The Rest of Their Lives

di Wassat
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Part one ***
Capitolo 2: *** Part two (1/3) ***



Capitolo 1
*** Part one ***


TRoTL part one

Eccola qua, finalmente, la seconda fanfiction che già avevo detto che avrei tradotto. Ci ho messo tantissimo, ma alla fine ce l'ho fatta, solo non aspettatevi aggiornamenti regolari perché ha dei bei capitolozzi. Non so se questa sia una fic adatta a tutti, di certo a chi dà fastidio vedere un pg transessuale deve girare al largo. Qui non dico chi è, ma lo scoprirete presto. Eren, inoltre, qua non si chiamerà Eren, così come praticamente il resto dei personaggi non avranno il loro nome: lui si chiamerà Oscar. E' una reincarnation fic, la migliore che io abbia mai letto, un po' pesante ma stupenda. Spero piaccia anche a voi! Buona lettura.

Credits: i personaggi appartengono a Hajime Isayama, mentre la fanfiction appartiene a Zhedang. Mia è solo la traduzione :3

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In una vita passata, Eren Jaeger morì a ventidue anni, tre mesi e dodici giorni d'età.

In un'altra vita, Özgür Gözübüyük, di ventidue anni, tre mesi e dodici giorni d'età, scoppiò a piangere nel mezzo di una lezione di biologia molecolare. Le persone più vicine a lui si voltarono a guardarlo, quando non riuscì più a trattenere i singhiozzi. Dopo aver tentato di calmarsi senza alcun risultato, il ragazzo sbatté il proprio block notes nello zaino, che si mise in spalla, e uscì dall'aula. Quando arrivò al dormitorio aveva gli occhi opachi e arrossati, il suo respiro veloce e spezzato. La sua compagna di stanza, Chloe, lo salutò con un "Hey" distratto, ma quando non le rispose alzò lo sguardo dallo schermo del pc e gli chiese: "Oscar, stai bene? Cos'è successo?!"

Non lo sapeva. La testa gli doleva, come se stesse venendo penetrata da mille aghi e tutto gli appariva sbagliato: l'enorme campus che aveva appena attraversato, il mobilio e gli effetti personali presenti nel dormitorio, i capelli tinti di blu e verde di Chloe, anche la pelle scura delle sue mani. "Dove mi trovo?" Disse, o cercò di dire, perché il viso di Chloe si confuse, prima di mostrare panico.

"Oscar," Gli disse lentamente, alzandosi e avvicinandoglisi lentamente. "Non riesco a capirti. Stai bene? Perché piangi?"

E' appena iniziato l'autunno, ma una brezza gelida gli trafigge il viso con la candida promessa dell'inverno. Una giovane ragazza si volta verso di lui, i suoi capelli sono lunghi e neri e le ciocche della frangia le vengono scompigliate dal vento, quando lo guarda preoccupato. "Eren?" Gli chiede. "Perché piangi?"

Il ragazzo sbatté le palpebre, poi si asciugò il viso umido di lacrime. "Io... Non è successo nulla." Mise lo zaino sul divano, ignorando il tremito delle sue mani. "Ho solo... Ho solo bisogno di riposare. Devi prendere qualcosa dalla camera da letto?"

La ragazza serrò le labbra, ma seppur contrita scosse la testa, così Oscar sparì nella stanza. Si appoggiò con la schiena contro la porta chiusa per un momento, cercando un'altra volta di controllare il proprio respiro, prima di arrendersi. Si tolse le scarpe e i pantaloni e fece qualche passo tremolante verso il letto. La sua testa sembrava volergli esplodere. Chloe aveva ancora del Nyquil nel cassetto della scrivania dall'ultima volta che le era venuta la febbre. Il giovane ne ingoiò qualche pastiglia, prima di stendersi a letto e portarsi le coperte fin sopra la testa.

Dormì. Sognò.

Non era poi certo che quelli fossero semplici sogni.

#

Özgür Gözübüyük aveva ventidue anni, tre mesi e diciassette giorni d'età e la sua vita non apparteneva più solo a lui.

Lui era... Lui era Özgür Gözübüyük. Si chiamava così. Gran parte della gente lo chiamava Oscar. Era all'ultimo anno di college, dove frequentava biologia e chimica ed era pronto ad affrontare gli anni di specializzazione. Lui...

I primi giorni furono terribili. Ogni suo singolo pensiero era oscurato. Si svegliava ogni mattina, disorientato e con la testa che sembrava volergli esplodere, esausto come se avesse passato la notte a correre, piuttosto che dormire. Provava a mangiare, ma il cibo aveva un sapore strano, stucchevole, e comunque non aveva un gran appetito. Aveva i nervi fragili, saltava in aria per niente, rumori improvvisi lo spaventavano. Stare al chiuso lo faceva sentire in trappola, ma stare all'aperto lo faceva sentire troppo esposto.

Chloe lo pregò di andare all'ospedale, ma non riusciva neanche a pensare di metterci piede, non dopo mesi spesi lì dentro ad assistere alla morte lenta morte di sua sorella. Nascose il proprio cellulare, in modo che la compagna di stanza non potesse chiamare sua madre e farla preoccupare. Era orribile, ma neanche sapeva cosa fosse ad essere orribile, e la sua testa era troppo occupata a perdersi in pensieri frammentati, misti ad un'oscurità alla quale non sapeva far fronte. Saltò tre giorni di scuola e quasi non se ne accorse. Il buio copriva tutto.

Il buio copriva tutto, eccetto alcune volte, quando aveva questi... Flash... Di qualche luogo, qualche era, qualcuno. Come una candela, s'illuminavano debolmente, per poco, prima di svanire velocemente.

Col passare del tempo questi flash si allungarono. Poi presero a brillare con una luce, nella sua mente, che era anche peggio dell'oscurità.

Stava cercando di finire la ciotola di fiocchi d'avena, l'unica cosa che era riuscito a buttare giù recentemente. Chloe gliel'aveva preparata prima di andare alle sue lezioni mattutine. Non aveva esattamente voglia di mangiarli, ma la ragazza già si preoccupava troppo, minacciandolo di portarlo... Non sapeva neanche dove, ma un ospedale psichiatrico sembrava idoneo. Il pensiero lo agitava abbastanza da fargli stringere il cucchiaio e portarselo lentamente alla bocca. Pensava di aver mangiato abbastanza per calmare Chloe, ma ormai non si fidava abbastanza di sé stesso per esserne sicuro. I suoi occhi abbandonarono il muro che stava fissando fino a quel momento, per cadere sulla ciotola mezza vuota e il cucchiaio in metallo e-

Una mano è impigliata in rossa e ustionante carne e lui tira e tira, ma non riesce a liberarsi. Perché è successo, perché ora e non prima in quel pozzo umido? Della gente sta urlando, "Perché adesso?" e "Rispondi, Eren!" e sono arrabbiati, spaventati e lo uccideranno se-

Chloe tornò dalle lezioni un'ora dopo e lo trovò acciambellato sul pavimento, perso e tremante e con una mano sanguinante, l'altra che continuava ad affondarci le unghie senza pietà.

I flash continuavano così, esplodendo nella sua testa come fuochi d'artificio, brillando prepotenti finché non si riducevano a minuscoli brillii. Lentamente, questi brillii si radunavano assieme, schiarendo in qualche modo l'oscurità, rendendola meno accecante.

Flash. Pensava a loro riferendosi a flash, anche se sospettava che flashback fosse una parola più corretta. Ma non potevano essere flashback. Non potevano. Queste cose non gli erano mai successe e non poteva averle represse in qualche modo, perché-- Titano. Era una parola che neanche esisteva, così strana che nessuna lingua al mondo potrebbe averla accettata come sua, eppure ne conosceva il significato.

Gigante. Mostro. Morte.

Questi... Flash... Flashback... Non erano suoi. Non appartenevano a Özgür Gözübüyük, eppure erano suoi perché lui era-

C'era qualcuno là, circondato dall'oscurità- no. C'era qualcuno responsabile dell'oscurità, che imprigionava Oscar dentro di essa e cercava di fargli perdere la ragione.

Lui è Eren Jaeger, a volte chiamato L'ultima speranza dell'umanità, un soldato, un membro della squadra speciale dell'Armata Ricognitiva, è anche un Titano.

Probabilmente stava impazzendo.

Giusto quando pensava che non avrebbe potuto sopportare di peggio, iniziarono a... Non migliorare, ma a divenire più tollerabili. Il costante dolore alla testa alle volte diminuiva fino a divenire un leggero pulsare. Dormiva più profondamente e riuscì a passare dai fiocchi d'avena alla zuppa. Si sentiva ancora da schifo, ben lontano dall'essere normale (neanche nella stessa galassia di normale), ma era migliorato abbastanza da poter mostrare il volto in classe e passare per gli uffici degli insegnanti per scusarsi e chiedere di allungare la data di consegna delle esercitazioni.

Ogni uscita dalla camera da letto lo stremava fisicamente ed emotivamente. Non poteva scrollarsi di dosso la costante e pungente preoccupazione che ogni edificio del campus potesse nascondere dozzine di Titani dietro di loro. Quando sedeva in classe o nel suo salotto, non poteva smettere di annotarsi le uscite e le possibili vie di fuga, sobbalzando ad ogni rumore inaspettato.

L'oscurità ancora lo assaliva. Poteva distinguere delle figure nel buio della sua mente, ma nulla di più.

I flashback diminuirono di frequenza, ma non si fermarono. Ognuno di loro lo lasciava turbato per ore, nella lotta di riprendere possesso del suo corpo, della sua mente, di sé stesso. Non tutti erano brutti - alcuni gli mostravano scorci di giornate tranquille, raramente anche gioiose - ma ognuno di loro lo spaventava, perché non sapeva quando e dove lo avrebbero assalito. E i flashback di cui aveva paura...

Non aveva più nulla nello stomaco, ma continuò a stringersi al gabinetto, premendo il viso accaldato contro la fredda porcellana. Chloe gli stava strofinando la schiena, cercando di calmargli gli ultimi tremiti. Il bagno del dormitorio era piccolo, non c'era posto per due persone, ma era felice che la ragazza fosse rimasta, perché lo aiutava a ricordarsi dove si trovava.

Non stava annegando in uno stomaco pieno di sangue e pezzi di persone, ascoltando le preghiere di aiuto dei soldati morenti. Era nel suo dormitorio, era giovedì e-

"Non hai un esame da dare?" Gracchiò. Chloe ne aveva studiato gli argomenti nei giorni precedenti, quando non era impegnata a prendersi cura di lui.

La giovane gli diede una pacca leggera sulla schiena. "Prenderò il massimo dei voti, posso permettermi un piccolo ritardo."

"Mi dispiace." Mormorò Oscar, asciugandosi la saliva che gli inumidiva il mento col dorso della mano. Aveva entrambe le braccia, entrambe le gambe, si trovava nel suo dormitorio, non all'interno di un Titano. Se lo stava ripetendo da un'ora e il suo cervello iniziava solo ora a credergli. "Di darti così tanti problemi."

"Sono solo preoccupata per te," Gli rispose la ragazza. "Inoltre ero ancora di debito con te dopo l'episodio col maniaco."

"Cosa?"

"Il mese scorso, all'Eclipse? Qualche coglione mi aveva infilato la mano sotto la gonna, chiedendomi se avessi il cazzo, e tu gli hai dato un pugno in faccia? Sono sicura che tu gli abbia rotto il naso."

Non gli veniva nulla alla mente. Scosse la testa, ma la ragazza non ci diede molto peso. "Lascia perdere, eri ubriaco, quindi... Beh, grazie. Anche se forse dare un pugno al ragazzo è stato un po' esagerato. Ah, per future occasioni: non puoi più entrare all'Eclipse."

"Tanto l'Eclipse è un locale di merda." Grugnì da dentro la tazza del cesso. Poteva ricordare di aver dato un pugno a qualcuno, per aver molestato un suo amico, ma l'amico era un ragazzo biondo, non Chloe. Armin, insistette una voce nella sua testa, un sussurro dall'oscurità. Il suo nome è Armin ed è il tuo migliore amico. Oscar ignorò quel pensiero e si spinse in piedi aiutandosi con la tazza del water. "Sto bene, adesso," Disse alla ragazza. "Vai a fare l'esame."

"Se ti senti meglio perché non mi accompagni fino alla classe?" Gli chiese Chloe, prendendo la borsa dal pavimento del bagno.

"Perché?"

"E' nello stesso edificio degli uffici medici." Gli rispose la giovane donna, andando subito al punto.

Il giovane sospirò e si massaggiò la nuca con una mano. "Non penso che questo sia il tipo di cose che uno psicologo dell'università sia pronto ad affrontare. Inoltre sto migliorando."

"Ma stai ancora male. Poi sì, non ho idea di cosa ti stia succedendo, ma farti vedere da qualcuno non può farti male, giusto? Non è che stai entrando in un ospedale psichiatrico." Chloe non lo disse, ma Oscar poteva sentire il suo pensiero "Però un ospedale psichiatrico non sarebbe male."

Non rispose. Voleva difendersi e dirle che non era pazzo, però non ne era più sicuro. Una sua possibile pazzia avrebbe avuto più senso di tutto il resto.

Tuttavia Chloe buttò il suo asso nella manica. "Se non fai qualcosa - che sia vedere uno psichiatra o un dottore o quel che vuoi, almeno una volta - dirò a tua madre cosa ti sta succedendo."

"Non hai il suo numero," Le rispose, confidente. Aveva controllato il suo cellulare un paio di ore prima, che si trovava nascosto nel fondo del cassetto dei calzini.

Chloe portò gli occhi al cielo. "Siamo amiche su Facebook. L'unica ragione per la quale non le ho ancora scritto è a causa della tua testardaggine. Però, se non cerchi aiuto-"

"Da quando siete amiche su Facebook?"

"Non lo so, un anno? Ti eri stancato di ricevere inviti per Farmville da me e lei, così ci hai presentate in modo che ti lasciassimo stare." La ragazzo notò l'espressione apatica del compagno di stanza e corrugò le sopracciglia. "Non te lo ricordi?"

Il giovane scosse la testa e l'espressione di Chloe s'incupì, prendendo quei toni preoccupati ai quali Oscar si era ormai abituato. Prima che la giovane donna potesse dire qualcosa, l'altro la interruppe. "Non dirglielo. Dopo mia sorella- Non voglio che si debba preoccupare anche per me. Non hai idea di come sia stata, quando mia sorella era all'ospedale. Se sente di questa cosa..."

"Allora cerca aiuto! Stai male, hai bisogno di farti aiutare," Insistette Chloe. "E io sto cercando di aiutarti, ma non ho idea di cosa fare... E-e..." La voce della ragazza tremò, improvvisamente, e Oscar notò con orrore i suoi occhi inumidirsi di lacrime. "... Mi stai spaventando, Oscar."

"Va bene, va bene, andrò a prendere un appuntamento." Le promise, avvicinando le mani alle sue spalle, insicuro di come rassicurarla. Non sapeva mai come comportarsi di fronte ad una persona in lacrime. Specialmente quando lui stesso sentiva lo stesso bisogno.

Chloe tirò su col naso, tentando di asciugarsi le lacrime senza rovinarsi il trucco. "Scusami. Non sto cercando di farti sentire in colpa, solo..."

