Evelyne

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***
Capitolo 11: *** Capitolo X ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 
Terra, 31 luglio, anno 3265
 
3.00 a.m
 
La notte era tranquilla e le stelle brillavano in cielo, come se non fossero interessate alla Terra e ai loro abitanti. Un gruppo di scienziati stava lavorando da mesi, alcuni anche da anni, al progetto che si sarebbe compiuto alle prime luci del mattino ed era palpabile l’agitazione presente nell’aria. Si trovavano in una struttura anti sismica, ma questo non impediva loro di provare paura per le frequenti scosse, unite al rumore dei razzi che testimoniavano la guerra che si combatteva all’esterno.
Cassie, una delle scienziate, ebbe un mancamento quando sentì di nuovo la Terra tremare sotto ai suoi piedi: entrambe erano arrivate al livello massimo di sopportazione.
Julian, suo marito, smise di controllare dei documenti e andò immediatamente verso di lei, la fece stendere e le rimase accanto fino a quando non riprese i sensi. Quando lo fece, senza parlare, le accarezzò lentamente il braccio, guardandola con affetto e comprensione. Cassie non riuscì a trattenersi e le lacrime le solcarono il volto: la gravidanza l’aveva fatta diventare ancora più sensibile.
Julian l’abbracciò e lei poggiò il suo volto sulla spalla del marito; le lacrime calde gli bagnarono la leggera maglietta di cotone, arrivandogli fino alla pelle. Rimasero stretti l’uno nelle braccia dell’altro per qualche minuto, poi lui la lasciò andare baciandola delicatamente sulla fronte.
Più volte Julian aveva cercato di convincere la moglie a non partecipare al progetto, pensando a quanto sarebbe stato difficile lavorare con l’arrivo della gravidanza ma lei, testarda com’era, non gli aveva mai dato ascolto.
La testardaggine era un aspetto di Cassie che Julian amava alla follia.
«Andrà tutto bene, te lo prometto» la rassicurò. Lei annuì dolcemente ed entrambi tornarono al proprio lavoro.
Lei controllò il progetto più volte mentre lui gestiva la squadra che si occupava di costruire la navicella. Secondo i loro calcoli sarebbero dovuti decollare verso l’alba, lasciando che la Terra si distruggesse con chi aveva innescato il meccanismo. Sarebbero decollati dopo qualche ora, verso le sei e trenta.
Nessuno parlava, erano tutti concentrati sul proprio lavoro, con la consapevolezza di aver costruito e star mettendo a punto quella che sarebbe potuta essere l’ultima speranza per l’umanità.
Dopo aver constatato che tutti i progetti cartacei fossero stati realizzati, Cassie venne chiamata da Andrew Vibler, uno scienziato che lei stimava molto a capo del progetto, per controllare l’avviamento dei motori. Il tempo scorreva veloce e con esso anche le loro possibilità di salvezza o di dannazione.
 
4.00 a.m.
 
Con lo scorrere del tempo aumentava anche l’ansia. Come se non bastasse il fatto di avere sulle spalle una responsabilità così grande, gli scienziati non dormivano da giorni. Cassie lo era anche più di tutti gli altri, ma non voleva riposarsi, non voleva cedere proprio nel momento fatidico.
Era stata lei a proporre l’idea di andarsene da lì, da quel pianeta su cui i loro avi avevano vissuto e che gli uomini avevano rovinato. Della Terra, delle stagioni, della storia, della lettura, degli usi, dei costumi non sarebbe rimasto nient’altro che un vago ricordo. Una macchia opaca su un vetro, una macchia che andava cancellata, ed era possibile farlo solo con impegno e fatica. Gli uomini tanto crudeli, quelli che uccidevano, gli avidi, i potenti, non sarebbero più vissuti. Le generazioni future avrebbero avuto la pace, non importava a costo di quante vittime o quanti sacrifici.
A loro non interessava essere ricordati, anzi, non volevano: erano l’altra faccia della medaglia, quella che combatteva attivamente per fare qualcosa di buono, ma essere ricordati come “i buoni” era equivalente ad ammettere che c’erano anche persone cattive.
Ecco perché ci doveva essere la pace, ecco perché avrebbero dato la vita per ottenerla, anche se il genere umano fosse scomparso. Perché nessuno altro popolo in qualsiasi altro pianeta si sarebbe dovuto comportare come loro: avevano un dono, la Terra, e l’avevano rovinata. L’avevano usata, spremuta, torturata, fino a quando essa si era ribellata, com’era naturale che facesse. Ora sarebbe esplosa e gli scienziati avrebbero fatto in modo che gli uomini cattivi sarebbero morti con essa, sepolti dalle macerie e dai loro errori.
La macchia sul vetro non ci sarebbe più stata.
 
5.00 a.m.
 
Ormai il sole faceva capolino anche dentro il grande capannone in cui si trovavano, ma non erano ancora pronti a partire. Julian era preoccupato per Cassie, secondo lui faceva troppi sforzi inutili e di certo la sua condizione non l’aiutava. Lei gli aveva ripetuto circa un centinaio di volte che era semplicemente incinta e non inferma, ma questo non sembrava aver giovato sulla preoccupazione del marito. Loro non volevano un figlio, o meglio, non lo volevano mentre stavano cercando di scappare da un pianeta morente. Ci sarebbe stato tempo per allevare dei bambini quando avrebbero ricostruito la società in un pianeta abitato solo da esseri umani che non si sarebbero fatti più la guerra.
Nonostante tutto sapere che sarebbero diventati genitori non li fece impensierire più di tanto, anzi, il bambino che Cassie portava in grembo era visto come un incentivo a fare bene e in fretta il loro lavoro. Le possibilità di sopravvivenza dipendevano da tutti gli scienziati che collaboravano al progetto e, averne due così motivati, non poteva che essere d’aiuto.
Inoltre, Julian non lo avrebbe mai ammesso davanti alla moglie, ma l’idea di diventare padre lo eccitava a tal punto di aver già iniziato a pensare a come potesse essere la cameretta per il piccolo, le storie che gli avrebbe raccontato prima di andare a dormire e quale nome avrebbe potuto scegliere. Era contento di essere padre, ma allo stesso tempo era spaventato per i pericoli che correvano. Più ci rifletteva, però, più capiva che la cosa importante non era solo la loro fuga, ma il fatto di dover imparare ad essere un buon padre, ad amare, capire ed educare il suo futuro figlio (o figlia, per lui il sesso del nascituro non era molto importante) al massimo delle sue capacità.
Si era ripromesso di farlo quando, un giorno, era andato con le lacrime agli occhi a visitare la tomba di suo padre, che l’aveva cresciuto bene inculcandogli sani e giusti principi. Gli aveva promesso, senza smettere di piangere, che l’avrebbe reso orgoglioso e sarebbe stato un buon padre tanto quanto il suo era stato per lui.
L’aveva promesso e, fortunatamente, Julian era un uomo che manteneva sempre la parola data.
 
6.00 a.m.
 
La tensione generale degli scienziati era alle stelle, tanto che sembrava potersi tagliare con un coltello. Stavano facendo gli ultimi controlli e mettendo a punto i dettagli finali, poi sarebbero stati pronti a partire.
«Direi che possiamo iniziare a far imbarcare la gente, ci pensate voi?» chiese Vibler a Cassie e Julian, quando pensò che tutto fosse pronto. I due andarono nell’area in cui dormivano coloro che non prendevano parte al progetto, un grande stanzone con molti letti, li svegliarono e li fecero imbarcare lentamente. Videro gente di tutti i tipi: c’erano vecchi, c’erano bambini, c’erano donne e uomini e l’unica cosa che sembrava accomunare persone che altrimenti sembravano così distanti era la paura e la voglia di vivere, o meglio, di sopravvivere. Il pianeta Terra era stato devastato da guerre, solo quelle sembravano conoscere gli uomini senza cuore che erano al potere e ormai nessuno le sopportava più. La Terra stava per esplodere a causa loro, i civili la abbandonavano e a volte perfino gli stessi uomini che creavano i conflitti se ne stancavano immediatamente. Forse perché non avevano più nulla per cui combattere, non c’era più l’oro, la ricchezza, la bellezza delle città e della gente, ma solo fame, miseria, povertà e crudeltà.
Di quelle che gli antichi chiamavano meraviglie erano rimasti solo deserti, delle opere d’arte fatte di polvere sparsa nell’aria, il cibo tanto acclamato era diventato sintetico a causa dell’infertilità dei terreni. Gli stessi esseri umani erano cambiati. La lingua, la letteratura, anche alcuni detti, erano andati persi con l’avanzare del tempo. Non si sentiva più la necessità di avere una conoscenza generale, si mirava solo ad approfondire lo studio di qualcosa che potesse essere davvero utile per poter trovare lavoro e sfamare un’eventuale famiglia.
Per questo Cassie, Julian, Vibler e tutti gli altri scienziati erano rimasti in piedi tutta la notte, per far sì che gli uomini potessero tornare ad essere tali, e non strumenti per la sopravvivenza del prossimo. Era il loro obiettivo e ci sarebbero riusciti, eccome se l’avrebbero fatto.
 
7.00 a.m.
 
«È tutto pronto, possiamo imbarcarci anche noi» annunciò Julian una volta che tutta la popolazione scelta era stata fatta salire a bordo. Fuori erano rimasti solo una ventina di scienziati, con il compito di controllare che all’esterno tutto funzionasse alla perfezione. Si trovavano in una zona piuttosto lontana dai conflitti, speravano che questo fosse un vantaggio per farli partire senza essere visti, o almeno non troppo presto. Non erano così ingenui da sperare che nessuno si accorgesse della loro assenza, avevano solo calcolato che quando sarebbe accaduto sarebbero stati troppo lontani per essere raggiunti.
«Mi dispiace, ma non credo proprio che questo sia possibile».
A parlare era stato un uomo appena entrato nel capannone, seguito da una cinquantina di uomini in tenuta militare e armati di fucile. Lui, tutti lo conoscevano, era Sebastian Meatch, uno degli uomini più crudeli, di quelli che si arricchivano sulle disgrazie degli altri e avevano un piccolo esercito da vendere al miglior offerente.
Un uomo da non salvare, un uomo che non sarebbe mai dovuto essere a conoscenza di quel piano. Eppure era lì, in piedi, con un ghigno malefico stampato in faccia e una pistola puntata contro coloro che tanto avevano lavorato per un mondo senza di lui.
In pochi attimi tutte le speranze degli scienziati crollarono, i loro sguardi si spensero e gli animi si raffreddarono, pensando alle loro speranze vanificatesi per colpa di quell’uomo e la sua sete di potere.
«Siete stati degli illusi a pensare che non sapessi nulla. Sono la persona più ricca e potente del mondo, ho occhi e orecchi ovunque» sorrise malignamente e poi continuò «Vi ho lasciato costruire questa navicella facendovi credere che il vostro segreto fosse ancora tale solo per presentarmi come sto facendo ora e salire a bordo».
«Siamo al completo» sibilò Vibler, che non aveva mai sopportato i tizi come lui. Era un uomo tutto d’un pezzo, capace, intelligente e più propenso al sacrificio di quanto non dimostrasse. Forse perché non aveva nulla da perdere, moglie e figlio piccolo erano già morti in una delle tante guerre, e quello era il prezzo che pagava per onorare la loro memoria.
Un guizzo di disappunto balenò negli occhi di Meatch e, in preda alla rabbia, premette il grilletto dell’arma che aveva in mano, puntandola contro uno degli scienziati presenti. Il rumore dello sparo rimbombò nella struttura, mentre il proiettile andava a segno. Cassie conosceva l’uomo a cui Meatch aveva colpito, si chiamava Gideon e aveva famiglia. Lo vide accasciarsi a terra e portare le mani al petto per lo stupore, mentre dalla bocca gli uscivano fiotti di sangue e gli occhi gli si rovesciavano all’indietro. Cadde a terra circondato da silenzio surreale e morì emettendo un lungo e doloroso lamento.
Cassie non seppe dire se la nausea che sentiva al momento fosse per via della gravidanza o per la scena appena vista.
«Un posto si è liberato, devo ucciderne altri cinquanta o credi di riuscire a trovare del posto anche per noi?» chiese Meatch, tornando a sorridere.
«Vedi, Sebastian, questa è la grande differenza fra noi e te» gli rispose Vibler in tono calmo, si tolse gli occhiali e si pulì le lenti sul suo camice prima di continuare «Che noi siamo pronti a morire, se fosse necessario a fermarti».
«Credi che ti risparmierò solo perché sei un mio vecchio conoscente, Andrew?» chiese Meatch, fissando lo scienziato con uno sguardo strano, una sorta di rabbia mista a del rispetto.
Un mormorio curioso si diffuse, non solo fra gli scienziati, ma anche tra l’esercito di Sebastian Meatch: nessuno sembrava essere a conoscenza del tipo di legame che i due uomini avevano, tanto meno ne sospettavano i motivi.
«Oh no, non c’entra nulla, so che non sei magnanimo. Ma non credo che tu o gli scimmioni che ti porti dietro sappiano far funzionare una navicella, per questa ragione non puoi ucciderci tutti» rispose pazientemente.
«Potete benissimo guidarla con gravi mutilazioni» replicò con altrettanta pazienza Meatch.
Fu allora che, mossa più dalla paura che da altro, Cassie si avvicino a Vibler.
«Portiamoli con noi, non possiamo rischiare» gli sussurrò, ma non abbastanza piano perché Meatch non sentisse.
«Vedi, la tua assistente capisce. Sono stanco di fare la parte dell’uomo cattivo, troviamo un accordo e salviamoci tutti insieme, io non spreco munizioni e voi non sprecate vite. Mi sembra un buon compromesso, no?»
«Dovrai passare sul mio cadavere prima di mettere piede lì dentro» replicò Vibler in tono duro.
«Così sia» sentenziò Meatch.
Con un cenno della mano ordinò ai suoi uomini di fare fuoco sugli scienziati. Cassie, incapace di muoversi dalla paura, venne gettata violentemente a terra da Vibler, che si prese una pallottola in piena fronte al posto suo. Le cadde sopra, il suo sangue le colava sui lunghi capelli e sui vestiti, e il suo corpo le faceva da scudo.
La sparatoria sembrò durare lunghi, interminabili minuti e, anche quando finì, Cassie non riusciva a muoversi. Era paralizzata dallo shock: l’uomo che da sempre aveva stimato e preso come esempio ora giaceva morto sopra di lei e, nonostante le avesse salvato la vita, trovava la scena troppo macabra. Non riuscì a trattenersi dal vomitare e forse fu proprio per questo motivo che Julian, ferito ad una gamba, la trovò, sposto il corpo dell’amico da quello della moglie, la ripulì dal sangue per quanto gli fosse possibile e la prese in braccio, cercando di ignorare il dolore lancinante che continuava a sentire alla gamba.
Era stato fortunato, dopotutto, a molti era andata peggio di così. Il pavimento, prima immacolato, era coperto di un lago rosso sangue, l’aria era pesante e i sopravvissuti che potevano dire di aver visto quel terrificante spettacolo erano veramente pochi. Fra quei pochi c’era poi chi era messo molto peggio di Julian, perché le pallottole gli avevano trapassato le mani, oppure li avevano presi in organi non vitali, cosa che però non sembrava impedire al sangue di sgorgare fuori zampillante.
Era anche una fortuna essere morti subito, alcuni di loro non ce l’avrebbero fatta durante il viaggio: l’astronave non era stata concepita con strutture in grado di curare ferite tanto gravi e il fatto di essere ancora in vita sembrava più una lenta e crudele agonia che un dono.
Julian trascinò la moglie sulla navicella e andò nell’infermeria, con i cadaveri dei morti che sembravano gridare di vergogna dall’esterno perché li avrebbero lasciati lì e avrebbero permesso a Sebastian Meatch e a uomini come lui di rovinare un pianeta innocente. Julian, però, voleva vivere, lo aveva promesso a suo figlio e lui era tipo da mantenere la parola data e forse questo era il suo più grande difetto.
 
Spazio sconosciuto, orario sconosciuto, anno 3265
 
Cassie si svegliò improvvisamente e vide che si trovava distesa su un lettino. All’inizio non capì dove e perché fosse lì, ma poi i ricordi tornarono alla sua mente tanto rapidamente da farle girare la testa. Le venne anche la nausea e istintivamente si portò una mano allo stomaco accorgendosi solo allora che nella stanza c’era anche Julian, addormentato su una sedia accanto al suo letto.
Lo svegliò dolcemente.
«Meno male che ti sei ripresa, avevo così tanta paura per te!» esclamò sollevato non appena vide la moglie.
«Vibler… Non può essere morto, vero? Ho fatto solo un brutto sogno, non è così?» chiese con la voce incrinata. Si ricordava alla perfezione il buco che Sebastian Meatch gli aveva fatto alla fronte e il sangue che scorreva sopra di lei, ma, per quanto irrazionale fosse, continuava a sperare che fosse solo un brutto incubo.
«È morto» disse Julian, confermando i suoi timori. Non se l’era immaginato allora, tutto quel sangue, l’odore nauseabondo… era vero.
Cassie iniziò a piangere e Julian la strinse fra le sue braccia.
«Devi essere forte, perché c’è una notizia che ti sconvolgerà ancora di più» le disse il marito, che sembrava abbattuto più che mai, con il viso pallido e delle ombre scure sotto gli occhi.
«Sono pronta» disse lei quando ebbe recuperato un po’ del suo contegno.
«Hai dormito per sette giorni in seguito allo shock che hai riportato. Ovviamente i medici ti hanno nutrito e curato nel modo migliore che hanno potuto, anche se dicono che lo stress e la tensione potrebbero aver ucciso il bambino» le confessò.
«Cosa?» esclamò, non volendo credere alle sue orecchie.
«Però c’è solo la possibilità Cassie, non ne siamo sicuri» tentò di rassicurarla.
«Voglio andare in un ospedale, Julian, voglio avere la certezza che il bambino non ci sia più, non posso vivere con l’ansia del forse» gli sussurrò.
«Non possiamo andare in un ospedale, siamo nello spazio» rispose Julian con semplicità, leggermente stupito dal fatto che la moglie non se ne fosse ancora accorta.
Cassie, che fino a quel momento non ci aveva fatto per nulla caso, notò un piccolo oblò sopra di lei, da cui si poteva ammirare lo spazio e la distesa infinita di stelle.
«Dove stiamo andando?» gli chiese.
«Non lo so, sono voluto andare via dal team di comando, avevo una gamba messa male e la mia priorità eri tu. Però mi sembra che vadano piuttosto a casaccio, non deve essere facile trovare un pianeta abitabile fra l’infinito…» le rispose.
«E la rotta che avevamo programmato con Vibler?»
«Quale rotta?» chiese Julian senza capire.
«Un pianeta lontano, ma non irraggiungibile. Secondo i nostri calcoli ha all’incirca le stesse caratteristiche della Terra e si potrebbe vivere lì» gli spiegò pazientemente.
«Non m’importa» ribatté brusco Julian «Tutti i nostri sforzi sono stati vani. Le nostre fatiche di tenere tutto segreto, i turni di notte, le ansie… È tutto finito, tutto andato a rotoli. Abbiamo permesso a Meatch di distruggere un altro pianeta, non voglio sapere quale».
Stavolta fu Cassie ad abbracciarlo, perché capiva in pieno la rabbia e la frustrazione del marito.
«Stiamo insieme e potremmo avere una nuova vita, potremmo scoprire se il bambino è ancora vivo e potremmo averne degli altri, è questo l’importante. Sono morte delle persone per darci la possibilità di vivere e tutto ciò che possiamo fare per onorare la loro memoria è sfruttare al massimo il dono che ci hanno fatto» tentò di confortalo.
Lui la guardò negli occhi e la baciò.
«Hai ragione, vado ad avvertire Meatch e gli altri, ci aspetta una nuova vita» dicendo questo uscì dalla cabina in cui risposava la moglie, avvisò chi di dovere e si diressero verso il pianeta vivibile, sicuro che gli esseri umani l’avrebbero distrutto com’erano soliti fare.
 
Pianeta Xaral, 17 agosto, anno 3265
 
Cassie e Julian camminavano lentamente mano nella mano, cercando di non dare nell’occhio. Era difficile non farlo, soprattutto in quella parte della città dove vivevano i Nativi, esseri simili a loro ma con la pelle completamente blu e un’intelligenza superiore.
Una bambina Nativa lanciò una palla vicino a loro e Cassie gliela porse.
«Non avevo mai visto un’umana prima d’ora» le confessò con stupore la piccola.
«Nemmeno io avevo mai visto una bambina di qui» le rispose Cassie sorridente. «Io sono Cassie, tu?».
«Sono 14495» le rispose la bambina. Cassie pensò che le abitudini degli Xaraliani erano davvero particolari: chiamare con un numero tutti coloro che nascevano era alquanto macabro e, anche se una volta che comprendevano il loro destino potevano cambiarlo con una parola che li descriveva, restava macabro comunque. Le ricordava le vecchie guerre degli uomini, quelle del millennio precedente, in cui la popolazione vincente marchiava i perdenti con un numero per togliere la loro dignità e farli sentire solo delle cifre fra la moltitudine.
«Dove state andando?» chiese curiosa la bambina numero.
«A incontrare il Capo Saggio» rispose Cassie.
Il Capo Saggio era il capo dei Nativi (gli Xaraliani erano conosciuti così fra i terrestri), colui che aveva i poteri di previsione più forti degli altri e che organizzava tutta la società; era anche quello che stringeva gli accordi con i capi degli umani per una convivenza che, per le prime due settimane dal loro sbarco, era rimasta pacifica.
«Perché, qualcosa non va?» chiese la bambina preoccupata.
«No, abbi speranza, andrà tutto bene» la confortò Cassie sorridendo incoraggiante.
Julian, che era stato in silenzio per tutto il tempo, le fece capire che erano in ritardo; salutarono frettolosamente 14495 e si recarono alla Residenza Xaral, dove alloggiava il Capo Saggio. Era un palazzo molto bello, costruito interamente di un materiale blu che sulla Terra non esisteva, ma che su Xaral si trovava in abbondanza. Non rispecchiava uno stile preciso, come uno di quelli che si potevano trovare nel loro vecchio pianeta, ma era semplice, senza tanti fronzoli e guardandolo veniva in mente la parola “Essenziale”. Chissà, magari se la pace fosse durata avrebbero potuto crearci una corrente artistica, magari sarebbero sorti “Gli Essenzialisti”.
A Cassie faceva bene pensare a queste cose, la distraevano dal motivo per cui lei si trovava lì e la distrazione era proprio ciò di cui lei aveva bisogno. Quando, però, percorso un lungo corridoio si trovò in una stanza sola con suo marito e Capo Saggio smise di fantasticare e tornò a quella che era la tanto detestata realtà; quella in cui gli uomini non creavano correnti artistiche ma si bombardavano a vicenda per il possesso del pianeta.
Il fatto che ci fossero state due settimane di pace e che non lo avessero ancora fatto non voleva dire, purtroppo, che non si stessero preparando.
«Sebastian ha convinto anche altri a passare dalla sua parte» ammise Julian stizzito. Non credeva che la popolazione che avevano portato in salvo si sarebbe lasciata ammaliare tanto facilmente dalle parole di chi aveva contribuito alla distruzione della Terra.
«L’avevo previsto» disse Capo Saggio annuendo «Sospetta qualcosa?»
L’anziano Nativo stava seduto su una comoda poltrona, ormai vecchio, vecchio anche per un Nativo; la sua morte sarebbe avvenuta nel giro di pochi giorni e lo aveva detto ai due giovani prima di proporgli il suo piano.
Stranamente la notizia della sua scomparsa imminente non lo spaventava più di tanto, ma probabilmente solo perché lo sapeva da molto tempo e aveva previsto cosa sarebbe accaduto dopo. Forse l’idea della morte non era tanto male se ogni giorno si aveva l’opportunità di rifletterci.
«Non so, ci sta tenendo d’occhio, ma non credo che sia a conoscenza del nostro piano» ammise di nuovo Julian.
«Bene, vi ho già detto quanto sia importante per noi che lui non sospetti nulla, vero?» chiese Capo Saggio.
Cassie e Julian annuirono in silenzio.
«Più lui sarà all’oscuro, più possibilità avremmo di riuscire nel nostro intento» proseguì, con il suo tono lento e pacato «Ormai ha già molte armi, su Xaral ha trovato le risorse che non aveva e non manca molto al giorno in cui porrà fine alla nostra razza».
Cassie, che fino a quel momento era rimasta in silenzio con gli occhi fissi sul pavimento, trovò il coraggio di alzare lo sguardo su di lui e affrontarlo.
«Ma non sarebbe meglio combatterlo? Siete un popolo di veggenti, capite e parlate la nostra lingua e ne avete una tutta vostra che noi non conosciamo, vivete su questo pianeta da moltissimo tempo e sapete come sfruttarlo… Perché non li affrontate?» chiese, molto più propensa a combattere per qualcosa in cui credeva, invece che sacrificarsi.
«Noi Xaraliani siamo una razza pacifica» rispose con semplicità.
«Ma vi uccideranno! Stermineranno tutti voi, uomini, donne o bambini per loro non farà la differenza! Hanno ucciso anche molti dei nostri, non dovremmo pensare alle perdite?» insistette.
«Cassie, il modo di pensare dei terrestri è molto diverso dal nostro. Per noi la prospettiva della morte non è terribile come per voi umani perché noi sappiamo cosa ci attenderà dopo» spiegò Capo Saggio.
«Tutti hanno paura di morire» ribatté Cassie, decisa a non farsi contrastare.
«No, tutti hanno paura dell’ignoto ma, come ti ho già detto, noi siamo a conoscenza di tutto» il suo tono non era mai troppo brusco, ma dolce e lento. Non voleva rimproverarla, capiva i limiti degli uomini e li accettava, l’unica cosa che chiedeva era che i due giovani davanti a loro attuassero il piano.
«Allora, siamo d’accordo? Farete ciò che vi è stato detto una volta che non ci saremo più?» i due ancora non lo sapevano, ma questa sarebbe stata l’ultima domanda che il Capo Saggio avrebbe rivolto a loro, l’ultima volta che l’avrebbero visto dopo quello che passò alla storia come “Il massacro di settembre”.
Cassie e Julian sapevano cosa avrebbero dovuto sacrificare, lo sapevano dalla prima volta che avevano parlato con lui, aveva spiegato loro i rischi e i benefici e, forse presi dall’entusiasmo, avevano accettato senza remore. Solo in quel momento, dopo molti giorni passati a pensare su ciò che avevano promesso, sembravano avere dei dubbi e dei rimpianti, perché avevano capito cosa avrebbero sacrificato concretamente: la possibilità di avere una vita normale.
Era vero che entrambi erano atterrati su Xaral con l’intenzione da astenersi da conflitti e vivere al meglio, ma quando si era presentata la loro occasione di fare qualcosa… Beh, quello che avevano stabilito non avrebbe fatto vivere meglio qualche famiglia, ma forse tutta la popolazione, sia terrestri che Xaraliani.
E fu per questo che quando, all’unisono pronunciarono il loro «Sì», le loro voci suonarono chiare e decise: il progetto formulato era partito, non restava che attendere per i risultati.
 

Eccomi qui con questa nuova storia. L'avevo detto che dopo 'The Guardians' ne avrei pubblicata un'altra, sempre di genere fantasy, ed eccola qui. Mi scuso se il prologo è venuto molto lungo, so che di norma dovrebbe essere più corto, ma questa era una parte essenziale nella storia, ho provato ad accorciarla il più possibile, ma questo è stato il massimo che sono riuscita a fare.
Il titolo della storia non è messo a caso, infatti nei prossimi capitoli si parlerà appunto di Evelyne, la protagonista, che vive molti anni dopo questi avventimenti. Per ora spero che il prologo vi abbia incuriosito, se mi lasciate una recensione, magari esponendo le vostre critiche (sono sicura che ce ne siano da fare) sarei molto contenta ^-^
Ci vediamo al prossimo capitolo.


