Tenn'Ambar-metta

di Losiliel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Appeso ***
Capitolo 2: *** Delirio ***
Capitolo 3: *** Il risveglio ***
Capitolo 4: *** Findekáno ***
Capitolo 5: *** Makalaurë ***
Capitolo 6: *** L'abisso ***
Capitolo 7: *** Il duello ***
Capitolo 8: *** La decisione ***
Capitolo 9: *** I figli di Fëanáro ***
Capitolo 10: *** Tenn'Ambar-metta ***



Capitolo 1
*** Appeso ***


 

Capitolo Primo - Appeso


________
 

Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

________

 

 

Dolore.

Il dolore dilaniava il suo corpo.

Tutto si riduceva a questo.

Non sentiva più l'ululato del vento, né avvertiva le raffiche che sferzavano il suo corpo nudo. Non vedeva più il nero abisso spalancarsi sotto di sé, né il cielo cupo costantemente coperto da una coltre oscura. Non percepiva più il passare del tempo. L'istante e l'eternità avevano per lui lo stesso significato: dolore.

Si irradiava dal polso, stretto in un freddo anello d'acciaio, incatenato a una roccia a strapiombo sul nulla. Si propagava lungo il braccio, ed esplodeva atroce in ogni ferita che ricopriva il suo corpo straziato e scheletrico. Pulsava al ritmo lento del battito del suo cuore, che con assurda tenacia continuava a pompare sangue all'organismo agonizzante. Ad ogni debole respiro, l'aria che scendeva attraverso la gola riarsa gli trapassava il torace come una lama rovente.

Il dolore lo circondava, lo permeava, lo possedeva.

Altro non era.

Ma prima… (un momento prima? un'era prima?)… aveva avuto una volontà propria, e con essa aveva tentato di abbandonare il suo corpo. Aveva implorato di poter abbandonare il suo corpo. Aveva supplicato.

Non il Nemico, no… nemmeno i Valar, o Eru stesso.

Aveva invocato il padre.

Portami con te. Svanisca in cenere questa prigione di carne marcia.

Ma la sua preghiera era rimasta inascoltata. Quale terribile maledizione agiva per tenerlo ancora in vita, in balia del vento gelido, senz'acqua né cibo, stremato dalla tortura, appeso? Era il potere del Nemico che vincolava il suo spirito a un patetico involucro, così come vincolava il suo corpo alla roccia? Oppure era Námo stesso che si rifiutava di accogliere nella sua dimora uno spirito che aveva subìto l'onta della Condanna?

Domande inutili. L'unica certezza era che non poteva morire.

Ma forse… poteva ugualmente seppellire sé stesso.

Aveva ancora una mente, da qualche parte. Aveva ancora dei ricordi nei quali affondare, insensibile a tutto, in attesa della fine. Bastava trovare la forza di andarli a cercare.

Con gli ultimi brandelli di pensiero coerente aveva richiamato la sua infanzia dalla profondità delle memorie.

Padre, portami con te, aveva chiesto tanto tempo addietro, quando lui era ancora l'unico e non uno di sette. E il padre, già fuori dall'uscio, vestito con abiti da viaggio, si era voltato verso di lui che gli correva incontro e l'aveva accolto tra le sue braccia sollevandolo da terra. Certo, gli aveva detto, sorridendo.

Sempre. Gli aveva detto, serio.

Solo che non era il piazzale di fronte casa ciò che era emerso dal suo passato, vincendo il gorgo oscuro della sofferenza, ma il laboratorio. E non era tra le braccia del padre, lui, ma dietro una porta socchiusa che osservava non visto. Il padre era presso la fucina, con lo sguardo fiero posato su un altro figlio, il prediletto, quello a cui aveva dato il suo stesso nome.

Che errore fatale aprire la mente alla ricerca di conforto!

Il Nemico non aveva aspettato che quello: una breccia per penetrare nel suo passato, una chiave d'accesso alle sue memorie per disporne a piacere ed esasperare il tormento. Ora non si limitava più ad infierire sul suo corpo, ma aveva il potere di umiliare anche lo spirito, evocando ricordi che deformava e corrompeva secondo il suo volere.

Sottoposti a questa tortura ambivalente, molti avrebbero ceduto alla follia. Altri si sarebbero votati al completo asservimento.

Ma non lui: Nelyafinwë Fëanárion.

In lui, si era scatenato l'odio.

Odio per il Nero Nemico, causa di quella insostenibile sofferenza.

Odio per il padre, che li aveva condotti alla dannazione.

Odio per i fratelli, che lo avevano abbandonato al martirio.

E più di ogni altra cosa, odio per sé stesso. Per ciò che era diventato: inutile. Per ciò che si era dimostrato: incapace.

L'odio infuriava nel suo spirito.

Il dolore dilaniava il suo corpo.

Un canto perforò il silenzio tetro e arrivò a trafiggere le sue orecchie.

Eccolo infine il colpo decisivo di quel massacro su due fronti: il Nemico aveva raggiunto il suo cuore.

Lacrime amare sgorgarono dai suoi occhi aridi e gli scesero lungo il viso. Bruciavano sulla pelle secca e spaccata, ma ancor di più bruciavano l'anima, straziata dal ricordo di ciò che aveva perduto.

Di chi aveva perduto.

Basta. Era tempo di arrendersi. Travolto dal flusso di memorie, e schiacciato dalle sue colpe.

Veri o corrotti che fossero, si abbandonò ai ricordi.

Lasciò che quel canto lo riportasse a verdi terre sotto luci d'oro e d'argento, a tiepidi venti profumati tra i capelli, sfrenate corse a cavallo, boschi ombrosi tra le cui foglie si accendevano faville di smeraldo.

Lasciò che lo riportasse a una città splendente sopra una collina, giardini pensili, un palazzo bianco, un luminoso studio, pergamene vergate da grafie sottili, voci amate che chiamavano il suo nome.

Lasciò che lo riportasse in Aman.

 

 

*******

 

 

Un mattino radioso nel Reame Beato.

La luce di Laurelin all'inizio della fioritura sprigionava barbargli sul mare increspato, accendendolo di mille scintille. La costa era battuta da una leggera brezza salmastra. Grida di gabbiani permeavano l'aria, il loro volo disegnava traiettorie sinuose nel cielo limpido. Una stretta lingua di terra separava la riva dalla scogliera, sabbia bianca, bagnata e compatta, ideale per i due cavalli al galoppo.

Suo cugino Findekáno lo precedeva. Oro intrecciato nei capelli scuri, vestito del blu che prediligeva, stava spronando il suo purosangue a un ritmo sostenuto, come se volesse invitarlo alla sfida.

Era sempre così con Findekáno. Da quando aveva raggiunto la maturità, non perdeva occasione per confrontarsi con lui, che per anni era stato un esempio inarrivabile. Si lasciò sfuggire un sorriso. – E va bene – sussurrò, chinandosi sul collo del suo destriero, – mostriamo al ragazzo di cosa siamo capaci.

Lanciato al galoppo, col vento che gli sferzava il viso e gli scompigliava i lunghi capelli ramati, pervaso dalla tensione gioiosa della sfida, si trovò ancora una volta a pensare a quanto fosse importante per lui l'amicizia del cugino. Un legame nato molti anni addietro, che col passare del tempo era diventato sempre più saldo e profondo, a dispetto del fatto che, a prima vista, loro due non potevano sembrare più diversi.

Findekáno affrontava la vita aggredendola. Si buttava in ogni impresa con travolgente entusiasmo, senza mai un dubbio, un'esitazione… e molto spesso senza ascoltare i consigli di nessuno! Non si poteva dire che trascurasse i suoi doveri, ma appena poteva andava alla ricerca di situazioni estreme, sfide alle quali dedicarsi con una tenacia e una determinazione fuori dal comune, e con una buona dose di follia. Questo comportamento, che gli era valso il soprannome di Valoroso, era forse il suo modo di dare un senso all'esistenza interminabile che li caratterizzava: trovare ogni giorno una nuova occasione per mettersi alla prova.

Lui, al contrario, gravato fin dalla nascita da aspettative alle quali non voleva disattendere, destinato a diventare Re se mai un giorno suo nonno e suo padre avessero deciso in tal senso, era cresciuto dominando con rigore la propria volontà ed esercitando con costanza le proprie abilità in ogni campo di studio, sempre teso a dimostrare con le azioni di essere all'altezza di ciò che gli veniva richiesto. Il suo modo di dare un senso all'esistenza era la perenne ricerca di perfezione, di equilibrio, di armonia.

Cosa l'avesse spinto a cercare la compagnia di quel giovane cugino, che suo fratello Makalaurë non esitava a definire un pazzo incosciente, ancora faticava a spiegarselo.

Forse era solo il fatto che quando stava con lui poteva svestirsi del pesante ruolo di primogenito di Fëanáro, e di quello altrettanto faticoso del maggiore tra sette fratelli e concedersi una tregua dalle responsabilità.

Ma in momenti come questi, in cui sembravano esserci soltanto loro due in tutta Arda e la gioia dello stare insieme era tangibile come il calore irradiato da una fornace, la verità che si insinuava nella sua mente era più semplice e, in qualche modo, più pericolosa da ammettere: Nelyafinwë si sentiva realmente vivo solo quando era con Findekáno.

– Nelyo!

Il grido lo riportò alla realtà. Si accorse che, perso nei propri pensieri, era di nuovo rimasto indietro. Findekáno era già arrivato al limite della spiaggia dove la scogliera, piegandosi verso Est, si gettava direttamente nel mare.

Quando lo raggiunse, il cugino stava scendendo da cavallo.

– Non capisco perché tirarmi giù dal letto così presto – lo rimproverò Findekáno, – se non per cominciare la giornata con una bella gara. – Poi sembrò valutare le sue stesse parole e gli occhi gli si accesero di curiosità. – Già – disse, – perché tirarmi giù dal letto così presto…

Nelyafinwë lo interruppe, consapevole di non poter più rimandare le spiegazioni.

– Perché ieri Curvo ha portato a casa una gemma dal laboratorio di nostro padre…

– Ai – gemette Findekáno.

– … e i gemelli hanno voluto assicurarsi che la cosa non passasse inosservata: glie l'hanno rubata e l'hanno gettata nella pozza sotto la Roccia Spaccata.

– Eru santissimo… – bisbigliò il cugino, – sottrarre un gioiello a Fëanáro… non ha limiti la temerarietà di quei due!

Il suo sguardo inorridito contrastava col tono della voce, che grondava ammirazione.

Nelyafinwë li ignorò entrambi, il tempo stringeva. Prese una sacca dal dorso del suo cavallo e se la mise di traverso sulla schiena. Poi disse: – Se riuscissimo a recuperare la gemma e a riportarla al suo posto prima che mio padre se ne accorga, potremmo evitare un grave danno.

– Potremmo evitare un omicidio! – puntualizzò Findekáno, e dopo un attimo aggiunse – anzi, un pluriomicidio per essere precisi... In effetti non so se voglio entrarci, sembra essere una faccenda troppo pericolosa!

– Ma se tu ami il pericolo – gli ricordò distrattamente Nelyafinwë, mentre già rivolgeva la sua attenzione alla parete di roccia.

– Sarà per questo che frequento casa tua! – esclamò il cugino, ma subito chiuse la bocca, come accorgendosi di aver parlato a sproposito. Quella che fino a poco tempo prima sarebbe stata una battuta scherzosa, ora era troppo vicina alla verità per risultare divertente.

Nelyafinwë si voltò a guardarlo, cercando di mantenere un'espressione neutra sul viso. Ma erano lontani i tempi in cui riusciva a mascherare i propri sentimenti a colui che gli stava davanti.

Infatti il cugino sussurrò: – Va così male?

Nelyafinwë pensò all'umore instabile del padre, alle insinuazioni sempre più pesanti dirette contro il fratellastro, ai suoi discorsi ai limiti della blasfemia. Pensò alla fucina segreta che presto avrebbe cominciato a produrre armi. Pensò a sua madre, che aveva lasciato la loro dimora forse per non farvi più ritorno.

