Demon's eyes

di PsYkO_Me
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Braccato. ***
Capitolo 2: *** Occhi. ***
Capitolo 3: *** Solo. ***
Capitolo 4: *** Fuoco. ***
Capitolo 5: *** Radura. ***
Capitolo 6: *** Oscurità. ***
Capitolo 7: *** Vanitas ***
Capitolo 8: *** Confuso. ***
Capitolo 9: *** Luce. ***
Capitolo 10: *** Domande. ***
Capitolo 11: *** Dono. ***
Capitolo 12: *** Confessioni. ***
Capitolo 13: *** Ti salverò io. ***



Capitolo 1
*** Braccato. ***


Braccato.


Nel pieno di quella notte d'inverno, un ragazzo stava correndo disperatamente verso la foresta. I suoi piedi affondavano nella neve e il suo respiro era pieno di angoscia ma continuò a correre nonostante lo sforzo. Il cuore gli martellava nel petto dalla paura e gli occhi blu non riuscivano a chiudersi. Le pupille continuavano a scattare, cercando la figura dal quale stava scappando. Le luci del villaggio si fecero presto lontani punti luminosi catturati dall'oscurità. I capelli del ragazzo fluttuavano nel vento della corsa riempendosi di fiocchi di neve. Ormai nemmeno lui riusciva a comprendere dove fosse finito, gli alberi lo avevano inghiottito nel loro abbraccio, ma continuò a superarli e a scavalcare cespugli. Ad un tratto uno strattone lo fece ribaltare sulla morbida ma fredda distesa bianca. Con il panico ancora nel petto, guizzò con lo sguardo attorno a sé. Era solo eppure sentiva chiaramente che oltre quelle figure nere degli alberi vi fosse anche lui. Controllò immediatamente la causa di quella caduta, doveva sbrigarsi. Notò così che il suo mantello si era impigliato in alcuni rami spinosi. Il ragazzo piantò bene i piedi a terra e tirò con forza il mantello, strappandolo inevitabilmente. Ma non aveva importanza, doveva riprendere la corsa. Si fece forza sulle gambe e… fece un unico passo. Tutta la grinta morì in quell'istante. Dinnanzi a lui, due occhi ambrati galleggiavano nel buio. Provò a scappare ma il corpo non rispondeva più ai suoi comandi. I muscoli si erano irrigiditi, tremando con impeto. Dalle labbra, un respiro inquieto abbandonava costantemente nuvole di vapore. Tentò di aggredirlo con le parole ma nemmeno quelle gli uscirono, la paura si era impadronito di lui. I suoi occhi grandi erano così limpidi che quelli ambrati si appoggiarono in essi donandogli nuovo colore.
La figura rise maligna. «Ti avevo avvisato, Sora...»
Sora lo fissò immobilizzato mentre dall'oscurità, il corpo dell'altro prendeva forma.
«Non puoi sfuggirmi.»
I suoi denti erano bianchi come la neve e il suo sorriso rendeva i suoi occhi ancor più sinistri. Il viso era circondato da capelli neri come la notte e il corpo era avvolto da vesti estremamente eleganti e scure. Seguivano le sue forme con leggerezza e risaltavano la sua eterea bellezza. Il ragazzo non aveva mai conosciuto un altro uomo altrettanto affascinante.
«Demone!» Ebbe finalmente la forza di dire. «Non mi avrai mai! Vattene!»
Con fare saccente e divertito allo stesso tempo, l'altro rispose: «L'avevi detto anche poco fa o sbaglio?»
Il ragazzo non aveva smesso di tremare. Aveva già immaginato le innumerevoli morti che quell'essere poteva riservargli e nessuna di queste era misericordiosa. Non era armato, non aveva nulla per difendersi, lentamente la speranza della salvezza lo stava abbandonando. Strinse, lungo i fianchi, le mani a pugno e serrò i denti. Ignaro delle intenzioni dell'altro, accumulò il coraggio che gli era rimasto e si preparò a non essere una facile preda.
Il demone inclinò la testa con deliziata curiosità. «Oh? Non ti vuoi proprio arrendere.»
Fu in quel momento che Sora capì con chi avesse in realtà a che fare. L'aria attorno a lui diventò ancor più fredda, mentre il demone si disperse in un attimo in una nube di oscurità. Il coraggio scivolò via dalle sue mani mentre il terrore ricominciò a prendere il sopravvento. Girò su se stesso ma non riusciva a vederlo. Eppure era lì, lo sentiva. Si appoggiò contro al tronco di un albero, continuando a controllare qualsiasi punto della foresta. Dita sconosciute si infilarono sotto al suo mantello, mentre un calore umido avvolse il suo lobo. Il cuore del castano balzò contro il petto. Riaffiorando alla luce dei suoi occhi, Sora capì di essersi appoggiato contro egli… No, era stato il demone a intromettersi in quello spazio. Avvampò a quel tocco ma non poteva permetterglielo. Si dimenò finché non riuscì a fuggire alla sua presa. Riprendendo la corsa, riuscì solo a pensare alla sicurezza di casa sua.
Il demone rimase ad osservarlo finché non sparì oltre la sua vista. Si accarezzò le labbra con un dito e sorrise. La prossima volta gli avrebbe rubato qualcos'altro.


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Note dell'Autrice.
Ho paura. Non ho mai scritto/pubblicato nulla del genere e ho paura che non possa piacervi. L'idea mi sembrava carina ma ora è tutta da vedere e da scoprire! Che dire, incrocio le dita.

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Capitolo 2
*** Occhi. ***


Occhi.
 

Il mattino seguente, il giovane si svegliò nel caldo della sua umile casetta di legno. Un debole fuoco scoppiettava riscaldando la stanza e lui rimase ad osservando cercando di ricordarsi come fosse riuscito a tornare a casa. Nella sua mente vi era la nebbia delle notti più umide. Riuscì solo a ricordare due occhi gialli che lo seguivano nella foresta. Sora scrollò la testa dandosi dello stupido. «Un incubo.» Non vi era altra spiegazione. Solo le più anziane del villaggio erano così superstiziose da credere nell'esistenza dei demoni. Si alzò, pensando che fosse l'ora di andare ad aiutare il vecchio vicino come al solito. Con quel freddo era meglio assicurarsi che stesse bene e che non avesse bisogno di aiuto. Scese dal letto e scolò una brocca d'acqua adagiata sul tavolo assieme a un pezzo di pane. Guardando fuori dalla finestra notò come il sole fosse già alto nel cielo. Ho dormito troppo, pensò. Prese dunque il pezzo di pane, lo bloccò tra le sue fauci e sgambettò verso il mantello appeso accanto alla porta. Improvvisamente gli si gelò il sangue nelle vene. Lo strappo che si era fatto nel sogno ora lo vedeva con gli occhi della realtà. Con la mano tremante si avvicinò al tessuto ferito e deglutì. Passò le dita in modo delicato, col timore di rivedere quelle iridi che lo avevano braccato. Quindi era vero? Doveva scoprirlo. Lo indossò con fermezza, prese un coltello e uscì da casa sua. Il vecchio avrebbe aspettato ancora, Sora in quel momento aveva altro a cui pensare. Si avviò verso la foresta come forse aveva fatto quella notte. Casa sua non era lontana dal limitare del bosco e infatti lo raggiunse alla svelta. Ingoiò l'ultimo morso del pane e controllò la neve cercando le proprie tracce. Quando trovò i propri passi pesanti e terrorizzati nella neve, non riuscì a bloccare i nuovi tremiti. Riuscì soltanto a calmarli e a renderli appena visibili. Prese un gran respiro e avanzò nuovamente all'interno della foresta. Per tutto il tempo seguì le proprie tracce e man mano che procedeva, il terrore provato appena qualche ora prima riaffiorava nella sua mente. Ormai stava stringendo il coltello con così tanta forza da fermarsi la circolazione delle dita. Sora camminava nella foresta con cautela e sguardo guardingo. A ogni rumore sospetto si fermava e analizzava la situazione. Ci volle un po' di tempo per arrivare al lembo di stoffa che si era strappato dal suo mantello. Lo prese fra le dita e lo strappò dalle grinfie del cespuglio spinato: gli apparteneva e non lo avrebbe lasciato in quel luogo maledetto. Accigliando lo sguardo, puntò verso l'albero al quale si era appoggiato, nel luogo in cui il demone si era approfittato di lui. Sora non se ne sarebbe andato senza fare nulla, avrebbe lasciato un chiaro messaggio. Materializzò nella sua mente quella figura diabolica, come se fosse dinnanzi a lui, ancora tra se stesso e l'albero. Con la rabbia e il disgusto verso quell'essere che ancora lo guardava beffardo nei suoi pensieri, caricò un colpo con tutta la forza che aveva e conficcò il coltello nel tronco... Laddove quella notte vi era stata la testa del demone.
Abbandonò quel luogo stavolta senza scappare e senza paura. Non voleva lasciare la vittoria a quell'essere. Nel frattempo però, Sora ignorò totalmente la presenza del corvo che dal ramo di un pino lo aveva osservato per tutto il tempo.
 

