Save our Souls (Specters)

di Deliquium
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Colui che esprime il giudizio (Radamánthys della Viverna) ***
Capitolo 2: *** Colui che è fedele (Valentine dell'Arpia) ***
Capitolo 3: *** Colui che ha le visioni (Flegiàs del Licaone) ***
Capitolo 4: *** Colui che porta un gran peso (Aiacos di Garuda) ***
Capitolo 5: *** Colui che porta la morte (Myu di Papillon) ***
Capitolo 6: *** Colui che serve... tutti! (Marchino) ***
Capitolo 7: *** Colui che stabilisce la pena (Rune del Balrog) ***
Capitolo 8: *** Colui che cambia (Queen della Mandragora) ***
Capitolo 9: *** Colui che sarà (Minos del Grifone) ***
Capitolo 10: *** Colui che esprime il dubbio (Shilfield del Basilisco) ***



Capitolo 1
*** Colui che esprime il giudizio (Radamánthys della Viverna) ***


Save Our Souls


[ Premessa ]

Black angels laughing
In the city streets
Street toys scream in pain
And clench their teeth
The moonlight spotlights
All the city crime
Got no religion
Laugh while they fight

Mötley Crüe, Save our souls

Save our souls” è una raccolta di One-Shot riguardanti alcuni Specter.
Ho deciso di scrivere questi brevi racconti, i cui titoli sono ispirati a quelli dei capitoli di Episode G (notare come ho quasi abilmente inserito un inciso – due a questo punto – per introdurre un'informazione che non c'entra nulla con quanto stavo dicendo – ovvero, un pessimo esempio di scrittura creativa), per dare un background più corposo all'Universo Alternativo di “Sincretismo”, fornendo così delle basi più o meno solide (io spero solide) a tutti i cambiamenti che introdurrò rispetto all'Universo Originale di Saint Seiya.


Engel

P.S. - Il primo inciso è chiaramente un inciso a catena, ovvero un sacrilegio; il secondo una precisazione sulla difensiva.

P.S.2 – Il titolo della raccolta è il titolo del brano dei brano dei Mötley Crüe, di cui ho riportato una parte del testo, sopra. ^^



[ Colui che esprime il giudizio ]


Quel che a me è avvenuto ora non è stato così per caso, poiché vedo che il morire e l'essere liberato dalle angustie del mondo era per me il meglio.

Platone, “Apologia di Socrate”

Erano oscuri i giorni ad Atene.
Le voci nefaste narravano di guerrieri giunti da Oriente, bardati da armature quali mai si erano viste prima d'allora. Non indossavano mantelli cremisi né portavano scudi Lacedemoni e, se avevano i capelli lunghi, non era per la loro appartenenza a Sparta. Non vestivano nemmeno l'armatura di metallo dei pezeteri e nessuno dei loro elmi somigliava a quelli di Corinto.
Così dicevano le voci, così venivano riportate per le strade di Atene.
Lì nessuno li aveva mai visti.
Messaggeri giungevano da ogni dove, si gettavano ai piedi dei cittadini, imploravano un po' d'acqua, un riparo, una parola che dissipasse gli incubi orrendi di cui erano stati testimoni.
Parlavano di morte. Di cieli che si aprivano ed esplodevano. Di falangi di insetti insaziabili e di fulmini che salivano dalla terra.
I filosofi scuotevano la testa.
Menzogne, tuonavano, come le epiche d'Omero.
Fondamento di culti che avevano gettato Atene e la Grecia tutta nel giogo dell'infamia, del male, della codardia e dell'ingiustizia.
“Dei, dite? Quali dei? Se essi non sono nient'altro che un'invenzione umana per giustificare turpi nefandezze?”
Sotto i portici di marmo tra le fronde odorose degli ulivi il Maestro e i suoi allievi discorrevano del bene e della giustizia.
A domande seguivano risposte, da cui scaturivano nuove domande che portavano nuove risposte e altrettante nuove domande, in un dialogo eterno, poiché il fine non appartiene a questo mondo.
Ma la dialettica era un balsamo e attraverso il discorso gli uomini si elevavano, pur senza giungere al bene.
«Diteci, Maestro, cosa pensate di ciò che si racconta? Di questi guerrieri che sembra non lascino che cadaveri e distruzione?» domandò uno degli allievi.
Il Maestro sedeva su una roccia, raccolto, in profonda riflessione.
Pareva non aver udito quand'ecco levarsi un'altra voce.
«Pensate che c'è chi osa affermare che codesti guerrieri misteriosi appartengano niente meno che al Distruttore di uomini.»
«Tu, dici, Cherofonte? Persino gli dei sono stati scomodati.» lo riprese con sarcasmo Gorgia.
Degli allievi solo uno stava in silenzio: il più giovane di tutti e anche colui che il Maestro teneva maggiormente in considerazione.
Dal canto suo dopo un secco colpo di tosse il Maestro intervenne nella conversazione.
«Miei amati allievi, questo è un dialogo fine a se stesso, costruito su premesse erronee. È questo l'amore per il sapere che ho con fatica cercato d'insegnarvi? Ditemi, siamo già di fronte a un aborto?»
Si alzò dalla roccia, diede le spalle agli allievi e senza aggiungere altro abbandonò il colonnato, imboccando la strada principale.

Il sole aveva seccato la terra e le punte dei rami erano state cotte dal calore.
Il Maestro si fermò e sollevò il capo verso il cielo: un azzurro splendente, nessuna nuvola.
Se gli dei esistessero, come quegli stolti continuano a credere, a chi dovrei rivolgere le mie preghiere per un po' d'acqua? Al divino Poseidone che governa i mari e con essi tutte le acque? Al sommo Zeus che dei fulmini è il signore e padrone? O forse dovrei piegare il mio capo verso occidente, là dove, si dice, sorge la dimora della patrona Atena?
Scosse la testa, ridendo di sé stesso.
La pioggia è un fenomeno naturale, spiegabile con la logica e con la sapienza. La sua assenza è dovuta a una concomitanza di fattori individuabili e appartenenti a questo mondo.
Non si era accorto il Maestro di aver camminato fino alle porte della città.
Dunque... c'è qualcosa di strano.
Non era abituato alle questioni pratiche. Era un filosofo e come tale si perdeva nella visione delle stelle e nell'architettura dei discorsi. Pertanto, non gli fu facile notare il grosso particolare che gli stava davanti.
Quando lo fece, sottolineò l'improvvisa scoperta con un urlo.
«Per Zenone, la porta è spalancata!»
Non c'era alcuna guardia. Nessuna persona, a ben vedere.
Voltò la testa a destra e a sinistra e infine girò l'intero suo corpo verso la direzione da cui era venuto.
Era uno scherzo? Che accadeva ad Atene? La paura dei cittadini era tale da farli rinchiudere nelle loro case?
Mentre si poneva queste domande un uomo arrivò all'improvviso da una strada laterale e con esso il suo grido disperato.
«Aiuto! Aiutatemi! Vi prego, aiutatemi!»
No, qualcosa non andava.
A fargli formulare quel pensiero non fu la porta della città aperta né l'inconsueta quiete del luogo e nemmeno il terrore dell'uomo appena incrociato, bensì lo strano guerriero che lo aveva immediatamente seguito.
Costui era bardato da una corazza che lo copriva quasi interamente e che mai prima d'ora lui aveva vista: l'elmo provvisto di corna richiamava il muso di una bestia, così come anche la coda e le ali che ornavano l'armatura.
Il Maestro ebbe subito il sentore che quest'ultima non fosse stata forgiata per combattere le battaglie degli uomini.
Vide l'uomo cadere e il possente guerriero ignorarlo; si guardava attorno, come se fosse in attesa.
L'uomo che aveva invocato aiuto si rialzò e riprese a correre e a urlare: «Aiuto! Aiutatemi! Vi prego, aiutatemi!»
A chi si rivolgesse il Maestro non sapeva dirlo e nemmeno per cosa, visto che il guerriero pareva non vederli nemmeno.
Ebbene, qual è il comportamento da tenere in queste circostanze?
Restare immobile e sperare che il guerriero continui ad ignorare chi non reputa degno della sua attenzione? Oppure risvegliare quell'attenzione con il movimento? Dovrei porgli una domanda, per esempio, chiedergli il nome? O da dove viene? Forse fornirgli un'informazione casuale? O dargli il benven...

Il Maestro si rese ben presto conto che l'illogicità della situazione aveva determinato in lui un'emozione incontrollabile che stava mandando alla malora ogni sua capacità di giudizio, ma ancor prima che tentasse di districare la matassa dei suoi pensieri il guerriero lo guardò.
«Per il cane, la papera e la capra!» si lasciò sfuggire il Maestro.
Il guerriero si diresse verso di lui e una nuova accoppiata di domande pungolarono la sua mente.
Scappo o resto? Resto o mi nascondo?
«Io vi conosco.» disse il guerriero con accento straniero.
Ora che lo guardava bene non pareva essere affatto un abitante delle isole greche. Di certo non poteva essere un Persiano.
I suoi lineamenti ricordavano più i protagonisti delle storie raccontate dai mercanti sui popoli del nord: pelle bianca e capelli dalle sfumature del grano.
Di tutte le cose che il Maestro avrebbe potuto fare la sua volontà lo portò a scegliere proprio la meno indicata davanti a un guerriero di tal sospetta risma: sollevare minaccioso il bastone.
Infatti, il guerriero sbarrò gli occhi per la sorpresa.
«Maestro,» disse, non senza celare l'ilarità. «Abbassate il bastone. Non ho intenzione di farvi del male.»
Il Maestro capì che dietro quelle parole c'era anche l'avvertimento che niente avrebbe potuto fare in caso contrario.
«Bene.» disse il Maestro. «Mi assicurate che non mi ucciderete, se metto giù il bastone?»
«Sul mio onore di Specter.» rispose il guerriero, mettendosi una mano sul petto all'altezza del cuore.
«Spettro?» ripeté il Maestro mentre appoggiava la punta del bastone a terra. Non era certo di aver compreso bene.
Il guerriero incrociò le braccia sul petto.
«Voi siete un filosofo.» disse, invece, cambiando argomento.
«Così amiamo definirci: “amanti del sapere”.» confermò il Maestro.
«E ditemi, Maestro, il sapere che raggiungete vi soddisfa?»
«Il sapere non è per sua natura soddisfacente.» Corrugò le sopracciglia, poi continuò: «Il vostro nome, nobile guerriero, mi rendo conto solo ora di non conoscerlo, così come voi non conoscete il mio.»
«Oh, non abbiate timore, il vostro nome lo conosco bene e il mio nome uditelo e trattenetelo per il breve tempo ancora concessovi. Radamánthys della Viverna, Specter al servizio di Ade e uno dei tre Giudici dell'Oltretomba.»
Di Ade? Per tutte le papere! E io chi sono ... servo di Efesto dal brutto muso?
Ah, certo... senza dubbio deve essere opera di Callicle.

