Looking For Sunrise

di Water_wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** UNO ***
Capitolo 2: *** DUE ***
Capitolo 3: *** TRE ***



Capitolo 1
*** UNO ***


Looking for sunrise

 

 
UNO

 
I was drunk and it didn't mean a thing
Stop thinking about

The bullets from my mouth
Panic! At The Disco “Hallelujah”
 
 

Ho bisogno che qualcuno mi ricordi il motivo a causa del quale mi ritrovo nella seguente situazione: pressato tra una folla di turisti sudaticci dalla pelle umidiccia che scalpita, schiamazza, scoppia a ridere a caso e, in generale, rientra nei tre tipi fondamentali di persone che odio—Chiassosi, Idioti e Felici. Forse è quest’ultima categoria che mi infastidisce di più, oggi. Come puoi essere frizzante e sprizzare gioia da tutti i pori, quando aspetti sotto il sole da venti minuti una nave in ritardo che non sembra voler arrivare prima di altri venti minuti buoni? Io, l’unica cosa che sprizzo adesso è sudore.
Ma poi basta voltarmi e sospiro rassegnato.
Hazel è raggiante, nel suo vestito da spiaggia azzurro e bianco. La sua prima visita in Italia sta andando a gonfie vele e non potrei mai, in nessun universo, permettermi di rovinare la vacanza alla mia sorellina. Per lei, sarei capace di aspettare questa dannata nave anche un’ora.
Frank sembra del mio stesso avviso; è in evidente sofferenza fisica dovuta a quelli che probabilmente sono 40° percepiti, in questo spiazzo asfaltato rovente, ma, piuttosto che rovinare la giornata alla sua ragazza, sopporta tutto in uno stoico mutismo. Il mio amico cino-canadese starà sicuramente rimpiangendo i gelidi inverni di Vancouver.
Spero solo che ne valga la pena. Non che mi importi particolarmente di avvistare delfini o altre splendide forme di vita acquatiche, ma ora che ho sofferto questa agonia, quei mammiferi marini dalla risata odiosa devono farsi vedere.
Forse, per una volta nella vita, la Fortuna mi arride o forse gli italiani si sono dati una svegliata, perché, incredibilmente, dieci minuti dopo, vediamo la nostra barca—la Libeccio—attraccare e sputare fuori dalla stiva un damerino di guida turistica che grida “avanti, avanti, salite!” in italiano. Lo capiamo tutti perché accompagna le parole a grandi gesti.
Hazel, Frank ed io veniamo pressati ancora di più e avanziamo lentamente in avanti. Colgo qualche istruzione gridata in inglese dallo stesso tizio e rabbrividisco. Continua nella tua lingua madre, lo imploro mentalmente. Ti assicuro che l’inglese viene già maltrattato abbastanza dai madrelingua.
Hazel si aggrappa al braccio del suo fidanzato e sussurra eccitata: «Vedremo i delfini!»
Frank le regala un sorriso dolce e stanco. «Non vedo l’ora.» Non mente, perché restare qui un attimo di più potrebbe essergli fatale. Sono sinceramente preoccupato che collassi sulla banchina.
Ci imbarcano. Faccio un favore alla lingua inglese e alla guida turistica e gli porgo i biglietti alla svelta, accompagnando il gesto con un “ecco a Lei” così che si rivolga a me direttamente in italiano.
«Perfetto. Potete salire» replica, senza degnare il nostro gruppetto di un’occhiata. Potremmo essere terroristi , o peggio, immigrati senza permesso di soggiorno che gli rubano il lavoro, e lui non ci farebbe neanche caso. «Vi auguro una buona traversata.»
«Grazie» rispondo automaticamente, mentre mia sorella gli rivolge un ampio sorriso e un sentito “thank you so, so much!”.
Ci affrettiamo ad accaparrarci un posto che offra una buona visuale del mare di fronte a noi. I posti a sedere sono piuttosto invitanti, ma preferisco rimanere in piedi, che farmeli calpestare nella foga che seguirà il primo avvistamento di una di quelle deliziose creature marine. In questo modo, potremmo scattare le foto migliori e senza troppo stress da dov’è-la-macchina-ci-sono-le-pile-funziona-sì-vero-prendila-dài-muoviti-che-ha-tirato-su-la-testa. Non siamo all’ombra, ma, appena in mare aperto, il vento soffierà via il caldo.
Mi sistemo meglio gli occhiali da sole sul naso e mi appoggio alla ringhiera. Il metallo è bollente e frammenti di vernice scrostata mi si appiccicano agli avambracci, ma non ci faccio caso.
Osservo la felicità di Hazel e Frank di lato, dalla posizione privilegiata che mi è sempre stata riservata. Sono così uniti che non sono quasi mai Hazel, e Frank; Frank, ed Hazel. I loro nomi vanno sempre insieme, Hazel e Frank, Frank e Hazel. Non è un azzardo anche Hazel&Frank, o Frank&Hazel, come l’insegna di un negozietto in centro che passa sempre inosservato eppure è stipato di piccole e grandi meraviglie.
A volte, sono Hazel che fa questo mentre Frank fa quest’altro. Come adesso: Hazel che gli sfiora il mento con le labbra, un sorriso dietro l’angolo ma non per questo meno stupendo, mentre Frank abbassa gli occhi su di lei e la sua mano sfiora con naturalezza dovuta all’abitudine il suo fianco.
Mi hanno detto che si sposeranno, questa primavera. È riduttivo, però sono innegabilmente e immensamente felice. Sono entrambi giovani, è vero, ed è anche vero, se non ancor più vero, che una coppia come la loro è unica quanto una barca nel bosco.
È bello, osservarli stare insieme come se fossero i soggetti di una fotografia famosa, in disparte e leggermente fuori campo. È un modo di provare gioia che mi piace, senza sorrisi enormi e frasi con dieci punti esclamativi, più intimo e profondo—un tipo di gioia silenziosa che, dopo averla provata, ti rimane addosso e ti donerà sempre una scintilla di calore a rispolverarla.
Avverto una scossa, che attraversa la sbarra a cui sono appoggiato, e capisco che stiamo partendo.
La giornata inizia a prendere una piega decisamente migliore. La Libeccio si allontana dal porto e, man mano che procediamo in mare aperto, la nave prende velocità. Scivola sull’acqua, lasciandosi dietro due grosse scie bianche. Disturbiamo un gabbiano, fermatosi a riposare in mezzo al mare. Il sole trapassa l’acqua per diversi metri, prima di disperdersi e lasciare spazio al verde più scuro caratteristico delle profondità. Foreste di posidonie forniscono cibo e riparo ai pesci, che sgusciano e guizzano tra le alghe. Sono come dita di bambine che si muovono svelte tra i capelli della madre, che permette loro di acconciarglieli per far imparare loro il giusto modo di fare una treccia.
Hazel ammira tutto con una gioia che mi rende orgoglioso. «Non posso credere di aver vissuto tutti questi anni ignorando l’esistenza di qualcosa di tanto bello!»
Le sorrido immediatamente in risposta. «E non hai ancora visto niente!» ribatto.
La Libeccio rallenta e decide di procedere a una velocità di crociera. Da qui, siamo più vicini all’orizzonte che alla costa.
Frank tira fuori dallo zaino la macchina fotografica digitale e scatta una foto, poi ne fa una di nascosto ad Hazel, che lo scopre e lo costringe a farsi fotografare insieme a lei. Sembrano totalmente dimentichi del sudore che si sono lasciati dietro nell’attesa. Io, invece, più guardo l’acqua più penso a quanto il suo colore sia simile a quello dei suoi occhi. Forse è anche per questo che la odio.
All’improvviso, sentiamo la guida annunciare al megafono: «Signore e signori, alla vostra sinistra, se aguzzate la vista, potete ammirare i delfini!» L’esclamazione generale dei turisti copre il resto delle sue parole.
La gente si precipita dalla nostra parte, incuneandosi tra le persone appoggiate alla ringhiera nel tentativo di scattare una fotografia. Un bambino salta al collo del padre, che gli passa la macchina e si avvicina alla ringhiera, tentando una strategia dall’alto.
Frank si accorge che i delfini ci stanno venendo in contro e, invece di zoomare come un ossesso, attende il momento propizio per catturarli in un’immagine perfetta. Mi è sempre sembrato un arciere all’opera, corda tesa e freccia incoccata, quando scatta una foto.
Ovviamente, più le bestiole si avvicinano, più la gente si fa irrequieta e scalpita per vederle. Mi sento spingere forte contro la ringhiera, tanto che i miei intestini minacciano di esplodere, e mi giro per protestare contro il cafone di turno. Dieci dollari che è un americano, venti che è un francese indisponente.
«Senti, la vuoi fin–»
L’obiettivo di una Reflex mi colpisce lo zigomo, facendomi sbilanciare all’indietro, e quando la folla preme per occupare lo spazio appena ricavato dall’assenza del mio corpo, le mie mani non riescono ad afferrare la ringhiera. Più che saperlo, mi sento cadere all’indietro.
Poi
C’è solo
L’aria che mi frusta il collo
I capelli che mi accecano
Lo stomaco stretto in una morsa.
C’è solo
L’acqua che si fa di cemento contro la mia schiena, che
Mi invade la bocca, che
Mi riempie i polmoni.
Per un lungo, tremendo attimo, sono paralizzato. Sento il mio corpo affondare e non posso fare niente per impedirlo. Sono inerme. La mia discesa continua, inesorabile e infinita.
Il cuore mi batte nel petto a una velocità impossibile. Mi sta scoppiando. Ma non ho fiato, e so che morirò prima per annegamento.
Poi, la fisica vince sulla paura.
Smetto di scendere senza controllo, mi assesto, il mio corpo procede più lentamente. Mi ricordo che ho mani, e gambe, e che posso muoverle. Devo muoverle, se voglio vivere. E ’fanculo se voglio farlo.
Do una possente gambata e mi spingo in alto. Mi aiuto con le braccia, puntando verso l’acqua più chiara. Mi sento svenire, so che non ho più fiato, ma mi ordino di andare avanti. È quasi con sollievo che la mia testa rompe la superficie dell’acqua.
Annaspo in cerca d’aria, respirando come se non l’avessi mai fatto prima d’ora. La accolgo nei miei polmoni come la più cara degli ospiti.
«Nico!» grida mia sorella, dall’alto. La sua apprensione è palpabile fin da qui.
«Un salvagente!» comanda Frank, la voce che sovrasta il silenzio scioccato della folla.
Sento il galleggiante colpire l’acqua e racimolo abbastanza forza da raggiungerlo. Le mie dita sono goffe e ci impiego un tempo infinito ad aggrapparmici. Mi tirano vicino alla nave, fermatasi immediatamente dopo la mia caduta. La mia è testa è stranamente leggera, vuota di ogni pensiero, e non penso sia un buon segno.
Le braccia muscolose di un marinaio mi guidano sulla scaletta, mezzo tirandomi per le ascelle mezzo incitandomi con frasi che non riesco nemmeno a registrare. Alla fine, mi issano sulla nave. Mi accascio a terra, sfinito. I miei vestiti grondano acqua, ho perso gli occhiali da sole e il pavimento di metallo su cui sono steso mi brucia la guancia, eppure mi viene voglia di ridere.
Cazzo, sono vivo. Sono vivo.
Hazel e Frank accorrono al mio fianco. Mi sforzo di rimettermi almeno in ginocchio, perché non rovinare la giornata a mia sorella è ancora una delle mie priorità.
Le sue braccia mi stringono contro il suo petto, mentre singhiozza: «Oh, mio Dio. Quando non ti ho visto–non ti visto…» Deglutisce. «… quando non ti ho visto tornare su, i-io ho pensato…»
«Sto bene» dico. «Sto bene. So nuotare, El. Sarei risalito in ogni caso.»
Lei tira su col naso. «Nico, io–» inizia a spiegarsi, ma viene interrotta da una voce maschile. «Sono terribilmente dispiaciuto per ciò che è successo. Ti assicuro che non ne avevo minimante intenzione.»
Il sangue mi affluisce di colpo alle tempie. La testa prende a pulsarmi. Con una calma disumana mi alzo in piedi, più che barcollando, tremando di rabbia. Punto gli occhi in quelli del tizio che mi ha appena rivolto la parola—un biondino in infradito e un’orribile camicia hawaiana—e spero che possano trafiggerlo.
«Cioè, non avevi intenzione di colpirmi con la tua Reflex del cazzo e buttarmi giù da questa fottuta barca?»
«Ehm, io non intendevo…»
«… Essere un completo idiota, per caso?» termino io al suo posto.
Devo essere riuscito nell’apparire minaccioso, perché il tipo indietreggia. Un ghigno perverso mi increspa le labbra. Faccio un passo in avanti, poi un alto, come un lupo che si avvicina alla preda, conscio della sua posizione di superiorità.
«Mi dispiace, okay?» sbotta quello, guardandosi intorno nervosamente in cerca di solidarietà. «È stato un incidente!»
«Questo non sarà un incidente» replico, prima di avventarmi su di lui.
Lo afferro per il colletto e faccio per colpirlo sul viso con un pugno, ma la mano di Frank si stringe attorno al mio polso e mi blocca. Lo guardo come si guarda un suicida che si sta per buttare giù da un ponte.
«Nico» attacca il ragazzone.
«Datti una calmata!» mi apostrofa il biondino, sottraendosi alla mia presa e massaggiandosi il collo. «Ti ho chiesto scusa!»
«Zitto, se non vuoi peggiorare la tua situazione» ringhio nella sua direzione.
«Amico, tu sei pazzo.»
«E tu covi un desiderio di autodistruzione, amico» ribatto, piccato.
«Nico, dài, smettila.»  Frank mi posa una mano sulla spalla, riscuotendomi. A voce più bassa, che dovrebbe essere discreta, aggiunge: «Ti stanno guardando tutti.»
Il che mi fa solo incazzare di più. Non mi è mai piaciuto essere lo spettacolo del giorno. Compio uno sforzo immane per non mandarli tutti a quel paese. Mi allontano da Frank e mi faccio largo tra la folla, puntando alle scale che portano sottocoperta. Tra me e me, borbotto: «E tornatevene a fotografare i vostri delfini del cazzo.»
 
