I want you by my side

di Padmini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Tornare a respirare ***
Capitolo 3: *** La notte porta consiglio ***
Capitolo 4: *** Primavera ***
Capitolo 5: *** Cena per due, cena per uno, cena per molti ***
Capitolo 6: *** Accettazione ***
Capitolo 7: *** Draw ***
Capitolo 8: *** Speranza ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 

Tutto era accaduto rapidamente, forse troppo per lui.

Gli avvenimenti di quegli ultimi giorni erano stati come una folata di vento improvvisa che lo avevano sradicato dalla melassa della vita passiva che aveva vissuto fino al momento in cui Logan si era presentato in casa sua chiedendogli aiuto.

Non era mai stato propenso a quel genere di vita, al pericolo costante e alla tensione e, nonostante avesse sperimentato l'ebrezza dell'avventura con Erik, mentre cercavano i mutanti, i lunghi anni passati nella sofferenza e nella solitudine gli avevano fatto dimenticare cosa significava avere a che fare con le persone. Non aveva avuto scelta, tuttavia. I tempi erano troppo ristretti perché lui potesse pensarci con calma e prendere fiato per prepararsi psicologicamente a tutto ciò che avrebbe dovuto affrontare.

Eppure era tutto finito.

La tempesta che lo aveva travolto era passata; aveva lasciato la sua scia di danni dietro di sé, com'era prevedibile, ma aveva portato anche qualcosa di buono.

Charles se ne stava in silenzio, nel suo studio, a valutare i danni e le conquiste di quella missione, cercando di concentrarsi sugli aspetti positivi, su ciò che avevano ottenuto.

Il presidente, visto ciò che era successo, aveva preteso un incontro immediato con Charles e Hank, gli unici due mutanti presenti, dopo che Logan era misteriosamente scomparso e Mystica ed Erik se n'erano andati – ecco, quella era una perdita considerevole, ma non ci si soffermò.

Charles era ferito e stanco e Hank non se la stava cavando meglio, ma non avevano potuto rifiutare di parlare con lui, di spiegare le loro ragioni. Un'occasione simile non l'avrebbero avuta forse mai più e non potevano di certo lasciarsela sfuggire.

Charles non ricordava le parole esatte che aveva usato per convincere il presidente, tuttavia ce l'aveva fatta. Forse era stato ciò che il presidente stesso aveva visto quel giorno e che le parole di Charles avevano enfatizzato, ma da quel momento il governo aveva definitivamente deciso di chiudere la guerra contro i mutanti e invece iniziare una campagna a favore della loro integrazione nella società. Sembrava troppo bello per essere vero e Charles stesso, sempre pieno di speranza nel genere umano, stentava a crederci. Eppure, lentamente, le cose avevano iniziato a cambiare e nessuno poteva dire il contrario.

Charles era consapevole che, come ogni grande cambiamento, anche quello dell'ingresso dei mutanti della società, sarebbe stato lento e non privo di lotte e sacrifici, ma già il germoglio di un nuovo modo di pensare cominciava a far capolino dalle ceneri di quella che era stata una vera e propria strage.

Trask, ritenuto responsabile della morte di decine di mutanti, era stato messo in prigione a vita e il suo denaro era stato confiscato per essere devoluto in favore di iniziative di sensibilizzazione verso la causa dei mutanti. La scuola Xavier per giovani dotati era stata messa all'ordine del giorno in molte riunioni del parlamento ed elogiata pubblicamente. Grazie a questo supporto le iscrizioni avevano iniziato ad arrivare numerose e Charles non aveva nemmeno avuto il tempo di pensare ad altro se non a riportare alla luce ciò che da tempo giaceva sotto la polvere del suo disinteresse e della sua delusione per accogliere i sempre più numerosi studenti.

C'erano voluti quattro lunghi mesi prima che i laboratori fossero nuovamente praticabili e che fossero pronte le nuove aule e i nuovi dormitori, indispensabili per l'affluenza sempre in crescita dei giovani mutanti che ormai giungevano a Westchester da tutto il mondo.

Non erano solo gli studenti a giungere ma anche gli insegnanti. Alcuni erano mutanti che, attirati dalle parole di speranza di Charles, avevano deciso di uscire dall'ombra in cui si erano sempre nascosti per dichiararsi apertamente; altri erano invece normali esseri umani che, convinti della necessità di un clima di pace tra umani e mutanti, volevano dare il loro contributo.

Ovviamente c'era chi non aveva ancora accettato le decisioni del governo riguardo i mutanti e, parallelamente ai gruppi a favore dell'integrazione, aumentavano anche quelli che invece contro. Le manifestazioni di odio nei confronti dei mutanti aumentavano di giorno in giorno, soprattutto verso quelli che avevano mutazioni molto evidenti e per i quali non c'era altra scelta che trovare rifugio nella scuola.

Nonostante qualche nota negativa, inevitabile tuttavia, tutto procedeva bene, come si era sempre immaginato.

Finalmente, dopo mesi di lavoro, quella era la prima sera in cui era riuscito a rilassarsi, a prendere del tempo solo per se stesso. All'inizio era felice di potersi rilassare un po' senza dover pensare ai programmi per il semestre, a come affrontare i problemi emotivi degli studenti più giovani o su come discutere riguardo gli attentati contro i mutanti, ma presto si era reso conto che tutta quell'attività aveva tenuto la sua mente lontana da pensieri troppo dolorosi da affrontare. Le voci degli studenti, degli insegnanti e dei politici avevano sovrastato quelle più deboli dei suoi ricordi, le voci che era riuscito a zittire prima con l'uso del siero e poi con l'incessante lavoro. Ora che nessuna di quelle distrazioni lo distoglieva dalla realtà si era trovato faccia a faccia con le sue paure e i suoi rimpianti.

Sentiva Raven, che lo rimproverava per non essere mai riuscito a capirla. La voce di sua sorella rimbombava nella sua testa come una frusta. Troppo tardi si era reso conto di quanti errori aveva commesso nei suoi confronti, troppo tardi per porvi rimedio. La sua mancanza pesava nel suo cuore come un macigno e ora la sentiva più che mai.

Altre voci erano quelle dei mutanti morti. Troppe vite erano andate perdute prima che lui si fosse deciso a fare qualcosa. Quelle voci erano gli echi lontani di mutanti che avevano sofferto e che lui si era rifiutato di ascoltare quando ne avevano avuto bisogno. Ora tornavano a tormentarlo come fantasmi che abitavano nella sua coscienza.

Un'ultima voce, quella più insistente e dolorosa, era quella di Erik. Charles aveva dato tutto se stesso per aiutarlo, per fargli sviluppare appieno i suoi poteri, per fargli trovare quel luogo a metà strada tra la rabbia e la serenità dove poter essere pienamente ciò che era … e lui lo aveva abbandonato. No, era stato lui che lo aveva lasciato andare. Erik lo considerava un fratello, voleva veramente lottare con lui per il bene dei mutanti ma Charles, distrutto dal dolore, lo aveva rifiutato. Era vero, in effetti che volevano raggiungere lo stesso scopo, ma ciò che li divideva era il modo in cui lo volevano raggiungere. Charles era sempre stato per la mediazione, per il dialogo, mentre Erik era più diretto e violento, con esiti che spesso andavano fuori dal suo controllo, come si era visto in passato.

Ora però era diverso, forse qualcosa sarebbe potuto cambiare.

 

La scuola era silenziosa a quell'ora di notte. Solo un telepate come lui avrebbe potuto percepire i sogni degli studenti addormentati e i pensieri di quelli preoccupati per l'interrogazione del giorno successivo. A parte questi sussurri, non si sentiva volare una mosca e l'unico suono percepibile era il fruscio del vento che scuoteva le fronde degli alberi e increspava l'acqua della piscina. Tra tutti quei rumori e quei pensieri, nessuno avrebbe potuto sentire ciò che si stava muovendo nella testa di Charles Xavier.

Pensieri che lui stesso aveva celato, represso, domato, riemergevano con più potenza, quasi con cattiveria. Ogni notte si presentavano alla soglia della sua mente e ogni notte lui li respingeva ma, come la marea pian piano divora la costa, quei pensieri avevano iniziato ad intaccare le sue certezze e a far vacillare il mondo che aveva così duramente cercato di rendere stabile.

Senza rendersene conto aveva deciso di sacrificare la sua vita, la sua giovinezza, tutto, per un sogno più grande di lui. Aprire la scuola, rinunciare alla cura per la sua spina dorsale per continuare a cercare i mutanti, impegnarsi per difenderli da tutto e da tutti. Non erano impegni di poco conto, soprattutto per un uomo della sua età. Aveva deciso di diventare un padre per tutti quei ragazzi smarriti perché più di tutti poteva capire come potessero sentirsi, soli e in balia di poteri che non potevano controllare. Era davvero quello il suo destino? Sì, lo sentiva nel profondo del suo cuore e forse lo aveva sempre saputo, fin da quando aveva incontrato Raven per la prima volta. Sì, era quello il suo destino, ma forse non era ancora pronto per rinunciare a tutto per seguirlo.

Sapeva che, se ne avesse parlato con Hank, lui non lo avrebbe capito. Detestava dover fuggire come un ladro nella notte, ma non aveva alternative, non se voleva iniziare una discussione che non lo avrebbe portato da nessuna parte e lo avrebbe costretto a rinunciare ai suoi propositi.

Prese carta e penna e scrisse un breve messaggio che lasciò in bella vista sulla sua scrivania, certo che Hank lo avrebbe trovato.

Restò in ascolto qualche minuto, come se temesse che il rumore della carta sul legno avesse potuto svegliare qualcuno, infine tornò in camera.

Nessuno sapeva, ma lui aveva nascosto, giusto per le emergenze come quella, una cospicua scorta di siero sotto le assi della camera. Non con poca fatica riuscì a sollevarle e a prelevare ciò che gli serviva. Per prima cosa si iniettò una dose e, non appena sentì la sensibilità alle gambe, si alzò dalla sedia a rotelle e cominciò a preparare una piccola valigia, nella quale mise giusto qualche cambio e l'intera scorta di fialette. Tutto era pronto. Non si preoccupò nemmeno di nascondere un cuscino sotto le coperte per simulare la sua presenza, non sarebbe tornato tanto presto.

Si schermò per rendersi invisibile a occhi e orecchie e scivolò fuori dalla villa.

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Capitolo 2
*** Tornare a respirare ***


1. Tornare a respirare



New York, giovedì, ore 23.00

La luna era piena quella notte e illuminava alla perfezione il cammino di Charles. Se all'inizio aveva avuto dubbi circa ciò che stava facendo, mentre camminava a passo spedito lungo il sentiero che lo stava portando rapidamente verso la strada, cominciava ad avere più fiducia in se stesso e nel suo desiderio. Si sarebbe mosso a piedi o per lo più con mezzi rubati, ma avrebbe raggiunto la sua meta, di quello era assolutamente certo. Poteva prendersela con calma, nessuno dei suoi studenti sarebbe mai riuscito a rintracciarlo dal momento che non era un mutante, ma almeno quella notte avrebbe dovuto riuscire ad allontanarsi il prima possibile dalla scuola.

Dopo un'ora di cammino raggiunse la strada asfaltata e vide subito ciò di cui aveva bisogno. Parcheggiata fuori da un locale molto rumoroso c'erano parecchie moto. Senza perdere tempo entrò nel locale, dove una trentina di motociclisti stava guardando la partita alla televisione. Non fu difficile per un uomo magro come lui farsi strada tra quegli omoni giganteschi e rubare un mazzo di chiavi in bella vista nella tasca dei jeans di uno di loro, in quel momento troppo impegnato a sbraitare sul risultato per rendersi conto di qualcosa. Restò nel locale qualche altro minuto e ordinò perfino da bere, tanto per non destare sospetti, prima di uscire e iniziare a cercare, tra le tante, la moto alla quale appartenevano quelle chiavi. Fu sfortunato, gli ci vollero parecchi tentativi prima di trovare quella giusta ma alla fine, attenendo il momento in cui tutti avevano iniziato a gridare, la mise in moto. Pochi secondi viaggiava lungo l'autostrada, in direzione dell'aeroporto. Aveva con sé abbastanza denaro per prendere un aereo, ma non poteva e non voleva farsi riconoscere con il suonome. Arrivò a destinazione molto presto, ma attese riposando le ore che gli avrebbero permesso di controllare i suoi poteri per manipolare la mente degli assistenti di volo, soprattutto per poter imbarcare il suo bagaglio a mano, con una quantità di liquidi molto superiore a quella consentita. Cercò una delle sedie a rotelle dell'aeroporto e vi si addormentò.