«Non mi credete, Maestro?» domandò Radamánthys. «Eppure, il démone che in voi alberga conosce la verità. L'intelletto umano è ben misera cosa. Incapace d'accettare l'ignoto, s'aggrappa alla logica nel tentativo di attribuirgli caratteri conoscibili, ma l'ignoto, Maestro, è tale: inconoscibile.»
«Parlate di cose giuste, Radamánthys, eppure affermate il falso, poiché falso è il dio che nominate.»
Gli occhi di Radamánthys fiammeggiarono.
«Badate, Maestro,» lo ammonì con voce dura. «Un'altra offesa al mio Sommo Signore e il rispetto che nutro nei vostri confronti non m'impedirà di prendermi la vostra testa.»
Costui ci crede, non c'è dubbio. È sinceramente convinto di servire il dio dell'Oltretomba, Ade, fratello di Zeus e sposo di Persefone. Di certo non è uomo comune. Meglio non irritarlo.
«Perdonate l'affronto, Radamánthys della Viverna. Il negare è un brutto difetto di noi filosofi, ma se mi è concesso chiedere: parlate come se mi conosceste, eppure io non rammento di avervi incontrato.»
«No, infatti, non è mai accaduto, ma ho avuto il piacere di udire le vostre lezioni e di apprezzare il vostro metodo basato su domande e risposte.»
«Il dialogo.» assentì il Maestro. «Una tecnica che consente di portare alla luce la verità che è dentro ciascun uomo.»
«Eppure, un uomo così intelligente quale voi siete pecca di superbia attribuendo la verità unicamente all'uomo, non credete, Maestro? Siete così accecato dal desiderio di sapere, da non vedere ciò che vi sta davanti.»
«Io vi vedo, Radamánthys della Viverna» ribatté il Maestro, questa volta senza curarsi di mantenere un tono conciliante. «E sono conscio che il vostro aspetto, l'armatura che indossate, le vostre parole, tutto sono fuorché quelle di un uomo normale. Ma i miei dei non sono quelli di questa città, essi non perseguono i vizi, bensì la virtù.»
«Le vostre parole, Maestro, sono sagge e sappiate che il Sommo Ade le condivide.»
L'inquietudine aveva preso il posto di tutte le emozioni che si erano susseguite e un boato, come un'esplosione del fuoco liquido, rispose alla sua domanda.
Radamánthys volse il capo nella direzione dello scoppio.
«Non temete, Maestro. Il Sommo Ade è dio di vasta conoscenza e amante del sapere. Sarà ben lieto di discorrere con voi.»
Sollevò il braccio e, indicando la porta aperta, aggiunse: «Andate. Atene sarà un campo di battaglia prima che il sommo Ade vi faccia il suo ingresso. Trovatevi un posto sicuro e isolato, cosicché nessuno a parte me possa trovarvi quando avremmo vinto Atena.»
Pronunciate queste ultime parole, scomparve.
Il Maestro tornò di corsa a casa, infagottò la sua roba e obbligò Santippe a fare altrettanto.

Avevano trovato rifugio nella casa di un lontano parente in un villaggio che quasi nessuno conosceva.
Sua moglie lo tediava con domande e implorazioni. Urlava, piangeva e compiva sacrifici davanti al focolare.
Il Maestro pazientava e tendeva l'orecchio.
Il giorno dopo il cielo si tinse di nero: il sole scomparve e si fece notte. La notte durò tre giorni.
Le voci che gli arrivarono erano voci terribili. La guerra era finita. Atene aveva perso: sciolta la Lega, esautorato il Governo.
Un giorno in cui era stanco di restare fermo uscì e, camminando per il villaggio, sentì pronunciare il nome di Radamánthys e il nome di Eaco. Udì il nome di Minosse e sentì parlare di Minotauri e Ciclopi, del Capricorno e del possente Toro. Sentì il tremore nella voce di coloro che parlavano di guerrieri così feroci che sembravano posseduti dallo spirito stesso della guerra.
Frammenti di una realtà che aveva avuto il privilegio di conoscere, ma che nella sua ossessiva ricerca della verità non aveva saputo cogliere.



Note dell'Autrice – Mi sono appropriata di un personaggio considerato uno dei più importanti esponenti della filosofia occidentale; in verità, mi rendo conto di aver sovrapposto Socrate a Platone, attribuendo al primo idee forse appartenenti più al secondo.
I nomi degli allievi del Maestro, sono i nomi dei personaggi del “Gorgia”. L'allievo silenzioso che assiste alla lezione del Maestro è Platone, che parlerà dei tre giudici infernali nel predetto “Gorgia” e nell' “Apologia”.
Il periodo in cui si colloca questa vicenda è quello della Guerra del Peloponneso (più o meno contemporaneo alla Battaglia di Egospotami), che vide il tramonto della Lega di Delo, guidata da Atene, in favore di quella del Peloponneso, guidata da Sparta, e l'istituzione ad Atene di un governo oligarchico detto dei Trenta Tiranni.
Se poi estendiamo la visione e comprendiamo anche l'avanzata dell'impero romano … direi che Ares fu decisamente l'anima di quei secoli.
Ho dimenticato qualcosa?
Oh, giusto... Le esclamazioni del Maestro sono ispirate ai giuramenti radamantini e pare che proprio quelli fossero i preferiti del Maestro.

Questa è opera di fantasia.
Saint Seiya, i suoi personaggi e ogni richiamo alla serie citata appartengono a Masami Kuramada. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma solo come omaggio da parte di un fan. Tutti i personaggi, gli episodi e le battute di dialogo sono immaginari, e non vanno riferiti ad alcuna persona vivente né intesi come denigratori. In particolare, i personaggi, le ambientazioni e le situazioni da me create, mi appartengono; per poterli utilizzare altrove, o per riprodurre questa storia o parti di essa è necessario il mio consenso.

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Capitolo 2
*** Colui che è fedele (Valentine dell'Arpia) ***


Save Our Souls


[ Colui che è fedele ]


Cosa sta facendo il vento?
Niente, ancora niente.

[...]
E non sai
Niente? Non vedi niente? Non ricordi
Niente?

Thomas Stearn Eliot, "La Terra Desolata
"


Lo specchio d'acqua non era nient'altro che uno scampolo blu, incorniciato dalle fronde dei cedri, ma a Valetinos bastava.
Guardare il mare e assopirsi, mentre la luce virava verso i colori del tramonto.
Sua madre aveva smesso di rimproverarlo.
Un pezzo unico? Una delle poche opere del maestro Niemeyer? Oh, che importanza aveva? Le sedie erano fatte per sedersi, non per essere ammirate. E in quel caso, la sedia era simile a un letto, sul quale dormire e non pensare.
Al crepuscolo, i capelli di Valentinos sembravano quasi prendere una sfumatura rosata, come lo zucchero a velo che da bambino si faceva comprare dalla balia.
"Capelli finti" era solito sbeffeggiarlo suo cugino quand'erano più piccoli, in quel suo modo che sembrava sempre come se stesse per menar le mani.
Si tirò su a sedere di scatto. I nervi tesi del collo, mentre spiava tra gli arbusti.
Gli era sembrato di aver sentito un rumore. Qualcosa... simile a un raspare. Come un animale che veniva fuori dalla terra.
Assottigliò gli occhi e trattenne il respiro, ma a parte la brezza che smuoveva le foglie, non vi era nient'altro.
Tornò a sdraiarsi e chiuse gli occhi.
Le sue giornate a Larnaca avevano preso una piega monotona.
Suo padre non credeva né nell'istruzione pubblica, né in quella privata e come lui stesso, e suo padre prima di lui, si era prodigato affinché Valentinos potesse ricevere la migliore educazione possibile da una rosa di insegnanti scelti personalmente da lui.
Era un uomo imponente per statura e per intelletto. In vent'anni, cioè da quando suo nonno era morto, aveva portato la Kondylis Company a occupare un posto di primo piano tra le più importanti multinazionali d'Europa, soprattutto dopo gli accordi stipulati con i Solo, di Corinto
Di nuovo, Valentinos sbarrò gli occhi e schizzò, questa volta, in piedi.
No, non era vero.
Qualcosa era cambiato.
Si guardò attorno.
I cedri sembravano esplodere nel loro giallo pieno di luce. Le foglie erano simili a lame di smeraldo. L'aria palpitava e rumoreggiava come una cascata di voci.
Valentinos sentì irrigidirsi i muscoli.
C'era qualcosa di strano attorno a lui. Qualcosa che non riusciva a definire.
Poi, d'un tratto, mentre ancora cercava un nome da dare a quello che sentiva e vedeva, qualcosa accadde attorno a lui e dentro di lui.
Sentì come uno strappo. Come essere preso e portato fuori da sé stesso.
Era una sensazione che aveva già sperimentato in passato. Il dolore gli tolse il fiato. Qualcosa. Qualcuno lo aveva colpito. Lì in mezzo al petto. Ma quando si guardò, non vide nulla. Solo il ricordo di un dolore. Un dolore terribile che non fu solo fisico.
«Ti ho dato tutto. Ho dato tutto per te.» si sentì dire. «Eri tu il mio dio, non Lui. Lui che se ne stava là a imbrattare tele con i suoi colori di morte.»
Tutto. Ti ho dato tutto.
Valentinos cadde in ginocchio. In lui i ricordi di due vite di mescolarono. Quelli di Valentinos Kondolys, nato a Larnaca, e quelli di qualcun altro.
Ricordi confusi, violenti, dolorosi.
Si guardò le mani. Sporche di sangue. E le grida del passato e la violenza e la guerra. E tutto il resto.
«Non avresti mai dovuto permetterle di trattarti come un cane.»
Boccheggiò, rendendosi conto di aver appena pronunciato quelle parole. Tremava, perché, in fondo in fondo, qualcosa in lui stava cambiando. Perché stava ricordando.
Lui.
Il suo dio.
Un cane.
Disprezzato come un cane. Peggio di un cane.
Il suo volto comparve in mezzo alla confusione dei ricordi. Un volto che conosceva ora, più di prima. Un volto che il fato aveva reso a lui ancora più vicino.
Sangue del suo sangue.
Lui.
Il suo dio.
L'ora d'oro tingeva ogni cosa dei colori delle fiamme.
Valentinos era in piedi e fissava la terra.
Si disse che era così. Che era sempre andato così il Risveglio. Non veniva nessuno a spiegarti le cose. Nessuna guida a tracciare per te il cammino.
Essere uno Specter non era nient'altro che un'esplosione di Consapevolezza.
L'istante prima eri un essere umano come molti altri e l'istante dopo eri uno Spettro.
Il tuo mondo capovolto in un battito di ciglia. Tutto ciò che credevi irreale, parte di una realtà ancora più vera di quella a cui eri abituato.
Sarebbe stato più logico scoprirsi impazzito. Lì, in quel momento. Se fosse impazzito avrebbe smesso di ricordare e se avesse smesso di ricordare, quel dolore sarebbe finito.
Tu... Io avrei fatto tutto per te … Radamánthys

Quando Valentinos si sedette a tavola, sua madre lo guardò meditabonda per un po'. Lui finse di non accorgersene e quando suo padre cominciò a mangiare, fece altrettanto.
Suo padre parlava... parlava...
Valentinos aveva smesso di ascoltarlo da quando aveva sei anni... sempre le stesse...
«Valentinos, caro. Ti senti bene?»
Alzò la testa di scatto.
Sua madre lo fissava.
«Perdonate madre. Ero sovrappensiero.»
La donna appoggiò delicatamente il tovagliolo accanto al piatto.
«È da quando ti sei seduto che sei strano... »
«Non ha nulla. Smettila di tediarlo, Mary.» la voce di suo padre si sovrappose a quella di lei, cancellandola.
Valentinos sentì l'impulso di ucciderlo.
«Ti stavo dicendo,» riprese il padre. «Che dovrai presenziare al ricevimento organizzato dai Solo per il compleanno di loro figlio Julian, al mio posto. In quei giorni io sarò negli Stati Uniti.»
«Quando?» chiese Valentinos, senza guardarlo.
«Tra un mese. Il ventun marzo.»
Valentinos si limitò ad annuire.
Il ventun marzo...
Ne dubito, padre.



