Skyfall di Slytherin_Eve (/viewuser.php?uid=887491)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Discorso ***
Capitolo 2: *** 02. Osservazione ***
Capitolo 3: *** 03. Amicizia ***
Capitolo 4: *** 04. Impulso ***
Capitolo 5: *** 05.Passato ***
Capitolo 6: *** 06.Cambiamento ***
Capitolo 7: *** 07. Sonno ***
Capitolo 8: *** 08.Innocenza ***
Capitolo 9: *** 09. Verità ***
Capitolo 10: *** 10. Consapevolezza ***
Capitolo 11: *** 11. Buio ***
Capitolo 12: *** 12.Ruolo ***
Capitolo 13: *** 13. Promessa ***
Capitolo 14: *** 14. Lacrime ***
Capitolo 15: *** 15. Wakanda ***
Capitolo 16: *** 16. Wakanda pt.2 ***
Capitolo 17: *** Speciale - A Very Turing Christmas ***
Capitolo 18: *** 17. Famiglia ***
Capitolo 19: *** 18. Stelle ***
Capitolo 20: *** 19. Stasi ***
Capitolo 21: *** 20. Drone ***
Capitolo 22: *** 21. Echi ***
Capitolo 23: *** 22. Guerra ***
Capitolo 24: *** 23. Memoria pt.1 ***
Capitolo 25: *** 24. Memoria pt.2 ***
Capitolo 26: *** 24. Condanna ***
Capitolo 1 *** 01. Discorso ***
">>
ATTO
PRIMO: DISCORSO
"They'll
try to push drugs,
to
keep us all dumbed down
and
hope that we will never see the truth around."
Muse
Settembre
2015
Quando
il taxi si fermò, l'autista emise un fischio ammirato. Non
le
interessava sapere se fosse dovuto all'armonica struttura in vetro,
incastonata nel verde e che brillava al sole di inizio autunno; o
alla bella donna dai capelli vermigli, sciolti in morbide onde lungo
le spalle, che stava in piedi sul ciglio della strada. Aspettandola,
un sorriso enigmatico sulle labbra e le braccia icrociate sul petto,
sopra alla morbida giacca di panno verde militare.
"Avvisatemi,
la prossima volta che cercate personale in questo posto!"
Commentò smaliziato l'indiano, voltandosi verso i sedili
posteriori
con un ghigno divertito.
Elle
rispose con una smorfia sorniona, pagando la cifra indicata sul
tachimetro in silenzio, una mano portata al viso per scostare i
lunghi capelli biondi dagli occhi. Scese dall'auto in silenzio,
trascinando leggermente la gamba sinistra e trascinandosi dietro il
fedele borsone nero, compagno di tanti viaggi .
Natasha
Romanoff era molto cambiata dopo gli ultimi eventi che l'avevano
vista tra i protagonisti di non una, ma due probabili fini del mondo.
I capelli si erano allungati, rispetto al taglio corto che portava
solitamente, e l'espressione si era indurita maggiormente, rispetto a
come la ricordava all'inizio della loro conoscenza. Gli occhi scuri,
di una particolare tonalità di verde, erano leggermente
stanchi. La
fronte diafana era solcata da alcune sottilissime rughe
d'espressione, quasi come se il temperamento disincantato della donna
avesse trovato un modo per esprimersi attraverso quelle pieghe quasi
impercettibili.
Non
erano mai state persone da saluti espansivi: bastò uno
sguardo, da
sopra la spalla, appena accennato. Quasi come due sconosciute che si
vedono ai due lati di una strada. Se non fosse stato che, quella
strada, le due l'avevano percorsa insieme. Stiracchiò le
labbra in
un sorriso pigro, mentre l'amica apriva il baule della vettura
gialla, estraendo il primo di due pesanti scatoloni.
Due
uomini in uniforme blu arrivarono alle loro spalle, preceduti dal
rumore dei loro passi decisamente non felpati, a prelevare gli
oggetti della donna. Li guardò per un secondo, ammettendo
con sé
stessa che era troppo tardi per cambiare idea, e che una buona parte
dei suoi averi stavano in quel momento viaggiando verso la stanza che
le era stata assegnata all'Avengers Facility.
Natasha
seguì con lei il percorso dei suoi sottoposti, senza
emettere un
fiato. Attirò la sua attenzione con un leggero tocco al
braccio,
facendole strada verso l'ingresso del grande complesso. Le
aprì la
porta con i fianchi, facendo un ampio gesto con il braccio. "Elle
Selvig, benvenuta al Quartier Generale degli Avengers."
Elle
fece un fischio di ammirazione, voltandosi a guardare oltre le
vetrate il prato ben curato ed, oltre questo, il bosco che circondava
tutta la struttura.
"Anche
tuo padre ha molto apprezzato la costruzione..." Commentò
sarcasticamente la rossa, guardandosi attorno con aria vaga.
"Non
cominciare, Natasha. Sono appena arrivata."
Nell'
ampia hall, animata da un via vai di agenti in divisa e personale di
varia natura, le due si affiancarono. Natasha alzò una mano,
mimando
un gesto di resa. Elle sospirò, sorridendole. "Dopo la sede
dell'FBI, questo posto mi sembrerà un resort."
Natasha
ridacchiò, facendole segno di seguirla verso l'interno
dell'edificio.
"Ti
piacerà: palestra, uffici con l'aria condizionata, piscina
interna e
un meraviglioso parco. Se decidessimo di cambiare settore, potremmo
aprire un albergo di lusso."
Elle
si guardò intorno, leggermente infastidita da tutto il
chiacchericcio della Hall, dalla confusione generata dalla mente
vigile di un centinaio di persone, tutte attorno a lei. Si
sofferò a
guardare l'architettura dell'edificio, illuminato da ampie vetrate,
le colonne in acciaio che formavano uno strano ed accogliente
contrasto con il banco in legno.
"Tienilo
a mente per la nostra vecchiaia. Ci starebbe anche un ricovero per i
randagi, vista la presenza di questo immenso parco." Rispose
automaticamente Elle, indicando dietro di loro con un gesto del capo.
Nat accennò una smorfia divertita, cominciando a salire
delle ampie
scale.
"Di
qui ci sono gli uffici." Indicò un lungo corridoio al primo
piano, dritto dopo le scale. "Il tuo dovrebbe essere prima del
settore blu, in fondo."
Proseguì
poi lungo un mezzo piano esposto sull'ingresso. "Di qui si va
alla mensa comune..." Fece un ampio gesto verso destra. "E
da queste scale, si arriva agli alloggi. Terzo piano, sei tre camere
più in giù di me." Elle fischiò di
nuovo, sapendo di dare
fastidio all'amica, che infatti si voltò con le labbra
strette in
una smorfia.
"Sono
vicino agli alloggi dei celebri Avengers!" Esclamò,
fingendosi
entusiasta la bionda. "Spero di essere la vicina di stanza di
Tony Stark!" Natasha la guardò con un sorriso sarcastico,
senza
assentire né negare, lasciando l'esclamazione dell'amica a
cadere
nel vago. Elle, fermatasi a pochi passi, si voltò lentamente
verso
di lei, gli occhi socchiusi e le mani giunte davanti al viso.
"Non
c'è Anthony, vero?" chiese con un'espressione funebre.
Natasha
scoppiò a ridere. "Se vuoi ti lascio il suo indirizzo di
Malibu..."
xxx
"La
signorina Selvig starà con noi per diversi mesi. E' qui per
una mia
direttiva, e chiunque verrà chiamato a colloquio da lei
è obbligato
a presentarsi, come se a chiamarlo fossi stato io."
Fury
aveva pronunciato quel discorso nell'interfono, a reti unificate. Nei
corridoi vuoti, nella grande mensa comune, nella hall piena di
operatori, era sceso un silenzio glaciale. Tutti potevano immaginarsi
la sua espressione dura, il modo in cui il suo occhio sano si era
acceso, la postura rigida tipica di quando l'uomo dava un comando,
non aspettandosi di essere disubbidito. Mai.
Lo
sguardo accigliato di Fury andò a posarsi sull'individuo che
aveva
davanti, l'unico che era stato chiamato per assistere dal vivo al suo
messaggio. Tolse il dito dal tasto del microfono, allontanandosi
dalla scrivania lentamente, l'aria accigliata.
"Questo
vale anche per lei, Capitano. E per la sua squadra." Il suo
occhio buono si assottigliò ancora di più, mentre
Steve Rogers
rispondeva alla sua occhiata, mantenendosi intespressivo. "Elle
Selvig è una dei migliori agenti dell'FBI. Ha collaborato
più volte
con lo S.H.I.E.L.D., una volta anche con quella che a suo tempo era
la squadra Strike, affiancando Rumlow nella sua ultima missione."
Rogers annuì appena. "Intuisco il perché sia
stata l'ultima,
Rumlow era...difficile anche quando sembrava uno dei
nostri."
Fury
appoggiò un gomito sul piano di vetro della scrivania, e si
tenne la
testa con la mano. "Se avesse intuito qualcosa dell'Hydra
allora, non sono sicuro che sarebbe venuta a riferirmelo. Nonostante
questo dubbio, ha la mia piena fiducia. Le ho chiesto favori molto
grossi, negli ultimi anni. E non mi ha mai deluso.". Allungò
la
mano libera sulla scrivania, facendo strisciare la cartella di
cartoncino, misura standard e con il simbolo dell'ex S.H.I.E.L.D. verso
l'altro. Rogers fece un passo avanti, prendendola in silenzio.
Arretrò, iniziando a sfogliarla lentamente, le sopracciglia
aggrottate. Fury rimase a guardarlo, mentre la sorpresa si faceva
largo sul volto del Capitano.
"Elle
ha svolto lavori anche per NSA, e per la Marina. Ha effettuato alcune
complesse operazioni in territori molto caldi. Iraq. Sud-Est
Asiatico. Corea. Di solito accompagna una squadra di Special Air
Service, la Sessantaseiesima."
Rogers
pensò che Sam avrebbe emesso uno dei suoi fischi
sorpresi-ma-positivamente, se fosse stato con lui a
leggere
quella cartella. "Perché non i Navy Seals o qualcuno dei
nostri?" chiese spontaneamente.
"Selvig
odia gli americani. Ci trova grossolani."
Commentò Fury
tranquillamente, quasi ghignando. Rogers alzò gli occhi di
scatto,
dal faldone a Fury, incredulo.
"Lei
è svedese, nata e cresciuta là con la madre. Si
è trasferita qui
solo quando questa è morta, per raggiungere il padre che era
docente
alla Culver Univesity."
"Erik
Selvig... quello di Loki." Esclamò improvviamente Rogers,
alzando istintivamente gli occhi su Fury, che annuì appena
con il
capo.
"Esatto,
Capitano. Lei è la figlia."
Rogers
deglutì. Aveva visto recentemente Erik Selvig proprio
lì al
quartier generale, ma non poteva non ricordarlo come un uomo molto
confuso e molto trascurato per un incantesimo della gemma della
mente. Uno scienziato pazzo, insomma. Nonché il collega
della
fidanzata di Thor. Si appuntò di chiedere al dio, la
prossima volta
che lo avresse incontrato, se magari gli avesse accennato ad una
figlia.
"Per
quale motivo una donna si sporcherebbe le mani con lavori di questo
genere?" Chiese curioso, guardando il fascicolo. Dopo Natasha,
non avrebbe più dovuto stupirsi di certe cose. Ma il suo
spirito
Vintage era duro a morire. Incontrò degli
occhi azzurri che
lo scrutavano, senza una particolare espressione. La foto ritraeva il
viso di una ragazza molto pallida, con i capelli di un biondo molto
chiaro e le ciglia dello stesso colore. Gli occhi erano gli stessi
del dottor Selvig, di un azzurro quasi irreale, sormontati da delle
sopracciglia molto decise. Aveva un naso dritto, piccolo e molto a
punta, al centro di un viso piuttosto scavato. Guardava dritta
nell'obiettivo, con un'espressione molto professionale e poco
informativa.
"Elle
è specializzata in indagini, anche di guerra, e nella
negoziazione e
recupero di ostaggi civili. " Fury riprese la cartella che
l'uomo gli stava ritornando, con un sospiro. "L'ultimo favore
che le ho chiesto, un'indagine particolare, le ha quasi fatto
rischiare la pelle e non potrà tornare sul campo per diversi
mesi.
Qui si occuperà di questioni puramente d'ufficio, sedute
terapeutiche e valutazioni del personale. In particolare, spero
riesca a rintracciare se vi sono altri agenti Hydra rimasti fra le
nostre fila. Abbiamo reclutato parecchia gente dall'Ex S.H.I.E.L.D."
Rogers
lo guardò, in attesa. Fury alzò gli occhi al
cielo. "Visto che
era sotto alle mie direttive quando è incorsa in
quell'incidente,
dovevo trovarle qualcosa da fare durante la riabilitazione. Inoltre,
penso che stare vicino agli Avengers possa essere utile ad entrambi."
Rogers
fece uno sguardo interrogativo, ma Fury lo fermò subito con
una
mano.
"Ora
vada a spiegare al resto della squadra quello che le ho detto,
Capitano." Concluse Fury, alzandosi improvviamente, i palmi
appoggiati alla scrivania.
Questa
interruzione secca del discorso, da parte di un uomo come Nick Fury,
non presagiva niente di buono. Rogers decise che avrebbe approfondito
più tardi, e con la sua squadra. Si alzò,
mimò un saluto formale
ed uscì dalla stanza, valutando velocemente la situazione
nella sua
testa.
xxx
Quando
le era stato proposto da Fury un lavoro a New York, fisso, Elle aveva
accettato subito. Prima di tutto, perchè era vicino a casa,
anche se
durante la settimana avrebbe dovuto soggiornare alla base. In secondo
luogo, perchè la Selvig non aveva molte amicizie. Qualche
collega,
qualche conoscenza in giro per il mondo. Ma, quelle poche persone con
le quali si sentiva a proprio agio, erano proprio in quell'edificio.
In primis, la sua amica del College, Maria. Le due avevano diviso la
stanza per tre anni, e dopo erano rimaste spesso in contatto. Poi,
Natasha. Un'amica che la aveva accompagnata, da pochi anni a questa
parte, durante alcune delle peggiori missioni. Ora che la rossa aveva
bisogno di lei, anche se non lo avrebbe mai ammesso, Elle non si
sarebbe tirata idietro per nessun motivo dal suo fianco.
Maria
Hill non le lasciò nemmeno un secondo di pace durante la sua
prima
sera nella nuova sistemazione.
La
sala mensa era molto grande, con lunghi tavoli di metallo ed
altrettanto lunghe panchine, un bancone che dava sulla cucina ed un
grosso scaldavivande posti lungo la parete ad est. Non dava
sull'esterno, e la luce al neon faceva sembrare tutti più
emaciati e
smunti di quanto non fossero in realtà.
Maria
le stava raccontando il favoloso After Party da Stark qualche mese
prima, la festa durante la quale si era palesato Ultron: i bicchieri
di cristallo, la vista sulla città dalle mille luci, i robot
assassini. Li aveva trovati particolarmente decorativi.
Le
parlò dei nuovi arrivi nella squadra, in particolare di un
tizio
piuttosto inquietante di nome Visione e della sua amica, che dalle
parole di Maria sembrava uscita da un film di Dario Argento.
"E
così Nosferatu arriva da me e mi fa con
un terribile accento
da est Europa: Noi siamo abituati ad abbattere i muri!"
Maria si mise a ridere da sola. Elle la guardò
interrogativa, senza
nemmeno un guizzo divertito negli occhi. "Maria, dovresti sapere
che non è facile abituarsi ad una nuova sistemazione,
soprattutto
quando sei in una base militare dall'altra parte del mondo."
"Era
una storia fantastica, raccontata agli altri. Non dai soddisfazione,
ti hanno programmata senza senso dell'umorismo." Esclamò
Hill,
prendendo un bel sorso dalla sua bottiglietta.
"Maria,
ho fatto un viaggio quasi eterno da Londra, sono stata a casa due ore
scarse e parlato della mia sistemazione con Fury per quasi tre... A
vederti così, poi, mi sembra di essere tornata al dormitorio
Ovest..."
Elle
sogghignò, l'amica che la guardava con espressione arcigna.
"Ricordi
la prima volta che ti hanno relegato in stanza con me? Nessuna del
nostro anno voleva condividere la camera con un'attaccagrane come
te."
"E
così anche Hill ha dei lati oscuri!" Natasha si sedette con
un
movimento aggraziato sulla panca vicino ad Elle, appoggiando un
braccio alla spalla dell'amica.
"Mi
sento un po Burton adesso..." Elle osservò la posizione che
avevano, ridacchiando.
"E'
bello vedere un po di facce amiche..." Affermò poi la nuova
arrivata "Non trovo nessun altro che mi sopporti, là fuori.
Maledetta deformazione professionale." Sorrise
timidamente alle due, le guancie che avevano preso una leggera
sfumatura rosata.
"Adesso
sei a casa." Commentò Maria, indicando ciò che le
circondava
con la forchetta. Elle, quasi in risposta, sbadigliò
sonoramente.
“Casa, eh?”. Sbadigliò di nuovo.
"Jet
Lag.
Mi ritiro nella
mia magione. Stanza. Cella.Sov
så gott!
" Si alzò
con una smorfia,
tenendosi una mano sulla schiena. "Välkommen
tillbaka!"
Sorrise
Natasha, voltandosi a guardarla con un sorriso. Elle annì,
sorridendo, e si
diresse verso il fondo della stanza, sperando di non perdersi in quel
labirinto di corridoi e androni.
"Non
so tu..." Commentò Natasha ad Hill, prima di alzarsi
anch'ella.
"Ma mi è sembrata ancora più magra dell'ultima
volta che l'ho
vista. E..." Indicò la direzione in cui era sparita l'amica
con
l'indice, unghie smaltate di nero. “Zoppica ancora.”
Maria
fece un sorriso tirato. "Non so quale è stata la sua ultima
missione. Ma si muove in modo strano. So che è stata a lungo
ricoverata.”
Natasha
prese il vassoio dell'amica per andarlo a svuotare. "E non hai
visto le foto del referto..." commentò triste,
allontanandosi.
xxx
Il
terzo giorno della settimana era sempre il peggiore.
Si
sfregò una manica della felpa grigia sul viso, asciugando il
sudore
caldo, che diventava freddo appena toccava l'aria frizzante di
settembre. L'altra mano andò automaticamente al fianco
destro, dove
sentiva un dolore sordo e palpitante, un bruciare sopportabile, che
sapeva per certo non essere dovuto alla milza fin troppo allenata
agli sforzi di una corsetta mattutina.
Il
boschetto intorno al Quartier Generale degli Avengers stava iniziando
a diradarsi, seguendo il sentiero di terra brulla e sassosa;
così
lei aveva deciso di fermarsi in un punto dove questo era più
largo,
ma vi erano ancora alberi a coprirla dal cielo aperto. Come se
potessero esserci dei cecchini sul tetto, i fucili imbracciati a
minacciare il suo cammino. Era proprio una stupida.
Alzò
le braccia e tirò verso l'alto finché riusciva,
sentendo le cosce
ed i polpacci bruciare e tendersi seguendo le ossa sottili. La coda
di cavallo che le teneva lontani dal volto tutti i capelli biondi
dondolava ad ogni suo movimento, accarezzandole la schiena. Le ossa
delle scapole, eccessivamente magre, sembravano poter bucare la
pesante felpa accollata, lo stemma dell'FBI ben visibile sul petto.
Una provocazione, tanto per avvicinarsi ai nuovi
colleghi.
Sospirò, respirando ampie boccate di aria fredda.
"Mi
hanno detto che correte nella foresta per trentacinque chilometri,
quando fa bel tempo."
Sentì
arrivare la battuta prima che questa uscisse effettivamente dalla
bocca dell'uomo, che arrivava a buon passo dal sentiero dietro di
lei. Afroamericano, stazza normale,sulla trentina, occhi vispi ed un
sorriso piuttosto amichevole.
Elle
strizzò gli occhi, a metà fra essere offesa per
il tono sarcastico,
quasi come a voler svalutare le sue capacità, oppure
contenta che la
voce si fosse già diffusa fra i corridoi della Facility. Si
piegò
in avanti, tenendosi la caviglia sinistra, fingendo di pensare alla
sua affermazione. "Solo durante la selezione SAS. E le
selezioni sono solo per maschi fino ai 32 anni."
"E'
vero, negli uffici dell'FBI sono tutti piuttosto in carne a dire il
vero." Ridacchiò lui, indicando la sua felpa con un gesto
della
mano.
"In
America sono tutti piuttosto in carne. A dire il vero."
Sentenziò lei, passando con le braccia verso la destra, con
una
smorfia.
'Che
caratterino.'
Come
se lo avesse urlato, il pensiero di lui si conficcò nella
sua mente.
Elle sospirò, rialzandosi, e isolandosi dal vortice di voci
circostante. Non sapeva ancora spiegarsi se fosse un desiderio di
dare a chiunque la sua privacy, oppure se fosse perchè, in
realtà,
non le importava poi molto di cosa pensassero gli altri. In generale.
"Piacere,
Elle Selvig." Disse, allungando una mano all'uomo, che ancora la
fissava tenendo le mani sui fianchi.
"Samuel
Wilson." Rispose lui, gioviale, guardandola dritta negli occhi.
Fece per aprire la bocca, ma lei lo anticipò.
"Si, mio padre
è l'astrofisico, Erik Selvig." Esclamò
automaticamente lei.
Lui la fissò accigliato. "Sicuramente stavi per chiedermelo,
ci
sono abituata." Si schermò lei, facendo un sorriso di
circostanza e guardandosi intorno. "Invece no!" Ammise lui
ridendo, le braccia alzate in segno di resa.
Sembrava
simpatico, l'uomo che correva. Senza volerlo, Elle si distrasse.
'Rogers
l'ha descritta come un mostro bolscevico, ma davanti a me vedo una
ragazzina timida.'
Elle
faticò a non ridacchiare, piegando una gamba all'indietro e
tenendola con la mano, facendo tendere il muscolo della coscia.
Così
Captain America era già bendisposto nei suoi confronti?
Bene, perché
la simpatia per il bambolotto americano era
corrisposta.
"Oggi
verrai a vedere gli allenamenti degli Avengers?" Chiese lui
improvvisamente, allungando prima un braccio e poi l'altro sopra il
capo, con i piedi ben piantati a terra.
"Sto
già vedendo gli allenamenti degli Avengers,
perché sei un Avenger,
no?" Rispose prontamente lei. In fondo, quel ragazzone le
sembrava simpatico.
"Comunque
penso di si. In giornata. Speravo che sarebbe venuto Fury, con me, ma
pare che dovrò affrontarvi tutti da sola."
"Tranquilla,
non abbiamo ancora mangiato nessuno."
La
voce arrivò da dietro di lei, profonda e poco amichevole.
Elle
sapeva chi era anche prima di girarsi a verificare. Osservò
da capo
a piedi l'uomo che era appena sbucato dal sentiero, t-shirt sportiva
aderente ed espressione accigliata. Aprì la mente,
mettendosi sulla
difensiva.
'Che
ragazzina minuscola.'
Ancora
c'era gente che la valutava secondo la sua altezza? Oltretutto, Elle
si valutava di un'altezza medio-alta, un metro e settanta.
Statisticamente non era lei quella minuta, era quel Rogers ad essere
fin troppo alto. E muscoloso.
"Immagino
che ti sarei indigesta. Ti davano latte e steroidi, all'asilo?"
Chiese scocciata lei, alzando il viso per affrontarlo.
'Che
occhi glaciali che ha questa ragazzina.' Lei
strizzò le pupille
in due fessure, quasi in risposta.
Rogers
strinse le labbra, facendo un passo avanti verso di lei. "No, ma
immagino che a te abbiano dato il latte inacidito. Visto il
caratterino."
Elle
quasi scoppiò a ridere. Se voleva offenderla, avrebbe dovuto
impegnarsi decisamente di più.Quegli insulti non avrebbero
offeso
nessuno nemmeno negli anni '20.
'Questi
due fanno scintille insieme.' Samuel interruppe lo scambio di
gentilezze, frapponendosi fra i due con le braccia aperte.
“Time-out,
ragazzi! Palla al centro.”
Elle
abbassò lo sguardo su di lui, con un sopracciglio alzato,
l'irritazione che trapelava in modo palpabile.
"Fasiken!
Sono stufa di dover difendere il mio operato solo perché
sono una
donna, e perchè non sono pompata come il tuo amico
lì dietro."
Affermò con tono glaciale facendo un gesto verso i due.
Samuel la
guardava, le labbra dischiuse dalla sorpresa, mentre l'altro, dietro
di lui, si guardava intorno, la mascella contratta. Riportò
gli
occhi su dilei, mentre questa rilassava le spalle, lo sguardo sempre
arrabbiato. "Non sottovalutatemi. Voi fate il vostro lavoro, ed
io farò il mio."
Girò
i tacchi e ripartì verso il quartier generale, correndo ad
ampie
falcate.
"Cosa
hai combinato, Steve?" Chiese Samuel, incredulo."Non ti ho
mai visto così maldisposto." Rogers si
strinse nelle
spalle, girando su sé stesso e ripartendo correndo nella
direzione
opposta, in preda al nervosismo.
"Sei
stato un vero stronzo!" gli urlò dietro Wilson, agitando le
braccia.
"Ecco."
sospirò, rimanendo nella radura da solo.
xxx
Capitolo riformattato e
corretto in data 27/01.
Grazie ad Electricsoul, su
Tumblr Rise-Doe, per il bellissimo banner!
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Capitolo 2 *** 02. Osservazione ***
">>
ATTO
SECONDO:
OSSERVAZIONE
"See
how I leave
with every piece of you,
Don't underestimate the things that I
will do.
There's
a fire starting
in my heart
Reaching a fever pitch
And its bring me out the
dark."
ADELE
Settembre
2015
Nella
stanza risuonava la
risata sguaiata di Samuel Wilson, mentre Natasha Romanoff stava
comodamente accomodata in un angolo, sull'ampio tavolo da lavoro,
smontando, pulendo e rimontando le sue pistole Beretta. Wanda, di
fronte a lei, la guardava attentamente, senza avere il coraggio di
sfiorare l'arma che aveva di fronte, le mani appoggiate in grembo.
Visione, in piedi vicino all'ampia vetrata, osservava Rhodes e Rogers
che combattevano corpo a corpo su un grande ring, posto al centro
dell'ampio ambiente riservato solo a loro. Agli Avengers.
Rogers
atterrò ancora
l'uomo, con una scivolata improvvisa, e lo bloccò con il suo
corpo,
un ginocchio contro il collo dell'avversario e le braccia che
trattenenvano quelle dell'uomo a terra. Gli disse qualcosa,
probabilmente un rimprovero, per poi lasciarlo andare con uno sbuffo.
"Si,
ma io ho
passato i quaranta..." Sbottò Rhodes, aprendo le braccia.
Rogers lo guardò appena, sorridendo. "Ed io quasi i
cento..."
L'uomo lo guardò male. "Non è la stessa cosa."
"Stark
sapeva
combattere anche senza armatura. Per questo era così forte."
"Io
non sono Stark."
Sbottò l'altro, sedendosi a terra con un asciugamano sulle
spalle.
Natasha
lanciò ai due
un'occhiata furiosa. "Basta beccarvi, signori, ci sono ospiti
nel pollaio."
Elle
si fece avanti,
maledicendo mentalmente l'amica. Si diresse verso i due litiganti,
facendo segno a Rhodes di alzarsi. Questi la guardò un
attimo
storto, appoggiandosi prima sulle corde e poi alzandosi, senza
commentare. La donna levò le scarpe basse, restando con i
calzini
scuri, e senza emettere un suono si issò sul ring sotto gli
sguardi
perplessi dei presenti, passando fra la seconda e la terza corda.
Avvolse le maniche della camicia azzurra sui gomiti, i capelli chiari
legati con cura in uno chignon dietro la nuca. Fece un cenno a
Rhodes, che si avvicinò guardingo.
"Basta
che metti un
po' più indietro la gamba..." Disse, mostrandogli la
posizione,
le gambe leggermente divaricate e un braccio piegato sul busto. "E
vedrai che, anche se l'avversario è più forte, lo
puoi atterrare.
Avrai più slancio." Gli mostrò come effettuare
una leva con il
braccio destro, per sbilanciare l'avversario, sorridendo
incoraggiante mentre l'altro la seguiva provando la posizione. Rogers
si allontanò, dando loro le spalle e strofinandosi il viso
con un
asciugamano. Quando tornò ad attaccare, l'altro
riuscì ad
atterrarlo una volta su tre, anche se per pochi secondi, mentre Elle
li guardava come un arbitro piuttosto di parte ad un incontro
clandestino.
"E'
molto capace per
essere così giovane." Commentò sorridendole
Rhodes alla fine
dello scontro, con il fiato grosso, appoggiandosi alle corde. "Con
chi ho il piacere..."
"Elle
Selvig.” Lei
gli strinse la mano con forza. L'uomo si portò galantemente
alle
labbra il dorso, stampandogli un bacio. Elle represse una smorfia,
irrigidendosi.
"E'
qui a vedere i
famosi Avengers?" Le chiese poi Rhodes, gonfiando il petto. La
svedese si voltò a guardare Natasha, sfregandosi la mano
offesa sui
pantaloni. L'amica rossa alzò gli occhi al cielo. Wanda,
vicino
all'altra, fece un sorriso divertito.
"Sono
io che mi
occuperò delle vostre valutazioni fino all'effettiva entrata
in
servizio." Ammise poi Elle, girandosi verso l'uomo che fece
un'espressione sorpresa. “Mi occupo del sostegno psicologico
dei
lavoratori del centro operativo. Inoltre devo esaminare tutti i
fascicoli per vedere se ci sono ancora filo nazisti dell'Hydra tra
coloro che sono arrivati dall'ex S.H.I.E.L.D.." Si strinse nelle
spalle, con un sorriso di circostanza.
"Ovviamente,
sarò
io a mettere la prima e l'ultima parola sul vostro livello di
addestramento e su quando inserirvi in una missione."
Gelidamente, Rogers si avvicinò ai due. Elle dovette
ammettere a se
stessa che, in tutta la sua stazza e soprattutto quando era
infastidito, incuteva un certo timore.
"Devi
essere ben
referenziata per un lavoro del genere." Ammise Rhodes,
scrutandola da capo a piedi, un asciugamano sulle spalle. Elle si
passò le mani sui pantaloni scuri, lisciando una piega
immaginaria,
senza rispondere.
"E'
fin troppo
referenziata..." esclamò Samuel, avvicinandosi al gruppo
dall'ingresso. "E' l'unica donna che conosco che abbia mai
partecipato a delle selezioni SAS." La indicò ammirato.
Wanda
li guardò storta, senza capire. “Cos'è
il SAS?”
“Lo
Special Air
Service, praticamente i Navy Seals britannici.” Rispose
Rogers,
voltandosi verso le due donne ancora sedute.
"Elle
è molto
competente..." Natasha lanciò all'amica un'occhiata
divertita,
per poi proseguire ciò che stava facendo, senza guardarli.
Elle
sorrise a quel complimento: Nat stava cercando di metterla a suo
agio. O di avvertire i presenti di non infastidirla troppo. Difficile
dirlo.
Rogers
fece
un'espressione esasperata, osservando prima lei e poi la rossa. "Si,
certo, è molto brava, ma è qui per riprendersi da
un infortunio
molto grave. Non parteciperà attivamente agli allenamenti."
La
scrutò un attimo, il viso una maschera di irritazione.
“Però puoi
assistere, se non rallenterai i nostri ritmi.”
Colpo
basso, tirare in
ballo la sua temporanea invalidità. Elle lo
scrutò con una smorfia
sarcastica. “Lo farò sicuramente.”
Quel
Rogers era anche più
antipatico di quanto avesse immaginato vedendolo in televisione;
anche poi di persona, anche se non ascoltava il tono
dei suoi
pensieri. Era un bambolotto impagliato.
Elle
fece un cenno alla
compagnia e si diresse verso il bordo del ring, più
impettita che
poteva, cercando di non trascinare la gamba sinistra. Per un attimo,
le era tornato in mente il suo infortunio. Strizzò gli occhi
e
scosse la testa, avvicinandosi al bordo del ring per scendere, il
viso teso per l'irritazione.
Capiva
che Captain
America non amasse che persone sconosciute bazzicassero intorno alla
zona Top Secret degli Avengers. Ma lei doveva fare il suo lavoro.
Quel
Rogers era un
idiota. Un idiota capace, probabilmente, ma pur sempre un idiota.
xxx
Passarono
un paio di
settimane, e lui e Selvig non facevano altro che contestarsi,
litigare, insultarsi e darsi spallate nei corridoi.
Spallate
per modo di
dire, perché quella ragazzina gli arrivava a malapena al
petto, e
non pesava più di cinquanta chili. Però si
ostinava a dire ed a
fare il contrario di quello che diceva lui. Era quasi peggio di
Stark, con l'unica differenza che non poteva sfidarla ad una lotta
all'ultimo sangue.
Normalmente,
lui era il
primo ad ascoltare sempre quello che tutti avevano da dire. Ma aveva
notato già altre volte come spesso i membri della sua
squadra
preferivano potare avanti i loro piani senza avvisarlo, in una
continua spirale di ammutinamenti e fraintendimenti e cose
non
dette.
Prima
con la squadra di
Rumlow: quello era stato semplice da spiegare a sé stesso,
dato che
erano adepti dell'Hydra. Era successo
con Natasha,
che però seguiva gli ordini diretti di Fury: quando avevano
attaccato la nave dove Batroc aveva preso degli ostaggi,
lei
aveva altri compiti da svolgere.
Poi
però era successo
con Ultron: Stark e Banner lo avevano progettato e realizzato di
nascosto, divisi fra il crederlo troppo ignorante per capire cosa
stessero ideando e la convinzione che li avrebbe accusati di giocare
a fare Dio.
Poi
con Thor, che se ne
era andato proprio nel momento di maggior crisi degli Avengers, senza
fornire nessuna spiegazione veramente valida.
Infine,
quando si era
opposto alla creazione di Visione: lì, era stato un bene non
riuscire a fermare i tre compagni di squadra. Ma questo lo faceva
comunque sentire ridicolo. Lui era sempre quello che arrivava dopo,
ad opera compiuta, a rimettere insieme i cocci. Ora, dirigere una
squadra, gli sembrava quasi impossibile. Ma era un pensiero che
teneva per sé, gelosamente custodito al limite della sua
coscienza.
Gli era stato dato un compito, e lui non aveva nessun diritto di
sottrarvisi.
La
sola presenza di
Selvig, osservatrice poco silenziosa, lo portava però ad
essere
insensibile alle critiche e ancora più duro negli
allenamenti. Lei
era tremendamente saccente e snervante, ed il suo discutere ogni sua
direttiva spesso lo portava a desiderare di lanciarla di peso contro
il muro. Più volte.
Il
vecchio Steve sarebbe
inorridito davanti a così tanta ira nei confronti di una
donna, per
di più sottile come un giunco e piuttosto acciaccata.
Nessuno
della squadra
aveva osato chiedergli il perché di quel cambiamento di
umore, anche
se lui stesso riteneva piuttosto evidente il motivo di tanta
acredine. Si aspettava una strigliata da Wilson, oppure qualche
commento malizioso di Natasha. Ma le sue previsioni non si erano
ancora realizzate.
I
suoi compagni si
limitavano a parlottare in maniera divertita del Periodo del Terrore
di Rogers, dove ad ogni errore nel combattimento bisognava
eseguire trecento flessioni a terra.
Aveva
passato diverso
tempo osservando la Selvig attentamente, chiedendosi se ci si potesse
fidare. La svedese aveva in amicizia poche persone al quartier
generale, e probabilmente era una persona riservata anche nella vita
normale. Sembrava amica di vecchia data di Maria Hill, cosa che aveva
stupito non poco tutti, visto che in sua presenza Maria era ancor
più
sarcastica e rideva.
Elle
scambiava sguardi e
commenti incomprensibili anche con Natasha, facendole guadagnare il
nomignolo di Elle Barton in Romanoff. Samuel
sosteneva
addirittura che le due avessero dormito insieme per diverse notti,
dato che aveva visto Elle uscire dalla camera della russa, posta di
fronte alla sua, in tuta e stropicciandosi gli occhi in più
di una
occasione. Anche Samuel trovava stranamente simpatica ed insisteva
che, conoscendola, migliorava.
Rhodes
faceva spesso
diversi commenti galanti alla bionda, invitandola a cena, o in
qualche locale, senza successo. Elle sembrava infastidita, nonostante
tutti sapessero che quello di Rhodes era più un divertimento
che una
malcelata ammirazione.
Il
principale motivo
della preoccupazione di Steve, a prescindere da tutti gli altri
Avvengers, era l'amicizia che Elle aveva instaurato con Wanda.
A
dire il vero, era
viceversa: Wanda aveva cercato spesso la compagnia di Elle da quando
questa era arrivata. Non solo per motivi di Ladies Assemble,
come le prendeva in giro spesso Samuel quando le vedeva tutte insieme
a confabulare a mensa o nei corridoi.
Le
due si aggiravano
spesso anche per il cortile, dove parlavano per lunghe ore, spesso
seguite da Visione. A Steve dava molto fastidio vederla fare breccia
nella sua nuova squadra più di quanto riuscisse a fare lui,
che non
aveva ancora ben legato con quei nuovi elementi.
Visione
era troppo
enigmatico. Rhodes lo trattava come un cuginetto. Con Samuel era
troppo legato per poter essere veramente una figura autorevole, e lo
stesso per Natasha, che oramai lo conosceva meglio di quanto non si
conoscesse lui.
Wanda
era ancora un
mistero per Steve: alternava momenti in cui lavorava sodo, si
allenava nel combattimento e si applicava in maniera ineccepibile ad
attimi di totale inettitudine. Come in quel preciso momento.
“Wanda,
solleva di più
quella gamba quando colpisci!” Sbottò, tenendo il
paracolpi alto
davanti al busto. La ragazza emise un sospiro strozzato, i capelli
che sfuggivano dalla coda alta. Aveva il pugno violaceo a causa dei
colpi che aveva dato prima. “Non sei ancora in grado di
mettere
bene le fasciature sulle nocche?” Commentò Rhodes
passandole
vicino con tono critico. Wanda gli lanciò uno sguardo perso.
“L'America
non è
ancora un regime militare, Rogers.” Commentò
Samuel dalla panca
per il sollevamento dei pesi.
“Qui,
Maximoff. Se
stessimo combattendo, saresti già morta.”
Wanda
si morse un labbro,
dando un altro calcio al paracolpi. Steve nemmeno sentì il
colpo.
“Cosa
stai facendo?
Questo non ti aiuterà mai a salvarti.”
Wanda
fece un passo
indietro, tenendosi la mano offesa.
“Saresti
già morta,
devi essere decisa.” Rincarò Steve, guardandola
con le
sopracciglia leggermente aggrottate, il tono sempre calmo. Wanda
socchiuse le labbra. “Ho la magia, non sarei morta!”
“Se
tu non fossi, per
qualche ragione, in grado di difenderti con la magia?” Wanda
non
seppe rispondere.
“Non
puoi andare bene
per tre giorni e poi non riuscire a fare nulla per due!”
Steve
abbassò il paracolpi. “Devi essere sempre pronta.
Non sai quando
ti servirà tutto questo.”
Samuel
appoggiò con uno
sbuffo il bilanciere ai sostegni. “Steve...”
“Non
puoi difenderla,
Samuel. Non ci sarà sempre qualcuno a difenderla.”
“Cosa
stai sostenendo,
Capitano?” Wanda si irrigidì, i pungi serrati.
Steve la guardò,
il paracolpi ancora tra le mani. “Che non sei in grado di
difenderti da sola. E non c'è Barton a proteggerti, ora, e
nemmeno-”
“-nemmeno
Pietro?
Questo vorresti dire?” Steve annuì. Wanda emise un
sospiro
strozzato.
“Credimi,
lo so
benissimo che Pietro non è più qui.”
Sputò fra i denti,
torcendosi le mani.
I
due stavano fermi, al
centro della palestra. Nessuno fiatava. Samuel li guardava da seduto,
le gambe aperte ai lati della panca da pesi, gli occhi sgranati.
Rhodes era impalato vicino alla porta dello spogliatoio, immobile
come una statua di sale.
“Che
succede? Sembra un
funerale qui.” Natasha ed Elle entrarono nella stanza,
avanzando
fino al tavolo da lavoro. “Scusate l'intrusione, ho lasciato
delle
carte qui...” Esclamò Elle, cercando qualcosa sul
tavolo ingombro.
Si voltò verso Wanda e Steve, che si fronteggiavano in
silenzio. Una
lacrima cadde sul pavimento, mentre la ragazza si abbassava sulle
ginocchia, respirando a pieni polmoni. Elle mollò tutto
quello che
stava facendo, correndo a fianco della donna, mentre Natasha si
fermava dietro di loro, a braccia conserte. “Che è
successo qui?”
Elle
prese la mano che
Wanda teneva in grembo, che era ormai violacea. “L'hai fatta
allenare senza protezione?!” Sbottò, voltandosi
con gli occhi
sgranati verso Steve. Questo buttò il paracolpi a terra,
imprecando
fra i denti. Fece un passo indietro, dandole le spalle. Rhodes
avanzò
fra i due.
“Non
aveva le
protezioni fatte bene, deve imparare-”
“Cosa?!”
Elle si
alzò, trascinando la sokoviana per il braccio.
“Cosa deve
imparare? Come può imparare se si infortuna?”
Sputò fra i denti
in faccia a Rhodes, gli occhi ancora rivolti verso Rogers.
“Tu!”
Sbottò contro
all'uomo, che le dava la schiena. “Sei qui per dirigere ed
insegnare. Hai visto?”
Steve
si girò, mentre
Elle teneva in bella vista la mano contusa di Wanda. Questa scosse la
testa.
“Non
è nulla, devo
imparare a farmi un bendaggio alle nocche fatto bene...” Elle
si
girò a guardarla, furibonda. “Se non lo sai fare
è perché
nessuno si è dato la pena di insegnarti!”
Rogers
gonfiò il petto,
i pugni chiusi. “Cosa staresti insinuando, Selvig?”
“A
me, in Inghilterra,
è stato insegnato a combattere molto meglio. E da soldati
semplici,
non da bambolotti impagliati pieni di super-sieri o
super-cose!”
Elle ormai urlava, lasciata la mano dell'amica. Aveva fatto due passi
avanti, fronteggiando Rogers senza nessuna ombra di paura negli occhi
azzurri.
“Dobbiamo
ancora
vederlo, come sei stata addestrata. Sei sei ferita così
gravemente,
evidentemente non sei brava quanto pensi.” Natasha trattenne
il
respiro, tenendo una mano sul braccio di Wanda, mentre Samuel si
alzava, osservandoli con ansia. Elle fece per voltarsi, respirando a
fatica dalla rabbia. Steve la guardava, la mascella contratta e lo
sguardo serio.
Con
un guizzo, Elle torse
il busto e lo colpì con il dorso del pugno alla base della
gola,
mozzandogli il respiro.
Il
colpo non era forte,
ma era esattamente sopra la trachea: Steve fece un passo indietro,
tenendosi la gola offesa, trattenendo il respiro. Scosse un attimo la
testa, mentre Samuel si metteva fra i due, Elle ancora ansante in
posizione di guardia, con le braccia a proteggere il busto, e Steve
che si teneva una mano sul petto, sibilando. I due si guardavano in
cagnesco dai due lati di Samuel, che cercava di riportare la calma.
Steve era sconvolto: non solo l'aveva colpito, ma lo aveva anche
temporaneamente indisposto. Ora lo guardava dritto negli occhi, con
quei fari cerulei che aveva sul viso scarno, le labbra strette in una
smorfia. Si voltò di scatto, avvicinandosi a Wanda.
“Andiamo
fuori, devi
essere medicata. Ci servono bende ed analgesico. E magari un
calmante.”
“Ma
io non sono
agitata...” Mentì Wanda, seguendola, voltandosi
verso i presenti
che le fissavano ancora allibiti.
“Non
è per te...”
Sibilò Elle, uscendo a passo di marcia. Dal corridoio,
sentirono la
sua voce canticchiare. “One of these days, I'm going
to cut you
into little pieces."
xxx
"Dovresti
sfogarti.
Oppure, alla tua età, potrebbe venirti un embolo."
Commentò
Natasha, precedendolo sul sentiero pieno di foglie morte. Steve
calciò un grosso sasso, facendolo volare fuori dal loro
campo
visivo. Natasha lo seguì con lo sguardo. Si stavano
dirigendo alla
solita radura, poco lontano dal sentiero, dove spesso andavano nelle
loro passeggiate solitarie, o nei loro momenti di confidenze.
“Aveva
ragione. Lo so.”
L'amica annuì. “Hai esagerato con Wanda. Sai che
non si è ancora
abituata all'assenza di suo fratello...” Steve
sospirò.
“Devo
farvi rimanere in
vita.” esclamò. “Come faccio, se non
spingendovi al massimo?”
“Per
ora, la situazione
è sotto controllo. Abbiamo tempo.” Lo
rassicurò Natasha,
appoggiandogli una mano candida sul braccio. Steve cercò di
sorriderle, facendole una smorfia poco convincente. La rossa
ridacchiò.
“So
che ti senti in
dovere di farci da amico, da padre, da allenatore e da mentore. Ma a
noi serve solo qualcuno che sappia cosa fare.”
“E
se io non sapessi,
cosa fare?” Sbottò lui. Lei sorrise, rassicurante.
“Sei
un uomo buono. A
noi serve questo.” Indicò con un ampio gesto la
base. “Ci
fidiamo del tuo giudizio.”
“Non
mi sembra proprio
che tutti vi fidiate di me...” Commentò lui,
appoggiandosi ad un
tronco d'abete, le braccia incrociate. Natasha sorrise, guardandosi
la punta degli stivaletti marroni.
“Elle
è molto
particolare. Se si arrabbia, vuol dire che, a suo modo, ci
tiene.”
“Sembra
che sia qui
solo per darmi sui nervi!” Natasha lo fissò, le
labbra che
trattenevano un sorriso. “Effettivamente, non ho mai visto
Elle
così alterata. Anzi, giurerei che prima di conoscerti, non
l'avevo
mai vista alterata e basta. Quel colpo, poi...”
“Colpisce
forte, la tua
amica del cuore.” Commentò lui,
funereo.
“Però
ti ha messo in
difficoltà. Il grande Captain America.” Natasha
ridacchiò. Steve
la gelò con lo sguardo, ma ormai la russa lo conosceva
troppo bene
per crederlo capace di farle del male per orgoglio. A dire il vero,
era certa che non le avrebbe mai fatto del male e basta.
"Elle
fa il suo
lavoro con molta serietà. Le è stato assegnato
per alcune
particolari qualità che possiede. E che la rendono molto
poco
incline ad essere cortese con la maggior parte delle persone.
Inoltre...” Si avvicinò all'amico, dandogli un
colpetto sul
braccio, le belle labbra tese in un sorriso.
“Come
tu per lei, Elle
Selvig sembra essere l'unico essere umano al mondo in grado di farti
infuriare.” Steve la fissò con un'espressione
eloquente.
“Dovrebbe
essere una
fortuna, questa?” Chiese sarcastico. Natasha rise.
xxx
"Alla
fine, facciamo
quasi la stessa cosa." Esclamò Wanda con un ampio sorriso,
mentre Elle stava piegata sulle ginocchia davanti a lei, fasciandole
con cura la mano appena pulita. Aveva tamponato un paio di piccole
escoriazioni con del mercurio cromo, sotto lo sguardo attento di
Visione, che le seguiva ogni suo più piccolo movimento con
gli occhi
azzurri, da un angolo della stanza. Elle sorrise: Visione non
lasciava mai Wanda da sola con qualcuno. Avrebbe giurato che
l'androide passasse ogni notte fuori dalla porta della stanza della
sokoviana, visto che probabilmente non poteva dormire. Era una cosa
veramente dolce, anche per una persona fredda come lei.
Wanda
aveva scoperto da
tempo di non poter accedere ai pensieri di Selvig nemmeno usando al
massimo i suoi poteri. Elle stessa aveva provato poi a leggere nella
sua mente, concentrandosi, con gli occhi strizzati ed un'espressione
curiosa sul viso. Ma non aveva ottenuto nessun risultato.
Le
due erano sorprese, e
si guardavano in maniera curiosa, come due specie aliene che si
incontrano per la prima volta.
Visione
scosse la testa.
"Elle può accedere ad i pensieri degli altri, mentre tu vedi
per immagini cosa stanno pensando." Spiegò. "Se fosse
necessario, Elle potrebbe guidare una persona in un luogo conosciuto
vedendo quello che vedono gli occhi di questa. Invece tu vedresti le
immagini della sua mente, le sensazioni." Elle lo guardò
curiosa, Wanda interrogativa.
"La
prima volta che
hai cercato di leggere i miei pensieri, hai visto la fine della
terra. Elle avrebbe sentito il mio pensiero, ovvero che sapevo che il
mondo sarebbe finito ma non desideravo che accadesse in quel modo o
in quel tempo." Elle annuì alle parole dell'androide,
fermando
con del nastro la fasciatura.
"In
più, tu puoi
mostrare immagini e alterare la percezione della realtà."
Indicò Wanda, per voltarsi poi verso Elle. "Tu invece sei in
grado di innestare un pensiero nel profondo dell'inconscio, se non
sbaglio."
"L'ho
fatto solo due
volte..." Elle si strinse nelle spalle, l'enorme felpa blu che
aveva appena indossato che le copriva le mani a pugno "Non lo
trovo corretto. E' disgustoso."
"Hai
salvato tante
vite." Visione sorrise alla ragazza. "Hai fatto la cosa
giusta. Nemmeno io volevo uccidere Ultron... ma era necessario."
Elle annuì.
Visione
si riferiva ad un
episodio di diversi anni prima, che Elle aveva narrato per spiegare
come poteva utilizzare il suo potere, avvenuto in Medio Oriente: un
appartenente ad una cellula terroristica ormai distrutta si era
chiuso in un orfanotrofio, minacciando di farsi esplodere con tutti i
bambini presenti. Quello che solo Natasha, Fury ed i due amici
presenti sapevano di Elle, era che dopo aver provato a contrattare
per quasi dodici ore, Selvig si era introdotta nella sua mente, ed
aveva sepolto nel suo inconscio un'idea. Il suo suicidio.
"Una
volta che
un'idea si è impossessata del cervello è quasi
impossibile
sradicarla...un'idea pienamente formata, pienamente compresa, si
avvinghia, da qualche parte.” La voce di Wanda
catturò
l'attenzione dei due. Visione la guardò sorpreso. Elle
alzò un
sopracciglio.
"...Inception?"
chiese, sorpresa la bionda.
"Che
c'è, anche in
Sokovia proiettano i film hollywoodiani." Esclamò Wanda,
alzando le braccia al cielo in segno di resa. Le due scoppiarono a
ridere, sotto lo sguardo perplesso dell'androide.
xxx
"Coraggio,
Wanda..."
Elle
si portò al centro
del tappeto, dondolandosi sulle gambe asciutte. Dopo ciò che
era
successo all'allenamento del giorno prima, Elle e Natasha avevano
deciso che si sarebbero turnate per allenare la giovane, a cominciare
da quel pomeriggio. Steve stava seduto al tavolo da lavoro, lucidando
con una pezza lo scudo in vibranio, osservandole con la coda
dell'occhio.
Fuori
dall'ampia vetrata,
la giornata settembrina stava volgendo al termine; il cielo era
plumbeo, e e un vento gelido sibilava dagli alberi. Le luci aranciate
della palestra avvolgevano tutto in un'atmosfera quasi invernale.
Elle,
nonostante la
grossa felpa blu che la copriva fino a metà coscia,
risultava
comunque una ragazza eccessivamente mingherlina; Natasha si era fatta
sfuggire che quella magrezza era recente. Prima Elle era comunque
meno formosa della rossa, ma non sembrava ancora uno sticky man.
Le
braccia sottili
mostravano evidenti muscoli, e le vene blu scorrevano sotto la sua
pelle come uno strano tatuaggio indiano. Elle si legò i
lunghi
capelli in una coda di cavallo, e fece segno a Wanda di avvicinarsi.
La
ragazza, avvolta in
una tuta scura, corse verso l'avversaria, facendo per colpirla con un
calcio allo stomaco. Elle scartò di lato, afferrandole la
caviglia e
facendola cadere un metro più lontano. Wanda si
alzò, togliendosi i
capelli dal viso, e attaccò nuovamente con un pugno. Elle si
fletté
sulle gambe, spazzando il terreno con una gamba tesa e trovandosi
alle sue spalle. Colpì in mezzo alle scapole, facendo cadere
di
nuovo Wanda in avanti.
Samuel
applaudì, in
bilico su un lato del ring, mentre Elle aiutava Wanda a rialzarsi e
le sorrideva. "Devi solo allenarti e concentrarti." La
consolò la bionda.
"Non
eri quella
infortunata, tu?" Borbottò la sokoviana, osservando l'amica.
"Non posso fare molte delle cose che farei di solito, sono un
po' arrugginita, diciamo..."
"Quanto
sei rimasta
all'ospedale dopo l'incidente?" Chiese Samuel, lanciando alle
due due asciugamani.
"Un
mese e mezzo."
Elle si strofinò l'asciugamano sul viso, ringraziando
l'altro con un
cenno.
"E'
una degenza
bella lunga. Che ti è successo?" Chiese Rogers, cercando di
sembrare disinteressato. Wanda lo guardò con gli occhi
sgranati come
se avesse appena beelato. Samuel ghignò.
"Top
Secret."
Commentò Elle senza degnarlo di uno sguardo, prendendo la
bottiglia
d'acqua che Samuel le stava porgendo. L'altro incassò il
colpo in
silenzio, ritornando a lucidare lo scudo con un sospiro.
“Mai
visto qualcuno di
così piccolo zittire qualcuno di così grosso."
commentò
Samuel, ridacchiando. Wanda si strinse nelle spalle, sorridendo
timidamente. Un poco si sentiva in colpa per il gelo che regnava fra
quei due. Elle le sorrise rassicurante, salendo sul ring.
“Dovremmo
chiedere a
Fury di procurarci un frigo per le birre ed una macchina per i
pop-con.” Ridacchiò Samuel, sedendosi scomposto di
fianco
all'amico. Le due iniziarono ad affrontarsi, ridacchiando come due
ragazzine. “Ne vedremo delle belle, qui dentro, d'ora in
poi.”
xxx
Capitolo
riformattato e corretto in data 27/01.
Grazie
ad Electricsoul, su Tumblr Rise-Doe, per il bellissimo banner!
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Capitolo 3 *** 03. Amicizia ***
">>
ATTO
TERZO: AMICIZIA
"Doubt
is alive and you know:
you
were once led to believe,
you
were young and so naive
and
now is no longer."
ALTER
BRIDGE
Ottobre
2015
Era
su un treno, in mezzo alle montagne. Non ricordava come ci fosse
arrivato, e non poteva nemmeno essere sicuro che fosse veramente un
treno. Lo sentiva, e basta. Dallo sferragliare delle ruote sui
binari, sulla luce che entrava intermittente dalle minuscole
finestrelle alte ai lati di quella grande cassa di metallo.
Sentiva
anche che
era successo qualcosa di terribile, ma non riusciva a ricordare cosa.
Aveva freddo, dalle punte dei piedi alle mani arrossate.
Vedeva,
davanti a lui, sua madre. Ma era irriconoscibile: aveva profonde
rughe e stava in un letto con le sbarre ai lati. I capelli, ancora
mossi in ordinati boccoli grigi, le incorniciavano un volto a dir
poco scavato. Il treno proseguiva, cigolando sui binari. Era confuso.
"Mamma?"
chiese, avvicinandosi alla donna. "Mamma, che ci fai qui?
Dovresti essere all'ospedale." Appoggiò una mano sulla
spalla
della donna, che si girò a guardarlo. Ed ebbe un sussulto.
Sua
madre era morta di malattia, quando lui e lei stessa erano ancora
giovani. Era morta di tubercolosi, nel 1940. Iniziava a ricordare.
"Steve?
O mio dio, Steve. Tu sei vivo!"
Lei
allungò un braccio verso di lui, mentre si portava l'altra
mano alla
bocca.
Le
sue labbra, una volta carnose e rosse di vita, erano ora due grige
linee spente, aperte dalla sorpresa. Gli occhi, una volta determinati
e fermi, si riempirono di lacrime. Erano coperti da una patina
bianca, lattiginosa.
"Oh,
Steve. Oh dio. Non pensavo saresti mai tornato da me!"
Biascicava lei, sputacchiando. Le mancavano moltissimi denti. Il
viso, visto da vicino, aveva un aspetto pergamenoso.
Lei
gli prese la mano, e lui ebbe un moto di disgusto. Se ne
vergognò
subito, sentendosi talmente in colpa da abassare il capo più
di
quello che il suo collo avrebbe potuto fisionomicamente fare.
Strinse
la sua mano, scheletrica e rugosa, fra le sue.
"Peggy...
sono tornato." Disse, sedendosi su una sedia, che prima non
aveva notato.
"Resterai
con me, ora?" Sussurrò lei, strizzando gli occhi per vederlo
nella scarsa luce.
"Sono
qui." Annuì lui, osservandola con un sorriso tirato. La luce
mancò per un attimo. Sentì stritolare la mano in
una presa di
acciaio.
"Resterai
con me fino alla fine, Steve Rogers?"
xxx
"Steve!
STEVE!"
Qualcuno
lo stava scuotendo con forza, tirandogli delle pesanti sberle.
"Porca
puttana, svegliati!" Sentiva la voce di Samuel che lo chiamava.
Arrivò un'altra sonora sberla, mentre l'uomo strizzava gli
occhi
scuri, cercando di mettere a fuoco la figura scura illuminata dalla
luce gialla della abat-jour.
"Sono
sveglio, sono sveglio, che ore sono?" Scostò dalla sua
faccia
la mano dell'amico, alzandosi seduto su quello che riconobbe essere
il suo letto. Era completamente madido di sudore ghiacciato, ed il
lenzuolo era malamente arrotolato attorno alla sua gamba destra. "E'
successo qualcosa?" Biascicò, coprendosi gli occhi dalla
luce .
Fece per ributtarsi sul letto.
L'amico
glielo impedì, dandogli un colpo sulla spalla.
"Hai
gridato come un pazzo per più di un quarto d'ora! Ha fatto
venire
l'angoscia a tutti i tuoi vicini di stanza."
Steve
si sedette sul bordo del letto. Aveva la tachicardia, lo sentiva, e
gli girava la testa. Non rusciva a mettere a fuoco i suoi stessi
piedi. Voleva alzarsi ma Samuel lo spinse giù.
"Non
ci provare, se svieni a terra non riesco a trascinarti sul letto."
"Ma
devo andare in bagno."
"Aspetti!"
Sbraitò l'amico, passandosi una mano sul viso. "Mi ha detto
la
povera vecchietta della lavanderia che sta nella stanza in fondo che
questa cosa succede almeno una notte ogni due!". Samuel
camminava avanti e indietro per la stanza. Guardarlo gli faceva
venire la labirintite.
“Wanda
è venuta a chiamarmi correndo in vestaglia! Povera
ragazza!” Mise
a fuoco solo in quel momento l'amico, in canotta e pantaloni del
pigiama a righe blu e azzurre. Portava delle grosse pantofole in
spugna rosso acceso.
“Cosa
sono quelle?” Chiese, grattandosi la testa. Samuel lo
guardò con
sguardo assassino.
“Le
mie ciabatte da camera. Dopo una giornata di allenamenti, serve
qualcosa di comodo per far riposare il piede... Da quanto va avanti
questa storia?”
“Le
ha scelte Cynthia, vero?” Commentò Steve con un
sorriso. Samuel
alzò gli occhi al cielo. Il suo amico era troppo dolce, non
era in
grado di arrabbiarsi con lui.
“Perché
non me lo hai detto?” Si sedette accanto a lui sul letto,
tenendo
in mano il cellulare. “Stavo per chiamare Nat... Posso
aiutarti,
perché non me ne hai mai parlato?”
Steve
si passò una mano sul viso sudato. “Finiranno
appena avrò trovato
Bucky...” Samuel si irrigidì un pochino. Non gli
andava a genio il
quasi-fratello macchina assassina del suo migliore amico. Forse era
un poco geloso. Sbuffò, i gomiti poggiati sulle ginocchia e
le mani
giunte.
“Ne
sei sicuro?” Disse con poca convinzione. Steve
annuì.
“Okay.”
Samuel si alzò, afferrando il copriletto dal pavimento, dove
era
caduto mentre si agitava.
Si
sedette sulla poltrona vicino al cassettone, sospirando. Steve lo
guardò perplesso.
“Che
fai?”Samuel si sistemò meglio, mettendo il
cellulare sul ripiano e
stendendo le lunghe gambe sul pavimento. “Dormo qui. Sono
solo le
quattro, non vorrai disturbare tutta la base.”
Commentò,
coprendosi con il copriletto di cotone pesante. Steve rimase allibito
a fissarlo, gli occhi arrossati per la stanchezza. “Non devi
farlo.”
“Ti
ho guardato dormire per una settimana dopo Washington. Non penso che
stare su una poltrona tre ore in più possa essere
più scomodo.”
Steve annuì, stendendosi.
“Dormi,
Capitano.
La guardia la faccio io.” Sussurrò Samuel,
più a se stesso che
all'amico. Ormai Steve era già profondamente addormentato.
xxx
Quando
si svegliò alle sei, era tutto anchilosato e ricoperto da
una patina
di sudore freddo. Aveva mal di gola, probabilmente a causa del fatto
che aveva urlato nel sonno. Più del solito.
Si
guardò allo specchio, appena uscito da una doccia bollente
che non
lo aveva aiutato ad esorcizzare i suoi pensieri sconnessi.
Uscì
dalla stanza con l'asciugamano in vita, senza preoccuparsi per
Samuel. Lo aveva visto in condizioni peggiori, anche se Steve
rimaneva sempre il ragazzino pudico che si vergognava di farsi vedere
in canotta.
Samuel,
comunque, dormiva ancora profondamente, russando in maniera
rassicurante. Steve gli stese sopra anche la sua coperta, sentendosi
in colpa. Quella notte era troppo sconvolto e stanco per accorgersi
dell'amico che si era piazzato sulla poltrona, e che sicuramente non
stava propriamente comodo, la testa a ciondoloni sul petto.
Si
infilò degli abiti sportivi, prese un asciugamano e si
diresse verso
la palestra, sperando di trovare un po' di pace dal suo inconscio in
tumulto.
Camminò
con passo lento, godendosi il silenzio e l'aria misteriosa che solo
un immenso complesso in orario di chiusura poteva avere. A quell'ora
del mattino, la mensa era ancora chiusa e tutti dormivano. Gli
piaceva il clima ovattato, la sensazione che quel posto fosse tutto
per lui. Nessuno che lo osservava, o che si aspettava da lui ordini,
o sussurrava qualcosa al suo passaggio.
Si
stupì di vedere, dal corridoio, le luci della palestra
accese.
Si
fermò sulla soglia, osservando curioso la scena.
Imprecò fra sé e
sé.
Elle
Selvig stava davanti ad un sacco da boxe, colpendolo con dei calci
alti, tenendosi in equilibrio sulla gamba sinistra e flettendo
velocemente la gamba destra. Si era legata i capelli in una coda
alta, che ondeggiava ad ogni suo movimento. Teneva le braccia sottili
strette al busto.
Doveva
essere lì da molto, vista la canotta grigia con degli ampi
aloni di
sudore. Aveva due auricolari infilati nelle orecchie, collegati ad un
dispositivo che doveva essere infilato nell'elastico dei pantaloni
elasticizzati blu.
Steve
si perse un secondo a fissare con quanta violenza quella ragazzina
colpiva un sacco due o tre volte più grande di lei.
Sbuffò: sperava
in un momento privato, solo lui e i suoi attrezzi. In più,
lui e la
Selvig non parlavano dall'incidente della settimana prima, con Wanda.
Aveva pensato spesso di andarla a cercare, di chiederle consiglio o
di scusarsi. Ma non aveva mai avuto il tempo – o il coraggio.
La
verità era che Elle non lo trattava con più
riguardo di un
qualsiasi collega di lavoro, non cercava di adularlo o di addolcirgli
la pillola. Lo trattava come avrebbe trattato una qualunque persona
che le stesse antipatica a pelle. E questo lo spaventava.
Stark
lo aveva preso sempre in giro, ma Elle... Elle smontava qualsiasi
cosa lui dicesse in minuscoli pezzi per poi esaminarli minuziosamente
uno a uno ed elencarne i difetti.
Il
solo suono che si sentiva era il cigolio della catena al quale il
sacco era appeso, ed il respiro affannato di Elle. Le mani, avvolte
in due bende scure, partirono a colpire sicure con un pugno.
Non
poté che dirsi impressionato. Elle sembrava arrabbiata, il
viso a
punta corrucciato, un ciuffo ribelle sistemato alla meglio dietro
l'orecchio.
Steve
si appoggiò allo stipite della porta, le braccia conserte
sopra la
maglietta attillata. Elle gli lanciò uno sguardo freddo,
attraverso
la superficie riflettente dello specchio, senza fermare il suo
esercizio, in equilibrio sulla gamba destra, mentre la sinistra
colpiva il sacco con dei calci precisi. Sotto alla canotta, sulla
spalla sinistra, si vedeva un complicato intreccio di inchiostro
nero, probabilmente ripassato di recente. Il tatuaggio si snodava per
tutta la spalla, sparendo sotto la spallina spessa. L'uomo si chiese
che cosa rappresentasse, osservandola appoggiare il piede a terra.
Avrebbe voluto avvicinarsi e chiederle di mostrarle quel simbolo
scuro, ma non lo fece.
Elle
si diresse verso la panca, togliendo una cuffietta dall'orecchio,
senza dire una parola. Steve fermò il sacco con una mano,
osservandola di sottecchi.
“Non
sei fatta per il lavoro d'ufficio.” Commentò,
osservandola
prendere una borraccia verde e bere avidamente, le labbra pallide per
lo sforzo appena compiuto. Per tutta risposta Elle appoggiò
il
contenitore sulla panca, stringendosi nelle spalle.
“Sai
combattere in modo molto intelligente, soprattutto visto che sei una
ragazza, e non molto forte.” Esclamò poi Steve,
cercando di
guadagnare la sua attenzione. Elle lo trucidò con lo
sguardo, un
sopracciglio alzato fin quasi all'attaccatura dei capelli, le mani
fasciate appoggiate sui i fianchi. L'uomo represse un'imprecazione.
Donne
due, Steve Rogers zero.
Elle
lo superò, dirigendosi verso il sacco,e lui fece un passo
indietro
per farla passare, completamente inerme. Chiunque lo conoscesse
avrebbe riso a quella scena.
Lei
tirò un gancio destro, per poi voltarsi, frustando l'aria
con la
lunga coda di cavallo dorata, e colpire con il gomito sinistro poco
più in alto. Steve si diresse verso i paracolpi, preda di
una
momentanea illuminazione. Prese un grosso scudo di gommapiuma blu,
avvicinandosi. Si mise di fianco al sacco, in posizione di difesa, il
grosso cuscino davanti al busto ed al fianco destro. Elle
fermò il
sacco, togliendosi la seconda cuffietta dalle orecchie, lasciandole
penzolare ai lati del collo. Si sentiva la musica piuttosto dura che
stava ascoltando, un ronzio forsennato che non riusciva a coprire il
loro silenzio.
“Fai
sul serio?” Fece una smorfia, mentre Steve annuiva, un
leggero
sorriso. Aveva attirato la sua attenzione. Elle tirò un
pugno secco
in alto, per poi colpire in basso con una ginocchiata piuttosto
forte. Steve indietreggiò quasi, stupito. Annuì
sorridendo,
spingendo il paracolpi verso di lei. Elle afferrò con le due
mani la
superficie, colpendola con un'altra forte ginocchiata e saltando
indietro in modo piuttosto sciolto, anche se non aggraziato. Torse il
busto, slanciando la gamba sinistra in un alto calcio.
“Dovresti
proteggere meglio il collo del piede.” Commentò
Steve, prevedendo
la mossa e afferrandole la caviglia. Elle fece un cenno stupito con
la testa, alzando il mento, mantenendo l'equilibrio. Steve le
lasciò
la gamba, torcendoi la mano ora libera. La pelle di Elle era molto
morbida, e fredda.
Elle
si esibì in una complicata serie di pugni frontali e ganci,
sospirando pesantemente, mentre Steve la osservava in silenzio,
cercando di spostare in modo imprevedibile il paracolpi. Combatteva
in maniera meno raffinata di Natasha, più brutale ma allo
stesso
tempo seguendo una danza che veniva dal cervello, non dal cuore. Non
era impulsiva: semplicemente, attuava delle strategie molto complesse
per sopperire alla mancanza di forza fisica. Non c'era da stupirsi
che avesse potuto aiutare Rhodes.
Elle
si lasciò sfuggire un sorriso, all'ennesimo colpo che aveva
sferrato
quasi contro l'uomo, prevedendo le sue mosse con lo scudo. Steve
sorrise in risposta, un sorriso molto più pieno e dolce. Si
stava
divertendo, ed Elle era particolarmente brava. Si ritrovò a
studiare
con attenzione il volto della giovane, gli occhi di quel colore
straordinario che aveva notato dal loro primo incontro. Gli occhi del
padre, Erik, ma con una sfumatura molto più accesa.
Steve
si sentì perso un secondo, in tutto quell'azzurro quasi
fosforescente.
Elle
fece per colpirlo, quando i due avanzarono entrambi. Elle lo
fissò
negli occhi, mentre si scontravano incidentalmente, di petto. Elle
cercò di evitarlo, afferrandolo per un braccio. I due
caddero a
terra come due pesi morti, affiancati, con il paracolpi in mezzo.
Elle emise un lamento.
“Mi
dispiace tanto!” Esclamò Steve, alzandosi sul
braccio, mentre Elle
si raggomitolava a riccio con una smorfia dolorante sul viso. Lui si
alzò sulle ginocchia, voltandosi verso di lei quasi ridendo.
Le
allungò una mano.
"No.
Ce la faccio da sola." Borbottò Elle, allontanando la sua
mano
con un gesto stizzito e cercando poi di sollevarsi anch'essa sulle
ginocchia. Fece una smorfia, ricadendo con il sedere per terra. Il
sorriso morì sul viso di Steve quando si rese conto che la
ragazza
aveva assunto un colorito rossastro sul viso, gli occhi che
lacrimavano.
"Sei
ferita?" Chiese lui. Lei guardò nella direzione opposta, una
mano che stringeva spasmodicamente il tessuto della canotta sopra il
fianco sinistro, le dita sottili quasi esangui per la forza della
stretta. Steve sgranò gli occhi, piegandosi sulle ginocchia.
"Fai
vedere."
"No."
La voce di Elle uscì soffocata. Steve la guardò
con apprensione,
mentre Elle si mordeva le labbra e guardava il soffitto. Le tolse
gentilmente la mano dal fianco, appoggiandola a terra.
Sollevò con
attenzione la canotta, deglutendo a fatica.
Una
grossa cicatrice rossa seguiva le fibre muscolari del fianco sinistro
della ragazza. La sutura era irritata in più punti e dalla
cicatrice
partivano piccole vene viola. Era una grossa cicatrice da taglio,
eseguita da qualcuno con molta forza con un oggetto evidentemente di
fortuna. Il segno proseguiva fin sotto al reggiseno sportivo,
distendendosi per quasi venti centimetri.
“Maledizione!”
Steve appoggiò un dito sulla linea infiammata, passandole un
braccio
sotto la schiena.
"Chi
ti ha fatto questo?" chiese allibito, cercando lo sguardo della
ragazza. Elle guardava nel vuoto, nella direzione opposta, gli occhi
annebbiati dal dolore. "Non dovresti allenarti con una ferita
del genere." Sbottò stizzito. “Ha ragione Fury a
dire che sei
infortunata! Non dovresti assolutamente allenarti con una ferita del
genere! Non dovresti nemmeno essere al lavoro!" esclamò
irato.
Più
ricordava gli allenamenti con Wanda, o le volte che si erano
incontrati facendo jogging intorno alla base. Represse
un'imprecazione, passandole un braccio sotto le ginocchia e
sollevandola come se fosse stata una bambina.
Elle
si voltò stupita, e rimasero per un secondo immobili. Steve
aveva lo
sguardo perso fra i giganteschi occhi azzurri della ragazza e quella
terribile cicatrice slabbrata, in un continuo spostamento del capo.
Cercò di sorriderle, la mascella tesa dal nervosismo.
Elle
lo guardò sconvolta. Aprì un paio di volte la
bocca, evidentemente
non sapendo cosa dire. Steve appuntò mentalmente di
esultare, più
tardi: Elle era, per la prima volta in tutta la loro conoscenza,
senza parole.
“Ti
porto in infermeria.” Commentò lui, godendosi la
sua espressione
sbigottita. Elle annuì appena, senza abbassare lo sguardo da
quello
di lui.
xxx
Erano
nel corridoio principale, ed erano le sette del mattino. Ogni persona
che incontravano, ogni segretaria, lavandaia o soldato, si faceva da
parte osservando la scena come se stesse passando un'intera carovana
del circo, invece che Steve Rogers con in braccio Elle Selvig.
Elle
cercava di stare più lontano possibile dal petto dell'uomo,
ma non
riusciva a tenere in tensione gli addominali senza provare le stesse
piacevoli sensazioni di una pugnalata.
“Cosa
hanno tutti da guardarci?” Sbottò, carbonizzando i
presenti con lo
sguardo. "Faccio un lavoro per il quale è normale rimanere
feriti!" Steve sorrise, sapendo che lei non lo stava guardando,
le braccia conserte e la pelle d'oca su tutto il corpo. I corridoi
erano freddi, e l'infermeria era dalla parte opposta dello stabile,
vicino all'hangar dei veicoli. Steve aveva caldo, e sistemò
meglio
Elle contro di sé, perché sentisse meno freddo.
Sapeva di darle
fastidio, ma provava un piacere masochistico nell'indispettirla. Elle
infatti voltò appena la testa, gli occhi ridotti a due
fessure.
“Nessuno
si aspettava di vedermi con te in braccio, mentre ti porto in
infermeria.” Commentò lui, osservando il ventaglio
di spettatori
che lo circondavano. Sembrava che mezza New York fosse entrata al
quartier generale solo per imbarazzarli. “Non è
proprio il modo di
mandarti
in infermeria
che tutti si aspettavano.”
Elle
negò con il capo. “Tutti si aspettano mosse del
genere, da te. Sei
una specie di mascotte della gentilezza americana.”
Borbottò lei.
“Tutto buone maniere e fedeltà alla
patria.” Steve ridacchiò ad
un ritratto così caricaturale ma positivo da parte sua.
Erano quasi
arrivati in infermeria, e Steve si trovò a pensare che la
avrebbe
voluta più lontano, per esempio dall'altra parte del bosco.
Sorrise
leggermente.
"Non
dire nulla a Fury, ti prego. Non sei tu a decidere quanti giorni di
sospensione dovrei fare!" Lui la appoggiò senza fiatare sul
lettino, mentre una ragazza con un camice azzurro veniva verso di
loro. Elle si allungò sul materasso ricoperto di carta
scricchiolante, senza riuscire a nascondere una smorfia. Steve la
fissava dall'alto, tenendole una mano dietro le scapole.
Elle
sospirò, passandosi una mano sul ventre piatto, perdendosi
in un
sussurro, gli occhi che fissavano il vuoto oltre le sue scarpe da
ginnastica.
"Arga
katter får rivet skinn!"
“Cosa?”
Chiese Steve, prendendole la mano e allontanandola dalla ferita,
mentre l'infermiera faceva cenno che sarebbe arrivata subito.
“I
gatti cattivi hanno la pelle graffiata!
Lo diceva sempre mia madre.”
Steve
ridacchiò, appoggiando la mano libera sul materassino e
piegandosi
in avanti leggermente. “Non sei cattiva. Sei insopportabile,
non
cattiva.” Elle rise sottovoce con lui, interrompendosi in una
smorfia dolorante.
L'infermiera
si mosse verso di loro, osservandola severamente.
“Perché
è in tuta, signorina Selvig? Si stava riprendendo
così bene... Non
sarà andata in palestra?”
Elle
alzò le spalle, voltandosi verso Steve e sorridendo come una
bambina
che ha appena combinato un guaio, ed è stata beccata. Un
vero
sorriso, dolce e rassicurante, quasi divertito.
“Dovresti
andare...” Commentò. Alzò la mano, che
lui ancora stringeva.
Steve la lasciò subito, arrossendo leggermente.
“Mi dispiace.”
Elle si strinse nelle spalle, nascondendosi dietro il suo ormai
conosciuto ghigno.
"Dovresti
segnare una cosa sul tuo taccuino, Capitano. Le
molestie sul
luogo di lavoro."
xxx
Natasha
Romanoff era sempre stata una donna molto perspicace.
Aveva
pochissime amicizie, cosa abbastanza comprensibile vista la sua
brillante carriera nello spionaggio ed il poco tempo libero del quale
disponeva, e ancor meno erano le persone di cui si fidava.
Seduta
su quella poltrona scura, osservava la sua terapeuta con
sguardo inquisitorio, le labbra carnose nascoste dietro le dita
decorate da unghie vermiglie. Elle sospirò, appoggiando un
taccuino
sul tavolo.
"Sai
che non devi parlarmi per forza di tutto. Non qui. Fury però
pensa
che dopo che Banner è scomparso, tu...ecco..."
"Non
sono quel tipo di persona che si strugge per una love story andata
male." Commentò prontamente Natasha, stendendo le gambe
davanti
a sé. Riportò lo sguardo sull'amica, che aveva
abbandonato la sua
scrivania di vetro per sedersi sul divano di fronte a lei. Dove
sarebbe dovuta stare la rossa. Ma a Natasha le convenzioni non erano
mai piaciute.
"Lo
so." sorrise Elle, lisciandosi la gonna nera con le mani. "Per
questo volevo chiederti, c'è qualcosa di cui mi vuoi
parlare?
Facciamo finta che sia una seduta.".
"Volevo
farti una domanda." Nat appoggiò il gomito sul bracciolo
della
sedia, ed il viso sulla mano, i ricci vermigli che scivolavano fra le
dita.
"Che
cavolo hai fatto a Rogers stamattina?".
Elle
agitò un braccio, alzando gli occhi al cielo. "E' per questo
che ti sei presentata qui con quella brodaglia che qui dentro
spacciano per caffè?"
La
svedese le piantò uno dei suoi migliori sguardi esasperati
negli
occhi, agitando il bicchiere di carta pieno della bevanda scura,
mentre l'amica sorrideva sardonicamente.
“Metà
quartier generale fra le braccia di Rogers. Sono già partite
le
scommesse su di voi, a mensa.” La rossa ghignò
ancora di più.
“Ero indecisa se puntare su te o su Sharon Carter.”
Elle alzò
gli occhi al cielo.
"Smettila
di cambiare discorso. Siamo qui per te. Chiamo Barton?"
borbottò
la psicologa, estraendo il cellulare e sventolandolo sotto il suo
naso. Nat sorrise ancora più malignamente.
"La
situazione deve essere davvero grave se vuoi tirare dentro un terzo
elemento esterno.".
"Non
è successo niente, Nat. Non ci siamo ammazzati, non
c'è stata
nessuna rissa, non ci siamo nemmeno toccati." Nat sghignazzò
apertamente.
"Non
è quello che mi hanno detto." Elle la guardò
esasperata.
“Mano
nella mano davanti all'infermiera. Davvero mi credi una spia
così
poco capace?” Nat fece un broncio offeso. L'amica la
fulminò con
lo sguardo, nascondendo il viso dietro una mano, fingendo di
grattarsi il naso. “Lo avrebbe fatto anche con te.”
Natasha
strinse le spalle all'evidenza di quella frase.
“Forse
sarebbe stata una cosa diversa.” Si passò un dito
sul labbro
inferiore, pensierosa. "Rogers è stato di eccellente umore
tutto il giorno. Nemmeno Samuel è riuscito a scucirgli
qualcosa.
Però è venuto a chiedermi delle informazioni
sulle molestie sul
lavoro..."
"Quell'uomo
pecca proprio di senso dell'umorismo."
"Elle..."
"Ok,
ha visto la mia ferita. E, com'è giusto che sia,
è rimasto
sconvolto. Schifato. Raccapricciato. Anche senza ascoltare cosa
pensasse, mi è bastato vedere la sua espressione per farmelo
capire.
Era talmente spaventato che mi ha trascinato di peso in infermeria,
dove l'unica cosa che possono fare per me è riempirmi di
analgesico
o morfina." Elle si prese il volto fra le mani, lasciando
trapelare un po' di stanchezza, gli occhi arrossati per le troppe ore
trascorse in ufficio.
Natasha
sospirò. Era settimane ormai che vedeva l'amica dolorante.
Non aveva
ancora avuto occasione di chiederle cosa fosse successo. Era un po'
gelosa del fatto che Rogers avesse visto la spaventosa
cicatrice prima di lei: Nat le faceva sempre vedere
i nuovi
segni sul suo corpo come delle medaglie, e si sentiva tradita
dall'amica che non aveva fatto lo stesso. Elle riebbe la sua
attenzione con un profondo sospiro.
"E
per fortuna Rogers non sa chi o cosa mi ha procurato quella
ferita..."
Nat
si coprì il viso con la mano, sospirando. La situazione
difficilmente poteva complicarsi ancora. Di più. No?
"Perché,
chi è stato?" Chiese con tono funereo.
Elle
si alzò, con una leggera smorfia, ed andò a
chiudere le tende
dell'ampia finestra del suo ufficio.
"Promettimi
di non dirlo a Rogers..." disse, estraendo dal cassetto ed
accendendo un dispositivo per criptare la traccia audio delle
telecamere nella stanza. Nat non si aspettava tutta quella
segretezza, e si sedette con la schiena rigida, in attesa.
"Già
è difficile lavorare con lui ora, se sapesse tutto sarei
costretta
ad andarmene."
Nat
annuì, e Elle cominciò a raccontare.
xxx
Il
Giorno dopo, Elle non si recò in palestra.
Fece
il solito giro di corsa mattutino, stando ben attenta a non
incontrare soggetti indesiderati, e a non fare movimenti strani con
il fianco, fasciato come se portasse un ingombrante kimono. Non aveva
la minima intenzione di ripassare mezza giornata in infermeria.
Natasha
approvava la sua soluzione al problema Rogers - ovvero fingere che
non fosse accaduto nulla- e l'aveva informata di una coincidenza
fortuita. Quel giorno, avrebbe fatto visita alla base Clint. Senza
nemmeno bisogno di chiamarlo.
Nat
aveva finto di non sapere, o di non capire, quale motivo portasse un
agente fuori servizio con tre figli piccoli a mollare la sua comoda e
rassicurante fattoria- anche se a causa dei continui lavori di
ristrutturazione, Nat la chiamava il cantiere-
e passare
un'intera giornata al quartier generale.
Barton
era arrivato verso le nove del mattino, sventolando foto del nuovo
nato mentre mangiava omogeneizzati insipidi o mentre gattonava
goffamente in mezzo alle costruzioni di legno. Elle si era sperticata
in commenti entusiasti, ma appena aveva incontrato lo sguardo di Nat
si erano scambiate un ghigno. Lei e Nat non avevano molta attitudine
per i neonati. Soprattutto Nat. Anche se vedeva spesso l'amica in
atteggiamenti piuttosto materni, Natasha sosteneva che non sarebbe
mai stata una buona figura di accudimento. Elle sapeva che si
sbagliava.
La
Selvig conosceva Clint da diversi anni, tramite Natasha. Aveva
conosciuto la rossa durante la sua prima visita allo S.H.I.E.L.D., e
successivamente Fury le aveva costrette a lavorare assieme spesso,
sperando di creare una sostituzione di Banner per Natasha. Elle sveva
avuto occasione di vedere Clint contento. In ansia. In fuga.
Ma
non lo aveva mai visto sentirsi inadeguato. Lei sapeva
perché lui
era li, ovvero vedere con i suoi occhi come stava Natasha dopo
il post-Banner. Qualcosa era
cambiato in lei, ma
Clint vedeva ancora un fondo di speranza sul fondo dei meravigliosi
occhi scuri della Russa. Ed era terrorizzato che il crollo dell'amica
fosse fuori dal suo controllo.
"Nat..."
Barton si sedette vicino a lei, a cavalcioni sulla panca della mensa.
Nat masticava una mela, guardandolo storto. Lei lo vide cercare le
parole, masticandosi il labbro inferiore. Quando Clint non trovava le
parole, la rossa diventava inquieta. Clint sapeva sempre cosa dire.
L'uomo imprecò.
"Non
avrai deciso di lasciare Laura?" Chiese con gli occhi sgranati
la rossa, dopo un paio di minuti di silenzio stampa.
"Ma
ti prego, Nat. Sono qui per te, non per me!" sbottò
l'agente,
agitando le mani.
"Bel
lavoro, Barton. Per fortuna avevi promesso di essere discreto..."
commentò Elle, sedendosi davanti ai due. Nat
sbuffò sonoramente.
"Il
discorsetto me lo ha già fatto Mr. Captain America."
commentò.
"Siete arrivati tardi..."
Elle
alzò un sopracciglio. "Dubitavo che Captain Microcefalo
fosse
capace di sentimenti complessi come l'empatia." fischiò
sorpresa.
Clint
la additò, leggermente stupito. Natasha sospirò.
“Lui
si comporta da idiota ed Elle è scorbutica come il
vecchietto di
Up.”
Banner
sogghignò, voltando il capo verso la bionda.
"Non
dovresti essere così acida. Tu e Rogers sembrate fatti con
lo
stampino, dai retta ad uno che se ne intende." Elle rimase a
bocca aperta, fissandolo senza parole.
"E
tu." disse Barton, indicando Natasha "Dovresti usare gli
amici che hai. Non so se temere che tu abbia il cuore a pezzi o
essere terrorizzato dall'idea che tu non abbia ancora somatizzato il
colpo."
"Che
delicatezza, Barton." Elle si ridiede un contegno. Il suo
sguardo passò dall'uomo alla sua amica, a metà
fra il preoccupato e
l'interrogativo.
"Lo
so. Lo apprezzo. Ma io sto bene." Nat si alzò di scatto,
lasciando la mela sul tavolo con un sospiro. Osservò gli
amici, le
labbra strette. “Tornate a fare quello che stavate facendo
prima di
preoccuparvi inutilmente. State solo sprecando tempo ed
energie.”
Frettolosamente, Natasha sgattaiolò via fra la confusione
che solo
una mensa ad orario di pausa pranzo può ospitare. I due
rimasti si
guardarono, sospirando.
xxx
“Maledizione,
Barton, rallenta!”
Elle
stava seguendo l'amico, che fingeva di non essere preoccupato per
Natasha, in giro per la nuova base Avengers. Rogers gli correva
dietro, dovendo far parte della comitiva che lo accompagnava a
visitare la nuova sede. In realtà, aspettavano tutti e tre
che
Natasha si facesse viva. L'uomo fermò il suo passo nervoso,
sbuffando.
"Così,
ti trovi bene qui Elle?" chiese Clint con voce annoiata,
sporgendosi dalla ringhiera del mezzanino verso la grande hall
dell'ingresso. La luce naturale entrava abbondantemente dalle ampie
pareti di vetro, nonostante fosse ormai autunno. "Sono tutti
simpatici con te? Non vorrei venire a sapere che hai eviscerato
qualcuno." si informò, scrutando lei e Rogers che cercavano
di
stare il più lontani possibili. Lui ogni tanto si girava a
guardarla, con uno sguardo simile a chi si trova davanti un enigma
complesso. Sembrava un bambino che guarda un goffo prestigiatore:
vorresti vedere il prossimo trucco, ma possibilmente senza farti del
male. Gli dava un po' di fastidio vedere l'amica guardata
così, ma
capiva che avere a che fare con la Selvig e non piacergli doveva
essere un vero disagio.
"Dev'essere
difficile rispetto all'FBI. Qui non c'è la stessa...
trasparenza."
commentò l'uomo, mentre Elle si appoggiava di schiena al
parapetto.
Rogers si mise sull'altro lato dell'arciere.
"Se
ti riferisci a Fury, è cristallino come l'acqua dell'Hudson.
Nel
tratto dopo le fabbriche di materiali industriali, hai presente?"
disse sarcasticamente. "Ti ricordi come lo chiamavamo?".
Clint
ridacchiò, guardando Rogers. "Lo chiamavamo Dogs of War.
Come
la canzone, hai presente?"
Rogers
negò di aver capito. "Non conosci i Pink Floyd?" chiese
esterrefatta Elle, guardandolo per la seconda volta nella loro
conoscenza senza astio o rassegnazione. Era solo sorpresa.
Steve
fece di no con la testa. Elle e Burton canticchiarono, spalla a
spalla, senza guardarsi.
"The
dogs of war don't negotiate... The dogs of war won't capitulate...
They will take and you will give... And you must die so they may
live." Verso la fine, il sorriso di Elle si spense, mentre
lo sguardo di Barton era più rassegnato.
"Molto
appropriato." commentò Rogers "Ma Fury ci tiene ai suoi, e
non è uno sciacallo."
Barton
annuì, e mise una mano sulla spalla di Elle. "Sono d'accordo
con il Capitano. Ti puoi fidare di queste persone..." fece un
ampio gesto, indicando tutto.
"E
di quest'uomo." indicò Steve, che per un secondo
sembrò
prendere più colore sul viso. Elle si guardava le mani
pallide,
sbuffando. Barton sogghignò, dando un colpo alla spalla di
Rogers.
"Giurami
che ti prenderai cura di questo zuccherino. Fa tanto la dura, ma
anche lei si fa male. Come me e Nat, tutti hanno bisogno di qualcuno
che ti copra le spalle. E, conoscendovi, vi vedrei bene."
Sorrise
ad entrambi, mentre Steve scrutava Elle dalla testa ai piedi con
incredulità, le labbra leggermente arricciate nello sforzo
di
pensare ad una Selvig che non continuasse a insultarlo o ad evitarlo.
Lei non aveva intenzione di guardarlo in viso, concentrandosi sulla
punta dei sui stivali neri. Barton sogghignò, voltandosi
verso Elle.
"Ora,
Rogers, lasciaci soli... c'è un certo incidente di cui mi
hanno
parlato del quale devo sapere tutto." Elle diede le spalle ai
due, sospirando e sporgendosi con il busto dalla ringhiera. Steve fu
costretto a salutare ed andarsene proprio quando veniva fuori un
discorso che avrebbe tanto voluto ascoltare.
xxx
"Non
penso sia appropriato." Samuel, per la prima volta nella loro
conoscenza, cercava di trattenerlo dal fare quello che stava per
fare.
Ovvero
entrare nell'ufficio della Selvig, che non era chiuso a chiave, e
curiosare in giro. Cercando qualcosa che motivasse la reticenza di
Fury nel lasciarsi scappare informazioni sulla nuova arrivata.
"Dovresti
mettertela via, è un mese che lavora qui e
lavorerà qui per ancora
diverso tempo." Samuel sembrava esasperato "Se non fa nulla
di sospetto, perché dobbiamo interferire?".
Rogers
scosse la testa, senza ammettere che forse l'amico aveva ragione.
Selvig era solo terribilmente bipolare: prima lo odiava, poi sembrava
aprirsi un po', poi lo odiava di nuovo. E lui stava esagerando. Ma,
dopo Ultron, gli sembrava che dietro ad ogni angolo ci fosse un
nemico. O peggio, un amico pronto a tradirlo...
Samuel
era una manna dal cielo: schietto e sincero, lo avrebbe seguito
ovunque. Si sarebbero coperti le spalle a vicenda. Gli ricordava
quasi il rapporto che aveva con Bucky.
Scosse
il capo, confinando quel pensiero pericoloso nell'angolo del suo
cervello dove conservava le cose disturbanti. Doveva seguire il
piano.
L'ufficio
di Elle era sul lato Est dell'edificio. Nonostante fossero le cinque
del pomeriggio, era già molto buio.
Vi
era una libreria, quasi spoglia -dopotutto era una sistemazione
temporanea – con pochi tomi di psicologia. Un ripiano era
occupato
solo da schedari di test attitudinali o test standard di
intelligenza.
"Matrici
di Raven...Roscharch... mi sembra tutto normale." commentò
Samuel, che sicuramente capiva più di lui. Prese un libro
sul
trattamento del PTSD, leggendo la quarta di copertina.
"Dovrei
chiederle di prestarmelo." esclamò sogghignando. Steve lo
fulminò.
"Guarda
il computer." ordinò lapidario. Samuel ripose il libro.
Sulla
parete della porta d'ingresso, vi erano appesi molti quadri a formare
una caotica ma apprezzabile opera con spunti della vita di Elle
Selvig.
La
cornice più grande era occupata dalla laurea in psicologia
datata
2001. Poi vi erano almeno quattro attestati di master in trattamento
dei disturbi d'ansia, specializzazioni in Trattative e Contrattazioni
per la liberazione di osteggi, un documento del SAS che confermava la
loro collaborazione. Samuel fischiò ammirato, seguendo lo
sguardo
dell'amico.
"Ma
dove ha trovato il tempo di fare tutto questo?" commentò
ammirato. Guardò la laurea della ragazza, facendo dei rapidi
calcoli. “Si è laureata a vent'anni?”
esclamò, le
dita della mano ancora aperte per essere sicuro di non essersi
sbagliato.
Steve
si avvicinò a guardare meglio una delle poche fotografie che
ritraevano la ragazza.
Elle,
leggermente più scura di carnagione, vuoi per il sole del
medio
oriente vuoi per la polvere che le sporcava il viso, portava una tuta
verde da paracadutista. Era piegata sulle ginocchia, sorridente come
non l'aveva mai vista, vicino ad un bambino vestito solo di stracci.
Vicino a lei, altri due uomini con la stessa uniforme, ridicolmente
più grossi in confronto alla ragazzina, ridevano. Uno teneva
in
braccio una bambina, mentre l'altro cercava di nascondere
all'obiettivo della macchina fotografica una mitraglietta
semiautomatica. Entrambi gli uomini e la Selvig sembravano stanchi e
sporchi, ma la loro espressione tradiva una felicità quasi
simile
all'euforia.
Sulla
spessa cornice della foto, una targhetta in oro diceva "Who
Dares Wins".
"Missione
di pace in Iraq nel 2010." commentò una voce, entrando.
Barton
squadrò i due, sospirando.
"Avevo
capito che non ti piaceva Elle, ma da qui a questo..."
guardò
Rogers negli occhi, deluso.
"Devo
potermi fidare dei miei uomini." commentò, cercando di
nascondere all'amico il senso di colpa.
"Se
ti fidi di me, e di Natasha, puoi fidarti anche di Elle. Lei non
faceva parte di un'organizzazione nemmeno quando tutti eravamo nello
S.H.I.E.L.D..."
“Un
mercenario...”
“Uno
spirito libero.” Lo corresse Barton. “Elle cerca
solo di aiutare
e difendere. Non farà mai del male a qualcuno, se
può evitarlo.”
Samuel
si schiarì la voce, richiamando l'attenzione su di lui. "Il
computer è troppo protetto. Non posso aggirare questo
software."
"Lo
ha creato Stark per Natasha." commentò Clint. "Adesso
andatevene, prima che vi veda Elle."
Samuel
si alzò di scatto, avviando lo spegnimento del computer.
I
due fecero per uscire, ma Barton prese per un braccio Rogers.
"Fury
vuole che Elle vi stia attaccata perché pensa che potrebbe
entrare
negli Avengers."
"E
perché vuole farla entrare? Per controllarci?" Rogers
guardò
duramente negli occhi Barton.
"Dovresti
chiederlo a lei, perché dovrebbe entrare negli
Avengers.” Barton
rispose piccato. “Ti consiglio di pensarci sopra, Capitano."
Mollò il suo braccio e si diresse verso la finestra,
chiudendo il
discorso.
Steve
guardò un secondo il suo amico, poi uscì
chiudendosi la porta alle
spalle.
"Per
fortuna sono in pensione..." commentò Barton, sospirando.
xxx
"Selvig!"
Elle
accelerò il passo, facendo finta di non aver sentito.
Era
stata una giornata lunga, erano le dieci di sera passate e lei aveva
dovuto esaminare le schede di mezzo personale ex S.H.I.E.L.D. per
individuare altri adepti dell'Hydra. Aveva dovuto interrogare almeno
mezza dozzina di persone, scrutare nelle menti di quelle più
sospette, discuterne con Fury e poi risistemare tutte le scartoffie.
Per non parlare dell'ora passata a parlare con Barton.
Aveva
solo fame.
"Elle!"
una mano, grande almeno due volte la sua, la fermò
saldamente per la
spalla.
Aveva
dimenticato che un passo di Rogers equivaleva ad almeno tre dei suoi.
Avrebbe dovuto mettersi a correre.
Sospirò,
strizzando gli occhi.
"Mi
dica, Rogers." mugugnò, cercando di evidenziare il suo
sconforto.
"Ti
ho disturbata? Dove stavi andando?" le chiese lui, più che
gentilmente. Elle aprì gli occhi, alzando un sopracciglio.
"Mi
chiedi se mi stai disturbando dopo avermi placcata nel mezzo del
corridoio?"
Il
sarcasmo era tangibile. Rogers deglutì. Elle, sforzandosi
per non
ascoltare la sua mente, cercò di ricordare come ci si
comportasse
gentilmente e gli sorrise.
"Stavo
andando alla mensa." Riprese il passo senza degnarlo di uno
sguardo. Rogers la seguì.
"Posso
venire con te?" chiese velocemente. Elle sgranò gli occhi,
guardandosi la punta degli stivali.
"Certo.
Non hai ancora mangiato?" Elle non poté fare a meno di
sorridere. "Voi finite gli allenamenti alle cinque tutti i
giorni... A meno che non sia successo qualcosa?" Chiese,
improvvisamente preoccupata. Fu tentata per un attimo di leggere nei
suoi pensieri se fosse arrivata qualche informazione sensibile agli
Avengers. Ma aveva passato tutto il pomeriggio con Fury, se ne
sarebbe accorta se fosse successo qualcosa.
"No,
abbiamo finito al solito orario." Rogers si passò una mano
fra
i capelli biondi. Lei lo stava mettendo con le spalle al muro. Lo
guardava con gli occhi sgranati, ed erano anche più azzurri
del
solito, il mento alto per riuscire vederlo in viso nonostante
stessero camminando.
"Sei
abituato a cenare tardi, Rogers?" commentò Elle, facendo una
smorfia. Rogers sbuffò.
Fece
un passo più lungo e le bloccò la strada.
"Chiamami
Steve, per favore." disse, guardandola direttamente negli occhi.
"Io posso chiamarti Elle?" chiese, facendo un mezzo
sorriso. Elle sgranò gli occhi ancora di più,
totalmente
impreparata, guardandolo negli occhi. Per un secondo le parve di
sprofondare in tutto quel blu. Desiderò avvicinarsi, per
studiarne
le sfumature più da vicino. Mentalmente, si maledisse per
aver perso
il filo del discorso. Rispose di getto, spostando lo sguardo verso la
trama del pavimento scuro.
"Ok, Steve...
adesso andiamo, muoio di fame!" Cercò di sorridergli,
probabilmente facendo una smorfia inquietante, e ripresero a
camminare fianco a fianco verso la mensa.
xxx
Capitolo riformattato e corretto in data
27/01.
Grazie ad Electricsoul, su Tumblr Rise-Doe,
per il bellissimo banner!
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Capitolo 4 *** 04. Impulso ***
03
">>
ATTO
QUARTO: IMPULSO
"With
all the green belts wrapped around our minds,
and
endless red tape to keep the truth confined."
MUSE
Ottobre
2015
Erano
almeno cinque giorni che Steve, tutte le sere alle nove, aspettava
Elle alla fine del corridoio del primo piano, dove lei aveva
l'ufficio, per accompagnarla a cena.
Dopo
la prima sera, dove erano stati oggetto di sguardi a metà
fra il
curioso ed il preoccupato -fino al giorno prima, quei due rischiavano
di picchiarsi ogni volta che si incontravano- ormai la cosa era stata
digerita dalla maggior parte degli avventori della mensa.
"Da
come ne parlano tutti, sembra che voi vi siate messi a copulare su
uno dei tavoli della mensa!" Samuel rideva di gusto, mentre i
due amici riponevano la tuta di Falcon in un apposito armadio. Super
tecnologico, pieno di pulsanti e codici, ma pur sempre un armadio.
Steve
si girò a guardarlo, la mascella contratta e lo sguardo
infastidito,
incrociando le braccia in un muto rimprovero. Samuel scoppiò
a ridere ancora più forte.
"Si,
sono sboccato, certo." guardò l'amico
negli occhi. "Ma
lei ti piace."
"Non
siamo due ragazzini al liceo." borbottò Steve,
allontanandosi
di un passo. "Siamo due persone che condividono il posto di
lavoro."
"E
che si strapperebbero volentieri i vestiti di dosso. Ah, come
dev'essere difficile con la tutina di Capt!" Samuel rise ancora
di più, mimando di tirare il tessuto dei Jeans sul sedere.
Steve
sospirò. "Sei incorreggibile, Samuel."
"Vi
ho visti litigare prima di chiunque altro. Facevate scintille!"
Samuel ormai aveva preso il via, come un fiume in piena, ed era
impossibile fermarlo. Steve rimase a fissarlo, sperando che finisse
presto. "E' carina, non c'è dubbio. Ma è troppo
scheletrica,
per me...e pensavo, anche per te." Ammise l'amico ridendo ancora
di più. "Negli anni cinquanta non vi piacevano le donne
formose? E poi va in giro come se fosse la regina acida dei ghiacci.
Una volta parlavamo di volare in alta quota, sai, ed ha detto che il
freddo tanto non le aveva mai dato fastidio."
Steve
alzò il sopracciglio in modo interrogativo. “Se
era una citazione, non l'ho colta..” Esclamò,
dandogli le spalle.
Samuel rimase a
fissarlo, perplesso, scuotendo leggermente la testa. “Frozen?”
Steve alzò gli occhi al cielo, facendo capire di non aver
inteso il
riferimento.
"Se lo sapesse
Cynthia ti farebbe vedere Frozen almeno dodici volte.
Eretico."
Steve fece un passo indietro, guardandosi intorno
guardingo. Si avvicinò all'amico, parlando a bassa voce.
"Elle
Selvig è una nostra collega. E solo perché mi
piace la sua
compagnia, non vuol dire che ci sia qualcosa di più. Le
donne di
questo secolo sono complicate, e io non sono intenzionato a
sposarmi o a mettere su famiglia." Sospirò. "Siamo solo
stati a cena insieme. A mangiare. Hai presente?!”
Esclamò infine
il biondo, acidamente.
Samuel
lo guardò con un sorriso eloquente, gli occhi castani che lo
fissavano maliziosi. Steve non riuscì a trattenere un
sorriso, cosa
che con Samuel gli capitava piuttosto spesso. L'amico piegò
il capo
verso di lui, mulinando le sopracciglia sugli occhi scuri. Alla fine
cedette.
“Ok. E'
interessante. Non dirò altro."
Samuel
si girò, esultando in giro per la zona comune, agitando le
braccia
in modo comico. Steve scoppiò a ridere, guardando l'amico
comportarsi come un liceale.
“Steve
Rogers si è preso una sbandata!”
Strepitò l'amico, alla fine,
affiancandolo di nuovo.
“Sono
Captain America, ripeto, non un ragazzino al primo anno di
scuola.”
Un
rumore ovattato fece girare entrambi gli uomini, Samuel con un ampio
sorriso e Steve con espressione interdetta e imbarazzata.
"Ciò
non ti impedisce di avere un interesse amoroso..." commentò
Wanda, che era arrivata silenziosamente dietro di loro, pronta per il
suo allenamento pomeridiano. Steve si coprì il viso con una
mano,
borbottando qualcosa sulla sua privacy perduta e su un accogliente
ghiacciaio. Wanda proseguiva imperterrita, con un sorriso comprensivo.
"Le
donne di questo secolo non vogliono solo marito e figli. Né
tanto
meno Elle. Lei è-"
Steve
la interruppe subito con una mano.
Lanciò
un'occhiata storta a Wanda e Samuel, che la aveva affiancata
ridacchiando, le mani incrociate dietro la schiena. "Ma
non lavorate mai voi, che avete avuto tutti tutto questo tempo per
chiacchierare con la Selvig?!" sbottò Rogers. Samuel e Wanda
si
guardarono, l'espressione complice.
"Non
si può decidere di non essere coinvolti sentimentalmente con
altre
persone."
Visione
spuntò da un corridoio,dirigendosi verso di loro.
“Nessuno può
scegliere. E' una questione biologica. Non una possibilità.
Soprattutto con certe combinazioni di persone." Wanda gli
sorrise dolcemente, annuendo. L'androide rispose allo sguardo della
ragazza con un'espressione serena, facendo distogliere gli occhi ai
due amici presenti. Samuel scambiò uno sguardo eloquente con
Steve, mentre
Wanda tornava a guardare il loro leader.
"Visione
ha ragione, si può solo decidere come comportarsi di
conseguenza." Commentò, incrociando le braccia e
stringendosi nella grande
maglietta azzurra. Steve cercò di fulminarli tutti con lo
sguardo,
ma non riuscì a sembrare minaccioso. Si sciolse anche lui in
un
sorriso davanti ai suoi nuovi Avengers, dando loro le spalle e
fingendo di guardare qualcosa dal portatile sul tavolo da lavoro.
“Dovevamo
diventare un'agenzia matrimoniale, altroché
Avengers...” Borbottò,
mentre Samuel e Wanda lo guardavano, divertiti.
xxx
"Allora
abbiamo fatto centro!" Natasha lo raggiunse alla fine degli
allenamenti, in abiti borghesi e con un sorriso malizioso.
"Di
cosa stai parlando, Romanoff?"
"Addirittura
il cognome intero, dev'essere grave." commentò, seguendolo
nello spogliatoio. Quando Natasha Romanoff puntava la preda, non
c'erano speranze per il malcapitato. Lo avrebbe seguito fino in capo
al mondo. In quel caso, nel particolare...
Steve
le indicò le docce, imbarazzato. "Un po' di privacy..."
"Siamo
quasi morti insieme. Più volte. Spogliati ed entra il quella
doccia,
Capitano." Commentò lei, sbrigativa, accomodandosi sulla
lunga
panca che occupava lo spogliatoio, in mezzo fra due pareti piene di
armadietti di lamiera grigia.
Imbarazzato,
Steve si tolse la maglia e le scarpe e afferrò
l'asciugamano. Tirò
con un gesto secco la tenda della doccia, scocciato.
"Allora
hai rivalutato la mia Elle?" Esclamò lei, sistemandosi
meglio
sulla panca, le gambe toniche fasciate dai pantaloni neri distese
davanti a lei. Si guardò nello specchio appeso alla parete,
sistemandosi i capelli. Stavano crescendo troppo, per i suoi gusti,
le sfumature rosso Tiziano che diventavano più chiare verso
le
punte. Riportò il suo sguardo verso le docce, dove la figura
imponente dell'amico cercava di spogliarsi in un ambiente troppo
piccolo, nascosto dalla tenda scura. I pantaloni della tuta grigi
volarono oltre il tessuto in plastica e caddero a meno di un metro da
Nat, che li guardò con le labbra arricciate. “Non
ti lascerò
stare finché non mi avrai detto tutto, Rogers.”
“Hai
fatto tutta questa scena da interrogatorio del KGB anche a
lei?”
Chiese Steve, risentito. Natasha negò con il capo,
ridacchiando fra
se e se. “Scherzi, se ci provo Elle mi smembra e poi
mi dà
in pasto ai cani.”
Steve
scoppiò a ridere. “Fa più paura un
mucchietto di ossa biondo che
Captain America. Ho veramente toccato il fondo.”
Aprì
l'acqua della doccia,
mentre Natasha scoppiava a ridere. Restarono in silenzio un poco, Nat
a fissare il vuoto appoggiata agli armadietti da palestra e Steve che
si frizionava i capelli a spazzola. Spense l'acqua per insaponarsi il
corpo, riflettendo.
"E'
una persona particolare..." Commentò infine lui,
tenendosi sul vago. L'amica emise un sospiro strozzato.
"Rogers,
quando passa ti casca la mascella." Esclamò esasperata.
"E
per una volta che non sta succedendo niente, che il mondo non sta
finendo o che mezzo Shield non cerca di ammazzarci, cerca
di
lasciarti andare."
"Natasha..."
Rogers riaccese l'acqua, buttandoci la testa sotto. La estrasse. "Lei
è così... evasiva.
E' difficile essere suoi
amici." Alzò la
voce per farsi sentire dall'amica. Natasha ridacchiò. Steve
infilò la testa fuori dalla tenda della doccia.
“Perché
ci tieni tanto a farci mettere insieme?”
"Penso
solo che sarebbe bello vedervi entrambi felici, e per economia
è più
comodo spingervi l'una verso l'altro che cercare una terza ed una
quarta persona.” Natasha si strinse nelle spalle, mentre lui
la
fissava incredulo e tornava sotto il getto caldo. La rossa
proseguì,
gli occhi rivolti verso il soffitto. “Per non parlare del
fatto che
siete due persone impossibili; pensa a cosa hai combinato con la
povera Sharon."
Steve
rimise la testa fuori dalla tendina per un attimo, lanciandole
un'occhiata torva.
Con uno sbuffò, tornò sotto la doccia. Natasha si
lisciò la
maglietta rossa con le mani, sussurrando fra se e se. "L'unica
cosa che ti piaceva di Sharon è il cognome... La poveretta
ancora
bacia la tua foto prima di addormentarsi."
Steve,
appoggiato alla parete della doccia con un braccio sotto il getto
bollente, sospirò esasperato.
“Ti
posso sentire.” Biascicò ad alta voce. Nat
ridacchiò. “Dimentico
sempre che sei un super soldato imbottito di steroidi.”
Incrociò
le braccia sentendo il verso indignato di lui.
“Con
Sharon ci ho parlato forse due volte.”
Natasha
fissò il soffitto, sorridendo leggermente pensando alla
povera
Agente 13.
Non è da tutti venire eclissati dalla zia
ricoverata in
ospizio. Era un peccato, perché la ragazza era
particolarmente
intelligente e dai modi molto concreti. Nat non dubitava che,
lasciata da sola con il Capitano, si sarebbe fatta avanti senza
troppe cerimonie.
Steve
uscì dalla doccia, avvolto in un accappatoio bianco. Si
frizionò i
capelli con un asciugamano, davanti allo specchio appannato,
guardando con la coda dell'occhio l'amica attraverso il riflesso.
Nat
guardava ancora il soffitto, lo sguardo perso e le belle labbra
strette in un'espressione pensosa.
"Barton
era preoccupato. Io sono preoccupato. Come ti senti?" Chiese
improvvisamente lui. Lei si morse un labbro, ritornando alla
realtà
e voltandosi verso l'amico.
"Sono
contenta di non essere da sola." concluse, stringendosi nelle
spalle. Steve sorrise, sedendosi accanto a lei, braccio a braccio.
Lei sospirò, appoggiando la testa sulla sua spalla.
“Pensavo
sarebbe passata più in fretta.” Sbatté
le ciglia, Steve che la
ascoltava con attenzione. “Ogni tanto, fa ancora
un po' male.”
xxx
Erano
le otto e quarantacinque, e lei era dannatamente in ritardo.
Talmente
in ritardo che avrebbe voluto lanciarsi dalla finestra, per arrivare
prima. Si infilò di fretta i jeans scuri, saltellando per la
sua
stanza in maniera comica. Portava un morbido maglione color panna,
decisamente troppo grande, che le scivolava giù dalla spalla
coperta
solo dalla spallina della canotta rossa. I capelli erano ancora umidi
dalla doccia che l'aveva ospitata per quasi mezz'ora, e dalla quale
era uscita maledicendo qualsiasi divinità conosciuta -o
ancora
sconosciuta – guardando l'orologio digitale che aveva
appoggiato
sul lavello.
Hill
l'aveva tenuta nel suo ufficio per tre ore. Tre ore passate a
discutere, sfogliare cartelle su cartelle, schede su schede,
confrontando orari, turni, frequentazioni fra colleghi, cercando di
cavare un ragno dal buco meglio costruito nella storia della
civiltà
moderna. L'Hydra era veramente un'organizzazione ben piantata. Per
ogni bastardo che Elle individuava, spuntava un altro bastardo. O
altri due. La cosa iniziava a diventare oltremodo seccante, per una
donna come lei, abituata a svolgere lavori meno strategici.
Scosse
il capo: doveva imparare a non portarsi il lavoro a casa, come diceva
sempre Natasha. La regola non scritta dell'amica era di non pensare
mai ai problemi di lavoro, per esempio ad una missione
particolarmente dura o a qualche collega che ci aveva rimesso le
penne, quando finiva il turno.
Elle
doveva solo svagarsi un po', cosa difficile al quartier generale,
dove dopo le otto di sera rimanevano soltanto agenti, personale di
servizio e Avengers. Era come un piccolo villaggio, che si riuniva
ogni serva all'orario della mensa. Le novità erano sempre
ben
accette, fra una folla abbastanza poco coesa di spie che non avevano
una normalità a cui tornare, alla fine delle ore di lavoro.
Era
ormai una settimana che cenava con Rogers: chiacchieravano di vecchie
missioni, di vecchi film o di musica. Elle si divertiva a sentirlo
descrivere Tony Stark con termini coloriti, oppure a vederlo
raccontare dei passaggi della battaglia di New York che lo avevano
colpito. In effetti, era stupita da quanto parlasse quell'uomo:
sembrava che nessuno mai lo avesse ascoltato, negli ultimi tre anni dal
suo risveglio. Probabilmente, tutti avevano qualcosa da consigliare o
da ordinare di recuperare, da un passato che veniva dato per scontato.
Nessuno aveva mai chiesto a lui cosa valesse la pena salvare, dei suoi
anni di pace o di quelli in cui imperversava la guerra mondiale.
Così
i due rimanevano seduti su quelle scomode panche per delle ore, lui a
parlare e lei a spiluccare cibo guardandolo, presa dal discorso,
rispondendo ogni tanto o leggendo a bassa voce descrizioni di eventi o
innovazioni
dall'applicazione di Wikipedia sul cellulare, cercando di
fargli recuperare eventuali passaggi fondamentali.
Elle
si riscosse dalle sue riflessioni, infilandosi le vecchie Clarks
scucite. Non sapeva perché l'idea di arrivare in ritardo da
Rogers
la urtasse così tanto, vista la mondanità dei
loro discorsi. Scosse
la testa, chinandosi ad allacciare una delle scarpe. Era piuttosto
semplice, la linea dei suoi pensieri: voleva arrivare in tempo e
basta.
Fece
per varcare la porta, quasi correndo, quando istantaneamente
ricordò
che stava dimenticando il telefono. Si voltò di scatto,
imprecando,
e istintivamente allungò la mano. Con un tremore, l'iPhone
schizzò
dal comodino sul quale era appoggiato fin nel suo palmo, dal quale
rischiò di cadere. Elle lo riprese con la mano libera, senza
riflettere. Si girò frettolosamente, come se nulla
fosse successo. Poi si
fermò,
paralizzata sul posto. Riguardò il telefono.
Lanciò uno sguardo
nella sua stanza ormai buia.
Aveva
appena usato la telecinesi?
xxx
Ormai
pensava che Elle non si sarebbe più presentata.
Gli
altri giorni, la ragazza non era mai stata in ritardo. Steve
ormai seguiva sempre la stessa routine. Andava nella sua stanza,
leggeva un poco o ascoltava un po' di musica. Aspettava le otto. Poi
si metteva dei vestiti normali.
Si
cambiava almeno tre volte, sentendosi sempre inadeguato, e finalmente
scendeva verso il primo piano. Si era sentito più a suo agio
in
quelle quattro cene con lei che a molte altre con tutta la squadra, e
la cosa lo stupiva non poco, visti i loro trascorsi non
particolarmente rosei.
Lui
amava vedere tutti riuniti, adorava passare il suo tempo con quelli
che ormai erano degli amici. Ma vedere una persona sola, poterle
parlare tranquillamente, chiacchierare di cose futili... Soprattutto
quando questa era Elle, lo faceva sentire un uomo normale. Lei non si
faceva problemi a trattarlo come se fossero due normali amici, era
insolente e particolarmente testarda e non temeva di offenderlo.
Assolutamente, non si faceva problemi ad urtarlo.
Avevano
parlato di film, di musica, degli amici. Aveva tenuto a mente tutte
le sue preferenze, e poi le aveva scritte sul suo ormai celeberrimo
taccuino. Una cosa che Natasha avrebbe definito diabetica.
L'unico
pensiero che lo disturbava era quello di essersi aperto fin troppo,
davanti a quegli assurdi occhi azzurri. Davvero, non si spiegava quel
colore inquietante e bellissimo allo stesso tempo. Si sentiva
talmente a suo agio che temeva di abbassare la guardia. Di rivelare
troppo di sé.
Tuttavia,
non avevano mai parlato di quello che era successo quella mattina in
palestra. Era ancora presto per chiedere di nuovo spiegazioni: sapeva
che il loro era un rapporto molto fragile. Quando
non la vide arrivare, quindi, non ne fu stupito. Si sentì un
po' uno
stupido, ma non uno
stupido preso alla sprovvista. Cercò di
non fare
caso agli sguardi dei dipendenti che passavano vicino a lui, impalato
in quel corridoio lontano da qualsiasi punto di interesse. Era palese
perché fosse li, e la cosa lo metteva leggermente a disagio.
Guardò
ancora l'orologio, sbuffando leggermente. Fece per voltarsi, quando
sentì qualcosa caracollarsi lungo il corridoio, e
voltandosi,
scoppiò a ridere, senza riuscire a trattenersi. Una risata
di cuore, con il suo tono basso, come non si sentiva ridere da
tempo.
Elle,
per la prima volta da quando la conosceva, aveva i capelli sciolti.
Arrivavano fino ai fianchi, incredibilmente lunghi e leggermente
mossi. Era in vestiti comodi, con un maglione beige di almeno tre
taglie più grande della proprietaria e che le arrivava quasi
alle ginocchia. Si sentì
stupido per essersi
preoccupato così tanto per quale camicia indossare: non
sembrava il
genere di donna che avrebbe fatto caso a queste cose. I suoi occhi
azzurri erano diretti al suo viso, le pupille dilatate per il moto e
lo sguardo dispiaciuto.
Frenò
la sua corsa davanti a lui, scusandosi in mille modi per il ritardo,
con le guance arrossate ed i capelli svolazzanti lungo la
schiena, una spalla scoperta dall'ampio collo del maglione. Non
potè fare a meno di ricordare, e dare ragione, a
ciò che aveva detto Samuel: era proprio carina. Quasi bella.
Lei si
portò una mano al viso, grattandosi il naso. Sembrava
agitata.
"Oggi
ho una fame da lupi." Disse frettolosamente, afferrandogli un
braccio e tirandolo lungo il corridoio. "Andiamo, su, Rogers!”
Steve
ridacchiò, lasciandosi trascinare verso la mensa. Sentiva il
braccio
marchiato a fuoco, mentre lei cercava di stringere le dita sottili
abbastanza da non perdere la presa.
xxx
“Quindi
in realtà sei Captain
Irlanda?”
Elle
si stava quasi strangolando dalle risate, mente Steve le agitava
l'indice sotto al naso.
“Sono
nato in America, quindi sono americano!” Cercò di
fingersi offeso,
ma alla fine scoppiò anche lui in una sonora risata.
“Era Bucky
quello super americano: suo padre lavorava in una vecchia
fonderia..”
“Proprio
folkloristico. E il tuo?” Chiese Elle, portandosi una
cucchiaiata
di minestra alle labbra e soffiandoci sopra. Steve si strinse nelle
spalle. “Si chiamava Joseph. E' morto abbastanza presto, per
una
polmonite. Lavorava in una miniera, prima che i miei si trasferissero
qui.”
Elle
rimase con il cucchiaio a mezz'aria, presa dal discorso.
“Quanti
anni aveva?”
“Trentacinque,
ma per l'epoca erano come i cinquanta adesso.”
“E
tua madre?” Chiese Elle, guardandolo curiosa. “Se
posso chiedere,
ovvio.” Chiese, temendo di averlo offeso chiedendogli domande
troppo personali. Steve era stupito: non lo guardava con
pietà o in
modo dispiaciuto. Era solo curiosa.
“Sarah.” Le rispose lui,
afferrando una fetta di pane. Elle sorrise. “Sicuramente era
una
donna bellissima.”
Steve
annuì. “Era un'infermiera, passava almeno dieci o
dodici ore al
lavoro tutti i giorni. Era molto dolce. E avevo una sorella,
Maria.”
Elle
sorrise senza riuscire a trattenersi. “Ho sempre voluto una
sorella, o un fratello.”
“Sei
figlia unica?” Chiese Steve sorpreso. “Ai miei
tempi era
assolutamente impensabile, avere un solo figlio, non avere
fratelli.”
Elle si strinse nelle spalle. “Siamo comunque arrivati al
tracollo
demografico, quindi non devi preoccuparti di questo.” Steve
ridacchiò.
“Tua
madre? Vive ancora in Svezia?”
Elle
mise in bocca il cucchiaio pieno di zuppa, senza rispondere.
Sembrò
riflettere un secondo, prima di deglutire sonoramente. “Si
chiamava
Annette. E' morta.”
Le
labbra di Steve si incurvarono leggermente verso il basso.
“Mi
dispiace.”
“Anche
tua madre è morta. Non devi dispiacertene, tu puoi
capire.”
“Sono
passati ottant'anni.” Commentò lui, scuotendo il
capo. Elle
arricciò un secondo le labbra.
“E'
la stessa cosa.” Esclamò, sicura. Steve scosse la
testa. “Sei
giovane, hai solo...”
“Ventisei
anni.” Concluse Elle, rimescolando la minestra.
“Sono abbastanza
grande per aver capito come funziona. Si nasce, si muore.
Punto.”
Gli sorrise incoraggiante, ma Rogers la guardava perplesso. Elle gli
sorrise.
“Non
stare a crucciarti per me, Capitano. Non sono finita in mezzo ad una
strada a vendere fiammiferi, ero già un'adulta!”
Elle cercò di
alleggerire l'aria, gonfiando il petto. Lui giocherellò con
la saliera, ridacchiando.
“Davvero?
Quanti anni avevi?”
“Sedici.”
Rispose prontamente lei. Lui sorrise. “Allora non eri
un'adulta.
Andavi
ancora a scuola. A quell'età, io vagabondavo ancora per il
quartiere
a vendere giornali.”
Elle
annuì. “Avevo quasi finito le superiori, in
realtà. Mancava solo
un mese al diploma.” Steve arcuò un sopracciglio.
“Eri una
secchiona.”
“Ero
intelligente!” Esclamò lei con tono offeso,
alzando le braccia in
segno di resa. Lui annuì, portandosi un pezzo di pane alle
labbra.
“Però ti sei laureata a vent'anni!”
Commentò, prima di
mangiarlo.
Il
gelo calò sul tavolo. Lei lo fissò in silenzio,
il cucchiaio a
mezz'aria perfettamente immobile e lo sguardo improvvisamente serio.
“E tu come lo sai?” Steve andò un
secondo nel panico,
guardandola con gli occhi sbarrati. “Me lo ha detto
Natasha.”
Elle
lo fissò un secondo. Voltò la testa verso il
corridoio, nella
direzione verso la quale si arrivava al suo studio. Per un secondo
Steve sudò freddo, pensando che avesse capito. Infine si
girò
nuovamente verso di lui, sorridendo. “Avessi conosciuto prima
Nat!
Invece poi qui al college mi è capitata Maria.”
Sospirò,
guardando l'amica diversi tavoli più avanti.
“Che
scuole hai fatto?” Chiese poi lei. Lui ritornò a
respirare.
“Accademia di Belle Arti.”
Elle
lo guardò a bocca aperta. Sbatté un paio di volte
le palpebre.
“Cosa scusa?
Tu?” Steve annuì.
“Non
per vantarmi, ma sono un ottimo disegnatore.” Elle era
basita.
“Avrei
detto qualsiasi cosa. Ma non questo.” Allungò una
mano verso le
sue, sfiorandole con le dita sottili. Alzò lo sguardo verso
di lui.
“Posso?” chiese. Lui annuì, curioso,
sperando di non essere
rabbrividito. Elle aveva le mani ghiacciate.
Lei
alzò una delle mani dell'uomo, che era grande il doppio
della sua, e
la osservò bene portandosela davanti agli occhi. Steve
poteva
sentire il suo respiro contro il palmo, mentre gli occhi cerulei
osservavano attentamente le rughe della mano. La appoggiò
sul
tavolo, davanti al suo vassoio, tracciando con l'indice linee
sconosciute lungo il suo palmo, fino al polso. Lui ebbe un brivido, e
lei smise subito, riprendendo il cucchiaio dalla ciotola. Lui
sospirò, ritirando la mano e guardandosi attorno.
“Tu
che scuola hai fatto?”
Elle rispose con la
bocca piena.
“Liceo
Scientifico, indirizzo Tecnologico e della Ricerca.”
Steve
sogghignò. “Secchiona.”
Elle lo
fulminò con lo sguardo. “Deve
essere stato molto fiero, tuo padre. E' un fisico, no?” Elle
annuì
svogliatamente, portandosi un'altra cucchiaiata alle labbra. La zuppa
doveva ormai essere fredda. Steve proseguì, guardandola
curioso da
dietro le mani giunte, i gomiti appoggiati sul piano del tavolo.
“Sai,
tuo padre è molto amico di Thor, l'asgardiano. Lui me ne ha
parlato
qualche volta.” Elle si strinse nelle spalle, guardando un
punto
imprecisato dietro di lui. Per un secondo considerò l'idea
di
chiederle se il padre si era ripreso dopo la battaglia di New York e
la possessione da parte di Loki. Accantonò l'argomento.
“Sarà
molto fiero di dove sei arrivata con gli studi. Sicuramente ne
avrà
parlato con Thor...”
“Mio
padre se ne era già andato quando ho cominciato il
liceo.” Lo
interruppe secca Elle. “Non ho scelto di fare ciò
che faccio per
gratificarlo, anzi la mia scelta di studiare Psicologia è
stata per
lui l'ennesimo smacco. Non penso parli di me ai suoi amici, tanto
meno alieni, e dubito che il tuo amico Thor sappia che esiste una
Selvig Eriksson.”
Steve la guardò senza commentare.
“Non
parlo con mio padre da almeno quattro anni, se non per qualche
telefonata di auguri. Non sa nemmeno che lavoro per lo S.H.I.E.L.D,
oppure sarebbe stato ancora più deluso.”
Steve
la guardò un secondo, alla ricerca di un segno di tristezza.
Elle
invece si portò la scodella alle labbra, finendo la zuppa
senza
emettere un fiato.
Steve
le sorrise timidamente. “Sono sicuro che qualsiasi cosa stia
facendo, tuo padre pensa sempre a te.” Elle si strinse ancora
più
nelle spalle, con un ghigno. “Se lo dici tu,
Capitano.”
xxx
Stava
finendo Ottobre, ed il clima era freddo e piovoso. Tranne quel
giorno, in cui erano spuntati dei testardi raggi di sole e le due
ragazze, Wanda ed Elle, stavano sedute sull'erba umida, avvolte in
pesanti giacche. Il quartier generale era incastrato in una bella
radura erbosa, ricca di alberi. L'aria era pulita, ed il posto era
riservato.
"Elle
Selvig, era prevedibile che i tuoi poteri psichici fossero
più della
mera lettura del pensiero." commentò Visione, guardandole
dall'alto al basso.
Elle
aveva appena raccontato ai due del suo insospettato dono di
richiamare i telefoni verso di sé. Wanda
la guardò un attimo, curiosa. "Chissà
perché i
tuoi poteri si stanno
risvegliando così tardi." commentò a voce bassa.
Visione scosse la
testa. "Io ho qualche ipotesi."
"La vicinanza con
tanti soggetti con poteri inumani
sta facendo evolvere le capacità di Elle. Per autodifesa.
Inoltre..." Si girò a guardare verso l'ingresso "L'impulso
emotivo può aver risvegliato la forza più
istintiva di Elle.
Dopotutto, lei è una mutante." Commentò,
girandosi verso le
due e indicandola.
"Mutante?"
Elle sgranò gli occhi, ignorando il resto della frase.
Visione
annuì.
"Hai
mai visto un fenotipo genetico che renda gli occhi del tuo colore?"
Commentò lui tranquillamente. Elle guardò Wanda,
che annuì.
"Si,
devi essere una mutante." esclamò ridendo la ragazza,
passandosi le dita fra i capelli mori. Elle era sconvolta, gli occhi
sgranati fissi nel vuoto.
"Sai
che Fury ti ha fatto venire qui solo per spingerti ad entrare negli
Avengers, vero?" Wanda si spostò dal viso un altro ciuffo di
capelli, guardando il cielo. "Lo
so..." ammise Elle. “Ma non so nemmeno dove sarò
domani, ho
delle responsabilità e-”
Wanda
le mise una mano sul braccio, sorridendole. "Sono convinta che
tutti insieme, come squadra, potremmo fare del bene, anche sfruttando
il tuo potere."
"Non
è un potere, non sono come te, o come Visione." Elle
spostò lo
sguardo fra l'amica e l'androide "E' più come un arto, un
muscolo..."
Visione
si avvicinò alle due, porgendo loro due margherite. Elle la
prese
fra le dita, sorridendogli. "Sei
più simile a me che a Wanda, Elle Selvig. Devi ancora capire
cosa si
muove dentro di te. Qualunque decisione tu prenda, saresti la
benvenuta fra noi." disse l'androide.
"Sei
già sotto osservazione, comunque..." Commentò
Wanda prima che
Elle potesse ringraziare l'androide per le sue parole gentili. I tre
si girarono verso l'ingresso della struttura, dove Steve Rogers in
uniforme da Captain America e Samuel stavano parlando fra loro. Steve
la fissava, con lo sguardo un po' aggrottato, rispondendo a qualcosa
che aveva detto l'amico. Lei ricambiò,
curiosa.
La ruga che si era formata fra gli occhi di lui, quella che aveva
associato alla
preoccupazione, si distese leggermente. Le sorrise.
"Elle,
fra te il Capitano..." chiese Wanda, richiamando la sua
attenzione. Era strano per Wanda, non sentire nessun pensiero
provenire dall'amica. Forse proprio per questo le piaceva parlarle.
"Non
c'è nulla." sospirò Elle, stringendosi le
ginocchia al petto.
"Non
lo pensi sul serio..." Ridacchiò la mora, alzandosi. Elle la
osservò di sottecchi.
Rogers
si era diretto verso il trio a passo svelto, lo scudo già
sulla
schiena.
"Preparatevi,
andiamo a fare un giro." disse a Wanda ed a Visione. I due,
senza scomporsi, si alzarono e salutarono Elle con un cenno. Lei
rimase seduta, un po' stranita. "E' successo
qualcosa?" Chiese, guardando la schiena dell'amica che si
allontanava.
"No,
però dobbiamo andare a fare un sopralluogo verso l'Alaska.
Sono
arrivate delle strane trasmissioni." disse lui, guardando un
punto fisso verso l'orizzonte. Elle si alzò, passandosi le
mani sui
jeans scuri. “Maria ha parlato di alcuni impulsi
elettromagnetici.” Proseguì l'uomo, a voce bassa.
"Allora
non ti aspetterò per cena." Ridacchiò
nervosamente lei,
calcando le mani nelle tasche del giaccone. Lui la guardò
serio, poi
si fece scappare una smorfia simile ad un sorriso. "Si, non penso
farò in tempo."
"Cosa
ti preoccupa?" chiese Elle, avvicinandosi appena ed osservandolo in
volto. Lui si
passò
una mano fra i capelli a spazzola, sospirando. "Niente."
"Ci
vediamo almeno un'ora tutti i giorni da quasi un mese."
Sogghignò lei.
'In più posso leggerti nel
pensiero, se voglio.'
Aggiunse mentalmente. Ma non era l'occasione giusta per sparare fuori
un'informazione del genere. Lui
la guardò serio.
Elle
si guardò la punta delle scarpe, riflettendo. Poi
alzò lo sguardo
sull'uomo.
"Se
torni presto potremmo guardare City
Lights insieme. O qualche film di
quando eri giovane."
Lui
le sorrise ancora, ma anche questo sorriso non arrivava agli occhi.
Elle era un po' agitata, le sembrava che il Capitano fosse in ansia.
Decise di ripiegare velocemente in territorio amico. Si era scoperta
già abbastanza per quel giorno.
"Ok,
vado a salutare Natasha e Samuel. Tu ed Iron Patriot, o War Machine o
come preferite voi, non picchiatevi per quello più
patriottico.
Tutto questo blu e rosso fa venire l'orticaria." Ridacchiò
poco
convinta. Gli diede un pugnetto sulla spalla, abbassando lo sguardo,
interrompendo lo scambio di occhiate.
Ed
il pensiero la colpì come un pugno in pieno viso.
Vide
se stessa mentre si allontanava di un passo. Lui, improvvisamente, la
afferrava per un braccio, come la prima volta che le aveva chiesto di
accompagnarla a cena. Lei si girava a guardarlo, con gli occhi
sgranati per la sorpresa.
Era
stano vedersi da fuori: le gote rosse, pochi ciuffi che uscivano
dalla treccia ordinata, lo sguardo perso. Era veramente
così, ai
suoi occhi?
Lo
vide avvicinarsi a lei, con uno sguardo curioso e leggermente
agitato. Lei alzava il viso per vederlo meglio, con un'espressione
preoccupata. Lui la stringeva contro di sé, fissandole le
labbra
rosee, e poi gli occhi. Lei sembrava irrigidirsi, ma non si spostava
di un millimetro. Poi, senza preavviso, lui abbassava il capo e
poggiava le sue labbra sulle sue, stringendola per i fianchi. Lei
appoggiava una mano sul suo viso, mentre il bacio si approfondiva.
Lui allontanava il viso, sorridendo sulle sue labbra, e
stringendola
forte. Lei lo guardava, la testa inclinata verso l'alto, lo sguardo
sconvolto.
"Non
sai quando ho desiderato questo momento." Le sussurrava lui,
viso a viso. E lei appoggiava il capo sul suo petto, senza aggiungere
nulla, il sorriso nascosto contro la sua uniforme.
"Selvig?"
Rogers
la guardava, preoccupato. Era comprensibile: stava impalata davanti a
lui, con il respiro accelerato, guardandolo con gli occhi probabilmente
iniettati di panico. "Devo
andare!" Biascicò con tono appena udibile, girandosi di
scatto.
"Elle!"
la chiamò lui, facendo un passo verso di lei.
"Anche
tu dovresti andare!" rispose stizzita lei, accelerando il passo.
Steve
la guardava, preso alla sprovvista. "Ci vediamo, quando torno?"
esclamò interrogativo.
"Si,
certo." Elle si voltò un secondo, facendogli un cenno con il
pollic alzato, senza incontrare il suo sguardo perplesso.
Ripartì a passo di marcia, diretta verso
l'ingresso. Sentiva uno sguardo blu che le perforava la nuca. Fece
finta di nulla, ma la sua mente era in subbuglio.
E
il suo cuore minacciava di risalire l'esofago e scapparle fuori dalle
labbra.
xxx
Il
vecchio laboratorio era ormai spoglio. Era stato fatto malamente
esplodere da qualcuno, probabilmente al solo scopo di distruggere
delle prove che risultavano in ogni caso evidenti.
Le
pareti, ghiacciate dalla brina, stavano cedendo alla notevole
quantità di neve che aveva già fatto sprofondare
il soffitto di
tegole in amianto.
“Maledette
tattiche naziste.” Commentò Samuel, scendendo dal
Quinjet avvolto
in una grossa giacca termica. Erano in uno degli spiazzi più
nevosi
ed esposti al vento del nord dell'Alaska, in un tentacolo peninsulare
che dava direttamente sull'oceano. Sentivano anche dall'alto dei
novanta metri della scogliera il gorgogliare delle acque scure sotto
di loro. Steve lo seguì, stringendosi anche lui in una
grossa giacca
nera, gli stivali di Captain America che sprofondavano nella sostanza
ghiacciata. Wanda uscì dallo stabile abbandonato, mentre
Visione
seguiva ogni suo movimento con attenzione. Era l'unico che non
sembrava nemmeno accorgersi del freddo polare, mentre i denti di
Wanda battevano violentemente. La ragazza, i capelli stranamente
legati in una coda bassa che usciva goffamente tra il cappello e la
coperta argentata che la avvolgeva, si voltò verso i due
uomini.
“Capitano!”
Urlò a pieni polmoni. Steve si girò, vedendola
fare ampi gesti con
le mani. “Abbiamo trovato qualcosa!” Iron Patriot
atterrò poco
distante. “Non c'è nulla nel raggio di chilometri,
Capitano.”
Riferì, la voce alterata dalla maschera di acciaio. Steve
annuì.
“Tornate nel Quinjet dalla Vedova. Tutti tranne
Samuel.”
I
due entrarono nel complesso, seguendo le indicazioni di Wanda dal
trasmettitore, la voce profonda della donna che tremava leggermente
per la temperatura artica. “Ora guardate in basso.
C'è una grossa
botola.”
“Bingo!”
Esclamò Samuel. Steve lo guardò, annuendo. Diede
un paio di calci
alla porta in lamiera, sfondandola. Samuel fece un ampio gesto con la
mano. “Prima gli anziani.”
Steve
lo fulminò. “Posso sempre lasciarti qui a
congelare un po'.”
Scese
nell'apertura, sentendo l'aria pesante. Era in un tunnel poco
profondo; le pareti, anche in quel punto riparato, ghiacciate. Samuel
atterrò malamente vicino a lui.
“Porca
Puttana, le catacombe dell'Alaska mi mancavano.”
Biascicò,
togliendosi lo sporco dai pantaloni. Steve gli fece cenno di stare in
silenzio.
“Dove
siamo?” Sussurrò fra se e se. Un Bip alquanto
fastidioso risuonava
per tutto il tunnel. Lo stesso segnale che avevano captato alla base.
Samuel rabbrividì.
“Immagino
che adesso dirai che dobbiamo andare a vedere...”
Sussurrò
l'amico, spalla a spalla. Steve annuì.
“Allora
andiamo.” Esclamò l'uomo, seguendo la sagoma dello
scudo del suo
Leader nell'oscurità.
xxx
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Capitolo 5 *** 05.Passato ***
ATTO QUINTO:
Passato
"Icy
roads beneath my feet,
Lead
me through wastelands of deceit.
Rest
your head now, don't you cry,
Don't
ever ask the reason why."
OPETH
Maggio
2012
Elle
stava correndo per la strada, avvolta in una nuvola di polvere.
Ovunque attorno sentiva boati, il rumore degli edifici che si
sgretolavano, i versi strozzati delle persone costrette a terra ed
uccise da esseri vagamente antropomorfi, più simili a
lucertole che
a uomini.
Tutto
intorno a lei stava crollando. L'aria sembrava ovattata, mentre
correva, come non aveva mai corso, cercando di capire come uscire da
quella situazione irreale.
Si
abbassò a sporcarsi il viso di polvere, come avrebbe fatto
in zona
di guerra; davanti a lei un cadavere dal viso deformato da un forte
colpo, probabilmente proveniente da qualche genere di arma da fuoco
ustionante. Elle represse un conato, avvicinandosi a studiare la
ferita che trasudava sangue e una sostanza purulenta che non le
premeva verificare. Vide una di quelle creature sparare contro un
uomo a pochi metri da lei, tramite un grosso fucile simile ad uno
scettro. Il raggio scuro colpì l'uomo all'addome, facendolo
volare
all'indietro per diversi metri, in una cascata di sangue. Elle rimase
pietrificata, guardando l'uomo crollare a terra inerte.
Potevano
essere armi al fosforo? Che tipo di nemico stava affrontando?
Escluse
qualsiasi tipo di terrorismo: quelle creature non erano sofisticati
costumi. Erano vive, pensanti. Non erano nemmeno Cyborg. Si
abbassò
per evitare uno di quegli esseri ed il suo mezzo volante.
Quella
mattina, non si era svegliata preparata a questo. Aveva messo delle
scarpe eleganti ed una camicetta color cipria, pronta ad affrontare
un colloquio per un lavoro normale.
Aveva deciso, avrebbe lasciato la vita da mercenario, errante fra i
vari corpi dell'esercito che l'avevano ospitata fino ad allora. Aveva
fissato un incontro per entrare nella New
York State Psychological Association con il dottor Carmichael al
Presbyterian,
nel reparto psichiatria. Era in centro solo per qualche commissione
veloce,prima di dirigersi dal suo referente sulla trentanovesima. Ed
era lì che aveva trovato una zona di guerra, a migliaia di
chilometri dalla sua ultima missione in Medio Oriente.
Si
levò le scarpe eleganti che non le permettevano di andare
più
veloce e si appoggiò con le spalle al muro dell'edificio che
svoltava sulla strada principale. La polizia sparava all'impazzata
contro quei cosi, senza nemmeno scalfirli. Elle
continuò a
correre, trattenendosi dal cercare volti familiari nella polvere.
Cercò mentalmente di concentrarsi sul colloquio che avrebbe
dovuto
avere: sperò che arrivare in ritardo a causa di un attacco
alieno
non l'avrebbe svantaggiata. Emise un suono che ricordava una risata
isterica, scavalcando con un salto il cadavere di un agente. Si
abbassò, prendendo la pistola dalle mani rigide a causa del
rigor
mortis. Doveva essere a terra da quando era cominciato l'attacco,
circa un'ora e mezza prima.
Nel
cielo, un gigantesco buco dava l'idea che il mondo stesse per finire.
Si vedeva lo spazio viola, attraverso quella voragine spaventosa.
Elle si abbassò di colpo, sentendo un'esplosione vicino a
lei. Vide
passare qualcosa di non identificato davanti al suo viso, mentre una
donna passava correndo davanti a lei, tenendosi le orecchie
insanguinate con le mani sporche di terra. La avvicinò,
prendendole
le mani fra le sue, imbrattate di sporco.
“Stanno
combattendo, laggiù!” Disse la donna, indicando
verso il centro di
Manhattan.
“Ci
sono degli uomini che combattono! E Tony Stark!”
Esclamò ancora
questa. Vedendo il suo sguardo perso, la lasciò indietro,
correndo
nella direzione opposta.
Le
fischiavano le orecchie, mentre si guardava attorno, respirando
profondamente nonostante la polvere.
Aveva
del sangue che colava da un taglio sulla fronte. Passò la
mano a
raccogliere il liquido che le colava dalla ferita prima che
scivolasse nell'occhio. Una creatura si avvicinò, emettendo
un
sogghigno inumano. Elle la guardò togliersi una specie di
museruola
dal volto, ringhiando contro di lei. Per risposta, non
riuscì a
trattenersi dal mostrargli il dito medio. La creatura portò
davanti
al corpo la strana arma, avanzando con passo pesante.