Francesca.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***




Capitolo I

 
Pianeta Xaral, 4 settembre, anno 4056
 
«Dopo una notte passata in bianco e una profonda riflessione, Benedict Meatch ha deciso di passare il comando della terra Lhoop a suo figlio, Tyler. Benedict ha rivelato che la sua è stata una decisione molto combattuta ma necessaria, poiché lui, sfinito dalla sua cagionevole salute, non sarebbe stato più in grado di portare avanti una terra in piena crescita come quella in cui viviamo. Del figlio Tyler non sappiamo molto, se non che ha trent’anni e si è formato, uscendo con voti più che eccellenti, dalla prestigiosa accademia Februay in Rubert. Non sappiamo ancora come deciderà di ambientarsi in ambito politico né in che modo vorrà condurre il suo governo, ma speriamo di conoscerlo presto. Questa sera s’incontrerà con i leader delle altre Terre in un summit privato, alla fine del quale ci aspettiamo di apprendere la sua linea politica. In questo momento si trova su un aereo diretto verso Gold, la capitale di Rubert, mentre questa mattina ha partecipato alla cerimonia di passaggio del potere organizzata dal padre, nella quale lo ha ringraziato per l’opportunità concessagli e ha promesso di non deludere le sue aspettative; cosa che ci fa presumere che continuerà quello che il padre aveva lasciato in sospeso, ma, come già detto, saremmo a conoscenza dei dettagli solo questa sera. Più tardi ascolteremo il commento di alcuni cittadini, per cui se avete qualcosa da dire riguardo il nostro nuovo Governatore non esitate a telefonarci, mentre noi continuiamo con le altre notizie del giorno. Esattamente un anno fa una palazzina esplose, uccidendo gli uomini al suo interno con l’eccezione di una ragazza che...» con un gesto deciso, la ragazza spense la piccola radio accanto al suo letto e si distese, contemplando il soffitto bianco e pensando.
Dunque, la terra in cui viveva aveva un nuovo Governatore. Evelyne sperò che fosse un uomo giusto e buono ma dalla sua esperienza, davvero poca, sapeva che i Governatori mai erano giusti e buoni, ma spesso erano solo avidi con a cuore l’interesse del proprio portafoglio rispetto a quello della gente.
La verità, però, era che ad Evelyne non interessavano molto quelle cose: fino a quando restava chiusa in una stanza d’ospedale, fuori sarebbe anche potuta scoppiare una guerra che avrebbe distrutto tutto Xaral e lei non se ne sarebbe accorta. Un po’ la scocciava dover stare lì, sempre chiusa in una stanza mentre tutte le altre persone che erano a contatto con lei potevano entrare e uscire liberamente dal vecchio ospedale. Solitamente lei non aveva questi pensieri ma, dopo aver sentito la notizia alla radio, non poteva farne a meno.
Un anno.
Era già passato un anno dal suo incidente e lei continuava a non ricordarlo, come non ricordava come fosse la sua vita prima di esso. In verità non ricordava nulla, per questa ragione le avevano spiegato cos’era accaduto al suo risveglio: una palazzina era esplosa, forse a causa di una fuga di gas, uccidendo i membri al suo interno. Erano stati trovati i cadaveri di un uomo e una donna i cui volti erano troppo sfigurati dalle fiamme per riconoscerli e poi c’era lei, miracolosamente sopravvissuta, anche se in fin di vita. Grazie al pronto intervento dei medici era stata trasferita in una delle strutture più all’avanguardia del pianeta in cui molti interventi le avevano consentito la possibilità di restare viva. Dopo sei mesi di coma aveva ripreso conoscenza, ma non la sua memoria: Evelyne non ricordava nulla, non sapeva nemmeno se quello fosse il suo vero nome. I dottori avevano sospettato si chiamasse così per via di una targhetta che portava al collo, ma non ne avevano la certezza matematica, quel nome avrebbe potuto significare qualsiasi altra cosa.
Nessuno era segnato con quel nome nel registro degli abitanti e l’ipotesi più probabile era quella che la vedeva come una fuori legge in fuga con dei compagni che si nascondevano in un appartamento inabitato in cui fosse scoppiata una valvola di gas, provocando l’esplosione e il successivo incendio. La ragazza, unica sopravvissuta, era stata sottoposta ad esami che le avevano rivelato che aveva diciassette anni, rendendo quella l’unica cosa certa della sua identità. Avevano trasmesso molte volte il suo volto alla televisione, ma nessuno sembrava conoscerla o averla mai vista, cosa che la faceva sentire un po’ come un fantasma. Era però stata rassicurata dai medici sotto questo punto di vista: le spiegarono che di solito i sovversivi cancellavano le loro identità e vivevano nascosti proprio per non farsi scovare, per cui sarebbe dovuta essere fiera del suo lavoro. In casi normali il governo riservava a coloro che fuggivano per aver infranto una legge (una legge grave di solito, per farli arrivare a tanto) la pena di morte, ma Evelyne non era un caso normale. Era una semplice ragazza di diciassette anni e mezzo, probabilmente in fuga dalla legge, senza nessuno che si prendesse cura di lei e senza memoria, per cui avevano stabilito di donarle l’indulgenza e una nuova vita, che avrebbe potuto vivere non appena sarebbe stata dimessa dall’ospedale.
Evelyne non aveva potuto far altro che accettare le decisioni prese da altri e prendere lezioni per re-imparare tutto ciò che aveva scordato. La mattina si dedicava alla fisioterapia e alla riabilitazione, mentre il pomeriggio lo passava con la sua infermiera designata, Barbara Pollite, studiando ogni volta più materie. Aveva dovuto imparare tutto daccapo, ad iniziare dalla lingua, simile all’inglese parlato sulla Terra, ma arricchito di nuovi termini e nuove espressioni.
Poi c’era la geografia, materia con la quale aveva appreso che il pianeta Xaral era composto per la maggior parte da acqua, tranne per tre terre emerse: Lhoop, quella in cui si trovava la maggior parte della popolazione, − lei compresa − una terra non molto ricca di risorse minerarie. La seconda era Portus, terra quasi totalmente inabitata, formata per metà da ghiacci e per l’altra metà da vulcani situata sotto il comando di Caleb Leang. L’ultima era Rubert, la cosiddetta “Terra della nobiltà”: era la più piccola di superficie e vi abitavano tutte le persone ricche e potenti poiché era la terra più ricca e ambita, governata da Valentine Badwell, cugino dei Meatch.
Aveva studiato tecnologia, scoprendo tutte le invenzioni più o meno recenti, di come i terrestri fossero riusciti ad unire le loro creazioni con i nuovi materiali che avevano trovato su Xaral, potenziandole e rendendole più efficienti. Era stata stupita di vedere come avessero trasformato tutti gli apparecchi alimentati a gas o benzina con l’elettricità, di come avessero compreso in poco tempo gli usi dei materiali e li avessero saputi adattare così bene in sostituzione di quelli vecchi che non trovavano più.
Studiava le scienze, venendo così a conoscenza che il pianeta Xaral non era molto diverso dalla Terra: c’era la stessa gravità e ruotava intorno ad una stella, chiamata sempre Sole dopo l’arrivo degli umani per comodità, facendo un giro completo in ventisette ore. Di notte non c’era nessun satellite come la Luna per la Terra, ma alcune stelle erano talmente vicine e luminose che non rendevano necessario l’uso di lampioni. La notte era bella, era la parte del giorno preferita di Evelyne. Le piaceva stare sveglia a guardare il cielo appoggiata al davanzale della finestra della sua camera, la faceva sentire meno spaesata, come se non avere la memoria non fosse tanto importante. Aveva anche studiato le stagioni: l’estate, in cui faceva così caldo che la terra si seccava e si sudava qualsiasi cosa si facesse; il passaggio, la stagione in cui stavano entrando in quel periodo, che non era un vera e propria stagione, ma solo un periodo di cambiamento climatico fra le altre due stagioni principali e l’inverno, la stagione fredda in cui cadeva molta neve. Dopo l’inverno c’era di nuovo il passaggio. Quest’ultimo durava un mese, mentre l’inverno e l’estate ne duravano quattro (l’anno solare era composto da dieci mesi in totale). Le stagioni non esistevano a Portus, dove tutto l’anno era presente sempre lo stesso clima: freddo per la parte ghiacciata e caldo per quella vulcanica. Il fenomeno che lo permettesse non era ancora stato individuato nonostante i continui studi e le ricerche degli scienziati.
Evelyne studiava anche storia, (era la sua materia preferita): la affascinava scoprire il passato, forse proprio perché il suo le era stato rubato. Amava studiare di Sebastian Meatch il Glorioso, il primo Governatore delle Tre Terre, colui che aveva portato in salvo la popolazione terrestre dall’ormai morente pianeta Terra conducendoli su Xaral, vincendo la dura guerra contro una sanguinosa popolazione nativa. Certo, non le piaceva molto l’idea della guerra e dello spargimento di sangue, ma se come dicevano Sebastian e gli altri erano stati attaccati… Cos’altro avrebbero potuto fare se non difendersi? Le piacevano i continui giochi di potere che c’erano fra i Governatori delle Tre Terre, perché le facevano capire quanto avidi di potere fossero gli uomini. Non aveva esperienze dirette, non li conosceva, eppure la storia l’aveva aiutata a capire molte cose, probabilmente molto più di quanto non avrebbe mai ammesso.
Quel giorno Barbara arrivò puntuale per la sua lezione, com’era solita fare. Indossava il camice bianco tipico di chi svolgeva quel lavoro e aveva i capelli biondi ordinatamente raccolti sulla testa, in un’elaborata acconciature di trecce e forcine.
«Buongiorno Evelyne» la salutò educatamente. Era un’infermiera molto simpatica, forse la più simpatica perché era molto giovane, di conseguenza molto alla mano e non si faceva problemi a parlare liberamente con lei, trattandola come una ragazza sveglia che doveva essere rieducata, non come facevano tutte le altre che le parlavano come se avesse avuto tre anni, per poi sparlarle male alle spalle.
«Cosa si studia oggi, Barbara?» le chiese Evelyne, desiderosa di apprendere.  
«Oggi nulla. Il dottor Hemkirk vuole vederti, mi ha chiesto solo di mettere in ordine le tue cose».
Il dottor Hemkirk era un giovane dottore che si era occupato del suo caso da quand’era arrivata all’ospedale. Allora era solo un semplice assistente nella sala operatoria, ma era riuscito ad applicare le sue conoscenze in maniera impeccabile, salvandole la vita e diventando uno dei più giovani dottori chirurghi ad operare in quel momento. Fortunatamente era anche di bell’aspetto e simpatico, ed Evelyne lo trattava un po’ come se fosse stato il suo migliore amico, parlandogli liberamente e dandogli del tu.
«Cosa vuole Chris?» le chiese chiamando il dottore con il suo nome anziché usare il cognome.
«Non me lo ha detto» le rispose Barbara, evitando di guardarla negli occhi.
Evelyne non era un’esperta di psicologia umana, a dire la verità non ci capiva nulla, ma aveva passato per sei mesi tutti i pomeriggi con quella donna e ormai era capace di riconoscere quando le nascondeva qualcosa.
«Avanti, sputa il rospo» la incoraggiò.
«Oh, e va bene» disse sospirando e sedendosi sul bordo del letto accanto a lei «Penso che ti vogliano trasferire» le confessò guardandola negli occhi.
Evelyne pensò a qualcosa da dire, ma non le venne in mente nulla di adatto per quella situazione: doveva essere felice? Triste? Non lo sapeva. Forse il fatto che la trasferissero era un bene, magari sarebbe andata in una struttura per la riabilitazione della memoria; ma poteva essere anche un male, perché avrebbero potuto aver perso le speranze con lei e l’avrebbero trasferita in uno squallido ospedale di seconda categoria. L’unica cosa certa era che non avrebbe avuto più al suo fianco Chris e Barbara.
Quest’ultima, dopo averle lanciato uno sguardo pieno d’affetto, tirò fuori un borsone dall’armadio a parete e si mise a riempirlo con i suoi effetti personali (che erano davvero pochi). Il dottor Hemkirk arrivò poco dopo e le chiese gentilmente di finire più tardi, in modo che avrebbe potuto parlare tranquillamente con Evelyne.
«Come stai?» le chiese non appena Barbara fu uscita. Questa era una cosa che le piaceva un sacco nel dottore, il fatto che quando le facesse le domande fosse veramente interessato a lei e non lo chiedesse solo per cortesia.
«Bene. Male. Non lo so. Cos’è questa storia del trasferimento?» gli chiese Evelyne, che si sentiva improvvisamente triste. Non avrebbe mai più rivisto il suo dottore preferito.
«Non c’è nessun trasferimento» le rispose, quasi con tono abbattuto.
«Ma come no? Barbara mi ha detto che…» Evelyne non terminò la frase, il dottor Hemkirk la interruppe: «Non ti trasferiamo, ti dimettiamo».
«Mi dimettete?» ripeté la ragazza incredula.
«Sì. È passato un anno da quando sei qui e ormai non abbiamo più motivazioni di tenerti con noi ed occupare un posto in ospedale. Mi dispiace ammetterlo, ma non possiamo fare nulla per la tua condizione»
«Non potete farlo! Io ho vissuto solo sei mesi dentro questa stanza, non so come sia il mondo là fuori, non so come affrontarlo» disse disperata. Non poteva essere vero, si trovava sicuramente in un incubo.
«Evelyne, ti prego, non rendere la cosa più difficile…» la supplicò lui.
«Chris, non puoi dirmi questo, non tu, non lo accetto. Sai meglio di chiunque altro che sono sola e non sono pronta ad affrontare il mondo là fuori…» la paura nella voce di Evelyne era palpabile. Spesso aveva immaginato di vivere al di fuori dell’ospedale, ma non le sembrava possibile che un giorno sarebbe accaduto realmente, o almeno non così presto. Pensava che l’avrebbero spinta nel mondo esterno lentamente, magari mettendole accanto qualcuno all’inizio e poi lasciandole trovare la sua strada da sola, ma non era così. Si pentì di tutte le volte che aveva desiderato uscire per vedere come fosse la vita vera, perché ora che gliela stavano offrendo sapeva di non essere in grado di viverla.
«Io non vorrei mai, ma non è una decisione che spetta a me» rispose sospirando.
«Che intendi dire?» chiese Evelyne, che non riusciva a capire come le dimissioni di una paziente di uno dei più giovani e influenti medici del mondo non dipendessero da lui.
«Sono ordini che ho ricevuto dalle sfere alte e non posso disubbidire. Potrei essere etichettato come sovversivo» tentò di spiegarle.
«Continuo a non capire. Pensavo che tu facessi parte delle alte sfere»
«Solo quelle di quest’ospedale. Gli ordini che ho ricevuto provengono da molto più in alto di me»
«Tipo?»
«Politici importanti»
«Chi?»
«Non posso dirtelo»
«Sì che puoi»
«Tyler Meatch, il nostro nuovo Governatore» le confessò infine. Evelyne era una ragazza testarda e ostinata, lo sapeva bene, se non le avesse detto il nome lei avrebbe fatto di tutto per scoprirlo e sicuramente si sarebbe cacciata nei guai.
«Perché mai il Governatore mi vuole fuori da quest’ospedale?» chiese Evelyne, sempre più confusa.
«Probabilmente per qualcosa che si trova qui» le rispose il dottor Hemkirk indicandole le testa. Per l’ennesima volta la ragazza si sentì impotente, schiacciata sotto il peso della sua memoria che, pur non esistendo, la metteva ogni volta a dura prova.
«Sono stanca di non ricordare nulla. E se vuole uccidermi? Se vuole torturarmi per estorcermi informazioni che non ricordo?» chiese preoccupata.
«Mi dispiace, ma non so davvero come rispondere alle tue domande. Visto l’alto rango di chi mi ha impartito l’ordine non posso far altro che ubbidire senza chiedere spiegazioni» rispose scuotendo la testa.
Evelyne rimase in silenzio, ascoltando solo la sua paura che aumentava: se prima aveva il timore di non essere pronta per ciò che la aspettava la fuori, ora ne aveva la certezza, con uno degli uomini più potenti del mondo che voleva qualcosa da lei. Non sapeva come il Governatore facesse a conoscerla, non era mai stata importante per qualcuno e la cosa non faceva nient’altro che farla sentire spaventata: probabilmente lui sapeva tutto su di lei, mentre lei non lo conosceva, né tantomeno conosceva se stessa.
«Cosa vorrà mai volere da me…» pensò a voce alta.
«Secondo me non vuole ucciderti. Insomma, se avesse voluto saresti già morta… Il fatto che chieda di farti uscire comunque per me non è buon segno» disse il dottor Hemkirk, tentando di confortarla per quanto fosse possibile.
«Allora, facciamo il punto della situazione. Quand’è che devo andarmene?» chiese Evelyne.
«Domani mattina, passerai l’ultima notte qui in ospedale e da domani alle sette questa stanza dovrà essere libera»
«Ho sentito prima alla radio che il Governatore sarà a Gold per questa sera per parlare con gli altri leader, per cui non credo che domani mattina potrà essere qui. Non so cosa voglia da me, ma spero che sia una persona abbastanza intelligente da capire che la mia memoria è completamente andata e non posso essergli d’aiuto. Come hai detto, non vuole uccidermi altrimenti l’avrebbe già fatto, per cui nel caso si presentasse da me chiedendomi qualcosa sul mio passato potrò essere sincera e disponibile con lui, dimostrandogli che non sto mentendo e che la mia memoria è come se non esistesse più»
Evelyne si mostrò molto più coraggiosa e decisa di quanto non fosse. La possibilità che lui si rivelasse un uomo spregevole e senza capacità di comprendere era alta, ma voleva essere ottimista, lo voleva per la sua nuova vita.
«Mi sembra giusto» concordò con lei il dottor Hemkirk alla fine del suo discorso. Anche lui era a conoscenza del fatto che il Governatore potesse essere comprensivo o meno e, dal modo autoritario in cui gli aveva impartito gli ordini da eseguire, era più propenso a pensare che non lo fosse. Nonostante tutto sarebbe stato un peccato rovinare la nuova vita di Evelyne, quella che la ragazza desiderava tanto, per qualcosa che forse non avrebbe mai affrontato. Era difficile prendere decisioni per lei perché le voleva bene e sapeva che il giusto e il meglio per lei non coincidevano. Questa volta, però, il dotto Hemkirk decise di fare il meglio, lasciandole credere che la sua teoria fosse giusta e che avrebbe potuto vivere la vita da lei tanto sognata.
Quando il dottor Hemkirk lasciò la stanza, rientrò Barbara, a cui Evelyne spiegò la storia. L’infermiera iniziò a piangere, cosa che la fece stupire, e le disse che era davvero una buona amica e che le sarebbe mancata. Barbara le disse che, per la sua nuova vita, oltre agli abiti che le passava l’ospedale – un paio di pantaloni verdi logori, una felpa spanciata, una maglia bianca a maniche corte e un paio di scarponcini – le avrebbe comprato qualcosa lei, in modo tale che si fosse ricordata di lei per sempre.
Evelyne temeva che sarebbe stato difficile dimenticarsi di colei che le aveva praticamente insegnato una buona parte di ciò che sapeva, ma accettò i regali di Barbara con entusiasmo, sapendo che aveva gusto nel vestire, mentre lei non avrebbe neppure saputo dire quali vestiti fossero da uomo e quali da donna.
Evelyne, com’era presumibile pensare, passò la notte in bianco: non riusciva a chiudere occhio, tant’era eccitata e allo stesso tempo spaventata dalla sua nuova vita futura. La paura che provava fino a poco tempo fa, però, era diminuita, lasciando il posto alla fantasia. Amava fantasticare da sempre e, in quel momento, così vicina alla libertà, ci riusciva anche se teneva gli occhi aperti. Poteva vedersi, al chiarore delle stelle, mentre cenava con gli amici nel suo futuro appartamento, avrebbe fatto delle foto, avrebbe scritto un diario e la sua memoria non sarebbe più andata perduta, mai più. I suoi sogni sembravano essere racchiusi nelle stelle che brillavano lontane ma, mai come quella sera, le stelle le sembravano tanto vicine e facili da agguantare. Le sarebbe bastato allungare la mano e, in un secondo, avrebbe avuto una stella in mano, un sogno realizzato. Sarebbe stato complicato, non lo negava, ma aveva intenzione di applicarsi per ottenere dei risultati, lo aveva fatto da quando si era risvegliata e avrebbe continuato a farlo una volta fuori dall’ospedale. Continuò a fantasticare per tutta la notte, cercando di addormentarsi senza successo, pensando alla sua nuova futura vita.
Il giorno seguente Evelyne si svegliò alle sei. Era riuscita ad addormentarsi verso le quattro, anche se desiderava non averlo mai fatto: scoprì a sue spese che l’entusiasmo le prosciugava in fretta le energie e due ore non erano sufficienti per riposarsi. Così, con gli occhi ancora chiusi, si spogliò e si fece una doccia, in modo tale da riuscire a tenere gli occhi aperti. Si vestì con ciò che le aveva portato Barbara il giorno prima, leggins neri, maglietta bianca a maniche corte e sopra una camicia blu. Non si era mai specchiata con altri vestiti che non fossero quelli che le passava l’ospedale e vedere il proprio riflesso nello specchio con altri indumenti la portò a dubitare che quella fosse davvero lei. Il colore nero le faceva sembrare le gambe magre ancora più sottili, come se fosse dimagrita di qualche chilo durante la notte. La sensazione più strana, però, le capitò quando indossò gli scarponi: abituata com’era ad andare in giro scalza o solo con un paio di ciabatte le fece impressione avere qualcosa di così alto sotto la pianta del piede.
Alle sette meno dieci, dopo aver provato a lungo ad abituarsi a tutte le novità, Evelyne fu pronta a lasciare l’ospedale. Prima che potesse uscire dalla sua stanza, però, le venne in contro Barbara.
«Evelyne, meno male che sei ancora qui, ci tenevo a salutarti!» esclamò quando la vide. Evelyne sorrise e abbracciò l’amica.
«Grazie Barbara» le disse.
«Figurati, non sei solo una mia paziente, sei una mia amica e mi farà strano non avere più a che fare con te nel pomeriggio»
«Già, anche per me sarà strano. È stato strano anche vestirmi così… non sono abituata» le confessò Evelyne indicandosi i vestiti e gli scarponi.
«Oh, vedrai che ci farai l’abitudine!» la rassicurò Barbara facendole l’occhiolino. Evelyne sorrise inclinando leggermente la testa e un ciuffo di capelli le cadde davanti al viso. Con un gesto impaziente se lo ricacciò all’indietro.
«I tuoi capelli sono molto belli, ma non puoi tenerli così» commentò Barbara avvicinandosi. La fece girare e, nonostante le proteste, le acconciò i capelli in una bellissima treccia. 
«Grazie mille Barbara, grazie di tutto» disse Evelyne ammirando ciò che l’amica aveva fatto.
«Grazie a te per aver reso il mio lavoro meno monotono» la ringraziò a sua volta Barbara. Si abbracciarono di nuovo e Evelyne percorse il lungo corridoio che la portava all’uscita dell’ospedale. Ogni passo che faceva le sembrava più pesante, come se la libertà tanto sognata fosse più complicata di quanto si immaginava. Si trovava al piano terra, così vicina all’uscita da poter vedere la strada dalle grandi vetrate, quando un anziano signore le sbatté contro, facendole cadere il borsone.
«Mi scusi» disse l’uomo.
«Scusi lei» le rispose Evelyne con cortesia. Lui si piegò a raccogliere il suo borsone, era piuttosto agile per l’età che sembrava dimostrare, e quando glielo porse la fissò con la bocca aperta. Evelyne non poté fare altro che rimanere confusa da quella reazione.
«Ci conosciamo?» gli chiese mordendosi un labbro.
«Non lo so, ma mi sembra di aver già visto il suo viso…»
«Oh, forse è perché l’ha visto oggi in televisione. Sa, sono la ragazza della palazzina esplosa a cui non è ancora tornata la memoria» gli spiegò Evelyne.
«Ah, deve essere sicuramente come dice lei. Arrivederci, spero che un giorno recupererà la memoria» le disse sorridendole e andandosene verso l’interno dell’ospedale.
«Grazie e arrivederci anche a lei» lo salutò cordialmente la ragazza, felice che il suo primo contatto con un estraneo fosse stato piacevole.
Uscì finalmente all’ospedale e rimase a bocca aperta: non era mai andata fuori e vedere il piazzale non più dalla finestra della sua stanza era un’esperienza così strana per lei. Le macchine sfrecciavano veloci sulla strada davanti ai suoi occhi, il parcheggio era gremito di gente che andava e veniva, una folla con espressioni in viso totalmente diverse. Evelyne era felice perché mai prima di allora le sembrava aver visto tanta gente nello stesso posto che non sembrava minimamente curarsi di lei. Notò che tutti andavano di fretta e avevano poco tempo per guardarsi intorno. Fortunatamente lei di tempo ne aveva anche in abbondanza, così che alzò lo sguardo e vide il cielo, azzurro come mai le era sembrato, poi osservò l’ospedale e notò come appariva povero e triste l’edificio, così grigio e monotono rispetto all’impetuoso azzurro del cielo. Notò anche che non c’erano molte piante ma, Barbara gliel’aveva detto, non se ne trovavano più molte in giro, specialmente in città. Fece i suoi primi passi all’esterno, scendendo per la grande scalinata fino ad arrivare nel parcheggio. I suoi piedi e le sue gambe si muovevano istintivamente, non sapeva dove stesse andando, perché non conosceva la città, ma sentiva che doveva muoversi e esplorare. Attraversò tutto il parcheggio con il sorriso sulle labbra, fino a quando non si ritrovò sul ciglio della strada, piuttosto indecisa sul da farsi. Dove sarebbe dovuta andare?
Pensò di chiedere un’informazione a qualcuno accanto a lei, ma tutti sembravano essere così di fretta e lei non voleva disturbarli, qualsiasi cosa essi stessero facendo. Notò fortunatamente un uomo appoggiato su un muro che guardava qualcosa da una tavoletta di metallo che aveva in mano; si diresse verso di lui, ma venne bloccata da un uomo piuttosto muscoloso in giacca e cravatta che le si parò davanti.
«Evelyne?» le chiese.
«Sono io» rispose la ragazza, piuttosto insicura su ciò che dovesse dire. Forse l’uomo era un tizio che la conosceva da prima che le perdesse la memoria.
«Vieni con me, il mio capo vuole parlarti» disse l’uomo voltandole le spalle e avviandosi di nuovo verso il parcheggio.
«Mi scusi, ma temo di non capire. Lei chi è? Ci conosciamo? Chi è il suo capo? Cosa vuole da me?» Evelyne sapeva di essere insistente con le domande, ma non aveva assolutamente l’intenzione di seguire un uomo che non conosceva per parlare con un altro che non aveva nemmeno mai visto.
«Per me sarebbe più facile se tu non facessi domande. Nessuno intende farti del male» le promise l’uomo.
«Oh, certo, sono assolutamente propensa a fidarmi della parola di un uomo che non conosco» replicò sarcastica la ragazza. Forse era anche rimasta sei mesi in coma e gli altri sei chiusa in una stanza d’ospedale, ma non era stupida. Si ricordava ancora di ciò che le aveva detto il dottor Hemkirk a proposito di Tyler Meatch e sapeva che il mondo era pieno di gente che non perdeva l’occasione di approfittarsi di chi considerava ingenua.
«Allora ti farò del male» detto questo, l’uomo sollevò la manica della sua giacca qual tanto che bastava per far vedere ad Evelyne che era armato.
«Ma cosa volete da me? Non ricordo nulla della mia vita precedente, nulla» mise in chiaro la ragazza, anche se era stata abbastanza spaventata dalla vista dell’arma.
«Se il mio capo pensa che tu sia importante vuol dire che lo sei, io rispondo solo ai suoi ordini» rispose l’uomo con semplicità.
«Portami dal tuo capo, allora» si arrese infine Evelyne. Dopotutto non aveva nessun’altra scelta, se non voleva morire nemmeno un’ora dopo aver ricevuto la sua libertà.
L’uomo sorrise e si incamminò al centro del parcheggio, in cui sostava un’elegante macchina di lusso nera e con i finestrini oscurati. Aprì lo sportello posteriore, si consultò brevemente con chi era seduto dentro e poi fece cenno alla ragazza di entrare nell’auto. Evelyne entrò, piuttosto impaurita, ma anche eccitata di poter entrare in un’auto per la prima volta nella sua vita o, perlomeno, la prima che ricordasse.
«Ciao Evelyne» la salutò un uomo. Non lo conosceva, ma la sua voce era profonda. Era seduto comodamente sul sedile posteriore e non era possibile osservarlo bene in viso, data l’oscurità che c’era nella vettura.
«Cosa volete da me?» chiese all’uomo, leggermente intimorita.
«Oh, giusto, tu non ti ricordi di me. Mi dispiace moltissimo, soprattutto perché io e te avevamo un buon rapporto prima che ti succedesse l’incidente» rispose lui.
«Eravamo amici?» domandò stupita.
«Sì, penso che potessimo definirci così, poi è successo quello che è successo e non ho avuto occasione di incontrarti di nuovo» l’uomo continuava a parlare con voce profonda, ma qualcosa nel suo tono fece mettere in allerta i sensi di Evelyne: c’era qualcosa di strano nella sua voce. Quando parlava del passato lo faceva con una nota sdolcinata che lo rendeva quasi falso. Capì che era un pessimo bugiardo.
«Per incidente intende l’esplosione della palazzina?» gli chiese, convinta a strappargli più informazioni possibili prima di scappare via da lì in qualche modo.
«No» rispose lui con franchezza. Questa volta la sua voce era ferma, non mentiva più.
«Allora cosa intende?»
«Ti prego Evelyne, dammi del tu, non sono abituato a sentirti parlare così a me» le chiese l’uomo.
«Mi scusi. Volevo dire, scusami. Allora, di che incidente parlavi se non quello?»
«Non posso dirtelo»
«Perché?»
«Perché prima ho bisogno che tu mi giuri che ti fiderai di me e prenderai parte al mio progetto»
«Non vedo ragioni per cui dovrei farlo. Non ricordo chi tu sia, non mi hai detto il tuo nome e non so se quello che mi stai dicendo sia vero o falso. Perché dovrei fidarmi di te?»
«Perché i tuoi genitori lo fanno».


 

Salve a tutti, eccomi qui con il primo capitolo di questa storia! Che dite, vi piace? 
Spero davvero di sì, perché mi sto impegnando davvero moltissimo a scriverla e mi auguro che qualcuno a cui piaccia ci sia. So che l'ambientazione e i personaggi sembrano totalmente cambiati rispetto al prologo, ma non preoccupatevi, andando avanti si capirà il significato di quello che è successo. In questo capitolo è stata introdotta Evelyne che, come si intuisce dal titolo, è la protagonista di questa storia.
So che ancora non sembra molto fantasy, infatti sono molto indecisa se lasciarla in questa categoria o se spostarla. 
Spero che la storia vi stia piacendo, magari se vi ha incuriosito potreste lasciarmi una recensione, dato che ancora non ne ho e sono preoccupata che non piaccia a nessuno.


Francesca.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***



Capitolo II
 
Nessuno sa di soffrire di vertigine fino a quando non si trova a guardare giù da un precipizio. Solo allora riesce a sentire il senso di stordimento, le mani sudate, la perdita dell’equilibrio e si ha la certezza di soffrirne. Barbara le aveva spigato cosa fossero le vertigini e in quel momento Evelyne si sentiva proprio come se stesse guardando verso il basso dalla cima di un burrone: spaventata da ciò che vedeva sotto di lei, mentre la paura la avvolgeva sempre più freneticamente.
«I miei genitori sono ancora vivi? E sono con te?» chiese la ragazza, in preda a un’emozione che non avrebbe saputo descrivere nemmeno lei.
«Sì» rispose semplicemente l’uomo.
Evelyne aveva scelto di non credergli, l’aveva fatto quando aveva sentito il falso sentimentalismo nella sua voce, ma in quel momento era troppo sconvolta per capire se lui stesse ancora mentendo oppure no.
«Ho bisogno di risposte complete: dove sono? Come stanno? Sanno che sto bene? Perché non mi hanno riconosciuta? Li tieni prigionieri? Sono…»
«Ora basta» disse l’uomo, interrompendo la serie di domande della ragazza «Ti dirò ciò che vuoi quando saprò che posso fidarmi di te» continuò.
Nonostante fosse avida di risposte, Evelyne non disse nulla. Voleva sapere cos’era accaduto loro, certo, però non si fidava di quell’uomo che non le aveva ancora rivelato il suo vero nome e sembrava sapere su di lei molte più cose del dovuto. Lui, d’altro canto, notando l’insicurezza della ragazza a rispondere, le fece una proposta.
«Prenditi un’ora di tempo per pensarci»
«Un’ora?» ripeté confusa Evelyne. Era sufficiente un’ora per capire se ci si potesse fidare o no di una persona?
«Sì, un’ora. Io starò qui in silenzio e allo scadere del tempo mi comunicherai la tua decisione».
«Non riesco a pensare qui dentro, mi sento chiusa, come in trappola».
«Non puoi uscire da qui»
«Perché? Credevo di essere libera di fare le mie scelte. Mi stai dicendo che non è così?» chiese Evelyne arrabbiata. Era stanca di stare dentro quella macchina con la presenza dell’altro uomo che la soffocava, giudicandola con i suoi piccoli occhi impazienti. Vide la sua mascella irrigidirsi alla richiesta che gli aveva fatto, ma alla fine parve rilassarsi.
«Va bene, ma devo avere la certezza che non proverai a scappare, per cui rimarrai qui in questo parcheggio, in modo tale che io e miei uomini possiamo tenerti sotto controllo».
«Grazie» gli disse in un sussurro, uscendo velocemente dall’auto. Una volta fuori Evelyne inspirò una boccata d’aria a pieni polmoni, ma non sembro bastarle: finalmente era libera eppure si sentiva più in prigione di prima. Non era uscita dall’ospedale nemmeno da un’ora e già si trovava davanti ad una scelta che le avrebbe cambiato la vita.
Cosa fare? Evelyne era in alto mare e non ne aveva la più pallida idea. Non credeva all’uomo, era un pessimo bugiardo, ma la parte dei suoi genitori le era sembrata vera… Se avesse accettato probabilmente li avrebbe rivisti. In caso di un rifiuto, comunque, non credeva di potersene andare in giro come meglio credeva; l’uomo le era parso molto pericoloso e, cosa ancora peggiore, i tizi che lo accompagnavano erano armati.
Sembrava esserci solo una soluzione, eppure la ragazza non si arrendeva, non si sarebbe data per vinta così facilmente. Avanti Evelyne, pensa a qualcosa, pensa a qualcosa… si ripeteva in continuazione, ma le uniche immagini che le apparivano in mente erano il dottor Hemkirk che le diceva di fare attenzione e la pistola dell’uomo che l’aveva scortata alla macchina. Una fitta lancinante la colse alla testa come le succedeva ogni volta che era troppo stressata, facendole capire che non sarebbe riuscita a resistere per altri cinquantacinque minuti in quel modo. Doveva trovare una soluzione e doveva farlo al più presto.
In quel momento un anziano signore le passò accanto. Evelyne non lo riconobbe fino a quando non sentì la sua voce chiamarla.
«Tutto bene, signorina?» le chiese educatamente.
«Sì, grazie» rispose lei costringendosi a sorridere. Era l’uomo che aveva incontrato poco prima di uscire dall’ospedale, quello educato con cui aveva parlato un po’.
«Sicura? Sembra reggersi in piedi a stento e ha un brutto colorito…» il signore sembrava seriamente preoccupato, e questo fece spaventare ancora di più Evelyne: la sua paura era così evidente?
«Io…» provò a dire, ma fu interrotta da lui.
«Venga, si sieda su questa panchina, potrà raccontarmi cosa c’è che non va» le propose, sempre molto cordialmente. La ragazza iniziò a sospettare dell’uomo, appariva davvero troppo gentile e, cercando di accompagnarla a sedersi, le aveva stretto un braccio con molta più forza di un normale uomo della sua età. Sperò con tutte le sue forze di non essere vittima di un'altra persona che sosteneva di conoscere la verità sul suo passato.
«Cosa vuole da me?» lo aggredì piuttosto bruscamente una volta seduti.
«Nulla di ciò che credi. Voglio solo dirti di non fidarti di quell’uomo, Evelyne: i tuoi genitori sono morti» le confessò il vecchio.
Per la seconda volta, i propositi della ragazza di mantenere un atteggiamento freddo e distaccato per scoprire la realtà crollarono, e la verità la colpì in pieno come una doccia fredda. Voleva provare a dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma le parole rimanevano serrate nella sua gola e non avevano intenzione di venir fuori.
«Te l’ha raccontato solo perché gli servi, non fidarti di lui, è un uomo malvagio» continuò il vecchio.
«Entrambi mi avete detto cose diverse sui miei genitori, eppure nessuno di voi mi ha detto il proprio nome. Come faccio a fidarmi di uno di voi due? Tutti sembrate sapere qualcosa sul mio passato, mentre io non conosco nessuno» disse Evelyne ritrovando finalmente le parole «Sono stanca di tutto questo, non mi fido di lei come non mi fido dell’altro e non m’importa cosa avete da dirmi».
L’uomo sembrò turbato dalle sue parole; si limitò a fissarla negli occhi, incredulo, fino a quando non scosse la testa con un sorriso sul volto.
«Hai ragione, ho sbagliato. Credevo che tu fossi una ragazza facile da manipolare, invece sei molto testarda e fai bene» disse tendendole una mano «Io mi chiamo Kevin Fort».
Evelyne gliela strinse, indecisa se credergli o no. Dopotutto le aveva rivelato il suo nome, ma come faceva ad assicurarsi che fosse quello vero?
«Cosa vuole da me signor Fort?» gli ripeté.
«Quello che ho già detto: non voglio che ti fidi di quell’uomo».
«Tutto qui? Perché mi sembra che ci sia altro in ballo» insistette Evelyne, sicura delle sue parole.
«Non sei solo una ragazza testarda, ma sei anche sveglia. Siamo nel mezzo di una guerra e tu sei un’arma importante. Ci sono un sacco di cose in ballo e dipendono tutte dalla scelta della tua parte» le spiegò Kevin.
«Che guerra?» chiese la ragazza. Non avendo altro da fare, tutti i giorni ascoltava il notiziario e nessuno aveva mai parlato di conflitti o battaglie, figuriamoci di guerre.
«Non è prudente parlarne adesso» le disse, indicando il tizio che l’aveva accompagnata nella macchina. Era appoggiato ad un muro e li scrutava con aria minacciosa.
«Come faccio a decidermi se non so nulla?» chiese Evelyne, sempre più spazientita. L’ora di tempo che aveva stava per scadere, non aveva un piano per scappare e, come se non bastasse, le parole di Kevin Fort la turbavano profondamente.
«Se sceglierai la nostra causa ti dirò tutto ciò che vorrai sapere» le promise.
«Una promessa non è molto su cui fare affidamento» replicò Evelyne.
«Non è molto, ma guarda il quadro nel suo insieme: ti ho rivelato il mio nome, ti ho detto la verità sui tuoi genitori, ti sto dicendo chi sono i tuoi nemici, ho promesso di raccontarti tutto e, cosa più importante, non ti sto costringendo ad ascoltarmi. Non sono armato e non sono nemmeno giovane, non ti minaccio, ti sto semplicemente racconto la verità e, per come la vedo io, sei interessata, altrimenti non saresti ancora qui».
Kevin Fort era molto più intelligente di quanto non sembrasse. La verità era che, nonostante avesse provato a convincersi del contrario, le sue parole avevano indovinato i pensieri di Evelyne. Non le aveva fatto del male, aveva cercato di convincerla semplicemente della verità parlandole liberamente all’aria aperta. Eppure, non tutti i tasselli del puzzle erano al loro posto, ce n’era ancora uno che le sfuggiva.
«Mi spieghi solo una cosa: mi ha detto che sono un’arma importante in questa guerra, ma continuo a non capire perché lei e l’altro uomo siate venuti da me solo adesso. Ho preso conoscenza sei mesi fa e conosco di nuovo tutto del nostro mondo. Perché non mi avete rapita quando ero all’ospedale? Perché aspettare che uscissi?»
«Lì dentro eri al sicuro, c’erano delle persone per proteggerti» rispose Kevin Fort, evasivo.
«Vuole dire che tutti erano a conoscenza di questa guerra tranne me? Anche il mio dottore? Anche la mia infermiera? Chi era incaricato alla mia sicurezza?»
«Non capisci Evelyne. In quell’ospedale nessuno sa nulla, nessuno fa parte dell’alta aristocrazia. C’erano accordi presi dalle alte sfere che ti proteggevano, mediante una serie di provvedimenti che non sembravano assolutamente sospetti. Nessuno sa di questa guerra e nessuno lo deve sapere».
«Allora perché non sono più nell’ospedale? Cosa non lo ha reso più un posto sicuro?»
«I patti sono cambiati» ammise Kevin Fort con tristezza. Evelyne sentiva che c’era dell’altro, ma già aver avuto quelle informazioni era molto per lei.
Non si fidava di nessuno dei due uomini conosciuti, aveva troppi pochi elementi in base ai quali giudicarli, però aveva scelto chi seguire in base a come si erano comportati con lei. Il primo l’aveva costretta ad ascoltarlo, minacciandola, non mostrando il suo volto e dandole un ultimatum, mentre Kevin Fort aveva risposto a molte sue domande senza farle del male.
Non aveva nessun dubbio su chi avrebbe scelto.
«Va bene, mi unisco alla sua parte, qualsiasi essa sia» disse infine. Appena ebbe pronunciato quelle parole un ampio sorriso illuminò il volto dell’uomo che le stava davanti.
«Saggia decisione» approvò con felicità.
«Non si esalti troppo, anche se ho scelto di fidarmi di lei rimane ancora il problema di come uscire da qui. L’ospedale è circondato da uomini armati, come possiamo andarcene?» chiese Evelyne in preda alla disperazione.
«Lascia fare a me» rispose Kevin, facendole l’occhiolino. Sembrava un gesto senza senso, Evelyne stava per farglielo notare, quando una casa in costruzione crollò, facendo un gran rumore e alzando molta polvere. Tutti i presenti si voltarono a guardare e Kevin Fort ne approfittò per prendere la ragazza per un polso e correre nella direzione opposta all’accaduto.
Corsero per circa centro metri, passando in vicoli stretti e angusti fra un palazzo e un altro, vicoli che Evelyne non conosceva, fino a quando non raggiunsero un piccolo parcheggio. Kevin, senza lasciarle il polso, la guidò verso una macchina azzurra dall’aria antica, aprì lo sportello posteriore e la fece sedere.
«Parti» disse al conducente mentre le si sedeva accanto. La macchina, già messa in moto, partì sgommando, mentre un’altra nera li inseguiva.
«Sono dietro di noi!» esclamò preoccupata Evelyne quando la vide.
«Seminiamoli!» gridò Kevin Fort al conducente.
L’autista sterzò bruscamente a destra per uscire dal parcheggio, facendo finire la ragazza schiacciata contro il finestrino. Gli inseguitori erano ancora alle calcagna ed era chiaro che non avrebbero mai potuto seminarli se avessero preso le strade principali: la vecchia macchina su cui si trovavano era molto lenta, allo stesso tempo piccola se si considerava quella degli inseguitori.
Passarono per molti vicoli, girando in maniera spericolata fra le vie di una città che Evelyne non conosceva. Non era come veniva descritta sul telegiornale, non c’erano persone, le strade erano deserte e le imposte delle finestre chiuse, come se la gente al loro interno volesse isolarsi da quello che c’era fuori. I muri degli edifici apparivano pericolanti e con la vernice mancante, non splendenti e puliti come facevano vedere in quei servizi dei notiziari; la tanto ambita tecnologia sembrava distante anni luce in un mondo così povero e spoglio.
«Benvenuta nei bassi fondi» le disse Kevin Fort, ridendo della sua incredulità, mentre la macchina sfrecciava a tutto gas fra i vicoli solitari.
Evelyne si sentì molto in imbarazzo per quella frase, non avrebbe mai pensato che una realtà così drammatica fosse a pochi passi dall’ospedale. La sua camera aveva la vista sulla strada principale, quella con le macchine, gli edifici nuovi e le persone sempre in movimento.
Dopo un percorso che sembrò durare secoli, finalmente arrivarono a destinazione. Evelyne non lo capì fino a quando il conducente non premette un piccolo bottone e, quella che sembrava una parete esterna di una casa, si sollevò rivelando un piccolo garage.
«Scendiamo» le disse Kevin Fort. La ragazza aprì la portiera e fece come le era stato detto, l’uomo la seguì mentre il conducente parcheggiava l’auto nel garage.
 