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Capitolo 3
*** Solo. ***


Solo.
 
 
Terminò di svolgere i lavoretti per l'anziano verso il tramonto. «Perché non ti fermi a cenare con me?», gli aveva chiesto gentilmente il vicino. Quella sera il profumo di stufato avvolgeva la casa dell'uomo, tuttavia Sora rifiutò. Nonostante la cena fosse invitante, il suo stomaco rifiutava il cibo.
«Ragazzo, va tutto bene? È tutto il giorno che sei pensieroso.»
Sora non avrebbe mai voluto far preoccupare il dolce vecchio e sfoderò il migliore dei suoi sorrisi. «Continuavo a pensare a un incubo che ho avuto, nulla di che.»
Gli occhi stanchi e appesantiti dall'età dell'uomo, si fecero due piccole fessure. «Che genere di incubo?»
«Non è importante.» Si sforzò ad apparire sereno.
«Sì che lo è se continui a pensarci.» Agitò l'indice nodoso. Sora evitò di rispondere ma il vecchio non demorse: «Ti conosco bene, giovanotto. Non provare a mentirmi perché so riconoscere il tuo sorriso quando è sincero.»
Sconfortato, Sora si abbandonò su una sedia di legno che aveva costruito lui stesso qualche anno prima. Non sapeva bene da dove iniziare ma optò per ciò che lo aveva impressionato di più: «Gli occhi ambrati di un demone. Mi venivano a far visita di notte e mi seguivano nella foresta.»
Il vecchio spalancò gli occhi e boccheggiò nell'aria qualche parola incomprensibile che allarmò Sora. Che cosa stava accadendo? Sapeva qualcosa? Improvvisamente si alzò e lanciò su Sora una fiala d'acqua che era appoggiata sul camino. Preso alla sprovvista, il giovane balzò in piedi e fissò sconvolto l'uomo.
«Cosa? Ma che fai?»
Il vecchio si appoggiò al bastone senza staccare gli occhi da Sora e gli si avvicinò continuando a ripetere delle parole incomprensibili dal suono di una preghiera.
«Ti prego, mi stai spaventando.» Balbettò il ragazzo.
Il rumore del bastone che sbatteva sul pavimento del legno faceva eco al cuore di Sora. La gentilezza che aveva sempre riconosciuto in quell'uomo era svanita. Ora occhi e labbra severe lo stavano giudicando in una lingua straniera. In preda ad un nuovo terrore, arraffò il mantello e corse via sbattendo la porta dietro di sé. All'esterno, una raffica di vento lo spinse verso casa sua e Sora non ebbe nulla da obiettare. Corse verso la baracca di legno che lo aveva sempre ospitato con amore e si fiondò dentro bloccando l'entrata con il tavolo.
La testa gli scoppiava, poteva sentire le tempie pulsare. Si passò una mano tra i capelli e cercò di calmarsi ma c'era qualcosa che non andava. Cosa stava accadendo alla sua semplice vita? O era lui stesso che stava impazzendo? Un brivido di freddo gli fece abbassare lo sguardo alla maglietta. Era bagnato e se non voleva prendere un malanno, avrebbe dovuto cambiarsi alla svelta e asciugarsi. Anche i capelli erano leggermente bagnati ma a quelli avrebbe pensato dopo, davanti al fuoco. Si spogliò e andò a cercare un cambio. Sora non possedeva abiti costosi, bensì solo quelli necessari a lavorare. Afferrò una maglia di lana troppo grande per lui, se la infilò e si sistemò dinnanzi alle braci del fuoco della notte passata. Non ci volle molto per preparare un nuovo fuoco, Sora era abituato a farlo. Si sedette a terra e allungò le mani per prendere calore, poi avvicinò un poco la testa e si arruffò i capelli per asciugarli. Non passò un solo secondo senza che lui pensasse a cosa fosse appena accaduto. Di domande ne aveva tante ma di risposte nemmeno una. La tristezza lo assalì quando guardò il tavolo contro la porta: ormai non si sentiva al sicuro nemmeno in casa propria. Si alzò per prendere un altro coltello, lo ripose in un fodero, prese la coperta pesante dal letto e si sdraiò accanto al fuoco. Il calore era l'unica cosa che lo faceva sentire meglio.



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Note dell'Autrice.
Streghe, demoni... I piccoli villaggi tendono ad essere i più superstiziosi. 

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Capitolo 4
*** Fuoco. ***


Fuoco.
 
