Deathless

di supermafri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa ***
Capitolo 2: *** Atto I ***
Capitolo 3: *** Atto II ***



Capitolo 1
*** Premessa ***


Legenda:
*** = Inizio/fine capitolo.
*** = Inizio/fine flashback.
*** = Cambio di personaggi e/o situazione.
*** = Pausa d’intermezzo tra una scena e l’altra.
 




Deathless

***
 


Premessa

 
Molti anni fa, nell'America statunitense, Atlanta era conosciuta per le sue credenze popolari. C'era chi riteneva importante non guardare indietro quando si percorreva un rettilineo, oppure non prendere la tredicesima fermata per chissà dove. Ma forse ciò che era più temuto era un ammasso di capanni in periferia. Vi viveva un uomo sulla sessantina, capelli macchiati ancora dalle ultime chiazze caffellatte, una mania per la religione e i veleni.
Secondo le testimonianze che mi sono raggiunte, sembra che la sua solitudine, la sua devozione e la sua passione lo avessero trasformato in tutto fuorché normale. La gente diceva di sentirlo ridere mentre parlava da solo, e il solo suono maniacale della sua risata impauriva chiunque.
Usciva di tanto in tanto, dicono i testi, e comprava caramelle, mappe della città, merce d'ogni tipo. E poi la gente si chiudeva in casa. Era iniziato il suo gioco.
Attendeva con pazienza fino all'arrivo di qualche bambino, stranieri in cerca di informazioni, chiunque fosse attratto da lui. Che fosse per curiosità, necessità o qualsiasi altro bisogno, lui non faceva differenze. Perché significava una cosa sola: tutti coloro che lo cercavano erano destinati all'inferno.
Era stato Dio a dirglielo, ad affidargli un compito che andava oltre le possibilità del resto del mondo: “L’inferno non ha più spazio. Puniscili per me con la vita eterna” era stato il suo ordine. Sentendosi prescelto, aveva condotto esperimenti ogni notte attendendo un unico risultato, quel per sempre che avrebbe chiuso la catena in un continuo ciclo, senza fine.
Una sola fiala di soluzione in vena, e la Terra avrebbe ospitato la nuova fornace di peccati.
Il braccio gonfio pulsava tra gli affanni di una spasmodica febbre, mentre le risate non lo abbandonavano per un secondo. Il suo sacrificio era un bene necessario alla distruzione; il suo martirio lo vedeva artefice della nascita di un nuovo impero. Un impero di erranti, ambulanti, cadaveri strappati all'inferno. E tutti di un unico capostipite: il suo morso viscido e maleodorante.
 
Benvenuti, quindi, nella storia.
 


 
***


 
 
“O cara speranza,
 quel giorno sapremo
 anche noi
 che sei la vita e sei il nulla.
Sarà come smettere un
vizio,
come ascoltare un
labbro chiuso.
Sarà come un
vecchio rimorso,
o te sola allo specchio.”


 
 
***

 
 
La via si nascondeva fra cespugli selvatici e lunghi tappeti erbosi, grilli e cicale facevano da accompagnamento alla silenziosa e umida notte. Rin stringeva la pezza rattoppata del coniglietto in tessuto, mentre Len la trascinava premendole il polso, come per scaricare la tensione, come se quel contatto potesse evitare le lacrime rigargli il volto. Piangeva lei per entrambi, lasciando che le stille si seccassero alla fredda aria della sera. Eppure non un singhiozzo, non un grido, sfuggì dalle sue labbra per tutto il tempo. Len si portava dietro la grande valigia del padre, la stessa grande valigia che usavano come automobile a due posti solo tre anni prima, quel gioco fantasioso che tanto amavano. Non era pesante: pochi abiti ammucchiati alla rinfusa e gli avanzi di cibo sarebbero anche stati abbastanza per una sola giornata di viaggio. Ma i loro visi erano sfatti, gli occhi vuoti e un magone fermo sulla gola, le ginocchia tremavano ad ogni passo per il freddo, la fatica e il dolore. Il tempo per riposare, per sciogliere gli aghi della tristezza, per evitare gli errori, non c'era. Il tempo non c'era mai per nessuno e la fortuna non era da meno.
 

 
***


 
Len si era fermato improvvisamente alla stazione ferroviaria, gli occhi vigili e sgranati, la sorellina appisolata sulle spalle, la valigia stretta e salda fra le dita. Un'alta ed elegante figura sul ciglio dell'ingresso del vagone s’avvicinò con un cordiale sorriso.
«Buonasera signorino Kagamine, sono il maggiordomo che ha l'incarico di scortarvi da milady Miku. Seguitemi, per favore.»
Il biondo non se lo fece ripetere e seguì passo passo l'uomo di mezza età in giacca e papillon. Il treno correva sui binari stridendo malamente e cigolando di tanto in tanto, mentre Rin raggomitolata sul sedile nascondeva il volto assonnato nella manica destra del maglioncino di Len. Len fissava intensamente il cielo trapunto da due sole stelle, la luna inesistente.
«Len, dove sono mamma e papà…?» Sussurrò la piccola Rin tra sbadigli e sospiri.
Il gemellino l’avvolse in un forte abbraccio, di possesso, di paura. Paura potesse perdere anche lei.
«Sono ancora in città, Rin. Torneranno.» Ma era proprio quel torneranno a preoccuparlo, senza un quando e senza un come, senza veramente sapere chi sarebbe tornato. Ad essere sinceri, a lui non interessava saperlo, essere in grado di proteggerla era l'unico pensiero fisso nella sua mente.
Il maggiordomo li ammirava beatamente assorto, mentre il volto si dipingeva di tenera gentilezza. Eppure non sapeva che un solo amorevole sorriso ricordava loro il baratro senza fine, la morte.
 


 
***


 
Aveva i capelli sudaticci, un braccio sulla fronte, gli occhi più blu del mare in tempesta. Lunghi e freddi brividi gli sfioravano ancora la pelle, nonostante fossero passati anni da quel giorno. Otto l’indomani, per l'esattezza. Otto anni in cui Len aveva sempre rifiutato abbandonare la stanza della sorella, otto anni in cui aveva odiato chiudere gli occhi per ripercorrere quel pesante ed indimenticabile passato. Lo detestava perché Rin sognava quello che lui sognava, ricordava quello che ricordava anche lui, però soffriva di più, di più di chiunque altro.
Aveva poggiato i piedi sul pavimento, mordendo appena il labbro per il fresco che albergava ancora in aprile, si era inginocchiato e accostato al bordo del letto della gemella, le mani sotto il mento.
Mormorava piano il suo nome, aspettando si girasse. E quando finalmente mostrò i suoi occhioni impastati di tristezza, Len prese il suo volto tra le mani e le baciò delicatamente la fronte. Come per magia un'intensa luce illuminò le iridi del biondo: Rin aveva sorriso.
 

