Noi

di VV_23
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


               Capitolo I.


 

“Sono stato nei boschi, stamattina, e ho sradicato questi. Per lei. Pensavo che potremmo piantarli lungo il lato della casa”.

 

Quel “potremmo” continua a girarmi nella testa. Aveva parlato al plurale. Aveva sottinteso un noi. Un minuto prima ero sola, apatica, pronta ad accogliere la morte in ogni istante. Lui, con una semplice parola, aveva reso di nuovo possibile ipotizzare di riaccogliere la vita.

 

Una doccia – tiepida, perché la mia pelle, come la lingua di un gatto, non sopporta le temperature troppo alte. Riaprire le finestre, nuovo ossigeno in ogni stanza della casa, anche in quella che, finora, era stata territorio proibito. La rosa bruciata, insieme ai vestiti, e finalmente profumo di pulito e di aria fresca.

 

Ed è così che riprendono le cose, quasi come le avevamo lasciate dopo i primi Giochi.

Peeta prepara il pane. Ogni mattina ne da un po' a Sae la Zozza, che lo porta da me per la colazione. Io ritorno nei boschi per la caccia, riprendo a respirare l'odore del bosco, recupero uno stile di vita più sano, che comprende alimentarmi regolarmente e curarmi del mio corpo.

Lui non si presenta per giorni: l'unica relazione che abbiamo è grazie a Sae, che porta a me il pane e a lui la selvaggina. Entrambi frequentiamo Haymitch, ma sempre in momenti diversi. Io lo guardo dalla finestra, ogni tanto, e mi chiedo se lui faccia lo stesso con me.

 

Poi succede. Una mattina, alla mia porta, c'è lui: il pane fresco tra le mani, un sorriso accennato sul volto e lo sguardo limpido. Il mio cuore perde un battito. Mi porge il pane, e, anche se le nostre dita non si sfiorano, è come se quello fosse il nostro primo contatto fisico dopo mesi. Va via senza dire una parola, e io passo la giornata nei boschi, rimuginando sul mio comportamento. Lui è stato più forte – come sempre, quando si tratta di rapporti umani – è venuto da me per primo, ora devo essere io a muovermi nei suoi confronti. Così, quando quella sera trovo il coraggio di andare da lui e portargli la selvaggina, decido che non è abbastanza.

“Domattina potresti restare. Per la colazione, intendo”.

Le prime parole che gli dico dopo settimane, e non sono nemmeno granché. Ma lui sembra non farci caso, e sorride, un po' più apertamente della mattina; il mio cuore, di battiti, ne perde qualcuno in più.

“Volentieri, ti ringrazio”

Un po' formale, ma va bene così, almeno per ora.

 

Il giorno dopo condividiamo il pane a colazione. Nella mia cucina sembra esserci più colore, più calore, ora che c'è lui, anche se non parliamo e ci limitiamo a lanciarci qualche sguardo di sottecchi. Mentre sorseggio la mia cioccolata calda con un nuovo strano entusiasmo, mi rendo conto che lui ha messo giù il suo tè e mi sta guardando con attenzione. Sul suo viso passa un guizzo, ed è come un'illuminazione.

“Ti piace molto la cioccolata calda. La bevevi sempre, prima. Vero o falso?”.

Gli sorrido appena, incoraggiata e incoraggiante, e vedo la luce nei suoi occhi sempre un po' spenti.

Vero, Peeta, assolutamente vero.

 

Da quel giorno, iniziamo a passare parte del nostro tempo insieme. Ci capita di condividere i pasti, io vado a caccia e lui dipinge, o prepara il pane o qualche dolce. Sae viene sempre meno da me, più che altro mi aiuta con le pulizie e con la cucina, ma non è più costretta a farmi compagnia. Peeta e io iniziamo a incontrarci da Haymitch, o ad andare da lui insieme. Per il nostro mentore è qualcosa da festeggiare con qualche bottiglia in più, e noi due ci troviamo impegnati anche a prenderci cura di lui.

Buffo, per una che, fino a qualche giorno fa, non aveva la premura nemmeno di lavarsi tutti i giorni.

 

Ma è tutto, fuorché semplice. Non parliamo molto. Le nostre conversazioni sono scarne, ancora un po' formali, ed è come se ci muovessimo in un campo minato in cui uno ha paura di scatenare nell'altro qualche reazione pericolosa. Io sto attenta a segnalare sempre la mia presenza, per evitare che si senta minacciato non sentendomi arrivare in una stanza, e, nonostante tutto – le parole pesate, i movimenti misurati – ogni tanto il suo sguardo si incupisce, gli occhi diventano neri. Lo trovo seduto sul divano, rigido nella postura e con i pugni chiusi, con il respiro talmente silenzioso che sembra quasi in apnea. Altre volte, quando sente di essere più in fondo nei suoi flashback, lascia la mia casa improvvisamente sbattendo la porta, senza dire una parola; nello stesso silenzio, ritorna dopo qualche ora, con l'aria sbattuta di chi ha affrontato una crisi interiore e qualche segno rosso sulle mani.

Ma la cosa peggiore di tutte sono il terrore e l'angoscia costanti che albergano nei suoi occhi quando sta con me. La paura che io possa saltargli al collo da un momento all'altro, e che mi fa pensare che dovrebbe essere ovunque, meno che in mia compagnia. Allora io tengo lo sguardo basso, per non spaventarlo, e per proteggere il mio cuore ferito. Nei momenti peggiori, mi chiedo perché ci ostiniamo a portare avanti questa faccenda, e i miei occhi si riempiono di lacrime, mentre il groppo in gola mi impedisce di pronunciare qualsiasi parola per diversi minuti.

 

La prima reale conversazione avviene, inaspettatamente, dopo una battuta di caccia. Vado da lui, per portargli della selvaggina, ma non è in casa, né si trova da Haymitch. Non mi piace non sapere dove sia, per quanto, razionalmente, sappia di non avere alcun diritto di conoscere ogni suo movimento. Eppure, decido di cercarlo in giro per il distretto, e uscire dal Villaggio dei Vincitori mi viene talmente naturale da non pensare fosse possibile: il cancello è già alle mie spalle, quando mi rendo conto del progresso fatto. Anche questo, solo grazie a lui.

E lo vedo. Di schiena, davanti alle rovine del Distretto. So bene dove siamo, e, quando mi avvicino, la conferma me la dà l'oggetto che stringe tra le mani: l'insegna – spezzata a metà e con qualche pezzo mancante – della panetteria. Guarda le macerie davanti a sé, gli occhi fissi, la mascella contratta, e un'aria inspiegabilmente adulta. A quel punto parla, e la sua voce ha un tono nuovo, più maturo, più consapevole.

“Voglio riaprirla. Voglio riavere la mia panetteria, voglio continuare la tradizione di famiglia”. Si volta e, incredibilmente, mi sorride. “Qui al Dodici manca un forno come si deve”.

La luce nei suoi occhi, finalmente liberi dalla solita paura che li velano quando sta con me, il sorriso un po' spento ma sincero, lui, mi danno il coraggio per sfiorargli la mano che tiene salda parte dell'insegna. Il primo reale contatto fisico dopo mesi, e sento un brivido lungo la schiena – assurdo, se penso ai baci e alle carezze che ci siamo scambiati in passato, in una vita passata; lui si irrigidisce, ma è solo un attimo, prima di rilassare di nuovo i muscoli.

“Ti aiuterò. Se vorrai”

Il sorriso si allarga. All'improvviso, ne vale la pena.

“Certo”.

 

E così, nel Distretto 12 in ricostruzione, iniziano subito i lavori per la panetteria Mellark, che ottiene l'approvazione in brevissimo tempo. Il governo della nuova Capitol City ci manda planimetrie, piani urbanistici e materiali, nonché operai specializzati, che vengono affiancati dai ragazzi del Distretto che hanno voglia di impegnarsi per la loro città. Peeta seleziona persino le macerie del vecchio forno, trattandole come fossero delle reliquie.

“Voglio tenere alcuni blocchi” mi ha detto il primo giorno. “Saranno le fondamenta della nuova panetteria”.

È un lavoro faticoso ma appassionante, che ci mette in relazione con altre persone. Molti di noi hanno preso parte alla guerra, e tutti abbiamo perso tanto. All'inizio ero terrorizzata all'idea di stare con qualcuno che poteva essere incuriosito dalla mia presenza e dalla mia storia, qualcuno ancora troppo interessato dalla Ghiandaia Imitatrice, e invece sperimento qualcosa di nuovo: essere semplicemente Katniss, una ragazza del Giacimento come altri, che ha visto la sua già precaria vita andare definitivamente in frantumi a causa della rivoluzione. Condividere le nostre storie ci aiuta a sentirci meno soli, ma, soprattutto, aiuta me a sentirmi meno “esclusiva” nel mio dolore. Sono solo una diciottenne come gli altri. E mi va più che bene così.



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Dopo aver pensato e pensato e pensato, ecco che mi decido a pubblicare questa fic! :) Sono entrata in palla totale per Hunger Games quando ho letto i libri qualche mese fa, e ho voluto immaginare come sarebbe potuto essere quel “ricominciare a crescere insieme”. Non so ancora quanti capitoli saranno, per ora è qualcuno :)

Ringrazio in anticipo chi leggerà!

VV

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


                Capitolo II

 

“Voglio scrivere un libro”.

Peeta, Sae e Haymitch sollevano lo sguardo dai loro piatti, e mi guardano incuriositi.

“Voglio scrivere un libro” ripeto “per non dimenticare”.

Non dimenticare Prim, Rue, Finnick, Cinna, Boggs. Non dimenticare la sofferenza, le perdite; e per far sì che il loro sacrificio non sia stato vano, perché altri sappiano, imparino: per far sì che certi errori non vengano più ripetuti, che questa possa davvero essere “quella volta buona” di cui aveva parlato Plutarch. Non sono mai stata una tipa ottimista, ma ora devo esserlo. Lo devo a loro, ai morti della rivoluzione, ai tributi della libertà.

Haymitch abbozza un sorriso.

“Buona idea, dolcezza. Io ne ho un sacco, di cose da dire”.

Peeta e io ci guardiamo. I suoi occhi non sembrano più così spaventati quando è con me, e lo sguardo che ora ci scambiamo ha in sé un'intensità che è in grado di annullare tutto quello che ci circonda.

“Anche io” afferma.

 

Così, nel giro di qualche giorno, dalla Capitale arrivano carta e penne, giornali e riviste, ma anche immagini e testimonianze. Il materiale è ricco, e non fa che crescere. E, nel momento in cui ci mettiamo a scrivere, ci rendiamo conto che questo libro non sarà solo una raccolta degli orrori della guerra, ma sarà soprattutto un'antologia di memorie, di ricordi positivi, di immagini legate alle persone che abbiamo amato. Le persone grazie alle quali noi siamo qui, stanchi e spezzati, ma vivi.

Mi rendo conto di quale fosse la verità, quale fosse quella cosa che mi stava tenendo bloccata senza via di fuga in un mondo fatto di apatia e depressione: avevo paura. Paura di qualcosa di assolutamente irrazionale e insensato, paura di dimenticare Prim. Di dimenticare il suo volto, la sua treccia bionda, i suoi occhi azzurri, la sua attitudine alla medicina, le sue parole così sagge per un bambina di tredici anni, paura di dimenticare tutto di lei. Lo realizzo solo nel momento in cui scrivo il suo nome sul foglio, e, per alcuni secondi, rimango bloccata con la penna sospesa tra le dita e un enorme vuoto nella testa. Ti ho dimenticata?

Ma poi, quando butto giù le prime parole, le altre vengono da sé, senza bisogno di cercarle troppo. Quel terrore folle si dissolve nel momento in cui i pensieri vengono srotolati e messi poco alla volta nero su bianco. Scrivere di Prim e della sua bontà, e, successivamente, scrivere dell'irriverenza di Finnick, del talento di Cinna, scrivere della bellezza che ho visto negli occhi delle persone a me care, dedicarmi a rievocare la loro memoria ha un effetto incredibilmente terapeutico su di me, e mi restituisce qualcosa. Mi restituisce una scintilla di speranza nel futuro, speranza di vedere ancora così tanta bellezza nel mondo che mi aspetta – ed essere un po' più ottimista si rivela non semplice, ma quantomeno possibile. Sono viva per questo, per vedere la bellezza anche per loro che non possono più.

La presenza silenziosa ma forte di Peeta al mio fianco è uno stimolo per proseguire nel mio lavoro: vedere la sua mano che disegna paesaggi e volti e particolari, e che riesce a rendere ancora più giustizia alle storie che scriviamo, mi fa sentire che non sono sola in questo percorso. I suoi colori donano colore e serenità a questo racconto – il nostro racconto – una serenità che, in qualche modo, riesce ad avvolgere un poco anche in me. Peeta è in grado di rendere tutto migliore.

Mi ritrovo a osservargli le ciglia bionde e lunghe, come facevo quando aggiornavamo il libro delle piante della mia famiglia, e noto alcune leggerissime rughe d'espressione agli angoli degli occhi, segno che sta crescendo. Crescendo bene, precisa la mia mente con un po' di malizia. Lui mi guarda e io abbasso gli occhi, imbarazzata per i miei stessi pensieri inconsci e per esser stata beccata a spiarlo: riconosco questa come una sensazione che ho già provato, e che, stranamente, in qualche modo, mi dà sollievo. Di per sé so che è assurdo provare sollievo nell'imbarazzo, ma mi rendo conto che ogni sentimento semplice, legato al mio rapporto con le persone e con Peeta nello specifico, è come recuperare un pezzo di vita, un pezzo di normalità. È come se, in un modo piuttosto bizzarro, mi stessi riappropriando di tutte quelle sensazioni che la gente normale dovrebbe provare, sensazioni che non siano legate alla paura di morire di fame o di soccombere a causa del freddo o di essere puniti ingiustamente da qualche Pacificatore. È come se, per la prima volta in tutta la mia vita, vivessi davvero la mia età.

Lo sento sorridere, ma non fa alcun accenno al fatto che io spenda il mio tempo a ossessionarmi per le sue ciglia o per il suo viso o per le sue mani che disegnano. Semplicemente, mi chiede:

“Abbiamo già fatto qualcosa di simile. Il libro delle piante di tuo padre. Vero o falso?”.

Sai, credo che questa sia la prima volta che facciamo qualcosa di normale insieme. Qualcosa di carino, per cambiare.

Ogni ricordo che emerge nella sua mente è come un passo in più verso la luce.

“Vero”.
 

Le giornate si svolgono metodiche, tutte uguali, ma la quotidianità non mi dispiace. Gli imprevisti dell'ultimo anno e mezzo mi fanno apprezzare questa apparente monotonia, anche se ci sono alcune cose che vorrei cambiassero.

Ogni giorno Peeta viene a casa con il pane fresco e facciamo colazione insieme: lui mi osserva attentamente quando mangio, e registra tutte le mie preferenze e i miei gusti, e quando nota che una cosa mi piace particolarmente me la ripropone il giorno dopo. Realizza un menù personalizzato esclusivamente per me, e sembra molto soddisfatto nel vedermi mangiare con gusto tutto quello che mi propone. Mi rendo conto che è il nostro modo personalissimo di conoscerci di nuovo – io che lo osservo quando disegna, lui che mi studia mentre mangio – un modo che sembra non comprendere l'uso del linguaggio: infatti, tutto si svolge sempre in quasi totale silenzio, le parole che ci scambiamo sono poche e ancora molto legate alla circostanza, piuttosto che alla volontà di intavolare una vera conversazione.

Un'altra cosa che manca totalmente nel nostro rapporto è il contatto fisico, che è sparito del tutto dopo quella mia leggera carezza alla sua mano davanti alle macerie della panetteria: ritrovo in me quella sensazione di solitudine che avevo vissuto nella prima Arena e che avevo sopito solamente quando avevo trovato in Rue un'alleata e un'amica, e avevamo passato la notte abbracciate l'una all'altra; adesso come allora sento davvero la mancanza di calore umano, ma faccio fatica ad andare d'accordo con questo pensiero, dal momento che so, inconsciamente, che quello che vorrei di più è il calore di Peeta, le sue braccia così come le ricordo – forti e delicate, sicure e confortanti. Non so dove mi porterebbe accettare questo mio bisogno. Non mi sento pronta per farlo.

Dopo colazione, lui si reca alla panetteria, mentre io vado a caccia e Sae viene da me per occuparsi della casa. All'ora di pranzo raggiungo i ragazzi del Distretto e, dopo un leggero pasto, riprendiamo a lavorare tutti insieme. Ed è lì che, un giorno come un altro, le cose cambiano. Ma non come desideravo io.
C'è una bella ragazza bionda che sta lavorando con noi alla ricostruzione della panetteria: si chiama Asia, ha un'aria straordinariamente spensierata per essere una che è sopravvissuta alla distruzione del Distretto 12, e la cosa che più me l'ha fatta notare è che sembra apprezzare molto il ragazzo del pane. Non perde occasione per chiacchierare con lui, fargli qualche battuta, e, ogni tanto, la vedo azzardare una carezza o una presa o una spinta giocosa. Peeta mi sembra allegro come non lo vedevo da tempo, divertito e a suo agio, ma tutto questo non mi dà nessuna gioia. Sento come un tarlo che mi mangiucchia l'interno, e un martellare continuo alla testa, ma non specificatamente nel punto dove Johanna mi aveva colpito. Mi riscopro quasi ossessionata da quella ragazza – le sue braccia non presentano alcuna cicatrice, il suo viso non è scavato, la sua indole non è silenziosa e diffidente – e, nel giro di qualche giorno, il fatto che Peeta preferisca passare del tempo insieme a lei piuttosto che insieme a chiunque altro diventa un pensiero costante; ma non posso fare niente – non ne hai alcun diritto, mi dice una voce saggia e maligna nella mia testa – posso solo guardarli giocare e scherzare, e pensare a quanto – con i loro capelli dorati, i loro sorrisi allegri, le loro voci divertite – stiano bene insieme.