 
Sora si svegliò nel cuore della notte. La testa pesante gli comunicava solo messaggi confusi e non riuscì a capire che cosa gli avesse fatto aprire gli occhi. Un particolare bagliore filtrava dalle finestre e obbligò il ragazzo a stropicciare le palpebre con il dorso della mano. Lentamente, la melodia che gli giungeva alle orecchie prese un senso e bastò a metterlo sull'attenti. Quelle parole incomprensibili erano le stesse che il vicino gli aveva sibilato contro. Strinse il coltello per farsi coraggio e guardò oltre la finestra cercando di rimanere nascosto nell'ombra. La visione lo scioccò: l'intero villaggio si era radunato attorno la sua casa e ognuno di loro aveva una torcia e una boccetta d'acqua che ritmicamente gettava gocce contro casa sua. Sora tentò di non andare nel panico, in quelle ultime ore il suo coraggio era stato messo a dura prova. Respirò a grandi boccate e cercò di analizzare la situazione. Per prima cosa notò che nessuno di loro aveva un'arma e ciò per un primo momento rassicurò Sora. Forse non volevano fargli del male. Restò immobile ad osservali nell'ombra, incapace di escogitare un piano di fuga. Nonostante tutto, Sora si sentiva ancora in pericolo. La preghiera continuava senza accennare una fine e l'acqua persisteva a bagnare il legno delle mura di casa sua. C'era qualcosa di malato in quel rito. Si scostò da lì e ritornò accanto al fuoco, sedendosi portando le gambe al petto. Era in trappola come i topi che aveva catturato nella casa del vecchio qualche mese prima. Solo che lui li aveva poi liberati senza dire nulla a nessuno. Chissà se qualcuno avrebbe provato la stessa pietà con lui. Calde lacrime iniziarono a scendergli lungo le guance e lui le lasciò fare. Non poteva sopportare tutto fingendo di stare bene, doveva sfogare il malessere che il suo animo stava affrontando. Pianse in silenzio e a lungo finché non li sentì smettere di pregare. Alzò lo sguardo verso la finestra e notò un bagliore più vivido avvolgere la sua dimora. Fuori non era rimasto nessuno ma attorno a casa sua, tutte le torce erano state abbandonate su cumuli di legno e paglia. L'adrenalina lo travolse. Spostò immediatamente il tavolo, come se fosse fatto di piume e girò la maniglia ma lì le sue pupille si fecero spiritate. Tirò e tirò più volte la porta, qualcuno doveva averla bloccata dall'esterno. Prese dunque una sedia, senza pensarci troppo e spaccò la finestra ma il fuoco lo raggiunse e sovrastò l'unica uscita. In poco tempo il fumo e la fiamme entrarono in quella piccola baracca che era il suo rifugio. Sora non voleva morire. Prese il secchio dell'acqua e lo gettò sotto la finestra ma l'incendio era ormai diventato un mostro incontrollabile. Sora tossì e tossì, sentiva la gola secca e respirava solo fumo. Si portò la maglia al viso per respirare meglio ma fu un sollievo illusorio. Ormai la dimora piagnucolava e da un momento all'altro avrebbe iniziato a spaccarsi. «Non voglio morire...», sussurrò a se stesso dandosi ormai per spacciato. I sensi lentamente lo stavano abbandonando, le fiamme rubavano il suo prezioso ossigeno. Sora si accasciò esausto, senza smettere di respirare attraverso la maglia di lana. «Non voglio morire...», mormorò di nuovo con gli occhi che si chiudevano da soli. Guardò il legno della sua casa bruciare e poi fu buio.


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Note dell'Autrice.
La paura riesce a scatenare la vera natura delle persone... 
Mi sono ispirata ai tempi dei roghi delle streghe, si vede? :) Niente paletti però (Sora non è una strega...), qui si tratta di purificare un'anima e la sua casa. (Come per fargli PURE un piacere!)
A prestissimo con il prossimo capitolo!

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Capitolo 5
*** Radura. ***


Radura.
 
 
Quando Sora si risvegliò, trovò le ceneri della propria casa sparse attorno a lui. Nell'aria l'odore di bruciato e polvere gli pungevano le narici. Si appoggiò sui gomiti e si guardò attorno visibilmente confuso. Avrebbe giurato di non poter sopravvivere e a tal pensiero arrivò una risposta. Nel punto in cui era svenuto, il pavimento si era salvato creando un cerchio perfetto. Qualsiasi cosa fosse successa, non era morto grazie a ciò. Si fece forza e si rimise in piedi ed un paesaggio totalmente nuovo lo accolse. Non era più al villaggio. Per qualche motivo lui e le macerie di casa sua si trovavano ora in una radura circondata da alti alberi che sfioravano il cielo e mettevano in ombra il prato bluastro. Il ragazzo provò la sensazione di essere capitato in un altro mondo. Nascose il coltello sotto la maglia di lana, scavalcò delle travi bruciate e camminò a testa alta ammirando i rami che si arricciavano da un albero all'altro.
«In che luogo sono finito?» Si domandò con curiosità ma sentì una voce interiore che gli raccomandava di non abbassare la guardia. Sora avanzò fino a un sentiero e lo imboccò senza frasi domande.
 
I colori verdi e blu scuro erano ovunque attorno a lui. Gli alberi si erano fatti sempre più fitti e la luce era rada. Ciò rese la foresta temibile ma allo stesso tempo affascinante. I suoni laggiù erano melodiosi e curiosi, nulla a che vedere con quella che aveva sempre visto dalla finestra. Ma ciò che lo colpirono maggiormente furono i fiori che crescevano lungo i tronchi degli alberi: luminosi e color dell'ambra. Da essi uscivano bolle di luce che salivano verso il cielo, oltre i rami. Sora ne colse uno e lo fissò al polso per portare con sé un poco di chiarore. Lo guardò con un sorriso e proseguì. Scivolò lungo del terreno scosceso e vide con difficoltà qualcosa verso la fine del sentiero. Affrettò il passo fino ad esso e si ritrovò dinnanzi a una nuova radura circondata dalla vegetazione. Gli occhi grandi e blu si spalancarono di meraviglia. Al centro del prato vi era una imponente struttura di roccia scura all'apparenza abbandonata. Il ragazzo corse verso di essa e la esplorò con gli occhi. I fiori che gli piacevano tanto erano anche sulle sue pareti e strani esseri a quattro zampe, scuri e col musetto allungato giocavano con essi. Sora si nascose dietro alla recinzione di pietra decadente che la circondava e li osservò. Avevano occhietti rossi allungati e si muovevano con velocità. Forse doveva averne paura ma pensò comunque che fossero degli esseri adorabili. Cercò di avvicinarsi in silenzio e senza catturare la loro attenzione ma bastò un rumore diverso da quello a cui erano abituati per farli tramutare in ombre oscure e maligne. Vide i loro occhi illuminarsi di rosso intenso, concentrati sul loro nuovo obiettivo: Sora. Cautamente, lui portò la mano dietro la schiena, sotto alla maglietta e strinse il manico del coltello. Qualsiasi cosa fosse accaduta da lì in poi, si sarebbe battuto per sopravvivere. Gli sguardi si fecero pesanti e piani di tensione. Stavano chiaramente difendendo la loro proprietà e stavano lasciando a Sora l'opportunità di tornare indietro. Ma non avrebbe potuto, quella era l'unica via che poteva seguire.
«Lasciatemi passare.» Cercò di sembrare autoritario sia nel tono sia nella postura. Cercò di adottare le misure che prendeva con i cani dei pastori quando non lo ascoltavano. Ma benché con loro avesse sempre funzionato, stavolta non accadde nulla. Espirò sentendo l'amaro in bocca e sfilò lentamente il coltello dal fodero mantenendolo sempre dietro la schiena. Guardò il portone massiccio e si domandò se effettivamente si potesse aprire ma in ogni caso avrebbe dovuto tentare. Quello sembrava l'unico modo per accedere alla struttura e ci avrebbe provato. Scattò velocemente verso l'entrata, sfruttando le statue parzialmente distrutte dal tempo come scudo. Gli esserini neri cercarono di attaccarlo ma Sora era veloce e riuscì a schivare i primi attacchi. La preoccupazione tuttavia arrivò lampante poiché più si avvicinava alla porta, maggiori erano gli occhi rossi che vedeva. Cosa avrebbe fatto ora? Non sarebbe nemmeno riuscito a sfiorare la dimora. Gli strani esseri gli furono addosso prima che potesse agitare il coltello e Sora sentì i loro piccoli artigli graffiarlo in viso, sulla schiena, sulle spalle, sulle gambe e su un braccio. Stava provando un gran dolore, come se lo stessero ustionando a ogni colpo ma capì e rammentò la visione di poco prima, quando non era ancora stato visto. Si fece forza per rigirarsi e allungò verso di loro il polso al quale aveva legato fiore: il braccio non era stato ferito. Il volto gli si illuminò e un sorriso determinato gli dipinse il volto. Gli esserini non lo stavano più attaccando. Attorno a lui si formò un cerchio. Solo una volta aveva assaporato una scena di quel genere ma in mano aveva avuto un bastone infuocato e attorno tre lupi. Ora la stessa esperienza si stava ripetendo ma con, sorprendentemente, un fiore. Sora riuscì a farsi largo tra di loro, camminando con cautela fino al portone. Gli occhietti rossi non smisero di seguirlo con lo sguardo, ma oltre la porta non lo seguirono più.


