Finnick Odair ha giocato tre volte

di M4RT1
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Reaping ~ ***
Capitolo 2: *** Last goodbye ~ ***
Capitolo 3: *** The travel ~ ***
Capitolo 4: *** About beautiful dresses and strange costumes~ ***
Capitolo 5: *** Nobody want to ~ ***
Capitolo 6: *** We have to kill ~ ***
Capitolo 7: *** Interviews and best friends ~ ***
Capitolo 8: *** False swaines and true loves ~ ***
Capitolo 9: *** Let's the Games begin ~ ***
Capitolo 10: *** Friends, enemies and allies ~ ***
Capitolo 11: *** Life and death ~ ***



Capitolo 1
*** The Reaping ~ ***


Finnick Odair ha giocato tre volte

Chapter I - The Reaping

 
 
District 4, 65th Hunger Games
Non aveva mai avuto paura. Mai. Neppure quella volta al mare, quella in cui aveva rischiato di affogare e i polmoni avevano minacciato di cedere sotto i colpi delle onde.

“Finnick Odair!”

Il cuore gli martellava nel petto, rimbombandogli fin nelle orecchie.

“Vieni qui, coraggio.”

D’improvviso, la camicia gli sembrava troppo stretta, il colletto quasi soffocante. Una goccia di sudore gli colò sulla tempia, incollandogli una ciocca di capelli biondi alla fronte. L'aria era opprimente.
Attorno a lui, i presenti lo guardavano: centinaia di facce che galleggiavano nel suo campo visivo, nitide e poi non più a fuoco, silenziose e immobili in un'attonita rassegnazione. Nessuno si sorprendeva più, ormai, non per gli Hunger Games.

Il viso pallido e tirato di Gea, l'Accompagnatrice che da sempre animava il momento della Mietitura, lo accolse sul palco con un sorriso. Una mano liscia e dotata di lunghi artigli blu oltremare lo sospinse fino ad affiancarlo al tributo femmina, Maia Johnson, una diciassettenne poco più alta di lui.
Gea Mirrors indossava una parrucca rosso scuro e aveva l’alito profumato di cannella, eppure in quel momento appariva pericolosa quanto un Pacificatore. Vestito in modo improbabile, certo, come sempre mille miglia lontana da loro, ma comunque un Pacificatore: falsa, letale, pronta a consegnare il ragazzino in pasto alle fauci della Capitale.

“Stringetevi la mano, forza.”

Parole vuote gli sfiorarono appena la mente, costringendolo a toccare la mano della ragazza quasi contro la sua volontà. Che senso aveva stringergliela, se erano già nemici? Che senso aveva fingere che andasse tutto bene, che fossero addirittura fortunati, quando sarebbero morti entrambi? Eppure, le strinse la mano: quella della ragazza era calda e morbida, il genere di mano di chi non ha mai lavorato come pescatore. E di certo, se c'era qualcuno che non aveva mai trascorso nottate gelide in cerca di cibo, accampata su qualche peschereccio in balia delle onde, quella era Maia Johnson, la figlia del Sindaco del Distretto Quattro.

La stretta di mano fu rapida, tremante, leggermente sudata.

Lo schermo in fondo alla piazza riportava il loro visi sconvolti: i grandi occhi chiari di lei, la bocca rosea aperta in una perfetta “O” e le lentiggini marroni sul suo volto. E Finnick, che le stava accanto, era un altro bambino spaventato, un ragazzino di una bellezza tanto disarmante quanto dolorosa nella sua ingenuità. Le telecamere ripresero i capelli ramati che gli ricadevano ad onde sulla fronte, gli occhi chiari, lucidi, il volto asciutto e liscio come quello di un bambino. Avrebbero dato tutto in pasto agli abitanti di Capitol City, quella sera, e la bellezza che Finnick aveva sempre ignorato sarebbe diventata di dominio pubblico.

“Bene così, ragazzi,entriamo”

Si era sempre detto che, se fosse stato chiamato come Tributo, non si sarebbe voltato un’ultima volta verso la gente, in un addio doloroso ai volti familiari. Eppure lo fece. Fu questione di un secondo, giusto il tempo di catturare un’ultima istantanea della piazza con i suoi negozi, il rumore del mare vicinissimo, i raggi di sole che illuminavano persone a caso, persone sconosciute che non avrebbe mai più avuto l’opportunità di conoscere.

Poi seguì Maia.
 
***
 District 4, 70th Hunger Games
"Stai seduto composto, Finn, per favore."

Sbuffo teatralmente, soffiandomi via una ciocca di capelli dalla fronte. Sono seduto su di una sedia di legno, una sedia scomoda, rigida e fredda, costretto a guardare quel maledetto filmato che Capitol City ci manda ogni dannato anno per ricordarci le nostre colpe. Credo sia la tredicesima volta che lo guardo e credo anche di averlo imparato a memoria, testo e immagini comprese. Eppure, come sempre, Mags ritiene debba mostrarmi rispettoso, sicuro, educato. Dice che tranquillizza i Tributi, ma io so che non è vero. Però obbedisco, perché non riesco a farne a meno, quando è lei a darmi dei consigli.

Rispettoso, mormoro. Come loro si sono mostrati con me, mascherandomi e gettandomi in un’Arena a diventare un assassino o una vittima. O tutte e due le cose, che è anche peggio. Il loro modo di essere rispettosi è stato l'offrirmi un millesimo del cibo che vomitano per mangiare ancora, è stato offrirmi in pasto a donne che non hanno neppure un quarto della decenza delle nostre madri e che si libererebbero la coscienza regalandomi cose che non mi servono. Il loro modo di essere rispettosi è stato trascinarmi da Snow, i giorno del mio sedicesimo compleanno, e dirmi "Ehi, Finnick, sei così carino! Perché non ti prostituisci?"
E dov'era la gentilezza quando ho rifiutato e per mesi mi hanno vietato di ricevere il compenso che spetta a tutti i Vincitori?

"Benvenuti alla Settantesima edizione degli Hunger Games!"

Eppure, mi costringo a pensare, sono stato fortunato. Sono mesi, ormai, che Snow ha rinunciato a pressarmi per questa storia.

"Come andiamo?"

La voce di Gea non mi risulta più fastidiosa come un tempo, ma preferirei ignorare anche quella. Se solo Mags la smettesse di fissarmi con quello sguardo assassino, insomma. Certe volte capisco come abbia fatto a vincere ai Giochi, ai suoi tempi. Certe altre volte – quelle in cui mi invita a casa sua per mangiare qualcosa di decente, una volta tanto – non capisco dove abbia nascosto la dolcezza mentre si faceva largo nella giungla armata di tridente.

"Partiamo dalle ragazze, come sempre" sta annunciando la presentatrice, con un sorriso smagliante. Lei è felice, lo è davvero, per questo non la odio: lei è ingenua, non sa. Non capisce cosa si prova ad essere “celebri”, ad essere acclamati da una folla perché si ha ucciso un branco di bambini. Ma, quando divenni un Tributo, non lo sapevo, e allora la detestavo con tutto me stesso.

Mi concentro sulla folla, cercando di non pensarci. Come sempre, provo a indovinare chi verrà estratto: è un gioco sadico, lo so, ma è tutto quello che sono riuscito a inventare a quindici anni, quando ho fatto da Mentore per la prima volta. Non ho mai indovinato, ma forse questo è l’anno buono. Sorvolo la folla e il mio sguardo si posa su una ragazza bionda, più o meno della mia età, che ha l’aria abbastanza sicura di sé. Potrebbe vincere, lei, forse è per questo che spero venga estratta al posto della lunga file di bambine in fondo alla piazza.

"Annie Cresta."

La voce di Gea riecheggia nella piazza, galleggiando nell’aria. È la stessa sensazione, ogni anno, la stessa impressione che provai quando chiamarono me. Ma questa volta è amplificata dieci, cento, mille volte. Sono in piedi, all’improvviso. Lo sguardo di tutti è puntato su di me, perché sanno. Forse lo sa anche Gea, forse no.

"Siediti, Finn" mi calma Mags, stringendo la mano ossuta sulla mia gamba. "Siediti" ripete.

Annie è stata a casa sua, qualche volta, a cena. Non riesco a pensare ad altro mentre la guardo farsi strada tra le ragazze, lo sguardo fisso sull'asfalto.
Quando sale sul palco, non oso guardarla. Non devo farlo, non ora, non rientra nel mio ruolo di Mentore. Darei qualunque cosa per essere ancora tra la folla, per essere uno di quei cittadini di mezza età solo sfiorati dalla tragedia dei Giochi. Per essere Gea. Per essere un Tributo. Per essere morto, anche.

Alzo lo sguardo solo per un momento, catturando l’immagine di Annie nel grande schermo: indossa un vestito nuovo, rosso porpora, ha i capelli ben pettinati che le ricadono sulla schiena, folti e scuri, e lo sguardo velato di qualcosa di più profondo della paura. E, in un attimo, lo so. E lo sa anche lei: sarà l'ultima volta che cammina per questa piazza, perché non ucciderà. Me lo promise anni fa, prima della sua prima Mietitura, ma sono certo che se ne ricordi ancora.

"Micheal McLean."

Il seconto Tributo ha gli occhi verde bottiglia e l’aria spaurita. Si affianca ad Annie, le braccia ciondoloni. Da qualche parte, qualcuno sta singhiozzando.

"Bene, Tributi, stringetevi la mano" li incita Gea, seguendo la procedura. I due obbediscono goffamente. La mano esile di Annie stringe quella tozza del figlio del farmacista. Il braccialetto di conchiglie che abbiamo creato insieme tintinna leggermente. Poi la piazza scoppia in un applauso smorto e triste, lo stesso che accompagna i Tributi da sempre, e la cerimonia finisce. I sospiri di sollievo non si contano, le risate nervose nemmeno: oggi, solo due famiglie si barricheranno in casa in attesa di notizie; le altre festeggeranno.

"Finn, dobbiamo andare" mi esorta Mags, facendomi cenno di alzarmi.

"Arrivo" rispondo, scattando in piedi. Cerco di mantenere lo stesso tono di sempre, ma so già che non riuscirò a comportarmi come un Mentore che si rispetti.

Un leggero venticello soffia tra gli edifici, facendo tintinnare gli scacciapensieri che tutti teniamo appesi sulle soglie; quello a casa mia, nel Villaggio dei Vincitori, è fatto di conchiglie rosee che Annie ha raccolto per me quest’estate.
Il palco si svuota, anche il sindaco è rientrato. Ci sono solo io, in piedi, immobile, le braccia penzoloni lungo i fianchi e lo sguardo puntato nell’aria. Mi sento strano, peggio del solito. Sento il vento che mi scompiglia i capelli – gli stessi che, a Capitol City, hanno toccato praticamente tutti, i famosi capelli color rame – e la giacca che sbatte contro le cosce; sento le risatine di chi non è stato scelto, sento gli ultimi tintinnii di chi sta rincasando. Sento tutto questo e immagino quello che stanno provando Annie e Micheal, barbarmente strappati a tutto ciò.

E capisco che no, non posso lasciare che accada anche quest’anno. Non con lei.


N.d.A.: Dunque, questa è la prima long che scrivo su questo paring, spero di non fare troppo schifo >_<
Questo primo capitolo (e tutti i seguenti) si divide in due parti: la prima, in terza persona, è un flashback dell'Edizione di Finnick; la seconda, raccontata dal suo punto di vista, parla dell'Edizione di Annie.
Spero vi piaccia e aspetto qualche vostro parere (anche negativo, se serve ù.ù)

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Capitolo 2
*** Last goodbye ~ ***


Finnick Odair ha giocato tre volte

Chapter II - Last goodbye

 
 
District 4, 65th Hunger Games
Finnick fu condotto in una stanza all’interno del Palazzo di Giustizia, in fondo a un lungo corridoio tappezzato di carta da parati marrone chiaro che terminava con una porta di legno massiccio. Dentro, nell'aria polverosa di un luogo che non si apre da mesi, il ragazzo fu fatto accomodare su di una poltrona blu, un po’ consunta, e lì attese le proprie visite. I suoi genitori, forse Annie. Non lo sapeva, non gli importava, non voleva nemmeno pensarci.

Quando la porta si aprì la prima volta, sperò fosse un Pacificatore, sperò che nessuno gli avrebbe fatto visita – sarebbe stato più facile separarsi dal suo mondo. Invece era suo padre, Antony Odair, uno dei pescatori più conosciuti dai commercianti di molluschi. Aveva grosse mani nodose, lunghi baffi ormai grigi e profondi solchi sulla fronte che gli conferivano un’aria perennemente arrabbiata.

“Ciao, Finnick” lo salutò, avvicinandosi.

“Ciao, papà” rispose lui, il tono noncurante.

“Conto su di te” mormorò l’uomo, poggiandogli una delle grosse mani sulla spalla. Andava subito al sodo, come sempre. “La mamma conta su di te, sappiamo che puoi farcela. Maia è debole, non è in grado di far nulla, ma tu sì. Tu sai fare i nodi, Finnick, sai usare un tridente e una rete. Sei abbastanza forte “ mormorò, veloce. Era uno dei discorsi più lunghi che avesse mai fatto, ma non riuscì a consolare Finnick.

“Ho solo quattordici anni, pa’” sussurrò, ripetendo ciò che proprio l'uomo si era lasciato sfuggire, l'anno precedente. Parole che avevano previsto il vero, perché il quattordicenne della Sessantaquattresima Edizione era morto al bagno di sangue.

“Lo so, ma tu sei diverso” riuscì a dire l’uomo, poi si voltò.

Finnick non seppe dire se stesse piangendo, ma quando il Pacificatore lo fece uscire aveva gli occhi lucidi. Non si dissero addio, né tantomeno si abbracciarono. Semplicemente si osservarono per un secondo e poi, accompagnato dai passi della prossima visita, Antony Odair uscì dalla stanza.
 
Annie Cresta fu l’ultima ad entrare. Indossava un vestitino celeste e aveva i capelli scuri raccolti in due codini appena sopra le orecchie. Gli elastici tappezzati di perline mandavano dei riflessi luminosi tutt’intorno.

“Ciao, ‘Nick” lo salutò, la voce rotta dal pianto. Aveva dodici anni ed era scampata alla sua prima Mietitura, ma non sembrava felice.

“Ti ho detto di non chiamarmi così” sbottò il ragazzino, alzandosi. Era più alto di lei di tutta la testa, ma si accovacciò fino a toccarle il mento con la fronte.

La abbracciò forte. “Posso farcela, sai?” mormorò, frenando le lacrime.

“Mmh mmh.”

“E quando tornerò, sarò ricco e potremo vivere felici” continuò.

“Nessuno ha mai vinto a quattordici anni” si lasciò sfuggire Annie, le lacrime che le solcavano le guance rosee.

Il cuore di Finnick mancò un battito mentre, le dita tremanti, rifaceva il fiocco sul vestito della bambina.

“Sarò il primo” mormorò, allontanandosi.

Si erano avvicinati solo tre mesi prima, alla Spiaggia – un piccolo spazio pieno di sabbia bagnata da una parte di mare poco fruttuosa in cui i pescatori non andavano quasi mai. Lui sedeva lì, intento a provare un particolare tipo di nodo; lei passeggiava, raccogliendo sassi. Ne trovava di bellissimi, li bucava, creava collanine che vendeva in piazza per potersi permettere i soldi per le gelatine alla frutta che le piacevano tanto.

“Devi esserlo” squittì la più piccola, allontanandosi. "Devi essere il primo."

Finnick annuì, serio. Si fissarono per un secondo, poi due, poi dieci. Nonostante fossero amici da soli tre mesi, Finnick poteva sentire distintamente il panico invadergli ogni centimetro di pelle. Non la rivedrò mai più, si disse. Non rivedrò mai più la mia prima compagna di banco, la mia nuova amica, la mia migliore alleata nella caccia al tesoro a Natale.

Poi la porta si aprì. “Tempo scaduto” li richiamò un Pacificatore, prendendo Annie per un braccio. Lei lo guardò di nuovo, seria, attenta, gli occhi che guizzavano in un misto di supplica e coraggio.

Fu l’ultima immagine che Finnick ebbe di casa sua, l’ultima prima di entrare nell’Arena.
 
***
 
District 4, 70th Hunger Games

C’è qualcosa di sbagliato nell’impedire ai Mentori di salutare i Tributi. Qualcosa di sbagliato nell’ignorare la differenza che corre tra Tributi, Mentori e amici. Soprattutto amici, considerando che siamo tutti dello stesso Distretto.

Passeggio avanti e indietro, osservando il gruppo di persone che saluterà Annie: sua madre, suo padre, alcune amiche, un cugino. Conosco quasi tutti, mi lanciano sguardi tristi, imploranti. So cosa dicono, ma è qualcosa che non posso controllare: è la preghiera di salvarla, solo che io non sarò lì. E anche se è difficile da accettare, se mi additerranno come quello che non ha fatto abbastanza, non potrò fare nulla.

La fila si riduce a un paio di ragazze. Credo di aver flirtato con entrambe, ma non ricordo i loro nomi. Mentre una entra, l’altra mi si avvicina e mi fissa con occhi scuri e penetranti.

"Penelope" mormoro, ricordando quello sguardo. Ha un anno meno di me e ha rischiato di essere Tributo, l'anno scorso, solo che una ragazza si è offerta al suo posto. Ha perso, ma l'ha fatto con dignità, e ha salvato una vita. Non mi perdonerò mai quella morte.

