Le voci perse dell'Universo

di stillfreeit
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Manca solo il pollo di gomma con la carrucola ***
Capitolo 3: *** Al Dottore non piace ***
Capitolo 4: *** Le voci perse dell'Universo ***
Capitolo 5: *** I Giusti tra le Nazioni ***
Capitolo 6: *** Missione di recupero ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Il TARDIS non era mai del tutto silenzioso, neanche quando il Dottore stesso si sforzava perché fosse tale, come in quel momento.

Non era silenzioso affatto, sebbene non ci fosse nessuno, oltre a lui e l’anima del TARDIS - che poi, era proprio la fonte del rumore.

Non c’era nessuno a porre domande superflue; nessuno a chiamarlo insistentemente: «Dottore! Dottore! Mi sono fatto rapire! Sono svenuta! Ho sposato un alieno per sbaglio!»; nessuno a gironzolare attorno alla consolle di comando domandandosi ad alta voce come le dimensioni di quel luogo meraviglioso fossero meravigliosamente possibili.

Era un difetto della specie umana - aveva riflettuto recentemente il Dottore - quello di approcciarsi con inutile imbarazzo alle dimensioni. Di qualsiasi natura esse fossero.

Ad ogni modo, in quel preciso momento - ed era quello l’importante - non c’era alcun Homo Sapiens Sapiens, né un suo prossimo cugino meno o più evoluto, a gironzolare nel TARDIS, che poteva dunque ronzare nella pace dei sensi.

La chitarra elettrica, riportata alla luce di recente dal dimenticatoio in cui l’aveva lasciata qualche rigenerazione prima, era stata momentaneamente riposta sul suo appoggio. Forse, più tardi gli sarebbe venuta voglia di strimpellare qualche accordo, forse no, forse avrebbe preso rotta verso qualche galassia lontana ed inesplorata alla ricerca del famoso pianeta di origine dei letti a castello, forse il telefono avrebbe squillato e la giornata avrebbe preso tutt’altra piega. Chi poteva saperlo? Per il momento, il Dottore preferiva godersi in silenzio questo momento in cui tutto era ancora una possibilità.

In attesa che questa fantomatica grandiosa opportunità di svago si palesasse, aveva impostato la guida automatica nella completa casualità, aveva voltato le spalle allo schermo e scribacchiava simboli alla lavagna, come faceva sempre quando aveva semplicemente voglia di toglierseli dalla testa.

Non aveva idea di dove fosse o dove fosse diretto, confidava nel fatto che lo avrebbe scoperto presto.

Molto presto.

La consolle cominciò improvvisamente a lampeggiare di rosso.

Anche lo schermo lampeggiava.

Le spie poste accanto al propulsore, lampeggiavano anche loro.

Ma il Dottore non stava guardando, troppo occupato con i suoi gessetti e la sua lavagna.

Avrebbe dovuto sentire l’allarme ma, avendo veramente cercato un po’ di silenzio e concentrazione per qualche minuto, aveva optato per l’intelligentissima mossa di spegnere tutti i fastidiosi allarmi che avrebbero potuto disturbarlo.

Col senno di poi, avrebbe sicuramente preferito essere disturbato dall’allarme, piuttosto che dal pericolo stesso per cui l’allarme l’avrebbe disturbato.

Dunque, mentre per il TARDIS la minaccia era cominciata già da qualche minuto, per il Dottore tutto iniziò con un violento scossone.

Trovandolo impreparato, sia lui che la lavagna vennero sbalzati giù per le scale, fin sotto la colonna di comando.

La scossa simil-sismica si protrasse per un’eterna manciata di istanti, soltanto alla fine della quale, il Dottore riuscì ad aggrapparsi al pannello dei comandi per rimettersi in piedi con uno sbuffo seccato e dolente.

La nuvola di capelli grigi sulla sua testa era ancora più arruffata del normale, per non parlare del livello di aggrottamento delle sopracciglia, forse mai raggiunto prima d’ora.

I suoi occhi chiarissimi saettavano da una parte e dall’altra, accorgendosi soltanto in quel momento (alla buon’ora!) di tutti i segnali che la sua fidata amica aveva cercato di mandargli in tempo utile, fallendo miseramente.

Fece giusto in tempo a prendere atto dello stato di emergenza, quando giunse una seconda scossa che non lo buttò nuovamente a terra solo per pura coincidenza, trovandolo già aggrappato ai comandi.

Premette almeno una decina di pulsanti e tirò un altrettanto imprecisato numero di leve.

Non è che il TARDIS stesse effettivamente collaborando, a parte continuando ad accecarlo con quell’insopportabile luce rossa intermittente:

L’ho capito che siamo in pericolo, grazie mille davvero! Ora vuoi cortesemente dirmi per quale ragione??

Non lo disse ad alta voce - troppo preso dalla situazione per ricordarsi di esprimersi a parole - ma lo stava pensando con tutte le forze.

Lo schermo non gli stava suggerendo assolutamente niente, mentre un’altra scossa lo fece ballare come un idiota ubriaco nel tentativo di mantenersi in equilibrio.

Le coordinate, d’altra parte, indicavano che stavano fluttuando placidamente nello spazio più profondo, lontani da qualsiasi particolare campo di attrazione di stelle, pianeti, asteroidi, teiere e qualsiasi altra cosa potesse generarne uno. Per non parlare degli scudi del TARDIS stesso che in quel momento erano… fuori uso.

Ottimo!

Ma per quale ragione?

Le lunghe dita ossute del Dottore volavano sul pannello di controllo, continuando a premere tutti i pulsanti possibili, anche quelli che sapeva essere soltanto collegati a dispenser di ketchup. L’unico risultato che riuscì ad ottenere, con suo gran disappunto, fu quello di riattivare il sistema sonoro, cosicché il cacofonico gracchiare dell’allarme risuonasse per tutta la sala comando, con un tempismo praticamente inutile.

Solo dopo la quarta scossa, lo schermo cominciò a mostrare qualcosa di interessante.

Non che questo lo aiutasse ad uscire da quell’incresciosa situazione ma, senza ombra di dubbio alcuna, diventava più interessante ogni momento che passava.

Finché, da interessante divenne incredibile.

Da incredibile, mutò immediatamente in impossibile.

Gli occhi del Dottore si allargarono dallo stupore, mentre contemporaneamente le sopracciglia si scontravano al centro della sua fronte, solcandogli le rughe.

Impossibile!

Non riuscì a pensare altro, dopo che un tonfo pesante seguito da un’invincibile onda d’urto non lo buttò nuovamente a terra, comunicandogli in tale maniera gentile che il TARDIS era infine atterrato su qualcosa di solido.

Ma non lo aveva fatto atterrare lui.

Le luci continuavano a lampeggiare, il clacson dell’allarme a suonare in maniera assordante e del sottile fumo usciva dalla colonna della consolle.

Lo schermo continuava ad indicare le coordinate del nulla più assoluto, mentre tutto il resto suggeriva che erano certamente atterrati su qualcosa.

Il Dottore si alzò da terra per la seconda volta, sbuffando e mormorando lievissime imprecazioni tra i denti, mentre si spolverava la giacca ed i pantaloni con ampi colpi delle mani.

Guardò la porta del TARDIS, come se temesse che da un momento all’altro potesse tradirlo anche lei, come aveva appena fatto tutto il resto, aprendosi a chissà quali nemici.

Non lo fece.

Rimase chiusa e silenziosa, ad attendere che fosse lui a fare la prima mossa.

Il Dottore continuava a pensare a ciò che aveva visto nello schermo, a quanto fosse praticamente impossibile e a quanto, di conseguenza, potesse essere pericoloso ciò che si trovava oltre le sicure pareti della sua macchina del tempo. Di qualunque cosa si trattasse.

D’altra parte, nessuna delle sue migliori esperienze - a dire il vero, neanche le peggiori - erano mai cominciate con lui che decideva di ignorare qualcosa, volando via con il suo TARDIS, soltanto per aver subodorato del pericolo.

Tastò la giacca all’altezza del petto da entrambe le parti, trovandovi la forma e la consistenza dei suoi occhiali sonici e del suo cucchiaio da difesa: niente di più e niente di meno di ciò che gli serviva per avventurarsi e scoprire quale forza misteriosa ed impossibile lo avesse trascinato fin lì.

La porta del TARDIS cigolò normalmente sui cardini quando l’aprì.

Davanti a sé, il Dottore trovò effettivamente lo spazio profondo, esattamente come le coordinate sullo schermo avevano suggerito.

Soltanto che, quello stesso spazio profondo, non era affatto vuoto come avrebbe dovuto. Per questo il TARDIS non stava più fluttuando felicemente, perché era effettivamente atterrato su qualcosa.

Il qualcosa in questione, era il ponte di legno di un’enorme nave pirata, con tanto di vele ed albero maestro. E di fronte a lui, con una spada dalla lama sottile puntata direttamente alla sua gola, c’era un pirata.

O meglio, non era era esattamente un pirata, soltanto che il Dottore non si trovava a proprio agio anche solo al pensiero di adoperare la parola piratessa.

Però era così: era una donna - o perlomeno, aveva sembianze femminili - ed era inequivocabilmente un pirata. Non foss’altro per la spada.

«La vostra nave è stata appena abbordata, sventurato diavolo. Siete pregato di arrendervi, gettare le armi e mettere le mani bene in vista». Un pirata piuttosto erudito, a suo dire.

Di tutto ciò che gli era stato richiesto, il Dottore si limitò semplicemente ad alzare le mani, per pura cortesia o spirito di sopravvivenza, mantenendo lo sguardo fisso sulla lama lucente che adesso puntava esattamente al centro del suo petto, tra i suoi due cuori, quasi fosse consapevole della loro presenza.

La donna aveva un sorriso furbo, più giovane del resto del viso incorniciato da un caschetto scuro. Si stava divertendo un mondo, non c’era ombra di dubbio. «Non capita tutti i giorni di catturare un vero Signore del Tempo».

Le sopracciglia argentate del Dottore non avrebbero fisicamente potuto aggrottarsi oltre.

«Come, prego?».

Il pirata affondò lievemente la spada, cosicché il Dottore ne avvertì distintamente la punta affilata sotto il maglione. I suoi occhi scuri brillavano: sì, si stava decisamente divertendo.

«Hai rigenerato male le orecchie, di recente?» gli domandò, ed aveva già abbandonato i convenevoli per passare direttamente al tu.

Era un dubbio che, in effetti, era sopraggiunto anche a lui, sentendola parlare in maniera tanto disinvolta di Signori del Tempo, ed era stato costretto a ricredersi quando l’aveva sentita menzionare addirittura le rigenerazioni.

«Cos… che… no, ti ho sentita benissimo!» protestò, quasi offeso, se non fosse stato così strabiliato dalla situazione, la quale si allacciava in maniera inquietante al mistero che aveva intravisto sullo schermo del TARDIS poc’anzi.

«Ah, quindi la tua domanda era una sorta di perdita di tempo?» insistette la donna.

Quel tono strafottente non gli piaceva per nulla.

«L’unica vera perdita di tempo sei tu che mi punti contro quella ridicola spada» rispose lui aspramente e probabilmente in maniera un po’ azzardata, essendo effettivamente dalla parte sbagliata della ridicola spada di cui sopra.

La donna inarcò le sopracciglia, tra lo stupito e l’offeso.

«Non è una ridicola spada!» obiettò. «È sonica!».

«Come, prego?!».

Per tutta risposta, il pirata roteò appena l’elsa nella propria mano guantata e la lama vibrò lievemente, producendo un suono assai familiare. Prima che potesse stupirsi anche per quello, il Dottore avvertì la spiacevolissima sensazione di una scossa elettrica al centro del petto, dove la lama aveva puntato. Emise un grido strozzato, insieme ad un sussulto che gli tolse il fiato.

«Insisti con le domande inutili?» continuò a deriderlo lei, mentre lui era occupato a riprendere fiato.

Era tutto così assurdo.

«Non è possibile! Questo non… non è possibile…» ripeté, pur sapendo quanto fosse inutile continuare a farlo.

Il pirata ignorò i suoi deliri, o forse si stava divertendo troppo per dare conto al significato delle sue parole.

«Qual è il tuo nome, Signore del Tempo?» gli domandò.

Il Dottore si distrasse dalle sue improbabili congetture soltanto per sbruffare.

«Ah, bella domanda!» rispose, profondamente sarcastico. Lo considerò un passo in avanti verso l’accettazione dell’attuale situazione, sebbene ancora non fosse in grado di darsi una reale spiegazione di come fosse possibile. Che fosse finito nuovamente all’interno di un sogno? «…nascosta in piena vista un corno» aggiunse tra sé, massaggiandosi il petto dove la spada aveva colpito.

Una spada sonica.

Impossibile.

«Aspetta!» disse improvvisamente la donna, alzando la mano disarmata, esigendo il silenzio. Stava guardando il TARDIS alle spalle del suo nuovo prigioniero come se avesse appena avuto un’illuminante intuizione. «Aspetta un momento, io conosco questa cabina!» esclamò infine.

Con estremo sollievo per il Dottore, la donna abbassò la spada mentre faceva un passo indietro, come a volerli osservare meglio nel complesso.

Stava sorridendo di nuovo, ma in maniera completamente differente. «E conosco te! Tu sei il Dottore!».

Il Dottore aprì e chiuse la bocca un paio di volte, senza emettere alcun suono.

La situazione gli stava nettamente sfuggendo di mano.

Aveva sentito parlare di una navicella spaziale che si muoveva grazie alla propulsione dell’improbabilità infinita, ma non era certo che fosse quello il suo caso.

Ma allora…?

«Non ricordo di aver mai avuto il piacere» disse, molto più educatamente di quanto si fosse mostrato fino ad allora, come succedeva sempre quando era confuso. Troppo confuso per essere antipatico.

Chi era quella donna? Come faceva a conoscerlo? Perché aveva una spada sonica? Come faceva a sapere che si trattava di un Signore del Tempo?

Il pirata aveva rinfonderato la spada nel fodero della cintura dei pantaloni e lo osservava, senza disturbarsi in inutile discrezione, come se non volesse farsi sfuggire neanche il minimo dettaglio.

Non era esattamente l’atteggiamento che più lo metteva a proprio agio.

«Oh, sei più giovane di quanto ricordassi» disse poi, allegra come una bambina che scarta un regalo a sorpresa o che scopre per la prima volta l’esistenza delle lucertole.

«Sei davvero la prima a cui sento fare quest’osservazione» commentò il Dottore, con una certa amarezza.

Non era giovane affatto. Era parecchio tempo che non appariva così poco giovane, in effetti. Dunque, di che diamine stava parlando?

A meno che…

La donna ancora senza nome ignorò anche quel commento. Dopo aver finito di studiarlo per bene, gli si piazzò esattamente di fronte, allargando le braccia come se volesse suggerirgli qualcosa che, sinceramente, lui non riusciva ancora ad afferrare.

Il sorriso aperto che aveva sulle sue labbra era veramente troppo bianco per appartenere effettivamente ad un pirata degno di tale nome.

«Be’?» lo incalzò dopo una manciata di secondi, in cui il Dottore non fece altro che guardarla, annegando in un silenzio imbarazzato. Davvero, non ricordava di averla già vista prima d’ora e questo - ne aveva parecchia esperienza, soprattutto con le donne e soprattutto quelle relativamente giovani, come sembrava esserlo lei - risultava spesso offensivo. «Non mi riconosci, vecchio?».

Il Dottore aprì la bocca per rispondere, indeciso fino all’ultimo se buttarsi nella letale verità od optare per un’abile bugia, da mantenere finché non fosse riuscito a saperne di più.

Poi la richiuse, ingoiando il verdetto, quale che fosse.

Lo aveva visto di sfuggita, ma subito il suo sguardo vi era ritornato sopra e tutto era diventato immediatamente chiaro.

Chiarissimo. Impossibile fino a raggiungere e superare i livelli della sanità mentale ma, perlomeno, chiarissimo.

Sul braccio destro della donna, tra la manica corta della camicia ed il guanto lungo fino al gomito, c’era una parte di pelle scoperta. Su di essa, vi era impresso un tatuaggio.

Non era un tatuaggio qualunque ed ecco perché il Dottore lo aveva riconosciuto immediatamente: era l’immagine di un serpente, intento ad ingoiare la sua stessa coda, delineando così un cerchio perfetto, infinito.

Aveva visto quel tatuaggio su un solo essere vivente, in tutte le forme che aveva assunto.

Era impossibile ma anche innegabilmente reale.

«Il Corsaro!».

 

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Capitolo 2
*** Manca solo il pollo di gomma con la carrucola ***


Il Corsaro, o comunque si chiamasse la sua versione femminile, abbracciò il Dottore.

Non avrebbe mai potuto essere a conoscenza della sua nuova politica contraria agli abbracci e, considerata la situazione già abbastanza peculiare, il Dottore non se la sentì di illuminarla in proposito.

Dunque restò lì, in attesa che finisse, rigido come un lampione vestito di tutto punto, stretto tra le braccia della sua nuova, vecchia amica, della quale versione maschile aveva sicuramente conservato il vigore stritola-costole.

«Non ti vedo da secoli!» esclamò lei, picchiettandogli le spalle con le mani guantate. Il Dottore deglutì, senza dire nulla, sperando di non averlo fatto in maniera eccessivamente evidente. Era un sollievo poter nascondere il viso, in quell’occasione.

Infine, per suo estremo sollievo, l’abbraccio si sciolse. Il Corsaro volle comunque prolungare il contatto mantenendo le mani sulle sue spalle, quasi volesse sincerarsi che non si trattasse di un ologramma. Il suo sguardo era così pieno di gioia che il Dottore faceva davvero fatica a mantenerlo. «Non sei cambiato per niente! Be’, si fa per dire…».