 
***


 
«Rin, Len, smettetela di poltrire, il sole è già alto!» fece riecheggiare la voce una gioviale azzurra.
Sbirciò dalla fessura della porta per pochi istanti, scegliendo di fiondarsi direttamente all’interno della camera e aprire tende e finestre. Come lei sempre affermava con allegria, cambiare aria serve ed è importante. I raggi delle dieci del mattino scivolarono sui lineamenti dei due gemelli, come fossero stati oro, gemme preziosissime. Miku rimaneva costantemente ammaliata della loro luce riflessa, specchi che tralucevano l'un l'altro. Nemmeno tutto il mio denaro brilla così, si ritrovava talvolta a pensare.
«Buongiorno anche a te, Miku-sama.» Pronunciarono i gemelli in coro, pronti e pimpanti per una nuova mattinata in compagnia. Non le erano mai piaciute le riverenze degli amici, che ormai abitavano la sua stessa villa da una vita, ma più lo faceva notare loro, più loro si ingarbugliavano con onorificenze sempre più colte e raffinate. Dovevano ancora esserle grati per averli accolti a braccia aperte tanto tempo fa.
«Saki, Soba, entrate pure. Vestitemi questi due bambolotti di porcellana. E voi, - riprese avvicinandosi ai biondini piena d'energia – siate veloci! Vi aspetto nel giardino sul retro.» E solo dopo un cenno del capo, lasciò la stanza picchiettando i tacchi sul pavimento.
I due servitori terminarono il loro dovere tra le chiacchiere e le risate dei fratelli che, da un separé all'altro, facevamo programmi per la nuova giornata, velando quella tristezza che appannava i pensieri. Loro erano sempre stati così curiosi e spensierati con il mondo, nascondendo gli incubi in un piccolo cofanetto comune. La fiducia per l’altro era cieca, la sua gioia al primo posto e la sua presenza un obbligo.
Mano nella mano attraversavano i corridoi del grande podere, mentre s'accingevano a raggiungere il campo di rose dietro le stanze del maniero. Una ragazza dai lunghi capelli cerulei stava gentilmente rinfrescando le piantine con un innaffiatoio quando si sentì chiamare improvvisamente.
«Miku-sama, siamo qui!!» Urlò forte Rin, trascinando Len nella corsa.
«Credevo vi foste riaddormentati! Siete sempre così in ritardo…» Constatò Miku tra lo stupore e l'esasperazione.
«Meglio tardi e belli che brutti e puntuali.» Ghignò il biondo, sedendosi sul prato e iniziando a cogliere qualche margherita spontanea. Stava preparando due ghirlande per le tenere donzelle: nei lavori manuali sapeva sempre aggiungere un tocco da maestro.
«Ecco, vi presento l'immensa modestia di Len Kagamine, signori.» Esordì l'azzurra ad un pubblico immaginario, mentre Rin scoppiava in una risata cristallina. Len alzò gli occhi al cielo, tornando a concentrarsi sul suo lavoro.
«Uh, stavo quasi per dimenticare! Fra qualche giorno dovrebbe arrivare il medico di famiglia a farci un vaccino particolare, Rin. Insomma, ormai abbiamo quindici anni, è una cosa che dobbiamo fare.» Disse Miku ad una biondina disorientata e confusa. S’avvicinò quindi al suo orecchio e sussurrò un paio di paroline. Quando fu tutto chiaro, un rosso ciliegia imporporò le guance di Rin, mentre Len posava delicatamente sulle loro teste una coroncina floreale. Stai diventando donna Rin, a questo proposito il dottore viene a farci visita, le aveva spiegato Miku in un bisbiglio. Ma diventare donna cosa voleva dire? Inutile pensarci, ormai Len le aveva rivolto un caldo sorriso.


 
***

 
«Sembrate due principesse.» Proferì Len con tono luminoso. Miku e Rin incrociarono una sguardo d'intesa, prendendo una rosa rossa, togliendo le spine con delicatezza e infilandola tra le labbra del biondino, stupito e curioso.
«Un galantuomo ha sempre bisogno di una rosa...» Spiegò Miku, facendo l’occhiolino a Rin, che subito colpì nel segno.
«Per danzare con una dama, o meglio, con due.» Terminò la bionda divertita.
«Mi concedete quindi l'onore di questo ballo, ragazze?» Domandò Len porgendo le mani alle dolci fanciulle, che accolsero volentieri l'invito. Fra canti e risate, qualche piroetta e casquet, si cimentarono nella difficile arte della danza. Ma mentre sembrava che la giornata sarebbe stata carica di divertimento sfrenato, grida, schiamazzi e urla infestarono la villa, ghiacciando sul posto i tre amici.


 
***


 
«Scappate, signorini, scappate! I padroni sono mor-» Si fece sentire la voce della serva Saki, mentre, girato l'angolo, venne malamente agguantata da una figura non più umana: l'odore di cadavere l'avvolgeva, gli occhi riversi a metà facevano capolino fra le palpebre, pelle grigio-verdastra lo ricopriva e fra versi gutturali si muoveva lento verso la preda, strappando a morsi la carne viva.
Rin e Len si sentirono mancare improvvisamente, i ricordi di quel tanto odiato passato tornavano a galla come bolle d'aria intrappolate sott'acqua. Miku esplose in un pianto agitato, ansimò e urlò contemporaneamente. Ma ora lo zombie non era più solo uno e la casa stava scomparendo tra le fiamme di un incendio.
 
Len afferrò il polso della sorella, stringendolo forte, ma assente si lasciava guidare dal gemello, e la trascinò insieme a Miku fra le erbe alte del prato, correndo. Con la mente poco lucida, elaborò un'unica via di fuga, insicura, pericolosa. Sarebbe costata la vita, ma la vita ormai era già in gioco, no?
Si spinse fino alla voragine che faceva da letto al fiume dalle acque impervie, mentre l'azzurra e la bionda cominciarono a concepire il suo stesso pensiero, destabilizzandole completamente.
«Len, no, dobbiamo tornare indietro, da mio padre e mia madre! Non posso lasciarli, non voglio. Verranno uccisi se rimangono là, dobbiamo aiutarli!» Gridò disperata Miku, ma Len non ammise ragioni. Lui sapeva cos'era successo, l'aveva già vissuto in passato e rimanere lì, non aveva alcun senso, se non la morte.
«Len, moriremo, moriremo. Sono tornati a prenderci, Len, vogliono ucciderci, Len!» La voce singhiozzante di Rin, lo fece tremare. L'avrebbe salvata in qualunque modo, anche se ne fosse andata della sua stessa vita.
«Dobbiamo buttarci nel fiume. Ci terremo per mano, così non ci perderemo. Non possiamo tornare indietro: non c’è più nessuno, non c’è più niente! Ci siamo solo noi! Rin, Miku-sama, ve lo prometto: noi vivremo! Preparatevi, al mio tre si salta.» Il biondo si riempì di determinazione, ignorando quanto una stringesse da far male e quanto l'altra cercasse di sfuggire al suo appiglio, piangendo sempre più forte.
«Uno, due...» Iniziò a contare con durezza e fermezza d'animo. Non poteva perdere contro il dolore ora, lui era la loro unica ancora di salvezza.
«No, no, NO LEN!» Strepitò l’azzurra allo stremo delle forze.
«Tre... Saltiamo!» Le trascinò con sé Len, nascondendo gli occhi sotto la frangetta, socchiudendoli appena.
L'acqua era gelida, impetuosa, prorompente. Loro erano deboli, impotenti, fragili.
Ne furono sopraffatti, distrutti.
 
Un velo nero li aveva avvolti.
 



 
***


 
 
Angolo dell’autrice:
Non ho veramente molto da dire se non ringraziare di cuore chiunque sia arrivato fino all’angolo della pazza. Beh, in realtà penso questo sarà il capitolo, se così lo possiamo definire (?), più semplice, scadente e normale dell’intera storia. Nemmeno chi mi conosce sa di cosa sto parlando, probabilmente rimarrà sorpresa, magari anche un po’ schifata… E’ un genere abbastanza particolare: horror romanzato, drammatico e talvolta tendente all’angst, senza mai dimenticare quel sentimentalismo che spero di veder sfociare nel romanticismo.
 
