Le peripezie di un Leo Valdez innamorato

di Mikirise
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo (O la metà della storia all'inizio della storia) ***
Capitolo 2: *** Parte I: Allineamento dei Pianeti. Fattore Cuore Spezzato (o Fattore Annabeth) ***
Capitolo 3: *** Fattore Noia (o Fattore Arte) ***
Capitolo 4: *** Fattore Parola (o Fattore Masochismo) ***
Capitolo 5: *** Parte II: Miracolo Concesso. Momento Ricerca (L'impermeabile da Stalker) ***
Capitolo 6: *** Momento Ritrovo (o Giardino dentro Casa) ***
Capitolo 7: *** Momento Conoscenza (o Harry Potter va Hunger Games) ***
Capitolo 8: *** Momento Cupido (o Pettegolezzi) ***
Capitolo 9: *** Momento Ristorante (o Richiesta) ***
Capitolo 10: *** Momento Racconto (o Nico) ***
Capitolo 11: *** Momento Paranoia (o Fuga) ***
Capitolo 12: *** Momento Tregua (o ***
Capitolo 13: *** Parte III: Periodo Nero. Ricerca (del Coraggio) ***
Capitolo 14: *** Ricerca (della Verità) ***
Capitolo 15: *** Ricerca (di un amico) ***
Capitolo 16: *** Ricerca (di conforto) ***
Capitolo 17: *** Ricerca (delle origini) ***
Capitolo 18: *** Parte IV: Ritorno (a noi) ***



Capitolo 1
*** Prologo (O la metà della storia all'inizio della storia) ***


Note:
Sapete quando arrivano delle persone nella vostra vita e vi raccontano storie incredibili?
Sapete quando alcune persone vi dicono che nell'amore non ci credono e voi avete per le mani storie del genere?
Sapere quando ti dedichi ad una sola storia perché vi sembra giusto così?
Questa è quel tipo di storia.



Le peripezie di un Leo Valdez innamorato

O di come perseverare, a volte, sia la scelta giusta



{Storia liberamente tratta da una storia raccontata alla mia piccola TommoTomateTomlinson , che l'ha raccontata a me e mi è sembrata così dolce da doverla adattare per poterla scrivere. E voglio solo far capire questo: è una storia vera -parzialmente-.}














“Come sta?”

“Sul divano a guardare Se mi lasci ti cancello.”

“Di nuovo?”

“Lui non è senza cuore.”

“Ma sempre Chione?”

“No, no. Chione è di mesi fa. Ti ricordi, no? Il suo compleanno.”

“Allora è quella ragazza… Cal… Camilla?”

“Calypso.”

“Ah. Cos'ha fatto?”

Percy arrivò in cucina con le ciotole blu vuote, alla ricerca di popcorn e coca-cola, la bocca piena di un panino al tonno. Guardò Hazel e Jason e alzò le spalle. “Ha iniziato a gridare contro Hermione perché doveva rendersi conto che Ron aveva una cotta per lei.”

“Non stava guardando quella cosa psichedelica…?”

“L'abbiamo finita tre ore fa, bro” sospirò il moro. “Siamo nella maratona di Harry Potter ora, e vorrei tanto che gli trovaste una ragazza, prima che decida di fare la maratona del Signore degli anelli.” Rabbrividì e Jason sorrise, tirandogli un pop-corn in faccia.

“Va bene.” Hazel si alzò dalla sua sedia, appoggiando i palmi delle mani sul tavolo. “È il mio turno, no? Ma prima dovete dirmi cos'è successo. Sei mesi in Canada e guarda come vi riducete.”

Jason e Percy alzarono le spalle. L'unico che sapeva cosa stava andando storto stava in salotto a inveire contro Emma Watson, che piangeva, in un vestito rosa, sulla base di una rampa di scale.









 

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Capitolo 2
*** Parte I: Allineamento dei Pianeti. Fattore Cuore Spezzato (o Fattore Annabeth) ***


Note:
Prima di leggere, vi voglio ringraziare per l'appoggio alla storia che mi date dando. Siete incredibili!

Aggiornerò spesso, visto che mi hanno fatto notare la brevità di alcuni capitoli, dipenderà tutto dai miei impegni scolastici, certo, ma penso di farcela.

Buona lettura!







Parte I: Allineamento del Sistema Solare





































I


Una delle cose di cui avrebbe incolpato Annabeth sarebbe stata questa: se Leo avesse visto in un altro momento Calypso, l'avrebbe trovata istantaneamente antipatica, col suo viso bellissimo da ex-ragazza più popolare della scuola. Se non l'avesse vista in quel momento particolare, se gli astri non si fossero allineati -e questo era dovuto ad Annabeth-, Leo avrebbe continuato la sua vita e sarebbe stato felice. Cavolo. Sarebbe stato felice. Fe-li-ce. Non so se ti è chiaro. È quando una persona saltella per i prati fioriti con un enorme sorriso sulle labbra e la voglia di abbracciare tutti. Cosa che, ovviamente, Leo non era.

Ma, certo, per poter continuare una storia la si deve iniziare. E questa storia inizia più o meno come dovrebbe iniziare ogni storia: con un ragazzo sdraiato sul divano della sua casa, condivisa con i suoi migliori amici, un cuore a pezzi, per così dire, e una voglia matta di nachos col formaggio. Perché Leo sarebbe potuto essere felice in un futuro, ma, al momento dell'allineamento planetario, non lo era. Non lo era per niente.

A dirla tutta, e a dirla breve, Leo Valdez stava guardando per l'ennesima volta le repliche della quinta stagione del Dottor Who, imprecando a denti stretti contro Amy Pond, perché tutte le donne sono uguali, Rory, girati cinque secondi e scappano la notte prima del loro matrimonio, col Dottore. Stronze.*

E non aveva niente contro il Dottore, perché, cavolo, non poteva avercela per tanto tempo con un uomo come Matt Smith, quindi si riguardava le puntate riuscendo a imprecare solo contro la rossa, mentre i suoi due coinquilini lo spiavano dalla cucina, bevendo frullati blu e mangiando patatine rustiche. Ma non era questo il punto.

Il punto era che Leo era triste. Che era stato lasciato. Che era stato lasciato brutalmente. Con un messaggio. Il giorno del suo compleanno. Vabbe', forse non proprio il giorno del suo compleanno. Forse mancavano ancora tre giorni al suo compleanno. Ma ciò non toglie che era stato lasciato. E che essere lasciati fa male. E che non dovresti ridere di Leo triste.

Il primo giorno di lutto, Jason e Percy, da bravi amici, avevano cercato di assecondarlo un po' in tutto, sedendosi sul divano a guardare Hunger Games con lui e mangiando pop-corn, per tirarlo su di morale. Avevano sopportato la furia di Leo contro Gale e Katniss in Catching Fire, per essersi baciati e il compianto -che sapeva tanto di piangersi addosso- di Peeta, personaggio in cui Leo sembrava rivedersi, nonostante il disappunto dei suoi due migliori amici putativi. Perché anche se erano solo putativi, come migliori amici, gli volevano più bene di qualunque altro loro amico.

Il secondo giorno Percy si stava già annoiando di quel piangersi addosso e, quando Leo gli aveva detto di sedersi accanto a lui per vedere la puntata di Robin Hood -quello della BBC- in cui Marion muore, aveva iniziato a borbottare qualcosa su dei pancake blu e sul fatto che, quando Annabeth Chase lo aveva lasciato, non aveva fatto tutte quelle storie -guadagnandosi un'occhiataccia da parte di Jason, che, diligentemente, stava preparando altri pop-corn. In effetti, Percy era un buon amico ed era una brava persona, ma non brillava né per tatto, né per pazienza. A Leo la cosa non sembrò disturbare. Stava parlando di quanto ipocrita fosse la BBC, visto che, nell'ottava stagione del Dottor Who, Marion era viva e vegeta. Anche troppo. Nessuna donna è così fedele.

E il terzo giorno era stato il giorno del Dottor Who. E il giorno in cui Jason avrebbe tanto voluto portare Leo fuori dalla loro casa per due motivi molto semplici: 1) Era il giorno del suo compleanno e nessuno può passare il giorno dei propri vent'anni a guardare il Dottor Who, per quanto stupenda la serie sia; 2) Leo iniziava a puzzare. Ma puzzare sul serio, di un misto di ascelle, lacrime e disperazione.

Eau de Leò, per uomini disperati.

Già s'immaginavano la pubblicità, con Bratt Pitt a fare un monologo sulla forza della natura e dell'uomo in sé.

Jason e Percy sapevano perfettamente di non sapere un fico secco sulle relazioni ragazzo-ragazza -motivo per cui erano entrambi single-, e ammettevano che, purtroppo, non avevano il minimo tatto sentimentale, o tatto empatico, o come volete chiamarlo. Erano completamente impreparati per la situazione che avevano davanti. Sapevano che necessitavano rinforzi. E sapevano a chi chiedere aiuto, purtroppo.

Secondo usi maschili dei nostri tempi, se un ragazzo vive con altri due ragazzi, vuol dire che quei due ragazzi sono probabilmente i suoi due migliori amici. E Leo accettava, a parole, quella convenzione. A parole.

Perchè c'era poi l'aspetto, come chiamarlo?, emotivo-barra-tematico e reale.

C'era stato un tempo, ad esempio, in cui la sua migliore amica era stata Piper McLean, figlia di un famoso attore in incognito -chissà se era quello il suo vero nome-, ma, col passare degli anni, sul punto di vista emotivo, sia Jason che Percy si erano resi conto che la sua migliore amica era diventata Hazel Levasque, una piccola ragazzina dagli occhi splendidamente dorati, che aveva la pazienza di ascoltare ogni sua lamentela, senza perdere la calma o il suo dolce, comprensivo sorriso. Per convenzione, però, la migliore amica putativa di Leo rimaneva Piper, che, eppure, a volte dimenticava il suo compito da amica per passare ad essere più la sorella-maggiore-che-mette-in-imbarazzo, per essere gentili nei suoi confronti.

La migliore amica è la ragazza -o il ragazzo, non siamo sessisti- con la quale -il quale- si parla di sentimenti ed emozioni e capelli per ore e ore e ore e ore. Il migliore amico, d'altro canto, è quello -quella- che ti tratta male, ti dá botte sulla spalla che ti fa male, che guarda le partite di calcio insieme a te e s'imbratta le mani di olio per aiutarti in uno stupido progetto che andrà a finire in mille pezzettini e polvere. Nel caso di Leo, ovviamente, si deve togliere la parte dello sport. Leo ha sempre fatto pena in qualsiasi tipo di sport.

Quindi, il suo migliore amico era…

Percy aveva supplicato con lo sguardo, ingrandendo i suoi occhi e mettendo su un leggero broncio, pur di non chiamare il migliore amico di Leo. Ma Jason era stato categorico e gli aveva messo il cellulare in mano, invitandolo con un solo gesto della testa a chiamarla.

Eh, sì. Perché il migliore amico di Leo era ovviamente Annabeth Chase, o l'Ex-che-sempre-torna-di-Percy. E non dire che non ci eri arrivato, perché era così ovvio.

“È perché siamo sfigati, Rory.” Leo continuava a parlare davanti alla tv, con la tv. Sarebbe stato comico, se soltanto non avesse avuto quell'aria miserevole. “Perché noi non abbiamo bicipiti e non giochiamo a football o pallanuoto. Ci tradiscono in continuazione.” Annabeth alzò gli occhi al cielo, afferrando per il colletto Leo e tirandolo lontano dallo schermo, che mostrava la scena di addio al celibato di Rory Williams. Il ragazzo, girando la testa verso la bionda, fece una smorfia annoiata, per poi chiedere, al limite della goffaggine e del ridicolo: “Perché le ragazze come te non escono mai con gli sfigati? Ti piace essere lasciata? Sei, tipo, masochista?”

Annabeth roteò nuovamente gli occhi, mentre Percy ricordava al coinquilino che non era stata lei ad essere lasciata, ma lui. Jason, semplicemente, prese a mangiare patatine rustiche, chiedendosi per quale motivo nessuno dei due -Annabeth e Percy- voleva prendersi la responsabilità di aver troncato quella storia. Sembrava, da come la raccontavano, che fosse stato un terzo a farla finire, così, dal nulla. Ma non era possibile, no?

“Insomma” continuò Leo, accarezzandosi il collo. “Prima Luke, poi Percy. Il prossimo chi è? Jason?”

La ragazza sospirò, sedendosi sul tappeto pieno di pop-corn e scansando con i piedi alcune lattine di Coca-Cola e Pepsi. “Oh, Leo. Percy è uno sfigato.”

“Ha parlato lei.” Percy continuava a gridare dalla cucina, senza avere però il coraggio di arrivare fino al salotto e gridare davanti ad Annabeth. Non parlavano molto, da quando si erano lasciati la quarta volta, in effetti. Il loro rapporto tira-e-molla era un po' un peso per Leo e Jason, che cercavano di tenerli lontani qualche mese, per poi farli riavvicinare. Se c'era una cosa chiara nella testa di Jason era che Percy e Annabeth erano fatti l'una per l'altro. Ma erano anche troppo giovani. Il tempismo e le situazioni in cui ci troviamo condizionano anche gli amori della nostra vita: il tempismo di quei due era stato sbagliato. E chissà se ci sarebbe stato un rimedio per tutto questo. Senza offesa, lui sperava ardentemente di no.

“A me lei piaceva perché è diversa. Sai, una ragazza sofisticata senza la puzza sotto il naso.” Percy questo non lo gridò, lo disse solo a Jason, che alzò un lato della bocca, annuendo.

Avrebbe lasciato cadere l'argomento. Non avrebbe lasciato che quei due si rimettessero insieme per la quinta volta solo per poi lasciarsi. E non poteva occuparsi di due coinquilini col cuore spezzato. Non ne aveva la capacità. Nè la voglia.

“Dobbiamo uscire” tagliò corto Annabeth, alzando dal divano Leo, dall'altra parte della casa. “È il tuo compleanno, non ricordi? La mostra al Centro! La Fiera delle Arti Moderne. Eri così felice di poterci andare.”

“Prima di scoprire che le donne mi detestano. E che Chione fa parte delle donne” si lamentò Leo, cercando di ributtarsi se non sul divano sul tappeto sporco. “Perché tu non mi odi?” chiese alla ragazza, che fece una smorfia annoiata. Leo non le diede molta importanza. “Ho deciso che diventerò gay!” Lo diceva almeno una volta al mese, ma amava troppo le ragazze per poter portare avanti la decisione. Nessuno lo prendeva mai sul serio. Beh, a parte Jason Grace.

“Ottima scelta, amico!” gridò dalla cucina il biondo, alzando una patatina verso il soffitto. “Stavo pensando di farti conoscere un ragazzo. Tempo tre mesi e starete viaggiando verso la Spagna per il vostro matrimonio! Ovviamente, il testimone sarei io, eh.”

La bionda lo fulminò con lo sguardo e lui chiuse la bocca, imbronciato. Poi, di nuovo, prese il messicano dal colletto e gli piegò un braccio dietro le scapole, spingendolo verso il bagno. “Ora basta Annabeth gentile.” Era lì da soli dieci minuti. Neanche lei era una tipa paziente. “Tu adesso esci con me. Perché me lo avevi promesso, perché c'è una parte della Fiera dedicata all'ingegneria e ci sono vecchi disegni di Leonardo da Vinci, perché stare così per una come Chione è eccessivo. E perché, mio piccolo dolce Leo, se non fai quello che dico io, sappiamo bene come andrà a finire.” Lo buttò dentro il bagno e lo guardò in cagnesco, facendogli cenno di voltarsi per andare a fare la doccia.

Leo provò a porre resistenza. Per un secondo più o meno. Ma la paura di Annabeth sembrò battere la tristezza di essere stato mollato. Chiuse la porta, girò i tacchi e in poco tempo si sentì l'acqua cadere nella doccia.

“Hai cinque minuti. Un vero uomo non perde tempo. Fammi aspettare anche solo un secondo di più e ti porto al centro di New York nudo. Mi hai capito Valdez? Nudo!”

Jason e Percy si guardarono.

Sì, decisamente, avevano chiamato la persona giusta.

Mercurio, Venere e la Terra erano perfettamente allineati col Sole, in quel momento. 

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Capitolo 3
*** Fattore Noia (o Fattore Arte) ***


Note:
Sono altamente consapevole del fatto che alcuni capitoli siano veeeraaaamente taaaanto corti, ma l'ho fatto per il bene delle parti. Infatti la storia è divisa in quattro sezioni: Allineamento dei Pianeti; Miracolo concesso, Il periodo buio e un altro che ancora non ha nome. Sono arrivata alla terza parte con la scrittura e, per motivi piuttosto noiosa ora sono ferma. Ma visto che ho ben dodici capitoli scritti non mi preoccupo.
Sono felicissima che stiate appoggiando così tanto la storia. Siete fantastici :3







 

II








Leo non era quel tipo di ragazzo che ama l'Arte.

Non l'arte tutta, per lo meno.

Adorava osservare i lavori di Annabeth, consigliarla nella progettazione di un palazzo, parlarle di piante a forma esagonale e vecchie case. L'architettura, che è arte matematica, aveva un fascino non indifferente, per una persona come lui. Che una delle sue migliori amiche fosse un'apprendista architetto non doveva essere un caso: la bionda era una specie di anima gemella, per lui, un essere affine, ma che lui mai aveva visto in quel modo.

Gli piacevano, in modo un po' più moderato, i quadri di Hazel. Perché molte volte non li capiva. Quando dipingeva dei ritratti, sembrava rubare l'anima di una persona e questo faceva sentire a disagio Leo. Era sicuro che l'amica avesse un ritratto di Chione accanto al telefono, fatto seguendo le descrizioni di lui su di lei. Che Hazel potesse vedere oltre la semplice realtà, non gli piaceva. Che gli artisti in generale riuscissero a vedere quel che lei vedeva, con piccole differenze, lo gettava nel panico.

Ma quello per cui era così eccitato, una settimana prima, al pensiero della Fiera di Arti Moderne era per il lato ingegneristico.

Non c'era giorno in cui Leo non passasse accanto alla fiera, ammirandone l'idea e la realizzazione. Avevano promesso di portare vecchi disegni e lavori di persone come Archimede e Leonardo da Vinci, appunto, e Leo bramava di vedere quelle carte quanto Gollum bramava l'anello de Il Signore degli Anelli. Aveva anche pensato a come rubare tutto e portarlo a casa per un attento studio, come se sentisse, dentro di sé, che quei vecchi documenti avessero qualcosa da dire a lui, solo a lui.

Aveva progettato di andare alla Fiera con Annabeth, perché Chione odiava qualsiasi cosa fosse legata all'essere umano. Era una tipa strana, lei.

Ma era la sua tipa strana. La sua ex-tipa strana.

Che loro due fossero stati una coppia più che anomala, era qualcosa che Percy e Jason, durante un incontro di boxe, o una gara di corsa, continuavano a ripetergli, mentre lui arrivava ultimo in tutte le competizioni.

Chione era troppo snob, troppo fredda, troppo noiosa. L'aveva incontrata durante il corso d'Ingegneria Meccanica, lei ai primi banchi prendendo silenziosamente appunti, lui agli ultimi banchi a progettare aeroplanini di carta che volassero per mesi, seguendo le leggere brezze della NYU. E comunque non aveva problemi a passare tutti gli esami: Leo era naturalmente portato all'ingegneria. E questo fu il problema.

A Jason Chione non piaceva. E Chione aveva provato a stare con Jason. E quando Jason l'aveva respinta, aveva stretto i pugni fino a graffiarsi i palmi delle mani e ringhiato che gliel'avrebbe pagata.

Che il mezzo della sua vendetta sarebbe stato Leo, Jason non lo aveva capito.

