Teen Wolf - Nightmare's Master

di Mitsuko_Ayzawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pilot ***
Capitolo 2: *** Episode 1 ***
Capitolo 3: *** Episode 2 ***
Capitolo 4: *** Episode 3 ***
Capitolo 5: *** Episode 4 ***
Capitolo 6: *** Episode 5 ***



Capitolo 1
*** Pilot ***


NIGHTMARE’S MASTER
 
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Pilot

To Beacon Hills
 

 
 
 
I ragazzi correvano senza sosta, senza mai fermarsi. Correvano a poca distanza l’uno dall’altro, facendosi largo attraverso gli alberi del bosco. Scappavano forsennati, senza nemmeno pensare a dove stessero andando, perché in quel momento non era importante, non quando li sentivano avvicinarsi sempre di più, inesorabilmente.
Importante era non fermarsi, continuare a correre. Continuare a chiamarsi, per accertarsi che ci fossero tutti, che fossero insieme.
Uno dei ragazzi inciampò, rischiando di cadere a terra, ma una mano lo afferrò per il braccio, aiutandolo a reggersi in piedi e spronandolo ad andare avanti.
«Non fermarti Liam!» urlò la ragazza, e i due ripresero a correre. Il ragazzo poteva vedere i suoi capelli biondi muoversi al margine del suo campo visivo, una macchia chiara e brillante contro il buio della notte e dei vestiti neri. Ad un certo punto la macchia sparì, e il giovane licantropo si voltò per guardarla inciampare e cadere sul terriccio, ma accanto a lei c’era già uno degli altri compagni che, presili entrambi per i gomiti, li spinse in avanti.
«Correte! Via, via, via!» urlò mentre i tre si gettavano nella folle corsa, dietro gli altri. Una corsa verso l’ignoto, ma che non poteva essere interrotta per alcun motivo. Potevano sentirli, i loro versi, a metà tra un sibilo e un ringhio. Potevano sentirli avanzare strisciando, sempre di più.
Non potevano fermarsi. Fermarsi significava la morte, se non peggio. Fermarsi significava che li avrebbero presi.
E a quel punto non sarebbe rimasto più nulla, nemmeno un ricordo. Solo incubi.
 
 
-Qualche settimana prima-
La ragazza camminò a passo spedito attraverso la sala, evitando gruppi di altri giovani. Raggiunse il fondo, dove uno dei ragazzi più grandi stava seduto su una poltrona, intento nella lettura. Quando il giovane la vide arrivare ripose immediatamente il libro, accogliendola con un sorriso.
«Skye» il sorriso del ragazzo si spense nel guardare l’espressione seria di lei «Skye, va tutto bene?» la ragazza esitò un secondo, forse nel tentativo di cercare le parole giuste, prima di optare per la più completa sincerità e schiettezza.
«Jude, dovrò lasciare il branco per un po’».
I più vicini a loro, sentendo quelle parole, si misero in ascolto. Jude, dal canto suo, non si scompose, riflettendo in silenzio.
«Per quale motivo?» chiese alzandosi in piedi. La ragazza si avvicinò appena, abbassando il tono di voce.
«Ho trovato una traccia, molto recente. E so dove conduce» Jude capì immediatamente di cosa stesse parlando.
«Tuo fratello… allora sei riuscita a trovarlo, sono felice per te» Skye fece un sorrisetto.
«Non è stato facile. Dopo essere passato per un paio di istituti è stato adottato da un medico e dalla sua famiglia, e ha preso il loro cognome. Adozione chiusa.È stata dura rintracciarlo».
«E ora dove si trova?» chiese il ragazzo. Un’ombra passò negli occhi di lei, che esitò un attimo, mordendosi il labbro.
«Beacon Hills. Mio fratello è a Beacon Hills» confessò.
Un silenzio gelido aleggiò tra i due.
«Beacon Hills» sussurrò lui «Tuo fratello vive nella città che negli ultimi quattro anni è stata sconvolta da ogni genere di disastro soprannaturale. Il fottuto triangolo delle Bermuda soprannaturali» fece un sorriso a metà tra il beffardo e il curioso «Cosa pensi che significhi?»
Skye sostenne lo sguardo.
«Non è questione di pensare, Jude. La mia fonte ha detto che lui è… lui è come…» esitò ancora, come se solo in quel momento avesse colto il peso delle parole che stava per dire.
«Come te. Un licantropo» terminò Jude per lei «Non è vero?»
La giovane annuì. Jude fece un respirò, passandosi una mano tra i capelli ricci. Skye riprese a parlare «Non proverò ad avvicinarmi a lui, lo giuro. Voglio solo vederlo. Ti prego, ho bisogno di farlo» i due si guardarono intensamente per un secondo, poi lui annuì.
«Va bene, puoi andare. Ma ad una condizione» la ragazza inarcò le sopracciglia «Conosci le regole del branco, Skye».
«"Mai stare da soli"» sussurrò lei.
«Prepara le tue cose, Skye. Verrò a Beacon Hills con te».
I due ragazzi si guardarono con intensità per un attimo, prima che Skye allungasse una mano, che il giovane si affrettò a stringere. Un contatto lieve, anonimo, ma che per loro sapeva di fiducia, di gratitudine.
«Beacon Hills?» i due ragazzi si voltarono, guardando un punto poco dietro di loro. Una ragazza, dai lunghi capelli neri con le punte tinte di viola, sedeva su una poltrona, davanti a un tavolino, mettendo in piedi una tessera del domino dietro l’altra. La ragazza si alzò in piedi, facendo tintinnare gli anfibi pieni di fibbie. «Se volete andare a Beacon Hills non posso permettervelo».
 
 
Erano accadute molte cose, a Beacon Hills, nelle ultime settimane.
Un inizio traballante, e la prima tessera del domino era caduta, trascinando inevitabilmente con sé tutte le altre. E così, un piccolo incidente era diventato una tragedia. Ed essa, a sua volta, era diventata un bagno di sangue.
Sangue umano, sangue soprannaturale, e sangue che non apparteneva né all’una né all’altra categoria. Chimere. Troppo per rientrare in una categoria, troppo poco per rientrare nell’altra.
Era successo che le leggi del paranormale erano state stravolte completamente.
Che qualcuno si era arrogato il diritto di creare dal nulla qualcosa che non sarebbe dovuto essere creato.
Era successo che dei ragazzi erano stati usati come cavie di laboratorio, ed erano stati trasformati in qualcosa privo di controllo. In mostri, senza che loro lo desiderassero.
E uno di loro, uno di quegli esseri, aveva accampato diritti che non gli spettavano su quei ragazzi. Theo Raeken, autoproclamatosi l’alfa del neonato branco di chimere.
E tutto questo, mentre il branco di Beacon Hills, il branco del vero alfa, veniva ridotto in brandelli, e uno dopo l’altro i suoi membri si ritrovavano soli, feriti, e soprattutto disperati.
Questo, era ciò che era successo.
Tuttavia, tutti avevano commesso lo stesso, identico, sbaglio. Tutti, senza esclusione, si erano concentrati esclusivamente su sé stessi, sui loro piani, sui loro obbiettivi, dimenticandosi del mondo intero intorno a loro.
Ma non per questo, quello aveva cessato di esistere. Non per questo, il mondo del soprannaturale aveva smesso di tenere d’occhio Beacon Hills. Di giudicarla, di agognarla, di ambire a far parte di tutto quello.
E a loro volta, tutti coloro che erano fuori erano stati troppo occupati a guardarsi le spalle, affinché nessuno approfittasse del caos scoppiato per farsi avanti, per agire. Tutti, tranne uno, che aveva visto nella distrazione degli uni e nell’esitazione degli altri la sua occasione.
E quel qualcuno aveva fatto la sua mossa, inevitabilmente, ed altre tessere del domino erano cadute.
 
 
Le parole della banshee furono seguite da un silenzio glaciale.
«Cosa?» le spalle di Skye si erano irrigidite alle parole della ragazza. Jude non ci pensò due volte e, prese entrambe le giovani le condusse attraverso la sala e poi in corridoio, dove i tre avrebbero potuto parlare con calma.
«Deborah, di cosa stai parlando?» chiese il ragazzo. Lei li fissò, con quei suoi occhi neri come la notte, sempre persi in qualcosa che gli altri non potevano vedere. Qualcosa che la portava a guardare il mondo attraverso la nebbia della nicotina, perché la dipendenza e l’oblio per lei erano preferibili alla gelida lucidità dell’essere una banshee con il pieno controllo delle sue abilità. Perché vivere con quella schifezza attaccata ai polmoni la distraeva dalla morte intorno a sé.
«Non posso permettervi di andare» ripeté.
«Perché?» chiese nuovamente Skye, e Jude poteva percepire la rabbia della ragazza, anche se lei riusciva a controllarsi a tal punto da dissimulare le sue emozioni. Ma quella era una cosa che aveva imparato da Jude, e per lui ogni membro del suo branco era un libro aperto.
«Ho un brutto presentimento. Stanno per succedere cose orribili là, e io non voglio che voi veniate coinvolti» Deborah scosse la testa e i capelli le finirono scompostamente sul volto. Jude e Skye si guardarono, e negli occhi si lei brillava la sua decisione. Se Beacon Hills era minacciata da qualcosa o qualcuno era un motivo in più per andare.
«Se è in pericolo non lascerò da solo mio fratello. Io non cambierò idea».
«Dovresti» l’espressione negli occhi della banshee era davvero preoccupante «Un presagio di morte aleggia su quella città».
«Non sarà la morte a fermarmi, ho affrontato di peggio» Skye fece un passo indietro, in direzione delle scale che portavano al piano di sopra e alla sua stanza, con il borsone da viaggio già pronto sul letto.
Deborah si sporse, prendendola per un polso.
«Skye, sono seria, è molto pericoloso».
«Che cosa riesci a sentire?» intervenne il giovane.
«Non molto, Jude. È tutto estremamente confuso. È come se nulla avesse più senso. Le regole di vita e morte, del soprannaturale, qualcosa a Beacon Hills sta stravolgendo tutto. Se voi andate, potreste rimanere invischiati in qualcosa di troppo più grande di voi. Ho come l’impressione che tutto si stia come… srotolando».
«Non sarebbe la prima volta» sussurrò Skye, stringendo le mani a pugno.
«Non è solo questo il problema, Skye» aggiunse la banshee. La ragazza la fulminò con lo sguardo.
«Ah no? Che altro c’è?»
«Il problema sei tu» disse Deborah, schiettamente. Sia Jude che Skye rimasero immobili sbalorditi.
«Io? Che cosa ho fatto?»
«Non è questione di cosa hai fatto, ma di quello che potresti fare. Se parti oggi arriverai a Beacon Hills tra tre giorni».
«Cosa succederà tra tre giorni?» incalzò Skye, fremente.
«Tra tre giorni ci sarà la super luna» Jude puntò i suoi occhi in quelli di Skye.
«Posso gestirla. Posso gestire la super luna» assicurò Skye, anche se il suo volto aveva perso di colore.
«Skye» intervenne il ragazzo «Penso che dovremmo rimandare di qualche giorno-»
«Scordatelo!» esclamò la ragazza, mentre un muscolo le pulsava sotto la pelle della mascella «Ho detto che posso gestire la super luna, e lo farò».
«Sii realista, soffri di D.E.I., non credo tu possa gestire la super luna» la banshee sembrava alquanto sconsolata.
«Non usare quegli acronimi di merda» Skye parlava con tono di voce assolutamente atono «D.E.I., niente. Sappiamo che non è quello il mio problema, e voi sapete che io andrò comunque a Beacon Hills, che voi siate d’accordo o meno. Se tu hai ragione, Deb, cosa molto probabile, Beacon Hills sarà rasa al suolo. Non posso permetterlo. Ecco perché devo andare. Hanno bisogno di aiuto».
Jude soppesò la questione per qualche secondo, mordendosi il labbro inferiore.
«Skye, sei davvero sicura che riuscirai a tenere il controllo durante la super luna?»
«Lo sono. Non mi hai addestrato per anni per nulla».
«Allora andremo.» Deborah fece per parlare ma il ragazzo la interruppe nuovamente «Deborah, io ho fiducia nelle capacità di Skye e nelle mie. So che Beacon è pericolosa, ma noi cercheremo di tenerci fuori dai guai, te lo prometto».
I due ragazzi si rivolsero un sorriso complice, mentre entrambi si dirigevano verso le scale per il piano superiore. Deborah li osservò, mentre quel brutto presentimento le attanagliava lo stomaco.
«Jude Norton!» gli urlò dietro «Tu hai sempre custodito noi con cura, ma se vai a Beacon Hills, chi custodirà te?» il ragazzo la guardò da sopra la ringhiera.
«Io e Skye ci custodiremo a vicenda».
«E se dovesse accadere qualcosa a uno dei due, chi penserà all’altro?»
«Perché sei così preoccupata, Deb?»
«Perché non ho solo l’impressione che le regole stiano cambiando. Quello che sento è un presagio di morte. Un presagio di distruzione. Qualcosa di molto pericoloso sta arrivando a Beacon Hills» il ragazzo cercò di ignorare il brivido gelido lungo la schiena.
«Di cosa si tratta?»
«Non lo so con certezza, ma di certo è pericoloso.» Il ragazzo fece per andarsene «Solo una volta ho percepito una cosa simile» aggiunse la banshee.
«Davvero? Quando?» Jude ridiscese le scale. Deborah si avvicinò, abbassando il tono di voce.
«È stato quando hai portato Skye nel branco tre anni fa. Non so dove si trovasse prima, ma quello che sento a Beacon Hills è la stessa sensazione che ho avuto quando l’ho conosciuta» La banshee e il ragazzo si guardarono ancora per un secondo, prima che lui distogliesse lo sguardo.
«Allora dobbiamo solo sperare che ti sbagli» Jude le volse le spalle, affrettandosi verso la scala e salendo i gradini a due a due. Lei rimase immobile per qualche secondo, le sopracciglia corrucciate. Con passo lento rientrò nel salone, riprendendo il suo posto al tavolino rotondo. Prese in mano un’altra tessera del domino, e la posizionò con cura dietro la precedente. La sua mano tremava. La tessera oscillò, cadendo sull’altra e poi sull’altra ancora. Tutte le tessere si rovesciarono sul piano in legno, e Deborah fece un salto indietro.
La forma che le tessere cadute avevano assunto, era quella di un mostro dai lunghi arti sottili e dagli occhi bianchi.
 
 
- Beacon Hills-
Liam Dumbar non seppe per quanto tempo rimase immobile, a fissare il vuoto, dopo che Parrish aveva portato via il corpo senza vita di Hayden.
Melissa era già andata via. Aveva seguito Mason fino in biblioteca, dove aveva trovato il figlio morto. Ucciso da Theo. Ma questo Liam non poteva saperlo. Così come non poteva sapere che Scott McCall era tornato in vita.
I poteri del vero alfa non smettevano mai di stupire.
Quando Liam era arrivato in ospedale, Hayden giaceva dove lui l’aveva vista viva l’ultima volta, insieme a Mason e Melissa. Ma ora era sola. Fredda. Morta. Una carcassa abbandonata Dio solo sapeva dove, insieme alle carcasse di tutte le altre chimere.
Il ragazzo rimase immobile, sentendo ancora tra le braccia il peso del corpo della ragazza. La sua testa era ovattata. Registrava le informazioni intorno a lui in automatico, ma non se ne rendeva conto. Non si rendeva conto del sangue che lo sporcava. Una parte era di Scott, una parte di Hayden. E poi c’era il sudore, il mercurio.
Tutto intorno a lui era sporco. Se lo sentiva fin dentro le ossa, quella gelida sensazione. Rabbrividì una volta, poi un'altra ancora. Una parte di lui avrebbe voluto togliersi la pelle di dosso e metterla in lavatrice, mettere tutto in una lavatrice, la pelle e il cuore e il cervello, farla partire e rimanerci dentro. Ripulirsi di tutto. Una parte di lui non aveva nemmeno la forza di muoversi.
«Liam» una voce affaticata lo scosse a malapena dai suoi pensieri. Alzò lo sguardo. Sulla porta c’era Mason, anche lui con la maglia sporca. Respirava a fatica per lo sforzo di correre dietro a Liam dalla biblioteca fino all’ospedale.
Il ragazzo fece qualche passo nella sua direzione, per poi sedersi sul pavimento davanti a Liam. Aveva le gambe a pezzi. Era a pezzi. Se prima aveva ardentemente desiderato far parte di tutto quello, ora aveva solo un disperato bisogno di staccarsene. Di distrarsi. Di non pensare al fatto che una sua amica era appena morta, praticamente tra le sue braccia, e che tutti quelli intorno a lui fossero in constante pericolo.
Ma non poteva lasciare Liam da solo. Era il suo migliore amico, e non l’avrebbe abbandonato, non ora che aveva veramente bisogno di lui.
Allungò una mano e gliela posò sul ginocchio. Si guardarono per qualche secondo, prima che Mason tentasse di sorridere. Non poteva guardarsi, ma era sicuro che quello che ne era uscito non era nemmeno lontanamente un sorriso.
«Liam, non possiamo stare qui» cambiò approccio.
«Nemmeno lei, Mason. Nemmeno Hayden sarebbe dovuta stare qui» sussurrò il giovane beta «Non sarebbe dovuta morire».
Mason corrugò le sopracciglia, desolato.
«Lo so, Liam. Nessuno se lo meritava. Corey non se lo meritava, Hayden nemmeno, e nemmeno tutti gli altri. Ma noi non possiamo arrenderci per questo, Liam».
Il ragazzo non reagì, limitandosi a guardare nel nulla davanti a lui. Non era in grado di mettere a fuoco nulla.
Mason sospirò pesantemente, massaggiandosi la spalla su cui era caduto quando Theo l’aveva spinto via. Non pensava che fosse una buona idea dirlo a Liam. Non questa sera, con Hayden morta e la super luna che splendeva in cielo. Non la sera in cui tutto era andato a rotoli. Avrebbe sempre potuto dirglielo domani.
«Liam, hai bisogno di dormire. Da quanto tempo non chiudi occhio?» il biondo fece spallucce. Non se lo ricordava. Mason si tirò faticosamente in piedi. Liam lo guardò, gli occhi chiari spalancati. Mason allungò un mano «Forza amico, andiamo via».
E il ragazzo allungò la mano a sua volta, prendendo quella che gli veniva porta, in una disperata richiesta d’aiuto.
 