Elle
fece un salto in avanti, afferrando con entrambe le mani lo scettro e
lanciandosi con il corpo contro la creatura, le ginocchia serrate. Il
colpo la fece barcollare indietro, mentre Elle tratteneva lo scettro
con le braccia toniche. Colpì la base del polso alla tempia,
schivando un colpo alla testa. Un pugno quasi la colpì al
costato,
mentre Elle lasciava la presa sullo scettro e si lanciava in
un'aggraziata capriola all'indietro. Trovò l'equilibrio, i
piedi
nudi sporchi di terra e feriti dalle schegge di vetro. La creatura
lasciò cadere lo scettro, gorgogliando una risata. Fece per
afferrarla per un braccio, mentre Elle rotolava dietro la sua schiena
e poggiava i piedi alle sue spalle con un salto. Afferrò con
le mani
la testa, per poi lanciarsi a lato e storcerla con un verso
selvaggio. Il collo della creatura fece uno scricchiolio sinistro,
gli occhi vuoti che la guardavano sconvolti. Elle si asciugò
il
sangue che colava dalla fronte, voltandosi.
Altre
due creature la guardavano, correndo nella sua direzione. Elle
afferrò lo scettro, piantandolo a terra con forza. Vi si
aggrappò,
colpendo una delle due creature con entrambe le gambe. La
placcò a
terra in una morsa con le ginocchia, mentre il compagno cercava di
colpirla con il fuoco dell'arma. Elle smise di contorcersi,
sollevando a fatica un arto della creatura per parare il colpo.
Questa ululò per il dolore.
Elle
si alzò, estraendo l'altro scettro dal terreno e usandolo
per parare
un colpo di lama della creatura. Si voltò, infilzando quella
che era
a terra.
Sentì
un singhiozzo e si voltò di scatto. La creatura la
colpì alla nuca
con l'arma, guardandola rantolare a terra. Elle rotolò di
lato,
evitando i colpi di taglio dello scettro. Si alzò con un
colpo di
reni, il sangue che colava dal labbro inferiore spaccato. Con un
ringhio, estrasse la pistola dell'agente dalla cintola dei pantaloni
e sparò tre colpi dritti al centro della fronte della
creatura. La
sostanza celebrale schizzò dietro, mentre l'essere si
accasciava
alle sue spalle. Elle sentì ancora il singhiozzare sommesso,
alle
sue spalle, e si voltò di scatto.
Avanzò
verso quel rumore, il viso completamente imbrattato di sporco e
sangue. Estrasse l'arma aliena dal terreno, sforzandosi con una
strizzata d'occhi a salire su un cumulo di macerie. C'era una
bambina, a meno di sei metri da lei.
Una
bambina, il viso contornato da una chioma di ricci scuri castani, in
piedi ed in lacrime, con ai suoi piedi una donna. Una donna con una
voragine nel petto. Una creatura si avvicinava, gorgogliando.
Puntò
la sua arma verso la bambina, e questa emise una flebile luce blu.
Elle
trattenne il respiro, alzando una mano verso l'arma, d'istinto.
Questa, con un sibilo, si spense.
Elle
ridacchiò istericamente,mentre la creatura sbatteva l'arma
contro il
cofano di una macchina, confuso. La donna avanzò piano,
scendendo
dalle macerie con passo malfermo. La bambina si voltò a
guardarla,
la pelle scura del viso sporca di terra e solcata dalle lacrime.
La
creatura lanciò lo scettro contro la piccola con un
grugnito. Elle
mosse con forza la mano, e l'arma di conficcò a terra, a
pochi
passi. Come se fosse rimbalzata sul muro.
Elle
sgranò gli occhi, allungando l'altra mano, la sinistra,
verso la
bambina. Questa la guardò, gli occhi gonfi. Doveva avere
circa tre
anni, tre anni e mezzo.
“Vieni
qui...” Sibilò Elle, facendole un cenno. La
bambina la guardò
spaventata. “Dai, piccolina.” Questa la
guardò un attimo, poco
convinta. Elle strizzò gli occhi. Non ci sapeva proprio fare
con i
bambini.
L'alieno
prese un sasso dal terreno, lanciandoglielo
contro. Elle si voltò di scatto, mentre l'oggetto rimbalzava
contro
una corrente azzurrognola. Elle sgranò gli occhi. L'alieno
raccolse
l'arma, avvicinandosi alla bambina.
Elle
si lanciò, mettendosi davanti alla piccola ed
abbracciandola, una
mano istintivamente a tenerle il capo e l'altra con il palmo alzato,
rivolto contro l'essere. Chiuse gli occhi.
'Questa
volta è finita sul serio...'
La
creatura sparò contro di loro, la bambina che piangeva a
pieni
polmoni. Elle sentì un boato. Aprì gli occhi,
tenendola con un
braccio dietro di sé.
Una
patina azzurra le avvolgeva. Una sfera, di pura energia pulsante, di
un pallido azzurro. Il colpo dell'alieno era volato indietro per il
contraccolpo, spargendo i suoi resti tutt'intorno alle due. Un odore
di bruciato, e di morte, le fece venire un conato.
Elle
non si fece tante domande. Prese in braccio la bambina e
cominciò a
correre lontano dal centro di New York.
Quando
arrivò a casa, aveva i piedi feriti in maniera molto grave.
I
pantaloni scuri erano strappati in più punti, e la camicetta
era
completamente irriconoscibile. I capelli puzzavano di sangue.
Aveva
percorso gran parte della strada statale vuota, a piedi, con la
bambina di colore attaccata al collo, carezzandole i capelli ricci e
sussurrandole cose rassicuranti. Vicino a lei, centinaia di altre
persone camminavano nella stessa direzione, tutti in silenzio.
Qualcuno piangeva.
I
volti segnati dallo sporco e dal sangue, zoppicanti e assordati dalle
esplosioni. Ma vivi.
Arrivò
a casa, un appartamento a Riverdale che aveva affittato per
l'occasione. Si guardò allo specchio, sotto choc, con una
bambina in
braccio.
Andò
dritta nel bagno, dove appoggiò la piccola nella vasca e si
precipitò sul water, vomitando senza controllo, gli occhi
che
lacrimavano. La bambina si riebbe, scoppiando a piangere a dirotto.
Elle
la riprese in braccio, cullandola, trattenendosi dal crollare a
terra. Aprì l'acqua calda nella vasca, entrandovi con tutti
i
vestiti e tenendo la piccola in grembo.
Rimasero
vestite, con l'acqua che si sporcava di polvere e sangue, senza
parlare, gli occhi pieni di orrore e il cuore ghiacciato dalla paura.
xxx
Ottobre
2015
"Ciao Loretta..."
La
vecchietta sistemò gli occhiali sulla punta del naso,
mettendo a
fuoco la donna fuori dalla sua porta.
"Oh,
Elle cara!" Si fece da parte, facendole segno di entrare
"Finalmente sei arrivata! Ho appena tirato fuori il pasticcio di carne
dal forno!"
Elle
strinse il naso, entrando nel piccolo ingresso, le pareti coperte da
pannelli in legno scuro e le scale che davano al piano superiore che
cominciavano poco dopo la porta di casa. La signora West non era una
cuoca particolarmente
abile, e l'odore che impregnava l'aria non era esattamente invitante,
ma era a casa.
"Come
stai?" chiese, appoggiando un grosso
sacchetto
a terra, nell'ingresso, e togliendosi la giacca di pelle scura. "Non
c'è male, non c'è male. Ero un po' preoccupata
per River, ma ora sta meglio anche lei." Elle fece un sospiro
di sollievo, appoggiandosi allo stipite dell'arco che portava alla
piccola cucina, il bancone che dava direttamente sul soggiorno, dove
stava anche il tavolo dove mangiavano. Loretta, il grembiule slacciato
e l'aria contenta, estrasse con due presine il grosso involto dal
forno, appoggiandolo sul ripiano del fornello.
"La
febbre è scesa ed ha smesso di grattarsi. Devo ringraziarti
ancora,
l'assegno della pensione è arrivato tardi questo mese e..."
La
vecchietta abbassò lo sguardo, toccandosi e ginocchia con
aria stanca.
"Non
devi sentirti in debito, Loretta. Sai che basta telefonare." Elle
sorrise, appoggiandole le mani sulle spalle. "Vai a sederti in
poltrona, mancano ancora due ore a mezzogiorno." L'anziana
scostò un boccolo scuro dal volto, guardandola con le labbra
strette in un sorriso. "Gradisci una tazza di the?"
Elle si allungò a prendere il bollitore, riempiendolo nel
piccolo secchiaio, mentre Loretta andava ad accomodarsi in poltrona.
"Per fortuna ti hanno dato una giornata libera, finalmente!"
Commentò con un sospiro l'anziana. "Quando pensi di
sistemarti, signorina? Non mi piace vederti correre per il mondo a
metterti in pericolo. Sei così carina."
Elle
sorrise. "Fra pochi anni, magari. Sarai la prima a saperlo, quando
avrò trovato il compagno giusto."
Una
bambina di colore, dai lunghissimi capelli castani molto ricci, corse
verso di lei come una scheggia impazzita, planandole fra le braccia,
mentre Elle la allontanava dal bollitore facendo un passo avanti.
"Ranocchietta!"
La chiamò Elle, stringendola fra le braccia e
stampandole
tanti baci rumorosi sul viso, mentre la piccola rideva, nascondendo il
viso contro la sua clavicola. "Come
sta la mia piccola peste?" chiese, facendola sedere sulla penisola.
Iniziava ad essere pesante, per essere tenuta in braccio a
lungo.
"Perché
non rispondi ad Elle, River?" La incoraggiò
Loretta, dalla sua poltrona, la tv che mandava una vecchia soap opera
Argentina. River rimase compostamente in silenzio, seduta con i piedini
a penzoloni, mentre il bollitore iniziava a fischiare ed Elle
recuperava con calma tre tazze dall'acquaio. Le riempì, la
pace della casa che la pervadeva, la sua bambina che la guardava
sorridendo appena e Loretta che borbottava qualcosa contro i personaggi
che scorrevano sullo schermo. Mise le bustine nelle tazze, River che
giocava immergendo e ritirando la bustina, tenendo lo spago di cotone
fra le piccole dita scure.
"Mi hanno detto che qualcuno qui ha ricevuto un
sacco di regali di compleanno, Mercoledì a scuola!"
Esclamò Elle, sorridendole. River annuì convinta,
allungando un braccio. Qualche compagna le aveva fatto un braccialetto
di perline, il suo nome in caratteri neri in mezzo a tutte quelle
minuscole biglie colorate. "E' bellissimo!" Esclamò Elle,
avvicinando il viso per guardarlo meglio. Inidicò poi con un
cenno del mento il grosso sacchetto rosso che aveva appoggiato vicino
al divano. "Non so se il regalo che ti abbiamo fatto io e Natasha
può competere..."
River fece un sorriso smagliante, due dentini
davanti che mancavano all'appello, mentre Elle si allungava a prenderla
e la appoggiava con i piedi a terra. La babina corse verso il pacco,
inginocchiandosi a terra.
"Felice
compleanno, River." Commentò Elle, portandosi la
sua tazza alle labbra, mentre la bambina scartava con
foga il pacco ed estraeva una
grande bambola dalla pelle scura.
River
la guardò con un enorme sorriso, senza parlare. Elle si
abbassò sulle ginocchia, abbracciandola
dolcemente e schioccandogli un bacio sulla nuca.
“E' anche
da
parte della zia Nat.” Esclamò, sforando con le
dita pallide il
vestito di pizzo verde chiaro della bambola. "Ricordati di ringraziarla
quando la vedi." River annuì, prima di correre a
far vedere la bambola alla nonna.
“Sei
sicura di non poter essere contagiata dal morbillo?” Chiese
l'anziana
donna, la pelle scura del viso increspata in un
sorriso. Elle si strinse nelle spalle
“Non
temo un semplice morbillo, e poi deve esserle passato, sta molto
meglio della scorsa settimana.” La signora
ridacchiò, mentre River correva su per le scale, verso la
sua stanza, probabilmente a guardare i vestiti che poteva far indossare
alla bambola.
“Allora,
come sta Natalia?” Elle ridacchiò.
“Molto bene. Adesso che
lavoriamo insieme, vedrai che passerà più
spesso.”
“Nessun
bell'uomo all'orizzonte?” La signora West arricciò
le labbra,
sospirando. “Alla vostra età, andavo fuori ogni
sera con un
bell'imbusto diverso.”
Si alzò lentamente, le braccia che reggevano il suo peso
contro il braccioli, e si diresse ciabattando verso la cucina. Elle
ridacchiò, ,
incassando il colpo. “Non vi capisco...”
Proseguì la donna.
“Siete così delle belle e deliziose ragazze, non
può essere che
nessuno vi chieda di uscire.” Elle fece un gesto ampio con le
braccia, dopo aver appoggiato la tazza sul bancone. “Il
destino.”
“Non
esiste il destino, coccola
mia. Esiste solo chi non ha tempo per
prestare attenzione alle cose veramente importanti.” Le
agitò
contro una mano, mentre Elle sorrideva timidamente.
“E
Natalia? Vede ancora quel bel dottore di cui parlavate?”
xxx
L'odore
acre di quel posto faceva lacrimare gli occhi.
Steve
si abbassò, per passare da una porta sfondata, mentre Samuel
dentro
di lui pestava rumorosamente dei calcinacci, una mano sul volto a
coprire il naso.
“Steve...”
L'uomo si girò, vedendo l'amico piegato sulle ginocchia. Si
avvicinò.
“Guarda...”
Samuel si alzò, spazzando con il piede un oggetto sul
pavimento
scheggiato.
Un
grosso bisturi sporco di sangue. Rogers strizzò gli occhi,
inquieto.
“Quindi
questo sarebbe-”
“Un
laboratorio dell'Hydra.” Visione spuntò dietro di
loro,
galleggiando pigramente a venti centimetri da terra. Indicò
una
parete, e Samuel puntò contro questa una torcia.
“Volevano
fabbricare qualcosa...” Commentò Sam.
“O
qualcuno.” Esclamò tetramente Steve.
“Venite a vedere.”
Una
grossa gabbia occupava un quarto della stanza a fianco. Dentro, un
corpo marcescente, i avanzato stato di decomposizione. Visione lo
osservò bene, avvicinandosi.
“Era
un uomo.” Esclamò poi. Steve aprì le
labbra, improvvisamente il
cuore pieno di terrore.
“No, non era in sergente Barnes.”
Concluse l'androide. “Questo ragazzo aveva meno di vent'anni.
Basta
guardare...” Indicò un ammasso di ossa.
“...Il calco dei denti.”
Steve
avanzò un poco. Un grosso tavolo operatorio, oberato di
piante
rampicanti e mezzo fuso dall'esplosione, occupava parte della sala.
“Non
voglio immaginare cosa hanno fatto qui.”
“Steve...”
Samuel era andato nella direzione opposta, e gli dava le spalle, i
muscoli rigidi.
“Cosa
hai trovato, ora?” Esclamò Rogers, voltandosi.
“Devi
venire a vedere.” Sentì Sam cercare qualcosa nelle
tasche.
Estrasse il cellulare.
“Guarda...”
Davanti
ai due stava un grosso sarcofago, in stagno, con una semplice
finestra sopra la parte alta. Steve rabbrividì, mentre Sam
cercava
una foto sullo smartphone. Gli passò la torcia, levandosi un
guanto
con i denti. Iniziò a scorrere la galleria immagini, la
maggior
parte delle quali ritraevano una bimba sorridente, prima senza un
incisivo, poi con un vestito da principessa in chiffon rosa. Si
fermò
su un'immagine, completamente fuori contesto in mezzo alle foto che
Steve sapeva fossero di Chyntia.
“Qui
è dove è stato svegliato l'ultima
volta.” Sussurrò Samuel. Steve
osservò l'immagine che gli stava mostrando l'amico. Faceva
parte del
faldone del Soldato d'Inverno, e ritraeva Bucky in quello stesso
sarcofago. Steve emise un respiro strozzato.
“Qui
è dove è stato portato prima che gli venisse
ordinato di
ucciderti.”
xxx
Dopo
aver finito di sistemare tutte le stoviglie, Elle si sedette con
River sul tappeto a giocare con la bambola, facendola ballare e bere da
un minuscoo servizio da thè.
Per
cena era andata a comprare della pizza per tutte e tre. Avevano
mangiato, chiaccherando del vicinato, e poi guardato i cartoni in
televisione. La
signora West si era addormentata sulla sua poltrona dopo dieci minuti
di
The
Powerpuff Girls,
russando sonoramente, mentre Elle stava sul tappeto, la testa di
River in grembo, passandole le dita fra i capelli scuri e
ascoltando
il suo respiro.
L'orologio della cucina, a fantasia di
colibrì,
fischiò le dieci di sera. La donna rovesciò la
testa indietro sulla
seduta del divano, sospirando.
Sentendola
muoversi, River si strinse leggermente ai suoi jeans. Elle
soffiò
una rassicurazione, abbassandosi a baciarle la nuca. River
sospirò,
tornando a respirare profondamente. Era ora di tornare alla solita
vita, quella dell'ufficio.
Delicatamente,
se la sollevò fra le braccia, alzandosi lentamente. La
strinse un
po' a sé, stampandole ogni tanto un bacio sulla fronte. Si
avvicinò
a Loretta, facendole un buffetto con la mano libera. L'anziana si
riscosse, facendole un cenno. Elle sorrise.
“Vai
pure a dormire, la metto a letto io, poi chiudo la porta con le mie
chiavi.” Loretta accettò, alzandosi lentamente e
sporgendosi per baciarla su entrambe
le guance e
dirigendosi al piano di sopra.
Elle rimase un secondo di più nel piccolo soggiorno, le
pareti che lei e Nat avevano verniciato, i mobili che avevano scelto
tutte insieme, tenendosi il dolce peso della bambina, di sua figlia, fra
le braccia. Lasciare quel posto la faceva sempre diventare
malinconica, ma se voleva dare un futuro alla bambina che teneva fra le
braccia, doveva stringere i denti e continuare. Stava lottando per un
mondo migliore, un mondo dove nessun bambino dovesse soffrire a causa
della politica e del potere. Stava facendo del suo meglio.
Si avvicinò alle scale, sistemandosi meglio River addosso,
quando suonarono alla porta. Con la
bambina allacciata al collo, tenendola con un braccio sul fianco
buono, si avvicinò alla porta e guardò dallo
spioncino.
Natasha,
le sopracciglia aggrottate e le belle ciglia che toccavano gli zigomi
pronunciati, osservava lo zerbino con insolito interesse. Elle
aprì
un poco la porta, con uno sbuffo per il peso di River. Le due donne
si sorrisero, ed Elle non poté non notare la stanchezza sul
viso
dell'amica.
"Che
ci fai qui? Potreste già essere a casa. A fare una doccia
calda.”
"Fury
mi ha detto che ti eri presa la giornata, ho immaginato che tu fossi
qui per il compleanno di River." Sorrise la rossa, con un
pacchettino in mano. Accarezzò la nuca della bambina con la
mano
libera, mentre Elle si sporgeva leggermente oltre l'uscio. Natasha
proseguì, facendole l'occhiolino. "Siamo passati a
prenderti."
Elle
la guardò sorpresa. Con Natasha c'erano anche Samuel e
Rogers. Il secondo la guardava, appoggiato all'auto con le braccia
incrociate, un sorriso stanco sulle labbra. Samuel, le braccia
distese sul tettuccio del Suv scuro, le fece un cenno con la mano.
La
svedese rabbrividì, stringendosi meglio River addosso.
“La
metto a letto ed arrivo." disse, facendo cenno a Natasha di
entrare. La rossa scivolò in casa, senza emettere un fiato.
Elle la
scrutò un secondo, prima che salissero le scale di legno,
emettendo
scricchiolii ad ogni passo.
“Sei
ferita?” Sussurrò Elle, tenendo con la mano la
nuca di River.
Natasha negò con il capo. “Non ci sono stati
scontri.” Sussurrò.
Elle sospirò di sollievo.
“Non
dovevi venire fin qui. Si vede che siete stanchi.” Natasha
annuì.
“Mi
sono lasciata sfuggire con Rogers che saresti tornata a casa in taxi.
Ha insistito lui.” La rossa si strinse nelle spalle con un
sorrisetto malizioso. Elle rabbrividì, arrossendo.
“Sai
bene che sarebbe più in pericolo il tassista, che
io.” Natasha
sollevò le coperte, mentre Elle appoggiava la bambina con
delicatezza sul materasso foderato di rosa.
“Non
è una questione di sicurezza. Si chiama riguardo.”
Commentò
piano Nat, sollevando il lenzuolo e le coperte. Ci passò
sopra le
mani, lisciando la superficie sopra la bambina. Elle le
rimboccò
sotto il materasso, così che River non si scoprisse i piedi
muovendosi nel sonno.
Nat
si piegò a baciare la bambina sulla fronte, lasciando un
pacchettino
sul piccolo comodino.
”Sono
le scarpe nuove per la bambola, quelle belle." commentò la
rossa, ridendo piano. "Non ho resistito, quando le ho viste.”
Elle alzò gli occhi al cielo, con un sorriso, mentre Natasha
usciva
dalla stanza. Elle baciò la piccola ed uscì,
lasciando la porta
socchiusa e la luce del corridoio accesa. Si fermò davanti
alla
porta della signora West per sussurrarle che stava partendo, ma la
risposta fu un profondo russare. Elle e Nat si guardarono
ridacchiando sottovoce.
“Capisco
perché sono venuta.” Commentò Natasha,
guardando Elle indossare
la giacca e la grossa sciarpa rosso scuro. “Avevo bisogno di
questo..” Indicò attorno a
sé, la vecchia casa.
“Ricordi
quando abbiamo riverniciato tutto?” Ridacchiò
Elle, e Nat annuì
con una linguaccia.
“Anche
io avevo bisogno di questo...” Elle spense la luce del
soggiorno,
mentre Nat apriva la porta d'ingresso. Elle la seguì fuori,
chiudendo con attenzione la porta con il mazzo di riserva. Samuel era
già seduto al posto di guida, mentre Steve le aspettava
ancora
appoggiato alla portiera del passeggero posteriore. Aprì la
portiera
per le due donne, aspettando che Nat si fosse accomodata sul sedile
del passeggero anteriore per chiuderle la portiera. Elle lo
guardò
un secondo, facendo il giro ed aprendosi la portiera dal lato opposto
al marciapiede. Steve sorrise della irremovibilità della
collega, ma
non disse nulla.
Samuel
partì, senza dire molto, mentre Nat ed Elle seguivano la
sagoma
della casa con lo sguardo. Elle si riscosse, quando i suoi occhi
incontrarono quelli dell'uomo al suo fianco sul sedile posteriore.
“Come è andata la missione? Cos'era quella
trasmissione?”
“Macchinari.
Qualcuno li ha attivati perché li trovassimo... Ed abbiamo
trovato
dell'altro.”
“Hydra?”
Sibilò Elle, strizzando gli occhi nella penombra
dell'abitacolo, la
luce intermittente dei lampioni che si rifletteva sui capelli dorati.
Nat annuì, voltandosi appena. Steve sospirò.
“Non
ti piacerà, cosa abbiamo trovato.”
xxx
Ehilà!
Come promesso, ecco il
nuovo capitolo.Appena arrivata a casa da lezione, sono corsa a
pubblicarlo! Finalmente un pò di azione!
Si iniziano a vedere un po'
di personaggio nuovi, ed approfondiamo un poco le dinamiche fra quelli
che già conosciamo. Abbiamo avuto occasione di
vedere Elle in forma smagliante, e poi un po' di squarci di vita
quotidiana. Tra poco, si inizia a ballare seriamente.
Come al solito,
suggerimenti, consigli e insulti sono sempre ben accetti nelle
recensioni! Scrivetemi, anche solo per dirmi che non vorrete leggere
mai più nemmeno una riga scritta da mois! :P
Informazioni di servizio:
Ho curato un attimo la formattazione dei primi capitoli, che lasciava
un poco a desiderare. Ora potrò togliere "Revisionata!"
dalla trama. Il prossimo aggiornamento sarà LUNEDI'12!
Grazie ancora a Delta per
accompagnarmi passo passo in questa storia! Davvero, leggere le tue
recensioni mi fa venire voglia di rendere questa storia lunga come la
Divina Commedia. Deltaworld è vicina!
Buon Lunedì a
tutti!
Eve
|
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Capitolo 6 *** 06.Cambiamento ***
>
Atto
6:
Cambiamento
"Come
and hold my hand, I
wanna contact the living;
I'm
not sure I understand
This
role I've been given."
ROBBIE
WILLIAMS
Ottobre
2015
"Lonely,
I'm Mr. Lonely, I have nobody for my own..."
Samuel
teneva un gomito appoggiato sulla portiera, l'altra mano intenta a
manovrare il volante. Aveva attaccato il suo lettore musicale
all'impianto del suv, cantando tranquillamente, l'espressione un po'
meno sbattuta dei suoi colleghi. Natasha lo guardò, la
fronte
appoggiata sulla mano, sospirando.
"Can't
believe I had a girl like you , and I just let you walk right out of
my life..."
Elle
guardò l'amica, un sopracciglio alzato, affossata nel suo
posto sui
sedili posteriori, mentre Steve sbuffava, battendosi una mano sulla
coscia, imbarazzato.
"...after all I put you through ,
you still stuck around and stayed by my side..."
Elle
si mise una mano sul viso per nascondere una risata sconcertata,
mentre Samuel, decisamente poco intonato, proseguiva la sua
performance. Natasha si strinse nelle spalle, voltandosi verso Samuel
e, dietro di lui, Elle, e unendosi all'amico.
"...what
really hurt me is I broke your heart, baby!" La rossa fece
un ampio gesto con le braccia, facendo scoppiare definitivamente a
ridere Elle. Steve sogghignò.
"You
were a good girl and I had no right, I really wanna make things
right!"
Samuel
svoltò dalla via principale verso la strada statale,
agitando la
testa a ritmo, Nat che agitava la testa senza ritegno.
" 'Cause
without you in my life girl, I am so lonely..."
"Fanno
sempre così?" Sogghignò Elle, sporgendosi verso
Rogers. Lui
seguì il suo movimento, appoggiando la schiena al sedile
più verso
la ragazza. "Dovevi vedere quando c'era anche Stark. Sembrano le
Boswell
Sisters."
Elle fece un cenno negativo con la testa, i grandi occhi cerulei che
lo fissavano senza capire.
"Un
quartetto vocale, andava forte nei '40." Esclamò
semplicemente
lui. Lei ridacchiò, ritornando sul suo sedile, le braccia
strette
attorno al busto. Rabbrividì.
"Hai
freddo?" chiese Nat, sporgendosi dal suo sedile. Samuel
allungò
la mano sulla consolle del cruscotto ad accendere il riscaldamento.
Elle fece un cenno negativo con la testa, stringendosi ancora di
più
nelle braccia.
"Tieni..."
Steve le passò la giacca di pelle, gli occhi bassi. Elle
sorrise,
prendendo la grossa giacca ed avvolgendosela attorno alle spalle.
"Grazie, Rogers."
L'uomo
si strinse nelle spalle, le mani strette al sedile. "Figurati."
"Allora,
volete aggiornarmi o...?" Chiese la svedese a voce alta,
trattenendo un altro brivido.
Samuel
spense la radio, mentre Natasha cercava Steve con gli occhi
attraverso lo specchietto laterale. L'uomo annuì
leggermente, gli
occhi socchiusi.
"Abbiamo
trovato la base Hydra." Cominciò Samuel. "Stavano
svolgendo degli esperimenti."
"Di
che genere?" Elle si pentì subito della domanda, vedendo Nat
sospirare e Steve strizzare gli occhi blu. "Su esseri umani.
Tipo Wanda e suo fratello." Steve si passò una mano sul
viso,
mostrandosi per la prima volta dal loro incontro, stanco e
vulnerabile. Elle trattenne la curiosità, studiando il
comportamento
dei suoi compagni di abitacolo.
"Barnes?"
Chiese alla fine, senza riuscire a trattenersi. Natasha fece un cenno
di negazione con il capo, mentre anche Samuel cercava il volto
dell'amico attraverso lo specchio retrovisore.
"No,
niente Barnes." Rispose poi l'uomo, tornando a guardare la
strada che scorreva davanti a loro. "Però abbiamo motivo di
credere che sia stato svegliato dal coma indotto proprio lì,
in
Alaska."
Elle
annuì. "Avevano distrutto tutto?" Steve annuì,
agitandosi
sul sedile. Appoggiò le mani sulle ginocchia, il respiro
pesante.
La
ragazza allungò timidamente una mano, sfiorando con le dita
pallide
le sue. L'uomo si voltò a guardarla, sinceramente sorpreso.
Elle
sorrise da dietro il bavero della sua giacca.
"Lo
troveremo." Strinse leggermente la presa sulla sua mano.
"Sicuramente sta bene. Sa badare a se stesso." Allontanò
la mano, mettendola nella tasca della giacca. Steve rimase a fissarla
per un secondo, nella penombra dell'auto, mentre lei fissava le luci
intermittenti dei lampioni in silenzio.
~
"Quindi
hai una figlia?"
Elle
quasi non si strozzò con la bottiglietta d'acqua che aveva
appena
comprato alle macchinette del primo piano. Era in pausa, aveva appena
finito di ultimare un colloquio con un agente per accertarsi che non
fosse compromesso a causa della morte accidentale di una donna
durante una missione. Elle aveva passato l'ultima ora a consolarlo,
decidendo alla fine di esonerarlo dal servizio per due settimane. La
seduta l'aveva lasciata leggermente spossata, quindi aveva visto il
provvidenziale arrivo di Samuel e Rogers come una piacevole
distrazione.
"Come
potrei avere una figlia di colore?" sorrise verso Samuel
"Sarebbe almeno mulatta."
"Non
ci ho pensato. E' che sembravate così..." Samuel fece un
gesto
vago, facendo ridacchiare Elle e Rogers, in piedi davanti a lui.
“No,
non è mia figlia. Nemmeno mia parente.” Samuel la
guardò
perplesso, mentre Steve era solo leggermente curioso. Aveva
già
provveduto ad interrogare Natasha quella mattina, in merito alla
bambina che Elle cullava la sera prima.
"Ho
trovato River durante la battaglia di New York." spiegò
infatti
lei. “I suoi genitori erano già morti e non
abbiamo rintracciato
parenti in vita, a parte la nonna, la signora West.”
Samuel
la guardò sorridendo dolcemente. “Sei stata molto
altruista a
prenderla con te.”
Elle
negò. “Nessuno avrebbe fatto diversamente. River
è speciale.”
“Ti
capisco. Anche se è mia figlia, Cynthia non è
come le altre bambine
della sua età. Lei è-”
Per
la seconda volta, Elle quasi si strozzò con l'acqua,
bagnandosi la
camicetta azzurra.
“Tu
hai una figlia?”
Samuel
annuì, ridacchiando sotto i baffi. Steve si
avvicinò ad Elle,
battendole leggermente sulla schiena mentre questa tossiva.
“Tutto
bene?”
Elle
lo guardò con gli occhi sgranati, le labbra esangui per lo
sforzo.
Bevve una decisa sorsata d'acqua, senza dire nulla. Samuel aspettava,
ridendo a braccia incrociate.
“Ovviamente,
pochi sanno di Cynthia. Io e sua madre siamo divorziati da poco prima
che lasciassi l'esercito.” Elle lo guardò un
secondo,
imbronciandosi leggermente.
“Mi
dispiace, Sam...” Lui fece un cenno negativo con la testa.
“No,
Elle, mi sono meritato di perdere Lisa. Sono fortunato...” Si
guardò attorno, leggermente a disagio. “Non mi
impedisce mai di
vedere nostra figlia. Lei è la cosa più
bella...” Elle annuì
dolcemente. “Ti capisco. River ha cambiato tutto.”
Samuel
le sorrise, mentre Steve li guardava curioso. “In che
senso?”
Elle
lo guardò un secondo, sovrappensiero.
“Prima
volevo solo partire per la missione seguente, non volevo mai restare
a casa. Non riuscivo a rilassarmi, non restavo mai nello stesso posto
più di due giorni. Avevo ancora il materasso imballato,
nell'appartamento che avevo affittato a Riverdale.”
“Bella
zona...” Commentò Samuel. Elle annuì.
“Dopo
l'arrivo di River, ho capito che stavo buttando anche quel poco di
vita che mi era rimasta. Non ho maturato abbastanza anni di servizio
per andare in pensione, ma appena avrò guadagnato abbastanza
per
mantenerci e pagarle il college, andremo a vivere insieme in un posto
più tranquillo." Fece ai due un cenno, ed andò a
sedersi sulle
scale. Samuel si accomodò vicino a lei, allungando le gambe.
Steve
le sorrise. "E' un bel piano." Elle annuì, mordendosi
l'unghia del pollice. Samuel le diede un colpetto sulla spalla.
“Anche io sto lavorando per pagare il college di Cycy.
Lei
però per ora vuole fare la principessa...” Elle
ridacchiò, mentre
Samuel apriva una lattina di Pepsi.
“Visto
che hai una figlia, forse mi puoi aiutare.” Samuel tenne fra
le
mani giunte la lattina, il capo chino, mentre Steve ascoltava
attentamente, un piede alzato sullo scalino sotto quello sul quale
erano seduti i due.
Elle
si passò una mano sul viso."Durante la battaglia, suoi
genitori
sono stati ammazzati davanti a lei. E lei non parla più."
Samuel le diede una leggera spallata, riflettendo in silenzio.
Steve
si sedette vicino a lei sullo scalino, sospirando. “Mi
dispiace.”
"I bambini non dovrebbero vedere certe cose." Esclamò
Samuel. “Uno psicologo infantile, magari? Qualcuno
specializzato in
traumi?” Elle annuì. “Hanno detto che
serve tempo. Non può fare
terapia finché non parla, quindi per ora mi limito a farla
andare da
una logopedista.” Samuel annuì. Elle
appoggiò il capo sulla
spalla dell'amico, Steve che la guardava dispiaciuto.
"L'hai
presentata a tuo padre?" chiese, sperando di alleggerire
l'atmosfera.
"Non
c'è mai stata occasione. Lui se ne è andato da
qui prima che
assumessero me." ridacchiò nervosamente lei. “Non
lo sa.”
Steve
si guardò le scarpe, le ciglia che toccavano gli zigomi.
“Mi
sarebbe sempre piaciuto poter parlare con mio padre, da
adulto.”
“Te
l'ho detto, mio padre se ne è andato quando avevo sei anni
e...”
Ed
i miei poteri si sono sviluppati. Per
un secondo, Elle pensò che fosse il momento giusto per
sputare fuori
quella verità scomoda.
'Stai,
Steve, io se mi concentro posso leggere nella mente delle persone. E
posso anche spostare gli oggetti, anche se fatico ancora come se
dovessi fare un incontro di boxe.'
"Vedrai
che chiarirete." commentò Steve, guardandola con un sorriso.
Elle
alzò il viso, fissandolo negli occhi per un secondo, in
silenzio.
“Uhm
Uhm...” Samuel si alzò, cercando di fare
più rumore
possibile, mentre i due distoglievano gli occhi imbarazzati. Elle si
mise una mano sul collo pallido, la treccia di capelli appoggiata
alla spalla, allontanandosi leggermente dal Capitano. Dal canto suo,
questo fulminò l'amico con lo sguardo.
“Devo
tornare in palestra... dovevo aiutare Rhodey a...” Sam fece
un
ampio gesto con le mani. I due amici lo guardarono allontanarsi senza
emettere un fiato, Elle che si grattava il collo e Steve che fissava
la punta delle scarpe.
“Penso
sia meraviglioso quello che fai per River.” Ammise
improvvisamente
lui, appoggiandosi alle braccia, voltando il viso verso di lei. Lei
gli sorrise timidamente, stringendosi nelle spalle sottili.
“Conoscendoti,
pensavo fosse più probabile che i bambini li mangiassi, non
li
aiutassi...” Elle ridacchiò, dandogli un pugno
contro la gamba.
Steve scoppiò a ridere con lei.
“Scherzo.”
“No,
hai ragione, sono stata imperdonabile con te nel
mio primo
mese qui.” Lei alzò gli occhi al cielo, un sorriso
sghembo. “Lo
facevo apposta, a farti imbestialire. Non ti sopportavo.”
Ammise in
un sussurro. Steve non poté trattenersi dal ridacchiare
ancora.
“Non
posso darti torto, ero intrattabile.” L'uomo
avvicinò il capo a
quello della ragazza, sospirando.
“Dopo
Sokovia, e prima ancora il Triskelion...”
“Non
devi giustificarti con me, hai tante responsabilità, Capitano...”
Elle
si sporse leggermente verso di lui, studiando quelle iridi
così
scure alla luce del corridoio. Per un secondo, pensò di
allungare la
sua mente verso quella di lui, vittima di un'insana
curiosità.
Voleva vedere cosa aveva visto lui, durante il crollo della
città in
Sokovia o quando aveva affrontato per la prima volta Natasha.
Lui
si avvicinò ancora, con uno strano sorriso. Lei
sentì il suo
respiro sulle sue labbra, senza riuscire a distogliere lo sguardo.
Steve le guardò le labbra, un secondo, il viso leggermente
più
rosato del solito. Se lo avesse visto da fuori,Elle probabilmente
avrebbe riso per il suo imbarazzo. Ma era lì, davanti a lei,
e l
svedese era ancora più imbarazzata dell'oggetto delle sue
osservazioni.
Lui
era Captain America, e lei e lui battibeccavano
tutto il
giorno tutti i giorni da quando si erano visti la prima volta. Forse
non si odiavano, ma di sicuro non erano due dolci
colombe che
tubavano su un cavo dell'alta tensione.
Lui
allungò una mano verso il suo viso, fermandosi un secondo
prima del
contatto. La guardò intensamente, come per chiederle il
permesso, ed
Elle si ritrovò ad annuire senza emettere fiato.
Lui
passò le dita sul viso diafano, saggiandone la morbidezza
con i
polpastrelli ruvidi. Lei aveva socchiuso gli occhi, beandosi del
calore della sua mano.
"Elle..."
sussurrò lui, avvicinandosi leggermente. Lei
annuì, senza pensarci.
"Tu
scotti." commentò lui, allontanandosi un poco ed
appoggiandole
il palmo di una mano sulla fronte in modo pratico. Elle
strizzò gli
occhi, contando fino a dieci.
“Come,
scusa?” Chiese, sperando che lui le stesse facendo
uno scherzo.
“Penso
tu abbia preso una brutta influenza. Scotti.” Steve le
saggiò la
pelle della guancia con le dita, annuendo. “Sei
bollente.”
Elle
sgranò gli occhi, maledicendo ogni divinità
conosciuta o
sconosciuta.
"Ehm...
hai la faccia piena di pallini rossi." Specificò Steve.
Elle
si allontanò dall'uomo, strisciando indietro sullo scalino
sul quale
era seduta ormai da mezz'ora.
“Hai
ragione. Per fortuna dovevo lavorare su delle scartoffie, oggi. Vado
in ufficio a prenderle e me le porto in stanza.”
Esclamò,
alzandosi e scendendo sul pianerottolo. Steve si alzò di
scatto,
istintivamente. “Ti accompagno.”
Elle
fece cenno di no, sorridendo imbarazzata. “Vai dagli
Avengers. Nat
si starà chiedendo dove sei.” Lui
annuì, guardandola serio.
“Vai
a farti vedere in infermeria, dopo.” Si
raccomandò, guardandola
dall'alto. Lei arrossì leggermente, salendo i due scalini
che li
separavano ed alzandosi sulle punte. Gli schioccò un timido
bacio
sulla guancia, sorridendo imbarazzata. “Non preoccuparti,
Rogers.”
~
Ad
eccezione di un insopportabile prurito, di un terribile mal di testa
e della gola estremamente gonfia,Elle stava bene. Aveva solo
trentanove di febbre, e si rigirava pigramente nel suo letto da
quattro ore.
Maria
era passata prima, affacciandosi solo dalla porta. Elle le aveva
detto di essere solo stanca. In realtà, temeva di aver
contratto
probabilmente il morbillo o qualsiasi cosa avesse trattenuto River a
letto per una settimana; non aveva fatto entrare nessuno per
assicurarsi di non avviare una pandemia in tutta la base.
Così,
quando poi, alle undici della sera, la bionda era strisciata in bagno
ed aveva rigettato ciò che aveva mangiato in una vita
intera,
nessuno sapeva che lei stesse male a parte Rogers.
Rogers!
Lo stesso che quel pomeriggio aveva baciato. Sulla guancia.
Con
un rantolo, Elle si spostò dal sanitario, tirando lo
sciacquone.
Sarebbe rimasta in quel bagno in eterno, pur di non incontrare
più i
dolcissimi occhi blu del suo supposto capo.
Captain
America! Si era messa in un bel casino, questa volta.
Perché lui
le piaceva.
E
non come piaceva a Nat il dottor Banner -quello probabilmente era
amore!- o come piaceva a Maria il lunedì mattina -quello sicuramente
era amore- o come piaceva a lei, Elle, la cioccolata al latte
inzuppata nel tea caldo fino a farla sciogliere.
Le
piaceva come se lo avesse conosciuto da sempre, ed allo stesso tempo
come se ogni volta che si incontravano fosse la prima.
La
ragazza si trascinò nel letto, avvolta in una grossa coperta
multicolore di lana grezza, regalo di Loretta. Aveva il naso che
colava, e la pelle scottava in modo insopportabile.
Mandò
un messaggio a Natasha per dirle che non ci sarebbe stata a cena, si
accoccolò fra gli scomodissimi cuscini e si diede al sano
zapping,
fermandosi a guardare una vecchissima edizione di Casablanca
con una delle sue attrici preferite,
Ingrid
Bergman. Una donna bellissima, piena di talento, e per di
più
svedese.
Chissà,
se non avesse avuto il suo dono,
come lo chiamava sua madre, cosa sarebbe diventata. Magari il padre
sarebbe rimasto con loro. Strizzò gli occhi, passandosi un
fazzoletto sotto al naso, mentre Sam cantava per Ilsa.
'You
must remember this, A kiss is still a kiss, A sigh is just a sigh ,
the fundamental things apply...'
Elle
spense con un gesto secco lo schermo. Cercò di scacciare i
pensieri
che la tenevano vigile, assopendosi in un sonno agitato molto prima
di quanto si era aspettata.
~
Quando
il giorno dopo Wanda entrò correndo in palestra, mentre
Natasha e
Steve si allenavano sul ring, lei che cercava di costringerlo a terra
e lui che voleva liberarsi ma temeva di farle male, la rossa
capì
subito che qualcosa non andava.
Samuel
era in libera uscita, probabilmente da Cynthia. Rhodes era in
città
a ultimare delle modifiche alla sua armatura con Stark. Visione era
temporaneamente sparito. A dire il vero, Nat supponeva che l'androide
fosse con Wanda, prima di vederla caracollarsi nella stanza con il
fiato corto.
“Dovete
venire subito in infermeria!” Biascicò la ragazza,
appoggiandosi
al tavolo per prendere fiato. Natasha si alzò di scatto.
“Che
succede, Wanda?” Chiese Steve, osservandola preoccupato.
“Elle...
Selvig... E' stata ricoverata. E' svenuta mentre era con
Maria...”
Natasha
si lanciò giù dal ring, addosso solo il body
sportivo e gli Yoga
Pants fin troppo aderenti. Steve la seguiva a ritmo sostenuto.
“Ieri
aveva un po' di febbre...” Esclamò l'uomo,
congelato dallo sguardo
furibondo di Natasha. “Non me lo hai detto!”
Steve
sbottò. “Elle è adulta, non devo fare
un comunicato stampa perché
ha la febbre!” L'uomo la seguì, quasi correndo per
il corridoio
affollato, la gente che si voltava a guardarli la rossa, i boccoli
vermigli al vento e il corpo sudato. Anche lui portava una maglietta
abbondantemente vissuta ed attillata, ma per ovvi motivi non faceva
lo stesso effetto.
“Spero
che non sia nulla di grave...” Esclamò lei.
“Oppure sarò molto
arrabbiata con entrambi.”
Entrarono
a passo di marcia nell'infermeria, dove Maria stava a braccia
conserte, le labbra strette in una smorfia, a guardare oltre un
vetro. Fury era vicino a lei, un'espressione tesa.
“Bene,
ci siete tutti.”
Steve
non commentò quell'intrusione improvvisa nelle cerchie
ristrette
della Selvig, limitandosi ad annuire. Fino al giorno prima, nessuno
si sarebbe sentito in dovere di contattare lui fra
gli amici
della Svedese. Nat fece un gesto spazientito, avvicinandosi al vetro
ed osservando nella stanza.
Elle
stava distesa, il corpo ricoperto di una patina di sudore, le dita
delle mani che si flettevano a causa degli spasmi, il viso scavato di
un colore tendente al grigiastro. Steve deglutì, riportando
lo
sguardo a Fury.
“Che
le sta succedendo?”
Maria
si voltò, gli occhi leggermente arrossati. “Ieri
Elle aveva una
leggera febbre... In questo momento, la sua temperatura interna ha
superato i quarantasei gradi centigradi.”
Natasha
emise un verso secco con la gola, portandosi una mano alla bocca.
Steve le prese un avambraccio con la mano, spostando lo sguardo da
Maria e Fury.
“Questa
temperatura rende impossibile la vita biologica umana...”
Commentò
Fury, osservando il Capitano e la Vedova guardarlo agghiacciati.
“La
verità è che, diamine, non
capiamo come possa essere viva.”
“Servirebbe
Banner.” Commentò Maria, passandosi una mano sul
viso. “E' il
più esperto bio-organista in circolazione.”
“Non
potendo contattare Banner, mi sono preso la libertà di
chiamare la
dottoressa Cho da Seul.” Concluse Fury, riportando lo sguardo
nella
stanza oltre il vetro. Steve sospirò, mentre Natasha faceva
un
passo verso il vetro, le dita intrecciate fra i capelli sciolti.
“Quando arriverà?” Chiese Rogers,
guardando l'amica davanti allo
specchio, gli occhi pieni di terrore.
“Tra
tre ore. Abbiamo mandato una scorta d'eccezione.”
“Insomma,
avete rimodernato bene qui.”
Stark
prese in mano un vaso dalla scrivania del medico della base, il
dottor Spencer. Questi lo guardò, leggermente a disagio,
mentre la
dottoressa Cho digitava alacremente al suo computer. Steve non
rispose nemmeno al suo amico, seduto sul divanetto dello studio, la
testa appoggiata al palmo della mano. Natasha, vicino a lui, scriveva
al cellulare.
“Insomma,
gente, un po' di allegria.” Stark si avvicinò,
osservandoli
dall'alto con le mani infilate nelle tasche dei jeans. “E'
solo un
po' di febbre. La tua amica si rimetterà presto,
Malpelo.”
Natasha
gli lanciò un'occhiata assassina, senza smettere di digitare
sul
cellulare. Steve sospirò.
“Mi
sembri piuttosto preoccupato, Capitano.” Commentò
l'uomo,
guardando l'amico. “Non è che questa
signorina...”
“Taci,
Stark.” Steve gli ringhiò contro, alzando la
testa. Cho fece un
verso strozzato che attirò l'attenzione dei tre.
“Stark...”
L'uomo
corse alla scrivania, guardando preoccupato lo schermo.
“Deve
esserci un bug nel programma...” Cominciò lui,
esterrefatto,
iniziando a prestare i tasti del computer in malo modo. Cho lo
guardò, gli occhi sgranati. “No, Stark. Ho
già guardato. E' tutto
vero.”
“Cosa,
è tutto vero? Che avete visto?” Sbottò
Steve. Stark aprì e
chiuse la bocca un paio di volte, senza emettere un suono. Natasha li
guardò, i muscoli rigidi per la tensione.
“Avete presente che
i geni codificano le proteine, per farla semplice?”
Chiese la donna asiatica ai due. Natasha annuì.
“Alte
temperature modificano la struttura delle proteine stesse. Le
denatura.” Natasha si prese il capo fra le mani, i gomiti
appoggiati alle cosce.
“Ieri
è stato fatto un test genico per eliminare la
possibilità che si
trattasse di una malattia tardiva, per esempio un'anomalia
cromosomica. Tipo la Corea di Huntington.”
Natasha
annuì. Steve li guardava, cercando di capire il nocciolo del
discorso.
“I
risultati erano talmente strani che abbiamo deciso di ripetere il
test...”
“E
cosa avete trovato?” Chiese spazientito Steve. Stark fece un
sorrisetto sardonico.
“Non
solo che la tua amica non è del tutto umana, Capitano, ma
oltretutto, è in piena mutazione Frame-Shift.”
Natasha
fece un respiro strozzato. “Cosa vuol dire?” Chiese
Steve,
passandole un braccio attorno alle spalle. Stark riguardò il
computer, mordendosi le labbra. Alzò di nuovo lo sguardo sui
due.
“Che
è in piena mutazione genica. Il DNA, beh, sta shiftando
completamente avanti di una base azotata, modificando tutto il
corredo genico. Il suo DNA sta cambiando.”
Ehilà!
Oggi,
lunedì 12, è giorno di pubblicazione del capitolo!
(Ma no, Eva, non
è vero. Questo è solo un parto della tua
immaginazione malata, questo capitolo non esiste.)
Capitolo
abbastanza calmo, e fluffoso, fino alla fine che... capirete alla
fine di questa settimana!
Grazie
a chi segue, a chi ha messo la storia fra le preferite –
siete i
miei cuoricini batuffolosi.
Piuttosto,
fatemelo sapere se la storia diventasse troppo noiosa o pesante. O se
semplicemente facesse schifo, ecco ;)
Mi
dispiace di aggiornare la sera, purtroppo però il
Lunedì
l'aggiornamento sarà sempre circa alle nove. Motivi
scolastici :P
Il
prossimo aggiornamento sarà VENERDI' 16 e pensò
sarà l'ultimo del
venerdì. Per esigenze lavorative, dalla settimana dopo
dovrei essere
costretta ad un solo aggiornamento alla settimana. I capitoli,
però,
si dovrebbero allungare! Fra poco sarà finita la parte
introduttiva,
ed arriverà un muro solido di azione e, perché
no, qualche momento
più soft per i cuori meno intrepidi.
Mi
piacerebbe moltissimo sapere cosa vi aspettate e cosa vi piacerebbe
vedere in questa storia! So che siete timidi/non avete tempo/non
avete voglia ma, ricordate sempre che, una recensione salva un
autore! ;) Prendete tutti esempio dalla meravigliosa Delta, oramai il
mio feedback su questa storia! A parte che rispondere alle tue
recensioni mi mette sempre di buon umore, davvero, grazie!
C'è un
capitolo, un capitolo speciale, che porta già il tuo nome!
Al
prossimo capitolo,
Eve
|
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Capitolo 7 *** 07. Sonno ***
Note
Pre Capitolo:
Ehilà!
Sapendo
che domani avevo degli impegni improrogabili, ho deciso di pubblicare
oggi (Giovedì 15). Meglio in anticipo che in
ritardo!
Ringrazio
ancora tutti voi lettori silenziosi per affrontare ad ogni
capitolo la mia follia.
Spero
che vi piaccia!
Eve
>
Atto
7:Sonno
"And
I will stay up through the night
And
let's be clear, I won't close
my eyes.
And
I know that I can survive
I'll
walk through fire
to save my life."
SIA
Fine
Ottobre 2015
Era
tre giorni che Elle non apriva gli occhi.
Dopo
le prime ore, dove nessuno aveva ricevuto il permesso di Fury ad
entrare nella sua stanza – un protocollo standard per evitare
il
contagio, non sapendo la causa del malessere della donna–
Maria e
Natasha si erano date il cambio a turni di sei ore, senza mai
lasciare l'amica sola. Nemmeno Rogers si assentava se non per farsi
una doccia o andare al bagno, cosa che era appena avvenuta.
Elle
non muoveva nemmeno un muscolo. Le dita erano cianotiche, il viso
diafano. Quando le avevano aperto una palpebra per vedere la risposta
della pupilla, avevano trovato l'iride di un azzurro quasi
fosforescente.
Steve
stava seduto vicino a Natasha da un quarto d'ora. La rossa non aveva
detto una parola, da quando lui era tornato, i capelli ancora umidi
per la doccia veloce che si era concesso. La donna si limitava a
tenere la mano della Svedese.
"Hanno
avvisato il padre?" Chiese lui, alzandosi lentamente, le
giunture che scricchiolavano per aver mantenuto la stessa posizione
per troppe ore nei giorni precedenti.
"Fury
lo ha chiamato..." Natasha spostò lo sguardo su di lui. "Non
so cosa abbia risposto." L'uomo non disse nulla, la mascella
leggermente contratta.
"C'è
una canzone che Elle canta sempre a River..." Esclamò
Natasha.
"Ovviamente, a lei ed alla signora West non ho detto nulla di...
Questo." Strinse un pò di più
la mano dell'amica.
"TI
disturbo se canto un po'?" Chiese la rossa. "Mi aiuta a
somatizzare..."
Steve
si strinse nelle spalle, sorridendo stanco. Natasha si
avvicinò al
viso dell'amica, respirando profondamente.
"Down
by the river by the boats, where everybody goes to be alone, where
you won't see any rising sun, down to the river we will run..."
Steve
si fermò ad ascoltare con quanto affetto Natasha
canticchiava per
l'amica, profondamente addormentata. Le teneva la mano stretta fra le
sue, le labbra leggermente screpolate per lo stress, i capelli
sommariamente legati sulla nuca, gli occhi segnati da profonde
occhiaie.
"...Down
by the water the riverbed, somebody calls you somebody says, swim
with the current and float away, down by the river everyday..."
Stark
si era fermato sulla soglia, appoggiato di peso allo stipite della
porta. I loro sguardi si incrociarono dietro la schiena di Natasha.
Tony sembrava preoccupato, con un fascicolo in mano, gli occhi pesti
per il poco riposo. Guardò Natasha, che per una volta aveva
posato
la sua imperturbabile maschera di controllo per farsi vedere
inquieta.
"...I
walk to the borders on my own, to fall in the water just like a
stone, chilled to the marrow in them bones, why do I go here all
alone..."
Clint
mise la testa nella stanza, sorprendendo anche Stark. In un paio di
falcate, fu accanto a Natasha, che si strinse sul suo ventre, senza
emettere un verso. L'uomo le passò le dita fra i capelli,
abbassandosi vicino al suo viso sussurrando cose rassicuranti, mentre
la rossa abbassava lo sguardo umido.
"Non
anche lei, Clint... Non anche lei...Porca
Puttana..."
"Vedrai
che andrà tutto bene... La dottoressa Cho sa quello che fa,
ed anche
Stark, vero?" Esclamò l'arcere, voltandosi a guardare il
diretto interessato mentre strisciava i piedi a terra.
"Non
possiamo dire niente di certo. Io non sono un medico, Barton. Sono
qui per assistere con i macchinari." Clint sospirò
silenzioso,
prendendo l'amica per un braccio.
"Usciamo.
Devi prendere aria." Natasha fece per ribattere, ma l'uomo la
trascinò fuori, irremovibile.
~
L'aria
era rarefatta e schifosamente appiccicosa.
Elle
sentiva i polmoni pieni di acqua, mentre cercava di alzarsi per
respirare meglio.
Sentì
l'impulso partire dal profondo della sua psiche, mentre i muscoli
restavano testardamente fermi, ghiacciati in posizione supina.
Il
panico la raggiunse subito, una pugnalata ghiacciata nella sua
tranquillità già compromessa da quando aveva
quasi ripreso
coscienza. Gli occhi fissavano un punto nel vuoto, nel buio.
Non
sentiva nulla, se non un dolore accecante. I legamenti ed i tessuti
erano rigidi, e le dita delle mani e dei piedi prudevano in modo
insopportabile.
Sentiva
qualcosa di caldo appoggiato vicino al suo braccio morto, qualcosa
che si muoveva ritmicamente. Cercò di concentrarsi, aprendo
la sua
mente nella stanza. Nonstante avesse sempre proiettato la mente al di
fuori di sé, cosa che poi aveva scoperto essere parte del
suo potere
– e probabilmente della sua natura – ad Elle
sembrava di essere
sia nel suo corpo bloccato che nell'aria, sopra di esso. Era un
fenomeno autoscopico, un'esperienza extracorporea
estremamente
complessa. Poteva vedere e sentire il proprio
corpo, sdraiato
sotto di lei. Le sembrava di galleggiare nell'aria.
Sentiva
dei pensieri concitati, mentre Stark guardava le sue analisi al
computer, una grossa tazza di caffè nero in una mano.
'Hanno
chiamato Stark. Incredibile.' Elle
cercò di andare lungo il corridoio, rimbalzando fra le menti
dei
frequentatori della struttura. Il dottor Qualcosa
stava dormendo su una branda da ambulanza, nel corridoio fuori dal
suo studio. Maria era accasciata su una poltroncina, la divisa
leggemente sgualcita. Non sentiva nessuna traccia di Natasha.
Allungò
un tentacolo mentale verso la persona che stava accasciata sul suo
materasso, con la testa appoggiata sulle braccia incrociate. Quando
si accorse che era Rogers, avrebbe voluto alzarsi di scatto, o almeno
poter assumere un'espressione sorpresa. Il suo corpo rimase supino,
freddo come una tomba ed allo stesso tempo stretto in una morsa
dolorosa.
Il
dolore era un pò più sopportabile, se si
distraeva. Allo stesso
tempo, sentiva di non riuscire a controllare bene il suo muscolo
mentale, che si distendeva pigramente verso l'uomo, quasi come una
nebbia immaginaria. Elle si ritirò nella sua mente, come un
animale
ferito che si nasconde nella tana, il petto ricolmo di ghiaccio
bollente ed il respiro spezzato da lamenti involontari.
Sentiva
i tessuti e le cellule del suo corpo mutare, lentamente, cellule
nuove che rimpiazzavano le cellule morenti. Una vera guerra civile,
interna, senza possibilità di fuga.
Come
aveva dedotto Visione, stava affrontando un cambiamento notevole.
Prima
era arrivata la lettura del pensiero, alla sua nascita. Ed andava
tutto bene.
Poi
era rimasta sotto un buco nero, senza fare una piega, per gran parte
dell'attacco di New York. Il suo potere si era rafforzato.
Era
andata ad abitare in un posto pieno di mutanti, ed era arrivata la
capacità di manipolare gli oggetti...
Per
cambiare ancora, però, il suo corpo doveva morire.
E questo
la spaventava, sentendo ogni cellula che lottava per la vita e si
spegneva in un lago ghiacciato di nulla. Emise un mugugno acuto
all'ennesima stilettata di dolore lungo la spina dorsale,
già
ipersensibile. Stava da sola, nel nulla, accasciata a terra, le
ginocchia strette al petto ed il respiro pesante.
"Is
there anybody out there?" Canticchiò piano,
cercando di
isolarsi da quel dolore totalizzante.
'Elle?'
~
Era
al buio. C'era il buio più totale, di fronte ed intorno a
lui. E
sapeva di essere nel pieno di un sogno. Avanzò a tentoni,
temendo
l'ennesimo incubo. Temendo Bucky.
Camminava
di soppiatto, stando attento a dove metteva i piedi. Sentiva un
respiro affannoso, vicino a lui, ma non capiva da cosa
provenisse.
Si
abbassò leggermente, allungando la mano verso qualcosa che
si
agitava sul pavimento.
'Elle?'
Non dovette
nemmeno concludere
il pensiero, che due occhi luminescenti lo fissavano nel buio,
scrutandolo.
'Sto
sognando?' Chiese lui esterrefatto. La prese per le spalle,
stringendola leggermente.
'Cosa
sta succedendo? Cosa ti sta succedendo?'
Elle
emise un verso strozzato, crollando sulla schiena mentre lui la
guardava inorridito. La prese per le braccia, facendola distendere
sulla schiena. Elle gli prese un polso, stringendolo con una forza
inumana, gli occhi che non lo abbandonavano, terrorizzati.
'Sono
una mutante. Sto mutando.' Sussurrò lei, con tono
confuso, senza
smettere di stringergli compulsivamente il polso. Lui la
guardò,
cercando un modo per farla calmare.
'Lo
so.Le tue analisi...'
'Mi
dispiace tanto, avrei voluto....'
'Pensavamo
di averti persa.'
La interruppe
lui, senza lasciare la presa sulle sue braccia, scivolando
lentamentesul pavimento ghiacciato di quel luogo oscuro. Elle, senza
pensarci, appoggiò il viso sulle sue gambe, i denti stretti
per
trattenere un singhiozzo. Steve le accarezzò i capelli,
cercando di
confortarla.
'Giuro
che non ho paura.'
'Ti
sveglierai fra poco, ne sono certo.'
Sussurrò lui piano, cercando di tranquillizzarla. Elle
tremava come
una foglia. 'Ti tireremo fuori da qui...
C'è Stark, e la
dottoressa Cho...'
Elle
alzò il viso stremato, guardandolo, anche se non poteva
realmente
vederlo in quel buio totale. Lui le sorrise, passandole il pollice
sulla guancia. Abbassò un poco lo sguardo, preoccupato, e
poi le
diede un goffo pizzicotto. 'Così sai
che non stai
sognando. Sei viva.'
Elle
sorrise leggemente, riabbassando la testa, rannicchiata come un
animale addomesticato. Respirò profondamente.
'Tu
sai dove siamo?' Chiese
lui in
un sussurro.
'Nella
mia testa, temo. Non riesco a controllare i miei poteri...'
Lui
la strinse al petto per non guardarla negli occhi. 'Quindi
è questo, il tuo potere.'
Elle
ebbe uno spasmo.
'E'
quello che so fare. Io posso manovrare le menti. Leggere il
pensiero...'
Ebbe uno spasmo più
forte. '...E' solo una parte.'
Sentì
che la ragazza stava perdendo consistenza, fra le sue braccia.
'Ci
sarai al mio risveglio?'
Supplicò lei, guardandolo spaesata. Lui annuì,
senza sapere cosa
dirle per farla calmare. Lei fece un respiro strozzato, tenendosi una
mano sul petto. 'Probabilemente questo non
è nemmeno
reale.'
'Io
so che è reale.'
Sussurrò lui.
'Io sarò li, quando ti sveglierai. Ti
aspetto per cena.'
La rassicurò, guardando impotente mentre Elle perdeva il
contatto
con la realtà, stremata. Lei si accasciò su di
lui, con un sospiro
profondo, mentre anche lui sentiva di essere vicino al risveglio.
'Non
è nulla, non è nulla. Anche se sento di annegare,
non è nulla.'
~
Il
viso di Elle era viola.
Non
come una persona che rischia il soffocamento. Nemmeno come una
persona prossima al congelamento. Le labbra bluastre erano immobili
in un sorriso rilassato, le ciglia chiare che accarezzavano gli
zigomi sporgenti.
Immobile
sul lettino, le braccia distese lungo il busto, il battito quasi del
tutto assente ed il petto immobile, era quanto di più stano
e
meraviglioso Steve avesse mai visto.
Era
viva: gli aveva parlato. Il messaggio lo aveva
colpito come
una stilettata dritto nel cervello, e vederla così stremata
e
spaventata lo aveva fatto sentire inutile. Ma era viva.
I
capelli sembravano ancora più chiari del solito, e senza
accorgersene si ritrovò a scostarglieli dal viso sudato.
Samuel
entrò nella stanza, ancora vestito e con le chiavi della sua
auto
fra le mani. "Come sta?" Chiese, avvicinandosi al lettino.
Ebbe un sussulto, guardando la ragazza nel suo colorito insolito.
"E'
normale che sia di questo colore?" Chiese, spostando lo sguardo
su Steve.
Questo
si appoggiò con uno sbuffo allo schienale della sedia,
scrutando il
viso della donna incoscente di fronte a lui. "Penso di si."
Ammise soltanto, guardandola concentrato.
"Cosa
diavolo sei, Elle Selvig?"
Fury
girò sulla sua sedia di pelle scura, guardando attentamente
l' ex
agente Romanoff, seduta davanti a lui con espressione assente.
“Quindi,
abbiamo a che fare con una nuova mutante.”
“Tu
sapevi...” Fury appoggiò i gomiti alla scrivania,
le mani giunte
davanti al viso. Fece un secondo di pausa, valutando la sua risposta.
“Sospettavo.”
Natasha
lo guardò di sottecchi, mentre Fury scriveva qualcosa con la
sua
calligrafia minuta sulla cartella di Elle.
“Quello
che mi interessa, è che non sia pericolosa.”
“Non
sappiamo nemmeno se si sveglierà.”
Sussurrò Natasha, passandosi
una mano sugli occhi stanchi. “Ormai è quattro
giorni che non dà
risposta ai test.”
“Stark
e la dottoressa Cho stanno lavorando notte e giorno per capire come
aiutarla.” Fury cercava di essere rassicurante, senza
successo. “Il
mio problema è: quando si risveglierà,
sarà pericolosa? Potremo
controllarla?” Natasha lo guardò gelidamente.
“E'
Elle.”
“Sei
sicura che sarà Elle quella che si alzerà da quel
letto?” Fury
unì gli indici delle due mani davanti al viso, scrutandola.
“Sappiamo
che Elle ha poteri da quando è entrata nel radar
S.H.I.E.L.D.. Mi
chiedevo solo cosa tu stessi aspettando a chiederle di aggregarsi a
noi.”
“Mi
piace giocare a carte scoperte.”
“Questa
mi è nuova.” Commentò esasperata
Natasha. “E comunque, dubito
che Elle voglia mettersi un costume ed andare in giro ad esibirsi in
trucchetti solo perché tu glielo chiedi, Nick
Fury.”
“Per
questo supponevo che glielo avresti chiesto tu, Vedova.”
Natasha
sospirò. “Perché credi che glielo
chiederò?”
Fury
non rispose, guardando la donna seduta di fronte a lui e la
cartelletta che le aveva messo di fronte. Natasha, seduta dall'altro
lato della poltrona, prese la scheda e le diede un'occhiata veloce,
senza soffermarsi sulla foto della sua amica.
"Assumendo
che i parametri che mi chiedi siano gli stessi di quando cominciai a
valutare i soggetti per il primo progetto Avengers, Elle non sarebbe
idonea. Scarse informazioni sulle sue capacità, che lei
stessa non
utilizza al massimo della loro forma. Affiliazione dubbia. Sai che
Elle pensa con la sua testa, non si farà manipolare da
nessun
politicante e non è nemmeno una spia. E'...è
Elle, signore."
Natasha sorrise stancamente. "Ma ora ci occupiamo di inumani.
Abbiamo mutanti, alieni, androidi..."
Fury
strizzò l'occhio sano. "Non siamo più un servizio
di
Intelligence, più un servizio di vigilanza..."
Nat
annuì. "In base a questo, si può proporre ad Elle
di unirsi
alla squadra, ovviamente solo nel caso si svegliasse e si
ristabilisse in maniera adeguata." La rossa sottolineò
l'ultima
parte, guardando Fury di sottecchi. L'uomo si rilassò sullo
schienale della poltrona, sorridendo enigmaticamente.
"Rogers
ancora non sa?"
"Temo
abbia qualche sospetto, ormai. Sono piuttosto intimi."
Rogers
non aveva mai lasciato il capezzale della sua amica negli ultimi
quattro giorni, se non per andare a farsi una doccia veloce. Aveva
mangiato al piccolo tavolo della stanza, ogni tanto in compagnia di
Samuel. Aveva rifiutato di uscire a prendere aria, o di andare a
dormire su qualcosa che non fosse la sedia di plastica per le visite.
Natasha sorrise fra sé e sé, sperando di poterlo
raccontare presto
ad Elle. Sarebbe stata imbarazzatissima, sicuramente, ma era la prova
schiacciante che Steve teneva a lei.
"Le
voci su quei due vanno dal tentato omicidio al desiderio di comprare
un villino a schiera in comunione dei beni..." commentò
Fury,
appoggiando il volto sulla mano, il gomito pigramente puntellato sul
bracciolo della sedia. "Il potere di Elle potrebbe essere molto
prezioso per noi... potrebbe aiutarci a gestire Rogers."
Natasha
non fece in tempo a commentare la frase di Fury che Steve
entrò con
area funerea nella stanza."In che modo Elle Selvig dovrebbe
servire ai tuoi scopi, Fury?" La voce di Rogers tagliava come
una lama affilata. Guardò il suo ex capo con sguardo gelido,
la
mascella contratta dalla rabbia. Fury sospirò, tentennando
un
secondo.
Si
avvicinò con passo marziale, sbattendo il pugno sul piano di
vetro
della scrivania di Fury. Samuel, dietro di lui, cercò di
mettergli
una mano sulla spalla per fermarlo, restando alla fine fermo contro
lo stipite della porta. Natasha si passò le mani sulle
tempie,
massaggiandole con movimenti circolari, lo sguardo stanco.
"Elle
Selvig ha dei poteri inumani."
Natasha
lo sputò fra i denti, alzando lentamente lo sguardo in
quello
dell'amico.
"A
parte quello di far infuriare San Rogers?"
Samuel
sorrise da solo alla sua battuta. Steve rimase immobile, gli occhi
in quelli dell'amica.
"Elle
legge nel pensiero. Ed è telecinetica." sputò
fuori dai denti
la russa. "E' una cosa che sa controllare. Te lo voleva dire,
molte volte, ma..."
Steve
emise un mugugno strozzato. "Lo ha appena fatto."
Natasha
annaspò nel suo stesso respiro. “E'
sveglia?” Chiese, alzandosi
di scatto. Steve negò con il capo. “Mi ha parlato.
Nella mia
testa. Quasi come...”
“Wanda...”
Terminò una voce calda, alle loro spalle. "Elle è
capace di
una connessione di diverso genere." Visione entrò nella
stanza,
in un luccichio dorato. "Inoltre è l'unico essere
nell'universo
conosciuto capace di manipolare a livello cellulare la materia. Non
riesco a capire l'origine del suo potere, e lei non lo controlla
ancora in maniera cosciente." Visione sorrise a Steve, mentre
Natasha si copriva il volto con una mano. "Quando manipola la
mente, lo fa ad un livello inconscio, fisico."
Natasha
lo guardò, sospirando.
“Neurotrasmettitori?” Visione annuì.
"Tu,
sapevi?" chiese Rogers guardando l'androide, la voce secca. Gli
occhi lampeggiavano di angoscia. "Quanti sapevano?"
Natasha
annuì, e Samuel si grattò la nuca. "Sospettavo."
Visione
sorrise ancora "Io e Wanda ne abbiamo parlato spesso con Elle,
ed abbiamo approfondito ed esaminato con molta attenzione le
capacità
della nostra amica. Per avere un quadro più completo dovrei
accedere
a tutti i suoi referti medici dalla nascita, e parlarne con il dottor
Selvig perché-" Samuel gli fece cenno di interrompersi,
mentre
Steve andava verso la parete finestrata, con una mano fra i capelli a
spazzola, lo sguardo adombrato. "Dannazione..."
"Le
mie supposizioni si sono dimostrate vere nel momento in cui si
è
alzata la temperatura, ed il suo DNA ha iniziato a mutare."
Concluse Visione, impermeabile al clima generale che stava diventando
teso.
Natasha
fece un passo verso il Capitano, un braccio teso per raggiungerlo.
Steve si voltò, scartando la sua presa. Lei lo
guardò, ferita.
"Rhodes?" chiese
infine lui con un verso strozzato. "No, ti prego,
Rhodes non ne sa nulla!" commentò Natasha, con un tono di
voce
irritato "Ti pare?"
Steve
si voltò verso l'uomo con la benda sull'occhio.
Ricordò quando
Clint ed Elle avevano espresso il loro giudizio su Fury, su come
aveva sostenuto il contrario.
"Fury,
tu hai ancora dei segreti. Questo non mi piace."
"Sono
una spia, ma sono solo il custode di questo segreto. Tutti sanno che
era mio desiderio che Elle si unisse agli Avengers." si alzò
l'altro, allargando le braccia. "Ho solo sfruttato la sua
momentanea invalidità e quindi la sospensione per
avvicinarla a voi.
Lei mi ha chiesto di mantenere il riserbo sulla sua natura."
"Sei
un manipolatore."
"Nessuno
potrebbe manipolare la mente di Elle Selvig." Visione fece uno
sguardo incredulo "Dopo di me, è la forza mentale naturale
più
potente del quale disponiamo. Dubito che potrebbe essere
manipolabile, anche in questo suo momento di debolezza fisica."
Steve
lo guardò arcigno, girandosi lentamente. Respirò
un secondo,
cercando di calmarsi. "Intendo che Fury l'ha plagiata per farle
prendere la decisione che voleva lui. O peggio, ha eseguito i suoi
ordini con molto scrupolo."
"No,
no... Steve!" Natasha si sentiva sprofondare, mentre lo prendeva
per il braccio. "Non ci pensare nemmeno per un secondo! Elle non
ha mai usato i suoi poteri su di te, o per essere tua amica."
"Come
puoi dirlo!" sbraitò il Capitano contro la sua
vice "Non
possiamo saperlo!"
"Io
lo so." ammise Natasha, fronteggiandolo. "Io la conosco."
"Me
lo avrebbe detto prima...Se non le fosse tornato utile il contrario."
commentò amareggiato lui.
"Per
farti pensare esattamente quello che stai pensando?"
Elle,
con i capelli malamente legati in una buffa coda alta, le guance
arrossate dalla febbre e la divisa dell'infermeria, rimase sull'uscio
della stanza. La pelle era tornata diafana, ma gli occhi rimanevano
di un azzurro accecante. Steve e Natasha si voltarono, la rossa
ancora attaccata al braccio dell'uomo con le unghie.
“Non
c'eri, quando mi sono svegliata.” Ammise piano lei, gli occhi
bassi. “Non ho mai voluto nasconderti questo. Sei circondato
da
eroi. Volevo che mi vedessi come una persona normale Almeno
tu..”
La ragazza si strinse nelle spalle, avvolta nella grossa felpa rossa
che aveva messo per tenersi al caldo, probabilmente di qualcun altro.
Le arrivava alle ginocchia, coprendo i pantaloni del pigiama.
“Mi
dispiace di averti causato un dispiacere.” Ammise, gli occhi
leggermente lucidi. Rimase a guardarlo dritto negli occhi per un
secondo, ignorando tutti i presenti, le labbra dischiuse come se
volesse aggiungere altro. Schioccò la lingua, voltandosi.
Sparì
dietro Clint, che li guardava tutti da dietro di lei, le sopracciglia
aggrottate.
“Sveglia
da cinque minuti e già nei casini. Questo
è un record anche per
Elle.” Borbottò, mentre Natasha gli
passava accanto con uno
spintone, seguendo l'amica.
xXx
Eccoci alla fine
anche di questo capitolo!
E' uno dei primi
che sono stati scritti, e forse per questo non è mai stato
davvero all'altezza delle mie aspettative. Mi aspettavo molto di
più da me stessa - sono una persona molto pignola. Era
arrivato però il momento della pubblicazione, quindi mi sono
data alle ultime modifiche e poi ho deciso di buttarmi e pubblicarlo.
Importante: La canzone cantata da Natasha è "Riverside" di
Agnes Obel.
La canzone che cita Elle è "Is there anybody out there?" dei
Pink Floyd. \m/
Elle si
è svegliata, ma ancora non si sa se sia un bene o no. Non
stava meglio quando era incosciente?
Grazie a Delta,
come sempre, per accompagnarmi in questa avventura. Sei la recensitrice
migliore che un'autrice possa desiderare, giuro! Non vedo l'ora di
sapere cosa ne pensi di questo capitolo, è stato veramente
complesso da scrivere, e vedrai il prossimo! E poi voglio sapere come
va a Deltaworld.
Rilancio un
appello pro recensioni: anche solo per un saluto, un'opinione veloce,
un no secco. Fatemi sapere cosa vi piace, cosa non vi piace, se volete
vedere Elle impalata in giardino, oppure se Rogers vi ha fatto venire
l'orticaria..
Una recensione salva un autore.
Sperando di
avervi intrattenuti anche oggi, ci vediamo Mercoledì 21
Ottobre per il prossimo capitolo, Innocenza.
Eve
|
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Capitolo 8 *** 08.Innocenza ***
Ehilà!
Intanto, grazie a
tutte le meravigliose persone che hanno inserito la storia fra le
preferite e le seguite. GRAZIE, vecchi e nuovi.
Spero che vi
piaccia anche questo capitolo, pubblicato addirittura in anticipo.
Cioè, non accade tutti i giorni! Ci vediamo in fondo al
capitolo, anche se dubito che vorrete ancora vedermi alla fine. :P
Buona lettura
Eve
ATTO
8: Innocenza
"I
Just don't care if it's real
That
won't change how it feels."
MUSE
Elle
stava seduta sul lettino che l'aveva ospitata per ben quattro giorni
e mezzo, dondolando pigramente le gambe, le cuffiette dell'iPod
infilate nel profondo dei padiglioni auricolari. Stark la guardava
curioso da poco distante, le maniche della maglietta del tour del
1975 dei Led Zeppelin sollevate fino ai gomiti e le
sopracciglia aggrottate, mentre la dottoressa Cho le puntava una
piccola torcia negli occhi, guardandone il riflesso pupillare. Elle
sospirò.
“Due
giorni e dodici ore dopo la dichiarazione del decesso, eccoti
qua.”
Stark si avvicinò, tenendo una penna fra le mani e
muovendola con la
punta delle dita. “Hai battuto ogni record, Ikea.”
Elle
lo guardò assorta, senza togliere gli auricolari, mentre Cho
lo
fulminava con lo sguardo. “Lasciala stare.”
“Non
avrà contratto danni celebrali, vero? Oppure Captain
Pilates
potrebbe decidere di farmi la pelle. Per somatizzare il dolore della
sua perdita, sai.”
Le
puntò contro la punta della biro, guardandola.
“Ricordi cosa è
questa?”
“Smettila
di prenderla in giro, Stark.”
Elle
alzò gli occhi al cielo, facendo appello a tutta la sua
pazienza.
“Ehi,
signorina!” Stark fece mulinare una mano davanti al viso
della
svedese, insofferente alla sbuffo della dottoressa Cho.
“Ricordi
chi sono io?”
Elle
si tolse una cuffietta con un gesto secco. “Mi piacerebbe
davvero
tanto non riconoscerti, Stark, ma purtroppo sei l'unico uomo che
ancora porta il pizzetto a quel modo.” Elle
sospirò, la testa
piegata di lato. “A parte i tuoi ex amici Narcos, ma dopo
tutte le
armi che hai venduto loro, non mi stupisce che vogliano omaggiarti
imitandoti.”
La
Cho ebbe un sussulto, nascondendo una risata dietro alla mano. Stark
alzò un sopracciglio, facendo un passo indietro.
“La
prosopagnosia è un problema serio. Non
c'è nulla da ridere.”
Con
uno scatto, Stark abbatté il pugno chiuso contro la coscia
della
ragazza, le sopracciglia aggrottate. Elle ebbe un sussulto per la
sorpresa, mentre Cho indietreggiava con gli occhi sgranati. La biro
era piantata per sei centimetri abbondanti della sua coscia,
“Che
stai facendo?” Elle abbassò lo sguardo, gli occhi
sgranati.
“Il
processo deve essere stato a dir poco distruttivo. Non sente
più il
dolore.”
“Sicuramente
è temporaneo.” Commentò la Dottoressa,
fulminando Stark con lo
sguardo e avvicinandosi con uno stetoscopio. Elle si strinse nelle
spalle, guardando la Biro infilzata con espressione aggrottata. La
prese nel pugno, mentre la dottoressa dietro di lei sollevava felpa e
maglietta e le appoggiava il recettore gelido sulla schiena,
provocandole un brivido. Elle la estrasse con una smorfia, guardando
il grumo di sangue che penzolava fra la penna e la ferita, di un
colore scuro. La Cho seguì il suo sguardo.
“Il
tuo sangue è quasi del tutto deossigenato. Sei rimasta senza
respirare per quasi due giorni.” Elle la fissò
sconvolta, le
labbra socchiuse e la biro insanguinata ancora a mezz'aria. Stark si
avvicinò, tenendo una pinza con della garza imbevuta di
disinfettante in una mano e una grossa forbice per tessuti
nell'altra. Le prese delicatamente la coscia con una mano,
tagliandole una porzione di pantaloni della tuta.
“Cosa
ti rende così assorta?” Chiese, fingendosi
disinteressato,
appoggiando le forbici sul lettino e tamponando con attenzione il
foro nella coscia della ragazza. Elle, tenendosi puntellata sulle
braccia, i palmi contro la superficie di carta del lettino, si
strinse nelle spalle.
“Non
fare l'offesa. Sapevo di non farti male.”
Elle
strinse le labbra, gli occhi che non abbandonavano i suoi. Stark
stirò la bocca in una smorfia, fissando con insolito
interesse il
ginocchio della ragazza, la forbice pinza a mezz'aria.
“Okay,
c'era una minima possibilità che io mi sbagliassi, ma non
è
successo.”
Elle
gonfiò le guance, pronta ad urlargli contro. Stark
lanciò la pinza
sul carrellino lì a fianco.
“Esagerata!”
Alzò le braccia, guardandola con un ghigno.
“Vedrai che al
ghiacciolo sotto steroidi passerà presto
l'arrabbiatura.”
“La
vera domanda, Stark, è quando passerà ad
Elle.”
Maria
entrò in uno sbuffo di profumo, l'uniforme di nuovo
perfettamente
stirata e i capelli stretti in una crocchia severa. Solo gli occhi
tradivano una certa stanchezza dovuta alla settimana che si stava
concludendo.
Stark
le sorrise leggermente, dirigendosi verso la scrivania. Elle prese
con una mano la garza che lui le passava, fissandola con dello scotch
medico alla gamba, senza degnarli di una risposta. Scese dal lettino
con un salto, andando verso la porta, il passo leggermente pesante.
Maria la guardò un attimo, leggermente in ansia. Stark fece
un gesto
vago con le mani.
“Non
vedo perché fare così tante storie
quando-”
“Taci,
Stark.” Esclamò secca la dottoressa Cho, sedendosi
pesantemente
sulla poltrona e abbandonando il capo all'indietro, facendo scorrere
la sedia sulle rotelline con un cigolio.
-
"As
strong as you were, tender you go...I'm watching you breathing for
the last time..."
Il
calcio colpì il letto abbastanza forte da farlo cozzare
contro la
parete dietro l'anonima struttura in legno scuro.
Crollò sul materasso di schiena, le mani a colpire il viso.
Per
un secondo, pensò di chiamare suo padre. Poi scosse la
testa,
coprendosi gli occhi con le mani.
"A
song for your heart, but when it is quiet, I know what it means and
I'll carry you home."
Afferrò
un cuscino, urlandoci dentro, fuori di sé dalla rabbia,
agitando le
gambe sollevate, tutto il peso appoggiato sul bacino.
Ci
urlò dentro fino a quando non le venne da tossire,
lanciandolo poi
dall'altra parte della stanza contro l'amica che lo prese al volo, e
restando a fissare il soffitto.
"...And
they were all born pretty in New York City tonight, and someone's
little girl was taken from the world tonight, under the Stars and
Stripes..."
“Maria,
ti prego. Manca solo James Blunt...”
Maria
sogghignò, sedendosi accanto a lei sul materasso, le dita
che
scioglievano la crocchia nella quale aveva stretto tutti i bei
capelli scuri.
“Allora,
devo procurarmi una vasca di gelato? Una tisana?” La mora
diede un
colpetto alla coscia della ragazza, che si era rannicchiata in
posizione fetale.
“Vuoi
che contatti la Culver University?”
“Lo
avete chiamato?” Sussurrò Elle, strizzando gli
occhi. Interruppe
Maria prima che questa potesse rispondere, facendo un gesto
sbrigativo con la mano. “No, non penso di volerlo sapere. Mi
basta
un rifiuto al giorno, grazie...”
“Gli
abbiamo detto che avevi contratto un virus infettivo, e che gli
avremmo fatto avere tue notizie se la situazione fosse
cambiata...”
Elle la guardò da dietro le sottili dita delle mani.
“Sembrava...
preoccupato.” Commentò la
donna, sorridendole leggermente.
“Mi ha detto di avvisarlo appena la situazione fosse
mutata.”
Elle
sospirò. “Non dovrei aspettarmi nulla di
diverso.” Rotolò sulla
schiena pigramente. “Alla fine, non gli sono mai andata a
genio.”
“Non
poteva capirti.”
“Aveva
paura.” Elle sbottò, picchiando un pugno sul
materasso. “Era
terrorizzato!”
Le
due donne si fissarono, in silenzio. Ad Elle sembrava che la sua
mente potesse fare abbastanza confusione per riempire tutta la
stanza.
Non
era colpa sua se era nata così. Non capiva cosa ci fosse di
così
terribile in lei da portare tutte le persone ad allontanarsi,
terrorizzate, urlando al mostro.
Rivide
la faccia di Rogers, nell'ufficio di Fury, la mascella contratta e
gli occhi blu socchiusi in un'espressione delusa, e si
vergognò per
non averglielo detto subito.
Probabilmente
non sarebbero mai andati a cena. Avrebbero litigato ancora ed ancora,
e lei non avrebbe mai potuto prenderlo in giro perché lui
aveva
frequentato l'accademia d'arte. Non lo avrebbe più visto
fuori dal
suo ufficio, con il bicchierino in plastica del caffè
dell'ufficio,
a picchiettare con la punta del piede contro lo stipite. Non sarebbe
più scoppiata a ridere, vedendolo perplesso mentre lei
digitava
velocemente al portatile.
Elle
si passò le mani sul viso, mordendosi il labbro.
Probabilmente,
se lei avesse parlato subito, lui la avrebbe evitata. Perché
lei
poteva manipolarlo.
Bussarono
a alla porta. Elle alzò il capo, emettendo un mugugno.
Istintivamente
sperò che fosse Rogers, sollevandosi sul busto. Maria
sibilò un
Avanti poco convinto. Un ciuffo di capelli rossi,
illuminato
dalla luce che proveniva dal corridoio.
“Elle...”
La donna la guardò dall'alto, il viso infilato fra la porta
e lo
stipite.
Elle
sospirò, chiudendo gli occhi stanchi. Maria si
sdraiò su un fianco,
accanto alla bionda, facendo un gesto verso la rossa, che
entrò,
chiudendosi la porta alle spalle. Si fermò davanti al letto
con un
sospiro.
“Elle,
sono preoccupata-”
“Se
persino Natasha Romanoff è preoccupata, dovresti iniziare a
farti
delle domande, Elle.”
Natasha
fulminò Maria con lo sguardo, sbuffando. “Non sono
l'unica ad
essere preo-”
“Non
osare dire che Rogers è preoccupato. Non
osare.”
Elle la guardava dal basso, gli occhi accesi e la voce roca.
“Non
ha lasciato il tuo capezzale nemmeno per andare in bagno!”
Esclamò
Maria, scalciando le scarpe oltre il letto. Strinse fra loro le gambe
avvolte dai collant scuri, sfregando fra loro i piedi. Elle
sospirò.
“Questo
valeva forse prima che sapesse...”
“Sapesse
che non sei del tutto normale? Penso se ne fosse
già reso
conto.” Natasha entrò nel cono di luce diretta
della lampada del
comodino, un'espressione esausta e una vecchia tuta di ciniglia blu
buttata addosso.
Elle
sospirò, le mani a coprirle il viso. “Non fatemi
sperare. Vi
prego.” Le implorò. Natasha si sdraiò
accanto alla bionda,
guardando seria Maria. Questa annuì.
“Non
diremo nulla, allora.” Ammise la donna, accarezzandole la
testa.
“Non è importante, ora. Devi pensare a
riprenderti.” Maria
annuì.
“Non
devi distrarti dietro ad un bell'uomo. Devi pensare solo a stare
meglio.” Elle sospirò.
“Io
sto bene. Devo solo... Riprendermi. Ho sonno.” Si
sfregò gli occhi
con il pugno.
“River?”
Chiese stancamente, guardando Natasha. Questa le sorrise, annuendo.
“Stanno bene. Ora dormi.”
“Sono
un mostro, mi sono dimenticata di River...” La bionda
dondolò sui
fianchi su secondo, le mani ancora a coprirle il volto.
“Tutto
questo per star dietro ai cambi di umore di Rogers.”
Elle
si raggomitolò, dando le spalle a Natasha, che la
abbracciò da
dietro, guardando preoccupata Maria, che le appoggiò una
coperta
sulle spalle.
“Andrà
tutto bene, tesoro...” Sussurrò la donna,
guardando le amiche.
“Film
e maschera facciale?” Esclamò poi la rossa,
appoggiando il mento
sulla spalla di Elle. Maria scoppiò a ridere, annuendo.
“E una
bottiglia di vino.”
-
Steve
passò il giorno seguente a osservare gli allenamenti che non
ingranavano.
Wanda
lo fissava arcigna. Visione fissava il vuoto fuori dalla finestra.
Natasha stava sul ring, raccontando la storia del Soldato d'Inverno a
Rhodes. Samuel avvitata e svitava più volte la stessa vite
su una
delle due ali meccaniche.
Sembrava
che un manto di tristezza coprisse tutto lo stabile. Passando, Steve
era sicuro di aver visto Maria che scarabocchiava mestamente dei
fogli, nel suo ufficio. Fury se ne era andato dopo la loro
discussione, il giorno prima.
“Che
allegria, gente.” Stark fece il suo ingresso nella sala,
perfettamente vestito con un completo blu, la giacca aperta sul
petto, e una maglietta degli Ac/Dc.
“Posso darvi la buona
notizia che Elle Selvig è perfettamente in salute e non ha
riportato
danni dal suo coma. I supi esami sono curiosi, ma non presenta nessun
deficit.”
Natasha
sospirò, portandosi una mano al petto. Wanda si sedette
vicino a
Samuel, decisamente sollevata. Anche Steve sembrò ritornare
a
respirare, mentre Stark li guardava.
“Allora,
siete pronti a tornare nel mondo di Oz, ora che la vostra collega si
è ristabilita?” Chiese poi, appoggiandosi al ring.
Natasha lo
guardò, perplessa, mentre Steve fece un'espressione
scocciata. Non
voleva dare soddisfazione a quel megalomane, ma cedette, visto che
aveva appena salvato l'amica. “Spiegati.”
“Con
piacere.” Commentò l'uomo. "Tu sei Dorothy."
Indicò Steve.
Samuel
e Rhodes scoppiarono a ridere, mentre Visione li guardava. "Dorothy?"
Steve
fece una smorfia, guardando l'androide.
"Il
Meraviglioso Mago di Oz. Un racconto per bambini."
contestualizzò, guardando gli occhi dell'amico. Poteva quasi
vedere
questo mentre scaricava le informazioni a riguardo da Internet.
"Allora,
guardiamo bene cosa ho davanti..." Stark lo indicò con un
dito,
ridacchiando.
"...un
biondissimo Dorothy di quasi due metri;"
Indicò
Rhodes "...un vecchio leone spelacchiato, in un'armatura rubata
da me;"
Si
voltò verso Visione e Samuel. "...un paio di scimmie
volanti,
delle quali una androide e l'altra con un terribile gusto in fatto di
occhiali da sole;"
“Ehi,
gli occhiali di Falcon sono una produzione limitata!”
Commentò
offeso Samuel, smettendo di colpo di ridere.
"...
un'inquietantissima strega dell'est in pieno PTSD... ah, e poi ci sei
tu, Natasha. Sempre bellissima." Natasha lo guardò arcigna,
mentre Wanda piegava la testa di lato, le sopracciglia aggrottate sui
begli occhi scuri.
“...
adesso avete nei pressi anche una spaventapasseri telepate che ha
passato metà dei suoi respiri a dimostrare di essere
intelligente.
Di avere un cervello. Non mi farei sfuggire
l'occasione.”
Stark fece l'occhiolino a Steve, che voltò la testa,
indignato.
"...Dovresti
essere contento, Steve, sembrate appena scesi dal palco di Wicked.
Manca all'appello solo l'uomo mezzo di latta." Stark si stava
ammazzando cercando di trattenere le risate, mentre Samuel guardava
Steve, sperando che questo non perdesse la calma. Lui stesso doveva
sbollire un po' l'idea di essersi appena sentito dare della Scimmia
Volante.
“Vedrai
che troveremo Barnes in tempo per la prima. Dovresti fare la
pace
con Selvig, lei lo ha già trovato una volta, non
sarà difficile
farlo di nuovo.” Concluse il miliardario, indicando Steve con
l'indice.
Il
gelo scese nella stanza.
-
"Don't
listen to a word I say..."
Elle
stava sulla scala antincendio, il vecchio maglione beige che la
teneva ad una temperatura quasi normale, le gambe sottili avvolte nei
fouseaux neri ed ai piedi le vecchie clarks scucite. Teneva la
piccola chitarra acustica appoggiata sulle cosce, strimpellando
pigramente.
"...The screams all sound the same..."
Era
una canzone che aveva sentito recentemente, e la stava canticchiando
senza troppo interesse, con la voce più bassa di mezza
ottava,
guardando le corde che pizzicava con la mano destra vibrare.
"...Though the truth may vary..."
Steve
uscì spingendo il maniglione antipanico con entrambe le
mani,
abbastanza forte da far sbattere la porta contro il muro. Samuel,
dietro di lui, lo trattenne per il braccio.
"...This
ship will carry our bodies safe to shore..."
Elle,
presa dai suoi pensieri, non fece caso ai due che la guardavano dal
basso, attraverso la grata degli scalini. Samuel cercò di
mimare il
gesto di calmarsi a Steve, con le mani. Invece l'uomo
osservò un
secondo la ragazza, la mascella contratta.
"...You're
gone, gone, gone away...I watched you disappear...." Elle
cambiò accordo, osservando il cielo che si scuriva sopra le
cime
degli alberi sopra la sua testa, le nuvole che si raggruppavano poco
lontano. Entro poco, sarebbe scoppiato un temporale.
"...All
that's left is the ghost of you. Now we're torn, torn, torn apart,
there's nothing we can do...." Canticchiò con voce
limpida,
le ciglia chiare che sfioravano le guance arrossate.
"...Just
let me go we'll meet again soon...Now wait, wait, wait for
me...Please hang around..."
Steve
prese le scale a passo di marcia, seguito dal povero Samuel che
cercava di prenderlo per il braccio. Inchiodò davanti ad
Elle, sul
pianerottolo, osservandola poco convinto, le spalle rigide, i tendini
del collo leggermente sporgenti contro la t-shirt attillata bianca.
Elle alzò lo sguardo, un sopracciglio alzato. Era chiaro che
fosse
poco lucida, lo sguardo leggermente arrossato ed assente. Si strinse
nelle spalle.
"...I'll see you when I fall asleep."
Intonò,
concludendo la canzone con un accordo stonato. Steve la
guardò,
incrociando le braccia.
“Tu
dovevi uccidere Bucky.”
Elle
annuì.
“Che
altro non so? Oltre al fatto che sei una mutante, che hai poteri
telepatici e che dovevi ammazzare il mio migliore amico?”
Elle
si irrigidì, la chitarra appoggiata in orizzontale sulle
gambe
sottili. Alzò lo sguardo in quello dell'uomo.
“Suono la chitarra,
il mio gruppo preferito sono i Pink Floyd.”
Steve
lasciò vagare lo sguardo verso l'orizzonte, respirando
profondamente.
“Intendevo
qualcosa che mi potesse interessare.”
“Mi
pareva ti interessasse.”
“Prima
di sapere che mi avevi mentito. Prima di sapere che dovevi uccidere
Bucky.”
“Si,
dovevo uccidere Bucky.” Lo
scimmiottò la ragazza,
appoggiando la chitarra allo scalino.
“Ma
non lo hai fatto.” Samuel si mise fra i due, le braccia
spalancate
come se temesse che si accapigliassero. La tensione era palpabile.
“Visto? E' tutto a posto.”
Samuel
la guardò con la coda dell'occhio, voltandosi leggermente,
la bocca
socchiusa. “Non l'hai ucciso, vero, Elle?”
Elle
si alzò schioccando la lingua. “Non è
affar vostro.”
Samuel
sospirò, mentre Elle lo superava senza emettere suono, la
chitarra
tra le mani. Steve afferrò la ragazza per il braccio, quando
Elle
provò a passargli vicino. “Quello che succede a
Bucky è affar
mio.”
“Ma
non è te che è venuto a cercare. O
sbaglio?” Elle lo guardò,
assottigliando gli occhi. “Non è tornato dal suo gentilissimo,
ottimo miglior amico.”
Steve
la lasciò, come se lei lo avesse scottato. “Non
devi essere stato
un amico così migliore, se non
è tornato da te.” Elle fece
un passo contro di lui, guardandolo con astio dal basso del suo metro
e settantacinque, il mento alzato per affrontarlo e gli occhi azzurri
puntati in quelli dell'uomo.
“Non
sei un bravo amico, Steve Rogers. Non sei
una brava
persona. Ti giudichi migliore degli altri. Ma non sei diverso da
quelli che tanto ti disgustano.” Si alzò sulle
punte, sussurrando
contro le sue labbra. “Sei un mostro tanto quanto lo
sono io.”
Samuel
aprì la bocca, sconvolto, mentre Steve e Elle si
fronteggiavano, i
visi a pochi centimetri. Steve le guardava le labbra con gli occhi
blu, la fronte aggrottata, mentre Elle lo fissava negli occhi, il
labbro inferiore che tremava in maniera impercettibile.
Steve
si avvicinò lentamente, boccheggiando senza sapere cosa
ribattere.
Improvvisamente, Elle fece un passo indietro, come se si fosse
scottata con un oggetto arroventato, le spalle strette e le braccia
aperte rivolte contro l'uomo.
“Io.
Non. ho. Ucciso. James. Barnes.” Sillabò
la ragazza,
voltandosi di scatto contro Samuel, che ebbe un sussulto. La voce
della giovane era gelida.
“E
se avete pensato anche solo per un secondo che avrei
potuto...”
Elle gli passò di lato, mentre Steve guardava nel vuoto,
senza
respirare. “...Vuol dire che non sapete nulla, di
me.”
Fece
un paio di passi lungo le scale, il respiro mozzato.
“A
ben pensarci, Rogers, tu non sai nulla e basta.” Elle non si
voltò,
dandogli le spalle, mentre i due uomini la fissavano senza emettere
un fiato.
“Non
sai nulla del buio... Non sai nulla del dolore.. Tu sei sempre e solo
migliorato, no? Sempre buono, sempre gentile... Dimmi,
Rogers...”
Gli
occhi di Elle avevano assunto una tinta cerulea accesa, mentre dietro
di lei il sole tramontava. I due non potevano vederli, brillare di
quella luce azzurra innaturale. Il vento fece muovere gli alberi,
sibilando. La giovane chiuse gli occhi, senza rilassare le spalle, le
braccia abbandonate lungo i fianchi.
“Ogni
tanto penso che forse sei tu, quello che porta la maschera
più
pesante di tutti, qui dentro.”
xXx
Eccomi!
Spero di evitare il
linciaggio. Purtroppo, le cose semplici e carine a noi non piacciono!
Serve un pò di movimento, e ne avrete, oh se ne avrete.
Aspettatevene delle belle!
Non penso di dover
aggiungere altro riguardo al capitolo, che parla già da
sé. Non vedo l'ora di leggere la prossima recensione di
Delta, dove presumo mi insulterà in aramaico per poi
bandirmi a vita da DeltaWorld! Riesco a farti piacere il Capt, per poi
maltrattarlo così! Sono proprio una Serpeverde!
Prossimo
aggiornamento sempre MERCOLEDI' 28. Anche se, come oggi, potrei sempre
aggiornare leggermente in anticipo. Il capitolo è qui, nel
mio computer, che aspetta solo di essere adulato per uscire dalla
cartella e piombare su EFP.
Come sempre,
recensioni, commenti e suggerimenti sono sempre ben accetti.
A presto,
Eve
|
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Capitolo 9 *** 09. Verità ***
Questo
capitolo è IL capitolo, ed è dedicato come
promesso alla
meravigliosa Delta98 e, soprattutto, alle sue meravigliose
recensioni.
>
ATTO
9: Verità
"You
shuld never come this way,
to
test the hands of fate.
You
don't belong here."
ALTER
BRIDGE
Aprile
2015
La
stanza fatiscente puzzava di acqua ferma. Le vecchie assi in legno
stavano marcendo, e grossi buchi si erano formati nelle pareti
sottili incrostate dall'umidità. Il soffitto esponeva ora la
struttura portante dell'abitazione coloniale, una volta ricca di
fascino e ricchezza, ora un guscio vuoto come l'uomo che l'aveva
abusivamente occupata.
Intorno,
aperta campagna per chilometri e chilometri, e solo qualche salice ad
interrompere l'orizzonte, ridotto ad una linea scura fra il verde
delle coltivazioni di tabacco e l'azzurro del cielo.
Dio
solo sapeva cosa aveva portato lì James Barnes. Nel profondo
sud
degli Stati Uniti, in Louisiana, a migliaia di miglia di distanza
dall'unico amico che lo aveva seguito docilmente nel nuovo secolo,
senza fare domande, chiedendo solo di restargli accanto. Il clima era
caldo, anche nella notte azzurrognola.
Elle
aveva guidato per giorni, in una vecchia berlina scura, il braccio
fuori dal finestrino per godersi quell'insolita aria calda che non le
apparteneva, il sedile accanto al suo pieno di carte e documenti e
mappe. Aveva parlato con molte persone, più o meno
collaborative, e
finalmente l'aveva trovato. In un moto d'orgoglio,
Elle aveva
pensato di essere veramente la migliore nel suo campo, l'unica che
era stata in grado di sbrogliare la matassa degli indizi confusi che
il Soldato d'Inverno aveva abbandonato dietro di
sé.
Ora,
stava a lei mostrare il frutto anni di studio in psicologia,
permettendole di uscire viva dal rifugio di un uomo vecchio di
cent'anni, riprogrammato come macchina assassina, pronto ad uccidere
nel caso si fosse sentito minacciato. Un lavoretto alla Freud,
avrebbe detto il suo professore. Un interessante modo per
suicidarsi, avrebbe detto invece Natasha.
Si
era aspettata una fiera in fuga, qualcuno che l'avrebbe subito
attaccata e che avrebbe messo alla prova cinque anni di durissimo
addestramento. Fury non la contava come uno dei pezzi importanti
della sua ormai disfatta organizzazione: era una pedina
sacrificabile.
Così
era entrata ricolma di buone intenzioni, ma con la beretta argentata
stretta fra le mani e le orecchie tese.
Nessun
pronostico avrebbe predetto in maniera esatta cosa sarebbe successo.
Tre giorni dopo, Elle stava seduta sul pavimento lercio di quella che
probabilmente era una sala da pranzo, aspettando. E non era sola.
Un
proiettile l'aveva colpita di striscio ad un braccio. Aveva una
fasciatura di fortuna, fatta con un pezzo della maglietta dell'uomo
che era con lei. L'uomo che avrebbe dovuto uccidere. L'assurda
situazione in cui era, prevedibile solo in minima parte, prevedeva
uno stallo alla messicana e un'alleanza con la macchina
assassina
meno assassina che Elle avesse mai conosciuto.
Fury,
quasi un mese prima, quando le aveva commissionato quell'assurda
caccia, era stato chiaro. "Se lo trovi e non accetta di essere
ricondotto al quartier generale, sparagli dritto in fronte e lascialo
li. Non possiamo permetterci colpi di testa. James Barnes è
pericoloso."
Quando
era arrivata alla fine della sua ultima pista, però, Elle
aveva
trovato solo un uomo spaventato a morte e sofferente. Un'ombra del
Soldato d'Inverno tanto paventato dal comandante. Non una macchina
assassina, ma una vittima innocente.
Aveva
passato le prime ore cercando di convincerlo che lo S.H.I.E.L.D. non
esisteva più, che l'Hydra era morta con lui; Barnes aveva
ghignato
in modo grottesco, negando che ciò fosse possibile, seduto
in modo
rilassato nel pavimento di quella stanza in cui lei si trovava ora.
Le aveva detto di andarsene, che era pericoloso, che non avrebbe mai
dovuto cercarlo. La Svedese aveva cercato di convincerlo a seguirla,
arrivando a minacciarlo con una pistola, senza risultato.
Poi,
Elle aveva scoperto che Bucky aveva ragione.
Erano
accerchiati: qualcuno aveva seguito la sua pista, probabilmente a
causa sua, di Elle, che dava per scontato di non riuscire a trovare
un fantasma. Talmente per scontato da non aver coperto con troppa
cura le sue tracce.
Da
allora, Elle aveva passato i successivi tre giorni dormendo solo
quattro ore in totale, cercando di dare il cambio al suo inaspettato
compagno di prigionia. Stava appoggiata alla parete marcescente,
senza più emettere versi schifati per la muffa sulle pareti
o per
l'evidente tubatura in piombo che faceva gocciolare acqua piovana
sulle loro teste. Aveva sparato meno di cinque colpi, riuscendo ad
uccidere solo uno dei sette uomini appostati in un perimetro mobile
attorno alla casa.
James
era stato poco più fortunato, riuscendo, con una carabina da
caccia
che si era procurato chissà dove, a colpire due uomini. Il
conto
scendeva a quattro.
Il
braccio meccanico del Soldato d'Inverno, senza cure, iniziava a
provocargli una forte irritazione alla spalla sinistra. Elle aveva
estratto dal suo zaino, quello che portava in ogni missione, una
grossa siringa di cortisone e del mercurio cromo.
Aveva
medicato con attenzione l'attacco fra l'acciaio e la spalla
dell'uomo, sfiorandolo appena con la punta delle dita sottili,
reggendo un kleenex imbevuto del liquido giallo.
"Perché
fai questo per me?" Aveva chiesto lui, appoggiato alla parete,
gli occhi incavati che la guardavano. Elle si era stupita del grigio
profondo che aveva trovato in quelle iridi tormentate, e cercava di
evitare il suo sguardo con tutta la sua volontà d'animo.
Anche ora,
seduti ai due lati di quella stanza che ormai conosceva a menadito,
Elle cercava di non guardarlo. Perché aveva l'ordine di
ucciderlo, e
sapeva che non ne sarebbe mai stata in grado.
L'uomo
si scostò i capelli castani, sporchi e lunghi fino ad oltre
le
spalle, con la mano libera. L'altra reggeva una beretta
semiautomatica.
"E'
colpa mia se ti hanno trovato." Ammise Elle. Fissò ancora
per
un secondo il vuoto, per poi decidersi a guardarlo negli occhi. Lui
non aveva problemi a guardarla direttamente. “Non avrei
dovuto
ascoltare Fury e cercarti.” L'uomo la fisso, sospirando.
“Mi
avrebbero comunque trovato. Mi troveranno sempre.”
Elle
gattonò sul pavimento, cercando di spiare da un'asse tarlata
incassata nella finestra la situazione. “Faremo in modo che
non ti
trovino più, allora.”
"Non
mi merito tutto questo riguardo." Elle rivedeva in lui lo stesso
sguardo che probabilmente aveva lei, quando si era resa conto di aver
ucciso per la prima volta. La sua mente era pura, come quella di un
bambino. Nonostante l'età, quell'uomo non aveva ricordi
veramente
suoi. "Io sono un mostro."
Elle
schioccò le labbra, appoggiandosi vicino a lui.
"Non
lo sei. Non è colpa tua, tutto quello che è
successo. Se fosse per
te, scommetto che adesso giocheresti con i tuoi nipoti in una comoda
casa." gli sorrise.
“Invece
sei qui, e sicuramente moriremo. Non vorrai passare le tue ultime ore
a piangerti addosso?” Cercò di sdrammatizzare lei.
Lui sorrise
leggermente, i capelli che erano già scivolati di nuovo sul
viso. “A
quante missioni sei sopravvissuta, ripetendo che tanto saresti
morta?” Elle sogghignò. Allora il fantasma era
anche spiritoso.
Si
batté una mano sul petto. “Io sono sopravvissuta a
molte missioni,
Sergente Barnes.”
L'uomo
trasalì, stringendosi inconsciamente nelle spalle possenti.
Elle si
rese conto subito di aver esagerato, stringendo le labbra incolori in
una smorfia.
"Sei
stato usato. Posso solo immaginare come ti senti. Ma c'è
qualcuno
che ti sta aspettando, là fuori."
"Scommetto
che avevi l'ordine di uccidermi."
"Perché
tu non mi hai ucciso?" Lui stirò pigramente le labbra, quasi
sorridendo.
"Chi
mi sta cercando? L'uomo sull'Elicarrier?"
Elle
scosse la testa. "Chi?"
"L'uomo
con lo scudo. Quello che mi conosceva."
"Steve
Rogers." comprese lei. Lui la guardò, trattenendo
impercettibilmente il respiro. “Lo conosci?” Elle
scoppiò a
ridere. “No, assolutamente. Ma tutti in America devono sapere
tutto
su di lui. Secondo me, lo chiedono persino al momento di conferire la
cittadinanza.”
"Lui
è buono?" Chiese di getto lui, senza realmente capire il suo
sarcasmo. Elle annuì, poco convinta. "...E ti sta cercando
come
un dannato, dicono."
Uno
sparo colpì uno dei bordi dell'asse sopra la sua testa,
interrompendo la conversazione. Polvere del soffitto cadde sulla
testa dei due, mentre James alzava istintivamente il braccio bionico,
coprendo la ragazza. I cigolii delle assi si interruppero,
così come
la leggera pioggia di calcinacci. Elle lo ringraziò con un
cenno del
capo.
"E
se usciremo da qui interi, ti giuro che se vorrai ti porterò
da lui.
E ti aiuteremo." Altri colpi si abbatterono sopra le loro teste
teste. La situazione si stava facendo tragica. Lui la
guardò, senza
farle capire se era contento o angosciato della sua promessa.
"E'
molto attraente, oltretutto, il tuo amico con lo scudo. Dicono."
Buttò li Elle, per alleggerire un po' l'atmosfera.
"Non
sei il suo tipo." Ammise con sicurezza lui. "Troppo pallida
e poco formosa."
Elle
scoppiò a ridere, leggermente isterica, mentre James si
portava una
mano alle labbra, stupito delle sue stesse parole.
~
Novembre
2015
Steve
scostò un ramo carico di brina, permettendo alla donna
dietro di lui
di passare indenne attraverso il varco nella vegetazione fitta.
Si
soffermò un secondo a guardare il contrasto che la chioma
dell'amica
creava con il verde quasi plumbeo delle foglie cariche di
umidità e
ghiaccio, mentre lei spazzava leggermente il terreno con la punta
degli stivali di cuoio opaco.
Nonostante
l'esercito, la guerra, la sofferenza che aveva visto e provato,
nonostante il senso di perdita cocente che stava dentro di lui, Steve
sapeva di avere l'anima di un artista.
Se
ne rese conto nel momento in cui desiderò ardentemente dei
colori ed
un foglio, distinguendo la sfumatura rosso Tiziano dei capelli di
Natasha.
Sentiva
ancora un peso, all'altezza dello sterno, presente da anni ma
leggermente più pesante, mentre raggiungeva la donna e si
affiancava
al suo passo nervoso.
"Vuoi
davvero sapere cosa ha causato quella ferita ad Elle?"
I
due camminavano nel tratto di boschetto dove si dirigevano sempre per
parlare in intimità. Natasha si guardava attorno. La
condensa cadeva
dagli alberi, nonostante fosse appena cominciato Novembre
già
minacciava di nevicare. Del tutto fuori stagione.
Steve
si aspettava che Natasha avrebbe tirato fuori l'argomento. Non aveva
sfiorato il discorso, sapendo di indispettirla. Ormai era un esperto
in Vedove Nere Furiose, e sapeva che l'amica si sarebbe tradita
più
facilmente da arrabbiata, lasciandosi scivolare informazioni che non
avrebbe voluto.
"Bucky
Barnes..." sussurrò lei, stringendosi nel piumino
nero.
Steve emise un respiro strozzato. "Bucky?"
Le
immagini del suo vecchio amico, capelli lunghi e braccio bionico, che
cercava di ucciderlo durante la caduta degli elicarrier, invasero la
sua mente, prendendo il posto di tutto il resto.
Com'era
possibile che tutti i tasselli della sua vita dovessero sempre
ricomporsi, formando scenari apocalittici? Il mondo era davvero
così
piccolo da spingere la sagace, e dolce, Elle Selvig contro il suo
miglior amico dalle pulsioni omicide? Il fato era davvero
così
crudele con lui?
"Ordini
di Fury. Trovarlo e portarlo da noi. Oppure...”
“Oppure
ucciderlo.” La anticipò lui. Capiva la decisione
di Fury, da capo
a capo. Bucky era pericoloso, e doveva essere ricondotto dove poter
essere aiutato.
“Lei
lo ha trovato. E lui la ha attaccata.”
"Lei
dice che sono stati degli agenti dell'Hydra... parlava di Rumlow. Ma
Rumlow è morto quando è crollato il Triskelion.
Ne sono sicura.
L'ho visto."
Steve
scosse la testa, passandosi una mano sugli occhi.
“Elle
non mi sembra il genere di persona da scambiare un uomo per un
altro.” Guardò l'amica. “Non penso che
avrebbe mai attuato una
strategia di Coping del genere, sostituire Rumow a
Bucky. Non
lo conosceva nemmeno, James.”
Natasha
sogghignò “Da quando ti interessi di Psicologia,
Steve?”
L'uomo
prese leggermente colore, glissando educatamente sulla domanda.
“Potrei essermi fatto imprestare qualche
libro da Elle,
prima.”
“Elle
non è nuova a situazioni del genere. Non sarebbe mai
incappata in un
errore di attribuzione del genere. Se ha visto Rumlow, deve esserci
stato Rumlow. Ma, per quanto riguarda chi l'ha colpita...”
"C'era
solo Bucky con lei..." Natasha annuì alla conclusione
dell'amico.
“Deve
essere stata una colluttazione veramente agguerrita. Ho visto la
ferita di Elle.”
L'immagine
di quella mattina, in palestra, lo colpì quasi
dolorosamente.
Sentiva ancora il peso del corpo della ragazza, mentre la portava in
infermeria, battibeccando. Era incredibile, Elle non riusciva a non
essere sarcastica nemmeno in un momento del genere, barricata dietro
il suo muro di indifferenza. Era quasi dolce, quando arrossiva per
l'imbarazzo al primo gesto cortese. Non poté fare a meno di
chiedersi se fosse così impacciata solo con lui o se fosse
una
reazione standard per le attenzioni di qualsiasi uomo. Si
grattò un
attimo, accanto al naso. Non era sicuro di voler sapere il resto.
“Non
hai visto come era ridotta subito dopo, quando è stata
ricoverata.”
Natasha chiuse gli occhi. “Ho visto le foto... persino a me
sono
venuti i conati.”
“Cosa
hanno scritto nel referto riguardo alla ferita? Come è stata
inflitta?”
"Un
pezzo di lamiera. L'ha pugnalata con quello e poi ha tirato verso
l'alto." La rossa sussurrava, gli occhi leggermente socchiusi a
difendere le iridi scure dall'ultimo sole dell'inverno. "Asportazione
della milza, danni all'intestino e persino all'osso del bacino.
Diaframma spappolato."
Steve
guardava in basso, le mani appoggiate sul tronco vicino ai fianchi.
"E l'aveva mandata Fury..." ripeté fra sé e
sé.
"Con
l'ordine di riportarlo od ucciderlo. E' stata l'unica in grado di
trovarlo. Ma poi si è rifiutata di ucciderlo. Quando l'hanno
svegliata, ancora ripeteva che c'era stato un errore." Sorrise
fra sé e sé. "Secondo me, sai che è
successo? Ha provato ad
aiutarlo. Sono rimasti per tre giorni in una vecchia fattoria
abbandonata. Poi lui ha avuto uno dei suoi attacchi omicidi alla
'Soldato d'Inverno'..."
Steve
si era fermando, ascoltando avidamente. "Si è rifiutata di
obbedire, quindi?"
Natasha
annuì. "E poi è successo quel che è
successo."
~
"Se
ne stanno andando?"
Avevano
fame. Erano disidratati, e feriti. Diede un calcetto al fianco di
Barnes, che si riscosse con un sibilo, le labbra secche e spaccate.
Lui doveva aver vagabondato per più tempo di lei, ed era
sfinito,
gli occhi pesti e cerchiati da profonde occhiaie violacee. L'uomo
strisciò verso di lei, le palpebre che si chiudevano a
scatti.
"Impossibile."
chiese lui con un bisbiglio, spiando dalla finestrella ormai
crivellata. Poi impallidì.
"E
quello chi è?" chiese Elle, spiando anche
lei. Un uomo,
con capelli scuri a spazzola ed una divisa nera, provvista di giacca
antiproiettile, veniva verso di loro con un grosso fucile a canne
mozze.
"Quello
ci crivella come un groviera..." ammise lei.
"Vado
io..." Barnes fece per alzarsi. "Non ci provare!" Elle
lo tirò per una mano, facendolo sedere di nuovo. "Non stiamo
parlando di chi va a buttare la spazzatura. Usiamo il cervello."
“Ok,
calmati, nanerottola.”
Pochi
minuti dopo, Elle aveva estratto dallo zaino una maglietta bordeaux,
molto ampia.
"Questa
era tua?" chiese Barnes, sfilandosi la maglia bianca che
indossava e che era sporca ed insanguinata. "Di un collega..."
rispose secca lei. "Non mi sembra il momento di fare gossip,
Barnes"
"Allora...io
lancio lo zaino con la tua maglia. Lui lo crivella di colpi. Tu fai
il giro e lo disarmi. Poi scappa! Lo distrarrò." Elle lo
guardava seria, scrutando quegli occhi grigi. "Non tornare
indietro. Ti cercano. Ti tortureranno." Lui annuì, lo
sguardo
che tradiva una buona dose di angoscia. "Non pensare a me. Se mi
vedi spacciata, scappa." Estrasse un mazzo di chiavi, mentre
l'uomo la guardava, le labbra piegate verso il basso e gli occhi
sgranati.
"Queste
sono le chiavi di un rifugio sicuro a Washington." indicò
due
grosse chiavi "L'indirizzo è nel cassetto del cruscotto
della
berlina blu scuro in fondo al viale..." indicò la chiave con
il
telecomando il plastica. “Non voltarti indietro. Io me la
caverò.
Vai, Barnes." Sorrise, cercando di essere incoraggiante. Si
appoggiò al busto dell'uomo, stringendolo con il braccio
ancora
buono, le labbra che sfioravano la sua spalla. "Trova il tuo
amico. Ti prego..." prese la mano naturale dell'uomo
"...Sopravvivi." Lui annuì, deglutendo.
"Grazie,
Nanerottola. Non dimenticherò." Le
baciò la mano,
rispolverando un galateo di altri tempi. Si sorrisero.
Barnes
strisciò verso un grosso buco nel muro, dove avrebbe dovuto
esserci
uno scivolo per il pattume, dall'altra parte della stanza.
Elle
si concentrò, le ginocchia strette al petto, allungando un
tentacolo
mentale verso lo strano colosso che puntava un fucile verso la sua
schiena. Aveva una mente scura, plumbea come una notte senza stelle.
Metallica.
"Vattene..."
Sussurrò, piano. Ma l'uomo prese ad avanzare imperterrito
verso di
lei.
"...Vattene..."
Questo pensiero si scontrò su un muro di convinzione, e di
sofferenza. Elle scosse la testa, delle gocce di sudore che le
facevano sbattere furiosamente le palpebre. La vista si sfocava,
mentre cercava di sfondare la sua mente. Non sembrava nemmeno un
essere umano, i neuroni lisi ed anneriti a causa di qualcosa.
Elettroshock.
Era
stanca. Guardò l'uomo avanzare verso di loro, e
lanciò il suo
zaino, camuffato con la maglietta di Barnes, oltre la voragine che
avrebbe dovuto ospitare la porta d'ingresso. Istintivamente, l'uomo
scaricò una cartuccia contro il fantoccio, due colpi grossi
come
noci. Elle vide Barnes strisciargli alle spalle e colpirlo con il
braccio d'acciaio, barcollando leggermente.
L'uomo
scuro cadde a terra, sulle ginocchia, guardando dritto contro il
punto in cui era nascosta Elle, il viso che spuntava dal grosso buco
nella parete. E lei lo riconobbe. "Rumlow?!"
L'uomo
era irriconoscibile, il viso martoriato da un'ustione immensa. Nella
sua mente c'era solo un ombra della persona che aveva conosciuto
durante le sue visite allo S.H.I.E.L.D. .
E
nonostante non fosse mai stato l'amore della sua vita, il Rumlow che
aveva davanti era peggio. Molto peggio.
Elle
imprecò.
L'uomo
sembrava non provare dolore, girandosi nonostante i calci del
Soldato, e alzandosi fluentemente con un colpo di reni al primo
momento di tregua di Barnes. Prese a colpire, con uno stile ben
conosciuto ad Elle, un James già conciato male, al viso e
nello
stomaco. I suoi colpi erano secchi e precisi. Usava ancora le
tecniche del Mossad apprese nell'esercito, ma qualcosa nei suoi colpi
colpì Elle. Sembrava allo stesso tempo preda dell'istinto e
perfettamente a suo agio, come un robot.
La
situazione per Barnes si stava mettendo male, ed Elle si sentiva
sempre più in trappola.
"Steve..."
rantolò l'uomo, girandosi sulla schiena. Rumlow
sghignazzò.
"Sentitelo,
chiama il suo compagno di merende." Prese per il collo Barnes,
alzandolo di peso dal terreno. "Andrò a cercare lui, dopo di
te. E gli dirò che lo chiamavi, mentre ti uccidevo."
Elle
imprecò. Uscì allo scoperto, il respiro mozzato,
tenendo le braccia
alzate, in posizione di difesa, la testa incassata in mezzo alle
spalle tese. L'uomo scoppiò ancora di più a
ridere, guardando
quella ragazzina che lo minacciava con una beretta quasi scarica.
Elle
sospirò, decidendo di utilizzare anche lei la sua ultima
cartuccia.
~
Steve
era immobile, appoggiato sul tronco abbattuto, le mani sprofondate
nelle tasche dei jeans scuri. Guardava nel vuoto, sospirando.
"Ed
Elle ha poteri mentali. Anche lei." scosse il capo
"E'
da pazzi."
"Parla
quello che ha una squadra di supereroi..." commentò Natasha,
appoggiata accanto a lui. "Forse dovresti immaginare cosa l'ha
spinta a non parlartene."
Natasha
estrasse dalla tasca un pacchetto di sigarette, porgendoglielo. Steve
negò con il capo, le labbra arricciate. “Non dirlo
ad Elle.”
“Non
penso che ci sarà occasione per un po'.” Ammise
lui, guardandola
mentre portava la sigaretta alle labbra ed inspirava soddisfatta.
"L'avresti
vista come quella in grado di manipolarlo." commentò
improvvisamente la rossa, sfregandosi le mani tra loro, la sigaretta
stretta fra le labbra "Non so molto della sua famiglia, ma pare
che suo padre se ne sia andato proprio a causa del suo dono."
"Non
vuol dire che tutti lo debbano fare. E' anche una psicologa, dovrebbe
arrivarci da sola."
Natasha
emise una nuvola di fumo, che condensò contro l'aria gelida.
Ebbe un
brivido.
"E'
un essere umano disgustato dagli altri esseri umani. Per lei tutti
sono come dei libri aperti: non può concedere il beneficio
del
dubbio." Spiegò con voce strascicata, gli occhi bassi. "E'
disillusa. Come me. Ma non ne è più consapevole
di quanto non sia
io."
Rimasero
in silenzio qualche minuto, lei con la sua sigaretta, lui con i suoi
pensieri, entrambi rigidi per il freddo. Fu Natasha a rompere il
silenzio, gettando la sigaretta a terra e schiacciandola con la punta
dello stivale sotto lo sguardo di disapprovazione di Steve.
"E'
da anni che non la vedevo sorridere come nelle ultime settimane."
Lui scosse il capo, capendo dove li stava portando quella
conversazione. E lui non era pronto.
"Ora
che è speciale non ti piace più?" Chiese Nat, le
belle labbra
imbronciate e gli occhi tristi.
"Entrerà
negli Avengers." Ammise lui, guardandosi i piedi.
“Entrerà
nella squadra e non potrl farci nulla.”
"E
allora? Cosa hai detto a Banner, alla festa di Stark, ricordi:
Non
infrangete nessuna regola." Steve aprì la bocca
per
replicare, guardandola serio.
"Come
posso mettere in pericolo in una missione una persona con cui ho una
relazione? Devo essere un leader. Non dovete pensare che ci possano
essere favoritismi. Rischieremo la vita: non posso scappare a salvare
Elle se ci sono più probabilità di salvare Wanda,
o Rhodes."
Natasha scosse il capo, mentre lui estraeva le mani dalle tasche per
agitarle nervosamente. “Devo essere lucido. Non posso essere
lucido.”
“Tu
faresti così per chiunque.” Sussurrò
Nat, carezzandogli il viso
con il palmo della mano pallida, facendolo rabbrividire per il
freddo. “Sei l'amico più caro che ho,
dopo-”
“-Dopo
Clint, lo so.” Ridacchiò lui. Lei si
unì alla sua risata.
"Non
ci sarà sempre una missione, Steve.”
Esclamò mestamente,
sedendosi di nuovo accanto a lui sul tronco, appoggiando il capo
sulla sua spalla.
“C'è
qualcosa oltre questo gigantesco casermone di calcestruzzo, oltre
questo bosco." sussurrò, più a se stessa che a
lui. "Hai
amato e perso una volta. Carter.”
Steve
ebbe un sussulto, chiedendosi come facesse l'amica a sapere. Poi si
ricordò dell'orologio, che portava sempre con sé,
con la foto della
donna.
“Credimi:
se ci fosse un modo per riportare qui Banner, di sua
volontà, se
sapessi come farlo tornare, non ci sarebbero altre missioni per me."
"Non
vi darei mai compiti pericolosi se non fosse strettamente necessario.
Valeva soprattutto con Banner." commentò piano Steve. "Ogni
tanto temo che sia colpa mia. L'ho fatto sentire un'arma."
"Sei
un Capitano, Rogers..." sussurrò Natasha, sedendosi accanto
a
lui sul tronco. "E noi siamo tutti delle armi, ai tuoi ordini."
~
"Vieni
qui e preditela con me."
Il
pensiero volò oltre il muro della cascina.
Intercettò la mente
confusa di Rumlow, passò sotto le cicatrici, nel cranio,
attraverso
i tessuti danneggiati dall'elettroshock del condizionamento al quale
era stato sottoposto e si incuneò nell'amigdala. L'uomo si
fermò di
scatto, dando tregua all'uomo che giaceva a terra con il viso
tumefatto. Ebbe una scarica di adrenalina. Paura.
Si
girò verso la casa, incontrando lo sguardo azzurro acceso di
una
ragazza minuta avvolta in una camicia di lino blu, sgualcita e sporca
di una sostanza scura, un bendaggio lercio avvolto alla meglio
attorno alla spalla destra. Stava in piedi dietro l'uscio di quella
casa, lo sguardo spaventato ma deciso, le labbra strette. I lunghi
capelli biondi erano legati in una coda alta, lasciando libero il
viso scarno. Teneva il braccio dal lato offeso appoggiato contro il
busto, il pugno leggermente alzato davanti al viso. L'altro braccio,
teso davanti a sé, puntava la pistola dritta contro di lui.
Rumlow
superò con un lungo passo l'uomo disteso a terra, il cuore
che
pompava ad una velocità folle. Le pupille si dilatarono
oltre
misura. Respirò lentamente, le narici ben dischiuse, come un
lupo
prima della caccia.
Era
stata un'idea stupida. Molto stupida. Ma era l'unica per salvare
Barnes. Lui doveva essere salvato.
"Vattene!"
urlò all'uomo dal braccio bionico, riverso a terra, che la
guardava
attraverso una patina di sangue e polvere. Lui rotolò sulla
schiena
con un grugnito, afferrando la prima cosa che le sue mani
raggiunsero, un sasso, e colpendo con questa lanciata di slancio
Rumlow alle spalle. L'uomo incassò, senza rallentare il
passo
marziale. "Vattene!" urlò di nuovo Elle, le braccia che si
agitavano e lo sguardo sconfitto.
"Zuccherino,
vieni qui." Rumlow era completamente irriconoscibile. La sua
voce rimbombava per le stanze vuote, mentre Elle cercava di salire
le scale senza emettere nessun rumore. Qualsiasi cosa cigolava in
quella vecchia stamberga. Elle guardò dalla finestra del
primo
piano, contenta di non vedere più Barnes laggiù.
"Eccoti,
dolcezza." la mano dell'uomo l'afferrò
per il collo,
sbattendola contro il muro. Elle rantolò.
"Ti
ho già vista. Non ricordo dove." Istintivamente, Elle
aprì la
bocca per rispondere, il viso ormai cianotico. Elle alzò con
le
ultime forze il braccio, puntandogli la pistola alla tempia.
"Sicuramente
un appuntamento andato in bianco, vedendo quanto fai lo stronzo."
Barnes colpì l'uomo alla testa con una grossa asse. Rumlow
fece
cadere Elle a terra, mentre tossiva compulsivamente.
Barnes
la afferrò per un braccio, tirandolo con forza.
Sentì uno
scricchiolio sinistro, mentre la trascinava verso le scale
traballanti dello stabile. Elle sgranò gli occhi,rantolando.
"Al
braccio ci pensiamo dopo, corri!" esclamò Barnes. Elle lo
seguì.
"Non
si può scappare da Crossbones. L'Hydra
vince sempre, non lo
sapete?" Urlò Rumlow scendendo le scale. Elle e Barnes erano
entrati in una vecchia stanza di servizio, appostati al muro,
appiattiti come se ci fosse stato un terremoto.
“Queste
frasi da propaganda non sono da te, Rumlow.” Esalò
Elle, cercando
di capire in che direzione stesse arrivando l'uomo. Barnes la
guardò
interdetto, il viso completamente tinto di rosso.
“Non
sono Rumlow.” Urlò questo tirando un calcio alla
parete alla quale
erano appoggiati, facendoli indietreggiare. La cartapesta cedette,
facendo passare l'uomo che li inseguiva.
Barnes
si parò davanti ad Elle, mentre questa teneva un braccio
attorno
alla sua vita, guardando Rumlow da sopra la spalla dell'uomo.
"Chi
ti manda?"
"L'Hydra."
"Voglio
i nomi." Elle cercava di rimanere attiva, nonostante il braccio
fatturato e il volto esangue. Il collo era decorato da un grosso
livido ancora pulsante, violaceo come le labbra dischiuse. Barnes era
teso come una molla, tenendola dietro di sé, il volto
tumefatto ed
il naso piegato in modo innaturale.
"Io
voglio te, bambolina." Barnes aveva un'espressione
sconvolta: erano venuti a cercare lui. Come mai ora cercavano
lei?
In
un balzo, Rumlow lo scaraventò di lato, attraverso la parete
della
stanza, con un boato e in una pioggia di calcinacci. Barnes perse
conoscenza, sbattendo violentemente nella stanza che li aveva visti
sopravvivere per tre lunghi giorni. Elle camminava lentamente
all'indietro, mentre Rumlow ghignava, una leggera schiuma sanguigna
sulle labbra a causa dei colpi ricevuti.
Elle
si teneva il braccio, piegato in una posizione innaturale. Rumlow si
piegò a raccogliere qualcosa da terra. Un grosso pezzo di
lamiera,
arrugginito e sbeccato. Elle sperò che facesse in fretta, a
ucciderla. Era esausta, non c'era modo di uscire da quella
situazione. Aveva perso la pistola nella colluttazione. Non poteva
sperare di difendersi da un nemico che quasi sicuramente aveva
assunto chissà che tipo di steroidi e droghe.
Il
pensiero della piccola River le offuscò la mente, mentre
Rumlow la
afferrava per la spalla ferita, spingendo le dita nel foto del
proiettile, facendola cadere a terra urlando a pieni polmoni. Mise un
piede, gli scarponi sporchi di fango e polvere, sul braccio
fratturato, mentre lei cercava di afferrargli la caviglia.
Tenendo
ben salda la lama nella mano, facendola sanguinare, Rumlow fece un
affondo sul suo bacino, a sinistra.
L'urlo
agghiacciante di Elle risuonò nella stanza fatiscente,
mentre la
lama sbeccata trapassava l'epidermide, distruggendo organi ed ossa, e
sbatteva con forza contro il pavimento. Sentì Barnes
ululare, dietro
di lei, mentre afferrava Rumlow dal pavimento, da lei, e lo
strattonava verso di sé. Aveva le orecchie tappate, gli
occhi
strizzati nell'espressione più sconvolta della sua vita, il
viso
imperlato di sudore ghiacciato.
Rumlow
tenne stretta la lama, e questa si fece largo fra le carni della
ragazza, strappando e squarciandole il fianco. Elle rantolò,
un
sottile filo di sangue che le scorreva dalle labbra. Se fosse
riuscita ad alzare lo sguardo, avrebbe visto il vero Soldato
d'Inverno che colpiva con il braccio argenteo l'uomo al viso. Rumlow
smise di muoversi, se non per qualche spasmo, il viso contratto sotto
una maschera di sangue.
Barnes
si piegò su di lei, gli occhi pieni di lacrime.
“Elle...”
La donna afferrò la sua mano, annaspando, gli occhi azzurri
resi
rossi dai capillari rotti a causa delle sue urla. “Devo
estrarre la
lama.”
Elle
annuì, singhiozzando. “Sbrigati...”
Sussurrò, stringendo la
mascella. Barnes le passò le dita sporche di fango e sangue
sul
viso, asciugandole le lacrime. Le slegò in fretta la cintura
di
cuoio marrone.
“Andrà bene...” Esclamò,
guardando Rumlow
steso a terra, sotto un cumulo di macerie di mattoni e tegole, e
afferrò la lama con una mano. Le mise la cintura fra i
denti, già
stretti fra loro. “Pronta?” Elle annuì.
Con
un gesto secco, prese la lama sbeccata e la estrasse, sentendo con
disgusto il rumore del ferro che strisciava sull'osso del bacino
della ragazza. Elle urlò a pieni polmoni, i denti che si
stringevano
contro il cuoio fino a far quasi slogare la mascella, il viso che
improvvisamente perdeva completamente ogni colore. Ogni parvenza di
vita.
Lui
la prese fra le braccia, sentendosi mancare, appoggiandosi meglio
sulla gamba meno indolenzita. Doveva portarla via. L'uomo vestito di
nero si sarebbe alzato. E la sua furia cieca non sarebbe più
bastata.
La
stradina di campagna era vuota e silenziosa, mentre James Barnes la
percorreva lentamente, tenendo fra le braccia la ragazza incosciente.
Il sole stava calando, illuminando di un rosso sanguigno i campi che
costeggiavano il percorso sterrato. Un passo alla volta,
riuscì ad
arrivare alla strada principale. Sullo spiazzo dal quale partiva la
strada che stavano percorrendo, sotto un grosso salice, vi era una
vecchia berlina blu scuro.
Arrivò
all'auto indicata da Elle, e la depose sull'asfalto, pregando di non
aver perso le chiavi dell'auto durante la colluttazione. Le
ritrovò
in una delle tasche dei pesanti pantaloni cargo, ed aprì la
portiera
del sedile del passeggero. Caricò la ragazza, ormai esangue.
Un
mucchietto di ossa rotte e vestiti lerci.
Mise
in moto, correndo come un pazzo per la strada statale, asciugandosi
il viso dolorante con la manica della maglietta rossa.
Allungò
timidamente una mano a stringere quella della ragazza, sentendo i
suoi rantoli farsi sempre più flebili. Provava a chiamarla,
ma non
riceveva risposta.
Entrò
al pronto soccorso della piccola cittadina di Mandeville
con Elle ormai morta. La affidò a dei medici, e poi
uscì, sedendosi
sul muretto che costeggiava il pronto soccorso.
Sapeva
che avrebbero chiamato la polizia, vedendo un giovane uomo simile ad
un vagabondo che entrava portando una ragazza pugnalata a morte.
Guardò
il sole calare dietro il grande policlinico, attendendo con ansia che
portassero Elle in una stanza. Supponeva la stessero operando, viste
le sue ferite.
Sperava
che quella nanerottola
bionda ce la facesse.
Quando
Elle si svegliò, dopo quattro giorni di coma farmacologico,
lo fece
urlando dal dolore.
Era
completamente paralizzata dalla vita in giù a causa del
farmaci, e
sopra sentiva solo dolore.
A svegliarla, era stata la sirena di un allarme. Un'infermiera corse
a controllarla, dicendo con aria concitata che qualcuno era entrato
nella sua stanza, rendendo incoscienti le due guardie poste davanti
alla sua porta.
Elle
voltò il capo verso il comodino, tramortita da tutta quella
confusione.
Qualcuno
aveva appoggiato un grosso fiore di campo giallo sul suo comodino,
avvolto in un fazzoletto di carta. Su un altro fazzoletto, vicino al
primo, c'era una scritta a penna, leggermente sbavata, in una grafia
elegante e piuttosto grande per un uomo.
Elle
sapeva già di chi si trattava.
'Grazie,
Nanerottola.'
~
Anche
se ormai era Novembre, e faceva anche più freddo di un
Novembre
normale, Elle stava seduta sul tetto del quartier
generale. Si
godeva gli ultimi, pallidi raggi di sole, riflettendo sulle ultime
due settimane. Quasi le girava la testa, pensando a tutto quello che
era successo.
Sentì
l'uomo arrivare molto prima del momento in cui lui si mise di fronte
a lei, in piedi, oscurando il poco sole che Elle cercava di assorbire
come un serpente.
“Mi
rubi il sole.” Ammise pigramente, alzando lentamente lo
sguardo
sull'uomo.
“Grazie
di aver aiutato Bucky.”
“Aiutare
qualcuno dovrebbe essere la prassi fra esseri umani, Capitano.”
Era solo un sibilo, ma nel silenzio del tetto risuonò come
un urlo.
Il rumore del vento che passava fra gli alberi e faceva cadere le
ultime foglie secche riempì lo spazio vuoto lasciato dalle
loro
voci.
“Posso
parlare con te?” Sussurrò lui, le mani sprofondate
nelle tasche
dei jeans scuri e lo sguardo rivolto verso l'orizzonte. I capelli,
seppur corti, si muovevano leggermente al vento.
“Non
hai più freddo?” Chiese ancora, per spezzare il
silenzio.
“Non
hai più paura che possa entrare nella tua testa?”
Lo scimmiottò
lei, puntandogli gli occhi azzurri nei suoi. Steve sospirò.
“No,
non ho più freddo. La mia temperatura si è
stabilizzata, circa sui
trenta gradi, e la mia frequenza cardiaca a riposo è di
quaranta
battiti al minuto. Sai cosa vuol dire, questo?”
Steve
le tese una mano, per aiutarla ad alzarsi. Lei la guardò un
secondo,
per poi guardare di nuovo lui, le sopracciglia aggrottate. Si
sollevò
sui talloni e poi in piedi, ignorando la mano che lui le tendeva.
“Vuol
dire che sono diventata un animale a sangue freddo.”
Sussurrò. “Ho bisogno del sole.”
Per
tutta risposta, Steve scartò di lato, lasciando che l'ultimo
sole
della giornata la colpisse dritta sul viso. Elle mugolò,
soddisfatta, il viso strizzato in una smorfia comica.
“Grazie.”
“Natasha
mi ha detto...” Elle non aprì gli occhi, e non
voltò nemmeno la
testa verso di lui.
“Mi
ha detto che pensi di aver visto Rumlow.”
“Forse
si... Forse no...”
Steve
sospirò, guardandola innervosito. “Sto parlando
seriamente,
Selvig.”
“Anche
io, Rogers.” Aprì un occhio,
voltandosi verso di lui. “Sono
ancora sotto farmaci. Non devi disturbare la mia degenza. Potrei
denunciarti al tribunale del lavoro per aver sfruttato la mia
temporanea inabilità.”
Steve
sogghignò, senza riuscire a trattenersi. “Temporanea?”
Elle
aprì di scatto gli occhi, guardandolo sconvolta. Poi
scoppiò a
ridere.
“Finalmente
vedo il tuo lato oscuro.” Strizzò gli occhi,
portandosi una mano
davanti al viso per proteggersi dal sole. “Ammetto di aver
infierito su di te per vedere quando avresti risposto.”
“E
ti è piaciuto quello che hai visto?” Chiese lui,
il volto basso e
una smorfia divertita sul viso. Elle si imporporò, glissando
su quel
malcelato flirt. Annuì leggermente, indietreggiando.
“Elle...”
Le
prese delicatamente il polso, mentre lei cercava di allontanarsi.
“Non
rendere tutto questo ancora più difficile, Steve.”
Elle sussurrò
appena, lo sguardo basso. “Tu non capisci, Elle...”
Sussurrò
lui, guardandola rassegnato.
Portò
una mano al suo collo, il pollice appoggiato con un'innaturale
delicatezza nella fossetta della giugulare, le dita tiepide a
contatto con la sua pelle ghiacciata.
“Potevi
manipolarmi. Troppe persone dipendono da me, ora.”
Elle
fece un passo avanti, una mano istintivamente portata al collo,
appoggiata sulla sua. Premette con forza il pollice nella fossetta,
deglutendo. L'uomo ebbe un brivido.
“Anche
tu potresti uccidermi.” Lo guardava dritto negli occhi, il
viso a
meno di trenta centimetri dal suo. “Ora.”
Istintivamente
Steve rafforzò la presa dell'altra mano sul suo braccio,
tirandola
leggermente verso di sé, il respiro leggermente accelerato.
“Potresti stringermi così forte da non farmi
più respirare.”
Elle ormai sussurrava. “Sei molto più forte di
me.”
“Non
vuol dire che lo farò.” Sussurrò lui,
avvicinando il suo volto a
quello di lei. Elle sospirò sulle sue labbra, abbassando lo
sguardo.
“Non
vuol dire che l'ho fatto.” Mormorò, puntandogli lo
sguardo ceruleo
dritto negli occhi. Steve ebbe un brivido. “Io posso leggerti
nella
mente. Posso costringerti a fare cose.”
Si
strinse leggermente nelle spalle, allontanandosi leggermente con il
busto. “Non vuol dire che lo farò mai.”
“Non
posso crederti sulla parola.” Sospirò lui. Elle
chiuse gli occhi,
espirando seccamente. “Sarai costretto.”
Steve
la fissò accigliato, la mano che scivolava dal suo braccio
mentre
lei indietreggiava.
Lui
le strinse il polso con forza. Elle si morse il labbro, guardandolo
di sottecchi, come per valutare la sua prossima mossa. Steve le
accarezzava la pelle del polso sottile con le dita, guardandola
angosciato. Elle deglutì ancora.
“Ho
deciso di accettare l'offerta di Fury.” Fece per
allontanarsi. Lui
la tenne stretta, impedendoglielo, gli occhi blu carichi di
tristezza, la mascella rigida. Elle si girò a fronteggiarlo,
emettendo in un sospiro la frase che lui temeva di più.
“Entrerò
negli Avengers.”
xXx
Ehilà!
Come promesso eccomi qui, a tediarvi con un altro intervento
dell'autrice. Si, lo so che vi sono mancata!