Secondo il ragionamento di Percy, Jason si sentiva il centro del mondo: Chione voleva stare con Leo perché lui le passava i risultati dei test, perché Leo era un ragazzo che, per la propria ragazza, avrebbe dato tutto e anche di più. Questo era il problema.

Quando il messicano era arrivato accanto a Chione, sia Jason che Percy avevano fatto una smorfia di dolore e si erano tappati gli occhi con le mani. Non avevano detto niente e avevano aspettato che Chione gli facesse del male -sotto consiglio di Annabeth-, sperando che, in quel modo, Leo capisse da solo quello che era meglio per lui.

Comunque Leo, con Chione, ci stava bene.

Magari, sì, non era la migliore ragazza del mondo, lo abbandonava a metà di un appuntamento, non lo salutava quando lo incontrava nell'università, lo criticava continuamente per i suoi modi rudi e i suoi modi di fare. Ma era comunque dolce, a modo suo. Aveva quelle piccole attenzioni che mai nessuno aveva per Leo. I guanti, il cappello, le carezze leggere quando lui parlava di sua madre...

Chione era stata quello di cui aveva avuto bisogno. Per stare bene. Almeno per non sentirsi solo.

C'era quella cosa che... Come Eco ai suoi tempi, Chione era stata espressione di una parte nascosta del messicano. La solitudine espressa in ragazza, che attenuava la sua stessa solitudine.

Una relazione del genere non poteva andare avanti per molto tempo. Chione si nutriva della sua fiamma e lui della sua freddezza apparente. Non è questo amore.

Leo stava per mettersi a piangere davanti a una scultura dadaista, mentre Annabeth indicava, come una bambina eccitata al parco giochi, i progetti architettonici di tutto il mondo. Era felice perché avevano pensato, con una trovata geniale, di racchiudere una nuvola in un palazzo trasparente perché chiunque passasse la potesse vedere*. Normalmente anche Leo sarebbe stato entusiasta. Ma alzò le spalle davanti al progetto, abbandonando Annabeth alle sue eccitate confabulazioni.

Eppure una nuvola inscatolata, di solito, lo faceva sempre sentire bene. Madre. Cosa gli stava succedendo?

Abbandonare il fianco dell'amica fu qualcosa di orrendamente facile. Semplicemente lei era in contemplazione di un palazzo neoclassico e lui si era girato verso lo scompartimento pittura, senza dirle niente.

E la pittura neanche gli piaceva. Però era tutto così triste, che si sentì a suo agio tra dipinti tristi. Si sedette su una panchina di legno, e poggiò la guancia su una mano, annoiato, triste, malinconico. Decisamente non Leo Valdez.

E chissà quale divinità mai gli fece alzare la testa a guardarsi intorno. Chissà quale. Non fu una cosa folgorante, però. Lui alzò lo sguardo e vide che le persone camminavano, chiacchieravano, andavano avanti e indietro per il parco. Tranne una. Una ragazza dai capelli cannella, come quelli di Hazel, rimaneva ferma davanti a questo dipinto, di una donna, seduta, con le gambe accavallate, che fumava. Rimase lì cinque minuti. Rimase lì dieci minuti. Rimase lì venti minuti. Rimase lì per mezz'ora. E Leo fu incuriosito.

Se il primo sguardo fosse stato rivolto a Leo, lui sicuramente non sarebbe stato tanto incuriosito da lei da avvicinarsele. Se il suo sguardo non fosse stato rapito da quel dipinto -ancora, dopo quaranta minuti d'osservazione-, Leo non sarebbe mai stato preso dalla bellezza vera di lei e non le avrebbe mai parlato. Perché… mah, esiste sempre un perché?

Leo fino a prima della metà della storia non se l'era mai chiesto. E non se lo sarebbe mai voluto chiedere.

Sentì, semplicemente, che i suoi piedi si mossero velocemente, volando quasi sull'asfalto, che le sue braccia s'incrociarono, che la sua bocca si aprì, sicura, come se da qualche parte, dentro di lui, sentisse che quello che stava facendo fosse la cosa più naturale.

“È un quadro bellissimo” disse, alzando gli occhi verso il dipinto. Lo vedeva per la prima volta in quel momento.

La ragazza sbatté le palpebre, come se fosse stata riportata alla realtà. Girò lo sguardo verso di lui e i loro occhi s'incontrarono per la prima volta.

Giove, Marte e Nettuno erano nella giusta posizione. 

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Capitolo 4
*** Fattore Parola (o Fattore Masochismo) ***



Note:
Dio mi odia. O mi ama. Devo ancora decidere. Nella Sua volontà mi ha rotto rotto il computer. E io ringrazio il cielo, sempre lui, e la mia intelligenza che mi ha fatto fare la doppia copia di TUTTI i miei lavori. Altrimenti mi sarei sentita così depressa da abbandonare tutto. Tutto.
Parlando di cose carine: voi. Dolcissimi. State ancora leggendo? Siete fantastici.
Questo è l'unico capitolo della prima parte. Allineamento dei pianeti perfetto direi. Dalla prossima settimana, il tempo della storia sarà più irregolare (fino ad adesso ho parlato di un solo giorno) e voglio dirvi una cosa: i tacos sono buonissimi.
Bene, sì, i risultati di scrivere le note dell'autore sul cellulare…
Buona lettura :D






III





“È il suo sguardo. Ha gli occhi nerissimi, con quella punta di luce che farebbe diventare matto chiunque. Ha lo sguardo di chi ha un segreto, ma vorrebbe prima conoscere il tuo segreto. Io mi fido, tu ti fidi. I capelli legati, chiari, ordinati. Li vedi? Sembra un modo per esprimere la sua indipendenza. Le labbra leggermente arricciate. La mano alzata elegantemente. La testa leggermente inclinata. Sembra star ascoltando. Come se qualcuno le stesse parlando. Dovresti essere tu, che le racconti la tua storia e lei sembra felice di conoscerti, di scoprirti piano piano e, attraverso la conoscenza, possederti completamente. Vista così potrebbe essere una giornalista. O forse è semplicemente una donna alla ricerca della realtà. Lo vedi? Ogni pennellata ha una direzione. Il pittore ha fatto convivere la pittura accademica con quella emotiva. Il tocco leggero di sottofondo, dovrebbe creare la realtà, la noiosissima realtà prevedibile, superficiale, noiosa. Poi ti avvicini alla sua figura e… eccolo. Colore violento, contrastante, forte che ti dimostra l'interiorità di lei. Perché come tu hai un segreto e sei qualcuno, lei non è solo uno specchio. Lei anche è qualcuno. Lo sapevi che, più in là, lo stesso artista ha messo in mezzo uno specchio? Un bellissimo specchio che specchia persone. Io ci sono passata davanti e non ci ho visto niente. Sono passata davanti a questo quadro e l'ho capito perché ha messo uno specchio in mezzo a una mostra di quadri: a volte le persone sono più vuote degli specchi. E uno specchio, per specchiare necessita qualcosa davanti a lui. Se sei uno specchio specchi. Se non sei niente sei uno specchio. Eppure questa donna… è viva. Come può una donna bidimensionale essere così viva? È la luce? La vedi la luce, vero? Si vedono chiaramente solo le sue labbra rosse, perché è di profilo e davanti a una finestra. Il suo corpo è linea e colore complementare, in contrasto con la Natura che è pienezza. Una donna a cui non interessa far parte del mondo. Una donna che non fa parte del mondo. Deve essere eccitante. Non far parte di niente, no? Vivere solo. Senza pensare.”

“Ma lei sta pensando.” Leo la guardava rapito, mentre lei guardava rapita il quadro. Sentiva il bisogno di partecipare a quella conversazione. Gli sembrava qualcosa di altamente maleducato perché...

Quella era un'esperienza molto vicina a fare l'amore. L'estasi sul viso di lei era impagabile e lui dovette mordersi le labbra carnose, per ricordarsi dove si trovava e cosa stavano guardando. Troppi ormoni nell'aria, si disse. Dev'essere questo, si disse.

“Lei pensa.” La ragazza girò velocemente la testa verso di lui, per poi tornare a guardare il quadro. Sembrava pensierosa, ma sul suo sguardo c'era un leggero divertimento. Stava cercando il suo tesoro, dentro quel quadro. E lui l'aveva aiutata. “Lei pensa. Certo che pensa. L'ombra sui suoi occhi che ti guardano. Il leggero verde scuro che si confonde con la parete. T'invidia mentre ti guarda. Perché tu le stai raccontando di far parte di questo moto continuo del mondo, e lei non ti capisce, non ne fa parte. E non le dirai come farne parte perché rimarrai qui a guardarla per pochi secondi. Poi te ne andrai.”

“Tu sei qui da più di qualche secondo…”

“Perché io sono come lei.” Alzò la mano aperta, come se volesse raggiungere gli occhi di quella ragazza. “E a me lei compatisce. Perché soffriamo della stessa malattia.”

“Sei malata?”

“Più di te. Ma non come lei. No. Lei è un'artista. Una filosofa. Una che ha vissuto per davvero.”

“Tu non hai mai vissuto?”

La ragazza rise, portandosi una mano sulla bocca. Lui semplicemente la guardava.

Se il primo sguardo che avesse visto sul suo viso fosse stata una smorfia, una risatina, un noioso sorriso, non si sarebbe mai fermato a guardarla. Sarebbe passato avanti. Lei era un po' quelle cheerleader che gli davano il tormento a scuola perché non era popolare. Era un po' la ragazza snob che lo metteva nei guai ai suoi sedici anni. E non snob come lo era Chione, con quel briciolo di dolcezza. No, riusciva a fiutare la cattiveria che la sua voce poteva gettare sulle altre persone.

Se l'avesse incontrata durante i suoi anni di scuola, probabilmente, lei lo avrebbe scansato, lui l'avrebbe odiata. O si sarebbero messi insieme per poi lasciarsi e rimettersi insieme, come Annabeth e Percy.

Ma l'aveva incontrata nel suo momento di massima debolezza. L'estasi. L'estasi davanti a un quadro. L'estasi davanti a qualcosa di bello. E quel suo sguardo in estasi, lo aveva posato su di lui. E chissà che faccia aveva lui. Sicuramente da idiota. D'altro canto, secondo Jason, Leo non aveva altra faccia se non quella da idiota.

“Ma tu chi sei?”

“La tua versione di Ragazzo in Blu*?”

“Una specie di Principe Azzurro, allora?”

“Non mi piacciono i cavalli, preferisco i draghi.”

La ragazza posò di nuovo lo sguardo sul quadro e questa volta non ci fu estasi nel suo viso, ma solo malinconia.

“Ti somiglia.”

“Dici?”

“Anche tu sembri avere un segreto, che dirai solo quando qualcun altro ti dirà il suo segreto. O forse sei solo una spia russa che ci sta spiando per rubare informazioni Top secret sull'America. La mia ex-ragazza aveva origine russe e io studio Ingegneria... In quel caso, io non so niente della bomba atomica.”

Lei alzò un sopracciglio e scosse la testa. “Ti piace questo quadro?”

Leo sorrise da un lato della bocca. “Guardarlo è stato come farmi innamorare. Non come Hazel Grace che si è innamorata piano piano e poi tutta insieme*. Innamorarsi come s'innamora un vecchio disperato. Tutto insieme, sì, e violentemente, come cadere a terra e farsi male al mento.”

Per un po' nessuno dei due disse niente. Lei parlava del quadro. Lui parlava di lei. Lui non ne era pienamente consapevole. Lei sorrise.

“Mi chiamo Calypso” disse lei. “E forse tu non sei un'idiota.”

E il Sistema Solare era tutta una linea. Chi lo avrebbe mai detto?

Nessuna storia d'amore sarebbe mai dovuta iniziare con la parola idiota sulle labbra di una ragazza. Ma non importava.

Il nome di Chione era già un ricordo, insieme alle maratone del Dottor Who.
 

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Capitolo 5
*** Parte II: Miracolo Concesso. Momento Ricerca (L'impermeabile da Stalker) ***


Note:
Come ho anticipato questo è l'inizio della seconda parte. E voglio vedere chi intuisce che cosa!








Parte II: Miracolo Concesso






















 

I




“Oggi è felice.” Percy ruotò la penna tra le sue mani e scosse la testa. “Ieri piagnucolava come una bambina. Oggi è felice e canta.”

Jason, con un grembiule da nonna, per non sporcarsi, mentre preparava una torta alle mele, si girò verso di lui e scosse la testa. Le mani sui fianchi e una molletta in testa, per se mai gli fosse stata d'aiuto in cucina, o con Percy, che a volte voleva aiutarlo ma, con quei capelli da hippie che si ritrovava, lasciava peli ovunque, peggio dei cani. “E noi siamo felici, se lui è felice.”

“Se ci dice quello che lo rende felice.” Percy poggiò una guancia sulla mano, sbuffando. “Non dico che non sono contento di non dovermi più sorbire film come Titanic, o, non so, Remember me, ma vorrei sapere cosa ha mai fatto Annabeth per renderlo così allegro.”

“Percy.” Il biondo si sedette accanto al ragazzo, che continuava a giocherellare con una penna blu. “Il problema è che non sai quello che succede o che sei geloso di Annabeth?”

Il moro fece spallucce. “Mamma Jason, sai bene che ho voltato pagina. Grazie ai tuoi muffin, i pancake blu e la botta in testa che mi ha dato Leo il secondo giorno dopo la rottura. Roba che io non ho piagnucolato come lui quella volta.” Percy rideva e forse stava parlando onestamente. “Voglio solo sapere che cosa è successo a Leo.”

“Non mi piace che mi chiami Mamma Jason.”

“E tu non ti comportare come mia madre.”

Jason sbatté le palpebre e puntò i suoi occhi azzurri su quelli verdi di Percy, che sorridevano, come sempre. “Io non mi comporto come Sally.” Scandì bene le parole e si portò in avanti con la testa. Il moro indicò il petto del più giovane, sorridendo. Il grembiule. Il maledetto grembiule che gli aveva regalato Sally! E che era appartenuto a Sally! “Non sempre” borbottò ritraendosi appena e abbandonando la testa.

“Percy! Hai di nuovo lasciato i tuoi boxer in cucina. Devi mettere in ordine la tua camera. Mangia tutta la pasta. Andrai a letto senza cena!” iniziò a fargli il verso l'altro, gesticolando e arricciando le labbra. “Ma sai fare degli ottimi dolci. Da grande sarai una grande moglie.”

“Percy…”

“Scherzavo” rise il moro. “Ma quando tornerà Piper magari potresti…”

“Percy” lo interruppe, alzando il palmo della mano. “Ti devo dire una cosa…”

“Sai qualcosa su Leo?”

“Percy. Io…”

“Come sto?” Leo aprì la porta con un calcio, allargando le braccia e facendo uno strano occhiolino. “Sono uno schianto?”

Percy fece una smorfia, guardando il modo in cui uno dei suoi migliori amici si era vestito. Occhiali da sole in una giornata di pioggia. Pantaloni neri in cui poteva ballarci dentro per quanto erano enormi. Un impermeabile da donna grigio. Un maniaco stalker. “Uno stalker. Perfetto. Vivo con una mamma e uno stalker.”

“Sono bellissimo.”

“Chi devi andare a uccidere?”

“Sono in missione segreta insieme a Luke.”

“Castellan?” Jason si morse le labbra, lanciando uno sguardo veloce a Percy, che prese a mordicchiare la penna blu che aveva in mano con nonchalance. Gli sorrise, come a fargli vedere che andava tutto bene. “Dici Luke Castellan?” chiese il biondo.

“Conosci un altro?” Leo prese a girare su se stesso. “Sembra che… non voglio dire stupidaggini, ma ho incontrato una ragazza alla Fiera…”

Percy e Jason alzarono gli occhi al cielo. “Una cosa: perché dovresti andare in giro con Luke? E abbiamo già superato la fase Chione?” Gli occhi azzurri di Jason fulminarono il ragazzo, che che si limitò ad una smorfia annoiata. “Senza offesa” aggiunse.

“Chione…” Leo alzò le spalle, trovando interessanti le tasche del vecchio impermeabile da donna. “Era un meccanismo per arrivare a questo, immagino.”

“Eh?”

“Non capiresti. È come Annabeth per te. È servita per arrivare a conoscere me e Jason e aggiungere il prossimo tassello della tua vita, no? È così che funziona .”

“Va bene.” Jason aveva zittito Percy e la sua prossima domanda con un gesto, poggiando poi i gomiti sul tavolo e sporgendosi in avanti. La confusione del moro si leggeva nei suoi occhi, ma non per questo avrebbe lasciato che l'egocentrismo -parte dominante del suo carattere-, eclissasse la storia di Leo. Anche perché la risposta alla domanda di Percy la custodiva Jason. “Tornando alla ragazza della Fiera. Vuoi andarla a uccidere?”

“No!” Il riccio continuò a sorridere. “Allora questa ragazza, Calypso, è l'essere più affascinante che io abbia mai incontrato. E anche la più irritante. E non mi ha lasciato il numero di cellulare…”

“Perché non le piacevi?” Percy stava già per correre in salotto per distruggere il modem e tutti i loro DVD. Si fermò giusto in tempo.

“Perché non ha il cellulare. Ha solo una casa temporanea e mi ha lasciato l'indirizzo dicendo che, se volevo, potevo mandarle una lettera.”

“Una lettera?” I due ragazzi si scambiarono uno sguardo stupito. “Nessuno si manda più lettere…”

“Appunto.” Leo sembrava voler essere sempre un passo avanti ai suoi due amici, che adesso gli davano la loro completa attenzione. “Ho scritto questa lettera, che in realtà è il tipico bigliettino che si scambia a scuola, ma va bene. Come sapete Luke è figlio di Hermes, uno dei più importanti presidenti delle Poste. Castellan&Go è una delle aziende di cui Calypso si è avvalsa più volte.”

“E questo lo sai perché…?”

“Perché il papà di Luke, Hermes, conosce Calypso. Non so esattamente perché, ma sembra che la conosca da molto tempo e, tutte le volte che qualcuno le manda una lettera o qualcosa del genere, vuole essere lui stesso a fargli la consegna. In più controlla personalmente quello che le mandano.”

“Perché?” Jason sembrava assorto. Percy prese a mangiucchiare di nuovo la penna.

“Bella domanda. Io e Luke abbiamo passato le ultime ore a fare teorie su teorie, finché, udite udite, lui non si ha trovato questo contatto sulla rubrica di Hermes: Atlante.”

“Okay. Allora?”

“Atlante è il padre di Calypso. Non molto amico di Hermes. E, a quanto pare, due mesi fa Calypso, avendo appena compiuto diciotto anni, è scappata di casa.”

“Assurdo.”

Leo annuì, sedendosi davanti alla coppia d'amici. “Si sta nascondendo dal padre. Ma ha lasciato il suo indirizzo a me.

“E cosa vuoi fare tu adesso?”

“Controllare che questa lettera” agitò un pezzo di foglio, comparso dalla sua tasca “sia consegnata.”

“Hai detto che la sua casa è temporanea. Che vuol dire?”

Leo alzò le spalle e si alzò dalla sedia, con un balzo veloce. Prese a saltellare verso la porta d'ingresso. “Non lo so. Penso che lo scoprirò.” Si girò verso la cucina e salutò i ragazzi con un gesto veloce della mano e, appena uscì di casa, con un tonfo, lasciò l'appartamento in un silenzio pieno di pensieri.

Percy sbatté le palpebre, iniziando a ridere. “Ma gli piacerà mai una ragazza normale?”

Jason si grattò la testa, con un sorriso. “Non ha il cellulare perché ha paura di essere localizzata con il gps?”

“Ci pensi troppo.” Percy continuò a mordicchiare la penna blu. “Jason” chiamò. “Cosa mi volevi dire prima che il pedofilo entrasse?”

