica, e le doveva sincerità, più di quanta ne riservasse a se stessa. Così, tacque. Perché la verità era che, nonostante fosse felice della propria vita attuale e delle proprie scelte, quando si chiedeva se avesse potuto o voluto far andare le cose diversamente, l'unica risposta che riusciva a darsi era che non lo sapeva.
E probabilmente non voleva neanche saperlo.

Erano già passati due anni.
Due anni dal suo nuovo inizio. 
Due anni dalla loro fine.
Lo aveva detto lui, entrambi meritavano di più: più della paura di rivelarsi cosa fossero, e più di un forse. 
E un forse era proprio ciò che gli aveva dato lei. Non a parole, non ce n'era stato bisogno, lui lo aveva letto nei suoi occhi: tutta l'esitazione concentrata nel rapido scatto delle sue iridi verdi. Avevano ceduto un solo istante all'attrazione dei loro sguardi, per poi posarsi su un punto troppo distante da loro due, tradendo il suo desiderio di fuga. Fuga da quella proposta, dalla proposta di un futuro insieme.
Si era rialzato così come si era inginocchiato: rapido e deciso, un sussulto di lei coperto dal secco richiudersi della scatoletta.
E poi aveva sorriso.
Un sorriso mesto ma sincero, di chi sembrava aver scoperto la più grande delle verità del mondo.
Quel sorriso non era più riuscita a dimenticarlo: veniva a trovarla nella solitudine della notte, quando poteva permettersi di essere debole, e lei vi si nascondeva dentro, rannicchiata al sicuro tra le piccole rughe,affascinanti tracce del tempo sulla sua pelle, che avevano incorniciato anni prima il viso di lui, e che le si erano appiccicate addosso, ciascuna custode di un ricordo di quei tre anni passati insieme.
In quel momento aveva sentito una parte della sua vita scivolarle via dalle mani e lei non aveva potuto far altro che stare a guardare, inerme: impedirlo sarebbe stato impossibile, come cercare di acchiappare l'acqua.
E di acqua ce n'era troppa: tra le sue dita, nelle sue lacrime...
E ogni goccia le strappava via un nuovo pezzetto di sé, di lui, di loro. 
Troppo rapide per darle il tempo di capire se stesse piangendo per il sollievo di una spiegazione che le era stata risparmiata o per la disperazione dovuta alla consapevolezza di averlo perso per sempre, maturata troppo tardi per tornare sui propri passi.
Ricordava ancora come si era sentita allora: quella sgradevole impressione di non essere più in grado di provare nulla,perché non aveva più nulla,finché, da molto lontano, non le era arrivato il tocco leggero della fronte di lui contro la propria, e in quel vuoto una nuova consapevolezza aveva preso piede.
Era finita.
Si amavano ancora? Forse. Sicuramente.
Ma quell'ultimo ti amo che lui le aveva regalato non era stato che la parola conclusiva di un sentimento a cui avevano appena messo fine, prima che fosse lui a finirli.
Ne aveva riconosciuto ogni lettera nel lento sillabare delle sue labbra sulla propria pelle, ardente, come se quelle due parole non fossero state semplicemente sussurrate, ma marchiatele a fuoco sulla fronte.
Non era più abbastanza: in quell'universo, in quella vita, o forse semplicemente in quel momento, loro non erano abbastanza. Molto probabilmente per colpa sua.
Dovevano andare avanti.
E così, lo aveva guardato allontanarsi a passi lenti e stanchi,quasi che sulle sue spalle fosse improvvisamente piombato il peso di un migliaio di anni, ed Emma era riuscita a vedere l'amarezza sul suo volto anche quando lui aveva voltato l'angolo, sparendo per sempre dalla sua vista e dalla sua vita.
Da quel giorno non aveva mai più visto Killian.
Jones, invece, lo aveva incontrato altre volte.
Dopo un ragionevole silenzio di sei mesi, le loro strade si erano nuovamente incrociate, più spesso di quanto avrebbero voluto. 
Ma era stato inevitabile. 
E in fondo, era anche giusto così: la nascita del figlio di David e Mery Margaret, l'anniversario della morte di Graham... erano tutte occasioni più grandi di loro e dei loro problemi.
Non erano più Emma e Killian, ma erano ancora Swan e Jones, e in un modo penosamente illogico questo era in qualche maniera rassicurante.
In un modo penosamente illogico, lui era ancora la sua casa.







Salve a tutte, è un pò che non pubblico qualcosa ma questa idea mi frullava in testa da un pò e ho deciso di assecondarla. Devo fare qualcosa per riprendermi dal finale di stagione. Spero davvero che questo primo capitolo possa aver catturato la vostra attenzione e abbiate voglia di dirmi cosa ne pensate, i vostri pareri mi rendono immensamente felice! Grazie davvero di cuore a tutti coloro che si prenderanno il tempo per leggere.
Un abbraccio forte, Elena.

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Capitolo 2
*** Cap2 ***


How I wish I had screamed out loud
instead I’ve found no meaning.
I guess it’s time I run far
far away, find comfort in pain
all pleasure’s the same
it just keeps me from trouble
hides my true shape, 
I’ve heard what they say
but I’m not here for trouble
it’s more than just words
it’s just tears and rain.
(Tears and rain, James Blunt)



L'orologio a muro dell'ingresso segnava le nove e quaranta, quando Emma finalmente rientrò a casa.
Gettate le chiavi sulla prima superficie piana disponibile, si trascinò stancamente fino al bagno, lasciandosi dietro una scia di vestiti frettolosamente dismessi e malamente abbandonati sul pavimento.
In altre circostanze si sarebbe rimproverata per quell'incuria, ma in quel momento,lanciata una breve occhiata dietro di sé, ritrovò in quello scenario l'esatta riproduzione della sua mente: un motore che si ostinava a tirare avanti, perdendo ad ogni passo un piccolo pezzo di se stesso.
Raccogliere quei vestiti, mettere ordine, avrebbe reso tutto sbagliato. E fasullo.
Sarebbe stato l'ennesimo ipocrita tentativo di fingere che tutto fosse a posto, di costringersi dentro uno schema di abitudini e di regole che, se non interrotto ogni tanto, rischiava di soffocarla.
C'erano momenti in cui semplicemente sapeva di dover allentare la presa su se stessa e lasciare che un po' di verità trapelasse da quella fortezza di mattoni entro la quale si era di nuovo rifugiata: in parte perché, si ripeteva, aveva anche lei il diritto di essere debole qualche volta, ma soprattutto per evitare che, in assenza di sbocchi controllati, tutto quel ribollire rischiasse di farla esplodere in situazioni in cui davvero non avrebbe potuto permettersi di farlo. 
Protetta dalla sola biancheria intima, si sedette sul pavimento, rabbrividendo al contatto con le fredde piastrelle del bagno, e abbandonata la testa sul bordo della vasca, si perse nel lento scroscio dell'acqua che presto avrebbe ospitato il proprio corpo.
Quella appena trascorsa si era già preannunciata come una giornata pesante fin dalle prime luci dell'alba: un arresto e una pila inattesa di scartoffie non avevano fatto altro che rubarle quell'ultimo briciolo di energia rimastole.
Le piaceva il suo lavoro. A New York era una dei tanti agenti del dipartimento di polizia. Dopo la storia con Neal aveva capito di poter fare di meglio che la ladra nella vita, quindi dopo un inizio da cacciatrice di taglie ed una fortuita collaborazione ad un caso con la polizia di New York, le era stato offerto un posto in dipartimento, e lei non si era potuta certo permettere di rifiutare. Poi era arrivato lui, Killian Jones, giornalista di cronaca nera. Aspirava a scrivere qualcosa sulla corruzione del sistema giudiziario, probabilmente, ma era finito per aspirare a lei. Ironico come le collaborazioni finissero sempre per stravolgere la sua vita. 
Alla fine il materiale raccolto da Killian, tutte le sue pubblicazioni, erano state raccolte in un romanzo, a cui, per quanto ne sapeva, ne sarebbe presto seguito un altro.
Ma non poteva saperlo con certezza, lei non era più parte della sua vita ormai. Ed era stata una scelta sua, questo lo sapeva.  Aveva scelto la via più facile, la fuga, ed era scappata a Washington, accettando quel posto offertole dal dipartimento di sicurezza: era tornata ad cercare criminali, una sorta di ritorno alle origini, pensò con asprezza. Lasciarsi avvolgere dal calore di un bagno le era sembrata l'unica soluzione logica al proprio stato d'animo, e mentalmente ringraziò per l'ennesima volta se stessa di non aver dato retta al suo agente immobiliare nell'anteporre la comodità di una doccia ai benefici di una vasca.
Guardarla colmarsi pigramente sotto i propri occhi si era poi rivelato uno spettacolo ipnotico, e mentre le dita distrattamente disegnavano timidi archi sulla superficie dell'acqua, la mente si era ritrovata a rievocare un ricordo che non sapeva d'aver custodito fino ad allora: davanti a lei le volute di vapore avevano così preso le forme di sua madre, della sua madre adottiva Ingrid,intenta a districare i capelli di un'Emma ancora adolescente, che raccontava di una qualche delusione ormai persa nel tempo. La voce della donna invece sembrava essersi conservata intatta nelle sue memorie, e stava ora dolcemente ripetendole ancora e ancora parole davanti a cui Emma aveva riso ma alle quali aveva adesso un disperato bisogno di aggrapparsi: “ potrà sembrarti sciocco, ma un bagno è molto più di quello che appare. È magico. Se sei abbastanza coraggiosa da lasciare che i tuoi pensieri scivolino indisturbati fuori dalla tua mente, e non hai paura di affrontarli, allora finiranno per sciogliersi nell'acqua, e alla fine andranno via con lei giù per le tubature”.
Gli occhi le si fecero umidi, e non seppe dire con sicurezza se per colpa del vapore.

Quaranta minuti dopo Emma era già stesa sul letto; le mani giunte sopra lo stomaco e il relax di qualche istante prima già un lontano ricordo.
Per quanto il bagno l'avesse aiutata, alleviando la sua stanchezza, adesso che era rimasta sola con se stessa,senza l'acqua o la schiuma a distrarla, il peso dei suoi pensieri si stava facendo insopportabilmente pressante.
Ruotò la testa verso destra e la sua guancia si beò del tocco fresco delle lenzuola di cotone, mentre lo sguardo si andava a posare sul disordine in fondo alla stanza, reduce della, seppur breve, permanenza di Ruby in casa sua.
Una settimana era passata in fretta, ed entrambe avevano avuto l'impressione che il giorno della partenza fosse arrivato prima del previsto. D'altronde avevano tanto da recuperare, ora che erano lontane, e anche se questo fortunatamente non sembrava aver intaccato il loro rapporto, la felicità di vedersi per un periodo tanto lungo le aveva chiaramente travolte.
Quando quella mattina l'aveva infine accompagnata in aeroporto, nel vederla scomparire dietro la porta a vetri dell'edificio col suo trolley rigonfio di abiti, non aveva però potuto non notare la punta di sollievo che l'aveva colta sul momento.
Adesso che ci ripensava, al buio e nella ritrovata solitudine della propria camera, si sentiva in colpa per aver gioito, seppur lievemente, della partenza della propria migliore amica; una parte di lei tuttavia continuava ad essere in disaccordo, e per quanto Emma si odiasse per questo, non poteva davvero biasimarla.
Quei pochi giorni in sua compagnia avevano riportato nella propria vita, insieme a un'allegria smarrita da tempo, anche un turbinio di emozioni tale da farla cadere nel più nero sconforto. Era stata brava a nasconderlo,o quantomeno Ruby era stata brava a farglielo credere, ma era certa che non sarebbe potuta andare avanti per molto.
E se all'inizio aveva creduto di poter gestire la propria mente, e l'intero mondo di cui Ruby,come anche lei in passato, faceva parte, c'era poi stata una sera, la quarta per l'esattezza, in cui si era davvero resa conto di stare scivolando in un pericoloso abisso di fantasticherie.
Ruby di fianco a lei aveva già preso sonno, stremata da un'intera giornata di passeggiate per le vie del centro, mentre lei come al solito era stata colta dalla più vispa delle insonnie. La stanchezza, se anche ci fosse stata, era ormai rassegnata, e da molto tempo aveva smesso di farsi sentire in quelle circostanze, conscia del fatto che non sarebbe comunque riuscita a convincere Emma ad addormentarsi; si sarebbe riproposta più tardi, nei momenti meno adatti, durante i peggiori turni di lavoro, a presentarle il conto e vendicarsi per essere stata così arrogantemente ignorata durante la notte.
I raggi di luna entravano a sprazzi nella camera, attraverso le fessure della tenda, creando pozze argentee e nastri di luce pallida tutto intorno a lei. Uno di questi le si era posato addosso, e quando Emma aveva mosso le mani nell'oscurità alla ricerca della coperta, il filamento argenteo le si era appollaiato sulle dita creando un insolente gioco di luci tale da farle sembrare di stare indossando un impalpabile anello. Senza che se ne rendesse conto era stata rapita da quella vista e solo parecchi, interminabili, istanti dopo si era scoperta assorta in imprudenti congetture circa il come indossare un altro tipo di anello,uno più materiale, l'avrebbe fatta sentire.
Quel pensiero l'aveva terrorizzata.
Quando aveva affrontato la discussione con Ruby, la loro prima sera insieme, le aveva detto che vedere un anello al suo dito non le aveva fatto male, che era passato ormai tanto tempo dall'ultima volta in cui si era sentita trafiggere dalla semplice vista di un solitario. Ed era stata sincera.
Passare davanti le vetrine delle gioiellerie, incappare erroneamente su programmi tv di matrimoni, non erano più cose che la costringevano a scappare via, lontano da tutto e da se stessa. Anche il semplice immaginarsi sposata, in un lontano futuro, un'eventualità su cui il suo lato più femminile amava rimuginare talvolta, sebbene distante anni luce dalle sue reali intenzioni,era adesso diventata una fantasia sostenibile.
Non necessariamente tutto riportava a lui ormai; e comunque lei col tempo era diventata brava a capire in anticipo quando mettere un freno ai propri pensieri.
Ma quella notte al suo anulare non aveva immaginato un diamante qualsiasi: a contornarlo era stata invece una pietra ben precisa e fin troppo familiare, una pietra che l'ultima volta aveva visto sparire tra le pieghe di tessuto blu di un'incriminata scatoletta, e a cui non sapeva di aver prestato tanta attenzione da poterne ricordare perfettamente le forme ancora oggi, a distanza di anni.
Se Ruby non fosse stata lì, a un paio di centimetri di distanza da lei, probabilmente avrebbe scaraventato contro il muro la lampada sul comodino, colpevole di essere l'oggetto più vicino alle sue mani, che invece erano rimaste ancorate al lenzuolo, tremanti e imperlate da una patina di freddo sudore,  al sicuro finalmente dall'ingombrante presenza di quei fasci di luce incriminata.
A ripensarci adesso, Emma riusciva ancora a sentire i residui di angoscia albergare tra le pieghe della propria anima, e non poté trattenersi dal lanciare una rapida occhiata alle proprie mani, le cui dita affusolate giacevano placidamente intrecciate tra loro, vestite di un rassicurante buio pesto. Le tende erano state accortamente tirate a coprire l'intera finestra, e la luna sembrava troppo stanca per tentare di violare quella barriera, limitandosi a qualche bagliore annoiato contro il davanzale.
Quella notte sarebbe riuscita a dormire ,questo fu l'ultimo pensiero di Emma, prima di crollare esausta in un sonno senza sogni, giunto così improvviso da non permetterle nemmeno di scivolare prima sotto le coperte.


La pioggia ottobrina la colse impreparata.
Avvolta nel suo cappotto rosso Emma affrettò il passo, zigzagando tra marciapiede e ballatoi degli edifici, sperando potessero darle una seppur breve tregua dalle gocce sempre più fitte.
Quando l'acqua aveva iniziato a minacciare anche le sue calze, oltre che le scarpe, scorse finalmente l'insegna de “Le Café Charbon”, ed evitando l'ultima pozzanghera, ne afferrò la maniglia e vi si fiondò dentro.
Il tepore del locale l'avvolse all'istante, mentre l'aroma ormai familiare dei croissant già le solleticava le narici e il palato.
Aveva scoperto quel posto dopo appena un mese da che si era trasferita: una domenica mattina, la prima che aveva avuto davvero libera da quando era a Washington, si era finalmente decisa a dare un primo sguardo rilassato alla città che aveva ora il privilegio di chiamare casa, e per pura fatalità aveva finito per imbattersi nelle vetrine di quel caffè.
Era stato amore a primo sguardo.
Non seppe dire se ad averla convinta ad entrare fosse stato più il profumo che si sprigionava dall'interno ogni volta che un cliente ne usciva , o l'atmosfera intima e accogliente che già da fuori era in grado di respirare; l'unica cosa certa era che, nel momento in cui aveva varcato la porta del locale, aveva già deciso che il tintinnio di quel campanello, posto in cima all'infisso, avrebbe accompagnato tutte le sue giornate da lì in avanti.
Nonostante fosse ancora piuttosto presto, il locale era già colmo di gente.
Le ci vollero ben due ricognizioni, ma alla fine Emma scorse un tavolino vuoto in un angolino appartato del caffè, e un sorriso fece timidamente capolino tra le labbra: era uno dei suoi preferiti. Insieme a un paio di altri tavoli, quello era il solo abbastanza vicino alla vetrata e sufficientemente distante dal resto dei presenti da permetterle di osservare il mondo circostante senza venirne osservata a sua volta.
Accomodatasi sulla sedia, e liberatasi dell'ingombro del cappotto umido, Emma allungò le braccia sulla superficie di legno e le incrociò davanti a sé, lasciando le proprie dita libere di giocare distrattamente col menù e con i bordi ruvidi del tovagliolo.
Non dovette aspettare troppo prima che il viso bonaccione di Geppetto, il proprietario, prendesse a trotterellare verso di lei, solcato da un profondo sorriso che Emma trovò, come al solito, irrimediabilmente contagioso.
«Buongiorno Emma, come andiamo stamattina?»
«Geppetto, lo sai che non devi farmi certe domande prima che abbia preso il mio caffè»
Il sorriso dell'uomo si trasformò in una grassa risata, incrinata forse dagli ultimi strascichi di una bronchite.
«Piuttosto, dov'è Granny? È strano non vederla dietro al bancone»
«È in cucina. Stamattina ha bruciato un'intera infornata di biscotti, il che l'ha resa particolarmente nervosa, e quando Granny è nervosa si sfoga andando nel retro e dando ordini a chiunque, giusto per il piacere di tormentarli» 
Un'alzata di spalle rassegnata accompagnò quelle sue ultime parole, ma a tradirlo furono gli occhi, traboccanti di adorazione per quella donna che pure lo faceva esasperare a volte.
Geppetto infatti amava enormemente Granny ed Emma riusciva facilmente a capirne il motivo.
Prese singolarmente erano due delle persone migliori che lei avesse avuto la fortuna di incontrare, uniti formavano un sodalizio perfetto. Erano la classica coppia fatta per stare insieme che, dopo anni di duro lavoro per costruirsi una famiglia e un futuro, si era goduta i frutti di tanti sacrifici viaggiando alla scoperta del mondo, e ora che gli anni iniziavano a farsi più ingombranti per entrambi, avevano deciso di realizzare il sogno di una vita: aprire un loro locale.
Più aveva modo di frequentarli, più Emma se ne innamorava: avevano un coraggio, un'energia e una fiducia l'uno nell'altra che lei non era certa sarebbe mai riuscita a provare. Quando li osservava poi, aveva la curiosa e confortante sensazione di stare guardando i propri genitori: se le cose fossero andate diversamente, e sua madre fosse stata ancora viva -si era detta- probabilmente lei e suo padre nella vecchiaia le sarebbero apparsi esattamente così.
Granny e Geppetto erano stati i primi a farla sentire davvero a casa una volta arrivata a Washington.
Conoscerli le aveva dato una ragione in più per legarsi a quel posto.

Cinque minuti dopo, Emma stava già assaporando una squisita brioche alla cannella.
Trascorse il resto del tempo a osservare fuori dalla vetrata, sorseggiando di tanto in tanto il proprio caffè, persa nel groviglio confuso dei propri pensieri. Uomini e donne sepolti sotto strati di vestiti le passavano davanti sollevando spruzzi d'acqua che, puntualmente, finivano per posarsi su qualcun altro, la cui espressione corrucciata rendeva perfettamente l'idea di quanto poco gradita la cosa fosse loro.
Apparentemente nessuno in quella città amava la pioggia, fatta eccezione per i bambini che avevano inaugurato il salto della pozzanghera come nuovo sport nazionale. 
Lei era come uno di quei bambini.
Non perché avesse voglia di abbandonare il contegno imposto dalla propria età per andare a infangarsi senza troppi pensieri per strada -non solo almeno- semplicemente amava la pioggia.
L'odore di erba bagnata, il freddo pungente che preannuncia le prime gocce... erano tutte cose che avevano il potere di rasserenarla.
Inoltre, in quel momento, quella vista unita al profumo di croissant l'avvolgeva in una vellutata spirale di dolcezza.
«Sembra che l'inverno sia arrivato in anticipo quest'anno»
Geppetto, giunto all'improvviso a pulire i resti della colazione della donna, ne interruppe il corso dei pensieri.
«Già, non che mi dispiaccia. Anche se sembra che l'inverno abbia aspettato che io finissi di mangiare, e dovessi uscire fuori, per dare il via al diluvio. E stamattina ho fatto il grosso errore di non controllare il tempo prima di scendere, quindi niente ombrello»
Emma rivolse un ultimo sghembo sorriso al suo interlocutore, un mix di mestizia e ironica esasperazione, prima di tornare a studiare le gocce di pioggia infrangersi sulla vetrata.
Per quanto amasse quel tempo dovette ammettere che raggiungere il posto di lavoro sotto un acquazzone del genere non si prospettava come una bella avventura. Senza la protezione di un ombrello, e senza il suo maggiolino,ancora in officina per la revisione, giungere asciutta alla meta appariva come un'impresa impossibile.
Come se avesse letto nei suoi pensieri, Geppetto tornò pochi istanti dopo con il conto e un ombrello color porpora tra le mani. Emma gli lanciò uno sguardo esterrefatto, già pronta a rifiutare, ma Geppetto fu più svelto a parlare.
«Come ho già detto, Granny è parecchio nervosa oggi, e mi ha incaricato di dirti che se non lo accetti con le buone sarà costretta a venire lei e fartelo accettare con le cattive. Personalmente non te lo consiglio» il volto di Geppetto si illuminò di un bonario sorriso mentre le porgeva l'oggetto «Potresti anche tenerlo, ma poichè sono certo che non lo farai, riportalo tranquillamente domani. Ho il sospetto che ti troverò di nuovo qui»
Detto questo si allontanò, l'espressione bonaria ancora persistente sul viso. Alternando lo sguardo tra lui e l'ombrello, adesso stretto tra le proprie mani, Emma non riuscì a trattenere un sorriso.

Dopo un paio di minuti da che aveva lasciato “Le Café Charbon”, Washington sembrava aver concesso ai suoi abitanti una breve tregua dalla pioggia, che era notevolmente diminuita. Emma comunque ringraziò di avere un ombrello sopra la testa perché senza, anche in assenza del diluvio di alcuni minuti prima, non se la sarebbe cavata di certo altrettanto bene.
Quella mattina, essendo priva dell'auto, era scesa un po' più presto del solito da casa, per cui aveva potuto fare le cose con maggiore calma prima che il momento di timbrare il cartellino arrivasse, e adesso poteva concedersi una passeggiata piuttosto che una forsennata corsa verso l'ufficio.
Col senno di poi si sarebbe pentita amaramente di quella scelta.
Aveva appena superato la libreria lungo Grosberry Street che qualcosa in quella vetrina catturò la sua attenzione. Aveva in realtà dato un breve sguardo distratto al suo contenuto, ma il proprio inconscio era stato abbastanza rapido da registrare qualcosa di anomalo in quello scenario. Titubante rallentò il passo e fece dietro front, temendo già di conoscere la risposta a cosa avrebbe trovato una volta faccia a faccia con la vetrina.
E infatti eccolo lì, in piedi nel suo solito abito scuro, con un libro in mano e la solita espressione di tronfio orgoglio scolpita in viso. Erano tutti così i suoi cartelloni pubblicitari, dannazione!
Era così impegnata ad essere sorpresa che non sentì la sgradevole fitta che, ostinata, stava premendo per trafiggerle lo stomaco. Inoltre, si sentiva infastidita: innanzitutto da quel sorriso, che lui aveva smesso di rivolgerle da tanto tempo ,e a buon diritto, ma che ora stava generosamente concedendo a chiunque passasse da lì, e poi perché quella era la sua città adesso, e per quanto potesse essere lei quella in torto, lui non aveva il diritto di disturbarla nella sua città.
E fu allora che la notò, la scritta alla base del cartonato: Killian Jones vi aspetta il 22 novembre in occasione dell'uscita del suo nuovo libro. Ai primi 25 fan che si presenteranno una copia autografata in omaggio, non mancate!
Dovette rileggere parecchie volte prima che il suo cervello fosse in grado di processare la cosa, e le ci vollero parecchi profondi respiri per calmarsi non appena ci fu riuscito. In fondo, si disse, non era nulla di così catastrofico.
Washington era una grande città e lei era sempre oberata di lavoro: le probabilità di incontrarlo erano minime, e anche in quel caso sarebbe stata in grado di gestire la situazione. Non sarebbe certo stato il loro primo incontro da quando la loro relazione era finita e stavolta le circostanze erano persino più favorevoli, non essendoci di mezzo alcun evento che richiedesse la loro contemporanea presenza e che li costringesse a passare insieme più del tempo necessario a un breve saluto.
Mentre rifletteva su questo, e il cervello iniziava a metabolizzare lo shock iniziale, le gambe avevano preso però un'altra direzione, così come ogni muscolo del suo corpo, e nel giro di pochi istanti si era ritrovata a chiedere al gestore del bar adiacente alla libreria dove fosse il bagno.
Senza sapere come o perché fosse arrivata lì, due minuti dopo era già chiusa in uno dei loculi, seduta a gambe incrociate sulla tavoletta, col telefono in una mano.
Uno squillo, due squilli, tre squilli...
«Pronto»
«Ruby, ciao»
«Emma, non pensavo di sentirti così presto, è successo qualcosa?»
«Lui è qui Ruby. Cioè non ancora, ma lo sarà tra due settimane. Jones intendo»
«Oh...»
«Oh? Che vuol dire “oh”? Tu lo sapevi?»
«Beh, sì... senti Emma mi dispiace, pensavo di dirtelo mentre ero lì da te, ma non ho mai trovato il modo o il momento adatto per tirare fuori l'argomento...»
Emma si agitò scomodamente sull'improvvisato sedile di plastica sul quale era appollaiata: il telefono incastrato tra la spalla e l'orecchio, mentre con le mani tentava di aiutare le gambe a sistemarsi in una posizione, se non confortevole, quantomeno stabile.
«Ma per te non è un problema, no? Tu stessa mi hai detto che ormai non ti fa più effetto la cosa. E poi non è neanche detto che lo incontrerai, ti basterà evitare la zona dell' Hartfort Hotel, è lì che starà»
Prima che potesse rispondere, il rumore dello sciacquone e di una porta sbattuta distrassero entrambe dalla domanda, e forse evitarono alla bionda una risposta scomoda.
«Emma ... ma dove sei?»
«In un bagno. Di un bar. Non so il nome, non c'ero mai entrata prima»
«Ok... e perchè mi chiami da un bagno di un bar che non conosci?» Emma riuscì ad immaginare le labbra laccate di rosso della sua amica assumere un'espressione confusa.
«Beh avevo bisogno di parlarti, e non potevo aspettare di arrivare in ufficio. Inoltre non potevo restare per strada. Mi stava fissando.»
«Chi ti stava fissando?»
«Lui, Kullian! Dovevi vederlo, con quell'aria boriosa e soddisfatta. Se non ci fosse stata una vetrina a dividerci probabilmente gli avrei sferrato un pugno in faccia, su quel suo sorrrisino strafottente»
«Immagino tu stia parlando del cartonato pubblicitario...»
«Beh sì, certo... non sferrerei mai un pugno a Killian, quello vero. Credo.»
Una risata cristallina risuonò attraverso l'apparecchio telefonico ed Emma si sentì leggermente rinfrancata. E anche un po' stupida. In effetti, ora che ci pensava, l'essersi rinchiusa in un bagno pubblico per parlare al telefono con la propria migliore amica del proprio ex fidanzato aveva del ridicolo. Era dai tempi del liceo che non si dava a certi comportamenti, e forse neanche allora avrebbe reagito in quel modo.
«Ad ogni modo Emma ripeto, se anche doveste incontrarvi dov'è il problema? Non sarebbe certo la prima volta, e forse sarebbe anche un bene. È da mesi che non avete contatti, magari il fatto di rivedervi prima del matrimonio, in una situazione meno... formale, potrebbe essere di aiuto»
«No, hai ragione Ruby. Non c'è nessun problema infatti. È stato solo strano, credo: quando torno a New York sono consapevole che lo vedrò, e sono preparata. Non mi aspettavo di vederlo qui, ecco tutto. Adesso ti saluto, sarebbe anche ora che uscissi dal bagno e andassi a lavorare. Ti chiamo più tardi»
«D'accordo tesoro, buon lavoro»
Emma riattaccò subito, ma le ci vollero cinque minuti buoni per decidersi ad alzarsi e ad uscire da quel bagno. Con il telefono ancora tra le mani non riusciva a non ripetersi nella mente le parole di Ruby: aveva ragione lei, se anche si fossero incontrati dove sarebbe stato il problema?
Da nessuna parte. Il problema non esiste.
Era come aveva detto lei, non si era rintanata in bagno per paura o per dolore, soltanto per la sorpresa di trovarselo davanti all'improvviso, anche se fatto di cartone, e a testimoniarlo c'era il fatto che nel vederlo non era stata male, non come lo sarebbe stata tempo addietro.
Forte di queste riflessioni si rimise in piedi, uscendo finalmente dal loculo dentro cui si era rinchiusa.
Prima di lasciare la stanza si diede un'ultima occhiata allo specchio e si lavò le mani, giusto per dare l'impressione di aver usato il bagno per scopi più maturi di quelli reali.
Lo specchio le rimandò un'immagine contorta: l'aspetto sembrava normale ma i suoi occhi parevano deriderla.
Ed Emma tornò a chiedersi se invece un problema non ci fosse, e se questo suo neo-riacquistato senso di impotenza e ansia legati alla sua presenza non fosse per caso dovuto alle fantasie della notte recentemente trascorsa.
L'ombra dell'anello sembrava essere tornata, indelebile sul dito come il segno di un'abbronzatura lunare.


Eccoci qui al secondo capitolo, spero si sia capito qualcosa in più sul passato di Emma, anche se al momento è il futuro a preoccuparla! Che dire? Come sempre ringrazio tutti coloro che spendono dieci minuti e a leggere e in particolar modo coloro che mi lasciano il loro parere sul capitolo, grazie davvero. Se il capitolo è troppo lungo ditemelo, anche le critiche sono ben accette. A presto, sempre che mi riprenda dalla Con di Parigi, cosa non semplice ( ma quanto erano belli?)  Al prossimo, un abbraccio, Elena.

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Capitolo 3
*** Cap3 ***


No I can't forget this evening
Or your face as you were leaving 
But I guess that's just the way 
The story goes 
You always smile but in your eyes 
Your sorrow shows 
(Without you, Mariah Carey)



Il tramonto non lo aveva mai particolarmente affascinato.
Quella sensazione di fine e di indefinitezza insieme lo aveva sempre lasciato piuttosto indifferente; talvolta aveva persino trovato irritante l'idea di tanto sfarzo solo per annunciare la fine dell'ennesimo, ordinario, giorno.
In passato, nel pieno di alcuni dei suoi periodi più neri, avvolto dalla propria spirale di debolezze e sconforto, quella luce così calda e abbagliante non era stata che una violenza, una beffa al buio del suo animo.
Solo poche volte si era ritrovato a contemplarlo e a viverlo appieno, e quasi sempre c'era stata di mezzo una donna: in fin dei conti era pur sempre un uomo di mondo, un amante dell'amore, e conosceva bene il valore aggiunto all'attrattiva romantica di un tramonto ben gestito.
Ma era tutto qui.
Potendo scegliere, lui preferiva l'alba.
E non solo per la luce fredda che svuota il cielo, da riempire ogni giorno con mille nuovi propositi e aspettative, né per la fragile quiete che porta con sé. Amava l'alba per queste e altre cose insieme, che ne facevano il perfetto coronamento di un momento ancor più perfetto: la notte.
Era nella notte che i crimini più efferati e le passioni più brucianti si consumavano, e i segreti più oscuri venivano rivelati, affidati sottovoce al più nero dei silenzi.
Sì, lui di gran lunga preferiva la notte.
Guardare il tramonto infrangersi sulle nuvole attraverso l'oblò di un aereo, quella però era tutta un'altra storia. 
E quella sera di nuvole intorno a lui ce n'erano tante, troppe forse: ed ognuna era orlata di una delicata luce rosea.
Dopo tutto era uno scrittore, un cultore dell'arte: sapeva riconoscere la bellezza quando la vedeva. Anche in un tramonto.
E quel tipo di bellezza era rara, e violenta.
Poche altre cose al mondo avevano quella stessa graffiante semplicità. Ancor meno donne potevano vantarla: nella vita eri fortunato se riuscivi a incontrarne anche solo una così lungo il cammino. Lui, un tempo, era stato fortunato. Ma, com'è noto, la fortuna gira.
Di tramonti così, invece, in certi periodi poteva vederne anche ogni mese.
E ogni volta era come la prima.

A rompere l'idillio venne la voce gracchiante del capitano, che dall'interfono invitava i signori passeggeri ad allacciare le cinture in vista dell'atterraggio.
Nel regolare la fibbia metallica si lasciò distrarre dalla spia rossa che aveva preso a lampeggiargli insistente sopra la testa, e quasi non si accorse dell'arrivo dell'hostess, sobbalzando quando la sua chioma rossa si insinuò prepotentemente nel proprio campo visivo.
«Mi scusi signore, dovrebbe chiudere il finestrino. Stiamo per atterrare»
Killian annuì, celando dietro un affabile sorriso il sussulto di qualche istante prima, sorriso che gli fu prontamente ricambiato insieme a un lieve rossore che dipinse le gote della donna.
Con le dita ancora appese al perno di plastica del finestrino, attese che si fosse allontanata a sufficienza per poi riaprirlo indisturbato.
Ormai era diventato un gesto automatico, spesso portato a termine per puro istinto di ribellione all'ingiusta regola che gli impediva di gustarsi il panorama proprio nel momento in cui questo acquisiva maggiore interesse.
Ogni volta si riprometteva di chiedere il perché di tale regola, e ogni volta puntualmente se ne dimenticava: magari in tutti questi anni aveva attentato alla sicurezza propria e degli altri passeggeri senza saperlo... Non che questo l'avrebbe fermato con sicurezza dal farlo. Specie oggi, che si preannunciava un raro spettacolo di luci rosee e grattacieli dai riflessi laminati.
Nel pieno della discesa, le nuvole avevano già preso a diradarsi, rivelando qua e là frammenti della città sotto di lui, e man mano che l'aereo scendeva di quota poteva scorgere sempre nuovi dettagli: le chiazze verdi dei parchi, le saette variopinte che erano le macchine... finché anche gli uomini non si svelarono ai suoi occhi.
Improvvisamente una morsa attanagliò il suo stomaco, quando si rese conto che in quel groviglio ancora confuso di forme e colori c'era anche Emma.
D'istinto chiuse il finestrino, chiedendosi come questo piccolo dettaglio potesse essergli venuto in mente soltanto adesso. Eppure, non era proprio per questo che aveva mostrato tanta esitazione nell'accettare l'invito a Washington?
Non che fosse un dramma rivederla, ci era ormai abituato e inevitabilmente col tempo era andato avanti, lasciandosi alle spalle quella storia. Tuttavia aveva pur sempre trascorso tre, densissimi, anni in compagnia di quella donna e conosceva perfettamente l'effetto che aveva su di lui, quindi per esperienza sapeva che era sempre meglio evitare d'incontrarla quando possibile.
Perché dopotutto lui era sempre un uomo, ed Emma era sempre Emma.
E ogni tanto, quando la sua vena letteraria lo faceva scivolare in quei poetici momenti bui dell'esistenza, si ritrovava a incappare in scomodi ricordi del loro passato. Come stava accadendo adesso, per esempio.
A distanza di anni non facevano più così male in effetti, e lui aveva imparato a smettere di rimproverarsi  colpe che in fondo non aveva, ma era come con alcuni ritornelli di tormentoni musicali: gli entravano in testa. Si riproponevano di continuo, ad ogni sosta del suo cervello -di numero non indifferente, oltretutto- e non riusciva a scacciarli per giorni, se non sostituendoli man mano con altri suoi ricordi, finché questi non si esaurivano o non giungevano reminiscenze più ingombranti da sopportare, che gli fornivano la determinazione necessaria ad alzare la guardia di fronte al potere delle libere associazioni.
Di questi ultimi, il più gettonato era chiaramente il ricordo della sua proposta, e della loro conseguente fine.
Per ovvie ragioni questo scenario aveva sempre conservato un certo potere irritante e, arrivato ad esso, Killian sapeva di stare sfiorando incautamente la linea rossa del pericolo e di doversi fermare.
L'ultima volta che aveva ritardato nel farlo, aveva finito per scaraventare un vaso Ming da 5000 dollari contro la parete del suo studio.
Eppure non era colpa sua, gli avevano candidamente ripetuto più volte David, Victor e chiunque altro si fosse sentito in dovere di consigliarlo.
Se loro avessero potuto vedere quello che aveva visto lui, se la avessero vista piangere, lei che non aveva il diritto di versare alcuna lacrima, allora forse avrebbero capito.
Ancora adesso che il tempo, la rassegnazione e l'affetto delle persone care avevano ampiamente lenito il suo rancore, rivivere quel flashback gli procurava una scarica di adrenalina lungo la schiena.
Ancora adesso ricordava alla perfezione ogni più piccolo movimento: l'avvicinarsi della propria fronte alla sua e quello sfiorarsi, un tocco persino più intimo del bacio che non era riuscito a darle. Come se con quel contatto avesse potuto comunicarle tutto ciò che lei era stata per lui, e ciò che ancora era.
Ma era già finita, lo sapevano entrambi.
Ed era stato giusto così. Inevitabile.
Non c'era stato rimorso o rancore nel suo sguardo, -quello era venuto dopo insieme alla solitudine e al dolore- ma solo tenerezza per una donna che in realtà non aveva mai davvero avuto.
Quel muro non lo aveva che appena scalfito, e colei che aveva creduto di vedere dall'altra parte era stata solo una marionetta, i cui fili erano stati sapientemente tirati dalla donna nascosta al sicuro dietro la propria, impenetrabile, torre di mattoni.