Purtroppo non posso fermarmi molto, è una settimana
complicata, ma non voglio lasciarvi andare senza ringraziare Bagabu28 per
la recensione! Spero di sentirti presto, e di sapere cosa ne pensi del
capitolo nuovo! E poi, ovviamente, Delta :)
questo è il famigerato capitolo che avevo promesso ti avrei
dedicato, e spero che ti piaccia tanto quanto è piaciuto a
me leggere le tue recensioni.. Grazie, il mio ego ti è
debitore a vita! Deltaworld, festa con Loki ubriaco, arrivo!
Ringrazio anche tutti quelli che hanno inserito la storia fra le
preferite e le seguite, e invito caldamente chiunque abbia consigli,
suggerimenti o insulti a recensire. razie anche a tutti quei lettori
silenziosi, che danno senso a tutto il tempo che passo per scrivere.
Comunicazione di servizio: penso che nelle prossime settimane mi
adopererò per un restyling dei capitoli, in quanto vi sono
ancora diversi problemi di formattazione. Mi dispiace, sono una vera
frana con il computer!
Noto
con dispiacere che molti lettori si sono fermati dopo il primo
capitolo, e da donna di scienza quale sono non ho potuto fare a meno di
notare la correlazione. ;) Inoltre,
se qualcuno avesse particolari doti grafiche o voglia
di cimentarsi, pensavo di cambiare il banner dopo il
quindicesimo capitolo. Se dovesse nteressarsi qualcuno di questa
poveretta con nessuna capacità informatica, scrivetemi in
messaggio privato e provvederò a contattarvi.
E'
così terribile il primo capitolo? Se qualcuno volesse darmi
consigli
a riguardo, posso riscriverlo in maniera più accattivante!
Ci sono
più di cento letture di differenza fra il primo ed il
secondo.
Ed io voglio raggiungere il moooondo...... muahahahah
Vi lascio con l'ultima informazione: il prossimo capitolo
sarà pubblicato Mercoledì 4
Novembre!
A presto, Besos
Eve
|
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Capitolo 10 *** 10. Consapevolezza ***
Atto
10: Consapevolezza
“When
comfort and warmth can't be found
I
still reach for you.
But
I'm lost, crushed, cold and confused
With
no guiding light left inside.”
MUSE
Novembre
2015
“Colore
preferito?”
Elle
guardò quella giornalista con occhi sconvolti.
“Come,
scusi?”
“Qual'è
il suo colore preferito.”
“In
che modo questa domanda è pertinente al discorso?”
La
donna si strinse nelle spalle, mettendo un punto di domanda con la
penna rossa su un
elenco,
che teneva in mano.
“Si
sente più Svedese o Americana?”
Elle
ebbe un singulto. Cercò lo sguardo di Maria, che
però era impegnata
a battere a computer dietro la donna, che la fissava in attesa.
“Io
sono Svedese. Sono nata in Svezia.” Disse
piano Elle,
cercando di capire dove fosse l'inghippo. La donna sospirò,
spuntando un altro punto.
“Lei è del 1989, giusto?” Elle
annuì. “Ha solo ventisei anni, non le sembra
presto per entrare in
questo tipo di organizzazione? E' abbastanza giovane per rischiare la
sua vita?” La Svedese si morse il labbro, contando fino a
dieci
nella sua testa.
“Natasha
Romanoff è poco più vecchia di me.”
Commentò, stirando le gambe
avvolte nei collant scuri. Natasha l'avrebbe uccisa, per
quell'affermazione. “Ci sono tanti giovani uomini che entrano
volontariamente nell'esercito, ai quali nessuno chiede se non sia una
decisione avventata. Soprattutto qui in America...”
La
donna ebbe un sussulto. “Lei è contro il tipo di
propaganda messa
in atto per avvicinare i giovani alla vita militare?”
Elle
sorrise. “Propaganda è la parola giusta per
descrivere il
bombardamento mediatico messo in atto dal governo Bush. Io ero appena
arrivata, quando i militari giravano per i luoghi di ritrovo dei
giovani per convincerli ad arruolarsi.”
Maria
si alzò, sbattendo con un gesto secco una cartelletta sulla
scrivania. “Penso che qui abbiamo finito...” Si
interruppe
bruscamente prima di richiamare l'amica per nome, guardandola con le
labbra tese in una smorfia. La giornalista sorrise, sperando in un
passo falso dell'agente.
“A
questo proposito, è convinta di non voler divulgare il suo
nome? La
popolazione americana lo vedrebbe come un atto di fiducia.”
Elle
la guardò incredula. “Non vorrei mettere a rischio
coloro a cui
tengo, puntandomi contro refettori che non ho mai cercato.”
La
indicò. “Questa cosa è stata voluta da
Fury.”
La
giornalista le fece un sorriso tirato. “Magari, fra qualche
anno?”
Elle
sospirò, annuendo. “Se cambiassi idea,
sarà la prima a cui lo
farò sapere. Ma già il fatto che la squadra
rischi la propria vita
per salvaguardare la popolazione, dovrebbe essere un'argomentazione
sufficiente per considerarci degni di fiducia.”
La
donna fece una smorfia insoddisfatta. “Non c'è
molta trasparenza,
in questi ambienti abitati da inumani.”
“Disse
il popolo del caso NSA:” Elle alzò un
sopracciglio, il capo
leggermente chinato in avanti, sorridendo divertita. Maria si
schiarì
la voce. “Penso che abbiamo finito.”
Elle
si alzò di scatto, lisciandosi la gonna beige con le mani
sottili.
La giornalista rimase seduta, guardandola di traverso. Elle aspetto
che capisse che il loro colloquio era finito e si alzasse, per
tenderle la mano. La donna esitò un secondo, prima di
stringerla.
“Se
sarà fortunata-”Concluse Elle sorniona
“-ci sarà un prossimo
Wikileaks e allora, probabilmente, saprà il mio
nome.”
Maria
si passò una mano sul viso, incredula.
~
Qualche
giorno prima
Fury
aveva sogghignato appena, all'annuncio di Elle. La donna stava in
piedi al centro del suo ufficio, mentre Rogers stava contro il muro,
nell'ombra, in fondo alla stanza. Non toglieva gli occhi dalla nuca
della ragazza, mentre la donna non faceva minimamente caso alla sua
presenza. Probabilmente fingeva, in modo molto abile.
La
donna stava dritta, impalata come un fuso, a fissarlo con quegli
inquietantissimi occhi azzurri, che a Fury ricordavano sempre le
vittime dell'incantesimo di Loki.
"Sei
sicura, Selvig?" chiese infine l'uomo , intrecciando le dita
delle mani, i gomiti appoggiati davanti a lui sulla scrivania di
vetro. Elle annuì.
"Farò
un allenamento intensivo con Visione sfruttare al meglio le mie
capacità. Nel frattempo, sarebbe il caso di trovare uno
psicologo o
psichiatra per sostituire il ruolo che già ricoprivo."
Dietro
di lei, Rogers teneva le bracca incrociate, lo sguardo fisso,
emanando un'aura di negatività quasi palpabile. Fury
annuì.
"Abbiamo
già un paio di nomi in lizza, appena avrò deciso
glielo presenterò,
e potrete passarvi tutta la documentazione." Rispose alla
ragazza, che annuì decisa.
Elle
si tolse i capelli dal viso, portandoli dietro le orecchie con un
gesto nervoso, gli occhi che guizzarono al limitare del suo campo
visivo, resistendo alla tentazione di voltare il capo. L'ex agente a
capo dello S.H.I.E.L.D. sorrise divertito. "Se è tutto io
vado."
“In
realtà, dovremmo discutere anche della ricerca delle origini
del tuo
potere. Pensavo di affidare il compito a Romanoff. Come tua amica e
confidente, penso che sarebbe la soluzione migliore. Ovviamente, gli
serviranno dei recapiti dai quali partire quando sarà giunto
il
momento di spostarsi ad indagare in Nord Europa.”
“Ovviamente.”
La leggera tensione nella voce della bionda non era nascosta
abbastanza bene da non essere captata dai due uomini presenti.
Entrambi stettero in silenzio.
“Allora,
puoi andare, Selvig.” Commentò infine Fury,
facendole un gesto
ampio con la mano.
Elle
mimò un saluto militare, uscendo con la velocità
di un razzo dalla
stanza.
Nell'ufficio
di Fury piombò un silenzio tombale.
"Sei
davvero convinto a lasciarglielo fare?" Chiese sarcasticamente
la versione Phantom of the Opera di Rogers.
"Potrebbe
fare mille altre cose. Cose normali."
"L'ultima
parola spetta a te, Capitano." commentò Fury alzando le
braccia
in segno di resa. "Io mi occupo della gestione del personale.
Sta a te approvare o no il suo ingresso nella squadra."
Steve
si staccò dal muro, prendendo un respiro a pieni polmoni.
"Non
penso di avere scelta. Sembra che la squadra butterebbe fuori me pur
di avere Selvig."
Fury
rise. "Elle sceglie con attenzione i suoi amici, e con
attenzione condivide le sue informazioni. Ma immagino che di questo
te ne sarai accorto..." Steve quasi gli ringhiò contro, la
mascella contratta dal nervosismo.
L'ex
Agente si appoggiò allo schienale della sedia. "Elle
è
addestrata, è pienamente in grado di adempiere a questo
ruolo anche
senza poteri. Mi chiedo dove ci porterà l'emergere di queste
sue
doti sopite. Non so se sperare che Visione esageri
nel
parlarne."
Steve
iniziò a passeggiare nervosamente per la stanza,
l'espressione di un
leone in gabbia.
“Ci
serve un soggetto come Elle, soprattutto mentre Maximoff ancora non
è
pronta ad una missione complessa.” Commentò ancora
Fury. Steve
digrignò i denti. “Wanda sta ancora soffrendo per
la perdita del
fratello.”
“E
tu, Capitano?” Fury si sporse verso di lui,
l'occhio sano che
lo scrutava, quasi a voler dedurre tutti i suoi più profondi
pensieri. “Elle ha già trovato il Sergente Barnes
una volta.
Potrebbe essere la chiave di volta per la sua... Per il suo
ritrovamento.”
Steve
si voltò a guardarlo, ricordando tutte le volte che l'uomo
con cui
stava parlando aveva agito alle sue spalle. Sempre pensando di fare
il bene, certo.
Elle
somigliava più a Fury che a lui o a Natasha. Questo lo
spaventava:
non gli serviva un altro proiettile vagante nella sua squadra. Non
gli serviva un altro proiettile vagante nella sua vita.
Ma
Fury aveva ragione: gli serviva una Elle. Qualcuno
che
sapesse sempre cosa fare. Una scaltra ragionatrice. Anche se aveva
notato che, in sua presenza, Elle era molto più spontanea.
Non
sembrava ragionare: lo insultava e basta. A volte
lo baciava
sulla guancia.
Fosse
stato anche solo per non vederla sparire nel nulla, Steve decise cosa
rispondere all'uomo di fronte a lui.
"Allora,
sia. Abbiamo una nuova Avenger."
~
Elle
stava sdraiata sul ring, nell'area personale degli Avengers, le
braccia aperte ed i capelli sparsi attorno al viso, come una coperta
sulla quale appoggiare il capo durante una scampagnata estiva.
Visione, seduto al suo fianco, un ginocchio alzato e il busto
puntellato sul braccio destro, fissava fuori dalla finestra
sorridendo enigmaticamente. Elle non poteva smettere di fissarlo,
quasi senza sbattere le palpebre dalla concentrazione.
"Mi
stai fissando..." le chiese lui, tenendo fra le dita della mano
libera una moneta.
"Come
faccio a non fissarti se tu ti presenti...così!"
Elle lo
indicò con entrambe le mani, spostando lo sguardo sul
soffitto per
l'imbarazzo.
Visione
si soffermò un attimo sul suo riflesso nel vetro della
finestra.
Aveva un aspetto umano, la pelle di un colore
chiaro, gli
occhi azzurro ghiaccio ed i capelli color nocciola. Era ancora molto
alto, quasi quanto Rogers, e portava una maglietta scura attillata,
imprestata da Samuel.
“Lo
ammetto, ho pensato a te per il colore degli occhi. Volevo qualcosa
che vi ricordasse che non sono umano.”
“E
mi hai pensato, che carino...”
Borbottò Elle, sarcastica.
Lui le sorrise, mentre lei squoteva il capo. “Non lo capisci
ancora
il sarcasmo, vero?” Lui la guardò con uno strano
sorriso.
“Se
per questo anche il Capitano. Ma questo non vuol
dire che non
sia umano.”
Elle
scoppiò a ridere senza riuscire a controllarsi, sotto lo
sguardo
divertito dell'androide.
“Ho
una pessima influenza su di te, Visione.” Lui sorrise ancora,
guardandola.
“Non
dimenticare che sono una creatura di Stark.” Elle
annuì,
asciugandosi gli occhi.
"Ancora
non capisco, però. Perché questo aspetto?"
"Volevo
essere un po' più simile a voi."
"Per
nasconderti?"
"Per
capirvi." Visione le sorrise, tornando a guardarla. "Sembrare
umano mi rende più facile comprendervi." Elle
annuì,
un'espressione poco convinta. “E' solo un corpo,
Visione.”
Commentò piano, riportando lo sguardo sul soffitto bianco.
L'androide la guardò con un leggero sorriso.
"Tu,
invece, sembri fare di tutto per allontanarti dal tuo lato umano."
Elle
si strinse nelle spalle. "Sono una mutante. Lo hai detto anche
tu."
Questa
consapevolezza l'aveva accompagnata da quando Visione l'aveva
nominata per la prima volta. Mutante. La sua pelle
era
impallidita, i suoi occhi si erano accesi di un azzurro sempre
più
forte, i suoi capelli e le sue ciglia erano sempre più
chiari. Non
se ne rendeva del tutto conto, ma era come se la natura stesse
riprendendo possesso del suo corpo, costretto in un aspetto umano da
quando aveva memoria, per renderla ciò che doveva essere. Si
sentiva
sempre più consapevole, di quello che era, di quello che
poteva
essere.
Visione
carpì i suoi pensieri, annuendo. "Dobbiamo capire da dove
proviene il tuo potere. Rischiamo di non saperlo gestire." Elle
annuì, chiudendo gli occhi. “Sono come una bomba
artigianale di un
bombarolo molto creativo.” Visione la guardò
interrogativo, mentre
lei sbuffava.
“Dai,
prova a sollevare a moneta come ieri.” La incitò
lui, facendole
vedere il quarto di dollaro che teneva fra le dita. Elle
voltò il
viso nella sua direzione, gli occhi piantati nei suoi.
Avvolta
da una leggera ed improvvisa luce blu, la moneta si sollevò
lentamente, traballando nell'aria per un secondo. Girò
intorno alla
nuca di Visione senza incidenti e tornò sul suo palmo.
L'androide
sorrise, lanciandola un secondo in alto e riprendendola.
“Elle,
proviamo una cosa.” Visione la guardò un attimo,
portandosi la
mano con dentro la moneta al mento, in una posizione riflessiva.
“Tu
riesci a vedermi nella mia forma normale, anche se sto utilizzando
questa illusione?”
Elle
aggrottò le sopracciglia. “Vedo un bagliore sulla
tua fronte,
ecco.” Ammise poi. Lui sorrise. “Nessuno dovrebbe
riuscire a
battere le illusioni della gemma della mente.”
Elle
si strinse nelle spalle. “Diventi anche leggermente
più rosso...”
Gli occhi della ragazza diventarono di un incandescente azzurro, lo
sguardo estremamente concentrato.
Visione
le sorrise, l'espressione carica di aspettative. Elle
aggrottò
ancora di più la fronte, trattenendo il respiro. Il sorriso
di
Visione si allargò.
“Ci
sei riuscita!” Esclamò. Elle lo fissò
ancora, gli occhi che quasi
si incrociavano per lo sforzo. La ragazza scoppiò a ridere.
“Ti
vedo normale! Sembra quasi... Una doppia esposizione... Ma
ti
vedo!” Serrò gli occhi di scatto, mentre Visione
la guardava
leggermente preoccupato.
“Ok,
basta per oggi...” Esclamò, alzandosi sui talloni.
Elle fece un
respiro affannato, mettendosi le mani sulle palpebre chiuse.
“Mi
brucia la testa...” Borbottò, senza muoversi dal
ring. Visione
strinse le labbra sottili. “Forse era troppo presto per
questo, ma
ora abbiamo un indizio importante...”
“Ovvero?”
Wanda
entrò nella stanza, i capelli scuri sciolti attorno al viso,
le
braccia incrociate su una grossa felpa con il disegno
"E
quella?" chiese ridendo Elle, mentre Wanda inchiodava fuori dal
ring, fissando Visione.
"Che
ti è successo?" Chiese, sconvolta.
Elle
alzò il busto puntellandosi sui gomiti, guardandola. "E poi
sembravo io, quella della reazione esagerata..." Biascicò.
“Quando ti ho visto non ti ho nemmeno riconosciuto.”
Visone
si alzò con un movimento fluido, avvicinandosi al bordo del
ring.
"Volevo essere più simile a voi." commentò, un
sorriso
radioso. Wanda non poté non rispondere al sorriso, le labbra
dischiuse dalla sorpresa.
"Mi
trovi attraente?"
La
schiettezza di Visione era seconda solo a quella della ragazza di
Sokovia.
"Ti
trovavo bellissimo anche prima." Commentò placidamente
questa,
gli occhi accesi di una luce insolita. Elle sospirò,
ridacchiando.
"Quando avete finito di brillare come due alberi di
Natale, perché non fate una passeggiata insieme e ne
parlate?"
I due si girarono a guardarla, sconvolti. "Di cosa?" Chiese
Visione, sinceramente curioso. Elle crollò di nuovo distesa,
mormorando un udibilissimo "Non ci credo..."
"Quindi
adesso chi si occuperà dei nostri amici infiltrati
dell'Hydra?"
chiese Wanda, salendo sul ring e passando fra le seconda e la terza
corda, i lunghi capelli scuri che oscillavano.
"Arriverà
un nuovo psichiatra. Si chiama Nalsson." rispose
Elle,
battendo una mano sul tappeto per farle cenno di sedersi vicino a lei
"Viene anche lui dal nord Europa. Norvegia."
"Non
distrarre Elle, Wanda." Le richiamò dolcemente Visione,
guardando la ragazza mora. Elle alzò gli occhi al cielo.
Visione
scese dal ring, indicandole.
"Adesso,
Elle, solleva Wanda."
Elle
sgranò gli occhi mentre Wanda si lamentava di dover fare la
cavia.
"Sta
migliorando ogni giorno." commentò Natasha, guardando la
scena
dal corridoio. Steve annuì, restando immobile a fissare le
due donne
che si sistemavano meglio sul tappeto del ring. Natasha
proseguì,
sperando di avere la sua attenzione.
"Le
ho detto che indagherò sul suo passato. Ha detto che va
bene."
Steve annuì di nuovo, senza rivolgerle nemmeno un'occhiata,
lo
sguardo fisso su Elle che rideva .
"Pensi
di parlarle prima o poi?" sbottò Nat.
"E'
consapevole dei suoi poteri, ora. Tra poco il suo equipaggiamento
sarà pronto, sarà allenata...”
“Hai
paura.” Concluse Natasha, appoggiandosi accanto a lui sullo
stipite
del corridoio.
“E'
un'odiosa saccente, ma sa il fatto suo.” L'uomo si strinse
nelle
spalle, con una smorfia. “Farà paura alle persone.
Guarda cosa ha
combinato con la giornalista..."
"Già
non mi sembra ci adorino... siamo quelli ai quali piace far
crollare le città..." Commentò la
russa, mentre Steve
annuiva.
"Non
ho idea di cosa ci possa riservare il futuro..." Natasha si
grattò il mento. Wanda, a gambe incrociate, rideva,
sollevata a
quasi un metro da terra, un bagliore violetto che la circondava.
“...Conto sul fatto che Elle riesca a farsi benvolere, e non
ci
spedisca tutti alla gogna.” Steve sospirò, senza
risponderle.
"Stanno
succedendo delle cose strane in Francia... spariscono delle
persone... altri mutanti, forse." continuò lei. Steve
annuì.
“Ho visto il rapporto dall'Europa.”
"Hanno
visto un uomo, ben addestrato, vestito di nero... il viso
ustionato..." Proseguì lui, voltandosi verso la russa.
Natasha
si morse il labbro. "Rumlow..." Wanda tornò a terra dietro
di loro, una luce strana negli occhi. Disse qualcosa alla svedese,
che si alzò con un ghigno.
"Dobbiamo
trovare Barnes..." I due si voltarono, ritornando a guardare
Elle,che teneva le mani tese in avanti, le dita macchiate una luce
azzurra. Wanda si avvicinò, sprigionando un'energia
rossastra dai
palmi delle mani, aperti davanti a lei.
"Ehi,
voi due!" Strillò allarmato Samuel, spuntando dallo
spogliatoio
con le mani fasciate, pronto per fare un po' di boxe. Elle e Wanda si
avvicinarono, tentando di prendersi le mani.
Il
boato spaventò Steve e Natasha, che si abbassarono a terra,
un
braccio di Captain America a proteggersi il volto, il busto voltato
cercando di coprire l'amica con la sua figura.
Una
nuvola di energia spedì le due donne in due direzioni
diverse. Elle
sbatté come una bambola inerte contro il muro in uno
schiocco,
mentre Wanda volava verso la vetrata, recuperata prima di una
rovinosa caduta da Visione, tornato nella sua forma rossa.
"Non
vi capirò mai, voi umani. Talmente curiosi da mettere a
rischio la
vostra stessa vita." Commentò l'androide, severo,
appoggiando
Wanda a terra. Questa si massaggiava gli avambracci, il viso
strizzato in un'espressione di dolore. L'altro le prese le mani,
sfiorandole i polsi sottili con le dita.
Natasha
e Steve si rialzarono lentamente, mentre Elle scoppiava a ridere, un
rigolo di sangue che scendeva da un taglio sulla fronte. "E che
eravamo al minimo della nostra forza..." Commentò,
puntellandosi sui gomiti. Steve si alzò, coprendosi il viso
con una
mano, mentre Natasha correva verso l'amica. Samuel stava sdraiato al
centro della stanza, le mani sul viso, immobile. Steve si
avvicinò,
dandogli un colpetto con il piede.
“Sam?”
“Dimmi
che hanno finito.” Commentò l'uomo, aprendo solo
leggermente le
dita della mano. Steve ridacchiò. “Si, e non lo
faranno mai più.”
Elle
si alzò, appoggiandosi a Natasha. “Mi fischiano le
orecchie.”
Wanda
la guardò un secondo. “Che hai detto
scusa?” Urlò,
facendo scostare infastidito persino Visione. Steve si
abbassò
vicino all'amico. “Stai bene?”
Samuel
tolse le mani dal viso. Alzò lo sguardo, incontrando quello
di Elle.
“Ma
siete stupide?!” Chiese, urlando. Elle fece un passo,
lasciando
Nat, e si abbassò vicino a lui, sedendosi a terra con un
tonfo. Si
stese con il capo vicino a Samuel, mentre questo cominciava a ridere.
“E io che credevo di conoscere la prima bionda
intelligente!”
Lei
guardò un attimo Steve, che cercava di trattenersi dal
ridere.
“Si,
probabilmente siamo stupide, Sam.” Sospirò.
“E comunque, conosci
un'altra bionda intelligente.”
Natasha
scoppiò a ridere, mentre i due uomini la guardavano
interdetti.
“Chi?” Chiese Samuel, voltando leggermente il capo
verso di lei.
Visione si avvicinò, tenendo Wanda per la vita.
Guardò Elle un
secondo, prima di sorridere a pieno viso e spostare lo sguardo verso
Samuel.
L'urlo
le uscì dalle labbra prima che avesse il tempo di
riprendersi.
Le
lenzuola attorcigliate attorno alle gambe, la pelle sudata e fredda,
gli occhi che bruciavano.
La
gola le doleva come se avesse urlato per delle ore intere. Elle si
alzò con il busto, di scatto, gli addominali che le dolevano
per gli
allenamenti. Ebbe un brivido, mentre si stringeva le coperte attorno
alle spalle scarne, i capelli incollati sul viso madido.
Lanciò
uno sguardo alla sveglia, girandosi con un grugnito. Era appena
mezzanotte e mezza.
Il
viso di sua madre la guardò sorridendo dalla cornice
argentata che
la ospitava, sul comodino. Elle scrutò il viso sereno, la
pelle
pallida come la sua, gli occhi scuri che lei sapeva essere grigi, le
labbra piene stirate in un sorriso enigmatico. Si passò una
mano sul
viso, senza distogliere lo sguardo da quello della fotografia.
Un
bussare concitato la ridestò dai suoi pensieri, facendola
sussultare. Si alzò, tremando leggermente per il freddo e
per lo
choc, i capelli che le sfioravano ad ogni passo il fondo della
schiena coperta da una canotta grigia. A pieni nudi, gli occhi
strizzati nel buio, raggiunse la porta.
“Chi
è?” Biascicò, girando la chiave.
“Sono io. Natasha la
chiamò sommessamente.
“Che
succede?” Elle si sporse leggermente, gli occhi traumatizzati
dalla
luce al neon sempre accesa del corridoio. Natasha e Rogers la
guardavano, preoccupati.
“Stai bene? Ti abbiamo sentito
urlare.” Chiese lui immediatamente. Elle alzò
leggermente il capo,
grattandosi la testa. Mugugnò un si, tremando per il freddo.
“Hai
avuto un incubo. Stavo tornando in camera e ti ho sentita
urlare.”
“Io
la stavo accompagnando.” Specificò Steve. Elle li
guardò,
confusa. “Mi spiace di avervi fatto preoccupare.”
Si strinse
nelle braccia.
“Ma
sei in mutande?” La riprese la rossa. Elle abbassò
lo sguardo,
intontita. Portava delle culottes nere. Arrossì
improvvisamente,
mentre Rogers distoglieva lo sguardo, prendendo leggermente colore
sul viso. “Ero così stanca... Mi sono spogliata e
mi sono messa a
letto.”
“Beh,
allora io me ne vado a dormire.” Borbottò Natasha
poco convinta.
Elle annuì, i capelli che le coprivano parte del viso, gli
occhi
sgranati. La rossa la guardò, sorridendole enigmatica, e
fece un
passo indietro. “Buonanotte.”
Elle
e Steve risposero al saluto, lui mettendosi le mani in tasca, Elle
mezza nascosta dietro la porta della sua stanza. La donna si
allontanò, seguita dallo sguardo dei due amici.
“Beh,
quindi, ti capita spesso di svegliarti urlando?” Steve la
guardò,
il capo leggermente chino. Elle arrossì leggermente.
Annuì.
“Anche
a me...” Sospirò lui. “Sono sicuro che
Samuel piantoni la mia
stanza, nel terrore che io rompa qualcosa nel sonno.”
I
due ridacchiarono silenziosamente nel corridoio deserto.
“E'
bello sapere che non sono l'unica a fare degli incubi.”
“Penso
che molti di quelli che vivono qui dentro abbiano qualcosa che li
perseguita la notte...” Commentò lui, guardandola
negli occhi. “E
comunque grazie.”
“Per
cosa?” Elle lo fissò stranita.
“Per
non aver detto qualcosa come 'Se Captain America ha incubi,
allora...'.”
Elle
scosse il capo, spostandosi i capelli dietro all'orecchio.
“Sai che
non lo direi mai...”
Lo
sguardo incredulo che ne seguì li fece scoppiare nuovamente
a
ridere.
“Si,
probabilmente sarei capace di dire cose anche più
cattive...” Elle
si asciugò una lacrima dall'occhio, mentre Steve si
appoggiava sullo
stipite della porta. “Hai insegnato persino a Visione a
prendermi
in giro.” Lei si strinse nelle spalle, sfregandosi le braccia
per
il freddo. “Dovere.” Commentò,
guardandolo un secondo. Riportò
subito lo sguardo a terra.
“Non
abbiamo più parlato, ultimamente...” Elle
annuì, gli occhi
stanchi che non abbandonavano i piedi dalle unghie tinte di cremisi.
“Lo so.”
“Ti
trovi bene nella squadra?” Chiese lui, seguendo il suo
sguardo.
Dovevano essere uno spettacolo curioso, entrambi piegati a guardare
la moquette marrone ed i piccoli piedi di Elle. La donna
annuì,
stringendosi nelle spalle.
“Mi
dispiace, probabilmente ti sto tenendo sveglia e tu vorresti solo
andare di nuovo a letto, è che...”
Una
porta si aprì con un cigolio sinistro. Una vecchia signora,
l'addetta della lavanderia, mise fuori la testa.
“Potete
spostare la vostra chiacchierata in un altro posto o ad un altro
momento?” I capelli stretti in una retina ed il viso cosparso
di
una crema biancastra. Elle e Steve si voltarono, guardandola con
espressioni terrorizzate, come due adolescenti beccati dopo il
coprifuoco. Elle fece un timido gesto con la mano. “Mi spiace
signora Phillips.”
La
donna la guardò severamente per un attimo, per poi
sciogliersi in un
sorriso, rientrando nella sua stanza bofonchiando una 'Buona
Notte' appena accennata. Elle si guardò attorno,
per il
corridoio deserto.
“Vieni
dentro.” Sussurrò poi, aprendo la porta con i
fianchi e fermandola
con il proprio peso. L'uomo la guardò allibito.
“Sicura?”
“Non
penso di riuscire a dormire di nuovo serenamente. E anche tu rischi
di fare dei sogni poco piacevoli. Possiamo farci compagnia.”
Steve
abbassò lo sguardo, sorridendo. “Ne sei
sicura?”
Elle
annuì, senza incontrare i suoi occhi. “Sei
già in tuta.”
Lui
scrutò i vestiti che indossava. “Da quando siamo
qui sono
praticamente sempre in tuta, Elle.” Lei sorrise, annuendo.
“Ci
terremo svegli a vicenda tutta la notte, così nessuno dei
due farà
rumori molesti e disturberà la quiete pubblica.”
Steve le sorrise,
grattandosi la testa.
“Potrebbero
parlare.”
Elle
emise una risata strozzata, alzando il capo con fare sarcastico.
“Davvero credi che mi importi?” L'uomo
ridacchiò. “So
che non ti importa.”
“A
te importa?” Elle lo guardò negli occhi
improvvisamente,
facendogli perdere momentaneamente il fiato. Scosse la testa.
“No.”
“Su
allora, entra.” Tenendo le mani sprofondate nelle tasche,
Steve si
fermò un attimo sulla soglia, di fronte a lei. La
guardò,
leggermente sovrappensiero. “Sicura?”
Elle
sbuffò. “Non fare la ragazzina, non ti
mangio.” Rogers
ridacchiò, alzando lo sguardo su di lei. Inconsciamente, si
umettò
le labbra.
“Promettimi
che non parleremo di cose importanti.”
Elle
lo spinse leggermente in dentro, sorridendo. Richiuse la porta
dietro di lui.
“Ma
ti pare. Guardiamo un film.”
“Che
film?”
“Qualcosa
che ci tenga svegli.”
Elle
fece un sorriso malvagio, dirigendosi verso la piccola libreria
appoggiata vicino alla porta del bagno. Steve scrutava curiosamente
la stanza, quasi a voler imprimere nella memoria ogni oggetto, ogni
dettaglio che completava un tassello nel puzzle che era Elle.
Le
piccole cornici fotografiche sparse sul cassettone, l'iPod buttato
malamente sulla poltrona sopra ad un cumulo di vestiti, i collant che
penzolavano dal pomello della porta del bagno.
"Non
aspettavo visite.”
La ragazza si diresse verso l'armadio,
ignorando il fatto che era in intimo, e afferrò una grossa
felpa. Se
la buttò addosso, mentre accendeva il televisore. Steve si
sedette
sul bordo del letto, guardandosi timidamente intorno.
Elle
inserì il Dvd di Terminator e si
buttò sul letto,
avvolgendosi nella coperta. Si appoggiò al cuscino,
tamburellando
sul materasso accanto a lei perché Steve si avvicinasse.
L'uomo
sorrise, appoggiandosi alla testata del letto, sopra le coperte. Fece
partire il film, in silenzio, tirandosi le coperte fino al mento.
Era
contenta di avere qualcuno che le facesse compagnia in quella notte
insonne, nonostante fosse la persona che aveva appena smesso di
popolare i suoi incubi.
xXx
Ciao a tutti! E' la vostra Eve che vi parla.
Spero che vi siate
divertiti a leggere questo capitolo, almeno quanto mi sono divertita io
a scriverlo!
Dopo tutti gli avvenimenti dell'ultimo, qui rallentiamo un poco e
prendiamo fiato. Tenetevi forte, dal prossimo capitolo si balla.
E quando dico che si balla, intendo che si balla. Sarà
parecchio violento.
Quindi ho preferito lasciarvi in sospeso, ma con qualcosa di dolce....
E' un capitolo di passaggio, anche perchè sono stata
impegnata nella revisione e formattazione di tutti gli altri capitoli -
dateci un'occhiata ;)
Fatemi sapere cosa ne pensate! Sono molto in asia, perchè
è puramente di intrattenimento! :D
Grazie ancora a Delta, che mi deve una festa con un Loki ubriaco, e
alla gentilissima Bagabu!
PS Avevo promesso a Delta che avrei aggiornato ad un orario umano,
peccato che per una studentessa universitaria l'orario umano sia
questo. Chiedo venia! Non bandismi da Deltaworld!
Aspetto con molta ansia le prossime recensioni, soprattutto
perchè ho inserito in questo capitolo un indizio abbastanza
difficoltoso da trovare a proposito del prossimo personaggio
che comparirà nella storia, e che
sarà particolarmente importante.
Buona serata e buona notte a tutti, come sempre ci vediamo Mercoledì prossimo, ovvero l'undici novembre. :)
Eve!
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Capitolo 11 *** 11. Buio ***
Ciao a tutti! E'
Eve che vi parla.
Piccola nota pre lettura: Con questo capitoletto un
pò di passaggio, superiamo - di già - le cento
pagine World di Skyfall! Yuppi!
Inoltre,
questo
capitolo ha una struttura particolare: si alterna presente e passato,
come nel capitolo Verità. Se dovesse essere troppo
intrecciato,
fatemelo sapere ed eviterò di scriverne altri con questa
struttura.
Capitolo
11: Buio
"I,
I did it all
I owned every second that this world could give,
I
saw so many places, the things that I did.
With every broken bone,
I swear I lived."
ONE
REPUBLIC
inizio
Dicembre
2015
Dicembre era
arrivato con passi felpati, le
foglie sugli alberi ormai non ombreggiavano più il sentiero
nel
boschetto durante la corsa mattutina, facendola sentire meno protetta
da un cielo troppo vasto.
Non
che ce ne fosse bisogno: il sole faceva capolino poche ore al giorno,
facendola rabbrividire per il resto del tempo avvolta negli abiti
più
pesanti ed ingombranti che aveva. Al mattino, però, godeva
degli
ultimi raggi della stagione facendo jogging per otto chilometri,
correndo dietro a Rogers e facendosi inseguire da Samuel.
Poche
cose erano soddisfacenti come sbraitare dietro al povero ex
pararescue “A sinistra!” nei
momenti meno opportuni, per
esempio sorpassandolo dopo una curva, o dopo averlo silenziosamente
tapinato per qualche secondo. Allo stesso modo, però, Steve
spesso
li superava entrambi, con un sorriso soddisfatto, senza nemmeno uno
sbuffo di stanchezza. Elle aveva provato e tenere un passo simile al
suo, ma si era trovata ferma ad un albero, tenendosi la milza con una
mano e con il cuore che minacciava di usare le sue costole come
xilofono. Samuel si era fermato giusto il tempo per sghignazzarle
dietro senza pudore.
Il
resto della mattina passava fra allenamenti di aerobica, flessioni
con la palla medica da sei chili e combattimento corpo a corpo,
sempre contro il povero Samuel, a volte con Natasha.
Sapeva
che l'amica era stata incaricata di scavare nel suo passato, o
meglio, nel passato dei suoi genitori, per trovare il bandolo della
matassa che era il suo Dna.
Nulla
che Elle non avesse provato a fare già da sola.
La
madre era una pista poco prolifica: genetista, si, ma che aveva
lavorato per decenni all'università di Uppsala come
insegnante.
Nessun risultato importante, nessun segno di un'ambizione tanto
sfrenata da creare lei. Elle.
Natasha
brancolava nel buio.
Il
potere di Elle non era frutto di un elaborata programmazione genetica
in modo simile a quello di Wanda, che discendeva direttamente dagli
studi sulla gemma della mente. Wanda era eccezionalmente forte quando
Visione le era vicino, attingendo molte delle sue energie psichiche
da lui. Elle sembrava essere di una sostanza diversa, naturale come
l'acqua e l'aria. Non c'era inganno nella sua potenza, meno
malleabile di quella dell'amica ma dalla potenza esponenzialmente
maggiore. Elle era stata creata da qualcuno che voleva esattamente
quel risultato.
La
svedese aveva smesso di porsi da tempo le domande che invece
interessavano tanto a Fury, e si era gettata in un allenamento a
ritmi serrati per imparare ad utilizzare i suoi poteri al massimo
della loro diffusione, senza sconti. Sollevava oggetti sempre
più
pesanti e manipolava a livello molecolare piccole piante, facendole
germogliare od appassire.
La
sera crollava a letto stanca come non lo era mai stata, e il mattino
rotolava fuori dalle coperte prima che la sua sveglia personale
iniziasse ad urlare istericamente.
“Allora,
ti sembra l'ora per alzarsi dal letto?!” Maria, perfettamente
vestita e pettinata, senza un'ombra di stanchezza sul viso,
appoggiò
un caffè sul suo comodino in malo modo. Elle emise un
grugnito,
tirandosi le coperte fin sopra alla testa. “E' sabato,
Maria.”
Borbottò. La donna alzò un sopracciglio, confusa.
“Da quando
facciamo la settimana corta?”
Elle
mise fuori un occhio, seguito dal naso leggermente a punta.
“Da
quando sono nella squadra che si allena tutti i santi
giorni.”
Maria
andò verso il fondo del letto. Elle la seguì con
lo sguardo. “Non
oserai.” Sibilò la bionda.
L'amica
le prese le coperte con due mani, iniziando a tirare nella direzione
opposta. Elle tenne con forza le coperte, tirandole verso di
sé.
Con
un rumore inquietante, il tessuto beige si strappò a
metà, facendo
cadere Maria a terra con un tonfo sordo.
Elle
si guardò le braccia, avvolte da una maglia bianca
attillata. Il
muscolo era teso, leggermente troppo evidente per i suoi gusti. Fece
una smorfia, mentre Maria si rialzava sui tacchi, una ciocca di
capelli che era sfuggita all'acconciatura che portava.
“Forse
hai ragione, Elle, ti sei allenata abbastanza. Decisamente.”
Raccolse con le mani la coperta, guardando lo strappo con espressione
perplessa. La bionda si sedette con un mugugno sul materasso, i piedi
nudi che toccavano il pavimento gelato. “Fra poco
batterò a
braccio di ferro Samuel. O Rogers.” Esclamò,
sarcastica. Maria le
sorrise. “Punto su di te. Non farmi perdere soldi, o non ci
saranno
nascondigli in questo mondo o su altri, dove non verrò a
svegliarti.” Prese la tazza dal comodino e gliela mise in
mano in
modo sbrigativo. “Bevi il tuo caffè e preparati.
Ci aspetta una
giornata lunga.”
Elle
la guardò, sbuffando. Si portò la tazza alle
labbra. L'amica fece
per uscire, fermandosi un attimo vicino al mobile dove stava la
televisione, uguale in tutte le stanze. Prese una piccola confezione
nera, alzandosela davanti agli occhi. Elle sbiancò.
“Terminator?”
Chiese, voltandosi verso di lei con un sopracciglio alzato e le
labbra leggermente curve in un sorriso malevolo. “Pensavo di
avessi
più gusto per il cinema.”
Elle
si strinse nelle spalle, guardando il soffitto. “Volevo
qualcosa di
leggero. Me lo ha prestato Rhodes.”
“Non
guarderesti mai questo film da sola.” Elle si strinse nelle
spalle.
“Non ho mai detto che lo guarderò da
sola.” Maria
sgranò gli
occhi, avvicinandosi. “Parla.”
Elle
sorrise, negando con il capo. “Dobbiamo andare a lavorare, o
no?”
~
“Quindi
lui è venuto dal futuro.”
Commentò
Steve, portandosi una mano al mento inconsciamente. Faceva sempre
così, quando non riusciva a capire qualcosa. Qualcosa di
poco
importante: se era preoccupato, la mascella di contraeva e gli occhi
blu si assottigliavano.
Invece,
appoggiato in una posa rilassata su un braccio, la testa vicino alla
sua, con la luce del televisore che lo illuminava a sprazzi, sembrava
assolutamente normale.
“Quindi
lui è stato mandato dal figlio di lei.”
Proseguì, sorridendo
imbarazzato. Elle inclinò il capo, ridacchiando.
“No, da suo
figlio.”
“Kyle.”
Esclamò Steve, esitante. Elle represse un'altra risata.
“No,
John.”
“Il
figlio di Sarah.” Concluse lui. Lei
sorrise, annuendo.
“Lei.”
“Lui
è un androide. Come Visione.” Commentò
indicando Terminator
mentre irrompeva in una discoteca. Elle annuì, voltandosi
verso lo
schermo. Il rumore di urla e spari le fece aggrottare le
sopracciglia. La donna allungò una mano verso il
telecomando,
abbassando leggermente il volume.
“Veramente
è un Cyborg.” Lo corresse lei. Lui si
voltò, gli occhi
leggermente sgranati. “Come Ultron.”
Elle
fissò il soffitto, mordendosi il labbro. “Non
è stata una grande
idea, questo film. Macchine che cercano di conquistare il
mondo.
Sono veramente una stupida. ”
“Ma
c'è un eroe che viene dal futuro.”
Sussurrò incoraggiante lui.
Lei evitò il suo sguardo. “Risolverà
tutto, vedrai.”
“Morirà.”
Elle scosse la testa. “Morirà per salvare
tutto.”
Steve
sorrise triste, appoggiandosi meglio sul gomito. Elle alzò
le
ginocchia al petto, appoggiandoci sopra il mento. “Mi spiace,
Steve.”
Lui
scosse il capo. “Sono abituato a farmi anticipare i finali.
Sai,
come con la storia degli ultimi settant'anni...” Elle
ridacchiò,
mettendosi le mani sul viso stanco. “Mi dispiace tanto,
davvero.
Pessima scelta cinematografica.”
“Mi
piace.” Commentò lui. Lei lo guardò con
la coda dell'occhio,
senza arrischiarsi a voltare il capo. “Davvero?”
Lui
annuì, passandosi una mano sul mento, pensieroso.
“Sarebbe tutto
più comodo, se qualcuno venisse dal futuro a dirci cosa sta
per
succedere e come fare per evitarlo.” Si strinse nelle spalle.
Elle
lo guardò. “Beh, sei arrivato tu.”
“Da
settant'anni prima. Che cosa potevo scongiurare? Ormai i problemi del
mio mondo non esistono più.”
“Da
persona che negli ultimi quattro mesi ha dovuto setacciare le ceneri
dello SHIELD per trovare le ultime briciole di Hydra, vai a
quel
paese, Rogers.”
Steve
stirò le labbra in un sorriso poco convinto. “Hai
presente le
leggi dell'economica? Keynes?”
Elle
era tornata a fissare lo schermo, il mento ancora sulle ginocchia e
le luci della televisione che si riflettevano nei suoi grandi occhi
azzurri. Annuì distrattamente, non capendo dove la voleva
portare la
sua domanda.
“Ogni
tanto penso che siamo noi che abbiamo avviato questo scambio di
Domanda ed Offerta. Come pensa la gente,
là fuori.” Elle
aggrottò leggermente le sopracciglia, voltandosi appena. Lui
le
sorrise, leggermente triste, lo sguardo che andava a posarsi sul
copriletto con il quale stava giocando con la mano libera. La Svedese
aspettò che lui continuasse.
“E'
vero, abbiamo salvato spesso il mondo. Ma, pensaci. Se Thor non fosse
venuto, Loki non avrebbe messo gli occhi sulla Terra, per
esempio.” Sollevò la mano, alzando un
dito, come per contare.
“Se Tony e Banner non avessero creato Ultron, non ci sarebbe
stato
bisogno di abbattere Sokovia. Sempre per esempio.”
“Se
non avessi distrutto lo SHIELD...”
“Saremmo
tutti morti.” Concluse Elle, spazientita, voltandosi verso di
lui.
“Io sarei morta. Quando Natasha ha messo tutto online, tutto
il
progetto Insight. C'era anche il mio nome su quelle
liste,
Steve.”
L'uomo
si accasciò sulla schiena con un sospiro. “Dovevo
immaginarlo.”
Elle
lo guardò dall'alto, una leggera increspatura divertita
sulle
labbra. “Dovresti curarti di meno di quello che pensano gli
altri.
Devi combattere per le loro vite, non per le loro opinioni.”
Si
strinse nelle spalle. “Oppure avresti dovuto darti alla
politica.”
Scoppiarono a ridere entrambi, guardandosi.
“Mi
è mancato parlare con te, Elle.”
Esclamò lui ridendo. Elle si
sdraiò, buttando il capo vicino al suo, i capelli biondi di
lei che
sfioravano la nuca di lui in un groviglio dorato.
“Quando
mai?” Ridacchiò sarcastica. “Sempre.”
Ammise lui,
serio. Elle sorrise, restando a fissare il soffitto, il film con un
audio ai limiti dell'udibile che proseguiva nonostante loro stessero
galleggiando nei loro pensieri, affiancati.
“Sei
sempre così melodrammatico?” Ridacchiò
lei, sarcastica. Lui si
coprì il volto con una mano. “Sono troppo
sensibile per questo
secolo.”
Elle
annuì, ancora ridacchiando.
~
“Stai
attenta, Elle.”
La
giovane sbuffò, proseguendo la sua passerella sui tetti
degli
edifici che costeggiavano Ayolalawall street. Il sole era cocente, e
il riverbero del lago che dava il nome alla città le dava
fastidio
agli occhi chiari.
Dietro
di lei, una figura scura planò dolcemente sul tetto,
osservandola
accucciata sul parapetto con un sopracciglio sollevato dietro le
lenti polarizzate.
“Senti
qualcosa?” Elle si voltò, negando leggermente con
il capo. “Nulla,
niente.”
Allungò
la mano ad indicare il porto, le mani coperte da guanti di pelle
scura. “Scommetto che sono nei container, Sam.”
L'uomo annuì,
portandosi una mano all'orecchio. “Sentito, Steve?”
Dieci
piani sotto di loro, Captain America sbuffò infastidito,
voltandosi
verso Natasha. “Samuel: controlla dall'alto.
Modalità Stealth.
Elle...” Alzò lo sguardo dal vicolo in cui si
trovava, osservando
preoccupato la fetta di cielo azzurro fra i due edifici.
“...Niente
colpi di testa.”
Elle
si mise in spalla il borsone che aveva mollato a terra,
sospirando.”Ricevuto. Proseguo verso il porto dai
tetti.”
“Non
puoi scendere e prendere l'auto come tutti?”
Borbottò Steve.
Natasha, dietro di lui, scoppiò a ridere, aprendo la
portiera del
SUV scuro.
“Elle?
Seriamente, Steve?” L'uomo le
lanciò un'occhiataccia,
montando sulla sua moto. Natasha si sedette al voltante, Wanda seduta
sul lato passeggero. I due veicoli si infilarono nel vivace traffico
del quartiere Somulu, proseguendo a velocità normale in
direzione
del lago.
“Elle,
Sam, novità?” Chiese Rogers.
“Con
tutto il rumore che fa quell'aggeggio che chiami moto, Rogers, non
capisco quello che dici.” Esclamò Elle, con il
respiro leggermente
affaticato. La donna prese la rincorsa, superando la fessura fra due
edifici, del quale il secondo di un piano più alto. Si tenne
alla
grondaia, issandosi con le braccia sottili, appesantita dal grosso
borsone.
“Pensa
a non cadere da quel tetto, Selvig.” La riprese divertito
Falcon,
passando poco sopra di lei, proiettandole sopra la sua ombra. Elle
grugnì in risposta.
“Ti
serve una mano, signorina?” Rise ancora l'uomo con le ali.
Steve si
portò una mano all'orecchio, l'altra che teneva stretta la
manopola
del manubrio. “Elle? Stai cadendo da un tetto?”
La
Svedese si issò sul parapetto, senza emettere un fiato.
Lanciò a
terra il borsone scuro.
“Colpa
dell'equipaggiamento.” Sospirò, passandosi una
mano sulla fronte
sudata per lo sforzo ed il caldo. “Piuttosto che farmi
aiutare da
Wilson, imparo a volare anche io.” Lanciò
un'occhiataccia
all'amico, che alzò le mani in segno di resa, quattro metri
più in
alto rispetto a lei. “Sei solo invidiosa,
biondina.” “Taci.”
“Smettetela,
voi due!” Li interruppe dal basso Steve, passando sotto di
loro con
la moto. Vedeva Samuel sospeso sopra al tetto. Non poteva vedere
Elle. Fermò la moto nel primo posto libero lungo il
marciapiede.
Sbottò irritato.
“Siamo
in missione, non è una gita ricreativa al Museo di Storia
Naturale.”
“Mi
sembrava di non vedere le siepi potate a forma di dinosauro,
qui.”
Commentò Natasha, scendendo dall'auto ed affiancandolo.
Erano alla
fine della strada, sotto un imponente edificio grigio, e di fronte a
loro stavano delle cabine da portineria vuote e due sbarre rosse e
gialle, abbassate per impedire alle auto di entrare ed uscire.
“Che
facciamo, ora?” Chiese la rossa, sistemandosi la giacca di
pelle
marrone.
“Siamo
venuti fino a qui.” Rogers si strinse nelle spalle,
voltandosi
verso la moto. Sganciò lo scudo, coperto da un panno nero,
dal muso
della Harley.
“Elle,
tieni il perimetro verso Arobadade Street. E non lasciar scappare
nessuno nemmeno da Unity Street.”
“Ricevuto.”
Elle si piegò a terra, aprendo il borsone. Samuel
atterrò accanto a
lei, piegandosi sulle ginocchia. “Lo sai montare uno di
questi
aggeggi, Marksman?”
“In
questo caso Sniper, prego, Pararescue dei miei
stivali.”
La
svedese estrasse con cura i vari pezzi contenuti nel borsone,
sollevando le sopracciglia. “Rogers ha autorizzato queste
armi?”
Guardò un attimo Samuel, che esitò.
“Non pensavo gli piacessero
le armi pesanti.”
Elle
estrasse con attenzione il treppiede del fucile, mentre Samuel
estraeva l'M21 con sguardo perplesso. Elle prese la canna dalle sue
mani, incastrandola con uno schiocco sul sostegno. “Avevi
ragione,
Samuel. Marksman.”
“Deve
avere davvero paura che tu possa rimanere coinvolta nello scontro per
mandarti in giro con questo.”
“Magari
è di Rumlow che ha paura.” Elle si strinse nelle
spalle, mondando
con attenzione il mirino. Samuel picchiettò sulla fondina
che teneva
sul petto.
“Questo
non spiega come mai io abbia soltanto una Sig Sauer. E Natasha una
beretta.”
“Anche
io ho due berette.”Commentò Elle, mostrando le
fondine sotto alle
braccia, allacciate al petto.
“Falcon,
io e Natasha entriamo, ho bisogno che tu faccia perlustrazione
dall'alto.”
“Certo
Capitano.” Commentò l'uomo. Si
allontanò leggermente da Elle, che
si sistemava sul parapetto dell'edificio, inginocchiata a terra e con
il fucile ben impugnato fra la mano sinistra e la spalla destra.
“Tu
sei a posto?” Chiese sbrigativo. Elle annuì,
alzando un pollice.
L'uomo le sorrise.
“A
dopo Selvig. Stai attenta.”
Arretrò
all'indietro fino alla fine dell'edificio, lasciandosi cadere di
schiena. Elle sbuffò, rivolgendo le sue attenzioni alle
figure dei
suoi amici che entravano nel deposito del porto di Lagos.
“Allora,
ti sei spaventata, Selvig?” Chiese ridendo Samuel
nell'auricolare.
“Sei
un cretino, Wilson.” Commentò placidamente Elle,
tornando a
scrutare Rogers e Nat che vagavano fra i container. L'uomo si
voltò
leggermente, facendo un segno nella sua direzione. Elle
rilassò un
attimo le spalle, mentre Falcon percorreva avanti e indietro lo
spazio aereo sopra la distesa di container.
(Marksman
– un soldato particolarmente addestrato al tiro di precisione
ma
che agisce in una squadra.)
(Sniper
– cecchino, agisce in una posizione isolata rispetto al resto
della
squadra.)
(M21,
Beretta e Sig Sauer sono tutti nomi di armi. Il primo è un
fucile di
precisione semiautomatico, le altre sono pistole semiautomatiche.
Sono tutte armi dell'esercito americano. n.d.A.)
~
Elle
si svegliò in un lago di sudore, aprendo gli occhi di scatto
e
alzandosi con un colpo di reni. Le braccia erano già in
posizione di
difesa, mentre l'incubo scivolava lentamente fuori dalla sua mentre
ed anche dalla sua memoria.
Sbatté
le palpebre un paio di volte, respirando profondamente, mentre
istintivamente si portava le ginocchia al petto, cercando di
riprendere un ritmo di respirazione normale.
Una
figura accanto a lei emise un borbottio, prima di muoversi
leggermente nella sua direzione. Elle ebbe uno scatto, spostandosi di
lato con un singulto prima di distinguere nella flebile luce del
televisore il Capitano Rogers. Si avvolse lentamente nel lenzuolo,
sentendo il freddo dell'alba che le si appiccicava addosso. Il sole
stava timidamente sorgendo dietro le imposte automatizzate della
base, illuminando a piccoli sprazzi il volto dell'uomo che dormiva
accasciato sul copriletto accanto a lei.
"...Leave
me out with the waste, this is not what I do..."
Elle
aveva cominciato a canticchiare la prima canzone di dubbio gusto che
le era passata in testa, come faceva ogni volta che l'ansia non le
permetteva di respirare adeguatamente. Si mise una mano sul basso
ventre, immaginando di sentire il suo diaframma mentre cercava di
regolarizzare il respiro.
"...It's
the wrong kind of place, to be thinking of you..."
Avrebbe
voluto allungarsi a prendere il telecomando, ma per farlo avrebbe
dovuto scavalcare la figura di Rogers. O abbandonare le coperte
calde.
Si
distese di nuovo, fissando il soffitto bianco sopra di lei mentre si
colorava delle prime luci del mattino. Le giornate si stavano
accorciando, e entro poche settimane al suo risveglio avrebbe trovato
solo il buio del bosco intorno alla base. Voltò leggermente
il capo
nella direzione di Rogers, sdraiato con la testa appoggiata sul
cuscino ed una mano sul ventre.
"...It's
the wrong time, for somebody new, It's a small crime, and I got no
excuse..."
Qualcosa
di caldo le prese la mano, che teneva appoggiata sul fianco.
“Elle,
tutto ok?” Le chiese con voce impastata lui. Elle sorrise al
soffitto, senza avere il coraggio di voltarsi ed incontrare i suoi
occhi. Temeva quello che sarebbe potuto accadere. Temeva sentirsi
così felice, solo perché la sua mano era stretta
in quella più
grande e più calda di lui. Lei chiuse gli occhi, facendo
finta di
dormire.
Il
respiro si era regolarizzato dopo il suo incubo, del quale non
riusciva a ricordare nemmeno un particolare. Ma il suo povero cuore,
ora, batteva all'impazzata.
Sentì
il materasso cigolare, mentre l'uomo si allungava a prendere il
telecomando nella penombra della stanza. Spense lo schermo,
rimettendolo a posto. Si alzò su un fianco, puntellandosi
con la
mano libera, mentre l'altra teneva ancora la sua.
Controllò
l'ora sul cellulare di lei, appoggiato sul materasso.
Sbuffò,
mettendo anche l'iPhone di Elle sul comodino.
Restò
un attimo a guardarla, ed Elle serrò le palpebre e finse di
respirare profondamente, pregando di essere convincente.
Lo
sentì piegarsi leggermente in avanti, e strinse ancora di
più le
palpebre.
Steve
sorrise leggermente contro la sua fronte, stampandole un leggerissimo
bacio sulla pelle candida.
“Lo
so che hai avuto un incubo.” Sussurrò al suo
orecchio. Elle
rabbrividì. “E che non vuoi parlarne.”
Lei voltò leggermente il
capo, senza guardarlo.
“Sono
qui per questo.” Sussurrò ancora, nel buio. Lei
sospirò, mentre
lui si allontanava con delicatezza, sdraiandosi accanto a lei. Elle
lo sentì sospirare, nel buio della stanza.
“Grazie.” Rispose in
un sussurro. Anche nel buio, poteva giurare che stesse facendo uno
dei suoi sorrisetti.
~
“Elle!
Elle, maledizione, apri!”
La
donna ci mise un secondo a rendersi conto che era nel suo letto,
appoggiata a qualcosa di caldo che le circondava le spalle,
abbracciandola. Con uno scatto, si liberò dal braccio di
Rogers e
rotolò giù dal lato opposto del letto.
“Rogers!
Steve, svegliati!” Borbottò, lanciandogli contro
un cuscino.
L'uomo emise un mugugno irritato, voltando il capo nell'altra
direzione. Elle corse verso l'ingresso, sentendo Samuel continuare ad
imprecare. Aprì uno spiraglio della porta, guardando il
volto
arrabbiato dell'amico.
“Ti
pare l'ora di svegliarti?! Ti ho cercato dappertutto e sei qui, in
mutande, a dormire!” Elle alzò
le mani in segno di resa,
arrossendo leggermente.
“Non
trovo Rogers, hai idea di dove si sia cacciato?”
Elle
si irrigidì, mentre l'uomo apriva la porta senza troppe
cerimonie.
Senza pensarci, si diresse verso il letto, dove l'amico lo guardava,
il viso porpora.
“Rogers!
Abbiamo trovato Rumlow!”
Steve
si alzò di scatto, ancora in calzini e pantaloni della tuta.
Samuel
si interruppe bruscamente, restando a fissarlo. Si voltò a
guardare
Elle.
“Allora?
Dov'è Rumlow?” Esclamò Steve,
abbassandosi ad infilarsi le
scarpe. Con uno scatto, lanciò la sua felpa ad Elle, che
stava
impalata al centro della stanza con una canotta di cotone e delle
coulottes nere. Samuel distolse lo sguardo, tornando all'amico.
“Ho
interrotto qualcosa?”
xXx
Ciao a tutti! Di
nuovo!
Nota velocissima:
spero che l'orario vada meglio.
Molto di questo
capitolo è stato scritto poco prima della pubblicazione: ho
dovuto fare delle leggere modifiche per delle cose che volevo
aggiungere dopo. Spero che, anche se mancava un po' di azione, vi sia
piaciuto. Finalmente entriamo un po' di più nell'ottica
militare!
Ringrazio come sempre
Delta e Bagabu per le recensioni - fatevi avanti, gente, fatevi avanti!
Temo ci
metterò un poco a rispondere ai messaggi, così
come pubblico al volo questo capitolo, causa ho mille cose da fare e
poco tempo per farle!
Ringrazio tutti voi
che seguite e recensite o semplicemente leggete la storia!
Ci vediamo la
prossima settimana; non sono sicura di poter aggiornare
Mercoledì, quindi nel dubbio pubblicherò il nuovo
capitolo
Martedì 17 Novembre.
Eve
|
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Capitolo 12 *** 12.Ruolo ***
12
Salve gente! Come
potete vedere, ho
cancellato l'avviso della scorsa settimana per sostituirlo con questo.
Il capitolo tanto promesso. Quello che spero vi farà saltare
sulla sedia. Più volte, magari. Perchè da qui in
poi
sarà un casino. Per questo, mi sono presa una settimana in
più per essere sicura che fosse tutto come volevo. Ringrazio
come sempre tutti voi che seguite questa storia, sia le anime pie che
hanno recensito, sia coloro che leggono silenziosamente. Non mi
scuserò per l'attesa: volevo che le cose fossero esattamente
come immaginavo.
In più, oggi è finalmente uscito il trailer di CIVIL
WAR
che alla fine sarebbe cronologicamente alla fine di questa storia, per
certe cose in contemporanea. Ma non ci saranno spoiler, non temete. Se
non avete visto nulla, ancora, nemmeno vi accorgerete dei riferimenti.
Ho solo dovuto apportare alcune modifiche alla storia, che mi hanno
ritardato l'aggiornamento di oggi.
P.s.:Hype alle stelle per quella meraviglia che è il trailer
di C.W.. Cioè, parliamone.
Eve
Capitolo
12: Ruolo
"All
I ever wanted,
Secrets
that you keep.
All
you ever wanted,
The
truth I couldn't speak.
Cause
I can't see forgiveness,
And
you can't see the crime.
And
we both keep on waiting
For
what we left behind"
LINKIN
PARK
Dicembre
2015
Steve
Rogers non pensava di essere un tipo superstizioso.
Non
aveva mai creduto che entrare in una stanza avanzando con il piede
sinistro o aprire l'ombrello in casa per farlo asciugare dopo una
giornata sotto la pioggia Newyorchese fossero azioni con conseguenze
negative.
Tuttavia,
quando si era alzato dal suo sedile accanto alla cloche del Quinjet
ed aveva aperto il suo orologio da taschino per sincronizzarsi con i
compagni di squadra, non era riuscito a trattenere un fremito di
gelo.
La
foto di Peggy sorrideva ammiccante da un lato del guscio di metallo;
osservò la curva delle belle labbra, che lui sapeva essere
scarlatte, ma che sulla carta erano di un grigio leggermente
più
scuro; si lasciò un attimo sprofondare in quegli occhi
espressivi
che sembravano scrutarlo nel profondo, stretti in un'espressione
enigmatica, che lo spronavano ogni giorno a dimostrarsi come lei lo
voleva, generoso e attento.
L'altro
lato dell'orologio, un semplice quadrante con incisi in scuro i
numeri arabi, lo fissava nel suo abbagliante smalto bianco, quasi
prendendosi gioco della sua sicurezza. Le lancette stavano immobili,
talmente sottili ed appuntite da sembrare spilli pericolosi. Persino
quella dei secondi si ostinava a restare ferma a fissarlo, diretta
verso un punto indefinito fra il due e il tre. Era talmente distratto
dai suoi stessi pensieri, durante il viaggio verso la Nigeria e forse
anche prima, da non essersi accorto prima dell'interruzione del
ticchettio che ormai da anni, da prima del suo risveglio dal
ghiaccio, lo accompagnava ovunque.
Quando,
dopo lo scongelamento, gli erano stati riconsegnati i suoi averi,
Steve aveva fatto riparare il suo orologio speciale, il suo
portafortuna, senza la quale si sentiva quasi a
disagio. Come
se gli mancasse una componente essenziale del suo abbigliamento, o
come se avesse perso un vecchio amico. Un altro.
Sbuffò,
chiudendo l'orologio con un gesto secco.
“Non
sarebbe ora di aggiornarsi?” Chiese Wanda, sorridendo
forzatamente.
Si sfregava le mani fra loro, seduta su un altro sedile accanto a
Natasha, che stava impostando lo spegnimento del veicolo. Elle stava
aiutando Samuel ad indossare l'armatura da Falcon, stringendogli una
cinghia sul petto con forza.
“Devo
respirare, qui sotto.” Borbottò infatti l'uomo.
Elle lo fulminò
con lo sguardo, nascondendo un sorriso. Steve rimise l'orologio nella
tasca dei pantaloni normali, voltandosi verso Natasha.
“Quanto
abbiamo?”
“L'ultimo
rilevamento della geo-localizzazione è a dieci chilometri da
qui.”
Indicò un puntino verde su una mappa di Lagos, verso il
quartiere
Somulu.
“Si
sono attivati parecchi sistemi S.H.I.E.L.D meno di tre ore fa.
Più
l'immagine della telecamera di sorveglianza di un bancomat vicino a
Ayolalawall street.”
Natasha
si girò sulla poltrona, guardandoli dal basso. Anche Steve
si voltò,
per poterli vedere tutti in viso.
“Non
abbiamo con noi Visione e nemmeno War Machine.”
Sospirò. “Ma è
la nostra occasione di prendere Rumlow e capire per cosa lo stanno
organizzando. Dalla testimonianza di Elle-” Indicò
con un cenno
del capo la ragazza. “-Sappiamo che è stato molto
probabilmente
deprogrammato, in modo simile al Sergente Barnes.”
“Il
soldato d'Inverno...” Sussurrò Samuel in
risposta allo sguardo
perplesso di Wanda. Steve annuì, voltandosi verso Elle.
“Io
e Natasha faremo un sopralluogo in abiti civili. Avremo poche armi ed
un limitato raggio d'azione. Io andrò con la
Harley...” Elle
sospirò con un sorriso, mordendosi il labbro per trattenere
la
risata. “Natasha mi seguirà con il Suv. Prima
lascerà Elle lungo
la via principale.” Si diresse verso una rastrelliera e
buttò in
un borsone una serie di canne e munizioni. “Elle, tu daresti
troppo
nell'occhio, qui. Resta sul tetto, come cecchino, e avvisami di
eventuali movimenti lungo la strada o nel porto. Falcon: intervieni
solo se ti viene detto espressamente. Sorvola la zona e tieni gli
occhi aperti. Wanda...” Si voltò verso la ragazza,
seduta
compostamente sulla panca in acciaio, con le mani giunte in grembo.
“Resterai nel Suv di Natasha. Non scendere. Non farti notare.
E
soprattutto, niente magie.” La donna
annuì, distogliendo lo
sguardo.
“Non
voglio fare scalpore. Deve essere una cosa pulita.
Niente
morti inutili...” Si voltò, lanciando uno sguardo
severo verso
Natasha ed Elle. “Siamo qui per prendere Rumlow,
perché questa
scia di sangue abbia fine. Ma non sono ancora disposto a trasformarla
in una guerra. Voglio provare a parlarne.”
Elle
sogghignò. “Buona fortuna, Capitano. Quell'uomo
è perso.”
Lo affrontò a viso aperto, avvicinandosi a lui e
fronteggiandolo con
la testa leggermente sollevata per osservarlo negli occhi. “E
se io
dico che non può essere salvato, è grave. Se lo
riterrò pericoloso
per voi o per i civili, non mi farò problemi a fare fuoco. O
peggio.”
“Niente
poteri.” Ripeté Rogers, lo sguardo duro.
“Solo
in caso di estrema necessità.”
Ribatté Elle. Lui sospirò.
“Mi
fido del tuo giudizio. E' della tua paura che non mi fido. Non ti ho
mai vista in missione.”
“Non
farò nulla che possa rivoltarsi contro di noi.”
L'uomo
la guardò un attimo, perplesso. Elle si sfregò le
braccia, lasciate
nude dalla maglietta nera. Natasha aprì il portellone,
alzandosi poi
elegantemente dal sedile di pilotaggio. Sfiorò Elle con una
mano,
passandole accanto, prima di dirigersi verso la rastrelliera dove
stava la sua borsa ed estrarre le pistole.
Steve
la seguì, afferrando un borsone e prendendo delle componenti
di un
fucile dalla rastrelliera. Rimase a soppesare il caricatore un
secondo in più, voltandosi verso Elle. “Hai
già esperienze come
Sniper?”
Elle
annuì. “Ho un'ottima mira. Anche se non come
Nat.”
“Allora
andiamo.” Commentò Steve, buttandogli in braccio
il borsone con un
cenno sbrigativo del capo. Elle si trattenne dallo buffare per il
peso, passandoselo su una spalla.
“Nat
sarebbe più capace di me in questo compito. Io sono
più utile sul
campo.”
L'uomo
non si voltò nemmeno a risponderle, mentre Falcon da dietro
aprì le
braccia in segno di resa. La precedette, sorridendole. “E'
lui il
Capitano.”
Steve
scese, aspettandoli fuori dal velivolo. Samuel si infilò gli
occhiali da sole, Natasha si passò velocemente un filo di
rossetto
di un delicato rosa antico, Wanda si buttò sulle spalle la
giacca
scura, lanciando uno sguardo quasi rassegnato all'interno del
Quinjet, sicuro e rassicurante nella sua asetticità, prima
di
scendere dalla rampa.
Elle
si stava sistemando la coda di cavallo, le sopracciglia aggrottate
verso il suo riflesso, mentre valutava con un sospiro il suo
abbigliamento.
Avevano
optato per abiti civili. Ma, come sosteneva sempre Natasha, Elle
possedeva quasi solo abiti per il lavoro. In quel caso, la sua mise
da giorno comprendeva una maglietta nera, pantaloni militari ed una
serie di cartucce avvolte tra la spalla ed il fianco. Due pistole
stavano nella fondina sotto le braccia, mentre delle imbottiture dal
semplice telaio in metallo proteggevano le spalle, la schiena e parte
del busto. Abiti Civili, proprio.
Si
sentiva una specie di automa, un robot. Non sentiva più il
peso
della colpa, l'agitazione prima della battaglia, l'adrenalina che
entrava in circolo le non le permetteva di agire con calmo
raziocinio. Ora, erano solo lei e la sua missione.
“Elle,
dobbiamo andare.” Steve si sporse dalla rampa del Jet,
guardandola
con la mascella leggermente tesa e gli occhi socchiusi. Elle sorrise,
sistemando l'ultima beretta perfettamente lucidata nella fondina di
sinistra. “Sono pronta.”
Lui
la aspettò guardandola attraverso la rampa, sorridendo teso.
“Vedrai
che andrà tutto bene.” Cercò di
rassicurarlo lei, scendendo ad
ampie falcate. Lui sospirò, l'ombra di una smorfia sulle
labbra.
“Dovrei
essere io a sostenervi. A dirvi che andrà tutto
bene.” Elle alzò
gli occhi al cielo. “Non puoi fare tutto tu. Qualcuno
dovrà
sostenere il sostenitore.”
“Tu?”
Chiese lui, con un sorriso malizioso. Elle abbassò lo
sguardo,
fermandosi davanti a lui, sul cemento della pista erano atterrati.
“Forse.”
“C'è
un vento gelido.” Ammise Elle, guardando il portellone
chiudersi.
Steve guardò un attimo la giacca di pelle marrone che teneva
fra le
mani. Gliela mise in mano.
Lei
fece per ribattere, quando lui si tolse la felpa blu, lo scudo
appoggiato alla moto.
Le
appoggiò la felpa sulla spalla libera, trattenendo un
sogghigno.
Riprese la giacca di pelle, indossandola. “Non avrai mica
pensato
che ti lasciassi la mia giacca da moto.”
Elle,
ammutolita, sorrise leggermente. “No, scherzi.”
Infilò la felpa
senza fiatare, mentre Natasha arrivava dietro di lei con l'auto.
Suonò il clacson, impaziente.
Fece
per voltarsi, quando lui le prese un polso, con fermezza, facendole
alzare immediatamente lo sguardo. “Stai attenta.”
“Mi
hai messa in cima ad un tetto. L'unico rischio che corro è
che un
pellicano decida di farmi il nido addosso mentre vi aspetto.”
Sogghignò. “Siete voi che dovete stare attenti.
Dovrei venire con
voi.”
“Non
riprovarci. Ci serve un cecchino.” Elle si strinse nelle
spalle,
sorridendo. “Allora avrete un cecchino, capitano.”
Si
diresse verso il Suv, aspettandosi qualche richiamo da parte di
Natasha, seduta al posto di guida, o qualche battuta di Samuel, che
stava fermo a guardarli poco distante, come tutti gli altri.
Steve
stava per salire sulla moto quando Elle lo richiamò, seduta
nei
sedili posteriori. “Hey tu, Rogers!”
Lui
si voltò, alzandosi il bavero della giacca in pelle marrone,
lo
scudo agganciato alle larghe spalle. “Dimmi, Elle.”
“Stai
attento anche tu. Devi ancora finire di ascoltare la discografia dei
Pink Floyd.”
Lui
le sorrise, mentre Elle si imporporava leggermente, fissandolo.
“Contaci,
Selvig.” Le fece un cenno con la mano. “Appena
Rumlow sarà in
una cella a marcire. Mi avevi promesso anche una maratona di Star
Wars.”
~
Le
vie della città erano ricolme di gente che si destreggiava
fra il
vivace traffico cittadino ed il caos generato da un attivo scalo
marittimo. Il lago Lagos si estendeva fin dove era possibile
guardare, e l'immenso Third Mainland Bridge
tagliava
l'orizzonte da parte a parte, dividendo la terra dei vivi dal cielo
terso.
C'erano
con una discreta maggioranza persone di etnia africana, e per il
resto caucasici e qualche sparuto europeo non troppo settentrionale.
Natasha
spiccava come un fiocco di neve in mezzo alle foglie di un albero
scuro, ed Elle non poté fare a meno di capire che una delle
fondamentali ragioni per non metterla direttamente sul campo era
quella di non farsi notare troppo. Un uomo europeo poteva essere un
commerciante o un giornalista. Una donna, invece, avrebbe decisamente
dato nell'occhio. Con il suo incarnato quasi opalescente ed i capelli
biondo cenere, lei avrebbe attirato ben più attenzione di
quanta non
ne servisse per mandare a monte un'operazione già di per
sé
delicata.
Aveva
passeggiato sui tetti di Lagos per diverse decine di minuti,
battibeccando con Falcon e godendosi finalmente una temperatura
più
che accogliente per il suo corpo raggelato.
Stesa
su un ginocchio, le sopracciglia aggrottate per difendere gli occhi
dal sole, Elle osservava ogni movimento che attirava la sua
attenzione attraverso il mirino del fucile di precisione, prendendo
ampi respiri.
Teneva
sempre sott'occhio la chioma fiammeggiante di Natasha, mentre lei e
Rogers si aggiravano in un labirinto di attracchi, bitte e container.
“Verso
Nord-ovest.” Esclamò Falcon, solo un'ombra
nascosta dietro il
riverbero del sole. Elle controllò sul tablet la bussola ed
una
panta satellitare, reggendo il fucile con una mano. Natasha, un
centinaio di metri sotto e davanti a lei, controllò sul
palmare,
mentre Steve la guardava in attesa. Lei indicò in una
direzione,
mentre Elle imbracciava nuovamente il fucile e li precedeva con lo
sguardo verso una zona dismessa del deposito dei container.
“Vedo
del movimento verso il limite ad ovest, ma non riesco ad
identificarlo. Potrebbe essere un animale selvatico.” Elle
cercò
di aumentare lo zoom del mirino, mordendosi un labbro.
Vedeva
un'ombra scura correre da un container all'altro. Era veloce, ma
soprattutto era troppo lontano. Non riusciva a mettere a fuoco quella
figura.
Questa
si avvicinò, zigzagando fra i vari scheletri di metallo, al
punto in
cui erano Steve e Natasha, che a loro volta andavano nella sua
direzione.
“Problema:
vi state venendo incontro a vicenda. La nostra ombra si sta
avvicinando...”
Steve
si voltò, guardandosi le spalle, mentre Natasha appoggiava
una mano
sul suo braccio, estraendo con l'altra mano la pistola che teneva al
fianco. Elle deglutì, cercando forsennatamente la figura che
si era
fermata dietro un grosso container, fuori dalla sua vista.
Per
arrivare così lontano con la sua mente, doveva per forza
concentrarsi. Per concentrarsi, doveva distrarsi dal mirino, dalla
scena che stava osservando.
Strizzò
gli occhi, cercando di decidere in fretta, mentre si dirigeva con il
pensiero verso i suoi amici.
“Falcon,
rapporto.” Sibilò Steve, portandosi una mano
all'orecchio,
sull'auricolare. “Elle, cosa vedi?” Chiese quasi
subito,
facendola distrarre. Natasha si voltò a guardarlo.
“Non
rispondono.” Commentò infine la russa, tenendo la
pistola dritta
davanti a sé.
Si
sentiva osservata, spalla a spalla con Rogers, ma nessuno dei due
vedeva nemmeno un'ombra o sentiva un bisbiglio.
“Tornate
indietro.” Esclamò improvvisamente Elle.
“Non c'è nulla lì.”
Steve
fece per obiettare, ma Nat lo precedette. “Come?”
“Falcon
ha preso un abbaglio. Dovete andare verso est, verso il mare. Allo
scalo marittimo abbandonato.” Concluse Elle asciutta, lo
sguardo
puntato attraverso il mirino a pochi metri dai due. “Falcon
sta già
raggiungendo la zona. Ma c'è un disturbatore di onde
radio.” Steve
tirò un calcio ad un pezzo di ferro a terra, sollevando un
mulinello
di polvere. “Dannazione.”
“Non
so se se ne è già accorto.”
Espirò Elle, brutale. “Correte.”
I
due cominciarono a correre nella direzione opposta, Natasha con
l'arma stretta nella mano sinistra e Steve con l'ansia negli occhi.
Elle si rilassò stancamente contro il fucile, senza togliere
lo
sguardo dal mirino.
Nell'apertura
tonda, al centro di una X disegnata con scanalature
nere,
leggermente sfocato, stava una figura familiare, appoggiata di spalle
alla parete di lamiera.
Elle
imprecò. Davanti a lei, ansante e coperto di polvere, stava
Bucky
Barnes.
~
“Elle?”
Steve si portò una mano all'orecchio, la mascella contratta.
Natasha
si voltò leggermente, guardandolo con la coda dell'occhio.
“Sa
cavarsela. E' al sicuro. Ora andiamo.”
I
due proseguirono lungo la strada sterrata, in mezzo alle grosse
scatole di lamiera, l'uno che guardava le spalle all'altra.
Avanzavano a passo di marcia, il sole cocente africano che batteva
ardente sulle loro giacche. Videro un'ombra oscurare il sole, e Steve
si voltò di scatto, seguendone la traiettoria.
Samuel
precipitò davanti a loro, sbattendo contro un container con
un
rumore di lamiera spezzata e un tonfo sordo. Un'ala sembrava
danneggiata, graffiata da profondi tagli.
Rogers
corse verso di lui, inginocchiandosi al suo fianco, mentre Natasha
controllava nella direzione dal quale era arrivato, tenendo l'arma
carica puntata davanti a sé.
“Non
abbiamo mai visto niente del genere, Capitano...”
Natasha
dopo aver controllato che le vie che portavano a loro fossero libere,
si voltò verso i due, osservandoli dall'alto. Steve
appoggiò una
mano sulla spalla dell'amico, aiutandolo ad alzarsi sul busto. Un
grosso taglio gli lacerava il tessuto metallico dell'uniforme, sul
fianco.
“Cosa,
Samuel?”
“Ho
riconosciuto la voce... Ma non ricordo il nome o la faccia. Quel
bastardo è avvolto in una specie di armatura-”
“Stark?”
Chiese incredulo Steve. Samuel negò con il capo.
“E' tutta nera,
piena di pistoni... Non è opera di Stark.”
Natasha
voltò il capo, una mano sull'auricolare. “Elle,
vedi una specie di
Robot Nero?”
Una
voce concitata rispose dall'altro capo. “No... Non mi pare di
aver
visto niente, ma dal tetto vedevo solo fino a mezzo
miglio...”
“Elle,
cosa stai facendo?” Steve aggrottò le
sopracciglia, le labbra
strette in una smorfia.
“Sto
scendendo dal tetto.” Ammise semplicemente lei. Sentirono un
tonfo
sordo.
“Scendendo?
Ti sei lanciata giù?”
“Grondaia.”
“Erano
venti piani.” Esclamò secca Natasha. Steve scosse
la testa. “Non
azzardarti ad entrare nel porto, Elle. Stai fuori. Cerca Wanda e
portala con la macchina al Quinjet.”
Sentì
un sospiro esasperato dall'altro lato. “E voi? In tre su una
moto?”
Steve
fece una faccia esasperata. “Preferisci prendere un
Taxi?”
“Prendo
la moto.” Esclamò Elle. Steve fece per dire
qualcosa, quando Elle
interruppe la comunicazione. Guardò Samuel interdetto.
Questo si
strinse nelle spalle. “C'è un'altra
cosa..”
Natasha
e Steve lo guardarono. Quest'ultimo gli fece segno di continuare.
“Sul
petto. Aveva un disegno. Un teschio.”
~
Elle
si fece largo a strattoni fra la gente. Aveva abbandonato sotto ad un
cassonetto il borsone con tutte le sue armi e le munizioni, tenendo
solo le due beretta. Aveva recuperato una grossa felpa blu, che per
caso aveva portato con sé fino al suv, e ora si faceva largo
a
spintoni fra la gente di Lagos con il cappuccio ben calato sul viso e
gli occhi socchiusi. Raggiunse la rete metallica che delimitava la
periferia del deposito abbandonato, guardandosi attorno.
Le
persone evitavano accuratamente di avvicinarsi. Evitavano persino il
marciapiede che costeggiava la recinzione. Elle vide un grosso ratto
guardarla da dentro un grosso tubo il lamiera, buttato sulla terra
battuta. Sospirò.
Doveva
sbrigarsi: al loro ritorno, Rogers Natasha e Samuel dovevano trovarla
al Quinjet con Wanda. E la moto.
Estrasse
il cellulare e fece un numero, guardandosi attorno senza
apparentemente prestare particolare attenzione a nulla attorno a
sé.
Trenta
metri dietro di lei, lungo la via, un cestino del pattume esplose con
un boato.
Elle
fece tre passi indietro, mentre tutti accanto a lei si voltavano ed
iniziavano a correre via dalla strada, temendo un attacco
terroristico. Una persona, vicino al cestino, rimase seduta a terra
senza emettere un verso. Un uomo aveva un sottile taglio sulla
fronte. Nessun altro sembrava ferito.
Con
una corsa veloce, Elle si issò sulla rete, sentendo il
reticolato
tagliarle leggermente i palmi delle mani. Si gettò
dall'altro capo,
atterrando con una capriola, e rotolando dietro una grossa lamiera
sbeccata e corrosa dalla ruggine. Spiò sulla strada dietro
di sé.
Nessuno sembrava essersi accorto della sua esibizione, nel trambusto
generale. Abbassò di nuovo il cappuccio sui capelli
sommariamente
legati al capo con una smorfia.
Si
voltò sui talloni. Anche dietro di lei, nessun movimento. Il
deposito era un territorio insidioso, pieno di nascondigli.
Strizzò
gli occhi, ancora piegata sulle ginocchia.
Tre
container più avanti a lei, due a sinistra, a destra di
altri
cinque. Non stava correndo. Cercava qualcosa. O qualcuno. Ma ad Elle
non sembrava ci fosse nessun altro in quel labirinto di latta.
Si
alzò e cominciò a correre.
~
Il
proiettile passò a pochi centimetri dalla guancia destra di
Romanoff, sbattendo contro la parete di lamiera di un container e
rimbalzando indietro. Steve le mise una mano sulla spalla, facendola
abbassare in tempo per evitare il proiettile vagante, che
andò ad
infrangersi contro una macchina abbandonata nello spiazzo che avevano
davanti.
Sei
uomini, in tenuta nera, con armi e tenute da sicari, li bersagliavano
di colpi a bassa gittata ma perforanti. Steve teneva davanti a
sé lo
scudo che aveva portato sulla schiena mentre vagava per il deposito,
portandolo davanti a lui ed all'amica. Natasha sibilò,
aspettando
che scaricassero i caricatori quasi in simultanea. Uscì con
il
braccio, spiando da oltre lo scudo, e colpendo due dei sei alla
spalla ed al fianco, costringendoli a terra. Samuel, appoggiato a
terra nel container dietro di loro, imprecò.
“Non
vedo il tuo uomo, Falcon.” Esclamò secca Natasha.
“Non
so se sia un bene.” Borbottò Steve.
“Elle?”
Samuel
provò ad avviare la comunicazione. Scosse il capo.
“Nemmeno Wanda
percepisce la sua presenza.”
“Maledizione.”
Steve si passò una mano fra i capelli, mentre Natasha
sparava ad
altri tre soldati. Samuel intanto ricaricò la sua pistola,
lanciandola alla donna appena questa si voltò. Natasha fece
cadere
la beretta e affettò la Sieg senza battere ciglio, sparando
agli
ultimi soldati rimasti.
“Sei
Hydra in meno.” Commentò senza emozione. Steve
sospirò.
“Cerchiamo
di portare fuori Samuel.”
“Ripieghiamo?”
Chiese la rossa, un sopracciglio alzato. Rogers annuì,
rimettendosi
lo scudo sulle spalle. “Ripieghiamo.”
~
“Hai
ancora la mia maglietta.”
Elle
si fece avanti da dietro un container, guardando l'alta figura in
piedi al centro di un piccolo spiazzo scoperto. I capelli erano
ancora più lunghi, fino alle spalle, e il braccio che lei
sapeva
essere di metallo era coperto dalla manica della maglia leggermente
consumata ma pulita. L'altra manica era sollevata fino al bicipite
scolpito, un paio di piccole cicatrici ben visibili sulla pelle
coperta da una leggera peluria scura. L'uomo si voltò,
guardandola
con una smorfia.
“E
quella non è la tua felpa. A chi rubi tutti questi abiti
maschili?”
Elle
si strinse nelle spalle, restando a distanza. “Ho molti
amici.”
“Dovresti
presentarmeli. Visto che porto i loro vestiti.”
“Alcuni
li conosci già.”
L'uomo
sospirò, socchiudendo gli occhi nocciola. Si
grattò con la mano
normale la leggera peluria che ricopriva la guancia. “Sei
entrata
negli Avengers?”
Elle
annuì, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Lui
sospirò.
“Ti
piace proprio la sensazione di morire?”
“Non
mi piace che la provino gli altri.”
“Allora
dovresti odiarmi.”
“Ne
abbiamo già parlato, Bucky...”
“Non
osare chiamarmi Bucky!” Urlò lui. Elle
alzò le braccia in
segno di resa.
“Va
bene, Sergente Barnes.” Esalò
Elle con molta enfasi. Vedeva
che era teso, la spalle rigide.
“Vieni
con me. Risolveremo tutto.”
“Non
ti hanno detto che c'è un mandato di cattura per
me?”
“L'Hydra
vuole catturarti.”
“Il
mondo vuole catturarmi.” Esclamò ad alta voce lui.
“Per delle
cose che mi hanno costretto a fare.”
“Esatto.
Possiamo provare la tua innocenza, possiamo..:”
“Sarò
morto prima di un eventuale processo. Sempre che per le bestie
come me valgano le leggi degli uomini. E va bene
così.”
Sputò
fuori le parole come fossero una pastiglia amara, una ruga di
tristezza che ormai non abbandonava più il viso scuro. Elle
rimase a
guardarlo, il dolore nei suoi occhi che la colpiva come uno schiaffo
in pieno viso.
“Ma
prima macchierò ancora le mie mani nel sangue di coloro che
mi hanno
costretto ad uccidere degli innocenti.” Proseguì
lui. Elle negò
con il capo.
“Non
è più tuo dovere uccidere.”
Vedere
James Barnes era come vedere la versione disillusa di Steve Rogers.
Erano fatti della stessa sostanza, come fratelli, erano uguali.
Allo
stesso tempo, però, l'ambiente li aveva divisi. Aveva reso
ciò che
era buono un'ombra di se stesso, e ciò che era debole
inflessibile.
Elle era incredula di ciò che avevano dovuto passare i due
uomini.
“E'
l'unica cosa che so fare. L'unico motivo per cui sono vivo.”
Elle
cercò di avvicinarsi, muovendo pochi passi verso l'uomo.
“Non
sono Fury. Non ti dirò di volgere le tue capacità
contro altri. Non
ti farò credere che uccidere è veramente l'unica
cosa che sai
fare.”
L'uomo
la guardò a capo chino. Elle notò che nel braccio
bionico teneva
una mitraglietta. Deglutì, piegandosi sulle ginocchia.
“Che
fai?” Chiese lui.
Elle
tolse la fondina dalle spalle, appoggiandola a terra. Fece un passo
indietro.
“Puoi
essere meglio di così. Posso proteggerti...
Finché il mondo non
capirà chi sei.”
L'uomo
rise nervosamente. “Il mondo... Ancora
aspetti di essere
compresa? TI pensavo più intelligente di così,
Elle.”
La
ragazza sorrise. “Sono una all'antica.”
“Piaceresti
ad un mio amico...” Ridacchiò lui nervosamente,
senza riuscire a
trattenersi, alzando lo sguardo su di lei.
Il
silenzio scese fra i due, talmente teso da essere tangibile. Elle lo
guardava fisso, dritto in viso, mentre lui tornava ad osservare la
polvere che ricopriva i suoi stivali.
“Perché
sei qui, James?”
“Seguivo
l'Hydra.”
“Ti
ho visto. Seguivi Rogers.”
L'uomo
alzò lo sguardo, le sopracciglia aggrottate. “Non
penserai che
avessi intenzione di attaccarli.”
Elle
sbuffò. “Li avresti tranquillamente attaccati, se
tu avessi
voluto. Eri in vantaggio.”
L'uomo
si voltò verso di lei. “Lui sa, allora.”
Elle
sorrise enigmaticamente. Aspettò un secondo. Poi emise un
sospiro
sconfitto.
“No,
non sa.” L'uomo la guardò incredulo.
“Non gli ho detto nulla, se
non che doveva andare ad est.”
“Perché?”
“Volevo
parlarti.” Ammise lei. “Siamo circondati da nemici.
Non era
pronto.”
“Tu
tieni a lui.”
Elle
glissò sulla domanda. “Vieni con me. Ti
prego.”
L'uomo
la guardò un attimo, con lo sguardo grave che Elle si era
ormai
abituata a riconoscere. “Non posso. Ti metterei in una
situazione
pericolosa.”
Elle
sbuffò platealmente. “Sono già in una
situazione pericolosa.
Rogers è in comando, ed io ho prima mentito e poi
disubbidito.”
Barnes scosse il capo.
“Non
capisci, tutti mi vogliono morto. Tutti. Uccideranno qualsiasi cosa
si muova che sappia della mia esistenza.”
Elle
incrociò le braccia. “Posso difendermi.”
“River
no.” Sospirò l'uomo. Elle rimase
impietrita, a fissarlo,
mentre lui ricambiava lo sguardo, la testa incassata nelle spalle e
le labbra strette.
“Come...”
“Non
c'è tempo.” L'uomo la prese alla sprovvista,
avvicinandosi con due
passi a lei. La prese per le spalle, la mitraglietta che dondolava
dalla tracolla che portava sulla spalla. “Devi andare ora,
Elle. Ma
prima...”
Si
abbassò leggermente, abbracciandola goffamente. Elle rimase
impietrita.
“Devi
fare una cosa per me.” Le sorrise tristemente.
“Anche
se ancora non ho capito perché ti ostini ad aiutarmi, ho
un'ipotesi.” La teneva ancora per le spalle, allontanandosi
leggermente.
“Devi
dire a Steve che ti ho attaccata. Devi convincerlo che sono fuori
controllo. Che non sono più Bucky Barnes.”
La abbracciò di
nuovo, calmo, mentre Elle era immobile, una statua di terrore.
“Deve
pensare che non sia rimasto nulla del suo amico. Deve pensare che io
sia una minaccia. Una volta che avrò finito, con l'Hydra,
convincilo
a lasciare che mi prendano. E che mi uccidano.”
xXx
Eccomi
qui, alla fine di queste nove pagine di World. Ho dovuto tagliare il
capitolo a metà, perchè volevo lasciarvi con la
suspance.
Cosa farà Elle? Cosa dirà Steve? Chi cavolo
è quel
cretino in armatura che ha osato picchiare Falcon? Perchè
Bucky
è diventato un emo depresso?
Ho
solo un paio di interrogativi per voi, per chi avrà la
voglia e
la pazienza di rispondermi. Mi si sono aperti due scenari ipotetici:
dove far muovere Elle e gli altri personaggi, dopo il trailer di Civil
War. Preferireste più parti con Bucky o più parti
con
Steve?
Grazie ancora
all'ego di Delta ed alla dolce Bananacambogianachiquita per le recensioni o per
essere semplicemente passate a fare un saluto da queste parti ;)
Spero
che non mi abbiate eliminato dalla vostra vita causa avviso ("Questa
faccia da culo invece che aggiornare ha messo un avviso! Bruciamole la
casa!" Cit.) perchè
sono una persona perezionista e penso che siano meglio le cose arrivate
in ritardo ma fatte bene che pubblicate in tempo ma di fretta.
Buona serata a
tutti!
Eve
|
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Capitolo 13 *** 13. Promessa ***
AVVERTIMENTO:
Capitolo con diverse scene violente. Resta assolutamente nel Rating
Arancione a mio avviso, ma se dovesse essere fuori
luogo fatemelo sapere e provvederò a mettere il Rating Rosso.
P.S.:
Ci saranno capitoli a Rating Rosso,
più avanti nella storia. Ma provvederò sempre a
segnalarvelo.
Atto.13: Promessa
“And
I’m left in the wake of the mistake, slow to react
So even
though you’re so close to me,
You’re still so distant and I
can’t bring you back.”
LINKIN
PARK
“Convincilo
a lasciare che mi prendano. E
mi uccidano.”
Gli
occhi di Elle erano talmente sgranati da sembrare due biglie di
vetro.
Rimase
immobile, le labbra strette, le mani di Barnes che la reggevano per
le spalle quasi di peso, fissandolo senza espressione.
“No.”
“Selvig,
ti prego.” L'uomo scosse il capo, la voce come sempre ferma e
bassa. “Dovete restare uniti. Rogers può rifarsi
una vita, qui,
ora.
Ma non con me.”
Elle
scosse il capo. “Tu non hai capito niente. Anche se le tue
mani
fossero sporche di sangue, anche se tu nuotassi in un
lago di
sangue, anche se fosse realmente colpa tua. Capirebbe che la tua
è
una resa. Una resa per il suo bene. E ti vorrebbe ancora più
bene
per questo.”
Barnes
abbassò lo sguardo, stringendola più forte per le
spalle. Elle
sentì la gelida mano metallica premere contro la sua pelle,
ma non
emise un suono.
“Non
so cosa ti abbiano fatto. Davvero, non mi interessa. Io ho appena
scoperto di essere saltata
fuori da una provetta!”
Esclamò la donna, raddrizzando il capo e agitando
concitatamente le
braccia. “Ma non per questo mi nascondo in un angolino
aspettando
la morte!Qualunque cosa
succeda morirai, James Barnes. Oggi o fra cent'anni. Devi fare in
modo che la tua vita sia valsa qualcosa, non
la tua morte.”
“Tu
non hai capito, Elle.” L'uomo scosse il capo, allontanandosi
di un
passo e lasciando la sua presa sulla donna.
“Siete
proprio uguali, tu e Rogers. 'Devo
portare il peso del mondo sulle mie spalle', bla e bla...”
Sbottò ancora lei, guardandolo allontanarsi con astio.
“Non
dipende tutto da voi. Non capisco ancora se sia altruismo
o egomania...”
“Io-”
Una
nuvola di polvere precedette il boato che li lanciò a una
decina di
metri, lei contro la parete di un container, lui a terra.
Elle
emise un singulto, sentendo le ossa doloranti. Barnes si
rialzò su
un braccio, quello artefatto, con una leggera escoriazione sulla
fronte.
Una
gigantesca ombra nera si proiettò su Elle, che
aprì a fatica gli
occhi impastati di pulviscolo e terra. La figura era strana, piena di
sostegni e con un macchinario che usciva dalle spalle. Elle distinse
a malapena il disegno bianco sul petto, tracciato quasi da un bambino
o da un pazzo, una X bianca
graffiata più e più
volte con quello che poteva essere un gessetto su quella corazza di
acciaio.
Il
volto era coperto da una maschera nera, anch'essa colorata con quel
bianco polveroso.
Elle
si rialzò con un colpo di reni, raggiungendo James poco
più avanti
e porgendogli un braccio. L'uomo si appoggiò al suo gomito,
alzandosi di scatto.
“Sembra
che il destino voglia impormi voi come prova, come vittime
sacrificali per testimoniare la mia mutazione.”
Elle
si irrigidì, la schiena perfettamente dritta, cercando il
Soldato
d'Inverno con lo sguardo. Questo rimase raggelato, ricambiando la sua
espressione persa. Lei si voltò lentamente, un braccio teso
istintivamente davanti all'uomo, poco dietro di lei.
“Cosa
ti hanno fatto?” Chiese con un filo di voce, le sopracciglia
tese
sugli occhi sgranati.
“Possiamo
parlare di Cyborg.”
Commentò l'uomo dentro l'armatura, sospirando.
“Quello
che Stark non ha avuto il coraggio di fare.”
“Stark
ancora possiede un minimo di amor proprio.”
Ribatté Elle. Una
risata gutturale uscì da dietro la maschera, dove il respiro
e la
voce filtravano da dietro delle scanalature simili ai denti esposti
di un teschio. Barnes lanciò uno sguardo alla sua
mitraglietta, che
durante la caduta era finita a due metri di distanza. Diede un
colpetto con la mano destra al fianco di Elle, tornando a fissare
l'altro. Elle rimase immobile, captando il pensiero dell'amico.
Lasciò libera la mente, cercando di raggiungere
quella cosa che
aveva davanti. Doveva distrarlo.
“Allora,
Rumlow, hai voglia di parlarmi di cosa ti ha spinto a farti ridurre
ad una versione Punk di Darth
Vader?”
Fece
un passo verso di lui, indicandolo con una mano aperta. Sotto la
corazza, la risata gutturale si ripeté. “Non fare
la
strizzacervelli con me, Selvig.” Elle fece una curva larga,
guardandolo dal basso. Il Cyborg fece un passo nella direzione
opposta, quasi seguendo un cerchio immaginario. Barnes
arretrò
lentamente, guardandoli.
“Dove
lavoro ora, nessuno ha bisogno di letterati del tuo genere.”
“Non
posso dirmi d'accordo.” Elle sorrise sarcasticamente,
indicandolo.
“Sei pazzo.”
“Non
mi sembra che la protesi del tuo amico laggiù ti diano lo
stesso
fastidio.” Replicò lui, ghignante. La sua voce era
impastata,
roca. Sembrava sotto effetto di qualche droga. Elle cercò di
capire
il flusso dei suoi pensieri, ma vedeva soltanto sé stessa,
in una
luce vermiglia. Tremò leggermente, senza riuscire a
trattenersi.
Aveva combinato un guaio, con la sua mossa di diversi mesi prima. Un
grosso guaio. Ora l'unico pensiero di Rumlow era ucciderla.
“Si,
mi ricordo di te, Soldato
d'Inverno.”
Racchiò fuori fra i denti l'uomo. Elle lanciò uno
sguardo
all'altro, che aveva raccolto l'AK-47 da terra. “Ho sentito
cosa
volevi che facesse Selvig...” Schioccò la lingua.
“Ma non sarà
necessario. Ti ucciderò, e poi trascinerò il tuo
cadavere nel
fango, fino a che non sarà sotto gli occhi del tuo
grande amico.”
Sputò l'ultima parola come fosse un insulto. Barnes strinse
l'impugnatura del fucile con la mano sana, fino a farsi sbiancare le
nocche, guardando Elle. Questa gli fece gesto di calmarsi, con una
mano dietro la schiena. Rumlow era chiaramente sotto effetto di
droghe. Oppiacei, probabilmente per sopportare il dolore di tutte
quelle protesi che sfregiavano il suo corpo.
“Guardati,
il glorioso Soldato
d'Inverno,
il servo più fedele dell'Hydra...” Lo
indicò con una mano
robotica. Barnes strinse i denti, la mascella contratta. “Che
si fa
dare ordini da una donna. Sei caduto, la tua fama è
infangata, e con
la tua anche quella dell'Hydra ha rischiato di macchiarsi...”
Senza
preavviso, la maschera che copriva il viso di Rumlow si
alzò,
esponendo al sole la pelle ustionata e mal ricucita dell'uomo. Elle
rimase immobile. Aveva già visto i danni sulla sua faccia,
l'ultima
volta che si erano incontrati. La pelle era pallida, segno che quella
maschera lo stava accompagnando da tempo, a tratti livida attorno
alle labbra ed agli occhi. Ghignò verso Barnes, le pupille
strizzate
a causa della luce che passava a tratti fra le gru del deposito dei
container ed i grattacieli della città alle sue spalle.
“Ma
è tempo di evoluzione, e il forte deve abbattere il
debole...” Si
voltò nuovamente verso Elle.
“Quanto
a te, bambolina,
ho l'ordine di portarti dal Generale.”
“Il
generale chi?” Chiese la donna, facendo un passo indietro.
Rumlow
la ignorò.
“Comunque
non ti avrei uccisa...” Proseguì il suo monologo a
voce bassa,
strizzando gli occhi per vederla. “...Sarebbe uno
spreco.”
Elle
rabbrividì. Lanciò uno sguardo a Bucky, che
puntava la mitraglietta
contro Rumlow. “Ora!”
Il
Soldato d'Inverno iniziò a sparare a raffica contro
l'androide. Con
un sospiro annoiato, Rumlow riabbassò la maschera e si
voltò,
accompagnato da una serie di cigolii e rumore di metallo.
“Patetico.”
Esclamò, la voce di nuovo ovattata dal teschio disegnato.
Elle
afferrò la pistola, mirando all'attaccatura del collo. Il
Cyborg
tuonò.
“Siete
degli illusi, siete degli ammassi di carne!” Corse verso
Barnes,
che cercò di evitarlo scartando di lato. Gettò a
terra la
mitraglietta scarica, guardandolo con disgusto. Rumlow si
voltò di
scatto, con un sibilo, e lo colpì dritto al petto.
L'uomo
fece una capriola all'indietro per ammortizzare il colpo, per poi
rialzarsi con un urlo furioso. Lo distrasse con un calcio laterale,
per poi prendere la testa avvolta nel casco scuro e spingerla verso
il basso, facendolo crollare sulle ginocchia meccaniche. Elle lo
prese per il collo da dietro, mentre Barnes lo colpiva al volto con
una poderosa ginocchiata. Rumlow fece per prendergli la caviglia, ma
James saltò sulla sua mano e si allontanò con una
capriola
all'indietro. Elle emise un fischio, allontanandosi di due passi,
guardando l'amico con il fiato corto.
“Spetsnazvityaz?”
Chiese ammirata. Bucky annuì, mentre Rumlow si alzava
lentamente sui
sostegni meccanici.
Barnes
si gettò a terra, con un movimento simile ad un'onda, per
evitare il
calcio di Rumlow. Elle si avvicinò, deviando un pugno di
ferro con
un calcio alto. Colpì sotto l'ascella con un gancio, per poi
prendere un destro in pieno viso. Arretrò, pulendosi il
sangue che
usciva dal naso con una manica della felpa.
Barnes
si puntellò sulla gamba sinistra, girando su se stesso e
colpendo
Rumlow sulla spalla. Questo ringhiò.
“Tutto
qui quello che sapete fare?”
Elle
raccolse una lamiera per terra, tenendola come un pugnale. Si
lanciò
con un urlo furioso contro la schiena dell'uomo, cercando di
perforare l'armatura nei punti che le sembravano più deboli.
Barnes
cercò di prenderlo per le spalle e si lanciò per
tirargli una
testata. Elle si frappose fra i due, trascinandolo indietro.
“Ma
sei impazzito?!” Sibilò. Lui abbassò lo
sguardo. “Non puoi
prenderlo a testate!” Rumlow corse verso di loro, mentre Elle
si
lanciava appoggiata con una mano sulla sua spalla e cercava di
strappargli il casco. Con uno scrollo, Rumlow la gettò a
terra, le
mani insanguinate.
Barnes
lo raggiunse, saltando e colpendolo con un pugno sul capo. Rumlow lo
afferrò per il busto, schiacciandolo fra le braccia
meccaniche.
Elle
espirò, facendo due passi indietro. Prese una breve rincorsa
e gli
saltò alle spalle, aggrappandosi con le mani ad una serie di
tubicini. Doveva stare attenta ai suoi movimenti, rischiando in ogni
momento di farsi schiacciare una mano od un piede tra le piastre
dell'armatura. Contemporaneamente, doveva reggersi con le gambe
attorno alla vita dell'uomo. Fece leva con i gomiti contro le sue
scapole di metallo, cercando di rompere o scollegare qualsiasi cosa
si trovasse sotto alle dita.
Rumlow
cercava di muoversi a scatti, tentando di farla cadere.
Mollò Barnes
a terra. “Non puoi competere con il silicio,
Selvig!”
Le
afferrò una caviglia, lanciandola come un sacco vuoto
dall'altra
parte dello spiazzo incolto. “Non costringermi a rovinarti,
Selvig!”
Si
rialzò, incontrando lo sguardo di Barnes a pochi metri da
lei. La
risata di Rumlow riecheggiò fra i due. “Cosa
facciamo?”
Elle
sospirò. Si portò una mano all'orecchio,
riaccendendo l'auricolare.
“Steve!”
Esclamò con un gemito dolorante, inginocchiandosi a terra.
Barnes la
guardò con gli occhi sgranati, voltandosi poi lentamente
verso
Rumlow. L'uomo veniva verso di loro a passi misurati. Era sicuro che
li avrebbe annientati.
“Elle!”
Sentì l'uomo sospirare di sollievo, dall'altra parte della
comunicazione. “Dove sei? Stai bene? Abbiamo sentito degli
spari.”
Elle
emise un gemito di dolore, cercando di rimettersi in piedi.
Sicuramente, sul lato destro, che aveva impattato con il suolo, si
stava formando un grosso ematoma violaceo. Barnes le tese una mano,
aiutandola ad alzarsi.
“C'è
Rumlow...” Esalò lei, una mano all'orecchio,
l'altra che stringeva
il braccio sano di Barnes.
Sentì il respiro di Rogers
accelerare. Stava correndo. “Tu stai bene? Ti sei
nascosta?”
Sentì
il bisbiglio di Natasha, accanto a Rogers. Sapeva che avrebbe
rintracciato la comunicazione.
“Ci
ha attaccati.” Emise lei, flebilmente. “Negativo.
Non posso
nascondermi.”
L'uomo
emise un respiro strozzato. “Elle, scappa!”
“Non
posso.” Sussurrò lei. “Devo
distrarlo.”
“Elle!”
Avrebbe sentito l'urlo anche senza auricolare. Rumlow si
fermò,
voltando leggermente la testa nella direzione da cui proveniva la
voce di Rogers.
Barnes
si irrigidì, guardando Elle con terrore.
“Sarà
un vero piacere assistere a questo teatrino...”
Commentò Rumlow.
“Vedere in diretta il volto del Capitano quando
arriverà qui e troverà la persona a cui tiene di
più ridotta in
poltiglia.”
Elle
si mise davanti a Barnes, che le mise una mano sul fianco. La donna
sussurrò, Senza voltarsi.
“Ha
detto che mi vuole viva. Finché sarò davanti a
te, non sparerà.”
Gli strinse la mano. “Posso distrarlo finché non
arrivano gli
altri, tu scappa.” Rumlow ghignò nella sua
direzione.
“Vai
a Seattle. Cerca Valentina
Tremonti,
a Capitol Hill.” Non poteva vedere lo sguardo angosciato di
lui.
“45778, sulla 10th Avenue.”
Strinse
la mano dell'uomo ancora più forte. “Dille che ti
mando io. Mi
deve un favore.”
“Non
posso lasciarti qui.”
“Devi.”
Sussurrò lei. “Non sarò da
sola.” Sorrise leggermente.
“Ciao, nanerottola.”
“Ciao,
Bucky.”
Uno
scudo azzurro sbatté con un clangore metallico contro il
braccio
alzato di Rumlow, mentre Elle si sbilanciava all'indietro contro
James.
Lui
la strinse leggermente, sorridendole contro l'orecchio.
“Ti
contatterò io.”
Elle
annuì. Con uno scatto, si tolse la felpa azzurra.
“Mettiti questa,
non farti vedere in viso da nessuna telecamera. Su Ayolalawall
street, sotto il terzo cassonetto da destra, c'è un borsone.
C'è un
dispositivo mimetico per il viso.”
“Grazie.”
Elle
annuì, ignorando l'urlo frustrato di Rumlow. Si
girò di scatto.
“Ora vai!”
Quando
Steve entrò correndo nello spiazzo, James Barnes non c'era
più.
~
“Elle!”
L'uomo si slanciò con furia contro la testa del robot,
afferrando il
suo scudo da una crepa nel braccio e sbattendolo ripetutamente sul
capo dell'avversario.
Elle
li raggiunse correndo, parando un colpo dell'altro braccio bionico e
torcendolo dietro il suo busto. “Stai bene?” Chiese
ansante lui,
guardandola dall'altro capo delle spalle di Rumlow. Questo emise un
ringhio.
“Capitano,
ci rincontriamo.” Steve lo ignorò. “E le
tue prime parole sono
per questa ragazzina?”
Elle
annuì, sorridendo leggermente. Fece leva sul braccio,
facendogli
emettere un mugugno furioso. “Cosa ne facciamo?”
Steve
si voltò, tirando un forte pugno al petto dell'uomo. Questo
emise un
respiro strozzato, ma l'armatura pettorale resistette al colpo.
“Ti
avevo detto...” Con uno scossone, Rumlow si
liberò. Entrambi gli
avenger fecero un passo indietro. Elle si sbilanciò su una
gamba,
tirando un calcio al capo dell'avversario. Questo le prese la gamba,
mentre Steve lo caricava con lo scudo. Elle girò su
sé stessa con
un salto, colpendolo al viso con l'altro piede. Atterrò e si
voltò.
Rumlow spinse Rogers indietro e si voltò per colpirla con un
pugno.
Elle si spostò leggermente di lato, il braccio meccanico che
passava
ad un soffio dal suo viso. Deviò leggermente la direzione
con
l'avambraccio, colpendolo al collo con il pugno chiuso. Rumlow si
piegò leggermente in avanti, mentre Elle congiungeva le mani
dietro
il suo collo e lo colpiva con una ginocchiata nella scanalatura fra
le gambe ed il petto dell'armatura.
“...Ti
avevo detto 'Niente
colpi di testa'”
Esalò Rogers, voltandosi e richiamando a sé lo
scudo. Lo lanciò
contro il volto di Rumlow, che lo deviò con un braccio.
Diede un
colpo a mano aperta ad Elle, che indietreggiò tenendosi una
mano
sulla guancia che andava assumendo un colore violaceo.
Steve
gli andò incontro, bloccandolo con una gamba in avanti ed il
busto,
costringendolo ad abbassarsi con il suo peso. Gli tirò un
forte
pugno all'addome.
“Non.
Permetterti. Di. Toccarla.” Sillabò, tirandogli
dei forti pugni
per esprimere meglio il concetto. Elle fece due passi indietro,
mentre Natasha entrava correndo nello spiazzo urlando il suo nome.
La
rossa estrasse con un gesto fluido entrambe le pistole, lanciandone
una all'amica. “Allora, chi abbiamo qui?” Chiese
con voce
annoiata.
Steve
emise un grugnito, mentre i due si colpivano a vicenda con calci e
pugni. Elle ebbe un leggero capogiro, piegandosi a sputare un grumo
di sangue a terra. Natasha la guardò.
"Stai
bene?" chiese, osservandola. Estrasse i morsi della vedova dagli
schienali. Elle si piegò un secondo sulle ginocchia, il
fiato corto.
"Ho
ancora tutti i denti..." commentò guardandola rassegnata,
sorridendo.
"Effettivamente...
ti manca un pezzettino di incisivo, Elle..."
Elle
emise un respiro strozzato, portandosi una mano alla bocca. Natasha
alzò le braccia, i bastoni elettrificati che ronzavano.
"Ti
ho cercata, sai? Te e il tuo amichetto bionico. Hai rubato il
fidanzatino al tuo capo, qui!" Rumlow sembrava più
allucinato
del solito. Sferrò a Steve un calcio al ventre, facendolo
piegare in
due. Elle gli ringhiò contro. "Mi hai spaccato un dente."
Rumlow
aprì le braccia, guardandola. "Non hai idea di cosa ho
immaginato di farti quando ti prenderò, puttanella."
La scrutò da capo a piedi. "Spererai di non essere mai
andata a
cercare quel mostro difettoso."
Elle
alzò la beretta e fece fuoco, colpendolo sul collo scoperto.
Il
proiettile lacerò la carne di striscio, lasciando una scia
cremisi.
Rumlow la guardò sghignazzando.
"Sei
proprio impazzito, Rumlow." Commentò Elle, abbassando l'arma
con un sospiro. Steve rotolò sul terreno, alzandosi con un
colpo di
reni. Lo colpì pesantemente alle spalle con le mani
intrecciate,
facendolo inginocchiare a terra. Rumlow fissava Elle senza sbattere
le palpebre, facendole venire un brivido di terrore. Fece sei passi
di corsa, colpendolo con il calcio della pistola alla fronte e con un
ginocchio alzato al mento. Girò con una piroetta attorno
alla sua
testa, evitando di essere afferrata al polpaccio. Steve le prese un
braccio, tirandola dietro di sé con un gesto esasperato.
Colpì
Rumlow alla schiena, facendolo sdraiare a faccia a terra. Rumlow
emise un grugnito.
"Cosa
succede, Capitano? Geloso della ragazza? "Si girò a pancia
in
su, la maschera sollevata, il ghigno coperto di sangue ed ancora
più
evidente. Steve fece per colpirlo con un pugno, ma Rumlow lo
parò
con le mani e lo spinse indietro, alzandosi seduto con un colpo di
reni. Strinse il pugno di Steve con forza, facendolo grugnire dal
dolore. Elle gli si affiancò, colpendolo con il palmo aperto
sotto
il naso, che emise uno scricchiolio sinistro. Rumlow scoppiò
a
ridere.
"Restituirò
tutto, bambolina. Vedrai, ti piacerà."
Steve
urlò, liberando il suo pugno e colpendolo allo sterno. I due
rotolarono a terra, intrecciati in uno scambio di colpi.
Una
serie di spari colpirono il terreno attorno a loro, mentre Natasha
retrocedeva tenendo Elle per la maglietta. “Stanno arrivando
dei
soldati, dobbiamo andare!” Urlò a Rogers, che si
staccò
immediatamente dall'avversario, lasciandolo a terra. Rumlow
continuava a ghignare, alzandosi con difficoltà a causa del
peso
dell'armatura.
Natasha
cominciò a correre per il labirinto di container. Elle la
seguiva,
la pistola in una mano. Rogers correva dietro di loro, ansante e con
uno sfregio sul viso.
Una
ventina di mercenari li stavano inseguendo, e sentivano il clangore
dei passi di Rumlow da una decina di metri di distanza. Steve
afferrò
Elle per l'avambraccio.
“Perché
eri li?”
“Avevo
visto Rumlow.”
Una
crivellata di colpi di mitraglietta li fece abbassare a terra,
piegati sulle ginocchia. Elle si sporse dal container, procedendo a
terra, sparando ad un soldato in divisa nera poco distante con un'
AK-47.
“Non
ti saresti lanciata contro Rumlow senza nessuna carta da
giocare.”
Commentò Steve, sporgendosi con il capo sopra di lei per
spiare la
strada, appoggiandole una mano sulla schiena. Elle lo
ignorò. Dietro
di loro, Natasha aveva assalito un soldato con i morsi della vedova,
facendolo accasciare a terra in preda alle convulsioni.
Elle
si alzò lentamente, sentendo i passi di Rumlow dietro di
loro. Corse
allo scoperto contro un soldato, ignorando l'urlo di Rogers. Si
lanciò contro l'avversario, colpendolo con un pugno deciso
alla
nuca. L'uomo, massiccio quasi quanto Rogers, si voltò con un
ghigno
senza nemmeno una smorfia di fastidio.
“Cosa
ci fa una bambolina come
te in mezzo a queste brutte facce?” Chiese sarcastico, con un
pesante accento slavo, voltandosi. Elle lo squadrò con un
ghigno.
“La
misoginia è richiesta nel curriculum o sono io che incontro
sempre
gli uomini sbagliati?” Sospirò, imbronciandosi. Si
voltò
leggermente, colpendo con un calcio alto l'uomo al collo. Questo si
accasciò su un ginocchio, mentre il calcio Thai si
trasformava in
una potente ginocchiata al volto. L'uomo rimase a terra, il volto una
maschera di sangue. Elle gli puntò la pistola in faccia,
mentre
Rogers appoggiava a terra un altro soldato esanime, a qualche metro
di distanza.
La
guardò, le sopracciglia corrucciate. Non stava a lui
decidere se
Elle dovesse uccidere o no il nemico. Non lo avrebbe
ascoltato, in
ogni caso. Lo aveva ammesso a sé stesso molte
settimane prima.
Per questo l'aveva fatta andare su un tetto, lontano dalla mischia.
Elle
sospirò, le pupille dilatate e la canna della pistola
piantata sul
viso dell'uomo incosciente. Il paradigma del doppio
colpo.
Se si fosse alzato, non si sarebbe fatto nessun problema ad
attaccarla alle spalle e spezzarle il collo. Doveva ucciderlo prima
che riprendesse coscienza. Elle sospirò ancora, fissandolo,
cercando
di mantenere un'espressione indifferente. Sentiva lo sguardo di
Rogers perforarle la nuca.
Rimise
la pistola nel fodero, allungando una mano verso Natasha.
“Dammi
una funicella.”
La
donna le passò un laccio di gomma senza dire una parola, ed
Elle si
abbassò sempre senza emettere un fiato a legare le braccia
dietro la
schiena al colosso. Steve sorrise guardandola. Natasha gli fece un
cenno divertito.
“Perché
non lo hai ucciso?” Chiese lui quando Elle riprese la strada,
guardandosi attorno in quel labirinto di lamiere e sabbia sporca.
Elle si strinse nelle spalle.
“Hai
una pessima influenza, Rogers.”
L'uomo
annuì debolmente, un sorriso che non se ne andava dalle sue
labbra.
“Smettila
di sorridere, Rogers.
Sembri vittima di un colpo apoplettico.” Sbottò
sarcasticamente
Elle dopo un paio di secondi.
“Pensavo
fosse finito il tempo del Rogers.”
Sospirò lui, ironicamente. Elle non rispose, procedendo in
allerta
fra un sentiero e un altro. Un soldato si sporse daun angolo,
sparando ad altezza d'uomo contro i tre. Steve estrasse prontamente
lo scudo, coprendo Elle. I due si abbassarono quasi in sincrono, un
braccio di lui che teneva lo scudo davanti al suo viso, e l'altro che
si era appoggiato al suo fianco, stringendola contro di sé.
La
Svedese sperò di non essere arrossita come una dodicenne.
Natasha,
dietro di loro, sospirò platealmente. Elle si sporse appena
il
soldato terminò il caricatore, sparandogli ad una spalla.
L'amica
emise un fischio ammirato.
“La
tua mira è migliorata.” Commentò con un
ghigno. Si alzò con un
gesto fluido, passandosi una mano fra i capelli vermigli e
superandoli con uno sguardo indispettito. Si diresse verso il soldato
a terra, guardandosi attentamente attorno.
Elle
e Steve erano ancora accucciati dietro lo scudo, lei immobile con la
schiena dritta ed ancora la beretta in pugno, fumante.
Si
voltò lentamente, incontrando gli occhi blu del leader della
squadra, che con un braccio ancora la stringeva al petto. Elle
sgranò
gli occhi, umettandosi le labbra per l'ansia.
“Cosa
ho in faccia?” Chiese debolmente, sapendo che le mancava un
pezzo
di dente e che tutto il lato sinistro del suo volto era gonfio e
violaceo. Lui le sorrise.
“Erano
anni che non passavo una nottata così tranquilla come quella
di ieri
sera...” Ammise con un sorriso tirato, le guance leggermente
imporporate. Era strano vedere un uomo, anzi, un superuomo di quasi
cent'anni e con la forza di una dozzina di uomini imbarazzato. Ma
Elle non trovava un aggettivo migliore. Imbarazzato.
“Volevo
solo dirtelo, ecco.” Concluse, scostando lo sguardo. Elle
rimase
imbambolata a fissarlo, chiedendosi se magari non era stata catturata
e drogata da Rumlow o qualche altro affiliato dell'Hydra. Sarebbe
stato più probabile che assistere a quella conversazione.
“Anche
io sono stata bene.” Sussurrò, la testa incassata
fra le spalle e
lo sguardo che saettava sulla parete del container dall'altra parte
del sentiero sterrato. I due fecero per alzarsi nello stesso momento,
strusciandosi malamente addosso.
Fecero
per guardarsi, entrambi rossi in viso. Elle aveva voglia di mettersi
a ridere.
Natasha
spuntò da oltre l'angolo, guardandoli impalati, stretti in
una
porzione di spazio minima. Scoppiò a ridere.
“Non
vorrei interrompervi, ma siamo in pieno territorio nemico, abbiamo
ancora una probabile ventina di agenti addestrati Hydra che ci sta
cercando, Rumlow sembra essere diventato una scultura fatta con
il Meccano e
non sono nemmeno sicura che abbiamo i permessi per un'operazione qui
in Nigeria.” Li indicò esasperata, mentre Steve
guardava Elle
rammaricato e faceva un passo indietro, rigido come una statua. Elle
si grattò un attimo il capo con la mano libera, indicando
verso est
con la pistola. “Di là?”
Natasha
annuì, cercando di nascondere un ghigno. Elle si
avviò in silenzio,
seguita da Steve che teneva lo scudo davanti al petto.
“Torniamo
sulla strada principale.” Commentò quasi
interrogativa Natasha,
guardando il suo leader. Steve annuì debolmente, la mascella
contratta.
~
Ayolalawall
Street era piena di gente a quell'ora della tarda mattinata.
Era
una delle vie più moderne di tutta Lagos, sulla quale si
affacciavano immensi grattacieli, alberghi per uomini d'affari in
viaggio per lavoro, uffici di diverse ditte di trasporto marittimo e
di consulenze bancarie.
Tutte
le merci che si dirigevano verso l'interno del paese passavano da
quella strada, costantemente intasata di taxi, camion, pullman di
operai che si dirigevano alla baia o di marinai che tornavano alle
loro navi per partire per il viaggio successivo.
Wanda
era ferma dentro il SUV scuro. La temperatura era elevata, sia dentro
che fuori. Stava seduta sul sedile anteriore, quello dal lato del
passeggero, le gambe che penzolavano sopra il marciapiede e la
portiera aperta.
Dietro
di lei stava Samuel, sdraiato sui sedili posteriori, massaggiandosi
la spalla.
Aveva
preso un brutto colpo cadendo contro un container, ma tutto sommato
si sentiva bene. Non si sarebbe allontanato senza i suoi compagni di
squadra.
Elle avrebbe dovuto raggiungerli almeno un'ora
prima, ma di lei non c'era traccia.
Samuel
scalpitava per arrampicarsi, anche a mani nude, sul tetto dove aveva
lasciato l'amica. Una delle sue ali aveva subito diversi danni, e lui
era abbastanza ammaccato da non potersi permettere un'arrampicata di
venti piani. A dire il vero, non era nemmeno sicuro che sarebbe
riuscito ad arrivare all'auto se Steve non lo avesse portato su una
spalla, quasi di peso.
Quindi,
quando sentì un boato a qualche isolato di distanza, verso
il
deposito del porto, dovette soffocare l'impulso di correre in quella
direzione.
Wanda
saltò istintivamente giù dall'auto, scostandosi i
capelli che il
vento le aveva portato sugli occhi. Emise un sibilo.
“Cosa
succede, Wanda?” Chiese lui, alzandosi con una mano che
teneva il
poggiatesta del sedile anteriore. La donna non rispose.
“Wanda,
maledizione, cosa succede?”
La
donna si voltò. “Resta qui.”
“Cosa?”
Esclamò spazientito lui. Wanda cominciò a correre
in senso
contrario alla folla, che sembrava scappare da qualcosa, verso
l'entroterra.
Samuel
si accasciò nuovamente sul sedile con un sospiro rassegnato.
“Abbandonato
come sempre.” Borbottò con tono melodrammatico.
Un
altro boato fece tremare l'asfalto e l'auto sulla quale era, mentre
la gente cozzava malamente sopra i finestrini o la carrozzeria per
scappare.
Si
sporse con un gemito a chiudere la portiera anteriore prima che
qualcuno pensasse di entrare, strisciando sul sedile del guidatore.
“Non
potrò volare...” Ammise ad alta voce, le
sopracciglia corrucciate.
Alzò le spalle, indifferente. “Ma almeno mi
hanno lasciato l'auto.”
Con
uno stridio, partì sulla strada, suonando il clacson a
più non
posso per far spostare la gente dal suo percorso.
~
Una
camionetta stava aspettando i mercenari in nero mentre questi
uscivano, trascinando i feriti, dal porto. Avevano abbattuto con una
granata il recinto spinato, colpendo con i calcinacci sparsi a terra
in quella mezza discarica diversi feriti tutt'intorno. Un signore
piuttosto anziano stava passeggiando proprio su quel marciapiede, ed
ora giaceva a terra in una pozza scura.
Elle
avanzava a bocconi sul tetto di uno dei container, guardando un
soldato correre da solo verso l'apertura. Gli saltò addosso,
sbattendogli il capo contro la parete di lamiera dall'altra parte del
passaggio. Prese la mitraglietta, uscendo.
Natasha
uscì dal sentiero a destra del suo, i morsi della vedova
davanti al
viso.
Si
strinse nelle spalle, guardando gli uomini vestiti di nero correre
verso il furgone.
Elle
allungò le mani verso di loro, gli occhi che assumevano una
tinta
più chiara. Steve si avvicinò, abbassandogli con
un gesto
sbrigativo la mano.
“Non
qui.”
Indicò
con un cenno del capo un gruppo di curiosi e dei passanti bloccati
dietro il furgone, che li guardavano impauriti. Elle lo
guardò di
sbieco, mordendosi il labbro inferiore.
“Capitano,
non pensavo che la fuga fosse nella tua natura.”
Rumlow
uscì allo scoperto, ogni passo verso di loro che muoveva un
mulinello di polvere nell'aria. Elle si mise in posizione di difesa,
spostandosi davanti a Rogers.
“Fai
evacuare i civili. Lo tengo impegnato.”
Steve
la guardò senza espressione. “Lo faccio io. Tu vai
dai civili.”
Elle
negò con il capo. “Ha detto che mi vuole viva. Non
mi farà troppo
male.” Commentò con un ghigno. Steve
annuì in silenzio, facendo
un cenno a Natasha.
Elle
fece un paio di passi avanti, il capo alzato e le spalle dritte, i
pugni chiusi lungo i fianchi. “Rumlow.”
“Il
Capitano è caduto proprio in basso se ha così
paura da mandare
avanti te.” Commentò con voce gracchiante l'uomo
nell'armatura.
Elle poteva vedere la ferita che gli aveva inferto sul collo
sanguinare, da tanto che erano vicini.
“Sono
io che scelgo dove andare, Rumlow.” Commentò tesa
lei, gli occhi
che fissavano quella maschera inespressiva. “Nessuno mi dice
cosa
fare.”
Una
risata roca uscì dalle feritoie sulla bocca.
“Riuscirò
ad ammansirti, prima di portarti dal Generale, bambolina.”
Il
pungo partì in direzione del capo della donna, che si
piegò su un
lato, schivandolo e prendendogli il braccio con forza sopra il polso.
Gli girò alle spalle, tirandogli una ginocchiata sulla
schiena per
farlo piegare in avanti per poi costringerlo ad abbassarsi in
ginocchio, un piede che faceva pressione sulla spalla e la mano che
teneva immobilizzato il braccio .
Natasha
intanto si era lanciata contro i soldati, che la stavano circondando.
Steve urlava alla gente di andarsene, ma alcuni mercenari si
voltarono, le armi puntate contro le persone inermi.
Wanda
arrivò da dietro gli uomini, prendendone uno per le spalle e
spezzandogli il collo con un gesto secco. Un altro si voltò,
ma la
donna con un calcio gli fece cadere di mano il fucile. Si
voltò,
prendendolo per un braccio e torcendoglielo dietro la schiena. Un
mercenario le sparò contro, colpendo il compagno dallo
sguardo
terrorizzato.
Steve
corse verso di lei, voltandosi e scalciando con una sforbiciata in
aria le armi di mano ad un altro avversario. Questi cadde in
ginocchio tenendosi il polso, probabilmente spezzato, mentre Steve
correva verso Elle.
Natasha
sparò gli ultimi due colpi, colpendo gli ultimi due
mercenari che
non erano fuggiti.
La
prima cosa che fece Steve fu tirare un pesante calcio all'addome di
Rumlow, mentre questo rideva istericamente. Elle sapeva che, se
avesse voluto liberarsi, ci sarebbe riuscito con ben poco sforzo.
“Perché
siete qui?”
Lei
cercò di attirare la sua attenzione, ma Steve aveva occhi
solo per
Rumlow, inginocchiato a terra, la maschera alzata, una bava di sangue
che colava dalla bocca piegata in un ghigno.
L'uomo
sogghignò senza rispondere. Steve gli tirò una
manata al viso, la
mascella contratta e lo sguardo gelido. Elle lo guardò senza
emettere un fiato, limitandosi a tenere Rumlow. Steve si
abbassò
sulle ginocchia, prendendo per la maschera l'uomo. “Allora,
vuoi
dirmi perché sei qui?”
L'uomo
rispose con un'altra risata, mentre Rogers gli teneva il capo
sollevato. Lo mollò senza troppe cerimonie, alzandosi ed
allontanandosi di un passo.
Con
un guizzo, tornò indietro e calciò Rumlow al
viso, facendolo cadere
nella polvere sotto lo sguardo sconvolto di Elle, che rimase immobile
a guardare l'uomo che rideva a terra, iniziando a sollevarsi su un
braccio.
“Finalmente
hai tirato fuori gli attributi, Rogers...”
Biascicò l'uomo.
“Iniziavo a dubitare che ci fosse qualcosa sotto
quella tutina.” Un
altro calcio lo prese al volto deforme, facendogli sputare altro
sangue. La risata proseguì, mentre lentamente l'uomo
nell'armatura
si alzava.
I
due si lanciarono l'uno sull'altro, in un agglomerato di membra e
metallo, sferrandosi colpi al collo o al ventre, mentre Elle li
guardava immobile, inorridita.
Natasha
arrivò ansante, affiancandola, i morsi della vipera che
vibravano di
corrente elettrica alzati davanti al viso. “Rischio di
colpire il
Capitano per sbaglio.”
Ammise,
guardandoli inorridita.
Rumlow
spinse lontano Rogers, che si alzò con un colpo di reni.
Rumlow
rotolò contro le due donne: Natasha lo scartò di
lato, mentre la
mano meccanica trascinava Elle a terra.
La
Svedese emise un rantolo, mentre l'uomo si inginocchiava contro il
suo busto, tenendola a terra. Si abbassò, tenendole i polsi
a terra
con una sola mano, le braccia tese sopra la testa. Elle sentiva il
suo alito sopra al viso ustionato, le pupille dilatate a causa dei
farmaci. Piegò il capo di lato, mentre l'uomo si abbassava
sul suo
orecchio.
“Hälsar
din mamma, Elle Selvig.” Elle voltò
subito il capo, gli occhi
sgranati che cercavano comprensione in quelli scuri dell'avversario.
Questi si abbassò, premendo la sua lingua contro le sue
labbra e
sferrandole un pugno al fianco. Elle emise un gemito di dolore,
cercando di liberare le mani istintivamente, con uno spasmo. La sua
mente si schiantò contro quella dell'uomo, cercando immagini
della
madre, mentre con i denti lacerava quello che restava delle labbra di
Rumlow. Sentiva solo disperazione correre nelle sue vene e le sue
labbra erano ormai macchiate di sangue, suo e non.
Natasha
era immobile a un metro di distanza, guardando allucinata Rumlow.
Aveva sentito tutto.
Rogers
prese per le spalle Rumlow con un urlo furioso, sollevandolo di
scatto con il volto contratto in un'espressione spaventosa. Rumlow
abbassò la maschera sul viso sghignazzando.
"Temo
di averti battuto sul tempo, Capitano. Lei è mia."
Rogers
lo sbattè contro la parete di un container con un urlo
rabbioso,
facendogli sbattere la testa. Rumlow invertì le posizioni,
alzandolo
di peso e chiudendolo contro la parete.
"La
prenderò. Non potrai farci nulla." Rogers fece per
sferrargli
un pugno, mentre Rumlow alzava il suo. Dal braccio usciva una lama
acuminata, sporca di sangue. Istintivamente, Steve girò il
capo
verso Elle, ancora stesa a terra, che li guardava con sguardo vitreo.
Il fianco aveva una profonda lacerazione. Natasha era corsa al suo
fianco, cercando di tamponare il foro provocato dalla lama con le
mani, i Morsi di Vipera abbandonati a terra nella polvere. Rumlow
seguì il suo sguardo, smettendo di sogghignare.
"Volevano
usarla per creare qualcosa di nuovo. Qualcosa di bellissimo.
Se
tu non ti fossi accanito, se tu mi avessi immobilizzato-"
Sbattè
contro la parete Rogers, mentre questi so voltava con un'espressione
gelida verso l'avversario.
"-E
ne saresti stato in grado, lei ora starebbe bene."
Nessuna
ferita fisica poteva fare del male a Steve Rogers come quella frase.
"Passerai
molto tempo a piangere i tuoi amici, Capitano."
gli
ghignò in faccia Rumlow, alzando la maschera.
"Si
era ricordato di te, sai?" Gli alitò in faccia, sporcandolo
con
una goccia della sua saliva impregnata di sangue scarlatto. "Il
tuo amico...Il tuo camerata...Il tuo Bucky."
xXx
Ehilà a tutti! E' Eve che
parla.
Eccoci con il capitolo! Spero che vi sia piaciuto, è
un po' crudo, forse.
Allora,
oltre alla solita richiesta a tutti voi lettori se vi va di farmi
sapere che ne pensate, ho un'altra domanda.
Io e la
pazientissima Electricsoul stiamo
lavorando ad un nuovo banner! E
vorremmo sapere il vostro Fancast per Elle Selvig!
Ogni
proposta sarà valutata, sia che lo scriviate nelle
recensioni che se
mi mandate un messaggio privato. Attendiamo con ansia il vostro
consiglio! (Io soprattutto con molta ansia visto che la mia selezione
comprendeva almeno 157mila facce, povera Marta ;))
Grazie
come sempre a Delta,
mio supporter ufficiale per questa storia, ed alla dolce D
Laila per
le recensioni. E' grazie a voi che ancora pubblico questa storia,
ormai al tredicesimo capitolo!
Spero di sentirvi numerosi,
il prossimo aggiornamento sarà sempre Mercoledì 9
Dicembre,
probabilmente la sera tardi visto che ho una lezione importante fino
alle sei.
Buona settimana a
tutti!
|
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Capitolo 14 *** 14. Lacrime ***
Con questo capitolo, Elle
diventa ufficialmente l'eroina più
tramortita, malmessa e sfasciata della storia.
Dedicato a tutti i
lettori silenziosi che ogni mattina si svegliano
sperando di avere una giornata migliore di quella della povera Selvig.
Atto
14: Lacrime
"Wipe
away those tears of blood again."
MY
CHEMICAL ROMANCE
Natasha
si riscosse di colpo, assordata dal suo urlo furioso.
Un
clangore metallico le fece alzare di nuovo gli occhi su Steve Rogers,
il ragionevole e controllato Steve, che colpiva senza controllo
l'uomo accasciato a terra, a meno di due metri di distanza.
Abbassò
lo sguardo, tramortita, vedendo le sue mani lorde di sangue scuro.
Elle
stava a terra, gli occhi vitrei che fissavano il nulla, il volto
pieno di polvere, immersa in un lago putrido.
Rumlow
non provò nemmeno a difendersi dai colpi incontrollati
dell'avversario. Rogers afferrò la lama che usciva dal
braccio
bionico dell'avversario e la spezzò con un gesto secco.
"Rogers!"
Urlò Natasha, alzandosi lentamente. "Steve!" Urlò
con
voce stridula la russa. Rogers si girò lentamente, le nocche
delle
mani spellate e i palmi che sanguinavano per i pungni troppo stretti;
le unghie si erano conficcate nella carne.
L'uomo
fece un passo indietro, rimanendo con la schiena dritta, le braccia
abbandonate lungo i fianchi, il respiro affannato ed il mento alzato,
fissando il corpo esanime che giaceva a terra.
I
capelli di Elle erano ormai più simili a quelli della spia
russa,
impregnati di sangue. Gli occhi non brillavano più. L'uomo
non
riusciva a distogliere lo sguardo da quegli occhi.
"Elle!"
Un urlo strozzato arrivò dalla strada, vicino alla
camionetta che
avrebbe dovuto portare via i mercenari assoldati per la squadra di
Rumlow. Wanda si avvicinò, stringendosi le braccia attorno
al busto.
La matita scura che portava sugli occhi iniziò a colare
lungo la
linea della palpebra, mentre si avvicinava vicino alla donna a terra.
Natasha la guardò senza espressione.
"Quando
si affronta l'Hydra, non si torna indietro." Rumlow guardava
Steve con sguardo assente.
"Non
permetterti di guardarla!" Prese Rumlow per entrambe le spalle,
lanciandolo con un mugugno sulla strada, ad almeno quattro metri di
distanza, contro un'auto posteggiata. Rumlow emise un grugnito di
dolore, incastrato fra le lamiere.
Un
grosso SUV nero si avvicinò, insieme ad un altro
schieramento di
soldati in nero. Wanda era impietrita, in mezzo alle persone
accalcate che guardavano il corpo dell'amica. Natasha provava a
copirlo con il suo, ma era sfiancata dal combattimento, dal viaggio,
dalla vita. Provò a sollevare Elle fra le braccia, ma
riuscì solo a
farla capovolgere a faccia in giù contro il suolo. Emise un
singhiozzò, cercando di rigirarla.
Wanda
si voltò, dando le spalle alle due ed a Rogers, ed emise un
sospiro,
coprendosi gli occhi con i pugni chiusi. Emise un lungo gemito,
sentendo la poca serenità che la aveva accompagnata nelle
ultime
settimane sgretolarsi dentro di lei insieme con la coscienza
dell'amica. Sembrava non esserci più nulla di vivo, nel
corpo di
Elle Selvig. Era un cumulo di vestiti e tessuti abbandonati nella
polvere, in un deposito portuale.
"Cosa
avete da guardare?!" Urlò alla folla di visi sconosciuti che
restavano immobli, con le bocche spalancate
dall'incredulità, a
fissarli senza emettere un fiato.
"Vi
è piaciuto lo spettacolo?" Urlò ancora la
sokoviana, gli occhi
che si imporporavano. La sua pelle iniziò a brillare di un
rosso
cremisi, mentre la massa iniziava a mormorare e muoversi
sommessamente. "Ne volete ancora, piccoli avvoltoi?" Chiese
con fare isterico, agitando le braccia. I lampioni spenti sopra le
loro teste esplosero in una pioggia di vetro. "Allora, avete
paura del mostro?!
Qualcuno
urlò qualcosa, e una lattina vuota volò contro il
petto della
donna. Con uno scatto, fece per muovere le mani verso la folla.
"Wanda..."
La chiamò da dietro una voce familiare, quella di Natasha,
assottigliata dal pianto.
La
donna scaricò a terra tutte le energie con uno schiocco,
lasciando
un cerchio bruciato sull'asfalto attorno a sè. Si
voltò,
incontrando lo sguardo della russa, che teneva la testa di Elle sulle
ginocchia, senza un singhiozzo, gli occhi pesti.
Rumlow
si alzò in un clagore metallico, mentre i suoi soldati li
accerchiavano. Steve fece cadere lo scudo a terra, senza emettere un
fiato, dando le spalle ai soldati dell'Hydra.
"Siete
proprio patetici, tutti, non solo il famoso Soldato d'Inverno."
Commentò Rumlow. "Stavo per ricredermi, ma è
bastato colpire
la biondina per mandarvi tutti al tappeto."
Steve
si voltò, tenendo le mani dietro alla testa. "Non fare
stronzate, Rumlow. Le donne non c'entrano niente, lo sai. E' me che
vuoi, no?"
Rumlow
sogghignò. "Vederti soffrire è sempre un buon
passatempo, ma
non credere che mi beva il tuo bluff."
Natasha
e Wanda si scambiarono un'occhiata decisa. Wanda allungò una
mano,
mentre Natasha estraeva la pistola di Elle dalla sua fondina ed
iniziava a sparare all'impazzata.
Una
vecchia familiare verde scuro si sollevò in una luce
cremisi,
abbattendosi su Rumlow e su cinque dei suoi uomini, mentre gli altri
rispondevano al fuoco contro Rogers e Natasha, che sparava
trascinando il corpo di Elle dietro un container. Steve corse verso
di loro, afferrando la svedese per un braccio e caricandosela in
braccio, dietro lo scudo. Era fredda come il ghiaccio.
"E'
andata, Steve." Sussurrò Natasha, continuando a sparare.
L'uomo
resse lo scudo con una sola mano, portando l'altra sul volto della
giovane.
Aveva
un'espressione tesa, anche da esanime. Accarezzò con le dita
la
linea della mascella fino al mento a punta, sentendosi in colpa per i
polpastrelli delle mani, troppo ruvidi per quella pelle diafana. Si
aspettava di vedere uno spasmo tracciare il sorriso involontario
dell'amica, mentre questa allontanava la sua mano con uno sbuffo
imbarazzato. Niente impedì però alla sua mano di
arrivare al collo
chiaro.
Un
rumore di lamiera lo ridestò dai suoi pensieri.
Seguì lo sguardo di
Natasha.
Rumlow
aveva sollevato l'auto sopra la sua testa con le braccia meccaniche,
il viso già di per sé irriconoscibile rigato di
sangue e ferite,
l'espressione distorta in una furia inumana.
Si
mosse talmente in fretta che Steve non fece in tempo nemmeno ad
urlare.
L'ammasso
di lamiere che prima era un'auto saettò nell'aria, compiendo
una
parabola che a Steve sembrò di una lentezza esasperante,
contro
Wanda e, dietro di lei, la folla di curiosi imprudenti. Le urla di
Steve non servirono a nulla: Wanda si gettò a terra,
evitando per un
soffio di venire come minimo decapitata. L'auto colpì la
folla alle
sue spalle, con uno schianto aghiacciante di metallo ed ossa e corpi
ed urla.
Un
ragazzo stava guardando proprio Steve, con la sua amica morta in
braccio, prima di essere colpito.
Si
voltò verso Rumlow, senza espressione, sconvolto da quel
gesto
inumano.
Una
macchia nera si abbattè contro l'avversaio. Un SUV scuro e
familiare.
"Sono
arrivato in ritardo?" Esclamò Samuel, sporgendosi dal
finestrino e guardando Rumlow schiaciato sotto le ruote, finalmente
incoscente.
La
folla iniziò ad urlare, a cercare di muoversi da quella
strada senza
vie d'uscita, un vicolo cieco verso il porto. Si calpestavano tra
loro, schiamazzando e piangendo per uscire. Wanda si
avvicinò per
aiutare.
"Vattene,
strega! Hai già fatto abbastanza!" Tuonò un uomo,
grande quasi
quanto Rogers, avvicinandosi minaccioso. La folla era in tumulto.
"Dobbiamo
andarcene, Steve." Supplicò asciutta Natasha. "Non
possiamo aiutare. Dobbiamo andarcene."