"Lo so," La rassicurò. "Mi dispiace, so che è stupido non cercare aiuto. Ma io... Io non posso..." Non voleva scoprire cosa lo stava disturbando, perché se fosse stato qualcosa di terribile? Finché non ne aveva la certezza poteva far finta che tutto fosse a posto. Se avesse visto un dottore e così avesse scoperto che era... Schizofrenia o qualcosa di simile - così gli sarebbe sembrata una condanna. E se fosse stato chiuso in un ospedale? Non avrebbe potuto sopportarlo. Aveva passato troppe ore in ospedale, seduto ad aspettare per giorni e giorni che sua sorella morisse... Fino a ritrovarsi a sperare che succedesse il prima possibile, per il bene di lei e di tutti gli altri.

Però andare da un consulente... Quello sarebbe andato bene, giusto? Se non altro, avrebbe soddisfatto Chloe e magari una consulenza lo avrebbe aiutato.

Quindi prese appuntamento. O, più che altro, prese un appuntamento per sottoporsi ai controlli necessari per fissare un appuntamento vero e proprio. Magari il centro di consulenza non era troppo occupato o magari appariva così mal messo come si sentiva e la receptionist voleva aiutarlo il prima possibile. In qualsiasi caso, l'appuntamento gli venne dato per la mattina dopo.

La notte gli parve infinita. Ascoltò il respiro lento e regolare di Chloe provenire dall'altra parte della stanza - amandola e odiandola allo stesso tempo per obbligarlo a prendere certe decisioni - fino a ché riuscì finalmente ad addormentarsi. Sognò pacifici ricordi d'infanzia, scene che al mattino lo lasciarono nauseato, perché non ne ricordava nessuno ed eppure, in qualche modo, gli sembravano reali.

Chloe non aveva lezioni fino al pomeriggio, quindi si offrì di accompagnarlo all'appuntamento. Il giovane voleva rifiutarsi, ma tutto attorno a lui era offuscato e spento, come se si fosse svegliato ubriaco in una stanza sconosciuta, così accettò. Se si fosse perso nel campus dove aveva vissuto gli ultimi quattro anni, avrebbe finito col sentirsi ancora più pazzo. Senza dire che sarebbe arrivato tardi.

Le chiacchiere della compagna di stanza e il suo braccio attorno al corpo di Oscar lo aiutarono a raggiungere il centro di consulenza, dove lo lasciò con un tirato ma incoraggiante sorriso. "Buona fortuna." Gli disse, stringendogli un polso.

Oscar non sapeva perché  gli serviva la fortuna, per una consulenza, ma come saltò fuori, lui era fortunato a scatti. Questo perché, dopo aver compilato i questionari sul perché cercava una consulenza e sulla sua sanità mentale (dovendo per la sua infelicità dover crocettare 'il più delle volte' su troppe domande), venne mandato in una sala d'attesa per attendere la persona che gli avrebbe dato la consulenza e-

Lei gli diede la mano per stringerla, una scintilla di quello che sembrava riconoscimento sul suo viso, che rimpiazzò con un sorriso gentile, e si introdusse come Alexis Sanders, ma c'era un altro nome per lei.

"Mina Carolina." Gli sfuggì dalla bocca, quando strinse la mano della donna.

Era lei. I suoi capelli erano biondi, la sua pelle più chiara e il suo corpo più formoso, aveva anche più anni, probabilmente andava per i trenta, ma era Mina. Non poteva dire esattamente come potesse esserne certo, come l'aveva riconosciuta nonostante fosse così diversa, ma ne era sicuro. Mina Carolina del centoquattresimo squadrone d'addestramento.

Erano anni che non pensava a lei: era morta così tanto tempo fa - una dei tantissimi compagni persi in battaglia - ma era davanti a lui, ora...

... In una delle comode stanze del centro di consulenza.

Barcollò, con le ginocchia tremanti. Come poteva essere Mina, davanti a lui? Mina non era reale, ma lei - La nausea di prima tornò violenta e il suo cuore prese a battere così violentemente che era certo che sarebbe esploso; i polmoni sembravano non voler accettare aria perché Mina non era reale, lui era pazzo, ma Mina era lì e se lei era lì come poteva essere reale tutto quello che c'era nella stanza? Nulla di questo-

Una voce gli disse qualcosa, ma lui poteva a malapena sentirla tra i suoi ansimi e il cuore violento. Cercò di concentrarsi su di essa, lasciandosi portare verso- Eventualmente capì cosa quella voce stava ripetendo.

"Va tutto bene. E' giovedì mattina. Ti trovi al centro di consulenza dell'università. Non ci sono Titani in questo mondo. Sei al sicuro."

"Non ci sono i Titani in questo mondo." Ripeté. Le sue parole non erano in inglese ed erano completamente differenti a qualsiasi altro linguaggio che aveva studiato o sentito, eppure gli scivolarono dalle labbra come se avesse parlato quella lingua dalla nascita.

Da qualche parte nell'oscurità della sua mente qualcosa insistette: invece sì.

"Sì." Rispose la voce. Mina, realizzò, si era accucciata vicino a lui, stando però attenta a non occupare il suo spazio personale. "Concentrati sulla tua respirazione. Riesci a imitare la mia? Bene, bene, stai andando benissimo." Mormorò la donna, quando il ragazzo riuscì a calmare il proprio respiro, seguendo quello di Alexis.

"Tu sei-" Si bloccò, scrollando la testa, e tornò all'inglese. "Eri Mina."

"Lo ero," Gli rispose lei. "Lo sono."

"Non sono pazzo."

La bocca di Mina- no, la bocca di Alexis s'incurvò in un sorriso quasi impercettibile. "Preferirei non usassi la parola pazzo. Ma no, tutto questo è reale. Vuoi un po' d'acqua?"

Mormorò una negazione. Si sentiva ancora nauseato e la sua testa gli faceva ancora male, ma tutto questo si spostò in secondo piano quando cercò di capire come tutto questo potesse essere reale. "Come..." Sussurrò, fermandosi quando si rese conto che non sapeva neanche come iniziare.

Alexis lo portò gentilmente verso una sedia, dove il giovane si accasciò. Anche la donna si sedette e sospirò. "Quando avevo quindici anni, ricordai di morire." Iniziò. "Fu come trovarsi in un supermercato e ricordarsi di colpo di aver bisogno del burro, eccetto che fu molto più disturbante."

Gli sorrise triste, ma lui non era nella condizione di ricambiare. Imperterrita continuò. "Non sapevo cosa stava succedendo. Ne parlai con mio padre, ma mi disse che stavo immaginando tutto. Però sapevo che non era normale. Non ero io che mi immaginavo le cose, ma sembravano vere. La mia vita a Rose, gli anni d'addestramento, Trost. Non mi sembravano immaginazioni: mi sembravano memorie dimenticate. Poi incontrai Elisa."

La donna fece un gesto con la mano. "Non la conoscevi. Era la bambina più piccola dei miei vicini a Rose, morta a due anni per colpa di qualche malattia. Era più grande, quando l'ho incontrata, ma la riconobbi immediatamente."

"Lei..." Si fermò, cercando di formulare meglio la frase. "Aveva i suoi ricordi?"

Alexis ridacchiò cupamente. "E' morta quando aveva due anni. Per caso tu ricordi qualcosa di quando avevi quell'età?"

"E allora come puoi essere stata così sicura di non essere semplicemente pazza?"

La donna non commentò nuovamente sull'uso della parola 'pazza', prendendo invece una penna dalla scrivania davanti a lei e giocherellandoci. "Tutto è andato al suo posto, da quel momento. Ero morta a quindici anni. Io ho riavuto i miei ricordi a quindici anni. Lei è morta a due anni. Magari quando aveva due anni ha ricordato, ma essendo così piccola poi ha dimenticato." Alexis alzò gli occhi dalla penna, portandoli trionfante contro quelli del ragazzo. "Ed ora eccoti qui. Quanti anni avevi, quando hai iniziato a ricordare?"

Il ragazzo si mosse a disagio sulla sua sedia, sentendo la testa iniziare a girare. "Solo... Da poco. Ho ventidue anni."

"Quanti anni avevi, quando sei morto?"

E' inginocchiato sul pavimento in pietra, il freddo in qualche modo ha penetrato i suoi stivali e gli sta gelando le gambe. Tuttavia forse il freddo proviene da dentro di lui e non dal pavimento. Sa che dovrebbe essere grato di poter aver preso questa decisione, che la maggior parte della gente non può decidere nulla della propria morte, ma è davvero difficile provare gratitudine. Si sente... Rassegnato. Mentre chiude gli occhi una mano calda gli stringe la spalla, il cui pollice preme con forza sulla sua nuca. Fa un sorriso tirato: di questo, sì, ne è grato.

"... Ventidue." Ammise e una violenta emicrania prese a premergli nelle tempie. Fissò le proprie scarpe, cercando di allontanare l'immagine di stivali marroni che gli arrivavano alle ginocchia. "Quindi, questo è... Cosa, una vita passata?" Non riuscì a trattenere l'incrudelità nella sua voce.

Alexis scrollò le spalle, giocherellando con la penna tra le sue dita. "La reincarnazione ha senso, no? Dati i fatti, almeno. Non ne ero certa al cento per cento, prima, ma ora che sei qui, lo sono. Hai una spiegazione migliore?"

Lui si passò le mani sul viso, facendo una smorfia nel sentire la pelle umida. "Come puoi... Come puoi essere così?"

"Così come?"

"Così..." Non riusciva a metterlo a parole. Più che altro, non riusciva a capire come potesse apparire così normale mentre sedeva lì, un sorriso assente sul viso come se non venisse costantemente tormentata da chi era stata, come se la sua vita passata non fosse sì interessante, ma solo quanto lo poteva essere una strana voglia sulla pelle.  "Come se tutto andasse bene. Io sono stato... E' stato orribile."

Alexis appoggiò la penna sulla scrivania, prendendo un mano un block notes. Il ragazzo notò come la sala d'attesa si fosse riempita di gente. "Mi hai detto che hai ricordato recentemente. E' uno dei motivi per cui ti trovi qua?"

"E' l'unico motivo," Sottolineò. "Prima di questo, stavo bene. Ma da allora..." Oscar si torturò le mani con frustrazione. "Non riesco a dormire una notte intera. Sono troppo nervoso per mettermi a letto e, quando finalmente riesco, finisco con l'avere gli incubi. Sono... Sono spaventato tutto il tempo, senza alcuna ragione. Alcune volte è come se non sapessi chi sono, anche se dovrei." Si morse il labbro, inspiegabilmente imbarazzato nel dover spiegare la parte peggiore. "Ho... Ho avuto dei flashback. Di roba di... Prima. Però in quel momento è stato come se stessi vivendo quei momenti, mi era sembrato di trovarmi nel presente." Le porse le mani, che ancora presentavano le ferite che si era causato giorni fa, quando se le era graffiate a sangue. "E... Sto malissimo nelle ore successive."

Alexis lo ascoltò, annuendo e sfogliando le pagine del blocco note nel frattempo. "Non sono qualificata per fare diagnosi, ma quelli che mi stai descrivendo sembrano i sintomi del disturbo post traumatico da stress."

"Disturbo... Come quello dei soldati?" Le chiese, scettico.

"Non ne soffrono solo i soldati. Ma tu lo sei stato." Gli ricordò lei.

"Però io non lo sono," La corresse, con un tono di voce involontariamente tagliente. "Perché io... Quella roba non è successa a me!"

Il viso della donna si corrucciò momentaneamente, come se si fosse trattenuta dal dire qualcosa. La sua espressione si rilassò subito dopo e cambiò posizione del corpo, in modo da apparire più tranquilla. "Non è la stessa cosa per tutti, ma spesso i soldati e altre persone che subiscono eventi traumatici sono capaci di funzionare perfettamente in quel momento. E' solo dopo che il trauma è passato, che i sintomi iniziano ad apparire. Nel caso dei soldati, alcune volte la PTSD non si manifesta finché non si ritrovano a vivere una vita normale."

Si fermò momentaneamente, controllando che il ragazzo di fronte a lei la stesse seguendo. "Siccome stiamo parlando di te, non dubito che tu sia entrato a far parte dell'Armata Ricognitiva e che lì sei anche morto. Questo potrebbe essere la prima chance che il tuo cervello ha avuto per processare il tutto."

Voleva ribattere quando lei continuò a dirgli che lui era entrato a far parte dell'Armata Ricognitiva, ma poi realizzò quanto tempo fa Mina era morta. Dio, lei non aveva idea del fatto che lui fosse un Titano, non sapeva di Annie e Bertholdt e Reiner, non sapeva di Historia e Ymir, di come l'intera guerra - l'intero mondo - era cambiata dopo Trost.

Nell'averlo notato scioccato, Alexis esitò e gli chiese. "C'è un qualche evento particolare che ti ha disturbato più di tutti? Non devi dirmi nulla, se non vuoi."

Il ragazzo sbatté le ciglia, poi scoppiò a ridere perché quella era una domanda assurda. Un singolo evento? L'intera vita di Eren Jaeger, da quanto ricordava, era stata un trauma dopo l'altro. Le sue prime memorie erano quelle dei suoi vicini di casa che morivano di morti orribili a causa di una peste che stava sterminando l'intero distretto. C'erano dei bei ricordi, sì, specialmente durante la sua infanzia, ma tutto il resto era troppo. Pugnalare degli esseri umani neanche degni di quel nome, quelli che avevano ammazzato i genitori di Mikasa, così tante volte fino ad ammazzarli. Il distretto di Shiganshina che cadeva a pezzi sotto l'incredibile forza di un Titano immenso. Soffrire la fame a Rose e lasciare che degli scarti umani lo toccassero dove non avrebbero dovuto, solo perché era l'unico modo di trovare rifugio e guadagnare abbastanza soldi per mangiare, per sopravvivere.

E dopo, quando aveva preso parte agli addestramenti militari, le cose erano andate sia meglio che peggio.

Gli venne la nausea e inghiottì a vuoto, scrollando la testa. Eren era entrato a far parte dei militari, non lui. Doveva cercare di tenere le cose ben separate o avrebbe finito con l'impazzire. "Potrei avere un po' d'acqua?"

Alexis gli diede un bicchiere d'acqua e il ragazzo lo inghiottì in un sorso, accartocciando il bicchiere di carta quando finì di bere. "Quindi... PTSD? Cosa posso fare? C'è qualche farmaco che posso prendere?"

Alexis alzò una mano. "Fermati. Come ti ho detto, non sono qualificata a diagnosticarti qualcosa. Non sono neanche una vera consulente."

"Ma lavori qui."

"Sto facendo la stagista, qui. Non ho ancora preso la specializzazione." La ragazza afferrò il suo blocco note. "Sono solo qui per ascoltare e sedere alle sessioni a gruppi."

"Sì, ma-"

"E io ti ho solo ascoltato. Non possiamo proprio parlare di diagnosi e medicinali da prendere. L'unica ragione per la quale ti ho detto qualcosa è perché ricordo come ho cercato disperatamente delle risposte, quando ho iniziato a ricordare." Sbuffò un poco, alla fine del suo discorso, poi si scusò e gli rivolse un sorrisetto. In quel momento ricordò al ragazzo così tanto Mina che non riuscì a staccarle gli occhi di dosso.

Mina era stata una ragazza convinta in quello che credeva, veloce ad indignarsi quando qualcuno la sfidava e ugualmente veloce a calmarsi e ridere. Era una delle ragazze che ad Eren piaceva di più, tra quelle dell'addestramento, subito dopo Annie, ed era stato felice quando Mina era stata assegnata alla sua squadra perché sapeva che avrebbe preso le cose seriamente, quando necessario.

"Scusa," Le disse. "E' solo che... Cosa dovrei fare? Andare da qualche altro consulente e digli che ho dei flashback di una vita precedente?"