 
 
L’argomento vincente l’ha tirato fuori Frank Zhang. Ha detto, con un’espressione contrita e colpevole, gli occhi che sfuggivano a quelli della sua fidanzata: «È universalmente riconosciuto, che una buona bevuta scaccia via i pensieri depressivi meglio di qualsiasi altra cura.» Al che, Hazel ha emesso un sonoro verso di disapprovazione e io ho applaudito piano, ma con profonda ammirazione.
Quindi, mi sono infilato una camicia pulita che desse l’idea di “sto uscendo, però non voglio niente di complicato” e ho aspettato, comodamente seduto sul divano di casa mia, che Hazel finisse di prepararsi. Frank si è unito a me e non ha proferito parola, evitando di menzionare i due argomenti bomba di oggi. È un bravo ragazzo, Frank Zhang.
Saranno state le dieci, quando Hazel è emersa dal bagno—trucco perfetto, vestito perfetto, borsa perfetta, scarpe perfette. Se non si stesse per sposare e non avesse già conquistato il cuore—e lo sguardo—di un uomo, sarei stato tentato di chiuderla in casa a chiave per evitare che la polizia venisse a bussare alla nostra porta per “sospetta strage di cuori”.
La casa è situata in centro e non c’è bisogno di prendere la macchina per spostarsi, per cui abbiamo camminato nell’aria afosa della notte finché non abbiamo raggiunto il locale.
Con tutta quella gente, ballare sarebbe stato un problema. Per mia fortuna, volevo solo raggiungere il bancone e riempire il mio corpo di alcol fino a stare male. E così ho fatto.
Hazel e Frank stanno avendo uno dei loro momenti Hazel&Frank. Sulla pista da ballo, si divertono a provare mosse assurde, incuranti di come potrebbero apparire all’esterno. Ai miei occhi appannati dai troppi drink, appaiono giovani e straordinari e felici. Felici di una felicità così unica, così esclusiva, che sono certo non proverò mai.
Il pensiero è deprimente. Potrei scoppiare in singhiozzi come un bambino, così vuoto il bicchiere in un colpo e prego di raggiungere presto lo stato d’incoscienza. Ordino una vodka lemon e ne osservo distrattamente la preparazione. Non appena il barista me lo porge, le mie mani si chiudono attorno al bicchiere. Mi volto verso la pista da ballo e scorgo Hazel che mi fa cenno di raggiungerla.
Oh, pietà.
Una sola canzone, mi dico. Una sola.
Tutto il mio corpo protesta, quando scivolo giù dallo sgabello e mi dirigo verso di lei. Ma non la raggiungo.
Urto contro la spalla di un tizio che, benedetti siano i suoi riflessi, afferra la mia vodka prima che cada.
«Scusa» dico in italiano, mentre il ragazzo si volta per porgermi il drink.
«Sorry, dude?»
Il braccio che sto tendendo per riprendermi il bicchiere si congela a metà strada. Scoppio in una risata nervosa. «This can’t be real.» Invece può.
Il tizio è lo stesso che mi ha scaraventato fuori bordo, che mi ha dato del pazzo e a cui ho quasi spaccato la faccia. Faccia che, secondo le mie percezioni sballate dall’alcol, è decisamente carina. Lineamenti regolari, naso dritto, bocca larga e belle labbra, di quelle fatte apposta per i sorrisi, e occhi blu. Ha i capelli biondi arruffati che, insieme al look semplice—T-shirt larga e leggera, bermuda e le stesse infradito di oggi—, gli conferiscono un’aria da surfista trasandato ma innegabilmente carino.
«Oh.» Anche lui mi riconosce. Temo per la mia vodka, nonostante la sua presa sia ferma. Dopo un lungo minuto di imbarazzo, Surfista Trasandato domanda: «Vuoi ancora picchiarmi?»
«No» rispondo, brusco. «Voglio il mio drink.»
Il ragazzo sorride. Un brivido di inquietudine mi scende tra le scapole.
«Non vuoi nemmeno conoscere il mio nome?»
«No.»
Malgrado il mio tono, il suo sorriso si allarga. «Sai, se non fossi tanto incazzato con il mondo, sarebbe più facile flirtare con te.»
Inarco un sopracciglio. «La tua idea di “flirtare” comprende sempre tuffi in mare inaspettati? Se è così, ti consiglio di cambiare tattica.»
Il biondino alza le mani, arrendendosi. «Okay, va bene. Afferrato. Scusa di nuovo.» Mi porge il bicchiere in segno di pace. «Certo, non ho mai incontrato nessuno che odiasse tanto l’acqua. Dopotutto, anche il nostro corpo è formato per il 70% di essa.»
«Forse è per questo che odio il 70% delle persone» replico, prendendo un sorso di vodka lemon.
Surfista Trasandato non riesce a trattenere una risata. Poi, si china su di me e mi sussurra all’orecchio: «Mi piaci. Sei carino.»
Il mio cervello mi grida “tu odi questo pezzo di merda. Ti ha scaraventato giù dalla nave! È per colpa sua che vuoi ubriacarti, no?” Già. Non dovrei fraternizzare col nemico. Eppure, dalla mia bocca escono parole ben diverse.
«Anche tu sei carino.»
Posso percepire il suo sorriso allargarsi. Le sue labbra devono essere qualcosa di meraviglioso, una specie in via d’estinzione che va protetta a tutti i costi. Non che mi stia proponendo come volontario per preservarle. O forse sì.
«Ora vuoi sapere come mi chiamo?» chiede, a metà tra il malizioso e il divertito.
Annuisco.
«Sono Will» si presenta, e mi piace come la sua voce pronuncia ogni singola lettera, rendendole in qualche modo vibranti. «Solace.»
«Nico» replico semplicemente.
Will si allontana e alza il suo bicchiere. Brindiamo alla nostra conoscenza. La vodka mi brucia le pareti dell’esofago, mentre scende nello stomaco.
Non ricordo bene come iniziamo, ma a un certo punto è come se mi risvegliassi da un sogno: ciò che vedo mi si stampa con incredibile vividezza nella mente.
Io che ballo con Will, il drink alzato sopra la testa. La gente attorno che segue il ritmo della musica, una massa indistinta che si unisce a noi. I nostri corpi che si avvicinano sempre di più. Le sue mani che raggiungono il mio bacino, le sue dita calde che sembrano toccarmi la pelle nuda, invece che la camicia. Il bacio che mi deposita sul collo e fa scendere cento brividi lungo la mia schiena. Il fiato che mi esce tutto insieme dalla bocca aperta.
Le sue labbra che si avvicinano—le mie che lo permettono.
Le schiudo immediatamente, fregandomene dei preliminari. Posso sentire Will fremere per la sorpresa e la successiva eccitazione. È un bravo baciatore, decisamente esperienza dovuta alla pratica. Ci separiamo, ma solo per poco, perché mi scopro a pensare che voglio che mi baci ancora. Una sensazione di calore mi scioglie la tensione nello stomaco quando lo fa. Le sue labbra sono soffici e molto, molto più assuefacenti di qualsiasi droga abbia mai provato.
Will Solace mi bacia come se avesse speso mille anni a riflettere su come farlo. Io lo bacio come vorrei baciare il custode della mia felicità—piano, con una delicatezza che nasconde il tumulto del mio essere; piano, con una delicatezza che significa non ti farei mai del male; piano, con una delicatezza che vuol dire grazie.
Quindi ci baciamo piano, con una delicatezza che dice non ti cercherei, se non ti avessi già trovato
 

 
Le mie ciglia sono incastrate tra loro, le mie palpebre sono pesanti e non sembrano intenzionate a sollevarsi. Sono le serrande bloccate di un negozio. Eppure, qualcosa—un rumore di una porta che scorre, o forse la consistenza del materasso— mi ha destato dal sonno.
Mi passo stancamente una mano sulla faccia. Se mi sono svegliato prima delle undici e mezza, giuro che potrei fare una strage. Controllo l’orologio.
Poi scopro che non ce l’ho.
Nel cercarlo, noto che i vestiti che indossavo ieri sera sono a terra. A terra appallottolati. A terra appallottolati in una stanza che non fa parte di casa mia. Ma che cazz…? 
Mi sollevo di scatto. Dove diamine sono? E perché c’è tutto questo casino?
Dio, non avrei dovuto bere così tanto.
Oh, merda.
Il drink. Il fottuto drink che mi cade di mano ma non si infrange mai sul pavimento.
Non vuoi nemmeno conoscere il mio nome?
No.
Sai, se non fossi tanto incazzato con il mondo, sarebbe più facile flirtare con te.
Oh, merda. M-e-r-d-a.
La situazione mi si presenta  davanti chiara e semplice: ho bevuto come una spugna e ho fatto sesso con Will Solace. In una… camera d’albergo? Maddài. Neanche fossi una prostituta da quattro soldi. Dovevo essere proprio ubriaco marcio. È un miracolo che non mi sia capitata una sbronza cattiva e non abbia vomitato sulla moquette. È piuttosto difficile pulirla, poi. Nel momento in cui lo penso, le mie viscere si torcono.
No, stomaco, non ci provare. Devo svignarmela da qui al più presto,  e svuotare il tuo contenuto sul pavimento non aiuterebbe di certo.
Un po’ scendo un po’ cado dal letto. Mi rimetto in piedi, trattenendo gemiti e imprecazioni per non far rumore, e raccolgo i miei vestiti in fretta e furia. Mi infilo i boxer e sto per passare ai pantaloni, quando sento aprirsi una porta alle mie spalle. Mi immobilizzo a metà movimento. Non voglio voltarmi. Non voglio…
«Non dirmi che te la stavi svignando.»  Dal tono, Will sembra divertito. «Nessuno è mai rimasto tanto deluso dalle mie prestazioni a letto.»
«Non sono rimasto deluso dalle tue prestazioni da letto, è solo che io—»
Quando realizzo ciò che ho appena detto, vorrei che un buco si aprisse sotto i miei piedi e mi inghiottisse. Ringrazio il Cielo di essere di spalle, perché sto arrossendo così tanto che la mia faccia scotta.
Posso avvertire il biondino sorridere alla mia schiena. «Ah, quindi ti è piaciuto.»
«No. Cioè sì. Cioè—» È tutto così tremendamente imbarazzante. Ne è passato di tempo, dall’ultima volta che mi sono sentito così a disagio con un altro ragazzo. «Io non me la stavo svignando, ecco» riesco a dire.
«Davvero? Perché non sembra.»
Mi volto per affrontarlo e rimpiango all’istante di averlo fatto. Will è nudo fino alla cintola, dove un asciugamano gli cinge la vita. Il nodo è così debole che cederà presto.
Immagini raccapriccianti mi invadono la mente. Le mie dita che percorrono i suoi addominali, sfacciate. Le mie labbra gonfie che li sfiorano, per scoprire se soffre il solletico. Le mie mani che si aggrappano alla sue spalle, quando le sue accarezzano il mio membro.
«Aehm…» Rimani impassibile, mi ordino. Rimani. Impassibile. «Non è come sembra.»
Il ghigno di Will è sfrontato. Si appoggia allo stipite della porta e incrocia le braccia al petto. Non è uno di quei tipi palestrati che passano la loro vita a sollevare pesi e che alla domanda “Quali sono i tuoi hobby?” dei siti d’incontri su internet risponderebbe “Aspiro ad avere i bicipiti di Hulk”, ma posso intravedere i muscoli guizzare sotto la sua pelle abbronzata.
Per un momento, sono felice di aver fatto sesso con lui. Ha delle belle mani, con dita lunghe e affusolate, le unghie curate. Ho affidato il mio corpo ad altre molto più rozze. Mi affretto a censurare questi pensieri.
«A me, sembra proprio così» replica. «Ragazzo carino che si ubriaca e finisce a letto con me. La mattina dopo gli passa la sbronza e decide di scappare. Non è molto educato, da parte tua.»
Non sembra offeso, ma non saprei dirlo con certezza. Sospiro pesantemente. «Okay. Se ammetto che tu hai ragione, potrò andarmene?»
«Mh. Che ne dici se rimani?»
Mi stai prendendo in giro?
«Senti, Will» cerco di essere gentile. «Ieri sono venuto a casa con te perché non disponevo delle mie piene facoltà mentali. Ora che le ho riacquistate, non commetterò lo stesso… lo stesso errore. E smettila di distrarmi!»
Il ragazzo scoppia a ridere. «Cosa? Mi sto solo sistemando l’asciugamano.» Un lampo di malizia attraversa il suo sguardo. «Che c’è, trovi che ti distragga?»
Serro la mascella. Le punte delle mie orecchie stanno sfrigolando. «Non cambiare argomento.»
Lui alza le mani. «Come vuoi.»
«Grazie.» Mi schiarisco la voce. «Stavo dicendo… Non commetterò lo stesso errore. In più, mia sorella si starà preoccupando da morire, visto che non sono tornato a casa con lei. Devo raggiungerla al più presto.»
«Oh, tranquillo. Non c’è alcun problema, ho già risolto tutto.»
Mi manca un battito. «Hai risolto, cosa
Will fa un gesto vago con la mano. «Ha chiamato, tipo, due ore fa. Immaginavo ti stesse cercando e, non volendo svegliarti – per la cronaca, sembravi in coma –, ho risposto io al posto tuo.» Si passa una mano tra i capelli, che rimango alzati in un ciuffo ridicolo. «Hazel è una ragazza adorabile. Quando le ho spiegato la situazione, ha concordato con me che fosse meglio che tu rimanessi qui.»
«Cosa le hai raccontato?» La mia voce esce fuori rantolante.
«La verità» risponde Will. «Che ti sei scolato per lo meno cinque drink e che sei collassato. Dopo una bevuta del genere, devi iniziare la giornata con tranquillità. Ordini del dottore.»
Non so cosa ribattere. Riesco a malapena a pensare. Mi tocco la faccia per assicurarmi che non mi sia caduta la mascella.
«Ordini del do-dottore?» farfuglio, esterrefatto.
Will annuisce con vigore. «Mi sto laureando in Medicina, a Stanford.»
Okay. Strano. Ma non così strano come gli avvenimenti di ieri sera. Mi frullano in testa parecchie domande, però mi trattengo dal porle. Non voglio fare conversazione con lui. Devo solo finire di raccattare i miei vestiti, trovare le mie scarpe e tornamene a casa mia. Sarebbe perfetto se riuscissi a dimenticarmi di aver anche solo parlato con lui.
«Bene. Allora, penso che ritornerò da mia sorella con molta calma. Potrei muovermi alla velocità di un metro all’ora e osservare gli anziani col deambulatore sorpassarmi. Se il dottore lo permette» dico.
«Wow.» La bocca di Will forma ogni singola lettera, tutto indice del suo stupore. O della sua incredulità. «Sei piuttosto bravo a stroncare le persone con frasi sarcastiche, sai? Voglio dire, hai proprio un talento
Corrugo la fronte. «È un complimento?»
Il biondino rotea gli occhi. «Gesù» invoca.
Dovrei essere io al suo posto, ma non glielo faccio notare. Mi tiro su i jeans e li abbottono.
«Deduco che questo valga come un “vai pure, Nico”» commento.
Will si zittisce. Rimane in silenzio a fissarmi per un minuto intero. Non mi piace come mi guarda—come se intravedesse in me qualcosa di rotto che le sue dita lunghe e affusolate da pianista possano sistemare. Come se fossi un uccellino con un’ala spezzata e lui colui in grado di steccarmela.
Be’, spiacente di deluderti, Will Solace: non c’è niente di me che tu possa rimettere a posto. Sono schizzato e fuori di testa e incasinato e non c’è nulla che tu possa fare a riguardo. A me va bene così. Fine della storia.
La sua spavalderia svanisce, è come se evaporasse nell’aria. «Mi piaci, Nico. Ma credo tu sia abbastanza perspicace da esserci già arrivato.» Grugnisco un assenso. «Però, vorrei dirti un’ultima cosa. Dopodiché, sarai libero di uscire da questa stanza e non avere più nulla a che fare con me.»
Un discorso di massimo un minuto vale una scarcerazione immediata, considero. «Okay» accetto.
Le sue dita hanno uno scatto nervoso. Ma quando parla, la sua voce è chiara e ferma. «Il mondo è una fotografia di cui siamo abituati a vedere solo il bianco e il nero. Bianco per ciò che è buono e giusto, nero per quello che è sbagliato e corrotto. Sembriamo sempre scordarci di che cos’è veramente il nero: non solo la mancanza di tutti i colori che riflettono la luce, ma anche la presenza di quelli che la assorbono. Dipende semplicemente dal tuo punto di vista. Dove tu vedi il vuoto, io ci trovo la pienezza. Quando tu noti il difetto, io guardo il pregio. Tu consideri il nero solo come un’assenza, io anche una completezza.» Will si umetta le labbra. «Sono a Roma da due giorni e non ho ancora visto nulla. Starò qui due settimane. Ti propongo un patto: tu mi porterai in giro per la città, sarai il mio Cicerone, e io, al termine di ogni giornata, ti mostrerò la bellezza che si cela in tutto quello che tu disprezzi. Ti farò scoprire il bianco che non si vede. Rimedierò al modo in cui ti ho trattato lo scorso pomeriggio, indicandoti come riconoscere la fortuna nella sfortuna, la gioia nella disperazione, la virtù nella più grande iniquità. Insegnarti a non abbandonarti al pessimismo, questo sarà il mio modo per ripagarti.» Gli spunta un piccolo sorriso nervoso sulle labbra. «Ci stai?»
Per un attimo, sento lo stomaco ribaltarsi e la bile risalire l’esofago. Il dispiacere minaccia di farmi crollare a terra, perché, cazzo, sono sul punto di rovinare tutto secondo la mia volontà e diamine se è orribile. Ma è una sensazione che dura solo un attimo, e quello dopo è già passata.
Rispondo: «No.»
Poi, mi riapproprio dei miei vestiti, scovo le mie scarpe sotto il letto ed esco dalla camera d’albergo, tenendo le mie cose in mano. Chiudo dietro la porta il silenzio carico di aspettative svanite di Will Solace.
Infilo le maniche della camicia e la abbottono. Mi chino per allacciarmi le scarpe. Dopodiché mi fermo, in ascolto. Il rumore che ho sentito poco fa si ripete. Il ritmo è regolare, lento e cadenzato.
Posso immaginare Will colpire la parete di cartongesso con la fronte, riproducendo la nenia nella sua testa. Idiota, idiota, idiota, dice la voce, incessante. Non ce l’hai fatta. Incapace, incapace, incapace.
Conosco la sensazione. La provo così spesso da non accorgermi nemmeno più della sua presenza, tanto è radicata in me. Non ne sono mai stato la causa, però. Sono sempre stato io quello che si accostava al muro e ci premeva contro i pugni chiusi, i muscoli tesi e la testa che scoppiava.
La memoria è crudele quasi quanto la morte: cancella ciò che più ami, e conserva intatto ciò che ti ferisce.
Nico di Angelo, sei diventato un gran bastardo.
Già. Vero. E non ho vissuto la mia vita per finire come Papà.
Mi tiro su.
Abbasso la maniglia e rientro nella stanza. Il Will nella mia immaginazione—abbattuto, triste e colpevole—corrisponde al Will della realtà. Il suo sguardo è la ruota cingolata di un carrarmato che mi frantuma le costole. Mi è impossibile reggerlo per più di qualche mero secondo.
Mi ficco le mani in tasca e sbuffo, ostentando un’aria menefreghista. «Allora, quand’è che cominciamo?»