«Signor Jones, da questa parte!»
Appena fuori dalla porta scorrevole a vetri, Killian non fece in tempo a muovere un altro passo nella zona arrivi dell'aeroporto che si sentì chiamare.
Scandagliando rapidamente la folla di parenti e chauffeur di fronte a sé, notò infine una tozza bionda sulla quarantina, di altezza normale ma troppo bassa per la propria massa corporea, che a forza di spinte e svicolate era riuscita a farsi largo tra la gente fino alla prima fila.
Nonostante la sua presenza fosse del tutto inattesa, individuarla non era stato certo difficile: a parte la stazza non indifferente, la donnina aveva preso a sbracciare come per liberarsi da uno sciame d'api, sventolando a mo' di ventaglio il cartello con su scritto il suo nome, con una veemenza decisamente non necessaria.
Leggermente intimorito, l'uomo prese ad andarle incontro con passo dubbioso, finché non le fu davanti. Solo allora notò il logo dell'Hartforth Hotel cucito sulla camicia.
«Signor Jones, è un onore incontrarla di persona!»
«La ringrazio, signorina...»
Killian tese la mano verso la donna che, dopo qualche attimo di ammirata esitazione, gliela strinse, agitando l'intero busto piuttosto che il solo arto.
«Patricia, Patricia Belson!»
«È un piacere Patricia. Non vorrei sembrarle scortese ma posso sapere come mai è qui? Non ricordo di aver richiesto di essere prelevato all'aeroporto»
«Oh, è stata la signora Mills a farlo» Strega, era sicuramente un appellativo azzeccato per descrivere la sua redattrice
«Regina, ma certo...» soffiò Killian a mezza voce tra un sospiro e un'alzata d'occhi «Aveva paura che scappassi, magari» .
L'ironia tagliente con cui il commento era stato fatto non era sfuggita a Patricia che, indecisa su come rispondere per evitare di impelagarsi in una discussione chiaramente scomoda, si limitò a sorridere candidamente, rasserenando di poco lo sguardo corrucciato di Killian.
Ora che la guardava meglio, con le labbra distese in un ampio sorriso e il volto paffuto illuminato dalla dentatura bianchissima e curiosamente perfetta, doveva ammettere che, sotto quegli strati di stoffa variopinta e quell'abbondanza di carne, si nascondeva una donna piacevole e forse, se opportunamente agghindata, piacente.
Inoltre il suo sorriso sincero e vagamente imbarazzato suonava rassicurante, lasciando presagire una piacevole, seppur non richiesta, compagna di viaggio.
L'entusiasmo iniziale andò comunque smorzandosi man mano che la coppia procedeva lungo l'aeroporto, con Patricia che, rotto il ghiaccio, rivelò la sua parlantina nonché il suo fare autoritario nell'impedire all'altro qualunque sosta o spostamento non precedentemente autorizzato da Regina, e Killian che si trascinava stancamente dietro di lei, con il trolley in una mano e risposte unicamente monosillabiche in gola.
Quando avevano infine raggiunto l'uscita, Killian sapeva già che Patricia aveva due figli, un marito sfaticato, un gatto grasso e un'improbabile passione per le barrette ai cereali. La sola cosa che salvò le sue orecchie dall'imminente suicidio fu il suono del proprio telefono che prese a squillargli nei pantaloni.
«Regina, proprio la donna a cui stavo pensando...»
«Jones, anche per me è sempre un piacere godere delle tue parole da migliaia di dollari, spero che il volo sia andato bene! Hai già incontrato Patricia?»
«Intendi il cane da guardia che hai mandato a prendermi?»
«Suvvia, non essere esagerato, l'ho fatto solo per rendere il tuo viaggio il meno faticoso possibile, e ti ho evitato l'impiccio del taxi. È deliziosa, non trovi?»
Prima di rispondere Killian lanciò un'occhiata in direzione della donna, che aveva con successo chiuso il portabagagli con la sua valigia all'interno e lo stava ora invitando a raggiungerla in auto, già seduta al posto di guida col solito sorriso a incorniciarle il volto.
«Sì, forse anche troppo. Ora devo andare, ci risentiamo domani»
La voce all'altro capo del telefono lo salutò di rimando, e un sospiro dopo Killian si incamminò verso l'auto prendendo posto accanto alla sua guida.

Quaranta minuti dopo aveva già raggiunto l'hotel, fatto il check in, scaricato cordialmente Patricia, rifiutato una cena, ed era giunto al termine di una rinfrancante doccia calda.
Vinto da uno sbadiglio,con un tonfo distese le braccia all'indietro, lasciandosi cadere mollemente sul materasso.
Rimase così, in una posizione a stella marina che ricordava vagamente quella di una tortura in voga in passato, per quelli che sembrarono un'ora e invece furono solo venti minuti.
Troppo stanco per scendere al ristorante e rischiare d'intrattenere ulteriori interazioni sociali, chiamò il servizio in camera.
Quando i piatti dinanzi a lui furono finalmente svuotati, il cielo era diventato ormai nero e la città oltre la sua finestra era stata completamente rivestita dall'oscurità.
A passi lenti si avviò verso il letto, facendo il giro largo per poter passare accanto la vetrata e ammirare la sua amata notte in tutta calma. Sotto di lui, tra le fronde  degli alberi e l'insegna di un supermercato aperto ventiquattro ore, vide sfrecciare un'auto della polizia, a sirene spiegate in mezzo al traffico onnipresente di Washington, il che per vie traverse e per le motivazioni più sbagliate, gli ricordò, ancora una volta in quella giornata, lei.




La mattina successiva arrivò troppo presto e non nel migliore dei modi: un'ustione da caffè alla lingua e un freddo pungente non avevano aiutato a rendere veloce o indolore il distacco da uno dei letti più comodi che avesse mai provato. Inoltre un'ora dopo si era aggiunta anche l'immensa mole di aneddoti e storie di Patricia, cui Regina aveva apparentemente dato il compito di pedinarlo in ogni suo spostamento.
Fortunatamente lui era stato piuttosto abile a far perdere le proprie tracce all'angolo tra la Ronson e la Ventiquattresima, e giunti a metà mattina sembrava che la sua giornata dovesse infine iniziare a prendere una piega migliore.
Una volta liberatosi dall'impiccio della compagnia, Killian  poté per prima cosa concedersi una lunga e solitaria passeggiata per la città, beandosi dei dettagli e degli scorci che Washington aveva da offrire, senza il rischio di venir distratto o di dover condividere le sue scoperte con qualcuno ad alta voce.
Quando fu sazio del paesaggio urbano e della sua fumosa frenesia, si diresse verso il quartiere di Capitol Hill.
Sullo sfondo di quei meravigliosi parchi, le sue orecchie godettero del conquistato silenzio, e i suoi occhi si imbatterono sull'imponente edificio del Campidoglio, che tuttavia si limitò a osservare da lontano, avendo altre mire.
Raggiunse la sua meta una decina di minuti dopo.
La Biblioteca del Congresso.
Era probabilmente un trito cliché -il giornalista, lo scrittore che visita la biblioteca- eppure non poteva farne a meno: sia il maestoso neoclassicismo degli esterni, che l'aria polverosa, quasi sacra, che si respirava all'interno riuscivano ad affascinarlo come pochi altri luoghi al mondo.
Com'era frequente quando si circondava di parole scritte, sia proprie che altrui, il tempo passò incredibilmente veloce, e quando infine uscì dall'edificio si diresse frettolosamente in hotel dove una doccia e un cambio d' abiti lo attendevano, in vista della presentazione del proprio libro di quel pomeriggio.



Ogni presentazione si svolgeva in modo pressoché identico.
Per prima cosa c'era qualcuno a presentarlo, poi arrivava lui accolto da una folla più o meno urlante -a seconda del genere e dell'età dei presenti-, seguivano un breve discorso, la presentazione del libro, la lettura di un breve estratto, i ringraziamenti del caso e, per ultimo, la firma delle copie.
Era però una monotonia piacevole: gli dava l'occasione di interagire con ciò che amava fare e con persone che amavano ciò che lui faceva, e occasionalmente lui.
Era buffo pensare a come centinaia di ragazze affermassero di essere innamorate di lui senza averlo mai conosciuto, solo sulla base di parole che lui metteva per iscritto. Eppure eccole lì, in fila, in trepidante attesa di una sua parola o di un suo autografo su cui poter fantasticare più tardi.
A questo Killian Jones pensava, mentre la penna correva veloce una pagina dopo l'altra, in un gesto -quello del firmare- ormai diventato automatico, ma mai totalmente disinteressato.
Del resto era sinceramente grato a quelle persone, anche se a volte si sentiva comunque solo.
Mentre il proprio sorriso e i propri occhi incontravano quelli sognanti della fan di turno, e una carrellata di volti sconosciuti gli sfilava dinanzi, l'ennesimo scomodo pensiero si affacciò alla sua mente, forte della cattiva strada che il suo cervello aveva imboccato il giorno prima in aereo. 
Così, tra un autografo e un saluto, prese forma il ricordo di Emma, e per un attimo, nella ragazza davanti a lui, gli  sembrò di scorgere il suo volto, i suoi occhi. Gli stessi di quel quel giorno in cui  lui l'aveva ritrovata, o forse l'aveva scoperta per la prima volta, attraverso quella breccia che aveva creduto di vedere aprirsi nel suo muro.
Molte volte, dopo essersi lasciati, aveva immaginato di rincontrarla così, di ritrovarsela davanti inaspettatamente, identica a come l'aveva l'asciata ma forte di un nuovo coraggio. In ogni sua fantasia, in ogni scenario che la sua mente aveva costruito nel corso dei giorni successivi al loro addio -quando il cuore ancora sperava di riaverla- l'aveva sempre immaginata tornare da lui con  una nuova breccia nel proprio muro: una nuova breccia che, insieme alla prima, gli avrebbe permesso di infilare entrambe le braccia attraverso la sua barriera di mattoni e afferrarla per non lasciarla più andare via, per non permetterle di avere paura e scappare da lui un'altra volta.
Chiaramente non era mai successo.
E col tempo si era convinto che in realtà quella prima fessura che aveva creduto di vedere fosse stata solo un abbaglio, o che se c'era stata davvero era stata prontamente richiusa in seguito, silenziosamente, senza che lui se ne accorgesse. Approfittando del fatto che lui -che giornalmente la studiava per accertarsi che la breccia fosse ancora lì- aveva poi smesso di controllare, rassicurato da quell'amore che lei finalmente si era concessa di dargli.



«Signor Jones, è stato un immenso piacere. Speriamo di riaverla al più presto qui!»
Quando l'ultima copia era stata firmata, le porte della libreria erano state chiuse, e Killian aveva creduto di poter finalmente godere di un attimo di respiro, il gestore dell'attività gli era letteralmente corso incontro inondandolo di ringraziamenti e complimenti che solo dieci minuti pieni e una copia con dedica per ogni membro della famiglia dell'uomo erano riusciti a fermare.
Esauriti gli ultimi convenevoli Killian fu finalmente libero e, alzato il bavero del cappotto, si addentrò nell'aria umida di pioggia di Washington. Per un breve istante valutò la possibilità di fermare un taxi, di cui le strade erano piene, ma la prospettiva di passeggiare tra le vie della città lo convinse a desistere. L'aria fresca sembrava un buon rimedio alla stanchezza, oltre ad essere perfetta per rinfrescarsi le idee.
Procedendo a passi lenti per godere più a lungo della città e della leggera brezza contro il suo viso, impiegò il doppio del tempo necessario per arrivare all'hotel.
Quando infine svoltò l'ultimo angolo e intravide in lontananza l'insegna dell'Hartforth si decise ad accelerare il passo: ora che la destinazione era stata raggiunta e il letto era a soli tre piani di distanza, infatti, tutta la stanchezza accumulata durante la giornata aveva deciso di potersi manifestare senza il rischio di controproducenti conseguenze.
Pertanto, quando Killian arrivò a un paio di metri dall'ingresso, fu proprio alla stanchezza che imputò la sagoma slanciata stagliata di fronte a sé, e sempre alla stanchezza attribuì la strana impressione che gli occhi di quella sagoma stessero puntando proprio a lui, con un qualcosa di bizzarramente familiare.
«Swan?»
Il nome uscì prima che il cervello potesse metabolizzarlo. Il tono interrogativo della voce a sottolineare quanta incredulità ci fosse nel solo immaginare l'eventualità che si trattasse di lei.
«Ciao, Killian»
La voce di lei arrivo a spazzare ogni dubbio, riportando a galla quella speciale irritazione che solo lei era in grado di procurargli.
Non poteva accadere.
Non poteva accadere.
Non aveva ancora alzato la sguardo, ma sapeva che era lei. Quelle mani. Quelle braccia. Quelle gambe. Quei capelli. Tutto. Tutto. Non riusciva a respirare.
Eccola lì, in piedi di fronte a lui, come aveva sempre immaginato: le mani in tasca, un sorriso timidamente accennato sul volto, l'imbarazzo disegnato nei suoi occhi, pur tuttavia illuminati dalla solita, meravigliosa, caparbietà di cui solo Emma Swan era capace.
Solo che stavolta era vero. 







Eccoci qui al terzo capitolo, finalmente i due zucconi si sono incontrati! Spero che il capitolo vi sia  piaciuto e di non aver deluso le vostre aspettative, capisco che ancora la storia non è entrata nel vivo e spero di non annoiarvi! In ogni caso grazie mille a tutti coloro che leggono e in particolar modo a coloro che recensiscono, mi fate davvero felice! A presto, Elena.

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Capitolo 4
*** Cap4 ***


Whenever I'm alone with you
You make me feel like I am home again
Whenever I'm alone with you
You make me feel like I am whole again

However far away
I will always love you
However long I stay
I will always love you
Whatever words I say
I will always love you
(Love song, The Cure)


Coney Island.
Era lì che andava quando aveva bisogno di pensare.
Il suo posto sicuro, la sua via di fuga.
Quattro miglia di costa fattesi custodi, nel corso degli anni, di ogni suo grande momento: dall'adozione alla morte di sua madre, dalla sua entrata in polizia fino alla decisione di trasferirsi a Washington. 
La stessa Washington che, in oltre due anni di convivenza, non era ancora stata capace di offrirle una valida alternativa -un'altra Coney Island- in cui potersi rifugiare quando le circostanze lo rendevano necessario. Come adesso.
Così Emma aveva dovuto imparare ad adattarsi, scendere a compromessi con una città che le stava dando tanto quanto continuava a toglierle ogni giorno, e lavorare d'immaginazione. Immaginare, ad esempio, che il rumore della sabbia bagnata suonasse come lo scalpiccio umido dell'erba sotto i propri piedi, o che le forme sbiadite, riflesse sul più modesto specchio d'acqua del National Mall, altro non fossero che le giostre dipinte sulla superficie del mare cui era tanto affezionata, dormienti sotto la morsa del gelido inverno NewYorkese. A volte fingere era più facile, e chiudendo gli occhi era persino in grado di rievocare l'aroma pungente dell'oceano e il tramestio delle onde di risacca sulla battigia; altre volte lo sforzo era tale da vanificare ogni suo tentativo, e l'erba tornava ad essere semplicemente erba.
Oggi era una di quelle giornate, una in cui persino l'oceano -quello vero- avrebbe fatto fatica ad alleviare i suoi pensieri.
Con gli ultimi scampoli d'alba a intiepidirle il viso, Emma aveva voltato le spalle al Monumento a Washington e si era incamminata verso il proprio maggiolino, parcheggiato all'ombra di un albero, parecchi metri più avanti. Alle sue spalle, il sole la spiava in un timido capolino, ancora ben nascosto dietro la cupola del Campidoglio, regalandole di tanto in tanto qualche pozza di luce più brillante sull'asfalto, in cui immergere i piedi. Ed Emma ne era avida, perchè il calore del sole era la sola cosa immutata in quello scenario, l'unica che non doveva sforzarsi d'immaginare.
Coney Island.
Solo un'altra voce da aggiungere alla lista di ciò a cui aveva dovuto rinunciare.




Spiegare cosa l'avesse spinta in quel quartiere, a quell'ora tarda del pomeriggio, davanti un albergo che poteva a malapena permettersi d'ammirare, le costò parecchia fatica nonché una buona dose di orgoglio ferito da ingollare in unico boccone amaro. 
Il perché volesse trovarvisi non era in effetti un mistero così arduo da decifrare: ciò che davvero le sfuggiva era il quando “ciò che voleva” era diventato anche “ciò che avrebbe fatto”.
Di certo c'era che lavorare le era risultato più difficile del solito, e che ad un certo punto della sua giornata doveva esserci stato un momento, breve ma intenso, in cui aveva deciso che era stanca di sentirsi in difficoltà e, al contempo, di negare strenuamente d'esserlo. Fingere che la data volutamente non cerchiata sul calendario fosse passata altrettanto inosservata al suo cervello era un esercizio fisico -oltre che mentale- infruttuoso, cui non era più intenzionata sottoporsi. 
Così, uscita dall'ufficio, aveva semplicemente lasciato che le gambe procedessero autonome, schiave di un pensiero preciso, rimasto inespresso fino alla fine solo per testardaggine, non certo per sincera ingenuità. Quando infine si era trovata di fronte l'ultimo luogo in cui avrebbe dovuto trovarsi, a un passo dall'ultima persona che avrebbe dovuto incontrare, aveva provato un certo sconcerto,ma certo non aveva potuto dirsi particolarmente sorpresa.
Sin da quando Ruby aveva incautamente -incautamente? Non ne era più nemmeno tanto certa- nominato il nome del suo albergo due settimane prima, questo si era fatto misteriosamente di passaggio in ogni suo spostamento. Era come essere precipitati in un labirinto in cui tutto appariva familiare. Tutt'intorno a lei, a prescindere da quale direzione lei prendesse, conduceva verso l'unica uscita apparentemente esistente: quella con vista sull'Hartfort Hotel.
Così, tra un insulto all'amica e a uno a se stessa, aveva trascorso i successivi venti minuti a tracciare coi propri piedi una circonferenza invisibile di fronte l'ingresso specchiato dell'edificio, suscitando tra l'altro la curiosità del portiere, indeciso se considerarla come una minaccia o per ciò che era: una donna adulta e indipendente in preda a una sindrome da regressione adolescenziale.
Esitante e concitata, un pollice sequestrato dai denti per l'agitazione, era l'esatta riproduzione esteriore del suo conflitto interiore: ad ogni passo mosso a destra ne seguivano due a sinistra, ad ogni cenno fiero del capo seguiva il titubante contrarsi di un sopracciglio... La folle danza del suo corpo s'interruppe solo quando, dal fondo della strada, riconobbe il familiare incedere di una testa corvina, irrimediabilmente diretta verso di lei. 
Un'intensa ondata di panico la travolse nel veder scivolare via quel poco di controllo sulla situazione che sentiva d'aver mantenuto, nonostante tutto, fino a quel momento. Si sentiva come un cucciolo che aveva sbattuto il naso contro la confusione che aveva creato lui stesso.
Nello scenario che aveva immaginato era lei a tenere in mano le redini del gioco, sempre lei a decidere, alla fine dei conti, se scegliere o meno di entrare e chiedere di lui. Aveva del tutto ignorato l'eventualità di un ribaltamento dei ruoli, in cui fosse stata lei,non più lui, a trovarsi incastrata. Decisamente un grave errore d'ingenuità, dovette ammetterlo: non erano forse stati sufficienti cinque anni per capire che, quando si trattava di loro, il destino era sempre stato pronto a scombinare ogni suo piano, rimescolando le carte in tavola?
In un estenuante conto alla rovescia, scandito dal lento e cadenzato ritmo dei passi di lui, Emma comprese di avere a disposizione ancora un momento, uno soltanto prima che l'uomo di fronte a lei alzasse lo sguardo e incontrasse il suo.
In altre circostanze quel momento sarebbe stato più che sufficiente:una donna come lei ne avrebbe facilmente ricavato una ritirata dignitosa e del tutto inosservata. Eppure quel nervosismo, che solo fino a qualche istante prima le aveva impedito di star ferma, adesso le stava ostacolando qualsiasi movimento. Rassegnata quindi all'ineluttabilità di quell'incontro, decise quantomeno di prendere da esso tutto ciò che v'era da prendere, compreso il lusso di osservarlo come non faceva da anni: senza fretta o sotterfugi, senza celarsi dall'imbarazzo e dal  risentimento che si erano aggrovigliati, ormai così saldamente, al loro filo rosso.
E il mondo sembrò rallentare nell'istante in cui lui alzò gli occhi da terra, prima che questi si riempissero di lei e della consapevolezza di chi aveva davanti: per Emma fu come sbirciare attraverso la serratura di una camera chiusa, a cui non aveva più accesso. Una camera profonda e accogliente e intima, piena di oggetti familiari e di ricordi, immersi nel chiarore delle sue iridi blu.
Poteva vedere le occhiaie scure sotto ai suoi occhi che sapeva essere un riflesso di quelle che aveva lei.
Poteva vedere delle nuove linee sulla sua fronte. Ma lui era ancora così bello da far male. 
Per quella che sembrò la milionesima volta in quei due anni, provò una fitta di rimpianto nel profondo.
Poi lui la vide, e tutto cambiò: un attonito battito di palpebre e lo spioncino fu brutalmente richiuso, lasciandola ancora una volta sola, fuori dalla stanza. Davanti a lei, adesso, solo un misto di smarrimento e rabbia, che dagli occhi si riversò lentamente sulle labbra fino a sfociare nel lento sillabare di quello che riconobbe come il proprio nome.
«Swan?»
«Ciao, Killian»
Rispose in maniera quasi impulsiva , il viso e la voce rivelavano una profonda insicurezza. Chiamarlo per nome era stata una reazione istintiva di difesa a quello sguardo distaccato e rovente sulla pelle, cui era ormai largamente allenata, ma che le provocava ogni volta una violenta contrattura al cuore. Le piaceva quando lui la chiamava Emma, era un suono dolce il suo nome pronunciato da lui, e regredire a Swan le aveva provocato una dolorosa fitta allo stomaco.
«Cosa ci fai qui?»
«Ero da queste parti per via di un caso.... »
La domanda non le era giunta inattesa, immaginava che lui le avrebbe chiesto il motivo per qui si trovava lì, a quell'ora, davanti  al suo albergo, tuttavia la risposta che gli diede lasciò ad Emma la spiacevole sensazione di aver detto la bugia peggiore della sua vita, e il tono incerto della sua voce, probabilmente, non fece che minare la già scarsa plausibilità della scusa in sè. Idiota, si disse.
«Giusto... Beh, io sono qui per-»
«Per la presentazione del nuovo libro, lo so» interromperlo le venne spontaneo, ma col senno di poi non si dimostrò la migliore scelta da fare, non avendo fatto altro che rafforzare i sospetti di lui, già piuttosto netti a giudicare dal modo in cui la stava studiando «Ho visto i cartelloni pubblicitari» tentò di giustificarsi.
«Ah sì, come al solito si fanno notare...»
Uno sprazzo di sorriso, chiaramente di circostanza, rese il suo volto meno indagatore e più cordiale. E pur consapevole che questo non ne aveva, comunque, attenuato la sua freddezza nei suoi confronti, Emma  si sentì leggermente rincuorata a proseguire senza l'imbarazzo di qualche istante prima.
«Ho sentito che il nuovo libro sta andando bene»
«Sì, infatti. Fortunatamente per me sembra che la gente non si sia ancora stancata delle mie storie...»
«Mi fa piacere»
«Grazie... E tu, come vanno le cose qui?»
«Oh tutto bene,davvero»
Terminato il rigido scambio di convenevoli, un presagibile e inesorabile silenzio calò tra loro, lasciandoli scomodamente ancorati ai loro posti in preda a un nervoso dondolio di corpi e di sguardi.
«So che sarai molto impegnato ma pensavo... Potremmo prendere qualcosa insieme uno di questi giorni, se ti va. Un caffè magari...»
«Non credo di potere, in effetti sono parecchio impegnato...  riparto fra due giorni, quindi ho i tempi molto stretti»
«Certo, capisco... io capisco, davvero, non volevo...hai i tempi stretti, scusami»
«Purtroppo è lo svantaggio dei tour: se dovessi fermarmi a lungo in ogni città che visito non avrei tempo per scrivere e nessun libro da promuovere»
Di nuovo il sorriso di circostanza fece capolino, di nuovo la sua espressione si ammorbidì, ma stavolta Emma fu ben lungi dall'esserne rincuorata.
«Giusto... Beh, adesso devo proprio andare. Mi ha fatto piacere rivederti comunque, buona fortuna Killian»
«Grazie»
Nascose le mani in tasca e rimase ancora qualche istante tentennante sulla propria posizione, con lo sguardo scomodamente saldo al suo. Quando nell'immobilità delle sue labbra lesse la certezza che non avrebbe aggiunto altro a quell'ultima scambio di battute, gli dedicò un ultimo cenno di commiato del capo, e si voltò rassegnata in direzione di casa propria.
Fu solo dopo aver mosso i primi passi che la voce di lui la raggiunse: esitante e incerta nel fermarla dall'andarsene come lo era stata lei, pochi istanti prima, nel decidersi a farlo.
«Magari solo un caffè...»
Con gli zigomi tirati in un tiepido sorriso, ed evidentemente colta di sorpresa, Emma fece dietro front e replico con un semplice “ok”.
«Domani mattina ho un intervista e poi un pranzo di lavoro, ma nel tardo pomeriggio sarò libero. Sempre che tu non debba lavorare»
«No, domani pomeriggio andrà benissimo. Alle cinque e mezza qui?»
«D'accordo. A domani allora»
Una ventata gelida lo colse di sorpresa, costringendolo a stringersi ancor di più nel suo cappotto, un attimo prima di varcare la soglia dell'hotel .
Lo sguardo di Emma lo seguì per tutto il tempo, finché la porta girevole non si richiuse sulla sua schiena, restituendole ora solo il riflesso sbiadito della propria immagine.
E in quello sfarfallio di lampioni, stagliati contro le ombre ormai pronunciate della sera, con la voce di lui a risuonargli ancora nelle orecchie, un ricordo le si affacciò alla mente e lei stavolta gli permise d'entrare, lasciando che prendesse forma sulla superficie specchiata della porta.

Emma arrivò come ogni mattina  verso le otto e quarantacinque portando una busta di begels e un grande bicchiere di caffè. L’ufficio e la sala conferenza accanto erano al buio. Aprì la porta della sala e poggiò la busta e il caffè sul tavolo. Appese la borsa del computer e la giacca sull’appendiabiti attaccato alla porta. Attraversando la sala, aprì le tendine e lasciò che il sole vi entrasse all’interno. Si mosse verso il lavello ed aprì l’armadietto cercando delle stoviglie. Trovò una tazza da caffè rossa, del caffè e una scatola di crackers.
Poi la porta sbattè e lui fece il suo ingresso. Kiallian Jones, giornalista di fama nazionale. La cronaca nera era il suo pane quotidiano,questo Emma lo sapeva, nonostante non potesse concedersi spesso il lusso di sfogliare un quotidiano.
Lui era alto. Indossava  una camicia blu sopra una T-shirt ed una giacca elegante. Lei notò che appariva come se si fosse appena alzato dal letto . Il desiderio la colpì, caldo e intenso, al pensiero di lui in un letto.  Abbassò gli occhi e si sedette, cercando di ignorarlo il più a lungo possibile.
Lui fece qualche passo all'interno della sala comune per poi posare lo sguardo su di lei
-Salve, lei deve essere la signorina Swan, piacere Killian Jones, ma Killian andrà benissimo. Penso che le abbiano già parlato della nostra ormai prossima collaborazione. Regina mi ha parlato con toni davvero entusiastici di lei, le confesso che sono colpito, non è facile impressionare quella donna. Lei deve avere delle ottime qualità- concluse ammiccando esplicitamente. 
Emma prese un profondo respiro e lo guardò.  Aprì la bocca ma nessun suono usci da essa. Lui aveva i più begli occhi azzurri che avesse mai visto. Quegli occhi penetrarono dentro i suoi. Sentì un rossore salire dal collo e diffondersi sulle guance. Lui aspettava la sua risposta con una sorta di divertimento beffardo negli occhi. Sembrava che si divertisse nel vedere il suo imbarazzo.
Emma tese una mano verso di lui- è un piacere signor Jones-
- il piacere è tutto mio dolcezza- le rispose stringendo la sua mano. Emma trovò quel contatto insolitamente piacevole.  
 Lui fece scorrere lo sguardo sulla donna. Si soffermò qualche istante su i capelli biondi, che ricadevano morbidi sulle spalle coperte da una giacca di pelle rossa. Era indiscutibilmente attraente. Notò che indossava dei jeans. Dio, sembravano modellati sulle le sue cosce. Ebbe una breve immagine di quelle cosce accoccolate fra le sue. Scosse la testa per cacciare quel pensiero e si sedette accanto a lei.  Guardò come i suoi bianchi denti affondavano all’interno del begel e la sua lingua sfrecciò fuori leccando qualche briciola che gli era rimasta sul labbro. Deglutì e puntò lo sguardo altrove.

In principio ci fu un caffè. Tutto ebbe inizio con un caffè fra loro.
La prima volta accadde in ufficio, quando lui si assunse l'incarico di preparare il rituale caffè mattutino.
Entrambi impararono in fretta i gusti dell'altro in fatto di caffè: lui nero, con due zollette di zucchero, lei macchiato, senza zucchero o, alcuni giorni, poco a seconda dell'umore.

I loro contatti fisici avvenivano durante il caffè: fugaci tocchi, un leggero sfiorarsi delle loro dita mentre si porgevano le tazze di caffè. 
Tempo.
 Trascorsero molto tempo insieme, le loro tazze di caffè come compagni, concedendosi raramente delle affermazioni che lasciavano vagamente intuire quanto ci fosse oltre la superficie.
Ma qualcosa cambiava...

Con il tempo si spostarono dalla sala delle conferenze nella caffetteria del distretto, con tazze di plastica, panna e bustine di zucchero.
Con la primavera si trasferirono fuori, sul patio, al sole.
Poi iniziarono le passeggiate verso la caffetteria infondo alla strada dove si potevano ordinare strani caffè e cappuccini, anche se la maggior parte delle volte  prendevano il loro usuale caffè , nero con due zollette di zucchero, macchiato senza zucchero.
Il loro rapporto cresceva e maturava intorno al caffè, parlavano intorno al caffè: discorsi vorticosi come la crema nella tazza; parole, pensieri, sentimenti si stabilivano lentamente nella bocca dello stomaco, come lo zucchero sul fondo della tazza quando ci si dimentica di mescolare.

E mentre il mondo reale lentamente tornava a rivivere intorno a lei, rivide la sè stessa di cinque  anni prima allontanarsi e il vetro tornò a riflettere l'Emma del presente, in uno sfondo meno familiare del distretto, qual'era per lei Washington.




Il domani arrivò con tempi diversi per entrambi.
Da una parte c'erano Killian e la sgradevole impressione che lo spazio temporale si fosse misteriosamente dilatato durante la notte, una sensazione che non provava dai tempi dei suoi migliori e peggiori dopo-sbornia tardo adolescenziali: i minuti duravano il doppio, le ore il triplo e persino i cantanti,alla radio, sembravano aver aggiunto qualche ritornello di troppo alle loro canzoni. Dal canto suo, Emma si era invece svegliata con una strana fretta in corpo: con la sensazione di aver mille cose da fare e tempo per nessuna di esse.
E in effetti, quando la lancetta segnò le cinque, quel pomeriggio, dovette ammettere che, sepolta com'era dalla pila di improvvise scartoffie abbattutesi sulla sua scrivania, di tempo iniziava davvero ad averne poco. Alle cinque e venti fu infine costretta a scendere a patti con la realtà, e ammettere ad alta voce che non sarebbe mai arrivata in tempo all'appuntamento. Il pensiero di disdire la sfiorò per un breve minuto, prima di venire del tutto accantonato in un recesso del suo cervello: a conti fatti sarebbe stata la migliore cosa da fare. Chiamare il suo albergo e fargli comunicare che aveva avuto un contrattempo e non ce l'avrebbe fatta a raggiungerlo le sarebbe costata ben poca fatica, sicuramente molta meno di quanta ne sarebbe servita per affrontare l'incontro stesso. La semplice idea di passare del tempo con lui senza ricorrenze e amici intorno a proteggerla, pronti a offrire vie di fughe se necessario, riusciva a innervosirla.
Di cosa avrebbero parlato? Come l'avrebbe fatta sentire?
Tutte domande legittime le sue, e piuttosto pressanti, che tuttavia non la convinsero a desistere dal suo discutibile progetto di cacciarsi volontariamente in quella scomoda situazione.
Così, mentre il suo lato razionale tentava ancora invano di dissuaderla, le dita si erano già tuffate nella borsa alla ricerca del cellulare, e poi nella rubrica veloci sino alla lettera “K" di Killian. Nell'osservare il suo nome, campeggiante a chiare lettere tra i primi posti, un attimo prima che la chiamata fosse inoltrata, Emma rifletté su quanto assurdo fosse stato tenere quel numero per tutto quel tempo, e poi su quanto familiare le fosse sembrato selezionare quella voce, nonostante fossero passati oltre due anni dall'ultima volta in cui lo aveva fatto. La sua mente virò allora rapida su un nuovo pensiero: due anni erano davvero tanti, in tutto quel tempo Killian poteva anche aver cambiato numero...
Così, quando il cellulare finalmente esalo a fatica il primo squillo, Emma per qualche ragione tirò istintivamente un sospiro di sollievo. Al quarto squillo l'impazienza aveva già preso possesso del suo corpo e delle sue mani, al sesto finalmente l'altoparlante sputò fuori una voce familiare e le dita presero a picchiettare sul tavolo per un altro genere d'agitazione.
«Pronto?»
«Ciao Killian, sono Emma....Io..io ho avuto un contrattempo a lavoro, un problema burocratico col caso di cui mi sto occupando, e sono rimasta bloccata in ufficio. Non credo di farcela ad essere lì tra mezz'ora...»
«Certo, lo capisco... Vuoi che annulliamo quindi?»
Lo voleva? Una parte di lei continuava a ripetersi che, quantomeno, sarebbe stato più saggio farlo.
«No, in realtà pensavo che potresti raggiungermi qui. Non dovrei averne ancora per molto, e potremmo prendere qualcosa in uno dei locali qui intorno, una volta che avrò finito»
Per una manciata di secondi il telefono le rimandò indietro solo silenzio, ed Emma immaginò che Killian dovesse essere rimasto spiazzato quanto lei da quella proposta.
Prima di chiamarlo aveva pensato a cosa voleva fare -vederlo- ma non a come far sì che questo si incastrasse con l'entrata in scena improvvisa del suo lavoro.  L'idea di farsi raggiungere era nata spontanea come risposta ad una domanda che avrebbe portato alla disdetta dell'appuntamento. Nulla di strano, quindi, se lui stava ora esitando a rispondere. La vera questione era, avrebbe accettato o avrebbe approfittato della situazione per evitare quell'incontro, come avrebbe forse dovuto fare lei sin dall'inizio?
«Certo, perché no... Ne approfitterò per una passeggiata fin lì, e un ultimo giro della città»
L'esitazione che aveva saturato il silenzio di qualche istante prima aveva semplicemente cambiato sede, riversandosi sulla sua voce; nonostante tutto aveva accettato ed Emma si sentì improvvisamente più leggera,sul suo viso un sorriso che prima non c'era.
«Perfetto, a tra poco allora!»
Un ultimo saluto, e l'altro capo del ricevitore si fece nuovamente muto.
Smaltita di colpo la tensione accumulatasi sulle spalle, riverso all'indietro il capo, fino far reclinare di qualche grado la poltrona, e rimase immobile così per qualche minuto: le braccia distese verso l'alto, e un cipiglio pensieroso a incorniciarle il volto. Poi un pensiero infantile le si affacciò alla mente, e il sorriso che ancora le adombrava lo sguardo lasciò posto all'irrequieto mordersi di un labbro. Aveva risposto al telefono con un semplice “Pronto”: non aveva pronunciato il suo nome ma neanche chiesto chi fosse... E una piccola parte della sua mente non potè fare a meno di domandarsi se anche lui, come lei, avesse tenuto il suo numero per tutto questo tempo. 
Se avesse risposto sapendo che all'altro capo c'era lei, o se invece non ne avesse avuto idea sino a che non aveva sentito la sua voce.
Quest'ultima eventualità, per quanto logica e più che comprensibile, non le piacque affatto.



Cara ragazze, eccoci al quarto capitolo! Capisco che sia un pò corto, ma ho voluto dedicare un pò di spazio ad Emma e aggiungere qualche tassello che ricostruisca il suo passato con Killian. Spero non vi abbia annoiato! Il prossimo capitolo sarà invece completamente dedicato alla loro uscita... Grazie come sempre a tutti coloro leggono e recensiscono, grazie davvero, siete fantastici.
A presto, Elena. 

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Capitolo 5
*** cap5 ***


You let me in to a conversation
A conversation only we could make
You break and enter my imagination
Whatever’s in there it’s yours to take
I was told I’d feel nothing the first time
You were slow to heal but this could be the night

(Song for Someone, U2)


Erano le sei quando un pensieroso Killian raggiunse gli uffici federali. 
Alle sei e cinque un'Emma  meravigliosamente scompigliata fece la sua comparsa nell'androne, anticipata dal risuonare dei tacchi attraverso la tromba delle scale. Una nuova serie di scuse e l'allettante offerta di curiosare in giro in sua attesa -colta al volo dallo scrittore- e scomparve nuovamente tra le porte dell'area riservata agli impiegati.
Solo quando le lancette segnarono infine le sei e mezza, Emma riapparve nell'androne, stavolta libera da qualunque obbligo e giusto in tempo per evitare a Killian un arresto per visione indebita di documenti secretati. Chiaramente non tutto doveva essere cambiato in quegli anni, e i cartelli di divieto alle porte, nonché le restrizioni ufficiali, dovevano ancora essere, senza dubbio, fonte di disturbo e di fascino per lui.
Risolto l'inconveniente con l'ufficiale di polizia, e lasciatosi alle spalle sia lui che l'intero edificio, i due si incamminarono verso Dupont Circle e la sua chiassosa vita sociale.
In rigoroso silenzio, saltuariamente interrotto da qualche vuoto commento sul tempo e sul panorama, procedettero fianco a fianco attraverso la matassa di stradine e locali disseminati ovunque intorno a loro. Nonostante l'ampia scelta a loro disposizione, optare per uno piuttosto che per un altro si rivelò un compito assai difficile, probabilmente per ragioni più prettamente legate alla loro attuale situazione personale che alle effettive caratteristiche dei locali.
 «Temo che l'ora del caffè sia passata ormai da un pezzo...»
Fermi ad un semaforo, Killian puntò gli occhi sull'asfalto, spingendo la donna accanto a sè a fare altrettanto: le loro ombre, come quelle di chiunque altro intorno, erano ormai scomparse, inghiottite dall'avanzata della luna sopra di loro.
«L'ora del caffè non passa mai, dovresti saperlo»
«Giusto. Ma hai capito cosa intendo»
L'accenno di sorriso sul volto di Killian, il primo segno d'ilarità da che si erano incontrati,contagiò Emma, alleviando di poco la sensazione di disagio attanagliata al suo stomaco, il che le permise di constatare che lui aveva ragione, senza per questo farsi prendere dal panico.
«Magari potremmo cambiare programma, optare per una cena. Qualcosa di poco impegnativo, tipo hamburger e patatine... »
L'ultima frase fu aggiunta con una certa premura, avendo notato un lampo di allarme nello sguardo dell'uomo alla parola cena.
Tuttavia la prospettiva di un hamburger sembrò incontrare il suo favore, ed Emma ebbe la sensazione che fosse stato il suo stomaco a rispondere per lui prima ancora che un convinto “sì” venisse emesso dalla sua gola. Cambiato target, la ricerca riprese ma stavolta mostrò rapidamente i suoi frutti e, individuato la più invitante tra le tavole calde nelle vicinanze, vi entrarono con un entusiasmo quasi puerile. In effetti, si rese conto Emma, a pranzo non aveva toccato che un mezzo toast sfatto preso dalle macchinette, per cui, almeno nel suo caso, quella foga poteva dirsi proporzionata alla sua fame.
Un po' per caso un po' per calcolata scelta, puntarono entrambi allo stesso tavolino, l'unico con le sedie disposte l'una di fronte all'altro anziché vicine, e posizionato in modo tale da affacciare direttamente sulla strada: un punto abbastanza tranquillo per parlare ma non troppo appartato da creare ulteriori imbarazzi.