La casa nella quale si trovavano era molto bella, a dispetto di come si sarebbe potuto presagire guardandola da fuori. Era situata in uno di quei palazzi tutti uguali e scoloriti, ma l’interno era molto ben arredato su colori come il marrone e l’avana, trasmettevano un senso di tranquillità. La stanza in cui erano, il salotto, si trovava esattamente all’ingresso e probabilmente era la stanza più ampia della casa. Vi erano collocate due poltrone, un divano, un tavolino basso e molte credenze di legno. Molti piccoli oggetti abbellivano la stanza, rendendola familiare e accogliente.
Evelyne era comodamente seduta sul divano mentre si guardava introno, Kevin Fort si trovava in cucina e stava preparando un the. Entrò velocemente nella stanza, distogliendo la ragazza dal suo minuzioso esame sulla casa e riportandola bruscamente alla realtà.
«Mi piace qui» disse all’uomo guardandosi intorno. Lui fece un gesto sbrigativo con la mano mentre con l’altra, in equilibrio perfetto, reggeva un vassoio contenente dei pasticcini, tre tazze piene di un liquido fumante e una zuccheriera.
Lo posò delicatamente sul tavolino basso, nello stesso momento in cui un giovane dai capelli lunghi entrava dalla porta principale.
«Li abbiamo seminati, ma è meglio non fermarsi qui a lungo» annunciò.
«Sei stato molto bravo, Ashton» si complimentò Kevin Fort, poi si girò verso la ragazza, che li fissava con aria interrogativa.
«Evelyne, lui è Ashton Wilson e ha scelto il nostro stesso schieramento» lo presentò sorridente.
«Non che abbia potuto fare altrimenti…» borbottò fra sé il ragazzo. Evelyne era colpita da lui, non aveva mai visto un suo probabile coetaneo del sesso opposto: il più giovane uomo che aveva conosciuto era il dottor Hemkirk e lui aveva trent’anni.
Ashton, invece, sembrava averne al massimo venti: stava in piedi con le mani dentro le tasche e una spalla appoggiata allo stipite della porta, mentre i lunghi capelli neri gli ricadevano sugli occhi scuri, conferendogli un’aria molto impacciata. Aveva le braccia muscolose, le linee dei suoi bicipiti erano facilmente visibili grazie alla stretta maglietta indossata, ma risultavano in disarmonia con i lineamenti del viso delicati e i capelli lunghi in quel modo. I suoi occhi marroni la scrutavano attentamente e l’espressione sul suo viso era indecifrabile.
«Felice di conoscerti» gli disse Evelyne sorridendo.
«Già, anche io» le rispose lui, non troppo convinto delle sue parole.
«Bene, ora che hai fatto la sua conoscenza, credo di dover mantenere la mia promessa riguardo alla tua ricerca di informazioni. Cosa sai sugli abitanti originari di Xaral?» disse Kevin Fort.
«Quello che c’è scritto sui libri di storia: erano un popolo violento e vennero sterminati da Sebastian Meatch il Glorioso» rispose la ragazza.
«È una menzogna. Gli Xaraliani erano abitanti pacifici e molto intelligenti, fu questa la ragione per cui vennero sterminati. Gli uomini erano malvagi, crudeli e si approfittavano di loro: li usarono il più che poterono prima di ucciderli una volta inadatti ai loro scopi. Sebastian Meatch era forse il più spregevole di tutti gli uomini, semplicemente per il fatto di averli uccisi e aver fatto finta che fosse colpa loro» disse Kevin Fort, il disgusto nella sua voce era palpabile.
«Mi dispiace molto per loro, ma non capisco come tutti questo possa…».
«Ci sto arrivando» la interruppe, prima che potesse formulare la domanda «Gli Xaraliani non era molto diversi dagli uomini esteticamente, se non fosse per la loro pelle blu. La loro intelligenza, tuttavia, era molto superiore a quella dei terrestri, così sviluppata da permettergli di prevedere il futuro: videro l’invasione, videro la loro sconfitta e temettero che quella fosse la fine della loro razza, ma videro anche una possibilità di rinascita».
«In che modo possono rinascere?» chiese Evelyne.
«Prima che li sterminassero, alcuni uomini si accoppiarono con degli Xaraliani, facendo nascere una nuova razza, gli Ibridi. Queste persone all’apparenza erano come tutte le altre, con l’unica differenza che potevano vivere moltissimi anni. Il loro corpo invecchiava fino ad una certa età, da quella in poi non sarebbe più cambiato e avrebbero vissuto tutto il resto della loro esistenza in quel modo».
«Esistono ancora? Oppure hanno ucciso anche loro?» domandò.
Kevin Fort sorrise debolmente prima di parlare: «No, non tutti. Io sono uno di loro».
La rivelazione lasciò Evelyne totalmente a bocca aperta: non si sarebbe mai aspettata di venire a conoscenza di quelle cose, né tanto meno conoscere un vero e proprio Ibrido. Fino a quel momento tutto ciò che le aveva raccontato le sembrava appartenente ad un passato molto lontano e scoprire cosa fosse in realtà lo fece diventare più attuale e tangibile.
«Sei un Ibrido? Conosci i tuoi genitori? Da quanto tempo sei vivo? Hai qualche potere speciale? Oddio, devi avere all’incirca ottocento anni…» Evelyne iniziò a porre molte domande e a parlare velocemente, com’era solita fare quando era nervosa.
«Settecentonovanta, per la precisione» puntualizzò Ashton, con una punta di divertimento nella voce.
«Non li dimostri» osservò la ragazza, sempre più sotto shock.
«Grazie. Comunque questa è solo una parte della storia, devo raccontarti perché ti abbiamo voluto dalla nostra parte. Devi sapere che, nonostante gli Xaraliani fossero morti, Sebastian Meatch era convinto di non aver cancellato la minaccia che essi costituivano. Torturò tutti gli umani che avevano avuto contatti con loro e gli Ibridi appena nati, pur di ottenere qualche informazione. Alla fine fu proprio un Ibrido, ingannato dalle sue false promesse, a fornirgli ciò che voleva, un nome. Questo nome era Evelyne».
«Il mio?» chiese la ragazza stupita.
«Proprio così. Nessuna delle due parti è a conoscenza del perché tu sia tanto importante, sappiamo solo che lo sei, per qualcosa che probabilmente è andato cancellato con la tua memoria».
«Allora perché mi avete cercato? Avete un modo per farmela tornare?»
«Purtroppo no, semplicemente non volevamo farti cadere nelle mani del nemico. Vedi, Evelyne, quando ti hanno ritrovata la notizia è stata per molto tempo su ogni mezzo di comunicazione, per cui sia io che gli altri siamo venuti a conoscenza di te. Mi hanno fatto incontrare il nostro nemico e mi ha confessato che non aveva intenzione di combattere una stupida lotta per un nome pronunciato da un Ibrido di dubbia fiducia solo per aver salva la pelle, che probabilmente non ti saresti più svegliata e che, anche se lo avessi fatto, le possibilità di ricordare qualcosa si aggiravano intorno allo zero.
Ho stretto un patto con quest’uomo, ci siamo accordati sul non farti sapere mai della nostra esistenza affinché vivessi una vita tranquilla e lontana dai guai. Purtroppo, però, l’uomo con cui mi sono accordato era molto malato, la sua salute non fa altro che peggiorare e suo figlio ha ereditato da lui tutti i segreti, ma non la sua pazienza» spiegò Kevin Fort.
«Ho già sentito queste parole…» disse Evelyne, sforzandosi di trovare qualcosa nei suoi ricordi. Quando finalmente ricollegò, impallidì.
«Non è possibile… non mi dirai che… Tyler Meatch?» chiese, pronunciando il nome dell’uomo quasi in un sussurro.
«Proprio così. Ti sta cercando, crede di dover portare a termine ciò che il suo antenato Sebastian aveva iniziato. Non so in quale modo voglia usarti, ma non penso sia piacevole».
«Non voglio crederci» disse Evelyne, sempre più pallida. Le preoccupazioni del dottor Hemkirk non erano tanto infondate, allora.
«Non era la verità che volevi? Eccola qui» le fece notare freddamente Ashton.
«Anche tu sei un Ibrido?» chiese la ragazza.
«No. Collaboro a questa cosa per altri scopi»
«Ovvero?»
«Chi ti dice che voglia dirteli?»
«Ashton, sii più cortese. Evelyne ha il diritto di sapere la verità, si deve poter fidare di noi e questo richiede essere sinceri e garbati» lo riprese gentilmente Kevin Fort.
«Mio padre era uno scienziato e un appassionato di storia antica. Il suo hobby era di fare indagini sullo stile di vita dei Nativi prima che li sterminassimo. Pensavano potesse avere informazioni, così una notte lo rapirono, avevo dodici anni. Io e mia madre ci rivolgemmo alla polizia e questa, dopo aver fatto qualche indagine approssimativa, ci fece crede che fosse un delinquente e fosse morto, ucciso da qualsiasi cosa illegale avesse fatto.
Mia madre non riuscì mai a superarlo e sei mesi dopo si suicidò. La trovai nel letto immersa in una pozza di sangue, con gli occhi rovesciati, i polsi tagliati e un coltello in mano. Ho iniziato ad indagare da solo sulla morte di mio padre e le mie indagini mi hanno portato a Kevin, così ho deciso di seguirlo. Era questa la triste e dolorosa storia strappalacrime che desideravi ascoltare?» chiese Ashton e, prima che chiunque potesse fiatare, uscì rumorosamente dalla casa, sbattendosi la porta alle spalle.
«Non ne avevo idea» tentò di scusarsi. Si era sentiva in sincero imbarazzo mentre lui le raccontava la sua storia, Evelyne non aveva nemmeno capito se nelle sue parole ci fosse rimprovero o altro.
«Non preoccuparti, è sempre stato un ragazzo difficile. In un certo senso ti ritiene responsabile per la morte dei suoi genitori, ma razionalmente sa che è impossibile. È il dramma dell’impotente che cerca vendetta: non può realizzare i suoi desideri e ha bisogno di scaricare la tensione sugli altri» le spiegò pazientemente Kevin Fort.
«Mi dispiace, per qualsiasi cosa abbia fatto. Forse sono stata io, non ricordo nulla della mia vita passata» disse Evelyne, sempre più triste.
«Non devi sentirti così»
«È che mi sento così inutile! Mi avete salvato, mi avete accolta e non posso fare nulla per aiutarvi, perché ciò che tutti cercano è sigillato in qualche recesso della mia mente» si sfogò.
«L’abbiamo fatto con piacere» rispose Kevin Fort sorridendole e porgendole una tazza «Bevi un po’ di the, mangia qualche biscotto, ti sentirai meglio».
Evelyne lo guardò mordendosi il labbro per un secondo, prima di decidere di ascoltare il suggerimento. La bevanda era amara e ormai fredda, così la bevve in fretta, per poi passare ai biscotti, che invece erano molto buoni e che mangiò con gusto. Erano molto diversi dai cibi che mangiava di solito: era abituate alle brodaglie energizzanti senza sapore che le passavano all’ospedale e non sapeva in quale modo il cibo potesse essere un piacere, prima di allora.
«Sono felice che ti piacciano, mangiane pure quanti vuoi. Sono fatti a mano, con una vecchia ricetta proveniente dalla Terra. Mia madre li faceva sempre quand’ero piccolo, nonostante avessimo il cibo sintetico. Disse che era bello poter mangiare qualcosa che non avesse il sapore della plastica fusa».
«Cos’è la plastica fusa?»
«Ho settecentonovanta anni e nessuna idea. Sono arrivato a pensare che possa essere un qualcosa di cattivo sulla Terra, ma non ne sono del tutto convinto».
Kevin Fort aveva un’aria felice e leggermente nostalgica quando parlava e solo in quel momento ad Evelyne venne in mente una domanda, la cui risposta aveva dato per scontata.
«Aspetta, tua madre era una terrestre? Questo vuol dire che il Nativo…»
«Era mio padre, sì» concluse lui la frase «S’innamorò perdutamente di mia madre appena la vide. Lei era una persona umile, il cui unico desiderio era di fuggire dagli uomini che avevano distrutto il suo pianeta. Era molto bella e molto colta, sulla Terra confezionava cibi sintetici, nonostante la sua passione più grande fosse la cucina. Fu molto contenta di vedere che su Xaral ci fossero erbe e piante da usare per le sue ricette. Un giorno le stava raccogliendo e mio padre la vide, si innamorarono all’istante l’uno dell’altra. Mio padre morì qualche mese dopo, ma lei era già incinta. Mi crebbe educandomi alla perfezione, non facendomi sentire la mancanza di una figura paterna. Quando morì mi disse che era stata molto felice della vita vissuta e, se avesse potuto, avrebbe rifatto tutto. Mi disse anche di trattare bene una donna, proprio come mio padre trattava lei, ma non sono mai stato abbastanza fortunato da innamorarmi». Kevin Fort parlava con lo sguardo perso nel vuoto, forse guardava i vecchi ricordi passargli davanti gli occhi e Evelyne non volle interrompere quel momento, tanto gli sembrava toccante.
Non solo non aveva la più pallida idea di cosa avrebbe dovuto dire in situazioni del genere, ma si sentiva anche profondamente in colpa, perché tutto ciò che provava davanti a quelle parole era invidia: amava vedere come la gente si perdeva nel passato e non sopporta il fatto che a lei fosse negato quel piacere. Si sentiva egoista perché, nonostante il dolore palpabile nella loro voce, Kevin Fort e Ashton Wilson avevano fatto esperienze, avevano storie da raccontare, mentre lei era semplicemente vuota, incredula a tutto ciò che accadeva nel mondo esterno. Le sarebbe piaciuto molto  poter dibattere con gli altri su quanto anche la sua di storia fosse drammatica, o sui momenti felici vissuti, o sull’amore dei suoi genitori, ma lei non aveva la memoria.
Quando ebbe finito i biscotti, si alzò lentamente dal divano con la scusa di voler dormire, così Kevin l’accompagnò in una piccola stanza al piano superiore. Era sempre arredata con le stesse tonalità del resto sella casa ed Evelyne la trovò molto accogliente. Nella camera c’era un letto, un armadio, una sedia, un comodino con una piccola abat jour e uno specchio. Vide la sua immagine riflessa e solo allora si rese conto di quando fosse spettinata e con i vestiti stropicciati. Se li tolse e li appoggiò delicatamente sopra la sedia, piegandoli con cura. Si tolse le forcine e l’elastico che le reggevano i capelli e se li pettinò, con una spazzola regalatale da Barbara, la sua infermiera.
Era passato poco meno di un giorno, eppure lei e il dottor Hemkirk le mancavano già da morire. Evelyne pensò che aveva troppi pensieri per la testa per dormire in maniera tranquilla, e invece, poco dopo essersi stesa, venne inghiottita da un sonno profondo e senza sogni.

 

Sì, finalmente sono riuscita ad aggiornare. Mi scuso moltissimo per il ritardo con cui l'ho fatto, ma questi sono stati gli ultimi giorni di scuola per me, quindi ho avuto da studiare per gli ultimi compiti e interrogazioni e di tempo per stare al computer c'è n'è stato poco.
Parlando del capitolo, comunque, che ne pensate? 
Io spero vi piaccia: abbiamo incontrato Ashton, uno dei personaggi principali e conosciuto la sua storia, poi anche la storia di Kevin. Ho pensato molte volte a come fare in modo tale che tutti i piccoli frammenti fossero collegati, come gli Umani abbiano conosciuto i Nativi e i rapporti fra questi, è molto tempo che penso a questa storia e il disegno generale è stampato nella mia mente, ma ovvimanete potrebbe esserci qualcosa che non si capisce perché non l'ho spiegato bene, per cui se ci fosse non esitate a chiedermelo, se non è spoiler ve lo dirò volentieri.

Francesca.

 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***




Capitolo III

 
I raggi del sole filtravano dalle persiane non chiuse, illuminando la stanza. Quando uno di questi colpì in pieno il viso di Evelyne, la ragazza si svegliò: non riusciva a dormire con la luce. Sbatté le palpebre varie volte confusa, non riconoscendo la stanza in cui si trovava. Solo dopo aver riflettuto si ricordò dov’era, rievocando gli avvenimenti accaduti il giorno precedente.
Non era più sdraiata sul letto, nel modo in cui si era addormentata, ma si trovava sotto delle morbide e calde coperte. Ipotizzò che qualcuno fosse salito per dirle qualcosa e, non trovandola sveglia, l’avesse coperta e se ne fosse andato. Il pensiero che potesse averlo fatto Ashton la fece arrossire violentemente: dopotutto si era spogliata e indossava solo la biancheria intima.
Quell’idea la spinse ad alzarsi e trovare qualcosa da fare, per non essere obbligata a pensarci ancora. Vide una porta che la sera prima non aveva individuato, scovando così un bagno. Entrò nel piccolo box della doccia e aprì l’acqua, lavandosi con una saponetta profumata. Quando ebbe finito si vestì come il giorno precedente e si fece una coda, incapace di riprodurre la complicata acconciatura fatta da Barbara.
Scese al piano inferiore e trovò Kevin seduto su una delle poltrone del soggiorno. Quando la vide, sulla bocca gli si disegnò un ampio sorriso.
«Buon giorno Evelyne, dormito bene?» le chiese cordialmente.
«Sì, molto, grazie» rispose lei.
«Bene. Oggi tu e Ashton andrete a comprare un po’ di cose in un negozio dietro l’angolo»
«Che genere di cose?»
«Oggetti necessari per il nostro viaggio: vestiti, tende, sacchi a pelo, provviste…» le rispose Ashton, entrando in quel momento in soggiorno. Aveva la stessa aria corrucciata del giorno precedente, ma forse non avrebbe trattato male Evelyne.
«Non sapevo dovessimo andare in viaggio» commentò la ragazza, stupita dall’affermazione di lui.
«È poco sicuro fermarsi sulla stessa casa per molto tempo, saremo sempre in viaggio. Ho anche intenzione di sperimentare una mia teoria» affermò Kevin.
«Cioè?» chiese Evelyne, che provava una confusione crescente allo svilupparsi dei vari eventi.
«Te lo dirò più tardi. Ora fate colazione e andate, non pensate a questo» disse Kevin, sempre sorridente. Una volta finito di parlare prese una tavoletta di metallo e si mise a controllare le notizie quotidiane.
La colazione si rivelò molto più triste del previsto: Kevin aveva già mangiato, per cui al tavolo della cucina si sedettero per mangiare solo lei e Ashton. Lui fu molto gentile, le chiese cosa volesse e glielo procurò, ma si limitò a fare quello. Ogni tentativo di iniziare una conversazione da parte di Evelyne veniva smorzato dal suo costante rifiuto di parlare; gli unici rumori udibili erano quelli di un vecchio orologio a pendolo e delle loro bocche mentre masticavano il cibo. Una volta che ebbero finito, Ashton si alzò e le disse di seguirlo; l’avrebbe accompagnata al negozio.
«Prendiamo la macchina?» gli chiese.
«No, andiamo a piedi» rispose il ragazzo, sempre in maniera fredda e distaccata. Evelyne fu felice di apprendere quella notizia: dopo la fuga del giorno precedente aveva deciso che le macchine non erano senza ombra di dubbio il suo mezzo di locomozione preferito. Inoltre, andando a piedi, avrebbe avuto più tempo per osservare com’era la parte povera della città, quella in cui viveva la maggior parte della gente e che a lei era sconosciuta, non avendola mai vista in televisione, nei documentari o al telegiornale.
Quando uscirono di casa e si diressero verso il negozio, però, Evelyne scoprì che i suoi propositi non potevano essere messi in atto: Ashton camminava ad una velocità tale da non permetterle alcun momento di sosta e, se avesse alzato gli occhi per osservare ciò che la circondava, avrebbe rischiato di perderlo di vista. Così, non avendo altro su cui concentrare la propria attenzione, si mise a studiare il ragazzo che le camminava davanti: aveva un passo molto veloce, sembrava molto sicuro sulla strada da prendere, aveva le mani in tasca e la schiena curva, dava l’impressione di una persona con molta fretta, ma anche nervosa e difficile da avvicinare.
Evelyne si chiese se la sua postura e il suo carattere derivassero da ciò che gli era accaduto quand’era piccolo. Si sentiva molto dispiaciuta per lui e questo lo provava a causa di un fatto molto egoistico: se il ragazzo fosse stato diverso avrebbe potuto avere un amico della sua stessa età. Riflettendoci meglio, si rese conto di non sapere quale fosse la vera età di Ashton. Le aveva raccontato i suoi traumi, sfogandosi con lei, ma era restio a dirle quanti anni avesse, da dove venisse o semplicemente a parlare del più e del meno. Di nuovo si chiese se il suo comportamento derivasse da ciò che gli era accaduto nell’infanzia oppure se fosse qualcosa che accomunava tutti gli esseri umani.
Forse era più importante trovare un motivo per essere compatiti e per scaricare il proprio dolore, invece di farsi conoscere direttamente. Evelyne sapeva i fatti, ma non era a conoscenza di come questi avessero influito sull’adolescenza di Ashton perché non glielo aveva detto, anche se dal tono sofferente della sua voce mentre lo raccontava non dovevano essere stati momenti facili. Pensava di aver capito che ammirasse molto il padre, fin tanto da cercarlo anche il quel momento, invece la madre la trovava un po’ più debole, come una donna che aveva preferito credere alle cose dette, senza avere il coraggio di scoprire se fossero vere o no e scegliendo quindi di abbandonare il figlio e questo mondo con la morte.
«Ecco qui il negozio di vestiti, in cui potrai comprare tutto ciò che ti serve. È gestito da un amico di Kevin, digli che lo conosci e ti farà avere di tutto» disse Ashton, fermandosi all’improvviso e interrompendo le teorie di Evelyne. Le diede dei soldi e poi fece per allontanarsi.
«Dove vai?» gli domandò. Le sembrava di aver capito che sarebbero rimasti insieme per tutta la mattinata.
«Mentre tu sarai qui andrò a comprare le altre cose di cui abbiamo bisogno. Non per offenderti, ma sei un po’ una palla al piede. Sei lenta e non mi dai la possibilità di mimetizzarmi bene come dovrei, gli uomini di ieri ci cercano ancora, per cui è meglio che tu stia qui e mi aspetti fino a quando non torno, poi ti riaccompagnerò a casa» le spiegò Ashton.
Evelyne tentò di non arrabbiarsi per le sue parole, ma non ci riuscì: l’aveva definita una palla al piede e, se non si fosse ricordata ciò che le aveva confessato Kevin sul ragazzo, gli avrebbe risposto per le rime. Fece correre, però, perché non aveva voglia di mettersi a litigare con lui e se aveva intenzione di non dimostrarsi un peso – e aveva intenzione di farlo veramente – pensò che il modo migliore fosse dimostrarlo con i fatti invece che a parole.
Ashton la lasciò sola e lei entrò, titubante, nel negozio. Non vi aveva mai messo piede prima e non aveva la più pallida idea di cosa aspettarsi. La sua prima impressione fu, in realtà, abbastanza deludente: il locale era pieno di appendi abiti a cui erano attaccati vari generi di vestiti, da quelli pesanti per l’inverno a quelli più leggeri per l’estate. Della carta da parati ingiallita dal tempo era staccata in alcuni punti dalle pareti, in cui si poteva vedere il cemento sottostante sporcato da alcune macchie di umidità. Il proprietario era un uomo molto magro, con un lungo naso sul quale vi erano appoggiati un paio di occhiali rotondi dalle spesse lenti.
«Come posso aiutarla, signorina?» le chiese cordialmente, sorridendo e voltandosi nella sua direzione.
«Mi manda Kevin Fort. Sono qui per prendere alcuni vestiti» gli rispose Evelyne.
«Ah Kevin! Sì, effettivamente mi aveva avvertito. Prego, provali e prendi tutto ciò che vuoi, se hai bisogno di aiuto io sono qui» le disse rivolgendole un sorriso.
La ragazza iniziò a girare fra i vari vestiti, osservandoli con interesse e studiandoli con molta cura. Gli unici che aveva visto fino ad allora erano quelli dell’ospedale e quelli di Barbara, per cui fu affascinata da quegli strani modelli, pieni di forme e colori stravaganti. Si provò vari cappotti, alcuni lunghi fino ai piedi, altri molto corti, con la pelliccia, senza, con il cappuccio, con i bottoni, con vari livelli di zip, fino a quando non poté dire di averli indossati quasi tutti.
Provò e comprò un paio di occhiali da sole dalle lenti grandi e un costume a due pezzi, nell’eventualità fossero andati in qualche posto in cui era necessario bagnarsi. Era sempre stata incantata dal mare e l’idea di nuotarci (aveva imparato a farlo grazie alla riabilitazione dell’ospedale) la affascinava moltissimo. Comprò anche un paio di pantaloni color verde scuro, una maglietta a maniche corte nera e due paia di pantaloni corti, che le sembravano molto comodi e pratici.
Aveva anche avuto la tentazione di prendersi un vestito, se n’era provati moltissimi, ma aveva resistito, pensando a quanto sarebbe stato inopportuno: dovevano fuggire da alcuni uomini che li volevano morti, non partecipare ad una festa. Eppure i vestiti l’affascinavano. Li trovava così delicati, così femminili… Decise che, se mai un giorno avesse avuto una vita normale, ne avrebbe comprati più che poteva.
Nel negozio erano vendute anche le calzature e la ragazza ne approfittò per comprare un paio di scarpe da ginnastica e uno di ciabatte. Una volta fatti tutti gli acquisti Evelyne pagò, con i soldi dategli da Ashton.
«Sono cinquanta dollari» le comunico il proprietario, John Adams, come recitava il cartellino che portava appeso alla camicia.
Evelyne non seppe dire, data la sua inesistente esperienza, se quella cifra fosse elevata o no in base al numero e alla fattura dei capi acquistati.
«Ecco a lei» disse porgendogli la banconota richiesta, quella con il numero cinquanta stampato sopra.
«Grazie. Forse la stupirà vedere che noi accettiamo solo pagamenti in contanti e non con altri mezzi, ma sa, la mia generazione è nostalgica e sentimentalista, odiamo queste moderne tecnologie» spiegò il signor Adams, vista l’evidente inesperienza della ragazza nel maneggiare il denaro.
«In realtà è colpa mia, non ho avuto modo di fare pratica nei negozi e non so come si paghi di solito» chiarì Evelyne tenendosi sul vago.
«Capisco. Beh, comunque sappia che non incontrerà molte persone come me in giro, se non si trova nei quartieri poveri. Qui disprezziamo le invenzioni e cerchiamo di farne il meno uso possibile».
Ashton entrò esattamente quando l’uomo stava parlando e lo salutò cordialmente.
«Hai fatto?» chiese rivolgendosi a Evelyne.
Lei annuì sorridente e gli mostrò le buste. Vedendole, Ashton non riuscì a trattenere un sospiro sconsolato.
«Donne, non importate se sia la prima volta che entrano in un negozio oppure la millesima: lo svaligeranno lo stesso» commentò. La ragazza questa volta fece un sforzo molto maggiore rispetto al precedente per potersi trattenersi e non insultarlo in tutti i modi che conosceva.
Capiva la sua rabbia, capiva il suo bisogno di trovare un capro espiatorio, capiva la necessità di sfogarsi, ma la prossima volta che l’avrebbe trattata come una stupida o l’avesse offesa gli avrebbe mollato un ceffone. Non si sarebbe fatta trattare male solo per qualcosa che aveva forse fatto prima del suo incidente, qualcosa per cui poteva essere incolpata, o forse no.
«Andiamo» disse stizzita, incamminandosi velocemente fuori dal negozio. Scoprì che camminare velocemente era un buon modo per sbollire la rabbia e faceva contento anche Ashton; arrivarono a casa in poco tempo e sembrava molto più soddisfatto rispetto a com’era all’andata: questa volta non ebbe nulla da commentare sul loro andamento.
 
Per il secondo mattino di seguito, Evelyne venne svegliata dai raggi del sole provenienti dalla finestra. Questa volta fu fortunata, però, perché Kevin Fort le aveva detto di alzarsi presto, in modo da iniziare il loro viaggio alle prime luci del giorno.
Così la ragazza si vestì, preparò il suo zaino, aggiungendoci i vestiti comprati il giorno precedente e alcune cose dategli da Ashton, e scese al piano inferiore, dove l’ibrido e il ragazzo la aspettavano impazienti.
«Forza, andiamo, sarà un lungo viaggio» le disse Kevin. Poco dopo Evelyne si ritrovò fra i vicoli dei bassifondi, per scappare di nuovo alle persone che la cercavano.
«Credevo avremmo preso la macchina» disse.
«No, attira troppo l’attenzione. È molto meglio andare a piedi, specialmente per il motivo che ti ho spiegato ieri sera, anche perché…» rispose Kevin.
Evelyne era consapevole che lui non aveva ancora finito di parlare, ma quelle parole avevano portato la sua mente da tutt’altra parte. Gliel’aveva riferito la sera precedente, poco dopo essere tornata dal negozio di vestiti.
Le aveva spiegato che c’era la probabilità – una probabilità non bassa – di avere della magia all’interno. Il potere degli ibridi non era solo quello di vivere più tempo degli altri, ma anche quello di capire se altre persone fossero come loro, semplicemente guardandole. Le aveva detto che lei era diversa dagli esseri umani, diversa dagli ibridi e diversa dai Nativi, perciò l’unica possibilità rimasta era quella di essere magica.
Evelyne non sapeva quali tipi di magia esistessero, né cosa voleva dire possederla, non ne aveva mai sentito parlare. Anche Ashton, a quella rivelazione, era rimasto piuttosto scettico: secondo lui la magia non esisteva, era qualcosa inventato dai primi umani ancora sulla Terra per spiegarsi alcuni fenomeni, dovuti al fatto che non avevano ancora le tecnologie necessarie per capire come funzionasse il mondo.
Kevin gli diede ragione perché, come disse lui, gli esseri umani sono molto ignoranti in materia di magia. Troppo materialisti, troppo logici, credono di arrivare e poter spiegare tutto con la razionalità, ma non capiscono che il primo passo da fare per capire l’irrazionale è ammettere che questo esista. Avere la magia dentro di sé non è qualcosa di complicato, ma al contrario molto semplice: significa poter fare qualcosa di soprannaturale, qualcosa che altri non possono fare, per la realizzazione di un qualcosa che sembra essere impossibile. La magia funziona fino a quando il compito non è stato portato a termine, tutto questo è ben specificato nella tradizione degli Xaraliani. Loro avevano la facoltà di concedere questi poteri a chi volessero attraverso la loro morte; più di loro morivano, più la persona scelta era magica. Kevin credeva che, attraverso un incantesimo molto potente, i Nativi avessero sfruttato il loro massacro, per permettere ai poteri di passare attraverso le varie generazioni prima di arrivare a Evelyne, colei che li avrebbe liberati.
A quel punto la ragazza, non avendo capito bene quale ruolo dovesse avere, gli chiese qual era il compito da svolgere, prima di perdere i suoi probabili poteri. Purtroppo Kevin non seppe rispondere e lei capì di nuovo che la risposta era sigillata nella sua testa, insieme ai ricordi precedenti.
 
«Facciamo una pausa?» chiese Evelyne, intorno all’ora di pranzo. Erano in cammino da poco più di tre ore e lei non era per niente abituata a tutto quel movimento. Dopotutto, la sua giornata tipica la passava seduta su un letto o su una poltrona a studiare con Barbara e fare massimo un’ora di riabilitazione.
«No» rispose secco Ashton, che guidava il gruppo.
«Ti prego, sono stanchissima, non ce la faccio più» lo supplicò lei.
«Evelyne ha ragione, facciamo una pausa, ne approfitteremo per mangiare qualcosa» le venne in aiuto Kevin. Ashton fece ruotare gli occhi, scocciato, ma non si oppose alla decisione presa dall’Ibrido.
Si fermarono in una radura, si sedettero a terra e tirarono fuori il cibo dai loro zaini. Erano alimenti preconfezionati e sintetici, senza sapore, servivano solo a dare la giusta dose di nutrimenti necessari per proseguire; non avevano niente a che fare con i deliziosi biscotti preparati in casa.
«Entro questa sera dovremmo arrivare in cima a questa montagna: lì c’è una grotta dove potremmo constatare se la teoria della magia è vera e passarci la notte; è un luogo piuttosto utile» spiegò Kevin.
Dopo pranzo, Evelyne si sentiva più stanca che mai, così Kevin decise di partire ad esplorare la zona, mentre Ashton sarebbe rimasto lì a fare la guardia. La ragazza si distese sul prato verde, avrebbe avuto tanta voglia di parlare con lui ma, come al solito, il ragazzo aveva l’aria accigliata di chi non gradiva domande e dava l’impressione di non voler parlare con lei o nessun’altro. Voleva provare a chiedergli qualcosa, ma il terreno su cui era sdraiata appariva soffice e il sonno la trascinò nel suo mondo prima che potesse aprire bocca.
 
Si svegliò dopo quelli che le parvero secoli, con il respiro affannoso e il battito del cuore aumentato. Fece dei profondi respiri per calmarsi, anche se non sapeva da cosa: Evelyne non ricordava mai i sogni e quell’occasione non era diversa.
«Cos’hai?» le chiese Ashton in quel momento. La ragazza non si era resa conto che lui la osservasse con una faccia strana, né tantomeno che avesse una mano posata sulla sua spalla.
«Nulla» rispose lei, cercando di non mostrarsi troppo sorpresa per lo strano comportamento del ragazzo. Non credeva si sarebbe mai preoccupato per lei.
«Hai avuto un incubo, questo mi sembra chiaro. Cosa sognavi?» le domandò.
«Non sogno mai».
«Stupidaggini, tutti sogniamo» disse Ashton, in un tono che le fece capire che non le credeva.
«Beh, a quanto pare io no. Forse perché sono stata in coma sei mesi e non ho più la memoria. Anche queste persone sognano?» ribatté Evelyne, piuttosto seccata della piega presa dalla loro discussione.
«Ovvio» rispose lui con semplicità.
«Mi dispiace deluderti, ma io non ho mai sognato» replicò testardamente la ragazza.
«Tutti sogniamo, probabilmente non te li ricordi» insistette Ashton.
«Senti, mi sono stancata di discutere con te. Hai idea di come sia per me? Pensi lo trovi divertente? Un’altra cosa da aggiungere a ciò che non riesco a ricordare, bene, il mio cervello deve fare proprio schifo» si sfogò Evelyne, offesa.
«Scusami, non avevo intenzione di dire questo» disse lui, veramente pentito. La ragazza avrebbe dovuto dire qualcosa, lo sapeva, ma era troppo sbalordita dal fatto che lui si fosse scusato, ammettendo le sue colpe, per dire qualsiasi cosa.
«Ho controllato la zona, la grotta è più vicina di quanto pensassi» disse Kevin, tornato in quel momento dal suo giro.
«Quanto ci metteremo ad arrivare?» chiese Evelyne.
«Un’ora, circa» le rispose, dopo averci pensato su.
«Allora mettiamoci in marcia, prima che Evelyne si stanchi di nuovo» commentò sarcastico Ashton. Del ragazzo che poco tempo prima le aveva chiesto scusa non c’era più traccia: era tornato il solito, burbero, accigliato Ashton. Evelyne, però, non fu offesa da quelle parole; aveva capito che quella da lui usata era solo una mascherata, indossata per proteggersi da qualcosa non aveva ancora compreso, ma che aveva intenzione di scoprire.
Camminarono per più di un’ora prima di arrivare alla grotta: il percorso scelto da Kevin era tortuoso, con molti massi e sentieri tra alberi dalla chioma così folta che impedivano anche di vedere il cielo. Quando finalmente giunsero a destinazione, era pomeriggio inoltrato.
«La senti Evelyne?» le chiese Kevin.
«No. Cosa dovrei sentire?» domandò lei, piuttosto confusa.
«La magia emanata da questo luogo» rispose, contemplandolo con assoluta riverenza. La ragazza non capiva cosa ci fosse da sentire, non percepiva assolutamente nulla, e tutto quel rispetto le pareva eccessivo.
«Entriamo, sono sicuro che sentirai qualcosa» le disse.
L’interno della grotta era umido e buio. La temperatura scendeva di molto rispetto all’esterno e Evelyne rimpianse di non aver comprato uno di quei cappotti provati due giorni prima. Nonostante il freddo doveva dar ragione a Kevin: c’era qualcosa lì, provava una sensazione non facile da spiegare, le sembrava semplicemente di sapere che quello era il posto giusto in cui trovarsi.
«Questo fu il luogo in cui vennero massacrati i Nativi. È una grotta senza uscita, furono rinchiusi qui dentro e gli uomini di Sebastian Meatch gli diedero fuoco» spiegò Kevin.
Evelyne e Ashton rimasero decisamente scioccati dalla rivelazione, tanto da volersene andare immediatamente. Non le importava se l’istinto le diceva di rimanere, lei non sarebbe mai stata su un posto così denso di morte e di sangue.
«Non sarebbe meglio andarcene?» chiese il ragazzo.
«Hai paura dei morti?» lo canzonò l’Ibrido «I loro spiriti non torturano i vivi, se questi non gli danno motivo di farlo»
«Non è per me» rispose, indicando Evelyne e fissandola, piuttosto preoccupato.
La ragazza era ferma, con gli occhi rovesciati all’indietro e la bocca aperta.
«Lo sapevo!» esclamò Kevin avvicinandosi.
«Cos’ha?» chiese Ashton.
«È la magia. Sapevo di aver indovinato: ha i poteri» disse l’Ibrido raggiante.
«Sono qui!» disse improvvisamente Evelyne, tornando normale.
«Ti vediamo» commentò il ragazzo, contento che fosse tornata come al solito.
«No, non io. Cioè, io sì, ma non è questa la cosa importante: loro sono qui!» farfugliò lei, in preda al nervosismo.
«Calmati e spiegati: chi hai visto?» le chiese Kevin, appoggiandole le mani sulle spalle.
Evelyne prese diversi profondi respiri, prima di calmarsi e iniziare a parlare.
«Gli uomini dell’altra volta, i nostri nemici, se così possono essere chiamati. Sono una dozzina e sono armati, stanno decidendo chi debba entrare nella grotta per cercarci».
Ashton imprecò in maniera piuttosto colorita, dicendo che per loro sarebbe stata la fine: erano disarmati e non c’era modo di uscire da quel posto, sarebbero morti.
«Non c’è bisogno di fare drammi: c’è Evelyne, lei ci salverà» disse Kevin.
«E come? Non so perché ho avuto questa visione, se possiamo chiamarla così, né so come questo potrebbe tornarci utile» piagnucolò, di nuovo in preda la panico.
«Innanzitutto è fondamentale che ti calmi. Siamo fortunati ad essere qui, le morti in questo posto sono così elevate da permetterti di usare al meglio i tuoi poteri e, se la sorte sarà dalla nostra parte, potrai esercitarti e sfuggiremo a chi ci cerca»
«Oh, bene, siamo nelle mani di Evelyne. Moriremo sicuramente» commentò sarcasticamente Ashton.
«Smettila, così non aiuti» lo rimproverò Kevin.
«Allora dammi qualcosa da fare, perché non riesco rimanere fermo a guardare mentre le nostre vite vengono affidate a lei»
«Vai il più avanti possibile e controlla che non arrivi nessuno» gli ordinò l’Ibrido.
«Vado a fare il palo, così sarò il primo ad essere ucciso, bene» borbottò fra sé e sé, allontanandosi per svolgere il compito affidatogli.
«Evelyne, ora concentrati» disse Kevin, rivolgendosi alla ragazza. Le mani erano ancora appoggiate sulle sue spalle e la incitava a respirare profondamente.
«Quando hai visto gli uomini qui fuori, com’era la visione? Chiara?» le chiese.
«No, per niente. Vedevo solo forme indistinte e coglievo pezzi di dialoghi ogni tanto, come se fossi stata una televisione senza segnale» rispose lei.
«È normale, era semplicemente la tua prima visione. La mia teoria è che puoi avere visioni su ciò che vuoi, basta solo imparare a controllarle»
«E come posso fare?»
«Questo purtroppo non so dirlo. La magia varia da persona a persona e sarai tu a capire in quale modo controllarla… Hai fatto qualcosa di particolare quando è successo per l’altra?»
Evelyne ci pensò su, ma non le sembrava di aver fatto nulla di speciale. Aveva freddo e stava provando a scaldarsi con le sue braccia, ascoltava il dialogo fra Kevin e Ashton, fino a quando non aveva sentito…
«Ah!» esclamò all’improvviso «Forse so cosa è stato!».
Con mano tremante – non avrebbe saputo dire se per via del freddo o per l’emozione – Evelyne aprì la zip della sua felpa e toccò il ciondolo appeso al collo. Appena lo fece arrivò un’altra visione.
Questa volta non vedeva semplicemente un qualcosa che stava accadendo in quel momento, ma il futuro: c’erano lei, Kevin e Ashton che correvano all’interno della grotta, nella direzione opposta a dov’erano entrati. Arrivati ad un certo punto lei indicava un masso, gli altri due lo spostavano e uscivano da lì, risistemandolo al suo posto dall’esterno. Correvano a più non posso lungo il fianco della montagna, mentre gli uomini che li cercavano si addentravano nella grotta, tentando di scoprire dove fossero nascosti, sicuri che li avrebbero catturati, mente loro si mettevano in salvo.
Evelyne tornò alla realtà così velocemente dalla visione che quasi vomitò il pranzo in faccia all’Ibrido. Fortunatamente si trattenne dal farlo, mentre con entusiasmo gli spiegava come si sarebbero salvati.
«Questa volta è stato diverso, ho visto il futuro. Non so come sia stato possibile, però è successo. Ho visto come saremmo usciti di qui e come gli uomini ci avrebbero cercato, senza trovarci» stava per spiegargli tutto nei dettagli, ma Kevin non glielo permise.
«Vai a chiamare Ashton: la cosa più importante ora è uscire di qui, ci sarà tempo più tardi per le spiegazioni» le disse.
Evelyne corse più veloce che poteva, fino a quando non vide il ragazzo, coperto dalle rocce, mentre teneva sotto controllo l’entrata della grotta. Gli si avvicinò lentamente e gli mise una mano su una spalla. Ashton saltò all’indietro, spaventato, si tranquillizzò solo quando la riconobbe.
«Cosa fai? Mi hai fatto prendere un colpo!» disse sussurrando, anche se avrebbe voluto urlare molto volentieri.
«Scusami. Sono venuta qui per avvisarti che abbiamo trovato un modo per scappare» gli sussurrò a sua volta. La faccia di Ashton si riempì con un’espressione di puro stupore, Evelyne gli prese un braccio e lo condusse nel luogo in cui si trovava Kevin.
«Seguitemi» disse, rivolta ad entrambi.
Questi non se lo fecero ripetere due volte e le andarono dietro, correndo nell’umido pavimento della grotta, stando attenti a non scivolare. Si svolse tutto esattamente come Evelyne aveva visto nella sua visione: trovò il masso molto più facilmente di quanto pensasse e lo spostarono, uscendo all’aperto, lo rimisero a posto e corsero di nuovo, lungo il fianco della montagna.
Non sapeva dove sarebbero andati, ma il fatto che i suoi poteri non fossero semplicemente un’invenzione, ma una realtà, fece sentire Evelyne molto meglio: aveva scoperto qualcosa di se stessa, una parte che molto probabilmente apparteneva alla sua vita passata, quella vera, vissuta prima di perdere la memoria. Forse, portando alla luce questi poteri, si sarebbe ricordata cosa le era accaduto prima dell’incidente, forse anche questo e perché fosse accaduto.
Forse, per lei, una speranza c’era ancora.