Il Dottore strinse i denti, mai così tanto colto di sorpresa ed impreparato nella sua intera esistenza.

Immaginò che se chiunque - probabilmente una balena astrale - avesse deciso di passare in quel momento per quello scorcio di spazio profondo, si sarebbe trovato di fronte ad una scena piuttosto singolare: un vascello in perfetto stile piratesco (a parte l’innocuo dettaglio che non ci fosse l’ombra di un pirata degno di tale nome su quel ponte, come di nessun altro oltre a loro due), navigava placido nel vuoto cosmico ed aveva, per oscure ragioni, trainato a sé una altrettanto vagante cabina blu della polizia londinese degli anni ’60. I rispettivi proprietari - della nave e della cabina, s’intende - avevano appena finito di abbracciarsi.

Tuttavia, nessuno - neanche la balena astrale - sarebbe stato più stupito del Dottore, che aveva di fronte l’inequivocabile esemplare non solo dei Signori del Tempo, che aveva contribuito lui stesso ad eliminare dalla faccia dell’universo (perlomeno, quello in cui era stato convinto di navigare fino a quel momento) ma, in particolare, di quello che sapeva aver già perso la vita a causa di un pianeta assassino che lo aveva fatto a pezzi e li aveva utilizzati come ricambio per i suoi schiavi.

Eventualmente, gli venne in mente la sola cosa sensata che avrebbe potuto dire in quel momento, nel bel mezzo dello sconfinato universo, in quel contesto, davanti a quella particolare persona:

«Mi dispiace».

Il sorriso del Corsaro vacillò appena, confuso da quelle due parole che per lei non avevano alcun senso. Non in quel momento, almeno.

«Di che cosa?» gli domandò, infatti.

Mi dispiace. Quella era stata la sua prima, vera occasione per dirlo.

Erano trascorsi secoli, erano trascorsi corpi, orecchie a sventola, scarpe di tela, cravattini ed occhiali da sole. Aveva espresso il proprio rimorso nei modi più svariati: aveva urlato e maltrattato persone, aveva minacciato eserciti, aveva salvato vite ed interi mondi, aveva cancellato le proprie tracce ed aveva addirittura imprigionato Gallifrey in un universo tasca.

Ma non lo aveva mai detto. Non aveva mai avuto occasione di guardare negli occhi un Signore del Tempo, uno dei buoni, ed esprimerlo a parole e con molta chiarezza.

L’ironia della sorte voleva che, per qualche ragione che ancora il Dottore non era riuscito a spiegare, il Signore (o, in questo caso, la Signora) del Tempo in questione, non avesse ancora idea di cosa si riferisse.

Davanti al silenzio del Dottore, che continuava a fissarla con i suoi grandi occhi grigi come se avesse davanti poco più di un fantasma - e dal suo punto di vista, era esattamente ciò che stava accadendo - il Corsaro decise di riprendere parola, ancora lievemente perplessa per quello strano comportamento:

«Be’, io non ho intenzione di scusarmi per aver arraffato il tuo… com’è che lo chiamavi? DARTIS?».

«TARDIS» la corresse il Dottore meccanicamente e senza neanche accorgersi di farlo. Quel semplice dettaglio, però, bastò per dare una scrollata al suo cervello e riconnetterlo alla realtà del presente, dal granaio in mezzo al deserto in cui era rimasta bloccata: «DARTIS? Che cosa diamine dovrebbe significare?» sbottò, parecchio risentito.

«Ehi, sei tu che dai nomi strani alle cose» si giustificò il Corsaro, alzando le mani a mo’ di scusa.

«Non gliel’ho dato io» borbottò lui, così piano, così rauco e così scozzese che il Corsaro non lo sentì ed insieme non lo capì, perciò decise di far finta di nulla.

«E dove sono tutti quei ragazzini terrestri che ti porti dietro di solito?» domandò, allungando la testa oltre le sue spalle per dare un’occhiata all’interno del TARDIS, presumibilmente aspettandosi di trovarvi nientemeno che una scolaresca in gita. Era anche successo, tra l’altro. Anche abbastanza recentemente.

Ma, in quell’occasione, cascava molto male:

«Sono da solo» rispose il Dottore, chiudendo la porta della cabina blu, rendendola in questo modo impenetrabile a chiunque non possedesse le chiavi o almeno il suo magico schiocco di dita. «Meglio, no? Un solo prigioniero, una sola cella» le fece notare, ben determinato a riprendere il controllo della situazione, dopo tutte le botte in testa - fisiche o meno - che aveva preso.

Era inutile continuare a domandarsi come fosse possibile, la risposta non gli sarebbe piovuta giù dal cielo, doveva andare a cercarla.

Il Corsaro alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. Era un atteggiamento che aveva notato spesso nelle donne che avevano a che fare con lui.

«Avanti, seguimi» gli disse, voltandogli le spalle perché la seguisse.

Il Dottore le fu immediatamente dietro: ecco come si trovano le risposte. Non comportandosi da smarrito budino-cerebrato.

«Niente corde? Manette? Pugnali sonici alla schiena?».

«Tu non renderli necessari» rispose lei, senza sfumare più di tanto la minaccia, sebbene stesse ancora sorridendo.

«Dove stiamo andando?» domandò ancora il Dottore, impossibile da contenersi. La seguì lungo il ponte vuoto, tra i cordami penzolanti dagli assi e dalle vele gonfie (sebbene, ovviamente, non ci fosse un filo di vento nello spazio più profondo) dritti verso le scale che conducevano presumibilmente verso il boccaporto.

Il Corsaro si voltò nuovamente verso di lui soltanto per concedergli un sorriso misterioso:

«…ti mostro il mio TARDIS».

##

Le scale di legno scricchiolavano sotto i loro passi, come da contratto era giusto che fosse per tutte le scale di legno in ogni angolo dell’universo.

La piccola fiamma di una candela ad olio illuminava fiocamente il corridoio che conduceva verso una porta, anch’essa di legno, in perfetto stile da galeone.

Oltre quella, il soffio del silenzio cosmico dello spazio profondo al quale le orecchie del Dottore si erano da ore placidamente abituate, venne completamente calpestato e sotterrato da un rumore che, almeno per i primi tremendi secondi, gli sembrò assordante quanto un’esplosione.

Non era esploso nulla, in realtà. Erano solo voci. Un quantitativo di voci smisurato, decisamente superiore a quello che ci si sarebbe attesi in un luogo angusto come il boccaporto di una nave, per quanto grande questa potesse essere.

Il fatto era che, quel boccaporto particolare, non era affatto angusto.

Era una locanda dalle dimensioni di una piazza o forse era una piazza travestita da locanda, fatto sta che, nonostante la capienza si estendesse oltre le normali leggi della fisica, era piena zeppa di gente, da far fatica a distinguere dove finisse un avventore e ne cominciasse un altro. Gente proveniente - il Dottore poteva ben dire - da ogni più remoto angolo dell’universo. Specie differenti tra umanoidi, siluriani, qualche Vinvocci (o un Zocci?), un paio di Ood - che non guastano mai - ed addirittura dei Judoon, insieme a tanti altri che il Dottore non provò nemmeno ad elencare nella propria testa.

Mancavano solo tre alieni rosa con la testa a forma di mongolfiera e gli occhioni neri, intenti a suonare strumenti a fiato per allietare l’atmosfera con un’allegra musichetta… ah no! C’erano anche quelli!

«Be’, tu sì che hai capito il significato di più grande all’interno…» fu il suo commento, a voce nettamente più alta del normale per riuscire a sormontare il chiasso.

Ognuno dei presenti parlava, schiamazzava, abbaiava e produceva a modo suo versi più o meno acuti, rendendo praticamente impossibile distinguere e comprendere qualsiasi suono più distante di un millimetro dal proprio apparato uditivo.

Poté solo intuire che il Corsaro, accanto a lui, stava ridendo.

«Sì, tu sei sempre stato molto più timido» gli rispose, praticamente urlandoglielo nell’orecchio.

Mai come in quel momento, il Dottore sentiva la mancanza della quiete del proprio TARDIS, quella dove persino la presenza di un unico essere umano poteva essere considerata praticamente una folla.

Il Corsaro lo prese per un braccio, guidandolo attraverso il marasma.

Alcuni dei passeggeri, sostanzialmente quelli che non indossavano per principio di specie una tuta spaziale militare, avevano lo stesso stile piratesco del Corsaro, qualche volta con tanto di bandana e benda sull’occhio (sebbene il Dottore ne avesse adocchiato uno sollevarla per guardare meglio il fondo del proprio boccale). Un paio di pappagalli meccanici gracchiarono al loro passaggio, mentre molti avventori si sfiorarono la tesa del cappello come gesto di saluto nei confronti del Corsaro, gettando invece occhiate curiose ed insieme diffidenti verso il nuovo arrivato. Altri ancora erano troppo ubriachi, o troppo presi dall’impegno nel diventarlo, per accorgersi di qualsiasi altra cosa che non fosse la bevanda schiumosa nei loro boccali.

Il Dottore era sul punto di domandarle dove fossero diretti, ma cambiò idea immediatamente, considerando che avrebbe comunque ottenuto la risposta alla fine del percorso. Preferì sforzare le proprie corde vocali in qualcosa che lo interessava sicuramente di più:

«Ci sono… altri Signori del Tempo qui con te?». I suoi cuori battevano così forte da sembrare una mandria di cavalli al galoppo al solo pensiero. Non avrebbe saputo dire se fosse eccitazione o paura, aveva sempre fatto molta fatica a distinguerle.

Se c’era lei, potevano essercene altri.

Potevano. Perché no?

«Nah» rispose invece il Corsaro, ancora senza rendersi conto - un po’ a causa del chiasso, un po’ perché non avrebbe potuto in alcun modo immaginarlo - di quanta speranza mista a timore ci fosse in quella semplice domanda. «Andiamo, chi di noi vorrebbe mai viaggiare con un altro figlio di Gallifrey?».

Il Dottore non rispose.

«Oh. Giusto» ricordò lei, un momento più tardi con un’occhiata di scuse ed un sorriso imbarazzato. «Romanadvoratrelundar, o come diamine si chiamava lei».

Per un momento, il Dottore ebbe quasi voglia di ridere. Romanadvoratrelundar… ma lei avrebbe preferito Fred.

«Hai buona memoria» disse, il rumore di fondo stava sensibilmente calando nel frattempo che si lasciavano alle spalle il clou della folla tra i banconi, le panche e le tende colorate, perciò la sua voce risuonò vagamente più chiara su tutto il resto.

«È il cervello femminile, ha un sacco di spazio in più per la roba inutile. Dovresti provare».

Il Dottore sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Che osservazione originale! pensò, senza ovviamente darsi la pena di esprimerlo. Quella maledetta spada sonica era ancora troppo a portata di mano.

Superarono una piccola zuffa tra un bestione coperto dal pelo verde ed un umanoide barbuto di simili dimensioni, il quale dopo il primo pugno sul muso riprese la propria forma di Zygon, poi di nuovo il tizio barbuto, poi di nuovo Zygon…

«Dunque, che cosa fai di preciso, oltre a rapire TARDIS altrui?» le domandò il Dottore, comportandosi come se tutto ciò fosse perfettamente normale, esattamente come stava facendo lei.

«Oh, in realtà il tuo è stato solo una coincidenza» rispose il Corsaro, spostandosi di lato con impressionanti riflessi, giusto in tempo per evitare un boccale volante.

«È una lei» la corresse il Dottore, mentre scavalcava il corpo svenuto di un fauno spaziale.

«Prego?».

«La mia è stata una coincidenza, non il mio. È una lei».

Il Corsaro lo guardò, decisamente stranita.

«Sei davvero così solo?» gli domandò poi, senza trattenere una risata.

Un muscolo si contrasse spiacevolmente sulla mandibola del Dottore.

«Tornando a noi…» tagliò corto.

«I radar della nave hanno segnalato il… la tua… ehm… cabina! E ho deciso che sarebbe stato divertente portarla a bordo» spiegò il Corsaro, ignorando il suo tono brusco. «È un po’ che non ho a che fare con qualcuno come me».

«Già, ti capisco» commentò il Dottore, ricordando che l’ultima esperienza vissuta con un Signore del Tempo (ah già, era diventato Signora del Tempo anche lui, di recente), non era stata esattamente una passeggiata.

Ma non avrebbe dovuto essere possibile, per il TARDIS del Corsaro, riuscire a scorgere il suo, né tanto meno riuscire a pescarlo e trascinarlo a bordo. I loro TARDIS, in effetti, non avrebbero dovuto esistere nello stesso universo.

Il Dottore accantonò quei dubbi, consapevole che l’unico modo per riuscire a dare loro un senso, sarebbe stato analizzare i dati del TARDIS stesso, e ciò avrebbe dovuto attendere. Per il momento, era solo curioso di vedere ciò che il Corsaro voleva mostrargli. «Comunque, mi pare di dedurre di non essere qui come prigioniero, giusto?».

«Per il momento no. Ma le cose possono cambiare e tu hai una reputazione. Posso solo sperare che tu non faccia saltare in aria la nave…».

Il Dottore sbuffò e, per fortuna, le luci soffuse dei lampadari penzolanti dal soffitto non permisero a nessuno di notare la sfumatura rossa delle sue guance.

«È successo solo una volta, e non è stata interamente colpa mia, i Cyberman…».

«Lo so! Lo so!» lo interruppe il Corsaro, questa volta alzando la voce per sovrastare lui più che il resto della confusione, che era un brusio sempre più lontano ora che avevano imboccato un altro corridoio, decisamente meno suggestivo di una nave pirata e molto più di una normale nave spaziale. «C’ero anche io. Era mia anche quella nave, sai?».

«Mi dispiace».

Lo aveva già detto? Non credeva sarebbe stato così liberatorio. Forse perché se lo teneva dentro da troppo tempo.

«Perché continui a dirlo?» gli chiese infatti il Corsaro.

«Perché… sai come vanno le cose, poi… non sai mai se avrai altre occasioni di farlo…» si trovò a dire il Dottore, profondamente a disagio con se stesso, scoprendo solo in quel momento quel suo lato finora mascherato da una rabbia fredda contro tutti.

«Quando sei diventato così malinconico?» lo derise il Corsaro che, inconsapevolmente, stava ponendogli un sacco di domande scomode.

Il corridoio che avevano imboccato sembrava infinito, molto più simile ai corridoi del TARDIS - il suo TARDIS - di quanto fosse stato tutto il resto.

«Non mi hai ancora detto che cosa fai qui, visto che rapisci Signori del Tempo solo per hobby» disse il Dottore, svicolando abilmente la domanda a cui non aveva intenzione di dare una risposta per milleuna ragioni.

«Recupero merce nello spazio e nel tempo».

Il Dottore sbuffò, sarcastico.

«E con recupero immagino tu intenda che la rubi, giusto?». D’altra parte, nient’altro si sarebbe accompagnato tanto bene a quell’atmosfera di pirateria come un’attività di esproprio.

«Non è proprio corretto» rispose il Corsaro, sfoggiando ancora quel suo sorrisetto furbo, senza disturbarsi troppo a negare l’ovvio. «Diciamo che… prendo ciò che la gente butta via. L’ultima volta che ho controllato, non era rubare».

«Sarei curioso di sapere se i proprietari sono d’accordo con te».

Per il sollievo della sua impazienza ed iperattività, cominciava a scorgersi la fine di quel lungo corridoio in una porta blindata, dal cui oblò non si riusciva a scorgere alcunché che potesse suggerire che cosa contenesse.

«Non ho mai ricevuto lamentele» rispose il Corsaro, gemendo nello sforzo di ruotare a due mani la maniglia rotonda, che cedette infine con un cigolio ed un sibilo di fumo.

«Posso chiedere di che merce si tratta?».

Domanda ovvia, la sua, che il Corsaro aveva già provveduto ad anticipare.

«La più preziosa di tutto l’universo» rispose, proprio mentre la porta si spalancava lentamente su un probabile meccanismo automatico.

Una volta che i suoi occhi si abituarono alla potente luce artificiale improvvisa, il Dottore riuscì a scorgere l’interno.

Addossate lungo tutta la larghezze e la considerevole altezza delle pareti, c’erano centinaia di grosse taniche collegate tra loro con intricati grovigli di tubature.

All’interno di esse, gorgogliava allegramente uno strano liquido dal riflesso verdastro ma abbastanza trasparente da mostrare che cosa vi stesse fluttuando all’interno.

Quando il Dottore riuscì finalmente a vedere abbastanza da poterne distinguere le forme, spalancò gli occhi, inorridito: immersi in quella misteriosa pozione, c’erano almeno un centinaio di corpi.

Dalle dimensioni e dall’aspetto, si trattava di corpi di bambini.

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Capitolo 3
*** Al Dottore non piace ***


«Perché mi guardi così?» ebbe il coraggio di domandare il Corsaro.

Per quanto riguardava il modo con cui effettivamente il Dottore la stava guardando, ci si poteva tranquillamente dimenticare del senso di colpa, della sorpresa e della vergogna che il Corsaro aveva conosciuto del nuovo volto del Dottore fino a quel momento, spostandosi più nettamente verso la rabbia glaciale del Signore del Tempo che si era guadagnato il nome di Tempesta che avanza.

«Perché questo posto è pieno di bambini» rispose il Dottore, gelido. «Non sarebbe educativo sentirmi dire a parole quello che sto pensando».

Davanti a quello sguardo carico di disprezzo che il Dottore le stava puntando contro, il Corsaro si trovò a scoppiare in una risatina imbarazzata:

«Credo che tu abbia frainteso» disse.

Il Dottore inarcò un sopracciglio, fingendo di dare un’altra occhiata intorno.