“Ah, sì.” Il biondo scosse la testa, come se la cosa non fosse stata molto importante. “L'ho lasciata io Piper.”

Il moro lo guardò a metà tra lo stupito e il terrorizzato. Riprese a mordicchiare la sua penna con più forza e determinazione, mentre i suoi neuroni iniziarono a lavorare anche rumorosamente creando situazioni improbabili e arrivando a strane soluzioni. Voleva dire che… no. Ma forse… Percy! Torna in te!

Jason si alzò e pensò bene di togliere la torta di mele dal forno.








 

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Capitolo 6
*** Momento Ritrovo (o Giardino dentro Casa) ***


Note:
So di aver fatto un leggero ritardo. Leggero leggero, però!






II






“Non capisco se sei un pedofilo o è Carnevale. Oh, sì, beh, magari è uno dei tuoi sogni segreti, essere chiamato Leah…”

“Non divertente.” Leo tagliò corto, togliendosi del terriccio dai riccioli, mentre Calypso sorrideva a guardarlo. “Tiri terra a tutti quelli che ti vengono a trovare?”

“Di notte tiro acqua gelida. In mancanza…”

“Non voglio saperlo.”

“Che ci fai qui?”

“Ti spiavo.”

“Mi sono guadagnata uno stalker.” Calypso roteò gli occhi, seduta sul tavolino del giardino e con le gambe accavallate in maniera elegante. Sembrava più piccola dei suoi diciotto anni. Sembrava averne quindici, più o meno, forse perché non si truccava. Ma anche Piper non si truccava, e lei sembrava essere lo stesso più grande della sua età. Forse Calypso era bella e basta. Anche se aveva la faccia da mocciosetta. E poi chi era Leo, per giudicare? Non chiamavano proprio lui Aiutante messicano di Babbo Natale?

“È che sei un bel rompicapo.” Leo le si avvicinò a passi lenti, entrando in quel piccolo giardino dentro le mura domestiche. La ragazza gli fece cenno di chiudere la porta e lui obbedì senza fare storie, preso dalla meraviglia di una piccola serra tra le case di New York. Aveva visto meraviglie e stranezze, ma mai una casa in cui non si vedevano le mura bianche, poiché ricoperte di foglie verdi. “Voglio capire come funzioni.” Non esattamente il miglior modo per parlare ad una ragazza che ti potrebbe piacere. Ma, ehi, lui era Leo Valdez, lui poteva tutto.

Calypso rise. Una risata superba, poco modesta e che poco aveva a che fare con la ragazza in estasi davanti ad un quadro. Leo aggrottò le sopracciglia, ma non disse niente, semplicemente la studiò, sedendosi davanti a lei, nel suo tavolino da giardino-che-in-realtà-era-dentro-casa. “Funzionare? Come se fossi una macchina?”

“Direi più un orologio. Meccanismi perfetti e consequenziali. Ogni movimento ha un antecedente e quindi un perché, fino a che non si arriva all'ultimo movimento, che crea energia meccanica per il primo movimento. Voglio scoprire come funzioni, come un orologio.”

“Per questo sei qui?”

“Direi di sì.”

Calypso versò del tè in due tazze e ne porse una a Leo, che l'acchiappò con così poca eleganza da far alzare un lato delle labbra di lei in un sorriso. Le mani affusolate erano pallide, tanto da sembrare parte della porcellana che teneva in mano. “Ti ricordi il quadro di ieri?”

“Ho vent'anni, non duecento.”

“E quello che ti ho detto su quel quadro?” Leo annuì e lei annuì di rimando. “E quello che tu mi hai detto su quel quadro?”

“Potrei vincere un programma televisivo con tutto quello che ricordo di ieri.”

L'espressione della ragazza rimase per qualche secondo impassibile, poi sorrise, ma si portò la tazza alle labbra, quasi a voler sopprimere qualcosa di sconveniente. “Se tu scopri come funziono io” disse Calypso, lentamente e con lo sguardo leggermente basso “io devo sapere come funzioni tu.”

“Se vuoi semplicemente sapere la mia storia, potevi cercare il mio profilo su Facebook…”

“Su cosa?”

“Ah, giusto. Sto parlando con la ragazza senza Facebook, Twitter e Instagram…”

Calypso lo zittì con un gesto della mano. Sbatté le palpebre dei suoi occhi allungati. “Ieri mi è sembrato di vedere…”

“…un gatto?” Stupida Titti. Adesso il lato più infantile di Leo doveva emergere? “Scusa. È stato più forte di me…”

Leo inchiodò i suoi occhi su di lei e vide che cercava disperatamente qualcosa. Un motivo, un'espressione, una luce che spiegasse qualcosa. Come se il giorno prima avesse visto quel qualcosa splendere negli occhi di Leo e adesso si sforzasse con tutta se stessa di ritrovarlo. E non ce la stava facendo. Vedeva la speranza abbandonarla e l'eco di quella risata di poco prima tornare a riempire il silenzio di quel momento.

Questa ragazza è simile al quadro di ieri. Se vuoi sapere il suo segreto, devi dirle il tuo segreto.

Leo iniziò a far sbattere i piedi sul pavimento di legno, e le sue mani presero a muoversi e intrecciarsi tra loro, per poi sciogliere la presa e ricominciare a giocherellare con i polpastrelli.

Questa ragazza è un meccanismo rotto. E Leo odia i meccanismi rotti. Per scoprire come aggiustarla deve sapere com'era prima di rompersi. Per sapere come aggiustarla deve mostrare i suoi meccanismi rotti e riassemblati alla bell'e meglio.

In fondo, in quel momento, aveva soltanto una cicatrice da mostrare, non una ferita aperta.

“Mia mamma è morta quando avevo otto anni. Il che, ovviamente, è odioso di per sé. Mio padre non l'ho conosciuto fino ai miei quindici anni, perché ha sempre avuto problemi a uscire dalla sua officina ed entrare in contatto, beh, sì, con gli esseri umani, sai? In più, di solito, non è presentabile. Puzza di uomo e meccanica. Se Ironman puzza, puzza come mio padre. Ma è un brav'uomo. Solo, molto fuori dal mondo. A otto anni nessuno sapeva chi fosse mio padre a chi darmi in affidamento. Mamma non amava sbandierare i suoi affari al mondo, neanche per chiedere aiuto. È sepolta in Texas. Vado a trovarla il giorno dei Morti, a Natale, il giorno del mio compleanno e il giorno del suo compleanno. Con le torte di Jason e magari con Jason e Percy. Nico viene anche senza che io lo debba chiamare. A otto anni sono stato affidato a mia zia Rosa. Non la sopportavo: come potesse essere sorella di mia madre è ancora un mistero. È stupida, ottusa, bigotta e crudele. O, almeno, con me era crudele. E io non volevo vivere sotto il suo stesso tetto. Sono scappato e la polizia mi ha riacchiappato in qualche ora. Avevo nove anni. E sono scappato anche a nove anni e due mesi. Zia Rosa ha iniziato a gridare che non mi sopportava in casa e che mi avrebbe mandato in una specie di riformatorio. Lo ha fatto. Avevo dieci anni. I collegi sono un po' prigioni per teppistelli. Ero troppo buono per stare trai teppistelli e sono scappato. Dieci anni e un mese. Hanno passato la mia custodia da mia zia allo Stato, pensando che quella lì non potesse prendersi cura di me. Dieci anni e mezzo. Mi hanno assegnato in una specie di casa-famiglia. Mi stavano tutti antipatici. Sono scappato. E sono scappato anche dalla seguente casa famiglia. Sono scappato da tutte le famiglie affidatarie. Sono scappato da un piccolo riformatorio. E poi, a quattordici anni non sono scappato. Sono finito in una piccola scuola per teppistelli. Ma questa volta i teppistelli mi erano simpatici. Lì ho trovato i miei primi amici in assoluto: Jason e Piper. Con loro ho passato gli anni più eccezionali di tutta la mia vita. Pensa che, una volta, sono riuscito a convincere Jason, Jason!, a tirare le risposte dei test di matematica sul cortile della scuola. Erano tutti sbagliati, ma tutti credevano fossero giusti e copiarono: presero zero punti su cento. Zero, non so se te rendi conto. E l'anno dopo mio padre mi ha incontrato. Un tipo pragmatico, mio padre. Brutto come Voldemort dopo aver perso il naso. Forse, però, come Voldemort Efesto era bello in gioventù, perché ha lasciato disseminati per tutti gli Stati Uniti figli, miei fratellastri. Abbiamo accettato di vivere con lui solo in tre. Io, che non avevo niente di meglio, Charles, che è un po' una benedizione e Nyssa, che è la sorella che ho sempre sognato mi potesse prendere a botte. Quando mi sono trasferito da Efesto, ho conosciuto Annabeth e attraverso lei Percy, e attraverso lui Hazel, poi Frank, poi Will, poi tutti quanti. Una storia triste che finisce bene, immagino.”

“Perché eri alla Fiera?”

“Annabeth studia per diventare architetto. Io per diventare ingegnere. Direi che centravamo abbastanza nell'ambiente.”

“Tu non volevi venirci.”

“No.”

“Perché?”

“Sono stato appena lasciato. Ma grazie al cielo mi sono ripreso abbastanza da poter apprezzare i disegni di Leonardo da Vinci.”

Calypso iniziò a ridere, abbandonando la tazza di porcellana sul tavolo. Rise come una principessa avrebbe dovuto ridere. E Leo inclinò la testa a mo' di domanda.

“Tuo padre puzza come Ironman?” Calypso continuò a ridere, poggiando il palmo della mano sulla sua fronte, in un gesto imbarazzato.

“Hai visto?” Leo sorrise. “Sono divertente.”

“No, non lo sei.” Ma continuava a ridere.

“Direi che hai capito come funziono.”

“Sì, diresti bene.”

“E me lo dirai?”

“Leo.” Calypso arricciò le labbra, giocherellando con il cucchiaino nel tè al limone. “Tu sai benissimo come funzioni.”

Si guardarono per qualche secondo, in silenzio. Lei continuava a muovere il cucchiaio dentro la tazza di tè -che Leo trovasse la cosa leggermente erotica, forse, era a malati-, lui manteneva un sorriso da folletto, furbo e giocherellone. E forse erano passate ore da quando stavano in silenzio, forse pochi attimi. Leo sarebbe stato in quella posizione per tutta la vita, senza nemmeno lamentarsene.

“Un meccanismo per un meccanismo, Raggio di Sole.” Si riportò bruscamente alla realtà, perché nessuno doveva provare a mantenere fermo Leo Valdez con il solo sguardo. “Tocca a te.”

“Non molto da dire.” La ragazza fece una smorfia, alzando le spalle. Non sembrava esitare, non voleva mostrarsi debole, una maschera che poco aveva messo a punto e che poco le si addiceva. “Nata in una casa di campagna, istruita in una casa di campagna, imprigionata in una casa di campagna. Mio padre è uno che il mondo lo tiene sulle spalle. E forse per mantenermi fuori da grandi responsabilità, mi ha resa prigioniera. Sai la cosa buffa? Quando ero piccola pensavo che un principe mi sarebbe venuto a salvare. Come per Raperonzolo. Un eroe sarebbe arrivato nella mia casa di campagna e mi avrebbe portata via, o, se fosse stato impossibile, sarebbe rimasto con me.” La ragazza deglutì, abbassando lo sguardo. “Non è rimasto nessuno. Ovviamente aggiungerei. Come puoi rimanere con una pazza che hai visto solo una volta nella sua casa di campagna? Infantile. Ma… trai colleghi di mio padre c'era, c'è, questo signor Dare. Sua figlia… lei… è stata la mia prima vera amica. E la devi vedere, con quei suoi capelli rossi e selvaggi, che sembra Merida. Io sono più piccola di lei di qualche mese e… abbiamo deciso di scappare insieme. A diciott'anni, quando saremmo diventate maggiorenni e nessuno ci avrebbe più fatto tornare dai nostri genitori. Ho vinto una borsa di studio in Europa. Tre possibili tappe: Londra, Parigi o Roma. Partirò a ottobre. Non l'ho detto a papà perché lui vorrebbe vedermi dottoressa, o avvocato, o senatore. Ma Rachel è un'artista e io seguo i suoi passi. Ci manteniamo lavorando in bar, a volte cantando, a volte come bariste. Rachel fa ritratti negli incroci. Quindici secondi e sono pronti. O fa la statua vivente. È divertente.”

“Tu invece canti.”

“Già.”

“Tipo Taylor Swift.”

“Lo prendo come un complimento?”

“È una bella coincidenza che una novellina della fuga si sia incontrata con il maestro delle fughe.” Leo sorrise e strappò un sorriso anche a Calypso. “Se hai bisogno di qualcuno con cui scappare da una casa di campagna, la prossima volta ricordati di me.”

Calypso s'intristì e si morse il labbro. “Gli eroi non esistono, Leo. E nemmeno le principesse da salvare. Mi sono salvata da sola. Ne sono la prova vivente.”

Il riccio riconobbe subito quello sguardo. Chi è scappato da solo lo riconosce in meno di un minuto. È la paura che prende forme in tanti modi.

Paura di perdersi. Paura di sbagliare. Paura di andare avanti. Paura di restare soli. Paura di non poter restare.

“Qualcuno qui non legge abbastanza fumetti Marvel. Nico non approverebbe. E io non approvo che Nico non approvi. Ti voglio portare al cinema, Raggio di Sole.”

Calypso aggrottò le sopracciglia e inclinò la testa, ma lo seguì correndo e seguendo i suoi lunghi e frettolosi passi.

 

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Capitolo 7
*** Momento Conoscenza (o Harry Potter va Hunger Games) ***


Note/
Ed ecco a voi i salti temporali! D'ora in poi saranno tantissimi e non tutti i capitoli saranno così pieni di conversazioni. Ho scritto monologhi di Leo xD
Voglio che stiate attenti a piccoli dettagli, ma non posso dire a cosa, perché altrimenti direi troppo… beh, farò così: nelle conversazioni di Leo e Calypso, ci sono vari indizi di quello che succederà più tardi, nonché di chi comparirà in poco tempo.
Dico sempre troppo…











III













“Gelato.”

“Crêpe.”

“Caldo.”

“Freddo.”

“Messicano.”

“Italiano.”

“Dolce.”

“Salato.”

“Tè.”

“Caffè.”

Leo scoppiò a ridere, mentre la ragazza continuava a saltellare sui sassi che uscivano dal laghetto. Calypso alzò gli occhi e lo guardò interrogativa.

“Va bene.” Il ragazzo alzò i palmi delle mani e ridacchiando ancora, con i piedi a mollo e i calzini bianchi sul pelo dell'acqua. “Io dico mare.”

“Assolutamente montagna.”

“Villa.”

“Appartamento in città. E direi che…”

“…sarebbe da riempire con tante persone” terminarono entrambi la frase con le stesse identiche parole. Leo alzò le sopracciglia, nascondendo le labbra, che si volevano incurvare in un sorriso e alzando una spalla.

“E sui fiori?” Calypso ignorò il momento, continuando a saltellare sui sassi, con i piedi nudi. “Dico rose.”

Il ragazzo scosse la testa. “Gigli.”

“Sembri categorico.”

“Amo i gigli tanto quanto li ama Severus Piton.”

“Scusa?”

“Non capiresti.”

“Perché?”

“Perché se io dico Harry Potter…”

“Io dico Hunger Games. Va bene. Ok. Fermiamoci qui.” Calypso saltò sulle pietre della riva, con un balzo leggero. “Abbiamo già discusso su questo.” Alzò gli occhi verso il cielo, mentre lui prese a giocherellare con alcune gocce d'acqua.

“Come puoi voler andare a Londra, senza apprezzare la Londra Magica, piuttosto che quella Babbana, io non lo so.”

“Per i Beatles?”

“Rolling Stones.”

Calypso lo fulminò con lo sguardo, e lui rideva, osservando una goccia che aveva intrappolato tra due dita.

“Facevo conversazione.”

“Non sei molto brillante nelle relazioni umane.”

“Neanche tu.”

“Io ho una scusa!”

“No, non ce l'hai. Potevi fare le simulazioni davanti allo specchio. Mai provato la discussione dell'aquilone?”

“Aquilone?”

The Middle. A me piacciono gli aquiloni. Oh, davvero piacciono molto anche a me! Dovremo incontrarci un giorno per far volare insieme gli aquiloni!” Leo gesticolava come una ragazzina. E cambiava continuamente voce, a seconda del personaggio che impersonava.

Calypso alzò un sopracciglio e sorrise. “Agganciavi così le ragazze?”

“Da bambino.”

“E andavate a far volare gli aquiloni, alla fine?”

“Scappavo prima che succedesse.”

“Non ho mai fatto volare un aquilone.”

“Nemmeno io.”

“Potremmo far volare un aquilone insieme.”

“Sei diventata più brava con le relazioni umane, rispetto a due secondi fa. E questo grazie a me.”

“Non ti montare la testa.”

“Pensavo di andare a dirlo a Jason, così mi farà una torta e festeggeremo insieme a Percy.”

“Devono essere simpatici i tuoi amici.”

Leo giocherellò con le proprie labbra, e sbatté le palpebre. “Lo sono.”

“Lo sono?”

“Non te li farò conoscere.”

“Perché?”

“Mi vergogno.”

“Di loro?”

“Di te.”

“Ehi! Io mi vergogno di te, eppure Rachel l'hai conosciuta.”

“Ovviamente mi vergogno di loro e non di te, no?”

“E perché ti vergogni di loro?”

“Non è che mi vergogno…”

“Allora?”

“Allora sono tipi strani. E preferirei li conoscessi nel loro periodo migliore. Ultimamente sono strani…”

“Strani-pedofili?”

“La smetti con questa storia che siamo pedofili?”

“Il tuo impermeabile non era un buon biglietto da visita…”

“Il mio impermeabile è bellissimo.”

“Da pedofilo!”

“Investigatore segreto, più che altro. Me lo ha assicurato Nico.”

“Se lasciamo cadere la discussione -stiamo spaventando i bambini-, ti regalo una rosa.”

“Ma a me piacciono i gigli.”




 

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Capitolo 8
*** Momento Cupido (o Pettegolezzi) ***


Note:
Sono solo due persone quelle che possono leggere tutti i miei abbozzi di capitoli che scrivo. Due sole.
Alla fine di questo capitolo mi hanno chiesto: "Perché?"
Eh, perché…
Perché mi piacciono gli inciuci, ecco perché.







IV



“Raggio di sole. Mmm. Ci vediamo più tardi, non è il momento migliore.” Leo provò a chiudere la porta della casa, ma Calypso lo bloccò con la mano.

“Dentro casa tua c'è una top-model mezza nuda?”

“Cos…? No!”

“Allora posso entrare.” E non aspettò nemmeno che il riccio dicesse niente, con un movimento fluido del busto passò sotto le braccia di lui e iniziò a guardarsi intorno.

“Senti, Calypso. Sto cercando di aiutare i miei amici ad appianare alcune divergenze, chiamiamole così. Non prenderla male, ma non penso che…”

“Leo passione psicologo? Ti aiuto io. Ho sempre voluto studiare psicologia.”

“Non è vero.”

“Tu non sei mio padre.” La ragazza sostenne il suo sguardo con risoluta nobiltà, finché Leo non sospirò.

“Va bene, va bene.” Sembrava essere molto preoccupato, ma cercò di non darlo a vedere, guidandola verso il salotto con un sorriso teso.

Ad entrare nel salotto c'era un cambio di atmosfera netto. Un ragazzo moro giocherellava con una penna ad un lato del divano, guardando verso la finestra, imbronciato e dalla parte opposta del divano, appoggiato ad un bracciolo, un ragazzo biondo lo guardava mordendosi le labbra.