 
Salve a tutti! Inizio questo spazio riservato ai miei commenti scusandomi per il ritardo con cui ho aggiornato. Pensavo che, una volta finita la scuola, avrei potuto avere più tempo per scrivere, ma mi mancava l'ispirazione, per cui mi ritrovavo a scrivere frasi e cancellarle ed è stato bruttissimo. Comunque, ora ho pubblicato il capitolo e, come avete potuto vedere, nella parte finale c'è un po' di azione, mentre nella prima continuo a spiegare Xaral. È molto difficile creare un mondo nuovo e far sì che tutto funzioni, per cui se avete, dubbi, perplessità o altro chiedetemi, sono qui per rispondervi :)
Un'ultima cosa, poi vi lascio: mi è stato detto in qualche recensione che i capitoli sono troppo lunghi e il font troppo piccolo, voi cosa ne pensate? Dovrei cambiare oppure vi trovate bene? Fatemi sapere :)
(Vi avviso anche che i prossimi aggiornamenti saranno lenti, perché ho intenzione di pubblicare altre storie oltre a questa. Grazie per la pazienza che dimostrate nel seguire la storia, mi fa molto piacere ♥)

 
Francesca.
 

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


 
 Capitolo IV
 
Erano passate settimane dall’ultima visione ormai. Evelyne sperava davvero di poter ritrovare un pezzo della sua vita prima dell’incidente ma, dopo la volta in grotta, non aveva avuto nessuna manifestazione di poteri sovrannaturali, nonostante i suoi continui sforzi. Kevin aveva provato di tutto: erano andati in altri luoghi che avrebbero dovuto far riaccendere la magia in lei, ma ogni tentativo era un buco nell’acqua. L’ideale sarebbe stato poter tornare alla grotta ma tutti e tre credevano che il luogo fosse stato messo sotto sorveglianza; gli uomini a cui erano sfuggiti non avevano capito come ci fossero riusciti, non potevano rischiare di tornare lì, trovarli di nuovo e farsi catturare.
Evelyne non sapeva come mai, ma era come se qualcosa dentro di lei si fosse spento: la prima volta che aveva usato i suoi poteri aveva sentito come un fuoco accendersi dentro di lei, si sentiva speciale, era speciale; mentre in quel momento era di nuovo la ragazza diciottenne dal passato rubato. Odiava sentirsi in quel modo, odiava che gli altri avessero delle aspettative su di lei e non riuscisse a soddisfarle. Più il tempo passava, più era consapevole degli sguardi delusi di Kevin e Ashton; il primo cercava di incoraggiarla dandole dei consigli su come avrebbe dovuto fare, ma la nota d’impazienza e a volte di rabbia nella sua voce era palpabile; invece il secondo si limitava a sbuffare ogni singola volta che lei non riusciva a usare i poteri, ovvero sempre.
«Non ci riesco» ripeté Evelyne, scoraggiata e stanca dopo l’ennesimo tentativo. Da come ne parlava Kevin, controllare i poteri e usarli doveva essere facile e non riusciva proprio a capire perché non ci riuscisse.
«Insomma, non potresti sforzarti un po’? Non hai fatto il minimo progresso» l’Ibrido s’impegnava a mantenere il suo tono calmo e pacato, ma a volte i suoi sforzi erano vani.
«Mi sto già impegnando, non è colpa mia se non ci riesco» replicò la ragazza.
«No, guarda, infatti è colpa mia» s’intromise Ashton.
«Effettivamente se stessi in silenzio sarebbe già più facile» ribatté Evelyne guardandolo male. Pensava che, dopo aver salvato entrambi dagli uomini di Tyler nella grotta, il suo comportamento sarebbe cambiato, ma si sbagliava: continuava a lanciarle frecciatine ed essere antipatico come prima.
«Non litigate» li pregò Kevin, massaggiandosi la fronte «Ashton stai in silenzio e Evelyne, concentrati, riusciremo a riattivare i tuoi poteri»
«Non c’è un altro luogo che possa farli attivare come la grotta?» chiese la ragazza.
«Ovvio, i Nativi sono stati massacrati in così tanti posti diversi, ora vado a prendere una cartina, magari possiamo fare un tour in tutti i villaggi, che dici?» disse il ragazzo sarcasticamente.
«Ashton!» lo riprese Kevin.
«La prossima volta che ti dovrò salvare la vita mi ricorderò delle tue parole!» gli gridò contro Evelyne, stanca del suo comportamento.
«La prossima volta? Perché, quando mai mi hai salvato?»
«Quella nella grotta chi era, secondo te?»
«Oh, non so, magari una persona che riusciva a controllare i propri poteri. Non una stupida insulsa ragazzina che lancia minacce a vanvera!»
Kevin dovette usare tutta la sua forza per trattenere Evelyne: voleva scagliarsi contro Ashton, voleva picchiarlo, far esplodere tutta la sua rabbia e cancellargli dalla faccia quel ghigno arrogante che si ritrovava.
«Evelyne, smettila!» le ordinò l’Ibrido, ma quelle parole non sembravano sortire nessun tipo di effetto su di lei: la rabbia e la frustrazione erano tornate a galla e lei non sapeva come farle affondare.
«Sei ridicola» la canzonò Ashton ridendo, per poi andarsene.
Solo quando non fu più nel suo raggio visivo, Evelyne si calmò.
«Dovete smetterla di litigare, se non collaboriamo non riusciremo a fare nulla» disse Kevin, profondamente deluso dal comportamento di entrambi.
«Dillo a lui!» sbottò la ragazza «Dillo a quel verme, a quello stupido, a quello…»
«Basta così, dacci un taglio» la interruppe l’Ibrido con voce stanca.
«Vorresti dire che è colpa mia?» chiese Evelyne incredula.
«No, è colpa di nessuno, c’è tensione, siamo stanchi, è normale essere un po’ frustrati. Ti chiedo solo di lasciarlo stare e non fare caso a ciò che dice, concentrati sui tuoi poteri» rispose.
«Sicuro, perché non importa se Ashton m’insulta o se non mi ringrazia, l’importante sono i miei poteri!» ribatté, ancora infuriata.
«Non vorrei essere indelicato ma…sì. Ci siamo trovati in un brutta situazione e siamo riusciti ad uscirne fuori solo per puro caso e quella sarà l’ultima volta se non impari a controllarti»
«Cos’è, tu e Ashton avete fondato il club “Odiamo Evelyne”?»
«Nessuno dei due ti odia, devi solo capire…»
«No. Cercate voi di capire me per un attimo. Vi ho seguiti solo sulla base della fiducia e tutto ciò che ricevo in cambio sono insulti! Come pensate che reagisca?»
«Solo insulti? Ti abbiamo salvata da quegli uomini, ti abbiamo accolto in una casa, ti abbiamo raccontato la nostra storia, ti abbiamo comprato dei vestiti, ti abbiamo detto tutto quello che sapevamo e ti stiamo aiutando a scoprire il tuo passato attraverso i tuoi poteri. Smettila di far finta che tutto sia contro di te, smettila di comportarti da ragazzina» la rimproverò. Non c’era rabbia nella sua voce, ma solo una profonda stanchezza.
«Ho diciotto anni, io sono una ragazzina!» urlò Evelyne, prima di incamminarsi nella direzione opposta di Ashton.
«Dove vai?» le chiese l’ibrido.
La ragazza non rispose, ma aumentò il passo, sparendo fra la fitta vegetazione. Camminò velocemente, senza guardare dove andava, con in testa soltanto la sua rabbia e la sua voglia di sfogarsi. Quando si sentì meglio, appena ebbe sbollito la rabbia, smise di camminare e si guardò intorno: era circondata solo da alberi, non aveva la più pallida idea di dove si trovasse o come tornare indietro.
«Ashton? Kevin?» provò a chiamare, ma senza alcun risultato. Era sola e lo sapeva. Pensò che sarebbe morta lì, nel bel mezzo del nulla e forse era quello che meritava, perché tutto ciò che le aveva detto l’Ibrido era vero.
Non sapeva come avrebbe potuto fare senza i suoi poteri, lei non era nulla di speciale senza di loro. Non sarebbe riuscita a trovare del cibo commestibile o delle fonti d’acqua, perché non aveva la più pallida idea di come potesse fare. Non c’era altra soluzione se non quella di darsi per vinta, stendersi a terra e aspettare che la morte arrivasse, lenta e inesorabile.
Eppure, qualcosa dentro di lei, non voleva arrendersi: aveva cominciato solo da poco a vivere, a scoprire informazioni su chi era veramente, sul suo passato e sui suoi strani poteri e non riusciva ad accettare che quella fosse la fine. Non era giusto. Evelyne si guardò intorno, provò a convincersi che sarebbe andato tutto bene e riprese il suo cammino, nella direzione in cui era venuta.
Non sapeva se la strada che aveva preso l’avrebbe riportata al piccolo accampamento che Kevin e Ashton avevano allestito, né tanto meno se la stessero cercando. Forse erano ancora entrambi arrabbiati e delusi dal suo comportamento e se ne stavano comodi nelle loro tende a pensare quanto stavano bene senza di lei. Subito dopo averlo pensato, Evelyne si rese conto di quanto fosse sciocco: si preoccupavano per lei, era ovvio, l’avevano salvata dalle grinfie di Tyler Meatch e non l’avrebbero lasciata morire in un bosco. La stavano cercando, ne era più che convinta.
Rassicurata da questo pensiero, la ragazza ripresa a camminare, fino a quando, una volta calata la notte, non vide che delle luci di una città in lontananza. Pensando di trovare qualcuno che potesse aiutarla – e magari riempire il suo stomaco affamato – prese a correre, con la speranza dentro di lei che aumentava. Solo quando fu vicina, troppo vicina, capì che forse quella non era una città: l’edificio che si ergeva davanti ai suoi occhi era molto particolare; le pareti non erano formate da mattoni o cemento, ma da specchi. Quelle che in lontananza sembravano luci non era altro che la luce della luna riflessa da ogni angolazione. Evelyne si chiese che tipo di struttura fosse e se era comune trovarla: non l’aveva mai vista in televisione; così come non aveva mai visto un quartiere povero, eppure questo era comune. Incuriosita dall’edificio iniziò ad incamminarsi verso di esso con cautela.
All’esterno non c’era alcun tipo di indizio che svelasse cosa potesse essere o perché fosse stata costruita; nessun rumore proveniva dall’interno, poteva anche essere abbandonata. Evelyne si avvicinò sempre di più, fino a quando non vi fu davanti.
Di nuovo si chiese cosa fosse quella struttura e perché all’esterno non vi fosse nessuno. Improvvisamente sentì una forte stretta allo stomaco e una strana sensazione s’impossessò di lei: non avrebbe saputo spiegare cosa fosse o il motivo per cui la sentiva; ma la sentiva e quella sensazione le diceva di non avvicinarsi allo strano edificio. Lottando contro il suo stesso istinto – non poteva morire di fame nei boschi – decise di avanzare con cautela, all’erta contro qualsiasi tipo di pericolo.
La sensazione di pericolo dentro di lei aumentava tanto da farle venire il mal di testa e appannarle la vista ma Evelyne sapeva che razionalmente non poteva esserci nessun pericolo. Barbara le aveva spiegato molte volte come, soprattutto dopo essersi ripresa dopo l’incidente, i suoi sensi non potevano essere considerati affidabili, ragion per cui si doveva affidare alla ragione e non all’istinto.
Ad ogni modo, quando fu davanti all’edificio la ragazza sentiva le gambe pesanti e gocce di sudore le scendevano lungo la fronte e la schiena, nonostante non sentisse caldo. L’ultima cosa che vide prima di cadere a terra fu l’apertura di una strana porta metallica e due uomini dal volto familiare che la trascinavano dentro.
 
La stanza in cui si trovava Evelyne al suo risveglio era bianca e spoglia. Non c’era altro che un letto e l’odore nell’aria le ricordava quello dei disinfettanti dell’ospedale. Si chiese dove fosse e fece per alzarsi, ma venne colpita da  una fitta lancinante alla testa e si distese di nuovo.
«Fossi in te mi muoverei il meno possibile» le consigliò un uomo dietro al suo letto che non aveva notato. Indossava un camice bianco e scriveva qualcosa su una cartellina e le fece pensare di trovarsi in un ospedale.
«Chi è lei?» chiese Evelyne confusa.
«Sono solo una pedina che viene mossa in questa vasta scacchiera e, fortunatamente, anche il tuo dottore» rispose alzando le spalle.
«Mi scusi, ma temo di non capire. Siamo per caso in un ospedale o…» Evelyne non riuscì a finire la frase, perché l’uomo scoppiò a ridere, interrompendola.
«Sapevo che eri ingenua Evelyne, ma non così tanto. Guardati intorno: sei in trappola, come tutti noi. Questa è una delle basi militari dei Meatch ed è praticamente impossibile uscire da qui»
«Cosa?» domandò Evelyne, non volendo credere a ciò che le veniva detto. Non poteva essere stata così sfortunata.
«È stata una bella soddisfazione per i piani alti che tu ti sia consegnata di tua spontanea volontà»
«Io non… io non mi sono consegnata. E se questo è uno scherzo voglio che lei la smetta, perché sta esagerando; mi faccia uscire di qui»
«Non puoi Evelyne, nessuno può. Siamo tutti in trappola ed è stata una fortuna che tu sia capitata nelle mie mani. Io, a differenza di altri, non ti farò del male»
«Come posso fidarmi di lei?»
«Non so rispondere a questa domanda, ma puoi iniziare dandomi del tu. Io sono il dottor Mark Wilson» si presentò tendendogli la mano.
«Piacere Mark. Io sono Evelyne, ma credo che tu mi conosca già. Potrei raccontarti qualcosa di me, se non fosse che tutte le persone che incontro sanno più cose su di me di quante non ne sappia io; per cui se vuoi conquistare la mia fiducia potresti dirmi ciò che sai in modo che capisca la tua buona fede».
Per la seconda volta, Mark scoppiò a ridere.
«Sei una ragazza sincera Evelyne, mi piace. Quello che so su di te è solo il frutto delle mie ricerche, non conosco i vari aspetti del tuo carattere»
«Se è vero che sono prigioniera, quelli potrà scoprirli durante la mia permanenza in questo luogo» disse Evelyne mettendosi seduta, lentamente, con la schiena appoggiata alla spalliera del letto.
Mark sorrise ma, a differenza delle risate precedenti, questo era spento e privo di vita.
«Il tuo soggiorno sarà così breve che non credo avrò il tempo di farlo» commentò sconsolato.
«Allora sbrigati a raccontarmi ciò che sai, potrebbe essere essenziale, magari trovo un modo per scappare di qui…»
«È impossibile uscire. Nemmeno tu, l’arma per eccellenza, potresti farlo»
«Vedremo» ribatté Evelyne, a cui piaceva avere l’ultima parola.
«Sono prigioniero in questa struttura da quasi dieci anni e molte persone lo sono da più tempo di me. Capisco la tua testardaggine, ma devi fidarti di me…»
«Ti ho già detto che se vuoi che mi fidi di te devi raccontarmi tutto quello che sai su di me» lo interruppe bruscamente Evelyne.
«Sono sempre stato un appassionato di storia» iniziò a dire Mark Wilson «Volevo cercare a tutti i costi le nostre radici, comprendere le origini che avevamo per poter affrontare meglio il futuro. Purtroppo non c’è nessuna testimonianza o scritto che risalga a prima dello sbarco dei Terrestri su Xaral, così ho iniziato da lì. Ho pensato che c’era qualcosa di strano nel comportamento degli Xaraliani: perché avrebbero dovuto attaccarci e poi morire senza opporre resistenza? Se erano davvero un popolo così violento, perché non si erano massacrati fra di loro? Così ho viaggiato e fatto molte ricerche. Ho scoperto che furono gli uomini a portare le armi su Xaral, furono loro a massacrarli ed insabbiare l’accaduto»
«Questo è vero» lo interruppe «Ma non capisco come sia riuscito a trovare quelle informazioni. A me le ha dette un Ibrido e, per quanto ne so, non credo esista qualcun altro oltre a loro a conoscenza di queste informazioni. Chi è la sua fonte?»
«Sei sveglia. I miei studi mi hanno portato in una casa in un posto di mare dove un’anziana signora mi ha raccontato tutto. Sua madre era una Nativa, suo padre un Terrestre. Lei sapeva
«Era una donna?» chiese Evelyne confusa. Aveva dato per scontato che l’Ibrido che gli avesse confessato la verità fosse Kevin Fort; non aveva contemplato la possibilità che ce ne potessero essere altri ancora in vita.
«Sì» confermò Mark Wilson, prima di riprendere il suo discorso «Mi spiegò anche delle abilità speciale dei Nativi e mi sorsero nuovi dubbi: se avevano la capacità di prevedere il futuro, perché non fecero nulla per preservare la loro razza dall’estinzione?»
«Che intende dire?» domandò la ragazza confusa.
«Immagina di riuscire a sapere in anticipo che una popolazione di un’altra galassia invaderà il tuo pianeta e sterminerà tutta la tua razza, non credi di dover fare qualcosa… come ad esempio prendere delle misure di sicurezza?»
«Sì, però non mi risulta che i Nativi lo abbiano fatto» gli disse, riflettendo sulle parole del medico.
«Nemmeno a me risultava. Ero ossessionato da questo dettaglio, sicuramente c’era qualcosa che mi sfuggiva, ma non capivo cosa fosse. Iniziai ad esporre le mie teorie a destra e a manca e fu così che mi trovarono: entrarono di notte in casa mia come fossero ladri, mi strapparono dalle braccia della mia famiglia e mi portarono qui, per interrogarmi. Mi chiesero cosa sapessi dei Nativi e, per la prima volta, sentii il tuo nome»
«Io mio nome?» ripeté la ragazza confusa.
«Sì. Mi domandarono cosa sapessi su di te. Risposi che non avevo idea di chi fossi, non ti avevo mai sentita nominare. Fu a quel punto che si resero conto di aver fatto il passo più lungo della gamba; pensando che potessi avere informazioni su di te, quando invece l’unica cosa che sapevo era come gli uomini avessero mentito. Ormai ero inutile ai loro scopi, pensavo mi avrebbero ucciso»
«E perché non l’hanno fatto?»
«Perché ormai avevo capito. Finalmente sapevo. Evelyne, un nome che per me non aveva significato nulla, era diventato il mio tutto. Qualsiasi cosa i Nativi avessero lasciato, la loro arma, ultima speranza, salvezza … chiamala come vuoi insomma, eri tu»
«Aspetta, mi stai dicendo che sono una specie di Ibrido? Mi crearono gli Xaraliani? Questo non è possibile, non avrebbe senso. Ho fatto degli esami quand’ero in coma, io ho diciotto anni e i miei non possono essere dei Nativi perché…» “Perché questo vorrebbe dire che sono morti” pensò «Perché io sono umana» disse invece.
«Ho diverse ipotesi su questo: tu potresti essere una discendente di qualche ibrido, oppure potresti essere una di loro solo che smetti di invecchiare molto prima. E poi non sai quale sia il tuo vero nome, Evelyne è semplicemente la targhetta che porti al collo. Potrebbe essere quella la chiave della loro sopravvivenza e tu un semplice strumento»
Le parole pronunciate da Mark Wilson la colpirono come fossero una doccia fredda: tutto ciò che le era accaduto da quando era uscita dell’ospedale sembrava aver un unico protagonista, lei; ma solo in quel momento si rese conto che poteva non essere così. Tutto ciò che le avevano fatto credere era, di nuovo, completamente sbagliato. Sperò intensamente di recuperare la memoria. Era stanca di non capire, di avere sempre più quesiti senza risposta e dubbi sulla sua identità. Come poteva pretendere di vivere, di usare i propri poteri, di aiutare i Nativi, quando non sapeva chi era o da dove veniva?
Evelyne non disse più nulla e si limitò a fissare le bianche lenzuola su cui era adagiata, mentre la sua testa era piena di pensieri. Mark, che aveva detto alla ragazza tutto ciò che sapeva, si mise ad osservarla, analizzando il suo comportamento. Cercava di non darlo a vedere, ma era curioso, voleva sapere tutto su di lei ma, capendo quanto fosse difficile per la ragazza trovarsi prigioniera in quella struttura, sopprimeva la sua curiosità.
In quel momento le porte di vetro della stanza si aprirono, permettendo ad un uomo con un ghigno sulla faccia di entrare.
«Evelyne, siamo felici che tu sia nostra ospite!» esclamò l’uomo strofinandosi le mani. La ragazza non l’aveva riconosciuto fisicamente ma, quando parlò, un’ondata di gelo le percorse le vene.
«Cosa vuole da me?» gli ringhiò contro.
«Suvvia, un po’ di educazione» la riprese lui «Anche se forse non dovrei aspettarmela da chi non mantiene i patti e scappa via fidandosi degli Ibridi».
L’uomo lanciò un’occhiata di fuoco a Evelyne e la ricambiò, dimostrandosi più spavalda di quanto non pensasse.
«Ho pagato per essere stato così ingenuo con te, Evelyne, ti avevo sottovalutata» continuò, mostrandole la mano sinistra, a cui mancava un dito.
La ragazza non parlava, eppure non ce n’era bisogno: il suo sguardo pieno di rabbia esprimeva tutto ciò che non voleva comunicare.
«Sono stato fortunato» riprese a parlare lui, mentre le si avvicinava. Il dottor Mark Wilson osservava in disparte su un angolo, aveva intenzione di aiutare Evelyne, ma non avrebbe mai rischiato la sua vita per lei. Una parte di lui lo riteneva responsabile della sua prigionia ed era felice che l’avessero catturata. Forse una volta finito tutto sarebbe potuto tornare dalla sua famiglia.
«Avevo paura che Tyler mi uccidesse, invece è così magnanimo che mi ha tagliato solo un dito» l’uomo sogghignò «Sono stato fortunato» ripeté, accarezzando il viso di Evelyne.
«Non mi tocchi!» disse lei spostandogli la mano con un gesto brusco.
«Tu…» disse l’uomo carico di rabbia, mentre i suoi occhi si spalancavano, pieni di incredulità per ciò che aveva fatto la ragazza «Hai osato toccarmi?»
Si preparò a colpirla e fu in quel momento che intervenne Mark Wilson: «Non credo sia una buona idea» commentò.
«Che cosa intendi?» chiese l’uomo, come se si fosse accorto solo in quel momento del dottore.
«Evelyne è stata dimessa da poco da un ospedale e, quando è arrivata qui, riportava graffi su braccia e gambe, come se avesse camminato molto in un bosco. Si sta riprendendo e picchiarla non la aiuterà» spiegò.
«Sei fortunata, c’è sempre qualcuno che ti protegge» disse l’uomo rivolto alla ragazza. Stava per aggiungere altro, quando un allarme risuonò nella struttura: l’espressione sul suo volto cambiò repentinamente – la rabbia si tramutò in stupore – mentre mormorava qualcosa che suonava come «Questo è impossibile» fra sé e sé.
«Dottore, codice rosso. Faccia quanto deve e porti Evelyne con sé» gli ordinò, prima di sparire da dov’era venuto.
«Vieni» le disse gentilmente il dottore aiutandola a scendere dal letto.
«Aspetti, cos’è tutto questo? Perché suona l’allarme? Dove stiamo andando?» chiese confusa.
«È l’allarme, qualcuno sta tentando di infiltrarsi e devo portarti dove non possano trovarti»
«Saranno Kevin e Ashton! Sono i miei amici!» esclamò la ragazza.
«Andiamo, non abbiamo tempo!»
«Sono venuti qui per salvarmi, devo andare da loro»
«No, li cattureranno e uccideranno. Dobbiamo andare nel seminterrato, o uccideranno anche me»
«Potremmo approfittare del caos e scappare» suggerì lei.
«Non si scappa da qui, Evelyne, te l’ho già detto. O fai come ti dicono o muori»
«Beh, tanto io devo morire lo stesso, no? Non è quello che mi hai fatto intendere prima? Tanto vale che lo faccia mentre provo a scappare invece che stare ai loro comodi» detto questo si liberò della presa del dottore e saltò giù dal letto, tentando di aprire la porta.
«I tuoi sforzi saranno inutili» disse lui con voce piatta. Per aprirla era necessario inserire un codice di quattro cifre e lei, ovviamente, non lo sapeva. Tentò varie combinazioni a caso, ma non funzionò nessuna di esse.
Dietro di lei, intanto, Mark Wilson aveva riempito una siringa con un potente sedativo e si apprestava a somministrarglielo.
«Sono un codardo egoista» le sussurrò a mo’ di scusa, avvicinando sempre di più l’ago al suo collo. Evelyne cercò di scappare, ma era in trappola: la stanza era piccola e, oltre alla porta, non c’erano altre uscite. Disperata, chiuse gli occhi, aspettando il momento in cui la siringa le si sarebbe conficcata nella pelle. Per un momento riuscì come ad isolare il mondo esterno; l’allarme, le grida, la paura si affievolirono fino a scomparire del tutto e l’unica cosa che riusciva a percepire era il battito del suo cuore. Era regolare, nonostante tutto e le diede conforto. Iniziò a contare i battiti, attendendo il fatidico momento.
“Uno, due, tre…” il ritmo veniva scandito con precisione, il sangue le pulsava nelle orecchie quasi come il rumore di tante piccole esplosioni. “Dieci, undici…” quanti battiti ancora la sparavano dalla sua condanna? “Ventiquattro, venticinque, ventisei…” C’era qualcosa che non andava, ne era certa. Mark Wilson era a meno di un metro da lei, cosa aspettava? Molto lentamente, aprì prima un occhio e poi l’altro. Impiegò un paio di minuti per capire cosa fosse successo.
La siringa era sul pavimento e la faccia del dottore era di pura incredulità, mentre fissava qualcosa alle spalle della ragazza. Evelyne, cercando di capire cosa accadesse, si voltò di scatto, notando le porte finalmente aperte e Ashton fermo, anche lui stupito, davanti ad esse. Osservò nuovamente i due mentre tutto all’esterno aveva ripreso a fare confusione, continuandosi a domandare il perché di quella reazione. Per caso i due si conoscevano?
«Qualcuno può spiegarmi cosa sta succedendo?» chiese infine spazientita, vedendo che né Mark, né Ashton accennavano a muoversi o a proferire parola. Quando, interminabili secondi dopo, Ashton si decise parlare, la sua gola era secca e la voce strozzata dallo shock. Fu soltanto una la parola da lui pronunciata, eppure ebbe un tale peso che anche la ragazza spalancò la bocca. Ripensò alla storia del ragazzo e dell’uomo e tutto le fu più chiaro. Quella parola, quasi sussurrata, era un dei pezzi mancanti del puzzle, si incastonava alla perfezione con quelli che già aveva prima, donandogli una visione troppo surreale per essere vera. Quella parola che Ashton non avrebbe mai pensato di poter dire di nuovo di fronte a lui, la ragione per cui aveva intrapreso quel viaggio e si era alleato con Kevin. A voler essere poetici si poteva dire che quella parola era tutta la sua vita.
«Papà».


 
*guarda la data dell'ultima volta che aveva aggiornato e si copre perché spera che non le lancino pomodori* mi dpsiace moltissimo del ritardo con cui aggiorno, giuro! ç_ç
Non è nemmeno tanto colpa mia, più che altro sono un insieme di cose che si coalizzano contro di me: l'esame della patente, l'inizio della scuola, la tastiera che si rompe, l'ispirazione che manca... mi sento davvero uno schifo per aggiornare ogni volta così tardi e spero che mi perdoniate. 
Comunque ora sono qua e voglio fare dei piccoli ringraziamenti: la storia è quasi a metà e se non ci sono errori devo ringraziare la mia beta, inoltre un grazie enorme va anche alle persone che hanno recensito lo scorso capitolo, ovvero Tomocchi, ThanatoseHypnos, Gaara_Inlove, Medea_, DreamerX e DarkViolet92 spero non ve la prenderete troppo con me per il mio enorme ritardo ♥
Grazie anche a aniasolary, TanatoseHypnos, DarkViolet92 e Vyolet per aver messo la storia fra le seguite; a Silvie_Mary, Tomocchi e Yawe99 (spero si non aver sbagliato nessun nome, lol) per averla messa fra i preferiti.
Spero che qualcuno sia ancora interessato, vi ricordo che critiche, consigli o tutto ciò che volete è ben accetto :D

Alla prosssima (speriamo presto).
Baci,
Francesca.

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***



 
Capitolo V

Per un lungo, interminabile attimo, il tempo parve essersi fermato. Nessuno, dentro la stanza, sentiva più la necessità di fuggire o di mettersi in salvo; padre e figlio si scambiavano sguardi di parole non dette. Evelyne si limitava a fissare entrambi, a bocca aperta, collegando le storie che tutti e due le avevano raccontato e maledicendosi per non esserci arrivata prima.
«Papà» ripeté Ashton in un bisbiglio, sussurrato a voce talmente bassa da essere udibile solo a lui. Avrebbe potuto pensare a tutti gli anni passati a cercarlo, all’incontro con Kevin, al suicidio della madre, al suo letto vuoto; ma non ci riusciva. L’unica immagine che aveva in mente era quella che vedeva davanti a sé: suo padre, stanco, spossato, con molti più capelli bianchi e rughe rispetto all’ultima volta. Indossava ancora un camice bianco da dottore e i suoi occhi erano gli stessi di quando l’avevano lasciato.
«Dobbiamo fuggire» questa volta toccò ad Evelyne interrompere la scena surreale. Padre e figlio, contemporaneamente, parvero svegliarsi dal torpore in cui la sorpresa li aveva avvolti ed entrarono nel panico. Nessuno sapeva come uscire e Mark, al quale fino a pochi minuti prima non sarebbe passata nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di fuggire, non vedeva l’ora di scappare da quella prigione ed essere libero, ora che poteva. Era curioso come gli uomini cambiassero idea tanto in fretta, se motivati.
«Sì, ma come? L’unica via d’uscita è la grande porta davanti alla quale sei svenuta e l’unico ad avere il codice per aprirla è Alexander Miller» disse Mark Wilson, in preda al panico. Per la prima volta da quando si trovava nella struttura, non aveva paura di ciò che sarebbe potuto succedere a lui, ma temeva per suo figlio.
«Chi?» chiesero all’unisono Evelyne e Ashton.
«L’uomo con cui hai parlato poco fa, è il braccio destro di Tyler Meatch» spiegò velocemente Mark.
«Tu come hai fatto ad entrare?» chiese la ragazza ad Ashton, pensando che, se era riuscito ad insinuarsi nella struttura, loro poteva utilizzare lo stesso modo.
«Ho detto di volermi arrendere e morire insieme a te, così mi hanno portato dentro e, prima che mi immobilizzassero, mi sono liberato, sgattaiolando qui. È per questo che è scattato quell’allarme» rispose il ragazzo.
Nessuno osò fiatare dopo le sue parole, ma il pensiero che aleggiava nelle loro menti era comune: erano morti. Se quello era davvero il modo in cui Ashton era entrato, non c’era via d’uscita. Forse era vero ciò che sosteneva Mark Wilson, forse era impossibile uscire da lì, forse…
«Un momento!» esclamò Evelyne, alla quale era appena venuta un’idea. «Dov’è Kevin?» chiese, rivolta ad Ashton.
«Ci aspetta in mezzo al bosco per fuggire, gli ho promesso che ti avrei liberata» rispose lui pensieroso. Qual era il piano della ragazza? Sperava si ricordasse che gli Ibridi non avevano nessun potere strano e, lui in particolare, nessuna abilità per farli uscire di lì.
«E lui non ti ha fermato? Ha incoraggiato il tuo stupido piano per venire qui dentro?» domandò Evelyne, sempre più convinta della sua teoria.
«Non è stupido!» ribatté Ashton, offeso «Se adesso abbiamo un’opportunità di scappare è merito mio!»
«Sì, sì va bene, come ti pare. Rispondi alla mia domanda ora»
«Mi ha dato il suo pieno appoggio. Era sicuro che saremmo riusciti a scappare»
«È ovvio!» esclamò soddisfatta Evelyne, battendosi una mano sulla fronte.
Fino a quel momento Mark Wilson si era limitato ad ascoltare e osservare i due giovani in silenzio, capendo poco o niente di quanto dicevano, sperando che si sarebbero spiegati ma, quando fu chiaro che non l’avrebbero fatto, decise di intervenire: «Cosa è ovvio?».
«Kevin. Lo conosco da poco eppure ho capito che tipo di persona è» rispose Evelyne sorridendo e scuotendo la testa. Il suo sorriso, in breve, si trasformò in una sincera risata; probabilmente alimentata anche dalla sua precedente ansia.
«Cosa c’è da ridere?» domandò Ashton, seccato e incredulo contemporaneamente.
«Non capite? Come mai Kevin avrebbe mandato il suo unico braccio destro in una missione suicida per recuperare me? Non c’è via d’uscita, non ci sono porte, non c’è nulla. Serve un miracolo per uscire da qui» spiegò la ragazza e, allo sguardo confuso dei due, aggiunse un’altra frase a quelle dette in precedenza: «Un miracolo o… magia».
Mark continuava ad essere confuso – non era a conoscenza dei poteri della ragazza – mentre Ashton inarcò le sopracciglia, come se fosse tutto chiaro.
«Stai dicendo che ci farai uscire tu di qui?» chiese.
«Sì!» rispose esaltata la ragazza.
«Con i tuoi poteri?»
«Esatto!»
«Moriremo» commentò sconsolato.
«Grazie della fiducia!» ribatté Evelyne: questa volta toccò a lei essere offesa.
«Vorrei essere fiducioso, ma hanno funzionato solo una volta e, nonostante gli sforzi successivi, non è cambiato nulla in seguito»
«Lo so, ed è per questo che Kevin ti ha mandato qui! A quanto pare pensa che io debba essere motivata per attivarli e forse è così» spiegò lei.
«Di quali poteri stiamo parlando?» intervenne Mark, sempre più confuso dalla piega che la situazione stava prendendo.
«Non c’è tempo per le spiegazioni, prima scappiamo e poi rispondiamo alle tue domande» affermò con sicurezza suo figlio.
Evelyne chiuse gli occhi e tentò, come aveva fatto in precedenza, di allontanarsi dal mondo esterno. Sapeva che i rumori, l’ansia e la struttura intorno a lei la distraeva, per questo doveva cercare di rimanere sola con se stessa, come le era successo quando Mark aveva intenzione di sedarla. Il suo problema, però, era principalmente la concentrazione: trovandosi in una situazione in cui era alto il rischio di fallire per colpa sua, non riusciva a svuotare la mente; era in continuazione percorsa da miliardi di pensieri, immagini e suoni. Il battito del cuore, che le martellava incessante nel petto, era appena udibile in tutta quella confusione. Tentò di concentrarsi su quello, di prendere il ritmo, di affidarsi a quella costante di lei, per avere la certezza di non fallire.
Le ci vollero alcuni minuti prima che potesse entrare in quella strana dimensione formata da se stessa, in cui il buio predominava e il tempo era scandito dal suo battito. Come a rallentatore, sentì la sua mano muoversi verso il suo collo, per cercare il ciondolo con il suo nome impresso sopra. Era quello la chiave di tutto e forse Mark aveva ragione. Forse il ciondolo era il vero protagonista e lei solo uno strumento ma, se non raggiungeva quella pace interiore con se stessa, non riusciva ad attivarlo.
Com’era accaduto per la grotta, una volta che la mano di Evelyne si chiuse attorno al freddo metallo, cadde rovesciò gli occhi e tirò la testa all’indietro. La visione era come quella dell’altra volta; sfocata, confusa e senza suono. La ragazza osservava dall’alto i movimenti di quelli che dovevano essere gli altri prigionieri della struttura; vide Alexander Miller rosso in viso mentre gridava contro i suoi tirapiedi, vide tutti quanti cercare di trovare Ashton attraverso i video di sorveglianza, ma nessuno sembrava vederlo. Questa visione, rispetto alla precedente, aveva un qualcosa di strano: nella grotta Evelyne aveva visto se stessa mentre usciva senza essere vista, mentre ora non si trovava, non sapeva dove fosse. Era forse possibile che si fosse sbagliata, andando troppo avanti con la visione? Avevano già trovato una via d’uscita? O si trovavano ancora nella struttura? Sarebbe riuscita a capire qualcosa in più se non fosse stato tutto così opaco e distante dalla relatà.
Sempre più confusa, Evelyne decise di tornare nella stanza dove la tenevano per vedere se fosse ancora lì. Camminò, fluttuando ad una paio di centimetri da terra, verso la porta e, solo quando vi fu davanti, vide che per entrare doveva inserire una combinazione. Sperando che, in qualche modo, sarebbe riuscita ad entrare, fece per toccare il tastierino numerico, ma la sua mano, semitrasparente, lo attraversava. Confusa, la ritrasse istintivamente, e vide che riusciva a oltrepassare perfino il muro. Era forse diventata una specie di fantasma?
Lentamente, inserì tutto il braccio nel muro, poi una gamba, poi l’altro braccio, infine si trovò ad attraversarlo e, con suo grande stupore, vide che il suo corpo non era lì. Forse, in questa situazione, lo “spirito” che diventava durante le visioni e il suo corpo erano una cosa sola e, se riusciva ad attraversare i muri della struttura com’era riuscita ad attraversare quello della sua camera, uscire da lì diventava una passeggiata. Prendendo un profondo respiro, camminò lentamente verso il muro successivo e, di nuovo senza difficoltà, lo attraversò. Era giunta in un qualche magazzino, pieno di scaffali. Su ogni scaffale c’erano diversi cassetti e su ogni cassetto un’etichetta con un nome. Evelyne si guardò intorno confusa: non conosceva – o non si ricordava di conoscere – nessuna di quelle persone scritte lì dentro per cui, nonostante una certa curiosità, si diresse verso il prossimo muro. Era quasi arrivata ad oltrepassarlo, quando vide un nome che attirò la sua attenzione: un’etichetta riportava il nome di Kevin Fort. Abbandonando il suo piano per la fuga, la ragazza si avvicinò al cassetto per poterlo aprire, ma nella forma in cui era la sua mano si chiudeva a pugno intorno alla maniglia, senza poterla stringere veramente. Si appuntò mentalmente di chiedere spiegazioni all’Ibrido una volta che fosse fuori di lì e, curiosa, attraversò tutte le restanti stanze di corsa, continuando a correre anche una volta fuori e, mentre si rifugiava nei boschi, il suo corpo toccava nuovamente terra e tornava alla sua consistenza originaria.
Mentre i rami bassi e i rovi le graffiavano le gambe, non poté evitare di sorridere: era finalmente libera.
 