Ma disse soltanto: – Diciamo che sarebbe meglio ritrovare quella gemma.

Findekáno avanzò deciso e gli afferrò una spalla. Standogli così vicino dovette reclinare il capo all'indietro per incrociare il suo sguardo. I suoi occhi brillavano di determinazione. La sua stretta forte conferiva fiducia.

– Allora muoviamoci! – gli disse con impeto e, lasciatolo, affrontò per primo la parete.

 

-

 

La scalata non richiese molto tempo. Era un percorso impegnativo, ma lo conoscevano bene per averlo fatto diverse volte. Si arrampicarono agili, servendosi di appigli ormai noti, e raggiunsero la cima senza fatica.

Da lì, invece di dirigersi al promontorio che si protendeva sul mare, girarono verso l'interno della costa, fino a raggiungere un'ampia apertura nel terreno di forma vagamente circolare che qualcuno, dotato di scarsa fantasia, aveva chiamato la Roccia Spaccata. Si trattava di un foro sul soffitto di una profonda grotta, al cui interno il mare aveva formato un piccolo lago sotterraneo.

Vi si affacciarono spalla contro spalla. L'acqua, distante sotto di loro, riluceva debolmente di un cupo turchese. Nonostante Findekáno l'avesse proposto un numero incalcolabile di volte, non avevano mai osato tuffarsi da lassù, incerti sia sulla profondità dell'acqua, sia sull'esistenza di una via d'uscita da loro percorribile.

– Come è fatta questa gemma? – domandò il cugino, protendendosi pericolosamente sull'apertura.

Nelyafinwë allungò automaticamente un braccio davanti al petto dell'amico, e cercò di elaborare una risposta che non fosse un mero elenco delle caratteristiche di ogni artefatto del padre… unico, perfetto, stupefacente... Alla fine disse: – Verde.

– Verde? – esclamò Findekáno, ignorando del tutto il braccio che si frapponeva tra lui e il vuoto, e sporgendosi ulteriormente, – la cosa si fa interessante!

Nelyafinwë, suo malgrado, sorrise. L'abitudine del cugino di definire "interessante" ciò che chiunque altro avrebbe detto "impossibile" l'aveva sempre affascinato.

– Andiamo? – lo invitò impaziente Findekáno, che già cominciava a togliersi camicia e stivali. 

– Aspetta – disse Nelyafinwë, rovistando nella sua sacca, – ho portato una corda, cerca un appiglio al quale…

Parole vane: un rapido movimento percepito con la coda dell'occhio gli disse che il cugino si era tuffato.

Per tutti i Valar! Si fermava mai un attimo a pensare quel Noldo? Nelyafinwë abbandonò immediatamente l'idea della corda e, dando prova di una certa incoerenza, si sfilò maglia e stivali a sua volta e lo seguì.

L'acqua era gelida, ma grazie a Ulmo sufficientemente profonda da non provocare danni. Emerse a prendere fiato e ad assicurarsi che ci fosse una via d'uscita. Poco distante vide una breccia dalla quale entravano acqua e luce. Rassicurato, si immerse alla ricerca del cugino.

Lo vide quasi a livello del fondale, in un punto in cui la corrente aveva ammassato sassi, pietrisco e detriti a formare una struttura pericolante, che ricopriva per un lungo tratto la parete di dura roccia. Sulle prime non capì cosa stesse facendo, sembrava volesse infilare un braccio in una fessura parzialmente chiusa da un grosso masso. Quando intuì le intenzioni dell'amico e si precipitò verso di lui, era ormai troppo tardi. Findekáno aveva rimosso l'ostacolo, senza rendersi conto che in quell'accozzaglia di macerie ogni pezzo sosteneva gli altri. L'intera struttura franò.

Una nube di sabbia si alzò in seguito al crollo e la vista di Nelyafinwë ne fu offuscata. Si trovò a nuotare cieco verso il fondale, cercando a tentoni, col respiro che cominciava a mancargli.

Si costrinse a resistere finché alla fine vide il cugino. Sembrava privo di sensi, le braccia aperte, i capelli ormai parzialmente sciolti che formavano una nuvola nera attorno al suo viso pallido. Una ferita sul sopracciglio stillava piccole gocce di sangue. Un piede era impigliato sotto un cumulo di macerie.

Raggiungerlo fu un attimo, ma liberargli la gamba richiese un tempo che gli parve infinito. Appena riuscì a sottrarlo alla presa che lo intrappolava, lo strinse tra le braccia e cominciò a nuotare verso la superficie, verso la debole luce. Ma l'ascesa era lenta, troppo lenta, sembrava non dovesse terminare mai. Quando cominciò a credere che sarebbe durata per sempre, ecco che sbucarono nell'aria. 

– Respira, Findo, respira!  – ansimò al cugino, che non poteva sentirlo. Lui stesso era a corto di fiato.

Facendogli appoggiare la schiena sul proprio petto per tenergli il viso fuori dall'acqua, nuotò verso la breccia intravista poco prima. Ebbe fortuna: una breve insenatura conduceva a un piccolo golfo. Qui la scogliera terminava con alcune pietre a livello del mare.

Riuscì a trascinare entrambi fuori dall'acqua e, tenendo ancora il cugino stretto sopra di sé, gli fece scorrere una mano sul petto fino all'altezza del cuore. Batteva ancora, grazie a Eru! Il torace che si espandeva debolmente tra le sue braccia gli diceva che respirava, anche. Solo allora gli sembrò di riprendere a respirare a sua volta.

Quel pazzo incosciente! Lo aveva spaventato a morte.

D'istinto lo strinse più forte, come avesse paura che lasciandolo andare gli sarebbe potuto sfuggire per sempre e, senza pensarci, piegò il capo in avanti affondandogli il viso nell'incavo tra il collo e la spalla. La pelle del cugino era fresca e levigata, permeata dall'odore del mare e da quello rassicurante di Findekáno stesso, che gli era familiare quanto il proprio.

Eppure, questa volta, respirare quel profumo scatenò lui una sensazione completamente nuova. Travolgente. Improvvisa. La solida consapevolezza del corpo di Findekáno disteso sopra il proprio.

Una sensazione totalizzante. Nient'altro sembrava più importare. Non il pericolo corso, non la gemma perduta, non l'ira del padre. Nulla importava se non quel torace snello stretto tra le sue braccia, quella schiena scolpita che aderiva al suo petto, quella pelle bagnata che premeva contro le sue labbra. 

In preda alla confusione cercò di spronare il suo corpo a reagire e si accorse, con orrore, che il suo corpo aveva già cominciato a reagire per conto proprio, fuori da ogni controllo. Sentì il battito del cuore che accelerava e il respiro che si faceva più affannato. Sentì le proprie labbra schiudersi leggermente, come dotate di una loro volontà, e il sapore del sale sulla lingua, e l'accenno di una calda tensione all'inguine…

Fu il terrore. Il desiderio di fuggire invase la sua mente, eguagliato soltanto da quello di restare.

Rimase come paralizzato per un momento che parve interminabile, poi finalmente riuscì a reagire. Si sfilò da sotto il cugino e mise un minimo di distanza tra i loro corpi.

In quell'attimo, forse a causa del brusco movimento, Findekáno aprì gli occhi. Cristalli di cielo al crepuscolo che custodivano un'anima indomita.

E davanti a quello sguardo Nelyafinwë comprese, chiaro come il riverbero di Laurelin sul mare del mattino, che l'attrazione fisica che stava sperimentando per la prima volta, per quanto forte e travolgente, non era che un aspetto di un bisogno più profondo, di un desiderio inconfessato che da sempre albergava nel suo cuore, e che solo ora quegli occhi avevano portato alla luce.

Il desiderio di una promessa immortale, che vincolasse le loro vite l'una all'altra per l'eternità.

Findekáno sbatté le palpebre e sembrò mettere a fuoco il volto sopra di lui. Un sorriso incerto si disegnò sulle sue labbra rese scure dal freddo. Su quello di sotto, notò Nelyafinwë, spiccava un piccolo taglio verticale. Fu assalito dallo stupidissimo impulso di baciarlo. Cercò disperatamente qualcosa da dire, per tenere impegnata la bocca.

Ma il cugino lo precedette: – Nelyo – sussurrò.

Allora lui rispose, all'istante: – Chiamami Maitimo.

Ma poi non ebbe il coraggio di continuare. Chiamami Maitimo, avrebbe voluto dirgli, col nome che mi ha dato mia madre, la cosa più intima che io possegga, perché hai raggiunto il mio cuore e nulla ti è più negato. Chiamami Maitimo, il ben fatto, perché la perfezione del mio corpo a nulla vale se non è dedicata a te, come la mia vita.

Findekáno capì? Con gran sollievo misto a una fitta di dolore, Nelyafinwë si rispose di no. Il cugino sembrava perso in altri pensieri.

– Eru in Eä! – esclamò. – C'è mancato poco. Questa è la volta che tuo fratello mi compone quell'Ode alla Stupidità di cui mi parla sempre!

Avvicinò la mano a quella di Nelyafinwë, ancora appoggiata sul suo petto, e la aprì rivelando la gemma. Era grande quasi quanto il suo palmo e aveva la forma di un'enorme goccia. E ad una goccia di rugiada poggiata su un tenero germoglio, che alla mescolanza delle luci accende il verde di scintille d'oro e d'argento, somigliava il suo brillare nella mano del cugino.

Ancora una volta Findekáno aveva vinto la sua sfida! Nelyafinwë non riuscì a trattenere una risata. Tutta la tensione che lo attanagliava si sciolse in un istante. Davanti a lui aveva di nuovo il suo amico più caro, inseparabile compagno di tante avventure, il folle impulsivo che riusciva sempre ad ottenere ciò che si proponeva.

– Considerato il guaio dal quale ci hai tolto – gli disse, – anche Makalaurë sarà costretto ad ammettere che hai fatto onore al tuo soprannome.

– Il Valoroso? – ribatté il cugino, – scherzi? Tuo fratello mi chiama "pazzo incosciente".

– Chissà perché – commentò Nelyafinwë.

I loro sguardi si incrociarono e in un attimo i due amici scoppiarono a ridere insieme. Sì, tutto sembrava davvero tornato alla normalità. Pervaso dal sollievo, Nelyafinwë prese la gemma e la infilò in una tasca dei pantaloni fradici, poi si alzò e aiutò il cugino a fare altrettanto.

Insieme si dedicarono ad esplorare la roccia alle loro spalle. Una parete sconosciuta e all'apparenza difficile, ma l'alternativa sarebbe stata nuotare lungo la costa fino a ritrovare la spiaggia, e nessuno dei due era troppo ansioso di ritornare in acqua. Quando Nelyafinwë gli chiese se se la sentisse di affrontarla, per tutta risposta il cugino trovò un appiglio e cominciò a salire.

La scalata si rivelò davvero impegnativa. Preoccupato dallo stato di salute di Findekáno, che aveva un evidente ematoma sulla fronte e faticava ad appoggiare il piede che era rimasto intrappolato nella frana, più volte Nelyafinwë propose di proseguire da solo per tornare a prenderlo con la corda, ma lui si rifiutò categoricamente.

– Non puoi chiedere di abbandonare a Findekáno il Valoroso – scherzava, ansimando. E quando finalmente raggiunse la cima della scogliera, sfiancato, troncò di netto tutti i suoi rimproveri con una di quelle sentenze con cui era solito chiudere le loro discussioni: – Dove vai tu, vado io, cugino.

Nelyafinwë gli lasciò volentieri l'ultima parola. Erano entrambi al sicuro ed erano riusciti a recuperare la gemma. Il suo pensiero era già rivolto al discorso che avrebbe dovuto fare ai fratelli responsabili di quel guaio, per evitare che una cosa del genere si potesse ripetere, soprattutto in un momento così delicato per la loro famiglia.

Sostarono brevemente, seduti sul bordo della spaccatura, appoggiati all'indietro sui gomiti, con i piedi che pendevano nel vuoto e le spalle che si sfioravano appena. Una volta recuperate le forze, si vestirono e ridiscesero alla spiaggia.

