The Rest of Their Lives di Wassat (/viewuser.php?uid=832651)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Part one ***
Capitolo 2: *** Part two (1/3) ***
Capitolo 1 *** Part one ***
TRoTL part one
Eccola
qua, finalmente, la seconda fanfiction che già avevo detto che
avrei tradotto. Ci ho messo tantissimo, ma alla fine ce l'ho fatta,
solo non aspettatevi aggiornamenti regolari perché ha dei bei
capitolozzi. Non so se questa sia una fic adatta a tutti, di certo a
chi dà fastidio vedere un pg transessuale deve girare al largo.
Qui non dico chi è, ma lo scoprirete presto. Eren, inoltre, qua
non si chiamerà Eren, così come praticamente il resto dei
personaggi non avranno il loro nome: lui si chiamerà Oscar. E'
una reincarnation fic, la migliore che io abbia mai letto, un po'
pesante ma stupenda. Spero piaccia anche a voi! Buona lettura.
Credits: i
personaggi appartengono a Hajime Isayama, mentre la fanfiction
appartiene a Zhedang.
Mia è solo la traduzione
:3
__________________________________________________________________
In
una vita passata, Eren Jaeger morì a ventidue anni, tre mesi e
dodici giorni d'età.
In un'altra vita, Özgür Gözübüyük,
di ventidue anni, tre mesi e dodici giorni d'età, scoppiò a
piangere nel mezzo di una lezione di biologia molecolare. Le persone
più vicine a lui si voltarono a guardarlo, quando non riuscì più a
trattenere i singhiozzi. Dopo aver tentato di calmarsi senza alcun
risultato, il ragazzo sbatté il proprio block notes nello zaino, che
si mise in spalla, e uscì dall'aula. Quando arrivò al dormitorio
aveva gli occhi opachi e arrossati, il suo respiro veloce e spezzato. La
sua compagna di stanza, Chloe, lo salutò con un "Hey"
distratto, ma quando non le rispose alzò lo sguardo dallo
schermo del pc e gli chiese: "Oscar, stai bene? Cos'è
successo?!"
Non lo sapeva. La testa gli doleva, come se
stesse venendo penetrata da mille aghi e tutto gli appariva
sbagliato: l'enorme campus che aveva appena attraversato, il mobilio e gli
effetti personali presenti nel dormitorio, i capelli tinti di blu e
verde di Chloe, anche la pelle scura delle sue mani. "Dove mi
trovo?" Disse, o cercò di dire, perché il viso di Chloe si
confuse, prima di mostrare panico.
"Oscar," Gli
disse lentamente, alzandosi e avvicinandoglisi lentamente. "Non
riesco a capirti. Stai bene? Perché piangi?"
E'
appena iniziato l'autunno, ma una brezza gelida gli trafigge il viso
con la candida promessa dell'inverno. Una giovane ragazza si volta
verso di lui, i suoi capelli sono lunghi e neri e le ciocche della
frangia le vengono scompigliate dal vento, quando lo guarda preoccupato.
"Eren?" Gli chiede. "Perché piangi?"
Il
ragazzo sbatté le palpebre, poi si asciugò il viso umido di
lacrime. "Io... Non è successo nulla." Mise lo zaino sul
divano, ignorando il tremito delle sue mani. "Ho solo... Ho solo
bisogno di riposare. Devi prendere qualcosa dalla camera da
letto?"
La ragazza serrò le labbra, ma seppur contrita
scosse la testa, così Oscar sparì nella stanza. Si
appoggiò con la
schiena contro la porta chiusa per un momento, cercando un'altra
volta di controllare il proprio respiro, prima di arrendersi. Si
tolse le scarpe e i pantaloni e fece qualche passo tremolante verso
il letto. La sua testa sembrava volergli esplodere. Chloe aveva
ancora del Nyquil nel cassetto della scrivania dall'ultima volta che le
era venuta la febbre. Il giovane ne ingoiò qualche pastiglia,
prima
di stendersi a letto e portarsi le coperte fin sopra la
testa.
Dormì. Sognò.
Non era poi certo che quelli
fossero semplici sogni.
#
Özgür Gözübüyük aveva
ventidue anni, tre mesi e diciassette giorni d'età e la sua vita non
apparteneva più solo a lui.
Lui era... Lui era Özgür
Gözübüyük. Si chiamava così. Gran parte della gente lo chiamava
Oscar. Era all'ultimo anno di college, dove frequentava biologia e
chimica ed era pronto ad affrontare gli anni di specializzazione.
Lui...
I primi giorni furono terribili. Ogni suo singolo
pensiero era oscurato. Si svegliava ogni mattina, disorientato e con
la testa che sembrava volergli esplodere, esausto come se avesse
passato la notte a correre, piuttosto che dormire. Provava a
mangiare, ma il cibo aveva un sapore strano, stucchevole, e comunque
non aveva un gran appetito. Aveva i nervi fragili, saltava in aria
per niente, rumori improvvisi lo spaventavano. Stare al chiuso lo
faceva sentire in trappola, ma stare all'aperto lo faceva sentire
troppo esposto.
Chloe lo pregò di andare all'ospedale, ma non
riusciva neanche a pensare di metterci piede, non dopo mesi spesi lì
dentro ad assistere alla morte lenta morte di sua sorella. Nascose il
proprio cellulare, in modo che la compagna di stanza non potesse
chiamare sua madre e farla preoccupare. Era orribile, ma neanche
sapeva cosa fosse ad essere orribile, e la sua testa era troppo
occupata a perdersi in pensieri frammentati, misti ad un'oscurità
alla quale non sapeva far fronte. Saltò tre giorni di scuola e quasi
non se ne accorse. Il buio copriva tutto.
Il buio copriva
tutto, eccetto alcune volte, quando aveva questi... Flash... Di
qualche luogo, qualche era, qualcuno. Come una candela,
s'illuminavano debolmente, per poco, prima di svanire
velocemente.
Col passare del tempo questi flash si
allungarono. Poi presero a brillare con una luce, nella sua mente,
che era anche peggio dell'oscurità.
Stava cercando di finire
la ciotola di fiocchi d'avena, l'unica cosa che era riuscito a
buttare giù recentemente. Chloe gliel'aveva preparata prima di
andare alle sue lezioni mattutine. Non aveva esattamente voglia di
mangiarli, ma la ragazza già si preoccupava troppo, minacciandolo di
portarlo... Non sapeva neanche dove, ma un ospedale psichiatrico
sembrava idoneo. Il pensiero lo agitava abbastanza da fargli
stringere il cucchiaio e portarselo lentamente alla bocca. Pensava di
aver mangiato abbastanza per calmare Chloe, ma ormai non si fidava
abbastanza di sé stesso per esserne sicuro. I suoi occhi
abbandonarono il muro che stava fissando fino a quel momento, per
cadere sulla ciotola mezza vuota e il cucchiaio in metallo e-
Una
mano è impigliata in rossa e ustionante carne e lui tira e tira, ma
non riesce a liberarsi. Perché è successo, perché ora e non prima
in quel pozzo umido? Della gente sta urlando, "Perché
adesso?" e "Rispondi, Eren!"
e sono arrabbiati, spaventati e lo uccideranno se-
Chloe
tornò dalle lezioni un'ora dopo e lo trovò acciambellato sul
pavimento, perso e tremante e con una mano sanguinante, l'altra che
continuava ad affondarci le unghie senza pietà.
I flash
continuavano così, esplodendo nella sua testa come fuochi
d'artificio, brillando prepotenti finché non si riducevano a
minuscoli brillii. Lentamente, questi brillii si radunavano assieme,
schiarendo in qualche modo l'oscurità, rendendola meno
accecante.
Flash. Pensava a loro riferendosi a flash, anche se
sospettava che flashback fosse una parola più corretta. Ma non
potevano essere flashback. Non potevano. Queste cose non gli erano
mai successe e non poteva averle represse in qualche modo, perché--
Titano. Era una parola che neanche esisteva, così strana che
nessuna lingua al mondo potrebbe averla accettata come sua, eppure ne
conosceva il significato.
Gigante. Mostro. Morte.
Questi...
Flash... Flashback... Non erano suoi. Non appartenevano a
Özgür Gözübüyük, eppure erano suoi perché lui era-
C'era
qualcuno là, circondato dall'oscurità- no. C'era qualcuno
responsabile dell'oscurità, che imprigionava Oscar dentro di essa e
cercava di fargli perdere la ragione.
Lui è Eren Jaeger, a
volte chiamato L'ultima speranza dell'umanità,
un soldato, un membro della squadra speciale dell'Armata
Ricognitiva, è anche un Titano.
Probabilmente
stava impazzendo.
Giusto quando pensava che non avrebbe potuto sopportare di peggio, iniziarono a... Non migliorare, ma a divenire
più tollerabili. Il costante dolore alla testa alle volte diminuiva
fino a divenire un leggero pulsare. Dormiva più profondamente e
riuscì a passare dai fiocchi d'avena alla zuppa. Si sentiva ancora
da schifo, ben lontano dall'essere normale (neanche nella stessa
galassia di normale), ma era migliorato abbastanza da poter mostrare
il volto in classe e passare per gli uffici degli insegnanti per
scusarsi e chiedere di allungare la data di consegna delle
esercitazioni.
Ogni uscita dalla camera da letto lo stremava
fisicamente ed emotivamente. Non poteva scrollarsi di dosso la
costante e pungente preoccupazione che ogni edificio del campus
potesse nascondere dozzine di Titani dietro di loro. Quando
sedeva in classe o nel suo salotto, non poteva smettere di annotarsi
le uscite e le possibili vie di fuga, sobbalzando ad ogni rumore
inaspettato.
L'oscurità ancora lo assaliva. Poteva
distinguere delle figure nel buio della sua mente, ma nulla di
più.
I flashback diminuirono di frequenza, ma non si
fermarono. Ognuno di loro lo lasciava turbato per ore, nella lotta di
riprendere possesso del suo corpo, della sua mente, di sé stesso.
Non tutti erano brutti - alcuni gli mostravano scorci di giornate
tranquille, raramente anche gioiose - ma ognuno di loro lo
spaventava, perché non sapeva quando e dove lo avrebbero assalito. E
i flashback di cui aveva paura...
Non aveva più nulla nello
stomaco, ma continuò a stringersi al gabinetto, premendo il viso
accaldato contro la fredda porcellana. Chloe gli stava strofinando la
schiena, cercando di calmargli gli ultimi tremiti. Il bagno del
dormitorio era piccolo, non c'era posto per due persone, ma era
felice che la ragazza fosse rimasta, perché lo aiutava a ricordarsi
dove si trovava.
Non stava annegando in uno stomaco pieno di
sangue e pezzi di persone, ascoltando le preghiere di aiuto dei
soldati morenti. Era nel suo dormitorio, era giovedì e-
"Non
hai un esame da dare?" Gracchiò. Chloe ne aveva studiato gli
argomenti nei giorni precedenti, quando non era impegnata a prendersi
cura di lui.
La giovane gli diede una pacca leggera sulla
schiena. "Prenderò il massimo dei voti, posso permettermi un
piccolo ritardo."
"Mi dispiace." Mormorò
Oscar, asciugandosi la saliva che gli inumidiva il mento col dorso
della mano. Aveva entrambe le braccia, entrambe le gambe, si trovava
nel suo dormitorio, non all'interno di un Titano. Se lo stava
ripetendo da un'ora e il suo cervello iniziava solo ora a credergli.
"Di darti così tanti problemi."
"Sono solo
preoccupata per te," Gli rispose la ragazza. "Inoltre ero
ancora di debito con te dopo l'episodio col maniaco."
"Cosa?"
"Il
mese scorso, all'Eclipse? Qualche coglione mi aveva infilato la mano
sotto la gonna, chiedendomi se avessi il cazzo, e tu gli hai dato un
pugno in faccia? Sono sicura che tu gli abbia rotto il naso."
Non
gli veniva nulla alla mente. Scosse la testa, ma la ragazza non ci
diede molto peso. "Lascia perdere, eri ubriaco, quindi... Beh,
grazie. Anche se forse dare un pugno al ragazzo è stato un po'
esagerato. Ah, per future occasioni: non puoi più entrare
all'Eclipse."
"Tanto l'Eclipse è un locale di
merda." Grugnì da dentro la tazza del cesso. Poteva ricordare
di aver dato un pugno a qualcuno, per aver molestato un suo amico, ma
l'amico era un ragazzo biondo, non Chloe. Armin, insistette
una voce nella sua testa, un sussurro dall'oscurità. Il suo nome
è Armin ed è il tuo migliore amico. Oscar ignorò quel pensiero
e si spinse in piedi aiutandosi con la tazza del water. "Sto
bene, adesso," Disse alla ragazza. "Vai a fare
l'esame."
"Se ti senti meglio perché non mi
accompagni fino alla classe?" Gli chiese Chloe, prendendo la
borsa dal pavimento del bagno.
"Perché?"
"E'
nello stesso edificio degli uffici medici." Gli rispose la
giovane donna, andando subito al punto.
Il giovane sospirò e
si massaggiò la nuca con una mano. "Non penso che questo sia il
tipo di cose che uno psicologo dell'università sia pronto ad
affrontare. Inoltre sto migliorando."
"Ma stai
ancora male. Poi sì, non ho idea di cosa ti stia succedendo, ma
farti vedere da qualcuno non può farti male, giusto? Non è che stai
entrando in un ospedale psichiatrico." Chloe non lo disse, ma
Oscar poteva sentire il suo pensiero "Però un ospedale
psichiatrico non sarebbe male."
Non rispose. Voleva
difendersi e dirle che non era pazzo, però non ne era più sicuro.
Una sua possibile pazzia avrebbe avuto più senso di tutto il
resto.
Tuttavia Chloe buttò il suo asso nella manica. "Se
non fai qualcosa - che sia vedere uno psichiatra o un dottore o quel
che vuoi, almeno una volta - dirò a tua madre cosa ti sta
succedendo."
"Non hai il suo numero," Le
rispose, confidente. Aveva controllato il suo cellulare un paio di
ore prima, che si trovava nascosto nel fondo del cassetto dei
calzini.
Chloe portò gli occhi al cielo. "Siamo amiche
su Facebook. L'unica ragione per la quale non le ho ancora scritto è
a causa della tua testardaggine. Però, se non cerchi aiuto-"
"Da
quando siete amiche su Facebook?"
"Non lo so, un
anno? Ti eri stancato di ricevere inviti per Farmville da me e lei,
così ci hai presentate in modo che ti lasciassimo stare." La
ragazzo notò l'espressione apatica del compagno di stanza e corrugò
le sopracciglia. "Non te lo ricordi?"
Il giovane
scosse la testa e l'espressione di Chloe s'incupì, prendendo quei
toni preoccupati ai quali Oscar si era ormai abituato. Prima che la
giovane donna potesse dire qualcosa, l'altro la interruppe. "Non
dirglielo. Dopo mia sorella- Non voglio che si debba preoccupare
anche per me. Non hai idea di come sia stata, quando mia sorella era
all'ospedale. Se sente di questa cosa..."
"Allora
cerca aiuto! Stai male, hai bisogno di farti aiutare,"
Insistette Chloe. "E io sto cercando di aiutarti, ma non ho idea
di cosa fare... E-e..." La voce della ragazza tremò,
improvvisamente, e Oscar notò con orrore i suoi occhi inumidirsi di
lacrime. "... Mi stai spaventando, Oscar."
"Va
bene, va bene, andrò a prendere un appuntamento." Le promise,
avvicinando le mani alle sue spalle, insicuro di come rassicurarla.
Non sapeva mai come comportarsi di fronte ad una persona in lacrime.
Specialmente quando lui stesso sentiva lo stesso bisogno.
Chloe
tirò su col naso, tentando di asciugarsi le lacrime senza rovinarsi
il trucco. "Scusami. Non sto cercando di farti sentire in colpa,
solo..."