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Capitolo 2
*** DUE ***


DUE
 

Like a moth I'm drawn into your flame,
Say my name, but it's not the same
You look in my eyes I'm stripped of my pride
And my soul surrenders and you bring my heart to it's knees
Apocalyptica, “Not Strong Enough”



 
Oggi visitiamo la Domus Aurea, la casa di Nerone.
Persino i miei pensieri risentono di questi tre giorni da guida turistica senza brevetto e non pagato, che li hanno resi un sottofondo inutile, ma continuo, nella mia testa. Registro ogni cosa su cui poso gli occhi e la analizzo, rielaborandola per cervelli di tutte le dimensioni.
Alla vostra destra, potete ammirare uno splendido, antichissimo sasso. Nel secondo secolo dopo Cristo, ne era già ampiamente diffuso l’uso sia tra patrizi che plebei. Era particolarmente utilizzato per spappolare il cranio agli imbecilli e agli stranieri. Ancora oggi, alcune piccole comunità che vivono secondo l’ OSICEMD – Osate Scartavetrate I Coglioni E Morirete Dolorosamente – si avvalgono dei sassi per manifestare contro i turisti idioti. Oh, tranquilli, io li uso unicamente nei weekend a scopo ricreativo.
Mi volto verso Will e mi pongo la fatidica domanda: dopo averlo scarrozzato in giro per tutto il pomeriggio ed essermi sorbito il suo ottimismo cronico, raccoglierò una pietra e la abbatterò sulla sua testa, sì o no? Dilemma.
Il biondino si accorge che lo sto guardando e si gira, già sorridendo. Porta al collo la sua dannata Reflex, la stessa che ha lasciato un piccolo livido giallognolo sul mio zigomo. Con il cappellino voltato all’indietro, gli occhiali da sole a specchio, i jeans sfilacciati al ginocchio e le solite infradito, è la bizzarra unione tra Ash Quechua e Rubber di One Piece.
«Un centesimo se indovino a cosa stai pensando» propone.
Sbuffo. «Ti facevo meno tirchio, Dottore» replico stancamente.
Il suo sorriso diventa un ghigno. «Non ho molti soldi da offrirti, Di Angelo. Però, se ti va…» Lascia la frase in sospeso, allusivo.
Stendo una mano in avanti come se potesse proteggermi dal suo tono insinuante. «Risparmiami il resto» lo blocco. Dovrei lavarmi la lingua con il sapone per smettere di sentire tanto disgusto. «Andiamo avanti, muoviti.»
Mi incammino verso il sito, salendo i gradini.
Will mi trotterella dietro. Dice: «Scommetto che stai pensando a come uccidermi.»
Non nego né confermo, impassibile.
«Vediamo… Qualcosa di molto doloroso. Oh, ed originale, perché non sei il tipo da augurarmi una morte dolorosa qualsiasi. Tipo, rinchiuso in una cassa piena di vipere e serpenti con anelli color corallo? Legato a quattro cavalli lanciati al galoppo, che alla lunga mi strapperanno via gli arti?»
Mi frugo in tasca e scovo una monetina da due centesimi, il resto di un caffè. Gliela lancio e Will l’acchiappa al volo.
«Yes!» esclama, manco avesse vinto il Gran Premio di Formula 1.
«Sei ancora in tempo per apprendere la sublime arte della tortura e della sofferenza, Dottore» scherzo.
«Sarebbe un onore essere il tuo umile allievo, maestro.»
Sogghigno. «Allora seguimi, iniziato Solace. Il tuo addestramento comincerà davanti alle rovine della Domus Aurea.»
«Certo, maestro. Non la deluderò, ma—» Attacca a ridere prima di finire la frase, non riuscendo più a reggere il gioco. «Scusa» dice poi, i muscoli della faccia tutti presi a contenere il sorriso esagerato della strana creatura che è Will Solace. «È stupendo come tu riesca a rimanere tanto impassibile, anche quando spari minchiate una dietro l’altra.»
Scoppio a ridere al suo commento. È una risata di cuore, che mi scuote tutto, piena e sincera.
Mi giro verso di lui con gli occhi velati da lacrimucce. «Nessuno mi aveva ancora detto una cosa del genere. E me ne hanno dette tante.»
Will fa spallucce. «Be’, avrebbero dovuto, vista la reazione» risponde. «Il tuo viso si trasforma, quando ridi. È come se la felicità ti cogliesse di sorpresa, o ti facesse il solletico all’improvviso.»
So che intende farmi un complimento, perché gli piaccio. So anche che non posso accettarlo, perché farlo sarebbe semplicemente assurdo. Perciò, replico il più bruscamente possibile: «Quindi, probabilmente, assomiglio a un idiota.»
Non gli lascio il tempo di ribattere.
Il momento sfuma. Se non ci trovassimo davanti a una delle più grandi dimostrazioni della maestria degli antichi Romani, sarebbe difficile liberarsi di questa sensazione di disagio.
Le rovine sorgono su una collina e, sebbene diano solo una pallida idea di com’erano in passato, sono comunque magnifiche. I muri sono eretti ad arte; conservano la loro immagine di solidità anche dopo secoli. Gli edifici si collegano l’uno all’altro, senza curarsi di forma o altezza, legati solo dal loro portamento elegante. Il pezzo forte è la cupola che, nonostante sia per la maggior parte distrutta, incanta ancora con le decorazioni avanzate. È impossibile ammirarla senza pensare a quanto dovesse essere grande e ricca, se intera.
Ho ancora il naso rivolto all’insù, mentre racconto a Will la storia della domus. Il biondino mi ascolta, attento. È con reverenza che scatta alcune foto, come se fosse tentato di chiedere il permesso ai mattoni e alla volta.
Il cellulare mi vibra nella tasca. Faccio cenno al ragazzo di andare avanti senza di me e lo tiro fuori. Accetto la chiamata in arrivo e la voce di Hazel, leggermente distorta, mi giunge all’orecchio.
«Ciao! Come siete messi?» esordisce.
Distolgo lo sguardo dalle rovine. «Bene. Voi?»
«Abbiamo finito di visitare il Pantheon e stiamo facendo un giro qui attorno. Volevamo prenderci un gelato. Vi unite a noi?»
«Ah-ah. Con questo caldo, ci vuole proprio.»
«Già.» Mia sorella ridacchia. «Frank dice che prenoterà la luna di miele in Antartide. Altro che Caraibi!»
Sorrido. Povero ragazzone canadese. «Okay. Quando abbiamo finito, vi raggiungiamo.»
«Perfetto.»
Dopo aver discusso la tempistica, chiudo la conversazione e mi metto sulle tracce di Will. Lo trovo intento a studiare una delle pareti della dimora di Nerone. Non ho idea di cosa lo catturi tanto, ma, di qualunque cosa si tratti, deve valere la sua più completa attenzione. Si è tolto gli occhiali e, con la fronte aggrottata, guarda fisso il gruppo di mattoni davanti a sé.
Mi accosto a lui e lo imito, anche quando il soggetto di studio diventa una parte di muro poco più in là. Alla fine, dopo essermi rassegnato al fatto che non abbiano nulla di speciale, mi risolvo a chiedergli: «Cosa stai cercando?»
La domanda pare piacergli. «Ah, Nico Di Angelo» sospira. «Non è ovvio? Sto cercando segreti.»
Inarco un sopracciglio. «Cioè?»
«Lo scoprirai questa sera» risponde. Distoglie per un attimo l’attenzione dalla parete e indaga: «Chi ti ha chiamato?»
«Hazel. Lei e Frank ci aspettano al Pantheon, per prendere un gelato.»
Will sorride. «Tua sorella sembra leggermi nel pensiero. Ho una voglia matta di gelato.» Dopodiché, dimentico della mia presenza, ritorna ai suoi mattoni.
 


 
Io scelgo un cono mono gusto, solo fior di latte. Will ordina  la cialda più grande, se la fa riempire di gelati dai colori tutti diversi—cioccolato, mango, fragola, puffo, pistacchio—e si fa aggiungere sopra della panna montata. Quando il gelataio gli porge il cono, un bambino lo osserva con gli occhi sgranati e la bocca aperta, l’invidia e l’ammirazione entrambe presenti sul suo volto. Tira il pantalone della madre e glielo indica; lei scuote la testa e dice qualcosa, probabilmente “no, così ti farai venire le carie”.
Usciamo in strada, ci allontaniamo dalla folla e troviamo un posto più appartato dove mangiare i nostri gelati, possibilmente all’ombra. Parliamo di quello che abbiamo visto oggi, scambiandoci opinioni e osservazioni, chiacchierando come se ci conoscessimo tutti da sempre.
Mia sorella mi ha già confidato di trovare Will un ragazzo adorabile. Non mi è piaciuto il mondo in cui ha pronunciato la parola adorabile, scandendo le sillabe come se stesse parlando di Arion, il cavallo di peluche con il quale ha dormito fino a nove anni.
In questo momento, Will mi sembra solo un ragazzo incapace di mangiare un gelato senza sporcarsi tutto.
«Hai della panna sul naso» gli faccio notare.
«Uh, davvero?» Incrocia gli occhi nel tentativo di controllare, senza ottenere grandi risultati.
Hazel ride. «Sei troppo buffo.»   
Will sfoggia per lei la sua espressione affascinante. «Mille grazie, madamoiselle Levesque.»
Frank tossicchia. «Vacci piano, amico» lo apostrofa bonariamente, circondando la vita di mia sorella con un braccio. «Madamoiselle Levesque è mia.»
«Madamoiselle Levesque non è un oggetto» lo riprende lei, «ma ti perdona, perché ti ama.»
Frank le stampa un bacio sulla bocca. Hazel gli rifila una gomitata, cercando di sfuggirgli e protestando che è scortese baciarsi, quando sono davanti a noi.
Alzo gli occhi al cielo, fintamente esasperato.
«E in tutto questo tempo» mi rivolgo a Will, «non ti sei ancora pulito.»
Mi avvicino e raccolgo con l’indice lo sbuffo di panna incriminato.
Il biondino si tocca il naso, quasi sorprendendosi della sua esistenza. «Grazie» dice.
Io scrollo semplicemente le spalle.
Terminati i nostri gelati, optiamo per una passeggiata sul lungo Tevere. Fa troppo caldo per mischiarsi di nuovo ai turisti e continuare la nostra esplorazione di Roma, ma è ancora troppo presto per rientrare a casa. Mentre camminiamo, una parte di me non fa che stupirsi di come il nostro gruppo sia affiatato e delle risate che mi è impossibile trattenere. Verso le sei, siamo nelle vicinanze di Castel Sant’Angelo. La sua struttura imponente e le sue sculture si intravedono in distanza, illuminate dai raggi del sole. La folla sciama tutt’intorno, soffermandosi di bancarella in bancarella, e un fiume incessante di persone attraversa il ponte, facendo inevitabilmente capolino nelle foto altrui.
Frank ed Hazel camminano davanti, a qualche passo di distanza. Frank gioca distrattamente con i suoi ricci, finché mia sorella non gli dice di smetterla. Ne segue una discussione scherzosa, che termina con Frank che la issa sul muretto e la bacia con passione. Mi fermo, sistemandomi nella mia postazione d’osservazione privilegiata, e ammirando ancora una volta l’avverarsi di un miracolo Frank&Hazel.
Mi sorprendo a dire: «Un giorno, spero che qualcuno mi faccia provare una felicità così profonda.»
Will non risponde subito. Poi annuisce, lentamente. «Anch’io.»
Mi giro verso di lui. Riccioli biondi gli escono ribelli da sotto il cappellino. Si è tolto gli occhiali da sole, e posso notare una creatura misteriosa vagare nelle sue iridi.
«Pensavo che una persona come te avesse già provato qualcosa di simile» commento, stupito.
L’angolo sinistro della sua bocca si tende all’insù. «Onorato di sorprenderti» replica. L’animale che si annida nel suo sguardo si agita. «No, mai sentito niente del genere. Chissà, magari questa è la volta buona.»
Un flash.
Lo bacio come vorrei baciare il custode della mia felicità.
Un brivido mi scende lungo la spina dorsale.
Tengo la bocca chiusa, perché ho paura di quello che potrei dire. Tengo la bocca chiusa, perché è meglio per entrambi. Tengo la bocca chiusa, perché potrei rispondergli “chissà”.
 


 
Bizzarro come si finisca sempre per desiderare ciò che prima si detestava.
Ho assecondato Will nel suo progetto per dimostrare a me stesso che non ero uguale a mio padre, non perché fossi realmente interessato a uno scambio di opinioni.
In questi sette giorni, sebbene mi sia imposto di vivere tutta questa storia con indifferenza, mi sono scoperto incapace di eseguire il mio stesso ordine. Il mio scetticismo si è volatilizzato dopo aver ascoltato la rilettura della giornata di Will Solace già la prima sera. Quadra sempre, quello che dice.
Mi affascina il modo in cui lo dice—non come se stesse eseguendo un compito per la scuola, bensì credendoci con ogni parte di sé; e questa è la più grande dimostrazione della sua genuinità gratuita, perché significa che, anche quando mi ha proposto il patto, pensava davvero di potermi aiutare. È una sensazione odiosa, ammettere che probabilmente ha ragione. Basta analizzare il mio comportamento per rendersene conto.
Quando il cielo incomincia a tingersi dei colori del tramonto, scalpito per finire il tour e sentire cos’ha da dirmi questa volta. Voglio che mi racconti come concepisce il mondo. L’impazienza mi fa fremere e, all’improvviso, divento ancora più burbero e sbrigativo. Mi ficco le mani in tasca per desistere dal torcermele. Aspetto la sua domanda come un adolescente aspetta il suono della campanella dell’ultima ora.
Quando, alla fine, si ferma e chiede: «Che cosa hai odiato, oggi?» mi lambicco il cervello nel tentativo di definire nella maniera più perfetta possibile ciò che non mi è piaciuto.
Will mi osserva sempre con un mezzo sorriso, ma ascolta attentamente ogni mia singola parola. Attende diligentemente che io abbia finito, prima di rispondermi.
Del Colosseo, ho detto: «Detesto il fatto che centinaia di persone andassero a guardare gente uccidersi a vicenda, che si divertissero mentre i gladiatori si sbudellavano l’un l’altro. Al giorno d’oggi, ti piacerebbe assistere alla morte di un suicida? Rideresti? Applaudiresti? Non credo. I Romani lo facevano. E si tratta di morte in entrambi i casi.»
«Oh, ti sbagli, Di Angelo» ha replicato, quasi stesse dicendo “troppo facile”. «Non si trattava mai di morte. Si trattava di vita, potere, fama, rivalsa. Gli spettatori vedevano nel duello la loro stessa voglia di sconfiggere materialmente i loro problemi, avevano completo potere su di essi. Un pollice verso e, con la vita di un uomo, svanivano anche i loro crucci. Esistevano ancora, certo, ma figuratamente li avevano vinti. Mi dirai che è tutto temporaneo, che usciti da quell’arena e terminato il momento, tutto sarebbe stato come prima. È vero, fino a un certo punto. La mente è così forte, che ci permette di credere all’impossibile e di diffidare del possibile. La gente tornava a casa ed era completamente convinta di poter eliminare ogni suo problema, perché dentro di sé aveva potenza. In alcuni casi, ci provavano anche, riscoprendo una forza in sé che non sapevano e non si ricordavano di avere e di poter esercitare. La vicinanza alla morte ci fa rendere conto di quanto sia importante la vita e di come, dunque, sia un imperativo fare tutto ciò che possiamo per viverla al meglio, inseguendo la felicità. Un uomo moriva nel Colosseo, e cento altri trovavano la forza di ribellarsi.»
Io rimango immobile, muto, e lui aggiunge, grattandosi il collo e sorridendo colpevole: «Ho fatto un discorso sensato?»
Gli dico ogni volta di sì.
Will non pretende di distinguere chiaramente il bianco dal nero e, dopotutto, non me l’ha mai promesso. L’universo intero ne riconosce l’impossibilità. Inoltre, da medico, il suo sarebbe solo il tentativo di un ipocrita. Conosce troppo bene la realtà della malattia, della morte, per poter stabilire una linea netta tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Però, sta mantenendo una promessa più importante: insegnarmi a trovare macchie di bianco su uno sfondo nero. A volte è facile, il contrasto si nota subito, altre è necessario grattare via il colore più scuro per trovarci sotto quello più chiaro.
Mi domando se, alla fine della prossima settimana, sarò in grado di riconoscere il bianco nel nero da solo. Mi domando se, alla fine della prossima settimana, ci sarà ancora tutto questo nero. Mi domando se, alla fine della prossima settimana, io sarò ancora così tanto nero.
 