Si sedettero l'uno davanti all'altra e, quando una giovane cameriera offrì loro del caffè nell'attesa, annuirono complici, come forse non lo erano stati da tempo.
« Un caffè nero con due zollette di zucchero e uno macchiato, senza zucchero...» 
«Arrivano subito» decretò la giovane sorridendo cordialmente e  appuntando le loro ordinazioni.
«Non ti sei dimenticato » disse piano lei, parlando solo per metà con lui. Per la maggior parte era solo una constatazione.
«E’ difficile dimenticare quando c’è un vuoto così grande da quando te ne sei andata» Il braccio di Emma era coperto dalla pelle d’oca ed era convinta non fosse solo colpa del freddo pungente che preannunciava l'inverno a Washington.
Non aveva idea di cosa intendesse  esattamente con quella frase. Eppure… riassumeva perfettamente i sentimenti che provava verso di lui.  Killian era assolutamente indimenticabile e la sua assenza lo rendeva evidente
Due tazze furono poggiate davanti a loro, poi la figura della cameriera scomparve dietro le porte della cucina, lasciandoli soli.
Emma rigirò la grande tazza  davanti a lei lasciando che il calore quasi insopportabile scaldasse le sue mani. Poi prese coraggio e parlò: «Come sei stato?»

Quasi rise.
 
Come era stato? Distrutto. Col cuore spezzato. Confuso. Ferito. Solo. Perso. Come diavolo pensava fosse stato?

«Sono stato bene. Tu?»

Annuì finchè riuscì a trovare le parole. «Bene. Si, sono stata bene.»

Annuirono tutte e due senza una ragione e fuori tempo.
Sembrando un uomo completamente fuori posto, Killian mise le mani in tasca e guardò la donna surreale davanti a lui.

La odiava. La odiava davvero.

Ma la amava.

Amava il modo in cui si districava dalle maniche troppo lunghe della camicia. Odiava il modo in cui i suoi occhi sembravano non trovare un posto su cui posarsi. Amava il modo in cui i capelli le ricadevano sul viso. Odiava il modo in cui le sue dita tamburellavano sul tavolo. Amava il modo in cui si mordeva il labbro senza farci caso. Odiava il odo in cui lo aveva lasciato. Amava il fatto che una volta lo avesse amato.

Odiava il fatto che in verità amava ogni singola cosa di lei e questo rendeva quella giornata molto più dolorosa.

La campanella sopra la porta suonò piano quando uno sconosciuto entrò e ordinò un caffè ed una fetta di torta di mele. La campanella dondolò allegramente, continuando a suonare anche quando la porta fu richiusa.


Lei si lasciò andare tra le sue braccia e la sua risata gli riempì le orecchie. Era calda e morbida contro il suo fianco e la strinse ancora più vicina. La campanella sopra la porta segnò il loro arrivo e il suo buongiorno fu presto raggiunto da quello dei proprietari.

“Emma e Killian! Ci chiedevamo se sareste venuti oggi! Ho fatto cioccolata solo per voi, con un pizzico di cannella, come piace ad Emma!”

“Ben, non dovevi farlo… ma dato che ormai lo hai fatto, ne prendiamo due.” Emma sorrise mentre parlava con l’anziano signore, il suo viso aveva un bagliore ipnotico. Poi si sporse sul bancone con fare cospiratore. “Ora dimmi… quante possibilità ci sono che Angie lasci che ti porti via? Potremmo vivere da qualche parte in campagna e bere cioccolata tutti i giorni!”

Angie rispose con fervore, “Prendilo! Per favore! Io prenderò quel bell’uomo che ti porti in giro.”

Emma si girò verso Killian e lui ammiccò sornione in direzione di Angie.

Sorridendo e scuotendo la testa, Emma sospirò. “Mi spiace, Angie. Penso che terrò questo qui. Mi ci sto affezionando.”

“Ah, le parole che ogni uomo sogna di sentire Swan.”
 
Killian circondò da dietro la  donna con le braccia e iniziò drammaticamente a lasciare dei baci sulla parte sensibile del suo collo.
“Killian! Fermati!” ordinò semi seria attraverso le risate.
“Mai!”

Le loro risate erano così forti nella sua memoria che la loro assenza lo sorprese quando fu riportato alla realtà dalla campanella che suonava ancora, annunciando l’uscita del cliente. Sospirò e prese un lungo sorso del caffè ancora troppo caldo, lasciando che il dolore bollente gli ricordasse che i ricordi felici se ne erano andati da tanto.

La cameriera tornò con le loro ordinazioni e contro ogni prospettiva la conversazione prese una piega diversa non appena i loro stomaci cominciarono ad essere riempiti. Nonostante i discorsi vertessero su temi volutamente superficiali e ciarlieri, si sforzarono di abbandonare gran parte del disagio e dell'imbarazzo che li aveva attanagliati, decisi a concedersi  almeno un pasto in tranquillità, cosicché anche i pochi silenzi tra loro potevano, almeno dall'esterno, essere scambiati come l'innocuo effetto di un panorama distraente piuttosto che di tensioni personali.
Tuttavia i loro compagni “disagio” e “imbarazzo” tornarono prepotenti a farsi ingombranti presenze invisibili tra loro. Ed Emma ebbe la sensazione che ad invitarli ad entrare fosse stata la chiamata giunta improvvisa sul cellulare di Killian,  da lui prontamente rifiutata: un gesto la cui urgenza non  era passata inosservata agli occhi di lei. Da quel momento e per una buona ventina di minuti, la conversazione tornò a farsi scarsa e impersonale, con alti e numerosi picchi d'impaccio, per cui nel complesso a mandare avanti la discussione furono più gli sguardi e le cose non dette che le parole pronunciate ad alta voce. 
Killian continuava ad agitarsi scomodamente sulla sedia, con la testa altrove e una mano distrattamente posata sul cellulare, schiavo di un pensiero fisso a cui evidentemente non trovava soluzione.
Solo sul finire della cena la sua mente sembrò tornare a rilassarsi, insieme alla sua postura e, probabilmente, al suo stomaco che stava ora recuperando le distanze da quello di Emma.
Lentamente le cose tornarono a farsi distese, la tensione calò nuovamente e la serata riacquistò quell'andamento gradevole, faticosamente conquistato,che sembrava aver smarrito strada facendo.
Una manciata di minuti più tardi erano fuori dalla tavola calda, con le menti piene e gli stomaci stracolmi, e solo allora si resero conto che avevano trascorso più di un'ora dentro quel locale. Ciononostante nessuno dei due accennò all'eventualità di terminare la serata e tornare ognuno alle proprie case, piuttosto si lasciarono guidare dalla città, procedendo tra le strade senza alcuna meta. Ad ogni silenzio o pausa nella conversazione, Emma non poteva fare a meno di chiedersi che cosa stessero facendo insieme, da soli, a quell'ora tarda in una città come Washington, dopo tanti anni di distanza sia fisica che emotiva, in quello che chiaramente era qualcosa ben oltre il “semplice prendere un caffè”. Non poteva non domandarsi perché, in primo luogo, lei glielo avesse proposto, né poi perché lui avesse accettato, o ancora perché entrambi non mostrassero ancora segni di voler porre fine alla serata come ci si sarebbe aspettato ormai da ore. Ma ciò che davvero la tormentava era la strana sensazione di essere nel giusto in quel momento lì con lui, come fosse una cosa normale e consueta, dove questa normalità riusciva persino a superare quell'intensa sensazione d'esser fuori posto che li travolgeva a ondate, come ad esempio era accaduto solo qualche ora prima a cena. A cena, quando aveva ricevuto quella misteriosa chiamata che aveva trasformato rapidamente il suo umore...
«Posso farti una domanda?»
«Dimmi»
«È un po' personale...»
Gli occhi di Killian si strinsero, e un velo di preoccupazione calò sulle iridi blu, offuscandone la naturale vitalità; tuttavia nessuna parola seguì a quel mutamento d'espressione, ed Emma tradusse quel silenzio in un'esortazione a proseguire.
«Prima a cena, quando hai ricevuto quella chiamata, si trattava della tua...»
Lasciò la frase in sospeso, un po' perché indecisa su come definirla, un po' perché non ci teneva a scoprire che effetto le avrebbe fatto dirlo ad alta voce, specie di fronte a lui.
«Sì»  il velo nel suo sguardo si inspessì, fino a incupirsi, e un sospirò sfuggì alle sue labbra prima che potesse riprendere a parlare « si chiama Milah, stiamo insieme da un paio di mesi»
«E lei com'è?»
Emma non fece in tempo a mordersi la lingua che la voce era già uscita, e con essa tutta l'impellenza e l'inadeguata curiosità che con tanta fatica aveva tentato di reprimere all'inizio, quando con estrema cautela e noncuranza aveva posto la prima domanda.
«Scusami forse non è il caso di parlarne...»
«Tutta questa giornata “non è il caso” Emma»
«Già, credo tu abbia ragione...»
Lo vide infilare le mani in tasca con fare rassegnato, e spostare lo sguardo dritto davanti a sé, accuratamente lontano da lei, prima di riprendere la propria marcia a spalle curve.
«È mora, quasi corvina, non molto alta ma, ha una smodata passione per i tacchi, quindi a conti fatti credo di non averla mai guardata dall'effettiva prospettiva, cioè dall'alto... Fa l'avvocato, ed è anche piuttosto affermata, lavorava presso uno degli studi più conosciuti della città, la Gold& Co. corporation, qualche tempo fa ho avuto una piccola grana legale e lei mi ha aiutato a risolverla, è così che l'ho conosciuta...»
Rimasta indietro di qualche passo, Emma si era subito affrettata a raggiungerlo non appena lui  aveva preso a parlare, suo malgrado desiderosa di sapere di più su questa donna, e Killian sorprendentemente sembrava essere disposto ad accontentarla, pur con un certo riserbo, nonostante per tutto il tempo si fosse premurato di tenere lo sguardo fisso sulla strada, senza mai voltarsi verso di lei.
Nell'adocchiare il sorriso timidamente affacciato sul suo viso o il fulmineo scintillio delle pupille quando raccontava qualche aneddoto divertente relativo a Milah, Emma non poté comunque ignorare le capriole del proprio stomaco, evidentemente maldisposte nei confronti della seppur tiepida allegria che trapelava dal suo volto.
«Sono contenta per te, sembra davvero una bella persona.... E sembra che tu sia felice»
«Lo è, una bella persona...»
Ad Emma non sfuggì il fatto che avesse risposto a una sola delle sue affermazioni e si chiese se questo avesse un qualche significato. 
Si chiese anche in che modo poterlo scoprire, riformulando più e più volte nella propria testa centinaia di domande ma alla fine, ognuna di queste fu saggiamente abbandonata, temendo di potersi spingere troppo oltre e incrinare quella surreale armonia venutasi a creare tra loro.
Così lasciò che la conversazione migrasse verso altri lidi, e tornasse a esplorare territori meno pericolosi e intimi, ma una parte di lei continuò a tenere a mente l'espressione apparentemente serena apertasi sul  volto di Killian durante la parentesi di Milah. E per tutto il resto della serata fu come se Emma fosse impegnata in una gara a distanza contro quella donna, in un continuo tentativo di suscitare in lui, con le proprie parole, quella stessa espressione e quello stesso sorriso che ora veniva forse giustamente, ma non per questo meno dolorosamente, dedicato a un'altra donna.
Fu così che, tra una passeggiata e una chiacchiera, si fecero le nove, e poi rapidamente le dieci... e sarebbero andati avanti ancora e ancora, se non fosse stato per i piedi di Emma che, lasciati liberi di vagare senza meta, avevano inconsciamente imboccato la via a loro più familiare: quella di casa.
«Questa è casa mia...»
Lo esclamò con una nota di stupore, talmente evidente da non passare inosservata neanche a Killian, nei cui occhi Emma lesse un misto di sensazioni tanto indecifrabili quanto ipnotiche.
E ancora una volta si ritrovò a parlare senza pensare, vittima inerme della presa del suo sguardo su di lei.
«Pensi che se ti chiedessi di salire da me, adesso, sarebbe strano... o inappropriato?»
«Sì...»
La sua risposta si perse in un flebile sussurro, essendo tutte le sue energie impegnate adesso a sfuggire al magnetismo dei loro sguardi, pericolosamente incatenati, e troppo pigri per per separarsi di propria volontà.
«Si tratterebbe di un bicchiere di rum, niente di più...»
«Sinceramente, non so come rispondere a questa domanda...» rispose lui, grattandosi appena dietro l'orecchio, palesemente a disagio.
«Killian, vuoi salire?»
Le mani si strinsero a pugno, fino a che le nocche non divennero bianche, ed Emma semplicemente si lasciò trasportare dagli eventi ,schiava ormai della propria ugola e del suo arbitrario parlare senza prima consultarla. E, egoisticamente, si ritrovò a pregare che anche lui si lasciasse andare, e nello spazio apparentemente eterno che separò la sua risposta dalla propria domanda, sentì il proprio cuore accelerare fino a scontrarsi contro le costole, mozzandole il fiato, facendole tremare le gambe...
Provò a distrarsi seguendo il percorso  che dalle sue tempie  scivolava  giù lungo il viso, fino alla gola e al prominente pomo d'adamo, chiuso in una morsa da cui Killian stava tentando di riemergere, deglutendo continuamente e a fatica. 
E poi il suo sguardo prese a risalire, lungo la linea del collo e ancora su, verso la sporgenza del mento, finchè la sua corsa non venne arrestata dal rapido e improvviso aprirsi della mandibola, che a fatica articolò un unico, sordo suono.
«Sì...»




Ecco qui il nuovo capitolo! I due hanno finalmente trascorso un pò di tempo insieme,vi prego non uccidetemi per la storia di Milah!
In attesa di scoprire cosa succederà stasera al panel di  S. Diego, ringrazio di cuore tutti coloro che leggono, recensiscono e inseriscono la storia nelle varie categorie. GRAZIE davvero, siete il cuore e l'anima di ogni capitolo! 
A presto, Elena.

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Capitolo 6
*** Cap6 ***


Desperation is a tender trap
It gets you every time
You put your lips to her lips
To stop the lie

Her skin is pale like God's only dove
Screams like an angel for your love
Then she makes you watch her from above
And you need her like a drug

You say in love there are no rules
Sweetheart
You're so cruel
(So cruel,U2)


Una volta, da bambino, era quasi annegato.
Sette anni e l'aroma incosciente dell'infanzia ancora appiccicato addosso -insieme a una netta inclinazione al pericolo, una smodata curiosità e alla passione per l'acqua- avevano maturato in lui una notevole predisposizione per ciò che lui chiamava avventure e il resto del mondo guai.
Una di queste un giorno gli era inevitabilmente sfuggita dalle mani, portandolo ad un passo dalla morte.
L'unico ricordo che conservava di quell'evento era il riflesso del proprio volto sulla superficie schiumosa del torrente un attimo prima di cadervi dentro, e poi più nulla, fino al momento in cui si era risvegliato sul divano di casa, immerso in una pozza di stoffa bagnata e con lo sguardo di suo fratello Liam puntato addosso, terrorizzato come l'avrebbe visto poche altre volte nella sua vita.
Non sapeva come vi fosse finito, nè chi lo avesse salvato o quanto tempo gli ci fosse voluto per riemergere.
Ogni volta che si soffermava a pensare a quel giorno veniva colto da un'inspiegabile ansia generalizzata in tutto il corpo, e dalla sgradevole sensazione di venir ripetutamente colpito ai polmoni fino a non avere più ossigeno da respirare.
Adesso, in un certo senso,  aveva l'impressione di stare rivivendo quei momenti.
Non sapeva in che modo vi fosse arrivato, né quanto tempo fosse effettivamente trascorso da che aveva accettato di salire: tutto ciò che ricordava era la vista delle mani di Emma, intente a girare le chiavi nella toppa del portone, accompagnata dalla spiacevole impressione d'esser stato trascinato da una qualche violenta corrente su per le scale -o erano saliti in ascensore?- senza possibilità di scampo, sino al divano in cui se ne stava ora timorosamente seduto. 
La sola differenza era che a stordirlo -e a martellargli il petto-  non era stata stavolta la potenza dell'acqua, ma con tutta probabilità il profumo di Emma. Lo stesso di sempre.

Ancora spaesato, e leggermente stordito, si diede pena di guardarsi intorno e capire dove fosse, quantomeno per distrarsi dalla donna di spalle davanti a lui, intenta a versare qualcosa di ambrato -Rum forse?- in un bicchiere.
Aveva una bella casa, moderna e piuttosto grande -non grande quanto la sua certo, ma sicuramente molto più degli appartamenti in cui l'aveva vista vivere in passato.
Non poté fare a meno di chiedersi se davvero quella casa  la rappresentasse, o se fosse stata l'ennesima  scelta dettata dal puro pragmatismo: nuova, spaziosa, vicina al lavoro e in un buon quartiere. In un certo senso, una parte di lui sperò che fosse così, perché per quanto poco vigile potesse essere al momento la sua mente non aveva potuto non notare un dettaglio fondamentale: quella casa era spoglia. Terribilmente spoglia.
E la possibilità che quello stato di cose riflettesse l'intimo della proprietaria gli procurò una fitta allo stomaco, sebbene lei non fosse più affar suo da molto tempo.
Che Emma Swan non avesse mai mostrato una particolare passione per gli arredi non era certo un mistero: la sua vita per lungo tempo non era stata che una mera ricerca dell'essenziale e del funzionale, e anche dopo aver assistito al rimarginarsi delle sue ferite e a un conseguente cambiamento nelle sue priorità, lo spettro delle vecchie abitudini aveva continuato a vivere in lei, facendone una donna tutt'altro che fronzoli.
Un aspetto che a conti fatti gliela aveva fatta amare ancor di più in passato, semplicemente perché l'aveva resa diversa da tutte le donne in cui si era imbattuto fino ad allora.
Ma l'essenziale di Emma non era mai stato sinonimo di impersonale.
Se infatti era vero che nella sua casa potevano contarsi davvero pochi oggetti di arredo, era altrettanto vero che ognuno di essi era lì per un motivo, ognuno aveva una sua storia. 
Emma era, ed era stata sempre, una donna con una storia da raccontare, già prima del suo arrivo: lui aveva semplicemente deciso di mettere quella storia per iscritto. Infatti, ad un occhio attento, non sarebbe sfuggito come una parte di lei vivesse in ognuno dei suoi personaggi, sebbene magistralmente celati dietro una trama di stampo giornalistico. Lei era la bellezza della procuratrice distrettuale, la tenacia dell'agente sotto copertura, la determinazione dell'avvocato, la dolcezza del lieto fine.
Eppure, nell' osservarsi intorno con rinnovata curiosità, Killian si rendeva sempre più conto di quanto quella casa fosse vuota, e di quanto stonasse con la sua proprietaria – o almeno con il ricordo che lui ne aveva nella memoria: nessun quadro alle pareti, una scarna libreria con grossi spazi vuoti riempiti -se il caso- da oggetti d'uso comune come candele o ciotole. Di lato alla finestra, due borsoni gonfi se ne stavano dimenticati in un angolo della stanza, e a giudicare dal loro aspetto ingiallito e polveroso dovevano essere stati parcheggiati lì da un bel po' di tempo, conferendo alla casa un'aura precaria, quasi fosse stata reduce da un trasloco.
A parte quell'unica nota stonata la casa però era perfettamente ordinata -il che non fece che avvalorare la tesi di Killian: nulla che fosse fuori posto, nulla che spiccasse o che si facesse notare.
La sola cosa che davvero colpiva era la vista: dietro di loro la città si ergeva oltre la grande vetrata, offrendo uno spettacolo davvero notevole, che culminava nel piccolo parco in fondo alla strada, illuminato dal fioco bagliore dei lampioni le cui tinte aranciate donavano ad erba e cespugli un che di surreale. Ancora una volta la sua conoscenza approfondita di quella donna gli venne in aiuto, non richiesta e inopportuna come al solito, e Killian si convinse con una certa sicurezza che doveva essere proprio quella vetrata il motivo per cui Emma aveva scelto quella casa così distante da sè.
«Tieni»
La sua visuale venne di colpo occupata dalle forme affusolate di una mano, delicatamente ancorate a un bicchiere colmo sino a metà, spazzando via il flusso dei suoi pensieri.
«Grazie»
Le dedicò un fuggevole sorriso per poi affondare lo sguardo nel bicchiere -la vista dei cubetti di ghiaccio fattasi improvvisamente interessante- così da evitare di guardarla mentre lei, afferrato un secondo bicchiere, si accingeva ora a raggiungerlo sul capo opposto del divano. Sapeva che lei lo stava guardando adesso, e sapeva quanto dovesse apparire ridicolo assorto com'era, col naso praticamente immerso nel suo drink. Tuttavia non aveva ancora trovato il coraggio di alzare gli occhi e incrociare i suoi: sapeva che a guardarla davvero non ci sarebbe stato nulla che non avrebbe fatto, più nessun libero arbitrio a spalleggiarlo.
Con i palmi sudati e scivolosi d'irrequietezza, rafforzò la presa sul bicchiere e se lo portò finalmente alla bocca, ingollando una generosa sorsata d'alcool. Rapido ne sentì il calore attraversagli le viscere e scorrergli nel sangue, in un abbraccio rassicurante che gli diede infine il coraggio necessario ad alzare lo sguardo su di lei.
Lei sembrava diversa.
I capelli erano leggermente più lunghi. Le sue labbra erano più rosse, o così sembrava a lui. Sembrava che fosse stata scolpita nel marmo da uno dei migliori artisti. Inflessibile. Dura. Intoccabile. Era ancora più bella di quanto si ricordasse, ma per qualche ragione, sembrava quasi una bellezza crudele. Era stata dolce prima, come un disegno a pastelli. Ma ora la vedeva per quello che era: una donna che teneva in mano il potere di distruggere completamente e per sempre un uomo.
Le dita, screpolate dal freddo, giocavano ora col bordo umido del bicchiere ora con un lembo della giacca nera.
Quella giacca la ricordava, tante volte gliel'aveva vista indossare al distretto e altrettante si era divertito a sfilargliela a fine giornata, al punto che poteva perfettamente immaginargliela addosso, sebbene da seduta le naturali pieghe della stoffa ne falsassero la forma. Era incredibile come ancora, dopo tanti anni, la sua mente fosse piena di lei.
Rimasero in silenzio per alcuni minuti, le parole sospese nell'aria ma ben leggibili.
Di tanto in tanto Emma tornava a sorseggiare il suo drink, mentre Killian giocava con il ghiaccio sciolto del suo bicchiere ormai vuoto o distrattamente si lanciava in nuove perlustrazioni della stanza, posandosi  ad ogni nuovo giro su un diverso angolo del viso di Emma, con finta noncuranza, fino a ottenerne una fotografia completa in memoria da studiare senza per questo doverla fissare direttamente. Con la coda dell'occhio la vide mordersi un labbro -lo sguardo basso sulle proprie mani- e si sentì attraversare da un'ondata di calore che temeva poco avesse a che fare con l'alcol, giungendo alla conclusione che aveva bisogno di un'altra dose per poter sedare le rimostranze del proprio corpo, o tutt'al più avere qualcosa da incolpare se fossero tornate a farsi sentire. La guardò brevemente negli occhi e si sorprese di quanto fossero verdi. Di solito erano leggermente screziati da delle sfumature marroni, ma quel giorno erano solo verde bottiglia.
« Un altro giro?»
La voce gli uscì roca, disabituata a parlare.
«Perchè no»
La vide annuire con la bocca impastata d'un sorriso, e si allungò verso di lei per afferrarne il bicchiere. Nel farlo le loro dita si sfiorarono in un breve contatto.
Si alzò dal divano con una celerità non necessaria per avvicinarsi al piccolo mobile sul lato della stanza e riempì entrambi i bicchieri, riservando al proprio un trattamento di favore particolarmente generoso, mentre con l'altra mano si slacciava il primo bottone della camicia, in un'improvvisa e impellente difficoltà a respirare.
Le andò incontro porgendole il bicchiere, stavolta ben attento a evitare qualsiasi contatto superfluo, ma invece che superarla e riguadagnare la propria posizione sul divano, rimase in piedi di fronte a lei in una rigidità che si faceva via via più bizzarra ad ogni secondo passato a fissarla, immobile.
La realtà giunse infine a ridestarlo e, schiaritosi la gola per smorzare il proprio disagio, si diresse verso la vetrata guardando, senza vederlo davvero, il panorama che questa offriva loro, quasi che se ne fosse appena accorto.
«Hai davvero una vista magnifica da qui»
«È per questo che l'ho scelta»
Un sorriso fece capolino indisciplinato sul suo volto, mentre la testa si autocompiaceva in un inutile crogiolo di ragione.
Nonostante la vista fosse effettivamente stupenda, motivo per cui aveva scelto di posizionarsi lì davanti in cerca di una distrazione, suo malgrado i suoi occhi agirono di testa propria, mettendo a fuoco sulla vetrata non più la città ma il riflesso di lei che, alle sue spalle, acciambellata sul divano con la testa voltata verso di lui, si stava liberando ora anche dell'impaccio della giacca.
Tutto il resto passò in secondo piano di fronte alla vista del tessuto bianco della sua camicetta contro la pelle, scurita dai toni vellutati della notte.
Un'altra ondata di calore lo colse sul posto, dalle origini stavolta innegabilmente compromettenti.
Fu il campanello di allarme che gli serviva.
«È meglio che io vada adesso»
Il tono risoluto della sua voce mal si sposava con i suoi movimenti lenti e indecisi,  tuttavia fu in grado di mantenere quel tanto d'autocontrollo necessario a fargli recuperare giacca e cappotto, e a non capitolare neanche di fronte allo sguardo fattosi improvvisamente preoccupato di Emma.
«Te ne vai?»
Era scattata in piedi; il contenuto del bicchiere traboccante per il movimento improvviso si riversò in gocce sul tappeto.
«Si è fatto tardi, tesoro. E siamo entrambi stanchi...»
E ubriachi.
Questo non lo disse ma dovette quantomeno ammetterlo a sé stesso.
Erano ubriachi, se di alcool o di loro stessi non lo sapeva.
Vide le sue labbra aprirsi in quello che immaginò fosse il disperato tentativo di trattenerlo lì, e le fu grato quando la vide richiudere la bocca senza aver emesso alcun suono.
Già quel silenzio era una grave minaccia alla sua resistenza.
Il sollievo provato tuttavia si dissolse ben presto nello sguardo di lei, ora carico di una nuova e misteriosa sfumatura che non riusciva a interpretare.
Il secondo campanello d'allarme risuonò nel suo inconscio.
C'era qualcosa, nel modo in cui lo stava guardando adesso, che non riusciva a spiegare ma che lo stava turbando nel profondo.
Rimase col fiato sospeso, cercando di indovinare cosa sarebbe venuto dopo, ma lei non fece e non disse nulla. Si limitò ad allentare la pressione della propria mano, lasciando che le nocche delle proprie dita, strette a pungo, riprendessero lentamente colore, e con un sospiro filtrato attraverso i denti, impegnati in una morsa con le labbra, si voltò dandogli le spalle e si diresse a passi lenti verso la porta dinanzi a sé.
« Bene. Allora buonanotte, Killian...»
Lo sussurrò appena, con quello sguardo ancora negli occhi, e sparì dietro la superficie legnosa della porta.
Killian, che l'aveva osservata in silenzio tutto il tempo, rimase spiazzato nel vederla dargli le spalle in un turbinio di tacchi e capelli.
L'aveva seguita con lo sguardo, incerto su quanto stesse accadendo o su come dovesse sentirsi.
 Lui era di nuovo lì, in piedi e da solo tra due porte, ognuna delle quali l'avrebbe condotto verso un differente destino: un destino in solitaria e uno con lei.
Lei lo aveva ancora una volta lasciato solo in una stanza che era più un bivio, in un limbo da cui sarebbe potuto uscire in due modi diversi.
Gettò con violenza cappotto e giacca nuovamente sul divano, barattandoli col bicchiere di rum nuovamente riempito per l'occasione.
Lo svuotò in pochi i secondi, lasciando che il liquido gli bruciasse la gola e gli mozzasse il fiato, per poi sbatterlo con forza sul tavolino di mogano.
No, quella volta la scelta non era stata sua, come sempre.
Era sempre lei a decidere della sua vita, anche se indirettamente.
E con un groppo in gola Killian dovette ammettere a sé stesso che ancora una volta la sua scelta sarebbe stata lei. Si sentiva  come se le gambe fossero tenute insieme da dello scotch, sbatteva gli occhi solo se si sforzava, e il suo cuore era lontano solo un battito dallo sgretolarsi, a dispetto della super colla con cui aveva cercato di tenerlo insieme.
Perchè si, aveva paura.
E si, faceva ancora male.


La porta si aprì con un lieve gemito, che suonò assordante nel silenzio pesante della casa.
E tuttavia lei di spalle, in piedi al centro della stanza, non diede segno di averlo udito, se non per la tensione che sembrò improvvisamente abbandonarle le scapole: il capo leggermente ruotato verso destra, in modo che la luce della strada, filtrando attraverso le tende, lo accendesse di un alone opaco, delineandone il profilo delicato.
«Speravo capissi, ed entrassi...»
«Ma non ne eri certa »
Non era una domanda la sua, ma una semplice constatazione.
«No...»
Abbandonata la soglia, mosse qualche passo verso di lei, fermandosi a pochi centimetri dalla sua schiena. La sua pelle, lasciata nuda dalla camicetta di lino, era un richiamo troppo invitante perché potesse sottrarsene, e non poté opporre resistenza neppure quando due dita della propria mano si posarono indisciplinate sul suo braccio, percorrendolo in tutta la sua lunghezza.
Poteva sentirne la pelle rabbrividire sotto il proprio tocco, il suo calore tra le proprie dita.
«Neanche io...»
Lei sospirò. «È una sciocchezza, Emma...»
Il suo tono era stanco. Non avrebbe mai convinto lei, tanto meno sé stesso. E d'altronde, questo non era il suo obiettivo: sapeva di aver già oltrepassato il limite quando aveva varcato la soglia della sua camera da letto, e ancora prima, quando aveva preferito la sua compagnia a un cortese saluto di circostanza. Ormai non poteva più fermarsi, né andarsene, e una parte di lui -una parte considerevole- neppure voleva.
Lei non rispose, si limitò voltarsi verso di lui. Lo osservò nella penombra della stanza.
 «Dimmi che non mi vuoi...» Un sospiro, il suono incrinato della sua voce.
Credeva davvero che l'avrebbe rifiutata?
Pensava che, arrivati a quel punto, avesse altra scelta se non restare?
La voleva. Aveva bisogno di lei. Lei riusciva a fargli scordare il dolore meglio di quanto ci riuscisse qualsiasi altro mix alcolico. Lui unì le loro labbra in un bacio lungo,come lo sono i baci che uno si è aspettato per tutto un pomeriggio, e già non ci spera più. 
Dio, quanto gli era mancata.
Se fino ad allora non gli era stato chiaro, adesso questa nuova consapevolezza trafiggeva ogni fibra del suo essere, con un'intensità stupefacente e terrificante insieme. Pensò che era così che dovevano sentirsi i drogati recidivi dopo la disintossicazione: liberi e sereni, e convinti di aver trionfato sulla propria ossessione, finché non viene loro offerta una nuova dose.
E di nuovo sono condannati.
Si passò la lingua sulle labbra, assaporando la dolcezza di lei, e qualcosa dentro di lui si mosse, portandosi via dal suo cuore un po' di dolore. Le schiuse le labbra con la lingua e la baciò più profondamente, lieto del delicato gemito che le sentì emettere.
Bisogno, desiderio e fuga.
Fu un bacio passionale: bruciante ed eccitante.
Fu primitivo: basato  sull'istinto e sul puro desiderio.
Killian le avvolse la mano sinistra attorno alla vita, tenendosela stretta al petto,sentendo l'eccitazione crescergli dentro.
Con le mani lei  risalì fino al collo e lo avvicinò a sé ancora di più, se possibile, inclinando la testa e permettendo alla sua lingua un migliore accesso alla sua bocca.
Lui sapeva di cose proibite: il fuoco del rum, il forte sapore amaro del tabacco e qualcosa che poteva essere classificato come unicamente suo.
 Lei voleva tutto questo. Lei aveva bisogno di tutto questo.
Continuarono il loro bacio febbrile, fino a quando il bisogno d'aria non divenne impellente e non si sentirono storditi: i loro polmoni bruciarono, mentre annaspavano, per respirare per la prima volta appieno, e si trovarono così vicini, che,ansanti, poterono assaporarsi a vicenda nell'aria: potevano sentire il fiato caldo dell'altro infrangersi sulla propria pelle, mentre i loro petti si alzavano e si abbassavano l'uno contro l'altro.
Killian indietreggiò e lasciò che il suo sguardo indugiasse su quella visione.
Le passò delicatamente una mano sullo zigomo baciandole gli occhi ancora chiusi.
La tenne ancora stretta a sé, ed Emma socchiuse le palpebre. 
Lei gemette quietamente, quando lui si piegò in avanti di pochissimo, per sfiorarle appena l'addome con l'erezione. Si ritrovarono così vicini che i seni di lei gli sfiorarono il petto ad ogni respiro.
Le mani, dapprima timidamente adagiate sulle braccia di lei, erano adesso strettamente ancorate a quelle della donna che, lentamente, lo stava conducendo verso il letto. Si fermarono solo quando le ginocchia di Emma urtarono il materasso: un solo momento di esitazione intercorse tra loro, come se l'impatto con la superficie del letto avesse improvvisamente reso tutto reale. Killian osservò come un accenno di dubbio e di paura le attraversò gli occhi, ma sorrise, quando li vide riempirsi di puro desiderio. Lo stesso che, immaginò, riempisse il proprio sguardo.
Un solo passo lo separava da lei: un passo che le sue gambe mossero prima ancora che il cervello desse istruzioni. Emma  si portò il labbro inferiore di lui in bocca ed iniziò a succhiarglielo e a morderglielo, con un sorriso compiaciuto ad incurvargli i lati della bocca, ma lui non protestò.
Quel dolore non gli faceva male al cuore.
I loro sguardi rimasero incollati, mentre lui le scivolava con le dita sotto la camicetta, tracciando dei disegni sulla pelle delicata e morbida, e sbottonava velocemente il bottone e le dei jeans a vita bassa.  L'espressione del volto di Killian si scurì improvvisamente, diventando seria, quando vide gli occhi di lei chiudersi per il piacere, nello stesso istante in cui con l'indice giocò con l'elastico dei suoi slip. Qualcosa di egualmente primitivo gli crebbe dentro, quando il suono di un gemito delicato nacque dalle profondità della gola di lei e le uscì dalle labbra.
Si sorprese di nuovo a riscoprire quanto fosse bella. Non che lo avesse dimenticato -e come avrebbe potuto?- ma adesso che poteva sentirla sua ancora una volta gli era concesso di abbassare le difese e lasciarsi travolgere interamente da quella bellezza.
Trascorsero così alcuni minuti, a studiarsi in silenzio, come per essere sicuri che in quegli anni di lontananza nulla fosse cambiato e che l'immagine dell'altro combaciasse ancora con quella impressa nelle loro menti. E in effetti nulla in loro era cambiato, sebbene attorno a loro fosse  cambiato tutto.
La bocca di Killian si dischiuse appena, autonoma, ma  riuscì a fermarsi in tempo e fortunatamente non ne uscì alcun suono.
Il “ti amo” quasi sfuggito al suo controllo stava ancora sulla punta della lingua, in attesa di un solo istante di debolezza da parte sua, che però non sopraggiunse.
Non poteva permettersi passi falsi, o il fragile equilibrio che aveva strenuamente raggiunto e che gli consentiva adesso di stare lì con lei, in quel modo, senza andare in mille pezzi, sarebbe andato perduto per sempre.
Lui stesso si sarebbe perso.
Aveva ceduto a qualunque cosa ci fosse stata -o ci fosse ancora- tra loro, sì, ma a patto di non darle un nome, qualunque esso fosse. E “ti amo” non solo era un nome, ma era anche il più pericoloso di tutti.
Quelle labbra, erano la sua migliore possibilità di tacere: vi si gettò con foga, incrinando l'aria satura di attesa che aleggiava nella stanza, costringendole ad aprirsi sotto le proprie, sperando che lavassero via quelle due parole tanto rischiose. Quando la necessità di respirare divenne meno impellente di quella di averla, Killian tornò su di lei. La fece distendere sul letto e, abbandonata la bocca, iniziò a tracciare un sentiero con le proprie labbra: prima sul collo, poi sulla spalla e il ventre passando dal seno, e via sempre più giù, attento a non risparmiare neanche un centimetro di pelle.
Era una tortura tanto per lei quanto per lui.
Ma era anche un gioco a cui anni prima erano stati soliti prestarsi, le cui regole imponevano all'uno di resistere e andare avanti finché l'altra ,consumata dal desiderio, non l'avesse implorata di farla finita. Quando non era lui a cedere per primo, certo.
Stavolta però, nel suo agire, c'era un velo di perfidia: voleva sentirla supplicare, e forse neanche allora l'avrebbe accontentata. Una volta qualcuno gli aveva detto che se i baci fossero state parole a quest’ora avrebbe fatto un discorso.
Le sillabe iniziarono così presto a impastarsi di gemiti, o i gemiti a prendere forma di nuove parole, o in vecchie parole, o in parole inventate.
Tutti i suoni spezzati già pronunciati finirono per condensarsi in un’unica agonizzante parola
Dal fondo della sua gola un migliaio di lettere si frantumarono in una lunga caduta senza regola
«Killian, ti prego...»
La sentì gemere quando le sue labbra si posarono sotto l'ombelico. Avvertì le mani di lei afferrarlo tremanti per la testa, tentando di tirarlo a sé, troppo deboli perché potessero scuoterlo anche solo di un centimetro. Man mano che scendeva udiva suoni sempre più indistinti provenire dalla sua gola, ma non si fermò ad ascoltare. Non aveva bisogno di capire cosa dicesse per comprenderne il senso. Sapeva di essersi spinto ben oltre i propri limiti, ma continuò ad avanzare finché lo strazio di un impellente bisogno di appagamento non lo costrinse a fermarsi. Ora che anche lui aveva raggiunto la soglia massima di sopportazione, la voce di Emma, seppur ridotta a un sussurro lamentoso, aveva preso a risuonargli assordante nelle orecchie.
Riportò il proprio capo alla stessa altezza di quello di lei, soffocando la sua voce in un ultimo, languido, bacio. La mano sinistra andò ad intrecciarsi con quella di lei, che si agitava spasmodica sul materasso, mentre con la destra liberò entrambi dall'impaccio di quei jeans troppo stretti. Nella frenesia di quel gesto un bottone saltò via da quell'accozzaglia di tessuti, rotolando indisturbato sul pavimento, mentre un ginocchio di Killian si insinuava tra le gambe di Emma aprendo la strada ad un piacere che non tardò ad arrivare. 