"Sì?" mi chiede Penelope, riportandomi alla realtà. Mi sventola una mano davanti agli occhi e sbuffa, i capelli che le ondeggiano sul collo. Una volta, più o meno sei mesi fa, ha provato a baciarmi e io ci sono stato. Poi per giorni non ho avuto il coraggio di parlare con Annie, perché è una sua amica e io l'ho lasciata dicendole che non era il mio tipo. La verità è che nessuno è il mio tipo, ultimamente. Adesso non sta provando a sedurmi, non sta flirtando, ma la cosa non mi consola affatto. Perché anche i suoi occhi, anche le sue mani, anche lei mi sta tacitamente chiedendo di salvare Annie. E io non posso farlo.

"Nulla, è solo che-" provo a spiegare, ma l’altra ragazza è appena uscita e fa cenno all’amica di entrare, prima che scada il tempo. È bionda, lei, ha la pelle abbronzata e indossa un vestito rosa pallido.

"Salvala, Finnick" mi dice solo. Si ricorda il mio nome, lei. Poi va via.


L’orologio segna la fine del tempo delle visite mentre sto per percorrere il corridoio per la quindicesima volta.

"Gli incontri sono finiti" mi informa il capo dei Pacificatori, aprendo la porta della stanza di Annie. Non è la procedura, ma forse anche lui è umano. "Hai cinque minuti, poi saremo nei guai entrambi."

Anche se trascorrerò con lei i prossimi giorni, entro e corro ad abbracciarla. Non ha pianto, a giudicare dai suoi occhi, e in effetti sembra decisamente più calma di me. Mi stringe forte, dandomi colpetti distratti sulla schiena, quasi i nostri ruoli si siano invertiti. Forse è così.

"Andrà bene" sussurra. Non so cosa voglia dire, ma non è esattamente quello che mi aspettavo da lei. Insomma, Annie Cresta è sempre stata forte, ma mai così. Quando tornai Vincitore, fu lei a rimettermi in sesto, lei a convincermi che non ero un assassino. Certo, ciò non toglie che lo ero, ma riuscì a farmi tornare me stesso. Eppure non avrei mai creduto che avrebbe affrontato così la sua condanna a morte.

"Andrà bene" ripeto io, cercando di convincermene. Posso aiutarla, in fondo, sono sempre Finnick Odair. Potrei aiutarla con gli sponsor, farle avere cibo e armi come Mags ha fatto con me. Continuo a stringerla, come se abbracciandola impedissi alla Capitale di portarla via da me, da qui, dalla sua vita. Cosa direbbe Snow, se mi rifiutassi di farla partire? Ucciderebbe entrambi? Probabilmente sì.

"Non devi sentirti in colpa, Finn. Non è colpa tua" mi mormora Annie, staccandosi e fissandomi negli occhi.

Certo, non lo è. Non sono stato io a decidere tutto questo, né a inserire il suo nome nella boccia. Su questo non ho alcun potere, altrimenti di sicuro il nome di Annie non sarebbe mai comparso. Poi però capisco.

"Si tratta della proposta di Snow, vero?" sussurro, inorridito. "Sei la mia punizione."

La cosa è tanto assurda quanto probabile. Deve essere per forza così che sono andate le cose, perché Snow non lascia nessuno impunito. Perché se ti rifiuti di frequentare i letti delle donne che gli stanno simpatiche, allora l'unica donna che sta simpatica a te deve morire.

"No, non può essere" cerca di consolarmi lei, eppure è stata la sua bocca a pronunciare quell’ipotesi. "Io starò bene, Finn. Tu non devi cedere" mi dice, quasi me lo stesse ordinando. "Non devi andare alla Capitale, non devi obbedire a Snow. Promettimelo. Io starò bene."
Lo ripete più volte, tornando sulla vecchia sedia blu che da anni ospita i Tributi del Quattro.

"Come potrai stare bene?" chiedo, ma non ottengo risposta. Il Pacificatore è appena entrato e, con sguardo un po’spaventato, mi fa cenno di uscire.


N.d.A.: Dunqui (?), ecco qui il secondo capitolo :3 Dato che ne ho già scritti parecchi, ho pensato di postare i primi abbastanza velocemente, ma vi preannuncio che comincerò a rallentare quando dovrò scrivere in periodo scolastico ù.ù
Ringrazio recensori e lettori vari, coloro che hanno inserito la mia storia tra le Preferite, le Seguite e le Ricordate :)
Ci sentiamo presto, spero :D

 

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Capitolo 3
*** The travel ~ ***


Finnick Odair ha giocato tre volte

Chapter III - The travel

 
 
Capitol City, 65th Hunger Games
"Mi raccomando, ora mangiate e poi subito a riposare. Saremo a Capitol City in meno di otto ore."

La voce stridula di Gea riempì il vagone ristorante, rimbalzando sulle pareti di ferro e creando un’eco che fu percepita ovunque nel treno. Finnick e Maia sedevano su un comodo divano in pelle, rigidi, impegnati a squadrarsi a vicenda.

Finnick conosceva Maia solo di vista, l'aveva osservata in sporadiche apparizioni pubbliche al fianco del sindaco. Era una ragazza alta, snella, dai capelli tagliati corti e dagli occhi profondi, verde cupo. Aveva quell'aria indefinibile di chi è stato curato e ha ricevuto tutto quello di cui ha bisogno. Quell'aria che era un vanto, nei Distretti. Seduta di fronte al tavolo del pranzo, si mordicchiavale labbra e fissava il cibo con distacco.

"Avete sentito, ragazzi?" li riprese Gea, muovendo nervosamente un piede fasciato da una stretta scarpa rosa.

"Non ho fame, grazie" mormorò la ragazza, scuotendo il capo. I capelli chiari ondeggiarono da una parte e dall’altra, addolcendole i tratti del viso.

"Oh, ti assicuro che nessun Tributo ce l’ha, cara" sospirò la donna, prendendole una mano con fare tragico. La ragazza trasalì, allontanandosi di scatto. "Ma quando sarete nell’Arena, allora rimpiangerete questo momento."

Dal suo posto, Finnick scrollò le spalle e afferrò un panino dalla crosta scura. Ne staccò un pezzo con un morso e lo masticò a lungo, cercando di decifrarne il sapore: non era pane del suo Distretto, ma non ne conosceva la provenienza. In ogni caso, nella sua bocca sembrava gomma. Stava per sputarlo quando una nuova voce interruppe il chiacchierio di Gea.

"Viene dal Distretto Nove, è pane ai cereali" spiegà una voce sconosciuta.

I due Tributi si voltarono di scatto, gli sguardi che correvano verso la nuova arrivata: era una donna alta, magra, dai lunghi ricci biancastri e dalle spalle esili ma larghe. Mags era l’unica vincitrice ancora in vita, al Distretto Quattro, Mentore di una serie infinita di ragazzini e ragazze che erano morti prima ancora che la gara entrasse nel vivo.

"Sei Mags, vero?" domandò Maia, avvicinandosi alla donna. Lei non parve stupita dall’accoglienza poco entusiasta.

"Sono io, sì. Tu sei Maia, giusto?" domandò. "E lui…?"

Finnick si riscosse e si alzò di scatto, avanzando verso la Mentore.

"Sono Finnick. Finnick Odair."

La donna annuì al suo indirizzo e lo fissò apertamente, quasi soppesando ogni centimetro del suo corpo. Di tanto in tanto, annuiva. Al termine della ricognizione gli si avvicinò con calma e gli toccò una spalla. Lui trasalì e abbassò lo sguarod sulle punte delle scarpe consunte.

"Alza quello sguardo, Finnick" lo richiamò lei, il più gentilmente possibile. "Regola numero uno, mai mostrarsi timido o in imbarazzo. Mai. Chiaro?"

Finnick la fissò, arrossendo. Era uno dei suoi difetti, il sentirsi sempre in soggezione; sapeva di essere carino, non lo negava, le ragazze erano abbastanza chiare al riguardo, ma il sentirsi fissare quasi come fosse un animale raro lo metteva sempre in imbarazzo. La sua era una bellezza di cui non amava vantarsi, una qualità come il saper fare nodi o il vincere le gare di rutti a scuola.

"Scusa, è un mio difetto" ammise, ignorando lo sguardo trionfante di Maia.

"Dovremo lavorarci su" commentò la donna, annuendo. "Ora mangiate, poi parleremo dei Giochi."


 
Mancavano poco più di quattro ore all’arrivo quando terminarono di pranzare. Finnick si sentiva pieno da scoppiare: aveva lo stomaco pieno di creme, carni pregiate e pane, per non parlare della spaventosa quantità di cioccolato che aveva ingerito a fine pasto, fino a farsi fermare da Mags.
Seduto sul divano, circondato da stoffa e gioielli e cose che non aveva mai avuto la possibilità di sfiorare, il ragazzo osservava il sigillo di Panem concludere il riassunto delle Mietiture. Lui e Maia avevano passato l'ultima mezz'ora a trovare conforto nei volti degli altri Tributi, anche se alcuni erano abbastanza minacciosi da incutere loro terrore ancor prima di conoscerne il valore: c'era un ragazzo grosso quanto un armadio, al Distretto Uno, e al Due entrambi i Tributi avevano l'aria di chi può uccidere solo con lo sguardo.

"Allora, qual è il segreto?" domandò all'improvviso Maia, sporgendosi verso la Mentore. Mags sedeva all’altro capo del tavolo, abbastanza rilassata.

"Non esiste un segreto per vincere, ragazzi" rispose semplicemente, lasciandosi sfuggire un sospiro. "Posso solo darvi un consiglio, se vi va: giocate sui vostri punti di forza."

"E se non ne avessimo?" chiese Finnick.

"Non è possibile, io ne vedo già tanti in voi" lo tranquillizzò Mags, con un sorriso. "Ad esempio, tu sei bello: questo ti potrà aiutare con gli sponsor, a Capitol City. E tu, Maia, sei determinata, una qualità fondamentale una volta che ti troverai nell’Arena."

Annuirono entrambi, ancora incerti.

"Non appena entreremo in città, incontrerete i vostri stilisti" proseguì la Mentore, sicura. "Stasera, alla sfilata dei carri, voglio che vi mostriate sicuri di voi, forti, siamo intesi? I deboli non vincono gli Hunger Games."

La sua voce, dolce e tranquilla, assunse un tono più duro.

"E poi?" domandò Finnick, preso dalla situazione. Aveva il viso poggiato sui palmi delle mani, come un bambino intento a seguire la sua prima lezione di nuoto.

"Poi vedremo cosa fare con voi" sentenziò la donna. "Quali sono le vostre abilità?"

Maia si strinse nelle spalle, una smorfia di incertezza sul volto. Per la prima volta si era resa conto della grave mancanza che portava essere la figlia del sindaco. Il suo sguardo, quasi controvoglia, corse al ragazzino che le stava accanto.

"Io sono bravo a pescare" sbottò Finnick, quasi vergognandosene. "Ma forse non mi servirà a niente."

Mags sorrise, scuotendo il capo:

"Non è detto che non ti servirà, invece. Sai maneggiare un tridente?"

Il volto di Finnick si illuminò.

"Sì, lavoro con tridente e rete."

"Vedi? Tutto può essere utile, negli…"

Ma la voce di Mags si perse, nascosta tra lo stridore di ferro e freni del treno appena arrivato in stazione.
Maia e Finnick la lasciarono al tavolo e corsero ad affacciarsi, stupefatti: Capitol City si stendeva davanti ai loro occhi, un ammasso scintillante di ferro e colori pastello, strass e parrucche sgargianti. La folla si accalcava sul binario, allegra, tendeva mani per stringere quelle dei Tributi, e Finnick notò che la maggior parte degli occhi fissava proprio lui, lasciando Maia in secondo piano. Adolescenti e signore di mezza età volevano toccarlo, parlargli, fargli semplicemente l’occhiolino. La folla in delirio impedì loro di scendere per quasi cinque minuti, fino all’intervento dei Pacificatori.

"Un’accoglienza fenomenale!" stava squittendo Gea, salutando allegramente la folla che non la degnava di uno sguardo. "Credo che questo vi farà guadagnare punti agli occhi degli sponsor!"

Finnick, superato il primo momento di imbarazzo totale, aveva acquisito più sicurezza. Sorrise a un paio di ragazzine che sventolavano le mani pallide e si lasciò sfuggire una risatina alla vista di una donna dell’alta società con la pelle interamente blu notte. Tatuaggi esageratamente grandi, ciglia più lunghe delle sue dita, vestiti pomposi sommersero la troupe di Tributi e cameramen che avanzava verso il Centro di Addestramento, in cui a ogni Tributo sarebbe stato assegnato il proprio stilista.

"La folla ci adora" ridacchiò Finnick, varcando la soglia dell’edificio. Si voltò verso Maia, pronto a condividere quel piccolo trionfo, ma il viso della ragazza era una maschera di sarcasmo.

"Oh, andiamo Odair: la folla adora te, non me" commentò, piatta. "Con permesso, vado dal mio Stilista."

Finnick la guardò voltarsi e sparire, ma prima che potesse ribattere fu sospinto verso un’altra stanza.

 
***
 Capitol City, 70th Hunger Games

Il viaggio in treno è noioso, come sempre. Forse mi ha stupito la prima volta, ma ormai non basta a stemperare noia e nervosismo.

Per la prima parte della traversata, non faccio altro che fare avanti e indietro dal vagone al gabinetto, in procinto di vomitare una colazione che nemmeno ho terminato. Mags, intanto, fa anche il mio lavoro, cerca di consolare i Tributi e di dar loro i primi consigli. Un compito tosto, insomma.

Sono di nuovo nel bagno – questa volta credo davvero di star per vomitare – quando qualcuno bussa alla porta.

"Mags, io non credo di-" comincio, urlando in direzione della mia vecchia Mentore, ma quando la porta si spalanca appare il volto di Annie.

"Sono io" mi informa, come se potessi confonderla con una settantenne. Si avvicina e mi cinge la vita, il viso appoggiato alla mia schiena. Un brivido mi corre lungo la colonna vertebrale, forse ho la febbre.

"Come ti senti?" domando, rivolgendomi alla mia migliore amica.

Lei ride, una risata dolorosamente simile a quella dell’Annie che passava il tramonto sulla spiaggia, poggiata alla mia spalla.

"Come mi sento io?" ripete, scettica. "Sei tu quello in procinto di vomitare."

Alzo la testa e sbotto in una risatina nervosa, la pelle stranamente consapevole del tocco delle mani di Annie sui miei fianchi. Qualcosa che non ha a che fare con il mal di stomaco si muove nella mia pancia.

Mi sistemo i capelli con una mano, stringendo quella di Annie con l’altra.

"Mi riprenderò" sorrido. "Usciamo" aggiungo, sciacquandomi la faccia. Lo specchio sul lavandino mi rimanda l'immagine della pelle pallida, degli occhi un po' lucidi, della mia espressione terrorizzata che emerge nonostante mi sforzi di nasconderla. "Mags mi ucciderà."

Annie mi segue fino al vagone ristorante, dove Mags parla con Michael. Le sue parole mi ricordano terribilmente quelle che disse a me e a Maia, cinque anni fa.

"Eccoti qui, Finn" mi richiama la donna, trascinandomi su di una sedia. "Stavo dicendo a Michael che mi sembra forte, abbastanza robusto."

Non mi do nemmeno la pena di verificare se Mags faccia sul serio – certe volte, con casi particolarmente disperati, inventa qualità inesistenti solo per tirar su di morale i Tributi. Mugugno qualcosa in risposta, trattenendomi dal correre di nuovo in bagno, pronto a nascondermi. Mi siedo e mi impongo di fingere calma, fingere prontezza, fingere sicurezza.

"E tu, Annie?" cerca di dire Mags, provando a tornare alla normalità. "Quali sono i tuoi punti di forza?"

Annie arrossisce, balbetta qualcosa, abbassa lo sguardo.

"Lei è dolce. È simpatica, aiuta la gente. Sa correre velocissimo, ma non quanto me" scattò, alzandomi. Le immagini della mia vita con lei mi scorrono davanti agli occhi, impedendomi di pensare a un futuro senza Annie Cresta. "Sa fare delle bellissime collane di conchiglie, buca le pietre senza scheggiarle."

È lei, è la mia Annie. Ed è anche qualcuno che non ha possibilità di sopravvivere, né tantomeno di vincere. In un momento sono accanto alla porta, diretto alle camere da letto.

"Con permesso" mormoro, correndo via.

Non c’è altra scelta. Solo accontentando Snow posso darle la possibilità di tornare a casa.


N.d.A.: Spero che anche questo capitolo vi piaccia ^^
Ringrazio tutti coloro che leggeranno e, magari, lasceranno una piccola recensione :)

 

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Capitolo 4
*** About beautiful dresses and strange costumes~ ***


Finnick Odair ha giocato tre volte

Chapter IV - About beautiful dresses and strange costumes

 
 
Capitol City, 65th Hunger Games
La stanza era piccola, tutta in acciaio, illuminata da una soffusa luce blu elettrico. Non appena si fu sistemato su un lettino simile a quello dei medici, Finnick fu accerchiato da tre preparatori entusiasti: c'era una donna che doveva essere il loro capo, era alta e snella e la sua pelle era colorata delle tinte più disparate; lo guardava con soddisfazione. Gli altri, probabilmente due aiutanti, entrambi tarchiati e con i capelli color pesca, ridacchiavano senza ritegno. Indossavano tutti un assortimento di abiti decisamente stravaganti.