"Lo so," La rassicurò. "Mi
dispiace, so che è stupido non cercare aiuto. Ma io... Io non
posso..." Non voleva scoprire cosa lo stava disturbando, perché
se fosse stato qualcosa di terribile? Finché non ne aveva la
certezza poteva far finta che tutto fosse a posto. Se avesse visto un
dottore e così avesse scoperto che era... Schizofrenia o qualcosa di
simile - così gli sarebbe sembrata una condanna. E se fosse stato
chiuso in un ospedale? Non avrebbe potuto sopportarlo. Aveva passato
troppe ore in ospedale, seduto ad aspettare per giorni e giorni che
sua sorella morisse... Fino a ritrovarsi a sperare che succedesse il
prima possibile, per il bene di lei e di tutti gli altri.
Però
andare da un consulente... Quello sarebbe andato bene, giusto? Se non
altro, avrebbe soddisfatto Chloe e magari una consulenza lo avrebbe
aiutato.
Quindi prese appuntamento. O, più che altro, prese
un appuntamento per sottoporsi ai controlli necessari per fissare un
appuntamento vero e proprio. Magari il centro di consulenza non era
troppo occupato o magari appariva così mal messo come si sentiva e
la receptionist voleva aiutarlo il prima possibile. In qualsiasi
caso, l'appuntamento gli venne dato per la mattina dopo.
La
notte gli parve infinita. Ascoltò il respiro lento e regolare di
Chloe provenire dall'altra parte della stanza - amandola e odiandola
allo stesso tempo per obbligarlo a prendere certe decisioni - fino a
ché riuscì finalmente ad addormentarsi. Sognò pacifici ricordi
d'infanzia, scene che al mattino lo lasciarono nauseato, perché non
ne ricordava nessuno ed eppure, in qualche modo, gli sembravano
reali.
Chloe non aveva lezioni fino al pomeriggio,
quindi si offrì di accompagnarlo all'appuntamento. Il giovane voleva
rifiutarsi, ma tutto attorno a lui era offuscato e spento, come se si
fosse svegliato ubriaco in una stanza sconosciuta, così accettò. Se
si fosse perso nel campus dove aveva vissuto gli ultimi quattro anni,
avrebbe finito col sentirsi ancora più pazzo. Senza dire che
sarebbe arrivato tardi.
Le chiacchiere della compagna di
stanza e il suo braccio attorno al corpo di Oscar lo aiutarono a
raggiungere il centro di consulenza, dove lo lasciò con un tirato ma
incoraggiante sorriso. "Buona fortuna." Gli disse,
stringendogli un polso.
Oscar non sapeva perché gli
serviva la fortuna, per una consulenza, ma come saltò fuori, lui
era fortunato a scatti. Questo perché, dopo aver compilato i
questionari sul perché cercava una consulenza e sulla sua
sanità
mentale (dovendo per la sua infelicità dover crocettare 'il
più delle
volte' su troppe domande), venne mandato in una sala d'attesa per
attendere la persona che gli avrebbe dato la consulenza e-
Lei
gli diede la mano per stringerla, una scintilla di quello che
sembrava riconoscimento sul suo viso, che rimpiazzò con un sorriso
gentile, e si introdusse come Alexis Sanders, ma c'era un altro
nome per lei.
"Mina Carolina." Gli sfuggì dalla
bocca, quando strinse la mano della donna.
Era lei. I
suoi capelli erano biondi, la sua pelle più chiara e il suo corpo
più formoso, aveva anche più anni, probabilmente andava per i
trenta, ma era Mina. Non poteva dire esattamente come potesse esserne
certo, come l'aveva riconosciuta nonostante fosse così diversa, ma
ne era sicuro. Mina Carolina del centoquattresimo squadrone
d'addestramento.
Erano anni che non pensava a lei: era morta
così tanto tempo fa - una dei tantissimi compagni persi in battaglia
- ma era davanti a lui, ora...
... In una delle comode stanze
del centro di consulenza.
Barcollò, con le ginocchia
tremanti. Come poteva essere Mina, davanti a lui? Mina non era reale,
ma lei - La nausea di prima tornò violenta e il suo cuore prese a
battere così violentemente che era certo che sarebbe esploso; i
polmoni sembravano non voler accettare aria perché Mina non era
reale, lui era pazzo, ma Mina era lì e se lei era lì come poteva
essere reale tutto quello che c'era nella stanza? Nulla di
questo-
Una voce gli disse qualcosa, ma lui poteva a malapena
sentirla tra i suoi ansimi e il cuore violento. Cercò di
concentrarsi su di essa, lasciandosi portare verso- Eventualmente
capì cosa quella voce stava ripetendo.
"Va tutto bene.
E' giovedì mattina. Ti trovi al centro di consulenza
dell'università. Non ci sono Titani in questo mondo. Sei al
sicuro."
"Non ci sono i Titani in questo mondo."
Ripeté. Le sue parole non erano in inglese ed erano completamente
differenti a qualsiasi altro linguaggio che aveva studiato o sentito,
eppure gli scivolarono dalle labbra come se avesse parlato quella
lingua dalla nascita.
Da qualche parte nell'oscurità della
sua mente qualcosa insistette: invece sì.
"Sì."
Rispose la voce. Mina, realizzò, si era accucciata vicino a lui,
stando però attenta a non occupare il suo spazio personale.
"Concentrati sulla tua respirazione. Riesci a imitare la mia?
Bene, bene, stai andando benissimo." Mormorò la donna, quando
il ragazzo riuscì a calmare il proprio respiro, seguendo quello di
Alexis.
"Tu sei-" Si bloccò, scrollando la
testa, e tornò all'inglese. "Eri Mina."
"Lo
ero," Gli rispose lei. "Lo sono."
"Non
sono pazzo."
La bocca di Mina- no, la bocca di Alexis
s'incurvò in un sorriso quasi impercettibile. "Preferirei non
usassi la parola pazzo. Ma no, tutto questo è reale. Vuoi un po'
d'acqua?"
Mormorò una negazione. Si sentiva ancora
nauseato e la sua testa gli faceva ancora male, ma tutto questo si
spostò in secondo piano quando cercò di capire come tutto questo
potesse essere reale. "Come..." Sussurrò, fermandosi
quando si rese conto che non sapeva neanche come iniziare.
Alexis
lo portò gentilmente verso una sedia, dove il giovane si accasciò.
Anche la donna si sedette e sospirò. "Quando avevo quindici
anni, ricordai di morire." Iniziò. "Fu come trovarsi in un
supermercato e ricordarsi di colpo di aver bisogno del burro, eccetto
che fu molto più disturbante."
Gli sorrise triste, ma
lui non era nella condizione di ricambiare. Imperterrita continuò.
"Non sapevo cosa stava succedendo. Ne parlai con mio padre, ma
mi disse che stavo immaginando tutto. Però sapevo che non era
normale. Non ero io che mi immaginavo le cose, ma sembravano vere. La
mia vita a Rose, gli anni d'addestramento, Trost. Non
mi sembravano immaginazioni: mi sembravano memorie dimenticate. Poi
incontrai Elisa."
La donna fece un gesto con la mano.
"Non la conoscevi. Era la bambina più piccola dei miei vicini a
Rose, morta a due anni per colpa di qualche malattia. Era più
grande, quando l'ho incontrata, ma la riconobbi
immediatamente."
"Lei..." Si fermò, cercando
di formulare meglio la frase. "Aveva i suoi ricordi?"
Alexis
ridacchiò cupamente. "E' morta quando aveva due anni. Per caso
tu ricordi qualcosa di quando avevi quell'età?"
"E
allora come puoi essere stata così sicura di non essere
semplicemente pazza?"
La donna non commentò nuovamente
sull'uso della parola 'pazza', prendendo invece una penna dalla
scrivania davanti a lei e giocherellandoci. "Tutto è andato al
suo posto, da quel momento. Ero morta a quindici anni. Io ho riavuto
i miei ricordi a quindici anni. Lei è morta a due anni. Magari
quando aveva due anni ha ricordato, ma essendo così piccola poi ha
dimenticato." Alexis alzò gli occhi dalla penna, portandoli
trionfante contro quelli del ragazzo. "Ed ora eccoti qui. Quanti
anni avevi, quando hai iniziato a ricordare?"
Il ragazzo
si mosse a disagio sulla sua sedia, sentendo la testa iniziare a
girare. "Solo... Da poco. Ho ventidue anni."
"Quanti
anni avevi, quando sei morto?"
E' inginocchiato sul
pavimento in pietra, il freddo in qualche modo ha penetrato i suoi
stivali e gli sta gelando le gambe. Tuttavia forse il freddo proviene
da dentro di lui e non dal pavimento. Sa che dovrebbe essere
grato di poter aver preso questa decisione, che la maggior parte
della gente non può decidere nulla della propria morte, ma
è
davvero difficile provare gratitudine. Si sente... Rassegnato. Mentre
chiude gli occhi una mano calda gli stringe la spalla, il cui pollice
preme con forza sulla sua nuca. Fa un sorriso tirato: di questo,
sì,
ne è grato.
"... Ventidue." Ammise e una
violenta emicrania prese a premergli nelle tempie. Fissò le proprie scarpe,
cercando di allontanare l'immagine di stivali marroni che gli
arrivavano alle ginocchia. "Quindi, questo è... Cosa, una vita
passata?" Non riuscì a trattenere l'incrudelità nella sua
voce.
Alexis scrollò le spalle, giocherellando con la penna
tra le sue dita. "La reincarnazione ha senso, no? Dati i fatti,
almeno. Non ne ero certa al cento per cento, prima, ma ora che sei
qui, lo sono. Hai una spiegazione migliore?"
Lui si passò
le mani sul viso, facendo una smorfia nel sentire la pelle umida.
"Come puoi... Come puoi essere così?"
"Così
come?"
"Così..." Non riusciva a metterlo a
parole. Più che altro, non riusciva a capire come potesse apparire
così normale mentre sedeva lì, un sorriso assente sul viso come se
non venisse costantemente tormentata da chi era stata, come se la sua
vita passata non fosse sì interessante, ma solo quanto lo poteva
essere una strana voglia sulla pelle. "Come se tutto
andasse bene. Io sono stato... E' stato orribile."
Alexis
appoggiò la penna sulla scrivania, prendendo un mano un block notes.
Il ragazzo notò come la sala d'attesa si fosse riempita di gente.
"Mi hai detto che hai ricordato recentemente. E' uno dei motivi
per cui ti trovi qua?"
"E' l'unico motivo,"
Sottolineò. "Prima di questo, stavo bene. Ma da allora..."
Oscar si torturò le mani con frustrazione. "Non riesco a
dormire una notte intera. Sono troppo nervoso per mettermi a letto e,
quando finalmente riesco, finisco con l'avere gli incubi. Sono...
Sono spaventato tutto il tempo, senza alcuna ragione. Alcune volte
è
come se non sapessi chi sono, anche se dovrei." Si morse il
labbro, inspiegabilmente imbarazzato nel dover spiegare la parte
peggiore. "Ho... Ho avuto dei flashback. Di roba di... Prima.
Però in quel momento è stato come se stessi vivendo quei
momenti, mi era sembrato di trovarmi nel presente." Le porse le mani,
che ancora
presentavano le ferite che si era causato giorni fa, quando se le era
graffiate a sangue. "E... Sto malissimo nelle ore
successive."
Alexis lo ascoltò, annuendo e sfogliando le
pagine del blocco note nel frattempo. "Non sono qualificata per
fare diagnosi, ma quelli che mi stai descrivendo sembrano i sintomi
del disturbo post traumatico da stress."
"Disturbo...
Come quello dei soldati?" Le chiese, scettico.
"Non
ne soffrono solo i soldati. Ma tu lo sei stato." Gli ricordò
lei.
"Però io non lo sono," La corresse, con
un tono di voce involontariamente tagliente. "Perché io...
Quella roba non è successa a me!"
Il viso della donna si
corrucciò momentaneamente, come se si fosse trattenuta dal dire
qualcosa. La sua espressione si rilassò subito dopo e cambiò
posizione del corpo, in modo da apparire più tranquilla. "Non è
la stessa cosa per tutti, ma spesso i soldati e altre persone che
subiscono eventi traumatici sono capaci di funzionare perfettamente
in quel momento. E' solo dopo che il trauma è passato, che i sintomi
iniziano ad apparire. Nel caso dei soldati, alcune volte la PTSD non
si manifesta finché non si ritrovano a vivere una vita normale."
Si
fermò momentaneamente, controllando che il ragazzo di fronte a lei
la stesse seguendo. "Siccome stiamo parlando di te, non dubito
che tu sia entrato a far parte dell'Armata Ricognitiva e che lì
sei anche morto. Questo potrebbe essere la prima chance che il tuo
cervello ha avuto per processare il tutto."
Voleva
ribattere quando lei continuò a dirgli che lui era entrato a far parte
dell'Armata Ricognitiva, ma poi realizzò quanto tempo fa Mina
era morta. Dio, lei non aveva idea del fatto che lui fosse un Titano,
non sapeva di Annie e Bertholdt e Reiner, non sapeva di Historia e
Ymir, di come l'intera guerra - l'intero mondo - era cambiata dopo
Trost.
Nell'averlo notato scioccato, Alexis esitò e
gli chiese. "C'è un qualche evento particolare che ti ha
disturbato più di tutti? Non devi dirmi nulla, se non vuoi."
Il
ragazzo sbatté le ciglia, poi scoppiò a ridere perché quella era
una domanda assurda. Un singolo evento? L'intera vita di Eren Jaeger,
da quanto ricordava, era stata un trauma dopo l'altro. Le sue prime memorie
erano quelle dei suoi vicini di casa che morivano di morti orribili a
causa di una peste che stava sterminando l'intero distretto. C'erano
dei bei ricordi, sì, specialmente durante la sua infanzia, ma tutto
il resto era troppo. Pugnalare degli esseri umani neanche degni di
quel nome, quelli che avevano ammazzato i genitori di Mikasa, così
tante volte fino ad ammazzarli. Il distretto di Shiganshina
che cadeva a pezzi sotto l'incredibile forza di un Titano
immenso. Soffrire la fame a Rose e lasciare che degli scarti
umani lo toccassero dove non avrebbero dovuto, solo perché era
l'unico modo di trovare rifugio e guadagnare abbastanza soldi per
mangiare, per sopravvivere.
E dopo, quando aveva preso parte
agli addestramenti militari, le cose erano andate sia meglio che
peggio.
Gli venne la nausea e inghiottì a vuoto, scrollando
la testa. Eren era entrato a far parte dei militari, non lui. Doveva
cercare di tenere le cose ben separate o avrebbe finito con
l'impazzire. "Potrei avere un po' d'acqua?"
Alexis
gli diede un bicchiere d'acqua e il ragazzo lo inghiottì in un
sorso, accartocciando il bicchiere di carta quando finì di bere.
"Quindi... PTSD? Cosa posso fare? C'è qualche farmaco che posso
prendere?"
Alexis alzò una mano. "Fermati. Come ti
ho detto, non sono qualificata a diagnosticarti qualcosa. Non sono
neanche una vera consulente."
"Ma lavori qui."
"Sto
facendo la stagista, qui. Non ho ancora preso la specializzazione."
La ragazza afferrò il suo blocco note. "Sono solo qui per
ascoltare e sedere alle sessioni a gruppi."
"Sì,
ma-"
"E io ti ho solo ascoltato. Non possiamo
proprio parlare di diagnosi e medicinali da prendere. L'unica ragione
per la quale ti ho detto qualcosa è perché ricordo come ho cercato
disperatamente delle risposte, quando ho iniziato a ricordare."
Sbuffò un poco, alla fine del suo discorso, poi si scusò e gli
rivolse un sorrisetto. In quel momento ricordò al ragazzo così
tanto Mina che non riuscì a staccarle gli occhi di dosso.
Mina
era stata una ragazza convinta in quello che credeva, veloce ad
indignarsi quando qualcuno la sfidava e ugualmente veloce a calmarsi
e ridere. Era una delle ragazze che ad Eren piaceva di più, tra
quelle dell'addestramento, subito dopo Annie, ed era stato felice
quando Mina era stata assegnata alla sua squadra perché
sapeva che avrebbe preso le cose seriamente, quando
necessario.
"Scusa," Le disse. "E' solo che...
Cosa dovrei fare? Andare da qualche altro consulente e digli che ho
dei flashback di una vita precedente?"