C’erano bambini di ogni specie, posti uno sopra l’altro all’interno di quei cilindri di vetro. Il riflesso verdastro del liquido dava loro uno strano colorito ma, in ogni caso, qualsiasi fosse la ragione, quello non era il loro posto.

«Ti prego di illuminarmi» le rispose, di un sarcasmo gelido quanto la sua espressione.

Sapeva che c’erano ben poche possibilità che il Corsaro fosse in procinto di dargli una spiegazione che gli sarebbe piaciuta ma, per il bene del ricordo che conservava del Corsaro che aveva conosciuto a Gallifrey, il Dottore aveva bisogno di convincersi che si stava effettivamente sbagliando, che era veramente tutto un equivoco.

«Questi bambini sono morti». Ecco. Appunto.

«Non sei affatto d’aiuto» sbottò il Dottore, incrociando le braccia. Le sue elevate facoltà mentali si stavano lentamente riprendendo dallo shock, abbastanza da cominciare a porsi le ovvie domande e a cercare le altrettanto ovvie risposte: c’era qualcosa che potesse ancora fare per quei bambini? C’era qualcosa che potesse fare per fermare quello scempio o risparmiare la vita dei prossimi? Per quanto tempo avrebbe avuto gli incubi a proposito di ciò che stava vedendo?

«Non li ho uccisi io» riprese il Corsaro, quasi credesse seriamente che ciò costituisse un maledetto attenuante. «Li ho solo recuperati».

Il Dottore non disse nulla, rimase immobile come una statua severa a fissarla. Normalmente avrebbe cominciato perlomeno a sbraitare, ma quella volta era diverso. Quella volta, c’era un Signore del Tempo di mezzo e, dunque, quella situazione surreale quasi gli faceva tornare in mente il motivo che lo aveva spinto a premere quel bottone (o qualsiasi cosa fosse realmente accaduta in quel granaio).

C’era soltanto un dettaglio che non gli tornava affatto: perché glielo stava mostrando? Sulla scala delle cose più sbagliate da mostrare con orgoglio ad un vecchio amico appena ritrovato, dei piccoli silos contenenti bambini morti veniva addirittura prima delle foto delle vacanze.

Il Corsaro attese, sostenendo coraggiosamente il suo sguardo, apparentemente in attesa che lui capisse da solo. Non c’era molto da capire, a parer suo.

Quando il silenzio si allungò oltre ciò che sarebbe stato necessario, l’espressione di attesa del Corsaro si trasformò prima in stupita:

«Ah» disse, prima di aprirsi in un piccolo sorriso. «Ora capisco da dove arriva questo tuo nuovo perenne senso di colpa: lo avrei anche io se dovessi guardare quegli occhi ogni mattina allo specchio».

Il Dottore continuò a tacere. Il Corsaro aveva ragione: quell’amara delusione condita di rabbia era esattamente ciò che provava per se stesso a seguito di ciò che era stato sul punto di fare o che aveva fatto. Ma, perlomeno, a lui era stato concesso il dono di riuscire a vergognarsene, di certo non mostrava i suoi peccati con lo stesso orgoglio che stava utilizzando lei.

Il Corsaro sospirò profondamente, come se non si fosse aspettata di fare tanta fatica, poi indicò le taniche attorno a loro con un ampio gesto: «Guardali più da vicino» insistette.

Era proprio quell’insistenza folle, che il Dottore non riusciva a comprendere. Perché il Corsaro non era mai stato folle. Non più di lui, certamente. E, a lui, di chiudere dei bambini morti nelle taniche, non gli era mai neanche passato per la mente. «Guardali attentamente. Non li riconosci?».

«Dovrei?» sbuffò il Dottore. Tuttavia, un’occhiata più attenta gliela gettò comunque.

Non vide nulla di più di ciò che avesse già intuito. Niente che giustificasse qualsiasi cosa il Corsaro stesse facendo con quei corpi.

Si avvicinò, quasi senza accorgersene, ad uno dei contenitori. Era un bambino umano. Non poteva avere più di otto o nove anni. Sembrava addormentato, in mezzo alle bollicine prodotte dal liquido secondo chissà quale cinetica.

Poi qualcosa balzò alla sua attenzione. Qualcosa a cui, effettivamente, non aveva fatto caso prima ma, più che una giustificazione, il Dottore la interpretò come un aggravante.

Il bambino indossava dei vestiti molto semplici ma, soprattutto, molto caratteristici: era decisamente un bambino con un pigiama a righe.

I suoi occhi corsero istintivamente verso le braccine magre del piccolo, trovando esattamente ciò che si aspettavano in una corta serie di numeri impressa sulla pelle.

«Hai sempre avuto un debole per i terrestri» stava dicendo intanto il Corsaro, che lo osservava con attenzione alle sue spalle.

Il Dottore continuò a non rispondere. Chiuse gli occhi un momento, cercando con scarso successo di impedirsi di immaginare le circostanze in cui quel bambino doveva aver perso la vita. In ogni caso, la presenza di quel corpo in quel TARDIS era completamente fuori luogo. «Ma non ci sono solo loro: sono i bambini vittime di carestie, guerre, malattie, genocidi nella storia di tutto l’universo. Come ho detto: non è mia la colpa se sono morti».

Adesso che aveva cominciato a notarlo, il Dottore trovò segni distintivi simili - sebbene diversi per circostanza - a quelli del bambino che aveva più attentamente esaminato, presenti in ogni altro, proveniente da ogni pianeta e da ogni epoca. La sua quasi infinita cultura a proposito dell’universo, lo conduceva tristemente a riconoscerle praticamente tutte.

Ma il dubbio ancora permaneva, ed era piuttosto ovvio: perché?

Senza neanche accorgersi di farlo, il Dottore indossò gli occhiali sonici ed esaminò il corpo di una bambina dalla pelle bluastra e le orecchie a punta.

Ciò che ne sortì, riuscì addirittura a stupirlo ancora di più di quanto già non fosse.

«Ma non lo sono» osservò, togliendosi nuovamente gli occhiali, quasi non potesse credere a ciò che gli avevano appena mostrato. «I parametri vitali sono ottimi. A parte il fatto di essere sott’olio».

Aveva più senso. Ad eccezione del fatto che non ne aveva per nulla.

Il Corsaro, questa volta, scoppiò apertamente a ridere.

«Con tutto il rispetto, Dottore, ma sarebbe abbastanza inutile scorrazzare con un mucchio di cadaverini provenienti da sconfinate galassie» fu il suo commento, certamente privo di tatto, ma il Dottore non era certamente il tipo da scandalizzarsi. Tuttavia la fissò, palesemente senza capire dove tutto ciò andasse a parare. Che fosse davvero tutto un sogno? «Certo che non sono morti!» continuò intanto il Corsaro, quasi esasperata da cotanta inaspettata ottusità. «Non adesso. Lo sono nel loro mondo e nel loro tempo. Questo fluido li mantiene in stasi nel momento immediatamente precedente al trapasso e ci dà il tempo di rianimarli, curarli e…».

«Basta così!» la interruppe il Dottore, bruscamente. «Ho avuto a che fare con un’acqua miracolosa anche troppo di recente, preferisco non sapere altro».

«Non capisco» disse il Corsaro e sembrava veramente confusa mentre scuoteva piano il capo. «Dovrebbe piacerti come idea, salviamo dei bambini da morte certa».

Be’, era sicuramente un modo di vederla.

Tuttavia, il Dottore era ben lungi dal proporre un brindisi.

«Dove li portate?» domandò, tornando a guardare le numerose fila di taniche. Dove, avrebbe potuto essere un buon inizio per arrivare a capire indirettamente anche perché.

«Dovunque possano far sentire la loro voce nell’universo» rispose il Corsaro.

Le orecchie del Dottore non mancarono di notare quanto meccanica fosse suonata quella risposta, quasi da copione.

«Queste non sono parole tue».

Il Corsaro scrollò le spalle, come se non vedesse il problema.

«Non lavoro da sola» rispose, senza disturbarsi a nasconderlo. «Ho un socio. Be’, l’idea in effetti è stata tutta sua. Io ho messo solo a disposizione la nave».

Un socio, dunque. Un bel chi, si univa allegramente alla brigata delle domande che pretendevano risposta, per riuscire a capire tutto il resto.

Ma una cosa alla volta.

«Dove li portate?» ripeté il Dottore. Il problema era evidente, per lui, ed era più che certo che lo fosse - o lo fosse stato - altrettanto anche per lei. D’altra parte, appartenevano alla stessa specie. Se non i Signori del Tempo, chi altri avrebbe potuto vederlo? Doveva averlo visto! «Perché non li restituite alla loro famiglia, nel loro tempo?» provò a domandare.

«Sai bene quanto me che alle linee temporali non giova che qualcuno torni dal regno dei morti» rispose il Corsaro, come prevedibile.

«No, infatti!» esclamò il Dottore, indicando con il pollice le taniche alle sue spalle, insieme sollevato ed adirato dall’aver ricevuto esattamente la risposta che si aspettava.

Doveva dunque pensare che il Corsaro avesse notato il problema ed avesse deciso felicemente di ignorarlo?

Se era vero che quei bambini erano morti - e a giudicare da ciò che il loro aspetto suggeriva, lo erano certamente - riportarli in vita in questa o in quell’epoca, avrebbe comunque creato dei grovigli nella linea temporale, dei paradossi che solo il Tempo sapeva come si sarebbero risolti e con quali conseguenze.

«Perché sei così diffidente?» gli domandò il Corsaro. Il Dottore scosse la testa, prima di voltarsi nuovamente verso le pareti tappezzate di taniche di bambini. Aveva un suono stupido e folle anche solo nel pensiero.

Era sicuramente meglio rispetto a quello che aveva pensato in un primo momento ma, continuando ad arrovellarcisi mentre si dondolava sui talloni con le mani in tasca, comunque non lo convinceva affatto. «Ti assicuro che siamo in completa buona fede, non c’è alcun guadagno per noi» continuò infine il Corsaro, dopo averlo osservato a lungo in quell’atteggiamento meditabondo.

Be’, modi per guadagnarcisi sopra, avrebbero potuto essercene a bizzeffe e soltanto di quelli che una mente come quella del Dottore riusciva ad immaginare. Ma se anche ciò che il Corsaro aveva appena detto fosse stato vero, anche se fosse stato soltanto un modo per dare a quei bambini una possibilità, non era affatto certo di trovarlo giusto.

«Non mi piace» disse, riassumendo in tre parole tutte quelle lunghe trafile di pensiero, che comunque non avrebbero fatto la differenza.

«Non ti facevo così conservatore» osservò il Corsaro, evidentemente colta di sorpresa.

Il Dottore la guardò, accigliato. Si trattava veramente solo di questo? Dell’essere infine diventato come tutti quei noiosi Signori del Tempo che aveva conosciuto da giovane? «Sei invecchiato parecchio, Dottore».

Il Dottore sbuffò, con un mezzo sorriso privo di alcuna allegria.

«Questa l’ho sentita già più spesso».

##

Il problema fondamentale del non riuscire a trovare la soluzione al mistero di come il suo TARDIS si fosse scontrato con quello del Corsaro quando non avrebbe fisicamente potuto, era la scarsa collaborazione della sua affezionata cabina.

Di punto in bianco, aveva deciso di rinchiudersi in una sorta di sciopero offeso, rifiutando qualsiasi tipo di approccio, primo fra tutti, quello di schiodarsi dal ponte della nave. Aveva metaforicamente incrociato le braccia e si era piantata lì, non facendo altro che ronzare inutilmente.

Dopo aver provato a convincerla in tutti i modi, il Dottore si era dovuto arrendere all’evidenza di dover prendere le cose più alla lunga di quanto avrebbe desiderato.

Seduto al tavolo da lavoro con strani attrezzi in mano, era appena giunto alla conclusione che l’atmosfera soffusa del TARDIS rendesse veramente scomodo l’utilizzo degli occhiali sonici al posto del cacciavite, nell’atto di prendere per la terza volta il fusibile sbagliato ed imprecando nervosamente contro gli umani - perché comunque era sempre colpa loro - quando sentì la porta d’ingresso cigolare sui cardini.

Il Corsaro aveva insistito per affidargli un aiuto nella risoluzione dei problemi del TARDIS. Ovviamente, il Dottore era certo che nessuno meno che lui fosse in grado di comprendere e trovare una soluzione ai capricci della sua più vecchia compagna di viaggio, ma aveva accettato comunque. Per quanto fosse assolutamente vero che benedicesse spesso la solitudine, sentiva altrettanto spesso il bisogno di avere piccoli incompetenti tra i piedi contro cui sfogare la propria rabbia contro il mondo e a cui mostrare il corretto modo di fare qualsiasi cosa.

Insomma, aveva bisogno di qualcuno che annuisse a tutte le sue affermazioni.

Dei passi leggeri scesero le scale dalla sala di comando. Il Dottore non alzò lo sguardo dal suo lavoro finché l’ombra del nuovo ospite non gli fu praticamente addosso, rendendo ancora meno possibile lavorare.

Si tolse gli occhiali, incontrandolo infine con il suo consueto sguardo perennemente accigliato. Una delle sopracciglia, tuttavia, si inarcò inesorabilmente sulla fronte, quando vide chi il Corsaro aveva deciso di mandargli.

Quel ragazzino era il ritratto del completo disagio nello stare al mondo.

Conciato com’era nel suo abbigliamento da pirata, gli mancavano soltanto i baffetti finti per essere tranquillamente ammesso ad una festa in maschera per bambini, non fosse stato per i piedi nudi ed i segni sulle gambe e le braccia fin troppo realistici di una vita esposta alle intemperie. Sebbene, i suoi grandi occhi azzurri colmi di timidezza sotto un ciuffo di capelli castani, ben poco si prestavano alla reputazione di un brutto ceffo pirata.

«Avevo chiesto un assistente competente» fu il primo, gentilissimo commento del Dottore, tanto per mettere a proprio agio l’imbarazzatissimo nuovo ospite, che subito abbassò lo sguardo mordendosi il labbro e tormentandosi le dita delle mani lungo i fianchi.

«La Signora Corsaro ha mandato me, signore» rispose, ancora con la vocina ancora lontana dall’influenza degli ormoni adolescenziali.

Il Dottore trasalì.

«Dottore» mormorò, tra i denti.

«Sì, signor Dottore» si corresse immediatamente lui, arrossendo fino alle lentiggini.

Il Dottore roteò gli occhi, prima di infilarsi nuovamente gli occhiali.

«Per carità, passami quel trasformatore e non dire più una parola» sbottò, indicando con un dito ossuto la scatola di cianfrusaglie alla sua destra.

Ci si sarebbe aspettati che un bambino umano, all’interno del TARDIS, avendo a che fare con una figura misteriosa e neanche tanto accomodante come la sua, davanti ad una richiesta del genere, provasse almeno a porre qualche domanda.

Invece, il ragazzino obbedì con molta naturalezza, rovistando dentro la scatola finché non trovò esattamente il pezzo che il Dottore gli aveva richiesto. Infine glielo porse senza osare pronunciare verbo.

Il Dottore tentò di rimanere indifferente, come se neanche avesse fatto caso a quell’evidente stranezza, tuttavia, doveva ammettere che quel ragazzino avesse perlomeno smosso la sua curiosità.

«Come ti chiami?» gli domandò, mentre toglieva nuovamente gli occhiali sonici ed indossava quegli stupidi binocoli da avvicinamento che, insieme alla chioma argentea indomata, gli davano un’aria parecchio folle.

Il ragazzino tacque, guardandosi intorno mordendosi le labbra, sempre più a disagio.

Il Dottore sbuffò. Era una scenetta piuttosto banale che avrebbe dovuto prevedere, divertente quanto mimi e karaoke.

«Puoi rispondere alle domande. Solo, non chiamarmi signore, lo trovo irritante».

«Alexander» rispose il bambino, immediatamente e sembrò sforzarsi con tutto se stesso per trattenersi dall’adoperare quell’appellativo a cui era tanto abituato, quasi come se avesse lasciato la frase in sospeso.

Il Dottore aveva già notato l’accento palesemente irlandese dalle poche parole pronunciate poc’anzi. Che fosse terrestre, d’altra parte, era piuttosto ovvio.

«Quanti anni hai?» domandò ancora, sebbene non fosse difficile da indovinare.

Fu la risposta a coglierlo di sorpresa:

«Non lo so».

Il Dottore alzò uno sguardo curioso su di lui. Con le iridi ingrandite da quei ridicoli occhiali, poco ci mancò che lo spaventasse a morte.

«Be’, è facile scoprirlo: quando sei nato?».

«Sono nato a Waterford, nel 1837» rispose prontamente Alexander.

Irlandese, appunto.

E in un’epoca molto particolare, come il Dottore sapeva perfettamente. La Grande Carestia.

«Ah» commentò. Tornò al suo lavoro, anche solo per impedire alla propria mente di immaginare la minuta figura di Alexander all’interno di una di quelle taniche che il Corsaro gli aveva mostrato il giorno prima. «E sai cos’è un trasformatore». Era parecchio avanti, per essere stato un bambino terrestre del 1837.

«Sono con la Signora da tre anni ormai, ho imparato tante cose» spiegò lui, accennando appena ad un piccolo sorriso che gli solcò le fossette nelle guance.

«Sei uno di quei bambini» osservò argutamente il Dottore. Era strano immaginarsi di parlare con uno di quei bambini prelevati e messi in stasi un momento prima della morte, come se niente fosse. Eppure, era esattamente ciò che stava accadendo ed era, in effetti, una delle esperienze più surreali che il Dottore ricordasse di aver mai vissuto.

«Sono una delle voci, sì» rispose il bambino, chinando il capo in una sorta di gesto di saluto.

«Voci?».