"Non hai bisogno di discutere dei dettagli. Nessuno ti obbligherà a parlare di qualcosa, se dirai che è off limits. Devi solo descrivergli i sintomi e-"

"Ma io voglio te. E' perfetto. Sei qui, anche tu ricordi questa roba, e sei una consulente."

Alexis si morse il labbro inferiore. "Non sono molto a mio agio con questa cosa. Non so se posso darti l'aiuto di cui hai bisogno. Senza parlare del fatto che dovrei calpestare migliaia di regole."

"Per favore?" Le chiese. "Non ho bisogno di molto aiuto. Sto migliorando. Sono venuto qui solo perché lo ha voluto una mia amica." Meglio era un termine molto relativo, ma il resto era abbastanza vero.

Gli ci volle ancora un po', ma alla fine riuscì a farla cedere e si misero d'accordo per i futuri appuntamenti e posti dove trovarsi, dato che il centro di consulenza non sarebbe stato un'opzione per appuntamenti clandestini. Oscar se ne andò con il numero di Alexis salvato nel cellulare, il compito di andare a leggere qualcosa sul disturbo post traumatico da stress e un calore nel petto.

Magari sarebbe davvero migliorato.

#


Grazie all'aiuto costante di Chloe, i consigli di Alexis e i suoi esercizi per ricordarsi dove si trovava e chi era, assieme alla clemenza dei professori, Oscar riuscì a finire l'anno e prendere la laurea. I suoi voti facevano schifo, in confronto ai semestri precedenti, ma era sopravvissuto e poco altro gli interessava, arrivato a quel punto. Nel giorno della laurea si svegliò ben riposato, dopo aver passato una notte senza sogni, e passò la cerimonia e la cena celebratoria senza alcun incidente.


Sua madre gli sorrise e pianse e gli fece almeno cinquecento foto. Anche il suo padre acquisito - o meglio ex padre acquisito, dato che lui e sua mamma si erano lasciati da anni - partecipò e gli diede una pacca sulla spalla, dicendogli: "Lisa avrebbe amato essere qui. Sono certa che ti sta guardando e che è molto orgogliosa del suo fratellone" E sentire nuovamente il nome di sua sorella non gli fece male tanto quanto prima, anche se non credeva nel paradiso. Anche Chloe si laureò nello stesso giorno e lo trovò in mezzo alla folla, dopo la cerimonia, per dargli un abbraccio stritolatore e fargli promettere che avrebbero continuato a sentirsi e che si sarebbe preso cura di sé stesso.

Cercò di prendersi cura di sé stesso. Davvero. Per qualche giorno navigò sulla soddisfazione di aver finito il college, ma alla fine i mal di testa e la sua incapacità di stare fermo e i flashback tornarono, alla fine la sua situazione peggiorò tanto quanto lo era stata prima - se non ancor di più. Decisamente di più.

Dato che in quel periodo viveva in casa, gli fu impossibile nascondere le sue condizioni a sua madre. La spaventò a morte la prima volta che lo svegliò durante un incubo e lui prese ad urlare una lingua che non conosceva, nascondendosi da lei perché non la riconosceva fino ad un'ora dopo, quando riuscì a tornare al presente. Louise voleva fare- qualcosa, fargli vedere un dottore almeno, ma riuscì ad evitare che lo facesse spiegandole che stava già vedendo un dottore (una piccola bugia, ma d'altra parte con Alexis ci parlava praticamente sempre) e che stava lavorando per migliorare. Non la convinse del tutto, ma anche lei sembrava ben decisa a non tornare in ospedale tanto quanto lui. Fece del suo meglio per nascondere i suoi attacchi e la sua paura a lei, successivamente.

I mesi successivi alla laurea passarono lentamente, dolorosamente e quasi non li ricordava. Aveva il bisogno di fare qualcosa - cosa, non lo sapeva neanche lui - ma non stava abbastanza bene per lasciare il letto ogni giorno e sorridere a sua madre. Quindi aspettò che l'estate finisse. Era stato accettato ad una scuola di specializzazione - non la sua prima scelta, ma comunque un ottimo programma - e in autunno si trasferì in un appartamento nella speranza che le lezioni e le ricerche lo tenessero occupato.

Brutta idea. Pessima idea.

Riuscì a superare le prime sei settimane del primo semestre. Non stava andando bene negli studi, i suoi coinquilini lo infastidivano e non aveva tempo per nulla, ma ce la stava facendo. Poi, una notte-

Si trova nella zona ad est di Maria e non riesce a trovare il resto della sua squadra da nessuna parte. Deve assolutamente trovare gli altri, ma prima deve capire dove si trova in modo da non imbattersi accidentalmente nel territorio dei Titani. Il panico gli sale fino al petto - Dove sono tutti? Sono al sicuro? Perché sono da solo? Ci sono dei Titani nelle vicinanze o è una zona pulita? - ma Eren è un soldato e ignora la sensazione. Non può perdere la testa nel mezzo del campo di battaglia.

Si trova a terra e non riconosce nessun punto di riferimento. Non vuole sprecare gas in quanto non sa quanto deve viaggiare, quindi si arrampica in un edificio vicino e controlla la zona. Le forme delle costruzioni sono strane, ma ne nota una in lontananza che gli sembra familiare.

Automaticamente sceglie uno degli edifici più vicini dove ancorarsi, poi indietreggia sul tetto per darsi dello slancio prima di saltare. L'intero processo nell'utilizzo del 3DMG gli è ormai automatico, dopo tutti quegli anni, che neanche deve più pensarci. Corre e salta dal tetto, lanciando i rampini e si dirige verso il prossimo-


I rampini non fecero presa nell'edificio. Cadde e il momento prima dell'impatto ricordò di trovarsi fuori dal suo appartamento, non a Maria, ed era solo perché qua era sempre solo e-

Era ancora fortunato. Qualcuno lo trovò incosciente e sanguinante e chiamò il 911. Sopravvisse alla caduta con qualche osso rotto e un sacco di lividi.

Sua madre si spaventò a morte. D'altra parte il suo poteva sembrare solo un tentativo di suicidio, anche se Oscar internamente pensò che se davvero avrebbe provato a suicidarsi, avrebbe scelto un edificio più alto. Cercò di spiegare a Louise che era stata un'allucinazione o qualcosa di simile, ma le sue rassicurazioni non lo aiutarono più di tanto, soprattutto quando la donna si voltò verso di lui e col viso pieno di lacrime gli chiese se davvero volesse morire.

Avrebbe dovuto dire che no, ovviamente non voleva morire, ma... Non lo sapeva se avrebbe potuto continuare a vivere così, a vivere una vita che non gli sembrava più sua. Quindi fu onesto con lei: "Sarebbe più semplice."

Quando finì di piangere, la donna insistette con voce tremante che avrebbe dovuto andare in un ospedale psichiatrico, quando sarebbe guarito abbastanza. Esausto, Oscar non ribatté.

#

A ventitré anni Oscar era uscito già da un po' dall'ospedale psichiatrico. Lo aveva aiutato, un po'. Parlare con gli psichiatri e i terapeuti si era rivelato complicato, perché se avesse spiegato le cose che sperimentava nei flashback lo avrebbero preso per pazzo. Quindi non erano particolarmente utili, se voleva sfogarsi. Tuttavia imparò e si allenò in alcune tecniche che lo avrebbero aiutato a restare nel presente, quando sentiva un attacco arrivare.

Gli prescrissero altri farmaci e quelli lo aiutarono quel che bastava che continuò a prenderli a lungo anche quando uscì dall'ospedale. Le droghe attutivano tutto, quindi la maggior parte delle volte riusciva a passare la giornata senza particolari incidenti. Però gli sembrava di avere l'energia unicamente per fare quello: passare la giornata. Tutto il resto gli era impossibile e quello includeva la scuola di specializzazione.

Onestamente non stava facendo nulla. Cosa che da una parte sembrava meglio così, perché non riusciva a sopportare troppi avvenimenti, ma anche brutto perché era un adulto che viveva in casa con sua madre, senza alcun prospetto per un lavoro futuro e quella era una cosa che odiava. Sua madre continuò a rassicurarlo che non la infastidiva occuparsi di lui, che doveva prendersi il suo tempo e migliorare, ma questo non lo soddisfava comunque. Non gli sembrava di star migliorando. Ogni giorno lo passava nello stesso modo, si differenziava unicamente dai diversi traumi che gli si imprimevano nel cervello.

La cosa peggiore fu guardare un Titano sorridente divorare una donna che era e allo stesso tempo non era sua madre, sentendosi piccolo e debole.

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A ventiquattro anni, Oscar tornò in contatto con Chloe. Aveva evitato i suoi messaggi per un lungo tempo perché, beh, lei stava facendo carriera e viveva nel suo appartamento e si era fidanzata. Sapeva che non voleva sbattergli in faccia che stava decisamente meglio di lui - era completamente irrazionale per lui sentirsi a quel modo - ma parlare con lei sembrava quasi come se si stesse mettendo il sale nelle ferite da solo, quindi aveva smesso.

Però Chloe era una buona amica - davvero, l'unica amica che aveva mai avuto, nonostante una voce nel retro della sua testa continuasse ad insistere che avesse avuto altri buoni amici - quindi decise di darsi una calmata e chiamarla. Divenne sua abitudine chiamarla almeno una volta a settimana. Parlavano per lo più della sua giornata e dei suoi impegni, ma sorprendentemente ascoltare qualcuno parlare della sua vita normale lo aiutava.

Disse ad Alexis che aveva iniziato nuovamente a parlare con Chloe e lei gli disse che era orgogliosa di lui. Anche Oscar cercò di sentirsi orgoglioso di sé stesso.

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A venticinque anni, ad Oscar mancavano i suoi amici. No, non era giusto. Oscar non conosceva le persone che gli mancavano. Però sapeva che il fantasma di Eren Jaeger aleggiava da qualche parte nel buio della sua testa, influenzando i suoi pensieri. Quindi gli mancavano le persone che Eren aveva conosciuto: per lo più Mikasa ed Armin, ma anche il Capitano Levi e il resto della sua Squadra Speciale e anche la Maggiore Hanji e gli altri soldati dell'Armata Ricognitiva. Dio, sua madre.

Era inutile soffrire la loro mancanza, perché non li conosceva e non sapeva neanche se esistevano in quel mondo. Magari sì, ma quello non stava a significare che li avrebbe potuti trovare. Tuttavia nessuna ragione logica poteva fargli smettere di sentire la loro mancanza.

Cercarli gli sembrava pericoloso. Non sarebbe stato un passo nella direzione sbagliata? Se avesse seguito i pensieri di Eren Jaeger e avesse trovato la sua famiglia e i suoi amici in quel mondo, nel mondo di Oscar, quest'ultimo non si sarebbe perso nell'oscurità, perdendo quel poco di vita che era riuscito a riprendersi dagli artigli affilati dei traumi e della disperazione di Eren?

Scrisse ad Alexis e le chiese la sua opinione. Aveva trovato degli amici di Mina? Voleva trovarli?

La ragazza lo chiamò qualche ora dopo.

"Non c'è qualcuno che sento di voler trovare," Ammise lei. "Suppongo che sarebbe bello vedere nuovamente la mia famiglia, ma non ho il desiderio disperato di cercarla. D'altra parte come li troverei? Non è che ci sia una specie di Facebook per le vite precedenti, dove potrei andare a cercarli."

Parlarono ancora un po' - Alexis voleva sempre sapere come stesse lui e se avesse bisogno di qualche consiglio - ma quel singolo pensiero gli rimasse impresso tutto il tempo: un Facebook per le vite precedenti. Alexis aveva ragione, una cosa del genere non esisteva, ma il net era così vasto e ampio, oltretutto era il primo posto dove una persona andava a cercare, quando aveva qualche domanda. Sicuramente qualcuno aveva aperto una discussione in un forum chiedendo se qualcun altro ricordava i Titani, oppure l'aveva postata su Yahoo Answers o... O da qualche parte. Diamine, sicuramente qualcuno aveva creato qualcosa come un Facebook per le vite precedenti e semplicemente loro non ne erano a conoscenza.

Quindi iniziò a cercare. Inizialmente cercò di tradurre termini importanti come Titani e Wall Sina in lettere romane, in modo da poterle cercare facilmente, ma non riuscì a farlo. I suoni erano troppi diversi e non conosceva abbastanza le lingue per trovare un modo di tradurre quelle parole. Facendo delle ricerche come "vite passate con giganti e muri" non ebbe alcun risultato - trovò solo pagine e pagine di roba irrilevante - e iniziò ad arrendersi.

C'erano sette miliardi di persone nel mondo: le Mura Sina, Rose e Maria riuscivano a contenere una minuscola frazione della popolazione attuale. E quella minuscola frazione si rimpiccioliva ancor di più, quando considerò che non tutte le persone avrebbero potuto non ricordare nulla. Sapeva, parlando con Alexis, che lei non ricordava molto vividamente i fatti accaduti come li ricordava lui... Le persone che avevano una vita ordinaria priva di eventi importanti avrebbero realizzato che quello che ricordavano non era un semplice sogno? Il numero di persone che avrebbero potuto potenzialmente cercare in internet era minimo e l'enorme numero di persone che non avevano vissuto in quei tempi avrebbero affondato le possibili richieste di aiuto di chi stava cercando.

Però continuare le ricerche era la cosa più produttiva che aveva fatto negli ultimi mesi, quindi continuò a cercare ed infine la sua testardaggine lo ripagò. Capitò in un innocuo link presente in un forum che parlava di sogni lucidi e, quando lo cliccò, si aprì un sito con un banner che recitava E' TUTTO VERO. SIAMO QUI. scritto a mano in quegli strani caratteri che Eren conosceva.

Le sue mani tremarono così tanto che riuscì a malapena stringere il mouse. Si forzò a rimanere seduto immobile per qualche minuto, leggendo il banner ancora e ancora mentre respirava piano col naso. Una volta calmo, iniziò ad esplorare avidamente il sito, solo per scoprire che aveva bisogno di un account per avere l'accesso alle pagine oltre alla Homepage, un account che gli sarebbe stato dato dagli amministratori del sito.

Compilò la richiesta d'iscrizione, che includeva una foto di un messaggio scritto nel linguaggio del tempo che comprendeva il suo nome, il distretto dove era nato e altri dettagli. Non aveva mai tentato di scrivere in quella lingua, prima, ma scoprì di poterla scrivere facilmente tanto quanto pronunciarla. Completò il modulo e lo inviò per mail agli amministratori, poi passò undici ore ad aspettare una risposta, preoccupandosi di aver sbagliato qualcosa nella richiesta o che il sito non fosse più attivo.

Infine ricevette una risposta, ma l'oggetto e il messaggio della mail era vuota, c'era solo un file allegato. Mordendosi il labbro inferiore aprì l'immagine - era una foto di un block notes che conteneva una singola frase.

SEI DAVVERO EREN JAEGER?

Sì. No. Lo era stato, una volta, ma non era più lui. Suppose che era quello che gli era stato chiesto - se era stato davvero Eren nel passato - così gli scrisse una risposta. Sono stato io. Non so come posso provartelo, però, se hai bisogno di una prova. Posso risponderti a delle domande. Perché me lo stai chiedendo?

Inviò la mail prima che potesse rimuginarci troppo sopra. Solo dopo pochi minuti gli arrivò una risposta. Iniziava con: scusami, solitamente non faccio questo genere di domanda alle persone. E' che sei la prima... 'celebrità' penso sia la parola giusta. Sei la prima celebrità che ha fatto una richiesta d'iscrizione. Cioè, c'è stato un tempo in cui tutti conoscevano quel nome.