Note dell'Autrice - Ebbene sì, ^^ gli ho dato un nome e un cognome, gli ho dato una famiglia. Kurumada dice che è originario di Cipro e io lo spedisco a Larnaca, una città di Cipro. Ed essendo nel Mediterraneo non troppo lontana dalla Grecia, rendo i Kondolys e i Solo partners commerciali. Il nome della madre di Valentinos è Mary, un nome tipicamente inglese, poiché in “Sincretismo”, Radamánthys e Valentinos sono cugini.
Qui la maggior parte degli Specters ha nomi identici o molto simili a quelli che assumerà dopo il “Risveglio”, questo perché, dal mio punto di vista, l'essere Specters è un qualcosa di così forte da influire sulla persona ancor prima della sua presa di coscienza, addirittura nella scelta dei nomi, i quali, in un certo senso, assumono la valenza di presagi.

Edit: ringrazio Francine per avermi fatto notare che Radamánthys è inglese e non danese. *___*

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Capitolo 3
*** Colui che ha le visioni (Flegiàs del Licaone) ***


Save Our Souls


[ Colui che ha le visioni ]


Avvertenza: questa storia è un delirio. Lettore avvisato, mezzo salvato!

Città del Capo.
Un luogo non meglio precisato.


Le pareti si sciolsero davanti ai suoi occhi.
«Guarda...» biascicò. «Sembrano di gelatina.»
La sua attenzione fu attratta da un vaso in cui c'era un fiore: un fiore bellissimo. Era rosso, di una sfumatura che non aveva mai visto prima. Arretrò come se quel rosso lo avesse colpito. Era un fiore di fuoco. Allungò la mano: il colore era caldo. Pareva essere sul punto di esplodere.
Flegiàs schizzò all'indietro e scoppiò a ridere.
«E' un'indecenza. Come può essere costui una della nobili Stelle del sommo Hades?»
«Sommo Hades... » lo scimmiottò Flegiàs.
Socchiuse gli occhi.
Faticava un po' a inquadrare il tizio che aveva davanti e che continuava a crescere e rimpicciolirsi a quel modo. Che scherzi erano?
«Hai i capelli dello stesso colore di Tobias.»
L'altro non rispose.
Forse non lo aveva sentito.
Forse era un grande maleducato.
«Sommo Minosse, è completamente...»
«...fatto?»
«Sì.» esalò il tizio che sembrava Tobias, ma non ci assomigliava per niente se non per i capelli.
«Non è meglio che ti tagli quella frangia? Ci vedi?» s'informò Flegiàs.
Il tizio aveva una frangia che poteva competere con quella di un collie. «Conosco un parrucchiere cinese, giù dalle parti di Hope Street. Presente, no? Se dici che ti manda Flegiàs Skinstad, ti farà di sicuro un prezzo speciale. E magari pure una spuntatina che... amici... non so che giri abbiate... ma mi sembrate il duo di supporto ai Mötley Crüe.»
Il tizio che dava l'idea di essere più sveglio lo ignorò.
Flegiàs sentì un rumore sopra la sua testa.
«Per la miseria, che è quello?» gridò, allontanandosi dai due. Lo sguardo sbarrato.
Il soffitto girava su se stesso. Sembrava un vortice. Gli stava venendo da vomitare.
«Ma ha le visioni?!»
«La situazione è difficile.»
«Difficile, sommo Minosse? Dite pure che è una vergogna.»
«Minosse. Ti chiami Minosse? Che razza di nome è Minosse?»
«Mi consenta di ucciderlo, sommo Minosse. Che differenza vuole che faccia essere in 108 o in 107?»
Flegiàs ne aveva abbastanza.
Quei due, chiunque fossero, gli avevano rovinato il sabato sera.
Mai che la gente si facesse i cazzi propri.
«Mi state pure facendo passare lo sballo, merde!» sbraitò indignato.
Se c'era una cosa che non sopportava, era ritornare alla realtà quando non aveva alcuna voglia di stare nel mondo reale.
«Ma lo sente come parla? No... no! Mi rifiuto.»
«Rifiutati. Ti ho forse chiesto qualcosa?»
«Chiaramente, Rune, non possiamo portarlo a Hohenschwangau in queste condizioni. Potrebbe essere rischioso.»
«Oh, sommo Minosse, se il rischio è riferito alla reazione che il sommo Radamánthys potrebbe avere, vi dico già fin d'ora che io non interverrò per difendere costui.»
«Tu, difendere me... ma ti sei visto?»
L'uomo di nome Minosse incrociò le braccia.
«Qui c'è bisogno di un trattamento speciale.» disse.
Il mondo era tornato ad essere quello di sempre.
Uno schifo.
Flegiàs voleva essere ovunque, ma non lì. Sapeva che restare lì sarebbe stato solo fonte di guai. Se lo sentiva. Prima no. Prima era nel suo mondo. E nel suo mondo tutto andava bene. Adesso no. Qui era di fronte alla realtà. Nessuna droga a rendergliela migliore. A proteggerlo. Quei due avevano un qualcosa che non aveva mai percepito in nessun altro.
Gli vennero in mente i racconti di Tobias, sugli umkovu, i morti che camminano della tradizione bantu.
Flegiàs fece un passo indietro e si guardò attorno.
Lo avevano condotto in un vecchio deposito abbandonato da decenni, a giudicare dallo sfacelo.
Le finestre erano quasi tutte frantumate e l'aria gelida della notte entrava a raffiche. Prima non si era accorto che faceva così freddo.
E non c'erano tavoli con vasi di fiori rosso fuoco. Nemmeno una cazzo di margherita in quel posto di merda.
«Sembra che tu ti senta meglio.»
I capelli non coprivano più gli occhi del tizio sveglio. Flegiàs vide due iridi dorate baluginare nella semioscurità delle ombre.
«Umkovu» sussurrò.
L'altro lo fissò inarcando un sopracciglio.
Se l'aveva sentito, o non conosceva il significato della parola, o non le dava peso.
Flegiàs fece un altro passo indietro.
«Consentimi di presentarmi come si deve. Io sono Minosse del Grifone, della Stella della Nobiltà Celeste e lui è Rune del Balrog, della Stella del Cielo Eccellente... »
Io mi calerò anche qualche pastichetta ogni tanto - beh... forse un po' più di qualche pastichetta - 
ma questi due hanno bisogno dell'elettroshock.
«...come avrai capito... »
Ma capito che? Chi ti conosce?
Flegiàs continuò a indietreggiare un passo alla volta.
«... siamo Specters al servizio del Sommo Hades.»
«Chi?»
«Sua eccellenza Hades, il re dell'Oltretomba.» rispose Minosse della Stella del Grifone Eccellente o quel che era.
Flegiàs lanciò un'occhiata alla sua sinistra.
«Ah, quello di prima».
Una porta. Grazie a Nomkhumbulwane, c'era una porta.
«Immagino che tu possa essere un po' confuso.»
«Ma no... ti sembra?!»
Confuso, macché confuso.
Lui voleva andarsene. Altroché.
Basta. Basta! Da domani cambio vita. Niente più droga. Niente più sesso. Mi taglio i capelli a zero e mi arruolo nella Legione Straniera. Ci vanno tutti nella Legione Straniera. Ti dà una certa importanza.
Aveva in mente il trucco più vecchio del mondo.
Girò la testa dalla parte opposta rispetto a dove voleva andare, alzò il braccio, puntò il dito, gridò con tutta la voce che aveva in corpo e scattò nell'altra direzione.
Non fece nemmeno in tempo a fare un passo che qualcuno lo sbatté a terra.
«Sommo Minosse, ma siamo sicuri che sia Licaone?»
Flegiàs boccheggiò. Levati di dosso!
Non riusciva a tradurre quel pensiero in parole.
«Quando sarà diventato cosciente, sarà una persona completamente diversa.»
«E se non si risveglia, sommo Minosse?»
«Se non si risveglia... ho in mente qualcosa che potrebbe aiutarlo.»
Flegiàs non ne era del tutto sicuro, ma gli era sembrato di scorgere un certo tono beffardo nella voce del Grifone Eccellente.
Gli venne da piangere.

Una settimana dopo.
Castello di  Hohenschwangau, Füssen, Baviera, Germania Ovest


«Buongiorno, nobile Flegiàs.»
«Buongiorno...»
Come si chiamava?
Lo Specter era già scomparso.
Flegiàs si strinse nelle spalle. In fondo anche il sommo Minosse gli aveva detto che ci sarebbe voluto del tempo per riacquistare i ricordi delle vite precedenti e non era neppure detto che ciò avvenisse. Anzi, per i più era già tanto ricordare di avere avuto una vita precedente.
«Flegiàs.»
Flegiàs si voltò.
«Oh, Shilfied. Credevo fossi in missione.»
«Il sommo Radamánthys mi ha richiamato indietro. Sta accadendo qualcosa di strano...»
Flegiàs inarcò un sopracciglio.
«Davvero?»
Più strano di quello che è accaduto a me, nell'ultima settimana?
Ne dubito.