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Note dell'Autrice.
Un applauso a chi avrà capito cosa effettivamente ha incontrato Sora. 
Nel gioco sono blu (questo è l'unico dettaglio che ho preferito cambiare), hanno occhi rossi, sono piccoli, sono veloci...
Eeeeh, già. Quelle creaturine sono i Nesciens! 

 

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Capitolo 6
*** Oscurità. ***


Oscurità.
 
 
Il ragazzo si appoggiò contro il portone e si concesse una breve pausa per respirare. Ripose nuovamente il coltello sotto la maglia e si guardò il braccio leggermente sanguinante confrontandolo con quello intatto. I graffi erano minuti ma bruciavano come fuoco. Da come avevano arrossato la pelle, appariva come ustionata dal sole di mezzogiorno. Portò le mani al petto dandosi coraggio per continuare e si decise a guardare dove fosse finito. L'interno di quel palazzo era fiabesco e allo stesso tempo circondato da un'aura oscura. Cautamente, Sora si portò al centro di quello che doveva essere stato un atrio facoltoso in tempi passati. Le colonne, a quei tempi, dovevano aver illuminato l'ingresso con le loro candele riposte nei candelabri d'oro fino alla raffinata scalinata centrale. Ora per terra vi erano tappeti usurati e pieni di polvere, delle sedie imbottite e ricoperte di velluto (talune con i piedi spezzati) erano sparpagliate sul pavimento, drappi di tende stracciate nascondevano il pavimento di marmo freddo e i ragni avevano allegramente deciso di tessere le proprie ragnatele in ogni angolo dell'edificio per loro adeguato. Il giovane si portò una manica al naso, cercando di non tossire per l'eccessiva polvere e scavalcò i vari oggetti che trovava sul proprio cammino. Il fiore lo aiutò a non inciampare quando il buio nascose la presenza di un poggiapiedi e Sora ringraziò se stesso per l'idea che aveva avuto. Avrebbe voluto evitare di svegliare una possibile bestia feroce che avrebbe potuto ammazzarlo con un solo morso. Deglutì amaramente al solo pensiero e salì i primi gradini della lussuosa scalinata. Nonostante la polvere, Sora passò la mano sul corrimano per osservarlo nella sua bellezza. Da dove proveniva lui non vi era mai stato tanto fasto, per quel ragazzo era tutto una novità. La pietra era liscia, scura e con venature grigie e gli occhi di Sora si riempirono di meraviglia quando, all'apice delle scale, vide il corrimano trasformarsi in due splendide bestie dall'aspetto regale. Zampettò fino in cima, cercando di non far rumore e oltrepassando altri oggetti abbandonati al tempo. Purtroppo una delle due bestie aveva una zampa spaccata ma quella posta a sinistra era ancora integra. Dinnanzi ad essa, Sora dimenticò per un momento le ferite e la paura. La bestia aveva le fattezze di un felino, due corna di ariete e sulle zampe ampie e lunghe ali di uccello. Poteva sembrare una creatura pericolosa (e di certo lo sarebbe stata) ma Sora vide in questa solo fascino e splendore. Continuò comunque a camminare e imboccò un lungo corridoio. Lì si domandò dove potesse andare. Aprì la prima porta, girando lentamente la maniglia, per controllare l'interno ma vi trovò solo mobili coperti da un telo bianco. Una dopo l'altra, le stanze si presentarono nello stesso modo. Sora iniziò a credere che non avrebbe trovato nulla di utile all'interno di quelle mura. Una volta in fondo, le dita sfiorarono titubanti la porta socchiusa. Questa era differente e il ragazzo poteva sentire chiaramente un'energia anormale provenire da essa. Si fece forza e la spinse.
 
Sora si trovò in un luogo senza mura, oscuro e senza limiti. Provò un tuffo al cuore ma sentì che doveva farsi coraggio. Ripensò agli avvenimenti che lo avevano scosso in quelle ultime ore e si rincuorò mentalmente: «Sei stato bravo, Sora. Ce la farai anche stavolta.» Passeggiò con attenzione in quel limbo nero che sembrava il nulla facendo affidamento sull'unica luce in suo possesso. Le sfere di luce del fiore volteggiavano verso l'alto senza mai fermarsi, senza mai incontrare ostacoli. In un momento di dubbio si voltò con affanno ma la porta era sparita abbandonandolo nell'oscurità.

 

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Capitolo 7
*** Vanitas ***


Vanitas.
 