Era vero, realizzò. Anche al di fuori dal militare, Eren Jaeger era abbastanza famoso. L'identità di Eren e le sue abilità da Titano erano conosciuti dall'intero popolo. Era certo che la notizia dell'esecuzione di Eren aveva fatto il giro di tutte le mura.

"La prima celebrità..." Questo significava che non aveva alcuna possibilità di trovare il Capitano Levi o il Comandante Smith nel sito. I loro nomi erano conosciuti tanto quanto il suo. Probabilmente neanche Mikasa, pensò con un tuffo al cuore. Era stata famosa verso la fine d tutto, una leggenda vivente come Levi.

Però doveva cercare ugualmente. Quindi lesse le informazioni per gli utenti e i dettagli per la navigazione nel sito che seguì il messaggio dell'admin e finalmente si loggò. Era abbastanza semplice da usare, il sito. C'era un forum dove le persone postavano le loro domande e cose simili, ma non lo guardò quasi. Voleva l'elenco delle persone. Era organizzato in distretti e c'erano delle immagini dove erano presenti i nomi scritti a mano. Poteva cliccare ogni nome per mandare un messaggio privato, loro probabilmente avrebbero ricevuto una notifica nella loro posta. C'erano solo un centinaio di utenti nel sito e così lesse ogni singolo nome, nella speranza di riconoscerne qualcuno.

Nessuno.

Si appoggiò allo schienale della sedia, esausto e sull'orlo delle lacrime. Non c'era da sorprendersi. Dopo tutto, quel sito non era stato semplice da trovare. Magari non tutti si erano reincarnati. Realizzò con un certo orrore che la differenza della sua età e quella di Alexis erano gli anni che li dividevano dalle morti l'una dell'altro. E se Mikasa ed Armin fossero arrivati agli ottanta anni? Avrebbe dovuto aspettare decine d'anni prima che solo nascessero.

Questo lo fece sentire un miserabile essere umano, ma si trovò a pregare che fossero morti giovani, così questo senso di vuoto sarebbe sparito.

Sua madre bussò alla porta e sussultò. Se Louise sentì la sua reazione non disse nulla. "Oscar? La cena è pronta."

"Va bene." Le rispose, prendendosi un momento per respirare profondamente, prima di chiudere il computer. Quando raggiunse la sala da pranzo sua mamma alzò lo sguardo dal Gumbo che stava servendo nei piatti, guardandolo curiosamente.

"A cosa stai lavorando, negli ultimi giorni?"

"Um. Sto facendo delle ricerche."

"Un progetto personale?" Gli suggerì, passandogli il piatto.

"Sì, circa." Mormorò, giocherellando con un pezzetto di okra presente nella pietanza. Si chiese se sua madre avesse una specie di potere speciale che le permetteva di ridurre qualsiasi persona di qualsiasi età alla pari di un tredicenne.

"Hm." La donna gli sorrise calorosamente, mentre sedeva di fronte a lui. "Beh, qualsiasi cosa sia, dovresti continuare a lavorarci. Sembri stare meglio ultimamente."

"No, io-" Si fermò e pensò a quello che gli aveva appena detto. Aveva sognato un'unica volta da quando aveva iniziato la sua ricerca online. Nessun episodio pesante sui flashback, anche se si era ritrovato a dover concentrarsi sul chi era e dove si trovava un paio di volte. Niente di preoccupante. Infatti, ora che ci pensava, si sentiva fisicamente meglio in confronto agli anni scorsi. Non stava perfettamente, solo... Meglio. Nonostante fosse illogico, gli erano mancati gli amici di Eren Jaeger. Una volta che aveva iniziato a cercarli, era riuscito in qualche modo a calmarsi.

Avrebbe potuto provare a trovare una sorta di bilancio nel soddisfare alcuni bisogno di Eren e tenersi stretto la propria vita? Sarebbe stato utile provarci. A quel punto ormai non aveva molto da perdere.


#



A ventisei anni, Oscar iniziò a cercarsi un lavoro. O meglio, un lavoro migliore. Era riuscito a trovarsi un lavoro part time ad un fast food per cinque mesi, senza farsi licenziare a causa dei giorni di assenza per 'malattia', quindi si sentiva pronto a cercare qualcosa che gli sarebbe realmente piaciuto. D'altra parte era laureto. Si era impegnato molto per la sua laurea, quindi avrebbe dovuto farne tesoro ed utilizzarla.

Si mise in contatto con i suoi professori preferiti, chiedendogli se erano a conoscenza di qualche opportunità e sperando che non fossero a conoscenza del suo aver mollato la specializzazione. Sorprendentemente una di loro gli rispose, dicendogli che sapeva che un era stato aperto un laboratorio medico da un suo collega. Gli disse che avrebbe parlato bene di lui e che pensava che fosse un lavoro adatto a lui. Onestamente, gli sembrava un'ottima cosa. Più di quello in cui aveva sperato, in qualsiasi caso. Da giovane non avrebbe di certo pensato che lavorare in un laboratorio a testare dei campioni sarebbe stato un lavoro da sogno, ma ora un posto tranquillo e senza rumori che lo avrebbero spaventato sarebbe stato il posto perfetto dove lavorare.

L'unico problema era che il posto di lavoro era fuori dallo Stato in cui viveva.

"Non mi fa impazzire l'idea che tu ti trasferisca così lontano," Ammise sua madre, quando le parlò del lavoro. "L'ultima volta che ti sei allontanato da casa..."

"Mi sento decisamente meglio," Ribatté Oscar. "Non sono migliorato? Lo hai detto tu stesso." Stava meglio. Occasionalmente si perdeva ancora nei suoi ricordi e le emozioni non erano sempre le suo, anche il suo stato mentale non era dei migliori, ma fisicamente stava decisamente meglio. Inoltre sapeva come prendersi cura di sé stesso, come bilanciarsi nel soddisfare i bisogni di Eren e restare sé stesso, Oscar. Certo, ogni tanto s'incasinava e affrontava le conseguenze e i flashback erano ancora un problema, ma stava meglio.

"Sì, stai meglio. Ma, Oscar, il tuo psichiatra è qui-"

"Troverò un altro psichiatra." Non c'era motivo di spiegarle che non parlava molto col suo psichiatra. Si rivolgeva ad Alexis quando aveva bisogno d'aiuto, ma ormai era abbastanza abituato a controllare i suoi episodi. Andava dallo psichiatra solo per i medicinali. "E prometto di chiamarti non appena... Mi sfuggono le cose di mano."

La donna sospirò pesantemente, portandosi una mano alla tempia. Il gesto catturò l'attenzione del ragazzo alle ciocche ingrigite che contrastavano con il resto dei capelli neri, cosa di cui si sentiva in colpa. "Immagino che non possa farti altro che bene un lavoro del genere. E so che è importante per te essere indipendente."

Non era esattamente d'accordo - non che avesse bisogno del suo permesso, alla sua età - ma era meglio di quanto si aspettasse. Per la verità, sua madre aveva preso questo suo... Malessere, decisamente meglio di quanto aveva anticipato. Era più forte di quanto ricordava. O magari era stata la morte di Lisa a renderla più forte.

Quindi Oscar preparò il suo curriculum, mandandolo per email a Chloe per qualche consiglio sul come rendere meno visibile il fatto che avesse vissuto da recluso in quegli anni e mettere in risalto le ore di laboratorio che aveva fatto da universitario. Quando sentì che non avrebbe potuto migliorarlo, lo mandò prima che potesse tirarsi indietro.

Una settimana più tardi venne sottoposto ad un colloquio.

#


A ventisette anni, la routine era l'unica cosa che manteneva la vita di Oscar normale. Si svegliava alle 6:15 ogni mattina. Si faceva una corsa e alle 7:30 faceva la doccia. Usciva dalla porta di casa per le 8:00 per raggiungere il laboratorio, dove iniziava a lavorare alle 9:00 e finiva alle 17:00. Tornava a casa e scaldava a cena per le 18:30. Navigava su internet dalle 20:00 alle 22:00 cercando qualsiasi segno di persone che gli erano state care - no, erano state care ad Eren Jaeger, non a lui. Eren. Si staccava dal computer nello stesso istante in cui l'orologio segnava le 22:00, quella era la regola, quello era tutto il tempo che si permetteva. Si calmava, prendeva i suoi medicinali e s'infilava a letto per le 23:00. Tutti i giorni si ripetevano a quel modo.

I sabati erano devoti alla pulizia e allo shopping, oltre al cucinare per il resto della settimana. Le domeniche erano destinati alle chiamate a sua madre e ad incontrarsi con i suoi amici o anche agli occasionali e disastrosi appuntamenti. Dato che comunque non poteva passare l'intera giornata al telefono con sua madre e non aveva tanti amici o appuntamenti, solitamente si trovava a navigare in internet alla ricerca di sua madre, dei suoi amici, della sua squadra, dannazione, anche Jean sarebbe bastato- no, non suoi, di Eren. Di Eren. Lui non era Eren Jaeger, non poteva esserlo, non lo sarebbe mai stato.

Lo era, in una vita passata.

Arrivato a quel punto si sarebbe dato una calmata. Avrebbe dormito. Sarebbe arrivato il lunedì. Routine.

Quello era l'ideale. Ma le routine fallivano facilmente. Un ordinario problema come il traffico lo avrebbe trovato a sistemare attentamente i suoi orari. Ok, non era un problema. Quelle cose succedevano a tutti. Altre volte...

Altre volte si sarebbe svegliato perso e confuso e sarebbe vagato nell'appartamento alla ricerca di Mikasa e Armin, finché Oscar non si svegliava davvero. Altre volte avrebbe rivissuto dei veri e propri flashback, causati da un fulmine troppo vicino, un viso in mezzo alla folla troppo familiare, il fottuto vapore acqueo che usciva dalla sua lavastoviglie quando l'apriva prima che avesse finito il ciclo- e avrebbe perso tempo a calmarsi, cercando di uscirne, cercando di ricordare come essere Özgür “Oscar” Gözübüyük. Altre volte si svegliava così depresso che non riusciva neanche a sopportare il peso della giornata. Quello non era una cosa che lo disturbava più di tanto. Almeno quando era depresso sapeva esattamente chi era. Eren Jaeger non era mai stato depresso.

Oscar stava bene, davvero. Meglio a ventisette anni, che quando ne aveva venticinque o ventitré, perlomeno. Quei giorni, i brutti giorni, erano divenuti più rari e più facili da sopportare. Ce la poteva fare.

"Potercela fare" era il perché si era recato al Denny's alle due di mattina in un mercoledì di fine maggio. Aveva chiamato a lavoro ed aveva avvisato che stava male e che non sarebbe potuto andare - la prima volta in tre mesi, era stupido esserne orgoglioso, ma lo era - perché si era svegliato depresso. Aveva passato l'intero giorno steso a letto a guardare Netflix o a vagare per l'appartamento e realizzare all'una di mattina che non aveva ancora mangiato. Non aveva avuto la forza di scaldarsi uno dei suoi pasti preparati in precedenza, ma in qualche modo recarsi al Denny's gli era sembrata un'ottima alternativa. Si obbligò a vestirsi almeno decentemente e uscì. Se non altro, gli avrebbe fatto bene lasciare l'appartamento e interagire con degli esseri umani.

"Arrivo subito. Siediti dove vuoi, caro." Gli disse una cameriera, quando si fermò davanti ad un cartellone che recitava 'per favore, aspetti che le venga assegnato un tavolo'. Il posto non era esattamente vuoto. A qualche tavolo sedevano coppiette con davanti tazze di caffè, oppure c'erano studenti universitari intenti ad ingurgitare pancakes, presi da fame da stress. Si diresse nel solito posto, quello nell'angolo più lontano dove nessuno lo avrebbe notato se fosse improvvisamente crollato mentre mangiava un'omelette, ma era già occupato. Ok. Il tavolino vicino alla cucina sarebbe andato-

Aspetta.

Si voltò verso il suo solito posto e fissò Levi.

Non poteva essere lui. La sua pelle era ambrata al posto di pallida e anche da seduto sembrava più alto e, nonostante probabilmente frequentasse la palestra, era molto sottile. I suoi capelli erano ancora neri, ma erano più corti, più folti. Non poteva essere lui.

Mina è fisicamente diversa. Alexis, insistette Oscar. Si avvicinò senza realmente registrare i suoi movimenti. Ma è pur sempre Mina. Anche io non sono esattamente uguale.

"Che cazzo vuoi?" Gli chiese Levi (non Levi, si sgridò il ragazzo).

Era davanti a lui, si rese conto. Velocemente, notò la mancanza di cibo o piatti sporchi sul tavolo. Solo una tazza di tè, una teiera di acqua calda e due bustine di tè bagnate ed appoggiate su un piattino. Uno zaino e una borsa da palestra erano di fianco a lui. Un vagabondo? No, era ancora troppo ordinato per esserlo. Magari era scappato. Magari no. In qualsiasi caso non sembrava avesse mangiato. "Se mi lasci sedere qui, ti compro qualsiasi cosa vuoi da mangiare." Le parole gli uscirono di bocca prima che potesse anche solo pensarci.

Gli occhi di Levi-non-Levi si ridussero a due fessure. "Perché?"

Sorrise per la prima volta in cinque anni. "Perché mi farebbe piacere la tua compagnia." Rispose Eren.

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Capitolo 2
*** Part two (1/3) ***


TRoTL part two (1/3)
Eccomi qui, finalmente! Pensavo non sarei mai riuscita a finire il capitolo o.o Spero vi piaccia come il precedente! Buona lettura!

Credits: i personaggi appartengono a Hajime Isayama, mentre la fanfiction appartiene a Zhedang. Mia è solo la traduzione :3
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Il Levi-non-Levi lo esaminò sospettosamente. Eren invece si limitò a gustarsi la sua visione. Sembrava più giovane e non così esausto, anche se comunque appariva assonnato. I suoi occhi erano più grandi e il suo viso meno spigoloso. Probabilmente andava alle superiori. Il suo zaino era pieno abbastanza da contenere svariati libri di testo e qualcosa in più. Chissà cosa poteva esserci nella borsa della palestra. Nonostante fosse maggio, aveva addosso una giacca troppo grande per lui e, dove mostrava il collo, Eren notò due macchie dalla forma della punta delle dita, appena visibile sulla sua pelle. Il suo stomaco di strinse, nel pensare che se avesse esaminato l'area abbastanza da vicino, probabilmente avrebbe trovato altri lividi che avrebbero costituito una mano.

Qualcuno aveva tentato di strangolarlo. Con la furia appena mantenuta dentro di lui, Eren fu attento a mantenere un'espressione neutrale.

Dopo un lungo periodo di osservazione, Levi-non-Levi scrollò le spalle e disse, "Va bene." Le gambe di Eren quasi cedettero di sollievo. Si sedette al tavolo prima di cadere sul serio.

"Quindi, chi cazzo sei?" Levi-non-Levi gli chiese, prendendo in mano un menù plastificato. La domanda lo fece sussultare e sbatté le ciglia, prima di ricordare dove, che giorno e chi era.

"Özgür Gözübüyük," Gli disse prestando attenzione a dire il nome giusto, perché Eren Jaeger era sulla punta della lingua. L'adolescente (non Levi, si ricordò) lo fissò senza proferire parola, una reazione a cui era abituato. La gente che lo sentiva parlare, prima di conoscere il suo nome, pensavano fosse strano. La gente che conosceva il suo nome prima di sentirlo parlare rimaneva scioccata, perché parlava un inglese perfetto. "E' turco," Gli spiegò. "Il nome è l'unica cosa che ho avuto da mio padre, prima che scappasse. Mia mamma ha deciso di lasciarmelo, per via dell'eredità o qualcosa del genere." Stava farneticando. Si obbligò a smetterla. Inghiottì. Inspirò a fondo. "Tutti mi chiamano Oscar."