La situazione risultò immediatamente chiara a Calypso, che inclinò la testa e lanciò un sguardo veloce a Leo.

“Va bene ragazzi. Questa è Calypso. Ciao Calypso. Vuole fare da ficcanaso ai vostri affari da coinquilini e forse è un bene, perché io non vi sopporto più.”

“Neanche io sopporto più Jason.”

Il biondo sospirò, accarezzandosi la testa. “Ma ti sembra normale…”

“Cosa?”

Calypso vide Jason fermarsi dall'alzarsi e tirare un pugno in faccia a Percy. Prese ad agitare il piede, con nervosismo, distogliendo lo sguardo dal ragazzo.

“Ma cos'è successo?” sussurrò Calypso a Leo e il ragazzo le fece cenno di sedersi accanto a lui e magari, le domande, farle a loro, che sapevano le risposte. “Cos'è successo?” ripeté la castana, alzando la voce.

“Jason ha perso in una corsa volontariamente.” Percy aveva lo stesso tono di voce di un bambino al quale avevano rubato le caramelle, il peluche preferito e i colori a tempera. Tutto insieme.

Doveva essere un grosso insulto perdere di proposito.

“Ero stanco!”

“Eri stanco? E di cosa? Ci eravamo allenati insieme, abbiamo passato ore ad allenarci e tu perdi perché volevi perdere?”

“Sono sicuro che Jason era stanco.”

“Non ero stanco” borbottò il biondo, mentre si accarezzava la fronte e continuava a sospirare. Calypso riusciva a vedere la sua voglia di colpire il moro andare sfumandosi lentamente. Non sapeva esattamente il perché. Anche perché non riusciva a capire l'andazzo della conversazione.

“Hai appena detto che eri stanco.” Anche Leo si stava innervosendo. Chissà da quanto tempo erano lì a discutere.

“Mi sono distratto, va bene?”

“Hai perso apposta!”

“Non ho perso apposta!”

“Allora cosa ti ha distratto?” Percy si era completamente girato verso l'amico, con uno sguardo tra l'aggressività e lo spaventato. Era la stessa espressione di un animale messo in trappola e Calypso non capiva per quale motivo il moro si sentisse in quel modo, se era lui che stava gridando contro il più giovane e con fare aggressivo.

Qualunque cosa fosse successa, Jason aveva il coltello dalla parte del manico. Era lui la soluzione a quel problema, perché lui era il problema.

“Perché hai perso di proposito?” gli chiese nel modo più diretto possibile la ragazza. “Sicuramente non hai perso perché stavi seguendo una farfallina volare. Perché quindi?”

Jason abbassò lo sguardo e non disse niente. Non avrebbe parlato prima che Percy non avesse parlato. La ragazza si girò dall'altra parte del divano, guardando il moro imbronciato.

“Da cosa hai capito che voleva perdere?”

“Ha rallentato. Negli ultimi metri. Eravamo spalla a spalla. E lui ha rallentato. Respirazione ottima e prestanza eccellente. Lui…”

“Tu, di solito, ascolti il respiro dei tuoi avversari?”

“No.” Percy stava per scoppiare a ridere. “Ma conosco alla perfezione il respiro di Jason.”

“E quello di Leo? Lo conosci alla perfezione?”

“C-cosa?”

“Cosa?”

“Cosa?”

“Cosa?”

Dopo i cosa generale i quattro rimasero in silenzio per qualche secondo. Percy sembrava scosso. Scosso in qualche modo e in quello peggiore.

“Eravate strani già da prima.” Leo prese le parole e sembrava essere più confuso di quanto non lo fosse stato pochi minuti prima, quando Calypso era entrata nel salotto. “Da settimane.”

“Sapevi che Jason ha lasciato Piper?” sputò Percy, mordendo il tappo della sua penna.

“No.” Il messicano si girò verso Jason. “Pensavo fosse stata lei a lasciarti.”

“Sapevi che è stato Percy a lasciare Annabeth?”

“È stata lei a lasciarmi!” Il moro era sulla difensiva, balzato in piedi tutto d'un tratto stringeva i pugni, completamente girato verso Jason.

“Per questo ho perso apposta!”

La discussione continuava a non avere un senso, per una ragazza che lo aveva appena incontrati. “Non capisco.” Calypso si piegò verso Leo. Lui sospirò.

“Girano intorno a questa storia da troppo tempo. E penso che non si risolverà tanto facilmente.”

“Io ho lasciato Piper. Per te!”

Silenzio.

“Questo è imbarazzante.” Leo deglutì. “Forse dovremmo andare via” sussurrò a Calypso.

“Guarda che a me Piper sta simpatica.” E Percy rimaneva Percy. Con le sue stupide risposte da stupido che non aiutavano a farsi capire da lui. "Andavamo anche d'accordo. Non mi dire che vi ho fatto lasciare per quella volta che abbiamo litigato per i cupcake! Se è così dovresti seriamente chiamarla e dirle che hai frainteso tutto."

“Ma è stupido?” La ragazza continuava a parlare solo con il messicano, che cercava di spingerla fuori dalla stanza.

“Ingenuo.” Leo la trascinava con sé, mentre notava Jason che si accarezzava le tempie. Spinse definitivamente la ragazza fuori dal salotto e chiuse le porte che lo divideva dal corridoio e la cucina, facendo scomparire le voci dei due ragazzi che discutevano.

“Ma Percy ha lasciato Annabeth?”

“Pettegola.”

Leo le indicò il tavolo della cucina, per potersi sedere.

“Amo l'amore. E gli scandali. Jason è innamorato di Percy?”

“No. Sì. Non m'importa!”

“Non sapevo che vivessi con una coppia.”

“Nemmeno io.”

“Qualcosa sapevi.”

“Avevo intuito.”

“E perché non hai detto nulla?”

“Annabeth è una brava ragazza.”

“Ma…?”

“Ma?”

“Non smetti di sorridere. Annabeth è una brava ragazza. Piper è una tua amica, ma…?”

“Sono i loro primi amori.” Leo alzò le spalle. “Penso stessero con loro più per pigrizia che per amore. Erano due belle coppie, ma… erano più facciata che altro. Sia Percy che Jason hanno deciso di chiedere alle ragazze di stare insieme dopo che qualcun altro aveva messo loro l'idea di mettersi insieme proprio con quelle due ragazze. Non so se mi sono spiegato.”

“Un amore derivato dalle aspettative. Sì, capisco. Te l'ho detto che volevo studiare Psicologia! E nessuno si aspetta che loro due…?”

“Come potrebbero?

“A te va bene?”

“Cosa?”

“Questa situazione.”

“Se loro sono felici, io sono felice.”

Calypso sospirò, con un sorriso tra le labbra. “Quando sarò a Parigi, queste cose dovrebbero succedere in ogni strada. La Francia è la patria dell'amore, in fondo.”

“E delle baguette. Certo, solo qui in America le persone lo riempono di fagioli e ketchup. Ti mancherà. Nico è spesso all'estero, con sua sorella, Hazel. Quando tornava a New York, la prima cosa che lo portavo a fare era andare a mangiare un hot-dog pieno di, non so, fagioli, maionese, ketchup, verza, nachos e carne macinata. Una delizia. E la cosa ti mancherà.”

“Che schifo.”

“Ti mancherà.”






 

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Capitolo 9
*** Momento Ristorante (o Richiesta) ***


Note:
Ho una teoria piuttosto stupida, ma a volte funziona: se ricorda qual è la tua portata preferita (antipasto, primo, secondo, dessert) ti ama per davvero.
L'amore sta nei dettagli~



V





“Normalmente le ragazze non mi invitano mai in posti così eleganti. Mi stai per dire che aspetti un figlio da me? O mi vuoi sposare?” Leo tamburellava le dita sul tavolo, mantenendo però il suo sorriso sereno, coperto dalla luce di una candela. “Tra poco usciranno dei mariachi a cantare che sono il tuo unico grande amore?”

“Hai un ego smisurato.”

“Grazie.”

“Oggi mangiamo italiano e desideriamo cibo americano. E, a meno che tu non abbia, non so, il superpotere di mettere incinte le ragazze a distanza, io non porto in grembo tuo figlio.”

“Hai qualcuno in grembo?” Leo sembrava confuso. Lanciò un'occhiata veloce sulle coscie della ragazza, poi sulla sua pancia e fece una smorfia d'incomprensione. “Un gatto?”

“Oh, mio…” Calypso alzò gli occhi verso il soffitto, ma sorrideva.

“Potremmo prendere un piatto di spaghetti in due. Tipo Lily e il Vagabondo.”

“La tua fissazione per i gigli è ammirevole.”

“Io ovviamente sarei Lily. Guarda i miei occhioni color caffè.” Il ragazzo sbattè le palpebre a rallentatore, poggiando il mento sui dorsi delle sue mani. “Ci puoi affogare dentro.”

“Naufragare, Leo. Naufragare è dolce.”

“Sembrava spagnolo.”

“Era italiano. Dicono sia molto simile.”

“Mi stavi insultando in Italiano? Nico lo faceva spesso...”

Calypso rise leggermente, abbassando il mento verso il tavolo e poggiando una mano sulle labbra. “Alla fine Jason e Percy?”

“Non ci sarà mai una fine. È alla base della loro amicizia.”

“Oh, sono tornati all'amicizia.”

“Non lo sono mai stati. Solo amici, dico. Jason e Percy sono rivali. Sai quella teoria secondo la quale amore e guerra non sono poi così diversi? Loro erano sempre in guerra, per vedere chi dei due era il più forte, o il più veloce o il più qualsiasi cosa. Creato un equilibrio in cui nessuno dei due è più dell'altro, s'è innescato il meccanismo amore. Che poi non so se è veramente amore o qualcos'altro. Non lo sanno nemmeno loro. Ma era fondamentale che l'equilibrio non si spezzasse.”

“Ora Percy è più qualcosa di Jason.”

“Già.” Leo si versò dell'acqua nel bicchiere e alzò le spalle. “Jason ha spezzato l'equilibrio. E si è tornati alla guerra.”

“Dici di non saper capire i sentimenti delle persone e poi analizzi con così tanta facilità i tuoi amici…”

“Sono preoccupato…” Leo aveva lo sguardo basso, mordendosi le labbra e giocherellando con il bicchiere di cristallo già svuotato dalla sua acqua. “Ultimamente litigano continuamente. Per cose stupide. Lo facevano anche prima, ma adesso sono arrabbiati sul serio. Percy dovrebbe perdere qualcosa, una corsa o una gara di nuoto, per ristabilire l'equilibrio in casa. Altrimenti ho paura che mi ritroverò a dover pagare l'affitto da solo. A meno che non succeda qualcosa a me… o a Nico…”

“Avevano un contratto. Insomma, sembra così.” Calypso incrociò le braccia, porgendosi verso di lui. Le balenò in testa un pensiero malinconico, ma non lo condivise con Leo, si limitò a sbattere le palpebre velocemente e guardare altrove. “Finirà bene.”

“Dici?”

“Tra una settimana staremo parlando di altro e loro staranno bene.”

“Sei rassicurante.” Il ragazzo arricciò le labbra.

“Avevano un contratto a lungo termine.”

“Quanto siamo burocratici!”

“E la loro amicizia non finirà mai. Lo avevano già stabilito.”

“Come la nostra?”

Calypso lo osservò, continuando a mordersi nervosamente un labbro.

Il silenzio cadde tra loro per qualche secondo, senza che Leo ci facesse troppo caso. Era un silenzio pieno di sottintesi, o almeno lo era per lei. La loro amicizia che sarebbe potuta non finire mai. Il contratto a lunga scadenza. Loro non avevano un contratto a lunga scadenza. Lui lo doveva sapere bene. C'erano delle clausole, delle restrizioni. Non c'era tempo.

Aprì la bocca per dire qualcosa. Leo, io…

Ma lui, ignaro e innocente, giocherellava con le posate e un cameriere con un sorriso da maschera e gli occhi spenti portò loro il dessert. Gelato al cioccolato e vaniglia.

“Non abbiamo mangiato il primo” protestò Leo. “E nemmeno il secondo, l'antipasto e il contorno.”

“Perché l'antipasto tra il secondo e il contorno?”

“Gelato.” Se fosse stato un messaggino, dopo quell'unica parola ci sarebbe stato un cuoricino. “Io amo il gelato.”

“Ho pensato di iniziare dal dolce.” La ragazza infilò il cucchiaino nel gelato, facendolo affondare. I suoi occhi sembravano chiusi, tanto erano bassi sulla vaschetta. “Li ho ordinati quando eri in bagno.”

“Anche solo per questo, ti dico di sì. Riconoscerò nostro figlio e lo manterrò per tutta la vita.”

“In Italia fanno del buonissimo gelato… Pensa: passeggiare tra le vie di Roma con un cono di gelato, guardando Piazza di Spagna, Piazza del Popolo, il Colosseo, i Fori Romani.”

“Hai intenzione di mangiare solo gelato a Roma?”

“E pasta.”

“Poi inizierai a rotolare per le vie di Roma… A dirla tutta, penso che l'Europa sia tutto un pasticcio. Vai a Roma a vedere Piazza di Spagna e a guardare fontane su fontane su fontane.”

“Tu sei stato a Roma?”

“A quattordici anni. Con la scuola per teppistelli. Faceva caldo. C'erano un sacco di ladri nani. E gli italiani si fanno corrompere per cibo, o per delle belle ragazze. Chiedi a Piper. E a Nico. Lui è italiano… e lavora in un ristorante italiano…” Aveva la bocca piena di gelato. Calypso se lo immaginava che passeggiava con Jason lamentandosi di tuto quello che lo circondava, per poi rimanere estasiato davanti a cose come il Pantheon, l'Arco di Trionfo. Sorrise. “E tu?”

“È una domanda retorica?”

“È ovviamente una domanda retorica. Ma vedi, penso che Roma sia la città adatta a te. Dopo New York, certo. Roma è un po' come New York. Piena di gente matta e quadri di donne che fumano. Piena di sogni.”

“Mi stai chiedendo di andare a Roma?”

“Ti sto chiedendo di restare a New York.”

Calypso riprese a sbattere velocemente le palpebre e abbassò lo sguardo sul suo gelato. “Decisamente, preferisco le crêpes.”










 

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Capitolo 10
*** Momento Racconto (o Nico) ***


VI










"Nico." Forse un modo strano per iniziare una conversazione. O forse no. Calypso stava muovendo una pianta del suo appartamento da una parte all'altra, quindi le sue mani erano piene di terra, mentre preparava il vaso della primula viola. "Dov'è Nico?"

Leo alzò un sopracciglio e distolse lo sguardo da una scultura di Rachel sul tavolo. "Eh?"

"Tu parli continuamente di Nico." La ragazza alzò la voce, posando le mani sulle ginocchia e girandosi verso di lui. "Nico è italiano. Nico adora la Marvel. Nico gioca a Mitomagia. Nico mi ha detto che questo impermeabile non gli sembra da pedofilo. Nico è spesso all'estero. Nico vomita sempre gli hot-dog che gli preparo. Nico lavora in un ristorante italiano" enumerò le informazioni che ricordava sul ragazzo con la punta delle dita piena di terra. Sbatté le palpebre. "Ho incontrato Percy e Jason. Annabeth. Visto foto tue e di Hazel. Frank me lo hai fatto conoscere per Skype. E Piper mi ha parlato al telefono. Ma Nico... Parli sempre di Nico ma non ho visto una foto, un messaggio sul cellulare, una parola degli altri tuoi amici su di lui. Quindi. Nico?"

Leo alzò le spalle, poggiando i gomiti sul tavolo, pieno di strane piante tropicali che lui non aveva mai visto. "In realtà si chiama Nicoletta ed è la mia ragazza."

"Ah-ha. Nico?"

Il ragazzo sorrise. "Vuoi sentire una mia avventura di quando ero un piccolo fuggiasco?"

"Risponderà alla mia domanda?"

"Quando avevo più o meno dodici anni" cominciò, ignorando mentre la ragazza che alzava gli occhi al cielo e scuoteva la testa. "Sono scappato dalla Scuola per Bambini Speciali del Minnesota, per andarmene a Las Vegas a guadagnare, grazie alla mia fantasticissima abilità a rapportarmi con le macchine, migliaia di dollari. Quindi, ero seduto sull'autobus contando quanti soldi potevo fare in una sola giornata, quando un ragazzino coi capelli neri e lunghi quasi quanto un hippie inizia a piagnucolare perché aveva fame."

"Nico?"

"Già. In realtà non parlava con nessuno. Parlava da solo. Parla ancora da solo. Sempre. Ma non è questo il punto. Sembrava che avesse comprato un Happy Meal, ma che lo avesse anche gettato dalla finestra per non so quale motivo. Ora. Un fuggiasco riconosce sempre un fuggiasco. Nico è scappato di casa, perché non sopportava la sua matrigna. Lo ha fatto anche Annabeth, solo che Annabeth non l'ho incontrata e lei è tornata a casa il giorno dopo, praticamente. Tornando a Nico, gli ho dato un panino e lui lo ha mangiato e abbiamo parlato e abbiamo deciso che l'unione fa la forza. Una cosa mi ha consigliato Nico: mai andare al Casinò Lotus, lì mi avrebbero beccato immediatamente… a barare dico." Leo sorrise, posando uno sguardo nostalgico alla ragazza, che gli sorrideva di rimando. "Potrei stare ore e ore a parlare di quello che abbiamo fatto io e Nico in quel mese. Abbiamo affittato una stanza d'albergo, io ho vinto in quasi tutti i casinò di Las Vegas, abbiamo mangiato un sacco di Happy Meal... non so perché quel ragazzo ha sempre amato tantissimo gli Happy Meals. Nel senso, ne mangiava un sacco e dormiva quasi per tutto il giorno, e poi non era un tipo allegrissimo. Ma devo dire che ci siamo trovati bene, insieme. Che Nico non adorasse uscire, non voleva dire che Nico non uscisse. E mi aveva raccontato molte cose, suo malgrado, di quello che gli succedeva. Forse... non so proprio perché. Penso che si sia aperto così tanto solo con sua sorella, e ultimamente con Reyna. Una volta, un mese dopo che eravamo arrivati a Las Vegas, Nico aveva deciso che dovevamo festeggiare e mangiare, per una volta, bene. Dovevamo festeggiare un colpo grosso. Pensa, avevamo per le mani tre centinaia di dollari, in una sola giornata! È il momento giusto per dirmi che sono fantastico."

"Sei una specie di ladro."

"Ci so fare con le macchine" rispose lui, con una smorfia infastidita, che però durò pochissimo. "Insomma, Nico decide di uscire, per non so cosa. E io lo aspetto nella camera d'albergo. Che non avrei potuto affittare senza Nico, non te l'avevo detto, ma mi sembra un dettaglio importante. E, insomma, lo aspetto. Passano ore, ore, ore e ore e Nico non torna. Il giorno dopo, Nico non torna. Due, tre, quattro giorni e Nico non torna. C'era qualcosa che non andava e mi sono reso conto che se rimanevo lì ad aspettare mi avrebbero trovato e riportato ad una scuola per teppistelli. Sono scappato dopo una settimana, quando ho visto dei poliziotti nell'albergo."

"E Nico?"