 
Dopo un lungo cammino, Sora cadde in ginocchio stringendo al petto il prezioso fiore. Si sentiva debole, le ferite gli continuavano a dolere e la fame era arrivata vorace. Non sapeva più che fare ed era in preda allo sconforto. Non voleva arrendersi eppure non riusciva a rialzarsi, una parte di lui lo bloccava lì. Si sentì trascinato in un incubo senza fine, senza via di fuga. Non se lo meritava, il dolce Sora, era sempre stato gentile con tutti, li aveva aiutati e li aveva amati. Invece, da quando quegli occhi gialli gli avevano fatto visita la sua vita era rapidamente caduta a pezzi. Aveva perso casa, aveva rischiato di morire, aveva perso tutto e tutti… e ora si trovava in un luogo sconosciuto in cui non esisteva più nulla. Non poteva accadergli di peggio, non più.
Un bagliore lontano lo riscosse poco dopo ma Sora non volle più far affidamento alla speranza, sarebbe stato solo peggio. Strinse i denti e lentamente si rimise in piedi. Avanzò con riserbo e cercò di catturare qualche immagine. Nuovi fiori luminosi avvolgevano quattro colonne e creavano un tappeto floreale. Non vi era altro, solo luce, ma Sora volle andarci comunque. Si strofinò il naso nascondendo la malinconia e fece capolino da dietro una colonna. Non vi era davvero nulla e il ragazzo riuscì a non rimanerci male.
«Ho fatto bene a non sperarci», sussurrò.
All'improvviso qualcosa lo scosse nel fondo dell'animo. Aveva già provato quella sensazione, nel bosco. Non fece in tempo a voltarsi che una presenza lo avvolse da dietro. Il ragazzo si sentì gelare mentre il respiro caldo di qualcuno si appoggiava sul suo collo. Lo udì deliziare il profumo della sua pelle e assaggiarlo con la lingua.
«Ci hai messo un po' per trovarmi.» La voce era sensuale e arrogante allo stesso tempo. Sora lo riconobbe: era il demone che gli aveva rovinato la vita. Cercò di colpirlo nello stomaco con il gomito ma trovò solo aria. Era sparito. Portò la mano dietro la schiena, cercando il coltello ma sbiancò quando non lo trovò. Si tastò il corpo andando nel panico, era sicuro di averlo riposto nel fodero quando era entrato nel palazzo.
«Cercavi questo?»
Il giovane si voltò e vide il demone dagli occhi ambrati appoggiato contro una colonna. Teneva il coltello dalla parte della lama e lo istigava con il suo sguardo divertito.
«Tu mi offendi. Credevi davvero di potermi uccidere con un coltellino da pasto?» Rise.
Sora strinse i pugni. Non era un coltello da assassino ma se per questo nemmeno da pasto. Si era sempre accontentato di ciò che poteva permettersi e quell'arma lo aveva aiutato spesso nella foresta.
«Chi sei?» Domandò il giovane con occhi taglienti. Voleva e doveva sapere chi fosse la causa della sua rovina.
«Siamo già alle presentazioni? Bene!», esclamò con entusiasmo il demone. Si avvicinò a Sora, si chinò per esser alla sua altezza e lo fissò intensamente. «Ah, mi piace quello sguardo...» Sussurrò seducente e mordendosi il labbro. «Il mio nome è Vanitas.»
«Un nome ripugnante.» Rispose freddamente l'altro.
Vanitas alzò un sopracciglio, stupito ma deliziato dalla sfrontatezza dell'umano. «Lo pensi davvero? A me piace molto, Sora. Ti sconsiglio però di parlare così con chi ti ha salvato da un incendio.»
Gli occhi del demone diventarono sottili come rasoi, solo un flebile bagliore ambrato nell'oscurità. Sapeva di averlo in pugno, quel ragazzino. Assaporò la vista del suo viso perdere l'audacia di poco prima e mutare in un'espressione di sconcerto. Poteva toccarne i pensieri: come fa a sapere dell’incendio?, perché l’ha fatto?, cosa vuole da me?. I denti bianchi si allargarono in un sorriso sadico e prima di perdere quell'attimo s'impossessò delle labbra del suo nuovo giocattolo umano. Lo brancò, gli invase la bocca e cercò la sua lingua nutrendosi della sua paura e della sua confusione.

 

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Capitolo 8
*** Confuso. ***


Confuso.
 
 
Sora si risvegliò da un lungo sonno. Gli sembrava di aver dormito per giorni. Si stropicciò gli occhi e si mise seduto sul letto. Il contatto con le lenzuola morbide lo scosse. Passò le mani sulle coperte e si guardò intorno. Il letto era grande e con della biancheria degna di un re. Il tatto era estremamente piacevole e Sora resistette dal nuotare in esse. Scese invece da esso incontrando, con i piedi scalzi, un tappeto bordeaux con disegni geometrici neri. Era immenso e riempiva la maggior parte del pavimento. La stanza era in ordine e pulita, il che gli fece domandare se non fosse stato portato in un nuovo palazzo. Passò lo sguardo sui mobili di legno incisi di dettagli minuziosi e successivamente sul cestino di frutta che era adagiato sul comodino. Ebbe la tentazione di appropriarsi di un frutto, lo stomaco lo stava graffiando dall’interno ma ritrasse la mano che si stava già allungando senza comando. Ormai non si poteva fidare nemmeno del cibo. Decise invece di uscire dalla stanza, quindi aprì la pesante e robusta porta ad arco. Un breve corridoio si spalancò in una immensa stanza sfarzosa con cibo di ogni genere, bevande, tende che dal soffitto cadevano accarezzando il pavimento, quadri ampi e magnifici, poltrone dorate con velluto nero, lampadari che illuminavano con luce soffusa nonostante le numerose candele. Avanzando, Sora provò un brivido lungo la schiena nonostante la bellezza della sala da pranzo. Si strinse in un abbraccio come a ripararsi dal freddo e cercò di proseguire ma si trovò in trappola. L’unica porta esistente era quella della camera e viceversa. Di nuovo la paura, ormai nemica, si insinuò nelle sue ossa. Il ragazzo iniziò a prendere le tende e a staccarle. Una ad una, cercando una possibile porta nascosta. Il tessuto rosso cadde spargendosi sul marmo scuro e sovrastando la tavolata. Il respiro si era fatto pesante e all’ultima tenda strappata, il ragazzo cedette e piantò un pugno a terra.
«Perché sta succedendo tutto questo?» Il suo più grande dubbio sfociò dalle sue labbra. La risposta poteva non piacergli ma aveva il diritto di saperlo. «PERCHÉ MI FAI QUESTO?», gridò in un impeto di rabbia.
Il rumore degli stivali con il tacchetto lo fece voltare verso il fondo della stanza. Vanitas, raccolto da una veste nera che sfiorava il suolo, arrivò seguito da uno di quegli esseri che lo aveva ferito nel cortile. Questo saltellò sull’abito e raggiunse la spalla del demone. Alla vista di quella creatura, Sora si controllò le braccia ricordandosi dell’accaduto: non vi era nessuna ferita ma, ciò che più gli interessava, gli era stato rubato. L’unica luce calda che avrebbe potuto confortarlo era sparita. Il giovane tornò a fissare Vanitas subito dopo e si rialzò, non voleva fargli credere di star male.
«Se non sei soddisfatto dell’arredamento, basta chiedere. Non serve che tu metta a soqquadro la mia umile dimora.» Sorrise beffardo.
«Sai a cosa mi riferisco! Stavo bene, avevo la mia vita, i miei amici, una casa… ma poi sei arrivato tu e mi hai privato di tutto!»
«Io?» Domandò con un tono plateale di finta innocenza. «Se non sbaglio sono stati i tuoi stessi amici a dare fuoco alla tua casa, con te dentro.»
«Non mi avrebbero fatto nulla se non ti avessi incontrato!»
Il demone sfoggiò un mezzo sorriso e gli lanciò uno sguardo sottile. «Davvero li perdoni? Quelle persone ti avrebbero bruciato vivo e le reputi ancora brave persone?» A quel punto il ragazzo si zittì, rendendosi conto che quelle parole avevano effettivamente un senso. Vanitas si avvicinò a lui, con il passo inudibile di un’ombra e gli alzò il mento per guardarlo negli occhi. «Pensaci bene, Sora. Forse chi ti apprezza veramente non è un vecchio gentile ma un demone che ti strappa da una vita di falsità e marciume.»
Le due pozze blu si ingrandirono e la bocca si schiuse turbata. Vanitas si limitò a regalargli la visione della sua dentatura perfetta e svanì.

 

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Capitolo 9
*** Luce. ***


Luce.
 