Le sue gambe continuarono a correre, portandola in una radura in cui Kevin, Ashton e Mark la stavano aspettando. Era stata sempre la magia a farla arrivare in quel luogo? Sorridente, guardò tutti in faccia, ma il suo sorriso si spense quando vide le diverse espressioni dipinte sui loro volti: l’Ibrido la fissava arrabbiato, Mark aveva la bocca spalancata dall’incredulità e Ashton… non avrebbe saputo definire il modo in cui la guardava Ashton. Con rispetto, forse? Era difficile decifrare la sua espressione, ora che il suo viso sembrava più sereno e non corrucciato come al solito; trovare suo padre l’aveva sicuramente aiutato.
«Che succede?» chiese Evelyne, improvvisamente conscia del fatto che non aveva idea di come Ashton e Mark avessero fatto ad uscire, infatti, rivolta verso di loro, aggiunse: «Come siete scappati voi due?»
«Sei tu che devi dirci come hai fatto!» ribatté Mark «Un secondo prima ti stavamo seguendo, ci hai indicato la strada da percorrere e poi sei sparita, arrivando solo molte ore dopo di noi. Pensavamo fossi rimasta all’interno, per qualche strana ragione»
«Vi avrei fatti uscire io?» ripeté Evelyne incredula
«Beh, a meno che quella che ci ha guidati fuori non sia stata un persona con la tua voce ed estremamente somigliante a te, sì, ci hai tirati fuori tu di lì»
«È impossibile, me ne ricorderei se lo avessi fatto. Quando sono uscita nessuno dei due c’era più»
«Penso che dovremmo tutti calmarci, per mettere insieme i pezzi dobbiamo sentire le versioni di tutti, io sono ancora molto confuso» intervenne Kevin Fort, poi si girò verso Ashton «Allora, cos’è successo a te e tuo padre?»
«Avevamo appena deciso di scappare, quando Evelyne ha chiuso gli occhi e poggiato la mano sul suo ciondolo. Avendole già visto fare una cosa simile quando ha avuto la visione nella grotta, non mi ero preoccupato, pensando che sarebbe accaduta la stessa cosa e, almeno all’inizio fu così: gli occhi le si erano rovesciati all’indietro ed era caduta in trans ma, dopo qualche secondo, ha detto una parola in una strana lingua ed è caduta a terra, svenuta»
«Cosa?» lo interruppe Evelyne, che non si ricordava affatto questo particolare.
«A quel punto io e mio padre l’abbiamo presa in braccio e appoggiata sul lettino» riprese Ashton, dopo che Kevin ebbe ammonito con lo sguardo la ragazza «E abbiamo iniziato a sentirci strani, quasi come se fossimo più leggeri. Abbiamo impiegato pochi secondi a capire che la magia stava operando anche su di noi: i nostri piedi erano sollevati da terra e non riuscivamo a toccare più nulla. Evelyne, a quel punto, si è alzata dal lettino. Anche lei levitava e, con uno strano tono di voce, ci ha detto di seguirla, ci ha fatto passare attraverso i muri e, una volta usciti dall’edificio, ci ha detto di correre nei boschi fino a quando non avremmo trovato Kevin e poi è sparita nel nulla. Siamo rimasti invisibili e senza un corpo solido fino a quando non ci siamo addentrati nei boschi»
«Tutto questo è assurdo» commentò Evelyne una volta che il ragazzo ebbe finito il suo racconto «Se vi avessi portati in salvo me ne ricorderei, non trovi?»
«Eppure questa è la verità, non abbiamo motivo per mentire» ribatté Mark.
«Evelyne, calmati e spiegaci tu come hai fatto ad uscire» disse l’Ibrido.
La ragazza prese un paio di profondi respiri per calmarsi e riordinare le idee prima di parlare.
«Non posso essere stata io a farli uscire» esordì «Perché appena ho toccato il mio ciondolo, ho avuto una visione: non sentivo nessuno rumore intorno a me e le immagini erano sempre sfocate, ma ho visto Alexander Miller urlare contro i suoi dipendenti e loro cercarci con le telecamere di video sorveglianza. Non capivo cosa stava succedendo, non era una visione del passato, ma del presente. Iniziai a chiedermi cosa fosse successo e scoprii di essere una specie di fantasma, camminavo staccata da terra e nessuno mi vedeva. Qualcosa mi diceva che il mio corpo era ancora dentro la stanza in cui mi tenevano prigioniera, andai lì per controllare e scoprii di riuscire ad attraversare i muri. Mi sbagliavo, però: nella stanza non c’ero io, né Mark, né Ashton. Pensai che fossero riusciti a trovare un modo per scappare e, attraversando i muri, uscii anche io, correndo poi in mezzo al bosco. Penso che sia stata sempre la mia magia a permettermi di trovarvi».
Dopo la spiegazione di Evelyne, erano tutti ancora più confusi di prima. Stavano pensando a cosa potesse essere accaduto realmente, a come le due storie potevano essere unite ma era chiaro che nessuno, nemmeno Kevin, trovasse un’ipotesi plausibile. Nonostante tutto, fu proprio l’Ibrido a rompere il silenzio.
«Qualsiasi cosa sia successa, non possiamo restare qui. Gli uomini di Meatch sapranno che non possiamo essere andati tanto lontano, ci verranno a cercare. È meglio andarsene, penseremo dopo a cosa può essere accaduto» disse in maniera decisa. Tutti annuirono senza parlare e Kevin si mise in marcia con passo fermo, come se avesse già in mente dove andare. Evelyne raccolse il suo zaino a terra, lo portò sulle spalle e poi corse per affiancare l’Ibrido. Voleva dare ad Ashton e suo padre dello spazio per poter parlare – era sicura che avessero molti argomenti di cui discutere – inoltre non aveva dimenticato il cassetto con il nome di Kevin, era decisa a parlargliene a tutti i costi.
«Hai idea di cosa possa essere successo?» gli chiese come scusa per attaccare bottone.
«Solo ipotesi e sono una più improbabile dell’altra»
«Beh, ci deve pur essere qualcosa che…»
«No, Evelyne, non c’è» la interruppe bruscamente lui.
Per un attimo la ragazza si fermò, sorpresa dalla durezza con cui lui l’aveva trattata. L’Ibrido camminava svelto, le gambe percorrevano molta distanza in breve tempo e lei si ricordò quando era andata in giro con Ashton e camminare velocemente l’aveva aiutata a smaltire la rabbia. Era questo ciò che stava facendo Kevin? Era ancora arrabbiato con lei per la sua fuga?
«Sei ancora arrabbiato per il mio comportamento stupido?» gli chiese correndo per potergli stare dietro «Mi dispiace moltissimo, non avrei mai dovuto perdere la testa, solo che mi sentivo sotto pressione e non riuscivo a…»
«Sotto pressione è quando lavori meglio. Ti ho mandato Ashton in modo tale che tu avessi qualcuno da salvare»
«Si è vero però…» Evelyne stava cercando di scusarsi, quando rifletté meglio sulle parole che Kevin aveva detto «Avevi mandato Ashton a morire? Sapevi che la sua sarebbe stata una missione sucida! E cosa sarebbe successo se non fossi riuscita ad usare i miei poteri? Ci avresti lasciati morire tutti?»
«Siamo in guerra e ogni tanto bisogna esporsi per ottenere qualcosa. Oggi abbiamo scoperto che, in qualche modo, puoi usare i tuoi poteri anche sugli altri, abbiamo fatto un passo avanti»
«Non importa se è una guerra!» gridò la ragazza «Non si può giocare con la vita umana!»
«Questo non è un gioco, Evelyne!» esclamò Kevin, fermandosi all’improvviso, arrabbiato «Noi possiamo decidere le sorti dell’umanità e di Xaral, non possiamo commettere errori! Non ti rendi conto che se ti avessero uccisa, in un modo o nell’altro, saremmo morti tutti?»
«Ed è per questo motivo che hai deciso di rischiare la vita di Ashton? Perché morire prima o dopo non avrebbe fatto alcuna differenza per lui?» chiese scettica la ragazza.
«No, l’ho fatto perché lui si è offerto di salvarti e perché io credo in te, perfino quando tu non credi in te stessa. Cresci, Evelyne, non è possibile che non riesci a capire quanto la tua vita sia importante? Perché c’è una parte di te che non vuole sopravvivere? Ashton non sarebbe venuto a cercarti se avesse creduto che tu fossi abbastanza egoista da volerti salvare, e io non l’avrei mai mandato. Per cui, invece di farmi apparire come il mostro della situazione, pensa a quante situazioni spiacevoli potresti evitarci, se solo avessi un briciolo di amor proprio!».
Evelyne, improvvisamente, si sentì come se il mondo le cadesse addosso, la vista le si oscurò e cadde a terra, svenuta.
 
Quando Evelyne si svegliò, si trovava all’interno di una tenda e, seduto accanto al suo sacco a pelo, c’era Kevin Fort, con una tazza fumante in mano.
«Ti sei svegliata, finalmente» disse.
«Dove sono? Cos’è successo?» gli chiese lei.
«Credo che lo sforzo per fare la magia e la tua chiacchierata non proprio amichevole con me ti abbiano sfinita. Il padre di Ashton ti ha preparato questo infuso con delle erbe che ha trovato, dice che dovrebbero rimetterti in forza».
Passò la tazza ad Evelyne che, aiutandosi con le braccia, si mise seduta e ancora spaesata iniziò a bere l’intruglio. Dopo il primo sorso una smorfia di disgusto le attraversò il volto.
«Non ho mai bevuto nulla di così cattivo» commentò posando la tazza a terra.
«Devi berlo tutto e io mi assicurerò che tu lo faccia» disse Kevin «A proposito, mi dispiace per quello che ti ho detto. Non avrei dovuto essere così duro con te» si scusò, fissando il pavimento.
«No, non preoccuparti. Hai fatto bene a dirmi quelle cose, avevi ragione»
«Sì, ma ho sbagliato il modo. L’unica cosa che volevo farti capire è che io non disprezzo la vita di Ashton, né di nessun altro. Volevo solo farti capire che anche tu sei importante».
Evelyne non poté fare a meno di arrossire per quelle parole: era la prima volta in tutta la sua vita – la vita che ricordava – che qualcuno le diceva che era importante. Sì, l’Ibrido glielo aveva fatto capire anche prima, ma solo sentendolo Evelyne iniziò a crederci realmente. Mormorò un timido «Grazie» a Kevin, che le sorrise e, sforzandosi, finì tutto l’intruglio preparatole da Mark. Non si sentiva affatto meglio o più in forze, al contrario le veniva da vomitare e la testa le si fece pesante.
«Credo che dormirò ancora un po’» sussurrò prima di stendersi e addormentarsi nuovamente.
 
Quando si svegliò di nuovo, era notte fonda. Era completamente sudata e il caldo che c’era dentro la tenda era soffocante, così aprì il suo sacco a pelo, prese una giacca dallo zaino lentamente uscì dalla tenda, facendo attenzione a non fare troppo rumore con la zip. L’aria fuori era gelida, s’infilò la giacca e prese dei profondi respiri. Il velo di sudore che fino a poco prima avvolgeva il suo corpo iniziava a seccarsi, mentre veniva scossa dai brividi. Stava per rientrare all’interno della tenda, quando vide qualcuno camminare nell’oscurità e sedersi in mezzo all’erba. Silenziosamente, chiedendosi chi potesse essere, si alzò per controllare. Si avvicinò a lui lentamente e, solo quando gli fu sopra, si accorse che era Ashton. Era disteso con i gomiti appoggiati a terra e la luce delle stelle gli donava un colorito pallido, accentuandogli ancora di più le linee tonde del viso e rendendo i capelli e gli occhi ancora più scuri.
«Cosa ci fai qui fuori da solo?» gli chiese, sedendosi accanto a lui. Il ragazzo sobbalzò leggermente, segno che lei lo aveva colto di sorpresa.
«Evelyne, non ti avevo sentita arrivare!» esclamò lui mettendosi a sedere.
«Scusa, non avevo intenzione di spaventarti. Mi chiedevo solo cosa facessi qui tutto solo, pensavo che tu e tuo padre avevate molte cose da dirvi…»
«Già e lo abbiamo fatto. Abbiamo parlato anche di te, avresti dovuto vedere la faccia che ha fatto quando gli ho raccontato dei tuoi poteri!» Ashton si interruppe, ridendo. Era la prima volta che la ragazza lo sentiva ridere sul serio e pensò che non ci fosse nulla di più bello di una risata sincera, specialmente fatta da chi di motivi per ridere nel corso degli anni ne aveva avuti ben pochi.
«Sono contenta che tu sia riuscito a ritrovarlo» disse Evelyne.
«Grazie. Molto lo devo a te. Anche se sono stato brusco a volte sono contento che tu sia impazzita a tal punto da andare in quella struttura; non lo avrei mai trovato altrimenti»
«Ehi, non devi ringraziarmi, non ho fatto nulla di speciale…»
«Ci hai salvati. Potevi portare in salvo solo me, potevi lasciarci morire entrambi e andartene come se niente fosse, invece ci hai fatti uscire sani e salvi da lì. Ringraziarti è il minimo che possa fare»
«Non è mai stata un’opzione quella di non salvarti. Fai parte della mia squadra e, una volta saputo che quello era tuo padre, come non avrei potuto trascinare fuori anche lui? Ma è inutile che mi ringrazi, tecnicamente non ricordo nemmeno di averti salvato»
«Però lo hai fatto» ribatté Ashton, voltandosi a guardarla. Evelyne abbassò lo sguardo a terra: le piaceva essere ringraziata e aveva aspettato moltissimo per sentire quelle parole sincere uscire dalla bocca del ragazzo, ma in questo caso non era sicura di meritarsele. Era possibile salvare qualcuno e non ricordarsene?
«Credi nel destino?» le chiese Ashton, che stava guardando le stelle. La ragazza alzò la testa per osservare tutti quei puntini di luce che si riflettevano nei suoi occhi e pensò ad una risposta che non la facesse sembrare troppo stupida. Ci credeva? In realtà non ci aveva mai pensato seriamente. Mentre era all’ospedale pensava solo a come sarebbe stata la sua vita una volta uscita e, da quando lo aveva fatto, pensava solo a come controllare la sua magia e cosa poteva fare per salvare Xaral.
«Non ci ho mai pensato, a dire il vero» rispose infine.
«Io non ci ho mai creduto. Ho sempre pensato che sono le azioni di uomo che costruiscono la sua storia: se hai successo è perché tu lo hai costruito, se non lo hai perché non cogli le opportunità. Ho sempre pensato che ci innamoriamo di qualcuno quando lo vogliamo, che ogni azione ha una conseguenza e siamo noi gli artefici del nostro destino. Mia madre invece ci credeva. Certo, non pensava che tutto fosse già scritto, ma pensava che, per ognuno di noi, ci fossero delle cose certe: chi sarebbe stata la persona che avremmo amato, quando e come saremmo morti, il nostro lavoro, i nostri affetti e così via»
«Perché mi stai dicendo questo?» gli chiese confusa.
«Guarda le stelle, Evelyne. Gli Umani che abitavano sulla Terra pensavano che il nostro destino fosse scritto lì, fra le stelle, ed io mi chiedo che razza di stelle abbiano avuto se riuscivano a leggerle. Qui c’è solo confusione»
«Forse allora avete entrambi ragione» disse Evelyne, ma Ashton la guardò senza capire «Tu e le stelle, intendo. Quello che cercano di dirti è di non credere al destino, ma di metterle in ordine e costruirne uno tuo. Se le stelle sono dei punti mettili insieme, formaci delle parole. Allora potrai leggere il tuo destino».
Evelyne si voltò verso di lui, con le immagini delle stelle che le appariva ancora davanti agli occhi. Erano a pochi centimetri di distanza e la volta celeste si specchiava infinite volte nelle pupille dei due ragazzi.
«Non sono più tanto sicuro di non credere nel destino, sai?» le confessò Ashton.
«Come mai?» gli chiese Evelyne in un sussurro.
«Perché da quando ti ho conosciuta ho provato ad ignorare il mio cuore quando mi diceva di essere innamorato di te, ma ho fallito miseramente» le rispose, poco prima di avvicinare le labbra alle proprie e lasciarle un delicato bacio. 

 
Sì, lo so, non aggiorno da settembre e mi merito tutti gli insulti possibili e immaginabili per questo (lo so sul serio) infatti se volete insultarmi io sono d'accordo. Mi dispiace di averci messo così tanto a pubblicare questo capitolo (anche se lo avevo pronto da un po') perché c'erano molte cose che non mi convincevano e volevo modificarle, solo che non trovavo mai l'occasione per farlo. Ora, durante le feste, mi sono decisa, e infatti eccomi qui :')
Ho già pronto un altro capitolo, ma non so quando lo pubblicherò perché prima vorrei andare il più avanti possibile scrivendo gli ultimi quattro mancanti (yay, siamo quasi alla fine!) e quindi vi farò sapere mano a mano che aggiorno.
Niente, detto questo vorrei ringraziare DarkViolet92 per aver recensito lo scorso capitolo, Amisa, Balder Moon e maraechelon per aver inserito la storia fra le seguite e ovviamente tutti i lettori silenziosi. Grazie mille per la pazienza con cui mi seguite, auguro a tutti un buon 2015 e un buon proseguimento di vacanze.
 
Francesca.

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***



Capitolo VI
 
Quando, la mattina seguente, Evelyne aprì gli occhi, non si rese conto che qualcuno la stava abbracciando. Dovette vedere le muscolose braccia di Ashton che le cingevano la vita prima di ricordare cos’era successo la notte prima e, ripensandoci, la ragazza sorrise leggermente imbarazzata. Non era sicura che fosse la prima volta nella sua vita che baciava un ragazzo – continua a non ricordarsi nulla di ciò che era accaduto prima dell’incidente – ma era sicura che, da quanto aveva memoria, era la prima. Evelyne non si era mai innamorata prima di quel momento e mai si era sentita così felice. Posare le labbra su quelle morbide del ragazzo aveva il sapore di una promessa inespressa fra i due, una promessa silenziosa che parlava di amore, protezione e gioia, nonostante le continue difficoltà che avrebbero dovuto affrontare. Prima di quella sera, Evelyne, non aveva nemmeno mai pensato a cosa volesse dire essere stretta da un ragazzo e, dopo aver passato tutta la notte fra le sue braccia, poteva affermare con decisione che era una delle migliori sensazioni del mondo.
La giornata era iniziata e il sole splendeva alto nel cielo, ma nella mente della ragazza c’era ancora la volta celeste ricoperta di stelle in cui avevano suggellato il loro amore con un bacio. Dopo quel tocco delicato, quasi troppo, non ce n’erano stati altri, così come non c’erano state parole: la nottata era trascorsa fra sorrisi smaglianti e timidi sguardi e ad entrambi andava bene così. Sentivano lontano l’amore dei gesti plateali o delle grandi promesse: lei stava ancora scoprendo il mondo, mentre lui aveva aperto il suo cuore per la prima volta. Entrambi avevano ancora molto da imparare e, iniziare la loro storia con tranquillità, sembrava la cosa giusta.
Senza riuscire a togliersi di dosso il sorriso che le si era stampato in volto, Evelyne, scostò delicatamente il braccio di Ashton e uscì dalla tenda, felice come non mai di essere viva. Tutto le appariva migliore: il cielo sembrava più blu, il sole più raggiante, l’erba più fresca… non tornò alla realtà fino a quando non vide Kevin Fort che la fissava con confusione.
«Evelyne?» le chiese, come se non credesse che lei fosse lì.
«Buongiorno Kevin» gli rispose, raggiante.
«Ero venuto a svegliare Ashton, non avrei mai creduto di incontrare te. Vi siete per caso scambiati tenda questa notte?»
«No, noi in realtà…» Evelyne arrossì molto prima di poter dare la risposta «In realtà abbiamo dormito insieme».
«Ah» fu il commento secco di Kevin. Di certo non era il tipo di uomo che si scomponeva per notizie così futili, ma dall’espressione che aveva in faccia si capiva che la scoperta doveva averlo sorpreso non poco.
«Ma non c’è stato nulla fra noi, abbiamo solo dormito» precisò Evelyne, prima che l’Ibrido potesse pensare che fra i due fosse accaduto qualcosa di strano.
«Evelyne…» mormorò Kevin, sospirando «Non credo che questo possa farti bene, data la situazione».
«Che intendi?» gli domandò la ragazza, con l’euforia della notte precedente che andava scemando. Perché non avrebbe dovuto approvare il suo rapporto con Ashton? Non c’era nulla di male a voler tentare di iniziare una storia.
«Ho vissuto abbastanza a lungo per conoscere qual è la reazione di una ragazza quando la persona di cui ti innamori ti spezza il cuore. È doloroso, così tanto da far perdere la ragione e, in tempi di guerre come questi, non è l’ideale che tu impazzisca» le spiegò.
«Come fai a dire che mi spezzerà il cuore?» chiese Evelyne, sorda agli avvertimenti dell’Ibrido.
«Oh, Evelyne» esclamò lui, con un’espressione tenera in volto e una nota di dispiacere nella voce «Non è chiaro?».
 
La spiegazione dei timori di Kevin fu chiara solo dopo quando l’Ibrido la portò a parlare con Mark. L’uomo aveva raccolto tutta la roba di Ashton nel suo zaino – ad eccezione della tenda in cui il ragazzo continuava a dormire – ed era in trepidante attesa che suo figlio si svegliasse.
«Non vedo l’ora, sono così felice» continuava a ripetere, mentre sul viso gli era comparsa un’espressione radiosa.
«Cosa sta succedendo?» gli chiese Evelyne, senza capire lo strano comportamento dell’uomo.
«Ce ne andiamo» rispose Mark «Io e mio figlio ce ne andiamo, fuggiamo lontano da questa guerra, lontano da tutto. Finalmente potremmo vivere la vita che ci era stata rubata»
«No!» esclamò la ragazza ed impiegò qualche secondo prima di capire che aveva urlato la reazione suggeritale dalla sua testa.
«No cosa?» domandò il padre di Ashton, perplesso, aggrottando la fronte «Pensavo che ci avessi salvato per questo; per ridarci la vita. Sono forse in errore?»
«Sì! Cioè no!» rispose confusamente la ragazza.
«Ora è più chiaro, grazie» commentò sarcasticamente Mark.
«Intendevo dire che è ovvio che vi ho salvato affinché voi due possiate vivere, ma non potete abbandonarci: siamo in pochi, abbiamo bisogno di tutto l’aiuto necessario» si spiegò Evelyne.
«La ragazza ha ragione» intervenne Kevin, che fino a quel momento era rimasto in silenzio ad osservare i due discutere «Non possiamo permetterci di perdere seguaci»
«State dicendo che dovrei rinunciare alla mia vita per voi? No grazie. Mia moglie e mio figlio hanno già pagato abbastanza per i miei errori, non ho intenzione di ripeterli» sentenziò Mark, facendo capire ai due che non sarebbe servito a nulla cercare di fargli cambiare idea. Proprio in quel momento, Ashton si stava dirigendo verso di loro.
«Cos’è successo? Le vostre grida mi hanno svegliato. E, tanto per informazione» aggiunse con fare sarcastico «Dev’essere una cosa grave se siete riusciti a svegliare perfino me».
«Vogliono dividerci» disse Mark, prima che gli altri avessero l’occasione di parlare.
«Cosa?» domandò stupito Ashton.
«Hanno detto che non gli importa il fatto che tu voglia passare del tempo con tuo padre, l’importante è che li aiuti nella loro stupida guerra. Sono egoisti, Ashton, non pensano a te o a noi. Pensano solo a loro stessi»
«È vero?» chiese Ashton, voltandosi verso Evelyne.
«Beh…» rispose la ragazza mordendosi il labbro. Come faceva a dirgli che la ragione per cui non voleva che partisse è che sentiva di amarlo?
«Quello che Evelyne sta cercando di dire» intervenne Kevin, prendendo il controllo della situazione «È che tu sei stato molto importante per noi nel corso di questi anni. Ci hai aiutato in un sacco di modi e sei entrato a far parte del nostro schieramento. Non crediamo che tu voglia abbandonarci, tuo padre potrebbe unirsi a noi e potremmo…»
«Potremmo cosa?» lo interruppe Ashton, furioso «Potremmo continuare a sacrificarci in nome di un popolo che non esiste più? Perché, io e mio padre, non potremmo invece provare ad essere felici? Non potremmo lasciarci tutto questo alle spalle e ricostruirci una vita? Certi affetti sono più importanti di una stupida guerra»
«È per questo che ti chiedo di restare!» sbottò Evelyne, con le lacrime agli occhi «Se per te quello che abbiamo condiviso la scorsa notte significava qualcosa, se è vero che sei innamorato di me, ti prego, resta»
«Non sai cosa significa credere che tuo padre sia stato ucciso, scoprire che sia vivo e avere un’opportunità di rifarti una vita con lui. Durante tutto il tempo in cui ho avuto modo di conoscerti ti ho vista solo avida di scoprire il tuo passato, non hai la più pallida idea di cosa sia l’affetto di un genitore, né di quanto possa mancare. Solo un mostro non mi lascerebbe andare con mio padre» affermò Ashton, lo sguardo deciso e sprezzante rivolto verso la ragazza.
Appena la parola “Mostro” uscì dalle sue labbra, ad Evelyne sembrò di sentire il rumore del suo cuore che si frantumava in piccoli pezzi: ebbe solo il tempo di mormorargli un «Vattene» prima di crollare a terra e piangere, con le mani a coprirle il viso e Kevin Fort a darle piccole pacche sulle spalle come per confortarla.
 
Erano passate solo poche ore da quando Ashton e suo padre avevano lasciato l’accampamento e l’Ibrido sembrava più in ansia che mai: parlava veloce camminando su e giù, mentre Evelyne si limitava a guardarlo con aria afflitta. Non riusciva a capire perché un attimo prima era felice come mai prima d’ora e quello dopo si sentiva stanca e senza forze. Ashton le aveva confessato di essere innamorato di lei la sera precedente e, qualche ora dopo, le aveva urlato di essere un mostro. La ragazza non faceva altro che riflettere su quelle parole ma, più ci pensava, meno capiva se il problema fosse il repentino cambio di idea del ragazzo o il suo essere fuori dal mondo a causa del suo passato. Qualsiasi fosse stata la ragione, comunque, ormai non aveva più senso: Ashton se n’era andato, aveva preferito vivere con suo padre e ora lei e Kevin avrebbero dovuto combattere da soli contro Meatch e i suoi uomini.
«Hai ascoltato almeno una parola di quello che ho detto?» le chiese l’Ibrido, riportandola alla realtà.
«No» rispose Evelyne sospirando con aria affranta. Kevin sospirò a sua volta e si andò a sedere accanto a lei.
«Ascolta io… so come ti senti. So che può sembrare strano perché magari mi vedi come un uomo cinico e stanco, ma quand’ero più giovane sono stato anche io innamorato e anche io ho fatto le mie scelte. Siamo in guerra, Evelyne, e ognuno di noi deve scegliere qualcosa da sacrificare: Ashton si è unito a noi solo per scoprire la verità su suo padre e ora…»
«Lo capisco!» lo interruppe Evelyne, con le lacrime agli occhi «Lo capisco davvero, capisco che voglia stare con suo padre, con la sua famiglia, sangue del suo sangue, ma non riesco ad accettare che mi abbia detto che sono un mostro. Dopo tutto quello che mi è capitato, dopo la perdita della mia memoria, le varie lotte, la prigionia, tutto… se lui me lo avesse detto con calma lo avrei capito. Questa è la mia battaglia, non la sua. Ma mi ha definita un mostro e questo non potrò mai perdonarglielo».
Kevin la fissò intensamente negli occhi, come per voler indagare fino a che punto le sue parole fossero vere. Quando vide che la ragazza, nonostante le lacrime, non spostava lo sguardo dal suo, le parlò.
«Evelyne, io lo so che tu sei ferita e mi dispiace dirlo in questa maniera, ma dobbiamo pensare alla nostra battaglia. Ora che i tuoi poteri sono sempre più in espansione e che abbiamo inflitto un duro colpo al braccio destro di Tyler non possiamo abbandonare tutto»
«Va bene» disse la ragazza prendendo un profondo respiro «Cosa dobbiamo fare?»
L’ibrido sorrise leggermente a quella domanda e fu sorpreso dalla forza che la ragazza mostrava di avere: nonostante avesse subito un duro colpo, era già pronta a ripartire.
«Come sai tutti noi dobbiamo compiere dei sacrifici per questa guerra» iniziò a spiegare «Avrei voluto che il tuo si compiesse più in là possibile ma, ora che siamo rimasti soli, non posso più aspettare»
«Che cosa devo fare?» gli chiese.
«Dobbiamo raggiungere un vecchio luogo sacro degli Xaraliani: lì la magia è così potente che nessun essere umano può mettervi piede. Sono abbastanza sicuro che quando arriveremo lì la tua magia sarà più potente che mai e potremmo scoprire tutti i segreti dei nostri nemici»
«Sembra semplice. Perché non lo abbiamo mai fatto prima?»
«C’erano delle complicazioni. Non sapevo se tu fossi abbastanza forte o pronta. Lo sforzo che farai per usare tutti i tuoi poteri contemporaneamente sarà molto alto e potresti ritrovarti costretta ad avere un prezzo da pagare»
«Quale prezzo?»
Il silenzio di Kevin fu una risposta molto più chiara di molte altre parole. Non disse nulla, ma si limitò a fissarla negli occhi con l’aria triste e sconsolata che ha chi non vuole dire ciò che sa.
«Potrei morire?» tentò di indovinare Evelyne. L’Ibrido continuò a fissarla in silenzio.
«Potrei morire?» ripeté la ragazza a voce più alta.
«Sì, il rischio è questo» rispose infine lui.
«Voglio farlo» affermò rapidamente lei con sicurezza.
«Ti prego, pensaci, non è una cosa da prendere alla leggera!» le disse Kevin.
«Ho preso la mia decisione, sono pronta a sacrificarmi» ribatté lei con sicurezza.
«Dici così solo per quello che è successo. Devi pensarci lucidamente, stiamo parlando della tua vita, non puoi prenderla così alla leggera»
«Non la prendo alla leggera, fidati. È vero che ho deciso molto più rapidamente data la soluzione, ma sono sicura. Ora non ho davvero niente da perdere e, anche se non sono totalmente sicura sui miei poteri ho visto in quanta misura sono dentro di me e non mi abbandoneranno. So che non me lo avresti detto se non fossi stata pronta e, anche se dovessi morire, saprò che il mio sacrificio è stato utile; queste sono tutte le ragioni per cui voglio farlo».
Kevin la fissò di nuovo, sempre più sorpreso dalla sua forza. Non solo aveva il coraggio di reagire, ma era anche pronta a sacrificarsi, se fosse stato necessario… pensò che fosse davvero pronta a salvare Xaral e quello che rimaneva dell’umanità.
«Partiamo domani mattina. Risposati, sarà un lungo viaggio» le disse l’Ibrido prima di congedarsi.
 
Durante la notte, Evelyne non riuscì a prendere sonno. Non aveva alcuna intenzione di tirarsi indietro ma, la cosa curiosa, era che l’idea della morte non la spaventava quanto avrebbe dovuto, anzi le dava una sorta di carica. La ragazza era sempre stata timorosa di morire perché le sembrava che stesse sprecando la sua vita e il solo pensiero la faceva riflettere su tutte le opportunità che non avrebbe mai colto. In quel momento, invece, era addirittura eccitata di poter sacrificarsi affinché la gente si ricordasse di lei grazie al suo contributo per salvare il mondo. Il suo nome sarebbe stato riportato insieme a quello di tanti altri sui libri di storia, le sarebbero state dedicate vie, piazze, monumenti e tutto questo non la faceva sentire sprecata, anzi, le dava un modo in cui voler morire: quello dell’eroe. Questo non era certo il suo sogno di sempre ma, dopo tutto quello che era successo, pensava che le era andata di lusso. Non aveva più un motivo per vivere e, averne trovato uno per morire, le sembrava una manna dal cielo, in quel momento.
Vivere, morire, prendere delle decisioni, erano tutte cose che la facevano reagire e tenevano la sua mente lontana dalle tremende parole che Ashton le aveva rivolto poche ore prima. Evelyne era ferita, umiliata ed anche frustata, non riusciva davvero a capacitarsi di ciò che era accaduto: l’unica cosa di cui era certa era di voler rimuovere il ricordo dalla sua mente. Mordendosi il labbro, pensò che avrebbe dato oro per riavere le sue memorie di prima dell’incidente, ma avrebbe versato la stessa somma anche per dimenticarsi totalmente del ragazzo che l’aveva fatta innamorare.
 
Fu Kevin Fort a svegliarla, il mattino successivo. Evelyne era sprofondata in un sonno pesante, dormiva con il sacco a pelo tirato fin sopra la testa e con la bocca semi-aperta.
«È ora di andare» le disse lui scuotendola leggermente.
La ragazza, lentamente, aprì gli occhi e, per un attimo, parve essersi dimenticata di Ashton e della loro lite. Soltanto quando fu davvero sveglia si ricordò tutto e il peso di quei ricordi si abbatté su di lei. Improvvisamente si sentì stanca e la voglia di stendersi di nuovo e tornare a dormire s’impossessò di lei; solo con molta forza di volontà riuscì a resisterle. L’Ibrido, il giorno precedente, le aveva annunciato che avrebbero dovuto camminare molto per raggiungere il luogo sacro, per cui si vestì più comoda che poté. Scelse con cura i vestiti che le aveva lasciato Barbara e non quelli che aveva comprato nel negozio in cui l’aveva portata Ashton perché non avrebbe sopportato l’idea di poter morire con qualcosa di suo indosso.
Kevin non le fu molto di compagnia durante il viaggio: probabilmente era anche lui amareggiato per la scelta del ragazzo – ormai i due erano compagni d’avventura da molto tempo – e se apriva bocca lo faceva solo per dare indicazioni ad Evelyne sulla strada da prendere o per dirle di stare attenta a dove metteva i piedi. Dal canto suo, la ragazza, non sopportava il silenzio ostinato dell’Ibrido, che le lasciava l’opportunità per riflettere. Cercava di non pensare ad Ashton, tentava con tutte le sue forze, ma ogni sforzo era vano. Forse il ragazzo poteva non essere presente fisicamente eppure lui era lì, in mezzo a loro. Era fra i loro pensieri, fra le loro teste, fra i loro ricordi e fra le parole che avevano paura di dirsi.
Il sole splendeva alto nel sole quando fecero finalmente la prima sosta. Nuovamente, nessuno dei due accennava a parlare, per cui consumarono il loro pranzo in silenzio e si misero in cammino non appena ebbero finito.
Arrivarono nel luogo prestabilito alle prime luci del tramonto. Il cielo aveva preso a striarsi di rosso, mentre il sole, stanco, faceva capolino da dietro le nuvole. Quando non era coperto illuminava di rosso i sentieri percorsi dai due, rendendo ogni cosa più spettrale. Evelyne fissò il rosso sul terreno e, improvvisamente, le venne in mente il sangue. Alzò lo sguardo con la mente confusa da quella visione e capì che erano arrivati nel luogo sacro: davanti ai suoi occhi si ergeva un grande altare di pietra, circondato da parole di una lingua che non conosceva, ma che sapeva leggere. Erano parole tristi, di morte, di infelicità ma allo stesso tempo parlavano di una speranza futura, di un mondo migliore.
«Questo» iniziò a spiegarle Kevin «È l’altare sacro di Xaral. Vi scorre sopra il sangue dei più grandi guerrieri Xaraliani: alcuni di loro hanno deciso, alla fine della loro vita, di morire sacrificandosi sopra di esso, in maniera tale da aumentare la sacralità e la forza magica del luogo»
«Stai dicendo che sono morte delle persone là sopra?» chiese Evelyne, piuttosto sconvolta dalla rivelazione.
«La storia è incerta in questo punto, quindi non so risponderti. Come avrai già capito, però, il sangue degli Xaraliani è una difesa magica importante, forse non tutti sono morti lì sopra, ma il loro sangue è caduto in questa terra».
Improvvisamente, Evelyne capì perché il riflesso del sole a terra le aveva provocato quella sensazione: qualche parte di lei era a conoscenza di questo fatto e, in un modo o nell’altro, stava cercando di prepararla a ciò che avrebbe dovuto fare.
«Devo versare anche io il mio sangue qui, non è vero?» chiese, improvvisamente consapevole di quanto ciò che avesse detto corrispondesse alla realtà.
Lo sguardo dell’Ibrido fu una risposta più che sufficiente.
«E se perdo troppo sangue… potrei morire! Ecco qual era il sacrificio di cui parlavi!» esclamò la ragazza, continuando il ragionamento iniziato precedentemente.
«Ammetto che c’è questa possibilità» confermò Kevin «Ma ho trovato un vecchio incantesimo in un libro di cucina di mia madre: dice come salvare uno Xaraliano quando questo si trova in punto di morte. Bada bene, non so se funzioni con te, tu non sei propriamente una Xaraliana ma, dato che il tuo sangue funziona allo stesso modo del loro, ho pensato di tentare».
«Perfetto, dimmi cosa devo fare» commentò Evelyne, annuendo convinta alle sue parole.
«Nulla. Devi solo stenderti su quell’altare, io penserò a fare l’incantesimo» la rassicurò Kevin, mentre estraeva un foglio dal suo zaino e iniziava a leggere cosa c’era scritto sopra.
Senza fretta, mentre l’Ibrido preparava il necessario per il rituale, la ragazza s’incamminò verso l’altare, osservando ogni minimo particolare che non aveva notato prima. Nel blocco di pietra che costituiva il fianco, ad esempio, c’erano delle iscrizioni e dei disegni così rovinati che non era possibile leggere; mentre in quello centrale vi era una frase, probabilmente un paragrafo inserito in un vecchio testo: “La verità nascosta è spesso quella che ci rifiutiamo di vedere. Abbiamo imparato, grazie alla fiducia in noi stessi, che attraverso i sensi possiamo vedere il futuro e il futuro è limpido, non mente. Le visioni sono il bene, il male sono...”.
«Perché non c’è la fine?» chiese Evelyne, contrariata da quella che sembrava essere una lettura interessante per lei.
«Il tempo e le guerre hanno logorato questo posto. Anche se i comuni essere umani non possono entrarvi, le potenze delle magie e dei sacrifici lo hanno modificato e, senza nessuno a prendersene cura, ormai è quasi del tutto in rovina» spiegò Kevin.
«Che peccato. È una vergogna che nessuno s’interessi a questa parte della nostra civiltà, che viene così dimenticata…» commentò tristemente la ragazza.
«Già, ma non dovrebbe sorprenderti, dopotutto Terrestri non considerano gli Xaraliani come parte della loro storia, quindi probabilmente a nessuno interessa di loro e di questi luoghi sacri» le fece notare l’Ibrido.
Quasi meccanicamente Evelyne pensò ad Ashton e suo padre, gli unici due esseri umani che forse conoscevano la verità e che, per vivere la loro vita, forse non avrebbero mai saputo come sarebbe andata a finire la storia. Improvvisamente, tutto ciò che stava per fare le sembrò sbagliato. C’erano solo lei e Kevin, se non fosse sopravissuta, il vecchio Ibrido sarebbe riuscito a fare tutto da solo? La prima volta che gli Xaraliani avevano provato a combattere contro i Terrestri erano stati massacrati; forse per vincere questa nuova guerra Nativi ed Esseri Umani avevano bisogno di essere alleati contro i Meatch.
«Non vorrei metterti fretta, ma prima ci togliamo questa seccatura meglio è» disse Kevin con una certa nota d’impazienza nella voce «Ti dispiacerebbe stenderti sull’altare?».
La ragazza si apprestò a fare ciò che le era stato detto ma, non appena toccò la calda pietra illuminata dagli ultimi raggi di sole, sentì le grida degli Xaraliani morti e si ritrasse istintivamente, spaventata. Evelyne scoprì di avere un legame particolare con l’altare: non appena lo toccava, grida, sussurri e un turbinio di voci diverse le si affollavano nella mente; capiva che stavano cercando di dirle qualcosa, ma i suoni apparivano distanti e distorti, per cui non comprendeva cosa.
Mentre la ragazza riceveva strani messaggi dall’aldilà, Kevin recitava a bassa voce un rituale, spargendo della polvere di tanto in tanto. L’Ibrido parlava troppo velocemente e con tono troppo basso per cui qualcuno potesse capire le sue parole e, fino a quando non fu arrivato alla parte finale del rituale, continuò in questo modo. Mano a mano che la cantilena andava avanti, le voci si affievolivano sempre di più, fino a scomparire del tutto.
«Eccolo! Ecco il tuo sacrificio!» urlava Kevin in una strana lingua che Evelyne riusciva a comprendere. «Come predetto dai nostri avi, solo il sangue di Xaral può riportare in vita gli Xaraliani. Dal sangue rinasce la morte, dall’odio si compone l’esercito, dall’astuzia si ottiene la vittoria. Un vita dev’essere sacrificata perché milioni di vite risorgano».
Evelyne, sentendo queste parole, si allarmò tanto da chiedere una spiegazione, ma notò con disappunto che le parole non le uscivano dalla bocca. Notò anche che le palpebre le si stavano chiudendo lentamente e che era troppo stanca per muovere anche un solo muscolo. Nonostante non avesse compreso le parole precedentemente dette dai morti, il messaggio che le avevano voluto inviare, in quel momento, appariva più chiaro che mai: pericolo.
«Sia benedetto questo pugnale, la cui lama verrà affondata nelle morbide carni del Sacrificio e dal sangue di costei che ci porterà a regnare» Kevin estrasse un pugnale d’argento dal suo zaino e, mentre effettuava la benedizione rivolto verso il sole, lo teneva con entrambe le mani sopra la testa.
L’Ibrido continuò a decantare gli ultimi versi del rituale, ma ormai Evelyne non vi prestava più attenzione. Era stata stupida a pensare che sarebbe potuta vivere sul serio, che avrebbe potuto avere dei ricordi tutti suoi, che avrebbe rivisto Ashton, che Kevin non avesse un piano perfetto per lei già dall’inizio.
Nonostante tutto, accettava il modo in cui la sua vita doveva finire e, se questo avrebbe aiutato gli Xaraliani, tanto meglio; sperava solo che sarebbe andata in un posto in cui avrebbe potuto vedere tutto ciò. Con gli occhi definitivamente chiusi e la morte che incombeva su di lei, accolse silenziosamente il suo destino.
Sentì il pugnale freddo che le trapassava l’addome poi, con l’estrazione della lama, un liquido caldo iniziò a sgorgarle fuori, bagnandole la pancia e le mani. Lentamente, Evelyne perse i sensi e il suo ultimo pensiero fu che, in fin dei conti, c’erano modi peggiori di morire.
 