Il loro cameriere arrivò con l'ordine di Oscar e quest'ultimo prese in mano il menù. Quando il cameriere se ne andò, lo aprì riluttante. Oscar aveva almeno una dozzina di domande che gli sarebbe piaciuto fare - il primo posto lo prendeva sicuramente il chi cazzo ti ha fatto del male? - ma le ingoiò. Non voleva spaventarlo e farlo scappare. Ok. Avrebbe potuto farcela a trattenersi. Aveva imparato a farlo negli anni passati, grazie anche alle ramanzine di sua madre sul come non porsi da persona pericolosa: mantieni le mani sempre visibili, sii gentile, sii cordiale, nessun movimento improvviso, non discutere, chiedi il permesso prima di fare qualsiasi cosa. Solitamente si comportava a quel modo solo con i poliziotti o i proprietari dei negozi, ma gli sembrava appropriato comportarsi a quel modo anche nella situazione in cui si trovava ora.

"Cosa mi diresti, se ordinassi tre cose differenti?" Gli chiese il ragazzo, scrutando ancora il menù. "Ho tanta fame."

Oscar fece finta di essere particolarmente interessato a guardare le immagini rappresentanti diversi tipi di piatti. "Pagherei, perché avevo detto che l'avrei fatto. Oltretutto non puoi di certo mandarmi in bancarotta ad un Denny's. Sarei anche stupito se riuscissi a finire tutto senza vomitare."

L'altro sbuffò una risata, come aveva fatto di rado il Capitano Levi tanti anni prima. Il turco si obbligò a tenere gli occhi fissi sul menù e a non fissarlo ad occhi sbarrati.

Infine il cameriere tornò. Il ragazzo più grande non aveva ancora letto mezza parola menù. "Io prendo... Uh... L'omelette vegetariana." Ordinò. Denny's le aveva, giusto? "Con tutto. E..."

"Una bistecca e delle uova," Disse Levi. "Strapazzate. Voglio anche delle patatine fritte, non le crocchette. Oh, e la bistecca fammela al sangue."

"E quello per lui." Concluse Oscar.

Il cameriere scrisse gli ordini e se ne andò, non senza rivolgere ad Oscar un'occhiata stranita. Per qualche ragione, anche il compagno di tavolo lo stava fissando. Però non era l'occhiata sospettosa di prima. Qualcosa di più vicino alla curiosità. "Cosa c'è?" Chiese.

"Nulla."

Non riusciva più a sedere in silenzio. Il suo nome, quella era una cosa perfettamente normale e non inquietante da chiedere, giusto? Gli aveva dato il suo, d'altra parte. Mise a posto il menù a posto e, quanto più casualmente riuscì, gli chiese: "Quindi, qual è il tuo nome? Sono pronto a scommettere che non è Özgür."

Lo studente portò entrambe le mani sulla sua tazza da tè, ma non bevve. "Levi."

Il suo cuore si fermò, prima di riprendere a battere troppo rapidamente. Impossibile. Doveva aver capito male, perché davvero, quante possibilità c'erano che fosse quello il suo nome? "Levi?" Ripeté, senza riuscire a non apparire incredulo. Magari ricordava ma non lo aveva riconosciuto? Però Alexis lo aveva riconosciuto e questo Levi era troppo giovane per ricordare qualcosa.

"Sì," Sbottò il giovane. "Cos'è, non ho la faccia da Levi?"

Sbatté le ciglia, chiedendogli cosa lo avesse turbato a quel modo, prima di decidere che probabilmente era dovuto al fatto che avesse dubitato di quel nome a causa della sua etnia. Sembrava provenire dal sud America, ma non ne era certo. "No. Levi è un nome perfetto per un ragazzo come te." Quello sembrò placare il ragazzo: le sue spalle si rilassarono dalla loro posizione sulla difensiva. Incoraggiato, Oscar continuò. "Scusami. Dovrei ben sapere di non assumere certe cose. Ho passato una brutta giornata."

Levi lo guardò con un sopracciglio alzato. "Effettivamente hai un aspetto di merda."

"Pure tu." Rispose Oscar, indicando con un gesto della testa il collo dell'altro.

La mano del giovane andò automaticamente a sfiorare i lividi che gli segnavano la gola e lo fulminò con lo sguardo. "Non sono affari tuoi." Gli disse, alzando il colletto della giacca per nascondere i segni.

"Va bene." Rispose semplicemente il turco, anche se nella sua testa l'eco di Eren era in completo disaccordo con lui - non andava bene per niente. Eren voleva trovare chi gli aveva fatto quello e spaccargli la faccia. Indubbiamente Levi si era arrangiato da solo, ma faceva parte della sua squadra, aveva salvato la vita ad Eren una dozzina di volte, quindi nessuno aveva il permesso di fargli del male e non venire punito. Specialmente non a questo Levi più giovane. Per calmare l'ombra di un ringhiante Eren nell'oscurità della sua mente, decise di chiedere: "Quindi, cosa ci fai al Denny's alle due di mattina?"

Il viso del giovane divenne di pietra. "Sto aspettando che qualcuno venga a prendermi."

"Ah, sì?" Anche in questa vita, Levi era un pessimo bugiardo. Poteva dirlo anche solo dal suo tono di voce rigido. Non stava aspettando nessuno.

"Sì. E tu cosa ci fai qui?"

Non poteva esattamente rispondergli 'sono un malato di mente e a volte fatico a prendermi cura di me stesso'. Beh, avrebbe potuto, ma sapeva mentire decisamente meglio di Levi. Quindi gli raccontò di essersi preso un giorno libero da lavoro per farsi una maratona di Gossip Girl su Netflix e farsi prendere così tanto da dimenticarsi di mangiare. Tecnicamente era vero. In parte, almeno.

In qualche modo la sua spiegazione divenne un lungo monologo su Chuck Bass che durò fino a ben dopo che il loro cameriere fosse tornato con i loro ordini. Levi ascoltò tutto con le sopracciglia alzate, forse perché divertito o forse perché confuso, mentre tagliava la sua bistecca.

"Perché guardi Gossip Girl?" Gli chiese, quando finalmente Oscar si calmò.

Il ragazzo scrollò le spalle. "Quando vivevo con mia madre, spesso lo guardavamo assieme. Mi sono fatto prendere." Inoltre era un programma sicuro da guardare. Nessuno moriva di morti atroci su Gossip Girl. Ormai, se voleva evitare flashback non voluti, non poteva più guardare film horror e una buona parte di film d'azione.

Il suo lungo monologo su Gossip Girl aveva avuto l'effetto di far rilassare Levi. Continuarono a parlare di serie televisive mentre mangiarono, anche se era ancora Oscar a portare avanti la discussione, in quanto il compagno di tavolino sembrava non guardare molta TV e aveva la stessa reticenza al parlare del Capitano. Presto i loro piatti furono vuoti e i loro stomaci pieni, quindi Oscar non aveva più scuse per rimanere lì. Tuttavia non voleva lasciare Levi solo, non ora che lo aveva appena ritrovato e non quando sembrava ritrovarsi in qualche sorta di casino. Sia lui che il fantasma di Eren non erano mai andati tanto d'accordo. Levi aveva bisogno di aiuto.

"Si è fatto molto tardi. O presto, per essere precisi." Iniziò. Levi emise un mugugno di assenso, occupato a finire il suo tè. "Mi chiedo dove sia la persona che dovrebbe venire a prenderti."

L'interpellato s'irrigidì, poi scrollò le spalle.

Oscar smise di fare giri di parole. "Vuoi che ti accompagni da qualche parte? A casa di un amico, di un parente..."

L'adolescente s'irrigidì nuovamente, riducendo gli occhi a due fessure come se potesse in qualche modo capire se Oscar stesse pianificando di farlo a pezzi e buttarlo in un canaletto in mezzo alla campagna o meno, solo guardandolo. Il suo intero corpo faceva capire che era opposto anche solo all'idea, eppure non fu una negazione quella che mormorò. Al contrario, appoggiò la tazza di tè senza allontanare mai gli occhi da quelli di Oscar.

"Al St. Clare." Mormorò.

"La chiesa?" Gli chiese Oscar. Non aveva vissuto a lungo nella città, quindi magari sarebbe potuto essere un rifugio o anche un ospedale.

"La scuola."

"... Vuoi che ti lasci a scuola così puoi... Aspetta, ma quanto manca all'inizio delle lezioni? Ti rendi conto che sono appena le quattro, giusto?"

Levi scrollò nuovamente le spalle, tornando ad avere l'espressione esausta di quando Oscar lo aveva trovato prima. Non confermò o negò ciò che gli era appena stato detto.  Oscar si ritrovò a chiedersi se tutto questo - il suo trovarsi così tardi al Denny's e poi andare a scuola - fosse una semplice fuga temporanea data da una brutta situazione o se fosse veramente scappato di casa e non sapeva cos'altro fare. Pensò ai lividi che aveva sulla gola e sperò con tutto il suo essere che il ragazzo non avesse intenzione di tornare da chi gli aveva fatto quello. Il Capitano era sempre stato più bravo a prendere decisioni sul momento, piuttosto che pianificare un piano precedentemente, così Oscar poteva solo immaginare un Levi adolescente scappare senza avere alcuna idea di dove cercare rifugio.

Cercò di pensare come porre la successiva domanda, ma alla fine si arrese. D'altra parte non c'era modo di dirlo in qualche altra maniera. "E se ti portassi io questa mattina? Cioè, la vera mattina. Il mio divano è abbastanza comodo."

Quasi sperò che il giovane gli rispondesse di no, perché andare a dormire a casa di uno sconosciuto era, in generale, una pessima decisione. E per un momento Levi sembrò pronto a rifiutare - chiuse le mani a pugno, il suo corpo pronto a scattare.

Poi, però, annuì lentamente.

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"Vivi da solo?"

Fu la prima cosa che Levi disse, da quando avevano lasciato il Denny's.

"Sì." Gli rispose, sistemando le proprie scarpe sul mobiletto apposito, facendo lo stesso con quelle del ragazzo.

Levi poggiò le sue due borse sul divano e camminò per il soggiorno, senza toccare nulla e mantenendo contatto visivo con Oscar. "E' davvero pulito."

Oscar era sempre stato ordinato, anche troppo secondo i suoi vecchi coinquilini. Da quando poteva ricordare, aveva sempre mantenuto la sua camera in ordine e aveva l'abitudine di sistemare tutti i casini - grandi o piccoli - che incontrava per casa, senza preoccuparsi di chi fosse stato. Non lo faceva perché voleva, ma perché non era mai riuscito scrollarsi di dosso il presentimento che qualcuno sarebbe rimasto scocciato nel trovare disordine o sporcizia. Chi, non lo sapeva. Sua madre era sempre stata assente, suo padre era ancor più negligente. Però, mentre guardava Levi passare un dito sul tavolino da caffè, si rese immediatamente conto di chi gli aveva instillato quel bisogno di pulire che aveva sempre sentito. Ad Eren, per dirla tutta. Realizzare quella cosa gli fece mancare per un attimo il respiro e si ritrovò a soffocare una risata quasi disperata, perché evidentemente Eren aveva preso così a cuore tutto ciò che il suo Capitano gli aveva insegnato che quelle abitudini gli erano rimaste anche dopo la morte. "Sono stato addestrato bene." Disse, riuscendo a rispondere senza far notare la sua reazione.

Levi lo guardò dall'altro al basso. "Hai fatto il militare?"

"Circa." Concordò. Per qualche ragione, la situazione quasi lo divertì e, per nascondere un sorriso, si passò una mano sul volto. Era esausto. Non aveva dormito bene, la notte precedente, e ora erano le quattro passate e Levi, il Capitano Levi, era nel suo soggiorno. Esausto, fisicamente e psicologicamente.

Invitare Levi a casa sua probabilmente non era stata una grande decisione. Questa era casa sua, di Oscar, e ne aveva memorizzato ogni centimetro in modo da poter riprendersi meglio prima e dopo i flashback. Aggiungere Levi al tutto sembrava quasi voler causare un disastro. Quanto della sua vita avrebbe dato ad Eren, che si muoveva nell'oscurità della sua mente, a causa di questa sua scelta?

Però non riusciva a pentirsene.

Tuttavia sapeva che sarebbe dovuto andare a letto e riposare, prima che qualsiasi cosa accadesse. Aprì l'armadio dove teneva coperte in più e ne portò qualcuna fino al divano. "Il bagno è lì," Gli disse, puntandolo con una mano. "Penso di avere uno spazzolino da denti nuovo nei cassetti, se ne hai bisogno. Puoi usare tutto quello che ho senza alcun problema," Esitò, poi continuò. "Ora vado a dormire, a meno che tu non abbia bisogno di qualcosa?

Levi scosse la testa. Si prese una coperta e la spiegò. Oscar lo guardò per un momento, prima di dirigersi al bagno. Si lavò i denti e inghiottì le sue pillole, ascoltando i rumori che provenivano dall'altra parte della porta.

Levi. Nel suo appartamento. E lo avrebbe portato a scuola, l'indomani mattina. Gli sembrava irreale.

Quando uscì dal bagno, il ragazzo era seduto sul divano-ora-letto ad aspettare il suo turno al bagno. Oscar gli chiese nuovamente se aveva bisogno di qualcosa, prima di augurargli la buona notte e andarsene nella sua camera da letto. Quando chiuse gli occhi non si chiese se avrebbe sognato, quella notte, ma si chiese se i suoi sogni sarebbero stati ricordi nuovi o vecchi.

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Il mattino seguente, Oscar lasciò un biglietto sul tavolo prima di uscire per la sua corsa mattutina. La tentazione di spezzare la sua routine era forte, ma sapeva che più tardi se ne sarebbe pentito. Se voleva tenere Levi a casa, doveva mantenersi la sua identità da Özgür Gözübüyük più stretta possibile a sé. Quindi scrisse velocemente un messaggio sul perché non era a casa e quando sarebbe tornato, prima di uscire.

L'aria era piena di umidità, nonostante l'orario, e presto Oscar si ritrovò a sudare. Si concentrò sul caldo umido, il rumore delle sue suole contro l'asfalto, il rombo delle auto che passavano, lasciando i suoi sensi dargli l'inconfutabile prova di quale mondo e quale vita stava vivendo. Sapeva di aver sognato, la notte precedente, ma le immagini erano offuscate, indistinguibili nel buio della sua mente. Correre lo fece sentire un poco meglio, come se stesse mettendo una distanza fisica fra lui ed Eren.

Quando tornò all'appartamento, Levi era sveglio e stava cucinando delle uova. "Ne vuoi una?"

Nonostante si fosse preparato mentalmente, vacillò ugualmente nel vedere il giovane nella sua cucina. Levi. Nella sua cucina. "C-certo." Una goccia di sudore rotolò pericolosamente vicino ad un occhio, quindi si passò una mano sul viso. "Vado a fare la doccia." Disse, prima di sparire nuovamente.

Quando si fu lavato e vestito, due uova all'occhio di bue si stavano raffreddando sul suo piatto. Levi mangiò le sue uova accompagnandole con una salsa che doveva aver trovato nel frigorifero di Oscar, anche se il modo in cui masticava e ingoiava mostravano il suo pentimento sulla scelta.