"Non hai
bisogno di discutere dei dettagli. Nessuno ti obbligherà a parlare
di qualcosa, se dirai che è off limits. Devi solo descrivergli i
sintomi e-"
"Ma io voglio te. E' perfetto. Sei qui,
anche tu ricordi questa roba, e sei una consulente."
Alexis
si morse il labbro inferiore. "Non sono molto a mio agio con
questa cosa. Non so se posso darti l'aiuto di cui hai bisogno. Senza
parlare del fatto che dovrei calpestare migliaia di regole."
"Per
favore?" Le chiese. "Non ho bisogno di molto aiuto. Sto
migliorando. Sono venuto qui solo perché lo ha voluto una mia
amica." Meglio era un termine molto relativo, ma il resto era
abbastanza vero.
Gli ci volle ancora un po', ma alla fine
riuscì a farla cedere e si misero d'accordo per i futuri
appuntamenti e posti dove trovarsi, dato che il centro di consulenza
non sarebbe stato un'opzione per appuntamenti clandestini. Oscar se
ne andò con il numero di Alexis salvato nel cellulare, il compito di
andare a leggere qualcosa sul disturbo post traumatico da stress e un
calore nel petto.
Magari sarebbe davvero
migliorato.
#
Grazie
all'aiuto costante di Chloe, i consigli di Alexis e i suoi esercizi
per ricordarsi dove si trovava e chi era, assieme alla clemenza dei
professori, Oscar riuscì a finire l'anno e prendere la laurea. I
suoi voti facevano schifo, in confronto ai semestri precedenti, ma
era sopravvissuto e poco altro gli interessava, arrivato a
quel punto. Nel giorno della laurea si svegliò ben riposato, dopo
aver passato una notte senza sogni, e passò la cerimonia e la cena
celebratoria senza alcun incidente.
Sua madre gli sorrise e
pianse e gli fece almeno cinquecento foto. Anche il suo padre
acquisito - o meglio ex padre acquisito, dato che lui e sua mamma si
erano lasciati da anni - partecipò e gli diede una pacca sulla
spalla, dicendogli: "Lisa avrebbe amato essere qui. Sono certa
che ti sta guardando e che è molto orgogliosa del suo
fratellone" E sentire nuovamente il nome di sua sorella non gli fece
male tanto
quanto prima, anche se non credeva nel paradiso. Anche Chloe si
laureò nello stesso giorno e lo trovò in mezzo alla
folla, dopo la
cerimonia, per dargli un abbraccio stritolatore e fargli promettere
che avrebbero continuato a sentirsi e che si sarebbe preso cura di
sé
stesso.
Cercò di prendersi cura di sé stesso. Davvero. Per
qualche giorno navigò sulla soddisfazione di aver finito il college,
ma alla fine i mal di testa e la sua incapacità di stare fermo e i
flashback tornarono, alla fine la sua situazione peggiorò tanto
quanto lo era stata prima - se non ancor di più. Decisamente di
più.
Dato che in quel periodo viveva in casa, gli fu
impossibile nascondere le sue condizioni a sua madre. La spaventò a
morte la prima volta che lo svegliò durante un incubo e lui prese ad
urlare una lingua che non conosceva, nascondendosi da lei perché non
la riconosceva fino ad un'ora dopo, quando riuscì a tornare al
presente. Louise voleva fare- qualcosa, fargli vedere un dottore
almeno, ma riuscì ad evitare che lo facesse spiegandole che stava
già vedendo un dottore (una piccola bugia, ma d'altra parte con
Alexis ci parlava praticamente sempre) e che stava lavorando per
migliorare. Non la convinse del tutto, ma anche lei sembrava ben
decisa a non tornare in ospedale tanto quanto lui. Fece del suo
meglio per nascondere i suoi attacchi e la sua paura a lei,
successivamente.
I mesi successivi alla laurea passarono
lentamente, dolorosamente e quasi non li ricordava. Aveva il bisogno
di fare qualcosa - cosa, non lo sapeva neanche lui - ma non stava
abbastanza bene per lasciare il letto ogni giorno e sorridere a sua
madre. Quindi aspettò che l'estate finisse. Era stato accettato ad una
scuola di specializzazione - non la sua prima scelta, ma comunque un
ottimo programma - e in autunno si trasferì in un appartamento nella
speranza che le lezioni e le ricerche lo tenessero occupato.
Brutta
idea. Pessima idea.
Riuscì a superare le prime sei settimane
del primo semestre. Non stava andando bene negli studi, i suoi
coinquilini lo infastidivano e non aveva tempo per nulla, ma ce la
stava facendo. Poi, una notte-
Si trova nella zona ad est
di Maria e non riesce a trovare il resto della
sua squadra da nessuna parte. Deve assolutamente
trovare gli altri, ma prima deve capire dove si trova in modo da non
imbattersi accidentalmente nel territorio dei Titani.
Il panico gli sale fino al petto - Dove sono tutti? Sono al
sicuro? Perché sono da solo? Ci sono dei Titani nelle vicinanze o è
una zona pulita? - ma Eren è un soldato e ignora la
sensazione. Non può perdere la testa nel mezzo del campo di
battaglia.
Si trova a terra e non riconosce nessun punto di
riferimento. Non vuole sprecare gas in quanto non sa quanto deve
viaggiare, quindi si arrampica in un edificio vicino e controlla la
zona. Le forme delle costruzioni sono strane, ma ne nota una in
lontananza che gli sembra familiare.
Automaticamente sceglie
uno degli edifici più vicini dove ancorarsi, poi indietreggia sul
tetto per darsi dello slancio prima di saltare. L'intero processo
nell'utilizzo del 3DMG gli è ormai automatico, dopo tutti quegli
anni, che neanche deve più pensarci. Corre e salta dal
tetto, lanciando i rampini e si dirige verso il prossimo-
I
rampini non fecero presa nell'edificio. Cadde e il momento prima
dell'impatto ricordò di trovarsi fuori dal suo appartamento, non a
Maria, ed era solo perché qua era sempre solo e-
Era
ancora fortunato. Qualcuno lo trovò incosciente e sanguinante e
chiamò il 911. Sopravvisse alla caduta con qualche osso rotto e un
sacco di lividi.
Sua madre si spaventò a morte. D'altra parte il suo
poteva sembrare solo un tentativo di suicidio, anche se Oscar
internamente pensò che se davvero avrebbe provato a suicidarsi,
avrebbe scelto un edificio più alto. Cercò di spiegare a Louise che
era stata un'allucinazione o qualcosa di simile, ma le sue
rassicurazioni non lo aiutarono più di tanto, soprattutto quando la
donna si voltò verso di lui e col viso pieno di lacrime gli chiese
se davvero volesse morire.
Avrebbe dovuto dire che no,
ovviamente non voleva morire, ma... Non lo sapeva se avrebbe potuto
continuare a vivere così, a vivere una vita che non gli sembrava più
sua. Quindi fu onesto con lei: "Sarebbe più semplice."
Quando
finì di piangere, la donna insistette con voce tremante che avrebbe
dovuto andare in un ospedale psichiatrico, quando sarebbe guarito
abbastanza. Esausto, Oscar non
ribatté.
#
A
ventitré anni Oscar era uscito già da un po' dall'ospedale
psichiatrico. Lo aveva aiutato, un po'. Parlare con gli psichiatri e
i terapeuti si era rivelato complicato, perché se avesse
spiegato le cose che sperimentava nei flashback lo avrebbero preso
per pazzo. Quindi non erano particolarmente utili, se voleva
sfogarsi. Tuttavia imparò e si allenò in alcune tecniche che lo
avrebbero aiutato a restare nel presente, quando sentiva un attacco
arrivare.
Gli prescrissero altri farmaci e quelli lo aiutarono
quel che bastava che continuò a prenderli a lungo anche quando uscì
dall'ospedale. Le droghe attutivano tutto, quindi la maggior parte
delle volte riusciva a passare la giornata senza particolari
incidenti. Però gli sembrava di avere l'energia unicamente per fare
quello: passare la giornata. Tutto il resto gli era impossibile e
quello includeva la scuola di specializzazione.
Onestamente
non stava facendo nulla. Cosa che da una parte sembrava meglio così,
perché non riusciva a sopportare troppi avvenimenti, ma anche brutto
perché era un adulto che viveva in casa con sua madre, senza alcun
prospetto per un lavoro futuro e quella era una cosa che odiava.
Sua madre continuò a rassicurarlo che non la infastidiva occuparsi
di lui, che doveva prendersi il suo tempo e migliorare, ma questo non
lo soddisfava comunque. Non gli sembrava di star migliorando. Ogni
giorno lo passava nello stesso modo, si differenziava unicamente dai
diversi traumi che gli si imprimevano nel cervello.
La cosa
peggiore fu guardare un Titano sorridente divorare una donna
che era e allo stesso tempo non era sua madre, sentendosi piccolo e
debole.
#
A
ventiquattro anni, Oscar tornò in contatto con Chloe. Aveva evitato
i suoi messaggi per un lungo tempo perché, beh, lei stava facendo
carriera e viveva nel suo appartamento e si era fidanzata. Sapeva che
non voleva sbattergli in faccia che stava decisamente meglio di lui -
era completamente irrazionale per lui sentirsi a quel modo - ma
parlare con lei sembrava quasi come se si stesse mettendo il sale
nelle ferite da solo, quindi aveva smesso.
Però Chloe era una
buona amica - davvero, l'unica amica che aveva mai avuto, nonostante
una voce nel retro della sua testa continuasse ad insistere che avesse
avuto altri buoni amici - quindi decise di darsi una calmata e
chiamarla. Divenne sua abitudine chiamarla almeno una volta a
settimana. Parlavano per lo più della sua giornata e dei suoi
impegni, ma sorprendentemente ascoltare qualcuno parlare della sua
vita normale lo aiutava.
Disse ad Alexis che aveva iniziato
nuovamente a parlare con Chloe e lei gli disse che era orgogliosa di
lui. Anche Oscar cercò di sentirsi orgoglioso di sé
stesso.
#
A
venticinque anni, ad Oscar mancavano i suoi amici. No, non era
giusto. Oscar non conosceva le persone che gli mancavano. Però
sapeva che il fantasma di Eren Jaeger aleggiava da qualche parte nel
buio della sua testa, influenzando i suoi pensieri. Quindi gli
mancavano le persone che Eren aveva conosciuto: per lo più Mikasa ed
Armin, ma anche il Capitano Levi e il resto della sua Squadra
Speciale e anche la Maggiore Hanji e gli altri soldati
dell'Armata Ricognitiva. Dio, sua madre.
Era
inutile soffrire la loro mancanza, perché non li conosceva e non
sapeva neanche se esistevano in quel mondo. Magari sì, ma quello non
stava a significare che li avrebbe potuti trovare. Tuttavia nessuna
ragione logica poteva fargli smettere di sentire la loro
mancanza.
Cercarli gli sembrava pericoloso. Non sarebbe stato
un passo nella direzione sbagliata? Se avesse seguito i pensieri di
Eren Jaeger e avesse trovato la sua famiglia e i suoi amici in quel
mondo, nel mondo di Oscar, quest'ultimo non si sarebbe perso
nell'oscurità, perdendo quel poco di vita che era riuscito a
riprendersi dagli artigli affilati dei traumi e della disperazione di
Eren?
Scrisse ad Alexis e le chiese la sua opinione. Aveva
trovato degli amici di Mina? Voleva trovarli?
La ragazza lo
chiamò qualche ora dopo.
"Non c'è qualcuno che sento di
voler trovare," Ammise lei. "Suppongo che sarebbe bello vedere
nuovamente la mia famiglia, ma non ho il desiderio disperato di
cercarla. D'altra parte come li troverei? Non è che ci sia una
specie di Facebook per le vite precedenti, dove potrei andare a
cercarli."
Parlarono ancora un po' - Alexis voleva sempre
sapere come stesse lui e se avesse bisogno di qualche consiglio - ma
quel singolo pensiero gli rimasse impresso tutto il tempo: un
Facebook per le vite precedenti. Alexis aveva ragione, una cosa del
genere non esisteva, ma il net era così vasto e ampio, oltretutto
era il primo posto dove una persona andava a cercare, quando aveva
qualche domanda. Sicuramente qualcuno aveva aperto una discussione in
un forum chiedendo se qualcun altro ricordava i Titani, oppure
l'aveva postata su Yahoo Answers o... O da qualche parte. Diamine,
sicuramente qualcuno aveva creato qualcosa come un Facebook per le
vite precedenti e semplicemente loro non ne erano a
conoscenza.
Quindi iniziò a cercare. Inizialmente cercò di
tradurre termini importanti come Titani e Wall Sina in
lettere romane, in modo da poterle cercare facilmente, ma non riuscì
a farlo. I suoni erano troppi diversi e non conosceva abbastanza le
lingue per trovare un modo di tradurre quelle parole. Facendo delle
ricerche come "vite passate con giganti e muri" non ebbe
alcun risultato - trovò solo pagine e pagine di roba irrilevante - e
iniziò ad arrendersi.
C'erano sette miliardi di persone nel
mondo: le Mura Sina, Rose e Maria riuscivano a
contenere una minuscola frazione della popolazione attuale. E quella
minuscola frazione si rimpiccioliva ancor di più, quando considerò
che non tutte le persone avrebbero potuto non ricordare nulla. Sapeva,
parlando con Alexis, che lei non ricordava molto vividamente i fatti
accaduti come li ricordava lui... Le persone che avevano una vita
ordinaria priva di eventi importanti avrebbero realizzato che quello
che ricordavano non era un semplice sogno? Il numero di persone che
avrebbero potuto potenzialmente cercare in internet era minimo e
l'enorme numero di persone che non avevano vissuto in quei tempi
avrebbero affondato le possibili richieste di aiuto di chi stava
cercando.
Però continuare le ricerche era la cosa più
produttiva che aveva fatto negli ultimi mesi, quindi continuò a
cercare ed infine la sua testardaggine lo ripagò. Capitò in un
innocuo link presente in un forum che parlava di sogni lucidi e,
quando lo cliccò, si aprì un sito con un banner che recitava E'
TUTTO VERO. SIAMO QUI. scritto a mano in quegli strani caratteri
che Eren conosceva.
Le sue mani tremarono così tanto che
riuscì a malapena stringere il mouse. Si forzò a rimanere seduto
immobile per qualche minuto, leggendo il banner ancora e ancora
mentre respirava piano col naso. Una volta calmo, iniziò ad
esplorare avidamente il sito, solo per scoprire che aveva bisogno di
un account per avere l'accesso alle pagine oltre alla Homepage, un
account che gli sarebbe stato dato dagli amministratori del
sito.
Compilò la richiesta d'iscrizione, che includeva una
foto di un messaggio scritto nel linguaggio del tempo che comprendeva
il suo nome, il distretto dove era nato e altri dettagli. Non aveva
mai tentato di scrivere in quella lingua, prima, ma scoprì di poterla
scrivere facilmente tanto quanto pronunciarla. Completò il modulo e
lo inviò per mail agli amministratori, poi passò undici ore ad
aspettare una risposta, preoccupandosi di aver sbagliato qualcosa
nella richiesta o che il sito non fosse più attivo.
Infine
ricevette una risposta, ma l'oggetto e il messaggio della mail era
vuota, c'era solo un file allegato. Mordendosi il labbro inferiore aprì
l'immagine - era una foto di un block notes che conteneva una singola
frase.
SEI DAVVERO EREN JAEGER?
Sì. No.
Lo era stato, una volta, ma non era più lui. Suppose che era quello
che gli era stato chiesto - se era stato davvero Eren nel passato -
così gli scrisse una risposta. Sono stato io. Non so come posso
provartelo, però, se hai bisogno di una prova. Posso risponderti a
delle domande. Perché me lo stai chiedendo?
Inviò la
mail prima che potesse rimuginarci troppo sopra. Solo dopo pochi
minuti gli arrivò una risposta. Iniziava con: scusami,
solitamente non faccio questo genere di domanda alle persone. E' che
sei la prima... 'celebrità' penso sia la parola giusta. Sei la prima
celebrità che ha fatto una richiesta d'iscrizione. Cioè, c'è stato
un tempo in cui tutti conoscevano quel nome.