Pairings:
  • Rin Kagamine x Len Kagamine
  • Gumi Megpoid x Gumiya
  • Gakupo Kamui x Luka Megurine
  • Miku Hatsune x Kaito Shion x Meiko
  • Rin Kagamine x Oliver
 
 
In aggiunta alla lista delle coppiette felici (si fa per dire, certo ;) ), un posticino speciale anche alla piccola IA. Per il momento ho loro in mente, ma ciò non toglie che possano aumentare.
 
Avvertimenti:
  • Kagaminecest (twincest tra i nostri Kagamine twins)
  • Tematiche delicate
  • Triangolo
 
L’idea dell’Apocalisse zombie è nata grazie alla canzone Tokyo Zombieland di Rin e Len Kagamine, alimentata dal videogioco che mi ha tenuta sveglia per ore, The Walking Dead. Quindi tutto ciò che riguarda la storia risulta dall’incontro di due mondi che amo molto.
Per chiunque stia seguendo Sister’s Complexity sappia che non mi sono dimenticata della storia, ma sto solamente attendendo una risposta dall’autrice, che mi dovrebbe dare il via libera per continuare la storia al posto suo.
Detto ciò, ringrazio tantissimo e domando pareri a tutti i lettori/lettrici!
 
Baci, Supermafri <3












 

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Capitolo 2
*** Atto I ***


 
Legenda:
*** = Inizio/fine capitolo.
*** = Inizio/fine flashback.
*** = Cambio di personaggi e/o situazione.
*** = Pausa d’intermezzo tra una scena e l’altra.


Deathless
Atto I

***





“I tuoi occhi
saranno una vana
parola,
un grido taciuto, un
silenzio.”
 
 

 
***

 

Ora il sole scottava e la ghiaia bagnata prudeva fin sotto i vestiti. Sempre se di vesti si poteva parlare, perché oramai non erano niente più che pezze sporche e imbevute d’acqua, sciupate e sfilacciate. Il petto s'alzava e s'abbassava, il respiro si faceva prepotente e percorso da duri colpi di tosse, le mani cercavano di allargare il colletto e le braccia facevano leva per alzarsi. Rin e Miku erano a pochi metri da lui, distese e supine sull'orlo dell'argine. Miku era avvolta da costanti tremolii mentre il freddo le intorpidiva i sensi. Al contrario Rin era diafana, immobile, gelida.
 

Il biondo rimase paralizzato, percorso da una violenta scossa alla vista della sorella esanime. Si gettò su di lei fulmineo, appoggiando l'orecchio sul suo petto, sulla sua bocca, ma il filo che la teneva in vita era così sottile, così fragile. Non pensò nemmeno per un secondo, premendo le labbra sulle sue e soffiando forte. Una, due, tre volte. Rin tossì, lasciando che un rivolo d'acqua le sporcasse la guancia e che un tenue rosa confetto le colorasse finalmente le gote. Len, sfinito e senza fiato, aveva posato gli avambracci sul ghiaino ai lati del volto di Rin, stringendole il viso fra le mani: ammirò i grandi e meravigliati occhi celesti, qualche ciuffo spettinato che le copriva la fronte, le labbra che si riempivano lentamente d'un acceso rosso fragola.
 

«Grazie a Dio, Rin.» Sentì le lacrime pungere ed appannargli lo sguardo e d'istinto si nascose tra la sua spalla, il collo e i luminosi capelli dorati.
La bionda avrebbe voluto parlare, chiedere al fratello le risposte di tanti suoi perché, ma fu costretta al silenzio, la gola bruciava ancora tanto. Non voleva nemmeno si allontanasse da lei, quell'abbraccio caldo e carezzevole era tutto, tutto quello che desiderava e poteva ancora avere.
I lamenti e sospiri di Miku destarono i gemelli, che le si avvicinarono piano, chiudendola in un grande ed unico abbraccio, nella speranza di recuperare quel calore scemato nella fuga.
I tre piccoli angeli smarriti tornarono a sognare, ma ben presto i sogni si trasformarono in incubi sempre peggiori.


 
***
 



Il biondo si era svegliato per primo sotto i raggi di un sole quasi estivo, la pelle asciutta e i capelli ancora legati in un piccolo e stretto codino. Aveva lanciato una breve occhiata alle due ragazze fra le sue braccia, rilassandosi in un lungo e tirato sospiro. Cosa doveva fare adesso? L’immagine dei genitori non avrebbe abbandonato la mente di Rin tanto facilmente, Miku lo avrebbe di sicuro ritenuto responsabile di ogni disgrazia che l'aveva accompagnata finora. E lui? Semplicemente, avrebbe continuato a lottare. Per quanto avesse avuto bisogno di urlare, per quanto il suo cuore fosse stato incapace di sostenere la situazione, non avrebbe ceduto. Per loro. Per Rin. Non sarebbe mai caduto, mai.

 
Si alzò e fece quattro passi nel boschetto adiacente, cogliendo qualche fiore di tanto in tanto. Doveva schiarirsi le idee, fare mente locale della situazione: cosa avrebbero fatto ora? Il pericolo sembrava avere fortunatamente voltato loro le spalle. Certo era che nessuno avrebbe potuto predire quando si sarebbe nuovamente girato a guardarli. In fin dei conti, erano sempre sotto il suo controllo, lui e Rin.
 


Ammirò il sole di mezzodì fra le fronde di verdi latifoglie. Dove sarebbero andati ora? Cercava sicurezza, ma più credeva di averla trovata, più nascevano contraddizioni su contraddizioni. Continueremo a spostarci, s’accese come un barlume di speranza. Probabilmente, avrebbe raggiunto la meta che tanto desiderava trovare con la via che meno rischio comportava. Ma allo stesso tempo, questa scelta poteva considerarsi una delle più sbagliate. Dipendeva solo dai punti di vista.
 


Calciava un piccolo sassolino lungo il sentiero, stringendo i denti e aggrottando la fronte. I piedi diventavano sempre più pesanti, le mani più sudate e la camminata instabile: si fermò dopo pochi minuti, raggomitolando le ginocchia fra le braccia e guardando il terreno impassibile. La solitudine iniziava ad intimorirlo. Si sentiva distante, abbandonato da chi più amava ancora una volta. Aveva paura di perdere anche l'ultima cosa importante, che i suoi lineamenti si dissolvessero improvvisamente dai pensieri, dal cuore. Rin era tutto, forse anche troppo. Ma quand’è che il troppo è troppo? Quand’è che si può dire che è abbastanza, che non hai bisogno di più? Non aver più bisogno di Rin?! Era un pensiero troppo pazzo e inconcepibile! Len non sarebbe mai stato capace di lasciarla andare, l'avrebbe seguita di nascosto se necessario. Era giusto pensarla così? Era giusto volerla così tanto?
 



***



 
«Non mi toccare, Rin! Ti ho già detto che non so dov’è Len, quindi lasciami stare!» L'aggressiva voce dell'azzurra invase il boschetto in un lampo. Len si alzò in uno scatto ansioso e frustato, si era preso fin troppo tempo, doveva affrontare la situazione reale.
Risalì velocemente la stradina in cui s’affacciavano grandi felci selvatiche. Quando le vide, una con le mani ai fianchi, su di giri come non mai, e l'altra sconvolta, impaurita, quasi assente, che si fronteggiavano, o meglio, Miku aggrediva Rin, rimase basito, impietrito mentre il fiume di parole che si era preparato fluiva senza remore, come un castello di carte al vento. La reazione di Miku non tardò nemmeno di un secondo.
 