 
Il cercapersone di Melissa McCall suonò nel momento in cui lei e il figlio misero piede in casa. La donna aveva aiutati Scott a salire in automobile, poi aveva guidato fino a casa, mentre lui rimaneva seduto stancamente al suo posto, con la testa reclinata all’indietro. Aveva parcheggiato nel vialetto, e aveva aperto la porta di casa. Il ragazzo era entrato con cautela, come se non riuscisse a credere di essere a casa sua. Di essere sopravvissuto a quella nottata infernale. Siera sostenuto contro il muro, mentre la donna cercava nella borsa il dannato congegno squillante.
«Pronto? Sono Melissa» la donna rimase per un secondo in ascolto, mentre una ciocca di capelli neri le scivolava sul volto «Che cosa?» esclamò, mentre il suo volto perdeva di colore e i suoi occhi si puntavano in quelli del figlio. Scott si mise in ascolto, ma Melissa terminò la chiamata con un rapido “Va bene, arrivo subito”.
«Cosa succede?» chiese Scott, stancamente. Per quella serata aveva veramente superato il limite. Non sarebbe stato in grado di reggere un’altra brutta notizia, ma la sua fortuna di quei tempi pareva scarseggiare.
«Si tratta dello sceriffo Stilinski. È appena arrivato in ospedale in ambulanza insieme a Stiles» disse lei mentre rapidamente riprendeva le sue cose, per ritornare in ospedale. Il ragazzo parve ritrovare tutta la sua forza in un colpo.
«Che è successo? Stiles sta bene?»
«Stiles sì» spiegò Melissa «È suo padre quello che sta morendo. Mi hanno chiamata d’urgenza a dare una mano» Scott non esitò, non dovette nemmeno pensarci.
«Andiamo».
«Scott, devi riposare» provò a farlo ragionare la donna.
«Non posso risposare, mamma. Ho bisogno di vedere Stiles. Devo andare da lui». “Devo parlargli, devo spiegargli. Glielo devo”. Ma questo non lo disse, si limitò a chiudere la porta dietro di sé e a salire in macchina un’altra volta.
 
 
La ragazza tirò un pugno contro il muro, poi un altro, e un altro ancora.
«Deborah aveva ragione» disse una voce dietro di lei. Skye si voltò lentamente, lasciando cadere il braccio. Le nocche della mano erano arrossate, e lievemente spellate. Lei non vi fece caso, e nemmeno al lieve bruciore. Sospirò pesantemente, appoggiando le spalle al muro della stanza che lei e Jude avevano affittato in un B&B.
«È peggio di quanto lei ci avesse preventivato» si passò una mano tra i capelli chiari, spostandoseli da davanti gli occhi. Il ragazzo la fissò dal basso, essendo seduto sulla trapunta del letto, ancora intatta. Rimasero in silenzio, cercando di metabolizzare tutto quello che avevano visto quella notte. Skye si sfilò la giacca in pelle, gettandola su una sedia, prima di abbandonarsi sul materasso accanto a Jude.
«Jude, non posso andarmene» sussurrò dopo qualche attimo «Non posso semplicemente lasciare tutto come sta e ritornare a casa».
«E allora non farlo, Skye» il ragazzo si sporse per posare la sua mano su quella di lei «Io non me ne vado senza di te, e se tu vuoi restare a combattere, ci sarò anche io. Quello che sta succedendo non riguarda solo Beacon Hills. Sarebbe potuto accadere ovunque, e accadrà ovunque se noi non fermiamo questa carneficina».
«Resteresti veramente se ti chiedessi di farlo?» chiese la ragazza.
«È ovvio. Mi conosci, sa che non potrei fare altrimenti» la ragazza non replicò, semplicemente continuò a fissare davanti a sé con un’espressione corrucciata.
«Se ti chiedessi di andartene, faresti anche questo?»
«Perché dovrei? Per quello che ha detto Deb?» Skye annuì lievemente.
«Se avesse ragione, non voglio che tu rimanga coinvolto, Jude».
«Sono già coinvolto, lo sono dal momento in cui ti ho portato nel branco» la ragazza scosse la testa.
«No, non è vero» si alzò in piedi, posizionandosi davanti a lui con le mani appoggiate ai fianchi «Lui è ancora là fuori. Se sospettasse anche solo lontanamente che tu sei coinvolto ci avrebbe già trovati entrambi».
Il giovane la osservò, inclinando la testa.
«Hai ancora paura?»
«Non averne sarebbe da pazzi, Jude Norton. Se Deborah ha ragione e lui sta arrivando, una delle due cose di cui sono certa è che proverà a ricostruire quello che è successo a Mezdra».
«E l’altra cosa qual è?» la ragazza gli rivolse uno sguardo preoccupato.
«La seconda è che ci sarà un bagno di sangue».
 
 
 






Mitsuko’s Lounge
Hi everyones!
Mi presento: sono Mitsuko (capitan ovvio mode on) e questa è la mia prima volta come scrittrice in questo fandom in particolare, e ho deciso di partire con una long piuttosto complessa.
Non capiterà spesso che parlerò a fondo capitolo, quindi vi dico tutto ora. 
Prima di tutto ringrazio la mia sistaH Kamisama-Nikij, mia confidente di fiducia alias migliore amica alias “I couldn’t do without you” -one. Ti dedico tutto il disagio che scaturirà da questa cosa. Ringrazio anche voi per aver letto il primo capitolo.
Ah, e mi scuso in anticipo per eventuali errori di battitura. Me ne scappa sempre qualcuno, abbiate pietà di me. Anzi, se qualcuno si offrisse volontario come editor gli spedirò a casa biscotti di consolazione quando partirà la 5b.
La mia long è sviluppata come una serie tv, con episodi con tanto di previously on al posto di capitoli, e questo è il Pilot. I capitoli verranno pubblicati il più regolarmente possibile, avendone già un po’ già scritti. Non aspettatevi imbeccate tipo: Indovinate un po’ cosa succede? *v*
No. Aspettatevi qualcosa più nello stile di Jeff Davis, perché è esattamente quello che voglio ottenere.
Jeff Davis è il nuovo Moffatt. E io non sarò da meno.
Nightmares are coming. They are coming for all of us.
Mitsuko

PS: il D.E.I. è il Disturbo Esplosivo Intermittente, la stessa sindrome da cui era affetto Liam soprattutto nella season 4.
PS2: #Mason4President ahem (scusate ma lo amo. Diventerei un ragazzo gay per lui)
PS3: Se vi va passate nel mio blog, trovate il link nelle bio.

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Capitolo 2
*** Episode 1 ***


«And where is he? » the boy asked.
«Beacon Hills. My brother lives in Beacon Hills». […]
«I can’t let you go».
«This is exactly why I have to go. They need help». […]
«And what’s the second thing? »

«Is that there’ll be a bloodbath».

 
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Episode 1

Operation in Progress

 
 
 
Stiles si era mosso come un automa.
Aveva trovato il padre a terra ferito e agonizzante, e gli aveva preso la mano. Aveva avuto paura, chiunque avrebbe avuto paura nel vedere il proprio padre morire dissanguato davanti a se, quindi aveva chiamato il 911. Aveva spiegato la situazione cercando di non farsi prendere dal panico. Aveva ascoltato quello che gli veniva detto e aveva seguito le istruzioni che gli erano state date. Si era sfilato la felpa e ne aveva usato una manica per fermare l’emorragia fino a che, esattamente quattro minuti e mezzo dopo, era arrivata l’ambulanza. In quel momento, il ragazzo aveva lasciato che il suo cervello si spegnesse, mentre i medici caricavano il padre su una barella e poi sulla vettura. Aveva lasciato che lo facessero sedere in un angolo mentre loro provavano a rattoppare tutte quelle ferite. Si era lasciato andare, con le mani sporche di sangue che gli tremavano lievemente, appoggiate sulle ginocchia. Prima che se ne rendesse conto erano arrivati, e lo sceriffo Stilinski era stato portato d’urgenza in sala operatoria.
Stiles, che era invece illeso, aveva aspettato fuori, nel corridoio, seduto su una panca di plastica. Era rimasto a fissate la scritta luminosa “OPERAZIONE IN CORSO” per non sapeva nemmeno quanto tempo. Senza reagire. Senza pensare.
In quel momento aveva sentito la voce di Scott.
«Stiles» solo quello, solo il suo nome. Il ragazzo alzò lo sguardo. A pochi passi da lui c’era Scott. Uno Scott malconcio, la maglia lacera e sporca di sangue, i capelli in disordine. Non che Stiles fosse messo poi tanto meglio.
Stiles rimase immobile mentre l’altro si avvicinava e si sedeva accanto a lui. Rimasero fermi per qualche secondo, spalla contro spalla, a guardare il muro di fronte a loro.
«Avevi ragione, riguardo a Theo» sussurrò Scott ad un certo punto «Non avrei dovuto fidarmi. C’è lui dietro tutto quanto».
«Lo so» rispose Stiles, con cautela. La sua voce era roca e sfregava contro la gola come carta vetrata. Gli sembrava come se non avesse detto una parola per anni.
«Sai che non avrei dovuto fidarmi, o che c’è lui dietro i Dread Doctors?»
«Entrambe».
Inaspettatamente, Scott sorrise. Un sorriso stanco, ma il primo sorriso sincero da molto tempo. Stiles puntò i suoi occhi sull’amico, mente una ruga sottile si formava tra le sue sopracciglia, mentre osservava la maglia squarciata di Scott e le macchie di sangue «Mi dispiace».
«Per cosa?»
«Per non esserci stato» Scott si spostò un po’, per guardare meglio l’altro ragazzo.
«Di che parli?»
«Sapevo che eri in biblioteca, con Liam. Theo me lo aveva detto. Ma se fossi venuto da te mio padre sarebbe morto sicuramente. Ho dovuto scegliere».
«E hai scelto tuo padre» Scott completò la frase per lui. Stiles annuì appena «Hai fatto la scelta giusta, Stiles».
Il ragazzo scosse la testa, mentre muoveva su e giù un ginocchio nervosamente «Avrei dovuto trovare un modo».
Scott non seppe cosa dire.
«Che fine hanno fatto tutti?» sussurrò Stiles.
«Non lo so» rispose Scott «Mason e Liam erano con me in biblioteca, ma sono andati via» degli altri, non si sapeva nulla. Malia, Lydia, Deaton, Parrish, Theo. Nemmeno Kira si era messa in contatto con loro da quando se ne era andata. A Scott venne in mente una cosa «Stiles, Hayden è morta».
Nessuna dolcezza, nessun tatto, l’ennesima brutta notizia che si andava ad aggiungere alle precedenti. Ormai non faceva quasi più male. Semplicemente, ad ogni colpo ora tutti diventavano un po’ più freddi, un po’ più distaccati. Iniziavano a perdere empatia. Stiles si limitò a socchiudere gli occhi, abbandonandosi sullo schienale della sedia e appoggiando la testa contro il muro.
«Sua sorella lo sa?» Scott scosse la testa.
«No, non l’ho ancora incontrata.»
«Hai intenzione di dirle la verità?» il ragazzo fece una smorfia tirata.
«Non lo so. Non ne ho idea. Sinceramente non so che cosa fare adesso».
Silenzio «Nemmeno io» aggiunse Stiles.
 
 
Il colpo spedì Malia a parecchi metri di distanza, facendola atterrare violentemente sulla schiena. La chimera ringhiò e ruggì, mentre la ragazza di alzava in piedi. Per ogni volta che lei colpiva quella bestia, lui gli ridava tutto indietro con gli interessi. Fece brillare i suoi occhi di azzurro, ringhiando a sua volta e gettandosi nuovamente in avanti.
Non sapeva da quanto stessero combattendo. Aveva già provato a voltarsi e scappare, ma quel bastardo era veloce, e anche tanto: la raggiungeva sempre. L’unico modo per farla finita era ammazzarlo prima che lei stessa fosse fatta a pezzi. Più facile a dirsi che a farsi.
Riuscì a colpirlo tre volte di fila, rapidamente, due volte al petto e una alla testa, prima che un pugno la centrasse nello stomaco. Malia gemette, mentre la chimera la sollevava di peso e la scagliava nuovamente lontano. La ragazza rotolò sulle piastrelle, prima di rimanere ferma per qualche secondo a riprendere fiato. Sentiva come se avesse ingoiato un fiammifero acceso, e che ora anche il suo stomaco stesse andando a fuoco. La chimera fece un paio di passi nella sua direzione e il massimo che Malia fu in grado di fare fu sollevarsi sui gomiti, strisciando indietro per quanto possibile. Il mostro ringhiò e ruggì, con gli occhi che brillavano nella semi oscurità. La ragazza provò a tirarsi in piedi, ma reagì con troppa lentezza, perché la chimera aveva già portato il braccio all’indietro caricando il pugno. La ragazza irrigidì i muscoli, sperando di riuscire a incassare il colpo senza subire troppo danni. Chiuse con forza le palpebre, preparandosi all’impatto.
Ma invece del pugno, qualcosa alla sua destra esplose, inondando lei e la chimera di schegge di vetro e compensato. Malia riaprì gli occhi, mentre dal polverone emergeva una figura nera e sottile, che si stagliava come un ombra contro la polvere e le luci artificiali. Una ragazza. Indossava una giacca di pelle con il cappuccio, che teneva calato sul volto. La faccia era coperta da una specie di maschera, anch’essa nera, che lasciava scoperti solo gli occhi, di un azzurro glaciale, ma pur sempre occhi umani, rendendo il resto dei lineamenti un indefinita superficie opaca. Nient’altro era visibile. Persino le mani erano coperte da guanti a mezze dita. La nuova arrivata si sganciò qualcosa dalla cintura, e Malia vide che si trattava di un nunchaku.
La chimera ruggì verso di lei, accantonando Malia. La figura non si scompose, rimanendo immobile con il nunchaku che le dondolava accanto alla gamba, e rimase ferma anche quando la chimera si gettò su di lei. Rimase ferma fino a un attimo prima dell’impatto, prima di spostarsi con un movimento fulmineo e al contempo aggraziato, come quello dei toreri. Si spostò di lato, colpendo nel mentre la chimera al fianco con un gomito, e questa cadde in ginocchio con un gemito. Nel tempo che impiegò per tirarsi in piedi, la ragazza in nero aveva già iniziato a roteare il suo nunchaku, accumulando chili di forza centrifuga. La chimera si slanciò verso di lei, e il nunchaku si abbatté con forza sulla mascella del mostro, rispedendolo di nuovo al tappeto con un verso soffocato, ma prima che potesse rialzarsi lei lo colpì ancora, e ancora, implacabile. La chimera emise un ruggito frustrato e, con uno slancio, si gettò contro l’avversaria colpendola all’addome; agganciandola quindi al suolo e bloccandole i polsi. La ragazza non emise un verso, nemmeno quando il tonfo sordo della sua testa che sbatteva sul pavimento risuonò nel corridoio. Malia si alzò in piedi il più in fretta che poté.
«Hey tu!» Urlò, sfoderando gli artigli per attirare l’attenzione del mostro. La chimera si voltò verso di lei e la figura a terra approfittò della sua distrazione rannicchiandosi fino a portare le ginocchia sotto il mento. Con un gesto secco, le fece scattare verso l’alto e il rumore del collo della chimera che veniva spezzato risuonò nelle orecchie di Malia. La figura si scrollò di dosso il cadavere della chimera, che nel frattempo aveva iniziato a perdere mercurio dalla bocca, tirandosi in piedi e recuperando la sua arma. Si muoveva con gelida calma, come se nulla fosse successo.
Poi alzò lo sguardo verso Malia.
Malia e la ragazza si guardarono negli occhi per un secondo, prima che quest’ultima si voltasse e scomparisse nella polvere, una macchia nera che si fondeva nella notte, senza dire una parola. Malia Tate riuscì solo a intravedere due occhi azzurri come il ghiaccio, e capelli biondi come l’oro.
 
 
Quando il chirurgo uscì dalla sala operatoria, trovò sia Stiles sia Scott addormentati.
Si avvicinò con calma ad entrambi, per poi appoggiare una mano sulla spalla di Stiles e scuoterlo appena. Il ragazzo si svegliò di soprassalto, e automaticamente allontanò il braccio del medico con un gesto del polso. L’uomo si tirò indietro senza scomporsi. Era abituato a questo genere di cose.
«Come sta mio padre?» chiese subito il ragazzo, passandosi stancamente una mano sugli occhi per svegliarsi. Accanto a lui Scott, sentendo le due voci, si destò altrettanto rapidamente.
«Il signor Stilinski per il momento è sotto osservazione. Se supererà la notte, ci saranno buone probabilità che si riprenda. Dipende tutto da lui, adesso».
«Posso vederlo?» domandò il ragazzo con voce roca. Il medico scosse la testa.
«Non adesso. Solo il personale può entrare nella stanza di suo padre» Stiles si afflosciò, incassando la testa tra le spalle curve «Il massimo che posso fare è farti vedere dove è la sua stanza».
Stiles rimase fermo un secondo. Una parte di lui desiderava vedere il padre, vedere che era ancora vivo, per quello che contava. Ma un’altra parte di lui era terrorizzata a quello che avrebbe visto.
«Stiles» il ragazzo alzò lo sguardo verso Scott, che lo guardava cercando di essere il più incoraggiante possibile «Dovresti andare».
Il ragazzo ci pensò ancora un po’, prima di annuire e rivolgersi di nuovo al medico.
«Mi faccia vedere la stanza».
L’uomo fece un gesto con un braccio, facendogli strada lungo i corridoi dell’ospedale. Si fermarono davanti a una delle stanze della terapia intensiva, e il chirurgo si congedò rispettosamente lasciando i due ragazzi di fronte alla finestra che dal corridoio dava alla stanza. La tendina era sollevata, e attraverso il vetro entrambi poterono vedere lo sceriffo Stilinski sdraiato sul letto, con i bendaggi che si perdevano sotto la camicia da notte verde acqua che gli avevano messo dopo l’operazione. Giaceva pallido e immobile sulle lenzuola candide, mentre piccoli tubicini delle flebo gli infilavano chissà cosa nel corpo. Metà del volto dello sceriffo era coperta dalla mascherina che lo aiutava a respirare, e la luce verde dei macchinari rendeva quella scena surreale.
Stiles si lasciò scappare un gemito lieve, mentre appoggiava le mani al vetro, come se desiderasse di poterlo attraversare e arrivare dall’altra parte. “È colpa mia” pensò gelidamente il ragazzo. Era tutta colpa sua. Se non si fosse fidato, se fosse riuscito a dimostrare che Theo non era ciò che diceva di essere, se avesse trovato un modo, tutto quello sarebbe potuto non succedere. Avrebbe potuto trovare qualcosa, ci riusciva sempre.
E invece nulla. Non aveva fatto nulla.
Invece adesso suo padre era incatenato ad un letto d’ospedale, in coma, senza nemmeno la certezza che il giorno dopo sarebbe stato ancora vivo. Theo era là fuori a fare chissà cosa, in combutta da sempre con i Doctors. Hayden era morta. Corey, Tracy, Donovan, e tutti gli altri... Erano tutti morti. Kira se n’era andata. Lydia non si vedeva in giro da ore. Malia nemmeno. Deaton, che per loro rappresentava una sorta di guida, era scomparso giorni prima senza lasciare traccia. Liam aveva il cuore infranto, ma almeno aveva Mason.
E lui non aveva fatto nulla.
Per tutto il tempo, Scott rimase un paio di passi indietro, senza dire una parola.
 