«Le voci perse dell’universo. È così che ci chiamano» spiegò Alexander.

Un bel nome poetico, senza dubbio. La sensazione di averlo già sentito da qualche parte, si risolse immediatamente nel ricordo di aver udito utilizzare quella descrizione anche dal Corsaro stesso e di averla giudicata, già da allora, nient’altro che pura retorica.

«E quando saresti… be’… stato prelevato?». Per onorare i suoi minimi progressi nell’approccio interpersonale, il Dottore si sforzò di non fare alcun riferimento alla sua sicuramente per niente dolce morte prematura.

«Avevo dieci anni».

«Oh, quindi hai tredici anni. Visto? Facile» fu l’osservazione acuta del Dottore, agitando in aria il cacciavite non-sonico che aveva in mano come una bacchetta.

Il bambino si accigliò, pensieroso.

«Non lo so più, a dire il vero» disse, con una scrollata di spalle. «Qualche volta mi sembra che sono passati secoli… altre volte qualche minuto».

Il Dottore sbuffò, con un sorrisetto di comprensione.

«È l’effetto che il TA… che la nave ha su tutte le altre specie» spiegò, come se fosse una cosa da nulla. Aveva un effetto simile anche su di lui, a dire il vero, che ancora oggi non riusciva a calcolare con esattezza la propria età o, forse, vergognandosi di farlo. «Ricordi qualcosa di… prima?». Sperava di aver posto quella domanda con sufficiente delicatezza, almeno per le sue capacità, che erano altresì scarse in tal senso.

Il fatto era che si ritrovò ad essere veramente curioso di sapere che cosa rimanesse effettivamente nella testa di quei bambini, una volta strappati alla loro realtà brutale in maniera altrettanto brutale.

Alexander gli sembrò stupito da quella domanda ma non sicuramente nel modo offeso che ci si sarebbe aspettati se fosse stata colpa del Dottore e della sua mancanza di tatto. Sembrava, piuttosto, che nessuno glielo avesse mai domandato.

Se quella sensazione fosse stata vera, pensò il Dottore, la situazione sarebbe stata ancora più grave di quanto avesse pensato.

La risposta, dunque, non giunse rapida come era stato per tutte quelle che l’avevano preceduta. Alexander ci pensò su per un intero minuto, concentrandosi tanto da scavarsi una piccola ruga al centro della fronte nonostante la sua giovanissima età.

«Ricordo di aver avuto fame» disse infine. Il Dottore avrebbe potuto giurare di vedere un lampo di doloroso terrore all’interno del suo sguardo che fissava il nulla sul tavolo da lavoro. Probabilmente la sensazione peggiore che ad un umano fosse imposto di provare e che molti abitanti della Terra avevano ormai dimenticato mentre tanti altri erano ancora costretti a farci i conti. «Tutti avevamo fame» aggiunse poi, in un mormorio appena udibile sul ronzio costante del TARDIS.

Il Dottore si dimenticò momentaneamente del suo lavoro, rapito dal discorso come raramente gli era successo prima con altri esseri umani. Ed era solo un bambino.

«Dunque, la tua famiglia…» ancora, sforzò tutto se stesso nel cercare le parole giuste. Per la prima volta, Alexander lo interruppe prima che riuscisse a concludere la domanda.

«La Signora ha preso sia me che le mie sorelle ed i miei fratelli» disse. Fu facile notare il fatto che il destino dei suoi genitori non fosse menzionato nel quadretto. «Io ho deciso di restare qui, loro hanno preso altre vie». Non fu troppo specifico nello spiegare cosa di preciso fossero quelle vie e, sinceramente, il Dottore si dispensò dal domandare.

C’era sicuramente una persona che avrebbe saputo rispondere meglio a tutte quelle curiosità e, probabilmente, senza dover scuotere alcuna componente emotiva.

«Sai dirmi qualcosa di più a proposito del socio del Corsaro? Lo hai mai visto?».

Il velo che aveva appannato lo sguardo di Alexander durante quell’inopportuno ma necessario tuffo nel passato, si scostò in fretta, quando il discorso si spostò ancora sulla nuova realtà della sua vita.

«Sì, capita che si incontra con la Signora, prima di smistare gli altri bambini» rispose, con una scrollata di spalle indifferente. «È un tipo a posto, credo».

Be’, quella era una decisione che spettava a lui.

«Qual è il suo nome?».

«Nicholas Winton».

##

Il Dottore sapeva come pilotare un TARDIS.

Be’, molti avrebbero avuto da ridire in proposito, ma lui avrebbe continuato a sostenere di esserne perfettamente capace.

Ad ogni modo, sebbene la sua perfetta capacità di guidare un TARDIS, ancora gli sfuggiva la meccanica della nave del Corsaro.

Sì, il timone era anche abbastanza intuitivo, sebbene non ne vedesse l’utilità, considerando che una volta impostate le coordinate sulla consolle, fosse praticamente inutile seguire una rotta.

Per quanto riguardava il resto, faceva veramente fatica a trovare un ruolo a tutti quegli uomini - alcuni non erano uomini affatto - intenti a correre da una parte all’altra del ponte tirando corde, ammainando vele, trasportando barili sulla schiena (quelli probabilmente diretti alla locanda per foraggiare le sbronze).

Aveva quasi la sensazione che il Corsaro li avesse assunti unicamente per proprio diletto e per dare un’aria più piratesca al tutto. I capricci dei Signori del Tempo non hanno eguali in tutto l’universo. O non ne avevano.

Per quanto riguardava lei, infatti, non faceva che trascorrere il tempo passeggiando sul ponte o arrampicandosi sulle cime, con la faccia contro il vento praticamente inesistente nel vuoto cosmico.

«Dottore!» lo salutò allegra, mentre penzolava una gamba oltre il parapetto in una maniera che avrebbe provocato lo svenimento a chiunque soffrisse anche solo vagamente di vertigini. Il Dottore la raggiunse, muovendosi a disagio nel mezzo dei marinai in fermento per niente propensi a cambiare direzione del passo, neanche davanti ad un ostacolo mobile come lui. «Allora? Come sta la tua amica blu?» gli domandò, quando fu abbastanza vicino da fare due chiacchiere.

«Ci sto lavorando» rispose il Dottore, con lo sguardo perso verso le galassie ed i colori mozzafiato delle nubi intergalattiche. Mozzafiato era il termine giusto, considerando quali gas tossici bruciavano per conferire quelle cangianti tonalità. Ma era e sarebbe sempre stata una vista spettacolare. Sicuramente, per quanto lo riguardava, ricca di ricordi. «Nel frattempo, ottimizzo» aggiunse.

Aveva deciso che, dal momento che la propria nave si rifiutava categoricamente di salpare, avrebbe dovuto sfruttare quel tempo per capire il più possibile a proposito di quel traffico di bambini nello spazio e nel tempo.

Che fosse esattamente ciò che il TARDIS voleva che facesse? Non sarebbe stata neanche la prima volta.

«Ti è utile Alexander? È un ragazzo in gamba» disse il Corsaro. Il Dottore non rispose, continuando a guardare lo spazio profondo davanti a loro.

Aveva trascorso ormai parecchio tempo in compagnia di quel ragazzino. Non aveva intenzione di ammetterlo ad alta voce, perché sapeva perfettamente quanto gongolamento avrebbe provocato nel Corsaro ed eventualmente nel suo socio, tuttavia Alexander era veramente un ragazzino sveglio e in gamba per un terrestre della sua età e del suo sfondo culturale. Addirittura, un promettente bassista, secondo la sua modesta opinione.

Ma tutto ciò che il Dottore si stava sforzando di tacere, il Corsaro parve intuirlo comunque, a giudicare dal sorrisetto poco meno che ghigno che apparve sulle sue labbra. «Una fortuna che la carestia irlandese non lo abbia spazzato via dalla faccia dell’universo, eh?» aggiunse, con un tono diffidente poco credibile.

Il Dottore alzò gli occhi al cielo. In quel caso, letteralmente.

«Ah ah ah» rispose, scimmiottando in modo volutamente esagerato una risata. «Immagino che tu e tale Winton vi facciate grasse risate con queste battute».

«Uh, beccato!» commentò il Corsaro, con gli occhi scintillanti, a sentirgli nominare il suo presunto socio in affari.

Era chiaro che non avesse mai avuto veramente intenzione di nasconderglielo, ma che si fosse semplicemente divertita a farlo indagare.

«Ora vorresti dirmi che si tratta di quel Nicholas Winton?» le chiese, con uno scetticismo così pesante che avrebbero tranquillamente potuto usarlo come àncora.

«No, naturalmente no» rispose lei, con un gesto secco della mano, come a voler scacciar via delle mosche spaziali. «Non si tratta neanche di un terrestre, ha soltanto adottato quel nome, per ispirazione».

Un’ispirazione davvero curiosa. E lui non era certo di condividere quell’apparente similitudine tra ciò che il vero Nicholas Winton aveva fatto, rispetto a ciò che avevano messo in piedi quei due.

«E quale sarebbe il suo vero nome?».

«Non l’ho chiesto… Dottore» rispose il Corsaro, con un’occhiata sarcastica decisamente significativa che seppe colpire nel punto giusto esattamente come la lama sonica che teneva nella fodera.

Il Dottore schioccò la lingua infastidito, senza però trovare nulla con cui ribattere.

Si poggiò con le mani al parapetto e decise di cambiare elegantemente il discorso.

«Voglio conoscerlo».

Il Corsaro sorrise, consapevole di aver incassato almeno una vittoria schiacciante. Poi si aggrappò ad una delle reti penzolanti dalle vele e balzò agilmente sul ponte, appena dietro di lui.

«Nessun problema» gli disse. «Stiamo giusto andando da lui».

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Capitolo 4
*** Le voci perse dell'Universo ***


«Non c’è assolutamente nulla di difficile! Polvere di cacao e latte caldo, mescoli ed il gioco è fatto».

Il locandiere continuava a fissarlo con tutti e quattro i suoi occhi gialli, mentre strofinava il boccale con uno straccio lercio non contribuendo esattamente all’igiene. Il Dottore non avrebbe saputo scegliere se fosse meno accomodante quel suo sguardo multiplo o i tentacoli - rossi come la sua pelle - che gli pendevano dagli zigomi fino al mento come fossero degli strani baffi.

Eppure si era sforzato di chiederlo gentilmente, senza incorrere nella possibilità di insultare lui e la sua intera specie, ed avrebbe anche potuto farlo: che razza di specie non riconosce l’esistenza della cioccolata calda?

«Grog, birra o whiskey?» gorgogliò lui, esattamente con lo stesso tono minaccioso con cui glielo aveva chiesto la prima volta e poi le tre a seguire, esclusa quest’ultima.

Il Dottore fece schioccare le labbra con impazienza, ma la mole del locandiere gli suggeriva come voce di coscienza che non fosse il caso di dare fondo alla sua personale dose di strafottenza.

Meglio cambiare strategia:

«Un té caldo?».

Non fu affatto efficace.

«Ehi, secco» intervenne una voce gracchiante alla sua destra. A dire il vero, fu l’odore per nulla rinfrescante del pirata umanoide a raggiungerlo per primo, tanto da sentire l’imminente bisogno di rigenerarsi in un pino della foresta. «Ordina la poltiglia e poi levati di mezzo, se non vuoi dover mangiare il resto della sbobba con la cannuccia» fu la velata minaccia, condita dallo scrocchiare delle nocche in un pugno.

Molti dei suoi compari alle sue spalle grugnirono la loro approvazione. La maggior parte di essi erano decisamente più temibili del primo ceffo, il quale avrebbe dovuto guardarsi allo specchio prima di usare con qualcun altro l’appellativo secco. Il Dottore aveva appena aperto la bocca per farglielo notare, quando qualcosa lo interruppe e, presumibilmente, lo salvò davvero dal pericolo imminente di una nuova rigenerazione.

«Dottore!» Alexander si muoveva agilmente anche in mezzo alla folla che saturava la locanda del Corsaro in maniera praticamente costante e riuscì a raggiungerlo in tempo.

«Oh, Alex!» lo salutò il Dottore, distraendosi dal pericolo imminente degli attaccabrighe, come se avesse ormai perso per loro tutto l’interesse. «Mi aiuti a spiegare a questi gentilissimi signori il mondo fatato delle bevande zuccherate non fermentate?». Nessuno di quei gentilissimi signori parve apprezzare particolarmente il modo in cui il Dottore aveva bistrattato la loro originalissima minaccia. Alexander se ne accorse molto più di lui, a giudicare dal modo allarmato con cui guardava il gruppetto, nonostante la serafica tranquillità del Dottore.

«Ehm, magari un’altra volta» disse, prima di prenderlo per la manica con un mezzo sorriso di cortesia - o più che altro una smorfia terrorizzata - verso la folla ringhiante. Lo trascinò via, con somma perplessità del Dottore stesso, che avrebbe veramente gradito poter bere qualcosa di caldo. «La Signora ti richiede sul ponte, siamo quasi arrivati» disse Alexander, e fu immediatamente sollevato dall’effetto che questa frase ebbe sul gruppo di attaccabrighe, che certamente non avrebbero voluto mettersi contro il Corsaro e la sua spada sonica.

La situazione sul ponte era, se possibile, ancora più caotica di quanto fosse normalmente. I marinai brulicavano come formiche, impegnati nei preparativi per attraccare. Il movimento della nave, il Dottore lo avvertiva distintamente con i propri sensi, era più rapido ed oscillante di quanto fosse stato finora, sebbene non fosse sospinto chiaramente da alcuna onda.

Il Corsaro passeggiava con calma, creandosi un varco continuo tra i pirati frenetici senza alcuno sforzo. Di tanto in tanto tuonava ordini, coordinate e parole sconnesse, apparentemente prive di alcun senso per chi non fosse avvezzo all’ambiente.

Quando vide Alexander ed il Dottore, fermi nel mezzo del ponte in maniera totalmente fuori luogo rispetto all’ordinata confusione che avevano attorno, sorrise nella loro direzione e fece per raggiungerli. Prima di riuscirci, tuttavia, un Vinvocci in perfetta tenuta piratesca, si fermò al suo fianco:

«Siamo pronti, Signora» le disse, in atteggiamento militarmente reverenziale.

Il Corsaro annuì con soddisfazione.

«Bene, allora. Saltiamo». Il Vinvocci batté i tacchi degli stivali e chinò appena il capo da porcospino in un saluto, prima di voltarsi e ripetere l’ordine con tutta la voce che i suoi polmoni riuscivano a tirare fuori.

L’ordine fu ripetuto ancora e ancora da bocche diverse di specie diverse finché, evidentemente, non arrivò a chi di dovere.

Il Corsaro intanto li aveva raggiunti e si posizionò accanto al Dottore, con i piedi ben saldi per terra, la schiena dritta e le mani intrecciate dietro. Il Dottore ebbe appena il tempo di concederle un’occhiata, prima che un boato scuotesse il silenzio dello spazio profondo e, letteralmente, anche la nave.

Molti caddero trascinati dall’inerzia, altri - Dottore compreso - barcollarono ma rimasero sul posto, in pochi - tra cui il Corsaro ed Alex - rimasero saldi ai posti, quasi senza avvertire la spinta.

Il Dottore alzò lo sguardo al cielo proprio nel momento in cui questo cominciava a brillare più intensamente, riempiendosi di luce. Il ponte vibrò più violentemente e la nave prese velocità all’improvviso, lasciandosi inghiottire dal tunnel spazio-temporale.

Tutto ciò che normalmente il Dottore avrebbe attraversato all’interno della sua adorata cabina della polizia londinese, stava avvenendo sotto i propri occhi e, in tutta sincerità, non riusciva a smettere di guardare.

D’improvviso come era apparso, il tunnel scomparve nella luce, lasciando che la nave del Corsaro sbucasse nuovamente tra le stelle, ma in un contesto decisamente più indaffarato del nulla più assoluto che si erano lasciati alle spalle.

A prua, la linea d’orizzonte di un piccolo pianeta era illuminata dalla luce dell’alba. Lo scudo dell’atmosfera somigliava a quello terrestre, ma lì finivano le similitudini. Non c’erano le distese azzurre degli oceani, né i continenti tempestati di luce. Quel pianeta aveva in tutto e per tutto l’aspetto di una biglia di metallo.

Man mano che la nave si avvicinava, si delineavano figure di edifici, camini fumanti ed enormi capannoni. A dirla tutta, non sembrava esserci neanche uno spazio all’aperto e questo la diceva lunga a proposito dell’accoglienza di quell’atmosfera nei confronti degli esseri viventi.

Non c’era un porto a cui attraccare la nave, che si diresse direttamente all’interno di un deposito, attraversando un campo di forza - presumibilmente presente per tenere l’atmosfera nociva fuori e permettere ai mezzi di entrarvi - che scosse nuovamente la nave.

«Sarà Alex ad accompagnarti da Nicholas» annunciò il Corsaro, mentre la ciurma cominciava le operazioni di attracco. «Io devo aiutare a scaricare la merce».

Il Dottore le scoccò un’occhiataccia di rimprovero. Non gli sembrava il termine adatto da utilizzare, dal momento che sapevano entrambi - e presumibilmente anche tutto il resto della nave - di cosa si trattava.

Il Corsaro fece un altro dei suoi sorrisi furbi, allargando le braccia.

«Tanto non apprezzeresti alcuna terminologia, la faccio semplice» rispose al commento per niente verbale del Dottore, la cui espressione non migliorò neanche di un sopracciglio. «Spero che almeno lui riesca a farti cambiare idea. Mi raccomando, Alex: non perderlo di vista» si raccomandò infine.

«Sissignora» rispose il ragazzo, chinando rispettosamente il capo. Il sorriso del Corsaro si fece più largo ed allegro, mentre tornava con lo sguardo sul Dottore.