 

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Nello scrivere questa storia ho voluto mettere l'accento sulle cose da cui Katniss, secondo me, deve ripartire per tentare di avere una vita normale; ma anche su altre piccole cose di cui i nostri protagonisti sono stati privati: la gelosia adolescenziale è uno di questi, se escludiamo quei piccoli accenni che vengono fatti nel caso di Madge. Partendo da qui, cercheremo di regalare comunque qualcosa di bello a questi poveri ragazzi! :)

Ringrazio tantissimo chi ha letto il primo capitolo e chi vorrà continuare! :)

VV**

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


                Capitolo III

I giorni passano, e quella quotidianità che vado conquistando si arricchisce di piccoli particolari eventi che diventano delle vere e proprie abitudini. Come Haymitch che, senza bisogno di alcun permesso, apre il mobile della cucina per prendersi un bicchiere e iniziare le sue serate alcoliche in casa mia; o la nipotina di Sae nella sala principale, che gioca o legge o si diletta col lavoro a maglia e poi risistema tutto nella sua personalissima disposizione, certa che il giorno dopo ritroverà tutto come l'ha lasciato; o ancora Peeta che riorganizza la dispensa e il frigorifero a suo piacimento, e, di fatto si appropria della mia cucina per preparare la cena per noi cinque; infatti, ormai ogni sera, ci riuniamo per mangiare insieme. Ma non riguarda solo il mangiare: si tratta di condividere quello che abbiamo di più prezioso, il nostro tempo, perché la solitudine spaventa tutti. Spaventa Sae, che sembra essere mille anni più vecchia da quando è tornata al Dodici e che ha negli occhi il terrore di lasciare sua nipote prima che lei sia pronta a badare a se stessa; spaventa Haymitch, che, insoddisfatto della sola compagnia delle bottiglie, si è messo ad accudire delle oche. Spaventa me, soprattutto quando cala il buio della notte.


Finito di cenare, Sae riassetta tutto mentre la piccola gioca; noi tre ci dedichiamo al libro, che, nel frattempo, ha iniziato a prendere consistenza. Le memorie che racchiudiamo si fanno sempre più nitide, al punto che anche i dettagli che parevano insignificanti emergono e riescono a trovare degna espressione nelle parole; parallelamente, la mano di Peeta sembra farsi sempre più ferma e precisa nel trasformare in immagini ciò che io scrivo: me ne accorgo quando vedo il colore che, dopo svariati tentativi, è finalmente riuscito a trovare per completare gli occhi di Finnick. Sono talmente fedeli all'originale che, quando vedo il disegno finito, devo nascondere una lacrima e sopprimere un singhiozzo.

Dopo qualche ora passata a lavorare sul libro, quando la mole di ricordi si è fatta troppo pesante e Haymitch ha iniziato a russare sulla sua poltrona preferita, vanno via sempre tutti e quattro insieme. E questo è il momento che mi spaventa di più, quello dove il buio sembra più profondo e oscuro. Inizialmente non capisco da cosa derivi quella sensazione di angoscia che mi assale quando li vedo prendere le loro cose per rientrare nelle loro case, e la conseguente ansia che segue la leggera eco lasciata dal chiudersi della porta. Poi, alla fine, ammetto a me stessa che non si tratta di capirlo, si tratta di accettarlo: la verità è che vorrei che Peeta si trattenesse di più con me, che mi facesse compagnia. Che restasse con me. In che modo non lo so, visto che parliamo ancora pochissimo e il massimo del contatto fisico che abbiamo sono le spalle che a mala pena si sfiorano quando siamo seduti sul divano, con i visi sepolti nelle pagine del libro e nei disegni. Le immagini di noi che condividiamo il letto, il suo braccio protettivo ad avvolgermi e il suo petto a farmi da cuscino, mi tornano come flash alla memoria, quando lo guardo prendere il suo cappotto e andare via. Vorrei davvero che restasse, ma non lo fa mai, e io non mi azzardo a chiedere: ogni sera, sulla porta, ci scambiamo uno sguardo carico di cose non dette – chissà se anche lui rivede le stesse immagini, se prova quello che provo io – ma nessuno dei due fa un passo avanti.

E le notti trascorrono in compagnia di bambini morti sotto paracadute argentati, di madri in lacrime, di corpi senza vita su letti di rose. Mi sveglio di continuo, urlando disperata, e l'unica cosa che mi tranquillizza un poco è sbirciare dalla finestra per guardare verso la camera di Peeta: le sue imposte sono sempre leggermente aperte, e spesso la luce è accesa. Questa visione ha lo strano potere di farmi sentire un po' più serena, e, soprattutto, meno sola.


Una sera siamo seduti sul divano a scrivere il nostro libro. Haymitch si è appisolato sulla sua fidata poltrona, mentre Sae sferruzza un maglioncino per sua nipote, con lei che la guarda attentamente. Le ore di sonno perdute si accumulano sempre di più, mi sento stanca, gli occhi pesanti faticano a stare aperti. Peeta sta lavorando a un ritratto, ed è così vicino a me che le nostra braccia si sfiorano appena, il suo calore talmente confortante da farmi rilassare. Senza accorgermene, mi ritrovo con la testa appoggiata sulla sua spalla, in uno stato di gradevole dormiveglia. Mi rendo appena conto di quello che mi succede attorno: scambia due parole con Haymitch, che mi sembra lo rassicuri in qualche modo, e poi sento le sue braccia attorno al mio corpo e sotto le ginocchia, mentre mi solleva come se fossi una piuma. Capisco di non aver mai dimenticato questa sensazione di pace e sicurezza, e mi arrendo a quel pensiero, accettando in modo definitivo quel mio bisogno che avevo inutilmente provato ad allontanare da me: le sue braccia mi erano davvero mancate da morire. E adesso che mi stringe, vorrei poter restare così per sempre.

Sale le scale col suo passo un po' pesante, mi adagia sul letto e fa per andare, ma non voglio stare sola. Non stanotte.

“Resta” mugugno con la voce impastata dal sonno, tenendogli un lembo della maglia.

“Katniss...” mormora, e il mio cuore sembra gonfiarsi e riempirsi di aria nuova: non gli sentivo pronunciare il mio nome da settimane – c'era ancora la rivolta, e il suono dei nostri nomi sembrava contenere in se stesso il sentore della morte. Ora, invece, ha un sottofondo malinconico e triste.

“Ti prego” lo imploro, senza nemmeno provare l'impulso di vergognarmi per questa supplica. Sospira, poi lo sento muovere una poltrona e spostarla vicino al letto; apro appena gli occhi assonnati, e lo vedo accucciarsi sulla poltrona, poi mi prende la mano. La sua è grande e calda, e la stretta è protettiva e rassicurante. Nelle nubi del sonno che avvolgono la mia mente, mi chiedo come sia possibile percepire tutto questo in una stretta di mano; eppure, con Peeta è così.

“Puoi...” inizio, ma la sua stretta un po' più forte mi interrompe.

“Va bene così” afferma, e scivolo finalmente in un sonno senza incubi.


La mattina dopo mi sveglio molto più tardi del solito e completamente riposata; unico segno del passaggio di Peeta in questa stanza, la poltrona ancora posizionata vicino al letto.  In cucina trovo del pane fresco e un biglietto:

         Ci vediamo al Distretto. Fai una buona colazione.

         PS: stanotte hai dormito come un ghiro!

Davanti ai miei occhi si materializza il suo viso, la sua espressione più rilassata, gli occhi che hanno perso quel velo di terrore che fino a qualche giorno fa avevano quando stavamo insieme, e lo immagino mentre, scrivendo questo biglietto per me, sorride appena. Allora, finalmente, sorrido anch'io.


Ma il sorriso – che è rimasto sulle mie labbra per tutto il resto della mattina – scompare all'improvviso non appena arrivo alla panetteria. I ragazzi sono in pausa pranzo, e Peeta e Asia stanno chiacchierando amabilmente un po' in disparte rispetto al resto del gruppo, quando lei toglie dalla sua borsa una sciarpa blu scura, probabilmente fatta a mano, e gliela avvolge attorno al collo. Lui la ringrazia con un sorriso aperto e gentile – un sorriso molto più ampio di quei piccoli accenni che rivolge a me troppo raramente – e lei gli regala un bacio sulla guancia che gli fa colorare le guance. Sono proprio quelle gote arrossate a farmi capitolare, perciò, senza farmi vedere, me ne vado a passo svelto da lì.

Sono di troppo. Lui passa il tempo con un'altra ragazza. Ha il diritto di amare di nuovo. Questo pensiero mi colpisce come una schioppettata: in tutti questi mesi, non avevo mai, mai pensato all'eventualità che qualcun altro entrasse nelle nostre vite. E da quando Peeta si è presentato a casa mia con le primule, da quando ha sottinteso quel noi, ho pensato e agito come se stessimo lavorando per diventare una coppia – una coppia di persone che si aiutano e sostengono, ma si amano? Una domanda che è come una seconda schioppettata, ancora più rumorosa.

Ma la verità è un'altra. Lui è un ragazzo bello, buono, interessante. È normale che attiri l'attenzione di altre donne. E io non posso tenermelo stretto senza amore, senza niente. Devo arrendermi all'idea che lui potrebbe allontanarsi da me.

Fa maledettamente male.


Quella sera il solito quartetto si presenta alla mia porta. Peeta ha ancora al collo quella sciarpa blu che gli fa risaltare gli occhi, e che sembra un marchio di proprietà – potrebbe già essere di un'altra ragazza. Haymitch lo stuzzica, elogiando quel semplice capo di abbigliamento, e lui si limita a sorridere e a scuotere la testa divertito. In tutto ciò, mi sembra di essere una creatura trasparente, invisibile ai loro occhi. Ma il mio dolore è talmente reale che potrebbe essere visto a occhio nudo.

Io, che pensavo di aver già sopportato qualsiasi tipo di dolore, mi ritrovo ad affrontarne uno ancora nuovo e che faccio fatica a comprendere: è il mio cuore che sembra sanguinare, in maniera diversa da come duole per l'assenza di Prim o da come si stringeva al pensiero di Peeta nelle mani di Snow. Forse Finnick mi avrebbe detto che è perché lo amo, ma la mia testa non riesce ancora a elaborare la parola “amore”. L'unico amore vero che ho conosciuto è stato quello per mia sorella. È impossibile fare paragoni.

“Come mai non sei venuta al Distretto, oggi?” mi domanda Peeta, e sembra davvero incuriosito da questo fatto.

“Mi sono svegliata molto tardi, ho preferito restare qui” mento, tenendo lo guardo basso, e so per certo che nessuno in questa stanza crede a una parola di quello che dico. Sono un vero disastro con le bugie, mi chiedo come sia possibile che la gente abbia creduto alle menzogne che ho rifilato al pubblico nella mia prima Arena.

Dopo la cena, Haymitch e Sae con sua nipote approfittano di un momento in cui Peeta è in bagno per andarsene – o per meglio dire, per scappare di casa, confermando le mie supposizioni: non si sono bevuti la mia storia e ci vogliono costringere a parlare. Così, quando lui ritorna nella stanza, si ritrova da solo con me, e la cosa sembra metterlo piuttosto a disagio. Non posso negare che lo stesso valga per me: entrambi abbiamo qualcosa che ci stiamo tenendo per noi, e che siamo restii a lasciar uscire – per paura dello sguardo cupo, dei muscoli rigidi, delle porte sbattute.

All'improvviso, però, capisco di voler fare un tentativo. Se davvero non c'è più speranza per noi, se il depistaggio non gli ha lasciato nemmeno la memoria del sentimento che provava per me, dobbiamo mettere la parola fine a qualunque cosa ci sia tra noi in questo stesso istante. Se invece, al contrario, quel sentimento esiste ancora, non c'è bionda che tenga: farò di tutto per tenere il ragazzo del pane nella mia vita.

“Resteresti qui, stanotte?” gli chiedo a bruciapelo. Lui alza la testa di scatto, e i nostri sguardi si incatenano. Dolore nei suoi occhi, anche per lui un dolore diverso.

“Katniss, non posso, lo sai” mi risponde mesto.

“Ieri hai potuto” ribatto, convinta, mentre la mia testa elabora il suo rifiuto – non mi aveva mai detto di no. Mi aveva detto sempre.

“E infatti non avrei dovuto” sbotta imperioso, e io mi arrabbio. Va bene tutto, ma rinnegare qualcosa successo solo il giorno prima è davvero troppo.

“Per quella sciarpa, non è vero?” chiedo prima che riesca a frenare le parole, con voce appena tremante, mentre sento le guance andarmi a fuoco. Non si è tolto quella dannata cosa di dosso nemmeno per cenare. Lui mi guarda stralunato, come se non capisse, sfiorandosi appena il collo.

“Ma cosa stai...?” inizia, ma a quel punto non voglio più sentire. Fa troppo, troppo male.

“Va bene, ho capito” gli dico. “Non preoccuparti di portarmi il pane domattina. Buonanotte”.

Giro i tacchi senza nemmeno guardarlo in faccia, e mi chiudo in camera spegnendo tutte le luci. Sarà una notte orribile, ma, in questo momento, non me ne curo nemmeno.


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Siamo arrivati a quota tre! Le cose non sono semplici per una zuccona come Katniss xD ma piano piano prenderà consapevolezza di quello che le succede dentro :)
Nel secondo capitolo ho iniziato a mettere qualche citazione del libro - le avrete viste sicuramente senza bisogno che ve lo dica! :D Ma mi sembra corretto specificarlo, visto che l'altra volta me ne sono scordata. Potrebbero esserci anche riferimenti ai film nei prossimi capitoli - perché trovo che i film siano spettacolari e che in alcuni casi abbiano aggiunto qualcosa di importante al racconto e ai caratteri dei personaggi, perciò hanno, inevitabilmente, condizionato il mio modo di vederli.
Ringrazio tantissimissimo chi sta leggendo questa storia, spero che continuerete a seguirla e che possa piacervi sempre di più! :)
VV**

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Noi IV

               Capitolo IV


Gli incubi che popolano il mio sonno hanno tutti la stessa tonalità di blu della sciarpa di Peeta. Sento Prim – la mia Prim, che trasudava ottimismo anche nei momenti peggiori, che quando mi parlava di speranza ci credeva veramente – ripetermi di “non darlo per spacciato”, ma nel frattempo vedo Peeta per mano con Asia, sorridenti e felici di stare insieme. Mi sveglio alle sei del mattino, il cielo ancora completamente buio: la notte di sonno profondo passata per mano con lui sembra già un ricordo lontanissimo. Senza nemmeno pensarci, mi infilo i pantaloni da caccia, il giaccone di mio padre, e vado nel bosco. Ieri non ho cacciato, perciò la selvaggina già scarseggia.