 
A Lydia occorse molto tempo per riprendersi. Ma ormai era tardi. Theo era già andato via, portando con sé quattro delle chimere morte. Ah, si ricordò Lydia, ora non erano più morte. Tracy, Donovan, Corey e Hayden erano stati riportati in vita. Solo loro quattro. La ragazza si trasse faticosamente a sedere. Qualcosa non andava, se ne rese conto subito. Qualcosa non andava con il suo corpo.
Non lo percepiva come avrebbe dovuto. Non lo percepiva suo.
Si sentiva sporca, ma non nel senso di contaminata. Si sentiva completamente messa a nudo. Si sentiva osservata, ma non era quel brivido alla base della nuca, no, era come se qualcuno la osservasse da dentro sé stessa.
Theo era stato nella sua testa e poi l’aveva lasciata. Ma non era rimasto tutto come prima. Lydia Martin non capiva se era come se il ragazzo si fosse portato via una parte di lei, o lui non se ne fosse mai andato del tutto.
Era una sensazione orribile, e la ragazza dovette combatterci ogni secondo, mentre lentamente il suo corpo rispondeva agli impulsi lanciati dal cervello. La banshee poteva vedere le sue dita aprirsi e chiudersi a ripetizione, ma non sentiva di starle muovendo.
Per un secondo si chiese se stesse sognando. O peggio, se tutto quello che era successo fosse solo un orribile sogno, e solo ora si stesse svegliando. Se solo in quel momento si stesse lasciando l’incubo alle spalle.
In un qualche modo riuscì ad alzarsi in piedi. Non ricordava come aveva fatto, ma andava bene comunque.
Guardò il nemeton, a pochi passi da lei, con i cadaveri delle chimere non risvegliate che lo circondavano. Anche quello le sembrava alieno. Una fotografia in bianco e nero, un ricordo sbiadito, qualcosa che non le apparteneva. Non più.
Lydia Martin non apparteneva più a sé stessa.
Lydia non era nemmeno più sé stessa.
 
 
Scott e Stiles rimasero davanti alla stanza dello sceriffo per molto tempo, fino a che Melissa McCall non li prese e li portò a casa. Non avrebbe permesso a Stiles di tornare a casa da solo, non in quelle condizioni, non quella notte. Quindi entrambi i ragazzi erano saliti sull’auto della donna, ed erano arrivati a casa. Tutti e tre avevano parlato poco, privati dalla stanchezza e lo stress.
Melissa si era chiusa nella sua stanza, abbandonandosi sul materasso, e prima che potesse infilarsi sotto le lenzuola era già sprofondata tra le braccia di Morfeo. Il suo intero organismo aveva deciso di avere decisamente bisogno di una pausa.
Scott, invece, la prima cosa che fece fu una doccia, e dopo si sentì decisamente rinato. Si era infilato nella cabina di plastica larga 80 centimetri per lato e aveva aperto l’acqua al massimo. Era rimasto fermo sotto il getto mentre il vapore e il rumore coprivano tutto il resto. Respirando a pieni polmoni con la bocca aperta. Si era lavato di dosso tutto il sudiciume di quella nottata, e poi aveva costretto Stiles a fare lo stesso.
Stiles, che in quel momento sembrava il fantasma di sé stesso. Che se ne stava seduto sulla sedia di Scott, perso nei suoi pensieri. No, non era per niente un fantasma. Forse in quel momento era più vivo che mai, aveva semplicemente indirizzato tutte le sue forze nel far lavorare quella splendida macchina che si trovava come cervello. Lo Stiles che aveva giocato a go con il nogitsune per giorni, lo Stiles che trovava connessioni logiche laddove nessun altro riusciva a vederle, lo Stiles che riusciva sempre ad essere un passo davanti a tutti, si era chiuso nella sua testa, intenzionato a non uscirne fino a quando non avesse avuto un idea per sistemare Theo Raeken una volta per tutte.
Quando si lavò, lo fece senza rendersene conto, un gesto automatico dopo anni e anni, un’azione che il suo corpo poteva compiere senza che il ragazzo si distraesse per un solo secondo.
Continuava a pensare, ancora e ancora. Qualcosa gli sfuggiva. Più correttamente, non tornava, non aveva senso.
Se Theo desiderava così tanto far parte del branco di Scott, perché non semplicemente usare le buone maniere? perché non semplicemente entrare a far parte del branco come avevano fatto tutti?
Perché distruggere tutto? A quale scopo?
Domande che sembravano prive di senso, ma erano esattamente le domande intorno a cui doveva girare. Se il ragazzo aveva imparato una cosa, in questi ultimi quattro anni, era che nulla aveva senso apparente; fino a che non si facevano le domande giuste. E Stiles era sicuro di essersi posto le domande giuste.
Ora bisognava trovare le risposte.
E quindi continuava a pensare, dando fondo a tutto sé stesso.
Se Theo Raeken non aveva usato il modo semplice per entrare nel branco, significava che non aveva potuto. O che non aveva voluto. Ma dove stava, esattamente, la differenza?
Stiles digrignò i denti. Non stava tutto in Theo. Non dipendeva tutto da lui. Bisognava trovare un termine di paragone, e si rese conto di averne più di quanto pensasse. Donovan, Corey, Tracy. Ogni chimera. Theo era da rapportare a ogni chimera.
Sotto il getto d’acqua, il ragazzo iniziò a respirare sempre più velocemente, mentre il suo cervello lavorava, incrociando tutto quello che sapeva per ricavare le incognite della sua equazione. Tutto, alla fine, trova il suo senso. Bisogna solo applicare le regole giuste, le giuste formule e le equazioni si risolvono da sole.
Che cosa Theo aveva in comune con le chimere, escluso l’essere una di loro? La risposta si parò davanti agli occhi di Stiles, troppo evidente per essere ignorata o fraintesa.
Theo Raeken aveva perso il controllo su se stesso. E qualcosa aveva preso il controllo di lui, qualcosa che era già dentro di lui.
 
 
Parrish aveva ripreso conoscenza di sé che ormai era già giorno. Aprì gli occhi e si rese conto di essere lucido ma soprattutto di non essere nella cella della stazione di polizia. Era a casa sua, sdraiato sul letto. Poteva vedere chiaramente il soffitto bianco di casa sua, non quel indefinito colore di vecchio della cella.
Parrish si tirò a sedere, passandosi le mani sugli occhi e tra i capelli, emettendo un verso a metà tra un gemito e un sospiro.
Era successo di nuovo e questo significava solo una cosa. Un altro cadavere. Un’altra chimera morta. Un innocente.
Jordan Parrish non era sicuro che sarebbe riuscito a sostenere tutto quello per un altro minuto. Non era certo che non sarebbe impazzito. Non serbare memoria delle sue azioni gli stava facendo perdere la testa. Non sapere come faceva quello che faceva non gli lasciava scampo. La sua natura da poliziotto veniva ancor prima di quella da…
Il giovane si alzò in piedi. Non sapeva nemmeno cos’era, e adesso iniziava anche a chiedersi chi era.
Qualunque cosa fosse, il non saperlo lo stava logorando. Appoggiò le mani sulla superficie del muro, facendo respiri profondi. Doveva calmarsi, doveva trovare un equilibrio, come gli avevano insegnando nella sezione artificieri. Prima di Beacon Hills. Prima di tutto.
Lentamente, la calma nella sua testa andò ripristinandosi, e l’agente poté iniziare a pensare più chiaramente, senza fretta.
Lydia. La ragazza aveva detto che probabilmente aveva un idea su cosa lui fosse, ed era sparita per controllare. In base al suo ultimo ricordo cosciente, Parrish ricordava che la ragazza non aveva fatto ritorno. Cercò freneticamente il cellulare nelle tasche, e ci volle un po’ per trovarlo. Provò ad accenderlo, ma evidentemente la batteria si era scaricata, perché lo schermo rimaneva nero. Trovò anche il carica batterie e si affrettò a collegarci quell’aggeggio. Dovette aspettare con trepidazione che la batteria si ricaricasse quel tanto che bastasse per accenderlo.
Se sperava di trovare qualcosa, qualche chiamata o messaggio da Lydia, rimase deluso. Per essere sicuro controllò la segreteria almeno tre volte, ma invano. Non lo aveva cercato.
Dove era finita quella ragazza?
In quel momento squillò il telefono.
 
 
La campanella suonò, e I corridoi della scuola media si riempirono di fiotti di studenti impegnati a cambiare aula, a prendere libri dagli armadietti, a parlare, ridere, copiare appunti e compiti.
Qualcuno sedeva negli angoli delle scale, sulle panchine all’esterno, studiando, mordicchiando penne o tamburellando le dita.
Emily Carr aveva terminato le sue lezioni, ed era uscita dall’edificio scolastico, con l’intendo di tornare a casa e gettarsi sul divano a guardare la tv. Camminava verso il cancello senza fretta, con la cartelletta che le batteva ritmicamente sul fianco.
«Emily Carr?» la ragazzina alzò lo sguardo verso un uomo che veniva dritto verso di lei. Indossava un completo nero elegante, con una giacca lunga che gli arrivava alle ginocchia, e si appoggiava con una certa classe su un bastone da passeggio laccato in nero, con l’impugnatura argentata. I capelli, lasciati un po’ lunghi, incorniciavano un volto squadrato ma molto affascinante.
«Ci conosciamo?» chiese la ragazzina. L’uomo rimase con galanteria a qualche passo di distanza.
«Sono un amico dei tuoi genitori. Sono dovuti andare a trovare una persona e mi hanno chiesto il favore di venirti a prendere e accompagnarti da loro».
«Chi dovevano andare a trovare?»
«Un parente alla lontana, una specie di prozia» l’uomo fece un sorriso amabile, mentre la ragazzina annuiva.
L’uomo fece un ampio gesto con il braccio, per farle strada, e i due si allontanarono insieme.











Mitsuko’s Lounge
Piccola e breve comunicazione random. “Dottori del Terrore” boh, a me fa un po’ ridere. Dread Doctors mi suona meglio, quindi lo tengo in inglese. Così come i previously on, perchè boh, mi piace complicarmi le cose. Capitemi, fosse per me parlerei solo inglese, ma quando lo faccio mi prendono per scema. 
Forse un po' lo sono.
Pace. Ciao.
Ah, è nel link sotto il titolo ci sarebbe tipo il banner, ma non ho capito come mettere solo l'immagine. Sono impedita.
Mitsuko

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Capitolo 3
*** Episode 2 ***


«You were right, about Theo. I shouldn’t trust him».
«I know».
«You know you were right, or you know I shouldn’t trust him?»
«Both».
 
 
 
Episode 2
Black Masks
 
 
 
La ragazza stava camminando nella foresta, la mente persa in sé stessa, e il corpo pesante. Lydia non sapeva se stesse camminando in una direzione precisa, e non se lo chiedeva nemmeno.
Semplicemente, andava avanti. Continuava a muoversi, come se quella fosse l’unica cosa importante. Come se fosse l’unica cosa che la manteneva cosciente. Quindi camminava, mentre le foglie secche scricchiolavano sotto i suoi piedi e il sottile vento della notte le scompigliava i capelli rossi.
Una figura la osservava da poco lontano, il volto coperto da una machera nera di cuoio. Il ragazzo la guardò, inclinando il capo come un uccellino, osservando ogni singolo movimento di Lydia.
La ragazza continuava il suo vagare nella foresta, e la figura la seguiva passo passo, senza farsi vedere né sentire, un'unica chiazza scura contro l’oscurità generale dell’ambiente, ma ad ogni passo si portava sempre un po’ più vicino, fino al punto in cui si trovò ad un metro scarso da lei. Lydia si era improvvisamente fermata, gli occhi puntati davanti a sé, mentre il suo cervello assimilava ogni cosa, e le sue capacità distorcevano la realtà.
A modo loro, le banshee avevano un incredibile fascino, una purezza e trasparenza fuori dal comune. Ma, al contempo, erano effimere come la nebbia, e passavano con le loro menti attraverso la vita e la morte, vedendo e sentendo cose che a tutti gli altri erano precluse. Un fascino pericoloso, quello delle banshee. Erano come falò accesi, terribilmente belli, ma se ci si avvicinava troppo, ci si bruciava. 
Lydia Martin girò su se stessa lentamente, come se lei stessa avesse paura di bruciarsi, e incrociò lo sguardo del ragazzo. Si osservarono per un secondo, mentre lui si chiedeva che cosa lei stesse vedendo. Come lo stesse vedendo.
Il ragazzo infilò una mano in una tasca, tirandone fuori un fazzoletto e una boccetta, lentamente, senza mai staccare il contatto visivo. Svitò il tappo della boccetta, accostandone il bordo al fazzoletto impregnandolo di liquido. Qualcosa parve finalmente scattare nella testa della ragazza, qualcosa che andava oltre la sua consapevolezza. Era il suo istinto di sopravvivenza che reagiva, facendola indietreggiare. 
Ma il ragazzo era molto più veloce, e molto più forte di lei, e in due passi l’aveva già raggiunta. L’aveva agguantata per la nuca, prima di premerle il fazzoletto sul volto. La ragazza si dibatté, cercando di colpirlo al petto, ma dopo pochi secondi i suoi polmoni avevano inalato abbastanza droga, e lentamente Lydia scivolò nell’incoscienza, accasciandosi tra le braccia del ragazzo. Lui la sorresse con delicatezza prima di adagiarla al suolo. Si portò una mano dietro la testa, e si sfilò la maschera in cuoio, poi tirò fuori un cellulare dalla tasca e digitò rapidamente un numero. Dall’altra parte, qualcuno rispose dopo due squilli.
«Skye, sono Jude. Ho Lydia».
 
 
Quanto Liam era riuscito a rimettersi in piedi, lui e l’altro ragazzo avevano lasciato l’ospedale, sperando forse di lasciarsi alle spalle anche i brutti ricordi. Il giovane beta si era fatto accompagnare fino a casa da Mason, che fino all’ultimo secondo continuava a chiedere all’amico come stesse, se preferisse che lui rimanesse a dormire a casa Dumbar, ma il beta rifiutava ogni volta. “Non preoccuparti” gli diceva “Starò bene”. Liam era sicuro che sarebbe stato bene, ma quando? Tra un giorno? Un mese? Un anno? Non ne era certo.
Ma Mason era già sufficientemente sotto shock, quindi aveva fatto un debole sorriso e si era chiuso l’uscio alle spalle.
Aveva attraversato la casa ridotto come uno zombie, e la prima cosa che aveva fatto era stato infilarsi nella doccia. Era scivolato nel box, sperando vivamente che l’acqua corrente lavasse via tutto, ma quando uscì dal bagno di sentiva solo più pulito, ma niente più. Aveva indossato una maglietta e un paio di pantaloncini e si era abbandonato sul letto. Si era lasciato cadere, ma mentre il suo corpo si era fermato sul materasso, si era sentito come se la sua anima stesse continuando a cadere, sempre più giù, verso le tenebre. Si sentiva la testa girare, e non riusciva a mettere nulla a fuoco.
Si sentiva solamente incredibilmente solo, incredibilmente perduto.
Si sentiva come se in una sola sera avesse commesso tutti gli errori più grandi della sua vita, e non sapeva se sarebbe stato in grado di perdonarsi, l’indomani. Non sapeva se Scott avrebbe potuto perdonarlo, o se Clarke l’avrebbe fatto. Non sapeva se l’indomani sarebbe stato ancora lì, o se ci sarebbe stato un posto per lui.
Ma quella notte, si limitò a lasciar scorrere tutte le lacrime che aveva, in silenzio, come non gli capitava da anni, e piangere fino a scivolare in un sonno senza sogni, ma che non gli avrebbe portato né pace né riposo. 
 