"Ho cercato la tua scuola," Disse Oscar, infilzando uno dei tuorli, guardandolo colare. "E penso di sapere dove si trova, ma probabilmente dovrai darmi delle indicazioni."

Levi grugnì un assenso. "Quando partiamo?"

Oscar guardò l'orologio della cucina, calcolando il tempo in più che ci avrebbe messo per arrivare a lavoro. "Dieci minuti?"

Erano fuori dalla porta dopo cinque minuti. Levi sedeva rigidamente sul sedile, con lo zaino sulle gambe e la borsa da ginnastica vicino ai piedi. Oscar solitamente non ascoltava la radio - preferiva il silenzio per concentrarsi meglio, dato che a volte aveva ancora dei problemi a farlo -, ma la presenza del giovane di fianco a lui rendeva il silenzio assordante, quindi l'accese. Nessuno dei due parlò, oltre alle occasionali indicazioni sul dove girare o che via prendere.

Levi lo fermò ad un isolato di distanza dalla scuola, spiegandogli che se non lo avesse fatto si sarebbe ritrovato intrappolato dalle altre auto. Anche degli altri studenti avevano avuto la stessa idea ed Oscar guardò fuori dal finestrino, osservando i ragazzi passare vestiti con camicie bianche, pantaloni neri e gonne a quadri. "Avrai problemi ad andare a scuola senza uniforme?"

Levi lo guardò stranito, poi indicò la borsa da ginnastica. "Ce l'ho. Ho educazione fisica alle prime ore, mi cambio sempre dopo."

"Va bene." Prima che Oscar potesse chiedersi perché non avrebbe dovuto farlo, afferrò uno scontrino del benzinaio e ci scrisse il suo numero di telefono, prima di premerlo nella mano del ragazzo. "Se hai bisogno di qualcosa - sono serio, davvero - chiamami, ok?"

Voleva - o meglio, Eren voleva -, dire qualcos'altro, ma lui e Levi erano poco più che conoscenti in quel mondo. Anche se avesse parlato col suo Capitano dubitava avrebbe detto molto altro. Erano una squadra: non c'era bisogno di rassicurazioni verbali sull'aiutarsi a vicenda.

Levi fissò lo scontrino e poi alzò lo sguardo verso Oscar, prima di annuire e piegare concisamente il pezzo di carta a metà. Lo mise nella tasca anteriore dello zaino. Con un'ultima occhiata diffidente verso Oscar, aprì la portiera e scese sul marciapiede. L'uomo lo guardò con un nodo alla gola, chiedendosi se sarebbe stata l'ultima volta che lo avrebbe rivisto. Prima che Levi chiudesse la porta, si abbassò per infilare la testa dentro l'auto.

"Posso... Potrebbe andare bene... Tu non..." Si fermò, serrando le dita della destra sulla spallina dello zaino. "Posso stare da te, solo per altri due giorni? Giusto il tempo per trovarmi una sistemazione."

"Puoi stare da me quanto vuoi" Quasi gli scappò, ma Oscar si fermò poco prima di pronunciare quelle parole. C'era sicuramente un modo migliore per dire quello senza sembrare fin troppo gentile (e un filino inquietante). Quindi si decise per una frase un po' più neutrale. "A che ora hai bisogno che venga a prenderti?

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Nella sua pausa pranzo mandò ad Alexis due messaggi. Il primo diceva Ho trovato Levi. Non ricorda niente, ovviamente, ma starà nel mio appartamento per ora. Mina non aveva mai incontrato il Capitano Levi, ma aveva riconosciuto il nome quando le aveva parlato di lui precedentemente. Poi, con esitazione, le chiese Pensi che sia saggio?

Il suo telefono vibrò poco dopo con le risposte. Cosa??? E' incredibile!!! e, dopo un attimo, Ti ha creato 'problemi'?

Nulla, per ora. Però tutto mi sembra decisamente irreale.

Non è sorprendente, come cosa. Il cambiamento potrebbe essere un attimo difficile da gestire, quindi stai attento. Più tardi riesci a chiamarmi, per parlare meglio?


Oscar le rispose con un , prima di mettere via il cellulare per mangiare, ma scoprì di non avere appetito. Non era l'avere i flashback che lo preoccupava. Era il perdersi nello spettro di Eren Jaeger.

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Un paio di giorni divennero svariati. Giovedì, venerdì e sabato passarono senza grandi problemi, anche se vedere Levi sedere sul suo tavolo della cucina per fare i compiti era in sé qualcosa di straordinario. Il ragazzo non gli aveva mai parlato molto di sé stesso e Oscar si rifiutava di chiedergli qualcosa, ma era riuscito comunque ad apprendere piccole informazioni su questo Levi, per compararle al Levi delle memorie di Eren. Aveva quasi finito il secondo anno di superiori e dalle vacanze estive lo separavano solo un compito di matematica e una presentazione orale in Francese. Odiava il sapore del caffè, ma gli piaceva l'odore. Era molto ordinato, ma Oscar non sapeva se fosse così generalmente o semplicemente perché era suo ospite. Guardava costantemente i suoi movimenti con occhi taglienti. In breve questo Levi era una persona diversa, ma alle volte era così simile all'altro Levi che gli faceva male.

Probabilmente l'informazione più sorprendente l'apprese domenica mattina. Uscì per la sua solita corsa mattutina, solo per tornare indietro quando notò il cielo ingrigirsi. Probabilmente avrebbe semplicemente piovuto, ma non aveva controllato il meteo e non voleva rischiare di trovarsi fuori sotto una pioggia tuonante. I fulmini non gli provocavano sempre i flashback, ma se succedeva il suo familiare e memorizzato appartamento era il posto più sicuro dove poteva trovarsi.

Iniziò a pioggerellare giusto un attimo prima che prendesse le scale per il suo appartamento, così si fermò sul tappeto d'entrata, si tolse le scarpe umide e le sistemò sul porta scarpe prima di muoversi dall'entrata. Non sapeva se Levi stesse ancora dormendo o meno - solitamente era sveglio quando tornava dalla sua corsa, ma era uscito al massimo per venti minuti - quindi entrò silenziosamente in soggiorno.

Levi era seduto sul divano, la testa piegava in avanti come se stesse guardando qualcosa sulle sue gambe. Oscar quasi lo salutò, ma notò un rosario tra le sue mani e lo sentì mormorare in spagnolo, quindi decise di evitare. Poteva dire che, dalle spalle tese del ragazzo, Levi fosse a conoscenza della sua presenza, ma decise comunque di dirigersi silenziosamente verso la cucina per non interromperlo ulteriormente.

Si versò un bicchiere d'acqua e lo sorseggiò avidamente, chiedendosi perché quella scena lo avesse sorpreso così tanto. Il Capitano era stato un uomo dalla grande fede, anche se non era mai stato religioso. L'unica religione a quei tempi era quella delle Mura e non aveva mai creduto nell'eterna protezione e divina grazia di esse. Al contrario, il Capitano Levi metteva tutta la sua fede nelle sue decisioni e abilità e nei piani del Comandante Smith. E-

Una scena che aveva ricordato qualche anno fa gli tornò gentilmente alla memoria.

L'aria è calda e fastidiosa sul tetto dove si trova, col Sole che sprigiona i suoi raggi prepotenti su di lui, ma Eren si limita a premersi i palmi contro gli occhi e si pulisce le lacrime sui pantaloni. Sente qualcuno avvicinarsi dietro di lui e sta per ringhiare a Mikasa che scenderà quando è pronto, dannazione, quando la persona gli dice: "Non metterti ancora le mani negli occhi, è disgustoso."

Abbassa le mani - non si era neanche accorto di aversele portate nuovamente sul viso - e guarda verso il
Capitano Levi. "Penso che un'infezione agli occhi sia la minore delle mie preoccupazioni, a questo punto." Gli risponde.

Il
Capitano Levi grugnisce un assenso e si siede di fianco a lui, con la gamba sana piegata sotto il suo corpo e quella malandata che pende oltre il bordo del tetto. Offre ad Eren un fazzoletto dalla sua tasca e il ragazzo lo accetta, nonostante le sue parole.

"Non sto piangendo perché-" Eren però si ferma, perché non ha bisogno di giustificarsi col
Capitano. "Finirò il mio compito," Gli dice. "Davvero, andrò avanti fino alla fine. Finirò tutto questo."

Sa di apparire patetico, con gli occhi rossi e il moccio al naso, ma la risposta del
Capitano non lascia spazio ad alcun dubbio. "Lo so."

E aveva messo la sua fede in Eren Jaeger.

Quello era un altro modo in cui questo Levi e l'altro erano diversi, anche se a pensarci meglio non era così grande, la differenza. Nonostante tutto il cinismo e la diffidenza di cui era capace il Capitano, non poteva pensare a qualcun altro che avesse dentro di sé così tanta fede. Magari, se ci fossero state religioni diverse, sarebbe stato religioso. Invece al tempo aveva dovuto limitarsi a semplici esseri umani.

Oscar aveva finito il suo secondo bicchiere d'acqua e stava sciacquando una mela, quando Levi apparve nella cucina col rosario in mano. Era stato chiaramente un momento privato, ma gli sembrava strano far finta di non aver visto niente, così gli chiese: "Sei cattolico?"

"Vado ad una scuola cattolica."

"Sì, ma non devi essere cattolico per andarci."

Levi alzò un sopracciglio, come se Oscar fosse particolarmente stupido. "Sono messicano."

"Mi stai incoraggiando a stereotiparti?" Gli sorrise, prima di mordere la mela. Mentalmente mise al sicuro la nuova informazione. Messicano. Il suo originale latino americano non era stato così sbagliato. Sembrava fluente in spagnolo, da quel poco che aveva sentito, ma il suo inglese era privo di accenti, quindi concluse che o era nato negli Stati Uniti o ci si era trasferito quando era molto piccolo. La voglia di chiedergli altro era forte, ma resistette. Levi non aveva ancora detto nulla sull'argomento, quindi doveva essere off-limits. "Vuoi fare colazione?"

#

L'anno scolastico finì. Levi rimase. Chloe e sua madre presero parte al ristrettissimo gruppo di persone che sapevano di Levi, anche se ricevettero una spiegazione differente da quella che aveva dato ad Alexis. A Chloe disse semplicemente che c'era qualcuno che sarebbe stato da lui per un po'. A sua madre aveva detto che si era trovato un coinquilino, cosa che le fece un piacere immenso, dato che si preoccupava costantemente di saperlo da solo. Voleva sapere tutto su Levi, quindi condivise quello che poteva, stando attendo a non parlare del fatto che suddetto coinquilino andasse alle superiori e che, probabilmente, era scappato di casa.

Con l'andare del tempo la versione del coinquilino divenne realtà.

"Ho trovato un lavoro." Annunciò Levi.

Oscar era nel bel mezzo della sua routine del prepararsi prima di andare al lavoro, ma si gelò. "Sì? Sei fortunato, non ci sono molti posti che cercano dipendenti di questi tempi."

"Il fratello del mio coach ha un ristorante: ha messo una buona parola per me."

Oscar realizzò che era ancora piegato e finì di mettersi le scarpe. "Il tuo coach?"

"Facevo orienteering e il velocista a scuola," Il ragazzo si corrucciò. "Nessuno scherzo sui messicani e lo scappare. Giuro, se devo sentire ancora qualche battuta di merda--"

"Non mi è neanche passato per la testa." Lo rassicurò. Dato che Levi sembrava più chiacchierone del solito si azzardò a fare un'altra domanda. "Hai fatto gare?"

Tipicamente, quando faceva delle domande, Oscar riceveva un'espressione infastidita. Ma, quella mattina, il ragazzo sembrava abbastanza distratto da qualcosa. "Per lo più i cento metri e il salto agli ostacoli."

"Hm." Avrebbe voluto chiedergli qualcosa di più, ma decise per il contrario. "Quindi ti sei trovato un lavoro. Sei stato bravo."

"E' solo part time, per ora, ma probabilmente presto riuscirò a prendere più ore. Oltretutto è abbastanza vicino." Levi incrociò le braccia sul petto e se le strofinò con le mani, come se avesse freddo. Impossibile. Era giugno, il giovane aveva addosso una felpa e il condizionatore dell'appartamento non funzionava così bene. Oscar realizzò, un po' in ritardo, che Levi era nervoso - un'emozione che non era abituato a vedere su di lui. "Quindi mi stavo chiedendo se potessi rimanere qui. Permanentemente. Pagherò metà affitto."

Lo spettro di Eren soffrì all'idea di prendere i soldi di Levi - il Capitano Levi non gli doveva niente, era Eren a dovergli pagare innumerevoli debiti - ma Oscar sapeva che sia quel Levi che questo avevano bisogno della loro indipendenza. "Non posso chiederti metà dell'affitto, quando non hai neanche un vero letto su cui dormire. Un quarto."

Levi serrò le labbra. "Metà."

"Un quarto- Ah, dannazione," Mormorò, alla vista dell'orologio. "Devo andare via. Possiamo discuterne più tardi."

Gli ci volle un po', entrambi cercarono di fare il più testardo dell'altro, ma alla fine si decisero per un quaranta percento. Oscar pensò che doveva contarla come vittoria - questo Levi sapeva essere più testardo del Capitano.

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L'estate proseguì lentamente. Senza neanche parlarne si trovarono la loro routine - lavoro, pulizie di casa, spesa, cucinare, guardare film disney o telefilm la notte tarda. La vecchia routine di Oscar cadde a pezzi, lentamente rimpiazzata con quella nuova, ma non era così male. Non si era reso conto quanto gli era mancato vivere con qualcuno.

Se qualche familiare di Levi aveva cercato di contattarlo, lui non lo sapeva. Nessuno aveva chiamato, nessuno aveva mandato un sms. Al contrario, il servizio telefonico del giovane si era improvvisamente interrotto, quindi Oscar lo portò a comprarsi uno di quei telefoni che richiedevano il pagamento solo quando usati. Dall'esterno Levi non sembrava agitato, quindi Oscar non disse nulla. Ma al pensiero dei lividi sul collo del giovane, ormai guariti tempo fa, la rabbia bruciava silenziosamente nel suo petto.

Levi, dopo aver apparentemente deciso che Oscar non stava giocando a qualcosa che avrebbe giunto la sua fine con la sua morte e il suo corpo freddo in fondo ad un fiume, iniziò a mostrare una certa curiosità in lui, nonostante continuasse a seguire qualsiasi suo movimento. Iniziò con un casuale "Dove lavori?" e continuò con decisione. Oscar era più che felice di soddisfare la curiosità del giovane - non solo gli dava la possibilità di fargli alcune domande, ma gli sembrava di formare una specie di relazione con lui, a quel modo, qualcosa di più permanente che usare il divano di uno sconosciuto e ancor più profondo di essere semplicemente coinquilini.

"Tua mamma è molto bella." Commentò un giorno il ragazzo. Oscar alzò lo sguardo dal suo portatile e notò Levi esaminare una delle sue vecchie foto di famiglia, l'unica in cui erano in quattro e non in due.

"Sì," Concordò. "Anche se adesso ha i capelli completamente grigi. A causa mia, probabilmente."

"Non le somigli molto."

Era vero. Gli unici geni che aveva preso da lei erano la pelle scura e la fossetta sul mento. "Lei dice che assomiglio molto a mio padre."

"Non è lui, vero?" Gli chiese Levi, puntando la foto. "Avevi detto che tuo padre era turco."

Sapere che il ragazzo ricordava quel dettaglio che gli aveva detto settimane prima lo compiacque immensamente, anche se fu attento a non mostrare nulla. "Già. Quello è Dan. Il mio patrigno."