Quando furono sul sentiero che riportava in città, tuttavia, Nelyafinwë tornò ad essere assalito da pensieri cupi. Ciò che era successo sulla scogliera insinuava nel suo cuore dubbi e incertezze su sé stesso, sul proprio futuro e, quel che era peggio, su ciò che finora aveva considerato come l'unico punto fermo della sua vita: l'amicizia col cugino.

Findekáno, al contrario, sembrava essersi completamente ripreso. Anzi, cavalcando al suo fianco a un trotto tranquillo, dava l'idea di essere persino più sereno del solito. All'improvviso si mise a cantare.

La scelta della canzone sorprese Nelyafinwë e lo distolse per un attimo dalle sue preoccupazioni: non era una delle ultime ballate che si sentivano a Tirion alle feste e che il cugino si divertiva a eseguire, spesso storpiandone le parole. Era un canto antico della tradizione Noldorin, composto molti anni addietro, che parlava di una vita piena di grazia e della certezza che il futuro avrebbe portato solo gioia e felicità.

Era un canto pervaso di speranza. La speranza di un popolo giovane appena giunto in una terra promessa.

 

 

*******

 

 

Era il canto che sentiva ora, appeso, in agonia.

Fino a quel punto, dunque, era giunto il Nemico.

Dopo aver umiliato il suo corpo, trasformando la perfezione in brandelli di carne aggrappati a un misero scheletro, dopo aver violato il suo spirito, corrompendo i suoi ricordi più cari, ora arrivava a profanare il suo cuore, esponendolo alla più grave delle sue colpe: il tradimento.

Nella disperazione più nera non restava che un misero conforto: dopo questo nulla avrebbe più potuto ferirlo. Avrebbe atteso la morte, se fosse arrivata, ultima grazia dei Valar, o sarebbe rimasto chiuso nel dolore per sempre, con la sola compagnia della tenebra e dell'odio. Dopotutto non aveva forse chiamato la Tenebra su di sé, se avesse fallito ad adempiere al suo voto? E di certo aveva fallito.

Eppure il canto diveniva a poco a poco più chiaro, e insieme al canto Nelyafinwë si accorse che aveva ricominciato a sentire anche l'ululato del vento, il suono del suo debole respiro che graffiava i polmoni, i lamenti delle creature che popolavano quegli anfratti orridi.

Quella voce lo stava trascinando fuori dal buio! Non poteva essere opera del Nemico.

Da un remoto angolo della sua mente scaturì la speranza che i suoi fratelli si fossero infine messi alla sua ricerca. Makalaurë, forse.

Ma per quanto sembrasse impossibile, non poteva sfuggire alla realtà delle cose: quella non era la voce di Makalaurë, potente e melodiosa. Quella era una voce cristallina che cantava la speranza e la sfida, che non conosceva paura e non contemplava l'abbandono. Una voce incisa nel suo cuore.

Findekáno.

Prima ancora di rendersene conto, percepì le proprie labbra secche muoversi per seguirne le parole. Da troppo tempo non usava la voce, nemmeno più per emettere urla o gemiti, e restò sbalordito quando dalla sua gola eruppe un suono, prima rauco e debole, poi via via più forte. Infine armonioso.

Per qualche istante le due voci si intrecciarono in una melodia di struggente bellezza. Un suono che mai si era udito in quelle terre e che spense ogni altro rumore. Perfino il vento sembrò tacere.

Poi la voce di Findekáno cessò. Nelyafinwë capì che il cugino lo aveva sentito e che aveva bisogno di un segnale che lo guidasse. Gli sembrò naturale proseguire il canto… per quanto ne sapeva poteva anche non essere in grado di emettere altro suono.

La sua voce proseguì solitaria nel silenzio innaturale che perdurava. Sapeva che presto le sentinelle si sarebbero sciolte dall'incantesimo. Si aspettava di udire, da un momento all'altro, l'urlo acuto che avrebbe lanciato l'allarme.

Invece sentì gridare il suo nome.

– Nelyafinwë!

Come poteva una sola parola racchiudere la più profonda pena e la più radiosa speranza?

Il suo nome lo trascinò definitivamente fuori dal buio. Ora i suoi occhi vedevano. E subito scrutò nell'abisso, in preda all'ansia, con lo sguardo che faticava a insinuarsi tra le ombre, finché riuscì a distinguere distante sotto di lui, in cima a uno dei picchi acuminati che popolavano quelle terre, Findekáno.

Non si chiese come potesse essere giunto nell'Endor. O come avesse fatto ad arrampicarsi fin lì. Nel caso del cugino la risposta era scontata: Findekáno non si arrendeva mai. Anche ora si stava guardando intorno frenetico alla ricerca di una via per proseguire la scalata. Ma questa volta non sarebbe bastata la sua determinazione: da dove si trovava, Nelyafinwë vedeva chiaramente che non c'era passaggio o appiglio che l'avrebbero potuto condurre fino a lui.

La terra intorno a loro ricominciò a prendere vita, brusii e lamenti si levarono da anfratti e fessure. Avevano poco tempo. Entro breve sarebbero arrivati i servi del Nemico, a frotte, e avrebbero fatto prigioniero Findekáno, riservandogli un destino peggiore della morte. Lui lo sapeva bene.

L'amico era arrivato fin lì, ma non per liberarlo. Quando vide l'arco sulle sue spalle, il motivo gli fu chiaro.

– Findekáno – chiamò. E la sua voce era chiara, anche se debole. – Uccidimi – disse.

Ma il cugino non diede segno di averlo sentito. Con lo sguardo acuto seguitava a perlustrare la parete alla quale era appeso, cercando di individuare un percorso adatto a un'arrampicata.

Non lo trovò.

I brusii divennero scalpiccii, i lamenti quasi ululati.

Nelyafinwë ebbe una visione dell'amico che soffriva il suo stesso destino e sfiorò la follia.

– Findekáno! – gridò disperato, – per l'affetto che ci ha legato, se ancora ne sopravvive una traccia dentro di te, tirami una freccia dritta nel cuore e poni fine a tutto questo.

A queste parole il cugino finalmente si bloccò e levò lo sguardo su di lui. Nelyafinwë non riusciva a distinguerne il viso, ma lo vide passarsi rabbiosamente una mano sul volto. Si asciugava le lacrime che gli annebbiavano la vista: il tiro doveva essere preciso. Con la determinazione che gli era propria, impugnò l'arco e incoccò una freccia. Indugiò per un attimo, il tempo forse di una preghiera. Poi prese la mira.

Nelyafinwë chiuse gli occhi. Non affidò a Námo, né ad alcun Vala il suo spirito devastato, ma all'unico essere di cui gli fosse mai importato il giudizio.

Padre, sto arrivando.

Attendeva una freccia, arrivò invece una breve raffica di vento. Lo fece ondeggiare, riversandogli addosso nuovo dolore. Poi un'altra raffica. Aprì gli occhi: un'ombra incombeva su di lui. Per un attimo temette che fossero arrivati i Valaraukar. Ma non c'era fuoco in vista, né quel calore infernale che portava con sé l'odore di terra bruciata. Riconobbe la forma di un'enorme Aquila proprio quando questa si abbassò sotto di lui e lasciò il posto, come in una visione, a Findekáno.

Il cugino cavalcava il rapace con la stessa grinta con cui avrebbe cavalcato un purosangue irrequieto. Indossava vesti e mantello di un blu così scuro che, nel buio che li avvolgeva, non si distingueva dal nero. Nessun ricamo li adornava, nessun gioiello a illuminare il suo viso, nemmeno l'oro che solitamente intrecciava tra i capelli. Era un'ombra più nera del nero che lo circondava.

Ma i suoi occhi brillavano come zaffiri alla luce di Telperion mentre cercava di allungare le braccia verso l'amico di un tempo. Ed erano occhi che Nelyafinwë non conosceva più; svanita ogni traccia di spensieratezza, ora ospitavano una determinazione non più fiduciosa, ma feroce, temprata da qualcosa che lui non aveva condiviso. Occhi di ghiaccio.

L'Aquila trovò un appiglio adatto agli enormi artigli, aderì alla parete e ripiegò parzialmente le ali. Findekáno, alzandosi in piedi sul suo dorso, si trovò ad essere leggermente più in alto di lui. Il cugino lo strinse in un abbraccio delicato e lo sollevò. L'articolazione divelta, rilasciata dal peso, mandò una fitta lancinante. Nelyafinwë emise un gemito spezzato e cadde come un corpo morto tra le braccia dell'amico, la testa reclinata in avanti sulla sua spalla, le gambe e il braccio che pendevano inerti. 

– Uccidimi – implorò, di nuovo, in un soffio di fiato che pensava essere l'ultimo. 

Findekáno questa volta sembrò ascoltarlo, perché lasciò la presa con il braccio sinistro ed estrasse il lungo pugnale che portava al fianco. Nelyafinwë si trovò a rivolgere un pensiero di gratitudine a Eru che gli permetteva di morire tra le braccia del suo amico.

Ma la lama non era destinata al suo cuore: sentì un colpo sferrato alla catena, poco sopra il polso. Il riverbero gli procurò una stilettata che lo fece quasi ripiombare nel buio. Il suono del metallo contro il metallo rimbombò per tutta la valle.

Un lungo ululato sovrastò ogni altro rumore. Era stato dato l'allarme.

Findekáno tentò un nuovo colpo. Nuovo dolore. Nuovo rumore. Nuovi ululati che rispondevano al primo.

– Uccidimi, uccidimi… – continuava a mormorare Nelyafinwë in una litania senza fine, che sembrava dargli la forza di sopportare la sofferenza. Ma quando realizzò che il cugino non si sarebbe mai dato per vinto, implorò per quello che gli stava veramente a cuore.

– Ti prego, fuggi.

– Fuggire? – fu la risposta immediata, – non puoi chiedere di fuggire a Findekáno il Valoroso. – Parole spavalde, ma la voce del cugino tremava, la paura stava facendo breccia nel suo cuore.

Lo schianto del metallo contro la roccia, ora. Evidentemente Findekáno aveva deciso di svellere ciò che non era riuscito a spezzare.

Comandi urlati ai piedi del picco, frecce che sibilavano e si infrangevano sulla roccia poco sotto di loro. Anche gli Orchi erano costretti ad aspettare i rinforzi se volevano prenderli. I Valaraukar non avrebbero tardato.

Altro colpo inutile contro la roccia.

Un bagliore rosso comparve nel cielo a Nord. L'Aquila fremette sotto i loro piedi. Anche Findekáno si avvide del pericolo incombente e avvicinandogli le labbra all'orecchio sussurrò: – Perdonami.

Non era la morte che voleva dargli il cugino. Non era la misericordia dell'oblio. Voleva dargli la libertà a qualsiasi costo e con essa la possibilità di riscatto, la possibilità di adempiere al suo voto e liberarsi dalla maledizione che lo condannava. Findekáno non si arrendeva neanche di fronte al destino.

Percepì una leggera torsione nel corpo del cugino che premeva contro il proprio, intravide il suo braccio stagliarsi contro il cielo plumbeo, il lungo pugnale che si preparava alla sua corsa micidiale.

Poi un dolore improvviso, come un lampo accecante, gli fece quasi perdere la ragione. Urlò. Urlò affondando il viso nel mantello di Findekáno e artigliandogli la schiena con la mano libera, mentre il cugino con uno strattone liberava la lama che si era conficcata nell'osso dopo aver lacerato muscoli e tendini. 

Quando arrivò il secondo colpo le sue urla si erano ridotte a un penoso lamento inarticolato, sovrastato dalle grida del cugino, folli, strazianti, tra spruzzi di sangue scuro che si riversavano sui loro corpi stretti in un macabro abbraccio.

Imprecando contro il pugnale, contro il fabbro che l'aveva forgiato e contro il destino stesso, Findekáno strappò l'arma dalla presa della sua carne e sferrò il colpo decisivo all'ultimo brandello di tessuto che ancora vincolava il polso alla mano. Nelyafinwë, ormai sull'orlo dell'incoscienza, rovinò addosso all'amico che lo accolse tra le sue braccia in una presa disperata. Il coltello abbandonato nel baratro, insieme alla mano recisa.