 
Malia aveva camminato solo poche decine di metri, prima di essere costretta a fermarsi e sedersi per terra. Provava dolore in parti del corpo di cui non sapeva nemmeno l’esistenza. Non aveva ferite particolarmente gravi, e la maggior parte di esse si erano già rigenerate quasi completamente. Ma per la stanchezza non aveva cura. La ragazza non era sicura che sarebbe riuscita ad arrivare a casa. Aveva la dannata voglia di stendersi sul primo prato a disposizione e farsi dodici ore di sonno consecutive, come quando era ancora un coyote che correva della foresta. Ah, i vecchi tempi. Erano in momenti come questi che la ragazza li rimpiangeva.
Si passò una mano tra i capelli che le ricadevano disordinatamente intorno al volto.
Tutta quella situazione era già un inferno di per sé, ma ora un nuovo colpo di scena aveva stravolto tutto nuovamente. La ragazza in nero. La ragazza con la maschera e gli occhi di ghiaccio. Chi era? E soprattutto, da che parte stava?
È vero che aveva combattuto contro la chimera, ma questo non significava che sarebbe potuta essere un alleata, solo perché non aveva attaccato Malia.
C’era qualcosa, in quella ragazza, che aveva fatto accapponare la pelle a Malia. Non sapeva se fosse per il modo in cui combatteva, senza sprecare una briciola di energia, senza un movimento di troppo, o per la freddezza con cui aveva spezzato il collo alla chimera con un calcio. Ma più probabilmente, era per come avesse fatto quelle cose, senza far brillare gli occhi. 
La ragazza era umana? O una soprannaturale talmente forte da potersi permettere di combattere senza le altre capacità?
Qualunque fosse la risposta, entrambe mettevano i brividi. Quel nunchaku, un’arma solitamente non letale, nelle mani di quell’ombra si era trasformato in un aggeggio infernale. Malia poteva ancora sentire la forza dell’impatto che aveva spezzato la mascella alla chimera. Sentirne il rumore.
Improvvisamente, non si sentiva più al sicuro. Non che prima lo fosse, ma ora si sentiva ancora meno protetta, sapendo che là fuori c’era quella ragazza.
Si rialzò nuovamente, sempre a fatica.
Per quella sera, avrebbe provato ad accantonare tutto. Per quella sera, avrebbe provato a rimettere insieme i pezzi.
Ma, dal giorno dopo, non avrebbe aspettato. Il giorno dopo avrebbe scoperto chi era l’ombra che le aveva salvato la vita. Avrebbe scoperto chi c’era dietro i Dread Doctors.
Malia Tate era stufa di aspettare. Era stufa di vivere nell’attesa, nella paura.
Il giorno dopo, avrebbe messo fine a quella storia, prima che questa avrebbe messo fine a lei.
 
 
La ripresa di coscienza della ragazza fu a dir poco violenta. Riemerse dall’oblio della droga come se stesse riprendendo fiato da una lunga apnea. Insieme alla sensazione di stare finalmente respirando, tornarono anche i ricordi, altrettanto violentemente.
Prima la biblioteca ed il libro sulla Caccia Infernale, poi Theo, il nemeton, le chimere, l’oblio in cui era scivolata dopo e i ricordi della trance, ovattati come se li stessi guardando attraverso il fondo di una bottiglia. E per finire, l’ultimo ma non meno inquietante ricordo: Il ragazzo con la maschera nera. Un immagine stampata a fuoco nella sua testa, come una fotografia di cui poteva osservare ogni singolo dettaglio, come il fisico atletico fasciato di pelle nera e jeans, i corti boccoli scuri, in contrasto con gli occhi di un castano talmente chiaro da sembrare ambrato. E la sensazione del suo tocco ancora bruciava, della sua pelle calda che la toccava sulla nuca, la mano forte che le teneva quel fazzoletto premuto contro. Il ragazzo che l’aveva drogata e portata…
Lydia si alzò di scatto a sedere, e in quel momento si accorse di essere nella propria stanza. Cosa stava succedendo?
Scese dal letto, assaporando la sensazione del pavimento freddo sotto le piante nude dei piedi. Su una sedia poco distante erano posati i vestiti che aveva addosso il giorno prima. Addosso aveva il pigiama, ma non ricordava di averlo indossato. Cosa stava succedendo?
In quel momento la porta della sua stanza si aprì, e la madre di Lydia fece il suo ingresso.
«Lydia! Grazie al cielo stai bene!» corse dalla figlia, prendendole il volto tra le mani, accarezzandole guance e zigomi «Ero così preoccupata quando ti ho trovata».
La ragazza era, se possibile, ancora più confusa «Trovata? Che cosa è successo?»
La madre fece un passo indietro, incrociando le braccia «Questa notte, qualcuno ha suonato il campanello. E, quando sono andata ad aprire, tu eri sdraiata priva di sensi sulla soglia di casa. Mi hai fatto prendere un infarto».
Lydia fece qualche respiro profondo, cercando di capire cosa stesse succedendo. Era stata rapita e portata a casa sua? Che senso aveva? Chi avrebbe rapito qualcuno per poi riportarlo a casa? Si passò una mano sugli occhi.
«Lydia, tesoro, va tutto bene? C’è qualcosa che non va?»
«Non lo so, mamma» sussurrò la ragazza «Sto ancora cercando di capirci qualcosa».
La donna si avvicinò, accarezzandole nuovamente il volto con tenerezza «Si sistemerà tutto».
Ma la ragazza non poteva dirle che non ne era più così sicura. Non era più sicura di capire cosa stesse accadendo, figuriamoci a risolvere la situazione. Era un circolo: ogni volta che capivano qualcosa di più, si aprivano altre decine di incognite. Ma quello non era lo spirito giusto con cui aveva affrontato anni di eventi al di fuori del normale. Un passo alla volta. Theo, era il primo passo. Lui era dietro tutto quello, dietro le chimere e i Dread Doctors, e gli altri dovevano sapere. Quello era ciò che avrebbe dovuto fare. Ma prima ancora, doveva pensare ai suoi amici.
«Mamma, devo fare un paio di chiamate».
 
 
I due ragazzi vennero svegliati dal rumore della suoneria del cellulare di Stiles, che la sera prima si era dimenticato di spegnere. Il ragazzo emise un grugnito, prima si trascinarsi stancamente fuori dal letto e andare alla ricerca dei vestiti del giorno prima, che giacevano ammucchiati un angolo come scorie radioattive. Sfilò il cellulare dalla tasca dei jeans cercando di non toccare le macchie di sangue, per poi scorrere il dito sullo schermo per rispondere.
«Pronto?» la voce gli uscì più roca e biascicata di come avrebbe voluto, ma ormai era tardi.
«Stiles? Sono Lydia».
«Lydia» esclamò il ragazzo «Va tutto bene?» pochi metri dietro di lui, anche Scott era uscito dal suo torpore ed era finalmente sveglio, e ascoltava la chiamata con attenzione.
«Più o meno. È complicato. Ho bisogno di parlarti, riusciamo a vederci il prima possibile?» il ragazzo annuì, prima di ricordarsi che lei non poteva vederlo.
«Certamente, dove?» dall’altra parte la ragazza esitò un secondo, evidentemente indecisa sul posto.
«Facciamo tra mezz’ora alla clinica veterinaria, va bene? Avvisa anche Scott e Liam. Io penso a Malia e Parrish».
«Io e Scott ci saremo» disse il ragazzo, senza esitare «Ma non so se Liam verrà. Hayden è morta stanotte» con la coda dell’occhio sbirciò Scott, che a sentire il nome di Liam si era rabbuiato. Il ragazzo non era certo che Lydia sapesse di Hayden, ma data la natura della ragazza, poteva essere superfluo, e non fu sorpreso quando lei non ebbe nessuna reazione. Doveva già esserne a conoscenza, inconsciamente.
«Ho capito. Io intanto proverò a contattare gli altri» Stiles pensò a Malia. Non aveva sue notizie da ore. Non aveva nemmeno pensato di chiamarla. Non aveva pensato a niente, se era per questo.
«Ok, ci vediamo là» Lydia interruppe la chiamata prima di Stiles e il ragazzo sentì qualche squillo a vuoto prima di mettere giù il telefono a sua volta.
«Cosa vuole Lydia?» chiese Scott, che nel frattempo si era alzato in piedi e stava cercando dei vestiti puliti dall’armadio per sé e per l’amico, che non poteva certo mettersi quelli del giorno precedente.
«Vuole vederci alla clinica tra mezz’ora. Ha delle cose da dirci. Sembra importante» rispose il ragazzo, prendendo i vestiti gli venivano porti.
«Allora sbrighiamoci»
 
 
Arrivarono alla clinica prima di tutti gli altri. Stiles aveva comunque provato a chiamare Liam, ma il telefono risultava spento o irraggiungibile. Mason, invece, aveva risposto dopo tre squilli, e aveva detto che avrebbe provato a vedere se era a casa, e di tenerlo informato se avessero scoperto qualcosa di nuovo. Stiles aveva ringraziato e aveva chiuso la telefonata, promettendo che si sarebbe rifatto vivo dopo un paio d’ore, ma non aveva smesso di controllare il cellulare. Scott, aveva invece chiamato sua madre per sapere come stava lo sceriffo Stilinski, ma l’uomo era ancora in coma. Stiles aveva accolto la notizia con un semplice cenno del capo, cercando di non pensare all’eventualità che il padre non si svegliasse.
Scott aprì la porta della clinica, dirigendosi verso l’ambulatorio. Avevano dovuto aspettare solo pochi minuti prima che Lydia entrasse facendo tintinnare il campanello. I tre ragazzi si squadrarono per un secondo. Tutti, senza esclusione, sembravano dei fantasmi.
«Hey» salutò Stiles, andandole incontro «Tutto ok?»
La ragazza sospirò stancamente «Prima di parlare ho bisogno che arrivi anche Parrish. Liam?»
«Non ha risposto» Stiles controllò ancora una volta sul cellulare, sperando che il ragazzo lo richiamasse «Mason ha detto che sta andando a vedere se è a casa e come sta. E Malia?»
«Ha detto che arriverà un po’ in ritardo. Era a scuola quando l’ho chiamata. Sembrava che stesse cercando di trovare qualcosa o qualcuno. Parrish dovrebbe arrivare a momenti» come se Lydia l’avesse profetizzato, il campanello all’ingresso trillò, mentre l’agente apriva la porta per entrare. Si diresse a passo spedito dentro l’ambulatorio.
«Lydia!» esclamò «Che cosa è successo ieri?»
L’uomo, al contrario dei tre ragazzi, non sembrava messo male come loro, ma aveva la stessa espressione preoccupata e stanca. La ragazza alzò entrambe le mani, come per chiedere silenzio.
«Aspettiamo che arrivi Malia» ribadì «Quando arriverà anche lei, parlerò».
«E non solo tu» aggiunse Scott, mentre inconsciamente si massaggiava la zona dove quella notta Theo l’aveva ferito, piantandogli gli artigli nell’addome «Ho un paio di cose da dire anche io».
Un silenzio stanco calò sulla stanza, mentre minuto dopo minuto, attendevano che Malia arrivasse per poter raccontare tutto quello che avevano scoperto.
 
 
Quando Malia si era svegliata quella mattina, la prima cosa che aveva fatto era stata tornare a scuola, dove la sera prima di era scontrata con la chimera. Com’era da aspettarsi, non trovò nessun corpo, solo chiazze di sangue e schegge di vetro e pezzi di muro. La ragazza si guardò intorno, e per un attimo le parve quasi di rivivere i suoi ricordi come un flashback, come se lei fosse stata spettatrice, non protagonista.
Le pareva di vedersi inginocchiata al suolo, malconcia e stremata, e soprattutto, le sembrava di rivivere le immagini del combattimento tra la ragazza in nero e la chimera, come un video messo in loop.
Si era chinata dove la ragazza era stata sbattuta per terra, e aveva tentato di percepirne l’odore, sperando di trovarne una traccia. Invano, dato che l’odore del sangue era molto più forte degli altri, così come quello della polvere.
Qualunque traccia la ragazza con la maschera avesse lasciato, era scomparsa già da un pezzo.
Malia batté una mano per terra, stizzita. Si alzò in piedi, sperando almeno che fosse rimasta qualche traccia di tipo diverso, ma anche su quel fronte, nulla. Nessun pezzo di stoffa, o capelli, o sangue, e il terreno al di fuori era troppo asciutto per lasciare impronte di scarpe.
Nulla. La ragazza era arrivata come un ombra, e come tale era scomparsa.
Era stato in quel momento che aveva ricevuto la chiamata di Lydia, ma la clinica era dall’altra parte della città, e non sarebbe mai arrivata in tempo, ma si mise comunque in moto.
Come aveva previsto, arrivò con quasi venti minuti di ritardo, e quando entrò in ambulatorio, Scott, Stiles, Lydia e Parrish erano già lì.
«Sei arrivata finalmente» Malia non rispose, andando a sedersi di fianco a Stiles, che per un secondo le posò una mano sul ginocchio.
«Ora possiamo iniziare» disse Lydia, prima di rivolgere lo sguardo all’agente di polizia «Prima di tutto, ho scoperto che cosa sei».
 
 
Avevano passato molto tempo in quella clinica, e ognuno di loro aveva raccontato cosa era successo quella notte, a partire da Lydia, che aveva iniziato rivelando che Jordan Parrish era un cerbero, il guardiano del soprannaturale, e come l’aveva scoperto. A quel punto aveva parlato di Theo, e Malia non l’aveva presa bene, per niente. Era furiosa. Aveva tirato un pugno al bancone talmente forte da ammaccarne la superficie. Dopo che la ragazza si fu calmata, Lydia aveva raccontato del nemeton, e di come quattro delle chimere fossero tornate in vita per poi andare via insieme a Theo.
«Aspetta» aveva esclamato Scott «Hayden è viva?!»
«Sì, e anche Tracy, Corey e Donovan» a quest’ultimo nome, Stiles si era irrigidito visibilmente, portandosi una mano alla spalla. Scott invece aveva sentito il sangue che gli pompava nelle orecchie. Hayden era viva. Hayden era viva! Doveva assolutamente dirlo a Liam. 
Quindi Lydia aveva proseguito, raccontando della trance in cui era sprofondata dopo e del ragazzo con la maschera nera, che l’aveva drogata e riportata a casa. Malia l’aveva osservata con la bocca spalancata.
«Che cosa?» tutti si erano voltati verso di lei «Una maschera nera?» Lydia aveva annuito, ripetendo ogni dettaglio che ricordava sul ragazzo dagli occhi color miele. 
«Malia» l’aveva chiamata Stiles «Hai incontrato anche tu questo tizio mascherato?»
«Sì e no» rispose lei «Ho incontrato una ragazza, questa notte. Ero rimasta bloccata nei sotterranei della scuola con una chimera, e lei è saltata fuori dal nulla e l’ha uccisa dopo pochissimo» Lydia si fece incredibilmente interessata, chiedendo alla ragazza di raccontarle qualunque dettaglio ricordasse. Malia ripeté il suo racconto ancora un volta, descrivendo la ragazza-ombra e il suo modo di combattere per quanto possibile.
I cinque si guardarono. C’erano due maschere nere in città, due nuove incognite. Esposero qualche teoria, ma, sorprendentemente, la più realistica sembrava quella per la quale queste due figure avessero protetto le due ragazze, una dalla morte, e l’altra da qualcosa che poteva essere peggio.
«Chi si prenderebbe il disturbo di proteggere degli sconosciuti?» chiese Stiles, tamburellando le dita sulle ginocchia.
«Forse non sono degli sconosciuti» ipotizzò Scott.
«Io non ricordo di conoscere una bionda armata di nunchaku o un ragazzo con gli occhi di quel colore» disse Stiles, con una vena di saccenteria nella voce.
«In questo posso aiutare io» disse Parrish, che in quella conversazione aveva parlato ben poco «Se queste due persone sono nuove a Beacon Hills posso chiedere in centrale se è arrivato qualcuno in città negli ultimi giorni e incrociare i dati. Non prometto che scopriremo qualcosa, ma posso tentare».
Lydia sembrava convinta che quella fosse l’unica opportunità di scoprire qualcosa «Penso che valga la pena tentare».
«C’è qualcos’altro che ricordate?» domandò ancora l’agente. Malia scosse la testa, ma Lydia inarcò le sopracciglia, mentre un altro ricordo le riaffiorava nella mente.
«Quando il ragazzo mi ha toccato» disse lentamente, quasi che temesse che parlare troppo veloce facesse sparire quella sensazione «Mi è sembrato bollente».
«Come se avesse la febbre?» domandò Stiles.
«No, era… era più come se avesse lava al posto del sangue» un altro silenzio calò nella stanza, mentre quell’ennesima informazione senza senso veniva assimilata.
“Ottimo, la Torcia Umana e Black Canary sono in città” pensò Stiles con un sospiro, passandosi una mano sul volto pallido ed emaciato.
«E voi due?» chiese Malia, rivolgendosi a Scott e Stiles. I due si rivolsero uno sguardo di intesa, prima che fosse l’alfa a iniziare il racconto, spiegando come avesse trovato il telefono di Lydia in biblioteca insieme a Theo, di come avesse scoperto che il ragazzo era egli stesso una chimera, e dello scontro con Liam che era venuto dopo. Raccontò di come fosse arrivato Mason con la notizia della morte di Hayden, salvandolo dal beta, e del successivo ritorno di Theo, che aveva provato a ucciderlo. Raccontò di come fosse tornato in vita grazie a Melissa e della chiamata che poi aveva ricevuto la madre dall’ospedale. Fu però Stiles a raccontare del dialogo con Theo e delle condizioni in cui aveva trovato il padre.
«Una domanda» chiese Parrish, rivolgendosi a Lydia «Se Scott ha trovato il tuo cellulare in biblioteca, come hai fatto a contattarci?» la ragazza deglutì.
«Mia madre ha detto di aver trovato il mio cellulare accanto a me, sull’uscio di casa» Questo poteva significare solo una cosa, ovvero che qualcuno l’aveva preso e spostato, insieme alla banshee priva di sensi.
Dopo quasi un’ora, chiusi in quella clinica, i cinque sapevano più cose di quando ci erano entrati, ma al contempo avevano sollevato altri interrogativi.
Primo tra tutti, l’identità dei due ragazzi in nero che avevano aiutato Lydia e Malia. E secondo, la domanda che da settimane logorava i ragazzi. Perché? Perché Theo e i Dread Doctors avevano fatto quello?
Stiles aveva detto che ci stava pensando, ma che aveva bisogno di ancora un po’ di tempo prima di tirare conclusioni affrettate. Aveva una pista, ma non aveva intenzione di parlarne con loro. Non ancora, per lo meno.
Alla fine i cinque si divisero. Parrish sarebbe tornato in centrale con Lydia, sperando di scoprire qualcosa. Malia voleva riprendere le ricerche interrotte, percorrendo altre piste, e nel frattempo avrebbe accompagnato Stiles in ospedale, a vedere il padre.
Scott McCall, invece, decise che l’unica cosa che poteva fare, era parlare con Liam.
 