 
Col passare dei giorni, Sora si era abituato a quelle mura. Non aveva più visto il demone da quando aveva avuto il suo primo risveglio su quel magnifico letto. Si rigirò tra le sue lenzuola e sbuffò. Sopportava a fatica la noia e laggiù non aveva modo di sfogarsi. Le prime giornate le aveva passate domandandosi se fosse diventato un pazzo. Non era normale tutto quello che aveva vissuto, mancava di logica. Un demone lo aveva avvicinato e da quell’istante la sua vita era cambiata completamente. Aveva rivissuto nei ricordi quella terribile notte in cui era quasi morto. Ricordava i volti di ognuno: il vicino, la fornaia, la sarta, il calzolaio, il macellaio, i figli dei contadini e tanti altri. Quelle persone che aveva amato con tutto se stesso… Non avrebbe mai immaginato di vedere le loro espressioni così vuote mentre pregavano per… forse, assolverlo? Sora sbuffò una seconda volta. Erano loro i pazzi, non lui. Abbassò la coperta e lasciò respirare la pelle nuda, sentendo nel petto il calore della rabbia. Alla fine di chi era stata la colpa? Del demone, dei paesani, di chi? Aveva riflettuto spesso sulle parole del demone. Si era dichiarato come suo salvatore? Allora perché lo aveva rinchiuso in un luogo del genere? Perché non lo lasciava libero di essere se stesso? Per quale motivo lo aveva toccato in quei modi lussuriosi?
Il ragazzo nascose il viso nel cuscino ripensando a quegli attimi fugaci. Il tocco delle sue mani lo poteva ancora sentire, così come la sua lingua nella sua bocca. Non poteva vedersi ma era consapevole di aver ora le guance paonazze. Odiava i suoi occhi, ne aveva il terrore, eppure bramava inconsciamente la loro presenza.
«Stupido demone, un po’ di compagnia non mi dispiacerebbe.» Sussurrò con la voce ovattata dal cuscino.
«Era ora che tu mi cercassi. Iniziavo a credere di non aver fatto colpo su di te.»
Il giovane umano alzò il viso. Il colore sulle gote continuava ad essere presente. Vanitas era sdraiato accanto a lui, con la nuca appoggiata su una mano e lo fissava con quei magnetici occhi diabolici. Sora finse di non esserne toccato ma sapeva di trovare assai attraente quell’essere ultraterreno. Ma era sbagliato, giusto?
«Vorrei sapere da te il motivo per cui sono qui.» Disse pacatamente. Provava ormai un senso di sicurezza in quel luogo nonostante fosse la sua prigione.
«Che cosa fanno i demoni, Sora?»
Il ragazzo ci pensò ma boccheggiò non trovando una vera risposta. «Immagino che facciano del male a noi umani.»
Vanitas rise e piegò leggermente la testa. «Più o meno. Ogni demone ha il suo scopo. C’è chi mangia i bambini, c’è chi ti prende le budella per farci una collana…» Spiegò con un sadico senso del divertimento. «Ma tranquillo, io sono un demone di classe.» Si avvicinò al viso di Sora e lui non si ritrasse. Vanitas poteva sentire il soffio soffice delle labbra del suo umano, poteva sussurrargli le parole invadendogli il respiro caldo. «Io mi nutro della luce.»
«Della luce?» Domandò il ragazzo in un debole bisbiglio.
Il demone gli accarezzò la pelle nuda e lo strinse a sé. «Mi avvicino alla preda», sussurrò, «la seduco», continuò accarezzandogli il collo, «e gli rubo la luce rendendolo un guscio vuoto.»
«Cosa?» Sora spalancò gli occhi e cercò di allontanarlo ma Vanitas riusciva a trattenerlo senza sforzo.
«Non puoi fare nulla, ormai ti ho già sedotto. Non è colpa tua, mio dolce Sora. Nessuno può resistere al fascino di un demone. Nemmeno l’anima più pura e questo, detto onestamente, è la mia specialità.» Sorrise malizioso.
«Per questo mi volevano bruciare vivo? Per non nutrire un demone come te?» Sora non smise di divincolarsi ma stavolta i suoi occhi erano due biglie furenti. «Quante vite hai rovinato, Vanitas?»
«Ogni fiore che hai incontrato, ogni bellissimo e luminoso fiore, era una luce che ho divorato.»

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Capitolo 10
*** Domande. ***


Domande.
 
 
«Ogni fiore che hai incontrato, ogni bellissimo e luminoso fiore, era una luce che ho divorato.»
Sora non riusciva a pensare ad altro. Che cosa gli sarebbe accaduto ora? Seduto, solitario, alla grande tavolata, ingoiò di malavoglia una mela. Aveva senso mangiare quando si era prossimi alla fine? Gli appariva tutto come una presa in giro alla propria vita. Buttò il frutto sul pavimento e lo fissò apatico. Nella sua mente i pensieri si mischiarono. Gli occhi ambrati, i fiori, la luce di una persona che si levava verso i cieli… Vanitas. Per quale motivo quell’essere si nutriva di luce? E più ci pensava, più voleva comprenderlo.
«Vanitas, perché ti nutri di luce?» Domandò all’aria. Sapeva che il demone era sempre in ascolto. Attese di vederlo ma non arrivò. «Sto cercando di comprenderti. Magari prenderei la mia morte con maggior serenità.» Giocò con la forchetta e si accasciò sulla sedia. Ma il demone non arrivò e il giovane comprese: la sua morte non sarebbe dovuta essere serena.
 
A cena, Sora si sforzò di mangiare di più. Aveva pensato di reagire in un modo positivo per avvicinare il demone nuovamente a sé. Non aveva un piano preciso, avrebbe improvvisato, ma era deciso a scoprire di più sul suo conto. Mangiò un’intera coscia di pollo con contorno di patate e tracannò una bevanda indefinita ma gustosa.
«Van?», si sentì di dargli confidenza. «Mi faresti un po’ di compagnia? Mi sento solo.»
Non funzionò ma Sora non demorse. Vanitas era un demone? Anche lui poteva esserlo. Iniziò a spogliarsi, lentamente. «Vorrà dire che il bagno me lo farò da solo.» Abbandonò i propri abiti creando una scia sul pavimento. La vasca di ottone era nella camera da letto, dietro a un separé di legno intagliato. Sora si immerse nell’acqua calda e assaporò il suo momento. Era orgoglioso di sé, sapeva di esser riuscito a risultare sexy, ma quando i secondi di attesa si fecero pesanti, iniziò a dubitare delle sue capacità. Fu allora che il demone fece la sua comparsa.
«Mettiamo subito in chiaro una cosa… Quello che seduce, qui dentro, sono io.»
Sora udì quelle parole e di sfuggita vide le sue ambre farsi vicine. Il bacio sensuale lo invase e lo trascinò in un vortice di lussuria. La mano di Vanitas sui suoi occhi lo aveva reso cieco ma col tatto lo sentì: era nudo, nella vasca, assieme a lui. Avvampò a quella scoperta e una curiosità che non conosceva di sé prese vita. Avrebbe voluto esaminare il corpo del corvino, scoprirne i segreti. Passò le mani sul suo torace: era liscio, tonico, eccitante. Poi le passò dietro la schiena, scendendo verso i fianchi. Aveva un corpo da invidia…
«Come sei curioso, Sora…» La voce del demone era deliziata. «Nessuno aveva provato a toccarmi così da oltre seicento anni.»
«S-seicento?» Balbettò il giovane.
«Rilassati, Sora.» Gli sussurrò all’orecchio con libidine. «Non pensarci, noi demoni siamo diversi da voi umani in questo campo. Ma soprattutto…» Gli accarezzò l’interno coscia. «…sappi che siamo abilissimi nel farvi godere.»
Sora sentì di dover trattenere un gemito quando le mani di Vanitas avvolsero il suo sesso. Quella notte, il ragazzo non avrebbe scoperto nulla della vita del demone ma di certo avrebbe scoperto le sue incredibili abilità.

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Capitolo 11
*** Dono. ***


Dono.
 