Note dell'Autrice - Prima di risvegliarsi come Specter di Ade, Flegiàs del Licaone, ovvero Flegiàs Skinstad, viveva a Kymberley, città del Sudafrica, nei pressi del fiume Vaal (in realtà Kurumada l'ha messo sull'Orange, ma a me l'Orange non piaceva è__é). Figlio di un capo minatore, ha seguito le orme del padre e ha lavorato per un po' di tempo al suo fianco, nel campo dell'estrazione dei diamanti presso il fiume Vaal.
Annoiatosi quasi subito, lascia la famiglia e raggiunge Città del Capo. Qui conduce, per un paio di anni, una vita dedita alla criminalità e al vizio (droga, sesso, furti, spaccio...) prima di entrare a far parte degli Specters di Ade.
Si racconta ancora di come Minosse del Grifone lo abbia tenuto incatenato con il Dominio Cosmico tre giorni per fargli prendere coscienza del suo essere Specter.
Ah, naturalmente, non c'è scritto da nessuna parte che Flegiàs faccia parte delle armate di Minosse. ^^
In “Sincretismo”, gli Specter hanno stabilito il loro quartier generale di superficie nel castello di  Hohenschwangau, in Baviera, nei pressi di Füssen. [Naturalmente, con tutte quelle "h"... hai voglia a pronunciarlo!]

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Capitolo 4
*** Colui che porta un gran peso (Aiacos di Garuda) ***


Save Our Souls


[ Colui che porta un gran peso ]


Il terrazzo era disseminato di vasi e il profumo delle piante d'erica si mescolava all'odore degli incensi che bruciavano da ore e dello zolfo dei fuochi d'artificio.
Gli idoli di cartapesta in onore della dea madre Durga, avanzavano per le strade.
Amrish si era fermato a osservarli: il loro incedere precario, i volti privi di espressioni.
Suo padre lo aveva chiamato e Amrish era corso verso di lui.
Lo aveva fatto sedere sulle sue ginocchia e insieme avevano guardato per un po' le teste degli idoli che spuntavano da sopra la ringhiera del terrazzo.
Sembrava che fossero a portata di mano e che se si fosse sporto oltre la balconata, sarebbe riuscito a  toccarli.
Suo padre aveva fatto quel rumore strano con la bocca, come quando lui aveva la tosse e Mana gli dava quella cosa amara da bere.
«Amrish, sai dirmi quanti tipi di persone esistono al mondo?» gli aveva domandato.
Amrish non aveva risposto. Attorno a lui il cielo era in fiamme.
Il padre aveva continuato a parlare senza aspettare la sua risposta.
«Due tipi: i dominatori e i dominati. I primi sono pochi, detengono il potere e controllano la vita dei secondi. Senza i primi, i secondi non sarebbero in grado di vivere. È una legge della natura, Amrish.»

Dominatori e dominati.

Ricordava bene la domanda del padre: «Tu, a che gruppo vuoi appartenere?»
Amrish non aveva avuto dubbi: lui sarebbe stato un dominatore. Un re del cielo.
L'aria era ormai satura del profumo di erica e dal tè servito sul tondeggiante tavolino di ferro si levavano spirali di fumo. Il sole era riuscito a ritagliarsi uno spazio tra le fronde degli alberi.
Keshika sedeva in silenzio. I lunghi capelli neri erano legati in una coda bassa.
Amrish socchiuse gli occhi e spostò la sedia. Poi tornò a fissare la ragazza.
Lei teneva lo sguardo basso. Si sporse per prendere la tazza di tè. Le sue dita sottili reggevano il piattino con attenzione. Quasi temesse di romperlo. Sfiorò con le labbra il bordo della tazza.
Così delicata, nonostante la forza intrinseca che scaturiva dalla curva decisa della mascella e da quel corpo che sembrava marmo levigato.
«Mio padre mi ha detto che avevate lasciato il Nepal.» disse lei mentre appoggiava il piattino e la tazza sul tavolo.
«Infatti.» confermò lui secco.
Keshika sussultò, come se lui l'avesse colpita.
Amrish si maledisse e, addolcendo un po' il tono, aggiunse: «Sono tornato solo per sistemare una questione.»
Keshika si alzò di scatto, quasi come se si fosse ricordata di dover andare subito in un altro posto.
«Mi spiace,» si scusò, guardandosi intorno alla ricerca della giacca leggera che indossava al suo arrivo. «Vi sto facendo perdere tempo. Ero venuta per salutare vostra madre.»
Amrish, il re Garuda, sospirò. Le sue spalle si afflosciarono un po' mentre si appoggiava contro le schienale.
«Non mi stai disturbando.» disse.
Keshika lo guardò titubante. Non ne era ancora convinta, ma, senza staccare gli occhi da lui, tornò a sedersi.

Quando accadrà?
Hai già cominciato a fare dei sogni come è capitato a me?
Senti già il desiderio di morte scorrerti sotto la pelle?


Le campane del tempio rintoccarono.
«Com'è Berlino?» gli chiese lei.
Amrish aggrottò le sopracciglia, cupo. «Berlino?» ripeté.
Keshika lo guardò confusa. «Vostra madre mi aveva detto che ...»
«Oh, sì, certo. Berlino.» la interruppe lui. «Normale. Una città come un'altra.»

La sedia vuota. Il tramonto davanti a lui.
Amrish guardava il riflesso delle foglie nel tè ormai freddo.
Keshika alla fine era andata via. Lo aveva salutato come fosse stato un vecchio conoscente con il quale si scambiano educati saluti di cortesia privi di calore.
C'era un peso dentro di lui. Un peso che lo trascinava verso il basso. Lui, che era nato per volare, per dominare. Keshika era il suo peso. Il suo ricordo. La tragedia di una vita passata. Più dolorosa della morte, della perdita della Guerra Santa, più dolorosa di ogni cosa.

Alla fine, Suikyo era sopravvissuto con tutti i suoi ricordi.
Il disonore più grande per un guerriero: essere risparmiato dal suo nemico. Vivere come un paria, come un uomo, dominato dai rimorsi.
La rabbia lo aveva divorato a poco a poco, ma non era riuscito a darsi la morte. Si era aggrappato a quella vita d'umano alle porte del XIX secolo.
Non doveva accadere come le altre volte. Questa volta, il giorno che fosse tornato a volare, doveva ricordare tutto. Tutto.

Keshika dormiva profondamente.
La zanzariera era una protezione necessaria nelle umide notti nepalesi.
Amrish era silenzio e oscurità. Un'ombra nascosta da altre ombre.
Allungò una mano verso il suo volto.
Le assomiglia, pensò.
È uguale a lei.
È lei.
I capelli neri, il cipiglio severo, la pelle scurita dal sole, la linea dura della mascella. 
Amrish abbassò lo sguardo.
Le braccia erano nude. Lisce. Nessuna cicatrice. Nemmeno un ricordo d'infanzia.
Scostò la tenda.
Nella storia delle Armate di Hades non esistevano notizie riguardo a uno Specter che avesse impedito a un altro di risvegliarsi – atto questo che sarebbe stato considerato alto tradimento.
Ad Amrish non importava. La punta delle sue dita si illuminò.
Keshika increspò le sopracciglia e si mosse appena mentre la luce penetrava dal centro della sua fronte.
L'Illusione era nata per uccidere sotto lo sguardo di Diecimila Occhi. Il Garuda l'aveva sempre usata contro i suoi nemici nel corso dei secoli, guerra sacra dopo guerra sacra.
Non quella notte. Quella notte i Diecimila Occhi erano restati chiusi e con essi anche gli occhi del Behemoth.
Amrish richiuse la tenda.
Ora il volto di Keshika era rilassato. La piega severa delle sue sopracciglia si era dissolta, le sue labbra si erano distese in un lieve sorriso.


Peux-tu garder
mon secret?
Dans les Ombres
Dans la Nuit
Et encore une fois
Je t'en prie
Peux-tu garder
mon secret?

In the Nursery, Crepuscole


Note dell'Autrice - Per chi fosse interessato, metto il link al brano musicale Crepuscole. Per testo, e musicalità, ho pensato che fosse perfetto per questa storia.
Ebbene sì, io sono sempre stata una fan di Aiacos e Violate.
Qui, il nome umano di Aiacos è Amrish, nome originario del Nepal, che significa "re del cielo". Keshika invece significa "donna con capelli bellissimi", l'unico elemento che in un certo senso poteva far intuire la femminilità di Violate (tenendo conto che sto parlando di Saint Seiya, ho scritto una grande cazzata). "Colui che porta un gran peso" è uno dei significati attribuiti a gara-ul-di, da cui deriverebbe, secondo alcuni studiosi, il termine "Garuda".  L'incipit è una velata (mica troppo) citazione all'ultimo film di Clint Eastwood (che a me non è piaciuto). In American Sniper, il padre spiega ai figli che al mondo esistono tre tipi di persone: le pecore, i pastori e i cani da pastore.
L'erica assume significati diversi a seconda del colore: protezione, ammirazione e speranza, nel colore bianco; solitudine, in quello viola.
Come avrete notato, qui e nelle precedenti, io gestisco gli Specter attribuendo loro maggiore libero arbitrio e considero l'essenza specter (chiamola così) parte di loro stessi, altrimenti mi toccherebbe farli andare in giro sempre con le Surplice è__é. Comunque, sono mie scelta che determineranno tutti gli sviluppi futuri.

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Capitolo 5
*** Colui che porta la morte (Myu di Papillon) ***


Save Our Souls


[ Colui che porta la morte ]


Meinblut
... sangue del mio sangue...

Eccolo, mio figlio.
Gli occhi troppo grandi in quel viso affilato. Le braccia sottili come rami rinsecchiti. È magrolino il mio Meinblut. Parla poco e preferisce disegnare.
Se ne sta sdraiato a terra per ore e ore, le spalle irrigidite nello sforzo di tenere su la testa. Le gambette che ondeggiano, seguendo un ritmo tutto loro.
Meinblut, gli dico, non ti stanchi a stare tutto quel tempo per terra?
Lui mi guarda per un istante.
Aspetto che mi dica qualcosa.
Ho paura a specchiarmi nei suoi occhi. So che vedrei me stessa come non mi sono mai vista.
Meinblut distoglie lo sguardo in fretta e torna a concentrarsi sul suo disegno.
Mi inginocchio accanto a lui.
La maggior parte dei pastelli è intatta. So che presto questa scatola finirà in cantina con le altre. Una  montagna di gialli, verdi, rosa e azzurri. A Meinblut non piacciono questi colori. A Meinblut piacciono il rosso e il nero, il marrone e il bianco.
Perché il bianco? Gli ho chiesto una volta.
Per le ossa, mi ha risposto.
Una delle poche volte che mi ha parlato.
Sono stata felice. Eccome, se sono stata felice. Ho dimenticato in quel momento e l'ho preso tra le mie braccia. Solo una volta, mi sono detta. Questa volta non lo lascerò andare. Le sue unghie mi hanno graffiato e il suo grido mi ha scaraventata lontano.

Meinblut
... sangue del mio sangue ...