Steve
annuì, dirigendosi verso l'auto. Natasha richiamò
Wanda.
"Allora,
Capitano, alla fine chi è stato a stendere quello grosso? Falcon!"
Esclamò Samuel convinto, fancendo una mossa da Basket con le
braccia, lo sguardo divertito.
Appena
Steve aprì la portiera posteriore e Samuel vide che cosa
reggeva fra
le braccia, dietro lo scudo, raggelò.
"Che
le hanno fatto?" Sussultò, allungando la mano per prendere
il
polso della donna. Ritirò la mano sotto lo sguardo di
Rogers, che
stringeva Elle al petto, seduto dietro. "E' andata."
Rispose solo l'uomo, mentre Wanda e Natasha salivano a bordo in
fretta e furia. La folla iniziava a lanciare sassi e bottiglie contro
l'auto.
"Andiamocene."
Commentò Samuel, ingranando la marcia.
Ma
attraverso lo specchietto retrovisore, per tutto il viaggio, non
potè
vedere altro che il suo migliore amico che stringeva la donna che
amava fra le braccia.
~
Quando
aprì gli occhi, sentì chiaramente che qualcosa
nel suo corpo non
andava.
Sentiva
una curiosa pressione su ogni centimetro di pelle, mentre cercava di
muovere le dita della mano. Lentamente, mosse prima l'indice,
ticchettando su qualcosa di morbido e filamentoso. Respirò
profondamente, indecisa sa aprire o no gli occhi.
Erano
tutti vivi? Avevano catturato Rumlow? Erano tornati a New York?
O
magari era stata tramortita, e si sarebbe svegliata in una cella, con
soldati dell'Hydra che guardavano ogni sua mossa. Magari Rumlow la
stava fissando.
Si
sentiva osservata. Strinse le labbra, un'espressione corrucciata sul
viso. Decise che, ovunque si fosse trovata, non valeva la pena
perdere altro tempo con gli occhi serrati, a contemplare il nulla.
Sapeva
di essere all'aperto, ma non sentiva il vento. La pressione era
strana. Sentiva una sorta di elettricità che aleggiava
nell'aria.
Come una pellicola sulla pelle esposta, sul viso e sulle mani.
Sentì
la temperatura, più fredda rispetto a quella della Nigeria.
Temette
il peggio.
Quando
si sollevò sul busto, le gambe distese davanti a lei, il suo
primo
pensiero fu un'imprecazione.
Davanti
a lei si distendeva un paesaggio impossibile. Sotto al suo peso vi
era un'erba quasi rossastra, mentre il cielo era nero come la notte,
ma trapuntato di stelle, di una grandezza che non aveva mai visto.
Vedeva almeno sei pianeti nel cielo, grandi come la luna durante il
plenilunio ed anche di più.
Suo
padre sarebbe impazzito per vedere anche solo uno scorcio di quel
cielo che illuminava fiocamente il paesaggio che aveva davanti.
La
roccia attorno a lei era anch'essa nera, e poteva scorgere in
lontananza un orizzonte violaceo.
Sotto
di lei, sotto quella che sembrava una scogliera, vedeva un mare scuro
dalle alte onde che si schiantavano schiumando contro la roccia
simile ad arenaria.
Istintivamente
le venne in mente una gita fatta quando era piccola, con ancora il
padre Erik, sulla costa di Bohuslän.
Scosse il capo,
cercando di tornare a quella che sembrava proprio essere la
realtà.
Era
furiosa. Era stata mandata al tappeto per ben due volte, dallo
stesso stronzo.
Ed
ora era da qualche parte con l'erba rossa e delle costellazioni che
non aveva mai visto. E non aveva la minima idea di come ci era
arrivata.
Fondamentalmente,
il fatto che probabilmente fosse morta e quello fosse
l'aldilà era
l'unica spiegazione plausibile.
Se
non fosse stata così avventata da modificare i pensieri di
Rumlow in
modo da fargli desiderare di ucciderla, lui non avrebbe passato il
suo tempo libero a pianificare mille modi con cui torturarla. Ma
probabilmente l'avversario non si sarebbe nemmeno distratto
abbastanza da permettere a Barnes di fuggire.
Era
palese che se Rogers avesse pensato a immobilizzare Rumlow invece che
a fare l'idiota schizzato, lei ora sarebbe stata
comoda comoda
sul quinjet a chiacchierare con Natasha.
Come
poteva Steve Rogers passare dalla bontà più
esagerata alla violenza
più assoluta restava un mistero anche per lei. Fiutava forse
odore
di Bucky nell'aria?
Se
mai esisteva la possibilità di rivederlo, Elle
giurò a sé stessa
che lo avrebbe preso a schiaffi. Ripetutamente. Ma non era la sua
priorità, in quel momento.
Si
guardò bene: non aveva ferite. Era in piedi, i pugni stretti
lungo i
fianchi, probabilmente lo sguardo corrucciato di quanto era furiosa,
ma non aveva nemmeno un graffio.
Si
toccò il fianco, dove avrebbe dovuto esserci il foro della
pugnalata
di Rumlow. Niente. Nemmeno il fianco, che le doleva da mesi a causa
dell'altra
cicatrice di Rumlow,
le dava la stessa sensazione di fastidio di quando si era ritrovata
al suolo in un lago di sangue. Quanto era passato? Giorni? Settimane?
Portava
una curiosa divisa, piuttosto attillata e di pelle nera e blu cucita
insieme. I capelli erano finemente intrecciati lungo le tempie e
stretti in una coda alta. Si tastò l'acconciatura, dubitando
di
essere stata lei a farla. Sapeva a malapena farsi una treccia
normale, nonostante avesse quasi un metro di capelli.
Nel
migliore dei casi era in coma, e doveva prepararsi ad un doloroso
risveglio in infermeria.
Qualche
settimana prima aveva passeggiato per Tribeca con Samuel, alla fine
di una giornata stranamente leggera, e l'amico le aveva raccontato di
aver cominciato ad avere il Disturbo di Steve Rogers,
descritto comicamente come il terrore di svegliarsi non sapendo dove,
come, ma soprattutto quando.
Si
riscosse dai suoi pensieri quando una figura scura si mosse da un
lato del suo campo visivo. Elle si voltò di scatto, le
braccia tese
in posizione di difesa, l'espressione del viso tesa.
Un
uomo molto alto, quasi più di Rogers, avanzava verso di lei.
La
prima cosa che notò fu il viso molto a punta e le labbra
sottili
sollevate in un sorriso. Gli occhi erano dorati, e la guardavano in
modo strano, quasi soddisfatto.
Portava una strana tunica nera e blu con impegnativi ricami dorati,
lunga fino alle ginocchia. Sotto portava dei pantaloni scuri.
"Elyon!"
Tese le mani verso di lei, che lo guardava con gli occhi sgranati.
"Aspettavo il tuo risveglio."
"Sapevi
che Rumlow mi avrebbe infilzata come uno spiedino?" Sbottò
lei,
scrutandolo. Lui aggrottò le sopracciglia, prendendole una
mano fra
le sue, il tono di voce fin troppo studiato per le orecchie della
donna. "Cosa?"
Elle
fece un gesto vago con la mano libera, lo sguardo sconvolto. "Dove
siamo?"
"Alfheim."
Lui la affiancò, senza lasciarle la mano. Lei lo
guardò un attimo,
ritirando la mano. "Fammi indovinare: vengo da qui e adesso mi
spiegherai perché ho i miei poteri e mi mostrerai la mia
vera
famiglia."
"Sei
strana, Elyon. No, non provieni da qui. Sei terreste, in
realtà."
Elle,
scocciata, gli fece ancora cenno di proseguire. Lui strinse le
labbra, cercando di non ridere. "Non mi chiedi chi sono?"
Elle
scrutava il cielo. Non voleva dargli la soddisfazione di chiedergli
quello che lui voleva. In più, la sua mente era un muro
impenetrabile L'uomo fece schioccare le labbra, guardando in basso e
ridacchiando. “Elyon, Elyon, Elyon... Ora
che finalmente sei
qui davvero non so da dove cominciare.” Fece un sorriso
radioso,
guardandola con gli occhi quasi spiritati.
Elle
lo guardò storto. "Perché mi chiami Elyon?".
"Elle
ti è stato dato da tua madre, ma il tuo nome reale
è Elyon. Io lo
so. Era dipinto sopra la tua culla, ricordi?".
Elle
ebbe un flash della sua stanza in Svezia, quando era bambina e poi
adolescente. Non si erano mai trasferite, lei e la madre, nonostante
Annette guadagnasse piuttosto bene ed Elle studiasse grazie ad una
borsa di studio.
Per
un attimo rivide il condomino prefabbricato, di evidente natura
sovietica, o come si usava dire quando era bambina,
socialdemocratica. Ricordava le stanze dipinte di un
bianco
accecante, e la mancanza di quadri alle pareti. Aveva sempre
sospettato che la madre si sentisse a suo agio solo in laboratorio, e
quindi cercasse di riportare a casa le stesse condizioni che la
circondavano al lavoro.
L'unico
tocco di colore era un grande simbolo dipinto a mano libera con una
vernice blu scuro. Era formato da tre cerchi concentrici ed una
stella a nove punte al centro, con due sole punte in alto ed in basso
che raggiungevano il perimetro del cerchio più esterno.
Sopra e
sotto a queste due punte, stavano tre punti equidistanti.
Elle
aveva spesso chiesto spiegazioni alla madre, che aveva sempre evitato
il discorso. La Svedese non credeva al sovrannaturale, solo alla
scienza pura, e quindi non si era mai interessata di quell'unica
stranezza della madre.
“Oltretutto,
dovrebbe essere vietato dal regolamento di quasi ogni organizzazione
per la quale hai lavorato portare tatuaggi.” L'uomo
schioccò le
labbra, sorridendole complice. Elle lo guardò storta.
“E
tu quando avresti visto il mio tatuaggio?” Si
sfiorò
istintivamente il collo.
Quando
la madre era morta, Elle aveva sedici anni e stava per partire per un
paese straniero.
Dopo
la fine dei suoi esami, aveva detto al padre che sarebbe tornata
più
tardi per festeggiare con i compagni. Era una bugia: Elle non aveva
amici.
Era
entrata nello studio piuttosto losco di un tatuatore di
Göteborg e
si era incisa il simbolo che le aveva lasciato la madre sulla
schiena, in mezzo alle scapole ossute.
Solo
pochi sapevano dell'esistenza di quel tatuaggio. Elle si premurava di
tenerlo sempre coperto. Quando era capitato di non poterlo
nascondere, per esempio le rare volte che aveva avuto avventure con
qualche ragazzo o quando andava nuotare, lo copriva con una buona
dose di fondotinta o, nei casi più delicati, con un innesto
di finta
pelle.
"Quando
sei comparsa, ti ho lavato nel fiume che affluisce dal ghiacciaio
della luce. Le tue ferite sono state sanate. Ti ho messo degli abiti
adatti al tuo nome ed alla tua posizione e, aspettando che ti
risvegliassi, ti ho acconciato i capelli come si conviene per un
incontro così importante."
Elle
lo guardò, interdetta. Aprì e chiuse la bocca
diverse volte,
immaginando quell'uomo che le intrecciava i capelli -immagine
piuttosto comica - prima di risolversi a sussurrare un ringraziamento
poco convinto. L'uomo, in risposta, le sorrise.
Aveva
un viso strano, molto magro e dai tratti molto sottili. Le ciglia
erano lunghe, e nella poca luce che proveniva dalle stelle, dalle
lune e dai pianeti di quell'assurdo cielo, vedeva che sulle sue
guance vi era qualcosa di simile alle lentiggini.
"Io
sono Vali, il principe di questo pianeta.” Esclamò
con fare
sicuro, guardandola egli occhi in un modo che ad Elle sembrava fin
troppo sicuro. Si chiese se dovesse fingersi stupita. L'uomo
proseguì.
“Mia
madre è la governatrice, anche se la maggior parte delle
decisioni
politiche avvengono ad Asgard." Ammise con tono annoiato. Elle
aggrottò le sopracciglia.
"Asgard."
sussurrò Elle. Si accese una lampadina. "Thor!"
L'uomo
osservò Elle dritta negli occhi, sorpreso "Conosci il nostro
principe ed erede al trono?"
Elle
sogghignò. "Abbiamo degli...Amici in comune."
Pensò a
Steve e Natasha. A Lagos. Sperava che stessero bene. Era preoccupata,
ma aveva evitato di pensarci: era bloccata in quel luogo. Un
problema alla volta.
"Quando
tornerò sulla terra? Perché sono qui?" Il
principe sospirò,
sedendosi su un masso. Le fece cenno di sedersi accanto a lui, ed
Elle si accomodò con un tonfo.
"Sei
qui perché desideravo parlarti. Posso spiegarti la natura
del tuo
potere: ti ho osservato dalla tua nascita, e tua madre prima di te."
Elle si morse un labbro. Lui la osservò in silenzio, sotto
le
lunghe ciglia. Si umettò le labbra.
"Sei
terrestre perché nata sulla terra, come ti ho detto prima.
Tuttavia...” Le prese un polso fra le mani. Elle si rese
conto in
quel momento di come doveva essere fredda la temperatura esterna, e
di come la tuta che portava la tenesse alla giusta temperatura. Vali
aveva le mani calde, nonostante i vestiti leggeri.
"Sei
nata in un laboratorio, questo già lo sai. Il tuo codice
genetico è
stato programmato partendo da quello dei tuoi genitori, Erik e
Annette Selvig. Ma una parte sostanziale del tuo genoma è
stato
influenzato dall'aura della gemma dello Spazio, che stavano studiando
in contemporanea." Elle si prese la testa fra le mani,
sospirando. “Inoltre, Elyon... Hai mai sentito parlare della
gemma
dell'Anima?”
Elle
strizzò gli occhi, mordendosi il labbro. Negò con
il capo, senza
alzare lo sguardo sull'uomo.
“La
gemma dell'Anima non era nei suoi piani. Dubito che sapessero anche
solo della sua esistenza. Siamo stati noi di Alfheim a infonderla in
te, solo
per alcune fasi della gestazione.
La lettura
della mente, il
controllo sulle persone, sulla loro memoria e sulla loro stessa
natura... Ci serviva che tu avessi delle capacità
specifiche.”
Elle
rimase immobile. “Tu mi hai fatto diventare
così?”
“Principalmente,
sei frutto di molteplici variabili. Visto che eri già un
essere
potente, ho pensato di darti uno scopo. Ma la maggior parte del
lavoro sporco è stato fatto da tua madre e dalla sua
equipe.”
“Mia
madre era dell'Hydra.” Esalò Elle, tenendosi il
capo fra le mani.
L'uomo annuì, senza troppa enfasi, come se la donna al suo
fianco
stesse semplicemente constatando l'ovvio.
"Il
giorno della tua nascita, ci fu' la più spettacolare e
terribile
eclissi della stella al centro del nostro universo, ed i pianeti
assunsero una particolare conformazione." Indicò con un dito
sottile la sua schiena.
“I
tuoi poteri si stanno risvegliando mentre parliamo, mentre sei
esposta alla vastità dell'universo. Hanno cominciato il loro
disgelo quando il vostro mondo ha cominciato a rendersi conto di non
essere l'unico provvisto di vita cosciente.”
Elle
era basita. Lo guardò, mordendosi un labbro, incapace di
dire
alcunché.
Sentiva
le punte dei piedi e delle dita delle mani che formicolavano, mentre
insieme a quell'uomo sconosciuto vestito in modo strano osservava
quello strano cielo.
Rimasero
diversi minuti in silenzio, lei a rimuginare, lui ad attendere.
“Quindi
sono un'arma.” Disse lei, sbattendo le palpebre dalle ciglia
chiare. L'uomo annuì, sorridendole. “Una delle
più potenti
dell'universo.”
“E
Annette Selvig mi ha creata.” Ripeté poi,
guardandolo sempre negli
occhi.
“Si,
è tua madre.”
Vali
sorrise, trovando l'espressione tesa di Elle divertente.
"Tu
non sei figlia del caso. Hai un compito, in questo universo."
Commentò con ancora una smorfia sulle labbra. “Non
tutti sono così
fortunati in questo universo.”
Elle
lo guardò interdetta. Prima che potesse fare altre domande,
il
formicolio alle mani aumentò. Elle sfregò le
punte delle dita della
mano fra loro.
Vali
le prese le mani fra le sue, senza minimamente fermarsi a chiederle
il permesso. Elle lo guardò scocciata, anche se si sentiva
troppo
scossa per rispondere a tono.
“Stai
per svegliarti.” Esclamò sorridendole, senza
lasciarle le mani.
Elle alzò un sopracciglio, interrogativa.
“Qualcuno è venuto a
prenderti.”
A
pochi metri da lei, sospeso nell'aria, comparve un volto familiare.
“Elle.”
~
Si
riebbe con uno scossone, senza fare troppo rumore, sentendo ancora
una strana pressione nell'aria. Non sapeva se aprire o no gli occhi.
Dove
si sarebbe trovata, ora? Sulla luna?
Sentiva
qualcosa di molto caldo vicino a lei, e sotto di sé una
sistemazione
scomoda e dura.
Una
barella. Era su una barella.
Aprì
gli occhi, riconoscendo la mente che stava a fianco della sua.
Wanda
era accovacciata su un fianco, il viso nella sua direzione, gli occhi
impastati di pianto e trucco e una mano che stringeva un lembo della
sua maglietta.
Aveva
i vestiti impastati di sangue e polvere. Sentiva un gran prurito alla
pancia, ma quando sollevò la maglia per grattarsi,
sgranò gli
occhi, passandosi le dita sulla pelle liscia.
Non
aveva più nessuna cicatrice. Nemmeno una delle varie
testimonianze
di attacchi da parte di Rumlow alla sua vita. Nulla.
Si
sentiva bene come non stava da anni. I muscoli erano scattanti, e
sentiva il potere scorrerle nelle vene. Si alzò sul busto,
tenendosi
sollevata con un braccio.
Poteva
persino giurare di essere diventata ancora più bianca.
Si
sollevò leggermente, sentendosi osservata. Di nuovo.
Sentiva
Natasha e Samuel parlare, alla cloche di comando del Quinjet. Davanti
a lei, seduto con i gomiti appoggiati alle cosce e lo sguardo
sconvolto, Steve Rogers la stava fissando. Senza dire una parola.
Elle
aprì le labbra, ma poi stette zitta. Non ricordava nulla,
dopo
essersi trovata Rumlow avvinghiato addosso.
“Non
farmelo mai più.” Sussurrò lui,
sfregandosi le mani sugli occhi
blu. Elle alzò un sopracciglio, interrogativa.
“Non
mi morire davanti, o tra le braccia, o vicino, per i prossimi cento
anni.” Spiegò lui. Elle si morse il labbro.
“Mi dispiace.”
“Sai,
Elle...” Commentò l'uomo, raddrizzandosi sulla
schiena ed
appoggiandosi alla parete del velivolo dietro di lui.
“Pensavo di
essere indistruttibile, prima di conoscerti.” Le sue labbra
si
piegarono leggermente all'insù, ed anche se era
più una smorfia che
un sorriso, Elle si accontentò.
Si
alzò dalla barella, stiracchiandosi. Fece per dirigersi
verso un
armadietto in lamiera dall'altra parte del Quinjet. Steve si
alzò,
seguendola.
“Vado
solo a cambiarmi.” Commentò lei, guardandolo
interdetta. Lui la
fissò negli occhi per un tempo indefinito, senza rispondere.
Poi si
strinse nelle spalle, indicando la direzione in cui stava andando.
Elle sospirò.
“Tanto
non sarai il primo che mi vede nuda oggi...”
Commentò sottovoce.
“Cosa?”
Chiese Steve, piegandosi leggermente verso di lei. Elle sorrise.
“Niente.
Pensavo che, vista la tua reazione, spero che Nat non mi spari. Ha
guardato decisamente troppi episodi di The
Walking Dead.”
~
Quando
scesero dall'aereo, in Wakanda, Natasha ancora rifiutava di parlarle.
“Io
nemmeno sapevo dell'esistenza di questo Wakanda!”
Commentò solare
Wilson.
Quando
aveva visto Elle muoversi per l'aereo, prima aveva preso un mezzo
infarto. Poi le era saltato al collo, stringendola in un abbraccio a
dir poco commovente.
Steve
si era sentito un po' invidioso: anche lui avrebbe voluto stringerla
fra le braccia e non liberarla più dal suo abbraccio. Ma lui
era
Steve Rogers, e lei era Elle Selvig, ed i due si erano rivolti poche
parole. Anche in quel momento, mentre la svedese spiegava a Samuel
che il Wakanda era un piccolo stato circa fra il Kenya e l'Etiopia, i
due si fissavano da un lato all'altro dell'amico.
“Non
mi è chiaro, anche, perché siamo qui.”
Commentò ancora lui.
Steve sospirò, guardando la schiena impettita di Natasha. Si
vedeva
che era stanca, ma si era costretta a fare strada, essendoci
già
stata.
“Il
reggente di questo stato ci ha chiesto udienza qualche settimana fa,
e visto che non potevamo tornare subito negli U.S.A...”
“Perché
non potevamo?” Chiese Elle, in tono seccato. “Cosa
è successo
dopo che sono... svenuta, ecco?”
Natasha
si voltò con un gesto fulmineo, fronteggiandola con la
mascella
contratta.
“Morta,
Elle, morta. Non svenuta. Morta.”
Elle
la guardò impassibile. “Cosa è successo
dopo che sono morta,
Natasha?”
“Sono
morti dei civili.” Wanda si mise fra le due, l'espressione di
chi
si sta contenendo da troppe ore. Il volto era ancora segnato fra il
sonno e il pianto.
Elle
annuì con il capo. “Ok, sono morti dei civili.
Rumlow?”
“L'ho
investito.”
Commentò semplicemente Samuel, stringendosi nelle spalle.
Elle lo
guardò con la bocca spalancata.
“Dopo
che lo avevamo picchiato, gli avevamo sparato, e gli era stata
lanciata addosso una macchina.” Borbottò Steve,
lanciando
un'occhiata di sbieco all'amico.
Elle
li guardò un secondo, poi scosse la testa.
“Pensiamo
a T'Chaka ora.”
I
cinque infatti erano scortati da una decina di funzionari del
governo, uno dei quali stava discutendo animatamente con Natasha. Lei
si voltò verso i compagni.
“Non
è facile essere ammessi qui. Una leggenda narra che coloro
che
minacciano il paese o il popolo che vive qui vengano attaccati da una
divinità sotto forma di giaguaro.”
“Pantera,
prego.” Commentò una voce dietro di loro. Un
giovane uomo, circa
dell'età di Elle, si fece avanti da una grande porta
intagliata con
scene di caccia nella foresta equatoriale. Il giovane, dalla
carnagione poco più chiara di quella di Samuel e dalle
labbra
carnose, si avvicinò a loro con un sorriso di circostanza.
“T'Chaka,
incantato.” Il giovane, fasciato in una camicia bianca che
aderiva
con il suo fisico atletico, prese la mano di Natasha e se la
portò
galantemente alle labbra. La rossa lo guardò con un mezzo
sorriso,
mentre Samuel si sporgeva dietro di lei. “Si, damerino,
ed io sono Samuel Wilson.” Esclamò con tono
seccato. Steve gli
diede un colpo al piede, guardandolo stupito. Da quando Samuel era
così geloso della squadra?
“Tu
devi essere il famoso Captain
America,
è un onore.” Il giovane ignorò Samuel e
accettò la stretta di
mano del biondo.
“Perdonami...”
Natasha richiamò la sua attenzione con tono studiato, appena
tutti
ebbero finito con i convenevoli. “Ma pensavo che T'Chaka
fosse un
uomo più... Anziano.”
Commentò con tono interrogativo. Il ragazzo le sorrise.
“Sono
il figlio del sovrano, sono stato mandato a ricevervi. Perdonerete se
l'inglese di mio padre non sarà buono come il mio. Io ho
avuto
occasione di studiare in Europa.” Prese la rossa sotto
braccio,
dirigendosi poi verso la stanza dal quale era uscito poco prima
affiancato anche da Rogers.
“Non
mi piace.” Commentò Samuel all'orecchio di Elle.
La svedese si
strinse nelle spalle. “Non ha nulla che non va. Te lo
giuro.”
Ed
infatti aveva studiato subito la mente del ragazzo, trovandolo molto
più facile che in passato. Era più potente, ora.
Samuel
si voltò verso Wanda, che confermò con uno sbuffo
esasperato. “E'
a posto il ragazzo.”
Entrarono
in una meravigliosa sala decorata con pannelli di legno intagliato e
decor dorati; il tappeto era di un tessuto rosso scuro e il soffitto
era affrescato con i colori della foresta. La stanza era rinfrescata
da delle vasche ai lati che ospitavano pesci del luogo e piante
autoctone.
“Ecco
qui, gli Avengers...” Commentò una voce stanca. Un
uomo si alzò
dal muretto di una delle due vasche. Portava una ampia tunica con il
colletto stretto gialla con decorazioni nere, ed era scalzo. Steve
dovette ammettere che il figlio somigliava davvero tanto al padre,
che era solo di statura più bassa e dai capelli
più grigi.
Si
fece avanti, abbassando il capo. “I miei omaggi, T'Chaka...
Mi
dispiace che arriviamo solo ora, ed al termine di un'azione
controversa qui, nel vostro meraviglioso continente...”
“Capitano,
mi dia del tu.” L'uomo si avvicinò all'americano,
sorridendo
leggermente. Steve sospirò. “Non volevo mancarla
di rispetto.”
“Trovo
gli uomini che usano troppi formalismi e formule di cortesia
più
inclini alla menzogna. Non sei d'accordo, Steve Rogers?”
L'altro
annuì, sorridendo impercettibilmente.
“Vi
vedo provati, e stanchi. Se siete sicuri che non sarete rintracciati,
potete fermarvi per un paio di giorni, riprendervi da questa brutta
battaglia, e poi-” Indicò Steve con un cenno del
mento. “-Poi
potremo conferire insieme, Capitano. Ci sono diverse cose che vorrei
chiederti, ed altre che vorrei dirti.”
Steve
annuì, abbassando il capo. Era incerto, e spaventato.
“Siete molto
generoso ad offrirci un riparo.”
“Un
riparo sicuro.”
Aggiunse il figlio di T'Chaka, facendo un passo avanti. “Non
è una
trappola, Capitano. Posso giurarlo sulla mia vita.”
Il
padre guardò sorridendo il figlio. “Il mio
primogenito è
precipitoso, ma questa volta devo dire a ragione. Vi sono rimasti
pochi amici, Capitano. Ma noi sappiamo cosa state
affrontando.”
Natasha
si avvicinò a Rogers. “Il Quinjet è
senza carburante.” Sussurrò
all'uomo. “In più, dovremo comunque parlare con
lui. Ci ha
chiamati urgentemente. Propongo di restare.”
“Il
Quinjet è rintracciabile?” La rossa fece una
smorfia triste.
“Nemmeno
Stark è in grado di rintracciare i suoi velivoli quando
è attivata
la tecnologia invisibile. Su nessun radar. Io lo so bene.”
Se
entrambi pensarono a Banner, nessuno dei due lo diede a vedere. So
voltarono verso gli altri, che fecero tutti gesti di assenso.
“Accettiamo
il suo invito.” Esclamò Steve voltandosi.
Abbassò il capo.
“Grazie.”
“Mi
ringrazierai dopo che avrete provato la mia
ospitalità.” Commentò
l'anziano monarca, sorridendo. “Benvenuti
in Wakanda.”
xXx
Ciao a tutti! E' Eve
che vi parla!
Piccola
premessa FANCAST!
Ho ricevuto
ancora poche indicazioni per Elle. Intanto vi dò le mie per
VALI, ovvero
Eddie Redmayne
in quella schifezza che è stato Jupiter Ascending.Ma lui è
fantastico sempre! Vorrei caricare un'immagine ma immagino che tutti
voi abbiate google. Per quanto riguarda Black Panther, l'attore che lo
interpreterà in Civil War, sappiamo che sarà
Chadwick
Boseman.
Fine del discorso Fancast.
Ringrazio come sempre Delta e D Laila per le bellissime recensioni e vi
invito, come sempre, a farvi avanti anche solo per un saluto!
Una recensione salva un autore!
;)
Il prossimo
aggiornamento sarà Mercoledì
16 Dicembre! Anticipazioni: Nessuna. E che, questa volta,
mi sembra di non avervi lasciato troppo sulle spine...
Non abbastanza.
Eve
|
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Capitolo 15 *** 15. Wakanda ***
Eccoci qui! Solo per
soddisfare il vostro bisogno di Rogers, ecco a voi 14 e dico
QUATTORDICI pagine di Word! Breve nota pre capitolo: verranno spiegate
un po' di cose, che nello scorso capitolo erano lasciate
all'oscurità ed al dubbio... Ma non tutto! Questo capitolo
infatti è solo una prima parte di un capitolo molto
più lungo, che ho quindi preferito spezzare. E' un po'
più calmo, prima di ricomiciare con l'azione che regnava
sovrana la settimana scorsa. Spero che vi piaccia tanto quanto
è piaciuto a me scriverlo!
Eve
Atto
15: Wakanda
parte
1
ovvero
quello che succede quando una banda di super eroi disadattati vengono
esiliati temporaneamente.
Dedicato
ai Baristi di tutto il mondo, ed alle persone che devono sopportare.
"And
everything under the sun is in tune
But the sun is eclipsed by the
moon.
There is no dark side of the moon really.
Matter of fact
it's all dark."
PINK
FLOYD
Svezia,
1996
“Dove
vai, papà?”
L'uomo
si voltò lentamente, gli occhi leggermente infossati che
evitavano
di posarsi in basso, sul viso della bambina che lo stava tenendo per
un lembo dei pantaloni scuri.
Appoggiò
la pesante valigia a terra, sospirando. Nel soggiorno, solo a un
tratto di corridoio ed una porta più in là, una
bellissima donna
dai capelli dorati stava scrivendo al computer. Lei si interruppe,
sfilandosi gli occhiali attaccati ad una cordicella azzurra e
lasciandoli cadere sul petto. Emise un sospiro anche lei,
l'espressione rassegnata.
“Devo
andare via per lavoro, solo una settimana.”
Esclamò l'uomo,
piegandosi sulle ginocchia, una mano che scostava l'impermeabile
chiaro mentre l'altra restava sulla maniglia della valigia. Il suo
volto era quasi allo stesso livello della bambina, sette anni appena
compiuti ed i denti splendenti in un sorriso malandrino.
Erano
proprio quei denti ad aver costretto Erik a riflettere.
Non
erano gli occhi di un colore impossibile, o il modo del tutto
appropriato di parlare che sua figlia usava da quando aveva tre anni.
Non era il suo sguardo penetrante, o il fatto che spesso diceva le
cose contemporaneamente al suo pensiero.
Erano
quei denti. Perché in sette anni, da quando era corso in
ospedale
dalla moglie e l'aveva trovata con quell'esserino fra le braccia,
avvolto in una coperta rosa, sua figlia aveva sempre avuto un accenno
di denti. Che poi erano cresciuti, in anticipo di almeno un anno e
mezzo. Annette aveva detto che era normale, dato che Elle non era mai
stata allattata. Poi verso i due anni i denti erano ormai formati.
Erik
li aveva guardati bene, aveva provato per gioco a muoverne uno. Ma si
era reso conto con orrore che quelli non erano denti da latte. Erano
denti normali. Da adulto.
Annette
aveva cominciato ad agitarsi. Ma Erik Selvig, nonostante non fosse un
biologo od un medico, non era uno stupido.
E
poi, pochi giorni prima, era corso a scuola a prendere la figlia che
aveva uno dei suoi consueti attacchi di febbre. Normalmente sarebbe
andata Annette: andava sempre Annette. Erik ricordava di essere
rimasto solo con Elle meno di una decina di volte in sette anni. Non
le aveva mai cambiato un pannolino, o messo un pigiama. Lo aveva
sempre fatto sua moglie, e per quanto sembrasse strano, lui lo aveva
associato ad una forma di pudicizia. Sapeva che Annette aveva avuto
una vita difficile, prima del loro matrimonio. Che aveva avuto
problemi con il patrigno. Quindi non si era fatto troppe domande, ed
aveva assecondato la donna che amava.
Quando
era tornato a casa con la figlioletta febbricitante fra le braccia,
l'unica cosa che gli sembrava sensata era diminuire la sua
temperatura corporea.
Imitando
la moglie, aveva spogliato la bambina e la aveva messa nella vasca da
bagno, nell'acqua leggermente tiepida. Dopo un quarto d'ora, la
febbre era scesa notevolmente, ed Elle nonostante le labbra violacee
e la pelle color neve, giocava tranquilla con l'acqua. Erik, seduto
sul freddo pavimento in piastrelle chiare,un braccio appoggiato al
bordo della vasca, la guardava sorridendo. Elle sembrava leggermente
stranita. Lo guardava di sottecchi, per poi scostarsi appena lui
ricambiava lo sguardo.
“Ieri
la maestra mi ha dato tre adesivi sorridenti...” La vocina
della
bambina risuonava per la stanza vuota. Erik sorrise contento.
“Per
cosa?”
“Matematica!”
Esclamò Elle, battendo le mani sul pelo dell'acqua. L'uomo
parò gli
schizzi con una mano. “Sei stata bravissima,
allora!”
Elle
abbassò la testa, agitando le spalle. “Mi ha detto
che è normale
che io sia brava. Perché tu sei un astrologo.”
Erik
rise. “Astronomo, Elle. Un astrologo è quello che
scrive gli
oroscopi.”
“Oroscopi.”
Ripeté Elle, annuendo. “Le ho detto che si
sbagliava.”
Erik
scosse la testa, sorridendo ancora. “Perché si
sbagliava?”
Si
sentiva un po' ansioso. I bambini di quell'età dicono cose
che non
sanno, e per un secondo immaginò una scena in cui Elle
diceva che
lui non era suo padre. Non avrebbe saputo cosa risponderle.
“Perché
tu sei un Astrofisico. Non un astronomo.” Esclamò
Elle, come se
fosse una cosa ovvia. “Per quello sei così bravo
con la
matematica. Anche io da grande voglio essere brava con la
matematica!” Concluse Elle, con un ampio sorriso. Erik si
allungò
a farle un buffetto dietro l'orecchio. “Sei già
bravissima, a me
non hanno mai dato tre adesivi!” Si mise sulle ginocchia.
“Ultimi
cinque minuti, poi fuori dalla vasca. Non vorrai diventare una
ranocchietta?” Esclamò ridendo. Elle si
agitò nell'acqua, con un
broncio. “E poi sta diventando troppo fredda.”
Concluse lui,
ignorando l'espressione delusa della bambina. “Poi starai nel
lettone al caldo, e se farai la brava posso leggerti
qualcosa.”
“Mi
leggi uno dei tuoi libri?” Chiese Elle, guardandolo con gli
occhi
sgranati. Erik sorrise. “Sono troppo complicati, pieni di
numeri.”
Il
broncio tornò sulle labbra della piccola, che strinse le
braccia al
petto. L'uomo sospirò. “Okay, okay, ti
leggerò quello che sto
scrivendo ora.”
Elle
sorrise radiosa, stringendosi le ginocchia al petto. “Quando
sarò
grande voglio anche io vedere le stelle.”
Erik
aprì la bocca per rispondere, ma un rumore lo distrasse. Il
rumore
della porta di casa che si chiudeva.
“Erik?”
Sentì la moglie chiamarlo, e dal tono capì che
c'era già qualcosa
che non andava. Afferrò l'asciugamano appeso sul calorifero
dietro
di lui. “Erik, mi hanno chiamato dalla scuola.”
“Forza
ranocchietta, salta fuori dallo stagno.” Il tono era
più ansioso
di quello che avrebbe voluto. Elle si alzò in piedi nella
vasca,
tendendo le mani per farsi prendere in braccio. E Erik si
sentì
precipitare nel vuoto.
La
pancia di Elle era all'altezza dei suoi occhi. E non aveva
l'ombelico.
La
pelle proseguiva dritta sullo stomaco, e scendeva fino all'inguine
senza una grinza. Nemmeno una fessura. Il segno di dei punti di
sutura. Niente.
Deglutì
un paio di volte, lo sguardo che passava dal punto in cui avrebbe
dovuto esserci il nodo del cordone ombelicale ed il viso della
figlia, che lo guardava senza capire. Sentì i passi della
moglie
avvicinarsi al bagno.
Si
alzò di scatto, avvolgendo nell'asciugamano la figlia e
prendendola
in braccio.
Annette
aprì la porta della stanza, guardandolo con le sopracciglia
aggrottate e le labbra serrate in una smorfia. Elle si strinse alla
sua camicia con le mani.
“Mi
hanno chiamato dalla scuola...” Ammise lui, quasi a doversi
scusare. Annette lo guardò inespressiva.
“Sai
che a me non fanno problemi, se esco dal lavoro per Elle.”
Esclamò,
gelida. “Non c'era bisogno che ti prendessi la mattinata
libera.”
Lui
si strinse nelle spalle. “Non è un problema, non
avevo lezioni.”
Il
pomeriggio lo passò a letto con Elle, a leggerle la bozza
per il suo
libro. La bambina lo guardava, bevendosi ogni sua parola, gli occhi
sgranati per la meraviglia.
Il
giorno dopo, però, Erik si era preso veramente la mattinata.
Ed era
andato con il treno veloce fino a Göteborg,
all'ospedale civile dove era nata sua figlia.
Dove non aveva trovato nessun certificato di nascita con il nome di
Elle Selvig.
Il
viaggio di ritorno verso Uppsala lo aveva passato formulando ipotesi
su ipotesi.
Alieni.
Malattie. Sostituzioni con un clone.
Finché
non aveva capito.
Tutti
quegli anni di interferenze, sua moglie che non vuole fargli passare
del tempo con la figlia, i denti, gli occhi, la gravidanza
inaspettata sette anni prima.
Annette
lavorava sulla ricerca genetica, quando era nata Elle.
Quando
era arrivato a casa, si era avvicinato alla bambina per esaminarla.
Annette si era schiarita la voce, chiedendo ad Elle di andare in
camera perché doveva parlare con il padre.
Ed
aveva appoggiato sul tavolino una semi automatica, senza emettere un
fiato.
Per
questo ora era inginocchiato davanti alla porta di casa, con tutto
quello che era riuscito a mettere nella valigia, guardando Elle negli
occhi. E sapendo che le stava mentendo.
“Quando
torno ti porto in piscina, a nuotare.” Le promise, sorridendo
impacciato. Elle annuì contenta, e lui si rialzò,
baciandole il
capo. Lei gli cinse la vita con le braccia. “Torna presto,
papà.”
L'uomo
si guardò attorno, il cuore stretto in una morsa gelida. Si
piegò
ancora, all'altezza dell'orecchio di Elle. “Stai attenta,
Elle.”
La
bambina lo guardò perplessa. Lui si voltò, e con
un sospiro uscì
dalla porta di casa, senza voltarsi indietro. Oppure Annette avrebbe
ucciso la bambina. Avrebbe ucciso sua figlia.
~
Wakanda,
Dicembre 2015
Elle
si alzò di scatto con il busto, espirando tutta l'aria che
aveva nei
polmoni. Rotolò su un fianco, ancora immersa nel mondo
onirico in
cui Rumlow la stava attaccando con uno dei suoi pugni metallici e il
cielo era un telo scuro con stelle conosciute sospese sopra ai suoi
occhi.
Fu
il cozzare con il pavimento freddo ed il verso strozzato che usciva
dalla sua stessa gola a svegliarla di soprassalto, le mani che
avevano trascinato nella caduta le preziose lenzuola scure.
Scosse
il capo, intontita, senza riconoscere dove si trovava. Ci mise un
secondo a ricordare le ultime ore prima di essersi buttata sotto le
coperte.
Il
viaggio verso il Wakanda. T'Chaka. Una doccia lunga quanto una vita
intera, e lei che diceva a Steve che no, non sarebbe scesa per la
cena, e non le importava niente di offendere
una persona che ci aveva accolto in modo così cortese, grazie
tante. Lei aveva corso come una disperata, salvato un uomo quasi
centenario da una probabile morte orribile, affrontato un pazzo
schizzato avvolto in un'armatura di metallo, per
poi farsi
pugnalare, per
poi
trovarsi nello spazio a parlare con il principe di un pianeta dal
nome impronunciabile, scoprendo che la madre in realtà era
una
genetista pazza nazista, per
poi ritrovarsi
su un Jet diretto in un paese dalle temperature equatoriali. Una
giornata leggera, insomma.
Si
issò a fatica sul letto. Anche se le ferite erano guarite, tutte,
sentiva i muscoli che dolevano per l'affaticamento del giorno prima.
La cosa più affaticata, però, stava dentro la sua
cassa toracica.
Aveva
portato dentro di sé il ricordo di quella donna un po'
fredda, che
correva in giro per tutta Uppsala per comprare regali di natale che
fossero perfetti per tutti i loro amici, portandola con sé
sul
sedile posteriore della sua berlina scura. La stessa donna con il
quale faceva il bagno da piccola, o che le faceva annusare i profumi
che possedeva per scegliere quale indossare per una cena importante.
Ricordava distintamente la volta che la madre l'aveva ripresa per
essere tornata a casa in moto con un ragazzo due ore dopo il
coprifuoco. La faccia che aveva fatto quando si era messa per la
prima volta lo smalto nero. Lo sbuffo divertito quando Elle era stata
lasciata dal primo ragazzo e si era chiusa in camera ad ascoltare i
Pink Floyd a volumi insopportabili.
Era
difficile far coincidere l'immagine della madre che aveva amato, e
con la quale era cresciuta, con quella della genetista affiliata ad
un gruppo terroristico.
Si
rialzò lentamente, mettendosi a sedere su quel letto troppo
morbido,
i gomiti appoggiati alle cosce e le dita infilate fra i capelli,
respirando lentamente.
'Non
è successo niente, sono sempre io.'
Cercò di rassicurarsi, tremando per l'aria notturna ed umida
che le
si appiccicava addosso. Si sfregò le braccia fra loro,
guardandosi
attorno spaesata. Sentiva il suo corpo in maniera diversa: era
più
freddo e distante. In quel momento, capì lo sguardo di Erik
Selvig
quando l'aveva vista nella vasca da bagno, vent'anni prima. Ancora
adesso, dopo tutti quegli anni, Elle si sentiva sempre guardata in
quel modo. Come si guarda un mostro.
Un
bussare leggero alla porta la riscosse. Si alzò, incurante
di essere
in culottes e con una maglietta nera presa a caso prima di scendere
dal Quinjet. Si diresse verso la porta, strisciando i piedi scalzi
sul pavimento di pietra, probabilmente più costoso di tutta
la sua
casa sua. Ci avrebbe scommesso una mano, nonostante non si fosse
ancora soffermata a guardare la stanza dove alloggiava. Non era
importante, in quel momento.
Aprì
uno spiraglio nella porta, vedendo uno sguardo familiare. Natasha si
scostò nervosamente un boccolo rosso dal viso, mordendosi un
labbro.
Alzò lo sguardo su di lei, accennando appena una smorfia.
Portava
una canotta bianca, con sopra una semplice maglietta verde giada che
faceva sembrare i suoi occhi più chiari. Era stanca: il viso
era
leggermente segnato dalle lenzuola. Alzò un braccio, facendo
un
cenno con il capo alla borsa nera che teneva in alto, per la tracolla
imbottita.
“Non
riuscivo a dormire, così ho pensato di andare a controllare
il
Quinjet. Quando siamo scesi eri parecchio..” Cercò
una parola che
non fosse troppo strana.
“...Provata,
e non sei tornata a prenderlo. Così ho pensato di
portartelo.”
Elle
teneva le braccia strette al petto, i capelli che le coprivano parte
del viso. Annuì senza espressione, allungando una mano a
recuperare
la sua borsa da viaggio.
“Grazie.”
Sussurrò appena. Il gelo scese fra le due.
“Non
riuscivi a dormire, eh?” Chiese Elle, appoggiandosi allo
stipite
della porta, con le braccia incrociate e il borsone che penzolava
dalla spalla. Natasha la guardò appena, annuendo.
“Anche tu,
vedo.” Elle sorrise appena, stringendosi nelle spalle.
“Come
hai fatto a guarire?” Chiese fra i denti la russa,
scrutandola da
capo a piedi. Elle si irrigidì. “Storia lunga.
C'entrano un
alieno, un androide e un pianeta lontano lontano.”
Natasha
sospirò, nascondendo una risata dietro una mano.
“Dovevo
immaginarlo.”
Si
avvicinò alla bionda, stringendola in un abbraccio. Elle
rispose
stringendola con un braccio dietro alle spalle. Le due dondolarono
leggermente sul posto, ridacchiando come due ragazzine.
“Domani mi
spiegherai tutto.” Commentò la rossa.
“Adesso andiamo a
dormire.” Elle annuì, staccandosi dalla sua
stretta e facendole
cenno di entrare nella stanza. Natasha fece per chiudersi la porta
alle spalle.
“Facciamo una nottata come ai vecchi tempi, un
paio di sigarette e i peggiori canali che offre la TV del
Wakanda.”
Elle ridacchiò. “Hanno addirittura il
satellitare.”
~
Un'ombra
si proiettò sulle sagome di Elle e Natasha che dormivano
profondamente.
Steve
dovette trattenere una risata, vedendo Elle che muoveva il viso
infastidita dal braccio di Natasha appoggiato contro il suo viso. Si
avvicinò lentamente, piegandosi sulle ginocchia vicino alla
testa
della bionda. “Elle.”
La
svedese borbottò, spostando con una mano il braccio della
russa.
Voltò il capo dall'altro lato rispetto a Steve, schioccando
la bocca
impastata dal sonno. L'uomo si sporse un secondo, dandole un
colpetto sulla spalla. “Elle.”
La
donna voltò il capo, aprendo gli occhi chiari, le
sopracciglia
aggrottate. “Rogers?” L'uomo annuì, le
labbra tese in una
smorfia divertita. Appoggiò un fagotto scuro sul letto,
accanto a
lei.
“Alzati
e vestiti, ci vediamo nella palestra. Primo piano, zona est.”
Commentò spiccio. Elle lo guardò perplessa,
alzandosi sul busto.
Annuì ancora, guardandolo uscire silenziosamente dalla
stanza.
Scostò
Natasha, voltandosi per scendere dal letto, tremando quando i piedi
nudi toccarono il pavimento gelido. Afferrò l'involto che
aveva
portato Rogers, che si rivelò essere un paio di pantaloni
della tuta
neri ed una maglia blu. I suoi anfibi erano stati ripuliti ed
appoggiati accanto alla porta di ingresso. Scosse il capo, vestendosi
in silenzio. Non voleva veramente allenarsi, il
giorno dopo
una battaglia, vero?
Quando
arrivò nella palestra, però, dopo aver scoperto
che erano solo le
sette del mattino e dopo aver chiesto indicazioni ad una cameriera,
Rogers si stava sistemando le fasciature sulle mani, seduto su una
panca. Elle andò subito davanti a lui, tenendo le braccia
incrociate. Lui alzò lo sguardo, sorridendole.
“Non
sarai serio.”
L'uomo
si alzò, facendola sentire ancora una volta bassa come una
bambina,
e le girò attorno, allontanandosi dall'area degli attrezzi
della
palestra. Raggiunse una parte vuota, davanti ad una specchiera. Lei
lo seguì con lo sguardo. Lui si voltò, indicando
con un cenno del
mento le fasce appoggiate accanto a dove era seduto poco prima.
Elle
si sedette, fasciandosi in pochi secondi le mani. Lui la attendeva in
silenzio, stendendo le braccia. Quando fu pronta, si
posizionò di
fronte a lui. Alzò i pugni davanti al viso in posizione di
difesa, i
capelli stretti in una coda alta che dondolava lungo la sua schiena.
“Davvero
vuoi fare questa cosa?” Chiese lei mentre
i due iniziavano a
girarsi intorno, squadrandosi a vicenda. Lui sorrideva divertito, le
braccia stese lungo i fianchi. “Non mi hai lasciato molta
scelta.”
Commentò, un angolo delle labbra alzato in una smorfia. Elle
alzò
un sopracciglio, schioccando le labbra. “Cosa
intendi?”
“Hai
deciso tu di correre dietro alle persone
più pericolose che
ci siano in circolazione.” Commentò lui.
“Se affronti tipi come
Rumlow, devi essere preparata.”
Elle
ridacchiò irritata. “Cosa ti dice di essere un
degno avversario?”
L'uomo lasciò perdere la provocazione, continuando a
squadrarla. “Ho
tutto il giorno libero, sai?”
La
donna fece una smorfia. “Anche io.”
Con
tre passi Rogers le fu addosso, le gambe divaricate e le braccia
aperte. Fece per colpirla al fianco, scartando il suo calcio con una
torsione del busto. Elle si allontanò di un passo, fermando
un pugno
dell'uomo con gli avambracci incrociati. Emise un verso dolorante.
“Giochi pesante.” Commentò facendo un
passo indietro.
Steve
annuì. “Non puoi riprendere magicamente
vita tutte le
volte.” Fece un passo verso di lei, che arretrò
ancora. “Ieri
non pensavo ti saresti rialzata.”
Elle
si strinse nelle spalle. L'uomo proseguì. “Non so
cosa sia
successo mentre eri incosciente. Non voglio saperlo finché
non
vorrai dirmelo tu.” Alzò le braccia, i palmi
rivolti verso di lei,
in segno di resa. “Ma non posso sperare in un intervento
divino
ogni volta che vai in missione.” Elle si strinse nelle
spalle.
Rogers non sapeva quanto aveva ragione. Scosse il
capo.
“Non
succederà più.” Lasciò che
Steve si avvicinasse. “Sono
d'accordo.” Rispose lui, muovendosi contro di lei e
colpendola
all'addome. Elle si piegò all'indietro con una smorfia,
lanciandosi
in una capriola e colpendolo con un calcio sotto al mento.
Andarono
avanti per diversi minuti, a dare e ricevere colpi in modo serrato,
guardandosi in cagnesco. All'ennesimo colpo che Rogers le rivolse,
Elle allungò le mani, i palmi in avanti, parandolo con uno
scudo di
luce bluetta che lo spedì a terra, la schiena contro la
specchiera.
Si
interruppero quando sentirono qualcuno battere le mani a pochi metri
da loro.
T'Chaka
Junior li guardava divertito, il suo applauso che risuonava per la
stanza vuota. Guardò Elle, sollevando le sopracciglia.
“Complimenti
per lo scudo di energia, comunque.” La indicò con
una mano,
sorridendo. Elle si voltò verso di lui, ansimando per la
stanchezza.
Si scostò un ciuffo di capelli dal viso sudato con una mano,
guardandolo interrogativa. Rogers si alzò con un colpo di
reni, la
maglietta esageratamente attillata macchiata di
sudore. Si
avvicinò a T'Chaka, dandogli la mano. Il ragazzo strinse
vigorosamente l'avambraccio che gli porgeva l'altro.
“Spero
che abbiate trovato la sistemazione confortevole.” Chiese il
principe, rivolgendosi alla donna. Elle sorrise leggermente, mentre
Steve si faceva avanti. “Era da parecchi anni che non dormivo
in
una stanza così comoda.” Commentò
gioviale. T'Chaka annuì
convinto. “Mio padre ti aspetta nel suo ufficio durante le
celebrazioni, per parlare dei recenti avvenimenti. Ma
prima...” Si
rivolse di nuovo alla Svedese, che stava sciogliendo le bende attorno
alle sue mani. “Dobbiamo festeggiare. Oggi occorrono i
cinquant'anni di regno di T'Chaka figlio di T'Chaka.”
Elle
alzò lo sguardo, stupita. “Non ne ero al
corrente.” Ammise
alzandosi. “Provvederò a fare le mie
congratulazioni al sovrano.”
T'Chaka
le sorrise. “Come esponente del governo e della monarchia
Svedese,
prendo molto a cuore le tue congratulazioni.” Elle
annuì con un
sorriso di circostanza, allontanandosi.
“Non
era questo, comunque, che volevo chiederti.” La ragazza si
voltò,
tenendo le bende che aveva appena tolto fra le dita, l'espressione
confusa. “Mi dica.”
“Tu
sei Elle Selvig, figlia di Erik, Selvig?” Chiese con un
sorriso
radioso. Elle sbatté un paio di volte le palpebre, cercando
lo
sguardo di Steve. L'uomo stava pochi passi più indietro del
principe
T'Chaka, e sembrava perplesso anche lui. Elle annuì
lentamente. “Si,
è mio padre.”
“Oddio...”
L'uomo di fronte a lei si guardò attorno, annuendo con
convinzione,
un sorriso aperto sulle labbra carnose. “Io... Io mi sono
Laureato
in Fisica ad Oxford.” Spiegò con entusiasmo.
“Ho studiato sui
libri di tuo padre, ed ho assistito a molte delle sue
conferenze.”
Elle annuì ancora, mordendosi il labbro inferiore per non
ridere in
faccia al principe. “Non sapevo avesse una figlia.”
La
Svedese si strinse nelle spalle. “Immagino non facesse parte
del
programma, la sua vita privata.” Il giovane
abbassò lo sguardo,
imbarazzato.
“Non
avrei mai detto che fossi laureato in fisica.”
Commentò Elle,
cercando di spezzare il silenzio gelido che era calato. “Relatività
o Stringhe?” Chiese con un sorriso complice,
lanciando le bende
nel borsone aperto di Rogers. L'altro stirò le labbra in un
sorriso.
“Ho ceduto al fascino delle Stringhe. Colpa
dell'università
inglese.”
Elle
gli fece un occhiolino. “Un'ottima università,
comunque.”
“Si,
mio padre ha voluto farmi frequentare delle scuole
occidentali.”
Elle annuì, sovrappensiero. “Anche io ho
frequentato l'università
in un altro stato.”
Rogers
si avvicinò, tenendo il borsone appena recuperato su una
spalla.
“Elle, dovremmo andare a prepararci.” La svedese
annuì, facendo
un cenno di saluto al principe.
“Grazie
per la palestra.” Commentò semplicemente Rogers,
facendo passare
la bionda davanti a sé. “Ci vediamo dopo,
T'Chaka.”
~
Elle
entrò nella grande sala silenziosamente, ammirando tutti i
particolari che le erano sfuggiti la sera prima. Gli intagli dei
pannelli in legno delle pareti, i complicati ricami degli arazzi che
riprendevano scene della foresta, o di caccia: tutto richiamava la
natura stessa di quel popolo. La Svedese si era messa il vestito che
le avevano consegnato in stanza quando era tornata dalla palestra, e
aveva cercato di darsi un tono con i pochi cosmetici che portava
nella sacca da viaggio. I capelli erano stati raccolti alla meglio
con un elastico nero, sperando che nessuno si accorgesse di lei.
Aveva
deciso di mostrarsi per la prima volta per quella che era, un po' per
necessità ed un po' per esasperazione: la pelle
completamente
candida, le ciglia degli occhi bianche come fili di cotone. Niente
mascara, niente fard: solo la vera Elle. Il vestito era di un curioso
verde acqua, con i tipici ricami dorati a fantasia di fogliame che
contraddistinguevano quasi tutto nel palazzo di T'Chaka. Sarebbe
stato facile mimetizzarsi con l'arredamento. Quando vide
Natasha
in mezzo alla folla, sorrise vedendo che il suo vestito aveva gli
stessi ricami, ma era in un color porpora che donava particolarmente
al suo incarnato.
Si
avvicinò, appoggiandole una mano alla base della schiena. La
russa
teneva un bicchiere fra le dita affusolate, e stava parlando con il
principe.
“Stavo
giusto dicendo...” La donna si voltò verso
l'amica, scostandosi un
boccolo rosso dal viso. “Non mi capitava da anni di
svegliarmi e
stupirmi di essere da sola in stanza.”
Elle
si mise una mano davanti al viso, soffocando una risata. Natasha si
finse offesa, portandosi il bicchiere alle labbra. “Pensavo
succedesse solo con i ragazzi, non anche con le amiche di vecchia
data.”
“Non
so che genere di uomo possa aver mai abbandonato una bellezza del
genere fra le lenzuola.” Commentò galantemente
T'Chaka. Elle lo
affiancò, lanciando uno sguardo divertito all'amica, che
piegò le
labbra in una smorfia.
Samuel
si avvicinò ai tre, picchiettando sulla spalla di Elle con
un
sospiro. Portava una camicia bianca, ricamata di nero con delle tigri
dai denti sguainati. La ragazza sorrise, mentre l'amico le metteva un
bicchiere di champagne in mano. Elle alzò un sopracciglio.
“Alle
una del pomeriggio?” Chiese, indicando con un cenno del mento
il
bicchiere colmo di ghiaccio e chissà che altro alcolico che
Wilson
teneva in mano. L'uomo si strinse nelle spalle, guardando T'Chaka che
sussurrava qualcosa a Natasha, i visi vicini e il sorriso divertito
della rossa. Nat infatti scoppiò a ridere, appoggiando una
mano
sull'avambraccio del principe.
“Usciamo,
ti va?” Chiese Samuel, portandosi il bicchiere alle labbra
con fare
seccato. Bevve una generosa sorsata, lo sguardo sempre fisso
sull'amica. Elle schioccò le labbra, annuendo e
allontanandosi
dall'amica.
“Allora,
ti va di raccontarmi cosa è successo ieri? Quando
sei morta, per esempio.”
Elle
annuì, mentre lui la prendeva gentilmente per un braccio e
la
conduceva fuori dalla grande sala. Si sedettero su una panca vicino
alle porte intagliate del salone.
Elle
accavallò le gambe, sospirando, mentre Samuel la guardava,
in
attesa.
“L'ultima
cosa che ricordo è Rumlow che attacca Steve.”
Cominciò Elle.
Samuel annuì. “Poi sono svenuta. Nero. Blackout.
E quando
riapro gli occhi, la prima cosa che vedo è che l'erba
è rossa ed il
cielo è nero.” Samuel sussultò, il
bicchiere in mano. “Meno
male che sono le una del mattino.” Commentò,
portandosi il
bicchiere alle labbra.
“Mi
alzo, e c'è questo tipo che mi fissa, Vali.”
Prosegue la bionda.
“E mi dice di avermi guarito immergendomi in un fiume... Si,
lo
so, è strano.” Rispose allo sguardo
scioccato di Samuel. “So
solo che mi sono svegliata e non avevo più nemmeno un
graffio. E
questo Vali mi dice di essere il principe di quel pianeta... E mi
dice cose che nessuno sa, su di me, sulla mia famiglia...” La
ragazza si piegò in avanti verso l'amico. “Mi ha
detto delle cose
su mia madre... Sui miei poteri...”
Samuel
si piegò verso il suo viso, le sopracciglia corrucciate.
“Tua
madre?”
“Si,
lei era...”
“Samuel!
Elle!” Wanda spuntò dal fondo del corridoio, in un
abito nero con
un colletto orientale e le spalle avvolte da uno scialle rosso fuoco.
Accanto a lei, Steve si sistemò nervosamente i polsini della
camicia
alla coreana blu oltremare. Elle intercettò il pensiero di
lui,
capendo il suo fastidio riguardo ai ricami in fili dorati su tutti
gli orli. La parola che pensava Rogers, nello specifico, era Vezzoso.
Elle fece fatica a non scoppiare a ridere: solo Rogers poteva pensare
parole del genere.
Lui
infatti guardò Elle di sottecchi, sorridendo. Elle si
alzò di
scatto, lisciando con le mani il vestito. “Stai molto
bene.”
Ammise lui, indicandola con una mano. Elle sorrise. “Anche
tu. Il
blu ti dona. Anche i dettagli dorati...”
Lui le lanciò uno
sguardo torvo.
“Come
stai?” Wanda si avvicinò alla svedese, prendendole
un braccio.
Elle le sorrise, mettendo una mano sopra quella della donna.
“Sto
bene, Wanda. Mi dispiace per tutto quello che è
successo.” Wanda
scosse il capo, le labbra piegate all'ingiù. “Non
sono riuscita ad
impedirlo.” Le due si voltarono, per tornare nella sala
affollata.
Steve le seguì, facendo un cenno a Samuel.
“Dov'è Nat?”
“A
civettare.” Rispose Samuel caustico, prima
che Elle potesse
precederlo. Steve spostò lo sguardo dall'amico alla donna,
un
sopracciglio alzato in un'espressione sorpresa. Elle scosse il capo.
Samuel
si portò il bicchiere alle labbra, finendone il contenuto.
Steve lo
guardò interrogativo. “Alle una del
pomeriggio?”
L'amico
si strinse nelle spalle. “Non hanno la birra.”
Elle
cercò di distrarsi dai sogni che l'avevano tormentata quella
notte,
e dai discorsi di Vali su di lei e su sua madre. Avrebbe dovuto
cominciare ad indagare. Cos'era la gemma dell'Anima? Perché
gli
abitanti di Alfheim pensavano le sarebbe serviti
poteri
telepatici? Chi era Vali?
“Un
penny per i tuoi pensieri.” Commentò
improvvisamente Samuel. Elle
si voltò verso di lui, notando che avevano seminato Wanda e
Steve,
catturati da un gruppo di politici chiaccheroni. Elle si
voltò verso
di lui. “Prima dimmi cosa hanno detto Maria e Fury del casino
a
Lagos.”
Samuel
sospirò. “Come lo sai?” Elle sorrise.
“Tu e Steve avete
un'aria da funerale. Nat dà corda alle avances
di un principe
africano. Wanda ancora non sa...” Si voltò a
guardare l'amica che,
avvolta nel suo scialle, guardava a intervalli loro o Steve. L'uomo
parlava tranquillo con i tre uomini dalla pelle scura, sorridendo
nervosamente. Ad una persona che lo conosceva meglio, però, sembrava seccato.
“Non
possiamo rientrare in America almeno fino a domani. Alle Nazioni
Unite si parla di un protocollo. Mezzo mondo ci vuole in prigione.
Perché agiamo senza un controllo dall'alto.”
Sintetizzò abilmente
l'amico.
“Se
ci fosse un controllo dall'alto, non saremmo più fuori dagli
interessi politici mondiali.” Commentò Elle.
Samuel annuì.
“Vorrebbero farci servire come un corpo militare, sotto il
controllo diretto del presidente.”
Elle
scosse il capo. “Non sono nemmeno Americana, non
agirò per conto
del vostro presidente. E' roba da Steve.” Sospirò.
L'uomo,
probabilmente sentendosi nominare – il super siero gli aveva
amplificato anche l'udito? Elle non lo sapeva per certo. - si
voltò
a guardarla. Aveva la mascella contratta, mentre cercava di spiegare
qualcosa agli uomini di fronte a lui. I due si guardarono un secondo,
gli occhi azzurri di Elle che sondavano il blu di quelli di lui.
Istintivamente, Steve sorrise, voltandosi e ricominciando a parlare
meno concitatamente. Elle piegò il capo in avanti,
arrossendo
leggermente. Samuel sospirò.
“Tu
non sai l'effetto che hai su quell'uomo. Può sembrarti una
roccia,
ma da quando sta con te sta mettendo in discussione tutto quello che
ci circonda. Non penso aderirà a questo accordo con il
presidente.”
Elle si voltò a guardarlo, sorridendo appena.
“Esageri, Samuel.
Steve Rogers è sempre stato uno che ragiona con la sua
testa. Cosa,
ammetto, assai rara per un militare. Doveva solo ritrovare
l'equilibrio.”
Samuel
la guardò eloquentemente, aprendo le braccia in un gesto
vago. “Ora
tocca a te rispondere. A cosa pensavi con aria così
afflitta?”
Elle
lo guardò un secondo. Non aveva rivelato la
verità a nessuno,
nemmeno a Natasha. Non sapeva perché, ma sentiva che il suo
segreto
doveva rimanere fra pochi.
“Mia
madre. Era dell'Hydra. Questo volevo dirti prima. Ed io sono frutto
di un letale mix fra un esperimento nazista,
un'azione divina
da Alfheim e l'influsso della gemma dello
spazio.” Commentò
in fretta, il viso vicino all'orecchio dell'amico. Samuel la
guardò
con occhi sgranati. Aprì e richiuse la bocca un paio di
volte, senza
sapere cosa dire. “Penso di avere bisogno di un altro
drink.”
Si
diressero verso la zona bar. Samuel disse qualcosa al cameriere, che
sorrise e gli porse due bicchierini colmi di liquido trasparente.
“Vodka?”
Chiese Elle ridacchiando. L'amico le fece l'occhiolino.
“Penso che
ne avremo bisogno per arrivare alla fine di questa giornata.”
Elle
rise.
“Se
tu fossi uno dei miei ragazzi del centro veterani, ti chiederei come
ti senti.” Commentò ancora lui, intercettando due
sgabelli liberi.
Si sedette con un tonfo, battendo la mano sulla seduta di fianco a
lui. Elle si alzò sulla punta dei sandali, sedendosi con
ancora il
bicchierino in mano.
“Mi
sento uno schifo, ecco come mi sento.” Appoggiò
poco
raffinatamente i gomiti al bar. Samuel dava le spalle al barista,
appoggiato con la schiena al piano di legno scuro, lo sguardo che
vagava per la stanza. Elle, a quel punto di quell'assurdo
ricevimento, supponeva stesse cercando una chioma rubino di loro
conoscenza. “Non sono una persona, Sam, sono solo una serie
di geni
assemblati in modo da formare... Non so nemmeno io cosa, un'arma
presumo.”
Ingollò
il bicchierino di vodka, facendo un cenno al barista. Questo si
avvicinò, riempiendolo di nuovo con un sorriso di cortesia.
Samuel
avvicinò il capo al suo orecchio. “Non dirlo
nemmeno per scherzo.
Tu sei Elle Selvig. Sei una mia amica.” Commentò a
bassa voce. “E
sei la probabile futura ragazza del mio migliore amico.”
Elle
alzò gli occhi al cielo, e fece per ribattere, scocciata, ma
una
mano picchiettò sulla sua spalla. Lo sgabello accanto al suo
si era
liberato, ed ora una figura familiare le si era compostamente seduta
accanto. Elle sospirò.
“Samuel
mi ha detto tutto della situazione in America e con le Nazioni
Unite.” Commentò, voltandosi verso Rogers. Questo
fece un cenno al
barista, che si avvicinò, probabilmente stufo delle
richieste dei
settentrionali che ormai occupavano metà del bancone.
“Mi
dispiace, Steve. Torneremo a casa presto.”
“Il
problema...” Sussurrò l'uomo, voltandosi verso di
lei e
avvicinando il viso al suo orecchio, così che solo Elle
potesse
sentirlo. “...E' cosa succederà quando
torneremo.”
Elle
sospirò, guardando il contenuto del suo bicchiere.
Sentì sospirare
anche Rogers. “Davvero non avete della birra? Non importa,
tedesca
o americana o spagnola, della birra.” Il cameriere scosse il
capo,
scusandosi. Samuel, dall'altra parte della ragazza, girò
sullo
sgabello con un funereo “Te lo avevo detto, Steve.”
Wanda
si avvicinò, sorridendo nervosamente. Samuel le cedette lo
sgabello
prima che si offrisse di farlo Rogers. Elle sentì la risata
cristallina di Natasha, ma prima che avesse il tempo di voltarsi per
cercarla fra la folla, l'attenzione di tutti fu' richiamata da uno
degli uomini con i quali stava parlando Steve poco prima. Stava
facendo tintinnare contro il calice di champagne vuoto un cucchiaino.
“Signori,
posso permettermi di essere il primo a congratularmi formalmente con
il nostro sovrano. Che possa il suo regno durare ancora
cinquant'anni, e possa il suo occhio vedere più lontano di
quanto
non possiamo noi tutti.” Si voltò verso Steve, che
ricambiò lo
sguardo, gelidamente. “Possa la sua saggezza guidarci ancora
a
lungo in questi tempi difficili. Il nostro è l'unico regno
Africano
dove regna ancora la pace, e quello dove è perdurata
più a lungo.”
Un uomo, vestito con i tipici abiti da guerriero Tuareg,
annuì con
convinzione al discorso. “Altri cinquant'anni!”
Richiamò. Tutti
risposero, per poi urlare un tipico richiamo di guerra. Anche il
principe si unì al richiamo, sotto lo sguardo divertito di
Natasha,
mentre il Re T'Chaka faceva il suo ingresso nella sala, sorridendo a
tutti.
“Grazie,
amici miei. Non merito né ritengo necessari tutti questi
festeggiamenti.” Commentò placidamente.
“Ma voglio che i miei
nemici sappiano quanto siamo uniti e quanto non temiamo la bufera che
sta per arrivare da nord.”
Elle
ebbe un brivido. Steve voltò istintivamente il capo,
fissandola con
sguardo interrogativo, ma la donna fece finta di non notarlo,
guardando il sovrano dritto davanti a sé.
“E'
con piacere che vedo volti familiari, amici di una vita, e nuove
conoscenze.” Indicò nella direzione di Natasha,
che sorrise
cordiale. Elle cercò di trattenere una smorfia.
“Propongo di
indulgere ancora per un poco nella danza, per poi procedere con il
banchetto cerimoniale, durante il quale conferirò
singolarmente con
tutti coloro che ne hanno desiderio.” Lanciò uno
sguardo eloquente
a Steve, che annuì fra sé e sé.
“In previsione di ciò, buon
appetito a tutti.”
Per
un momento nella sala calò il silenzio, poi furono intonati
dei
canti tipici, mentre le coppie per le danze in onore del sovrano
andavano formandosi. Nessuno si stupì di vedere Nat fare
coppia con
il principe, nonostante le molte donne che lo circondavano. T'Chaka
si piegò a sussurrarle ancora qualcosa nell'orecchio,
facendola
ridere. Si allontanò di pochi passi, guardandola sornione, e
afferrò
un fiore da uno dei vasi posti ad adibire la sala. Tornò
dalla
russa, ponendo dietro il suo orecchio, fra i capelli vermigli, un
meraviglioso ibisco dello stesso colore. Natasha sorrise, facendosi
guidare verso le danze.
“Se
non la conoscessi potrei quasi crederci” Commentò
Elle,
sistemandosi lo chignon con fare annoiato. Samuel rispose con uno
sbuffo, voltandosi verso il bancone e richiamando un esasperato
barista.
“Per
fortuna ci pensa Natasha a partecipare attivamente alla
cerimonia.”
Commentò Wanda, guardando le coppie che danzavano.
“Se dovessi
mettermi anche a ballare, penso che prima devasterei la sala e poi
costringerei tutti ad uscire in maniera composta per tornarsene a
casa.” Elle trattenne il riso. “Tu si che sai come
animare una
festa, Maximoff.” La mora si voltò con un sorriso
divertito.
“Tu
devi essere Elle Selvig.” Commentò una voce
profonda dal marcato
accento africano. La bionda si voltò, cercando di fingersi
interessata e cordiale. Alla fine, erano ad una festa, e non sapeva
quanto si sarebbero dovuti trattenere in Wakanda. “Sono io.
Con chi
ho l'onore di parlare?”
“Colonnello
K'Phini, esercito del Wakanda.” Rispose l'uomo, affabile. Era
circa
sui quarant'anni, pelle color ebano, origini probabilmente
dall'Africa profonda. Portava i vestiti di una tonalità di
blu poco
più scura dell'abito di Elle. “Tuareg?”
Chiese infatti la
ragazza, riconoscendo anche i tatuaggi scuri sul viso e sulle mani
scoperte. L'uomo sorrise stupito. “Esattamente. La tua
reputazione
ti precede.” Commentò gentilmente. Elle sorrise.
“E' più il suo
aspetto che precede lei, ma in questo siamo simili. Non
potrò mai
fingere di essere una Masai. Al massimo, posso barare fra Svezia,
Finlandia e Norvegia.” I due scoppiarono a ridere.
Un
colpo di tosse palesemente recitato fece voltare Elle verso il suo
fianco sinistro, dove Steve li guardava a braccia incrociate.
“Colonnello,
forse ha già avuto occasione di conoscere Steve Rogers, il
comandante della mia squadra d'azione.” I due annuirono,
squadrandosi a vicenda.
“Ho
già avuto questo piacere.” Commentò
K'Phini, mentre Steve
semplicemente annuì. Il silenzio scese fra i tre. Il
Colonnello si
voltò di nuovo verso Elle.
“Non sarà un problema per la sua
squadra se la sottraggo alla loro compagnia per una danza; è
un vero
peccato vedere bellezze del genere relegate al bancone delle
bevande.” Elle cercò di nascondere un sorriso
divertito.
“Non
si vedono tutti i giorni donne del genere da queste parti, e vedo che
anche la sua collega si sta godendo la nostra piccola riunione.”
Proseguì l'uomo, indicando nella direzione di Natasha, che
apparentemente si stava divertendo come non succedeva da tempo.
Elle
si soffermò un secondo sulla pelle candida dell'amica, che
la
rendeva simile ad una mosca bianca in mezzo a tante persone scure.
“Il nostro sole farebbe appassire donne così
candide in fretta. Ma
oggi mi è concessa questa rara visione.” Le tese
la mano,
guardandola con sicurezza. Elle stirò le labbra in un
sorriso,
facendo per accettare.
“Veramente,
Elle, mi avevi promesso un giro di pista.”
Commentò Rogers, a voce
bassa. Elle alzò un sopracciglio, voltando appena il capo.
“E'
vero.” Esclamò Samuel dall'altro lato della
bionda, senza alzare
il capo dal suo bicchiere mezzo vuoto. Wanda emise una risata, prima
che l'amico le tirasse un calcio allo sgabello.
“Ah.”
Esclamò solo la svedese. Guardò con aria
dispiaciuta l'uomo, che
attendeva ancora che lei lo seguisse. Fece un gesto vago con la mano.
“Magari questo pomeriggio.” Commentò
imbarazzata. Steve, accanto
a lei a braccia incrociate, si schiarì la voce.
“Questo pomeriggio
dobbiamo conferire con il sovrano e poi richiamare alla base per
informarci su un nostro possibile ritorno.” Si
voltò a guardare
l'uomo, che ancora era piegato verso l'amica. “Non penso ci
sarà
tempo per le danze.”
“Allora...”
Commentò Elle asciutta. “Non ti
dispiacerà se concederò una
danza al gentile Colonnello. Alla fine” Replicò
asciutta,
alzandosi e prendendo la mano che K'Phini le porgeva “Si
tratta del
mio tempo.”
I
due si diressero verso i ballerini, mentre Elle sentiva lo sguardo di
Rogers perforarle la nuca, provocandole un buco fumante
al
centro del capo. Faticò a trattenere una risata, mentre si
lasciava
condurre nelle danze.
“Il
Capitano Rogers ti è molto affezionato.” Ammise a
malincuore il
suo accompagnatore. Elle si strinse nelle spalle. “E' molto
teso in
questi giorni. Non vuole perderci d'occhio.” L'uomo
negò con il
capo. “E' una spiegazione troppo semplice. E' troppo
intelligente
per crederci.”
Elle
sorrise all'uomo, cercando nel contempo di non pestargli i piedi.
“Non sono ancora riuscita a ringraziare il vostro Sovrano
come si
conviene, per l'ospitalità. Ci ha trattati come amici di
vecchia
data. Non sono sicura che meritassimo tutta questa
comprensione.”
L'uomo
la strinse leggermente, alzandola da terra per farle compiere un
giro. La appoggiò delicatamente, riducendo nuovamente il
contatto a
quello fra le loro mani. “Non tutti possono comprendere
quello che
fate.” Commentò l'uomo. “Di certo non
quelli che non hanno
capito con che nemico subdolo avete a che fare. Non ho problemi a
capire perché il Capitano non si fidi più di
nessuno, dopo quello
che è successo con lo S.H.I.E.L.D.” Si separarono
leggermente,
eseguendo una figura con gli avambracci intrecciati, girando su loro
stessi. Elle vide per un secondo Natasha, poi tornò a
concentrarsi
sulla conversazione con l'uomo. “Inoltre...”
Proseguì infatti
questo “Penso che la sua calorosa accoglienza sia in parte
dovuta
all'interesse per la vostra squadra da parte dell'erede al
trono.”
Elle
si irrigidì, affrontando il suo interlocutore con lo
sguardo. “Il
giovane T'Chaka è interessato ad entrare negli
Avengers?” Commentò
in un sussurro.
“Non
so se hai sentito la leggenda della pantera.”
Suggerì con
un sorriso enigmatico l'uomo. Elle emise un respiro strozzato.
“Penso
sia arrivato il mio turno.” Una voce li interruppe. Il
Colonnello
le prese la mano, appoggiandola su quella già aperta di
Rogers. “E'
stato un onore, ed un piacere.” Concluse con la giovane.
“La sua
reputazione è all'altezza del suo intelletto. Sono certo
saprà
ricollegare i pezzi.”
Elle
annuì con un sorriso, seguendolo con lo sguardo mentre si
allontanava. Steve sospirò, richiamando la sua attenzione.
“A cosa
si riferiva?” Chiese scocciato. Elle ritornò
sull'amico, con uno
sguardo enigmatico. “Etologia. Parlavamo
di pantere.”
Rogers
scosse la testa, mettendole una mano sul fianco e seguendo il
movimento di tutti gli altri ballerini. Elle sapeva che stavano
dondolando, rigidi come dei tronchi d'albero. Nessuno dei due voleva
dare all'altro la soddisfazione di aprire un discorso. Sentirono la
voce divertita di Natasha, poco lontano.
“Sembra
che si stia divertendo.” Commentò asciutto Steve.
Elle si strinse
nelle spalle. “E tu?” Lo indicò con un
cenno del mento. “Non
ti facevo un tipo da ballo.”
Steve
sorrise. “Invece ai miei tempi andavo forte!”
Scherzò ridendo.
Elle lo seguì nella risata, pestandogli per sbaglio un
piede.
“Dovrei smettere di sottovalutare le tue doti nascoste, Re
delle
Piste da Ballo.” Rogers scoppiò a
ridere, spostandola quasi di
peso per evitare di farsi pestare una seconda volta il piede,.
“Non
ho dimenticato che disegni.” Ammise lei in un sussurro.
“Mi
piacerebbe vederti all'opera, qualche volta.”
“Ho
ritratto Nat.” Rispose subito lui. “Ma non ho
più quel disegno.
Era per un amico.” Il gelo scese nuovamente tra i due.
“Banner.”
Commentò freddamente lei. Steve fece un sorriso di scuse.
“Ci
teneva a lei.”
“Abbastanza
da fare delle scenate da sociopatico quando
qualcuno la
invitava a ballare?” Borbottò la svedese. Steve
distolse lo
sguardo, fingendo di concentrarsi sul ballo. Elle lo seguiva
meccanicamente, senza particolare entusiasmo, fissando un punto
indefinito dietro la spalla di lui.
“Sei
stata brava, all'allenamento, stamattina.” Rogers
provò ad
intavolare nuovamente una conversazione. “Non penso di
avertelo
detto.”
Elle
sorrise. “Anche tu non te la cavi male.”
Steve
sorrise divertito. “Ieri, mentre eri incosciente, o morta,
non
voglio saperlo, hai chiamato tua madre.” Commentò
asciutto.
“Almeno, penso fosse tua madre. Annette, giusto?”
Elle fece una
smorfia.
“Non è un argomento da danza.” Ammise,
delusa.
Sperava che Rogers cercasse la sua compagnia per motivi un po' meno
materiali che informazioni sulla sua miracolosa
ripresa del
giorno prima. “Non è decisamente un argomento da
danza.”
Restarono
alcuni minuti in silenzio, lei che cercava di non pestargli i piedi,
lui che la conduceva senza troppo sforzo lungo la sala.
“Scusa
se sono così... Intrattabile.”
Sussurrò lui. Elle lo
guardò sorpresa. “Avevamo promesso di trattarci
meglio, mesi fa,
ti ricordo. Nonostante le nostre controversie.”
Borbottò
lei, alzando lo sguardo contro il suo viso. Vide che l'uomo fissava
un punto indefinito sullo sfondo. Pensò che la conversazione
sarebbe
finita in quel momento.
“Temevo
di averti perso per sempre.” Proseguì invece lui,
senza guardarla,
ma stringendola leggermente di più a sé. Elle,
stranamente a suo
agio, appoggiò il mento sulla sua spalla, sospirando.
“Lo so.”
Commentò semplicemente.
“Temevo che non avrei più sentito la
tua risata, il tuo tono sarcastico, l'odore dei tuoi capelli quando
li raccogli e tutto il loro profumo si concentra in un raggio di
poche decine di centimetri...” Lui abbassò lo
sguardo, sentendo il
respiro di lei contro il collo, il suo mento sottile appoggiato sulla
sua spalla. “Perdonami se per almeno qualche giorno mi
comporterò
da sociopatico. Non voglio mai più
provare quello che ho
provato tenendoti a peso morto fra le braccia.” Lei
alzò lo
sguardo sul suo viso. Lui si era allontanato leggermente, sempre
senza guardarla.
Non
erano mai riusciti a stare così vicini, in mezzo a tanta
gente,
senza essere interrotti o senza essere in una situazione di pericolo.
Sembrava quasi una situazione normale: una donna ed un uomo che
ballano ad una festa. Elle si godette il momento, inspirando il suo
odore così familiare, così terribilmente suo.
Rimase a
fissarlo, cercando i suoi occhi, mentre lui la teneva stretta a
sé,
le labbra a pochi centimetri di distanza. Steve abbassò gli
occhi su
di lei, cogliendola a fissarlo senza pudore. Elle sorrise appena,
“E
visto che siamo in vena di confidenze...” Proseguì
lui, lo sguardo
che andava dai suoi occhi alle sue labbra chiare “...Sei da
togliere il fiato, oggi”
Elle
aggrottò le sopracciglia, divertita. Lui scosse il capo,
ridendo.
“Ovviamente
sei sempre fantastica, anche quando sei in tuta, o quando o quando
ti svegli con i capelli dritti in testa come una scopa di
saggina...”
Continuò a briglia sciolta. “Ma devo dire che il Ciano
Scuro
su di te è incredibile.”
La
donna gli lanciò uno sguardo divertito. “Ciano
Scuro?”
Steve sogghignò. “Liceo Artistico,
ricordi?”
Elle
annuì leggermente, sistemandogli con le dita fredde il
colletto
della camicia.
“Anche
tu stai bene così...” Commentò con un
sorriso sghembo. “Anche
se devo dire che ti preferirei senza
camicia, nonostante questa abbia
un taglio che ti dona particolarmente.”
Elle
parlò senza pensare, o meglio, la vodka
parlò attraverso Elle.
La giovane cercò di sembrare sicura di quello che stava
dicendo ad
un Rogers sconvolto, benedicendo mentalmente il cameriere che stava
richiamando tutti nella sala attigua per il pranzo cerimoniale. Prese
l'altro per mano, dirigendosi in quella direzione, ignorando
l'espressione a metà fra il soddisfatto e il confuso del suo
accompagnatore.
xXx
Speravate che finisse tutto
rose e fiori, invece... Dovrete aspettare la prossima settimana!
Però ho delle sorprese in mente per voi, durante le mie
vancanze natalizie. Potrei pubblicare più spesso! Potrei, eh
;)
Eccoci qui con questo
bel capitolo sostanzioso, spero :)
Ringrazio le dolci
pulzelle Giulietta_Beccaccina,
la celeberrima Delta
e D Laila
per le bellissime recensioni ed i messaggi, spero di trovarvi numerose
anche al termine di questo capitolo, anche solo per frullare un pochino
(si usa anche da voi frullare?) per le nostre due colombelle.
Piccole precisazioni:
non voglio che Elle venga presa come una che "Si, ok, sono morta, sono
un esperimento, mia madre era dell'Hydra, ok!". Qui deve ancora
rendersene bene conto. Intanto, spiegando a Sam si è
già aperta un poco . Nel prossimo capitolo vedremo la vera
reazione della Elle Selvig essere umano tormentato. Stay Tuned! ;)
Grazie per i mille
suggerimenti per il fancasting! Presto vi darò altre News.
Il prossimo aggiornamento sarà sempre Mercoledì 23,
e poi ne farò uno speciale per Natale, penso. Ho un capitolo
particolare...
Buona Settimana a
tutti voi!
Eve
|
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Capitolo 16 *** 16. Wakanda pt.2 ***
Per
questo capitolo ringrazio Giulia Beccaccina perché... gli Stelle? Davvero?
E
fu subito Ship.
Ci
vediamo alla fine, gente ;)
Atto
16: Wakanda parte 2
“Help
me to decide,
Help
me make the most
Of
freedom and of pleasure.
Nothing
ever last forever.
Everybody
wants to rule the world.”
TEARS
FOR FEARS
25
Dicembre 1937, Brooklyn
Il
primo ristorante etnico di New York aveva aperto da poche settimane
quando arrivò il Natale.
Non
che prima non ci fossero mai stati ristoranti che proponevano piatti
dall'estrema Asia o dall'Africa – semplicemente erano locali
per
borghesi in vena di sperimentare, e non per due ragazzetti di
Brooklyn. Steve aveva anche lavorato come lavapiatti per qualche
tempo, in uno di quei ristoranti per gente per bene.
Per
due giovani, figli di operai, già la West Coast sembrava
lontana
quanto la luna: il vecchio continente, o di cosa stava ad est o a sud
di questo, nemmeno riuscivano ad immaginarlo.
Steve
stava seduto sui gradini della scala davanti a casa sua, avvolto in
una coperta, a lucidare un vecchio paio di scarpe eleganti, ma
malmesse, quando il suo migliore amico gli aveva lanciato contro una
palla di fogli di giornale. Aveva risposto con uno sguardo torvo,
mentre il bellimbusto sorrideva ad alcune ragazze di passaggio,
diversi metri più in basso. Queste scapparono con un
risolino,
voltandosi più volte. Bucky si appiattì i capelli
sulla testa con
attenzione, voltandosi di nuovo ed alzando il capo per vederlo.
“Mamma
ci è rimasta molto male che tu non sia venuto a pranzo dopo
la
funzione, oggi.” Esclamò teatralmente,
sistemandosi le bretelle
con uno schiocco. “Aveva preparato da mangiare per un
esercito. Sai
come reagisce quando non finiamo tutto quello che c'è in
tavola. Sto
esplodendo.”
Steve
si strinse nelle scarne spalle, senza alzare il naso dal lavoro che
stava facendo. “E' due settimane che non lavoro. Non potevo
permettermi di portare niente per ringraziarla.”
Bucky
sospirò sonoramente. “Lo sai che non lo fa per
avere qualcosa in
cambio. Lo fa perché sei di famiglia, ormai.”
Avanzò di un paio
di gradini, mettendosi in piedi davanti all'amico. “E si
mangia in
famiglia, a Natale.”
Steve
irrigidì la mascella, alzando lo sguardo.
“Preferivo stare solo.”
“Nessuno
preferisce stare solo a Natale!” Commentò l'altro,
esasperato.
“Smettila di raccontarmi frottole. Sarai rimasto a deprimerti
al
tavolo della cucina, succhiando una forchetta.”
Steve
ebbe un fremito di rabbia, alzando finalmente lo sguardo sull'amico.
“Smettila di inferire, Bucky.”
“Io...”
L'amico sbottò, guardandolo seduto a terra, in mezzo al
lucido da
scarpe ed alle spazzole. “Io non ti capisco!”
L'altro
si strinse ancora nelle spalle, iniziando a mettere da parte tutti i
suoi attrezzi. Bucky alzò gli occhi al cielo, sospirando.
“Stasera
però non mi scappi, teppista.”
Steve
rientrò in casa senza emettere un fiato. “Va bene,
va bene,
rompiscatole.”
L'altro
lo seguì in casa, come per essere certo che non sarebbe
caduto in
qualche fessura del pavimento o sparito dentro un armadio. La casa
era gelida, la stufa spenta, e spoglia dei mobili non strettamente
necessari.
“Dove
vorresti andare, sentiamo?” Chiese con tono rassegnato Steve.
Bucky
si riscosse, sorridendo da un orecchio all'altro. “Hanno
aperto una
di quelle bettole da quattro soldi, ma dove servono cibo indiano!
Pare che il tipo sia appena emigrato e non capisca una
parola.”
Steve alzò gli occhi al cielo. “Non vorrai andare
a sfottere un
povero indiano che non capisce nulla?”
Bucky
sogghignò, scuotendo la testa. “Voglio andare a
provare. La
cucina, dico.”
Steve
mise il cappotto in silenzio, avviandosi verso la porta. Bucky lo
fermò con un braccio, afferrando una pesante sciarpa di lana
appoggiata ad una sedia. “Dove vuoi andare senza sciarpa? Poi
per
forza ti ammali.” Commentò come se fosse una cosa
ovvia. Steve lo
scrutò un attimo, nel suo completo elegante anche se
economico, con
un cappotto marrone scuro e sicuramente più elegante che
caldo.
“Certo,
certo.” Commentò. Bucky si allungò
verso l'armadio, lasciando
perplesso l'amico. Afferrò un involto e glielo
lanciò. “Bucky, ma
sei pazzo? Io con questo non ci esco.”
“Oh
si invece.” Commentò l'altro, prendendogli il
berretto dalle mani
e calcandoglielo sulla testa bionda. Gli sistemò meglio la
sciarpa,
finché solo il naso e gli occhi furono scoperti.
“Adesso possiamo
uscire.” Esclamò soddisfatto. Steve
mugugnò. “Si, a fare una
rapina. Non mi faranno nemmeno entrare, nei locali pubblici.”
Bucky
uscì dalla porta, sogghignando e sistemandosi ancora i
capelli sulla
testa. “Non capisco cosa ti spinga a ungerti i capelli con
quella
roba.” Lo prese in giro il piccoletto. Bucky si
voltò, guardandolo
con teatrale perplessità. “Cosa hai detto, scusa?
La lana filtra
tutti i suoni, non penso di riuscire a capire...”
Steve
gli tirò uno spintone, e Bucky finse che fosse
più forte di quanto
non era, sbandando di qualche passo sul marciapiede ghiacciato.
“Piano, teppista!” Commentò ridendo.
Steve guardò il suo
migliore amico, che lo scortava verso un posto dove sicuramente
avrebbero contratto qualche stana malattia batterica. Ma non gli
importava, perché da quando era comparso il suo migliore
amico, il
natale finalmente aveva riacquistato parte del suo senso. Era in
famiglia.
~
Dicembre
2015, Wakanda
Steve
osservò con sguardo curioso il riso dal colore radioattivo
che aveva nel piatto di fronte a sé. Era di un arancione
quasi
fosforescente, e l'odore di spezie era già abbastanza
piccante da
fargli prudere gli occhi. Guardò Samuel che se ne serviva
una
generosa porzione, probabilmente per stemperare alla gran
quantità
di alcool che aveva bevuto come aperitivo.
Natasha,
che era rimasta in silenzio da quando si era seduta a tavola, si
portò con un gesto elegante la forchetta alle labbra.
Sorrise.
“Non
è piccante, Steve, puoi mangiarlo.”
Confermò con un sorriso.
L'uomo annuì in risposta, assaggiando. Elle rise alla sua
espressione.
“Cumino,
coriandolo, cardamomo... Cannella...”
Ammise l'uomo,
sorridendo a Natasha. Si aspettava uno scherzo da parte della rossa.
Invece, Natasha era troppo impegnata a guardarsi intorno con fare
strano – se non l'avesse conosciuta così bene,
Steve avrebbe
giurato che era imbarazzata.
“Non
sopporti i cibi piccanti?” Chiese Wanda, guardando il
contenuto del
suo piatto, perplessa. Steve annuì. “La prima
volta che ho
mangiato indiano, il mio amico ha riso fin quasi a
strangolarsi.”
Il
ricordo di quel natale lo colpì come un masso di ghiaccio
nel petto.
Fece finta di nulla, ritornando a guardare la sokoviana. “Ho
scoperto allora di essere troppo sensibile alla...Alla...”
“Capsaicina.”
Lo aiutò Elle, portandosi poi un boccone alla bocca. Lui le
sorrise
appena. “Quella.”
“Il
Capitano che non sopporta la Capsaicina....”
Lo prese
in giro Samuel. Wanda ridacchiò un attimo, prima di
assaggiare
qualcosa con sguardo attento.
Elle
si sporse verso Sam per dirgli qualcosa, ma si interruppe di colpo
guardando dietro di lui, gli occhi azzurri assottigliati che
sondavano a figura dietro di lui.
“Signor
Rogers, Capitano.” Lo chiamò
un militare, in piedi dietro
di lui. Steve si voltò leggermente a guardarlo.
“Mi dica.”
“Re
T'Chaka vorrebbe parlare con lei, se per lei va bene.”
L'uomo
si tamponò con il tovagliolo di raso la bocca, annuendo.
Lanciò uno
sguardo a Nat, che annuì impercettibilmente. Elle lo
guardò
inespressiva, tenendo una mano sulla spalla di Samuel mentre questo
biascicava qualcosa. Steve ignorò la ruga di preoccupazione
in mezzo
alla sua fronte e si alzò lentamente, seguendo l'uomo che
era venuto
a chiamarlo.
Attraversarono
la sala in tutta la sua lunghezza, ignorando i tavoli occupati da
chiassose e colorate comitive, arrivando ad una pesante porta
placcata in oro, con un motivo di figure che attingevano acqua ad un
fiume. Entrò nella stanza, le braccia dietro la schiena e la
camicia, troppo vistosa per i suoi gusti, leggermente sbottonata sul
collo.
“Captain
America.” Lo chiamò la voce calma che lo
aveva accolto il
giorno precedente.
T'Chaka stava seduto dietro un'ampia
scrivania, i vestiti sontuosi ma non esagerati, ed un sacco di carte
che sommergevano il piano di legno scuro sotto alle sue braccia,
mollemente appoggiate.
Era
un uomo basso, probabilmente da giovane molto prestante, ma ora
consumato dall'età e dalla preoccupazione. Sorrise al suo
ospite,
nonostante l'aria angosciata, e Steve apprezzò quel gesto di
umana
cortesia. Si avvicinò, restando in piedi davanti
all'anziano.
“Mi
ha fatto chiamare.” Commentò. Il sovrano del
Wakanda annuì. “E'
da tempo che desidero parlarti. Accomodati”
“Ora
sono qui.” Incalzò allora Rogers.
“Preferisco restare in piedi,
grazie.”
Non
era un politico, non lo era mai stato. Era diventato un militare per
un senso di coscienza, per aiutare. Non sapeva nulla di manovre,
macchinazioni e voci. Avrebbe preferito avere Natasha, accanto a lui.
Ma era solo, in quello studio scuro e fresco, con un anziano signore
che sembrava avere una grande urgenza di parlargli.
“Sai
come si fa a mantenere in pace un paese piccolo come il nostro, in
una zona di guerra e tumulti come l'Africa centrale?” Chiese
l'uomo, con tono profondo. Steve si portò una mano al mento,
riflettendo. “Come la Svizzera?” Chiese poi,
istintivamente.
L'anziano sorrise, annuendo lentamente. “Si, come la
Svizzera.
Tutta questa celebrazione, queste persone che sorridono e brindano
alla mia vecchiaia...” L'uomo si interruppe per una breve
risata
roca, passandosi una mano sulla pelle leggermente pergamenosa del
volto. “Non è difficile tenere fuori dai conflitti
un paese ricco,
e con amici potenti. Amici potenti che sono interessati solo ad una
cosa...”
“Vibranio.”
Commentò a bassa voce Steve, allarmato. T'Chaka
annuì.
“Sono
tutti grandi amici, finché hai qualcosa che loro non hanno,
e della
quale hanno bisogno. Siamo stati sciocchi: abbiamo venduto al miglior
offerente, senza guardare chi fosse in realtà.”
Steve affinò lo
sguardo, nella penombra. “Hydra.”
“Sei
un giovane perspicacie. Mi dispiace che tu sia costretto a fare
questo. Uccidere. Difendere. Salvare.”
“Faccio
solo ciò che mi viene comandato.”
“Sei
tu il tuo comandante, ora.” L'anziano puntò un
dito contro di lui.
“So che non sei più sotto lo S.H.I.E.L.D.. So che vi
siete
messi in proprio.”
Steve
si irrigidì leggermente, pronto a mettersi sulla difensiva.
L'anziano gli sorrise, inspirando profondamente.
“Lo
S.H.I.E.L.D. era marcio. Ma la bestia dentro di lui...”
Scosse la
testa, l'espressione angosciata che tornava fra le rughe del viso.
“L'Hydra deve essere fermata. Per anni mi
sono chiesto se
ciò fosse possibile. Vedo te, vedo voi, oggi, e inizio a
pensare che
forse sarà possibile.” Sorrise leggermente.
“La mia defunta
moglie, la mia spalla, lei era l'unica a non
indorare la
pillola. A dirmi che non ero saggio, a trattare del materiale
con questi uomini vestiti di nero e con il ghiaccio al posto del
cuore. All'inizio, pensavo fossero vaneggiamenti, sai, vaneggiamenti
da donne.” Steve represse una smorfia a
quell'ultima frase.
Avrebbe voluto vedere la risposta di Natasha, o di Elle.
“Ahimè,
aveva ragione. Ora mi vogliono morto, presumo. Sono venuti, diverse
volte, a contrattare. Da quando è scomparso Ulysses Klaw,
povero
pazzo, il mercato nero è sprovvisto di Vibranio. Sono venuti
direttamente alla fonte, e temo per ciò che faranno al mio
paese
dopo la mia morte.”
“Succederà
suo figlio, a lei.” Commentò Steve, senza capire.
“Se lo hai
educato bene, sarà un ottimo sovrano.”
“Mio
figlio è troppo impegnato a sognare di
essere come voi.”
Commentò T'Chaka. “Non gli interessa regnare, non
gli interessa il
suo retaggio; vuole solo servire la sua gente, vuole riportare in
vita la Pantera...” Steve lo
guardò, senza capire del tutto
quello che sembrava un vaneggiamento. Lo guardò.
“Chi
è che può desiderare una vita come la
nostra?” Chiese in un
sussurro.
“Chi
è pazzo, o cerca gloria, per i motivi sbagliati. Chi
è
saggio, e vuole difendere, per i motivi giusti.”
L'anziano
sorrise. “Tu sai da che parte stare. Devi essere saggio nelle
tue
decisioni, Steve Rogers. La tua squadra ti seguirà, giuste o
sbagliate che siano.”
Rogers
rimase in silenzio. Non c'era molto da aggiungere a quella
conversazione criptica fra due centenari. Annuì
semplicemente.
“Mi
dispiace per la situazione. Come le ho detto, non tutti possono
capire. Proverò a fare pressione alla casa bianca. Ma siamo
solo un
piccolo paese, in un continente sottovalutato, alla fine del
mondo.”
Esclamò l'anziano con un sospiro. “Spero che
riesca a riportare in
alto l'umore della sua truppa. Soprattutto dell'uomo che non
può
vedere la figlia, e della donna innamorata.”
Commentò piano. Steve
alzò un sopracciglio. “Come fa a sapere di
Cynthia? E chi è
innamorato?”
L'uomo
scoppiò in una bassa, roca risata. “Abbiamo
parecchi informatori,
per essere un piccolo paese alla fine del mondo.”
~
Elle
scoppiò a ridere all'ennesimo complimento di Samuel ad uno
dei
poveri camerieri. Sam aveva apprezzato il Pilau, il
riso
speziato; adorato il Chapati, il sostituto tipico
del pane
nell'Africa centrale; ed infine aveva quasi pianto di emozione quando
era stata servita la carne Nyama Choma.
Afferrò
con le dita un po' del riso dal piatto, osservando e cercando di
imitare gli abitanti del luogo, che mangiavano appunto con le mani.
Natasha le lanciò uno sguardo perplesso.
“Sta
tornando.” Commentò Wanda, indicando con un cenno
del mento Rogers
che usciva dall'altro lato della sala, la mascella tesa e le spalle
rigide. Elle seguì senza accorgersene il suo sguardo.
“Come
vi sembra?” Chiese in un sussurro. Rogers si voltò
verso di loro,
distogliendo subito lo sguardo quando questo incontrò
quattro paia
di occhi che lo fissavano. Si fermò un attimo, scuotendo il
capo
nell'altra direzione. Sospirò visibilmente, per poi
dirigersi verso
di loro. Natasha fece una smorfia, schioccando le labbra, mentre
Samuel aggrottava le sopracciglia. Steve passò accanto al
tavolo,
senza degnarli di uno sguardo, procedendo fuori dalla sala, lungo il
corridoio deserto. Samuel si passò una mano fra i capelli
ruvidi,
per poi sbuffare. “Non buono.”
Elle
si morse il labbro. “Non buono?”
Chiese conferma. Natasha
serrò gli occhi, passandosi una mano sul volto esasperato.
Allungò
una mano sul piatto, prendendo del riso con la mano nuda. Elle la
guardò sorpresa. “Meglio che mi abitui.”
Commentò la rossa.
“Dalla sua espressione, non andremo via tanto
presto.” La rossa
si riempì la bocca di chicchi speziati. Wanda
sospirò.
“Vado
a parlarci.” Esclamò Elle, pulendosi con una
salvietta le mani.
Samuel negò con il capo. “Lascialo solo. Immagino
che debba
sbollire: oppure sarebbe tornato qui.” Wanda
confermò. “Meglio
lasciarlo stare, giusto un paio d'ore.”
Elle
si stizzì un poco. “Non avrete mica paura di
Rogers.” Natasha
sogghignò. “Anche le persone buone, ogni tanto esplodono.”
Wanda mimò un gesto di conferma con le spalle, guardandosi
attorno.
La
svedese si strinse nelle spalle. “Non ha nemmeno
mangiato.”
Disse, indicando i piatti che erano stati riempiti per l'amico, e che
giacevano sotto delle cupole d'argento. Samuel le diede un buffetto
sulla spalla, sorridendo comprensivo. “Si, ma rischi che
mangi te,
signorina.” Commentò mestamente. Elle si
alzò in silenzio, una
mano appoggiata sulla sua spalla. “Io vado.”
“Buona
fortuna!” Esclamò Wanda, mentre Nat annuiva. Elle
ridacchiò,
raggruppando un po' di cibo in un unico piatto. Prese anche una
forchetta, e un bicchiere di Tej, il liquore tipico
che era
stato servito durante il pranzo. Guardò gli amici un'ultima
volta,
ridendo a Samuel che sventolava teatralmente il suo tovagliolo, prima
di dirigersi verso il fondo della sala.
Per
intuito, immaginava che la versione tormentata del
suo leader
fosse fuori, su uno dei tanti terrazzi che davano sulla
città. Dove
il caldo sarebbe stato soffocante, soprattutto per lei, e nessuno lo
avrebbe mai seguito. 'Bella speranza, amico.'
Superò
delle ampie tende, che davano su una scalinata di pietra scura. Tutto
era curato in ogni dettaglio: non sembrava l'Africa tribale, se non
in qualche scorcio di foresta. Il Wakanda viveva, per quello che
poteva vedere, nel lusso.
Trovò
Steve seduto sulla scalinata, sotto il sole cocente delle tre del
pomeriggio, a fissare l'orizzonte. Si avvicinò di soppiatto,
sapendo
che la avrebbe comunque sentita. La baraonda del ricevimento arrivava
ovattata, e nessuno schiamazzo li avrebbe disturbati.
Elle
si avvicinò, proiettando su di lui la sua ombra.
“Natasha,
io non ho voglia di parlare, ora.” Commentò
l'altro, senza
degnarla di uno sguardo. “Pensavo avessi fame.”
Commentò
placidamente la bionda, appoggiando con attenzione il piatto sullo
scalino sopra a quello dove lui era seduto. Steve la guardò,
ancora
perso nei suoi pensieri. Elle gli sorrise incoraggiante, piegata
sulle ginocchia di fronte a lui. “Qualsiasi cosa sia successa
dentro quello studio, la risolveremo.”
Steve
annuì vago, sospirando. Era sempre così
melodrammatico. Lei si
rialzò con un sospiro. “Torno a controllare che
Samuel possa ancora salire sul Quinjet, per il viaggio di ritorno, sai.
C'è un
limite di tre tonnellate per riuscire a decollare.”
Steve
sogghignò, mentre Elle si avviava verso l'interno del
palazzo, uno
scalino alla volta, tenendo l'orlo del vestito alzato fin quasi alle
ginocchia. “Elle!” La chiamò lui,
voltando il capo nella sua
direzione.
La Svedese si voltò, i capelli che brillavano come
oro al sole, sorridendo dolcemente. “Dimmi, Steve.”
“Risolveremo
tutto. Insieme.” Ripeté semplicemente. Elle
annuì, scostandosi un
ciuffo di capelli che era sfuggito all'elastico a causa del vento.
Sorrise divertita.
“Si,
insieme.”
~
“Pronto?”
Elle
uscì sul terrazzo illuminato dalla luna, respirando a pieni
polmoni
l'aria della notte africana. La temperatura era scesa ad un livello
sopportabile, e la testa le doleva leggermente per i troppi alcolici
consumati da quella mattina.
Si
era tolta appena aveva potuto il vestito, ed ora stava seduta sulla
grondaia del terrazzo che percorreva tutto il frontone del palazzo di
T'Chaka, stretta in una felpa nera, il cappuccio calcato in testa, e
con dei semplici pantaloncini grigi del pigiama che aveva trovato in
fondo alla sua borsa. Aveva tenuto gli anfibi ai piedi, ed ora
guardava i lacci penzolare pigramente nel vento della sera, i piedi
che dondolavano nel vuoto.
“Elle
Selvig.” Commentò la voce, sconosciuta ed allo
stesso tempo
familiare. “James. Come hai avuto il mio numero?”
“Ehi,
sono pur sempre il Soldato d'Inverno.”
Commentò afflitto
lui. “In più, non fai nulla per mascherare questo
numero di
cellulare. Dovremo trovare un soprannome, comunque. Non puoi
chiamarmi così, non in mezzo agli Avengers.”
Commentò Barnes,
dall'altro capo del telefono. Elle sospirò.
“Dove
sei? Stai bene?” Si morse il labbro un secondo, pensierosa.
“Ho
avuto paura che ti avessero ripreso. O peggio...”
“Il
tuo diversivo ha funzionato bene. Mi hai salvato, ancora.”
Lei
sorrise fra sé e sé, il telefono incastrato fra
la spalla e
l'orecchio. “Dove sei ora, Jimmy?”
James
emise una risata roca. “Su un mercantile. Dovrei essere sulla
West
Coast fra dodici giorni. Ho scambiato due settimane di lavoro con il
passaggio ed un po' di privacy. Poi, da lì, arrivare a
Seattle non
dovrebbe essere un problema.”
“Non
per te. Ti ricordi l'indirizzo?” Chiese lei, guardando il
cielo con
aria assorta.
“Valentina
Tre-” Elle lo interruppe. “Non ripetermelo. Non so
nemmeno se
questo è un canale sicuro.” Sentì uno
schiocco di labbra,
dall'altro capo. “Certo che è un canale sicuro,
per chi mi hai
preso?!” Commentò l'ex Soldato, quasi offeso. Elle
non riuscì a
trattenere un sorriso. “Più che altro, come mai ti
ho trovata
sveglia? Lì dovrebbero essere le...”
“Le
tre del mattino. Quasi.” Commentò lei. Lui
sospirò. “Non hai
dormito?”
“Giornata
pesante. Settimana pesate. Vita, pesante.”
Sussurrò lei.
Lui sospirò.
“Ho
un'ora libera. Vuoi parlarne?” Elle esitò, mentre
dall'altra parte
sentiva che il suo interlocutore fuggitivo si sistemava meglio,
probabilmente appoggiato alla balaustra della nave, a giudicare dal
rumore del vento sferzante. “Non sei costretta. Voglio solo
ricambiare i favori.” Commentò asciutto, reagendo
al rifiuto
implicito nel suo silenzio. Elle scosse il capo. “No, non
è per
quello. Mi fido più di te che di molte persone che ho
intorno.”
“Sciocca.”
Commentò l'uomo. “Con tutte le persone delle quali
potresti
affezionarti, hai scelto un fuggitivo ex assassino ricercato da mezzo
mondo.”
“Perché
sei innocente.” Argomentò lei, asciutta.
“Mi piace pensare che
se fosse successo a me, se dovesse succedere a me,
qualcuno
farà lo stesso.”
“A
proposito di questo...” Proseguì l'altro.
“Non ho dimenticato.
Sei saltata fuori da una provetta?”
“Storia
recente. Recentissima.” Commentò lei.
“Prima vado in coma. Il
mio DNA cambia nel giro di tre giorni. Poi Rumlow riesce quasi ad
uccidermi una seconda volta...” Sentì
distintamente lo schioccare
della mandibola dell'amico. “E mentre sono di nuovo in coma,
arriva
un principe a dirmi che mia madre era dell'Hydra. E che io sono un
esperimento genetico su dei determinati fenotipi.”
“Elle,
se avessi saputo...” Elle lo interruppe con un sospiro.
“So che
non sapevi. Per questo so che sei innocente, ora più di
prima.”
“So
cosa si prova, ad essere un esperimento.” Concluse lui.
“Spero
che un giorno potremo sederci in un cafè
a bere qualcosa di
caldo e parlarne.” Elle sorrise.
“Grazie,
Jonny.” Una risata soffocata la fece quasi
scoppiare a
ridere. “Jimmy, ti prego. Almeno sii
coerente, oppure
penseranno che ti accompagni con più uomini.” Elle
alzò gli occhi
al cielo. “Questi preconcetti così retrò.”
Ridacchiarono
insieme, ai due capi del telefono.
“Certe cose sono dure a
morire.” Commentò lui, semplicemente, a bassa
voce.
“A
proposito di cose che sono dure a morire... Lui, come sta?”
Elle
sapeva che Bucky aveva aspettato di farle quella domanda da quando
aveva composto il numero, forse anche prima. C'era la concreta
possibilità che le avesse telefonato proprio per porle
quella
importante, difficilissima domanda.
“Sta...
Bene. Fisicamente. Ti ha cercato. A lungo.” Elle
ripensò a tutte
le volte che era sorto il discorso Soldato d'Inverno,
ed allo
sguardo determinato ma sofferente di Steve. “Gli manca il suo
Buddy.” L'uomo ridacchiò
tristemente.
“Sai,
mi odiavo per non riuscire a ricordare.” Commentò
lui. “Ho
vagato senza meta, senza memoria e senza una casa per mesi,
detestandomi perché non riuscivo a ricordare. Ma ora che
ricordo,
ora che posso vedere chiaramente... Mi odio ancora di più.
Per aver
fatto quelle cose. Per sentirmi sempre sporco. E, soprattutto,
incompleto.”
“Eravate
come fratelli.” Sussurrò lei, lo sguardo che
vagava nel cielo
nero. “Avete vissuto in simbiosi fin da quando eravate
piccoli,
nonostante tuo padre non volesse vederti frequentare quel figlio di
immigrati irlandesi...Per fortuna poi ha cambiato idea... Per forza,
direi, nessuno poteva conoscere Sarah ed avere ancora tutti quei
pregiudizi sugli irlandesi.”
Ci
fu un breve attimo di silenzio. Sentì un respiro sorpreso.
“Come
sai tutte queste cose?”Chiese malizioso. Elle
sgranò gli occhi.
Colta in flagrante.
“La
mostra. Allo Smithsonian.”
Commentò in fretta. Lo sentiva
sogghignare anche a un continente di distanza. “Sono stato a
quella
mostra e, nonostante lo Choc di vedere la mia faccia appesa
ovunque – e nemmeno le mie foto migliori,
aggiungerei – sono
del tutto certo che non ci fosse scritto niente, a riguardo.”
Elle
si morse il labbro, restando in silenzio. “Te lo ha
detto lui!”
Commentò entusiasta l'altro. Lei non ammise né
smentì nulla,
restando in religioso silenzio, un sorriso idiota sulle labbra.
“Tu
e lui! Questo spiega perché mi vuoi
aiutare!”
La
svedese scosse il capo, conscia che comunque non avrebbe potuto
vederla. “Nemmeno lo conoscevo, la prima volta che ho salvato
il
tuo culo
di latta
da quello schizzato di Rumlow!”Esclamò, offesa.
Barnes continuò a
sogghignare. “Sentila,
come si mette sulla difensiva!”
Lo sentì distintamente dire. “Da quanto va avanti?
Sono geloso.”
Elle sbottò, imbarazzata. “Non c'è
nulla fra me e lui, niente,
niet,
ingen!”
Il silenzio scese fra i due.
”E
comunque...” Concluse lei. ”E' inquietante sapere
che sei geloso.
Non si capisce se sei geloso di me, di lui o di entrambi.”
Insinuò
lei. Lui rise.
”Non
puoi salvare altri uomini al di fuori di me, Babe.
Finchè Rumlow non ci separi.” Commentò
smaliziato. ”E lui è il
mio migliore amico.”
”Elle?”
Una voce la chiamò da diversi metri più indietro,
da una delle
portefinestre che davano sul terrazzo. Elle riprese il telefono con
la mano, l'altra che si teneva alla balaustra mentre si voltava verso
Rogers. L'uomo la guardò sorpreso. ”Che ci fai qui
fuori a
quest'ora?” Elle indicò il telefono.
Il
silenzio dall'altra parte della cornetta le fece capire che Barnes
aveva sentito la voce del suo amico. ”Devo andare, Jimmy.”
Commentò Elle mestamente. Sentì James sospirare.
”Stagli vicino
anche da parte mia. Quando sarò in pieno oceano, non
potrò
chiamarti. Ci sentiamo fra una settimana circa, forse qualcosa di
più. Non preoccuparti per me.” Concluse lui,
afflitto . ”Ciao,
nanerottola.”
”Ok.
Riguardati e fammi sapere quando sei arrivato. Buon viaggio.”
Rispose lei, stringendosi nelle spalle. Con un click,
quasi in contemporanea, chiusero la chiamata. Steve aveva atteso,
poco lontano, appoggiato ad una delle colonne del terrazzo. Elle gli
sorrise, facendo un cenno con il capo, il cellulare già al
sicuro
nella tasca della felpa.
”Chiamata
notturna?” Esclamò lui, constatando l'ovvio. Elle
annuì, mentre
l'uomo, in pantaloni della tuta e t-shirt bianca, si appoggiava con i
gomiti al parapetto.
”Non
sapevo avessi un ragazzo.” Commentò imbarazzato,
guardando insieme
a lei le stelle. Elle scosse il capo, perplessa.
”Cosa?”
”Jimmy.”
Commentò lui, brusco. Elle scoppiò a ridere.
”E' un mio amico.”
Steve
fece una smorfia, abbassando lo sguardo su di lei. ”Non si
resta
svegli fino a quest'ora per augurare Buon
Viaggio
ad un semplice amico.”
Elle
rimase basita. ”Hai origliato!” Commentò
con un sibilo. Steve
abbassò lo sguardo, imbarazzzato. ”Comunque, ero
sveglia per caso,
quando mi ha telefonato. Ho visto la chiamata e sono uscita a
prendere aria.” Steve annuì, sospirando
leggermente. Sembrava
sollevato. ”Un'altra brutta nottata?”
Commentò, scrutandola.
Scrutandola in modo diverso dal solito, come a voler cogliere delle
sotttili differenze sul suo viso, o nel suo sguardo.
Elle
sospirò. ”Wanda
ti ha raccontato tutto di Vali.”
Commentò piano, ritornando a guardare il cielo. Steve prese
un'ampio
respiro, mentre lei tornava a fissare il vuoto, ragionando ad alta
voce.
”Non
può essere stato Samuel. Ma Wanda ha letto tutta la
conversazione
nella sua mente, prima che voi arrivaste.” Steve sorrise
leggermente, annuendo. ”Non volevamo impicciarci. So che
erano
confidenze fra amici. Ma lei ha sentito, e ha pensato fosse materiale
importante...”
Elle
annuì. ”Te ne avrei parlato. Se ce ne fosse stata
occasione.”
”Lo
so.” Ammise lui, guardandola dritta nel viso. La svedese
ricambiò
lo sguardo, senza un'ombra di rabbia o risentimento.
”Se
ti può consolare, so
cosa vuol dire essere un esperimento.”
Elle sussultò, riconoscendo la frase. Era la stessa che le
aveva
detto Barnes meno di mezz'ora prima. Sorrise, pensando a quanto quei
due fossero uguali.
”Grazie,
Steve. Immagino che dopo un poco, semplicemente, ci si faccia
l'abitudine.” Esclamò,
stringendosi nelle spalle.
Rimasero
in silenzio, semplicemente, a fissare il cielo nero delle tre di
notte, Elle appollaiata sulla balaustra del terrazzo, e Steve
appoggiato alla stessa con entrambe le mani, a pochi centimetri di
distanza.
“Dovresti
andare a dormire. Almeno, a provarci.” Sussurrò
lui, lo sguardo
che vagava nel vuoto. Elle scosse il capo. “Per svegliarmi
ricoperta di sudore, con il corpo dolorante e la testa piena di
terrore?” Commentò asciutta, abbassando lo sguardo
sulle sue
ginocchia.
“Ho
dormito, fra
le una e le una e mezza.
Poi mi sono svegliata in preda all'angoscia, con i conati e tutti i
nervi accavallati...” Ammise, stirandosi la schiena in modo
simile
a quello di un felino. “Mi dispiace.”
Commentò lui.
“Domani
mattina ho promesso a Samuel di aiutarlo a chiamare con il notebook
di Natasha sua figlia. Spero di non addormentarmi sulla
tastiera.”
Disse semplicemente Elle, sorridendo appena. Steve le diede un
leggero colpo con la spalla, sorridendo anche lui.
“Cosa
tiene sveglio Captain
America,
invece?” Chiese Elle, ancora con le labbra increspate verso
l'alto.
Scavalcò il parapetto, voltandosi verso il palazzo, ed il
terrazzo
sulla quale erano. Diede le spalle al paesaggio scuro, per poter
fronteggiare l'amico viso a viso.
Lui
si strinse nelle spalle, la maglietta come sempre esageratamente
attillata sopra ai muscoli troppo tesi per la sua irrequietezza.
“Troppe
cose a cui pensare. Qui, a casa, ovunque...”
Abbassò lo sguardo, contemplando il nero del ferro battuto
del
parapetto. Elle fece una smorfia.
“Proprio
per questo. Meriteresti il Sonno
dei Giusti...”
Commentò. Lui voltò leggermente il capo,
incontrando il suo
sguardo. Si soffermò un secondo in più sulle sue
labbra, ancora
piegate in un'espressione rassegnata.
“Invece
sono qui a farti compagnia. Non sei l'unica che viene perseguitata
dal passato, nel sonno.” La schernì dolcemente.
Elle strinse le
spalle, lo sguardo perso nel vuoto. “Non sono
sicura...” Iniziò
piano, per poi interrompersi sotto il suo sguardo indagatore.
Riprese, scuotendo la testa. “Sai qual'è la cosa
peggiore?”
Lui
negò, con il viso ad un palmo dal suo viso. Elle prese un
respiro
profondo, sprofondando in quelle iridi che sapeva essere blu, ma che
nel buio della notte sembravano nere come la pece.
“La
cosa peggiore è che non ricordo. Mi sveglio tutte le notti
terrorizzata, e dolorante. Ma non ricordo mai che
cosa ho visto,
nel sogno.”
Rimasero
a fissarsi un secondo, l'uno negli occhi dell'altra, in silenzio. Lui
avvicinò leggermente il viso, sentendo il respiro di lei
contro la
sua pelle. Elle dischiuse le labbra, senza distogliere lo sguardo.
“Deve
essere... angosciante.” Commentò lui. Elle rimase
a fissarlo, con
gli occhi sgranati. “Lo è.”
Commentò semplicemente.
La
notte aveva perso il suo mantello nero, ed ormai il cielo iniziava a
macchiarsi di un leggero azzurro zuccheroso. Il primo raggio di sole
colpì Elle in pieno viso, riflettendosi nei suoi occhi
chiari come
pozze d'acqua. Steve si prese un momento per contemplarli, l'azzurro
che per una volta non assumeva tinte assurde, ma restava un brillante
ma normale azzurro limpido. Elle sembrava solo una ragazza, molto
pallida e con i capelli chiari stretti in una crocchia severa ma
pratica, il cappuccio della felpa nera sollevato per cercare di
coprirla dal vento violento che spazzava il Wakanda alle quattro e
trentacinque del mattino. Alzò una mano, lentamente, sempre
guardandola negli occhi, come avrebbe fatto con un'animale pericoloso
e selvatico. Le sfiorò con la mano il viso, appoggiandola
poi sul
suo braccio. “Devo chiederti una cosa...”
Sussurrò, il capo
leggermente abbassato per parlarle ad altezza di orecchio. Elle
annuì, sbattendo le palpebre sugli occhi stanchi.
“Quando
torneremo a New York...” Steve si maledisse in tutte le
lingue che
conosceva. Non aveva problemi a lanciarsi in machiavelliche imprese
con una banda di supereroi di dubbia sanità mentale, e si
buttava
senza troppe cerimonie ad affrontare un uomo che conosceva che si era
sottoposto all'impianto di delle protesi meccaniche del tutto insane,
e poi non riusciva a trovare lo spirito per chiedere alla ragazza che
aveva davanti, e che lo stava guardando senza nessuna paura, che non
lo trattava come un oggetto proveniente da una collezione vintage
ma
come un uomo, di uscire per fare una passeggiata assieme. Magari
cenare, assieme. Magari tornare a casa, assieme. Magari passare la
vita, assieme.
Sono
troppo sensibile per questo secolo.
Si ricordava di averlo detto, e mai come ora gli tornava in mente
quanto questo fosse vero. Elle lo guardava, aspettando di sentirlo
finire la frase. “Quando saremo tornati a New
York...”
“On
the day the wall came down / They threw the locks onto the ground /
And with glasses high we raised a cry for freedom had arrived
.”
“Cazzo.”
Commentò platealmente Elle, sentendo la suoneria del suo
cellulare.
Lo prese dalla tasca, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi.
“Pink Floyd, A
Great Day For
Freedom... Nat
ha trovato divertente
mettermela come suoneria per i numeri dello S.H.I.E.L.D. Sai, da
quando non possiamo tornare...” Commentò,
imbarazzata. Steve non
riuscì a trattenere una smorfia divertita. “Scelta
appropriata.”
Commentò semplicemente. Elle lanciò uno sguardo
al display. “E'
Maria. Devo rispondere. Potrebbe essere importante.”
Sussurrò
sulle sue labbra, guardandolo negli occhi. Steve sospirò,
avvicinandosi ancora. “Dovresti rispondere.” Ammise
lui. Quasi si
sfiorarono, viso a viso, l'uomo sprofondato negli occhi dell'altra.
“Devo
rispondere.” Commentò ancora Elle come un automa.
Si riscosse,
allontanandosi con il busto dal viso di Rogers. “Devo
rispondere
sul serio.” Esclamò, imbarazzata. Steve
sembrò ridestarsi
improvvisamente, allontanandosi di un passo, grattandosi la nuca con
una mano, il respiro corto. Elle lo guardò persa, per poi
dirigersi
nella direzione opposta. “Qui Elle Selvig.”
Rispose, con la voce
roca.
“Ah,devo
aver sbagliato numero, ho chiamato l'oltretomba...”
Commentò
stizzita Maria. Elle sospirò, mentre l'amica proseguiva.
“Abbiamo
appena finito il meeting e ci sono delle novità.”
La voce le
arrivò lontana, mentre Steve si appoggiava di schiena al
parapetto,
guardandola di sottecchi. “Che novità?”
Chiese, funerea.
“Hanno
accettato di riammettervi negli States, non potevano fare altrimenti,
Fury ha minacciato di mobilitare tutta la stampa ed i politici
internazionali e l'ONU e chissà chi altri... “
Elle sorrise
appena. “Però?” Chiese, aspettando la
fregatura.
“Per
agire, d'ora in avanti, dovrete firmare tutti un trattato. Idea del
Generale Ross.. E' ancora in fase di scrittura, e ci vorrà
qualche
mese. Ci sta lavorando Stark. Ci sono dei senatori che vogliono le
vostre, le nostre
teste. Si sono messi in testa che i
mutanti siano pericolosi,
si parla di
una legge per far riconoscere ogni mutante da tutta la
comunità a
vista...” Elle emise un respiro strozzato. “Una stella
di David...”
Commentò, funerea.
Maria sospirò. “Esatto. Per pacificare tutto ci
serve Rogers. E
non è la cosa peggiore...”
“Cosa
può esserci di peggio, Maria?” Chiese, attonita.
L'amica schioccò
le labbra.
“A
Lagos hanno fotografato Barnes. Il Soldato
d'Inverno.”
Elle
si irrigidì. “Maria, dimmi solo questo: hai visto
le foto?”
L'amica sospirò.
“Se
ti riferisci al fatto che si vede chiaramente che lo stai aiutando,
beh, quelle foto sono già sparite. Non esistono
più, nemmeno
risalendo al satellite di Stark. Le ho distrutte appena le ho viste.
Monitorando l'operazione.”
Elle
riprese fiato. “Grazie, Maria.”
“Useranno Barnes come capro
espiatorio, per quello che è successo. Lo vogliono sulla
forca.”
Elle imprecò fra sé e sé.
“Intanto
ti ho salvata dal finire sulla forca con lui, ma devi dirlo a Rogers.
Qui si parla solo di quante persone ha ucciso Barnes e di quanto sia
pericoloso. Ti prego...”
Commentò Maria, a voce bassa.
“Parlagli prima che arrivi qui. Se firmate, avrete l'ordine
di
catturarlo. Steve forse no,non sono ancora così
barbari...” Prese
un attimo per riprendere fiato. “Ma tutti voi, gli altri
Avengers,
si. Tu compresa.”
“Ok,
ricevuto.” Elle annuì, anche se l'amica non poteva
vederla.
“Ripartite
dal Wakanda quando avrete le idee almeno un po' chiare: qui
sarà
l'inferno. Vogliono smantellare tutta la base, se non state
all'accordo. Per Natale sarà già un capannone
deserto.” Elle si
voltò verso Steve, che la guardava passeggiare nervosamente
avanti e
indietro lungo il terrazzo.
“Elle,
tuo padre è furioso.” Commentò poi
l'amica, sospirando. “Si è
sistemato nella tua stanza e minaccia di non andarsene
finché non ti
vede tornare. Dice che ti riporterà in Svezia...”
Elle sospirò.
“Ho ventisei anni, mio padre non può semplicemente
prendermi e
spedirmi in giro come faceva quando ne avevo sedici.”
Maria
non rispose. “Grazie, Maria. Ci vediamo presto.”
Anche se non
poteva vederla, era sicura che Hill avesse annuito.
“Selvig...”
La richiamò l'amica, mentre la svedese si voltava verso
Steve, che
la aspettava con le mani nelle tasche dei pantaloni sportivi. Tenne
il cellulare vicino al viso, guardandolo inespressiva.
“Dimmi,
Hill.”
“Dovete
essere coraggiosi. Dillo anche agli altri, da parte mia.”
Elle
annuì piano, abbassando lo sguardo. “Grazie,
Maria. Glielo dirò.”
L'amica
schioccò le labbra. “Vado a vedere che tuo padre
non sia stato
rapito dal Consiglio
Mondiale per la
Sicurezza...”
La svedese si strinse
nelle spalle. “Tienilo d'occhio, con Ross in giro non si
può mai
sapere.” Maria assentì, per poi chiudere la
comunicazione.
Steve
si avvicinò, guardandola.
“Aggiornamenti?”
Elle
annuì. “Niente di buono. Dobbiamo
tornare.” L'altro annuì.
“Vado a svegliare Samuel e Natasha.”
Esclamò l'uomo. Elle lo
interruppe con una mano.
“Vado io da Nat.” Disse
semplicemente. Steve la guardò, perplesso.
“Non è da sola in
stanza, temo.” Commentò Elle, stringendosi
imbarazzata nella felpa
nera. Steve si irrigidì.
“Non
fare quella faccia, Rogers.” Esclamò lei, dandogli
le spalle per
entrare nella sua stanza. “E' una donna adulta, del tutto
padrona
della sua vita personale e, soprattutto, sessuale.”
Borbottò senza
guardarlo.
“Mai
detto il contrario. E' lui che non mi piace.”
Commentò vago Steve.
Elle si strinse nelle spalle, fermandosi sulla soglia della sua
stanza.
“Ero
sicura che ti andassero a genio gli uomini che si mettono divise
discutibili e si auto-eleggono a difesa di un'intera nazione...”
Sussurrò lei. Lui scosse il capo.
“Cosa?”
Entrambi
sapevano che lui aveva chiaramente sentito. Ma ripeterlo, sarebbe
stata una conferma ulteriore. Elle glissò. “Vado a
svegliare le
ragazze. Poi torno a cambiarmi.”
“Ci
vediamo alle sei nell'Hangar per fare il pieno di
carburante.”
Elle
si voltò, sorridendogli appena. “Certo, Capitano.”
~
Elle
bussò diverse volte alla pesante porta di legno scuro,
sbuffando.
Sentì
delle risate soffocate provenire dall'interno. Bussò ancora.
“Sono
Elle.” Esclamò, contenta di non aver lasciato a
Rogers
quell'incarico. “Se non vuoi che venga Rogers,
aprimi.”
Sentì
dei passi ovattati raggiungere la porta, e pochi secondi dopo l'amica
la fissava con sguardo truce. “Cosa vuoi,
Elle?” Chiese in
un sospiro.
Elle
si stupì per quell'atteggiamento ostile. Sgranò
gli occhi,
guardandola senza proferire parola. Dietro di lei, nel letto
dell'amica, il principe T'Chaka le fece un cenno imbarazzato con la
mano, coprendosi dalla vita in giù con il lenzuolo.
La
Svedese si riscosse. “Alle sei all'hangar. Torniamo a casa.
Ti
aggiorno in volo.”
Natasha
annuì, pratica, voltandosi verso la poltrona nella sua
stanza. “Ho
già il borsone pronto.” Commentò solo.
Elle scosse il capo. “Ok,
allora ci vediamo dopo.”
Girò
i tacchi e si diresse verso la stanza di Wanda, con un sospiro.
Natasha si chiuse la porta alle spalle.
“Non
avresti dovuto essere così dura con lei.”
Commentò l'uomo,
voltandosi su un fianco verso la rossa. Natasha, avvolta in un
accappatoio bianco, si voltò con espressione scocciata verso
di lui.
“Chi ti ha chiesto un parere sulla mia vita
personale?”
L'uomo
alzò le mani con un ghigno, in segno di resa. “Non
tratterei così
i miei amici.”
“Forse
lei non è mia amica.” Commentò Natasha,
scrutandolo senza
opinione. L'uomo sorrise, divertito. “Ho visto la sua
espressione.
E quando siete arrivati, continuavi a guardarla con gli stessi occhi
che aveva lei ora.”
“Ha
scelto di avere dei segreti. Ed anche io.” Rivelò
piano lei,
levandosi senza pudore l'accappatoio. “Ci siamo sempre dette
tutto.
Ed ora, so che nasconde più di quello che vuole dare a
vedere.” Si
diresse verso la doccia, senza degnarlo di un'occhiata. “Ci
vuole
del tempo. Di assestamento.”
L'uomo
si alzò con uno sbuffo, avvolgendosi il lenzuolo alla vita,
sotto
alle fossette degli addominali scolpiti. Nat lo guardò un
attimo,
godendosi lo spettacolo, per poi sparire sotto la doccia. Lui la
seguì, appoggiandosi allo stipite della porta del bagno.
“Sai..:”
Disse, con tono più forte per farsi sentire dalla rossa,
sotto al
getto di acqua calda. “...Il fatto che abbia dei segreti non
vuol
dire che possano riguardare anche te.” La donna
aprì leggermente i
vetri appannati. “Quando fai il lavoro che faccio io, sai che
nessun segreto è privato. Tutto riguarda tutti.”
Lo guardò,
sorridendo maliziosamente, una mano appoggiata al vetro chiaro.
“Piuttosto che parlare di cose così deprimenti,
perché non vieni
a salutarmi un'ultima volta, prima della partenza?”
Sussurrò,
facendogli segno di avvicinarsi con l'altra mano. T'Chakala
guardò
un secondo, ammaliato, per poi lasciare il lenzuolo a terra ed
avvicinarsi alla compagna. “Chi ti dice che sia un
saluto?”
~
Elle
si avviò a grandi falcate verso il Quin Jet, tenendo la
manichetta
del carburante fra le mani avvolte in grossi guanti neri.
Si era
messa un paio di Jeans piuttosto rovinati, mentre aveva tenuto la
felpa aperta e la canotta che aveva usato come pigiama.
Infilò nel
bocchettone del serbatoio la manichetta, facendo cenno a Samuel di
avviare la pompa del carburante.
“Ringrazi ancora il sovrano
per il carburante, e l'ospitalità. Cercheremo di ricambiare
quanto
prima.” Disse Steve, voltandosi verso il militare che lo
stava
accompagnando al velivolo. L'uomo annuì, sorridendo
cordiale. “Gli
porterò i vostri saluti ed i vostri
ringraziamenti.” Mimò un
saluto militare a Steve, che rispose con altrettanta cortesia.
“Fra
quando possiamo partire?”
“Venti
minuti.” Esclamò Elle, scostandosi con il gomito
un ciuffo di
capelli dal viso, mentre teneva con l'altra mano la manichetta ferma.
Samuel si avvicinò.
“Wanda
è già sopra. Manca solo Nat.”
“Per
me possiamo partire lo stesso.” Borbottò Elle,
agitando il capo.
Samuel la guardò come se fosse pazza.
“Cosa?”
“Scusa,
Elle.” Commentò la rossa, avvicinandosi. Le fece
un sorriso
dispiaciuto, gli occhi da cucciolo già sfoderati da quando
era
entrata nella stanza. “Sono stata scortese.”
Elle
le lanciò uno sguardo rassegnato. “Certo
che se per non essere
acida ti mancava solo scop-” Steve le mise di getto
una mano
sulla bocca, zittendo la svedese. Natasha alzò le mani in
segno di
resa.
“Non
dire cose delle quali sicuramente a mente lucida ti
pentiresti.”
Commentò Samuel verso la bionda tetramente, lanciando uno
sguardo
sconvolto a Steve. L'altro rispose con un'occhiata chiaramente
confusa.
Natasha
si strinse nelle spalle, andando verso la rampa del Jet senza una
parola.
“Ma che ti è preso?” Commentò
Steve, togliendo la
mano dal volto della donna. Questa lo guardò, furibonda.
“Non
azzardarti mai più, Rogers.”
Esclamò, lasciando in mano a
Samuel la manichetta. Si diresse verso il Jet, tirando una spallata
al Capitano, che sospirò.
“Questo
viaggio sarà un massacro.” Commentò
Samuel, guardando perplesso
il tubo che aveva in mano. “Come si capisce quando ha
finito?”
Chiese con un sospiro. Steve si strinse nelle spalle. “Non ne
ho
idea.”
Un
uomo con una tuta di pelle nera si diresse verso di loro, un borsone
sulla spalla e un casco dalle vaghe forme feline sottobraccio.
“Capitano!” Lo chiamò da dietro. Steve
si voltò, dando le
spalle a Sam. “T'Chaka. Cosa ti porta qui a quest'ora del
mattino?”
“Voglio
partire con voi:” Commentò semplicemente il
principe. Steve
sospirò. “Perché?”
“Difendo
il mio paese da quattro anni, ormai. Sono pronto per aiutarvi. A
difendere il mondo.” Commentò semplicemente
l'altro. Steve scosse
il capo. “Non se ne parla.”
Il
sorriso del principe si spense, mentre aggrottava le sopracciglia.
“Cosa?”
“So
che per un principe sarà difficile da capire, ma non sei
stato
accettato nella squadra.” Commentò Samuel,
guardandolo
inespressivo. “Il Capitano ha detto no.”
T'Chaka
fece un passo indietro, guardandolo non senza un lampo di sorpresa
negli occhi scuri. “Sono capace, sono intelligente, ho
già
dimostrato di essere in grado di compiere missioni delicate e voi
avete un gran bisogno di una mano.” Esclamò senza
scomporsi. Steve
scosse il capo. “Ho detto no.”
“Hai
parlato con mio padre.” Commentò l'uomo,
sospirando. Steve annuì.
“Sta per andarsene, che sia fra un giorno o cent'anni, e tu
devi guidare e proteggere questo paese.” T'Chaka
schioccò le
labbra, guardandosi attorno, infuriato. “Proteggere
il Vibranio,
vorrai dire.” Commentò disilluso. “Per
me puoi prenderlo tutto,
Rogers, e chiuderlo nel posto più sicuro che ti viene in
mente.”
Esclamò con tono disperato l'altro. Steve scosse il capo,
con aria
grave.
“Figliolo,
il tuo popolo e tuo padre hanno bisogno di te. Hai tanto da
perdere.”
Nat,
Wanda ed Elle si erano sporte dalla rampa, sentendo i due uomini
discutere animatamente. Natasha lo guardò, una riga di
preoccupazione in mezzo ai suoi meravigliosi occhi verdi. Elle le
sfiorò la mano, guardandola tristemente.
“Torna
a fare il principe, T'Chaka.” Concluse Steve,
dirigendosi verso
la rampa del Jet senza aggiungere altro. Gli mise una mano sulla
spalla. “Mi dispiace. Capirai.”
Salì
nel QuinJet fra gli sguardi degli altri, mentre T'Chaka guardava
Natasha, umiliato. Elle scese dal Jet, in silenzio, spegnendo la
pompa del carburante.
“Scusa,
Sam.” Sussurrò prendendo la manichetta
dalle mani dell'amico.
Questo annuì, fissando ancora con sguardo impietosito il
giovane.
“Lo fa per il tuo bene...” Commentò
semplicemente, passandogli
accanto.
Quando
partirono, Natasha ed Elle ai comandi e gli altri seduti dietro,
T'Chaka era ancora nell'hangar, e fissava con espressione vuota il
cielo chiaro del mattino.
~
Natasha
lasciò i comandi per buttarsi senza energie sulla panca
più lontano
dai due uomini, abbandonandosi ad un sonno profondo. Elle
chiacchierava con Wanda, sperando di sembrare tranquilla almeno alla
vista.
Steve
si avvicinò alle due, rispondendo con difficoltà
al sorriso della
sokoviana. Elle gli lanciò uno sguardo mesto.
“Scusa per come ti
ho risposto prima.”
“E'
stata una settimana difficile.” Commentò
semplicemente lui, senza
un tono particolare. Elle temette di averlo offeso, per poi sentire
la mano dell'uomo appoggiarsi sulla sua spalla. “Non sapevo
sapessi
pilotare.” Commentò lui.
“E'
meno difficile di quello che pensi. Ora siamo in automatico.”
Rispose lei, alzando il capo per vederlo in viso. Steve sorrise
divertito alla sua posizione strana, dandole una breve carezza sul
collo, senza pensarci. Elle sorrise appena.
“Volete
provare a pilotare?” Chiese la svedese. Wanda la
guardò perplessa,
mentre Steve incrociava le braccia. “E' contro il regolamento
–
ed è pericoloso.”
“Siamo
in modalità Stealth.” Rispose Elle, alzando le
sopracciglia. “E
comunque siamo già nei guai.”
Il
ragionamento di Elle non faceva una grinza. Wanda scosse il capo.
“Io
no, grazie tante. Ma sarebbe utile che qualcun altro fosse in grado
di pilotare, fra noi.” Ammise, guardando Steve. Questi si
strinse
nelle spalle. “Va bene, dimmi cosa devo fare.”
Elle
gli sorrise, mentre Samuel da dietro emise un urlo divertito.
“Evviva, finalmente ti rendi utile, vecchietto.”
Commentò
ridendo. Steve gli lanciò uno sguardo gelido, mentre Elle
iniziava
ad illustrare i comandi della consolle a lui ed a Wanda.
“Propulsione
primaria, secondaria, Flap, Ipersostentatore... Carrello...”
Indicò
i vari tasti sul dispositivo, lo sguardo dei due che la seguiva
attento. “Adesso, la Cloche.” Esclamò
piano, disattivando il
pilota automatico. “Non potete capire finché non
provate.”
Commentò semplicemente, prendendo quota.
“Controllate
sempre il radar. Non possiamo essere individuati in questa
modalità
di volo, quindi dovete essere voi ad evitare gli altri.”
Spiegò
piano. Si fece un po' di lato, facendo un cenno a Wanda che scosse il
capo. “Dai, vedrai che non è difficile.”
La incitò la svedese,
sorridendole. Wanda si avvicinò, intimidita.
Elle
le passò la Cloche, inginocchiandosi accanto al sedile di
comando.
Wanda ridacchiò, tenendo dritto il velivolo.
“Visto?” Sorrise
Elle. L'altra ridacchiò “Sto comandando un aereo,
gente.”
Commentò con aria vittoriosa. La Svedese scoppiò
a ridere. “Puoi
dirlo!”
Riprese
la Cloche dalle mani dell'amica, stando in piedi, mentre Wanda
abbandonava la poltrona e tornava vicino a Samuel.
“Capitano...”
Commentò la bionda. Steve si avvicinò, titubante.
“Sei sicura?”
Chiese, sorridendo impacciato. Elle gli fece un cenno verso la
poltrona, il sorriso ancora sulle labbra. Gli passò la
cloche,
spostandosi dietro lo schienale e tenendo le mani appoggiate ai suoi
avambracci, pronte ad intervenire in caso di pericolo. Steve la
guardò appena, scrutando con un po' di angoscia il cielo di
fronte a
lui ed il radar.
“Sto
pilotando un Jet.” Commentò piano. Elle sorrise,
annuendo.
“Attento, ora.” Indicò un aereo che
stava passando accanto a
loro, un velivolo civile. Lo spostamento d'aria fece sussultare il
Jet. Steve tenne stretta la cloche, mentre Elle si sporgeva a pigiare
un tasto in consolle. “Ho impostato un'ulteriore
stabilizzatore,
fra poco dovremo scendere. Te la stai cavando bene.”
Steve
sorrise, guardando dritto davanti a sé. “Cosa ci
aspetta a casa,
Elle?”
La
donna si spostò al suo fianco, sull'altro sedile,
guardandolo
attentamente. “Una guerra.” Commentò
piano. Gli raccontò della
telefonata di Maria, del Consiglio Mondiale per la Sicurezza, e del
Generale Ross. Quando parlò di Stark e dell'Atto che stava
preparando, sospirò. “Stark fa sempre un buon
lavoro. Vedrai che
risolverà tutto.” Elle si strinse nelle spalle.
“Facendo questo
lavoro, impari che tutto riguarda sempre tutti. Appena atterriamo,
andrò da Stark.” Commentò semplicemente
la bionda. Steve annuì.
Una
scia gialla le ferì gli occhi, mentre Steve mollava la
consolle con
un “Dannazione!” che fece
svegliare anche Natasha. La
rotta del Jet si inclinò verso il basso, mentre Elle si
allungava ad
afferrare la Cloche, piegandola verso il basso. Steve la prese per i
fianchi, tenendola saldamente. Natasha, attaccata ad una maniglia
sulla parete del Jet, si avvicinò infuriata.
“Che cosa sta
succedendo?!” Urlò, gli occhi contratti
in un'espressione
furiosa.
“Ci
hanno sparato addosso un missile.” Esclamò Steve,
mentre Elle
rimetteva in asse orizzontale il Jet. “Siamo appena entrati
in
territorio americano.” Commise Elle con un sospiro tetro. La
svedese si accasciò sul sedile di comando, prendendo ampi
respiri.