 
Venerdì, terzultimo giorno prima della partenza di Will Solace. Il mio orologio segna le 20 e 30.
Il ristorante prescelto si trova in una delle viuzze che partono da Piazza di Spagna, che abbiamo visitato durante la prima settimana. Quella volta, ci siamo fermati a fare merenda nella sala da tè Babington’s. Il Dottore si è dimostrato un  bravo studente quando, salendo la scalinata, mi ha esposto tutto ciò che gli ho raccontato con una precisione sorprendente. Nomi di scultori e progettisti, antiche denominazioni, aneddoti… non gli è sfuggito nulla.
Gli ho battuto la mano sulla spalla due volte e ho commentato: «Bravo ragazzo. Parlando così, rendi molto felice il tuo vecchio.»
Will ha riso. «Sei ancora in forma, Di Angelo. Non invecchiare di proposito il tuo bel faccino» mi ha ripreso scherzosamente.
Io non me la sono presa.
Il discorso si è protratto anche a tavola. Mentre aspettiamo di venire serviti, sorseggiamo vino dai calici e parliamo dei rispettivi padri. Manteniamo entrambi un tono leggero, per non rovinare la serata e non avendo Hazel e Frank a disposizione per risollevarla con facilità. I due piccioncini si sono presi una giornata di riposo e, probabilmente, stanno cenando in un’atmosfera domestica molto caratteristica da Hazel&Frank.
«Mamma non ha mai avuto grandi pretese» sta dicendo Will. «Le importava solo che mi sentissi realizzato. A dodici anni, volevo diventare un surfista professionista.»
«Davvero?» Non che la cosa mi stupisca più di tanto. Dopotutto, Will potrebbe tranquillamente passare per un californiano fissato con tavole e onde “giuste”. «Come mai stai studiando Medicina, allora?»
Si stringe nelle spalle. «Ci sono portato. E poi, mi piace aiutare la gente» risponde. «Forse, mio padre avrebbe preferito che diventassi un surfista. Il primo ricordo che ho di lui, è della sua risata nel vedermi a cavalcioni della sua tavola stesa nella sabbia. Non che ne abbia molti altri, poi.»
Alzo un sopracciglio, invitandolo silenziosamente a continuare.
«La versione breve è che ci ha lasciati» va avanti lui, osservando il vino sul fondo del suo bicchiere. «Quella lunga, è che papà non era fatto per la vita coniugale. È sempre stato un po’ hippie, uno spirito libero. Oh, e decisamente un latin lover. Sapeva suonare una decina di strumenti diversi e componeva serenate per le sue fidanzate più importanti.»
«Doveva essere un tipo simpatico» commento, cauto, «finché non ha abbandonato te e tua mamma.»
«Già.» Will finisce il bianco in sol sorso. «È stato uno stronzo, ma non sono più arrabbiato con lui. Sono così simile a lui che, se lo odiassi, odierei anche me stesso. Ogni tanto ci sentiamo ancora.»
Annuisco. «Suona meglio del rapporto tra me e mio padre.» Rido, facendo sembrare la frase casuale e leggera, invece che dolorosa e pesante, come la percepisco io.
«Sono pronto per la tua triste storia, Nico Di Angelo.» Will mi sorride incoraggiante.
Sbuffo. «Be’, da dove cominciare?»
Mi prendo un attimo per organizzare il discorso in modo che non sia così deprimente.
«Sai già che Hazel è figlia della sua seconda moglie, Marie. La prima era Persefone. Potrebbe averla lasciata per via del nome strano, o perché sua cognata era terrificante. Ancora adesso, ne parla come di una fuori di testa. Io sono il risultato del terzo matrimonio. Mio padre si è innamorato di mamma durante uno dei suoi viaggi in Italia e, dopo la sua morte, è rimasto vedovo.»
«Piuttosto dura, con un figlio e un’ex suocera pazza» scherza Will.
Mi si serra la gola e ci passo una mano sopra per sciogliere il nodo che si è formato. Le luci che illuminano tutta la via sono sfocate. Sbatto le palpebre, ricaccio indietro ricordi e dolore, e ritornano normali. Non sono pronto a parlargli di Bianca, l’altra figlia di cui ignora l’esistenza. Sento dentro di me l’inspiegabile certezza che capirebbe, perché conosce quel tipo di mancanza, ma non siamo—non sono—ancora così vicini.
«Comunque, io e Hazel ci siamo incontrati solo da adolescenti» continuo. «Ti risparmio i come e i perché di questa decisione, è ancora oscura per me, in certi punti. Ad ogni modo, nonostante ci fossimo conosciuti così tardi, abbiamo legato parecchio.»
Will annuisce. «Siete più uniti di molti fratelli cresciuti insieme da sempre.»
«Già, siamo abbastanza speciali, io ed Hazel» concordo, sorridendo. «Dopotutto, è solo grazie a lei che…» sto cenando con te questa sera. «… ho superato parecchie situazioni difficili. Sai, bullismo, insegnanti incapaci, omofobia e discriminazioni allegate. Tutto questo, e il mio unico genitore non ci faceva neanche caso. Per lui, sono sempre stato una delusione. Ho deciso di studiare Economia più per accontentarlo, che per me stesso.»
Poso il calice sul tavolo, come se, distanziandolo, allontanassi anche l’argomento deprimente.
«Almeno, tuo padre non è contro i gay. Il mio, ci ha impiegato anni ad accettare la mia sessualità» concludo.
«Cristo.»
Il disgusto nel tono di Will è quasi consolante. La sua mascella fa la cosa che fanno le mascelle degli uomini quando perdono le staffe—quel movimento particolare, che non fa schioccare le ossa però quasi, che non forma nessuna fossetta però quasi, che è sexy senza quasi.
«Cristo» ripete. «Questo fa davvero schifo. Ti prego, beviamoci su.»
Afferra la bottiglia di bianco e riempie il mio e il suo bicchiere fino all’orlo. Sposta la sedia indietro, facendola stridere, si alza e porta in alto il calice.
«Ai rigetti della società, ai diversi, ai disadattati e soprattutto a chi lo prende nel culo!» grida. Circa venti paia di occhi si posano simultaneamente su di noi. «E se avete qualcosa in contrario…» li squadra a uno a uno, sfidandoli. «… be’, cazzo, tacete! Con la vostra opinione di bigotti mi ci pulisco il culo!»
Tocca il mio bicchiere, portando a termine il brindisi, e ritorna a sedere.
Gli altri clienti ci osservano ancora per un po’, commentando sottovoce il gesto di Will. Metà di loro non avrà capito un’acca del suo discorso in stretto inglese americano, ma, ad ogni modo, sento qualcosa di caldo e gentile distendermi le membra.
«Non ce n’era bisogno» mormoro, chinandomi verso di lui, «però… grazie, Dottore.»
La fronte di Will è aggrottata e lui sembra ancora incazzato, eppure i suoi occhi brillano, quando mi sorride. «Di niente, Di Angelo» replica. «Anzi, scusa. Sono il tipico cazzone americano esibizionista.»
Trattengo un sorriso. Mi sono appena reso conto che mi piace, il suo essere autocritico senza troppo biasimo.
«No. No, è stato carino.»
Will scrolla le spalle. «Avrai ricevuto dimostrazioni d’affetto e sostegno molto più decenti.»
«A dire la verità, non ne ho ricevute poi così tante» ribatto. «Soprattutto, se fatte da altri ragazzi. Dire che non sono fortunato in amore è un eufemismo.»
«Davvero?» esclama lui. Beve un sorso di vino e poi appoggia il calice sul tavolo. «Tu sei il tipo di, non so, almeno dieci miei amici?»
«Eppure…»
«Oh, non ti preoccupare» riprende. So già che sparerà qualche frase da rimorchio, perché la sua voce cambia sempre quando ne sta per fare una. «Questo ti ha reso un single appetibile per me.»
Appunto.
«Non ti smentisci mai, eh?» lo rimbrotto, ma sto ghignando.
«Mai» ribadisce Will, sorridendomi di rimando.
Il cameriere ci interrompe. Posa sul tavolo i piatti che abbiamo ordinato—due spaghetti allo scoglio—e ci augura un buon appetito prima di allontanarsi.
Will guarda la pasta come un cane guarda il pollo arrosto appena rubato. «Non mi smentirò nemmeno ora» commenta, alludendo alla capacità contenitiva del suo stomaco.
Per il resto della serata, tocchiamo l’argomento famiglia il meno possibile. Siamo usciti con l’intento di trascorrere una cena diversa dalle altre, all’ordine della leggerezza e del divertimento. Rispettiamo questo intento molto bene. Flirtiamo un commento sì e l’altro pure, preferendo l’istinto alla ragione. La bottiglia di vino è finita, quando una parte della mia mente non ancora intorpidita dall’alcol constata che è da un pezzo che ce ne stiamo fregando di tutto quanto.
Al posto del dessert ordino un caffè, per schiarirmi le idee, mentre Will, come se non si fosse abbuffato già abbastanza, prende una porzione di tiramisù. Ne porta alla bocca una cucchiaiata e mugola. Chiude gli occhi ed emette altri versi di apprezzamento a un volume indecente.
«Defi pfofaflo» bofonchia. Che penso significhi devi provarlo.
Mi oppongo, ma Will protesta sonoramente, tentando di farmi cambiare idea e sostenendo che è impossibile che uno stomaco esploda per un po’ di tiramisù. Con un movimento fulmineo, allunga il braccio e mi ficca una cucchiaiata di dolce in bocca.
Sto per insultarlo, quando realizzo la squisitezza di quello che sto mangiando. Al diavolo l’indecenza—mugolo anch’io di piacere. La morbidezza dei savoiardi bagnati di caffè è perfetta, la crema è più soffice delle nuvole. Alla fine, ci sbafiamo il tiramisù in due, litigando per chi ne ha avuto di più.
Paghiamo e ci incamminiamo verso casa. La pioggia ci sorprende a metà delle scale di Piazza di Spagna.
«Merda merda merda.»
«Dovevi ordinare un altro tiramisù, invece di rubare tutto il mio, Nico» dice Will. «Questo è il karma.»
Sbuffo. Se avessero occhi per vedere, farei il medio ai goccioloni che mi stanno inzuppando i vestiti. «Il karma fa schifo.»
Will ride.
«Ci facciamo una corsetta?» propone. Neanche i famigerati acquazzoni improvvisi di Roma riescono a fargli perdere il sorriso.
Non faccio neanche in tempo a dire no, che lui è già scattato in avanti. Alzo gli occhi al cielo e formulo una preghiera silenziosa.
Lo inseguo e l’unica cosa a cui riesco a pensare è mi spezzerò l’osso del collo. Mi spezzerò l’osso del collo. Mi spezzerò l’osso del collo.
Will fa i gradini a due a due, saltando come uno stambecco di qua e di là, spericolato come pochi. Incredibile come possa farlo, con la cena di stasera sullo stomaco.
Per il tempo che impiego a raggiungerlo, i capelli mi si sono appiccicati alla fronte, la camicia è una seconda pelle e le mie scarpe pesano un chilo e mezzo.
Mi manca il fiato, ma riesco comunque a gridargli: «Fermati, bastardo!» perché per gli insulti c’è sempre fiato.
Il biondino si gira e corre all’indietro. Fa lo sbruffone e mi mostra il medio. «Corri, stronzetto!» urla in risposta. «La vita è breve!»
Il fatto che scivoli, inciampi e cada sembra volerlo dimostrare seduta stante.
Sgrano gli occhi. Mi fermo. Mi dico: cazzo ti blocchi, coglione? Corri ad aiutarlo, va’! Lo faccio.
Will Solace è a terra che se la ride. Ha rischiato di rompersi la testa, sbattendo contro le pietre dell’acciottolato, e ride. Ride portandosi una mano alla tempia. Ride lamentandosi. Ma ride. Il che mi fa piuttosto incazzare.
«Fottiti. Fottiti, Will Solace.»
Lo stronzo ha pure la forza di fare una battuta. «Sono nei guai, Mamma?»
Il desiderio di tirargli uno schiaffo è bruciante. Mi inginocchio accanto a lui, la pioggia che mi batte sulle spalle, e alzo la mano. Desisto all’ultimo, solo perché è già ferito.
Un sospiro lungo, pieno, lascia la mia bocca. «Stai bene?» domando, sforzandomi di trovare la calma nel mezzo della tempesta.
«Mmmh.» La gocce gli scendono sulle guance come lacrime. Will sbatte le palpebre più volte per scacciarle. «Suppongo di sì. È solo una botta in testa. Domani mi uscirà un bernoccolo e sarò più carino del solito, fine.»
«Sei fortunato che non è qualcosa di più grave, americano esibizionista che non sei altro» lo riprendo. «Come si procede in questi casi, Dottore?»
«Be’, tanto per iniziare potresti baciarmi.»
La mia espressione in questo momento dev’essere epica. «COSA?»
«Un bacio» ripete. «Sai, il rimedio universale contro la bua.»
Mi alzo in piedi di scatto. «Io mi rifiuto.»
«Dààài.»
Volto la schiena.
«Ti preeego.»
«No.»
«Nico Di Angelo» dice, questa volta seriamente. «Stai omettendo soccorso a un ragazzo ancora steso a terra e in preda ad un atroce dolore.»
«Già che ci sei, perché non muori anche?» sbotto. «Ti soccorrerà un bellissimo angelo asessuato, Will Solace.»
Will Solace ride.
Non mi trattengo. Lo schiaffo risuona per tutta la via. Per un secondo, il tempo pare cessare di scorrere.
«Okay.» Il biondino si tasta la faccia. «Okay.»
«Non è divertente» ringhio. «Vederti crollare a terra non è divertente. Pensarti morto per una cazzata non è divertente. Scherzarci sopra non è divertente.»
Will chiude le palpebre e si abbandona contro il suolo. Riapre gli occhi per dirmi: «Hai ragione. Mi dispiace.»
Grugnisco.
«Mi aiuti ad alzarmi?» mi chiede.
Non rispondo, limitandomi ad afferrarlo per un braccio, prendergli l’altro e issarlo su. Will barcolla e mi finisce addosso a peso morto. Indietreggio troppo velocemente, scivolando sulla pietra bagnata, e faccio forza sulle suole per frenarmi.
Il suo mento mi scava un solco nella spalla, il suo petto bagnato aderisce al mio, le sue mani mi toccano la pelle nuda delle braccia. Sono tiepide, e irradiano calore nei punti in cui mi sta tenendo.
«Tutto okay?» domando.
«Più o meno» risponde lui. «Mi serve giusto una conferma. Non siamo su una giostra con tanti puledri cavalcanti, vero?»
Sospiro. «Quanto ti gira la testa, da uno a dieci?»
«Diciamo otto» mugugna contro la mia spalla. «Se mi dessi quel bacio curativo, potrebbe scendere a cinque.»
«Se lo faccio, la smetterai?»
Posso sentire Will sorride contro la mia pelle. «Sì.» Dopo poco, aggiunge: «Proprio sulla bua.»
«Gesù» invoco.  
Attento a non fargli troppo male, gli bacio delicatamente la tempia. Il sapore ferroso del sangue mi rimane sulle labbra.
«Dovremmo tornare a casa» dico. «Stai sanguinando.»
Will non sembra molto in sé. «Lo so» biascica.
Non posso credere a quello che sto per dire. «Hai bisogno di un altro bacio curativo?» domando, la voce e gli occhi bassi per la vergogna.
«Sì» mormora lui. «Questa volta, baciami la bocca.»
«Va bene.»
Il sapore del sangue scompare, quando schiude le labbra. Scompare tutto quanto, quando approfondisco il bacio. Mi sento sollevare e ho paura di cadere, quindi mi stacco da lui.
«Me ne serve un altro» dice Will. E accontentarlo è un piacere.
Le mie labbra si avvicinano alle sue, le sfiorano, prima di unirsi a loro. Trattengo tra i denti il suo labbro inferiore, che è di poco più carnoso di quello superiore.
Will sussurra al mio orecchio: «Un altro» e io gli deposito una scia di baci lungo il collo. Rabbrividisce, poi mormora: «Un altro. E un altro. E un altro.»
E io gli do un altro bacio, e un altro, e un altro. Dimentico me stesso e la pioggia. Ho la pelle fredda, le ossa gelate e un cuore che credevo ancora più ghiacciato. Ma le labbra di Will sono calde, le sue dita pure, e la sua vicinanza brucia via tutto quanto. Il ghiaccio evapora grazie al calore e il vapore che ne sale ci avvolge, nascondendoci alla gente, perché questo momento è solo nostro, nostro e per sempre.
 