Erano le cinque del mattino quando si svegliò, non sentendo più le gambe ma percependo alla perfezione i pensieri dei passeggeri, delle hostess, dei piloti e dei baristi.

 

 

Parigi, venerdì, ore 11.00

Nel frattempo, nel suo appartamento nel centro di Parigi, Erik Lensherr stava studiando alcuni documenti riservati. Aveva seguito con molta apprensione l'evolversi della carriera di insegnante di Charles e soprattutto le sue attività a favore della causa mutante. Nonostante il rancore che ancora covava nei confronti degli umani gli facesse pensare che i metodi del suo vecchio amico fossero troppo deboli, doveva ammettere che erano efficaci. Non aveva tutta la fiducia che Charles riponeva nelle persone che li odiavano e, anche se i risultati erano ormai evidenti sotto i suoi occhi, preferiva tenersi pronto a qualsiasi evenienza. Tutto ciò che importava, almeno per il momento, era la crescente indipendenza dei mutanti, non più costretti a nascondersi, liberi di esprimere se stessi e i loro poteri in serenità.

Il suo pensiero fisso non era però solo il destino dei suoi simili. La persona alla quale pensava quasi costantemente era proprio Charles.

Non da giorni, non da mesi … da anni. Esattamente dal momento in cui i suoi occhi erano sprofondati nei laghi cristallini che erano quelli del telepate, la sua mente non era riuscita a liberarsi di lui. All'inizio ne era felice perché era piena dei suoi sorrisi che gli illuminavano il viso, ma dopo l'incidente di Cuba era tutto cambiato e la sua mente e le sue notti avevano iniziato a popolarsi di immagini da incubo. Gli occhi di Charles, umidi di lacrime, il suo viso teso per il dolore, fisico e psichico, erano onnipresenti quando chiudeva i suoi e lo guardavano accusatori.

Durante i dieci anni rinchiuso nella cella al Pentagono aveva cercato di dimenticare e in qualche modo ci era riuscito, anche se i sensi di colpa erano ancora presenti, anche se silenti … e infatti erano esplosi quando lo aveva visto di nuovo, distrutto dal dolore e dalla rabbia. Non era riuscito a sostenere il suo sguardo, anche se aveva ostentato sicurezza, quegli occhi erano penetrati nella sua anima come un pugnale.

Aveva dunque cercato di ignorare a sua voltai la sofferenza e aveva riversato tutta la sua energia nella vendetta nei confronti degli umani, coloro che, a suo avviso, avevano rovinato tutto. Era stato così occupato a pianificare il suo piano perfino da dimenticarsi di lui fino a quando non lo aveva visto, sporco di polvere e ferito tra le braccia di Hank. Non aveva capito come si fosse ritrovato in quello stato, non si era reso conto di ciò che gli aveva fatto né del perché il suo elmetto fosse a terra. Lo aveva raccolto e aveva salutato il suo vecchio amico, incontrato uno sguardo diverso. Mentalmente si era convinto che fosse tornata la pace tra di loro e non aveva indagato oltre, per non dover scoprire che invece non era così.

Erano passati diversi mesi da quel giorno e lui, forse pentito dal suo passato comportamento, aveva cercato di non perdere mai di vista il suo vecchio amico. Sapeva tutto di lui, come si erano evolute le cose alla scuola, di come era riuscito a rinunciare al siero per camminare, di come stava aiutando tanti mutanti a trovare un posto dove stare, al sicuro da coloro che ancora non li capivano o li temevano. Lo stimava profondamente per tutto ciò, ma non aveva ancora avuto il coraggio di dirglielo. Il dubbio di aver perso per sempre il rapporto di amicizia che lo legava a lui lo aveva spinto a chiudersi in se stesso e, anche se lo teneva d'occhio costantemente, non avrebbe mai fatto il primo passo per verificare di persona cosa Charles pensasse di lui.

Ormai si era rassegnato a trascorrere la vita in solitudine, a parte i rari mutanti che decidevano di collaborare con lui per qualche operazione clandestina pro mutanti.

Ogni tanto gli capitava di soffermarsi su quei pensieri, ma erano momenti passeggeri, che riusciva a scacciare sempre più facilmente. Posò i documenti e li ripose al sicuro, nel cassetto della scrivania. Guardò l'orologio, mancava ancora molto all'ora di pranzo, ma lui aveva fame, una fame nervosa dovuta a quei pensieri che lo avevano distratto dal suo lavoro.

Si alzò e si stiracchiò uscendo dall'ufficio per raggiungere la cucina. In frigorifero c'erano ancora i resti della frittata che si era preparato la sera prima e un'insalata in sacchetto ancora aperta. Fece a fette la frittata fredda e la mescolò con le foglie d'insalata e le carote in una terrina, condì il tutto e uscì nel terrazzo. La giornata era soleggiata e le nuvole erano sospinte delicatamente da una fresca brezza nel cielo azzurro … come gli occhi di Charles. Ancora lui, il telepate si insinuava nei suoi pensieri anche senza volerlo. Infilzò una manciata di foglie con un pezzo di frittata e insalata e lo mise in bocca, vano tentativo di porre fine a quei pensieri. Finalmente però il gusto del cibo ebbe la meglio e riuscì a rilassarsi.

 

 

Parigi, sabato, ore 01.45

Nove ore di volo erano trascorse più lentamente di quanto si fosse aspettato. Non era riuscito a dormire a causa del mal di testa causato dalla quantità di pensieri che attraversavano il suo cervello ogni minuto e in più sentiva di non poter più attendere. Aveva preso quella decisione in pochi minuti, eppure l'ansia per l'attesa era enorme, come se aspettasse quel momento da secoli.

Respirare l'aria della notte di Parigi era stato di grande conforto dopo tutto quel tempo trascorso al chiuso, ma non aveva perso tempo e, sempre usando i suoi poteri, aveva convinto un taxista a portarlo in città senza pagare. Si era fatto lasciare quasi in centro e lì, seduto in una panchina, schermato per precauzione da sguardi indiscreti, si era iniettato la seconda dose.

Sapeva già dove abitava Erik, lo aveva saputo da fonti informate, perciò non sarebbe stato necessario usare la sua telepatia per cercarlo in quel mare di menti. Guardò l'oe di nottera e vide che ormai era molto tardi. Avrebbe potuto prendere una camera d'albergo, ma proprio non ce la faceva ad attendere e magari il suo vecchio amico sarebbe stato più vulnerabile se colto nel sonno … sempre che riuscisse a dormire.

Attese qualche minuto, giusto per essere certo che le gambe lo avrebbero sostenuto, e si alzò in piedi e si avviò verso l'edificio dove sapeva c'era il suo appartamento.

 

Erano quasi le due di notte, ma era dalle undici che Erik tentava e ritentava di dormire, senza riuscirci. Non sapeva spiegarsi come, ma una strana sensazione gli faceva presagire che qualcosa di strano sarebbe accaduto.

Guardò l'orologio e vide che le due erano passate da qualche minuto, quando suonò il campanello.

Non aspettava visite, perciò quell'ospite inaspettato lo sorprese negativamente. Era sempre stato preparato alle cose più inaspettate, perciò prese la pistola, pronto ad usarla in caso di incontri poco gradevoli. Fece scattare il chiavistello e aprì lentamente la porta di pochi centimetri, prima di spalancarla e affacciarsi.

“Chi diavolo ...”

La prima cosa che vide fu il viso di Charles. Gli venne spontaneo allungare la mano per attirare a sé il suo elmetto, ma qualcosa lo frenò. Il braccio con cui reggeva la pistola si abbassò lentamente e si adagiò sul suo fianco e la mano cominciò a tremare. Non poteva crederci, assolutamente no, eppure non c'era dubbio.

Charles Xavier si trovava di fronte a lui, con la barba incolta, in piedi, e gli sorrideva con aria di sfida.

“Charles … perché … come?” chiese, guardando prima il suo viso e poi, quasi senza rendersene conto, fissando lo sguardo sulle sue gambe.

“Sono qui senza poteri, completamente inerme al tuo cospetto. Ho preso il siero non per poter camminare, ma per poterti dimostrare che non voglio utilizzarli davanti a te. Voglio che tu ti fidi di me, ma finché penserai che ho i miei poteri non potrà mai accadere.”

La borsa al suo fianco era un chiaro segno delle sue intenzioni e ad Erik non servì altro per potersi fidare. Non disse nulla. Senza guardare posò la pistola sul mobile in entrata e attirò a sé Charles, afferrandolo per il bavero. Lo guardò negli occhi solo pochi istanti, poi non ce la fece più e, prima che l'altro potesse parlare, lo zittì con un lungo e passionale bacio.

Charles non si aspettava quell'accoglienza, ma lasciò cadere il borsone e ricambiò l'abbraccio e il bacio.

I loro corpi e le loro labbra non si incontravano da tanto, troppo tempo, e sentivano entrambi la sensazione che si prova quando si trattiene il fiato. Stavano tornando a respirare, a vivere, ognuno tra le braccia dell'altro, finalmente uniti, come avrebbe dovuto sempre essere.

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Capitolo 3
*** La notte porta consiglio ***


2. La notte porta consiglio


Nessuno dei due avrebbe saputo dire quanto durò il bacio, ma quando si staccarono sembrò che fosse trascorsa un'eternità. Non erano servite parole, la sola presenza di Charles in quel luogo spiegava molte cose e il fatto che avesse rinunciato ai suoi poteri non per fuggire ma per presentarsi disarmato di fronte a Erik confermava i suoi buoni propositi.

Charles aveva l'aria di uno che non mangiava da ore così Erik, senza parlare, lo condusse in cucina e lo fece sedere al tavolo. Non parlarono nemmeno mentre lui gli riscaldava la cena, se ne stettero in silenzio, assaporando quella tranquillità domestica che avevano dimenticato, prima che una bomba esplodesse tra di loro, dilaniando le rispettive vite. In quegli istanti così sereni tutto ciò sembrava far parte di un passato remoto che nemmeno gli apparteneva.

Erik finì di scaldare gli avanzi della sua cena e glieli presentò sul piatto meglio che poté. Era poca cosa, ma Charles era affamato e l'affetto con cui Erik aveva preparato il tutto sopperiva alla carenza del cibo.

Solo quando Charles posò la forchetta e bevve l'ultimo sorso di vino, fu Erik a spezzare il silenzio.

“Credo che tu possa averlo immaginato, ma in questi mesi ho raccolto molte informazioni su di te. Quando ci siamo separati, più di dieci anni fa, non avrei mai creduto che saresti stato in grado di realizzare ciò che hai fatto, soprattutto dopo averti visto … be' … quando mi hai liberato dalla mia cella al Pentagono.”

Charles alzò un sopracciglio, ma Erik continuò.

“Posso capire che ciò che hai dovuto affrontare dopo la missione a Cuba sia stato difficile, ma non eri solo. C'erano Hank, Alex e Sean fino ad un certo punto, eppure ti sei sentito giustificato a lasciarti andare, a essere … debole ...” mormorò, quasi con disgusto.

Charles vide quel sentimento e avvampò. Un sentimento strano lo fece arrossire. Era rabbia, ma soprattutto vergogna perché, nel profondo, era consapevole che Erik aveva ragione.

“Erik, non puoi sapere cosa ho passato!” disse con una decisione fin troppo teatrale, dal momento che nemmeno lui credeva fino in fondo alle sue parole.

“Certo, posso immaginarlo. Posso immaginare come un principino come te abbia dovuto affrontare la realtà. Sei cresciuto nel lusso, la vita ti ha viziato e, quando ti sei visto togliere tutto ciò che ritenevi più prezioso, invece di lottare per riconquistarlo, hai preferito piangerti addosso.”

Charles strinse i pugni, ma non ribatté alle sue parole. In fondo sapeva che era tutto vero.