"Sorella acquisita?" Tirò ad indovinare Levi, portando l'indice contro la quarta persona nella foto.

"Lisa. Sorella da parte di madre." Lo corresse. Poi, dato che aveva imparato che era sempre meglio liberarsi in fretta della seconda parte del discorso, disse: "E' morta quando aveva sei anni. Cancro. Mia mamma e Dan si sono lasciati poco dopo." Suppose che era stato troppo doloroso per loro stare assieme, sopportare il costante ricordo di cos'avevano avuto e perso. Ma quando era stato più piccolo, non era riuscito ad evitare di provare risentimento verso Dan, per aver lasciato sua madre quando era così addolorata. Oscar aveva avuto quattordici anni al tempo ed era completamente impreparato alla depressione di sua madre, ma aveva fatto il possibile per evitare che annegasse nella sua miseria.

Solitamente la gente esprimeva condoglianze o mormorava vaghe frasi comprensive dopo aver sentito di Lisa, ma Levi si limitò a studiare il ritratto in silenzio.

"Hai fratelli?" Oscar aveva evitato di chiedere qualsiasi cosa sulla famiglia del ragazzo, ma aveva aperto la discussione da solo con le sue domande. Inoltre l'argomento fratelli era sicuramente migliore di quello dei genitori.

Levi volse lo sguardo verso di lui, come se fosse stato preso alla sprovvista. "No," Gli disse, mettendosi le mani nelle tasche della sua inseparabile felpa. "C'ero solo io."

Ero. Oscar si chiese tutto il pomeriggio il significato di quella parola.

#

Nonostante il piacere di iniziare lentamente a conoscersi a vicenda - che Levi non fuggisse più alle sue domande come avrebbe fatto un gatto selvatico alla vista di una mano - Oscar avrebbe preferito che alcune cose rimanessero un segreto ancora per un po'. Specialmente la sua malattia.

Nelle ultime due settimane era stato abbastanza fortunato. Nessun episodio di grave depressione o ansia. Nessun attacco di panico o flashback. Prendeva sempre i farmaci la notte, quando era solo, e se Levi aveva notato come diventasse agitato quando qualcosa interrompeva i suoi piani o come sussultasse ai rumori improvvisi, non gli aveva detto niente.

Poi, la tempesta.

La pioggia? Non era un problema. I tuoni? Se si preparava ai botti, non erano troppo terribili. Ma i fulmini - l'effetto che avevano i fulmini su di lui erano imprevedibili e per Oscar imprevedibile equivaleva a  pericoloso.

Quella tempesta era violenta. Aveva seguito il meteo sul cellulare tutto il giorno, ascoltandolo con trepidazione mentre i suoi compagni di lavoro facevano sicuro di arrivare a casa prima che il tempo continuasse a peggiorare. Non prese parte agli scherzi: se la tempesta fosse iniziata prima che fosse riuscito a lasciare il laboratorio, non avrebbe potuto neanche rischiare di guidare.

Fortunatamente la tempesta gli lasciò il tempo di arrivare a casa. Quando entrò, però, aveva i nervi alle stelle. La pioggia batteva contro le finestre, non diversa da un ringhio costante. Le sue pulsazioni correvano con essa, assordandogli le orecchie. Lo fece sussultare, vedere Levi nell'appartamento - come si era dimenticato di lui, non lo sapeva - e la sua vista fece deragliare il suo piano di andare a nascondersi nell'armadio della sua camera da letto e mettere la musica nell'iPod a massimo volume finché la tempesta non fosse passata.

"Stai bene?" Gli chiese il ragazzo.

"Uh." Si leccò le labbra, nonostante avesse la bocca secca a causa del suo respiro affannoso. "Sì." Le nuvole si stavano scurendo, fuori. Un'ondata di paura lo colpì e capì che se non avesse avuto un flashback, un attacco di panico non glielo avrebbe tolto nessuno. "Ho solo bisogno di... Ho bisogno di..."

Voltò un attimo lo sguardo sulla finestra, proprio quando un fulmine colpì il terreno.

Un lampo - enorme, accecante, sfolgorante - a poco meno di cinquanta metri di distanza. Reiner sta arrivando.

Eren valuta la situazione in un singolo battito di cuore. Lui e il
Capitano sono entrambi privi del Movimento. Connie e Jean avrebbero dovuto portargli dei rifornimenti, ma non avevano tempo da aspettare. Reiner non si sarebbe trasformato se non fosse stato a conoscenza della loro posizione. Avevano pochi secondi, un paio di minuti al massimo, prima che le costruzioni prendessero a crollargli in testa. Doveva trasformarsi. Sarebbe riuscito ad occuparsi di Reiner, immobilizzandolo almeno momentaneamente, ma la lotta sarebbe stata rischiosa senza alcun aiuto. Il resto della squadra li avrebbe sicuramente trovati velocemente, se si fosse trovato nella sua forma da titano, ma quanto velocemente? No. Doveva trasformarsi, afferrare il Capitano e scappare. Sarebbe riuscito senza dubbio a seminare Reiner, anche se il Capitano non avrebbe apprezzato essere maneggiato come una bambola. Ma dovevano andarsene, ora.

Si morde la mano e il familiare sapore del sangue gli inonda la bocca. Nient'altro.

No. No, no, no, non proprio ora. Reiner li avrebbe raggiunti a momenti, così si riempie la testa dei suoi obiettivi - lunghe, potenti gambe apposite a correre, un forte torso e braccia adatte a combattere, se necessario, afferrare Levi, correre, non combattere se non necessario, tenere Levi al sicuro, non morire - e si morde nuovamente la mano. Altro sangue, altro niente.

Il
Capitano gli urla qualcosa, probabilmente chiedendogli cosa c'è che non va, ma Eren non lo ascolta perché non lo sa e ha bisogno di concentrarsi. Stringe i pugni e il dolore gli percorre tutto il braccio, alza nuovamente la mano per affondarci i denti un'ultima volta. Ma il Capitano gli afferra il braccio e glielo allontana dalla bocca.

"
Un'altra volta," Gli dice Eren. "Posso farcela, Capitano." Strattona il suo braccio dalla presa dell'uomo, ma Levi non lo molla. Cerca di portarsi il braccio libero alla bocca, ma Levi lo blocca. "Capitano!" C'è rabbia sul volto di Levi, ma è quasi annullata dalla paura e questo fa bloccare Eren, perché non l'ha mai visto così spaventato. "Cosa vuoi che faccia? Capitano, cosa devo fare? Dimmelo!"

Levi sta parlando, ma Eren non lo sente. C'è un botto, Reiner si sta avvicinando. In qualsiasi momento, ora, potrebbe trovarsi davanti a loro. Se Levi non lo lascia
trasformarsi allora devono muoversi, nascondersi, fare qualcosa, così cerca di fuggire nuovamente alla stretta del Capitano. "Sta arrivando, Capitano. Dobbiamo- Lasciami andare!" Tutto ciò che ha appreso durante l'addestramento, tutta la sua testardia, lo stanno abbandonando. Levi ha paura e se Levi ha paura non c'è più nulla da fare.

I suoi occhi corrono lungo la stanza, cercando disperatamente qualsiasi struttura che avrebbe potuto nasconderli giusto il tempo che gli ci vuole per
trasformarsi. Ma è tutto inutile, non c'è niente qui che possa sopportare il titano di Reiner, nulla-

C'era una strana poltrona in mezzo alla stanza. Era blu, blu reale, e il suo cervello si concentrò su quel particolare. Una poltrona blu. Una morbida poltrona blu. Automaticamente iniziò a catalogare i suoi altri aspetti. Grossi cuscini, coi poggia braccia in legno ai fianchi. C'era una piccola macchia su uno dei poggia braccia, una macchia che non era mai riuscito a rimuovere dopo averci versato del caffè. Una poltrona molto comoda. Reclinabile. Ogni tanto ci si addormentava mentre guardava la tv, ma solo quando era particolarmente esausto.

Una reclinabile blu. La sua reclinabile. Si trovava nel suo appartamento.

Lentamente spostò la sua attenzione dalla reclinabile al pavimento, poi alla lampada lì vicina, elencando tutti i dettagli che aveva memorizzato nei suoi esercizi giornalieri. Si trovava nel suo appartamento. Aveva avuto un flashback. Stava bene.

Quasi ci credette.

"Oscar? E' tutto finito? Puoi stare fermo e... Non fare nulla, mentre vado a cercare delle bende o qualcosa di simile?"

Si voltò verso la voce e sbatté le ciglia, alla vista del Capitano. "Capitano? Perché sei... Non dovresti trovarti nel mio appartamento." Avrebbe dovuto?

Levi scosse la testa. Da quando i suoi capelli erano così corti? "Ok. Va bene. Non posso ancora capirti." Si alzò con le mani di fronte a lui, come se si trovasse davanti ad un animale selvatico.
"Io non so- Devo andare a prendere il kit di primo soccorso. Se ne hai uno. Non muoverti. Non fare nulla. Torno subito. Ok?"

"Sì, signore." Gli rispose, con la mente ancora offuscata ma coerente abbastanza da recepire l'ordine. Si sentiva dolorante, la testa gli girava e si trovava nel suo appartamento, in un mondo privo di titani e Levi era con lui. Ma Levi stava andando da qualche parte. Sarebbe tornato, gli aveva detto.

Aspetta. Perché era sdraiato sul pavimento?

"Ok?" Gli chiese nuovamente il ragazzo. Annuì, troppo esausto per fare altro, e il Capitano questa volta lasciò la stanza. Chiuse gli occhi e per qualche momento si concentrò sul suo respiro. Profondo. Lento. Ritmico.

Levi tornò così come gli aveva detto, con una scatola in plastica rossa tra le mani. L'aprì e iniziò a rimuovere gli oggetti al suo interno, prima di dirgli di dargli la mano. Obbedì e rimase scioccato nel vedere quanto sanguinosa e squarciata fosse, quando Levi la prese fra le proprie. Si era trasformato? O aveva cercato di farlo? Ma si trovava nel suo appartamento. In qualche modo... Quelle due cose non funzionavano assieme.

Mentre Levi si prendeva cura della sua mano, capì. Aveva avuto un flashback. Quello era Levi, ma non il Capitano Levi. Reiner non stava arrivando, non sarebbe mai arrivato, era stata colpa della fottuta tempesta. Del fulmine.

"Scusa," Raspò. "Eri... Eri spaventato."

Levi non alzò gli occhi dalla sua mano, continuandola a coprirla con garze e bende. "Sei tornato a parlare inglese, eh?"

"Scusa." Lasciò gli occhi vagare per la stanza, chiedendosi quanto tempo aveva perso. Non aveva avuto un flashback così vivido da anni. Il ragazzo finì di sistemare la sua mano, così strinse le dita. "Non ho mai morso delle persone." Gli sembrava un importante dettaglio da dire. Certo, aveva dei problemi, ma non quei problemi.

"E il resto?" Guardò Levi con sguardo vuoto, finché quest'ultimo non si chiarì. "Il resto è normale? Il... Qualsiasi cosa sia stata?"

"Un flashback." Portò la mano ferita sul petto. Il bendaggio del giovane era estremamente ordinato e ne studiò le linee, prima di ricordare che Levi gli aveva chiesto qualcos'altro. "Hai detto... Scusa, ma è difficile... Concentrarsi. Dopo."

Levi chiuse la cassetta di colpo. "Vuoi smetterla di scusarti?"

Il Capitano si volta verso di lui, lanciandogli un'occhiataccia. "Se vuoi che lo faccia, allora smettila di scusarti!" Non è la furia a spaventarlo, anche se non ha mai visto Levi così arrabbiato, ma è quel luccichio di dolore in quei suoi occhi grigi a farlo. Per un momento ci ripensa, quasi ritrae la sua richiesta.

Alla fine, invece, raddrizza le spalle. "
Per favore."

Voleva ridere. Voleva piangere. Invece si obbligò a mettersi lentamente in piedi. Levi gli si mise immediatamente al fianco, afferrandogli un braccio per fargli mantenere l'equilibrio. "Letto." Gli disse e il ragazzo lo aiutò a camminare fino alla sua camera da letto, con una mano sulla sua schiena, fino a che non riuscì a collassare sul materasso e infilarsi sotto le coperte. In una serie di mormorii, chiese a Levi di prendergli la sua coperta appesantita da uno dei cassetti del mobile.

Levi lo coprì con essa, poi gli chiese: "Hai bisogno di qualcos'altro?"

"Puoi chiudere le tapparelle?" Gli domandò. Il giovane lo fece. Al di fuori, la pioggia continuava a battere, anche se con meno ferocia di prima. Controllò la sveglia sul suo comodino e scoprì che era passata solo un'ora da quando era tornato a casa. Solitamente, dopo un episodio del genere, gli ci voleva molto di più per riorganizzare i suoi pensieri.

Realizzò che doveva ancora dare una qualche spiegazione a Levi. "Soffro di disturbo post traumatico da stress." Levi finì di abbassare le tapparelle e si mise a sedere su un angolo del materasso, senza dire nulla. "E'..." Non finì la frase, insicuro sul come spiegarsi. La sua mano pulsò dolorosamente, così la mise sotto il cuscino.

"Lo so cos'è il disturbo post traumatico da stress," Gli disse Levi. "Ne soffrono un sacco di veterani."

Si ricordò di quando Levi gli aveva chiesto se aveva fatto parte dell'esercito, quella notte in cui si erano incontrati, e di avergli dato una risposta vaga. Il giovane sembrava averci creduto. "Sì. Sto molto meglio di prima, ma ogni tanto i lampi e... Altre cose mi inducono un flashback." Con la finestra coperta, la stanza era troppo buia per vedere il viso di Levi, ma poteva dire che lo stava studiando. "Non sono pericoloso." Gli sfuggì alle labbra. Uno dei tanti stereotipi di chi soffriva di DPTS era proprio quello. "Non ho mai fatto del male a nessuno." O, almeno, non fino ad ora. Non era certo di cosa sarebbe potuto accadere, se avesse scambiato qualcuno per un nemico durante un episodio. E se sua madre fosse stata lì, avrebbe sicuramente detto di come si era fatto del male da solo troppe volte di volte.

"Hai bisogno di qualche medicina?" Gli chiese Levi, ignorando la sua ultima frase. "Per la tua mano o per il tuo disturbo."

Scrollò la testa, accoccolandosi sotto le coperte, portandosi le ginocchia al petto sotto la coperta appesantita. Avrebbe dovuto prendersi la sua dose prima di andare a letto, ma sarebbe dovuta passare ancora qualche ora. Per ora voleva solo superare ciò che era appena accaduto, calmarsi e tornare pienamente in possesso del suo corpo. La sua mente era illuminata da sprazzi di luce accecante, che altro non facevano che far sembrare più buia l'oscurità circostante. "Più tardi. Solo... Dammi un momento."

Voleva che Levi rimanesse con lui, ma sarebbe stato troppo imbarazzante chiederglielo. Fortunatamente non ebbe bisogno di dire nulla, perché il ragazzo non si spostò dall'angolo di letto che aveva fatto momentaneamente suo. Sollevato chiuse gli occhi e si concentrò nuovamente sul respirare. Dopo qualche minuto schiuse le palpebre e riprese a elencare tutto ciò che c'era attorno a lui. Aveva iniziato a praticare questi esercizi sotto consiglio di Alexis. Avevano provato diverse tecniche nei primi stadi della sua malattia - odori e sapori forti su cui concentrarsi, tenere tra le mani dei cubetti di ghiaccio fino a che il suo cervello non potesse più ignorare la sensazione -, ma aveva sempre avuto risultati migliori usando la vista. L'allarme digitale sul comodino, col suo rivestimento in plastica e numeri rossi e luminosi. Le sue scarpe da corsa gialle e verdi che lo aspettavano di fianco all'armadio. La ventola da soffitto, al momento immobile, con le sue lame in legno che puliva ogni sabato. Evidenze inconfutabili del mondo in cui si trovava - quello di Oscar.