Mentre cammino tra gli alberi, rifletto sulla nostra relazione (se così si può chiamare), su tutto quello che abbiamo passato. All'improvviso mi colpisce un pensiero che mi fa odiare me stessa: è vero, non avevo mai considerato che qualcun altro – o meglio, qualcun'altra – potesse intromettersi nelle nostre vite, ma, tra queste vite, io ho sempre compreso anche quella di Gale, e mi sono permessa più volte di saltare da uno all'altro solo seguendo il correre degli eventi: le frustate e la rivoluzione, e ho scelto Gale 
è mio, mi sono detta, io sono sua  ; il viaggio verso la seconda Arena, e mi sono fatta consolare da Peeta  l'abbraccio sul treno che non volevo sciogliere e il tocco piacevolissimo delle sue labbra sul mio collo, quando mi sentii egoisticamente sollevata nel pensare che, seppure Gale l'avesse visto, avrebbe pensato fosse tutta una messinscena; Peeta depistato, e mi sono rifugiata tra le braccia di Gale  baciandolo per farmi perdonare, per dimenticare, per alienarmi dal mio dolore, pensando solo a me stessa; poi ho lasciato che fossero le bombe a decidere del rapporto tra me e Gale, a metter la parola fine a ogni cosa ci fosse tra me e lui, in primo luogo alla nostra amicizia. Nel frattempo, ho persino avuto la faccia tosta di sentirmi gelosa di Madge, la mia unica amica, l'ennesimo nome nella mia personale lista di morti. In tutto questo, Peeta – innamorato, deluso, corrotto, quale che fosse la sua condizione e quali che fossero gli eventi che stavamo affrontando – è sempre stato fedele a se stesso, ai suoi sentimenti. Mi sono interessato ad altre ragazze, ma nessuna, eccetto te, mi ha lasciato un segno duraturo. È sempre stato fedele a me.
Sono una persona orribile.
Provo una strana rassegnazione nel pensare che, forse, è giunto il momento che lui si liberi definitivamente di me, della mia costante incertezza, del mio non saper esprimere ciò che provo. E mi sento un po' più forte nel dirmi che sì, forse lui amerà un'altra ragazza e si farà una vita con lei, ma io continuerò a custodire quello che sento per lui, e questo sentimento – ora che finalmente mi sono decisa ad ammettere a me stessa che esiste, che non è solo una mera questione di sopravvivenza, che è indipendente da tutto il resto – non me lo potrà togliere nessuno. Dopotutto, per lui è stato così per anni, mi ha amata totalmente senza avere nulla in cambio; e sarebbe stato disposto a lasciarmi andare – a morire lui stesso, per farmi avere una vita completa, anche se con un altro uomo, anche se con Gale. Realizzo che io non sono buona e altruista come lui, non sopporterei mai di vederlo frequentare un'altra donna, ma gli devo il mio aiuto per la panetteria. Gliel'ho promesso, e voglio pensare di fargli una sorta di regalo, l'ultimo regalo, prima di sparire completamente dalla sua vita.
Con questo intento, dopo qualche ora di caccia, mi avvio verso casa per cambiarmi e andare al Distretto. Ma, arrivata al limitare del Prato, vedo la sua figura stagliarsi a qualche metro da me e venirmi incontro. Ha il pane con sé, mentre io mi porto dietro la selvaggina appena cacciata. Questa normalità mi rilassa e, al tempo stesso, mi elettrizza.
Peeta mi guarda con i suoi occhi azzurri e limpidi, e ha un'espressione incredibilmente serena sul volto. Non dice una parola.
Io lo osservo un momento, e, nonostante le riflessioni della mattina e i buoni propositi, non riesco a trattenermi.
“Ti avevo detto di non scomodarti per il pane” gli dico dura. Complimenti! strilla il mio inconscio. Non sono in grado nemmeno di tener fede a delle decisioni prese dieci minuti prima.
“Mi andava di portartelo lo stesso” ribatte, scrollando appena le spalle. Sollevo un sopracciglio.
“Che ne hai fatto di quella bella sciarpa blu?”.
Cielo, sono proprio una stupida ragazzina gelosa.
Ma lui non si scompone.
“L'ho restituita” mi risponde semplicemente.
“Peccato” ribatto “ti donava molto”.
Lui sospira, ma non riesce a nascondere del tutto un sorriso.
“Katniss” esordisce “ti chiedo scusa”.
Questo mi lascia totalmente senza parole. Si sta scusando con me?
“Da quando Asia ha dimostrato interesse per me, ho iniziato a pensare “Perché non posso avere una vita normale? Uscire con una ragazza, frequentarla senza patemi d'animo?”. Mi sono lasciato un po' trascinare dalla sua esuberanza. E quando mi ha regalato quella sciarpa, mi sono sentito davvero un ragazzo come gli altri, senza i Giochi e la guerra alle spalle. Era una sensazione bella”. Mi guarda negli occhi, e sento il mio cuore battere più forte. “Ma non era intensa. Non era reale, non come quando sono con te, non come quello che ho provato nel vederti gelosa di me – perché ti guardavo, sempre, e mi dispiace di avere in qualche modo gioito della tua gelosia”. Sento le guance andare a fuoco, chiedendomi come abbia fatto a non accorgermi delle sue attenzioni. “O l'altra notte, quando ti ho tenuta per mano e ti ho guardata dormire. Quello è reale. Quello che sento per te, nonostante i ricordi modificati e la parte di memoria che ho quasi completamente perso, nonostante...”. Sospira. “nonostante non sappia davvero cosa sia, o se sia paragonabile a quello che provavo prima”.
Sono sotto shock, e contemporaneamente mi sento come sollevata.
“Ma...allora perché ieri sera mi hai detto quelle cose? Perché...”. Odio le mie guance che arrossiscono ancora più furiosamente. “perché non sei rimasto?”.
“Perché ho paura!” esclama, a voce più alta. Io sobbalzo. “Ho paura di farti del male! Potrei avere un incubo e attaccarti nel sonno! Potrei ucciderti!!”. Vedo il terrore sul suo viso, e non so come comportarmi. “Cosa farei, io, se tu morissi? Se morissi per mano mia? Katniss...io voglio stare con te” il cuore che batte più forte “ma sono terrorizzato. Non avere il controllo di me stesso mi devasta”.
E lo vedo. Peeta, il mio Peeta, il mio ragazzo del pane. Capisco quello che prova, vedo il suo tormento, sento che, per l'ennesima volta, sta pensando a me prima che a se stesso. Ma, tra tutte le parole che ha pronunciato – parole che sanno di paura, di terrore, di smarrimento – sono solo quattro quelle che, ormai, sono impresse a fuoco nella mia mente: voglio stare con te. Parole che hanno lo stesso suono dolce e convinto della voce di Prim quando mi parlava di speranza.
Nessun'altra ragazza, nessun altro uomo possono inserirsi in questo quadro, possono prendere i nostri posti nelle nostre vite. Al tempo stesso, non possiamo permettere alla paura di intromettersi tra di noi e di prendersi, oltre al nostro passato, anche il nostro futuro. Ci siamo dentro insieme. Ne possiamo uscire solo insieme. Affronteremo questa cosa come una sola persona.
“Peeta” lo chiamo, e vedo le sue spalle sussultare un attimo, per poi rilassarsi. Mi rendo conto che, come era successo per lui, anche io non pronunciavo il suo nome da troppo tempo. “Stai facendo grandi progressi. Non hai mai avuto episodi violenti con me”.
“Non è vero!” mi interrompe subito. “Certo che li ho avuti!”.
“Fuori dalla porta di casa mia!” ribatto. “Hai sempre capito quando stavi cadendo troppo in fondo, e il tuo primo pensiero è stato quello di andartene per evitare di essere nella stessa stanza con me, durante un episodio! Il tuo impulso è sempre stato quello di proteggermi!”.
Lui scuote appena la testa, demoralizzato. Io allora lascio a terra la selvaggina e mi avvicino a lui. Gli prendo la mano libera dal pane, e la stringo forte, come lui ha fatto con me due notti fa.
“Io mi fido di te” sussurro guardandolo negli occhi.
“Io no” gli sfugge dalle labbra, con un sorriso mesto.
“Mi fido abbastanza io per tutti e due” affermo convinta. Il suo silenzio e i suoi occhi limpidi mi danno la conferma: vogliamo crederci, entrambi. Incrocio le dita alla sue, riprendo la selvaggina e ci dirigiamo verso casa mia, insieme.

Quello che viviamo è un giorno completamente diverso da tutti gli altri. Anche il cielo terso e luminoso sembra accompagnare i nostri sorrisi più aperti e generosi. Penso che i ragazzi del Distretto non mi abbiano mai vista sorridere così e così tanto. Asia non c'è, e la me versione adolescente gelosa marcia non può non gioire di quello che percepisce come un grande trionfo. Peeta mi guarda spesso, e i suoi occhi scintillano. Finalmente, scintillano per me.
La sera, dopo che ci siamo separati giusto il tempo per farci una doccia e cambiarci, viene da me come di consueto per preparare la cena. Mi sento così di buonumore, e ho talmente tanta voglia di passare del tempo con lui, che, invece di stare per conto mio a guardare le nuvole di polvere con Ranuncolo, lo raggiungo in cucina.
“Cosa vuoi preparare stasera?” gli chiedo. Le nostre conversazioni sono sempre così poche ed essenziali e legate alle circostanze, che intraprendere un discorso tanto futile sembra difficilissimo. Almeno per me, che ho sempre avuto qualche difficoltà con le parole.
“Oggi abbiamo coniglio” risponde lui, mentre pulisce con cura le prede della mattina. Le sue mani grandi riescono a sembrare contemporaneamente delicate e vigorose.
“Voglio aiutarti” affermo convinta, e lui mi guarda con tanto d'occhi.
“Sicura di essere capace a cucinare?” mi chiede, scettico e divertito. M'imbroncio un po', ma non seriamente.
“Non sarò brava come te, Mellark, ma sono una che si impegna!”.
La sua risata cristallina mi fa emozionare. In questo momento, mi sento felice.
“Va bene, Katniss, vediamo che sai fare”.

Passiamo una serata rilassata come mai ne avevamo avute in queste settimane. Dopo cena, invece di occuparci del libro, io e Peeta giochiamo con la nipotina di Sae, le leggiamo qualche storia, finché non si addormenta sul divano. Haymitch si riscuote dalla sua pennichella e si prepara ad andare via.
“Si è fatta ora. Peeta, prendi tu la bambina” gli dice. “Buonanotte, dolcezza”.
Peeta però non prende il suo cappotto, e lo guarda con convinzione.
“Io mi trattengo, Haymitch, voi andate pure”.
All'improvviso, lui è sveglissimo. Nel suo sguardo vedo una certa preoccupazione.
“Sei sicuro, ragazzo?”.
Peeta sorride rassicurante, e anche Haymitch sembra tranquillizzarsi sul fatto che non corriamo nessun pericolo.
“Sicurissimo”.
Haymitch ci fa un cenno col capo, prende in braccio la bambina, e i tre vanno via. Senza nemmeno accorgermene, tiro un sospiro di sollievo. Temevo che il nostro mentore non gli avrebbe concesso di rimanere, o che se lo sarebbe portato via con la forza. Invece siamo qui insieme, e quando Peeta mi guarda, mi sento più sicura.
“Che dici, andiamo a dormire? Domani sarà un'altra lunga giornata”.

Ed è così che, dopo mesi di lontananza, dopo il dolore, dopo le settimane di convivenza senza quasi toccarci, dopo la gelosia, dopo la resa, ci ritroviamo insieme nello stesso letto. Io col mio pigiama scuro, lui con una maglia bianca e un pantalone che rimane vuoto in una gamba, dopo che lui toglie la protesi. Rintanati sotto le coperte, con un abat-jour accesa e l'aria frizzante della notte che entra dalle finestre leggermente aperte.
E quando lui mi cinge le spalle con un braccio, io poso la testa e una mano sul suo petto, con una naturalezza che, forse, non ci era mai appartenuta nemmeno prima, quando dormire insieme per proteggerci dagli incubi era una costante. O forse è sempre stato così e io non avevo mai fatto caso a questo particolare, chissà. In questo momento so solo che, sotto la mia mano, il suo cuore batte veloce ma regolare.
“Katniss” sussurra “grazie”.
Mi sembra incredibile sentirgli pronunciare quella parola.
“Perché mi ringrazi?” gli chiedo, alzando appena lo sguardo verso il suo viso.
“Per la fiducia che mi dai. Per non avere paura di me. Io ne ho tanta”. Sento un leggero tremolio nella sua voce. “Ti prego, se ti accorgi che qualcosa sta andando male, scappa. Se io...”.
Ma non lo lascio continuare.
“Peeta, basta, davvero” lo interrompo. “Sono io che ti ringrazio. Per essere con me. Tu...” arrossisco “tu potresti essere con chiunque”.
Lo sento sorridere.
“Ancora?” mi chiede divertito. Sento di diventare ancora più rossa.
“Beh, è così”. Cerco di darmi un contegno. “Potresti, sai? Ma noi...se affrontiamo tutto insieme, ecco, è meglio. Almeno per me”. Grugnisco. “Suona così egoista...”.
Peeta si fa sfuggire una risatina.
“Katniss, te l'ho già detto: voglio stare con te. Anche io sono egoista, perché sono in questo letto accanto a te nonostante il depistaggio, perché il desiderio di starti vicino è più forte della preoccupazione”. Sorride, un po' malizioso. “Ma devo dire che mi lusinghi, Everdeen”.
Ormai le mie guance hanno preso fuoco. Mi stringe un po' più forte.
“Però, veramente, promettimi che se le cose si mettessero male...”
“Non succederà” lo interrompo ancora. “Te l'ho detto. Io mi fido di te”.

La mattina dopo, mi sveglio con una sensazione di calore addosso che ero convinta di dover dimenticare per sempre. Durante la notte ci siamo mossi, e mi ritrovo rannicchiata in posizione fetale, con Peeta che mi abbraccia da dietro e il cui corpo segue la forma del mio. Sento il suo naso tra i miei capelli, il respiro sulla nuca, e tutto questo mi fa sentire rilassata come non mai. Che cos'è, questo caldo che sento partire dal cuore – che batte forte, stamattina – e che si irradia fino alle dita dei piedi?
Non ho il tempo di interrogarmi sui miei sentimenti, perché sento che Peeta si sta svegliando. Sbadiglia piano, e non ho bisogno di voltarmi per capire che mi sta guardando.
“Buongiorno” mormora, con strascichi di sonno nella voce, e io sento un brivido lungo la schiena. La sua voce di prima mattina è come balsamo per le mie orecchie.
“Buongiorno a te” rispondo, e giro appena la testa. Lui mi rivolta tra le sue braccia, e ci ritroviamo occhi negli occhi. Mi scruta attentamente, come se mi vedesse per la prima volta, e io sto attenta a ogni eventuale cambiamento nel suo sguardo. Il mare delle sue iridi, però, è straordinariamente calmo e non dà segno di agitarsi con onde nere e pericolose.
“Hai dormito bene?” mi chiede, spostandomi i capelli dietro la schiena.
“Bene, grazie” rispondo “e tu?”.
Non sono pronta al sorriso aperto e assonnato che mi rivolge, non sono pronta alla luce nei suoi occhi. Se lo fossi, non mi ritroverei ad arrossire come una ragazzina.
“Magnificamente” afferma. Mi scosta i capelli dalla fronte e vi lascia un bacio delicatissimo, che però mi fa fremere: il tocco delle sue labbra era un'altra di quelle cose a cui pensavo di dover rinunciare.
“Vado a preparare la colazione” mi dice “ti aspetto giù”.
Quando rimango sola nel letto, ascolto con attenzione, quasi fosse una musica, i rumori che provengono dal piano di sotto, Peeta che armeggia con le stoviglie, che fischietta distrattamente, che vive nella mia cucina. E lo so già: non potrò più farne a meno.



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So di essere stata un po' severa con Katniss, ma penso che fosse d'obbligo un vero esame di coscienza da parte sua: adesso che è più matura è giunto il momento di fare una scelta coerente, e realizzare quale è stato il suo comportamento in passato è il primo step :)
Grazie davvero a chi sta seguendo questa storia e a chi spende qualche minuto per lasciarmi un parere, senza questi sarebbe impossibile proseguire e migliorarsi! ^^
Ne approfitto per augurare a tutti un buonissimo e sereno Natale!! :D
A presto!!
VV**

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Noi V

               Capitolo V

La notte successiva, Peeta dorme ancora con me. C'è stato un momento di stallo, nel quale Haymitch e Sae non sapevano bene cosa fare, e spostavano lo sguardo da uno all'altro senza dire niente; alla fine, si sono alzati dal divano e se ne sono andati quasi di corsa, borbottando qualche saluto rapido. Peeta e io ci siamo guardati, e, decisamente rossi in viso, ci siamo fatti cogliere da una sorta di risatina nervosa che ben rispecchiava i nostri stati d'animo. Poi l'ho guardato, e, quando ho trovato il coraggio per aprire bocca e chiedergli di restare, lui mi ha anticipata e ha risposto semplicemente “Sì”.
Il giorno dopo ancora, non c'è bisogno di parole: Haymitch e Sae vanno via, e Peeta, senza dire niente, si dirige alle scale per salire in camera.
In qualche modo, quasi per caso, non ci separiamo più. Vivere insieme sembra essere la conseguenza naturale del nostro percorso, e succede senza bisogno di sederci a tavolino e parlare per ore dei pro e dei contro. Semplicemente, da quella prima notte, il mio letto diventa il suo; mi abituo in fretta a dormire con la finestra aperta, ancora di più a svegliarmi col profumo di aneto e cannella che Peeta lascia tra le coperte.

Nel giro di qualche giorno mi premuro di lasciargli un po' di spazio nell'armadio della mia stanza, anche se lui non mi chiede niente: all'inizio porta solo qualche cambio, che sistema rispettosamente nei cassetti del comodino accanto alla sua parte di letto; in poco tempo, però, tornare a casa al mattino solo per lavarsi e cambiarsi sembra diventare un'inutile perdita di tempo, e pezzo per pezzo trasferisce una parte consistente del suo guardaroba. Quando mi accorgo che non è più funzionale utilizzare la poltrona per ammonticchiare maglie, pantaloni e biancheria, mi decido a svuotare la metà delle ante del grande armadio e degli stipetti della cassettiera, dicendo a me stessa che tanto non avevo bisogno di tutto quello spazio. Eppure, nonostante cerchi di mantenere un atteggiamento poco coinvolto, noto subito la luce negli occhi di Peeta nel momento in cui mi vede risistemare i suoi vestiti nel mio armadio: all'improvviso, nella mia testa, questo piccolo gesto di carattere pratico assume tutto un altro valore – stiamo condividendo qualcosa di più del cibo o del letto – e mi ritrovo ad abbassare lo sguardo, le guance sicuramente rosse. Lui si avvicina a me e mi abbraccia senza dire niente: è strano, penso, perché è la prima volta che mi stringe fuori dall'involucro delle coperte, quando le sue braccia mi circondano per proteggermi dalla notte e dai suoi fantasmi. Adesso percepisco nettamente le sue mani che, grandi e calde, aperte sulla mia schiena quasi la coprono tutta; il suo viso nascosto nell'incavo del mio collo mi riporta alla prima notte sul treno che ci portava all'Edizione della Memoria, quando le sue labbra sfiorarono la mia pelle, e seppi che non avrei lasciato la presa per prima; il mio orecchio premuto contro il suo petto fa suonare nella mia testa una sorta di melodia – il suo cuore che batte, leggermente accelerato per l'emozione. Ogni parola è superflua.
La mia cucina, che già era diventata il suo regno per la cena, si trasforma anche nel suo piccolo personale laboratorio nel momento in cui trasferisce da casa sua tutti gli strumenti professionali per realizzare le sue creazioni. Ogni giorno si alza presto, lasciando dietro di sé la scia del suo calore protettivo, e io mi sveglio quando ormai la sua parte di letto è fredda, richiamata dal profumo di pane e cioccolata: quando arrivo in cucina, con ancora i capelli scarmigliati e gli occhi semichiusi, lui, già straordinariamente bello di prima mattina, mi saluta con un sorriso aperto e sincero e un “Buongiorno, Katniss” che mi fanno dimenticare, per un momento, tutte le mie angosce.
Quando ormai tutte le sue cose sono state trasferite, la sua casa rimane quasi totalmente spoglia, a eccezione dei grossi mobili antichi forniti dal vecchio governo e di un'unica stanza ancora in vita: lo studio di pittura. Infatti, Peeta torna nella sua villetta solamente per dipingere: dice che, almeno per il momento, non vuole lasciare completamente la sua casa, di modo da avere una via di fuga in caso di emergenza. Acconsento a questa sua decisione perché, per quanto mi fidi di lui, so che questo stato di grazia – le notti serene, i sorrisi senza preoccupazioni, gli occhi limpidi e luminosi –  non è destinato a durare in eterno, o a essere costante.