L'enorme rapace si staccò dalla roccia e si lanciò in picchiata nella gola per sfuggire alla minaccia di fuoco che arrivava dal cielo. Findekáno si gettò sul suo dorso, bloccando Nelyafinwë sotto di sé e aggrappandosi alle penne con entrambe le mani.

L'Aquila doveva conoscere bene quelle vette, perché le bastarono due virate audaci per insinuarsi tra strette gole e seminare l'inseguitore. Ben presto il suo volo si assestò su un planare leggero e regolare.

Findekáno lasciò subito la presa e si sfilò la cintura. Gliela strinse forte attorno al braccio, nel tentativo di rallentare l'emorragia. Poi strappò un lembo della sua casacca e glielo fasciò stretto al moncherino, celando alla vista quell'orrido spettacolo. Infine si sfilò il mantello e lo avvolse attorno al suo corpo nudo e sofferente. Si sistemò meglio a cavallo dell'alato destriero, lo prese tra le braccia con molta delicatezza e gli fece appoggiare la testa sul suo petto.

Nelyafinwë tremava di freddo e di dolore. Bruciava di febbre. In un breve momento di lucidità sollevò la testa e vide il cugino chino su di lui, il bel viso imbrattato di sangue, solcato dalle lacrime, la mascella contratta, lo sguardo colmo di apprensione. Lo vide togliersi anche la casacca e la camicia e avvolgergliele intorno. Indifferente al freddo.

Sentì che le forze lo abbandonavano.

Appoggiò di nuovo il capo sul petto del cugino, ora pelle contro pelle. Respirò quel profumo mai dimenticato e pensò confusamente che era un bel modo di andarsene, stretto a lui, cullato dalla sua voce che mormorava il suo nome.

Un attimo prima di affondare nell'oblio, si rese conto che non aveva mai sentito Findekáno pronunciare quel nome prima di allora.

– Maitimo.

 

 

_______________________

 

Note Finali:

00.
Grazie per aver letto!
Sono gradite le critiche.
Le correzioni al tentativo di utilizzare vocaboli Quenya sono ancora più gradite.

01.
Quenya - Sindarin
Fëanárion: figlio di Fëanáro (cioè di Fëanor)
Makalaurë: Maglor
Curvo (abbreviazione di Curufinwë): Curufin
Valaraukar: i Balrog

02.
"Chiamami Maitimo…"
Maitimo è il nome che Maedhros ha ricevuto da sua madre, significa "il ben fatto", riferito al suo corpo perfetto.

03.
Námo, più frequentemente chiamato Mandos, dal nome della sua dimora, è il Vala che presiede al luogo in cui sostano, dopo la morte, gli spiriti degli Elfi prima di essere "reinseriti" nei loro corpi.

04.
Endor: la Terra di Mezzo, in Quenya
Indecisa se usare la versione più arcaica (Endórë) o quella meno arcaica (Endor, appunto), ho scelto quest'ultima solo perché fa "scorrere" meglio il testo.

05.
E l'arpa, che fine ha fatto? Chi lo sa, Maedhros non l'ha vista… forse Fingon, preso dalla trepidazione, l'ha abbandonata quando ha smesso di cantare per seguire la voce del cugino…

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Capitolo 2
*** Delirio ***


 

Capitolo Secondo - Delirio


________
 

Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

________

 

 

Entrava e usciva dall'incoscienza senza rendersene conto. Non percepiva la differenza tra sogno e realtà. A volte gli sembrava di essere ancora appeso sul baratro, altre di essere inchiodato al suolo. In entrambi i casi il dolore era immutato.

I pensieri sfuggivano completamente al suo controllo. La sua liberazione... era stata un inganno, estrema beffa del Nemico? Non avrebbe saputo dirlo. Findekáno… era stato un'allucinazione? A questo era più facile dare una risposta.

Dopo quel giorno sulla scogliera l'aveva allontanato da sé. Per riflettere sull'accaduto si era detto… per paura, in verità. Di lì a poco, gli scontri tra i loro padri e il successivo esilio di Fëanáro e dei suoi figli erano sembrati una valida scusa a quella insensata separazione. Infine il tradimento su quella spiaggia in fiamme aveva concluso amaramente la loro amicizia. Findekáno, fosse anche arrivato nell'Endor per vie a lui ignote, non avrebbe avuto più alcun motivo per venire in suo soccorso.

Allora perché gli sembrava di sentirne la voce? Gli sembrava di sentirlo parlare con qualcuno.

Trovò la forza di aprire gli occhi. Luce soffusa. Tela scura tesa sopra di lui: l'interno di una tenda. Abbassò lo sguardo. Un mantello pietosamente tirato a coprire ciò che restava del suo corpo. Un giaciglio morbido sotto di sé.

Alla sua sinistra la parete era investita da una luce tremolante che proveniva dall'esterno, di certo un fuoco, che stagliava su di essa due ombre che si fronteggiavano, appena fuori.

Le voci arrivavano da lì.

– Non lo porteremo al nostro campo in queste condizioni! – Impossibile non riconoscere quella forte di suo fratello Makalaurë. – La nostra gente non deve vedere l'erede di Fëanáro ridotto in quello stato! Per non parlare dei miei fratelli. 

I "miei" fratelli. Non i "nostri". Makalaurë lo dava già per spacciato? Forse non aveva tutti i torti.

– Ma ha bisogno di essere curato! E io non sono in grado di farlo! – Findekáno gridava. Il suo tono disperato lo preoccupò più della svista semantica del fratello. Il cugino non si abbandonava mai alla disperazione.

Lo scambio di battute proseguì concitato, Nelyafinwë faticava a stargli dietro. Le voci sembravano provenire da un altro mondo. Per quanto ne sapeva, poteva anche essere così.

– Andrò a chiamare qualcuno.

– Ne ha bisogno ora!

– Allora andrò a chiamare qualcuno ora!

Un fischio appena accennato, un nitrito sommesso.

– Intanto occupatene tu, ti prego.

Una delle due ombre scivolò fuori dalla sua visuale. Nelyafinwë udì un debole scalpitio, poi perse nuovamente il contatto con la realtà. Desiderava l'incoscienza, che leniva tutti i mali, invece schegge di percezione continuavano a colpire i suoi sensi, a intervalli, come lampi nel buio dell'oblio.

Un panno bagnato sulle labbra secche che gli gocciolava in bocca acqua pura.

La voce di Findekáno che gli parlava paziente: – Tutto andrà bene, vedrai, presto arriverà qualcuno che si occuperà di te. – Gli parlava come a un bambino a cui si vuole nascondere la dura realtà. Non voleva sentire quel tono accondiscendente! Voleva la voce sincera e schietta del suo migliore amico.

Un leggero scroscio, come di un panno intinto nell'acqua e poi strizzato. Una carezza umida che rimuoveva dal viso il sangue rappreso e il sudiciume. Bruciava inizialmente, poi regalava un breve sollievo. L'acqua era tiepida e profumava di erbe: un infuso di piante medicinali.

Sentì quel tocco gentile scendere lungo il collo e intuì cosa stava per accadere.

– No – mormorò, – no, ti prego… 

Ma le parole non riuscirono a staccarsi dalle sue labbra. Il mantello venne rimosso esponendo l'orrore.

Urlò. Non voleva mostrarsi a nessuno. Meno che a tutti a Findekáno. Non voleva vedere nei suoi occhi la pena, laddove un tempo c'era stata solo sconfinata ammirazione. Non voleva vedere la repulsione dipinta sul suo volto.

Nel tentativo di non guardare il viso del cugino, abbassò lo sguardo sul proprio corpo. La penombra era misericordiosa, ma non abbastanza. Pelle tesa sopra ossa e tumefazioni (i bastoni). Pelle lacerata, incrostata di sangue e di sporcizia (le fruste). Piaghe aperte, che grondavano infette (le zanne).

– Maitimo… – sussurrò il cugino, con voce rotta.

Basta! Non voleva più sentire quel tono compassionevole. Non voleva più vedere quegli occhi lucidi di commiserazione!

Desiderò un'arma. Per porre fine a tutto. La propria vita, quella di Findekáno, quella del mondo intero!

Voglio la mia spada!

Delirava, ovviamente. Anche l'avesse ottenuta, gli mancava la mano per impugnarla.

 

 

*******

 

 

La sua spada giaceva abbandonata in una pozza di sangue.

Aveva appena trafitto il suo primo essere vivente. E non era stato un servo del Nemico, ma un Elda come lui, sulla tolda di una nave rubata.

Nelyafinwë non aveva voluto ucciderlo. La sua intenzione era stata solo quella di spaventarlo. Lui era più alto, più imponente e brandiva una spada lunga a due mani, mentre l'altro… cosa impugnava, per Eru? Un coltello? Un arpione? Non aveva più importanza ormai. Non era fuggito quel valoroso, e gli si era gettato addosso nel tentativo di colpirlo. Lui non aveva dovuto far altro che stendere le braccia per trafiggerlo da parte a parte.

E mentre inorridito ritraeva la lama, cercando di non prestare attenzione ai delicati tratti del suo viso, agli abiti leggeri che indossava, al colore argenteo dei suoi capelli, non era però riuscito a distogliere lo sguardo dai suoi occhi chiari, che lo fissavano mentre si accasciava a terra e la vita gli scivolava via insieme al sangue che sgorgava rapido dall'addome.

Quegli occhi, solo un istante prima sfavillanti di coraggio, ora sembravano via via rassegnarsi all'ineluttabile: domande che non avrebbero mai avuto risposta, sensazioni che non sarebbero mai state provate, promesse che sarebbero state disattese. Come quella di una vita immortale che giungeva invece al suo termine.

Infine, prima che l'ultimo barlume di vitalità li abbandonasse, si erano spalancati in una disperata richiesta d'aiuto. Di fermare tutto questo. Di non lasciarlo andar via. Di non lasciarlo andar via solo. Nelyafinwë aveva abbandonato la spada per afferrargli le mani, si era buttato in ginocchio per non perdere il contatto con quello sguardo, ma aveva trovato soltanto occhi vuoti. 

Ed ora, chino sul corpo disabitato, atterrito da quell'atto imperdonabile, esitava prima di rialzarsi, convinto di dover affrontare il giudizio di tutti i suoi simili, i loro volti pietrificati dall'orrore, agghiacciati davanti al sacrilegio di cui si era macchiato: l'omicidio. Peggio, l'omicidio nella terra dei Valar.

Al pari soltanto del Nero Nemico.

Invece, trattosi faticosamente in piedi, si trovò ad assistere a uno spettacolo ancora più terribile. Sulla nave di fianco alla sua, il padre, rosso di sangue, mulinava la spada falciando chiunque gli si opponesse. Sul molo sotto di lui, i giovani Ambarussa, schiena contro schiena, resistevano all'assalto dei Marinai. Più avanti, lo stesso Makalaurë menava fendenti letali nel tentativo di guadagnare un'imbarcazione. Verso l'entroterra la schiera di Nolofinwë avanzava veloce, pronta ad unirsi al massacro.

Omicidi. Che si ripetevano. Ovunque volgesse lo sguardo. La follia dilagava! 

Come erano arrivati a tutto questo?

Domanda senza senso. La scelta, se di scelta si era trattato, era stata fatta a Tirion sotto un cielo scuro, quando le lame erano brillate rosse e parole di pietra erano state pronunciate.

Ormai non restava altro che proseguire lungo una strada segnata.

Nelyafinwë decise di farlo il più velocemente possibile, e senza più guardarsi indietro.

Recuperò la spada e con un balzo fu sul molo in aiuto dei gemelli. Con colpi precisi dispensava la morte a coloro che si mettevano sul suo cammino. Letale, silenzioso.

Ma dentro gridava la sua pena.

 

 

*******

 

 

Gridava.

Il suono delle sue stesse urla lo riportò alla realtà.