Era Oscar.

Oscar si mise lentamente a sedere, lasciando le coperte scivolargli via dal petto. Levi era ancora lì, lo stava guardando.

"Stai meglio?"

"Per lo più." Mise i piedi sul pavimento, spostando lentamente il suo peso fino a quando fu certo di riuscire a sopportarlo. "Dovrei provare a mangiare qualcosa."

Il ragazzo lo fece sedere al tavolo della cucina e aspettare, mentre scaldava qualche avanzo dal frigo, anche se Oscar si sentiva abbastanza bene da potersi arrangiare. Tuttavia Levi sembrava ben deciso ad aiutarlo, così lo lasciò fare. Chloe e sua madre si erano sempre comportate allo stesso modo. Quando se ne era lamentato con Alexis, la ragazza gli aveva detto di immaginare di assistere a qualcun altro nel bel mezzo di un flashback. "Non puoi fare molto, quando qualcuno si trova in quella situazione. Si sentono impotenti. Quindi voglio aiutarti in qualsiasi modo, quando inizi a riprenderti."

Buone intenzioni o meno, era ugualmente un po' irritante. Tuttavia Oscar sapeva che quelle sensazioni erano dovute a quanto fosse esausto emotivamente e fisicamente, quindi lasciò che Levi continuasse a prendersi cura di lui. Almeno né Chloe né sua madre erano state assillanti.

Neanche Levi sembrava esserlo. Quando il microonde suonò, posizionò il piatto di fronte ad Oscar e poi prese a prepararsi il suo. Oscar mangiò metodicamente, concentrandosi sui sapori e le consistenze del cibo nella sua bocca. Dopo un po' anche il ragazzo lo raggiunse al tavolo, facendosi il segno della croce e mormorando qualcosa in fluente e rapido spagnolo che gli parve più una canzone che una preghiera. Poi prese la forchetta e, senza esitazione, disse: "Prima hai continuato a chiamarmi in un certo modo." Levi cercò di gorgogliare la parola, facendo sorridere Oscar.

"Capitano." Lo corresse, pronunciando ogni sillaba lentamente.

"Sì, quello. E' turco o qualcosa?"

"O qualcosa." Oscar parlava inglese e sapeva dire qualche frase in un'altra lingua che gli aveva insegnato sua nonna prima di morire. I due anni di francese che aveva fatto alle superiori non lo avevano aiutato affatto, probabilmente dovuto anche al fatto che era più interessato alle scienze. Non si era mai preso la briga di studiare il turco, anche se sua madre aveva provato a convincerlo.

Per Eren c'era stata un'unica madre lingua.

#

Oscar non aveva mai creduto al destino o al karma. Era sempre stato convinto che la vita si limitava aa accadere e non c'era un reale ordine delle cose. Tuttavia, iniziò a pensare che forse c'era un certo equilibrio a dettare le leggi del mondo. Perché pochi giorni dopo che Levi aveva scoperto qualcosa che Oscar avrebbe preferito non scoprisse, lo stesso avvenimento accadde all'incontrario.

Iniziò con una tosse.

Oscar non ci diede peso all'inizio, pensando che probabilmente Levi l'aveva presa al lavoro. Ricordava i suoi giorni passati a fare il cameriere e di come i raffreddori e batteri si passassero velocemente in un ristorante - orde di clienti contagiosi che toccavano le sedie, i tavoli e i menù, assieme a dipendenti che non potevano permettersi di rimanere a casa in malattia. La cucina era sempre piena di antibiotici e litri di disinfettante per le mani per i dipedenti. Ognuno diventava un genio nel fingere di star bene.

Ma quando una semplice tosse divenne un terribile rantolio umido iniziò a chiedersi come avesse potuto non essere annegato prima d'ora. E, nonostante riuscisse a forzare zuppe, medicine e riposo in più a Levi, quest'ultimo continuava a rifiutarsi di vedere un dottore.

"Hai del liquido nei polmoni," Gli disse Oscar. "Potresti avere la pneumonia o la bronchite o... O qualcosa." Aveva furtivamente controllato i sintomi su un sito di medicina, cosa che probabilmente non era stata un'idea brillante, ma, Dio, Levi sembrava star davvero male.

"Non ci vado." Rispose il ragazzo. La sua espressione era decisa, ma l'effetto fu rovinato dalla sua voce debole.

"Se è una pneumonia batterica non passerà da sola," Lo avvisò Oscar. "Peggiorerai e basta." Levi non rispose, così continuò. "La pneumonia più uccidere, sai?"

"Allora sarà meglio che non sia pneumonia, eh?" Ringhiò il ragazzo, o cercò di farlo. L'attacco di tosse che lo interruppe fece sembrare la sua frase un mormorio.

Oscar lo lasciò stare, dopo quello, non volendo che Levi si agitasse troppo nello stato in cui si trovava. Per un po', almeno. Gli era impossibile ignorare il suo respiro appena accennato e i suoi colpi di tosse, specialmente quando gli tutto ciò gli ricordava la peste che aveva decimato Shiganshina quando Eren era piccolo.

Quindi riprese presto a cercare di convincerlo di andare al pronto soccorso per ore, fino a quanto Levi mormorò qualcosa che lo fece tacere.

"Già lo so perché sto male."

Il più grande si fermò a metà frase, aspettando che l'altro continuasse. Tuttavia Levi non disse nulla, limitandosi a fissarlo esausto da dove si trovava sul divano. Alla fine Oscar gli chiese: "Perché stai male?"

Le dita del giovane si strinsero attorno alla trapunta in cui si era acciambellato. Allontanò lo sguardo, puntando gli occhi su un punto impreciso oltre le spalle di Oscar. Sembrava esausto quanto il Capitano verso la fine di tutto, sciupato ma ancora saldamente aggrappato all'ultimo frammento di speranza dentro di lui. "Io... Io ho iniziato a fasciarmi." Allontanò la trapunta dal suo corpo, con mani tremanti, anche se Oscar non capiva se fosse per il freddo o per il nervosismo -, alzandosi la felpa e la maglietta per rivelare un ulteriore strato al di sotto di essa.

Oscar sbatté le ciglia, cercando di capire cosa stava vedendo, prima che tutto prendesse senso. Inghiottì a vuoto, chiedendosi cosa dire, cosa fare, sentendosi totalmente inadeguato. Chloe, avrebbe dovuto chiamare Chloe, lei avrebbe saputo come comportarsi. Poi realizzò che era mezzanotte e che Chloe probabilmente stava dormendo e, inoltre, Levi stava aspettando che gli dicesse qualcosa e il suo viso diveniva ad ogni istante passato sempre più teso.

Decise innanzitutto di occuparsi dei problemi principali. "Da quanto? Cioè, quand'è stata l'ultima volta che te la sei tolta?"

Il ragazzo mollò la presa sulla felpa e la maglietta, tornando a stringere i pugni sulla coperta. "Quando mi sono fatto la doccia."

A meno che Levi non fosse riuscito a farne una davvero velocemente, l'ultima volta che aveva fatto la doccia era stato il giorno prima. "Non ci hai dormito, vero?"

Il giovane non rispose, ma il suo sguardo colpevole bastò.

Oscar si morse il labbro inferiore, cercando di formulare al meglio cosa voleva dire senza apparire inappropriato. "Puoi toglierlo? Aspetta, non ti sto chiedendo di smetterla di fasciarti, quello va bene, solo- Cazzo, hai bisogno di respirare. Quindi... Per favore?"

Levi non disse nulla, ma fece una smorfia, si alzò dal divano e si diresse al bagno. Non appena la porta si chiuse Oscar si passò le mani sul viso e si disse fermamente di darsi una calmata. Questo non era il Levi cresciuto, non era il soldato maturo e sicuro di sé stesso, che Eren conosceva. Era soltanto un diciassettenne recentemente senza una casa e, per quanto ne sapeva- Merda, i suoi genitori avevano scoperto che era trans e l'avevano cacciato? Merda, merda - era probabilmente più spaventato di lui. L'ultima cosa che voleva fare era metterlo nella situazione di decidere di scappare.

Levi emerse dal bagno pochi minuti dopo, curvo e con le braccia incrociate sul petto, la sua intera postura tesa anche quando andò a sedersi sul divano il più lontano possibile da Oscar. Al più grande faceva male vedere il giovane così a disagio, ma si sforzò di assumere un'espressione serena. "Hey." Mormorò piano. Levi lo guardò con diffidenza. "Va tutto bene. Puoi respirare a fondo e tossire?"

Il ragazzo ridusse gli occhi a due fessure, facendogli capire che al momento nulla andava bene, ma almeno obbedì e inspirò a lungo e tossì forte. Il suono che emise fu umido, ma nulla sembrava volersi muovere. Oscar sussultò. Qualsiasi cosa Levi si fosse preso, era serio.

"Solo perché sei a conoscenza del perché sei malato, non significa in alcun modo che tu non debba andare a farti visitare da un dottore," Gli disse gentilmente. "Probabilmente avrai bisogno di un antibiotico per guarire." Glielo aveva detto almeno un centinaio di volte, però forse Levi adesso ci stava pensando seriamente.

"Non penso di aver abbastanza soldi da poter andare dal dottore." Mormorò il giovane.

"Lo pagherò io."

Il semplice fatto che Levi non si oppose immediatamente gli fece capire quanto esausto era. Il giovane cambiò posizione sul posto, portandosi le gambe contro il petto. "A me... A me non piace andare dal dottore."

Oscar lo poteva capire perfettamente, anche se le sue ragioni erano diverse. "Potrebbe aiutarti se parlassi prima io col dottore? Oh, potremmo anche cercare online se ci sono dottori trans-friendly in città." Sicuramente c'era un sito anche per quello. Internet aveva tutto, anche un Facebook per le vite precedenti.

Levi lo fissò, col mento appoggiato sulle ginocchia. Dopo un momento, il suo sguardo si spostò sul tappeto. "Devo farmi fare una ricetta." Disse. Sembrava che stesse parlando più a sé stesso che con ad Oscar, ma l'altro annuì ugualmente. Il giovane sospirò e si alzò, con i pugni sui fianchi. "Andiamo."

"Sei sicuro?" Gli chiese Oscar.

"Andiamo." Sbottò il ragazzo.

Il più grande lo seguì, fermandosi soltanto per prendere le chiavi dell'auto, poi guidò fino alla clinica più vicina che teneva aperto anche la notte. Levi rimase seduto sul suo sedile con la fronte premuta contro il finestrino. Il silenzio tra loro fece agitare Oscar, che di conseguenza pensò a qualcosa di cui parlare. Il giovane non sembrava disposto a discutere, quindi si limitò a chiedergli una cosa che lo stava preoccupando.

"Sai che non dovresti tenere le fasciature per più di dodici ore, giusto?" Iniziò, cercando di non apparire troppo condiscendente. "E che è pericoloso dormirci."

"So come fasciarmi in sicurezza," Lo interruppe Levi. "So anche che la fasciatura che ho è una merda." Tossì, coprendosi la bocca col braccio. "E' poco costosa. Fatta male."

Oscar non sapeva che potessero esistere fasciature fatte male, ma si decise a scoprire cosa costituiva una buona fasciatura e convincere Levi a lasciarlo prendergliene una. Al ragazzo non sarebbe piaciuto - Oscar già si stava preparando ad un'altra discussione -, ma avrebbe sempre potuto ripagarlo più avanti. "Ok. Va bene. Quindi perché...?" Lasciò la frase in sospeso, alzando una mano dal volante per gesticolare vagamente nella direzione generale del ragazzo.

Passarono svariati isolati, prima che Levi parlasse. Quando lo fece, non fu una risposta alla domanda. "Lo sapevi? La notte che ci siamo incontrati."

Oscar scosse la testa. La domanda gli apparve pesante, carica di qualcosa che non capiva, e si chiese perché non potessero aver avuto quella discussione mentre non si trovava alla guida, in modo da poter dedicare tutta la sua attenzione al ragazzo. "Non ne avevo idea."

Levi raddrizzò la schiena. "Mi hai chiamato ragazzo." Disse. Oscar quasi non riuscì a sentirlo, oltre il rumore dell'auto. "La maggior parte della gente... Una volta che mi guarda bene, inizia a chiamarmi ragazza. Non passo mai ragazzo per molto." Continuò, spostando lo sguardo dal finestrino e Oscar allontanò un attimo il proprio dalla strada, per incrociarlo con gli occhi del giovane. Levi riprese, alzando un attimo la voce. "Però con te continuavo a passare per ragazzo. Sempre. Non volevo che si rovinasse tutto. Non volevo che tu... Ecco perché."

Oscar si prese un momento per digerire il tutto. "Ok," Gli disse. "Tutto questo ha un senso. E ti ringrazio per esserti fidato di me. Però..." Portò nuovamente gli occhi contro quelli di Levi. Non era certo di saper dire nel modo corretto una cosa che sarebbe potuta passare per offensiva, ma doveva fare in modo che il ragazzo lo capisse. "Se vuoi fasciarti in mia presenza perché ti aiuta, fallo, va bene. Voglio che tu lo faccia, se ti aiuta. Però devi farlo sempre in sicurezza, capisci? Se è ora di toglierla, toglila. Non devi... 'Passare', per me." Strinse le dita sul volante in un gesto nervoso. "Lo so che sei un ragazzo... Farei davvero fatica a guardarti e vedere altro che non sia un ragazzo."

Fortunatamente, Levi rilassò la postura. Era difficile da dire con esattezza, però gli sembrava un poco compiaciuto. "Perché sai tutte queste cose, comunque?"

"Oh. Non posso dire di sapere molto." Si chiese un momento come spiegarsi, chiedendosi come farlo senza fare outing a Chloe. Dubitava che la ragazza se la sarebbe presa, ma sapeva che non era neanche giusto da parte sua. Decise che, affinché non fosse andato sullo specifico o avesse rivelato la sua identità, sarebbe andato tutto bene. "Nei miei due ultimi anni di college ho condiviso la stanza con una ragazza trans. Il primo giorno mi ha parlato di come si erano comportati i suoi ultimi compagni di stanza e che se fossi stato uno stronzo anch'io avrei dovuto dirglielo, così avrebbe richiesto un cambio di stanza. Le dissi che non avevo alcuna intenzione di fare lo stronzo, ma realizzai che non sapevo nulla sui transessuali e non volevo fare il bastardo involontariamente, quindi..." Scrollò le spalle. "Ho fatto delle ricerche."

Levi non parlò per il resto del viaggio. Il silenzio era più rilassato in confronto a prima, quindi Oscar non lo interruppe. Non fu fino a quando si ritrovarono in una stanza d'attesa della clinica, mentre il più grande si distraeva leggendo un vecchio giornale mentre Levi compilava le sue schede, che quest'ultimo gli chiese: "Parli ancora con lei?"

"La mia vecchia compagna di stanza? Sì, quasi tutti i giorni." Dopo tutti quegli anni, dopo tutto quello che era successo - i suoi problemi con la sua salute mentale, la loro distanza fisica e la diversità delle loro strade - era ancora la sua migliore amica.

"Posso parlare con lei?"

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