“Non fraintendermi però” aggiunse Erik, quasi per volersi scusare “In passato eri così, ora sei cambiato. Non eri preparato ad affrontare ciò che ti è capitato e lo posso capire, ma ora ti stai … ti sei rialzato e hai ricominciato a vivere. Io sono più forte perché ho dovuto imparare presto a dover lottare per la mia sopravvivenza, tu no. Ora sei cresciuto, sei davvero forte.”

Il signore del magnetismo fece una piccola pausa, quasi volesse cercare le parole giuste per porre una domanda difficoltosa, sotto lo sguardo incuriosito del telepate. Le parole compirono un lungo viaggio nella sua mente e nel suo cuore, prima di sfuggire dalle sue labbra.

“Perché sei qui, Charles?”

Quattro parole e un punto di domanda, sospeso tra i loro sguardi imbarazzati. Una semplice domanda, che fu capace di far crollare il castello di pensieri che Charles aveva faticosamente costruito. Come la domanda, anche la risposta fece un lungo percorso prima di palesarsi in poche semplici parole.

“Volevo stare con te, Erik. Voglio realizzare ciò che desidero … per me.”

Gli si avvicinò di più e fu sul punto di abbracciarlo, ma si trattenne.

“Per una volta non voglio rinunciare alla mia felicità per gli altri. Hank continua a ripetermi quanto ho sacrificato, quanto mi sono impegnato per la scuola … e ho capito che non è la sola cosa che voglio. Voglio essere positivo, un incoraggiamento per i miei studenti, ma ho capito che non potrei mai esserlo se io, per primo, non sono felice. Sono venuto qui con le mie gambe non tanto per essere indipendente ma per mostrarmi disarmato di fronte a te. Non voglio condizionarti o obbligarti a ospitarmi, se non lo vorrai, ma … te lo chiedo per favore … posso restare?”

Chiese, guardandolo dritto negli occhi per fargli vedere che non stava mentendo.

Erik esitò, da molto tempo si era abituato a dormire da solo, avere qualcuno nella stessa casa sarebbe stato molto strano. Si soffermò sugli occhi di Charles per trovare la risposta. Erano limpidi, puri, onesti, come se li ricordava. Gli bastò immergersi in quelle due pozze d'acqua cristallina per spazzare via tutti i dubbi. Erano gli occhi di un cucciolo, ma non sperduto. Charles era sincero e nei suoi occhi azzurri si rifletteva il bisogno che aveva del suo affetto così come l'affetto che lui stesso avrebbe voluto da lui.

Charles non avrebbe dormito da nessun'altra parte se non al suo fianco. Nella stessa casa, nella stessa stanza … nello stesso letto. Quello sguardo aveva sempre avuto il potere di placare la sua mente e lasciar spazio al cuore e anche quella sera gli permise di vedere ciò che era veramente importante.

Non parlò, non sarebbe stato necessario. Le parole sarebbero state inutili, forse dannose, senza senso. Lo prese per mano e lo costrinse a seguirlo e, spegnendo le luci delle stanze man mano che si avvicinavano alla camera da letto, sentì di non poter più attendere per averlo più vicino.

Charles si lasciò condurre senza obiettare, felice di quell'intimità e di quella decisione che aveva spinto Erik a ospitarlo quasi senza esitazioni, non solo nel suo appartamento ma addirittura nel suo letto.

“Ho un letto matrimoniale, dovresti stare comodo ...” mormorò il signore del magnetismo, accendendo la luce e andando a cercare il suo pigiama e un altro, nell'armadio, per il suo ospite “Probabilmente ti starà un po' largo ...” disse porgendoglielo “ … ma al momento non ho altro da offrirti.”

“Andrà benissimo ...” sussurrò lui, prendendolo e soffermandosi ad apprezzare la consistenza della stoffa.

Si accorse in quel momento di essere molto stanco perciò, imitando Erik, si spogliò lentamente e posati gli abiti su una sedia, indossò il pigiama. Chiuse gli occhi mentre la maglia gli scendeva lungo la testa, inebriato dal profumo della stoffa che, oltre al profumo del detersivo, aveva assorbito quello del sudore di Erik. Era morbido, liscio e delicato e, a suo parere, adatto per il suo proprietario.

Lo raggiunse sotto le coperte e, d'istinto, senza pensarci troppo, si avvicinò a lui, come un gattino in cerca di coccole, che Erik non gli negò.

Erano bastati pochi istanti, uno sguardo sincero, e gli anni e i pensieri che li avevano separati erano svaniti, come le nubi in un cielo che stava rapidamente tornando sereno. Non parlarono nemmeno allora, lasciando che fossero i loro respiri regolari a scandire il tempo e i pensieri, fino a quando entrambi non sfumarono nel buio di un sonno senza sogni.

 

 

Il sole filtrava dalle tende delle finestre avvolgendo i corpi dei due amanti. Erano ancora vestiti, non si erano sfiorati se non con un lungo e profondo abbraccio, ma ormai le loro menti e i loro cuori erano tornati definitivamente ad essere una cosa sola.

Fu Erik a svegliarsi per primo. Charles, spossato dopo il lungo viaggio, dormiva ancora, così poté restare ad osservarlo a lungo. Era bellissimo, assolutamente perfetto. Il sorriso sul suo volto testimoniava quanto si sentisse sereno e felice ed era del tutto diverso da quello, più tirato e timido, che aveva ostentato la sera precedente. Se prima era incerto, insicuro su se stesso e sul sentimento che li univa, in quel momento era ovvio che fosse sicuro e appagato da quell'amore che li aveva avvolti quella notte come una coperta calda e soffice.

Posò un dito sulla sua fronte e lo mosse lentamente in una delicata carezza, fino a scostare la ciocca di capelli che gli ricadevano sugli occhi ancora chiusi. Bastò quel contatto per farlo sorridere e poco dopo aprì gli occhi e lo guardò sorridendo.

“Sonno leggero?” domandò Erik, sorpreso.

“Sono tornati … i pensieri ...” mormorò, sospirando e afferrò la mano di lui per baciarla soavemente “L'effetto del siero è terminato. Ora posso sentire i tuoi pensieri, sono stati quelli a svegliarmi. Perdonami, ma erano piuttosto rumorosi ...” sussurrò, prima di sporgersi per baciarlo sulle labbra.

Era evidente quanto si sentisse bene, rilassato. Quella notte era l'inizio di una lunga vacanza che finalmente si era deciso di concedersi, senza rimorsi o rimpianti. Sarebbe bastata? Non lo sapeva né voleva indagare. In quel momento ad entrambi non sarebbe servito altro se non la presenza reciproca.

“Cosa farai?”

Due parole, una domanda, mille risposte. Charles rimase in silenzio ad affrontare quel quesito, valutandone ogni aspetto. Una domanda può essere come un diamante e avere molte sfaccettature diverse, alle quali corrispondono altrettante risposte. Come scegliere quella giusta, sempre che esista una risposta giusta?

Aveva agito d'impulso andando lì, seguendo principalmente il suo istinto, non un ragionamento, ma quella semplice domanda apriva un mondo in cui cuore e mente avrebbero dovuto imparare ad andare in sincronia. Cuore e mente, un compromesso … un compromesso tra sentimento e ragione … Sbatté gli occhi un paio di volte, fulminato da quella rivelazione.

“Vorrei farti una proposta. Ora ho di nuovo i miei poteri e dovrai fidarti di me, dovrai sapere che non ti condizionerò … o vuoi che mi inietti un'altra dose di siero? C'è l'ho, sai?”

“No, niente siero. Non voglio che usi ancora quella porcheria, Charles” rispose Erik, quasi severamente “Mi fido di te o non ti avrei permesso di dormire al mio fianco. Allora, cosa vuoi propormi?” chiese infine, sinceramente incuriosito.

“Vieni con me. Vieni come a Westchester. Quando ci sei stato la prima volta non hai visto tutte le potenzialità che ha quel luogo, ancora non era una scuola, ma oggi osservare da vicino ciò che sono riuscito a fare forse ti farebbe cambiare idea sugli umani ...” azzardò, mantenendo sempre un tono di voce sicuro.

“Non lo so …” rispose Erik, e sospirò, distogliendo lo sguardo per prendere tempo “Sai che io ...”

“La mia è una sfida, una scommessa.” lo interruppe Charles, sentendosi sempre più certo e sperando di riuscire a coinvolgerlo in quella follia.

“Una … scommessa?”

“Esatto, una scommessa. Dammi due mesi. Due mesi, e cambierai idea sugli umani.”

“Di solito si punta qualcosa, quando si scommette. Immagino che, se dovessi perdere, dovrei restare lì con te, anche se in realtà perdere per me significherebbe in effetti desiderare di rimanere, quindi non sarebbe un vero e proprio sacrificio. Per quanto riguarda te, invece? Perché dovrei accettare e mettermi alla prova? Cosa mi offri in cambio?”

Charles esitò, anche se aveva già la risposta pronta a quella domanda. Esitò perché aveva paura di ciò che stava per dire, di ciò che avrebbe significato una sua eventuale sconfitta, anche se in realtà era certo di poter vincere.

Il suo sguardo e la sua voce non avrebbero potuto essere più fieri e determinati quando infine parlò.

“Mi unirò alla tua confraternita e ti aiuterò, qualsiasi cosa tu voglia fare starò dalla tua parte. Lascerò la scuola per stare con te.”

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Capitolo 4
*** Primavera ***


3. Primavera
 

Erik restò in silenzio per qualche minuto, troppo scosso per parlare e indeciso se credere o meno a Charles. Il telepate lo fissava a su volta ,con uno sguardo determinato che raramente aveva illuminato quegli occhi chiari. Evidentemente era così convinto delle sue idee da rischiare tutto pur di convincerlo o, più semplicemente, di restare con lui. Tutta quella determinazione, tutti i sacrifici che aveva fatto e che sarebbe stato disposto a fare, tutto deponeva a suo favore. Ormai non c'erano più dubbi, Charles era sincero. Non era ancora certo del tutto che le sue idee per la lotta a favore dei mutanti fossero giuste, ma non poteva negargli l'occasione di dimostrarlo.

“Va bene, accetto la scommessa” disse infine, porgendogli la mano, che il telepate strinse senza esitare “Io rispetterò la mia parte, ma tu sei certo di voler rispettare la tua, nel caso non dovessi essere convinto dopo due mesi?”

“Assolutamente sì”

“Anche se cambiassi un po' le premesse?” chiese poi, guardandolo malizioso.

“Cosa intendi?”

“Intendo dire che vinceresti facilmente portandomi nella tua scuola. Quel posto è un'oasi in mezzo a un deserto di pregiudizi e odio. Non dico che non faccia bene, ma credo che riusciresti a convincermi in modo più onesto se restassi qui con me e mi facessi vedere come gli uomini possono accettare i mutanti al di fuori della tua scuola. Te la senti o hai paura di perdere?”

Charles non rispose subito, valutò la proposta per qualche istante, infine annuì.

“Certo. In fin dei conti hai ragione tu. Va bene. Accetto”

Erik fu piacevolmente colpito da quell'assenza di esitazione in lui e gli sorrise.

“Molto bene, allora. Per gli abiti non ci saranno problemi, anche se immagino che tu ti sia già organizzato da solo. Per quanto riguarda i tuoi spostamenti, dovrò procurarmi una sedia a rotelle. Non sarà comoda come quella che hai a Westchester, ma vederai che ti troverai bene. Non voglio che tu prenda ancora quella porcheria e sì, mi fido di te. Ti metterò alla prova, Charles. Dovrai convincermi senza usare i tuoi poteri ma dovrai essere responsabile, non voglio che tu li blocchi per non cedere alla tentazione. Come io mi fido di te anche senza elmetto, tu dovrai rispettare la mia fiducia. Ovviamente non saprò mai se mi condizionerai, ma sarà tua responsabilità fare che ciò non accada. Se lo farai, dovrai portarti il peso di una menzogna e non credo che tu sia abbastanza forte da potertelo permettere ...”

Charles arrossì per l'imbarazzo e la rabbia, ma annuì. Erik aveva ragione. Lui non sopportava le bugie e non sarebbe stato in grado di convivere con la sua coscienza se lo avesse preso in giro. Annuì con più convinzione e si mise a sedere sul letto.