 
Il tragitto in autobus mi sembra eterno, senza un inizio né una fine precisi. Sono cosciente di essere seduto accanto a Will, della sua mano sul mio ginocchio e delle sue labbra premute contro il mio collo. Io osservo le gocce d’acqua rincorrersi sul vetro, senza davvero rendermi conto di farlo. Riesco a malapena a tenere il conto delle fermate che ci mancano.
I semafori cambiano colore, passano dal verde al giallo, dal giallo al rosso, dal rosso al verde e così via, all’infinito, finché una lampadina non si guasterà o l’elettricità verrà meno.
Ragazzi e ragazze, uomini e donne, salgono e scendono dall’autobus e io non registro nemmeno i loro volti. Ognuno di loro avrà una casa da raggiungere, una famiglia da cui tornare, un letto che li attende. Io mi sento fuori dal mondo, in un pianeta ad anni luce di distanza dalla Terra e dalla vita di Nico Di Angelo. Ma non sono solo. Will è con me, così com’è seduto affianco a me adesso.
Mi bacia incurante delle occhiate della gente, senza mai smettere. Mi sta mordicchiando il lobo dell’orecchio, quando gli ricordo che dobbiamo scendere, che questa è la nostra fermata. Mugugna qualcosa, poi scivola giù dal posto a sedere e oscilla fino a raggiungere le porte.
Ha smesso di piovere e l’acqua ha formato nuove pozzanghere. L’autobus rischia di farci una doccia nel ripartire, ma, se anche mi avesse schizzato, non avrei sentito la differenza, visto quanto sono fradici i miei vestiti.
Camminiamo piano verso l’hotel.
Ho voglia di avere Will vicino a me, così lascio che la mia mano finisca nella tasca posteriore dei suoi pantaloni e che la distanza tra noi due diminuisca.
«Hai paura che cada ancora?» mi chiede, con un mezzo sorriso.
«Tu non provarci comunque» replico. A bassa voce, aggiungo: «Già ti è andata bene che non è nulla di grave.»
Ora, Will sorride pienamente. «Quindi, ti preoccupi.»
Ignoro la sua affermazione. «L’hotel è questo» cambio argomento, dichiarando l’ovvio. Mi molleggio sui talloni. Mi riapproprio della mia mano e la passo tra i capelli con un movimento veloce e nervoso. Mi umetto le labbra. La mia voce è bassa e timida, nel chiedere: «Salgo… salgo anch’io?»
Il sorriso di Will passa dall’essere sfrontato all’essere dolce. La curva delle labbra è più morbida, disegnata con tratto gentile.
«Mi piacerebbe molto, Nico» risponde. «Sul serio.» Ma non c’è bisogno che lo precisi. La limpidezza e la sincerità sono caratteristiche peculiari del suo carattere.
Dovrei dire qualcosa, ma trovare le parole adatte è una missione impossibile. Non mi azzardo nemmeno ad aprire la bocca, schivo subito l’eventualità di sparare minchiate. Me ne esco soltanto con un sorriso impacciato, che mi fa sentire molto stupido e molto imbranato. Avere ventitré anni non cambia il fatto che mi senta un timido, brufoloso adolescente al primo appuntamento.
Il sorriso di Will si ingentilisce ancora di più. «Imbarazzato è carino» mormora, prima di salire i gradini che portano all’ingresso dell’hotel.
Lo sostengo da dietro, poggiandogli una mano a palmo aperto tra le scapole. Facciamo un cenno di saluto a una receptionist annoiata e approfittiamo di un ascensore già presente al piano terra. Will pigia il bottone del quarto piano, poi si gira, mi fissa per due secondi e quello dopo mi sta sorridendo.
«Che c’è?» faccio, sulla difensiva. «Se è per i vestiti bagnati, ti ricordo che è anche colpa tua.»
«No, no» si affretta a dire il biondino. «È che, domani mattina, non avrai niente di pulito da metterti e, allora, ti sto immaginando con una delle mie camicie hawaiane.»
«Iddio Santo» esclamo. «Non ne indosserei una neanche se mi pagassero. Il loro livello di bruttezza è secondo solo ai sandali indossati coi calzini.»
Will scoppia a ridere. Si blocca a metà risata sibilando un “auch” che trasuda sofferenza, mentre si porta una mano alla testa.
Prima che possa realizzare di aver parlato, domando: «Dottore, stai bene?» con un’urgenza nella voce che allarma persino me.
«È solo una botta» ribadisce lui, tenendosi la nuca. «Non è niente, ma fa male come una pallonata nello stomaco.»
L’ascensore arriva al quarto piano. Le porte si aprono con un avviso sonoro. Mi sono avvicinato a Will involontariamente e devo spostarmi per potergli permettere di passare. Indietreggio di qualche passo, stupito della mia stessa prontezza.
Riconosco immediatamente il corridoio, mi ricordo persino il numero della sua stanza. Will inserisce la chiave elettronica e, un momento dopo, siamo entrambi in camera. Mi levo le scarpe, buttandole da qualche parte, mentre lui si dirige subito in bagno e si mette a ravanare nell’unico armadietto. Quando trova quello di cui ha bisogno, esclama «Ah-ah!» e mi chiama.
Lo raggiungo da dietro e gli parlo guardando il suo riflesso nello specchio. Ha i capelli persino più arruffati del solito e le punte bagnate ancora gocciolanti. I miei non sono in uno stato migliore, dal momento che l’acqua li ha resi ricci e gonfi come se avessi ricevuto una scarica elettrica.
«Cavoli, Di Angelo, sei uno spilungone» commenta il riflesso di Will, di circa tre centimetri più in basso del mio. «Quando ti bacio, non me ne rendo conto. Ma sei davvero alto
«Sì, già, è utile quando devo raggiungere i cereali, al supermercato. Li mettono sempre nei ripiani più alti» rispondo. La mia faccia nello specchio è totalmente indifferente. «Mi hai chiamato per questo?»
Will mi rivolge un mezzo sorriso colpevole. «Ehm, no. Mi daresti un aiutino con questo?» domanda, agitando un flacone di disinfettante medico.
Nel mezzo della fronte mi compare una ruga di preoccupazione. «Io…»
«Io non riesco a vedermi dietro la testa» mi interrompe, «e, a meno che tu voglia che la mia ferita si infetti e io muoia, dovresti solo premere un dischetto di cotone imbevuto di disinfettante sul taglio. Facile.»
«Sono un pessimo infermiere. Ti farò male» obietto, titubante.
«Io morirò.» Will sporge il labbro inferiore di fuori e sfoggia il suo miglior paio di occhioni da cucciolo. «Vuoi che io muoia?»
Alzo gli occhi al cielo. «Tsk. Ma fammi il piacere.» Sbuffo sonoramente. «Molla questo coso, dài. Ecco. Dove sono i dischetti?»
Will mi passa una confezione usata per metà, tirandola fuori dall’armadietto. Prendo un paio di dischetti e li bagno con il disinfettante, seguendo le sue istruzioni.
Lui abbassa la testa, scoprendo un piccolo taglio sulla nuca, e si tiene i capelli per scoprirlo meglio. Il sangue non mi dà fastidio—non credo sverrò mai alla sua vista, con tutta la preparazione che mi forniscono dei sani film splatter—, ma di certo non faccio i salti di gioia a dover ripulire una ferita.
«Brucerà un po’» lo avviso.
«Fallo e basta» ordina lui.
Alzo le spalle e faccio come mi dice. Non appena lo tocco, Will si irrigidisce tutto. I muscoli delle spalle si contraggono e la sua mano libera si stringe al lavandino. Il fiato gli esce con un sibilo tra i denti stretti.
«Veloce, di’ qualcosa» comanda, cercando di non lasciar trasparire il dolore dalle sue parole. «Distraimi da questo fottuto bruciore. Per favore.»
«Aehm, con cosa devo iniziare?» faccio.
«Con quello che ti pare, Nico. Va bene anche c’era una volta. Basta che ti sbrighi, ca—» La sua imprecazione si perde in un altro sibilo, quando mi avvicino di più al taglio.
«Okay. C’era un volta…»
La mia mente è completamente vuota, un foglio bianco. Ma non posso esitare troppo a lungo, così improvviso. Lascio alle parole il compito di formare una frase di senso compiuto.
«C’era una volta un ragazzo. Viveva su una piccola isola, circondata da un mare dalle acque verdi. Le scogliere erano alte, e le onde si infrangevano di continuo contro di esse con violenza tremenda. Non a caso, gli abitanti avevano paura del mare e avevano rinunciato da tempo ad imparare a nuotare. Ma dovevano pur sopravvivere in qualche modo e, essendo su un’isola, era naturale concentrarsi sulla pesca. Uscendo a largo, col mare che infuriava, morirono decine di pescatori.
         Un giorno, però, accade un miracolo. Una ragazza dai capelli biondi aveva raggiunto la battigia e si era messa a cantare per il mare. Quello, ascoltando la sua voce, smise di agitarsi. Gli abitanti chiamarono la ragazza sirena e piansero di gioia per la sua nascita. I pescatori la portarono con loro a largo. Per tutta la durata del tragitto, la giovane cantava e permetteva loro di pescare. Ma, non appena si fermava, la superficie del mare si increspava, segnale di nuovi cavalloni in arrivo. Il ragazzo che abitava sull’isola era invidioso del dono della ragazza. Lui amava profondamente il mare, persino quando le sue acque erano agitate e abbandonavano il bel colore verde smeraldo per un torbido verde scuro. Così, un giorno, decise di andare alla spiaggia.
        Era prima dell’alba, prima ancora che i pescatori si svegliassero. Il ragazzo si tolse le scarpe e camminò dentro l’acqua, combattendo contro le onde. Si immerse fino alla vita, poi fino alle spalle. La corrente era forte e lui non sapeva nuotare. Aprì la bocca per cantare, ma non poté nemmeno intonare una nota. Un mulinello si formò sotto i suoi piedi e lo tirò giù di sotto. L’acqua entrò dalla bocca già spalancata e arrivò ai polmoni. Mentre annegava, il ragazzo continuava a cantare, o a gridare. Ma il mare era sordo alle sue parole d’amore, e lo uccise.»
Finisco di tamponare il taglio e sollevo i dischetti di cotone, ora sporchi di sangue secco.
«Ora, di chi è la colpa? Del mare, del ragazzo oppure della gente che non ha fatto nulla per fermarlo?»
Will rialza il capo lentamente. Osserva il mio viso allo specchio, ma la mia espressione è indecifrabile.
Alla fine, commenta: «È una storia molto triste, Nico.»
Non è solo una storia, vorrei dirgli. Non sono mai solo storie. Invece, scuoto la testa e mi passo una mano sul viso, stropicciandomi gli occhi.
«Non mi ricordo nemmeno ciò che ho detto» mento, forzando un tono rilassato. «Sono stanco. Andiamo a letto?»
L’invito al plurale fa luccicare gli occhi Will. «Andiamo» dice.
Spegne la luce del bagno, mi prende la mano e mi conduce sul letto. Ci aiutiamo a vicenda a spogliarci. I nostri sorrisi e le nostre risate si perdono nel buio. Nudi, ci infiliamo sotto le coperte.
Will mi cerca sotto le coperte, io gli do un breve bacio e gli sussurro che voglio solo dormire. Lui abbandona la sua mano sul mio fianco e mormora un “okay” ad occhi chiusi. Un minuto dopo, il suo respiro si è regolarizzato e lui è scivolato nel sonno.
Io rimango sveglio per un’altra ora pensando alla verità celata nella mia favola, prima di cedere alle lusinghe di Morfeo.