 
 
 
 
 
 
 
Mitsuko's Lounge
Sì, lo so che la Torcia Umana è della Marvel e Black Canary della DC comics, ma non mi venivano in mente altri supereroi simili che appartenessero alla stessa "branchia".
Ringrazio chi ha recensito e il mio editor, The Savior, a cui devo ancora un pacco di biscotti.
Pace.
Mitsuko

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Capitolo 4
*** Episode 3 ***


«Wait, is Hayden alive?»
«She is, and Tracy, Corey and Donovan are alive too» […]
«What? A Black mask?»
«Malia, did you meet this masked guy too?»
«Yes and no. I met a girl this night».


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Episode 3
The saviors, the deal



Gli artigli di Tracy colpirono Scott, che venne scagliato all’indietro con forza, mentre la neurotossina del kanima entrava in circolo, paralizzandolo. Il ragazzo cadde riverso sulla schiena, il volto inclinato nella giusta direzione per guardare Liam, che combatteva con tutte le sue energie contro Donovan, tentando di non farsi colpire. Da qualche parte fuori dal suo campo visivo Tracy ringhiò, e Scott capì che il verso non era rivolto a lui. Completamente immobile e inerme l’alfa fu costretto a guardare la chimera rientrare nel suo campo visivo, diretta verso Liam.
Il beta combatteva con furore, gli artigli sfoderati e gli occhi luminosi nella penombra dell’edificio. Donovan ringhiò a sua volta, gettandosi di peso sul ragazzo, che scivolò all’indietro per un paio di metri, strisciando la schiena in un suono macabro, come di un gesso che stride contro una lavagna.
Scott respirava come un mantice, mentre il suo cuore pompava ossigeno nel sangue, e lui cercava con tutte le sue forze di muovere anche un singolo dito. Non poteva lasciare che Liam venisse fatto a pezzi, ma era esattamente quello che sarebbe successo; se non fosse stato in grado di muoversi, di impedirlo. Doveva muoversi, ma non ci riusciva. Dal collo in giù il suo corpo non esisteva.
Scott gonfiò i polmoni e ruggì, sperando che quello bastasse per far allontanare le due chimere dal suo beta. Ma loro lo guardarono con aria di scherno, avvicinandosi passo dopo passo a Liam, che si reggeva un braccio intorno all’addome.
La voce gelida di Theo Raeken giunse dall’ombra, una risata di autocompiacimento che fece arrabbiare l’alfa ancora di più.
Era la fine, fu il pensiero di Scott, mentre un’espressione di puro panico si dipingeva negli occhi chiari di Liam.
Poi il soffitto esplose.


-Quella mattina-
Dopo l’incontro alla clinica veterinaria, Scott McCall aveva chiamato Mason. Il ragazzo era a casa di Liam, dove lo aveva trovato quella mattina, in pigiama e con due occhiaie che lo facevano assomigliare a un panda. Era rimasto con lui per quell’ora in cui gli altri erano rimasti impegnati, ma Liam non aveva voluto uscire di casa.
«Nessun problema» aveva detto Scott «Non muovetevi. Sto venendo da voi, devo dirvi delle cose molto importanti».
Liam non poteva negare di essere turbato dalla cosa. Non sapeva cosa provava Scott nei suoi confronti. Rimase per tutto il tempo in salotto, seduto sul divano, muovendo nervosamente una gamba su e giù fino a che Mason, infastidito, lo pregò di smetterla.
«Scusami» si giustificò il ragazzo «Sono nervoso».
«Anche io» ribatté Mason «Prima al telefono mi sembrava come se stesse per dirci che ha trovato una cura per il cancro» bofonchiò, volgendo lo sguardo verso l’ingresso. Liam non rispose, e i due attesero solo pochi minuti, prima che il ragazzo suonasse al campanello. Mason aprì la porta, facendolo entrare e accompagnandolo nel salotto di casa Dumbar. 
Scott varcò la soglia, esitando per un secondo e tenendosi a distanza. Per Liam fu come se l’ossigeno gli venisse risucchiato dai polmoni, mentre sembrava che la stanza rimpicciolisse al cospetto dell’alfa. Non fu in grado di sostenere lo sguardo. Mason li squadrò per un secondo, valutando se fosse il caso o meno di lasciarli soli, ma fu Scott a indicargli di sedersi anche lui sul divano, accanto al biondo. Un po’ per fare da filtro, un po’ perché Scott riteneva che fosse giusto che sapesse, soprattutto per quello che riguardava Hayden.
Scott si sedette a sua volta davanti ai ragazzo, non sapendo bene come cominciare il discorso. Fece qualche respiro profondo, prima di puntare lo sguardo in quello di Liam.
«Liam,» il ragazzo si irrigidì quando Scott iniziò a parlare «prima di tutto voglio che tu sappia che non ce l’ho con te per questa notte. Era la super luna, non te ne faccio una colpa» un lieve sorrisetto nostalgico gli stirò le labbra «Dopo la mutazione anche io ho provato ad uccidere Stiles. Più di una volta, ad essere sincero, ma mai per mia scelta».
Il biondo tenne lo sguardo basso «Io invece ho scelto di attaccarti» sussurrò «Io volevo ucciderti».
«Lo capisco. Eri sconvolto per via di Hayden e hai ritenuto che fosse colpa mia» fece una pausa, ed un altro respiro profondo «E a proposito di Hayden, c’è una cosa che devi sapere su di lei».
Liam alzò di scatto la testa, gli occhi spalancati.
«Hayden è viva, Liam. È viva».
«Cosa?» Mason e Liam esclamarono contemporaneamente la stessa parola. Liam si alzò in piedi, avvicinandosi a Scott.
«Come può essere viva? Ho tenuto tra le braccia il suo corpo!» Scott alzò una mano, per bloccarlo sul nascere.
«È una storia piuttosto lunga, quindi è meglio se ti siedi e ascolti con molta attenzione» il beta fece due passi indietro, lasciandosi cadere sul divano. Hayden era viva. La sua Hayden.
Scott intanto aveva iniziato a raccontare di quello che aveva scoperto quella mattina insieme agli altri, e Liam riportò la sua attenzione su di lui. Iniziò a raccontare da quello che aveva scoperto Lydia riguardo a Parrish, nonostante Liam fosse già a conoscenza che era l’agente ad essere il ladro di corpi, e quando la banshee era stata al nemeton, per aggiungere del proprio colloquio con Theo in biblioteca e di come poi Melissa e Mason lo avessero riportato in vita. Liam era scattato verso l’amico.
«Non me lo avevi detto!»
«Ad essere sincero mi sembravi abbastanza sconvolto» lo sguardo di Mason era stato eloquente e Scott aveva atteso che il beta ritrovasse la calma per raccontare poi dello sceriffo Stilinski e, per concludere, dei due ragazzi in nero, le ombre mascherate, come le aveva definite Malia.
«Cosa facciamo con loro?» domandò Mason.
«Parrish, Malia e Lydia stanno indagando al riguardo. Mi chiameranno non appena avranno scoperto qualcosa».
«E per quanto riguarda Theo?» il tono di voce di Liam era gelido.
«Non faremo nulla di avventato» Scott rispose duramente, già prevedendo guai «Liam, mi hai capito? Non faremo nulla di avventato».
Il ragazzo annuì «Ho capito».


Quando Parrish e Lydia misero piede in centrale, la prima persona a correre loro incontro, con la pistola spianata, fu il vice sceriffo Clarke Romero.
«Fermi dove siete!» li intimò, mentre lentamente i due alzavano le mani.
«Clarke, posso spiegare» disse Parrish, lentamente. In realtà c’erano ancora molte cose che non sapeva spiegare a sé stesso, ma poteva dare a Clarke quello che voleva. Anche se era una verità parziale, era pur sempre la verità.
«Non mi interessano le spiegazioni. Voglio sapere che ne è di mia sorella, e del perché lo sceriffo Stilinski è in ospedale con la gola tagliata» esclamò la giovane, senza accennare ad abbassare l’arma.
«Queste io le chiamo spiegazioni».
«Non fare il saccente con me, Jordan, e dimmi quello che voglio sapere. Che cosa diavolo sta succedendo qui?» Parrish rivolse lo sguardo a Lydia, come per chiederle il permesso, e la ragazza annuì lievemente, mentre il poliziotto si rivolgeva nuovamente alla sua collega.
«Prima di iniziare, devi sapere che tutto quello che ti diremo è vero, e non ci stiamo inventando nulla».
«Non è un buon inizio, il tuo» fece notare Clarke, indicando con la canna della pistola la fila di sedie appoggiate contro il muro, perché i due si sedessero. Parrish strinse la mascella, ma la giovane aveva ragione. Tutto ciò non era per niente una bella storia.
«All’inizio potrai dubitare delle mie parole, Clarke» intervenne Lydia «Ma è la pura verità, per quanto assurda o paradossale possa sembrare. Tutto quello che hai sempre pensato, in cui hai sempre creduto, potrebbe crollarti addosso. Sei davvero sicura di voler sapere?» la giovane poliziotta li squadrò per un secondo, prima di abbassare la pistola.
«Lo sono».


Theo Raeken sedeva su una poltroncina, pregustando ancora la sensazione di potere derivatagli dall’aver riportato in vita quattro degli esperimenti dei Dread Doctors, aver riportato in vita i primo quattro membri del suo branco. “Riuscite a vedermi, adesso? Riuscite a vedere fin dove sono arrivato?”. Pensava a Scott McCall continuamente, alle sue parole, alle sue azioni prive dell’autorità che invece Theo possedeva, all’espressione nei suoi occhi quando la vita aveva lasciato il suo corpo. “Ti stanno piangendo, Scott McCall? Stanno piangendo il loro alfa, o per loro tu non eri già più nulla?”. Perché era opera di Theo, tutto quello. Aveva fatto in modo che Malia si fidasse di lui. Che Stiles si fidasse di lui, che tutti si fidassero. Si era insinuato nelle loro vite, cercando di occupare il posto di Scott McCall. E poi, alla prima occasione, li aveva traditi. Ma era giusto, tutto quello. Era il suo disegno. Il suo progetto.
«Theo» una voce lo distrasse dai suoi pensieri. Il ragazzo alzò lo sguardo per vedersi Donovan venire incontro, per poi fermarsi a un paio di metri da lui.
«Cosa c’è?» domandò, con fredda cortesia.
«È arrivata una persona. Dice di volerti incontrare e non se ne andrà fino a che non l’avrà fatto».
«Lo conosciamo?»
«Mai visto prima» il ragazzo fece spallucce «Non credo nemmeno che sia di Beacon, ha un accento strano».
Theo stinse i denti, facendo un cenno brusco a Donovan, perché se ne andasse. Chi poteva sapere che lui si trovava lì? Chi voleva incontrarlo?
I pensieri si aggrovigliarono l’uno sull’altro in quella mente deviata, immaginando teorie, facendo ipotesi, mentre una nota di paranoia gli contaminava il sangue. Alla fine si alzò in piedi, senza che un solo pensiero lucido gli si fosse formato in testa. Ma al contempo era perfettamente calmo, perfettamente padrone di sé, come sempre. Era tutto chiaro, ma di quella chiarezza che non era per niente naturale. Quella chiarezza un po’ sociopatica.
Scese le scale con passo calmo, facendo il suo ingresso nel livello inferiore del laboratorio. Le sue quattro chimere circondavano, da debita distanza, un uomo al centro della sala. I quattro ragazzi lo osservavano con attenzione, cercando di inquadrare quella figura che stava in piedi tra tubi pieni di liquidi non identificabili e strumenti chirurgici come se fosse la cosa più normale del mondo. Si appoggiava con classe ad un bastone da passeggio laccato di nero, con l’impugnatura in argento. Anche il resto di lui era una tavolozza di quei colori, dagli abiti scuri ai capelli leggermente brizzolati sulle tempie agli occhi neri come la pece.
Theo rimase vicino alla scala, appoggiato con un gomito alla ringhiera.
«Con chi ho il piacere di parlare?» l’uomo sorrise... Un sorriso lieve.
«Preferirei restare nell’anonimo, se possibile» Theo inarcò un sopracciglio.
«Allora come dovrei chiamarla? Signor Anonimo?» l’uomo sorrise ancora, ma non rispose. Theo fece qualche passo nella sua direzione «Cosa è venuto a fare qui, signor anonimo?»
«Sono qui per fare un accordo, signorino Raeken».
«Un accordo?» Theo era sorpreso «Che genere di accordo? Cosa potresti offrirmi, che già non ho?» 
L’uomo tacque per un attimo, prima di fare una passo verso il ragazzo, piegando il capo su di lui «Posso offrirti la paura».
«La paura?» il ragazzo scoppiò a ridere «Come se non ne avessi diffusa a sufficienza».
«La paura non è mai troppa. Solo troppo poca. Io posso offrirti il terrore vero, posso darti il dono di far inginocchiare chiunque al tuo cospetto, Theo Raeken. Ho molte persone al mio servizio che ad una mia parola potrebbero passare sotto il tuo».
Il ragazzo rimase immobile per un attimo, ponderando la proposta, mentre permetteva alla sua immaginazione di fantasticare su quell’immagine. Tutti in ginocchio, e lui in piedi. L’immagine del potere.
«E tu cosa vorresti in cambio?»
«Solo una cosa. Vorrei che mi lasciassi il permesso di usare Beacon Hills come… territorio di caccia, diciamo».
Theo iniziò a camminare in cerchio intorno allo straniero «Territorio di caccia? A chi stai dando la caccia?»
«Moyat biznes, mistur Raeken. Affari miei» l’uomo gli rivolse un altro sorriso gelido, puntando i suoi occhi neri in quelli della chimera, che continuò a camminare in tondo, sempre più allettato dall’idea di una collaborazione.
«Se dobbiamo fare un accordo, penso sia opportuno che ognuno ponga le proprie condizioni» disse.
«Quali sono le tue condizioni, Theo Raeken?» un sorriso crudele si allargò sulle labbra del ragazzo.
«Alcune persone non dovranno finire nel tuo mirino, anonimo».
«Intendi tutte le chimere e i membri del brando del vero alfa, non è vero?» l’uomo pose la domanda con tranquillità, come se fosse naturale, che fosse ovvio. Theo iniziò a chiedersi quanto effettivamente quell’uomo sapesse, ma poi accantonò quel pensiero in un angolo del suo cervello. 
«Esattamente».
«Penso che non sarà un problema. Ho altre prede per la mente».
«E le sue, di condizioni?» chiese il ragazzo, tenendo un tono di voce basso e allettante «Ci deve essere qualcos’altro che vuole, oltre a un permesso. Cosa vuole in più?» gli occhi dell’uomo era un pozzo di tenebra, senza luce, senza espressione. Occhi capaci di annientare.
«Vorrei che accettasse l’aiuto dei miei uomini, signorino Raeken» si avvicinò di un passo a lui, chinando il volto ad un soffio dal suo, come un avvoltoio «Sa, mi dispiacerebbe molto se il suo progetto fallisse. Vorrei che usasse il mio aiuto per lasciare un messaggio, per far sapere a tutti che è Theo Raeken, l’alfa delle chimere, a detenere il potere» un brivido gelido scivolò lungo la schiena del ragazzo, che per la prima volta dopo molto tempo provò qualcosa simile alla soggezione. O alla paura, non sapeva dirlo. Ma più forte ancora, il brivido che il potere gli dava.
Senza esitare spinse quei pensieri sul fondo del proprio animo, mentre l’uomo si tirava indietro, controllando l’ora sull’orologio con un gesto elegante.
«Spero vorrai scusarmi se me ne vado, ma ho un appuntamento al quale non posso assolutamente mancare. Vi manderò qualcuno più tardi» con passo tranquillo, appoggiandosi con classe al bastone da passeggio.
«Se non sono indiscreto» disse Theo a voce alta, costringendo l’uomo a fermarsi «con chi ha il suo appuntamento?»
Il ragazzo non poteva vederlo, ma dal tono della voce comprese che l’uomo stava sorridendo.
«Non credo che tu la conosca. Si chiama Emily Carr».
L’uomo riprese il suo cammino, arrivando fino all’uscio della porta che conduceva fuori «Ah, un ultima cosa, Theo» disse voltandosi, per guardarlo in faccia «Scott McCall è vivo». 


Theo Raeken fece come gli era stato detto, e lasciò un messaggio.
Si dice che a volte gli assassini ritornino sui luoghi del delitto, a distanza di anni, o che addirittura andassero ad assistere ai funerali delle vittime. È quello che fece Theo, ritornando dove si era preso gioco di tutti. In realtà mando uno degli uomini del suo benefattore, a lasciare il messaggio, un uomo apparentemente senza età, che non parlava se non per chiedere se c’erano ordini da eseguire. Silenzioso, rapido ed efficiente.
Fu così che la scritta “So che sei vivo” comparve su uno dei muri dell’edificio scolastico della Beacon High, dipinto con una vernice spray rosso sangue. Se l’intento di Theo era essere notato, beh, ci era riuscito perfettamente. Se l’intendo era far infuriare Scott McCall, costringendolo ad uscire allo scoperto, era riuscito anche in quello.
Stiles non poteva saperlo, aveva passato tutto il giorno in ospedale, passando il suo tempo tra un sonno leggero e nervoso, osservare il padre in coma e pensare. Ancora e ancora, fino a che i pensieri perdevano di senso, quando l’intendo era cercarne uno.
Lydia e Parrish nemmeno, non essendo usciti dalla centrale di polizia dal momento in cui vi avevano messo piede, vuoi per il tempo trascorso con Clarke, vuoi per coordinare le ricerche. Sia delle chimere, sia dei due ragazzi in maschera.
Malia, invece, aveva spento il cellulare. Nessuno sapeva dove fosse, ma di certo non era a scuola, non più. Doveva aver trovato una pista, un qualcosa, che l’aveva condotta lontano da lì.
Quando Scott si trovò davanti a quel muro, mentre alcuni addetti comunali cercavano di togliere la vernice, sentì il sangue ribollirgli nelle orecchie. Quello era qualcosa di più di un messaggio. Era un marchio. Era il modo in cui la chimera dimostrava la sua superiorità, e lo aveva fatto come un animale, marcando il territorio, imbrattando i muri della scuola di Scott, uno dei tanti luoghi che il ragazzo aveva cercato di proteggere. Un luogo che ora aveva un impronta incisa addosso, che non era la sua. Quello era un guanto di sfida. Una sfida che Theo probabilmente pensava di aver concluso nel momento in cui aveva piantato gli artigli nel petto di Scott. Una sfida che era ripresa dal punto esatto in cui si era interrotta.
Scott McCall raccolse il guanto.