Salve a tutti! Ormai chi mi conosce già da un po' sa che i miei capitoli arrivano con molto ritardo e questo non ha fatto eccezione. Giuro, mi piacerebbe essere più puntuale, ma a quanto pare non è da me. 
Cosa ne pensate di questo capitolo? Vi è piaciuto il colpo di scena finale? Vi sareste mai aspettati un simile comportamento da Kevin?
Spero di avervi sorpreso, perché ho pensato questa storia nei minimi dettagli, ho voluto dare qualche indizio, ma anche rimanere il più possibile sul vago e mi auguro di avercela fatta. Ringrazio moltissimo tutti coloro che leggono, recensiscono e si appassionano alla mia storia, mi fa piacere avervi coivolti!

Francesca.
 
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


 
Capitolo VII

Evelyne non sapeva bene dove fosse. Morire – ammesso che fosse realmente morta − era stata l’esperienza più strana della sua vita, non tanto per l’atto in sé, ma più che altro per ciò che era accaduto dopo. Inizialmente la ragazza si sentiva come se dormisse: i suoi occhi erano chiusi, il corpo stanco e vi erano solo buio e silenzio a circondarla.
Lì per lì le sembrò normale; la sua mente, in qualche modo, continuava a vivere mentre il suo corpo era deceduto ma, la cosa più strana, accadde quando aprì gli occhi. Nonostante si sentisse ancora stanca e spossata, era in piedi, in mezzo al nulla. I suoi piedi non toccavano propriamente terra perché sotto di lei c’era il vuoto, così com’era sopra e tutt’intorno a lei, eppure le sembrava camminare su una sottile lastra di vetro. Il silenzio che l’avvolgeva era inquietante e aveva un qualcosa di mistico, tanto che la ragazza aveva paura di aprire la bocca e provare a parlare, per vedere se ne fosse capace.
Evelyne, in mezzo a tutto quel bianco, si limitava a vagare, incerta sul da farsi: la sua confusione derivava anche dal fatto che non aveva più la collanina con il suo nome. Non si ricordava – letteralmente – un tempo in cui non l’avesse portata appesa al collo e, dal momento in cui era misteriosamente sparita, si sentiva come se le mancasse una parte importante di lei. Non era sicura di poter vivere senza di essa, così come era sicura di non poter vivere senza il suo cuore, il suo cervello o i suoi polmoni.
Si tocco il collo nudo e, per la prima volta, provò a parlare: «Dov’è?» sussurrò piano. Appena ebbe parlato, il bianco le si chiuse intorno, avvolgendola e portandola con sé.
 
Evelyne era a casa. Guardava le pareti color avana a cui erano appesi i quadri e lo sapeva, osserva la disposizione dei mobili e sapeva di essere stata lei a metterli in quel modo, era distesa sul suo letto e sapeva che l’aveva fatto mille altre volte.
Una parte di lei si ricordava dell’ospedale, della perdita di memoria, di Ashton, di Kevin, di come fosse stata pugnalata, del vuoto, del fatto che fosse strano che si trovasse lì, ma ad una parte più grande di lei non importava. Sentiva di essere esattamente dove doveva, stava facendo esattamente ciò che doveva fare. Il suo cervello si poneva delle domande e subito si rispondeva. Si sentiva come se, improvvisamente, si fosse rimpicciolita e fosse diventata solo una piccola vocina all’interno della sua testa, mentre una nuova Evelyne con le sue sembianze, i suoi pensieri e la sua vita, agiva com’era solita fare.
Ad un certo punto, la ragazza si alzò dal letto, attirata da un rumore che proveniva da un’altra stanza. I suoi gesti non erano lenti e macchinosi, ma veloci e spediti e si chiese se quello che stava vivendo fosse un sogno o un ricordo della sua vera vita, quella precedente all’incidente. Velocemente si spostò da una stanza all’altra fino ad arrivare in quella che sembrava una cucina: al centro c’era un tavolo con quattro sedie intorno e, lungo il perimetro della stanza, c’erano vari ripiani e fornelli. Evelyne era curiosa e voleva dare un’occhiata all’abitazione – sperava davvero che fosse la sua – ma l’attenzione del corpo nel quale si trovava venne attirata da un piccolo pacco regalo sopra il tavolo.
Questo era delle dimensioni del palmo della sua mano, di color panna e legato con un nastro marrone. Non c’era nessuno biglietto che spiegasse il motivo del regalo o desse un indizio su chi lo aveva comprato, ma Evelyne – quella che guidava il corpo – sembrava sapere già tutto. Con una calma e una lentezza quasi fuori dal comune, allungò la mano verso il regalo e lo prese in mano. Lo soppesò con attenzione mentre sorrideva e, solo dopo un paio di minuti, iniziò a scartarlo: al suo interno c’era della carta e, sotto di essa, una collanina che l’Evelyne che stava sognando – o ricordando – riconobbe subito. Conosceva ogni minimo dettaglio di quel regalo, non essendoselo mai tolto dal collo da sei mesi a quella parte. Era molto più scintillante e meno ammaccato di quella che aveva in quel momento, cosa che la portò a pensare che quello era stato il momento in cui lei l’aveva ricevuta per la prima volta.
Mentre la sua lei passata si commuoveva per la bellezza del regalo, la vera Evelyne non poteva che essere felice di aver finalmente ricordato qualcosa del suo passato. Ne era certa, non poteva solo essere una semplice coincidenza: forse era morta, forse no, ma sapeva qualcosa del suo passato che, senza la coltellata in pieno stomaco di Kevin Fort non avrebbe mai scoperto.
Evelyne appoggiò il prezioso oggetto sul proprio collo, stando attenta a far aderire bene le lettere alla sua pelle, senza intrecciare il delicato filo che le sorreggeva. Provò ad allacciarsi la collanina dietro al collo varie volte, ma senza ottenere risultati. La chiusura era una di quelle troppo piccole e, da sola non ce la faceva. Come se fosse stato nascosto per lungo tempo, in quel momento arrivò un uomo – che la vera Evelyne non aveva mai visto, ma che l’altra riconosceva come suo padre −, gli sorrise e gli chiese di allacciarle il ciondolo. Evelyne era curiosa di vederlo, di vedere finalmente il volto dell’uomo che l’aveva messa al mondo, ma i movimenti di quest’ultimo furono così veloci che tutto quello che vide fu una macchia indistinta. Suo padre doveva essere un uomo alto, robusto e con folti capelli castani. Più di questo, penso la ragazza con tristezza, non avrebbe mai saputo. Non appena il ciondolo fu chiuso, l’uomo lo fece adagiare lentamente sul collo della figlia e, dopo un breve sussulto, il bianco si chiuse nuovamente intorno a lei, rapendola dalla gioia familiare di quel ricordo.
 
Evelyne venne catapultata in un posto che non conosceva e questa volta era se stessa. Non vedeva il mondo con gli occhi di una sé passata, provava ansia e paura perché non sapeva dove fosse e come andare via da lì. Forse in quel momento era veramente morta e quel breve ricordo era solo un elemento transitorio, un passaggio dalla sua vita terrena a quella in un altro luogo, ma qualcosa le diceva che non era così.
I suoi sensi erano tutti quanti in allerta e sentiva che la fitta vegetazione verde di quel posto nascondeva altro. Riflettendoci meglio, il posto in cui si trovava era davvero strano. C’erano un sacco di alberi e di arbusti, ma i loro colori erano scintillanti: su Xaral non aveva mai visto nulla del genere. Poco più in là di dove si trovava lei c’era un piccolo lago dall’acqua cristallina ed Evelyne decise di avvicinarcisi, per vedere se ci fossero altri esseri umani oltre a lei. Arrivata quasi alla riva, notò un pezzo di metallo che spuntava al centro di esso. Curiosa – dov’era mai capitata? – si tolse con cura le scarpe, si spogliò dei panni superflui e si tuffò nel lago.
Il contatto dell’acqua con la sua pelle la fece rabbrividire; nonostante il sole splendesse alto nel cielo, la temperatura era ancora piuttosto fredda. Evelyne nuotò velocemente per scaldarsi e, in pochi minuti, arrivò al pezzo di metallo che aveva potuto osservare dalla riva. Notò che si trattava di qualcosa di molto strano, sicuramente antico, data la presenza di ruggine e di varie piante che vi si erano posate sopra. La parte più grande dello strano aggeggio, però, si trovava sotto la superficie dell’acqua così Evelyne prese un lungo respiro e s’immerse.
La ragazza voleva davvero scoprire cosa fosse quell’oggetto, ma più andava a fondo, più il buio non le permetteva di vedere. Salì in superficie e poi ridiscese più volte, per cercare di capire il più possibile ma, stanca per via del fatto che non otteneva risultati, perse le speranze e tornò alla riva. Si lasciò asciugare dai caldi raggi del sole e, quando il processo fu concluso, si vestì nuovamente ed attese. Su quella spiaggia non sembrava esserci nessun altro oltre a lei e, se nel ricordo precedente era stato qualcun altro a farle cambiare ambientazione, adesso doveva fare tutto da sola.
I problemi – perché ne aveva più di uno – erano non sapere dove si trovasse, se quella fosse una condizione definitiva o no, se poteva far qualcosa per tornare indietro. Pensò che non le importava di voler tornare alla sua vecchia vita (anche se il pensiero di Ashton le provocava ancora una fitta dolorosa al petto), ma si accontentava del ricordo precedente, quando la sua vita ancora era intatta e conosceva la sua vera identità. In quel momento, persa in mezzo alla giungla, senza sapere bene se fosse viva o morta, Evelyne pensò che le sarebbe piaciuto sapere chi fosse veramente.
Era strano essere arrivata al punto dov’era arrivata lei – non si era dimenticata che degli uomini combattevano per lei – sottovalutando così tanto il proprio potenziale e avendo avuto solo informazioni sommarie o bugie. Si ricordò del tempo quando, in ospedale, avrebbe tanto voluto azzerare tutto e ricominciare daccapo e si rese conto di come questo fosse impossibile: avrebbe trascorso tutta la sua vita pensando cosa avrebbe fatto la vecchia Evelyne, se le sue azioni fossero compatibili con la nuova, avrebbe creato un sacco di paranoie perché quel non sapere le bruciava come nient’altro aveva mai fatto.
La sua vita, da quando era uscita dall’ospedale, aveva preso una piega che mai si sarebbe aspettata e tutto ciò che aveva provato a costruire era crollato come un castello di sabbia investito da un’onda. Pensava di essere una normale ragazza e aveva scoperto di aver dei poteri e di essere il centro di una guerra, pensava di aver trovato l’amore in Ashton e questo l’aveva delusa scegliendo suo padre a posto suo, pensava che Kevin Fort fosse il suo ultimo amico e alleato, ma l’aveva tradita. Aveva un così disperato bisogno di certezze in quel momento e ripensare all’incidente che le aveva tolto la certezza più grande – se stessa – le metteva addosso una grande angoscia.
Era come se cercasse invano di rialzarsi su dopo una caduta, ma c’era sempre qualcuno a spingerla sempre più a fondo. Era persa, letteralmente, non sapeva cosa fare, chi cercare, dove andare e dov’erano le sue certezze in quel momento? Dov’era chi le indicava la via? Cosa avrebbe dovuto fare?
Tante, troppe erano le domande che affollavano la mente della povera ragazza e non c’era nessuna risposta. Evelyne si accorse che tutto quel ragionamento l’aveva portata alle lacrime e, per la prima volta in vita sua, non si vergognò di piangere e non si nascose. A quanto pare non c’era nessuno in quel luogo e lei aveva un così grande bisogno di sfogarsi che, anche se fosse stata circondata da persone, probabilmente lo avrebbe fatto lo stesso. Cercava una soluzione, cercava disperatamente uno stratagemma che la tirasse fuori di lì, ma le lacrime, oltre che averle offuscato la vista, sembravano averle offuscato anche la mente, ché i suoi pensieri erano solo tristi.
Istintivamente, mentre tutto ciò veniva alla luce, si toccò il collo e notò che la sua collana era nuovamente lì. Eccola, pensò, la mia unica certezza. Da quello che aveva scoperto, la collana c’era sempre stata, da prima dell’incidente, durante il periodo in ospedale, quando era uscita, durante la sua forse morte e in quel momento, sperduta nel mezzo del nulla e abbandonata.
La strinse più forte e respirò a lungo pensando che, forse, la vera Evelyne non era andata persa nell’incidente ma era da qualche parte dentro se stessa, in attesa di uscire fuori. Cos’aveva fatto quando si trovava sempre in difficoltà? Era ricorsa ai suoi poteri.
Non era sicura che in quel luogo strano funzionassero, né che fossero la soluzione per uscire di lì, ma idee migliori non ne aveva. Si costrinse a calmarsi, si asciugò le lacrime, strinse il suo nome metallico fra le mani e, ad occhi chiusi, si concentrò sul proprio battito cardiaco. Lentamente tutto il resto intorno a lei sparì e, sussultando, aprì gli occhi.
 
Appena Evelyne tornò alla vita vera, venne colpita da una fitta lancinante all’addome. Portò una mano sotto le coperte dove sentiva dolore e, quando la ritrasse, vide che era coperta di sangue. Il suo corpo era ricoperto da un leggero velo di sudore, i capelli attaccati alla nuca e, al suo solito posto, sentiva il peso della collana. La ragazza provò a parlare ma, nell’istante in cui provò ad emettere suono una donna – o meglio, un essere con le sembianze di una donna – corse verso di lei.
«Stai sanguinando» notò avvicinandosi. Con gesto deciso le tolse le coperte di dosso, tolse la vecchia medicazione dalle ferite – Evelyne rimase inorridita dal sangue che le sgorgava fuori – e prese delle erbe e della garza per fargliene una nuova.
«Ecco qua, dovrebbe durare per altre due o tre ore» disse la donna, sorridendole. Poteva passare per una normalissima donna, se non fosse che la sua pelle blu.
«Cosa sei?» le chiese Evelyne, che ancora non credeva ai suoi occhi.
«Oh, è vero, che sbadata! Mi sono dimenticata di presentarmi. Mi chiamo Speranza e sono l’ultima degli Xaraliani» disse porgendole la mano.
«Gli Xaraliani?» ripeté incredula la ragazza «Ma non si erano estinti tutti?»
«Non io. Ai tempi del massacro ero solo una bambina e riuscii a scappare. Da quel giorno ho sempre vissuto come un Essere Umano, fra loro, senza mai essere scoperta. Aspettavo il momento in cui avrei conosciuto la famosa Evelyne, quella di cui il mio popolo parlava sempre. Sono così felice di averti incontrata!» le confessò emozionata.
C’era qualcosa nell’entusiasmo genuino della donna che portò Evelyne a sorridere e subito dopo a vergognarsi per la sua maleducazione.
«Grazie mille per la medicazione» disse in fretta per riparare alla sua mancanza.
«Oh, nulla. Sono felice che ti sia ripresa, sai? Quando ti ho trovata eri quasi completamente morta, ho dovuto usare un’erba speciale per guarirti, che dice sia letale per gli esseri umani. Dice che dia loro il potere di fare sogni strani e a volte alcuni si trovano così bene all’interno di essi che non si svegliano mai»
«Quindi muoiono?»
«Beh, non subito. All’inizio dormono e basta, ma rifiutano l’acqua e il cibo, quindi sì, a lungo andare muoiono» confermò Speranza.
Evelyne si chiese se fosse stata quella la causa che l’aveva portata a fare quei sogni strani. Forse, prendendo altra erba avrebbe potuto vedere tutta la sua famiglia, forse avrebbe addirittura potuto vivere con loro...
«Non è che, ora che abbiamo appurato che non mi fa male, potresti darmene di più? Potrei avere visioni interessanti su qualcosa che-» Evelyne non riuscì a finire la frase.
«Assolutamente no» la interruppe Speranza «Sono quattro giorni che dormi ed è stato un puro caso che tu ti sia svegliata. Io non sono come quel pazzo Ibrido, io non cerco di ucciderti».
«A proposito, che fine ha fatto? Kevin Fort intendo» chiese la ragazza.
«È una lunga storia» fu la risposta della Nativa, che si era rabbuiata in volto «Ne parleremo una volta che ti sarai guarita».
 
La ferita di Evelyne impiegò due settimane per guarire completamente. Speranza le aveva spiegato che, in condizioni normali, ci sarebbero voluti almeno due mesi, ma grazie alle speciali medicazioni del suo popolo, era riuscita ad accorciare i tempi. Le consigliò, però, di non fare sforzi, o tutti i suoi sacrifici sarebbero stati vani. Per tenerla al sicuro e tranquilla, avrebbe passato del tempo a casa di una sua vecchia amica che abitava in un paesino vicino al mare, in cui tutti gli abitanti erano a favore degli Xaraliani e sul quale mai nessun uomo di Meatch aveva messo piede.
«In tutto questo non mi hai ancora detto come sta Kevin Fort o come hai fatto a scoprire i suoi piani» ricordò Evelyne a Speranza la mattina della partenza. Avevano smontato il piccolo accampamento dove avevano passato le ultime settimane e avevano messo tutto l’occorrente dentro la macchina della Nativa, stipando tutto dentro con forza.
«Volevo trovare un momento tranquillo e sicuro. Dovremmo viaggiare per le prossime due ore, credo che questo sarà l’argomento della nostra conversazione» rispose lei.
Evelyne, dopo la sua ultima esperienza, non era molto felice di fare un viaggio in macchina – di due ore per giunta! – e sperava che il tipo di guida non fosse come quella di Ashton, o avrebbe passato tutto il tragitto a sentirsi male.
Non appena accese la macchina, Speranza iniziò a parlare.
«È stato un caso che ti abbia trovata, pura fortuna, veramente. Non sapevo nemmeno che esistessi, cioè, sapevo che per il mio popolo era importante una certa Evelyne, ma non pensavo fossi viva in questa epoca. È stata una grande sorpresa per me quando, una sera, ho sentito due uomini che stavano litigando e hanno urlato il tuo nome»
«Chi erano?» chiese Evelyne, interrompendo il racconto.
«Mark e Ashton Wilson» rispose Speranza. Sentendo quei nomi, la ragazza sbiancò e permise alla Xaraliana di proseguire con la storia.
«Mi sono intromessa nella loro conversazione, mi sono fatta riconoscere, dimostrandogli che potevano fidarsi di me e, velocemente, mi hanno raccontato tutto. Fortunatamente conosco tutti gli Ibridi e so che Kevin non è uno di cui ci si possa fidare. Ha ripreso tutto il lato brutto degli umani: è tragico, sentimentalista e troppo attaccato alla vita»
«Davvero? E io che pensavo che i suoi difetti fossero l’essere troppo apatico e scorbutico…»
«No, quella è semplicemente una cosa che accomuna tutti gli Ibridi. Kevin Fort è losco. Può mostrarti quante facce vuole e tu non capirai mai quale sia quella vera. Per carità, ci sa fare, questo lato del suo carattere gli ha salvato la vita molte volte, ma non mi sembrava il caso di farlo stare solo con te e avevo ragione. Sono arrivata giusto in tempo: l’ho visto pugnalarti, sono riuscita a spostare di poco la sua traiettoria, quindi non ti ha uccisa, ma stavi messa male. Gli ho detto di sparire, che non era questo ciò che il nostro popolo voleva e che stava sbagliando di grosso. Ho lasciato che Mark ed Ashton si occupassero di lui e io ti ho portata al sicuro»
«E stanno bene loro?»
«L’ultima volta che ho controllato avevano sistemato Kevin ed erano sani e salvi. Non li avrei mai abbandonati lì, io non sono quel tipo di persona»
«Già, scusa, avrei dovuto immaginarlo» mormorò Evelyne, mortificata.
«Non scusarti, dopo tutto quello che ti è successo è normale che tu sia portata a pensare certe cose. Chi non lo sarebbe?»
«Pensi che sia stupido che dopo tutto io tenda ancora a fidarmi delle persone?»
«No, non lo credo affatto. Sei una persona buona, Evelyne, così come buono era il nostro popolo. Il piano di Kevin Fort era assurdo. Non so come abbia potuto pensare che noi Xaraliani avessimo potuto uccidere qualcuno che stava bene solo in nome di una vittoria futura. È una cosa da matti. Kevin Fort è matto»
«A me non ha mai dato questa impressione, sai? Certo, sono sicura che abbia sbagliato, ma i suoi ideali erano davvero giusti e le conversazioni che facevamo erano molto intelligenti. Capiva cose di me che io non sapevo ed era bravo a prevedere il futuro, non tipo me con le mie visioni, ma conosceva così bene chi gli stava intorno da sapere le loro reazioni. Nonostante tutto, non riesco a non ammirarlo».
«Wow» fu il commento di Speranza «Ho sempre saputo che Evelyne doveva essere una ragazza forte, coraggio e intelligente, ma non credevo fosse anche così matura e saggia. Sono davvero colpita da te».
La ragazza arrossì per i complimenti e cercò di dissimulare il suo imbarazzo guardando fuori dal finestrino. Il viaggio che stavano compiendo era molto più piacevole di quello fatto con Ashton, si poteva addirittura dire che Evelyne, mentre fissava la linea del mare all’orizzonte, fosse calma e rilassata. Era felice di avere un po’ di tempo per se stessa, in cui avrebbe potuto esercitare in pace la sua magia senza dover pensare alle persone da salvare o ai complotti che c’erano in quel momento. Era un po’ come tornare in ospedale, però dopo aver vissuto tutte quelle esperienze sarebbe stato decisamente molto diverso. Inoltre voleva informarsi sulla cultura degli Xaraliani, visto che in qualche modo doveva essere la loro salvatrice e non sapeva nulla; trasferirsi da un Ibrido per un po’ non poteva fare altro che aiutarla. Quello che aveva capito dai suoi sogni, visioni, o quello che erano state, inoltre, era che doveva concentrarsi su se stessa per trovare a vera Evelyne, quella che aveva perso prima dell’incidente. Si era ripromessa che mai più sarebbe stata costretta ad essere sola, isolata perfino da se stessa. In un modo o nell’altro l’avrebbe trovata, si sarebbe trovata, e non sarebbe più lasciata andare. Voleva avere il controllo sulla sua vita, sulle sue azione, come era giusto che fosse, come doveva essere. Certo, Evelyne aveva paura di deludere tutte le promesse che si era fatta e tutti i propositi che si era imposta, ma la sua paura era niente in confronto alla sua determinazione. Se qualcosa sarebbe andato storto, avrebbe saputo di aver fatto tutto il possibile e questo le sarebbe bastato.
Speranza fermò la macchina davanti ad una casa di fronte al mare. Prima di scendere coprì il suo volto con dei grossi occhiali da sole, un foulard e tanto trucco.
«È vero che questa città è sicura, ma la prudenza non è mai troppa» spiegò alla ragazza.
Evelyne aprì la portiera dell’auto e fece per scendere, ma Speranza la bloccò.
«Vorrei dirti un paio di cose prima che tu vada» le disse in tono serio.
«Certo, dimmi pure»
«La prima è che non so quando potrò farti visita. Sarò impegnata sia a nascondermi, sia a cercare informazioni e, beh, nelle mie condizioni può risultare un’impresa difficile. Se dovessi essere catturata cercherò un modo di contattarti, perché vorrà dire che dovrai cercare una soluzione a tutto ciò da sola»
«Se dovesse succedere qualcosa correrò a salvarti» le promise Evelyne.
«Ti ringrazio davvero, ma non ce n’è bisogno. La cosa peggiore che potrebbe capitarmi è la morte, ma io non sono spaventata. Ti ringrazio davvero, sei così gentile a mettermi in una posizione così importante, ma non è necessario, sul serio. Tu sei importante, io sono scarificabile»
«Ma-».
«La seconda cosa» disse Speranza, interrompendola «È che non voglio che tu esca di casa. Se fosse necessario prendi tutte le precauzioni necessarie e cerca di non farti vedere da nessuno. Non possiamo mettere in pericolo questa cittadina solo perché ci sei tu. Gli abitanti di qui hanno diritto di vivere una vita pacifica come hanno sempre fatto».
«Va bene».
«Terza cosa: l’Ibrido a cui stai per essere affidata può essere un po’ scontrosa alle volte, ma nasconde un cuore grande e tenero. Devi essere paziente con lei, prometti che non la fari arrabbiare».
«Lo prometto. C’è altro che devi dirmi?»
«Sì» ammise Speranza «Non struggerti troppo per Ashton. Se la vostra storia è finita non fartene una croce: sei bella, sei giovane e la vita ha tanto ancora dai offrirti. Ti sei mai chiesta perché mi chiamo così?»
Evelyne annuì.
«Quand’ero una bambina e gli Umani erano appena sbarcati su questo pianeta, c’erano sempre una coppia di giovani sposi che venivano a fare visita al nostro capo. A quel tempo ero solo un numero, − 14495 − eppure la donna mi disse si avere sempre speranza, perché le cose sarebbero andate per il meglio. È stato lì che ho capito che questo doveva essere il mio nome. Rivedo molto di lei in te, sai? Chissà, magari era una tua antenata. Quello che voglio farti capire, Evelyne, è di non perdere mai la speranza, per niente e per nessuno».
«Grazie, sono molto contenta per la chiacchierata e per tutto quello che hai fatto per me. Giuro, sono davvero molto grata e non ho intenzione di gettare all’aria i tuoi sacrifici. Seguirò i tuoi consigli e mi eserciterò con la mia magia, senza dare nell’occhio».
Speranza le sorrise e, dopo aver messo i guanti che le coprivano le mani, scese dall’auto. Evelyne prese il suo zaino e la seguì, incamminandosi verso il portone d’ingresso della casa che l’avrebbe ospitata.
 
 

Eccomi qui con un nuovo capitolo di Evlelyne. So che è passato moltissimo tempo dall'ultima volta che ho aggiornato e, credetemi, lo avrei fatto anche prima, solo che ho avuto la maturità e non avevo nemmeno un secondo per stare al computer. Ora finalmente è tutto finito e posso dedicarmi alla scrittura, per cui ora gli aggiornamenti saranno più frequenti. Ringrazio tutte le persone che mi hanno seguita e spero che continueranno a farlo.
Grazie per il vostro supporto.


Francesca.

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII ***


 
 
Capitolo VIII
 
Era già passato un mese da quando Evelyne si trovava ospite presso Mary Rosen, l’Ibrido presentatole da Speranza, ma ancora non si era abituata all’enorme casa in cui viveva. Enorme, almeno, rispetto alla sua stanza d’ospedale o all’appartamento in cui una volta l’aveva condotta Kevin Fort o agli accampamenti provvisori in cui era solita vivere negli ultimi tempi. A pensarci bene, era anche più grande della casa che aveva sognato durante la visione che aveva avuto mentre la Nativa la curava.
Non conosceva ancora così bene il mondo da poter dire se la signora che la ospitava avesse tanti soldi oppure no, ma la casa era simbolo di ricchezza, probabilmente passata, date le condizioni in cui viveva in quel momento − Mary Rosen era una donna attenta ad ogni singolo soldo che usciva dal suo portafoglio, ma non aveva l’aria di essere taccagna – facevano presupporre alla ragazza che si trovasse in difficoltà economiche.
La casa era formata da moltissime stanze, che Evelyne non aveva avuto l’occasione di esplorare perché non le era stato accordato il permesso dalla padrona; le uniche in cui poteva stare erano la cucina, la sala da pranzo, la camera degli ospiti (temporaneamente adattata a sua camera), la biblioteca, il soggiorno e i bagni. La ragazza sapeva che c’erano anche un piano sotterraneo e almeno altre tre stanze in cui non aveva mai messo piede. Certo, l’esplorazione totale della casa poteva essere un utile passatempo, ma il prezzo da pagare sarebbe stato far arrabbiare l’Ibrido e pensò che non ne valesse la pena. Inoltre amava stare nelle stanze in cui le era concesso e non soffrì tanto il non poter muoversi.
Nella casa, perfettamente arredata, c’era sempre qualcosa da notare e di cui rimanere sorpresi. Evelyne aveva adocchiato parecchie foto di famiglia – risalenti a moltissimo tempo prima – in cui una sorridentissima e giovane Mary Rosen guardava verso l’obbiettivo, in compagnia di un uomo alto e di due bambini piccoli. C’erano anche altre foto dei bambini: alcune li ritraevano insieme vestiti per andare a scuola, altre a feste di compleanno, ce n’era una in cui il più piccolo teneva in mano un dentino – forse il primo che gli era caduto? – e un’altra dove il maggiore baciava una ragazza.
La foto più bella dell’intera casa, comunque, era posizionata in soggiorno, al di sopra di una mensola. Era una foto scattata di nascosto, forse da uno dei due bambini quand’erano piccoli, dato che appariva un po’ mossa, e le persone immortalate in essa non erano in posa. Forse proprio a causa della spontaneità dello scatto e di chi l’aveva scattata, la foto sembrava la rappresentazione dell’amore vero: all’interno di essa Mary Rosen – sempre giovane – guardava suo marito in maniera dolce mentre lui, a pochi metri di distanza, le sorrideva. Non c’erano gesti plateali o grandi baci a mostrare ciò che provavano l’uno per l’altra, ma il modo in cui i due si fissavano valeva più di mille parole: i loro sguardi s’incontravano e sembravano quasi parlarsi. Cosa dicessero non era dato saperlo a nessun’altro se non a loro due. L’amore, pensò Evelyne, non era altro che questo, l’essere profondamente in sintonia con qualcuno, così tanto da fare gli stessi pensieri allo stesso momento e capirsi solo con un’occhiata fugace. Nella foto vi erano anche fiori magnifici, un bellissimo cielo azzurro primaverile e, in lontananza, anche il mare, ma tutto ciò che catturava l’attenzione di un osservatore – anche del più sbadato – era lo sguardo dei due giovani innamorati.
Evelyne era davvero curiosa di sapere che fine avesse fatto quell’uomo di cui Mary Rosen era tanto innamorata e, soprattutto, si chiese se e quando  qualcuno avrebbe mai guardato lei in quel modo. Per un attimo s’immaginò che tutto ciò che stavano vivendo sarebbe finito per il meglio, e inventò una persona al suo fianco; una persona che l’amava, con cui aveva tante foto appese alle pareti di loro casa a testimonianza del loro amore, una persona che sarebbe invecchiata al suo fianco.
Senza riuscire a trattenere un sospiro, si domandò quand’è che la persona che idealizzava avrebbe smesso di prendere le sembianze di Ashton.
 
Generalmente, la sua vita, nella grande casa, era piuttosto tranquilla: inizialmente Evelyne aveva provato a far conversazione con Mary Rosen, ma Speranza non l’aveva messa in guardia a dovere. Tutto ciò di cui si era raccomandata la Nativa era stato di non farle perdere la pazienza perché L’ibrido era una tipa scontrosa e burbera, solo che aveva dimenticato di specificare quanto lo fosse. La prima volta che la ragazza aveva provato a parlarle, Mary le aveva rivolto un’occhiataccia e aveva messo in chiaro fin da subito che la sua presenza era sopportata, non gradita; per cui Evelyne avrebbe fatto meglio a rispettare le regole da lei dettate e importunarla il meno possibile.
La ragazza lì per lì ci era rimasta un po’ male – nemmeno Kevin Fort era così scontroso – eppure, dopo averci riflettuto su, pensò che un po’ di autonomia e solitudine non le avrebbero fatto male. Dopotutto aveva deciso di lavorare su di lei e, per farlo, aveva bisogno solo di se stessa.
Iniziò tutto il giorno seguente alla chiacchierata con l’Ibrido: Evelyne si era svegliata presto e, non sapendo bene da dove cominciare per trovare se stessa, vagò per la casa senza una meta precisa, fino a quando non venne attirata da una stanza in cui non era mai stata prima. Nonostante la biblioteca non fosse stata menzionata da Mary Rosen fra le stanze in cui non poteva mettere piede, la ragazza – forse perché di libri, in fondo, non se n’era mai interessata – non l’aveva mai notata. O meglio, lo aveva fatto, ma aveva deciso che non le interessava.
Fu proprio la noia a condurla lì e, una volta entrata, si sentì stupida per non averlo fatto prima: non solo poteva trovare libri con storie e leggende sulla storia di Xaral, ma anche romanzi le cui protagoniste vivevano una vita molto simile alla sua. Non avrebbe mai immaginato che il mondo fantastico creato dai libri potesse interessarla – era già abbastanza strano quello in cui viveva lei – ma non aveva mai pensato a quante eroine si erano già trovate nella sua situazione e vedere i loro ragionamenti, le scelte che avevano preso e la crescita durante il loro percorso la aiutavano.
Una volta presa questa abitudine, Evelyne passava intere giornate a leggere. Aveva trovato un posto perfetto, su una piccola poltrona, davanti alla finestra. La luce del sole che filtrava le illuminava le pagine e la ragazza amava perdersi fra di esse, sia che fossero appartenute ad un romanzo o a dei libri storici. A volte si trovava così bene e si immedesimava così tanto in ciò che stava leggendo che si dimenticava di saltare i pasti e Mary Rosen ogni volta la chiamava dalla cucina – la pancia grossa dell’Ibrido e la sua faccia rotonda dimostravano quanto lei al buon cibo ci tenesse – intimandole di avere almeno tre pasti al giorno.
A parte qualche sporadica conversazione di cortesia e qualche rimprovero, però, Mary Rosen rimaneva un mistero. I libri la confortavano durante le lunghe ore del giorno, ma non sarebbe stato male avere qualcuno con cui fare quattro chiacchiere ogni tanto. La padrona di casa, però, era così riservata che non avrebbe gradito nessuna conversazione. La ragazza pensava che già il fatto che vivesse in casa sua e che quindi aveva scoperto una parte della sua le pesasse. Non c’era nulla da fare, la signora era riservata e, fino a quando non lo avrebbe deciso lei, la ragazza non sarebbe riuscita a scoprire qualcosa.
Dopo un mese passato principalmente a leggere libri e osservare vecchie foto, Evelyne decise che sarebbe stata l’ora di iniziare a fare qualcosa di nuovo. Era vero che si era concentrata su di lei, ma lo aveva fatto tralasciando una parte importante del suo essere: i suoi poteri. Non sapeva ancora bene come funzionassero o quali fossero, per cui iniziò a stringere la collana con il suo nome e concentrarsi sul suo battito cardiaco come faceva di solito, senza sapere bene cosa aspettarsi. In un primo momento non accadde nulla ma, dopo giorni passati a ripetere lo stesso rituale, Evelyne si accorse che dentro di lei qualcosa si era trasformato.
Il primo cambiamento più evidente riguardò i sogni: la ragazza non sognava mai dopo l’incidente ma, finalmente, nelle ultime settimane aveva iniziato a svegliarsi ricordandosi qualcosa. Non era sicura che quelli che producesse il suo cervello fossero sogni- dato il contenuto sembravano più visioni – ma rispetto al niente precedente era già qualcosa.
La seconda cosa importante che cambiò in lei era molto più interessante della prima: aveva sviluppato un livello di meditazione tale che, quando si concentrava, riusciva a spostare gli oggetti con la forza del pensiero. Tutto questo lo scoprì un giorno freddo, uno di quelli che preannunciavano l’arrivo dell’inverno, quand’era spaparanzata sulla poltrona, cullata dai caldi raggi solari, senza la minima voglia di alzarsi e prendere un altro libro per colmare il vuoto di quello che aveva appena terminato. Quello che avrebbe voluto leggere lo aveva adocchiato quella stessa mattina; nella sua memoria erano ben impressi il tiolo, l’autore e addirittura la copertina, rossa con le lettere incise di color oro… Non aveva fatto in tempo a pensarlo che subito il libro era volato via dalla biblioteca per atterrare dolcemente fra le sue mani.
Evelyne, a quel punto, aveva osservato la stanza con circospezione, intenta a vedere se Mary Rosen le avesse fatto qualche scherzo – per quanto l’idea sembrasse improbabile alla sua stessa mente -  o peggio se fosse entrato qualcuno. La ragazza si guardò intorno a lungo, eppure la biblioteca era sempre la stessa e non c’era nessun segno di intrusione. Spaventata ed eccitata come non mai, sperimentò di nuovo questo suo strano potere. Quel pomeriggio fece volare altri tre libri, una sedia e una lampada – anche se solo per un breve tratto – fino al punto che non le fece male la testa.
L’ultima cosa importante che Evelyne apprese sui suoi poteri fu che l’uso continuo e prolungato la faceva stare male, costringendola al letto con un malessere fisico e mentale, così decise di non esagerare e di apprendere e testare le sue abilità poco alla volta.
Ormai la stagione del passaggio si era conclusa da un pezzo e l’inverno, da poco entrato, si faceva già sentire, freddo come ci si aspettava. Evelyne amava quella stagione, perché per uscire doveva coprirsi così tanto che nessuno l’avrebbe mai riconosciuta. Si metteva sempre i pantaloni o i jeans sopra i leggins, caldi e grandi maglioni e completava il suo look con cappotto, cappello, sciarpa e guanti gentilmente offerti da Mary Rosen e che quindi le stavano enormi. Probabilmente l’Ibrido, che era gelosa della sua roba, capiva la disperazione di Evelyne, sempre chiusa in casa, e la voleva veder uscire, oppure lo faceva solo per togliersela dai piedi. Qualunque fosse stata la ragione, alla ragazza non importava. Tutto ciò che le interessava era andare in giro per il piccolo paesino, senza dover essere costretta a trascorrere tutta la giornata in biblioteca, che sì era bella, ma iniziava a stancarla.
Uscire la faceva sentire viva di nuovo e, anche se le conversazioni con le altre persone le erano precluse per motivi di sicurezza, Evelyne trovava altri modi per impegnare la sua giornata. Aveva trovato una panchina sulla spiaggia che d’inverno non era occupata da nessuno e, nei momenti di svago, ci si sedeva ad osservare l’immensità del mare. Altre volte le piaceva giocare con le onde, misurando la lunghezza di ognuna e vedendo quale si spingeva più sulla spiaggia (tutto questo le costava altre sgridate da parte di Mary Rosen, perché spesso tornava a casa con qualche indumento bagnato).
Un altro vantaggio che portò l’inverno fu la neve. Evelyne non solo amava giocarci, camminarci sopra ed assaggiarla, ma quando i fiocchi scendevano copiosi e lenti dal cielo si esercitava con la sua magia, assicurandosi prima che nessuno fosse nei paraggi. Muovere la neve, far danzare i fiocchi a suo piacimento, era un gran divertimento per la ragazza, oltre che un buon allenamento. Nei giorni in cui c’era la bufera e non si poteva uscire, notava che i suoi poteri aumentavano a dismisura, così tanto che, per controllarli, non le serviva più tanta concentrazione come in passato.
 