 
Dopo quella volta nella vasca da bagno, Vanitas aveva iniziato a far visite all’umano sempre più spesso. A volte lo stuzzicava, altre volte lo possedeva. E incredibilmente, Sora trovò piacevoli quei momenti ma ciò non fece altro che preoccuparlo ulteriormente. Quando il silenzio calava e rimaneva solo, non pensava più alla sua imminente morte, bensì alla fine di quelle emozioni. Senza rendersene conto, un flebile sentimento stava nascendo nel suo cuore.
Una sera, dopo aver soddisfatto il loro piacere, Sora rimase a fissare il demone a lungo, in silenzio. Il sudore luccicava sulla sua pelle candida e il giovane arrossì ripensando alla passione che aveva adoperato. Ma della tristezza lo avvolse quando immaginò con quante altre persone, prima di lui, aveva fatto lo stesso. È solo un demone, pensava continuamente. Eppure, dentro di lui lo sentiva lacerante. Come una mano pesante che gli afferrava il cuore con forza e glielo strattonava. Non gli importava più della vecchia vita, avrebbe desiderato invece continuare a vivere con quell’essere che – nonostante fosse malvagio – lo stava apprezzando per quel che era.
«La tua luce oggi risplende più di mille lune.» Gli aveva sussurrato una notte e lui continuava a rivivere quelle parole nella sua mente. E mentre le stava rivivendo ora che avevano terminato il loro momento di passione, Vanitas lo sovrastò, lo baciò, gli morse il labbro e disse: «Non so se riuscirò mai a saziarmi con te perché ogni volta mi nutri con luci differenti e straordinarie.»
Se ne andò così, nella sua nebbia oscura e Sora rimase fermo in quella posizione per svariati secondi prima di tornare a respirare. Quando si calmò, decise di dare ascolto allo stomaco e mangiare qualcosa. Scese dal letto e si diresse verso la sala da pranzo. Ma non si aspettava di ritrovarsi dinnanzi a qualcosa di differente… In fondo alla stanza, il muro era diventato un’immensa finestra con una porta di vetri colorati. L’immagine era un mosaico e ritraeva il più bel fiore di luce che Sora avesse mai visto. I suoi petali erano numerosi come quelli di una rosa, sbocciato nel color del quarzo bianco e dai riflessi ramati. Conquistato dalla curiosità, non volle aspettare. Spinse la porta e i suoi occhi presero a brillare. Era notte inoltrata ma uno splendido chiarore illuminava un immenso giardino ricco di vegetazione e colori, mentre da una fontana l’acqua zampillava in una melodia che taceva il silenzio. Dopo quel tempo passato come un prigioniero, per il ragazzo fu una piacevole sorpresa respirare nuovamente l’aria dell’esterno. Era felice, si sentiva vivo e pieno di gratitudine.
Vanitas lo osservò dal suo antro oscuro, senza mai farsi vedere. Accolse dentro di sé lo splendore che l’anima di quell’umano stava scaturendo. Pulita, lucente, diversa, sincera… Sora era il più bel fiore che avesse mai colto e meritava un giardino degno della sua bellezza. Un meraviglioso e raro fiore bianco che non avrebbe mai permesso di lasciar appassire.

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Capitolo 12
*** Confessioni. ***


Confessioni.


Un giorno, Sora si sdraiò sul suo prato verde scuro e inspirò profondamente. In quel luogo non esisteva la luce del sole ma le sfere di luce viaggiavano nell’aria fino al suo giardino. Il giovane ne catturò una delicatamente e la osservò oltrepassargli la mano. Un brivido gli percorse la schiena quando si domandò a chi fosse appartenuto quel lume. Stava amando un demone… Non era normale. Quelle persone erano state ammaliate e poi tradite. Se fosse successo anche a lui? Ormai era passato svariato tempo e non avrebbe mai creduto di poter sopravvivere tanto a lungo. Quando, più tardi, Vanitas gli fece visita in giardino, Sora decise di prendere coraggio e di chiederglielo. Attese che passeggiasse intorno a lui, che lo baciasse e che scambiasse qualche battuta in merito al suo rossore.
«Vanitas…» Lo guardò con immensi occhi blu. «Perché sono ancora vivo?»
Il demone alzò il sopracciglio. «Mi sei ancora utile, perché dovrei uccidere qualcuno di così produttivo?»
«Anche gli altri, prima di me, sono morti dopo una lunga attesa?»
«No.» Rispose semplicemente l’altro.
«Quindi potrei svuotarmi da un momento all’altro…» Si incupì. «Van, io non voglio morire.»
Il demone scoppiò in una fragorosa risata. «Ancora pensi alla tua salvezza?»
«No.» Sussurrò e Vanitas si zittì colpito da quella risposta inaspettata. «Vanitas, io…» Si morse il labbro e si fece forza. «Non voglio lasciarti.»
Il demone restò impietrito da quelle parole. Lui era paura, lui era cattiveria, lui era il predatore. Aveva da sempre ammaliato le sue vittime per nutrirsi con facilità ma non era mai accaduto che una di queste si affezionasse a lui.
«Tu mi hai privato di tutto ma mi hai donato molto di più. Al villaggio nessuno ha voluto lottare per me, tu invece mi hai salvato. Lo so, io sono solo una fonte di luce per te ma…» Sul viso di Sora si aprì il più radioso dei sorrisi. «Tu mi stai accettando per quel che sono e cerchi la mia compagnia anche oltre le tue voglie perverse.»
A quel punto, anche gli occhi ambrati più sfacciati e severi si spalancarono al suono di quelle parole.
«Non voglio lasciarti solo, Van.»
Il demone si gettò su di lui e lo fissò negli occhi, cercando anche una minima traccia di scherno, ma gli occhi blu cielo di quel mortale erano pieni di sincerità.
«Non può essere…» Rispose incredulo.
«Forse un demone non potrà mai amare un mortale, ma non mi aspetto che tu possa ricamb-.» Vanitas lo interruppe posandogli un dito sulle labbra. «Non continuare.»
Sora rimase ad osservarlo a lungo ma persino Vanitas era diventato incerto. Lo stesso demone aveva notato un cambiamento in se stesso. Bramava la sua luce ma allo stesso tempo aveva imparato a bramare anche la sua persona. Per un essere demoniaco come Vanitas, quella poteva essere la sua più grande paura: innamorarsi della propria preda.

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Capitolo 13
*** Ti salverò io. ***


Ti salverò io.


Per un lungo periodo, Vanitas si limitò ad osservare Sora dall’oscurità. In quelle settimane era riuscito a nutrirsi abbastanza da resistere per alcuni mesi. Restava a fissare il viso dell’umano, senza aver la forza di nutrirsi ulteriormente. Era una gran vergogna, per una creatura delle tenebre come lui, cadere nel misero errore di amare. Di tanto in tanto, la voce del giovane lo chiamava a sé ma Vanitas aveva continuato ad ignorarlo. Per la prima volta della sua lunga vita, il demone riconobbe la sensazione del provare dei sentimenti come gli umani. Sentiva sulla lingua l’amaro della tristezza e nel petto la pesantezza dell’amore. Come potevano gli umani sostenere quel sentimento disgustoso? Si sentiva solo più debole e si faceva ribrezzo da solo. Posò ancora una volta i suoi occhi ambrati sulla figura del ragazzo e sospirò. Che intenzioni aveva? Voleva tenere Sora in quel luogo fino alla fine dei suoi giorni? Non avrebbe potuto e lo sapeva… Avrebbe solo aspettato ancora un po’, quando la fame di luce sarebbe tornata ingorda.