«Sei in buone mani» gli disse, prima di voltare loro le spalle e sparire in mezzo alla ciurma indaffarata.

Il Dottore seguì Alexander giù per l’asse di legno basculante che li condusse sulla cosiddetta terra ferma - non che la nave si fosse mossa più di tanto, a parte nell’ultimo tratto. Fu un sollievo sapere che non avrebbe assistito a ciò che il Corsaro aveva definito scaricare la merce, dal momento che il Dottore non era sicuro di potersi arrabbiare più di quanto già fosse.

La banchina del porto non assomigliava per niente a ciò che chiunque avrebbe potuto immaginarsi. Mancava lo sciabordio del mare, sostituito dal freddo clangore metallico di meccanismi in funzione che riecheggiava in tale maniera da rendere impossibile identificare con precisione da dove provenisse, quasi fosse semplicemente ovunque.

L’atmosfera era molto meno marinaresca - o piratesca - rispetto a quella che il Dottore aveva vissuto negli ultimi giorni a bordo di quello strano TARDIS e molto più simile ad un’industria o laboratorio di qualche genere.

Ciò che sicuramente non era cambiato dopo aver lasciato la nave, era l’enorme varietà di specie di esseri viventi che transitava su quello strano pianeta, più simile ad una base operativa che altro.

Non un gran bel posto dove allevare bambini.

Lasciandosi il porto alle spalle, il rumore parve affievolirsi sensibilmente, sebbene rimanesse costante nell’aria artificiale dello stabilimento.
Oltrepassarono lunghi corridoi dalle pareti trasparenti ed il Dottore non poté fare a meno di domandarsi perché si fossero presi tanto disturbo, dal momento che non ci fosse sicuramente un gran bel panorama da osservare nel grigiore degli edifici che spiccavano a perdita d’occhio.

«Deve essere strano per te» disse, dopo interminabili minuti di silenzio. «È un panorama molto diverso, rispetto alle colline dell’Irlanda».

Il giovane Alexander gettò un’occhiata verso l’esterno, ma non disse nulla.

Il Dottore lo osservò con attenzione, studiandosi ogni dettaglio della sua silenziosa reazione.

«Immagino che piova anche molto meno» continuò poi, con fare indifferente, come se non desse alcun peso alla sua reticenza.

Alexander continuò a tacere, questa volta senza dare neanche segno di aver udito la domanda.

Per quanto riguardava il Dottore, fu una risposta sufficiente. Ed era esattamente quella che stava cercando.

«Da questa parte, Dottore» fu la sola cosa che disse, una volta arrivati davanti ad una porta chiusa alla fine di uno dei mille corridoi che il Dottore non aveva mancato di memorizzare. Premette un pulsante ed un suono gracchiante echeggiò lontano per qualche istante.

Appena una manciata di secondi più tardi, la porta si aprì ed apparve un uomo.

Be’, non era affatto un uomo, ma certamente aveva adottato qualche accorgimento per somigliargli.

Dai vestiti, avrebbe potuto tranquillamente essere scambiato per un comune direttore di banca terrestre, nel suo completo con giacca e cravatta ma, il suo volto - sebbene umanoide - non avrebbe avuto certamente lo stesso effetto. Il naso aquilino si continuava direttamente dalla protuberanza frontale, sormontata da creste ed escrescenze ossee simmetriche simili a delle branchie. Inoltre, il colorito grigiastro della sua pelle glabra, non era niente che un essere umano avrebbe mai definito sano… o vivo.

L’accostamento tra queste due realtà, era bizzarro.

Il Dottore non ricordava di aver mai incontrato una specie del genere nei suoi innumerevoli viaggi, tuttavia, ne traeva una sensazione di familiarità strana, che ancora non riusciva a definire buona o cattiva.

«Buona giornata a voi» disse lui, curvando le labbra sottili in un sorriso cortese. Il Dottore tirava sempre un sospiro di sollievo, a questo punto: si era trovato più spesso di quanto volesse ammettere in situazioni in cui il primo saluto non era stato affatto così gentile.

«Salve, signor Winton» rispose Alexander, chinando rispettosamente il capo.

Gli occhi giallastri dell’alieno a cui il Dottore non aveva ancora trovato un nome - ma lo avrebbe fatto presto, e sarebbe stato geniale! - si spostarono dallo studio attento ma brevissimo della figura del Signore del Tempo, verso il piccolo terrestre.

«Alexander!» esclamò, allegro. Allungò una mano costituita da quattro dita tozze, e gli scompigliò i capelli con affetto. «Che piacere rivederti» aggiunse. Il ragazzino sorrise tranquillo, sicuramente molto più abituato ad una carezza aliena di quanto fosse normale nell’Irlanda del 1800.

«Lui è il Dottore» annunciò Alexander, indicando l’uomo al suo fianco che ancora non aveva detto una parola e lo sguardo del padrone di casa corse di nuovo su di lui, come se non avesse atteso altro che fosse educato farlo. «La Signora mi ha detto di portarlo da voi».

«Sì, mio caro, mi ha mandato un messaggio ieri sera» gli rispose, pur senza staccare gli occhi dal Dottore, che faceva altrettanto con i propri. «Tanto piacere, Dottore, il mio nome è Nicholas Winton» si presentò, allungando la mano verso di lui, che la strinse senza alcuna esitazione, non foss’altro per non metterlo immediatamente sulla difensiva.

Capiva che ci fosse molto di quel Winton che potesse ammaliare e non biasimava che il Corsaro ci fosse cascata. La voce profonda e rassicurante, il portamento di classe… per non parlare del nome. Ma il Dottore non aveva intenzione di affrettare un giudizio positivo. D’altra parte, i predatori migliori sono quelli che sanno attirare le vittime e quel nome se l’era scelto per una ragione precisa. Se avesse voluto aprire un orribile macello per galline, anche lui avrebbe utilizzato l’insegna di un salone di bellezza per pollame.

«Un estimatore della storia terrestre, immagino» commentò il Dottore, senza sforzarsi di sorridere.

«Un osservatore» precisò lui, che al contrario faceva sfoggio della sua perfetta dentatura non esattamente simile a quella di un predatore. «Non hanno molti pregi, ma qualche volta ci sorprendono. Lei, invece?».

Il Dottore avvertì una leggera fitta di irritazione, di difficile interpretazione. D’altra parte, era esattamente ciò che pensava anche lui di quei budinocerebrati con cui aveva a che fare fin troppo spesso. Tuttavia, sentirlo dire da qualcun altro - qualcuno di cui peraltro ancora non si fidava, e forse non sarebbe neanche mai accaduto - fu decisamente fastidioso.

«Be’, io non smetto di tifare quando la mia squadra gioca male» ribatté. Si accorse solo in quel momento che stavano ancora stringendosi le mani.

Era impossibile che Winton non avesse colto quella sfumatura d’astio che il Dottore non era stato capace di trattenere, eppure il suo sorriso si allargò mentre finalmente mollavano entrambi la presa.

«Vai pure e divertiti insieme agli altri, Alexander» si rivolse al ragazzo che aveva finora assistito alla scena in imbarazzato silenzio, come solo un bambino davanti ad una schermaglia tra adulti avrebbe potuto essere. «Sono tutti impazienti di ascoltare le tue storie da pirata. Parlerò con il Dottore da solo».

«Grazie, signore» rispose Alexander, evidentemente sollevato di poter lasciare tutta quella tensione a tenuta stagna. Si inchinò nuovamente verso Winton e salutò il Dottore con la mano - probabilmente consapevole di ciò che sarebbe potuto accadere se avesse provato ad inchinarsi anche a lui - e schizzò via nel corridoio.

Winton ridacchiò, mentre si trovavano entrambi a guardare le sue gambette sparire dietro la prima curva.

«È strano pensare che quel ragazzo fosse destinato a morire di stenti» fu il suo commento. Lo stesso che il Dottore aveva sentito fare al Corsaro non molto tempo prima, sempre a proposito dello stesso ragazzo. Non aveva intenzione di considerarla una coincidenza.

Decise di non rispondere. Ancora una volta, metterlo sulla difensiva in modo troppo prematuro non sarebbe stato utile in alcun modo, mentre il Dottore desiderava ardentemente delle risposte. Quello che avrebbe voluto dirgli, difficilmente gli sarebbe piaciuto.

«Il Corsaro mi ha detto di lei: un Signore del Tempo scettico» continuò lui davanti al suo silenzio, durante il quale non aveva smesso di osservarlo neanche per un istante. Il Dottore non si espresse con altro, se non con una scettica alzata di sopracciglia. Le adorava ancora di più quando gli permettevano di non sprecare parole. «Spero di riuscire a farle cambiare idea» continuò dunque Winton.

«È quello che ha detto anche lei». E neanche in quel caso poteva essere una coincidenza.

Winton sorrise ancora e il Dottore fu sul punto di colpirlo con la suola della scarpa nel punto preciso che gli avrebbe fatto perdere il vizio. Non riusciva a spiegarsi perché gli desse tanto fastidio. Più di quanto gli dessero fastidio tutti gli altri abitanti dell’universo.

«Venga con me» gli disse Winton. Mise il palmo della mano sul pannello sottostante il pulsante che Alexander aveva premuto per chiamarlo e la porta si aprì di nuovo. «Le mostro quello che facciamo».

Mentre lo seguiva all’interno di quel nuovo corridoio esattamente uguale al precedente, il Dottore si costrinse a fare un po’ di terapia mentale. Quello strano astio a pelle avrebbe potuto offuscargli la ragione allo stesso modo della cotta adolescenziale che sembravano avere tutti gli altri. Doveva stare attento e non perdere di obiettività in un momento così delicato.

Era più che certo che avrebbe avuto tante altre occasioni per arrabbiarsi.

Il rumore meccanico che aveva sentito all’arrivo e che era andato via via affievolendosi, tornò a crescere. Presumibilmente, si stavano avvicinando al cuore del meccanismo.

Il sedicente Nicholas Winton aveva il passo claudicante ma fermo. Nulla che potesse sfociare nella pena, solo un ingrediente in più per il fascino innato che trasmetteva.

Il suo modo di spiegare le cose, in egual misura, era molto accademico:

«Qui i catalizzatori vengono depositati» disse, mentre attraversavano un corridoio le cui vetrate affacciavano direttamente su uno sconfinato magazzino, dentro il quale delle braccia automatiche di dimensioni ciclopiche, raccoglievano i contenitori dei corpicini appena scaricati dalla nave da un nastro trasportatore.

Il corridoio prese a curvare, accerchiando quei macchinari pesanti a cui era sicuramente dovuta la maggior parte del rumore assordante, in modo che fosse visibile lo scompartimento successivo. Questo era, se possibile, ancora più grande di quanto fosse sembrato quello precedente. Le taniche erano state di nuovo assemblate lungo le pareti, come lo erano state all’interno del TARDIS, ma erano molte di più. Decine, forse centinaia.
Alcune dovevano essere lì da più tempo, a giudicare dal livello del liquido all’interno, notevolmente abbassato. Altre, erano ormai vuote.
Il Dottore ebbe l’occasione di vedere di sfuggita una figura in camice, trasportare un piccolo bambino azzurro e tentacoluto tra le braccia. «Qui abbiamo la schiusa, che richiede un paio di settimane per avvenire in sicurezza» spiegò Winton, continuando a camminare.

Stavano camminando in cerchio attorno all’intera struttura e, ad ogni curva, cambiava la prospettiva e, di conseguenza, il panorama.
Il Dottore si era preparato a ciò che avrebbe visto, si era preparato a qualsiasi cosa, persino allo scenario peggiore.

Ciononostante, quella freddezza mentale che si era imposto per un giudizio obbiettivo minacciò seriamente di cedere sotto il peso delle inquietanti immagini che si trovò davanti.

«Qui avviene la riabilitazione» stava dicendo Winton, che non si stava ponendo affatto il problema del completo mutismo del suo interlocutore. «Capirà, il cervello - o il suo analogo di specie - deve riabituarsi all’idea di essere vivo, probabilmente ad anni luce dal proprio spazio e dal proprio tempo».

Non era nulla di cruento o crudele. Nessuno di quei bambini piangeva e, forse, era quello il dettaglio peggiore.

Il Dottore sapeva bene quali fossero gli effetti immediati dello scongelamento di un essere vivente da una stasi, lo aveva visto accadere spesso. Ma erano sempre stati degli adulti, perfettamente coscienti e consapevoli di ciò che stava succedendo.

Ciò che aveva davanti agli occhi erano piccoli esserini, chiaramente confusi, che pian piano imparavano nuovamente a muovere le dita, a riconoscere l’estensione del proprio corpo, a camminare e tutto il resto delle abilità basilari che, nella maggior parte dei casi, avevano comunque acquisito da poco quando erano in vita.

Era in tutto e per tutto una semplice riabilitazione, proprio come Winton l’aveva definita. Ma allora perché gli metteva tanta angoscia solo starli a guardare?

Winton ricominciò a parlare e il Dottore si impose di non perdersi neanche una parola, neanche un dettaglio di ciò che stava guardando. Gli sarebbe servito per analizzare il tutto dopo, e per farlo doveva accantonare quella risposta emotiva devastante.

«La durata della riabilitazione dipende dal cervello in questione. Per fortuna, le menti dei bambini hanno sempre dimostrato un’enorme adattabilità ed apertura. Più giovani sono e meglio è» diceva Winton. Il Dottore si domandò quale fosse il limite d’età più basso, ma era difficile capirlo in quel marasma di specie tutte differenti. «Una volta pronti, possono finalmente cominciare l’educazione e la formazione».

Erano giunti alla fine della corsa, a quanto pareva, in cui il corridoio si apriva direttamente in uno sconfinato androne zeppo di bambini dediti ai più svariati tipi di attività, del tutto differenti rispetto a ciò che aveva appena visto da lontano. Quel baccano era, in qualche maniera, assordante e confortante allo stesso tempo.

«Su che base?» domandò il Dottore, dandosi finalmente voce dopo lunghi minuti di silenzio.

C’erano le più disparate culture presenti nello stesso spazio. Non sarebbe stato sicuramente immediato scegliere quale fosse la più adatta per tutti quanti.

«Dipende dalla vocazione di quel preciso bambino» rispose Winton, sebbene non fosse esattamente ciò che il Dottore aveva chiesto ma gli fu utile allo stesso modo. «Sono liberi di sviluppare al 100% le loro abilità innate e di acquisirne di nuove. È esattamente questo lo scopo del nostro progetto, dopotutto: concedere la loro voce…».

«…all’universo, sì, ho afferrato il concetto» lo interruppe il Dottore, non esattamente con cortesia.

Winton non parve farci caso e sorrise pazientemente come se anche in quel momento avesse a che fare con uno dei suoi bambini, solo un po’ più cresciuto, scorbutico e brizzolato.

«Perdere questi bambini sarebbe stato uno spreco» disse. «Non sappiamo a priori che cosa diventeranno, ma trovo un’ingiustizia non dargli la possibilità di esprimersi, per colpa delle decisioni scellerate di qualcuno».

«Carestie e malattia sono eventi naturali» osservò il Dottore, perché sarebbe stato ingiusto non tenerne conto.

«Non tutte, Dottore» obiettò Winton, con quel suo perenne sorrisetto. «Non sempre».

Il Dottore tornò nel suo silenzio riflessivo, guardando i bambini scorrazzare in giro senza fare minimamente caso a loro.

Sembravano felici, intenti a giocare tra di loro senza curarsi della specie o del colore o delle escrescenze ossee del bambino che avevano accanto. Avrebbe dovuto essere l’immagine perfetta per il Dottore: fratellanza universale tra le specie, sinonimo di pace intergalattica.

Avrebbe dovuto, perché nella realtà non lo era affatto.

Neanche lui stesso era in grado di spiegarsene il motivo o che cosa ci vedesse di sbagliato in tutto ciò. Non riusciva a dare un nome a quella sensazione e ciò, se possibile, lo irritava ancora di più.

Semplicemente, c’era.

Come c’era anche nell’elegantissimo essere che aveva di fianco, sebbene tutto volesse suggerire il contrario.

C’era. E prima o poi, avrebbe capito di cosa si trattava.

«Allora, Dottore, ha ancora dei dubbi in proposito?» gli domandò infine Winton, dopo aver atteso invano un suo commento tra le voci e gli schiamazzi degli esserini che avevano attorno.

«No. Niente più dubbi» rispose il Dottore. Quelli non c’erano più per davvero, ma difficilmente la conseguenza di ciò sarebbe stata gradita al padrone di casa: «Mi dispiace, signor Winton, ma il suo progetto di salvataggio è eticamente sbagliato».

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Capitolo 5
*** I Giusti tra le Nazioni ***


Il Dottore avrebbe potuto considerarla come un’inaspettata vittoria giornaliera (sperando vivamente che non fosse l’ultima), quella di essere riuscito ad ammutolire questo sedicente Nicholas Winton. Almeno per una manciata di secondi.

«Eticamente sbagliato, Dottore?» ripeté infine in un sussurro, sbigottito come se il Dottore avesse appena urlato un’oscena volgarità.

Il Dottore non ritenne di doversi ripetere, allargò semplicemente le braccia e tornò sui propri passi verso il corridoio, lontano dalla folla di bambini schiamazzanti.

«Secondo quale etica salvare dei bambini può essere considerato sbagliato?» insistette Winton, una volta raggiunto in una zona più silenziosa.

Il Dottore si massaggiò le palpebre, invocando pazienza. Quella discussione prometteva di tirarla per le lunghe.

«È chiaro, se continua a puntare la luce su questo punto di vista, nessuno oserà mai contraddirla».

Come lo stava facendo e con quali conseguenze? Erano domande che il Dottore si sarebbe aspettato che almeno il Corsaro si fosse posta.