"Beh, ecco, per arrivare di nuovo a Nico dobbiamo saltare alcuni anni ed arrivare ai miei quindici anni, quando mio padre mi ha portato via dalla tutela dello Stato. Sono finito qua, a New York. E ho conosciuto tante persone, Jason e Piper li vedevo spesso, ho scoperto il mio amore per gli hot-dog, oltre che per le enchiladas, e ho ritrovato Nico. Che faceva finta di non conoscermi, ovviamente, ma abbiamo riallacciato i rapporti, per mezzo di Hazel, sua sorella. Poi un giorno, quando siamo solo noi due e io dico che gli offro un Happy Meal, lui mi dice perché era scomparso, che era una cosa che avevo già intuito: quando alcuni uomini di suo padre erano arrivati a Las Vegas, gli avevano dato un ultimatum e in una delle scelte ero implicato io. O tornava da suo padre, spontaneamente, o mi avrebbero consegnato allo Stato del Nevada. Un fuggiasco capisce sempre un fuggiasco. Ai tempi non sopportavo l'idea di tornare in Texas, o in una casa famiglia, o da mia zia. Nico lo sapeva. Ha messo me davanti a se stesso. Come potevo non abbracciarlo dopo che me lo ha detto? E poi, penso, gli sia andata bene, dopo quella volta che è fuggito: la sua matrigna lo ignora, suo padre cerca di essere un padre, con non molti risultati, va bene, ma almeno ci prova, è ricco, ha una sorella che stravede per lui. Direi che come casa non è niente male."

"Ha smesso di essere un fuggiasco. Quindi, sta a New York."

Il sorriso di Leo si spense e il ragazzo puntò lo sguardo sulle sue mani, sospirando silenziosamente. "Non è a New York. Non so esattamente dove sia. Ogni tanto torna. Viene sempre in Texas, quando vado a trovare mia mamma, quindi, tre o quattro giorni all'anno lo rivedo, ma ci sono state volte in cui abbiamo dovuto aspettare mesi e mesi, prima che lui tornasse. A volte anni. È che, sai? Per accettare una casa, prima si deve accettare se stessi. Però noi siamo sempre qua, mica scappiamo."

Calypso travasò la sua primula, per poi alzare gli occhi verso il ragazzo, che si nascondeva dietro le sue mani callose. "Non scappi?"

"Ho smesso di essere uno che scappa da tanto tempo. Anche perché dopo i cento metri di corsa, i miei polmoni saltano fuori e muoiono a terra." Arricciò le labbra ed alzò gli occhi verso il soffitto, che soveva essere bianco, sotto tutte quelle foglie verde scuro. "Ma questo non vuol dire che le persone non le inseguo."














 

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Capitolo 11
*** Momento Paranoia (o Fuga) ***


Note:
Il sonno è mio compagno fedele. Come lo è il mio cane. L'ansia per gli esami. La fame. E questa storia.
Che inizia ad andare male.
Grazie mille a voi che seguite e recensite. O seguite ma non recensite. O recensite ma non seguite(?). È il sonno. Parla il sonno.





VII


“Pronto?” Leo era pronto ad uccidere chiunque lo avesse chiamato alle sei del mattino di domenica. Non era una cosa educata svegliare una persona che, di solito, si svegliava a mezzogiorno in un orario così indecente.

“Devo parlarti.”

“Calypso? Hai un cellulare?”

“No. È di Rachel. Con un cellulare mio padre mi potrebbe contattare o localizzare.”

“Non sei paranoica?”

“No.”

“Calypso.” Leo scandì bene il nome, per poi scoppiare in uno sbadiglio stanco. “Cosa succede?”

“Ho cinque ore. Tre autobus. Un aereo. Duecento dollari. Il passaporto. Un mazzo di fiori. Rose. Le cuffie, con il DVD portatile. E ho paura.”

“Cosa stai dicendo?”

“Era un'amicizia a scadenza. Tu lo sapevi. Come il latte fresco. È settembre. E non era un'amicizia, dannazione.”

“Dove sei? Ti vengo a prendere.”

“No. No no no no no. Ascoltami. Io non ci torno a Ogigia, capito? E ci avevo pensato a rimanere a New York. Lo capisci? Ma lui mi ha trovato.”

“Rachel è lì con te?” Leo si era trascinato velocemente fuori dal letto, cercando sotto di quello un pantalone pulito o sporco che fosse, tenendo il cellulare schiacciato tra l'orecchio e la spalla. “Stai avendo un attacco di panico. Ti devi fermare ad ascoltarmi. Chiudi gli occhi e respira.”

“Io sto già respirando!”

Leo s'infilò una maglietta a caso. “Calypso dove sei?”

“Trentaquattro scalini e il panorama del mare. C'erano troppi non-ti-scordar-di-me nel mio giardino. Ma mi hanno dimenticato lo stesso. La finestra era grande ma anche troppo piccola. Sempre chiusa. Cinque scalini più in basso e Drake mi ha detto che aveva una Elizabeth nel mondo reale. Cinque più in su, la storia si ripeteva ma con nomi diversi. Non dare mai il nome di Penelope a tua figlia.”

“Cosa stai confabulando? Calypso. Dove sei?”

“A tutti piacevano i non-ti-scordar-di-me. A te piacciono i gigli. Ma se sei arrivato troppo tardi è colpa tua.”

“Cosa?”

“No. È colpa mia. Dovevo venirti incontro. Ma… mi ha trovata. Dio… mi ha trovata.”

“Allora.” Leo uscì dalla sua stanza per andare a prendere le scarpe che aveva lasciato nella scarpiera dell'ingresso. Nel farlo vide Jason sbocconcellare un pezzo di pane in cucina. Non pensò nemmeno di dirgli cosa stava succedendo. “Calypso. Hai diciotto anni. Nessuno può costringerti a fare niente. Tanto meno tuo padre. E non penso che qualcuno ti abbia seriamente localizzato. Penso che in questo momento tu stia entrando nel panico senza motivo. Calmati.”

“Non dirmi di calmarmi.”

“Stai scappando da un luogo da cui sei già scappata. Lo so. So cosa si prova. Dimmi dove sei e parliamo come facciamo sempre. Ti vengo a prendere. Sono il tuo Ragazzo Blu, non ricordi?”

“Sei il mio Ragazzo Blu.”

“Già.” Leo cercava di sembrare tranquillo, in piedi davanti alla porta di casa. “Ti vengo a salvare dai tuoi Puffi mentali e dal tuo insano amore per Hunger Games. Non lo ricordi? Dove sei?”

“Nessuno voleva tornare. Dev'essere stato il posto perché se fossi stata io…? Non volevano tornare al posto, non da me. Vero? Loro non appartenevano lì. Nemmeno io devo appartenere lì.”

“Calypso.”

“Io non devo tornare.”

“Dove sei?”

“Tu saresti tornato? Nel senso. Se fossi capitato a Ogigia, come ci è capitato Ulisse o, dopo, Drake, ti saresti innamorato dei gigli e non dei girasoli. Non ti sarebbero piaciute le rose bianche. Nel linguaggio dei fiori la rosa bianca vuol dire cuore solitario. A tutti loro piacevano tanto. Ma a te sarebbe piaciuto di più il labirinto di Dedalo. Ma te ne saresti andato anche tu? Tre gradini più in basso di Drake, due più in alto di Ulisse. Cosa mi avresti detto lì? Chi saresti andato a cercare?”

“Dove sei?” Le dita di Leo graffiavano la porta nervosamente, frustrato dal suo non sapere dove andare e come raggiungere la ragazza. “È irritante sentirti parlare così tanto e non poterti zittire.”

“Perché non rispondi alle mie domande?”

“Perché tu non rispondi alle mie?”

“È sempre questo il momento. Quando lo dico poi tutto finisce e se ne vanno. Se ne vanno nel loro mondo reale, dalle loro ragazze reali e portano via con loro i non-ti-scordar-di-me. E io rimango da sola. Non voglio tornare a Ogigia, per questo non te l'ho detto.”

“Cosa?”

“La nostra non è un'amicizia.”

Silenzio. Leo sospirò, grattandosi nervosamente la testa. “E questo cosa significa?”

“Che tu sei il mio Ragazzo Blu. Blu, tipo Azzurro, capito? E ti avrei tanto voluto conoscere prima. Saremmo potuti scappare via insieme e vivere tante avventure come, non so, come… non sono brava con queste cose. Tu sei bravo a trovare coppie famose. E poi, a furia di avventure, dopo esserci conosciuti fino in fondo mi sarei resa conto di essere innamorata di te. E tu, nel mio mondo perfetto mi avresti ricambiata. Mio padre non mi avrebbe mai trovato. Ma nel mondo reale tu non mi hai trovata, io ti ho conosciuto troppo tardi. Mi sono innamorata di te. E mio padre mi ha trovata.”

“Calypso…”

“Io volevo rimanere.”

“Resta allora. Stai scappando dal nulla.” Cercava di rimanere calmo, anche se le sue mani, che continuavano a graffiare disperatamente le porte e le sue maniglie, avevano iniziato a tremare. Se quelle parole fossero venute fuori in un momento diverso, se gliele avesse dette in quel ristorante italiano, o al parco, o a casa sua, avrebbe sorriso e fatto un monologo sul loro possibile e fantasticissime nuovo amore. Ma parlava durante una crisi di panico dovuta a non sapeva esattamente cosa. Quante delle sue parole potevano essere reali? “È come se tu non fossi mai uscita da… O… da Og… da quello che hai detto tu! Te l'ho detto. So come ti senti. Ti posso aiutare. Gridare contro di me quando sei irritata ti fa sempre sentire meglio. Cose tipo Alviiin!”

“Non sa delle mia borsa di studio. Nemmeno della mia scelta finale. Posso…”

“Perché mi hai chiamato? Vuoi farmi diventare matto?”

“Volevo scoprire cosa vuol dire lasciare e non venir lasciato, per una volta.”

“Felice di esserti servito al tuo esperimento. Per la prossima volta ti suggerisco un topo.”

Calypso rise. Strano ma vero. In un momenti come quello lei rise, non di cuore certo, ma come ride una persona davanti alla battuta di un morituro. Con le lacrime agli occhi. “Ti amo.” E chiuse la telefonata.

Leo tirò un calcio alla porta e l'aprì. Richiamò il numero. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque volte. Nessuno rispose, ovviamente.

Fermo davanti alle scale del condominio, si morse il labbro, frustato dal non sapere dove andare. E si grattò la testa e guardò il suo cellulare e lo volle rompere. E guardò in alto, guardò in basso e cercava di far mente locale. E non ce la faceva.

Jason passò davanti alla porta e lo vide. Inclinò la testa, aggrottò le sopracciglia, si avvicinò a lui con passi lenti e “Cosa succede?” chiese.

“Abbiamo comprato del gelato e nuovi DVD?” Leo aveva gli occhi vuoti e parlava senza aprire troppo la bocca. “Ho bisogno di vedere persone che soffrono.”








 

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Capitolo 12
*** Momento Tregua (o ***


Note:
Ho pensato di fare una piccola pausa con la storia. Non per niente, ma perché maggio e giugno sono due mesi molto impegnativi, almeno quest'anno.
Ma sarebbe un peccato non continuare a pubblicare come ho fatto fino ad adesso. Quindi lo farò, ma con meno assiduità: una volta ogni due settimane. Spero nessuno me ne voglia!
Grazie a chi sta ancora seguendo la storia ❤️






VIII



Lloro por amor… escale muchas montañas sin temor a una avalancha y me caí.” Se fosse esistito il cuorespezzatometro, Leo sarebbe arrivato al livello massimo, rosso-quasi-nero, pericolo di morte. Se ne stava lì, davanti alla radio mormorando le parole di alcune canzoni, guardando il suo cellulare di tanto in tanto e sospirando. Le sue mani, che mai erano state ferme nei suoi vent'anni di vita, erano intrecciate al cellulare, e questo telefonino era visto come si guarda un pugnale. A Leo, Romeo e Giulietta non era mai piaciuta come storia. Fu un colpo di fortuna, perché non gli balenò nemmeno in testa l'idea di colpirsi alla pancia col suo smartphone. “La televisión me hace daño…”

Percy si morse il labbro, poco lontano.

Avevano provato di tutto. Correre per New York a cercarla. Rintracciare Rachel, che, con loro, non ci voleva parlare. Chiamare al telefono della sua vecchia scuola, per sapere in quale università Calypso avesse deciso di studiare. Telefonare anche all'ambasciata cretese a New York. Tutto fu inutile. E più quella ragazza sembrava lontana, più sembrava che anche Leo si perdesse.

“Era da tanto che non sentivo Romeo Santos in questa casa.” Jason, con le braccia incrociate stava in piedi accanto a lui, guardando la schiena del messicano.

Il moro si girò verso di lui, per poi tornare a guardare davanti a sé. “Da almeno i tempi di Eco” convenne, grattandosi la testa e abbassando leggermente il capo.

“Secoli fa.”

“Secoli fa.”

Senza Leo a fare l'idiota per le stanze era sempre tutto diverso. Leo era il cuore dell'appartamento, il motore che faceva in modo che il tempo continuasse a scorrere anche in quel pezzo di New York. E adesso, il motore era fermo. Di nuovo.

Che Leo si innamorasse continuamente, non voleva dire che a Leo si spezzasse il cuore continuamente, al contrario di quello che tutti pensavano.

Era successo solo tre volte in tutta la sua vita, eppure, di ragazze che lo avevano rifiutato ce n'erano state a migliaia.

Il cuore di Leo si è spezzato alla morte di Esperanza Valdez.

Il cuore di Leo si è spezzato davanti a Eco, alla quale aveva chiesto di scappare insieme, abbandonando quel suo amore per Narciso, e lei non aveva accettato. E non si è spezzato per amore. Si è spezzato per quella strana empatia che aveva sempre avuto con quella ragazza.

Il cuore di Leo non era spezzato quando Chione l'aveva lasciato. Ai tempi era solo triste, perché è così che ci si deve sentire dopo che una bella ragazza ti lascia. Triste. Triste abbastanza da dare il tormento ai tuoi amici, guardando stupide maratone di film, ma non abbastanza da saltare la Fiera delle Arti Moderne. Se gli avessero chiesto di andare da qualche parte, se la cosa non fosse collegata a Calypso, Leo non sarebbe andato da nessuna parte.

Calypso gli aveva spezzato il cuore. Lo aveva lasciato indietro. Un po' come era successo con Esperanza ed Eco. Un po' la situazione dalla quale cercava di scappare da quando aveva otto anni.

Jason sospirò. “Lo preferisco davanti a film idioti.”

“Se ci mettessimo lì, a vederceli con lui, non dovremo sentirlo mormorare neanche stesse recitando una preghiera…”

“Tu non sei stato così male quando Annabeth ti ha lasciato.”

“Tu non sei stato così male quando hai lasciato Piper.”

Percy, pochi giorni prima, stava preparando le sue valigie per andarsene dall'appartamento. Jason lo sapeva. Lo capiva. Per tutte le settimane precedenti non avevano fatto che litigare, battersi, competere, in una lotta che non aveva senso per nessuno dei due.

Eppure, agli inizi della loro amicizia, attraverso i pugni, attraverso la corsa, attraverso qualsiasi cosa, anche una nuotata -cof e Jason non sapeva nuotare, cof-, loro due riuscivano a comunicare senza problemi. Come se si leggessero dentro. Come se fossero stati l'uno il completamento dell'altro. Erano diventati amici combattendo l'uno contro l'altro e poi combattendo insieme. Niente di più concreto o reale. Non necessitavano parole per sapere cosa avrebbe fatto l'altro. Perché Jason era l'occhio destro e Percy il sinistro.

Nelle ultime settimane non comunicavano. Percy era troppo offeso dalla mancanza di fiducia del biondo in lui e troppo spaventato da quello che Jason stava cercando disperatamente di confessargli e Jason non sarebbe tornato sui suoi passi solo perché il ragazzo per cui aveva una cotta era un codardo. Cioè… no, lui non… oh, se ne vadano al Tartaro le vecchie etichette e i limiti mentali delle persone. Jason aveva una cotta per Percy da, più o meno, quando lo aveva preso a pugni la prima volta. Il che non deve suonare molto romantico.

Percy mancava di consapevolezza. Non sapeva cosa provava per Annabeth. Non sapeva cosa provava per Jason. Non sapeva cosa Nico aveva provato per lui. Non sapeva quello che lui era capace di fare alle persone. E questo perché non si era mai preso il fastidio di sedersi con la sua penna blu in bocca e pensare a cos'avesse dentro il suo corpo.

Ma Jason non lo incolpava. Tutto poteva essere spaventoso, dentro di lui.

Solo… era contento che, grazie a Leo -che comunque non stava molto bene-, Percy avesse deciso di non andarsene. E tutto stava tornando lentamente alla routine. Apparte Leo col cuore spezzato, certo.

Il biondo si sentiva un pessimo amico, ma, come gli aveva detto sua sorella al telefono: “Mors tua vita mea” e aveva anche aggiunto: “Questa volta pensa a una strategia più efficace per tirare fuori Percy dalla sua ottusa non-emotività.”

Percy gli lanciò uno sguardo a metà tra l'imbarazzato e il confuso. “Ma tu l'amavi.” Le parole uscirono come un'accusa, una silenziosa accusa, ma il moro non le aveva pensate esattamente in quel modo. Sicuramente. “Piper, dico.”

“Come può amare un adolescente.” Jason alzò le spalle. Non era una risposta, ma poco importava. Chiedersi se amasse o meno Piper in un passato non aveva senso. Soprattutto in quel momento in cui entrambi avevano girato pagina.

“Parli come un vecchio.”

“Sono vecchio.”

“I tuoi capelli non sono biondi. Sono bianchi.”

“E a te manca soltanto che cresca la barba per confonderti con un barbone. O per non farti scambiare con una ragazza.”

“Io non sembro una ragazza!”

“Rapunzel, sciogli i tuoi capelli!”

“Oh, sono Jason e non so nuotare! Oh, sto affogando. Oh, miei dèi! Uno squalo vuole il mio piede! Percy salvami!”

“C'era veramente uno squalo!”

“Era un'alga!”

“Un'alga carnivora.”

“Le alghe non sono carnivore!”

“E se io portassi a casa Tempesta e te la lasciassi in camera tua mentre dormi, non esisterebbero ancora le alghe carnivore?”

Percy scoppiò a ridere, scuotendo la testa. “E questo cosa c'entra?”

“Tempesta c'entra sempre.”

Leo sospirò, spegnendo la radio davanti a sé. Affondò il viso tra le mani, piegandosi in due e gettandosi sul divano in tutta la sua lunghezza.

Jason lanciò un'occhiata a Percy che annuì immediatamente e corse verso il salotto, iniziando a borbottare qualcosa su un film di Jim Carrey che lo avrebbe fatto impazzire, mentre Jason correva a preparare chili di pop-corn e portare in salotto ogni tipo di bibita gassata.

“Serata tra uomini!” gridarono, cercando di strappare al ragazzo col cuore spezzato almeno un sorriso tirato.




 

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Capitolo 13
*** Parte III: Periodo Nero. Ricerca (del Coraggio) ***


Note:
No, niente. Sono stralunata, tutto qui.