«Oh, eccolo il tuo Len! E guarda ti ha addirittura portato dei fiori, è di una dolcezza unica, non trovi? Anche in una simile situazione riesce a reagire come se niente fosse accaduto. Beh, ma in fin dei conti, cos’è successo? Siamo da soli, nel bel mezzo di una foresta, e allora? Siamo stati inseguiti da strane e immonde creature mentre la casa andava a fuoco, e allora?» Il discorso andava aumentando di tono e Len non poteva far altro che sudare freddo, sensazione che non gli piaceva, ma proprio per niente. «Sono tutti morti, e allora?!» Il volto di Miku era tetro, saturo di rabbia, di disperata ira nei suoi confronti. «Già, ormai chi sarà ancora vivo, eh Len?! Se fossimo tornati indietro li avrei potuti salvare tutti, dal primo all’ultimo. Ma no, tu, tu, tu li hai abbandonati, ci hai abbandonati tutti! Hai tradito noi, la tua famiglia. È per questo che quella volta siete venuti a vivere nella nostra casa?! Avete tradito anche i vostri genitori, dico bene?!» Si era avvicinata tanto da afferrargli il colletto della camicia a cui ormai mancavano un paio di bottoni, gli occhi vermigli e celesti, vermigli di furia, celesti di pianto. A Len mancava il fiato, come avrebbe potuto parlare del suo passato? «Non ti permettere di dire una cosa simile, Miku-sama. Se sei qui, sana e salva, significa che non ho mai smesso di pensare a quello che i tuoi genitori avrebbero voluto. Se avessimo tradito la nostra famiglia, noi, adesso..-» Non voleva continuare, Rin non sarebbe riuscita a sopportare di più.
 


«Cosa, Len? Voi adesso, cosa? L'ho sentita Rin prima: sono tornati per voi, cercavano voi, volevano uccidere voi, no?! E invece ci sono andati in mezzo tutti innocenti! La colpa è solo vostra, vostra e di nessun altro! Tua, Len, tua. Se mi avessi lasciata andare ora sarebbe diverso, non ci sarebbero vittime! È colpa tua, è colpa tua!» Batteva i pugni sul suo petto senza tregua, mentre liquorose lacrime graffiavano le sue guance. «Non si poteva fare altro, non c'era più nessuno già allora. Là esisteva solo la morte.» Rispondeva atono il biondo.
«Ridammi. Ridammi tutto quello che ho perso. Ridammi la mia casa, i miei vestiti, i miei gioielli. Ridammi mamma e papà!» Esordì un’ultima volta prima di accasciarsi al suolo, coprendo gli occhi con le mani e lasciandosi andare in un pianto infantile. Len chiamò piano il suo nome, sfiorando appena la sua spalla con la mano. Miku però, ancora turbata dai singhiozzi, si alzò senza guardarlo e si nascose dietro uno dei tronchi sulla soglia che segnava l’inizio del bosco.

 
Guardò Rin seduta su di un masso che non mostrava un minimo di attenzione, nemmeno un tenue luccichio nell’azzurro dei suoi occhi.

 
Aveva combinato un casino.
 

Forse era proprio questo il giusto momento in cui avrebbe dovuto chiedersi cosa fare. Miku aveva bisogno di sbollire la rabbia e lo stress nel pianto, a Rin serviva qualcosa che la riportasse al mondo.
Strinse forte i gambi spezzati e sospirò. A volte sopravvivere era peggio della morte. Ma non per questo bisognava rinunciare alla vita. Come quando un insetto è attratto verso la luce, non smette di cercare di raggiungerla, nonostante sappia che prima o poi si spegnerà, perché una lampadina non ha la stessa potenza del sole; allo stesso modo le persone cercano un posto sicuro, nonostante sappiano che prima o poi diventerà incapace di difenderli, perché nessun nascondiglio dà la stessa protezione che offre la propria casa. È quel prima o poi a fregarli. Ogni volta.



 
***



 
Le mani che lo sorreggevano premevano sul tappeto erboso, i fiori erano ammucchiati fra le gambe. Si era ritrovato così al fianco della gemella. Eppure Rin sembrava non averlo nemmeno notato, lo sguardo era fisso sull'acqua che scorreva limpida nel fiume a pochi metri da lei. Avvicinò le dita per destarla dal mondo dei sogni, ma si bloccò ancor prima di sfiorare la gota color pesca. Ammirava quelle ciglia lunghe, i ciuffi mielati che le coprivano la fronte e si raccoglievano in una codina che accarezzava la nuca, il solito fiocco bianco svolazzava al vento. Il turchese delle iridi ipnotizzate, vuote, rifletteva lo scroscio del torrente, come fossero specchi. Erano così chiare e immacolate che si stava chiedendo quale riflesso di sé avrebbe potuto scorgervi attraverso. Provava un così grande desiderio si voltasse a guardarlo, per vedere solo lo sguardo con cui si sarebbe rivolta a lui.
 

Si rabbuiò un attimo. Con che occhi avrebbe dovuto guardarlo? Cosa avrebbe dovuto pensare di lui, il suo specchio, la sua stessa ombra?
 

Percorse il nasino all’insù, puntellato da qualche lentiggine che spariva sugli zigomi. Len adorava le sue lentiggini, la dipingevano come la bambina ancora bisognosa del suo aiuto. A quel pensiero si era leggermente soffermato sulle labbra d'un tenue color lampone. Guardò i fiori fra le sue gambe d'improvviso, mentre uno strano porpora iniziava ad accaldarlo. Si sentiva uno stupido, quel bacio indiretto di poche ore prima era stato un dovere dettato dalle necessità. Eppure il rossore non voleva lasciarlo respirare. Stupido, stupido, stupido. Si batté forte le mani sulle guance che, se possibile, diventarono ancora più cremisi. Guardarla non gli faceva bene, non avrebbe più dovuto farlo. O almeno, non così spesso.
 


Eppure il guardarla così costantemente aveva aperto la porta ad un nuovo obiettivo: dovevano andare avanti e per ciò tutti loro avrebbero dovuto dimostrarsi in grado di oscurare il passato, far fronte al presente e sperare nel futuro.
 

Len doveva ritrovare il loro sorriso. Perché, in fin dei conti, chi altro avrebbe potuto farlo in posto desolato come quello?
 



***
 



Il biondo raccolse un rigoglioso e gonfio soffione, lo rigirò tra le dita e con la coda dell'occhio seguì il percorso dei suoi pollini mentre soffiava lievemente. Il loro profumo solleticò il nasino di Rin, che sembrò risvegliarsi fra mille starnuti. Erano così femminili, avevano quella “i” finale così accentata, che non poté trattenere un risolino sotto i baffi.
 

«L-Len!» Uno starnuto. «Perché rid-» E un altro. Len adorava quel suo essere innocente, impacciata e talvolta un po’ maldestra. Le risa s'illuminarono ancor di più.
«Oh, niente niente. Solo…» La provocò divertito, rendendole altri pollini e altri starnuti. Il naso non faceva che pruderle, ma più lo strofinava, più diventava color ciliegia e il gemello non le lasciava tregua, come se tormentarla fosse diventato un divertimento. Rin, d'altro canto, voleva mettere fine a questa messinscena, si vergognava veramente tanto.
«S-Smettila Len!! Se ti prendo, io..» Lasciò a metà la frase, inspirando e passando la manica dell'abito sul volto, strofinando frettolosamente.
«Certo, certo, pomodorino. Vedi di prendermi intanto!» Balzò in piedi e uno sfrenato inseguimento ebbe inizio tra le selve.