Ai ragazzi era servito quasi tutto il giorno per trovarlo. Scott non era stupido, e non aveva l’intenzione di ritrovarsi impreparato un’altra volta. Ecco perché aveva chiamato Liam. Theo non aveva lasciato solo un messaggio, ma anche una pista, come a voler dire “trovami”. Scott aveva chiesto a Liam aiuto per seguire la pista, e il beta era corso da lui quanto prima. 
L’alfa, in primo momento, aveva pensato di aver commesso un errore. A muovere Liam era infatti una brama a metà di vendetta e a metà di redenzione. Non era lucido. Ma nemmeno Scott lo era, non completamente, e sicuramente Theo non lo era mai stato.
I due ragazzi avevano iniziato a cercare che era pomeriggio inoltrato, e le ricerche erano andate avanti ore. Avevano provato a chiamare Stiles, per farsi dare una mano, ma in terapia intensiva il cellulare non prendeva. Avevano chiamato Mason e il ragazzo, dopo un’ora passata a smanettare al computer, aveva saputo dire loro dove stavano i magazzini che avevano denunciato un furto di vernice spray rosso sangue, ma ormai era sera. Era bastato uno sguardo perché entrambi i licantropi sarebbero andati al magazzino, con o senza l’altro.


Non era stata una sorpresa piacevole, quella che avevano trovato in quel magazzino semivuoto e immerso nella penombra. Avevano trovato una trappola.
Liam e Scott si erano trovati davanti Tracy e Donovan, insieme ad un uomo che non avevano mai visto. E Theo, che era lì solo per il puro piacer di godersi la scena.
«Avresti fatto meglio a rimanere morto, Scott McCall. Ti credevo più furbo di così» aveva detto il ragazzo, mentre la sua voce rimbombava negli angolo vuoti. 
«Perché fai tutto questo, Theo?»
Il ragazzo esplose in una risata sarcastica «Perché è quello che voglio» poi fece un gesto a Tracy e Donovan, uno scatto del mento, senza mai perdere il contatto visivo con i due ragazzi «Attaccateli».
All’unisono, Scott e Liam da una parte, e Tracy e Donovan dall’altra, si gettarono gli uni contro gli altri.


Il soffitto era esploso che le due chimere stavano per colpire Liam, intenzionate a ucciderlo.
Scott alzò lo sguardo, mentre da una rosa di schegge di vetro due figure fasciate di nero facevano un salto di cinque metri e mezzo, atterrando davanti a Liam. Un silenzio di pochi decimi di secondo calò sulla sala, mentre i due nuovi arrivati si scambiavano uno sguardo complice, facendo dei rapidi gesti nelle dita. Ma agli occhi di Scott, tutto era immerso nella melassa, tutto si muoveva al rallentatore.
“Le maschere nere”.
I due ragazzi si scagliarono in avanti. La ragazza verso Tracy, e il giovane verso Donovan.
Tracy ringhiò, cercando di colpire la figura, che invece schivò il colpo con una mossa fluida, mentre sganciava un nunchaku dalla cintura. Il compagno se la stava cavando altrettanto bene. I due si muovevano come se fossero fatti d’acqua, elastici, nulla di superfluo, nulla di sprecato. Il nunchaku della ragazza roteava senza fermarsi, deviando man mano i colpi di Tracy. La ragazza si distrasse un attimo, emettendo un verso frustrato, e l’arma le si abbatté con forza sulla mascella. 
Tracy ruotò su sé stessa, mentre cadeva bocconi a terra. Con un gesto disperato, allungò una mano afferrando la caviglia della ragazza, che ci lasciò cadere a terra senza un verso. Le due divennero un intricato groviglio di braccia e gambe, prima che la bionda afferrasse il kanima in una presa ferrea, scagliandosela alle spalle. Sì agganciò il braccio di Tracy tra le gambe, prima di ruotare con violenza su sé stessa.
L’urlo di Tracy echeggiò nel magazzino, insieme al rumore delle sue ossa spezzate. La figura si alzò in piedi come se nulla fosse successo, rivolgendo uno sguardo al compagno. Scott riportò lo sguardo su di lui, proprio nel momento in cui, con una violenta spallata all’altezza del torace, faceva volare Donovan dietro di sé, mandandolo a schiantarsi sul pavimento davanti a Liam con un rumore orribilmente viscido.
I due giovani rimasero immobili, come una belva il secondo prima di balzare sulla preda.
Liam si alzò in piedi a fatica, correndo verso Scott, che iniziava solo in quel momento a riprendere il controllo del suo corpo.
«Scott, dobbiamo andare via!» esclamò il beta. Davanti a loro, Theo aveva fatto un cenno all’uomo al suo fianco, che si era scagliato verso i due nuovi arrivati, ed era stato il ragazzo a battersi contro di lui, mentre la compagna lo superava, correndo verso Theo. Il ragazzo si era spostato all’ultimo secondo, e fu solo per quello che riuscì a non venire colpito dall’arma della ragazza, che colpì invece il pavimento.
I due si fronteggiarono per un attimo.
«Chi sei?» sputò la chimera. La ragazza non rispose, e la chimera attaccò. Nessun colpo andò a segno, mentre la figura si limitava a schivare ogni colpo, i capelli biondi che riflettevano la luce della luna mentre si spostavano.
Pochi metri più avanti, anche l’uomo sembrava in difficoltà, mentre il ragazzo evitava ogni attacco con l’agilità di un torero.
«Liam, Scott!» i due licantropi si voltarono, mentre Malia correva verso di loro, il fiato corto.
«Malia…» sussurrò l’alfa. La ragazza si lasciò cadere sulle ginocchia al fianco dei ragazzi, aiutando Scott ad issarsi in piedi. 
«Cosa ci fai qui?» 
«Seguivo loro» Malia indicò i due ragazzi con un dito.
«Scott» esclamò Liam «Andiamo via mentre ci coprono le spalle!» il ragazzo annuì, mentre muoveva i primi passi malfermi.
Theo li vide andare via con la coda dell’occhio, e lanciò un urlo animalesco.




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Capitolo 5
*** Episode 4 ***


«What we’re going to do about them?»
«Parrish, Malia and Lydia are investigating. They’ll call me back as soon as they have found something». […]
«I’m here to make a deal, mister Raeken».
«A deal, what kind of deal?» […]
«I would like you to let me use Beacon Hills as… hunting territory». […]
«Are you really sure you want to know the truth?»
«I am».


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Episode 4
Past’s ghosts





Parrish, Clarke e Lydia avevano occupato temporaneamente l’ufficio dello sceriffo Stilinski, e da lì stavano conducendo le ricerche per fare un elenco di qualunque forestiero fosse arrivato a Beacon Hills nell’ultima settimana. Avevano inoltre emesso un mandato di cattura per Theo Raeken. Clarke non avrebbe rinunciato alla sorella tanto facilmente, e si sarebbe impegnata anima e corpo per riaverla con sé, soprattutto ora che sapeva in cosa la ragazza si era involontariamente cacciata.
Uno degli agenti incaricati di incrociare i dati bussò alla porta ed entrò. Parrish alzò lo sguardo dal foglio che stava leggendo.
«Abbiamo dei nomi?» chiese.
«Abbiamo una possibile pista» gli porse un piccolo fascicolo «Ci sono solo due persone che corrispondono alla descrizione. Jude e Skye Norton, fratello e sorella, giovani, arrivati ieri in mattinata. Hanno preso una stanza al B&B, quello con i cipressi davanti in via Harvey Milk».
«L’ho presente» disse Clarke, interrompendo quello che stava facendo «Una volta vivevo in fondo alla via e ci passavo davanti tutti i giorni».
Parrish intanto stava scorrendo con gli occhi il fascicolo, ponendo la sua attenzione alle fotografie dei documenti. Lui aveva capelli ricci e pelle olivastra, mentre lei sembrava che venisse dalla Germania. Capelli e occhi chiarissimi, labbra carnose. “Non si assomigliano molto, per essere fratello e sorella” pensò. Lydia si sporse da dietro la sua spalla, osservando la foto.
«È lui?» chiese Parrish.
«Credo di sì» annuì la ragazza «Mi ricordo il colore degli occhi e il taglio di capelli».
«Allora pare che abbiamo trovato le nostre maschere».
«E quindi che si fa?» chiede Clarke, incrociando le braccia sul petto «Arrestarli?»
«Non possiamo» fece notare Parrish «Qualcosa mi fa pensare che siano furbi abbastanza da non aver lasciato prove».
«Ma io l’ho visto» disse Lydia.
«Aveva una maschera a coprirgli il volto, e hai incontrato solo uno dei due» il giovane scosse la testa «Penso che il massimo che possiamo fare è cercarli per porre loro qualche domanda» la banshee si alzò in piedi, afferrando il cappotto dall’appendiabiti.
«Allora faremo meglio ad affrettarci».


Malia era tornata a scuola, dopo essere stata alla clinica, per riprendere le ricerche. Così, come quella notte, non aveva trovato nulla, quasi come se la ragazza fosse stata un ombra, e come tale fosse scomparsa.
Aveva pensato di cercare l’altro ragazzo, ma non sapeva da dove iniziare, e soprattutto non sapeva come arrivare al nemeton. Era rimasta nel cortile della scuola per qualche minuto, decidendo sul da farsi.
“Pensa, Malia, pensa” la ragazza si mordicchiava l’unghia delle dita nervosamente, cercando di ragionare “Cosa farebbe Stiles per trovare qualcosa?”
Stufa di cercare a vuoto, aveva deciso di andare via.
Aveva vagato per Beacon Hills quasi tutto il giorno. Un po’ sperando in un colpo di fortuna che le facesse trovare i due ragazzi, un po’ sperando di trovare Theo per tirargli un pungo nella sua bella faccia del cazzo.
Il pranzo lo passò con Stiles perché, se lo conosceva abbastanza bene, sapeva che a lui non sarebbe mai venuto in mente di pranzare fino a che avesse avuto tutti i pensieri focalizzati su suo padre, o su Theo.
Pensavano tutti a Theo, ma non erano bei pensieri. Più che altro riguardavano a come lo avrebbero picchiato se l’avessero avuto davanti.
Malia aveva comprato qualche schifezza in un take away, e una bottiglia di coca cola, e le aveva portate in ospedale da Stiles. Avevano mangiato nel cortile, passandosi la bottiglia e cercando di distrarsi. Malia raccontò dell’assenza di progressi sui due ragazzi-ombra. Raccontò che nel pomeriggio sarebbe andata a vedere se l’officina aveva trovato qualche pezzo di ricambio per la jeep di Stiles, e lui le sorrise grato.
Parlarono del più e del meno, ma erano discorsi vuoti. Entrambi si chiedevano come sarebbe stato ritornare ad una vita normale, dopo tutto quello.
Finito il pasto Malia salutò Stiles per riprendere la sua ricerca.
Era tornata a scuola subito dopo l’officina, ed aveva trovato un messaggio scritto con la vernice rosso sangue. Stava quasi per chiamare Scott, quando aveva visto due moto parcheggiare lì vicino e i due guidatori smontare senza togliere il casco. Vide i due ragazzi gesticolare appena, indicando la parete. Erano un ragazzo e una ragazza. Lui vestiva come un adolescente normale, se non fosse stato per il casco, ma lei vestiva interamente di nero.
Cercò di acutire al massimo il suo udito, ma non riuscì a sentire che poche parole sconnesse tra loro. I due erano rimasti lì per un po’, dando a Malia la possibilità di segnarsi le targhe delle vetture e sentirne l’odore di cuoio del sellino e la puzza pungente del carburante.
Ora, dovunque fossero andati, Malia sarebbe stata dietro di loro, ed è quello che fece per il resto della giornata, dando fondo a tutte le sue forze.
Li aveva pedinati per un bel pezzo, fino a che non avevano fatto ritorno ad un B&B, e la ragazza aveva potuto vederli in volto. Lui, un ragazzo sulla ventina, aveva lineamenti marcati ma affascinanti, e lei aveva un che di familiare, che Malia non seppe spiegarsi.
Era rimasta in attesa per un po’, e tempo qualche ora i due erano usciti di nuovo. E in tenuta da battaglia.
I due avevano guidato verso la parte più esterna della città, e avevano accostato poco distante dal magazzino di una ditta di vernici, un seminterrato affiancato ad un declivio. Malia li aveva scrutati da dietro un angolo, mentre i due si cambiavano i caschi da moto con le maschere nere. Avevano perlustrato tutta la zona, e si erano arrampicati al di sopra del magazzino, così da godere di una posizione sopraelevata da cui controllare la zona.
Malia era rimasta sorpresa quando, nemmeno pochi minuti dopo, Scott McCall e Liam Dumbar erano entrati nel magazzino.


I due ragazzi entrarono nella loro stanza, senza dire una parola. Jude si diresse verso la parete opposta, appoggiando le mani contro il muro e prendendo qualche respiro profondo. Skye rimase immobile, dietro di lui, in attesa fino a che lui si voltò di scatto verso di lei.
«È stata una mossa azzardata, la tua» le puntò il dito contro «Hai rischiato di farci ammazzare».
«Se non fossi intervenuta li avrebbero ammazzati, non potevo non intervenire» il ragazzo fece un sospiro profondo, passandosi una mano sul volto.
«Skye, è stato pericoloso».
«Ma ce l’abbiamo fatta» la ragazza aprì le braccia come se cercasse di giustificarsi.
«Per miracolo!» sbottò il ragazzo, facendo sobbalzare la compagna «Ci è mancato tanto così che ti facessero secca. Un kanima, capisci! Non è qualcosa che puoi affrontare alla leggera».
«Io non sono qualcosa da affrontare alla leggera» il tono di voce della ragazza era gelido. Gli voltò le spalle, per riporre le sue cose su una sedia. Jude la scrutò con occhi critici.
«Skye, la maglia» disse. La ragazza si girò di scatto.
«Cosa?»
«La maglia, toglitela» ordinò il ragazzo. Skye strinse i denti, mentre si sfilava prima la giacca in pelle, e poi la maglia. La pelle era costellata da lividi. Jude socchiuse gli occhi con un sospiro, afflosciando le spalle.
«Soddisfatto?»
«Skye» il tono di voce di Jude era cambiato, e se prima era arrabbiato, ora era preoccupato «devi stare più attenta, non puoi continuare a gettarti nella mischia senza pensare».
«So quali sono i miei limiti, i lividi guariranno».
«E quando non si tratterà più solo di lividi?» domandò lui «Non voglio che nella tua avventatezza ti faccia male. Non voglio che Deborah abbia ragione e arriveremo ad un certo punto in cui tu non sarai più in grado di salvare te stessa. Siamo qui per aiutare, ma se ci facciamo ammazzare non servirà a niente».
Skye non riuscì a sostenere lo sguardo, e fu costretta ad abbassarlo.
«Scusami, hai ragione» fece un sorrisetto «Come al solito».
Jude rise a sua volta.


Tyson Lewis aveva passato la serata da un amico, insieme ad altri ragazzi. Era stato più un party, che una semplice rimpatriata della comitiva e aveva bevuto qualche bicchiere, ma nulla di che. Reggeva l’alcool piuttosto bene, per avere solo quindici anni. Forse era anche il merito della sua seconda natura.
Il giovane lupo mannaro percorreva le poche vie di distanza da casa del suo amico alla propria in bicicletta. Il vento freddo serale gli scorreva addosso e ciocche ribelli di capelli gli frustavano la fronte. Gli piaceva andare in bici, era la cosa più simile al volare che un essere umano potesse provare, a suo parere.
Non c’era nessuno per le strade a quell’ora, e Tyson aveva deciso di pedalare sull’asfalto della strada a tutta velocità. Nessuno poteva vederlo, e poteva spingere sui pedali con tutta la forza soprannaturale di cui disponeva. E anche se qualcuno fosse ancora in giro a quell’ora della notte, grazie all’udito e all’olfatto super sviluppati ne avrebbe percepito per tempo l’arrivo. Non correva alcun pericolo.
Poi un auto nera, silenziosa come una pantera, sbucò da una via laterale, inchiodando in mezzo alla strada.
Tyson imprecò, stringendo i freni della bici. Il mezzo sgommò sull’asfalto e il ragazzo si schiantò sul cofano della macchina, volando dall’altra parte e rotolando diverse volte prima di fermarsi, dolorante, la schiena premuta contro la strada. 
La testa gli pulsava dolorosamente, ma nonostante questo riuscì a sentire il tonfo sordo di una portiera che prima si apriva, e poi si chiudeva. L’unica cosa che il ragazzo riusciva a mettere a fuoco era la luce di un lampione che si stagliava contro l’oscurità della notte. Il volto di un uomo entrò del suo campo visivo.
«Giovanotto, va tutto bene?» chiese con un accento un po’ strano. Il ragazzo annuì.
«Credo di sì» l’uomo si inginocchiò al suo fianco, aiutandolo a mettersi a sedere.
«Ti senti nulla di rotto? Ti gira la testa?» “Anche se mi fossi rotto qualcosa, a quest’ora sarei già guarito”, ma questo, il ragazzo non poteva dirlo.
«Non si preoccupi, sto bene» fece per rialzarsi in piedi, ma l’uomo lo prese con delicata fermezza per il gomito.
«Insisto per accompagnarti all’ospedale. Potresti avere una commozione celebrale e non saperlo» Tyson era consapevole di non avere molte scelte, aveva comunque una facciata da “normale ragazzo umano” da mantenere, qualunque cosa succedesse, e accettò di essere accompagnato al pronto soccorso.
L’uomo lo scortò fino alla macchina, aprendo la portiera nera come la notte e richiudendogliela dietro.