“Credi di riuscire a procurarmi la sedia a rotelle? Non voglio restare confinato in questo letto!”

“Non preoccuparti, devo uscire questa mattina e al mio ritorno te la porterò.”

Ciò detto, Erik si alzò dal letto e iniziò a vestirsi.

“Starò via qualche ora, nel frattempo tu ...” esitò, non sapeva bene cosa dirgli, cosa fargli fare.

Charles sorrise e poi scoppiò a ridere.

“Stai tranquillo, ormai sono abituato all'immobilità. Se hai un libro posso leggere, altrimenti mi accontenterò di non fare nulla.”

Erik si grattò la testa guardandosi attorno con aria smarrita, infine annuì e andò alla libreria. Gli ci volle qualche minuto prima di trovare il libro giusto, ma infine prese Re in eterno, di Terence Hanbury White1 e glielo porse. La copertina era quasi nuova, ma si vedevano i segni lasciati da numerose e attente letture. Charles lo prese e lo esaminò prima di posarsi conla schiena sul cuscino.

“Ti ringrazio, sarà una lettura interessante”

Non era solito leggere libri consigliati da altri, ma in quel caso avrebbe fatto un'eccezione. Un libro può rivelare molto dell'animo di un uomo e lui, abituato a leggere i pensieri nelle menti altrui, avrebbe potuto farlo attraverso le pagine del libro.

“Bene … allora … io vado ...” mormorò Erik ed uscì dalla stanza.

Charles si rilassò sul letto e iniziò a leggere.

 

 

Ad Erik piaceva passeggiare lungo le strade di Parigi. Contrariamente a Mystique, sapeva di poter camminare a testa alta senza doversi nascondere per poter osservare tutto ciò che gli accadeva attorno. Solitamente cercava solo ciò che voleva vedere, ma quella mattina si rese conto di voler cercare anche altro.

Se Charles si era impegnato a rinunciare ai suoi ideali pur di convincerlo, anche lui avrebbe abbassato le sue difese e soprattutto i paraocchi con i quali guardava alla società. Charles era andato da lui con la mente aperta e disarmato e allo stesso modo anche lui avrebbe potuto fare altrettanto, aprendosi a nuove idee. Non voleva partire prevenuto e anche se gli sarebbe costato molto doverlo ammettere, se avesse capito che lui aveva ragione non avrebbe esitato ad ammetterlo. Era sempre stato molto cocciuto e orgoglioso, ma su una cosa era sempre stato molto leale, la sconfitta. Aveva sempre riconosciuto quando veniva sconfitto e in quel caso non avrebbe fatto diversamente. Se Charles avesse avuto ragione gliela avrebbe data.

Andò a comprare un po' di cibo e solo prima di tornare a casa passò dall'ospedale. Non fu difficile rubare una sedia a rotelle, ne prese una tra quelle rotte e l'aggiustò grazie ai suoi poteri. Fu piuttosto buffo usarla poi come carrello della spesa per portare le buste con il pane, il latte e il resto del cibo che aveva comprato per sé e per Charles, ma aveva imparato a non considerare gli sguardi della gente, perciò si lasciò sfiorare dagli sguardi stupiti e dai commenti ironici senza battere ciglio.

Non fu difficile nemmeno raggiungere il suo piano, grazie all'ascensore. Quando finalmente raggiunse la porta, ciò che lo colpì fu il silenzio. Era ovviamente abituato a non sentire rumori provenire dal suo appartamento, ma ora sapeva di avere un ospite e non sentire suoni lo preoccupò. Che se ne fosse andato, magari utilizzando una fialetta di siero che gli aveva tenuta nascosta? Era possibile …

Con la sua solita calma aprì la porta, ma si guardò attorno circospetto, cercando i segni della presenza del telepate. Silenzio, il silenzio più assoluto. Tolse le borse dalla sedia a rotelle per posarle sul tavolo della cucina e andò in camera dove, una volta varcata la soglia, poté tirare un profondo sospiro di sollievo.

Charles era lì, seduto sul letto, intento a leggere il libro che lui gli aveva dato. Era concentrato e immobile e alzò appena lo sguardo quando si accorse della sua presenza. Vedendo la sedia a rotelle sorrise e, posato il libro sulle gambe, stando attento a lasciare un segno per poter riprendere la lettura, chinò il capo in segno di saluto e gratitudine.

“Sembra molto comoda, ti ringrazio”

“N-non c'è di che ...”

“Temevi che me ne fossi andato?” chiese con un sorriso.

“Avevi promesso, Charles! Avevi promesso che non ...”

“Leggerti la mente?” scoppiò a ridere “Non l'ho fatto, ma non ci vuole un genio per intuire dal tuo sguardo che eri teso e che mi stavi cercando perché, una volta entrato in casa, non avevi sentito rumori. Ti chiedo scusa per averti fatto preoccupare, ma il libro che mi hai prestato è molto interessante e quando leggo svanisco completamente ...”

Si sporse verso di lui e gli fece cenno con una mano di avvicinare la sedia a rotelle.

“Per piacere, avvicinami anche i miei vestiti, non voglio restare a letto tutto il giorno e poi oggi pomeriggio mi piacerebbe uscire con te … So che sei già stato fuori, ma non potrò mai convincerti se resteremo chiusi qui, sbaglio?”

Erik non rispose, si limitò a scuotere la testa, sorpreso dalle parole del telepate, che scoppiò a ridere una seconda volta.

“Suvvia, Erik! Non fare quella faccia! Credi che sia veramente così ingenuo?” chiese, restando con le mani tese verso di lui aspettando i vestiti.

Finalmente Erik si riebbe e, dopo ancora qualche istante di smarrimento, andò a recuperare gli abiti di Charles, che gli porse il più rapidamente possibile.

“Non sono una belva feroce!” scherzò lui, ridendo ancora “Inoltre non credo di poterti fare molto male ...”

Erik annuì ancora e uscì dalla stanza per preparare il pranzo, mentre Charles iniziava già a cambiarsi.

 

Stava finendo di tagliare le verdure quando entrò Charles. Si voltò e gli sorrise. Non lo credeva possibile, ma solo dopo poche ore si stava abituando alla presenza del telepate al suo fianco. Sì, Charles aveva ragione quando aveva detto che aveva avuto paura che non fosse in casa, ma per un motivo che lui stesso comprendeva solo in quel momento. Aveva avuto paura che non fosse stato vero. Aveva temuto di aver comprato del cibo e di aver rimediato una sedia a rotelle per un fantasma, per l'ombra di un suo desiderio.

Sospirò di sollievo vedendo che si sbagliava e spostò la sedia del tavolo per permettergli di raggiungere il piatto senza problemi.

“Sei molto gentile ...”

“Non faccio nulla che non si a strettamente necessario” asserì Erik, ma nella sua voce e nella sua espressione era evidente il desiderio di renderlo felice, di farlo stare bene.

“Mi sta bene uscire anche oggi pomeriggio. Almeno andrò in giro con una sedia a rotelle con un uomo e non con le buste della spesa!” aggiunse, scoppiando a ridere.

Era strano e bello allo stesso tempo. Non sorrideva da tanto tempo e nemmeno rideva così. La sola presenza di Charles aveva aperto in lui porte che prima non sapeva nemmeno di possedere. Lentamente ma inesorabilmente un sentimento di gioia e calore si espanse nel suo cuore, come un fiore che pian piano germoglia da un seme tenuto per troppo tempo al freddo dell'inverno.

Charles era la sua primavera.

 

Erik cucinò, aiutato da Charles per quanto potesse fare, e mangiarono con calma, in silenzio, come se si trovassero in una situazione del tutto normale, come se non fosse strano per loro dividere un pasto in armonia. La pace e la tranquillità erano tali che si ritrovarono a lavare i piatti ridendo e scherzando del più e del meno, come i vecchi amici che erano.

A pomeriggio ormai inoltrato, quando Erik ebbe terminato di visionare alcune carte urgenti, si affacciò fuori dalla finestra e osservò il cielo. Il sole stava lentamente tramontando, regalando alle nuvole una magnifica tonalità di oro e rosa che accarezzava lo sguardo con dolcezza. In quel cielo rivide gli occhi di Charles, così azzurri e traboccanti di amore e compassione. Aveva scoperto che anche un uomo come lui, così buono e gentile, poteva diventare combattivo per proteggere le persone a lui care e la sua presenza lì ne era la prova.

Gli procurava un dolore acuto al cuore il doverlo vedere confinato in quella sedia a rotelle, ma quel male veniva alleviato dal balsamo benefico che gli sguardi del telepate sembravano emanare ogni volta che lo guardava.

“Avrei voluto uscire prima, ma devo ammettere che il tramonto a Parigi è qualcosa alla quale non avrei mai rinunciato ...”

Si avviarono in direzione della Tour Eiffel, che stava già iniziando ad illuminarsi contro il cielo sempre più scuro. Quando furono più vicini il cielo era ormai diventato un manto blu costellato di piccoli diamanti, oscurati però dalla presenza massiccia della torre, che splendeva con gli effetti delle luci, sapientemente posizionate per farla brillare come un gioiello prezioso.

Si avvicinarono alla Senna e poco distante da loro passarono due ragazzi. Si tenevano per mano e si sorridevano, ogni tanto si baciavano, sfiorati dagli sguardi dei passanti, che li ignoravano come se non esistessero, reprimevano espressioni di disgusto o, ancor peggio, facevano di tutto perché venissero notate.

“Hai visto?” chiese Charles, indicandoglieli con un moto discreto del viso “Quei due, sono omosessuali”

“Non ci vuole un telepate per capirlo ...” ironizzò Erik, sbuffando senza capire dove volesse andare a parare”

“Non fare finta di non aver capito, Erik” lo rimproverò Charles con il tono del professore che ogni tanto gli veniva senza che se ne rendesse conto “Non si stanno nascondendo né lottano per i loro diritti. Esistono, semplicemente esistono. Le persone attorno a loro ancora non li accettano, li considerano un'aberrazione, uno scherzo della natura … ma a loro non importa. Non gli importa di doversi difendere né di attaccare. L'unica cosa che interessa a loro due è amarsi.”

Charles si voltò verso di lui e sospirò, come se dovesse ammettere una sconfitta.

“Quando ti ho proposto quella sfida non avrei mai pensato che avresti accettato. Accettarla avrebbe significato aprire la tua mente e, se devo essere sincero, non credevo che saresti riuscito a farlo. Ti ho sempre considerato accecato dal tuo stesso odio, eppure qualcosa deve averti aiutato ad aprire gli occhi ...”

“Non capisco dove tu voglia arrivare … perché fai quella faccia? Credevo che ti avrebbe fatto piacere sapere di aver ragione!” ironizzò, sbuffando e incrociando le braccia al petto.

“Non ho ragione, è questo il punto”

“Allora ho vinto io? Così in fretta?”

“No, non hai ragione neppure tu ...” concluse Charles, senza però spiegarsi.

“Sei enigmatico, Charles … non credo di aver capito ...”

“Capirai, Erik, capirai … ma non voglio scoprire ora tutte le mie carte. Abbiamo molto tempo da trascorrere insieme, non voglio bruciare le tappe”

Erik annuì e gli posò una mano sulla spalla.

“Omosessuali e mutanti sono discriminati allo stesso modo …” mormorò piano, guardando i due ragazzi che, nel frattempo, si stavano allontanando “Mi chiedo cosa succederebbe se un mutante fosse anche omosessuale ...” concluse con un sorriso, prima di prendere una sigaretta e accenderla quasi con pigrizia.

Charles sobbalzò sentendo quel contatto con la mano del signore del magnetismo e trattenne il fiato ascoltando quella frase. Si voltò verso di lui, ma Erik stava osservando i riflessi della torre sull'acqua del fiume, non avrebbe risposto a nessuna domanda e lui non avrebbe osato leggergli nel pensiero.

I primi pedoni erano stati mossi.

 

 

 

 

 

 

1 Questo libro compare davvero nei film dedicati agli X Men

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Capitolo 5
*** Cena per due, cena per uno, cena per molti ***


Cena per due, cena per uno, cena per molti






I giorni seguenti furono relativamente tranquilli. Erik continuava a condurre la solita vita e Charles sembrava rilassarsi sempre di più, come se osservare il Signore del Magnetismo al lavoro fosse per lui una specie di vacanza.