 
Il biondo strappò qualche foglia che tremolava al vento, scagliandola lontano, in direzione della gemella. Rin sapeva che voleva ulteriormente rallentarla nonostante il vantaggio, così decise di ricorrere all'astuzia, nonché magico potere della “sorellina minore”: Len sarebbe stato attratto nella ragnatela dal ragno stesso; un ragno dall’inconfondibile fiocco bianco, dalla pelliccia brillante come il Sole e due grandi occhi chiari come il cielo.
 

Si era completamente ritrovata coperta dalle verdi foglioline che il biondo le aveva soffiato contro e si era immobilizzata, portando i pugni agli angoli della bocca e strizzando le ciglia in attesa. In attesa di cosa? In attesa che una certa persona le venisse incontro, avvicinandosi al punto da poter attivare la trappola.

 
Len si fermò dopo mezzo istante, la guardò con il fiato che cominciava a mancare e fece un paio di passi indietro, confinando la sfida in secondo piano. Quando le fu ad un palmo dal naso, le sfiorò i capelli scacciando i rimasugli verdi, mentre il cuore batteva ancora per la corsa.

 
Era arrivato il momento. Rin spalancò gli occhi e sotto lo sguardo sorpreso del gemello, gli saltò sopra, causando una tragica caduta a terra.
 

«Rin, ma cosa-?!» Azzardò il biondo, massaggiandosi la testa divertito.
«Ha-ah, ti ho preso! E adesso mi prendo la ricompensa!» Esordì la ragazza mostrando il segno di vittoria e tirando fuori la lingua. Gli si avvicinò e gli scoccò un bel bacio sulla guancia, sciogliendo il laccetto del suo codino.
«Riiin, ridammelo!!» Piagnucolò il biondo, mentre tendeva le mani con fare impacciato. Ma Rin lo bloccava per i fianchi e spingeva la sua fronte con la mano sinistra, la destra stringeva il nastrino dalla parte opposta.

Len sembrò rabbuiarsi all'improvviso, bloccando ogni movimento. Rin se ne accorse e lo fissò curiosa. Ma poi vide formarsi quel sadico sorriso e dire che iniziò a preoccuparsi era dire poco.


«No, Len, no, aspetta un attimo, Len. No, ti prego, Len!!» Ma il biondo non ascoltò nessuna delle sue preghiere. Invertì la posizione con un semplice movimento del bacino e passò la lingua fra i denti. Oh, la sua piccola e fragile Rin. Si contorceva sotto di lui fra pianti e risate: soffriva il solletico fin da bambina, e oggi non avrebbe fatto eccezione.
 



***



 
Le lacrime uscivano senza ansimi, senza addolorate espressioni. L’indifferenza assoluta albergava il suo volto, mentre mordeva appena la punta morbida del pollice. I suoi occhi vagavano sulle due figure distese fra i cespugli, solo pochi passi più avanti. Se fuori era di pietra, non si poteva dire lo stesso del suo animo: vederli così spensierati e gioiosi la irritava a tal punto da provare quasi disgusto. Come potevano i gemelli brillare così tanto anche in una coltre di nera disperazione? Non provavano un minimo di dolore? Erano così bambini?
 

Come odiava quel loro carattere infantile, insensibile e distaccato. Come li odiava in quel preciso istante. Quei sorrisi non dovevano essere lacrime? Quelle risa non dovevano essere urla?
 

Girò lo sguardo e seguì lo zampettare lento di una coccinella sulla corteccia, la seguì anche quando prese il volo per luoghi lontani. Aveva ragione, anche la sua fortuna si era librata in alto scomparendo all'improvviso. Quale miracolo avrebbe potuto farla tornare?
 

Senza forze, senza pensieri, chiuse gli occhi, abbandonandosi al buio ancora una volta.
 



***
 



Rin stava raccogliendo i suoi ciuffi biondi, che ormai gli sfioravano le spalle, nel solito codino di sempre, mentre il gemello stringeva i lacci slacciati delle scarpe.
Entrambi potevano vedere una Miku sfinita, aggrappata al primo di una lunga serie di alberi. Ed entrambi, ancora, non sapevano cosa fare. Ricordavano di non aver parlato per più di due settimane da quell’incidente che aveva visto vittime i loro genitori, nonostante la vocetta sempre allegra e diligente dell’amica che dipingeva di colori i loro cuori in frantumi. Ora però non sarebbero mai stati capaci di ricambiare il favore. Come potevano dare tutto, quando, in realtà, non avevano niente?
 


Ma gli occhi del biondo s'illuminarono di speranza quando Rin gli rivolse un dolce sorriso. In fin dei conti, Miku una richiesta l'aveva fatta. Che fosse realizzabile solo per metà era un altro discorso. Ma quella metà era sempre meglio di niente, no?
 

Spiegò brevemente il piano alla sorella, che un po’ goffa e confusa, lo seguì nell'impresa.
 

«Tranquilla Rin, sarò il tuo maestro. Speriamo solo, non si svegli prima!» Disse il biondo, controllando l'azzurra di sfuggita. Sperava avrebbe capito. Lo sperava tanto.
 


***



 
Miku schiuse le ciglia solo un paio d'ore dopo e si bloccò, stralunata. Era completamente coperta di petali, bacche, rametti, fiori, gambi. E subito una feroce ira le bollì nel cuore: adesso la pensavano addirittura morta?! Credevano di essersi finalmente liberati di lei e di poterla facilmente abbandonare in un luogo deserto come quello?! Stava per strapparsi tutte quelle decorazioni di dosso, quando si fermò a riflettere lentamente. Bacche, fiori e rametti non erano stati semplicemente gettati sulla sua figura, sembravano quasi formare anelli, braccialetti, fermacapelli, spille di vario genere. Si soffermò un poco su Len che teneva sulle spalle la gemella e gridava.

 
«Ecco, lo vedi quel bocciolo, lì in alto?! Prova a prenderlo. Penso che la coroncina sarà ancora più magnifica con quel diadema al centro! Spero che a Miku piacciano lo stesso i nuovi gioielli…»
 

I nuovi gioielli? Come un flash le tornò alla memoria la frase che aveva pronunciato in preda alla disperazione: “Ridammi. Ridammi tutto quello che ho perso. Ridammi la mia casa, i miei vestiti, i miei gioielli.”
 

E intanto iniziava a capire. Rin era riuscita a riempire il vuoto solo grazie all'intervento di Len ed ora i gemelli stavano cercando di eliminare il suo. Se Len non ci fosse stato cosa sarebbe successo a loro? Era quindi giusto scaricare tutta quella colpa sugli amici, diventati ormai suoi stessi fratelli?
 

Chissà quanti amari magoni aveva spinto giù per la gola per non liberare una singola lacrima. Perché sotto sotto, lo vedeva. Lo vedeva il velo che gli appannava quel blu, sempre più blu. Len era forte, brillava proprio come il Sole a mezzogiorno, ma a volte, una nebbiolina lo oscurava. Ma Miku aveva imparato a capire che l'avrebbe sempre scacciata per schiarire il suo cielo, la sua Rin. L'azzurra non era altro che la Luna vista al mattino: non sarebbe mai stata grande tanto quanto la dolce biondina dai capelli mielati. Eppure non avrebbe mai cambiato le cose, aveva imparato a capirli. Sì, aveva imparato.
 



***
 



Rin e Len stavano traballando avanti e indietro, instabili come non mai: una spingeva avanti sgridando il biondo quando non la seguiva nei movimenti, l'altro tirava indietro suggerendo come procedere senza evidenti risultati.
I gemelli la stavano facendo sorridere inconsciamente. La ragazza sfiorava il fiore con le dita, mentre con l'altra mano tirava i ciuffi della frangetta del fratello. Inutile dire che i lamenti di Len erano peggio dei miagolii di un gatto in calore. Oh, ma questi erano dettagli!
 