"Non dobbiamo fare un gran lavoro, con lui" mormorò la donna, rivolgendosi ai collaboratori. "Katrina ha ordinato di portarlo al Livello Zero."

Finnick aprì la bocca, deciso a domandare il significato di quell'affermazione del tutto privo di senso, ma fu interrotto bruscamente prima ancora di cominciare.

"Spogliati" gli intimò uno dei due ragazzi, svelto. Era il più basso e tarchiato e indossava un copricapo trasparente del tutto inutile.

"Cosa?"

"Devi spogliarti, Odair" ripeté l’altro, avvicinandosi minacciosamente al lettino dove il ragazzo era seduto. Aveva l’aria da maniaco, la voce monocorde di un robot. Finnick indietreggiò, spaventato.

"D’accordo" balbettò, cominciando a sbottonarsi la camicia. Se la tolse, e l’aria fresca gli asciugò addosso il sudore; si slacciò le scarpe, sfilò i calzini, i pantaloni. Non si era mai sentito tanto al centro dell’attenzione. Provò a coprirsi il petto con le mani. Era in mutande.

"Toglile, Odair" sussurrò la donna. Non c’era traccia di divertimento, desiderio, malizia: semplicemente, era un lavoro che faceva da mesi, e non era più eccitante che fare il bagno a dei cuccioli di cane.

"Fa sul serio?" ribatté il ragazzo, decisamente preoccupato. La luce bluastra dipingeva strani disegni sul volto della sua preparatrice, rendendola più minacciosa di quanto giù non fosse. Attorno a loro regnava il silenzio più totale.

"Non lo trovo divertente nemmeno io, ma se proprio vuoi puoi toglierle in bagno" concesse la donna. Questa volta, un pizzico di divertimento fu percepibile nonostante la maschera di impassibilità sul suo volto.

 
Quando Finnick terminò il bagno, fu avvolto in un accappatoio bianco e fatto nuovamente accomodare sul lettino. I preparatori uscirono dalla stanza e fu lasciato solo, i capelli bagnati e profumati di vaniglia, la pelle liscia, le unghie limate. Poi entrò Katrina.

Era una donna alta, bella, piuttosto naturale per gli standard di Capitol City: non aveva la pelle colorata, le ciglia erano di una lunghezza normale, e l’unica particolarità era una parrucca color oro con alcune lucine intermittenti al suo interno.

"Ciao, Finnick" lo salutò, avvicinandosi. Camminava con calma, i passi misurati di chi è abituato a sfilare su di una passerella.

"Sei la mia stilista?" domandò lui, cercando di ricordare il volto della donna nelle passate edizioni degli Hunger Games.

"Esatto. Sono qui per aiutarti" gli spiegò lei, sedendosi ai piedi del lettino. "Io e Arthur, il mio partner, abbiamo ideato un paio di vestiti per la sfilata. Che ne dici di provarteli?"

Era chiaro che i gusti dei Capitolini divergevano in ampia misura da quelli degli abitanti dei Distretti, almeno da quelli del Quattro. Il primo era un completo semplice, di un azzurro chiarissimo con intarsi argentati. I pantaloni avevano un taglio strano, che terminava con bordi mossi a mo’ di onde marine, ma la camicia era bianca e sobria; i capelli gli furono pettinati all’indietro, allisciandoli con una tonnellata di gel a tenuta ultraforte. In mano, aveva un tridente classico, antico, fatto in legno levigato.

A Finnick piaceva, tutto sommato, eppure non si poté dire lo stesso dei preparatori: ad uno ad uno fecero il loro ingresso nella stanza, lo squadrarono, soppesarono i singoli dettagli e scossero il capo con sufficienza, come se l'abito che Finnick indossava fosse a stento paragonabile a una tuta da lavoro. Così, con una punta di rammarico, il ragazzino accettò di provare anche il secondo.

Col senno di poi, non avrebbe mai voluto indossare una cosa del genere: era un elaborato costume dal peso maggiore del suo, composto da un intricato groviglio di reti da marinaio, stelle marine d’oro e pesanti pezzi di stoffa blu oltremare. Completava il look un’acconciatura ben più complessa della precedente che prevedeva fil di ferro, elastici e una specie di brilantina tempestata di paillettes decisamente troppo vistose.

"Ecco, così è perfetto!" esclamarono in coro gli stilisti, chiamati nuovamente a giudicare. Allo specchio, Finnick non poté fare a meno di fissare con sdegno il tutto: certo, faceva molto Capitol City, ma si sentiva vacillare sotto il peso di tutta quella roba sgargiante e appariscente. Eppure, a quanto pareva il suo giudizio non era affatto ritenuto necessario, perché nonostante le proteste fu spinto sul carro.

 
Quella della Sfilata era un'altra usanza che aveva sempre lasciato basito il ragazzo. Aveva un ricordo molto vivido della prima volta in cui assisté alla parata dei Tributi, all'età di quattro anni, accoccolato sul pavimento di casa sua: in quell'occasione, acciambellato ai piedi della madre, le aveva domandato perché tutti volessero vedere quei ragazzi. "Moriranno" aveva spiegato. "Perché vogliono per forza guardarli? Non è più triste, dopo?" Non aveva ricevuto risposta.

In quel momento, seminascosto da una gigantesca biga nera, gli schiamazzi della folla di capitolini chiarirono ogni dubbio: era spettacolo, si disse. Mero spettacolo.

Il primo carro partì pochi secondi dopo, mentre una voce metallica annunciava ai Tributi di prepararsi alla sfilata. I due occupanti, vestiti con lunghi abiti tappezzati di gemme scintillanti, cominciarono ad agitare le mani in segno di saluto, le voci coperte dalle urla della folla.

"Tra poco tocca a voi" li incitò Mags, girando intorno alla biga. Aveva un’espressione piuttosto tranquilla, ma il suo sguardo indugiava insistentemente sull’atteggiamento di Maia e Finnick, decisamente poco a loro agio.

"Il mio vestito" stava borbottando la ragazza "Mi stringe in vita!"

Finnick trattenne una risata, cercando di risistemarsi i capelli: un filo di metallo gli stava sfuggendo dal ciuffo, graffiandogli a sangue la fronte e rischiando di far cedere l'elaborata acconciatura.

"Ragazzi, mi raccomando" li esortò Gea, dando una pacca sulla schiena dei suoi Tributi. Il suo sguardo corse ai goffi tentativi di Finnick di risistemarsi i capelli, poi la donna scosse la testa e passò oltre. "Il vostro carro è il prossimo" annunciò con naturalezza, indicando due enormi cavalli che sostavano pochi metri più avanti.

I due Tributi, a fatica, si issarono sulla biga.

"Consigli dell'ultimo minuto?" domandò Maia a voce alta, sovrastando il chiacchierio della folla. Mags era accanto a loro, la mano poggiata sulla superficie del carro e lo sguardo fisso sullo schermo che mostrava il conto alla rovescia: dieci secondi alla partenza.
"Solo essere voi stessi. Siate naturali e la folla vi apprezzerà" sentenziò con sicurezza. "La naturalezza è cosa rara, qui" aggiunse con un sorriso.

E Finnick decise. In pochi istanti si passò le mani tra i capelli, arruffandoli in una posizione più naturale e ignorando i versi scandalizzati del suo staff di preparatori; afferrò le stelle marine e le scollò dall’abito, accatastandole sul terreno; infine, con un verso di soddisfazione, allentò la presa della rete sul torace, e rise. Maia lo guardava con desiderio, quasi avesse voluto fare altrettanto.

"Se vuoi, questo è il momento" le sussurrò il Tributo, mentre i loro cavalli partivano al trotto. "Dobbiamo essere noi stessi, non i personaggi che vogliono i nostri stilisti."

Maia rise a sua volta, producendo un suono cristallino e nervoso, e sciolse il nastro che le stringeva il vestito; la sua stella marina cadde a terra, abbandonata appena prima che la sua proprietaria fosse inghiottita dalla folla acclamante. E furono in onda.

 
Il giro fu più breve del previsto. I cavalli seguirono docilmente la biga del Tre e compirono un cerchio perfetto nello spazio vuoto, appena sotto il balcone presidenziale. Lì, un presidente Snow all’alba dei suoi sessant’anni agitava una mano con tranquillità, salutando le coppie di Tributi che lo fissavano. Poi tutto finì, le bighe si fermarono e la folla smise di rumoreggiare.

"Capitol City vi da il benvenuto, Tributi!" esclamò l'uomo, prendendo la parola. Il suo completo rosso porpora si sarebbe notato a chilometri di distanza. "Benvenuti alla Sessantacinquesima edizione degli Hunger Games!"

Finnick si guardò intorno, incuriosito. Cercando di tenere il panico in fondo allo stomaco, analizzò con cura pubblico e Tributi: gli spettatori erano tutti uguali, anche se a primo impatto gli erano apparsi diversi e interessanti. Tutti finti, truccati, grotteschi, troppo colorati. L'arancione e il fucsia e il verde sgargiante si mescolavano al bianco abbagliante, al nero cupo, alle parrucche celesti e luccicanti e ai ciondoli luminosi che adornavano colli e polsi di signore e signori.

"Sono solo una banda di imbecilli" si ritrovò a mormorare, digrignando i denti durante il discorso del presidente.

"Cosa hai detto?" sussurrò Maia. Teneva la testa dritta davanti a sé, il trucco intorno agli occhi che cominciava a sciogliersi.

"Gli abitanti di questo posto: ho detto che sono una banda di cretini" ripeté Finnick, ostinato.

Una rabbia che non aveva mai provato si impadronì di lui, quattordicenne marinaio circondato da adolescenti in costume, pronti per la morte.

"Stai zitto, non devono sentirti" lo riprese la compagna, strizzandogli il palmo di una mano.

"E perché no? Tanto moriremo comunque" ribatté il ragazzo, la voce piena d’astio.

"Forse tu ce la fai."

Non c’era invidia nell’esclamazione della ragazza. C’era solo rassegnazione.
 
***
 Capitol City, 70th Hunger Games
Non potrò vedere Annie prima della fine della sessione di preparazione, prima della sfilata. È snervante saperla sola con Arthur, che è un brav’uomo ma pur sempre un maschio, che magari le fisserà il seno o le chiederà di spogliarsi completamente.

Sono geloso di Annie, cavolo. Non è normale.

"Come la vestiranno?" domando, rivolto a Mags. Anche lei è più agitata del solito, ma in confronto a me è la pace fatta persona.

"Non lo so, Finnick" mi risponde, voltandosi. "Non mi pare ti sia mai interessata la moda" aggiunge, e mi sembra sia quasi maliziosa. Solo che Mags non può esserlo, non con me.

"Ma mi sono sempre interessato ad Annie" puntualizzo, scontroso. L’espressione di Mags cambia, mi studia, ma sembra quasi delusa.

"Lo so" mormora. Forse dovrei scusarmi.

"Io" comincio. "E’ solo che sono un po’ nervoso."

Lei mi osserva districare il nodo della cravatta e sorride.

"Davvero?" mormora. "Non me n’ero accorta."

Balbetto altre scuse, ma è inutile. Lei ha capito, forse ha capito meglio di me. Anzi, di sicuro è così dato che non ci ho capito proprio niente di quello che mi sta succedendo, di quello che provo per Annie. Il punto è che è sempre stata mia amica, sono quasi sei anni, ormai. L'ho vista in costume, l'ho vista piangere, l'ho vista sorridere e mai ho provato questa sensazione: le ho voluto bene, certo, gliene ho voluto abbastanza da vincere e tornare a casa e provare a tornare me stesso, sforzarmi di ricominciare a mangiare e dormire e recarmi alla Spiaggia ogni giovedì mattina. Ma ora è diverso, ora c'è quella sensazione in fondo allo stomaco e l'impressione che tutto si fermi quando lei entra in una stanza.

Sono innamorato di Annie? Non lo so. Non so se è vero o è solo che sto impazzendo perché morirà. Non so se è il mio cervello a occuparmi con pensieri futili pur di non ricordarmi che è inutile lambiccarmi la mente e che tra una settimana a quest'ora nemmeno esisterà più. Eppure non riesco a fare a meno di pensarci.

"Cosa c’è tra te e Annie, Finn?" mi chiede Mags all'improvviso, dimostrando che forse non ci ha capito nulla nemmeno lei.

"Io… io non lo so" mi arrendo, sconfitto. Forse avrei dovuto vomitare quando avevo un bagno a disposizione, perché credo che lo farò adesso sul parquet del Centro Immagine. Mi alzo di scatto, pronto a correre fuori , quando la porta della stanza di Annie si apre di scatto. E mi immobilizzo, un formicolio che si estende per tutto il corpo, dai piedi alla nuca.

Annie è bella. Ma bella è riduttivo, perché Annie è semplicemente eccezionale. Arthur è migliorato, a distanza di anni, ha abbandonato gli abitini succinti e scandalosi e ha optato per qualcosa di più classico, il che rende Annie bella quanto una dea. Indossa un vestito di veli celesti, colorati di una marea di sfumature che la fanno sembrare l’acqua del nostro mare, un’acqua che non è solo blu, ma anche verde, marroncina, violacea. Il corpetto è ricoperto di conchiglie, le spalle coperte da uno scialle di nuvole. I capelli sono sciolti, le ricadono sulle spalle esili e sugli occhi appena truccati. Indossa un solo gioiello: una collanina con una grossa conchiglia come pendente.

"Annie sei" mormoro, fermandomi. "Sei bella."

Lei sorride, i denti bianchi incorniciati da un leggero strato di rossetto.

"Grazie, Finn. Credi che qualche sponsor mi noterà?" domanda.

Ti ho notato io, vorrei dirle. Sei bellissima e non lascerò che tu muoia, non lascerò che ti accada qualcosa di male. Sei bella e buona e favolosa, sei migliore di me, sei migliore di chiunque altro nel raggio di chilometri. Fanculo gli sponsor, Annie. Ti ho notata io e questo basta. Eppure mi limito a sussurrare:

"Certo che sì, Annie."


N.d.A.: sinceramente non impazzisco per questo capitolo, o almeno per la prima parte >_<
Spero che vi piaccia almeno un pochino ç.ç
Fatemi sapere :3

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Capitolo 5
*** Nobody want to ~ ***


Finnick Odair ha giocato tre volte

Chapter V - Nobody wants to

 
 
Capitol City, 65th Hunger Games
La sua camera da letto era grande, moderna, attrezzata con una marea di pulsanti che gestivano finestra, doccia e televisore. Finnick Odair vi entrò con un sorriso stampato in faccia, tanto ampio quanto falso, che si afflosciò non appena il ragazzo si trovò da solo. Senza nemmeno guardarsi intorno, il Tributo si liberò del costume e, in mutande, corse in bagno, dove si concesse una delle docce più lunghe della sua vita; perse dieci minuti per capire il corretto utilizzo dei pulsanti, inondandosi di talco e gel alla vaniglia, poi finalmente riuscì a uscire dalla cabina e si avvolse in un accappatoio blu chiaro.

Aveva bisogno di calmarsi, ne aveva bisogno con tutto il suo essere. Sbadigliando, si distese sul letto: era morbido, caldo, coperto con due cuscini vaporosi e un piumone blu notte. Fuori, il cielo ormai era scuro, ma la stanza era illuminata da due grosse lampade che emettevano una forte luce gialla. Il ragazzo guardò l’orologio, soffocando un nuovo sbadiglio: le sei e tre quarti.

Mancava solo mezz’ora alla cena, così si alzò. Trascinandosi davanti al guardaroba, scalzo, si dette un’occhiata allo specchio: nonostante la doccia, appariva stravolto. I capelli arruffati circondavano il suo volto stanco, la pelle pallida, gli occhi arrossati e cerchiati da profonde occhiaie: non aveva dormito la sera precedente, e il viaggio era stato stressante. Tornò sul letto e si lasciò cadere tra le lenzuola, coprendosi con il piumone e scavandosi un nido caldo e comodo.

"Solo dieci minuti, Finn" si disse, prima di addormentarsi.

 
Fu svegliato poco dopo dalla voce squillante di Gea che, con tono allegro, bussò alla sua porta annunciandogli che la cena era già in tavola. Di malavoglia, il ragazzo si alzò e si vestì con i primi abiti che trovò in uno degli armadi: pantaloni blu, maglietta chiara e un paio di scarpe nere. Senza pettinarsi, uscì e si diresse nella sala da pranzo, da cui provenivano già le voci di Mags e Maia, impegnate in una conversazione sui metodi di sopravvivenza.

"E se invece non trovo dell’acqua?" stava domandando la ragazza, interessata. Era seduta compostamente, ma si sporgeva verso la Mentore come pronta a saltarle in braccio. I suoi occhi erano calmi, l'espressione solo curiosa, eppure il battere costante del piede destro sul pavimento tradiva un certo nervosismo.

"La troverai, dev’esserci. Ricorda, vogliono intrattenimento: non faranno finire i Giochi uccidendo tutti per disidratazione" la rassicurò Mags, sbocconcellando un panino. Anche in quell'occasione era tranquilla nel suo maglione bianco. Poi vide Finnick e spalancò gli occhi: "Ci sei anche tu, finalmente! Qui avevamo tutti fame."

Gea prese posto sull’ultima sedia vuota e cominciarono a cenare, interrompendosi solo per rispondere alle domande di Maia. La ragazza sembrava decisa a chiedere tutto quello che c’era da sapere sugli Hunger Games proprio durante il pasto, ma Mags non glielo fece pesare. Rispose a tutto ciò che la ragazza gli chiedeva, interrompendosi solo per bere e masticare carne e patate arrosto.