Il giorno dopo erano tornati a scuola quasi tutti. Stiles era ancora chiuso in isolamento forzato. Ogni sera Melissa doveva quasi buttarlo fuori dal reparto a calci, per farlo andare a casa sua. Malia dormiva da lui, la notte, e il giorno dopo lo accompagnava in ospedale prima di andare a scuola. Lydia stava aiutando Clarke a cercare Hayden, ma poteva permetterselo di saltare le lezioni.
Parrish, in centrale, aveva invece dovuto affrontare un altro problema, quando invece avrebbe voluto andare a parlare con i due Norton. Era proprio in procinto di uscire, quando uno degli agenti gli aveva portato sulla scrivania due denunce di scomparsa. Due ragazzini erano svaniti nel nulla il giorno prima, Emily Carr, tredici anni, nel primo pomeriggio e Tyson Lewis, quindici anni, in tarda serata. Parrish si era rimboccato le maniche, e aveva cercato una qualche pista che li collegasse a Theo o ai Dread Doctors.
Scott e Liam, ancora malconci da quella notte, si erano sorbiti una crisi isterica di Mason, a cui era venuto un mezzo infarto, e il terzo grado di Malia.
Sorprendentemente, quella mattina le cose erano andate abbastanza lisce. I quattro ragazzi avevano avuto la possibilità di pensare ad altro, per qualche ora, di dimenticare i guai. Avevano cercato di dimenticare, di non pensare all’incombente pericolo costituito da Theo, di essere ancora una volta, sperando che non fosse l’ultima, ragazzi normali.
Le ore erano passare, scivolando via come acqua, ognuno immerso nelle proprie lezioni. Se solo avessero saputo che non avrebbero avuto bisogno di avere paura, di essere segretamente in ansia, non quella volta. Se solo avessero saputo che un’ombra vestita di nero vegliava sempre su di loro. Theo non avrebbe perso occasione per attaccare, non ora che sapeva che Scott era vivo, non ora che sapeva che qualcuno lo stava proteggendo. Avrebbe caricato a testa bassa come un toro alla prima occasione.
Ma il branco aveva un buon cane da guardia, che prese il toro per le corna.
Quando alcuni degli uomini di Theo Raeken, di quelli fornitigli dall’anonimo, entrarono in quella che Skye aveva definito “area di sicurezza”, lei era pronta a fornire loro un caloroso benvenuto. Era piombata loro addosso come un falco sulla preda. Ma Scott McCall se ne era accorto.


I ragazzi si erano incrociati per i corridoi, e si erano fermati a parlare. Liam e Mason stavano uscendo dall’aula di letteratura, Scott da quella di matematica, e Mason era curioso di sapere se Scott avesse ricevuto qualche novità. Ma il cellulare del ragazzo rimaneva silenzioso, tranne per qualche laconico sms di Stiles, che lo aggiornava ogni tre ore sulle condizioni del padre. Era stato Scott a chiedergli di farlo.
Era stato in quel momento che i due lupi mannari lo avevano sentito. Il sottile ma penetrante odore del sangue.
«Scott, lo senti?» domandò Liam, mentre sentiva il sangue ribollirgli nelle vene, come se il richiamo della furia del sangue lo stesse rendendo iper sensibile agli stimoli.
«Sì» l’alfa digrignò i denti «Mason, corri a cercare Malia, resta con lei. Liam, andiamo a vedere».
I tre iniziarono a correre in due direzioni diverse, e in un secondo i due licantropi erano in cortile. Si fecero strada tra gli studenti, correndo intorno all’edificio, dirigendosi attraverso il campo di lacrosse. 
E mentre loro correvano verso di esso, gli studenti correvano via da lì.
Controcorrente, si fecero largo. Corsero verso il campo, passando dal varco sotto le gradinate. Fortunatamente Scott aveva i riflessi veloci, e riuscì ad afferrare Liam per il colletto della maglia e fermarlo. Se non l’avesse fatto, il corpo di un uomo che in quel momento volava giù dalle gradinate gli sarebbe atterrato sul collo. I due alzarono lo sguardo.
Contro la luce del sole si stagliava una figura in nero. La maschera.
Un altro uomo giaceva poco distante, pressandosi una mano sull’addome. La ragazza ne stava affrontando un terzo, ma non sembrava avere difficoltà, ma nel momento in cui si reso conto della presenza di Scott e Liam, prese la rincorsa e saltò. Atterrò mollemente sull’erba a un paio di metri dai ragazzi, e iniziò a correre senza voltarsi. L’uomo sulle gradinate ringhiò.
«Liam, prendila!» urlò Scott, spingendo via il ragazzo.
Liam non se lo fece ripetere, voltando le spalle e lanciandosi all’inseguimento, mentre alle sue spalle l’alfa si occupava dell’ultimo uomo rimasto. La figura nera era ancora nel capo visivo del giovane beta, che iniziò a correre più velocemente di quanto avesse mai fatto, spingendo le sue gambe fino quasi al limite di rottura, ma la ragazza era dannatamente veloce. Liam aveva però una cosa dalla sua parte, la conoscenza di quel posto bene come le sue tasche, e questo gli permise di restare al passo.
Liam e la ragazza si ritrovarono sulla scalinata davanti al cortile. Lei iniziò a scendere i gradini di corsa e Liam, invece, sfruttando la velocità acquisita, saltò. Si schiantò contro la ragazza e i due rotolarono giù per i gradini restanti.
La figura si lasciò scappare un gemito di sorpresa, ovattato dal cuoio, prima di tentare di rialzarsi in piedi. Liam l'afferrò per una caviglia, tirandola a sé e cercando di strapparle via la maschera, ma la ragazza gli diede una gomitata all’altezza dello sterno. Provò allora ad alzarsi in piedi nuovamente, ma Liam non aveva mollato la presa, nonostante la fitta dolorosa, e la maschera in cuoio gli rimase in mano.
La ragazza si voltò e Liam poté guardarla in faccia.
I corti capelli biondi incorniciavano un volto dalla pelle chiara come porcellana, paio di occhi azzurro ghiaccio, e labbra a forma di cuore. Il labbro superiore era appena più carnoso di quello inferiore, e sporgeva leggermente in avanti.
A Liam si ghiacciò il sangue nelle vene.
Aveva già visto un volto simile a quello. Lo vedeva tutti i giorni, riflesso nello specchio. Ma un volto identico a quello, pensava che non lo avrebbe mai più rivisto. Boccheggiò.
«Abigail?» la voce gli tremava. 
Un’ ombra passò nel suo sguardo, mentre lei stringeva i denti.
«Io non sono più lei da molto tempo, ormai» disse gelidamente «Il mio nome ora è Skye».
“Skye”. Quel nome rimbalzò per la testa del ragazzo, riaprendo porte che pensava di aver chiuso per sempre. Riaccendendo ricordi che il ragazzo aveva preferito dimenticare, ma non perché erano dolorosi, anzi, il contrario. Erano proprio i ricordi felici che gli facevano più male.
«Pensavo fossi morta» la voce di Liam si spense, sopprimendo parole che avrebbe voluto dire. Perché, se eri viva, non sei tornata a casa? Perché mi hai lasciato da solo? Perché mi hai lasciato credere che la mia stessa sorella fosse morta?
Queste domande premevano sul palato e sulla lingua del licantropo, ma senza trovare la forza di uscire. Poi Skye fece un’espressione che Liam non avrebbe mai dimenticato. Come se fosse stata colpita in pieno stomaco da un pugno, l’aria venne risucchiata dai polmoni della ragazza. Si piegò lievemente in avanti per riprendere il controllo di sé.
«Se fossi morta,» Skye lo guardò dritto negli occhi «probabilmente sarebbe stato meglio».
Si mosse velocemente, facendo scattare il braccio verso la sua maschera, riprendendosela. Poi rivolse un ultimo sguardo, un ultimo cenno all’indirizzo del fratello, prima di correre via, lasciando il ragazzo seduto sul cemento, cercando di rimettere insieme i pezzi infranti del suo cuore, per la seconda volta in un paio di giorni.
Liam respirava, ma ogni respiro gli sembrava vuoto, come se al posto dei polmoni avesse una voragine, ogni respiro era una fitta al cuore. Le mani fredde giacevano abbandonate, e il cervello cercava in tutti i modi di trovare una risposta all’ennesimo quesito.
Cosa era successo sette anni prima? Cosa era successo quando i suoi genitori erano morti e sua sorella era scomparsa? Perché lei lo aveva lasciato solo per tutti quegli anni?
«Liam!» il ragazzo alzò lo sguardo, mentre vedeva Scott fiondarsi al suo fianco «Liam, va tutto bene?» il ragazzo boccheggiò nuovamente.
«Io… non lo so, Scott».
«Liam, l’hai vista? Hai visto chi c’è sotto la maschera?»
Il giovane beta lo guardò, gli occhi chiari spalancati, mentre annuiva lentamente.
«Sai di chi si tratta?» chiese nuovamente il ragazzo. 
«È mia sorella. Dietro la maschera c’è mia sorella».


-Sette anni prima-
Quando Liam era stato riaccompagnato a casa, l’intera villetta era circondata dal nastro giallo della polizia. C’erano agenti ovunque, e medici, e fotografi e giornalisti.
Il ragazzino non riusciva a capire cosa stesse succedendo, si sentiva confuso, spaesato. Voleva sapere dove erano i suoi genitori, voleva vedere sua sorella. E invece nessuno di loro era venuto a cercarlo.
«Liam» il bambino alzò lo sguardo, mentre una giovane donna in uniforme di inginocchiava per abbassarsi alla sua altezza «Sei Liam, vero?»
Lui annuì.
«Cosa sta succedendo? Dove sono mamma e papà? E mia sorella?» chiese con voce flebile.
«Ascoltami molto attentamente, ok?» la donna sorrise incoraggiante «Adesso ti portiamo in un posto tranquillo, senza tutta questa gente, va bene? Poi ti prometto che ti spiegheremo tutto».
Liam aveva imparato una cosa, nella sua breve vita. Aveva capito che quando gli adulti dovevano spiegarti qualcosa, raramente si trattava di belle notizie. Iniziò ad avere paura.
«È successo qualcosa di brutto?» la donna fece un sorriso tirato, falso.
«Non sappiamo cosa sia successo, dobbiamo ancora cercare di scoprire tutto».
«Ma è una cosa brutta?» chiese nuovamente il bambino. La donna fece un sospiro, passandosi una mano sulla fronte e massaggiandosi le tempie.
«Mi dispiace dirtelo Liam, ma sì, è una cosa brutta. I tuoi genitori sono... probabilmente è stata qualche persona cattiva» Liam non poteva saperlo, ma quella donna si stava ponendo la stessa domanda da molti minuti. Come fai a spiegare ad un bambino che a malapena ha dieci anni, che i suoi genitori erano stati fatti a pezzi come carne da macello? Non potevi, ecco. Potevi solo mentire, sperando che quello che era successo non uscisse mai da quella casa, o dalla centrale di polizia.
«E Abigail?» chiese il bambino «Era a casa stasera. Dove è?»
« Tua sorella… non era in casa quando siamo arrivati. Non sappiamo dove sia, o cosa le sia successo».
Fu così che Liam apprese di essere solo al mondo.

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Capitolo 6
*** Episode 5 ***


«So, you found him. Your brother».
«I did». […]
«There are only two people who fit the description. Jude and Skye Norton, brother and sister, both young, both arrived yesterday in the morning» […]
«Seems like we have found our masks» […]
«Liam, did you see her? Did you see who is under the mask? Do you know who she is?»
«Is my sister. Under the mask, there’s my sister».
 
Episode 5
Under the Masks



«Cosa?» fu la prima cosa che Stiles esclamò, dopo che Liam ebbe finito di raccontare con poche ma significative parole dell’incontro con la maschera. Skye. Sua sorella «Hai una sorella?»
«Gemella» precisò il ragazzo.
«Perché non me lo hai mai raccontato?» Più di Stiles, era Mason a essere il più sconvolto. Le cose stavano prendendo una piega sempre più allucinante. Prima i Dread Doctors, poi Theo e le chimere che ritornano in vita così, praticamente a caso. E ora saltava fuori che Liam aveva una sorella gemella morta che invece morta non era, e che era diventata una specie di super ninja ammazza-chimere. Il ragazzo non sapeva più dove sbattere la testa.
«Credevo che fosse morta, lo credevano tutti. Dopo l’incidente non è mai stato trovato il suo corpo, ma era impossibile che fosse ancora viva» Liam aveva la voce che tremava. La sua mente continuava ad altalenare tra la primavera di sette anni prima e quei pochi minuti trascorsi con la sorella, avvenuti nemmeno due ore prima.
«Che cosa è successo sette anni fa?» chiese Scott, sporgendosi in avanti e appoggiando i gomiti alle ginocchia. Il ragazzo se ne stava seduto su una di quelle sedie da scrivania con le ruote e si muoveva nervosamente avanti e in dietro. Gli altri ragazzi erano seduti dove capitava, oppure se ne stavano in piedi, appoggiati al bancone dell’ambulatorio veterinario, o ai muri e gli stipiti. Liam provò a deglutire, ma era come se all’improvviso la gola fosse diventata carta vetrata. Se prima era facile fare vaghe illusioni come “l’incidente” o “sette anni fa”, quella domanda lo poneva di fronte alla realtà. Raccontare ciò che aveva visto, e che non aveva dimenticato. Il ragazzo aprì la bocca, cercando di trovare un modo per creare una frase di senso compiuto, ma la verità era che non aveva alcun senso
«Non lo sappiamo» esordì «La polizia non è mai riuscita a capire esattamente cosa fosse accaduto, e io… non c’ero, quel giorno. Ero a casa di un compagno di scuola, a dormire. Ci hanno chiamati in piena notte, e mi hanno riaccompagnato a casa. Quando siamo arrivati c’erano poliziotti ovunque, e anche i federali, e mi hanno fatto un sacco di domande. Mi hanno detto che forse c’era stata una rapina finita male e i miei genitori erano morti. Mia sorella, invece, era dispersa» Liam aveva lo sguardo abbassato sulle proprie mani, intrecciate sulle ginocchia, le dita fredde e le nocche bianche.
Scott incrociò le braccia sul petto.
«Archiviarono il caso come irrisolto, e il certificato di morte legale di mia sorella venne firmato in tribunale l’anno dopo, ma quando venni a saperlo ero già stato adottato».
«Come sono morti i tuoi genitori?» domandò Stiles, mentre il suo istinto da figlio di un poliziotto prendeva il sopravvento. Liam lo guardò negli occhi per un secondo, prima di rispondere.
«Sono stati fatti a pezzi» la sua voce tremava lievemente «Violentemente. O almeno è quello che mi hanno riferito. Non mi fecero andare a vedere» il ragazzo cercò di mandare giù il blocco che aveva alla gola, ma gli sembrava come se gli si fosse pietrificato l’esofago «Il caso era passato nelle mani dei federali, il dipartimento per i crimini violenti, e la polizia non era autorizzata a diffondere nessuna informazione. Ho rinunciato da anni a scoprire qualcosa a proposito di quello che era successo».
Scott McCall ebbe un idea, sentendo le parole di Liam. Se il caso era veramente passato sotto l’FBI, solo i federali avevano le credenziali per leggere i fascicoli. Federali come suo padre.
«Potrei avere un modo per avere accesso al fascicolo di tua sorella» disse allora. 
«Cosa?» esclamò Liam, con gli occhi chiari sbarrati.
«Tuo padre» fu Stiles a dare la risposta, accarezzandosi il mento con le dita affusolate «Credi che tuo padre si procurerà il fascicolo per te?»
«Me lo deve» rispose Scott «E al momento non sappiamo che altro fare. Forse fare luce su quello che è accaduto alla famiglia di Liam ci farà capire cosa vuole sua sorella da noi» La proposta pareva allettante per tutti, in particolare per Liam, e d’altronde l’alfa aveva ragione. Che altro potevano fare? Rimanere in attesa fino alla prossima mossa di Theo? Fuori discussione. Le due Maschere sembravano a conoscenza di molte cose, e forse avevano risposte che il branco di Beacon Hills non aveva ancora ottenuto.
«Un momento» Malia, che fino a quel momento aveva detto ben poche parole, era saltata in piedi «E come la mettiamo con Theo? Non dovremmo cercare di anticipare la sua prossima mossa?»
«Noi non sappiamo nemmeno quale sia, la prossima mossa di Theo, Malia» fece notare Scott.
«Posso pensarci io» disse Stiles, incrociando le braccia sul petto esile «Tu e Liam potete pensare ad ottenere il fascicolo di Abigail…»
«Skye».
«Cosa?»
«Quando mi ha visto ha detto che ora si fa chiamare Skye» precisò Liam. Un nervo pulsò sotto la pelle della mascella di Stiles, mentre le dita si muovevano nervose.
«Il fascicolo di Skye, allora, mentre io e Malia possiamo occuparci di Theo. Sono giorni che non faccio altro che pensare e pensare ad una strategia. Potrebbe essere arrivato il momento di metterla in atto» i cinque ragazzi si guardarono negli occhi. In tutti loro c’era una luce diversa, una sfumatura più decisa.
Erano cambiate molte cose, tra di loro, in quei giorni.
Avevano cambiato approccio.
Nelle settimane passate, molto di quello che era successo era stato causato da una mancanza di fiducia gli uni negli altri. Ognuno si era chiuso in sé stesso, cercando da solo di venire a capo di quella situazione. Quante cose si sarebbero potute evitare se solo si fossero messi tutti intorno ad un tavolo come in quel momento e avessero parlato. Se avessero raccontato quello che sapevano, ogni dettaglio, ogni teoria, tutto. Se lo avessero fatto... Forse le cose avrebbero iniziato ad assumere una logica - o un senso - e ogni tassello sarebbe andato al suo posto.
Per questo avevano deciso che, d’ora in avanti, qualunque cosa fosse successa, non sarebbe rimasta segreta. Basta omissioni. Era ora di fare quadrare quella situazione del cazzo.
I cinque rimasero ancora un minuto a parlare degli ultimi dettagli, illustrando come si sarebbero mossi.
Mentre stavano per congedarsi, la porta della clinica sbatté e Lydia fece il suo ingresso nell’ambulatorio, in un turbine di capelli rossi e orli svolazzanti dei vestiti.
«Ragazzi!» esordì «Io e Parrish abbiamo novità» disse mentre recuperava il fiato «Abbiamo scoperto chi sono le maschere».
«Arrivi tardi» disse Mason «È saltato fuori che è la sorella gemella non morta di Liam» indicò il ragazzo alla sua sinistra con un dito.
Lydia rimase un secondo immobile.
«Un momen… Cosa?»