Dopo aver strappato un'altra piccola ciocca, il piede del ragazzo s'impigliò fra le radici dell’albero e i due fratelli finirono per terra con un bel capitombolo. Brillanti risate riempivano il piccolo anfratto di foresta e Miku si unì a loro, destabilizzandoli per un attimo.
 

I due gemelli si lanciarono un’occhiata d'intesa e corsero fra le braccia di Miku. Era tutto apposto ora, no? Era tutto finito adesso. Vero?
 


 
 
Fosse stato realmente così, questa storia non sarebbe mai iniziata.
 


 
 
Rin aveva cominciato a tossire forte e a colorarsi d'un rosso paonazzo, la testa le girava, le gambe le mancavano. Aveva una delle sue crisi, una di quelle crisi per cui finiva in quarantena per giorni e si svegliava con l'ago della flebo sottopelle.
 


I volti bianchi e preoccupati dei due compagni erano rivolti a lei, impauriti fino alla morte. Cosa, cosa, cosa. Era sempre quella la domanda. Cosa fare?
 
 


«Il medico di famiglia..» Mormorò l'azzurra ricordando improvvisamente qualcosa di molto importante.
«Cosa?» Si voltò il biondo con le pupille che tremavano. Il blu si stava appannando di nuovo.
«Il medico di famiglia vive in una baita fra i boschi, proprio in questa zona!» Si rimboccò le maniche la giovane Miku e accarezzò la guancia dell'amica ormai svenuta tra le braccia del fratello.

 
Lo guardò e fu un attimo: Len caricò la sorella sulle spalle, soffiandole lievemente sulla fronte. L'avrebbe salvata anche quella volta, ne era certo. Doveva esserne certo.
 



 
***





 



Angolo autrice:
Volevo solo ringraziare tanto chi ha letto, commentato, inserito tra seguite/preferite/ricordate la storia e continuerà a farlo. E' un grandissimo piacere vedere che interessa a qualcuno anche questo genere particolare. 
Vi pongo un piccolo quesito: secondo voi, chi sarà mai questo medico di cui si parla tanto? 
Spero di sentire presto vostri pareri!
Un grazie di cuore e un grande abbraccio!

Baci, Supermafri <3











 

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Capitolo 3
*** Atto II ***


Legenda:
*** = Inizio/fine capitolo.
*** = Inizio/fine flashback.
*** = Cambio di personaggi e/o situazione.
*** = Pausa d’intermezzo tra una scena e l’altra.
 
 

Deathless
Atto II 

***


 
 
“L’odio non è nient’altro che timore;
quando non si teme nessuno,
non si odia nessuno.”

 
 


 
 
***

 
Il legno scricchiolava sotto i pesanti passi dell'uomo coperto da un lungo camice da laboratorio. I capelli d’uno spento violaceo gli accarezzavano la schiena, mentre un ciuffo gli oscurava la fronte. Scrutava attento l’orizzonte dalla finestra mentre maneggiava e caricava la rivoltella tra le mani.
Cercava d’essere svelto e di fare meno rumore possibile, Gumiya era lì e non l'avrebbe mai sopportato.
Proprio ora gli dava le spalle, seduto sul divanetto d'un intenso tessuto verde, impegnato a non distogliere gli occhi dal camino, a non tralasciare nemmeno uno zampillo della fiamma. Eppure le sue orecchie non facevano che scricchiolare, che lamentarsi con scariche continue, orribili e terrificanti.
 
Si portò immancabilmente le mani ai lobi: non poteva più ascoltare quei fischi, quelle urla strazianti lo rodevano dentro. Polmoni, cuore, cervello, erano un’immensa e informe poltiglia mentre il più vecchio armava la pistola, togliendo la sicura.
 
«Esco. Ci metterò poco, te lo prometto.» Spiegò in breve Gakupo, ormai dall'altro lato della porta.
 
Il giovane diciassettenne non rispose, sapeva che, se ci avesse provato, sarebbe uscito solo un rantolo soffocato. Prima avrebbe dovuto calmarsi.


 
***
 


Gumiya odiava le armi. La forma lunga e sinuosa della canna, l'odore della polvere da sparo, la forza e la violenza con cui le pallottole colpivano da far male, erano solo alcuni dei suoi ricordi più spaventosi. Le odiava tanto quanto quei comportamenti da debole, da bambino incapace, che le sue paure lo costringevano a mantenere. Paure che non avrebbe voluto avere. Fragilità che nascondeva sotto un largo cappotto di irascibilità e aggressività.
 
Era tutta colpa sua. Sua dell'uomo che avrebbe dovuto chiamare padre, ma che invece non meritava nemmeno il sostantivo persona. Si morse forte il labbro a quella constatazione. A volte lo sentiva ridere in preda all'alcol, come una cantilena che stona ripetutamente nelle orecchie. Aveva il caos tra i timpani quando vedeva un'arma, aveva l'eco fastidioso della sua voce quando fissava la sua immagine nella mente. Un paio d'anni e quel volto era già diventato nero. Ma il sorriso rosso, che sapeva di sangue e carne martoriata, gli dipingeva ancora il viso. Sarebbe rimasto per sempre come un'aspra, indelebile pennellata.
 


***


 
Iniziava a mangiucchiarsi le unghie nervoso: li aspettava proprio come Cenerentola poteva aspettare il rintocco della mezzanotte: il più tardi possibile, più tardi che mai. Non voleva rivivere la sua vita nei ricordi, tantomeno ricordare il volto che gli aveva stravolto l’esistenza, senza remore.
 
 
Poi li sentì come stilettate al cuore. Uno. Due. Tre. Dieci spari.
 
 
Un revolver Smith & Wesson 617 calibro 22, non poteva sbagliarsi. Proprio perché non avrebbe mai sbagliato si stava maledicendo, ormai il flashback era partito.
 
 
***
 
 
Nella cantina della vecchia casa, le armi erano disposte in file compatte, mai ornate da un filo di polvere. Gumiya le puliva giorno e notte con un panno in ciniglia e, non appena ne stringeva una fra le mani, ne dichiarava nome e caratteristiche. Lo aveva istruito così e concedersi anche un solo errore sarebbe stato imperdonabile. Le sue punizioni era ciò che di più malvagio si potesse considerare e non toccavano solamente lui, sua madre ne avrebbe risentito altrettanto. Le botte facevano male, le cinghiate dolevano come non mai, i tagli pungevano fino al midollo.
 
 
Ma le botte erano giuste, i lamenti no.
Le cinghiate erano giuste, le urla no.
I tagli erano giusti, le lacrime no.

Ci aveva provato e lo aveva imparato.
Sapeva come doveva comportarsi in sua presenza.
 
 

***

 
 
Quando si sentiva insoddisfatto li cercava entrambi: il suo turno era sempre dopo la donna. Gumiya poteva dire che la madre lo esortava a fuggire gridando, in un disperato pianto mentre veniva picchiata. Ma poteva ammettere anche il contrario: il piccolo attendeva fermo in un angolo, le pupille dilatate, le mani sulle orecchie, aspettando che tutto si chiudesse in un lungo e sordo silenzio. Non l'avrebbe mai abbandonata. Se dovevano soffrire, avrebbero sofferto insieme, facendosi forza l'un l'altro.
 