Noticina piccolissima solo per augurare a tutti Buon Natale, visto che non pubblicherò il prossimo capitolo se non dopo il 25. Spero che possiate trovare la felicità nelle piccole e nelle grandi cose.
Water_wolf

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Capitolo 3
*** TRE ***


TRE


 
 
And I'm a long way from your hill of Calvary
And I'm a long way from where I was, where I need to be
If there is a light you can't always see
And there is a world we can't always be
If there is a kiss I stole from your mouth
And there is a light don't let it go out
U2, “Song For Someone”
 


 
Qualcosa di caldo mi solletica la pelle. Se i raggi del Sole fossero persone, penserei che mi stiano camminando sul petto con i loro minuscoli piedini. Piano piano, come se non volessi spaventare quel piccolo popolo che mi percorre il torace, sollevo le palpebre.
Non vedo i raggi del Sole, però, ma le lunghe dita di Will Solace. I suoi polpastrelli mi sfiorano la pelle con così tanta delicatezza che mi sembra di impossibile che mi stiano toccando per davvero. Giro la testa sul cuscino, voltandomi verso di lui.
Ha i capelli tutti sparati in aria, ciuffi che compiono archi impossibili e hanno una piega improbabile. Se una mucca li vedesse, li scambierebbe per fieno e inizierebbe a brucarli. Gli conferiscono un’aria arruffata, ma tenera.
Tenero è anche il sorriso che ha sulle labbra, piccolo e appena accennato, come quando si è felici soprattutto dentro e fuori si ha quell’espressione un po’ inebetita. La gente non comprende, pensa che tu stia viaggiando con la mente chissà dove e che debba tornare immediatamente sulla Terra. La verità è che si sta vivendo un’emozione tanto dolce da apparire surreale, un’emozione alla quale non sappiamo reagire se non con quieta meraviglia.
«Buongiorno» mormora, fermandosi per istante. «Dormito bene?»
Gli bacio il sorriso di quieta meraviglia. Perché non posso fare a meno di pensare a quanto lui sia tenero e quanto io abbia voglia di farlo.
Will inclina la testa di lato, sorpreso. «Questo per che cos’era?» domanda, la voce un po’ più roca dopo il bacio.
Alzo le spalle. «Eri carino» rispondo. Poi, realizzo come suonino le mie parole—come se fossi innamorato di lui e potessi permettermi di ricordargli che è carino ogni volta che voglio—e mi schiarisco la gola. «Sai che ore sono?» chiedo, risultando brusco senza che lo intenda.
Will mi osserva qualche istante con gli occhi spalancati, neanche gli avessi confessato di essere etero, prima di balbettare: «Ah, ehm, ecco… Non ne ho la più pallida idea.»
Valuto l’eventualità di compiere il grande sforzo che mi porterebbe a stare in piedi. La scarto, troppo estenuante. Al contrario, allungare il braccio e cercare a tentoni il mio cellulare, non lo è. Quando, dopo essermi slogato la spalla destra, riesco ad agguantarlo, controllo l’ora e quasi mi cade di mano.
«Will» lo informo. «È mezzogiorno passato. Abbiamo dormito fino a mezzogiorno, Will
Il biondino scoppia in una breve risata. «Forse è per questo che sei di buon umore, Nico.»
Gli lancio un’occhiataccia. «È problema serio, invece» obietto, sbloccando la schermata iniziale e controllando i messaggi. «Hazel mi ha chiamato, tipo, tre volte e noi non l’abbiamo neanche minimamente sentita. Avrà già allertato l’ambasciata, l’FBI e Chi l’ha visto
Will scosta le coperte e si mette a sedere sul materasso, prima di tirarsi su e stiracchiarsi come un gatto. Azzardo uno sguardo nella sua direzione, catturando di striscio uno scrocio del suo culo un attimo prima che lui scompaia in bagno. Lo sento borbottare qualcosa sul fatto che sono decisamente di buon umore e che mi detesta perché non mi rendo conto di comportarmi così.
«Qual è il prossimo pasto?» domanda dall’altra stanza. «Colazione? Pranzo?»
Aggrotto la fronte. «Brunch?» suggerisco.
Sento Will aprire l’acqua e lasciarla riversarsi nel lavandino. «So io dove andare» dice. Afferrare le sue parole è difficile, visto che si sta lavando la faccia e non si disturba fermare il rubinetto. «È un posticino davvero carino. Scommetto che ti piacerà.»
Non mi fido, ma tengo le mie considerazioni per me. «Va bene» rispondo. «Intanto, chiamo mia sorella e la rassicurerò che no, non mi sono fatto un viaggetto nel Tartaro.»
 

 
«McDonald’s? Sul serio?» Faccio una smorfia. «È questo il tuo “posticino davvero carino?” Il primo McDonald’s sulla strada?»
Will mi mette un braccio sulle spalle e mi conduce oltre le porte a vetri. L’odore di sudore, unto e cibo che dovrebbe marcire ma non lo fa perché chimicamente alterato mi si appiccica ai vestiti.
Rifletto sulla definizione di cibo e mi chiedo se possa essere ancora considerato tale, se trasformato in roba che può durare due settimane fuori da un frigorifero, prima di mostrare i primi segni di muffa. Evidentemente sì, visto che continuo a mangiare cheeseburger, infischiandomene dei rischi che comporta ingerire scorie tossiche.
«Non fare il sofisticato» mi apostrofa il biondino. «Mi ricordo perfettamente cos’ha detto tua sorella, il giorno delle Terme di Caracalla. Citando liberamente, “se Nico potesse mangiare ogni giorno, per tre volte al giorno, da McDonald’s senza rischiare un tumore al fegato, lo farebbe”.»
Non posso fare a meno di arrossire. «Meri dettagli» bofonchio.
Will sorride, soddisfatto di aver fatto centro. Ci mettiamo in coda, dietro a persone che sono qui per ordinare un pranzo che non è l’interpretazione americana di mi sono svegliato tardi e non ho voglia di fare una colazione come si deve.
Mi infilo le mani nelle tasche e mi giro verso Will. «Mangiare qui non va contro la tua etica professionale, Dottore?»
Lui emette un verso a metà tra uno starnuto e un grugnito. «Di Angelo, questa è la domanda più stupida che tu mi abbia mai fatto» replica. «Non mangiare da McDonald’s sarebbe come negare la mia radicata natura di consumatore americano.»
«Sei patriottico come pochi» commento, ghignando.
L’angolo sinistro della sua bocca schizza verso l’alto. «Lo sono, in un certo senso. Nell’altro, riconosco che l’America sia stato teatro di parecchie stronzate.»
«Non solo un teatro» aggiungo. «Ne ha anche messe in atto tante, di stronzate.»
«Non solo un teatro» concorda Will, annuendo. «Se potessi tornare indietro nel tempo, mi piacerebbe nascere nell’Antica Grecia. Osservare i loro valori, impersonare le loro virtù. Imbracciare una lira e comporre un canto che parli di eroi e battaglie e dei.» Si china su di me, abbastanza vicino perché i suoi capelli sfiorino la mia fronte. «Tu potresti essere il mio Patroclo, e io il tuo Achille. Potrei amarti più della mia stessa vita.»
Mi sento il palato secco. La mia mente è un fumetto in cui le vignette riportano solo frasi inadeguate al contesto.
«Non desidereresti mai essere parte di una tragedia, quando ne sei già stato il protagonista nella vita reale.»
Will non dice niente, preso in contropiede dalla mia replica inaspettata. Si tira su e mi fissa, cercando di capire che cos’è andato storto, ma la mia faccia non esprime nulla se non durezza.
Percepisco movimento attorno a me, le persone premono per far avanzare la fila, sono impazienti di avanzare e l’unica cosa che il mio corpo è in grado di fare in questo momento è rimanere immobile.
Will muove la bocca.
Io non lo sento. Sono troppo occupato a rivivere le istantanee della mia tragedia all’infinito.
Potrei amarti più della mia stessa vita.
L’ho fatto, Percy. L’ho fatto l’ho fatto l’ho fatto l’ho fatto l’ho fatto l’ho—
Qualcosa scatta dentro di me.
Probabilmente balbetto qualche parola incompleta, prima di abbandonare la fila e uscire. L’aria mi aiuta a distendere i nervi. Inspiro ed espiro lentamente, regolarizzando i battiti. Non verrò risucchiato dal gorgo che hanno formato i miei pensieri.
Non riuscendo a sopportare la vista di qualsiasi cosa sia in movimento, concentro l’attenzione sulla mia camicia di ieri sera. Individuo tutti i particolari possibili, etichettandoli e catalogandoli con attenzione nella mia mente.
Il modo in cui si è arricciata a causa della pioggia. La fantasia arabeggiante blu su sfondo bianco. Le maniche spiegazzate che ho riportato alla bell’e meglio all’altezza dei gomiti. Un bottone che non è cucito a dovere. Un filo fuori posto.
Quando sono pronto e penso di poter affrontare il mondo esterno senza che mi esploda la testa, sollevo lo sguardo dalla mia camicia e controllo l’entrata di McDonald’s. I miei occhi incontrano prima la figura di Will Solace. Mi osserva come se avesse scoperto che il mio spuntino di mezzanotte preferito sono wurstel crudi intinti nella maionese, o peggio.
«Grounding» dice. Lo ripete: «Questo è grounding
Annuisco. È una tecnica che ho dovuto imparare, se volevo sopravvivere—se voglio sopravvivere—alle crisi d’ansia o, in generale, quando la vita mi andava stretta e non riuscivo a respirare.
«Sto bene» tento di tranquillizzarlo. «Il momento è passato. Possiamo tornare dentro, se ti va.»
Will corruga la fronte. Non credo abbia registrato ciò che gli ho appena detto. «Dove… dove l’hai imparato?» La confusione nella sua testa filtra nella sua voce. «O sarebbe meglio chiederti quando?»
«Dottore…» Esito. Trovare le parole adatte non è semplice. «Domani sarà il tuo ultimo giorno a Roma. Contro ogni aspettativa, ci siamo divertiti entrambi. Non penso che la spiegazione ti piacerebbe e vorrei che tornassi a casa solo con un piccolo taglio sulla nuca, invece che con una ferita più profonda.»
«Non trattarmi come se fossi un bambino.»
Sobbalzo. Non credevo che fosse in grado di un tono così tagliente.
«Se puoi dirmelo» continua, «fallo. Se non vuoi, è tutto un altro paio di maniche.»
Non lo so, amico, forse è la prima volta che agisco pensando che chi mi trovo davanti è una persona e non un oggetto e che non posso gettargli addosso tutta la merda che mi porto appresso e forse apprezzerei un trattamento più delicato. Quindi vaffanculo.
«Okay, Achille» ribatto. «La tragedia è questa: amavo un ragazzo più di quanto amassi me stesso, il mondo e la vita in generale, ma lui non ricambiava. Non solo, non capiva proprio un cazzo. Io soffrivo di depressione e molti altri piccoli e simpatici disturbi mentali, perciò, dopo aver provato tutte le droghe che ti sono saltate in mente dal momento esatto in cui ho pronunciato la parola droghe, ho trovato la soluzione finale nel suicidio. Visto che non devo trattarti come un bambino, posso informarti sul metodo che ho scelto per l’occasione: annegamento nella vasca del mio appartamento. Ho fallito ed è il motivo per cui mi trascino ancora in questa merda di realtà. Sono uscito dal centro di riabilitazione un anno e mezzo fa. Fu lì che scoprii quant’era utile il grounding e quanto mi aiutasse nelle situazioni in cui il mio cervello andava in corto. Fine. Sei soddisfatto, ora?»
Ho parlato così velocemente e con così tanta foga che mi manca il fiato. Will è immobile come uno stoccafisso. Capisco due cose: 1) è dispiaciuto, e 2) è testardo. Deduco quindi che sta lottando contro la sua rabbia e l’istinto che gli dice di comportarsi da stronzo, e la logica che gli racconta tutt’altro.
È sempre un duello affascinante, quello tra la voglia matta di mandare tutto a puttane e le catene di buonsenso della coscienza.
A volte, però, è uno scontro al quale non mi interessa assistere. Soprattutto se è già andato tutto a puttane.
«Io me ne vado» annuncio. «Non mi ricordo nemmeno cosa avessimo in programma di visitare, oggi, e non m’importa. Se non ti dispiacciono i cambiamenti all’ultimo minuto, però, ti consiglio di farti un giro nei pressi di Impara A Farti I Cazzi Tuoi e Dimentica Di Avermi Conosciuto. Cia’.»
Mi volto.
Me ne vado.
«Nico!» mi chiama.
Lo ignoro. Ignoro tutto quanto. Il mondo mi è totalmente indifferente.
Cammino via.



Hazel si lascia cadere accanto a me sul divano. Mi guarda. Sospira.
«Oh, Nico… se solo non fossi stato così impulsivo!» Scuote piano la testa, poi mi poggia una mano sulla gamba. «Mi dispiace. Anche Will non si è comportato nel migliore dei modi, e sicuramente si scuserà, ma se ti conosce e pensa che tu sia ancora arrabbiato con lui, sa che, anche se ti telefonasse per primo, non gli risponderesti. Magari, se lo chiamassi e gli spiegassi, potresti sistemare le cose.»
Le rivolgo un’occhiata stanca. «Non voglio sistemare le cose.» Vorrei che non ci fosse nulla da mettere a posto. Vorrei che fosse già tutto a posto. «E poi, comunque, è troppo tardi. Studia Medicina, conosce i rimedi migliori per curare le delusioni amorose. Io gliene ho già suggeriti due, tra l’altro.»
«E tu?» mi pungola. «Che cosa farai per “curare” la tua delusione amorosa?»
«Io non ero innamorato di lui.»
Mia sorella esclama un “ah!” di derisione. O di incredulità, non saprei dire. «Non mentire a te stesso, Nico. È il più nocivo dei comportamenti» replica, agitando una mano in aria.
Incasso la testa tra le spalle e scivolo giù, sprofondando nei cuscini. «Non stavo mentendo» borbotto.
«Teoricamente, no» concorda, però non è ancora arrivata alla pratica. «Hai detto che non eri innamorato di Will. Eppure, ora lo sei.» Apro la bocca per ribattere, ma lei mi anticipa. «Non. Mentire. Riflettici su e scoprirai che ho ragione.»
Detesto quando fa così. Di solito, è perché ciò che dice è la verità. «Ti odio» brontolo, guardandola di sbieco.
Hazel si lascia sfuggire una risatina frivola. Poi si ricompone e ritorna al suo ruolo di psicologa. «Nico, non dovresti dare così poco valore ai tuoi sentimenti. Senza di essi, la nostra vita sarebbe vuota e sterile. Non permettere a una prima difficoltà di distruggere tutto ciò che c’è di buono.»
«Sarebbe meglio se non li avessi, questi sentimenti.» Sputo le parole come se mi irritassero la lingua e dovessi farle uscire al più presto. «O almeno, se non li avessi per lui. Fin dall’inizio, sapevo che non avrebbe funzionato.»
«Non dire così. Non—»
«Hazel» la interrompo. «L’aveva messo in chiaro. Sarebbe rimasto a Roma per due settimane, dopodiché sarebbe tornato negli Stati Uniti. Una relazione di questo tipo non ha senso. Non avrei mai dovuto accettare la sua stupida proposta. Ho cercato di rimanere indifferente, ma ho fallito, ed ora sono qui, su questo divano, ad autocommiserarmi, desiderando che tutto fosse andato diversamente.»
«Non ti è servito a nulla, allora?» La voce di mia sorella si alza e trema. I suoi occhi sono fermi nei miei, ma, per una volta, non li definirei caldi. Sono freddi e duri, è impossibile scorgervi alcuna gentilezza. «Non ti è rimasto niente di quello che ha cercato di insegnarti Will?»
«Io…» Io non so cosa dire. Non so cosa pensare. «Sì. Certo che mi è rimasto qualcosa.»
«E perché non ti sforzi di applicarlo alla tua situazione attuale?» mi accusa. Ma più che accusarmi, mi sta spronando. Spronando a muovermi, a reagire, a insorgere. «Perché non provi a guardare con altri occhi, o da un altro punto di vista? È solo una questione di prospettiva.»
Abbasso lo sguardo. Mi torturo le mani, prima di rispondere. «Perché sarebbe difficile, tremendamente difficile. Meglio che parta pensando che sia finita, piuttosto che il contrario. Io resterei a Roma in ogni caso e lui se ne andrebbe e soffriremmo entrambi molto di più. La delusione richiede meno energia della speranza.»
Hazel sospira pesantemente. «Lo capisco» dice. «Ma non lo trovo giusto. Quando incontri un ostacolo, Nico, tu fai marcia indietro. Non cerchi mai di saltarlo, quell’ostacolo. Abbandoni semplicemente la sfida.»
La voce di Frank ci riscuote, facendoci voltare le teste di scatto. Dalla cucina, chiama: «Ehm… tesoro? Ho un problema coi pomodori. Potresti venire un attimo a vedere?»
«Arrivo» risponde lei nella sua direzione. Si alza in piedi, mezzo dirigendosi verso la cucina. Diretta a me, dice: «La felicità va conquistata. Io vorrei che tu ti alzassi da questo divano e lottassi per averla. Perché Will te la può dare, te lo assicuro. E tu hai tutto il diritto di essere felice.» Si passa una mano tra i capelli, riportandoseli indietro. «Io devo aiutare Frank con la cena. Intanto, tu pensa a quello che ti ho detto, okay? Per favore.»
Alzo un pollice. «Affermativo. Va’ pure.»
 