Salve a tutte! 
Tra una foto dal set  e l'altra ecco il sesto capitolo! 
Premetto dicendo che con questo aggiornamento volevo dare una svolta alla loro relazione, solo che non sono molto sicura sul risultato.
In ogni caso, come sempre, un grande, gigantesco grazie a tutti voi.
A quelli che inseriscono la storia nelle varie categorie, a chi legge silenziosamente e a chi recensisce, mi rendete immensamente felice! Grazie davvero♥♥

Un abbraccio, Elena.

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Capitolo 7
*** Cap7 ***


When I look into your eyes 
I can see a love restrained 
But darlin' when I hold you 
Don't you know I feel the same 

'Cause nothin' lasts forever 
And we both know hearts can change 
And it's hard to hold a candle 
In the cold November rain 

We've been through this such a long long time 
Just tryin' to kill the pain 

(November Rain, Guns N' Roses)




L'illuminazione stradale aveva da poco ceduto il passo alla luce naturale.
Le parve di scorgere il sole nel timido riverbero dello specchietto retrovisore, il primo raggio da che era sveglia, e non riuscì a soffocare l'ennesimo sbadiglio al pensiero di aver battuto sul tempo l'alba, di nuovo.
Ancora una volta l'America, aiutata dal soave strepitio del cellulare, le aveva dato il buongiorno nel modo che le era più congeniale: con un omicidio. E ancora una volta non si era curata di chiedersi se le cinque e mezza, un'ora come tante per una città come Washington, fossero altrettanto adatte a lei, che di dormire invece ne avrebbe avuto bisogno. Svoltò per Cannabeel Street con il piede un po' troppo in sintonia con l'acceleratore, approfittando del fatto d'essersi finalmente lasciata alle spalle il centro cittadino con il suo traffico e i suoi semafori rossi, troppi per essere appena le sei di un banale giovedì mattina. 
Dopo una decina di minuti raggiunse finalmente l'ingresso del centro di demolizione.
L'insegna in ferro battuto campeggiava alta e imponente sopra il cancello principale, stridendo fortemente col cimitero di rottami e vecchie carcasse d'auto che si stagliava tutto intorno. Improvvisamente il suo malandato maggiolino le sembrò perfetto.
Posteggiò al centro di uno spiazzo,  sufficientemente lontano dalla pila di automobili ammassate le une sulle altre, timorosa che in un impeto di gelosia queste decidessero di franare sulla propria. Estrasse con lentezza la chiave, lasciando che le spie luminose del cruscotto venissero inghiottite dall'oscurità, e si abbandonò col capo all'indietro.
Era esausta ancor prima di cominciare.
Attraverso le palpebre chiuse, percepì il fastidio di un raggio di sole più violento degli altri, e si costrinse ad aprire un occhio per esaminarlo ad armi pari.
Non le ci volle molto per individuare la fonte di quel fastidioso riflesso di luce, fastidioso quanto l'oggetto che l'aveva causato: il bottone blu di un paio di jeans oscillava vanesio davanti al suo viso, sospeso allo specchietto con un sottile filo di cotone, mosso da un vento che non c'era. Al centro, il minuscolo inserto in metallo che avrebbe consentito al bottone di chiudersi, se opportunamente accompagnato da un secondo pezzo -attualmente disperso-, catturava avido il sole da ogni angolatura possibile, rispedendone il riflesso al mittente in un continuo e generoso do ut des.
Delicatamente, Emma lasciò che le proprie dita tracciassero in aria quella piccola circonferenza. Non sapeva perché avesse deciso di costruire quell'insolito pendaglio, né tanto meno perché, di tutti i posti possibili, avesse scelto di posizionarlo proprio in auto.
Aveva trovato quel bottone una mattina di quasi due mesi prima, qualche giorno dopo la loro notte insieme e  non le ci era voluto molto per indovinare chi fosse il proprietario di quel piccolo disperso. ln un primo momento aveva ovviamente pensato di gettarlo via, come avrebbe fatto chiunque altro di fronte a un ritrovamento tanto insignificante e privo di valore, ma arrivata a un passo dal cestino aveva sviluppato un improvviso e morboso attaccamento per quel pezzetto di plastica, e non aveva avuto cuore di separarsene. Al contrario, aveva passato un'intera giornata a rigirarselo tra le dita, e prima di rendersene conto vi aveva già fatto passare un filo attraverso e lo aveva appeso esattamente lì dove era ora.
Piccolo com'era, c'erano giorni in cui neanche ci faceva caso o in cui esso stesso si nascondeva alla sua vista, dietro la superficie dello specchietto retrovisore. Altre volte invece, Emma aveva come l'impressione che fosse cresciuto in dimensioni durante la notte, e si ritrovava così a fare i suoi viaggi per le strade di Washington con una presenza silenziosa, ma considerevolmente ingombrante, al suo fianco. L'aspetto peggiore di quei giorni, comunque, non era tanto la compagnia in sé -talvolta quasi piacevole- quanto i pensieri che venivano puntualmente a galla e che sfociavano regolarmente nella rievocazione della mattina dopo.
Anche adesso, che pure il bottone era rimasto bottone e non s'era fatto passeggero inopportuno, Emma sentiva la sua mente scivolare inarrestabile lungo la pericolosa china di quel ricordo.

Un fruscio di stoffe l'aveva svegliata dal suo sonno. Stanca, confusa, e disabituata com'era alla compagnia nel suo letto, aveva dovuto allungare la mano e scoprire il calore insolito sull'altro lato del materasso per ricordarsi di ciò che si era appena consumato in quella camera, e rendersi conto dell'uomo in piedi, nel buio, di fronte a lei.
«Killian...»
Una punta d'allarme aveva sfaldato le barriere della sua stanchezza, donando alla sua voce ancora impastata dal sonno un tono tuttavia straordinariamente vigile. Non aveva avuto bisogno di accendere la luce per capire che si stava rivestendo.
«Devo andare. Se sarò fuori di qui prima che faccia giorno forse potrò illudermi di aver semplicemente immaginato tutto questo, come sempre»
«Killian, aspetta...»
Sebbene le sue intenzioni le fossero state chiare sin dall'inizio, il sentirsi confermare ad alta voce la prospettiva di una fuga nel cuore della notte l'aveva trafitta con una violenza tale da spingerla a credere, per un attimo, che lui l'avesse colpita con qualcosa di molto grosso e appuntito. Solo parecchi profondi respiri dopo, insieme alla certezza che facendolo non sarebbe morta dissanguata, si era convinta a muoversi. Colta da un brivido di freddo per l'abbandono improvviso del suo caldo giaciglio, non aveva avuto il coraggio di scendere fisicamente dal letto e separarsi così dal calore delle lenzuola, piuttosto s'era trascinata fino al bordo del materasso e aveva allungato una mano nel buio, nel disperato tentativo di acchiapparlo pur non riuscendo a vederlo.
«Aspetta, Killian. Ti prego!»
«No Emma! Non parlare, per favore... Perché se tu ora mi dicessi di restare io lo farei, lo farei senza pensarci un attimo, e non posso permetterlo. Tu non sei rimasta per me, non sei rimasta con me...»
Aveva scorto un rapido e indistinto movimento nel buio, e aveva immaginato le sue spalle irrigidirsi sotto la durezza di quelle parole. Avrebbe voluto poggiare una mano sulle sue scapole, e rubare da esse la tensione che sapeva esservisi accumulata, ma tutto ciò che le sue dita riuscivano ad acchiappare erano l'aria e la minaccia sempre più vicina della sua assenza.
«Se me lo chiedessi ora direi di sì. Se tu mi chiedessi di sposarti, adesso, io ti direi di sì»
«Il tuo adesso arriva troppo tardi»
Emma sentì il suo cuore andare in pezzi. Pezzi tanto taglienti da squarciarle l'anima.
Non lo aveva visto uscire, non aveva udito nemmeno il rumore dei suoi passi allontanarsi dalla camera. Aveva solo smesso di sentire il suo respiro risuonare per la stanza - fino ad allora neanche si era accorta di quanto normale suonasse alle sue orecchie la presenza di quel sottofondo e di quanto fosse sbagliata la sua assenza. E poi era arrivato il fragore della porta, sbattuta violentemente contro lo stipite.
Quel tonfo sordo aveva spazzato in un sol colpo ogni cosa dalla sua mente, lasciandola sola senza neanche più un pensiero a cui aggrapparsi. Le mani, ancora tese verso il nulla, erano ricadute inermi sul materasso, ma con l'adrenalina ancora non smaltita del tutto erano andate a chiudersi intorno alla prima cosa che avevano trovato: le lenzuola. Senza mollare mai la presa, se le era avvolte intorno al corpo ripetutamente, fino al punto da non potersi più muovere, e si era poi rannicchiata sul lato del letto in cui fino a qualche istante prima era stato lui, accoccolandosi tra le spire del suo calore ancora vivido sul materasso. 
Erano soliti fare un gioco, beh, Killian era solito farlo: dopo ogni volta che avevano fatto l’amore, lui le diceva esattamente di cosa sapeva. E ogni volta era qualcosa di diverso e assurdamente poetico. La prima volta sapeva di “per sempre”. La seconda di “vittoria”. La terza era “pesche estive”. La quarta “rose di giardino annaffiate”. La quinta di "mare in tempesta". La lista continuava ed Emma non avrebbe potuto ricordarseli tutti, anche se ora desiderava non averli presi per garantiti. Si chiese velocemente se avrebbe definito il suo sapore questa volta.
Lei non  era brava come lui con le parole e tutto quello a cui riuscì a pensare mentre si passava la lingua sulle labbra fu: sa di Killian.
 

Un urlo e l'inconfondibile odore di copertoni bruciati riportarono la sua attenzione al presente.
Già da lì poteva vedere la piccola folla di uomini della scientifica e poliziotti riunita, presumibilmente, attorno al cadavere: come schegge impazzite saettavano da un lato all'altro del perimetro, quasi che un omicidio nell'alba americana fosse una cosa rara a vedersi. Lei invece, per quanto si sforzasse, non riusciva a farsi coinvolgere da quella frenesia, forse perché ancora troppo assonnata e con una grave insufficienza da caffeina, forse perché distratta da altri pensieri o forse perché, semplicemente, troppo avvezza ormai ai morti. Rassegnata mai, ma l'abitudine era talvolta un inconveniente del suo lavoro.
Un lavoro che si era scelta e che adesso la reclamava.
Fece schioccare le dita sul volante, come a volersi dare la carica, e finalmente si decise ad uscire dall'abitacolo, richiudendosi la portiera alle spalle con un colpo secco.
Procedette spedita in direzione dei suoi colleghi, ben stretta nel suo cappotto rosso per ripararsi dall'umidità notturna di cui l'aria era ancora satura. L'eco dei suoi tacchi si fuse gradualmente con le voci dei presenti e, quando ormai mancavano solo pochi metri alla sua meta, riuscì a scorgere una mano penzolare fuori dal sedile di un catorcio arrugginito. Un sorriso amaro le si disegnò sul viso.
No, forse -e per fortuna- non si sarebbe mai abituata alla morte.



Era stata una giornata pesante, complicata ulteriormente da un assassino con la passione per la piromania e una vittima dal volto troppo noto e dalla vita privata insospettabilmente vivace. Gran parte del pomeriggio lo aveva trascorso ad ascoltare il suo capo dipartimento sottolineare, per l'ennesima volta, i rischi del trovarsi tra le mani un caso di dominio così pubblico quale prometteva di essere quello. In pratica aveva, e in maniera neanche troppo velata, ricordato loro che per quanta libertà d'agire gli fosse concessa dal proprio distintivo, c'erano comunque dei limiti che era necessario non superare, mai.
Era forse questo ciò che odiava di più del suo lavoro attuale: una gran dose di potere, ma solo apparente, tenuto al guinzaglio dalle macchinazioni della politica e del governo. Scaraventò con ben poca delicatezza i fascicoli del caso sul divano, e si versò un bicchiere di vino, prima di prendere posto accanto a loro. Per quanto portarsi a casa il lavoro non fosse un ostacolo alla sua vita sociale pressoché inesistente, la sua capacità di concentrazione quella sera languiva così come la sua voglia di cercarla.
Arrivata al fondo del suo bicchiere, non aveva ancora nemmeno aperto il primo fascicolo e dovette venire a patti con la consapevolezza che, almeno per quella sera, non sarebbe mai successo. Decisa ad assecondare la piega che i suoi pensieri avevano preso sin da quella mattina in auto, e conscia che combatterli sarebbe stato estenuante oltre che prevedibilmente inutile, si diresse quindi verso la porta sull'estremità destra del soggiorno, non prima però di aver fatto tappa intermedia in cucina per versarsi un altro bicchiere di rosso.
Lo stanzino era polveroso, come ci si poteva aspettare da una stanza piccola e tenuta sempre chiusa, e tuttavia stipata com'era di scatoloni -ordinatamente impilati gli uni sugli altri- non lo era al punto da risultare sporco: probabilmente lì dentro teneva così tanta roba che anche la polvere faticava a trovar posto.
E in effetti Emma aveva rinchiuso in quel loculo di due metri per due tutta la sua vita passata: dai ricordi dell'infanzia a quelli del distretto, compreso lui.
Più volte aveva tentato di dare una collocazione definitiva alle centinaia di ninnoli e oggetti che si era portata da New York, ma ogni volta che li aveva tirati fuori da quello stanzino non erano durati che pochi giorni nella loro nuova sistemazione, i più fortunati anche una settimana. Non sapeva esattamente quale fosse il problema di quella casa, ma sembrava decisa a sputar fuori qualunque cosa non trovasse di proprio gradimento: e apparentemente aveva gusti estremamente difficili. 
Era come se in qualunque modo, o zona, Emma sistemasse i suoi effetti personali, questi stonassero violentemente con il resto al punto da risultare persino fastidiosi.
Alla fine aveva semplicemente smesso di provarci.
Certe volte una vocina nella sua testa le sussurrava che quella divergenza di opinioni non era un semplice problema d'arredamento, ma piuttosto un disagio più grande: un disagio  interiore, e non davvero legato alla casa. Quando quella vocina tornava alla carica, Emma riesumava dal mucchio qualche foto e le disseminava per la casa a dimostrazione che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto riversarvi dentro anche l'intero stanzino. Per il resto quando ne aveva bisogno, o semplicemente voglia, apriva quella porta e faceva un tuffo nel proprio passato, seduta sul limitare della soglia, in un punto che ,come in un limbo, era una realtà a sé stante: né parte né non parte di quella casa.
Col bicchiere sapientemente adagiato sul parquet, a distanza di sicurezza dalle proprie gambe, guadagnò la solita postazione, e trascinato verso di sé uno scatolone lo aprì.
Odorava di chiuso con un vago sentore di cannella.
Una ad una estrasse le piccole cornici, custodi di fotografie per lo più sbiadite dal tempo e dal sole: una in particolare appariva più usurata delle altre, a causa di tutto il tempo passato ripiegata tra le piccole tasche del suo vecchio portafoglio. Risaliva al matrimonio di Mary Margareth e David. Erano tutti lì: dagli sposi, raggianti in primo piano, a loro quattro: lei, Killian, Ruby e Victor, accoppiati anzitempo, per un strano scherzo del destino, in quella che facilmente sarebbe potuta essere un'esaustiva anticipazione del futuro. Se le cose fossero andate diversamente. 
Accantonato quel piccolo attentato fotografico al suo cuore, si dedicò ad altre memorie passando così in rassegna l'intero scatolone e procedendo indietro lungo il suo passato in polizia, fino alla foto del suo ultimo giorno all'Accademia. In piedi, avvolta nella sua divisa, lo sguardo fiero di chi sa di aver trionfato sulle proprie avversità, ma velato dall'ombra di una ferita ancora troppo fresca. Aveva ancora quella divisa, conservata da qualche parte proprio in quello stanzino: ormai consunta e troppo stretta, non era mai riuscita a disfarsene sebbene negli anni ne avesse accumulate di più nuove e più conformi alla sua taglia. Sorrise nel ripercorrere il proprio profilo più giovane, immortalato tra le sue mani; poi, quando ne fu sazia, rimise di nuovo tutto accuratamente dentro la scatola e la spinse fino in fondo allo stanzino, facendole riguadagnare il suo posto. Killian le aveva sempre detto che aveva difficoltà a separarsi dalle cose, piuttosto che dalle persone. E non aveva tutti i torti. 
Non sentendosi ancora pronta a terminare quel viaggio lungo il viale dei ricordi, perlustrò con gli occhi lo spazio di fronte a sé, decisa a passare a una nuova scatola, e la sua scelta si orientò su una appena visibile da dietro le altre, ricoperta da uno strato di polvere talmente spesso da apparire quasi come un voluto imballaggio. Fu necessario tirar fuori altri tre scatoloni prima di poter raggiungere quello prescelto, ma alla fine eccolo lì, torreggiante tra le sue gambe e sigillato così bene che aprirlo quasi le dispiacque.
Con le dita leggermente madide di sudore, scivolose ad ogni tocco, dovette combattere un bel po' contro lo scotch prima di poterlo ridurre tutto in una palla appiccicosa e disordinata sul pavimento. Quando infine la scatola fu aperta, una leggera nuvola di polvere si sollevò dallo strato superiore facendola starnutire. 
La copertina con su ricamato il suo nome, leggermente lesa in alcuni punti e scolorita in altri, si pavoneggiò delle sue tinte brillanti, decisa a recuperare tutto il tempo trascorso chiusa in quella scatola. 
Non aveva mai avuto una famiglia Emma. 
C'era stata Ingrid, è vero, che l'aveva salvata dall'incubo del circuito affidatario, ma una famiglia vera, con cui festeggiare il compleanno e trascorrere le  vacanze in estate, no, quella Emma non l'aveva mai avuta. 
Sul fondo della scatola, insieme, ai suoi vecchi occhiali, ed una foto sbiadita di lei e Neal, giaceva un altra coperta, più grande e, forse, altrettanto significativa. 

La testa aveva iniziato a pulsarle poco dopo l’inizio della festa e stava peggiorando man mano che la serata proseguiva. Sapeva che le era stata data una grande opportunità, partecipando ad una festa del genere, ma lo sforzo era quasi insopportabile. Era riuscita a mala pena a pensare quando un certo Walsh le  si era avvicinato, ed era stata  grata all'intervento tempestivo di Killian, che le aveva dato una facile scusa per ignorarlo ed andarsene.

Non si fermò fin quando non raggiunse la propria camera, si tolse le scarpe col tacco- certi strumenti di tortura avrebbero dovuto essere illegali- e fece una smorfia d'approvazione quando i piedi toccarono il tappeto. Si massaggiò le tempie, liberando i capelli dal nodo in cui erano stretti.

In passato, aveva avuto emicranie ricorrenti. Non le aveva avute per anni, ma questo dolore che le stava assalendo gradualmente la testa presagiva sinistramente che ne avrebbe presto avuta una e voleva bloccarla prima che  peggiorasse.

Poggiò una mano contro la porta del bagno prima di riempire un bicchiere d’acqua e si mise davanti alla valigia. Aprì la cerniera della tasca laterale, andando alla ricerca delle aspirine che si ricordava di aver messo lì dentro. La serata era ancora agli inizi e sapeva che probabilmente se n’era andata via troppo presto perché quel suo congedarsi si potesse considerare un’uscita di scena educata. Ma non poteva preoccuparsi di questo adesso. 
Sentì dietro di sé la porta della camera aprirsi, ma non si girò.
Rabbrividì quando percepì il caldo corpo di Killian sfiorarla da dietro, e posarle un bacio sulla spalla scoperta– “Sei scappata via di lì molto in fretta Swan ” – notò lui a bassa voce – “sono rimasto davvero impressionato”
Sorrise, con un velo di malizia nella voce.
" So di essere irresistibile, tesoro, ma se volevi restare sola con me,qui in stanza, bastava chiederlo. Non mi tiro mai indietro se si tratta di una bella signora, dovresti saperlo...a quanto pare sono piuttosto apprezzato"
" Dalle signore?"Emma rimarcò volutamente quella parola
Killian abbassò le ciglia e la guardò di traverso "Senza dubbio"
" Allora... queste signore parlano bene o male di te?"
Ancora una volta un sorriso sghembo si palesò sulle labbra di Killian "Dipende da diversi fattori, ma posso assicurarti che la maggior parte di loro avrebbe solo cose positive da dirti sul mio conto, anzi, cose grandiose"
" Che genere di cose?.." lo provocò apertamente Emma.
" Penso tu sappia esattamente il genere di cose di cui ti parlerebbero bene, tesoro" le soffiò nell'orecchio. Un altro bacio, questa volta sul collo, pose termine a quel diverbio.
Emma rabbrividì e tacque.
" C'è qualcosa che non va Emma?" dal tono della sua voce, fattasi improvvisamente più seria, e dal fatto che l' avesse chiamata per nome  piuttosto che con un qualche appellativo come tesoro,dolcezza, o qualche altra diavoleria, Emma comprese che Killian era davvero preoccupato per lei. La chiamava così raramente, di solito solo quando parlavano di cose serie o facevano l'amore.
" Non preoccuparti, ho solo mal di testa, sopravviverò" tagliò corto.
Si aspettava che lui si allontanasse, che indietreggiasse o che facesse qualche battuta sarcastica riguardo alla scusa da lei usata, invece, rimase sorpresa quando le sfiorò con le dita la fronte, massaggiandole lentamente le tempie. Deglutì, chiudendo gli occhi a quella sensazione. Sembrava che lui conoscesse i posti esatti in cui fare pressione per alleviare il dolore e lei si abbandonò completamente a lui, poggiandosi al suo petto.
“Meglio?” mormorò Killian dopo un momento, sfiorandole la guancia con la voce.

Annuì vagamente, avvertendo uno strano sfarfallio allo stomaco per merito della sua casuale vicinanza – “Sì” – riuscì a dire.

Lui abbassò la mano, passandogliela attorno alla vita e recuperando la scatola di aspirine  da dentro la valigia. Gliela porse e lei l’accettò, sentendo le loro mani sfiorarsi prima che lui facesse un passo indietro.

Emma abbassò lo sguardo, concentrandosi sul rimuovere dal blister una delle pillole bianche, e ingoiò il medicinale con un po’ d’acqua.

Quando si girò, Killian era seduto sul bordo del letto, la fissava intensamente. Sapeva di avere un bell’aspetto, col proprio vestito rosso, quello che riusciva a metterle in risalto tutte le curve nei posti giusti senza volerlo. Ricordava di averlo scelto mentre stava preparando la valigia, col vago pensiero che forse gli sarebbe piaciuto. Ma al momento Emma non si sentiva sexy o desiderabile nel modo più assoluto e, per la prima volta da quando avevano stipulato quell’accordo, non voleva esserlo.
Accordo era senza dubbio la parole più adatta. Anche se un accordo implica che entrambe le parti siano consenzienti mentre, in questo caso, era stata lei a dettare le regole. Anzi la regola: solo sesso. Puro e semplice sesso, senza complicazioni nè drammi. Eppure, ora che sentiva il suo sguardo bruciarle sulla schiena, non ne era più tanto sicura. Forse era proprio per questo che voleva tenerlo lontano, lui faceva vacillare le sue certezze, ed Emma questo proprio non poteva permetterselo, nonostante ci fosse qualcosa in lui, qualcosa di così simile a lei, che la induceva a riporre in lui una strana fiducia.
Abbassò lo sguardo e poi lo distolse, facendo il giro del letto. 
“Killian…Sono stanca” disse con delicatezza.

Lui annuì. Non sembrava sorpreso. “Lo so”

Esitò, guardandolo con incertezza, chiedendosi perché non si fosse mosso. Lui si spostò contro i suoi cuscini, allungando in avanti una mano, battendola sul materasso. “Vieni qui”

Continuò a guardarlo con la fronte corrugata, chinandosi in avanti con esitazione, e salì sul bordo del letto. Il tessuto di seta del vestito le sfiorò le gambe, contrastando con la ruvida consistenza del materasso. Il mal di testa era ancora presente, pulsava monotonamente in sottofondo.

Killian sprimacciò il cuscino di fianco a sé con un’espressione indecifrabile. “Sdraiati”

Obbedì, chiudendo gli occhi quando la sua guancia raggiunse il cuscino. 
Dopo un momento, percepì le dita di lui accarezzarle i capelli con movimenti dolci e languidi. 
I suoi polpastrelli creavano dei cerchi rilassanti sulla sua nuca.
E quando il profumo di lui la avvolse, nella penombra della stanza, Emma sentì lo stomaco contrarsi, e una strana sensazione di benessere scaldarle il cuore, come non le succedeva da tempo.  Non riuscì a fermare la domanda che le scappò dalle labbra e desiderò ardentemente colpirsi con qualcosa di contundente  quando sentì la propria voce.
Era così debole quando si trattava di lui.

“E’ stato solo sesso per te?”

Lui rimase in silenzio e lei improvvisamente sentì d’essere stanca e di avere le vertigini, come se il suo tocco fosse l’unica cosa che la tratteneva ancora lì. Non si aspettava che lui rispondesse e sperò di addormentarsi prima che nascesse un qualsiasi tipo d’imbarazzo.

“No. No, Emma, come puoi anche solo pensarlo..." la sua voce fu così bassa che in primo momento pensò di essersela immaginata.
  Lui non aggiunse nulla, ma Emma in cuor suo sapeva, di dovergli una spiegazione, quella almeno gliela doveva, in fondo era stata lei ad imporre tutte quelle stupide condizioni alla loro relazione.
Prese coraggio e parlò " Il fatto è che, pur non volendo, prima o poi ci arrivi a quel punto. Al punto dove hai paura a fidarti, ad esporti, ad aprirti... semplicemente ad amare.
Ok, forse avrei dovuto cominciare con un "neanche per me è stato solo sesso", ma mi sembrava più appropriato così. Ora almeno sai il motivo di tutto ciò.
Scusa se a volte ti sembro distaccata, scusa se mi comporto come se non tenessi conto dei tuoi sentimenti o come se non apprezzassi tutte le attenzioni che mi rivolgi.
Mi rendo conto di tutto, anche se non lo do a vedere. Voglio che tu lo sappia, e che lo tenga bene a mente.
Ho avuto un lunga, sofferta, altalenante vita prima che tu facessi capolino; ho amato, ho sofferto e sono sopravvissuta. Ma ogni istante passato ci segna, inevitabilmente.
Pian piano ho smesso di credere a quelle persone che mi dicevano ‘Ci sono io, non preoccuparti’, a quelle che ogni tanto mi prendevano per mano e mi assicuravano che loro sarebbero state con me per sempre. Ho smesso di vedere quello che mi sembrava fosse, e ho iniziato a capire quello che in realtà era. E ho visto.
Ho visto che le persone possono lasciarti, e lo fanno con una facilità incredibile. Ho visto che per loro è sempre  facile, perché ti sbattono la porta in faccia , mentre tu ripensi ai loro ‘Ti voglio bene’. Ho smesso di credere a tutte queste bugie. Mi sono domandata per anni cosa avessi di sbagliato, spesso me lo domando ancora..ed è  per questo che sto combattendo una battaglia inesistente contro....contro il mondo, escludendo qualsiasi occasione di aprire il mio cuore. 
Non so se mi spaventi di più l'idea di restare sola o di non esserlo più. Ma ho paura Killian. 
Quindi ti chiedo di essere paziente. Puoi farlo?"

"Si" 
Una sillaba, una promessa.

Quella notte gli aveva parlato di tutto, le parole si  erano riversate fuori dalle sue labbra come un fiume in piena: gli aveva raccontato dell'orfanotrofio, di Ingrid e di come quella copertina bianca e rosa, con il suo nome ricamato sopra in un corsivo elegante, fosse l'unica cosa che gli rimaneva dei suoi genitori.
Lui la aveva ascoltata in silenzio, un silenzio confortante, e il mattino dopo quando si era svegliata lui non c'era, ma al suo posto aveva trovato, ai piedi del letto, una coperta blu a scacchi. Sopra un biglietto, la calligrafia di Killian riempiva il foglio.
- Non sei più sola. Questa è più adatta per dormirci in due.
Killian
.


L'allungarsi del suo braccio per afferrare il cordless del telefono fisso fu la conseguenza diretta di quel continuo osservare la propria esistenza venir fuori dalle scatole di cartone.
Non sei più sola. 
Non dovette neanche pensare, le dita digitarono il suo numero autonomamente, rapide quanto il battito del suo cuore. 
Non sapeva cosa gli avrebbe detto una volta che avesse risposto, certa che, come l'ultima volta, le parole giuste sarebbero sgorgate fuori da lei spontaneamente. Qualunque cosa fosse ad ogni modo le morì in gola nell'esatto istante in cui a risponderle fu una voce femminile.
Il tono di quella voce, e la serena insistenza con cui ripeteva "Pronto", le impedirono di agire con prontezza e chiudere immediatamente il telefono. Solo al terzo richiamo riuscì nell'impresa di riagganciare, quando ormai aveva avuto tempo a sufficienza a che quella voce le si imprimesse in profondità nella mente. 
Era la voce di una donna bella, giovane e felice. Una donna, ne era certa, con un buon profumo sempre addosso, e che risultava sempre perfetta qualunque cosa indossasse. Il tipo di donna in grado di lavorare, avere una famiglia e tanti amici. Il tipo di donna capace di trovare sempre il tempo per sorridere alla vita. Il suo esatto opposto, insomma.
Ricacciò indietro le lacrime che cercavano ostinatamente di venire a farle visita.
Si era comportata da sciocca. Aveva sbagliato tutto.
Quella chiamata era stata solo l'ultimo della sfilza di errori stupidamente commessi quel giorno, a partire dal dialogo mattutino col bottone.
Decise tuttavia che riversare tutta la sua frustrazione e la sua rabbia su di lui e su quella donna perfetta sarebbe stata una scelta molto più salutare, così, ricacciato con furiosa fretta ogni scatolone dentro l'armadio, si sedette sul divano con l'intera bottiglia di vino al suo fianco, pronta a venirle in soccorso se necessario, e decise che avrebbe passato il resto della serata ad odiarlo. Giusto per provare qualcosa di diverso, una volta tanto.



Salve a tutte meravigliose ragazze! 
Nuovo capitolo! Che dire? Il mio grande timore è quello di non essere stata IC  con Emma. Ma dal momento che nell'ultima stagione è cresciuta molto, e si è aperta molto più che nelle scorse stagioni, mi sono lanciata anche io in questo monologo.  Nel caso in cui fossi sconfinata nel OOC ditemelo! Come sempre grazie di cuore a chi legge, chi recensisce e chi inserisce la storia nelle varie categorie. In particolare vorrei ringraziare Kerri, Vale_9826 e tutte le ragazze del Cs group, che con la loro pazienza e la loro dolcezza mi sostengono sempre. Grazie di cuore. 
Un abbraccio, Elena.

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Capitolo 8
*** Cap8 ***


People fall in love in mysterious ways 
And maybe it's all part of a plan 
I'll just keep on making the same mistakes 
Hoping that you'll understand 
(Thinking out loud, Ed Sheeran)








Il mercoledì sera al Rabbit Hole era divenuto per loro tre un appuntamento fisso.
Eccetto che nei giorni in cui il lavoro li reclamava : in quei casi era lui a raggiungerli al distretto, approfittandone per dar loro una mano con il caso. Un tuffo nel passato. 
Di certo c'era che nessuno si era aspettato di rivederlo tanto presto da quelle parti, sicuramente non appena un mese dopo la partenza di Emma.
Lui stesso era stato il più sorpreso da quel ritorno.
In cuor suo mai avrebbe creduto di poter rimettere piede in quel luogo tanto in fretta, e con la relativa e ammirabile dose di disinvoltura che aveva invece sfoggiato nel varcare la soglia. Ed era  certo che in fatto di incredulità si era trovato in ottima compagnia, avendola chiaramente letta negli occhi di David e Victor la prima volta che li aveva rivisti e per tutto il mese successivo. E d'altronde tutti e due, per i primi giorni, non avevano fatto altro che trattarlo con i guanti, muovendosi con la stessa cura e professionalità con cui tante volte aveva visto David  aggirarsi tra i detriti di una scena del crimine particolarmente cruenta, o Victor nella sala autoptica, e questo non aveva fatto altro che far crescere il lui il dubbio di stare agendo in maniera sbagliata o inopportuna, sebbene essere lì con loro gli apparisse, nonostante tutto, ancora come la cosa più naturale del mondo.
E alla fine aveva capito: al di là di lei, e di quello che loro erano stati lì dentro, in qualche modo quelle quattro mura erano diventate anche sue. In qualche modo, per quanto inizialmente fosse entrato da ospite in quel distretto, col tempo questo aveva finito per diventare anche la sua casa. 
E solo dopo la loro.
Era sempre stato certo che tornare lì avrebbe significato accettare l'idea di vedere tanta lei quanta ne aveva respirata in quei cinque lunghi anni, al punto da uscirne annientato. E in effetti era stato così, specie all'inizio.
I corridoi, l'ascensore, la scrivania.
Tutto parlava di lei... Eppure l'annientamento non era arrivato: in compenso erano arrivati, dolore, nostalgia, frustrazione e una buona dose di rabbia inespressa.
Si era così velocemente reso conto che, per quanto quegli spazi fossero pieni di lei, non lo erano meno di quelli del suo appartamento. Il distretto era solo un'altra casa da cui lei era andata via, ma non per questo l'assenza di Emma l'aveva resa meno sua. 
Questa cosa l'aveva rassicurato, e inondato di una nuova e tiepida iniezione di gioia. 
Anche lui aveva una casa. Un posto nel mondo. 
Rendersi conto che quegli ultimi anni gli avevano regalato, oltre ad un amore finito, anche dei veri amici, una scappatoia dalla sua quotidianità, la voglia e l'ispirazione per tornare a scrivere, gli aveva dato la forza per riprendere a frequentare quel mondo con regolarità.
Certo, ancora adesso passare accanto alla sua scrivania e non cercarla con lo sguardo gli costava fatica, come anche dura era perdere l'abitudine a fare due caffè anziché uno: quando questo capitava, per salvare le apparenze ed evitare gli sguardi carichi di sincero e pesante cordoglio dei suoi amici, fingeva di averli preparati per loro e andava a farsene un altro, o tutt'al più ne cedeva uno a qualche poliziotto di passaggio spacciandolo per un gesto programmato.
La verità era che lei era ancora troppo presente.
Troppo presente nei suoi gesti, nella sua mente, ma soprattutto nel suo cuore.
Era era stata la sua quotidianità. E lui l'aveva amata per abitudine.
Sembra una cosa sbagliata, detta così ma non lo è: aveva l'abitudine di alzarsi al mattino e trovarla accanto a sè. Aveva l'abitudine di conservare i post-it che lei lasciava attaccati al frigo o sulla sua scrivania. Aveva  anche l’abitudine di guardare la tv, leggere, scrivere, respirare, pensando che poi sarebbe finalmente arrivato il momento più bello della giornata: stare con lei. Aveva l’abitudine di immaginarsi di baciarla, all'ingresso, quando sarebbe arrivata. Aveva l'abitudine di realizzare quella fantasia. Aveva  l’abitudine di cedere alla sua voce, anche quando era arrabbiato. L'aveva amata per abitudine, ma il segreto era che, in fondo, ad Emma non si era mai abituato.
Dopo che se ne era andato, quella notte, non si sentiva soddisfatto.
Tutto quello che sapeva e che poteva sentire era il fantasma delle sue labbra sopra le proprie.
Nessuno gli aveva mai fatto tanto male quanto gliene aveva fatto lei. Nessuno era mai arrivato tanto vicino a strappargli l’anima dal corpo. Soltanto lei poteva far perdere un battito al suo cuore, impedire ai polmoni di respirare, e annebbiargli completamente la mente.
Avrebbe potuto provare uno strano senso di compiacimento, in fin dei conti aveva preso in mano le redini della situazione, se ne era andato prima che lei lo anientasse, e invece si sentiva a pezzi.
Uno schifo.
Senza nessuna richiesta, la sua mente letteraria implorò di rispondere alla domanda di Nietzsche.

“Cosa accadrebbe, se un giorno o una notte un fantasma venisse a prenderti nella tua solitarissima solitudine e ti dicesse: ‘Questa vita come tu la vivi e l’hai vissuta, dovrai riviverla ancora una volta e innumerevoli volte ancora’
… ti butteresti giù e strapperesti i denti e malediresti il fantasma che ti ha parlato? O hai forse vissuto un momento tanto tremendo che gli risponderesti: ‘Tu sei un dio e non ho mai sentito nulla di più divino.”


Nessuno lo aveva completato come lei. Nessuno gli aveva dato uno scopo come lei. 
Se il fantasma fosse arrivato nella sua solitudine più sola e gli avesse offerto l’opportunità di rivivere tutto, le risate, i tocchi, i sorrisi, il cuore spezzato, il dolore,  gli avrebbe detto sì in un battito.

Avrebbe dato tutto per provare ancora la sensazione della pelle sulla sua.
Per rivedere il suo sorriso.
Per rivedere lei.
Era il modo in cui alcune volte si mordeva le labbra dopo che l’aveva baciata. Lei non aveva assolutamente idea di farlo e lui non aveva intenzione di dirglielo.
Non voleva che diventasse un’azione consapevole. Era come se fosse un piccolo segreto tra lui e le sue labbra.

Era il modo in cui non aveva ancora idea di che colore fossero i suoi occhi perché a volte erano verdi e a volte nocciola e a volte grigi. Non poteva ancora abbinarli a un umore specifico e a una luce. Sembrava che cambiassero da soli, per essere sicuri che nessuno si dimenticasse mai che lei era un mistero.
Così quando gli sorrideva, poteva solo sorriderle di rimando. Il cuore non
poteva contenere tutta la gioia, il sollievo, la felicita e il ‘finalmente’, quindi traboccava in un sorriso.

La verità è che non passerà mai.
La verità è che Emma Swan sarà sempre la donna della sua vita, il suo amore più grande. 
Ha provato in tutti modi a farla uscire dalla sua testa, dal suo cuore, dalla sua vita. 
Ma niente. Lei rimane li, senza muoversi.

E Killian non capisce se questo sia un bene o un male.