E mentre il Dottore riusciva ancora a mantenere un atteggiamento serafico, quello in piena corsa sulla via del perdere le staffe, sembrava essere proprio il padrone di casa, il quale colorito smorto si stava vagamente tingendo di una sfumatura più scura mentre due vene si erano gonfiate ai lati della fronte accanto alle increspature del cranio.

«Lei che è un tifoso della cultura terrestre, ha mai sentito parlare dello Yad Vashem?» sbottò, come se avesse far voluto suonare ogni parola come un beffardo insulto.

Il Dottore inspirò profondamente, trattenne l’aria, e quando fu sicuro che fosse passato il tempo necessario per non dire nulla di sgradevole, si decise a rispondere:

«Certo e senza dubbio anche lei». Se l’era certamente aspettato.

«Avrà sentito parlare anche dei Giusti tra le Nazioni» continuò Winton.

Questa volta, la fitta di irritazione fu sensibilmente più forte e risuonò chiaramente nella freddezza del suo tono:

«Dal nome che ha scelto di utilizzare, non avrebbe potuto essere altrimenti».

«Chi salva una vita, salva il mondo intero» citò Winton, con il tono crescente di chi è sulla buona strada per dimostrare l’ovvio all’idiota di turno. «Oskar Schindler, Irene Sendler, Giorgio Perlasca. Semplici esseri umani, che hanno avuto il coraggio di fare la differenza».

«Morti con il rimpianto di tutti quelli che non sono riusciti a salvare» aggiunse il Dottore. Com’era giusto che qualcuno gli ricordasse.

«Perché semplici-esseri-umani» precisò Winton con veemenza, come se fosse arrivato finalmente al glorioso punto. «Non è lo stesso per me, né per i Signori del Tempo. Io posso completare il loro lavoro, posso ampliarlo a tutte le ingiustizie della storia, in tutto l’universo».

«Non è la stessa cosa!» sbottò il Dottore, incapace di mantenere oltre il tono pacato. «Loro hanno salvato vite nel punto spazio-temporale giusto, nella loro storia. I bambini che lei predica di salvare, li sradica dal mondo a cui appartengono. Non hanno più un’identità, non hanno un’appartenenza, non hanno una storia! Sono dei piccoli paradossi ambulanti!».

Sì, ma erano vivi. Non poteva negare che ci fosse una parte di lui ostinata a ripeterglielo ma altrettanto resisteva l’idea che ci fosse qualcosa di sbagliato sia in quella missione, che nella persona che aveva di fronte.

«Hanno una possibilità!» ribatté Winton a tono. Era difficile trovare validi argomenti contro la verità, che era la sola cosa che Winton gli stava sbattendo contro. Finché non arrivò il colpo peggiore: «Lei li avrebbe lasciati morire, Dottore?».

Un enorme pulsante rosso nel bel mezzo di un granaio sperduto prese il posto della figura di Winton davanti ai suoi occhi, solo per un istante.

No, non doveva farsi distrarre! Era proprio quello il suo gioco e lui non si sarebbe lasciato trascinare.

«Sono già morti!» esclamò, perdendo ufficialmente la calma. «Sono poco più che fantasmi!». Persino i fantasmi esistono. Il Dottore aveva avuto modo di incontrarne più di quanto ne fosse realmente consapevole.

Non esisteva nell’intero universo creatura più miserabile.

L’ira di Winton non era da meno, decisamente infastidito nel non trovare l’opera di convincimento del Dottore semplice come lo era stata evidentemente con chiunque altro.

Proprio quando sembrò sul punto di perdere il controllo, Winton si irrigidì, creando una pressione tale che le vene del suo cranio cominciarono a pulsare ancora più prepotentemente.

Prese un profondo respiro e si costrinse palesemente in un cenno rassegnato del capo:

«Glielo dica in faccia, allora, Dottore» rispose a voce bassa e controllata, accennando col mento verso qualcosa alle spalle del Dottore.

Sebbene il distacco verso il resto dell’universo che il Dottore utilizzava ormai abitualmente come armatura, questa non si dimostrò abbastanza spessa da contenere il colpo dello sguardo ferito di un semplice ragazzino che si ritrovò a ricambiare voltandosi.

Era Alexander. «Gli spieghi che cosa c’è di abominevole nella sua esistenza».

Avrebbe potuto sopportare quella profonda delusione nello sguardo di chiunque, meno che il suo.

Dopo tutto il tempo che avevano trascorso insieme, il Dottore si era abituato a quel ragazzo ed Alexander si era abituato a lui e - soprattutto quest’ultima - non doveva essere un’impresa facile di cui fossero degni tutti gli esseri umani.

Veder ricostruire il muro di difesa della timidezza dietro cui Alexander si nascondeva, dopo tutto il tempo che c’era voluto per abbatterlo, lo rattristò profondamente e, come una marea montante, dalla tristezza rimontò la rabbia.

Alexander aveva abbassato lo sguardo e non lo rialzò, decidendo semplicemente di andare via, a testa bassa, mescolandosi nuovamente con i suoi ignari compagni di giochi.

I pugni del Dottore erano stretti in maniera preoccupante.

«Non so che cosa lei abbia in mente» mormorò, appena udibile tra i denti stretti. «Ma può stare certo che lo scoprirò». Il suo risentimento verso quella persona aveva ormai ben superato l’iniziale diffidenza a pelle che aveva provato, rendendo il dover dimostrare la sua colpevolezza una vera e propria missione.

«Sto cercando di migliorare l’universo» ribattè Winton, con orgoglio. «Salvando anime innocenti dalla morte».

Il Dottore non era certo che avrebbe tollerato che lo ripetesse ancora una sola volta.

«Provi a fermare le guerre e le carestie, agisca a monte» osservò, perdendo ufficialmente la pazienza. «Faccia vivere i bambini nel luogo e tempo a cui appartengono. O né lei né il Corsaro avete il coraggio di sfidare le leggi del tempo?».

Nicholas Winton scoppiò in una fastidiosa risata priva di alcuna gioia.

«È questo che fa lei, infatti, vero, Dottore?» gli domandò, con il tono di chi la sa lunga. E da quello che disse in seguito, pareva ne sapesse veramente più di quanto il Dottore stesso si fosse aspettato: «È questa la giustificazione che si racconta per quei 2.47 miliardi di bambini che ha assassinato?».

Il Dottore si irrigidì, nel tentativo di non trasalire alla fitta dolorosa che percorse come un ago entrambi i suoi cuori.

La conosceva bene, quella. L’aveva sentita ormai tante di quelle volte, ma non faceva mai meno male della prima. La volta in cui li aveva contati.

Non disse nulla.

Chiunque sarebbe fuggito davanti a quello sguardo azzurro e gelido come un pezzo di ghiaccio polare.

Winton, dal canto suo, pareva parecchio soddisfatto del risultato di averlo perlomeno ammutolito.

«Sì, ho studiato» rispose alla domanda che il Dottore non aveva fatto ad alta voce, per evitarle di doverlo urlare. «Trovo ironico che lei sia qui ad indicarmi quale sia la via eticamente corretta da seguire, quando io ho salvato il doppio delle vite che lei ha preso in un colpo solo».

Il Dottore prese fiato e, per un momento, sembrò sul punto di esplodere.

Poi quel momento passò.

«Lei non sa niente di me» rispose, ancora trattenendosi dietro ad un terribile sussurro.

Non era importante che cosa fosse realmente accaduto quel giorno - o tutti quei giorni - in cui aveva orbitato attorno a Gallifrey con tutti i suoi TARDIS, con tutte le sue vite ed i suoi volti. Qualunque cosa fosse successo, l’improvviso silenzio della sua gente lo aveva avvertito comunque ed aveva dovuto conviverci per secoli, prima di ricominciare il proprio viaggio verso casa.

Ma lui - quell’impostore - davvero non sapeva nulla.

E come tutti coloro che non sanno nulla, era certo di sapere perfettamente tutto.

Winton sorrise, gonfiandosi della boria del vincitore e decise, per buona misura, di rincarare la dose:

«Ha parlato al Corsaro di quello che ha fatto o che sta per fare?».

Il Dottore avvertì un fremito lungo la schiena. Una parte di lui - una parecchio più preponderante di quanto lui stesso volesse ammettere - avrebbe perlomeno voluto mollargli un pugno sui denti. Sarebbe stato sinceramente liberatorio, di questo ne era certo. Non era più un essere di luce da un pezzo. Da così tanto che probabilmente non lo era mai stato.

Eppure resistette. Qualche mano amorevole lo stava gentilmente - ma con decisione - trattenendo.

Così trattenne anche la lingua ed evitò di rispondere.

Winton seppe comunque interpretarlo.

«Noi sì che potremmo fare qualcosa per quei bambini che lei non ha guardato in faccia».

La mano amorevole divenne più insistente.

Il Dottore deglutì ciò che avrebbe veramente voluto dire.

Si abbottonò la giacca, respirando a fondo.

Non aveva problemi a perdere le battaglie, ma era abituato a vincerle, le guerre.

«Non finisce qui» disse. Voltò le spalle a quel sorrisetto ispido e lo lasciò in corridoio.

Era una promessa.

##

Sebbene il Dottore fosse quasi per definizione il Signore del Tempo che fugge via da tutto e tutti, ben più di una volta il destino gli aveva dimostrato che possedere una macchina del tempo e tutto lo spazio a disposizione, non tiene lontana a lungo una resa dei conti.

In quell’occasione, il Dottore se la ritrovò davanti immediatamente dopo essersi lasciato alle spalle i lunghi corridoi della fabbrica di felicità di Winton.

Alexander era seduto su un gradino, rannicchiato su se stesso ed abbracciato alle proprie ginocchia, fissandosi le punte dondolanti degli stivali consunti.

Non era esattamente lo specchio di pensieri felici, checché Winton ne dicesse.

Il Dottore sospirò profondamente.

Non era affatto colpa di Winton quella volta. Almeno quella volta.

Era colpa sua.

L’aspetto peggiore era certamente quello di aver avuto occasione di conoscere bene quel ragazzo, di aver visto il suo potenziale e non poteva certo impedirsi di essere felice che non fosse morto di stenti nella grande carestia d’Irlanda. Era il suo lato fortemente influenzato dalla migliore umanità a parlare, senza dubbio.

Il suo lato da Signore del Tempo, purtroppo, non perdeva occasione di infilarsi in ogni suo pensiero ripetendogli quanto fosse sbagliato.

Avrebbe veramente desiderato di pensarla in modo differente, di poter ignorare le conseguenze ed essere contento per lui, ma così non era e non poteva essere.

Ciononostante, come gli accadeva più spesso di quanto volesse ammettere, sapeva riconoscere quando valeva la pena mettere appena un po’ da parte il burbero Signore del Tempo e fare tesoro degli insegnamenti.

«Fai bene ad odiarmi» disse mentre si lasciava scivolare seduto accanto a lui, con appena un po’ più di fatica di quanto avrebbe fatto nella sua vecchia rigenerazione.

Alex sussultò appena sentendo la sua voce e si strinse ancora più stretto tra le sue stesse braccia. «Mi sento molto più in imbarazzo quando la gente si ostina a volermi bene». Quella stranezza, il Dottore non era mai riuscita a capirla.

Alexander non rispose, continuando a dondolare la punta dei piedi, senza guardarlo. Il Dottore rimase lì seduto, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le dita intrecciate, senza insistere.

Non aveva bene idea di cosa fare e come comportarsi, sperava in un colpo di genio improvviso, come gli capitava spesso. Ma stava tardando un po’ troppo ad arrivare.

Dunque il silenzio si dilungò e i due rimasero lì seduti, come due anime in pena.

Probabilmente sarebbe stato il caso di arrendersi e semplicemente andare via ma, ciò che il Dottore aveva suo malgrado scoperto negli ultimi giorni che aveva trascorso in sua compagnia, era che la presenza di Alex lo metteva a proprio agio. Lo aiutava a sgombrare la mente dai cattivi pensieri. Dopo l’ultimo scambio con Winton, sentiva di averne assoluto bisogno.

Valeva la pena anche di sopportare quel silenzio imbarazzante.

Finché non fu Alexander stesso a decidere di spezzarlo.

«Sai che cosa faccio ogni volta che ho un pasto davanti, Dottore?» gli chiese, all’improvviso.

Il Dottore non parve trovare strana la domanda e lo guardò incuriosito.

«Che cosa?».

Alexander tirò un lungo sospiro, prima di rispondere. Non lo aveva ancora guardato in faccia.

«Prego» disse, semplicemente. In realtà, non era poi così tanto semplice, detto da un bambino resuscitato dalla morte e trasportato nel tempo e nello spazio per diventare un pirata all’interno di una nave TARDIS di proprietà di una Signora del Tempo. La religione di solito trovava molto poco spazio in questi contesti.

Dunque il Dottore continuò a guardarlo, senza interromperlo, suggerendogli in silenzio di proseguire. «Prego Dio, perché mi ha dato la possibilità di mangiare.

I miei fratelli e le mie sorelle hanno smesso subito di pregare. Per loro era evidente che non c’era più un Dio da ringraziare. Io continuo a crederci» fece una pausa per riprendere fiato e finalmente si decise a guardarlo negli occhi. C’era sempre quell’ombra di timidezza nel suo sguardo, dietro la quale ruggiva una nuovissima vampata di determinazione. «E sì, le colline mi mancano ed anche la pioggia sulla faccia. Ma non dimentico neanche la fame o l’aver visto morire la mia famiglia».

Fu il turno del Dottore di abbassare lo sguardo.

Accettò di buon grado quella sconfitta, molto più di quanto avesse fatto poco prima con Winton.

Alexander aveva ragione.

Aveva dimenticato di valutare anche il suo punto di vista, quello dei sopravvissuti. Si era lasciato distrarre dai paradossi, dalle leggi del Tempo, da tutte quelle noiose perturbazioni mentali dei Signori del Tempo, e aveva dimenticato di prendere in considerazione quanto quei bambini avessero sofferto e quanto potessero essere grati di quella seconda occasione, come lo sarebbe stato qualsiasi essere vivente.

Alexander sicuramente lo era.

«Mi dispiace che tu mi abbia sentito dire quelle cose» si decise a dire il Dottore. Fu una delle rare volte in cui sentì di sapere ciò che era giusto dire, senza bisogno di leggerlo sui bigliettini promemoria.

Alex abbassò nuovamente lo sguardo, senza suggerirgli in alcun modo se avesse accettato le scuse o meno.

«Il signor Winton mi ha dato una possibilità, che cerco di non sprecare» disse infine. Detto da lui, acquisiva tutt’altro effetto, piuttosto che sentirlo dire da Winton o dal Corsaro. «E sono grato, sono sempre grato».

«Lo capisco» rispose il Dottore.

La sua sconfitta era completa.

Se anche, da una parte, continuava fermamente a considerare l’attività di Winton eticamente sbagliata sotto diversi punti di vista e sebbene gli avesse solennemente promesso di fare qualcosa a riguardo non più tardi di qualche minuto prima, il Dottore non credeva di aver più la forza di agire per fermarlo. Non dopo quella conversazione con quel ragazzino.

Queste due realtà non potevano coesistere in alcun modo, o avrebbe rischiato di impazzire.

Dunque gli restava soltanto una cosa da fare che, curiosamente, era ciò che gli era sempre riuscito meglio: saltare sul suo TARDIS e fuggire via, sperando di dimenticarsene, sperando che davvero l’universo fosse così grande da evitare di incorrere nelle conseguenze di uno di quei piccoli paradossi.

Con enorme sforzo, sorrise al bambino, scompigliandogli i capelli. «Immagino che sentirò parlare di te, giovane» disse, alzandosi in piedi con un gemito.

Alexander lo guardò, stranamente stupito dai sottintesi significati di quella frase.

Il Dottore sperava che il proprio sorriso non apparisse triste neanche la metà di quanto temeva che fosse.

Alla fine, era rimasto anche lui intrappolato nella rete del carisma di Winton, seppur indirettamente: non aveva il coraggio di sprecare tutto quel potenziale. «Quando inventerai l’ottava nota, pensa anche a me».

##

«Hai deciso di andare?».

Bella domanda.

In realtà, non aveva mai deciso di restare.

Il Dottore si tolse il monocolo che stava utilizzando per saldare la complicata rete di fili della consolle del TARDIS e guardò il Corsaro, poggiata con la spalla allo stipite della porta.

«TARDIS permettendo» le rispose. «Non ho molto da fare qui».

Non avrebbe neanche dovuto essere lì, a dirla tutta, ed ancora non aveva trovato da nessuna parte la ragione per cui questa traversata si fosse resa possibile.

Neanche il Corsaro avrebbe dovuto essere in quel TARDIS, in quel momento. Era tutto così tremendamente sbagliato, che ci sarebbe stato da stupirsi che non ci fosse alcuna scossa di terremoto o esplosione imminente a minacciare l’intero universo.

Era stato sbagliato fin dall’inizio e, l’aspetto più strambo, era che non fosse stato in alcun modo un errore volontario da parte sua.

Ad ogni modo, se aveva condotto bene i suoi calcoli ed aveva rivolto parole sufficientemente gentili alla sua cara cabina blu, non c’era davvero alcun motivo che avrebbe potuto trattenerlo.

Lo sguardo del Corsaro era triste, mentre lo osservava all’opera. Il Dottore non si sforzò affatto di animare la conversazione, per cui il silenzio si protrasse a lungo.

«L’incontro con il mio socio non è andato benissimo, vero?» domandò infine il Corsaro, incapace di trattenersi oltre.

Il Dottore non alzò lo sguardo dal bullone che stava cercando di avvitare, sebbene l’avesse già stretto a sufficienza e tutta quella concentrazione fosse eccessiva.