Era vero,
realizzò. Anche al di fuori dal militare, Eren Jaeger era abbastanza
famoso. L'identità di Eren e le sue abilità da Titano erano
conosciuti dall'intero popolo. Era certo che la notizia
dell'esecuzione di Eren aveva fatto il giro di tutte le mura.
"La
prima celebrità..." Questo significava che non aveva alcuna
possibilità di trovare il Capitano Levi o il Comandante
Smith nel sito. I loro nomi erano conosciuti tanto quanto il suo.
Probabilmente neanche Mikasa, pensò con un tuffo al cuore. Era stata
famosa verso la fine d tutto, una leggenda vivente come Levi.
Però
doveva cercare ugualmente. Quindi lesse le informazioni per gli
utenti e i dettagli per la navigazione nel sito che seguì il
messaggio dell'admin e finalmente si loggò. Era abbastanza semplice
da usare, il sito. C'era un forum dove le persone postavano le loro
domande e cose simili, ma non lo guardò quasi. Voleva l'elenco delle
persone. Era organizzato in distretti e c'erano delle immagini dove
erano presenti i nomi scritti a mano. Poteva cliccare ogni nome per
mandare un messaggio privato, loro probabilmente avrebbero ricevuto
una notifica nella loro posta. C'erano solo un centinaio di utenti
nel sito e così lesse ogni singolo nome, nella speranza di
riconoscerne qualcuno.
Nessuno.
Si appoggiò allo
schienale della sedia, esausto e sull'orlo delle lacrime. Non c'era
da sorprendersi. Dopo tutto, quel sito non era stato semplice da
trovare. Magari non tutti si erano reincarnati. Realizzò con un
certo orrore che la differenza della sua età e quella di Alexis
erano gli anni che li dividevano dalle morti l'una dell'altro. E se
Mikasa ed Armin fossero arrivati agli ottanta anni? Avrebbe dovuto
aspettare decine d'anni prima che solo nascessero.
Questo
lo fece sentire un miserabile essere umano, ma si trovò a pregare
che fossero morti giovani, così questo senso di vuoto sarebbe
sparito.
Sua madre bussò alla porta e sussultò. Se Louise
sentì la sua reazione non disse nulla. "Oscar? La cena è
pronta."
"Va bene." Le rispose, prendendosi un
momento per respirare profondamente, prima di chiudere il computer.
Quando raggiunse la sala da pranzo sua mamma alzò lo sguardo dal
Gumbo
che stava servendo nei piatti, guardandolo curiosamente.
"A
cosa stai lavorando, negli ultimi giorni?"
"Um. Sto
facendo delle ricerche."
"Un progetto personale?"
Gli suggerì, passandogli il piatto.
"Sì, circa."
Mormorò, giocherellando con un pezzetto di okra presente nella
pietanza. Si chiese se sua madre avesse una specie di potere speciale
che le permetteva di ridurre qualsiasi persona di qualsiasi età alla
pari di un tredicenne.
"Hm." La donna gli sorrise
calorosamente, mentre sedeva di fronte a lui. "Beh, qualsiasi
cosa sia, dovresti continuare a lavorarci. Sembri stare meglio
ultimamente."
"No, io-" Si fermò e pensò a
quello che gli aveva appena detto. Aveva sognato un'unica volta da
quando aveva iniziato la sua ricerca online. Nessun episodio pesante
sui flashback, anche se si era ritrovato a dover concentrarsi sul chi era e
dove si trovava un paio di volte. Niente di preoccupante. Infatti, ora
che ci pensava, si sentiva fisicamente meglio in confronto agli anni
scorsi. Non stava perfettamente, solo... Meglio. Nonostante fosse
illogico, gli erano mancati gli amici di Eren Jaeger. Una volta che
aveva iniziato a cercarli, era riuscito in qualche modo a
calmarsi.
Avrebbe potuto provare a trovare una sorta di
bilancio nel soddisfare alcuni bisogno di Eren e tenersi stretto la
propria vita? Sarebbe stato utile provarci. A quel punto ormai non
aveva
molto da
perdere.
#
A
ventisei anni, Oscar iniziò a cercarsi un lavoro. O meglio, un
lavoro migliore. Era riuscito a trovarsi un lavoro part time ad un
fast food per cinque mesi, senza farsi licenziare a causa dei giorni
di assenza per 'malattia', quindi si sentiva pronto a cercare
qualcosa che gli sarebbe realmente piaciuto. D'altra parte era
laureto. Si era impegnato molto per la sua laurea, quindi avrebbe
dovuto farne tesoro ed utilizzarla.
Si mise in contatto con i
suoi professori preferiti, chiedendogli se erano a conoscenza di
qualche opportunità e sperando che non fossero a conoscenza del suo
aver mollato la specializzazione. Sorprendentemente una di loro
gli rispose, dicendogli che sapeva che un era stato aperto un
laboratorio medico da un suo collega. Gli disse che avrebbe parlato
bene di lui e che pensava che fosse un lavoro adatto a lui.
Onestamente, gli sembrava un'ottima cosa. Più di quello in cui aveva
sperato, in qualsiasi caso. Da giovane non avrebbe di certo pensato
che lavorare in un laboratorio a testare dei campioni sarebbe stato
un lavoro da sogno, ma ora un posto tranquillo e senza rumori che lo
avrebbero spaventato sarebbe stato il posto perfetto dove
lavorare.
L'unico problema era che il posto di lavoro era fuori dallo
Stato in cui viveva.
"Non mi fa impazzire l'idea che tu
ti trasferisca così lontano," Ammise sua madre, quando le parlò
del lavoro. "L'ultima volta che ti sei allontanato da
casa..."
"Mi sento decisamente meglio," Ribatté
Oscar. "Non sono migliorato? Lo hai detto tu stesso." Stava
meglio. Occasionalmente si perdeva ancora nei suoi ricordi e le
emozioni non erano sempre le suo, anche il suo stato mentale non era
dei migliori, ma fisicamente stava decisamente meglio. Inoltre sapeva
come prendersi cura di sé stesso, come bilanciarsi nel soddisfare i
bisogni di Eren e restare sé stesso, Oscar. Certo, ogni tanto
s'incasinava e affrontava le conseguenze e i flashback erano ancora
un problema, ma stava meglio.
"Sì, stai meglio.
Ma, Oscar, il tuo psichiatra è qui-"
"Troverò un
altro psichiatra." Non c'era motivo di spiegarle che non parlava
molto col suo psichiatra. Si rivolgeva ad Alexis quando aveva bisogno
d'aiuto, ma ormai era abbastanza abituato a controllare i suoi
episodi. Andava dallo psichiatra solo per i medicinali. "E
prometto di chiamarti non appena... Mi sfuggono le cose di mano."
La
donna sospirò pesantemente, portandosi una mano alla tempia. Il
gesto catturò l'attenzione del ragazzo alle ciocche ingrigite che
contrastavano con il resto dei capelli neri, cosa di cui si sentiva
in colpa. "Immagino che non possa farti altro che bene un lavoro
del genere. E so che è importante per te essere indipendente."
Non
era esattamente d'accordo - non che avesse bisogno del suo permesso,
alla sua età - ma era meglio di quanto si aspettasse. Per la verità,
sua madre aveva preso questo suo... Malessere, decisamente meglio di
quanto aveva anticipato. Era più forte di quanto ricordava. O magari
era stata la morte di Lisa a renderla più forte.
Quindi Oscar
preparò il suo curriculum, mandandolo per email a Chloe per qualche
consiglio sul come rendere meno visibile il fatto che avesse vissuto
da recluso in quegli anni e mettere in risalto le ore di laboratorio
che aveva fatto da universitario. Quando sentì che non avrebbe
potuto migliorarlo, lo mandò prima che potesse tirarsi
indietro.
Una settimana più tardi venne sottoposto ad un
colloquio.
#
A
ventisette anni, la routine era l'unica cosa che manteneva la vita di
Oscar normale. Si svegliava alle 6:15 ogni mattina. Si faceva una
corsa e alle 7:30 faceva la doccia. Usciva dalla porta di casa per le
8:00 per raggiungere il laboratorio, dove iniziava a lavorare alle
9:00 e finiva alle 17:00. Tornava a casa e scaldava a cena per le
18:30. Navigava su internet dalle 20:00 alle 22:00 cercando qualsiasi
segno di persone che gli erano state care - no, erano state care ad
Eren Jaeger, non a lui. Eren. Si staccava dal computer nello stesso
istante in cui l'orologio segnava le 22:00, quella era la regola, quello
era tutto il tempo che si permetteva. Si calmava, prendeva i suoi
medicinali e s'infilava a letto per le 23:00. Tutti i giorni si
ripetevano a quel modo.
I sabati erano devoti alla pulizia e
allo shopping, oltre al cucinare per il resto della settimana. Le
domeniche erano destinati alle chiamate a sua madre e ad incontrarsi
con i suoi amici o anche agli occasionali e disastrosi appuntamenti.
Dato che comunque non poteva passare l'intera giornata al telefono
con sua madre e non aveva tanti amici o appuntamenti, solitamente si
trovava a navigare in internet alla ricerca di sua madre, dei suoi
amici, della sua squadra, dannazione, anche Jean sarebbe
bastato- no, non suoi, di Eren. Di Eren. Lui non era Eren Jaeger, non
poteva esserlo, non lo sarebbe mai stato.
Lo era, in una vita
passata.
Arrivato a quel punto si sarebbe dato una calmata.
Avrebbe dormito. Sarebbe arrivato il lunedì. Routine.
Quello
era l'ideale. Ma le routine fallivano facilmente. Un ordinario
problema come il traffico lo avrebbe trovato a sistemare attentamente
i suoi orari. Ok, non era un problema. Quelle cose succedevano a
tutti. Altre volte...
Altre volte si sarebbe svegliato perso e
confuso e sarebbe vagato nell'appartamento alla ricerca di Mikasa e
Armin, finché Oscar non si svegliava davvero. Altre volte avrebbe
rivissuto dei veri e propri flashback, causati da un fulmine troppo
vicino, un viso in mezzo alla folla troppo familiare, il fottuto
vapore acqueo che usciva dalla sua lavastoviglie quando l'apriva
prima che avesse finito il ciclo- e avrebbe perso tempo a calmarsi, cercando
di uscirne, cercando di ricordare come essere Özgür “Oscar”
Gözübüyük. Altre volte si svegliava così depresso che
non riusciva neanche a sopportare il peso della giornata. Quello non
era una cosa che lo disturbava più di tanto. Almeno quando era
depresso sapeva esattamente chi era. Eren Jaeger non era mai stato
depresso.
Oscar stava bene, davvero. Meglio a ventisette anni,
che quando ne aveva venticinque o ventitré, perlomeno. Quei giorni,
i brutti giorni, erano divenuti più rari e più facili da
sopportare. Ce la poteva fare.
"Potercela fare" era
il perché si era recato al Denny's alle due di mattina in un
mercoledì di fine maggio. Aveva chiamato a lavoro ed aveva
avvisato
che stava male e che non sarebbe potuto andare - la prima volta in
tre mesi, era stupido esserne orgoglioso, ma lo era - perché si
era
svegliato depresso. Aveva passato l'intero giorno steso a letto a
guardare Netflix o a vagare per l'appartamento e realizzare all'una
di mattina che non aveva ancora mangiato. Non aveva avuto la forza di
scaldarsi uno dei suoi pasti preparati in precedenza, ma in qualche
modo recarsi al Denny's gli era sembrata un'ottima alternativa. Si
obbligò a vestirsi almeno decentemente e uscì. Se non
altro, gli
avrebbe fatto bene lasciare l'appartamento e interagire con degli
esseri umani.
"Arrivo subito. Siediti dove vuoi, caro."
Gli disse una cameriera, quando si fermò davanti ad un cartellone
che recitava 'per favore, aspetti che le venga assegnato un tavolo'.
Il posto non era esattamente vuoto. A qualche tavolo sedevano
coppiette con davanti tazze di caffè, oppure c'erano studenti
universitari intenti ad ingurgitare pancakes, presi da fame da stress. Si
diresse nel solito posto, quello nell'angolo più lontano dove nessuno lo
avrebbe notato se fosse improvvisamente crollato mentre mangiava
un'omelette, ma era già occupato. Ok. Il tavolino vicino alla cucina
sarebbe andato-
Aspetta.
Si voltò verso il suo
solito posto e fissò Levi.
Non poteva essere lui. La sua
pelle era ambrata al posto di pallida e anche da seduto sembrava più
alto e, nonostante probabilmente frequentasse la palestra, era molto
sottile. I suoi capelli erano ancora neri, ma erano più corti, più
folti. Non poteva essere lui.
Mina è fisicamente diversa.
Alexis, insistette Oscar. Si avvicinò senza realmente registrare i
suoi movimenti. Ma è pur sempre Mina. Anche io non sono
esattamente uguale.
"Che cazzo vuoi?" Gli chiese
Levi (non Levi, si sgridò il ragazzo).
Era davanti a lui, si
rese conto. Velocemente, notò la mancanza di cibo o piatti sporchi
sul tavolo. Solo una tazza di tè, una teiera di acqua calda e due
bustine di tè bagnate ed appoggiate su un piattino. Uno zaino e una
borsa da palestra erano di fianco a lui. Un vagabondo? No, era ancora
troppo ordinato per esserlo. Magari era scappato. Magari no. In
qualsiasi caso non sembrava avesse mangiato. "Se mi lasci sedere
qui, ti compro qualsiasi cosa vuoi da mangiare." Le parole gli
uscirono di bocca prima che potesse anche solo pensarci.
Gli
occhi di Levi-non-Levi si ridussero a due fessure. "Perché?"
Sorrise
per la prima volta in cinque anni. "Perché mi farebbe piacere
la tua compagnia." Rispose Eren.
|
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Capitolo 2 *** Part two (1/3) ***
TRoTL part two (1/3)
Eccomi qui, finalmente! Pensavo non
sarei mai riuscita a finire il capitolo o.o Spero vi piaccia come il
precedente! Buona lettura!
Credits: i
personaggi appartengono a Hajime Isayama, mentre la fanfiction
appartiene a Zhedang.
Mia è solo la traduzione
:3
__________________________________________________________________
Il Levi-non-Levi lo esaminò
sospettosamente. Eren invece si limitò a gustarsi la sua visione.
Sembrava più giovane e non così esausto, anche se comunque appariva
assonnato. I suoi occhi erano più grandi e il suo viso meno
spigoloso. Probabilmente andava alle superiori. Il suo zaino era
pieno abbastanza da contenere svariati libri di testo e qualcosa in
più. Chissà cosa poteva esserci nella borsa della palestra. Nonostante
fosse maggio, aveva addosso una giacca troppo grande per lui e, dove
mostrava il collo, Eren notò due macchie dalla forma della punta
delle dita, appena visibile sulla sua pelle. Il suo stomaco di
strinse, nel pensare che se avesse esaminato l'area abbastanza da
vicino, probabilmente avrebbe trovato altri lividi che avrebbero
costituito una mano.
Qualcuno aveva tentato di strangolarlo.
Con la furia appena mantenuta dentro di lui, Eren fu attento a
mantenere un'espressione neutrale.
Dopo un lungo periodo di
osservazione, Levi-non-Levi scrollò le spalle e disse, "Va bene."
Le gambe di Eren quasi cedettero di sollievo. Si sedette al tavolo
prima di cadere sul serio.
"Quindi, chi cazzo sei?"
Levi-non-Levi gli chiese, prendendo in mano un menù plastificato. La
domanda lo fece sussultare e sbatté le ciglia, prima di ricordare
dove, che giorno e chi era.
"Özgür Gözübüyük,"
Gli disse prestando attenzione a dire il nome giusto, perché Eren Jaeger era sulla punta della
lingua. L'adolescente (non Levi, si ricordò) lo fissò senza proferire parola, una reazione
a cui era abituato. La gente che lo sentiva parlare, prima di
conoscere il suo nome, pensavano fosse strano. La gente che conosceva
il suo nome prima di sentirlo parlare rimaneva scioccata, perché
parlava un inglese perfetto. "E' turco," Gli spiegò. "Il
nome è l'unica cosa che ho avuto da mio padre, prima che scappasse.