Lo so che il mondo là fuori è cattivo. Siamo qui. Io e te. Protetti dalle mura della nostra casa. Ho installato un nuovo sistema d'allarme. Se verranno, li sentiremo.
Non devi avere paura. Di paura ne ho avuta io e tanta quando sei nato. Credevo di spaccarmi. Credevo che ti saresti portato con te anche una parte di me e, a essere sincera, quando mi sveglio la mattina e vedo la mia immagine allo specchio, so di avere ragione. Che tu ti sei nutrito di me. Ti sei preso i miei capelli biondi e la luce dei miei occhi. Ti sei preso i miei denti forti e lo splendore della pelle.
E lo so, Meinblut, che anche ora hai bisogno di me. Ti ho plasmato io, pezzo dopo pezzo. Attingendo alle mie ossa, al mio sangue e alla mia carne.
Tu credi di essere pronto. Non vuoi che ti abbracci. Non vuoi parlarmi, ma tu non sai che là fuori ci sono persone malvage, che vogliono farti del male.
Lo sai cosa fanno ai bambini come te, Meinblut? Li attirano con caramelle e parole gentili. Poi li portano in un vecchio capanno e fanno loro cose brutte. Molto brutte. Io lo so, Meinblut. Tu potresti pensare che siano buoni e gentili, ma non lo sono.
Lo vedi il vecchio Franz della casa accanto? Guarda sempre da questa parte quando attraversa il viale. Lui crede che io non lo veda, ma lo vedo benissimo.
Se crede che ti lascerò uscire, si sbaglia di grosso.
Noi non abbiamo bisogno di uscire, Meinblut, vero? Abbiamo il mondo qui dentro. Io ho te, tu hai me. Cos'altro serve?

Mi avvicino a te.
Tu sei a terra, come sempre.
Allungo il collo per sbirciare il tuo ultimo disegno.
Una farfalla, dico.
Ha le ali nere e il corpo è un po' sproporzionato.
No, mi dici.
Non è una farfalla, Meinblut?
No, ripeti, ma non aggiungi altro.
Eppure a me sembra una farfalla.

La prima volta che capii che tu non eri un bambino come gli altri avevi tre anni. Urlavi e piangevi. Io ero corsa su per le scale, il cuore che minacciava di esplodermi in petto.
Sentii un rumore assordante fuori dalla tua stanza e spalancai la porta.
Tu eri lì in piedi sul letto e gridavi. Tutto il mondo attorno a te sembrava impazzito. I tuoi giocattoli, i libri, i vestiti, le scarpe vorticavano attorno a te come se nella stanza ci fosse un uragano.
Io gridai.
Tu ti zittisti in un baleno e mi guardasti. Tutto il mondo venne giù e io con esso.
Non ti dissi nulla, ma ebbi la conferma che tu non eri un bambino come gli altri.
Dovevo proteggerti. Chiudere fuori il mondo e salvarti.
Cosa ti avrebbero fatto, se lo avessero scoperto?
Ti avrebbero messo in un posto segreto e ti avrebbero aperto la testa per guardarci dentro, ti avrebbero bucato con gli aghi così tante volte che alla fine non avresti più avuto un pezzetto di pelle intatto e poi ti avrebbero tagliato un dito o una mano o l'intero braccio per vedere se fosse poi ricresciuto. Ti avrebbero portato via da me.

Ho legato il grembiule dietro la schiena e ho messo sul tavolo l'insalata lavata, le zucchine e le carote pelate.
Lo so che sei tu a rovinare le mie piante. Vedo i petali sparsi sul davanzale e niente polline. Lo mangi tutto. Credo ti faccia male, ma non posso impedirtelo. Ci ho provato a non tenere piante, ma tu scappi. E allora è meglio che ti riempi la bocca di polline. Meglio questo piuttosto che qualcuno ti porti via o che una macchina ti investa o che tu perda la strada, finendo chissà dove, o che tu cada e ti spacchi la testa.
È da un po' che non ti vedo. So che non puoi essere in nessun altro posto che non sia la nostra casa. La porta è chiusa a chiave e ci sono le sbarre alla finestra. Sei al sicuro, Meinblut. Quindi affetto le carote. La finestra è aperta. Tra le sbarre vedo il vialetto deserto. Un pezzo di cielo azzurro si insinua tra i tetti delle villette di fronte.
Qualcosa attira il mio sguardo.
Mi sfugge un urlo e arretro, alzando il coltello.
Mio dio, mi lascio sfuggire a bassa voce.
Strizzo gli occhi, per mettere a fuoco le immagini bagnate dal sole.
Quella cosa è enorme.
Non oso muovermi. È la falena più grande che abbia mai visto. Le ali scure ripiegate. Sul dorso una macchia più chiara mi fa venire in mente un teschio.
Sei venuta a prendere il mio Meinblut? Le chiedo ad alta voce.
Ecco perché sei andato via. Lo sapevi che sarebbe venuta.
Metto le mani sui fianchi, senza lasciare andare il manico del coltello.
Lei si gira. Mi guarda. Mi sta guardando. Apre le ali e di colpo un grido, acuto e terribile. Un chiodo  piantato in testa.
Non me ne rendo conto. Forse il movimento brusco.
Il dolore è solo una sensazione secondaria.
È l'umido che mi colpisce e il rumore che fa il mio sangue.
Meinblut, penso.
La vista mi si appanna. La falena si è alzata in volo.
Allungo una mano.
Vorrei prenderla. Schiacciarla tra le dita. Farne una poltiglia.
Scopro i denti in un ringhio mentre cado verso il tavolo. Il tonfo e poi il pavimento.
Il soffitto sopra di me si scurisce.
Il soffitto sopra d



Note dell'Autrice - Non so voi, ma a me, Carry ... no, volevo dire ... Myu di Papillon inquieta (non il mio, quello di Kurumada). Comunque, Meinblut non dovrebbe esistere come nome proprio e non so nemmeno se esista, in quanto parola composta. Il Wörterbuch che ho visionato non me la dà. Comunque è una parola formata da Mein (mio) e Blut (sangue). Dal momento che ci sono diversi nomi propri composti da due parole, di cui la prima è appunto Mein, mi sono detta... che poteva andare bene creare un nome parlante di questo tipo.
L'Acherontia atropos è un lepidottero grosso almeno 7 cm, chiamato così appunto per una macchia più chiara sul dorso che richiama appunto un teschio. Per intenderci, è quella della locandina del Silenzio degli Innocenti. Il suo nome etimologicamene richiama Atropo, una delle tre Moire. Che altro? Ah, il grido... pare che emetta un verso che ricorda un urlo. Io non ho mai avuto il piacere di vederne una, per fortuna... altrimenti credo che avrei battuto il record dei 500 metri. Di solito, anzi, direi sempre, viene fuori al crepuscolo... non di giorno con un bel sole lucente... ed è presagio di morte. Nelle campagne francesi credevano che di notte andasse a mordere i bambini, uccidendoli.

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Capitolo 6
*** Colui che serve... tutti! (Marchino) ***


Save Our Souls


[ Colui che serve ... tutti! ]


Lui era Marchino.
Il grande, possente, insostituibile... e basta.
Marchino ne aveva le palle piene.
D'accordo, non era bello come il Re Garuda e non era potente come Lord Radamánthys, ma faceva anche lui parte dell'invicibile armata - per gli inferi! - e come lo trattavano?

Marchino, occupati del Tribunale.
Marchino, porta questo al Giudice Radamánthys
Marchino fa questo, Marchino fa quello.


Adesso chi lo spiegava a quell'invasato del Barlog che aveva dovuto lasciare il Tribunale e venire a  Hohenschwangau su richiesta della somma Pandora?
Marchinò gettò lo spazzolone a terra, si chinò, afferrò lo straccio bagnato e lo lanciò, centrando in pieno una riproduzione del Venerabile Hades.
«Perdono, Vostra Grandiosità. Perdonate il vostro umile servo.» bofonchiò mentre abbracciava la statua del dio all'altezza delle gambe.
«Marchino, cosa stai facendo?»
Marchino, colto di sorpresa, si staccò di scatto dalla statua di Hades, rischiando di farla cadere.
«Vostra Magnificienza Rune, siete già tornato?»
Lo Specter di Balrog inarcò un sopracciglio e trasse un profondo respiro.
Marchino non voleva sbagliarsi, ma trovava che il nobile Rune fosse turbato.
«È andato tutto bene con Licaone?» s'arrischiò a domandare.
«Aaah.» gridò Rune, facendolo quasi stramazzare al suolo. «Non pronunciar il suo nome. Quella vergogna. Vedrai, Marchino – vedrai! -  il nobile Minosse saprà raddrizzarlo.»
Marchino non aveva capito di che cosa stesse parlando Sua Eccellenza Rune, ma dallo sguardo che aveva intuiva che Licaone non se la stesse passando bene.
«A proposito, Marchino, che ci fai qui? Non ti avevo forse detto di occuparti del Tribunale in mia assenza?»
Marchino arretrò, spaventato dagli occhi incendiari con i quali lo Specter di Balrog lo stava guardando.
«Ecco, dunque... vedete... io»
«Smettila di tergiversare, Marchino. Tu non dovresti essere qui.»
«Sì, lo so. Avete ragione, ma Sua Grazia, l'eccellentissima Pandora, ha richiesto la mia presenza al castello.»
«La tua presenza al castello?»
Rune assottigliò gli occhi.
Marchino, che nel frattempo aveva inconsciamente raccolto lo spazzolone, si affrettò a gettarlo.
«Ecco, vedete... »
«Marchino, cosa ci fai ancora qui?»
Marchino mise accidentalmente il piede sullo spazzolone, e cadde a terra, sbattendo violentemente la faccia sul pavimento.
«Divina Pandora,» mugugnò, sforzandosi di non pensare al male cane che sentiva al naso. Me lo sono rotto. Me lo sarò rotto sicuramente. «Ecco...»
La voce di Rune si sovrappose alla sua.
«Mia Signora, sono qui per farvi rapporto.»
Marchino si alzò in piedi, tenendo la testa bassa, e affiancò Sua Magnificienza Rune, piegando un ginocchio a terra. Senza sollevare il capo, arrischiò un'occhiata alla sua destra.
Il profilo del Balrog sembrava imperturbabile, ma c'era qualcos'altro.
Che Cerbero sarà accaduto con Licaone?
«Bene, Rune.»
Marchino tornò a rivolgere la sua attenzione alla divina Pandora. La Sacerdotessa alzò il mento e guardò oltre le loro spalle. «Non vedo Minosse. Mi auguro che tu non sia qui per dirmi che ci sono problemi»
«No, assolutamente, mia Signora.»
A Marchino sembrò che Rune avesse risposto con eccessiva fretta.
«Forse qualcuno» disse a bassa voce e prima che la somma Pandora potesse intervenire, poi aggiunse con un tono più alto: «Niente che il sommo Minosse non possa risolvere.»
«Bene.»
La divina Pandora si guardò attorno.
«Sei ancora qui, Marchino?»
«Ecco... sì...»
Marchino guardò prima l'uno e poi l'altra. Se solo avesse saputo dove andare!
Pandora a braccia incrociate batté il piede, spostando alternativamente lo sguardo dallo spazzolone a Marchino. Senza proferire parola gli fece un cenno secco col capo, inarcando lievemente le sottili sopracciglia.
«Mi auguro che la Prigione sia in ordine.» lo fermò Rune di Balrog poco prima che uscisse dalla stanza.
Era uno schiocco quello che aveva sentito?
Marchino incassò la testa nelle spalle.
«S-sì, Vostra Eccellenza.»
Si passò una mano sulla fronte madida di sudore.
«Quindi, Marchino, troverò tutto come l'ho lasciato, perché tu non hai assolutamente trascurato i tuoi doveri.»
Marchino, umile Skeleton dell'invincibile armata del sommo Hades, opponeva quale difesa della sua misera persona uno spazzolone. C'era chi aveva la frusta, chi la spada, chi una clava e chi doveva accontentarsi di una scopa.
Guardando prima l'uno e poi l'altra, Marchino si rese conto che quei due erano convinti che lui avesse il dono dell'ubiquità e, pensando questo, constatò per l'ennesima volta che la sua era proprio una vita di merda.