"Maia, devi stare tranquilla" le disse, alla fine, pulendosi la bocca con un tovagliolo bianco. "Domani comincerete l’allenamento, e avrai modo e tempo di imparare quello che ti serve."

Finnick non mangiò molto e parlò ancor meno, troppo impegnato a cercare di non addormentarsi. Fu solo a fine pasto, quando fu servito il dessert, che sembrò riprendersi.

"Non c’è cioccolata, oggi?" domandò, deluso.

Mags ridacchiò, ma non rispose.

 
***
Capitol City, 70th Hunger Games
 
Finita la cena, mi alzo diretto in camera. Sono consapevole di star mancando un’altra volta ai miei doveri di Mentore, ma non posso farne a meno. Non quando a tavola c’è Michael che è preoccupato dall’allenamento di domani. Dall’allenamento. Sto sgattaiolando fuori quando Mags nota i miei passi felpati e mi ferma, intrappolandomi nello sguardo dei Tributi e nel suono delle sue parole.

"Finnick, cosa fai?" mi chiede, alzando la voce abbastanza da superare oltre le voci dei ragazzi e i rumori del treno.

"Vado a dormire" rispondo, secco. Non mi va di discutere e so che ne uscirei perdente, perché un buon Mentore a quest'ora dovrebbe restare sveglio a parlare di fuoco e rifugi e alleanze fino a tarda notte. Solo che non ci riesco, così semplicemente esco di scena.
Mags non controbatte, ma credo che domani dovrò cominciare a comportarmi in maniera un po’ più dignitosa, se voglio evitare di finire ammazzato come una delle sue vittime durante i Giochi. Non so che Edizione fosse, ma si vocifera che fu la più breve e sanguinolenta.

La stanza è identica a quella di sempre, il letto + lo stesso che ospitò il me quattordicenne cinque anni fa. Ricordo ancora la sensazione di spaesamento e terrore che mi riempì allora, prima dei Giochi. Come quel giorno, dopo una doccia veloce mi getto sul letto e, avvolto nel lenzuolo, le mani sotto al cuscino, provo a dormire ignorando il fatto che Annie si trovi a pochi passi da me. Non che la cosa in sé sia di particolare importanza: Annie ha vissuto accanto a casa mia per anni e anche adesso che abito al Villaggio dei Vincitori spesso si ferma da me per cena. Il punto è che tra quattro giorni sarà nell’Arena e non posso permettermi di perdere tempo lontano da lei. Non spero neppure che lei ce la faccia – che sopravviva. Non lo spero, perché so che è impossibile, che c’è gente molto più forte, robusta, preparata. Ma una piccola parte di me non riesce a eliminare del tutto il pensiero che tornerà indietro.

 
È mezzanotte quando mi alzo, ancora perfettamente sveglio. I rumori di là si sono acquietati da un pezzo, eppure un singhiozzare di sottofondo mi impedisce di rilassarmi: non sarebbe la prima volta che un Tributo piange, ovviamente, non nego di averlo fatto anche io. Ma di lì c'è Annie e il pensiero che sia lei a piangere mi tiene sveglio così, scalzo, muovo piccoli passi sulla moquette e mi avvicino all'uscita.

Apro la porta in tempo per trovarmi davanti entrambi i Tributi, in pigiama, che parlottano tra loro: Michael ha il volto rigato di lacrime e Annie gli tiene una mano sulla spalla. Mi arruffo i capelli, incerto sul da farsi: è Mags quella che si occupa di queste cose, non io. Io non sono bravo a prendermi cura delle persone. Eppure, Annie non sembra curarsi di ciò, perché non appena mi nota si lascia sfuggire un sospiro di sollievo.

"Finnick!" esclama, voltandosi verso di me. Sembra preoccupata, forse più agitata di quanto si sia mostrata dal momento della Mietitura.

"Che c’è?" domando, suonando molto più brusco di quanto vorrei. In piedi sulla soglia della mia stanza, di fronte alla mia migliore amica e al suo nemico in lacrime (nemico che dovrei proteggere) non riesco ad essere gentile, né calmo, né forte.

"Lui voleva" prova a spiegare Annie, interrompendosi per lanciare al ragazzo occhiate di sbieco. "Lui ha provato a suicidarsi."

Il mio cuore accelera, ma sono abbastanza preparato a situazioni simili: già quattro anni fa Sandy Miller, la dodicenne del mio Distretto, tentò di darsi la morte tagliandosi le vene, ma invano. Crollò molto prima che la lama tagliasse la sua pelle – e poi morì al bagno di sangue, quando una spada le recise la carotide. Non ho mai capito il senso di tutto questo.

"Io non voglio" sta balbettando Michael, confuso. "Non voglio andare nell’Arena."

"Nessuno lo vuole, Michael" cerco di rassicurarlo. "Nemmeno io, né Annie" continuo, avvicnandomi a lui. Quando sono a pochi centimetri di distanza mi fermo, incerto, e allungo una mano per sfiorargli la spalla. Ma il ragazzo si ritrae e scuote il capo, stizzito.

"Non è la stessa cosa" mi contraddice. "Lei cercherai di salvarla. Sono io quello che deve morire."

Ondate di consapevolezza e sensi di colpa mi invadono pian piano, facendomi rizzare i peli delle braccia e i capelli sulla nuca. Perché, in effetti, il mio piano non prendeva in considerazione l’altro Tributo. Perché non credo che prostituirmi salverà anche lui.

"Non… non dire così" cerco di rimediare, balbettando. "Sai bene che cercherò di salvare entrambi" aggiungo, palesemente poco sicuro. Lui mi lancia un'ultima occhiata, poi corre via.

Annie mi guarda solo per un secondo, la bocca semiaperta. Mi chiede:

"E’ vero quello che ha detto?"

E quando io non le rispondo, corre seguendo Michael.



N.d.A.: Dunque, cari seguitori della storia (????)
Prima di tutto, ringrazio chi ha recensito e tutti quelli che hanno inserito la mia storia tra le Seguite, le Ricordate e le Preferite *^*
Poi, mi scuso per la brevità del capitolo e per quanto fa schifo, ma è di passaggio e spero che continuerete a leggere la mia storia xD
Per il resto, ci vediamo al prossimo capitolo :3

 

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Capitolo 6
*** We have to kill ~ ***


Finnick Odair ha giocato tre volte

Chapter VI - We have to kill

 
 
Capitol City, 65th Hunger Games
"E ho un ultimo consiglio, ragazzi: non sottovalutate le tecniche di sopravvivenza. Date tanta importanza alle armi, ma non pensate che quasi la metà di voi morirà per cause naturali: infezioni, freddo, sete, fame."

L’elenco interminabile delle cause di morte dei Tributi durò più di quanto l’attenzione di Finnick fosse disposta a tollerare. Ben presto, il ragazzo si trovò a osservare l’enorme sala d’addestramento, quella in cui sarebbe stato preparato per morire in modi più spettacolari che rantolando in cerca d’acqua. C’erano più pedane di quante ne avrebbe provate in tre giorni e più discipline di quelle che gli sarebbero servite, ma essendo all’oscuro dell’Arena, non avrebbe proprio saputo quale escludere.

"Detto questo, potete andare" concluse finalmente il coach, congedando i ragazzi. In pochi secondi i Tributi si sparpagliarono, diretti alle varie postazioni. Finnick ciondolò un po’ per la stanza, ripensando al consiglio che Mags gli aveva dato quella mattina, a colazione.

"Non devi allenarti in quello in cui sei già bravo" aveva detto "Altrimenti non imparerai nulla, e gli altri conosceranno già le tue abilità. Impara qualcosa di nuovo."

Così, rimuginando su quali fossero le sue abilità, saltò con decisione la postazione delle tecniche di rianimazione – comunque vuota, perché nessuno avrebbe desiderato tenere in vita un nemico – e quella di lancio: sapeva maneggiare i tridenti da quando era piccolo e non credeva che la lancia fosse poi così diversa. Decise di partire dalle tecniche per accendere un fuoco e si avvicinò a una delle postazioni più a destra, già occupata da una ragazzina imbranata.

Finnick la osservò per un po’ mentre tentava con scarsi risultati di appiccare un piccolo incendio, poi le si avvicinò e prese a provare accanto a lei: al terzo tentativo, una fimmella dalle dimensioni di quelle di un fiammifero illuminò per un secondo la scena, sparendo dopo un secondo nel fumo grigio. Imprecando, il ragazzo fece per riprovare, ma fu interrotto da una voce sconosciuta.

"Io proverei la postazione fuga, se fossi in te" gli sussurrò melliflua, ridacchiando. Finnick si voltò di scatto, in tempo per vedere la ragazza del Due maneggiare con abilità una lancia lunga almeno un metro e mezzo: la roteava da una mano all’altra come se non avesse fatto altro per tutta la vita, senza nemmeno guardarla. I suoi occhi grigi erano puntati su Finnick, che la fissava, suo malgrado, con un pizzico di ammirazione. "Sì, so maneggiare una lancia alta quanto te" lo provocò lei. "Credo che farai meglio a buttarti nelle mine prima del Bagno di Sangue" continuò, centrando un manichino pochi metri dietro il ragazzo.
Nella corsa folle verso la testa del pupazzo, la lancia squarciò la divisa di Finnick all'altezza del fianco destro.

"Farai meglio a smetterla" borbottò lui, gli occhi socchiusi e le guance sgradevolmente calde.

"Oppure? Lo dici agli Strateghi?" lo canzonò lei, voltandosi e allontanandosi a grandi falcate.

Finnick cercò di unire i due lembi di stoffa, ma senza risultati. Sospirò, in imbarazzo, desiderando di scomparire, ma tutto ciò che gli riuscì fu abbassare la testa e piazzarsi alla postazione di Mimetizzazione, dove Maia stava provando a tingersi la faccia di verde scuro. Si osservava incuriosita nello specchio, dando un’occhiata alle foglie di cui stava imitando il colore.

"Va tutto bene?" domandò a Finnick, passandosi un dito sotto il naso.

"Sì, certo" rispose lui in fretta, cercando di darsi un contegno. Non aveva intenzione di diventare il bimbetto della situazione e non voleva chiedere aiuto a una come Maia, che sembrava più vecchia di lui di almeno dieci anni e altrettanto pià saggia.

"Cosa voleva la ragazza del Due?" lo spiazzò però lei, voltandosi. Il suo viso era cosparso di macchie di varie tonalità di verde, ma non assomigliava nemmeno vagamente a una foglia.

"Lei voleva solo-" provò Finnick, ma non riuscì a continuare e le sue dita si chiusero meccanicamente sullo strappo all’altezza del fianco.

"Non darle ascolto" ribatté lei. "Gliela farai vedere nell’Arena."

 
"Credi dovrei stipulare delle alleanze, Mags?"

Quel termine, “alleanza”, attirò l’attenzione di Finnick fin da subito. Erano tutti in salotto, seduti sui divani; in quel momento il ragazzo era impegnato a mangiare dei cubetti di zucchero che aveva trovato in un vassoio, accanto al the, e non credeva che qualcosa avrebbe potuto staccarlo da quella roba. A quanto pareva, però, si era sbagliato.

"Dovremmo, Mags?" ripeté. La donna lo guardò, una strana espressione dipinta in volto, poi gli passò una mano tra i capelli, arruffandoglieli.

"Dovreste, ma solo se pensate che vi sarà utile. E solo con le persone giuste" rispose, sottraendo la ciotola di zollette dalla portata di Finnick. "Smettila di mangiare questa roba, ragazzo. Vai in sovreccitazione per il troppo zucchero" lo riprese.

Finnick non aveva idea di cosa significasse la parola “sovreccitazione”, ma sapeva di volere altre zollette. Si sporse, rovesciando una caraffa di succo d’arancia e un piatto di biscotti, arraffò qualche cubetto bianco tra le dita e tornò a sedersi con finta noncuranza, ignorando lo sguardo esasperato della Mentore.

"Avete individuato qualcuno che potrebbe esservi utile?" stava domandando la donna.

"Io sì" rispose subito Maia. "Credo di aver quasi fatto amicizia con il Tributo maschio del Distretto Uno, ma vorrei allearmi anche con la ragazza del Due."

Finnick sobbalzò, ferito nell’orgoglio.

"La ragazza del Due?" esclamò, l’espressione a metà tra l’offeso e il disprezzante. "Quella che oggi voleva-" si interruppe, in imbarazzo, ma era troppo tardi.

"Voleva cosa?" domandò Mags, incuriosita. Aveva rimesso in piedi la caraffa, ma il succo aveva ormai invaso la tovaglia e gocciolava giù per il tavolo, appiccicoso e arancione. Alle sue spalle, Maia aveva l'aria soddisfatta: il sospetto che non volesse affatto allearsi con quella del Due toccò per un attimo la mente di Finnick.

"Non voleva nulla" negò il ragazzo, alzandosi. Si allontanò rapidamente dal tavolo, diretto alla sua stanza. Prima di uscire, gettò un'ultima occhiata a Mags: lo guardava allontanarsi, in silenzio.

 
Nei tre giorni di addestramento, Finnick non riuscì a imparare nemmeno la metà delle cose che credeva gli sarebbero potute tornare utili nell'Arena, eppure fu con una certa fiducia che varcò per l'ultima volta le porte del Centro d'Addestramento, lì dove gli Strateghi l'avrebbero valutato in una sessione individuale.
Una volta entrato, tuttavia, tutta la sua baldanza sembrò affievolirsi: la stanza gli sembrava gigantesca, essendo vuota, e gli occhi degli Strateghi erano quelli di un branco di lupi che fissano una preda.

"Prego, signor Odair"  lo esortò il capo, Octavian Murge, un uomo di mezza età quasi calvo.

Finnick annuì, avvicinandosi alla postazione dei tridenti. Erano simili a quelli da pesca, ma più pesanti e maneggevoli. Pensò che avrebbe fatto una buona impressione se lo avesse scagliato lontano, così cercò il manichino più distante e prese la rincorsa; il tridente disegnò esattamente l’arco che voleva che seguisse e, con un sibilo sinistro, si conficcò nella plastica bianca. Il manichino, appesantito sul davanti, si inclinò fino a toccare terra, in un clangore di metallo e gomma.

Il Tributo sorrise, quasi compiaciuto, poi corse a cercare una rete con cui creare una delle sue trappole , quelle modificate in modo da catturare esseri umani e non pesci. Aveva quasi finito l’ultimo nodo quando il suo tempo terminò. Finnick si voltò verso gli Strateghi, indeciso, ma venne congedato con un cenno del capo.

 
"Allora, ragazzi, com’è andata?"

La domanda giunse tanto veloce quanto prevedibile: Finnick e Maia erano appena rientrati quando Mags era corsa loro in contro, sospingendoli verso un divanetto dove già sedeva Gea.

"Credo bene" borbottò Maia, tirando su le gambe e cingendosi le ginocchia. Indossava un paio di pantaloni grigi e una camicetta chiara che metteva in risalto la sua vita snella. Sembrava preoccupata, ma non quanto nei giorni precedenti.

"E tu, Finnick?" chiese Mags, avvicinandosi al ragazzo. Anche lui si era cambiato – indossava dei semplici jeans e un pullover rosso cupo, ma a differenza della ragazza non sembrava avere alcuna voglia di parlare. Non che temesse di ricevere un giudizio negativo, ma per la prima volta sentiva il nodo allo stomaco tipico della paura, di quella vera.

"Bene" borbottò comunque, per evitare di scatenare una serie di domande sulla sua salute e sul suo stato d’animo.

"Sono contenta" cinguettò Gea. Quel giorno indossava un vestitino giallo limone con vari rigonfiamenti in posti poco probabili e una parrucca verde pistacchio senza lucine; le sue ciglia si erano magicamente allungate e le mani erano ricoperte di tatuaggi blu elettrico. "Preferite cenare subito, oppure aspettate i voti?" domandò poi, come se quest’ultima fosse una questione molto più importante della sorte dei due Tributi.

"Voti" rispose Maia, sicura.

"Voti" borbottò Finnick, facendole da eco. La ragazza gli sorrise di sbieco.

"E voti sia" accettò anche Mags, sistemandosi su di una poltrona. Nonostante i suoi settant’anni, era molto più attiva dei ragazzi e, per tutto il tempo, non aveva fatto altro che camminare.

Il collegamento col Centro d’Addestramento cominciò presto, sorprendendo Maia e Finnick nel bel mezzo di una conversazione sulla pesca. Non erano esattamente amici, ma tre giorni di allenamento insieme avevano creato un certo legame tra i due. Il viso di Caesar Flickerman comparve subito dopo l’inno e il sigillo di Panem, salutando i telespettatori e lanciandosi nel solito, breve discorso sull’importanza di quei giorni per lo spettacolo che ne sarebbe seguito.

"E ora, diamo un’occhiata a questi Tributi" disse poi, mentre la sua immagine si dissolveva, sostituita da quella di una ragazza snella e slanciata del Distretto Uno. "Millicent Frickless" la presentò Cesar, prima di leggere il punteggio: "Dieci!" esclamò.

Finnick ebbe un fremito.

"Crish Roger, Distretto Uno" sussurrò il presentatore. L’immagine della ragazza fu sostituita da quella di un diciottenne robusto. "Dieci!"

Anche Maia si lasciò sfuggire un verso di sconforto: i Favoriti dei primi due Distretti ricevevano sempre punteggi alti, ma due Dieci di seguito erano sicuramente notevoli.