La prima svolta nella vita di Evelyne da quando abitava nella casa di Mary Rosen avvenne sei mesi dopo esserci arrivata. L’inverno era finito, così come il passaggio e da poco era iniziata l’estate. La ragazza stava leggendo tranquillamente in biblioteca, quando qualcuno aveva bussato alla porta di casa. L’Ibrido aveva sceso le scale e le aveva detto di nascondersi: probabilmente era Speranza che veniva a farle visita, ma la prudenza non era mai abbastanza.
Evelyne si nascose dietro ad uno scaffale della biblioteca ed attese il segnale per poter uscire. Sentì Mary borbottare qualcosa a qualcuno e, solo dopo alcuni minuti, questa la chiamò.
«Evelyne, dovresti venire alla porta!» le disse dall’ingresso.
La ragazza, titubante, si avviò sicura che non fosse la Nativa ad aspettarla, altrimenti l’avrebbe fatta entrare. Ma,se non era lei, chi altro poteva essere?
La sorpresa di Evelyne quando vide Ashton alla porta le fece spalancare la bocca. Era dal giorno del loro litigio che non lo vedeva più e il suo cuore prese a battere a mille. Si vedeva chiaramente che il ritrovamento del padre aveva giovato al ragazzo: la sua espressione cupa si era un po’ addolcita. In quei mesi la distanza aveva fatto allungare i suoi capelli e la sua barba e forse aveva anche messo su un po’ di peso.
«Ashton…» sussurrò la ragazza, incapace di dire altro.
«Ciao» la saluto lui, piuttosto imbarazzato «Speranza mi ha detto che abitavi qui e mi sono sentito in dovere di passare. Devo assolutamente parlarti».
Evelyne stava per rispondergli, ma Mary la anticipò: «Beh, non lo farai sull’uscio di casa mia, ragazzo. Non so chi tu sia, ma non ti voglio qui. Parlerai con Evelyne da un’altra parte».
«Oh, va bene» disse Ashton, un po’ dispiaciuto. Sembrava davvero intenzionato a dirle qualcosa di importante.
«Dove possiamo vederci?» chiese, rivolto alla ragazza.
Nuovamente, Evelyne stava per rispondere, ma Mary fu più veloce: «C’è un mio amico che gestisce un locale. Posso chiedergli una sala solo per voi, così che possiate parlare senza mettere a rischio la vostra salute. Passa domani mattina e troverai un biglietto sotto lo zerbino con tutte le informazioni» disse, per poi aggiungere «Ora vattene!» in tono minaccioso quando vide che Ashton non si schiodava dalla soglia di casa sua.
«Perché quella faccia?» chiese Mary ad Evelyne, una volta liquidato il ragazzo. Effettivamente, la ragazza non si sentiva abbastanza bene. Improvvisamente le sue ginocchia erano diventate molli e aveva il desiderio di ridere e piangere allo stesso tempo.
«Cos’ho che non va?» rispose lei con un’altra domanda, cercando di apparire il più normale possibile.
«Sei pallida. Hai per caso un calo di zucchero o è solo mal d’amore?» le domandò.
«Cosa?» chiese Evelyne, incredula per ciò che aveva sentito.
«Oh, andiamo, pensi di poter portare in giro me?» la canzonò Mary che, per la prima volta in sei mesi accennava un sorriso «Guarda che sono stata giovane e innamorata anch’io».
«Forse Ashton potrebbe piacermi un po’» ammise Evelyne sospirando. Nonostante tutto era contenta di poter confidare a qualcuno come si sentiva «Ma io di sicuro non piaccio a lui».
«Secondo questa vecchia pazza qui siete entrambi cotti l’uno dell’altra. Avete solo bisogno di accorgervene» insistette l’Ibrido.
«Non credo. Ha preferito suo padre a me e ha detto che sono un mostro» disse la ragazza in tono afflitto.
«Tutti sbagliano in amore. La cosa più importante è che siano pronti a riparare ai loro errori e, da quello che ho visto oggi, quel ragazzo lo è. Non privarlo dell’opportunità che vuole»
«Non ho intenzione di farlo, ma non so nemmeno come comportarmi. Tutto ciò che è successo fra noi è sempre stato spontaneo e ora questo… appuntamento? Mi mette in crisi» le confessò mordendosi l’interno di una guancia.
«Stai calma» la tranquillizzò Mary «Vatti a fare un bagno caldo e poi riposati, per domani penserò a tutto io. La cosa più importante è che tu non ti fossilizzi su questo: altre cose richiedono la tua attenzione, concentrati su quelle».
 
Nonostante l’ottimo consiglio dell’Ibrido, Evelyne pensò costantemente ad Ashton. Ci pensò mentre cercava inutilmente di leggere un libro, di usare i suoi poteri, mentre si faceva un bagno e la notte invece che dormire. Anche il giorno successivo, nonostante Mary fosse più allegra e bendisposta nei suoi confronti, i suoi pensieri erano rivolti a lui.
«Sono contenta che ti applichi per seguire i miei consigli» commentò l’Ibrido, notando le due ombre scure sotto gli occhi della ragazza.
«Non è che non volessi, è che proprio non ce l’ho fatta. Ho troppa ansia per oggi» disse Evelyne sospirando.
«Anche io mi ricordo che ero ansiosa, al primo appuntamento con il mio Albert» iniziò a raccontare Mary, perdendosi nel fiume dei ricordi «Certo, per me era tutto diverso ovviamente. Sono un Ibrido, so che non dovremmo innamorarci perché viviamo centinaia di anni mentre i nostri partner no, ma quando l’ho visto ho capito che non m’importava. Prima di allora avevo sempre cercato di evitare qualsiasi coinvolgimento emotivo, ma quando il tuo cuore sceglie non puoi fare nient’altro se non seguirlo. Abbiamo vissuto così bene, ci siamo amati così tanto. Se tornassi indietro sceglierei lui ogni volta. Non dico di non aver mai sofferto: Albert è morto un centinaio di anni fa e anche i miei figli sono morti, ma l’ho sempre saputo, avevo accettato questo compromesso già dall’inizio. Da giovane ho dovuto scegliere se vivere una vita lunga senza mai conoscere l’amore o se portarmi per sempre la sofferenza con me per essere felice. Anche tu sei speciale, Evelyne, sei diversa, ma questo non vuol dire che ti sia preclusa l’opportunità di amare. L’amore dovrebbe sempre essere presente nelle nostre vite».
Non appena ebbe finito di parlare, Mary Rosen sorrise, commossa, e si avviò lungo le scale, facendo segno alla ragazza di seguirla. La portò in camera sua, quella che prima di allora era off-limits, la fece sedere davanti ad uno specchio e si mise a rovistare in un vecchio baule.
«Dovrei averlo qui da qualche parte» borbottò mentre era intenta a cercare, mentre le parole che aveva detto poco prima si incidevano a fondo nell’anima di Evelyne. L’Ibrido aveva ragione e lei era stata una sciocca a non averci pensato prima. Era stata così offuscata dalla sua missione importante – anche se non sapeva bene quale fosse – dal cercare se stessa e dall’imparare a controllarsi, che non aveva mai pensato all’amore.
«Oh, eccolo qui!» esclamò Mary tirando fuori un vecchio abito verde a pois bianchi. Disse ad Evelyne di provarlo e le sistemò davanti un separé. La ragazza inizialmente oppose un po’ di resistenza, ma l’Ibrido insistette così tanto che non ebbe alternativa se non fare ciò che le veniva detto.
«Ti sta molto bene!» fu il commento di Mary non appena la vide «Certo è un po’ largo di vita e sul seno, ma io ero una sana ragazza con le curve e non scheletrica come te. Meno male che ti ho fatto mangiare in questi sei mesi, altrimenti non ti sarebbe mai stato addosso».
Evelyne non aveva mai pensato di essere carina. Troppo impegnata a pensare alla sua vita e alla sua memoria, non si era mai osservata davanti allo specchio e non aveva mai pensato a giudicare il suo aspetto fisico. C’era da dire però che quell’abito le stava davvero bene: la vita alta e la gonna a balze slanciavano le sue gambe, le spalline mettevano in evidenza il suo collo delicato e i suoi capelli erano in armonia con i colori del vestito. Certo, la sua pelle era un po’ troppo pallida ed era davvero parecchio magra, ma non poteva fare a meno di sentirsi carina.
«Non so davvero come ringraziarti» disse al limite della sua commozione, continuando ad ammirarsi.
«Non devi. Anzi, a quel vestito farà bene prendere un po’ d’aria, sono secoli che sta chiuso lì dentro. Letteralmente» rispose Mary sorridendo.
 
Evelyne si presentò all’appuntamento con dieci minuti di ritardo. Secondo Mary era giusto che la donna fosse in ritardo e, fino a quando non la pregò in ginocchio, non la lasciò uscire da casa sua. La stanza in cui avevano messo il loro tavolo era piccola e un muro li separava dal resto del locale. Ashton era arrivato, puntuale ed elegante e vederlo vestito in quel modo, con la camicia bianca che metteva in risalto i muscoli della schiena e delle braccia fu un vero colpo per Evelyne.
Si salutarono in maniera un po’ impacciata, dandosi due baci sulle guance prima di sedersi ai rispettivi posti.
«Ti ho cercata tanto in questo tempo, ma Speranza non voleva dirmi dove ti trovassi» le confessò il ragazzo.
«Come mai?» gli domandò.
«Aveva paura che uno di noi due facesse qualche stupidaggine. A quanto pare i Nativi sono molto più cauti con le emozioni rispetto a noi. Le ho detto che sarei voluto esserlo anche io, ma la mia vita non dura quanto la sua e avevo un disperato bisogno di rivederti».
«Come sta Speranza?» gli domandò, elusiva. Non era pronta ad affrontare un discorso su loro due.
«Oh, sta bene. È sempre in movimento e mio padre l’aiuta con le ricerche. Sai, abbiamo capito di aver fatto uno sbaglio quel giorno. Io ho capito di aver sbagliato»
«Mi fa piacere»
«Ti prego, non fare così con me. So che me lo merito, solo… ti prego. Ero stanco, stupido e accecato dalla rabbia. Non volevo definirti un mostro, sai che non lo penso realmente» si scusò il ragazzo.
«Accetto le tue scuse e apprezzo molto il fatto che tu abbia detto a Speranza di Kevin e che abbia lottato con lui. Ti ho perdonato, Ashton, sul serio» rispose sinceramente Evelyne.
«Tutto qui? Non hai altro da dirmi?» il ragazzo sembrava essere contrariato.
«Cosa vuoi che ti dica, eh? Che cadrò fra le tue braccia, che ti amo, ti amerò per sempre e voglio stare tutta la vita con te? Perché non è questo quello che voglio o quello che sento. Ci sono persone che hanno bisogno di me e io devo pensare a loro. Però tu mi piaci, Ashton e non voglio rinunciare a te. Devo combattere, capisci? Combattere per te e per gli altri. Se tu mi hai urlato contro quella mattina vuol dire che c’è qualcosa di me che non accetti, così come ci sono delle cose tue che non sopporto. Non voglio essere stupida e frettolosa, se vogliamo costruire qualcosa devi darmi tempo» gli spiegò.
«Per favore, non usare stupide scuse. Ciò che provo per te non l’ho mai provato per nessun’altra e ci sono voluti mesi prima che trovassi abbastanza coraggio per venire da te e dirti queste cose. Mi stai dicendo che tutte le mie fatiche sono state inutili?»
«No, non ti ho mai detto questo. Nemmeno io ho sentito mai un sentimento così forte per qualcuno e quella notte, quando mi hai baciato, mi sono sentita felice di essere viva ed importante per qualcuno. Per la prima volta dall’incidente mi sono sentita amata ed è stato bellissimo. Solo che non voglio stare con te se questo vuol dire non fare altro che litigare. Ho detto che provo qualcosa per te, qualcosa di grande, ma ho bisogno che tu rispetti la mia decisione e mi aspetti. Fammi trovare me stessa e poi sarò tutta per te».
Ashton la fissò per lunghi istanti prima di risponderle. Evelyne non era sicura di essersi spiegata bene ma, alla luce degli ultimi avvenimenti, non avrebbe saputo cos’altro dirgli: lo amava, ma amava anche se stessa e non poteva fare di lui la sua vita. Non era mai stata egoista ma aveva capito che, se voleva essere felice, un po’ doveva esserlo.
«Penso di amarti, Evelyne» disse lui infine «Sarei pronto ad aspettare tutta la mia vita per te».

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Capitolo 10
*** Capitolo IX ***


 

Capitolo IX

 
Speranza riapparve nella vita di Evelyne come un uragano. Era trascorso circa un mese da quando Ashton era venuto a farle visita e, da allora, non aveva più sentito notizie da nessuno. Nonostante cercasse di non darlo a vedere, la ragazza si sentiva un po’ messa da parte: le avevano sempre detto che era il nodo centrale della guerra che stavano combattendo ma, per molti mesi, era stata chiusa in casa senza sapere nulla di ciò che accadeva fuori. Capiva che Speranza, Ashton e suo padre fossero sempre impegnati a cercare modi per battere i loro nemici, ma perché l’avevano esclusa in quel modo? Temevano forse che lei non fosse abbastanza pronta per aiutarli?
I pensieri vagavano confusi e agitati nella testa di Evelyne, mentre Speranza era seduta con faccia funerea nella cucina di Mary Rosen. La donna, dimostrando molta premura, aveva fatto accomodare la Nativa – il cui volto sembrava stravolto – e le aveva preparato una bevanda, probabilmente per rinfrescarla e darle forza.
Speranza non aveva ancora detto nulla e, fissando il vuoto, sorseggiava piano il liquido dalla tazza. Non parlò fino a quando non ebbe finito.
«Porto cattive notizie» esordì «Ci hanno scoperti. O meglio, vi hanno scoperte. In qualche modo sono riusciti a localizzare la posizione di Evelyne e sanno che si trova qui. Non abbiamo idea del perché ancora non siano venuti a prenderti; sospettiamo che stiano elaborando un piano, magari per limitare i tuoi poteri, così che tu non possa sfuggirgli nuovamente».
«Quindi cosa dobbiamo fare?» domandò Evelyne, in preda al panico.
«Dobbiamo andarcene, rifugiarci in un luogo sicuro. Credo che sia meglio spostarsi in continuazione, come facevi quando eri con Kevin. Evelyne, metti tutte le tue cose nello zaino; Mary, prendi una valigia e porta ciò che puoi, questo posto non è più sicuro per voi» disse Speranza.
«Io non mi muovo da qui» annunciò l’Ibrido.
«Mary… capisco che questa sia la tua casa e che tu ci sia affezionata, ma è una questione di vita o di morte! Non posso tenerti al sicuro se rimani qui»
«Lo capisco, ma non c’è bisogno che ti preoccupi: questa gente mi ha portato via tutto. La famiglia, l’amore, i figli, la mia stessa vita. Mi hanno costretto a vivere rinchiusa dentro questa casa, a vergognarmi di ciò che sono. Ora la casa è diventata la mia vita e non ho intenzione di rinunciare di nuovo. Ognuno di voi sta combattendo per ciò che ama e gli sta a cuore, per cui io farò lo stesso. Mi vogliono uccidere? Facessero pure, almeno avrò la certezza di essere morta combattendo».
Finito il discorso l’Ibrido e la Nativa si abbracciarono. Evelyne rimase in disparte, ad osservare la scena, sentendosi molto triste. Aveva vissuto vari mesi con Mary Rosen e aveva sempre pensato che si fosse schierata nella guerra perché era un Ibrido e, come tale, stava dalla loro parte. Non aveva mai riflettuto sul fatto che forse c’era altro sotto, che forse i Meatch l’avevano fatta soffrire e forse nemmeno voleva trovarsi coinvolta nella guerra. Non si era nemmeno mai chiesta – perché dava anche questo per scontato – come si fossero conosciute Mary e Speranza; solo in quel momento, in quell’abbraccio vide che fra loro c’era un rapporto speciale. Dovevano essere molto legate.
Sospirando, Evelyne uscì dalla cucina e si diresse verso quella che, ormai, era diventata la sua camera. Sapere che avrebbe dovuto abbandonare quella casa la faceva sentire strana. Si era così abituata ad ogni singolo dettaglio che tornare a vagare da un posto all’altro l’avrebbe destabilizzata.
Mentre apriva l’armadio per tirare fuori il suo zaino e riempirlo – di nuovo – con le sue cose, si sentì nostalgica come non mai: dentro quella casa lasciava un pezzo importante del suo cuore e nemmeno se n’era resa conto. I giorni, anche quelli più noiosi, erano volati fino ad arrivare a quel momento e ora tutto le sembrava surreale. I movimenti che compiva per piegare i suoi vestiti e infilarli nello zaino sembravano fatti a rallentatore, il suo cuore sembrava batterle piano, il respiro era lento e i suoi occhi si posavano su ogni piccolo dettaglio, facendo vagare libera la sua mente.
Si ricordò di quando era in ospedale, di come fosse ansiosa e preoccupata di lasciarlo, di come fosse eccitata per una nuova vita. Si domandò che fine avessero fatto il dottor Hemkirk e l’infermiera Pollite. Sapeva che lei aveva una cotta per lui e si chiese se si fossero messi insieme. Decise che, una volta finita l’avventura − se ne fosse uscita viva − sarebbe tornata a trovarli.
In questa partenza, però, c’era qualcosa di diverso da quella volta in ospedale: Evelyne era consapevole di ciò che il mondo aveva ad offrirle e non si sentiva più la ragazzina spaesata e confusa che era allora. Era cresciuta, maturata e forse era pronta per sentirsi dire che era adulta.
Si sentiva diversa, migliore, ma diversa era anche la situazione. Questa volta la ragazza sapeva che la guerra era agli sgoccioli e, dato che lei aveva giocato tutte le sue carte, era il turno dell’avversario. Fino a quel momento gli incontri avvenuti con il nemico erano stati molto veloci e, nel bene o nel male, Evelyne si rendeva conto di non sapere nulla su Tyler Meatch. I telegiornali e i libri lo descrivevano in tutti i suoi aspetti migliori e una sensazione diceva ad Evelyne che avrebbe conosciuto i peggiori non appena avrebbe messo piede fuori da quella casa.
Si sentiva spaventata: tutti quei mesi si era concertata tanto su se stessa, pensando che fosse lei la chiave per vincere, ma non aveva minimamente pensato a come potesse essere il suo vero nemico. Non era nemmeno sicura di sapere che faccia avesse e, se lo avesse incontrato per strada, forse non lo avrebbe riconosciuto. Non era pronta a combattere un nemico di cui non sapeva nulla, per cui decise che, il prima possibile, avrebbe chiesto spiegazioni a Speranza.
Il suo cuore fece un tuffo perché si ricordò le parole della Nativa e ripensò ad Ashton. Cosa aveva fatto in quel mese? Evelyne pensò che poteva aver aiutato suo padre con le ricerche ma, visto il suo carattere, le sembrava piuttosto difficile da credere. Ashton era più un tipo impulsivo, che si buttava a capofitto nelle situazioni pericolose, non importava quanto queste fossero rischiose. Se lo immaginò a prendere a pugni gli scagnozzi di Meatch, con le nocche della mano coperte di sangue e lividi sparsi per tutto il corpo.
«Sei pronta?» Speranza interruppe le sue fantasie, comparendo sulla porta della camera.
Con stupore, Evelyne notò che i suoi pensieri l’avevano distratta così tanto che aveva preparato lo zaino senza rendersene conto.
«Sì, andiamo» disse prendendolo in spalla.
Al piano di sotto, accanto alla porta, Mary Rosen le stava aspettando. Evelyne si rese conto che, in qualche modo, l’Ibrido e la Nativa si dovevano già essere dette addio, quindi ora toccava a lei.
«Grazie» le sussurrò «Per tutto».
«Non c’è di che. È stato bello poter averti in casa mia, era tanto tempo che vivevo da sola» ammise, dimostrando una dolcezza che la ragazza non si aspettava.
«Anche per me è stato bello poter vivere in una casa. Spero che, quando sarà tutto finito, anche io avrò tante foto da appendere come ricordo».
Detto questo Mary le si avvicinò per abbracciarla e, mentre erano strette, le sussurrò: «Non dimenticarti dell’amore».
Evelyne la ringraziò di nuovo e, insieme a Speranza, uscì dalla casa. Non si voltò mai a guardare indietro e, quando entrò dentro la macchina e volse lo sguardo verso il mare. La Nativa mise in moto si allontanò dal villaggio, mentre la ragazza continuava a fissare la linea blu che separava il mare dal cielo, fino a quando questa non scomparve, rimpiazzata da altri paesaggi.
Dopotutto, Evelyne lo aveva imparato, il modo migliore per dire addio era non dirlo affatto.
 
«Che tipo è Tyler Meatch?» chiese Evelyne, interrompendo il silenzio nella macchina. Era quasi un’ora che si trovavano in viaggio e, fino ad allora, nessuna delle due aveva parlato.
«Che razza di domanda è questa?» domandò a sua volta Speranza, senza capire.
«Volevo sapere che tipo è. Sai, come si comporta, il suo carattere… penso che potrebbe essermi utile il giorno in cui dovrò incontrarlo» le spiegò la ragazza.
L’Ibrido si irrigidì alle sue parole e strinse più forte le mani sul volante, fino a quando non le diventarono bianche le nocche.
«Non succederà» disse decisa.
«Invece ho l’impressione che sarà molto probabile» ribatté Evelyne non calma. Stranamente, l’idea di vedere, finalmente, il suo nemico non la spaventava come avrebbe dovuto. Era più eccitata che impaurita.
«Lo dici perché hai avuto una visione?» le domandò Speranza «Evelyne, lo sai che se fosse così tu devi…»
«No» la interruppe la ragazza, tranquillizzandola «È solo una sensazione. Non so se anche questo faccia parte dei miei poteri oppure no».
Speranza annuì preoccupata e non disse più nulla. Visto che non accennava a parlare, Evelyne le ripeté la sua prima domanda: «Che tipo è Tyler Meatch?»
«Ad essere onesta, non ne ho idea» rispose l’Ibrido «Ho incontrato i suoi antenati, ma non ho mai avuto il “piacere” di conoscere Tyler. Visti i suoi predecessori, però, posso intuire che sia un tipo crudele, orgoglioso e che non si fermerà davanti a niente per ottenere ciò che vuole»
«Ma qual è il suo obiettivo? Insomma, tutto questo tempo che sono stata da sola ho riflettuto molto su quello che stiamo facendo e non ho trovato lo scopo. Lotto solo perché delle persone mi hanno attaccato e ci sono antiche leggende che dicono che io debba farlo. Non sono motivata però, non veramente. Penso che se sapessi un po’ di più su ciò che facciamo, per cosa combattiamo, potrei focalizzarmi meglio sull’obiettivo».
Speranza si morse un labbro pensierosa. «Non sapevo che avessi questo tipo di pensieri. Pensavo che sapessi ciò che stavi facendo, ciò per cui combattevi» non c’era amarezza o rimprovero nella sua voce, ma solo curiosità.
«Kevin mi aveva detto che i Meatch avevano ucciso i miei genitori e che avrebbero ucciso anche me. Quando ho deciso di schierarmi con lui e con Ashton ci hanno inseguiti e sono sicura che ci avrebbero uccisi. Una volta ci hanno raggiunto in una grotta ed erano armati. Se ci avessero trovati, ci avrebbero uccisi anche allora. L’ultima volta che mi sono trovata faccia a faccia con loro il padre di Ashton avrebbe voluto iniettarmi qualcosa con una siringa, poi mi avrebbero uccisa. Mentre ero con Kevin lottavo per la sopravvivenza. Ogni giorno diventavo più consapevole del fatto che loro fossero il male e noi il bene, che noi agivamo nel giusto. Erano degli uomini malvagi e ci volevano eliminare. Poi anche Kevin ha cercato di uccidermi e da lì è crollato tutto. Ero sola, Ashton mi aveva ingannata e poi abbandonata e pensavo di morire. Lì per lì non ci ho fatto caso ma, riflettendoci, ho capito che Kevin era peggio dei Meatch perché, invece di tentare di uccidermi e basta, mi aveva presa in giro fin dall’inizio. Se non mi fossi schierata con lui, se quel giorno, fuori dall’ospedale, fossi salita in quella macchina, cosa sarebbe successo?»
«Capisco i tuoi dubbi, ma non puoi torturarti sul passato. Pensa solo che, se tutto questo non fosse successo, ora tu non saresti la persona che sei ora»
«Lo so, davvero» disse Evelyne, con una nota di impazienza nella voce «Quello che stavo cercando di dirti è che io sono sempre stata all’oscuro di tutto. Ho sempre creduto cose che alla fine si sono rivelate false, e sono stata costretta a fidarmi o non fidarmi delle persone solo in base al mio istinto. Non ho mai avuto qualcosa di concreto da analizzare che non fosse ciò che mi diceva la mia testa. So che per via del discorso dei poteri la situazione non è così male come sembra ma, se nessuno mi dice mai nulla, vorrà forse dire che non sono affidabile? Perché devo sempre fidarmi di tutti e nessuno può mai fidarsi di me?»
«Io non ti ho mai nascosto niente. Non intenzionalmente almeno. Mi dispiace che tu abbia incontrato questo tipo di persone nel corso della tua vita, ma io non sono così. L’unico motivo per cui ancora non ti ho parlato di ciò che sta accadendo è che, prima di conoscere il signor Wilson, molte cose non le sapevo nemmeno io e credo che sia meglio che te le spieghi lui di persona»
«E quando potrà farlo?» domandò Evelyne, ansiosa di conoscere la verità.
Speranza la guardò e le sorrise: «Se non troviamo traffico, fra un paio d’ore».
 
Quando Ashton, per la prima volta, aveva raccontato ad Evelyne la sua storia, la ragazza non si immaginava di certo che la casa in cui aveva trascorso la sua infanzia fosse una villa, né che successivamente ci avrebbe vissuto con suo padre e stabilito il luogo da cui intraprendere le sue ricerche.
«Perché?» aveva chiesto confusa, una volta che lui le aveva detto che quella era casa sua.
«Da quando è morta mia madre nessuno ha più vissuto qui, pensavo fosse un buon posto per nascondersi» ammise lui con una scrollata di spalle. Nonostante Ashton fosse molto convincente e non lasciò trapelare il minimo dolore dalle sue parole, Evelyne non gli credette. Se lo immaginava bambino, al buio e con le lacrime agli occhi – era sicura che ci fosse un tempo in cui era sensibile – che vagava per la grande casa, chiamando il nome di sua madre. Riuscì anche a vederlo mentre apriva la porta della camera da letto e trovava sua madre in una pozza di sangue, con i polsi tagliati. Chissà cosa doveva aver pensato la donna prima di morire. Chissà se si era mai soffermata a pensare a ciò che ne sarebbe stato di Ashton dopo il suo gesto. Nonostante provasse compassione per lei, Evelyne sentì anche di odiarla, nel profondo: in parte era colpa sua se Ashton era diventato freddo e restio a dimostrare il proprio affetto.
Però con me l’ha fatto, pensò colta da un improvviso senso di colpa, mi ha detto che mi ama e io gli ho detto di aspettare.
«Evelyne, non eri ansiosa di sentire le nostre scoperte?» le chiese Speranza, riportandola alla realtà.
«Sì, scusa, ero soprappensiero» mormorò lei. A volte si stupiva della sua capacità di perdersi nei propri pensieri e si domandava tutto ciò si fosse intensificato dopo aver ampliato i suoi poteri.
«Come ben sai» iniziò Mark Wilson «Ho lavorato per molti anni come ricercatore per i Meatch. Inizialmente non collaborai, dissi loro che avrebbero anche potuto uccidermi, ma loro mi risposero che se non li aiutavo avrebbero fatto del male alla mia famiglia» l’uomo lanciò uno sguardo pieno d’affetto verso il figlio, che gli sorrise senza dire nulla.
«Mi dissero di condividere con loro tutto ciò che sapevo riguardo agli Xaraliani, soprattutto riguardo la loro morte. Avevano rinvenuto da poco un testo e, decifrandolo, avevano scoperto che i Nativi potevano morire solo con specifiche armi fabbricate appositamente per loro e che, se non fossero uccisi da quelle, entravano in un sonno perenne»
«Quindi stai dicendo che il Massacro in realtà non è avvenuto? Che hanno bruciato vive quelle persone?» domandò Evelyne sconvolta.
«Non ne sono sicuro, purtroppo. Non sono mai stato una figura così importante all’interno del laboratorio di ricerca, per cui tutto ciò che so l’ho scoperto da solo o con l’aiuto di qualche collega a cui piaceva vantarsi. Scoperto questo, Meatch voleva che ci concentrassimo sulla produzione di quelle armi, voleva scoprire quale fosse il materiale davvero capace di uccidere gli Xaraliani. Purtroppo, lo trovammo»
Speranza sussultò a quelle parole. Anche se aveva già sentito la storia, il venire a conoscenza di poter essere realmente uccisa le doveva fare uno strano effetto.
«In tutti questi anni, mentre Benedict – il padre di Tyler – aveva proposto a Kevin Fort una tregua, si produssero una quantità esagerata di armi. Ancora oggi non capisco perché, se dei Nativi non è rimasta traccia, ne abbiano prodotte così tante. La mia ipotesi è che Tyler non abbia solo intenzione di uccidere gli Xaraliani rimasti, ma anche tutti gli Ibridi e tutti gli Esseri Umani che sono a conoscenza della verità»
«Ma è terribile!» esclamò Evelyne «Praticamente sta progettando un secondo massacro!»
«Potrebbe anche essere peggio di così» intervenne Speranza «Vedi, i primi Uomini che vennero sul nostro pianeta avevano buone intenzioni. Un gruppo ristretto di scienziati aveva scelto chi portare su Xaral e non ci sarebbero stati problemi se un antenato di Tyler, Sebastian Meatch, non li avesse scoperti e non li avesse minacciati se non avessero portato via anche lui e i suoi uomini. Forse lo scopo di Tyler non è solo quello di ripulire Xaral da chi dovrebbe abitarlo di diritto, ma fare una nuova selezione al contrario: ucciderebbe tutti coloro che non ritiene degni di vivere e chissà quanti potrebbero essere»
«Tyler va fermato» commentò Ashton «Per questo siamo tornati, per questo ti abbiamo salvato da Kevin Fort. Perché sapevamo che se non ci fossi stata tu un giorno lui avrebbe vinto e non potevamo convivere con il senso di colpa. Tyler ha già troppi uomini dalla sua parte, non poetavamo aggiungerci anche noi».
Ashton la fissò attentamente negli occhi ed Evelyne, contrariamente a ciò che pensava, riuscì a sostenere il suo sguardo. Si ricordò di quando le aveva detto che l’amava e che l’avrebbe aspettata e forse solo in quel momento capì quanto davvero il ragazzo fosse sincero. Il bambino che si era immaginata poco prima era quel tipo di persona dallo sguardo sfuggente, che scappava  dai problemi invece di affrontarli. L’Ashton che stava in piedi di fronte a lei, invece, era un Ashton consapevole dei propri sbagli, che avrebbe lottato per ripararli.
Evelyne stava per pronunciare quelle due parole che lui tanto avrebbe desiderato ascoltare, ma Mark fu più veloce: «Grazie alla mia abilità con la tecnologia qualche giorno fa siamo riusciti ad entrare dentro il sistema del nemico. Abbiamo visto che aveva tutte le informazioni su di te: il tuo incidente, l’ospedale in cui alloggiavi, i vari spostamenti con Kevin Fort e la sistemazione da Mary Rosen. Non abbiamo mai capito perché non ti avessero catturata e temiamo che stiano seguendo un piano ben preciso. Purtroppo, però, non sappiamo quale»
«C’era qualcosa anche riguardo la mia vita prima dell’incidente? C’era scritto niente dei miei genitori?» domandò Evelyne, con il cuore che le martellava nel petto. Poteva essere molto vicina alla verità.
«Solo poche informazioni. A quanto pare l’appartamento che è esploso era quello in cui vivevi, i tuoi genitori si chiamavano Cassandra e Julian ed entrambi sono morti nell’esplosione. Non si sa cosa l’abbia provocata, ma negli appunti c’era scritto che fosse qualcosa di essenziale per i tuoi poteri. Vorrei poterti essere più d’aiuto, ma non so altro, mi dispiace».
«Hai fatto molto, invece» disse Evelyne con le lacrime agli occhi. Portò la mano al collo e strinse la collana che – ora ne era sicura – suo padre le aveva regalato. Questa volta non compì il gesto per fare magie di alcun tipo, ma solo per sentirsi un po’ più vicina ai suoi genitori: erano morti sul serio, questo voleva dire che gli uomini di Meatch le avevano mentito sin dal principio. Cassandra e Julian… che bei nomi che avevano. Si chiese se fossero molto innamorati, se avessero amato lei e desiderò con tutti il cuore che, ora che sapeva i loro nomi, qualche altra memoria le sarebbe tornata alla mente. Purtroppo non accadde nulla: Cassandra e Julian avrebbero potuto essere i nomi di chiunque, perché lei non li sentiva propri.
Mentre Speranza e Mark chiudevano le attrezzature dentro le proprie buste per caricarle in macchina e poi partire, Evelyne era uscita per prendere una boccata d’aria e si era seduta sui gradini della casa. Non appena Ashton la vide si andò a sedere accanto a lei.
«Mi dispiace per i tuoi genitori» le disse.
«Grazie. Credo che una parte di me sapesse che erano morti, ma fino a quando tuo padre non me l’ha confermato c’era un qualcosa dentro di me che si ribellava a questa idea»
Il ragazzo sospirò «Non l’avresti mai dovuto scoprire in questa brutta maniera»
«Non credo ci siano bei modi di scoprirlo, no?»
«Già» concordò lui. Forse stava pensando a quando aveva trovato sua madre morta nel letto, per cui Evelyne pensò bene di cambiare l’argomento della loro discussione.
«C’è ancora una cosa che non mi torna di tutta questa storia» gli disse pensierosa.
«Cosa?» le chiese lui aggrottando le sopracciglia.
«Se quello che vuole Tyler è uccidere tutti coloro che non ritiene degni di vivere, cosa c’entro io in questa storia? A che scopo ho i miei poteri?»
«Evelyne» pronunciò il suo nome divertito «Non puoi accontentarti di essere speciale e basta?».
La ragazza arrossì violentemente e cerò qualcosa per ribattere a ciò che le aveva detto Ashton, ma farfugliò varie parole senza senso, non riuscendo a produrre una frase di senso compiuto. Lui le aveva detto che era speciale.
«No, davvero, a parte gli scherzi, c’è una spiegazione. O almeno credo» le rispose il ragazzo, tornando serio.
«Davvero?» chiese Evelyne, che stava lentamente tornando al suo colorito naturale.
«A quanto pare, se gli Xaraliani non sono veramente morti, tu hai qualche connessione con loro. Anche se i loro corpi non esistono più, i loro poteri – tutti i loro poteri – continuano a vivere dentro di te»
«Mi stai dicendo che dentro di me ho gli spiriti dei Nativi morti?» chiese Evelyne in preda al panico.
«Sembrerebbe di sì» confermò lui.
«Non ho mai sentito nulla di più inquietante. Davvero, sono spaventata da tutto ciò»
«Se può farti stare più tranquilla, questa è solo un’ipotesi. La più accreditata, certo, ma sempre un’ipotesi rimane. Non c’è nulla che ci confermi che sia la verità» le spiegò Ashton.
«Nel file che ha trovato tuo padre non c’era scritto niente riguardo ai miei poteri o alle intenzioni che Tyler Meatch ha con me?» gli domandò.
«No» rispose lui «A quanto pare erano solo un insieme di appunti su di te. Se sa qualcos’altro deve essere scritto in qualche altro file che non siamo riusciti a leggere, oppure è contenuto tutto nella testa di Tyler»
«Tu credi?»
«Non mi dà l’impressione di un uomo che si fidi molto di chi ha alle proprie dipendenze. Ha quel personale solo perché gli è utile, ma non sono convinto che siano a conoscenza del suo piano. Da quello che ha detto Speranza i sui avi erano freddi e calcolatori e credo che lo sia anche lui»
«Hai paura?» gli domandò Evelyne. La domanda lo spiazzò.
«Questo cosa c’entra con quello di cui stavamo parlando?» sbuffò.
«Io sì» ammise la ragazza, mordendosi un labbro.
«Evelyne» sussurrò con dolcezza, avvicinandosi di più a lei. Le mise un braccio intorno alle spalle e lei poggiò la propria testa sull’incavo del collo di lui. Anche da lì poteva sentire il suo cuore battere.
«Stiamo combattendo la più grande guerra del mondo e nessuno sa di noi. Siamo quattro contro un migliaio e detta così nessuno scommetterebbe sulla nostra vittoria. Siamo già sfuggiti agli uomini di Tyler più di una volta, per tutta la nostra vita gli siamo scivolati via come acqua fra le dita e non ho dubbi sul fatto che potremmo farlo ancora. Ho paura?» si chiese «Certo che ne ho. Solo uno stupido non avrebbe paura in questo situazione, ma ci sei tu, che sei così coraggiosa che dai un po’ di coraggio anche a me. C’è mio padre, che non ho intenzione di perdere proprio ora che ho trovato. Tutti abbiamo paura Evelyne, ma continuiamo ad aggrapparci a qualcosa per cui valga la pena lottare e andiamo avanti».
La ragazza alzò la testa e lo attirò a sé, baciandolo dolcemente. Le sue labbra erano delicate e quel bacio fu tutto ciò di cui aveva bisogno. Ashton aveva ragione: ognuno si aggrappava a qualcosa per essere coraggioso e quel bacio le aveva dato il coraggio per dire ciò che avrebbe voluto dirgli da sempre: «Ti amo» gli sussurrò.
Lo vide sgranare gli occhi, voleva rispondere, ma venne preceduto da qualcun altro.
«Beh, è un vero peccato rovinare questo quadretto» Tyler Meatch stava sopra di loro con un esercito armato alle spalle «Ma temo proprio che sia necessario».