Una figura nella penombra era aggrappata a ciò che rimaneva del suo braccio destro e gli puntellava un piede contro il costato.

In bocca il sapore del sangue e del cuoio. Qualcuno gli forzava un pezzo di cintura tra i denti. Qualcuno che, chino su di lui, lo immobilizzava con presa ferrea. Gli bisbigliava parole all'orecchio.

- Resisti. Ti rimette a posto la spalla.

La voce di Findekáno. Riconoscerla non servì a calmarlo.

- Coraggio Nelyo.

Uno strappo improvviso.

Coraggio.

 

 

*******

 

 

Aveva dovuto raccogliere tutto il suo coraggio per affrontare il padre. 

Aveva visto la follia crescere sempre più negli occhi di Fëanáro, dopo il Fratricidio e la Condanna, e adesso, sulle rive dell'Endor, temeva un atto irreparabile.

Con voce che si era sforzato di mantenere calma e razionale, come era sua abitudine, aveva richiesto ordini per disporre del rientro delle navi e per i nuovi imbarchi.

Ma più gli parlava, più intuiva che il padre aveva altri progetti.

Le parole avevano cominciato a sfuggire al suo controllo. Aveva fatto il nome di Findekáno.

Non sapeva nemmeno lui se l'aveva fatto per far leva sulla necessità di avere con loro validi guerrieri, o se, nella sua disperazione incalzante, aveva assurdamente pensato che il padre potesse riconoscere il suo bisogno di avere accanto l'amico più caro.

Forse era stato un errore fatale menzionare il figlio di Nolofinwë. O forse suo padre aveva già deciso tutto e non teneva in conto l'opinione di nessuno, come aveva sempre fatto.

Comunque fosse, quelle navi prese nel sangue bruciarono in un incendio devastante: lingue di fiamma che arrivavano fino al cielo.

Era il modo scelto da Fëanáro per urlare in faccia al suo Nemico: Sono arrivato! Entro in Endor non di soppiatto, come un ladro che si insinua non visto per rubare gioielli, ma gridando e sfidando e imponendo e minacciando e maledicendo.

Era il modo scelto da Fëanáro per urlare in faccia a suo fratello: Addio! Non ho bisogno di te, non ho bisogno di nessuno. Non ne ho mai avuto. La mia strada la traccio da solo e la percorro da solo.

Era partito con l'idea di fermare la follia del padre, invece si ritrovava con una torcia in mano, vicino a suo fratello Makalaurë che tentava a sua volta di farsi una ragione di tutta quella insensatezza.

– Forse è meglio così, Russandol… – mentiva, – forse riusciremo a cancellare perfino il ricordo di queste navi maledette.

Nelyafinwë lo guardò in silenzio. Poi scosse il capo e gli consegnò la propria torcia, lasciandolo da solo con le sue menzogne.

Mentre si allontanava sentiva lo sguardo del padre puntato su di sé. Che lo guardasse pure, maledizione! Che capisse, una volta per tutte, che il suo primogenito era diverso da come lui lo avrebbe voluto.

Voltò le spalle al fuoco che bruciava sulla costa e a quello che bruciava nel cuore del padre.

Voltò le spalle a Findekáno. La separazione che lui stesso aveva voluto, ora che diventava definitiva, gli pesava come un macigno sul cuore.

Le parole che non aveva mai pronunciato, i sentimenti che non aveva mai confessato, improvvisamente assumevano un'importanza vitale. Presagì la propria fine e comprese che non voleva andare verso la Tenebra Eterna senza aver avuto la possibilità di dire all'amico quello che provava per lui.

Lacrime affiorarono nei suoi occhi e un nome sulle sue labbra. Findekáno.

 

 

*******

 

 

– Findekáno.

Un rumore attutito nel buio.

– Sono qui.

Vicinissimo. Percepiva il soffio del suo respiro contro la pelle del viso.

Percepiva il dolore, ancora forte. La spalla, il braccio, il polso reciso.

La realtà irruppe. Il picco. Il salvataggio. La disperazione.

– Findekáno… perché non mi hai ucciso?

Una mano a stringere la sua, un tocco lieve.

– Lo sai perché.

– Non voglio più vivere...

– Riposa Maitimo. Ce la faremo.

 

 

*******

 

 

– Ce la faremo! – a corto di fiato incitava i suoi fratelli e gli altri guerrieri a proseguire la scalata. La salita era ripida. L'aria densa di vapori malsani.

Trasportavano un carico prezioso. Trasportavano il padre, in fin di vita.

Nell'arida piana sotto i tre imponenti picchi oscuri, avevano appena avuto un assaggio della reale potenza del Nemico. Nelyafinwë e i suoi fratelli erano riusciti a respingere persino i Valaraukar, ma ora era necessario mettere al più presto le montagne tra il loro esercito e il campo di battaglia. Solo Eru sapeva cos'altro il Nemico avrebbe scatenato fuori da quei neri cancelli.

Ma giunto sulla cima, grondante sangue, le ossa spezzate, il respiro che arrancava tra i denti, Fëanáro riprese conoscenza e intimò l'alt. Allontanati coloro che lo stavano sostenendo, volle ergersi in piedi senza aiuto.

Nelyafinwë gli si avvicinò pronto a sorreggerlo, ma il padre sembrava non averne bisogno. Il suo sguardo era lucido mentre puntava gli occhi sulle Montagne della Tirannia, per nulla spaventato dalla potenza del Nemico, per quanto dovesse presagirla insormontabile, né dal giudizio di Námo, che presto avrebbe dovuto affrontare.

– Ci hanno maledetti – disse, quasi tra sé, come se realizzasse solo in quel momento la reale portata della Sorte dei Noldor.

Poi si riscosse e trovò la forza di urlare.

– Moringotto! …

Il grido riverberò nitido tra le montagne che li circondavano e, innalzato dall'eco, arrivò a infrangersi contro i cancelli delle Prigioni di Ferro. Rabbia, disprezzo e sfida si intrecciavano in quell'insulto urlato con voce potente, nemmeno una traccia di disperazione.

– Io… Curufinwë Fëanáro… sono io che ti maledico!

Tacque, col respiro affannato. Nelyafinwë credette che avesse esaurito tutte le energie, invece lo sentì gridare ancora.

– Io ti condanno alla disfatta e all'oblio!

Infine, udito solo da coloro che gli stavano più vicini, esalò: – Che tu sia dannato, in eterno.

Nelyafinwë lo vide vacillare. Gli offrì una mano, convinto che il padre non avrebbe accettato il suo aiuto.

Invece, inaspettatamente, Fëanáro la afferrò. La sua pelle bruciava.

– Nelyafinwë – disse.

I loro occhi si incontrarono e per un istante lui riconobbe il padre dietro alla follia che lo ottenebrava.

La fierezza di sé e delle proprie capacità, il desiderio di conoscenza, la straordinaria abilità nel creare opere di sublime bellezza, la passione per gli studi e l'autorevolezza che ne era derivata, l'orgoglio per la famiglia che si era creato. E l'amore sconfinato per il padre. 

Come si erano volte al male tutte queste virtù? Come avevano potuto condurre il più abile di tutti i Noldor a una morte atroce, per mano non del suo stesso avversario bensì dei suoi schiavi, in una terra desolata, al crepuscolo?

Ma era troppo tardi per cercare le risposte, sempre che esistessero. Il tempo, da sempre alleato degli Eldar, un bene dato per scontato dagli Immortali, ora veniva loro sottratto.

Fëanáro, pur stringendogli ancora la mano, già si rivolgeva agli altri figli, che chiamava uno ad uno con i nomi che lui stesso aveva scelto per loro.

– La nostra stirpe è stata maledetta – parlava a fatica, ma le sue parole erano chiare e, come sempre, andavano dritte al cuore, – siamo soli contro il mondo intero.

In un istante il furore riprese il sopravvento e la sua voce tornò impetuosa ad infiammare i loro animi.

– Forse alloggeremo in eterno a Mandos, bramando un corpo che ci verrà negato... ma le parole del nostro Giuramento riecheggeranno nelle Ere a venire! E quando il mondo finirà, ancora risuoneranno alle orecchie dei Valar a ricordare loro chi non si è mai sottomesso!

Infine, in un ultimo slancio pervaso di passione, disse ciò che si aspettava da loro.

 – Non abbiate paura, voi che avete rinunciato alla codardia! Resistete, fedeli al Giuramento che ci vincola, e portate a compimento la vendetta, da veri discendenti ed eredi di Finwë quali siete.

Giurarono tutti, ancora una volta, senza esitare, e le parole si levarono alte come una preghiera che accompagnava lo Spirito di Fuoco nel suo ultimo addio.

E mentre loro giuravano, chi tra le lacrime e chi con gli occhi inariditi dall'odio, chi gridando alta la propria ira e chi sussurrando la vendetta, il corpo ormai vuoto di Curufinwë Fëanáro rovinò al suolo e in un istante si consumò, non lasciando altro che un cumulo di cenere.

Nelyafinwë la guardò volare via, trasportata lontano dal vento. 

Nulla restava in Arda di ciò che era stato suo padre, tranne quei Gioielli che, ora più che mai, sembravano irraggiungibili.

Nulla restava su quel picco, così freddo ora che lo spirito del padre non lo scaldava più, così spaventoso ora che la sua voce non infondeva più coraggio.

Nulla restava se non gli sguardi atterriti dei suoi fratelli rivolti a lui, in attesa. 

In attesa di cosa? Si domandò. Di conforto? Di parole? Di ordini, forse.

Nelyafinwë chinò il capo, per la prima volta nella sua vita incapace di dar loro ciò di cui avevano bisogno.

Era solo.

Il gelo scendeva nel suo cuore, mentre la mano ancora bruciava del calore che aveva consumato suo padre.

 

 

*******

 

 

La mano bruciava! 

Come poteva bruciare, se gli era stata amputata? Eppure andava a fuoco.

Era immobilizzato. Legato!

– Nelyo, ti stanno curando. – La voce della razionalità. La voce di Findekáno.

– Ho dovuto legarti… non ero più sicuro di riuscire a tenerti…

Il viso di Findekáno su di lui: occhi blu, profondi, inquieti come il mare in tempesta. Occhi che cercavano di ancorare i suoi per distoglierli dall'orrore.

Fallirono.

Volse lo sguardo al braccio mutilato. Disteso su una piccola tavola di legno chiaro, il moncherino esposto era un grumo informe rosso bruno. Mani esperte erano al lavoro. Mani pallide, abili dita affusolate, ricucivano alcuni lembi, ne asportavano altri. Cauterizzavano col fuoco.

Quando percepì l'odore di carne bruciata, perse nuovamente i sensi.

 

 

*******

 

 

– C'è odore di qualcosa che brucia.

– Sì. Devono essere vicini.

Nel folto del bosco il buio regnava quasi totale. La luce delle stelle non penetrava tra le chiome e loro si erano arrischiati ad accendere pochissime lanterne. I suoi compagni si muovevano nel silenzio più assoluto.

Ad un tratto gli alberi cominciarono a farsi meno fitti e in breve si aprirono su una radura.

Nelyafinwë e il suo luogotenente vi si affacciarono con cautela. Videro le braci di un falò quasi spento nel centro dello spiazzo, intorno sagome avvolte in stracci scuri.

– Attacchiamo, mio Signore? – sussurrò il Noldo accanto a lui. Era un valido combattente, da sempre fedele a suo padre, che si era offerto volontario per quel compito.

Nelyafinwë si prese un istante per pensare. Non aveva con sé molti guerrieri: la sua era una missione esplorativa per scoprire quali forze il Nemico avesse destinato a raggiungere il luogo della trattativa.

Si aspettavano un esercito, ma la realtà sembrava diversa. Riusciva a contare poco più di cinquanta unità nella radura. Che il Nemico avesse veramente deciso di inviare una delegazione per negoziare e non un'armata per sterminarli, come si erano immaginati?

Se era davvero così, uno dei Gioielli poteva essere in quella radura!

Un Silmaril, un frammento dell'anima di Fëanáro, una scintilla di speranza per i Noldor.