Le serate al Rabbit Hole invece erano un'altra storia: in quelle ore era loro concesso di abbandonare chi i panni del medico, del poliziotto e del giornalista per tornare ad essere semplicemente tre amici riuniti di fronte a una buona birra, a parlare del più e del meno e magari sfidarsi a freccette. E per quanto si sforzasse, Killian faticava a ricordare serate del genere prima delle loro.
«Parlando di cose serie, Mary Margareth è incinta o no?»
Nell'ultima mezz'ora la conversazione aveva preso una strana piega, dando vita a un'accesa discussione tra Victor e David riguardo i pro e i contro delle lampade abbronzanti: Victor affermava che nessun  uomo avrebbe mai accettato di farsi innaffiare di colorante dentro una doccia, David invece si era dimostrato più aperto all'argomento affermando che anche gli uomini dovevano poter avere il diritto di non mimetizzarsi con la spuma del mare, senza per questo minare la propria virilità, sebbene lui giurasse di non averne mai provata una. Inizialmente Killian aveva partecipato divertito alla discussione, raccontando di un episodio del suo passato al college che coinvolgeva una ragazza particolarmente procace, un set di accappatoi trafugati da un hotel e una doccia abbronzante, per l'appunto. Quando però venti minuti dopo la discussione sembrava non aver ancora raggiunto un punto di svolta e gli animi avevano preso a surriscaldarsi, annoiato aveva iniziato a pensare a qualcosa che potesse distrarli e permettere di andare avanti con la serata. David era senza dubbio la preda più facile. Focalizzate tutte le sue attenzioni su di lui, non gli ci volle molto per ripescare dalla memoria l'aggancio adatto, l'unico argomento che sapeva avrebbe smosso nell'immediato l'animo dell'uomo: Mary Margareth.
E infatti basto quella domanda ad ottenere l'effetto sperato:al solo sentire il nome di sua moglie, il viso di David, prima serrato in un agguerrito cipiglio, si era immediatamente disteso in un sorriso raggiante.
«Ancora niente di certo, aspettiamo l'ecografia per dare la notizia. Non vogliamo sbilanciarci, sapete com'è»
«Sì, dillo alla tua faccia»
Il tono sarcastico di Victor sfogò gli ultimi strascichi di adrenalina rimasti dalla conversazione precedente, ma il suo volto rabbonito fece ben intendere la bontà delle sue intenzioni. E d'altronde, che lo ammettesse o no, Victor aveva sviluppato una sorta di adorazione per il piccolo Neal, per cui all'idea di un secondo pargolo era animato da una sincera ma ben celata eccitazione, specie perché tutti sapevano -senza bisogno di dirlo- che, il prossimo turno,  fare da padrino, sarebbe spettato a lui. Fatto che segretamente lo riempiva d'orgoglio. E a vederlo così entusiasta per una famiglia non sua, Killian proprio non riuscì a trattenersi dall'infierire sul suo raro lato sentimentale -né, a essere sinceri, ci provò.
«Di questo passo, una volta sposato dovrai impegnarti parecchio per raggiungerlo amico»
La battuta ebbe l'effetto desiderato, e Victor quasi si strozzò con la birra. L'urgenza di rispondere fu tale da spingerlo a parlare quando ancora non aveva smaltito il colpo, alternando le parole a colpi di tosse e schiarimenti di gola.
«Vacci piano, non che non voglia una famiglia ma prima vorrei potermi godere un po' di calma, si insomma, capite cosa intendo»
«Beh a guardare David sembra che una cosa non escluda l'altra»
«Beh, ecco... Oh, fatela finita!»
Ad essere imbarazzato era David  adesso, che sentendosi al centro del mirino, e privo di difese, si limitò a bere un generoso sorso di birra, scuotendo la testa. 
Le risate del gruppo soffocarono definitivamente, almeno per quella sera.
«Quest'ultimo giro lo offro io, ragazzi, e poi vado. Neal ha le coliche e ho promesso a Mary Margareth che oggi non avrei fatto tardi»
«La mogliettina ti tiene al guinzaglio, amico?»
«Ne riparliamo tra tre settimane, Victor»
Quest'ultima imbeccata di David suscitò l'ilarità di Killian ma non, ovviamente, quella di Whale, che si limitò a uno sbuffo, non trovando modo di controbattere.
«E a proposito di questo, so di non essere il tuo primo testimone ma vorrei comunque chiedere il permesso di organizzare io il tuo addio al celibato. Innanzitutto perché, in mano mia, è certo che ci divertiremo...»
Con fare presuntuoso, Killian sollevò un dito in aria, nell'atto di contare le innumerevoli ragioni per cui avrebbe dovuto poter prendere in mano i festeggiamenti. Chiaramente non fece in tempo a sollevare del tutto la prima nocca che venne interrotto dai commenti sarcastici dell'amico.
«Oh sì certo, perché ce lo ricordiamo tutti l'addio al celibato di David...»
«… Ok. Forse la cosa mi era un pò sfuggita di mano ma per farmi perdonare questa volta finanzierei io»
Un secondo dito si alzò a fare compagnia al primo, e negli occhi dei due amici Killian lesse che non avrebbe avuto bisogno di aggiungerne un terzo.
«Permesso accordato, amico»
«Meraviglioso! E a questo riguardo ho una domanda da fare: spogliarelliste sì o spogliarelliste no?»
«Sì Victor, cosa dice la sposa?»
Il tono di David era chiaramente ironico, teso ad affondare il coltello su una piaga aperta anni prima, ai tempi del suo di addio al celibato. Allora quella stessa domanda era stata posta a lui, e la sua risposta non era particolarmente piaciuta ai suoi amici.
Ma l'aveva sempre saputo, da quando aveva conosciuto Mary Margareth, che non sarebbe più riuscito a guardare un'altra donna nello stesso modo. Solo il pensiero lo disgustava. Per cui niente spogliarelliste. Una birra e i suoi amici erano tutto ciò voleva. Poi aveva avuto la pessima idea di affidare a Killian il compito di comprare gli alcolici e le cose erano andate un pò diversamente dal previsto. Era stata una serata epica, ma al mattino si era svegliato con i postumi di una sbronza colossale.
Accidenti a Jones e al suo cavolo di rum!
 La successiva mezz'ora passò così a discutere di dettagli come il cibo, la componente alcolica, questa volta sapientemente affidata a David, e soprattutto il dove organizzare il tutto, passando da location più comuni , ad altre più eccentriche, fino a quelle decisamente improbabili.
Se David a un certo punto non si fosse responsabilmente imposto di alzarsi, avrebbero facilmente potuto continuare a discuterne per ore. 
Salutato l'amico, i due reduci decisero per un ultimo giro prima di tornare anche loro alle rispettive case. Traendo vantaggio dalla scarsa clientela, Killian ne approfittò per versare da bere a sé e all'amico lui stesso, assecondando così la sua poco appagata passione per lo spillare la birra. Nonostante l'ora non troppo tarda, infatti, nelle sere infrasettimanali al Rabbit Hole non c'era mai particolare movimento. Era anche per questo che avevano scelto di riunirsi il mercoledì: ciò consentiva loro di stare più raccolti e di poter parlare senza il fastidio dell'eccessiva confusione tipica, invece, del weekend.
Killian  tornò al suo tavolo tenendo tra le mani due birre traboccanti di schiuma.
«E dire che sei Irlandese amico, non dovresti avercelo nel sangue?» commentò divertito Victor.
«  Spiritoso Whale, ma sai che preferisco il rum» 
Una risata increspò le loro labbra, che Killian soffocò tuffando le proprie oltre la coltre di schiuma del boccale, attendendo pazientemente che la birra sopraggiungesse a destinazione. 
Victor lo imitò e quando ne ebbe ingollata una generosa sorsata allontanò il boccale dal proprio viso.
«Giusto Jones, dimenticavo che affoghi i dispiaceri nell'alcool. Ma parlando seriamente, le cose come vanno? Successo qualcosa di interessante oggi?»
La domanda suonò strana alle orecchie di Killian tanto quanto il fatto che a pronunciarla fosse stato un tipo come Victor, raramente interessato alla quotidianità degli altri. 
Il chiacchiericcio era più una prerogativa sua, o tutt'al più di David, cui Victor si sottoponeva esclusivamente per necessità sociali.
«Niente di speciale, in effetti. Le solite telefonate minatorie di Regina, qualche commissione e poi ho cenato da Milah. È in giornate piatte come queste che mi manca il distretto»
«Se fossi costretto a sezionare corpi per otto ore al giorno, non ti mancherebbe, te lo assicuro. E con Milah come vanno le cose?»
«Con Milah va tutto benissimo, come sempre»
L'improvviso interesse mostrato dall'amico per la sua vita sociale iniziò a insospettire Killian che, indeciso su dove questi volesse andare a parare con le sue domande, settò il proprio cervello anticipatamente sulla difensiva, giusto per precauzione. Col senno di poi non si pentì della sua scelta.
«Hai presente quel tacito accordo tra noi, per cui quando siamo soli non si parla di Emma, mai in nessuna occasione? Bene, sto per romperlo, per quest'unica volta sia chiaro, dopodiché le cose torneranno come al solito»
«Che c'entra Emma adesso?»
«Andiamo amico, questo...» Victor si lasciò andare ad un ampio gesto della mano, a indicare la faccia di Killian e l'ombra funerea che l'aveva accompagnata per tutta la sera, nonostante i suoi evidenti sforzi di tenerla sottopelle «c'entra sempre con Emma. Per cui te lo chiederò una volta sola. Che è successo?»
Killian sembrò ponderare attentamente la situazione, indeciso se dar libero sfogo o meno alla fiumana di parole che, a quanto pareva, portava scolpita a chiare lettere sul volto da che era arrivato. Quantomeno con Milah era riuscito a non dare a vedere nulla.
Non che non si fidasse di loro, o che non volesse parlargliene, ma  non gli era sembrato il momento adatto, con tutta quella felicità che, tra la futura paternità di David e le imminenti nozze di Victor si respirava in quel gruppo ultimamente. Alla fine comunque, l'inaspettato presentarsi dell'occasione, lo sguardo di chi non ammetteva replica di Victor, e il sincero bisogno di formulare a voce alta i propri pensieri a qualcuno, lo convinsero ad aprirsi, non prima però di aver cercato coraggio in una nuova dose di birra ghiacciata.
«L'ho incontrata, il week-end in cui sono stato a Washington»
«Lo sapevo! Ma insomma Jones, che ti dice la testa? Perché diavolo sei andato a cercarla, cosa speravi di ottenere?»
«Ad essere sinceri è stata lei a presentarsi davanti al mio albergo, non l'ho cercata io! D'altra parte però non ho neanche girato i tacchi quando l'ho vista, quindi immagino di avere anche io la mia buona parte di responsabilità...»
«E che è successo? Perché dubito che il tuo malumore sia dovuto al semplice averla rivista, è una cosa a cui dovresti essere abituato ormai»
«No, infatti...»
Il capo di Killian si fece pesante, sotto il peso di immagini evidentemente più grevi delle precedenti. A Victor non sfuggì quel repentino cambio di atteggiamento, e avendo letto nel gesto dell'amico un totale crollo delle difese, abbandonò anch'egli i toni incalzanti mantenuti fino a quel momento, e gli lasciò invece il suo tempo per rispondere, attendendo pazientemente che mettesse in ordine le parole prima di proseguire.
«Abbiamo cenato insieme, non so neanche perché, ma inaspettatamente non è stato poi troppo strano , anzi è andata piuttosto bene... poi mi ha...mi ha invitato a salire ed io ho accettato. Abbiamo passato la notte insieme. Il giorno dopo sono ripartito. Anzi tecnicamente, la notte stessa»
«Wow... »
«Già, wow»
Quell'ultima parola lasciò l'amaro in bocca a Killian, che tentò di lavarlo via con un altro consistente sorso dal suo boccale.
«Non imparerò mai, ogni volta penso di essermela lasciata alle spalle e poi...»
Victor  ritenne di dover dire qualcos'altro, per evitare che il suo unico contributo a quella discussione consistesse in una serie di domande e in un lapidario monosillabo dalla scarsa utilità, tuttavia per quanto si stesse sforzando non riusciva a ripescare nella sua mente nulla di adatto alla situazione, o comunque niente che immaginava avrebbe potuto portare sollievo alla frustrazione evidente del suo compagno di bevute, cosicché alla fine ad uscire dalla sua gola fu l'ennesima domanda.
«Questo però è successo quasi un mese e mezzo fa, no? Quello che non capisco è perché tu ci stia ripensando proprio adesso»
«Prima di venire qui ho ricevuto una chiamata da un numero fisso sconosciuto. Io ero in bagno e ha risposto Milah, ma ha detto che all'altro capo non c'era nessuno...»
«E tu pensi che fosse lei?»
«Sono certo che fosse lei, Vic... ma tanto per non lasciare dubbi ho controllato il numero, il prefisso è di Washington. Chi altri potrebbe essere»
Non era una domanda la sua, ma una lucida constatazione.
«E Milah? Pensi sospetti qualcosa, è questo che ti preoccupa?»
«No, lei non sa nulla, non ha neanche fatto caso alla chiamata. E anche se fosse, detto sinceramente sappiamo entrambi che la nostra non è una cosa così seria da far sorgere preoccupazioni, non ancora almeno...»
Mentre ancora stava parlando, Killian vide la sua stessa mano sbattere violentemente il boccale sul tavolo, in un impeto di sfogo totalmente arbitrario che immaginò fosse dovuto alla rabbia che lentamente sentiva risalire lungo il proprio corpo, e che il suo braccio doveva aver colto prima ancora che questa divenisse accessibile alla sua coscienza.
«Perché fa così? Io davvero non riesco a capirla! Perché diavolo mi chiama? Non mi ha già fatto abbastanza male?»
«Beh in questa storia vi ci siete cacciati in due, però...»
«Lo so, maledizione! Lo so...» il tono si fece di nuovo pacato, e la frustrazione tornò a dominare sulla rabbia «Ma come hai detto tu è passato più di un mese, quindi perché adesso?»
«Non lo so, forse qualcosa l'ha fatta ripensare a..»
«No Victor, basta tentare sempre di giustificarla. La verità è che lei ha sempre fatto il bello e il cattivo tempo nella mia vita, a suo totale piacimento. E io l'ho sempre lasciata fare. Se ne va, poi torna, poi mi lascia, mi riprende... ora sono davvero stanco»
«Mi dispiace amico»
Non trovò nient'altro da dire, e in cuor suo sapeva che nulla comunque avrebbe mai davvero potuto sortire un qualche effetto positivo sull'umore di Killian. E in fondo, se lo aveva spinto a parlare non era per elargire consigli. Aveva sempre creduto in loro, in Emma e Killian, e ancora adesso nonostante tutto ciò che era successo, nonostante tutto il tempo che era passato e tutte le cose che erano cambiate nel frattempo, una parte di lui ancora credeva in loro.
Non era mai stato un tipo sentimentale, niente colpi di fulmini o anime gemelle: per lui l'amore erano semplicemente due persone che si incontravano, si piacevano e decidevano di stare insieme. Libero arbitrio, nessun intervento del destino. Se con una non andava allora ce n'era un'altra ad aspettarlo dietro il prossimo angolo, senza troppe complicazioni: non temeva la fine di una relazione, per importante che fosse, perché non credeva nell'esistenza di quella giusta. Esisteva solo quella del momento, quanto a lungo durasse quel momento, quella era un'altra storia. Con Ruby si augurava sarebbe durato per sempre.
Eppure più volte osservare Emma e Killian insieme aveva fatto vacillare le sue certezze: non sapeva se fosse stato per l'ostinazione mostrata da Killian  in tutti quegli anni in cui era rimasto al suo fianco, aspettando fiducioso una sua apertura, o per l'aver assistito in prima persona, giorno dopo giorno, al cambiamento di Emma, ma anche adesso, quel dolore ancora vivido nello sguardo dell'amico gli dava ragione di credere che non tutto era perduto. O forse era solo colpa del troppo tempo passato con Ruby, che in loro aveva riposto incondizionata fiducia sin da subito, prima ancora che quel rapporto assumesse connotati reali.
Senza più alcuna parola da poter essere aggiunta, entrambi lasciarono che il discorso cadesse, finché le ultime gocce di birra non furono smaltite in silenzio e arrivò il tempo dei saluti. Killian fu il primo a uscire dal locale, una pacca sulle spalle dell'amico e sparì dietro la spessa porta legnosa del locale, inghiottito dalle luci della città. Victor invece si attardò ancora qualche minuto, intento a esaminare una qualche riflessione apparentemente emersa dal fondo opalino del bicchiere, che giocava a far oscillare di fronte al proprio naso.
Poggiò con rassegnazione il boccale sul bancone, fece un cenno di commiato al barista, e afferrata la giacca se la buttò sulle spalle, sprofondando le mani dentro le tasche mentre anche lui si tuffava nell'umida sera NowYorkese.
La mano destra prese a frugare nel piccolo antro di tessuto in cui s'era adagiata fino ad estrarne il telefono. Digitò, senza neanche guardare, un numero sulla tastiera e attese che la chiamata rapida venisse inoltrata.
«Hey Victor, che succede?»
«Mi devi venti dollari amico»
«Cos... Oh, ma andiamo!»
«Consolati, in compenso io ne devo cinquanta a Ruby»
«Vuoi dire che... Loro hanno...»
«Sì»
«Che casino»
«Già, proprio un gran casino»



Care ragazze, ecccoci qui con il nuovo capitolo!
Lo so, ancora non si sono ricontrati, ma prometto che provvederò presto. Forse già nel prossimo capitolo....
Mi sembrava giusto lasciare un pò di spazio a Killian, dopo aver concesso ad Emma lo scorso capitolo.
Killian si è aperto con Victor, e si è tolto un peso dal cuore ma ha ancora bisogno di parlare con Emma di tutta la faccenda.
Vedremo cosa gli riserva il futuro.
Detto questo grazie come sempre a tutte voi, che siete fantastiche davvero. Grazie di cuore.
Un abbraccio, Elena.

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Capitolo 9
*** Cap9 ***


I don't believe that anybody feels 
The way I do about you now 

And all the roads we have to walk along are winding 
And all the lights that lead us there are blinding 
There are many things that I would 
Like to say to you 
I don't know how 

Because maybe 
You're gonna be the one who saves me 

( Wonderwall, Oasis)








Impazienza.
Se avesse dovuto dare un nome alla sensazione che in quel momento gli attanagliava lo stomaco, non sarebbe potuto essere altri che quello.
Evidentemente, calma e sopportazione non erano doti a lui congeniali. O più semplicemente non lo erano in quella situazione, in cui sussultare ad ogni rumore sembrava essere l'inevitabile condotta associata al suo ruolo di sposo agitato. 
Tentò di concentrarsi sulle pieghe della giacca -che ostinate continuavano a riapparire, a prescindere da quante volte lui vi passasse la mano sopra- e sul nodo della cravatta -fattosi improvvisamente opprimente-, ma ogni suo tentativo era vanificato dall'agitazione delle dita, incapaci di eseguire correttamente anche il movimento più elementare, e soprattutto dal mellifluo frastuono delle flûtes di vetro, che da quasi dieci minuti aveva preso a tintinnargli senza sosta nelle orecchie.
«Hey Jones, vacci piano! È già il quarto bicchiere quello»
Victor in aggiunta dedicò un'occhiata storta a Killian, in piedi accanto al piccolo rinfresco alcolico, le cui labbra si bloccarono a mezz'aria, l'attimo prima di potersi ricongiungere con l'orlo del bicchiere.
«Per favore, ricordati con chi stai parlando. Questo fegato ha visto tempi più duri...e migliori, in effetti»
Con fare scocciato Victor colse l'occhiata poco convinta che, nonostante tutto, l'amico aveva appena osato rivolgere al contenuto del proprio bicchiere, il cui sdegno non sembrava tuttavia trovare riscontro nelle sue azioni. Tornò così a dedicarsi all'altro uomo -quello agitato ed eccitato dentro lo specchio- giusto in tempo per sorprendere il riflesso di Killian a scolarsi in un unico sorso il resto del calice, con un'espressione di agitazione e aspettativa che aveva appena visto espressa a chiare lettere sul proprio di viso, e che vedere riflessa anche su quello dell'amico non gli piacque affatto. Soprattutto perché, nel suo caso, non la si poteva imputare all'imminenza di un matrimonio.
Quella cricca sparuta di neuroni dissidenti, che popolava l'angolino del suo cervello rimasto immune alla frenesia da matrimonio, continuava infatti a riproporgli a ondate informazioni non pertinenti compreso, tra le altre, il ricordo dei recenti avvenimenti tra due dei suoi più cari amici che -aveva realizzato con orrore quella stessa mattina- si sarebbero incontrati dopo mesi proprio al suo matrimonio. Quindi, in un moto di amaro compiacimento, dovette concludere che la sua preoccupazione nei confronti della labilità di controllo di Killian era del tutto giustificata. 
«Signori, è ora»
La porta della camera d'albergo si aprì e la testa dell'organizzatore -una pertica pallida dalla barba curata, avvolta in un elegante completo beige- fece capolino, facendo sobbalzare Victor, colto proprio nell'unico istante in cui -troppo occupato a riflettere- non aveva prestato orecchio all'avvicinarsi dei passi nel corridoio, che gli avrebbero consentito di realizzare che era ora di andare con almeno qualche secondo d'anticipo, così da potersi preparare mentalmente. 
Avendo sprecato quei preziosi istanti, fu costretto a respirare profondamente e contemporaneamente a camminare verso l'uscita; una doppietta che gli costò parecchia fatica.
Con le mani leggermente sudate d'eccitazione, si posizionò di fronte alla porta d'un passo indietro rispetto all'organizzatore, in attesa di un suo cenno per procedere finalmente fuori dalla stanza, lungo il corridoio, e poi giù per le scale fino al giardino, dove un gazebo e un'ottantina di invitati lo stavano già attendendo. Dietro di lui Killian stava prendendo posto, mentre un David già pronto e sorridente gli si era posto quasi a fianco, sostenendolo discretamente come ogni giorno da che erano diventati colleghi al distretto.
«Hai la pistola con te?»
«Certo che no, perché mai dovrei portarmi la pistola al tuo matrimonio?»
David gli rivolse un'occhiata confusa e sbalordita, indeciso su come interpretare quella richiesta. Gli fu tuttavia sufficiente seguire il suo sguardo, posatosi sullo scrittore alle loro spalle per un breve ma intenso istante, per capire.
«Giuro che se combina qualche casino con Emma al mio matrimonio, gli farò personalmente l'autopsia»

Febbraio nella Hudson Valley era un spettacolo mozzafiato. Di per sé sufficiente a giustificare la scelta di uno dei mesi più freddi dell'inverno New Yorkese per celebrare un matrimonio con rito all'aperto. All'orizzonte la natura si apriva libera e incontaminata in una vallata nebbiosa, spruzzata qua e là d'argento , ricordo forse di una recente nevicata. A chiudere quella conca erbosa, fitti filari d'alberi ancora sopiti sotto le spire brumose dell'inverno, attraverso cui il sole tentava faticosamente di filtrare, diffondendo nell'aria, quando vi riusciva, una luce soffusa e quasi eterea che riempiva gli occhi. 
Il rigido contrasto tra quella vista selvatica e la perfezione artificiosa del giardino dell'hotel non era che il coronamento di quel panorama, che contribuiva ad aumentare l'impressione di trovarsi in una piccola oasi di perfezione isolata in mezzo a un paradiso arboreo.
La sensazione di essere fuori posto, per una cittadina come lei, era però sempre in agguato. 
Così Emma, affacciata alla finestra della stanza adibita alla preparazione della sposa, si premurava di non indugiare troppo su nessun dettaglio che potesse farle prendere reale coscienza di dove si trovasse e del perché: onde evitare che il rientro in città -vista di sfuggita dal finestrino del taxi, un attimo prima di venire inghiottiti dal traffico delle strade provinciali- non fosse reso più traumatico dal distacco dal suo ambiente naturale, fatto di cemento e fumosità.
Privata dell'unica distrazione disponibile, il cambio d'abito, negli ultimi dieci minuti i suoi sforzi avevano però iniziato a far cilecca lasciando così campo libero ai pensieri che, come le foglie fuori dalla finestra, avevano preso a ornargli le centinaia di ramificazioni gemmatesi nella sua mente, mentre un alone di condensa iniziava ad appannare il vetro.
 Si sentiva come quell'alone: una presenza incorporea e quasi invisibile, dai contorni confusi, tenuta in vita dal gesto automatico del respirare e nulla più. 
In quel brusio indistinto di voci e di brindisi, e di pensieri turbinanti, le ci volle il suono rassicurante del proprio nome, pronunciato da una voce altrettanto rassicurante e familiare, per convincerla a riemergere da quell'apatico stato di quiete.
«Emma, cosa ne pensi?»
Voltate le spalle al vetro, una visione altrettanto ragguardevole le si parò davanti quando una splendida Ruby vestita di bianco raggiunse il centro della stanza, raggiante come poche altre volte nella vita. 
«Sei bellissima, Ruby»
Il sorriso sbocciato radioso sul volto della sposa raggiunse rapidamente anche le labbra di Emma, contagiando in breve tempo anche le altre donne presenti nella stanza ch s'erano unite al coro di complimenti inaugurato dalla damigella d'onore. Mary Margareth in particolare, complici gli ormoni, si sciolse in un appena accennato pianto di commozione che costrinse Belle, la storica compagna di università di Ruby, a intervenire prontamente con dei fazzoletti, onde evitare che il trucco dell'altra si distribuisse dagli occhi anche sul resto del viso. La scena ebbe il merito di smorzare la tensione del momento. Ne derivò che, quando la proprietaria dell'hotel si materializzò tra loro invitandole a seguirla, non ci furono altri pianti o contrattempi emotivi.
«Lo sposo la attende, signorina Lucas»
Sotto lo sguardo gioviale di Mrs Nasser, Ruby lasciò che Emma le appuntasse il velo, e si concesse un'ultima rimirata allo specchio prima di incamminarsi lungo il corridoio. Dietro di lei, il piccolo esercito di parenti, addetti e damigelle -Emma compresa- procedeva disordinato, col picchiettare dei tacchi sul parquet a far loro da colonna sonora. L'assembramento si ruppe non appena raggiunsero l'androne. Poteva già sentire il mormorio indistinto della gente verosimilmente assiepata lì fuori, appena qualche metro più avanti, in trepidante attesa del loro arrivo. Non aveva avuto modo di vedere l'allestimento finale, essendo arrivata quando ancora i camerieri stavano disponendo le prime sedie sul prato sotto il gazebo, e questo non fece che aumentare la sua ansia. Sarebbe riuscita a non cadere? Sarebbe stata capace di arrivare fino alla fine di quel tappeto di petali senza cedere all'impulso di scappare?
Vide signora Nasser allontanarsi con altri membri del gruppo e sparire oltre l'uscio, segno che la cerimonia sarebbe presto iniziata e che tutti, eccetto sposa e damigelle, dovevano affrettarsi a prendere posto. Ancora pochi istanti e la marcia nuziale avrebbe preso a suonare, segnalandole che era giunto il momento di aprire le danze. Si guardò brevemente intorno: accanto a lei ormai solo Mary Margareth, Belle, e Ruby ovviamente.
«Sei pronta?»
Ruby, profondamente concentrata sulla delicata operazione dell'alternare l'inspirare all'espirare, parve sobbalzare quando Emma si rivolse a lei, ma tutto il suo stupore morì rapidamente nella dolcezza di un nervoso sorriso sbocciato a fior di labbra.
«Credo di sì»
Emma le strinse con forza la mano, decisa a infonderle un coraggio di cui in verità non era certa di disporre attualmente, ma negli occhi di lei lesse la gioia e non ebbe dubbi che, a dispetto del suo tono incerto, il resto di Ruby era più che pronto a quel matrimonio. 
E lei, lei era davvero pronta a uscire lì fuori? La sua mente continuava a ripeterle di sì, ma le mani erano in chiaro disaccordo, intente a torturarsi e torturare il piccolo bouquet.
Il bouquet sbagliato, si disse, mentre l'aroma le invadeva prepotente le narici fino a farle girare la testa. 
No, non era pronta.
Fu un fruscio di stoffe a riportare la sua attenzione alla realtà e alla sposa -quella vera-, che sotto preciso ordine di Mrs Nasser era andata ad occupare l'ultimo posto di quella  passerella. 
Intercettata l'amica con lo sguardo, le rivolse un sorriso d'incoraggiamento, dietro cui nascose il senso di colpa che l'aveva di colpo investita, tentando di rimettersi addosso i panni della damigella d'onore e svestire quelli di qualunque cosa il suo cuore cercasse di farla sentire in quel momento. E tuttavia, un attimo prima che la musica la raggiungesse, quello stesso cuore si premurò di farle notare come, in realtà, non avesse avuto occasione di vederlo neanche una volta da che era arrivata all'hotel, così che quello di fronte all'altare sarebbe stato il loro effettivo primo incontro dopo mesi di silenzi, caricando quel momento di ulteriore attesa che, tirando a indovinare, avrebbe persino potuto superare quella di Ruby e del suo futuro sposo.
Il che, ridicolmente, la fece sentire ancora di più come la diretta interpellata di quella marcia nuziale che aveva appena iniziato a suonare. 
Percepì solo con gli occhi il cenno del capo della proprietaria che la invitava a muoversi, mentre la testa era troppo impegnata a ricordarsi di alternare ad ogni passo un respiro, onde evitare un'insufficienza d'ossigeno prima dell'arrivo.
Se Emma avesse potuto vedere Killian, avrebbe capito di non essere l'unica a provare la buffa sensazione d'essere lei la protagonista di quella corsa all'altare. Avrebbe visto le sue gambe impegnate in un'impercettibile quanto nervosa danza, di cui le mani, sfregate senza sosta l'una contro l'altra, scandivano il ritmo. Avrebbe scorto il disagio degli occhi, incapaci di fermarsi a riposare su un punto abbastanza agevole, costringendolo piuttosto a guizzare con lo sguardo a destra e a sinistra, incespicando ogni qual volta nel suo viaggio si posava erroneamente su di lei. E avrebbe poi notato i rapidi e intermittenti movimenti del suo torace quando, con profondi e spezzati respiri, riemergeva da apnee che non sapeva d'aver tentato, e l'espressione di irritato sgomento quando s'accorgeva d'esser ricaduto in un altro digiuno d'aria.
Se avesse potuto, ma non poteva. Poiché non alzò mai gli occhi, non finché non ebbe compiuto l'ultimo passo.
Procedette invece lungo la navata, aprendo la strada a Mary Margareth e Belle, e tutto ciò a cui poté aggrapparsi per evitare di crollare, e tradire così la propria agitazione, era il bouquet, stretto nella morsa d'acciaio delle sue dita. Ad ogni passo la ciocca in cima alla testa minacciava di sfuggire all'intricata tela dell'acconciatura, allentandosi sempre un po' di più, ed Emma avrebbe voluto redarguirla, interrompere il fastidio di quel delicato sfregamento contro la propria fronte, ma temeva che reggendosi con una sola mano al suo floreale appiglio alla realtà  sarebbe crollata. Quando infine giunse di fronte all'altare furono le sue gambe, immuni dalla schiavitù del cuore, a evitarle la pessima figura dell'occupare il posto ritualmente spettante alla sposa, di cui condivideva quantomeno lo stato d'animo, e a spingerla un po' più a destra nel posto che invece spettava a lei, semplice damigella d'onore. La fonte di tanta confusione le stava ora davanti, e pure con cinque metri e due sposi a dividerli, i loro sentimenti erano talmente ingombranti da schiacciare lo spazio circostante al punto da far quasi avvicinare l'altare e il prete, quel tanto che bastava a far sì che entrambi, nello sfarfallio di un istante, riconoscessero negli occhi dell'altro la consapevolezza curiosamente condivisa d'essere in un punto troppo pericoloso per loro, quasi sull'orlo di un burrone, in cui le uniche alternative erano tuffarsi o rimanere seduti ad aspettare. Forse per qualche minuto, forse per sempre.
La cerimonia per fortuna procedette comunque distesa e senza intoppi.
E talora qualche momento di commozione la spinse persino a concentrare la propria attenzione sui due protagonisti, per il resto ostinatamente ed egoisticamente concentrata su un altro di smoking, quello del secondo testimone.
Nonostante quella cura nello studiarlo però, non seppe mai se Killian si fosse tuffato o meno nel loro personalissimo mare emotivo. 
Quando il prete infine dichiarò Victor e Ruby “marito e moglie” la sua attenzione le concesse l'ultimo dei suoi rari scarti, consentendole di dare a quel momento -e ai suoi due amici- l'importanza che meritavano. Si commosse nel sorriso eccitato di Ruby, si sciolse nello sguardo umido di Victor, gioì nel vedere quegli sguardi e quei sorrisi fondersi nel primo loro, appassionato, bacio coniugale... Ma di nuovo, al separarsi di quelle labbra, sul sottofondo di uno scrosciante applauso generale, le sue ultime energie si dissiparono non nel battere le mani a tempo con gli altri, ma piuttosto nell'intercettare Killian ancora una volta, dipingendo quella scena finale con un ultimo loro sguardo.
E per un attimo negli occhi di lui riconobbe quello che erano stati.

Preceduti dai novelli sposi, gli altri cinque occupanti della scena si incamminarono infine lungo il corridoio erboso -per l'occasione improvvisatosi navata- tra petali di fiori e chicchi di riso. E per uno strano scherzo del destino, che spinse David -primo testimone- a intercettare Mary Margareth -seconda damigella- portandosi al suo fianco e catturandola in un abbraccio che valse loro il primo posto di quella passerella umana, l'ordine venne invertito ed Emma si ritrovò a camminare accanto alla persona più sbagliata: Killian.
Con poco spazio a disposizione e un'andatura confusamente accelerata, le loro dita finirono irrimediabilmente con lo sfiorarsi più e più volte ad ogni passo, in una scarica elettrica che l'attraversò da parte a parte: dalla mano destra a quella sinistra, ancora salda al bouquet. Quando infine mossero l'ultimo passo di quella sfilata, il primo impulso fu quello di separarsi: decisi e senza esitazioni, uno da una parte e uno dall'altra. Eppure, nell'istante in cui la brezza fredda di febbraio tornò a lambirle la mano, lì dove prima s'erano posate le sue dita, l'urgenza di prolungare quel contatto si fece di colpo più impellente di quella di sfuggirgli, prendendo la forma di un suono che, come un seme maturato nella gola, si fece strada verso alla bocca, fino a fiorire nel suo nome. D'altra parte quel suo bisogno non sembrò trovare riscontro in Killian che, pur fingendo di non averla sentita, non riuscì però a impedire alle proprie spalle di irrigidirsi prima di proseguire diritto per la propria strada, in una determinazione che Emma tradusse come il più chiaro degli inviti a non cercarlo.
Per un secondo valutò di assecondarlo in quella che, forse, si sarebbe rivelata la scelta migliore per entrambi.Conscia che l'impulso a parlargli era troppo forte per resistervi  un'intera giornata, così come quello di toccarlo e di guardarlo senza dover ricorrere a languide occhiate rubate, Emma continuò il suo inseguimento.
«Killian fermati, non puoi evitarmi per sempre. Dannazione Killian sto parlando con te!»
Stretti i pugni contro i fianchi lui accelerò il passo. E sebbene la sua andatura fosse alquanto affrettata, Emma non ebbe particolari problemi a stargli dietro, sebbene non fosse forte  di quella particolare abilità di correre sui tacchi che molte donne possedevano. Ma il suo passato come cacciatrice di taglie compensava ampiamente quella mancanza. Un'unica sosta in effetti la rallentò, quella necessaria ad abbandonare il bouquet sulla prima superficie che incontrò sulla strada, e che la costrinse a girare l'angolo con qualche secondo di scarto rispetto a lui: il proprio arrivo preceduto dall'ennesimo, perentorio, richiamo.
Fu allora che la vide.
Il sapore ancora fresco del suo nome sulle labbra, smorzato dall'amaro di quella visione: Killian, finalmente arrestatosi, accanto a quella che, senza ombra di dubbio, doveva essere Milah. Si bloccò a metà strada, seguendo l'esempio di polmoni e cuore che, solo dopo parecchi interminabili istanti, ripresero a pomparle  il sangue nelle vene.
La donna, di cui possedeva solo l'ombra tuttavia vivida di una voce, s'era ora vestita di un corpo tutt'altro che irrisorio, ornato d'un delicato vestito blu ardesia che contrastava armonicamente con l'incarnato luminoso e la chioma corvina. Riconobbe i tacchi vertiginosi con cui Killian l'aveva dipinta ai suoi occhi, in un portamento rilassato e sereno con cui lei non riusciva a immedesimarsi, specie immaginandosi accanto a lui, che era  sempre stato capace di d'investirla d'una agitazione particolare.
Concessasi un paio di secondi supplementari per smaltire lo shock, comprese di colpo la fretta dell'uomo come se improvvisamente ne condivise l'urgenza di sospendere ogni loro contatto. Tuttavia il modo tutt'altro che discreto con cui aveva chiamato in precedenza il suo nome, le fece realizzare con orrore che non solo non sarebbe potuta sparire senza destare sospetti, ma che aveva pergiunta attirato anche l'attenzione di Milah, la quale aveva preso a guardare nella sua direzione con un cipiglio curioso in volto.
«Killian, tesoro. Credo che quella donna laggiù ti stia cercando»
Come paralizzata, Emma rimase ferma nella sua posizione a osservare il dito della donna alzarsi e puntare diritto verso di lei, seguito subito dopo dal viso di Killian che, ormai in trappola, non poté fare a meno di voltarsi a guardarla.
«Oh, Emma, sei qui!»
Il tono di finta noncuranza di cui si vestì quella frase la colpì con tutta la forza e l'irritazione di un pugno allo stomaco, mentre una parte di lei -quella razionale- lo stava invece ammirando per il modo encomiabile, e apparentemente disteso, con cui era riuscito a dissimulare l'intera faccenda. 
Avrebbe voluto picchiarlo.
D'altra parte lei, del tutto impreparata a quell'incontro, dovette fare appello a tutte le sue forze per decidersi a muoversi e ad uscire da quell'impasse alquanto imbarazzante. E mentre malvolentieri si apprestava a raggiungerli, si dette della stupida per non aver considerato quell'eventualità, che in realtà era più una certezza considerato che, essendo perfettamente al corrente che stavano ancora insieme, il portare al matrimonio la propria fidanzata -e qui il cuore di Emma fece una capriola- sarebbe stata una mossa più che ovvia da prevedere.
«Devi scusarlo, è sempre così distratto»
«È vero, ma potrebbe essere anche colpa di tutti quei brindisi con i ragazzi, prima della cerimonia»
Una risata cristallina si levò dalla donna di fronte a lei, stemperata dal sommesso sorriso del suo compagno, ed Emma si sentì in dovere di partecipare a quel surreale scambio di ilarità, sorridendo a sua volta nel modo più naturale possibile.
«Comunque io sono Milah, piacere. La fidanzata dello svagato, qui presente. E tu se non sbaglio sei una delle damigelle della sposa...»
«Sì, piacere Emma Swan»
«Oh ma certo, Emma! L'amica di Ruby che lavora a Washington! Ho sentito dire grandi cose sul tuo conto»
L'entusiasmo sincero con cui furono pronunciate quelle parole la lasciò di stucco, certa che quel primo incontro si sarebbe consumato sotto il segno della circospezione e del disagio, e non dell'aperta cordialità. Eppure il suo super potere ed il suo buon senso non colsero alcun segno di ipocrisia nel suo atteggiamento né altro di avverso, se non un'eccessiva espansività tipica di quella categoria gente solare e genuinamente spensierata, di cui Emma aveva sino ad allora ritenuto Mary Margareth l'unica sopravvissuta rimasta. 
Nel ringraziarla di quei complimenti, Emma continuò comunque a soppesarne le parole, indecisa se sentirsi più lusingata o più svilita dalla poca apprensione che quella donna sembrava nutrire nei confronti del suo passato con Killian. Qualche altro minuto e un paio di frasi scambiate, la portarono infine a concludere che con tutta probabilità Milah non avesse idea di che lei fosse -o fosse stata- per Killian, certa che tanta spigliatezza non sarebbe potuta essere naturale neanche in una personalità del genere. E di nuovo Emma si sentì combattuta tra due sentimenti contrapposti: tra il sollievo cioè d'essere scampata a un incontro potenzialmente molto imbarazzante, e lo strano risentimento repentinamente maturato nei confronti di Killian, che sembrava non aver ritenuto il loro passato qualcosa di sufficientemente importante da metterne a parte la nuova arrivata.
«Scusatemi è il lavoro, devo rispondere. Torno subito»
Lo squillo di un cellulare giunse a mettere fine a quel surreale quadretto di vita sociale, costringendo Milah ad allontanarsi e contemporaneamente Emma e Killian ad avvicinarsi in un inevitabile e necessario confronto.
«Lei non hai idea di chi io sia, vero?»
«No»
«Come è possibile che non sappia nulla di...di noi?»
«Quando l'ho incontrata era già da un pezzo che non esisteva più un noi, Emma»
«In ogni caso complimenti per la recita. Se ti va male con la scrittura potresti avere un promettente futuro come attore. Una performance davvero brillante »
« Swan.. »
«Lascia perdere Killian, hai già detto abbastanza. Non abbiamo nulla di cui parlare, da molto tempo ormai.»
Si erano guardati negli occhi e poi Killian aveva annuito, abbassando il capo e lasciandola sola con i suoi pensieri. 
Non lo aveva neanche sentito andare via. Le sue parole, quel "Oh, Emma sei qui" pronunciato con tanto distacco, risuonavano ancora prepotentemente nella sua mente.
E le venne la nausea al solo ricordo di quando quelle parole erano già state pronunciate in precedenza.