Note dell'Autrice - So che Marchino non è così in alto nella gerarchia da essere uno Specter, ma lui mi fa la differenza in una storia. L'espressione "Invicibile Armata" chiaramente appartiene ai libri di storia... Molto armada e poco invencible, per la verità.
Nella serie, Rune uccide Marchino perché troppo rumoroso... ma poverino!!!! Ci sono rimasta male.

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Capitolo 7
*** Colui che stabilisce la pena (Rune del Balrog) ***


Save Our Souls


[ Colui che stabilisce la pena ]


Rune del Balrog, Specter della Stella del Cielo Eccellente, siede sulla seggiola brunita simile a un trono regale. Davanti a lui sul massiccio tavolo il Libro della Colpa rivela la vita dei trapassati. Le fiamme dei candelabri a sette braccia posti sulle colonnine di marmo sono raddoppiate dagli Specchi del Vero, appesi alle pareti del Tribunale degli Inferi. Socchiude gli occhi, soppesando il primo di coloro che Thanatos ha recentemente mietuto.
L'anima che ha di fronte è quella di un uomo. Costui, palesemente ignaro di quanto gli è accaduto, si guarda attorno con gli occhi che sembrano sporgere dalle orbite.
Cupidigia è ciò che Rune vede in quegli occhi slavati. La barba sfatta da una settimana. Le scarpe costose, ma indossate per anni.
Le anime conservano il ricordo del loro corpo mortale al momento della morte. Potresti crederlo vivo, se non fosse per il buco che gli deforma la testa e il sangue rosso - come appena versato - che gli macchia il volto.
«Molto bene. Procediamo.»
Le fiamme dei candelabri guizzano verso l'alto mentre le pagine del Libro della Colpa cominciano a sfogliarsi da sole. Da esse una luminescenza vermiglia si riflette sul volto d'alabastro dello Specter. Le pagine si fermano.
Rune abbassa lo sguardo.
Sulla pagina bianca iniziano a comparire alcuni caratteri. Una, due, tre righe.
«Il Libro ha decretato per quale colpa tu debba essere punito.»
L'uomo sbarra gli occhi, per la prima volta conscio che c'è qualcosa di strano.
Non c'è niente di strano nella Morte. È un qualcosa di naturale, perfetto e immutabile.
Rune è abituato a giudicare le colpe di anime che nemmeno si sono rese conto di essere morte.
Ci penserà la punizione.
«Tradimento. Che le porte della Nona Prigione si spalanchino per quest'anima immortale e che essa espii le sue colpe per mille anni nel ventre di Cerbero» decreta Rune, abbassando il Martello del Giudizio e rendendo la Sentenza esecutiva.
L'anima dell'uomo scompare.
«Il prossimo.»
La porta si apre.
La seconda anima è quella di una donna. Calza una singola décolleté, le calze mal coprono i lividi sulle gambe. Le fiamme brillano sul suo top dorato. La bocca della donna si spalanca non appena incrocia lo sguardo dello Specter. Si gira di scatto, precipitandosi verso la porta dalla quale è entrata.
«Fatemi uscire. Fatemi uscire da qui!»
Rune inarca un sopracciglio. Come se una misera anima come quella potesse sfuggire al Tribunale semplicemente picchiando su una porta.
Le pagine del Libro della Colpa riprendono a scorrere incessanti.
«Ladra, scialacquatrice e blasfema» legge Rune. «Di certo, la lussuria rappresenta la vostra colpa.»
La donna si lascia cadere. La schiena premuta contro la porta chiusa.
«Che i venti della Seconda Prigione sferzino la vostra anima!» Solleva il Martello del Giudizio. «E che vi trascinino senza requie, come in vita fecero le passioni, fino al giorno in cui sarete chiamata a incarnare nuovamente un corpo mortale.» Il suono del Martello riecheggia per tutto il Tribunale.
«Che c'è, Marchino?» dice, non appena si accorge dello Skeleton.
«Ecco, Vostra Magnificenza, perdonatemi...» balbetta l'inetto torturandosi le mani.
Rune sospira: «Parla! Devo forse cavarti le parole di bocca con la mia frusta?»
«No, Vossignoria.» risponde Marchino, arretrando. Poi con tono più circospetto aggiunge: «Il Sommo Minosse ha richiesto la Vostra presenza.»
Rune si alza di scatto: «Il Sommo Minosse?»
Stringe con forza il Martello del Giudizio. Il suo signore richiede la sua presenza? Il suo signore ha...
«Sì, signore. Licaone è stato trovato, ma...»
Rune ha già smesso di ascoltare il balbettio di Marchino.
La terza anima viene fatta entrare: un bambino.
Le pagine del Libro riprendono a scorrere.
Rune abbassa lo sguardo e inspira rumorosamente: «Uccideva animali per divertimento. Picchiava il fratello più piccolo. Cinquant'anni a pulire le latrine dell'Inferno.» Batte il Martello del Giudizio e supera rapido Marchino che ancora inginocchiato tenta di chiamarlo.
«Non ho tempo, Marchino» dice nell'oltrepassare l'uscita. «Fa' aspettare le anime nell'Anticamera dell'Ade, finché non saremo di ritorno.»



Note dell'Autrice - come per uno dei precedenti capitoli ringrazio Thomas Stearn Elliot per quello splendore che è la Terra Desolata. Se Minos non c'è, c'è Rune, se Rune non c'è... c'è Marchino. Marchino è sempre e comunque una garanzia. Io credo in lui.
Questa one-shot si pone cronologicamente prima di questa qui.
[Se vi steste chiedendo quale ordine seguono queste one-shot, potrei rispondere dicendo... ehm... concettuale?]

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Capitolo 8
*** Colui che cambia (Queen della Mandragora) ***


Save Our Souls


[ Colui che cambia ]


Guardati, Quirin!
Sprofondato in quella poltrona, la testa incassata nelle spalle, la mano burrosa che si tuffa nel sacchetto per surgelati pieno di patatine fritte, le guance gonfie. Mastichi come un vecchio grasso maiale.
Hai capelli castano chiaro, ma così unti che sembrano neri. Hai la faccia sudata come se avessi corso e gli occhiali spessi un dito che deformano i tuoi occhi. Il tuo sguardo non lo muovi di un millimetro dallo schermo.
Siamo sicuri che sia tu? Io non ne sono tanto sicura.
Sei così grasso che se tornassero al cannibalismo in Africa, risolveresti in parte il problema della fame nel mondo.
Non la senti? Tua madre ti sta chiamando!
Ma che importa! Quella vecchia baldracca non fa altro che urlare urlare urlare... ormai non la senti nemmeno più, vero?
A sentirla sono io. A sentire te, lei, i vicini di casa. Me ne sto qua, accanto a te, e aspetto. Aspetto ... che il destino di compia.
Ma qua, tu vai all'ingrasso, e le mie giunture si stanno arrugginendo.
Che c'è? Sei stanco?
I tuoi occhi faticano a stare aperti. Ti sporgi e guardi l'orologio appeso alla parete. Le tre.
Ti alzi, sistemandoti bene la coperta sulle spalle. Non dirmi che hai freddo, con tutto quel grasso che ti porti addosso?
Ecco che avanzi.
Sei arrabbiato con me? Dimmelo! Perché sei morto, l'ultima volta, e la volta prima ancora? È forse responsabilità mia?
Ah, guardati! Il letto affonda sotto la tua mole, Quirin.
Ma aspetta... ragazzo.... aspetta.

È mattino.
Un eufemismo. In realtà è passato mezzogiorno. La vecchia è uscita, per fortuna. Magari non tornasse, saremmo solo io e te. Ti tiri su a sedere, mezzo addormentato. Strofini gli occhi per svegliarti, per levare quella sgradevole sensazione di appiccicoso.
Sposti le coperte, ti alzi in piedi e il pantalone del pigiama ti scivola giù.
Se fossi in grado di urlare di gioia, lo farei.
Borbotti qualcosa, ma non m'importa. Fisso il tuo corpo con avidità. Il tuo corpo un po' meno grasso rispetto a ieri sera e penso che forse ce la puoi fare a entrare dentro di me.
Tiri il cordoncino con tutte le tue forze.
Che strano, dici a te stesso. Ieri mi andava bene.

Sei di nuovo davanti alla tv. Affondi la mano nel sacchetto pieno, questa volta, di frittelle tondeggianti e ne addenti un boccone.
Se avessi una bocca per ghignare lo farei. Eccoti lì! Il volto che sbianca, gli occhi che se potessero schizzerebbero fuori dalle orbite.
Rotoli giù dal divano, e corri in bagno, inciampando nei pantaloni della tuta che ti stanno ormai larghi.
Credi che permetterei a un ammasso di lardo come te, di indossarmi?
Vomita tutto, da bravo. Così. Vomita tutta la merda che ti porti appresso.
Sto male, sto decisamente male.
Arranchi fino al letto e ti metti sotto le coperte.
Tua madre arriva, ti chiama. Tu dici di stare poco bene.
E figuriamoci. Te ne stai sempre lì, a guardare la tv e a mangiare. Quand'è che troverai un lavoro?! Credi che sarò sempre qui io, eh?, urla di rimando la vecchia.
Tu spegni il cervello, le orecchie e cerchi di dormire. Ma non puoi. Continui a sudare.
Corri di nuovo in bagno. Vomiti. Non sembra cibo. È disgustoso.
Ti senti svuotare, vero? Stai lentamente scomparendo. Il Quirin che eri, il Queen che sarai.
Ti sei di nuovo sdraiato a letto.
Non hai idea di quanto tempo sia passato.
Tua madre non la senti più da tempo, vero? Quanto tempo è passato? Un giorno? Due? Una settimana?
Non mangi da una vita.