La sua mente, di solito dominata dalla calma razionalità, venne accecata da quella visione ed egli rispose senza più esitare: – Dai l'ordine.

Così cominciò l'assalto alla radura e gli Orchi, presi di sorpresa, non ebbero alcuna possibilità di opporsi ai guerrieri Noldorin, che brandivano armi forgiate nelle fucine di Fëanáro e combattevano spinti dalla sete di vendetta per il loro Signore. Fu un massacro di breve durata.

Nelyafinwë allora abbandonò ogni cautela e, riposta la spada, cominciò a perquisire i corpi e gli stracci alla ricerca febbrile del Gioiello.

Voleva tornare dai suoi fratelli mostrando loro che il Giuramento era perseguibile, voleva infondere speranza al suo popolo tenendo alta la luce del Reame Beato…  o forse voleva soltanto stringere tra le mani l'essenza stessa di suo padre, la cui mancanza lo feriva come mai avrebbe creduto possibile.

E mentre lui era chino sui cadaveri con la mente occupata da tali pensieri, la trappola scattò. I Valaraukar calarono dal cielo e una moltitudine di Orchi sciamò dalle profondità del bosco per accerchiarli.

A Nelyafinwë bastò un'occhiata per capire che nessuno sarebbe uscito vivo da lì.

Allora non perse tempo a maledirsi per la propria ingenuità o a farsi assalire dalla vergogna, ma si portò in prima linea, alto, imponente, fiero. La luce delle torce portate dagli Orchi accendeva i suoi capelli come fiamma viva e proiettava lingue di fuoco sull'acciaio affilato della sua spada. Una lama ardente brandita da un guerriero nei cui occhi si leggeva la furia di chi non ha più nulla da perdere.

Nelyafinwë era pronto ad affrontare lo stesso destino del padre, pronto a esibire altrettanto coraggio davanti a qualsiasi terrore gli si fosse parato davanti. Pronto a morire una morte degna di essere ricordata, in una sorta di redenzione finale.

Ma il Nero Nemico aveva altri progetti, purtroppo. Nessun colpo mortale gli fu inflitto mentre cadevano uno ad uno tutti i suoi compagni.

Il coraggioso capitano che l'aveva seguito in quell'impresa malnata fu l'ultimo. Glielo trascinarono davanti e lo decapitarono con un colpo di sciabola. La testa rotolò ai suoi piedi: occhi fissi puntati nei suoi. 

Non riuscì a reggerne lo sguardo: incredulo di fronte alla sconfitta. Lo specchio del proprio.

Serrò le palpebre.

 

 

*******

 

 

Quando le riaprì era immerso nelle tenebre.

Era coperto di sudore, tremava di freddo. Il cuore gli martellava furioso nel petto e ogni respiro gli costava fatica, come avesse il torace schiacciato da un macigno.

Un dolore acuto proveniva da dove un tempo c'era stata la sua mano.

D'istinto allungò il braccio sinistro di lato. Cercava calore, conforto.

Cercava Findekáno.

Non trovò nulla. Era solo.

Il silenzio era angosciante. Il buio opprimente. Perché era stato lasciato solo?

L'odio lo travolse. L'odio scacciava la paura. Era l'unico modo.

Le sue dita brancolanti alla ricerca del cugino si chiusero su una stoffa pesante: era il mantello di Findekáno.

Lo afferrò con rabbia, pronto a scagliarlo via.

Invece se lo portò al viso.

Inspirò profondamente.

La paura allentò la morsa sul suo cuore.

L'incoscienza lo riaccolse tra le sue braccia.

 

 

*******

 

 

Un'aspra voce gutturale lo riportò alla realtà. Era il cambio della guardia. 

Lo sportello nel centro della pesante porta di ferro nero era aperto e lasciava entrare una luce rossastra, tremolante, che illuminava fiocamente la cella, piccola e umida, angusta. Le pareti di nuda roccia restavano nell'ombra. 

Come per un riflesso involontario, alla vista della luce Nelyafinwë si scostò di lato, quanto glielo permetteva la corta catena che gli vincolava la caviglia alla parete.

Schivò di poco un piccolo otre scagliatogli addosso. 

Immediatamente la botola si richiuse, lasciandolo nel buio più completo. Non vi fece caso, si era abituato alle tenebre. Come si era abituato agli scalpiccii degli esseri ripugnanti che vi strisciavano, all'odore nauseante che permeava la cella, ai brividi sulla pelle nuda, alle fitte di dolore provenienti dalle piaghe aperte.

Nelyafinwë brancolò carponi fino a trovare l'otre. Lo aprì e bevve. Un intruglio rivoltante che il più delle volte gli procurava conati, ma che sempre più spesso il suo corpo accettava.

Istinto di conservazione. La normale reazione di un organismo sotto attacco, che diventa aberrante quando lo spirito vi si adegua.

Aveva provato a rifiutare il cibo. Gli era sembrato l'unico modo per togliersi la vita, chiuso in una cella, nudo e in catene. Erano entrati con un tubo, glielo avevano ficcato in gola e l'avevano sfamato con la forza.

Per cinque cambi di guardia consecutivi.

Ora accettava la brodaglia docilmente… quando il suo corpo decideva di trattenerla. Quando decideva di no, la rigettava nel secchio dei liquami, unico suo compagno di cella.

Dopo il cibo arrivava il dolore. Mai alla stessa ora. E mai lo stesso dolore. A volte arrivava la frusta, altre volte la lama, altre ancora i bastoni. Raramente arrivavano coi lupi. I lupi erano difficili da controllare e loro non volevano che finisse sbranato.

Non c'era particolare sadismo in tutto ciò. C'era metodo. Per tenerlo in vita dovevano sfamarlo, ma sfamandolo si erano accorti, a loro spese, che il suo corpo riusciva a riprendersi in modo straordinario. E lo stesso accadeva se gli infliggevano un solo genere di ferita. Il suo corpo sembrava adattarsi perfettamente a tutto: un organismo creato per sopravvivere.

Ma anche loro imparavano in fretta e presto avevano capito come mantenerlo sulla sottile linea che separa la vita e la morte: sfibrato il corpo, spento lo spirito, confusa la mente.

Questa era la cosa peggiore per lui, che era sempre stato acuto e veloce nel ragionare. Ora concentrarsi su qualcosa che non fosse la fame, o il dolore, o il freddo, era quasi impossibile. L'unico pensiero che lo distoglieva da tali stimoli era il ricordo della sua ultima vittima. Sempre più vivido ogni volta che riusciva a richiamarlo alla mente, permeato di un piacere oscuro, avviluppato in una spirale di odio che si infittiva.

Era successo il giorno della sua cattura.

Pioveva sul tetro cortile antistante la fortezza. Pioveva acqua scura, impregnata di polvere nera, che formava pozze di fango denso sul terreno di terra battuta. Ai margini dello spiazzo, sotto tettoie che ospitavano rastrelliere cariche di armi, bruciavano numerose torce.

Lui stava in piedi nel centro, accerchiato da Orchi armati di picche. L'acqua gli scorreva sulla pelle d'avorio, disegnando sul suo corpo perfetto nere striature. Si insinuava tra i folti capelli, legati in una lunga treccia che gli scendeva sinuosa sulla schiena fino alle natiche.

Nudo, sfiancato, ferito, in attesa ormai passiva della morte, restavano in lui ancora fierezza e nobiltà sufficienti da incutere in quegli esseri un certo timore reverenziale. Le risate sguaiate che avevano accompagnato la sua svestizione e fatto da sfondo alle pungolature con le picche erano pian piano scemate e ora gli Orchi lo circondavano silenziosi.

Il loro capitano, un esemplare di dimensioni enormi, alto poco meno di lui ma molto più massiccio, gli era scivolato alle spalle, aveva afferrato la spessa treccia e con uno strappo gli aveva tirato indietro la testa.

Era stato un attimo: il soffio di un alito fetido sulla guancia, il rumore di una lama sguainata, un debole tirare di capelli. Poi la spinta. In ginocchio, nel fango, si era voltato per vedere il suo carceriere che gli sventolava qualcosa davanti agli occhi.

Sembrava un indomito serpente bruno che mandava guizzi rossastri alla luce delle torce.

Era la sua treccia. I suoi capelli intessuti di rame. 

Una visione improvvisa era balenata alla sua mente: capelli come i suoi, ma dalla tonalità più accesa, che ricadevano tristi su un viso amato, che coprivano misere spalle scosse da singhiozzi. Una figura prostrata presso una scultura incompiuta piangeva alla notizia che lo spirito di Fëanáro era giunto a Mandos. Era sola. Sola come l'avevano lasciata. Nemmeno uno dei suoi numerosi figli era rimasto al suo fianco.

Era stato il suo primo attacco d'ira. Un balzo e le sue mani si erano strette attorno al collo dell'Orco. Erano serviti cinque di loro per fargli mollare la presa. A quel punto la sua vittima era a terra col collo spezzato. Accanto a lui, in una pozza battuta dalla pioggia, la sua treccia abbandonata. Sembrava che nessuno osasse toccarla.

Si era ritrovato nella cella sotterranea prima ancora di capire che aveva la spalla trapassata da una lancia.

Così era cominciato il dolore. Così era cominciata la regressione da Alto Principe Noldorin, Elda di Aman, ad animale.

Nelyafinwë terminò la brodaglia e con grandissima fatica gettò l'otre in direzione della porta. Poi trascinò il suo corpo piagato fino al secchio e lo spinse davanti a sé, fin dove glielo permetteva la catena. Infine si ritirò, spossato, contro il muro umido alle sue spalle. Non gli restava che attendere il dolore.

Come una bestia domata, attendeva.

Assalito dalla sofferenza e dalla debolezza, macerando nell'odio che montava, attendeva.

Nel buio.

 

 

*******

 

 

Nel buio, due voci indistinte parlavano.

Parlavano la sua lingua.

Brandelli di conversazione giungevano fino a lui.

– Come mai sei qui fuori… Valar! Cosa è accaduto?

– Mi ha aggredito…

– Ti ha aggredito? Ma… ma quanta forza ha recuperato?

– Molta… avesse avuto entrambe le mani mi avrebbe spezzato il collo.

– Non ce la farà mai, Findo. Non puoi continuare così!

– Cosa vuoi fare allora? Ucciderlo?

– Forse lui ne sapeva più di noi quando ti ha chiesto di farlo.

Il suono di una lama che esce dal fodero. Un sussulto nell'oscurità.

– Tieni. Vai. Va' là dentro e uccidi tuo fratello. L'hai abbandonato a marcire appeso come una bestia al macello… Vai a terminare l'opera!

Un lungo silenzio. Un leggero tonfo metallico.

– Non ce la faccio, Findo… non ce la faccio più a vederlo così. Cosa dobbiamo fare?

– Aspettare. Sta arrivando a toccare il fondo. Deve ripercorrere tutto l'orrore per riuscire a risalire.

– Come fai a saperlo?

– Ho avuto anch'io il mio orrore da affrontare, Káno.

– Come ne sei uscito?

– Avevo qualcosa per cui valeva la pena farlo. Mi ci sono aggrappato con tutte le mie forze.

– E lui, ce l'ha?

– Lo spero.

 

 

*******

 

 

Sperava che per quel turno l'avrebbero lasciato in pace. Era già successo qualche volta. Un intero turno di guardia senza dolore. Ultimamente accadeva più spesso.

Forse si sarebbero dimenticati di lui. Forse non gli avrebbero più dato da mangiare e finalmente il suo spirito avrebbe abbandonato quella carcassa marcescente.

Ma alla fine arrivarono. Invece di affliggerlo con nuovo dolore, fecero qualcosa che non avevano mai fatto. Gli si avvicinarono con circospezione, lo liberarono dalla catena e lo trascinarono fuori.

Aleggiava un tenue bagliore grigiastro. Sufficiente per accecarlo, dopo il lungo soggiorno nell'oscurità. 