Infatti gli incubi non tardano a tornare, e la prima volta che ibridi e morti popolano di nuovo il mio sonno, ci ricordiamo entrambi cosa voglia dire stare insieme. Vuol dire rischiare, non solo la nostra incolumità fisica, ma anche – soprattutto – l'integrità del nostro essere.
Mi sveglio nel cuore della notte gridando, tremando, muovendomi convulsamente; non sento l'aria fresca che entra dalla finestra, non vedo il profilo rassicurante del lampadario sopra il letto, non percepisco la presenza di Peeta accanto a me. Tutto quello che provo è paura, strascichi di terrore e angoscia che mi si sono attaccati addosso da quell'incubo e che non vogliono saperne di abbandonarmi. Nella foga della mia lotta immaginaria,  colpisco Peeta con un braccio, e lui si sveglia di soprassalto.
Il contrasto. Le urla. Le lacrime. Tutto si mischia nella sua mente assonnata e confusa, e nel giro di un secondo i suoi occhi si fanno scuri, il suo viso si deforma in una maschera di terrore e poi assume un'espressione aggressiva: i suoi movimenti sono subito rapidi nell'inchiodarmi al materasso col corpo, premendomi un braccio sul collo e tenendomi entrambi polsi sopra la testa con una mano sola. Sono terrorizzata, perché è la prima volta dopo l'aggressione a Capitol City che lui ha un episodio violento con me, e non so davvero che fare per aiutarlo – e aiutare me stessa: sono sola stavolta, e lui è forte, molto forte. Non potrei mai pensare di batterlo su questo piano, inoltre mi ha bloccata in maniera talmente pressante che mi è impossibile sfuggirgli sfruttando la mia agilità. Sento di soffocare e non riesco a parlare: l'unica cosa che posso fare è guardarlo negli occhi, cercando uno spiraglio di blu in quel mare di petrolio.
“Peeta...” ansimo con difficoltà, mentre il mio corpo è completamente immobilizzato e le mie mani iniziano a diventare fredde.

“Cosa volevi farmi, eh? Volevi uccidermi, volevi approfittare del fatto che stessi dormendo!” mi ringhia addosso, la voce gelida che non riconosco. Cattivo come l'ho visto solo molto tempo fa.

“Falso...Peeta, i miei incubi” riesco a dire con voce spezzata. “Succede anche a te...me l'hai detto tu, ricordi?”.
Il suo braccio si fa più oppressivo, e per un solo folle, orribile momento, non è Peeta quello sopra di me: è Clove, col suo sguardo invasato, col suo sorrisetto da pazza, col suo coltello premuto sul mio viso.
“Zitta!!” mi sibila contro, il volto vicinissimo al mio. “Non dire altro”. Ed è davvero assurdo che il suo respiro – affannato, caldo – sulle mie labbra riesca a farmi fremere persino in questa situazione di pericolo.
“Il treno...” mormoro “le notti sul treno, Peeta”.
Non riesco quasi più a tenere gli occhi aperti, ma, senza sapere come faccia a intuire questo, so che non devo fargli mancare il contatto visivo. Alle mie ultime parole, lui sussulta, sbatte le palpebre un paio di volte, e finalmente il cielo nei suoi occhi si rischiara di nuovo. Subito si solleva dal mio corpo, e io inizio a respirare profondamente, ansimando e rantolando un po'. Non faccio in tempo a sollevare lo sguardo, che lui ha già indossato la protesi ed è scappato dalla stanza. Ma non voglio che vada via. Con la mano ancora premuta sul collo e la vista un po' annebbiata, riesco a trascinarmi fuori dal letto, e lo seguo giù per le scale. Quando lo raggiungo ha già la mano sulla maniglia della porta d'ingresso.
“Peeta...” lo chiamo, piano. “Peeta, non andare via”.
Vedo le sue spalle rigide, i muscoli tesi.
“Katniss, non posso restare qui” mi dice, triste e arrabbiato contemporaneamente.
“Sì che puoi” gli rispondo. “È passata. Non è successo niente”.
Si volta di scatto, lo sguardo acceso di rabbia. Per un momento il terrore mi prende di nuovo, ma mi rendo subito conto che è la rabbia di Peeta, non del depistato, perché i suoi occhi sono ancora azzurri. In due falcate mi è vicino.
“Non è successo niente??” sbotta, la voce che trema. Mi prende le mani con una delicatezza tale che quasi non sento il tocco delle sue dita sulle mie. Mi esamina i polsi, su cui iniziano a comparire dei segni violacei, e mi guarda.
“Questo è niente?” sussurra mesto, mostrandomeli. Poi una sua mano mi accarezza il collo, e io sento un brivido caldo, che non è affatto di paura, scendermi lungo la spina dorsale. “Katniss, quasi non respiravi più...eri sotto di me, volevo farti del male. Lo volevo davvero”. La sua voce è angoscia pura, e io mi sento male. Vorrei togliere tutto il male che c'è dentro di lui, lo vorrei con tutta me stessa, e non perché abbia paura del dolore che può procurarmi: vorrei solo non sentire più quest'angoscia nella sua voce. Non ti meriti tutto questo.
“Ma non l'hai fatto” rispondo, fissandolo negli occhi. Lui mi guarda scettico. “Cioè, ti sei fermato prima. Mi faresti più male adesso, se mi lasciassi sola”.
Lo vedo spalancare gli occhi, e mi ritrovo ad arrossire. Non mi ero nemmeno resa conto delle parole che mi erano uscite di bocca. Le riascolto nella mia testa, le rielaboro, e mi rendo conto che è la pura e semplice verità: se Peeta lasciasse questa casa, ora, io mi sentirei persa. Vagherei per il resto della notte in cerca di una pace irraggiungibile, mentre l'eco dei miei incubi e del suo dolore mi perseguiterebbe senza sosta. Inconsciamente, ringrazio me stessa per l'aver parlato in maniera così diretta: per una volta, ho lasciato che il mio istinto – il mio cuore – si esprimesse senza che ci fossero troppi retro-pensieri a bloccarlo.
Per nascondergli il mio rossore, e anche per assecondare l'improvviso bisogno che ho del calore del suo corpo, gli butto le braccia al collo, stringendolo forte a me e aspettando con ansia la sua risposta. Dopo un paio di secondi che sembrano un'eternità, ricambia il mio abbraccio, e lascia che un profondo sospiro lasci il suo corpo. Ed è in questo abbraccio consolatorio che lo capisco: non voglio che Peeta allontani da me la sua parte più oscura; non voglio che, per proteggermi, lui si senta costretto, in qualche modo, a mostrarsi sempre come quel ragazzo apparentemente senza difetti di quando ci siamo conosciuti, perché so che non sarebbe reale. Peeta, il nuovo Peeta, ha incubi silenziosi che gli scuotono le spalle durante la notte; ha momenti di esilio da se stesso, e mani che stringono convulsamente oggetti a caso; ha domande improvvise, “vero e falso?” mormorati quasi senza senso logico. È un Peeta meno perfetto, più umano, e io voglio aiutarlo a convivere con questo nuovo lato di lui, ad accettarsi così com'è oggi.
“Mi dispiace” mormora tra i miei capelli. Lo stringo più forte.
“Non scusarti. È passata. Andrà meglio” gli rispondo, e sono davvero convinta delle mie parole.
Peeta non vuole più tornare a letto, e io mi rifiuto di andare a dormire senza di lui. Così stiamo in cucina, con lui che prepara mille impasti diversi e io che trovo rifugio su una poltrona: lascio che i profumi degli ingredienti coccolino i miei sensi, e mi perdo a osservarlo mentre mentre traffica con i vari strumenti. La sua espressione è concentrata, ma vedo come, di tanto in tanto, contragga la mascella, colpito da un ricordo o da un pensiero che gli fanno odiare se stesso; noto che si muove rigido, senza la naturalezza che si solito lo accompagna quando si trova in cucina; non guarda mai nella mia direzione, sembra voler evitare accuratamente di posare gli occhi su di me. All'improvviso, mi viene in mente un'idea, e vado in sala; dopo aver trafficato per qualche minuto nella libreria, trovo quello che cerco, e ritorno in cucina, dove lo trovo a lavorare con troppa irruenza l'impasto che ha tra le mani. Mi risiedo sulla poltrona e lo guardo.
“Ho ritrovato questo libro qualche giorno fa” esordisco. “Mia sorella doveva averlo recuperato dalla casa al Giacimento”. Peeta finalmente si volta verso di me, interrompe il suo lavoro e mi presta la massima attenzione: è così raro sentirmi parlare del passato, di Prim, della nostra vecchia casa, che sembra non volersi perdere nemmeno una virgola. “Mio padre ce lo leggeva per farci addormentare. Ti va di ascoltarmi mentre cucini?”.
Ci guardiamo negli occhi, e l'ombra di un sorriso attraversa il suo volto.
“Sì” mi risponde semplicemente. Gli sorrido, e i suoi occhi si illuminano. Incrocio le gambe  e mi poso il libro sulle ginocchia.
Un ricchissimo mercante aveva il dono d’intendere il linguaggio degli animali...”.
Passiamo il resto della nottata così, con lui che cucina e io che leggo di sultani, principesse e luoghi esotici e sconosciuti, legati a un passato lontano da qualsiasi memoria. Mano a mano che i racconti si evolvono e questi paesaggi remoti prendono forma nelle nostre menti, i muscoli di Peeta si sciolgono, lo sguardo si fa limpido; di tanto in tanto ci scambiamo uno sguardo, e un vero sorriso fa capolino sul suo volto.
Per un momento, un solo prezioso momento durante quella lunga notte, mi concedo di pensare che forse potremmo farcela, a superare tutto questo. Mi concedo di pensare che la vita – la nostra vita – possa davvero essere migliore.


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Carissimi, spero che abbiate passato un bel Natale e che avrete più facilità della sottoscritta nello smaltire tutto il cibo! :D Ovviamente le cose non possono andare bene in eterno, e a questo giro Katniss se l'è vista bruttina! Ho voluto concludere con una piccola chicca: molti di voi avranno riconosciuto l'incipit de “Le mille e una notte”, libro che mi riprometto di leggere per interno prima o poi!
Spero vi godiate il capitolo; intanto, grazie a tutti voi che state leggendo! Vi aguro un inizio d'anno super!!!
VV**
PS: sentiamoci meno soli, perché anche Peeta usa le sedie/poltrone come armadi! xD

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


               Capitolo VI


La mattina dopo, una domenica fredda e nuvolosa, mi sveglio con solo un vago ricordo del sogno che ho fatto, dei paesaggi esotici e colorati e speziati che hanno preso vita nella mia mente, cullando il mio sonno. Per un attimo non riconosco l'ambiente che ho intorno, poi mi rendo conto di essere ancora sulla poltrona che ho spostato in cucina per fare compagnia a Peeta ieri notte, mentre lui combatteva i suoi fantasmi perdendosi tra ingredienti e profumi. Sento il peso del libro di mio padre sulle ginocchia, e lo trovo, ancora aperto, nascosto sotto una calda coperta che non ricordavo di aver preso e che è adagiata sulle mie gambe. Scorgo, sul bancone della cucina, del pane appena fatto e una tazza fumante, che emana un gradevole profumo di cioccolata. Peeta non è qui, ma le sue premure lo fanno essere prepotentemente presente nella stanza e nei miei pensieri.
Mi alzo e mi stiracchio per liberarmi dell'indolenzimento causatomi della posizione scomoda in cui ho dormito, e vedo accanto alla colazione un biglietto scritto con la grafia ordinata e un po' infantile di Peeta, in cui mi dice che è tornato a casa sua per dipingere un po'. È stata una lunga notte – fatta di sguardi e profumi e racconti di mondi perduti – e, seppur abbia dormito poco e non proprio in maniera comodissima, mi sento straordinariamente riposata; Peeta, invece, perso dietro la sua cucina e i suoi pensieri, non ha dormito affatto; nel leggere quel biglietto, non riesco a capire se la tempesta sia passata del tutto, o se ci sia ancora qualcosa in sospeso. So solo che non voglio aspettare troppo per saperlo.
Indosso la prima cosa che mi capita sotto mano ed esco di casa senza nemmeno passare dallo specchio per vedere quali siano le condizioni dei miei capelli. Dopo pochi minuti sono nella casa ormai spoglia di Peeta, un leggero strato di polvere che ricopre la mobilia, l'odore di chiuso che impregna l'ingresso. Il pensiero di star invadendo il suo spazio personale, quello che mi ha espressamente chiesto di mantenere, mi sfiora solo nel momento in cui prendo coscienza della realtà intorno a me: un centrino fatto a mano, ingiallito dal tempo, posato su un mobile; un vaso contenente solo il gambo di un fiore ormai totalmente appassito; un bicchiere di vetro abbandonato su un tavolino, testimone delle cene solitarie che il ragazzo del pane ha passato in questa casa prima di trasferirsi da me . Forse dovrei andar via, penso distrattamente. Ma, quando vedo una luce in fondo al corridoio, dimentico subito la mia titubanza e mi dirigo verso l'unica stanza viva della casa.
Lo vedo di spalle, mentre osserva con attenzione la tela di fronte a sé.
“Peeta” lo chiamo, e gli sento sfuggire una risatina.
“Chissà perché immaginavo che questo spazio non sarebbe rimasto riservato molto a lungo”.
Non ho il tempo di infastidirmi per questa sua uscita, che lui si volta verso di me con un sorriso vagamente divertito, e una macchia di colore sullo zigomo che lo fa sembrare un bambino. Ha delle profonde occhiaie scure sotto gli occhi, segno della notte insonne appena passata, ma lo sguardo azzurro e limpido che mi rivolge è rilassato: quell'immagine di lui così fanciullesca gli dona un'incredibile serenità, che ha il potere di tranquillizzare anche me. Mi avvicino a lui e, con un dito, gli pulisco il viso dalla tempera in un gesto lento che sembra una carezza. Il suo viso sembra così caldo sotto la mia mano perennemente gelata. Ci guardiamo negli occhi, e il suo sguardo intenso mi fa mancare un battito. C'è dolcezza, in quegli occhi, ma c'è anche qualcosa che non riesco ad afferrare, qualcosa che smuove nelle mie viscere delle emozioni sconosciute.
“Ti dispiace?” mormoro, senza allontanarmi da lui, la voce in una tonalità bassissima che dubitavo di poter raggiungere.
“No, in realtà no” mi risponde con un sussurro un po' roco, che mi provoca una scossa lungo tutto il corpo. Per qualche istante rimaniamo fermi e silenziosi, impegnati solo a guardarci. Poi lui si allontana e ritorna davanti alla tela, spezzando quella strana tensione che si era creata tra di noi.
“Che ne pensi?” mi chiede, riferendosi al quadro. Guardo l'immagine che mi si presenta davanti, e rimango senza parole. Avevo già visto i suoi dipinti, ma questo è straordinario: persino io, da profana, riesco a vedere il miglioramento della sua tecnica, l'uso armonico dei colori, e soprattutto la resa straordinaria dell'espressione che ho sul volto. Perché, ritratta sulla tela, bella come non sono mai stata, ci sono io. Indosso la tuta della seconda Arena, e ho in mano un pugnale lucido e pulito. L'espressione è dura, ma non crudele, e lo sguardo è lontano. Sembro piuttosto pensierosa, e turbata.
“Peeta, sei bravissimo” gli rispondo. “Davvero, sei...bravissimo”.
Sono un genio delle parole, non c'è che dire. Lui però non sembra far caso alla mia scarsa loquacità, e sorride.
“Il dottor Aurelius dice che dipingere è come una terapia” mi spiega. “Ogni quadro che ho fatto da quando sono stato portato al Tredici, è stato come un passo del mio percorso di guarigione. Lui mi diceva di dipingere, e quando finivo un quadro me lo prendeva e lo conservava; ne ha messi via parecchi, e per mesi non mi ha permesso di riguardarli. Fino all'ultimo giorno, quando poi ha deciso che ero pronto a tornare. Me li ha mostrati tutti, in ordine dal primo all'ultimo, e insieme abbiamo visto le differenze”.
Mi guarda con un vago senso di colpa negli occhi, e io non voglio che si tenga questi sentimenti per sé. Voglio che condivida il suo peso.
“Li hai qui? Gli altri quadri?” chiedo.
Dalla sua titubanza capisco che sì, il dottore glieli ha dati.
“Fammeli vedere” dico.
“Katniss...” esordisce “ricordo come hai reagito quando ti ho mostrato le immagini dell'Arena. Questi non sono meno cruenti. Anzi...”.
“Lo sopporterò” rispondo. Per te bisbiglia la mia mente, un pensiero che non viene convertito in parole. Lui sospira, e apre le ante di un grande armadio. Prende le tele e le dispone lungo una parete della stanza: conosce a memoria la sequenza di immagini, si capisce dalla rapidità con cui le posiziona. E, al primo colpo d'occhio, la comprendo pure io.
I quadri sono tutti eccezionali per tecnica, colori, rappresentatività. Ma i primi sono scuri, macabri, il cui colore prevalente è il rosso del sangue. La protagonista indiscussa di questa storia sono io: cattiva, crudele, assassina; gli occhi sembrano lanciare fiamme, e, spesso, un sorrisetto malvagio mi adorna le labbra. Nei primi quadri il sangue quasi mi ricopre totalmente – ne ho sul viso, sui capelli, ovunque – e io sembro gioire di questo tripudio di violenza. Ma poi, gradualmente, le cose cambiano: i colori si fanno più tenui, il sangue diminuisce, e il mio viso perde poco a poco quell'espressione cattiva, assumendone una perlopiù confusa. Guardo Peeta, che fissa le tele come se volesse entrarci dentro.
“Questo è come ti vedo io nelle mie visioni” mi spiega. “All'inizio, la tua immagine era violenta e pericolosa, e c'era sempre tanto sangue...”. Trema un momento, e prego che tutto questo non lo provi troppo, dopo la nottata difficile che ha affrontato. “Poi, però, mano a mano che riuscivo a distinguere le visioni dalla realtà, ho iniziato a vederti sempre meno cattiva, e sempre più vicina a quella reale”. Do un'altra occhiata ai quadri, e noto come nei primi fossi eccessivamente bella e sensuale nella mia crudeltà, mentre poi la me dipinta inizia a somigliarmi di più – anche se è sempre più bella dell'originale, con la pelle levigata e le curve accentuate. “Aurelius mi ha fatto notare come il sangue lascia il tuo corpo, vedi? Nell'ultimo il sangue è solo sul pugnale. È con questo che lui ha deciso che potevo tornare. Perché tu...nelle mie visioni...non sei più così letale”. Mi guarda con un'intensità da mozzarmi il fiato. “Solo che, alle volte, ancora confondo le immagini. Ieri notte mi sono sentito minacciato, e mi sento così in colpa per averti aggredita”.
Sento un magone che opprime la mia gola, e non riesco a parlare. Mi limito a scuotere la testa e a fargli una debole carezza sulla spalla. Lui sorride appena.
“Ma poi Aurelius mi ha fatto notare anche un'altra cosa. La tua espressione, in qualche modo, non è solo la tua, è anche la mia. È come se, sul tuo viso, dipingessi il mio stato d'animo. Quando dipingo è come se entrassi in un stato di trance in cui disegno a livello inconscio, ma, quando mi fermo, mi rendo conto di cosa ho creato, e adesso riesco a leggere i messaggi che ho lasciato. Penso di dover ringraziare il dottore per questo”. Torniamo davanti al cavalletto che ospita il quadro in lavorazione. “Vedi questo? Ci ho fatto caso solo nel momento in cui sei entrata e mi hai distolto dal lavoro. Il sangue è scomparso, ma c'è sempre il pugnale, e il viso è come...preoccupato. È perché io sono preoccupato, e spaventato all'idea di farti del male”.
Abbassa lo sguardo, colpevole, e mi prendo qualche secondo per osservare lui e i suoi quadri. Questo è il mondo di Peeta, quello in cui è stato lanciato dal veleno e dalle torture. È un mondo osceno, perverso, che racchiude tutte le peggiori caratteristiche della persona che ha causato tutto questo: il presidente Snow. E Peeta, quello che tutti hanno sempre definito il più debole  il ragazzo che ha vinto per sbaglio gli Hunger Games, quello troppo buono per sopravvivere –  ha il coraggio di affrontarlo ogni giorno, ogni singolo giorno, e di combatterlo, mettendolo nero su bianco, dandogli vita. Realizzo che non sono io a dover sopportare niente, che quella di Peeta  evitarmi di vedere i suoi quadri  era l'ennesima premura nei miei confronti; in realtà è lui ad aver avuto maggiore coraggio nell'introdurmi in questo suo universo parallelo, molto più di quello che potrei avere io nel guardare una sola volta queste tele. Non avevo bisogno di ulteriori conferme per capire quanto lui sia migliore di me, ma questa, definitivamente, lo è.
“Peeta” esordisco “penso che tu abbia fatto dei progressi eccezionali. Quello che è successo è successo, ormai, e considera che era la prima volta dopo tutti questi giorni. Magari hai accumulato troppa tensione, e sono io che mi sento in colpa, perché l'hai fatto per starmi vicino". Alza di scatto la testa e fa per interrompermi, ma io gli prendo la mano. “Non tagliarmi fuori. Oggi mi hai mostrato tutto questo, e sono felice che tu l'abbia fatto, perché vorrei che tu ti appoggiassi a me come io faccio con te".
Il suo sguardo si illumina, mentre mi stringe più forte la mano.
"Ci proteggiamo a vicenda" dice piano, recuperando una conversazione che ci riporta alla rivoluzione, a Capitol, in quel sotterraneo. E ricordo i suoi capelli soffici sotto le mie dita, la sua pelle che sembra sempre calda a contatto con le mie mani perennemente gelate.
"
Il tuo percorso...ecco, ora è anche il mio” mormoro infine, mettendo a tacere il mio imbarazzo e il mio senso di inadeguatezza. Nono sono importanti. Quello che conta, ora, è che lui sappia che non lo lascerò indietro, che mi impegnerò a strapparlo sempre dai suoi incubi come l'ho trascinato via da quel maledetto sotterraneo.
Vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime e un sorriso tremante gli incurva le labbra. Mi prende il viso tra le mani e posa la sua fronte contro la mia. Siamo così vicini, i nostri respiri che si confondono: vengo scossa da mille brividi che partono dalle guance, contenute tra le sue mani, fino ai miei polpastrelli che, temerari, gli sfiorano gli zigomi. E ricordo il brivido che gli ha attraversato il corpo, quando l'ho baciato con disperazione, come se fosse la nostra ultima possibilità di salvezza; ricordo il suo respiro che si infrangeva sulle mie labbra, e la sensazione che quel legame che ci univa fosse la nostra unica possibilità di salvezza. Una lacrima sfugge solitaria dai suoi occhi chiusi, e io la raccolgo, come avevo fatto con il colore.
“Grazie...” mormora piano. “Grazie”.
Una lacrima, ora, raggiunge le sue, di dita.