Parte III: Il Periodo Nero
































 

I


“Quando ero piccolo avevo un pupazzetto che avevo chiamato Festus.” Leo, sdraiato sul divano, teneva il braccio steso sotto il suo orecchio, guardando svogliatamente Breaking Up, guardato a sua volta da Hazel, che mangiava i pop-corn datele dai coinquilini del ragazzo. “Adoravo quel pupazzetto. Con tutto me stesso. Lo portavo sempre con me, lo riempivo di fango, perché mi rotolavo nel fango, gli facevo la doccia, gli davo un po' delle enchiladas di mamma, perché erano deliziose, e lo portavo a scuola. Era il mio migliore amico. Non dirlo a Jason e nemmeno a Percy. Ma Festus era la cosa migliore che mi fosse mai capitata. Quando morì mia madre, andai da mia zia Rosa e Festus venne con me. Non so perché, ma ho sempre pensato che quel pupazzetto avesse avuto un'anima e da zia Rosa era infelice. Come me. Io e lui in quella casa siamo sempre stati infelici. E per questo sono scappato. Ma non ho portato con me Festus. Nel mio essere bambino, ho pensato che non sapevo dove sarei andato e che volevo che Festus fosse felice. Ora, forse Festus sarebbe stato felice in qualsiasi posto, in qualsiasi parte del mondo, insomma, era un pupazzetto di seconda mano e non ho mai conosciuto il suo passato. Ma l'unico posto in cui l'avevo visto felice, era stato nella casa in cui avevamo vissuto con mamma. Quindi sono sgattaiolato con Festus sottobraccio la notte della mia fuga e sono entrato nella mia vecchia casa. Nel buio, ricordo, sono inciampato un paio di volte e ho dovuto cercare a tentoni Festus. Poi, sono arrivato in cucina e mi è venuto in mente quella volta in cui io e mamma abbiamo cucinato insieme la torta per la quinceañera di una cugina del Messico. Quella volta mamma si era impiastricciata di panna e impasto, c'erano fragole ovunque e lei rideva. E ho pensato che in quel preciso istante ho pensato che lì sono stato felice io, che la guardavo e cercavo di aiutarla, facendo scoppiare una torta in un forno, e Festus, tra le mie braccia, con gli occhi neri che brillavano. E l'ho appoggiato accanto ai fornelli. E gli ho detto addio. E me ne sono andato via. Festus è stato il mio primo amico, immaginario, okay, ma pur sempre un amico, e io l'ho abbandonato in un appartamento mezzo bruciato del Texas. Se è vero che Festus aveva un'anima, se è vero che anche lui è stato felice, allora in quel momento, forse, è stato infelice quanto io lo sono in questo momento. Un pupazzetto mi ha maledetto perché gli ho spezzato il cuore.”

Hazel inclinò la testa, abbassando il volume della televisione e avvicinandosi all'amico. “Per quel che mi hai raccontato, penso che potrebbe tornare. Magari tornerà…”

“Festus?” Hazel alzò gli occhi al cielo. Leo scosse la testa impercettibilmente. Non gli veniva da ridere neanche per le sue stesse battute. Affondò il viso nel cuscino del divano, affogando parti delle sue parole e nascondendo il suo viso. “Quando scappi la prima volta non sai dove andare. Scappi e basta. E quando ti sembra che hai trovato un posto in cui rimanere allora scappi di nuovo, perché pensi che il posto dal quale tu sei scappato ti stia raggiungendo. Scappi finché puoi, e senza pace, e senza meta. Scappi perché puoi. Quando fai una cosa del genere quello che vuoi è perdere tutti i lacci col mondo. Niente responsabilità, niente doveri, niente amicizie. Riaverle non è così semplice e non perché gli altri non vogliono. Sei tu che non vuoi legarti agli altri, perché se sei scappato da delle persone un motivo c'è.”

“Tu hai smesso di scappare.”

“Ho trovato un motivo per rimanere.”

“Jason?”

“Tu.”

“Per l'amor del cielo, la smetti di fare stupide battutine?”

Leo alzò gli occhi verso di lei, alzando un poco la testa e staccandola dal proprio braccio, poi, dopo qualche secondo di silenzio, fece ricadere il tutto con un tonfo secco, accompagnato da un sospiro.

“Scusa.” Hazel si morse le labbra violentemente, tanto da sentire il pizzichio della zona in cui stava strappando la pelle. “Puoi continuare a fare tutte le battutine che vuoi.”

Leo non ci fece molto caso, puntò il suo sguardo sul televisore. “Cavolo, Monica, rispondi a quel telefono! Non senti come soffre Steve?”

Era da ammettere che guardarsi un film sul lasciarsi non era stata l'idea più fenomenale di Jason, ma pensava che sarebbe potuta servire per una specie di catarsi. Il piano non stava funzionando molto bene, inutile dirlo.

“Io sono scappato, una volta, quando avevo già conosciuto Jason.”

“Non lo sapevo.”

“Sono tornato dopo poche ore.”

“Perché?”

Il ragazzo sospirò, rannicchiandosi meglio. Il pigiama rosso non copriva del tutto i piedi intrecciati tra loro. Sembrava un bambino. Un bambino molto triste. “Jason è venuto a prendermi.”

Hazel sorrise. Se lo aspettava, in fondo. “Potresti andarla a riprendere tu, questa Clodia.”

“Calypso.”

“E io che ho detto? Claudia.”

"Calypso" sospirò lui, cercando di alzarsi dal divano, sistemandosi alcuni riccioli dietro le orecchie e verso la nuca. "E anche se fosse, dove la vado a cercare? Ho tre tappe. Londra, Parigi, Roma, e lei non ha mai detto di preferire una città ad un'altra. Sarebbero tre viaggi, senza una vera meta e..."

"Scusami, ma questo non è il Leo che conosco io." Hazel alzò il palmo di una mano, fermando il possibile fiume di parole del messicano. "Il Leo che conosco io sarebbe già a lavoro per ritrovare questa Carla che gli ha rubato il cuore. Anche se sarebbe dovuto andare in Cina e ricercala per ogni villaggetto e sovvertire l'ordine mondiale nel mentre."

"Calypso. Sì, ma..."

"Comunque che nome... Calypso... Calypso giusto?"

"Come un ballo caraibico." Leo sorrise e l'amica vide per la prima volta, nei suoi occhi, da quando era tornata dal Canada, quel luccichio vivace, che tanto lo caratterizzava. "Ma lei è rigida come un tronco. Ho provato a farla ballare. La prima volta mi schiacciava i piedi e voleva condurre lei. Poi è migliorata... e sorrideva sempre. Balliamo un calypso. Glielo dicevo sempre." Si buttò di nuovo sul divano, sconsolato, per poi affondare la testa in un cuscino.

"Leo" lo chiamò Hazel, arrivando accanto a lui e carezzandogli dolcemente la testa. "Alzati da quel divano e valla a cercare. Non eri tu quello che sa inseguire le persone? Volare in Europa non sarà poi tutto questo problema, no?"

"Come sta Frank?" mugugnò il ragazzo, come se fosse stato un lamento di un bambino. Voleva sicuramente sviare la conversazione.

"Come un canadese in mezzo alla natura. E si è dato alla pesca" lo assecondò lei, sorridendo, per alleggerire la situazione.

"Perché?" Leo abbozzò un sorriso timido, alzando la testa dal cuscino. Frank era sempre stato il ragazzo che lui amava prendere in giro di più, ma con affetto, eh. Con tanto affetto.

"Non lo so" rise Hazel, alzando le spalle e scuotendo la testa. "L'andrai a cercare? Clara, dico."

Il ragazzo prese dalla tasca posteriore dei suoi jeans il suo cellulare, sospirando. La doveva andare a cercare, ma la poteva andare a cercare? Guardò l'amica e si grattò la testa. "Calypso, Haz. Si chiama Calypso."












 

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Capitolo 14
*** Ricerca (della Verità) ***



II



"Lo sapevo che dovevo mandare un messaggio a mamma prima di partire. Stiamo morendo." Percy chiuse gli occhi, stringendo le sue mani in due pugni e rannicchiandosi nel suo sedile. "Questo aereo precipiterà, io me lo sento. Cadremo nell'Atlantico e allora, tra l'acqua, arriverà una fantasticissima nave che ci salverà. Oh, quanto amo l'oceano... insomma, quando cade quest'aereo?"

"Signore" lo rimproverò una hostess, fulminandolo con degli occhi chiarissimi. "Sta spaventando gli altri passeggeri. La prego di calmarsi e allacciarsi le cinture di sicurezza."

"Cintur... mi sta prendendo in giro? Questo coso" agitò la cintura di sicurezza, mentre la hostess alzava gli occhi al cielo. "Questo coso dovrebbe salvarmi la vita? Oh, miei dèi. Leo. Moriremo."

Leo, dal canto suo, rise, poggiando una sola mano sulla spalla dell'amico e scuotendo la testa. "Stiamo solo per decollare, Percy. Abbiamo otto ore per morire. E non so per quale motivo vorresti cadere in acqua e cosa ti faccia pensare che una nave verrà a salvarci. Ma, visto che stiamo per morire, vuoi confessarmi qualcosa d'importante?"

"Io non sto per morire." Percy aggrottò le sopracciglia, imbronciandosi come farebbe un bambino. "Ti userò come scudo umano."

"Contro cosa?"

"I fulmini."

"È un onore accompagnarti nel tuo primo viaggio in aereo. Non pensavo fosse possibile assistere ad una Percy isterica, ma, ehi, mai dire mai nella vita. Peccato Jason non possa godere di questo spettacolo."

"Sta prendendo velocità. Prende velocità. Si sta staccando da terra. No, ha solo girato l'angolo. Okay. Adesso prende velocità. Odio che le lucette dell'aereo mi dicano cosa devo fare!" Si divincolò nel suo sedile, girandosi verso di lui per poi rigirare di nuovo la testa verso la finestra.

"Se vuoi possiamo parlare dei nostri sentimenti..."

"S-sta, tipo, cavolo, a quanto stiamo andando?"

"Venti chilometri orari, Percy." Leo alzò gli occhi al cielo, per poi riabbassarli in fretta verso l'amico. "In queste otto ore, potresti, è un'idea, eh, raccontarmi chi ha lasciato chi con Annabeth. Eh? Che bell'idea! Sai, ho delle teorie su questa cosa. In realtà, non ci sono arrivato da solo. È stata Calypso a farmi venire in mente che... Insomma, chi ha lasciato chi?"

"Sono stato mollato, Leo" rispose il moro, piuttosto scocciato, afferrando i braccioli. "Vuoi seriamente parlarne ad un passo dalla morte?"

"Io penso che, senza offesa, sia stato tu a lasciare Annabeth e adesso non abbia il coraggio di prendertene la responsabilità. Nel senso, la vostra rottura è stata una po' condizionata da eventi. Una cosa alla Tutto sta cambiando. E, adesso ti faccio vedere quanto sono bravo alla Sherlock Holmes, eh, senti: tu e Annabeth vi siete lasciati dopo l'ultimo anno di liceo. E una cosa è stare insieme alla ragazza-del-liceo mentre sei al liceo, un'altra cosa è quando sei fuori dal liceo. E, ok, uno. Ma era tipo agosto, pochi giorni dopo il tuo compleanno che l'hai lasciata ed è stato quando sono successe due cose importanti: hai conosciuto Jason, Nico ha deciso di partire e tornare a casa una volta ogni morte di Papa. Quindi. Cosa, o meglio, chi ti ha fatto lasciare Annabeth? Ti sei reso conto di amare Nico nella sua assenza? O con Jason è stato colpo di fulmine?"

Percy si accigliò. "Io amavo Annabeth."

Leo scosse la testa, firando il busto verso l'amico e facendo in modo che la cintura di sicurezza gli stringesse i fianchi in modo doloroso. "Penso che sia ora della storia di Nonno Leo."

"Oh, dèi..."

" Ho fatto pratica, con questa storia, perché Hazel non faceva altro che chiedermi come fosse possibile che io sia finito con Chione. Quindi, ascolta bene, perché non l'ho mai raccontato né a te, né a Jace. So che Jason pensa che Chione abbia deciso di uscire con me solo per vendicarsi su di lui. E che tu pensi che lo abbia fatto per i risultati dei test. E forse avete anche ragione. Magari in un primo momento Chione pensava davvero a tutto, fuorché al mio bene, ma, vedi, per quanto lei possa sembrare di ghiaccio era -è- una brava persona. E ho dovuto scavare per vedere quel piccolo cristallo dentro di lei, per capire quale ingranaggio si fosse rotto in lei. Perché volevo aggiustarla, sai? Ma non come voglio aggiustare Calypso. Calypso stava -sta- aggiustando me, con il mio permesso, potendo mettere le mani dove voleva, con un sorriso, senza rammarico. Chione non mi poteva toccare. Lei stava lasciando che io facessi di lei quello che io volevo, ma io non mi sono mai lasciato toccare veramente da lei. Lei si stava sciogliendo, Percy, nelle mie mani, stava perdendo il suo ghiaccio, a causa mia, ma io stavo accanto a lei solo perché... perché non volevo essere solo. Lo stesso motivo che mi ha portato a provarci con tutte le ragazze che ho conosciuto. Prima o poi, una, una sola, mi avrebbe scelto. Ma io non ho mai scelto, veramente, nessuna ragazza. Una volta mi hai chiesto come ho fatto a dimenticare Chione così in fretta. Percy, io pensavo di amarla. Ma lo pensavo soltanto. Non ho mai scelto, non ho mai amato. Ha cercato di farmi parlare di mia madre. Nei primi tempi, tutte le volte che le parlavo, alzava gli occhi al cielo e sbuffava. Poi l'ho fatta sorridere. Insieme abbiamo giocato a Just Dance, a Super Mario Kart, a Call of Duty. E lei rideva, rideva, rideva continuamente. Aveva delle attenzioni impacciate, un modo di prendersi cura delle altre persone non convenzionale. Il berretto viola e i guanti li ha fatti lei, quando le ho detto che non mi piaceva il freddo. Per farmi cambiare idea mi ha fatto dare da mangiare alle oche in mezzo al gelo. L'ho odiato, ma lei voleva seriamente farmi capire cosa voleva dire stare nella sua testa. Io non sono entrato nella testa di nessuno. Fino a lei. E per questo è riuscita, da sola, con un gesto, a spazzare via tutti gli echi di finto amore nel mio passato. E, prima volta che è successo spontaneamente in vita mia, lei ha scelto me. Ah! Sono diventato bravo con le parole." Batté le mani in un unico applauso, complimentandosi con se stesso. "Il punto è che adesso ho scelto, mijo, e quindi sono un vero uomo. Tu hai iniziato a fare la tua scelta, Percy. Poi sei tornato sui tuoi passi. Hai scelto, sei tornato sui tuoi passi e lo hai fatto ancora e ancora e ancora. Quindi, mijo, chi è la tua scelta? Nico? Jason? Se mi dici che sei innamorato di me, pianto Calypso e la ricerca. "

Il moro sbatté le palpebre, per poi girarsi verso il finestrino, che era la sua unica barriera contro le nuvole del cielo. "Siamo in aria" commentò. "Stiamo volando, Leo."

Non dissero niente per qualche minuto, il messicano prese a tamburellare sulle sue ginocchia, con le dita delle mani, giocando a formare parole col Codice Morse. Mucca. Marmellata. Ciambella. Londra.

"Questa ragazza ti ha stregato. Dico che sei proprio andato. Stai parlando di sentimenti con me."

Luce. Cavolo. Enchilada. "Prima o poi sarebbe successo."

"Sono felice che tu l'abbia incontrata. E, se è vero tutto quello che hai detto... voglio poprio aiutarti a ritrovarla. Voglio veramente che insieme a lei tu sia felice."

"Anch'io." Leo sorrise, facendo segno ad una hostess perché si avvicinasse. "Anch'io voglio solo che tu sia felice." Poi sorrise, indicò il finestrino e ricordò: "Stiamo volando."

Calypso.

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Capitolo 15
*** Ricerca (di un amico) ***


III






Jason non la smetteva di parlare da quando Percy li aveva salutati all'aereoporto e loro avevano varcato la soglia dell'imbarco.

Parlava tantissimo. Non la smetteva più.

A Leo, normalmente, la cosa non avrebbe dato poi così tanto fastidio, se solo non fosse stato così nervoso. Era il suo secondo viaggio in Europa. Questa volta in Francia, Parigi, perché non sapeva dove Calypso avesse deciso di studiare. Perché a Londra non l'aveva trovata e pensava veramente che sarebbe stata lì, nella biblioteca universitaria, leggendo William Blake e prendendolo in giro, perché pensava che l'avrebbe trovata il terzo giorno, poco prima di partire e lei lo avrebbe seguito, e l'avrebbe portata a vedere dove era stato girato Harry Potter, la cabina telefonica rossa, le guardie... e si sarebbero divertiti.

Leo era sicuro che Calypso sarebbe stata a Londra, ad ascoltare i Beatles sotto la pioggia e con un block notes, bagnato, maltrattato, ma chiaro e leggibile, tra le mani, scrivendo meraviglie, osservando meraviglie.

E l'aveva cercata. Cercata ovunque, cercata disperatamente. Si chiedeva di cosa parlava con più frequenza, dove sarebbe potuta essere, e correva da una parte all'altra, con Percy dietro che gli chiedeva continuamente dove voleva andare, dove voleva correre e perché.

Quando non l'aveva trovata, quando lui e Percy erano dovuti tornare a casa, su quel maledetto aereo, Leo fu invaso, di nuovo, sempre, da paure e dubbi, che Hazel con tanta fatica aveva fatto scomparire in lui.

E se...?

"E se stessimo rincorrendo entrambi qualcuno che non vuole essere ritrovato?" Si stava allacciando le cinture di sicurezza, ed era riuscito, finalmente a zittire il biondo, che lo guardò, aggrottando le sopracciglia. "Se non vuole essere salvata?"

"Salvata? Tipo da un drago?"

"Tipo da... tipo da lei. Se quando la trovassimo lei fosse contenta, felice, con un francese, o chissà con un ragazzo così, a bere caffè e parlare di letteratura, come piace a lei? Se io non fossi mai stato abbastanza, e lei fosse scappata per questo e non perché teme il dover tornare imprigionata, io cosa dovrei fare? Se non la dovessi cercare? Se fosse più felice? O, sarebbe più felice se non cercassi di riportarla indietro?"

Jason sbatté le palpebre, sorrise e poggiò una mano sulle spalle di Leo, per tranquillizzarlo. Capì che il suo gesto era stato inutile e stupido, quando vide le mani immobili del messicano, poggiate sulle coscie, completamente ferme, completamente senza vita. Si morse le labbra, dandosi dello stupido per non essersi reso conto di quel particolare con lui. Eppure, lo sapeva, lo conosceva bene. Leo era una persona che si doveva leggere tra le righe. E lui, ultimamente, non lo aveva fatto.

"Percy non ti ha perdonato." Leo cambiò argomento di colpo, mentre guardava davanti a sé. "È rimasto solo per me. Non per fare l'egocentrico, va bene? Solo che... ho pensato che in questo è simile a Calypso. Scappa. E noi stiamo inseguendo delle persone che devono fare delle scelte che potrebbero farci molto male. Nel senso, io ho scelto Calypso, vero? Ma se lei non scegliesse me? Non mi scegliesse di nuovo? Se anche la trovassi a mangiare una baguette in una piazza francese, chi mi dice che lei deciderà di tornare a New York?"

Jason poggiò la schiena contro il sedile, abbandonando il capo all'indietro e sforzando un sorriso. "Ti ricordi quando sei scappato dalla scuola di teppistelli? Eravamo già compagni di stanza e tu, che adesso ti vanti tanto di avere una casa e degli amici, volevi scappare via. Perché avevi paura di fallire in una cosa che dovrebbe venire naturale a tutti noi. E ti ricordi che ti sono corso dietro in pigiama? Perché, cavolo, un migliore amico è difficile da trovare, sai? Soprattutto uno non completamente idiota nella scuola per teppistelli. Scuola nella quale stavo solo perché mi avevano incastrato. Ma va bene, andiamo avanti. Ti ricordi quale era la scusa per la quale volevi scappare?"

"Era il compleanno di mia madre e volevo andarla a trovare. Che non era una scusa." Il ragazzo affondò nel sedile, incrociando le braccia e mettendo un leggerissimo broncio, che, prima di quel bruttissimo periodo in cui Jason lo aveva visto tristissimo, non era mai esistito.

"Una motivazione più che valida, direi. Quindi, mentre ti rincorrevo, mi sono chiesto: ma dovrei veramente riportarlo indietro? In fondo, non è una cosa che avrei fatto anch'io, se solo mia madre non mi avesse dato in quasi-adozione? Allora ho pensato che, se tu mi avessi detto che dovevi scappare, che dovevi andartene perché era un qualcosa più in alto di te e di me, allora io sarei scappato con te. Avrei lasciato Piper indietro, anche la possibilità di ritrovare Thalia, perché tu avevi bisogno di me."