I Tributi del Distretto seguente, il Due, erano entrambi magri ma forti, con lo sguardo vispo e l’aria di superiorità di chi è nato per combattere. I loro punteggi – nove la ragazza, dieci il ragazzo – lasciarono di sasso anche Cesar, che si perse in lodi sull’incredibile preparazione dei Tributi di quell’anno.

"E ora passiamo al Distretto Tre" commentò, terminando una lunga tirata sull’importanza della buona preparazione fisica. "Fanny Gross, tredici anni."

L’immagine di una ragazzina mingherlina e spaurita riempì lo schermo.

"Sette."

L'affermazione dell'uomo si perse in una serie di sospiri di sollievo. D’improvviso, Finnick sentì molto caldo. Il Tributo maschio – quindici anni e un sorriso malvagio sul volto – ebbe lo stesso punteggio.

"Distretto Quattro" esordì Cesar, quando anche l’immagine di Tommy Ryan si fu dissolta. "Maia Johnson, diciassette anni."

Finnick sentì il corpo della ragazza irrigidirsi accanto al suo. La sua immagine, pesantemente ritoccata, comparve sullo schermo seguita dal voto: nove.

"Brava!" esclamò Gea, esaltata. La ragazza si aprì in un gran sorriso di soddisfazione e tranquillità. Nemmeno per un istante Finnick si domandò come avesse potuto prendere un punteggio così alto, lei che di pesca e di caccia non ne sapeva nulla. Tutto quello che sentì - e se ne sorprese non poco - fu un enorme sollievo, misto alla consapevolezza che lui non sarebbe stato altrettanto fortunato.

"Finnick Odair, quattordici anni" continuò Cesar. Nella foto, Finnick non dimostrava più di dodici anni e aveva il viso spaventato e molto poco minaccioso per un Tributo Favorito del Quattro. "Otto."

 
***

 
Il divano è scomodo esattamente come cinque anni fa, con tutti questi cuscini morbidi che ti danno la sensazione di affogare e le coperte di lana che pizzicano ogni centimetro di pelle scoperta. Lo schermo del televisore, però, è ancora più grande di come lo ricordavo e la cosa mi incuriosisce. Perché cambiare il desktop e non comprare un divano migliore?

Siamo seduti tutti qui – io, Annie, Michael e Mags, in quest’ordine – e la mano di Annie mi cinge il fianco. Ho il cuore il gola e non so se sia per l’attesa del punteggio o per qualcosa di più intimo. E non voglio saperlo, perché domani a quest’ora lei non sarà più accanto a me.

"Distretto Quattro" sta annunciando Cesar, la solita voce accattivante. La foto di Annie, una Annie bella e innocente, riempie lo schermo, subito seguita da un punteggio.

"Sette" legge Mags, avvicinandosi un po’ per vederci meglio. La vecchiaia si fa sentire anche per lei, ormai.

"Non è un punteggio alto" mormora Annie. La sua testa si poggia sul mio braccio, i capelli mi solleticano il collo. Il mio cuore batte più veloce, dandomi la sensazione di aver corso per miglia.

Non è nemmeno basso, vorrei dirle. Stai tranquilla, farò tutto quello che posso per farti vincere. Ma riesco solo a mormorare un: "Va tutto bene, in questo modo non verranno a darti la caccia."

Mi sento uno schifo, sia come Mentore che come amico. Michael, accanto a noi, sorride per il suo meritato otto. Lui potrebbe davvero farcela, con le sue conoscenze nel campo dei medicinali e delle erbe commestibili, e se fossi un bravo Mentore dovrei puntare tutto su di lui, ma sappiamo tutti che non lo farò mai, che non lascerò che accada. Che Annie non torni a casa.

"Tu sai che non vincerò, vero?" mi domanda dopo un po', sottovoce.

"Invece sì" rispondo, ostinato. Siamo entrambi in corridoio, diretti alle nostre stanze. Lei mi cammina accanto, adattando il suo passo al mio, come sempre.

"Non ucciderò, Finn" mi dice. "L’ho promesso, manterrò questa promessa."

A diciannove anni, nessuno dovrebbe istigare qualcuno a diventare un assassino. A diciassette, diciotto anni, nessuno dovrebbe uccidere. A dodici anni non si dovrebbe avere paura di morire.

Penso a tutto questo mentre Mags ci invita ad andare a cena, mentre ci alziamo e ci sediamo su quelle comode sedie che saranno casa mia per tutta la vita.
Penso a Mags, che è vecchia e morirà e mi lascerà solo a badare ai Tributi. Penso ai funerali e ai Tributi morti e a quanti altri moriranno se non faremo niente.

"Tutto bene, Finnick?" mi risveglia la donna dopo un po'. Ho lo sguardo fisso su di un bicchiere a caso e la forchetta a mezz’aria.

"Sì, scusa" rispondo. Mi affretto a inghiottire il boccone di carne in salsa verde e bevo tutta l’acqua del bicchiere.

"Allora, manca poco alle interviste" sta dicendo Gea. "Come pensate di comportarvi?"

Annie e Michael si guardano – è ovvio che non ci hanno pensato – poi entrambi si voltano verso Mags. Lei sospira e annuisce, come sempre quando si arriva a questo punto, si alza e cammina fino a raggiungere me.

"Io credo che dovrete mettere in mostra una qualità, una delle vostre" dice, mettendomi le mani sulle spalle. "Ad esempio, Annie, tu potresti apparire ingenua, innocente. In questo modo allontaneresti i Favoriti da te."

"Ma noi siamo Favoriti" interrompe Michael, alzandosi. "Non dovremmo allearci con loro?" domanda, confuso. Ha ragione, ovviamente: il Distretto Quattro è da sempre uno dei più forti, anche se raramente i suoi Tributi battono quelli del Due.

"Non credo sarebbe una buona idea" dico, invece. Il pensiero che Annie si allei con quei ragazzi mi da il voltastomaco.

"E quale sarebbe una buona idea?" ribatte Michael. "Lasciarci morire? Allearci con quelli dei Distretti più poveri? Se c’è una sola cosa buona che abbiamo, è quella di provenire da un Distretto Favorito. Io dico che dovremo porre la cosa a nostro vantaggio."

Mags mi stringe forte le spalle e il suo messaggio è chiaro, ma davvero non riesco a credere che il figlio del farmacista si stia trasformando in una bestia.

"E dopo che farai?" rispondo, alzando la voce. "Li ucciderai nel sonno? Oppure ti farai ammazzare?"

Conosco la risposta che mi darà, è la stessa che mi danno ogni anno i Tributi. La stessa che avrei dato io, forse, se mi fossi trovato nel mezzo di una discussione del genere. Ma non riesco a non sperare che quest'anno sarà diverso, che nessuno sceglierà di sua volontò di gettarsi in quel tunnel di schifo e odio che sono i Giochi. Eppure, Micheal ancora una volta si comporta come non vorrei che facesse.

"Siamo agli Hunger Games" sentenzia, secco. "Bisogna uccidere."


 
N.d.A.: Grazie a tutti per continuare a seguirmi ^^
Che dire? Siete in tanti a seguire e inserire questa storia tra le preferite, vi ringrazio davvero :)
Magari potreste dirmi cosa ne pensate, eh? ù.ù

 

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Capitolo 7
*** Interviews and best friends ~ ***


Finnick Odair ha giocato tre volte

Chapter VII - Interviews and best friends

 
 
Capitol City, 65th Hunger Games
"Il prossimo turno è il vostro."

Finnick Odair si aggiustò nervosamente la cravatta bianca, guardandosi intorno. Lui e Maia, vestiti con gli stessi colori pastello – celeste, panna e beige – indossavano abiti eleganti ma delicati. Lui un completo elegante, classico, lei un vestito lungo fino alle ginocchia, arricciato in vita. Erano carini, certo, ma neppure lontanamente intriganti o minacciosi o affascinanti come i Tributi che li avevano preceduti.
Nel fissare il ragazzo del Tre sorridere all'indirizzo della folla, Finnick sentì una stretta all'altezza dello stomaco. Le interviste sono fondamentali, si ripeté. Le interviste vogliono dire sponsor. Le interviste potrebbero salvarti la vita.

"Maia, vai."

La voce di Gea colse di sorpresa entrambi, ma la ragazza non ebbe tempo di voltarsi per lanciare un ultimo sguardo spaventato alla Mentore. Fu spinta sul palco in pochi secondi e, in un attimo, fu in onda.
Maia camminò veloce, sicura, a testa alta, esattamente come Mags le aveva detto. Solo i suoi occhi, spalancati e intenti a scandagliare la sala, tradivano un certo nervosismo. E solo per Finnick, perché in quei giorni aveva imparato a conoscerla, suo malgrado. E la domanda che da giorni lo torturava gli si ripresentò con violenza, spazzando via tutto il resto: perché? Perché conoscerla? Perché sfilare? Perché applaudire, ridere, mangiare, dormire? Sarebbero morti, sarebbero morti entrambi. Forse non al Bagno di Sangue, ma dopo sì. Una lancia avrebbe percorso la traiettoria giusta, un coltello avrebbe lacerato la loro pelle, o forse sarebbe toccato al freddo o alla fame o al tradimento di un amico. Ma sarebbero morti e non aveva senso amarsi, prima.

Il momento di Finnick giunse pochi minuti più tardi. Anche lui, come Maia, fu sospinto da mani forti e trascinato sul palco, dove camminò tremante fino alla poltrona bianca accanto a Cesar, che gli strinse la mano. Tutt’attorno a lui, volti interessati e maxischermi con la sua faccia. Gli sembrava che tutto girasse, intorno, che il vociare della gente fosse troppo forte e la voce di Cesar troppo bassa, che la sua bocca fosse incollata e il suo sguardo troppo spaventato per essere un Favorito.

"Allora, Finnick, sei uno dei più giovani, giusto?" stava domandando Cesar, attento. Quell’anno, la sua capigliatura era lilla.

"Io, credo di sì" rispose Finnick. Si guardò intorno, cercando un volto familiare, un volto a cui davvero importasse di lui, ma si rese conto che era circondato da estranei. Estranei macabri, modificati, finti. Il grande schermo inquadrò i suoi occhi chiari.

"Sei agitato, Finnick?" lo incoraggiò il presentatore, sporgendosi in avanti. "Guarda che siamo tutti amici, qui."

Finnick si disse che avrebbe dovuto crederci, per superare la serata. Così sorrise. E quando sorrise, un sospiro generale si levò dal pubblico – soprattutto da quello femminile.

"Credo che qui le ragazze facciano il tifo per te" ridacchiò Flickerman, battendo le mani. "Bene, c’è qualcosa che vorresti dire? Hai una persona speciale da salutare?"

Finnick scosse la testa. Aveva persone da salutare? Non era quello il punto. Il punto era chi volesse salutare, era avere persone abbastanza interessanti da attirare l'attenzione di tutti, pure di quelle ragazze in ultima fila. E lui non ne aveva.

"Non credo" mormorò, sentendosi d’improvviso solo. Non aveva intenzione di dire addio ai suoi genitori e rischiare di apparire ancora più vulnerabile e infantile di quanto già non fosse. E non aveva fratelli o sorelle. "Io sono figlio unico" spiegò. Per una ragione che non comprese, il pubblico rise di gusto.

"Capisco. Non hai una ragazza?" lo incoraggiò Cesar, ammiccando. Era ovvio che avesse bisogno di gossip, notizie da gettare in pasto a Capitolini ingordi non solo di cibo, ma di tutto, perché lì la vita era così finta che Mags aveva ragione: qualunque cosa, qualunque cosa vera, era una novità assoluta per quelle persone dalle parrucche sintetiche.

"No, non ho una ragazza" spiegò comunque, serio.

Una massa di ragazzine sospirò, quasi sollevata. Ce n'era una proprio sotto il palco, tutta viola e rosa e brillantini, che lo guardava con occhi verdi (un verde finto, del tutto diverso da quello del Quattro) e sospirava come una di quelle compagne di classe che lo seguivano ovunque, pronte a fargli gli occhi dolci.

"Però ho un’amica. Si chiama Annie" puntualizzò. Immaginò che, da casa, Annie stesse guardando la televisione – era obbligatorio, per quanto ne sapesse.

"Annie, dici? Da quanto vi conoscete?" incalzò Cesar, intento a strappargli almeno una storia accattivante.

"Da tre mesi, ma è la mia migliore amica."

Si ricordò di sorridere di nuovo. Una telecamera fece un primo piano del suo volto.

"Capisco. Bene, cosa vorresti dirle?"

"Vorrei salutarla" balbettò. Si guardò intorno e, con sorpresa, si accorse che tutti pendevano dalle sue labbra, che aspettavano altro. Non sapeva bene cosa dire, così aggiunse: "E dirle che deve smetterla di chiamarmi ‘Nick. E' da stupidi."

Il pubblico rise nuovamente, battendo le mani. Finnick si chiese se le risate fossero finte, magari registrate, perché non gli sembrava di aver detto nulla di divertente.

 "Facciamo un bell’applauso a Finnick Odair, Distretto Quattro!" esclamò Cesar, sovrastando il vocio, poi rimandò il ragazzino a posto, chiamando la ragazza del Distretto Cinque.

 
***

 
Annie è su quel palco, davanti agli spettatori di Capitol City. In pasto alle belve.

Cammino avanti e indietro, nervoso.

Cesar ha i capelli verde bottiglia, le sopracciglia verde bottiglia, il vestito viola. Dovrebbe cambiare stilista.

"Sta’ un po’ fermo, Finn" mi rimprovera Mags, tenendo per un braccio Michael. Lui è il prossimo a dover salire, ma in questo momento è incantato a guardare Annie ridere, seduta sulla poltroncina bianca che ospita i Tributi. La fissa fingere una sfacciataggine che non ha e poi richiudersi in se stessa, timida e pacata come è davvero. I capitolini impazziranno per lei.

"Scusa" mormoro, fissando intensamente l’immagine sullo schermo. Annie sembra davvero a suo agio, ma so che non è così. È solo apparenza – lei è troppo riservata per parlare di sé così liberamente. Accanto a Cesar sembra del tutto fuori posto: lei è troppo... troppo, per loro. Non la meritano, nessuno lo fa. Nemmeno io, soprattutto io.

"Allora, Annie, hai qualcuno da salutare?" domanda Cesar all'improvviso. Il ricordo della mia risposta a quella stessa domanda mi fa quasi sorridere, mi chiedo se si ricordi di me e del mio saluto alla ragazza che ora siede su quella poltroncina.

"In effetti sì" risponde lei. Muove leggermente una gamba, poi si allontana una ciocca di capelli dalla fronte.

"Chi sarebbe?" domanda Cesar, curioso. Mi sono sempre chiesto quale sia il suo confine, quanto finga e quanto invece sia davvero interessato ai pettegolezzi e ai Tributi.

"Lui si trova qui, in realtà" spiega Annie. Lo stomaco mi si contrae piacevolmente. "Ma voglio ricambiare un saluto che mi ha dedicato cinque anni fa."

Cesar si sforza di ricordare, ma evidentemente non riesce a farlo. Dopotutto, ha già conosciuto altri cento Tributi da quando io presi posto su quella sedia ed è sicuramente difficile ricordarseli tutti. Spossante, come lavoro, mi ritrovo a pensare con amarezza. Al mio Distretto, i pescatori cominciano a uscire in mare di notte, ma immagino che per Flickerman ricordarsi i nomi di più di dieci Tributi alla volta sia troppo.

"Finnick, Cesar" gli spiega allora Annie, il tono a metà tra il sorpreso e l’offeso. "Lui mi ha salutato, durante la sua Edizione."

Anche in questo caso, il pubblico ride, ma questa volta capisco il perché. Lei è spontanea, naturale. Io ero bello. Ed ero ingenuo come solo un bambino può essere. Lei è semplicemente se stessa.

"Ma certo, ora ricordo!" esclama Cesar, e mi chiedo se ricordi davvero. "Ma sicuro, Finnick! E quindi siete ancora amici?" domanda, curioso. Il pubblico rumoreggia.

"Siamo più che amici" risponde Annie. Sento un groppo in gola, il cuore che mi pulsa nelle orecchie. "Lui è il mio migliore amico, una delle persone a cui voglio più bene" spiega Annie. Tutto tace. Sento quasi un fischio nelle orecchie, sommato ai commenti dei Tributi in attesa che – ci giurerei – mi stanno fissando.

"Capisco, Annie. Un bel applauso ad Annie Cresta, Tributo del Distretto Quattro!"
 

La trasmissione finisce troppo tardi, per i miei gusti. Quando termina – e lo fa con il solito, stupido primo piano dello sguardo accattivante di Cesar – quasi corro verso la porta dalla quale usciranno i Tributi. Mi trattiene solo il pensiero che decine di telecamere sono puntate su di me e che, come Mentore, ho già infranto parecchie regole e non mi sembra il caso di attirare ancor più l’attenzione su Annie.

Tuttavia, nulla mi impedisce di seguire Mags e di congratularmi con Michael per cinque secondi esatti, sorridendo e allontanandomi in direzione di Annie.

"Allora, come è stato?" domando, quasi stessimo parlando del tempo. Ci incamminiamo insieme verso le stanze, in silenzio.

"Imbarazzante" risponde lei. Ha lo sguardo basso e i pugni stretti, ma sorride. È un buon segno, credo.