 
***
 
 
Nei giorni in cui il padre era fuori casa per un viaggio di lavoro, la madre si recava dal più rinomato medico della città, accompagnata dal figlio. Il dottor Gakupo non solo godeva di una laurea in medicina e chirurgia, ma manteneva una buona posizione anche quando serviva un riscontro in fatto di psicologia.
 
Ricordava bene la prima volta che era entrato nello studio del dottore dalla lunga coda color malva. Mancavano pochi giorni a dicembre e da paio di settimane il padre non si faceva vedere fra le mura di casa. Potevano sembrare giornate tranquille, ma il costante pensiero che sarebbe tornato dopo questa grande astinenza riempiva i loro cuori di tremenda paura.
 
Quel lontano lunedì, la madre sembrava così sciupata e sfinita che si era chiusa nel bagno del reparto, non prestando minimamente attenzione alla voce di Gumiya che la esortava ad uscire. La voce di un giovane uomo, ventenne se non qualche anno in più, chiamò il cognome in lista, attendendo si facesse vedere qualcuno.
 
Gumiya tirò un lungo e spaventato sospiro, aprendo la porta socchiusa e lasciandola cigolare quel tanto da richiamare l'interesse dell'altro. Gakupo vide il ragazzino che, impaurito dalla grande mobilia moderna e la moquette di eleganti motivi vermigli, si faceva strada verso la poltroncina in pelle. Leggermente incuriosito, appoggiò i certificati sul banco e tolse gli occhiali.
 
Gumiya prese posto e iniziò a fissare le ginocchia che tremavano sotto le sue mani. Non era pronto a parlare con altra gente.
 
«È la prima volta che vedo un caschetto d'un verde bosco così intenso. Io sono il dottor Gakupo mentre tu sei..?» Parlò premendo i gomiti sulla scrivania.
 
«Gumiya.» Pronunciò in un soffio così leggero che Gakupo inizialmente si chiese se avesse solo respirato. Poi riprese semplicemente il discorso.
 
«Com’è la prima volta che sento un nome particolare come il tuo. Quanti anni hai, Gumiya?» S’interessò infilando la stanghetta destra degli occhiali in una delle tasche superiori del camice.
 
«Dodici, signor- ehm.. Dottore.» Rispose mordendo l'interno della guancia irrequieto.
 
«Beh sei grande, ragazzo, ormai sei a metà percorso delle scuole medie!» Gli rivolse un sorriso divertito dall’altro lato del bancone panna chiaro.
 
«Mio padre dice che sono ancora piccolo.» Rispose atono a testa china, mentre muoveva le gambe in tensione.
 
«Vedrai che fra non molto diventerai un bel giovanotto che fa furori tra le donzelle, Gumiya, ne sono più che sicuro!» Cercava di sciogliere il timore dagli occhi smeraldini di Gumiya, ma il giovane si bloccò all’improvviso, stringendo forte i pugni.
 
«Non mi serve una donna.» Iniziò a chiudersi sempre più in sé stesso, sempre più duro.
 
«Perché dici così?» Si concentrò Gakupo, senza sapere bene dove andare a parare.
 
«Picchiare non mi piace.» Fece rigido il più piccolo.
 
Un nervoso rumore di tacchi invase la sala. Non servì nemmeno una parola che Gumiya si era già alzato e si era velocemente accostato alla madre. Senza saluti, i due lasciarono l'ambulatorio, mentre Gakupo sentiva la bocca farsi sempre più asciutta.
 
 

***

 
 
Erano tornati una dozzina di giorni dopo, alla solita ora. Ricordava la tempesta nera di quel giorno, il viso tirato e smagrito della madre, il suo occhio destro gonfio e violaceo. Gumiya vedeva quelle sue mani tremolanti premere sul volante, impacciate e impaurite. Li aveva toccati di nuovo la notte precedente, senza che nessuno potesse fare nulla. Ormai quella era diventata la loro realtà.
 

***

 
«Se lei non mi dà quelle pasticche, farò una strage, signor. Kamui. Impazzirò! Sa cosa vuol dire non essere più in grado di ragionare vero?! Potrei compiere un massacro senza nemmeno sapere chi o cosa abbia colpito! Su, me le dia. Non ho bisogno di nient’altro.» Stringeva pezzi da venti nelle mani, mentre si sgolava come non mai. Avrebbe cercato quei tranquillanti in capo al mondo, tanto il suo corpo febbricitante ne richiedeva.
 
«Sono costretto a ripetermi per la terza. Come le ho detto, questi medicinali stanno diventando una vera e propria droga per il suo sistema nervoso. Non posso permettermi di prescriverle altri tranquillanti simili. Si sta lentamente distruggendo con queste richieste. Richieste egoiste, oltretutto. Non ha pensato al male che procurerà a Gumiya? Ciò non la fa comunque desistere?» Spiegò serio Gakupo, ricordando le condizioni mentali e psichiche del giovane smeraldino.
 
«Cosa ne vuole sapere lei di mio figlio?! Sono io sua madre, sono io che educo il mio bambino. O devono addirittura togliermi questo? Non mi merito nemmeno una briciola?! Dopo che lui ha deciso di portarmi via tutto, nemmeno questo, eh?! Me ne vado.» Squassata da evidenti tremolii agguantò la maniglia, proseguendo per la sua via.
 
«Non può guidare in questo stato. Si sciacqui il viso, si visiti l'intera struttura. Si calmi, prima.» Risuonò come eco nella stanza. La donna rispose fra sussurri con un incredulo “Calmarsi, anche?”, mentre si inginocchiava davanti una delle sedie. Era lì che Gumiya la stava aspettando, quando ancora le urla risuonavano nelle orecchie.
 
«La mamma fa un piccolo giretto e torna subito qui, va bene? Non muoverti, non perderti.» Gli parlò scandendo gentilmente le parole. Poi s’alzò e seguì traballante il corridoio.
 
Dopo pochi secondi era sparita nell’immensità di quel luogo e Gumiya scese dalla seggiola in plastica con un piccolo balzo. Come se niente fosse entrò nello studio, richiamato dal dottore che stringeva la borsa dimenticata dalla madre nella solita poltroncina.
 
Il bambino entrò a testa china, come se volesse nascondere l'orrore sul suo viso, ma Gakupo si raggelò nello stesso istante in cui varcò la soglia. Sembrava non avere più un occhio per quant'era tumefatto. Presto il dottore afferrò delle garze, qualche pomata e disinfettante. Cercò di sistemare quell'amara poltiglia color del sangue, senza evitare alcune domande.
 
«Gumiya, chi ti ha fatto questo?!»  Iniziò, tagliando pezzi di cerotto e qualche fascia.
 
«Nessuno.» Rispose il piccolo con un filo di voce, mentre si pestava i piedi nervoso.
 
«Hai capito che questa persona ti ha fatto del male, vero?» Indagò ancora il dottore.
 
«Si.»
 
«E ti rendi conto che chiunque ti abbia aggredito così dev’essere denunciato, giusto? Perché non vuoi dirlo, Gumiya?»
 
«Lui ha detto che se dico qualcosa, la prossima volta a non vederci più sarà la mamma.» Finì tremante, insicuro di aver detto elementi compromettenti.
 
Gakupo si era improvvisamente fermato.
Ormai aveva capito.
 

 
***

 
 
La madre spalancò la porta furiosa, afferrò la borsa e il braccio di Gumiya, rivolgendo a Gakupo uno sguardo furente. Sembrava quasi in preda agli spasmi, l’astinenza si faceva sentire ogni minuto più forte.
 
«Nessuno più, dal civico 11 del quarto isolato di Blandtown, metterà piede qui. Vieni, Gumiya.» Furono le ultime parole che la madre rivolse al dottore.
 