"Penso che a te Piper non sia mai piaciuta sul serio."

Il biondo alzò le spalle. "Quel che ti voglio dire è che se anche tu mi avessi respinto, mi avessi detto di tornare indietro, io ti avrei seguito lo stesso, perché tu avevi bisogno di me. Penso che Calypso abbia bisogno di te. Forse Rachel ha cercato di fermarla ma non ci è riuscita, allora devi provare tu. Provare a insegnarle quello che hai imparato tu. E se ti respinge... è il rischio di scegliere. A volte le persone non scelgono te."

Leo deglutì, per poi abbassare la testa. "Qui ci vuole il mio impermeabile da stalker, direi. Mi hai appena istigato allo stalking. E volevo proprio fartelo provare." Alzò gli occhi, per poi sorridere e ritrattare: "L'impermeabile. Che, comunque, penso stia meglio a me piuttosto che a te. Io sono fantastico. L'impermeabile aumenta il mio fascino."

"Come il camminare con la testa inclinata a quarantacinque gradi e ondeggiare come un idiota?" lo prese in giro il ragazzo. Poi fu attanagliato da un dubbio immenso e terrificante: "Non lo hai portato, vero?"

Leo sorrise, ma quella malinconia che lo accompagnava da ormai un mese non sembrava voler abbandonare le sue labbra. Si girò verso il finestrino, mentre l'aereo iniziava a muoversi, per decollare. "Solo..." iniziò a dire a voce bassa. "Solo non voglio finire come Eco."

Jason gli scompigliò i capelli, tenendolo fermo, facendo passare un suo braccio sotto il mento del riccio. "Siamo troppo belli per farci ridurre così da una ragazza, o no?"





 

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Capitolo 16
*** Ricerca (di conforto) ***


IV






"Ciao mamma." Leo si sedette sulla terra accanto alla lapide, abbandonando la testa su di quella e sospirando, mentre la sua voce si perdeva tra le voci di tante altre persone intorno a lui. "Ciao mamma" ripeté, incrociando le dita delle mano e guardando verso il basso. "Ho visto tanti posti dall'ultima volta che sono venuto a trovarti. Sono andato a vedere la Londra Babbana insieme a Percy, che ha litigato con alcuni inglesi perché voleva colorare il fish-and-chips di blu, siamo passati sul London's Bridge e ci siamo bagnati tutti, perché non faceva altro che piovere e piovere e piovere. Londra sembra un grande cimitero, quando piove tanto, ma l'ho trovata bella, sfondo della mia tragedia. Sono andato anche a Parigi, con Jason, perché lui conosce il latino e qualcosina doveva capire di francese. È un bugiardo, non ci ha capito niente e mi ha fatto comprare delle cose ridicolissime, perché ripeteva sempre oui oui. Ti ho..." frugò nella sua giacca, rivoltandola due volte, per poi tirar fuori un carillon a cilindro. Fece girare la manovella, e, in poco, una canzoncina, la Vie en Rose, prese a suonare acuta e dolce. "So che hai sempre voluto andare a Parigi. Efesto... papà dice che canticchiavi questa canzone con un forte accento spagnolo e che sognavi di salire sulla Torre Eiffel. Io non so se è vera la cosa dell'accento spagnolo. Io e te parlavamo una lingua tutta nostra. Però, sai? Era bello. E ho pensato a te, mentre il sole cuoceva le nostre teste e i francesi non mi volevano parlare in inglese. Ho pensato: loro vogliono parlare solo la lingua che parlavano con la loro mamma, sono un po' come me. Però, io l'inglese l'ho imparato a parlare. E anche lo spagnolo. Non avrei voluto, ma l'ho fatto." Continuò a far suonare il carillon, rimanendo in silenzio per qualche secondo, come se stesse ascoltando qualcosa, o qualcuno. "Ho usato parte dei soldi che papà mi dà per venire qui, per viaggiare e andare a Parigi. Perché mi ha detto che non mi darà altro, finché non terminerà l'anno accademico. In un anno avrò la laurea triennale. Sarò il primo laureato dei Valdez, non sei fiera? Papà pensa che questi viaggi mi possano distrarre. Per questo non vuole più finanziare la mia ricerca. Devo studiare e basta, ha detto. E io con i soldi per venire da te sono andato a cercare lei. Per questo sono arrivato tardi. Jason e Percy mi hanno accompagnato in macchina. Abbiamo fatto un viaggio niente male, ci siamo divertiti, anche se tra quei due non so cosa stia succedendo. Finché la mia situazione permarrà, loro rimarranno in questo stato di non belligeranza, ma poi? Cosa succederà? Mamma. Vuoi sapere cosa sta succendendo, vero? Perché non sono arrivato prima, perché spreco i miei soldi, perché sono distratto. Ti sei sempre preoccupata troppo." Leo sorrise, facendo frusciare i suoi capelli contro la lapide. "Ti ricordi quando dicevi che chiunque avesse voluto portarmi via di casa, qualunque ragazza, avrebbe dovuto vedersela con te? Perché me lo ricordo. Parlavi di orgoglio messicano. E ora sto facendo quello che farebbe qualsiasi ragazzo col cuore spezzato: sono venuto a piangere dalla mamma. Non letteralmente. Nyssa dice che non sopporterebbe vedermi piangere. Alla fine avevi ragione: non capisce il mio senso dell'umorismo, ma mi vuole bene." Sospirò.

La signora White, che lo aveva visto quando era piccolo, che gli lasciava delle caramelle poco dopo la morte di Esperanza, coperta dal suo giubotto pesante, nonostante in Texas facesse caldo in quell'inizio di Novembre, lo salutò da lontano, mentre con l'altra mano accarezzava la lapide fredda del signor White. Leo la salutò indietro con un gesto sbrigativo, prima di muovere la testa all'indietro a leggere il nome di sua madre. Riabbassò la testa fino a far toccare alla sua guancia la sua spalla. Pensò che doveva lasciare un po' di torta alla signora White.

In Texas fa sempre freddo, se ti è morto qualcuno.

"Quest'anno mi sono innamorato, mamma. Di una ragazza coi capelli color cannella e la risposta sarcastica pronta. Di una ragazza che in un appartamento a New York ha infilato migliaia di piante del Mediterraneo. Di una ragazza che quando canta fa vergognare gli usignoli della loro voce, fa cascare le scimmie dagli alberi per lo stupore e girare la persona più distratta verso di lei. Si chiama Calypso, come la ninfa dei miti greci ed è stata abbandonata da chi amava, come me. So che tu non mi hai voluto abbandonare. So che Eco non poteva fare altro. Lo so. Ma il risultato è lo stesso, no? E comunque, mi ha abbandonato anche Calypso. Forse le ragazze non mi piacciono se non mi abbandonano. Ma che ne so. Devo essere un complessato. Ma, lei la potevo raggiungere, sai? Avevo tre tappe. Londra, Parigi o Roma. Non ho neanche la sicurezza che non sia a Londra o a Parigi. Nel senso, lei poteva essere ovunque e in poche settimane non potevo andare ovunque. Ma, ho parlato con Frank, e mi ha detto una cosa che nessuno mi aveva mai detto: non importa che io la trovi, la cosa che importa è che, se non la trovo, io le riesca a dire addio. Se non la trovo, devo essere pronto ad andare avanti. E fare l'ultima tappa... Io non voglio dirle addio. Io la voglio trovare, io..." Si passò una mano trai ricci, trovandoli incastrati tra loro e poi tra le sue dita. Rise, ricordandosi di tutte le volte in cui Esperanza prima, Piper e Annabeth più tardi, avevano provato a pettinarlo, facendogli più male che altro. "Sento di non poter gettare la spugna."

"Mi suonano familiari." Una voce si alzò in modo piuttosto teatrale dalle tombe, mentre un ragazzo spuntava dai cespugli, nascosto da un folto cespuglio di capelli e un giubotto da aviatore. "Parole e voce mi suonano familiari."

Leo alzò in fretta la testa, guardando davanti a sé, con un sorriso allegro e facendo scattare le gambe, per potersi alzare in piedi. "Nico!" esclamò, poggiando le mani sulle ginocchia e spingendosi in una corsa verso il ragazzo, che lo salutava con un gesto veloce della mano.

Il messicano lo attirò verso di sé, subito dopo aver con una leggera corsa raggiunto la posizione leggermente spostata verso Ovest, per intrappolarlo in un abbraccio caldo e affettuoso.

"Vacci piano, Messico." Nico cercò di scansarlo, dimenando mani e gambe, mentre sbuffava pesantemente. "Poi vi chiedete perché non vengo mai a trovarvi" sbuffò, arrendendosi nella Battaglia Abbraccio e dando delle imbarazzate pacche sulle spalle dell'amico.

A Leo le parole del piccoletto non facevano né caldo né freddo. Semplicemente lo abbracciò con tutta la forza che aveva dentro.

















 

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Capitolo 17
*** Ricerca (delle origini) ***


V




Grover adorava le bibite in lattina. Coca-Cola o birra che fosse, adorava berle direttamente dalla bocchetta della lattina, per poi schiacciarle e buttarle nella spazzatura come un bravo bambino avrebbe fatto. Grover adorava veramente le lattine.

Nella sua lista di cose preferite sarebbero arrivate al terzo posto. Non al primo, però. No, non al primo. E nemmeno al secondo.

C'era una contesa per la prima cosa al mondo preferita da Grover, che lo vedeva combattuto tra la sua ragazza e il suo migliore amico, che, in quel momento, mentre lui si beveva la sua lattina di Coca-Cola -perché uno tra loro due sarebbe dovuto rimanere sobrio-, si lagnava su quanto la sua vita si fosse complicata in esattamente sei mesi.

"E tutto questo è colpa tua" terminò Percy, puntandogli il dito contro e sbuffando. "Se, invece di andartene in giro a fare quello di Into the Wild alla ricerca di te stesso e a fare l'hippie, te ne fossi rimasto qua a fare l'università, io non sarei in questa posizione!"

L'amico inclinò la testa, con un sorriso stampato in faccia. "Non sto facendo l'hippie."

"Dove sono i tuoi bonghi, amico? Entra in contatto con il tuo Spirito Guida. Pan mi sta chiamando!" Percy prese a sbattere la testa contro il legno del bancone, mugugnando qualcosa, molto probabilmente cose molto poco carine, contro Grover e il suo onore.

"Sono abbastanza sicuro di non aver mai detto queste cose."

Percy alzò la testa, fulminandolo con lo sguardo. "Sono in contatto con i tuoi sentimenti, Percy. Li sento all'interno della Danza dell'Universo" lo imitò, roteando gli occhi e muovendo la testa da destra a sinistra.

"Ok," Grover alzò gli occhi al soffitto, sorridendo davanti all'amico, che, dopo avergli dedicato uno sguardo alla te-l'avevo-detto, era tornato a sbattere la testa contro il bancone del pub."Posso sempre aiutarti, però, no?"

Leo passò alloro fianco, con una pila di piatti sulle mani, li gettò dietro il lavandino del bancone, lanciò un'occhiata a Grover, che Percy non vide, e il castano aveebbe tanto voluto ridere, perché sembrava il fratello della ragazza dell'amico. Nel senso: convinci il tipo a fare qualcosa che va contro mia sorella e ti spezzo le gambe. E la cosa faceva ridere perché immaginarsi Jason come una sorellina minore -una sorellina minore di Leo- era esilarante.

Poi il texano era di nuovo corso a servire i tavoli, prima che Percy alzasse di nuovo la testa verso Grover. Vederlo lavorare in un posto che non era l'officina di Efesto era… estraniante. Ma Leo aveva veramente bisogno di un lavoro, uno qualsiasi, uno che potesse aiutarlo a fare l'ultimo viaggio alla ricerca della Calypso perduta. Per dire addio, diceva Frank. E Nico e Hazel non avevano detto che erano stati loro a trovare un lavoro a Leo, in un ristorante del padre, perché ricevere i soldi senza aver fatto niente dai due fratelli, avrebbe ferito l'orgoglio di quel Valdez idiota.

"Aiutarmi in cosa? Sai che non ho intenzione di aprire un orto biologico con te!"

"Potremmo farci un viaggio come ai vecchi tempi. Zaino in spalla, vento in poppa e come ci sono finito su questa nave? Era divertente." Grover passò una mano sulla spalla di Percy, mentre con l'altra indicava un punto non ben definito del locale. "Ti ricordi quella volta in cui abbiamo rubato un cavallo?"

Percy sorrise, accarezzandosi la testa. "Blackjack" annuì. "Però non l'ho rubato, dai! È stato lui a seguirmi."

"È ancora nelle stalle di mio zio. E non si fa cavalcare da nessuno che non sia tu. È diventato un cavallo ciccione."

Il moro lo colpì alla spalla con un pugno leggero, che fece scoppiare a ridere l'amico. "Non insultare il mio cavallo!" rise anche il moro.

“Se stai tanto male,” Grover alzò una mano, fece cenno a Leo di portar loro altre due birre -in lattina, rigorosamente in lattina. “Parto il mese prossimo e torno quando voglio. Vieni con me.”

Percy lanciò un'occhiata a Leo e non disse una parola.





















.

 

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Capitolo 18
*** Parte IV: Ritorno (a noi) ***



Parte IV: Calypso









C'era voluto così tanto coraggio. Così tanto. Tanti respiri profondi, chiacchierate di notte con Rachel, che la teneva sveglia fino a che i loro occhi non diventavano rossi e le loro ossa non chiedevano pietà, la forza di volontà per tornare sui propri passi, le mani della sua migliore amica che la spingevano verso la porta e poi si era sentita... respinta.

Aveva bussato per ore. Aveva gridato Leo. Leo? Dove cavolo sei finito Leo? E un vicino di casa, con i capelli biondi e lo sguardo assonnato aveva inclinato la testa e le aveva chiesto se voleva una camomilla e perché sembrava così disperata.

Uno. Calypso non sembra mai disperata e al diavolo qualsiasi cosa. Non era disperata perché Leo Valdez non voleva risponderle alla porta.

Due... Calypso non sembra disperata!

"È partito" aveva sbadigliato il ragazzo. E poi le aveva chiesto di nuovo se non volesse veramente avere quella tazza di camomilla. Magari avrebbe potuto raccontargli la sua storia. Clovis -così si chiama il ragazzo con lo sguardo assonnato, e forse quello è lo sguardo che ha sempre e vive in un appartamento che è tutto un letto. Sorride quando Calypso glielo fa notare. Ha detto di sì a quella stupida camomilla. Ha bisogno di qualcosa di forte, ma anche così andava bene.

Clovis gli occhi non li tiene aperti neanche a pagarlo e Calypso sente di starsi sfogando con una persona che tanto non l'ascolta e non ricorderà nulla e la cosa è liberatoria. Ma il ragazzo è pieno di sorprese, più di quante gliene riservava Leo.

Allora, con la guancia poggiata sulla mano, con dei suoni pacati e lenti le chiede: "Quindi tuo padre non ti aveva trovata." E Calypso annuisce e si chiede se il punto era proprio questo, in tutto quello che le è successo in quel mese. Con quella sensazione di trovarsi in un posto che non le apparteneva -come se lei stessa appartenesse ad un posto. "Leo non rimarrà fuori per tanto tempo. Sicuramente in una settimana sarà di nuovo a casa. Perché non ripassi?"

"Conosci bene Leo?" Calypso è confusa, perché questo tizio assonnato non l'aveva mai visto e sembra essere uno che il texano lo conosce bene, che ne sa di cose, come se le vedesse, se fosse collegato con tutte loro e ne vedesse una costellazione unica. Fa un po' paura, a pensarci e Calypso si rende conto di quanto stupida fosse stata ad entrare in casa di uno sconosciuto. Ma cosa le diceva la testa? Non ragiona. Come quando era scappata. Come quando si era presentata davanti alla porta di Rachel.

("Sei tornata a casa."

"Mi dispiace tanto."

"Sei tornata a casa.")

Clovis si stiracchia. Non sembra interessato a portare la conversazione su di sé. Forse non ha sentito la domanda. "Dovresti darvi una possibilità."

Quella frase rimane un interrogativo, perché la guancia del ragazzo scivola dalla mano e cade sul tavolo, e lui sta veramente dormendo e Calypso si alza e se ne va.

Vede Jason trasportare una pila di libri, sul vialetto. Gira e cambia strada prima che la possa riconoscere.

E non torna davanti all'appartamento di Leo. Ha perso quel poco coraggio che era riuscita a raccimolare.

(Praticamente la storia della sua vita)














La seconda volta che torna, sembra più tranquilla. Sembra. C'erano voluti tre istruttrici di yoga e un tè speciale alle erbe per fare in modo che il suo cuore smettesse di sobbalzare ad ogni minimo rumore, per fare in modo che non si sentisse più perseguitata e per non rischiare un infarto tutte le volte che sente il nome di Leo sulla bocca di chiunque.

(Quanto le manca, Leo. Sta guardando Star Trek, per quanto le manca. Sta leggendo i libri di Harry Potter per quanto le manca)

Bussa alla porta e, ancora, nessuno risponde. Bussa un'altra volta, ma niente.

Poggia la fronte su quella stupida superficie di legno e chiude gli occhi. Leo. Leo. Leo. Potresti aprire questa maledetta porta? Ti devo raccontare di quella volta che ho salvato un vecchietto dall'annegamento sulla riva di un lago. Perché si è chinato troppo per dare da mangiare alle anatre e un bambino lo aveva spinto e...

Leo. Perché non apri?

"È partito." Clovis sta sbadigliando. "Vieni sempre quando lui non c'è." E le offre un'altra tazza di camomilla. Vorrebbe dormire, quel ragazzo. Vorrebbe sognare. E come fa a sapere che Leo non c'è?

Mentre Calypso entra nell'appartamento di Inception, qua -Leo sarebbe così fiero della sua citazione... un po' come Rachel aveva sorriso quando era riuscita a riconoscere due sfumature diverse di rosso-, Percy arriva sul pianerottolo del piano, imprecando contro l'ascensore.

Non si vedono.

"Dicono che il Paradiso è la riproduzione del posto in cui sei stata più felice" dice così, dal nulla, Clovis. Il suo Paradiso deve essere il suo letto, si ritrova a pensare lei, e sorride, perché è bello trovare persone semplici, a modo loro. "Il tuo Paradiso sarebbe qui?"

Poi crolla addormentato. O almeno così sembra.

Calypso ci pensa. Perché non trova mai Leo a casa? Sì, lì è stata felice. Con lui e con Rachel è stata felice. Forse il suo Paradiso non è dove, ma con chi. Si morde le labbra. Soffoca un sorriso amaro.

"Allora perché te ne sei andata, Calypso?" Clovis poggia la sua testa sul tavolo e sì, questa volta si addormenta davvero.



("Perché te ne sei andata, Calypso? Senza dirmi niente. Col mio cellulare. Senza dirmi niente."

"Mi dispiace."

"Perché?"

"Quando scappi, è difficile fermarsi."

"Perché?"

Perché l'unico motivo che conosceva per rimanere è essere imprigionata. E aveva paura di rimanere imprigionata. Ma non lo dice ad alta voce. "Mi dispiace.")

Calypso se ne va. E si sente vuota dentro. Non ha intenzione di tornare.













"È partito." Clovis lo dice prima ancora che lei possa alzare il braccio per bussare alla porta. Inclina la testa e ha quegli occhi da persona saggia, come se di cose ne avesse viste tante. Come se di vite ne avesse vissute troppe. "È sempre andato a cercarti. Questa volta è andato a trovare la donna della sua vita." Sono forse le frasi più lunghe che Calypso ha sentito dire dalle labbra di Mr. Tatto.