 
È mezzanotte passata. Forse l’una. Non lo so con precisione. Arriva un certo momento, nel corso della notte, in cui distinguere le ore non è più possibile.
La tv a volume inferiore al dieci è un brusio che non sento quasi più, tanto ci sono abituato. La luce mi irrita gli occhi stanchi, ma non ho abbastanza forza di volontà per prendere il telecomando e spegnerla.
Quindi, mi ritrovo a seguire svogliatamente una commedia d’amore con George Clooney. George e la coprotagonista sono ancora alla parte iniziale in cui tutto va bene e la vita sembra magica e piena di sorprese. Illusi.
Dovete prima litigare, distruggere il vostro rapporto e piangere tutte le vostre lacrime. Poi, visto che siete i personaggi di un film—una commedia amorosa, per di più—, vi riappacificherete e tornerete insieme. Vi sposerete, avrete dei bambini e sarete per sempre felici e contenti. Fine.
Magari la realtà funzionasse allo stesso modo.
George si gira, rivolgendo lo sguardo direttamente allo spettatore. L’obiettivo si stringe sul suo sguardo, che pare vedermi dentro e leggere tutta la storia della mia infima vita, come un giudice infernale. Sembra rimproverarmi, ricordandomi tutte le parole che sono uscite dalla mia bocca riguardo Will Solace.
Lo fisso di rimando. Nella mia mente, ha luogo un ipotetico dialogo tra noi due. Io e George. Il fatto che suoni proprio come il titolo di uno sciocco film di serie B è ironico.
 
GEORGE: Hai detto di non essere innamorato di lui, figliolo. Se le cose stanno così, non dovresti crucciarti.
NICO: Hai ragione.
GEORGE: Allora, perché? Perché ti tormenti?
NICO: …
GEORGE: Sono qui per aiutarti, figliolo. Credimi. Confidati con me. Troveremo una soluzione insieme.
NICO: Grazie, George, te ne sono molto grato. In verità, devo dirti che penso di essere fottuto. E con “fottuto” intendo “innamorato”. Anche se, nel mio caso, le due parole sono sinonimi.
GEORGE: Ma è meraviglioso, figliolo. Innamorarsi è una sensazione che ci smuove qualcosa dentro.
NICO: Come il vomito.
GEORGE: Non essere così pessimista, ragazzo mio, avanti. Sei troppo giovane per essere tanto cinico. Guarda la situazione come lo farebbe Will. Scova il bianco nel nero. Sei in grado di farlo e sono certo che ti aiuterà.
NICO: Non so quanto tenere in considerazione i consigli di una proiezione della mia mente che si rivolge a me chiamandomi “figliolo”.
GEORGE: Ehi, sei tu che mi immagini parlare in questo modo. La colpa è tua.
NICO: Vero.
GEORGE: In ogni caso, figliolo, ascoltami. Sai cosa ti direbbe il tuo dottore? Ti direbbe che come una frase può distruggere, una frase può ricostruire, e che è dalle macerie che sorgono i palazzi più alti. O che persino in un edificio pericolante, corroso dal tempo e intaccato da troppi anni di scarsa manutenzione, c’è bellezza. Guardati attorno, figliolo. Questa città ne è l’esempio perfetto. Non c’è nessun monumento migliore di Roma stessa per farti capire che la bellezza è tale perché imperfetta.
NICO: …
NICO: Sta’ zitto, George.
 

Devo averlo detto ad alta voce, perché avverto i passi strascicati di Frank avvicinarsi. Mi si para davanti in canottiera e pantaloncini abbinati con su ricamati dei gatti della fortuna cinesi. Sono troppo esausto per ghignare o fare una battuta irriverente.
«Stavi parlando qualcuno?» mi domanda, stropicciandosi gli occhi.
«No, nessuno» rispondo con voce rauca. «Tu, piuttosto, ancora sveglio?»
Frank si passa una mano sui capelli a spazzola. «Sono insonne» sospira. «Il caldo mi uccide. Pagherei oro per poter dormire su una lastra di ghiaccio.»
Mi rigiro sul divano. «Mi dispiace. Purtroppo, l’aria condizionata è un lusso che non abbiamo.»
«Non ti preoccupare. Per la fine della vacanza, mi sarò abituato al clima.» Deglutisce. «Spero.»
Un debole sorriso si stiracchia sulle mie labbra.
«Comunque» riprende il ragazzone, «io torno a letto, pregando che riesca a prendere sonno.»
«Ce la farai, amico, non ti abbattere» replico. «Va’ pure. Io non ho la forza di alzarmi da qui.»
Frank mi rivolge un piccolo sorriso. Sta per tornare nella camera matrimoniale, quando si blocca e si volta di nuovo nella mia direzione. Il suo tono di voce è completamente cambiato.
«Per quel che vale, Nico, penso che Hazel abbia ragione a dirti di conquistarti la tua felicità. Will ti ha già cambiato molto, in meglio. Voi due, insieme, sareste grandiosi. Mi sovviene una parola che ho letto da qualche parte, in giro per la città, che trovo adatta a definirvi. Excelsior. Ecco, io credo che tu e Will sareste questo: più in alto
Si gratta il collo, in imbarazzo, e conclude augurandomi la buonanotte. Come se fossi in grado di chiudere occhio.
 

 
Non ho idea di quello che mi stia succedendo. Concentrarmi mi riesce impossibile, prestare attenzione a quello che mi accade intorno è uno sforzo inutile. Questa mattina, ho rischiato di rovesciare il caffè per due volte e stavo per aggiungerci dei cereali, pensando si trattasse di latte. Quando Hazel mi ha chiesto cosa avevo voglia di fare oggi, le ho risposto “sì, sta finendo il caffè solubile”. È come se, ad ogni respiro, inalassi hashish al posto dell’ossigeno.
Probabilmente appaio piuttosto fuori di me, perché Frank ed Hazel concordano nel non fare nulla di stressante, oggi. Con calma, ci prepariamo per andare al mare e trascorrere una tranquilla giornata destinata unicamente al riposo della mente.
Peccato che mi sia semplicemente impossibile.
Non faccio che ripensare a tutte le stupide, piccole cose che mi sono permesso di fare con Will. A come, da ubriaco, ho lasciato la mia mente libera di fantasticare e credere che lo stessi baciando come avrei voluto baciare il custode della mia felicità. A come mi sono lasciato convincere così facilmente che la vita fosse migliore di come l’ho sempre vista. A come mi sono concesso di innamorarmi lentamente di lui.
Sono stato stupido e ingenuo a pensare che, almeno una volta nel corso della mia intera esistenza, qualcosa potesse andare bene.
A pranzo, sotto l’ombrellone, sbocconcello svogliatamente un tramezzino al tonno senza fare danni. Intercetto lo sguardo preoccupato di Hazel e, più tardi, mi sforzo di inghiottirne un altro. Mastico lentamente, ma non sento nessun sapore.
Rivedo davanti ai miei occhi il momento in cui gli ho sbattuto in faccia il mio tentato suicidio. Noto i minuscoli dettagli nella sua espressione che la rabbia mi ha impedito di vedere. È come assistere in diretta allo schianto di una bomba. Il mio intento era quello di ferirlo il più possibile e mi accorgo di averlo seguito scrupolosamente, radendo al suolo tutto quello che potevo.
Lo immagino preparare la valigia, le spalle curve e la testa china. Ripiega una maglietta, e pensa: ha cercato di morire in una vasca da bagno e io l’ho fatto cadere in acqua. Ripiega una maglietta, e pensa: è come se avessi deciso che la sua vita non valesse ancora abbastanza. Ripiega una maglietta, e pensa: ho rovinato tutto ed è giusto che mi odi.
Ma il fatto è che io non ti odio, Will Solace. Io odio me stesso, avrei detto un tempo. E non è neppure questo, perché sono venuto a patti con la mia natura e ciò essa comporta.
Non ti odio, Will Solace, perché mi hai mostrato come sia impossibile odiare qualcosa, ma soprattutto qualcuno, quando riesci a vedere che il nero delle persone non è solo nero, che lì dove sono più scure ci sono i colori che hanno assorbito più luce. E sono belle, lì. E sono belle, lì, soprattutto lì.
Mi hai fatto capire che, a volte, le cose che teniamo nascoste, quelle che tentiamo di non far vedere a nessuno, quelle che non mettiamo alla luce del sole perché non la riflettono, sono le più speciali. Sono fiori che si aprono solo di notte, quando tutto è buio.
Finalmente l’ho capito, Will.
Ho capito anche che il segreto della felicità è la libertà, e che il segreto della libertà è il coraggio. E diamine, io voglio essere libero di essere innamorato di te e voglio avere il coraggio di amare tutte le parti di te e voglio essere felice con te.
Per cui scatto in piedi all’improvviso, facendo sobbalzare mia sorella e Frank, e annuncio: «Io vado all’hotel.»
Pian piano, l’approvazione sostituisce lo sgomento sul viso di Hazel. Mi rivolge un sorriso soddisfatto, si alza e dà un colpetto col piede al suo fidanzato, ancora sdraiato sull’asciugamano. «Forza, sistema tutta questa roba. Io chiamo un taxi.»
Frank fissa la sua ragazza, poi me, infine di nuovo Hazel. Lentamente, capisce ciò che sta succedendo e fa come gli è stato detto, senza né a né ba.
Lo aiuto a sbattere via la sabbia dai teli mare, ripiegarli e rimetterli in un’enorme shopper. Chiudiamo l’ombrellone e lo infiliamo nella sua apposita custodia. L’operazione richiede circa cinque minuti. Ne dobbiamo aspettare altri venti, prima che un taxi si faccia strada nel traffico e arrivi.
L’autista di un’età indefinita tra i trenta e i cinquant’anni si offre di aiutarci a caricare la roba nel bagagliaio e, quando sente mia sorella parlare inglese, fa una smorfia, malcelata dietro la barba nera. Sentirmi dargli l’indirizzo in italiano lo risolleva un po’, gli sfugge un sorriso piccolo e imbarazzato che esprime tutto il suo sollievo.
«Ti dispiace se accendo la radio?» mi chiede con una voce rovinata dal fumo.
Seduto accanto a lui sul sedile del passeggero, scuoto la testa. «No, faccia pure.»
Il tassista non se lo fa ripetere due volte e, pochi istanti dopo, musica reggae riempie l’automobile. Nello specchietto retrovisore, colgo Hazel muovere piano la testa, seguendo il ritmo. Frank la osserva cercando di non sorridere e, quando si accorge che li sto guardando, mi rivolge un sorriso complice.
Man mano che ci avviciniamo all’hotel di Will, l’ansia si fa strada nel mio corpo. Non so se si trovi ancora lì o se è già partito, né a che ora è il volo né se riuscirò a fermarlo. Devo parlargli di persona e chiedergli di restare, qui, con me.
Tamburello sulla coscia con le dita, faccio schioccare la lingua contro il palato e mi torturo l’orlo della maglietta. Quando non riesco più a tollerare l’attesa e l’ansia è diventata un mostro che mi rode dall’interno, sento la mano di Hazel posarsi sulla mia spalla.
«Ci siamo quasi» mormora. «Vedrai che faremo in tempo.»
«Lo spero» sussurro in risposta.
Una parte della mia testa continua a gridarmi che tutti i miei sforzi saranno inutili. Tengo occupata la mia mente contando quante macchine gialle vedo prima del semaforo e quante di esse siano delle Panda—praticamente tre quarti. Sto iniziando una nuova serie, quando il taxi rallenta fino a fermarsi.
«Eccoci qui» annuncia l’autista. «Sono…»
«Aspetti» lo blocco. «Potremmo dover fare un’altra corsa.»
L’uomo scrolla le spalle, mentre io spalanco la portiera ed esco in strada. Copro la distanza tra me e l’entrata a grandi falcate e non ho neanche la pazienza di aspettare Hazel, che mi tiene dietro.
Raggiungo la reception e sbatto le mani sul bancone, attirando immediatamente l’attenzione della donna seduta dietro di esso. Con la divisa e i capelli biondi raccolti in uno chignon stretto, non saprei dire se si tratti della stessa della sera scorsa.
Prima che possa chiedermi se desidero prenotare una camera, mi rivolgo a lei il meno bruscamente possibile: «Sto cercando un vostro cliente. Potrebbe gentilmente dirmi se si trova ancora nella sua stanza?»
La receptionist inclina la testa di lato. «Mi dispiace, signore, ma non possiamo divulgare certe informazioni.»
Combatto contro il desiderio di afferrare qualcosa e abbatterlo sul suo cranio. «Lei…»
«Ci dispiace arrecarle disturbo.» La voce di Hazel si impone sopra la mia. Usa il suo tono professionale, quello chiaro ed educato che, però, non ammette discussioni. «Ma deve capire che il vostro cliente, ovvero il nostro amico, ha un aereo da prendere. Siamo qui per accompagnarlo all’aeroporto e siamo già in terribile ritardo. Non potrebbe fare un’eccezione?»
La donna la squadra dall’alto in basso. Forse è il fatto che abbia corso per starmi dietro e che, quindi, appaia sul serio trafelata a convincerla. Raddrizza la tastiera del pc fisso, spostandola di qualche millimetro, e domanda: «Conoscete il piano e numero della camera?»
«Quarto piano. La camera numero 7» rispondo. «Il cliente è Will Solace.»
La receptionist alza un indice smaltato di rosso, chiedendoci silenziosamente di aspettare. Digita velocemente qualcosa, muove il mouse sullo schermo e annuisce, prima di rivolgersi di nuovo a noi.
«Il vostro amico ha già lasciato l’hotel. Ha riconsegnato la chiave elettronica alle quattro e quarantacinque circa.»
Cazzo. È più di un’ora e mezza fa.
Le mani mi scivolano giù dal bancone. L’ho perso. L’ho perso.
«Oh, menomale. Arriverà in tempo, allora.» Hazel sospira pesantemente, portando avanti la recita. «Per caso, sa se ha preso un taxi o…?»
La donna socchiude gli occhi, ma le risponde. «Noi offriamo un servizio gratuito di trasporto. Le navette partono ad orari precisi verso Fiumicino, non c’è la necessità di raggiungere l’aeroporto in taxi.»
Le mie speranze si risollevano di mezzo centimetro. Almeno, so dove posso raggiungerlo.
Sempre che parta da lì, insinua la mia ansia. E poi, non sai con che compagnia vola. Né quando l’aereo decollerà e se arriverai mai per tempo. È altamente probabile che tu non lo raggiunga mai.
Mia sorella è rapida nel congedarsi. «Grazie mille. Molto gentile.» Mi afferra per il gomito e mi trascina via, sibilandomi: «Muoviti, Nico. Non so cosa stia accadendo nella tua testa, ma puoi farcela ad arrivare prima che parta. Solo, sii veloce
Usciamo di corsa dall’hotel. La vedo agire, decisa e concentrata, e ammiro la sua forza e il suo controllo. Se fossi sempre come lei, potrei raggiungere tutti gli obiettivi che mi sono prefissato.
Aumento il passo. Ce n’è uno che non posso permettermi di mancare. Quindi, ricaccio indietro ogni pensiero che mi ostacola e inizio a ragionare.
Will deve andare in America e Fiumicino è l’aeroporto più grande di Roma, anche noi siamo atterrati lì. È più che probabile che per Will valga lo stesso. Lui ha i bagagli e per imbarcarli serve tempo, per questo è andato lì così presto. Ma i gate aprono solamente quando l’aereo è pronto ad accogliere i passeggeri, ovvero non molto prima che decolli. La chiave è riuscire ad arrivare fin lì e convincerlo a non partire. Tutto sommato, non è un’impresa impossibile.
Rimontiamo in macchina. Il tassista mi cerca con lo sguardo, in attesa di ulteriori istruzioni.
«Ci porti all’aeroporto di Fiumicino» dico. «Faccia il più in fretta possibile.»
«Okay.» L’uomo mette in moto. La musica reggae esce fuori dalle casse e sembra spronarlo a guidare più veloce. «Nessun problema.»
Non ho idea del tempo che impieghiamo. Riesco solo a pensare a cosa farò non appena arriverò sul posto. Pianifico le mie azioni, stilano una scrupolosa lista nella mia testa, che seguirò non appena metterò piede in aeroporto. Per una volta, l’ansia non riesce a mettere radici in nessun modo.
Eppure, sono così teso che mi fa male la pancia e non azzardo un movimento, per paura di scattare come una molla. Persino le mie dita sono un fascio di muscoli pronto a reagire ad un minimo segnale; sotto la pelle, intravedo i tendini in tensione.
Poi, il tassista dice: «Due minuti e siamo davanti all’ingresso principale.»
«Okay. Si fermi lì e ci aspetti» lo istruisco, leggendo il punto uno della lista nella mia testa. «Ritorneremo con un nostro amico.»
L’uomo si limita a girare la faccia verso di me, guardarmi con i suoi occhi neri e informarmi, la voce arrochita: «È una corsa bella lunga, questa. Ti costerà un po’, ragazzo.»
Inserisco brevemente una postilla al punto uno, che comprende la seguente risposta.
«Me ne rendo conto, ma è necessario. Lei evidentemente non può sapere perché sto facendo tutto questo, e forse non le interessa nemmeno, però le assicurò che salderò il conto, non importa quanto alto esso sia, perché per questo ne varrà la pena.»
Il tassista ritorna a guardare la strada. Si inserisce in un posteggio riservato, in coda dietro altri due taxi bianchi, e spegne il motore. Sto attuando il punto due della lista—uscire dall’auto il più velocemente possibile per non sprecare neanche un secondo di tempo—quando lo sento pronunciare quattro semplici parole.
«Lo fai per amore.»
Fermarmi per confermare la sua intuizione è fuori discussione, ma, prima di sbattere la portiera, gli rivolgo un sorriso che spero interpreti come un sì. Dopodiché, sono già all’interno dell’aeroporto e corro. Schivo le persone che mi si parano davanti, rischio di travolgere diversi borsoni, non so che direzione devo prendere, ma continuo a correre.
È Frank a scorgerlo per primo. Il pannello digitale che riporta tutti gli arrivi e le partenze è enorme, piazzato su una parete in una zona dedicata ai passeggeri in attesa del proprio volo. Svariate destinazioni si susseguono una dopo l’altra—Bangkok, Milano, Parigi, Livorno, Beirut, Dublino, Amsterdam—ma New York, New York dov’è? Mi manca il fiato e le ginocchia mi tremano, quando, alla fine, la scorgo.
19.07 New York JFK Airport, GATE 4E: APERTO.
Lancio un’occhiata all’orologio. Le 19.00. Ho sette minuti per trovare quel gate e Will. Mentre una parte del mio cervello pensa merda merda merda, l’altra è attiva e mi conduce fino a un inserviente, cui chiedo trafelato: «Sa dirmi dove si trova il gate 4E?»
L’inserviente ci riflette su un attimo, poi indica alle mie spalle. «Tutti i gate dall’1 al 13 dovrebbero essere da quella parte. Provi a vedere, non ne sono sicuro.»
«Grazie mille.»
Svelto, ritorno da Hazel e Frank e li prendo per le braccia, portandoli nella direzione indicatami dal tipo. Il punto tre della lista—correre—deve essere messo in atto. Mia sorella fa due passi per uno dei miei, ma resiste straordinariamente bene.
«Hai sentito?» domanda. Quando scuoto la testa, mi spiega: «Credo abbiano fatto l’ultima chiamata per il volo. Non ne sono sicura, l’inglese era pessimo e c’era troppo rumore, ma…»
«Ci arriveremo» la interrompo. «Dobbiamo arrivarci.»
La strada verso il gate 4E è così lunga da sembrare infinita e, ad ogni passo, sento il tempo scivolare via veloce e inesorabile. Solo quando raggiungo l’area dei metaldetector, mi rendo conto di quanto impossibile sia la mia impresa.
Nessun passeggero è ancora qui, non c’è nessuna coda da superare, ma non è questo il problema. Perché, a differenza dei viaggiatori, i poliziotti ci sono ancora. Chiacchierano, non sono attenti come quando svolgono il loro lavoro, però sono qui e io non riuscirò mai a convincerli a lasciarmi passare in tempo.
Controllo l’orologio. Le 19.04. Mi mancano tre minuti.
È finita.
Eppure, qualcosa dentro di me si ribella. Non voglio arrendermi. Se mollassi proprio ora, non me lo perdonerei mai. A volte non è il successo a contare, ma il superamento dei propri limiti. Per cui, anche se so che non c’è nulla da fare e che è tutto già deciso, raggiungo di corsa la prima postazione di metaldetector, la oltrepasso, attirando l’attenzione della poliziotta lì vicino, e, quando mi si avvicina con aria minacciosa, rispondo al suo “che cosa sta facendo?” con una supplica.
«Lasciatemi passare vi prego lasciatemi non è suonato nulla non ho niente addosso vi prego ne va della mia vita vi supplico devo passare devo è per amore.»
Lo ripeto una centinaia di volte—lasciatemi passare vi prego lasciatemi non è suonato nulla non ho niente addosso vi prego ne va della mia vita vi supplico devo passare devo è per amore—, li guardo con gli occhi di un disperato e li prego con lo stesso fervore di un credente.
«Vi supplico devo passare devo è per amore.»
È per amore. Ma a chi non è innamorato, dell’amore non importa nulla.
Alla fine, un poliziotto sui venti mi afferra per la maglietta e mi intima: «Se non la smette, dovrò ammanettarla e sbatterla dentro.»
Lo fisso negli occhi finché, ormai, le 19.07 sono passate e l’areo di Will è partito.
Sostengo il suo sguardo un ultimo momento, dopodiché alzo le mani e dico: «Va bene, va bene, me ne vado.»
Tanto per esserne sicuri, comunque, mi accompagnano all’uscita. Hazel e Frank, che si sono tenuti in disparte per evitare conflitti internazionali, ritornano al mio fianco. Uno alla mia destra e una alla mia sinistra, sembrano i miei due angeli custodi. Silenziosi, rimontiamo in macchina.
Il tassista mi scocca un’occhiata, poi controlla i sedili posteriori e domanda: «L’amico dov’è?»
Devo schiarirmi la gola prima di riuscire a parlare. «Andato» rispondo. «Non ha funzionato.»
L’uomo si passa una mano sulla bocca. Articola una bestemmia, ma questa non lascia le sue labbra. Alla fine, sospira e chiede: «Dove ti porto, ragazzo?»
Mi abbandono contro il sedile e gli do l’indirizzo di casa. Il quieto ronzio del motore mi avverte che la macchina si sta muovendo.
La mano di mia sorella stringe la mia per tutto il tragitto. Non dice nulla e le sono grato per questo. Non ho bisogno di parole, adesso, ma solo del suo muto affetto fraterno. Quando sarò pronto, forse, verranno anche le riflessioni e tutto il resto.
Osservo distrattamente il cielo colorarsi del rosso e dell’arancione della sera, mentre percorriamo i grandi viali di Roma. Una sezione di epidermide in mezzo al torace, spostata di qualche centimetro verso sinistra, manda segnali che il mio cervello non riesce a tradurre. Non c’è né malinconia, né tristezza, né dolore, né pace, ma una sorta di connubio di tutte queste emozioni. Il mio corpo è pervaso da un torpore invincibile.
A un certo punto, mi scopro fuori dal taxi e non so come io sia riuscito a scendere né riesco a ricordarmi di aver saldato il conto. Hazel si stringe a me, con un braccio di Frank attorno alle spalle. Percorriamo i pochi metri che ci separano dal portone di casa.
Poi: «Nico!»
Alzo la testa e, poco più avanti, su una strada mal asfaltata sporca di gomme da masticare sputate e sigarette gettate con noncuranza, lo vedo. I capelli biondi illuminati dagli ultimi raggi del sole, gli occhi azzurri in cui scorgo un amore che, per la prima volta, posso dire di ricambiare, e le labbra che brucio dalla voglia di baciare.
Scivolo via da mia sorella e mi avvicino. Will si trascina dietro la valigia, poi, non sopportando di essere così impacciato, la abbandona con un gesto brusco e copre la distanza che ci separa in pochi passi di corsa.
Il suo respiro è ancora irregolare, quando allunga la mano, fa per toccarmi il braccio, si ricorda delle mie ultime parole e si ritrae di scatto. Si passa nervoso la destra tra i capelli e sbuffa. Cerca di parlarmi senza guardarmi negli occhi, ma non ce la fa e, quando si volta a fronteggiarmi, il discorso che aveva preparato gli muore in bocca. Il suo sguardo si addolcisce e tutta la sua spavalderia evapora. Se potessi esprimere un desiderio, vorrei poter vedere me stesso come lui vede me e sentirmi traboccare d’amore.
Faccio un passo in avanti. Will ne accenna uno indietro, poi ci ripensa e rimane fermo dov’è.
«Nico—io—il fatto è—non so—»
Mi chino in avanti e lo bacio. Le sue labbra si schiudono sotto le mie, le nostre lingue si toccano e io sono solamente in grado di pensare che potrei morire in questo esatto momento e che non mi dispiacerebbe. Will preme contro di me e approfondisce il bacio. I miei polmoni sono pieni di una gioia che non ho mai provato prima d’ora ma privi di ossigeno, e sono costretto a separarmi da lui.
Le nostre fronti si sfiorano e le mie labbra sono ancora un’estensione delle sue, quando sussurro: «Ero all’aeroporto.»
Will spalanca gli occhi. «Tu… all’aeroporto?» ripete, incredulo.
«Mh-mh» mormoro, prendendogli il labbro inferiore tra i denti.
Lui prova a sorridere, ma gli è impossibile, per cui si abbandona placidamente a un secondo bacio.
Dopo esserci separati, cerco di recuperare un briciolo di compostezza e gli chiedo: «Ho detto un sacco di cazzate e mi sono comportato di merda e sono tremendamente dispiaciuto. Potrei capire un tuo rifiuto, però… Ti andrebbe di rimanere?»
Ora, Will mi sorride apertamente. «Sei un rubacuori, Nico Di Angelo» risponde. «E sì, mi andrebbe di rimanere.»
Gli rivolgo un timido sorriso e gli prendo la mano. Così, ritorniamo da Hazel e Frank e, insieme, saliamo i primi gradini verso casa.
 