Mia mamma ha deciso di lasciarmelo, per via dell'eredità o qualcosa
del genere." Stava farneticando. Si obbligò a smetterla.
Inghiottì. Inspirò a fondo. "Tutti mi chiamano Oscar."
Il
loro cameriere arrivò con l'ordine di Oscar e quest'ultimo prese in
mano il menù. Quando il cameriere se ne andò, lo aprì riluttante.
Oscar aveva almeno una dozzina di domande che gli sarebbe
piaciuto fare - il primo posto lo prendeva sicuramente il chi
cazzo ti ha fatto del male? - ma le ingoiò. Non voleva
spaventarlo e farlo scappare. Ok. Avrebbe potuto farcela a
trattenersi. Aveva imparato a farlo negli anni passati, grazie anche
alle ramanzine di sua madre sul come non porsi da persona pericolosa:
mantieni le mani sempre visibili, sii gentile, sii cordiale, nessun
movimento improvviso, non discutere, chiedi il permesso prima di
fare qualsiasi cosa. Solitamente si comportava a quel modo solo con i
poliziotti o i proprietari dei negozi, ma gli sembrava appropriato
comportarsi a quel modo anche nella situazione in cui si trovava
ora.
"Cosa mi diresti, se ordinassi tre cose differenti?"
Gli chiese il ragazzo, scrutando ancora il menù. "Ho tanta
fame."
Oscar fece finta di essere particolarmente
interessato a guardare le immagini rappresentanti diversi tipi di
piatti. "Pagherei, perché avevo detto che l'avrei fatto.
Oltretutto non puoi di certo mandarmi in bancarotta ad un Denny's.
Sarei anche stupito se riuscissi a finire tutto senza
vomitare."
L'altro sbuffò una risata, come aveva fatto di rado il Capitano Levi tanti anni prima. Il
turco si obbligò a tenere gli occhi fissi sul menù e a non fissarlo
ad occhi sbarrati.
Infine il cameriere tornò. Il ragazzo più
grande non aveva ancora letto mezza parola menù. "Io prendo...
Uh... L'omelette vegetariana." Ordinò. Denny's le aveva,
giusto? "Con tutto. E..."
"Una bistecca e delle
uova," Disse Levi. "Strapazzate. Voglio anche delle
patatine fritte, non le crocchette. Oh, e la bistecca fammela al
sangue."
"E quello per lui." Concluse
Oscar.
Il cameriere scrisse gli ordini e se ne andò, non
senza rivolgere ad Oscar un'occhiata stranita. Per qualche ragione,
anche il compagno di tavolo lo stava fissando. Però non era
l'occhiata sospettosa di prima. Qualcosa di più vicino alla
curiosità. "Cosa c'è?" Chiese.
"Nulla."
Non
riusciva più a sedere in silenzio. Il suo nome, quella era una cosa
perfettamente normale e non inquietante da chiedere, giusto? Gli
aveva dato il suo, d'altra parte. Mise a posto il menù a posto e,
quanto più casualmente riuscì, gli chiese: "Quindi, qual è il
tuo nome? Sono pronto a scommettere che non è Özgür."
Lo
studente portò entrambe le mani sulla sua tazza da tè, ma non
bevve. "Levi."
Il suo cuore si fermò, prima di
riprendere a battere troppo rapidamente. Impossibile. Doveva aver
capito male, perché davvero, quante possibilità c'erano che fosse
quello il suo nome? "Levi?" Ripeté, senza riuscire a non
apparire incredulo. Magari ricordava ma non lo aveva riconosciuto?
Però Alexis lo aveva riconosciuto e questo Levi era troppo giovane
per ricordare qualcosa.
"Sì," Sbottò il giovane.
"Cos'è, non ho la faccia da Levi?"
Sbatté le
ciglia, chiedendogli cosa lo avesse turbato a quel modo, prima di
decidere che probabilmente era dovuto al fatto che avesse dubitato di
quel nome a causa della sua etnia. Sembrava provenire dal sud
America, ma non ne era certo. "No. Levi è un nome perfetto per
un ragazzo come te." Quello sembrò placare il ragazzo: le sue
spalle si rilassarono dalla loro posizione sulla difensiva.
Incoraggiato, Oscar continuò. "Scusami. Dovrei ben sapere di
non assumere certe cose. Ho passato una brutta giornata."
Levi
lo guardò con un sopracciglio alzato. "Effettivamente hai un
aspetto di merda."
"Pure tu." Rispose Oscar,
indicando con un gesto della testa il collo dell'altro.
La mano del giovane andò
automaticamente a sfiorare i lividi che gli segnavano la gola e lo
fulminò con lo sguardo. "Non sono affari tuoi." Gli disse,
alzando il colletto della giacca per nascondere i segni.
"Va
bene." Rispose semplicemente il turco, anche se nella sua testa
l'eco di Eren era in completo disaccordo con lui - non andava bene
per niente. Eren voleva trovare chi gli aveva fatto quello e
spaccargli la faccia. Indubbiamente Levi si era arrangiato da solo,
ma faceva parte della sua squadra, aveva salvato la vita ad
Eren una dozzina di volte, quindi nessuno aveva il permesso di fargli
del male e non venire punito. Specialmente non a questo Levi più
giovane. Per calmare l'ombra di un ringhiante Eren nell'oscurità
della sua mente, decise di chiedere: "Quindi, cosa ci fai al
Denny's alle due di mattina?"
Il viso del giovane divenne
di pietra. "Sto aspettando che qualcuno venga a
prendermi."
"Ah, sì?" Anche in questa vita,
Levi era un pessimo bugiardo. Poteva dirlo anche solo dal suo tono di
voce rigido. Non stava aspettando nessuno.
"Sì. E tu
cosa ci fai qui?"
Non poteva esattamente rispondergli
'sono un malato di mente e a volte fatico a prendermi cura di me
stesso'. Beh, avrebbe potuto, ma sapeva mentire decisamente
meglio di Levi. Quindi gli raccontò di essersi preso un giorno
libero da lavoro per farsi una maratona di Gossip Girl su Netflix e
farsi prendere così tanto da dimenticarsi di mangiare. Tecnicamente
era vero. In parte, almeno.
In qualche modo la sua spiegazione
divenne un lungo monologo su Chuck Bass che durò fino a ben dopo che
il loro cameriere fosse tornato con i loro ordini. Levi ascoltò tutto con
le sopracciglia alzate, forse perché divertito o forse perché
confuso, mentre tagliava la sua bistecca.
"Perché guardi
Gossip Girl?" Gli chiese, quando finalmente Oscar si calmò.
Il
ragazzo scrollò le spalle. "Quando vivevo con mia madre, spesso
lo guardavamo assieme. Mi sono fatto prendere." Inoltre era un
programma sicuro da guardare. Nessuno moriva di morti atroci su
Gossip Girl. Ormai, se voleva evitare flashback non voluti, non
poteva più guardare film horror e una buona parte di film
d'azione.
Il suo lungo monologo su Gossip Girl aveva avuto
l'effetto di far rilassare Levi. Continuarono a parlare di serie
televisive mentre mangiarono, anche se era ancora Oscar a portare
avanti la discussione, in quanto il compagno di tavolino sembrava non
guardare molta TV e aveva la stessa reticenza al parlare del
Capitano. Presto i loro piatti furono vuoti e i loro stomaci
pieni, quindi Oscar non aveva più scuse per rimanere lì. Tuttavia
non voleva lasciare Levi solo, non ora che lo aveva appena ritrovato
e non quando sembrava ritrovarsi in qualche sorta di casino. Sia lui
che il fantasma di Eren non erano mai andati tanto d'accordo. Levi
aveva bisogno di aiuto.
"Si è fatto molto tardi. O
presto, per essere precisi." Iniziò. Levi emise un mugugno di assenso,
occupato a finire il suo tè. "Mi chiedo dove sia la persona che
dovrebbe venire a prenderti."
L'interpellato s'irrigidì,
poi scrollò le spalle.
Oscar smise di fare giri di parole.
"Vuoi che ti accompagni da qualche parte? A casa di un amico, di
un parente..."
L'adolescente s'irrigidì nuovamente,
riducendo gli occhi a due fessure come se potesse in qualche modo
capire se Oscar stesse pianificando di farlo a pezzi e buttarlo in un
canaletto in mezzo alla campagna o meno, solo guardandolo. Il suo
intero corpo faceva capire che era opposto anche solo all'idea,
eppure non fu una negazione quella che mormorò. Al contrario, appoggiò
la tazza di tè senza allontanare mai gli occhi da quelli di
Oscar.
"Al St. Clare." Mormorò.
"La
chiesa?" Gli chiese Oscar. Non aveva vissuto a lungo nella
città, quindi magari sarebbe potuto essere un rifugio o anche un
ospedale.
"La scuola."
"... Vuoi che ti
lasci a scuola così puoi... Aspetta, ma quanto manca all'inizio
delle lezioni? Ti rendi conto che sono appena le quattro,
giusto?"
Levi scrollò nuovamente le spalle, tornando ad
avere l'espressione esausta di quando Oscar lo aveva trovato prima.
Non confermò o negò ciò che gli era appena stato detto. Oscar
si ritrovò a chiedersi se tutto questo - il suo trovarsi così tardi
al Denny's e poi andare a scuola - fosse una semplice fuga temporanea
data da una brutta situazione o se fosse veramente scappato di casa e non
sapeva cos'altro fare. Pensò ai lividi che aveva sulla gola e sperò
con tutto il suo essere che il ragazzo non avesse intenzione di
tornare da chi gli aveva fatto quello. Il Capitano era sempre
stato più bravo a prendere decisioni sul momento, piuttosto che
pianificare un piano precedentemente, così Oscar poteva solo
immaginare un Levi adolescente scappare senza avere alcuna idea di
dove cercare rifugio.
Cercò di pensare come porre la
successiva domanda, ma alla fine si arrese. D'altra parte non c'era
modo di dirlo in qualche altra maniera. "E se ti portassi io
questa mattina? Cioè, la vera mattina. Il mio divano è abbastanza
comodo."
Quasi sperò che il giovane gli rispondesse di
no, perché andare a dormire a casa di uno sconosciuto era, in
generale, una pessima decisione. E per un momento Levi sembrò pronto
a rifiutare - chiuse le mani a pugno, il suo corpo pronto a
scattare.
Poi, però, annuì lentamente.
#
"Vivi
da solo?"
Fu la prima cosa che Levi disse, da quando avevano lasciato il Denny's.
"Sì." Gli rispose,
sistemando le proprie scarpe sul mobiletto apposito, facendo lo
stesso con quelle del ragazzo.
Levi poggiò le sue due borse
sul divano e camminò per il soggiorno, senza toccare nulla e
mantenendo contatto visivo con Oscar. "E' davvero
pulito."
Oscar era sempre stato ordinato, anche troppo
secondo i suoi vecchi coinquilini. Da quando poteva ricordare, aveva
sempre mantenuto la sua camera in ordine e aveva l'abitudine di
sistemare tutti i casini - grandi o piccoli - che incontrava per
casa, senza preoccuparsi di chi fosse stato. Non lo faceva perché
voleva, ma perché non era mai riuscito scrollarsi di dosso il
presentimento che qualcuno sarebbe rimasto scocciato nel trovare
disordine o sporcizia. Chi, non lo sapeva. Sua madre era sempre stata
assente, suo padre era ancor più negligente. Però, mentre guardava
Levi passare un dito sul tavolino da caffè, si rese immediatamente
conto di chi gli aveva instillato quel bisogno di pulire che aveva
sempre sentito. Ad Eren, per dirla tutta. Realizzare quella cosa gli
fece mancare per un attimo il respiro e si ritrovò a soffocare una
risata quasi disperata, perché evidentemente Eren aveva preso così
a cuore tutto ciò che il suo Capitano gli aveva insegnato che
quelle abitudini gli erano rimaste anche dopo la morte. "Sono
stato addestrato bene." Disse, riuscendo a rispondere senza far
notare la sua reazione.
Levi lo guardò dall'altro al basso.
"Hai fatto il militare?"
"Circa."
Concordò. Per qualche ragione, la situazione quasi lo divertì e,
per nascondere un sorriso, si passò una mano sul volto. Era esausto.
Non aveva dormito bene, la notte precedente, e ora erano le quattro
passate e Levi, il Capitano Levi, era nel suo soggiorno.
Esausto, fisicamente e psicologicamente.
Invitare Levi a casa
sua probabilmente non era stata una grande decisione. Questa era casa
sua, di Oscar, e ne aveva memorizzato ogni centimetro in modo da
poter riprendersi meglio prima e dopo i flashback. Aggiungere Levi al
tutto sembrava quasi voler causare un disastro. Quanto della sua vita
avrebbe dato ad Eren, che si muoveva nell'oscurità della sua mente,
a causa di questa sua scelta?
Però non riusciva a
pentirsene.
Tuttavia sapeva che sarebbe dovuto andare a letto e
riposare, prima che qualsiasi cosa accadesse. Aprì l'armadio dove
teneva coperte in più e ne portò qualcuna fino al divano. "Il
bagno è lì," Gli disse, puntandolo con una mano. "Penso
di avere uno spazzolino da denti nuovo nei cassetti, se ne hai
bisogno. Puoi usare tutto quello che ho senza alcun problema,"
Esitò, poi continuò. "Ora vado a dormire, a meno che tu non
abbia bisogno di qualcosa?
Levi scosse la testa. Si prese una
coperta e la spiegò. Oscar lo guardò per un momento, prima di
dirigersi al bagno. Si lavò i denti e inghiottì le sue pillole,
ascoltando i rumori che provenivano dall'altra parte della
porta.
Levi. Nel suo appartamento. E lo avrebbe portato a
scuola, l'indomani mattina. Gli sembrava irreale.
Quando uscì
dal bagno, il ragazzo era seduto sul divano-ora-letto ad aspettare il
suo turno al bagno. Oscar gli chiese nuovamente se aveva bisogno di
qualcosa, prima di augurargli la buona notte e andarsene nella sua
camera da letto. Quando chiuse gli occhi non si chiese se avrebbe
sognato, quella notte, ma si chiese se i suoi sogni sarebbero stati
ricordi nuovi o vecchi.
#
Il mattino seguente, Oscar
lasciò un biglietto sul tavolo prima di uscire per la sua corsa
mattutina. La tentazione di spezzare la sua routine era forte, ma
sapeva che più tardi se ne sarebbe pentito. Se voleva tenere Levi a
casa, doveva mantenersi la sua identità da Özgür Gözübüyük più
stretta possibile a sé. Quindi scrisse velocemente un messaggio sul perché
non era a casa e quando sarebbe tornato, prima di uscire.
L'aria
era piena di umidità, nonostante l'orario, e presto Oscar si
ritrovò a sudare. Si concentrò sul caldo umido, il rumore
delle sue suole
contro l'asfalto, il rombo delle auto che passavano, lasciando i suoi
sensi dargli l'inconfutabile prova di quale mondo e quale vita stava
vivendo. Sapeva di aver sognato, la notte precedente, ma le immagini
erano offuscate, indistinguibili nel buio della sua mente. Correre lo
fece sentire un poco meglio, come se stesse mettendo una distanza
fisica fra lui
ed Eren.
Quando tornò all'appartamento, Levi era
sveglio e stava cucinando delle uova. "Ne vuoi una?"
Nonostante
si fosse preparato mentalmente, vacillò ugualmente nel vedere il
giovane nella sua cucina. Levi. Nella sua cucina. "C-certo."
Una goccia di sudore rotolò pericolosamente vicino ad un occhio,
quindi si passò una mano sul viso. "Vado a fare la doccia."
Disse, prima di sparire nuovamente.
Quando si fu lavato e
vestito, due uova all'occhio di bue si stavano raffreddando sul suo
piatto. Levi mangiò le sue uova accompagnandole con una salsa che
doveva aver trovato nel frigorifero di Oscar, anche se il modo in cui
masticava e ingoiava mostravano il suo pentimento sulla scelta.