“Non so come ha fatto a non prenderci in pieno.”
Natasha
si sedette nel sedile a fianco, guardando preoccupata Rogers che
stringeva ancora Elle, che gli era crollata addosso. La rossa
sospirò, prendendo un ricevitore. “Comando
Avengers, Upstate, New
York?” Chiamò con la voce roca dallo spavento.
Elle guardò Steve
imbarazzata. “Mi dispiace di esserti caduta
addosso.” Sussurrò,
perché Natasha non sentisse. L'avrebbe presa in giro a vita.
L'uomo
sorrise appena, una ruga di preoccupazione sulla fronte. “Non
dispiacerti troppo.” Commentò lui, voltando lo
sguardo verso il
cielo.
“Non
osate sparare un altro missile, siamo noi!”
Esclamò ancora Nat,
probabilmente in risposta a chi aveva appena cercato di abbatterli.
“Tu che hai sparato il missile, verrò a cercarti e
te ne farò
pentire.” Commentò gelida la russa. Elle e Steve
ridacchiarono,
mentre lei cercava di alzarsi, una mano puntellata sul ginocchio di
lui.
Natasha
attivò il viva-voce. “Sono contento che
verrà a cercarmi,
Romanoff. Desidero proprio parlare con te.” Disse una voce
bassa ed
autoritaria. Natasha spostò lo sguardo su Elle, mentre
questa
guardava il cielo, mordendosi il labbro. “Generale
Ross.”
Esclamarono le due donne, quasi in sincrono. “E' un piacere
averti
di nuovo fra noi, Selvig. Anche se tuo padre non la pensa allo stesso
modo.”
“Bastardo,
hai quasi abbattuto mia figlia!” Disse una voce meno
profonda, e
con uno strano accento. Elle sospirò, prendendole il
ricevitore che
Nat teneva in mano. “Papà.”
“Elle,
stai bene?” Sentì l'uomo avvicinarsi
all'apparecchio. “Stiamo
tutti bene, papà. Anche se non ho capito come-”
Una
sagoma rossa ed oro comparì fuori dal vetro, facendo ampi
gesti con
le mani. Visione le lanciò uno sguardo preoccupato. Elle
vide Wanda
riflessa nella sua mente, come se la ragazza fosse davanti a lei.
'Sta bene.' Pensò intensamente, guardando
la sagoma che
volava davanti a lei.
“Ok,
ho capito, ora.” Commentò Elle, nel ricevitore.
“Proseguiamo con
l'atterraggio nell'Hangar della Base Avengers.”
Esclamò la donna.
“Parleremo quando sono scesa.”
“Puoi
contarci.” Fu il commento di Erik Selvig. Natasha
chiuse la
comunicazione.
“Non
mi avevi detto che ci sarebbe stato tuo padre.” Elle si
strinse
nelle spalle. “Eri troppo impegnata, quando ho
saputo...”
Commentò semplicemente la svedese. Natasha si strinse nelle
spalle.
Steve si alzò, lasciando il sedile ad Elle, che prese il suo
posto
ed inserì la cintura di sicurezza. Guardò Nat.
“Portiamo a casa
questo aggeggio.” Commentò semplicemente la russa.
Elle annuì,
mentre Steve andava a sedersi su una delle panche munite di cinture,
di fronte a quella occupata da Wanda e Samuel, entrambi pallidi e
perplessi. “State bene?” Chiese Rogers. Samuel
annuì, mentre
Wanda scrutava fuori dal vetro, davanti ai comandi, dove Visione
stava guidando Elle e Nat attraverso la tempesta che si stava
abbattendo per tutta New York.
~
Scesero
dall'aereo in un silenzio irreale, circondati da una folla di
militari e politici, volti conosciuti e sconosciuti. Lei e Steve
scesero per primi: lui perché era il leader, e lei per
sondare la
massa e prevedere un probabile attacco. Dietro di loro, Samuel
riprendeva con lo sguardo Wanda, che lanciava alla folla armata
sguardi sprezzanti. Natasha scese per ultima, una mano sulla fondina
appesa al fianco, cercando di sembrare più sicura di quello
che era
in realtà.
Alcuni
fra coloro che li fissavano immobili, tenevano le armi imbracciate e
cariche, pronte a puntarle contro di loro al minimo segnale di fuga.
Elle trovò subito, in mezzo a quel pubblico silenzioso, lo
sguardo
limpido di suo padre che la seguiva, carico di apprensione, accanto a
Fury.
La
Svedese non riuscì a reggere il confronto ed
affondò le mani nelle
tasche dei pantaloni, il borsone che pendeva dalla spalla, cercando
nel contempo di concentrarsi nel sondare le intenzioni della folla.
Più che agguerriti, sembravano indecisi.
Ciò non rassicurò
la donna: una massa di persone così carica di energia
avrebbe
risposto al minimo stimolo. Erano divisi fra lo spavento e
l'ammirazione, come quando si guardano delle bestie feroci allo zoo
cittadino.
Lanciò
un'occhiata da oltre la sua spalla a Steve, sperando di trovarlo
abbastanza calmo da rassicurare anche lei. L'uomo teneva la schiena
ben dritta, la mascella contratta come ogni volta che era nervoso, e
gli occhi saettavano da un lato all'altro del corridoio che era stato
lasciato libero per il loro passaggio. Si scambiarono uno sguardo
preoccupato, mentre dietro di loro Samuel si avvicinava, guardandosi
attorno perplesso. “Sembra di essere ad un
funerale.” Sussurrò,
la testa piegata in avanti. Steve abbassò lo sguardo,
raggiungendo
la porta che conduceva alla hall ed agli uffici.
“Si...”
Commentò, guardando prima la ragazza e poi l'amico.
“...Il
nostro.”
xXx
Eccoci qui con
le consuete note dell'autrice!
Spero e mi
auguro che vada tutto bene nella formattazione, in quanto questo
capitolo verrà pubblicato molto di corsa appena riesco a
mettere piede a casa!
Ringrazio tutte
le meravigliose ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo! Giulia, D Laila e Delta! Per fortuna
ci sono loro, che mi pongono delle domande alle quali nemmeno io spesso
so dare una risposta precisa, e che poi posso sviluppare nei prossimi
capitoli! ;)
Se volete farmi
un regalo di natale, per l'anno nuovo o anche per il mio compleanno -
che cade in questi giorni ;) - Scrivetemi anche solo un saluto ed io
sarò contenta e felice :)
Ringrazio chi ha
messo la storia fra le seguite e fra le preferite, e i lettori
silenziosi: siamo tutti una grande famiglia felice, e per chi il 25 non
sarà sintonizzato per la sopresa, TANTI AUGURI!
Il prossimo capitolo vedrà la luce del sole Mercoledì 30 Dicembre.
Ho solo
un'ultima domanda per tutti voi - per solleticare la vostra
curiosità e le vostre recensioni: Preferite che la Storyline
di Bucky fino a CW resti dentro
questa storia, e quindi spezzettata per ogni capitolo, o
preferite una
storia a parte, aggiornata una volta ogni due settimane o
giù di lì, solo per il nostro amato Soldato di Latta?
Fatemi sapere
e ancora Buon NATALE!
Vostra,
Eve
|
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Capitolo 17 *** Speciale - A Very Turing Christmas ***
NAT
Questo
è il mio piccolo, oscuro regalo per voi, lettori silenziosi,
recensitrici accanite e persone che seguono Skyfall in generale.
Sicuramente
avrete ricevuto qualcosa di meglio, oggi, anche solo un po' di
affetto. Ma non volevo farvi mancare un piccolo presente, un mini
capitolo di Natale, sereno e tranquillo, senza combattimenti o
litigi. Solo un po' di festa, per addolcire ancora di più la
vostra
giornata.
Piccola quest:
Chi indovina
il perchè del titolo si vedrà dedicato un
capitolo, e non
un capiolo a caso, IL CAPITOLO.
Tanti
auguri a tutti voi!
A
Very Turing Christmas
24
/ 25 Dicembre 2015, New York
Quando
si svegliò, ci mise qualche secondo a rendersi conto di
essere
all'Avengers facility. Erano quasi le undici del mattino, e l'ultima
addetta della lavanderia stava percorrendo con l'auto il viale che
portava alla strada principale. Si sarebbe ritrovata a casa entro le
due del pomeriggio, pronta a passare i giorni di festa che li
attendevano con la sua famiglia, forse degli amici o dei figli.
Wanda
rimase a fissare il vuoto per diversi minuti, avvolta nelle coperte
che la sovrastavano, i capelli scuri stesi accanto a lei sul cuscino,
come una macchia d'inchiostro sul cotone bianco.
Non
era triste. Per lei, non era nemmeno natale. Il sei gennaio, il
giorno in cui si festeggia il natale ortodosso, sarebbe stata
un'altra storia.
Sarebbe
stato il primo natale senza Pietro. L'inizio del primo anno dopo che
se ne era andato. Il primo anno senza di lui.
Sospirò,
guardando la sua mano sollevata davanti agli occhi, nella pallida
luce che filtrava dalle imposte. Una foschia vermiglia la avvolse,
facendola sorridere e rabbrividire allo stesso tempo.
Quella era lei, ora.
Si
alzò svogliatamente, sapendo nella sua mente che non ci
sarebbe
stata anima viva in giro per il complesso in cemento. Si
sforzò di
infilare un paio di jeans ed un vecchio maglione sdrucito, prima di
uscire dalla sua stanza, accarezzando con le mani le pareti spoglie.
Si
diresse verso l'ingresso, la mente che si beava del silenzio dato
dall'assenza di anima viva. Sentiva solo un paio di menti, e tutte
troppo distanti per essere identificate.
Passò
le mani sul corrimano del mezzanino, osservando stranita la grande
Hall completamente vuota. Nessuna segretaria che correva da un angolo
all'altro, nessun agente a controllare i cartellini. Solo un grande
spazio vuoto ed asettico.
"E'
strano vedere tutto così vuoto, vero?" Commentò
una voce alle
sue spalle. La sokoviana si voltò, sorridendo mestamente
all'uomo
che le veniva incontro.
Annuì,
voltandosi di nuovo ad osservare ciò che stava sotto al
parapetto.
"Non è male un po' di quiete, aiuta a pensare senza avere
nessun altro per la testa." Rivelò lei, sapendo che lui
poteva
capire. Visione, infatti, annuì comprensivo.
"Non
ti ho ancora ringraziato per l'altro giorno... Il missile e tutto
quanto." L'uomo le sorrise dolcemente, gli occhi chiari che si
assottigliavano seguendo le rughe del viso. "Non dovete
ringraziarmi. Ve la sareste cavata anche da soli." Wanda
alzò
un sopracciglio, con una smorfia seccata. L'uomo lasciò
vagare lo
sguardo per l'ampio spazio. "Magari non per il missile, ecco."
Wanda si voltò, al suo fianco, a guardare nel vuoto. Era
settimane
che non si trovavano soli, e così vicini, e la sua assenza
le aveva
chiarito molte cose. Cose che non voleva vedere, e cose che non si
sentiva pronta a sentire. Leggermente imbarazzata, si
allontanò di
poco dal compagno, mentre il silenzio si faceva teso.
"Cosa
non va, Wanda?" Chiese lui, voltandosi verso di lei con una ruga
di preoccupazione fra le sopracciglia chiare. La donna si strinse nel
maglione. "Domani sarà festa, qui. Ancora."
Commentò,
guardandosi attorno. "E quest'anno sarà ancora peggio."
L'uomo
la guardò con un sorriso triste, immobile. "Non ci
sarà più
Pietro." La sokoviana annuì, cercando di mantenersi
inespressiva. La presenza di Visione la rendeva quasi più
incline a
quegli sciocchi sentimenti che avevano condannato suo fratello. Si
sentiva un controsenso vivente: agiva per istinto, ma temeva i
sentimenti che creavano l'istinto stesso. Sospirò.
"Noi
festeggiamo a gennaio, è vero. Però, sapere che
non lo vedrò mai
più entrare nella nostra stamberga con
le braccia cariche di
cibo rubato per noi e per i bambini del vicinato...” Visione
alzò
un sopracciglio, perplesso, facendola scoppiare a ridere.
“Pietro
aveva una concezione tutta sua della proprietà.
E avevamo
fame, e freddo. E non avevamo ancora nessun potere, non eravamo
speciali...” Si appoggiò alla balaustra, fissando
il vuoto, mentre
Visione la guardava, bevendosi ogni sua parola. “Eravamo solo
due
gemelli sopravvissuti ad una guerra. Soli. Senza nessun altro al
mondo. Ma riusciva sempre a festeggiare, in qualche modo. Era lui che
mi faceva sentire veramente speciale.”
“Avrei
voluto conoscerlo meglio...” Commentò pacatamente
l'androide. “Mi
è dispiaciuto averlo visto solo per quelle poche
ore.” Wanda si
strinse nelle spalle, annuendo appena.
“Non
vorrebbe vederti così, ne sono sicuro. Così
triste, in una grande
caserma vuota, ad osservare il nulla.” Ammise lui, sicuro.
Lei lo
guardò sorpresa.
“Sai,
Visione...” Ammise, iniziando a scendere le scale per il
pianterreno, mentre l'altro la guardava dal mezzanino.
“...Inizio a
pensare che, dalla morte di Pietro in poi, tu stia diventando sempre
più umano, ed io sempre più androide.”
Si
allontanò verso la mensa, decisa a prepararsi una
sostanziosa
colazione. L'androide la guardò allontanarsi. “Non
lo
permetterei mai, Wanda.”
¤
“Spiegami
di nuovo perché siamo qui.” Commentò
Natasha, svoltando con il
SUV scuro verso il parcheggio del supermercato. Steve
sospirò.
“Domani sera saremo tutti alla base. E Visione ha
proposto-”
“Visione?”
Chiese scioccata la russa. Steve la guardò scocciato.
“Si,
Visione. Hai presente, alto, biondo, opera di Stark,
androide?” Chiese sarcasticamente. L'altra gli fece una
linguaccia.
“Ho capito, mi chiedevo solo come fosse venuto in mente a
Visione
di festeggiare il natale. Insomma, è un'androide!”
Commentò
stupita. Steve si strinse nelle spalle. “Voci di
corridoio
sostengono che lo voglia fare per Wanda.”
Natasha
annuì fra sé e sé. “Questo
spiegherebbe molte cose.” Commentò,
parcheggiando l'auto. “Siamo un gruppo di sei persone, non
puoi
dire semplicemente Voci di Corridoio!” Si
lamentò,
divertita. Steve fece un gesto vago. “Non saprai mai chi ha
detto
cosa, Romanoff.”
“Rogers,
io ottengo sempre le informazioni che voglio. Prima di uscire da
questo supermercato con le tue mele, la tua farina e il tuo fottuto
latte condensato saprò chi ha detto cosa.” Steve
sbuffò.
Presero
un carrello ed entrarono nel locale affollato, Natasha che scrutava i
festoni e le lucette intermittenti natalizie con aria tetra. Steve
non poté non sorridere all'espressione infastidita
dell'amica che,
avvolta in un piumino verde scuro, si arricciava i boccoli vermigli
sulle dita delle mani, aspettando che lui si ambientasse in mezzo
alla confusione della vigilia.
Sapeva
che era venuta fin li, nonostante fosse notoriamente il giorno
più
affollato dell'anno, e nonostante non avessero più avuto
modo di
parlarsi dal ritorno dal Wakanda. Solo perché glielo aveva
chiesto
lui, lei si era vestita ed aveva preso l'auto. Per accompagnarlo.
“Allora,
Rogers, non abbiamo tutto il giorno. Domani mattina ho un
impegno.”
Steve
sospirò. “Porta pazienza, Nat, purtroppo non
riesco a trovarmi, in
questi posti...” Nat gli prese la lista cartacea fra le mani.
“Farina.” Alzò lo sguardo sulle corsie.
“Terza corsia a
destra. Qualche preferenza? Integrale, auto-lievitante, di
farro?”
Chiese spiccia. Steve la guardò perplesso. “Farina.”
Nat
alzò gli occhi al cielo. “Ok, vado io. E prendo
anche il lievito.
Lo zucchero?”
“Quello
a velo.” Commentò lui, mentre la rossa iniziava a
spingere il
carrello in mezzo alla confusione. “Tu vai nella quinta
corsia a
destra, a prendere le spezie per il prosciutto.” Lui
annuì
convinto, lasciando con la mano la sponda del carrello, al quale si
stava tenendo stretto da quando erano entrati ed aveva visto la mole
di gente. Natasha lo fermò prendendolo per la maglietta.
“Hai
presente tutte le volte che in missione ti dico che dovremmo
separarci per fare prima e tu affermi che è solo
più pericoloso e
preferisci che stiano 'tutti vicini per un'ora, che
preoccuparti
per mezz'ora' ?” Steve annuì.
“Ecco,
questa è una delle rare volte in cui hai torto. Dopo vai a
prendere
la frutta e la verdura, in fondo a destra.”
Commentò spiccia,
tenendo la lista fra le mani. “Ci ritroviamo davanti al banco
della
carne per prendere il prosciutto e guardiamo di avere tutto.
Chiaro?”
Concluse lei, guardandolo dritto negli occhi. Lui annuì,
serissimo.
Nat scoppiò a ridere. “Non pensavo fosse
così divertente darti
ordini; dovrei farlo più spesso!” Steve le
lanciò uno sguardo
teatralmente offeso. “Forza, prima cominciamo prima
finiamo.”
Commentò, osservando la lista.
“Ah,
Nat?” Chiese lui, facendola voltare di nuovo con aria
seccata.
“Perché siamo venuti fino a questo supermercato?
Non ce ne erano
di più vicini alla base?”
Nat
si strinse nelle spalle, la giacca aperta sul davanti. “E' il
primo
che mi è venuto in mente, perché è
vicino a casa.”
¤
Teneva
fra le braccia un sacchetto di mele, mentre con la mano reggeva una
rete di asparagi e un sacco di patate da tre chili. Non era tanto
pesante, come carico: tuttavia era ingombrante, e fastidioso. E non
trovava Natasha.
Si
guardò intorno in mezzo alla calca della vigilia di Natale,
spazientito. Appoggiò le mele a terra, cercando il telefono
nelle
tasche dei jeans. Niente.
Era
proprio uno di quei vecchietti che si perdevano negli immensi Mall.
Avrebbe dovuto andare all'assistenza clienti e far chiamare Natasha
dall'interfono. La russa lo avrebbe preso in giro a vita. Scosse il
capo, infastidito da tutti quei motivetti natalizi, e da tutte quelle
persone che lo spintonavano in tutte le direzioni.
Quando
rialzò lo sguardo dalla sua spesa, sospirando.
“Steve?”
Alzò
lo sguardo istintivamente, mentre i suoi occhi incontravano quelli
azzurri di una persona che conosceva fin troppo bene.
Non
vedeva Elle da tre giorni, da quando erano tornati dal Wakanda. Dopo
lo scontro con il Consiglio per la Sicurezza, Elle si era
semplicemente volatilizzata.
Ed
ora era davanti a lui, con una camicetta bianco latte e lo sguardo
perplesso, appoggiata ad un carrello e con un braccio teso verso
l'ultimo scaffale in alto. Rimase interdetto due secondi, Elle ancora
in quella posa innaturale, finché non scoppiarono entrambi a
ridere.
Ma poi, come ci era finito nel settore dei detersivi?!
“Ti
serve quello?” Chiese semplicemente lui, indicando un fusto
di
detersivo che la ragazza non era riuscita a raggiungere, nonostante
la sua altezza di tutto rispetto. Elle annuì, abbassando lo
sguardo
sugli stivali neri. “Che ci fai qui?” Chiese di
getto lei,
pentendosene subito dopo. Forse era stata scortese. Guardò
il carico
di Steve, mezzo sul suo braccio e mezzo appoggiato a terra.
“Non ci
starà mai tutta quella roba sulla moto. C'erano supermercati
più
vicini alla base, ma ti serve comunque una macchina.”
“Natasha.”
Commentò lui, appoggiando il fusto di detersivo in polvere
nel suo
carrello, mentre lei gli prendeva gli asparagi dalle mani e li
metteva nel carrello. “Sto facendo la spesa per la cena di
domani
sera.” Commentò, mentre Elle gli faceva cenno di
mettere le cose
nel suo carrello. La bionda annuì, tirando il collo per
vedere
dietro di lui. “E Nat?” Chiese, confusa. Lui
voltò il capo,
imbarazzato.
“Non
ti sarai perso?” Chiese lei, portandosi una mano alla bocca
per
nascondere il riso. “Persino River è in grado di
ritrovarmi.”
Commentò, indicando con il mento dietro di lui. Steve si
voltò,
vedendo la bambina dalla pelle scura correre verso di loro in un
cespuglio di ricci castani. Ignorò Steve, allungando le
braccia
verso Elle. Teneva in mano una scatola di pastelli a cera. Elle si
piegò sulle ginocchia. “Sei riuscita a scegliere,
alla fine?”
Esclamò, prendendo il pacchetto in mano.
“Convinta?” Chiese, con
espressione divertita ed un sopracciglio alzato. La bambina
annuì,
mentre Elle si rialzava, guardando di nuovo Steve. L'uomo le prese i
pastelli con le mani, chiedendo il permesso con lo sguardo.
“River,
questo è Steve. Steve, questa è River.”
Fece le presentazioni
Elle, impacciata. River si avvicinò all'uomo, guardandolo
dal basso.
Steve si abbassò sulle ginocchia, imitando Elle poco prima.
“Sono
degli ottimi colori.” Commentò, facendo per
passarglieli. La bimba
gli prese la mano, scuotendola con decisione.
“Piacere.”
Parafrasò Elle. River sorrise all'uomo, tornando dalla
donna. Si
mise fra la bionda ed il carrello, i piedi incastrati sulle sbarre
sopra alle ruote. Rogers si rialzò, ridacchiando, e mise i
pastelli
nel carrello delle due.
Elle
iniziò a spingere il carrello, mentre Steve la affiancava.
“Cucinerai tu allora domani? Per questo sei a fare la
spesa?”
Cercò di fare conversazione lei. Lui avrebbe voluto
chiederle molte
cose, anche se non si vedevano solo da tre giorni. In quei tre
giorni,era successo il finimondo.
Ma
c'era River, ed era quasi Natale. Sospirò, guardandola.
“Si, ci
penso io con Wanda mentre Samuel e Visione addobbano.” Elle
fischiò
ammirata. “Io e Nat arriveremo verso le cinque per
aiutare...”
Commentò, accarezzando la testa della bambina.
“Non prima.”
“Immaginavo
che tu fossi tornata a casa, dopo il colloquio.”
Esclamò lui. Elle
annuì, stringendosi istintivamente alla bambina.
“Non avevo poi
molta scelta. Ma sono felice.” Ammise la donna, guardandolo.
“Per
quanto la addobbiamo, una base militare non sarà mai una
casa.”
Steve annuì, pensieroso. “Quindi, una vita
normale. Sei a fare la
spesa, con la tua... Bambina...”
Esclamò lui, cercando di
nascondere il tono leggermente mesto. River alzò gli occhi
su di
lui, scrutandolo. Elle annuì. “Ho un paio di
colloqui nelle
prossime settimane, ma per ora mi godo River.”
“Tuo
padre?” Chiese lui, leggermente teso. Elle lo
guardò, sorridendo
appena. “E' ripartito.” Si strinse nelle spalle
allo sguardo
infastidito di Steve. “Doveva vedere Jane Foster. Lo
capisco.”
Accarezzò il capo della bimba. “Io ho lei, e la
signora West, e
Natasha... E voi, alla base...” Commentò, piano.
“Lei non ha
nulla se non un fidanzato alieno che non c'è, e mio padre. E
so per
certo che uno dei due è una presenza
statisticamente deludente.”
Ridacchiò piano. Steve le appoggiò una mano sulla
spalla,
fermandosi. “Ti vuole bene, si vede.” Elle
annuì, sorridendo,
senza incrociare il suo sguardo.
“Ho
visto Nat, vado a farle uno scherzo. “Commentò la
svedese,
abbandonando il carrello. Steve la guardò perplesso.
“Guarda
River. O meglio...” Si voltò verso la bambina.
“Non perdere di
vista Steve, o potrebbe perdersi di nuovo. Come minimo, incontrerebbe
Odino.”
La
bambina allungò le gambe giù dal carrello, mentre
afferrava la
manica dell'uomo. Annuì convinta alla donna, che sorrise
divertita
ad entrambi. Steve sbuffò, voltandosi verso la bambina.
“Così, ti
piace disegnare.”
River
lo guardò senza timore, annuendo leggermente. Lo
indicò, mettendo
poi le mani davanti, incrociate. Uno scudo. Steve annuì.
“Si, sono
io.”
La
piccola si allungò sul carrello, afferrando la scatola dei
pastelli
a cera che aveva scelto. La aprì, mentre Steve seguiva con
lo
sguardo Elle che lanciava la sua lista della spesa appallottolata
contro la nuca dell'altra, impaziente davanti al reparto della carne.
Nat si voltò, furibonda, ed Elle la prese alle spalle. Le
due fecero
un po' di confusione, cercando di placcarsi a vicenda.
Sentì
qualcosa tirargli la manica, e abbassò di nuovo lo sguardo.
River lo
guardò, prendendogli la mano. L'uomo guardò la
bambina, curioso, ed
aprì la mano a palmo in su. Lei allungò una mano,
appoggiandogli un
pastello rosso
Tiziano
proprio al centro. Capì subito, seguendo il suo sguardo, che
era il
colore dei capelli di Nat.
River
armeggiò ancora un secondo con i pastelli, prendendone uno
azzurro
cielo. Steve si voltò di nuovo verso le due amiche, che
chiacchieravano venendo verso di loro. Elle alzò lo sguardo
cercando
la bambina, e quando lo vide guadarla gli sorrise dolcemente.
Abbassò
di nuovo lo sguardo su River, che lo guardava seria, appoggiando sul
suo palmo anche il secondo pastello. Gli chiuse le dita della mano
con entrambe le sue, ridicolmente più piccole e delicate.
Steve la
guardò con occhi sgranati, mentre la piccola River non
distoglieva
lo sguardo.
“Si,
non permetterò che si facciano del male.”
Sussurrò alla bambina.
Le sue labbra si aprirono in un sorriso, mentre si allontanava
dall'uomo e correva verso Nat. La rossa la abbracciò,
ridendo.
“Scimmietta, non ci vediamo solo da due giorni,
cos'è tutto questo
affetto?” Chiese sarcasticamente, voltandosi poi a sbuffare
verso
Steve. “Sei riuscito a perderti.”
Elle
lo affiancò, riprendendo il carrello, mentre andavano tutti
verso il
banco dove avrebbero dovuto scegliere un prosciutto per la cena del
giorno dopo. Nat avanzò, tenendosi River aggrappata addosso
come un
panda al suo eucalipto. Steve spintonò leggermente Elle
mentre le
seguivano, sorridendole. La bionda alzò gli occhi al cielo.
“Per
fortuna.” Sussurrò lui fra sé
e sé. Elle lo sentì, e
abbassò lo sguardo, arrossendo divertita.
¤
Entrò
nella cucina sollevando le maniche della camicia, seguito da Wanda.
La mora era ancora imbronciata: quella mattina Steve l'aveva
costretta ad alzarsi ed ad andare con lui a sentire la messa in un
quartiere vicino ad Harlem, da un lontano parente di Samuel che era
un Reverendo.
Erano
rimasti fra le ultime file, guardando la figlia di Samuel, Cheryl,
che scalpitava impaziente di uscire a giocare. Steve le fece qualche
faccia buffa, vedendola aggrappata al petto del padre con il viso
appoggiato sulla sua spalla. Anche Wanda aveva riso, per poi
ritornare nel suo ruolo di fanciulla offesa per la sveglia mattutina.
“Allora,
prosciutto, spezie, casseruola, dado da brodo...”
Iniziò ad
elencare, guardando le cose prese il giorno prima, e che aveva
sistemato in modo ordinato per seguire la ricetta. Wanda ascoltava
attenta. “Bene, ora cominciamo. Wanda, inizia a pelare le
patate.”
La
mora gli rivolse uno sguardo gelido. “Avevamo detto secondo
chef.” Commentò sarcastica, afferrando
il pelapatate. Steve si
strinse nelle spalle. “Quindi, essendo che sono il primo
chef,
e poi non c'è nessun altro, secondo chef
diventa
immediatamente lavapiatti tuttofare.”
Wanda sospirò.
“Sapevo che c'era la fregatura. Non è come con i
ruoli militari.”
Steve sogghignò, negando con il capo.
Cominciarono
a lavorare in silenzio, godendosi la pace di una giornata quasi
normale. Lei avrebbe potuto far fare tutto agli oggetti, da soli,
grazie alla telecinesi. Ma aveva bisogno di libere la mente, e quel
lavoro ripetitivo era perfetto . Steve ogni tanto si avvicinava per
complimentarsi per il suo lavoro – Bella forza, doveva solo
pelare
delle patate! - e dopo i tuberi arrivarono le cipolle, poi
tagliò
gli asparagi e, infine, si trovarono insieme a pelare le mele per la
Apple Pie.
Natasha
comparve verso le cinque, rubando con un dito della crema dalla
ciotola che Steve stava mescolando da diversi minuti, perché
se
non la monti a mano, la crema non è altrettanto buona.
Aveva
scattato qualche foto incriminante a Wanda con il naso sporco di
farina ed a Steve che indossava un improbabile grembiule
lillà con
le rouches, probabilmente lasciato da qualche signora della mensa. Poi
anche la rossa era sparita.
“Steve,
posso chiederti una cosa?” Sussurrò la ragazza,
mentre finiva di
pelare un'altra mela. Steve le prendeva sbucciate ed iniziava a
tagliarle a fettine. L'uomo la guardò, annuendo.
“Secondo te,
perché Visione ci ha salvati? L'altro giorno?”
L'uomo
si fermò un secondo, e sospirò.
“Perché siamo suoi amici. E non
ci avrebbe lasciati morire in un modo così
stupido.” Alzò lo
sguardo su di lei, sorridendo leggermente. “Perché
me lo chiedi?”
La mora si strinse nelle spalle.
“Se
però...” Commentò l'altro, iniziando a
disporre le fettine di
mela sulla torta. “Tu mi stessi chiedendo se avrebbe
agito così
velocemente se non ci fosse stata una certa persona
sul
quinjet...”
Si interruppe
appena, osservando l'amica che lo guardava con gli occhi sbarrati.
“E' piuttosto evidente che ci tiene a a te. Ti è
sempre stato
affezionato: penso che sia per questo motivo che è venuto
qui,
invece che rimanere con Stark.”
“Siamo
molto legati.” Commentò appena la donna,
abbassando lo sguardo.
Steve sorrise. “Non c'è nulla di male.”
“Lui
è un androide.” Commentò lei. Lui
sorrise serenamente, fermandosi
e guardandola. “E' Visione.”
La corresse. “Ed è stato la tua ombra da quando
sei arrivata qui.”
Wanda
lo guardò senza rispondere. Steve ricominciò a
disporre le fette di
mela sulla torta, sorridendo fra sé e sé. Wanda
ricominciò a
sbucciare le mele.
“Ti
consiglio solo...” Esclamò lui, prendendola alla
sprovvista.
“...Pensaci.”
¤
Elle
spinse con quanta forza aveva il fondo del grosso vaso, cercando di
farlo passare attraverso la porta che dalla stanza della squadra dava
sul cortile. Una semplice porta anti incendio, di quelle grigie e con
una grossa maniglia arancione.
“Manca
poco!” Urlò Samuel, che tirava il povero abete
dalla punta, i
piedi puntellati ai lati, sugli stipiti della porta. Elle emise un
grugnito. “Portarlo dall'ingresso no, vero, facciamo
troppa strada, rischiamo che Wanda ci veda...”
Scimmiottò l'amico. Samuel cercò di guardarla
attraverso i rami e
gli aghi della pianta. Rinunciò quasi subito. “Che
tu sia
maledetto, Samuel Wilson.”
Natasha
sospirò, guardandoli come due bambini che litigano
forsennatamente.
Appoggiò lo scatolone delle decorazioni, il cui contenuto
era
scritto con calligrafia illeggibile sul cartone, e si
avvicinò a
Sam. “Non passa?”
“Deve
passare.” Commentò lui, astioso. Nat gli
scoccò un'occhiata
perplessa. “Non passa.”
“Natasha,
invece che rimanere lì a conversare con quel
maledetto
piccione,
perché non ci dai una
mano?” Esclamò Elle, che in effetti era
all'esterno dell'edificio,
e non sentiva più le dita dei piedi. Natasha
sospirò teatralmente,
mentre Sam mollava la presa. “Come mi hai chiamato? Piccione?”
Esclamò offeso. “Falcon
sta per Falco, non so
se ti è chiaro questo, straniera.”
Elle
ringhiò da oltre la massa di aghi verdi.
“Vado
a chiamare Rogers se non vi calmate!” Li mise in riga la
rossa. Si
avvicinò a Sam, che riprese l'albero, e afferrò
il tronco anche
lei. “Al tre...”
L'albero
entrò con un tonfo nella stanza, atterrando Sam e Natasha
sopra di
lui. Elle rimase in piedi, immobile, le braccia ancora tese in
avanti.
“State
bene?” Chiese piano.
Samuel
alzò lo sguardo, incontrando quello verde e perplesso di
Natasha.
Per la prima volta nella sua vita, fu sicuro di essere arrossito.
Sentiva le mani dell'amica appoggiate sul suo petto, e il suo respiro
contro le labbra. La guardò un secondo, con un brivido.
“Si, penso
che stiamo bene. Anche se lo
choc ha causato a Sam la perdita della
parola.”
Elle
fece rotolare il povero abete, ormai parzialmente spoglio, e tese una
mano all'amico. Nat si rialzò, sotto lo sguardo incredulo
della
svedese. Davvero non se ne accorgeva?
Samuel
accettò la sua mano, alzandosi a fatica. “Non
chiamarmi mai più
piccione.” Commentò solo. Elle gli diede una
spallata. “Agli
ordini.”
Iniziarono
ad allestire la stanza, appendendo festoni dorati e prendendosi in
giro a vicenda per chi aveva meno gusto in fatto di addobbi. Nat ad
un certo punto estrasse dal borsone una bottiglia di vino rosso, ed i
tre cominciarono una festa privata, chiedendosi che fine avessero
fatto gli altri.
¤
Erano
le otto quando Steve si diresse, seguito da Wanda, verso la palestra
degli Avengers. Sapeva che gli altri avevano portato un tavolo, ed
era piuttosto in ansia. Sapendo che tutta la serata era stata
organizzata per l'amica, aveva spedito Wanda a mettersi degli abiti
puliti, e la sokoviana lo seguiva in silenzio avvolta in un
caldissimo maglione nero, tenendo fra le braccia il grosso piatto
delle lasagne.
Steve
spinse con la schiena la porta della palestra, facendo entrare prima
l'altra.
Wanda
si guardò attorno sorpresa: fili dorati penzolavano ovunque,
ed il
tavolo da lavoro dove di solito facevano la manutenzione delle armi o
delle tute era stato coperto con una tovaglia beige. Sopra, erano
stati messi tanti candelabri con candele rosse, e poco più
in là
brillava un albero coperto di lucine intermittenti.
Aprì
e richiuse la bocca più volte, sospirando. “E'
meraviglioso! Per
chi è questa sorpresa-”
Si
interruppe, vedendo che Elle, Samuel, Natasha e Visione la stavano
guardando, sorridenti. “Per me?” Chiese in un
sospiro. Nat annuì,
mentre Samuel mulinava le sopracciglia e indicava con un cenno della
nuca Visione, che la fissava nella sua forma umana.
Elle
tirò un calcio a Samuel, avvicinandosi e prendendogli i
piatti da
portata dalle mani. Li appoggiò sul tavolo, in silenzio,
mentre
tutti si avvicinavano.
“Davvero
avete preparato da soli tutto questo ben di dio?”
Esclamò Samuel,
guardando interdetto l'amico. Steve, per tutta risposta, prese dal un
festone una palla di plastica verde e gliela lanciò contro.
Si
sedettero tutti a tavola, mangiando e chiacchierando come una normale
banda di colleghi di lavoro. Anzi, amici.
Wanda
non poteva credere che fosse stato fatto tutto per lei.
Afferrò il
bicchiere che le porgeva Steve, rispondendo con un sorriso, e
alzò
il calice insieme a quello di tutti gli altri. “Buon Natale,
Avengers!” Commentò ridendo Samuel.
Natasha
ed Elle si spazzolarono via senza troppi complimenti un quarto di
torta alle mele, sotto lo sguardo compiaciuto del cuoco. Sam
aprì
un'altra bottiglia, parlando con Visione, che però sembrava
distratto.
Dopo
il discorso con Steve, Wanda si sentiva in imbarazzo anche solo ad
incrociare il suo sguardo, chiaro e limpido come quello di un
bambino. Come poteva essere un androide? Come poteva una macchina
avere quello sguardo? Quello sguardo pieno di attesa, pieno di amore.
Wanda si strinse nel maglione, imitando Samuel e prendendo una grossa
sorsata di vino. Sam le fece l'occhiolino, indicando Visione che si
era allontanato verso il corridoio vuoto. Le riempì di nuovo
il
bicchiere, sorridendo enigmatico, per poi lanciarsi in una
conversazione con Steve.
Si
alzò, incerta, dicendo a Natasha che doveva andare al bagno.
Scusa
classica, come agente faceva proprio schifo. Uscì
in silenzio dalla stanza, torturandosi le mani.
“Ti
piace la festa?” Chiese piano una voce dietro di lei. Si
voltò di
scatto, sbattendo proprio contro l'uomo che stava cercando.
Alzò il
viso, ringraziando la penombra in cui erano immersi. “Si,
molto.”
Visione
le sorrise, “Ti vogliono tutti bene. Nonostante tu abbia
cercato di
uccidere praticamente metà di loro.” Scoppiarono a
ridere
sottovoce, quasi nascosti rispetto al mondo, ed alle persone che
chiacchieravano tranquille nella stanza a fianco.
“Ti
ho fatto una cosa... E' solo un pensiero.” Ammise lui. Lei lo
guardò, sorpresa. “So che qui si usa fare regali
in questo
periodo. In realtà, era da tempo che avevo questa cosa, ma
non avevo
ancora trovato l'occasione giusta.” Tornò un
secondo nella stanza,
dove aveva lasciato il soprabito, per poi raggiungerla di nuovo.
Le
mise in mano una piccola scatola di raso viola, sorridendo.
“Tony
mi ha permesso di usare il suo laboratorio per farti
questa...” Lei
aprì la confezione con la punta delle dita, come temendo che
dentro
ci fosse l'anima dell'altro, pronta a fuggire dalla sua presa.
Un
piccolo pendaglio triangolare era occupato per metà da una
pietra
color granato, e per l'altra metà da un freddo opale di un
pallido
azzurro. “Così ti ricorderai che, ogni volta che
ti guardi allo
specchio, vedi anche lui. Pietro. E' sempre qui, con te...”
Wanda
alzò lo sguardo, presa in contropiede.
“Visione...”
Rimase
diversi secondi a bocca aperta, senza sapere cosa dire. “Come
puoi
essere un androide?” Chiese, senza fiato. Lui sorrise.
“Non sono
nulla che puoi etichettare così facilmente, Wanda. Hai il
mio
affetto: ti basti sapere questo.”
L'altra,
lentamente, lo abbracciò, passandogli le braccia oltre le
spalle.
Lui la cinse leggermente per la vita, come spaventato dalla sua
fragilità. Wanda sospirò.
“Non
capisco che Stark possa aver creato una creatura così
meravigliosa.”
Visione le sorrise appena, sfiorando con le labbra la fronte della
ragazza. “Anche il Capitano Rogers crede ad una creatura
sovrannaturale, terribile e senza pietà, e che questa abbia
creato
l'umanità. Forse è destino che le
creazioni superino il loro
creatore in quanto a bellezza.”
“Modesto.”
Ridacchiò lei, rilassandosi nel suo abbraccio. Visione la
seguì
nella sua risata. “Tony non è malvagio quanto
pensi. E' solo
umano, e spaventato. Dovresti comprenderlo. “
Wanda
si strinse nelle spalle. “Lo siamo tutti. Non per questo
creiamo
armi, o distruggiamo città.” Visione rimase in
silenzio. Wanda non
riuscì a capire se era un tacito assenso o un tacito
rifiuto.
Sentirono ancora risate, dalla stanza accanto. Era arrivato Rodhes,
probabilmente entrando dalla porta sul retro, e si stava servendo da
bere chiacchierando con Elle. Natasha e Samuel ballavano ridendo e
scoppiando tubi di coriandoli contro Steve. L'uomo era l'unico ancora
seduto, e guardava Elle che parlava concitatamente a War
Machine.
“Dovremmo
entrare.” Commentò pacatamente Wanda. Visione la
strinse più
forte per un secondo, per poi lasciare la presa. Lei gli mise fra le
mani la scatola. “Puoi aiutarmi?” Chiese,
voltandosi e tenendo i
capelli alzati. L'altro annuì, mettendole la collana con un
sorriso.
“Andiamo?”
Wanda
gli prese la mano, e si alzò sulle punte degli stivali
marroni. Gli
lasciò un leggero bacio sull'angolo della bocca, facendolo
sorridere
incredulo. “Andiamo.”
Entrarono
per mano, per poi dividersi fra gli amici, sorridendosi però
da un
lato all'altro della sala per tutta la serata. Nessuno di loro poteva
immaginare quanto poco sarebbe durato quel momento di quiete prima
della tempesta.
xXx
|
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Capitolo 18 *** 17. Famiglia ***
Ultimo capitolo del 2015!
UHUUUU
Quindi, bando alle ciance che è già tardi.
Capitolo non betato!
Atto
17: Famiglia
"I
wondered through fiction to look for the truth,
Buried beneath all
the lies.
And I stood at a distance,
To feel who you
are,
Hiding myself in your eyes."
GOO
GOO DOLLS
Dicembre
2015
Elle
entrò nella sala conferenze come una furia, fronteggiando
uno Stark
che stava spaparanzato su una delle poltrone in pelle nera,
masticando uno stuzzicadenti con fare annoiato. Lei poteva vedere
chiaramente come lui stesse fingendo una sicurezza che in
realtà era
a malapena superficiale. Come se Stark fosse seduto un un grande
palcoscenico, pieno di luci e costumi sgargianti, recitando
imbellettato il ruolo dell'eroe impavido.
Elle
spintonò le sue gambe giù dal tavolo di vetro,
prendendogli un
polso e costringendolo a voltarsi a guardarla. Gli occhi della donna
erano due tizzoni incandescenti di un azzurro quasi doloroso da
guardare.
“Allora,
hai già detto al generale Ross che saremo i suoi soldatini?”
Sussurrò sarcastica. L'uomo si irrigidì, mentre
la ragazza lo
lasciava andare sotto lo sguardo attento di Samuel. “Lascialo
stare, Elle.”
“Siamo
sulla stessa barca, poteri o non poteri.” Commentò
Stark. Elle lo
guardò torva. “Dobbiamo farla funzionare,
Selvig, questa
cosa.” La svedese si voltò, esasperata, cercando
la figura di
Wilson, sulla soglia, che alternava occhiate preoccupati tra il
corridoio la stanza, indeciso su quale situazione fosse la peggiore.
“Comunque,
contento che tu stia bene. Perché ti sono stato dietro,
quando sei
stata in coma, te lo ricordi, vero?” Chiese caustico.
“Ero io
quello con i macchinari e che capiva cosa stesse succedendo, non
Rogers che piangeva al tuo capezzale.”
Elle
sbatté i pugni davanti a lui, guardandolo dritto negli
occhi.
“Dolce, Stark, ma non abbastanza da non
farmi desiderare di
calpestarti.”
“Elle...”
Sussurrò Samuel, guardandoli con tono di rimprovero.
“Dobbiamo
almeno sembrare uniti, stanno arrivando anche gli
altri.”
La
svedese si sedette senza emettere un fiato lungo il tavolo, di fianco
a Stark.
L'uomo
si voltò verso di lei, guardandola senza quella scintilla
divertita
che lo accompagnava sempre. “Ti prometto che
cercherò di far
andare le cose per il meglio, Selvig. Non dimenticarti che anche
Pepper dopo Extremis è considerata una
mutante.” Elle
avvicinò il suo capo a quello dell'uomo, decisamente
più calma,
senza distogliere lo sguardo dalla porta. “Allora usa tutte
le tue
doti oratorie e tiraci fuori da questo pasticcio,
Stark.”
“Facile
a dirsi. Potevate fare meno casino a Lagos: quello sarebbe stato
davvero d'aiuto.”
Si
allontanarono l'uno dall'altra giusto in tempo per vedere sfilare
dentro la stanza Rogers, Romanoff e uno stuolo di militari e
politici. Erik Selvig si fermò sulla soglia, a disagio, per
poi
dirigersi deciso verso di lei, guardandosi attorno con sguardo perso
. “Che ci fai qui, papà...”
Sussurrò lei quando lui si
avvicinò, con le sopracciglia aggrottate. L'uomo le si
sedette
accanto, voltando la sedia nella sua direzione e prendendole le mani,
sotto lo sguardo di tutti. “Tu che ci fai qui, Elle.
Dimmi che
non è vero. Che non sei entrata negli Avengers.”
Commentò
sottovoce con tono irato. “Papà, non
qui.” Esclamò lei. Lui
scosse la testa, voltandosi verso il generale Ross.
“Generale,
signore, come lei sa la signorina è mia figlia, e non ha la
cittadinanza americana... Non può quindi essere inclusa nei
vostri
trattati, e chiedo di poterla portare fuori da questa
stanza.”
Selvig Senior si torse le mani fra loro, la camicia marrone con una
discutibile fantasia scozzese leggermente tesa sulla pancia. “Papà,
ti prego, no...” Sussurrò Elle,
appoggiandogli una mano sulla
spalla. Lui appoggiò la sua mano su quella della figlia,
voltando
appena il capo.
Rogers
si voltò verso i due. “Accordato.”
“Capitano,
non ha nessun potere in questa sede.” Cercò di
riprenderlo Ross.
Steve lo fulminò con uno sguardo che avrebbe fatto
rabbrividire
chiunque.
“Accordato.”
Ripeté gelidamente l'uomo. “Selvig e Selvig,
uscite da questa
stanza.”
Ross
fece una smorfia. “Vi faremo richiamare, se dovesse rendersi
necessaria la vostra presenza. Ovviamente, non potrete lasciare la
base fin a nuovo ordine.” Erik annuì con forza.
Elle guardò Steve
con un misto di preoccupazione e rabbia. Aveva capito cosa voleva
fare: appena aveva avuto l'occasione di sganciarla da quella
situazione servita su un piatto d'argento, l'aveva colta.
Uscì a
testa bassa, il padre che non la perdeva di vista un secondo.
“Che
ti è preso?!” Esclamò infatti appena
furono nel corridoio vuoto.
Elle sospirò, chiudendosi la porta alle spalle.
“Pensavo
fosse una fase adolescenziale, quella delle moto e dei cattivi
ragazzi e della scuola di arti marziali. Hai ventisei
anni!”
Urlò l'uomo, voltandosi verso di lei.
“Dovresti
avere un ufficio, e magari sposarti e mettere su famiglia!
Avere
una vita!” Un torrente in piena di parole usciva
dall'uomo, che
si passava le mani fra i radi capelli biondi, la camicia che segnava
il fisico segnato dall'età e dal lavoro sedentario.
“Si, per poi
scappare. Come te.” Elle annuì, fingendosi
convinta. “O peggio,
entrare in qualche organizzazione terroristica filo-nazista.”
Erik
si immobilizzò in mezzo al corridoio.
“Quando pensavo alla
nostra vita in America, per portarti via da tutto ciò che
anche solo
lontanamente aveva a che fare con tua madre, non parlavo del fatto
che saresti diventata la migliore amica di Captain
America,
maledetto me”
“Mamma
era dell'Hydra, si o no. Rispondimi.” Elle lo
fermò, la mano
aperta davanti al suo viso per interromperlo. Erik sospirò.
“Non
so a che organizzazione facesse riferimento, so soltanto che ti
voleva assassina o assassinata,
maledizione!”
“E
tu mi hai lasciato là!” Urlò la
ragazza, sconvolta. “Perché
non avevo scelta! “Le urlò in faccia il
padre. “Mi ha
giurato che se mi avesse rivisto ti avrebbe uccisa, ed io avrei
dovuto fregarmene, perché tu non eri veramente mia figlia, o
avrei
dovuto accorgermene prima, ma lei era così intelligente,
così
astuta...” Le diede un attimo le spalle, gli occhi lucidi e
le mani
premute sulla bocca. “Mi sono trovato esiliato in un paese
non mio,
con il cuore spezzato non una, ma due volte!”
Sussurrò lui.
Elle
rimase dritta, dietro di lui, lo sguardo perso nel vuoto, e gli occhi
così simili ai suoi, ma allo stesso tempo così
pieni di rabbia e
solitudine. L'uomo non aveva il coraggio di voltarsi a fronteggiarla,
non dopo aver incontrato quegli occhi.
“Ci
sono stati momenti in cui ho progettato, pianificato, di venirti a
riprendere, di rapirti; e poi mi sono trovato con un'altra bambina
aveva bisogno del mio aiuto e...”
Elle
emise un gemito strozzato. “Non dirmi che non mi hai
più
considerata per crescere Jane Foster.”
“No,
lei era già grande quando suo padre è
morto...” Ammise lui. “Però
mi mancavi meno. Quando tua madre è
morta, però, sono corso
da te. TI ho portato via. Ma avevo paura, e non ti capivo. Sono stato
indeciso troppo a lungo, se amarti o odiarti. E quando mi sono reso
conto di riavere finalmente mia figlia, la mia bambina,
era
troppo tardi e ormai ti avevo già perso.”
Elle
rimase immobile, mentre il padre si voltava verso di lei, lentamente,
guardandola veramente per la prima volta da
vent'anni a quella
parte. “Pensavo stessi avendo una vita, una vita normale,
lontano da tutto questo... Non aveva senso dirti che non eri
veramente mia figlia, anche perché non avrei avuto tutte le
risposte, e avevo paura di dove saresti arrivata per
cercarle...”
Si avvicinò alla figlia, prendendole le braccia con le mani.
“So
che forse mi odi, e di sicuro non temi il mio giudizio. Ma, Elle,
queste cose sono più grandi di te e di me!”
Indicò la
stanza dalla quale erano usciti. “Ho visto la tua cartella:
non
sapevo nemmeno che tu fossi stata nell'esercito!”
Esclamò piano.
“Ma sappi che io non ho mai voluto questo per te. Non so cosa
pensasse Annette, quando ha deciso che sua figlia sarebbe stata
un'arma. Non so come abbia fatto a renderti così. Ma va
bene
così, sei qui e stai bene.” Le
appoggiò una mano sulla
spalla, mentre lei voltava il capo, gli occhi pieni di lacrime. Lui
ormai aveva le gote completamente umide, e gli occhi sembravano pozze
d'acqua limpida.
“Sei
una donna meravigliosa, e puoi avere un futuro radioso. Hai ancora
molte esperienze da fare, posti da visitare, persone da conoscere.
Non immolarti per niente e nessuno, se non sei sicura che ne
valga
la pena. Ti prego, ripensaci.”
Steve
e Natasha uscirono giusto in tempo per vedere Elle piangere. Si era
portata una mano al volto, reprimendo senza successo un singhiozzo.
Erik si avvicinò per abbracciarla, ma la donna fece un passo
indietro. Lo guardo del padre divenne ghiaccio liquido, mentre
guardava la figlia scuotere il capo.
Elle,
l'espressione sconvolta, si portò una mano al volto,
abbassando poi
lo sguardo sulle sue dita umide di lacrime. Lo alzò di
nuovo,
guardando prima il padre, le braccia ancora tese verso di lei, e poi
gli amici appena fuori dalla porta della stanza.
Scosse
il capo, correndo via da quel corridoio, come se potesse lasciarsi
tutti quei discorsi e quel dolore alle spalle.
~
“Avete
agito indisturbati per troppo tempo, e non siete in grado di
controbattere alle minacce che si stanno avvicinando. Dobbiamo essere
oggettivi: Captain America e la sua squadra non
sono stati in
grado di debellare l'Hydra.”
Thunderbolt
Ross era l'unico in piedi, davanti ad una folla silenziosa ed
attenta. Si chinò leggermente verso Rogers, seduto in
borghese ad
uno dei capi della tavolata.
“A
prescindere da quanti nemici sono stati abbattuti dall'inizio del
progetto Avengers, le vittime civili ed i danni collaterali sono
stati esageratamente ingenti. Agite senza controllo, senza criterio e
senza giurisdizione.” Steve rimase in silenzio, la mascella
contratta e lo sguardo fermo che cercava quello di Natasha. La rossa,
invece, aveva la sedia girata verso Stark, e le braccia incrociate
sulla camicia scura.
“Non
è stato tutto vano, però. Spero che sia possibile
salvare lo
spirito della squadra. Ma, nonostante il mio dispiacere-” La
sua
espressione era tutto tranne che afflitta, una smorfia sotto i baffi
chiari. “-mi trovo costretto a congedare dal comando il
Capitano
Rogers con azione immediata per conflitto di interessi.”
Samuel
si alzò di scatto, la sedia che cadeva a terra, mentre
Natasha si
voltava con sguardo scioccato. Wanda trattenne il respiro, mentre
Visione e Stark rimanevano impassibili, scambiandosi uno sguardo
d'attesa.
“In
conflitto di interessi rispetto a cosa?!” Chiese Samuel,
gonfio
d'indignazione.
Ross
sogghignò, estraendo da una cartelletta delle foto e
lanciandole sul
tavolo in un gesto teatrale.
Steve
e Natasha stavano camminando nel deposito dei container, a Lagos, lei
con le armi in pugno e lui con lo scudo appeso al braccio. Si stavano
guardando attorno, e ne avevano motivo.
Steve
rimase a fissare la foto, basito, mentre nella stanza scoppiava il
caos.
“E'
quell'assassino, quello dell'Hydra.” Natasha rimase immobile,
le
dita che artigliavano il tavolo, un lampo di paura negli occhi verdi.
Solo
una cosa passava per la mente di Steve, momentaneamente ghiacciata
dalla sorpresa.
“Tornate
indietro.” Esclamò improvvisamente Elle.
“Non c'è nulla lì.”
“Falcon
ha preso un abbaglio.” Sentì Elle emettere un
respiro profondo.
“Dovete andare verso est, verso il mare. Allo scalo marittimo
abbandonato.”
James
Barnes li stava osservando da dietro un container, nel magazzino
portuale di Lagos. Sempre James era in mezzo alla folla in tumulto,
con una felpa blu che gli copriva il capo ed una borsa regolamentare
dell'ex S.H.I.E.L.D. sulle spalle. Era la sua felpa
blu. Era
quella che aveva lasciato ad Elle, prima di quella maledetta
missione. Ma soprattutto, si soffermò sugli occhi dell'uomo.
Contratti dal panico, pieni di dolore.
Erano
gli occhi del suo Bucky.
~
“Il
nostro amico comune non vorrebbe vederla
così.”
Steve,
si sedette sulla fredda panca di ferro, davanti all'uomo che stava
quasi accasciato sul tavolo in metallo. Erik Selvig alzò lo
sguardo,
lanciandogli un'occhiata torva e portandosi il bicchiere colmo di
liquido trasparente alle labbra. “Non chiedermi come ho fatto
a
farmi dare della Vodka in una base spionistica.”
Steve
fece un ghigno, appoggiando i gomiti sul tavolo. “Non
è il primo
che torna qui con qualche problema da affogare.”
Commentò,
indicando il bicchierino. Erik lo guardò appena, facendo un
cenno ad
una delle signore dietro lo scaldavivande. “Berenice, cara,
portami
un altro bicchiere per il mio amico.”
Un
donnone imponente in un grembiule lilla andò verso i due,
appoggiando con fare rude un bicchierino di vetro, rigato dai molti
lavaggi in lavastoviglie, lanciando uno sguardo raggelante ad
entrambi. Steve le sorrise cordialmente, poco convinto, mentre Selvig
faceva un gesto vago con la mano. “Grazie,
Berenice.”
Erik
sollevò il braccio, versando una generosa dose di vodka a
Rogers.
“Alla tua.” Commentò, svuotando il suo
bicchiere. Steve
ringraziò e bevve un piccolo sorso.
“Cosa
ti porta da queste parti, Capitano?”
Sputò fra i denti lo
svedese, senza alzare lo sguardo. Steve sospirò,
appoggiandosi con
un braccio al tavolo e voltando il busto verso l'ingresso della
grande sala. “Sua figlia le somiglia davvero tanto,
sa?”
Erik
gli lanciò uno sguardo poco convinto. “Non ci giri
intorno,
Capitano. Non dimentico che è lei che la mette in
pericolo.”
Steve
scosse il capo. “Conosce abbastanza sua figlia da sapere che
non si
mete in situazioni di pericolo se non lo ritiene strettamente
necessario.”
“Ora
lo so.” Rispose sottovoce l'uomo. Steve sospirò.
“Elle
non era l'unica ad avere dei segreti, almeno questo l'ho
capito.”
Esclamò il giovane, sollevando di nuovo il bicchiere. Erik
lo
guardò. “Non ti verrò a raccontare
tutti gli affari miei,
ragazzo.”
Steve
ridacchiò. “Non oserei mai..” Bevve un
sorso dal bicchiere,
strizzando il viso in un'espressione disgustata. “...Vorrei
solo
che non giudicasse troppo duramente sua figlia. Lei vuole solo fare
del bene, come tutti noi.”
Erik
lo guardò un secondo, un mezzo sorriso sulle labbra sottili.
“Ripeto, perché sei qui,
ragazzo?”
“Elle
è testarda, e nelle ultime settimane ha subito parecchi
colpi
bassi-” Steve pensò che fosse il caso di glissare
sulle diverse
ore in cui la figlia dell'uomo davanti a lui era rimasta morta.
“-Cerchi di capire la sua reazione di oggi.”
Erik
lo guardò un attimo, perplesso. “Pensavo sarebbe
venuta Hill a
farmi questo discorso. Oppure la rossa che le è corsa
dietro.”
Riempì di nuovo il bicchiere di entrambi. “Non
pensavo sarebbe
venuto Captain America in persona.”
Steve
abbassò lo sguardo. “Elle meritava di avere le sue
amiche vicino.
Non l'ho mai vista così scossa. Lei di solito è
quella più
controllata, sostiene sempre tutti. In più...”
Osservò perplesso
il contenuto del suo bicchiere. “Natasha avrebbe giudicato
questa
vodka come imbevibile, un vero affronto alla cultura russa.”
I
due scoppiarono a ridere, ai due lati del lungo tavolo. Selvig lo
guardò, gli occhi assottigliati in una smorfia divertita.
“Thor
teneva in grande considerazione la tua opinione, spero tu lo
sappia.”
Steve sorrise. “Anche io ogni tanto vorrei potergli chiedere
delle
cose. Mi manca il suo parere, su molte questioni.”
“Quel
ragazzone manca sempre a tutti. Non si sa mai quando parte o quando
possa tornare.” Asserì Selvig. Steve
annuì.
“Volevo
assicurarle che Elle sarà al sicuro, qualsiasi cosa decida
di fare
dopo oggi...” Esclamò Steve, guardandolo deciso.
“Sia che resti
nella squadra, sia che decida diversamente... Le sarò sempre
vicino.
E' sagace in modo quasi doloroso. Ed è più
testarda di un mulo. Ma
è una delle persone più generose, e sensibili, e
intelligenti che
io abbia ma conosciuto. Non permetterò a nessuno di farle
del male.”
Concluse, accorato.
“Oh
dei...” Sussurrò Selvig, allontanandosi
dal piano del tavolo,
le braccia tese.
“Non
so nemmeno se darti del tu o del lei, alla fine sei parecchio
più
vecchio di me.” Biascicò l'uomo, guardandolo di
sottecchi. “In
più, devo impormi in qualche modo, visto che sei chiaramente
invaghito di mia figlia.”
A
Steve andò di traverso la vodka, mentre Selvig rideva fra
sé e sé.
“Jane che scappa con Thor, ed adesso Elle e Captain
America..”
Scolò tutto d'un fiato l'ennesimo bicchiere, sbattendolo sul
tavolo.
Steve
scosse il capo. “Sono affezionato a sua figlia, voglio che
stia
bene. Non c'entra nulla il fatto che io possa essere o non essere
innamorato di lei.” Commentò, imbarazzato. Selvig
alzò gli occhi
al cielo. “Sai che questa frase vale come una conferma?
Avresti
potuto direttamente dire 'Si, signore, vorrei chiederle la
mano di
sua figlia'.” Steve alzò il capo di
scatto. “Si usa ancora?”
Chiese di getto.
“No!”
Esclamò ridendo nervosamente Selvig. “E comunque,
qualsiasi
risposta possa darti, Elle farà sempre quello che le pare, e
tu non
sei tipo da farti spaventare da un povero vecchio. Il primo passo,
ragazzo, in ogni caso, è ammetterlo.”
“E'
una questione di rispetto, non di muscoli.”
Controbatté Steve.
“Elle la rispetta. Magari non le ha mai mostrato affetto, ma
so che
ci tiene a lei. Le vuole molto bene.”
“Come
fai a dirlo?” Chiese l'altro con un borbottio. Steve gli
sorrise.
“Perché me lo ha detto. Magari non a parole. Ma mi
ha parlato
spesso di lei.”
L'uomo
lo guardò per un lungo momento dritto negli occhi. Steve si
stupì
di quanto fossero simili, lo sguardo acceso e le sopracciglia decise.
Bevve un altro sorso di quella vodka terribile, sorridendo fra
sé e
sé.
“Sono
contento.” Esclamò improvvisamente Erik. Steve lo
guardò,
sorpreso. “Di cosa?”
“Che
Elle abbia una persona come te che le vuole bene. Qualcuno che la
sostenga.” Commentò l'altro. Lo indicò.
“Qualcuno che faccia
quello che avrei dovuto fare io.”
Steve
non si espresse, guardandosi attorno. Erik fece per alzarsi.
“E'
ora per me di andare a parlare con mia figlia, e poi
ripartire.”
Steve si irrigidì.
“Non
dica a sua figlia di questa conversazione, per piacere.”
Chiese,
guardandolo dal basso. Selvig ridacchiò. “Il tuo
segreto è al
sicuro con me, Romeo.” Gli
lasciò la bottiglia di vodka,
sospirando. “Ti consiglio di farti avanti, in ogni caso. Elle
ha
sempre avuto un debole per gli uomini sbagliati: un bravo ragazzo
manca, nella sua vita.”
Steve
alzò un sopracciglio, ma prima che potesse chiedergli altro,
l'uomo
lo interruppe. “Spero che mi vorrà parlare.
Comunque, io faccio
il tifo per te, ragazzo.”
Selvig
fece il giro del tavolo, battendogli una mano sulla spalla. Si
allontanò, leggermente storto ed a passi incespicati. Steve
sospirò,
osservando la bottiglia che aveva davanti. Si versò un altro
bicchiere, riflettendo sulla conversazione appena avuta con l'uomo.
“Capitano!”
Lo chiamò dal fondo della sala Selvig. Steve si
voltò. “Mi dica!”
“Posso
chiamarti genero, allora!”
Urlò l'altro, da un lato
all'altro della sala.
Steve
si appiattì sul tavolo, sentendosi arrossire fino alle
orecchie.
Selvig uscì ridendo a gran voce, mentre Steve svuotava il
suo
bicchiere di vodka alla goccia, sorridendo imbarazzato.
~
“Sa
perché è stata convocata qui, Signorina
Selvig?”
Elle
rimase immobile, seduta sulla scomoda poltrona in pelle gelida, con
davanti a sé sei uomini in completi costosi. Il generale
Ross stava
dritto davanti a lei, fissandola senza nemmeno sbattere le palpebre.
Se voleva intimidirla, doveva fare di meglio. “No, non mi
è stato
spiegato perché sono stata privata delle mie ore di riposo
per
essere portata qui in grande fretta e, probabilmente, all'insaputa di
Fury e del Capitano.”
“Lei
era psicologa qui, fino a poche settimane fa, quindi oltre che agente
operativo sul campo, rimane anche un'osservatrice di prim'ordine
sulla funzionalità della squadra.” Elle
annuì.
“Non
essendo cittadina americana, e non essendo nemmeno nella lista per
ottenere una cittadinanza, non posso costringerla ad un giuramento. E
nemmeno farle firmare un probabile accordo.” Elle
annuì ancora,
annoiata.
“Quindi...”
Sondò le menti di coloro che stavano di fronte a lei.
“Perché
sono qui.”
“Perché
voglio un suo rapporto, sincero, sul ruolo del Capitano Rogers nella
squadra Avengers.”
Elle
si espresse con uno dei suoi migliori sguardi perplessi.
“Davvero
pensa sia necessario?”
Ross
annuì, infastidito. Elle si schiarì la voce,
pensando.
“Dopo
Charles Xavier, Steve Rogers è l'unico che è
riuscito a fornire una
guida morale ad un gruppo di persone con capacità
straordinarie.
Tutti guardano a lui, non solo come ottimo combattente e stratega
piuttosto dotato, ma sopra a qualsiasi altra dote, come uomo giusto.
Se Steve Rogers prende una decisione, è probabilmente quella
moralmente più sofferta. Senza di lui, tutti coloro che sono
nella
squadra sarebbero senza uno scopo, dei talenti sprecati. E,
probabilmente, sarebbero delle persone sole.”
Ross
aprì un fascicolo, e lanciò davanti ad Elle una
foto che ritraeva
evidentemente Bucky Barnes. “E, a proposito di
questo?”
Elle
deglutì. Chiese un bicchiere d'acqua, fissando nel frattempo
la foto
di un James con addosso la sua felpa, che fuggiva dall'area merci del
porto di Lagos.
“Devo
supporre che si tratti di Barnes.” Commentò, vaga.
Il Generale
Ross annuì.
“Le
nostre fonti sostengono che Barnes stia tornando tra le fila
dell'Hydra. Lei si è già scontrata una volta con
questa bestia...”
Elle alzò gli occhi sull'uomo, lo sguardo gelido.
“Barnes è stato
vittima di un lavaggio del cervello, ma abbiamo motivo di supporre
che si stia riprendendo bene e sia sconvolto da ciò che gli
è stato
ordinato di fare. Ho già stilato un rapporto sul nostro
precedente
incontro, e non ho nulla da aggiungere a riguardo se non che Barnes
deve essere ritenuto innocente, e non usato come capro espiatorio per
i fatti causati da una cellula terroristica che non siete stati in
grado di controllare.” La stoccata fece storcere il viso al
generale.
“Per
quanto riguarda Rogers, se toglierete lui dal comando, non avrete
più
una squadra. E non parlo di qualche trafficante di armi, o
dell'Hydra. Parlo dell'invasione aliena di New York. Non ci
sarà
nessun fronte unito a difendere la terra. Quindi...”
Si
alzò lentamente, accorgendosi in quel momento di quanto era
stanca.
“...Ricordate sempre che noi non siamo delle pedine, e
nemmeno un
commando. Siamo una famiglia di reietti della società, che
ancora si
ostinano a lottare per il meglio. Si, ci sono state delle vittime
civili...” Si portò una mano al petto.
“Nelle mie missioni, ho
sempre visto morire più innocenti di quanti sarebbe stato
equo. Noi
siamo una famiglia, e come tale ci proteggeremo. Sempre.”
Li
guardò uno ad uno, cogliendo i loro pensieri mentre si
agitavano
febbrilmente dietro a quelle espressioni di circostanza. Sorrise
appena.
“Steve
non sarà mai un soldato perfetto. Perché
è un leader. E la fiducia
in lui è l'unica forma di controllo che potete vantare sulla
squadra. Io non firmerò mai nulla, e non
sottosterò a nessun atto,
o contratto, con voi governo americano. Ma sarà sempre un
Avenger, e
come tale rispetterò sempre gli ordini di Rogers.
Perché di lui mi
fido, anche se non avrò firmato nulla. Non sarò
un'altra delle
vostre pedine ora, come non lo sono stata in passato.”
Si
alzò lentamente, sfidandoli con lo sguardo. “Ora,
se volete
scusarmi, ho parecchie ore di sonno arretrato ed un disturbo acuto da
Stress che mi aspetta appena sarò sola e
realizzerò che uno come
Rumlow mi vuole morta.”
Uscì
dalla stanza ad ampie falcate, in uno sventolio di capelli biondi,
mentre i vari senatori e militari si voltavano a parlare fra loro.
In
un angolo, dietro due grassi politici si lamentavano dell'arroganza
della giovane, Steve Rogers incrociò le braccia, sorridendo
fra sé
e sé.
~
Elle
si strinse nel maglione grigio, guardandosi attorno, incantata dal
rumore del vento fra i rami degli alberi spogli, il buio che
precipitava oltre l'orlo del tetto sulla quale era seduta da qualche
ora, appoggiata con i palmi delle mani al cemento ghiacciato del
pavimento.
Sorrise
appena, lo sguardo alto nel cielo privo di stelle dell'ultima ora
prima di un'alba invernale.
Sentì
la porta della scala aprirsi e richiudersi, ma non si
preoccupò di
voltarsi a guardare. Solo una persona sapeva che frequentava
abitualmente il tetto della base. Infatti, l'uomo si sedette accanto
a lei senza emettere un fiato, ed Elle lo ringraziò
mentalmente per
il suo silenzio.
Alzò
lo sguardo sul suo polso, strizzando gli occhi per vedere il
quadrante del suo orologio. Sospirò. Le quattro del mattino.
“And
I feel life for the very first time, love in my arms and the sun in
my eyes....”
Canticchiò
piano, stringendosi le braccia intorno al busto e sfregando
leggermente per scaldarsi. “I feel safe
in the 5am light,
you carry my fears as the heavens set fire.”
Steve
la guardò sorridendo. “Canti sempre nei momenti
più strani.”
Elle
piegò le labbra in una smorfia. “Respirare con il
diaframma aiuta
a calmarsi.”
“Perché?”
Chiese l'uomo. “Eri agitata?”
“Non
è stata una giornata semplice...” Lo
indicò con una mano. “Per
entrambi, suppongo.”
“Ho
provato a bussare alla tua stanza, e quando non hai risposto ho
immaginato che tu fossi qui.”
Elle
ridacchiò. “Magari stavo dormendo.”
“Tu
che dormi di notte?” L'uomo si unì alla risata.
“Sarebbe
fantascienza. E poi, abbiamo un tacito appuntamento su tetti e
terrazzi ogni volta che succede qualcosa di eccezionale.”
Elle
scoppiò a ridere. “Allora, tanto vale trasferirsi
qui.” Esclamò
fra una risata e l'altra, coprendosi la bocca con una mano. Steve
annuì. “A questo punto. Ho portato
anche...” Si voltò a
prendere qualcosa che aveva appoggiato dietro di lui.
Le
passò una birra, sorridendo sconsolato. Elle la
afferrò,
sorridendogli riconoscente. “Sei partito preparato, Captain
Irlanda.”
Steve
si strinse nelle spalle, senza dire nulla. Elle la stappò
con i
denti, per poi passargli quella aperta. Gli prese l'altra dalle mani,
facendo la stessa cosa sotto il suo sguardo sorpreso. Elle
sospirò,
ridacchiando.
“Cosa
non si impara, al college.” Si interruppe, bevendo
una generosa
sorsata.
Steve
estrasse un involto in cuoio marrone. Lo aprì su una pagina
nella
quale era infilata una matita. Il vecchio quaderno, anche nella luce
flebile dell'illuminazione esterna, sembrava vecchio e malmesso.
Steve piegò una gamba, appoggiandosi alla coscia per
scrivere con
una calligrafia minuscola con la matita. Elle si rilasso, tornando ad
osservare l'orizzonte,
“Non
vi ho nemmeno chiesto cosa vi siete detti oggi, con Ross...”
Steve
si strinse nelle spalle. Valutò per un secondo di chiederle
di
Bucky. Poi la vide così stanca e provata, e la giornata che
li
attendeva sarebbe stata anche più lunga della precedente.
“Non
molto. Siamo solo esonerati dal servizio, diciamo,
finché non
ci saranno date ulteriori direttive.” Elle lo
guardò perplessa.
Sapeva che lui voleva dirle dell'altro, ma non volle indagare oltre.
“Pensi
davvero di stare fermo fin a quando non avranno deciso come
vincolarci?”
Steve
la guardò con un sopracciglio alzato. “Secondo
te?”
Elle
si morse l'unghia del pollice, ghignando. “Dovremo solo
essere
discreti.” Commentò lui. Lei lo guardò,
nascondendo un'altra
risata. Lo indicò con il collo della bottiglia.
“E' proprio la
tua. Essere discreto.”
“Qualcosa
contro la mia uniforme come al solito, Selvig?” Steve fece un
gesto
con le braccia, come ad indicarsi. La svedese lo guardò, le
sopracciglia sollevate ed il sorriso ancora sulle labbra sottili.
“Anche senza uniforme, non è che passi
inosservato.” Steve la
guardò sorpreso.
“In
che senso?” Elle sollevò teatralmente le spalle,
guardandolo
divertita. “Sei un bell'uomo, Steve. E sei molto gentile,
cosa che
nel nostro secolo non è così scontata.”
Steve la guardò
divertito, mentre Elle beveva un altro sorso. La prima luce del sole
li colpì leggermente, nel cielo terso di dicembre.
Steve
la guardò un attimo, per poi iniziare a schizzare a matita
qualcosa
sul suo quadernino. Elle lo guardò perplesso. “Non
mi sento a mio
agio se so che mi stai ritraendo.” Commentò,
appoggiando il mento
ad un ginocchio alzato. Steve sorrise.
“Dovrai
abituarti, temo.” Disse piano lui, sorridendo appena.
“Mi piace
la forma del tuo viso, e il tuo sguardo. Vorrei essere in grado di
coglierne le varie sfaccettature.”
Elle
ridacchiò, guardandolo di sottecchi. “Arrabbiata.
Molto
Arrabbiata. Isterica.”
Steve
scoppiò a ridere di cuore, puntellandosi con una mano al
pavimento ed appoggiando a terra il diario.
“Anche pensierosa. Oppure quando ridi, per esempio quando sei
con
Maria. Sono i tuoi sorrisi migliori” Commentò lui,
guardandola
mentre fissava il vuoto con un leggero sorriso imbarazzato.
“Ogni
tanto guardi me, ma non è lo stesso tipo di sguardi che
scambi con
Maria. Vorrei essere in grado di fotografarti. Hai gli occhi che
brillano, e le tue guance diventano rosa. Ti spunta una rughetta
intorno al naso, e poi tendi le labbra in un sorriso. Appena
accennato. Ma non distogli lo sguardo. Mai per prima.”
Elle
rimase interdetta, voltandosi appena verso di lui, una cortina di
capelli candidi che la proteggeva dal suo sguardo indiscreto.
“E'
così evidente?” Chiese in un sospiro.
Steve
le fece un gesto con il capo, appena accennato, e la ragazza si
avvicinò a lui, appoggiandosi con il busto al suo petto.
Steve le
passò un braccio dietro la schiena, mentre lei si sistemava
meglio,
con l'orecchio appoggiato sopra al suo sterno. Rimasero in silenzio,
a guardare il sole che sorgeva sulla base.
“Spero solo che tutto vada al suo posto
...” Commentò lui, appoggiando la fronte
alla sua nuca, respirando l'odore del quale i suoi capelli erano
impregnati a pieni polmoni, mentre Elle sospirava mestamente.
xXx
It's
quiet now, and what it brings is everything.
Comes calling back a
brilliant night, I'm still awake.
I looked ahead I'm sure I saw
you there.
You don't need me to tell you now that nothing can
compare.
REM
Ciao a
tutti!
Questo è
un capitolo di passaggio, abbiamo diversi confronti Selvig-Selvig,
Steve-Selvig, e possiamo vedere anche la prima reazione
all'inizio dei problemi pre CW.
Taglio corto,
così potrete leggere pirma il capitolo ;) Scusate anche
l'ora tarda - speravo di postare entro il tardo pomeriggio.
Ringrazio come al
solito Giulietta - alla quale devo una dedica ;) - ed al sua
magnificenza Delta. Buona serata, e soprattutto, BUON ANNO.
Eve
|
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Capitolo 19 *** 18. Stelle ***
Ciao a tutti! E' Eve
che vi parla.
Questo capitolo, beh, lo capirete dal titolo. Godetevelo, è
bello lungo - 22 pagine di Word! Perchè la settimana
prossima non potrò aggiornare.
Vi lascio alla fine con i commenti, così non spoilero
niente.
Questo capitolo è dedicato alla gloriosa Giulietta Becaccina,
perchè ha indovinato l'arcano del capitolo di Natale e,
inoltre, ha inventato lei gli Stelle.
Cioè, voglio sentire le ovazioni! Visto che io, come la cara
Delta, con i nomi delle Ship sono negata.
Anche questo capitolo non è stato - purtroppo - Betato. E, come sempre, ci sono degli errori di battitura. È quasi certamente almeno un congiuntivo è sbagliato - l'ho visto con i miei occhi! D: . Domani in giornata correggo i particolari.p, scusatemi ancora.
Buona Lettura!
Eve
Atto
18: Stelle
“If
there is a light, You can always see;
And there is a world, We can
always be.
If there is a dark, That we shouldn't doubt;
And
there is a light, Don't let it go out.”
U2
Gennaio
2016
“Selvig,
di qui!”
La
voce familiare la fece voltare istintivamente verso il lungo
corridoio scuro, le vecchie porte in lamiera divelte dai loro cardini
arrugginiti, e dei rigoli di muffa scura che colavano lungo le pareti
umide.
Corse
verso la voce familiare, anche se ancora non riusciva ad associare un
volto a quel tono basso e rilassato. Sentiva che qualcosa non andava,
lo sentiva nell'eco scuro dell'edificio, nel clima ovattato che la
circondava completamente, quasi fosse immersa in una sostanza
gelatinosa che la separava dalla realtà.
Seguì
la voce conosciuta, un rigolo di sudore freddo che le colava lungo la
schiena. Portava la divisa mimetica del S.A.S., e teneva fra le mani
un pesante fucile da assalto. Alzò la canna del fucile,
dirigendosi
verso la poca luce che entrava fiocamente dall'ultima porta aperta,
dietro lo svincolo di quel corridoio che le sembrava eterno.
Restò
sulla porta un secondo, prima di entrare con passi leggeri nella
stanza, l'arma levata davanti al viso. Non sentiva i suoi poteri
scorrere dentro di lei, non sentiva nulla nella sua testa a parte il
palpitare del suo cuore. Entrò guardandosi attorno, per poi
dirigersi verso uno scheletro rosso ed oro a terra. Mollò il
fucile
a terra, un urlo ghiacciato nella gola, quando vide gli occhi castani
di Tony Stark spalancati, senza vita, senza nemmeno una scintilla di
quella sagacia che aveva imparato a sopportare nel corso dei loro,
sempre più frequenti, incontri.
Si
gettò a terra, sulle ginocchia, premendo le mani sul grosso
foro al
centro del petto dell'uomo, cercando di impedire al sangue scarlatto
di fluire fuori dal corpo martoriato.
“Stark!”
Gli diede un leggero colpo al viso, sperando di vedere un guizzo in
quegli occhi vitrei, un cenno verso il suo viso contratto in
un'espressione terrorizzata. Ritornò a fare pressione contro
il suo
petto, con entrambe le mani, anche se nella sua mente si stava
facendo largo la realtà. L'uomo davanti a lei era morto.
“Ho
dovuto.” La voce familiare la fece voltare, mentre
lei
istintivamente si portava le mani ai capelli, imbrattandosi la fronte
di sangue, le dita fra i capelli in un gesto disperato. Qualcosa
colpì il terreno vicino a lei, rimbalzando quasi comicamente
fra la
polvere di quello stanzone in rovina. Elle istintivamente
seguì il
piccolo oggetto metallico con lo sguardo, riconoscendo il piccolo
reattore dell'armatura di Iron Man.
Stark
non era più collegato al reattore quando era solo
Tony, ma lo
era quando era Iron Man.
Il
cerchio insanguinato non dava segni di vita, nemmeno un breve
lampeggiare che potesse darle speranza. Si voltò verso
l'uomo che
avanzava verso di lei, senza espressione.
“Cosa
hai fatto, James?”
~
Si
svegliò ricoperta di sudore, senza riconoscere per un
secondo la
stanza di Natasha a casa di River e della signora West. Si
alzò di
scatto, guardandosi le mani con aria sconvolta, incredula di non
trovarle luride di sangue sopra la grossa coperta patchwork,
probabilmente regalo di Laura alla partner del marito.
Respirò
profondamente, le mani che andavano istintivamente a intrecciarsi nei
capelli chiari.
“Elle,
tutto ok?” Natasha aprì un occhio, la voce
impastata e River
addormentata contro il suo petto. Elle annuì appena,
prendendo ampie
boccate d'aria. “Un incubo.” Nat annuì.
“Meglio
o peggio dell'ultima settimana?” Chiese sarcasticamente,
passando
una mano sui riccioli della bambina che le solleticavano il naso.
Elle si strinse nelle spalle, sdraiandosi di nuovo con il volto
rivolto verso l'amica. “Domani dobbiamo proprio andarci al
meeting?” Chiese stancamente. La russa annuì.
“Non
possiamo mancare. Stanno parlando del nostro futuro.”
Sussurrò,
gli occhi verdi che la guardavano senza timore, viso a viso. Elle si
passò una mano sul volto. “Chi ce l'ha fatto fare,
Nat...”
Commentò piano. La rossa sospirò, un leggero
sorriso sulle labbra.
“Sarà la millesima volta che facciamo questo
discorso. Sai bene
perché lo facciamo.” Si strinse meglio contro la
bambina,
coprendole con una mano l'orecchio. “Ricordi quando sono
tornata da
quella missione in Medio Oriente e mi hai spazzolato i capelli per
tre ore finché non mi sono calmata?” Chiese piano
Nat, le belle
labbra carnose strette in un'espressione discreta. Elle
annuì
appena.
“Avrei
dovuto fare lo stesso, prima di arrivare in Wakanda, e quando eravamo
li. Non ho rispettato il nostro patto.” Sussurrò
appena,
abbassando lo sguardo.
Elle
le sorrise. “Siamo adulte, e tu eri spaventata. Non devi
sentirti
in colpa.”
“Tu
mi hai sempre fatto da cuscino, in tutte le cadute più
rovinose.”
Esalò appena la rossa. “Sei una delle poche
persone delle quali mi
fido... Anche se so che non mi stai dicendo tutto, riguardo a quanto
è successo in Wakanda.”
La
Svedese sospirò appena. “Nat...”
La
rossa la interruppe con uno sguardo. “Maria probabilmente sa.
Lei
ti affiderebbe anche la sua stessa vita... Ma qui c'è
qualcosa di
più importante di noi, in
ballo.”
Indicò
con il mento la bambina, sempre coprendole l'orecchio. “Cerca
di
ragionare con la testa, Elle. Stai coprendo un criminale.”
Elle
rimase in silenzio, guardandola senza espressione, la coperta che la
copriva fino al mento. Passò una mano sui capelli della
bambina,
evitando lo sguardo diretto dell'amica.
“Lo
troverò.” Commentò Nat. “E
forse prima riuscirò a salvarti.
Ma, ti prego, ragiona.” La voce dell'amica era diventata un
sussurro quasi inudibile. “Quando sono tornata da quella
missione
in Medio Oriente, era stato il Soldato d'Inverno a
spararmi.”
Elle alzò lo sguardo, annuendo all'amica. “Lo
so.”
River
alzò una mano, prendendo quella della donna e tenendole due
dita
strette nel piccolo palmo. “Spero solo che tu sia sicura di
quello
che stai facendo.”
Elle
e Nat rimasero a fissarsi ancora qualche secondo, scambiandosi un
tacito abbraccio. Elle sospirò. “So quello che sto
facendo quasi
quanto te. E non ti impedirò di fare il tuo lavoro, se pensi
che sia
la cosa giusta. Ma...” Si strinse nelle spalle, accarezzando
con le
dita la mano della bambina. “...Perdonami se non posso essere
d'accordo.” Rialzò lo sguardo in quello verde
smeraldo della
russa. “In ogni caso, ti voglio bene. Per quello che
vale.”
Nat
annuì, sorridendo appena, mentre si rilassava contro il
materasso.
Elle la guardò scivolare in un sonno esausto, profondo e
senza
sogni, per poi spostare lo sguardo sul soffitto bagnato dalle luci
della strada. Rabbrividì nella coperta, il sogno dal quale
si era da
poco destata che riprendeva il controllo della sua immaginazione. Si
passò una mano sul viso, sperando di riuscire ad
addormentarsi prima
del suono della sveglia, che le avrebbe riportate ai due lati del
tavolo delle trattative.
~
Steve
si sentiva un animale in gabbia, passeggiando nervosamente avanti ed
indietro nella stanza, lungo la parete d'ingresso; e ripiegando
continuamente le maniche della giacca marrone scuro e riabbassandole
a pochi passi di distanza. Cercava di sincronizzare il suo respiro
con la camminata, ignorando lo sguardo perplesso di Samuel che,
seduto su una delle sedie in pelle, il gomito comodamente appoggiato
al bracciolo e la testa inclinata di lato, lo guardava rassegnato.
“Va
bene che la situazione è difficile...”
Commentò sospirando. “Ma
non abbiamo ancora bisogno di scavare una trincea ai lati del tavolo.
A meno che tu non tema il lancio di una ventiquattr'ore.”
Steve
si fermò di colpo, incrociando le braccia. “Quando
arrivano gli
altri?”
Samuel
guardò uno dei fogli sul tavolo con sguardo assente.
“Elle e Nat
dovrebbero arrivare a momenti. Oggi sono le uniche convocate, come
tutti gli altri giorni.” Scosse il capo. “E'
assurdo che non
vogliano Wanda. O Visione.”
“Ritengono
la signorina Maximoff troppo imprevedibile.”
Commentò una voce
acuta, mentre i due uomini entravano nella stanza. Steve sorrise fra
sé e sé, voltandosi verso la nuova arrivata.
“Cosa ti porta da
queste parti, Sharon?” Chiese cordialmente. Lei non
riuscì a
trattenere un sorriso. “Fury ha pensato che aveste bisogno di
una
mano. Qualcuno di obiettivo.”
Natasha
entrò, guardandola perplessa, dopo aver sentito tutto il
discorso.
“Obiettiva, eh?”
Commentò sarcasticamente, osservando da
oltre il bavero della giacca di pelle lo sguardo perso che la bionda
lanciava all'amico. Steve la ignorò.
“Buongiorno,
Nat. E' stata una buona idea tornare a casa, stanotte?”
Chiese,
avvicinandosi all'amica. Samuel si sporse verso i due, facendo
scorrere la sedia lontano dal tavolo. “Vuole sapere se Elle
è
arrivata con te.” Commentò in un ghigno. Si sporse
verso Sharon,
che aveva osservato lo scambio con sguardo perso. “Samuel
Wilson,
comunque.” Commentò, dandogli la mano. La donna la
strinse,
sorridendogli. “Sharon Carter.” Samuel
annuì. “Immaginavo. La
tua fama ti precede, Sharon.” La donna
arrossì leggermente,
sistemandosi i capelli lisci dietro l'orecchio. Tornò a
guardare
Steve, che guardava l'amico con una mezza smorfia esasperata sulle
labbra.
“Allora,
a chi pestiamo i piedi, oggi?!” Chiese una voce tranquilla.
Tutti
si voltarono verso l'ingresso, dove Elle stava entrando con un grosso
scatolone di cartone fra le braccia sottili, avvolte in una camicia
azzurra. Steve in due passi fu accanto a lei, prendendole lo
scatolone dalle mani con un sorriso. Elle ricambiò appena,
la pelle
del viso che diventava leggermente rosata. “Dove lo
appoggio?”
Chiese Steve. Nat e Samuel si guardarono divertiti, mentre Sharon si
mordeva un labbro, le sopracciglia contratte.
“Non
so, qual'è il lato oscuro
oggi?” Chiese la svedese,
indicando il tavolo. Steve fece una mezza risata, lo scatolone
comodamente appoggiato fra il braccio ed il fianco. “Anche se
ancora non abbiamo visto Star Wars, ho colto la
citazione.”
Elle
si sfregò le mani arrossate dal freddo fra loro, scoppiando
a
ridere. I due girarono attorno al tavolo. “Steve
Rogers:
nonostante il disgelo, riesce ad aspettare che facciano un settimo
capitolo della saga prima di recuperare gli altri sei. Hai
ancora
quel taccuino?” Si misero all'altro lato del tavolo rispetto
a Nat
e Samuel.
Steve
annuì alla ragazza, mentre Natasha si schiariva la voce,
divertita.
“Ragazzi...”
Elle
e Steve si voltarono in contemporanea, lui con il taccuino a
mezz'aria e lei che stava per afferrarlo. Elle si accorse della
figura alta e longilinea che la fissava con aria agghiacciata.
“Tu
devi essere la famosa Selvig.” Esclamò con tono
rassegnato la
donna. Elle annuì, sporgendosi lungo il tavolo verso di lei.
L'altra
fece lo stesso,porgendole la mano. “Sharon Carter.”
Entrambe
si strinsero vigorosamente le mani, Elle con una minuscola ruga di
preoccupazione in mezzo alle sopracciglia definite. Annuì
appena,
aspettando che l'altra mollasse per prima la presa ed allontanandosi
dal tavolo.
“Parente di quella, Carter?”
Chiese,
indicando Steve con un dito. L'uomo rimase impalato, cercando con lo
sguardo Nat o Samuel. I due si guardavano, sogghignando. Mancavano
solo i popcorn.
“Si,
lei è la nipote di Peggy.” Rispose piano Steve,
grattandosi un
punto indefinito sul collo con la mano libera. Elle si voltò
sorridendo verso una Sharon immobile, a metà fra il confuso
ed il
terrorizzato. “E' un onore conoscerti! Sarà
veramente utile averti
qui con noi!” Esclamò entusiasta, indicandola con
entrambe le
mani.
Sharon
cercò lo sguardo di Steve, confusa. L'uomo mise una mano
sulla
spalla della svedese, facendola voltare verso di lui. Le mise in mano
il taccuino di pelle liso. “Almeno qualcuno sembra di buon
umore
prima di questa ennesima giornata passata seduti a discutere del
nulla.” Commentò Natasha, incredula, cadendo a
peso morto su una
sedia accanto a Samuel.
Elle
si appoggiò sul tavolo con la piccola agenda fra le mani,
Steve
puntellato con una mano sul tavolo accanto a lei che alternava
sguardi tra l'agenda e il volto della donna. Elle indicò un
paio di
voci, ridendo con una mano davanti alle labbra.
Sharon
si sedette in silenzio accanto a Natasha, lo sguardo perso contro i
due che confabulavano poco lontano. “Da quanto va
avanti?” Chiese
in un sospiro. Nat le appoggiò una mano alla spalla,
sorridendo
rassegnata. “Non è ancora cominciata, in
realtà.”
~
L'ennesima
mattinata passata a discutere il nulla.
Steve
non aveva mai capito la politica. L'unico momento interessante era
quando Elle aveva esposto le loro cartelle di idoneità al
servizio,
quelle che aveva compilato al suo arrivo nel quartier generale. Non
c'erano parole di particolare stima nei suoi confronti, e questo
aveva fatto involontariamente sorridere entrambi, ma veniva giudicato
una persona ragionevole ed attenta, del tutto valida a guidare la
squadra. Aveva anche esposto una serie di test di intelligenza e di
personalità, cercando di inculcare in quelle teste affamate
di
potere che i suoi compagni erano del tutto in grado di gestire il
problema mutanti.
Soltanto
un certo Senatore Johnson aveva messo in dubbio la validità
di quei
test, in quanto la stessa relatrice era una mutante, ed Elle aveva
preso una ampio respiro prima di rispondergli. “...Anche
il suo
medico è un essere umano. Mette per questo in dubbio il suo
parere?”
Steve aveva cercato di nascondere un sorriso a quell'affermazione.
Quando era stata risentita ancora sul caso Barnes, Elle aveva dato le
stesse risposte che le cinque volte precedenti: James Barnes andava
curato. E non sarebbe pericoloso, finché l'Hydra non lo
avesse
ritrovato.
Aveva
notato, come le altre cinque volte, uno stano movimento delle mani,
un minimo segnale di incertezza che soltanto lui, e Natasha che lo
fissava dall'altra parte del tavolo con sguardo torvo, sembravano
aver colto.
Si
era segnato di chiedere spiegazioni ad entrambe il prima possibile,
ma sul momento aveva istintivamente appoggiato una mano sul ginocchio
dell'amica, quando questa si era seduta, stremata da
quell'interrogatorio serrato. Elle gli aveva sorriso appena, il
tavolo davanti a lei ingombro di carte e cartelle.
Appena
avevano dichiarato quella seduta conclusa, quando Elle aveva raccolto
tutto e si era volatilizzata in una macchia azzurra e bianca. Anche
Sharon era sparita in fretta, affermando di dover tornare in
città.
Lo aveva guardato per un paio di secondi, prima di salutarlo con un
cenno del capo.
“Allora,
Capitano...” Samuel lo
affiancò, mentre si dirigevano
pigramente verso la mensa. “Pensi di deciderti o
no?”
Steve
alzò lo sguardo sull'amico, le sopracciglia arcuate.
“Cosa?”
“Le
chiedi di uscire o no?” Esclamò esasperato. Steve
scosse il capo.
“Non mi sembra il momento adatto per parlare di questioni
amorose.
“
Samuel
sbuffò infastidito. Natasha si avvicinò ai due.
“Non eri tu
quello che 'Bisogna cogliere il momento!'”
Lo scimmiottò
divertita. Steve si voltò a guardarla male. “Direi
che abbiamo fin
troppe cose a cui pensare, ora. Non c'è bisogno di
aggiungere altro
carico, né ad Elle né a me.”
Commentò piano, guardandosi
attorno. Natasha fece per ribattere, ma lui la zittì alzando
una
mano davanti ai due. “Non vuol dire che non lo
farò mai. Ci sono
ancora delle cose da sistemare, prima.”
Natasha
alzò gli occhi al cielo. “Ci saranno sempre cose
da sistemare. O
hai paura di essere rifiutato?”
“Impossibile.”
Esclamò Samuel, sarcastico. Steve si voltò di
nuovo verso Nat,
senza dire nulla. La rossa sospirò. “Ho capito, ci
vuole uno dei
miei interventi.”
I
due uomini la presero per le braccia in contemporanea. “Non
ci
provare nemmeno, Nat!” Esclamò Steve, mentre i tre
scoppiavano a
ridere.
Entrarono
nella mensa ridendo fra loro, mentre tutti i pochi impiegati rimati
si voltavano a guardarli sorpresi. Elle stava in un angolo, ala fine
di un lungo tavolo quasi completamente vuoto, insieme con Wanda.
Stavano chiacchierando tranquillamente, ma si vedeva che si erano
messe in quella posizione lontana da tutti a causa degli sguardi
spaventati che venivano lanciati loro. Samuel sospirò,
mentre i tre
si dirigevano in quella direzione.
-
“E
lui dov'è, ora?” Chiese Elle, passando la
forchetta sopra allo
sformato di patate che veniva servito quel giorno. Wanda, il mento
appoggiato alla mano, sorrise raggiante. “Ha detto che doveva
andare da Stark. Per aiutarlo a finire il progetto per la tua
divisa.”
“Ah,
la divisa.” Si ricordò Elle, guardando ancora
più svogliatamente
il piatto. “Stark mi farà una cosa da pornodiva,
ne sono sicura.”
Wanda rise. “Per quello è andato Visione. Ha il
disegno che gli
hai fatto fare, verrà esattamente come la vuoi.”
Elle
fece un gesto vago con la mano. “Ma non stavamo parlando di
me! Sei
tu quella che ha avuto un Natale notevole.” Wanda
arrossì. “E
delle vacanze altrettanto interessanti.”
“Sono
solo un paio di baci! Per fortuna quel pomeriggio ho parlato con
Steve, altrimenti non mi sarei mai decisa.”
“Steve?”
Elle era stata presa in contropiede. “Steve Rogers? Il nostro
Steve?”
Wanda
annuì. “Mi ha fatto tutto un discorso sul fatto
che dovevo
pensarci.” Commentò piano. “Anche se, a
quanto vedo, anche lui
potrebbe darsi una svegliata.”
Elle
la guardo sconvolta, mentre da dietro arrivavano gli altri tre
compagni di merende. Nat si scostò i
capelli vermigli dietro
la testa con un gesto stizzito, mentre prendeva posto accanto
all'amica. Samuel guardò Wanda, mulinando le sopracciglia.
“Ciao,
Giulietta.” Commentò galante.
La Sokoviana quasi non si
strozzò con il boccone che stava masticando. Steve le diede
un paio
di colpi sulla schiena, guardando seriamente Samuel.
“Lasciala
stare almeno per un poco, Sam.” Commentò
esasperato. Natasha
indicò il biondo con il dito. “Solo
perché hai paura di essere il
prossimo?”
Steve
la guardo sconsolato, mentre Elle faceva finta di nulla, lo sguardo
fisso sul contenuto del suo piatto. “Piuttosto, se non
andasse
avanti con gli Avengers, potresti mandare il curriculum per lavorare
nella mensa.” Commentò la bionda.
“Qualsiasi cosa sarebbe meglio
di questa poltiglia.” Steve sogghignò, guardandosi
intorno.
“A
questo proposito, questo pomeriggio vado in
città...” Proseguì
Elle. “...A qualcuno serve un passaggio?”
“Dove
vai?” Chiese subito Rogers. Elle finì di
masticare, con il
tovagliolo di carta davanti alla bocca. “Stark
Tower.” Commentò
senza specificare.
“Per
l'uniforme?” Chiese ancora Steve. Elle annuì,
versandosi un
bicchiere d'acqua. “Vengo con te, ho bisogno di parlare
direttamente con Stark.” Elle annuì pensierosa.
“Basta che non
sia mentre mi minaccia con un ago.”
Wanda
si alzò, sorridendo. “No, grazie, penso che non
uscirò oggi. Ho
un allenamento con Nat alle tre.” Commentò, mentre
la rossa
annuiva. Samuel si strinse nelle spalle. “Vengo ad
assistere!”
Esclamò divertito. “Ovviamente, faccio il tifo per
Wanda.” Anche
Natasha e Samuel si alzarono, in tempo perché la russa gli
tirasse
un colpo al braccio. I tre si allontanarono, mentre Elle ancora stava
finendo di mangiare. Steve si spostò di fronte a lei,
appoggiandosi
con i gomiti al tavolo.
“Ricordi
i bei vecchi tempi? Quando cenavamo assieme parlando delle nostre
famiglie e degli amici.” Chiese lui, rilassandosi.
“Passavamo le
ore a parlare di sciocchezze.”
Elle
sollevò la forchetta davanti al viso. “Non erano
sciocchezze. Era
la nostra vita.”
Steve
le sorrise, annuendo. “C'è una cosa che volevo
chiederti.”
La
svedese lo guardò, curiosa, ed annuì. Lui prese
un respiro,
guardandosi attorno. Si sporse verso di lei, gli occhi blu che
saettavano sul suo viso alla ricerca di indizi. Elle rimase immobile,
gli occhi chiari che scrutavano i suoi con curiosità.
“Davvero,
quel giorno a Lagos, non hai visto Barnes?”
~
Elle
emise un sospiro strozzato all'ennesima punzecchiatura di ago.
Era
rimasta un'ora nel SUV con Steve, in silenzio religioso. Nessuno dei
due aveva aperto più bocca da quando l'uomo le aveva posto
la
domanda. Silenzio per la strada. Silenzio nell'ascensore. Silenzio
quando Stark si era assentato un attimo per rispondere al telefono.
La
donna stava in piedi, al centro del laboratorio di Stark, a guardare
il vento di gennaio, fuori dalla grande vetrata, spazzare impetuoso i
tetti di New York. La luce al neon illuminava in modo freddo la
stanza, ed evidentemente non permetteva a Stark di vedere chiaramente
cosa stava facendo. Il risultato era che l'uomo sghignazzava,
continuando a pungerla con il grosso ago con il quale stava
imbastendo i pezzi di pelle morbida della sua nuova divisa. Nemmeno
lui sembrava in vena di chiacchiere come di solito. C'era uno strano
clima di pesantezza, spezzato solo all'ennesima puntura, emise un
sibilo infastidito.
Steve,
a braccia conserte vicino alla parete interna, sospirò.
"Potresti
evitare di pungerla?" sputò fra i denti, scocciato. "Ci
serve intera."
"Tranquillo,
Capitano..." Stark sogghignò "...non te la sciupo troppo."
Stark
fiutava certe cose da una distanza inimmaginabile, ed il fatto che
Rogers stesse impalato a due metri da lui a guardarlo fare lavori di
sartoria da almeno un'ora e mezza era un indizio troppo succoso per
non prenderlo un po' in giro.
"Allora,
Elle." La ragazza mugugnò. “Pensavo che sarebbe
carino fare
una bella rimpatriata qui alla torre. Sai, per festeggiare degnamente
la tua entrata negli Avengers." La ragazza bionda alzò gli
occhi al cielo. "Arriva al punto, Stark."
"Vorrei
che tu venissi ancora alla Stark Tower. Per analizzarti."
Sputò
senza troppi giri di parole Stark, alzando appena lo sguardo dal
lavoro che stava facendo. "Ovviamente niente sezionamenti, il
nostro bio-organista di fiducia ha deciso di prendersi una meritata
vacanza..." Steve strinse ancora di più le braccia al petto,
lo
sguardo serio che saettava fra i due. Elle sospirò.
“Ce
ne vuole di fegato, perché tu decida di sezionarmi da viva.
Me lo
aspetterei solo da te.”
Si
era aspettata una domanda del genere da Stark, nel momento stesso in
cui era entrata in quel laboratorio. La situazione fra i due uomini
era tesa, ma allo stesso tempo Elle immaginava che di Stark ancora ci
si potesse fidare.
Le
venne in mente il sogno della notte prima, facendola rabbrividire. Lo
sguardo andò subito al miliardario, che la guadava dal basso
con
espressione divertita.
“Sono
convinto che a Banner saresti piaciuta molto. Hai un
caratterino.”
Commentò l'uomo, prima di mettersi l'ago fra le labbra.
Strinse fra
le dita i due lembi che si univano sulla coscia, riprendendolo fra le
dita.
"Per
questo Nat ti gira al largo." Esclamò Elle, il momento di
empatia verso Stark che si era già dissolto.
"Perché parlo di
Banner?"
"Perché
giri il coltello nella piaga. Non sono tutti felici come te e
Pepper." Steve precedette la ragazza, esasperato. Stark si
strinse nelle spalle, ricominciando a cucire. "Beh, pensavo che
si sarebbe consolata con questo bel fusto dietro di me..."
Indicò con il pollice Rogers, alle sue spalle.
Elle
rimase immobile, rigida come un manichino, fissando fuori dalla
finestra.
Steve
e Natasha? Sul serio?
Steve
alzò gli occhi al cielo. "Io e Natasha siamo ottimi amici."
si avvicinò ai due, fissando Elle con sguardo deciso. "Siamo
solo ottimi amici."
Stark
fischiò. "Lei mi ha raccontato di averti baciato, sai,
quando
hanno sparato a Fury."
Elle
rimase pietrificata. Si ricordava i racconti dei tre, Steve Nat e
Samuel, che combattevano insieme contro l'Hydra e il suo leader,
Pierce.
Aveva
apprezzato quei racconti, ovviamente, ma in quel momento avrebbe
voluto solo scendere da quello sgabello e colpire entrambi gli uomini
davanti a lei con un paio di pugni ben assestati. E poi andare a
chiedere spiegazioni all'amica.
"Era
per sviare gli agenti dell'Hydra che ci stavano pedinando."
Steve guardò con astio Stark, che sogghignava sotto i
baffetti.
“Immagino lo sforzo mentale per riuscire a sopportare
quell'onere.”
Steve
sospirò esasperato, mentre Elle incrociava le braccia e
fissava
fuori dal vetro, in silenzio. “Abbiamo quasi finito. Poi,
dovrò
darti una mano a levarla. Giusto perché tu non faccia
saltare i
punti dell'imbastitura.”
Steve
si schiarì la voce. “Non può aiutarla
qualcun altro?”
“Tipo
tu?” Stark sogghignò, mettendo l'ultimo punto.
Elle scese, facendo
qualche passo avvolta da quella pelle scura. Si diresse verso la
stanza dove aveva lasciato i suoi vestiti, seguita da Stark. Steve
sospirò, appoggiandosi ad un tavolo da lavoro ingombro di
attrezzi.
Sarebbe stato un pomeriggio lungo.
Elle
uscì in canottiera e jeans, i capelli che le cadevano su una
spalla
e lo sguardo contratto dal nervosismo. Non si avvicinò
nemmeno,
lanciando il borsone a terra vicino alla porta ed estraendo il
cellulare dalla tasca posteriore.
“Selvig,
Selvig, Selvig... Torna domani, e lavoreremo a quello del quale
abbiamo parlato.” Esclamò Stark, mulinando le
sopracciglia. Elle
sbuffò, senza staccare gli occhi dallo schermo dell'iPhone.
“Magari
potremmo raccontarci cose interessanti. Un segreto in cambio di un
segreto, sai...”
Rogers
lo fulminò con lo sguardo, mentre Elle ricominciava a
battere sulla
tastiera senza degnarlo di un'occhiata.
"Nonostante
i miei poteri, del quale sei al corrente da forse un mese, non sono
abituata a farmi gli affari degli altri. Devo supporre che la tua
vita sia così monotona da dover parlare delle mie scarse
avventure
amorose?"
Steve
ridacchiò. “Colpito!” Stark
sogghignò.
"Beh,
se ti interessano veramente gli aneddoti della mia vita privata,
posso raccontartene giusto uno accaduto due notti fa quando io e
Pepper siamo riusciti a vederci dopo una sua riunione in Francia.
Sono volato fino al suo albergo e..."
"Stark,
ti prego!" borbottò Steve, allontanandosi con le braccia dal
tavolo da lavoro con espressione schifata. Stark guardò
eloquentemente Elle, che, anche se era ancora abbastanza furiosa, non
poté trattenersi dal ridacchiare.
Quando
salirono nell'auto, per tornare a casa, Elle si voltò verso
Steve,
che stava inserendo la cintura di sicurezza. Mise la prima,
guardandolo. “So che non ci conosciamo molto. E che non sono
sempre
stata una chiara, con te. Ma, per quanto riguarda Barnes, devi
fidarti di me.” La bionda scosse il capo, cercando di
comunicargli
con lo sguardo tutta la sicurezza che poteva. Rogers rimase a
fissarla per un secondo. Elle prese un ampio respiro. “Fidati
di
me. E' al sicuro.”
Steve
rimase immobile, mentre Elle non riusciva a sostenere il suo sguardo,
picchiettando nervosamente con le dita sul volante. Steve sorrise
appena.
“Ok.”
Elle
si voltò a guardarlo, torturandosi il labbro inferiore.
“Ok
cosa?”
“Ok,
mi fido di te.”
La
svedese sorrise appena, uscendo dal parcheggio e imboccando la strada
principale. Steve rimase appoggiato a guardare fuori dal finestrino,
sorridendo fra sé e sé.
~
Natasha
uscì dalla doccia in una nuvola di vapore, infilandosi un
accappatoio verde scuro e frizionandosi con decisione i capelli. Dopo
una giornata di allenamenti, era pronta a mettersi dei vestiti comodi
per scendere alla mensa, e passare la serata a letto a fare zapping.
Vide
una figura scura seduta sulla sua poltrona, nella penombra della
stanza, e quasi non sobbalzò prima di riconoscere il profilo
familiare di Steve.
"Rogers,
che ci fai nella mia stanza a quest'ora?"
"Stark
oggi ne ha combinata una delle sue.” Lei alzò gli
occhi al cielo,
mentre l'altro si appoggiava esasperato allo schienale della
poltrona. “Elle tornerà domani mattina da lui, e
non oso pensare a
cosa ha in mente."
Natasha
si sedette sul letto, mettendosi le mani sul viso. "Che ha
fatto? O peggio..." Osservò con attenzione l'espressione di
Rogers, dopo essersi chinata ad accendere la luce del comodino.
"Ha
detto ad Elle che io e te ci siamo baciati." Natasha emise un
sospiro esasperato. “Stark è sempre
Stark.”Gli posò una mano
sul ginocchio, incerta se mettersi a ridere o a piangere.
"Devi
cercarla e parlargli. Sarà a rimuginare chissà
dove.”Steve
ridacchiò. “Sul tetto, presumo. Anche se, vedendo
la sua
espressione, pensavo sarebbe corsa da te.”
“Magari
è andata da Maria?” Chiese la rossa, scostandosi i
capelli dal
viso. Steve negò. “Maria torna domani, aveva due
giorni di
permesso.”
Furono
distratti da alcuni colpi alla porta. “Nat! Mi hanno detto
che sei
in camera, posso entrare?”
Natasha
guardò Steve con un sorriso enigmatico, mentre si alzava per
andare
ad aprire all'amica. Le due avanzarono nella stanza, mentre Natasha
rifaceva il nodo dell'accappatoio, preparandosi velocemente un
discorso mentale. Elle si sedette sul letto, come se fosse la sua
stanza. Non sembrava arrabbiata, solo pensierosa.
"Sono
stata da Stark, oggi..." Cominciò la svedese, con tono
piatto.
Natasha
si girò, volendo invitare Steve nella conversazione. Ma
l'uomo era
sparito.
Scrutò
il pavimento, incredula, cercando nel contempo di non farsi notare
dall'amica. Un angolo dello scendiletto era piegato, vicino al suo
comodino. Natasha alzò gli occhi al cielo.
"Lo
so che Stark è una spina nel fianco..." Commentò
Elle,
interpretando il suo gesto. A Natasha veniva da ridere, ma si
trattenne con una smorfia. L'amica si sdraiò, appoggiandosi
con i
gomiti al materasso.
"Mi
ha raccontato delle cose..." Natasha sentì muoversi Rogers
sotto il letto e dondolò il piede per tirargli un calcio. Ma
poi,
come faceva Captain America a nascondersi in
così poco
spazio? Avrebbe voluto stendersi a terra per vedere quello spettacolo
di persona.
"Mi
ha detto che tu e Rogers... A dire il vero, non ho capito bene."
commentò Elle, voltando il busto verso di lei.
"Più o meno
quando spararono a Fury, non avevo più tua notizie...
Ricordo che
Maria mi parlò di una messinscena..."
"Perché
non hai semplicemente letto nella sua mente?" Natasha si
spostò
i capelli dietro l'orecchio, scrutandola. "Potevi vedere
direttamente dalla mente di Steve cosa era successo. Senza
arrovellarti per, quanto? Un'ora?" Guardò l'amica con un
sorriso divertito.
Elle
scosse la testa. "Non ho mai letto nella mente di Rogers e non
comincerò ora."
Natasha
poteva giurare di aver sentito il sollievo di Rogers pizzicarle i
piedi nudi. Si strinse meglio nell'accappatoio, pettinandosi i
capelli con le dita.
"Non
usi mai i tuoi poteri qui dentro?" Elle fece di no con la testa,
chiudendo gli occhi.
"Ogni
tanto vi cerco, ma non ascolto mai cosa state pensando... Di solito
di notte, quando mi sento sola... Per sapere se state bene."
Natasha
si sdraiò accanto all'amica. "Lo fai anche con Rogers?"
Elle
arrossì leggermente, rilassandosi nel tepore delle
confidenze.
"Soprattutto, con Rogers."
Natasha
sorrise dolcemente. “Sono così contenta per
te.” Elle si strinse
nelle spalle, voltandosi a guardare il soffitto.
“Chissà.”
"Allora
non c'è nulla che devo sapere su..." Chiese conferma la
svedese.
“Assolutamente
no!” Natasha alzò gli occhi al cielo.
“Non penso che ci possa
essere una persona meno adatta a me in quel senso di Rogers!”
Elle
le lanciò un'occhiata poco convinta, alzandosi. "Scusa, non
ti
eri nemmeno cambiata..."
"Come
se tu non mi avessi mai visto con o senza accappatoio!" Rise la
rossa. Elle annuì.
"Tipo
dopo Nuova Dehli..." Le due evidentemente si capirono,
perché
scoppiarono a ridere, guardandosi. Natasha la indicò con
entrambe
le braccia. "Eri a pezzi! Sei rimasta nella vasca da bagno per
tre ore, ho dovuto cambiarti l'acqua per scaldarti almeno sei volte!"
Elle la seguì nella risata, avviandosi verso la porta.
“Allora ci
vediamo dopo, Nat.”
Uscì
senza fare quasi nessun rumore. Nat crollò sul letto,
emettendo un
respiro strozzato.
"Steve,
puoi uscire." borbottò. "Abbiamo appena fregato una delle
menti più potenti dell'universo."
L'uomo
rotolò fuori dal suo nascondiglio, il viso arrossato per
l'imbarazzo. “Da quando tu ti nascondi sotto i
letti?” Chiese la
rossa, squadrandolo. Steve si strinse nelle spalle. “Se devo
essere
sincero, non lo so...”
Quella
sera, tutti videro Steve Rogers aggirarsi per la mensa comune con un
sorriso simile ad una paresi facciale. Era sempre stato un uomo
gentile, il tipico bravo ragazzo. Il nuovo secolo lo aveva un po'
inquinato, facendogli imparare modi più burberi. Ma quella
sera,
Steve sembrava essere tornato agli anni quaranta.
Ormai,
tutti al quartier generale avevano capito che polarizzare l'umore di
Captain America riusciva soltanto ad una persona, una ragazzetta di
ventisei anni dai capelli chiarissimi e dagli occhi quasi
fosforescenti.
Elle
Selvig però non si fece vedere, passando circa tre ore
chiusa
nell'ufficio di Maria con quest'ultima e Stark, cercando di sistemare
il modello per la sua armatura.
~
Erano
le tre del pomeriggio di una chiarissima giornata di Gennaio
inoltrato. Una luce abbagliante entrava dalla vetrata, mentre tutti
gli Avengers e Fury si trovavano nella grande sala al piano terra
dell'edificio, la palestra dove si allenavano.
Doveva
essere la presentazione di Elle, con armatura e tutto il resto, alla
squadra.
Rogers
stava avvolgendo le maniche della camicia blu scuro, sotto lo sguardo
sornione di Samuel, alla quale la conversazione origliata il giorno
prima era stata riferita con poche ore di ritardo. Steve aveva
passato quasi un'ora, chiuso in camera con Natasha, a discuterne ed a
chiederle consiglio.
Il
pensiero di Elle Selvig e Natasha Romanoff che fanno il bagno insieme
dopo una battaglia aveva perseguitato anche Samuel, che aveva
suggerito di correre subito da Fury per investire
in un paio
di vasche da bagno per le ragazze.
In
quel momento, Natasha e Wanda arrivarono insieme. Wanda si
accostò a
Visione, sussurrandogli qualcosa nell'orecchio. Samuel gli diede un
colpo leggero sulla spalla, mentre Natasha si avvicinava.
"Sono
quasi pronti... Stark ha fatto delle modifiche dell'ultimo
secondo..." Fury, a braccia conserte, attendeva in silenzio.
Rhodes si sfregò le mani, sorridendo a trentadue denti. Ogni
lavoro
del suo amico lo rendeva sempre entusiasta come un bambino.
Maria
entrò nella stanza, il volto impassibile, le labbra
leggermente
sollevate in un sorriso. Si mise fra Fury e Steve, annuendo
vigorosamente. "E' uno dei migliori lavori di Stark!"
Stark
entrò nella stanza, fermandosi sulla porta.
Guardò i presenti.
“Premessa:
sono sicuro che questo sarà uno dei miei lavori migliori. A
meno che
qualche creatura ultra dimensionale non venga a reclamare il
copyright."
Si
avvicinò alla porta, prendendo la mano di Elle, ed
accompagnandola
teatralmente verso il centro della sala.
Elle
guardò i presenti, imbarazzata da tutte quelle attenzioni.
Maria
l'aveva aiutata ad intrecciarsi i capelli, che già dalle
tempie si
dividevano in tante elaborate trecce per poi sciogliersi nella coda
di cavallo. Si grattò la testa, arrossendo un poco.
La
tuta progettata da Stark seguiva l'immagine di quella che le aveva
messo Vali durante la sua visita imprevista ad Alfheim. Era di pelle,
blu scura con inserti neri sul ventre, sull'esterno delle braccia e
sull'interno delle cosce. Aveva un pugnale fissato sopra al ginocchio
destro e due fondine sotto le ascelle munite di due pistole beretta,
come da abitudine per l'agente. Le maniche finivano sui polsi
sottili, e poi portava dei guanti neri che finivano a mezzo dito,
utili per chi impugnava molte armi, e che proteggevano le nocche. A
differenza della tuta di Natasha, quella di Elle aveva un leggero
colletto ed aveva la chiusura a zip sulla schiena. Sulla spalla
sinistra, il simbolo con la A degli Avengers era argentato. Portava
dei grossi anfibi neri, con un altro sottile pugnale infilato accanto
al collo del piede.
"La
cosa che preferisco, a parte la mia atletica modella-"
cominciò
Stark, avvicinandosi alla sua creazione sotto gli sguardi divertiti
dei presenti "-è questo." Alzò la mano di Elle,
la
destra, facendo vedere a tutti il palmo. Sottili linee argentate
scorrevano dai polsi, andando poi sotto alle nocche rinforzate dei
guanti. Sul dito indice , correva un grosso anello d'acciaio, simile
ad un'armatura e con la punta appuntita, ad artiglio. Stark le
lasciò
il braccio. "Elle, prego..." Indicò un grosso sasso, che
probabilmente avevano portato dentro apposta per quella
dimostrazione. Elle sorrise, indicandolo con il solo dito metallico,
. Un fiotto di luce blu colpì il sasso, che si
sgretolò in tanta
polvere grigia, vorticando in maniera simile ad una cometa. Elle
sorrise, ed un nuovo fiotto di luce lo colpì, facendolo
tornare un
un crepitio alla sua forma normale. Wanda fece un urlo, applaudendo.
Samuel la seguì con una risata, mentre Natasha diede una
spallata a
Steve, ridendo.
"Ci
sono altre mille trucchetti da circo, che la nostra amica sa fare."
commentò Stark "Ma questo è uno di quelli che
preferisco."
“E'
semplice manipolazione della materia: dopo qualche esperimento,
abbiamo capito che la mente di Elle può, tramite semplici
operazioni, modificare lo stato delle cose a suo piacimento. Un misto
di fisica, biologia e roba da alieni. Si trattava
solo di
riuscire a incanalare l'energia attraverso un punto di proiezione,
come ad esempio le dita. ”
Maria
si avvicinò ed estrasse una pistola. Steve fece per
obiettare, ma
Stark lo fermò con una mano sulla spalla, mettendosi vicino
a lui.
"Penso che sia in tuo onore, Capitano..."
Maria
puntò la pistola contro Elle, che le diede il fianco. La
bionda
annuì, mentre Maria premeva il grilletto.
Con
un ampio gesto della mano, una membrana rotonda si sviluppò
dalla
punta delle sue dita. Il proiettile penetrò nella superficie
lucente, rallentando dentro di essa e cadendo a terra. Partì
un
altro scroscio di applausi, mentre Steve sentiva i polmoni riprendere
a funzionare.
Tutti
si avvicinarono ad Elle, dandole pacche sulle spalle e toccando il
tessuto della tuta. Lei sorrideva a tutti i volti che incontrava,
mostrando il guanto a Wanda o parlando delle cuciture sulla schiena
con Samuel.
Fu
con piacere che Steve la vide cercare il suo sguardo fra quello degli
altri, un po' persa in mezzo a tutte quelle attenzioni. Fu solo
quando Rhodes percorse un un dito le cuciture sul fianco,
complimentandosi con Stark per la sutura della pelle scura, che Steve
decise di avvicinarsi. Fulminò l'amico, mettendosi di fronte
alla
ragazza. Natasha, che lo aveva notato parlando con l'amica, si
allontanò ghignando. Elle si girò di scatto, con
un sobbalzo.
"Stark..."
esclamò lui, guardandola negli occhi. L'uomo si
avvicinò,
appoggiandosi alla sua spalla. "Dimmi Capt."
"Hai
fatto un eccellente lavoro. Mi resta solo una domanda..." Elle
alzò il mento, guardandolo con un sogghigno. "Quale
sarà il
tuo nome in codice?"
Elle
si guardò le mani, un secondo. Tutti si zittirono.
“Nome in
codice? Non ci avevo pensato.”
Visione
si avvicinò alla ragazza. "Eclipse."
disse poi,
guardando Elle negli occhi. "Deve essere Eclipse."
Elle
capì subito cosa intendeva l'androide, ricordando la sua
conversazione con Vali.
"Il
giorno della tua nascita, ci fu' la più spettacolare e
terribile
eclissi della stella al centro del nostro universo, ed i pianeti
assunsero una particolare conformazione." Visione
puntò un
dito verso l'alto, ed Elle annuì sorridendo.
"Eclipse
sia." commentò Stark, dando una manata alla schiena a Steve.
"Ora però andiamo a toglierla, così possiamo
festeggiare.
Offro io."
~
Ovviamente
il locale proposto da Stark sarebbe stato fuori portata per tutti
loro. Era buio, claustrofobico e pieno di superfici riflettenti. La
musica era a dir poco assordante, i drink stranamente non mancavano
di alcool e tutti, dopo i primi due, si sentivano decisamente
più a
loro agio.
Seduti
ad un tavolo, su un mezzanino dal quale si poteva vedere la pista da
ballo, Samuel faceva girare la bottiglia di birra corona appena
finita sostenendo che avrebbe baciato chiunque fosse uscito. Quando
la bottiglia indicò un dubbioso Steve, seduto in mezzo fra
Stark e
Natasha, quasi si soffocò con la sua seconda birra.
Ritirò la
scommessa, facendo sghignazzare Rhodes e Stark. “Io ti avrei
baciato, Rogers.” Commentò Stark, appoggiandosi
alla sua spalla. Natasha alzò gli occhi al cielo.
Visione
aveva assunto la sua forma umana, e si guardava attorno curioso.
Anche Wanda era piuttosto sorpresa -non c'erano locali del genere, in
Sokovia. Per un secondo sorrise, toccandosi la collanina, e pensando
che sarebbe piaciuto a suo fratello.
Elle
si era tolta l'uniforme, infilandosi un semplice vestito verde giada,
i capelli ancora raccolti ed intrecciati. Maria ne prese una ciocca
fra le dita, sorridendo. "Come fate voi europee ad avere i
capelli così lunghi e morbidi!" indicò anche
Wanda, i cui
capelli erano quasi più lunghi di quelli della bionda.
Elle
si strinse nelle spalle, bevendo un sorso di Mojito. Wanda
passò
davanti all'amica con il busto, sussurrando qualcosa a Maria, che
rise.
"Nat!"
la chiamò Maria. La rossa si voltò. "Andiamo a
fare un giro in
pista? E' mesi che programmiamo un'uscita, ma non riusciamo mai a
combinare nulla." Wanda, dietro di lei, stirò le labbra in
un
sorriso quasi inquietante. Natasha si alzò, prendendo il suo
drink
rosa ed abbassando con l'altra mano la gonna del vestito scuro. Fece
un cenno di assenso con il capo, la cannuccia fra le labbra.
Wanda
si alzò, traballando leggermente, un po' per colpa
dell'alcool un
po' a causa dei tacchi degli stivali. Elle la seguì.
"Andiamo,
prima che non mi senta più i piedi." Borbottò,
capendo di non
avere voce in capitolo. Le quattro si allontanarono, prendendosi a
braccetto fra loro e ridendo come un normale gruppo di amiche. Samuel
e Steve le seguirono con lo sguardo, il primo ancora con la birra fra
le mani. "Invidio le ragazze. Sono così... vive."
commentò piano, portandosi la bottiglia alla bocca. Stark le
indicò
con un cenno del capo. "Io ho ancora energie, fra poco le
raggiungo." Rhodes scoppiò a ridere. "La festa non
prosegue senza Tony Stark!" Esclamò, tirando un pugno alla
spalla dell'amico.
"Piuttosto..."
Stark era decisamente ebbro, mentre si appoggiava di peso a Steve.
“Non
capisco come questo bell'uomo, con una rispettabilissima reputazione
ed un lavoro avventuroso, non sia ricoperto da ragazze
adoranti.”
Rogers
fece un'espressione esasperata, cercando aiuto nello sguardo di
Samuel.
"Andiamo
a ballare, Steve..." comprese l'amico, alzandosi. "E'
troppo tempo che non vengo in un club come questo per non sfogarmi un
po'..." Steve lo seguì di malavoglia, la birra in mano.
Stark
dietro di loro scoppiò a ridere. “Vai a caccia
anche per me,
Capiscle!”
"Stark
è andato." commentò Samuel, guardandolo. "E'
sempre
stato così?"
"Anche
peggio." commentò Steve, appoggiandosi alla parete. Samuel
ghignò.
"Si
stanno proprio divertendo..." commentò Samuel. Maria e
Natasha
ballavano ridendo, mentre Elle cercava di non perderle di vista.
Qualcuno evidentemente provò a sollevarle l'orlo della
gonna, ma fu
gettato in malo modo in mezzo alla folla. Wanda le sussurrò
qualcosa
nell'orecchio, a disagio, per poi retrocedere verso le scalette che
portavano al bar. Raggiunse i due uomini, sospirando. "Decisamente
non è posto per me. Vado da Visione..." Commentò
sorridendo.
Steve la guardò con una smorfia divertita. "Avete chiarito?"
Wanda
arrossì, annuendo. Gli diede le spalle e andò a
sedersi vicino
all'androide, che le circondò la vita con un braccio, dopo
un
secondo di esitazione. Steve e Samuel li guardavano, sorridendo come
due ebeti.
"C'è
troppo amore da queste parti..." Stark passo dietro a
Samuel, appoggiandosi al muro accanto a Rogers. "Dove sono
finiti i miei cuori solitari?"
Samuel
sghignazzò. "Conta pure su di me. Dopo il divorzio, ora
l'unica donna per me è Cynthia."
Stark
lo fissò un secondo. "L'amante?"
"La
figlia." commentò piccato Steve, mentre Samuel sghignazzava
ancora.
Il
vocalist del locale fece un appello a tutti, mentre il DJ cambiava
canzone. Stark si buttò nella mischia, raggiungendo Natasha
e
coinvolgendola in un ballo scatenato. Vicino a lei, Elle e Maria
scoppiarono a ridere. Maria teneva ancora in mano il bicchiere,
quando notò un gruppo di ragazzi che conosceva.. Si
avvicinò a
loro, sotto lo sguardo rassegnato di Elle, che le prese
istintivamente il bicchiere dalle mani. Non fece in tempo ad
appoggiarlo su uno dei cubi a lato della pista che Stark la prese da
un fianco, beandosi di ballare con ben due ragazze. Samuel rise.
"Stark
è esattamente come lo avevo immaginato."
commentò, appoggiando
la birra su un tavolino sospeso, appeso ad una colonna. Dietro di
questa, una coppia si baciava appassionatamente, e Steve
voltò lo
guardo imbarazzato. Rhodes si avvicinò agli amici, ballando
con Nat.
"Coraggio,
buttati!" Samuel lo guardò, ridendo, ed iniziò a
scendere
verso la pista con fare sicuro. Steve lo seguì di
malavoglia, le
orecchie che gli ronzavano per la troppa confusione. Tutti si
strusciavano in modo piuttosto imbarazzante: era piuttosto diverso
dai locali dove si ballava Blues nei suoi anni. Una donna si
appiccicò alla sua camicia, strofinandosi contro di lui
lasciva. La
scostò delicatamente, prendendola per le spalle ed ignorando
la sua
espressione sconvolta, proseguendo verso gli amici.
Elle
e Natasha avevano ripreso a ballare fra loro, ridendo e stando
vicine. Si vedeva che condividevano anni di conoscenza: ballavano in
modo piuttosto coordinato, e probabilmente non era la prima volta che
uscivano insieme.
Samuel,
vicino a lui, le fissava divertito. Natasha li guardò con un
sorriso
sornione, muovendosi sinuosamente. "Non pensavo di aver preso i
pantaloni di una taglia in meno..." Disse Samuel, tirando la
cintura con il pollice. Steve gli tirò una spallata,
rimproverandolo
con lo sguardo.
Le
due ridevano come delle ragazzine. Maria lasciò il gruppo di
conoscenti e tornò dalle amiche, prendendo le mani di Elle
ed
alzandole in alto. Natasha si mise in mezzo, ed iniziarono ad
oscillare, ridendo.
"Hanno
decisamente bevuto." commentò Steve, muovendosi pigramente a
ritmo. Stark si avviluppò alle ragazze, sghignazzando.
Rhodes
prese Elle per mano, facendola allontanare di un passo dalle amiche.
Lei lo seguì, lanciando uno sguardo eloquente a Wilson e
Steve.
Wilson sospirò.
"Certo
che Rhodey è testardo." Steve incrociò le
braccia.
Rhodes
fece per appoggiare le mani sui fianchi di Elle, che sorrise
imbarazzata. Steve pote' giurare di averla vista arrossire da quella
distanza. L'uomo la strinse a sé, mentre lei gli metteva le
braccia
sul petto e sussurrava qualcosa. Lui rise.
"Cosa
intendi?" borbottò Steve. Samuel ghignò. "Tutti
sanno che
Rhodes trova attraente Elle. Dicono anche che le abbia chiesto di
uscire."
Steve
li guardò un secondo, prima di fare due passi nella loro
direzione,
e picchiettare due colpi sulla spalla di Rhodes. Questo lo
guardò,
ridacchiando, e fece un passo indietro a braccia alzate. Elle si
morse il labbro, guardando in un'altra direzione mentre Steve le
passava un braccio intorno alla vita.
"Hai
bevuto troppo. Usciamo un attimo." Disse lui, strizzando gli
occhi. Elle annuì, senza guardarlo, e camminò
verso l'uscita. “Sei
già stata qui?” Chiese, cercando di sovrastare il
rumore del
locale. Elle scosse il capo. “Questi posti sono tutti
uguali.”
Steve
allungò un braccio, prendendole la mano per non perderla.
Rhodes
e Natasha si scambiarono un ghigno, da un lato all'altro della pista.
~
Elle
sospirò, strisciando seduta sulle scalette del club.
Steve
camminava avanti ed indietro davanti a lei, le braccia appoggiate sui
fianchi.
"Stai
per farmi una paternale?" Chiese lei, stirando le gambe pallide
e guardandosi la punta delle scarpe nere che Natasha l'aveva
costretta ad indossare.
"Cielo,
no." commentò lui, voltandosi un secondo a guardarla. Poi
riprese a camminare. Lei sbuffò.
"Ho
fame..." borbottò la donna. "E freddo."
Era
gennaio, e portava solo il sottile vestito verde giada, attillato e
con due sottili maniche traslucide. Si strinse nelle braccia.
Steve
la guardò un secondo, poi si sedette vicino a lei,
circondandole le
spalle con un braccio, cercando di non incontrare il suo sguardo per
non mostrarle quanto era imbarazzato. Elle trattenne il respiro. La
mano che lui aveva stretto le prudeva da morire, come se avesse
stretto un tizzone infuocato fra le mani. Ora anche tutte le spalle
avrebbero formicolato per ore. Ma ne valeva la pena. Lo
sentì
sospirare, mentre affondava nella sua stretta, benedicendo il tasso
alcolico che le circolava nel sangue e che la rendeva così
tranquilla. Steve sorrise contro la sua nuca. “Sei
più calma del
solito. Normalmente, mi avresti mandato al diavolo e saresti tornata
a prenderti la giacca.” Elle si strinse nelle spalle,
rabbrividendo
ancora.
"Tanto
domani succederà qualcosa, scoprirai qualche altro potere o
ti
racconteranno chissà cosa su di me, sentirai che la
tua fiducia è
stata tradita e mi mancherai per un altro mese, se non di
più..."
sussurrò lei. Steve si irrigidì, stringendola
leggermente di più.
“Meglio se mi godo il momento.” Concluse lei,
raggomitolandosi
ancora di più contro di lui, che per risposta le
baciò la testa,
sui capelli biondi.
"Forse
possiamo trovare un modo per evitarlo." esordì lui. "Siamo
adulti, possiamo parlarne."
"...l'ultima
volta non mi sembravi nelle condizioni. Pensavo avresti scannato me,
o Fury, o entrambi." Steve annuì sui suoi capelli,
sorridendo.
"E
tu sei scappata come una ladra..." Commentò piano. Lei
sospirò.
"Mi avevi abbattuta."
"E
guarda cosa ne è uscito...Eclipse..."
Commentò lui,
allontanandosi leggermente per guardarla in viso. Elle guardava la
parete fatiscente dell'edificio dall'altra parte del vicolo, come se
sopra vi fosse scritta in graffiti una verità universale.
L'uomo
sospirò.
"Tu
e Natasha... ballate spesso?" ridacchiò Steve, per spezzare
il
clima teso.
"Perché?"
Chiese Elle ghignando "Abbiamo urtato la tua sensibilità?"
Steve
si grattò il mento con la mano libera. "Diciamo che eravate
interessanti da osservare." Elle rise. "E' Nat,
è
lei quella disinibita."
"Anche
tu eri... piuttosto convincente."
"Io
sono abituata a picchiarli gli uomini, non a sedurli."
Commentò
spiccia lei, guardandosi imbarazzata i piedi. "Non è uno
spettacolo che si ripete spesso."
Lui
rise. "Per fortuna! Stavate facendo venire un infarto a metà
degli uomini in sala." Elle arrossì, mentre il silenzio
scendeva di nuovo.
"Ci
hai più ripensato?" chiese a bruciapelo lei.
"A quella notte che abbiamo dormito insieme." Lui
annuì.
"Non
dormivo così serenamente da anni." ammise lui. Lei sorrise
mesta.
"Puoi
venire a dormire da me quando vuoi, Capitano."
Disse
alzandosi, fingendosi sicura. Lui la guardò sorridendo.
Elle
pensò che voleva prenderlo, urlargli in faccia che non
capiva. Se
lui volesse essere suo amico, o se provava qualcosa, come lei lo
provava per lui. Se anche lui avrebbe voluto prenderla e baciarla
anche in quel momento, in quel vicolo disabitato. Ma nessun indizio
arrivò da Rogers, che rimase a fissarla con quella smorfia
sorridente. Gli avrebbe volentieri tirato un pugno per spaccargli
tutti quei bei denti bianchi. Invece sbuffò,
insofferente."Ho
voglia di biscotti.."
Lui
la guardava dal basso, ancora con le braccia aperte.
"Elle..."
"O
magari di ciambelle. Con glassa alla banana." proseguì lei
imperterrita, guardando verso la strada. Lui non pote' fare a meno di
sorridere: Elle stava con le braccia stese attorno al busto, con quel
vestito attillato e le scarpe alte, la coda di cavallo leggermente
sfatta e gli occhi stanchi. E comunque la trovava bellissima.
"Andiamo
a casa." Propose, alzandosi. “O da qualche altra parte.
C'è
freddo, e questo posto è troppo...”
“...Troppo
da Stark.” Concluse lei, annuendo. Lui le prese la mano,
facendole
un cenno verso l'ingresso. "Andiamo a prendere le giacche."
Lei la guardò, come se stesse soppesando la sua proposta.
Steve fece
un'espressione comicamente esasperata.
"E
tornando ci fermiamo da Dunkin'
Donuts
a prendere da mangiare." Subito Elle sorrise, senza riuscire a
trattenersi. La donna fece un saltello verso di lui, che
allungò una
mano. Lei la prese senza pensarci, facendo attenzione ai gradini.
Quando
Wanda e Visione li videro prendere le giacche e la borsa di Elle
dalle loro sedie, li guardarono interdetti.
"Per
fortuna sono venuto con la moto..." Commentò Steve,
asciutto.
"Visione, Wanda, noi andiamo alla base, ci vediamo domani.
Dì a
tutti che domani facciamo vacanza: è domenica. E ci
meritiamo un po'
di pace."
Wanda
probabilmente non aveva ascoltato nulla; il suo sguardo passava da
Steve all'amica, che la guardava da dietro il bavero del cappotto con
sguardo imbarazzato. La mora annuì lo stesso, voltandosi
verso
Visione che a sua volta sorrise a Rogers. "Sarà fatto,
Capitano."
Steve
si voltò, dirigendosi verso l'uscita. Allungò una
mano, in mezzo
alla confusione del locale, cercando con le dita quelle fredde e
sottili della ragazza.
Elle
si voltò appena, facendo in tempo a vedere Wanda mimarle un 'Ne
Parliamo Domani'. Strinse di più la mano
dell'uomo, che per
risposta si voltò a sorriderle.
~
Elle
si sedette sulla moto, usando una mano per tenere abbassata la gonna.
Steve sganciò dal manubrio un casco a scodella nero,
guardandolo un
attimo. Si voltò verso di lei, mettendoglielo sulla testa:
le stava
enorme, abbassandosi fino a coprirle gli occhi.
"Tu
usi il casco?" Commentò Elle, cercando di non scoppiare a
ridere. La sua espressione era talmente comica che, invece,
scoppiò
a ridere lui.
"Quando
non sono in missione, per non attirare l'attenzione. Andare in moto
senza casco è illegale." commentò lui. "E poi..."
proseguì salendo sul mezzo. "Quando mi capita di portare una
bella ragazza con me, devo avere un casco." Elle arrossì,
allacciandosi la cinghia sotto il mento con uno sbuffo.
"Ti
capita spesso di cadere?" Mugugnò sarcastica. "Nel caso,
potrei guidare io..."
Lui
scoppiò a ridere, prendendole le mani e mettendosele nelle
tasche
imbottite del giubbotto di pelle scura. Elle rimase – per
l'ennesima volta -stupita. Non le estrasse, le tasche erano calde e
morbide e lei era senza guanti. Mandò al diavolo la sua
coscienza,
che le ripeteva che senza alcool e adrenalina, il giorno dopo, si
sarebbe pentita di tutta quella disinibizione. Scivolò
avanti sul
sellino e si strinse forte alla vita dell'altro, appoggiando il mento
sulla sua spalla. "Dove andiamo?" Sentiva le mani nelle sue
tasche premere contro il ventre rigido. Si chiese se Steve stesse
tirando gli addominali per fare colpo su di lei o se fosse
involontario. Ridacchiò. Doveva aver bevuto un bel po'.
"Ti
porto a fare un giro; vivo a New York da molti più anni di
te, alla
fine."
Elle
rise ancora più forte. "Un centinaio, circa!" Steve
abbassò il capo, chiudendo la cavalletta della moto con un
sogghigno.
La
vicinanza di lei aveva una pessima influenza su di lui: da quando
Steve Rogers sogghignava, con tono vagamente
malefico?
"Ho
di sicuro più esperienza di tutti i ragazzi che puoi aver
avuto fin
ora..." La guardò con la coda dell'occhio, mettendo in moto.
Elle era basita: stava flirtando con lei? Steve Rogers?
Girò
il viso, sfiorandogli la mascella con il naso, vicino all'orecchio.
"Dici?"
L'uomo
ebbe un brivido, che lei avvertì chiaramente. "Dico." Mise
la prima marcia, accelerando leggermente. Arretrò con la
moto fino
alla strada. "Stanotte sei mia: nessuna Wanda o Natasha o Samuel
o mutazioni genetiche che ci possono interrompere." Elle rise.
All'improvviso non era più assonnata. Però aveva
ancora fame. "Sia.
Andiamo, Capitano." sussurrò nel suo
orecchio.
Natasha
li vide uscendo dal locale. Sorrise a Samuel, che si stringeva le
mani, commosso.
"Forse
è la volta buona che arriva un piccolo Captain
Svezia."
mugolò, gli occhi luccicanti, un misto di emozione e alcool
nella
voce. Natasha scoppiò a ridere, convulsamente, colpendolo
con un
pugno allo sterno.
"Direi
che è meglio se vi chiamo un taxi!" commentò
Stark poco
lontano, tornando dentro il locale.
~
Le
luci di natale illuminavano ancora le vie di Brooklyn quasi a giorno.
Nonostante l'ora tarda, le strade erano ancora affollate e Steve
aveva paura di perdere Elle fra la calca di gente che lo spintonava
in tutte le direzioni. Continuava a ripeterselo, nonostante sapesse
che era solo una scusa per non lasciarle la mano ghiacciata. Elle
aveva estratto dalla borsa una grossa sciarpa di lana, e con il
cappotto scuro di peltro sembrava del tutto a suo agio nonostante il
freddo pungente. Si guardava attorno, indicando qualsiasi cosa e
sorridendo. Non sembrava nemmeno la stessa persona che aveva visto al
quartier generale, allenarsi e combattere. Si girò
saltellando alla
vista di un furgoncino che vendeva bibite calde. Steve non pote' non
ridere a quella vista.
"Elle
Selvig, agente speciale e Avenger, che saltella per una cioccolata
calda!" Commentò tirandola verso di se. Estrasse il
cellulare
che gli aveva dato Stark, avviando la fotocamera. "Sorridi!"
Elle
alzò la sciarpa fino agli occhi. "Ho il naso rosso." Steve
la strinse a se'. "Non è vero."
"Faccio
questa foto solo se la fai con me." Contrattò lei. Lui
ridacchiò, avvicinando un passante.
"Potresti
farci una foto?"
Il
giovane, avvolto in una pesante felpa rossa, rimase momentaneamente
interdetto. Aprì e richiuse la bocca un paio di volte,
chiedendosi
dove avesse già visto quell'uomo. Elle notò il
disegno della
maschera di Iron Man sulla felpa e scoppiò a ridere. Il
ragazzo
accettò.
Steve
tornò verso Elle, passandole un braccio attorno al fianco.
Elle si
appoggiò a lui, che le abbassò delicatamente la
sciarpa con la mano
libera. Il ragazzo scattò mentre i due si guardavano, e li
osservò
imbarazzato. Steve si avvicinò leggermente ad Elle,
baciandole il
naso arrossato dal freddo.
"Adesso
il tuo naso è rosso." Commentò, allontanandosi
per prendere il
telefono. Il ragazzo lo guardo. "Tu sei Captain America?"
Chiese entusiasta. Steve ridacchiò, grattandosi la testa.
"Si,
ma non dirlo in giro." Si guardò attorno, leggermente
preoccupato. Il ragazzo fece un saltello. "No lo dico a nessuno,
ma possiamo fare una foto insieme?" chiese esultante. Steve
annuì, voltandosi per vedere la folla.
"Posso
chiedere alla tua ragazza di farcela?" chiese, estraendo
l'iPhone dalla tasca
frontale
della felpa. Steve arrossì fino alla punta dei capelli,
voltandosi
verso Elle con sguardo colpevole. Forse si aspettava di ricevere uno
schiaffo o qualcosa di peggio. Elle invece sorrise al ragazzo,
avvicinandosi. Prese il telefono e li inquadrò, facendo due
passi
indietro. "Steve, sorridi." Esclamò lei
con tono
divertito, guardandolo. Steve sorrise in camera, tenendo un braccio
sopra le spalle del ragazzo. Elle scattò un paio di volte,
sorridendo. Porse il telefono al ragazzo, facendogli segno di fare
silenzio, sorridendo con un dito sulle labbra. Lui guardò la
foto,
entusiasta, salutandoli. "Grazie, e complimenti, hai trovato
proprio una bella ragazza!" Commentò il giovane. "Spero di
trovarne una anche io un giorno!"