Quel pomeriggio aveva iniziato a piovere. Stephen e sua sorella Holly stavano compiendo a piedi il tragitto che separava la fermata dell’autobus da casa loro, stretti nelle loro giacche e cercando invano di ripararsi con gli ombrelli. Tirava anche molto vento, e la pioggia scendeva in diagonale da ogni direzione, e i due ragazzi si ritrovarono bagnati come pulcini dopo solo pochi metri di strada.
Holly si teneva ben stretta all’asta metallica dell’ombrellino, cercando di non fare troppo caso alle dita che le parevano pezzi di ghiaccio. Suo fratello, che camminava pochi passi dietro di lei, invece, aveva preferito abbandonarsi al classico ma infallibile metodo delle parolacce, inveendo contro le nuvole che avevano deciso di aprirsi per l’ennesima volta in quei giorni. Aveva piovuto molto spesso nelle ultime settimane, e non pareva che la situazione sarebbe migliorata, non con l’inverno alle porte.
I due ragazzi intravidero i fanali di un automobile fendere la cortina d’acqua, mentre una vettura nera si avvicinava, e, nel passare accanto ai ragazzi, una ruota finì in una pozzanghera, inondandoli entrambi di acqua sporca. Holly emise un urlò stridulo, lasciando andare di botto l’ombrello, mentre il fratello fece un salto indietro, evitando la maggior parte dello schizzo. L’auto inchiodò dopo un paio di metri, mentre un uomo scendeva dalla vettura, stringendosi nel bavero della giacca.
«Oh cielo, scusatemi ragazzi» urlò per farsi sentire al di sopra del frastuono dell’acqua «Non ho visto che c’era una pozzanghera».
Stephen fece un gesto noncurante.
«Non si preoccupi, non è colpa sua se sta piovendo» disse mentre tirava a sé la sorella, aiutandola a raccogliete il suo ombrello.
«Lasciate almeno che vi riaccompagni a casa» insistette l’uomo, indicando dentro la vettura «Mia figlia Maria non mi perdonerebbe se vi lasciassi a piedi dopo avervi innaffiato d’acqua».
Il ragazzo si sporse leggermente in avanti, e vide che, effettivamente, seduta sul sedile davanti c’era una ragazzina, che guardava la scena sporgendosi da dietro l’imbottitura. Stephen e la sorella si guardarono un secondo, decidendo sul dal farsi.
«Va bene» annuì il ragazzo «accettiamo volentieri».
L’uomo con la macchina nera sorrise «Vi faccio strada».


Il vice sceriffo Jordan Parrish non sapeva cosa stesse succedendo al di fuori delle mura della centrale. Sapeva solo che tutto ciò che prima considerava una priorità era stato accantonato a tempo record per far fronte ad una nuova emergenza.
All’inizio era stata Clarke ad assumersi quel caso, mentre il giovane uomo e Lydia, davano una mano a Scott nella sua ricerca, ma tempo poche ore e Clarke non aveva potuto fare a meno di chiedere aiuto al collega e a tutto il dipartimento di polizia di Beacon Hills. Avevano ancora poche ore a disposizione, e se non avessero trovato qualcosa prima, avrebbero dovuto chiamare i federali. E se c’era una cosa che Parrish non poteva permettere che mettesse piede a Beacon Hills, era l’FBI.
Il vice sceriffo si passò una mano tra i capelli corti, guardando le foto attaccate su una lavagna. In due giorni, erano spariti cinque ragazzini. Normalmente non si sarebbe eccessivamente preoccupato, la gran parte dei ragazzini che spariscono tornano a casa dopo un paio di giorni pentiti e piagnucolanti. Ma Jordan Parrish sapeva cosa si aggirava per le strade, e sapeva che non erano sicure.
Non se ne erano andati, di questo era certo. Qualcuno li aveva presi.
Il giovane uomo fece un passo indietro, come se facendolo potesse avere una prospettiva migliore della faccenda.
Emily Carr, dodici anni. Tyson Lewis, quindici anni. Holly e Stephen Haddon, tredici e quindici anni. Maria Sage, quattordici anni. 
Tutti spariti nelle ultime quarant’otto ore, in circostanze sconosciute, e nessun testimone oculare.
In primis Parrish aveva ponderato l’idea che Theo stesse cercando nuovi ragazzini per trasformarli in chimere, ma dalle loro cartelle cliniche non risultavano trapianti su nessuno dei cinque scomparsi. Quindi o era opera di qualcun altro, o Theo aveva deciso di fare qualcosa che implicava ragazzini che non fossero già chimere genetiche.
Entrambe le opzioni non prevedevano belle cose.
Parrish si alzò in piedi, andando a cercare il cellulare tra le tasche della sua giacca. Compose il numero e attese che dall’altra parte Lydia rispondesse.
 «Pronto?»
«Lydia, sono Jordan. Ho bisogno che torni qui in centrale il prima possibile, possibilmente con Stiles. C’è una cosa che dovete vedere».


Dopo aver lasciato la clinica si erano separati. Compartimentazione. Scott e Liam avevano preso l’indirizzo che Lydia aveva dato loro, e si stavano recando al B&B. Liam voleva parlare con Skye, e nulla sarebbe servito a dissuaderlo. Voleva capire con tutto te stesso, forse più di quando rivolesse  indietro Hayden.
Malia invece aveva preso Mason e si erano recati a casa di Stiles, come il ragazzo aveva detto loro di fare. Mason aveva passato tutto il tempo con le unghie conficcate nel sedile della macchina, mentre la ragazza guidava.
Stiles e Lydia, invece, si stavano dirigendo in centrale.
Mentre la banshee guidava, Stiles sentiva la nostalgia della sua jeep blu. La macchina della ragazza era nuova di zecca e filava sull’asfalto come olio, e lui la sentiva quasi come innaturale, dopo aver passato gli ultimi tre anni e mezzo guidando quel catorcio. Gli mancava la sensazione del motore che scoppiettava, cercando di non fondersi, o dell’andatura singhiozzante con le sospensioni andate. 
Sedeva sul sedile davanti, le mani posate sulle ginocchia ossute, e guardava distrattamente fuori dal finestrino. Il suo cervello era già in moto, in parte chiedendosi che cosa avrebbe visto di lì a poco, in parte ad affinare la sua strategia.
Non aveva ancora smesso di piovere, e l’acqua formava dei rivoli sottili sul vetro. I due guidarono in silenzio per qualche minuto, prima di parcheggiare davanti alla centrale. Smontarono rapidamente, correndo fino a sotto la tettoia nel vano tentativo di non bagnarsi, ma entrando nell’edificio lasciarono due serie di impronte bagnate, come se due figure invisibili stessero camminando dietro di loro.
E forse era proprio così.
Da settimane, ombre invisibili camminavano dietro tutti, muovendosi alla stessa velocità, allo stesso modo. Ombre che adesso avevano un nome, quello di Theo. Per lo meno, uno dei nomi, era quello di Theo.


I due ragazzi si erano seduti sotto il portico del B&B, ai capi opposti di un tavolino rotondo di plastica ricoperto da uno strato di finto legno. Skye si rigirava tra le dita due dati, che urtandosi emettevano lo stesso rumore delle nocche di una mano quando scrocchiavano. Tra i due ragazzi, posato sul tavolo, stava un tavoliere con trenta pedine circolari. Skye lanciò i dadi che rotolarono sulla superficie. Uscirono un quattro e un due.
Jude ridacchiò soddisfatto.
«Non puoi muovere».
Skye rimase ancora qualche secondo a scrutare il tavoliere, prima di allungare una mano e muovere una pedina con calma glaciale. L’espressione di Jude cambiò radicalmente, mentre la ragazza prendeva prigioniera una delle pedine del compagno, che rimase a bocca aperta. 
«Ma come…?» 
«Ti ricordo che gioco a Tapa da molto più tempo di te» disse la ragazza, senza staccare gli occhi dalle pedine «Sono stata io a insegnarti».
Jude la guardò, mentre le sue labbra si stiravano in un sorriso involontario. Prese i dadi dal tavolo con la mano destra, mentre guardava l’orologio sull’altro polso.
«Penso che sia ora» disse mentre riportava lo sguardo sulla giovane «Arriveranno a momenti». 
La ragazza annuì «Lo so» per la prima volta da molti minuti alzò gli occhi, posandoli in quelli di Jude «Ma nulla mi vieta di stracciarti a Tapa per l’ennesima volta, nel frattempo».
Il ragazzo rise di nuovo mentre tirava i dadi. Due e due.
«Uh uh, raddoppio» sorrise il ragazzo, mentre iniziava a muovere le pedine. 
In quel momento, una macchina parcheggiò davanti al vialetto, e alcuni ragazzi smontarono. Skye fece un sospiro, socchiudendo gli occhi, e da sotto il tavolo Jude allungò un piede sfiorandole in una caviglia. Un silenzioso incoraggiamento, un “io ci sono” che per la ragazza significava più di qualunque cosa.
Jude e Skye rimasero in attesa, mentre Scott e Liam si avvicinavano, fermandosi a pochi passi dal porticato. Solo allora Skye girò la testa. 
«Ciao, fratello» disse con un lieve sorriso «Sapevo che saresti venuto». 


La ragazzina urlò quando il coltello arroventato si posò sulla sua carne. Il suo corpo si tese fino allo spasmo, ma era bloccato da cinghie all’altezza di polsi, caviglie, spalle e ginocchia. La lama bollente venne premuta nel suo fianco ancora per un secondo, prima di essere estratta. Dopo pochi secondi, la ferita pulsante iniziò a rimarginarsi.
L’uomo spostò lo sguardo dal fianco al volto della ragazzina, osservandone i lineamenti distorti dal dolore, o gli occhi che nella semi oscurità brillavano di giallo. Allungò una mano, raccogliendo con il pollice una lacrima che le stava scivolando dall’angolo dell’occhio, e la ragazzina provò a tirare indietro la testa, emettendo un gemito lamentoso. L’uomo sorrise.
«Ottimo lavoro, mia cara» sussurrò «Ti stai comportando benissimo».  
La ragazzina emise qualche gemito sconnesso, mentre lui le camminava intorno, sfiorandole la pelle con la punta della lama, che andava raffreddandosi, lasciandole piccoli solchi sottili che si rimarginavano dopo pochi attimi.
«Davvero molto brava» continuò a sussurrare, mentre si portava alle sue spalle. Le posò le mani intorno al collo, e Emily le trovò gelide, in netto contrasto con il coltello. Singhiozzò appena.
«Shhh» sussurrò l’uomo, chinandosi verso il suo orecchio e intimandole di fare silenzio «Ascoltami bene, mia cara. Quello che sta per succedere farà molto, molto male, ma non sarà reale. Sarà solo nella tua testa, capisci? Tutto qui dentro» le picchiettò un dito sulla fronte un paio di volte, prima di allontanarsi. Le poche e fioche lampadine che pendevano sopra la testa della ragazza iniziarono a tremare, e a spegnersi e accendersi a intermittenza. La ragazzina emise qualche gridolino spaventato. Poi li vide.
Tutti intorno a lei, gli occhi bianchi che lampeggiavano nell’oscurità. Ombre, demoni. Tutte intorno a lei.
«Adesso» sussurrò l’uomo alle sue spalle, e le ombre si gettarono sulla ragazzina, senza esitare.
Emily Carr urlò con quanto fiato aveva in corpo.


Jude si era spostato di una sedia a destra, per lasciare a Liam il posto di fronte alla sorella, mentre lui si era trovato davanti Scott.
Aveva sentito parlare molto del vero alfa, e lo aveva visto in azione la notte della super luna, ma non lo aveva mai osservato da vicino. I due si scrutarono, mentre il ragazzo inclinava il volto. Ora che lo notava, un po’ si assomigliavano. 
Scott e Liam, dal canto loro, stavano osservando i due ragazzi con lo stesso interesse. Il più grande dimostrava poco più di vent’anni, aveva lineamenti armoniosi, forse resi ancora più morbidi dai boccoli scuri e dagli occhi di un caldo color miele. Aveva un fisico tonico, il ragazzo aveva le braccia incrociate sul petto muscoloso mentre se ne stava seduto rilassato sulla sedia, ma l’alfa non metteva in dubbio che sarebbe stato in grado di scattare in piedi e tirargli un pugno sul naso prima che potesse anche solo concepire l’idea. La ragazza, invece, era l’esatto opposto. Fisico snello, nervoso, occhi taglienti come l’acciaio, e quella sua aria algida, dalla pelle nivea ai capelli biondissimi, la facevano sembrare ancora più spigolosa, e non bastava la forma morbida del seno, o le labbra a cuore, per addolcirne i tratti.
«Da dove dobbiamo iniziare?» chiese Skye, interrompendo quel silenzio imbarazzante che si era venuto a creare.
«Potreste iniziare dicendoci chi siete» rispose Scott.
«Jude Norton» rispose il ragazzo «Non preoccuparti, non è un falso nome, nel caso te lo stia chiedendo».
«Io suppongo di non avere bisogno di presentazioni» rispose la ragazza. Guardò il fratello «Cosa hai detto su di me?» 
«Quello che so. Ovvero niente» rispose il ragazzo «Skye, dove sei stata tutti questi anni? Perché non mi hai fatto sapere che eri viva? I nostri genitori erano morti! Mi hai lasciato solo!»
Al nominare i loro genitori, una vena pulsò sulla tempia della ragazza, prima che il poco colore le defluisse dal volto «Fino a due settimane fa non sapevo nemmeno dove fossi» l’onestà traspariva dagli occhi chiari della ragazza «Ti ho cercato per anni, te lo giuro. Penso ci sia un motivo se ti ho trovato proprio adesso».
«Cosa intendi dire?» intervenne Scott.
«Che vi serve il nostro aiuto, vi serve la nostra protezione. Theo Raeken è qualcuno che non sarete mai in grado di battere, nelle vostre attuali condizioni» la ragazza si sporse in avanti «Non avete organizzazione, non avete un piano. E soprattutto, non avete addestramento. Se non imparate a combattere, sarete fatti a pezzi, e lo sapete».
«Noi non uccidiamo nessuno, Skye» le rispose Scott «Noi non facciamo così».
«Non sto dicendo che l’omicidio è l’unica soluzione possibile, Scott McCall, ma nemmeno la morte. Ed è quello che succederà a voi se non accettate l’aiuto che vi stiamo offrendo».
Liam la squadrò. Si era accorto subito che la ragazza aveva cambiato argomento, al nominare della notte di sette anni prima. Liam si convinse che stesse nascondendo qualcosa, e il dubbio si insinuò in lui come un cancro. E se lei sapesse chi era l’assassino? Se sì, perché non voleva dirglielo? Aveva a che fare con lui, o lei?
Mentre la conversazione tra Skye, Jude e Scott continuava, facendosi sempre più accesa, le domande si accalcavano l’una sull’altra. 
«Liam?» il ragazzo si riscosse, rendendosi conto di essere osservato.
«Cosa?»
«Ti abbiamo fatto una domanda?» il giovane beta non rispose, rivolgendosi invece alla sorella.
«Hai cambiato argomento» disse solamente «quando ho parlato di mamma e papà. Hai cambiato argomento».
La ragazza fece una lieve smorfia «Non mi sembra il momento di parlarne».
«Invece sì, Skye. Ho il diritto di sapere. Se sai qualcosa sulla morte dei nostri genitori devi dirmelo. Che cosa è successo sette anni fa?»
«Non ho intenzione di parlarne adesso» rispose duramente la giovane. Liam perse il controllo, battendo con forza una mano sul tavolo, facendo saltare tutte le pedine colorate disposte sul tabellone.
«Sì invece!» urlò «Questo è esattamente il momento per parlarne. Ho aspettato sette anni per avere delle risposte».
Lei lo fissò, uno sguardo che il fratello non seppe decifrare, ma di un intensità tale da fargli venire i brividi. Uno sguardo che avrebbe potuto dire molte cose, se solo Liam avesse voluto veramente capirle.
«Tu non vuoi sapere la verità, Liam. Fidati di me».
«E invece sì».
A questo dialogo, Jude assisteva silenziosamente, sapendo di non poter intervenire. Era una cosa tra i due, una cosa che il ragazzo aveva messo in conto. Un eventualità, che sarebbe potuta accadere. Ma Skye non l’aveva fatto, si era limitata a sperare di poterlo guardare da lontano, di invidiarne la purezza, l’ignoranza. Di invidiare tutte quelle esperienze che lui non aveva vissuto, e che lei portava incise addosso.
Ma ora che era accaduto esattamente quello che lei temeva di più, ma che Jude aveva capito essere inevitabile, lui non poteva fare nulla, se non sostenerla. Se non lasciare che fosse lei a prendere le proprie decisioni, su cosa fosse meglio o meno dire.
E mentre la ragazza apriva la bocca, pronta a dire qualcosa, qualunque cosa, un cellulare squillò.
Scott rispose.
«Pronto?» rimase in ascolto per pochi secondi «Che cosa? ... Oh mio dio, voi state bene? … ok… sì… certo, ci sono anche loro… d’accordo, ci vendiamo là».
Si alzò in piedi, riponendo il telefono in tasca.
«Temo che dovrete affrontare la questione un'altra volta, ragazzi, abbiamo novità. Pare che Theo abbia fatto la sua mossa».



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