"Ho
cercato la tua scuola," Disse Oscar, infilzando uno dei tuorli,
guardandolo colare. "E penso di sapere dove si trova, ma
probabilmente dovrai darmi delle indicazioni."
Levi
grugnì un assenso. "Quando partiamo?"
Oscar guardò
l'orologio della cucina, calcolando il tempo in più che ci avrebbe
messo per arrivare a lavoro. "Dieci minuti?"
Erano
fuori dalla porta dopo cinque minuti. Levi sedeva rigidamente sul
sedile, con lo zaino sulle gambe e la borsa da ginnastica vicino ai
piedi. Oscar solitamente non ascoltava la radio - preferiva il
silenzio per concentrarsi meglio, dato che a volte aveva ancora dei
problemi a farlo -, ma la presenza del giovane di fianco a lui
rendeva il silenzio assordante, quindi l'accese. Nessuno dei due
parlò, oltre alle occasionali indicazioni sul dove girare o che via
prendere.
Levi lo fermò ad un isolato di distanza dalla
scuola, spiegandogli che se non lo avesse fatto si sarebbe ritrovato intrappolato
dalle altre auto. Anche degli altri studenti avevano avuto la stessa idea
ed Oscar guardò fuori dal finestrino, osservando i ragazzi passare
vestiti con camicie bianche, pantaloni neri e gonne a quadri. "Avrai
problemi ad andare a scuola senza uniforme?"
Levi lo
guardò stranito, poi indicò la borsa da ginnastica. "Ce l'ho.
Ho educazione fisica alle prime ore, mi cambio sempre dopo."
"Va
bene." Prima che Oscar potesse chiedersi perché non avrebbe
dovuto farlo, afferrò uno scontrino del benzinaio e ci scrisse il
suo numero di telefono, prima di premerlo nella mano del ragazzo. "Se
hai bisogno di qualcosa - sono serio, davvero - chiamami,
ok?"
Voleva - o meglio, Eren voleva -, dire
qualcos'altro, ma lui e Levi erano poco più che conoscenti in quel
mondo. Anche se avesse parlato col suo Capitano dubitava
avrebbe detto molto altro. Erano una squadra: non c'era
bisogno di rassicurazioni verbali sull'aiutarsi a vicenda.
Levi
fissò lo scontrino e poi alzò lo sguardo verso Oscar, prima di
annuire e piegare concisamente il pezzo di carta a metà. Lo mise
nella tasca anteriore dello zaino. Con un'ultima occhiata diffidente
verso Oscar, aprì la portiera e scese sul marciapiede. L'uomo lo
guardò con un nodo alla gola, chiedendosi se sarebbe stata l'ultima
volta che lo avrebbe rivisto. Prima che Levi chiudesse la porta, si
abbassò per infilare la testa dentro l'auto.
"Posso...
Potrebbe andare bene... Tu non..." Si fermò, serrando le dita della destra
sulla spallina dello zaino. "Posso stare da te, solo per altri
due giorni? Giusto il tempo per trovarmi una sistemazione."
"Puoi
stare da me quanto vuoi" Quasi gli scappò, ma Oscar si
fermò poco prima di pronunciare quelle parole. C'era sicuramente un
modo migliore per dire quello senza sembrare fin troppo gentile (e un filino
inquietante). Quindi si decise per una frase un po' più
neutrale. "A che ora hai bisogno che venga a
prenderti?
#
Nella sua pausa pranzo mandò ad Alexis
due messaggi. Il primo diceva Ho trovato Levi. Non ricorda niente,
ovviamente, ma starà nel mio appartamento per ora. Mina non
aveva mai incontrato il Capitano Levi, ma aveva riconosciuto
il nome quando le aveva parlato di lui precedentemente. Poi, con
esitazione, le chiese Pensi che sia saggio?
Il suo
telefono vibrò poco dopo con le risposte. Cosa??? E'
incredibile!!! e, dopo un attimo, Ti ha creato
'problemi'?
Nulla, per ora. Però tutto mi sembra decisamente
irreale.
Non è sorprendente, come cosa. Il cambiamento
potrebbe essere un attimo difficile da gestire, quindi stai attento.
Più tardi riesci a chiamarmi, per parlare meglio?
Oscar
le rispose con un Sì, prima di mettere via il cellulare per
mangiare, ma scoprì di non avere appetito. Non era l'avere i
flashback che lo preoccupava. Era il perdersi nello spettro di Eren
Jaeger.
#
Un paio di giorni divennero svariati.
Giovedì, venerdì e sabato passarono senza grandi problemi, anche se
vedere Levi sedere sul suo tavolo della cucina per fare i compiti era
in sé qualcosa di straordinario. Il ragazzo non gli aveva mai
parlato molto di sé stesso e Oscar si rifiutava di chiedergli
qualcosa, ma era riuscito comunque ad apprendere piccole informazioni
su questo Levi, per compararle al Levi delle memorie di Eren. Aveva
quasi finito il secondo anno di superiori e dalle vacanze estive lo
separavano solo un compito di matematica e una presentazione orale in
Francese. Odiava il sapore del caffè, ma gli piaceva l'odore. Era
molto ordinato, ma Oscar non sapeva se fosse così generalmente o
semplicemente perché era suo ospite. Guardava costantemente i suoi
movimenti con occhi taglienti. In breve questo Levi era una persona
diversa, ma alle volte era così simile all'altro Levi che gli faceva
male.
Probabilmente l'informazione più sorprendente l'apprese
domenica mattina. Uscì per la sua solita corsa mattutina, solo per
tornare indietro quando notò il cielo ingrigirsi. Probabilmente
avrebbe semplicemente piovuto, ma non aveva controllato il meteo e
non voleva rischiare di trovarsi fuori sotto una pioggia tuonante. I
fulmini non gli provocavano sempre i flashback, ma se succedeva il
suo familiare e memorizzato appartamento era il posto più
sicuro dove poteva trovarsi.
Iniziò a pioggerellare giusto un
attimo prima che prendesse le scale per il suo appartamento, così si
fermò sul tappeto d'entrata, si tolse le scarpe umide e le sistemò
sul porta scarpe prima di muoversi dall'entrata. Non sapeva se Levi
stesse ancora dormendo o meno - solitamente era sveglio quando
tornava dalla sua corsa, ma era uscito al massimo per venti minuti -
quindi entrò silenziosamente in soggiorno.
Levi era seduto
sul divano, la testa piegava in avanti come se stesse guardando
qualcosa sulle sue gambe. Oscar quasi lo salutò, ma notò un rosario
tra le sue mani e lo sentì mormorare in spagnolo, quindi decise di
evitare. Poteva dire che, dalle spalle tese del ragazzo, Levi fosse a
conoscenza della sua presenza, ma decise comunque di dirigersi
silenziosamente verso la cucina per non interromperlo
ulteriormente.
Si versò un bicchiere d'acqua e lo sorseggiò
avidamente, chiedendosi perché quella scena lo avesse sorpreso così
tanto. Il Capitano era stato un uomo dalla grande fede, anche
se non era mai stato religioso. L'unica religione a quei tempi era
quella delle Mura e non aveva mai creduto nell'eterna protezione e
divina grazia di esse. Al contrario, il Capitano Levi metteva
tutta la sua fede nelle sue decisioni e abilità e nei piani del
Comandante Smith. E-
Una scena che aveva ricordato
qualche anno fa gli tornò gentilmente alla memoria.
L'aria
è calda e fastidiosa sul tetto dove si trova, col Sole che sprigiona
i suoi raggi prepotenti su di lui, ma Eren si limita a premersi i
palmi contro gli occhi e si pulisce le lacrime sui pantaloni. Sente
qualcuno avvicinarsi dietro di lui e sta per ringhiare a Mikasa che
scenderà quando è pronto, dannazione, quando la persona gli dice:
"Non metterti ancora le mani negli occhi, è
disgustoso."
Abbassa le mani - non si era neanche accorto di aversele portate nuovamente sul viso - e guarda verso il
Capitano Levi. "Penso che un'infezione agli
occhi sia la minore delle mie preoccupazioni, a questo punto."
Gli risponde.
Il Capitano Levi grugnisce
un assenso e si siede di fianco a lui, con la gamba sana piegata
sotto il suo corpo e quella malandata che pende oltre il bordo del
tetto. Offre ad Eren un fazzoletto dalla sua tasca e il ragazzo lo
accetta, nonostante le sue parole.
"Non sto piangendo
perché-" Eren però si ferma, perché non ha bisogno di
giustificarsi col Capitano. "Finirò il mio
compito," Gli dice. "Davvero, andrò avanti fino alla fine. Finirò tutto
questo."
Sa di apparire patetico, con gli occhi rossi e
il moccio al naso, ma la risposta del Capitano
non lascia spazio ad alcun dubbio. "Lo so."
E
aveva messo la sua fede in Eren Jaeger.
Quello era un altro
modo in cui questo Levi e l'altro erano diversi, anche se a pensarci
meglio non era così grande, la differenza. Nonostante tutto il
cinismo e la diffidenza di cui era capace il Capitano, non
poteva pensare a qualcun altro che avesse dentro di sé così tanta fede.
Magari, se ci fossero state religioni diverse, sarebbe stato
religioso. Invece al tempo aveva dovuto limitarsi a semplici esseri
umani.
Oscar aveva finito il suo secondo bicchiere d'acqua e
stava sciacquando una mela, quando Levi apparve nella cucina col
rosario in mano. Era stato chiaramente un momento privato, ma gli
sembrava strano far finta di non aver visto niente, così gli chiese:
"Sei cattolico?"
"Vado ad una scuola
cattolica."
"Sì, ma non devi essere cattolico per
andarci."
Levi alzò un sopracciglio, come se Oscar fosse
particolarmente stupido. "Sono messicano."
"Mi
stai incoraggiando a stereotiparti?" Gli sorrise, prima di
mordere la mela. Mentalmente mise al sicuro la nuova informazione.
Messicano. Il suo originale latino americano non era stato così
sbagliato. Sembrava fluente in spagnolo, da quel poco che aveva
sentito, ma il suo inglese era privo di accenti, quindi concluse che
o era nato negli Stati Uniti o ci si era trasferito quando era molto
piccolo. La voglia di chiedergli altro era forte, ma resistette. Levi
non aveva ancora detto nulla sull'argomento, quindi doveva essere
off-limits. "Vuoi fare colazione?"
#
L'anno
scolastico finì. Levi rimase. Chloe e sua madre presero parte al
ristrettissimo gruppo di persone che sapevano di Levi, anche se
ricevettero una spiegazione differente da quella che aveva dato ad
Alexis. A Chloe disse semplicemente che c'era qualcuno che sarebbe
stato da lui per un po'. A sua madre aveva detto che si era trovato
un coinquilino, cosa che le fece un piacere immenso, dato che si
preoccupava costantemente di saperlo da solo. Voleva sapere tutto su
Levi, quindi condivise quello che poteva, stando attendo a non
parlare del fatto che suddetto coinquilino andasse alle superiori e
che, probabilmente, era scappato di casa.
Con l'andare del
tempo la versione del coinquilino divenne realtà.
"Ho
trovato un lavoro." Annunciò Levi.
Oscar era nel bel
mezzo della sua routine del prepararsi prima di andare al lavoro, ma si gelò.
"Sì? Sei fortunato, non ci sono molti posti che cercano
dipendenti di questi tempi."
"Il fratello del mio
coach ha un ristorante: ha messo una buona parola per me."
Oscar
realizzò che era ancora piegato e finì di mettersi le scarpe. "Il
tuo coach?"
"Facevo orienteering e il velocista a scuola,"
Il ragazzo si corrucciò. "Nessuno scherzo sui messicani e lo
scappare. Giuro, se devo sentire ancora qualche battuta di
merda--"
"Non mi è neanche passato per la testa."
Lo rassicurò. Dato che Levi sembrava più chiacchierone del solito
si azzardò a fare un'altra domanda. "Hai fatto
gare?"
Tipicamente, quando faceva delle domande, Oscar
riceveva un'espressione infastidita. Ma, quella mattina, il ragazzo
sembrava abbastanza distratto da qualcosa. "Per lo più i cento
metri e il salto agli ostacoli."
"Hm." Avrebbe
voluto chiedergli qualcosa di più, ma decise per il contrario.
"Quindi ti sei trovato un lavoro. Sei stato bravo."
"E'
solo part time, per ora, ma probabilmente presto riuscirò a prendere
più ore. Oltretutto è abbastanza vicino." Levi incrociò le
braccia sul petto e se le strofinò con le mani, come se avesse
freddo. Impossibile. Era giugno, il giovane aveva addosso una felpa
e il condizionatore dell'appartamento non funzionava così
bene. Oscar realizzò, un po' in ritardo, che Levi era nervoso -
un'emozione che non era abituato a vedere su di lui. "Quindi mi
stavo chiedendo se potessi rimanere qui. Permanentemente. Pagherò
metà affitto."
Lo spettro di Eren soffrì all'idea di
prendere i soldi di Levi - il Capitano Levi non gli doveva
niente, era Eren a dovergli pagare innumerevoli debiti - ma Oscar
sapeva che sia quel Levi che questo avevano bisogno della loro
indipendenza. "Non posso chiederti metà dell'affitto, quando
non hai neanche un vero letto su cui dormire. Un quarto."
Levi
serrò le labbra. "Metà."
"Un quarto- Ah,
dannazione," Mormorò, alla vista dell'orologio. "Devo
andare via. Possiamo discuterne più tardi."
Gli ci volle
un po', entrambi cercarono di fare il più testardo dell'altro, ma
alla fine si decisero per un quaranta percento. Oscar pensò che
doveva contarla come vittoria - questo Levi sapeva essere più
testardo del Capitano.
#
L'estate proseguì
lentamente. Senza neanche parlarne si trovarono la loro routine -
lavoro, pulizie di casa, spesa, cucinare, guardare film disney o
telefilm la notte tarda. La vecchia routine di Oscar cadde a pezzi,
lentamente rimpiazzata con quella nuova, ma non era così male. Non
si era reso conto quanto gli era mancato vivere con qualcuno.
Se
qualche familiare di Levi aveva cercato di contattarlo, lui non lo
sapeva. Nessuno aveva chiamato, nessuno aveva mandato un sms. Al
contrario, il servizio telefonico del giovane si era improvvisamente
interrotto, quindi Oscar lo portò a comprarsi uno di quei telefoni
che richiedevano il pagamento solo quando usati. Dall'esterno Levi non
sembrava agitato, quindi Oscar non disse nulla. Ma al pensiero dei
lividi sul collo del giovane, ormai guariti tempo fa, la rabbia
bruciava silenziosamente nel suo petto.
Levi, dopo aver
apparentemente deciso che Oscar non stava giocando a qualcosa che
avrebbe giunto la sua fine con la sua morte e il suo corpo freddo in
fondo ad un fiume, iniziò a mostrare una certa curiosità in lui,
nonostante continuasse a seguire qualsiasi suo movimento. Iniziò con
un casuale "Dove lavori?" e continuò con decisione. Oscar
era più che felice di soddisfare la curiosità del giovane - non
solo gli dava la possibilità di fargli alcune domande, ma gli
sembrava di formare una specie di relazione con lui, a quel modo,
qualcosa di più permanente che usare il divano di uno sconosciuto e
ancor più profondo di essere semplicemente coinquilini.
"Tua
mamma è molto bella." Commentò un giorno il ragazzo. Oscar
alzò lo sguardo dal suo portatile e notò Levi esaminare una delle
sue vecchie foto di famiglia, l'unica in cui erano in quattro e non
in due.
"Sì," Concordò. "Anche se adesso ha i
capelli completamente grigi. A causa mia, probabilmente."
"Non
le somigli molto."
Era vero. Gli unici geni che aveva preso da
lei erano la pelle scura e la fossetta sul mento. "Lei dice che
assomiglio molto a mio padre."
"Non è lui, vero?"
Gli chiese Levi, puntando la foto. "Avevi detto che tuo padre era turco."
Sapere che il ragazzo ricordava quel
dettaglio che gli aveva detto settimane prima lo compiacque
immensamente, anche se fu attento a non mostrare nulla. "Già.