Era in mutande quando arrivò la telefonata.
Era mattina presto, prima che uscisse per andare al lavoro: rispose più per curiosità che per altro.
Non riconobbe il numero e il  display del telefono le disse che la chiamata proveniva da un'altro stato.
" Emma?"
" Si?" la voce era vagamente familiare, ma non la riconobbe.
" Sono Robin Locksley. Un amico di Killian, ci siamo visti qualche volta" Robin viveva nel Maine ed Emma non aveva la minima idea del perchè l' avesse chiamata.
" Si, certo. Mi ricordo. Perchè.. come...cosa posso fare per te?"
" Beh...Killian mi ucciderebbe se sapesse che ti ho chiamata, ma stamattina è morto suo fratello Liam..."
Fece cadere lo spazzolino già ricoperto di dentifricio nel lavandino.
" Cosa è successo?" Il tono di Emma fu di pura incredulità. Il fratello di Killian era giovane e in salute per quanto ne sapesse.
" Avvelenamento, o almeno così pare....è caduto privo di sensi durante una missione, lo ha rinvenuto il suo tenete in prima...ma il motivo per cui ti chiamo in realtà è  Killian. 
Io... sono preoccupato per lui Emma... e lui mi ha parlato  spesso di te, perciò, ho pensato..non è che tu potresti-"
Non lo fece neanche terminare. " Certo che si, dove è?"
" Al St. Mary, a Mequon."
" Vado subito"
Telefonò al lavoro per darsi malata e si infilò dei vestiti.
Non riusciva a pensare ad altro che a raggiungere Killian.
L'ospedale era piuttosto lontano ed Emma dovette usare tutta la sua forza di volontà per non premere l'acceleratore a tavoletta. Arrivò comunque in tempo record e chiese di Liam Jones al punto informazioni.
L'ascensore era incredibilmente lento. Desiderò di aver preso le scale e si piazzò davanti alle porte in acciaio per schizzarne fuori, non appena si fossero aperte. Il cuore le martellava nelle orecchie mentre cercava la stanza 122. Che numero stupido pensò. Quando la trovò bussò delicatamente. Non rispose nessuno. Aprì la porta e sbirciò la di là della tenda. Liam era immobile sul letto, con il colorito terreo tipico dei morti. Un innaturale colore violaceo gli ornava le palpebre chiuse e le giunture. Emma distolse lo sguardo dalla salma immobile, e si concentrò su Killian. 
Non riusciva a vederlo in viso. Era piegato in avanti, le mani strette intorno ad una di Liam, la testa tra le braccia. Oscillava lievemente.
Il  cuore di Emma andò in frantumi nell' esatto istante in cui i suoi occhi si poggiarono su di lui.
Sapeva che Liam era l'unica persona che gli era rimasta al mondo.
E sapeva cosa significasse quando quella sola persona ti viene strappata.
Per la prima volta Emma si sentì impotente davanti a quella scena, davanti a tanto dolore. Si sentì inadeguata davanti alla morte.
Quella era la sola famiglia che Killian avesse, ed lei di famiglia non ne sapeva niente, si disse.
Ma era lì per lui. Non voleva lasciarlo solo più di quanto già non fosse.
" Killian" sussurrò, facendolo sobbalzare.
" Emma..." sollevò lo sguardo su di lei. Era assente. Aveva gli occhi arrossati e umidi. 
Emma riconobbe quello sguardo.
Vederlo così faceva male, un dolore quasi fisico.
" Mi dispiace" Era stupido lo sapeva, ma erano le uniche parole che le erano venute in mente. Si maledisse mentalmente per questo.
" Come?..." 
" Robin mi ha chiamata"
A quel punto Killian si alzò e si diresse verse di lei barcollando, i suoi passi incerti spezzarono il silenzio di quella stanza. 
Rischiò di perdere l'equilibrio Emma quando lui si appoggiò di peso su di lei, iniziando a singhiozzare.
Per un attimo lei trovò surreale quella scena, poi sentì tutto il peso del suo corpo, le sue mani sulla schiena che stringevano forte il tessuto della sua giacca, la sua testa poggiata nell'incavo tra la spalla e il collo, le sue lacrime che le bagnavano i capelli. 
Killian si accasciò tra le sue braccia ed Emma scivolò a terra con lui.
Lui si sostenne su di lei, e in quel momento fu Emma il bastone, Emma la freschezza, Emma l'illusione diabolicamente irrealizzabile di un'altra vita.
Restarono stretti in quell'abbraccio disperato e doloroso per un tempo indecifrabile, lì sul pavimento di quell'asettica stanza d'ospedale.
"Mi dispiace, non sai quanto mi dispiace" ripetè Emma, le sue parole attutite dalla spalla di Killian. Avrebbe voluto avvolgerlo con il suo corpo per assorbire un pò del suo dolore.
Lui sentì le sue carezze sulla nuca e rabbrividì.
Fu proprio quel brivido a ridestarlo.
" Sei qui" disse. " sei venuta"
" Certo" 
" Grazie"

Emma in quel caso fu la sua personale salvatrice.
Lei era lì quando vennero date tutte le disposizioni e il corpo di Liam fu portato in obitorio.
Era lì quando venne celebrato il funerale. Quelli delle persone giovani sono un assurdo mix di ricongiungimenti gioiosi e terribili momenti di tristezza.
E fu lì anche  quando Killian si issò la bara del fratello su una spalla insieme ad altri tre sergenti della marina mercantile.
Durante la cerimonia Emma strinse la sua mano nella propria, intrecciando le loro dita. E Killian si aggrappò a qeul gesto con tanta ostinazione dal non lasciarla neanche dopo, continuando a stringerle la mano anche quando alcuni amici gli si avvicinarono per porgergli le tradizionali condoglianze, trasformandola in una specie di aquilone umano.

Dormì con lui sul divano in salotto quando lui si rifiutò di dormire nella sua stanza.
Emma lo aveva trovato davanti alla porta della camera con  lo sguardo fisso sul piumino buttato sgraziatamente da un lato per la foga di uscire dal letto molte ore prima.
Lui aveva appoggiato la testa sulle sue gambe, stringendo un braccio intorno a suoi fianchi ed lei gli aveva appoggiato l'interno del polso sulla fronte.
Era caldo ma non aveva la febbre, in ogni caso gli posò le sue dita perennemente fredde sulla pelle e si piegò su di lui, poggiando la guancia all'altezza della sua vita.
Passarono così la prima notte e molte delle successive.
Ed Emma non fece mai domande, si limitò ad esserci.
Ci fu quando Killian decise di mostrarle le foto di Liam, di parlarle di lui, e quando si sentì pronto a fare l'amore con lei.
Il sesso fu breve e intenso. Alla fine erano entrambi ricoperti di sudore e di lacrime ed ansimavano di quel genere di respiri pesanti che sembrano non dover tornare più alla normalità. Emma si aggrappò alle sue spalle sentendo i muscoli indolenziti protestare conto lo sforzo a cui li aveva sottoposti, al punto che le tremavano le cosce ed era difficile tenerle legate sua vita.
"Grazie di essere qui" le aveva sussurrato Killian, per l'ennesima volta in quei giorni.




Care ragazze, ecco il nuovo capitolo.
Ora per favore non odiatemi...so che vi avevo promesso che in questo capitolo si sarebbero rincontrati, e in effetti lo hanno fatto, ma per i chiarimenti ancora non c'è stato spazio.
Che altro dire? Come sempre rinfrazio di cuore tutti coloro che leggono, recensiscono e inseriscono la storia nelle varie categorie, siete davvero il cuore e l'anima di questa storia.
A presto, Elena.

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Capitolo 10
*** Cap10 ***


We crossed the line 
Who pushed who over? 
It doesn't matter to you 
It matters to me 

We're cut adrift 
We're still floating 
I'm only hanging on 
To watch you go down 
My love 
(So cruel, U2)


Da quando Killian l'aveva lasciata da sola in mezzo al giardino, Emma aveva deciso di interrompere ogni contatto sociale con chiunque. Una decisione temporanea la sua, e terribilmente egoistica -ne era consapevole-, ma necessaria affinché nessuno si accorgesse dei suoi occhi rossi e le chiedesse spiegazioni. Un ritiro preventivo, atto a proteggere il giorno di Ruby e Victor dai suoi problemi, ma soprattutto a preparare lei -era inutile negarlo- al prossimo inevitabile incontro con Killian. 
Per tutta la durata dell'aperitivo, allestito nel piccolo portico adiacente al luogo della cerimonia, Emma s'era dunque rifugiata in un angolino appartato, l'unica eccezione era consistita nella rapida e calcolata incursione al tavolo delle bevande, grazie alla quale si era accaparrata il gelato calice di vino bianco, ora custodito gelosamente tra le proprie dita.
I suoi venti minuti di tranquillità vennero  fatalmente interrotti dall'arrivo di David, una presenza tuttavia neutrale, che Emma si scoprì sinceramente lieta di accogliere nella propria solitudine.
«Emma!»
«David, ciao!»
Abbandonato il suo tesoretto alcolico per un istante, Emma scese dal muretto su cui era appollaiata per arricchire quel saluto di un allegro abbraccio, che l'ex collega non tardò a ricambiare. Un gesto inusuale per loro, ma giustificato da una lontananza prolungata a cui nessuno dei due, a dispetto del tempo trascorso, era ancora totalmente abituato.
«Ti trovo benissimo!»
Si separò da lui per concedergli una rapida occhiata, mentre il suo corpo aveva già riguadagnato posizione nel suo sedile di fortuna e presa sul bicchiere di vino. Non passò molto tempo prima che l'amico, liberatosi dell'impaccio della giacca, arrivasse a farle compagnia sedendosi a sua volta.
«Anche tu sembri in forma, un po' stanca forse... A Washington vi fanno faticare, eh?»
L'ultima frase venne palesemente aggiunta per smorzare la profondità di quell'appunto sulla stanchezza, che Emma imputò alla vista del suo sguardo, evidentemente ancora non del tutto scevro di lacrime. Una premura che apprezzò particolarmente, avendo colto in essa la preoccupazione dell'uomo per il suo stato  e al contempo tutta la delicatezza e la discrezione che facevano di David l'amico fraterno che era.
«Diciamo che a volte rimpiango New York»
«Posso immaginarlo, anche se credo che Washington ti porti a idealizzare un po' troppo  New York... Forse lo hai scordato ma anche qui i criminali sanno essere particolarmente creativi, se vogliono»
Quello scambio di battute si perse in una risata condivisa, che andò a riempire lo spazio vuoto di cui Emma  aveva faticosamente tentato di circondarsi fino a quell'istante.
« Mary Margareth mi ha detto, congratulazioni. Sarai eccitatissimo all'idea di diventare di nuovo papà, immagino»
«Grazie! In effetti sono emozionato. Non pensavo che dopo quello che ci ha fatto passare Neal i primi tempi sarei stato così ansioso di tornare ad avere a che fare con le notti insonni tanto presto... ma a quanto pare  mi sbagliavo»
Un'altra risata tornò ad increspare le labbra di Emma, fomentata dalla smorfia comparsa indisciplinata sul viso dell'amico, probabilmente al ricordo dei suoi drammi neo-paterni.
«Ah, eccovi voi due!»
«Mery Margareth!»
La conversazione venne interrotta proprio dall'arrivo di Mery Margareth, quasi fosse stata richiamata dalle loro parole. Approfittando dell'ilare distrazione dei due, si era infatti avvicinata a loro con discrezione, ed era passata inosservata finché lei stessa non si era annunciata parlando. 
David,  gettata malamente la giacca su una spalla, non aveva sprecato neanche un attimo per balzare giù dal muretto e guadagnarne il fianco. 
Adesso che l'aveva di fronte, Emma si prese qualche minuto per studiarla, con una cura che non aveva potuto prestarle prima: la pancia non era che accennata, una lieve curvatura sulla striscia di tessuto che le avvolgeva il ventre; sarebbe facilmente passata inosservata a chi non vi avesse ricercato intenzionalmente i segni d'una gravidanza, come lei. E tuttavia il suo viso era più eloquente di qualunque rotondità, roseo e florido come appena baciato dal sole, nonostante  fosse  inverno: una stagione tutt'altro che coerente con la solarità che sprigionava da ogni poro della sua pelle. Nel guardarli adesso, con David a cingerle la vita con un braccio, in un inconsapevole abbraccio protettivo, Emma fu colta da un inatteso moto di tenerezza, fiera, e quasi onorata, di esser stata testimone di quell'amore fin dai suoi albori.
Quando David le aveva presentato Mery Margareth non aveva potuto fare a meno di adorarla.
La aveva accolta in famiglia, ed Emma non avrebbe mai smesso di esserle grata per questo.
Si era sempre sentita a casa con loro. 
Erano uno di quei  rari casi nella vita in cui due persone sono destinate a trovarsi, perchè non potrebbe essere altrimenti.
«Il pranzo sta per essere servito, Ruby e Victor mi hanno chiesto di venirvi a chiamare»
«Grazie, tesoro. Vogliamo andare allora?»
David aveva posto quella domanda principalmente ad Emma, ancora indugiante sulla soglia del suo rifugio. Non c'era scelta, doveva seguirli. E del resto non avrebbe potuto nascondersi lì tutto il giorno, né voleva farlo, dopotutto. Forte di una nuova determinazione -per cui, per qualche motivo, sentì di dover ringraziare David- si decise quindi ad alzarsi e a seguirli oltre il giardino, dentro la sala ricevimenti dove la festa li attendeva.



A dodici anni aveva condiviso la sua stanza, in orfanotrofio, con alcuni bambini polacchi. Un paio di ragazzini appena più piccoli di lei erano invece serbi, e poi c'era una bambina russa.
Superate le difficoltà delle barriere linguistiche, grazie a quella particolare capacità, tutta infantile, di non notare le diversità altrui percependole come un problema, s'erano lanciati in avventure che non richiedevano necessariamente l'uso della parola, finendo con l'instaurare una singolare afona amicizia. Ad occupare i loro pomeriggi era stato in particolare  un gioco noto come “Lupus”.
Con il peso di troppi anni a gravarle sulla memoria, Emma non era certa che avrebbe saputo prendervi parte adesso con la stessa abilità di allora, e tuttavia i ruoli almeno le erano rimasti ben impressi per la loro particolarità: a seconda della carta estratta, vi erano i semplici passanti, i lupi -il cui obiettivo era quello di eliminare ad uno ad uno i primi con un abile e discreto gioco di sguardi-, e il cacciatore, chiaramente votato alla ricerca dei suddetti predatori.
Mentre la portata principale del pranzo veniva consumata, Emma continuava a pensare a quel gioco e, pur non capacitandosi del perché, aveva il forte sospetto che quella passeggiata lungo il viale dei ricordi avesse a che fare con l'intensissima guerra di sguardi che si stava compiendo a quel tavolo da quasi due ore, da quando cioè ognuno aveva preso posto scoprendo la carta assegnatagli. Si era così venuto a instaurare un inquieto equilibrio: loro due, inevitabili membri dello stesso branco, intenti a scambiarsi occhiate eloquenti e sguardi fuggevoli ma fin troppo insistenti, in un'evidente distorsione delle regole, tale per cui non minacciavano di morte gli astanti ma sé stessi e il proprio autocontrollo. E il cacciatore tra loro, nelle rassicuranti e voluttuose vesti di Milah, inconsapevolmente preposta alla ricerca di una comunicazione che neppure sospettava esistesse, confidente in una ferrea sicurezza di sé o semplicemente nell'ignoranza circa il passato di Killian e della donna che gli sedeva di fronte. E così, a parte loro, nessuno dei presenti sospettava nulla, vittime tutte inconsapevoli di quel conflitto a fuoco tra iridi che avrebbe facilmente potuto trasformarsi in un massacro se solo una piccola scintilla di consapevolezza avesse attraversato gli occhi del cacciatore.
Ma l'attenzione di tutti i presenti venne catturata quando si levarono sopra il festoso frastuono di stoviglie, posate e chiacchiere gioviali, le  note di un lento, ad inaugurare il primo ballo degli sposi.
 Dal fondo della sala emersero quindi Victor e Ruby, i quali un po' impacciati, una per l'abito l'altro per l'agitazione, raggiunsero il centro della sala, incoraggiati dal calore e dagli applausi dei tavoli intorno.
Emma pensò che vederli in quella veste, di sposi e ballerini insieme, era uno spettacolo nuovo e attraente, specie perché mai, anni addietro, avrebbe potuto immaginarseli così: felici e innamorati, cullati dalle note di una canzone così lenta da scontrarsi con l'effervescenza delle loro personalità.
Con il passare dei minuti tuttavia  lo scenario cambiò, e alla coppia principale se ne aggiunsero pian piano tante altre, finché i tavoli non iniziarono a svuotarsi e la pista a riempirsi. E al cambiare dello scenario, arricchito di volta in volta da nuovi protagonisti, anche i ritmi cambiavano, con un frizzante altalenio tra motivi dance e melodie romantiche che in breve contagiò quasi la totalità della sala. Compresi Killian e Milah. 
Nel vederli alzarsi, mano nella mano, e prendere poi a loro volta parte alle danze, Emma si sentì trafiggere al petto, per l'ennesima volta quel giorno. 
Se già doverli osservare a tavola era stato un boccone duro da digerire, adesso doverli guardare piroettarle gioiosamente davanti agli occhi si stava rivelando quasi impossibile da sopportare.
Indugiò nell'alzarsi per il semplice fatto che la sua posizione attuale le garantiva una certa discrezione, essendo rimasta da sola a quel tavolo, tale da permetterle di poter continuare a godere della vista di Killian senza timore di essere scoperta, approfittando della confusione generale da cui tutti sembravano distratti. 
Tutti, tranne Killian, che di tanto in tanto, quando la folla lo permetteva, spiava oltre la spalla della sua compagna per restituirle lo sguardo, con un intensità che valeva più di qualunque parola Emma avrebbe potuto sperare di sentirsi dire da lui. 
Desiderio, questo leggeva infatti nei suoi occhi. Desiderio e turbamento.
E per quanto si ripetesse che non era possibile -sereno com'era tra le braccia di Milah- e che, anche essendo vero non avrebbe fatto alcuna differenza per loro, Emma non riusciva a smettere di crogiolarsi in quella consapevolezza. La consapevolezza che dopotutto, per quanto  l'avesse definita una storia semplice, quella di Washington -lungi dall'essere semplice- era una ferita ancora aperta. 
Fu proprio quel ricordo a farla desistere da ogni proposito. Qualunque idea malsana stesse tentando di affacciarsi alla sua mente, venne spazzata via, fornendole la dose di dolore necessaria ad alzarsi dalla sedia. Un'ultima occhiata languida, sfuggita erroneamente al suo controllo, andò a colorare i suoi occhi, riflettendosi poi in quelli dell'uomo,e certa che a lui non fosse sfuggita, Emma accelerò il passo, fuggendo letteralmente dalla sala.
Varcata la soglia, ben poche prospettive le si aprirono davanti e, visto il rossore che le infiammava le guance, concluse che il bagno sarebbe stata una scelta più idonea del giardino. La prospettiva di rinfrescarsi si tramutò infatti in un'urgenza, e raggiunta rapidamente la toilette, aprì al massimo il rubinetto del piccolo lavello in marmo, lasciando che il getto d'acqua fredda le imperlasse le dita. Lentamente prese poi a picchiettarsi la faccia con le mani umide, non potendo permettersi di sciacquarsi davvero considerate le quantità di trucco che aveva addosso. Quando alzò il capo per incontrare il riflesso nello specchio, ringraziò di non riuscire a distinguere se quelle sul suo viso fossero lacrime, gocce d'acqua o un insieme di entrambe. Il suo orgoglio non avrebbe retto a un altro pianto.
Le ci vollero parecchi minuti prima che si sentisse pronta a uscire e tornare alla festa, e quando finalmente si disse soddisfatta del suo aspetto e predisposta ad un secondo round, si augurò con tutto il cuore che il momento delle danze si fosse concluso.
Avrebbe preferito mille volte doversi sorbire la faccia di Milah di fronte a un buon pasto, che vederla ancora abbarbicata a Killian. Troppo presa da quei pensieri, si accorse a malapena della presenza appostata fuori dalla porta del bagno, e saltò in aria quando una mano le planò con violenza sul braccio, afferrandola con una forza e un' urgenza non necessarie.
«Killian, fermati. Mi fai male!»
«Vieni con me»
Il tono della sua voce era duro e perentorio, quanto la presa sul suo braccio.
Nella concitazione del momento, Emma pose tuttavia in secondo piano il dolore che aveva preso a irradiarle l'arto, cercando piuttosto di capire il perché di quel gesto, e soprattutto di indovinare le intenzioni di Killian, ora che aveva preso a trascinarla per il corridoio, verosimilmente verso le scale.
«Si può sapere dove mi stai portando?»
La voce le uscì meno combattiva di quanto avrebbe voluto, ma a giudicare dallo sguardo febbrile che gli illuminava gli occhi, Emma dubitò che il tono di voce avrebbe potuto sortire alcuna differenza: parlare non sembrava infatti essere una priorità per lui, attualmente troppo concentrato a trascinarla al piano di sopra. Solo quando raggiunsero una stanza nell'ala destra dell'hotel -in cui lei non aveva mai messo piede, ma che tirando a indovinare doveva aver ospitato il cambio d'abito dello sposo-, Killian  finalmente si decise a lasciarla andare, non prima di averla spinta al suo interno e d'essersi richiuso la porta alle spalle.
«Si può sapere che ti è pres-»
«Dobbiamo smetterla Emma! Dobbiamo smetterla ora! Smetterla di fare.. questo! Io neanche so cosa sia ma dobbiamo finirla! Tu devi smetterla Emma. Non mi hai voluto, cos'è cambiato adesso? Cos'è ti diverte vedermi tornare da te ogni volta, sapere di avermi in pugno per poi distruggermi? Schiacciare il mio cuore tra le tue mani fino a ridurlo in polvere, dannazione? Tu hai deciso di andartene Emma! Che diritto hai di rimpiangerlo adesso? Che diritto hai di... questo!»
Vide la sua mascella fremere e le labbra tremare, pressate l'una contro l'altra con tanta violenza da ridurle a nient'altro che una sottile fessura nel suo volto. Le mani, strette a pugno, caddero pesanti lungo i fianchi rendendo la sua figura ancora più rigida, e lo sguardo s'impregnò di rabbia, incupendosi.
In poche altre occasioni aveva visto Killian in quelle condizioni, ancora meno erano state quelle in cui una tale rabbia era stata diretta verso lei. Persino nelle loro peggiori litigate, l'ira era sempre stata stemperata da un'amorevolezza di fondo e dai silenzi, di cui loro erano abili fruitori: altrettanto incisivi delle parole certo, ma meno violenti. 
Prevedere cosa sarebbe venuto dopo, fu dunque per Emma impossibile.
E poi d'improvviso quella furia lui gliela scaraventò addosso. 
Nella violenza della sua presa, nel modo rude in cui la sollevò, nella mancanza di accortezza con cui poi la depose sulla superficie fredda del ripiano. Anche quei baci, appassionati e roventi, di cui la stava adesso inondando sapevano solo di sangue e di disperazione. Nulla a che vedere con la tenera e struggente passione che li aveva sorpresi a Washington mesi prima: quella che stava per consumarsi adesso era la resa dei conti, in tutta la sua ferocia.
In quella foga, nel veemente sollevarsi della gonna, ostacolo inaccettabile, lei e Killian non si stavano preparando a fare l'amore, stavano litigando, si stavano odiando... Dando voce a quel confronto necessario, ma non per questo meno doloroso, che lei aveva cercato sin dalla fine della cerimonia, e che lui le aveva  negato fino ad ora.
Il corpo di lui era adesso completamento adeso al suo, talmente vicino che Emma poteva indovinarne ogni curva e sporgenza anche attraverso la spessa e ruvida fattura della stoffa del suo vestito. E in quella prossimità,  non poté più ignorare il desiderio che stava ormai consumando entrambi, reclamando a gran voce appagamento. 
Strinse i lati del suo viso e avvicinò le labbra alle sue, ma lui si allontanò prima che riuscissero a entrare in contatto. 
Killian stava evitando i suoi occhi e in un secondo Emma capì: la sua eccitazione si trasformò presto in paura. Qualcosa non andava. Lui aveva sempre voluto baciarla.
Spinse insistentemente contro la sua spalla, allontanandolo appena da lei. Era difficile quanto tenere lontani due magneti opposti e dovette premere una mano contro il suo petto per evitare di appoggiarsi di nuovo a lui e lasciarlo baciare dove diavolo voleva. Anche se non erano le labbra.
Ma sapeva che c'era qualcosa di terribilmente sbagliato in tutta quella situazione. 
Se aveva intenzione di mettere a posto le cose – di mettere a posto loro – doveva iniziare da lui. Da quello che aveva distrutto due anni prima.
Killian alzò lo sguardo per trovarla a fissarlo intensamente con un'espressione illeggibile sul volto. Sembrava qualcosa vicino alla colpevolezza, se la colpevolezza avesse avuto la possibilità di essere contemporaneamente desiderio. Magari era rimpianto. Non sapeva dirlo. Poteva sentire il cuore riprendere a battere e gli occhi si inumidirono per un istante. Non stava piangendo, ma quei traditori dei suoi occhi sembravano avere una risposta fisica alla  dolorosa presenza di Emma.
La sua vicinanza lo stava mandando in pezzi ancora una volta.
Sospirò sconfitto e  crollò sul posto, nascondendo il viso contro la curva del collo della donna, mentre inspirava il suo profumo inebriante, che permeava l'aria.
Aveva bisogno dell'aria. Aveva bisogno di lei.
Emma gli accarezzò la nuca come era sempre stata solita fare in passato.
«Mi dispiace Killian, mi dispiace tanto»
Lui ritrasse per poterla guardare. 
«Per favore, non piangere» sussurrò lei.
Lui alzò un sopracciglio confuso e poi portò lentamente una mano al viso. Lo trovò umido e realizzò che le lacrime erano riuscite a farsi strada fuori dagli occhi ed erano cadute, visibili al mondo. 
Sarebbe stato imbarazzato se ci fosse stato abbastanza spazio per quella emozione in particolare.
Asciugandosi le guance con il dorso delle mani, provò a offrirle un sorriso e una risata, che  uscirono mischiate ad un corto singhiozzo.
«Perdonami Emma, prima, oggi...io..non avrei dovuto» 
Istintivamente Killian le prese la mano ed intrecciò le loro dita, considerando solo dopo la sua azione . Fissarono entrambi le loro mani unite e sembrarono essere congelati sul posto.
 Lei stava stringendo e lui bruciava. 
Killian sciolse lentamente quell'incastro col pretesto di asciugare qualche altra lacrima. Non poteva lasciare che lo toccasse. 
Sembrava perfetto in un modo troppo doloroso. Non voleva provarlo e poi doverci rinunciare di nuovo.
Emma guardò in basso e fece un profondo respiro «Killian, voglio..»
«Emma non-»
«Mi lasci finire?!» era frustrata e per un secondo, la luce nei suoi occhi gli ricordò l'infinito potere e l'infinita  forza che scorrevano come corrente sotto la superficie. 
La lasciò fare, sicuro, tuttavia, che qualsiasi cosa stesse per dire non avrebbe voluto sentirla.
«è stato solo che... non siamo stati ... troppo. Tu avevi tutte queste idee e pensieri e sogni e – e-e aspettative. Non ci sarei riuscita Killian. Volevi troppo»
«Tutto quello che volevo eri tu»
Chiudendo gli occhi alle sue parole Killian lasciò che qualche altra lacrima scendesse mentre
riprendeva le forze. Si sentiva come se si stesse spezzando del tutto. Di nuovo.
«Non ero abbastanza. Volevo solo essere parte della tua vita. Non tutto il tuo dannato mondo. Tu avresti realizzato prima o poi che non ero abbastanza. L'ho fatto per proteggerti, l'ho fatto te»
Un fuoco stava prendendo vita dentro di lui. Poteva sentirlo divampare.
Non era stato così arrabbiato con qualcuno per quanto potesse ricordare.
«Oh be grazie mille per la gentile previsione! Non so dove tu voglia arrivare dicendomi che lo hai fatto per me! Per me? è assurdo Emma! Mi hai lasciato senza quasi un avvertimento. Ti sei portata via tutto. Tutto! Non pensare di poterti trasformare in un qualche tipo di  martire ora. Mi ha spezzato in due e lo hai fatto fottutamente bene. Non fare finta che fosse per me. Niente di tutto questo avrebbe potuto esserlo »
Dagli occhi di lei  cadevano calde lacrime di scusa che lasciavano una scia umida sulle guance. Non avrebbe voluto farla piangere.
Sembrava ancora di più fatta di marmo ora che brillava come una pietra levigata.

«Mi amavi?» La voce gli uscì boccheggiante, ancora in riserva d'ossigeno
I suoi occhi erano  pieni di paura, vulnerabilità e trepidazione. 
O almeno questo vi lesse Emma. Le persone le dicevano sempre che aveva degli occhi espressivi, ma non erano niente in confronto a quelli dell'uomo davanti a lei. 
Si odiò per avergli fatto mettere in dubbio quello che avevano avuto.

«Non ho mai smesso.»
Emma guardò l'uomo distrutto davanti a lei.
Alle sue parole aveva chiuso gli occhi e aveva appoggiato la testa contro il muro di mattoni. «Malgrado ciò, tu mi hai lasciato andare Emma»

«Sì, l'ho fatto, ma certo  non perché non ti amavo abbastanza. 
Tutte le persone a cui tengo, muoiono o mi lasciano, Killian!  Dirti di sì, quel giorno, avrebbe significato abbandonarmi completamente a te, includerti a pieno titolo nel mio mondo, e a quel punto non avrei avuto più difese e se tu te ne fossi andato... »
«Non lo avrei mai fatto.»
«Non puoi saperlo» 
Lui non rispose, limitandosi a scuotere la testa mentre un sorriso amaro, più simile ad una smorfia, gli tirava il volto.
Evidentemente turbata, con il vestito ancora malamente sollevato oltre le ginocchia, Emma lo osservava, scossa da quella reazione, mentre ostinata ordinava alle lacrime di tornare indietro. Indecisa su cosa fare, e non ricevendo nessun indizio da lui -silenziosa presenza di fronte a lei-, si sistemò il vestito e indugiò poi nel fissarlo, attendendo che facesse o dicesse qualcosa che li tirasse fuori da quell'impasse.
Ma lui non lo fece.
Ed Emma sentendo le  gambe cedere, ritenne opportuno sedersi di nuovo: il mobile che prima l'aveva ospitata era però ancora rovente della loro passione, il che non lo rendeva un luogo ospitale, e alla fine non trovò nulla di meglio del pavimento. Si sedette così contro la spalliera del letto, lasciando che il peso intollerabile del suo capo gravasse sul materasso e non più sul collo, già troppo provato.
« Sai Emma, potrei dirti che ti amo anche io, ma non cambirebbe le cose, perchè questo già lo sai. Dirlo ad alta voce non servirebbe a nulla se non a rendere tutto ancora più complicato.»
La rabbia di Killian sembrava essersi notevolmente ridotta: il tono si ammorbidì, le mani, prima strette in una morsa serrata, si aprirono in un incerto tremolio, e un sospiro rassegnato ne addolcì la piega dura delle labbra. La tensione si alleviò al punto che l'uomo osò persino venirle vicino, sedendosi accanto a lei, pur ben attento a non sfiorarla mai.
« Tra qualche mese sarò stato ufficialmente senza di te più a lungo di quanto sono stato con te. Ho speso gran parte di questo tempo cercando un rimpiazzo. Qualcuno che colmasse il vuoto che hai lasciato. Un corpo caldo. Ma nessuna era abbastanza e tornavo sempre a casa da solo. Il rum non poteva annebbiarmi abbastanza la vista da far sembrare gli occhi verdi. Non poteva  addormentarmi abbastanza le dita per ignorare il fatto che quella non era la tua pelle. Non poteva confondermi i sensi al punto da dimenticare il tuo profumo. 
Non sgombrava  la mente abbastanza da farmi dimenticare.
Non era abbastanza. Niente lo sarebbe più stato. Niente sarebbe più stato abbastanza dopo di te.»
«Poi hai incontrato Milah...»
«Già. Ma lei non sarà mai te, Emma.»
In quel momento Emma pensò che al mondo esiste un dolore più inteso di quello che si prova quando non ci sente dire le parole che vorremmo, ed è quello che si sente quando quelle stesse e tanto attese parole arrivano ormai troppo tardi.
Con uno scatto rapido , Killian si alzò, allontanandosi da lei, deciso senza ombra di dubbio a mettere fine a quella discussione. Aveva lasciato che le parole scivolassero libere fuori dalle sue labbra, ora che era finalmente concesso loro . Non aveva pensato alle conseguenze. 
Con Emma era sempre stato così.
«Killian...»
«Devo tornare di sotto adesso, e anche tu»
«Killian, ti prego!»
Di fronte al suo sguardo implorante -consapevole che ormai tentare di salvaguardare l'orgoglio era uno sforzo vano- lui sembrò per un attimo capitolare, ma alla fine fu più determinato di lei nelle sue intenzioni.
« Di sotto c'è una donna che mi aspetta, una donna onesta e intelligente, che non si merita niente di tutto questo... Abbiamo entrambi le nostre vite da vivere, e nessuna delle due prevede più la presenza dell'altro ormai» 
Le voltò le spalle e si diresse verso la porta della camera. Emma dal canto suo rimase immobile, seduta nello stesso angolo di parquet, con la testa voltata verso di lui che invece non la guardava più. E che non la guardò nemmeno quando, con la mano già sulla maniglia della porta, riprese a parlare.
«Sai Emma, io non rimpiango nulla di quei tre anni, e forse quello che sto per dire ti sembrerà assurdo... E in effetti lo è, perché non saremmo le persone che siamo senza quella parte della nostra vita che abbiamo condiviso. Eppure sono convinto che se l'Emma e il Killian di oggi si conoscessero, adesso per la prima volta, senza un passato come il loro alle spalle, si piacerebbero, e stavolta avrebbe funzionato. Sarebbero stati solo una comune donna e un comune uomo davanti a un comune caffè, a parlare di sé e a scoprirsi, innamorandosi ad ogni parola. Killian senza dubbio. E forse adesso avremmo il nostro lieto fine. Forse eravamo le persone giuste, Emma, ma era il momento ad essere sbagliato. E di questo non ha colpa nessuno, né tu né io»

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Capitolo 11
*** Cap 11 ***


Take a breath
I pull myself together
Just another step till I reach the door
You’ll never know the way it tears me up inside to see you
I wish that I could tell you something
To take it all away

Sometimes I wish I could save you
And there’re so many things that I want you to know
I won’t give up till it’s over
If it takes you forever I want you to know

When I hear your voice
Its drowning in a whisper
It’s Just skins and bones
There’s nothing left to take
No matter what I do I can’t make you feel better
If only I could find the answer
To help me understand
( Save you, Simple Plan)




«Forse eravamo le persone giuste, Emma, ma era il momento ad essere sbagliato. E di questo non ha colpa nessuno, né tu né io»

Quell'ultima frase le si abbatté addosso, pesante come un macigno, e nel momento in cui il rumore della porta sbattuta contro il telaio di legno segnalò la sua uscita dalla camera, le lacrime presero a scenderle copiose lungo le guance e giù fino al vestito, punteggiandolo di piccoli nei umidi e scuri. Ed Emma non poté opporvi resistenza.
Sentì a malapena la porta riaprirsi, mentre la mano tremante si alzava nel vuoto a ghermire l'aria per posarsi poi spasmodica sulla bocca, a soffocare i singhiozzi del suo cuore.



Due anni prima. Ore 18: 30
Uno sparo. Uno sparo e poi più nulla.
Il respiro gli si mozzò quando i suoi occhi si posarono su Emma.
Guardò in basso, al corpo incosciente di lei.
Gli occhi chiusi, quasi serrati e i capelli biondi impiastricciati di sangue che si stava coagulando.
Si inginocchiò accanto a lei. Da dove si trovava, poteva sentire il suo  respiro irregolare e tremolante.  Un fiotto di sangue fuoriusciva poco più in basso della clavicola, dipingendole il braccio di un raccapricciante color cremesi.
Sospirò preoccupato, mentre faceva pressione sulla ferita : il polmone di lei era stato perforato e l’aria usciva attraverso il buco, che si era creato nel suo petto.
Emma gemette al suo tocco mentre il suo respiro si faceva più corto e più debole ogni secondo che passava.
Killian guardò la sua pelle diventare pallida in modo innaturale, man mano che il sangue finiva sulla sua mano.
“Emma”
“Killian?” mormorò lei, mentre un’innaturale sfumatura rossa le colorava le labbra.
“Non parlare, tesoro. Sei stata colpita. Andrà tutto bene” disse lui, mentre la sua mano sinistra si muoveva verso il collo di lei, per sentirne il battito veloce sotto le dita.
Il corpo di lei tremò, mentre il sangue sulle labbra contrastava orribilmente con la sfumatura blu, che stava prendendo la pelle: il ritmo del suo respiro accelerò ed i suoi occhi si chiusero sotto il peso delle palpebre.
“Emma!” gridò, richiamandola a sé, mentre la sua mano le stringeva a coppa la guancia.
“Guardami” disse lui in modo deciso, costringendo gli occhi di lei, ora aperti, a focalizzarsi sui propri.
“Stai per andare in shock. Lo so che fa male, ma hai bisogno di calmarti”
La pelle di lei era fredda sotto il suo palmo.
“Concentrati su di me. Respira lentamente”
I suoi occhi spaventati si focalizzarono su di lui. Killian potè distinguere con chiarezza la determinazione attraversarli.
Sembrò passare un’eternità  prima che il suo respiro iniziasse a rallentare un pò.
“Bene” disse lui in modo rassicurante, mentre col pollice le accarezzava la guancia.
I suoni distanti della squadra di soccorso arrivarono alle orecchie di Killian: era più dolce che avesse mai sentito.
Il respiro di lei stridette profondamente quando una bolla di sangue arrivò alle sue labbra, colorandole di un rosso intenso. 
I suoi occhi persero la messa a fuoco e si chiusero.
“Emma, Emma!” gridò “Resta con me, amore!”
Per un attimo tornò cosciente: stanchezza, dolore e paura riempivano gli occhi di lei normalmente affettuosi e speranzosi.
“Killian…” sussurrò
“Cosa è successo?” chiese un dottore, che stava in testa ad una squadra di soccorso.
Si avvicinò con una barella e un equipaggiamento di emergenza.
La sua mano, macchiata di sangue, fu allontanata dalla spalla di lei e fu rimpiazzata velocemente con una  guantata e con un tampone sterile.
Le dita di lui le accarezzarono la guancia ancora una volta, prima di indietreggiare, mentre le spalle sbatterono contro il muro; gli occhi sofferenti di lei erano ancora focalizzati sui suoi, attraversando la moltitudine di corpi che la circondava.