Entrambi avevano mosso le loro prime pedine in quella strana partita a scacchi, ma nessuno dei due sembrava ansioso di proseguire. Come al solito si stavano godendo il piacere della sfida, quella sottile tensione che fa bene all'intelletto. All'apparenza nulla era cambiato, eppure qualcosa in entrambi si stava rapidamente evolvendo, maturando sotto la superficie visibile

Anche senza usare i suoi poteri, Charles poteva vedere che Erik si stava sempre più lasciando andare e soprattutto sembrava accettare pian piano i propri sentimenti come lui stava accettando i suoi.

Charles era partito con un'idea ben chiara in testa, ovvero mostrare all'amico come si viveva bene nella sua scuola, come fosse riuscito a creare un ambiente protetto dove i suoi studenti potevano vivere con serenità la loro mutazione … ma sarebbe stato come barare. Ciò che Erik doveva imparare a conoscere non era tanto il fatto che lui potesse essere un bravo insegnante ma la verità che l'umanità lentamente stava sempre più accettando i mutanti. Aveva dovuto accettare questa cosa e cambiare di conseguenza la sua strategia, non che la cosa fosse stata particolarmente difficile.

Sapeva esattamente cosa avrebbe fatto, come si sarebbe comportato. Aveva due mesi di tempo per riuscire a convincere Erik, ma man mano che passavano i giorni aveva sempre più paura di non potercela fare e lentamente la paura di dover rinunciare a tutto quello che aveva costruito in quegli anni per unirsi a lui. In effetti l'idea principale era stare vicino ad Erik, ma non così, non da sconfitto … ma d'altra parte poteva immaginare che anche lui, dalla sua parte, non avrebbe accettato volentieri il fatto di vedere distrutte tutte le sue idee di fronte ad una realtà che non corrispondeva con i suoi sentimenti. Entrambi facevano resistenza, ma uno dei due avrebbe dovuto cedere, prima o poi, in un modo o nell'altro ed entrambi erano convinti che non ci sarebbe stata una via di mezzo.

Erano trascorsi tre giorni da quando Charles era arrivato ed erano sempre rimasti soli. Di tanto in tanto Erik rispondeva al telefono e usciva di casa, ma non era mai venuto nessuno a disturbare la loro quiete. Charles amava la pace e il silenzio, ma ormai era abituato anche al caos della sua scuola, così quei tre giorni, sebbene piacevoli, avevano introdotto nella sua vita una monotonia che, invece di essere riposante, stava diventando affaticante. Nonostante tutta quella intimità fosse utile al loro rapporto, sentiva di aver bisogno di uscire, di vedere altre persone, soprattutto perché altrimenti non avrebbe avuto modo di mettere in atto il suo piano.

 

Quel pomeriggio Erik era uscito molto presto in seguito ad una telefonata ed era tornato solo un paio d'ore più tardi, convinto di trovare Charles ad attenderlo … ma la casa era vuota. Vagò per le stanze diverse volte prima di arrendersi all'evidenza. Charles se n'era andato.

Era un bene? Era un male? Non lo sapeva. In fin dei conti non lo aveva sabotato, non gli aveva portato via nulla … se non un po' di fiducia e un po' di felicità che in quei giorni aveva iniziato ad apprezzare. Charles era arrivato come un gatto randagio che chiede un po' di cibo ma, fedele alla sua natura raminga, se n'era tornato via, lasciandogli quel vuoto dove avrebbero abitato le ombre dei ricordi che avevano costruito insieme ma che non sarebbero stati sufficienti per permettergli di andare avanti senza rimpianti o senza rancore nei confronti dell'uomo che lo aveva illuso.

Aveva comprato due bistecche da mangiare con contorno di insalata, funghi e patate novelle e una bottiglia di vino che, pur non essendo pregiato, lo aveva conquistato dal primo sorso. Aveva programmato una cena solo per loro due … ma ormai avrebbe dovuto rassegnarsi a cenare da solo.

Stava riponendo le cibarie con la massima cura, tanto per dimenticare l'arrabbiatura, quando sentì le porte dell'ascensore aprirsi oltre la porta. Non fece caso a quel rumore, ma quando anche la porta d'ingresso venne aperta, si mise all'erta, in ascolto, ma non sentì nulla se non dei passi strascicati. Sembrava che il misterioso visitatore procedesse senza mai sollevare i piedi dal pavimento. Si chiese come mai si comportasse così, vide l'ombra del suo intruso e capì. Posò sul tavolo il coltello che aveva fatto alzare con i suoi poteri e sospirò di sollievo e addirittura si mise a ridere quando comparve Charles, nella sua sedia a rotelle.

“Idiota. Sei un idiota!”

Charles lo guardò senza capire, tentato di leggergli nella mente, senza tuttavia farlo. Il suo sguardo interrogativo fu sufficiente a Erik per spiegarsi.

“Avevo paura che te ne fossi andato e che stesse entrando un ladro!”

Charles guardò fuori e vide il cielo ancora abbastanza chiaro, poi si voltò verso Erik e sorrise, scuotendo la testa, come un professore deluso dalla prova del suo studente.

“Secondo te un ladro proverebbe a entrare a quest'ora e, a parte questo, perché me ne sarei dovuto andare? Se avessi prestato attenzione avresti visto che i miei abiti sono ancora qui e che ti avevo perfino lasciato un biglietto.”

Prese un foglietto scritto da lui posato sul tavolo. Erik lo guardò e arrossì per l'imbarazzo.

“Non l'avevo notato ...”

Charles scosse la testa ancora una volta, deluso.

“Non ho bisogno di leggerti nel pensiero per capire che non ti fidi ancora di me, Erik. Ero uscito per fare due passi, niente di più. In reltà ci sarebbe qualcosa di più, ma non è nulla che possa nuocere a te.”

Erik rimase senza fiato di fronte a quello sfogo, Charles semrbava davvero arrabbiato.

“No! Non ho mai pensato questo!” si schiarì la voce, imbarazzato perché, in realtà, aveva temuto che lo avesse tradito “In realtà lo avevo pensato, ma non perché non mi fidassi di te … avevo paura che tu non ...”

Si bloccò. Se avesse terminato la frase avrebbe detto “che tu non ricambiassi i miei sentimenti, che non mi amassi come ti amo io!”

Ovviamente non lo fece, ma Charles sembrò aver intuito qualcosa, perché sorrise e gli fece cenno di avvicinarsi e, quando fu abbastanza vicino, lo afferrò per la camicia e lo attirò a sé per baciarlo.

“Non potrei mai lasciarti, non così, non senza dirti ciòche provo o almeno senza fartelo capire.”

Lo baciò ancora, più dolcemente, accarezzandogli la guancia. Erik tremò per l'emozione e sorrise a sua volta, finalmente, rilassandosi.

“Si può sapere cosa sei andato a fare fuori?” chiese, leggermente irritato per la paura che lui stesso avrebbe potuto evitarsi se fosse stato più attento.

“Sono andato a … fare due passi!” esclamò lui, scoppiando a ridere “A parte gli scherzi, avevo bisogno di prendere un po' d'aria … e conoscere qualche persona nuova.”

“Cosa non va in me?” domandò Erik, stavolta offeso.

“Nulla, ma non posso sperare di vincere la scommessa restando chiuso in casa. Ho passeggiato, ho mangiato un dolce e bevuto un caffè e visitato una libreria meravigliosa, in centro. È lì che ho conosciuto Amelie e Philippe.”

“Amelie e Philippe.” ripetè Erik, senza capire dove il compagno volesse andare a parare.

“Amelie e Philippe sono marito e moglie e organizzano spesso delle cene a tema.”

“Umani.”

“Umani.”

Erik sbuffò, ma Charles non perse la calma.

“Tra due giorni ceneremo a casa loro con altri umani.”

“No.”

“Sì. E ti dirò di più, li frequenteremo per tutto il tempo in cui io starò qui.”

“No.”

“Sì. Ormai ho deciso.”

“Sarebbe questa la tua strategia? Non vorranno avere a che fare con noi sapendo che siamo mutanti!”

“Qui sta il bello, non lo sapranno.”

“Cosa?”

“Hai capito.”

“Non ti capisco … perché non lo dovrebbero sapere? Come potrebbero non saperlo? Tu sei famoso, io sono famoso!”

Charles si concesse il sorriso di chi sta tramando qualcosa e lasciò Erik sulle spine per qualche istante prima di rivelargli il suo piano, o almeno parte di esso.

“Io sarò James McAvoy, tu Michael Fassbender. Reciteremo la parte di due attori, due umani. Condizionerò i nostri “amici” in modo che vedano ciò che io voglio.”

“Questo però è barare!” esclamò Erik, quasi arrabbiato “Avevi detto che non avresti usato i tuoi poteri! Come puoi dimostrarmi che gli umani ci accettano se mentiremo sulla nostra identità?! Passi avere un'identità falsa, ma fingere di essere ciò che non siamo … fingere di essere … umani ...”

Pronunciò l'ultima parola con disgusto, come se il solo pronunciarla potesse in qualche modo sporcarlo.

“Farà bene a loro, a tempo debito, e farà bene a te. Anche tu hai bisogno di capire che gli umani non sono esseri inferiori così come noi non siamo mostri.”

“Charles ...”

Erik era senza parole, ancora sconvolto per la forte emozione provata quando aveva temuto la fuga di Charles e ora totalmente confuso per il piano che il compagno gli aveva illustrato. Non capiva, ma una parte di lui continuava a ripetergli che poteva fidarsi, che lo doveva fare.

A Charles non servì parlare ancora. Mentre il sole calava oltre le case, facendo allungare le ombre dei mobili, la luce della fiducia trovò nuova energia tra di loro. La luce solare fu ben presto sostituita da quella delle lampadine, mentre i due, ormai completamente a loro agio, si apprestavano a preparare la cena.

Non fu una serata carica di colpi di scena o emozioni forti come quelle che si erano verificate in quei pochi minuti, ma ormai molte cose si erano sbloccate tra di loro. Tutto era tornato alla placida staticità di prima, eppure qualcosa era cambiato. Nello stagno che era diventato il loro rapporto in quei giorni l'acqua era stata smossa. Ora era tornata liscia, calma, ma il vero cambiamento era profondo, invisibile agli occhi, un cambiamento di cui però entrambi erano consapevoli.

Prima di andare a dormire sparecchiarono la tavola e lavarono le pentole per non doverlo fare il giorno successivo. Erano entrambi stanchi, ognuno per i suoi motivi, ma quando fu ora di andare a letto, Erik spinse la sedia a rotelle verso la propria camera e non verso quella degli ospiti.

“Che ...”

Charles non concluse la domanda, si lasciò guidare dal compagno che, premurosamente, lo aiutò a infilarsi il pigiama e poi a distendersi accanto a lui, nel suo letto. Era un gesto semplice, per il quale non aveva chiesto né aveva bisogno di permesso. Tutto era ormai chiaro a entrambi, una verità così palese da non dover nemmeno essere espressa. Loro si amavano così come il cielo era azzurro e così come il sole era caldo. Non era un'opinione, era un fatto.

Avrebbero volentieri fatto l'amore, ma in quel momento non poteva esserci nulla di più rassicurante e dolce della presenza reciproca, del respiro e del battito del cuore dell'altro, regolari come lo scorrere del tempo che procedeva in punta di piedi in un silenzio fatto di sussurri, sorrisi e baci donati. In quel torpore, nel calore di una coperta e di un sonno condiviso, scivolarono entrambi nel mondo dei sogni che, almeno per loro, non erano troppo distanti dalla realtà.

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Capitolo 6
*** Accettazione ***


Accettazione

 

 

 

Nei due giorni successivi Erik trascorse quasi tutto il tempo a pensare a come si sarebbe dovuto comportare durante la cena. Charles era stato molto vago in merito, gli aveva semplicemente detto di comportarsi come se fosse un umano ma di non dirlo apertamente o farlo intendere in qualche modo, sarebbero rimasti in incognito, assolutamente neutrali. Pensandoci meglio era riuscito a capire il punto di vista del compagno. Senza esporsi avrebbero potuto compredere il punto di vista degli umani con i quali sarebbero entrati in contatto senza condizionamenti. Questi, credendo di trovarsi di fronte a degli umani come loro, avrebbero avuto maggior possibilità di esprimere il loro pensiero senza paura di essere giudicati o minacciati. Così, anche se l'idea di dover trascorrere più di una serata in compagnia di persone che disprezzava non lo eccitasse, la prospettiva di poterlo fare con Charles al suo fianco rendeva il tutto meno insopportabile.