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Buon anno nuovo a tutti!! :D Spero che questo 2016 sia iniziato alla grande per tutti voi e che vi porti solo belle cose! :)
Questo capitolo mi è costato una grande fatica, e tutt'ora mi lascia un po' perplessa. So che la retorica è dietro l'angolo, visto lo scenario che ho scelto per questa storia, ma spero di averla almeno in parte scansata! :p
Ringrazio tantissimo chi legge e chi recensisce, siete un vero toccasana per la mia autostima!! :D
A presto,
VV**

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Noi VII

               Capitolo VII


Passano i giorni, e tutto procede con una serenità insperata, puntellata da episodi che riusciamo a gestire meglio: ogni tanto Peeta si isola nel suo mondo e ritorna nella sua casa per dipingere ed allontanare da me le sue crisi; le notti sono spesso occupate dagli incubi, ma Peeta adesso mi stringe ancora più forte – “Così non mi colpirai più!” mi ha detto scherzoso la notte dei quadri, facendo affondare il mio viso sul suo petto e intrecciando entrambe le mani tra i miei capelli – e doma i miei brutti sogni con parole rassicuranti e carezze che accendono tutti i miei nervi. Mi posa le labbra su tutto il viso, in baci leggeri come ali di farfalla, ma non arriva mai alla bocca, come se fosse un azzardo troppo grande. Ancora una volta mi sento divisa tra la mia parte razionale – che sa di non avere alcun diritto di sentirsi offesa da questo suo atteggiamento, ricordandomi continuamente che  noi non siamo una coppia in quel senso – e la parte di me adolescente, che, dopo essersi espressa con tanta gelosia qualche settimana fa, si palesa di nuovo, mettendo in piazza tutta la sua insicurezza. Inizio a pensare che, forse, non gli piaccio più come un tempo – in fondo l'ha detto lui, prima che passassimo la prima notte insieme, che non sapeva bene quali fossero i suoi sentimenti – e che magari, realizzando che non sono bella come nei quadri che mi ritraggono, ha perso interesse per me. Dovrei accettare definitivamente l'idea che passeremo la vita a sostenerci, a superare i brutti momenti che verranno, a proteggerci a vicenda, senza pretendere niente di più; che poi, forse, questo di più, non potremmo nemmeno sostenerlo. Abbiamo affrontato troppa bruttezza in questo mondo, siamo stati spezzato troppo a fondo, per pensare di provare e vivere sentimenti romantici. Eppure, alle volte, lo sorprendo a guardarmi con occhi quasi adoranti, e sorridermi con una dolcezza tale da mettere in dubbio – e in subbuglio – tutti i miei pensieri.

La panetteria ormai è stata completata. Peeta guarda con orgoglio i muri spessi, le diverse sale, e la sua mente creativa sa già esattamente come dovrà apparire quando sarà aperta al pubblico. Vengono ordinati tutti i macchinari, mentre ci dedichiamo a quella che è la sua parte preferita, ossia ridipingere le pareti. I colori che sceglie vanno dal giallo tenue a quell'arancione tanto simile al tramonto, ed è con entusiasmo quasi infantile che dà la prima passata di pennello sulla parete della sala delle vendite, tra gli applausi di tutti i ragazzi che hanno lavorato a questo progetto. Ci dividiamo le stanze da pitturare: parte di noi vanno al piano superiore, dove c'è il piccolo appartamento funzionale ai giorni di maggiore lavoro; tre dei ragazzi si dedicano alla sala forno e al deposito, mentre io e Peeta rimaniamo soli nella sala principale. Iniziamo a pitturare ognuno la sua parete in silenzio, rilassandoci nel sentire lo strusciare del pennello e il gocciolare della tinta nel secchio, e mi sembra di capire un po' di più Peeta e il suo modo variopinto di affrontare le proprie angosce. Mentre penso distrattamente a questa nuova empatia col ragazzo del pane, ad un tratto sento la sua presenza alle mie spalle, e mi volto: sta osservando la parete con sguardo critico.
“Che c'è?” balbetto appena, e mi rendo conto di essere già sulla difensiva. “Non va bene?”.
“Mh...” mugugna appena lui, piegando di lato la testa. Io m'infiammo in un secondo.
“Senti, non è che va proprio bene quest'atteggiamento!! Non ho mai pitturato niente in vita mia, prima d'ora!” sbotto infastidita dalla sua supponenza. Lui mi guarda serio per qualche secondo, poi scoppia a ridere divertito, al punto che deve portarsi le mani alla pancia.
“Katniss, stavo scherzando!!” dice, tra le risate. Io avvampo. “La parete va benissimo, e poi è solo la prima mano!! Certo che sei permalosetta, eh!!”.
Lo guardo ridere, allegro come non era da troppo tempo, e non riesco a sentirmi offesa per la sua presa in giro. Come potrei, quando i suoi occhi sono tanto accesi da illuminare l'intera stanza?
Senza riflettere, prendo il pennello carico di tinta arancione e in un attimo glielo passo sulla maglia, lasciandogli una striscia di colore obliqua su tutto il torace. Lui mi guarda, con un sorriso stupefatto. Io lo sfido con lo sguardo.
“Così impari!” esclamo con una voce infantile e dispettosa che non riconosco come mia, e di sicuro la mia espressione somiglia più a quella di una bambina capricciosa che a una diciottenne. Non ho il tempo di scappare che lui mi ha già acchiappata per un braccio e spalmato il suo pennello sul collo: da quel momento inizia una vera e propria lotta a colpi di colore, tra risate che mai avrei pensato di emettere o di sentire, nemmeno nei miei sogni più rosei. Per la prima volta in tutta la mia esistenza, sento di avere la mia età, di star vivendo i miei anni, di starmi godendo questi ultimi strascichi di un'adolescenza che non ho mai avuto. E mentre rido, mi sento semplicemente felice. Conserverò il ricordo di questo momento per sempre, penso distrattamente quando mi arrendo alla forza di Peeta, e lo guardo nei suoi occhi sorridenti. Ormai siamo completamente arancioni – sento la tinta fredda sul naso, mentre i suoi capelli somigliano straordinariamente alla parrucca di Effie – quando mi ritrovo stretta tra le sue braccia, con ancora il pennello a fare da spartiacque tra noi due. Ci fissiamo negli occhi, e il sorriso allegro alberga ancora sulle sue labbra mentre mi passa un dito sul naso, raccogliendo parte della tinta. È un tocco così semplice, ma così intimo, che mi sento sciogliere nel suo abbraccio e ricambio il suo sorriso. Vedo i suoi occhi brillare.
“Sei così bella...” mi dice all'improvviso “anche con la faccia arancione”.
Sbuffo appena, ma non perdo il sorriso, mentre la mia mente elabora il suo complimento e mette a tacere tutte le mie insicurezze. Il suo sguardo si fa intenso, mentre sposta la sua mano sulla mia guancia. Avverto appena il rumore, attutito dalla carta di giornale, dei nostri pennelli che cadono a terra, mentre col pollice mi accarezza lentamente il labbro inferiore. Sento che il mio corpo è pervaso da uno strano languore, caldo e brividi si confondono sulla mia pelle, e le gambe sembrano molli. Non ho mai provato niente del genere.
“Katniss...” mormora con voce bassa, leggermente vibrante, mentre fissa la mia bocca. Rimane un attimo in silenzio e fa per avvicinarsi ancora di più; ma, prima che abbia il tempo di realizzare che sta accadendo, un'improvvisa incertezza gli fa aggrottare le sopracciglia e lo tiene a distanza dal mio viso. “Katniss, che cosa stiamo facendo?”.
Un lampo di lucidità passa per la mia mente annebbiata dall'odore di tinta fresca e dal profumo della pelle di Peeta. So che questa sua domanda sussurrata dovrebbe essere un campanello d'allarme per entrambi, dovrebbe avvisarci che siamo vicini a un punto di non ritorno, che stiamo portando all'estremo quella tensione che, ormai da giorni, c'è tra di noi – gli sguardi infuocati, le carezze distratte, le notti stretti in un unico caldo abbraccio. Ma i nostri corpi parlano una lingua completamente diversa, i suoi occhi persi in venerazione sulle mie labbra, la mia mano che si è posata sul suo petto senza che quasi me ne accorgessi, finché non ho sentito il battito accelerato del suo cuore.
“Non...non lo so” ammetto, e sento nella mia voce la stessa vibrazione che ho udito nella sua. Mi guarda negli occhi, mi sento mancare il fiato, e realizzo che forse non sappiamo bene che nome dare a tutto questo, ma di certo è qualcosa che non è possibile sottovalutare – né, tantomeno, a cui vogliamo rinunciare. Non in questo momento, in cui siamo così vicini da condividere la stessa aria, in cui ci sentiamo così giovani.
La sua mano scende sul mio collo, ed emetto un breve sospiro, emozionata come non pensavo mai nella vita. Peeta si avvicina a me, lentamente, e chiude gli occhi mentre un respiro tremulo sfugge dalle sue labbra per infrangersi sulle mie. Brividi puri mi attraversano tutta, smetto completamente di ragionare, mentre mi ritrovo a chiudere gli occhi a mia volta. Tutto assume un nuovo significato quando, dopo mesi di lontananza, le nostre bocche si ritrovano. Ed è tutto diverso, perché non ci sono telecamere o morti o pericoli imminenti.
È come se fosse un altro primo bacio. Tremante. Incerto.
E poi caldo, morbido, dolce, quando assapora delicatamente il mio labbro inferiore; forte, intimo, pieno, quando sento la sua lingua sulla mia; profondo, complice, passionale, quando, una mano possessiva sulla schiena e l'altra artigliata alla nuca, mi piega appena la testa di lato, per affondare meglio lì dove vuole arrivare, toccare i miei denti, mordermi appena le labbra con i suoi. Un suono finora sconosciuto, un gemito – suo, mio, impossibile saperlo – e le mie mani si aggrappano alle sue spalle per avvicinarlo ancora di più a me. Ci separiamo solo quel tanto che basta per prendere aria: con le fronti unite, quando solleva le palpebre ho la visuale privilegiata dei suoi occhi azzurri, che si sono fatti liquidi dal languore, e so senza saperlo che sono lo specchio perfetto del mio sguardo.
Un sospiro profondo – e straordinariamente soddisfatto – mi sfugge dalle labbra, e lui sorride, a metà tra il malizioso e il sereno.
“Già” mi dice, e mi ritrovo a sorridere anche io, sentendomi leggera come una piuma.
Restiamo in quella posizione ancora un paio di secondi, quando qualcuno lo chiama dalla porta che dà al laboratorio. Ci voltiamo ed è Asia, che ci guarda accigliata, tentando invano di far finta di non notare le nostre condizioni. L'orgoglio adolescenziale che mi monta dentro quando realizzo che ha capito benissimo cosa stavamo facendo riesce a inibire persino l'imbarazzo di esser stata colta con le mani nel sacco. Gli chiede di andare a supervisionare le altre stanze, e ci dà le spalle indispettita. Peeta si volta ancora verso di me, un sorriso divertito e gli occhi scintillanti, e mi lascia un altro bacio rapido sulle labbra, prima di allontanarsi. Io, intanto, non sento che un rimescolare di viscere dentro di me, mentre mi porto una mano alla bocca.

Lasciamo la panetteria poco dopo, e Peeta ci mette meno di un secondo ad afferrare la mia mano e intrecciare le nostre dita. È completamente incurante degli sguardi che qualcuno ci lancia; anzi, risponde a qualche saluto, senza mai perdere il suo sorriso, che non è solo di circostanza: è un sorriso sincero, puro, che raggiunge gli occhi e lo fa somigliare tanto al ragazzo brillante che aveva sempre la battuta pronta persino nelle situazioni peggiori. Io, invece, mi sento osservata e sotto pressione. Quella meravigliosa sensazione di leggerezza che mi aveva colta – quando le mie labbra erano ancora gonfie e arrossate da un bacio che era stato in grado di annullare tutto il resto – è completamente svanita, lasciando spazio all'inadeguatezza e al disagio. Tengo gli occhi bassi, lanciando di tanto in tanto uno sguardo circospetto intorno a me, cosa che immagino mi faccia sembrare un po' ridicola. Ma non posso farci niente: è come se mi sentissi addosso tutte le telecamere di Capitol City, è come se ci fosse ancora quel pubblico avido che gioiva nel trafficare nei miei affari personali. Vorrei sparire, diventare invisibile, o semplicemente raggiungere casa nel minor tempo possibile. Peeta mi lancia un'occhiata indecifrabile che dura solo un istante, poi torna a guardare davanti a sé, aumentando leggermente il passo e cingendomi le spalle con un braccio, come a proteggermi dal resto del mondo. Andrà tutto bene, mi dico, devo solo arrivare a casa.
Quando varchiamo la porta, però, mi allontano con troppa fretta dal corpo di Peeta, in un gesto che colpisce persino me stessa. Vedo che adesso lui mi guarda confuso, e mi sento presa da un vago malore.
“Mi...vado a fare una doccia” dice e io annuisco, ma non riesco a guardarlo in faccia. Che diamine ti prende? mi rimprovera una vocina nella mia testa, che non voglio ascoltare. Lo vedo sollevare una mano con l'intento di accarezzarmi, ma il suo braccio si ferma a metà strada, per poi tornare mesto sul suo fianco – e mi sento assurdamente sollevata per aver evitato questo semplice contatto fisico. Solo un paio di secondi, prima che lui lasci rapidamente la stanza.
E quando sono sola, con un freddo inesistente che ha preso possesso del mio corpo, affronto la realtà dei fatti. Il problema non è all'esterno: il problema, ancora una volta, sono io. Non si tratta solo dell'idea che qualcuno ci veda o si intrufoli un'altra volta nelle nostre vite. Quelle imposte che avrei voluto sbattere in faccia al pubblico di Capitol City durante la mia prima Arena, stavolta, le sto chiudendo a me stessa, non mettendo ordine nei miei sentimenti eppure cedendo a un bisogno che il mio corpo sembra aver accettato ben prima che lo facesse la mia testa. Perché, e me ne rendo conto solo adesso, io ho desiderato quel bacio. Ogni mattina, quando Peeta mi ha svegliato con dolcezza; ogni volta che sono arrivata al Distretto, quando, quasi per caso, mi ha regalato una carezza; ogni sera, quando mi ha stretto tra le sue braccia forti e mi ha sussurrato “Buonanotte”. Ho desiderato un suo bacio, nascondendo questo mio volere in un posto remotissimo del mio essere; l'ho agognato con ardore, l'ho aspettato silenziosamente eppure fermamente, con la stessa inconsapevole impazienza di una stupida principessa addormentata sulla torre, come se da esso ne dipendesse la mia esistenza. E, adesso che l'ho avuto – caldo e dolce e passionale, così come Peeta stesso – non so più cosa devo fare.