Apri gli occhi.
Era ora.
Non sai da quanto tempo ti stiamo aspettando?
Ti tiri su a sedere, sbatti la testa contro la parete alle tue spalle. Sembra quasi che tu voglia entrarci in quella parete.
I tuoi occhi sono sbarrati, ma non è me che guardi. È lui.
Indossa un completo elegante e ha i capelli biondi tagliati corti.
Hai l'impressione di averlo già visto, non è vero?
Ma certo che l'hai visto. L'hai visto molte volte. Sei sempre stato al suo fianco. Nella vita precedente, e in quella ancora e ancora, quando …
Se avessi una bocca, le mie labbra sarebbero deformate e livide per il ricordo.
Lui siede su una sedia. Le gambe accavallate. Ti guarda.
Coraggio, chiedigli chi è? Che diavolo ci fa, lì?
Ti alzi in piedi. Lo sguardo sempre fisso su di lui. Cerchi di muovere un passo, ma io so, lo sento. Cadi a terra. È inevitabile.
Tu non ti sei ancora visto, ma noi ti vediamo. Adesso sei perfetto per me. Sei come ti ho sempre voluto ed io mi aprirò per te, ti accoglierò e saremo una cosa sola.
Io e te.
Ti alzi, aggrappandoti ai mobili. Lentamente, arranchi fino allo specchio dell'armadio.
L'espressione del tuo volto riflesso, esprime terrore. Il terrore di chi si vede e non si riconosce.
Allunghi una mano, le dita sfiorano il riflesso del tuo volto. Non puoi toccare te stesso, vero?
«Le Surplice sono state modellate sul nostro corpo migliaia di anni fa. Se da una parte la nostra reincarnazione è assoluta. Dall'altra, possono subentrare fattori imprevedibili. Nel tuo caso è stato il peso.»
Ti volti di scatto.
Lui ha parlato in un tedesco impeccabile, con un lieve accento britannico.
Vedo le domande scorrere nei tuoi occhi e la paura che le sommerge impedendoti di formularle.
Lui scosta la manica della giacca.
«Non ci vorrà molto.» dice a sé stesso.
Ecco, le tue labbra si schiudono. Una parola.
Se tu potessi sentirmi, udiresti una risata. Il momento è giusto. Ti pieghi di colpo su stesso. Il dolore ti devasta. Lo conosco bene quel dolore. Ti ho visto provarlo ogni volta.
I sensi ti vengono strappati. Non vedi e non senti più nulla. Stai bruciando. È come se avessi una palla incandescente che rotola dentro il tuo stomaco. Non riesci nemmeno a gridare.
«Il Cielo Malefico. Il cielo...» ansimi.
Sì, Queen. Sì. È la stella.
La Stella arde, brucia, distrugge il passato e del Quirin che eri non resterà che cenere.


«Lord Radamantys, signore.»
«Come ti senti, Queen?»
«Frastornato, signore.»

 


Note dell'Autrice - In un'intervista a Kurumada, tradotta, che io il giapponese non lo so, ho letto che mentre i cloth si adattano al possessore, le Surplice costringono il possessore ad adattarsi a loro. Poiché in Sincretismo pongo come premessa una certa ciclicità della reincarnazione – nel senso che sono identici anche nell'aspetto fisico, tenendo conto degli eventuali cambiamenti di sesso – gli adattamenti che il corpo di uno Specter subisce per entrare nella corazza sono – per fortuna sua – minimi. Oddio, si fa per dire... a un paio gli si sono spostate le ossa che sembravano dei licantropi, ma non importa. Si dice che la mente cancella il dolore troppo forte.

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Capitolo 9
*** Colui che sarà (Minos del Grifone) ***


Save Our Souls


[ Colui che sarà ]


Minos aggrotta la fronte e abbassa lo sguardo.
Suo padre, quell'uomo grande e grosso che spariva per settimane, se non addirittura mesi, quando era impegnato in qualcuna delle sue ricerche, adesso è tutto lì. In un'anfora di terracotta.
Sospira e torna a guardare il paesaggio dal finestrino.
Il treno rallenta all'approssimarsi del ponte.
Davanti a lui, l'anziana signora è scossa da colpi di tosse.
Minod si affretta a distogliere lo sguardo. L'ultima cosa che vuole è che la vecchia gli rivolga la parola.
Lo scompartimento è caldo, eppure la donna si ostina a tenere il cappotto e il cappello. Persino i guanti.
Lui appoggia la testa al sedile e chiude gli occhi.

Sua madre indossa i tradizionali abiti sami.
Lo abbraccia, e strofina la fronte contro la sua.
Minos si ritrae, imbarazzato da quel contatto.
«E' lui?» gli domanda lei, indicando con un cenno del capo l'anfora che porta sottobraccio. Minos annuisce.
Mari si limita a tendere le labbra in quello che solo con un grandissimo sforzo avresti potuto definire sorriso.
«Vieni, Minos, c'è molta gente che vorrebbe conoscerti.»
Il suo nome, Minos, suo padre gliel'aveva dato in omaggio al suo amore per l'antica Grecia. Un amore non corrisposto, a giudicare dalle volte in cui era riuscito a visitare le terre elleniche. Zero. C'era sempre qualcos'altro da fare. Una nuova ricerca che lo teneva lontano da casa per mesi interi; seminari all'università; nuovi libri da scrivere e pubblicare.
Il volto di suo padre occupava l'intero dorso delle sovraccopertine di libri che annualmente rilasciava alla sua casa editrice.
C'erano sempre nuove teorie da spiegare; nuove domande da porsi, a cui dare una manciata di nuove risposte...

La tenda di pelli sembra quasi mimitezzarsi nella foschia mattutina. Una donna vestita di nero, caracolla verso la slitta. Tra le mani, una pila di stoffe.
Mari la chiama.
Mamma, grida. Tuo nipote è arrivato.
Lo dice nel dialetto sami di Finnmark, compattando le parole.
La donna, sua nonna, si gira. Il volto è carta stropicciata, incorniciato dal panno di lana. Minos resta immobile. In attesa.
La donna sposta lo sguardo in basso. I suoi occhi si perdono in una manciata di ricordi lontani. Suo figlio. Mio padre.
Andate dentro, dice.
Mira gli siede accanto.
«Non far caso alla nonna, Minos» gli dice, sfiorandogli una mano. «La nonna è fatta così.» Sposta lo sguardo, verso l'apertura della tenda. «Qui» s'interrompe. «Tutto congela, persino le emozioni e le lacrime.»
Gli sorride. Nei suoi occhi schegge di cristallo.
Minos distoglie lo sguardo.
«Avresti potuto continuare a vivere a Oslo, anche dopo papà.» le dice. Gli occhi appoggiati sull'urna che tiene tra le gambe.
«Lo sai, Minos» comincia lei, dopo un lungo silenzio. «Il mio posto è qui, con la mia gente. È sempre stato così.»
Minos guarda fuori dalla tenda.
Sua nonna sta sistemando la slitta. Il vento le scompiglia la gonna. Come suo padre, anche suo nonno aveva tentato di portarla via, verso il futuro, ma come sua madre, anche sua nonna era tornata indietro.
Tornano tutti, nonostante il sangue si mescoli e si faccia impuro.
Anche lui, un giorno, bramerà l'immobilità dei ghiacci, il ricordo di un tempo sospeso nell'antichità delle memorie e delle leggende?
A quindici anni, quel pensiero lo sfiora, senza che lui se ne accorga. Ci pensa il suo inconscio a registrarlo, a ingabbiarlo.

Il freddo si fa ancora più freddo.
Infagottato nel suo anorak, Minos fissa la lampada al centro del cerchio. Ci sono sua madre, sua nonna, alcune persone del villaggio, una donna che sembra sua madre, ma più giovane, forse una zia. Un bambino dorme tra le braccia di una ragazza. Minos le lancia un'occhiata furtiva, prima di distogliere lo sguardo e tornare a fissare la luce della lampada.
Davanti a lui, il vecchio nuojd tossisce e apre gli occhi.
Occhi come ghiaccio, splendore delle stelle. Occhi che sembrano celare in loro la giovinezza perduta. Lo sciamano sorride, scoprendo una bocca senza denti e solleva una mano rinsecchita.
Potrei avere un po' d'acqua, maman. Lo sente dire.
Sua nonna potrebbe benissimo essere sua figlia, e il volto del vecchio sciamano è come uno scarabocchio di linee intersecate.
Mari, sua madre, tiene l'urna, suo padre, tra le gambe. In silenzio, attende, che il noujd cominci a parlare, che la smetta di fingere di dormire, che interrompa quell'immobilità e che consenta loro di dire addio.
Minos muove le dita dei piedi, intropidite, dentro gli scarponi.

Il nuojd ha pronunciato le parole d'addio e la morte è diventata reale.
Amore è una parola troppo spessa ed è difficile farla passare dalla gola. Minos osserva la volta stellata che in quella stagione dell'anno non disdegna il brillio delle stelle.
Che strano, pensa, mentre con il capo piegato all'indietro congiunge stelle lontane. Come la morte sia così naturale, eppure così terribile.
Passi alle sue spalle, lo fanno trasalire di colpo.
Minos si volta.
Il nuojd è in piedi. Le mani giunte dietro la schiena. Il volto confuso nell'oscurità della notte.
Sorride in quel modo che solo un vecchio potrebbe fare, come se custodisse tutti i misteri del mondo.
«Chi sei?»
Minos sbatte gli occhi. L'oscurità cela l'espressione dello sciamano, ma il tono lascia immaginare un sorriso.
«E' una domanda trabocchetto, nuojd?»
«Dipende dai punti di vista.» Minos apre la bocca per ribattere, ma il nuojd lo precede. «Il tuo nome lo conosco, Minos, così come conosco il nome di tuo padre e quello di tua madre. Tu sei Minos. Oggi. Questa notte. Ma domani ... lo sarai ancora? Sarai ancora lo stesso Minos di adesso?»
«Parlate per enigmi. Comprendervi è impossibile.»
«Già. Basterebbe dire che il domani non è l'oggi e ciò che era non sarà, ma non è così semplice... non è così semplice ...»

Le parole del nuojd aleggiano attorno a lui anche dopo molto tempo che è rimasto solo.
Diventare altro. Essere altro.
Minos sa che l'anziano sciamano non parla mai a proposito. Possiede la saggezza degli antenati e sa cose che gli altri non vedono, non sentono.
La notte è cupa e il frullio d'ali d'un grande uccello lo tirano fuori dalle sue riflessioni. Minos si guarda attorno. Una lieve inquietudine aleggia in lui.