"Oh." Questo è tutto quello che lei riesce a rispondere. E abbassa la testa.

"Sua madre" mette in chiaro Clovis, perché per lui la cosa era ovvia, ma sembra che per Calypso no.

"Ah" esclama ancora lei. Vuole piangere. "Qualcuno non mi vuole far incontrare Leo" butta sul ridere -Leo le manca così tanto, si rende conto, da fare battute stupide proprio per fare in modo di non sentirlo troppo lontano. Come se delle battute scadenti potessero rimpiazzare Leo.

"Tu." Clovis alza le spalle. "Lo hai capito che amore non è prigione?"

Niente tazza di camomilla, questa volta. Clovis sembra ben sveglio -una volta ogni tanto.

"Non è amore quando vorresti andartene, ma non ci riesci?"

"È amore quando non vuoi andartene."

Allora lei gli chiede chi cavolo sia, perché è impossibile che un vicino di casa rimanga con l'amica di un vicino di casa semi-sconosciuto, e le parli come se la conoscesse da sempre, come se fosse la sua guida spirituale e mentore. Chi è? Clovis chi è?

A lui questa parte di conversazione non interessa granché. Congeda Calypso dicendo: "Uno scrittore." E forse mentiva anche. Poi dice: "Amore è una casa a cui tornare."


("Non hai..."

"Per un mese di affitto sono riuscita a farcela e non ho dato la tua camera a nessuno. Sapevo che saresti tornata. Non sapevo dov'eri, quello no. Ma ho pensato che..." Rachel la guarda e no, non è vero che sapeva che sarebbe tornata. Era solo una sua speranza. Solo quello.

"Quanti pomeriggi da statua all'incrocio della strada ti devo?"

"Pensi di cavartela con così poco? Sai quanti turni dei piatti hai saltato?")









Torna una quarta volta. Non pensava di averne il coraggio eppure eccola, seduta accanto alla porta, tamburellando con le dita, aspettando che qualcuno torni.

("Nico vuole portarlo a fare una vacanza" aveva detto Clovis. "Spero tu sappia che lui sa dove sei. Lo ha chiesto a me. E io gli ho detto la verità. A Nico non piaci di fama: non gli piacciono le persone come lui, quelle che se ne vanno.")

Calypso è diventata una che se ne va. Come Ulisse. Come Francis. Come quelli che se ne sono andati da lei. E quello che ha provato lei lo ha fatto provare a Leo. Molto maturo. Solo che Leo è diverso ed è andato a cercarla in Europa e voleva continuarla a cercare. Solo che lei alla fine vorrebbe tanto tornare.

Calypso non vorrebbe accettare quella tazza di camomilla di Clovis e allora lui gliela porta davanti alla porta Grace-Jackson-Valdez e lei beve lì, rannicchiata, coperta dalla sua giacca a vento e questa volta, pur di dover rimanere lì, accampata ad aspettare, senza cibo o acqua, lo vedrà, Leo. Lo vedrà. Lo sa.

"Me ne sono andata perché ho paura di mio padre. Perché lui mi avrebbe riportato a Ogigia e io non voglio. Ho avuto anche paura che New York diventasse la New Ogigia, quindi... o che io diventassi l'Ogigia di Leo, o di Rachel. Non lo so. Quel giorno mi sono svegliata e ho visto Rachel che si impegnava così tanto per terminare un suo quadro e... stava dipingendo un posto in cui non era mai stata e... non ci sarebbe più potuta andare, quindi stava immaginando l'Irlanda o, non so cosa. Non può viaggiare senza i soldi del padre, sai? E sono stata io a convincerla a scappare ad andarsene insieme a me. E suo padre gli ha gelato i conti... pensavo che se me ne fossi andata, non so, lei sarebbe tornata da lui e tutto sarebbe tornato apposto. E sarebbe potuta andare in Irlanda, o dove voleva. Ma lei è rimasta qua ad aspettarmi e... poi, Leo. Che mi ha cercata ovunque. Che sembra così speciale e da bravo idiota, si è legato ad un disastro come me e..." Calypso appoggia la fronte sulle ginocchia. "Avrebbe dovuto concentrarsi sulla laurea e..."

Clovis non risponde. Lascia che lei parli, forse perché si addormenta spesso -eccentrico, il ragazzo- e a lei continua a non importare un accidenti. Poi gli occhi diventano tanto tanto pesanti. E si addormenta. Da brava idiota si addormenta davanti alla porta di quella casa. E si sveglia solo quando sente una mano scuoterla neanche troppo gentilmente.

La prima cosa che sente dire a Leo è: "Mamma mia, sei anche ingrassata."














Leo la guarda come se fosse un fantasma e questo è un dettaglio che fa male. L'aveva sempre guardata come un qualcosa di solido, reale e da sfidare. L'aveva sempre guardata come una persona, come un'amica e adesso sembra davvero che non lo possano più essere, amici -non fare l'idiota, Calypso. Te ne sei andata dicendo che l'amavi. Te ne sei andata. Come tutte. Come tutti.

L'ha fatta sedere e gli occhi di Calypso sono ancora appiccicaticci, e bruciano, e vorrebbe tanto tornare a dormire. Forse per questo ci ha messo tanto a rendersi conto che Leo è tornato a casa da solo e non ci sono i vestiti di Percy in giro e non c'è il rumore assordante del vecchio computer di Jason.

Leo continua, comunque, a guardarla da sopra la spalla, di nascosto e forse lei dovrebbe dire qualcosa, qualsiasi cosa, per assicurarlo che non è un miraggio, che lei è veramente lì, che è lì per rimanere. Lui non le chiederà perché se n'è andata. Già lo sa. Lo sa, cos'altro vorrebbe sapere?

"Secondo me, il tuo vicino di casa biondo è un tuo stalker" commenta distrattamente, nascosta dal tavolo, mentre Leo le lancia un'occhiata e, oh, Calypso è davvero nel suo salotto. Continua a darle le spalle, però. Le lancia occhiate veloci e poi basta. Come se avesse avuto paura che lei scomparisse.

"Clovis?" Sorride. "Si è trasferito qui qualche settimana dopo la..." Cerca le parole. Abbassa la testa. Si gratta la guancia. Non riesce neanche a dargli un nome. "...tua partenza. Jason dice che è uno scrittore. Penso che abbia scelto questo lavoro perché può dormire quanto vuole."

Calypso annuisce. Di cosa stanno parlando?

"Ti ho cercata ovunque." Non si gira. Non si gira. Non ha neanche intenzione di farlo.



("Ma tu chi sei?"

"La tua versione del Ragazzo Blu?")


"Lo so." Abbassa ancora lo sguardo. "Mi dispiace, io..."

"Perché sei tornata?"

Calypso sbatte velocemente le palpebre, come se fosse stata colpita violentemente alla pancia. Come se sentisse che c'è qualcosa che non va. Leo si è girato, per fare la domanda e sì, la stava cercando ma questo non toglie il fatto che sia stato ferito -che lei lo ha ferito perché è un'idiota patentata con istinti da fuggiasca. Non è bello.

"Perché" balbetta. Come una bambina durante la sua prima interrogazione. Come un colpevole davanti al giudice. "Perché nessuno si salva da solo?"

Leo rotea gli occhi e sorride solo da un lato. Adesso la guarda. Adesso. "A meno che tu non sia Superman. O Wonder Woman. Loro si salvano da soli."

Sembra solo felice di riaverla lì.


(“È una bella coincidenza che una novellina della fuga si sia incontrata con il maestro delle fughe. Se hai bisogno di qualcuno con cui scappare da una casa di campagna, la prossima volta ricordati di me.”

“Gli eroi non esistono, Leo. E nemmeno le principesse da salvare. Mi sono salvata da sola. Ne sono la prova vivente.”)












Leo non fa domande. È terrorizzato dalle risposte quindi non chiede niente e Calypso lo sa. Ha paura che una risposta possa rovinare tutto, che Calypso scompaia di nuovo e che questa volta non torni più. (Non ha capito perché è tornata. Il non sapere una causa lo rende un equilibrista inconsapevole. Vuole solo godersi il momento, finché dura, finché funziona.)

Quel modo che ha di guardarla adesso, è diverso dal modo in cui la guardava prima. Perché prima era Calypso, la ragazza con cui avrebbe potuto avere un'amicizia a lunga durata, che per lui c'era, che litigava con lui nel parco e con la quale spaventava i bambini. Ora è Calypso, quella che una volta se n'è andata e che potrebbe andarsene di nuovo.

Leo non fa domande. Percy e Jason non si sa dove siano andati (perché? Se ne sono andati?) a finire e ora è Nico, che si è materializzato nell'appartamento pochi secondi dopo che la ragazza si è presentata alla porta del texano e che la guarda con quegli occhi neri e quell'espressione che... Calypso rabbrividisce.

"Dove saresti stata?"

Nico deve odiare molto se stesso. O non si deve accettare completamente. Probabilmente pensa che non si accetta perché non lo accettano. Forse è vero. Odia Calypso. Odia la parte di Calypso che ha fallito (in quel punto, lo stesso in cui ha fallito lui).

"In Canada a dare da mangiare alle alci? In Messico a farti crescere i baffi?" Sorride (un sorriso sarcatico. Sono le stesse domande che si fa?). "Hai perfezionato la ricetta segreta dei Krabby Patty?" Dondola le gambe, inclina la testa e non importa quanto piccolo possa sembrare: fa paura. Pare leggerle dentro.

Leo non è con loro. È andato in bagno, con le dita delle mani che gli tremavano e la chiara domanda in faccia. Può combattere con le unghie. Calypso è la ragazza che ha spezzato il cuore ad un amico. (Dove sono Percy e Jason? Si sarebbe aspettata di essere attaccata da loro, ma non ci sono. Non sono con Leo. Non sembra normale.) Deve essere punita.

("Ha smesso di essere un fuggiasco. Quindi, sta a New York."

"Non è a New York. Non so esattamente dove sia. Ogni tanto torna. Viene sempre in Texas, quando vado a trovare mia mamma, quindi, tre o quattro giorni all'anno lo rivedo, ma ci sono state volte in cui abbiamo dovuto aspettare mesi e mesi, prima che lui tornasse. A volte anni. È che, sai? Per accettare una casa, prima si deve accettare se stessi. Però noi siamo sempre qua, mica scappiamo.")

"È quello che ti chiedi tutte le volte che torni?" Non ha controllato la sua lingua e Nico la fulmina con lo sguardo.

"Tu non hai idea di quello che mi dico, ogni volta che torno." Alza il sopracciglio. Che ci fanno nel salotto di Leo senza Leo? "Che intenzione hai?" Continua ad avere lo sguardo minaccioso.

Calypso ci pensa. Mica lo sa perché è tornata. Ne aveva bisogno, tutto qua. Però ci ha pensato. Un po'. Poco poco. Arriccia le labbra. "Voglio solo far volare un aquilone."

Nico non capisce. Non importa. Leo saltella nel corridoio.


("Non ho mai fatto volare un aquilone."

"Nemmeno io."

"Potremmo far volare un aquilone insieme.")













Leo deve solo capire che lei non partirà più. Che ha preso un cellulare, paga l'affitto regolarmente a Rachel, mangia le schifezze newyorkesi con amore e sta pensando di prendere un gatto. Un gatto rosso, magari e no, Leo, non lo chiamerà Grattastinchi perché il gatto di Hermione si chiama così. Il suo lavoro da cameriera fa veramente schifo, ma far da modella a Rachel e altri artisti è divertente e così anche cantare con la sua chitarra nei posti più impensabili (perché Rachel, in una frase in cui Rachel è soggetto, complemento oggetto, e pure predicato verbale).

Sono passate poche settimane da quando ha aperto gli occhi con Leo davanti ai suoi occhi e già si chiede quanto tempo ci metteranno per rimettere tutto in ordine, per fare in modo che tutto torni ad essere come deve essere -senza paura di parlare, o di rompere qualsiasi precario equilibrio.

“Tu hai rotto un equilibrio precario” mette in chiaro Rachel, versando due cucchiaini di zucchero nel suo caffè e passando la zuccheriera ad Annabeth che annuisce convinta. Calypso non è sicura di quando quella strana coppia si sia riunita, ma sa che non può uscirne niente di buono per il suo senso di colpa. “Ed è inutile che fai la finta tonta, perché tu stessa sai che è così.”

E allora come rimettere tutto insieme?












Al mese e mezzo, Calypso decide di chiedere a Clovis -che dorme sempre, tranne quando succedono cose importanti- per quale motivo non ha più incontrato né Percy né Jason nell'appartamento.

Clovis ride e dice che entrambi vivono ancora con Leo, ma che forse la situazione durerà ancora per poco. Le racconta la storia di due ragazzi, due atleti e uno riusciva a sentire il ritmo del respiro dell'altro.

“Anche questo si sistemerà” la rassicura.

Calypso si chiede se parla di Percy e Jason, o di lei e Leo.












Leo si rifiuta anche di litigare con lei. La cosa la fa imbestialire.

Gli tira addosso un libro e pesta il piede per terra -Leo si limita a ridere e grattarsi la testa.

Siamo seri?













Vede Percy sulla soglia della porta con uno zainetto in spalla e il broncio. Jason sbuffa, dicendogli di non buttare le sue cose per tutto l'appartamento. Percy lo chiama mammina e Jason risponde che la mammina lo ha battuto in una gara di lancio del giavellotto.

Leo ride, perché immaginarsi Sally fare il lancio del giavellotto è esilarante. Allora ridono tutti e tre e Calypso li guarda, con la guancia poggiata sulla mano a coppa.

Sembra che loro abbiano ritrovato il loro equilibrio.

Il mignolo di Percy è incatenato con quello di Jason, ma nessuno dice niente.















La frase chiave, glielo ripetono in tanti, non è ricominciare da capo. È riprendere da dove ci si è fermati.

Jason le sta sorridendo, mentre alza il sopracciglio, come se volesse essere sicuro che lei abbia capito quello che gli vuole dire.

Il problema è riprendere da dove ci si è fermati… Calypso si morde l'interno delle guance e ci pensa sopra. Certo, perché non le sembra per niente un indovinello semplice.

Qual è stata l'ultima cosa che ha detto a Leo prima di andarsene?

(“Ti amo”)












Lo prende di mercoledì. In realtà è lui che la segue ovunque, con quegli occhioni gialli e le zampe vellutate, fino a raggiungere casa sua e divertirsi a rompere le piante e far cadere oggetti dai tavoli.

A Calypso piace.

“E lo vorresti chiamare Grattastinchi?” chiede Leo, con le braccia incrociate, mentre guarda il gatto correre da una stanza all'altra -non ci può fare niente, anche con un rapporto diverso da quello precedente, non riesce a non gravitare intorno a Calypso, a cercare di rimediare a quello che lei ha fatto alla loro relazione. Non riesce a non risponderle.

Lei inclina la testa e cerca Leo -quello vero- ed il suo sguardo. “Lo volevo chiamare Festus.”

Lui sobbalza. Non pensava ricordasse.

(“Quando ero piccolo avevo un pupazzetto che avevo chiamato Festus”)














Annabeth dice di non provocarlo. Rachel suggerisce di farlo: pensa che l'unico modo per sbloccare la situazione è far aprire completamente Leo. Annabeth le mette in guardia, avvertendole che una persona aperta, può essere anche spezzata.

Calypso non sa che fare.














Sono tre le parole tre le parole che salvano la relazione di Leo e Calypso. Una di queste è Tissot.

Annabeth ha deciso di aiutarla per il bene di Leo e Rachel le ha fornito l'occasione giusta.

A Leo le mostre d'Arte senza ramificazioni alla meccanica, o ingegneria, continuano a non piacere, ma continua a trattare la ua relazione con Calypso come se fosse fatta di cristallo e quindi le dice sì, nonostante l'incertezza nel suo sorriso obliquo.

Appena arrivano alla mostra, scompare e Calypso vorrebbe mettersi a piangere, mentre guarda quei quadri con quelle donne che la guardano dritta negli occhi e sembrano, a volte, disperate come lei. Allora decide di girare, di non demordere e godersi, nel frattempo, la mostra, l'ambiente e l'atmosfera -tutto è ricoperto di luce bianca. Hanno fatto bene a scegliere di andare in pieno giorno, la luce dei quadri divena luce della stanza e illumina il viso delle persone che osservano con un sorriso dolce.

Fuori fa freddo -o così sembra a Calypso, che si siede sui piccoli divani rettangolari per guardare meglio la stanza quadrata. Avrebbe dovuto avere un piano B. Lei non pensa mai quanto dovrebbe.

Poi ecco il suo miracolo.

Sta lì, seduta, osservando, compatendosi un po', mordendosi le labbra, quando nota Leo, in piedi davanti ad un quadro, con gli occhi incollati e la testa inclinata. Calypso sorride, posando la guancia sulla mano e contemplandolo per un po' e lui continua a non muoversi.

Rimane lì per dieci, quindici, venti minuti. Lui, iperattivo, mai fermo, sempre in movimento, era lì, impalato a guardare quel particolare quadro che poteva anche non essere considerato come il capolavoro di Tissot.

Allora lei si alza e si avvicina a lui (come la prima volta, solo con ruoli invertiti, lo ricorda, cielo se lo ricorda!), si tiene le mani le mani dietro la schiena e guarda il quadro -Waiting the storm, le ricordava una canzone degli Of Monsters and Men. Ma lo ha già visto, ora non le interessa guardare il quadro, ora le interessa guardare lui, acchiappare quell'occasione che le si sta presentando. Lo farà, lo deve fare.

“Perché lei guarda noi?” chiede Leo ad un certo punto. “C'è quella tempesta che potrebbe spazzare via lei, il marinaio e la sua casa, ma lei continua a guardare noi. È illogico.”

“Forse lui le ha spezzato il cuore e tutto quello che succederà non le interessa più.”

“Allora dovrebbe alzarsi e correre dietro quella stupida finestra. Non si può amare da lontano, nè soffrire senza che l'altro sappia.”

“Sei diventato filosofo, Leo Valdez?”

“Siete voi che non avete mai apprezzato il mio evidente genio. Dovreste amarmi un bel po' di più.”

“Io ti amo” dice lei senza neanche doverli pensare. Continua a non pensare perché si è già lasciata sfuggire un'occasione, non farà lo stesso errore una seconda volta. “Altrimenti non avrei avuto paura di te. Ti amo.”

Leo la guarda. Ha finalmente distolto lo sguardo dal quadro e guarda lei, negli occhi, dritto nel profondo della sua anima. “E perché avresti dovuto aver paura di me?”

“Ci sono così tante ragioni che ti direi di pescare una a caso e prenderla per buona. Non volevo essere respinta, non volevo essere la tua palla al piede, non…”

“Stupida.” Scuote la testa e distoglie lo sguardo. “Non è un motivo per andarsene.”

“È un motivo per tornare.”

“Non starò qui ad aspettare che tu torni ogni volta.” Sembra una frase molto naturale, esce con una facilità dalle labbra di Leo da far perdere un battito a Calypso, che riesce solo a guardarlo senza fiato. “La prossima volta verrò con te.”

“Questo vale come un ti amo.” Lei sorride e alza le sopracciglia. Vuole solo stuzzicarlo. Solo quello.

“Questo vale come un non provare mai più a disfarti di me, perché ti verrò a cercare Raggio di Sole e ti troverò, lo giuro.”

Non è solo il mignolo delle loro mani ad incatenarsi. Sembra che s'incatenino tra loro le loro anime.







Note
E siamo arrivati alla fine. Che dire? Grazie mille a chi ha seguito la storia, a chi l'ha amata a modo suo.
Per il finale Jarcy, non vi preoccupare. Ho in cantiere una OS che parla solo di loro e che dia alla loro storia un'autonomia che non sono riuscita a darle nelle Peripezie.
Ancora grazie. Grazie tante!  

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