Gea mi scosta bruscamente per stringere la mano di Annie e me la sottrae per quasi dieci minuti solo per complimentarsi sul suo vestito. Quando, finalmente, potrei tornare a parlare con lei, Mags mi lancia uno sguardo di fuoco e mi comunica quasi telepaticamente che è ora di dormire.

"Mi sa che vi conviene andare" mormoro allora. "Domani vi aspetta-" mi interrompo, la voce che mi muore in gola. Cosa dovrei dire? Domani vi aspetta una giornata piena?

Per fortuna, come sempre, Mags interviene in mio aiuto e spinge via i due, augurando loro la buonanotte. Poi ritorna verso di me.

"Finn, sai che tu dovresti incoraggiarli, vero? Sai che, una volta nell’Arena, il tuo compito sarà tener in vita entrambi, almeno all’inizio?" domanda, accigliandosi. Siamo giunti alla porta della mia stanza. La guardo, lei mi guarda.
"Certo che lo so" annuisco. Ma non è così che andranno le cose.



 

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Capitolo 8
*** False swaines and true loves ~ ***


Finnick Odair ha giocato tre volte

Chapter VIII - False swaines and true loves

 

 
Finnick si svegliò con un sussulto, sudato e scosso dai brividi.

La stanza era buia, illuminata fiocamente dalle luci di Capitol City che filtravano attraverso la finestra: tenui bagliori arancioni, bianchi e gialli che si univano a giganteschi e luminosi cartelli pubblicitari. Il ragazzo fissò per qualche minuto le chiazze di luce sotto al soffitto, chiedendosi il perché di quel peso sullo stomaco. Cercò di ricordare la cena della sera precedente, ma non gli parve di aver mangiato nulla di indigesto. Poi capì.

L’orologio segnava le tre e trentacinque minuti quando si alzò, incapace di dormire ancora, incapace di respirare normalmente. Perché forse, di lì a ventiquattrore, nemmeno sarebbe stato in grado di respirare.

“Morirai, i quattordicenni non sopravvivono” aveva sussurrato la ragazza del Due, melliflua, la sera precedente, dopo le interviste. Aveva un ampio sorriso sul volto, le guance colorite e ragione da vendere: quella sarebbe stata l’ultima alba che avrebbe mai visto.

Ancora intorpidito dal sonno, il ragazzo si infilò sotto la doccia e si vestì con gli abiti preparati ai piedi del letto – pantaloni neri, tshirt e giaccone pesante. Si domandò il perché di quelle scelte, dei tessuti, dei colori: probabilmente, considerando la giacca, l'Arena sarebbe stata fredda. Ma quanto? Non era abituato al gelo, la neve non l'aveva neppure mai vista. Alla fine, quando la testa cominciò a pulsargli e non fu più in grado di tener ferme le mani, ordinò del cibo – roba a caso, giusto per riempirsi lo stomaco un’ultima volta prima di morire – e sedette sul letto, le gambe incrociate.

Alle cinque, il sole cominciò a sorgere. Finnick abbandonò la quindicesima zolletta che stava sgranocchiando e si affacciò, incantato. Aveva sempre odiato l’alba per gli impegni che portava con sé al Distretto Quattro, ma in quel momento furono proprio quegli incarichi noiosi a riportarlo, per un momento, a casa: lo snodare le reti, prepararne di nuove, lucidare il pavimento delle barche, catalogare i tipi di pesci che i pescatori portavano a riva. Insieme agli altri ragazzini, aveva trascorso interi pomeriggi a cercare di distinguere i molluschi, a pulirli e prepararli per l’esportazione in grosse casse che dovevano essere marcate da sigle chiare e precise.

Pensò che, forse proprio in quell’istante, quella routine stava andando avanti senza di lui – senza il ragazzino biondo che era così bravo alle lezioni di pesca.
Forse Frank Morasby era diventato il primo della classe, con lui fuori gioco.

Sospirando, uscì dalla stanza e vagò per il quarto piano fino a ritrovarsi davanti a una porta uguale alla sua. Doveva essere la stanza di Maia, oppure quella di Mags. Finnick avrebbe dato qualunque cosa per bussare, entrare e abbracciare la prima persona che gli fosse corsa in contro – l’ultima che avrebbe abbracciato prima dell’Arena. Era sicuro che non avrebbe avuto nessuno, lì dentro, con cui scambiare dimostrazioni d’affetto.
Stava per bussare, quando la porta si spalancò da sola, rivelando il viso assonnato di Maia Jonhson.

"Odair?" esclamò, stupita. Era in mutande e canottiera, la pelle chiara che riluceva alla luce dell’alba.

"Maia" balbettò Finnick. Abbassò lo sguardo, incapace di fissare negli occhi quella ragazza che gli era stata amica e che, di lì a poco, avrebbe potuto ucciderlo. I suoi occhi indugiarono sulle spalle di lei e poi sul suo seno. "Scusa, è che-" cercò di rimediare, balbettando.

"Volevi vedermi nuda, Odair?" lo attaccò la ragazza, correndo all’interno della stanza e sparendo dietro un’anta dell’armadio. "Che c’è, i tuoi ormoni di adolescente vogliono togliersi qualche soddisfazione prima di morire?" aggiunse, stridula. Era chiaro che si sentiva a disagio, lì dietro, ma mai quanto Finnick: rigido sulla porta, il ragazzo si sentì sprofondare, rosso per l’imbarazzo. Mosse un piede sulla moquette, a disagio, aspettando che la ragazza tornasse a farsi viva. Quando rispuntò fuori, era vestita con un abito leggero, a fiori rossi, di velo. Gli ricordò terribilmente Annie.

"Scusami, non sapevo che fosse la tua stanza" si giustificò Finnick, facendosi coraggio e guardandola negli occhi. Erano verdi, belli, umani. Come avrebbe fatto a privarli della loro vita? Come avrebbe fatto a spegnere la luce di un paio qualunque dei ventitré che avrebbe fronteggiato?

"Ma davvero?" gli rispose Maia, sarcastica. Se ne stava appoggiata alla porta con aria di sfida. "Fammi indovinare, sei sonnambulo?" chiese.

Finnick alzò gli occhi al cielo.

"Ti eri perso cercando il bagno?" rincarò lei, battendo un piede sul pavimento. In quel momento, ferma lì, sembrava letale e il ragazzino indietreggiò di un passo.

"Il bagno è in camera" sussurrò solo, abbassando nuovamente lo sguardo. Gli scarponcini fornitigli per l'Arena erano neri e lucidi, abbastanza solidi da sopportare giorni di cammino.

"Allora non hai scuse, Odair. Buonanotte."

La ragazza si scostò per permettere alla porta di girare sui cardini senza finirle in faccia, poi la sbattè con violenza, lasciando Finnick solo.

 
***

 
Mi piacerebbe poter offrirmi volontario, nonostante io abbia già vinto. Vorrei poterlo fare al posto di Annie e vincere di nuovo, per lei ancora una volta.

Ma quello che mi aspetta stanotte è qualcosa di peggiore che entrare nell’Arena.

La moquette è morbida e polverosa come sempre. I miei piedi scalzi la percorrono in fretta, cercando di non inciampare nei risvolti del pigiama grigio troppo lungo. La maglietta svolazza producendo leggere folate d’aria che mi fanno venire la pelle d’oca.

La porta di Annie è dannatamente vicina. Sempre più vicina. A dieci passi, nove, otto.

Non posso farlo, non posso.

Sono un Mentore, cavolo!

Non posso farlo.

Ma devo farlo.

"Finn!" esclama lei, non appena mi vede. Indossa una camicia da notte sottile e ha i capelli arruffati, ma non sembra assonnata. In un attimo siamo abbracciati forti, stretti, vicini abbastanza da sentire i nostri rispettivi respiri.

"Dormivi?" le chiedo comunque.

"No, io non ci sono riuscita" mi risponde. I suoi occhi sono puntati sulle mie mani, che si muovono frenetiche attorno al laccio dei pantaloni. Quando sono nervoso, faccio e disfo nodi senza nemmeno pensarci. "Che succede, Finn?" mi chiede.

Sospiro.

"Posso entrare?" domando, sistemandomi i capelli. Non so il perché di questo gesto – lei mi ha visto anche con la febbre, anche mezzo ubriaco. Ma è come se dovessi essere perfetto, per dirglielo. Come se necessitassi di essere più di me stesso, perché lei merita il meglio.

"Certo che puoi" risponde lei, sorpresa. "C’è bisogno di chiederlo?"

Non riesco a sorriderle. D’improvviso, i nostri anni d’amicizia sembrano svaniti, mi sento come se non la conoscessi. Come se non fossimo in confidenza.

"Io ho bisogno di dirti una cosa, prima che... insomma, prima di domattina" comincio, sedendomi sul suo letto. Lei mi imita, prendendo posto accanto a me.

"Dimmi."

Respiro forte un paio di volte, poi mi do coraggio. Non va, non è naturale. Dovevo scegliere un altro momento, magari uno meno ansiogeno. Magari uno o due mesi fa, quando non avevo altro a cui pensare. Magari una settimana fa, prima della Mietitura.

"Allora?" mi incoraggia lei, lanciando un’occhiata nervosa all’orologio.

"Mi-" comincio, poi cambio idea. "Mi farebbe piacere, quando torni, ecco…"

Lei sorride, un sorriso carico di tenerezza e compassione, come se avessi detto una delle più grandi cavolate della storia.

"Quando torno?" ripete.

Mi schiarisco la voce, ignorando il suo commento.

"Mi piacerebbe uscire con te."

Non ha molto senso – sono sei anni che usciamo insieme, ma è tutto quello che riesco a dire.

"Finn, ammesso che tornassi, vivremmo a cinque metri di distanza. Potremo uscire insieme tutte le volte che vogliamo" mi sussurra. Poi mi poggia una mano sulla spalla.

"Non dico in quel senso" riprovo, ignorando i brividi che si irradiano dal punto in cui la sua mano tocca la mia pelle. "Io intendo nel senso di, sai, come se fossimo più che amici."

Spero che abbia colto l’allusione, ma non ne sono sicuro. Annie mi fissa con gli occhi sgranati, osservandomi come un animale raro. Nel suo sguardo c’è qualcosa che non riesco a decifrare.

"Allora è per questo" mi dice. "Non eri mio amico."

È ferita. Eppure, non credevo di aver detto nulla di male.

"Perché?" chiedo, alzandomi e fissandola. Le poggio le mani sulle spalle. "Ti ho solo detto che mi piaci" esclamo. Non ci vedo nulla di male, in fondo.

"Certo, come ti piaceva Penelope!" mi grida lei, le lacrime che le rendono gli occhi lucidi. "Credevo fossi speciale per te, Finnick" mi dice. Non mi aveva mai chiamato così.

"Ma lo sei" balbetto, indietreggiando. "E’ proprio per questo che sono qui, ora!"

Annie sembra soppesare l’idea mentre, con un gesto irritato, si asciuga gli occhi. Sospira.

"Non è un bel momento, Finn" mi sussurra, avvicinandosi. Mi cinge la vita con le braccia, stringendosi a me. "Quando tornerò, se lo farò, allora potremo capire cosa c’è tra noi."

Annuisco.

"Fino ad allora, per favore, non cambiamo nulla. Non voglio altre incertezze."

Vorrei dirle che è una cosa egoista, da parte sua, ma non credo di averne il diritto. Non sono io quello che sta per combattere agli Hunger Games.

"Come vuoi, Annie" acconsento. Poi mi allontano, veloce, prima che le lacrime comincino a solcarmi le guance. 







 

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Capitolo 9
*** Let's the Games begin ~ ***


Finnick Odair ha giocato tre volte

Chapter IX - Lets the Games begin

 

 
Finnick salì nel cilindro quando mancavano solo dieci secondi al lancio. La sua stilista lo aveva aiutato a indossare la divisa di quell’anno – stivali neri, pantaloni mimetici larghi, una tshirt nera e una giacca a vento, a quanto pareva i vestiti di quella mattina non erano affatto quelli che avrebbe portato con sè nell'Arena – e poi, con una strana gentilezza, gli aveva poggiato qualcosa tra le mani.

"Cos’è?" aveva domandato Finnick, rigirandosi il pezzetto di metallo tra le dita. Era freddo, liscio, con su inciso il numero quattro.

"Quando ti troverai in difficoltà, allora ricordati per cosa combatti " aveva spiegato la donna, sospingendolo verso il cilindro.

Non c’era stato tempo per gli addii – nemmeno per quello a Maia, che in quello stesso istante era in un tubo identico al suo. Mentre il vetro si richiudeva attorno a lui, Finnick ebbe solo un istante per pensare al localizzatore iniettato nel suo braccio, al tocco di Mags sulla sua guancia, al sorriso di Annie. Poi fu fuori.


L’Arena era diversa, quell’anno. Dagli sguardi attoniti degli altri Tributi, Finnick capì di non essere l’unico a pensarla in quel modo: una città in rovina, composta da edifici fatiscenti, si stendeva a perdita d’occhio, costellata di fontane secche e fosse polverose. I potenziali ripari erano anche nascondigli per assassini, le buche di difesa potevano essere trappole. La Cornucopia era al centro di quella che sembrava la piazza, circondata dai Tributi.
L’aria sembrava intrisa di polvere giallastra, le ringhiere dei balconi erano totalmente arrugginite. La catasta d’armi e vettovaglie riluceva alla luce del sole, impedendo ai ragazzi di mettere bene a fuoco cosa contenesse.

Quando Finnick constatò che non c’era nessun tridente, il conto alla rovescia era già partito da un pezzo. Gli altri si guardavano intorno in cerca di un luogo di fuga, di un’arma, di qualsiasi cosa. Maia era di fronte a Finnick e fissava intensamente un punto nel bel mezzo della catasta – un coltello, forse, o uno zaino di viveri.

Meno dieci.

Finnick sospirò pesantemente, lo sguardo puntato verso il lato da cui sarebbe fuggito: se non c’era un tridente, avrebbe fatto meglio a togliersi dal Bagno di Sangue e poi decidere come cavarsela.

Meno cinque.

Un pezzo di corda campeggiava a pochi passi da lui, abbandonato. Forse, se avesse corso abbastanza in fretta, ce l’avrebbe fatta a prenderlo e costruire una trappola per animali.

Meno due.

Gli altri Tributi si chinarono, pronti a partire.

Il gong risuonò nell’Arena, e fu il caos.

In un istante, ventiquattro adolescenti si lanciarono verso la pila a velocità diverse, combattendo tra loro e con il selciato polveroso. Qualcuno scivolò, una ragazzina venne colpita da un sasso e cadde rovinosamente a terra, calpestata dai piedi di uno dei Favoriti. Il sangue era ovunque, eppure i Tributi non sembravano diminuire, né tantomeno farsi meno minacciosi.

C’erano due o tre ragazze che combattevano al lato opposto della Cornucopia, tutte armate di lance e coltelli, contendendosi un oggetto che Finnick non riusciva a vedere. Lui, invece, era ancora fermo sul suo piedistallo, inebetito. Vedeva i cadaveri, il sangue, le armi già utilizzate e grondanti di rosso e si diceva che, se fosse sceso dal suo pezzo di ferro, probabilmente sarebbe morto.

Forse non si sarebbero accorti che era ancora lì e, dopo un po’, avrebbero ritirato giù i cilindri, permettendogli di tornare a casa. Solo quando Maia gli sfrecciò davanti, sanguinante e con i capelli arruffati, si risvegliò e balzò giù, afferrando la corda che aveva intravisto prima.

 
Finnick non capì come avessero fatto a ferirlo, né chi fosse stato. Sapeva solo che un momento prima era chino a prendere la corda e, quello dopo, era disteso tra la polvere, un dolore bruciante al fianco destro. Cercò di alzarsi, ma non ci riuscì. Il sangue sgorgava dalla ferita, tingendogli di rosso la divisa scura.

La battaglia si era spostata lontano, dall’altro lato della Cornucopia, e i Tributi che non volevano prendervi parte erano già fuggiti via. Provando a ignorare il dolore, Finnick si issò sulle gambe e si trascinò in avanti, cercando un riparo. Stringendo la sua cordicella, individuò un muro di mattoni poco distante e vi si trascinò per poi provare a sedersi, reggendosi il fianco con le dita scivolose. Si alzò un lembo della giacca, scoprendo la tshirt attaccata alla ferita. Con un coraggio che non credeva di avere, staccò la stoffa dal sangue e, ignorando la sensazione di appiccicoso, guardò il taglio: non era lungo, ma sembrava profondo. In un momento la nausea gli attanagliò lo stomaco: era ferito, sarebbe morto. Non aveva idea di come controllare se avesse bisogno di punti - e comunque non avrebbe avuto nessuna possibilità di provvedere a metterseli - e aveva paura, una paura folle. Eppure si costrinse a osservare il taglio netto: al corso di pronto soccorso del Distretto aveva imparato che, in caso di sanguinamento, la ferita andava fasciata con qualcosa di stretto, così staccò una striscia di stoffa e se la annodò attorno alla vita, tenendola insieme con la corda. Poi attese.

La stoffa si inzuppò subito, scurendosi a causa del sangue, ma Finnick aveva troppo freddo per strappare altri pezzi di giacca. Attorno a lui, il silenzio.

Aspettò che qualcuno tornasse a ucciderlo, ma non arrivò nessuno; sentì passi affrettati di un paio di alleati e lo sferragliare di una catena – probabilmente un pozzo.