Steve
si voltò a guardare Elle, sorridendole. "Sicuramente."
I
due ripresero a camminare, imbarazzati. Elle aveva infilato le mani
nelle tasche del cappotto. "Allora, quella cioccolata?"
Steve indicò il furgone. Elle sorrise, dirigendosi in quella
direzione.
Il
furgone era dall'altro lato della strada da dove stavano arrivando,
in mezzo ad un incrocio a T che dava sulla strada principale. Tutta
la viabilità era stata bloccata, e scoprirono che tutto il
viale che
dava sull'Hudson era stato riempito da una infinita serie di
bancarelle. Brooklyn era diventata una zona alla moda di NY, si era
riempita di Hipsters alla quale piaceva produrre cianfrusaglie o
comprare oggetti vintage. Elle sorrise, guardando tutto quel via vai
di gente, alle due di notte, con le luci appese sulla strada che si
riflettevano nell'acqua del fiume. Si girò a guardarlo, gli
occhi
lucidi per tutta quella luce. "Tu lo sapevi?" Steve annuì.
"Lo fanno ogni sabato sera di Gennaio. E' il genere di
confusione che mi piace."
Si
avvicinarono al furgone. L'uomo si sporse per vedere anche Elle,
sorridendo ad entrambi. "Cosa posso offrirvi, signori?"
Steve ordinò un caffè lungo con il caramello.
Elle si alzò sulle
punte, nonostante i tacchi. "E per la graziosa signorina?"
"Una cioccolata calda con panna, grazie." Elle si
riabbassò, estraendo il portafoglio. Steve gli mise una mano
sopra,
facendo cenno di no con il capo.
"Faccio
io." Elle protestò "Non è gusto, mi
sentirò in debito."
"Dovremo tornare un'altra volta, così potrai sdebitarti."
Commentò lui, facendo una smorfia divertita. Elle lo
guardò,
annuendo piano. Si morse un labbro, voltandosi per lasciar passare i
ragazzi in fila dietro di loro. Steve afferrò i due
bicchieri da
asporto, seguendola.
"Allora
tu vieni da qui..." Commentò lei, sedendosi sul muretto che
costeggiava le sponde del fiume. Lui si appoggiò vicino a
lei,
passandole il bicchiere con la scritta H.C. a pennarello nero sul
lato. Lei lo prese fra le mani, stringendolo per scaldarle.
"Da
me, questa temperatura c'è a Ottobre." ridacchiò
lei.
"Da
quanto non torni in Svezia?" chiese lui, prendendo un sorso di
caffè bollente. "Anni. Ogni tanto Erik va a controllare la
vecchia casa... Ma io di solito non vado." Alzò lo sguardo
su
di lui, che guardava verso il vuoto. "Nemmeno io sono mai
tornato nella mia vecchia casa." Si strinse nelle spalle. "Non
vorrei mai andarci da solo."
Elle
annuì. "E' qui vicino?" Lui annuì. "Circa tre
isolati da qui."
“Abitavo
qui quando facevo la scuola d'arte." Elle quasi si soffocava con
la cioccolata calda. "Captain America faceva la
scuola
d'arte. Non mi abituerò mai." Steve la guardò.
"Non
Captain America. Steve Rogers." Elle capì
e si scusò
con un sorriso. "Non l'avrei mai detto,comunque."
"Ogni
tanto disegno ancora. Mi hai visto. Ma..." Le pizzicò il
caso
fra le dita, ridacchiando. "Non te li farò mai vedere. Non
dimentico che sei anche una psicologa..." Elle agitò le
braccia, implorandolo. Una goccia di cioccolata bollente le
macchiò
la mano, facendola imprecare.
"Ti
sei scottata?" chiese lui, smettendo di ridacchiare.
Appoggiò
il suo caffè sul muretto, prendendole la mano. Elle
sospirò. "Sarò
anche una super eroina, adesso, ma di certo sono la
super
eroina più goffa della storia della categoria." Steve
ridacchiò.
Le
prese la mano, sollevandola verso di lui. La guardò un
attimo, prima
di avvicinare le labbra e catturare la goccia di cioccolata colpevole
della scottatura con la lingua. Elle sgranò gli occhi.
Improvvisamente aveva un gran caldo. Rimase a fissarlo, mentre lui
sorrideva per la sua espressione sconvolta e le baciava la zona
scottata. L'uomo riprese il suo caffè con nonchalance.
"Andiamo
a fare una passeggiata?"
In
quel preciso momento, Elle dubitò di poter arrivare viva a
fine
serata. Si sarebbe sciolta sul pavimento, se lo sentiva.
~
Elle
si era diretta decisa verso una bancarella, dicendo che aveva visto
un oggetto che sarebbe piaciuto a River. Steve la guardò
allontanarsi, una figura sottile avvolta da un enorme cappotto nero.
Sorrise, estraendo il cellulare. Cercò la foto che avevano
scattato
prima, sentendosi un adolescente pieno di ferormoni. Lui e Elle erano
stretti in un abbraccio, e si guardavano da vicino, entrambi avvolti
in abiti invernali e sotto le luci di natale. Nella foto dopo, era
chinato a baciarle in naso. Elle aveva gli occhi chiusi, il volto
strizzato in una risata, mentre lui sorrideva con le labbra contro il
suo naso arrossato. Selezionò la foto, e la mandò
a Natasha. Il
messaggio che ricevette per risposta non aveva nessun senso, e
suppose che l'amica avesse proseguito la festa in via privata, alla
base. Sperò che non facessero troppo casino, ma in quel
momento gli
importava poco.
Alzò
lo sguardo, e vide Elle chiacchierare con una signora piuttosto
anziana, vestita in stile Hippie ed avvolta in una grossa sciarpa
colorata. Le due ridevano.
"Che
combini?" Chiese, avvicinandosi. Elle gli fece un sorriso a
trentadue denti.
"E
questo bel giovanotto chi è?" Domandò la signora,
guardandolo
dalla punta delle scarpe alla punta dei capelli. Elle rimase
immobile, guardandolo. "Lui è..." Socchiuse un secondo gli
occhi, mentre Steve la guardava ridacchiando. Non aveva mai visto
Elle così in difficoltà con le parole. "...Lui
è Steve."
Concluse, indicandolo. Steve la abbracciò da dietro,
lasciandosi
andare all'impulso del momento e stringendola a sé. "Salvata
in
calcio d'angolo..." Sussurrò al suo orecchio. Elle
ridacchiò.
"Ma è vero, tu sei Steve..."
La
signora della bancarella si era allontanata per seguire degli altri
clienti, rendendo inutile quello scambio di battute. Elle
indicò con
l'indice una scatola a carillon, foderata internamente di stoffa rosa
con una ballerina che ballava Il Valzer dei fiori di Tchaikovsky.
"Cercavo
qualcosa da regalare a River..." si strinse nelle spalle.
"Qualcosa per farmi perdonare." "Per cosa?"
chiese Steve, allungando una mano per toccare la scatola con le dita.
Il tessuto era liscio. Elle lo guardò sconsolata.
"Avevo
promesso di mollare i lavori pericolosi. Ed ora
entro nella
squadra di super eroi del pianeta..." Guardò in basso. "Le
avevo promesso che avrei smesso di fare la guerra
per poter
stare con lei." La Svedese sorrise fra sé e sé.
“E'
difficile mentire a quegli occhi.” Steve fece una smorfia
triste.
“Andiamo, voglio farti vedere una cosa.”
La
prese per mano, allontanandosi dalla folla. Elle si lasciò
guidare,
osservando la testa bionda di Rogers mentre la portava
chissà dove.
Steve
si fermò davanti ad un monumento, una di quelle sculture in
bronzo
che raffiguravano qualche personaggio famoso del passato. Fece sedere
Elle sul piedistallo della statua, sospirando. Si vedeva tutta la
Skyline della città, ed Elle sapeva che ogni luce era una
persona
che in quel momento stava lavorando, stava con i suoi cari o pensava
a qualcuno. Stavano vivendo.
Si
voltò verso di lei, prendendole le mani.
"Una
volta, qualcuno mi ha detto che fingevo di poter vivere senza la
guerra." La guardò negli occhi, serio. "Ho lottato con
quelle parole, nella mia mente, per mesi. Cercando di convincermi che
non fosse vero, anche se non avevo un vero motivo per cui
lottare.”
La guardò, riprendendo fiato e cercando di trovare le parole
giuste.
Elle attese, in silenzio.
“Finché,
un giorno, non ho visto una donna aprire la porta di casa con una
bambina in braccio." La donna sgranò gli occhi. "Ho
pensato a tutte le volte che sono andato a correre, e vedevo i
bambini giocare al parco. Se noi non avessimo combattuto, per
esempio, l'Hydra o peggio, i Chitauri, quanti di questi sarebbero
vivi? Quanti sarebbero orfani?" Le lasciò le braccia,
aprendole
e indicando tutto quello che avevano intorno con un ampio gesto.
"Quanto sarebbe rimasto di tutto questo?" Elle lo guardava,
le labbra socchiuse. Steve, avvolto nella giacca di pelle scura, con
una sciarpa blu e i jeans neri, si guardava attorno, a braccia
spalancate. Se qualcuno li avesse visti da fuori, avrebbe giurato che
stavano litigando. E non avrebbero potuto avere più torto.
"La
verità è che è vero, non posso vivere
senza guerra; finché ci
sarà un motivo per cui combattere, combatterò."
Indicò Elle.
“Vorrei
qualcosa di diverso per te, Dio solo sa se vorrei saperti sempre al
sicuro. Ma anche tu sei così: finché avrai una
River da proteggere,
o finché ci sarà un Rumlow in circolazione,
pronto a ferire o ad
uccidere persone innocenti, tu avrai sempre le mani sporche di
sangue. Ed io probabilmente avevo bisogno di qualcuno come te, che mi
mostrasse ogni giorno perché vale la pena combattere." Si
piegò
sulle ginocchia davanti a lei, prendendole le mani. "Tu vuoi
solo che il mondo sia un posto al migliore, che sia al sicuro."
Si portò le mani della ragazza al viso, baciandole entrambe.
"Non
ti piace la violenza: sei solo in grado di sopportarla." Elle si
portò la sua mano al viso. Steve sorrise, rialzandosi.
Rimasero in silenzio diverso tempo, appoggiati al marmo freddo della
base della statua, ognuno digerendo le proprie rivelazioni. Steve
spezzò il silenzio, facendole un buffetto sulla testa. "Sono
le
tre e mezza. Forse dovremmo tornare a casa."
"Alla
base, vorrai dire." Esclamò Elle, alzandosi con calma. Si
stirò
le braccia, aprendole. "Casa." Replicò lui. Lei sorrise,
alzando le mani in segno di resa. "Casa."
Lui
fece un passo verso la strada, mentre Elle lo guardava di sottecchi.
Allungò la mano a stringere la sua, afferrandola con la
punta delle
dita, stupendosi come sempre di quanto le mani dell'altro fossero
calde, e grandi in confronto alle sue.
Steve
si girò a guardarla, calmo, aspettando che lei parlasse.
Elle
tirò verso di sé la mano, e l'uomo attaccato a
quella mano. Non era
abbastanza forte da poter veramente pensare di riuscire a trascinare
un uomo della forza di Steve Rogers di peso. Sicuramente aveva
accompagnato il suo movimento. Si era arreso a lei, a qualsiasi
decisione lei avrebbe preso. Si era scoperto per primo, e tanto
bastava ad Elle per sapere cosa fare. Quando lui fu' di fronte a lei,
Elle si alzò sulle punte per guardarlo in viso.
"Sono
contenta che tu sia rimasto congelato per settant'anni.”
Steve
ridacchio, mentre Elle cercava di guardarlo in viso, fingendo
un'espressione seria. “E sono contenta che tu ti sia messo al
comando di un'organizzazione non governativa che adesso rischia di
diventare governativa." Lui la guardava negli occhi, l'aria
densa di aspettativa e di un accogliente silenzio.
La
svedese gli mise le braccia al collo, sorridendo timidamente. Steve
le passò le braccia attorno alla vita, sorridendo. "E con
questo?"
Elle
si avvicinò, piano, toccando le sue labbra con le proprie.
Respirò
un secondo, sentendone la morbidezza e, soprattutto, il calore. Lei
era fredda come il ghiaccio, le dita che gli sfioravano il collo e
che gli provocavano dei brividi simili a quando una goccia di pioggia
passa attraverso il collo di una maglietta durante un temporale
primaverile. Lui invece era caldo e morbido, come il primo morso di
una torta familiare ma che resta sempre la preferita.
Steve
la strinse piano contro di sé, nascondendo malamente la
sorpresa.
Elle gli sorrise contro le labbra, allontanandosi un poco ed
appoggiando i talloni a terra.
“E'
la prima volta in tutta la mia vita che devo alzarmi sulle punte per
riuscire a baciare un ragazzo.” Commentò,
imbarazzata.
Steve
la guardò un secondo, le pupille dilatate e le labbra
schiuse.
Teneva ancora la sua mano fra le proprie, e la tirò verso di
sé istintivamente, ripiegandosi a reclamare un altro
contatto. Elle si
strinse a lui, schiudendo le labbra, sentendo il sapore del
caffè
amaro che aveva appena bevuto e l'odore del lisciante che avevano
usato per stirare la sua camicia. Gli mordicchiò leggermente
il
labbro inferiore, mentre lui sorrideva sereno. Elle si
lasciò
avvolgere dalla sua stretta, sparendo un secondo fra le sue braccia.
Lui
nascose il viso nell'incavo del suo collo, ancora leggermente
stordito. "Sei minuscola."
"Spero
ti sia venuta la gobba." Replicò pigramente lei, nascondendo
il
viso contro la pelle morbida della sua giacca. Lui
ridacchiò, le
braccia che si stringevano ancora di più attorno alle spalle
della
donna. Si guardò un attimo attorno, stupendosi di come le
cose
avessero improvvisamente cambiato colore.
"Mi
verrà presto, temo..." Sussurrò, abbassando lo
sguardo. Elle
lo fissava, il viso parzialmente nascosto dietro la pesante sciarpa,
gli occhi azzurri che scintillavano di euforia. Non riuscì a
trattenersi, e cercò di nuovo le sue labbra, dolcemente.
xXx
Eccoci con i commenti finali!
Sappiate che per
questo capitolo mi aspetto messaggi, recensioni, piccioni viaggiatori e
quant'altro. Ci sono degli approfondimenti nel rapporto fra Nat ed
Elle, ci sono comparsate di Samuel, finalmente inizia a vedersi Sharon
- Notare bene la tempistica di questa povera donna - e soprattutto ci
sono gli Stelle!
Voglio sentirvi
fremere come ragazzine per questa overdose di fluff, oppure voglio
sentire gli insulti se trovate i personaggi OOC, voglio sapere
qualsiasi cosa, anche solo un "Bella, sto seguendo!" o un "Fai schifo!"
E' ben accetto. Io vi ho scritto un papiro di capitolo, ricambiate con
anche poche righe per farmi capire come vi sembra. Sono qui per
imparare, e voi siete i miei professori, il mio pubblico, il mio
target!
Ringrazio come
sempre Delta - mi dispiace, ancora niente Svedese ;) - e Giulietta
Beccaccina - mi dispiace, ancora niente Jimmy :P - per la pazienza e
per il tempo che mi dedicano. Spero di trovarvi numerosissimi il 20 Gennaio!
Eh si, purtroppo per impegni lavorativi non potrò pubblicare
fino ad allora, quindi avete tempo per darmi qualche consiglio o spunto
o farmi qualche domanda. Come possono testimoniare le mie dolci
pulzelle, non mangio nessuno, anzi, sono fin troppo logorroica!
;)
Una buona
Epifania a tutti,
Eve
|
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Capitolo 20 *** 19. Stasi ***
Ciao a tutti! E' Eve che vi
parla.
Parto innanzi tutto scusandomi per il ritardo di ieri. Purtroppo,
eventi su consegne su cose si sono sommate ed eccomi qui. Ma, prima di
desiderare la mia morte, guardate in basso ed ammirate il nuovo banner,
direttamente da Electricsoul, su Tumblr Rise-doe! Ovazioni a questa
dolce pulzella, che ha sopportato la rottura di scatole che
è avere a che fare con la sottoscritta.
Questo è un capitolo di passaggio, dopo i mille eventi dello
scorso capitolo. Pochi personaggi, situazioni tranquille... E ci
rivediamo alla fine!
Buona lettura!
Atto Diciannovesimo: Stasi
"It's
a sin that somehow,
Light is changing to
shadow
And casting
it's shroud
Over all we have known.
Unaware how the ranks
have
grown
Driven on by a heart of
stone
We could find that we're
all alone
In the dream of the
proud."
PINK
FLOYD
[...E'
un peccato che in qualche modo, la luce si tramuti in ombra, e getti
il suo velo su tutto quanto sappiamo. Inconsapevoli del crescere
dei ranghi, guidati da un cuore di pietra. Potremmo scoprirci ben
soli, in un sogno d'orgoglio.]
On
the Turning Away – Pink Floyd
Gennaio
2016
Si
rigirò pigramente fra le coperte, sentendo un rumore
fastidioso e
martellante che interrompeva il silenzio pacifico che regnava nella
stanza. La testa le doleva leggermente, ma nulla di ingestibile.
Passò una mano sulla fronte, che pulsava a causa del circolo
sanguigno velocizzato dall'alcool assunto la sera prima, dal
conseguente restringimento dei vasi sanguigni. Qualcosa di caldo
sotto di sé si mosse, e istintivamente la donna si strinse
meglio a
quel cuscino umano.
“Pronto?”
Rispose con voce roca Rogers. Lei sbuffò, mentre lui
scivolava
contro la testata del letto, appoggiando il mento alla sua nuca. Lei
sentì la voce di Fury provenire dall'altro capo del
telefono, e
voltò il viso contro il petto di lui, sospirando.
Steve
assentì un paio di volte, chiudendo la comunicazione.
Appoggiò il
telefono sul comodino, cercando di non muoverla troppo, un braccio
che le cingeva le spalle sottili. Elle si stiracchiò appena,
affondando il viso ancora di più contro di lui. Steve
sorrise. “Sei
sveglia?”
Lei
alzò appena il viso, sorridendo con gli occhi impastati dal
sonno.
Si mise una mano davanti alla bocca, sbadigliando sonoramente.
“Che
ore sono?”
Steve
allungò di nuovo il braccio verso il telefono, e lo
inclinò verso
di lei, senza commentare. Elle strizzò gli occhi,
percorrendo un
paio di volte con lo sguardo la distanza fra il viso di lui ed il
telefono. “Le sei e mezza?!”
Chiese, esasperata. Gli cinse
la vita con le braccia, nascondendo di nuovo il viso contro l'altro.
Lui la strinse per le spalle, ridacchiando contro i suoi capelli.
“Elle, devo andare.”
La
svedese alzò appena il viso da sotto le coperte, gli occhi
aperti in
un'espressione dispiaciuta. “Ma sono le sei e mezza!”
Pigolò. Lui scoppiò definitivamente a ridere,
scuotendo anche lei
che gli era appoggiata contro.
“Dovrei
svegliarti più spesso al mattino presto.”
Commentò, guardandola
un attimo, completamente aggrappata a lui, avvolta in una sua
maglietta. Elle sbuffò, alzando lo sguardo con espressione
arcigna.
“Provaci, e scoprirai cos'è il dolore.”
Scoppiarono
di nuovo a ridere, entrambi. Elle lasciò la presa, mentre
lui
scivolava fuori dal letto e si dirigeva verso il bagno, grattandosi
la nuca. La donna rimase un secondo a guardare il profilo della
schiena nuda, che terminava sopra ai pantaloni della tuta grigi con
due adorabili fossette. Si strinse meglio nel lenzuolo,
rabbrividendo. Lo vide chiudere con un ghigno la porta del bagno
dietro di sé, e alzò gli occhi al cielo.
“Tranquillo, Capitano
Rogers, non attenterò alle sue virtù.”
Disse con il suo
normale tono di voce, sapendo che lui sarebbe riuscito a sentirla
senza problemi anche attraverso la parete. Infatti, appena prima che
si aprisse il getto della doccia, l'uomo scoppiò a ridere.
Si
alzò a sedere lentamente, gli occhi ancora pieni di sonno,
ma giurò
che non si sarebbe riaddormentata prima che lui fosse uscito. Aveva
una gigantesca maglietta blu scura, di una qualche squadra di qualche
sport americano non ben definito. Osservò sorridendo la
stanza,
cercando di non ridere. I vestiti di Rogers erano ben piegati, e
riposti sopra al cassettone perfettamente impilati.
Elle
invece si era cambiata mentre già il sonno stava prendendo
possesso
del suo corpo, ed i vestiti della sera prima erano stati lanciati in
malo modo sulla poltrona.
Lo
sentì uscire dalla doccia, e dopo pochi secondi
aprì la porta, un
asciugamano legato in vita e lo spazzolino da denti in mano. Il suo
sguardo andò subito verso il letto, come per controllare che
non
fosse scappata nei cinque minuti in cui era rimasto sotto il getto
della doccia. Elle sorrise, indicando i vestiti della sera prima con
il mento. “Se non dovesse andare con gli Avengers, hai un
futuro
come commessa.”
Steve
scosse le spalle, lanciandole uno sguardo a metà fra
l'esasperato ed
il divertito. Elle notò in quel momento il suo vestiario, o
meglio,
quello che mancava, ed arrossì, scostando lo
sguardo di lato,
fuori dalla finestra. Steve trattenne appena una risata.
“Ti
metto in imbarazzo?” Disse, tornando in bagno a sciacquarsi
la
bocca dal dentifricio. Elle scosse le spalle, appena lo vide
riapparire con il busto fuori dalla porta. Steve si avviò
verso il
cassettone, perfettamente a suo agio, ed iniziò ad impilare
un
cambio pulito di vestiti. La svedese sospirò, sdraiandosi di
nuovo e
coprendosi il viso con il lenzuolo. “Mi sembrava di aver
letto nel
tuo curriculum che hai fatto parecchie missioni con battaglioni di
soli uomini.” La prese in giro lui, tornando in bagno. Elle
arrossì
ancora di più, ringraziando di essere nascosta dal lenzuolo
candido.
“Spero che tu sappia che non è la stessa
cosa.” Borbottò,
una mano tesa a tenere il lenzuolo alzato e l'altra sul viso. Si
grattò il naso, sbadigliando ancora. Avevano dormito forse
due ore.
Faticava a tenere gli occhi aperti.
Steve
uscì dal bagno, la canottiera ancora in mano, e
scoppiò a ridere
vedendo Elle ancora nascosta in quella tenda improvvisata. Si sporse
sul letto, appoggiandosi con un ginocchio ed appoggiando vicino il
fagotto di vestiti. Scostò leggermente il lenzuolo,
scoprendole il
viso. “Lo so, non è la stessa cosa.”
Commentò piano. Si
abbassò, stampandole un leggero bacio sulle labbra.
“Ora devo
andare.” Elle annuì appena, stirando le braccia
verso l'alto e
sorridendogli. “Buona giornata, Capitano.”
L'uomo si
infilò la canotta, voltandosi per prendere una camicia
pulita
dall'armadio. Si voltò, chiudendosi i polsini, e sorrise.
Elle
era già crollata in un sonno profondo, raggomitolata contro
il suo
cuscino, con i capelli stesi intorno al capo e le labbra schiuse in
una smorfia comica. Nessuna ruga di preoccupazione sulla fronte
candida, le sopracciglia ben distese in un'espressione serena. Steve
si voltò, cercando qualcosa nell'armadio. Pochi secondi
dopo, le
distese sopra una seconda coperta, sistemandola meglio sopra alla
prima ed al lenzuolo, che coprivano la giovane. Le accarezzò
la
testa, lasciandogli un altro bacio sui capelli profumati. Rimase un
paio di secondi a guardarla, ancora diviso fra l'euforia e
l'incredulità. Poi il cellulare ricominciò la sua
fastidiosa
litania, e Steve uscì dalla porta in fretta, fermandosi solo
per
afferrare la giacca.
~
La
sera precedente...
"Perché
stiamo entrando come se fossimo delle spie? Non mi sembra ci sia un
vero e proprio coprifuoco."
Elle
si guardò attorno, l'espressione di una persona vicina
all'addormentarsi, ma che deve rimanere vigile, le sopracciglia
aggrottate sopra agli occhi chiari che scrutavano lungo l'ingresso
della base.
"E'
per Natasha?" Chiese ancora Steve. La ragazza annuì appena,
sospirando. "Sono le quattro e mezza..." Commentò lui,
sereno, seguendo Elle nella direzione delle scale. Fece un cenno
rassicurante all'uomo della reception, che li guardò passare
con
attenzione, lo sguardo che li seguiva, un lampo di preoccupazione
negli occhi. Rispose al Capitano con un gesto impacciato, mentre
questi svoltavano l'angolo.
Elle
camminava rasente al muro, le spalle dritte e il labbro inferiore
tormentato dai denti. "Perché non usi la telepatia e la
cerchi?" Chiese Steve, sbuffando divertito. Elle lo fulminò.
"Così è più divertente." Si strinse
nelle spalle. "Se
siamo fortunati non è tornata a casa da sola." Steve
sgranò
gli occhi. "Natasha?"
"Non
è che perché Banner se ne è andato,
lei deve mantenere il
nubilato." Sbottò la bionda, stringendosi nelle spalle.
Il
ragionamento era giusto. Steve annuì appena, mentre Elle
allungava
la testa, spiando il corridoio deserto. Steve fece lo stesso, poco
sopra di lei.
"Visto?
Non c'è nessuno." Commentò, appoggiandole una
mano sulla
schiena. Sembrava che si fossero sempre toccati, che fossero sempre
stati così intimi. Elle lo
guardò dal basso, sorridendo.
Avanzarono
per il corridoio, illuminati dalle luci al neon. Elle si tolse le
scarpe alte, tenendole per le cinghie fra le dita sottili.
Allungò
l'altra mano, cercando la sua.
"Cosa
farai domani?" chiese lui, mentre si avvicinavano alla sua
stanza. Elle avrebbe dovuto proseguire fino al settore degli
ingegneri, dove si era fatta spostare dopo il loro litigio, diversi
mesi prima.
"Pensavo
di andare da River, visto che ci hai dato la giornata libera..."
La
donna si interruppe, mordendosi il labbro, l'espressione concentrata.
Avrebbe voluto chiedergli se voleva venire con lei, ma forse sarebbe
stato inappropriato: era difficile capire a che tipo di relazioni
Rogers era avvezzo, dopo la fine degli anni 50.
Lui
annuì lentamente, voltando di scatto il capo verso il
corridoio,
prima ancora che Elle potesse percepire lo stesso rumore che sentiva
lui. Samuel uscì sghignazzando dalla camera di Natasha,
avviandosi a
passo strascicato verso la sua porta.
"Te
l'ho detto che non dormivano ancora!" Sibilò Elle,
schiacciando
Steve contro il muro, all'angolo fra i due corridoi. Aspettarono che
Samuel entrasse nella sua stanza, al terzo tentativo di passare il
badge, bofonchiando tra sé e sé. Steve rise.
"Perché
ti agiti tanto?" Chiese, ancora ridendo davanti alla porta
finalmente chiusa dell'amico. Si piegò verso la ragazza, che
guardava verso il corridoio, respirando a pieni polmoni, le labbra
schiuse e l'espressione ancora concentrata. Le prese il mento e
voltò
il viso verso di lui.
"Ellie."
La chiamò, sorridendo. Elle si rilassò un
secondo. "Scusa, è
che..." Si strinse nelle spalle, le mani nelle tasche del
cappotto. "Non ho mai letto il regolamento, in
realtà.” Steve
la guardò, senza capire.
“Non
voglio essere espulsa da Fury." Spiegò lei, abbassando lo
sguardo sui piedi scalzi, l'espressione imbarazzata. Per l'ennesima
volta, Steve scoppiò a ridere.
"Se
ti avessi messo nei guai, non saremmo qui. Te lo giuro. Gli Avengers
non hanno un regolamento interno, a parte lo statuto di
segretezza.”
Elle
alzò appena il capo, ancora poco convinta, il bavero del
cappotto
che le copriva il viso quasi fino al mento.
“Non
ti metterei mai nei guai con Fury. E ti conosco abbastanza da sapere
che non è quello, il problema.” La ragazza
alzò gli occhi al
cielo, divertita. Sollevò entrambe le mani in un gesto di
resa,
scarpe comprese, la schiena appoggiata al muro.
“Ho
aspettato un momento dove tu fossi da sola per settimane. Sola, e
possibilmente non troppo depressa o arrabbiata."
Elle
si avvicinò leggermente a lui, con un sorriso sorpreso.
"Aspettavi
che io fossi sola?"
"Volevo
vedere se avevi il coraggio di trattarmi come uno zerbino anche in
quel caso, lo ammetto."
"Io
non ti trattavo come se-" Steve la tirò verso di lui,
abbassandosi a baciarla con trasporto. Elle gli morse un labbro, in
risposta a tutta quell'irruenza. Lui emise un sospiro strozzato, come
a intendere che se lo aspettava.
La
Svedese si allontanò, ridacchiando, mentre l'altro la
seguiva,
restando piegato contro la donna, il respiro corto e l'aria carica di
cose non dette. Era una situazione da pazzi: erano le quattro di
notte, metà Avengers erano ubriachi, l'altra metà
innamorati. Elle
lo seguì in silenzio fino alla porta della sua camera, e si
appoggiò
al muro con il fianco, i capelli ancora legati e le orecchie coperte
della sciarpa.
Lui
aprì la porta con la sua tessera, rimuginando per un
secondo, per
poi voltarsi a guardarla. "Arrivato...” Commentò
piano,
senza abbassare lo sguardo.
Elle
si alzò sulle punte e lo baciò di nuovo. "Non si
sa mai, con
te. Magari domani mattina ti svegli e fai finta di non conoscermi..."
Steve alzò gli occhi al cielo, mentre lei faceva un passo
indietro,
danzando leggera sulle punte dei piedi. "Non succederà."
La
ragazza si voltò, la borsetta che sbatteva sul fianco, e
fece per
incamminarsi nella direzione opposta, sorridendo fra sé e
sé. Steve
sospirò, appoggiato allo stipite con la schiena,
osservandola mentre
si allontanava barcollando, un po' per il freddo ed un po' per la
stanchezza.
“Elle!”
La richiamò dopo un secondo, maledicendosi. La giovane si
voltò
lentamente, la testa inclinata sulla spalla. “Dimmi,
Steve.”
Lui
si guardò attorno, imbarazzato. Si rimise dritto, le mani
che
sprofondavano nelle tasche della giacca marrone. “Potresti
restare,
ecco.”
La
ragazza lo guardò, corrucciando le sopracciglia.
“Potrei restare?”
Chiese, sorpresa. Steve annuì, impacciato.
“Potresti fermarti qui,
con me. Oppure...”
Fece
un paio di passi nella sua direzione, chiudendosi la porta della
stanza buia alle spalle. “...Ti accompagno alla tua
stanza.”
La
Svedese sorrise appena, guardando un punto imprecisato dietro di lui.
Riportò lo sguardo sull'uomo. “Non capisco se
è un'idea
fuoriuscita della tua cortesia anni quaranta o se
vorresti che
stessi con te ma non riesci a chiedermelo direttamente.”
“Non
è una proposta indecente.” Commentò
subito lui, mettendo le mani
avanti. “E' solo che...”
“Va
bene, Steve. Mi fermo a dormire da te.” Esclamò
Elle, guardandosi
timidamente intorno. Steve sorrise appena, piegando leggermente il
capo di lato, leggermente a disagio. “Non sei
costretta.”
“Lo
so.” Esclamò lei, voltandosi e tornando indietro
lungo il
corridoio. Lui ripassò il Badge nella porta, aprendola con
un gesto
teatrale. Elle mise la testa nella stanza, guardandosi attorno.
"Posso?" Chiese sussurrando. Lui annuì, accendendo la luce
con un gesto secco.
Elle
entrò lentamente, guardandosi attorno con
curiosità. "Non sono
come te: non troverai armi sotto al letto o cose del genere."
Commentò lui, schernendola.
Lo
scudo di Vibranio brillava, appoggiato sul copriletto. Elle
sospirò
divertita. “Non sai quanto si può capire dalle
persone, guardando
le loro stanze.” Steve entrò, chiudendosi dietro
la porta. “Mi
sono già pentito di averti fatta entrare.”
"Sai,
Rogers..." Elle sfiorò lo scudo con le dita. "Quando ti ho
conosciuto, pensavo che tu fossi solo un bambolotto pompato al
servizio di Fury o di chi per lui." L'uomo sospirò,
avvicinandosi ed aiutandola a levarsi il cappotto, appendendolo
all'attaccapanni. L'attenzione di Elle tornò allo scudo, al
quale
girò intorno, osservandolo da diverse angolazioni.
"Lo
pensano in molti, Elle." commentò lui, levandosi la giacca.
"Grazie per la schiettezza, in ogni caso."
Elle
si strinse nelle spalle. "So che lo pensano in molti.
Però..."
Si piegò sulle ginocchia, passando le dita sulla superficie
gelida
del vibranio, sorridendo fra sé e sé. "Sono
contenta di
essermi sbagliata." Sussurrò, un sospiro appena udibile.
Steve
rimase a guardarla, le braccia conserte e lo sguardo sereno,
appoggiandosi allo stipite della porta del bagno, iniziando a
sbottonare i polsini della camicia.
"Se
tu avessi letto nella mia mente avresti risparmiato quattro mesi."
"Tanto
poi te la sei presa lo stesso..." Commentò lei, lanciandogli
un'occhiata divertita. Lui sorrise, alzando le mani in segno di resa.
"Vero.
Ho sbagliato. Mi dispiace."
Elle
si rialzò, lisciando il vestito verde con le mani, le scarpe
già
abbandonate a terra vicino alla poltrona. Lui fece un passo verso di
lei, rimuginando.
"Ci
ho pensato molto... e tu avevi detto più volte di dovermi
parlare."
Alzò le mani, facendole vedere i palmi. "Sono stato
avventato.
Ero troppo abituato a dovermi proteggere, per credere che tu non
avresti sfruttato un vantaggio del genere." Elle sorrise
timidamente, guardandolo. “Ne abbiamo già parlato:
il fatto che
una persona sia in grado di fare qualcosa, non vuol dire che lo
faccia per forza.”
Steve
annuì, abbassando lo sguardo. “Pace
fatta?” Elle si allungò
appena, stringendogli la mano. “Pace fatta.”
Rimasero
un secondo a guardarsi, ognuno perso per i suoi pensieri ed allo
stesso tempo uniti in quel confortevole imbarazzo di quando, per la
prima volta, ci si trova scoperti di fronte a qualcuno. Quel senso di
essere inermi, vulnerabili, ed allo stesso tempo invincibili ed
esaltati. Una specie di febbre di vita.
Elle
si piegò in un lampo, afferrando lo scudo e passandoselo
attraverso
le cinghie sul braccio. Si avvicinò all'uomo, tenendolo
davanti a sé
per coprirsi il fianco.
"E'
pesante." Sussurrò sorpresa. Lui si mise dietro di lei,
sistemandole meglio lo scudo, come se davanti ci fosse un ipotetico
nemico.
"E'
fatto per me." Sorrise appena, guardando come il suo braccio si
stancava. Passò una mano sotto lo scudo, dandole una mano a
reggerlo.
Elle
si allontanò di un passo, la schiena rigida a causa del
respiro
dell'altro sul collo, e sollevò lo scudo fino al petto.
"Sono
il paladino americano, esempio di perfezione, virilità e
correttezza!" Esclamò, cercando di fare la voce grossa, una
scintilla di divertimento che attraversava gli occhi
chiari."Nonostante la tutina attillata come una muta."
Steve la guardò male, dandole le spalle. Sfilò il
telefono dalla
giacca, e lo appoggiò su uno dei comodini, vicino alle
chiavi della
moto. Elle sbuffò divertita, rimettendo a posto lo scudo e
guardandosi attorno. “Non smetterai mai di prendermi in giro,
vero?”
“Dovrei?”
Chiese, divertita, iniziando a sbrogliare l'acconciatura, davanti
allo specchio della cassettiera. Lui si voltò appena,
guardandola
attraverso il riflesso. “No, non farlo mai.”
Commentò solo,
lasciandosi cadere sul letto a peso morto. Elle si sedette accanto a
lui. "E' esattamente come me la aspettavo." Indicò la
stanza. "Pulita, sobria, un po' anonima."
"Passo
poco tempo, qui." Commentò l'altro, guardando il soffitto,
le
mani appoggiate accanto ai fianchi. "Ero troppo impegnato a
pedinarti per venire a cena con te per arredare la stanza."
Elle
scoppiò a ridere fragorosamente. "Mi chiedevo come mai tu
aspettassi sempre le nove per cenare!" Lui si coprì il volto
con una mano, sospirando rassegnato. "In realtà, andavo a
cenare anche prima, con gli altri Avengers. Poi ti aspettavo!"
Elle rise ancora di più, buttandosi di schiena sul letto,
tenendosi
la pancia per i crampi.
“Sono
proprio un caso disperato...” Commentò lui, il
viso nascosto sotto
la mano, le guance leggermente imporporate. Elle, sdraiata al
contrario, gli fece un buffetto sulla mano libera. “Sei una
delle
persone più gentili che io abbia mai conosciuto,
Steve.” Lui tolse
la mano dal viso, voltandosi a guardarla. “Davvero?”
Elle
annuì. “E' proprio questo che non sopportavo di
te.” Commentò,
scherzando.
Un
grosso sbadiglio la colse nel mezzo del sorriso, facendo di rimando
ridacchiare lui. “Dovremmo andare a dormire...”
La
Svedese vide qualcosa che luccicava sul comodino, mentre lui ancora
la guardava. Si allungò, mentre Steve si alzava per andare a
sciacquarsi il viso in bagno. Quando rientrò nella stanza,
la
bionda teneva fra le mani un orologio a cipolla, dorato. Stava
osservando la foto della bella donna dalle labbra scarlatte
all'interno della piccola cassa, dall'altro lato del quadrante, il
vetro leggermente scheggiato.
"Ehi..."
Steve si intristì, uscendo il canotta e con un asciugamano
per il
viso fra le mani. Si sedette vicino ad Elle, osservando l'oggetto.
Lei notò la sua reazione, guardandola curiosa. "E' tua
madre?"
chiese piano, temendo di urtare un tasto sensibile.
Steve
scoppiò a ridere, immaginando l'espressione che avrebbe
fatto Peggy
davanti a quella ragazza sconvolgente. Rise per diversi minuti,
mentre Elle lo guardava confusa.
"Elle,
lei è Peggy Carter." Elle lo guardò, interdetta.
Una scintilla
di comprensione le illuminò gli occhi azzurri. “La
tua
Peggy Carter? Parente di Sharon Carter?” Concluse Elle,
accarezzando la foto.
"Se
fossi rimasto nel mio secolo, probabilmente ci saremmo sposati. E
avremmo avuto dei bambini, penso." Elle aprì e chiuse le
labbra un paio di volte, interdetta dalla sua osservazione. Si morse
il labbro, non sapendo cosa dire.
"Poi
è successo quello che è successo..." Concluse
lui. "Ed io
sono qui, e lei sta morendo di vecchiaia.” Le prese le mani,
piccole e pallide, fra le proprie, chiudendo l'orologio fra esse.
“Devi capire che, da quel ghiacciaio non è uscita
la stessa
persona che ci è finita dentro.”
"Mi
dispiace, Steve. Non volevo offenderti. Io..." Elle lo
guardò
sconsolata, e per un secondo il Capitano temette che volesse
andarsene. Invece, la Svedese strizzò gli occhi in
un'espressione
dispiaciuta.
"Noi
non studiamo la storia dello S.H.I.E.L.D., in Svezia. Sappiamo a
malapena chi sono gli Howling Commandos! Ovviamente so cosa ha fatto
Carter per lo SHIELD, e poi ho conosciuto Sharon, ma non avevo idea
di che aspetto avesse Peggy! Mi aspettavo una specie di Margaret
Thatcher americana, non una Pin-Up dalle labbra carnose! "
Lui
scoppiò a ridere, appoggiando l'orologio sul comodino ed
abbracciandola di slancio, mentre Elle era ancora interdetta, temendo
di averlo offeso.
“Tu
la amavi, e io ti ho chiesto se era tua madre.”
Borbottò
imbarazzata, nascondendo il viso contro la sua clavicola. Steve
rideva ancora, un braccio che la stringeva a sé. "Te l'ho
detto, Elle, sei l'unica che non mi tratta come se io fossi il
presidente." Lei rimase appoggiata a lui, un po' meno
imbarazzata, chiudendo gli occhi in un sospiro.
Si
allontanò leggermente da lui, iniziando a districare le
piccole
trecce che le partivano dalle tempie, i capelli morbidamente
appoggiati sulla spalla destra. Lei indicò il vestito con un
cenno
del mento. "Puoi imprestarmi qualcosa?"
Entrambi
si alzarono, raggiungendo l'armadio di Rogers. La prima cosa che Elle
vide fu una camicia a quadretti marroni. "E questa da dove
esce?" sbottò, ridacchiando. Steve la guardò
male. "Invece
che frugare in giro, trovati una maglietta ed andiamo a dormire."
Elle afferrò una maglietta a caso, ed andò in
bagno per
rinfrescarsi.
Steve
si sdraiò a letto, sospirando. Era stata una lunga giornata,
ed
iniziava a sentire anche lui la morsa del sonno. Più che
fisicamente, era stanco emotivamente. Gli sembrava di aver vissuto
cinquant'anni in un paio d'ore.
Non
fece in tempo a prendere un profondo sospiro, che Elle
piombò nella
stanza in intimo, la maglietta di lui ancora tra le mani.
"Steve!"
Chiese, mentre lui si voltava. Il viso gli diventò paonazzo,
mentre
rischiava la una sincope istantanea. Elle portava solo un bustier con
il ferretto, di pizzo bianco, e delle culottes dello stesso colore, i
capelli arruffati e sciolti, lasciati liberi di muoversi attorno al
viso struccato.
"Posso
usare il tuo spazzolino?" Biascicò, stropicciandosi gli
occhi
con la mano libera.
Era
talmente esausta da non fare caso a quando fosse indecente, mezza
nuda al centro della sua stanza. Steve assentì, ringraziando
gli
occhi pesanti della ragazza, che altrimenti lo avrebbe visto
diventare bordeaux. Prese un ampio respiro, aspettando che Elle
uscisse e lo raggiungesse. Sarebbe stata una lunga notte.
Si
sentiva inquieto, a saperla così vicina a lui e
così scoperta.
Sentiva caldo al basso ventre solo a ricordare come era uscita dal
bagno pochi minuti prima. Era una sensazione strana.
Elle
ciabattò fuori, lanciando qualcosa -che Steve
immaginò essere il
reggipetto – sulla sua poltrona. Si infilò sotto
le coperte,
mentre lui spegneva la luce. Lei si raggomitolò sul suo
petto,
avvolgendo le gambe attorno alla sua coscia destra, e non fece in
tempo a dire ancora qualche sciocchezza prima di addormentarsi come
un sasso. Steve le baciò la fronte, sentendola respirare
profondamente. Si addormentò poco dopo, tenendola stretta
fra le sue
braccia.
~
Quando
Elle aprì gli occhi, ci mise due secondi scarsi a ricordare
tutto quello che era successo nelle precedenti dodici ore.
Il giorno prima era stato pieno di novità. Era un vero
Avengers,
ora. Era una persona con uno scopo. Era nel letto di Steve Rogers.
Si
alzò di scatto dal materasso, trovandolo vuoto. Ovviamente.
Avvolta
dalle coperte ancora calde, si stiracchiò leggermente,
notando che
sopra di lei era stata adagiata un'altra coperta scura. Sulla
poltrona accanto al letto, ripiegati in maniera ordinata, vi erano il
suo vestito, i collant e – arrossì- il suo
reggiseno. Le scarpe
che le aveva imprestato Nat erano di fianco. Stette ancora qualche
minuto nel tepore delle coperte, respirando l'odore familiare delle
lenzuola dove avevano dormito.
Infine,
scivolò fuori dal letto, infilandosi i pantaloni della tuta
di
Steve. Fece quattro risvolti in fondo, per non rischiare di
inciampare. Afferrò i suoi vestiti e la giacca e si
avvicinò alla
porta, pronta a fuggire senza dare nell'occhio.
Stava
per aprirla, quando qualcosa di colorato appoggiato sul cassettone
attirò la sua attenzione. Appoggiò tutto
l'involto a terra e tornò
indietro, attratta dall'incarto familiare.
Vi
era appoggiato sopra un sacchetto ed un piccolo cartone con due
caffè
da asporto. Uno era stato finito, e stava appoggiato lì
accanto.
L'altro era ormai freddo, ma Elle lo bevve avidamente comunque.
Vicino al caffè, un sacchetto di Dunkin'
Donuts .
Lo prese fra le dita, tremando come se quell'innocuo sacchetto
potesse contenere una bomba.
Dentro,invece,
c'erano soltanto due ciambelle glassate alla banana. Sorrise,
incredula.
Si
erano scontrati per quattro mesi – ma ne era valsa la pena.
~
Quella
mattina si era svegliato troppo presto.
Era
rimasto sotto le coperte finché aveva potuto, godendosi Elle
che si
stringeva a lui cercando calore. Ma, alle otto, era già a
Manhattan
con Fury.
Gli
era stato spiegato solo che dovevano andare a discutere con un
politico, un senatore di quelli che avevano partecipato ai meeting
alla base Avengers, e che aveva proposto un disegno di legge che
impedisse ai mutanti di fare uso dei loro poteri in tutti gli U.S.A..
Fury era furibondo, mentre Steve voleva prima capire meglio cosa
intendesse questo Abrham J.Jones.
Entrando
nell'imponente studio, aveva visto un ometto con pochi, radi capelli
tinti di scuro, un completo costoso e lo sguardo spaventato. Li aveva
guardati entrare, le due guardie del corpo ben vicine, e aveva fatto
loro cenno di accomodarsi nel lato più distante da lui del
costoso
tavolo in legno, ben lucidato e spoglio.
Jones
li fissò per qualche altro secondo, sudando freddo, lo
sguardo che
passava da Fury a Steve. Deglutì.
"E'
inutile che mi faccia vedere il suo soldatino, Fury. Queste persone,
questi Inumani, sono fuori dal suo controllo. Basti pensare a quanto
successo a Lagos, e prima ancora in Sokovia." Jones estrasse
delle foto, lanciandole in malo modo sul tavolo: un uomo in un lago
di sangue, tre persone che estraevano un uomo urlante da una lamiera,
dei passanti inorriditi.
Fu
lì che lo vide di nuovo, dopo quasi una settimana dalla
riunione che
si era conclusa in uno scontro Selvig contro Selvig.
Bucky,
i capelli lunghi e la barba sfatta, guardava terrorizzato verso di
loro, con il braccio bionico coperto dalla felpa. La sua felpa.
Il viso era parzialmente coperto dal cappuccio, ma avrebbe
riconosciuto l'amico anche se avesse portato una maschera -cosa che
in effetti era successa. Steve indicò la foto, guardando
l'uomo.
"Quando è stata scattata questa? Da chi?"
Jones
lo guardò con occhi sgranati. "Non so chi le ha scattate!
Non è
questo il punto!" Steve batté il pugno sul tavolo. "Io
devo trovare quest'uomo."
Fury
lo ammonì con lo sguardo, mentre Jones sbraitava. "E'
proprio
questo il punto, Capitano. Non mi importa quale sia
la sua
missione, la consideri interrotta. Non lavora più per gli
Stati
Uniti." Lo indicò con un dito puntato verso il suo petto.
"Farò
emanare questa legge, fosse l'ultima cosa che faccio!" Fury
sospirò allontanandosi dal tavolo, le braccia tese davanti a
sé.
"Se
invece proponessimo qualcosa in tutela delle persone non mutanti?"
Stark
entrò nella stanza, perfettamente a suo agio in completo
scuro.
Steve alzò gli occhi al cielo: era la terza volta che lo
vedeva in
tre giorni, ed aveva già superato la sua dose settimanale di
Stark.
"Tipo
uno schedario." Propose l'ometto, voltandosi verso il nuovo
arrivato.
"Non
siamo dei criminali da schedare." Commentò Rogers. Stark lo
guardò di sottecchi. "Pensavo più ad
un...registro, ecco. Come
per il porto d'armi."
"Sarebbe
come schedare le persone per il colore della loro pelle: è
sbagliato. Le persone nascono mutanti, ed è loro diritto
mantenersi
nell'anonimato"
Fury
appoggiò i gomiti sul tavolo, me mani giunte davanti al
viso. “Però
potrebbe calmare la situazione.”
"E'
incostituzionale!" Sbottò Steve, assottigliando gli occhi.
Non
capiva a che gioco stava giocando Tony.
"Non
toglieremo diritti a chi ha caratteristiche inumane..." Jones
sembrava persuaso dall'idea di Stark. "Semplicemente, renderemmo
loro più difficile non rispondere dei loro crimini."
"E
più facile rintracciarle per gli scopi del governo." Steve
era
furibondo. Stark gli lanciò un'occhiata da dietro Jones. "Dobbiamo
raggiungere un compromesso."
"Abbiamo
qualche idea. Prendiamoci il nostro tempo per fare la scelta
più
saggia." Commentò Fury alzandosi, seguito da Jones. Steve li
guardò un secondo, incredulo.
"Non
so quanto sappiate di storia, ma non è mai stata la scelta
più
saggia, ghettizzare una parte della popolazione."
Jones
si strinse nelle spalle, sistemandosi i capelli con una mano. "E'
mio dovere occuparmi della popolazione umana." Lo
guardò
un secondo, senza incontrare il suo sguardo. "Gli Avengers vanno
sciolti."
~
Natasha
non tornò del tutto cosciente fino al secondo
caffè della giornata.
Elle
era entrata in un McDrive per la disperazione, afferrando il
bicchiere di cartone e mettendoglielo fra le mani.
"Nat..
Su..." Le diede una piccola scossa, e la rossa si voltò a
guardarla, gli occhi serrati e l'espressione intontita. "Che
è
successo?" borbottò. Elle la guardò, esasperata.
"Ieri
sera. Siamo usciti. Hai bevuto. Sei crollata a dormire vestita. Sono
venuta a recuperarti alle dieci, per andare da River. Abbiamo la
giornata libera, parola di Rogers."
Natasha
scrollò il capo, ridestandosi improvvisamente. "Rogers. Sei
andata via con Rogers stanotte!"
Elle
emise un sospiro rassegnato, tornando a guardare la trafficata Forest
Queens tipica della domenica mattina. Le due rimasero in silenzio,
mentre la svedese svoltava per la via di casa della signora West,
parcheggiando lungo il marciapiede affiancato da case tutte simili,
basse e vecchie. Il tetto era in tegole scure, e le pareti rosso
mattone erano ritoccate in più punti con una verniciata
frettolosa.
Lo steccato alto che recintava il cortile sul retro stava reggendo
alla prova del tempo, e gli scalini del porticato cigolavano in modo
sinistro, ma per Elle quella era casa. L'unica che si era potuta
permettere, ma anche l'unica che aveva mai desiderato. Estrasse una
cassetta degli attrezzi dal baule, sorridendo mentre Natasha
percorreva il vialetto ed andava alla porta, suonando il campanello.
River
corse ad abbracciare la rossa, attaccandosi alle due gambe. Nat la
sollevò, portandola all'altezza del suo viso. "Come sta la
mia
principessa?" La bimba le sorrise come solo i bambini sanno
fare, le orecchie piegate sotto i pesanti ricci scuri. Dietro di lei,
la signora West le guardava, un canovaccio fra le mani probabilmente
sporche di farina, il grembiule pieno di impronte di piccole mani.
Le
quattro donne pranzarono insieme, chiacchierando amabilmente come una
normale famiglia ad un pranzo domenicale. Fuori faceva un gran
freddo, e alcune tegole del tetto stavano marcendo, seppur avvolte
nel ghiaccio invernale.
Elle
si era infilata una salopette di jeans, aveva indossato una grossa
felpa rossa con la zip aperta e recuperato i guanti da lavoro che
usava per tutte le riparazioni di casa. Natasha aveva riso,
ovviamente, paragonandola a Clint.
Elle
non poteva sopportare che ci fosse qualcosa di fuori posto nella casa
che aveva creato per la bambina e per la anziana, amabile signora.
Ogni tubo, ogni infisso, ogni verniciatura era stata fatta da lei, e
non permetteva a nessuno di intromettersi fra lei e i lavori da fare.
Anche se sosteneva che fosse per non spendere soldi che potevano
andare nel conto per l'educazione di River, Natasha sospettava che
molta di questa voglia di riparare e ricostruire fosse parte del
carattere stesso dell'amica. Elle non sopportava i lavori fatti male,
e si sentiva sempre in dovere di riparare tutto ciò sulle
quali le
era possibile mettere le mani, per quanto disperata quell'impresa
fosse. Era questo che la Russa temeva, quando aveva sentito l'amica
difendere Barnes. Ma, quella domenica, la voglia di riparazioni di
Elle si era limitata a farla salire sul tetto, issandosi dalla
piccola balconata del primo piano e facendosi passare la scatola
degli attrezzi e le assi di ricambio.
Nat
era poi tornata al piano terra, iniziando a lavare i piatti ed a
pulire il ripiano della cucina, canticchiando sottovoce canzoni di
quando era più spensierata, se mai lo era stata. La signora
West era
già in poltrona, e dormiva saporitamente. River stava
giocando sul
tappeto con la sua bambola. Era la sua domenica perfetta, l'aria
statica tipica delle situazioni familiari. Elle sapeva che non si
sarebbe mai stancata di tutta quella normalità, condensata
in un
solo giorno, poche ore di quiete prima della ripresa della tempesta.
~
Quando
si fermò sotto casa della signora West, tremava ancora di
indignazione.
Avrebbero
sciolto gli Avengers. Senza sapere i pericoli in cui l'essere umano
si era cacciato negli ultimi cinque anni. Senza contare tutte le vite
umane salvate. E non era comunque la cosa peggiore.
Lui
sarebbe stato lasciato libero? Gli uomini e le donne della sua
squadra?
Immaginò
il momento in cui Elle e Wanda sarebbero state prese. Le avrebbero
considerate pericolose? E Visione?
Lanciò
il casco a terra, reprimendo un ruggito, i pugni stretti . Quella
situazione doveva essere risolta, o avrebbero dovuto darsi tutti alla
macchia. Sparire.
Avrebbero
più avuto una vita normale?
Era
ancora in sella alla sua moto, dietro al SUV nero che usavano per gli
spostamenti ordinari, quando vide un lampo azzurro provenire dal
tetto. Sganciò il borsone dal retro della moto,
appoggiandolo a
terra. Vide un altro lampo.
Aggrottò
la fronte, avvicinandosi al porticato di legno consunto. Non si era
reso conto, quella sera che erano venuti a prendere Elle, di quanto
la casa fosse vecchia, la copertura rosso mattone che stava cedendo
in più punti. Diede un colpetto alla colonna, e vide un
sottile filo
di polvere scendere dal soffitto.
Dentro
sentiva la televisione che andava, probabilmente viste le voci
grottesche si trattava di un cartone animato. Fece un passo
sull'ultimo scalino, sentendo ancora rumori provenienti dal tetto.
Si
aggrappò con un salto alla balconata e si sollevò
con le mani,
issandosi contro la ringhiera che scricchiolò in modo
inquietante.
Steve la scavalcò in fretta, sperando che non cadesse nel
vuoto. Era
veramente mal messa, con il legno dei paletti pieno di buchi da
tarlo, ma niente muffe. Qualcuno lo aveva regolarmente passato con la
carta vetrata, per evitare il sedimentarsi dello sporco. Elle.
Si
aggrappò al tetto, e con una spinta di lato
riuscì a salire sulle
lastre di laminato scuro che coprivano il tessuto isolante.
~
Elle
prese un profondo respiro, continuando a scrostare alcune tavole con
della carta vetrata per constatare il danno. Sapeva che ci sarebbe
stato troppo freddo per chiunque altro, su quel tetto esposto al
vento sferzante di gennaio, ma doveva riflettere, e quelle tegole
andavano comunque sistemate.
Avrebbe
dovuto chiedere consiglio a Clint, per molte cose che andavano
rappezzate nella sua casa. Trovava le case americane erano troppo
poco solide e fatte di troppi materiali diversi, e doveva ancora
imparare a fare in modo adatto manutenzione. Ciò non le
impediva di
dedicare lo stesso una parte del suo giorno libero alla battaglia
contro il tetto di casa sua.
“Us
and Them...” Intonò
sommessamente, incurante dei rumori della strada. Prese la prima asse
nuova, un chiodo infilato dietro l'orecchio e l'alto fra le dita
sottili. Alzò il martello, calandolo verso il basso.
“...And
after all we're only ordinary men.”
Prese
il secondo chiodo, avvicinandolo all'altro lato dell'asse scura. “Me,
and you...”
Colpì
anche il secondo chiodo, continuando a cantilenare sommessamente i
Pink Floyd. “God
only knows
it's not what we would choose to do...”
Elle
si portò i capelli dietro l'orecchio, sbuffando. “Forward
he cried from the rear...”
Si
alzò in piedi, i palmi rivolti verso le vecchie assi. Chiuse
gli
occhi, che avevano assunto una tinta più accesa. “...and
the front rank died....”
Un getto di luce azzurra colpì le assi, che cominciarono a
germogliare fra loro, saldandosi in modo innaturale. “And
the General sat, as the lines on the map... moved from side to
side...”
"Non
dovresti usare i tuoi poteri allo scoperto. Non con così
tanta
leggerezza."
Elle
si voltò di scatto, le braccia già in posizione
di difesa. "Volevo
solo usare un metodo meno convenzionale per rattoppare la casa."
Commentò, cercando di nascondere il sollievo. L'altro le
sorrise,
grattandosi la nuca con una mano. "Perchè saresti salito sul
mio tetto, comunque?"
Steve
scrollò le spalle. "Ero qui vicino, ho pensato di fare un
salto."
La
svedese alzò appena lo sguardo, chinandosi di nuovo sul
lavoro che
stava facendo, in
mezzo ad una serie di strumenti da lavoro di vario tipo, con la mano
puntata contro una lastra di legno. "Farò finta di
crederci."
Commentò appena, abbassando lo sguardo.
Aveva
un buffo berretto di lana rosso, e una salopette da idraulico. Non
riuscì a non scoppiare
a ridere.
"Ridi,
ridi, Rogers!" gli puntò contro un martello. "Quando avrai
una casa, verrò di notte a schiodarti le lastre del tetto."
Lui
rise ancora più forte, mentre Elle, le gote gonfie per
l'irritazione, si voltava verso l'asse che stava saldando. Puntò
contro la mano destra, il guanto di Stark stranamente presente, e un
lampo di luce azzurra colpì l'asse. Questa
iniziò a
germogliare, legandosi alle assi sottostanti. Steve emise un fischio
ammirato.
"Spero
che non verrai a sabotarmi casa. Io mi limito ad usare chiodi e
martello." Elle si strinse nelle spalle, sorridendo leggermente.
"Si fa quel che si può, Rogers."
“E'
tua abitudine cantare durante i lavori di falegnameria?”
Lei
si voltò a guardarlo un secondo, mentre lui si voltava a
valutare lo
stato del resto del tetto e la via sottostante. Ebbe un lampo della
sera precedente, i loro abbracci ed i loro baci. Arrossì,
ritornando
a concentrarsi sul lavoro.
"Questa
vecchia casa è messa male." Commentò ancora
Steve, tirando un
piccolo calcio ad una lastra. Questa scricchiolò. Elle
annuì. "E'
quello che posso permettermi, purtroppo. L'altra scelta era mandarle
a vivere in Svezia, a casa dei miei." Fece un cenno con la
testa. "Non mi sembrava giusto portare via River da quello che
conosce. Non da sola."
L'altro
annuì, inginocchiandosi vicino a lei ed infilando le mani
sotto una
vecchia asse.
“Ti
farai male, senza guanti.” Commentò lei
pigramente, guardandolo
con sufficienza. Quando lui mosse l'asse, con uno scricchioli, lo
fissò un secondo, interdetta. Sorrise fra sé e
sé. Steve tirò
l'asse verso di sé, e questa si staccò,
apparentemente senza il
minimo sforzo. “Okay, ti concedo di aiutarmi con i lavori sul
tetto.”
Esclamò,
fissando il sorriso intenerito che l'altro stava facendo, agitandole
la vecchia asse sotto il naso con fare supponente.
"Certo,
certo. Anche se... sarebbe meglio che tu ti mettessi
già degli
abiti civili: come spiegherò ai vicini che Captain
America mi
sta aiutando a rappezzare il tetto?"
"Non
mi noterebbero nemmeno, se tu non illuminassi di blu mezzo isolato."
Ribatté lui, ridendo. Elle si strinse nelle spalle. "Prima
finisco, prima posso scendere da River. Cosa mi importa, cosa
penseranno i vicini dei miei poteri?"
Steve
ripensò alla riunione, solo un'ora prima, e agitò
il capo. "Dovremo
parlare anche di questo." Elle annuì, poco convinta.
"Allora..."
lui prese l'asse nuova, sistemandola al posto di quella vecchia. Elle
si avvicinò, con la scatola dei chiodi in mano. Ne
posizionò uno ad
un angolo, tenendolo fermo fra le dita. Allontanò la mano,
ed il
chiodo rimase in equilibrio. Steve si voltò a guardarla,
un'espressione eloquente. Elle, con gli occhi azzurri che brillavano,
gli fece una linguaccia divertita. “Potrei quasi abituarmi a
questo
goffo equilibrio...” Sussurrò, guardando l'altro
che, stretto
nella sua giacca marrone, alzava il suo martello con un sorriso.
Lo
calò con un unico gesto sulla testa del chiodo. L'asse si
sgretolò,
mentre il chiodo sprofondava nel tetto e cadeva al piano di sotto.
I
chiodi caddero dalle mani di Elle, mentre questa fissava l'asse
ridotta il trucioli, sconvolta.
Steve
mollò il martello come se scottasse, imprecando mentalmente.
Elle
scoppiò a ridere.
"Per
fortuna il quartier generale è in calcestruzzo..."
~
Natasha
si era addormentata in poltrona, con River seduta sulle ginocchia ed
appoggiata con il viso al suo busto, un ciuffo di capelli vermigli
stretti fra le piccole dita. La signora West probabilmente si era
ritirata nella sua stanza, come faceva quasi tutti i giorni dalle due
alle quattro e mezza del pomeriggio. Elle entrò di
soppiatto,
facendo cenno a Steve di seguirla. Indicò una porta, in
fondo al
corridoio. "Puoi cambiarti lì."
Steve
annuì, sparendo nel bagnetto di servizio. Elle
strisciò fino al
salotto, facendo un buffetto sul braccio a Nat. Questa si
svegliò,
aprendo leggermente gli occhi. "Che ore sono?"
"C'è
qui Rogers." Nat la guardò sconvolta. "Cosa?"
"Hai
capito." Elle andò verso la piccola cucina, divisa dal
soggiorno solo per un bancone da colazione, dipinto di verde acqua
proprio dalle due donne circa un anno prima. Nat si alzò,
appoggiando la bambina sulla poltrona marrone a coste. River teneva
il pollice sinistro fra le labbra, i ricci leonini che circondavano
il volto sereno. Emise un piccolo sbuffo, accoccolandosi meglio
contro la poltrona.
"Non
mi hai raccontato di ieri sera, come posso sapere perché
è qui?"
Elle estrasse dei bicchieri, risciacquandoli meglio. "Ci siamo
baciati." esclamò, allungando il collo per vedere che
l'oggetto
dei loro discorsi fosse ancora in bagno. "E siamo andati in giro
per mezza Brooklyn a fare le colombe."
Natasha
si appoggiò al bancone di fianco a lei, mulinando le
sopracciglia.
“Voglio i dettagli piccanti, Selvig.” Elle
sbuffò.
"Si,
abbiamo dormito insieme. No, non è successo nient'altro."
sintetizzò Elle, le guance arrossate dall'imbarazzo.
"E
stamattina?" Elle si strinse nelle spalle. "SI è svegliato
presto, aveva un appuntamento." Nat sbuffò.
"Non
ci sa proprio fare con le donne..."
"Era
andato a comprare la colazione! Si è ricordato persino il
gusto di
ciambelle che preferisco." Esclamò Elle, alternando sguardi
allarmati fra l'amica e il corridoio dietro di lei, mentre Natasha
faceva un sorriso eloquente. Elle spostò lo sguardo sulla
punta
delle Converse bianche, sospirando.
"Non
lo trovi inquietante?" Chiese piano, mentre Nat spiava nel
corridoio. La serratura del bagno scattò. "No, penso solo
che
sia dolce." Steve uscì dal bagno, vedendo Elle tirare uno
scalpelletto all'amica. "Non dire mai più una cosa del
genere!"
"Ma è vero!"
"Ciao
Natasha!" Steve si abbassò per passare dall'arco che
divideva
l'ingresso dalla zona giorno. Nat lo guardò, sorridendo in
maniera
inquietante. "Dammi il borsone, lo appoggio sul divano. River
sta dormendo, quindi..." Lanciò un occhiata ad entrambi,
ghignando sotto i baffi "...fate piano."
Il
cucchiaio di legno della cucina volò, girando su se stesso,
fino a
colpire il palmo della rossa, che lo aveva preso senza troppe
difficoltà. "Elle, devi decisamente migliorare la tecnica di
lancio."
Sparì
in soggiorno, appoggiando il borsone sul divano e sedendosi sul
tappeto con una rivista di moda. Elle la osservò da dietro
il
bancone, senza sapere cosa dire.
"Cosa
è successo stamattina?" Chiese, mentre Steve si appoggiava
di
spalle vicino a lei. "Avevo un impegno..." Elle scosse la
testa, sorridendo. "Non per quello. Quando sei arrivato, mi
sembravi... Inquieto."
"Hai
letto nella mia mente?"
"Non
ho bisogno di leggere nella tua mente per capire cosa ti passa per la
testa." Replicò lei sovrappensiero, un bicchiere di acqua
fra
le mani. Steve le sorrise. "Probabilmente hai ragione."
Incrociò
le braccia, osservando con innaturale interesse le decalcomanie a
forma di girasole che avevano appiccicato sulle ante dei mobili della
cucina. "Dovevo andare ad una riunione con Fury... Vi
spiegherò
meglio domani, con tutti presenti."
"Brutte
notizie?"
Steve
chiuse gli occhi, inclinando il capo. Elle, preoccupata, si
allontanò
dal ripiano per avvicinarsi, ed osservarlo più da vicino.
"Non
voglio rovinarvi questa giornata." Sussurrò piano lui,
abbassando lo sguardo negli occhi di lei. "Devi promettermi solo
una cosa."
Elle
lo guardò, aggrottando le sopracciglia, facendo cenno di
continuare
con il mento. "Non utilizzare i tuoi poteri in pubblico. A meno
che non sia strettamente necessario." Elle aprì la bocca per
replicare, ma lui la zittì appoggiandole l'indice sulle
labbra.
"Prometti."
Elle
sgranò gli occhi, vedendolo preoccupato.
"Principessa,
ben svegliate!" La voce di Natasha li riscosse. Elle fece un
passo indietro, mentre Steve infilava le mani nelle tasche dei jeans.
"Elle, vieni qui, River ti cerca."
Elle
passò davanti a Steve, che da solo occupava quasi un quarto
dello
spazio della cucina, e costeggiò il bancone, una ruga di
preoccupazione fra gli occhi celesti.
Si
avvicinò alla poltrona, abbassandosi con il busto. La
bambina si
aggrappò al suo collo, facendosi prendere in braccio.
Nascose il
viso nell'incavo della clavicola, mentre Elle si voltava sorridendo
dolcemente, una mano a sostenerle la schiena.
"Abbiamo
ospiti..." Sussurrò all'orecchio della bambina. Questa
annuì.
"Vuoi
prima a fare la pipì ed a cambiarti per cena?" La bambina
annuì
ancora, passandosi i pugni sugli occhi ancora gonfi di sonno. Elle
sorrise, mettendosela meglio addosso. Si avviò verso le
scale, dando
le spalle a Natasha e Steve. River alzò il capo, osservando
l'uomo
da dietro la spalla della donna, i capelli riccissimi castani sparati
in tutte le direzioni. Alzò una mano, indicando Steve,
mentre gli
occhi castani scintillavano di una luce dorata. Allungò
ancora la
mano, mentre Elle si fermava sentendola muovere. Indicò
Steve.
"James!"
Esclamò la bambina.
Elle
rimase immobile ghiacciata sul posto. Natasha sgranò gli
occhi.
"Cosa, principessa?" La bambina la guardò e
indicò Steve,
come se stesse dicendo qualcosa di ovvio. "James!"
Elle
si voltò lentamente, lo sguardo terrorizzato. Natasha si
avvicinò.
"Vuoi che la prenda io?" Elle fece un cenno negativo.
Steve, rigido come un'asse di legno, guardava alternativamente le due
donne. Elle riprese a respirare, salendo di fretta le scale, la
bambina stretta addosso, e due occhi blu che le perforavano la
schiena.
~
La
poca luce che entrava nell'ambiente filtrava attraverso una
finestrella, malamente chiusa da alcuni pezzi di cartone tenuti
insieme dallo scotch da pacchi. L'aria era malsana, carica di
fuliggine. Il pavimento, ingombro di carcasse.
L'uomo
sistemò il bavero della giacca, respirando l'aria
putrescente a
pieni polmoni, la schiena dritta, conseguenza di un lungo
addestramento, gli stivali ben lucidi che stonavano con la sporcizia
di quel suolo imputridito.
La
donna davanti a lui si voltò a guardarlo, le braccia strette
dietro
la schiena, attaccate a pesanti catene di ferro arrugginito che le
avevano lacerato i polsi. Portava una divisa blu, di una plastica
setosa, sporca e strappata in diversi punti. Il collo era pieno di
lividi da iniezione. Le ginocchia nude erano a terra, facendola
sembrare un martire di qualche dipinto rinascimentale. L'uomo le
prese il mento fra le dita guantate, gli occhi stretti in due fessure
scure. Le alzò il viso, guardandolo senza espressione.
“Nemmeno
questa volta sembra aver funzionato.” La donna
esalò un respiro
sibilante, i denti e le labbra pregni di sangue scuro.
“Ci
serviranno anni per replicare i risultati dei potenziati di
Strucker.” Ammise una donna avvolta in un camice candido,
alle sue
spalle, gli occhiali spessi dalla forma retrò appoggiati
elegantemente sulla punta del naso. Si abbassò sulle
ginocchia,
tenendo fra le dita lo stetoscopio. Auscultò la prigioniera,
che
emetteva solo deboli rantoli. “Generale, ci servono
più dati su
cui lavorare. Genomi, statistiche, biopsie.” La voce di lei
era
gelida quasi quanto il suo sguardo.
“Avrà
quello che le serve.” L'uomo guardò la donna
accasciarsi di nuovo
a terra, schifato. La tastò con la punta dello stivale sul
ventre,
ma la prigioniera non emise nessuna risposta.
La
Dottoressa Gonall la guardò, senza espressione.
“Questa non ci
serve più a nulla.” Due uomini in tute scure
entrarono, sganciando
le pesanti catene. Uno dei due estrasse una siringa, iniettando una
bolla d'aria nelle vene della prigioniera, sul collo. Questa ebbe un
debole spasmo.
“Ci
servono dati.” Commentò il Generale. Si strinse
nelle spalle,
uscendo dalla stanza fatiscente. “Richiamate
Crossbones.”
xXx
Eccoci qui, gente!
Come sempre, attendo con ansia tutte
le vostre recensioni, i vostri improperi e commenti, e vi lascio con
qualche interrogativo per invogliarvi a dirmi la vostra. Come sarebbe il vostro Captain
America?
Non posso dare scadenze precise per
il prossimo capitolo. Idealmente, dovrebbe arrivare per
Giovedì prossimo, massimo
Venerdì 30 Gennaio, causa impegni di lavoro.
Sperando di leggere molti dei vostri pensieri e delle vostre
riflessioni, buona settimana a tutti!
Eve
|
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Capitolo 21 *** 20. Drone ***
">>
ATTO
VENTESIMO: DRONE
"War,
war just moved up a gear,
I don't think I can handle the
truth.
I'm just a pawn, and we're all expendable,
Incidentally,
electronically erased
By your Drones!"
MUSE
Attraversò
la strada, guardandosi attentamente intorno, il cappuccio della felpa
blu calcato sulla testa e lo sguardo perplesso. Nessuno notò
la sua
presenza, fermo sul ciglio del marciapiede con le braccia distese
lungo i fianchi, le pupille leggermente dilatate. Aspettò in
silenzio che il traffico rallentasse, che il semaforo diventasse
verde; le persone accanto a lui lo schivavano, senza degnarlo nemmeno
di un'occhiata superficiale. Un normale uomo, con normali vestiti e
una normale vita, probabilmente di ritorno da un banale lavoro. Che
schiocchi.
Come
un branco di pesci, attraversarono tutti la strada, ordinati in
entrambe le direzioni, evitando di scambiarsi sguardi, l'attenzione
fissa su qualsiasi cosa che non fosse condivisa con i loro simili.
Tenne
fermo con la mano guantata il borsone scuro che lo accompagnava
dall'Africa, insieme con i vestiti, logori ma puliti. Con l'altra,
quella che lui considerava sana, estrasse il cellulare satellitare
che aveva rubato quando avevano attraccato sulla East Coast.
Non
ricordava di averne mai posseduto uno, ma allo stesso tempo aveva
già
una conoscenza più che approssimativa di come funzionasse
quell'aggeggio. Senza pensarci, cercò con gli occhi la linea
rossa
che indicava la direzione da percorrere. Era quasi arrivato. Dietro
di lui, sullo sfondo della metropoli, lo Space Needle illuminava la
Skyline di Seattle.
Percorse
la lunga scala esterna, quella utilizzata in caso di incendio,
voltandosi ad ogni angolo con il braccio teso ed il fucile carico.
Salì lentamente fino al quinto piano, le sopracciglia
contratte e la
mascella leggermente tesa. Arrivato alla finestra dell'appartamento
che aveva osservato con attenzione per diverse ore, ruppe con il
calcio del fucile il vetro ed inserì il braccio metallico,
alzando
lentamente il pannello della finestra. Entrò lentamente
nella
stanza, scostando le tende leggermente ingiallite e scavalcando il
termosifone che stava sotto alla finestra.
Non
riusciva a ricordare l'ultima volta che era entrato in una stanza
normale, di una casa normale, senza il pensiero di dover uccidere i
suoi occupanti o cercare informazioni. Era in una cucina, il mobilio
piuttosto consunto, in compensato color miele, una brutta luce al
neon che illuminava un tavolo dello stesso materiale con sopra un
computer e qualche piatto sporco. Un vecchio divano consunto, con
sopra dei curiosi cuscini rosa pesca che non c'entravano nulla con
l'ambiente circostante. Prese un ampio respiro, incerto se chiamare
subito Elle da quel telefono od aspettare il ritorno della persona
dalla quale era stato mandato. Lentamente, rimise il fucile nel
borsone, lasciandolo accanto alla finestra, pronto nel caso di una
fuga improvvisa. Guardò i cocci di vetro sul pavimento,
sospirando.
Li raccolse con la mano metallica, con una leggera
difficoltà in
quanto non riusciva a sentirli fra le dita fredde. Gettò
fuori dalla
finestra quelli che riusciva a prendere, calciando con un piede gli
altri sotto il tappeto a fantasia floreale che occupava il pavimento
davanti al piano della cucina. Si guardò attorno, sentendosi
in
colpa. Stava violando la privacy di quella donna, quella Valentina
Tremonti amica di Elle, inserendosi nella sua vita e nella sua casa
senza possibilità di scelta. Si stava imponendo, sgradito
fantasma
del natale passato, pretendendo da una terza persona di riportagli la
normalità che era stata rubata a lui per primo. Ma non aveva
scelta:
avrebbe dovuto fingersi sicuro, arrogante. Era la sua unica via
d'uscita, l'unica pista disponibile. Sperava solo che quella donna
fosse in grado di aiutarlo. Oppure, non avrebbe davvero saputo che
fare.
xxx
Valentina
si scostò un ciuffo del caschetto corvino dietro l'orecchio,
guardando con sguardo assassino il suo coinquilino da sopra la
pesante giacca a vento nera.
“Come
sarebbe a dire che hai perso le chiavi di casa, Ethan?”
Il
biondone, avvolto in un vistoso gilet di morbido piumino verde mela,
scosse le spalle, guardando lo schermo del cellulare. “Le ho
perse.
Dovrei controllare a casa di Matt, ma non ho intenzione di tornarci,
dopo ieri.”
La
donna prese un ampio respiro, voltandosi verso di lui con le labbra
schiuse e le sopracciglia tese sugli occhi castani. “E'
proprio
finita fra voi due?”
L'altro
sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
“Evidentemente, un semplice
commesso di un negozio di dischi non era abbastanza.”
Valentina
sospirò, abbassandosi sulle ginocchia e iniziando a cercare
nella
borsa le chiavi del loro appartamento. “Non possiamo rifare
la
serratura e tutte le chiavi. Domani vai a farti una copia.”
Commentò pratica, sventolandogli le sue sotto il naso, il
pupazzetto
di una giraffa che dondolava pigramente. “Ma dovrai accettare
il
fatto che il tuo ex boyfriend possa entrare in casa
nostra
come e quando gli parrà comodo.”
Entrò
in casa, lasciando cadere la borsa sul pavimento di fianco alla porta
e voltandosi a togliersi la giacca per appenderla su uno dei ganci a
forma di animali che stavano nell'ingresso. “Io non ti uccido
per
aver perso le chiavi, ma mi spetta il primo turno di doccia.”
Commentò, voltandosi di poco verso la grande stanza che era
sia la
cucina che la sala da pranzo che il soggiorno del loro piccolo, e
vecchio, appartamento in affitto. Indicò con le dita la
divisa
azzurra di Walmart che portava da quel mattino. Si
passò le
dita sui capelli, raddrizzando la schiena stanca.
“Val...”
“Che
hai adesso, Etty?” Commentò, ancora ad occhi
chiusi, la donna.
L'altro si schiarì la voce. “Aspettavamo
visite?”
La
mora scosse il capo. “A parte il tuo ex con la tua copia
delle
chiavi? No.”
Il
biondo le picchiettò una mano sulla spalla.
“Allora, perché c'è
un barbone che dorme sul nostro divano?”
Val
si voltò di scatto, seguendo lo sguardo del suo amico.
“Che
cazzo...”
Effettivamente,
non era uno stupido scherzo di Ethan. C'era effettivamente un uomo,
sul loro divano, che dormiva scomposto appoggiato ai cuscini, una
felpa di un blu scolorito addosso ed un berretto da baseball calcato
fin sopra agli occhi. Un leggero accenno di barba, un solo guanto di
panno scuro. Ethan afferrò un ombrello, nascondendosi dietro
di lei,
che avanzava appena.
“Val, stai attenta, sai... L'Ebola...”
“Sei
un cretino, Ethan.” Commentò lapidaria lei.
“E' solo un barbone.
Penso.”
Si
avvicinò, toccandolo appena su una spalla. “Ehi
tu!”
L'uomo
rantolò, voltando ancora di più il capo contro il
divano. “Ehi,
bellimbusto?” Valentina lo scosse di più,
facendolo rialzare di
soprassalto. L'uomo si rialzò seduto con un colpo
improvviso,
guardandoli con gli occhi grigi sgranati come si fosse appena
risvegliato da un incubo, il braccio guantato teso a proteggere il
viso. “Ehi, ehi, calmo!” Commentò Vale,
mentre dietro di lei
Ethan abbassava l'ombrello. L'uomo si alzò, facendo fare ai
due due
passi indietro.
“Sei
Valentina? Valentina Tremonti, 45778, 10th
Avenue, Capitol Hill.” Ripetè a memoria. La
ragazza annuì appena, un
sopracciglio alzato. “Sono io, non c'è bisogno che
mi dici anche
il mio codice di previdenza sociale. Chi sei?”
“Mi
ha mandato...” L'uomo si piegò sulle ginocchia, a
metà strada fra
il divano e la finestra rotta, lo sguardo perso nel vuoto.
“Mi ha
mandato...”
“Chi
ti ha mandato?” Chiese lei, avvicinandosi cautamente, lo
sguardo
preoccupato che saettava dalla finestra rotta al tizio accasciato nel
suo soggiorno.
“Mi ha mandato...” L'uomo alzò appena lo
sguardo, il cappello blu che cadeva a terra. “Mi ha mandato
Elle.
Elle Selvig.” Sussurrò, con tono appena udibile.
“Ha detto che
avresti potuto aiutarmi.”
Valentina
prese un ampio respiro. Se c'era di mezzo Elle, non poteva stupirsi
nemmeno di trovare un uomo mezzo morto nel suo soggiorno.
"I
was gonna clean my room until I got high...." Un
ritmo reggae ruppe il clima teso che regnava nella stanza. Valentina
si voltò verso il coinquilino, spaventata. "Ethan!"
"I
was gonna get up and find the broom but then I got high..."
Il biondo iniziò a tastarsi le tasche dei pantaloni,
gettando a
terra l'ombrello, lo sguardo sempre perso verso il loro inaspettato
ospite. "Scusate, il telefono."
"Ethan!"
Sbottò la donna, sconvolta. L'altro le sorrise. "E' Matt!
Vado
in camera."
"Non
puoi lasciarmi qui con uno sconosciuto!" Commentò lei,
scocciata. Lui si strinse nelle spalle. "Tanto è un amico di
una tua amica, no?"
"Elle
Selvig non è mia amica!" Esclamò la mora,
lanciandogli uno
sguardo assassino. Ma l'amico era già sparito nella sua
stanza,
cicalando al telefono con tono melenso.
"Non
volevo..." Cominciò l'uomo, ma Valentina lo zittì
con un
gesto. "Alzati, vai a fare una doccia, poi mangiamo e mi
spieghi."
L'altro
rimase immobile, guardandolo leggermente perso. "Ok."
"Ok."
Rispose lei, guardandolo un secondo. Era alto, quasi quanto Ethan,
con delle belle spalle larghe ed un bel viso. Era curiosa di sapere
come si era ridotto così.
"Non
so se mi posso fare una doccia..." Ammise lui, restando sul
posto.
"Se pensi che dicendo così verrò nella doccia con
te, non hai idea di quanto sbagli."
L'uomo
si tolse la felpa, mostrando solo un attimo di esitazione prima di
sfilarla del tutto e lanciarla sul divano. "Porca puttana!"
Urlò Val, facendo un passo indietro, una mano sulla bocca.
"Che
cazzo è successo al tuo braccio?"
L'uomo
spostò lo sguardo sulla sua protesi meccanica, la mascella
tesa. "Lo
hanno sostituito."
"Vedo..."
Si avvicinò appena. "Posso?"
L'altro
la guardò appena, annuendo con il capo. Valentina si
avvicinò
leggermente, il viso rotondo stretto in un'espressione a
metà fra la
curiosità e il terrore, come quando si guarda un'animale
pericoloso.
Con un dito, toccò appena il metallo freddo.
"Chi
ti ha fatto questo?"
"L'Hydra,
la divisione scientifica nazista, nel 1944..." Commentò
automaticamente lui.
L'altra
sgranò ancora di più gli occhi. "Quindi tu
hai..."
"Novantatrè
anni." Commentò lui, lo sguardo che vagava per la stanza.
Val
deglutì.
"Okaaay...
E perchè Elle ti avrebbe mandato qui?"
Scosse
il capo. "Non ne ho idea. Mi ha dato il tuo nome, ed il tuo
indirizzo. Pensava che tu mi potessi aiutare?"
"Coprire."
Lo corresse lei. "Io non sono più una psicologa, Elle lo sa
bene." Commentò, più a sé stessa che a
lui. "Comunque,
ripeto, prima una
doccia e un pò di cibo, poi ne parliamo." Si
avvicinò ai
mobili della cucina, aprendo un cassetto ed entraendo un rotolo.
"Valentina, che tipo di psicologa eri?"
La
donna tornò accanto a lui, osservando attentamente il
braccio. Prese
la pellicola trasparente, inizando a girarla attorno alla spalla
dell'uomo. "Mi occupavo di problemi della memoria. Lavoravo con
gli amnesici." Ammise lei, semplicemente.
"Come
conoscevi Elle Selvig?"
"Compagna
di studio." Rispose automaticamente. "Quando c'è stato lo
scandalo delle staminali, mi ha aiutato a non finire in prigione."
L'altro
finse di capire. In realtà, non aveva la minima idea di che
cosa
stesse parlando, quella donna bassa dai capelli scuri. Ma, se avesse
pensato che lui sapeva, sarebbe stata più trattabile. "E tu,
invece?" Chiese lei, finendo di girare la pellicola attorno al
braccio dell'altro.
"James
Buchanan Barnes, nato a Shelbyville nel 1922-"
"Okay,
okay, ho capito."
Commentò
velocemente la mora. "Adesso, sempre che tu non lo sappia
già,
visto che sei stato in casa mia chissà quante ore, la porta
in fondo
al corridoio. Ti porto un cambio appena hai finito." Fece un
gesto impaziente con la mano. "Gli asciugamani sono sulla
rastrelliera, Robot."
Aspettò
che l'uomo si avviasse, prima di richiamarlo. "Ehi, James,
Robot!"
L'uomo
si voltò, le spalle leggermente curve le lo sguardo spento,
senza
stare alla sua battuta. Sembrava che la sua acredine gli scivolasse
addosso, senza scalfirlo. Probabilmente, perchè ormai il
danno era
talmente radicato in lui, che nessun insulto avrebbe risvegliato la
coscienza di quel poveretto. "Hai modo di contattare la cara
Elle?"
L'uomo
estrasse un cartoncino dalla tasca dei jeans, passandoglielo. Era
stato scribacchiato a penna, su un cartoncino lurido, ma era un
inzio.
"Ok,
grazie James." Commentò, sorridendogli. Chissà
quanto tempo
avrebbe dovuto passare, con quel giovane uomo, attraente e
misterioso, ma senza anima,
in casa. Sospirò, sprofondando fra i cuscini del divano,
rigirandosi il cartoncino fra le dita.
xxx
Elle
salì gli scalini due a due, cercando di ignorare lo sguardo
terrorizzato di Natasha e quello incredulo di Steve attraverso i
paletti del corrimano della scalinata. Entrò a
passò di marcia
nella stanza della bambina, appoggiandola delicatamente sul letto e
chiudendo accuratamente la porta bianca, piena di disegni appesi
sopra.
Prese
un ampio respiro, inginocchiandosi davanti alla piccola. La bambina,
senza fare una piega, scese e trotterellò fino al bagno,
riaprendo
la porta. Elle rimase inginocchiata a terra, mentre sentiva la
figlioletta tirare lo sciacquone e lavarsi le mani. La porta si
riaprì e River tornò nella stanza. "River,
tesoro..."
Elle
fece cenno alla bimba di sedersi davanti a lei, guardandola negli
occhi.
"Dove
hai sentito il nome di James?" River sorrise, alzandosi sulle
punte. Toccò il petto di Elle, al centro, senza dire nulla.
"Ehm..."
Elle scosse il capo. "Alla televisione? Hai visto il signore che
c'è giù con un certo James?"
River
fece di no con la testa, indicando di nuovo il suo petto, le
sopracciglia leggermente corrucciate, come se alla donna sfuggisse
qualcosa di ovvio. Elle inclinò il viso, di lato. "Te lo ha
detto un uomo grande, con i capelli castani?"
River
fece cenno di no con la testa, di nuovo, leggermente spaventata. Elle
si riscosse, sospirando. "Scusa, tesoro. Non volevo
spaventarti." Appoggiò il capo sul grembo della piccola, che
per risposta le passò le mani fra i capelli biondi.
Elle
respirò, rilassandosi al tocco della bambina, lo sguardo che
vagava
per la cameretta che lei e Natasha avevano dipinto di bianco, le
pareti di un delicato rosa pesca, i giocattoli ordinatamente riposti
e la scrivania piena di libri da colorare e fogli sparsi. Sopra alla
scrivania, come sopra alla porta, vi erano appiccicati disegni di
ogni tipo. Animali, stelle, qualcosa che somigliava ad un auto
ritratto della bimba mentre volava fra le stelle. Uno, in
particolare, attirò l'attenzione della svedese, che si
alzò
lentamente, le labbra socchiuse.
Era
uno sticky man, un cerchietto rosa con sopra dei capelli stilizzati
gialli ed il corpo azzurro. Aveva un qualcosa di rotondo, con una
stella rossa a centro, in mano. Vicino a lui, uno sticky man tutto
rosso sparava dei tratteggi gialli. Elle deglutì.
River
salì sulla sedia, dipinta di bianco, indicando il disegno.
Poi ne
indicò un altro.
Un
uomo tutto nero, con solo un cerchio rosa come testa e una chioma
castana, stava lottando? Con l'omino rosso. A
terra, lo sticky
man vestito di azzurro. Elle prese un ampio respiro, staccando il
disegno.
“Tesoro...”
Sussurrò Elle, guardandosi attorno. “Come ti
è venuto in mente di
disegnare queste cose? Hai visto qualcosa in TV?”
La
piccola rise, indicandosi gli occhi castani e stringendosi nelle
spalle. Elle fece un respiro strozzato. River prese il secondo
disegno, dalla quale Elle non riusciva a staccare gli occhi, e lo
spinse verso di lei. "E' per me?" River annuì. Elle
indicò
l'uomo in azzurro, sdraiato a terra. “River, questo
è l'uomo che
c'è giù?”
River
annuì appena, scendendo dalla sedia.
"Grazie,
tesoro." Commentò Elle senza fiato, ripiegando il disegno ed
infilandoselo insieme al primo nella tasca davanti della salopette.
Si sedette a terra, vicino alla bimba, e se la tirò in
grembo,
abbracciandola più che poteva.
Natasha
mise la testa nella cameretta, trovandole sedute a terra. Dietro di
lei, Elle sapeva che c'era Steve.
"Stiamo
bene..." Commentò Elle, prima che potessero dire qualcosa,
baciando la fronte della bambina. "Stiamo bene..."
xxx
Si
sdraiò sul letto, sospirando.
Le
pareti della sua stanza, dipinte di un delicato color verde latte e
menta, sembravano vicine a collassarle addosso. Si passò le
dita fra
i capelli, il respiro affannato.
Che
cavolo stava succedendo?
Sentiva
i muscoli intorpiditi, mentre calciava via le scarpe da ginnastica
con un gesto secco, senza preoccuparsi di fare cadere con un tonfo
sul pavimento di laminato scuro. Si strinse fra le braccia, la pelle
d'oca che decorava la pelle lasciata scoperta dalla canotta.
Serrò
gli occhi, tirandosi i capelli con le mani.
“Elle...”
Steve socchiuse appena la porta, bussando leggermente con le nocche
vedendola nella penombra. “Ho sentito un tonfo.”
Elle
piegò appena il capo, senza muoversi dalla sua posizione,
abbandonata sul letto, lo sguardo perso nel vuoto, nella sua
direzione, gli occhi lucidi di stanchezza.
L'uomo
entrò, chiudendosi piano la porta alle spalle.
Avanzò fino a lei,
osservandola con un misto di preoccupazione e attesa. Si
abbassò
sulle ginocchia, accanto al materasso, portando il viso alla sua
stesa altezza. La guardò ancora un secondo, aspettando.
“Elle,
cosa c'è?”
La
giovane voltò il capo, prendendo un ampio respiro. Aveva la
voce di
James nelle orecchie, immaginava il sollievo che avrebbe provato
l'uomo che le stava accanto sapendo che il suo amico era al sicuro.
Sentiva sotto pelle quella gioia effimera. Quel momento di euforia
che lo avrebbe colto, sapendo che la persona alla quale teneva di
più
era salva.
Ma
non poteva dirglielo. Non senza mettere a rischio l'effettiva
riuscita del suo piano. Quindi deglutì rumorosamente,
coprendosi il
volto con le mani. Steve si sedette sul pavimento con un sospiro,
appoggiando la schiena al materasso, un ginocchio piegato ed il
braccio morbidamente appoggiato ad esso. Non fece nulla per rompere
il silenzio che regnava nella stanza, l'aria che vibrava soltanto a
causa del vento che passava fra le assi del tetto. Rimasero in
silenzio, senza guardarsi, per minuti interi. Forse quasi un'ora.
Fu
solo alla fine delle sue elucubrazioni che Elle prese una decisione.
Si piegò su un fianco, osservando il profilo della nuca e
delle
spalle dell'altro nella scarsa luce che proveniva dall'esterno. Lui
era ancora fermo, probabilmente preso dai suoi pensieri. Non poteva
vedere i suoi occhi, ma poteva giurare che fossero assorti, contro la
parete di fronte. Allungò un braccio, lentamente,
appoggiandolo
contro la sua spalla e percorrendo con la punta delle dita la linea
del muscolo, fermandosi contro la sua mascella con una carezza quasi
intangibile.
Per
quanto lui fosse forte, le sue ossa salde e i suoi muscoli allenati,
ad Elle sembrava che il minimo movimento sbagliato avrebbe potuto
ferirlo, come un taglio maldestro con una scheggia di vetro, o come
quando una punta di legno penetra per sbaglio nella pelle. L'uomo
inclinò il capo verso la sua mano, respirando contro il suo
palmo e
stampandogli un breve bacio. Elle sorrise fra sé e
sé, mentre lui
si rilassava, distendendo i muscoli contratti delle spalle e
sistemandosi meglio con la schiena contro il suo appoggio.
Alzò un
braccio, prendendole la mano con la sua, intrecciando le dita con
quelle fredde e sottili della donna, un sorriso sulle labbra sottili.
“Ne stanno succedendo di tutti i colori. Ne usciremo. E' solo
un
periodo.”
Elle
sospirò appena, guardando le loro mani intrecciate.
“Dimmi, hai
avuto periodi di pace lunghi più di due settimane, da quando
ti sei
svegliato?”
Steve
ridacchiò appena, scrollando le spalle massicce.
“Negli ultimi tre
anni? Intendi fra il Triskelion e la Sokovia?” Elle
sogghignò,
annuendo appena, sapendo che lui avrebbe sentito il suo viso sfregare
contro il copriletto grigio.
“Vorrei
solo sistemare le cose. Poi, non so cosa farò.”
Elle rimase in
silenzio, guardando con occhi curiosi la sua nuca. “Vuoi
lasciare
il servizio militare?”
Steve
scosse il capo, confuso. “Ross ha ragione. Non possiamo
andare
avanti agendo senza nessun controllo.”
“Non
puoi neanche lasciare i nuovi Avengers nelle mani della politica
Americana.”
Steve
negò. “Non lascerei mai in mano ad un solo uomo
una squadra come
la nostra. Pensavo...” Si voltò leggermente,
appoggiando le loro
mani sul materasso e guadandola con i profondi occhi blu. “Un
organismo al di sopra delle nazioni.”
“Le
Nazioni Unite?” Chiese Elle, appoggiandosi con il gomito ed
alzando
il capo. Steve fece un gesto vago con la mano libera. “E' un
inizio.” Commentò con un sussurro. Elle
annuì appena. “Alla
fine, dopo Sokovia, è diventato un affare mondiale. E dopo
Lagos...”
“Pensavo...”
Steve sollevò appena le loro mani, giocando con le sue dita.
“Non
c'è modo di contattare quel tizio che hai incontrato durante
il
coma?”
“Vali?”
Chiese perplessa Elle. “Perché?”
“Potrebbe
aiutarci a capire da dove vengono i tuoi poteri...” Ammise,
sussurrando appena lui, guardandola. Elle fece un sorriso nervoso.
“Non è esattamente quel genere di persona alla
quale telefoni.
Comunque, ci sono tantissimi mutanti, anche solo a New York. Giusto
ieri Loretta mi ha raccontato di un tizio che spara ragnatele qui, a
Forest Queens.” La giovane si strinse nelle spalle.
“Parlano
anche di un uomo che fa fare alle persone quello che vuole,
parlando.” Ebbe un brivido. “Non penso di valere
tutte queste
ricerche, Steve.”
L'uomo
la guardò negli occhi, serio. “Per me, vali tutte
queste ricerche.
Voglio essere sicuro che non possa esserci una degenerazione dei tuoi
poteri. Potresti farti male, sforzandoti troppo.” La
indicò con il
mento. “Vedo che sei stanca.”
“Devo
solo abituarmi al lavoro degli Avengers. Anche se...” Elle
scosse
il capo, lo sguardo che vagava per la stanza. “Non penso mi
faranno
restare a lungo. Penso che dovrei chiamare l'FBI prima che straccino
il mio contratto.”
Steve
annuì. “Pensi che Ross ti
caccerà?”
“Ne
sono sicura.” Sussurrò lei.
“Finché non faccio quello che
dice... Non può licenziare Stark, o te, ma io non sono
né famosa né
importante.” Steve sospirò, passandosi una mano
sul viso. “La
squadra è mia. Posso oppormi.”
“Continuerò
a combattere con voi, Steve. Ma ci licenzieranno.”
Indicò la porta
con il mento. “Io devo mantenere un mutuo, ed una
famiglia.”
Districandosi capelli con le dita, Elle sospirò.
“Bisogna fare la
spesa, comprare vestiti nuovi, pagare le bollette...”
Steve
annuì. “Non penso che rimarrò alla
base, se te ne andrai.”
Elle
lo guardò appena, sorpresa. “Dove
andrai?”
“Mi
troverò un appartamento. Magari qui vicino...”
Elle sorrise, senza
riuscire a trattenersi. “La base inizia a starti
stretta?” Steve
sospirò, le labbra tese in un sorriso stanco.
“Devo avere almeno
un posto dove poter essere tranquillo. Dove poter dormire, sentendomi
sicuro che nessuno entrerà provando ad uccidermi. Preferisco
andarmene io, prima che mi caccino.” Elle annuì
appena. “Nel
frattempo...”
Lasciò
la mano dell'uomo, battendo un paio di colpi leggeri sul materasso,
sorridendo. “Non posso aiutarti a trovare una casa ora,
ma
possiamo recuperare qualche ora di sonno arretrata.” Steve
annuì,
alzandosi lentamente. “Che ore sono?”
“Le
una di notte. Una e mezza...” Elle guardò con gli
occhi strizzati
lo schermo del cellulare, allungandosi poi per metterlo sul comodino.
Si stese sopra le coperte, senza avere la forza per rialzarsi e
infilarsi nel letto. Steve si appoggiò dall'altro lato,
esitando un
attimo prima di stendersi. Elle si voltò contro di lui,
guardandolo
di sottecchi. Lui sorrise appena, pensieroso.
"...Is
it getting better, or do you feel the same..."
Elle ridacchiò, incassando il viso arrossato fra le spalle. "...Will
it make it easier on you now, you got someone to blame..."
Steve aprì le braccia, un invito ad avvicinarsi, ed Elle non
esitò,
ridacchiando ancora, la testa appoggiata sul suo bicipite e l'altro
braccio che la cingeva delicatamente per la vita. Si strinse contro
di lui più che poteva, sentendolo sospirare.
"Da
quando Captain America conosce gli U2?" Gli punzecchiò il
petto
con l'indice, scoppiando a ridere senza riucire a trattenersi. "E'
il tuo retaggio irlandese, che parla?"
"Zitta,
sveglierai tutti!" Sussurrò lui, stringendosela contro,
fingendo di volerla soffocare contro di lui. "E comunque gli U2
non sono l'unica cosa che ho recuperato. Adoro anche i Led Zeppelin."
Elle
alzò il capo, baciandogli la punta del naso. "Bravo Steve,
sono
fiera di te." Rimasero a fissarsi per un secondo, occhi negli
occhi. "Non puoi considerarla vita, prima di aver ascoltato i
Led."
Steve
piegò leggermente il capo, cercando le sue labbra. Elle
sorrise,
prima di concedergli un bacio. L'altro mugugnò appena,
quando lei si
staccò con un ghigno.
"Devi
dormire, Capitano..." Lui fece un'espressione
esasperata,
mentre Elle sprofondava meglio fra le sue braccia. "Solo
perchè
hai ragione, Svedese..."
Elle
sogghignò, mentre i due si addormentavano abbracciati,
stretti
contro il buio della notte, e soprattutto, dei loro pensieri.
xxx
Ci
mise un secondo a svegliarsi, ed a capire dove si trovava. Ormai, era
un'abitudine per Elle, quell'attimo di insicurezza e di paura prima
di contestualizzare dove si trovava e perchè. Riconobbe la
sua
chitarra, in un angolo, e il grande armadio in legno chiaro, lo
stesso della struttura del letto. Le pareti erano di un delicato
verde menta, e sopra vi erano appese mille fotografie e poster di
varia natura. Steve era già sveglio, le braccia incrociate
dietro la
testa, e si guardava intorno con un sorriso dolce.
"Da
quanto sei sveglio?" Chiese lei, stiracchiando le braccia, il
capo appoggiato alsuo petto. "Circa mezz'ora." Sussurrò
lui, indicando con il mento il poster del tour del '77 dei Led
Zeppelin. Lei ridacchiò, abbracciandolo stretto.
"Dobbiamo
andare alla base, Elle." Commentò lui, baciandole la nuca.
"Secondo te Natasha è già partita?"
Elle
scosse le spalle. "Non saprei. Devo alzarmi, per vederlo..."
Fece
per sollevarsi, ma lui la trattenne contro di sè. "Aspetta
un
secondo, ancora, sono solo le sette..."
"Capitano,
Capitano..." Elle gli sfiorò il naso con l'indice,
ridendo.
"Ho una pessima influenza su di te."
Stettero
ancora un secondo, abracciati, mentre Elle rimuginava in silenzio.
Alzò appena il capo. "Steve?"
"Dimmi,
Elle."
"Posso
chiederti di James?"
Steve
sospirò, abbassando il mento per vederla, gli occhi azzurri
ancora
impastati di sonno ed il cappuccio della felpa nera che copriva, in
parte, i capelli chiarissimi.
"Cosa
vuoi sapere?" Chiese piano, chinando il capo su un lato. Elle si
appoggiò con le braccia al suo petto, sdraiandosi a pancia
in giù
contro di lui. "Gli vuoi bene?"
"Certo."
Commentò subito. Poi si fermò un attimo a
pensare. "C'è una
cosa che devi sapere di me, Elle." La giovane rimase a fissarlo,
vedendo per una frazione di secondo tutte le cose che lui aveva
visto, e provato, negli ultimi cento anni. Anche senza il periodo nel
quale era stato congelato, Steve era comunque, fra i due, quello
vecchio, e saggio. L'uomo riprese fiato, ragionando. Poi riprese il
discorso, carezzandole la guancia.
"Elle,
se mi chiederai di andarmene, me ne andrò per sempre e senza
fare
rumore. Ma, se mi chiederai di restare, devi sapere che non
lascerò
mai il tuo fianco. Non importa cosa succederà, quanto saremo
distanti o quanto potremo essere in disaccordo, sarò sempre
accanto
a te." Elle sorrise appena, piegando il capo contro la sua
grande mano. "E questo io l'ho imparato da Bucky. Lui c'è
sempre stato per me, soprattutto quando nemmeno io ci sarei
stato,
per me stesso." I due ridacchiarono appena, avvolti dal
clima ovattato che solo una mattinata passata abbracciati poteva
creare. "Lui mi è stato vicino più di chiunque
altro, e se
sono la persona che sono, se tutti voi guardate a me come un uomo
leale, e buono, è anche e soprattutto merito suo."
"Allora
non è assolutamente quel drone senza anima che preoccupa
tanto
Ross." Commentò Elle, prendendo un ampio respiro. Steve
annuì
appena, lo sguardo perso ul vuoto. "Ottimo, allora."
Lei
si avvicinò al suo viso, con un bacio carico di sollievo.
Poi, come
era arrivata, sgusciò dalle sue braccia, sparendo nel
corridoio
animato dal vociare di un'anziana signora che preparava la nipote per
la scuola, e di due bellissime donne che si preparavano per un'altra
difficile giornata di lavoro.
A
quella confusione, forse, avrebbe potuto abituarcisi.
xxx
“Pronto,
Elle Selvig.”
La
donna uscì dalla sala conferenze, il cellulare stretto in
una mano e
nell'altra un grosso bicchiere di caffè. Era stufa di tutte
quelle
chiacchiere, stufa di sentir parlare persone che il pericolo non lo
avevano mai visto nemmeno da lontano, persone che sembrava fossero
lì
solo per racimolare un po' di consenso dal popolo spaventato.
“Cosa
ci fa un barbone metallizzato accampato nel mio
soggiorno?”
“Ah,
ciao Val...” La voce della sua ex compagna, per meglio dire
rivale,
del college le fece odiare ancora di più quella giornata che
non
voleva accelerare. Non poté negare a sé stessa,
però , il sollievo
di sapere Barnes vivo e vegeto, ed al sicuro. Sospirò,
appoggiandosi
con la schiena al muro. “Allora è
arrivato.”
“Ieri.”
Rispose brevemente l'altra. “Pensavi di
avvertirmi?” Borbottò la
bionda, grattandosi una tempia con un dito con la mano che reggeva il
bicchiere.
“Sai
che non posso più esercitare!” Commentò
con astio la donna,
dall'altra parte della cornetta. Elle sospirò. “E
lui non può
andare da una normale terapeuta, a fare una normale
parcella.”
“E'
pericoloso?” Elle esitò un attimo
“Potrebbe.”
“Cazzo,
Elle, io ho una vita normale, adesso!” Sbottò
l'altra. Elle restò
zitta a sentire i suoi improperi. “Si, una vita normale, dove
a
quasi trent'anni hai un part time da Walmart e vivi con uno che si
è
sbattuto mezza Capitol Hill!”
“La
mia vita lavorativa o la vita sessuale del mio coinquilino non sono
affari tuoi!” Esclamò con astio Valentina. Elle
sospirò. “E tu
non dovresti spiarmi!” Finì la mora, con tono
acuto.
“Ti
stavo tenendo d'occhio, spiare, non usare parole
grosse. Val,
Val ascoltami...”
Elle
si guardò attorno, allontanandosi verso il corridoio.
“Tu eri la
migliore con i pazienti amnesici. Io lo so.” L'altra rimase
in
silenzio. “Non l'ho mandato da te perché saresti
l'ultima persona
alla quale mi collegherebbero, ma perché eri la migliore
dottoressa
del centro disturbi della memoria e cognitivi....E'
per questo
che ho trovato le prove per scagionarti, quando il professor Dalton
ha combinato quel casino con le staminali. Nemmeno Strange a
neurologia avrebbe potuto fare un casino simile...”
L'altra
sembrò pensarci, restando in silenzio, solo il suo respiro
che
passava attraverso il cellulare. Elle sorrise. Quando
riuscivi a
zittirla, Valentina Tremonti era anche simpatica. Questo si
dicevano i suoi compagni di corso, dietro alla nuca mora della
ragazza più bassa, e più antipatica di tutto il
corso.
“Cosa
gli hanno fatto? Per quanto devo tenerlo?”
La riscosse
l'oggetto dei suoi pensieri, con voce quasi annoiata.
“Gli
hanno praticato un condizionamento, e lo hanno sottoposto ad
Elettroshock continui... Tutto il sistema limbico...”
“Penso
si possa recuperare. Temevo la lobo.”
“No,
gli serviva ammaestrato ma cosciente. In grado di agire.”
Elle si
accucciò a terra, appoggiando il bicchiere del
caffè. Si passò una
mano fra i capelli, la camicetta azzurra con le maniche ripiegate
fino ai gomiti.
“Okay,
vedrò cosa posso fare, Selvig, ma non voglio nessuna
responsabilità.
Se si butta giù da casa mia...”
“Puoi
dire che è entrato e ha cercato di derubarvi. Quello che
vuoi.”
Commentò a bassa voce Elle, guardandosi attorno.
“E verrò subito
a ripulire.”
“Brava
ragazza.” Commentò l'altra. “Tra FBI ed
esercito, ti hanno
raddrizzata proprio bene. Te lo passerei, ma...”
Elle
vide un movimento, con la coda dell'occhio, e si voltò di
scatto.
“No, no, non passarmelo. Devo andare.
Però...” Rimase un attimo
in silenzio. “Salutamelo tanto. Preditene cura, ti
prego,
Valentina.” Concluse, con tono supplichevole.
“Ci
tieni proprio a quest'uomo. Non è che ti piace?”
“E'
il migliore amico del mio... Di... Di un mio amico.”
Commentò
stancamente lei.
“Si,
Selvig, un amico...” L'altra la prese in giro, con tono
saccente.
“Chiama quando vuoi. Tanto c'è solo lui, sempre a
casa. Il numero
è questo.” Elle annuì. “Me lo
salvo. A presto, e grazie, Val.”
L'altra
riattaccò, mentre Elle si appoggiava con la nuca alla
parete,
respirando ampie boccate, sollevata. Chiuse appena gli occhi,
dischiudendo le labbra.
Da
dietro l'angolo del corridoio, appoggiato alla parete con le spalle,
Steve sorrise fra sé e sé. Aspettò un
attimo, vedendola nel
riflesso di una vetrata mentre beveva una generosa sorsata di
caffè,
probabilmente ormai freddo. Samuel lo raggiunse con in mano una
scatola di cartoncino, guardandolo serio.
“Stamattina
sono andato al Bureau di New York a prendere le cose che mi hai
chiesto...” Steve alzò lo sguardo, le sopracciglia
contratte.
“E...”
“Ha
riavuto il suo posto. Può cominciare quando vuole.
Anzi...”
Prese
la scatola sotto il braccio ed estrasse un tablet. “Siamo
già
richiesti.”
“Siamo?”
“Io
come Agente Avengers. Penso sia la nuova trovata di Ross e Stark.
Comunque, hanno assegnato me ed Elle come partner di
indagine.”
Steve
alzò un sopracciglio. “Perché non ne
sono stato informato?”
“Tu
sei con Natasha.” Commentò solo Sam, stringendosi
nelle spalle.
“Gli altri sono fuori, per ora.” Steve
annuì appena, ritornando
a guardare Elle. “Almeno qualcuno qui avrà le
spalle coperte.”
“Anche
se ti ho dovuto fare da galoppino, è stato un bel
gesto.” Commentò
Samuel, sorridendo all'amico. Steve sorrise in risposta, abbassando
lo sguardo. “A cosa siete stati assegnati, se posso
chiedere?”
Sam
gli passò il tablet, in silenzio. Steve lesse i files, per
poi
alzare lo sguardo sconvolto sull'amico. “Non sei abituato a
queste
cose, Sam.”
L'altro
indicò Elle con un cenno del meno. “Lei si,
però. Ho visto i suoi
files. E' veramente una psicologa!”
“Sam...”
Lo riprese il capitano. Sam si strinse nelle spalle. “Ora
però
devo andarla a chiamare. Tu torni dentro?” Indicò
la sala
riunioni. “Si, almeno sarò con Nat e
Sharon.”
“Attento,
Capitano...” Lo prese in giro Wilson. “Non sarai
circondato da
troppe belle donne per concentrarti su una sola?”
Steve
lo guardò esasperato, sistemandosi il maglione in cotone
bordeaux.
Si diresse verso la porta. “Dopo, riferitemi tutto.”
Disse
solo, lanciandogli uno sguardo significativo. Samuel fece uno dei
suoi sorrisi ghignanti. “Certo, Capitano.”
xxx
“Sarai
la mia Scully,
la mia partner di indagine, insieme riusciremo a svelare ogni arcano,
a smascherare ogni malvivente, a....”
“Ti
prego, Sam.” Lo implorò lei, sorridendogli
dolcemente. “Ti
ringrazio ancora per aver recuperato il mio distintivo, e soprattutto
recuperato il mio lavoro, ma adesso, taci.”
I
due avevano parcheggiato sotto ad una palazzina in stile coloniale
nel Chelsea, a Manhattan. Samuel prese un ampio respiro, prima di
scendere dall'auto, la giacca che portava che lo faceva sentire una
specie di clown serioso. Elle aveva insistito: come agenti, dovevano
avere un certo decoro. Lei aveva tenuto i pantaloni neri e la camicia
azzurra, sotto al solito cappotto. L'unica aggiunta che aveva fatto
era la doppia fondina che teneva sotto le ascelle, nascosta dal
cappotto nero.
Si
avvicinarono al palazzo, dove c'era un gran via vai di curiosi,
abitanti del complesso ed agenti. Elle estrasse senza commentare il
distintivo, sotto lo sguardo compiaciuto di Samuel. Si fece largo
lungo la scalinata, sentendo il vociare tipico degli agenti di
polizia di NY. Arrivò al terzo piano, dove la porta era
aperta e
degli agenti stavano uscendo dall'appartamento. Un poliziotto
controllava l'identità di chi entrava, e la svedese gli
mostrò
ancora il badge, guardandolo inespressiva.
“Elle
Selvig, FBI. Questo è Samuel Wilson, dalla divisione
Avengers.”
L'amico non disse nulla, mentre l'uomo in divisa si faceva da parte.
Elle si abbassò, passando sotto al nastro giallo della
polizia di
New York. Un agente passò loro di fianco, tenendosi la
fronte con
una mano. “Nemmeno ad Hell's Kitcken si vedono queste
cose..”
Commentò con voce flebile. La donna lo fece passare,
scostandosi
lungo il corridoio malamente illuminato.
Nel
soggiorno dell'appartamento, una carcassa giaceva scomposta sul
pavimento, in una pozza di sangue scuro. Samuel si portò una
mano
alla bocca, reprimendo un conato, la mano che andava istintivamente
sulla tasca dove teneva il cellulare. Elle si avvicinò,
scura in
volto, le sopracciglia aggrottate. Prese dalla borsa di una agente
della scientifica un paio di guanti sterili, piegandosi sulle
ginocchia a fianco della donna, i capelli di un castano chiaro legati
sotto la cuffia bianca. Samuel rimase al limitare della stanza, in
mezzo agli altri agenti. “Direi che è
morto.”
“Ottima
osservazione, Sam.” Esclamò Elle, sarcastica.
“Dimmi anche che
non è morto per cause naturali. Non è abbastanza
ovvio.” Sfiorò
una grossa lacerazione, lanciando uno sguardo alla collega.
“E'
stato...smembrato?”
“E'
morto dissanguato. Si, gli arti sono stati strappati.”
Avvicinò
una luce al taglio, percorrendo con una stecca di legno la
seghettatura della lacerazione. “Dovevano essere in due
uomini
molto forti per fare un lavoro del genere.”
Elle
rimase immobile, lo sguardo a mezz'aria. Si voltò
leggermente verso
l'ingresso, scrutando il pavimento. “O uno solo...”
Samuel
la guardò, perplesso. “Elle, cos-” La
svedese si alzò,
facendosi largo fra gli agenti che guardavano la scena, borbottando.
L'altra la guardò, perplessa. “Non può
essere stato un solo uomo,
avrebbe dovuto avere un'apertura delle braccia di quasi tre
metri.”
“Fuori tutti, ORA!” Urlò la bionda,
agitando le
braccia. Samuel scosse il capo. “Coraggio, ragazzi, tutti
fuori!”
La assecondò, facendo ampi gesti con le mani, mentre l'amica
restava
piegata a terra, spingendo dietro le ginocchia di un poliziotto con
il braccio, i guanti insanguinati ancora addosso. L'agente della
scientifica le passò una torcia, in silenzio, mentre Elle
percorreva
avanti e indietro il perimetro del salotto. Sam spinse fuori dalla
porta l'ultimo poliziotto. “Che succede?” Le chiese
poi,
spazientito.
“Stiamo
cercando.” Commentò asciutta la donna castana,
vedendo che l'altra
non rispondeva. “Comunque, sono l'agente Mallory,
Scientifica.”
“Samuel Wilson. Lei è Elle Selvig.” La
bionda annuì appena,
facendo un gesto di saluto. Si inginocchiò a terra,
indicando
qualcosa, l'altra mano a palmo aperto davanti al viso dell'agente.
“Polvere.”
Mallory
si avvicinò con la borsa, mentre Samuel la seguiva, confuso.
Le due
donne si misero a spazzolare con una polvere biancastra la moquette.
L'agente mise in mano all'uomo una torcia violetta, piegandola verso
il basso. “Cosa cercate?”
“Sam,
chi ti viene in mente dei nostri compagni di merende,
che ha
un'apertura delle braccia di quasi tre metri, con un aiutino da parte
della riserva scientifica nazista?” Sam restò a
labbra schiuse,
guardandola con occhi sgranati. “Tira la tenda.”
Ordinò Elle
dopo pochi minuti. L'altra annuì, alzandosi e tirando con
una mano
la pesante tenda di cotone scuro. Il buio, ad eccezione della luce
che reggeva Sam, prese possesso della stanza.
“Oh
cielo.” Commentò Mallory, guardando la scena.
Una
serie di strane impronte, quasi esagonali, per la maggior parte
incomplete correvano per il pavimento del soggiorno, probabilmente
fino all'ingresso. La lampada mostrava gli schizzi di sangue, che
arrivavano fino al soffitto, e molteplici impronte di mani sulle
pareti.
Elle
si piegò verso un'impronta, più definita delle
altre. “Metro.”
Mallory
ci mise un secondo a scostare lo sguardo, afferrando qualcosa dalla
sua ordinatissima borsa da lavoro. Le passò il metro, giallo
fosforescente, in silenzio.
“Cinquantasette
centimetri.” Samuel scosse il capo, avvicinandosi.
“Il nostro
colpevole è Big Foot?”
Ridacchiò nervosamente, lo sguardo
che andava dall'impronta allo sguardo della donna.
Elle
scosse il capo, alzandosi. Scostò la tenda, facendo tornare
la luce
del sole nella macabra stanza. “Chiama Steve.”
“Perché?”
Chiese Samuel, sbattendo le palpebre. Elle sospirò.
“Rumlow
si è fatto una nuova corazza. Oramai, potremmo quasi parlare
di
Cyborg, o drone. ” Esalò
appena, indicando con il mento il
pavimento. “Sta testando le sue capacitàcon dei
soggetti di minore
importanza. E' arrabbiato.” Agitò le braccia,
spostandosi verso il
corridoio più interno. Percorse dei lunghi tagli nella carta
da
parati, a quasi due metri da terra. “...Molto arrabbiato.
Abbastanza da rischiare di incastrarsi nel corridoio.”
“Con
chi è arrabbiato?”
“Spero
di sbagliarmi...” Commentò Elle asciutta, entrando
nel piccolo
bagno, un solo lucernario che illuminava i mulinelli di polvere
nell'aria statica. Si tolse i guanti, lasciandoli nel lavello.
Alzò
lo sguardo, serrando subito gli occhi, le mani che sfregavano le
palpebre. Si sentiva improvvisamente stanca, la stanza che si muoveva
attorno a lei.
“Mallory,
portami la macchina fotografica quando hai finito in
soggiorno.”
La
donna appoggiò un altro cartoncino numerato, fotografando
un'altra
impronta. “In bagno?” Chiese l'agente, scettica.
Elle
percorse con le dita tremanti il contorno dello specchio.
Sam
si sporse nel minuscolo servizio, cercando di non toccare nulla.
“Elle, che...”
La
testa dell'uomo smembrato in soggiorno giaceva nella vasca da bagno,
la nuca coperta di capelli scuri che galleggiava nell'acqua
vermiglia, il viso del tutto sommerso sotto il pelo del liquido.
Un
coltello era infilato nello scalpo, a fare da fermacarte ad un plico
di fogli bagnati e sporchi di sangue. Samuel raggiunse il water,
piegandosi a rigettare tutto il pranzo. Indicò appena la
vasca ed il
suo contenuto, prima di piegarsi di nuovo, preda di un altro conato.
“Sei
tu.” Esalò appena, prendendo ampi respiri. Elle
annuì, stringendo
il bordo del lavandino con le dita sottili. Il suo viso guardava in
camera, nella foto che occupava un riquadro a colori del modulo,
scaricato da internet.
“Elle
Selvig. Psy. D. in Psicologia, Culver University. “
Lesse a
bassa voce.
Era
la sua scheda di servizio dell'FBI. Probabilmente, tutta la sua
storia e la sua carriera erano state stampate. Università,
S.A.S.,
F.B.I.. Un agente entrò nel bagno, guardandoli sconvolto, il
viso
pallido che assumeva tinte verdastre. “Signori...”
Mallory
fece per zittirlo, ma Elle fece un gesto vago. “L'uomo era un
militante di un gruppo neonazista anti-mutanti.”
Commentò l
giovane, guardando con uno scatto la testa galleggiante.
“Dì là
sono stampati anche la scheda di Scarlet Witch e del
Capitano.”
Commentò appena. Elle abbassò lo sguardo sui
fogli, mentre Samuel
ricollegava i tasselli.
“Elle,
solo la tua scheda è qui.”
Indicò gelidamente, con un
cenno del capo. La svedese tornò a guardare nello specchio,
gli
occhi persi su delle righe nel vetro, qualche accenno di sangue rosso
nei tagli precisi fatti con una lama. Percorse con le dita le
scheggiature, sospirando. “Solo la tua scheda è infilata
nella
nuca di questo tizio.”
“Qualcosa
che non sia ovvio, Wilson.” Commentò lei, mentre
lui seguiva il
suo sguardo.
Elle
abbassò gli occhi sul suo dito indice, osservando un leggero
taglio
che si era formato sulla pelle diafana. Samuel ebbe un fremito,
mentre Mallory spostava lo sguardo su di lei, raggelata. “Mi
devi un favore.”
Lesse sommessamente, la scritta incisa sul vetro con rabbia, le aste
delle lettere passate e ripassate, formando un carattere scomposto.
“Apertis
verbis...”
Sussurrò Elle
fra sé e sé, chiudendo di nuovo gli occhi.
“Agente,
è arrivato un altro tizio che dice di essere della squadra
Avengers.”
Esclamò
un'agente, avvicinandosi agli altri due alla soglia della porta del
bagno. Elle si voltò appena. “Rogers?
Romanoff?”
I
due negarono con il capo. “Uno che non abbiamo mai sentito,
dice di
essere...”
“Sono
il nuovo psichiatra della base operativa di Upstate.” Disse
una
voce, profonda, con tono mellifluo. “Mi hanno detto che
potevo
trovarti qui, Selvig.”
Elle
lanciò un'occhiata a Samuel, che stava in piedi, a pochi
passi da
lei. Si voltò, osservando l'alta figura che stava
sorpassando con
sguardo infastidito Mallory e gli altri due agenti. Elle
lanciò uno
sguardo alla donna della scientifica, sospirando. “Potete
lasciarci, ragazzi. Vi richiamo io.”
I
tre si allontanarono, tornando a pendere i calchi in salotto. Elle si
fermò un attimo ad osservare il collega: alto, capelli
scuri,
mascella decisa ed occhi sottili. Portava un elegante cappotto lungo,
di sartoria, ed una sciarpa color sabbia, probabilmente di seta.
L'uomo le lanciò un'occhiata divertita, scrutandola da capo
a piedi
come se stesse valutando un prezzo, per un'asta. Elle rispose allo
sguardo con altrettanta energia.
“Allora, adesso che mi ha
trovato ed ha interrotto il mio lavoro, posso sapere con chi ho il
piacere-”
“Nari
Nalsson, psichiatra, laureato ad Oxford.” La
guardò con aria di
sfida, mentre Elle si lavava le mani nel piccolo lavello, cercando di
ignorare l'avvertimento graffiato a viva forza sul vetro. Si
voltò,
dopo essersi asciugata le mani sui pantaloni neri, sotto lo sguardo
piuttosto schifato dell'altro, e gli tese la mano. Lui non la
strinse, guardandola con un sopracciglio alzato. Indicò la
testa
nella vasca da bagno con un cenno del mento. “Sembra che
qualcuno
ce l'abbia con lei, signorina Selvig.”
xxx
Eccoci
con il capitolo! Spero di non avervi disturbato con il reminder. In
ogni caso, spero che questo capitolo ricco di avvenimenti e di azione
vi abbia ripagato dell'attesa!
Ci
sono tantissimi Easter Egg in questo capitolo, ma veramente tanti.
Canzoni, luoghi, cose. E
iniziamo a tirare le fila degli eventi: River, Rumlow che è
tornato
in città, il Norvegese! Elle e Steve iniziano a trovare un
equilibrio, si svelano piano piano a vicenda. BUCKY è
tonato, ma non
al massimo della forma. Samuel invece è rinato come una
farfalla dal
suo bozzolo (?).
Beh,
nonostante i problemi che ci sono stati con le recensioni - diverse
di voi mi hanno detto che non sono mai arrivate, maledetti gufi
messaggeri! - spero che abbiate voglia, e tempo, di farmi sapere cosa
ne pensate. Attendo con ansia!
Grazie
alle solite Delta e Giulietta per la compagnia e, soprattutto, per
sopportare i miei scleri telematici!
Buona
notte, o buon giorno, a tutti! ;)
Eve
|
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Capitolo 22 *** 21. Echi ***
Dove
eravamo rimasti...
Gli
Avengers stanno affrontando una delle crisi politiche più
insidiose
della storia internazionale. Nessuno vuole cedere campo a nessuno,
finendo quindi per distrarre l'attenzione dal vero pericolo, l'Hydra.
Il
corpo terroristico si sta infatti riformando, cercando nuovi alleati
e nuove risorse, come Steve Rogers ha appreso in Wakanda.
Il
Generale 'Thunderbolt' Ross sta prendendo pian piano possesso degli
organi politici più vicini alla squadra, iniziando a
seminare
dissidi fra i componenti.
Elle
Selvig è stata la prima ad essere formalmente licenziata
dalla
squadra, ed ha riavuto il suo ruolo di Agente dell'F.B.I.. Insieme
con Samuel, trova sulla scena di un omicidio
particolarmente efferato, le prove che Brock Rumlow, ora Crossbones,
è ancora sotto l'Hydra e sta ripulendo New York da tutti i
componenti dei più convinti gruppi anti-mutanti.
Dopo
Lagos, l'opinione internazionale è particolarmente sensibile
al
tema, e l'attenzione generale sulla squadra è molto alta,
mettendo
alla prova l'amicizia di Elle e Natasha.
Nel
frattempo, Steve Rogers ha compreso che Selvig sa qualcosa riguardo
allo scomparso Soldato d'Inverno. Nonostante le prove che Elle ha
incautamente lasciato al loro ultimo incontro, decide
di non affrontarla direttamente, proseguendo le sue ricerche con
Samuel Wilson.
Captain
America ha nel frattempo intrapreso una relazione con Elle,
nonostante i segreti di entrambi ed i problemi che devono affrontare.
Elle vive un momento di profonda angoscia
quando la figlia adottiva, River, affetta da una forma psicologica di
mutismo infantile, chiama il nome di James vedendo Steve Rogers.
Elle
scopre così che la figlia è a conoscenza di
qualcosa, ma ancora non
riesce del tutto a spiegarsi il fenomeno.
James
Barnes è invece arrivato a Seattle, seguendo le indicazioni
di Elle,
ed ha trovato asilo in casa di una ex compagna di università
di
Selvig, Valentina Tremonti la
quale è stata una delle maggiori ricercatrici nel campo
della
Psicologia della Memoria.
Ed eccoci qui,
prendetevi del tempo, un paio di pacchi di fazzoletti, cioccolata ed
altri generi di conforto.
Skyfall
è tornata,
bitches!
">>
ATTO
VENTUNESIMO: ECHI
Capitolo dedicato alla
dolcissima Giulia, detta anche Giulietta
Beccaccina,
che oggi compie 22 anni!
Una bella dose di Stellecky, al momento giusto!
"And
no one showed us to the land,
And no one knows the wheres or
whys.
But something stirs and something tries
And starts to
climb towards the light "
PINK
FLOYD
Febbraio
2016
L'ampia
stanza era riempita solo dai lamenti soffocati dei soggetti,
malamente legati da catene di ferro alle pareti spoglie, macchiate
dall'umidità e da una muffa nera come pece. L'aria era
satura di
odori nauseabondi; qualcuno dei prigionieri sembrava immobile,
ghicciato dal fredddo invernale che entrava nella stanza dal tetto
poco solido e dalle finestre, malamente rattoppate con pannelli di
cartone.
L'unico
ambiente illuminato era una tenda da lavoro, il bianco iridescente ed
asettico che stonava contro il nero putrido delle pareti. Un uomo
uscì con passo deciso dall'unico ingresso di quell'oasi
candida, il
clangore metallico che risuonava ad ogni passo. I prigionieri
evitavano il suo sguardo, schiacciandosi gli uni contro gli altri in
un groviglio silenzioso.
Era
come loro, ed allo stesso tempo era intriso di un senso di
superiorità, di invincibilità. Non sentiva
più il dolore delle
lacerazioni, dei tubi che uscivano dalle sue spalle e dalla schiena,
delle macchie violacee laddove erano stati inseriti gli innesti.
Sentiva la pelle tirare in modo strano, una specie di lamento cutaneo
continuo alla quale si era presto abituato.
Mosse
il braccio, e con esso tutto l'apparato metallico che aveva inziato a
percepire come la sua salvezza, il suo modo per innalzarsi al livello
dei suoi nemici.
Non
aveva paura, non provava dolore. Nessun sentimento. Osservò,
dall'alto delle protesi che sostituivano i suoi piedi, la massa nuda
di soggetti che cercavano di coprirsi dalla sua vista, accalcandosi
fra loro e nascondendo il viso con le braccia o contro le schiene
degli altri. Li guardò, schifato.
Lui
non era stato un semplice esperimento. Un test. Era una fenice, il
risultato di un lungo percorso fatto di dolore e sacrificio. Per la
causa. Per migliorare sé stesso. Per l'Hydra.
Era
stato forgiato dal fuoco, che aveva distrutto i suoi lineamenti.
Aveva distrutto chiuque lui fosse stato, prima della caduta di tutto
ciò che conosceva, e che era solo un ricordo lontano. Un
ultimo
sprazzo di luce, cocente, che gli bruciava la pelle e fin dentro le
ossa, prima dell'ombra rassicurante del buio, e del gelo.
Ora,
importava solo chi era diventato. Crossbones. E la
sua
missione.
xxx
Elle
prese un'ampia boccata di quell'aria pungente, ghiacciata, guardando
il sole sorgere, i muscoli distesi e un'espressione rilassata. La
luce avanzava, illuminando timidamente il bosco e la base operativa
al centro di esso, i raggi che colpivano di spieco la cima degli
alberi, producendo contro la neve candida intrappolata fra i rami un
riverbero iridescente che la faceva sentire a casa. In lontananza, in
una giornata più limpida, avrebbe potuto vedere il profilo
della
città di New York, la neve che ancora ricorpiva tutti gli
edifici e
le strade. Invece, una nebbia irreale copriva con il suo manto
ghiacciato tutto ciò che la circondava, tutto ciò
che andava oltre
la balausta di quel tetto pano, rendendo ciò che vedeva
ancora più
irreale.
La
tormenta era stata sorprendentemente violenta, quest'anno, e lei era
sgusciata malvolentieri fuori dalle coperte tiepide, cercando quasi
istintivamente la sagoma del suo Capitano.
Però era a casa,
dove aveva preferito rifugiarsi tutte le sere di quella settimana che
andava concludendosi. Era Venerdì: questo voleva dire pace;
poche ore ancora e sarebbe finita anche la sua esperienza come
galoppina di Fury.
Lunedì
aveva riavuto il suo distintivo dell'FBI, ed aveva ricevuto il suo
primo incarico. Martedì era arrivata la sua lettera di
dimissioni
dalla squadra Avengers, firmata direttamente dal Generale Ross. Il
resto della settimana, lo aveva passato fra una base e l'altra, tra
una riunione e un tentativo di indagine, tra la sua nuova scrivania
in mezzo ad un'ufficio affollato ed una sosta nel suo studio alla
facility.
La
sua lista delle cose da fare in quei giorni era stata
pressochè
eterna, e non sapeva quale delle varie note sarebbe stata quella che
le avrebbe dato il colpo di grazia. La stoccata finale.
Teneva
un piede sul cornicione, il ginocchio alzato, e le braccia rilassate
lungo i fianchi. Il vento le scompigliava in modo fastidioso i
capelli, che si erano allungati ancora. Non aveva tempo nemmeno di
andare a farseli tagliare, e oramai le sfioravano le vertebre
lombari. Se li scostò contro il collo, infilandoli con un
gesto
pratico nel bavero della giacca scura.
"Selvig."
Si
voltò appena, riconoscendo nella fioca luce del mattino il
profilo
inconfondibile del miliardario più famoso della
città. Annuì
appena, facendogi cenno di avvicinarsi.
"Un
uccellino mi ha detto che oggi hanno deciso di sciogliere
completamente la squadra. Tu..." Elle rispose con un gesto vago
con il capo. "Ho già riavuto il mio vecchio incarico, non
preoccuparti per me."
Stark
annuì, rabbrividendo nella costosa giacca firmata, nera con
sottili
righe grige. Si sistemò la cravatta rossa con un gesto
nervoso,
allentandola appena. "Un problema in meno."
Elle
annuì, lo sguardo che tornava contro il panorama. "Mi
mancherà
tutto questo verde."
"Dobbiamo
pensare al nostro comune amico." Esclamò
nervosamente
lui, riportandola al presente. Elle gli lanciò uno sguardo
rassegnato, prima di infilarsi le mani nelle tasche. "Cosa
succederà?"
"Chiederanno
di votare un nuovo capo per la squadra che verrà a
formarsi."
"Cosa
hai in mente?" Stark si passò una mano sul pizzetto,
schioccando le labbra. "Quello che faccio sempre quando non so
cosa fare." Elle rimase in attesa, senza guardarlo, le labbra
tese in una smorfia. "Prendere tempo." Concluse infine
l'uomo.
"Come."
Disse lapidaria lei. Lui sospirò. "Ci sarà una
votazione. Per
eleggere un nuovo capo per gli Avengers. Una votazione a due..."
"Ovvero
tu, e..."
"Tu."
Commentò Stark, sorridendole maliziosamente. "Solo noi due,
a
deliberare in una stanza. Ovviamente sorvegliata. Ross non ci vuole
allungare il guizaglio, ma l'ho convinto che sei la persona giusta.
Tu devi solo stare al mio gioco."
"Non
penso di volerti dare il comando di una legione di mutanti. Sono gli
stessi che vorresti far schedare."
"Devi
fidarti di me. Fai il mio nome. Vedrai che non sarò io a
predere il
comando, non oggi."
Elle
lo scrutò appena. "Stark, non costringermi a leggerti nella
mente per capire a cosa stai pensando."
"Non
prenderò il comando degli Avengers. Non prima di aver avuto
occasione di parlare con il Capitano." Elle prese una boccata
d'aria. "Allora, siamo dalla stessa parte?"
Stark
scosse il capo, le spalle rigide. Non aveva più
quell'espressione
strafottente che sembrava accomagnarlo sempre. Era fragile.
Elle se ne rese conto, vedendo come teneva le mani in tasca, e come
il suo sguardo vagava con un accenno di angoscia nel cielo aperto,
che lei trovava così rassicurante.
"Non
penso siamo dallo stesso lato della barricata, Selvig. Diciamo che
sei la persona più affidabile, fra le linee nemiche." Elle
annuì appena. "...Nemiche."
Stark
si guardò attorno, prendendo un'ampia boccata d'aria.
"Incredibile,
io che cerco di proteggere il mondo da Rogers..."
Elle
si sedette sul cornicione, battendo il palmo della mano sul muro di
fianco a sé. L'uomo la guardò un secondo, prima
di sedersi
anch'egli, scostando la giacca con un movimento elegante. Estrasse un
pacchettino dalla tasca della giacca. "Arachidi?"
Elle
fece un'espressione combattuta, prima di allungare la mano. L'uomo
lasciò cadere con un gesto calmo un paio di frutti
sgusciati,
guardandola appena. "Grazie, Stark."
Rimasero
a masticare in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri. Stark si
strinse nelle spalle, rimettendo la sua maschera di incoscienza.
"Pensavo mi avresti buttato giù dal tetto."
Elle
fece un gesto vago. "Mi hai offerto del cibo, sarebbe scortese."
Stark
si strinse nelle spalle. "Ho appena detto che voglio salvare il
mondo dagli affetti malriposti del tuo Romeo, Ikea."
Elle
scostò lo sguardo, con una smorfia divertita. "Avevo capito
anche prima, Stark." Fece un gesto vago, prima di infilarsi le
ultime arachidi in bocca con un unico gesto. "Barnes sembra
pericoloso, ma tu cosa faresti se potessi aiutare qualcuno che tutti
ritengono pericoloso ma che in realtà non lo è?"
L'uomo
sorrise appena, lanciandole uno sguardo divertito, gli occhi nocciola
illuminati dal sole che aveva quasi superato la linea degli alberi.
"Se
parli dell caso Felpa Blu, ce ne siamo accorti solo
in
pochi..." Elle sbattè le palpebre, maledicendosi in tutte le
lingue che conosceva. "Capt compreso. Anche se..." Appoggiò
il mento sulla sua mano, arricciando le labbra. "Questo è un
punto che non mi è chiaro."
"Perchè?"
Replicò scocciata Elle, guardandosi la punta degli stivali
neri. "Se
ci fosse stato Rhodey, al posto del Soldato..." Fece un gesto
vago con la mano libera, le sopracciglia aggrottate. "Ti avrei
presa e sbattuta in giro fino a che tu non avessi
parlato." Elle lo guardò perplessa, le labbra schiuse dalla
sopresa. Stark
scoppiò a ridere. "Non il quel senso, Barbie.
Non sei
decisamente il mio tipo, e io sono un uomo impegnato."
Elle
riprese a respirare. "Intendi che mi avresti torturata, ecco..."
Borbottò, sollevata. Stark scoppiò a ridere.
"Almeno abbi la
decenza di nascondere il sollievo, ho un'autostima! E comunque..."
Mulinò le sopracciglia. "...Dubito che con Capitan
Ghiacciolo
tu veda un po' di azione."
Elle
scoppiò a ridere, dandogli una spallata e alzando lo
sguardo,
imbarazzata. "Questi non sono affari tuoi." Stark la seguì
nella sua risata. "Lo so, ma è troppo divertente
immaginarlo mentre tenta di-"
Elle fece finta di spingerlo giù dal tetto, facendolo
scoppiare di
nuovo a ridere. "Non sei divertente."
"Non
è vero, e lo sai." Commentò lui, rilassandosi, le
gambe aperte
e le mani appoggiate sulle gnocchia. Sembrava un normale uomo
d'affari, su un tetto alle cinque del mattino a chaccherare con una
donna in maniche di camicia.
"Comunque,
Elle, non so che dirti. Barnes è
pericoloso.
Se dovessi sapere che sai dove è in questo momento, e non lo
hai
rivelato al Consiglio Mondiale, sarebbe alto tradimento."
Si
grattò appena la tempia. "Non ho dubbi sul fatto che vada
catturato, ma se, anzi, quando Ross darà l'ordine di
ucciderlo..."
Elle fece per alzarsi, scuotendo la testa. Tony la prese per il
braccio, spingendola di nuovo seduta. "Devo rispondere a degli
ordini. Dobbiamo rispondere a degli ordini." Elle lo guardò,
l'espressione tesa. "Dimmi chi sei e che ne hai fatto di Tony
Stark." L'uomo scosse il capo, un finto sorriso sulle labbra
sottili.
"Selvig..."
Aspettò che lei si voltasse a guardarlo. "Tutti devono
crescere, prima o poi. Noi non siamo un corpo militare diverso dagli
altri. Dobbiamo rispondere a degli ordini. Prima erano gli ordini del
Capitano, ma ora.."
"Ora
sono gli ordini di Ross." Commentò lei asciutta. Lui
annuì,
l'espressione improvvisamente contratta. "So che Ross non
vincerà mai il Nobel per la pace. Non hai idea di
cosa mi farebbe
Banner se sapesse che..." L'uomo scosse il capo. "Ma
è
un inizio."
"E
Steve?" Chiese Elle, sospirando. Stark scosse il capo. "Rogers
non è più la persona che ho conosciuto quando
siamo saliti su
quell'elicarrier, tre anni fa." Commentò asciutto. "E da
quando è comparso Barnes..." Elle sospirò. "E' il
suo
amico."
"E'
uno psicopatico pluriomicida a piede libero."
La
svedese si morse il labbro inferiore, riflettendo. "Uno
psicopatico pluriomicida che non ha ancora ucciso nessuno."
"Lagos.
L'omicidio del nazistoide, dove sei andata lunedì. Daranno
la colpa
di tutto a Barnes."
Elle
represse un verso disgustato, alzandosi. "Tu sai che non è
stato lui."
"Ha
ucciso i miei genitori." Commentò asciutto. Elle lo
squadrò,
da un paio di passi di distanza. "Ne
sei sicuro?"
Stark fece un verso sconsolato, aprendo le braccia.
"Alla
gente serve sapere che sappiamo chi è stato. E che ci stiamo
muovendo per prendelo. Oppure, invece che a Barnes, daranno la caccia
a tutti noi. Tutti."
Esclamò con tono agitato lui. Elle sbattè un
piede a terra,
furibonda. "A te serve sapere che hai sotto mano l'uomo che ha
ucciso i tuoi. Ucciderete l'uomo sbagliato, solo per usarlo come
capro espiatorio! Per non fare la fatica di indagare sugli uomini
veramente colpevoli!"
Stark
alzò il capo, guardandola come un padre guarderebbe la
figlia
adolescente ribelle. "Selvig, cerca di capire. L'altro giorno un
bambino ha fatto vedere alla sua maestra che poteva far levitare dei
fogli di carta, comandando delle correnti ascensionali. Uno
sbuffo d'aria."
Abbassò lo sguardo, prendendo un ampio respiro. "La maestra
ha
chiamato l'antiterrorismo e sono intervenuti persino i servizi
segreti. Quel bambino è stato in commissariato, in una
cella, per
dodici ore prima che lo rilasciassero, capendo che non voleva fare
del male a nessuno."
Elle
rimase in silenzio, senza poter dire nulla, lo sguardo perso in
quello del miliardario, i pensieri che correvano a mille nella sua
testa, senza darle un secondo di tregua.
"Continueranno
ad accadere casi del genere, se non calmiamo le masse. E, se Barnes
è
un uomo onorevole anche solo la metà del suo amico
in tutina
azzurra, lo capirà da solo."
Elle
rimase in silenzio, mentre Stark si alzava, appoggiandole una mano
sulla spalla. "Non è una scelta che spetta a noi, decidere
cosa
è giusto e cosa non lo è. Dobbiamo scendere a
compromessi, prima
che si arrivi ad una guerra civile." Elle annuì appena,
guardando il pavimento in cemento del tetto, senza espressione. Stark
si avvicinò appena al suo orecchio, sospirando.