Quello è Dan. Il mio patrigno."
"Sorella acquisita?"
Tirò ad indovinare Levi, portando l'indice contro la quarta persona
nella foto.
"Lisa. Sorella da parte di madre." Lo
corresse. Poi, dato che aveva imparato che era sempre meglio
liberarsi in fretta della seconda parte del discorso, disse: "E' morta
quando aveva sei anni. Cancro. Mia mamma e Dan si sono lasciati poco
dopo." Suppose che era stato troppo doloroso per loro stare
assieme, sopportare il costante ricordo di cos'avevano avuto e perso.
Ma quando era stato più piccolo, non era riuscito ad evitare di
provare risentimento verso Dan, per aver lasciato sua madre quando
era così addolorata. Oscar aveva avuto quattordici anni al tempo ed
era completamente impreparato alla depressione di sua madre, ma aveva
fatto il possibile per evitare che annegasse nella sua
miseria.
Solitamente la gente esprimeva condoglianze o
mormorava vaghe frasi comprensive dopo aver sentito di Lisa, ma Levi
si limitò a studiare il ritratto in silenzio.
"Hai
fratelli?" Oscar aveva evitato di chiedere qualsiasi cosa sulla
famiglia del ragazzo, ma aveva aperto la discussione da solo con le
sue domande. Inoltre l'argomento fratelli era sicuramente migliore di
quello dei genitori.
Levi volse lo sguardo verso di lui, come
se fosse stato preso alla sprovvista. "No," Gli disse,
mettendosi le mani nelle tasche della sua inseparabile felpa. "C'ero
solo io."
Ero. Oscar si chiese tutto il pomeriggio il
significato di quella parola.
#
Nonostante il piacere
di iniziare lentamente a conoscersi a vicenda - che Levi non fuggisse più
alle sue domande come avrebbe fatto un gatto selvatico alla vista di
una mano - Oscar avrebbe preferito che alcune cose rimanessero un
segreto ancora per un po'. Specialmente la sua malattia.
Nelle
ultime due settimane era stato abbastanza fortunato. Nessun episodio
di grave depressione o ansia. Nessun attacco di panico o flashback.
Prendeva sempre i farmaci la notte, quando era solo, e se Levi aveva
notato come diventasse agitato quando qualcosa interrompeva i suoi
piani o come sussultasse ai rumori improvvisi, non gli aveva detto
niente.
Poi, la tempesta.
La pioggia? Non era un
problema. I tuoni? Se si preparava ai botti, non erano troppo
terribili. Ma i fulmini - l'effetto che avevano i fulmini su di lui
erano imprevedibili e per Oscar imprevedibile equivaleva a pericoloso.
Quella
tempesta era violenta. Aveva seguito il meteo sul cellulare tutto il
giorno, ascoltandolo con trepidazione mentre i suoi compagni di
lavoro facevano sicuro di arrivare a casa prima che il tempo
continuasse a peggiorare. Non prese parte agli scherzi: se la
tempesta fosse iniziata prima che fosse riuscito a lasciare il
laboratorio, non avrebbe potuto neanche rischiare di
guidare.
Fortunatamente la tempesta gli lasciò il tempo di
arrivare a casa. Quando entrò, però, aveva i nervi alle stelle. La
pioggia batteva contro le finestre, non diversa da un ringhio
costante. Le sue pulsazioni correvano con essa, assordandogli le
orecchie. Lo fece sussultare, vedere Levi nell'appartamento - come si
era dimenticato di lui, non lo sapeva - e la sua vista fece
deragliare il suo piano di andare a nascondersi nell'armadio della
sua camera da letto e mettere la musica nell'iPod a massimo volume
finché la tempesta non fosse passata.
"Stai bene?"
Gli chiese il ragazzo.
"Uh." Si leccò le labbra,
nonostante avesse la bocca secca a causa del suo respiro affannoso.
"Sì." Le nuvole si stavano scurendo, fuori. Un'ondata di
paura lo colpì e capì che se non avesse avuto un flashback, un
attacco di panico non glielo avrebbe tolto nessuno. "Ho solo
bisogno di... Ho bisogno di..."
Voltò un attimo lo
sguardo sulla finestra, proprio quando un fulmine colpì il
terreno.
Un lampo - enorme, accecante, sfolgorante - a poco
meno di cinquanta metri di distanza. Reiner sta arrivando.
Eren
valuta la situazione in un singolo battito di cuore. Lui e il
Capitano sono entrambi privi del Movimento.
Connie e Jean avrebbero dovuto portargli dei rifornimenti, ma non
avevano tempo da aspettare. Reiner non si sarebbe trasformato
se non fosse stato a conoscenza della loro posizione. Avevano pochi
secondi, un paio di minuti al massimo, prima che le costruzioni prendessero a crollargli in testa. Doveva trasformarsi.
Sarebbe riuscito ad occuparsi di Reiner, immobilizzandolo almeno
momentaneamente, ma la lotta sarebbe stata rischiosa senza alcun aiuto. Il
resto della squadra li avrebbe sicuramente
trovati velocemente, se si fosse trovato nella sua forma da titano,
ma quanto velocemente? No. Doveva trasformarsi,
afferrare il Capitano e scappare. Sarebbe
riuscito senza dubbio a seminare Reiner, anche se il Capitano
non avrebbe apprezzato essere maneggiato come una bambola. Ma
dovevano andarsene, ora.
Si morde la mano e il familiare
sapore del sangue gli inonda la bocca. Nient'altro.
No. No,
no, no, non proprio ora. Reiner li avrebbe raggiunti a momenti, così
si riempie la testa dei suoi obiettivi - lunghe, potenti gambe
apposite a correre, un forte torso e braccia adatte a combattere, se
necessario, afferrare Levi, correre, non combattere se non
necessario, tenere Levi al sicuro, non morire - e si morde nuovamente
la mano. Altro sangue, altro niente.
Il Capitano
gli urla qualcosa, probabilmente chiedendogli cosa c'è che non va,
ma Eren non lo ascolta perché non lo sa e ha bisogno di
concentrarsi. Stringe i pugni e il dolore gli percorre tutto il
braccio, alza nuovamente la mano per affondarci i denti un'ultima
volta. Ma il Capitano gli afferra il braccio e
glielo allontana dalla bocca.
"Un'altra volta,"
Gli dice Eren. "Posso farcela, Capitano."
Strattona il suo braccio dalla presa dell'uomo, ma Levi non lo molla.
Cerca di portarsi il braccio libero alla bocca, ma Levi lo blocca.
"Capitano!" C'è rabbia sul volto di
Levi, ma è quasi annullata dalla paura e questo fa bloccare Eren,
perché non l'ha mai visto così spaventato. "Cosa
vuoi che faccia? Capitano, cosa devo fare? Dimmelo!"
Levi
sta parlando, ma Eren non lo sente. C'è un botto, Reiner si sta
avvicinando. In qualsiasi momento, ora, potrebbe trovarsi davanti a
loro. Se Levi non lo lascia trasformarsi allora
devono muoversi, nascondersi, fare qualcosa, così cerca di fuggire
nuovamente alla stretta del Capitano. "Sta
arrivando, Capitano. Dobbiamo- Lasciami andare!"
Tutto ciò che ha appreso durante l'addestramento, tutta la sua
testardia, lo stanno abbandonando. Levi ha paura e se Levi ha paura
non c'è più nulla da fare.
I suoi occhi corrono lungo la
stanza, cercando disperatamente qualsiasi struttura che avrebbe
potuto nasconderli giusto il tempo che gli ci vuole per trasformarsi.
Ma è tutto inutile, non c'è niente qui che possa sopportare il
titano di Reiner, nulla-
C'era una
strana poltrona in mezzo alla stanza. Era blu, blu reale, e il suo
cervello si concentrò su quel particolare. Una poltrona blu. Una
morbida poltrona blu. Automaticamente iniziò a catalogare i suoi
altri aspetti. Grossi cuscini, coi poggia braccia in legno ai
fianchi. C'era una piccola macchia su uno dei poggia braccia, una
macchia che non era mai riuscito a rimuovere dopo averci versato del
caffè. Una poltrona molto comoda. Reclinabile. Ogni tanto ci si
addormentava mentre guardava la tv, ma solo quando era
particolarmente esausto.
Una reclinabile blu. La sua
reclinabile. Si trovava nel suo appartamento.
Lentamente
spostò la sua attenzione dalla reclinabile al pavimento, poi alla
lampada lì vicina, elencando tutti i dettagli che aveva memorizzato
nei suoi esercizi giornalieri. Si trovava nel suo appartamento. Aveva
avuto un flashback. Stava bene.
Quasi ci credette.
"Oscar?
E' tutto finito? Puoi stare fermo e... Non fare nulla, mentre vado a
cercare delle bende o qualcosa di simile?"
Si voltò
verso la voce e sbatté le ciglia, alla vista del Capitano.
"Capitano? Perché sei... Non dovresti trovarti nel mio
appartamento." Avrebbe dovuto?
Levi scosse la testa.
Da quando i suoi capelli erano così corti? "Ok. Va bene. Non
posso ancora capirti." Si alzò con le mani di fronte a lui,
come se si trovasse davanti ad un animale selvatico.
"Io non
so- Devo andare a prendere il kit di primo soccorso. Se ne hai
uno. Non muoverti. Non fare nulla. Torno subito. Ok?"
"Sì,
signore." Gli rispose, con la mente ancora offuscata ma
coerente abbastanza da recepire l'ordine. Si sentiva dolorante, la
testa gli girava e si trovava nel suo appartamento, in un mondo privo
di titani e Levi era con lui. Ma Levi stava andando da qualche
parte. Sarebbe tornato, gli aveva detto.
Aspetta. Perché era
sdraiato sul pavimento?
"Ok?" Gli chiese nuovamente
il ragazzo. Annuì, troppo esausto per fare altro, e il Capitano
questa volta lasciò la stanza. Chiuse gli occhi e per qualche
momento si concentrò sul suo respiro. Profondo. Lento.
Ritmico.
Levi tornò così come gli aveva detto, con una
scatola in plastica rossa tra le mani. L'aprì e iniziò a rimuovere
gli oggetti al suo interno, prima di dirgli di dargli la mano. Obbedì
e rimase scioccato nel vedere quanto sanguinosa e squarciata fosse,
quando Levi la prese fra le proprie. Si era trasformato? O
aveva cercato di farlo? Ma si trovava nel suo appartamento. In
qualche modo... Quelle due cose non funzionavano assieme.
Mentre
Levi si prendeva cura della sua mano, capì. Aveva avuto un
flashback. Quello era Levi, ma non il Capitano Levi. Reiner
non stava arrivando, non sarebbe mai arrivato, era stata colpa della
fottuta tempesta. Del fulmine.
"Scusa," Raspò.
"Eri... Eri spaventato."
Levi non alzò gli occhi
dalla sua mano, continuandola a coprirla con garze e bende. "Sei
tornato a parlare inglese, eh?"
"Scusa." Lasciò
gli occhi vagare per la stanza, chiedendosi quanto tempo aveva perso.
Non aveva avuto un flashback così vivido da anni. Il ragazzo finì
di sistemare la sua mano, così strinse le dita. "Non ho mai
morso delle persone." Gli sembrava un importante dettaglio da
dire. Certo, aveva dei problemi, ma non quei problemi.
"E
il resto?" Guardò Levi con sguardo vuoto, finché
quest'ultimo non si chiarì. "Il resto è normale? Il...
Qualsiasi cosa sia stata?"
"Un flashback."
Portò la mano ferita sul petto. Il bendaggio del giovane era
estremamente ordinato e ne studiò le linee, prima di ricordare che
Levi gli aveva chiesto qualcos'altro. "Hai detto... Scusa, ma è
difficile... Concentrarsi. Dopo."
Levi chiuse la cassetta
di colpo. "Vuoi smetterla di scusarti?"
Il
Capitano si volta verso di lui, lanciandogli
un'occhiataccia. "Se vuoi che lo faccia, allora
smettila di scusarti!" Non è la furia a spaventarlo,
anche se non ha mai visto Levi così arrabbiato, ma è quel luccichio
di dolore in quei suoi occhi grigi a farlo. Per un momento ci
ripensa, quasi ritrae la sua richiesta.
Alla fine, invece,
raddrizza le spalle. "Per favore."
Voleva
ridere. Voleva piangere. Invece si obbligò a mettersi lentamente in
piedi. Levi gli si mise immediatamente al fianco, afferrandogli un
braccio per fargli mantenere l'equilibrio. "Letto." Gli
disse e il ragazzo lo aiutò a camminare fino alla sua camera da
letto, con una mano sulla sua schiena, fino a che non riuscì a
collassare sul materasso e infilarsi sotto le coperte. In una serie
di mormorii, chiese a Levi di prendergli la sua coperta appesantita
da uno dei cassetti del mobile.
Levi lo coprì con essa, poi
gli chiese: "Hai bisogno di qualcos'altro?"
"Puoi
chiudere le tapparelle?" Gli domandò. Il giovane lo fece. Al di
fuori, la pioggia continuava a battere, anche se con meno ferocia di
prima. Controllò la sveglia sul suo comodino e scoprì che era
passata solo un'ora da quando era tornato a casa. Solitamente, dopo
un episodio del genere, gli ci voleva molto di più per riorganizzare
i suoi pensieri.
Realizzò che doveva ancora dare una qualche
spiegazione a Levi. "Soffro di disturbo post traumatico da
stress." Levi finì di abbassare le tapparelle e si mise a
sedere su un angolo del materasso, senza dire nulla. "E'..."
Non finì la frase, insicuro sul come spiegarsi. La sua mano pulsò
dolorosamente, così la mise sotto il cuscino.
"Lo so cos'è
il disturbo post traumatico da stress," Gli disse Levi. "Ne
soffrono un sacco di veterani."
Si ricordò di quando
Levi gli aveva chiesto se aveva fatto parte dell'esercito, quella
notte in cui si erano incontrati, e di avergli dato una risposta
vaga. Il giovane sembrava averci creduto. "Sì. Sto molto meglio
di prima, ma ogni tanto i lampi e... Altre cose mi inducono un
flashback." Con la finestra coperta, la stanza era troppo buia
per vedere il viso di Levi, ma poteva dire che lo stava studiando.
"Non sono pericoloso." Gli sfuggì alle labbra. Uno dei
tanti stereotipi di chi soffriva di DPTS era proprio quello. "Non
ho mai fatto del male a nessuno." O, almeno, non fino ad ora.
Non era certo di cosa sarebbe potuto accadere, se avesse scambiato
qualcuno per un nemico durante un episodio. E se sua madre fosse
stata lì, avrebbe sicuramente detto di come si era fatto del male da
solo troppe volte di volte.
"Hai bisogno di qualche
medicina?" Gli chiese Levi, ignorando la sua ultima frase. "Per
la tua mano o per il tuo disturbo."
Scrollò la testa,
accoccolandosi sotto le coperte, portandosi le ginocchia al petto
sotto la coperta appesantita. Avrebbe dovuto prendersi la sua dose
prima di andare a letto, ma sarebbe dovuta passare ancora qualche
ora. Per ora voleva solo superare ciò che era appena accaduto,
calmarsi e tornare pienamente in possesso del suo corpo. La sua mente
era illuminata da sprazzi di luce accecante, che altro non facevano
che far sembrare più buia l'oscurità circostante. "Più tardi.
Solo... Dammi un momento."
Voleva che Levi rimanesse con
lui, ma sarebbe stato troppo imbarazzante chiederglielo.
Fortunatamente non ebbe bisogno di dire nulla, perché il ragazzo non
si spostò dall'angolo di letto che aveva fatto momentaneamente suo.
Sollevato chiuse gli occhi e si concentrò nuovamente sul respirare.