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Ok ok ok, non odiatemi, vi prego!!! So che sembra tutto molto crudele, ma lo sappiamo, no? che Katniss è fatta così! E sarò un po' sadica, ma devo ammettere che questo capitolo mi ha divertita abbastanza, perché sono una romanticona ma l'angst mi piace assai!! :p
Un milione di grazie a chi continua a seguire questa storia e a chi ha speso un minutino per recensirmi, mi state scrivendo parole bellissime che superano qualsiasi aspettativa, veramente!!!
A prestissimo!!! :)
VV**

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Noi VIII

               Capitolo VIII


Dopo quel giorno, tutto torna come prima. La nostra convivenza riprende da dove l'avevamo lasciata: svegliarsi col profumo di pane e cioccolata, andare a caccia, lavorare insieme alla panetteria, cenare con Haymitch e Sae, condividere il letto. Il contatto fisico tra noi due si limita a quei piccoli accenni che rendono possibile a entrambi passare una giornata piacevole e affrontare in tutta sicurezza il vivere insieme; solo la notte ci concediamo un abbraccio più stretto, l'unico modo che conosciamo per affrontare le nostre paure e riuscire a dormire. Tutto però si svolge con una grande tranquillità, senza particolare trasporto, in una routine che né io né lui siamo intenzionati a interrompere. Nessuno dei due tenta più un approccio diretto come quello della panetteria, e finiamo quasi col dimenticare quello che è successo.

Mentre mi racconto questa storiella, tentando di convincermi che corrisponda alla reale situazione, una voce prepotente e veritiera irrompe nella mia mente interrompendo ogni altro pensiero.
Bugiarda.
La verità è ben diversa da quella che invento con stessa. Dopo quel giorno, niente è come prima. La nostra convivenza si fa più difficile, perché viene a mancare quella naturalezza e quella semplicità con cui l'avevamo vissuta fino a quel momento. Il contatto fisico tra noi due si riduce sempre un po' di più – scompare il bacio del buongiorno, quello che mi dava prima di alzarsi e che io percepivo appena nel dormiveglia del mattino; scompare il gentile tocco di benvenuto che mi donava al mio arrivo in panetteria; scompare il galante gesto di aiutarmi a infilare e sfilare la giacca, quando mi sfiorava quasi per caso le spalle – al punto da divenire pressoché assente; fa esclusione solo la notte, quando le sue braccia diventano l'unico rifugio possibile dai miei incubi: nemmeno la sera che è successo sono riuscita a stare lontana dal suo abbraccio, troppo spaventata da quello che avrei trovato nel mio sonno se lo avessi affrontato da sola; Peeta, generoso come sempre, non mi ha negato il suo conforto, e questa è forse l'unica cosa che realmente non è cambiata. Ma capisco di esser cambiata io nel profondo, perché sento che il mio corpo reagisce in modo diverso al contatto col suo: da quel giorno, nel momento in cui le sue mani si posano sulle mie spalle, brividi simili a scosse elettriche, dolorose e piacevoli al tempo stesso, mi attraversano il corpo. Inoltre, sviluppo una sorta di dipendenza dalla sua presenza, al punto che mi sembra quasi di non riuscire a respirare quando lui non è con me; il mio sguardo sembra seguirlo dappertutto: inizio a notare particolari di lui – del suo modo di muoversi, delle sue abitudini – che mi erano sconosciuti, e accresco quel bagaglio di informazioni sul ragazzo del pane che avevo iniziato a creare, inconsciamente, fin da quando eravamo ragazzini. Passiamo poco tempo insieme da soli: cerchiamo sempre di essere attorniati da altre persone, e la verità è troppo palese per essere ignorata. Perché non è vero che ci siamo dimenticati cosa è successo. Del resto, sarebbe impossibile farlo: la panetteria è ancora pregna dell'odore di tinta fresca – quella che si mescolava al profumo della sua pelle, quel giorno – il suo abbraccio protettivo sotto le coperte mi rende troppo familiare il suo calore – quello che si diramava dalla sua mano posata sulla mia schiena e che dalle labbra scendeva fino al cuore – e il suo respiro regolare di quando dorme s'infrange ogni notte contro il mio viso – come si era incontrato a metà strada col mio, per poi perdersi sulle mie labbra.
Le parole false che mi ripeto in ogni momento non sono altro che finestre chiuse sul mio cuore. Pur di rifiutare un'analisi più approfondita dei miei sentimenti, arrivo a dirmi la bugia più grossa di tutte, cioè che quel bacio tanto carico di desiderio fosse solo un'esplosione di ormoni di due ragazzi che per troppo tempo non hanno potuto godere della compagnia di qualcuno. Ma questa tesi è talmente ipocrita e vigliacca da costringermi ad ammettere, almeno a me stessa, la mia totale incapacità di affrontare i miei dissidi interiori. So che la reale risposta a tutti i miei dubbi è lì, che chiede solo di essere accolta, ma è troppo dura da accettare, perché le complicazioni sarebbero dietro l'angolo – e le imposte, ancora una volta, restano saldamente chiuse.
La tensione tra di noi è quasi palpabile, ed è una tensione ben diversa da quella elettricità che c'era prima e che ci spingeva l'uno verso l'altra: questa non fa che risvegliare in me ogni senso di colpa, tenendomi a distanza da lui. È come se ci fosse un recinto elettrificato che ci avvolge, mi sembra quasi di sentirne il ronzio. E quando lui mi guarda con quei suoi profondi occhi azzurri – che hanno il potere di attraversare quel recinto e di superare qualsiasi lontananza fisica io metta tra di noi – mi ritrovo per un attimo in apnea, sopraffatta dall'intensità del suo sguardo. Perché Peeta non è vigliacco come me, Peeta non è bugiardo. Lui ha accolto i suoi sentimenti, li ha accettati, e me li palesa tutti attraverso i suoi occhi brucianti di passione. Ha deciso di non nasconderli – di non nascondersi – di essere limpido, e di non risparmiarmi niente di quello che prova. Mi viene quasi da ridere se penso che, del resto, gli ho chiesto io di condividere con me ciò che tiene dentro; ma di certo non avevo preso in considerazione questo.

Poi, una notte, succede. Mi sveglio di soprassalto, con ancora i postumi di un incubo terribile che mi scuotono e mi fanno urlare e piangere. Peeta si sveglia e mi stringe forte, cullandomi, parlandomi dolcemente con voce impastata dal sonno interrotto. Mi accarezza i capelli con movimenti lenti e pacati, raccoglie le mie lacrime con le sue labbra, e poi mi bacia sulla bocca. È così diverso da ogni bacio che ci siamo mai scambiati: ci sono stati quelli per le telecamere, appiccicaticci come il rossetto che ero costretta a indossare; ci sono stati quelli disperati, caldi di febbre o tremanti di spavento; ci sono stati quelli passionali e istintivi, freschi di salsedine o profumati di pittura. Questo è un bacio dolcissimo, tranquillizzante, pacificatore, che ha il sapore salato delle lacrime che ho appena smesso di versare. Nel momento in cui le sue labbra sono sulle mie, è come aver recuperato un pezzo mancante del puzzle – è come sentirsi un po' di più a casa. Si separa da me, lasciandomi addosso ancora il suo sapore, e mi guarda con occhi ora più svegli, come se si fosse accorto solo adesso di quello che ha fatto. Sembra vagliare per un secondo la situazione, poi sorride debolmente.
“Non piangi più...” sussurra, le parole ovattate nel buio della stanza. Mi sento quasi in trance, mentre scuoto piano la testa. Sorride appena di più, gli occhi lucidi di sonno e di emozione, e mi abbraccia forte, mentre io mi rintano sul suo petto. Un altro pezzo del puzzle. Sentirsi ancora di più a casa.
La mattina, dopo alcune ore di sonno profondissimo, mi sveglio prima del solito; sento il rumore delle padelle che arriva dalla cucina, e, quando scendo, Peeta sta ancora preparando la colazione. Generalmente guardarlo cucinare mi mette addosso una grande serenità, ma stamattina sento come un tremito continuo che mi attraversa le membra. Forse sono le sue spalle larghe, messe in evidenza dalla t-shirt nera; forse sono i suoi capelli biondi spettinati; forse è il movimento armonioso delle sue mani. O forse sono io che, senza un motivo particolare, lo vedo più bello che mai. Quando si accorge della mia presenza, mi guarda e sorride, facendomi arrossire immediatamente.
“Buongiorno, Katniss” mi saluta gentilmente, e io abbasso lo sguardo mormorando un “'Giorno” quasi impercettibile. Noto che lui stringe un po' più forte il coltello con cui sta tagliando il pane, ma dura un attimo, prima che riprenda col suo lavoro. Senza dire una parola, apparecchio il bancone per la colazione e tento di riordinare il subbuglio che dimora nella mia testa, finché, all'improvviso, non sento più lo sbattere meccanico del coltello sul tagliere. Giro la testa nella sua direzione e vedo che Peeta ora stringe convulsamente le mani attorno al bordo del tavolo: le nocche sono bianche, come il suo viso, e lo sguardo è perso nel suo mondo di mezze verità e ricordi modificati. Guarda con apprensione il coltello, che nella sua mente deve essere diventato un'arma pericolosissima, e io mi volto verso di lui, muovendomi cauta.
“Peeta...” lo chiamo, tentando di mantenere la voce ferma e al tempo stesso confortante. Vedo le sue spalle irrigidirsi, e poi, finalmente, mi guarda. I suoi occhi sono velati di preoccupazione, ma non sono neri come temevo.
“Noi ci siamo baciati. Due volte. Vero o falso?” mi chiede, la voce incerta. Cerco di non arrossire, ma non posso impedirmi di deglutire ansiosa. Posso mentire a me stessa, nascondermi nei miei armadi fittizi, ma non posso mentire a Peeta. Gli devo la verità.
“Vero” mormoro, con voce roca. Lui mi guarda, ancora confuso, e so che la verità, stavolta, ha bisogno di più voce. “Vero” ripeto, con maggiore convinzione. Stringe più forte il bordo del bancone, come se la mia risposta non gli fosse piaciuta, e mi sento vacillare.
“Ed è reale?” mi chiede piano. Sul momento non afferro appieno la sua domanda – gliel'ho appena detto, che è successo davvero – e aggrotto involontariamente la fronte; un tremito gli attraversa il volto, che ora sembra spaventato. Spaventato da me, da quello che potrei dire. Pessima mossa, mi dico, recuperando un'espressione tranquilla.
“Che cosa, Peeta?” gli domando, con voce conciliante. Nel suo sguardo c'è tutto: terrore, tensione, dolore; eppure, mi sembra anche di scorgere una scintilla di speranza che tenta di venire fuori, che cerca un modo per alimentarsi e diventare fiamma.
Noi” chiede in un sussurro.
Nel giro di qualche frazione di secondo, capisco alcune cose importanti. Capisco cosa gli sta passando per la mente, che deve aver avvertito quanto quello che ci sta succedendo mi confonda, e capisco quali sono i ricordi che sta rivivendo – quelli che non hanno avuto bisogno di alcuna modifica, per risultare terrificanti agli occhi di una persona innamorata: mi torna in mente la messinscena per il pubblico insaziabile di Capitol City, i baci sprecati per avere del cibo, le parole impegnative buttate al vento solo per ottenere qualcosa in cambio; mi tornano in mente i suoi occhi pieni di gioia e amore, mentre io morivo dentro nel realizzare che, a recitare, ero solo io; mi torna in mente lui che, ferito, mi lascia la mano quando gli dico che sono confusa, per poi riprenderla a esclusivo beneficio delle telecamere. Mi torna in mente quando tutto succedeva, senza essere reale. Gli ho dato così tanti motivi per dubitare di me e dei miei sentimenti, e adesso – evitando i suoi occhi e le sue mani, eppure cercando il conforto delle sue braccia per dormire, egoista e opportunista come sono sempre stata – non mi sto comportando molto meglio di allora.
La seconda cosa che capisco è che tra noi non saranno mai grandi discorsi, non saranno mai giri di parole: saranno frasi, domande, liste, silenzi. Come vivere insieme senza quasi deciderlo davvero, come i cassetti svuotati e l'abbraccio privo di parole che ne è seguito. Saranno i fatti a cementare il nostro rapporto. Devo agire subito, o rischierò di perderlo – e se perdo lui, ora, perdo me stessa. È per questo motivo che mi stacco dal lavandino e mi avvicino a lui, senza mai lasciar andare il contatto con i suoi occhi. Prima ancora che abbia il tempo di avere paura o ripensamenti,  lo dico.
“Lo è. È reale”.
E nel momento in cui la mia risposta si perde nell'aria, nel momento in cui libero le mie parole, libero anche il mio cuore. È l'ultima conferma che do a me stessa. Perché il bacio di stanotte – umido e salato di lacrime, eppure così piacevole, così familiare, con quel sapore di casa – mi ha fatto finalmente capire che io voglio Peeta. Non voglio solo le sue braccia per confortarmi. Voglio ritrovare quella naturalezza che aveva caratterizzato le nostre prime settimane insieme. Voglio la quotidianità che non è noiosa routine, ma che rende ogni giorno splendido nella sua semplicità. Voglio che il calore della notte non si disperda con le luci del mattino, ma che avvolga le nostre giornate. Voglio sedermi accanto a lui sul divano e posare i piedi sulle sue gambe come avevo fatto all'intervista dopo la nostra vittoria, ma non come avevo fatto all'intervista, perché d'ora in poi sarà spontaneo e sincero; e voglio la sua fronte posata sulla mia tempia, esattamente come aveva fatto all'intervista, perché lui era vero già allora, anche se in quel momento avevo pensato che il suo fosse un gesto finto come il mio. Voglio poter guardare Peeta nel modo in cui mia madre guardava mio padre, e poter accettare i suoi sguardi senza sentirmi in colpa per quello che provo. E voglio che tutto questo si evolva in emozioni nuove, baci finalmente veri, sentimenti sinceri che ci facciano crescere insieme e andare avanti nonostante la bruttura del nostro passato, gli ostacoli del nostro presente, le incognite del nostro futuro. Abbiamo legato inconsapevolmente le nostre vite tempo fa, con quel pane bruciato lanciato sotto la pioggia, e dato vita a un legame fino a quel momento sopito con una stretta di mano sul palco della Mietitura; siamo passati attraverso l'inferno, l'oblio più nero, la perdita di noi stessi, e siamo riusciti a ritrovarci. Quando poi lui è tornato, abbiamo sì deciso di affrontare il resto delle nostre vite insieme, ma l'abbiamo fatto come se fosse una sorta di contratto, un patto di sopravvivenza; per sentirci più “al sicuro” abbiamo cercato di ammansire quella parte più istintiva di noi, più corporale, finché è esplosa in un nuovo primo bacio. Il modo in cui Peeta risveglia i miei sensi, il mio corpo, i miei desideri – il suo farmi sentire bambina e adolescente e donna tutte insieme – mi spingono in una direzione completamente diversa, una direzione in cui rischiamo il tutto per tutto e stiamo insieme come mai prima d'ora. Perché la verità è che non è giusto rifiutare quella parte di noi. Non è giusto rifiutare quello che ci smania dentro. Sarebbe come rifiutare la vita stessa – sarebbe come sopravvivere, ma non vivere. E spalanco quelle imposte per fare entrare aria fresca e pulita, la stessa che invase lo studio dopo il suo ritorno, la stessa che ora accompagna le nostre notti. È come una rivelazione, un segreto stuzzicante che non si può più tenere per sé e che che si vuole condividere con qualcuno. Voglio che lui sappia, come io ho saputo, attraverso i suoi sguardi carichi di sentimenti.
Gli prendo le mani e lentamente le sciolgo dalla loro morsa; una resta lì, con le dita saldamente intrecciate alle sue, mentre l'altra risale il suo braccio, fino alla spalla, alla nuca, per perdersi poi tra i suoi ricci biondi. Unisco le nostre fronti, lui chiude gli occhi, e rilascia un sospiro che è liberatorio e ansioso insieme.
“Ti prego” mormora “ti prego, non illudermi di nuovo. Se devi andare via da me, fallo ora”.
Un nodo alla gola, il peso delle mie colpe, la consapevolezza che nel suo mondo distorto io non gli voglio nemmeno un po' di bene, non nutro nemmeno rispetto per i suoi sentimenti. Ho così tanto per cui fare ammenda.
“Peeta” lo chiamo “guardami”.
Siamo di nuovo durante la rivolta, nel bel mezzo della sua crisi, quando ho giocato l'ultima rischiosissima carta e l'ho baciato con disperazione, per chiedergli di non farsi portare via da me.
Resta con me. Sempre.
Quando li riapre, i suoi occhi sono lucidi.
“Resto con te. Sempre”. Per davvero.
Lo attiro a me e, per la prima volta dopo mesi, lo bacio io per prima, mettendoci tutto quello che provo per lui, facendo sì che sia reale, che non possa esserci alcun dubbio. E dopo, c'è una gran quantità di baci. Non sembravano molto sinceri da parte tua. Gli passo le braccia attorno al collo e lo stringo forte, quasi come volessi diventare una cosa sola con lui, spingendolo fino al bancone della cucina a cui tanto strenuamente si era aggrappato. Le sue braccia mi circondano, e quasi mi sollevano da terra quando, con foga sempre maggiore, le nostre lingue si cercano e il nostro bacio assume mille sfumature diverse. Se possibile, è ancora più intenso di quello mosso dal desiderio che ci siamo scambiati in panetteria, perché questo bacio ha qualcosa in più: è un bacio di conferma, un bacio di appartenenza, un bacio di possesso. È il bacio che risponde alla sua domanda: urla che ora siamo un noi.
Quando ci separiamo, siamo entrambi leggermente ansimanti, e immagino che le mie guance risultino arrossate come le sue. I suoi occhi sono azzurri e profondi quando mi guarda.
“Katniss...” soffia fuori, e il suo alito sulle mie labbra mi fa desiderare di baciarlo ancora. “Katniss, ora non c'è proprio possibilità che ti lasci andare via”.
Lo guardo e sorrido a cuor leggero.
“Lo spero” gli rispondo soltanto, cercando di smorzare la tensione. I suoi occhi sono finalmente limpidi quando mi sorride, accarezzandomi le braccia in un gesto che dovrebbe essere innocente, ma che mi fa comunque rabbrividire.
“Colazione?” mi chiede con voce morbida, e la sua semplice proposta suona come un invito a qualcosa di proibito alle mie orecchie estasiate da questa nuova vicinanza. “Anche se temo che oggi sarà un po' scarsa...”. Spegne il fuoco e prende la padella, che rilascia un odore non proprio invitante di cui mi rendo conto solo ora – ora che ci siamo separati e che il profumo della sua pelle non obnubila più i miei sensi; il contenuto della padella è ormai completamente bruciato, e noi ci ritroviamo a ridere a cuor leggero di questo piccolo incidente domestico in un modo che sembra tutto nuovo, tutto nostro.
E seduti a quel bancone, con davanti niente più che una tazza di tè e un po' di pane,  ritornano gli sguardi complici e i sorrisi sinceri; ritornano i tocchi leggeri delle dita che si sfiorano, i gesti gentili della sedia spostata per farmi accomodare e dello zucchero versato e mescolato nella mia tazza di tè. È la colazione più buona della mia vita, anche senza focaccine al formaggio né cioccolata, perché il sapore fresco e dolce della verità è il più soddisfacente che io conosca.