Tra di loro era tornato a instaurarsi quel rapporto che era nato spontaneamente quando si erano incontrati per la prima volta e che in modo altrettanto naturale era rinato in quei giorni. Non c'erano state forzature, non avevano avuto bisogno di parole, era stato come se non si fossero mai lasciati. I cambiamenti c'erano stati, nel corpo e nella mente di entrambi, ma il sentimento profondo era rimasto lì, protetto e invulnerabile, come se fosse fatto per resistere al tempo e alle intemperie.

 

Aveva paura, quel pomeriggio, mentre si preparava ad affrontare la sfida che Charles gli aveva posto, ma proprio perché c'era lui era convinto di potercela fare. Era stato difficile per lui accettare di dover dimenticare per una sera la sua natura e comportarsi come un normale essere umano, perciò aveva annullato tutti gli impegni e si era chiuso in camera per potersi concentrare meglio. Charles, che era uscito per prendere un po' d'aria e rilassarsi, rientrò verso le sei, giusto in tempo per cambiarsi per la cena. Entrò nella camera che ormai era diventata anche sua e, dopo aver salutato Erik con un lieve bacio sulle labbra, prese dalla valigia un cofanetto di metallo e la posò sul letto. Restò a guardarla per minuti interi, indeciso. Fu Erik a sbloccare la situazione, aprendo la scatola per lui. Quando lo fece la richiuse all'istante, disgustato.

“Ci stai pensando davvero?”

Charles lo guardò colpevole ma non disse nulla.

“Non posso crederci! Perché dovresti farlo? Per impedirti di usare i tuoi poteri su di loro? Eppure mi hai già avvisato che li avresti usati per la nostra copertura!”

Charles sorrise tristemente e scosse la testa.

“Niente di tutto questo. Semplicemente volevo sbarazzarmene.”

“Davvero?”

“Sì.”

“Così, all'improvviso?”

“No, dopo aver capito una cosa ...”

Erik lo guardò e sorrise, nemmeno in quel momento ci fu bisogno di parlare per comprendere ciò che l'altro intendeva, ma lui sentiva la necessità di spiegarsi, di scusarsi. Il senso di colpa era ancora vivo in lui come, almeno così immaginava, il dolore in Charles. Gli si avvicinò e si inginocchiò di fronte a lui, non per guardarlo negli occhi ma per mettersi in modo che fosse lui a guardarlo dall'alto al basso. Gli prese le mani e le baciò ripetutamente. Charles capì subito cosa stava facendo, ma non si sottrasse a quei baci.

“Non è necessario, Erik. Ho superato quel dolore e tu dovresti fare altrettanto con i tuoi sensi di colpa. Mi hai già chiesto scusa in passato e ho accettato quelle scuse.”

“Tu … tu non puoi camminare … per colpa mia!”

Charles gli sorrise e circondò il suo viso con mani tremanti.

“È tutto passato, te l'ho già detto. Non puoi continuare a condannarti per qualcosa per cui non puoi fare nulla. Voglio disfarmi di questo siero perché so che non ho più bisogno di usarlo per modificare i miei poteri. Voglio essere libero, dal passato, dal dolore, dalla paura. Queste fiale sono in realtà la mia paura.”

Prese la scatola e, dopo averla chiusa con più cura, la gettò nel cestino dei rifiuti sotto lo sguardo di Erik, che non sapeva se essere felice, orgoglioso o spaventato da quel gesto.

“Non guardarmi così, era la scelta giusta.”

Il signore dei metalli non potè che annuire e sorridere a sua volta, d'accordo con il telepate, che baciò amorevolmente.

“Hai bisogno di aiuto per cambiarti?”

Sapeva che Charles aveva delle difficoltà oggettive e che quelle, volente o nolente, non sarebbero scomparse solo grazie alla sua volontà, ma al tempo stesso temeva di offenderlo offrendogli il suo aiuto.

“No, ti ringrazio, ce la posso fare da solo. Potrei … ecco … potrei avere bisogno d'aiuto per i pantaloni, ma me la sono sempra cavata da solo.”

Erik era già pronto per uscire, così si distese sul letto per osservare il compagno mentre si cambiava. I movimenti di Charles erano esattamente come se li era immaginati. Era calmo, pacato, gentile perfino con i suoi vestiti, che ripose piegati con cura sul mobile, prima di prendere quelli che avrebbe usato per la sera. Non notò molta differenza tra il completo che aveva usato per uscire nel pomeriggio e quello che avrebbe indossato per la cena, entrambi erano eleganti e denotavano gran gusto. Lui aveva iniziato a vestirsi con abiti costosi da quando era riuscito a farlo, come reazione a quello che gli era successo quando era bambino, ma per Charles sembrava una cosa normale, come il fatto di pettinarsi o lavarsi il viso la mattina. Lui era fatto per indossare quegli abiti eleganti, era perfetto. I pantaloni, la camicia e la giacca mettevano in evidenza il suo corpo senza ostentarlo, evidenziando i suoi tratti come avrebbe potuto fare un raggio di sole su un fiore.

“Non abbiamo tempo per questo, Erik!” esclamò lui, notando come il compagno lo stava fisanndo.

“Avevi detto che ...”

“Ancora con questa solfa?” chiese Charles, ridendo, mentre aggiustava la giacca “Non ti ho letto nel pensiero, ma come al solito non serve essere un telepate per capire cosa si nasconde dietro quello sguardo! Non hai fatto che fissarmi per tutto il tempo in cui mi cambiavo!”

Le guance di Erik si fecero più rosse per l'imbarazzo e la rabbia, odiava essere letto così dal compagno.

“È inutile che ti arrabbi con me! Sono un professore, fa parte del mio lavoro studiare la comunicazione non verbale ...” mormorò, guardando però un rigonfiamento che prima non c'era su Erik il quale, vedendosi scoperto, si sbrigò a coprirsi, mentre Charles scoppiò a ridere.

Pochi minuti dopo entrambi furono pronti per uscire, così presero le giacche e le chiavi di casa e scesero in strada.

 

La casa di Amelie e Philippe non era molto distante da quella di Erik. Charles non aveva scelto i loro due nuovi amici a caso. Vivevano vicino a loro, avevano una cerchia di amici molto ampia e, almeno apparentemente, erano tolleranti nei confronti delle minoranze.

Fu Philippe ad accoglierli, come un vero padrone di casa. Diede una leggera pacca sulla spalla a Charles, come se lo conoscesse da una vita, e strinse con vigore la mano ad Erik.

“Benvenuti!”

Amelie, che stava ancora finendo di cucinare, li raggiunse solo qualche minuto più tardi.

“James! Che piacere rivederti! Questo è Michael! Molto lieta!”

James e Amelie erano una coppia giovane, entrambi avvocati, entrambi amanti della musica, della lettura e dei viaggi e la loro casa testimoniava ogni aspetto del loro carattere.

La tavola che avevano preparato era impeccabile, non c'era nulla che non stonasse, tutto era sistemato con la massima cura.

Charles, pur non essendo mai entrato in quella casa, sembrava trovarsi a proprio agio, mentre Erik si sentiva un pesce fuor d'acqua in mezzo a tutti quegli umani, che per fortuna al momento erano solo due. Ben presto cominciarono ad arrivare gli altri invitati, a piccoli gruppi o a coppie, e in questo modo Erik riuscì ad abituarsi man mano alla loro presenza. La voglia di andarsene era forte, ma il desiderio di compiacere Charles era più forte, così riuscì a resistere.

Tutti gli amici dei padroni di casa erano apparentemente brave persone, di mentalità aperta come Amelie e Philippe. Charles, a insaputa di Erik si era presentato con lui come coppia e questo al signore del magnetismo aveva fatto solo piacere perché cominciava a intravedere dove voleva andare a parare Charles e perché ormai, anche se non lo avevano detto apertamente, era diventato vero.

La cena iniziò in modo pacato e proseguì senza scossoni, ma verso la fine si animò. Charles si divertì ed Erik riconobbe quel festaiolo che non era riuscito a conoscere prima dell'incidente a Cuba e che ora sembrava essere riemerso dopo anni di oblio. Era solare, felice, meraviglioso da vedere e la sua presenza sembrava far dimenticare ad Erik il fatto di stare insieme a persone che, se avessero conosciuto la verità su loro due, probabilmente gli avrebbero sputato in faccia.

Non ci fu nulla di speciale quella sera, a parte il cibo. Le chiacchiere furono abbastanza superficiali e non ci furono avvenimenti di rilievo, ma giusto poco prima dei saluti fu la padrona di casa ad abbracciare con entusiasmo prima Erik e poi Charles e lo stesso fecero anche le altre donne del gruppo.

Mentre tornavano a casa in silenzio fu Erik a rompere il silenzio.

“Non è andata così male, che ne dici? Un po' noiosa ...”

Charles sorrise e scosse la testa.

“Non poteva andare altrimenti. Ho conosciuto Amelie e Philippe solo da poco tempo. Avrei potuto modificare i loro ricordi in modo da fargli credere di conoscerci da una vita, ma l'inserimento nel loro gruppo di amici sarebbe stato ugualmente graduale … o avrei dovuto modificare la memoria a tutti e considerato il fatto che sto nascondendo le nostre reali identità, tutto questo mi avrebbe fatto sprecare energia inutilmente. Oggi non è andata male per niente. Gli abbracci finali mi hanno fatto capire che ci hanno accettato. Già dalla prossima cena le cose cambierano, vedrai!”

“Quindi ci saranno altre cene?”

“Certo! Venerdì prossimo daranno una cena, stavolta a tema steampunk e ovviamente ho accettato per entrambi. Ci inseriremo nel loro gruppo e li potremo osservare da vicino. Non sarà un problema procurarci gli abiti.”

Erik scoppiò a ridere sentendolo parlare così e lo sguardo interrogativo di Charles lo spinse a spiegarsi subito.

“Ti chiedo scusa, ma sembra che tu stia parlando di cavie da laboratorio!”

“In effetti è quello che sono, almeno per me, in questo momento. Non mi sarei mai avvicinato a loro se non avessi avuto un buon motivo. Ho scelto loro perché erano adatti per il mio esperimento e per la nostra scommessa.”

“Sei perfido! Sei un perfido approfittatore e manipolatore!”

“È il mio potere. Tu manipoli il metallo, io faccio la stessa cosa con le menti. Dovrei reprimermi?”

Erik non rispose, ma entrambi conoscevano la risposta perché stavano sorridendo.

 

Le settimane trascorsero senza scossoni, tra la quotidianità di Charles ed Erik e le cene alle quali partecipavano, che si facevano via via più movimentate e divertenti. Erik, così coinvolto dall'entusiasmo dell'amico, aveva cominciato a dimenticare il motivo per il quale avevano fatto amicizia con quelle persone. Il modo in cui li avevano accolti lo faceva sentire felice, sereno, appagato. Tutti sapevano della loro relazione omosessuale e nessuno sembrava avere niente da ridire. Vivere in un ambiente in cui non c'erano pregiudizi sembrava aver placato i suoi sentimenti di rabbia nei confronti degli umani che lo avevano fatto soffrire. Le risate, gli abbracci, i giochi e le serate in compagnia lo avevano trasformato. Soprattutto l'influenza di Charles, la sua positività, la sua gioia, la sua voglia di vivere nonostante tutto, nonostante ciò che lui stesso gli aveva fatto. Lo guardava ridere e scherzare e non poteva fare a meno di pensare che avrebbe dovuto odiarlo perché per colpa sua era rimasto bloccato in quella sedia a rotelle. L'amore che Charles dimostrava per lui lo aveva spinto a sua volta ad apprezzare anche gli umani, per i quali un tempo aveva provato solo rancore. Non sapeva fino a dove si spingesse la strategia di Charles per fargli provare quei sentimenti, ma di certo sapeva che i sorrisi che gli regalava quando lo vedeva erano sinceri. Non voleva imporgli niente, voleva fargli capire il suo pensiero tramite l'esempio e, da bravo insegnante, ci stava riuscendo.