Dopo qualche minuto schiuse le palpebre e riprese a elencare tutto
ciò che c'era attorno a lui. Aveva iniziato a praticare questi
esercizi sotto consiglio di Alexis. Avevano provato diverse tecniche
nei primi stadi della sua malattia - odori e sapori forti su cui
concentrarsi, tenere tra le mani dei cubetti di ghiaccio fino a che
il suo cervello non potesse più ignorare la sensazione -, ma aveva
sempre avuto risultati migliori usando la vista. L'allarme digitale
sul comodino, col suo rivestimento in plastica e numeri rossi e
luminosi. Le sue scarpe da corsa gialle e verdi che lo aspettavano di
fianco all'armadio. La ventola da soffitto, al momento immobile, con
le sue lame in legno che puliva ogni sabato. Evidenze inconfutabili
del mondo in cui si trovava - quello di Oscar.
Era
Oscar.
Oscar si mise lentamente a sedere, lasciando le coperte
scivolargli via dal petto. Levi era ancora lì, lo stava
guardando.
"Stai meglio?"
"Per lo più."
Mise i piedi sul pavimento, spostando lentamente il suo peso fino a
quando fu certo di riuscire a sopportarlo. "Dovrei provare a
mangiare qualcosa."
Il ragazzo lo fece sedere al tavolo
della cucina e aspettare, mentre scaldava qualche avanzo dal frigo,
anche se Oscar si sentiva abbastanza bene da potersi arrangiare.
Tuttavia Levi sembrava ben deciso ad aiutarlo, così lo lasciò fare.
Chloe e sua madre si erano sempre comportate allo stesso modo. Quando
se ne era lamentato con Alexis, la ragazza gli aveva detto di
immaginare di assistere a qualcun altro nel bel mezzo di un flashback.
"Non puoi fare molto, quando qualcuno si trova in quella
situazione. Si sentono impotenti. Quindi voglio aiutarti in qualsiasi
modo, quando inizi a riprenderti."
Buone intenzioni o
meno, era ugualmente un po' irritante. Tuttavia Oscar sapeva che
quelle sensazioni erano dovute a quanto fosse esausto emotivamente e
fisicamente, quindi lasciò che Levi continuasse a prendersi cura di
lui. Almeno né Chloe né sua madre erano state assillanti.
Neanche
Levi sembrava esserlo. Quando il microonde suonò, posizionò il
piatto di fronte ad Oscar e poi prese a prepararsi il suo. Oscar
mangiò metodicamente, concentrandosi sui sapori e le consistenze del
cibo nella sua bocca. Dopo un po' anche il ragazzo lo raggiunse al
tavolo, facendosi il segno della croce e mormorando qualcosa in
fluente e rapido spagnolo che gli parve più una canzone che una
preghiera. Poi prese la forchetta e, senza esitazione, disse: "Prima
hai continuato a chiamarmi in un certo modo." Levi cercò di
gorgogliare la parola, facendo sorridere Oscar.
"Capitano."
Lo corresse, pronunciando ogni sillaba lentamente.
"Sì,
quello. E' turco o qualcosa?"
"O qualcosa."
Oscar parlava inglese e sapeva dire qualche frase in un'altra lingua
che gli aveva insegnato sua nonna prima di morire. I due anni di
francese che aveva fatto alle superiori non lo avevano aiutato
affatto, probabilmente dovuto anche al fatto che era più interessato
alle scienze. Non si era mai preso la briga di studiare il turco,
anche se sua madre aveva provato a convincerlo.
Per Eren c'era
stata un'unica madre lingua.
#
Oscar non aveva mai
creduto al destino o al karma. Era sempre stato convinto che la vita
si limitava aa accadere e non c'era un reale ordine delle cose.
Tuttavia, iniziò a pensare che forse c'era un certo equilibrio a
dettare le leggi del mondo. Perché pochi giorni dopo che Levi aveva
scoperto qualcosa che Oscar avrebbe preferito non scoprisse, lo
stesso avvenimento accadde all'incontrario.
Iniziò con una
tosse.
Oscar non ci diede peso all'inizio, pensando che
probabilmente Levi l'aveva presa al lavoro. Ricordava i suoi giorni
passati a fare il cameriere e di come i raffreddori e batteri si
passassero velocemente in un ristorante - orde di clienti contagiosi
che toccavano le sedie, i tavoli e i menù, assieme a dipendenti che
non potevano permettersi di rimanere a casa in malattia. La cucina
era sempre piena di antibiotici e litri di disinfettante per le mani
per i dipedenti. Ognuno diventava un genio nel fingere di star
bene.
Ma quando una semplice tosse divenne un terribile rantolio
umido iniziò a chiedersi come avesse potuto non essere annegato
prima d'ora. E, nonostante riuscisse a forzare zuppe, medicine e
riposo in più a Levi, quest'ultimo continuava a rifiutarsi di vedere
un dottore.
"Hai del liquido nei polmoni," Gli disse
Oscar. "Potresti avere la pneumonia o la bronchite o... O
qualcosa." Aveva furtivamente controllato i sintomi su un sito
di medicina, cosa che probabilmente non era stata un'idea brillante,
ma, Dio, Levi sembrava star davvero male.
"Non ci vado."
Rispose il ragazzo. La sua espressione era decisa, ma l'effetto fu
rovinato dalla sua voce debole.
"Se è una pneumonia
batterica non passerà da sola," Lo avvisò Oscar. "Peggiorerai
e basta." Levi non rispose, così continuò. "La pneumonia
più uccidere, sai?"
"Allora sarà meglio che non
sia pneumonia, eh?" Ringhiò il ragazzo, o cercò di farlo.
L'attacco di tosse che lo interruppe fece sembrare la sua frase un
mormorio.
Oscar lo lasciò stare, dopo quello, non volendo che
Levi si agitasse troppo nello stato in cui si trovava. Per un po',
almeno. Gli era impossibile ignorare il suo respiro appena accennato
e i suoi colpi di tosse, specialmente quando gli tutto ciò gli
ricordava la peste che aveva decimato Shiganshina quando Eren
era piccolo.
Quindi riprese presto a cercare di convincerlo di
andare al pronto soccorso per ore, fino a quanto Levi mormorò
qualcosa che lo fece tacere.
"Già lo so perché sto
male."
Il più grande si fermò a metà frase, aspettando
che l'altro continuasse. Tuttavia Levi non disse nulla, limitandosi a
fissarlo esausto da dove si trovava sul divano. Alla fine Oscar gli
chiese: "Perché stai male?"
Le dita del giovane si
strinsero attorno alla trapunta in cui si era acciambellato.
Allontanò lo sguardo, puntando gli occhi su un punto impreciso oltre
le spalle di Oscar. Sembrava esausto quanto il Capitano verso
la fine di tutto, sciupato ma ancora saldamente aggrappato all'ultimo
frammento di speranza dentro di lui. "Io... Io ho iniziato a fasciarmi." Allontanò la trapunta dal suo corpo, con mani
tremanti, anche se Oscar non capiva se fosse per il freddo o per il
nervosismo -, alzandosi la felpa e la maglietta per rivelare un ulteriore
strato al di sotto di essa.
Oscar sbatté le ciglia, cercando
di capire cosa stava vedendo, prima che tutto prendesse senso.
Inghiottì a vuoto, chiedendosi cosa dire, cosa fare, sentendosi
totalmente inadeguato. Chloe, avrebbe dovuto chiamare Chloe, lei
avrebbe saputo come comportarsi. Poi realizzò che era mezzanotte e
che Chloe probabilmente stava dormendo e, inoltre, Levi stava
aspettando che gli dicesse qualcosa e il suo viso diveniva ad ogni
istante passato sempre più teso.
Decise innanzitutto di
occuparsi dei problemi principali. "Da quanto? Cioè, quand'è
stata l'ultima volta che te la sei tolta?"
Il ragazzo
mollò la presa sulla felpa e la maglietta, tornando a stringere i
pugni sulla coperta. "Quando mi sono fatto la doccia."
A
meno che Levi non fosse riuscito a farne una davvero velocemente,
l'ultima volta che aveva fatto la doccia era stato il giorno prima.
"Non ci hai dormito, vero?"
Il giovane non rispose,
ma il suo sguardo colpevole bastò.
Oscar si morse il labbro
inferiore, cercando di formulare al meglio cosa voleva dire senza
apparire inappropriato. "Puoi toglierlo? Aspetta, non ti sto
chiedendo di smetterla di fasciarti, quello va bene, solo- Cazzo, hai
bisogno di respirare. Quindi... Per favore?"
Levi
non disse nulla, ma fece una smorfia, si alzò dal divano e si
diresse al bagno. Non appena la porta si chiuse Oscar si passò le
mani sul viso e si disse fermamente di darsi una calmata. Questo non
era il Levi cresciuto, non era il soldato maturo e sicuro di sé
stesso, che Eren conosceva. Era soltanto un diciassettenne
recentemente senza una casa e, per quanto ne sapeva- Merda, i suoi
genitori avevano scoperto che era trans e l'avevano cacciato? Merda,
merda - era probabilmente più spaventato di lui. L'ultima cosa che
voleva fare era metterlo nella situazione di decidere di
scappare.
Levi emerse dal bagno pochi minuti dopo, curvo e con
le braccia incrociate sul petto, la sua intera postura tesa anche
quando andò a sedersi sul divano il più lontano possibile da Oscar.
Al più grande faceva male vedere il giovane così a disagio, ma si
sforzò di assumere un'espressione serena. "Hey." Mormorò
piano. Levi lo guardò con diffidenza. "Va tutto bene. Puoi
respirare a fondo e tossire?"
Il ragazzo ridusse gli
occhi a due fessure, facendogli capire che al momento nulla andava
bene, ma almeno obbedì e inspirò a lungo e tossì forte. Il suono
che emise fu umido, ma nulla sembrava volersi muovere. Oscar
sussultò. Qualsiasi cosa Levi si fosse preso, era serio.
"Solo
perché sei a conoscenza del perché sei malato, non significa in
alcun modo che tu non debba andare a farti visitare da un dottore,"
Gli disse gentilmente. "Probabilmente avrai bisogno di un
antibiotico per guarire." Glielo aveva detto almeno un centinaio
di volte, però forse Levi adesso ci stava pensando seriamente.
"Non
penso di aver abbastanza soldi da poter andare dal dottore."
Mormorò il giovane.
"Lo pagherò io."
Il
semplice fatto che Levi non si oppose immediatamente gli fece capire
quanto esausto era. Il giovane cambiò posizione sul posto,
portandosi le gambe contro il petto. "A me... A me non piace
andare dal dottore."
Oscar lo poteva capire
perfettamente, anche se le sue ragioni erano diverse. "Potrebbe
aiutarti se parlassi prima io col dottore? Oh, potremmo anche cercare
online se ci sono dottori trans-friendly in città." Sicuramente
c'era un sito anche per quello. Internet aveva tutto, anche un
Facebook per le vite precedenti.
Levi lo fissò, col mento
appoggiato sulle ginocchia. Dopo un momento, il suo sguardo si spostò
sul tappeto. "Devo farmi fare una ricetta." Disse. Sembrava
che stesse parlando più a sé stesso che con ad Oscar, ma l'altro
annuì ugualmente. Il giovane sospirò e si alzò, con i pugni sui
fianchi. "Andiamo."
"Sei sicuro?" Gli
chiese Oscar.
"Andiamo." Sbottò il ragazzo.
Il
più grande lo seguì, fermandosi soltanto per prendere le chiavi
dell'auto, poi guidò fino alla clinica più vicina che teneva aperto
anche la notte. Levi rimase seduto sul suo sedile con la fronte
premuta contro il finestrino. Il silenzio tra loro fece agitare
Oscar, che di conseguenza pensò a qualcosa di cui parlare. Il
giovane non sembrava disposto a discutere, quindi si limitò a
chiedergli una cosa che lo stava preoccupando.
"Sai che
non dovresti tenere le fasciature per più di dodici ore, giusto?"
Iniziò, cercando di non apparire troppo condiscendente. "E che
è pericoloso dormirci."
"So come fasciarmi in
sicurezza," Lo interruppe Levi. "So anche che la fasciatura
che ho è una merda." Tossì, coprendosi la bocca col braccio.
"E' poco costosa. Fatta male."
Oscar non sapeva che
potessero esistere fasciature fatte male, ma si decise a scoprire
cosa costituiva una buona fasciatura e convincere Levi a lasciarlo
prendergliene una. Al ragazzo non sarebbe piaciuto - Oscar già si
stava preparando ad un'altra discussione -, ma avrebbe sempre potuto
ripagarlo più avanti. "Ok. Va bene. Quindi perché...?"
Lasciò la frase in sospeso, alzando una mano dal volante per
gesticolare vagamente nella direzione generale del
ragazzo.
Passarono svariati isolati, prima che Levi parlasse.
Quando lo fece, non fu una risposta alla domanda. "Lo sapevi? La
notte che ci siamo incontrati."
Oscar scosse la testa. La
domanda gli apparve pesante, carica di qualcosa che non capiva, e si
chiese perché non potessero aver avuto quella discussione mentre non
si trovava alla guida, in modo da poter dedicare tutta la sua attenzione al
ragazzo. "Non ne avevo idea."
Levi raddrizzò la
schiena. "Mi hai chiamato ragazzo." Disse. Oscar quasi non
riuscì a sentirlo, oltre il rumore dell'auto. "La maggior parte
della gente... Una volta che mi guarda bene, inizia a chiamarmi
ragazza. Non passo mai ragazzo per molto." Continuò, spostando
lo sguardo dal finestrino e Oscar allontanò un attimo il proprio
dalla strada, per incrociarlo con gli occhi del giovane. Levi
riprese, alzando un attimo la voce. "Però con te continuavo a
passare per ragazzo. Sempre. Non volevo che si rovinasse tutto. Non
volevo che tu... Ecco perché."
Oscar si prese un momento
per digerire il tutto. "Ok," Gli disse. "Tutto questo
ha un senso. E ti ringrazio per esserti fidato di me. Però..."
Portò nuovamente gli occhi contro quelli di Levi. Non era certo di
saper dire nel modo corretto una cosa che sarebbe potuta passare per
offensiva, ma doveva fare in modo che il ragazzo lo capisse. "Se
vuoi fasciarti in mia presenza perché ti aiuta, fallo, va bene.
Voglio che tu lo faccia, se ti aiuta. Però devi farlo sempre
in sicurezza, capisci? Se è ora di toglierla, toglila. Non devi...
'Passare', per me." Strinse le dita sul volante in un gesto
nervoso. "Lo so che sei un ragazzo... Farei davvero fatica a
guardarti e vedere altro che non sia un ragazzo."
Fortunatamente, Levi rilassò la postura. Era difficile da dire con
esattezza, però gli sembrava un poco compiaciuto. "Perché sai
tutte queste cose, comunque?"
"Oh. Non posso dire di
sapere molto." Si chiese un momento come spiegarsi, chiedendosi
come farlo senza fare outing a Chloe. Dubitava che la ragazza se la
sarebbe presa, ma sapeva che non era neanche giusto da parte sua.
Decise che, affinché non fosse andato sullo specifico o avesse
rivelato la sua identità, sarebbe andato tutto bene. "Nei miei
due ultimi anni di college ho condiviso la stanza con una ragazza
trans. Il primo giorno mi ha parlato di come si erano comportati i
suoi ultimi compagni di stanza e che se fossi stato uno stronzo
anch'io avrei dovuto dirglielo, così avrebbe richiesto un cambio di
stanza. Le dissi che non avevo alcuna intenzione di fare lo stronzo,
ma realizzai che non sapevo nulla sui transessuali e non
volevo fare il bastardo involontariamente, quindi..." Scrollò
le spalle. "Ho fatto delle ricerche."
Levi non parlò
per il resto del viaggio. Il silenzio era più rilassato in confronto
a prima, quindi Oscar non lo interruppe. Non fu fino a quando si
ritrovarono in una stanza d'attesa della clinica, mentre il più
grande si distraeva leggendo un vecchio giornale mentre Levi
compilava le sue schede, che quest'ultimo gli chiese: "Parli
ancora con lei?"
"La mia vecchia compagna di stanza?
Sì, quasi tutti i giorni." Dopo tutti quegli anni, dopo tutto
quello che era successo - i suoi problemi con la sua salute mentale,
la loro distanza fisica e la diversità delle loro strade - era
ancora la sua migliore amica.
"Posso parlare con lei?"
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