 
***
 
NdA: La fic è conclusa, ma, se già mi conoscete o avete letto qualcosa di mio, saprete che le mie note d’autrice non sono mai corte. Un giorno riuscirò ad essere concisa, lo giuro.
Quindi:
  • Il titolo della fic è preso da una frase tratta dalla canzone “Roman Holiday” di Halsey, mentre il nucleo della fic è frutto della scoperta degli U2 e di un ascolto ossessivo di “Song For Someone”.
  • Non se Nico sia rimasto IC. (Lo spero hahah) Se avessi scritto in terza persona, sicuramente lo sarebbe stato di più, ma 1) la storia esigeva la prima persona e 2) volevo sfidare me stessa e provare a scrivere uno dei personaggi più complessi di zio Rick in questo modo.
  • Will Solace è un capitolo a parte. Visto che in BOO è comparso un po’ tanto a caso e ha sgomitato per inserirsi nel quadro dei personaggi, sappiamo giusto il necessario su di lui, ovvero che è una testa calda, porta le infradito e ha una cotta pazzesca di origine sconosciuta per Nico. Ora, io sono partita da queste informazioni e l’ho mosso nella fic cercando di rimanere il più IC possibile ma, se non corrispondesse perfettamente all’idea di Will, mea culpa.
  • Ho voluto che il suo soprannome fosse “dottore” perché lo trovo stra carino e, be’, due parole: Doctor Who.
  • Ho detto che Will studia a Stanford, che si trova in California, ma dico che il suo areo arriva al JFK Airport di New York. Questo perché non esistono voli diretti Italia-West Coast e che, se ci si vuole arrivare, bisogna fare scalo a NY. Perché Stanford? Perché è l’unico cazzo di college che conosco a parte Harvard LOL
  • Sono stata a Fiumicino una volta sola, facendo uno scalo di manco mezz’ora. Per cui, non ho idea di come sia fatto o come ci si arrivi né quanto disti da Roma città, ma vige la regola che gli aeroporti sono tutti uguali (e io ne ho girati parecchi) così ho preso spunto da quello di Malpensa e fine.
  • No, non sono di Roma. Avrei potuto ambientare tranquillamente tutto dove abito io, se non fosse che a Milano, d’estate, non c’è un cazzo di nessuno e che, insomma, per una fic del genere mi serviva una città che fosse zeppa zeppa di storia e monumenti (e mare) etc. e Roma era perfetta. L’ho visitata anni fa, però non ricordo molto e, nelle descrizioni, mi sono orientata grazie a google immagini.
  • Ho sottolineato un po’ l’aspetto della lingua per deformazione professionale, però penso sia più che credibile che l’inglese arrechi un po’ di disagio in Italia, quando si deve parlarlo/comprenderlo.
  • Il tassista dà del tu a Nico, mentre Nico gli dà del Lei. Questo non è a caso e vorrei vedere se c’è qualcuno che capisce che l’ho fatto hihi
  • Sì, dovevo incentrare tutto sul rapporto di Nico e Will, sì, ho bocciato da subito l’idea di una fic introspettiva che partisse con per Nico, Will era la luce del mondo, ciò che lo teneva in vita e bla bla bla. Sparatemi. Io sono un’amante dei gesti e delle azioni, dei dialoghi ma anche del non detto, per cui palesare non era neanche un’opzione. Seconda cosa, non credo in una storia di amore eterno tra i due. Penso che Will possa insegnare a Nico come essere felice e come non vedere il bicchiere sempre mezzo vuoto, ed è quello che ha fatto qui, ma, già, la Solangelo non richiede un amore totalizzante come Pernico e Jasico.
  • Non potevo ovviamente dimenticarmi di Hazel. Lei è una figura fondamentale per Nico, dopotutto. La Frazel, dolcissima coppia di cui non scrive mai nessuno, fa da background per tutta la fic perché merita ogni briciolo d’ammmore.
  • Ammetto di aver letto del grounding su tumblr. Stavo facendo ricerche per una storia e uno dei classici post di aiuto/supporto psicologico per depressi&co è spuntato fuori. Ho cercato su google. Sono venute fuori diverse varianti del processo, ne ho scelta una adatta, fine. La morale è che esiste.
  • Ecco, diciamo pure che sono una merda di infermiera. NON HO IDEA DI COSA SI DEBBA FARE IN SITUAZIONI DI TAGLI E GOOGLE ERA TRAGICO E IO HO SPARATO TUTTO A CASO CHIEDO VENIA SE HO SCRITTO CASTRONATE
  • Non so se George Clooney abbia mai girato una commedia d’amore, ma era troppo affascinante l’idea di un dialogo tra lui e Nico so whatever
  • Ho scritto quest'ultima parte di corsa e, quando dico di corsa, intendo che, se avessi potuto scrivere mentre correvo, l'avrei fatto. Credo che quest'ultima parte risenta un po' della mancanza di tempo e penso anche che si veda, ma spero non troppo. Per correttezza, non farò delle aggiunte al testo, perché così l'ho spedito alla giudiciA, così verrà valutato sia da lei che, in un certo senso, da te, lettore. (se poi me lo dici con una recensione, ti vorrò un po' più bene. sono una fan di tutte le bandierine, quindi arancione, bianca, verde non importa.)
  • Nel primo capitolo, c'è un chiaro riferimento a una battuta tra Katniss e Finnick ne Il canto della rivolta. Dal momento che Finnick è il mio modello di Will e che, poverino, gli è capitato quel che gli capitato, persino i film son finiti etc. l'ho fatto rivivere nelle parole del biondino. «Che c’è, trovi che ti distragga?»
  • Se avessi potuto scrivere una fic a rating rosso, questa lo sarebbe stata. Ma, purtroppo, niente Solangelo sex perché il contest non prevedeva ff rosse.
Dulcis in fundo, ringrazio la mia socia, nonché compagna di banco, per avermi spronato a scrivere questa storia fino in fondo minacciandomi di morte (ma solo qualche volta). Da sola, sarei morta a causa di verifiche varie e non avrei combinato una sega.
Ringrazio anche voi, lovely readers, e aturiel per aver indetto questo un contest ed essersi sorbita una marea di parole. Sis felix.

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