Ore 19: 00
Si fermò di fronte alla postazione delle infermiere.
Il mondo ruotava intorno a lui in modo sfocato.
Infermiere e dottori si davano da fare attorno a lui in un mare di camici bianchi e  color pastello.
I pazienti sedevano, aspettando pazientemente che i loro nomi fossero chiamati, qualche bambino piangeva, e qualche madre disprezzava quel bambino capriccioso, che faceva tutto quel rumore .
Ma lui stette fermo lì, circondato da una vita, da cui si sentiva completamente distante, come se ormai non ne facesse più parte.
Era fermo, mentre il resto del mondo era inquieto.
Uno spettatore, un guscio vuoto.
Soffriva, mentre tutti gli altri andavano avanti con la propria vita, completamente dimentichi dell'uomo distrutto, che sfioravano, passando.
- Sto cercando Emma Swan- una receptionist digitò velocemente il suo nome sulla tastiera del computer.
- è appena entrata in sala operatoria-


Ore 23: 15
Quattro ore.
 Erano quattro ore e dodici infernali minuti che aspettava seduto su quella sedia, davanti all'ingresso della sala operatoria, quando finalmente il chirurgo  apparve da quelle porte.
Non pensava che avrebbe mai potuto odiare tanto una porta.
-Killian Jones?-
-Si sono io, come sta?-
- Piacere sono il Dottor Hopper, mi occupo del caso della signorina Swan. Il proiettile è stato rimosso, non ha lesionato nessun vaso importante. Però durante l'intervento c'è stata una complicazione: è andata in fibrillazione ed è rimasta senza ossigeno per diversi minuti prima che riuscissimo a far tornare il battito.
- quanto esattamente?-
- abbastanza da far pensare danno celebrare come una concreta possibilità. 
Starà bene, ma potrebbe non essere più la donna che cosce, signor Jones.
In ogni caso le prossime ore saranno determinanti per delineare un quadro clinico più preciso.-
- Posso vederla?-
-Al momento è in terapia intensiva. Potrà vederla non appena verrà trasferita in reparto.-

 
Ore 23 : 17
Arrivò in un bagno prima di iniziare a vomitare: la propria mano si aggrappò saldamente al freddo lavandino di porcellana , mentre lo stomaco si svuotava, fino a quando poté sentire il rigurgito della bile.
La sola idea di Emma in un letto d'ospedale  lo nauseava.
Riprese a respirare lentamente.
Si sciacquò la bocca un paio di volte e si spruzzò un pò d'acqua contro il volto.
Guardò le gocce , che scendevano lungo il proprio mento e cadevano sul lavandino bianco.
Contro ogni sua abitudine si fisso gli occhi, che in quella stanza silenziosa, apparivano di un azzurro slavato, quasi privo di ogni guizzo di vitalità e provò freddo. 
Improvvisamente la sua mente gli giocò uno strano scherzo: i suoi occhi divennero verdi come i prati umidi dell’Irlanda e il sangue tornò caldo nelle sue vene.
Killian  rimase stupito da quella sensazione.
C’era più vita in Emma, che era  sul ciglio della morte, che nei suoi occhi.
Aveva bisogno di dormire.
Ma non era  sicuro di volerlo fare, anche se lo sbattere languido e lento delle sue ciglia  gli disse che il proprio corpo aveva altre idee.


 Ore 23: 30
Aveva cercato un posto in cui riposare qualche ora, ma l’immagine di Emma marchiata a fuoco nelle sue sinapsi, lo aveva costretto ad arrancare fino in terapia intensiva. 
Aveva bisogno di vederla, anche se teoricamente non avrebbe potuto stare lì.
Una volta all’interno, pregò che non l’avessero già trasferita e soprattutto  di trovarla ancora in vita. 
Sentì delle voci provenire al di là di una porta socchiusa. 
Comprese di essere davanti alla stanza giusta quando sentì dei medici parlare tra loro e ripetere spesso “Emma Swan” associata alle parole “è molto grave”.

Esitò.

Appoggiò la schiena contro il muro e chiuse gli occhi lasciandosi invadere da quel dolore fisico che fino a poco prima era riuscito a tenere a bada con la sola forza di volontà.
Mentre appoggiava la mano sulla maniglia venne colpito dal silenzio improvviso: sembrava che l’intero ospedale si fosse fermato e una certa inquietudine iniziò a crescere nella sua mente.
Silenziosamente aprì la porta e prima ancora di vederla poté percepirla.

Fece vagare lo sguardo ovunque prima di decidersi di posarlo su di lei, ma alla fine si arrese a quello strano stato di urgenza che sembrava essersi impossessato di lui.

Abbassò lo sguardo e la vide.

Il torace era a malapena coperto da un lenzuolo bianco e si alzava in maniera quasi anomala dovuta alla ventilazione meccanica e alla sedazione a cui era stata sottoposta. Sbucavano ovunque fili e tubicini, quasi lei avesse perso parte della sua umanità per acquisirne una meccanica. 
Guardò il monitor del cuore, ascoltando i tranquilli e delicati trilli emessi: era una melodia silenziosamente speranzosa.
Il respiro era caratterizzato da un ritmo costante e regolare, che era completamente rilassante.

Mentre le note danzavano nella sua testa, lasciò che il suo sguardo la percorresse tutta.
Nonostante le luci soffuse riusciva a vedere ogni dettaglio di lei, dalla piccola cicatrice orizzontale sulla palpebra sinistra alla spruzzata di lentiggini che ravvivava il suo setto nasale. Rimase in silenzio ad osservarla senza mai distogliere lo sguardo, non avendo però  il coraggio di avvicinarsi.
Semplicemente guardare la figura quasi immobile di lei era sufficiente a  calmarlo realmente per la prima volta.
I brividi, che gli si erano formati lungo la schiena entrando in terapia intensiva, furono allontanati da un dolce e persistente calore , che veniva dalla consapevolezza che lei stava realmente bene.
Era viva.
Le ultime note di una melodia malinconica vorticarono nella sua testa.
Stette lì per molto tempo, assaporando la quiete della sua mente, conciliata dal suono dei respiri lenti di lei.

Improvvisamente il cuore di Emma  prese a battere sempre più lentamente, scendendo al di sotto dei 30 battiti al minuto e il monitor iniziò ad inviare segnali di allarme. Spinto da quel suono Killian si avvicinò alla donna le strinse una mano tra le sue.
Il polso carotideo  stranamente tornò regolare, assestandosi attorno ai 60 battiti al minuto. 
Lui sciolse l'intreccio delle loro dita e fece un passò indietro.
Immediatamente il battito decelerò ancora.

Killian perplesso, le toccò allora il collo, tastando il polso, e nuovamente il battito tornò normale. L’uomo provò ancora una volta a staccare le mani da lei, ma il battito, quel maledetto, tornava a precipitare inesorabilmente.
Non c’era nessun motivo razionale, ma il solo fatto di toccare Emma sembrava farla stare meglio.
Le spostò una ciocca di capelli dal viso e notò che le si stava formando un livido che andava dalla tempia allo zigomo. Glielo sfiorò con un dito.
Senza mai interrompere il contatto con Emma, Killian afferrò una sedia e si sedette accanto a lei. Non le disse nulla, perché non c’era nulla che lui le potesse dire che lei non sapesse già, così rimase in un silenzio quasi contemplativo a vegliarla.


Ore 02: 00
Si svegliò sudato freddo, il cuore gli batteva in petto ed il respiro era irregolare e superficiale: i dettagli dell’incubo fatto andarono persi nel momento in cui aprì gli occhi, ma tutto ciò lo lasciò comunque scosso fin nelle ossa.
Per un attimo aveva risentito la sua risata.
Gli era sempre  rimasto impresso il suo modo di aprire le labbra e di socchiudere gli occhi. Era rimasto colpito da quella leggera asimmetria che assumeva il volto di lei quando rideva: l’occhio destro rimaneva un pò più socchiuso dell’altro e nonostante la natura amasse la simmetria lei sembrava bellissima comunque.

La osservò per diversi minuti.
Il colore le stava già tornando alle guance.
La sua pelle era ancora pallida, ma non in modo così mortale. 
Un tenue movimento sotto le palpebre mise in allarme Killian, che però, dopo qualche istante tornò a rilassarsi, probabilmente stava sognando. 
Ma un  leggero fruscio ridestò la sua attenzione. Ci mise qualche secondo ad individuare la fonte del rumore. Le dita di Emma graffiavano il cotone ruvido delle lenzuola. Lui rimase immobile a fissare, come ipnotizzato, quel leggero movimento. 
Alzò lo guardo sul suo viso. Un piccolo lamento di frustrazione uscì dalle labbra sottili di lei, sembrava non riuscisse a svegliarsi.
Pian piano le palpebre si aprirono leggermente, in maniera asimmetrica,e una smorfia di dolore si delineò sul suo volto.
Killian, come attirato dal canto delle sirene, scattò in piedi, senza mai lasciare la mano di Emma, stretta tra le sue.
Lei mosse un poco il capo, come a cercare di togliersi di dosso il torpore che la stava avvolgendo. Un altro gemito un pò gracidante le sfuggì dalle labbra, dal suono doveva avere la gola secca.

Sul volto di Killian si delineò un’espressione terrorizzata e allo stesso tempo di sollievo.

Lei sbatté le palpebre  e con difficoltà mise a fuoco gli oggetti attorno a sè. 
Un brusco movimento al limitare del suo ristretto campo visivo, attirò la sua attenzione. 
Voltò un pò il viso e  cercò di mettere a fuoco anche l’uomo accanto al suo letto. Quando lo riconobbe tentò di abbozzare un sorriso, ma ne uscì uno decisamente sghembo. 
Tentò di parlare, ma la voce sembrava non ubbidirle.

Durante tutti quei tentativi, Killian era rimasto immobile, quasi trattenendo il respiro. 
- Buongiorno, dolcezza- fu l’unica cosa che riuscì a dirle.

Lei cercò di rispondere al saluto, ma tutto quello che le riuscì di fare fu un timido sbattere di ciglia.

Sul volto di Emma si dipinse un’espressione crucciata e piuttosto frustrata.

Killian fece un passo indietro,intenzionato ad avvertire il medico del suo risveglio, ma la mano di Emma scattò istintivamente verso di lui.
Non sembrava aver dimenticato la coordinazione volontaria. 
Uno sguardo supplicante si dipinse negli occhi di lei e lui comprese cosa intendeva dire. 
Afferrò l’unica sedia presente nel box della terapia intensiva e si sedette nuovamente accanto a lei,senza mai lasciare la sua mano.
Non si dissero nulla, sembrava non essercene bisogno.

Ore 06: 30
L'alba lo sorprese ancora su quella sedia.
Un colpo secco, lo fece riscuotere improvvisamente dal suo torpore.
- Lei non può stare qui!- Una donna, un infermiera a giudicare dalla divisa rosa pallido, aveva appena fatto il suo ingresso nella stanza.
 Era stato il rumore della porta che veniva sbattuta ad averlo svegliato.
Si voltò verso Emma constatando che stava ancora dormendo, poi tornò a rivolgere la propria attenzione alla donna in piedi davanti alla porta.
- Lei si è svegliata!-  buttò fuori tutto d'un fiato. Non era il momento per i convenevoli. Nè il luogo.
L'infermiera abbandonò la posa severa che aveva avuto fino a poco prima.
- Signor Jones, si spieghi meglio-
- Ieri sera lei...io ero qui..e-
- E non ci poteva stare!-
- Si ma lei...Emma ha aperto gli occhi! Si è svegliata!-
-Se le cose stanno come dice, sarà meglio informare il Dottor Hopper. E le consiglio di non farsi trovare qui quando arriverà.- terminò la donna, indicando la porta con un cenno del capo.
- Io resto-
- Esca signor Jones-
-No-
- Glielo ripeto un'ultima volta, esca signor Jones, ora!-
Killian la guardò quasi supplicate e strinse un pò di più la mano di Emma. 
-No-  Ripeté ancora una volta, anche se questo fu quasi un sussurro. 
Voleva dirgli che se l'avesse lasciata, lei sarebbe morta.
Voleva dirgli che se l'avesse lasciata, lui sarebbe morto.
Voleva dirgli che se  l'avesse lasciata, entrambi i loro cuori i cuori avrebbero smesso di battere.
Ma non fece nulla di tutto ciò.
Si limitò a lasciare quella dannata stanza, seguito dall'infermiera.
Prima usciva di lì prima il dottor Hopper avrebbe potuto dirgli che Emma stava bene.


Ore 07:30
Il Dottor Hopper si chiuse alle spalle la porta della stanza di Emma.
-Come sta?- per la seconda in meno di ventiquattro ore Killian ripetè quella domanda.
Aveva un sapore amaro. Sempre che le parole potessero averne uno.
- Sarò sincero con lei Signor Jones-
- Killian-
-Bene, allora sarò sincero con lei Killian. Come le avevo anticipato la prolungata assenza di ossigeno avrebbe potuto causare dei danni.-
Killian annuì teso.
- In questo caso sembra che la signorina Swan si affetta d'afasia di Brocà-
Allo sguardo perplesso che si dipinse sul viso dell'uomo davanti a lui Hopper si affrettò a spiegare.
- Non può parlare-



Buonasera a tutte! 
Oggi è ufficialmente settembre e con settembre torna OUAT!
Il capitolo è arrivato un pò in ritardo ma ultimamente faccio davvero fatica a ritagliarmi un pò di tempo. Perciò è anche un pò più corto del solito, ma spero di non deludere nessuno.
Allora che dire? Buona parte del capitolo è un flashback, voi direte li lasci ancora in sospeso questi due? Lo so, ma mi serviva per l'idea che ho del finale, che vi ho anticipato nelle prime righe! Quindi spero avrete pazienza. Non mancano moltissimi capitoli, promesso.
Ero abbastanza indecisa su questo capitolo ma ormai è fatta. Spero che non risulti troppo frammentario, nè confuso. Nel prossimo chiarirò un pò di cose lasciate in sospeso.
Che altro? Come sempre grazie delle recensioni, degli inserimenti nelle varie categorie, e grazie a tutti coloro che leggo semplicemente!
Grazie davvero! 
Un abbraccio,Elena.

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Capitolo 12
*** Capi 12 ***


And tell me you love me, come back and haunt me,
Oh and I rush to the start.
Running in circles, chasing tails,
And coming back as we are.
 
Nobody said it was easy,
oh it's such a shame for us to part.
Nobody said it was easy,
No-one ever said it would be so hard.
 
I'm going back to the start.

( The scientist, Coldplay)




David era sempre stato bravo nel suo lavoro.
Era sveglio e aveva un buon intuiuto. Due qualità che lo rendevano un ottimo detective.
Nulla di strano quindi se, nel bel mezzo di un ricevimento, con un centinaio di persone a riempirgli la visuale, i suoi occhi si fossero intestarditi sugli unici due grandi assenti del momento, che per quanto significativi non erano in fondo che puntini irrisori in confronto alla massa di gente che popolava la sala.
Non che la loro improvvisa sparizione fosse in qualche modo inattesa, o misteriosa: David aveva messo in conto quella possibilità fin dal momento dell'aperitivo, quando aveva scorto quel gonfiore sospetto negli occhi troppo arrossati di Emma, e forse persino da prima, quando Victor un mese addietro lo aveva messo a conoscenza di come fossero andate le cose tra loro.
No, non era l'assenza in sé a preoccupare David, né le conseguenze a cui inevitabilmente avrebbe portato -certo che un confronto tra loro fosse necessario, a prescindere dall'esito che avrebbe avuto.
Se infatti era certo che da un lato chiunque in quella sala sarebbe stato capace di dedurre che, sottraendo centotrentuno invitati a un totale di centotrentatré, da qualche parte doveva nascondersi il resto di due, dall'altro era al contempo rassicurato dal fatto che la maggioranza di quei potenziali testimoni non avrebbe trovato la cosa interessante.
Incrociando gli occhi di Victor e vedendoli offuscarsi d'un rapido ma eloquente scintillio di complicità e comprensione, quella magra consolazione a cui aveva affidato il sereno prosieguo del matrimonio stava iniziando pericolosamente a vacillare. Se persino Whale se n'era accorto, dovevano essere via da molto.
«Solo un giro veloce, promesso. Vediamo cosa solo succede, poi torniamo qui immediatamente.» 

Due anni prima

- Non può parlare-
Quelle parole continuavano a rimombargli nella mente.
Improvvisamente si fece tutto sfocato, confuso.
Dannazione, Non poteva essere vero!
- Quanto è grave?- formulare quella domanda gli costò uno sforzo e un' energia che in quel momento sentiva di non avere.
Hopper sospirò prima di parlare- Capisce i discorsi, ma non può formulare frasi. Le parole sono a mala pena distinguibili. Non sappiamo se questo fa parte dell'Afasia o se è una variante della Scansione del discorso-

Killian si lasciò sopraffare da un gemito, dovuto al pianto, e si allontanò velocemente da quel corridoio, spingendo la porta così forte, che i pannelli di vetro minacciarono d’infrangersi. 
Si appoggiò pesantemente contro la finestra, confortato da quel freddo supporto, che offriva un pò di tregua ai suoi arti tesi ed alla sua testa stanca.
In un moto di frustrazione colpì la parete con un pugno.
Il dolore lo investì un attimo dopo. 
Con gli occhi ancora chiusi e con la fronte serrata in un'espressione accigliata, fece cadere il mento sul petto, desiderando che il mondo scomparisse o che lui potesse scomparire da esso.
C'era semplicemente troppo dolore: il pulsare della mano, il mal di testa persistente e quella fitta opprimente nel petto, proprio all'altezza del cuore.




Il ticchettio di quelle stupide scarpe eleganti contro il parquet risuonava prepotente nel corridoio, e David iniziava ad aver l'impressione che quelle due traditrici fossero intenzionate a smascherarlo, generando più rumore del necessario.
Non sapeva come avesse fatto a farsi coinvolgere in quella specie di caccia all'uomo, non era mai stata questa la sua intenzione, fatto sta che ora era lì.
Quando infine dal fondo del corridoio la porta di una camera a loro ben nota si aprì, rivelando un viso familiare, David non seppe se sentirsi sollevato o tremendamente imbarazzato. Victor d'altra parte non sembrava essersi neanche posto il problema; piuttosto nel giro di un'istante, e senza alcuno scrupolo, incalzò l'altro con la domanda peggio posta e meno delicata di cui fu capace.
«Jones finalmente, si può sapere che diamine sta succedendo? E dov'è Emma?»
Vide l'altro sobbalzare al suono di quella voce, evidentemente sorpreso dalla loro presenza, e gli parve di vederlo esitare qualche istante, con un'espressione in volto in cui David non fiutò nulla di buono. Fu tuttavia questione di secondi: una scrollata di capo sembrò infatti bastargli per rimettere in moto il cervello, e i piedi assieme a quello, e con passo di carica li superò entrambi, parlando senza neanche voltarsi a guardarli.
«Me ne vado. Scusami Victor, davvero, ma devo andare. Tornerò in tempo per la fine della festa, promesso.»
«Aspetta, che vuol dire che te ne vai! E dove?»
«Ovunque, ma via da qui. Scusami»
David  osservò Killian procedere senza indugio in quella che, a tutti gli effetti, poteva essere definita una fuga in piena regola, e se fino ad allora era stato ancora indeciso verso quale umore dovesse sbilanciarsi l'ago della sua bilancia, se l'imbarazzo o il sollievo, ciò che accadde l'istante dopo a quella riflessione non gli lasciò più alcun dubbio: imbarazzo, sicuramente. 
Dal fondo del corridoio, con una precisione quasi sospetta, si materializzò infatti l'ultima persona che avrebbe dovuto assistere a quello spettacolo: sguardo spaesato e andatura affrettata, Milah aveva infatti appena svoltato l'angolo. 
A nulla valsero i suoi tentativi di richiamare il fidanzato che,  apparentemente senza neanche vederla, la superò in poche falcate, passandole accanto con invidiabile indifferenza, e pochi istanti dopo aveva già voltato l'angolo a sua volta, sparendo alla loro vista.
«Era Killian quello, vero?»
La domanda, del tutto superflua, uscì quasi da sé dalla gola di una Milah che più che contrariata pareva essere confusa e consapevole insieme.
« sì...»
L'imbarazzo e la tensione erano palpabili nella voce di Victor, e David sentì chiaramente lo sguardo dell'amico posarsi su di sé, in una muta richiesta di aiuto
«Dove sta andando? Sembrava sconvolto...»
«Oh no, era solo di fretta. Ecco lui sta...lui sta andando a prendere dei parenti di Ruby, sì! Hanno avuto un problema con l'auto e sono rimasti in panne, così Killian si è offerto di andarli a prendere visto che David è il mio primo testimone e mi serve qui»
Disegnandosi forzatamente un sorriso sulle labbra, Victor assestò una gomitata decisa all'amico il quale, annuì energicamente alla donna, pur ignorando a cosa avesse appena assentito, stordito com'era da quel casino di situazione.
Qualunque cosa fosse sembrava comunque non aver riscosso il favore di Milah, il cui sguardo si era acceso ora di una nuova, strana, luce. 
Non dovette passare troppo tempo prima che David potesse darle un nome.
«Ti ringrazio Victor, il tuo è davvero un nobile tentativo ma a questo punto credo sia meglio che io vada. Per favore, dillo tu a Killian qualora dovessi sentirlo, e ancora congratulazioni per le tue nozze»
Un sorriso di circostanza stemperò la gravita delle sue parole, ma si trattava di mera apparenza: li salutò educatamente, e con più calore e sincerità di quanto si sarebbe aspettato, e si congedò, abbandonando con passo fermo il piano senza mai perdere in dignità. 
Evidentemente, tutti loro l'avevano ampiamente sottovalutata. 
Milah aveva capito, eccome se lo aveva fatto. Ma quello al momento era l'ultimo dei loro problemi.
«Vado a chiamare Mary Margareth, pensaci tu qui»
La voce di Victor lo riportò alla realtà, giusto in tempo per vedere il suo sguardo puntato verso la porta incriminata, col sotteso e implicito ordine di varcarla.
«Io? E cosa dovrei fare?»
«Non lo so, parlale... o non parlarle. Solo, tienila d'occhio finché non arriva la cavalleria»
Non gli fu concesso tempo per ribattere: si ritrovò solo nel corridoio, con la sola compagnia del proprio sguardo che, nervoso, aveva preso a girargli intorno nella speranza forse che qualcuno facesse la sua provvidenziale comparsa, salvandolo da quella scomoda situazione. 
Nessuno apparve tuttavia, e dopo un paio di minuti dovette arrendersi all'idea che quel compito toccava a lui e a nessun altro. 
Adorava Emma, la considerava una sorella, ma sapeva che non era certo incline alle confidenze. E poi aveva visto Killian, il suo sguardo sconvolto... Aveva  paura di ciò che avrebbe trovato in quella stanza, temeva di non essere in grado di poterla aiutare. Anzi, ne era piuttosto sicuro.
Aveva poi anche paura di violare in qualche modo l'intimità di Emma: lei era una donna orgogliosa, e David aveva notato con quanta cura si fosse premurata di nascondere le proprie lacrime solo qualche ora prima, e quando le si era avvicinato aveva avuto la conferma che parlarne non fosse tra le sue priorità.
Adesso, pensava, la situazione non poteva che essere peggiorata.
Timoroso entrò infine nella stanza, affondando ogni passo nel pesante silenzio di cui l'aria s'era resa satura, rotto a tratti dal leggero sussultare della donna seduta di spalle ai piedi del letto. 
Da lì ne poteva scorgere soltanto la chioma bionda, che si alzava e si abbassava a ritmo di quell'inusuale melodia. Chiuse la porta dietro le proprie spalle, un attimo prima di vedere la sua mano, tremante, alzarsi nel vuoto a nascondere i singhiozzi, e la sensazione di essere di troppo in quella stanza si fece, se possibile, ancora più forte.

Due anni prima

Lei sollevò leggermente il mento e lui s’immaginò che la sua voce pronunciasse “Hey”.

“Hey” rispose di rimado. Le si avvicinò.
“Stai bene?” Emma annuì. Killian si maledì per la stupidità di quella domanda.
Come poteva stare bene? 
Avrebbe tanto voluto stringerla  in quel momento, stringerla fino a farle mancare il fiato, fino a farle male. Aveva bisogno di sentirla viva. 
Ma forse lei aveva bisogno di un pò di spazio. Non l'avrebbe certo biasimata se dopo tutto ciò che era successo Emma non avesse più voluto vederlo. Tutto quel casino era colpa sua. 
Lui non era stato in grado di proteggerla.
Dio, distruggeva tutto ciò che toccava.
Prima Liam, ora lei. 
Non poteva permetterlo. Emma gli aveva concesso di entrare, aveva abbattuto buona parte dei suoi muri e lui ...lui la ringraziava così! 
La guardò negli occhi quando sentì le sue dita sfiorargli l’avambraccio, distraendolo ma quel vortice di colpevolezza e autocommiserazione in cui si era gettato: gli occhi di lei improvvisamente si erano riempiti di preoccupazione e curiosità.
Killian capì non appena guardò in basso, verso la sua mano fasciata.
“Non è niente: sta tranquilla. Il muro sta molto peggio!” 
Emma sorrise dolcemente e scosse la testa, mentre la sua mano sinistra andò a posizionarsi accanto a quella di lui.
Aprì la bocca, ma non ne uscì nessun suono.
Killian vide un’espressione di pura paura attraversarle gli occhi.

Lui non sapeva che a Hopper erano occorsi oltre cinque minuti per calmare Emma, dopo averle comunicato che non avrebbe potuto parlare: era stata tutta un’altra cosa rispetto ai secondi che c’erano voluti a lui, per calmarla, quando le avevano sparato. 
E Killian la calmò ancora una volta.

“Hey, tesoro è tutto apposto. ” disse in modo rassicurante, mentre i suoi occhi erano ancora incatenati a quelli di lei.

Il calore ritornò negli occhi di Emma, anche se lentamente.
"Posso sedermi qui con te?" propose con un ampio sorriso.
Lei annuì. 
“Qual è l’ultima cosa che  ricordi?”

Lei si morse il labbro inferiore per un momento, prendendo in considerazione  carta e penna, che che si trovavano alla sua destra.
Ma non le prese.
Killian sentì le sue dita delicate muoversi attorno al proprio polso e non offrì alcuna resistenza, quando lei gli guidò la mano in modo tale che  stringesse la sua guancia sinistra, e la ricoprì la sua mano con la propria.

Lui sorrise con gli occhi umidi, lasciando che il pollice sfiorasse i viso di Emma.

“Mi dispiace così tanto”

La guardò sorridere, come avrebbe sorriso una madre ad un bambino che aveva appena fatto qualcosa di terribilmente dispettoso: non importava cosa avesse fatto il bambino, perché non avresti potuto mai smettere di amarlo.

Emma si portò la sua mano alle labbra per depositarvi il bacio più delicato che Killian avesse mai  ricevuto.
La sua pelle bruciò sotto il tocco di Emma come se  il suo bacio fosse troppo puro per un uomo come lui.
Non meritava di essere amato così.
E a dimostrazione di ciò, quasi fosse un promemoria delle sue colpe, fece scivolare la sua mano dalla stretta di lei muovendosi verso il suo petto e sfiorandole la pelle ruvida per via del ripetuto utilizzo del defibrillatore.
Le dita di lei gli afferrarono il polso ancora una volta: questa volta in modo molto più stretto, bloccandoglielo, tanto che lui poté sentire il proprio ritmo cardiaco accelerare velocemente sotto la presa di Emma.
Ma quando gli occhi di lei incontrarono lo sguardo bagnato di Killian, non ebbe più dubbi.
Liberò il suo polso e  lasciò ricadere la mano sul letto.

Le dita di lui continuarono a muoversi dolcemente sulla rettangolare imperfezione rossa, che si trovava sulla pelle chiara di Emma. Sentendo la pelle d’oca formarsi sotto le proprie dita, Killian  sorrise mestamente ma non poté contenere un sorriso più ampio, quando sentì il suono del monitor cardiaco accelerare il ritmo.

Rise quando vide lei guardare incredula la macchina traditrice.
Sentendolo divertirsi, gli occhi di lei incontrarono nuovamente i suoi.

Condivisero un momento in assoluta serietà, prima che lei sorridesse dolcemente ed alzasse la spalla sinistra: si rilassò ulteriormente nei soffici cuscini caldi, ma continuò a tenere lo sguardo puntato sui movimenti sicuri di lui.

Gli occhi e le dita di Killian si mossero sopra il suo camice ed attorno al seno , mentre il ritmo cardiaco di lei aumentava velocemente sotto le sue dita, prima che queste si muovessero più in basso verso le costole. 
Percorse il profilo di ogni costola, e poi risalì appena per tornare su quella scottatura elettrica che sapeva aver rovinato la pelle perfetta di lei. Tracciò con la punta delle dita il contorno di quel segno, mentre sentiva il proprio cuore lacerarsi. 
Coprì quel punto con la mano, facendo restare il palmo nell'incavo tra i seni di Emma , desiderando di allontanare quella sensazione.




Aveva lasciato quella camera con l'intenzione di tornare alla festa.
Aveva lasciato lei in quella camera con l'intenzione di tornare dall'altra  alla festa.
Eppure, nel momento stesso in cui la mano aveva accarezzato la maniglia, una scarica d'esitazione lo aveva pervaso lungo tutto il corpo. 
L'attimo dopo essersi richiuso la porta alle spalle l'esitazione era divenuta dubbio, e nell'esatto istante in cui Milah aveva incrociato la sua strada il dubbio era infine maturato in certezza: doveva andarsene.
Mai, in nessun modo, neanche ricorrendo alla migliore delle sue facce da poker, sarebbe stato in grado di tornare da Milah e fingere indifferenza. Né tantomeno avrebbe potuto affrontare nuovamente Emma, quando inevitabilmente anche lei fosse scesa a raggiungerli. 
E se un briciolo di orgoglio personale e di riguardo nei confronti degli sposi avevano continuato ad attardare i suoi passi anche dopo che, risoluto, aveva superato David, Victor e chiunque altro avesse incontrato lungo il tragitto, ogni traccia d'incertezza era stata poi spazzata via dall'orrenda presa di coscienza d'aver ingenuamente -e del tutto inconsciamente- etichettato nella propria mente Emma come la lei e Milah come l'altra. Un pensiero inammissibile, non tanto perché lontano dalla verità quanto perché vi era troppo vicino.
Era, in effetti, la cosa più sincera che si fosse concesso di pensare da che l'aveva rivista, quel giorno.
Anche adesso che sfrecciava senza meta sulla strada deserta , col vento a scompigliargli i capelli e a schiaffeggiargli il volto -con tanta violenza da impedirgli di scoprire se ciò che sentiva scheggiargli le gote erano lacrime o solo fruste d'aria-, non riusciva a capacitarsi di come la sua mente potesse essere ancora tanto irrimediabilmente pregna di lei.
Soprattutto non riusciva a liberarsi del suono della sua voce, e di quelle  parole che da minuti ormai facevano da sottofondo ad ogni suo altro pensiero: non ho mai smesso. 
Lei lo amava.
Glielo aveva confessato con una naturalezza quasi disarmante, tanto che confessione non sembrava neanche il termine giusto per descrivere ciò che era accaduto. 
Nessun impronunciabile segreto era infatti stato svelato, nessuna verità s'era di colpo manifestata in quella stanza. Constatazione sarebbe stato un vocabolo più adatto. 
In fondo entrambi sapevano benissimo di amarsi ancora senza alcun bisogno di dirlo, per quanto strenuamente si fossero impegnati a nasconderlo.
 Ed era proprio questo a segnare la tragicità della situazione: si amavano e tuttavia s'erano persi. Nel momento decisivo non erano stati abbastanza: abbastanza forti, abbastanza coraggiosi, abbastanza fiduciosi...
Eppure, lei lo aveva detto.
Nonostante l'ovvietà di quella affermazione, nonostante il dolore e l'orgoglio ferito, lei lo aveva detto. E quel gesto lo aveva spiazzato più delle parole stesse.
L'aveva guardata, per un minuto che era parso interminabile, e di fronte a sé aveva visto la stessa donna di sempre: bellissima e caparbia, dallo sguardo fatale e il sorriso salvifico.
Un concentrato d'opposti, dannatamente nocivo per chiunque  fosse stato in grado di possedere contemporaneamente i suoi occhi e le sue labbra, la sua anima e il suo corpo -come un tempo a lui era stato concesso. 
Fino al giorno in cui quella stessa donna che lo aveva amato, non lo aveva poi messo da parte, fuggendolo e spezzandogli il cuore, dandogli infine il colpo di grazia.
Solo adesso, a distanza di anni, quando ormai si era rassegnato all'idea che nessuna redenzione sarebbe venuta a trascinarlo fuori dall'inferno in cui era scivolato insieme al loro amore, lei era infine tornata a salvarlo ancora un'altra volta, col solo potere delle parole.
Eppure, nonostante all'apparenza nulla sembrasse cambiato in lei, i suoi gesti, la sua ostinazione, la sua sicurezza nel mostrarsi ai suoi occhi, anche se vulnerabile, senza più nascondersi, tradivano la presenza di una donna nuova, una donna diversa.
Chi era questa nuova Emma? Sembrava sempre la stessa eppure era diversa. 
Quella domanda imperterrita continuava a riaffiorargli dalle pieghe dell'inconscio, sovrapponendosi alla voce di lei.
Emma era sempre stata complicata. Ma ciò che era peggio, Killian non riusciva a darsi pace, inabile a capire cosa avrebbe preferito: se scoprire che Emma era davvero cambiata in quei due anni, o se rendersi conto che in fondo non era che la stessa donna di sempre, semplicemente catapultata in una situazione troppo complicata per non uscirne scalfita.
Del resto, già in passato lei aveva dimostrato d'essere in grado di annullare le proprie barriere solo volendolo. E in fondo era di quella donna che lui si era innamorato, per quanto frustrante quella relazione sapesse essere alle volte.
La strada accanto a lui scorreva rapida, quasi quanto i suoi pensieri. Forme indistinte e macchie di vegetazione dai contorni sfumati gli riempivano gli occhi, mentre il piede flirtava con l'acceleratore un po' di più ad ogni chilometro percorso.
Stava scappando, non aveva problemi ad ammetterlo. E lei del resto lo aveva fatto in così tante occasioni che, si disse, come avrebbe potuto adesso rimproverarlo per aver invertito i ruoli, una volta tanto? Anzi, doveva ammettere che solo adesso, in qualche maniera, poteva capirla: scappare era un gesto vigliacco, non risolutivo e decisamente immaturo, ma era anche terribilmente ristoratore. Liberatorio quasi, nella misura in cui, col solo obiettivo in mente di andare via -ovunque questo via conducesse- si era in grado di distrarsi al punto da scappare persino da se stessi.
Lo squillo del cellulare interruppe momentaneamente quel filo di pensieri, riportandolo di colpo alla realtà. Allentata la pressione su volante e pedali, iniziò a rallentare fino a fermarsi del tutto, al riparo in una rientranza sul ciglio della strada. Non aveva alcuna intenzione di rispondere, anzi tolse la suoneria mentre il viso di Victor campeggiava ancora sul display del telefono. 
A convincerlo a interrompere la sua corsa folle era stato piuttosto il repentino rendersi conto di non riconoscere quasi più il paesaggio intorno a sé, segno che si stava allontanando troppo dal luogo del ricevimento. Andare oltre, perdersi nelle vastità della valle o giungere persino ai confini della città, non gli avrebbe tratto alcun giovamento. E d'altronde lui voleva solo una pausa da quell'ambiente, non era certo una fuga definitiva che cercava.
Sapeva che presto o tardi sarebbe dovuto ritornare sui suoi passi.
Quel “presto o tardi” arrivò in effetti più tardi del previsto, quando il crepuscolo aveva già preso a cancellargli l'ombra intorno, sfiorandolo più e più volte con i timidi raggi di sole che ancora sapevano sfuggire indisciplinati al suo controllo.
Il velo scuro della sera aveva già inghiottito l'asfalto, e sul nero del bitume apparivano ora più nitide le lacrime salate che solo adesso si rendeva conto di stare versando da quelli che, a giudicare dagli umidi indizi, dovevano ormai essere parecchi minuti. Non sapeva se a guidare l'avanzata di quel pianto fosse il solito dolore ,vecchio amico di bevute, o qualcos'altro: nel dubbio non ebbe cuore di impedirgli di fargli compagnia in quella presa di consapevolezza che stava poco a poco schiarendo i suoi pensieri, incamminatisi su un sentiero che mai avrebbe pensato di percorrere di nuovo. Mai di nuovo con lei almeno.
Ma c'era quel sorriso, timido e nostalgico, che aveva appena scoperto sul proprio viso insieme alle lacrime, e che non lasciava dubbi. E sebbene la sua presenza non lasciasse presagire nulla di buono circa il suo futuro stato d'animo, trovava che troppo bene si intonasse a quel suo pianto per poter pensare di sopprimere uno dei due, o persino entrambi, suoi compagni di viaggio.
Lui l'amava.
Ogni cosa trascinava irrimediabilmente dietro di sé questa piccola, affilata verità: l'amava.
Nel momento esatto in cui si era concesso quel pensiero -dopo averlo strenuamente ostacolato, convinto che gli avrebbe divorato l'anima-, e lo aveva abbracciato in tutta la sua ineluttabilità, era come se un grosso macigno fosse scivolato via dal suo petto, e lui si era infine reso conto di quanto stupido fosse stato a combatterli, anziché semplicemente arrendervisi a quei sentimenti.
Era risalito in auto un momento dopo, e aveva preso a percorrere la strada del ritorno con una fretta che nulla aveva a che fare con quella che lo aveva guidato solo un'ora prima. 
Le dita, tremanti, scivolavano continuamente sul volante, reso umido dalla patina di sudore freddo ed eccitato che gli imperlava i polpastrelli.
Sapeva quanto folle fosse. Sapeva di star rinunciando definitivamente ad ogni speranza di poter sopravvivere a quella guerra. 
Lei sarebbe partita l'indomani e nulla sarebbe cambiato. Nessun tentativo sarebbe valso a qualcosa, perchè era già finito tutto tra loro -forse anche prima che cominciasse.
Lo sapeva, lo sapeva bene . Ma saperlo non serviva a nulla perchè -che lei ci fosse per un giorno o per sempre, che lo amasse davvero o lo odiasse, che fosse cambiata o fosse la stessa - non importava. 
Non faceva alcuna differenza perché lui l'amava. È questo adombrava ogni altra cosa.
Tutto ciò a cui riusciva a pensare, adesso era che doveva vederla, ancora e ancora.
 Finché avesse potuto. Finché lei glielo avesse concesso. Finché il tempo a loro disposizione non si fosse esaurito. E sperava, pregava, che lei fosse ancora lì. Perché sì, lei l'indomani sarebbe ripartita, ma in che modo questo avrebbe potuto interessare al suo amore?
Sapeva a cosa stava andando incontro, e a che velocità. Il tachimetro continuava ostinatamente a ricordarglielo, attirando la sua l'attenzione su di sé forse nel vano tentativo di dissuaderlo da una resa che non avrebbe portato alcun cambiamento, se non la possibilità di donargli ancora qualche minuto -o magari un'ora, chissà- con lei. 
Ma non era forse abbastanza? Non era forse questo un motivo valido per correre da lei?
Nel migliore dei casi l'indomani ne sarebbe uscito distrutto, nel peggiore non sarebbe arrivato incolume neanche alla notte; l'euforica rassegnazione che lo stava conducendo da Emma adesso, avrebbe forse guidato i suoi passi  il giorno dopo dietro il suo taxi, verso l'aeroporto, incontro al suo aereo... nell'insano e futile tentativo di impedire una partenza inevitabile.
Ma il piede non vacillò mai sull'acceleratore, la mano non esitò mai sul cambio: che in qualunque circostanza, a qualunque costo e con qualunque conseguenza, lei ne valeva la pena.
Lei ne valeva sempre la pena . 