 
***

 
 
Una volta entrati in casa, si sedettero sui gradini della lunga scala a chiocciola. La donna stringeva sotto il braccio le spalle del figlio, mentre sussurrava alcune parole all’orecchio.
 
«La mamma salverà entrambi, ok? Gumiya deve solo darle una mano, tutto qui. Tu conosci bene la cantina, tutte le armi da collezione. Sai anche quale tra queste è carica e pronta all'uso. Quindi che ne dici di fare un favore alla mamma? Basta che le porti quella pistola, non è difficile. Quando tornerà papà, sarà tutto finito, promesso.» Spaccò il silenzio con un leggero sorriso, mentre Gumiya annuiva lentamente e scendeva le scale del seminterrato.
 
Quando l'ebbe tra le mani, la donna nascose l'arma sotto il cotone della felpa, attendendo l'arrivo dell'uomo che si sarebbe ritrovato una pallottola in petto.
 


***

 
 
La chiave poi risuonò nella toppa della porta in un flebile e continuo cigolio. Il sadico sorriso del padre s’inasprì sulle guance, mentre la madre lo seguiva svoltando un paio di corridoi.
 
Gumiya si trovava in un angolo della stanza d'ingresso, fissava il ticchettare dell'orologio appeso al muro e il telefono sulla stessa parete. Accovacciato, premeva le piccole mani sui lobi per non udire voci, grida e spari. Ma come fosse stato colpito direttamente, sentì il grilletto essere premuto senza esitazioni. Incollò completa attenzione al foglietto premuto fra la cornetta e la serie di pulsanti, ognuno una cifra stampata. A caratteri cubitali il nome di Gakupo Kamui sovrastava un numero di dieci cifre. Gumiya lo compose senza veramente sapere cosa avrebbe dovuto dire.


 
***


 
Gakupo stava rileggendo incredulo resoconti di pazienti che lo esortavano a credere all'esistenza di un ritorno in vita dopo la morte. Una vita che solo i mostri di film spaventosi e sanguinari potevano condurre. La gente si inventa storie davvero fantasiose e particolari a volte, si ritrovò a pensare.
Il telefono squillò tre volte, prima che il dottore potesse rispondere con un cordiale saluto.
«Springfield Armony Colt M1911A1» Riconobbe la voce agitata di Gumiya. Interdetto, cercò di decifrarne il significato.
«Pistola semiautomatica ad azione singola calibro .45 ACP» Sembrava un irrequieto fiume di parole. Parole che delineavano un'arma da fuoco. Gakupo deglutii: Gumiya stava cercando aiuto in una situazione estremamente pericolosa.
«Arrivo subito, Gumiya.» Terminò afferrando la giacca e le chiavi della macchina.
 


***


 
«Siamo.. Siamo liberi. Siamo liberi, Gumi-»  Si risvegliò la madre dal trans iniziale, cercando di raggiungere il figlio. Aveva premuto il grilletto e un grande lago d'un acceso porpora imbrattava il pavimento, l'uomo a terra esanime. Aveva le mani e il viso sporco, mentre cercava in vano di pulirsi con le maniche della maglia.
 
Gumiya si era stretto nel suo angolo, nascosto dalla penombra, quando le urla iniziarono a farsi prepotenti nella sua testa, nella sua stessa casa. La madre stava sforzando così tanto le corde vocali, che il piccolo spalancò gli occhi, annaspando aria sempre più rarefatta. Era stato un attimo. Un attimo in cui la madre aveva smesso di vedere per davvero, smesso di vedere per sempre. Qualcosa le aveva agguantato il volto, schiacciato il cranio, e strappato le guance a morsi. Qualcosa che ringhiava affannosamente, soffiava, zoppicava e puzzava.
 
 
 
No, era qualcuno. Strisciava la mano sul muro, portandosi avanti a fatica, fino a svoltare proprio in direzione di Gumiya. Si era fermato solo per fiutare l'aria e slittare le pupille da una parte all'altra.
 
Il ragazzino alzò lo sguardo lentamente, percorrendo ogni centimetro di quell'essere, né un qualcuno, né un qualcosa. Solo lui, con le iridi bianche, la pelle grigia, carni macellate fra le mani, fra i denti che scintillavano ancora in un sorriso. E si avvicinava e avvicinava sempre di più. Gumiya allargò la bocca piangendo per lo sforzo, ma nessun suono uscì dalle sue labbra. Le orecchie rosse per la pressione delle mani, gli spasmi che colpivano il corpo in un continuo tormento, le ginocchia che schiacciavano forte il petto senza farlo respirare. Ormai lo aveva afferrato per le braccia, passando la lingua fra i denti. Gumiya lo fissava immobile, con la saliva che si confondeva con le lacrime.
 


***


 
La porta cadde improvvisamente. L'impatto con la spalla aveva procurato a Gakupo non poche complicazioni, ma armò la rivoltella d'istinto sparando tutti i colpi alla nuca della bestia assassina.
 
Soccorse il ragazzo in preda all'ansia e all’agitazione: richiamava il suo nome più e più volte, ma era in pieno stato di shock. Poteva finalmente comprenderlo, poteva finalmente aiutarlo.
 


***

 
 
«Gumiya, Gumiya, Gumiya?! Tutto bene?!» Gli scosse le spalle, Gakupo.
 
Gumiya era assente, pieno di paura, rabbia, disperazione. Respirava a fatica, mentre metteva a fuoco le immagini. Odiava quando uscivano allo scoperto le sue debolezze per un nonnulla. Sì, lo odiava, perché era cambiato rispetto a tanto tempo prima: non poteva sopportare chi provava pena, preoccupazione per lui; e questo Gakupo lo sapeva bene.
 
Scrollò le mani del dottore e lo spinse lontano, iniziando ad odiare addirittura sé stesso per essere così incapace, così bambino.
 
«Non erano molti oggi. Probabilmente hanno iniziato a migrare verso le città o le ricche campagne.» Spiegò in breve Gakupo, lasciando il discorso e anche la stanza. Gumiya aveva bisogno di tempo per sbollire la tensione da solo, in silenzio.
 
Era tornato a seguire l'ondeggiare della fiamma senza dire una parola.
 
Sì, Gumiya odiava le armi, il suo essere fragile, l'aiuto che gli altri gli rivolgevano.
Sì, Gumiya odiava sé stesso, e questo non sarebbe mai cambiato.
 

 
***








Angolo autrice:
Ecco a voi il secondo capitolo! Abbiamo un attimo abbandonato i gemellini e Miku per far spazio ai due nuovi arrivati: Gakupo e Gumiya! Nutella per tutte le donne che hanno scovato l'identità del medico, brave brave x3
Per chiunque provasse astinenza da mancanza di Kagamine (?) non si agiti troppo: 15 pagine di Word erano troppe per vedere la combriccola muoversi attivamente, ma non mancherà di certo la prossima settimana! ;)
Spero di non aver rappresentato Gumiya con toni troppo superficiali. Il mio intento era seguire un breve flash di pensieri tormentati e sentimenti turbolenti. 
Sono sinceramente curiosa dei vostri commenti, sempre, sempre troppo belli.
Stavolta vi lancio melanzane, la prossima volta anche banane. I porri torneranno e i mandarini scompariran- (Ma che cavolo sto dicendo? Non riesco proprio a tenere la bocca chiusa, eh? ^_^)
Grazie mille a tutti coloro che hanno letto, inserito tra seguite/preferite/ricordate la storia, commentato e commentato ancora. 
Un grandissimo abbraccio.
Baci, Supermafri <3










 

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