Quando i suoi occhi si abituarono, riconobbe il piazzale dove gli era stata recisa la treccia. Pullulava di Orchi indaffarati. Chi riponeva o prelevava armi, chi distribuiva cibo a un'orda appena rientrata, chi impartiva ordini a una che stava per lasciare la fortezza: un mondo popolato da Orchi.

E lui? Si confondeva con loro ora che non riusciva a mantenere la posizione eretta, la pelle grigia e tumefatta, il viso deformato dalle percosse, i corti capelli incrostati di sporcizia… oppure si poteva ancora annoverare tra gli Eldar?

Alzò gli occhi alle stelle, come per cercare conferma. Ma il cielo era coperto da una pesante cortina plumbea. Sembrava un fitta nebbia scura, o fumo, forse. Niente stelle. Solo quell'inconsueta luce malsana, come di una torcia morente dietro un telo putrido.

Con una scorta di una ventina di Orchi lasciarono la fortezza e si diressero verso le montagne. Non essendo lui in grado di reggersi in piedi, cominciarono col trascinarselo appresso come un sacco, poi, quando il terreno cominciò a salire, se lo caricarono sulle spalle.

Si addentrarono sempre più tra le alture, irti picchi scuri rocciosi contro un cielo che da grigio plumbeo virava al nero più cupo. Si inerpicarono per sentieri scoscesi che solo i servi del Nemico riuscivano a riconoscere come tali.

Cosa volevano farne di lui? Abbandonarlo in un crepaccio preda delle bestie? Perché darsi tanta pena, se avevano deciso di porre fine alla sua vita?

La marcia si concluse ai piedi di un alto picco, su una terrazza di roccia levigata che si affacciava a sbalzo sul nero abisso. Gli Orchi lo scaricarono malamente presso il ciglio e si allontanarono di qualche passo. Sembravano improvvisamente inquieti, quasi spaventati.

Ed ecco, dall'abisso sotto di loro sorgere un'enorme ombra cupa, che pian piano prese forma vagamente antropomorfa.

Anche se gli Orchi non si fossero prostrati davanti ad essa, Nelyafinwë non avrebbe avuto alcun dubbio sulla sua identità. L'ombra emanava una potenza annichilente, come se lo spazio occupato dallo spirito che la abitava non si limitasse a un confine preciso, ma si espandesse ad occupare anche i corpi di coloro che gli stavano intorno.

Nelyafinwë, ridotto a un mero fantasma di ciò che era stato, non ebbe la forza di opporsi a quell'attacco.

Colui che un tempo veniva chiamato Melkor irruppe nella sua essenza. Trovò la via per insinuarsi nel profondo della sua anima e vi penetrò. E mentre penetrava non procurava dolore ma, al contrario, lo asportava. Leniva la sofferenza, placava la stanchezza, riscaldava le membra.

E parlava. Parlava al suo cuore con parole di seduzione destinate a lui soltanto.

Nelyafinwë, terzo del tuo nome. Erede di Fëanáro. Re dei Noldor.

Parlava l'ombra e, mentre parlava, sondava la sua mente. Sondava il suo cuore. Rovistava nei recessi più profondi e trovava cose che lui stesso pensava di aver dimenticato. Deboli incomprensioni e piccoli timori, che ora apparivano grandi torti e paure insormontabili. E sembrava offrirgli una soluzione per ogni cosa. L'autorità per farsi valere sui fratelli. Il potere per essere riconosciuto Re. La forza per eguagliare il padre. Per superarlo.

I Silmarilli sono tuoi di diritto, diceva, e la sua voce era come un tocco sensuale che accarezzava il suo spirito straziato. 

Tre Silmarilli, sette fratelli. Insinuava. Sarebbe la fine della casa di Fëanáro.

La voce sondava, e parlava in risposta a ciò che scovava. Trovava i desideri nascosti, li portava alla luce, li ripuliva dalla vergogna e glieli offriva in dono.

Con un Silmaril adornerai la tua corona e regnerai su tutti i Quendi dell'Endor e su tutti gli Atani che verranno.

Il tuo giudizio sarà assoluto, le tue leggi incontestabili.

Sondava. Sempre più in profondità. 

Al tuo fianco potrai avere chiunque tu desideri.

Lunghi capelli neri intrecciati d'oro balenarono nella sua mente. Il Nemico si era spinto nell'affondo finale.

Ma se si aspettava una resa, ottenne l'effetto opposto. Nelyafinwë mai avrebbe permesso ad alcuno di macchiare il ricordo di ciò che aveva avuto di più caro al mondo. L'accenno al cugino, invece di farlo capitolare, gli diede la forza di chiudere la mente. 

Come un tuffo in acqua ghiacciata, in un istante gli si riversò addosso tutto il dolore del suo corpo martoriato. Le ferite, le fratture, le lacerazioni, il freddo che aggrediva la sua pelle nuda. 

Vide l'ombra, che ora lo avvolgeva in un abbraccio voluttuoso, perdere la presa e indietreggiare di qualche spanna. Si accorse di essere in piedi e, invece di crollare nuovamente in ginocchio, riuscì a mantenersi eretto di fronte al Nemico.

In un impeto di orgoglio gli sputò addosso saliva e disprezzo.

– Io sono il figlio di Curufinwë Fëanáro Finwion, colui che ti chiuse la porta in faccia quando tutti a Tirion pendevano dalle tue labbra. Le tue menzogne non hanno presa su di me, Moringotto. Non sarò mai uno strumento nelle tue mani.

Per un attimo sembrò quasi che l'ombra chinasse il capo in segno di rispetto, poi esplose in una risata bassa e profonda.

– Questo lo vedremo – disse, e la sua voce ora risuonava come un tuono tra le montagne di nera roccia.

Si piegò su di lui. Un braccio si svelò. All'estremità, un maglio d'acciaio. Gli afferrò il polso destro e lo sollevò da terra. In alto, sempre più in alto. Man mano che saliva, l'ombra che celava la forma fisica scelta dal Vala per sé stesso si dissolse, lasciando intravedere un'immensa armatura nera come giaietto e una corona sormontata da tre accecanti bagliori, irraggiungibili promesse di redenzione.

Il maglio che cingeva il suo braccio scattò in avanti verso la parete a un'altezza vertiginosa. Impattò contro di essa. Il contraccolpo gli slogò la spalla. Un brivido freddo attorno al polso e poi fu rilasciato. Cadde per meno di una spanna: il polso era intrappolato in un anello di ferro appeso a una corta catena ancorata alla roccia. Sotto di lui, il vuoto.

– Lo vedremo – ripeté il Nemico, le cui sembianze erano nuovamente nascoste dall'ombra che tornava a perdersi nell'oscurità dell'abisso. 

Nelyafinwë rimase solo.

Solo, ma con la consapevolezza di aver respinto la Potenza divina.

L'orgoglio arse allora ancor più vivido nel suo cuore. Era come una fiamma che lo accendeva, lo accecava, lo bruciava, lo consumava. Rendendolo ora più che mai somigliante al padre.

Non avrebbe supplicato ("Non abbiate paura…")
non avrebbe implorato ("… voi che avete rinunciato alla codardia…")
non avrebbe ceduto ("… resistete…").

Avrebbe invece odiato ("… fedeli al Giuramento…")
e continuato ad odiare ("… e portate a compimento la vendetta").

Che il destino gli riservasse una fine rapida o un eterno tormento, o persino una liberazione insperata, Nelyafinwë avrebbe odiato per tutto il tempo che gli rimaneva da vivere.

 

_____________________

 

Note Finali

01.
Quenya - Sindarin
Makalaurë (Kanafinwë, Káno): Maglor
Ambarussa: Amrod e Amras
Nolofinwë: Fingolfin
Valaraukar: i Balrog
Moringotto: Morgoth
Curufinwë Fëanáro: Fëanor
Finwion: figlio di Finwë

02.
Russandol è il soprannome (l'epessë) di Maedhros, ed è riferito ai suoi capelli ramati. Gli è stato dato dai suoi fratelli e dai suoi familiari.

03.
"Terzo del tuo nome…"
Il significato di Nelyafinwë, il nome che Fëanor ha scelto per il suo primogenito, è "terzo Finwë", dopo il nonno e il padre (Finwë e Curufinwë)

04.
Quendi, ovvero "coloro che parlano con voci" e Atani, ovvero "il secondo popolo"
In sostanza: Elfi e Uomini
 

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Capitolo 3
*** Il risveglio ***


 

Capitolo terzo: Il risveglio


________
 

Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

________

 

 

Quando riemerse dagli incubi si rese subito conto che qualcosa era cambiato. Provava una sensazione strana, indecifrabile. 

Aprì gli occhi. Era sdraiato sulla schiena, le braccia adagiate su un lenzuolo bianco che copriva il resto del corpo. Nella mano stringeva un lembo del mantello di Findekáno, il moncherino era fasciato con bende pulite. 

Rimase immobile per un lungo istante davanti a quel triste spettacolo. Il mantello e il moncherino. La libertà e il suo prezzo. Poco a poco emerse il ricordo. Prima annebbiato, poi più chiaro, infine doloroso: Findekáno che gridava disperato tra le lacrime, sotto una pioggia di sangue, mentre infieriva sul suo polso con il pugnale. Si trovò a pensare, forse non per la prima volta, che non avrebbe mai dovuto scendere vivo da quel picco.

Ma, a quanto pareva, il destino non la pensava allo stesso modo, perché ora si trovava al sicuro, da qualche parte, medicato e accudito.

Quando cercò di mettersi a sedere, fece istintivamente forza sul braccio sbagliato e fu allora che riuscì a dare un nome alla sensazione che lo pervadeva fin dal suo risveglio: assenza di dolore. Il polso reciso, infatti, sottoposto al carico di tutto il suo peso, non aveva mandato che un debole fastidio!

Assenza di dolore. Era davvero possibile o era un altro dei suoi deliri, una finzione, un inganno del Nemico? Per verificarlo si appoggiò al braccio sinistro e si mise seduto. Mantello e lenzuolo gli scivolarono in grembo e scoprirono il torso.

Cicatrici profonde, ma rimarginate. Nessuna traccia di ematoma. Magro, ma non più scheletrico.

Portò allora la mano alla spalla destra e strinse con cautela. Nessun dolore. Poi se la passò sul viso. Come rilievi sotto le sue dita scorrevano i solchi delle cicatrici, ma le ossa sembravano aver riassunto le proporzioni consuete e non facevano male al tatto. Infine affondò la mano tra i capelli. Li sentì folti, morbidi, puliti. Arrivavano fin quasi alle spalle.

Si guardò intorno: l'interno di una tenda a pianta rettangolare, pareti di tela color grigio-verde e un tetto a due falde ben teso sopra di lui. Un ambiente piccolo, ma non angusto. Stuoie pulite distese a coprire il pavimento. A sinistra un giaciglio come il suo, lenzuola bianche tirate su un sottile pagliericcio, davanti a lui alcune grandi borse di cuoio disposte ordinatamente vicino all'entrata.

Una piccola tenda da campo, dunque, uno spettacolo che poteva essere familiare… non fosse stato per la luce. Una luce forte, calda, dorata, che penetrava attraverso la tela e si insinuava tra i lembi di stoffa accostati che coprivano l'ingresso, rendendo ogni cosa troppo nitida, troppo brillante.

E mentre, confuso, si chiedeva quale potesse essere l'origine di quel prodigio, l'entrata si spalancò e apparve una figura alta e snella, scura contro quel chiarore abbagliante, ma con lingue dorate tra i capelli che scintillavano attorno al viso in ombra e seguivano il profilo armonioso delle spalle.

I suoi occhi ci misero qualche istante ad abituarsi alla luce e la sua mente ci mise ancora di più ad accettare per vero ciò che riconobbe. Findekáno stava di fronte a lui. Col viso stanco, affilato, e gli occhi arrossati; con una ciotola in mano e un cucchiaio nell'altra; con una maglia blu di tela grezza, pantaloni dall'aria consunta e i piedi nudi. Findekáno era lì, reale, a pochi passi da lui... e lui non sapeva assolutamente cosa provare.