Sora aveva continuato a chiamare il suo nome, senza arrendersi. Le lacrime silenziose uscivano di tanto in tanto dai suoi occhi ma riusciva a ricacciarle ogni volta. Forse aveva sbagliato a parlargli ma sentiva di aver fatto comunque la cosa giusta. Vanitas doveva sapere quello che pensava e provava realmente. I giorni stavano passando ormai veloci, lasciando che le foglie del giardino iniziassero ad appassire e ai giorni diventare ancor più cupi di prima. E Sora ancora, ogni giorno, non aveva rinunciato a chiamarlo. Sora si sentiva solo ma nel cuore coltivava la forza della speranza. Avrebbe rivisto Vanitas a costo di morire, un’ultima volta.

 
~

Accadde quando il giardino era ormai diventato un tappeto di foglie secche, con piante esili e morenti e una fontana che non aveva più la forza di zampillare vivace. Sora aveva udito i passi, dietro di lui, lenti e incerti calpestare il fogliame. Il giovane si era girato, col cuore in gola e un sorriso malinconico.
«Sei qui.» Sussurrò con una lacrima e con il vento che gli voleva scompigliare i capelli.
Vanitas era rimasto in silenzio, estremamente inespressivo e con gli occhi vuoti. Sora non aveva potuto non notare il suo malessere e in quel momento comprese il gesto che gli aveva donato per tutto quel tempo: la vita.
«Guardati…», aveva allungato la mano per accarezzargli il volto. «Hai lasciato morire tutto, compreso te stesso, solo per farmi vivere più a lungo.» Aveva iniziato piangere col sorriso, senza vergogna perché Vanitas in quel momento era lontano e non poteva udirlo. Ma ciò aveva solo peggiorato l’angoscia del ragazzo. Avrebbe voluto parlargli ancora, sentire la sua voce, vedere il suo sorriso e la sua malizia astuta. «Quindi, se non ti nutri, succede questo? Tu, il tuo mondo… L’oscurità non può vivere senza la luce, Van?» Aveva stretto i denti con forza. Il suo cuore stava urlando di dolore e si voleva sfogare attraverso le lacrime dense. «Non te lo lascerò fare, Van!»
Allungandosi sulle punte, Sora era riuscito a catturare le labbra morbide del demone. Ti salverò io stavolta. Graffiò il tessuto delle sue vesti e mischiò la sua lingua a quella del demone. Prendi la mia luce, Vanitas… Gli occhi del demone si spalancarono e un vento luminoso li avvolse con potenza. Vanitas assaporò il bacio come una bestia affamata e bisognosa. Sora sentì la sua forza prendergli le spalle e attirarlo nelle sue grinfie, ma lui glielo lasciò fare, felice di essergli utile. Bevi ogni goccia, Van… Il bacio appassionato lo stava prosciugando e lo sentiva. La lingua di Vanitas era come un veleno e Sora iniziava a sentirne gli effetti. Lentamente, la testa aveva iniziato a girargli ma gli arti già non li sentiva più. La furia del vento, la luce di Sora, il bacio infernale; si mischiarono creando il lume più splendente e caldo che quel luogo avesse mai conosciuto. Saettò nel cielo, superando l’oscurità del cielo ed esplose. Migliaia e migliaia di sfere iniziarono a scendere come fiocchi di neve, riportando a poco a poco la vita alla morte. Le piante recuperarono il loro colore, l’erba riprese il suo vigore, il palazzo tornò al suo antico splendore… Le piccole creature di quel mondo iniziarono a rincorrerle e tutta la foresta iniziò a cantare.

Sora chiuse gli occhi sorridendo per l’ultima volta. «Ce l’ho fatta».
«Cosa?» Vanitas si risvegliò come da un sogno e prese in tempo il corpo dell’umano che stava cadendo. «Sora!» Il corpo vuoto non avrebbe più risposto. «SORA!»
Il demone cadde sulle ginocchia e strinse quell’involucro senza vita con una disperazione che non aveva mai conosciuto. L’amore che aveva provato e che avrebbe continuato ancora a provare per quell’anima, ora lo torturava come un mostro disperato.
«COME HAI OSATO, SORA!» Lanciò il suo grido provando un nuovo calore agli occhi. Qualcosa di caldo e salato stava scendendo dai suoi occhi e lui non poteva farci nulla. Cercò di cacciarlo via con violenza ma questo nuovo liquido desisteva e non lo ascoltava. Lo ignorò ma lo odiò: gli offuscava la vista e non gli permetteva di vedere bene il viso del suo amato. Schiacciò il viso nel petto del ragazzo e lo cullò.
«Sora… Sora…» Invocava il suo nome con voce strozzata. «Sora…»
Le sfere di luce li raggiunsero e Vanitas dovette riaprire le sue ambre. «Non ancora, no... È troppo presto!»
Vanitas sapeva che cosa stava accadendo, lo aveva visto migliaia di volte. Strinse con forza il cadavere, pronto a proteggerlo. Ma nemmeno il demone più potente avrebbe potuto fare qualcosa per evitarlo. Vanitas dovette restare a guardare mentre il corpo gli sfuggiva dalle dita e veniva raccolto in una sfera meravigliosa. Con le mani sul terreno e il viso rivolto al cielo, il demone vide sparire l’ultimo sorriso di Sora e diventare il fiore dai petali bianchi come il quarzo. Lo guardò posarsi al centro del giardino, dove Sora aveva passato le giornate disteso sull’erba. Vanitas si avvicinò ad esso e posò un delicato bacio su un petalo.
«Resterai sempre con me, Sora?»



L’umano venne braccato dal demone.
Il demone venne conquistato dall’umano.
E alla fine, il vero incubo, lo pagarono entrambi.

Fine.




____
Note dell'Autrice.
Son riuscita a terminarla entro Halloween e ne son felice! Ci tenevo a rispettare la mia data di scadenza (dopotutto è uno speciale dedicato proprio a questo giorno, non potevo permettermi di terminarlo più tardi).
So che qualcuno potrebbe lamentarsi di questo finale ma l'ho trovato vero.  Vanitas è pur sempre un demone e Sora resta sempre e comunque un comunissimo umano
(anche se dotato di una luce diversa dalle altre) che serviva a placare il suo appetito. L'amore tra i due era vero ma personalmente sono più dell'idea che un demone non possa abbandonare la sua natura. E, proprio per questo, Vanitas sarà colui che porterà questo peso nel suo cuore con maggiore fatica. "E per forza, Sora è diventato un fiorellino... Mica può soffrire. Ha preso la strada più facile!" ...no. Anche se Sora alla fine muore, una parte di lui resterà in quelle luci. Il fiore è  come un frammento della sua anima che resterà sempre al fianco di Vanitas. Sora ha compiuto un sacrificio: salvare colui che ama, andando incontro al suo inevitabile destino. E' stato coraggioso e si è reso conto che quello era l'unico modo per stare insieme. Vanitas doveva nutrirsi di lui.

Spero di aver spiegato bene la mia visione dei fatti e spero di aver scritto qualcosa che abbia potuto emozionarvi.
Grazie di cuore per aver letto fino alla fine.

Ciao e buon Halloween! 

 

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