La morte di suo padre. Il suo diventare altro. Le parole dell'anziano sciamano. Il luogo in cui si trova, sospeso nel gelo del tempo.

È la morte ...

la morte


Note dell'Autrice - Il nome degli Specter. Non seguo una regola fissa, così come loro. Sarebbe più logico che attribuissi a tutti loro dei nomi diversi, e non solo con alcuni. Ma io seguo delle mie logiche, spesso, come dire... ingarbugliate. ^^

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Capitolo 10
*** Colui che esprime il dubbio (Shilfield del Basilisco) ***


Save Our Souls


[ Colui che esprime il dubbio ]


L'Arkhaios Neōs, il tempio dedicato ad Atena Poliàs, ardeva da ore ormai. Le fiamme si avvolgevano attorno alle colonne della perìstasi come serpenti di fuoco, giù fino allo stilobate e poi su fino a inghiottire l'architrave e il fregio e tutto il resto, e oltre.
Felthuz piegò le labbra in una smorfia.
Lui di questa vittoria non riusciva a gioirne.
La lotta aveva un sapore più dolce, persino la sconfitta, aveva un sapore... diverso. Ricordava cose dalle sue vite precedenti. Giusto sprazzi qua e là. A volte faceva confusione, sovrapponeva i ricordi. Ma era normale. Era sempre così. Nel momento in cui diventavi uno Specter cessavi di essere un umano.
Era come entrare nel fiume della metempsicosi da sveglio.
Ricordava le sue sconfitte. La morte che immancabilmente sopraggiungeva. In un eterno ripetersi degli eventi.
La guerra era una necessità. Così diceva il sommo Radamánthys. E a Felthuz andava bene. Combattere, s'intende.
Era ciò che sapeva fare meglio. Azzannare un nemico e non mollarlo finché uno dei due non moriva. Non si era mai tirato indietro!.
Ma c'era rispetto. Tra nemici. Erano guerrieri, non bestie assetate di sangue.
Il dolore alla mano lo trasse fuori dai suoi pensieri.
Si accorse solo in quel momento che il sommo Radamánthys era accanto a lui.
Quando era arrivato?
«Nobile Radamánthys.»
Lo Specter sollevò una mano.
Le braccia appoggiate alle gambe, le mani giunte avanti a sé. Come se fosse lì da tanto, tanto tempo.
«Atena?» si azzardò a chiedere Felthuz.
«E' scomparsa. Nessuno sa esattamente cosa sia accaduto. Ma i suoi Saint si sono ritirati immediatamente.»
Felthuz fu quasi tentato di sbattere il piede a terra dalla frustrazione.
«C'eravamo quasi riusciti. Non capisco perché abbiamo permesso loro di andarsene.»
Radamánthys aggrottò le sopracciglia.
«Noi?» domandò con le labbra piegate in una smorfia.
Felthuz strinse i pugni.
Sì, avrebbe voluto rispondere. Noi. Gli Specter.
Distolse lo sguardo.
«Avete trovato l'uomo che cercavate? Il filosofo?» chiese di colpo.
Doveva distrarsi, pensare ad altro...
«No. Non l'ho cercato. Ora, non ha più importanza.»
Felthuz annuì.
Attorno a loro, la città era silenziosa. Come se non ci fosse più nessuno, come se tutti fossero scomparsi nel nulla.
Cosa riservava loro il futuro?
Cosa era andato storto?
«Che cosa sono, loro, davvero?»
Drizzò la schiena, non appena si rese conto di aver formulato quella domanda ad alta voce, ma il sommo Radamánthys non disse nulla. Forse non lo aveva udito, forse stava pensando
«La guerra è finita, Basilisco.» saettò lo specter, mettendo chiaramente in luce quale fosse il suo pensiero.
«Sì, nobile Radamánthys.»

Atene era caduta sotto l'inesorabile avanzata delle città guidate da Sparta. Una guerra che si protraeva, ormai, da quanto? Venti, venticinque anni?
Tutto finito. Tutto cambiato.
«Qualcosa ti turba?»
Felthuz sbarrò gli occhi incredulo. Una simile domanda? Dal Giudice dell'Inferno?
«No. Assolutamente.» si affrettò a rispondere. Poi a voce più bassa, aggiunse: «Come potrei? Sono uno specter.»
«Già... come potresti.»
Felthuz si fermò di colpo. C'era stato qualcosa nel tono del suo comandante …
«A proposito.» riprese il Giudice «Dovresti tenere a freno la tua indole.»
«A cosa vi riferite, nobile Radamánthys?» domandò Felthuz, in allarme.
«Ti ho osservato, mentre combattevi contro il Drago.» gli rispose, senza fermarsi.
Il Basilisco strinse i pugni.
«L'ho battuto.» ribatté tra i denti.
Dell'altro, Felthuz non vedeva che il profilo illuminato dal chiarore della luna. Una luna accecante, uno splendore che in quella notte avrebbe fatto impallidire il sole.
«Sì, certo. Ma hai rischiato di farti sconfiggere … »
Il sommo Radamánthys si fermò di scatto e si voltò. La luce della luna si specchiava negli occhi dello Specter della Viverna. Un bagliore che lo incatenava.
«Sei avventato.» continuò, con voce più dura. «E non sai quando è giunto il momento di ritirarti.»
Felthuz sapeva che aveva ragione. Era consapevole di essere testardo, di non voler mai mollare la presa... Altro che Felthuz di Basilisk... Avrebbero dovuto chiamarlo Felthuz di Cerbero. Ed era anche consapevole che l'uomo che aveva di fronte era il Giudice dell'Inferno. Uno degli Specter più potenti...
«Lui era più debole di me.»
Si maledisse, perché aveva perso di nuovo l'occasione di tacere.
Ora mi massacrerà... Abbiamo vinto la guerra... che importa avere uno Specter in meno...
«Hai sottovalutato il tuo avversario, e questo, per un guerriero, è grave.» si limitò a dirgli la Viverna, riprendendo a camminare.
Felthuz abbassò il capo. Se non gli fosse servita, si sarebbe tranciato via la lingua di netto... ma l'idea di non poter parlare non gli piaceva.
Gli edifici andavano diradandosi man mano che si allontanavano dall'area adiacente l'Acropoli.
«Ce ne stiamo andando?»
«Sì. Qui non c'è più niente da vedere.»
«Ma... »
«Cosa?»
«Non dovremmo, non so... »
Felthuz s'interruppe, incapace di proseguire. Gli ateniesi si erano barricati entro le loro case, trasformando una città viva, in una città fantasma.
Non dovremmo, portare il regno di Hades su Madre Gea? Prolungare in eterno l'Eterna Notte? Far trionfare la Morte? Non era questo che abbiamo perseguito fin dalla notte dei tempi? Non era questo il desiderio di Hades?
Ma Hades aveva ordinato l'immediato ritorno nell'Oltretomba.
Inizialmente, Felthuz aveva creduto che il dio avesse perso il controllo del corpo umano. Era già capitato, in passato, specialmente quando la volontà del contenitore era troppo forte. Ma la venerabile Pandora aveva confermato che mai, per un istante, Hades era stato altro da Hades e che la decisione di ritirarsi nell'Oltretomba era sua e di nessun altro.
Scorse le mura della città. La porta era spalancata, nessuno a far la guardia. Alle sue spalle Atene sembrava già un ricordo lontano. Una città che loro avevano conquistato, lasciata nello stesso istante in cui era caduta.
Il sommo Radamánthys si era fermato.
Felthuz si vergognò del tremito che di colpo gli aveva attraversato la schiena. Non era da Specter, un sentimento così umano.
No, non è stata una nostra vittoria. Lui ha vinto. Loro hanno vinto.
Sarebbe stato meglio che la luna fosse morta, quella notte. Felthuz si sarebbe illuso di essere solo uno spettro.
I pali erano conficcati nel terreno a poca distanza l'uno dall'altro. Così tanti che non riusciva a vederne la fine. Erano uomini, donne, bambini, vecchi, soldati... persino animali. Non avevano risparmiato nessuno. Nelle case era rimasto chi aveva accettato di sottomettersi, chi aveva rinnegato Atena... tra la vergogna e la rabbia.
Così tanti...
Non si erano nemmeno presi la briga di ucciderli.
No, non era la Morte quella che loro perseguivano. Era il dolore, l'orrore, la sofferenza.
Il vento portava con sé l'odore del sangue. Portava con sé i lamenti, le preghiere.

Nella sua misericordia, il sommo Hades non l'avrebbe permesso...
Nella sua misericordia, la Morte era liberazione.

 


Note dell'Autrice - La parte dell' Arkhaios Neōs... eh... * sospira * qui è un problema.
Il tempio dedicato ad Atena Poliàs è stato distrutto nel 480 a.C. dai Persiani. Pare che sia stato ricostruito, ma non si è certi. È possibile che un altro edificio ne abbia assunto le funzioni. Senofante parla di un incendio che ha distrutto un tempio di Atena nel 406/405 a.C., ma c'è chi fa coincidere questo tempio con l'Eretteo.
Vista la confusione, ho deciso che a bruciare è stato l' Arkhaios Neōs, perché … perché, sì. Notare, il cipiglio d'onnipotenza dello “scribacchino”... Ho pure gli occhi stretti a fessura.
Ovvio, che se qualcuno può illuminarmi... sarebbe graditissimo un intervento ^__^
Penso che unendo questa one-shot alla prima vi siate fatti una certa idea di quello che è accaduto. In questa Guerra Santa, Hades e Ares si alleano per contrastare Atena; nella prima oneshot, definisco il dio alla guida dei “misteriosi” guerrieri come “Il Distruttore di uomini” Brotoloigos (Βροτολοιγός) uno degli epiteti di Ares.
La decisione di Hades di tornare nell'Oltretomba è una decisione più tattica che altro; qualcosa è andato storto. Per la serie, vatti a fidare di uno che è soprannominato "Colui che assalta le mura ", le prossime mura che assalterà potrebbero essere le tue.
Ciò che accadde nel V secolo a.C. - per ora – non ho intenzione di raccontarlo dettagliatamente in una storia, ma verrà citato spesso.
Ultima cosa. Il nome del Basilisco è Shilfield. Ecco... avrei mai potuto chiamare uno nel V secolo a.C. Shilfield? No, mi sembra ovvio. Shil+field. Mentre “field” è “campo”, “shil” non vuol dire fondamentalmente nulla... è una parola che viene usata a caso... “What do you shil do?” “Oh, shil, it's raining!”
Felthuz, non è nient'altro che la parola in lingua proto-germanica da cui, etimologicamente, deriva field.

Con questa, ho concluso la raccolta. Grazie per aver letto fin qui... spero che le storie vi siano piaciute. ^^

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