Due anni prima

Dopo quattro giorni passati a dormire sulla sedia accanto al letto di Emma, le infermiere  avevano costretto Kilian ad andare a casa a mangiare un pasto vero e a farsi una doccia.
Aveva protestato, ma alla fine si era lasciato convincere.

Alle undici e quarantatre di sera il suo telefono squillò .
Ancora nel limbo tra il sonno e la veglia alzò lo sguardo e, con gli occhi  offuscati , guardò l’identificativo chiamate, cercando di riconoscere il numero. 
Pensò di avere un'allucinazione. O forse si trattava semplicemente di un incubo.
Emma.
Il suo nome continuava a lampeggiare imperterrito sullo schermo del  cellulare.

La paura gli corse dentro, così veloce che poté sentire le pupille restringersi. Si alzò  in piedi e guardò il telefono squillare per un secondo senza fine, prima potarselo all'orecchio.

“Sì?” rispose con voce incerta.
"Killian..."

Il suo nome sembrò aleggiare nell’aria per un brevissimo istante.

“Sto arrivando” disse velocemente.






Salve a tutte, scusate il ritardo! Ultimamente il tenpo scarseggia...
In ogni caso ecco il nuovo capitolo! Lo so, non è ancora risolutivo, giuro che non voglio tirarla troppo per le lunghe, nel prossimo si rincontreranno, promesso.
E mi impegnerò ad essere un pò più veloce nell'aggiornamento.
Per il resto che dire? Manca poco più di una settimana al ritorno di OUAT ♥ 
Questa attesa infinita sta per finire!
E poi ovviamente un enorme, gigantesco grazie a tutti coloro che leggono, seguono, e recensiscono questa storia.
Grazie della pazienza, della fiducia e del tempo che mi dedicate!
Al prossimo, un abbraccio, Elena.

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Capitolo 13
*** Cap 13 ***


Talk to me softly 
There's something in your eyes 
Don't hang your head in sorrow 
And please don't cry 
I know how you feel inside I've 
I've been there before 
Somethin's changin' inside you 
And don't you know 
(Don't Cry, Guns'n Roses)

Due anni prima


Si mosse con passo incerto lungo gli atrii e i corridoi, fino a quando arrivò alla stanza di Emma.

Si fermò, mettendo la mano sinistra sulla porta.

Dietro di lui c’era la postazione delle infermiere ed un corridoio in penombra e vuoto, illuminato dal bagliore etereo dello schermo di un computer e da alcune lampade da tavolo. Ogni cosa era ferma: tutto era immobile.
Anche lui. Nonostante stesse tremando.

Spinse la porta di vetro, facendola scorrere di lato, prima di passare attraverso una cortina di tende abbassate
Il calore lo colpì all’istante.
Quello della stanza, quello della luce tenue e quello degli occhi di lei.

Chiuse dolcemente la porta dietro di sé e l’urgenza di arrivare se ne andò, ora che era finalmente lì.

Camminò lentamente fino al suo letto, prima di sedervisi accanto riconoscente. Si sentì davvero esausto nel profondo e  avvertì il peso degli anni addosso, mentre stava seduto lì. Si passò la mano sinistra sul viso, rivelando la stanchezza, prima di lasciare che i suoi occhi si focalizzassero su Emma.

Lei sembrava stanca almeno quanto lui, ma portava questa spossatezza con molta più grazia. Gli sorrise dolcemente, mentre gli occhi minacciavano di far cadere le lacrime.
Lui le sorrise di rimando – “Hey”

“Hey” replicò lei.

Killian tirò un sospiro di sollievo, mentre chiudeva gli occhi e si piegava verso di lei, il più vicino possibile – “Ero spaventato che potesse essere stato solo un sogno, amore”

Il sorriso di lei si allargò, prima che i suoi lineamenti diventassero seri.

“Killian” lo richiamò.

Lui volse la testa verso di lei e deglutì alla vista dello sguardo che lesse nei suoi occhi verdi.
La mano  di Emma  si allungò fino a posarsi sul suo viso, appena sotto la mascella, ricoperta da una barba incolta.
“Non è stata colpa tua”

Qualcosa dentro di lui si ruppe.

Poté sentire quasi fisicamente la frattura, riecheggiare dentro di sé.

Era come la fisioterapia: Prima il più leggero movimento ti causa una quantità infinita di dolore. Poi il fisioterapista lavora gentilmente, facendo pressione nel modo giusto. Tu gridi per l’agonia, per lo spasmo che sembra pervadere ogni muscolo del corpo, ma poi arriva il sollievo, il dolore sembra sparito.

Emma  gli aveva preso il cuore e l’aveva avvolto tra le sue mani.
Il dolore si stava affievolendo.
Stava guarendo da quel crampo.

“Non è stata colpa tua” ripeté lei, dolcemente.

Le lacrime, che aveva combattuto così strenuamente, sgorgarono dagli occhi di Killian.
Non avrebbe voluto piangere, non in quel momento.
Non ne aveva il diritto, non lui. Ma dopo tutti quei giorni passati a cercare di essere forte abbastanza da poter sostenere anche lei, le chiuse erano crollate.
Si piegò ulteriormente in avanti, nascondendo il viso sul ventre piatto di Emma. 
Le passò il braccio sinistro attorno ai fianchi, stringendola forte, come a non volerla lasciare mai più, mentre le dita delicate di lei gli accarezzavano i capelli.
Non ci fu alcun suono, mentre le sue lacrime filtravano attraverso le coperte e si accumulavano sullo stomaco di Emma: i suoi singhiozzi furono silenziosi, mentre le braccia gli tremavano. 
Lei non disse nulla, perché sapeva che le parole sarebbero state di poco conforto: le sue stesse  guance si rigarono di lacrime.

Piansero per se stessi, per l’altro; piansero per l'ingiustizia del passato e per le incertezze del futuro.

Alla fine, quando non ci furono più lacrime, per cui piangere, il sonno minacciò di avvolgerli.

Con il capo ancora poggiato sullo stomaco di lei, Killian alzò lo sguardo, puntando i propri occhi in quelli di Emma, che scoprì lo stavano guardando. Tracce di lacrime versate, erano presenti anche sul suo viso.
Sorrise contro il suo stomaco, mentre il braccio continuò a rimanere stretto attorno ai suoi fianchi, spaventato di lasciarla andare.
Gli occhi gli si chiusero: la stanchezza lo raggiunse, mentre il sonno lo avvolgeva, grazie ai movimenti gentili delle dita di Emma tra i suoi capelli.

Ed anche quando il suo respiro divenne regolare ed il ritmo cardiaco rallentò, la sua stretta su di lei rimase salda.



«Emma...»
Fu più un sussurro che un richiamo, ma in qualche modo ebbe la sensazione che la donna ne fosse uscita rassicurata, avendo notato la tensione scivolarle impercettibilmente via dalle spalle.
Le mani adesso sfregavano contro le gote, a catturare coi palmi le stille saline che le avevano invase probabilmente, e solo dopo parecchi di quei movimenti David la vide finalmente girarsi -seppur lievemente- verso di lui.
«È tutto a posto?»
Si morse la lingua dandosi dello stupido non appena ebbe sentito l'ultima sillaba di quella domanda così retorica scivolargli via dalla gola. Bastava uno sguardo per capire che no, non era tutto apposto. E tuttavia, cos'altro avrebbe potuto dirle -o chiederle- senza apparire indiscreto?
Un timido accenno di sorriso le solcò però il volto, e David ne fu egoisticamente rinfrancato, pur consapevole che, lungi dall'essere spontaneo, Emma s'era costretta a farlo per aiutare lui.
Seguirono sguardi e silenzi, accompagnati dal rumore dei passi di lui che, diligentemente, lo avevano guidato fino al letto per poi con saggezza consigliargli di sedervisi, giusto accanto a lei che, posizionata sul pavimento a un soffio da lui, sembrava essergli grata di quella silente offerta di conforto. Lo ringraziò strizzandogli brevemente il palmo della mano, in un gesto che in tanti anni mai si erano concessi, ma che suonò normale a entrambi, addestrati a volersi bene in un modo professionale ma ugualmente intenso. Trascorsero così alcuni minuti, fisicamente vicini ma mentalmente lontani, con la testa di lei che -David lo sapeva- era distante anni luce da quella stanza, approdata verso luoghi a lui ignoti e senza dubbio dolorosi, da cui però non sentiva più l'urgenza di strapparla con discorsi vuoti, avendo ora chiaro in mente che il suo solo compito in quel momento era attendere che lei fosse pronta a tornare, e a parlare, se avesse voulto. 
«Dovrei alzarmi da qui, è una cosa così ridicola...»
«Non c'è alcuna fretta»
«Sì invece, giù è pieno di sedie comode e invece io me ne sto seduta qui sul pavimento ghiacciato, perdendomi oltretutto il matrimonio dei miei amici. E per cosa, poi? Mary Margareth si sarà preoccupata non vedendoti tornare »
«Non preoccuparti di questo, Victor è andata a chiamarla»
Quest'ultima frase sembrò sortire un effetto insperato sulla donna che, come risvegliatasi da un letale torpore, quasi inciampò nella frenesia del rimettersi in piedi, dimentica d'improvviso di tutta la fatica che pareva averle ostacolato ogni movimento fino ad allora.
«No, mio Dio. Sto già trattenendo te qui, ho già fatto abbastanza. Non è  necessario. Io sto bene, beh... starò bene. Possiamo almeno fingere che sia così?»
«Sono certo che il resto degli invitati scambierà i tuoi occhi rossi per commozione»
«Direi che è perfetto. Vogliamo andare allora?»
«Certa di sentirti pronta?»
«Sì»
Eppure la sua mano rimase fermamente avviluppata intorno alla maniglia della porta. A dispetto della sicurezza nella voce, il resto del corpo era in aperto conflitto, e non ebbe difficoltà a indovinarne il perché ancora prima che lei desse un nome alla sua esitazione.
«Killian... lui è di sotto?»
«In realtà credo se ne sia andato»
«Bene, andiamo»
Quella risposta si rivelò essere quella giusta, e come una chiave si intrufolò nella serratura della porta facendola scattare, liberandoli entrambi dalla prigionia di quelle quattro soffocanti mura.
«E, David...grazie»
«Non dirlo neanche. Solo, Emma» quel richiamo a un passo dall'uscita gli fece guadagnare un'occhiata curiosa dalla bionda, ora in attesa, con gli occhi puntati su di lui «qualunque cosa voi due stiate combinando non fateci aspettare troppo, intesi?»
La curiosità lasciò il posto a un risolino privo d'alcuna ilarità, sullo sfondo di un sorriso ben più amaro di quanto si fosse augurato.
«Dubito ci sia qualcosa da attendere ormai»
Aveva intuito che la ferita era ancora troppo fresca e profonda per sperare che almeno lei, in quella coppia di stolti, potesse ragionare con lucidità e vedere quello che a lui appariva così chiaro e lampante da sfiorare quasi il ridicolo. 


Due anni prima. Ore 8:30 am

Si svegliò lentamente, godendosi la sensazione delle mani di Emma, che si muovevano sui suoi capelli.

Il suo braccio sinistro e la testa erano incredibilmente caldi e ben riposati, mentre il resto del corpo era scomodamente freddo ed irrigidito.
-Giorno-.
Si lamentò dolcemente contro il suo ‘cuscino’.

Cercò di mettere meglio a fuoco, strizzando gli occhi a contatto con la forte luce del mattino.
Attraverso il solo occhio aperto guardò la figura ben riposata della sua Swan. 
“Giorno” mormorò  contro il suo addome.

Fu riluttante a muoversi, ma la sua parte destra era completamente in agonia. Alzò lentamente la testa, combattendo il desiderio di riabbassarla, mentre gli occhi si adattavano alla luce. Il peso della sua mano passò lungo il ventre piatto di lei, che aveva imparato a conoscere alla perfezione, facendo rabbrividire Emma quasi visibilmente.

-Deduco dalla distinta mancanza di neurologi nella stanza, che tu non abbia parlato con nessun altro- disse, inclinando leggermente la testa.

-No. Dovevo… -  fece una pausa, cercando di trovare le parole giuste – Volevo assicurami che tu stessi bene, prima di parlare con Whale-

-Eri preoccupata per me?- chiese incredulo - sei tu quella che è quasi morta per causa mia, Emma…-

-Non è stata colpa tua- gli disse esasperata.

- Ho lasciato che ti sparassero- replicò lui a voce alta.

-Tu mi hai salvato Killian- 




Due anni prima. Ore 23:45

Killian spense la luce della stanza ed accese una lampada, che immergeva la camera in una penombra molto delicata e tenue. Tirò le lenzuola del letto, per coprirla fino al mento e le tolse il telecomando di mano, per poi abbassare il volume della televisione.
Dopo tre episodi di una sitcom in seconda serata Emma si era addormentata.
La guardò per tantissimo tempo, desiderando di poter vedere i suoi sogni.
Dopo nemmeno quaranta minuti di sonno, lei incominciò a lamentarsi.
Killian si tese: tutto il suo corpo s’irrigidì, quando sentì il primo delicato suono uscirle dalle labbra.

“No” sussurrò lei, mentre tremava, nonostante stesse sudando.
Si chinò su di lei, chiedendosi cosa fare.

“No” disse lei a voce un po’ più alta.
“Tesoro, cosa c’è che non va?” le chiese in tono dolce e rassicurante, nella speranza che lei continuasse a dormire e si dimenticasse sia delle sue parole che dell’incubo.

“Lui ha una pistola” mormorò, immergendosi nel calore della mano di lui, che ora le accarezzava i capelli.

“Lo so, Emma- le disse in tono tranquillo- non gli permetterò di farti di nuovo del male” aggiunse in un sussurro.

Sentendo i muscoli di lei rilassarsi ancora una volta ed i suoi incubi svanire Killian si addormentò non molto tempo dopo, ma così facendo non poté sentire i lamenti di lei.
Presto fu troppo tardi, per evitare che Emma si svegliasse con un urlo acuto, che spezzò la quiete della notte.
Killian si svegliò all’istante.

Un’infermiera irruppe nella stanza pochi secondi dopo, facendola urlare ancora una volta per lo spavento.
“Esci ” la supplicò Killian, senza preoccuparsi di svegliare mezzo ospedale: l’unica paziente, di cui si preoccupava al momento, era quella che avrebbe avuto tra le braccia pochi attimi dopo.

Si sedette sul letto, vicino al suo fianco e l’avvolse tra le proprie braccia, mentre lei si buttò sul suo petto, tremando come una foglia durante una crudele tempesta d’inverno. 
Non disse nulla.
Non c’era nulla da dire.

Non le disse che gli dispiaceva, perché non sarebbe stato abbastanza.

Lei gli aveva detto che non era responsabile dell’accaduto, però Killian non riusciva a togliersi dal corpo e dalla mente la sensazione di essere stato il solo ed unico responsabile di tutto quello.

Con queste sensazioni continuò a tenerla tra la braccia; fino a quando le lacrime non terminarono, fino a quando il suo respiro non rallentò.

“Scusa” gli disse lei non appena tornò padrona della situazione, portandosi la coperta al petto.
Le era improvvisamente venuto freddo.
“Non hai niente di cui scusarti, Emma”
"Killian mi sono resa ridicola, ho urlato in piena notte per uno stupido sogno. Non riesco ancora a gestire questa cosa come vorrei e a farne le spese sei sempre tu”
“Quello che è successo stasera non mi ha fatto certo cambiare opinione su di te, Emma. Rimani la donna più forte che io conosca. Concedimi solo di restarti accanto, lascia che io ti ami”
Lei annuì in silenzio con gli occhi ancora bassi.
" Vuoi parlane, del sogno intendo?"
Emma scosse la testa energicamente in risposta
" Allora proviamo a dormire, tesoro" lui si chinò in avanti e le appoggiò le labbra sulla fronte, facendole indugiare lì per qualche secondo, mentre la mano le accarezzava gentilmente il collo teso.
Ma Emma quella notte vinse il sonno, spaventata di poter sognare un uomo con una pistola e di poter sentire la mancanza di quel bacio.





“Buongiorno” disse  in tono esausto, vedendo che Killian iniziava a svegliarsi.

“Giorno” - replicò lui, prima di sbadigliare rumorosamente e stiracchiarsi le braccia – “Come hai dormito?”

“Non ho dormito” gli disse con onestà.

“Oh” – disse lui con leggera trepidazione 
-Potevi svegliarmi-
-Killian sono giorni che non dormi-
-  A quanto pare anche tu, dovresti dormire Emma-
-Non voglio. Non posso-
-Qual è dei due il motivo?- insistette lui
-Non lo so-

Stettero in silenzio per qualche minuto, ad ascoltare i suoni dell’ospedale, che si svegliava intorno a loro: lo stridere delle ruote dei carrelli; il rumore dei passi delle infermiere ed dei motori delle macchine di pazienti e dottori, che andavano e venivano in modo incessante dal parcheggio.


-Non voglio perdere il controllo- ammise Emma.

Il rumore dei suoi respiri superficiali e leggermente faticosi fu l’unico suono all’interno della stanza.
Ogni volta che i suoi polmoni si dilatavano, questi tiravano i punti e le facevano premere la spalla contro il letto.

-Non voglio dormire. Non posso dormire o perderò il controllo- spiegò in tono calmo.
-dovrai dormire prima o poi, amore-  
- Lo so, solo non adesso, per favore- gli disse con voce tremante, come se stesse cercando di trattenere le lacrime.
-Okay, okay- 

In qualche modo lei gli finì di nuovo tra le braccia, con la testa premuta contro l’incavo del suo collo.

Non pianse, perché questo era un altro modo di mantenere il controllo; per non permettersi di lasciarsi andare. La mano di Emma si chiuse a pugno attorno alla camicia di Killian, desiderando di non lasciarlo andare, neanche quando il suo respirò rallentò. Lui, in quel momento, fu sicuro che lei si fosse involontariamente arresa a quel sonno, di cui aveva paura.

L’avrebbe dovuta svegliare?
Avrebbe dovuto lasciarla riposare?
Non c’erano risposte a queste domande.

Ma non ci fu tempo per rispondervi perchè Emma urlò con quanto fiato aveva in gola nel risvegliarsi appoggiata a lui, e s’immerse ancora di più in quell’abbraccio per un momento, prima di ritrarsi con uno sguardo seccato e meditabondo negli occhi.

-Vattene- gli disse in tono piatto.
-Cosa?- le chiese lui, totalmente confuso.
-Per favore, vattene-
-Ma...Emma ..-
-Killian, dannazione vattene!- gridò lei, con un fuoco bruciante negli occhi.
- Va bene-  acconsentì, ancora confuso, ma incapace di andare contro i suoi desideri, e  preoccupato per il suo repentino cambiamento d’umore e per la sua riluttanza a ritornare a dormire.

Sul punto d’alzarsi, fu fermato dalla mano di lei, che gli circondò il collo, mentre il delicato tocco delle sue dita, premute contro la sua pelle, lo fecero bloccare sui propri passi. Mentre lui era ancora completamente confuso, Emma se lo tirò vicino e premette le proprie labbra su quelle di lui.

-È troppo facile addormentarsi, quando tu sei qui- gli disse a fior di labbra- per questo devi andare 
-Buono a sapersi che la mia compagnia è così piacevole- disse appoggiando la sua fronte su quella di lei: era contento di sapere che ci fosse una ragione dietro il suo improvviso desiderio, di volerlo fuori dalla stanza.
Unì nuovamente le loro labbra, approfondendo il bacio fino a quando ad entrambi non mancò il fiato.
-Killian- sussurrò Emma leggermente esasperata- non credo che ti lascerò uscire da questa stanza se continui così-
- Okay vado- le concesse con un sorriso malizioso.




Spalla a spalla David e Victor osservavano Emma seduta al tavolo degli sposi, accanto Ruby e Mary Margareth
«Beh, che ti ha detto?»
«Niente Victor, non mi ha detto niente»
«Come niente? E tu non hai indagato? Ma che razza di detective sei?»
«Uno che non è in servizio! Prima la pistola, poi l'interrogatorio... vuoi anche chiedermi di inseguire il sospettato o pensi di potermi lasciar fare soltanto il testimone oggi?»
«Scusami, hai ragione, è che..»
«Lo so»
«Ok, ci penseremo più tardi a queste cose. Oggi si pensa solo al matrimonio!»
«Bene, perché ho un discorso da fare nei prossimi cinque minuti e con tutto questo trambusto non ricordo assolutamente più nulla di ciò che dovevo dire»



Due anni prima. Ore 15:30

I mormorii del detective Campbell raggiunsero ovattati le orecchie di Killian, mentre il poliziotto si presentava insieme al collega Quinn.
Sapeva che qual momento sarebbe arrivato prima o poi.
Dopo aver lavorato al fianco di Emma al distretto, una delle cose che aveva capito era senza dubbio l'importanza delle deposizioni.
Solo sperava che quel giorno sarebbe arrivato più tardi.
Lui aveva già dato la propria, era stato attento e minuzioso sperando che questo potesse in qualche modo dissuaderli dal porre ulteriori domande ad Emma, che la sua versione potesse bastare, ma a quanto pareva si era sbagliato.
Entrando nella stanza al seguito di Campbell e Quinn poté quasi sentire la paura e la trepidazione di Emma, che gli gridavano e lo imploravano di darle quel conforto, che sembrava potesse ottenere dalla sua  presenza.

Le presentazioni si conclusero
Poi il silenzio.
Loro stavano aspettando che lui se ne andasse.
La stanza era stracolma di tensione: Campbell era ai piedi del letto con il suo fidato registratore in mano, Quinn si era appostato in un angolo buio, che sembrava completamente confacente alla sua natura ed Emma era in mezzo a tutto questo, con le pupille leggermente dilatate a causa della paura e dell’ansia che le scorrevano nelle vene.

Lui cercò di sorridere per infonderle un po’ di sicurezza, ma non poté.

Era impossibile fingere d’esser felici, dopo aver ricordato quel giorno.

E lei avrebbe dovuto riviverlo da sola.
Aveva già chiesto di poter restare con lei, ma il no che aveva ricevuto in risposta era stato categorico.
Killian si accigliò e si mosse verso la porta, anche se ogni fibra del suo corpo gli stava dicendo che quella in cui stava andando era direzione sbagliata.

“Killian…” gli gridò Emma.

Lui si girò.

“Detective, per favore, non voglio…” – disse lei, guardandosi la mano sinistra, che si era chiusa a pugno attorno alla coperta, prima di guardare negli occhi Quinn -
 “Voglio che lui resti qui”
" Sa che questo non è possibile"
" Io resto" intervenne Killian
Sapeva che era troppo presto, per colpa dei demoni che le invadevano i sogni: lei non era pronta per affrontare tutto questo da sola.

Forse un giorno, ma non ora.

Quinn annuì con un sospiro di disappunto- lo consideri un favore da collega a collega, detective Swan-

Killian seppe istantaneamente che sentire questa versione dei fatti sarebbe stato molto peggio, che redigere la propria testimonianza.
Superò i detective e, facendo attenzione a mantenere il più possibile le distanze da loro, si sedette sulla sedia accanto ad Emma.
Lei lasciò andare la coperta ed afferrò la sua mano.
Killian rafforzò la sua presa per un momento, quando sentì la mano di Emma tremare nella sua.
"Ci potrebbe dire cosa è successo quella mattina, detective Swan?” le chiese Campbell.

Lei contraccambiò la sua stretta, prima di rispondere alla domanda.
La sua voce  incominciò a raccontare quella scena che non aveva mai dimenticato.
Ad ogni parola, ad ogni descrizione, le emozioni, che aveva pensato di poter controllare, gli crebbero dentro.
Poté sentire il proprio corpo tremare scosso dal fortissimo desiderio di avvolgerla tra le braccia,  fermare la sua voce che raccontava uno dei peggiori giorni della sua vita e obbligare i poliziotti ad andarsene dalla stanza. 
Ma si trattenne: trattenne le proprie emozioni e le proprie lacrime.
Questo passo doveva essere compiuto.
Odiò ogni secondo di quella tortura, e detestò il tremore delle proprie mani, che stringevano quelle di Emma.
Ma tutto questo doveva essere affrontato.
La voce di lei si riversò su di lui come un’ondata di sicurezza forzata e controllo a mala pena mantenuto.
Lei parlò del caso che stavano seguendo, dell'incursione e dello sparo.
Parlò del dolore, che le aveva pervaso il corpo.
Poi di lui. 
La pressione applicata sulla ferita, il calore della sua mano ed il tono della sua voce, che le aveva tranquillizzato la mente, presa dal panico.
Killian guardò il pavimento, per non vedere cosa ci fosse negli occhi dei detective e, ancora di più, cosa ci fosse negli occhi di Emma. La stretta sulla sua mano gli disse abbastanza.
Scoprì che era stata cosciente fino all’ambulanza, prima che il buio l’avvolgesse. Poi il racconto finì.

La mano sotto la sua divenne improvvisamente fredda e così lui fece scorrere le proprie dita quasi bruscamente fino alle nocche di lei, cercando di far ritornare il calore in quelle dita fredde.
Campbell annuì, prima d’incominciare a parlare in maniera de tutto monotona delle formalità legali e delle procedure da seguire, ma Killian non sentì nulla di tutto ciò, concentrato com'era nel riscaldare quella mano fredda.

Quinn tossì, come a voler terminare la conversazione, mentre si staccava dal muro.

Quando s’alzò, Killian la guardò negli occhi, per la prima volta da quando Emma aveva iniziato a parlare.

Lo stomaco gli si contorse in modo doloroso. Si sentiva svuotato
Ma lei gli sorrise ed il calore di quel sorriso si riversò nella sua anima e gli riempì il corpo provato. 
Attraverso la stanchezza, anche lui le sorrise.

Seguì i detective fuori dalla porta, dopo aver ricevuto uno sguardo riconoscente da parte di Emma.
Ma sapeva che la richiesta di lei di essere lasciata sola era ancora valida.



Elegantemente accomodata sulla sedia, Emma vagava con lo sguardo per la sala senza davvero fermarsi a osservare nulla, dimentica di sé e di tutto ciò che aveva intorno.
Aveva provato ad affrontare con sé stessa ciò che era accaduto solo un'ora prima in quella camera da cui lui era letteralmente fuggito, ma ogni pensiero o conclusione a riguardo si erano rivelati semplicemente troppo pesanti da gestire in quel frangente, dove l'idea di mettersi a nudo col proprio dolore era inevitabilmente impossibile da attuare. Aveva dunque provato a concentrarsi sul resto, su ciò che non erano loro, ma nonostante un inizio promettente aveva capito d'aver nuovamente fallito quando, dal discorso agli sposi, s'era improvvisamente trovata catapultata nel pieno di una nuova sessione di balli, incapace di dire cosa fosse successo tra un episodio e l'altro, e soprattutto che ruolo avesse avuto lei in quel lasso di tempo che pareva aver rimosso. E quasi avrebbe persino potuto credere che non fosse affatto trascorsa un'ora tra i due fatti, se a tradire il trascorrere del tempo non ci fosse stato il crepuscolo, che fuori dalla finestra stava lentamente inghiottendo ogni ombra sul suo passaggio.
In quello stato di dolce apatia in cui era lentamente scivolata gli giungeva solo qualche stralcio di musica di tanto in tanto, che ovattata la cullava sul posto. Non riusciva a distinguerne le parole, troppo concentrata a mantenere il silenzio nella propria testa, ma a giudicare dagli assaggi di melodia che riusciva a racimolare, sapeva che avrebbe amato quella canzone -se solo si fosse data pena di ascoltarla. 
Persa in quel groviglio d'indolenza a malapena lo vide avvicinarsi, e solo quando una mano -grande, forte, e sicura- le fu tesa davanti agli occhi prese coscienza di chi avesse di fronte, sobbalzando vistosamente per la sorpresa.
Quello aveva tutto l'aspetto di un invito a ballare.
Eppure l'uomo in piedi davanti a lei era lo stesso che solo un'ora prima era fuggito abbandonandola sul pavimento freddo di una stanza d'albergo, chiudendosi dietro la porta di quella stessa camera e del suo cuore.
Era lo stesso uomo sì, ma lo sguardo era cambiato, tintosi di una sfumatura a cui lei non riusciva in alcun modo a dare un nome.
Si chiese se dovesse odiarlo. Se dopo quello che era successo, dopo il modo in cui era fuggito e l'aveva rifiutata, lei dovesse mettere da parte ciò che voleva per salvaguardare gli ultimi scampoli del proprio orgoglio ferito. Si chiese se fosse davvero in grado di ballare con un uomo che aveva appena frantumato tra le proprie dita il suo cuore, a prescindere da chi avesse ferito chi per primo.
«Adesso cosa significa questo Killian?»
«E' solo un ballo. A questo punto, che vuoi che sia. Fidati di me.»
Ma la propria mano aveva già deciso, protesa in aria verso la sua, e ognuna di quelle domande contava poco adesso che il calore delle sue braccia tornava a ghermirle il corpo.



Due anni prima. Ore 17:00

Retrocedette fino a quando non superò le porte dell'ascensore e camminò all’indietro fino a quando il freddo metallo gli fu premuto contro la sua schiena.

Chiuse gli occhi.
Era stanco.
Tanto stanco.

Avrebbe potuto rimanere lì per ore, semplicemente ad ascoltare il suono del proprio respiro ed il mondo intorno a sé; a godere della freddezza del muro, che gli penetrava in corpo attraverso il sottile materiale della camicia.

Un suono squarciò l’aria del pomeriggio.
Un urlo.
Killian sbiancò.
Sarebbe  potuto essere solo un suono di passaggio oppure se lo sarebbe potuto immaginare, ma poteva giurare che fosse stata Emma ad urlare.
Guardò i numeri salire, mentre il suono di quelle  grida gli rimbombava ancora nelle orecchie.

Le porte si aprirono con riluttanza, come se non avessero voluto esporre gli occupanti, protetti dall’ascensore, al caos che c’era fuori.

Urla e  pezzi di equipaggiamento medico, popolavano la camera di Emma.
All'inteno regnava la confusione più totale.
Una confusione di cui lui, presto,fu parte.

La stanza era in disordine: il letto era in un angolo del muro, la cassettiera era stata  spostata dal proprio posto ed un armadietto, contenente rifornimenti medici imballati, era stato rovesciato. Fortunatamente non c’erano vetri rotti per terra.
Le infermiere erano in piedi, ferme ed atterrite.
Due medici, tra cui lo stesso Hopper osservavano la scena senza sapere come intervenire.
Emma  si era ritirata in un angolo, accovacciata per terra ed era appoggiata con la schiena tra le due pareti. Le lacrime le scendevano lungo le guance ed aveva una macchia rossa sulla vestaglia all’altezza della spalla. 
Hopper tentò di avvicinarglisi ma il gridò che lei lanciò in risposta lo fece desistere.
Lo stridere dell’aria, che le entrava nei polmoni mandava dei brividi lungo la schiena a tutti quelli che si trovavano nella stanza.

Killian  attraversò velocemente quella piccola schiera di persone e si lasciò velocemente cadere al suolo, accanto ad Emma.
Lei alzò le proprie mani ora strette a pugno, pronta a difendersi dai demoni dei suoi sogni, che avevano raggiunto il mondo reale.
Lui ignorò i suoi colpi, poi, si piegò in avanti, per prenderle tra le mani il viso, e desiderò che i suoi occhi incontrassero i propri.

Lei scoppiò in un pianto angosciante e silenzioso e chiuse gli occhi, mentre altre lacrime le iniziarono a scendere lungo le guance già bagnate.

“Emma” sussurrò lui.

Lei si lamentò ed aprì con cautela gli occhi.

I suoi pugni si rilassarono.

Il silenzio scese sulla stanza per la prima volta dopo minuti, nel momento in cui lei lo guardò negli occhi.

“Mi hanno sparato, lui mi ha sparato di nuovo” - sussurrò lei con voce rauca e distrutta – “Fa male”

Chiuse di nuovo gli occhi.

Guardando in basso Killian poté vedere del sangue, filtrarle attraverso la vestaglia a livello della spalla.

“Emma, amore" – disse con calma, ma lei continuò a tenere gli occhi chiusi.

“Emma! Guardami!” ripetè alzano il tono, con le mani che ancora le cullavano la testa, mentre i pollici le scostavano i capelli appiccicati alle guance umide.
La mano destra, ancora provata dall'incontro ravvicinato che aveva avuto con il muro solo pochi giorni prima, gli pulsava ad ogni oscillazione del viso di Emma.

Lei sbatté le palpebre un paio di volte, prima di lasciare che i loro occhi s’incontrassero.

“Quel suono…era il ritorno di fiamma di una macchina. Non ti hanno sparato: sei caduta dal letto e sei atterrata sul fianco, tirando i punti e facendoli sanguinare. Ecco perché senti dolore, ecco perché fa male” - le disse.
Sospirò accarezzandole lentamente il viso “Non ho intenzione di permettergli di farti di nuovo del male” mormorò.

Lei annuì, accettando le sue parole.

Killian poté vedere l’esatto momento in cui la comprensione ed il sollievo l’attraversarono.
Nuove lacrime sgorgarono copiose lungo le sue guance.
Lacrime di sollievo, per il fatto d’esser viva.
Lacrime di vergogna, per la propria reazione a quel suono.

Killian s’accigliò leggermente, prima di sistemarsela in grembo. Poi l’avvolse tra le proprie braccia e la cullò molto delicatamente: lei singhiozzò silenziosamente contro la sua spalla e gli passò il braccio sinistro attorno alla vita afferrando con forza la porzione di camicia sulla sua schiena.
Killian  fu così concentrato su Emma, che quasi si dimenticò che dietro di lui, la stanza era piena di persone, che guardavano increduli.

Su una spalla le calde lacrime di lei gli stavano impregnando la camicia raggiungendo la pelle,  mentre sulll’altra brillava una scia di sangue, proveniente dalla ferita di Emma.
Il sangue di lei fu su di lui ancora una volta.
E lui ne era ancora il responsabile.

Passarono alcuni minuti in totale silenzio.

“Amore…”

Tutti videro le nocche di lei diventare bianche per la forza con cui stringeva quella camicia, ma solo Killian poté sentire la forza di quella presa, che fu come una morsa intorno al suo cuore.

“Devi alzarti” le disse in modo rassicurante, mentre le frizionava le mani sulla schiena.
La sua stretta di lei rimase salda, mentre scivolava  ancora di più in quell’abbraccio.
Ancora più sangue si riversò sulla camicia di Killian.

“Sarò qui”- le sussurrò, sfiorandole la fronte con le labbra - “Te lo prometto”

Era l’unica cosa che le poteva promettere.
Non poteva prometterle che sarebbe andato tutto bene.
Non poteva prometterle che sarebbe stata bene.
Ma poteva essere lì per lei, per quel tanto che poteva fare.

Si alzarono insieme, lentamente ed in modo impacciato, mentre lei si tenne vicino al petto di lui per tutto il tempo.
Killian si girò leggermente, per vedere una stanza piena di persone, per non parlare del numero indefinito di occhi, che li guardavano dal corridoio.

Non c’era da chiedersi perché lei non volesse alzare lo sguardo.

“Okay, tutti fuori ora! - intervenne Hooper-  E che qualcuno chiuda queste tende, per l’amor di Dio!”





Sospirò delicatamente, quando si girò verso il letto.
Hopper se ne era appena andato, dopo aver suturato la spalla di Emma che ora se ne stava 
rannicchiata su se stessa in quel letto che sembrava grandissimo, mentre lei cercava di rimpicciolirsi sempre più.
La stanchezza si liberò da lei ad ondate incessanti e penetranti, mentre gli occhi le rimanevano a mala pena aperti, nel tentativo di sconfiggere il sonno.

"Vuoi che me ne vada di nuovo?” le chiese delicatamente.

Spaventato che gli dicesse di sì.
Spaventato che gli dicesse di no.

“No, voglio che tu stia qui. Se devo dormire, ti voglio qui”

“Perciò pensi che io sia più spaventoso dei tuoi incubi?"

“Sì” – gli disse con semplicità – “Li hai mandati via la prima volta”

“Ok” replicò lui, con voce tremante e leggermente insicura.

Emma  gli rivolse un mezzo sorriso sonnolento e chiuse gli occhi.

Si addormentò quasi subito.



Non ci furono altre parole, se non quelle della canzone: incisive e taglienti, parevano descrivere la loro storia. Due sconosciuti le cui strade s'erano intrecciate in una notte qualunque, con gli sguardi, i sorrisi e una palpabile attrazione a far da sfondo al più improbabile degli incontri, e l'amore -caldo e accogliente- ad appena un passo.
Love song. Aveva già ballato quella canzone con Killian. 
Una volta, in un passato che pareva troppo lontano, lui le aveva dedicato quella canzone e l'avevano ballata insieme, al centro della cucina, solo loro due.
E adesso rieccoli insieme in un ballo , l'equilibrio finalmente ristabilito seppur per il breve tempo di una canzone. 
Ed Emma, stretta al suo petto come se da questo dipendesse la sua intera esistenza, non riusciva a non chiedersi come avrebbe fatto a lasciarlo andare quando inevitabilmente fosse giunto il momento, ora che ricordava la sensazione di stare semplicemente tra le sue braccia, senza passionali pretese a sconvolgere la dolce semplicità di quel gesto.




Cara Ragazze, eccomi qui!
Manca meno di un giorno alla nuova puntata! 
Questi tre interminabili sono finalmente finiti e per festeggiare ho deciso di lasciarvi il nuovo capitolo.
Come sempre ci tengo a ringraziavi tutte, perchè senza di voi questa storia non esisterebbe. Siete il cuore di ogni capitolo. 
Quindi GRAZIE. Ormai non ho più parole! 
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, un abbraccio, Elena.

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