"Più che di
Barnes, preoccupati di Rogers."
Si
allontanò verso la porta, estraendo le mani dalle tasche del
completo elegante. Si fermò solo un secondo sulla soglia,
riallacciando la cravatta e stringendola contro il colletto della
camicia di sartoria.
"Uno
è un Soldato, e l'altro è un Capitano. Ma devo
ancora capire chi
dei due stia seguendo l'altro, verso il baratro." Esclamò,
guardandola con espressione grave. Elle voltò appena il
capo, i
capelli che scivolavano fuori dalla giacca e tornavano a coprirle il
viso. Stark restò a fissarla, alzando un pollice e cercando
di
sorridere nel modo più finto che gli riusciva.
"Ricordati:
vota Stark."
Quello
sarebbe stato un giorno decisivo.
xxx
"...Allora,
tu stai studiando come una matta da due anni per entrare nell'Eqipe
di ricerca di questo professore, no?" Val fece una smorfia,
agitando le mani,presa dal racconto che stava facendo al suo ospite,
i capelli tenuti lontani dal volto rotondo da una fascetta azzurra.
Era una settimana che James viveva sul loro divano, e quella serata
si era svolta come le precedenti: avevano guardato un po' di
televisione, seduti sul divano. Il suo coinquilino era uscito, come
la maggior parte delle sere, e probabilmente non sarebbe tornato a
casa. Quando Valentina si era svegliata per andare a bere, cosa per
lei insolita, si era accorta prima ancora di arrivare ciabattando nel
soggiorno che qualcosa non andava.
James
si agitava violentemente sul divano, la coperta stretta fra i denti
ed i capelli aggrovigliati attorno al viso sudato.
Per
la prima volta da quando era arrivato, Val ne aveva avuto paura.
Perchè il suo volto era in tutti i notiziari, e tutti
sostenevano
che avesse ucciso un uomo a New York. Nonostante Barnes fosse
già a
casa sua, al momento dell'omicidio, Valentina non poteva non
chiedersi se fosse giusto, se fosse sicuro tenerlo nascosto nel suo
appartamento. Se non avrebbe potuto rivelarsi pericoloso.
Poi,
improvvisamente, James si era alzato a sedere sul divano, gli occhi
sgranati ed il fiato corto, e l'aveva guardata come un bambino quando
si perde al centro commerciale. Non aveva detto nulla, nè
aveva
versato una lacrima: aveva preso ampie boccate di aria, scuotendo il
capo come per scacciare via anche gli ultimi echi lontani dei suoi
incubi.
Val
era rimasta sullo stipite della porta, chiedendosi se fosse il caso
di entrare o meno. Indecisa, i piedi nudi che facevano sfregare a
terra le ciabatte a fantasia muccata, ritmicamente. James evitava il
suo sguardo,
la maglietta bianca di Ethan che gli stava decisamente troppo
attillata sulle spalle rigide.
Valentina
non aveva, in quel momento, nè la concentrazione
nè le energie per
consolare l'altro. Si era mossa lentamente attraverso il salotto
buio, la grossa felpa che si era infilata che la faceva assomigliare
ad un grosso involto scuro, ed aveva messo due tazze d'acqua nel
microonde. Era rimasta nella pallida luce a neon della cucina,
appoggiata al ripiano, a guardare le tazze girare attraverso il
vetro, senza voler infrangere il momento privato di James.
Aveva
buttato due bustine di infuso nelle tazze, e si era avvicinata
lentamente, aspettando di vederlo voltarsi verso di lei, con lo
sguardo un po' perso che lo aveva accompagnato dall'inizio della loro
convivenza forzata.
L'uomo
invece stava chinato in avanti, con i pugni stretti appoggiati al
viso, in una posa di evidente disperazone.
Val
dubitava di poter alleviare tutta quell'ombra che lo pervadeva con
una semplice tazza di camomilla. Ma, se fosse tornata a dormire
facendo finta di nulla, avrebbe dimostrato a se stessa di essere una
persona ancora più misera di come già si
considerava.
Così
si era seduta, sul lato più distante dall'uomo di quel
divano,
comprato a poco in qualche mercatino, e aveva cominciato a parlargli
di lei, di come conosceva la Selvig, e di come era arrivata
lì, a
Seattle, a lavorare come cassiera in un Walmart.
Cercando
di esorcizzare i pensieri che riempivano di angoscia la mente di lui,
nascosta nell'ombra della notte, gli aveva rivelato con schiettezza
ciò che perseguitava lei.
"E
improvvisamente nella tua classe di psicologia cognitiva arriva
questa, diciotto anni, alta, bionda, occhioni da cerbiatta, voti
perfetti... Una che potrebbe essere presa in qualsiasi progetto di
dottorato, no?" James fece un gesto di assenso con il capo,
iniziando a distrarsi, appoggiandosi con la schiena al divano, le
sopracciglia aggrottate. "E invece vuole proprio andare li, dal
professor Dalton, a fare ricerca sulla memoria. E io sbavavo dietro a
quel progetto da quando ero alle superiori, da quando mia nonna si
era ammalata di Alzheimer, cinque anni prima. Sai cos'è
l'Alzheimer,
vero?" L'altro annuì appena. In realtà non aveva
idea di che
cosa stesse parlando la donna, ma sembrava di vitale importanza
stragica non interromperla. Avrebbe potuto attaccarlo alla gola,
infervorata com'era dal suo discorso.
"Io
passo le settimane, i mesi, gli anni china sui libri. Vedo tutti i
giorni gli altri studenti uscire, Selvig compresa, sempre con quella
sua coinquilina, quasi fossero una coppia, sempre fuori a divertirsi.
Ed io invece resto nella mia stanza, a studiare, fino a degli orari
assurdi. Sputo sangue, per raggiungere i miei scopi." Portò
una
mano al capo, grattandosi i corti capelli neri con un gesto nervoso,
gli occhi che scrutavano la tazza quasi vuota appoggiata sul tavolino
di fronte a lei. Prese un respiro, proseguendo con tono più
basso il
suo racconto, l'espressione di una persona che si sta confessando in
chiesa.
"Ero
così vicina al mio obiettivo. Ero andata a ricevimento dal
professore, uno dei maggiori leader della ricerca in Psicologia
Cognitiva, Philip Dalton. Sono un fascio di nervi, mi ripeto che mi
sto giocando la mia grande occasione, e ad un certo punto entra lei.
Elle Selvig. E lui ricomincia a spiegarci cosa dovremo fare, ma la
guarda, la chiama per nome, le sorride. Lei è una maschera
di
indifferenza, mentre io mi agito sulla sedia e mi torco le mani. Ed
è
lì che capisco, okay, che il posto in
realtà è già suo.
Che il Professore non deve veramente scegliere, ha già
scelto, nel
momento in cui Selvig è entrata dalla porta. E lei lo
guarda,
inespressiva, finchè lui non si interrompe un attimo,
estraendo i
moduli delle nostre candidature. Ed in quel momento..." James
pendeva dalle sue labbra, seduto sul divano, le braccia appoggiate
alle ginocchia e la testa voltata nella sua direzione, l'improbabile
maglietta bianca che lasciava scoperte al freddo di febbraio le
braccia, i capelli puliti e ora legati in una coda bassa. Vera
guardò
un attimo la tazza, prendendola e tenendola tra le mani giunte,
raggomitolata con le ginocchia al petto contro il divano. Scosse un
attimo il capo, lo sguardo perso nel vuoto.
"Non
so dirti che cazzo è successo, a dire il vero. Lei lo ha
guardato,
non è che lo ha guardato, lo ha fulminato
con lo sguardo.
Come se lui avesse appena estratto un suo set fotografico in costume,
o se le avesse fatto qualche commento inappropriato. Lui alza lo
sguardo, lei è ancora lì, con ancora
quell'espressione tesa. Si
alza, tende la mano verso il professore, e con tono glaciale dice
'La ringrazio per la sua offerta, ma non penso che sia il giusto
percorso per la mia carriera.'." Vel scosse ancora il capo,
prendendo una sorsata di thé.
"Non
ho mai veramente capito... Non me lo sono mai veramente chiesta.
Dopo, sono stati i sei mesi più soddisfacenti della mia
vita. Ho
dimenticato Selvig, e tutto quello che era successo a quel colloquio.
Stavamo trovando una nuova cura per le persone affette da amnesia, un
farmaco che avrebbe potuto salvare milioni di vite condannate al
vuoto. Parlavo con i pazienti, facevo sedute, test, il mio lavoro
insomma. Ero felice." La ragazza alzò lo sguardo sull'uomo,
che
la stava pazientemente ascoltando, le labbra schiuse per
l'attenzione. "Poi, un giorno, si scopre che le staminali per
quella cura vengono estratte dai bambini al commercio degli organi...
Brasile...Thailandia...Sangue, polpa dentale, adipe...Non solo i
cordoni ombelicali."
Barnes
restò basito, ghiacciato sul posto dal tono di lei, un misto
di
raccapriccio e innocenza rubata. "Mi dispiace." Sussurrò
solo, riportando lo sguardo sul tavolino. Afferrò l'altra
tazza,
ancora piena, bevendone una generosa sorsata. Val annuì
appena,
senza guardarlo.
"Ho
perso tutto. Abilitazione. Credibilità. Stavo per finire in
prigione. Ma..." La ragazza alzò le sopracciglia scure, con
un
sorriso sghembo, mentre lui riportava lo sguardo su di lei.
"....Fatalità, mentre io diventavo un'assassina senza
nemmeno
saperlo, lei era entrata nell'FBI. Mi chiamò, e si prese
carico di
aiutarmi. Il perchè, lo sa solo lei. Ma io, da allora, ho
sempre
ripensato a quel colloquio. Non sono mai riuscita a togliermelo dalla
testa. Elle Selvig sapeva."
Barnes
le prese la tazza vuota dalle mani, alzandosi senza dire nulla. Aveva
sempre avuto dei dubbi, su come Elle fosse stata in grado di trovarlo
la prima volta. Sul comportamento di Rumlow. Ma soprattutto, su come
la sua anima lorda di sangue non la avesse fatta fuggire. Elle aveva
visto qualcosa, in lui, qualcosa che la aveva portata a difenderlo, a
costo della sua stessa vita. Qualcosa che la aveva convinta subito,
appena i loro occhi si erano incontrati, forse già mentre
scrutava
quella vecchia casa immersa nel nulla, più di sei mesi
prima.
Allungò
la mano, stringendo leggermente quella della donna in un gesto
comprensivo, e poi le prese la tazza dalle mani, allontanandosi e
riponendola nel secchiaio della piccola cucina insieme alla sua. Val
lo ringraziò, sistemandosi meglio sul divano e voltando il
capo per
vederlo meglio anche attraverso la piccola penisola della cucina.
"Ora che sai praticamente la storia della mia vita, parlami di
te. Da quello che mi ha detto Elle, sembri uscito da una specie di
progetto MK Ultra..."
Barnes
la guardò un attimo, perplesso, avvicinandosi al
frigorifero.
Estrasse una fiala, prendendo poi da un cassetto una siringa
confezionata. Era solo una settimana che aveva cominciato la cura, ma
aveva già preso dei ritmi precisi. Vera diceva che fosse a
causa del
sentimento di smarrimento dato dalla prolungata
assenza
dell'elettroshock, di come la sua mente fosse affamata di scadenze
precise, di regole. Dopo ogni risveglio, di solito al mattino, ed
alla sera prima di dormire, doveva prendere un concentrato di
Diazepam e altri inibitori della colinesterasi. Dopo aver sognato
ancora l'uomo con lo scudo, era sicuro che non sarebbe riuscito a
prendere nuovamente sonno.
Tornò
sulla poltrona, mentre Val si sporgeva a stringergli il bicipite del
braccio sano con un laccio emostatico. "Se ti dovessero fermare,
penserebbero che fai uso di droghe. Anche se..." Indicò
l'altro
braccio, che brillava di luce riflessa. "...Presumo che
smetterebbero di preoccuparsi dopo aver vistro l'altro."
James
sorrise divertito, mentre Val riempiva una siringa, picchiettandola
con uno schiocco di dita. "Mi inquieta come Elle riesca a
procurarsi queste cose dalla sera alla mattina, da un lato all'altro
del continente." L'altro sorrise appena, lo sguardo vacuo.
"So
che non sei esattamente..." L'altro riportò l'attenzione
sulla
ragazza. "Cosa?"
"Sei
depresso, James. Hai un chiaro disturbo post-traumatico da stress."
Concluse Val, crudemente, infilando l'ago nel suo braccio sano. James
fece una smorfia. "Se mi agito troppo, temo che..."
"Selvig
non mi ha spiegato cosa facevi prima, e perchè ti hanno
ridotto
così."
"Mi
hanno addestrato ad uccidere." Esclamò piano lui. "Ero un
sicario."
Val
deglutì, spingendo lo stantuffo. "Immaginavo..."
"E
mi hai lasciato comunque restare a casa tua?" Chiese sorpreso
lui. Val alzò appena lo sguardo, un lato delle labbra
sollevato in
una smorfia. "Certo."
Fermò
con un dischetto di cotone l'ago, estraendolo con calma. "Immaginavo
che tu non fossi un tecnico di laboratorio, per finire conciato
così
nel mio salotto. Inoltre..." Estrasse tutto l'ago, sorridendo
fra sé e sé. "Un tecnico non avrebbe certo tutto
quel ben di
dio, sotto la maglietta."
James,
dopo anni di congelamento, di fughe e di angoscia, arrossì.
Val
quasi scoppiò a ridere. "Con quel muso, non avrei mai potuto
buttarti fuori di casa! E, come hai sentito..." Si alzò
appena,
iniziando a incartare la siringa e la confezione del farmaco. "...Non
sei l'unico assassino, qui dentro."
James
sorpirò, guardandola alzarsi. "Non è la stessa
cosa. Tu non
sei un'assassina, Valentina. Non lo sapevi."
"Nemmeno
tu, da quello che mi pare di aver capito." Commentò piano
lei,
sorridendo, mentre lui lasciava la presa.
"Domani
faremo la tua prima seduta, con Elle collegata e tutto. Sarà
una
giornata lunga, sempre se arriveremo entrambi in fondo. Ora,
riposati." Concluse la donna, guardandolo mentre si stendeva sul
divano, un cuscino rosa shocking sotto alla testa e una coperta a
fantasia di nuvole e aereoplanini sopra. Lo guardò un attimo
dalla
soglia del soggiorno, prima di spegnere la luce, sentendo ancora lo
sguardo dell'altro addosso.
"Buonanotte,
James."
"Buonanotte,
Val."
xxx
Uscì
con passo deciso nella stanza, le maniche della camicetta bianca
arrotolata ai gomiti ed i capelli ben legati in una treccia alla
nuca. Stark era dietro di lei, un braccio piegato contro la spalla e
la giacca elegentemente tenuta fra le dita della mano, in una posa
quasi costruita.
Come
predetto da Stark, Ross aveva deliberato per il congedo di Elle dalla
Facility a causa di un deliberato conflitto di interessi. Steve si
era quasi alzato dalla sedia, ma lo sguardo dell'altra, da un lato
all'altro del tavolo, lo aveva spinto a rimanere seduto.
Elle
era stata riassegnata al tavolo delle trattative come 'testimone
presente al momento dei fatti di Lagos', e come 'esponente del
reparto analisi comportamentale' dell'FBI. Aveva trovato ridicolo il
ragionamento di Ross, per il quale farla spostare da un lato
all'altro del tavolo avrebbe influito sulla determinazione dei suoi
compagni alla causa, ma aveva obbedito in silenzio.
Steve
le aveva sorriso un secondo, mentre Elle prendeva posto. L'unica cosa
che non le era del tutto andata a genio era vedere Sharon spostarsi
sulla sua sedia, piegandosi per suggerire qualcosa all'orecchio del
Capitano. Aveva dissimulato l'espressione infastidita, appuntandosi
il cartellino dell'FBI al bavero della giacca da ufficio.
Quando
Ross aveva esclamato che avrebbero tolto temporaneamente il comando a
Steve, Natasha si era guardata attorno leggermente a disagio, mentre
Samuel si alzava di scatto, Wanda che sgranava gli occhi, mettendogli
una mano sul braccio e facendolo nuovamente sedere. Era stata
nominata una commissione per decidere chi sarebbe dovuto intervenire
a comando della squadra, e quindi era finita in una stanza da
interrogatori, chiusa insieme a Stark, a recitare un copione
già
deciso.
Quell'uomo
era un attore nato: rispetto a quella mattina, sembrava un'altra
persona. Sicuro, strafottente, deciso. L'aveva guardata sogghignando,
estraendo una confezione di cracker dalla giacca. "Dobbiamo
riempire la prossima ora, Selvig."
Elle
si era guardata attorno, sedendosi sulla sedia storta e guardandolo
con sguardo provocatorio. "Fammi indovinare, ci guardano ma non
possono sentirci?"
Stark
annuì. "Forse solo il tuo gentile consorte, visto il Super
Udito. Ma nemmeno la gemella può leggerci nel
pensiero." Si
avvicinò allo specchio, sapendo che dietro almeno una
dozzina di
persone li stavano fissando con il fiato sospeso. Picchiettò
sopra
con le nocche. "Uno dei miei migliori progetti."
Avevano
parlato del più o del meno, sempre cercando di non mostrare
il
labiale a coloro che stavano fuori. Avevano giocato ad 'Io
non ho
mai' fingendo di litigare, ed ad un certo punto Elle aveva
persino sbattuto la cartelletta dei file degli altri Avengers sul
tavolo, fingendo di non essere d'accordo. Alla fine, avevano bussato
per uscire.
La
Svedese rientrò nella sala riunioni, facendo un cenno a
Wanda. La
donna nascose un sorriso dietro la mano, mentre Visione li guardava
perplesso. Samuel sembrava seduto su una sedia chiodata, e si agitava
cambiando posizione ogni due minuti. Natasha era ghiacciata sul
posto, le mani giunte davanti alle labbra pallide. Non alzò
nemmeno
lo sguardo su Elle, che deglutì appena, angosciata. Si
sedette
accanto a Stark, che invece sembrava nato per essere seduto a quel
tavolo, il petto all'infuori e lo sguardo acceso di vivo piacere.
Sembrava sguazzare nel disagio di quella stanza, allungando un
braccio sopra lo schienale della sedia di Elle, facendo irrigidire
Steve, che lo fissava truce. Sharon si guardò attorno,
imbarazzata,
il cartellino che recava la scritta CIA appuntato in malo modo sul
piumino, i capelli accuratamente stirati che le incorniciavano il
viso a cuore. "Dicevamo.." Esordì, senza attirare
l'attenzione di nessuno.
La
porta si spalancò. "Ben arrivato, ex direttore Fury."
Commentò Ross, squadrandolo in modo poco amichevole. "Si
stava
bene, all'inferno?"
"Benissimo..."
Rispose l'uomo in nero, avvicinandosi ad affrontarlo, faccia a
faccia. Maria lanciò uno sguardo accigliato ad Elle, che
annuì
impercettibilmente, facendo un minimo cenno verso Stark. Maria
sorrise appena, rilassandosi. "...Mi hanno detto che le tenevano
un posto in caldo." Concluse Fury, cercando lo sguardo di Steve.
Questi gli lanciò un'occhiata di sbieco. "Scusate il
ritardo,
non ero stato informato di questo meeting."
"Che
disdetta..." Commentò uno dei tirapiedi di Ross, un uomo in
completo nero, il viso inespressivo. Fury lo gelò con lo
sguardo,
restando in piedi, a braccia conserte, accanto al generale.
"Allora,
Anthony Stark ed Elle Selvig sono stati sorteggiati per deliberare
chi sarà il temporaneo sostituto a capo degli Avengers,
finchè
Steve Rogers non sarà ritenuto di nuovo idoneo a questo
compito."
Steve
strinse i pugni, scostando lo sguardo dal viso baffuto dell'uomo a
capotavola. Sharon allungò una mano, facendogli un buffetto.
Elle
fece finta di nulla, prendendo un'ampio respiro, mentre Natasha la
guardava preoccupata.
"Prima
le signore..." Commentò appena Stark, dandole un leggero
colpo
sulla schiena. Elle lo guardò torva, alzandosi lentamente,
le mani
che stringevano una bottiglietta d'acqua.
"Elle
Selvig, agente speciale di sesto livello dell'FBI, esponente per il
reparto analisi-" "Sappiamo tutti chi è, signorina."
Commentò Ross, sedendosi e facendo un gesto con la mano.
"Vada
al sodo."
"Il
mio voto per l'assegnazione del comando del progetto Avengers e della
squadra speciale ad esso legata va ad Anthony Stark."
Il
gelo scese nella stanza, mentre Elle si sedeva di nuovo. Sapeva a che
gioco stava giocando, quando era scesa in campo seguendo il piano
strampalato di Stark. Sentiva lo sguardo bruciante di infamia di
Sharon, quello sconvolto di Natasha, quello perplesso di Fury, e
soprattutto, quello deluso di Steve Rogers. Alzò appena lo
sguardo,
il chiacchericcio che si diffondeva per la stanza, mentre Steve
rimaneva a fissarla, la mascella contratta e gli occhi immobili in
un'espressione raggelata. Elle provò a fare qualche
espressione, un
cenno, per fargli capire che faceva tutto parte di un piano, ma
Sharon gli sfiorò la spalla, e l'altro si voltò a
sentire cosa gli
stava dicendo l'agente Carter. Elle sprofondò nella sedia,
sentendo
il petto riempirsi di ghiaccio. La partita non era ancora finita, ma
a lei ora spettava solo il ruolo di spettatrice.
"Allora
è deciso." Esclamò divertito Ross, girando sulla
sedia verso
il lato del tavolo dove sedevano gli Avengers. Nessuno osò
fiatare,
finchè una voce forse ancora più divertita non
interruppe quel
clima teso.
"Il
mio voto quindi non conta, Generale?" Chiese Tony, appoggiandosi
al tavolo con i gomiti, le mani aperte in un gesto infastidito. "Se
mi avete fatto venire fin qui solo per dirmi che sono il
nuovo
Capitano..." Elle si irrigidì, mentre tutti
rabbrividivano
a questa provocazione. Steve rimase immobile, lo sguardo che
fronteggiava quello di Stark. "...Potevate fare una telefonata,
invece che darmi tutto questo disturbo. Ci vuole mezz'ora in auto per
arrivare qui."
Fury
alzò una mano sul viso, coprendosi gli occhi con una
smorfia. Maria
li guardava, sconvolta. Ross si voltò verso l'uomo,
lentamente,
guardandolo con un sopracciglio alzato.
"Sappiamo
tutti che il suo voto andrà a sé stesso, ma se
vuole la
soddisfazione di dirlo ad alta voce, prego." Commentò,
facendo
segno di accomodarsi con le mani.
"Grazie,
Generale." Rispose Stark, fintamente servile. Si alzò
lentamente, sistemando i polsini della camicia, leggermente piegato
in avanti. Elle appoggiò il gomito al tavolo, guardandolo
esasperata. Lui le fece l'occhiolino.
"E' un piacere vedervi
qui tutti, oggi." Iniziò, mentre Steve sospirava
platealmente e
si allontanava con le braccia aperte dal piano del tavolo, scostando
lo sguardo da quel teatrino.
"Io,
Anthony Stark, come primo ad essere stato scartato dall'originale
progetto Avengers - a proposito, grazie, Natasha..." Mandò
un
bacio alla rossa, che prese un ampio respiro, alzando gli occhi al
cielo. "Come finanziatore del progetto, per aver messo a
disposizione le strutture e come salvatore della terra dal disastro
alieno..."
Elle
si prese la testa fra le mani, immaginandosi il probabile seguito.
Perchè si era fidata di Stark? Come era stata
così stupida? Perchè
si fidava sempre di tutti?
"Nomino
Elle Selvig come comandante del progetto Avengers e della squadra."
Elle
rimase immobile, un secondo, le spalle rigide come una scultura di
marmo. Cosa aveva appena sentito?
"Non
sia stupido, Stark, Elle Selvig è appena stata esonerata dal
lavoro
alla Facility."
"Non
vuol dire che non possa avere il comando." Commentò Stark,
indicandola. "E' una mutante, ha le competenze adatte, inoltre
ha già effettuato una missione con la squadra. Risponde a
tutti i
requisiti richiesti."
"Non
è legale." Ross guardò i suoi assistenti,
perdendo il filo
della discussione per un secondo. "Non è americana!"
"Per
questo, con Selvig al comando, la giurisdizione sulla squadra non
sarebbe più sottoposta a lei, generale, o al presidente."
Stark
si strinse nelle spalle. "Passerebbe tutto sotto-"
"Le
Nazioni Unite." Commentò Natasha, riprendendo colore. Steve
si
raddrizzò, iniziando a capire il piano. Wanda
annuì, facendo
un'espressione soddisfatta. Elle si guardò attorno, cercando
di
nascondere tutta la paura che provava in quel momento, dietro un muro
di indifferenza. Stark si sedette di nuovo, avvicinandosi
leggermente. "Sii come me, Selvig." le
sussurrò
appena. Elle guardò Steve, sprofondando di vergogna in
quegli occhi
di un blu fin troppo profondo. Avrebbe potuto annegare, in tutta la
confusione e l'irrequietezza che contenevano. Rimase immobile, a
fissarlo, come ipnotizzata.
"E
come si diventa come te, Stark?" Commentò, un
sibilo appena
tangibile. L'uomo si appoggiò alla sua spalla, guardando
Ross e Fury
che discutevano.
"Ignora
tutti i loro echi. Sai già chi vale
davvero la pena
ascoltare." Rispose il miliardario, attirando il suo sguardo e
indicandole la fronte candida con un dito. Elle si allontanò
dal
tavolo con il busto, lo sguardo basso.
"Penso
che ci serva una pausa." Commentò Fury, attirando la loro
attenzione. Tutti li stavano guardando, gli sguardi a metà
fra il
furibondo e l'incredulo. "Il comandante non si sente bene,
temo."
Elle
alzò lo sguardo, vedendo che tutti la fissavano.
Deglutì.
"Penso
che dovremmo schiarirci tutti le idee, si." Disse solo,
alzandosi di scatto, la sedia sche scorreva sulle sue rotelle dietro
di lei. "Riprendiamo tra tre ore, dopo il pranzo."
Disse
con tono deciso, intimidita da tutti i loro sguardi. Girò
sui
tacchi, passando dietro a Wanda ed uscendo come un fantasma dalla
stanza, prendendo al volo la giacca da ufficio, buttata su uno
scaffale dietro a dove era seduto Rogers.
Steve
la guardò sfilare davanti a lui, senza voltarsi per vederla
uscire,
lo sguardo angosciato. Natasha si avvicinò lentamente,
fulminando
Sharon con lo sguardo e piegandosi verso di lui. "Penso che
dovresti raggiungerla. Ross lo sta facendo apposta, per cercare di
dividerci tutti. Stark ha trovato una soluzione elegante: solo Elle e
Wanda non hanno la cittadinanza."
L'uomo
annuì, la mascella contratta e lo sguardo teso. Si
alzò lentamente,
senza rispondere, ed uscì dalla porta.
xxx
"Elle!"
La rincorse per il corridoio, vedendola camminare con passo stanco
verso le scale. La donna non si scompose, senza emettere un fiato,
senza nemmeno voltarsi verso la voce che la chiamava, con tono
feroce, alle sue spalle.
"Elle!"
Urlò ancora, avvicinandosi - anche correndo, lei non sarebbe
mai
stata in grado di seminarlo, e questo la giovane lo sapeva - e
afferrandola per il braccio. Elle spinse verso il basso
istintivamente, facendo leva con l'altra mano, il polso sottile che
sgusciava tra le due dita. "Non ti permettere, Rogers."
Commentò lei, guardando il manipolo di persone che stavano
uscire
dalla loro stessa stanza. "Non permetterti mai più di
sfiorarmi
anche solo con un dito."
L'uomo
la guardò, lo sguardo sconvolto, le braccia ancora tese
verso di
lei. Abbassò il tono di voce. "Bastava dirmelo, Selvig."
Sussurrò lui, mentre lei riprendeva il cammino. La
seguì verso le
scale. "Se avessi saputo del tuo piano, io non avrei mai..."
"Stai
zitto, Rogers." Commentò lei, senza guardarlo.
Indicò con il
pollice alle sue spalle, senza degnarlo di un cenno. "E'
bastato quello, per farti dubitare di me."
"Come
avrei potuto sapere che-"
"Non
potevi." Sussurrò Elle, appena furono sulle scale. Lo spise
dalle spalle spalle contro al muro, l'espressione tesa. Steve per un
secondo rimase stupito: anche se si era lasciato spostare, Elle stava
diventando sempre più forte. Doveva essere curioso da
vedere, una
ragazza sottile come lei che teneva al muro un uomo grande il doppio.
"Io e Stark ci siamo accordati stamattina." Commentò
asciutta Elle, guardandolo con lo sguardo più raggelante
della loro
conoscenza, un braccio appoggiato contro il muro di fianco a lui e il
capo alzato. La pelle efebica, decorata solo dalle linee blu delle
vene, sembrava ancora più bianca della camicia candida che
portava,
e che le stava leggermente grande. "E' bastata un'ora in una
stanza con Stark, a farti mettere in dubbio la mia integrità
morale." Sussurrò lei, incredula, portandosi dietro
l'orecchio
un ciuffo biondo che era sfuggito alla coda. "Dopo tutto quello
che è successo negli ultimi giorni, è bastata
un'ora..."
Steve
non seppe rispondere, restando in silenzio, il capo chino vicino al
suo. "Non pensavo che sarebbe successa una cosa del genere,
Elle. Non ero preparato."
"Io
mi sono fidata di te, Steve Rogers." Scosse il capo. "Ma, a
quanto pare, non mi sono guadagnata la tua, di fiducia."
"Ti
sei fidata di me?" Commentò lui, con tono duro. "E in
quale particolare momento, fra quello in cui mi nascondi il mio
migliore amico e quello in cui ti allei con Stark, tu ti saresti
fidata di me?"
Elle
trattenne il respiro, mentre l'altro si pentiva subito della sua
domanda retorica, trattenendo il fiato. Elle fece un sorriso triste,
annuendo appena con il capo, il corpo che si allontanava
istintivamente dal suo.
"Io
mi sono sempre fidata di te, Steve. Ho fatto un patto con l'essere
più incostante del mondo conosciuto perchè non ti
cacciassero, e
non ti togliessero lo scudo. Ho nascosco il tuo amico
perchè, sai,
forse fra un assassinio e l'altro, nonostante un ex agente pazzo che
ci vuole entrambi morti, è anche mio amico! Forse
perchè io l'ho
mandato dove può essere aiutato, e non dove non
è al sicuro."
Esclamò Elle, il viso contratto dalla rabbia. "Mi sono
fidata
abbastanza da mettere in gioco il mio lavoro, la mia reputazione, per
te!" Urlò ancora più forte. "Ora sapranno tutti
che sono
negli Avengers e sono una mutante, e questo senza aver ottenuto
nessun risultato, espondendo la mia famiglia , mia figlia, al
pericolo! Per te!"
Si
guardò attorno nervosamente, mentre Steve era basito, le
labbra
dischiuse e la fronte distesa. Elle prese un ampio respiro. "Se
ti avessi voluto morto o prigioniero, lo saresti già. Invece
ti ho
portato nella mia casa." Sussurrò, un pugno appoggiato alla
fronte e gli occhi chiusi.
"Elle..."
Sussurrò appena lui, allungando una mano verso il suo volto.
Elle
fece un passo indietro, guardandolo senza espressione. "Non dire
nulla."
"Ragazzi..."
Natasha aprì lentamente la porta, mentre Elle si
allontanava,
camminando all'indietro verso la scalinata. "Ragazzi, vi si
sente urlare... Dovremmo andare a mangiare, che dite?"
Esclamò,
con tono fintamente neutro, la voce che tremava appena. Samuel,
dietro di lei, si sporse leggermente. "Che succede? Steve?"
L'uomo
alzò un braccio, facendosi vedere dall'amico. "Elle?"
La
bionda aveva dato le spalle a tutti e tre, un braccio appoggiato al
corrimano. "Devo andare." Disse solo, dirigendosi verso le
scale che scendevano. Natasha la guardò ancora, chiamandola.
Elle
alzò appena il capo, gli occhi azzurri che sembravano
brillare anche
nella fioca luce della scalinata. "No, Natasha." Commentò
semplicemente, fermandola con la mano. "Lasciami stare."
La
guardarono scendere le scale con passi veloci, avvolta solo nella
camicetta bianca, nessuna giacca e nessun cappotto a coprirla dal
vento di quel gelido febbraio. Fuori dalla base aveva ricominciato a
nevicare. Stark si sporse, osservando Steve che stava in piedi in
mezzo al pianerottolo, i pungni chiusi e le braccia tese, abbandonate
lungo i fianchi. Lo guardò un secondo, le sopracciglia
contratte.
"Guai in paradiso, Rogers?"
L'altro
gli lanciò un'occhiata furibonda, passandogli accanto con
una
spallata.
xxx
Elle
uscì nel cortile inanimato, sfregandosi le braccia fra loro
nella
neve alta che turbinava attorno a lei in mulinelli, che poi formavano
un tappeto compatto ai suoi piedi.
Rimase
un attimo immobile, tremando leggermente, per poi proseguire
attraverso un sentiero già lasciato da un'auto, cercando di
non
imbrattare troppo gli stivali neri nel manto ghiacciato.
Sospirò,
cercando di riprendere un minimo di autocontrollo. Sentiva il cuore
tamburellare nel petto a ritmo irregolare, e per un secondo
sperò
che si fermasse in quel momento, e la lasciasse a terra, a ghiacciare
nella tormenta.
"Non
succederà." Commentò una voce sconosciuta, dietro
di lei. Si
voltò appena, riconoscendo il profilo longilineo dello
psichiatra.
Nalsson.
Lo guardò un secondo, prima di distogliere lo sguardo. "Di
che
parli?"
"Non
sarai inghiottita dalla terra, o non ti verrà una sincope
istantanea, o qualsiasi cosa possa liberarti all'istante dalle catene
che ti sei imposta." Commentò semplicemente lui, il cappotto
sbottonato nonostante la tempesta che imperversava, la neve che
scendeva, turbinando in mulinelli nel vento. "Puoi concentrarti
finché vuoi, ma non succederà." Elle non
riuscì a nascondere
una smorfia infastidita, rabbrividendo. "Perché mi dici
questo?"
"Ho
visto occhi come quelli molte volte, Selvig."
"Non
fare lo psichiatra con me, Nalsson." L'uomo si strinse nelle
spalle. "Come vuoi, Selvig. Ma vagare in una tormenta di neve
con addosso solo una camicetta bianca..." La scrutò,
leggermente perplesso, una nota di divertimento negli occhi di uno
strano verde. "Non mi sembra un comportamento da persona
normale, soprattutto qui sulla... A New York."
Elle
si coprì il petto con le braccia, il suo fiato che produceva
un
sottile filo di vapore. Guardò un attimo il suo
interlocutore,
perplessa. I capelli scuri erano legati dietro la nuca, e avrebbe
quasi potuto giurare che era alto quanto Rogers. "Non hai
freddo?"
L'uomo,
il cappotto aperto e l'immancabile sciarpa al collo, sempre di seta
ma quel giorno di un verde bosco, la guardò con le
sopracciglia
alzate. "Sono norvegese, per me questo freddo è a malapena
una
brezza." Si levò la sciarpa, guardandola un secondo con
rammarico, prima di passargliela svogliatamente. Elle se la passo
come uno scialle attorno alle spalle. Anche il tessuto della sciarpa,
nonostante fosse stata al suo collo, era fredda.
"Grazie."
Mugugnò lei, alzando lo sguardo verso il cielo bianco.
L'altro si
strinse nelle spalle. "Hai ancora spesso degli incubi?"
Elle
si voltò accigliata, mettendosi istantaneamente sulla
difensiva. "E
questo dove lo avresti letto?"
L'uomo
indicò le leggere occhiaie sotto ai suoi stessi occhi, con
un
ghigno. La svedese alzò gli occhi al cielo. "Dimentico che
sto
parlando con qualcuno che ha fatto studi simili..." Disse, con
una smorfia. L'altro aprì e braccia, sorridendo
maliziosamente.
"Benvenuta."
"E'
una cosa piuttosto semplice: faccio questi incubi, e so di vedere
sempre la stessa cosa, ma non riesco mai a ricordarmi cosa ho visto."
L'altro
la guardò intensamente, il viso leggermente teso. Le
sembrava
addirittura più pallido, i bei lineamenti distorti in una
smorfia
angosciata. Rimasero a fissarsi qualche secondo, scrutandosi a
vicenda. Elle notò che l'uomo teneva fra le mani un libro, e
lo
indicò in una muta richiesta.
L'altro
glielo cedette senza troppe cerimonie, ricominciando a camminare
nella neve. Elle lo prese, le dita arrossate dal freddo.
"Baudelaire?"
Chiese, stupita. L'altro continuò a camminare, senza
prestarle
attenzione. Elle lo raggiunse in quattro passi, affiancandolo con gli
occhi socchiusi per il vento. Aprì di nuovo il libro al
punto in cui
era segnata la pagina con un biglietto della metropolitana di New
York. "Ma questo è il mio libro! Lo hai trovato nel mio
ufficio!"
L'altro
glissò. "Non mi era mai capitato di leggere poesia."
Elle
lo guardò con tanto d'occhi. "Non hai mai letto della
poesia?!"
L'altro
la guardò infastidito, dirigendosi verso l'ingresso. Elle
aprì il
libro ad una delle pagine più consumate, un angolo piegato
come
segnalibro.
"Nulla
al mondo esiste di più orrendo, della fredda
crudeltà-"
"-di
questo sole gelido, e di questa notte immensa come il caos."
La precedette lui, con uno sguardo infastidito. Elle lo
scrutò,
sorpresa.
"Quella
l'ho già letta." Esclamò lui, mentre entravano
sotto il
porticato coperto prima dell'ingresso. Spazzolò la neve
dalle spalle
e dal cappotto, mentre Elle sbatteva i piedi fra loro. L'altro si
fermò a guardarla, sovrappensiero.
"Che
c'è?" Chiese Elle, quando notò il suo sguardo.
L'altro si
strinse nelle spalle, indicando con un cenno del mento la sciarpa,
umida di neve.
"Adesso
che ho immolato uno dei miei capi di abbigliamento preferiti, avresti
voglia di accompagnarmi alla mensa? Non so come funziona."
Elle
lo guardò storto. "E' una normalissima mensa aziendale. Vai,
Prendi il cibo. Lo mangi."
L'uomo
fece un gesto vago con una mano. "Accompagnami."
Elle
alzò le braccia in segno di resa, osservandolo con aria
infastidita.
Lui ghignò, annuendo.
"Tanto
non puoi scappare da Rogers tutto il giorno, tanto vale che entri con
me e mi aiuti ad ambientarmi."
La
Svedese rimase un attimo a guardarlo, poi annuì con un
sospiro. "In
cosa mi sono cacciata... Ok, andiamo."
Si
avvicinò, sorridendo appena all'espressione soddisfatta del
collega.
"Hai trovato il mio studio confortevole?"
"Si,
anche se è piuttosto piccolo. Mai come la stanza." Fece
un'espressione schifata, aprendole la porta dell'ingresso. Elle
scoppiò a ridere senza riuscire a trattenersi. "Sei abituato
a
sistemazioni più lussuose? E' una base militare."
L'altro
avanzò con nonchalance in mezzo alla confusione della hall.
"Elle!"
Sia la svedese che il norvegese si voltarono di scatto, mentre Rhodey
si avvicinava alla donna. Stark li guardava da poco lontano,
scrutando lo psichiatra.
"Abbiamo
annullato il meeting di oggi pomeriggio. Ci aggiorniamo
lunedì."
Elle
annuì, sorridendo all'amico. "Fantastico, guadagniamo tempo.
Ma..." Indicò Stark, che ancora scrutava Nalsson a braccia
conserte e con gli occhiali da sole, nonostante fosse una nevosa
giornata di febbraio. Rhodes alzò gli occhi al cielo. "Non
gli
piace lo psichiatra nuovo."
Stark
fece cenno ad Elle di avvicinarsi. "Cosa ci fai completamente
bagnata con addosso la sciarpa di quel tipo?"
Elle
gli lanciò uno sguardo scocciato. "Che problema hai, Stark?"
"Non
mi piace vederti tornare da una romantica passeggiata in giardino in
compagnia di quel tizio. Avrà cinquant'anni, Elle!"
La
svedese lo guardò accigliata. "Smettila di rovesciare le tue
insicurezze sugli altri, Stark." Si voltò a guardare
Nalsson,
che la aspettava qualche metro più in la, sistemandosi il
bavero
della camicia bianca sotto il cappotto. Lui le lanciò
un'occhiata
insofferente. "Avrà trentacinque anni!" Esclamò a
bassa
voce la svedese. Stark scoppiò a ridere. "Uscire con Rogers
ha
decisamente influito sul tuo modo di vedere l'età delle
persone,
Ikea."
La
donna alzò gli occhi al cielo, dandogli un buffetto sulla
spalla.
"Vai a casa, Stark. Fatti un bagno, dai una festa, costruisci un
reattore, qualsiasi cosa, ma stai calmo."
"Elle..."
Stark abbassò appena gli occhiali da sole, sorridendole.
"Ricordati
che ora siamo in comando. Se succede qualcosa, cercheranno anche te."
La donna prese un ampio respiro. "E' solo un week-end. Non
succederà nulla."
Stark
si strinse nelle spalle. "Ricordatelo, e non buttare il telefono
da parte se dovesse succedere che vedi il Capitano e..."
Elle
gli diede una spallata, passandogli accanto. "Ne dubito, Stark,
ne dubito."
Tornò
da Nalsson, sorridendogli gentilmente. "Scusa l'attesa, andiamo
in mensa o preferisci uscire a mangiare qualcosa di commestibile in
centro?"
L'altro
sorrise cortesemente. "A New York, dici?"
Elle
annuì, le mani sui fianchi. "Si, in macchina sono solo
trenta
minuti."
Nalsson
sembrò pensarci su, prima di annuire appena. "L'ultima volta
che sono stato in città, non ho avuto decisamente il tempo
per
visitarla, sempre che ci sia qualcosa che valga la pena vedere..."
Elle
alzò gli occhi al cielo. "Andiamo solo a mangiare, e a
parlare
di lavoro. Ho una macchina, non un pullman della city-seeing..."
L'altro
annuì, poco convinto. Elle sospirò, tastandosi le
tasche dei
pantaloni. "Devo tornare su a recuperare la mia borsa e la
giacca. Penso di averla lasciata sulle scale..." Fece per
togliersi la sciarpa, ma l'altro la fermò con le mani
gelide. "Non
penso sia il caso... Elle."
La
donna lo guardò perplessa. "Volevo solo restituirti la
sciarpa."
"L'effetto
della tua camicia bianca con l'umidità della neve rende il
tuo
abbigliamento indecoroso per una donna, in un ufficio."
Specificò Nalsson, con un ghigno malizioso. Entrambi
abbassarono gli
occhi sul petto della ragazza, scoppiando a ridere. "In più,
il
tuo compagno ci sta guardando dall'altra parte della stanza."
Elle
si voltò di scatto, trovando in mezzo alla folla il profilo
di Steve
Rogers, che spiccava fra tutti per quasi una decina di centimetri. Li
stava guardando senza espressione, le sopracciglia tese e una coperta
fra le mani. Elle si strinse nella sciarpa, sospirando.
"Andiamo...
Nari, giusto?"
L'altro
annuì appena, mentre si allontanavano verso le scale. Steve
rimase
immobile un secondo, prima di allontanarsi, lasciando la coperta con
un gesto rude fra le mani di Natasha.
xxx
"Venerdì
dodici febbraio duemilasedici..."
Val
sistemò meglio la videocamera, mentre Barnes si guardava
attorno,
sdraiato sul divano, le mani intrecciate sullo stomaco.
Il
portatile di Val si illuminò, producendo un 'pop'
che fece
sussultare l'uomo.
"Valentina?"
"Elle!"
Esclamò, avvicinandosi al computer. La donna gli sorrise,
entusiasta. "Jimmy! Come stai? Come va il braccio?
Come-"
"Basta
con le smancerie!" Sbottò Val, passandosi la mano nel
caschetto
scuro. Si leccò il labbro inferiore, guardandosi attorno.
"Manca
qualcosa?"
Elle
le lanciò un'occhiata infastidita attraverso allo schermo,
mentre
l'uomo allungava una mano, appoggiandola al monitor. "Elle!"
"Sto
bene, Jimmy. Sto bene." Sorrise lei, piegando il viso su una
spalla e guardandolo. Lui sorrise appena, cercando i segni familiari
attraverso l'immagine leggermente sgranata. "Dove sei?"
Chiese lui, scrutando lo sfondo dietro di lei. Elle si strinse nelle
spalle.
"Mi sono fermata alla base dell'FBI. A quest'ora, ci
siamo solo io, la donna delle pulizie e il portiere." Val la
guardò con occhi sgranati, perplessa, e fece cadere le
braccia lungo
i fianchi in un gesto stizzito.
"Sei
ben nascosta?" Chiese, con tono scocciato. Elle fece una
smorfia.
"Se mi stai chiedendo le credenziali di
decriptazione, Valentina, temo che qualsiasi cosa possa dirti non la
capiresti."
Barnes
ascoltò lo scambio fra le due, incassando la testa fra le
spalle,
piegato sui talloni davanti al computer. "Rimettiti sul divano,
James."
"Valentina..."
Elle la chiamò appena. "Aggiornami."
"Grazie
al tuo pacchetto, che è stato recapitato tre ore dopo la
nostra
chiaccherata, James ha assunto una volta al giorno 5 milligrammi di
Donepezil
cloridrato prima di dormire, e due volte al giorno Rivastigmina
sotto forma di compresse da due milligrammi."
"Bene."
Elle annuì, scrivendo qualcosa su un foglio davanti a lei.
"Possiamo
cominciare. James, per la tua sicurezza e per quella di Valentina,
devi lasciarti legare al divano."
Val
la guardò con le sopracciglia aggrottate, mentre l'altro
annuiva
convinto. "Penso che sarebbe il caso."
"Come
supponi che io riesca a legare un uomo di un metro ed ottanta e passa
e con novanta chili di muscoli ad un divano?"
"James
non peserà più di settantasette chili, forse
ottanta." La
corresse Elle sovrappensiero, tornando a leggere quello che aveva
davanti. Val sbuffò, mentre James attirava la sua attenzione
con un
cenno. "Ti aiuto io."
"Mi
aiuti a legarti?" Chiese, esterrefatta. James annuì. "Prendi
due cinture di cuoio."
La
donna sparì nella zona notte, mentre James si sedeva sul
divano,
guardandosi nervosamente intorno.
"Come
stai, straniero?
Vedrai che andrà tutto bene. Non facciamo nulla che non
sappiamo
fare, James..."
L'altro
sospirò. "Non posso farti del male attraverso uno schermo,
nanerottola." Scoppiarono entrambi a ridere, sottovoce.
"Inoltre, la tua amica è particolarmente irritant-"
Qualcosa volò contro la nuca di James, mentre Valentina gli
urlava
contro delle parole irripetibili.
"L'eroe
di guerra messo sotto da una commessa di Walmart. Quanto vorrei
venire lì a vedervi litigare." Commentò Elle,
sospirando.
"Sei
la benvenuta, e magari te lo porti anche via." Commentò
Valentina, lanciandole un'occhiata attraverso allo schermo. "Vado
a prendere il tuo composto di benzodiazepine..." Esclamò
sottovoce Val, guardando Elle attraverso lo schermo. "Hai dieci
minuti per chiaccherare con il tuo amico, Selvig, poi cominciamo. Non
ho tutto il giorno."
La
svedese sorrise a quel tentativo di Val di non infrangere la loro
intimità, di dargli un po' di tempo per parlare, finalmente
faccia a
faccia. Seppur con i sui modi rudi.
"Valentina
non mi lascia uscire." Esclamò piano James, scivolando con
la
schiena contro lo schienale, lo sguardo sul portatile, appoggiato su
uno sgabello dall'altra parte del tavolino.
"Sei
indagato per omicidio. Tra qualche ora, la tua faccia sarà
su tutti
i notiziari." Sospirò Elle, guardandolo.
"Cosa?"
Chiese lui, ritornando serio. "Di chi?"
"Un
nazistoide, uno della mobiltazione anti mutanti. Mi hanno assegnato
l'indagine, e tanto per cambiare l'assassino è-"
"Rumlow."
Affermò sicuro l'altro. Elle annuì.
"Ero
arrivata in ufficio con Steve; mi hanno chiamato nel primo pomeriggio
per un caso difficile ho avuto subito paura che fosse lui..."
"Tu
eri con Rogers?" Elle alzò gli occhi al cielo. "Ti parlo
di un omicidio e mi chiedi se ho dormito con il tuo Best
Friend
Forever?"
L'altro
rise, avvicinandosi con il busto e prendendo delicatamente il
computer tra le mani, appoggiandolo alle gambe per vedere meglio
l'amica, le guancie arrossite. "Scusa, è che... Ricordo che
Rogers fosse..."
"Non
ho fatto sesso con il tuo amichetto." Commentò
Elle,
asciutta. "Perchè me lo chiedete tutti?"
"Sai..."
James stette in silenzio un secondo, l'espressione maliziosa. "...Il
supersiero... Vorrei sapere se la mia immaginazione è
abbastanza
fervida."
Lui
fece una smorfia divertita, mentre Elle sospirava. "Non avevi
perso la memoria, tu?"
"Ho
dei momenti di lucidità. Sto leggendo un sacco. Poi
Valentina mi fà
stare un sacco su internet, ha messo persino un controllo per non
farmi vedere non ho capito cosa... Ma non
interferisce con le
cose che cerco, sai, per provare a recuperare..." Tenne il pc
con una mano, l'altra che andava a grattare la nuca.
"Sei
sicuro di voler recuperare tutto?"
"Se
voglio il mio passato, devo avere tutto il mio passato."
Elle annuì fra sé e sé, sospirando.
"Pensavo solo, che forse
certe cose è meglio che restino nell'oblio..."
"Ho
trovato qualcosa come trenta omicidi insoluti, compiuti a persone
considerate potenti o pericolose, insomma..."
"Eri
un sicario, Jam-Jimmy..." Elle si
allontanò dallo
schermo con le braccia, la camicia sbottonata fino alla clavicola e
gli occhi tristi. "Non sei il mandante, e non hai nemmeno
guadagnato qualcosa da quelle morti. Eri un'arma. Nessuno si
sognerebbe di dire che Hiroshima è colpa della bomba atomica
in
sè..."
James
la guardò un attimo con gli occhi strizzati, prima di
capire.
"Hiroshima! Sei Agosto 1945!" Sorrise alla ragazza,
alzando un pugno. Elle ridacchiò, sorridendogli dolcemente.
"Si,
Jimmy. Hiroshima."
James
si rasserenò un attimo, riappoggiandosi al divano. "Ho fatto
una lista, di quei nomi che mi sembravano familiari..."
Esclamò
dopo un paio di secondi di silenzio James. Alzò un
foglietto,
scritto in calligrafia ordinata ma minuta. Elle strizzò gli
occhi,
mentre James lo girava verso di lei. "Jimmy, me lo farai spedire
da Val, non riesco a vederlo così..."
"C'è
solo un nome che non riesco a togliermi dalla testa, da quando l'ho
letto. Vorrei che tu mi dicessi se-"
Elle
alzò il capo, curiosa. "Quale?"
"Stark."
James scosse il capo. "Ho paura di aver ucciso l'amico di
Rogers."
La
svedese prese un ampio respiro, mentre James abbassava il capo,
mordendosi il labbro inferiore. Elle avrebbe fatto qualsiasi cosa per
essere lì, ed abbracciarlo. "Non è stata colpa
tua, James."
Sussurrò, troppo piano perchè l'amico potesse
sentirla.
"Bene..."
Valentina entrò con una siringa fra le mani, sorridendo
malignamente
allo schermo. "E' ora."
"Aspetta,
Val!" Elle abbassò lo sguardo su James. "Devi dirmi una
cosa, ho bisogno di saperla, James."
L'uomo
alzò il capo, lo sguardo terribilmente serio, la mascella
contratta.
Elle si ritrovò a pensare che sembrava Rogers, quando faceva
quell'espressione. "Quando ci siamo incontrati a Lagos... Come
sapevi di River?"
James
scosse il capo, confuso. Era l'ultima domanda che si aspettava, e
anche quella alla quale avrebbe dato meno importanza.
"Ho
fatto delle ricerche. Volevo sapere chi eri, e perchè mi
avevi
salvato. Sei quasi morta per salvarmi, Selvig. Non è
esattamente una
cosa alla quale sono abituato. Penso."
Elle
lo osservò bene, sondando la sua espressione con occhi
attenti,
prima di rilassarsi contro lo schienale della sedia, distendendo un
poco le gambe sotto alla scrivania. "Non sei mai venuto a New
York, allora?"
"Solo
nei pressi della citàà, quando ha attraccato la
nave con la quale
ho attraversato l'atlantico." Commentò veloce lui. Elle
prese
un ampio respiro. "Una settimana fa, si sono incontrati River e
Steve, e-"
"Le
cose sono già così serie?" Chiese Barnes,
sorridendole
sornione, i capelli che coprivano il volto chinato in avanti. Elle
fece un'espressione corrucciata. "Jimmy..."
"Scusa,
scusa..." Esclamò l'altro. "Dicevi?"
"River
non parla. E' affetta da una forma psicosomatica di mutismo
infantile. Ma quando ha visto Steve, la bambina si è messa a
parlare."
James
scoppiò a ridere, senza riuscire a trattenersi.
"Non
pensavo fosse anche in grado di fare i miracoli, Rogers."
Elle
non riuscì a non sorridere, nonostante la
tragicità della
situazione. Capiva come doveva essere stato James ai suoi tempi,
prima della guerra - guerra che per lui era durata settant'anni.
Conoscendo Steve, James doveva essere una panacea, una boccata d'aria
fresca in tutto quell'inferno.
"Diceva
solo il tuo nome. Ho pensato che tu fossi venuto qui, che tu le
avessi parlato. Sono morta di paura." Elle scosse il capo,
correggendosi subito. "Non per te, ma
perchè qualcuno
avrebbe potuto averti seguito fino a casa mia."
James
la guardò, sovrappensiero, portandosi una mano al mento.
"No,
non sono venuto a casa tua. Sei sicura che parlasse di me?"
Commentò serio l'altro. Elle si grattò il naso,
cercando di non
sprofondare nel panico che l'aveva sorpresa una settimana prima,
quando era accaduto tutto. Lanciò uno sguardo al cassetto
chiuso a
chiave della sua scrivania. Aveva nascosto il disegno della bambina
lì dentro, in mezzo a carte inutili e sbobinature di vecchie
testimonianze. James riattirò la sua attenzione, passandosi
le mani
fra i capelli.
"Ammetto
che vedere qualcuno che urla il mio nome davanti a Rogers dev'essere
stato inquetante." Attimo di silenzio. "Lui come l'ha
presa?"
"Steve
non ha fatto grosse domande. Gli ho detto che la piccola aveva visto
un documentario, a scuola."
"Mi
dispiace interrompere la rimpatriata di X Files, ma
dobbiamo
proprio cominciare."
Elle
annuì, mentre James aiutava Val a legargli mani e piedi con
le
cinture, guidandola a bassa voce. La donna lo aiutò a
sdraiarsi
meglio sul divano.
Si
voltò verso la videocamera, facendo partire la
registrazione. Elle
si schiarì la voce.
"Sono
Elle Selvig, Agente di livello Sei dell'FBI. Sono in collegamento con
Valentina Tremonti, che sarà la mia assistente in questa
procedura."
Valentina
sospirò, avvicinandosi al braccio di James, disinfettando la
piega
del gomito e iniettandogli la soluzione.
"Al
soggetto, con gravi deficit di memoria sia retrogradi che
anterogradi, stiamo somministrando una soluzione calmante a base di
oppioidi e benzodiazepine per indurlo ad uno stato di rilassamento
profondo."
James
si sistemò meglio, guardandosi attorno leggermente
disorientato.
"Sono pronto per il sonnellino, nanerottola."
Elle
alzò gli occhi al cielo, anche per via telematica.
"Il
soggetto in questione è James Buchanan Barnes, e soffre di
amnesia
globale. E' stato sottoposto ad un qualche tipo di terapia di
deprogrammazione, supponiamo usando droghe e sedute di
elettrostimolazione sistematica. Inoltre, è stato sottoposto
ad un
potente condizionamento, e indotto al coma farmacologico più
di
dieci volte in sessant'anni, forse settanta."
Elle
prese un respiro, sfogliando qualcosa sulla scrivania, mentre Val
estaeva dalla sua borsa uno stetoscopio e si avvicinava a James.
"Dobbiamo aspettare ancora un poco, tu finisci." Commentò
la mora, senza voltarsi. James la guardò negli occhi,
cercando di
nascondere la paura che gli attanagliava le viscere. Val gli fece un
buffetto sul petto, togliendosi lo stetoscopio.
Elle
proseguì, con voce atona.
"James
fatica a creare ricordi dal suo ultimo risveglio, e fatica a
ricordare gli eventi sia del suo passato remoto che delle precedenti
esperienze fuori dal coma indotto. Abbiamo già escluso cause
quali
Tubercolosi, HIV, Sifilide, Diabete o problemi tiroidei..."
"Sifilide,
eh?"
Commentò
biascicando James, iniziando a perdere coscenza delle sue parole.
"Magari. Non mi hanno mai lasciato la serata libera, i miei
ricordi lo confermeranno."
Val
ridacchiò appena, senza spostarsi dal suo posto,
inginocchiata di
fianco al divano. Elle nascose un sorriso.
"Barnes
è sempre stato un tipo... goliardico. Presumo
dalle testimonianze dei suoi amici, anzi, del suo amico, che questo
era spesso un modo per mascherare le sue emozioni."
James
fece una smorfia. "Questo Steve non lo direbbe mai, io-"
Val
gli coprì la bocca con una mano, cercando di trattenersi dal
ridere.
"...Il
fatto che questa strategia di coping sia tornata, adesso che non
è
più sottoposto a deprogrammazione, è un indice di
miglioramento.
Inoltre, il Capitano Rogers nel suo rapporto sosteneva che forse gli
esperimenti che sono stati compiuti su Barnes, durante la sua
permanenza nelle mani dell'Hydra e prima della battaglia di Azzano,
possano aver avuto conseguenze simili alla somministrazione del Siero
di Erskin, sia in termini di plasticità sinaptica che in
quanto a
resistenza fisica. Per questo, le normali dosi sono state aumentate
in rapporto al fisico del soggetto."
Elle
riprese fiato un secondo, mentre Val costringeva James a seguire il
suo dito con gli occhi, controllando il livello di attenzione.
"Per
questo, basandoci anche sugli effetti in termini cognitivi visti su
Rogers, possiamo sostenere che ci siano ampi margini di miglioramento
per James Barnes. Ora, possiamo procedere con il colloquio."
Val
annuì alla donna, tirando un leggero schiaffo a Barnes. Elle
sospirò.
"Ecco
perchè ti hanno tolto l'abilitazione."
L'altra
le lanciò uno sguardo offeso, alzando le spalle. "James,
puoi
rispondere?"
L'uomo
annuì appena. Val fece un gesto convinto con il viso.
"Quando
sei nato?"
"Dieci
Marzo, 1917."
Elle
e Val si guardarono, prendendo un ampio respiro. Val estrasse
un'altra boccetta dalla mano, guardandola. "Elle, sei sicura?"
La
Svedese la guardò un attimo, poi annuì. "E'
l'unico modo,
Val."
"Non
è mai stato testato, Elle."
"Mi
fido. Sei una delle maggiori esperte in biochimica dell'Ippocampo.
Non è legale, è vero. E non è nemmeno
sicuro. Ma io mi fido."
Entrambe
voltarono lo sguardo verso la telecamera. Elle sospirò.
"Questo,
poi, magari, taglialo."
xxx
Immagini.
Volti. Luoghi.
Gli
sembrava di vorticare in mezzo ad una parata, la confusione che lo
avvolgeva e lo inghiottiva in una macchia di rosso vermiglio.
"Dove
sono?" Biascicò, sentendosi soffocare da un'intorpedimento
invisibile.
"James,
sono Elle." Sentiva la voce della donna, lontana come se lo
stesse chiamando dall'inferno. "Vicino a te c'è Val,
ricordi?"
Sentì
qualcosa di caldo stringergli la mano. Allora, non era del tutto
perso in quel groviglio di pensieri.
"Cosa
mi sta succedendo?"
"Abbiamo
attivato il tuo ippocampo..." Sussurrò Val, vicino al suo
orecchio. "E' la zona del cervello dove vengono smistati i
ricordi. Era bloccato, per questo non riuscivi a ricordare."
Agitò
il capo. "E' tutto rosso..."
"Descrivimi
cosa vedi, James..." Elle lo richiamò alla
realtà. "Parlami."
"E'
tutto rosso, ci sono delle persone a terra, è il mio
incubo... Vedo
armi abbandonate, e persone che mi guardano, e sento
l'elettricità,
fa male..."
Fece
per portarsi le mani al capo, che improvvisamente sembrava bruciare
di fuoco vivo. Vedeva un viso sconosciuto ma familiare, un viso di
donna, accartocciato in una maschera cremisi, accanto ad un uomo con
dei curatissimi baffetti in stile inglese, un rigolo scuro che
scendeva dal naso mentre lo guardava vacuo. Vedeva un uomo vestito
semplicemente, con una ventiquatt'ore e dei progetti sotto braccio,
un grosso buco nel petto che sanguinava. Vedeva un uomo con una tuta
da elicotterista, da pilota, gli arti completamente ritorti da
qualche ingranaggio o grossa ventola...
"Val,
passagli qualcosa di umido sul viso..."
Iniziò
ad urlare, sentendo che non riusciva a muovere nè le braccia
nè le
gambe, trattenute da qualcosa di duro. Si dibatteva, sentendosi
prigioniero.
"VALENTINA!
Mettigli qualcosa in bocca!" La voce di Elle arrivava sempre
più
lontana, come un eco dal fondo di un lungo tunnel cremisi.
Sentì
qualcuno che cercava di mettergli un panno fra i denti, e
iniziò ad
urlare più forte. Non voleva dimenticare tutto, non voleva
provare
di nuovo tutto quel dolore, non voleva sentire di nuovo la sua mente
che si volatilizzava come un vapore sconosciuto. Fece per tirare una
testata alla persona che lo stava toccando, ma un urlo dalla cassa
audio del computer lo precedette e la ragazza lo scartò,
cercando di
tenerlo fermo mettendosi a cavalcioni su di lui. "James! Cazzo,
calmati!" Val gli aprì un occhio con una mano, l'altra che
gli
tamponava il viso con un panno. "James! Cosa vedi!"
"E'
Pierce il capo dell'Hydra! E' lui che mi ha svegliato!" Urlò
il
giovane. Val fece per dire qualcosa, ma Elle si schiarì la
voce,
zittendola.
"Che
altro ricordi, James?" Chiese Elle.
"Oddio...
Oh mio dio..."
James iniziò a dibattersi meno, mordendosi il labbro, gli
occhi
strizzati in un'espressione disperata.
"Steve!
Ho ucciso Steve!" Si accasciò sulla superfice, smettendo di
muoversi, sentendo ancora il fuoco e vedendo ancora il sangue che lo
circondava. Ma ora, tutto stava diventando blu. Il suo cuore era
pesante come un macigno, e sembrava avrebbe perforato la schiena e
sarebbe caduto a terra, come un meteorite, seguendo la legge di
gravità. Il gelo invase le sue vene, risalendo dal muscolo
cardiaco
lungo il collo e pervadendo le vene di gelo.
Non
aveva più senso restare vivi, respirare, se aveva ucciso il
suo
amico, il suo fratello. Non aveva più senso il cuore che
batteva,
non aveva senso la sensazione del lenzuolo sotto di sè, il
calore
dell'amica che gli stava tamponando la fronte con qualcosa di freddo.
Non aveva senso la sensazione della gola, riarsa come un uomo
disperso nel deserto. Se davvero Steve era morto, se davvero era
colpa sua, e solo sua, a prescindere dagli ordini, dal dolore, dalla
sua identità che oramai non esisteva più, non
aveva più senso
stare al mondo.
"James..."
Dolcemente, Elle lo richiamava dallo schermo. Val era immobile,
ancora sopra di lui, ma decisamente più spaventata ed
attenta.
"James..."
Una
lacrima uscì da sotto la sua palpebra, scendendo lungo la
tempia
fino ai capelli scuri. Val rimase in rispettoso silenzio, smettendo
pian piano di tamponargli il viso, con sempre meno convinzione.
"Jimmy..."
"Ho
ucciso Steve Rogers. Lui mi è stato fedele fino all'ultimo
respiro,
e io l'ho ucciso. L'ho lasciato cadere..."
"James..."
Elle lo chiamò a voce un po' più alta. "James
è vivo. Sta
bene. Te lo giuro..." L'uomo voltò il viso verso lo schermo,
gli occhi arrossati, cercando di mettere a fuoco il sottile viso
pallido che lo fissava, gli occhi iniettati di preoccupazione.
"James... Credimi, io..."
La
vide agitarsi sulla sedia. Elle.
La nanerottola. La donna cercava freneticamente dentro qualcosa che
teneva in grembo, borsa o una valigetta, probabilmente. Estrasse un
telefono, uno di quelli sottili e neri. La vide trafficare sulla
tastiera. Val la guardò arcigna.
"Non
mi pare il momento di messaggiare, Selvig."
Elle
le lanciò un'occhiata raggelante, per poi alzare il
cellulare contro
la telecamera della webcam.
"Questa
è di una settimana fa, James."
L'uomo
strizzò gli occhi, guardando sullo schermo sgranato. La foto
era
semplice. Elle stava vicino ad un uomo, e stava ridendo, avvolta nel
suo cappotto nero. Accanto a lei, chinato a baciarle il naso, c'era
il suo Steve. Alto, i capelli biondi tenuti leggermente più
a
spazzola, e meno ordinati, e dei vestiti contemporanei, sempre con il
suo gusto semplice.
James
prese una grossa boccata d'aria, senza staccare gli occhi da quella
foto, continuando a passare gli occhi tra l'espressione di lei, che
illuminava tutta la fotografia, e lo sguardo adorante di lui. Non
riusciva a distogliere l'attenzione dal suo amico, vivo, felice.
Nessuna
persona respirò con tanta intensità
quantò James Barnes, dopo aver
visto il suo amico vivo. Nessun apneista, nessuno scalatore, nessun
corridore o saltatore o nuotatore. Gli sembrò di sentire
fisicamente
la vita che tornava a scorrere dentro di lui. La voglia di vivere, di
esserci, di fare la differenza. Perchè il suo amico era
vivo, e
stava lottando anche per lui. E, come aveva detto un
piccoletto di sua conoscenza,
chi era lui per fare di meno di quell'uomo?
Val
scoppiò a ridere, una risata non acida come le sue solite,
ma
leggera come un lenzuolo nel vento d'estate, carezzevole.
Rilassò le
spalle, tenendo con una mano la cintura che stringeva le sue, e con
l'altra scompigliandosi i capelli scuri. Anche Elle, scostò
la foto
dallo schermo, appoggiando il telefono sul piano della scrivania e
prendendo un'ampio respiro, seguendo nella risata Valentina. Anche
James, dopo un paio di secondi di spaesamento, guardò in
volto le
sue ragazze, le due che si odiavano, ma che avevano messo in gioco
tutto per lui. Per il suo pensiero. Per la sua memoria.
Scoppiò
a ridere, scuotendo tutto il divano e con esso Val, che agitava le
braccia in segno di vittoria.
Non
si accorsero del rumore del chiavistello, nè delle borse che
Ethan
fece cadere sull'uscio di casa, ritirando il capo dalla sorpresa. Il
suo sguardo passò dalla videocamera, a James legato con le
cinture,
fino a soffermarsi su Val che gli stava sopra, il volto arrossato
dalle risate.
"Ah."
Disse solo, infilandosi le chiavi nelle tasche del piumino verde
mela. Aggrottò le sopracciglia, alzando le mani in segno di
resa.
"Non volevo disturbare... Val, potevi avvisarmi... Vi lascio al
vostro..." Indicò la videocamera con un cenno del capo, e
fece
per voltarsi.
"Oppure,
se vi serve un terzo-"
"ETHAN!"
L'urlo di Val risuonò per tutta la tromba delle scale, mente
il
ragazzo scappava a gambe levate dal suo appartamento, gongolando
mentalmente per la fortuna della sua amica.
xxx
Elle
si rilassò contro la sedia, chiudendo il portatile con un
tonfo.
James
sembrava stare bene. Le aveva parlato un poco, a bassa voce, prima
che i farmaci facessero nuovamente il loro effetto, e le sue palpebre
si facessero pesanti, e le parole sempre più difficili.
L'uomo si
era addormentato con il computer ancora aperto davanti, e Val aveva
faticato per toglierglielo dalla mano bionica senza danneggiarlo. Le
due avevano scambiato poche parole, tutte sull'operazione appena
conclusa, niente sul passato, nessun rancore. Erano riuscite ad
aiutare una persona, alla quale oramai entrambe tenevano.
Era
ormai notte inoltrata, quando iniziò a riporre le sue cose.
Il fuso
orario aveva agevolato entrambe, date le tre ore di scarto fra le due
città: lei perchè poteva chiamare da un posto
sicuro e loro perchè
avrebbero potuto fare confusione senza essere troppo notati.
Ora
poteva andarsene a casa, e dormire per due giorni filati, dopo
l'angoscia che aveva appena provato.
Si
allontanò, facendo scorrere la sedia a rotelle, dalla
scrivania
ingombra di carte. Distese le gambe e allungò le braccia,
facendo
schioccare qualche vertebra scontenta a causa della posizione
mantenuta per lungo tempo.
Guardò
il cellulare, sbloccandolo. Erano le tre e mezza della notte, di
sabato sera. E aveva ancora l'immagine di lei e Steve aperta, come
quando l'aveva mostrata a Barnes. Sospirò.
Litigare
dopo una sola settimana di frequentazione non era un vero record:
aveva rotto con altre persone per molto meno, e dopo molto meno.
Il
messaggio di Natasha, arrivato all'incirca a mezzanotte, recava una
sola parola, scritta a caratteri cubitali, senza emoji o null'altro
che non quelle lettere maiuscole. "Chiamalo..." Lesse piano
la svedese, sorridendo fra sé e sé.
Si
allontanò dalla scrivania, iniziando a mettere il cappotto.
Il
giorno dopo, lo avrebbe chiamato. Avrebbe dato retta alla sua testa,
come suggerito da Stark.
Il
telefono iniziò a vibrare contro il piano del tavolo,
rimbombando in
maniera inquietante per tutto l'ufficio. Elle si girò piano,
quasi
spaventata. Chi poteva chiamarla alle quattro del mattino?
Si
voltò, afferrando il cellulare e rispondendo, con il fiato
sospeso.
"Non
pensavo avresti risposto così in fretta..."
Elle
si accasciò appoggiata al muro. "Dimmi, Sam."
"Capitano..."
Samuel ridacchiò un secondo, prima di proseguire. "Siamo
attesi
da Fury, rapporto entro mezz'ora."
"Che
è successo?"
"Hanno
trovato l'ultima base Hydra. Andiamo tu, io, Rhodes e Rogers."
Elle
si strizzò gli occhi, sbadigliando sonoramente.
"Spero
che tu abbia dormito, perchè non sarà un viaggio
di piacere."
"Lo
so, Sam. Ci vediamo lì."
Addio
al suo week-end di riposo. Entro due ore, sarebbe stata su un Quinjet
verso l'Alaska, sosta a Juneau e poi dritti verso il picco di Denali.
Compose
un messaggio per Natasha.
'In
missione con Rogers, Sam e Rhodey. Non so quando torno. Baci a te,
River e Loretta. '
La
risposta non si fece attendere.
'Almeno
passerai il Week End con Rogers. Divertiti.'
"Stronza..."
Commentò divertita Elle, alzando gli occhi al cielo.
xxx
Eccomi
tornata!
Come al solito, la
vita si è messa in mezzo, e quindi eccomi qui! Dopo lavoro,
esami, cani da portare a passeggio, corse mattutine per smaltire tutte
le festività appena passate e le schifezze da conforto pre
esame, ecco ben ventisei - dico, VENTISEI - pagine di Skyfall!
Ce ne sarebbero di cose da dire su questo capitolo. Me le ero segnate
tutte, ma ho perso il file. Quindi, lo lasciamo al suo stato brado,
così com'è.
Non è stato corretto, quindi spero che non ci siano troppi
strafalcioni grammaticali - più che altro, problemi di
battitura. E di formattazione, questa sconosciuta.
Molte cose le ho risistemate dopo il MERAVIGLIOSO, UNICO, INIMITABILE
spot del Super Bowl che io e
Giulietta_Beccaccina abbiamo intercettato in modo molto
professional.
Ringrazio infinitamente HORANge_carrot
che è stata così gentile da farmi un saluto - non
hai idea di quanto sia stato provvidenziale, stavo perdendo le
speranze, davvero. Autostima a pacchi, proprio. Davvero, grazie grazie
e grazie!
Ovvio e dovuto ringraziamento a Delta per il sostegno emotivo, sono
proprio un caso disperato. Sia benedetto il corso di primo soccorso,
spirituale o meno. Altro ringraziamento all'infinito per Rise-Doe, e
per il banner, che è stato veramente apprezzato! :D
Se dovessi mai avere del tempo libero, potrei fare un trailer della
storia. Sappiate che ci sto pensando. Voi, che canzone mettereste?
Visto che il toto fancast è andato così bene,
attivo il toto canzone!
Io pensavo a "Until We Go Down" di Ruelle.
Mi scuso per l'attesa, ma volevo che fosse perfetto, che di fosse tutto
quello che doveva esserci, che fosse speciale.
Per un capitolo pieno di JIMMY mi aspetto una pioggia di recensioni,
petali di fiore, barrette di cioccolato... Fatevi sentire,
amiche del nostro Bucky!
Anche in questo capitolo ci sono molti riferimenti nascosti, ma questa
volta sono nascosti davvero, davvero bene...
Solito reminder: Una recensione salva un'autrice!
E come direbbe Giulia un capitolo salva un lettore, ma meglio fare le
cose fatte bene, no? ;)
Al prossimo,
Eve, che in questo momento dovrebbe studiare, ma non ha resistito al
richiamo della scrittura.
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Capitolo 23 *** 22. Guerra ***
ATTO
VENTITUESIMO: GUERRA
"Fear
and panic in the air
I want to be free
From desolation and
despair
And I feel like everything I sow
Is being swept
away
Well I refuse to let you go."
MUSE
Marzo
1944
Sbuffò
appena quando il suo sguardo incontrò quello grigio
dell'altro, dopo
aver alzato gli occhi da quello scempio che stava a terra, gettato
nel fango, quasi indistinguibile a causa della melma che li ricopriva
interamente.
"Non
dovresti trattare così gli stivali della divisa."
Commentò,
alzando le sopracciglia in un cenno di disappunto. James, sdraiato
sulla sua branda, giocava con una pallina da baseball, lanciandola e
riprendendola pigramente. Gli lanciò un'occhiata scocciata,
senza
interrompere il suo passatempo.
"Domattina
si parte un'ora prima dell'alba. Datti una ripulita."
Commentò
solo Steve, voltandosi verso l'esterno della tenda, lo sguardo che
vagava per il campo. James rimase un attimo fermo, la maglietta verde
mezza sbottonata e la barba sfatta da giorni. Ghignò fra
sé e sé,
prima di lanciare con un guizzo la pallina bianca contro la nuca
dell'amico, che si voltò con un gesto istintivo a prenderla
fra le
mani. Steve fece un'espressione esasperata.
"Che
hai, Buck? E' settimane che sei scontroso come tua nonna durante la
quaresima..." James alzò gli occhi al cielo, sorridendo
appena.
"Inizio
a chiedermi quando finirà questa maledetta guerra...." Si
sistemò meglio contro la branda, le braccia aperte dietro al
capo.
"Voglio tornare a casa, al mio letto. Questi sono dei sassi
ricoperti di stracci..."
"Sapevi
di non partire per una vacanza. E comunque, puoi chiedere il congedo
in qualsiasi momento." Commentò scocciato Steve,
lanciandogli
di nuovo la palla bianca. "Siamo qui per combattere contro
quelli che ti hanno catturato e torturato."
James
rimase in silenzio, guardando la palla di pelle chiara, evitando lo
sguardo dell'amico. "Ora mi chiamerai codardo."
Steve
scosse il capo, entrando nella tenda e sedendosi sulla branda vicina
a quella dell'amico. Allungò una mano sotto alla sua branda,
estraendo una scatola.
"Saresti
stupido ad non avere paura." Replicò serenamente,
allungandosi
a prendere uno dei due stivali buttati sotto al letto dell'altro.
"Tutti hanno paura."
James
rimase un attimo in silenzio, prima di alzare di nuovo lo sguardo su
Steve. "Anche tu, quando ti facevi picchiare nei vicoli, avevi
paura?"
Il
biondo ridacchiò appena, estraendo una spazzola scura. "Tra
un
pugno e l'altro? Si, certo..." Iniziò a strofinare
energicamente sulla pelle morbida la spazzola, con gesti esperti.
"Morivo letteralmente di paura."
James
rimase a guardarlo. "Una volta dovevo correrti dietro per
evitare che tu perdessi qualche dente." Steve annuì,
divertito,
mentre l'altro proseguiva, preso dal discorso. "Ora, invece,
sembra che io non possa fare nulla senza averti alle spalle."
"Non
è una gran sensazione." Convenne Steve. "Ma almeno posso
restituirti il favore."
"Che
favore!" Sputò fra i denti James, voltando il capo a
guardarlo
negli occhi. "Io lo facevo perché non volevo trovarti in
qualche cassonetto."
"Io
non voglio trovarti in qualche fossa." Commentò l'altro.
"Voglio tornare a casa anche io, Buck. Ma non posso, non
finché
non avrò aiutato a sconfiggere il regime che sta
distruggendo
l'Europa. Semplicemente, non posso." Sospirò appena,
ricominciando a spazzolare lo stivale. "Tu non ci sai proprio
fare con la pelle di vitello, lasciatelo dire. E' tutta rovinata."
"Beh..."
James fece un ghigno. "Avevamo convenuto che mi avresti lucidato
le scarpe, se fossi venuto a vivere con me. Consideralo un anticipo.
Mia madre chiede sempre di te, in ogni lettera. Ha visto tutti i
film!"
"Geloso,
Barnes?" Lo punzecchiò Steve, prima di scoppiare in una
risata.
"Aspettavo da anni di dirlo!"
"Ah
Ah Ah." Barnes gli lanciò uno sguardo fintamente offeso.
"Sto
morendo dal ridere."
"Dai,
Buck!" Commentò Steve, estraendo il lucido dalla scatola in
latta. "Alla fine, mi sono fatto riempire di siero per poterti
raggiungere sul fronte."
"Stavo
più tranquillo sapendoti a casa..." Biascicò
James.
"Saresti
morto, se non fossi venuto a salvarti."
"Molto
più tranquillo, ok?" James ritornò a guardare la
palla da
baseball, come se sopra potesse esserci incisa una verità
universale. Rimasero in silenzio, solo lo strofinare della spazzola
sul cuoio e il rumore della pioggia che delicatamente colpiva il
tessuto della tenda. Un angolo leggermente bucato della tenda faceva
cadere grosse gocce d'acqua gelida in un catino, disposto
appositamente qualche ora prima. Steve era passato al secondo
stivale, rispettando il suo silenzio, sapendo che l'amico aveva solo
bisogno di sentire la sua presenza al suo fianco. James, infatti,
fissava il vuoto, la testa reclinata su una spalla.
"Sono
contento di averti qui, anche se sei un cretino." Esclamò,
spezzando il silenzio. Steve fece un mezzo sorriso, alzando appena lo
sguardo dal lavoro che stava facendo, il barattolo del lucido aperto
appoggiato accanto a lui sulla branda. "E' il minimo, se tua
madre avesse visto lo stato di questi stivali ti avrebbe buttato
fuori casa, idiota. E poi, te lo avevo detto..."
Gli
puntò contro la spazzola, le labbra che si distendevano in
un
sorriso. "...con te fino alla fine."
xxx
Aprì
gli occhi sentendo per prima cosa il rumore fastidioso delle eliche
dell'elicarrier, un sibilo ripetitivo che sembrava volergli entrare
nel cervello a forza. La seconda cosa che percepì fu che era
sdraiato su una serie di sedili, e che era in una posizione
estremamente scomoda, le gambe abbandonate oltre l'ultima seduta e un
braccio sopra al capo, a coprirgli gli occhi dalla luce del vetro
oltre la cloche. Samuel stava chiacchierando appena con Elle, che
aveva preso la guida appena era arrivata, vestita ancora come quella
mattina e con l'aria decisamente sbattuta. Rhodes stava facendo gli
ultimi controlli sul pannello touchscreen posto sul guscio della sua
armatura, contando munizioni ed eventuali modifiche dell'ultimo
minuto di Stark.
"Insomma,
alla fine hanno ragione entrambi." Concluse Sam, voltando appena
lo sguardo. Steve serrò gli occhi, fingendosi addormentato.
Sentì
l'amico sospirare. Elle premette qualche pulsante, per poi rilassarsi
meglio contro la poltrona scura. "Steve e Tony sono due persone
abituate a dividere il mondo in bianco e nero. Invece, il mondo
è
una scala di grigio. Nemmeno le persone dalla quale stiamo andando,
sono del tutto cattive. E né Steve né Tony sono
soggetti alla
banalità del male. Sono tutto tranne che banali."
Samuel
annuì, mentre Steve riapriva gli occhi, voltandosi
silenziosamente
per vedere meglio i due.
"Sono
entrambe delle buone persone, davvero. Ma non è una scelta
sulla
base delle persone coinvolte..."
"Tu
hai già deciso." Commentò appena Sam. Elle
sorrise appena,
scostandosi i capelli dal viso, senza rispondere. "Sono contento
per voi, Elle."
"Non
sono nemmeno sicura che esista un noi, dopo oggi." Sussurrò
lei, stringendosi nelle spalle. Rhodes si alzò in piedi,
avvicinandosi appena ai due.
"Elle,
si vede da lontano un miglio. Non fingere di essere obiettiva..."
Commentò a bassa voce. "...Non qui, non serve."
La
bionda alzò gli occhi al cielo. "Su una cosa siamo sicuri,
basta fingere." Si alzò lentamente, lanciando un'ultima
occhiata ai comandi. "Sono veramente esausta, ho bisogno di
queste tre ore fino all'Alaska per dormire."
Rhodey
le sorrise, sedendosi al suo posto. "Fai sogni sereni,
Capitano."
Elle
si voltò per fargli una smorfia, mentre si avvicinava alla
brandina
dall'altra parte del jet, sotto ai sedili sul quale era sdraiato.
Steve rimase fermo, guardandola di sottecchi mentre lanciava la
camicia azzurra in un angolo e si accasciava sul telo di cotone, in
canotta e jeans, il volto rivolto dall'altro capo ed i capelli legati
in modo frettoloso dietro la nuca. La sentì sospirare, prima
che il
sonno prendesse il sopravvento ed i respiri rallentassero fino al
sonno. Solo allora, delicatamente, si alzò e
afferrò la sua felpa,
fino al momento appallottolata a fargli da cuscino. La stese un
attimo con le braccia, prima di abbassarsi sulle ginocchia e
appoggiargliela delicatamente sopra, sfiorando con le dita la pelle
candida della donna. Le scostò una ciocca di capelli chiari
dal
viso, prima di alzarsi e dirigersi verso la cloche. Samuel gli
lanciò
un sorriso malizioso, prima di voltarsi di nuovo a fissare il cielo
scuro della notte.
xxx
Scrutò
con attenzione la mappa olografica della montagna, i burroni ed i
pendii scoscesi che conducevano all'anfratto dal quale si accedeva
alla base.
Non
sapevano quanti uomini ci sarebbero stati lì dentro. O
meglio, chi
ci sarebbe stato. Ma c'erano dei documenti da cercare, e
delle
prove da trovare, che forse avrebbero scagionato Bucky. Quella era la
speranza che cercava di nascondere agli sguardi attenti che la
scrutavano. Forse, avrebbero potuto catturare qualcuno con delle
informazioni importanti.
Rhodey
proiettava la mappa dal suo orologio da polso, sicuramente opera di
Stark, restando fermo a guardarla con espressione corrucciata. Samuel
ci girava intorno, scrutando con attenzione ogni cunicolo.
Steve
si portò una mano al mento, cercando un passaggio, un
sentiero
qualsiasi che fosse scoperto dall'occhio dell'Hydra. La neve aveva
coperto ogni cosa, ed il picco di Denali, il monte più alto
d'America, era una terra coperta di neve e senza alberi che
proteggessero il cammino.
"Se
salissimo con il Jet, per poi scendere con l'attrezzatura?"
Chiese, voltando il capo verso Elle. Rodhes scosse il capo,
schioccando le labbra.
"Intendi
paracadutarti contro una montagna innevata, con una pendenza
dell'ottanta percento, approssimativamente?" Elle
lo
indicò con un cenno del capo, le braccia incrociate sul
petto sopra
alla pesante felpa blu scuro. "Ha ragione, è da folli.
Causeremmo una valanga, e verremmo scoperti."
"Potremmo
scendere io e Rodhes, volando." Commentò Samuel. "Voi
scendete dal Jet e ci raggiungete a piedi."
Elle
fece un'espressione scioccata. "Saremmo troppo lenti, senza
contare che con il cielo limpido vi vedrebbero subito." Steve
immaginò che il secondo, fondamentale motivo per il quale
Elle
avesse scartato l'ipotesi fosse l'idea di una passeggiata di tre ore
nella neve fino alle ginocchia Scosse il capo, dandole mutamente
ragione. Elle gli lanciò uno sguardo veloce, prima di
tornare a
guardare la mappa, lasciando le braccia lungo i fianchi.
"Potreste
sempre usare lo scudo come slittino." Ridacchiò Sam. Steve
nascose un ghigno, cercando di mantenere un contegno davanti agli
agenti che li guardavano sbalorditi da dietro il vetro dello stanzino
degli interrogatori, l'unica stanza disponibile in quell'ufficio di
provincia.
"Supponiamo
che ci siano delle spie anche fra questi agenti, essendo questa la
stazione di polizia più vicina alla base Hydra." Elle
riprese
la parola, appoggiandosi con la schiena al muro, leggermente indietro
rispetto a Rogers.
"Sicuramente,
fra poche ore, sapano che siamo qui. Sicuramente lo sanno
già,
anzi." Samuel si voltò appena, lo sguardo che vagava sullo
specchio monodirezionale. "Bisogna entrare dal basso, essere
veloci, ed individuare il panello di apertura delle porte."
"Stark
entrerebbe a cercarlo con l'armatura e-"
"Non
c'è Stark, qui." Elle interruppe Rhodey, asciutta. "Qui ci
sono io, e sono in comando solo fino a lunedì, se i dei mi
assistono., Ed è solo Venerdì notte."
Cercò
di non pensare che per lei, per tutti loro, era il secondo
Venerdì
notte in ventiquattr'ore. Maledetto fuso orario.
"Cosa
hai in mente?" Steve si avvicinò appena, guardandosi
intorno,
evitando il suo sguardo.
"Rhodes,
pensi di riuscire a farti mandare da Friday una scansione dal
satellite della base Hydra?" L'uomo annuì appena ritirando
la
mappa ed alzando il braccio sulla quale portava l'orologio. Si
voltò,
mormorando qualcosa contro il quadrante. Sam si diresse verso la
porta, accendendo la luce.
"Sam,
tu pensi di riuscire a portare Rogers giù dal Jet con le tue
ali?"
Wilson
incrociò le braccia, guardando l'amico, divertito. "Se non
ha
fatto abbuffate di recente, dovrei riuscirci."
"Rogers..."
Elle strizzò appena gli occhi, cercando di tenere un tono di
voce
imperscrutabile. "Pensi di riuscire a memorizzare la mappa che
ti mostrerà Rhodey?"
L'uomo
annuì appena, puntando lo sguardo verso di lei. "E tu, Selvig?"
"Ho
un piano per entrare. Non ammetto discussioni." Si diresse verso
l'uscita, fermandosi appena un secondo al suo fianco. "Non ti
piacerà, il mio piano."
"Ci
sono tante cose che non mi piacciono, Elle." L'uomo sospirò
appena, mentre Rhodes e Samuel si voltavano nella direzione opposta,
ignorandoli per quanto possibile. Dandogli un po' di privacy.
"Non
vuol dire che siano le cose sbagliate."
Elle
annuì appena, fra sé e sé.
Abbassò la cerniera della grossa felpa
che aveva rimediato sul quinjet, e che aveva un odore familiare,
stringendosi nelle spalle. "Allora andiamo."
Uscì
dalla porta seguita dai tre, scrutando con attenzione tutti quegli
agenti che li fissavano, fingendo di non averli spiati fino a mezzo
minuto prima, attraverso lo specchio monodirezionale.
"Sergente."
Urlò la svedese, facendo vagare il suo sguardo
più truce da un lato
all'altro della stanza. Un ometto più basso di lei di almeno
venti
centimetri si fece avanti, avvolto in un pesante giaccone marrone, e
con una stella appuntata al taschino. "Mi dica, Agente Eclipse."
Elle
alzò gli occhi al cielo. Missione per gli
Avengers, nomi da
Avengers.
"Può
procurarmi una tuta da sci bianca ed una tavola da snowboard?"
Chiese lei, atona. Steve, mezzo metro più indietro,
alzò un
sopracciglio, confuso. Samuel nascose un ghigno, abbassando il capo.
Aveva capito esattamente il piano di Elle, ed era geniale.
Assolutamente imprevedibile. Si avvicinò appena a Selvig,
mentre il
Sergente assentiva convinto, allontanandosi in fretta verso quello
che probabilmente era il deposito dell'attrezzatura.
"Steve
odierà il tuo piano con ogni supercellula del suo
supercorpo,
lo sai?" Sussurrò Wilson, divertito. Elle fece una smorfia,
annuendo.
"Se
ti può consolare, penso sia uno dei migliori piani di
sfondamento
che io abbia mai visto architettare. Ci sai fare, biondina."
Elle
alzò gli occhi al cielo, sorridendo. "Faccio questo lavoro
da
prima di te, pararescue. E comunque..." Si voltò,
lanciandogli
uno sguardo divertito. "Ora
sono
il tuo capo, Falcon. Non osare chiamarmi biondina...
Almeno fino a lunedì."
xxx
"E'
un pessimo piano!" Urlò Steve, sovrastando il rumore delle
turbine del Quinjet. "Non posso lasciarti andare da sola dentro
una base Hydra, scivolando su una tavola lungo un pendio del genere!
Non arriverai nemmeno vicino al portone!"
Elle
alzò gli occhi al cielo, levandosi i jeans senza fare un
fiato.
Samuel stava seduto su uno dei sedili di pilotaggio, giocherellando
con la cerniera della sua tuta da Falcon. Rhodes pilotava il jet
verso la montagna, l'armatura che lo attendeva nel guscio fissato
poco dietro al sedile.
Steve
le dava le spalle, mentre Elle iniziava ad infilarsi la tuta di
Eclipse. Con la coda dell'occhio, vide Rhodey voltare appena la testa
all'indietro.
"Rhodes,
se non giri subito quella testa...." Esclamò, arrabbiato.
L'altro strinse le labbra in un ghigno, voltandosi di nuovo verso la
cloche. Elle si alzò, stirando le spalle. "Puoi girarti,
Rogers. Sono coperta, ora."
L'uomo
arrossì appena, fronteggiando di nuovo la svedese. "Non ti
lascerò andare da sola giù per una cresta
rocciosa coperta forse da
mezzo metro di neve, Elle."
L'altra
alzò un sopracciglio. "Non puoi darmi ordini, Rogers-"
"Certo
che posso!" Esclamò lui, in maglietta a maniche corte, la
parte
superiore della divisa in mano. "Sono un Capitan-"
Elle
fece due passi avanti, il meno alzato e l'espressione strafottente.
"No, Rogers." Schioccò le labbra, divertita. "Sono
io il Capitano, oggi."
Steve
rimase allibito, guardandola con la mascella rigida per il
nervosismo. Elle si strinse nelle spalle.
"Aiutami
con la cerniera..." Sussurrò poi, dopo un attimo di
incertezza,
dandogli le spalle. Steve appoggiò sulla panca l'involto che
aveva
in mano, avvicinandosi alla donna. Elle teneva le spalle rilassate,
le ossa delle scapole che si intravedevano sotto la pelle candida, il
volto leggermente voltato, come a non perderlo di vista. Prese un
respiro profondo, spostandosi i capelli con un braccio su una spalla,
lasciando il lembo di schiena sotto la cerniera completamente
scoperto. Steve rimase un attimo fermo, a studiare il contrasto fra
la pelle morbida e bianca della donna e il tessuto duro e scuro della
divisa, prima di prendere il piccolo cursore nero fra le dita. Le
sfiorò un secondo la pelle con i polpastrelli, in una timida
carezza, prima di sollevare la lampo.
Abbassò
il braccio, percorrendo la linea della sua spalla con la mano,
avvicinandosi fino ad avere il viso piegato vicino al suo orecchio
fino a farle sentire il suo respiro. "Ti prego, stai
attenta."
Elle
rimase immobile un secondo, prima di abbassare appena il capo ed
indietreggiare in modo impercettibile, appoggiando la schiena contro
il suo petto, quasi al contrario d un abbraccio. "Anche tu."
"Elle..."
Sam richiamò la loro attenzione, facendoli schizzare in
direzioni
opposte, il viso leggermente arrossato. Elle si diresse verso
l'amico, mentre Steve infilava in fretta l'ultima parte della divisa.
"Penso che siamo quasi arrivati. Sei sempre sicura che..."
"Si,
Sam. Fidati di me, so quello che faccio. Non ho lavorato solo in
Medio Oriente, negli ultimi cinque anni. Non è la prima
volta che
scendo da una montagna in Snow board..."
Rhodey
la guardò un attimo, le sopracciglia aggrottate. "Fai in
modo
che non sia l'ultima. Quanto ci vorrà prima che tu riesca ad
aprire
le porte?"
Elle
si voltò, prendendo i pesanti pantaloni da neve ed iniziando
ad
infilarli sopra alla divisa. Fece schioccare le bretelle, mentre
fuori dal vetro sopra la cloche scorreva un paesaggio innevato, con
creste di roccia scura a perdita d'occhio. "Se non vedi le porte
aprirsi entro quindici minuti, vieni ad aiutarmi." Elle
infilò
il casco, gli occhiali incastrati sopra alla fronte coperta, e
finì
di legare le armi in sicura sotto alla pesante giacca. Con
attenzione, Steve le passò lo zainetto contenente altre
munizioni e
un ricevitore d'emergenza, tenendoglielo sollevato mentre lei
infilava le braccia negli spallacci. Era una cosa che lo
tranquillizzava, aiutare le persone a cui teneva a prepararsi prima
di una missione. Elle lo lasciò fare, vedendo che il compito
riusciva nell'intento del sollevarlo da un po' di quell'angoscia che
traspariva dal suo sguardo.
La
svedese prese la tavola, passandosela sottobraccio, mentre Rhodes
planava leggermente verso la cresta scura della montagna.
"Samuel,
tu resti fuori dalla base."
Wilson
si voltò, lo sguardo corrucciato, lanciando uno sguardo a
Steve. "Io
seguo lui, non resterò fuori ad aspettarvi con dell'Eggnog
caldo e
qualche coperta."
Elle
alzò una mano, l'anello di Stark che scintillava nella
penombra del
Jet. "Tu resti qui perché ci servi come riferimento, e
perché
le tue ali nei condotti della base sotto la montagna sarebbero solo
d'intralcio."
"Posso
combattere anche senza!" Esclamò Samuel, cercando con lo
sguardo quello di Steve. Captain America lo guardò un
attimo, prima
di annuire.
"Elle
ha ragione, ti metteresti solo che in pericolo per nulla. Ci sei
più
utile qui, a coordinarci. La mappa di Friday?"
Rhodes
sospirò, annuendo. "E' già in tutti i vostri
satellitari."
Elle
annuì appena, infilandosi i grossi guanti bianchi, come
tutta la sua
tuta. "Allora, signori, prendo congedo." Si diresse verso
il portellone, chiudendo con la mano libera il giaccone ed abbassando
gli occhiali. Steve la seguì, tenendosi contro una sbarra
del
velivolo. "Ci vediamo dentro."
"Steve..."
Elle abbassò il capo, ed il tono di voce, mentre l'uomo si
avvicinava, guardandola con evidente angoscia. "Se oggi dovesse
andare male, c'è una cosa che devi sapere."
"Puoi
ancora ripensarci-" Elle lo zittì, alzandosi sulle punte e
sfiorando le labbra dell'uomo con le sue, con delicatezza, il fiato
caldo che la faceva sentire immediatamente più tranquilla.
Steve
sospirò appena, quando lei fece un passo indietro.
"Mi
dispiace per averti tenute segrete delle cose. Ma ricordati questo:
per te, James è un tassello, una battaglia. Ma per lui..."
Elle
spinse con una manata il pulsante per aprire il portellone,
sorridendo appena dietro alla sciarpa ed ai grossi occhiali. "...Per
lui, tu sei l'intera guerra."
Elle
si lanciò fuori dal portellone, in un turbine di neve,
lasciandolo
solo, inerme, davanti al baratro dei suoi pensieri.
xxx
Intorno
solo il bianco candido della montagna, nessuna interruzione a
quell'orizzonte pallido che faceva riverberare la luce del sole, un
sole luminoso ma freddo come solo quello della montagna sapeva
essere.
L'aria
sferzante le colpiva il viso a ritmo irregolare, mentre inspirava a
pieni polmoni attraverso la sciarpa che le copriva tutto il viso,
guardando la cresta rocciosa che stava sotto di lei. Stava cercando
il percorso migliore per scendere verso l'apertura della base, la
tavola agganciata allo zaino. Prese degli ampi respiri, sistemando
meglio il ricevitore all'orecchio e raddrizzando il casco. Sentiva
ancora l'elicottero in lontananza, mentre girava in tondo per
sorvegliarla, abbastanza in alto per non essere visibile dalla base,
ma vicino abbastanza da poterlo vedere, una macchia nera nel cielo
terso. Ascoltò un attimo i battiti del suo cuore, cercando
di
sincronizzarli con il respiro, prima di riaprire gli occhi. "Pronta."
"La
prossima volta, ti mettiamo una GoPro e ti facciamo
sponsorizzare dalla Red Bull." Commentò nell'interfono
Samuel.
"Buon fortuna, Elle."
Scivolò
fino alla prima cresta di roccia, fermandosi sul ciglio di una
discesa frastagliata coperta da una coltre bianca. Tre metri la
separavano dall'attacco della pista, tre metri di vuoto da
ammortizzare con la tavola.
Con
una spinta, si lanciò nel vuoto, tenendo la tavola
perpendicolare
al terreno, pronta all'impatto, una mano guantata che teneva
un'estremità. Iniziò a scivolare lungo il pendio
scosceso,
trattenendo il fiato, l'adrenalina che entrava in circolo. Fece una
curva lenta, spostando il peso verso l'interno, liberando un piccolo
torrente di neve lungo il pendio. L'ingresso del tunnel era tre
chilometri più in basso. Tre chilometri di rocce e planate
scoscese.
"Non
volevo chiederlo mentre era qui, ma..." Rhodey voltò appena
lo
sguardo verso Samuel e Steve, il primo seduto accanto a lui ed il
secondo che si teneva ad una sbarra, il busto leggermente piegato in
mezzo ai due sedili.
"...Da
quando Elle fa Snowboard Freestyle?" Commentò, guardando la
scia bianca che si allontanava lungo la montagna. Samuel si strinse
nelle spalle. "Alla fine, viene dal nord. Io mi sarei schiantato
alla prima roccia. Immagino che la abbiano messa su un paio di sci
prima ancora di imparare a camminare."
Steve
deglutì. "Mancano ancora parecchie rocce al tunnel,
Samuel..."
xxx
Non
riuscendo ad aprire la porta del tunnel nemmeno con i pass, sottratti
alle cinque guardie che l'avevano vista piombare dentro l'ingresso
nella montagna in modo estremamente sgraziato, Elle si era fermata
qualche secondo a riflettere, guardando dritta nelle telecamere di
sorveglianza, grattandosi il mento.
Attorno
a lei giacevano i corpi inanimati, due che avevano malamente
ricevuto la tavola da snowboard fra i denti e le altre tre seccate
rispettivamente con due proiettili e un'elegante testata contro la
parete in calcestruzzo.
Afferrò
la tavola e la infilò tra la fessura delle due porte in
ferro,
facendo leva con tutta la forza che aveva.
"Serve
una mano?"
Rhodes
calò con tutta calma dietro di lei, con un clangore
metallico. Elle
si voltò con un sorriso, abbassando la sciarpa, mentre lui
faceva
alzare la maschera dal viso. "Mai stata così contenta di
vederti, Rhodey."
"Quanto
mi dai se apro la porta al primo tentativo?"
Elle
alzò con un gesto sbrigativo gli occhiali da neve sul
cappello, il
casco già agganciato allo spallaccio dello zaino. Rhodes
contemplava
la tavola incastrata nella porta con aria perplessa.
La
svedese aprì la cerniera del giubbino, tenendosi con una
mano le
bretelle dei pantaloni tecnici. Con l'altra estrasse il portafoglio
dalla tasca posteriore dello zaino e lo aprì con un gesto
spiccio.
"Se vuoi ho venti dollari, una tessera magnetica dell'ex
S.H.I.E.L.D. per le spese e un paio di corone svedesi."
Rhodes
sogghignò, lanciando uno sguardo da oltre la sua spalla. "E
una
foto di Natasha, vedo. E quello è un ritaglio..."
Lei
lo fulminò con lo sguardo, riponendo il portafoglio nella
tasca
dello zaino. "...sicuramente non di un articolo su come farsi
gli affari propri."
Rhodes
si voltò con un sorriso sornione verso la porta, puntandole
contro i
guanti dell'armatura. Elle si passò la tracolla della
mitraglietta
AK-47 sulla spalla, puntandola contro la porta. "Comunque, se la
sfondi entro trenta secondi, ti regalo tutto il portafoglio."
Rhodes
sparò un colpo da uno dei cannoni sulle spalle,
indietreggiando
appena per il contraccolpo. Elle venne sbalzata all'indietro, cadendo
mezzo metro più lontano.
"Non
vedevo l'ora di provare i nuovi giocattoli di Stark."
"Dovevamo
entrare inosservati." Commentò Steve, correndo verso di loro
avvolto in una tuta termica uguale a quella di Elle. L'altra si
alzò
con colpo di reni, facendo schioccare la lingua. Si voltò,
mimando
un'espressione dispiaciuta. "Ho provato a suonare il campanello,
ma non mi hanno voluto aprire. "
"Che
scortesia." Rispose appena Rhodes. "Ma ora avremo da fare."
Elle
fece due passi, affiancando l'altro e iniziando a sparare contro i
soldati in nero che si dirigevano verso di loro. Steve si
parò con
lo scudo, mentre Rhodes si alzava da terra e li precedeva nel buio
del condotto, illuminandolo con la luce dell'armatura.
"Dovremo
dividerci, dalla mappa questo posto mi sembrava immenso."
"Per
questo vi servo anche io."
Elle
alzò gli occhi al cielo, voltandosi verso l'esterno. Davanti
alla
luce che entrava dall'esterno, stagliando un'ombra nera sullo sfondo
bianco, Samuel alzò una mano, il pollice
all'insù.
"Dove
hai lasciato il Quinjet?"
"Ho
parcheggiato in doppia fila." Commentò l'uomo, estraendo un
fucile e puntandolo oltre la spalla di Steve. "La multa la
addebitiamo a Stark."
Elle
lasciò cadere la mitraglietta contro il fianco, sistemandosi
la coda
di cavallo. "Ok, allora vieni con me."
Steve
fece per obiettare, ma Elle gli prese lo scudo dalle mani, usandolo
per colpire una granata che qualche mercenario aveva lanciato contro
di loro. Si piegò sulle ginocchia, mentre Steve si piegava
contro di
lei e Samuel contro i due, attutendo a fatica il contraccolpo della
detonazione. Steve aprì lo zainetto di Elle, mentre questa
spiava
Rhodes nascosto dietro la lamiera della porta, aspettando direttive.
Gli fece un cenno con il capo. "Hai fatto, Rogers?"
Steve
appoggiò a terra una pistola ed una torcia, richiudendo lo
zainetto
con una mano. "Grazie, Selvig."
"Sei
il benvenuto." Commentò appena questa, mentre l'altro
lanciava
oltre le macerie un lacrimogeno. Un paio di soldati caddero a terra,
storditi dal gas sedativo. Elle allungò una mano dietro le
sue
spalle, e Rogers le passò la torcia. "Tu e Rhodey andate
dritti. Io e Wilson a destra. Teniamoci in contatto."
"State
attenti." Commentò solo Steve, mentre si alzavano. Elle si
voltò appena, annuendo. Fece per passargli lo scudo, ma lui
lo
spinse leggermente contro di lei. Elle lo guardò, con un
sopracciglio alzato. "Prendi il tuo scudo."
"Tenetelo
voi." Replicò Rogers. Sam e Rhodes si scambiarono uno
sguardo
perplesso.
"Non
fare il cretino, ti serve lo scudo." Esclamò Elle. L'altro
si
strinse nelle spalle. "Posso usare Rhodey." Lo indicò con
un cenno del capo, senza distogliere lo sguardo dagli occhi di lei.
"Grazie..." Commentò appena l'amico. Elle
spinse di
nuovo lo scudo contro di lui.
"Prendi
questo scudo e vattene."
Steve
rimase un secondo a fissarla, la mascella contratta e gli occhi
stretti in un'espressione dura. "Ok."
Riprese
lo scudo, mentre Elle accendeva la torcia e scavalcava un cumulo di
macerie. "Rhodes, ricordati che ti devo venti dollari."
"No..."
Commentò affiancandola l'uomo nell'armatura. "Mi devi tutto
il
tuo portafoglio, comprese la foto di Nat e il ritaglio con la
foto
di Rogers."
Elle
roteò gli occhi verso di lui, con un'espressione omicida.
Steve li
guardò, stupito. "Lei-"
"Non
è il momento, usignoli miei."
Commentò Samuel,
parandosi davanti a lui e sparando ad un uomo a cinque metri di
distanza, che strisciava perfettamente mimetizzato nel buio. Gli
altri tre rimasero a guardare, a bocca aperta.
"Voi
lo avevate visto?" Sussurrò Rhodes, voltando appena il capo
verso Elle, la maschera dell'armatura che si abbassava.
"Samuel
viene con me." Ripetè piano Elle, mentre l'uomo gongolava.
xxx
"Posso
farti solo una domanda?" Samuel la raggiunse, tenendo alto il
fucile, mentre Elle teneva la torcia puntata davanti a sé,
sopra
alla sua pistola. "Dimmi, Sam."
"Perché
sei scesa in Snowboard se poi siamo entrati tutti insieme?" Elle
sorrise appena. "Era solo un modo per fare colpo su Rogers?"
Lei
alzò gli occhi al cielo, sorridendo appena. "Vedrai...."
Un
gruppo di soldati corse nella loro direzione, mentre Elle prendeva la
rincorsa, abbassando la pistola ed estraendo il coltello dalla
manica. Si voltò a tirare un poderoso calcio al primo
mercenario che
le capitò sotto tiro, colpendolo alla mascella.
Girò su se stessa,
piantando il coltello nella spalla di un altro, afferrandolo poi per
il giubbotto antiproiettile e accompagnandolo a terra con uno sbuffo.
Sentì Samuel imprecare, e si voltò giusto in
tempo per vederlo
mentre colpiva con il calcio del fucile il volto del malcapitato di
turno.
"Vengono
tutti da quella direzione...." Commentò Samuel, alzando lo
sguardo dall'uomo a terra sull'amica. Elle alzò le
sopracciglia,
aprendo la bocca per parlare, ma non disse nulla. Scrollò le
spalle
e proseguì in quella direzione, rinfoderando la pistola e
riprendendo il coltello dalle carni del poveretto steso con la
schiena contro il muro, che mugugnò. Lo pulì sui
pantaloni da neve,
tenendo la torcia fra i denti bianchi.
"Ovvio,
vengono tutti da lì, dobbiamo andarci!"Commentò
funereo
Samuel, seguendola con sospiro rassegnato. Scavalcò l'uomo
che aveva
atterrato, affrettando il passo per raggiungerla. Elle alzò
un
braccio, fermandolo. "Mi è venuta un'idea diversa."
"Prevede
una morte gloriosa ma dolorosa?"
"Ovvio."
"Bene,
allora andiamo." Concluse Sam, imbracciando il fucile, mentre la
svedese gli sorrideva da oltre la spalla.
xxx
"Bene,
eccoci qui. Finalmente faccio la conoscenza di questi famosi
Avengers."
"Perdonami
se non ti stringo la mano."
Steve
fece qualche passo avanti, gli occhi che saettavano da quell'uomo del
tutto normale, avvolto da una stretta uniforme nera, le braccia
abbandonate lungo i fianchi e le dita pallide delle mani intrecciate
sopra al ventre, quasi fosse già pronto a lasciarsi deporre
in una
bara. Gli occhi castani, invece, brillavano di una scintilla
sinistra, quasi rossastra nella pallida luce al neon. Rhodes, accanto
a lui, ripiegò dalle spalle dell'armatura le armi, alzando
la
maschera per vedere con i suoi occhi l'uomo che gestiva l'ultima
cellula Hydra sul pianeta.
"No,
non sono interessato alla sua stretta di mano, Steve Rogers.
Soprattutto ora che non è più il Capitano."
L'uomo dal
pesante accento tedesco si strinse nelle spalle, stringendo le labbra
in una smorfia divertita. "E' bastata una donna a farla deporre.
Deve essere stato uno spettacolo pietoso, nevvero."
Rhodes
sospirò. "Ora deve venire con noi. Qualsiasi cosa
dirà sarà
registrata." Commentò atono, facendo due passi in avanti.
L'uomo alzò appena le braccia, la mani aperte. "Non sono
sicuro
di voler tornare in America con voi, Maggiore Rhodes."
Si
strinse nelle spalle, lo sguardo che vagava. "Anche se la mia
curiosità riguardo alla vostra squadra è
incontenibile. Avete già
trovato i miei uomini nella vostra città, prima di venire a
scomodare me in persona?"
Rhodes
si fermò, alzando lo sguardo, attento. "Parla di Brock
Rumlow?"
Le
labbra dell'uomo si piegarono su un lato, gli occhi piccoli che
vagavano tra i due uomini. Fece un gesto scocciato con la mano,
muovendo le sopracciglia in modo quasi comico. "Non solo Rumlow.
Ma, il vostro nuovo Capitano non ve lo ha detto?"
Si
guardò attorno. "E chissà dove è ora.
L'unica donna in questo
continente a sapere dove è Barnes." Scoppiò in
una risata
acuta, alzando il capo, lo sguardo che si fermava in quello blu di
Rogers. "Una conoscenza preziosa, di questi tempi, non trova,
Rogers?"
"Non
ascoltarlo, Steve, vuole solo farti arrabbiare." Commentò
Rhodes, senza staccare gli occhi dalla figura sottile dell'uomo.
"Peggio..."
Replicò questo, con un sorriso divertito. "...Stavo solo
prendendo tempo."
Si
voltò senza esitazioni, dando loro le spalle, mentre una
cinquantina
di uomini entravano nella stanza, accerchiando i due uomini. "E
voi siete stati abbastanza sciocchi da permettermelo." Li
guardò, annoiato, voltandosi verso uno dei suoi soldati.
"Cosa
me ne faccio di un'armatura di Stark e di un altro
uomo con il
supersiero?"
Steve
alzò le sopracciglia, mentre Rhodes arretrava al suo fianco,
guardando i caschi dei soldati attorno a lui come a volerli contare.
Erano un intero commando, in perfetta tenuta da guerra, armati fino
ai denti e con il volto coperto.
L'uomo
in divisa li guardò un attimo, lasciando trasparire il suo
disappunto. "Noioso. Io volevo l'androide, o se
proprio
entrambe le mutanti. Invece ho voi." Si strinse nelle spalle.
"Dovremo trovare un modo per farvi tornare utili."
Steve
fece una mezza risata, lo scudo stretto in mano, guardandosi attorno.
Non c'era traccia di Elle e Sam, ma almeno non erano stati presi.
"Non farmi credere di non voler replicare il siero di Erskin?"
"Il
tuo maggior difetto è sempre stato considerarti di un
valore di
mercato maggiore di quello che sei in realtà."
Commentò
con tono rassegnato l'altro, scuotendo il capo. "Ci sono
centinaia di altri mutanti, abbiamo centinaia di altri adepti che
portano avanti il lavoro di ingegneria genetica iniziato dal Teschio
Rosso. Tu ormai sei una goccia nel mare. Ora..." Alzo appena lo
sguardo sui due. "Ci serve qualcosa che non possiamo trovare su
questa terra. Qualcosa che è arrivato da oltre.
E che ci
appartiene."
"Elle..."
"Io
e sua madre eravamo amici di vecchia data. Avrebbe voluto vederla al
sicuro, sotto la mia protezione, invece che a vivere in una
catapecchia americana, con amicizie discutibili." L'uomo scosse
il capo, sembrando sinceramente affranto. "Non approverebbe
tutto questo pericolo, nella vita della figlia. E nemmeno un uomo che
non ha nemmeno il coraggio di combattere per lei. Seriamente, ti
piace mandare alla guerra le persone che ami?" Concluse,
scuotendo il capo. Steve rimase senza parole, fissandolo con la
mascella contratta e le labbra schiuse per la sorpresa.
"Tu
conoscevi la madre di Elle?!"
L'altro
ignorò la sua domanda, mentre Rhodes cercava di richiamare
l'amico.
"Ti sta prendendo in giro, Rogers!"
"Scegli
con molta attenzione i tuoi amici, Steve Rogers. Te
lo
concedo." L'uomo fece per voltarsi, stringendosi nelle spalle.
"Sembra che li selezioni a partire dalla nostra lista dei
desideri."
Steve
lanciò lo scudo contro l'uomo, pieno di rabbia. L'altro lo
scartò
senza troppa fatica, con un passo a lato, facendolo cadere diversi
metri dietro di lui. Si avvicinò, appoggiandoci un piede
sopra.
"Peccato, Steve Rogers. Che belle conversazioni
avremmo
potuto fare, sui tempi che furono."
Steve
rimase a fissarlo, respirando profondamente, gli uomini sul perimetro
della stanza che lo guardavano dietro le loro maschere vuote. Rhodes
si mise alle sue spalle, riabbassando la maschera.
"Ehi,
signorina!"
Un
colpo sfiorò di striscio il braccio dell'uomo in divisa, al
centro
della stanza, il proiettile che staccava un getto di sangue scuro.
Steve e Rhodes abbassarono lo sguardo, mentre tutti gli uomini ai
lati facevano un passo verso il loro comandante, piegato sul suo
braccio con un sorriso malevolo sulle labbra sottili. Fermò
i suoi
uomini con un braccio, voltandosi verso Samuel, all'altro capo della
stanza, che imbracciava il suo fucile, un sorriso divertito sulle
labbra carnose.
"Sei
per caso ferito?" Commentò sarcastico, alzando il mirino
verso
di lui.
"L'uomo
con le ali..." Sussurrò con una smorfia,
rialzandosi e
raddrizzando la schiena. "Sai cosa è successo ad Icaro
quando si è avvicinato troppo al sole?"
Samuel
fece un ghigno ancora più divertito, indicando con il mento
una
corda che portava legata in vita, e che proseguiva verso le travi del
soffitto.
"Anche
se non sono un damerino come te, non sono del tutto ignorante. Ma..."
Fece un cenno con il capo, schioccando le labbra. "Non
sarò
io a caderti addosso, oggi."
"In
cosa mi sono cacciata..."
Ripiegata
con le ginocchia al petto, Elle si lanciò contro il vetro
della
stanza sopraelevata dalla quale aveva osservato tutto lo scambio,
planando con la grazia di Sokovia dopo l'intervento di Stark sopra
all'uomo in divisa, afferrandolo per le braccia e lanciandolo contro
il muro grazie alla forza di inerzia.
Questo
finì in mezzo alle sue truppe, accasciandosi con un mugugno
sofferente. Samuel, per il contraccolpo, volò contro la
parete
opposta, colpendo un paio di uomini. Elle dondolò, appesa
alla
corda, estraendo la mitraglietta e iniziando a sparare alla cieca,
mentre Steve si lanciava a recuperare lo scudo. Si alzò in
tempo per
afferrare fra le braccia la svedese, che si era sganciata e lasciata
cadere nel vuoto.
"Non
avrei mai detto che nelle basi Hydra potessero piovere belle donne."
Commentò, esultante. Elle arrossì appena.
"Grazie, ma ci
starebbero sparando addosso." Commentò lei, voltando il capo
per guardare Rhodes che recuperava Samuel, pochi metri più
indietro.
Prese la pistola dal cinturone di Rogers, iniziando a sparare ai tubi
dell'illuminazione al neon.
Si
ritrovarono al centro della stanza, assordati dal rumore delle
pallottole che vagavano, nel buio. Samuel alzò lo sguardo
sulla
ragazza, gli occhiali che emettevano una leggera luce rossa.
"Rhodes,
ci vedi?" Chiese Elle, sentendo subito la risposta di assenso
dell'amico. Samuel emise un verso di assenso, mentre Steve la
stringeva contro il suo fianco, coprendola con lo scudo. "Anche
io vedo un poco." Mugugnò, percorrendo continuamente il
profilo
del suo braccio, temendo di perderla nel buio. "Potevi
chiedermelo prima di sparare all'unica fonte di luce."
"Cazzo!"
Elle sentì qualcosa passarle a fianco, mentre una sagoma
scura si
appoggiava alla sua spalla. Passò un braccio sotto il
braccio di
Sam, sostenendo il suo peso con uno sbuffo. "SAM!"
Lasciò
subito Rogers, percorrendo con le mani la figura dell'amico, sentendo
qualcosa di umido e caldo macchiarle i vestiti e una mano. Si
irrigidì subito, tirandogli un leggero schiaffo. "Sam,
ascoltami, resta sveglio!"
La
svedese lo sentì caderle di peso addosso. "Cazzo,
cazzo,
cazzo..." Commentò, mentre Steve afferrava un
revolver che
lei gli aveva sottratto e rispondeva al fuoco nemico.
"Rhodes,
puoi trascinarci tutti fuori volando?" Chiese Elle, tendendo una
mano verso l'alto. Una cupola azzurrognola coprì i quattro,
mentre i
colpi rimbalzavano contro la barriera invisibile, cadendo a terra.
Rhodey annuì, mentre Elle, resa cieca dal buio, cercava con
un
braccio di sostenere l'amico, la mente impegnata a creare quella
debole corazza.
"Posso
farlo, se vi tenete tutti a me. Ma serve una vita d'uscita."
"Tieniti
pronto." Commentò la svedese. Steve lasciò vagare
lo sguardo
lungo la stanza, vedendo i soldati che sparavano, alcuni che
scappavano vedendo nell'ombra gli occhi traslucidi di Elle e la luce
emessa da quella bolla indistruttibile. Intravide nell'ombra lo
sguardo dell'uomo in divisa, circondato dai suoi uomini, ferito, ma
con i denti bianchi che splendevano nella pallida luce del potere di
Elle, gli occhi sgranati dall'estasi e pieni di desiderio. Steve
deglutì, mentre la donna richiamava la sua attenzione
urlando. Si
avvicinò, prendendosi un secondo per percorre il profilo del
viso
della donna che amava, ignara di tutte quelle attenzioni, interessata
soltanto a tenere cosciente il suo amico, accasciato con gli occhi
socchiusi. Per un secondo, solo per un secondo, le parole di
quell'uomo, del nemico, fecero breccia nella sua mente. Elle forse
meritava davvero di meglio. Una vita al sicuro, lontano da tutta
quella polvere e da quel sangue. Poi, l'ennesimo urlo della svedese,
un urlo che conteneva il suo nome in mezzo a diversi insulti -
insulti che in una situazione normale gli avrebbero fatto accapponare
la pelle - lo fece ritornare alla cruda realtà, cruda quasi
quanto i
suoi pensieri. Prese Samuel da sotto le ascelle, stringendoselo
addosso.
Elle
borbottò qualcosa con Rhodey, estraendo un telecomando. Lo
guardò
per un secondo, come per soppesare le probabilità che
avevano di
uscirne vivi.
Alzò
lo sguardo su Steve, che sorreggeva Samuel dall'altro lato.
"Rogers,
tieni stretto Sam!" Commentò Elle, passando il giaccone
sulle
spalle dell'amico ferito. Steve annuì, aiutandola a infilare
il
braccio di Sam nella manica. "Se usciremo, ed usciremo, devi
tenerlo al caldo. Non importa se ci perdiamo nel volo."
Steve
scosse il capo. "Volo?!" Elle gli lanciò uno sguardo
angosciato, stringendosi fra le braccia, avvolta nella tuta di pelle.
"Tieni stretto Sam, ed al caldo."
Rimase
un secondo a guardare gli occhi blu del capitano, mentre passava
dall'altro lato di Rhodes. "Al tre premo."
L'uomo
nell'armatura annuì. "Meglio tutti sotto la montagna, che
loro
fuori."
Elle
annuì, premendo l'interruttore.
Un
boato scosse tutta la base, e la montagna sotto di essa. Per un
secondo, solo poca polvere scese dal soffitto, mentre tutti si
fermavano.
Poi,
i mercenari iniziarono a fuggire dalla stanza, che andava via via
crepandosi.
"Pronti?"
Chiese Rhodey, tenendo con una mano il busto antiproiettile
dell'armatura di Steve, sollevandosi da terra di pochi centimetri.
Elle annuì, mentre afferrava il suo avambraccio.
"Andiamocene."
Commentò, quando il primo crostone di soffitto e roccia
cadde
davanti a loro, e la neve che entrava mulinando. Rhodes le strinse
meglio il polso, partendo come un razzo verso l'alto, Steve e Sam
solo una sagoma indistinta dall'altro lato.
xxx
Si
rianimò tossendo, sentendo i polmoni pieni di polvere ed il
fianco
che doleva come se stesse bruciando sotto una fiamma.
"Ehi,
ehi, ehi..." Qualcosa le diede una leggera pacca sul petto,
mentre apriva gli occhi, infastiditi da una luce innaturale.
"Respira, coraggio..."
"Non
dirmelo..." Mise a fuoco il viso sporco di Steve, la mascella
decisa, gli occhi blu che la fissavano angosciati. "...Abbiamo
seguito i cattivi fin sotto alla montagna."
"Siamo
usciti." Commentò appena lui. "Sei svenuta appena hai
smesso di emettere quella bolla..." Era sdraiata sugli scomodi
sedili del quinjet. Si voltò, sentendo la mano di lui che la
reggeva
per la vita, mentre sputava ancora polvere e calcinacci. Ebbe un
fremito di freddo. "Cosa..."
Steve
le diede qualche leggero colpetto alla schiena, accarezzandola poi
con la mano. Per coprirle tutte le spalle e giù, fino al
bacino,
sarebbero bastate tre mani di Rogers. Si stupiva ogni volta di quanto
fosse enorme rispetto a loro, persone normali.
"La
pressione. Non sei abituata a volare, non a certe altezze, senza
casco, né ossigeno..." Sorrise appena. "Abbiamo scoperto
finalmente qualcosa che non puoi fare."
Elle
fece per alzarsi di scatto, sentendo un giramento di testa improvviso
sbalzarla in avanti. Si tenne la testa fra le mani, guardandosi
attorno. "Come siamo arrivati sul Jet, io..."
"Sam
lo aveva lasciato su una cresta. Lo abbiamo recuperato giusto in
tempo, non è stato facile, portandovi a peso morto."
"Sam!"
Elle si tenne ad una sbarra, mentre l'altro si alzava, passandole con
naturalezza un braccio attorno alla vita. "Non dovresti andare
tanto in giro, Elle. Sei stata svenuta per quasi mezz'ora."
"Sam."
Esclamò solo la svedese, riconoscendo l'angoscia che cercava
di
nasconderle dietro un'espressione fintamente serena. "E'
stabile."
"Rhodey?"
"Ben
svegliata, Elle. Almeno questa volta non sei morta e risorta."
La salutò l'uomo, senza distrarsi dai comandi. Elle
sospirò. "Ti
serve un copilota."
"Riposa."
Commentò solo l'altro. "C'è Friday ad aiutarmi."
Elle
lanciò uno sguardo all'adesivo vicino alla cloche, che
recitava 'Jarvis is my co-pilot.'. Avrebbe
decisamente voluto Visione,
accanto. Aveva mille domande, e sentiva il cuore in gola. Steve
aspettò che ritornasse al presente, guardandola scuotere il
capo e
tornare a fissarlo. "Sam."
Steve
scavalcò l'armatura di Rhodes, abbandonata con il suo scudo
e il
casco a terra. "Vieni..." La aiutò a superare gli
ostacoli, facendola sentire un po' ridicola. Normalmente, li avrebbe
saltati senza nemmeno degnarli di attenzione. Ma tutto attorno
sembrava ovattato, le orecchie le fischiavano e continuava a vedere
gli interni del jet vorticarle attorno.
Raggiunsero
la barella dove stava Samuel, immobile, avvolto in una coperta di
alluminio isotermica, un tubo di fisiologica che usciva da sotto il
piano e raggiungeva una flebo. Steve continuò a sostenerla,
mentre
si allungava con l'altra mano a controllare la sacca di liquido. Elle
passò una mano sul viso leggermente verdognolo dell'amico,
mordendosi un labbro. "Sam... Non ne valeva la pena..."
Steve
la osservò un attimo, mentre lei sgusciava dalla sua presa e
si
appoggiava al tavolo con le braccia.
"Questa
operazione è stata del tutto inutile." Commentò
con aria
tetra, passandosi una mano libera fra i capelli impregnati di
pulviscolo. Si abbassò sul tavolo, appoggiando il capo sul
petto
dell'amico, sentendo il battito debole ma regolare.
"Invece
è stata estremamente utile. Sappiamo il volto di chi comanda
l'Hydra, da dietro quello che era Pierce... Sappiamo che controlla
Rumlow, che sa che è a New York... Sappiamo cosa stanno
cercando..."
"Me.
E Wanda." Commentò Elle, sospirando, il capo
ancora
abbassato sulla barella. Steve annuì appena. "E sappiamo
anche
una cosa più delicata, ma fondamentale."
"Conosceva
mia madre." Commentò lei, stringendo le dita pallide sul
bordo
della barella. Fece per alzarsi, sentendo le ginocchia che cedevano
sotto il suo peso.
"Madre
o no, devi mangiare qualcosa, oppure sarò costretto ad
attaccare
anche te ad una flebo."
"Non
vorrei mai provare le tue doti da infermiere da cosciente, grazie."
Commentò sarcastica lei, mentre lui si abbassava leggermente
a
passarle un braccio sotto le ginocchia. La sollevò senza
sforzo,
lanciando uno sguardo all'amico.
"Starà
bene, vedrai. Il proiettile è uscito. Appena arriviamo la
dottoressa
Chang lo metterà in quel suo acquario..."
Elle
lo guardò, sospirando. "Sono stata un capo agghiacciante.
Per
fortuna manca solo un giorno e potrò liberarmi di questo
fardello.
Non so come fai, ma capisco come mai eri acido come un novantenne
quando sono arrivata...Ah, aspetta, tu sei un novantenne."
Steve
sorrise appena, tenendola stretta al petto ed avanzando lungo il Jet.
Raggiunse la panca, sedendosi con uno sbuffo di stanchezza.
"Invece
sei stata un ottimo capitano..." Commentò, appoggiandosi
allo
schienale. Elle si puntellò sui palmi delle mani, restando
sul suo
grembo. Lo guardò, poco convinta. Lui annuì,
stringendosi nelle
spalle. "Hai preso delle decisioni che io non avrei mai avuto il
coraggio di prendere."
Elle
lasciò andare il capo all'indietro, infastidita dai capelli
che si
appiccicavano sulla tuta in pelle. "Tipo buttare giù mezza
montagna?"
"Questo
spiega perché andavi così a zig-zag..."
Sussurrò divertito
lui, lanciandole uno sguardo ammirato. "Non ci avrei mai
pensato, alle cariche esplosive."
"Sempre
avere una via di fuga. Se non puoi avere una vita di fuga..."
Elle sollevò un angolo delle labbra pallide. "...Distruggi
la
via di fuga degli altri. Terza regola di Barton.
Secondo te,
il damerino si è salvato?"
"Difficile
ma possibile." Steve rilassò le braccia, la divisa attillata
rovinata in più punti. Se lei aveva i muscoli indolenziti,
non osava
immaginare lui.
"Steve..."
L'uomo voltò il capo sporco di polvere verso di lei, un
braccio che
la tratteneva dal cadere da quella comoda pozione, le dita aperte sul
suo fianco. Appoggiò il capo alla parete dietro di lui,
sospirando.
"Dimmi, Elle."
"Forse..."
La ragazza tentennò un attimo. "Forse proprio
perché non hai
il coraggio di dare certi ordini, sei un buon capo." Alzò
appena lo sguardo su di lui. "Se dovessi seguire una squadra...
Vorrei averti come capo. Mi fido del tuo giudizio."
Si
sorrisero, mentre volavano verso casa.
xxx
Tutti
coloro che avevano dovuto lavorare a compiti delicati con Elle
sapevano che la svedese, da brava nordica,
era abituata a somatizzare gli eventi negativi stando per ore chiusa
nella doccia, senza emettere un fiato, solo lasciando scorrere su di
sé il getto di acqua calda, i capelli che si appiccicavano
sul viso
ed il vapore che la avvolgeva come un manto.
Fissava
inespressiva le mattonelle bianche, simili a quelle di un ospedale,
asettiche nella loro anonimità. L'acqua ai suoi piedi era
rossa,
mentre il sangue colava fuori dall'ennesima lacerazione della sua
pelle, sul costato, sotto il braccio destro.
Si
fissava le mani, luride di sangue. Sangue non suo.
Una
lacrima scappò dalle ciglia bianche, mischiandosi con
l'acqua che le
scorreva sul viso teso. Si mise le mani sul volto, sporcandolo di
rosso. Rimase sotto il getto, in silezio, gli occhi serrati sotto le
dita sottili, i muscoli delle gambe e delle braccia doloranti per lo
sforzo.
Avevano
caricato Samuel su una barella dell'infermeria appena arrivati alla
base, estraendolo dalla coperta isotermica, Elle che faceva pressione
con le mani sul grosso buco che lo trapassava da parte a parte.
Steve, doveva ammetterlo, aveva fatto un lavoro egregio nel tamponare
l'emorragia con un ottimo Drenaggio di Mikulicz.
Insieme con
il rubare le auto, era entrato nella top ten delle doti segrete di
Captain America. Elle era rimasta fino all'ingresso nella sala
operatoria, i vestiti imbrattati di sangue dell'amico e il cuore a
pezzi.
Quando
entrò nel bagno dello spogliatoio, dopo averla aspettata
seduto
nell'area comune per mezz'ora, Steve rimase un attimo immobile a
guardarla.
In
qualsiasi altro momento e con chinque altro si sarebbe sentito
imbarazzato e sarebbe uscito dilungandosi in mille scuse. Ma non con
Elle, la persona con il quale sentiva di essersi esposto di
più dal
risveglio nel ventunesimo secolo. L'unica che sapeva come si
chiamasse sua madre, o che amava il disegno, e senza averlo letto su
un file secretato.
Anche
se non la aveva mai vista così, nuda e inerme, gli sembrava
di aver
sempre conosciuto la forma del suo corpo. Come se l'avesse sempre
disegnata, nella sua mente. L'assenza dell'ombelico, le linee del
costato, l'ombra leggera della grande cicatrice sul fianco e i mille
piccoli sfregi, quasi invisibili dopo il Wakanda, che raccontavano la
sua storia. Anche se erano pressochè invisibili, lui li
sentiva e
vedeva come se fossero stati dipinti in colori sgargianti. Alle
vecchie cicatrici che solo i suoi occhi avevano imparato a
riconoscere, si erano aggiunti i nuovi segni dell'ultima missione. Si
era chiesto come Elle avesse superato tutti i soldati posti sulla
strada per quel punto di comando dalla quale si era lanciata,
infrangendo una parete di vetro.
Un
grosso livido viola occupava metà della coscia destra. Un
altro, più
piccolo ma tendente al rosso, marchiava il ginocchio sinistro.
Elle
si passò le mani sul viso, scostandosi i capelli appiccicati
alla
pelle diafana, mostrando entrambi i gomiti offesi. La mano destra era
gonfia e leggermente livida.
Si
voltò di scatto, senza sembrare del tutto sorpresa. Rimase
semlicemente a fissarlo, gli enormi occhi azzurri che lo guardavano
vacui, le labbra secche e spaccate al centro. Stranamente, il naso
era integro, e anche gli occhi non erano stati colpiti. Rimasero a
fissarsi per diversi minuti, lei completamente inerme sotto il getto
della doccia, immobile con le mani dietro il collo sottile, senza
sentire il bisogno di coprirsi dal suo sguardo. Lui stava al centro
dello spogliatoio, le braccia lungo i fianchi e l'espressione stanca.
Si voltò lentamente verso il suo armadietto, prendendo un
grosso
accappatoio bianco.
"Dovresti uscire. Devi farti medicare."
Sussurrò, avvicinandosi alla tenda ancora raccolta della
cabina.
Portava ancora l'uniforme, lacerata in più punti. Sentiva i
muscoli
indolenziti dallo sforzo, l'acido lattico entrato in circolo, le dita
di mani e piedi che formicolavano per il freddo patito fuori. Elle
rimase a fissare il vuoto, nel punto in cui era lui pochi momenti
prima. "Elle?" La richiamò l'uomo.
La
donna voltò il viso, abbandonando le braccia lungo i fianchi
sottili, sfiorandosi la linea formata dalle ossa del bacino sopra le
pelvi. Alzò lentamente lo sguardo su di lui, che la
aspettava con
l'accappatoio aperto fra le mani.
Gli
occhi erano rossi e lividi. Vide una lacrima uscire dall'angolo del
suo occhio, scivolando fra le altre gocce. Elle si appoggiò
con la
schiena alla parete fredda, con un singhiozzo, e scivolò
lentamente
a terra, tremante.
Steve
affisse l'accapatoio ad un gancio, accanto alla tendina. Fece un
passo indietro, sospirando. Capiva come si sentiva Elle: in colpa.
Lei era il capo, ed il capo ha il dovere
di riportare tutti
gli uomini a casa, ed in salute. Il dovere morale, anche
quando
non era realistico pensarlo.
Elle
alzò lo sguardo su di lui, i capelli ancora incollati al
viso, gli
occhi arrossati.
Restò
un attimo a guardarla, seduta sul pavimento della doccia, avvolta dal
vapore, scossa da singhiozzi che cercava senza successo di
trattenere. I capelli le coprivano il seno, seguendo tutta la sua
figura fino al bacino. Aveva abbandonato la testa contro la parete,
guardandolo. Sembrava lo sguardo di qualcuno mentre sta annegando.
E
lui cedette, perchè lei era Elle e, per la prima volta da
quando si
conoscevano, per la prima volta da quando poteva avere il privilegio
di starle accanto, e il dovere di sostenerla, era lei ad aver
realmente bisogno della sua presenza.
Si
tolse con una smorfia di dolore la maglia della sua uniforme, una
costola leggermente incrinata. Scalciò via gli stivali, e
tolse con
attenzione i pantaloni, cercando di non farli sfregare sul suo nuovo
taglio, che segnava la coscia per una decina di centimetri.
Entrò
in silenzio nella cabina della doccia, nonostante i boxer ed i
capelli sporchi di polvere. Si inginocchiò davanti alla
donna,
facendo da schermo per il getto bollente che si infrangeva ora sulla
sua schiena dolorante. Le alzò il viso con le dita,
perdendosi
sempre in quegli occhi azzurri come il cielo estivo. L'unica cosa che
comunicavano era dolore.
Elle
si sporse lentamente verso di lui, aggrappandosi alle sue spalle con
tutta la forza che aveva, le braccia sottili che sembravano ancora
più incosistenti rispetto ai muscoli guizzanti della sua
schiena. I
sussulti finirono, mentre si aggrappava, con la stessa urgenza di
qualcuno che sta precipitando. Lui la strinse con un braccio,
affondando il viso nella sua clavicola, respirando a pieni polmoni.
Voltò leggermente il capo, le labbra che le sfioravano il
collo.
"Ho
avuto paura." Sussurrò lui contro la sua pelle. Lei si
strinse
ancora di più a lui, il petto stretto al suo in una morsa, i
muscoli
delle braccia rigidi per lo sforzo di tenersi aggrappata. "Ho
avuto paura di averti perso. Ho avuto paura di avervi perso." Le
passò una mano sotto la schiena, aiutandola ad alzarsi in
piedi. Lei
si teneva con le braccia lanciate contro al suo collo.
"Lui
starà bene. Staremo tutti bene." Sussurrò lui
contro le sue
labbra. Elle emise un debole lamento, chiudendo gli occhi. Lui se la
strinse al petto.
"Non
potevi fare di più. Non potevamo fare di più."
Elle
sospirò. "Non è stato abbastanza." Aveva la voce
bassa,
impastata, leggermente rauca. Steve si allontanò
leggermente, mentre
Elle lo guardava angosciata, gli occhi di nuovo spalancati. Di nuovo
sofferenti.
Lui
si abbassò sui talloni, passandosi una mano fra i capelli.
Allungò
il capo verso il suo ginocchio, tenedolo con una mano, costringendola
ad alzarlo leggermente.
"Questo
per me è già abbastanza." Sussurrò
guardandola. Si chinò a
baciare il livido rossastro.
Elle
lo guardò scioccata, le labbra dischiuse. Lui sorrise
leggermente
alla sua sorpresa, alzando di poco il capo.
"Questo
per me è abbastanza." Ripetè, posando le labbra
sulla sua
coscia segnata. Elle sospirò debolmente, le mani appoggiate
sulle
sue spalle, guardandolo senza dire nulla. Si alzò di poco,
sfiorando
con la bocca la cicatrice ancora sanguinante sul costato,
macchiandosi le labbra di scarlatto. "Questo per me
è
abbastanza."
Le
prese i polsi con le mani, stupendosi per l'ennesima volta di quanto
fossero sottili e minuscoli, accarezzandoli con le dita.
Allungò la
mano a sfiorare i gomiti sfregiati. Elle ebbe un sussulto,
nascondendo caparbiamente una smorfia di dolore. Lui alzò lo
sguardo nei suoi occhi, portandosi la mano destra alla bocca,
baciandola con dolcezza. "Hai fatto tutto quello che potevi. Ed
abbiamo salvato Samuel."
Lei
lo guardava, le labbra strette, le mani ancora abbandonate fra le
sue.
Era
strano vedere Elle così, inerme, completamente abbandonata
alla
situazione. Nonostante Steve non potesse negare di averci pensato
piuttosto spesso, vederla davanti a lui, in una nuvola di acqua e
vapore, i lunghissimi capelli appiccicati al corpo allenato, gli
occhi che brillavano come due fari azzurri, le labbra dischiuse...
Elle
era straordinaria, lo era davvero. Combatteva con eleganza, era
più
intelligente di lui – cosa che non mancava mai di fargli
notare –
ed era premurosa. Era una perona complicata, la sua stessa vita era
un caso irrisolto. Ma era anche una persona meravigliosamente bella,
ai suoi occhi. Spigliata e irriverente. Sarcastica quasi quanto
Stark, ma allo stesso tempo dolce. Soprattutto con lui.
Le
sfiorò le braccia con dita tremanti, maledicendosi per aver
accettato, quel mattino di diversi mesi prima, di farla entrare nella
sua squadra. Le mani di entrambi erano ruvide, il corpo spinto allo
stremo delle loro forze e cosparso di ferite. L'uomo nella divisa
aveva ragione. Questo non era quello che avrebbe voluto per lei.
Con
un sospiro, si abbassò lentamente a sfiorare le sue labbra
con le
proprie. Si sentì l'uomo più fortunato del mondo,
nonostante tutti
lo volessero morto e il suo amico fosse in una barella, quattro
corridoi più in là, nonostante le labbra che
sentiva sotto le
proprie fossero fredde e screpolate dal vento. Perchè quando
aprì
gli occhi, un secondo dopo quel casto bacio, Elle era appoggiata
contro il suo petto, sotto il getto di acqua bollente, con gli occhi
ancora chiusi ed un leggero sorriso sulle labbra.
Lei
voltò leggermente il capo, appoggiando le labbra sul suo
petto,
lasciando una serie di baci distratti, lo sguardo di quando era persa
in un ragionamento complesso. "Maledizione..."
Borbottò leggermente, senza alzare lo sguardo. Lui si
irrigidì un
secondo, un braccio che la sosteneva per la vita. "Cosa?"
"Potrei,
forse, essere innamorata di te." Ammise lei, alzando
timidamente lo sguardo, quasi trattenendo il fiato. L'uomo
sgranò
gli occhi, completamente spiazzato. "Dici?"
Elle
si alzò leggermente sulle punte, gettandogli le braccia al
collo. Si
abbattè sulle sue labbra, facendogli mancare il fiato.
Istintivamente, sapendo che erano entrambi doloranti e probabilmente
stanchi – quest'ultimo fatto del quale non era
più
particolarmente sicuro – alzò il
braccio dietro la sua
schiena, sostenendola, mentre la sua bocca rispondeva con trasporto.
La spinse leggermente indietro, contro la parete della doccia, con un
mugugno. La mano che non era impegnata a sostenerla, aperta alla base
della schiena liscia, le sfiorò delicatamente il fianco,
inizialmente incerta. Quando lei lo strinse ancora più
forte, prese
un po' di sicurezza in più e si concentrò ancora
di più sulle sue
labbra, godendosi la sensazione della sua lingua contro la propria, e
del seno della donna contro il suo petto.
Elle
lasciò con un respiro le sue labbra, tornando ad appoggiare
i piedi
a terra, le mani che scendavano di nuovo ad appoggiarsi sul suo
petto. Ridacchiò, appoggiando la nuca al muro ricorperto di
piastrelle.
"Non
mi hai detto nulla..." Commentò, gli occhi che lo scrutavano
come a voler leggere nella sua mente. Steve riprese fiato, senza
allontanare le mani dal suo corpo.
"Leggimi
nel pensiero." Esclamò, una smorfia divertita sulle labbra.
Lei
lo guardò incredula. "Ora?"
Lui
annuì. "Voglio che tu capisca, cosa mi sta succedendo. Cosa
mi
stai facendo."
Elle
si morse il labbro, pensierosa. Scosse la testa.
"Sarebbe
troppo facile. Dimostralo."