 
 
Salve gente! Eccomi qui con il penultimo capitolo. Spero che sia stato di vostro gradimento, con il precedente avevo paura di annoiarvi dato che non succede un granché, per cui ho pensato di rimediare metteono questo colpo di scena alla fine. Inizialmente doveva finire diversamente, ma quando l'ho scritto ho pensato che sarebbe stato meglio così, per non affrettare troppo i tempi. 
Mi piacerebbe darvi una data certa di quando pubblicherò l'ultimo capitolo, ma la prossima settimana parto qualche giorno per il mio compleanno e poi ho da fare per iscrivermi all'università.
Il capitolo successivo, comunque, è a metà e sicuramente riuscirò a pubblicarlo entro la fine di agosto :)
Vi ringrazio per la pazienza con cui mi seguite, vi ricordo che un parere, positivo o negativo, fa sempre piacere.


Francesca.

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Capitolo 11
*** Capitolo X ***




Capitolo X
 
Evelyne rimase impietrita quando Tyler Meatch comparve. Una parte di lei le diceva di correre e scappare via, ma una parte più grande sapeva di non avere via di fuga. Ashton era scattato in piedi e le si era messo davanti, come a volerla proteggere, nonostante entrambi sapessero che era tutto inutile. Gli occhi del ragazzo erano sgranati dalla paura e, quando parlò, lo fece con voce flebile e balbettante.
«Meatch?» sussurrò, quasi come se non volesse credere a chi si trovava davanti. Evelyne aveva la certezza che Ashton non lo aveva mai incontrato prima e che mai si sarebbe aspettato di vederlo davanti al loro nascondiglio, specialmente quando Speranza e suo padre erano ancora in casa.
«Ashton Wilson» disse Tyler Meatch come se lo conoscesse da una vita «Assomigli terribilmente a tuo padre».
Il ragazzo deglutì a quelle parole e iniziò a pensare ad un modo per cavarsela in quella situazione. Non c’era molto da fare, in realtà: alle spalle di Meatch c’erano una ventina di uomini armati e i fucili puntavano tutti su di loro. Molti furgoni – Evelyne ne contava almeno dieci – neri si trovavano dietro i soldati, ragion per cui ce ne dovevano essere altri, che probabilmente avevano circondato la casa. Mentre Ashton covava ancora un minimo di speranza – in senso letterario, dato che la Nativa di trovava all’interno – Evelyne si era rassegnata ad essere catturata, ma la cosa non la spaventava. Sapeva che questa sarebbe stata la resa dei conti, l’ultima vera battaglia. Aveva paura? Certamente, non era una sciocca. Sapeva che lei e le persone a cui voleva bene potevano morire e se fallivano poteva essere una catastrofe per tutta l’umanità, eppure si sentiva sollevata sapendo che quella sarebbe stata l’ultima sfida. Indipendentemente da come fosse finita, non avrebbe più dovuto lottare.
Evelyne si prese del tempo per studiare il suo nemico. Tyler Meatch era indiscutibilmente un uomo affascinante: indossava un completo elegante che aderiva perfettamente al suo fisico asciutto, i capelli neri erano tagliati corti e c’era qualcosa di attraente nei tratti spigolosi del suo viso liscio, senza un accenno di barba. Forse era proprio l’assenza di peluria che lo faceva sembrare ancora più giovane di quanto non fosse; la ragazza non conosceva la sua età precisa, ma era sicura che avesse più della ventina di anni che dimostrava di avere. La colpirono molto gli anelli raffinati che l’uomo portava alle dita delle mani: sulla destra ne aveva tre e sulla sinistra due. Tutti e cinque sembravano essere di fattura molto costosa e questo la fece pensare che era un uomo che amava ostentare la propria ricchezza.
Dei colpi di arma da fuoco e delle urla interruppero l’analisi di Evelyne e la riportarono alla realtà: qualcosa stava accadendo all’interno della casa. Poco dopo Mark Wilson e Speranza vennero scortati fuori da due uomini armati con le mani dietro alla testa, impossibilitati a muoversi. L’espressione sul viso di Mark tradiva sorpresa e paura, mentre ciò che attraversava quello di Speranza era odio allo stato puro. Tyler ricambiò l’espressione della Nativa e, assieme all’odio, aggiunse anche il disgusto.
«Feccia» disse sputando a terra.
«Curioso, stavo per dire la stessa cosa» gli rispose Speranza, con un coraggio che Evelyne non poté fare a meno di ammirare.
Il gruppo di persone fuori dal portone di quella casa formava una comitiva davvero curiosa e la ragazza si domandò ciò che avrebbero pensato le persone che fossero passate di lì; ma molto probabilmente gli uomini di Meatch si erano organizzati in maniera tale che nessuno interferisse nei loro piani.
«Sarai la prima persona – se così è possibile chiamarti – che ucciderò » la minacciò Tyler con aria maligna.
«Non mi spaventi» disse Speranza. Ed era vero. Se c’era qualcosa che accomunava i prigionieri era il sentimento di paura, ma la Nativa sembrava esserne priva. Da dove le venisse tutto quel coraggio era ignoto saperlo.
«Male» le rispose Tyler con un ghigno malvagio, caricando la pistola e puntandogliela alla testa.
«Sappiamo tutti e due come finirà questa storia» annunciò Speranza con aria stanca «Puoi anche uccidermi, ma tornerò. Lo sai».
«Oh, forse un tempo saresti tornata, ma non ora, dato che il qui presente scienziato e i suoi collaboratori hanno scoperto il metallo con cui uccidere voi Nativi. E per uccidere, intendo per sempre» ribatté Tyler «Questi proiettili ne sono pieni e, quando premerò il grilletto, sarai morta per sempre».
«Vinceremo lo stesso» affermò nuovamente Speranza, ma con voce titubante. Sarebbe morta e, in quel momento, tutti ne ebbero la consapevolezza.
La scena successiva si svolse come al rallentatore: Evelyne vide Tyler sorridere in modo malvagio e fare sempre più pressione sul grilletto, fino a quando il proiettile schizzò fuori dall’arma, andandosi a conficcare nella testa di Speranza. La Nativa cadde all’indietro, con il sangue che le sgorgava dalla fronte e gli occhi rovesciati all’indietro.
Evelyne osservò tutta la scena senza poter fare niente, con le lacrime che le bruciavano negli occhi. Speranza era morta. Il sangue aveva creato una piccola pozza a terra e si stava diramando lungo tutte le crepe del terreno, un fiume rosso in espansione. Non c’era paura sul volto della Xaraliana, ma un sorriso: fu quello il suo ultimo atto, il suo gesto di speranza, la firma con cui disse addio al mondo.
«È stato più facile di quanto pensassi» commentò soddisfatto Tyler, con il volto macchiato dal sangue della sua vittima.
È in quel momento che Evelyne trovò la forza di reagire: era pervasa da un sentimento che non aveva – o che non ricordava – mai provato prima. Odiava Tyler Meatch, lo odiava. Tutti i suoi nervi erano pronti a scattare e una rabbia crescente montava in lei, dandole il coraggio di alzarsi in piedi e scagliarsi contro il suo nemico.
L’uomo non capì bene cosa stava succedendo, inizialmente rimase sorpreso, poi fece cenno ai suoi uomini di intervenire. Ne servirono tre per separare Evelyne da lui, due la afferrano per le spalle e uno le prese i piedi: la ragazza cercò di divincolarsi, ma gli uomini erano troppo forti per lei. Girò il suo sguardo in cerca dei suoi compagni, ma vide che anche Ashton e Mark erano stati bloccati dagli uomini di Meatch. Evelyne continuò ad agitarsi e divincolarsi fra le loro braccia, con le lacrime che ormai le rigavano il volto, accecata dall’odio e dal sentimento di vendetta. Non si accorse dell’uomo che le si stava avvicinando con una siringa fino a quando l’ago non penetrò nel suo braccio. La tennero ferma fino a quando tutto il liquido non le fu entrato in circolazione e, qualche secondo dopo, Evelyne si accasciò a terra, svenuta.
 
Quando Evelyne si svegliò si accorse di essere tutta dolorante. Stava dormendo su un pavimento di pietra, non sapeva dove si trovasse, né come ci fosse arrivata. Massaggiandosi il collo con una mano si alzò in piedi per osservare l’ambiente: era in una stanza fatta interamente di pietra, una delle pareti era formata da sbarre di ferro. Una cella, pensò la ragazza. Fece per avvicinarsi, quando una voce risuonò da oltre le sbarre: «Non toccarle, ci passa la corrente elettrica».
«Ashton?» lo chiamò. Dov’era il ragazzo?
«Sono qui, nella cella accanto alla tua» rispose lui. Evelyne si spostò verso destra, da dove veniva la voce, e si accorse che c’era un piccolo buco nella parete. Da lì sbucava l’occhio di Ashton.
«Dove siamo?» domandò la ragazza.
«Non ne abbiamo idea» rispose lui «Dopo che ti hanno sedata hanno iniettato lo stesso liquido anche a noi. Io sono stato il primo a svegliarmi e… a toccare le sbarre. Fortunatamente mi sono ritratto subito».
Ora che ci faceva caso, Ashton sembrava avere il respiro pesante e la voce roca.
«Non mi sembra che tu stia molto bene» gli fece notare lei.
«Sto meglio di Speranza» ribatté lui, aspro.
A quell’affermazione Evelyne sentì girare la testa. Speranza era morta, come aveva fatto a non ricordarselo? Era morta per tutti loro e stavano sfruttando il suo sacrificio rimanendo chiusi in una cella. Non sarebbe dovuta andare così: la ragazza si sentì stupida perché avrebbe dovuto usare i propri poteri, invece di assalire Tyler Meatch. Il problema era che, accecata dalla rabbia e dall’odio com’era, non ci aveva pensato per niente. Forse, se non si fosse lasciata prendere delle emozioni, a quest’ora sarebbero riusciti a scappare, forse non sarebbero rinchiusi nella cella e forse l’uccisione di Speranza non sembrerebbe così vana.
La testa di Evelyne girò sempre più vorticosamente e dovette appoggiare una mano al muro per non cadere.
«Tu come stai?» le chiese Ashton. Il suo tono era gentile.
«Sono ancora viva» rispose brusca la ragazza.
«Evelyne io… mi dispiace. Sai che a volte parlo senza pensare e posso sembrare cattivo, ma sai che non lo sono» si scusò lui.
«No, hai ragione. Sono stata una stupida, avrei dovuto usare i miei poteri. Come mi è saltato in mente di aggredire Tyler in quel modo?»
«È stato piuttosto impressionante, a dire il vero» disse Ashton divertito «Certo, la tua tecnica non era delle migliori, ma hai colto Meatch e tutti i suoi uomini di sorpresa. Gli hai fatto vedere che siamo imprevedibili»
«Ma ora siamo chiusi dentro queste celle ed è stato tutto inutile» commentò Evelyne scoraggiata.
Ashton non rispose.
«A proposito, dov’è tuo padre?» gli domandò la ragazza, che per un momento si era scordata dell’uomo.
«È qui nella cella insieme a me e ancora non si è svegliato. Sono preoccupato, temo che quello che ci hanno iniettato abbia avuto un maggiore effetto su di lui. Non è giovane come noi e non so quando si riprenderà»
«Vorrei poterti dire che andrà tutto bene»
«Ci credi?»
«No»
«Allora non farlo. Non dire nulla che ti senti obbligata a dire. Per quanto ne sappiamo questi potrebbero essere i nostri ultimi minuti insieme. Non sprechiamoli facendo ciò che la convenzione ci impone di fare»
«Quando ho detto che ti amo» Evelyne si fermò un secondo non appena ebbe pronunciato quelle parole «Ci credevo davvero».
«Voglio che tu sappia che, se dovessi morire, morirò felice perché so che mi ami. Perché tutto ciò che provo per te tu lo provi per me» le sussurrò lui dolcemente.
«Non morirai Ashton. Sono stufa che la gente muoia a posto mio. Se è me che voglio, è me che avranno».
La ragazza prese fiato: «Dove sei Tyler?» urlò «Se vuoi uccidermi, cosa stai aspettando?».
Evelyne era sicura che lui l’avesse udita, sicuramente aveva installato telecamere, microfoni e altri oggetti tecnologici per star sicuro che la ragazza non gli sfuggisse nuovamente. Poco dopo una pesante porta di metallo si aprì e Tyler Meatch comparve davanti alle loro celle.
«Evelyne» pronunciò il suo nome carico d’odio «Stai cominciando a stufarmi»
«Non ho chiesto io di essere rapita e imprigionata in questa cella. Sono stanca dei giochetti. Se vuoi uccidermi lascia andare i miei amici e facciamola finita»
«Vai dritta al sodo, sei determinata, mi piace» osservò Tyler con un certo interesse «Chissà, magari mi convincerai anche a fare ciò che vuoi tu»
«Sarà difficile, ora sei tu in vantaggio su di noi» ribatté la ragazza.
«Giusto anche questo è vero. Sai, Evelyne, perché non ci siamo incontrati prima?»
La ragazza scosse la testa in segno di diniego.
«Avevo bisogno che tu sviluppassi i tuoi poteri, che pensassi di potermi battere, che mostrassi tutte le tue carte. Ora so cosa puoi fare e ho preso le relative misure per impedirtelo»
«Davvero ti credi così presuntuoso da sapere tutto di me?» gli domandò lei.
«Assolutamente. Ma vedi, non m’importa nulla di te, quanto dei tuoi poteri. Da quando il mio antenato Sebastian ha scoperto che quei cani degli scienziati avevano ideato qualcosa con il vecchio pazzo blu la mia famiglia ha iniziato ad indagare sui tuoi poteri. So cose di te che nemmeno immagini. Forse non ti conosco bene, è vero, ma conosco quella parte di te che hai sempre ambito a ricordare: quella prima dell’incidente»
«Menti!» lo accusò Evelyne, ma non era tanto sicura delle sue parole. Una parte di lei era sempre stata attaccata alla versione precedente di se stessa; nonostante l’aspettativa di una nuova vita davanti a sé non aveva rinunciato a voler scoprire la precedente.
«E che motivo avrei?» le domandò lui con aria innocente.
«Vuoi indurla a fidarti di te, così le prometterai un mucchio di falsità e lei si abbandonerà a te senza combattere!» intervenne Ashton urlando.
«Sati zitto, ragazzo!» lo rimproverò Tyler con astio «O tuo padre non si sveglierà più»
«Cosa gli hai dato?» chiese il ragazzo, in preda al panico.
«Nulla da cui non potrà riprendersi. Se ti comporterai bene» lo minacciò.
«Lasciali in pace!» urlò Evelyne «Cos’è che vuoi?»
«Voglio che tu mi dia la tua collana» le rispose Tyler.
«Evelyne, no!» la implorò Ashton.
La ragazza parve non sentire. In preda ad una strana consapevolezza, si portò entrambe le mani al collo in cerca della chiusura di metallo. Sembrava non udire le preghiere di Ashton e non vedere la faccia malefica di Tyler. Il battito del suo cuore era rallentato e il respiro era controllato: stava accadendo qualcosa. Evelyne si sfilò la collana e si sentì improvvisamente nuda, poi la strinse nella mano e allungò il palmo verso Tyler. Lui fece cenno ai suoi uomini dalle telecamere di staccare la corrente fra le sbarre e così essi fecero.
Tyler si avvicinò sempre di più.
«Apri il palmo» le ordinò. Evelyne fece come gli veniva detto e, lentamente, mise il braccio fuori dalle sbarre. Tyler, con aria sognante, le si avvicino. Il suo volto sembrava dire “Ho vinto” ma, non appena toccò la collana, la mano di Evelyne si chiuse, stringendo la sua.
«Non ancora» disse lei, prima che entrambi venissero inghiottiti dal buio.
 
Non appena il buio si dissolse intorno a loro, entrambi capirono di trovarsi in un luogo misterioso. Tyler Meatch osservava sbalordito la rupe sulla quale erano stati catapultati e la fitta vegetazione che li circondava; mentre Evelyne, dopo un attimo di sorpresa iniziale, riconobbe quello come il luogo che aveva visto grazie alle cure di Speranza, dopo che Kevin l’aveva tradito. Il silenzio che li avvolgeva era surreale e la natura intorno a loro sembrava in attesa dell’imminente scontro fra i due.
«Stupida ragazza!» l’aggredì Tyler «Sai cosa hai fatto? Sai dove siamo?»
Evelyne avrebbe voluto rispondergli, ma non ne era a conoscenza. Provava una strana sensazione, come se lei appartenesse a quel posto, ma non perché ci era già stata prima. Aveva la consapevolezza finale che gli Xaraliani volevano che lei si trovasse lì in quel preciso istante, che ponesse fine a quella lunga lotta in quel luogo misterioso. Pur non sapendo dove fosse, era consapevole del cielo azzurro sopra le loro teste, dei caldi raggi del sole, delle folate di vento che di tanto in tanto facevano muovere le foglie degli alberi, del terreno duro e friabile sotto ai loro piedi.
«Siamo nel posto in cui ti sconfiggerò» gli rispose pacata, dimostrando di credere totalmente nel potere dentro di lei. Questo era il suo destino e ne era consapevole. Lei doveva sconfiggere Tyler, altrimenti la vita degli esseri umani non avrebbe più avuto senso e il sacrificio dei Nativi sarebbe stato vano.
«So che pensi di essere in vantaggio su di me, ma in realtà non è così» Tyler si interruppe e con un gesto della mano indicò il paesaggio intorno a loro «Siamo sulla Terra, Evelyne. Il pianeta d’origine dei nostri avi, curato per noi dalla morte dei Nativi. Pensi di avere vinto, ma ti sbagli. Sebastian Meatch, il primo della mia famiglia a mettere piede su Xaral, sapeva del complotto degli stupidi scienziati e dei Nativi. Li ha massacrati affinché potessero mettere in atto il loro piano e ripristinare la Terra, poi ha lasciato a noi, ai suoi discendenti, il compito di riprendercela, come è giusto che sia. Ed è proprio questo che ho intenzione di fare: ti ucciderò – perché lo farò – poi userò il potere della tua collana per tornare su Xaral e proclamarmi salvatore del mondo. Letteralmente».
«A cosa ti serve la Terra?» gli domandò Evelyne piena di rabbia. Non voleva credere alla cattiveria dell’uomo che aveva davanti. Non pensava che si potesse essere così egoisti e arroganti «Hai tutto il potere che vuoi su Xaral, perché vuoi rovinare nuovamente questo mondo?».
«Tu non capisci» le rispose Tyler scuotendo la testa «Il potere vero non è comodare un mondo o due. Il vero potere è far sì che gli altri ti adorino, che ti venerino, che pensino che tu sia superiore a loro. Sebastian Meatch l’aveva capito ed è sopravvissuto alla morte. Tutti conosco il suo nome, tutti raccontano le due grandi gesta e tutti lo amano. Questo è il potere, Evelyne. Per avere anche io il suo stesso splendore, per essere riconosciuto come un suo degno discendente devo fare qualcosa di tanto grande anche io e consegnare nuovamente la Terra agli umani lo è. Sarò il più grande di tutti per questo».
«Mi disgusti» commentò Evelyne «Non so se ti rendi conto dell’egoismo con il quale pensi, parli e agisci. Tutto questo parlare di te mi ha nauseata. Per un solo secondo non hai pensato agli esseri umani, pensi solo al tuo prestigio. È giusto che gli uomini tornino qui a vivere, nel loro pianeta d’origine, ma non alle tue condizioni. Non lo permetterò».
«E cosa pensi di fare tu, da sola, per fermarmi?» le domandò, piuttosto divertito.
«Non sono sola. Non avendo il tuo egoismo io mi sono fidata delle persone, ho confidato loro la verità e ci siamo aiutati a vicenda. Mentre noi siamo qui i miei amici combattono per me, spinti da un ideale e non dai soldi, come i tuoi. Non ho avuto bisogno di comprare nessuno e, se sarà necessario, loro moriranno per la giusta causa. Tu puoi dire lo stesso dei tuoi uomini? Quanti, dovendo scegliere tra la vita o la morte, sceglierebbero te e non loro stessi?»
«Quello che dici non importa» la interruppe «Perché qui ci siamo solo noi due e, per quanto i tuoi discorsi siano belli e strappalacrime, nessuno dei tuoi amici verrà a salvarti quando ti ucciderò!»
Detto questo Tyler le si gettò addosso, facendola cadere all’indietro. Con l’intenzione di strangolarla le porto le mani alla gola, e gliele premette sul collo per soffocarla. Evelyne tentò di difendersi come meglio poteva ma l’uomo era molto più forte di lei. Cercò di divincolarsi dalla sua presa dandogli dei calci, ma lui le si sedette sulle sue ginocchia, schiacciandogliele contro il terreno. Allora la ragazza, raccogliendo le ultime sue forze, conficcò due dita negli occhi di Tyler, che si staccò da lei emettendo un urlo di dolore. Le dita di Evelyne erano macchiate di sangue come la faccia del suo nemico e, dopo aver ripreso fiato, si scaraventò su Tyler, che continuava a coprirsi il viso. Entrambi caddero rotolando giù dal burrone. I loro corpi rotolando vennero colpiti da massi sporgenti e vari arbusti fino a quando, terminata la discesa, furono inghiottiti dall’acqua di un lago sottostante.
 
«Evelyne!» la ragazza aprì gli occhi non appena udì il suo nome. Era come in trans: sentiva il suo corpo dolorante e immobile, ma la sua mente era sveglia. Intorno a lei era tutto buio, ad eccezione di due figure. Tentò di andare verso di loro, ma non riusciva a muoversi. Provò a fargli una domanda ma, con suo disappunto, si accorse di non poter parlare.
«Evelyne» la chiamò di nuovo una voce dolce. Lentamente la ragazza riuscì a mettere a fuoco le figure. Vide che si trattava di un uomo e una donna, lui alto con i capelli castani ricci e un grande paio di occhiali ad occupargli il viso; lei con i capelli corti e il fisico minuto. Non avrebbe saputo dire quanti anni avessero, perché apparivano allo stesso tempo molto vecchi e molto giovani.
«Evelyne, bambina, non sai quanto tempo abbiamo aspettato questo momento. Finalmente possiamo dirti tutto, finalmente conoscerai la verità…» la donna si interruppe per qualche secondo
«Ci chiamiamo Cassandra e Julian e siamo i tuoi genitori».
La ragazza sgranò gli occhi e il battito del suo cuore accelerò. Erano davvero loro? Com’era possibile? Avrebbe voluto chiedergli tante domande, ma non riusciva a parlare. Silenziosamente iniziò a piangere dalla felicità, mentre studiava nei minimi particolari i suoi genitori. Era avida di trovare quei dettagli che sempre aveva notato simili tra genitori e figli, per i quali non aveva mai avuto un termine di confronto. Pensò che il suo colore dei capelli fosse come quello di suo padre, forse la forma degli occhi assomigliava a quella di sua madre, o forse era un mix fra i due…
«Ascolta, Evelyne, non abbiamo molto tempo» questa volta fu Julian a parlare «Ci è stato concesso di registrare questo messaggio poco prima di morire, di inserirlo dentro la tua collana e, quando tutto sarebbe finito, di mostrartelo. Crediamo che tu abbia il diritto di sapere come sono andate veramente le cose, di sapere la verità. Volevamo abbandonare il nostro pianeta morente con la speranza di trovarne uno migliore, con la speranza di avere un nuovo futuro per noi e per i nostri figli. Avevamo pianificato tutto, ma non siamo stati così furbi come pensavamo, dato che Sebastian Meatch ci ha trovati: sapevamo che era pericoloso, ma non siamo stati abbastanza furbi da non destare i suoi sospetti. Ci ha scoperti e ci ha minacciato per portare lui e i suoi uomini via dalla Terra: inizialmente volevamo combattere, ma non siamo riusciti a contrastarlo. Quelli dei nostri che non sono morti sono rimasti feriti gravemente e, stanchi del dolore che ci circondava, abbiamo accettato le sue condizioni. Arrivati su Xaral Meatch disse di voler avviare una convivenza pacifica con i Nativi ma noi, che eravamo testimoni della sua cattiveria, sapevamo che non era così. Non si sarebbe fermato davanti a niente e nessuno per il potere. Decidemmo che dovevamo sconfiggerlo prima che arrecasse danni ai quei poveri innocente, così io e tua madre ci consultammo con gli altri scienziati rimasti – coloro che erano testimoni di ciò che poteva fare – e abbiamo detto loro che dovevamo sbarazzarcene. Ci hanno voltato tutti le spalle, dicendo che eravamo pazzi, perché mettersi contro Meatch voleva dire morire; non credo che loro abbiano colpa, eravamo appena sfuggiti alla morte, tutto ciò che desideravano era vivere una vita tranquilla. Stavamo perdendo le speranze, quando un giorno il capo degli Xaraliani ci convocò. Domandandoci cosa volesse da noi la più alta autorità di quella strana popolazione, ci recammo all’incontro. Ci spiegò della loro capacità di predire il futuro, ci disse che aveva visto che Tyler li avrebbe uccisi tutti, ma c’era un modo di salvare sia loro che gli esseri umani, se lo avessimo aiutato. Ascoltammo la sua proposta: il bambino nel grembo di tua madre» Julian si interruppe per sorridere e indicare Evelyne «non era morto, ma solo molto debole. Ci disse che Sebastian li avrebbe massacrati in un luogo sacro per loro e, dopo la loro morte, saremmo dovuti andare lì e assorbire il potere. Quel potere sarebbe servito per darti la forza, per darne a noi e al nostro pianeta. Ci disse che serviva un oggetto per incanalare quel potere e noi scegliemmo la targhetta con il nome di mia madre, che portavo al collo da quando lei era morta. Il suo nome era Evelyne. Grazie a quei poteri, ci disse, tu avresti ripristinato l’energia della Terra, riportandola intatta come all’inizio. Mi dispiace non esserti di aiuto in questa parte della comprensione, ma Capo Saggio non ci ha mai spiegato nei dettagli i loro poteri, solo ciò che dovevamo fare. Ovviamente io e tua madre accettammo subito, ma il Nativo ci avvertì: noi due non saremmo più invecchiati e, al momento giusto, la tua collana ci avrebbe uccisi e cancellato la tua memoria. Non eravamo tanto preoccupati per che dovessimo morire, quanto quello che tu ti saresti trovata sola, senza nessuno ad indicarti la strada. Non sapevamo se avresti fatto la scelta giusta, se saresti stata abbastanza coraggiosa da continuare anche quando non c’era speranza, come facemmo noi. Dopo una lunga riflessione accettammo, perché capimmo che, se avessimo rifiutato, il sacrificio dei nostri colleghi sarebbe stato vano. Ci dispiace averti abbandonato, ma spero che tu capisca che lo abbiamo fatto per una causa più grande, per fa sì che l’umanità non fosse più succube di un uomo ricco e arrogante»
Una volta che Julian ebbe concluso il suo discorso, toccò a Cassie parlare: «Bambina mia, non commettere il nostro stesso errore. Non credere che gli uomini possano essere buoni o cattivi, perché ognuno può comportarsi bene o male a seconda delle situazioni. So che può essere facile giudicare: quand’eravamo giovani pensavamo di aver trovato le persone più buone e meritevoli di una nuova vita ma, nel momento del bisogno, tutti hanno scelto la via più facile. Dovrai imparare dal nostro errore, così come abbiamo imparato noi. Tutto ciò che puoi fare è dare agli uomini la libertà di scegliere come comportarsi e, se necessario, morire per questo; perché se c’è qualcosa per cui valga la pena di morire è proprio questo. Non sai cos’è la guerra e ti auguro di non scoprirlo mai. Per te questo è solo l’inizio e per noi è la fine. Ora che sai la verità il tuo ciondolo non avrà più effetto e perderà i suoi poteri, ma ciò che hai fatto, il modo in cui hai combattuto e resistito, è stato eroico. Siamo fieri di te e ti auguriamo tutto il meglio di questo mondo. Ti amiamo.»
Con il sorriso sulle labbra, Cassie e Julian scomparvero e Evelyne svenne, senza avere la possibilità di sussurrare “Anch’io” in risposta.
 
Dei “bip” ad intermittenza risvegliarono Evelyne dopo quello che le parve un sonno durato secoli. La ragazza si guardò intorno, confusa, cercando di capire dove si trovasse. Era sdraiata su un letto, degli aghi erano attaccati al suo braccio e un macchinario al suo lato faceva gocciolare lentamente qualche sostanza all’interno di un tubo, che finiva nel suo corpo.
Impiegò qualche minuto prima di capire che si trovava in una stanza dell’ospedale, simile a quella che aveva lasciato all’inizio dell’avventura. Sorrise, pensando a come fosse buffo il destino, che aveva segnato quel luogo come punto di inizio e di fine.
Un lieve russare proveniva dalla sua sinistra e, solo in quel momento, si accorse che qualcuno si era addormentato in una posizione scomoda su una poltrona. Con il cuore a mille, Evelyne riconobbe Ashton e un sorriso le illuminò il volto: era vivo.
«Ashton» lo chiamò sussurrando piano lei per svegliarlo, scuotendolo leggermente per una spalla. Non appena sentì il suo tocco, il ragazzo si svegliò e, passato un attimo di confusione iniziale, la guardò pieno di felicità.
«Evelyne!» esclamò pieno di sollievo.
Prima che la ragazza potesse dire altro lui si alzò e posò delicatamente le sue labbra su quelle di lei. Evelyne gli accarezzò il viso, inebriata dal bacio e pensò che non ci fosse essere umano più bello e perfetto di lui. Aveva un livido viola sullo zigomo destro e delle fasciature vicino alla tempia e lei sentiva di amarlo così tanto, perché quelle ferite se le era procurate combattendo per la loro causa.
«Parlando di cose importanti, cos’è successo?» domandò Evelyne avida di curiosità «Insomma, perché siamo qui a riposarci? Non dovremmo combattere Meatch e…»
«Ma… non ricordi nulla?» la interruppe Ashton.
La ragazza scosse la testa.
«Quando hai dato la collana a Meatch, una luce vi ha avvolti e poi siete spariti. Tutti credevamo foste morti e i suoi uomini si sono fatti prendere dal panico e lentamente hanno iniziato a dileguarsi. A quanto pare Meatch non aveva rivelato il suo piano a nessuno dei suoi collaboratori e, quando siete spariti, si sono fatti prendere dal panico. Molti, come mio padre, venivano tenuti in ostaggio e appena hanno potuto se la sono svignata, gli altri erano mercenari e sono andati a trovare un nuovo cliente da soddisfare. Sai com’è, un uomo morto non può pagare i propri debiti»
«Poi? Cos’altro è successo?»
«Quando gli uomini di Meatch hanno abbandonato l’edificio, hanno tolto la corrente e aperto le sbarre della nostra cella. Ho cercato di rianimare mio padre, ma senza successo, così sono uscito fuori dall’edificio, ho camminato ore alla ricerca di qualcuno e, appena ho potuto, ho chiamato l’ospedale. Una volta che lui era al sicuro sono tornato nel luogo in cui eravamo prigionieri per cercarti e tu eri lì, in piedi e cosciente, con Tyler svenuto a terra. Mi hai sorriso e mi hai detto che la tua missione era compiuta, perché eri a conoscenza di tutto. Mi hai toccato una spalla e ci siamo teletrasportati nella piazza principale di Lhoop e ti sei messa a parlare alla gente»
«Ho davvero fatto tutto ciò?» chiese Evelyne con gli occhi sgranati dalla sorpresa.
«Sì, è per questo che pensavo te lo ricordassi»
«Mi dispiace, ma l’ultima cosa che ricordo è il mio combattimento con Meatch sulla Terra» disse la ragazza, ma stava mentendo. In realtà il suo ultimo ricordo era quel messaggio impresso nella sua memoria, quello che le avevano lasciato i suoi genitori. Da una parte le sarebbe piaciuto poterlo confidare ad Ashton ma, allo stesso tempo, voleva tenerlo solo per sé.
«Avresti dovuto vederti, eri incredibile» continuò Ashton sorridendo orgoglioso. «Hai detto alla gente che doveva smetterla di vivere a testa bassa, che dovevamo lottare per l’arte, la poesia, la letteratura, per ciò che di bello avevamo sulla Terra, perché altrimenti ci saremmo annullati. Poi sono comparsi gli Xaraliani, milioni di creature blu si sono riversate nella piazza e i Terrestri hanno iniziato a spaventarsi, com’era logico pensare. I Nativi, però, non si sono tirati indietro e con pazienza ci hanno raccontato la verità. Hanno finalmente svelato l’imbroglio del primo Meatch, il suo tradimento e la sua sete di potere e poi, come alla fine… Oh, Evelyne, non ci crederai mai!»
«Cosa? Non tenermi sulle spine!»
«Ci hanno mostrato la Terra. Hanno detto che il nostro pianeta d’origine sta bene è salvo e, se vogliamo, possiamo tornarci. Ovviamente un team di scienziati si è già messo all’opera per costruire una navicella spaziale e forse per la fine dell’anno potranno iniziare i viaggi!»
Evelyne sorrise alle parole di Ashton. Ripensò ai suoi genitori – che finalmente aveva conosciuto – e pensò a come sarebbero stati felici di vedere che ciò per cui avevano lottato non era stato vano, che i loro amici morti erano morti per permettere al futuro di migliorare. Pensò a come sarebbe stato bello tornare sul loro pianeta d’origine, senza avere più il bisogno di sottomettere un’altra popolazione. Certo, ci sarebbero state altre guerre e altri uomini malvagi ma, finché ci sarebbero state persone pronte a morire per la libertà, il futuro non la spaventava.
«È meraviglioso!» esclamò sorridente Evelyne.
Ashton la baciò di nuovo, questa volta più a lungo, poi la guardò pieno d’amore.
«La Terra sarà la nostra avventura. Lì potremmo vivere e…» si interruppe «farci una famiglia» aggiunse arrossendo.
La ragazza arrossì a sua volta e rise.
«Prima dovremmo uscire da questo ospedale però» gli fece notare lei.
«Giusto, vado a chiamare il dottore, magari vorrà sapere che sei sveglia» disse Ashton imbarazzato, uscendo velocemente dalla stanza.
Evelyne chiuse gli occhi, finalmente felice e istintivamente si toccò il collo. Non fu sorpresa di trovarvi ancora appesa la sua collana, quella con il suo nome. La strinse e, anche se ormai era priva di potere, quel gesto era radicato così profondamente in lei che non avrebbe mai perso l’abitudine di farlo. Finalmente il mondo era in pace. La ragazza sapeva che quella pace sarebbe stata solo temporanea, che una guerra prima o poi sarebbe venuta nuovamente a distruggere le loro vite ma, ora che sapeva come combattere, non la temeva più così tanto. 

 
E così siamo arrivati alla fine (dopo mooolto tempo) di questa mia storia. Non so davvero cosa dire se non grazie. Un grazie di cuore a tutti coloro che hanno letto, recensito, apprezzato questa storia, che mi hanno seguita nonostante i miei aggiornamenti scostanti, nonostante i miei errori e tutte le cose che ancora devo imparare. Spero di non avervi deluso con questo capitolo finale né annoiato, dato che è più lungo dei precendenti, ma avevo molto da scrivere.
Un grazie di cuore va anche ad Irene, perché crede sempre in me e mi dà la forza di portare a termine i progetti che ho iniziato, anche quando io non ci credo più.
Ci vediamo alla prossima storia!
 
Francesca.
 

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