Charles aveva i suoi piani, Erik aveva i suoi piani, ed entrambi pensavano che sarebbero andati a buon fine, anche se quest'ultimo ormai si stava lentamente convincendo della bontà di quelli dell'altro. Ciò che nessuno dei due sapeva era che, poco prima dello scadere dei due mesi, sarebbe successo qualcosa che nessuno dei due si sarebbe aspettato o sarebbe stato capace di prevedere, ma che avrebbe sconvolto per sempre le loro vite.

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Capitolo 7
*** Draw ***


Draw

 

 

Le cene con Amelie e Philippe erano sempre gradevoli e stimolanti e sia Charles che Erik si erano sempre divertiti. C'erano alcuni ospiti fissi, mentre altri venivano solo di tanto in tanto e altri venivano da lontano e a loro due capitò di vederli solo una volta. Erano tutti artisti, scrittori, pittori, musicisti o estimatori di queste arti. Nessuno di loro sembrava infastidito dalle attenzioni che Charles dava ad Erik e viceversa. Avevano quindi avuto modo di vedere una vasta varietà di persone, ma ciò di cui Charles aveva realmente bisogno per far capire ad Erik che i sapiens erano cambiati sarebbe arrivato presto, giusto in tempo per concludere l'esperimento di due mesi.

Quell'ultima domenica Amelie li aveva invitati all'apertura di una mostra di quadri che si sarebbe tenuta al Centre Pompidou. Amelie era entusiasta all'idea perché non si trattava di una semplice esposizione di quadri, ma qualcosa di molto più spettacolare, una performance. Non erano rari gli artisti che si esibivano in simili spettacoli, ma quello sarebbe stato ancor più emozionante perché l'artista in questione era nientemeno che un mutante.

Era stato Philippe, che da quando si era diffusa la notizia dell'esistenza dei mutanti si era interessato di genetica e delle particolari mutazioni che potevano esistere, che aveva spiegato a Charles ed Erik, durante una serata in compagnia, come si sarebbe svolta la cosa.

“Si fa chiamare 'Draw' e il suo potere consiste nel manipolare i liquidi. Grazie al suo potere manipola i colori e li stende sulla tela senza bisogno di pennelli. È straordinario da osservare, io ho avuto la fortuna di vederlo all'opera e c'è da rimanere senza parole, ve l'assicuro!”

Erik e Charles si erano guardati con complicità, sinceramente stupiti per quella novità. Erano ormai abituati alla consapevolezza dell'esistenza di esseri dotati di simili poteri, ma scoprirne di nuovi e soprattutto vederli in azione era sempre qualcosa di prezioso e sorprendente. Nessuno dei due lo disse apertamente, ma la prospettiva di andare ad assistere ad uno spettacolo di un mutante gli aveva fatto tornare in mente i loro primi viaggi, quando ancora cercavano di reclutare giovani agenti per combattere Shaw. Questa volta sarebbe stato diverso però. Non sarebbero andati lì per valutarne i poteri dal punto di vista bellico e soprattutto non lo avrebbero fatto in segreto. Il motivo per cui sarebbero andati ad ammirare Draw era per osservarlo e per osservare le persone che a sua volta si sarebbero stupite della sua mutazione e l'avrebbero applaudita, per farlo sentire accettato dalla società. I piani di Charles sembravano andare per il verso giusto, ma nessuno dei due aveva fatto i conti con il destino.

 

Era un sabato mattina, il cielo di Parigi era limpido, solo qualche nuvola candida passava di tanto in tanto senza però soffermarsi, sospinta da un venticello freddo che aveva convinto Charles ed Erik a vestirsi più del solito.

Avevano raggiunto Amelie e Philippe giusto fuori dal palazzo e, insieme ad altri due amici, un fotografo e uno scrittore, erano saliti al piano dove si sarebbe tenuta la performance.

Erano già presenti giornalisti e curiosi e anche loro si unirono alla folla. Charles ebbe un posto privilegiato, davanti a tutti, a causa della sedia a rotelle. Di solito odiava essere trattato così, ma in quel caso benedisse questa “fortuna” perché avrebbe potuto vedere più da vicino il mutante. Si accorse immediatamente che, tra i tanti presenti, c'erano anche dei militari, ovviamente in borghese, venuti con la sua stessa curiosità ma con obiettivi sicuramente diversi. Non ci fece caso, era normale, lo sapeva e lo aveva previsto.

Le chiacchiere riempivano l'aria, ma ben presto tutti si azzittirono, su esplicita richiesta dell'organizzatrice dell'evento, Therese Laurent, che alzò le braccia per attirare l'attenzione.

“Buongiorno a tutti! Benvenuti! Io sono Therese e lui è Draw.”

La donna fece un passo indietro e indicò il giovane mutante accanto a lei. Draw era magrolino, capelli biondi e occhi azzurri, sembrava spaesato, ma quando la donna gli posò una mano sulla spalla sembrò calmarsi, quasi fosse sotto ipnosi. Il legame tra i due doveva essere molto forte.

“Draw è un mutante e ha scoperto questo suo dono qualche anno fa. Era sperduto, spaventato … poi ha incontrato me. Non sono una mutante, questo è vero, ma sono riuscita a fargli accettare i suoi poteri e a sfruttarli per creare qualcosa di bello, come i quadri che vedete qui appesi e quelli che vedrete tra poco.”

Erik era stupito da quella strana coppia e si stava sempre più convincendo che Charles avesse ragione, che poteva esistere un rapporto sereno tra mutanti e umani, ma quando si voltò verso il compagno aggrottò le sopracciglia. Charles era pallido, teso nella sua sedia a rotelle, e fissava la donna con ossessione. Il signore dei metalli posò la mano sul braccio di lui per attirare la sua attenzione.

“Qualcosa non va? Mi sembri teso, eppure stai vincendo, no? Mi hai mostrato che ci può essere del bene tra mutanti e non mutanti, non vedo perché tu debba essere preoccupato!”

“Non lo so nemmeno io, ma quella Therese non mi convince ...”

Erik scoppiò a ridere osservando lo sguardo scettico del compagno.
“Ho capito!” mormorò, chinandosi e sussurrando perché solo loro due capissero “Sei geloso perché ha accudito lei un giovane mutante e non tu!”

Charles sollevò lo sguardo e guardò male Erik, pur sorridendo.

“Sei totalmente fuori strada. Ci sono migliaia di mutanti in tutto il mondo, non posso pretendere di riuscire a raggiungerli tutti né ce la farei … ma lei … lei ha qualcosa che non va … e la sua storia non mi convince ...”

“Lascia perdere!” esclamò Erik, dandogli una manata sulla schiena “Pensa solo a divertirti. Questa performance mi incuriosisce molto! Sono curioso di vederlo all'opera!”

Dopo la presentazione di Therese e mentre Draw si stava preparando anche altre persone avevano iniziato a chiacchierare, ma quando il ragazzo si mise davanti alla tela tutti si zittirono.

Draw era in piedi, immobile, davanti alla tela, circondato da secchi di colori e acqua.

Era concentrato, silenzioso, meditativo.

Poi si mosse.

Sembrava che stesse eseguendo qualche esercizio di Tai Chi, ma subito dopo qualche movimento videro piccoli fili di colore emergere lentamente dai vari secchi e andare ad abbattersi con precisione sulla tela. All'inizio sembravano colori indistinti ma poi, come in un sogno, presero forma e dal bianco venne fuori un cavallo che correva in una prateria.

Tutti erano rimasti a bocca aperta e senza fiato per l'emozione. Perfino Erik e Charles, che avevano visto anche altri poteri più forti, rimasero ammaliati da quello spettacolo così poetico.

Senza perdere tempo Draw realizzò altri tre quadri: un'aquila, il ritratto di uno dei presenti e un autoritratto.

Alla fine si voltò e si inchinò per raccogliere il meritato applauso, che durò diversi minuti.

Tutti applaudivano, tutti tranne Charles, che se ne stava apparentemente imbambolato, deciso a capire cosa non lo convincesse di tutta quella storia. Guardava Draw e lo vedeva tranquillo, forse troppo … poi guardò Therese e capì. Il suo sguardo si fece duro per la rabbia, ma nessuno se ne accorse. Nemmeno Erik, che nel frattempo era stato affiancato da Philippe che voleva mostrargli un quadro particolarmente bello che ritraeva una coppia di cigni.

Charles avrebbe voluto parlare con Draw, capire cosa stesse succedendo, ma non poteva farlo, non con metodi convenzionali. Si appartò fingendo di prendere da bere dal buffet sul quale tutti si erano avventati, cercò di contattarlo mentalmente.

||“Draw? Draw? Mi senti?”||

Non fu facile per lui intrufolarsi nella sua mente, così barricata, ma in qualche modo udì una lieve risposta.

||“Sì … la sento … ma lei chi è?”||

||“Sono Charles Xavier, sono un mutante, come te … guardami, sono l'uomo in sedia a rotelle vicino al tavolo ...”||

Draw fece finta di nulla, poi si voltò e sorrise.

||“La vedo! Ma … prima non era così! Cosa è successo?”||

||“Ora mi vedi per come sono in realtà. Per motivi che non è necessario spiegarti ho dovuto nascondere la mia reale identità. Ora, dimmi ...” guardò Therese e vide che non si era accorta di nulla, perché continuava a chiacchierare come se nulla fosse con gli investitori “Cosa succede? Chi è Therese? Come vi siete conosciuti veramente? Voglio aiutarti, Draw, fidati di me. So che non deve essere facile, sei già stato imbrogliato da un telepate, ma devi credermi quando ti dico che voglio solo il tuo bene.”||

C'era qualcosa in Charles che andava oltre la sua telepatia. Il suo sguardo, il suo modo di fare, il modo in cui parlava, tutto portava l'interlocutore a fidarsi di lui al primo momento, e così fece anche Draw, il quale in realtà aveva disperato bisogno di aiuto e di qualcuno di cui fidarsi. Così, mentre gli altri continuavano a chiacchierare e ad ammirare i quadri, Draw raccontò la verità sulla sua vita a Charles.

 

Poco più in là, Erik si stava annoiando a morte. Philippe, che lo aveva preso in simpatia fin da subito, sembrava non volerlo più mollare, continuava a descrivere la tecnica pittorica di quel quadro, che Draw aveva realizzato durante la performance alla quale aveva assistito. Lui annuiva e sorrideva, sperando che quella tortura finisse il più presto possibile e ogni tanto lanciava un'occhiata a Charles che, poco distante, sembrava assorto in chissà quali pensieri. Stava per congedarsi da Philippe per raggiungerlo e chiedergli cosa gli stesse succedendo, quando accadde qualcosa che nessuno avrebbe potuto prevedere.

Charles era vicino alla porta-finestra, troppo vicino. Un uomo, forse troppo esaltato per lo spettacolo al quale aveva appena assistito, urtò la sedia a rotelle proprio nel momento in cui Charles stava per spostarsi. Dal momento che non c'erano freni e che l'uomo gli cadde addosso, la sedia rotolò verso la finestra aperta e, mentre Erik e molti dei presenti inorridivano di fronte a quella scena, Charles precipitò prima di poter scendere.

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Capitolo 8
*** Speranza ***


Eccoci arrivati all'ultimo capitolo!
Spero che questa storia vi sia piaciuta ^_^
Ringrazio tutti quelli che l'hanno recensita e anche quelli che l'hanno letta in silenzio. 
Un bacio e alla prossima, con un bel verde ...




Speranza


 

Tutto era accaduto in pochi secondi ma Erik, seppur sotto shock, riuscì a reagire e a controllare il metallo della sedia a rotelle per fermare la caduta. Charles ricomparve aggrappato al bracciolo e visibilmente spaventato. Erik, incurante degli sguardi dei presenti, si avvicinò per avere maggiore controllo sul suo potere e lo stesso fece Draw che, controllando il sangue e l'acqua presenti nel corpo del telepate, riuscì a riportarlo nella stanza.

Tutti avevano trattenuto il fiato e quando Charles fu al sicuro esplosero in un applauso rivolto ad Erik e al giovane Draw. Tutti sembravano sollevati, tranne una persona. Charles si allontanò dalla finestra e si diresse verso Therese che nel frattempo era impallidita. Erik lo raggiunse e lo fermò per controllare che tutto fosse a posto.