Senza
aggiungere altro, Steve abbassò velocemente il capo,
cercando di
nuovo la sua bocca. Elle rispose con un ringhio, inizialmente
mordendogli il labbro, poi schiudendo le labbra e lasciandosi
condurre senza opporre resistenza. Completa resa.
Lui
le prese le gambe, sollevandola senza apparente sforzo mentre lei si
teneva con le braccia alle sue spalle, senza lasciare la sua bocca,
la schiena premuta contro la parete.
Nessuno
dei due si chiedeva cosa stava succedendo. Erano quasi morti, poche
ore prima, e la consapevolezza che avevano rischiato di tornare a
casa l'uno senza l'altra o viceversa non permetteva loro di pensare a
separarsi nemmeno per un respiro.
Istintivamente
lui premette il bacino contro quello di lei, sospirando. Elle
appoggiò le labbra sulla sua clavicola. Lui si
fermò un attimo,
guardandola, godendosi il momento.
"Sei
stanco?" Chiese lei, il viso arrossato, accarezzandogli un
braccio. Si scostò un ciuffo di capelli dal volto, che
teneva
leggermente basso. Lui sorrise nel vederla così imbarazzata.
Avrebbe dovuto essere lui, quello imbarazzato. Invece si sentiva a
suo agio come non capitava da diversi decenni.
"Potrei
tenerti in braccio per una vita intera, Elle." Commentò lui,
appoggiando il mento sula sua fronte. "Sei una piuma, per me."
Lei si strinse a lui, sorridendo contro la sua pelle.
"Sei
talmente sottile e fragile che probabilmente sarei riuscito a
sollevarti anche prima del siero." Elle ridacchiò.
"Esagerato..."
Lui
sorrise ancora, quasi cullandola, tenendola ancora stretta a lui con
le braccia, le gambe di lei appoggiate sulla linea del suo bacino.
"Non
penso ci saranno mai battaglie che mi impediranno di stare
così, con
te." La strinse leggermente contro di se, pelle contro pelle.
"Ma..."
Elle
alzò un sopracciglio, alzando divertita gli occhi al cielo. "Ma?"
"Ma
non voglio che succeda così."
"Per
questo sei entrato nella doccia con i boxer?" Ridacchiò
Elle,
guardando in basso. Lui arrossì, seguendo il suo sguardo.
"Non
mi sembrava appopriato entrare completamente nudo mentre tu eri in
quelle condizioni, Elle. Non pensavo certo che saremmo finiti
a...."
Si
interruppe, sorridendo maliziosamente, muovendo le sopracciglia in
modo comico. Elle scoppiò definitivamente a ridere.
Alzò
appena il capo, stampandogli un bacio sulle labbra.
"Non
attenterò alla tua virtù, Capitano..."
Fece un
sorriso malizioso. "Non fino a quando non sarai tu a chiedermi
di farlo." Steve arrossì ancora di più, mentre
Elle si
stringeva contro di lui con le gambe, stiracchiandosi placidamente.
"Non
sono fatto di marmo, Elle. Non mettere alla prova il mio auto
controllo."
La
donna ridacchiò. "Non sono sicura della tua prima
affermazione." Commentò lei, alzando lo sguardo lungo il
bagno,
imbarazzata . Lui diventò di una insolita
tonalità di rosso.
"Elle!"
Lei
si trattenne dal ridergli in faccia. "Dai, mettimi giù e
spogliati." L'uomo rimase interdetto, facendo un passo indietro,
mentre lei si scastrava da quella posizione compromettente. "Cosa?!"
"Sei sporco lurido. Di polvere. E sangue. E..." Gli
passò una mano fra i capelli, con una smorfia. "Non voglio
sapere che altro. Non esiste che dormiamo insieme con te in questo
stato."
"Non
mi sembrava dispiacerti fino a poco fa..." Commentò lui. Lei
si
strinse nelle spalle con un sorriso enigmatico, mentre lui la
appoggiava con delicatezza a terra, tenendola per le natiche.
Elle
si stiracchiò appena, allungandosi verso l'armadietto sul
muro,
appeso appena fuori dalla doccia, accanto alla tenda raccolta che non
aveva tirato a tempo debito. Prese un flacone e tornò sotto
il
getto, mentre il compagno si spogliava, imbarazzato. Elle sorrise nel
vederlo così intimidito dalla situazione, ma allo stesso
tempo lo
capiva piuttosto bene. La sessualità è un
argomento difficile in un
mondo estraneo.
Si
alzò sulle punte, spremendogli dello shampoo sulla nuca.
Steve emise
un verso indispettito, mentre lei gli massaggiava la testa, in bilico
sulle punte dei piedi.
"Sei
stato molto dolce. E' un peccato che non vi abbiano congelati in
più
di due, dagli anni cinquanta." Steve la guardò con
disappunto,
cercando di trattenersi dal ridere.
"Devo
dire che questo ventunesimo secolo non è male." Elle si
strinse
nelle spalle. "Saremmo stati bene in ogni epoca, immagino."
Steve la guardò dolcemente, frizionandosi i capelli sotto il
getto
d'acqua. "Non avrei mai pensato che ci saremmo stati in due, in
questa doccia." Commentò, guardandosi attorno. Elle
ridacchiò,
passandogli una spugna sul petto.
Con
delicatezza, le accarezzò il viso. Elle sembrava decisamente
più
serena. Sapere che era stato merito suo, delle sue attenzioni, lo
faceva sentire importante. Felice.
Le
passò le dita fra i lunghissimi capelli, con attenzione,
districando
i nodi di sporco che si erano formati durante il crollo. Elle
sorrise, sfioradogli il naso con la spugna.
"Hai
ragione, Elle. Saremmo stati bene in ogni epoca." Commentò
lui,
senza distrarsi dal suo compito, proseguendo con la ciocca
successiva.
"Se
c'è bisogno di una guerra, per farci incontrare, allora ne
è valsa
la pena."
xxx
Salve a
tutti! Come sempre si pubblica ad orari decenti ed umani,
nevvero.
Beh,
spero vi siate goduti il capitolo... Si inizia a vedere un po' di
azione, in tutti i sensi!
Il
trailer procede bene, soprattutto grazie all'aiuto di Giulietta
Beccaccina che mi sta sopportando in maniera egregia - anzi,
ha
creato delle GIF e delle immagini veramente notevoli sui nostri
adorati Stellecky!
Per
questa volta, poco Jimmy, ma presto recupereremo. Iniziate a
prepararvi al minestrone: tra poco torneranno tutti. E dico TUTTI.
Grazie
alla dolcissima HORANge_carrot
per
la recensione! Spero che questo capitolo ti sia piaciuto come i
precedenti! E ovviamente grazie per la recensione anche a Giulia e
grazie a Delta
per il supporto morale giornaliero - e per il gossip spietato ;).
Adottate tutti una Delta come consigliera di vita!
Craggio
gente, fatevi avanti, non mangio nessuno, anzi! Sto cercando di
migliorare ad ogni capitolo - ovviamente, ripetizioni a parte, che
ormai temo facciano parte del mio stile di scrittura nevrotico.
Ricordatevi, soprattutto ora che siamo tra gli ultimi dieci capitoli:
Una
recensione salva un autore! Soprattutto
una povera ragazza come me che ci tiene tantissimo non solo alla
storia, ma a migliorarsi e migliorare il suo modo di raccontare il
mondo. Attendo i vostri pareri con ansia! E le vostre domande!
Sono
la regina delle rivelazioni sussurrate, delle cose non dette e
soprattutto, della pulce nell'orecchio. ;)
Al
prossimo capitolo!
Eve
|
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Capitolo 24 *** 23. Memoria pt.1 ***
Ciao a tutti!
Si, sono VIVA! Sono
dispiaciuta per l'attesa eterna. Purtroppo, questa volta oltre
all'uscita di Civil War si sono messe in mezzo cause di forza maggiore.
Non voglio farvi
attendere oltre, ma ci tengo a mostrarvi innanzi tutto il lavoro di due
compagne di letture.
Prima di tutto, la
bellissima copertina di Giulietta_Beccaccina, ormai compagna inseparabile
di fandom, ispirata allo scorso capitolo.
Attenzione!
Immagine a contenuto esplicito.
E a seguire l'altra
immagine, fatta dalla gentilissima Janeisa!
E ora, vi lascio al capitolo. Non è stato riletto molto
bene, nè betato, quindi
mi scuso per eventuali orrori ortografici - nel caso, non
trattenetevi dal segnalarmelo in modo esplicito. Per esempio,
lanciandomi contro un mattone. Altro commento: E' un capitolo lungo, ma
pieno di avvenimenti. Rating direi giallo, a parte qualche scena forse
leggermente cruda ma non è nulla rispetto a cosa ho in serbo
per voi. Nel prossimo capitolo vedremo scene decisamente ROSSE e di tutti i
tipi e generi. Restate sintonizzati! ;)
Atto ventiduesimo:
Memoria
prima
parte
"And
I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd
understand.
When everything's made to be broken,
I just want
you to know who I am."
GOO
GOO DOLLS
Aprile
2016
Entrò
nella stanza
con le mani sprofondate mollemente nelle tasche della felpa scura,
senza nessuna espressione sul volto leggermente scavato, la barba
sfatta da più di una settimana.
Al
suo ingresso, il
passo leggermente strascicato e gli occhi arrossati dalla stanchezza,
nessuno si voltò nella sua direzione. Non ci fù
nemmeno un minimo
vuoto d'aria, un movimento intangibile che mostrasse che qualcuno si
era accotto del suo arrivo. Natasha si avvolgeva nervosamente un
ricciolo scuro sull'indice della mano destra, la schiena dritta
contro lo schienale della sedia da ufficio, una gamba appoggiata alla
sedia di fronte e lo sguardo perso sulla schermata del portatile,
appoggiato al tavolo di vetro.
Samuel,
i movimenti
rallentati dall'ingombrate fasciatura al petto, alzò appena
il capo,
una scintilla che illuminava gli occhi scuri. Era seduto su una sedia
uguale, davanti allo stesso tavolo, le braccia che dodolavano oltre i
braccioli in una posa priva di energia.
"Notizie?"
Chiese con voce appena udibile. Lo sguardo saettò subito
contro la
parete alla sua sinistra, dove Visione stava in piedi, il viso
rivolto contro il muro, le mani giunte dietro la schiena in una posa
quasi rilassata.
Tony
Stark non
entrasse le mani dalle tasche. Alzò appena lo sguardo, prima
su
Falcon e poi verso l'andoide che lui stesso aveva creato, le labbra
strette in qualcosa di simile ad una smorfia.
"Non
ho ancora
rintracciato il segnale." Ammise a bassa voce, i pugni che si
chiudevano sotto il tessuto scuro. "Non ho trovato nemmeno una
briciola di pane."
Visione
emise un
sospiro intangibile, senza voltarsi. "Non usano un sistema che
si aggancia al loro IP... Semplicemente, il segnale video rimbalza
sui server di mezzo mondo, prima di arrivare qui. Potrebbero essere
in uno a caso di quei possibili indirizzi."
"Non
possono
essere andati lontano, nei due giorni prima dell'arrivo del video!"
Esclamò una voce profonda, mentre Barton entrava nella
stanza a
passo di carica, lanciando la giacca sul tavolo. Stark estrasse una
mano, grattandosi la testa con un gesto nervoso.
"Ho
tracciato
una mappa di dove sarebbero potuti arrivare. E l'ho incrociata con la
localizzazione dei Server." Commentò con voce leggermente
roca.
"Arriviamo a qualcosa come diecimila possibili
indirizzi.
Solo a portata di strada."
"Ed
io ho
controllato gli edifici abbandonati nel raggio di dieci chilometri...
Fabbriche, centri commerciali, ville..." Commentò Barton,
annuendo al discorso di Stark. "Non c'era niente."
"Non
possono
essere spariti." Commentò piatto Samuel, abbassando lo
sguardo
sulla cartina, aperta sul tavolo davanti a tutti loro. C'erano un
paio di punti segnati in rosso.
"Fino
a quando
non avremo altre informazioni, sono bloccato. Devo aspettare la
prossima trasmissione, sperando che si tradiscano in qualche modo."
Stark mormorò le fase, come se temesse la reazione delle
persone
accanto a lui. Natasha, infatti, lasciò cadere le braccia,
calciando
la sedia di fronte a lei, che si mosse con un cigolio sulle sue
ruote.
"Davvero
vuoi
aspettare la prossima trasmissione, Stark?" Biascicò, gli
occhi
strizzati in un'espressione sconvolta. Barton, ancora affiancato a
Stark, alzò un braccio verso l'altro, temendo la reazione
della
russa. "Nat, stiamo facendo tutto il possibile. Stark sta
facendo il possibile. E' ovvio che non voglia vedere di nuovo..."
Si interruppe, mentre Stark abbassava appena il capo. "Mi
dispiace di non poter fare di più."
Barton
lanciò uno
sguardo emblematico a Natasha, che abbassò appena il capo,
stringendosi le mani in grembo. "Scusa, Tony..." Sussurrò,
le labbra che si muovevano appena.
Anthony
annuì
rigidamente, quasi più per se stesso che per rispondere
all'amica.
Alzò di nuovo lo sguardo su Samuel, che aveva assistito allo
scambio
con espressione tesa. Cercò di fare una smorfia simile ad un
sorriso, con risultati scadenti. Stark schioccò le labbra,
infilando
nuovamente le mani nelle tasche. "E lui, come sta?"
Samuel
si strinse
nelle spalle, con una smorfia. Si passò una mano sul fianco
ferito,
lisciando con le dita la maglietta, lo sguardo basso.
Stark
annuì appena,
intuendo il sentimento dietro al silenzio dell'amico. "Non penso
sia il caso di passare a salutarlo..."
Natasha
si alzò,
puntellando le mani sul tavolo. "Lascialo stare, Stark."
Barton annuì. "Non penso che tu sia nella lista delle
persone
che vuole vedere. Non dopo martedì scorso."
Stark
incassò in
silenzio, voltandosi appena verso l'uscita, lo sguardo contratto sul
viso amimico. Alzò appena il capo, incontrando con le
pupille
dilatate dalla penombra la figura di Visione, ancora voltato contro
la parete. Fece un passo verso la porta, un debole eco di
risolutezza. "Per quello che vale, mi dispiace." Esclamò
prima di uscire, le parole leggermente strascicate, e dirette verso
la sua creazione migliore.
~
Aprile
2016...una settimana prima
"Sei
ancora
qui."
Steve
stiracchiò le
gambe sotto al letto dell'infermeria, rialzando il capo con un
mugugno. Non avrebbe saputo dire quante ore aveva passato sotto le
luci al neon di quella stanza, cullato dal rumore dei macchinari,
mentre Samuel restava in un profondo sonno causato dall'anestesia.
"Nat."
La
rossa si avvicinò
al letto in un paio di passi veloci, gli stivali marroni che
tacchettavano sul pavimento lucido. "Sono venuta appena ho
potuto."
Steve
annuì fra sé
e sé, sistemandosi meglio le maniche arrotolate della
maglia. "Avevi
il week-end libero."
Natasha
sospirò,
avvicinandosi all'amico sdraiato e prendendo fra le sue una delle
mani, appoggiate sul materasso, lungo i fianchi. "L'operazione?"
Steve
si rilassò
contro la scomodissima sedia della stanza, studiando con lo sguardo
l'amica. "Hanno tolto due pallottole, una da una costola e una
dal fegato. Nulla di irreparabile, la dottoressa Chang l'ha messo
nella culla della vita dopo venti minuti di sala
operatoria."
La rossa annuì appena, senza distogliere lo sguardo
dall'uomo. "Per
fortuna..." Sussurrò, quasi fra sè e
sé. Si sedette sul
ciglio del materasso, tenendo ancora una mano su quella dell'altro.
"Ho incontrato Rhodey, fuori..." Cominciò con calma la
rossa, lanciandogli un'occhiata oltre le spalle coperte da un
maglioncino beige.
"...Mi
ha detto
che vi è quasi caduta la montagna addosso. Hydra?"
Steve
sogghignò,
appoggiando i gomiti al materasso, senza alzare lo sguardo. "Elle."
Natasha
ebbe un
singulto, portandosi una mano davanti alle labbra. Steve
alzò appena
lo sguardo. "Non saprei ancora decidere quale dei due sia
più
distruttivo." Commentò, alzando le sopracciglia. Natasha gli
lanciò un'altra occhiata divertita.
"Non
sarebbe
stata un buon capo... Se non ci avesse fatto cadere addosso una
montagna... Mi sembra ovvio..."
I
due si alzarono di
scatto, avvicinandosi al viso dell'amico, che sussurrava a bassa
voce. Lanciò uno sguardo ad entrambi, il collo ancora rigido
e delle
grosse occhiaie attorno alle orbite. "Chi ve lo fa fare di
restare qui anche oggi?"
Nat,
ancora seduta
sul materasso, leggermente piegata su di lui con il busto, fece
un'espressione perplessa. "E' un giorno di lavoro."
Samuel
stirò appena
le labbra in un sorriso. "Non è un giorno di lavoro,
Natasha."
Alzò lo sguardo in quello verde della donna, che rimaneva
saldamente
ancorata alla sua mano, gli occhi fissi nel vuoto. L'uomo sorrise fra
sé e sé.
"Ho
un sesto
senso per i giorni festivi."
Steve
ridacchiò,
allontanandosi verso la porta. Nat rimase con il sopracciglio
sollevato, le labbra che si piegavano lentamente in un sorriso. Sam
le fece un occhiolino. "Scherzo, c'è scritto sull'orologio
sopra alla porta che è il ventisette. E io mi ricordo tutte
le
domeniche."
"Ho
avvisato io
tua moglie, che non potevi andare a prendere tua figlia, oggi."
Commentò Steve, sfregandosi le mani fra loro. Natasha gli
lanciò
un'occhiata ancora più confusa. "Ex moglie."
Si
corresse l'uomo a bassa voce, il busto già praticamente
fuori dalla
stanza. "Vado... Ad avvisare i medici." Lanciò uno sguardo
ai due, che ancora si guardavano in silenzio, Nat con una ruga di
preoccupazione in mezzo alle sopracciglia e Sam che ancora si sentiva
confuso e dolorante. "Vado ad avvisarli che sei sveglio."
~
Aveva
chiesto ad un
poliziotto di aiutarla con il disegno.
L'identikit
era
pronto. Lo aveva inserito nel programma, ed effettuato una ricerca sul
database dell'FBI, senza essere troppo convinta. Poi, aveva risposto
a Maria Hill, che voleva chiederle come stava dopo Denali. Elle aveva
accennato con l'amica alla sua ricerca, e l'altra le aveva chiesto
incuriosita di mandarle il disegno.
La
seconda chiamata
di Maria non si era fatta attendere, ma la risposta che ricevette non
era confortante. Non poteva dire di non esserselo aspettato. Ma
saperlo per certo, esserne consapevoli, era sempre
peggio.
Cercava
di distrarsi
dalle parole del generale Hydra. Parole che aveva accuratamente
appuntato appena aveva avuto un secondo di pace, dopo essere tornata
a casa quel sabato.
Ma
l'idea di non
presentarsi a quell'appuntamento, quel lunedì pomeriggio,
non
l'aveva sfiorata per nessun motivo. Se avesse voluto ucciderla, se
avesse voluto ucciderli tutti, quell'uomo - o qualsiasi cosa
fosse - avrebbe potuto farlo in svariate occasioni.
Elle
si accomodò
meglio sullo sgabello, sistemandosi il colletto della camicia con un
gesto nervoso.
Il
locale era pieno
di persone, tutte radunate a chiaccherare davanti ad un drink dopo
una giornata di lavoro. Un gruppo di uomini, probabilmente usciti da
Wall Street - vista la divisa ingessata e le cravatte leggermente
allentate - occupava il tavolo alle sue spalle. Poteva sentirli
parlare di indici e rialzo anche da quella distanza, mentre i suoi
occhi vagavano pensierosi fuori dal vetro dell'ingresso, verso le
persone che passeggiavano sul marciapiede. Fuori stava smettendo di
piovere, e i primi ombrelli comiciavano a chiudersi. Dietro ad uno di
questi, un uomo si sistemò meglio la sciarpa ed
avanzò a passo
sicuro dentro a quel marasma confuso, dirigendosi verso lo sgabello
sulla quale Elle aveva appoggiato il cappotto.
"Selvig."
Commentò soltanto l'uomo, levandosi il soprabito con un
gesto
elegante. Elle si voltò verso la barista, che le
appoggiò davanti
il suo drink senza degnarla di uno sguardo, troppo presa a rimirare
l'uomo che si stava accomodando con nonchalance accanto a lei. Questi
fece un sorriso malizioso, indicando con due dita il bicchiere colmo
di ghiaccio ed un liquido ambrato. "Quello che ha preso lei."
La
ragazza annuì,
sparendo dietro al bancone. Elle fece una smorfia divertita. "Nari."
L'uomo
rise, aprendo
le braccia. Era veramente alto, anche appoggiato sullo sgabello con
fare annoiato. "Direi che possiamo smettere questi formalismi,
Selvig."
"Loki."
Ripetè lei, fingendo di salutarlo per la prima volta. Il
ghigno
dell'uomo si distese ancora sul volto sottile, mentre una scintilla
di follia si rianimava sul fondo degli occhi chiari, come se si fosse
riaccesa, sentendosi chiamare per nome.
"Adesso,
prima
che decida di chiamare anche solo uno dei nomi che vantano il
privilegio di avere la tua morte violenta nella loro Bucket
list,
posso avere l'onore di sapere solo perchè."
L'uomo
allentò
appena la cravatta scura sul completo, allontanandosi dal bancone con
il busto. Gli occhi saettarono attraverso la stanza, come per
osservare dall'esterno una biosfera di scimmie in pieno caos. "Volevo
verificare l'investimento di Vali."
Elle
prese un ampio
sorso dal suo bicchiere, sentendo l'alcool bruciarle la gola.
"Vali..."
"Abbiamo
interessi in comune." Commentò solo l'asgardiano,
mentre
prendeva fra le lunghe dita il suo bicchiere. "Potevi
aspettarmi, comunque." Lo alzò un poco, il ghigno ancora sul
volto. "Salute."
"Che
tipo di
interessi?" Commentò semplicemente Elle. L'uomo perse un
attimo
la sua scintilla di malizia, abbassando lo sguardo sul suo bicchiere.
"Hai
degli
incubi. Ma non ricordi nulla a parte-"
"-un
dolore
straziante. Si. Ma non penso che tu ti sia scomodato per farmi una
terapia del sonno. A meno che..." L'altro si portò il
bicchiere
alle labbra, senza commentare nè alzare lo sguardo, mentre
Elle
aggrottava le sopracciglia, una mano appoggiata al mento. "A
meno che anche tu non abbia questi incubi."
L'uomo
si strinse
nelle spalle. "Forse."
"Solo
che tu
ricordi." Proseguì imperterrita lei. Lui
bevve un'altra
sorsata.
"Forse
io
ricordo perchè ho già visto."
Elle
si rilassò
contro lo schienale dello sgabello, giocherellando con la condensa
ghiacciata sul bicchiere. "Posso sapere qualcosa in più, o
è
una partita fra voi due e io sono finita in mezzo per sbaglio?"
"Fra
noi due?!"
L'uomo quasi non si strozzò, alzando uno sguardo incredulo
su di
lei. "Questa cosa investirà l'intera galassia."
Elle
chiuse appena
gli occhi, grattandosi una tempia. La follia si era impossessata di
nuovo degli occhi di Loki, mentre questi tornava ad appoggiarsi,
quasi afflosciato, su un fianco. "In realtà, si potrebbe
quasi
dire che io ci sia finito in mezzo."
"Oh,
povero
Loki..." Commentò Elle, senza sentimento. "Hai
solo
ammazzato centinaia di persone, ma che valore hanno le vite umane
agli occhi di un immortale?"
"Non
sono qui
per farmi compatire." Commentò asciutto l'altro, tornando
sulle
sue.
"Tra
quelle
persone che hai ammazzato c'erano i genitori di mia figlia."
Sbottò Elle, senza riuscire a richiamare la sua attenzione.
L'altro
non si scompose, fissandola senza nessuna incertezza negli occhi. "Se
loro non fossero morti, lei non sarebbe tua figlia."
Commentò,
logico,
alzando appena le spalle, le labbra quasi piegate in un ghigno. Elle
rimase atona, gli occhi sgranati, non riuscendo a credere alla sua
totale mancanza di sentimenti. Quell'uomo era completamente folle, un
sociopatico pronto ad esplodere in qualsiasi momento.
L'oggetto
delle sue
riflessioni lasciava vagare lo sguardo per il locale, ragionando,
come se stesse valutando la mossa successiva. "Sono qui solo
perchè avevo bisogno del posto più sicuro
dell'universo, e si dà
il caso che sia nelle tue vicinanze."
Elle
quasi non si
strozzò con il drink, alzando uno sguardo tra l'impietosito
e
l'allucinato. "Al mio fianco?"
"C'è
un motivo
per il quale Vali ha posato gli occhi sugli studi di tua madre,
trent'anni fa."
"Ventisei."
Commentò Elle piccata. L'uomo alzò gli occhi al
cielo. "Ventisei."
"Beh,
Dio
mio, hai sbagliato i tuoi calcoli. In questo momento,
c'è mezza
divisione scientifica nazista alle mie spalle e mezza davanti che
vuole uccidermi o comunque menomarmi pesantemente."
Scosse il capo, la treccia bionda che ondeggiava pigramente oltre la
spalla. L'uomo la osservò un secondo, come perplesso, le
labbra
strette in una smorfia scontenta. "Non mi preoccupo di questi
vostri problemi terrestri."
"Dovresti."
Elle si portò il bicchiere alle labbra, finendo anche gli
ultimi
rimasugli di drink. "Uno dei miei si è preso due pallottole
non
meno di due giorni fa."
"Pallottole..."
Ripetè lui, con tono annoiato. "Io non devo preoccuparmi
delle
vostre misere armi mortali. E, come ti sarai accorta, nemmeno tu..."
Elle
allungò una
mano, prendendogli il bicchiere da davanti al naso. "Essersene
accorti un minuto prima..." Tracannò con un paio
di sorsate
anche il contenuto del suo bicchiere.
"Per
essere
l'arma tanto decantata da Vali, mi sembri ancora un po' troppo
umana." Commentò l'altro, osservandola
con aria
interessata. Elle non si scompose, la schiena rigida e una smorfia
sul viso.
"Per
essere il
dio degli inganni, sei un pessimo bugiardo."
L'uomo
sorrise
appena, richiamando con un gesto scortese la cameriera, che
portò
via i bicchieri vuoti con un sorriso. Elle era rimasta ferma, le
braccia appoggiate al marmo freddo del banco, e lo sguardo perso a
studiarne le nervature. Loki avvicinò appena il capo, come
per voler
provare a vedere cosa trovava di tanto interessante la giovane in
quella vista. "Anche la maschera più perfetta dopo millenni
inizia a pesare."
"Dopo
millenni,
dovresti essere in grado di crearti nuove maschere."
Commentò
immediatamente Elle.
"Iniziamo
a
capirci." Concluse lui, afferrando i due drink che la cameriera
aveva portato. Ne mise uno fra le mani della sua accompagnatrice.
"Alla nostra neonata... Comprensione."
Elle
afferrò il
bicchiere e lo guardò un secondo, cercando di
autoconvincersi, per
un secondo, della sanità mentale dell'individuo che aveva di
fronte.
Loki era una maschera di atteggiamenti fastidiosi e sarcasmo, con un
fuoco di follia in fondo al tunnel della sua mente contorta. Non
avrebbe mai potuto fidarsi di quell'uomo decisamente instabile che le
stava di fronte.
"Pensavo
che
dopo quanto successo qui tre anni fa... Beh, che tu non avessi
particolare desiderio di tornare."
Esclamò Elle,
cercando di fare conversazione. Se quel pazzo le doveva girare
intorno ancora a lungo, era meglio cercare di farselo amico.
"La
nostalgia
non è nella mia natura." Commentò appena lui,
senza alzare lo
sguardo dal contenuto del suo bicchiere. 'Bugiardo.'
Pensò
Elle, trattenendosi dal dirlo ad alta voce. Il suo tentacolo mentale
cercava di raggiungere la coscenza di quell'uomo, ma trovava solo un
baratro scuro. Un pozzo senza fondo.
"E
comunque..."
La bassa voce dell'altro interruppe i suoi tentativi. "...Questo
è solo al terzo posto nell'indice dei posti che odio."
Elle
alzò entrambe
le sopracciglia, in un'espressione esasperata. "Che onore.
Chissà cosa ha meritato il primo posto."
L'uomo
ghignò
appena, riprendendo il bicchiere dal banco davanti a sé, la
testa
leggermente voltata nella sua direzione. "In realtà, sai
già
cosa ha meritato il primo posto. E' un luogo che frequenti tutte le
notti, Elle Selvig."
~
Lasciò
cadere il
bilancere a terra, accompagnandolo fin quasi al suolo, prima che il
rumore metallico riempisse momentaneamente la stanza.
Si
passò una mano
sul viso, respirando con un sospiro dovuto alla stanchezza. Con un
gesto goffo, era riuscito a legarsi i capelli troppo lunghi dietro la
nuca. Poi aveva iniziato ad allenarsi, i vestiti presi in prestito da
Ethan, così come gli attrezzi e l'intera camera. Il ragazzo
non era
sembrato particolarmente dispiaciuto da quel prestito, anzi, era
stato fin troppo disponibile. Non era abituato a tutta quella
gentilezza.
Riacquistare
pian
piano i ricordi non era piacevole. Valentina gli aveva spiegato che
la memoria era ricostruttiva, che andava a formarsi pian piano, in
maniera interconnessa con le sue sensazioni ed il contesto che lo
circondava. Ed ecco come era rimasto chiuso nell'appartamento nei
giorni seguenti alla seduta, senza possibilità di uscire
nemmeno per
una passeggiata. Il mondo era troppo diverso, troppo nuovo, e lui
sarebbe stato bombardato dai ricordi degli ultimi decenni. E
non
erano bei ricordi.
Dormiva
ancora male
la notte, e questa in particolare non stava andando meglio delle
altre. Si era svegliato in preda al terrore, la sensazione del
ghiaccio che gli riempiva i polmoni mentre veniva spinto dentro un
grosso contenitore. Criogenesi.
Aveva
lavato via dal
viso con l'acqua gelida quella sensazione di soffocamento, cercando
di non svegliare Val con tutta la confusione che un grosso uomo con
un braccio meccanico poteva creare incespicando per il minuscolo
appartamento di notte. Aveva staccato dal muro la sbarra di ferro
alla quale erano appesi gli asciugamani, impregnati di un odore
dolciastro. Aveva cercato di appoggiarla a terra, facendo meno rumore
possibile. La verità era che svegliare Val poteva essere
più
pericoloso di una missione in mezzo agli appalachi, circondati da
soldati nemici ed armati solo di un cucchiaio da minestra sbeccato.
Aveva
atteso le sei
del mattino, orario del tutto ragionevole per cominciare una routine
di allenamento, dato che era costretto in quelle quattro stanze. Dopo
aver insistito in modo piuttosto debole per uscire, era giunto alla
conclusione che non voleva. Nonostante le
frecciatine di Val
sul fatto che era costretta a mantenerlo, e la voglia di sentire di
nuovo l'aria fresca addosso, il calore del sole sulla faccia o
rivedere con occhi consapevoli il colore del cielo. Tutte quelle
piccole cose che avevano significato brevi sprazzi di
lucidità, fra
un orrore e l'altro, fra un congelamento e l'altro.
Tra
quelle semplici
mura, tra i mobili di recupero e le pareti dai colori improbabili,
iniziava a sentirsi abbastanza
a casa.
Si
passò una mano
sul viso madido, osservando seccato la canottiera nera del ragazzo
che gli risultava decisamente troppo attillata. E fastidiosa.
Se
la sfilò con
un'altra imprecazione, a malapena trattenuta fra i denti quando
tirò
con troppa forza la spallina con il braccio argentato. Un rumore di
strappo confermò la sua sensazione. "Maledizione..."
"Ma
ti pare
l'ora di entrare qui dentro e metterti a fare ginnastica?!" Val,
i pantaloni del pigiama a fantasia di facce di Kermit la rana
e una grossa maglietta dell'università di Culver,
entrò a passo di
marcia, gli occhi strizzati dal disapputo e le labbra strette in
un'espressione assassina.
James
abbassò il
capo, stringendo leggermente le spalle. "Sono le sei. E' un
orario più che ragionevole per-"
"Forse
in un
campo militare, brutto imbe-" La ragazza si morse il labbro,
trattenendo una serie di improperi irripetibili. "...Io mi devo
svegliare tra tre ore, pezzo di-" Si portò un pugno alla
bocca,
le nocche bianche da quanto le stringeva.
Era
buffa,
Velentina. Il fisico minuto, leggermente abbondante, il caschetto
nero che, se non fosse stato per i fianchi decisamente femminili,
l'avrebbe fatta confondere per un ragazzo fra la folla. James
cercò
di distrarsi dallo sguardo inquietante delle rane che lo fissavano
dai pantaloni del pigiama. "Scusa,
Val."
"Perchè
sei
sveglio?"
"C'è
un
pensiero... Un ricordo... Qualcosa che è successo e che
continua a
tornarmi quasi alla mente. Ma poi, appena cerco di definire cosa
può
essere, mi sfugge."
La
donna gli lanciò
un'altra occhiata, un po' meno infervorata, soffermandosi un attimo
sul suo petto. "Cosa ci fai mezzo nudo?"
James
si diede
un'occhiata veloce, maledicendosi mentalmente. Era sudato come un
bracciante, alle sei del mattino, con un bilancere da chissà
quanti
chili appoggiato ai lati dei piedi scalzi. Alzò appena lo
sguardo,
sorridendo appena. Imbrazzato.
Era
difficile
etichettare tutti i sentimenti che iniziava a provare da quando era
libero. Poeticamente, la parte Bucky della sua
mente sosteneva
che fosse impossibile etichettare con dei nomi tutte le emozioni che
sembrava capace di provare di nuovo. Cercava di
godersele
tutte, anche le più negative, conoscendo bene il manto
freddo e
scomodo dell'indifferenza. Un lato che non faceva parte nemmeno del
Soldato d'Inverno.
Una
sola cosa era
certa, in James: non era mai stato una persona senza emozioni,
nemmeno quando lo avevano costretto. Aveva provato affetto, anche
quando non c'era nessuno per cui provarne. Aveva trovato sprazzi di
felicità nelle cose più impensate, come un
bicchiere di qualcosa di
caldo dopo il freddo della steppa russa, oppure lo sguardo triste di
qualche medico del quale ricordava appena il colore chiaro,
cristallino.
"James!"
Val lo riscosse dai suoi pensieri, tirandogli un leggero colpo al
viso con la mano, le sopracciglia corrugate in una smorfia perplessa.
"Val..."
James, guidato da un sentimento primordiale di gratitudine, si
abbassò appena, sfiorando le labbra carnose della donna con
le
proprie, con delicatezza, senza nessun fervore. Si allontanò
appena,
dopo un paio di secondi. Lei lo fissava con sguardo basito e le
labbra dischiuse, una mano appoggiata sul suo petto. James sorrise
appena, facendole un buffetto sulla guancia con la mano che
considerava sana. "Grazie, Val."
La
donna rimase
ancora un secondo immobile, ghiacciata sul posto da quel gesto del
tutto inaspettato. Prese un respiro, cercando di posare lo sguardo su
qualcosa che non fosse il petto dell'altro, i suoi occhi o le sue
labbra. Qualcosa di innocuo.
"Di
niente,
James..." Commentò appena, con voce ancora scossa. "Anche
se ho il sospetto che questo sia più Bucky,
dai tuoi
racconti."
Fece
un passo
indietro, scostandosi i capelli scuri dalla fronte con un gesto
nervoso. Fece una mezza smorfia. "Torniamo a dormire, ora, per
favore. Che io domani devo andare al lavoro, oppure..."
"Oppure
non
avremo più da mangiare." Proseguì divertito
James. "Spero
di poterti restituire tutto, un giorno."
"Non
importa."
Commentò spiccia Val, ancora in subbuglio, le guance che si
arrossavano ogni volta che voltava il capo verso l'altro. "Solo,
James..."
L'uomo
alzò lo
sguardo su di lei, che si era voltata sul ciglio della porta. "Cerca
di ricordarti di non ringraziare chiunque ti faccia un favore così,
okay?" Esclamò, indicandosi le labbra. James la
fissò un
attimo, ammutolito, mentre Val gli dava le spalle, proseguendo per la
sua camera, gongolando fra sè per essere riuscita ad avere
l'ultima
parola, anche questa volta.
"Non
vorrei
doverti pagare anche la cauzione per molestie..."
~
"Le
persone
spesso ricordano cose che non sono mai successe, trasformano cose che
non hanno mai davvero vissuto in fatti, convertono intimi pensieri
impliciti in commenti espliciti..."
Elle
scosse il capo,
alzando lo sguardo dal libro che teneva davanti a sè, le
ginocchia
alzate a sostenerlo e un braccio appoggiato allo schienale del
divano. La vecchia tuta che aveva infilato le stava grande, ma non
tanto quanto sei mesi prima. Nonostante il gran casino che regnava
nella sua vita, e del quale cercava di comprendere almeno un
particolare, rimirando uno ad uno i vari pezzi del puzzle, Elle si
sentiva finalmente a casa. In un posto dove poteva nascondersi dal
resto del mondo.
"Walter
Lippman sosteneva che noi non vediamo, per poi definire cosa abbiamo
visto. Bensì, definiamo prima di comprendere cosa abbiamo
davanti
agli occhi. Questo influenza il nostro modo di ricordare."
Strizzò
gli occhi,
cercando di concentrarsi meglio sulle piccole scritte sulla pagina.
Erano le otto della sera, e la sua giornata stava volgendo al
termine. Dopo quel folle appuntamento che aveva sconvolto il suo
pomeriggio, Elle voleva solo rintanarsi nel suo divano, un bel libro
a farle compagnia, che la distraesse da vecchi e nuovi pensieri.
Sugli
scalini
dell'ingresso aveva trovato Steve e River che mangiavano un gelato,
mentre lui le raccontava aneddoti di quando era piccolo. Era
incredibile quante cose Steve ricordasse con precisione di quel
periodo: Elle aveva solo ricordi piuttosto fumosi di gran parte della
sua infanzia, e della sua adolescenza. Ricordava quando se ne era
andato suo padre, e quando era morta sua madre. Gli eventi
fondamentali. Ma, dopo due minuti ad origliare Steve che raccontava
il suo settimo compleanno, soffermandosi sul vestito che portava sua
madre o sul tipo di colori a pastello che la donna gli aveva
faticosamente regalato, Elle si era sorpresa a cercare di ricordare
qualcosa del genere, qualche particolare che aveva messo in un
piccolo angolo della sua mente, un'immagine che in qualsiasi altro
momento le era sembrata privo di importanza.
"Come
va la
lettura?" Chiese Steve, richiamandola dai suoi pensieri. Elle
alzò lo sguardo, di scatto, incontrando la sua figura
appoggiata
allo stipite del salotto. Sorrise appena, stirando le braccia verso
l'alto, cercando di scioglere le scapole doloranti per colpa della
posizione che aveva mantenuto per lungo tempo. "Non riesco a
concentrarmi." Ammise, appoggiando la nuca sul divano. "Troppo
computer, oggi al lavoro. Mi fanno male gli occhi."
'Anche
il
colloquio con l'alieno isterico, o la paura di veder spuntare quel
tizio in divisa inquietante di Denali, non aiutano.'
Pensò
appena, cercando di scacciare subito quell'idea. Era a casa.
"Tony
mi ha
consegnato una cosa." Riprese Steve, avvicinandosi con calma.
"Missione?
Dove?" Chiese appena Elle, mentre l'altro si sedeva sul divano,
oltre le sue ginocchia ripiegate. La svedese non si fece attendere,
allungando le gambe in braccio all'altro, che sorrise appena,
appoggiandosi con la schiena al divano. "Intanto, stiamo
cercando di rintracciare..."
"...Quelli
che
sono sopravvissuti." Commentò asciutta Elle. "Sopravvissuti
a Denali."
Steve
annuì appena,
lo sguardo fisso sul libro che lei teneva aperto, in grambo.
Elle
sospirò.
"Vorrei venire con voi quando andrete a prenderli." L'altro
alzò lo sguardo calmo, convinto che avrebbe ricevuto questa
richiesta. "No. Sarai fuori da questa missione."
"Lui
conosceva
mia madre." Commentò lei, a bassa voce. "Conosceva anche
me. Non so come..." Scosse appena il capo. "L'ho capito da
come mi guardava."
Steve
non rispose,
guardandola negli occhi, cercando di non tradire nessuna espressione.
Elle però lo conosceva abbastanza da capire che ricordava.
"Per
questo
preferisco tenerti fuori, questa volta. Preferiamo."
Elle
emise un
sospiro. "Rhodes ha registrato tutto." Steve annuì.
"Se
è te e
Wanda che vuole, di certo non vi manderemo da lui con un simpatico
biglietto di scuse. Ci dispiace per aver distrutto la vostra
base." Continuò l'uomo, a voce bassa. Si
guardarono
intorno, in silenzio.
"Lo
sai che
quello che hai detto era da Stark, vero?" Commentò appena la
svedese. Steve fece un mezzo sorriso, senza rispondere.
"A
questo
proposito..." Estrasse dalla tasca una busta, passandogliela con
un gesto veloce. Elle la aprì senza proferire parola, prima
di
emettere un sibilo infastidito.
"In
pratica mi stai dicendo che, mentre io cerco in tutti i modi di
nascondermi nel mio buco di casa, Stark pensa bene di buttarmi dentro
il suo maledettissimo circo?"
Elle
abbassò il foglio di carta pregiata, l'inchiostro elegante
nero che
si stagliava sullo sfondo avorio. Steve sospirò appena,
mentre Elle
ritirava le gambe e si metteva seduta, le mani intrecciate fra loro,
la busta fra le dita.
"Pensa
che sia una buona idea. Mostrarci come... persone normali. Vuole fare
un'ultimo tentativo prima che i fogli di Ross inizino a girare per i
governi di mezzo mondo..."
La
svedese scosse appena il capo, cercando di prendere aria, rovesciando
poi la testa contro il divano. "E' più importante che venga
Natasha."
"Lei
verrà sicuramente." Steve annuì appena. "Natasha
è il
nostro asso nella manica, in queste situazioni."
"La
Potts?" L'uomo alzò un sopracciglio. "Non pervenuta."
Elle
si strofinò gli occhi arrossati dalla stanchezza con i pugni
chiusi,
piegando appena le spalle contro quelle dell'altro. "Non ho
voglia distringere altre mille mani..."
"Ellie..."
Steve le passò un braccio sulle spalle sottili, sentendo il
suo capo
che si appoggiava sotto il suo mento. "...Dobbiamo fare almeno
un tentativo."
"Non
servirà a nulla." Commentò Elle, sospirando. "Non
voglio
che tutti sappiano di me... Non voglio che le persone si nascondano
al mio passaggio, come Wanda, o Visione..."
"Per
non temere qualcosa bisogna conoscerlo." Steve sorrise appena
contro i suoi capelli. "E comunque facevi paura anche prima di
iniziare a sparare fiammelle azzurre."
Scoppiarono
a ridere, mentre Elle fingeva di tirargli dei pugni al costato.
"Io
ho veramente bisogno di averti con me..." Commentò piano
lui,
quando si furono entrambi calmati. "Le cose non stanno andando
molto bene alla base... Io e Stark non parliamo molto..."
"So
che me ne pentirò." Esclamò solo Elle,
guardandosi attorno.
"Non
dovrebbero darmi problemi al lavoro se ci sono di mezzo gli
Avengers..." Calcolò piano la svedese, allontanandosi appena
dall'altro, un braccio che si allungava verso la borsa, abbandonata
sul tavolino del soggiorno.
"Elle,
se tu non volessi venire come rappresentante dei mutanti..."
Steve rimase un attimo a fissarsi le mani, mentre Elle estraeva
l'agenda e iniziava a scorrere le pagine sui giorni successivi,
annotando gli impegni da cancellare. "...Potresti venire con
me."
La
svedese alzò un sopracciglio, confusa. "Pensavo andassimo
già
insieme."
"Intendo..."
L'altro si passò una mano sul viso arrossato. "...Non posso
dire di essere io il tuo accompagnatore, perchè tutti sanno
chi
sono... Ma se tu venissi senza specificare cosa
sei, come mia
accompagnatrice?"
Elle
assottigliò lo sguardo. "Odio i compromessi."
"Lo
so. Ma River e Loretta sarebbero al sicuro."
Elle
richiuse con un gesto veloce l'agenda, appoggiandola accanto a
sé
sul divano. "Dovrei essere la tua assistente? Per
caso,
l'unica agente dell'FBI a non avere la cittadinanza americana? Quella
che si occupa del caso Rumlow?"
"Anche
Wanda non ha la cittadinanza ma..." Steve scosse il capo,
imbarazzato. "Potresti venire come la mia ragazza."
Elle
alzò appena lo sguardo, lo sopracciglia sollevate in modo
comico.
"Quindi sarei la tua ragazza? Hai cent'anni, fra
poco.
Giusto per ricordartelo."
Steve
scoppiò a ridere ancora, senza riuscire a trattenersi.
"Elle,
puoi essere quello che vuoi, basta che stiamo assieme."
Elle
ridacchiò, coprendosi appena le labbra con la mano.
"Finalmente
vedo l'arte del compromesso, Steve. Sei pronto per il gala di Stark."
Si morse un labbro, cercando di trattenenere le risate. "Odio
questi trucchetti, ma va bene." Steve sorrise appena,
prendendole con leggerezza la mano.
"Allora,
verrai al ballo con me?"
Elle
alzò gli occhi al cielo per l'ennesima volta. "Pensavo che
questa sciagura finisse al liceo."
"Io
non ho mai
avuto un'accompagnatrice." Commentò casualmente lui,
lasciandosi andare sul divano. Elle si appoggiò al suo
petto,
sorridendo appena. "Non sapevano cosa si perdevano."
Steve
arrossì
appena, aggrottando la fronte. "Comunque, volevo chiederti se
Wanda se domani può passare la giornata qui. Non voglio che
resti da
sola alla base." Elle annuì, sorridendo. "E' un piacere.
Lasciale pure le tue chiavi, ci sarà Loretta a casa."
"Le
mie
chiavi?" Chiese Steve, aggrottando le sopracciglia. "Loretta
oggi mi ha imprestato le sue e-"
Elle
si sporse dal
divano, raggiungendo con le dita la borsa, vicino al tavolino. Se la
tirò vicina, iniziando a rovistare con un ghigno, spostando
il
cellulare spento, l'identikit ripiegato di Loki, l'agenda piena di
post-it riguardanti Jimmy e il tizio impomatato che
ora
dirigeva l'Hydra. Estrasse con il sorriso una piccola scatola
azzurra, porgendogliela senza dire nulla. Steve la tenne fra le mani
qualche secondo, rigirandola appena, come per soppesarne il
contenuto. Elle aspettò con calma, a braccia conserte, che
Steve
aprisse il pacchetto, estraendo un mazzo di chiavi, alla quale era
appeso un ridicolo pupazzo a forma di alce svedese. Steve rimase in
silenzio un secondo, tenendole in una mano.
"Sono
per te.
Finchè non avrai tempo di iniziare la tua ricerca,
ovviamente, e non vorrai stare alla base. Non puoi sempre rubare le
chiavi agli altri."
Steve
si piegò sul
busto, accarezzandole il viso con una mano. "Sei sicura?"
Elle
annuì,
convinta. "Altrimenti, non sarei andata a cercare il portachiavi
giusto."
L'uomo
si sporse a
baciarla con un gesto impaziente, le labbra ancora piegate in un
sorriso. Elle gli passò le braccia dietro al collo,
rispondendo con
eguale foga.
Elle
gli prese le
chiavi dalle mani, appoggiandole a terra insieme al suo libro, mentre
le mani di lui scendevano ad accarezzarle i fianchi sotto alla grossa
felpa. Si voltò con un mugugno, stringendosi contro il suo
petto,
mentre lui la sistemava meglio tra le sue braccia.
"E'
bello...
Essere a casa." Commentò appena lei, il viso alzato per
incontrare i suoi occhi. Steve sorrise, abbassandosi a sfregare il
naso contro il suo collo. "Lo è."
Elle
gli lanciò
un'occhiata divertita, distogliendo il viso da quello dell'altro.
Steve si raddrizzò appena, recuperando il libro che rimasto
a terra.
Lo aprì con una mano, mentre l'altra la teneva per la vita.
"Dove
eri arrivata?" Chiese, mentre Elle indicava con il dito la riga
alla quale era stata interrotta. Steve si appoggiò meglio
contro il
divano.
"Arriviamo
quindi al punto dove definire la memoria non è
più funzionale: vengono ricordate cose che non sono
avvenute, ed allo stesso modo le
persone dimenticano cose che sono successe realmente, e azioni che
loro stesse hanno compiuto."
~
Aprì
gli occhi di
scatto, sentendo qualcosa di viscido colarle sul viso, qualcosa che
sembrava scottare, sciogliendo l'epidermide e sprofondando verso gli
zigomi, distruggendo con uno sfrigolio tutto ciò che trovava
sulla
strada del suo percorso lento.
Ci
mise qualche
secondo a rendersi conto del dolore cieco, teribile, che attanagliava
il suo volto contratto. Aveva i denti serrati, gli occhi strizzati
dal male sordo che la faceva tremare come una foglia.
Si
sfrozò di aprire
gli occhi, ancora intatti, sul buio che la circondava. L'unica luce
che illuminava i massi sulla quale stava, immobilizzata da catene
intangibili, era quasi viola e faceva male allo sguardo. Sapeva che
avrebbe dovuto vedere le stelle, invece vedeva solo quel buio
angosciante che la opprimeva a terra. Un altro rigolo di quel liquido
si infranse contro il suo collo, facendola urlare. Sperò di
morire
presto, di sfuggire a quel dolore agghiacciante. Scosse il capo,
sentendo minuscole gocce macchiarle il petto e le braccia, corrodendo
il tessuto della sua tuta scura. I capelli erano sciolti, impigliati
in lunghe ciocche nella pietra dura sotto la sua nuca.
Sentiva
un mugungo
dolorante, un rantolio continuo e sospirato, da diversi metri sopra
di lei.
Cercò
di alzare il
capo, sentendo il dolore dei tendini mentre compiva quel semplice
movimento, cercando di trattenere il respiro mozzato. Gli occhi
faticarono a mettere a fuoco l'ombra scura, parzialmente piegata in
avanti, i vestiti scuri con dei particolari che sembravano
scintillare nella luce flebile. Rimase a fissare la figura, riuscendo
finalmente a contraddistinguere le braccia, il busto, il capo.
C'era
un foro,
dietro di lui, nella parete. L'uomo sembrava attaccato alla parete,
le braccia contro il busto, e il capo indistinguibile nel buio,
completamente corroso dalla sostanza. Il foro, dietro la sua nuca,
fece un rumore singhiozzante.
Elle
sgranò gli
occhi, prima di vedere la sostanza che colava nuovamente fuori dalla
fessura, sul capo dell'altro, che emise un verso strozzato, prima di
avere la nuca completamente cosparsa, il fluido che colava sulle
spalle producendo un rumore sinistro.
Elle
rimase
immobile, senza fiato, mentre il liquido colava anche su di lei, sul
volto, sotto agli occhi sgranati, che fissavano l'uomo sopra di lei,
il volto strizzato dal dolore. Sconvolta, il corpo che si contorceva
dal dolore, Elle trovò appena il fiato per richiamare
l'altro, il
viso familiare. Loki la fissava, lo sguardo sconvolto dalla
sofferenza, il volto che lentamente si scioglieva sotto l'acido.
All'ennesimo
getto,
Elle non riuscì a trattenere l'urlo di dolore che le
risaliva la
gola. Il panico aveva preso possesso di ogni sua cellula, nel momento
in cui la sua mente provata si era resa conto che era già
stata li,
e che ci sarebbe ritornata ancora. Che quel supplizio non sarebbe mai
finito. Mai.
~
La
scosse per le
spalle, sollevandola dal materasso con un gesto secco. Continuava a
chiamare il suo nome, ma l'unica cosa che lei riusciva a fare era
urlare. Sembrava che il viso le stesse bruciando, le palpebre
strizzate, le mani contorte dal dolore.
"Elle!"
La chiamò ancora, mentre lei apriva di scatto gli occhi nel
buio. Il
suo viso era solcato da lacrime bollenti, mentre cercava di muovere
il collo e le spalle. Le mani corsero sulle guance, iniziando a
sfregare con foga, come se dovesse lavarsi da qualcosa. Steve gliele
abbassò, sentendola fare resistenza con forza. "Elle,
calmati!"
La
donna spostò lo
sguardo su di lui, le pupille completamente dilatate, artigliandosi
con le dita sottili alla sua maglietta, la bocca aperta dalla
sorpresa. Lui alzò un braccio, dandole un leggero colpo.
"Elle?"
Alzò
il capo,
incontrando il suo sguardo sgranato nella penombra. "Steve!"
"Che
succede?"
Chiese, preoccupato. Lei scosse appena il capo, le mani che si
fermavano sul viso, asciugando con delicatezza le lacrime.
Abbassò
lo sguardo, perplessa. "Sto piangendo?"
La
guardò,
interdetto. "Stavi urlando." Elle rispose con uno sguardo
sconvolto. "Oh."
"Stai
bene?"
Chiese di nuovo. Lei annuì appena, scostandosi i capelli
dalla
spalla. Evitando il suo sguardo.
"Ho
sete."
Rimase immobile ancora un secondo per poi scostarsi, lentamente.
Sembrava acciaccata, dolorante. Si mise silenziosamente in piedi,
seguendola come un'ombra mentre Elle percorreva il corridoio buio,
seguendo la parete con la mano. Entrò nel bagno, accendendo
la luce
sopra lo specchio del lavandino con un gesto nervoso. Lui
entrò
lentamente, chiudendo la porta dietro di sé. Elle si
scrutava allo
specchio, il busto piegato in avanti e le mani che tastavano la pelle
diafana.
"Che
stai
facendo?" Chiese piano, guardandola con attenzione. Elle
sembrò
riscuotersi in un attimo, tornando a fissarlo, senza parole, come se
fosse più confusa di lui.
"Niente..."
Commentò piano, lo sguardo che saettava di nuovo verso la
superfice
riflettente. Aprì l'acqua con un gesto veloce, infilandoci
sotto le
mani e iniziando a schizzarsi il viso. Doveva essere gelata, visto
che rabbrividì visibilmente. Sembrava leggermente agitata,
il
respiro ancora irregolare ed i movimenti rigidi. La vide portarsi le
mani a coppa alla bocca, bevendo avidamente. Lui le passò
l'asciugamano in silenzio, mentre i loro sguardi si incrociavano solo
un secondo prima che affondasse il viso nel telo. Rialzò lo
sguardo
poco dopo, riappendendo l'asciugamano.
"Prima
che tu
me lo chieda... Non ho idea di che cosa sia successo."
Steve
non rispose,
limitandosi a prenderla per mano. Tornarono alla camera in silenzio,
senza avere il coraggio di guardarsi tra loro. Steve si chiuse la
porta alle spalle con un sospiro, mentre Elle si inginocchiava sul
materasso, tornando a distendersi in posizione fetale sotto al
lenzuolo.
"Elle..."
Si avvicinò cautamente, straiandosi accanto a lei. Le
accarezzò un
braccio, delicatamente, cercando il modo di farle tutte quelle
domande che gli ronzavano in testa. "Cosa ricordi?"
La
svedese scosse il
capo. "Faceva male. E c'era qualcuno, con me."
"Chi?"
"Non
lo so."
Rispose subito lei, raggomitolandosi contro il suo petto. "Non
ricordo. Non riesco a ricordare. Avevo paura, paura da impazzire."
Le
lasciò un bacio
sulla fronte, cercando di confortarla. "Capiremo. Te lo
prometto." Commentò piano lui. Elle annuì appena.
Rimasero
in
silenzio, lei immobile, e lui che la stringeva, sperando di riuscire
a calmarla. Sembò passare un'eternità, prima che
lei alzasse il
capo verso il suo viso.
"Quanto
starete
via? Dopo la festa, quando partirete tu e Natasha..." Chiese
solo. Steve la guardò negli occhi, facendo una smorfia con
le
labbra. "Tre giorni? Quattro? Chi lo sa..." Sospirò. "Devo
trovare quell'uomo. Devo capire chi è, e cosa vuole. Da me,
da te,
da Buck..."
Elle
alzò appena il
capo, quasi un singulto. Steve non distolse lo sguardo. "So che
sai dov'è James..."
Elle
annuì, senza
emettere una sillaba. Steve abbassò lo sguardo. "Posso
tenerlo
al sicuro. Posso aiutarlo. Posso aiutare tutti voi."
La
svedese abbassò
il mento, stringendo le braccia attorno alla sua vita. "Non puoi
tenere tutti al sicuro."
"Posso
tenere
al sicuro le persone che amo." Esclamò lui, come per
convincersi. Elle aveva uno sguardo triste, ma era risoluta. "E'
al sicuro."
"Stark
ha paura
di lui." Steve proseguì, seguendo il suo discorso. "Tutti
hanno paura di lui."
"Non
tutti..."
Sussurrò Elle, appoggiando il capo sul suo petto. "E Stark
ha
paura anche della sua ombra..."
"Non
posso
aiutare Tony." Commentò l'altro. "Non posso aiutare
qualcuno che non vuole farsi aiutare."
"A
volte..."
Elle gli mise una mano sul volto, costringendolo a guardarla. "Penso
che tu sia troppo duro con Stark. Lui.... Fa quello che può.
Come
tutti noi."
Non
seppe cosa
rispondere, e rimase a guardarla, cercando di usare le parole
dell'atra per cicatrizzare la ferita che si stava aprendo tra lui e
Anthony.
Elle
riguadagnò la
sua attenzione, alzandosi appena sulle braccia e baciandolo
delicatamente. "Devi essere meno duro anche con te stesso. Non
puoi salvare tutti."
"E'
una parte
del nostro lavoro che fatico a digerire."
Lei
sospirò appena.
"Certe cose succedono, e semplicemente non possiamo fare nulla
per impedirle."
~
"Stark,
non
esiste che io metta quella cosa."
Natasha
alzò gli
occhi al cielo, voltandosi con un gesto elegante verso l'ingresso. La
voce della coinquilina era arrivata forte e chiara come se l'avesse
avuta davanti.
Invece,
Elle era al
piano di sopra, mentre lei era davanti al portone, gli occhi che
correvano continuamente all'orologio. Allungò una mano a
fermare
quelle di Rogers, che non smettevano di tormentare i polsini della
camicia. Poi si voltò verso il soggiorno, sorridendo a Wanda
che
sedeva sul bordo del divano, guardandosi attorno a disagio.
"Ragazza
mia
dovresti coprirti di più, è pericoloso oggigiorno
per una signorina
girare per il Queens." Loretta spuntò dal cucinotto,
facendola
sobbalzare.
Una
delle creature
più potenti della terra, intimidita da una signora e un
vassoio di
biscotti. Steve si guardò la punta dei piedi, cercando di
non
ridere.
"Signora
West,
non si preoccupi, ero accomp-"
"Chiamami
Loretta, cara." La donna appoggiò il grosso piatto sul
tavolino
davanti al divano. Wanda annuì, le labbra strette in una
smorfia
preoccupata. Natasha si avvicinò, appoggiando una mano sullo
schienale del divano, dietro di lei.
"Tranquilla,
passerai una serata tranquilla. Non volevamo lasciarti da sola agli
appartamenti, qui sarai al sicuro."
La
Sokoviana annuì
ancora. Natasha le sorrise appena.
"Dobbiamo
andare!" Steve fece un passo avanti, il piede destro appoggiato
sul primo gradino. "Arrivare in ritardo non è proprio il
modo
migliore per farci benvolere."
"Due
minuti!"
Urlarono in coro Stark e Selvig, dal piano di sopra. Tutti nella zona
giorno si guardarono tra loro, la stanza immersa in un silenzio
curioso.
Natasha
si voltò
verso la porta un secondo prima che il campanello suonasse, aprendola
con un gesto nervoso. "Usciamo quando siamo pronti-"
Il
ragazzo del
corriere espresso fece un'espressione sconvolta, facendo due passi
indietro. Poi deglutì rumorosamente. Spostò lo
sguardo su Steve,
che si era affacciato da dietro Nat.
"Ho
una
consegna per... Selvig."
"Firmo
io."
Esclamò Natasha, prendendogli dalle mani il tablet. "Lei in
questo momento è impegnata. Ad essere in ritardo."
Il
ragazzo annuì,
lasciando il grosso scatolone nero tra le mani della rossa. Rimase un
secondo imbambolato, fissando la scatola, la donna e poi l'uomo
dietro.
"Ti
devo
qualcosa?" Chiese la rossa, insofferente. Il ragazzò
negò,
augurò a tutti una buona serata e se ne andò.
Natasha
si appoggiò
al corrimano, aprendo il biglietto incastrato nel fiocco verde. Poi
scosse il capo.
"Lo
porto su.
Aspettami."
Steve
annuì,
aggrottando le sopracciglia. La osservò salire le scale, una
ruga
sulla fronte chiara. Poi, con un sospiro, andò verso il
divano,
rispondendo allo sguardo disperato di Wanda.
"Stark,
scannerizzami questo coso." Natasha appoggiò la consegna sul
letto di Elle, mentre questa e Stark stavano in piedi davanti alla
cabina armadio di lei. Stark si voltò con espressione
sconvolta
verso la russa.
"E'
possibile
che una donna con così buon gusto non abbia saputo
contagiare la sua
compagna di merende in anni di convivenza?" Elle incrociò le
braccia, guardandolo con le guance gonfie.
"Stark,
io
giuro che..."
"Stark,
il
pacco!" Esclamò Natasha. Tony si voltò. "Dritta
al sodo,
eh?"
Osservò
un secondo
la scatola, gli occhiali da sole che brillavano in modo appena
diverso. "Niente di sospetto. Possiamo aprirlo." Commentò.
"Anzi...
forse
ci ha salvato la serata."
Elle
si avvicinò,
tenendosi sul sedere la grossa maglia grigia che portava come
pigiama. Afferrò il bigliettino fra le dita, osservando la
calligrafia elegante.
"
Se devi
conquistare un popolo, almeno fallo con stile."
Elle
lesse a bassa
voce, le sopracciglia contratte. Scosse appena il capo. "Spero
di non trovarci delle corna, qui dentro..." Commentò, in un
bisbiglio appena udibile.
Stark
intanto aveva scartato il grosso pacco, sollevando il contenuto tra
le mani con un fischio ammirato. "Is
this the real life? Is this just fantasy?"
Elle alzò gli occhi al cielo. "Zitto, Stark, e dammi una
mano
ad abbinarci delle scarpe."
~
Il
sole del
pomeriggio entrava pigramente dalla finestra aperta, quella che dava
sulla scala antiincedio e che Val aveva fatto riparare quanto prima.
James
stava sdraiato
sul divano, scorrendo immagini su internet, la televisione accesa
davanti a lui e qualche giornale sul pavimento. Aveva anche un
cellulare, sopra la pila di fogli, e un quadernetto nero che Val gli
aveva gentilmente prestato per appuntare i suoi ricordi. Ancora non
poteva uscire.
"Stasera
alla sede delle Nazioni Unite di New York si terrà un Gran
Galà
pieno di celebrità internazionali. Sarà presente
anche Anthony
Stark, il celebre inventore e alter-ego di Iron Man. Insieme con il
miliardario, saranno presenti anche altri Vendicatori, in quella che
sembra una dimostrazione di amicizia verso i paesi della
convenzione."
L'uomo
alzò il
capo, ascoltando con attenzione la speaker del telegiornale.
Appoggiò
il pc a terra, accanto ad un ritaglio di un articolo su Captain
America.
"Pare
che
all'evento sarà presente anche il comandante dei
Vendicatori, Steve
Rogers. Indicrezioni dicono anche che abbia comunicato di essere
accompagnato. Speriamo di poter confermare quanto prima la notizia:
finalmente il nostro eroe nazionale si sarebbe accasato."
Bucky
non riuscì a
trattenere la risata, osservando con aria convinta la donna mentre
proseguiva con le altre notizie del giorno. Riprese il computer,
cercando divertito il nome di Elle sul server. Aveva cercato mille
volte quello di Steve, ed anche il suo. Ma non aveva mai pensato di
googlare l'amica.
Il
primo risultato
era il profilo Linkedin della donna. Il secondo, la
pagina
Wikipedia di Erik Selvig, astrofisico.
L'aprì
senza troppo
interesse. I primi paragrafi parlavano del suo lavoro, dei suoi
studi. Poi, vide la foto.
L'uomo,
parecchi
anni più giovane, stava accanto ad una donna, talmente
bionda da non
lasciare spazio a dubbi nemmeno in bianco e nero. Annette
Selvig.
Il
nome lo colpì
come un pugno.
Un
cartellino su un
camice. Fiale. Luci bianche. Due occhi azzurri che lo fissavano. Una
voce acuta che gli poneva domande in russo. Una mano sottile che,
mentre lo tenevano fermo, lo pungeva con una siringa direttamente nel
collo.
Afferrò
il
cellulare, cercando di mantenere il respiro ritmato, come gli aveva
insegnato Valentina. Le mani gli tremavano, mentre vedeva la donna
bionda guardarlo, oltre il vetro. Appuntare con grafia elegante su un
quaderno rosso. I suoi occhi che, giorno dopo giorno, settimana dopo
settimana, si riempivano di rimorso.
Annette
Selvig
era la donna che era riuscita a replicare il siero.
~
Elle
sorrise, mentre
Steve le apriva la portiera dell'auto. "Sei bellissima."
"Anche
tu non
stai male..." Commentò solo lei, abbassando lo sguardo.
Allungò
una mano a sistemargli il papillon scuro.
"Mi
sembra di
avere un cappio al collo... Non un farfallino. E' ridicolo."
"Ti
prometto
che appena entriamo puoi toglierlo." Commentò Stark,
voltandosi
a guardarli, mentre il motore si accendeva con un rombo sordo.
Natasha ridacchiò.
"Piuttosto,
non
ti chiedi chi sia il misterioso ammiratore?" Commentò Tony.
Steve sospirò. "Nalsson."
Elle
emise un
sospiro strozzato. Steve le sorrise. "Si vede da lontano un
miglio che quell'uomo ha un interesse per te."
"Non
quel
genere di interesse." Elle non sapeva se scoppiare a ridere
o a piangere. "Fidati."
Sentì
qualcosa
muoversi nella pochette, attirando l'attenzione di tutto l'abitacolo.
Estrasse
il
cellulare con fare nervoso. Solo una persona poteva chiamarla in quel
preciso momento.
Sullo
schermo, solo
l'emoji a forma di diavolo. Jimmy.
xXx
Sono molto in ansia
per questo capitolo- per entrambe le parti.
Ringrazio
Giulia_Beccaccina
per il supporto continuo, per tutti i momenti di fangirling
spregiudicato, i messaggi quotidiani e per avermi spronato a scrivere
quando pensavo che non sarei riuscita a metter giù nemmeno
una riga. Vi consiglio assolutamente la sua nuova storia, nella
categoria Captain America, Shameless! Anche solo per vedere
quanto è cazzuta un'aspirante avvocatessa. Non ci sarebbe
questo capitolo, senza di te.
Ringrazio Janeisa per i messaggi, per aver
ripreso a scrivere e perchè voglio che questo capitolo, il
mio ritorno, le dimostri che anche dalla crisi più nera
può uscire, forse, qualcosa di sensato. Correte tutti a
leggere la sua storia su Chris Pine, Per
Aspera ad Astra,
perchè troverete un esempio di come si scrive una storia su
un fandom di un attore rispettando l'attore stesso e chi gli sta
intorno. E come si effettuano ricerche spionistiche ;)
Grazie a Bagabu aver riletto praticamente
tutto e a GiuliaDirectioner1D per il dolcissimo messaggio.
Spero di sapere cosa ne pensate :)
Adesso pubblico, e chi sé visto sé visto. Spero
di non aver fatto una brodaglia troppo illeggibile.
Mi spiace se ho dimenticato qualcuno ma qui si naviga nel disagio! ;)
Eve
|
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Capitolo 25 *** 24. Memoria pt.2 ***
Salve!
*Si
abbassa per schivare i vegetali che nell'ultimo mese sono ammuffiti*
La
mia vita è ufficialmente diventata un circo e non sono
riuscita ad avvicinarmi al computer fino a questo week-end. Se lavoro
un altro pò mi ricoverano, se studio un altro pò
pure. Portate pazienza, ma la sessione estiva ha colpito ancora.
Oggi
è il 4
LUGLIO,
in quale altro giorno poteva nascere Steve Rogers? E come festeggiarlo
se non pubblicando? :D
Non
c'è molto da dire di questo capitolo se non che ho dovuto
tagliare in tre parti invece che in due il capitolo MEMORIA
perchè era troppo lungo. E poi, volevo dare una gioia a
questi poveretti degli Stellecky.
Non
dico nulla sul capitolo e ci ritroviamo alla fine :D
P.S.:
Capitolo direi giallo/arancione!
Non dovrei dirlo, ma speravo di farlo più Rosso ma
ciò non è avvenuto perchè sono una
maledetta educanda con evidenti problemi di commozione cerebrale.
Ringrazio
Giulietta_Beccaccina
(una vera colonna portante di Skyfall, se non ci fosse lei arriverebbe
un capitolo all'anno, davvero!) e vi consiglio la sua SHAMELESS,
Janeisa
e correte tutti a leggere
PER ASPERA AD ASTRA
- soprattutto visto che tra poco esce il nuovo Star Trek! , Yvanna
97
e ovviamente Tenth <3, GiuliaDirectioner1D
per l'iniezione di autostima in questo periodo veramente assurdo -
grazie grazie e grazie e non vedo l'ora di sapere cosa ne pensi!, e
infine Principessadolce98
per avermi dato una svegliata finale ;).
Okay,
dopo questo ennesimo sproloquio vi lascio al capitolo, senza ulteriori
indugi.
Atto
ventritresimo: Memoria
Seconda Parte
"Bring
me home in a blinding dream,
Through the secrets that
I have
seen.
Wash the sorrow from off
my skin,
And show me how to be
whole again."
LINKIN PARK
Aprile
2016
Odiava
tutta quella luce.
Continuavano
a puntarle contro
fotocamere, microfoni, altri aggeggi elettronici di varia natura.
Strizzò appena gli occhi, tenendo stretta la borsetta tra le
mani,
cercando di mantenere un'espressione rilassata.
Al
suo fianco, Natasha sorrideva in
modo ammaliante ad un giornalista, ascoltando l'ennesima domanda sul
perchè avevano accettato di intervenire quella sera. Le
labbra
scarlatte non persero nemmeno per un secondo l'espressione, gli occhi
scuri che saettavano attraverso la telecamera, sicuri e rassicuranti.
Era
talmente bella che anche Elle
avrebbe voluto estrarre una macchina fotografica,
Invece,
imbarazzata da tutta
quell'attenzione indiretta, raddrizzò appena le spalle,
voltandosi
leggermente verso il cameraman. Qualcuno scattò l'ennesima
foto.
"Siamo
qui per cercare un dialogo
con la commissione delle nazioni unite, delegata all'accordo che
presto sottoscriveremo. Siamo nostro malgrado sottoposti
all'attenzione politica, nonostante sia nel nostro interesse solo la
repressione di eventuali minacce all'intero pianeta."
Si
strinse leggermente nelle spalle, le
labbra che si inclinavano in un sorriso di circostanza.
"Venire
qui, stasera, oltre che un
grande onore, è un modo per dimostrare che siamo aperti
anche in
questa direzione."
Elle
si voltò verso Stark, qualche
metro dietro di lei, il quale stava sostenendo un discorso
pressochè
identico, solo ad un'altra emittente. Per un secondo, all'ennesimo
flash, capì perché l'uomo portava sempre quegli
inappropriati
occhiali da sole.
"E
lei invece, Elle? Sappiamo che
è qui in veste di accompagnatrice, ma non è nuova
a situazioni
sensibili."
Elle
si riscosse appena, cercando di
imitare l'amica. Situazioni sensibili. Sorrise.
"Si, ho
un passato militare." Si fermò, senza sapere cosa
aggiungere.
Fece
per mordersi il labbro, fermandosi
sotto allo sguardo di Natasha. "Elle è un'agente molto
capace,
e il suo lavoro ha aiutato molte persone. Ha lavorato come psicologa
per la squadra Avengers."
"E'
così che ha conosciuto
Captain America?" Commentò il
giornalista, mentre la
telecamera tornava su di lei. L'uomo sembrava sperare in una qualche
storia più avvincente di un semplice incontro sul luogo di
lavoro.
La svedese annuì, spostandosi un ciuffo di capelli dietro
all'orecchio. "Si, ci siamo conosciuti sul lavoro."
La
smorfia dell'uomo la fece quasi
scoppiare a ridere, prima che Nat le desse un colpetto con il piede.
"Signorina
Selvig, lei è figlia
del famoso astrofisico, Erik Selvig?"
Elle
annuì ancora, mentre l'uomo
incalzava. "Cosa pensa suo padre, un accademico, della sua
movimentata carriera? Si definirebbe una mercenaria?"
La
donna si irrigidì un attimo, gli
occhi fissi in quelli del giornalista. Natasha storse le labbra, gli
occhi che saettarono verso l'amica lì accanto.
"Elle
ha cercato di essere sempre
dove poteva esserci bisogno di lei."
Steve le passo un
braccio attorno alla vita, rivolgendo uno sguardo severo all'uomo.
"E' la prima cosa che mi ha colpito di lei."
Rimasero
un secondo tutti in silenzio,
mentre di fronte a loro una folla di fotografi faceva il loro lavoro.
Elle distolse lo sguardo, voltando il capo contro l'altro.
"Grazie..."
Sussurrò appena, mentre lui sorrideva. "Dovere."
"Ora,
se ci volete scusare..."
I tre fecero un cenno di saluto, alontanandosi verso l'ingresso della
sala.
"Non
cambiano mai, gli uomini
della stampa. Dal '45, sempre le stesse domande." Esclamò
Rogers con un sospiro rassegnato.
"Mea
Culpa. Dovevo
cancellare il profilo di Linkedin."
Commentò solo Elle,
voltandosi appena verso i due che le stavano ai lati. Natasha si
portò una mano alla bocca, nascondendo un sorriso.
"Cancellalo
domani, prima che mieta altre innocenti vittime." Indicò con
un
cenno del capo Steve, che stringeva la mano ad un paio di senatori.
Elle prese una boccata d'aria, sistemandosi con le mani delle
inesistenti pieghe sul vestito scuro. Sarebbe stata una serata
eterna.
~
Si
scambiarono uno sguardo da un lato all'altro della sala, senza
nessuna interruzione nei loro discorsi o nessun cenno particolare.
Entrambi si congedarono, con voce pacata ma decisa, dai loro
interlocutori e si allontanarono nella stessa direzione, uscendo
dalla sala.
"Come
sta andando?" Chiese uno, giocando con il papillon che aveva
tolto e che teneva in una delle tasche del completo. Stark si tolse
gli occhiali da sole, con un gesto meno teatrale del solito. Si
grattò appena l'occhio.
"Sono
tutti piuttosto arrabbiati, anche se hanno troppa paura per
dimostrarlo apertamente."
Steve
prese un respiro, sistemandosi il colletto della camicia con un gesto
nervoso. "Magari sei stato scortese."
Stark
alzò gli occhi al cielo, voltandosi con un'espressione dura
verso
l'altro. "Rogers, sono io quello che viene invitato alle feste e
che deve sempre sorbirsi tutto questo processo
alle intenzioni. Non
tu, te lo ricordo." Steve si voltò appena, cercando di
nascondere il nervosismo.
"Stark,
calmati, dico solo che forse non hai la stoffa del politico."
"Ah,
davvero?!" L'uomo si voltò, facendo per rimettersi gli
occhiali, guardandolo dritto negli occhi per un secondo.
"Perchè,
tu si, ammasso di muscoli?"
Steve
si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo. "No, nemmeno io.
Ma sono meno..."
"Meno
cosa, Rogers?"
"Meno
impulsivo."
"Solo
perchè io penso più
in fretta di te."
Replicò subito Stark. "...Vecchietto."
I
due rimasero in silenzio qualche secondo, guardandosi in cagnesco,
Steve appoggiato alla parete e Tony accanto a lui, lo sguardo stanco.
Stark
distolse lo sguardo per primo, inforcando di nuovo gli occhiali e
voltandosi verso l'arco che dava sulla sala. "Elle come se la
sta cavando?" Chiese a bassa voce. Steve sorrise appena. "Bene.
La metterà sul mio conto, questa serata..."
Stark
annuì appena, appoggiandosi alla parete anche lui, le
braccia
incrociate. "Ti capisco. Forse."
Scose
il capo, come a ricordare improvvisamente qualcosa. "In
realtà,
di solito è Pepper a costringermi ad andare a stringere
mani."
Entrambi
sorrisero, muovendosi appena dal muro quando una coppia
passò loro
davanti, guardandoli curiosamente. Steve guardò appena il
papillon
che teneva in mano. "A questo proposito, volevo chiederti da un
po' come sta Pepper."
Stark
non si mosse, senza alzare lo sguardo dal pavimento di marmo. Steve
rimase un secondo in silenzio.
"...Pensavo
che l'avrei vista stasera, così da chiederglielo di persona.
E' un
pò che non passa dalla base..."
"Mi
trovo meglio lì a lavorare..." Commentò piccato
Stark,
prendendogli il papillon dalla mano con un gesto brusco. "Posso
fare tutto il casino che voglio, senza disturbare nessuno." Fece
una smorfia con le labbra, abbassando lo sguardo sul piccolo pezzo di
tessuto pregiato.
"...Nessuno
che non sia stipendiato da me, si intende."
Steve
annuì, stirando le labbra in un sorriso stanco.
"Effettivamente,
passi talmente tante ore nel laboratorio che a volte ci chiediamo se
tu non dorma anche, lì dentro."
Stark
schioccò le labbra, scuotendo il capo. Fece cenno a Steve di
alzare
il capo, mentre questi richiudeva l'ultimo bottone della camicia, sul
collo, con un gesto talmente rapido da sembrare indispettito.
"Per
fortuna ho fatto inamidare le camicie, o a forza di giocarci
l'avresti stropicciata tutta." Commentò il miliardario,
alzando
un sopracciglio. "E questo nonostante tu debba essere abituato
alle uniformi."
Steve
ridacchiò, mentre si passava il tessuto scuro intorno al
colletto
della camicia. "E' la compagnia
alla quale non sono abituato." Stark si avvicinò appena,
iniziando a rifare il fiocco del papillon con gesti secchi. "Hai
Elle..." Commentò solo. "E' venuta solo per accompagnare
te, ed evitarti la figura del
monaco."
Steve
fece un respiro esasperato, senza riuscire a non sorridere. "Grazie,
Stark. Sei sempre un amico."
Stark
si strinse nelle spalle, allontanandosi di un passo, guardandolo.
"Adulatore."
Estrasse
da una tasca un biglietto, mettendoglielo nel taschino. Poi
raddrizzò
appena il papillon, guardandolo con un sorriso vagamente inquietante.
"Ho quasi ultimato gli appartamenti per tutta la squadra, vicino
alla facility. Sono più comodi, spaziosi, e soprattutto
più...
Intimi."
Steve
rimase un attimo a fissarlo,con un sopracciglio alzato. Perplesso.
Stark fece un gesto vago con la mano.
"Se
tu volessi fare un giro, dopo questa pagliacciata, i tuoi dati
biometrici e quelli di Selvig sono già stati inseriti. Ci
sono tre
piani di stanze da esplorare..." Mulinò appena le
sopracciglia.
Steve rimase a fissarlo, una scintilla di comprensione negli occhi
scuri, indeciso fra lo scoppiare a ridere o il dargli un pugno
direttamente sul sorriso strafottente. "Ah."
"Domani
partirai, e sia tu che Selvig meritate un po' di... Distrazione."
Steve rimase scioccato, mentre l'altro gli dava un colpo sulla
spalla, spingendolo verso la sala dalla quale usciva un
chiacchericcio concitato.
"Adesso,
Capitano, penso sia il caso di rientrare. Non distrarti troppo
dall'obbiettivo. Non
ancora."
~
Elle
si scostò appena dal gruppetto, sorridendo appena allo
sguardo
disperato
di Natasha.
Aveva
spento - con un buon aiuto da parte dell'alcool - il suo scanner
mentale; gli occhi
però funzionavano ancora bene ed erano sgranati dalla
sorpresa.
"Scusate,
ho visto una persona che devo assolutamente
salutare."
Esclamò, calcando la voce in modo quasi ridicolo. Le altre
signore,
tutte sulla cinquantina e fornite di graziosi completi in tinta
pastello e collane di perle, ridacchiarono appena, facendole cenni
con la mano, per poi richiudersi su Natasha. "Non stia via
troppo, Ellen!" Commentò una di queste,
con voce
dolorosamente acuta. Elle annuì appena, facendo un cenno con
la mano
e cercando di nascondere contemporaneamente il ghigno divertito che
le era spuntato all'ennesima storpiatura del suo nome. "Certo,
Mrs. Adams."
Si
allontanò, sfiorando appena con le mani le schiene di un
paio di
persone, cercando di evitare di pestare qualche piede. Distingueva
chiaramente quegli occhi in mezzo alla folla, dirigendosi verso il
volto che aveva associato solo ad un nome. L'uomo alzò
appena una
mano davanti alla sua faccia, prima che lei potesse dire qualsivoglia
cosa, in un gesto scortese.
"Nalsson,
stasera." Commentò solo. Lei sbuffò, lanciandogli
uno sguardo
esasperato.
Lui
ghignò appena, abbassando il braccio.
"E'
inutile che mi guardi così, Elle Selvig." La
indicò con il
mento. "Se non fosse per me, non saresti mai arrivata a stasera.
Non così."
"L'ho
trovato un gesto vagamente inquietante." Commentò lei,
scostandosi i capelli dalla spalla. Si guardò attorno,
afferrando
due bicchieri dal vassoio di un cameriere. "Togli pure il
vagamente. Però, grazie."
Gli
passò un calice, cercando di essere cortese. Lui
annuì,
soddisfatto. "Voleva essere un gesto amichevole." Lei
annuì, indicando il vestito. "...Hai molto più
buon gusto di
me. Stark era disperato."
"Stark
è sempre disperato." Commentò una voce
più bassa, da dietro.
Elle si voltò, sorridendo a Steve. Alzò appena il
calice, annuendo.
"Anche tu hai un'espressione non propriamente serena, se devo
essere sincera."
Steve
cercò di non soffermarsi troppo su Nalsson, appoggiando una
mano sul
braccio della compagna. "Questa festa sembra non finire mai. Se
stringo ancora qualche mano, penso che perderò il braccio."
Loki,
ovvero Nalsson, ghignò appena. Elle aveva i brividi, a
vederli così
vicini. Steve si voltò appena verso di lui. "Allora....
Dobbiamo ringraziare lei per il vestito. E' stato un arrivo
provvidenziale."
L'altro
si strinse nelle spalle, alzando un lato delle labbra. "Dovevo
un favore alla signorina, e sono sempre contento quando posso essere
d'aiuto."
"Vi
conoscete?" Chiese Elle con un sorriso sforzato, il calice
appoggiato alla guancia e gli occhi leggermente sgranati.
"Fury
ci ha presentati..." Commentò Steve, senza distogliere lo
sguardo da quello dell'altro. Il silenzio calò fra i tre.
"Che
bello..." Commentò solo Elle, cercando di
tamponare la
conversazione. Si scosse un attimo, sentendo qualcosa vibrare nella
borsa. Alzò appena lo sguardo.
"Scusate,
devo assentarmi per qualche minuto." Commentò, guardando
entrambi. Steve scosse il capo. "Certo, ti aspettiamo. Nel
frattempo..." Si voltò verso Nalsson, tornando alla sua
espressione consuetamente cordiale. "...Gradisce qualcosa di
più
forte da bere, Nalsson?"
Senza
dire nulla, l'altro si voltò ad appoggiare il bicchiere
vuoto.
"Certamente, la seguo."
Elle
lanciò un'occhiata a Nalsson, per poi tornare nervosamente
alo
schermo del cellulare. "Siate
civili." Si
allontanò in un paio di passi veloci, guadagnando l'uscita.
Steve
si voltò verso Nari, aprendo appena le braccia. "Teme che io
voglia infilarti nel frigo-bar." Commentò solo. L'altro, a
fianco, sogghignò appena.
"Ma,
non ce n'è bisogno, giusto?" Commentò Rogers,
voltandosi
appena nella sua direzione, un sopracciglio alzato in modo da
risultare vagamente minaccioso, così come il tono della sua
voce. Nalsson ghignò. "Mi ritengo un uomo impegnato,
e comunque la signorina Selvig è fuori dal mio interesse
sentimentale."
"Bene..."
Steve sorrise appena. "Allora andiamo." Gli fece un cenno,
mentre avanzavano verso l'affollato bancone dell'open bar.
~
"Jimmy,
se non rispondo è perchè-"
"Elle, stai
zitta un secondo e
ascolta." James rispose con tono secco. Elle rimase in silenzio,
ammutolita, appoggiata al corrimano delle scale di marmo chiaro.
Annuì, anche sapendo che lui non poteva vederla.
"Tua
madre era Annette Selvig? Occhi azzurri, capelli
chiarissimi,
lavorava in Svezia come genetista negli anni novanta?"
Elle
assentì appena, mentre James riprendeva fiato. "Era
dell'Hydra?"
"Si."
Rispose solo Elle, istintivamente. Come se fosse un fatto ovvio, ed
allo stesso tempo qualcosa con la quale il suo subconscio non aveva
ancora fatto i conti. Un semplice dato.
Dall'altro
capo della trasmissione, arrivò solo un sospiro.
"Allora,
io la conoscevo."
La
svedese rimase un attimo immobile, una mano appoggiata sul corrimano
gelido, guardando le vene blu correre sul suo braccio e mischiarsi
con le venature rosate del marmo sotto la sua pelle. Avrebbe voluto
sparire contro quella superfice gelida. Invece rimase semplicemente
immobile, l'orecchio teso contro il respiro congestionato dell'altro.
"Io mi ricordo di tua madre."
"Ok."
"Elle,
penso che tu possa essere in pericolo."
Lei
rimase ancora in silenzio.
"Lei
lavorava per l'Hydra, e c'è solo un motivo per la quale
avrebbe
creato te."
La
svedese scivolò verso il basso, sedendosi sulla scalinata,
stringendosi tra le braccia, il viso quasi inespressivo, la mente che
si stava allagando di panico, un dolore gelido e solo uno scoglio di
lucidità. Quella pellicola di stabilità che aveva
retto alla
presenza impalpabile di Rumlow intorno a lei, che aveva subito un
danno quasi irreversibile a Denali, ma che ancora la stava mantenendo
obiettiva in mezzo a tutto quel caos che la stava inglobando.
"Potresti
essere in pericolo. Potresti essere il pericolo." James
riattirò
la sua attenzione.
Elle
annuì appena, come se la situazione non la interessasse, tra
sé e
sé. "Non posso dire di non averci pensato, negli ultimi
mesi."
Sentiva
il calore defluire dalla sua pelle, mentre sfregava la mano libera
contro il tessuto troppo costoso di quel vestito troppo formale.
"Devi
allontanarti da Rogers." Affermò appena l'altro. "E da
tutti gli altri."
Anche
questo era scontato. Se era veramente un essere creato a tavolino, se
davvero era una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, allora il
minimo che potesse fare era allontanarsi da tutti coloro che avrebbe
potuto ferire.
"Avrei
voluto qualcosa di diverso."
"Credi
che per me non sia lo stesso?" Ribattè schiettamente James.
"Dove
posso andare?" Chiese con un filo di voce la svedese.
"Dobbiamo
trovarli, prima che loro trovino noi."
Non
c'era molto da obiettare a quell'affermazione. Elle scosse il capo,
appoggiando la fronte al marmo freddo del corrimano.
"Andarmene
non sarà difficile. Domani partiranno tutti. Il difficile
sarà
trovarli." Commentò solo, guardando la punta delle sue
scarpe.
"Il
difficile-" Ribattè James "-sarà decidere cosa
fare
una volta che li avremo trovati. Loro sanno esattamente cosa
farne di noi."
Elle
sentì chiaramente che l'altro era rabbrividito. Ricordare
doveva
essere un incubo senza fine. Ma non ricordare la faceva sentire
sporca, pericolosa, instabile; anche mentre stava accasciata su una
scala di un palazzo sconosciuto, il respiro accellerato come prima di
doversi gettare in un baratro.
"Domani,
a casa mia, alle nove." Commentò solo. "Posso chiamare
qualcuno che ci possa aiutare."
James
scoppiò in una risata rassegnata. "Dubito che qualcuno ci
possa
aiutare."
Elle
chiuse la chiamata con un gesto rassegnato, lasciando cadere il
telefono sullo scalino, accanto a lei. Prese un respiro profondo,
passandosi le dita tra i capelli, gli occhi serrati.
Era
stufa di tutto quel rumore, di tutta quella gente. Ma sarebbe partita
entro poche ore.
Quindi
si alzò, sistemandosi il vestito, e tornando nella sala
principale,
cercando la persona con la quale avrebbe voluto passare gli ultimi
momenti della sua vita.
Ma
prima, doveva fare una telefonata.
~
Cominciò
a infilare in un borsone ogni cosa che aveva conquistato nelle sue
ultime settimane, quelle coscienti, quelle dove era stato finalmente
libero.
Aveva
senso per lui, ora, impacchettare quei pochi oggetti che possedeva,
che aveva ottenuto attraversando gli stadi del dolore, della paura,
della colpa, per andare a cercare coloro che lo avevano reso
ciò che
odiava.
Aveva
senso andare incontro, senza guardarsi indietro, a una cricca di
assassini, di politicanti e scienziati uniti solo da un'ideale di
odio.
Era
lo stesso proposito che lo aveva spinto ad arruolarsi, quando ancora
era Bucky, il giovanotto di Brooklyn, quello
spaccone ed
irriverente, allo stesso tempo così igenuo
e puro. Puro come
il suo Steve, quel ragazzino che ricordava appena, ma al quale
ricordo si ancorava nelle notti più buie. I due avevano
fatto la
stessa scelta, cinquant'anni prima, avevano preso una decisione non
per loro stessi, ma per un ideale più alto, la giustizia.
Ma
era ancora quella persona? Quel fascio di muscoli e irrequietudine,
quel giovanotto sfacciato che non temeva il mondo?
O
era il Bucky che si era diretto senza remore a Lagos, in cerca di
nulla più che una truculenta e probabilmente suicidiaria vendetta
contro coloro che erano solo mercenari, persone che probabilmente
avevano convertito volontariamente la loro vita alla violenza, ma in
base a chissà quali bisogni. Materiali, come una famiglia.
Profondi,
come un ideale. Qualcosa alla quale appigliarsi, bisogni che lo
avevano accompagnato nei rari periodi di veglia, quando il sonno non
era indotto da farmaci e poteva attardarsi a vedere le stelle, e
cercare di ricordare se erano le stesse che avrebbe potuto vedere il
Bucky di Brooklyn, se c'era ancora un uomo
all'interno di quel
corpo freddo.
Continuava
a rimaneggiare gli oggetti, inserendoli ed estraendoli in un vecchio
borsone, sotto lo sguardo attento di Valentina. Soppesando ogni
oggetto, considerando quante possibilità future potevano
esserci di
averne bisogno.
Quaderni,
fitti di una calligrafia minuta e precisa e di ritagli di giornale.
Una confezione di barbiturici. Un paio di magliette. La felpa azzurra
che Elle gli aveva lasciato a Lagos. Piccoli oggetti, piccoli
tasselli alla quale dava un enorme significato perchè lo
aiutavano a
capire chi era, e perchè stava cercando quelle persone.
Non
per lui. Non per vendetta, o per chissà che idea malata di
contrappasso. Semplicemente, perchè lui aveva visto altri
uomini,
altre donne, alcuni ancora bambini, sottoposti ad esperimenti e a
vite inumane, robotiche. Aveva visto altri ridotti allo stato dalla
quale lui cercava con tanta prepotenza di uscire. Ma aveva visto
umanità anche nelle persone che aveva sempre considerato i
suoi
aguzzini.
Aveva
fatto un passo indietro, tra le mura di quella piccola, spoglia ma
accogliente casa che era stata il suo rifugio e il suo ambiente
controllato, prima di poter tornare nel mondo da uomo libero.
Aveva
visto i due lati della medaglia, ed aveva capito perchè
l'Hydra
andava fermata. Perchè quelle persone andavano trovate, e
possibilmente debellate. Non per odio, ma per servire e proteggere
gli altri, coloro che erano stati o erano ancora vittime incapaci di
opporsi a tutta quella violenza.
Voleva
fare quello che avrebbe fatto qualsiasi uomo giusto.
Voleva
fare quello che avrebbe fatto Steve.
"Potrei
esservi utile."
Si
riscosse improvvisamente dai suoi pensieri, buttando l'ennesimo
cambio di vestiti nella borsa.
"Non
sei addestrata, e non posso pensare alla tua sicurezza."
Valentina
mise le mani sui fianchi, assumendo una posa irata.
"Non
devo per forza venire a pestare i cattivi. Posso
seguirvi da
lontano. Fare il palo."
L'occhiata
incredula uscì a James dal profondo, mentre una parte della
sua
mente si godeva il piacere della sua stessa reazione spontanea. "Non
saresti in grado di notare un caccia da guerra nemmeno se passasse
nel vicolo tra la scala anti incendio e la casa di fronte."
I
due rimasero un attimo in silenzio, prima di scoppiare a ridere.
"Perchè
questo improvviso desiderio di partire?" Chiese lui, ritornando
a guardare le sue cose appoggiate sul divano. Val si
allontanò,
verso la cucina, tenendo le loro tazze vuote fra le mani.
Rimase
un secondo immobile, davanti ai mobiletti dal colore improbabile,
prima di appoggiarle nel secchiaio con un sospiro. "Non sei
l'unico, forse, ad essersi rifugiato qui dentro."
Si
strinse nelle spalle. "Pensavo che mi sarebbe andata bene
questa vita, nonostante il fallimento della mia carriera e il fatto
che il mio futuro è fatto di turni alla cassa di un
supermercato..."
"E'
sempre una vita..." James si passò una mano sul viso, per
allontanare i capelli dagli occhi. Erano decisamente troppo lunghi.
"...Potrebbero sempre capitarti altre occasioni in futuro."
"L'unica
cosa inusuale che mi è capitata negli ultimi due anni sei
stato tu."
Commentò solo Val, senza voltarsi. "Non avevo più
fiducia...
Mi ero dimenticata per cosa avevo studiato, e lavorato. Iniziavo a
sentirmi senza scopo."
"Sei
una persona brillante."
Val
alzò appena la testa, guardandosi attorno. "Non qui. Qui sono
senza scopo. Senza un futuro, senza progetti." Gli lanciò
un'occhiata seria. "Non verrei per te. Sappilo. E tantomento per
Selvig."
Si
guardò intorno, respirando l'aria tra quelle pareti sottili
e
dipinte malamente. "Verrei per me, e per me soltanto."
~
Entrò
dalle porte a vetri senza nemmeno degnare i clienti di uno sguardo.
L'uniforme infagottata sotto al braccio, e i capelli scuri incastrati
sotto ad un paio di grossi occhiali da sole.
Dietro
di lei, un uomo alto e piuttosto massicco si guardava attorno,
ripiegando le maniche della felpa rossa in modo nervoso, la barba
leggermente sfatta ed i capelli troppo lunghi tenuti dietro alle
orecchie.
La
donna si avviò verso le casse centrali, guardando un aria
divertita
tutte le colleghe che si voltavano a salutarla, per poi scrutare con
aria curiosa l'uomo che la seguiva.
Val
arrivò al desk, dove un signore piuttosto calvo si
voltò a fissarla
con aria scontenta, tenendo la cornetta incastrata tra il viso e la
spalla. Annuì appena, arricciando le labbra in una smorfia.
"Devi
aspettare." Commentò solo al cenno della mora. Val fece un
ghigno, afferrando il fagotto della divisa e lasciandoglielo cadere
davanti, sopra ad una pila di documenti, che iniziarono a cadere a
terra, svolazzando.
"Cosa-"
"Mi
licenzio." Disse solo la donna. Girò su sé
stessa, afferrando
un cappello da baseball da uno stand vicino al muro. Fece un cenno
alla gente, mentre il capo la guardava sconvolto, iniziando ad
imprecare. "Dovevi dare tre settimane di preavviso!"
Val
si voltò appena, mostrandogli il dito medio. Con l'altra
mano, calcò
il beretto sopra alla testa di James, che la guardava confuso.
"Addio!"
Imboccò
le porte a vetri senza guardarsi indietro, prendendo un'ampio
respiro, come se fosse rimasta in apnea per tanto tempo.
"Scusatela..."
Borbottò James, vagando con lo sguardo fra i volti senza
parole
degli oramai ex colleghi di Val. "...Penso sia agitata e-"
"JAMES!"
~
Passò
il pollice sullo scanner biometrico, entrando nella struttura, per la
maggior parte ancora una massa di cemento a formare quelle che poi
sarebbero state pareti, e stanze, e forse una casa sicura per tutti
loro.
Già
vedeva Wanda finalmente in una stanza, con tutti gli oggetti che
normalmente popolavano gli spazi delle persone della sua
età, con
fotografie, poster e cuscini colorati.
Poteva
immaginare Samuel disteso a guardare la partita in un ampio divano,
in quello spazio vuoto che gli stava davanti, mentre l'amico lanciava
contro Natasha noccioline che la rossa parava prontamente tra le
dita, con uno dei suoi rari sorrisi rilassati.
Voleva
vedersi in un posto che Stark avrebbe reso lussuoso per
nessuna
ragione se non perchè era il suo modo di
dimostrare loro che ci
teneva. Erano quasi una famiglia, e la convivenza era proseguita
piuttosto bene, anche nella fredda base operativa, finchè
non si
era cominciato a parlare degli accordi.
L'idea
degli appartamenti separati era venuta a Stark ed a Rogers, quando
Wanda ancora si svegliava urlando il nome di suo fratello nel pieno
della notte, ed intorno a lei trovava una anonima stanza di quattro
metri per quattro, con mobili spartani e senza nessuna figura
rasicurante o che le ricordasse chi era. Steve e Tony capivano bene
quella situazione. Entrambi erano avvezzi alle sveglie notturne.
C'erano
degli scatoloni, sparsi in giro, e la maggior parte delle stanze era
ricoperta di mobilio da motare, ancora imballato. C'erano a malapena
dei materassi ancora nella loro plastica contenitiva, e si vedeva
nell'ampio spazio comune un abbozzo della cucina.
"Sembra
che si debba trasferire Una scatenata Dozzina."
Commentò
Elle, ridacchiando.
Quando
erano scesi dal Taxi, erano sollevati di essersene andati da quella
festa fatta solo per mostrarsi umani al resto del
mondo. Ma
ora, da soli, dopo essersi congedati dalle occhiate maliziose di
Natasha e dallo sguardo gongolante di Stark, i due erano liberi di
comportarsi come meglio preferivano.
Elle
si tolse con una smorfia le scarpe, mentre Steve si guardava ancora
intorno meravigliato, accendendo uno ad uno i fari da lavoro rimasti
a terra, pronti ad illuminare il cantiere il giorno successivo.
Lui
prese un ampio respiro, sentendo odore di nuovo nell'aria. Era
frizzante, nonostante il freddo non avesse ancora lasciato del tutto
posto alla primavera. Elle si strinse appena nella giacca,
guardandolo dolcemente mentre lui studiava ogni particolare di quella
che, probabilmente, sarebbe stata la nuova casa del suo compagno. La
casa della sua squadra.
Ed,
all'occorrenza, avrebbe sempre potuto tornare a Forest Quenns per una
notte. Le chiavi gliele aveva lasciate, e con quelle anche un
sottointeso invito a far parte della sua vita nella misura che gli
sarebbe riuscita più congeniale.
La
vita del soldato è dura, e nessuno lo sapeva più
di Elle che, da
quando aveva memoria, aveva saputo fare quasi solo quello. Non
sentiva il peso delle catene invisibili che di solito legano due
normali persone che iniziano una relazione. Sentiva, e sapeva che la
sensazione era ricambiata, che Casa sarebbe stata
solo dove
sarebbero potuti stare insieme, per poche ore o per anni.
La
distanza, per chi vede il mondo come straordinariamente piccolo, ed
il tempo, per chi vede gli anni correre alla velocità della
luce,
non diventano prioritari.
Steve
si voltò, ridandole attenzione dopo il suo momento
contemplativo.
"Stark si è dato da fare."
Elle
annuì, passando una mano sulla parete ancora di crudo
cemento. "Tra
il quartier generale e questo-" Indicò tutta la stanza con
un
cenno del mento."-Non capisco come faccia a dormire. E
mangiare."
"Stark
non segue i ritmi dei comuni esseri umani." Steve estrasse il
papillon dalla tasca, dove era finito appena aveva messo piede fuori
dall'ambasciata, e lo fissò un attimo, ricordando il loro
scambio.
"Stark è una cosa a sé stante."
Elle
iniziò a vagare, scalza, incurante dei vetri e delle viti
ancora a
terra. Aveva un aspetto curioso, lo sguardo rassegnato e l'aria
imperscrutabile, quasi eterea. Era come se non si stesse più
curando
di quanto sembrasse evanescente, un'ombra impalpabile che vagava per
il cantiere grigio.
"Selvig..."
La chiamò appena la vide sparire dietro un angolo, quasi
angosciato
di non riuscire a trovarla nel buio. L'altra si era mollemente seduta
su una poltrona, ancora avvolta nel cellophane, il capo reclinato
oltre il bracciolo e le gambe che dondolavano dall'altro lato.
Si
avvicinò lentamente, mentre Elle non dava segno di averlo
sentito,
gli occhi ancora chiusi ed i capelli appoggiati su una spalla per non
toccare il pavimento.
Si
inginocchiò lentamente davanti alla poltrona, senza avere il
coraggio di sfiorarla.
"Tu
ti senti umano?" Chiese lentamente lei, senza muovere nulla se
non le labbra pallide.
"Respiro."
Commentò semplicemente lui. "E penso. E provo sentimenti, e
bisogni."
"Come
riesci a mettere ciò che è giusto di fronte a
tutto questo?"
Commentò appena lei, le ciglia ancora abbassate sugli occhi.
"Neghi
il tuo essere umano."
Lui
alzò appena una mano, scostandole i capelli dietro
all'orecchio,
l'altra mano che le accarezzava un ginocchio. "Non sempre."
Disse solo, abbassando lo sguardo dalla figura della donna, le dita
che restavano appoggiate sulla sua tempia fredda.
Elle
si alzò sul busto, passandogli le braccia attorno al collo,
abbracciandolo in modo da tirarsi il suo capo in grembo. "Steven
Rogers..." Sussurrò appena, stringendolo delicatamente. "Sei
l'essere, umano o non umano, più buono che io abbia mai
incontrato."
Lui
alzò appena il viso, gli occhi appena socchiusi e la
mascella
rilassata. Elle si piegò leggermente, appoggiando le sue
labbra
contro quelle dell'altro, con delicatezza. Improvvisamente, lui la
tirò contro di sé, mentre Elle affondava le
unghie contro la sua
giacca.
La
lasciò appena un secondo, aprendo le braccia, mentre lei
sfilava
velocemente l'indumento, lasciandolo cadere a terra. Poi
tornò a
stringerla, un braccio che passava sotto alle ginocchia, mentre le
dita di lei correvano al colletto della camicia, le labbra che non si
staccavano se non per qualche sospiro poco elegante.
Lui
passò la mano libera sulla sua schiena, più e
più volte,
scostandole i capelli dal collo pallido, guardando con sguardo quasi
curioso la donna che si irrigidiva, gli occhi ancora chiusi, le dita
che giocavano con l'asola del primo bottone, mentre rispondeva il
modo quasi distratto al bacio. Si allontanò appena,
separando le
loro labbra, sentendola respiare contro la sua pelle.
L'indomani
sarebbe partito. E non sapeva quando sarebbe tornato. Non sapeva se
sarebbe tornato, nel peggiore dei casi.
Elle
lo accarezzava sul viso e sul collo, in punta di dita, come se
temesse di poterlo ferire con il solo tocco, sentendo i muscoli
tendersi sotto al suo tocco. Le sue labbra sfioravano la linea della
mascella con lentezza, sentendo il leggero ispido della pelle. Era
meraviglioso, ed esasperante.
Affondò
il viso contro la clavicola della giovane, che emise un mugugno
sorpreso, mentre stringeva qualsiasi cosa riuscisse a raggiungere con
le braccia sottili, infilando le dita tra i suoi capelli.
La
tirò contro di sé con un gesto quasi rude,
stringendola contro il
petto. Elle rimase appoggiata alla sua spalla, gli occhi che lo
guardavano senza nessuna malizia, semplicemente scrutando quel blu
senza fondo. Era completamente soggiogato a quello sguardo,
così
come lei non riusciva a distogliere il suo.
Elle
rimase immobile, completamente abbandonata alla situazione.
Era
lei quella con più esperienza. Pensò appena a
Carter, o alle donne
con le quali Capt era uscito, e si chiese se avevano mai provato
quello che stava provando lei in quel momento.
Non
sapeva quando, e dove, fermarsi. Voleva avere tutto ciò che
poteva
avere, e dare tutto ciò che poteva dare. L'altro la
stringeva, quasi
cullandola, immerso anch'egli nei suoi pensieri, gli occhi che
sembravano sondarla fino a poter contare tutti i demoni della sua
anima. Si sentiva vuota, senza più nulla da dire che l'altro
non
potesse già sapere. Era allo stesso tempo estremamente
felice ed
estremamente insoddisfatta.
L'altro
la guardò, persa nei suoi pensieri.
"Insegnami."
Esclamò lui, improvvisamente. Elle scosse appena il capo.
"Come?"
"Mostrami
come fare..." Sorrise appena, e se non fossero stati in penombra
Elle avrebbe potuto giurare di vederlo leggermente più
rosso. Ma non
distoglieva gli occhi dai suoi.
"Steve,
non dobbiamo per forza-"
L'uomo
si alzò, tenendola ancora saldamente tra le braccia.
"Fidati."
Disse solo lui.
Elle
annuì appena, la sua forza di volontà che si
infrangeva contro ciò
che l'istinto le urlava da mesi. Lentamente, percorsero il breve
tratto tra la poltrona e il materasso, ancora avvolto nel cellophane,
scendendo lentamente a sdraiarsi sulla superficie fredda. Elle si
stringeva ancora alle sue spalle, cercando conferma in quegli occhi
così scuri. Lui rimase a fissarla negli occhi, mentre lei
sbottonava
la camicia candida, passandogli lentamente le mani sul petto.
Sfilò
lentamente la cintura, lanciandola alla cieca. "Non mi lascerai
scivolare lontano da te?" Esclamò appena la svedese, alzando
lo
sguardo su di lui. L'uomo annuì, mentre toglieva la camicia.
Elle si
alzò appena sul busto, dandogli le spalle. L'altro si
avvicinò,
prendendo tra le dita la zip del vestito, scostandole i capelli con
la mano. "Il nostro tempo non sta finendo." Proseguì lui,
prima di abbassare la cerniera. Ricordò la prima volta che
avevano
dormito insieme, mentre scostava con entrambe le mani le spalline,
facendo scivolare il vestito lungo la sua schiena. Elle si
voltò di
nuovo, sfilando del tutto l'indumento e facendogli fare la stessa
fine della camicia.
Lo
strinse contro di sé, mentre lentamente sprofondavano l'una
nell'altro, sentendo dentro le ossa la fretta della partenza, la
consapevolezza che quella sarebbe potuta essere la prima e l'ultima
volta che potevano godersi il privilegio di stringersi l'un l'altra
senza dover temere il mondo esterno.
~
"Quindi,
è ora."
"Già..."
Elle
abbassò appena il capo, stringendosi nell'impermeabile
chiaro, lo
sguardo basso. Steve rimase immobile davanti a lei, il viso
leggermente arrossato, gli occhi che vagavano tra la piccola figura
davanti a lui e la casa in legno scuro che stava dietro di lei.
Il
sole stava appena sorgendo, illuminando pallidamente la scena.
Natasha aveva abbracciato brevemente l'amica, guardandola con aria
maliziosa. Elle aveva alzato gli occhi al cielo, ma dietro la schiena
di Steve, mentre l'alto caricava il borsone nell'auto, aveva alzato
entrambi i pollici, ridendo della risata trattenuta della russa.
"Stai
attento." Disse, guardandolo con una mano a parare gli occhi dal
sole. Lui annuì.
"Anche
tu, non fare troppe cose mortali mentre non sono nei paraggi."
Elle
avrebbe voluto scoppiare a ridere, invece rimase quasi impassibile.
"Non posso prometterti nulla..."
Lui
rise, voltando il capo. Elle cercò di mantenersi
impassibile.
Lui
non sapeva che pobabilmente era l'ultima volta che si sarebbero
visti.
"Ti
chiamo appena posso."
Elle
si riscosse. "Non metterti nei guai, per chiamarmi."
Immaginò
l'uomo in mezzo ad una base nemica, mentre faceva il suo numero
parando proiettili con lo scudo. Ebbe un singulto.
"Dobbiamo
andare." Lo richiamò Nat. L'uomo fece un passo avanti,
lasciandole un bacio sulla fronte. Elle sospirò.
Aveva
guardato la macchina dirigersi lungo la strada, rimanendo con le mani
sprofondate nelle tasche e lo sguardo vacuo. Poi era andata,
mestamente, a preparare il suo bagaglio.
~
Alle
nove precise del mattino di quella giornata di fine Aprile, in una
via traversa di Forest Queens, dietro uno degli imponenti condomini
ad alveare che circondavano le case più vecchie, due donne
intente a
fare jogging iniziarono a fissarsi preoccupate, indicandosi a vicenda
una datata berlina rossa. Dentro stava una ragazza, addormentata con
la bocca spalancata e il viso schiacciato contro il finestrino mezzo
abbassato.
Un
uomo con una felpa leggermente usurata ed un solo guanto stava in
piedi, appoggiato al cofano, lo sguardo grigio coperto da un berretto
da baseball e l'aria di chi non ha dormito nemmeno un'ora in tutta
una vita.
Elle
mise il pesante borsone nel baule, svegliando Val di soprassalto. La
mora si spostò a fatica nei sedili posteriori, mentre Elle
occupava
il suo posto in silenzio. James fece lo stesso al posto di guida,
guardandola mestamente.
"E'
ora."
Elle
osservò il cellulare, che teneva in mano, il dito pronto a
spegnere
l'apparecchio. Avrebbe sovuto lanciare il telefono in qualche fiume,
ma aveva ancora qualche miglia prima di potersene disfare. Guardava
lo schermo senza apparente emozione. James non disse nulla,
immettendosi nella strada.
"Mi
dispiace." Esclamò solo, rompendo il silenzio. "Che sia
successo a te."
Elle
sorrise appena. "Sono quelle le cose che non puoi scegliere, no?
I genitori ed i figli."
James
non fece in tempo a ribattere che il telefono cominciò a
squillare,
CASA scritto in maiuscoletto sullo schermo. La
svedese rispose
subito, sentendo una serie di urla.
"Torniamo
indietro!" Urlò, prendendo il volante dalle mani di James.
Questi ebbe uno spasmo sorpreso, prima di assecondarla e dirigersi
verso casa di Elle a tutta velocità.
"Che
succede?" Chiese solo l'uomo. Elle estrasse la pistola dal
cruscotto.
"Sono a casa mia." Elle
inspirò profondamente, mentre James accellerava.
"Ho riconosciuto la sua voce."
xXx
Eccoci
qui! Allora, questo capitolo non è betato e non è
stato riletto poi così bene. A dire il vero, non ne sono
particolarmente soddisfatta, e mi riservo la possibilità di
modificare qualcosa in futuro. Ma tanto non sono mai convinta su niente
quindi non posso nemmeno lamentarmi!
Suggerimenti
e consigli sono ben accetti!
Come sempre vi invito a lasciare
anche solo un commento o un saluto o un "Ti prego smetti di scrivere!"
in area recensioni. E ringrazio tutte le recensitrici, le ragazze che
mi hanno scritto in privato, chi ha messo la storia tra e seguite e le
preferite e tutti coloro che mi dedicano un po' del loro tempo leggendo
questa storia. Grazie!
Vorrei potervi dire quando
pubblicherò il prossimo capitolo, ma purtroppo non lo so
nemmeno io. Quindi, restate sintonizzati. Cercherò di
scriverlo qui quanto prima!
Una stressatissima Slytherin_Eve
|
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Capitolo 26 *** 24. Condanna ***
Ciao a tutti!
E’ passato un anno dall’ultimo aggiornamento. Lo so.
Purtroppo gravi problemi di salute mi hanno impedito anche solo di pensare a continuare ad aggiornare. Mi dispiace tanto. Spero solo che qualcuno ancora si ricordi di questa storia. Perché mi sono ripromessa di finirla, ora.
Non so come scusarmi, come spiegarmi. Sappiate solo che mi sto curando, quindi spero di riuscire a portare a termine tutto. Purtroppo, anche se non siamo super eroi, spesso ci troviamo a fronteggiare sfide molto più grandi di noi, senza nessuna arma se non un po’ di amore e di speranza. Bisogna solo stringere i denti, e cercare di rimanere aggrappati a quanto realmente siamo, senza lasciarci trascinare dal dolore, sia fisico che mentale.
Sono Slytherin Eve, e questo capitolo non avrebbe mai visto la luce se non fosse stato per Giulietta Beccaccina e Delta 98, che non hanno mai smesso di credere che sarebbe stato possibile per me continuare, un giorno. Amiche che non mi hanno mai lasciato andare.
Ringrazio infinitamente per le dolcissime recensioni dell’ultimo capitolo camillaperrystyles, Yvanna97, Sissi04. Per i messaggi Janeisa e GiuliaDirectioner1D. Grazie a tutte, ragazze!
Atto Ventiquattresimo: Condanna
“The word’s a funeral, a room of ghosts
No hint of movement, no sign of pulse
Only an echo, just skin and bone.
They kick the chair, but we,
We help tie the rope.”
BRING ME THE ORIZON
Loretta si avvicinò alla porta, sentendo bussare energicamente. Elle era partita da meno di cinque minuti, avvisando che sarebbe arrivato qualcuno a controllare che entrambe stessero bene ed avessero quello di cui avevano bisogno. Entro poche ore.
“Salve…” Esclamò esitante, aprendo appena l’uscio, una mano che teneva la catenella di sicurezza della vecchia porta e l’altra che puliva strusciando sul grembiule azzurro. “Siete colleghi di Elle?”
I due uomini, vestiti di nero, con grossi stivali scuri, la guardarono con espressione indecifrabile. Uno dei due annuì. Loretta rimase un secondo in attesa, indecisa sul da farsi. D’altro canto, i colleghi di Elle non li conosceva, a parte Natasha e Steven.
“Siete fortunati…” Sorrise apertamente, le labbra scure stese in un’espressione materna. “Ho appena preparato il thè freddo.” Fece per scostare la catenella, sotto lo sguardo impassibile dei due. “Gli amici di Elle sono nostri amici. Siete stati così carini a passare!”
xxx
Elle entrò con un calcio alla porta in casa, accostandosi con le spalle al muro d’ingresso, le labbra pallide, strette in una smorfia terrorizzata, così come gli occhi enormemente sgranati che scorrevano oltre il muretto della cucina, quello che lei e Nat avevano tinteggiato insieme. Fece pochi passi avanti, sempre strusciando contro la parete. Si avvicinò con uno scatto al soggiorno, sentendo gli stivali scricchiolare su qualcosa di appiccicoso sul pavimento. Una grossa macchia di liquido copriva il legno vecchio, facendogli emettere un suono ancora più agghiacciante, che permeava nelle ossa e le faceva accapponare la pelle pallida. Piccole schegge di vetro coprivano tutto il pavimento, fino al tappeto chiaro davanti al divano. Delle fette di limone schiacciate, sporche, giacevano inermi in mezzo al tutto. Elle soffocò appena un urlo, sentendo il rumore del telefono che continuava a suonare occupato, penzolando dalla parete azzurrina. Una striscia di sangue, l’impronta di dita vermiglie, scendevano fino al pavimento.
La testa era spaccata a metà da un colpo, preciso, alla nuca. La camicia bianca non aveva altre chiazze del colore originale se non sui fianchi, ancora stretti dal grembiule. La posa della donna era innaturale, le gambe quasi semi piegate e il viso contro il pavimento, la schiena coperta di brillanti di vetro, che rilucevano pigramente nella luce della finestra.
Lo sparo che aveva sentito al telefono aveva fatto il suo lavoro, il proiettile incastrato esattamente sopra alla base dell’apparecchio telefonico, distruggendo la maggior parte dei tasti.
Elle si avvicinò appena, un conato di vomito spontaneo a vedere la sostanza celebrale della sua ormai mamma adottiva sparsa per il pavimento. Appoggiò appena due dita tremanti sul collo dell’altra, sentendo il freddo permearla. Il terrore l’aveva completamente avvolta, mentre sentiva ogni traccia di speranza abbandonare il suo corpo in uno spasmo.
Non riusciva a respirare. Si alzò appena, dondolando quasi sui talloni, la testa che le girava, la stanza quasi impalpabile attorno a lei.
Aveva visto tanti cadaveri nella sua vita. Ma quando si tratta di persone che aveva vissuto, che hanno dato una forma alla vaghezza dei suoi giorni, che avevano accolto il suo essere così flebilmente attaccata alla vita, che le avevano fatto dimenticare il sentimento di essere uno spreco di pelle, di spazio, di aria.
Quelle persone che l’avevano fatta sentire parte di qualcosa di più caldo, più grande, più importante. Di una famiglia.
Il suo cuore continuava a implorarla di cercare di svegliarla, di prendere l’anziana stesa ai suoi piedi per le spalle, di non dirle addio, di non smettere di toccare la pelle ancora tiepida, di non smettere di cercare la sua voce rassicurante. Non voleva dire addio. Non voleva vedere l’unica persona che l’avesse amata disinteressatamente, che l’aveva accolta nella sua famiglia, morire per lei.
Soffocò un sospiro, una lacrima che cadeva solitaria lungo la guancia pallidissima. Si alzò appena, sentendo il pavimento del piano superiore scricchiolare. Il terrore, una sensazione quasi nuova in tutta la sua prepotenza, svaniva quasi nel tremore delle sue mani. Si diresse con pochi passi alle scale. Non aveva armi. Non aveva nessuna divisa da super eroe. I capelli chiarissimi stretti in una coda che dondolava silenziosamente ad ogni suo movimento, i passi ovattati contro il tappeto.
Cercò di usare la sua mente, quella sua preziosa alleata, quei poteri che le stavano facendo perdere la sua identità ma che allo stesso tempo la stavano ridefinendo. Ora li odiava.
Se non avesse mai deciso di impiegarli, se non avesse mai deciso di esporsi, ora Loretta sarebbe stata in piedi, a versare del The in grossi bicchieri colorati, facendo smorfie divertite alle sue affermazioni ciniche. Cercando di curarla dalla sua amarezza, dal suo rancore, dalla sua freddezza.
Era una giornata calda per essere maggio. Molto calda. Ma Elle sentiva solo il gelo scendere nelle sue ossa mentre saliva lentamente le scale.
Sentiva qualcuno rovistare nelle stanze al piano superiore. Lanciò un’occhiata oltre il corrimano del piano superiore, vedendo due figure nella stanza di Natasha, lanciare oggetti dappertutto.
Il carillon preferito dalla sua migliore amica giaceva sull’uscio della sua porta, completamente spaccato, gli ingranaggi mischiati con pezzi della piccola ballerina in porcellana.
Scostò appena il capo verso la sua stanza, dall’altra parte del corridoio. Un paio di piccoli occhi scuri la guardavano terrorizzati, il piccolo naso appena schiacciato contro lo spiraglio della porta.
River aveva un’espressione terribile. Quella che nessun bambino dovrebbe mai avere. Gli occhi erano arrossati, le labbra tremanti, le guance bagnate. Elle annuì appena con il capo. Doveva smettere di piangere su Loretta, e salvare la nipote. Sua figlia.
Allungò appena la mano verso la porta della stanza di Natasha, facendola chiudere con un tonfo rumoroso. I due uomini iniziarono subito a sbatterci contro, cercando di aprirla, mentre la svedese correva con lo scatto più veloce che i suoi muscoli indolenziti dal terrore le permettevano.
Si chiuse la porta della sua stanza alle spalle, appoggiandoci contro le spalle, scendendo appena con la schiena, sentendo le ginocchia molle. River scoppiò subito in un pianto disperato, mentre Elle cercava con una mano di farla stare in silenzio, passandole l’altra libera tra i riccioli ribelli. La bambina era scioccata, scossa da terribili tremiti. Elle sentì i due uomini arrivare con ampie falcate davanti alla loro porta, iniziando a colpirla con pesanti colpi.
Era stremata, le ossa ormai ghiacciate dal terrore, tutto quel potere che le avevano sempre attribuito sembrava improvvisamente sparito.
Allungò la mano verso la cassettiera, cercando con le poche energie che sentiva ancora dentro di sé di attirarla verso di sé. Ma non si mosse nulla.
Prese River in braccio, lasciando la porta e facendo due passi veloci verso il letto. Spinse la bambina sotto, mentre la porta veniva aperta con uno schiocco, sbattendo contro il muro. Elle rimase piegata a terra, osservando il viso della figlia contratto dal terrore. Iniziarono a tirarla per le gambe, mentre cercava di scalciare come un’animale selvatico. Piantò le unghie nel pavimento di legno, sentendole cedere con un dolore accecante. Fece per allungare la mano verso la gola di uno degli uomini, gli occhi che si scurivano appena, l’elettricità che le permeava i polpastrelli insanguinati. L’uomo mollò la presa sulle sue gambe, portandosi entrambe le mani al viso, emettendo respiri strozzati. L’altro afferrò la sua maglia, facendole sbattere la testa a terra, il controllo che per un secondo aveva sul suo potere perso in un lancinante dolore alla nuca ed al collo.
“Non dovresti essere così cattivella, Selvig.” La voce che sentiva sembrò arrivare da molto lontano. Un uomo, elegantemente vestito, le braccia appena conserte sopra un’elegante completo scuro, alzò un lato delle labbra sottili. “Ho aspettato per così a lungo questo momento, cara Elle.”
Un’altra figura emerse dalle scale in una nuvola rossastra. “Lasciatela stare, subito.”
I capelli scuri vorticavano intorno al viso, gli occhi vermigli sgranati, che saettavano tra l’uomo e l’altra. Elle emise un sospiro strozzato. “Wanda…”
L’altra non fece in tempo a rispondere. Un dardo volò nella sua direzione, colpendola direttamente al collo. Si portò una mano alla ferita, lentamente, mentre sul viso si dipingeva un’espressione sconcertata.
“Avevo ragione a pensare che la tua amica sarebbe corsa in tuo aiuto. Due piccioni con una fava…”
“Lasciatela stare.” Ringhiò Elle, digrignando i denti.
“Mi spiace dire che non è stato poi così difficile isolarvi. Il mio intelletto superiore…” Commentò l’uomo, con un sorriso così normale da risultare agghiacciante. “…Rende tutto così noioso. Prevedibile.”
Wanda cadde a terra con un tonfo, gli occhi ancora socchiusi, le labbra serrate in una smorfia di dolore. L’altro la colpì con un piede, come si fa con un oggetto trovato a terra. “Patetico.”
Si voltò di nuovo verso Elle, estraendo un altro di quei piccoli dardi avvelenati.Lo guardò quasi con affetto. “Tetrodossina.”
Si avvicinò lentamente alla ragazza bionda, mentre questa arretrava lentamente, seduta ai piedi del letto sfatto, gli occhi che saettavano tra l’amica e l’uomo. “Basta una dose leggermente più alta di quella letale agli umani per rendervi così piacevolmente docili.”
Un calcio di uno dei due uomini di prima, quello che aveva cercato di soffocare, le fece mancare il fiato. Il capo, quello che aveva parlato, si piegò appena sulle gambe, conficcandole il dardo nel collo con un gesto veloce.
Lo spasmo arrivò quasi immediatamente, seguito da una sensazione di nausea, mentre tutto il suo corpo si tendeva con un dolore sordo, accecante. Sentiva una schiuma insapore uscirle dalle labbra serrate in una smorfia, mentre gli occhi si rovesciavano, incontrollabili.
L’uomo le sorrise appena, alzandosi. Si passò le mani sui pantaloni ben stirati, la piega ancora perfettamente inamidata, con sguardo soddisfatto.
“Prendetele ed andiamo.” Commentò solo.
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Si avvicinò alla casa con una virata veloce. Wanda era sparita, e Visione aveva ammesso con semplicità che era andata a controllare se Elle fosse già partita. Non aveva saputo dirgli dove, però.
Una fila di macchine scure costeggiavano il marciapiede accanto alla vecchia casa di legno scuro, attirando la sua attenzione. L’armatura scintillava nel cielo mattutino di maggio, mentre si avvicinava appena.
Vide un’altra macchina rossa ferma, dall’altro lato della strada. Il suo casco segnava la presenza di due parametri vitali, di cui uno particolarmente curioso. Vide appena le altre sei persone ferme nelle auto davanti a casa della Svedese, mentre si avvicinava incuriosito.
Improvvisamente vide due uomini trascinare Elle per entrambe le spalle, i piedi della donna che strisciavano per terra sull’asfalto. Sembrava priva di sensi.
Mosse il capo tra l’amica e la macchina poco lontano, dove la figura dai parametri curiosi emetteva segni di agitazione. Vide un uomo scendere dal posto anteriore, un cappellino premuto sulla testa, i capelli castani appena alle spalle, e una maglia da baseball con solo una manica arrotolata al gomito. L’uomo era molto muscoloso, con un’apparenza quasi familiare per il miliardario.
Tony Stark vide appena l’altro uomo, quello vestito elegantemente, trascinare Wanda fuori dalla casa semplicemente tenendola da sotto un braccio, il corpo anormalmente rigido.
Improvvisamente l’uomo urlò qualcosa, avvicinandosi con passo veloce alle macchine, e uno scintillio metallico attirò la sua attenzione. Bucky Barnes correva verso di loro.
Non esitò un secondo. Sapeva cosa doveva fare.
Scese a terra con un tonfo metallico. Con tre passi, gli era addosso.
Sarebbe stato un piacere finalmente catturare il Soldato d’Inverno.
Per non parlare di quanto avrebbe fatto impazzire il Capitano perché gli restituisse il favore.
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Un dolore accecante la fece svegliare, la pelle accapponata dal freddo gelido della stanza.
Era legata ad un letto, una serie di tubi che le uscivano dalle braccia, cavi attaccati a grossi monitor che non riusciva a mettere a fuoco, un grosso tubo vicino alla barella che sorreggeva diverse flebo.
Le girava la testa, impedendole di osservare qualcosa in quella stanza accecante senza provare una fortissima nausea. Un filo di bava le scendeva dalle labbra tumefatte, ma non riusciva a muovere le mani per asciugarsi il volto. Aveva gli occhi molto gonfi. I polsi erano trattenuti da pesanti legacci. Il freddo le entrava nella pelle attraverso la sottile camiciola da ospedale che le avevano messo, mentre era svenuta.
Un uomo entrò, un uomo familiare. Lo aveva già visto a Denali. Era Zemo. Ma dietro di lui, osservato dal primo arrivato con ammirazione, stava colui che l’aveva trafitta con il dardo.
“Bastardo…” Biascicò appena, vedendolo entrare, seguito da altri due uomini vestiti con completi militari neri. I due iniziarono a montare una pesante attrezzatura davanti al suo letto, mentre l’uomo le sorrideva, affabile. “Puoi chiamarmi Dottore.”
Elle iniziò ad agitarsi, cercando di divincolarsi dai legacci, sentendo ogni fibra del suo corpo tendersi dal dolore.
“Sei sotto una potente dose di Micotossine. Non morirai, e non dovrebbero causare danni permanenti…” Sorrise appena. “Ma la nausea dovrebbe impedirti di usare i tuoi poteri. O mi sbaglio?”
Elle lo guardò con odio, mentre l’uomo si avvicinava, accarezzandole con le dita pallide il braccio tartassato dai tubi. “No che non mi sbaglio.” Si rispose, sempre con tono affabile. Gli uomini si allontanarono appena da quella che sembrava una grossa telecamera, collegata ad un computer.
“Possiamo cominciare.” Commentò Zemo con voce decisa. Elle cercò di guardarsi attorno, mentre la spia verde si accendeva sul sistema di registrazione. “Il fascino della diretta.” Commentò appena il Dottore, sorridendo a tutti i presenti. Elle si agitò ancora. “Cosa vuoi da me, pazzo maniaco?!” Chiese, in preda al panico. “Dov’è Wanda?”
“Tua madre non avrebbe voluto che tu parlassi in questo modo, ma vedo che l’America ti ha insegnato a imprecare come uno scaricatore di porto, giovane Selvig.” Scosse appena il capo. “Annette sarebbe davvero delusa. La tua amica è ben sedata, non preoccuparti. Si sta facendo un… Un buon sonno ristoratore.”
Elle fece un verso isterico, continuando ad agitarsi tra i legacci, il viso pallido che scrutava attorno a sé, incapace di immaginare cosa le sarebbe successo. Doveva salvare Wanda. Doveva tornare a casa. River.
I polsi si macchiarono di sangue vermiglio, mentre continuava ad agitarli nei legacci, macchiando il lettino, il pavimento, il suo stesso abito. Il Dottore non fece un verso, osservandola con le sopracciglia corrugate e scuotendo le spalle. Si voltò verso la telecamera.
“Salve, Vendicatori. Sono un vostro vecchio ammiratore. Sono qui in pace, solo per raccontarvi una piccola storia. Non voglio che siate arrabbiati con me perché mi sono ripreso ciò che mi spetta di diritto.”
Elle scosse il capo, sentendo quelle parole e non riuscendo a trovarvi un senso. Vedeva la spia della telecamera accesa, immaginando i suoi amici, e soprattutto Steve, che osservavano quel video. Scosse il capo. “Non statelo a sentire!” Urlò appena. “Sto bene!”
L’uomo accanto a lei le tirò un colpò al viso, facendoglielo voltare dall’altro lato, un rivolo di sangue che colava dal labbro.
“Dominik…” Commentò seccato il Dottore, quasi guardandolo con rimprovero. “Non si trattano così le nostre giovani ospiti.” Estrasse una piccola pistola, mirando all’uomo e colpendolo dritto alla nuca. Elle emise un verso strozzato, vedendo l’uomo cadere a terra, gli occhi ancora sgranati in un’espressione di sorpresa. Il Dottore non sembrò farci caso, riponendo l’arma.
“Torniamo a noi.” Esclamò appena, sistemandosi i capelli scuri. Il viso, ora che Elle cercava di vederlo, era magro e pallido. Gli occhi erano verdi, acquosi. O forse era solo l’effetto delle droghe.
“Ho conosciuto Annette Selvig quasi trent’anni fa. Una donna fantastica, così piena di principi, di morale, di idee.” Sembrava quasi commosso dal suo racconto. “Eravamo in alto mare con il progetto di ingegneria genetica. Avevamo creato quasi una dozzina di soggetti errati, degli obbrobri della natura, davvero. Poi Annette è entrata nella nostra squadra, e ha progettato il soggetto supremo, quello che cercavamo da decenni. Non solo, ha utilizzato il suo stesso genoma, ma ha anche prelevato quello di un individuo altrettanto geniale.” Si voltò appena verso la ragazza. “Avevi le potenzialità per diventare una grande scienziata, Elle.” Rise della sua stessa battuta. “E’ uno spreco che tu ti sia data solo alla carriera militare, ma dopo tutto il lavoro fatto su di te e tutte le missioni alle quali hai adempiuto con successo, sarebbe stato strano il contrario. Ero davvero contrariato quando ci scivolasti tra le dita, dopo la morte di tua madre. La sua ultima azione fu un tradimento…” Scosse il capo, schioccando le labbra. “Un vero peccato.”
“Cosa…” Elle si sentiva sempre più confusa. “Cosa intendi?”
“Appena tu compisti sei anni, iniziasti il programma di allenamento degno della Red Room. Insieme con alcuni dei maggiori esperti del settore. L’Hydra si è presa molto a cuore la tua…” Sogghignò, cercando la parola giusta. “Istruzione.”
Elle ruggì di rabbia. “Tu menti!” Commentò, una vena di disperazione nella voce. Non voleva che i suoi amici la vedessero così, non voleva che sentissero quella storia, vera o falsa che fosse. Ma dentro di sé, sentiva che qualcosa quadrava, qualcosa in quel racconto stava riempiendo anni di ricordi frammentari e persi.
“Come pensi di essere sempre stata una così elegante combattente? Come pensi di aver imparato quell’istinto innato che ci rende l’ultimo livello della catena evolutiva? Tu sei un nuovo passo nell’evoluzione.”
Estrasse una foto, spiegazzata e vecchia. Una bambina, minuscola e spaventata, sedeva su una grossa sedia, dei magneti stretti alle orbite e un morso di cuoio fra i denti. La calligrafia di sua madre recitava, in modo telegrafico ma quasi ridicolo, come se stesse descrivendo la scena di un compleanno, ‘Elle, otto anni’.
“Sei stata programmata, ma tua madre ottenne di essere la sola a conoscere il codice. A tredici anni eri pronta, pronta per entrare in azione, sulla grande scacchiera geopolitica del mondo, per noi. Per l’Hydra.”
Elle scosse ancora il capo, lacrime brucianti che le scendevano sul viso ormai cereo, il sangue ormai secco che riprendeva colore a causa di quelle gocce salate.
“Ti abbiamo assegnato ad uno dei nostri migliori agenti, finché lo stesso, in un rimasuglio di umanità, non pensò che eri troppo piccola, troppo giovane per uccidere a mente fredda chiunque noi ti ordinassimo di eliminare. Fu riprogrammato, in modo che queste idee non potessero tornare di nuovo.
Tua madre procedeva ad eliminarti la memoria, continuando a farti uscire e rientrare dal tuo stato di soldato e facendoti tornare una normale ragazzina. Per fortuna, tuo padre se ne andò in tempo per permetterci di sfruttare il tuo talento per anni, senza mai nutrire sospetti… Non si è mai nemmeno avvicinato alla verità.”
La Svedese sentiva un gelo attanagliarle il busto, i polmoni, il cuore. Sentiva con assoluta precisione i suoi denti che stridevano tra loro. I polsi doloranti. Le mani insanguinate e appiccicose. Stava per collassare. Non aveva il coraggio di guardare verso gli uomini, o verso la telecamera di fronte a lei. I capelli erano appiccicati al viso sudato. Sentiva la gola riarsa, la vista che andava e tornava a scatti.
“Abbiamo rischiato di perderti a causa del Soldato. Avevi solo quindici anni quando siete scappati insieme. Ma dubito che tu possa ricordare.” L’uomo scosse il capo, quasi un padre annoiato dal ricordo dei capricci di una figlia adolescente.
Elle ricordava. Un uomo con una motocicletta. Ricordava la sensazione di libertà, lo zaino sulla schiena. Ricordava la presa ferrea contro la schiena di qualcuno, mentre la madre scendeva sulla strada, avvolta nel cappotto, urlandole di tornare subito in casa. Ricordava il freddo, la neve che cadeva nella grigia periferia di Uppsala, le strade vuote, il calore di qualcun altro mentre la stringeva premurosamente sotto il suo stesso cappotto, un profumo maschile, un ciuffo di capelli scuri fra le sue dita mente una voce bassa le diceva cose che lei non poteva sentire, a parte “Penso che siamo condannati.”. Lo sguardo dolce, spento, gli occhi grigi che la scrutavano con angoscia.
Non poteva credere alle parole dell’uomo. Anche se i suoi ricordi continuavano a vorticarle intorno, facendo le fusa al suono di quel racconto, confermandolo con silenziosa vergogna. Elle scosse il capo, terrorizzata, mentre strizzava gli occhi per far smettere quel filmato che girava in loop entro le sue palpebre serrate.
Cosa avrebbe pensato Steve? Sapendo che lei sapeva di James. Sapendo che lei sapeva di James molto più di lui, forse. Sapendo che erano fuggiti insieme. Sapendo che lei era un’agente dell’Hydra, la stessa organizzazione che aveva minacciato tutto ciò in cui credeva. Avrebbe pensato che lo aveva tradito? Avrebbe considerato tutto il suo lavoro una montatura?
“TI prego…” Biascicò appena, le labbra ormai pallide come la sua camicia ospedaliera candida. “Smettila.”
“Iniziamo a ricordare qualcosa, giovane Elle?” Sorrise appena il Dottore, avvicinandosi al suo viso con occhi curiosi. Elle scosse il capo, tremante.
“Quando tua madre decedette che era ora di smetterla con le missioni, eri ormai uno dei nostri migliori agenti sul campo. Non potevamo permetterglielo, capisci?”
Elle alzò appena il capo, cercando di trattenere una lacrima bollente, le braccia tese che le dolevano nei punti dove gli aghi perforavano la pelle e raggiungevano le sottili vene blu. Non voleva pensare…
“Bastò una dose poco più massiccia di radiazioni in laboratorio per costringerla nel suo sudario eterno. Ma…” Il Dottore schioccò le labbra in segno di disapprovazione. “Annette aveva cambiato il codice. Fu il suo ultimo, unico regalo per te.”
La madre, pallida e scheletrica, senza più nessuno dei suoi bellissimi capelli color platino, le labbra sottili strette in un sorriso dolorante. Elle, seduta al suo fianco, gli occhi ancora grandi e ingenui, che non lasciavano la punta dei suoi stivali alla caviglia, una grossa felpa nera dei Led Zeppelin, i capelli chiari stretti in una coda severa. Strusciava la mano libera, sudata, sui jeans strappati alle ginocchia.
La madre le sorrideva appena, gli occhi che cercavano quasi di rassicurarla, un braccio sottile che usciva da sotto le pesanti coperte, le mani strette in una piccola preghiera. Entrambe si scambiarono uno sguardo timido, prima di ritornare a fissare fuori dall’ampia finestra, la pioggia che bagnava i tetti della città.
“Ora che sai qualcosa, ora che i tuoi colleghi sanno chi sei, finalmente smetteranno di volerti nella loro cricca, e ci lasceranno in pace, figliola.” Commentò lui, sorridendo alla telecamera. “Ci lasceranno cercare di ripristinare questo legame a lungo dimenticato.” Elle emise un sospiro strozzato, cercando di liberarsi ancora, ed ancora. Agitò le gambe, cercando di fare leva per alzarsi. Zemo si avvicinò appena alla barella, ticchettando contro una delle flebo appese sopra di lei.
“Ora, Elle…” Il Dottore estrasse una piccola moneta dalla tasca. “Vorrei che tu sollevassi questa. Per me.”
Scosse il capo, i capelli ormai liberi e sparsi sul suo viso. Continuò a cercare di liberarsi, piantando le unghie nei pesanti legacci, le spalle scosse dalla nausea.
Una mano si avventò sul suo viso, afferrandole i capelli, tirando verso l’alto, costringendola ad alzare il mento in uno scatto doloroso.
“Lasciami… Subito… Andare…” Commentò appena, stringendo gli occhi in due fessure. Zemo sorrise appena, guardandola. “Perché, cosa pensi di poter fare?”
La moneta scattò dalla mano del dottore, schizzando nell’aria, invisibile. Trafisse il primo uomo nell’occhio, trapassandogli il cranio, mentre gocce rosse macchiavano l’aria. Passò attraverso la stanza, premendo nel petto del secondo uomo, all’altezza del cuore. Il terzo fu attraversato da un’orbita all’altra, una smorfia orribile che distorceva i lineamenti del viso. Elle urlò spaventata, mentre la moneta cadeva a terra, in una pozza di sangue. Zemo la guardò appena, mentre il Dottore sorrideva.
“Elle, Elle..” Scosse il capo. “Non era il caso di fare tutto questo caos.”
Si avvicinò alla giovane, colpendola con un manrovescio al viso.
“Ora devo farti capire che succede se non fai la brava ragazza.”
Si avvicinò ad un piccolo tavolo, sollevando un piccolo interruttore. Premette uno dei pulsanti, senza tradire uno sbuffo quasi divertito. Elle fece appena in tempo a sputare il grumo di sangue, prima che la scossa trafiggesse tutta la sua spina dorsale, le sue ossa. Costringendola ad inarcare la schiena, un urlo agghiacciante che le usciva dalla gola, con una voce quasi non sua. Tremava, l’elettricità che ancora contorceva il suo corpo, gli spasmi involontari che la facevano mugolare dal dolore, la gola ormai secca dalle sue urla. Potevano essere passati una decina di secondi, così come un intero quarto d’ora. I suoi pensieri erano sconnessi. Il suo corpo completamente avvolto dal dolore.
Doveva andarsene, correre, nascondersi. I suoi occhi fissavano il vuoto, mentre sentiva di perdere conoscenza, sparendo nel nulla del dolore.
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Steve emise un respiro strozzato.
Se fosse stato una persona diversa, sarebbe svenuto, avrebbe distolto lo sguardo, impedendosi di vedere quello spettacolo.
La pelle candida che la notte prima aveva accarezzato all’infinito, aveva baciato fino a farsi seccare le labbra, gli occhi che lo avevano guardato con amore, mentre si chiudevano lentamente, appagati e stanchi. La bocca che aveva cercato ancora, ed ancora, durante quelle poche ore che gli erano state concesse.
Elle era immobile, la pelle coperta di lividi e di sangue. Nello schermo, nitida e senza nessun filtro, la sua immagine non dava segni di respiro. Dopo le contorsioni, dopo i ricordi estratti a forza, dopo le urla. Era rimasto fino alla fine, al buio, a fissare quelle immagini raccapriccianti. Natasha, accanto a lui, si era portata le mani alle labbra, gli occhi improvvisamente arrossati. Erano tutti immobili. Stark aveva gli occhi totalmente sgranati. Sam aveva le labbra aperte in un’espressione confusa, scioccata. Maria era vicina al collasso, la bocca che tremava, la testa che continuava a voltarsi tra lui, gli altri e lo schermo. Come se non credesse che davvero tutti avessero appena visto lo stesso, sadico spettacolo. L’unica persona che avrebbe saputo attirare di nuovo la loro attenzione, l’unica che avrebbe emesso un verdetto d’azione e li avrebbe spinti fuori, a cercare di fermare quell’ecatombe, era dall’altra parte del vetro freddo.
Nessuno osava emettere un fiato.
La connessione si interruppe, lasciandoli nel buio della stanza. Senza emettere un suono, Steve si allontanò appena dal tavolo, alzandosi in piedi. Avanzò verso la porta, senza degnare di attenzione la voce spezzata di Stark che lo richiamava indietro.
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