«Ho avuto incontri peggiori» rispose, evasivo. Era anche la verità: una schermaglia di battute velenose era l’equivalente di una normale conversazione amichevole per i suoi standard, che comprendevano diversi tipi di prigione, l’essere appeso a testa in giù, l’essere sedato, sparato, irradiato e quant’altro.

La verità, era che non aveva alcuna voglia di riprendere il discorso, sebbene si rendesse conto di quanto fosse inevitabile.

«Vorrei tanto che capissi» disse il Corsaro, dopo un sospiro scoraggiato.

«Vorrei anche io» rispose, senza più tentare di far finta di niente. Ed era la verità: «Vorrei guardarmi intorno e non pensare a quante leggi del Tempo e della natura state infrangendo».

«Salviamo vite» rimarcò ancora una volta lei ed il Dottore dovette sforzarsi per non alzare gli occhi al soffitto e sembrare ben più che maleducato. «Anche tu hai sempre infranto ogni regola, per salvare vite».

Un brivido gli percorse la schiena al solo ricordo di ciò che aveva fatto durante la sua eccessivamente lunga vita, nel tentativo di salvarne delle altre. Quante ne aveva perse per la strada.

Non era facile, alla fine di una giornata, mettere tutto sui piatti della bilancia e decidere se fosse stato giusto o sbagliato. Ecco perché, sostanzialmente, faceva in modo che la sua giornata non avesse mai fine. Ecco a cosa serviva una macchina del Tempo.

Ma non aveva intenzione di darle tutte quelle spiegazioni.

In effetti, voleva soltanto andare via e non doverci ripensare.

«Addio, Corsaro» disse, alzandosi e porgendole una mano. «È stato bello rivederti» aggiunse, in una spinta di sincerità. In qualche modo - per qualsiasi motivo ciò si fosse reso possibile - lo era stato.

Il Corsaro sorrise, seppur non molto allegramente, mentre ricambiava con una stretta vigorosa, molto più maschile di quanto fosse stato tutto il resto della rigenerazione.

«Dimmi la verità» disse, senza lasciare la presa. «Ti è capitato di dare un’occhiata al mio futuro, vero?».

Come dolorosi flash nella memoria, il Dottore non poté in alcun modo contenere i ricordi del cubo luminoso che bussava alla porta del TARDIS. Al pianeta ’Casa’, al cimitero dei TARDIS. A tutte quelle richieste d’aiuto a cui nessuno aveva mai risposto.

Invece, il Corsaro era proprio lì di fronte a lui, in quel momento, e ancora gli stringeva la mano. Quella stessa mano che un giorno le sarebbe stata strappata via per entrare a far parte di un umanoide collage. Erano esperienze che soltanto un Signore del Tempo avrebbe potuto vivere e che lui non avrebbe augurato neanche al suo peggior nemico.

Avrebbe potuto dirglielo. Avrebbe potuto raccontarle tutto, tenerla lontana dalla fine e la nave del Corsaro avrebbe solcato gli infiniti angoli dell’intero universo per l’eternità.

Ma le regole, la pensavano in modo diverso.

«Sai che non posso dirti nulla» si sentì rispondere, invece.

Stava veramente diventando vecchio.

Il Corsaro sorrise, mordendosi il labbro.

«Sì, e il rammarico che ti leggo negli occhi ogni volta che mi guardi è già un’anticipazione deprimente» osservò, argutamente.

Il Dottore non arrossì. Al contrario, si trovò a sorridere di rimando, a seguito di un dolce ma rapidissimo pensiero che gli aveva attraversato la mente:

«Spoiler» disse soltanto, a bassa voce.

Il Corsaro si accigliò, senza capire.

«Prego?». Per tutta risposta, il Dottore sorrise ancora di più.

«Stammi bene» disse, senza concederle tutte quelle spiegazioni inutili e complicate che quell’unica parola si trascinava dietro.

Il Corsaro era ancora decisamente perplessa, ma fu comprensiva della sua fretta di andare via e non insistette oltre.

«Altrettanto, Dottore» rispose, tornando sui propri passi ed aprendo la porta cigolante. Prima di uscire gettò un’occhiata attorno alla sala comando, alle luci lampeggianti, ai rumori continui e vivi, simili ad un respiro. «Saluti alla tua lei» volle aggiungere, con un gran sorriso.

Infine sparì, chiudendosi la porta dietro.

Dal ponte della nave - vuoto a quell’ora della notte come lo era stato quando era apparsa - il Corsaro rimase a guardare la cabina telefonica della polizia londinese svanire a poco a poco, insieme ad un rumore ansimante e cigolante.

Non c’era nessuno intorno che potesse sentirla, dunque si arrischiò a confessare, dopo un lungo sospiro dolente:

«Qualsiasi cosa tu abbia fatto, ti perdono, Dottore».

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Capitolo 6
*** Missione di recupero ***


 

L’interno del TARDIS era la solita giostra di luci soffuse, al tempo del leggero respiro della matrice al suo interno, che ronzava placidamente.

Il Dottore, alla consolle, premeva pulsanti, ruotava manovelle e tirava leve di malavoglia, sicuramente con molto meno entusiasmo di quanto ne avesse avuto in altre innumerevoli occasioni.

Il TARDIS aveva smesso di fare capricci e questa, in teoria, avrebbe dovuto essere un’ottima notizia, dal momento che sembrava finalmente pronta a partire.

Il Dottore avrebbe avuto la possibilità di lasciarsi tutta quella storia alle spalle, insieme ai suoi dubbi ed alla sua ovvia sconfitta. Poteva finalmente lasciarsi trasportare dal vortice verso nuove meraviglie, come quel pianeta in cui il tramonto e l’alba sono realmente una coppia di sposi che passano il tempo a rincorrersi giorno dopo giorno. Oppure, avrebbe potuto fare un salto sulla Terra: chissà che cosa stava succedendo nel 1991.

Il fatto era che il Dottore era di pessimo umore. Allo stesso modo sembrava esserlo il TARDIS. Era sì, pronta a partire, ma c’era qualcosa come cupa delusione nel respiro ansimante del motore, che il Dottore distingueva chiaramente, sebbene qualcuno avrebbe potuto giudicarlo pazzo.

Il Dottore sapeva che era vero.

Conosceva la sua vecchia compagna di viaggio e sapeva che raramente aveva lasciato qualcosa al caso. E se l’aveva delusa, doveva esserci un motivo ben preciso che il Dottore era certo di conoscere, sebbene non riuscisse a capire che diamine avrebbe voluto che facesse!

Smise di pasticciare con i comandi, poggiò le mani sulla consolle e chinò il capo in un profondo sospiro sconfitto.

«Perché mi hai portato qui?».

Non che si aspettasse realmente una risposta. Lei non rispondeva mai, non aveva mai risposto.

A parte quella volta.

Be’, avrebbe volentieri desiderato un’altra eccezione, perché davvero non riusciva a capire per quale ragione la sua vecchia amica avesse deciso di trattarlo in quel modo, sottoponendolo a quella prova tanto dolorosa.

«Non avrebbe dovuto essere possibile» disse ad alta voce, dopo esserselo ripetuto per giorni nella testa, senza neanche essere riuscito a trovare una spiegazione esaustiva.

Ogni legge del Tempo e dello Spazio era stata infranta, soltanto perché lui giungesse a quell’appuntamento fatto di bastonate ed amarezza? Perché? «Temevi che mi fossi montato la testa e che avessi dimenticato tutta la morte che ho seminato? Be’, non avresti dovuto prenderti tanto disturbo!» sbottò, allontanandosi dalla consolle, prima di cedere ancora una volta alla pericolosa tentazione di colpirla con un pugno. Lo aveva già fatto e sentiva le stesse, turbolente sensazioni di quella volta a fomentargli la rabbia, dalla delusione cocente alla consapevolezza di essere stato raggirato.

Sospirò profondamente, riprendendo il controllo, appendendosi alla balaustra delle scale.

«Non dimentico niente» mormorò.

2.47 miliardi. Ci aveva provato a dimenticarli. Ci aveva anche creduto, tempo prima, ma la realtà era un’altra: «Non dimentico mai».

Chiuse gli occhi, aspettando che l’ondata di dolore attorno ai due cuori svanisse. Svaniva sempre, prima o poi. Non per sempre, ma gli concedeva delle lunghe tregue.

2.47. Un numero impresso a fuoco nella sua memoria, più di qualsiasi altro.

Non si era mai domandato il perché.

«Il potenziale!» eruppe all’improvviso, come se il suo cervello avesse cercato per secoli quella risposta apparentemente disconnessa e ci fosse arrivato solo in quel momento. «È quello!» continuò, entusiasta. Sebbene non ci fosse nessuno a condividere quella gioia selvaggia che riempiva quegli occhi chiarissimi. «Ho capito!».

Persino il TARDIS guizzò di approvazione, mentre lui sfrecciava di nuovo sulla consolle per bloccare i comandi e tornare indietro, senza neanche preoccuparsi se fosse possibile o meno. Lo era e basta. Perché finalmente aveva capito.

Aveva capito che quello che stava lasciando era esattamente il posto nell’universo in cui avrebbe dovuto essere.

##

Il Corsaro era rimasta inconsciamente a guardare l’immagine della cabina blu sbiadire sotto i suoi occhi, accompagnata dal suono raspante ed inequivocabile del freno a mano lasciato attivo.

Aveva sospirato ed era già mezzo passo in avanti per voltare le spalle al fantasma del TARDIS quando, prima quasi impercettibilmente e poi in crescendo, il suono della materializzazione prese ad aumentare invece che scomparire. Allo stesso modo, la cabina blu parve tornare indietro, riprendendo il proprio posto sul ponte, fuori luogo nel contesto esattamente come poc’anzi.

Prima che il Corsaro potesse fare qualcosa di più che accigliarsi senza capire, le porte si riaprirono cigolando.

Era lo stesso Dottore. Presumibilmente, non erano trascorsi che pochi istanti dal saluto, eppure sembrava una persona totalmente differente rispetto all’amareggiato Signore del Tempo che aveva deciso di partire.

«Ho cambiato idea» annunciò, chiudendosi le porte del TARDIS alle spalle. «Penso che resterò ancora un po’».

Sorrise, addirittura. Non era un brutto sorriso ma, per qualche ragione, su quel volto perennemente imbronciato era quasi strano da vedere.

Il Corsaro lo guardò a bocca spalancata - chiaramente pensando che fosse del tutto impazzito - e solo qualche istante dopo riuscì a parlare:

«Hai appena detto di non aver nulla da fare, da queste parti» gli fece notare, quasi temesse che nel giro di qualche istante il Dottore se lo fosse dimenticato. A dire la verità, per quanto ne sapeva lei, avrebbero potuto essere trascorsi secoli.

«Il Dottore trova sempre qualcosa da fare: proteggere popoli, sconfiggere il male, boicottare tornei di mimi» aveva cominciato ad elencare, parlando come un treno in piena corsa, prima di bloccarsi di fronte ad un’apparentemente geniale idea: «Ehi, vi serve per caso dell’intrattenimento serale? Posso portare la chitarra! Indovina chi era il dottore protagonista di Confortably numb! Bei momenti. A parte Roger Waters: un uomo una lagna!».

A giudicare dal modo in cui lo stava guardando, il Corsaro stava ascoltando solo a metà i suoi deliri e, di quella, capendone un’ulteriore metà, ma non pareva importarle granché: quell’allegria quasi isterica del Dottore era esilarante e, forse, addirittura contagiosa, dal momento che anche lei sembrò inspiegabilmente colma di entusiasmo.

«Avevo dimenticato il tuo lato iperattivo» commentò, senza trattenere una risata. Sebbene, appena un istante più tardi parve ricomporsi, pur non riuscendo a cancellare il sorriso dalle labbra, ed aggiunse in modo quasi sospettoso: «Senti, per me puoi restare quanto vuoi, ma promettimi che non hai intenzione di ostacolare il nostro lavoro: non facciamo nulla di male».

Il Dottore sorrise, raddrizzò le spalle ed alzò le mani come in un segno di resa. Poi, con voce chiara e profonda, rispose con un’unica, inequivocabile parola:

«Assolutamente!».

Il Corsaro ne sembrò parecchio soddisfatta.

D’altra parte, era stata Madame Vastra ad insegnargli quanto le persone tendessero a fidarsi meglio, di fronte ad un’unica parola.

Ma lui restava pur sempre il Dottore ed aveva le sue personali regole. Tra queste, la numero uno spiccava inesorabilmente.

##

Esistevano persino in quella nave TARDIS dei momenti di quiete. Poteva sembrare impossibile, a giudicare dalla quantità di gente che trasportava, eppure, se si decideva di salire sul ponte al momento giusto della giornata, non vi si trovava altro che la vasta moltitudine di stelle, galassie e nebulose.

Se si era veramente nel giorno fortunato, si poteva incontrare una pensierosa Corsaro, intenta a manovrare l’apparentemente inutile timone.

Se l’allineamento dei pianeti era quello corretto, poi, si poteva osservare il Dottore porgerle una tazza fumante.

«Oh, grazie mille» disse il Corsaro, dopo un attimo di sorpresa nello scoprire di non essere da sola. Accettò la tazza con un sorriso e l’annusò. «Ma questo è Earl Grey!» esclamò, stupefatta come se le fosse stato appena offerto un metallo raro e prezioso.

Il Dottore ne fu piuttosto compiaciuto, sebbene cercasse di nasconderlo - male! - perdendo lo sguardo verso l’enormità dell’universo che si parava dinanzi.

«Ci ho messo un po’ ma l’ho convinto» disse, ripensando con soddisfazione all’enorme fatica quanto ai rischi di perdere denti - o, peggio, arti - nel discutere con quel nerboruto locandiere.

Dopo averne inalato profondamente l’aroma ancora una volta, il Corsaro ne bevve un sorso, lasciandovi la lingua immersa a lungo, prima di deglutire con evidente soddisfazione.

«Pensavo di non ricordare più che sapore avesse» commentò, quasi commossa.

Il Dottore ed il Corsaro ridacchiarono, poi fu di nuovo il silenzio, quello assoluto di una nave addormentata nel mezzo del nulla cosmico in cui alcun suono può propagarsi.

Il Corsaro continuò a sorseggiare il suo tè. Nessuno dei due sembrava aver fretta di rompere la quiete, per quanto l’intenzione fosse indubbiamente quella.

Il Dottore continuava a guardare avanti, oltre il parapetto. Quell’universo, lui, l’aveva girato a lungo nella sua fuga forsennata. Così uguale a se stesso ma sempre così differente, esattamente come lui. Ricordare tutto era impossibile ma dimenticare, lo stesso.

«Uh, non credevo che questa tua nuova faccia fosse capace di esprimere tanto sentimentalismo» disse improvvisamente il Corsaro, dopo lunghi minuti, forse ore.

Il Dottore si voltò verso di lei, faticando a mettere a fuoco quell’immagine così vicina dopo aver perso lo sguardo verso luoghi così lontani.

Si accorse che lo stava osservando attentamente, chissà da quanto tempo.

«Cosa?».

Il Corsaro ridacchiò sulla tazza ormai tiepida che sorseggiava con calma.

«Ecco che è andato via» commentò. Il Dottore si passò una mano sul viso inconsciamente, chiedendosi effettivamente che tipo di espressione potesse aver attirato tanto la curiosità della Signora del Tempo. Non faceva mai in tempo a conoscere adeguatamente uno dei suoi volti che già ne aveva uno nuovo. «Se esiste un cliché più romantico di una persona pensierosa che guarda le stelle, io non lo conosco» spiegò il Corsaro, guardandolo come chi la sa lunga.

«Io sono sempre pensieroso e - nel caso non te ne fossi accorta - siamo nello spazio profondo, non c’è nient’altro da guardare se non le stelle» si giustificò il Dottore. Minimizzare. Minimizzare sempre.

Il Corsaro parve cogliere al volo quella familiare strategia.

«Va bene, va bene… come ti pare» rispose, condiscendente. «Pensavo solo che ti mancasse qualcuno».

Il Dottore trattenne a stento una risata triste. Invece scrollò le spalle con il suo solito atteggiamento indifferente.

«Bah. Storia della mia vita» disse.

«Direi più destino dei Signori del Tempo» lo corresse lei, poggiando la tazza ormai vuota sul banco del timone, sul quale non subiva alcuna forza trainante di alcuna marea.

Il Dottore poggiò le mani sul legno levigato del parapetto e fece un lungo sospiro.

«Mi dispiace» si decise a dire, infine.

«E ci risiamo» rise il Corsaro, dopo averglielo sentito così tante volte da quando si erano rincontrati.

Il Dottore si rese conto solo allora del fraintendimento.

«No…» disse in fretta, scuotendo una mano. «No, mi dispiace di essermi comportato in modo così…» spese qualche secondo a cercare il termine più adatto, visto che la maggior parte delle parole che aveva in mente non erano affatto civili. «Ah: conservatore» giunse infine, piuttosto calzante.

Il Corsaro l’accolse con un sorriso indulgente.

«Grazie» rispose. Inspirò a fondo anche lei quell’aria artificiale che così facilmente si associa al profumo dello spazio che, in realtà, non esiste affatto. «I Signori del Tempo si sono sempre comportati in modo così distaccato. Regole, divieti… soltanto che, a volte, non puoi solo stare fermo a guardare» spiegò, celando in quelle parole qualcosa che alle orecchie del Dottore suonò come stantia frustrazione.

Infine, scrollò le spalle: «I paradossi si risolvono da soli, nella maggior parte dei casi».

Sì, anche il Dottore lo aveva studiato e visto succedere. Spesso le conseguenze degli interventi temporali non sono così catastrofici come si è abituati a pensare, o la sola esistenza dei TARDIS dovrebbe essere un pericolo costante per l’universo.