Poi, quando si fu calmato abbastanza e il Bagno di Sangue fu ufficialmente terminato, arrivò il primo conteggio. I cannoni spararono sette volte, non troppe né poche, ma per conoscere il volto delle vittime avrebbe dovuto aspettare quella sera. Sperò che Maia fosse ancora viva, per un momento. Poi ricordò che erano nemici e strinse i pugni, cercando di ignorare il bruciore.

Dette un’altra occhiata alla ferita e si rese conto che aveva smesso di sanguinare, anche se era ancora aperta. Sperò fosse un buon segno e si rimise in piedi.

"Forza, Finn" mormorò a se stesso. "Trova un riparo."

Immaginò che la telecamera lo stesse inquadrando proprio in quel momento, mentre arrancava dietro quel muro cercando di non percorrere le strade con più eventuali nascondigli già occupati. Passò accanto alla Cornucopia e la rivide, ma questa volta era vuota. E lui aveva solo un pezzo di corda. Notò uno zainetto incastrato alla base del grande contenitore e pensò di prenderlo, ma poi decise di controllare che non fosse una trappola e perse del tempo a lanciare sassi per evitare che gli esplodesse in mano.

Quindi lo arraffò come se fosse l’unica speranza di sopravvivere.

Era uno zaino di tela dall’aria resistente. Aprendolo, il ragazzo vi trovò una confezione di frutta secca, quattro strisce di carne e una scatola di pillole per la febbre. Sperava si sarebbero rivelate inutili, ma era comunque una fortuna averle. Si mise lo zaino in spalla e camminò per qualche ora, diretto a un edificio lontano e, almeno all’apparenza, abbandonato.

 
***

 
Nonostante chiunque – soprattutto tra i Vincitori – sappia di dover assistere a scene tremende, durante gli Hunger Games, questa supera tutte le mie aspettative. Ed erano alte, avendo assistito a cinque edizioni con ancora le immagini della mia impresse negli occhi.

Annie è sparita sull’Hovercraft quasi due ore fa, salutandomi con uno sguardo spaesato e un cenno della testa, cercando in tutti i modi di non sembrare spaventata. Michael, accanto a lei, mi ha stretto formalmente la mano e mi ha congedato come se ci dovessimo rivedere a breve.

E a noi Mentori non è rimasto altro da fare che tornare indietro, al Centro d'Addestramento, dove trascorreremo la maggior parte del tempo durante i Giochi.

"I Tributi sono nei cilindri" sento dire da uno degli Strateghi che sta passando davanti alla postazione di noi Mentori. Come anche gli organizzatori degli Hunger Games, siamo in una stanza bianca con un grande schermo al centro. A differenza loro, però, questo ci mostra le stesse immagini che i cittadini di Panem vedranno alla televisione. Davanti a ogni postazione, poi, uno schermo più piccolo mostra i Tributi del Distretto di ognuno dei Mentori, nel mio caso Annie e Michael.

Seguiamo l’ascesa dei ragazzi dal punto di vista della bambina del Tre, una certa Sarah. Ha i pugni stretti e gli occhi sbarrati, pronti a cogliere ogni segnale di pericolo e ogni oggetto utile della Cornucopia. La telecamera stringe sui suoi occhi scuri, sui capelli raccolti in una pratica coda di cavallo, sul ciondolo che ha come portafortuna. Poi, nel momento in cui i Tributi emergono definitivamente sull’Arena, l’inquadratura cambia e riprende tutti dall’alto, mostrando a Tributi e spettatori la nuova Arena.

All’apparenza è molto simile a quasi tutte le precedenti, piena d’alberi inutili e ricoperta di terra e fango. Poi, durante la panoramica, noi telespettatori possiamo scorgere un fiume di grande portata che scorre, impetuoso, fino a una diga dall’aria instabile. Mi chiedo se la faranno crollare, prima o poi.

Il conto alla rovescia è quasi giunto al termine quando, con una dissolvenza, la telecamera riprende uno alla volta i visi dei giovani che stanno per morire.

Qualcuno sembra determinato, altri spaventati a morte. Annie, la decima ad essere inquadrata, è pensierosa, come quando se ne stava sulla spiaggia a fare collane di conchiglie. Sta pensando alla tattica che Mags ha messo a punto ieri sera e che, alla fine, non richiedeva grande preparazione: la fuga. Sappiamo che Annie è debole, che non sopravvivrebbe al Bagno di Sangue, e fortunatamente lo sa anche lei. Non tenterà nulla, nessun colpo di testa. Fuggirà e basta.

Quando mancano dieci secondi all’inizio, lo stomaco mi si contrae come se su quella pedana ci fossi io. I Tributi tendono i muscoli, pronti a scattare. Il gong suona e tutti corrono. Nella confusione, perdo di vista Annie e spero solo che stia scappando il più lontano possibile. Anche sugli schermi miei e di Mags, che inquadrano solo i nostri Tributi, la terra alzata dai piedi in corsa ci impedisce di scorgere i volti di Michael e Annie.

"Credi sia scappata?" domando alla mia vecchia Mentore. Lei non mi risponde, troppo impegnata a fissare lo schermo alla sua postazione. Sospiro, lanciando un’occhiata in giro: gli altri sono impegnati a controllare i propri Tributi, senza curarsi di cosa succede attorno a loro. C’è Chaff, il tipo dell’Undici, che ride sommessamente nel vedere una ragazzina farsi ammazzare dal suo Tributo maschio; c’è Enobaria, la sanguinaria Mentore del Due, che esorta la sua ragazza attraverso lo schermo – guardandola bene, mi rendo conto che ha i denti stranamente appuntiti; ci aveva già detto che se li sarebbe fatti limare per ricordare a tutti come avesse vinto, ma credevo scherzasse –; c’è Haymitch, ovviamente ubriaco, che forse è l’unico a comportarsi come me e guardarsi intorno al posto di fare il suo lavoro. Mentre cerco Brutus, l’altro Mentore del Due, per controllare se anche lui si sia fatto limare qualcosa, un rumore proveniente da Mags mi fa tornare con i piedi per terra.

"Che succede?" sussurro, ma un’occhiata allo schermo generale mi da la risposta. In questo momento, su tutte le televisioni di Panem, è in onda Michael che aggredisce Annie.



 

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Capitolo 10
*** Friends, enemies and allies ~ ***


Finnick Odair ha giocato tre volte

Chapter X - Friends, enemies and allies

 

 
L'edificio ondeggiava pericolosamente, scosso dal vento. Nell’aria serale sembrava un castello infestato dai fantasmi, i rami degli alberi protesi come grosse mani grottesche. Finnick trasse un respiro profondo e, guardandosi intorno, entrò. 

L’atrio non era molto grande, ma aveva un soffitto altissimo e due finestre con i vetri rotti che tintinnavano sinistramente, facendo entrare folate di vento gelido che gli ricordavano le correnti sottomarine che aveva imparato a evitare. Una grossa rampa di scale conduceva al piano superiore, ma Finnick non era sicuro che camminarci sopra fosse una buona idea: a giudicare dagli scricchiolii, sarebbe crollato tutto da un momento all’altro. 

Invece, prese posto addossato a una parete, in uno spazio dove la moquette resisteva ancora, cercando di trattenere il calore con la giacca squarciata. Pensò di accendere un fuoco, ma aveva paura di incendiare il palazzo, oltre che di farsi vedere dagli altri Tributi: di sicuro, una luce non sarebbe parsa inosservata. Aprì lo zaino e afferrò una striscia di carne; se la rigirò tra le mani, nauseato, cercando di ricordarsi che non poteva fare lo schizzinoso agli Hunger Games, che avrebbe dovuto nutrirsi con regolarità o sarebbe morto di fame prima ancora che qualcuno lo trovasse. Stava riflettendo su quanto avesse sempre odiato la carne – lui, che era abituato al pesce – quando un rumore lo spinse ad alzarsi. Inghiottì la striscia in un solo morso, rifiutandosi di regalarla al suo potenziale assassino, si voltò e cercò la fonte del rumore.

"Chi è?" domandò, gridando in direzione di una delle finestre. "Non avvicinatevi, sono armato!"

Subito si maledisse per quella malsana idea di urlare infaccia a chiunque stesse facendo il suo ingresso: avrebbe potuto scappare, forse, se solo fosse stato più attento. Sperò che, chiunque fosse, non avesse il fegato di verificare con i propri occhi la presenza di eventuali armi – altrimenti, sarebbe morto di sicuro. Accennò alcuni passi verso l’uscita e l’aveva quasi raggiunta quando si ricordò dello zaino: il suo unico possedimento giaceva abbandonato in un angolo, solo, potenziale preda per chiunque. Finnick tornò indietro. E cadde in trappola.


Non aveva ancora raggiunto l’obiettivo quando, con un tonfo sordo, qualcosa – qualcuno – gli atterrò dietro, stringendogli una spalla.

"Non così in fretta, tu!" sbraitò una voce femminile, tagliente.

Era la ragazza del Due. Indossava la stessa divisa degli altri ma, a differenza della sua vittima, era armata fino ai denti con oggetti che Finnick nemmeno aveva visto alla Cornucopia: coltelli, martelli, una lancia, alcuni dardi, perfino una specie di bomba a mano. Dietro di lei, due ragazzi sogghignavano stringendo una spada ciascuno.

"Sei armato, dici?" lo prese in giro la ragazza. "Vediamo."

Finnick avrebbe preferito sprofondare, forse anche morire, pur di non affrontare quella vergogna. Non poteva soccombere così a colei che gli aveva rovinato anche gli ultimi giorni di vita normale, a Capitol City. Così si voltò.

"Certo che sono armato" rispose, beffardo. Le mostrò le mani. "Come le chiami, queste?"

Lei alzò un sopracciglio:

"Mani?" rispose. "Credi davvero che quelle possano competere con queste?" aggiunse poi, accennando ai dieci quintali di ferro che si portava dietro. "Sei ancora più stupido di quanto temessi."

Uno dei due complici della ragazza si avvicinò, la lama puntata contro il collo della vittima. Finnick sentì il ferro gelido premere contro la pelle tiepida della gola, bucandogliela. Un rivolo di sangue gli colò sul colletto della maglietta.

"Susanne, per favore, sbrighiamoci" sbottò il suo aguzzino. "Non puoi chiacchierare con questo tizio" la riprese.

La ragazza sembrò contrariata: inarcò le folte sopracciglia scure e assottigliò le labbra, inspirando profondamente.

"Non dirmi cosa devo fare, Jay!" sbraitò poi, voltandosi verso l’alleato. Il terzo intervenne, cercando di calmarli.

"Ragazzi, smettetela!" esclamò, dividendoli. Aveva una voce forte e cupa, l'aria autoritaria. "Siamo alleati, no?"

I due lo fissarono, truci.

"Ricordati che potresti morire da un momento all’altro, Sam. Non peggiorare la tua situazione" parlò la ragazza con voce tranquilla.

Lui sbiancò.

"L’ho preso in considerazione, grazie" mormorò, in una parvenza di coraggio.

Finnick, che aveva seguito il battibecco con pacato interesse, si rese conto di aver perso un’occasione di fuga. Fece per divincolarsi ma era ormai tardi: era bloccato contro il muro, sospinto verso la parete dalla punta del coltello.

"Sei ancora qui, tu" constatò anche Jay, fissandolo. "Sei proprio un cretino."
Gli altri risero.

"Ti sto rendendo facili le cose, in effetti" gli rispose Finnick. Dondolò sul posto, la mente che cercava una soluzione, rapida.. "Ti piacerebbe almeno un combattimento?"

I tre ragazzi lo accerchiarono.

"No, mi piacciono le cose facili" rise il terzo alleato, sempre più vicino.
Finnick sentì la spada che premeva sulla sua gola, mozzandogli il fiato. Pregò di avere la pelle abbastanza resistente.

"Non sono d’accordo con te" sussurrò, cercando di respirare. "E non è bello ammazzare il tuo interlocutore" aggiunse, alzando le mani in segno di resa.

"Ma tu sei la mia vittima. Ed è buona educazione farle esprimere un ultimo desiderio. Qual è il tuo?"

Finnick soppesò l’idea. Valeva chiedere di non morire?

Poi però un'idea decisamente migliore di barare al gioco della morte gli balenò e, senza preavviso, colpì forte il ragazzo all'inguine. Jay cadde in ginocchio, la spada abbandonata al suo fianco, le mani strette sulla parte colpita. Accanto a lui, quello che si chiamava Sam parve indeciso sull’avvicinarsi.

"Cosa stai aspettando, Susanne?" chiese, titubante. "Uccidilo, no?" esclamò poi, gli occhi che guizzavano da Finnick all'amico colpito che ancora gemeva, piegato in due.

"Che c’è, hai paura di avvicinarti?" lo rimbeccò lei, le mani sui fianchi.

"Certo che no, ma non vedo perché non debba farlo tu!" ribatté il ragazzo, piccato.

Quel secondo battibecco dette a Finnick l’opportunità di scappare, gettando gambe all’aria Susanne e allontanando Sam con uno scossone. Cercando di non pensare al bruciore al fianco, allo zaino abbandonato nel vecchio edificio e ai due assassini che sarebbero presto tornati a cercarlo, uscì dalla casa e corse lontano, in direzione di un gruppo d’alberi che sembrava innocuo. All’apparenza, almeno.

 
***


Micheal non voleva uccidere Annie. Per qualche minuto non riesco a pensare ad altro, la mente libera da qualsivoglia preoccupazione. Lei è salva, per ora. E' fuggita dal Bagno di Sangue e, a metà corsa, è stata raggiunta dal suo compagno che le ha proposto un'alleanza. Inaspettatamente, direi, considerando anche che tecnicamente Annie è un elemento inutile.
Ma non importa, anzi: finché lei è con lui, è salva. Giusto?

"Finn, perché cammini avanti e indietro?"

Sono in camera di Mags, intento a fissare Annie dal monitor impiantato nelle camere dei Mentori. Sta preparando un giaciglio dietro un albero, mentre Michael monta la guardia. Lei ha un coltello infilato nella cintola dei pantaloni, mentre il ragazzo stringe una lancia tra le dita.

"Non mi fido di Michael" mi lascio sfuggire, abbattendomi e crollando sul letto della mia Mentore. Lei sorride.

"Non ti fideresti di nessuno, vero?" domanda, sedendosi accanto a me. 

"No, infatti" ammetto.

Per un po’ rimaniamo in silenzio, intenti a osservare i nostri Tributi che cercano di sopravvivere mentre, a pochi chilometri di distanza, coloro che dovrebbero tenerli in vita sono seduti su di un soffice letto e in procinto di cenare.

Il primo giorno è terminato con undici morti al Bagno di Sangue e nessun altro cadavere dopo. I Tributi non hanno combattuto tra loro – non succede quasi mai, il primo giorno – e hanno perso tempo a esplorare l’Arena. È piuttosto innocua, all’apparenza, l’acqua si trova in molti punti e non sembra ci siano animali selvaggi. Ho sentito uno Stratega dire che, quest’anno, hanno puntato molto sullo scontro tra Tributi, il che è un bene considerando che la mia Annie non prenderà parte a nessuna lotta.

Gli occhi mi si chiudono lentamente. Sento la cravatta tirare sul mio collo, la camicia alzarsi all'altezza dell'ombelico, ma non mi importa. Mags è l'unica persona che mi mette davvero a mio agio, oltre Annie, l'unica davanti alla quale non mi preoccupo di essere semplicemente me stesso, con tanto di mutande in bella vista e scarpe slacciate.

"Hai voglia di cioccolata?" mi chiede la donna dopo un po’, quando Annie e Michael cominciano a dividersi del cibo. È un nostro rituale da quando sono Mentore.

"D’accordo" acconsento. Non ho fame, ma credo che mantenere le abitudini possa farmi sentire meglio. In poco tempo, un Senzavoce ci porta un vassoio di cioccolatini di vari tipi e due tazze di cioccolata fumante con biscotti. Mi sento quasi in colpa a mangiarli mentre, dal’altra parte dello schermo, la mia migliore amica strappa brandelli di carne secca con i denti, ma d’altronde è quello che ho fatto tutti gli anni. E poi, smettere di mangiare non aiuterà nessuno.

"Allora, hai già pensato cosa inviare tramite gli sponsor?" chiedo a Mags. Lei sta bevendo e, quando finisce, rimane in silenzio per un po’.

"Finn, è presto per parlarne, no? Di solito non chiediamo nulla almeno fino alla morte dei primi dodici" mi dice, il tono accondiscendente. Ha ragione, naturalmente.

"Ma di solito non c’è Annie" ribatto. Lei sospira.

"Non devi vederla in questo modo, Finn. So che è dura, ma devi tenere la tua vita fuori dall’essere Mentore."

Mi volto a guardarla, la bocca sporca di cioccolata. Ha riagione, come sempre. I colpi di testa non aiutano, non ora, non Annie. E ad ogni modo non è giusto nei confronti di Micheal, della sua famiglia, dei suoi amici. Non è giusto e basta. Ma il pensiero che la mia migliore amica sia praticamente nelle mie mani mi impedisce di ragionare lucidamente.

"Non posso" sussurro. 

"Invece sì" mi contraddice Mags, arruffandomi i capelli con una mano. "Come credi che abbia fatto, anno dopo anno, guardando morire persone che conoscevo?"