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Ed eccoci con l'ottavo capitolo! :3 tengo molto a questo chap per quello di cui tratta e per come si è evoluto: è nato come un paragrafo piccino piccino, ed è stato molto interessante svilupparlo fino a questo punto, anche se ho sempre la sensazione di non esser riuscita a dire tutto quello che volevo o a essere completamente esaustiva...insomma, spero che voi possiate smentirmi e soprattutto che vi piaccia! :)
Ancora mille volte GRAZIE per ogni lettura, per ogni seguite/ricordate/preferite e per ogni recensione!!! Ne sono davvero felice e super grata!!!
VV**

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Noi IX

               Capitolo IX


“Ti va una passeggiata nel bosco?”.
Non so da dove mi esca fuori questa proposta, in una nuvolosa domenica mattina di inizio ottobre. È il primo giorno completamente libero che spenderemo insieme dopo quella colazione al sapore di verità, e mi sento preoccupata ed euforica insieme alla prospettiva di un'intera giornata con Peeta; certo, ci sono state altre domeniche nella nostra convivenza, ma avevamo l'abitudine di stare un po' per conto nostro, limitandoci a lanciare sguardi l'uno verso l'altra e a parlare del più e del meno; alle volte, io andavo a caccia e lui tornava a casa sua per dipingere, dividendoci per qualche ora. Ma adesso è tutto molto diverso – da quando le attenzioni di Peeta sono la normalità, da quando posso stringermi al suo petto non solo per scappare dagli incubi; adesso l'idea di separarmi da lui nella nostra unica giornata libera da impegni mi sembra un'assurdità, e voglio approfittare di quest'occasione per fare qualcosa di diverso dal solito.
Forse è per questo motivo che la mia mente elabora l'idea di andare insieme nel bosco. So che per Peeta sarebbe una prima volta: lui non ha mai avuto bisogno di avventurarsi oltre il recinto per cercare del cibo, prima, e poi io non l'ho mai invitato a venire con me; l'unica volta che c'è andato, è stata per cogliere le primule che ha piantato nel mio giardino, ma quelle crescono proprio al limitare del Prato. E mentre insieme risistemiamo la cucina dopo una colazione abbondante e gustosa, guardo il suo volto così sereno e la domanda sfugge dalla mia bocca prima ancora che me ne renda conto. Peeta si volta di scatto nella mia direzione, e il suo viso si apre in un sorriso luminoso e contento, che un po' mi destabilizza. Non mi aspettavo chissà quale entusiasmo per questa richiesta – o meglio, non mi aspettavo proprio niente – e invece lui ora sembra il ritratto della felicità.
“Mi piacerebbe molto”.

L'aria fresca delle prime settimane di autunno ci colpisce i volti e ci arrossa subito le guance. Cammino sicura tra i sentieri che conosco, tenendo la mano di un Peeta dallo sguardo rapito: ammira tutto quello che ha intorno con gli occhi puri di un bambino, e sorrido nel pensare che mi ricorda molto me stessa quando venni qui per la prima volta, quando la meraviglia di questo posto mi faceva tenere la bocca aperta e il naso all'insù, finché non inciampai in una radice non vista e caddi maldestramente a terra, suscitando l'ilarità di mio padre.
Andiamo avanti per almeno mezz'ora in silenzio, persi ognuno nei suoi pensieri, e sento un misto di serenità e apprensione all'altezza dello stomaco. Perché non l'ho portato prima qui? mi ritrovo a chiedermi. Perché non ho voluto condividere tutto questo con lui? E poi, all'improvviso, la visione di un coniglio che entra lesto e indisturbato nella sua tana mi dà la risposta: perché questo è il mio regno...mio e di Gale.
Gale. Il mio compagno di caccia. Il mio unico amico. Il mio finto cugino. Il mio possibile amore.
Questo posto mi parla di Gale e di tutte le avventure che abbiamo affrontato insieme. Alle volte penso ancora distrattamente a lui, a come avrebbe potuto essere senza gli Hunger Games; chissà se alla fine sarebbe riuscito a convincermi a sposarlo, o addirittura ad avere dei figli. Poi mi ricordo delle bombe, dello sguardo determinato ma preoccupato di Prim prima che venisse divorata dalle fiamme, e tutto diventa troppo doloroso per pensare oltre. Eppure gli ho voluto bene – gli ho voluto bene davvero. Cos'è rimasto di quell'affetto che provavo per lui, di quell'attrazione per il suo corpo alto e muscoloso e per i suoi occhi grigi? Mi chiedo se io abbia mai davvero deciso che tutto doveva finire tra di noi, o se mi sia solo fatta trascinare dagli eventi e dal dolore che mi impedivano di affrontare la realtà intorno a me; mi chiedo se sia davvero riuscita a lasciarmelo alle spalle, o se lo spettro del nostro passato insieme mi perseguiterà per sempre. All'improvviso mi sembra che le fronde degli alberi bisbiglino maliziose contro di me, che ora non sono qui con Gale, ma con un altro. Hai fatto una scelta. Ma è davvero la tua scelta?
“La prossima volta” mi dice Peeta, spezzando il silenzio “mi porto dietro la tela e i colori. Devo assolutamente dipingere questo posto”.
La sua voce mi risveglia dai miei pensieri, e sento di nuovo le sue dita, calde, intrecciate alle mie. Lo guardo, la sua figura che si staglia in questo panorama boschivo: gli occhi azzurri come il cielo lucidi per via del vento, i capelli biondi come un cherubino, la pelle chiara e il naso rosso a causa del freddo, che gli dà un'aria infantile e un po' buffa; eppure, non provo nessun divertimento nel vederlo così, anzi, sento un vago senso di vuoto allo stomaco nel realizzare quanto lui sembri quasi fuori luogo in questo posto – non come Gale, che era così forte e bello e agile da sembrare una creatura della foresta. Staresti con Peeta, se Gale non avesse ucciso tua sorella?
“Avevi molta voglia di venire qui?” gli chiedo, tentando di mettere a tacere i miei pensieri.
“Beh, sì” mi risponde solamente. Aggrotto un po' le sopracciglia.
“Perché non mi hai mai chiesto di portartici?” domando, e lui scrolla leggermente le spalle, mentre mi risponde con semplicità “Aspettavo che me lo proponessi tu”.
Ed è così che Peeta, ancora una volta, è in grado di rovesciare tutte le mie convinzioni e contemporaneamente di mettere un senso laddove prima c'erano solo i dubbi. Mi sento spiazzata e insieme leggera, e non per la risposta in sé, ma perché realizzo, ancora una volta,  quanto Peeta abbia a cuore i miei sentimenti: sapeva – più di quanto lo sapessi io, probabilmente – che una richiesta da parte sua di venire qui mi avrebbe messa in difficoltà, e ha aspettato che fossi pronta a compiere un passo che, evidentemente, mi costava più fatica di quanto non immaginassi. E penso di nuovo a Gale, in un modo che non avevo mai contemplato prima d'ora: rifletto su quanto la sua impazienza – di fare qualcosa, di ottenere delle risposte, di avere la sua vendetta – mi mettesse sotto pressione, quanto riuscisse a farmi sentire così inadeguata, lui, sempre così certo del suo modo di pensare e di agire. Benché sapessimo leggere l'uno nella mente dell'altra ed essere in grado di lavorare come una squadra, non c'è mai stata reale empatia tra di noi, non quando si trattava delle nostre idee o dei nostri sentimenti.
Mi torna alla mente quella conversazione che ascoltai tra Gale e Peeta, quella frase crudele origliata dal pavimento della casa di Tigris, nascosta sotto strati di pelliccia.
Tra noi, Katniss sceglierà quello che ritiene indispensabile alla sua sopravvivenza.
Ripenso alla rabbia che provai nel sentire che il mio più caro amico diceva quelle cose di me, sapere che mi considerava così fredda e calcolatrice, percepire, in qualche modo, che mi stava giudicando, pur conoscendomi e sapendo cosa avevo dovuto affrontare in quegli ultimi mesi; ma quello che fece davvero male fu ascoltare il silenzio assenso del ragazzo per cui stavo mettendo in pericolo la mia vita in quello stesso momento, un silenzio che mi fece sentire intimamente ferita, accusata, per certi versi rifiutata. La differenza stava tutta lì: Gale era la causa della mia ira - superficiale, eppure logorante 
 Peeta quella del mio dolore – profondo, radicale. Ma se Gale non era in grado di placare la rabbia che accendeva in me – anzi la fomentava, come prima degli Hunger Games, come durante la rivolta – Peeta sapeva lenire il male che avevo dentro, riusciva a curare ogni mia ferita, anche quelle che lui stesso causava. Sapeva essere una luce di bontà alla fine di un tunnel di odio e cattiveria. Forse non si tratta di scegliere. Forse è così da sempre, ma non lo sapevo. E, adesso che lo guardo ancora – gli occhi azzurri e lucidi dal vento, i capelli biondi da angelo, l'aria infantile e buffa con quella pelle chiara e il naso rosso per via del freddo – non mi sembra così fuori luogo in questo posto, mi sembra che sia esattamente dove deve stare: vicino a me. Adesso che lo guardo, so che ho fatto la mia scelta, una scelta che non riguardava decidere freddamente chi tra Peeta o Gale fosse più adatto come compagno di vita, ma che riguarda il sapere, l'accettare, l'accogliere i sentimenti che ho sempre avuto dentro e che ho fatto così tanto fatica a decifrare. E tutto questo, oggi, non può che portarmi in un'unica direzione.
Ti vedo. Ti riconosco. Non puoi che essere tu, nel mio domani.
Presa dall'euforia di questa consapevolezza, mi getto tra le sue braccia con una nuova spontaneità e leggerezza, affondando il viso nel suo collo. Peeta sembra perdere un momento l'equilibrio a causa della mia foga, poi risponde con vigore al mio abbraccio e una risata cristallina raggiunge le mie orecchie, un suono così leggero e sereno che sembra riempire quel vuoto che solo qualche minuto fa mi attanagliava lo stomaco. Mi prende il viso tra le mani e strofina il suo naso freddo contro il mio con tanta naturalezza da farmi venire gli occhi lucidi dall'emozione. All'improvviso, sembra tutto così semplice.

“Penso che quando torneremo a casa, dovremo chiamare Haymitch e dirgli di organizzarsi da solo, per la cena”. Lo guardo interrogativa, e un sorriso malizioso spunta sulle sue labbra. Guarda caso, arrossisco. “Non voglio condividerti con nessuno, oggi”.
Mi sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio, e cedo totalmente. Come posso negargli questa piccola richiesta?

Rientriamo a casa che è pomeriggio inoltrato, con gli stomaci che rumoreggiano un po' per la fame. Quando ci richiudiamo la porta alle spalle, c'è una frazione di secondo in cui sento l'elettricità riempire l'aria. Peeta mi abbraccia da dietro, posandomi le mani calde sulla pancia, e quell'elettricità sembra concentrarsi tutta lì, in quel punto dove lui mi tocca. Mi volto e mi ritrovo il suo viso a una distanza millimetrica dal mio, con i suoi occhi azzurri che mi scrutano. Stranamente, non ho più fame.
“Che ne dici di un tè e qualche biscotto?” mi chiede con quel suo modo di fare che sembra sempre sottintendere una proposta indecente. Annuisco e lui sorride, sfiorandomi una guancia bollente. “Aspettami in sala. C'è quel bel tappeto davanti al camino che potrebbe fare al caso nostro”. Lo guardo, un po' confusa.
“Bel tappeto? Ma se è orribile!” gli rispondo. È un enorme tappeto dall'aspetto antico che medito già da tempo di far sparire per sostituirlo con qualcosa di più moderno. Peeta mi afferra per il mento e si avvicina pericolosamente alle mie labbra.
“Ha l'aria morbida. E andrà benissimo per la nostra merenda”.
Ed è così che passiamo il resto della serata seduti lì, a mangiare biscotti e focaccine e bere tisane profumate. Quell'elettricità diventa calore puro nel momento in cui Peeta mi accarezza la nuca e mi attira a sé in un bacio dal sapore di zucchero e di fiori.
Mani che si sfiorano, dita che si intrecciano, respiri sulla pelle, sospiri a fior di labbra. Credo che, nel linguaggio adolescenziale, ci sia tutta una serie di vocaboli per definire quello che stiamo facendo. Io non ne conosco nessuno: so solo che l'intimità e la prossimità fisica sono diventati parte del nostro rapporto, che i benefici che mi dà il contatto col corpo di Peeta sono simili a quelli della morfamina, e che, allo stesso modo, non potrei più rinunciarvi. Fortunatamente per me, Peeta sembra del mio stesso avviso, mentre mi scosta i capelli dalle spalle, lascia una carezza sul mio collo, riempie il mio viso di baci e le mie orecchie di parole sciocche e dolcissime – “Sei bellissima”, “Mi piace un sacco tutto questo”, “Promettimi che lo rifaremo spesso”.
E mentre il languore cresce, le labbra quasi pizzicano per l'intensità dei baci, le mani di Peeta conquistano nuovi centimetri della mia pelle, sfioro inavvertitamente con una mano il tappeto sotto di me, e nella mia mente si forma un pensiero distratto: non lo cambierò mai.