Be’, in effetti questo dipende anche dal pilota del TARDIS…

Il Dottore aveva piena fiducia nel Corsaro e nella sua buona fede.

Diverso era il discorso per quel Nicholas Winton. Era lui a non convincerlo per niente, a solleticare il suo istinto per il pericolo e, senza alcun dubbio, quello della sua amica blu che l’aveva condotto fin lì.

Ma non era il momento di esporre tutte le sue teorie al Corsaro. Per il momento, aveva bisogno della sua piena collaborazione: c’erano ancora tante cose che il Dottore aveva bisogno di comprendere ed analizzare.

Era fiducioso che, una volta ottenute le prove che stava cercando, avrebbe capito anche lei e sarebbe stata disposta ad ascoltarlo.

«Solo una domanda, e rispondimi sinceramente, ti prego» le disse, dopo aver scelto accuratamente le parole perché non trasparisse quanto ancora fosse diffidente a proposito della loro insolita attività. «Sopravvivono tutti al processo?».

Il Corsaro aveva preso nuovamente in mano il timone - naturalmente, questo non aveva alcuna autorità sulla rotta della nave - e si prese del tempo, prima di parlare:

«Conosci già la risposta, Dottore» rispose infine, non senza un velo di rammarico. «Non esiste una tecnica sicura al cento percento. Stiamo parlando di vite fragili, che hanno subito traumi orrendi. Ma perlomeno possiamo dire di averci provato».

Già. Proprio come aveva immaginato.

Non era ancora niente rispetto a ciò che sperava di ottenere, ma già significava guardare nella direzione giusta.

Si concesse del tempo per far volar via quella nota triste, prima di riprendere:

«Vorrei conoscere meglio i meccanismi» propose, con fare noncurante.

Il Corsaro non rispose. Lo guardò, inarcando un sopracciglio in un modo che lo fece perlomeno sorridere: non era ancora sicura di potersi fidare di lui in quell’ambito. Avrebbe dovuto metterci tutto il proprio fascino, per convincerla.

«Potrei aiutarvi» disse, con tutta quella poca innocenza che dopo più di duemila anni ancora gli apparteneva. «Potremmo raggiungere una percentuale più alta. La più alta possibile. Dopotutto, sono un genio». Si arrischiò a sorridere, tutto denti. Ancora non conosceva abbastanza la sua faccia da sapere se una cosa del genere potesse funzionare.

Ma, apparentemente, funzionava con lei, che scoppiò a ridere.

«Sì, avevo dimenticato anche la tua modestia» commentò.

Fu solo dopo un’ultima, lunghissima occhiata penetrante, in cui presumibilmente aveva cercato minuziosamente la fregatura, che si decise a cedere: «D’accordo, allora. Dobbiamo recuperare un carico sul pianeta Joob. Abbiamo ben quattro anni di guerriglia, per un numero di 4716 bambini».

Il Dottore fece un movimento strano, come se avesse avuto intenzione di battere le mani o alzare i pollici o comunicare con qualsiasi tipo di gesto prettamente terrestre della gioia, per poi ripensarci a metà strada.

Si accigliò di nuovo, come soltanto lui poteva fare.

«Sono un po’ confuso, non so se è il momento di mostrare entusiasmo o rammarico. Non sono ancora molto ferrato sulle emozioni adeguate da esprimere».

Per tutta risposta, il Corsaro dovette aggrapparsi al timone per non cadere dal ridere.

«Prova a chiudere il becco e seguimi, Doc» disse infine.

Il Dottore fece una smorfia.

«Non chiamarmi Doc».

«Zitto».

##

Il trucco si svelò agli occhi del Dottore tanto velocemente da lasciarlo sbigottito. Con un semplice gesto, il Corsaro aveva sollevato il timone con tutto il sostegno, svelando la presenza di una consolle non troppo dissimile da quella del TARDIS.

Quasi deluso da quel contesto molto meno piratesco del solito, il Dottore la guardò armeggiare con dei pulsanti di cui lui non conosceva la funzione - ed anche questo dettaglio, era molto simile a ciò che spesso accadeva all’interno della cabina blu - finché non la vide spingere con forza un grande disco giallo, da cui scaturì il rumore infernale di una sirena.

Appena qualche secondo dopo, il fiume di marinai si riversò nuovamente sul ponte, turbandone definitivamente la quiete, probabilmente richiamati da quel suono che per loro doveva essere familiare e che il Dottore considerava solo fastidioso.

Il Corsaro voltò le spalle alla consolle per guardare verso la ciurma, in un atteggiamento composto con le mani dietro la schiena dritta, in cui pareva trovarsi parecchio a proprio agio:

«Tutti in formazione, feccia stellare!» urlò a gran voce alla folla già operosa, dall’alto della sua postazione. Ancora una volta, il Dottore ebbe di che stupirsi di come tutti fossero entrati così profondamente nella piratesca parte.

«Ai posti, Capitano!» gracchiò la voce di una specie aliena tutta tentacoli ed occhi ma con una bandana rossa stretta proprio dove avrebbe dovuto esserci la testa.

Il Corsaro sembrava parecchio soddisfatta della celerità del tutto.

Girò ancora qualche manopola ed il Dottore la vide inserire le coordinate del pianeta che anche lui riconobbe come quelle dello sfortunato pianeta Joob, e la data del periodo in cui indicativamente si erano concluse le sue sfortune.

Il Dottore doveva ammettere di sentire anche lui il fremito dell’avventura sul fondo dello stomaco, l’eccitazione di addentrarsi in quel meccanismo. Soprattutto, quella di dimostrare di avere ragione.

«Gentilmente questa volta, razza di incapaci!» continuò il Corsaro rivolta alla ciurma, dopo aver abbassato la leva. Il motore cominciò gradualmente a rombare sempre più forte e il cielo fino ad ora trapunto di stelle e galassie, a farsi più luminoso man mano che si addentravano nel tunnel spazio-temporale. «Un solo graffio sulla mia nave e vi troverete a sguazzare nella materia oscura insieme ai pesci gantalisiani!».

«SÌ, CAPITANO!» risposero ad una sola voce quei poveri disgraziati, probabilmente abituati a ricevere ridicoli insulti e minacce.

«Avanti tutta, allora!».

Fu esattamente allora che la nave entrò alla massima velocità all’interno del flusso caotico del tempo e dello spazio che, mai come in quel momento, il Dottore associò ad uno sciacquone, pentendosi, immediatamente dopo, di averlo anche solo pensato.

Aveva sempre trovato fondamentalmente inutile la presenza del timone esattamente quanto quella delle vele, soprattutto in quella fase particolare del viaggio. Dunque considerava completamente vani tutti gli sforzi dei marinai che si gettavano da un albero all’altro tra i cordami come scimmie, per spiegarle.

Infine capì.

Capì che quella procedura serviva per rendere l’attraversamento del tunnel ancora più turbolento di quanto non fosse normalmente, come un mare in burrasca.

I pirati - Corsaro compreso - sembravano divertirsi un mondo a farsi sballottare da una parte all’altra dalle forze contrastanti e completamente imprevedibili a cui era sottoposta la nave. Il Dottore, come si poteva immaginare, si stava divertendo molto meno. Specialmente quando l’atterraggio e la conseguente forza di inerzia - era inerzia? - lo buttò a terra facendolo quasi ruzzolare giù per le scale.

Ma perlomeno erano arrivati.

«E dire che River mi rimproverava di non saper guidare il TARDIS» commentò con un gemito, mentre si rimetteva in piedi tutto imbronciato. Be’, più del solito.

«River?» domandò il Corsaro, senza capire. Il suo caschetto si era lasciato scompigliare appena, mentre le guance arrossate del suo volto erano quelle entusiaste da foto sulle montagne russe al Luna Park (una lunga storia anche questa, il Dottore sperava che Clara ne avesse bruciato ogni traccia).

«River Song, mia moglie» rispose il Dottore, scuotendosi via la polvere dalle maniche.

«Cosa?!» esclamò il Corsaro, strabiliata. «Sei sposato?».

«Oh, tranquilla» rispose lui indolente, con un gesto casuale della mano mentre scendeva i gradini verso il ponte. «Non è gelosa».

Il Dottore dava le spalle alla vecchia amica, dunque non la vide fissarlo con la bocca aperta, colma di domande in sospeso. Troppe, anche solo per pensare di pronunciarle tutte.

«Lasciamo perdere!» si arrese infine, senza sapere neanche lei quanto questa fosse un’ottima idea, dal momento che non avevano tempo per tutti i diagrammi di flusso che sarebbero stati necessari alle spiegazioni.

Il Dottore preferì impiegare questo tempo in tutt’altra occupazione. Tipo guardarsi intorno.

Erano in una grotta di pietra di cui a stento si riusciva a distinguere il soffitto nero come la pece e rilucente di umidità. Sarebbe stato completamente buio, se non fosse stato per la luce emanata dalle lanterne della nave che si rifletteva sulla roccia umida delle pareti e sull’acqua.

Ecco, l’acqua era stata una bella sorpresa: Joob non aveva oceani, mari né piccoli laghetti e sicuramente nessuna caverna marina, su tutta la superficie del piccolo pianeta.

Il Dottore, per un momento, pensò che ci fosse stato un qualche tipo di errore. D’altra parte, non poteva essere solo il suo TARDIS a trasportarlo a casaccio, nelle zone più remote dell’universo senza alcuna apparente ragione.

Non impiegò molto a capire che, invece, non c’era alcun errore. Era semplicemente qualcosa a cui non era più tanto abituato: un sistema di occultamento del TARDIS funzionante.

Si era portato dietro la sua pozza d’acqua.

Sì, e allora?

Con un sospiro nostalgico, ma neanche troppo, visto quanto aveva imparato ad affezionarsi alla sua cabina blu, scese dalla nave insieme al Corsaro ed a tutti gli altri marinai richiamati alla missione.

«Allora, questo è il piano…» cominciò il Corsaro rivolta al Dottore, unico principiante della squadra, mentre tutti gli altri parevano già abbastanza edotti su come comportarsi.

«No, no, non infastidirmi con i piani» la interruppe lui, immediatamente.

Probabilmente fu in quel momento che il Corsaro cominciò a pentirsi di esserselo portato dietro.

«Dottore, se combini qualche guaio…» cominciò, cercando di portare pazienza, ma neanche questo tentativo valse a qualcosa.

«Ehi, senti, sono qui per osservare, va bene?» disse il Dottore, alzando le mani in maniera innocente, mentre guadagnavano l’uscita della caverna alla volta del pianeta Joob, smosso da guerriglia.

I soli splendevano alti nel cielo insieme a quattro o cinque satelliti visibili, dandogli l’aspetto di un enorme faccina sorridente. Una roba da ridere ed una gran meta turistica, non fosse stato per la puzza di bruciato, polvere e sangue che si respirava su quel pianeta principalmente roccioso e desertico. «Sono certo che in questa particolare fase, siate tutti abbastanza esperti da…».

«A TERRA!!».

Un’esplosione preoccupantemente vicina li aveva sfiorati, coprendoli di una pioggia di terra.

Il Dottore si era ritrovato improvvisamente spalmato al suolo a respirare la sabbia, integro e illeso - soprattutto in confronto ai malcapitati che erano capitati sulla traiettoria della granata - e con la mano del Corsaro che premeva fastidiosamente contro la sua nuca per mantenerlo fuori dalla portata di altri oggetti volanti e possibilmente contundenti.

Urla agguerrite e spaventate, fischi di granate e pallottole fendevano l’aria, ma per fortuna abbastanza lontani dal perimetro da permettere loro di rimettersi in piedi ed organizzarsi sul da farsi.

«Dannazione!» imprecò il Corsaro, impallidita e sporca di terra. «Siamo atterrati troppo presto!» annunciò (sottolineando l’ovvio, avrebbe commentato il Dottore, se avesse voluto vedersi recapitare un bel pugno sul naso) mentre guardava il disastro che avevano intorno.

«La situazione è ancora troppo calda?» disse il Dottore, immaginando che, normalmente, i loro tempi di intervento li portassero sul luogo in momenti molto più tranquilli e, in un certo senso, pacifici. Quando erano già morti tutti, insomma.

Quell’errore, tuttavia, avrebbe potuto essere provvidenziale per i propositi del Dottore. L’occasione ideale.

Certo, se ne fosse uscito vivo, aggiunse quando una seconda granata finì per esplodere, non tanto vicina come la precedente, ma ad una distanza preoccupante da loro.

«Tutti dentro! Avanti!» urlò il Corsaro, sospingendo la ciurma di nuovo all’interno della caverna del suo TARDIS. «Non dobbiamo farci vedere!». Tutti obbedirono immediatamente, felici di levarsi da quella pericolosa situazione.

Tutti, naturalmente, tranne uno. «Dottore!» esclamò il Corsaro - non esattamente con la pazienza che l’aveva contraddistinta finora - quando lo vide sgattaiolare dalla parte opposta rispetto all’entrata del TARDIS. «Da questa parte! Ora!» gli disse, afferrandolo per un braccio.

«Sì» mormorò il Dottore distrattamente, come se fosse stato del tutto ipnotizzato dal contesto e si fosse accorto con qualche secondo di ritardo che la donna lo stava trascinando da tutt’altra parte rispetto alle sue intenzioni. «Anzi, a dire il vero no» si riscosse, liberandosene.

Anche il tacco dello stivale dell’ultimo componente della ciurma era sparito oltre l’entrata nascosta e, in mezzo al campo - amico o nemico, in quel momento non faceva poi tutta questa differenza - rimanevano soltanto i due Signori del Tempo.

«Dottore, è un intralcio…» cominciò il Corsaro, avendo capito al volo le sue intenzioni e tentando di farlo ragionare.

«… alla storia» concluse lui al suo posto, con una certa noncuranza per essere un argomento così importante. «È il mio quinto o sesto nome. Non so mai dove collocarlo. Tempesta che avanza mi piaceva di più».

«Che cosa vorresti fare?» esclamò infine lei, esasperata.

Il Dottore gettò uno sguardo verso il centro abitato, epicentro del terremoto, dentro il quale si concentravano le due forze opposte della guerriglia, che nel respingersi a vicenda, seminavano morte e distruzione.

Che domande…

«Perdonami» rispose il Dottore. La luce luminosa nel suo sguardo avrebbe potuto sembrare fuori luogo in un contesto del genere, ma erano proprio queste le condizioni che permettevano al Dottore di operare la sua magia. «…ma questo è il mio campo».

Ciò detto, si avviò a passo svelto tra polvere e macerie per raggiungere l’attuale posto più pericoloso dell’intero pianeta.

«Oh, per l’amor del Cielo, Dottore!» esclamò il Corsaro, apparentemente raggiungendo nuovi livelli di esasperazione.

Evidentemente, pensò anche che qualcuno avrebbe dovuto essere presente per raccogliere i suoi pezzi, una volta fatto esplodere, perché decise di seguirlo. «Cortesemente, dimmi che intenzioni hai» disse, chiaramente invocando pazienza, una volta raggiunto.

«Più o meno quello che avevate intenzione di fare voi, solo che a me piace giocare d’anticipo sulla morte».

Il Corsaro alzò gli occhi al cielo. Giusto in tempo per godersi la scena di una granata che volava sulle loro teste per atterrare ed esplodere - fortunatamente - molto più in là.

«Lo sai che teoricamente non possiamo, vero?» gli fece notare, quando l’eco dell’esplosione le permise di farsi sentire.

«Lo so» rispose lui, con la stessa snervante noncuranza di poco prima.

Erano entrambi piuttosto tranquilli, per essere nel bel mezzo di una storica rivoluzione che contava numerose vittime in un bagno di sangue tanto famoso da far parte di proverbi oscuri in almeno quattro sistemi. «Ehi, sono io quello che lo dice, di solito» aggiunse, quasi offeso, come se lo avesse appena notato.

Come aveva appena notato quanto fosse decisamente fastidioso sentirselo dire.

Proseguirono alla svelta per qualche centinaio di metri, tra fischi ed esplosioni, facendo in modo di tenersi meno in vista possibile in un momento in cui entrambe le fazioni si stavano divertendo ad eliminare qualsiasi cosa si muovesse.

«Dottore, storicamente queste persone sono morte!» continuò il Corsaro, quando l’aria cominciò ad essere così satura di morte, polvere ed adrenalina da diventare quasi irrespirabile. C’era ancora, probabilmente, la possibilità di tornare indietro, ma era veramente difficile che ormai questo accadesse. Ciononostante, il Corsaro sembrava voler fare un tentativo: «Il Tempo ha già inglobato la loro morte».

«Cosa, ora ti preoccupi dei paradossi?» le fece notare il Dottore, non senza gongolare. «Credi che sia più grave salvare delle persone e lasciarle nel proprio tempo, nella loro storia, piuttosto che resuscitarle da tutt’altra parte?».

Il Corsaro avrebbe chiaramente preferito avere qualche buon argomento con cui poter dissentire.

Ma non lo trovò.

Dunque sospirò, chiudendo gli occhi e, a giudicare dalla maniera furibonda con cui guardò il suo attuale compagno, sperando di sopravvivere abbastanza da poterlo uccidere lei con le sue stesse mani.

«Va bene ma… l’esplosione che li… be’, che li ucciderà… è essenziale che abbia luogo! Sarà ciò che porterà alla catena di eventi fino alla pace e la costituzione della nuova democrazia!».

«Ah, buon per loro!» rispose il Dottore, guardandosi intorno dal nascondiglio in mezzo alle macerie che avevano trovato per poter studiare meglio la situazione.

Era l’esplosione, il punto. Non le vittime. «Ho afferrato il concetto, Corsaro. Vuoi l’esplosione? Avrai un’esplosione».

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