“Sì, sto bene!” esclamò lui, seccato.

Erik lo gaurdò ferito, così lui addolcì lo sguardo e gli sorrise.

“Vi ringrazio per avermi salvato, sarei morto senza di voi ...” mormorò, rivolto sia al compagno che al giovane Draw che, timidamente, rispose al sorriso.

“Mi vuoi spiegare cosa è successo? Non sembrava un ...”
“Incidente? No, non lo era.”

Il telepate lanciò un'occhiata a Draw che, sebbene intimorito, annuì per dargli il permesso di andare avanti.

Tutti gli sguardi erano concentrati sul telepate che, con nonchalance, aveva eliminato l'illusione delle loro false identità e ora appariva per quello che era. Si avvicinò alla donna che, spaventata, non riusciva a muovere un muscolo. Fu invece proprio Amelie, ormai conscia dell'imbroglio del quale era stata vittima, a parlare.

“Charles Xavier … tu sei Charles Xavier, il famoso professore mutante!” si voltò verso Erik e lo indicò con il dito “ … e tu sei Erik Lensherr! Per questo sei riuscito a salvarlo! Hai manipolato il metallo della sedia a rotelle! Perché siete qui? Cosa sta succedendo?!”

Accanto a lei anche Philippe sembrava deciso a capire cosa stesse succedendo e infatti annuiva, come la maggior parte dei presenti, tra cui anche Erik, che era evidentemente sconvolto. Fu lui ad avvicinarsi al telepate.

“Ascolta, se questo fa parte del tuo piano ...”

“Piano?!” si intromise Philippe, prima che Charles potesse rispondere “Volete ucciderci tutti?!”

Era spaventato, ma non sembrava arrabbiato o disgustato come Erik si sarebbe aspettato una volta che avessero scoperto la loro identità. Quello disgustato e arrabbiato, contrariamente a quanto aveva immaginato, era proprio Charles. Erik stava per difenderlo, ma fu lui a parlare e la sua voce non avrebbe potuto essere più fredda.

“Prima di tutto voglio chiarire una cosa. Non siamo qui per fare del male a nessuno. Come ha detto Erik, avevo un piano, ovvero dimostrare a questo ex terrorista che voi umani non siete delle merde come lui aveva sempre pensato. Volevo fargli capire che si sbagliava, che la convivenza pacifica è possibile ...”

“In effetti non ti sbagliavi.”

La voce di Erik era chiara e forte. I loro sguardi si incrociarono ancora una volta e, come sempre, non fu necessario parlare. Fu Amelie a interrompere quel dialogo silenzioso.

“Ho capito, il vostro era un intento nobile e lo capisco, ma semrba che voglia uccidere Therese! Cosa le ha fatto lei? Ha aiutato quel mutante come lei fa con i suoi studenti, confermando tra l'altro la sua tesi, o sbaglio?”

Charles si avvicinò di più alla donna che, nel frattempo, non si era mossa di un millimetro.

“Sarebbe vero se lei fosse una sapiens.”

Tutti nella stanza trattennero il respiro per la sorpresa. Charles non ebbe pietà e proseguì.

“Lei è una mutante, una telepate come me, per essere precisi, solo molto meno potente di quanto lo sono io. Il giovane Draw, che ha appena sedici anni e il cui vero nome è Jean Luc, è un mutante e ha davvero il potere di manipolare i liquidi, infatti mi ha salvato la vita agendo sul mio sangue … ma non è un artista. La vera artista è Therese. Una pittrice fallita che, stanca di sentirsi dare della manipolatrice dai suoi galleristi e dagli acquirenti, ha deciso di cambiare vita. So cosa si prova quando tutti pensano che stai usando il tuo potere su di loro, perché sono un telepate come lei … per questo si è nascosta, ha finto di essere ciò che non era e ha deciso di sfruttare le capacità di Jean Luc per i suoi scopi, facendosi pagare per fargli fare spettacolini come un fenomeno da baraccone. ”

Restò poi in silenzio, sia per riprendersi dopo quello sfogo, sia per riflettere su quello che stava dicendo. Anche lui si era nascosto, anche lui aveva mentito … ma non aveva mai sfruttato nessuno per questo. Si era chiuso in se stesso … lei stava rovinando la vita ad un giovane.

I presenti guardarono prima Therese, che capirono essere immobilizzata dai poteri di Xavier, poi Jean Luc, che annuì tremando. Fu Amelie, senza esitare, a correre ad abbracciare il giovane mutante, che si lasciò abbracciare e scoppiò in un pianto liberatorio. Tra i presenti si fece largo un poliziotto che, avvicinatosi a Therese, le recitò la frase precedente all'arresto così, dal momento che ancora non esistevano leggi sull'uso improprio dei poteri dei mutanti, l'accusò di sfruttamento del lavoro minorile.

Charles era esausto, ma uscì dalla stanza, seguito da Erik, sicuro che Amelie e Philippe si sarebbero presi cura di Jean Luc.

Una volta fuori guardarono Therese, ammanettata accanto al poliziotto, mentre presumibilmente attendevano una voltante della polizia. Non restarono ad aspettare che l'arresto fosse completato, Charles soprattutto aveva voglia di stare solo o di stare con Erik.

Passeggiarono a lungo, in silenzio, mentre le persone gli passavano accanto senza fare caso a loro. Mutanti e non mutanti, mischiati tra di loro senza esserne consapevoli.

Restarono fuori fino a sera, senza rendersi conto del tempo che passava, del freddo che si faceva più pungente e della fame.

Erano trascorsi due mesi da quando Charles era piombato nella vita di Erik, due mesi durante i quali il professore non si era più interessato della sua scuola, cercando egoisticamente un po' di pace con l'unica persona che davvero gliela potesse dare. Nessuno dei due sembrava voler parlare perché forse non volevano ammettere una sconfitta, che in effetti c'era stata, per entrambi.

Fu la voce di Charles a spezzare il silenzio.

“Avevi ragione tu. Ho perso. Verrò a vivere nella tua confraternita.”

La sua voce era seria, ma sotto l'apparente assenza di emozioni si percepiva la sconfitta, la sofferenza. La reazione di Erik a quella affermazione fu l'unica che Charles non si sarebbe mai aspettato. Scoppiò a ridere.

“Sei incredibile! Sei davvero incredibile!”

Il telepate lo guardò con astio ma non fiatò, aspettando che si spiegasse.

“Vieni qui, mi fai una testa così per accettare una sfida e poi ammetti la sconfitta?!”

Charles annuì, ma dalla sua espressione si vedeva benissimo che era disorientato, confuso.

“Non hai perso. Hai vinto.”

“Ho ...”

“Sì, hai vinto. Però ho vinto anch'io.”

A quel punto Charles era definitivamente perso. Si schiarì la voce per mascherare l'imbarazzo di non comprendere una situazione che per Erik era invece ovvia e lo guardò, chiedendo con lo sguardo di spiegarsi meglio.

“Sei ridicolo. Sei un professore, ti vanti di capire le persone al volo e non capisci questa situazione? Sei solo amareggiato per quello che è successo a Jean Luc e adesso non sei lucido. In queste settimane ho conosciuto molte persone diverse. Prima di questi incontri non avevo mai sentito la necessità di uscire per cena con persone che non fossero miei sottoposti e nemmeno con loro lo avrei mai fatto a dirla tutta. Tu mi hai obbligato a uscire dalla mia realtà e a confrontarmi con gli umani. Vuoi sapere cosa ho scoperto e che è stato confermato da ciò che è successo stasera?”

Fece una breve pausa per permettergli di rispondere e per creare un po' di suspance. Quando lo vide annuire a bocca aperta per lo stupore, continuò, non senza nascondere una certa soddisfazione.

“Ho scoperto che i pregiudizi e l'odio esistono, ovunque. Il primo giorno siamo usciti e abbiamo visto due giovani omossessuali osservati dai passanti come se fossero due appestati. Durante le cene ho sentito parlare male degli immigrati e dei disoccupati e oggi ho visto un mutante sfruttare un altro mutante per i suoi scopi. L'odio esiste e tu non puoi negarlo, ma io sbaglio a fare di tutta l'erba un fascio. Ho vissuto la mia vita pensando che i mutanti fossero le vittime di una guerra contro i sapiens, ma mi sbagliavo. Nessuno può essere immune all'odio, ma tu hai ragione quando dici che c'è speranza per tutti e Amelie e Philippe me ne hanno dato prova oggi, decidendo di prendersi cura di Jean Luc. Voglio dire, è un mutante e loro due esseri umani … eppure lo hanno aiutato, lo hanno accolto a braccia aperte e anche quando hanno scoperto la nostra identità non ci hanno discriminati. Esistono mutanti buoni e mutanti cattivi, così come esistono uomini buoni e uomini cattivi.

Io sbaglio ad avere una confraternita per difendere i mutanti in difficoltà? Tu sbagli a nascondere i mutanti nella tua scuola? Non credo che nessuno di noi sbagli e non credo che nessuno di noi sia nel giusto. Durante la mia prigionia al Pentagono ho avuto modo di leggere molto. Una frase, tra tutte quelle che ho letto nei libri, mi è rimasta impressa: In medio virtus stat, La verità sta nel mezzo'. Credo che sia giusto difendersi, sia attivamente, come faccio io,che passivamente, come fai tu.”

Restarono in silenzio per qualche minuto. Erik sembrava in pace con se stesso, Charles invece non faceva altro che tormentare i braccioli della sedia a rotelle, impaziente e indeciso. Ancora una volta ruppe il silenzio, con un mormorio appena percettibile.

“Nessuno di noi ha torto … e abbiamo entrambi ragione … allora … che ne sarà della scomemssa? Chi dovrà rinunciare alla sua vita?”

Erik si voltò lentamente e lo fissò dolcemente.

“Nessuno di noi due.”

Charles aprì la bocca, ma fu Erik a parlare di nuovo.

“In questi due mesi ho capito anche un'altra cosa, ovvero che non posso vivere senza di te. Non voglio rinunciare a te e tu non vuoi rinunciare a me. Ti ho osservato, sai? Anche se non te ne sei accorto ho visto come eri felice qui, con me.”

La verità si insinuò nella mente di Charles come un raggio di sole tra le nubi di una tempesta appena passata e gli illuminò il viso. Si voltò verso Erik e, rilassato finalmente, lo baciò.

“Tu e i mutanti della tua confraternita verrete a Westchester. So che avete una base, ma non sarà mai all'altezza della mia scuola. Lì io potrò istruire i mutanti più giovani e tu addestrare quelli più grandi … non per combattere ma per difendersi, per imparare come vivere tutti insieme tra gli umani. Non frequenteranno una vera e propria scuola con noi, ciò che impareranno sarà gestire i loro poteri, mentre frequenteranno le scuole con gli umani, come i ragazzi della loro età!”

Mentre Charles parlava, sempre più eccitato, Erik annuiva ad ogni parola e alla fine non poté fare altro che rispondere al bacio del telepate, che lo colse totalmente di sorpresa.

Erano soli, mentre il sole tramontava e dipingeva d'oro le acque della senna e il mondo non avrebbe potuto essere più perfetto.

 

 

 

Tre mesi dopo

La scuola Xavier Lensherr per giovani dotati era ormai conosciuta in tutto il mondo. Le richieste di iscrizione da parte dei giovani mutanti erano in aumento, tanto che facevano fatica a gestirle. Charles ed Erik si spartivano l'insegnamento rispettivamente dei più giovani e dei più anziani e questi ultimi, se non avevano un posto dove andare dopo il diploma, restavano per diventare a loro volta insegnanti o venivano aiutati per inserirsi in altre strutture in tutto il mondo. I mutanti andavano lì esclusivamente per imparare a gestire i loro poteri e frequentavano le scuole insieme ai non mutanti. Non mancavano segnalazioni di abusi sui mutanti da parte di umani ma anche di maltrattamenti da parte di mutanti a danno degli umani. Come aveva detto Erik, l'odio c'era ovunque … ma anche la speranza, quel sentimento che aveva portato due uomini non a dividersi tra le rispettive differenze ma a unirsi, nell'amore e in un sogno comune.

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