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Eeeeeeed eccoci di nuovo qui! :3  In questo capitolo ho azzardato un po' più del solito, perché mi sono presa la libertà di dare una mia personalissima e ben definita interpretazione della conversazione tra Peeta e Gale e di come Katniss abbia vissuto il tutto: spero che l'abbiate apprezzata e qualsiasi commento sarà ben accetto! :)
Quello che cerco con questa storia è un'accettazione graduale e totale da parte di Katniss  dei suoi sentimenti. Chi di noi, in fondo, non ha avuto il dubbio, leggendo il finale del libro, che lei non si sia "attaccata" a Peeta solo per mera sopravvivenza e non per amore profondo? Penso che l'intento dell'autrice fosse proprio quello, di lasciare questo dubbio. In questa storia io ho voluto vedere Katniss come davvero innamorata, ma con grandi difficoltà a capirlo e ad accettarlo.
Insomma, vi ho tediati abbastanza con le mie elucubrazioni eheheheh!!! Vi saluto e vi avviso che il prossimo sarà l'ultimo capitolo, ma sappiate che non è finita qui! ;)
VV**

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


               Capitolo X


Trascorrono settimane di lavoro frenetico alla panetteria. Quando arriva il camion con tutte le attrezzature e la mobilia, il volto di Peeta si riempie di emozione. Diventa estremamente pignolo nel disporre tutte le cose al loro posto, dirigendo gli operai e spostando lui stesso macchinari dall'aria pesante; mi ritrovo a fissarlo mentre solleva una cassetta piena di strumenti metallici, se la carica sulla spalla, e la trasporta con incredibile nonchalance nel laboratorio: i suoi muscoli si tendono tutti e la maglietta bianca che indossa sembra aderire completamente alle sue spalle larghe. Realizzo con stupore che ho già fatto caso a questi particolari: la prima volta è successo anni fa, quando, ancora ragazzino, lo vidi afferrare e lanciare i sacchi di farina come se non avessero alcun peso. Ricordavo bene la sua prestanza fisica e il suo essere così forte, ne avevo anche parlato a Haymitch al centro di addestramento durante i primi Hunger Games, ma il particolare del suo corpo in movimento – ho già visto quella mascella contratta per lo sforzo, ho già notato quella vena in evidenza sui muscoli in tensione delle sue braccia, e conosco il gesto rapido che fa con la mano quando vuole asciugarsi un lieve strato di sudore dalla fronte... – è qualcosa che ritorna alla mia memoria solo ora che lo rivedo in azione in una situazione simile. Vuol dire che questo interesse per Peeta – per il suo corpo, nello specifico – è, in qualche modo, nato molto tempo fa?
Le attenzioni che ora lui mi rivolge si sprecano. È come se i nostri corpi faticassero a tenersi lontani, e ogni gesto porta brividi incontenibili: un intercettare distratto delle dita, quando poso le chiavi di casa sul mobile vicino alla porta o quando stiamo preparando la cena; un buffetto sul naso, quando si separa da me anche per il solo tempo della doccia; le sue mani delicate tra i miei capelli, quando la notte mi disfa la treccia. E poi ci sono i baci, tanti baci, da quello leggerissimo del buongiorno, quando mi viene a svegliare e mi dice che la colazione è già pronta, a quelli carichi di significato che ci regaliamo la sera, sul nostro tappeto, e che sembrano scaldarsi ancora di più quando l'arrivo di un novembre piuttosto fresco ci porta ad accendere il camino. Io sono ancora un po' restia a lasciarmi andare in presenza di altre persone – mi ricorda troppo quando ero costretta a farlo, quando quelle che ci scambiavamo erano solo stucchevoli effusioni per il pubblico – e Peeta sembra essere d'accordo con me, ma non vuole rinunciare del tutto alla nostra nuova intimità nemmeno quando siamo fuori di casa; per questo motivo, quando lo raggiungo alla panetteria dopo aver passato la mattinata a cacciare, mi accarezza le spalle e mi bacia una tempia, mormorando un sorridente “Benarrivata”. E, puntualmente, mi ritrovo a pensare che tutto questo non abbia nulla a che fare con quelle passate stucchevoli effusioni.

Ma c'è ancora una barriera tra di noi, una sorta di muro che permane strenuamente, senza che nessuno dei due si azzardi ad avanzare l'argomento: lo studio di pittura. La sua casa, ormai spoglia di tutto, ha solo quella funzionalità, e da quell'unica volta io non ci ho più messo piede. Non perché Peeta me lo abbia vietato o mi abbia fatto in qualche modo capire che non sono gradita, ma perché, quando lui decide di rintanarsi laggiù, sento che lo sta facendo per allontanarsi da me. Perché dovrei invadere uno spazio che, fisicamente (dal momento che non si trova nella mia casa), non mi appartiene?
Io vorrei, invece, che Peeta non si isolasse. Vorrei che condividesse con me anche i suoi momenti peggiori, che mi permettesse di aiutarlo in ogni momento, e che non si sentisse costretto a mostrarmi solo la versione perfetta di se stesso.
Dopo averci riflettuto per ore e ore, una mattina mi decido ad agire. Invece di andare nei boschi, resto in casa e scelgo la stanza più adatta da trasformare in studio, quella in fondo al corridoio del piano superiore: è identica per dimensioni a quella di casa sua, ma qui la luce entra prorompente da due finestre, e immagino che questa sia una cosa buona per disegnare. L'unico problema sono i mobili in legno massiccio che mi è assolutamente impossibile muovere da sola, così mi decido a chiedere aiuto all'unica persona che potrei volere accanto per fare questa cosa.
Busso con vigore alla porta di Haymitch per almeno dieci minuti, prima di arrendermi al fatto che non c'è speranza che venga ad aprirmi, perciò spingo la porta ed entro cautamente in casa. È mesi che non vengo qui, e i motivi sono numerosi e tutti validissimi: il disordine che regna sovrano, la puzza di cibo andato a male, la sporcizia irreparabile. Mi guardo intorno e lo trovo nella sua posizione preferita, ossia riverso sul tavolo, con un coltello ben stretto nel pugno e una bottiglia di liquore bianco accanto a lui. È quasi con divertimento che gli verso addosso dell'acqua e lo vedo alzarsi sbraitando e sbracciando ovunque, esattamente come successe prima del Tour della Vittoria. Quando finalmente mi mette a fuoco, mi guarda con gli occhi gonfi di sonno e rossi di alcool.
“Ti rendi conto di che razza di ore sono??” sputa fuori con voce roca, brandendo il coltello davanti alla mia faccia.
“Sì” rispondo tranquillamente “ma mi servi”.
“Come sarebbe a dire che ti servo??” sbotta irritato.
“Mi serve una mano” dico “per Peeta”.
Lui mi guarda interrogativo, e, per qualche stupido motivo, arrossisco. Non è proprio il caso di imbarazzarsi di fronte a Haymitch, mi dico, facendo vagare lo sguardo ovunque tranne che su di lui. Con la coda dell'occhio, scorgo una grossa scatola di cartone – quella grossa scatola di cartone – buttata quasi per caso in un angolo della sala: sento che il mio cuore inizia ad accelerare in preda alla paura, e mi ritrovo a dondolare da un piede all'altro, impaziente. Voglio andarmene di qui. Haymitch sbuffa e borbotta qualcosa sull'andare a vestirsi, e io esco subito di casa, tirando un sospiro di sollievo quando mi trovo nel piccolo portico. Mi raggiunge qualche minuto dopo e mi scruta attentamente – quegli occhi grigi che riescono a essere sobri e vigili persino quando il loro proprietario non lo è affatto – ma io evito il suo sguardo e mi dirigo a passo svelto verso casa, mettendo più distanza possibile tra me e quella scatola.
Davanti ai mobili pesanti che ci si parano davanti, Haymitch mi guarda con odio.
“Senti, dolcezza, non sono un dannato facchino!” si lamenta, e io sospiro.
“Lo so, Haymitch! Ma è solo questa stanza, se mi aiuterai ci metteremo pochissimo!” gli dico, sperando di essere convincente. Lui mi fissa un secondo in silenzio, e i suoi occhi si accendono di malizia.
“D'accordo, ma prima voglio sapere una cosa” esordisce. Io ricambio il suo sguardo, e sulle sue labbra si forma quel mezzo sorriso che non preannuncia niente di buono. Ahia.
“Tu e Peeta. State insieme per davvero?” chiede semplicemente.
Per quanto ci provi, non riesco a impedire alle mie guance di arrossire. È Haymitch, mi dico, non ha senso nascondergli qualcosa. Ma non è per vergogna che mi ritrovo a tentennare, è per quella frase che mi aveva detto – ubriaco e arrabbiato, e per questo nel pieno della sua saggezza – all'annuncio dell'Edizione della Memoria.
Potresti vivere cento vite, e ancora non lo meriteresti.
“Sì” rispondo di getto, prima che quel ricordo attecchisca troppo in me. “Sì, siamo una coppia”.
Una coppia.
Lui sorride un po' più apertamente.
“Lo sapevo” commenta, semplicemente. Io spalanco appena gli occhi.
“Lo sapevi?” ripeto. “Come sarebbe, che lo sapevi?”.
“Andiamo, dolcezza! Si vede lontano un miglio da come vi guardate! E poi che pensi, che non abbia notato quelle dannate mani che si rincorrono sotto il tavolo? Spero solo che rimangano in zone lecite, almeno mentre siete a cena con me!”.
Sento di non esser mai stata così rossa in vita mia, mentre intanto penso a tutti gli sguardi e i sorrisi che non riusciamo a non lanciarci, anche se ci sono altre persone con noi, e a come le nostre dita trovino sempre il modo di entrare in contatto.
“Ma...ma...” balbetto, e lui scoppia a ridere. Io mi infastidisco un po'. “E allora perché me l'hai chiesto, se eri così convinto di saperlo??” chiedo indispettita. Mi scocca uno sguardo divertito, che però non cela l'affetto che prova per me.
“Perché a dirle, le cose, hanno tutto un altro aspetto, non ti pare?”.
Ammutolisco, mentre le mie parole risuonano nella mia testa. Una coppia. Adesso sì, che è reale.
Ci vogliono almeno un paio d'ore per riuscire a eliminare i mobili dalla stanza, tra le lamentele e i tentativi di fuga di Haymitch; la cosa buona è che smette subito di muovere battutine allusive nei miei confronti, forse perché la pesante cassettiera scivolatami accidentalmente dalle braccia e caduta ancor più accidentalmente sul suo piede è stato un valido deterrente. Quando terminiamo, Haymitch ci mette un nanosecondo a scappare prima che io gli metta davanti pennello e vernice, ma lo lascio fare e mi dedico da sola a riportare al bianco i muri ingrigitisi dall'inutilizzo della stanza. Anche stavolta, lo strusciare del pennello sulle pareti ha un potere rilassante su di me, al punto che, dopo mesi di “mutismo”, mi ritrovo a canticchiare. Le ore scorrono senza che io me ne renda conto, finché non passo la mano di bianco sull'ultima parete e mi volto verso la porta, dove c'è Peeta che mi sta guardando con un sorriso. Ero così presa dal mio lavoro che non mi ero accorta di lui.
“Che stai facendo?” mi chiede, un po' stupito. Io arrossisco.
“Oh, beh...” dico “doveva essere una sorpresa. Ma missà che mi ci è voluto più tempo del previsto”. Mi rendo conto solo adesso che il sole sta tramontando e che sono rimasta qui dentro per un'intera giornata.
Poso il pennello nel secchio, sposto la scala e mi avvicino a Peeta.
“Ci ho pensato” esordisco “e vorrei che trasferissi qui il tuo studio di pittura”.
Lui spalanca gli occhi, sorpreso, e io continuo.
“Potresti lasciare definitivamente l'altra casa, e portare tutto qui. È grande abbastanza e ha tanta luce...”. Non so perché mi senta un po' sciocca ora a dire questa cosa, e mi interrompo. Lui sospira.
“È un pensiero bellissimo, Katniss, e la stanza è perfetta. Ma...”. Abbassa lo sguardo, e sento la colpevolezza nella sua voce. “Tu sai che vado lì a dipingere quando mi sento vicino a un episodio. Non voglio rischiare di metterti in pericolo”.
Sento un tutto al cuore nel realizzare quanto Peeta metta sempre me al primo posto. Potresti vivere cento vite, e ancora non lo meriteresti.
“Non lo farai” rispondo convinta. “I tuoi episodi non mi spaventano. So che li stai gestendo bene. E io voglio esserti di aiuto, non voglio che tu debba scappare per proteggermi. Poi...poi ho come l'impressione che quell'ambiente non ti faccia bene”. Aggrotta un po' le sopracciglia, e io cerco di spiegarmi. “Nel senso, quella casa vuota, così solitaria...mi sembra che ti ispiri solo brutti momenti, invece qui...qui ne stiamo vivendo di belli”.
Lui mi sorride, e mi accarezza una guancia.
“È vero” dice semplicemente. Lo guardo negli occhi.
“Fatti ispirare da questo posto, Peeta. Da casa nostra. E forse, così, non dipingerai solo quando senti di star male. Forse inizierai a dipingere anche solo perché ti va”.
I suoi occhi brillano, e mi attira a sé in un abbraccio vibrante.
“Sai, ero preoccupato perché non sei venuta al Distretto. Cioè, ero un po' arrabbiato in realtà” dice, e c'è un sottofondo di divertimento nella sua voce.
“Arrabbiato?” chiedo, la voce attutita dalla sua maglia.
“Sì, arrabbiato” conferma “perché non c'eri e non mi avevi detto nulla. Ma poi sono andato da Haymitch per invitarlo a cena, e lui mi ha risposto di no, perché preferiva non disturbare la coppietta”. Scimmiotta la voce del nostro mentore, e mi ritrovo a ridere. “E poi, quando ti ho ascoltata cantare mentre pitturavi, non mi sono sentito più arrabbiato. Ora mi sento solo felice”.
È felice. Peeta è felice.
Mi solleva il viso e ci guardiamo negli occhi.
“E così hai detto a Haymitch che siamo una coppia” afferma, un sorriso a decorargli il viso. Arrossisco ancora di più.
“Sì” rispondo a bassa voce. “Anche se me l'ha fatto dire solo per autocompiacimento, visto che, a suo dire, lo sapeva già”.
Peeta ride divertito.
“Immagino che per lui fosse evidente” afferma. Mi accarezza la treccia. “Ma a dirlo sembra più vero, non credi?” mi chiede, gli occhi luminosi. Mi ritrovo a sorridere e ad annuire. “Poi, se siamo una coppia, posso sentirmi autorizzato ad essere arrabbiato con te” continua, con un sorriso malizioso che mi fa rabbrividire “così poi tu puoi farti perdonare”.
Lo guardo con sfida.
“Non ho proprio niente da farmi perdonare” ribatto, e lui sorride ancora di più.
“No, è vero” asserisce, “volevo solo una scusa per fare pace”.
Mi prende il viso tra le mani e mi bacia con estrema dolcezza, mentre l'odore della tinta fresca mi stordisce un po' – riportandomi alla panetteria, a qualche settimana fa, a quando qualcosa di nuovo è iniziato – e le mie mani si aggrappano alla sua maglia. Poi mi abbraccia di nuovo, forte, e mi dondola un po'.
“Domani niente lavoro al forno” esordisce “mi dai una mano a trasferire lo studio qui?”.
Sento un magone che mi blocca la gola, impedendomi di parlare, e mi limito ad annuire contro il suo petto, mentre un'unica lacrima di pura gioia lascia i miei occhi per spegnersi sul mio sorriso.

E, il giorno dopo, il nuovo studio prende vita. I vecchi quadri vengono conservati dentro un armadio, mentre Peeta si appunta di ordinare da Capitol degli espositori per le sue tele preferite. Posiziona il cavalletto nel punto migliore – “Avevi ragione, c'è davvero tantissima luce!” afferma entusiasta – e, alla fine, il suo sguardo è luminoso e soddisfatto.
Per ringraziarmi di quest'idea, prepara la cena più spettacolare del mondo, che si conclude con una fantastica torta al cioccolato da consumare davanti al fuoco del camino. Mentre mi passa le mani tra i capelli, tira fuori da dietro la schiena una primula e me la porge in silenzio. Deve averla raccolta dal giardino senza che me ne accorgessi. Ne inspiro profondamente l'odore, e non provo tristezza. Prim sarebbe felice per me, perché sto andando avanti, perché lei aveva ragione – Non darlo per spacciato – perché sento la sua presenza.
Lo guardo negli occhi con un sorriso, e, alla luce delle fiamme, li vedo tremare, carichi di emozione.
“Katniss”. Il suo è un sussurro, ma non c'è incertezza nella sua voce. “Katniss, io ti amo”.
Il mio cuore manca un battito, per poi fare un balzo fino ad arrivare alla gola. Il mio viso impallidisce all'improvviso, per poi diventare rosso di botto. I miei occhi si aprono di più, e le mie labbra si schiudono, mentre un'espressione di assoluto stupore si forma sul mio volto.
Io ti amo.
Mi accarezza il viso, sorridendomi.
“Non mi devi rispondere, se non te la senti” dice “ma io non potevo più non dirtelo. Non sentirti sotto pressione. So che non ci sai fare, con le parole”.
Il suo amore. Il suo altruismo. Sento che tutto questo dovrebbe spingermi a dirgli che lo ricambio, ad abbattere quest'ultimo muro, ma non riesco. Non riesco perché, ancora, l'unico nome che posso associare alla parola amore è quello di Prim. Stringo più forte la primula che tengo tra le mani, e mi sembra quasi di sentire la voce della mia sorellina che mi rimprovera bonariamente e mi spinge ad andare avanti.
Lasciami andare.
Mi sento sciogliere dentro nel realizzare che, ancora una volta, Peeta non mi sta chiedendo niente in cambio alla sua dichiarazione. Peeta è dono puro – mi dà se stesso, mi confida i suoi sentimenti, mi affida il suo cuore.
“Solo...” conclude, con occhi che mi trapassano l'anima “solo stai con me”.
Ecco l'unica cosa che mi chiede: di custodirlo. Di non lasciarlo. Di affrontare quello che sarà – la gioia, il dolore, la fatica – insieme. Perché forse non sarò brava con le parole, ma mi riprometto di essere il più brava possibile con i fatti.
“Sempre” gli rispondo fissando i miei occhi nei suoi oceani azzurri. Ci ritroviamo persi in un bacio ricco di sentimenti, pieno di noi. E, mentre le mie dita si perdono tra i suoi capelli, e le sue mani sostengono la mia schiena, facendomi sdraiare sul tappeto e approfondendo di più il nostro bacio, so che ogni muro è destinato a crollare. Se lo vorremo.

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Quando ho scritto questo capitolo, ho capito che era la fine, anche se in origine il progetto era tutto un altro (infatti ci sarà un seguito, come avrete capito); però questa storia non poteva avere altra conclusione, almeno non per me.
Mi ci sono affezionata molto perché è la prima long che io sia mai riuscita a concludere, perciò è un vero traguardo! :D

Grazie a Rancy Lastrega, Mockingjay00Forever, Boom Clap, Mary90, Bal00n, Miki_Nala, The Dreamergirl, Game_Master, Giulietta_22 per ogni recensione, commento e messaggio, per tutti gli scambi di opinione che mi hanno dato una nuova immagine di questi personaggi straordinari; un grazie aggiuntivo alle mie più acerrime recensitrici Pandafiore e Katniss03, che mi hanno inondata di entusiasmo e allegria! Mi sono divertita un sacco a leggere le vostre recensioni, grazie davvero!!
Ci sentiremo presto con il sequel, che è già in lavorazione ;) per ora è tutto! Vi abbraccio forte!!!
VV**

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