Non ho mai chiesto a Mags dei suoi Giochi, ma a giudicare dalla sua età deve aver partecipato a una delle prime Edizioni. Questo significa che ha fatto da Mentore a chissà quanti ragazzi, vedendoli morire praticamente tutti. Qualcuno le sarà stato più simpatico, altri meno, eppure non ha mai fatto preferenze, non ha mai scelto un solo Tributo, abbandonando l’altro. Alcuni Mentori adottano questa tecnica, incanalando i soldi degli sponsor su uno solo dei due, ma non lei.

"Non ci riesco, io" sussurro. D’improvviso, non ho più voglia di cioccolato. Annie, nello schermo, ha appena cominciato a prepararsi per dormire, lasciando Michael a montare la guardia. Vorrei dirle di stare attenta, ma ovviamente non posso.

"Devi farlo, altrimenti non ti perdonerai mai la morte di nessuno dei due. Continuerai a sentirti in colpa per sempre, e non devi" mi dice la donna, alzandosi.

Ho l’impressione che parli per esperienza, ma non voglio chiederglielo. So quanto può essere brutto rispondere a domande riguardanti gli Hunger Games, l’ho provato sulla mia pelle. So quanto faccia male ricordare. E le voglio troppo bene per permettere che accada. 






 

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Capitolo 11
*** Life and death ~ ***


Finnick Odair ha giocato tre volte

Chapter XI - Life and death

 
 
 
Finnick non si era mai ritenuto un corridore: era un nuotatore, un pescatore, forse addirittura un buon combattente, quando si trattava di usare reti e tridenti, ma la velocità nel muoversi non faceva per lui. Eppure, quella notte, il ragazzo corse per chilometri, accompagnato dalla sensazione di avere i Favoriti alle calcagna. Sfrecciò attraverso gli alberi, scavalcò tronchi caduti (o gettati lì apposta?), saltò oltre cumuli di foglie e piccoli animali che si aggiravano pacificamente nell'erba e, addentrandosi nel bosco, giunse fino alla riva di un fiume. Lì si accasciò, stremato.

L'acqua scorreva pacifica, lenta, scura come il cielo che le stava sopra. Dopo aver preso fiato, Finnick vi si specchiò: il suo riflesso era lo stesso dei giorni trascorsi a Capitol City, ma era sudato e graffiato dai rami che, durante la corsa di quella sera, aveva sfiorato. Si asciugò un rivolo di sangue con la mano, incantato e impressionato insieme. Fu proprio in quel momento, mentre fissava la sua immagine con una curiosità quasi morbosa, che l’inno di Panem cominciò l'elenco dei caduti di quel primo giorno: la ragazza del Tre, entrambi quelli del Cinque, un ragazzo smilzo del Sei e il Tributo maschio del Sette, le ragazze dell’Undici e del Dodici. Sette in totale, come i colpi di cannone.

Finnick attese che il sigillo sparisse dal cielo dell'Arena e poi, facendo meno rumore possibile, si sistemò su di un albero, assicurandosi il meglio possibile al tronco che lo sorreggeva. Non era un cattivo arrampicatore – alla scuola di vela gli era stato chiesto spesso di arrampicarsi sull'albero maestro per sistemare le vele – ma il solo pensiero di dover dormire in quella posizione precaria gli dava il voltastomaco.

Trascorse un paio di minuti fermo, immobile nell'aria fredda della notte, a osservare il suo stesso respiro condensarsi in nuvole bianche e sparire dopo qualche istante. Stava per assopirsi, finalmente, quando il rumore di passi affrettati gli giunse alle orecchie, facendolo sobbalzare. Per poco non perse l'equilibrio, quando vide la scena che si stava svolgendo due o tre metri sotto di lui, ma riuscì a reggersi e, le dita strette alla corteccia, osservò una ragazza correre sulla riva del fiume, incespicando.

“Aiuto!” gridava, terrorizzata. Finnick si chiese quale Tributo avrebbe urlato per rivelare la sua posizione e da cosa stesse scappando, ma non trovò risposta. La ragazza era bassina e magra, dai capelli corti color oro e con metà volto coperto di sangue; stringeva tra le mani un coltello sporco, ma sembrava piuttosto innocua. Avrebbe potuto essere addirittura una sua alleata.

Appollaiato sul ramo, il Tributo fissò la ragazza accovacciarsi nel ruscello per sciacquarsi la faccia e poi, assetata, bere avidamente. Nel momento stesso in cui ebbe terminato, il cannone rimbombò per l'Arena. Finnick si guardò intorno, cercando di individuare il punto in cui un altro Tributo era morto: c'erano trappole, dunque? Oppure i Favoriti del Due avevano trovato altre vittime? Erano ancora alla sua ricerca? Impegnato a rispondere a quelle domande, si accorse a stento dell'Hovercraft che sorvolava i boschi; se ne rese conto solo quando lo sentì fermarsi appena sopra di lui: il veicolo si immobilizzò e una specie di artiglio d'acciaio scese dalla sua pancia, aperto, pronto a raccogliere il cadavere. Quando tornò su, Finnick si rese conto che era quello della ragazza che aveva gridato, ora pallida e con le labbra viola scuro. Fissò il suo corpo esanime sparire oltre le cime degli alberi e fu solo dopo che l'Hovercraft fu svanito che si rese conto di essersi appiattito contro il tronco dell'albero, terrorizzato.

Aveva sempre sperato – anche creduto, in fondo – che gli Hunger Games in realtà fossero una gran bufala, che i Tributi venissero feriti e, con la scusa di rimuovere i cadaveri, guariti da Capitol City e impiegati come Senzavoce, magari, ma vivi. In quel momento capì che si sbagliava. La ragazza era morta.


 

Il sole sorse poche ore dopo, sorprendendo un Finnick addormentatosi poco dopo l'ultimo colpo di cannone e fortunatamente ancora sull'albero, un braccio sospeso nel vuoto. Il ragazzo si stropicciò gli occhi, ignorando la sensazione di fame, e cautamente scese giù dal tronco. Aveva la bocca secca, ma era quasi convinto che l’acqua del fiume fosse avvelenata – non vedeva altro motivo per la morte della ragazza – così si decise a tornare al centro paese per cercare una fontana.

La strada di terra rossiccia era deserta, anche se Finnick avrebbe scommesso che la metà dei Tributi ancora in vita fosse nascosta dentro una di quelle case fatiscenti. Finchè gli altri se ne restavano lì, comunque, non c'era pericolo per lui, così proseguì dritto per il suo percorso. Stringendo la corda tra le dita, Finnick camminò nervosamente per raggiungere la fontana più vicina e, una volta trovatala, bevve tanta acqua da scoppiare. Recuperò una borraccia abbandonata e la riempì, infilandosela nella cintura per non perderla. Poi non seppe che fare.

Non poteva andare a caccia di Tributi, proprio non ci riusciva, ma non voleva fare la figura del cretino girovagando come un bersaglio mobile. Alla fine decise di cercare Maia. Magari aveva del cibo, si disse, e magari avrebbe voluto condividerlo con lui e averlo come alleato. O forse l’avrebbe ucciso, e comunque anche il quel caso la giornata avrebbe avuto un risvolto più interessante del continuare a vagare a vuoto. Così tornò sui suoi passi, diretto al bosco.


 

***


 

Quando apro gli occhi, per un istante credo di essere nella mia stanza, al Villaggio dei Vincitori. Poi ricordo che no, non sono a casa, e mi siedo di scatto. Non è la mia stanza.

“Buongiorno, Finn” mi saluta Mags, affacciandosi dalla porta del bagno. Mi rendo conto di essermi addormentato in camera sua e di essere sdraiato sul suo letto, vestito come ieri sera.

“Buongiorno, Mags” rispondo. “Io ho… dormito con te?” chiedo. Non vorrei sembrarle scortese, ma la sensazione di svegliarsi sapendo di aver dormito accanto a una lei non è particolarmente piacevole.

“Ho dormito in camera tua” mi risponde la Mentore. Forse ha capito, forse no. Con lei non si può mai sapere.

Una volta seduto, do un'occhiata allo schermo di fronte al letto: mostra Michael che dorme, accucciato ai piedi di un albero, con Annie accanto che regge il coltello con la mano tremante. Sta facendo la guardia.

“Non è morto nessun altro?” chiedo a Mags. Immagino non sia propriamente un buon modo di iniziare la giornata, ma mi preme sapere che Annie è un altro passo più vicina a casa.

“Il Tributo femmina del Nove” mi risponde lei. “Stanotte, verso le quattro. Credo sia stata presa a picconate da quella del Sette, ma stavo praticamente dormendo.”

È macabro il parlare di questi argomenti così, sorseggiando il latte a colazione. Ma è l'unico modo che conosciamo per discuterne, esorcizzando il tutto e rendendolo meno terribile di quello che è. E so che sembra orribile, detto così, come se la tragedia dei Giochi fosse ridotta a una chiacchiera da parrucchiere, ma sono sicuro che neppure i Tributi vorrebbero Mentori impegnati a piangere e deprimersi tutto il giorno.

“Annie sta facendo la guardia” informo Mags come se fosse la cosa più importante.

“Lo so, le ho dato un’occhiata prima” mi risponde, uscendo in accappatoio. “Sta bene, credo.”

Annuisco, anche se so che è una bugia: non sta bene, nessuno può star bene nell'Arena. Sicuramente però sta meglio di quanto sperassi: sembra in buona salute, non è ferita, ha mangiato ed è armata. Questo supera di gran lunga le mie aspettative. Dopo essermi assicurato un'ultima volta che tutto sia tranquillo, nell'Arena, mi alzo di scatto e faccio per uscire, diretto in camera mia.

“Ci vediamo tra mezz’ora in Sala, Finn” mi congeda Mags mentre sono sulla soglia, ricordandomi nuovamente dei miei impegni di Mentore. Oggi abbiamo i primi incontri con gli sponsor, che decideranno a chi dare i propri soldi, su chi investire. Non sarà facile, con i Tributi che ci ritroviamo quest’anno, ma abbiamo affrontato situazioni peggiori. Stando a quando dice Cesar, Annie ha riscosso un certo successo tra le donne over quaranta, che la vedono come una figlia indifesa, e tra i ragazzi tra venti e trentacinque anni, che non oso pensare perché la supportino; anche se un’idea ce l’ho, naturalmente.

Credo sia per lo stesso motivo per cui, quando compii sedici anni, fui chiamato con tanta urgenza al Palazzo. A Capitol City, la cena col Presidente fu sfarzosa. Al termine del Tour della Vittoria la villa era stata decorata con migliaia di luci intermittenti, giochi d’acqua e vari esibizionisti che mangiavano fuoco e facevano sparire oggetti. Quel giorno invece la cena fu più sobria, ma al tavolo d’onore mi fu assegnato il posto accanto a Snow. Non avevo mai parlato col Presidente, non in privato, e quella conversazione mi fece rimpiangere tutto ciò in cui avevo sperato negli ultimi mesi: di vincere, di vivere, di tornare a casa. Fu allora che mi chiese, con parole molto gentili, di prostituirmi. Ovviamente non usò quella parola, sarebbe stato disdicevole per uno del suo rango, ma il senso fu abbastanza chiaro dal farmi ritornare su roastbeef e piselli. Quel giorno, deglutendo a fatica, rifiutai con la stessa falsa gentilezza usata dall'uomo e lui stette al gioco: non si arrabbiò, non tentò neppure di convincermi. Disse solo: “Se dovesse cambiare idea, non esiti a informarmi.” Poi per mesi non mi fu recapitato il compenso promesso.

Avevo sedici anni e nessuna intenzione di darmi in pasto alle signore-ibrido della Capitale. Ma lui ammiccò e aggiunse: “Sono sicuro che ci ripenserà, prima o poi”. Poi cominciò a parlare di Annie, la ragazzina che avevo salutato alle interviste, e anche se allora non colsi l’allusione, ora sono sicuro che si riferisse a questo, al fatto che l’avrebbe usata per minacciarmi. E non perché non abbia altri ragazzi da usare per soddisfare le voglie delle Capitoline, ma perché non accetta che qualcuno possa rifiutarsi di obbedire ai suoi ordini. Neppure io.

“Odair! “

Mi riscuoto dai miei pensieri quando, nel bel mezzo del corridoio diretto alla Sala, urto qualcuno.

“Scusa” mormoro, sovrappensiero.

Di fronte a me c'è Enobaria che mi fissa, le mani sui fianchi e un vestito attillato addosso. Mi sorride con quei denti inquietanti e mi lancia uno sguardo ammiccante.

“Non trovi che sia una buona giornata?” mi chiede. Lasciando stare che non ho alcuna idea del perché dovrebbe essere una buona giornata, cerco di sorriderle: non posso farci nulla, ma dalla mia Edizione provo odio per chiunque appartenga al Distretto Due. E il fatto che abbia i denti appuntiti come quelli di una bestia selvaggia non aiuta a farmi provare sentimenti positivi nei suoi confronti.

“Sì, bellissima” ribatto, comunque. “Ho ancora due Tributi in vita.”

Lei sospira, come se la questione Tributi fosse di scarsa importanza, poi mi prende a braccetto. Profuma di qualcosa di forte.

“Intendevo il cibo, ma comunque hai ragione.”

Ci incamminiamo. Tecnicamente sono più alto di lei, ma oggi indossa dei tacchi vertiginosi e le nostre spalle sono alla stessa altezza. Mi ritrovo a pensare alla sua Edizione e a quanto sia identica ad allora, nonostante sia passato del tempo.

“Quanti anni hai?” chiedo all'improvviso.

“Non si chiede l’età di una signora” mi rimprovera lei, usando una parodia del tono che mi riserva Mags quando faccio qualcosa di poco educato. “Ventisei, comunque.”

Annuisco. Mi chiedo come sarò a quell'età, come sarà Annie, se ci arriverà. Poi, dato che le domande diventano troppe, la seguo verso la Sala. Il corridoio è praticamente deserto, eccezion fatta per Beetee, Mentore del Tre, che ci saluta con un cenno del capo. È un tipo a posto, anche se insiste nel portarsi dietro la sua ultima Vincitrice, Wiress, una donna di mezza età che credo sia impazzita durante la sua Edizione. Non ho idea del perché la Capitale la lasci girovagare per la Sala dei Mentori, considerando che è quasi del tutto inaffidabile, ma temo sia un monito per noi sopravvissuti: gli Hunger Games non finiscono, sembra gridarci. Le cicatrici non vanno via.

“A cosa pensi, Odair?” mi domanda Enobaria all'improvviso, accarezzandomi una guancia con un dito. Provo un moto di disgusto e cerco di sottrarmi alla stretta delle sue unghie lunghe mezzo metro e smaltate di rosso sangue. Lei non sembra gradire. “Hai fretta?” sussurra.

“Mags mi aspetta” balbetto, indietreggiando. Anche se ormai è una Mentore, non ho voglia di ritrovarmi solo con una tipa che, tra unghie e denti, si porta dietro due metri di lame affilate.

“Mags se la cava da sola da oltre cinquant’anni, per quel che ne so. Lo farà anche questa volta” ribatte Enobaria, continuando a toccarmi la faccia. “Vieni con me.”

“Dove stiamo andando?” chiedo. Non voglio seguirla, ma lo faccio. Non so nemmeno io il perché, so solo che Mags mi ucciderà quando tornerò al mio posto – sempre che non l'avrà già fatto la ragazza che mi sta davanti.

“Oh, lo vedrai. Ti piacerà” mi risponde lei, trascinandomi sul tetto del Centro d’Addestramento, in una specie di ripostiglio. Non mi piacciono gli spazi chiusi.

“Perché siamo qui dentro?” balbetto.

Per tutta risposta, lei si sbottona la cerniera del vestito. Si fa scivolare giù le spalline. Io la fisso, inebetito.

“Perché non mi aiuti, Finnick?” mi chiede. Non voglio farlo, ma sta bloccando la porta, così rimango immobile, attonito. Le parole di Snow mi tornano in mente: “Ci sarebbero donne disposte a pagare. A pagare molto.” Sta succedendo questo? Lei ha pagato?

La stanza sembra farsi più piccola, più stretta, l'aria meno presente.

“Non voglio fare sesso con te” le dico, secco.

La sua faccia sarebbe divertente, se non avessi il terrore di ritrovarmi i suoi denti nella gola.

“Non vuoi?” ripete, fissandomi. La situazione è terribilmente imbarazzante, ma d’altronde non sono stato io a chiudermi in un ripostiglio con un diciannovenne.

“No” affermo, sicuro. “Io credo che mi piaccia un’altra.”

La sua espressione si fa interessata.

“Davvero? E chi? “

Mi rendo conto di essere in uno sgabuzzino a parlare dei miei sentimenti con Enobaria e, miracolosamente, rinsavisco prima di confessarle il mio amore per Annie. Scuoto la testa e la spingo via, aprendo la porta e uscendo all’aria fresca.

“Meglio tornare dagli altri” dico. Lei fa la sostenuta, ma si vede che ha voglia di scappare.

“Odair... se dovessi ripensarci, fammi un fischio” si congeda, scendendo verso la Sala.

Non credo ci ripenserò.




N.d.A.: Okay, dovrei vergognarmi. E lo faccio, davvero, perché un ritorno dopo quasi un anno è una cosa di cui effettivamente ci si può vantare quanto lo si può fare di aver fatto (SPOILER ALLERT PER PERSONE CHE INESPLICABILMENTE NON SONO A CONOSCENZA DEL FINALE DI MOCKINGJAY) saltare in aria Prim. Boom.
Comunque sia, sono qui. E siccome una mia amica mi sta col fiato sul collo per continuare a leggere questa storia, non vi abbandonerò più.
Passo e chiudo.

 


 

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