Né il cugino gli diede il tempo di elaborare la cosa, perché appena lo vide, seduto e cosciente, ciotola e cucchiaio finirono per terra, schizzando minestra sulla stuoia ai suoi piedi, un ampio sorriso gli illuminò il volto e in un attimo era in ginocchio presso di lui e lo stringeva tra le braccia.

Nelyafinwë si trovò impreparato. Chi era quest'Elda che lo intrappolava nella sua presa ferrea?

Era suo cugino, il suo migliore amico, il suo salvatore? O non era piuttosto un essere perfetto, integro nel corpo, immacolato nello spirito, che non aveva più nulla a che vedere con lui?

Per la prima volta dal suo risveglio percepì l'odio in agguato. Annidato nel suo cuore, pronto ad esplodere per sopprimere i sentimenti ingestibili.

Spinse via il cugino. Mano e moncherino insieme contro il suo petto, con forza inaspettata, lo scaraventarono contro la parete opposta. Voleva fargli del male? O voleva piuttosto evitare di fargli del male? Non avrebbe saputo dirlo, il confine tra i due estremi era labile come i suoi pensieri sfilacciati.

Findekáno alzò le mani in un gesto istintivo di difesa e restò immobile, guardingo. Nelyafinwë, libero dall'abbraccio, recuperò poco a poco il controllo di sé.

– Perdonami – disse, con una voce roca che stentò a riconoscere come propria.

Il volto del cugino si distese. – No, no, è colpa mia – si scusò. – Non avrei dovuto saltarti addosso in quel modo!

Gli si riavvicinò, ma con cautela. Nelyafinwë notò solo allora macchie violacee sul suo collo. Le impronte delle dita di una mano. Singola. Non c'era bisogno di un grande intuito per capire chi gliele aveva lasciate. Rabbrividì e gli sembrò di ricordare stralci di una conversazione sognata.

Findekáno notò la direzione del suo sguardo. – È meno grave di quello che sembra, te l'assicuro… – cominciò esitante, – non avrei dovuto cercare di toglierti di mano il mantello… 

Nelyafinwë si guardò in grembo. Il suo giaciglio era pulito, così come il suo corpo, ma il mantello di Findekáno era ancora macchiato di sangue rappreso e di sporcizia. Puzzava come la cella che l'aveva ospitato. Lentamente lo consegnò al cugino. Provò uno strano senso di riluttanza a separarsene. 

– Perdonami – ripeté. Sembrava non sapesse dire altro. Si sforzò di aggiungere qualcosa, ma i pensieri faticavano a prendere forma nella sua mente e, quando vi riuscivano, sfuggivano ben prima che potesse tramutarli in parole. Non riuscì a produrre che un balbettio incoerente: – Mi ci sono... aggrappato.

Findekáno annuì, come se quelle parole confuse avessero per lui un significato profondo. Accettò il mantello che gli veniva porto e si alzò. Raccolse la ciotola e il cucchiaio, arrotolò la stuoia macchiata e la prese con sé. 

– Torno subito – lo rassicurò, prima di uscire.

E davvero tornò, prima ancora che lui potesse decidere se la sua assenza fosse qualcosa che desiderava o che temeva. Portava con sé una nuova ciotola e un involto di tessuto. Appoggiò l'involto sul giaciglio e si sedette accanto a lui.

Nelyafinwë lo osservò silenzioso. Si stava accorgendo che, se pensare era difficile, parlare era quasi impossibile. Sembrava che il prezzo per la sua liberazione andasse ben oltre la perdita di una mano. Sembrava coinvolgesse l'incapacità di formulare pensieri coerenti, di esprimersi col linguaggio e, più di ogni altra cosa, quella di dominare i propri sentimenti contrastanti.

Guardando la ciotola che il cugino stringeva tra le mani, quel pasto chiaramente preparato apposta per lui, nutriente e facile da somministrare, invece che essere pervaso dalla gratitudine veniva assalito da domande scomode.

L'aveva sfamato il cugino per tutto questo tempo? L'aveva imboccato finché uno scatto d'ira inconsulto non aveva fatto finire minestra in giro per tutta la tenda? Peggio ancora: quando, perso tra sogni allucinatori, ricordava la brodaglia degli Orchi, era la zuppa di Findekáno che stava trangugiando o rigettando?

Alla fine le parole vennero fuori da sole, con un accento più aggressivo di quel che avrebbe voluto.

– Mi hai nutrito tu? – chiese, secco.

– Come? – domandò il cugino colto alla sprovvista, con lo sguardo di chi si attendeva un altro genere di domande… o forse nessuna del tutto.

– Mi hai dato da mangiare tu mentre ero… inconsapevole di ciò che accadeva? – ripeté, facendo uno sforzo terribile nel mettere quei pochi vocaboli uno di seguito all'altro.

Findekáno esitò, forse alla ricerca delle parole adatte per rispondere senza dover ricorrere alla menzogna.

– Quando me l'hai permesso – replicò infine, cauto.

L'ambiguità della risposta accrebbe il disagio di Nelyafinwë. La vista del cugino, con le sue mani abili, il suo viso privo di imperfezioni, i suoi occhi che non tradivano incertezze, suscitava in lui un misto di invidia e di vergogna, e una profonda inadeguatezza che lo faceva sentire indifeso. 

– Ti sei preso tu cura di me? – gli venne fuori in un tono quasi offensivo, come se non lo ritenesse capace di un compito così delicato. Eppure non c'era niente di più falso, Nelyafinwë riteneva Findekáno capace di tutto.

Il cugino non raccolse la provocazione, anche se il suo sguardo si incupì. – Un guaritore ti ha medicato, poi ti ha lasciato alle mie cure – rispose, senza aggiungere altro. 

– Perché non mi hai riportato dai miei fratelli? – lo incalzò allora Nelyafinwë.

Ma dentro di sé si chiese perché aveva fatto quella domanda, quando lui per primo non avrebbe mai voluto essere portato da loro, ridotto in quello stato. Un peso quando doveva essere una guida, un problema quando doveva essere una soluzione. 

– Non sapevamo se saresti riuscito a venirne fuori… indenne – rispose il cugino.

Nelyafinwë afferrò il significato sotteso a quelle parole: tra recuperare l'erede di Fëanáro fuori di senno e recuperare l'erede di Fëanáro morto, non c'erano dubbi su quale fosse l'alternativa migliore. D'altronde, nel secondo caso, ce n'erano altri sei che potevano pendere il suo posto. Improvvisamente si sentì esausto e svuotato, e non desiderò altro che chiudere quella conversazione iniziata male e chiaramente destinata a finire peggio.

E invece continuò, in una parodia perversa delle loro antiche schermaglie verbali, nelle quali ognuno cercava di prevalere sull'altro a colpi di frecciate ironiche e che si concludevano sempre tra le risate. Ebbene questa si sarebbe conclusa con Findekáno che gli riversava addosso tutto il suo rancore, finalmente, invece di quella disgustosa, insopportabile, immeritata compassione!

– Mi hai lavato tu? – chiese con un tono volutamente provocatorio, e tuttavia non riuscì a impedirsi di arrossire leggermente al pensiero che un gesto così intimo fosse intercorso tra loro.

– Si, Nelyo – sbottò Findekáno, esasperato, – ti ho lavato, ti ho dato da mangiare, ti ho cambiato le medicazioni, ho vegliato accanto a te, ti ho tenuto quando avevi bisogno di essere tenuto e mi sono allontanato quando avevi bisogno di stare solo. Come vedi, non ci sono che io qui.

Di fronte all'esposizione brutale di tutto ciò che il cugino aveva fatto per lui, Nelyafinwë fu completamente avvinto dalla vergogna e, come estrema provocazione, gridò: – Stai mentendo! Ricordo Makalaurë… 

– Káno è stato qui diverse volte, è vero – lo interruppe bruscamente il cugino che, contrariamente a quanto Nelyafinwë si era aspettato, non sembrava affatto intimidito dall'accenno al fratello, – ma non si è offerto di accudirti… e comunque non gli avrei mai permesso di avvicinarsi a te.

Il rumore di una lama che viene sguainata emerse dalla nebbia dei ricordi. Come per sovrastarlo, Nelyafinwë alzò la voce: – E questo che significa? 

Findekáno sembrò meditare a lungo sulla risposta, negli occhi uno sguardo indecifrabile. Poi, con un repentino cambio di tattica, pose fine a quel gioco al massacro. 

– Significa che adesso il tuo pasto te lo mangi da solo – disse. Gli posò in grembo la ciotola della zuppa, si alzò e uscì.

La sua voce, ora scherzosa, lo raggiunse da fuori: – Se ci riesci!

 

-

 

Ci riuscì.

Anzi, fu proprio il concentrarsi sull'arduo compito di mangiare che lo aiutò a riemergere dalla confusione che gli annebbiava la mente.

Bloccò la ciotola tra le ginocchia e impugnò il cucchiaio. Dopo qualche boccone incerto acquisì dimestichezza. La zuppa era buona e il suo stomaco la accettò volentieri. 

Terminato il pasto, rivolse la sua attenzione al fagotto che il cugino aveva lasciato presso di lui. Erano vestiti. Una maglia e una casacca beige prive di bottoni, notò, e pantaloni di morbida stoffa marrone, chiusi da un laccio alla vita.

Vestirsi fu molto impegnativo, ma non spiacevole. Rimanere focalizzato su un compito pratico gli permetteva di mantenere i pensieri entro i limiti della razionalità. Ebbe qualche difficoltà con i pantaloni, che non riuscì ad allacciare, ma per il resto se la cavò. Gli abiti erano suoi e pur standogli larghi lo mettevano a proprio agio. Se non altro nascondevano le cicatrici che coprivano il suo corpo. Lo facevano sentire meno esposto, meno vulnerabile.

Gratificato da quelle conquiste, provò ad alzarsi in piedi. Ma le gambe, ancora troppo deboli o non più abituate all'uso, non lo ressero e rovinò al suolo.

Il rumore fece accorrere Findekáno. Alla vista dell'amico per terra parve allarmarsi, ma i suoi movimenti erano pacati quando lo raggiunse per aiutarlo e la sua presa salda non durò più del tempo necessario per rimetterlo in piedi. Non una parola uscì dalle sue labbra e Nelyafinwë riuscì ad accettare senza difficoltà il suo intervento discreto.

Ma quando il cugino si chinò per legargli i lacci dei pantaloni, il suo autocontrollo venne messo a dura prova. Vederlo in quella posizione inconsueta, oltre a farlo sentire vergognosamente inadeguato, risvegliò in lui l'eco di un desiderio che pensava di aver soppresso per sempre.

Le ferite potevano essersi rimarginate, ma l'anima era ancora lacera, esposta spietatamente al mondo. Emozioni, sentimenti, pulsioni, desideri, esplodevano fuori controllo al minimo stimolo. 

Chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro. Quando li riaprì, Findekáno era in piedi davanti a lui e gli porgeva un braccio al quale appoggiarsi. Lui lo accettò esitante e così sorretto uscì dalla tenda con passi incerti.

La luce dorata che lo aveva tanto incuriosito li investì. Ed ora poteva vederne la sorgente: in alto nel cielo splendeva un disco talmente abbagliante da non potervi soffermare lo sguardo. Illuminata da questo prodigio, intorno a loro la natura tutta riluceva di tonalità accese, che portavano alla memoria lo splendore del Reame Beato.

L'erba della piccola radura in cui era stata eretta la tenda brillava del colore dei giovani germogli, le chiome degli alberi che circondavano lo spiazzo rilucevano di tutte le tonalità del verde, cangianti nella brezza che le increspava. I tronchi sottostanti erano di un caldo marrone acceso. Il focolare presso la tenda era un cerchio di pietre bianche candide attorno a resti di carbone nero come la notte. Uno spettacolo che quasi accecava la vista, tanto era diverso dal debole chiarore stellare al quale erano stati costretti ad abituarsi.

Nelyafinwë restò senza parole per un lungo momento. Poi chiese, stupefatto: – Che cos'è?

– Questa è Vása, il sole – disse Findekáno, e al suo sguardo interrogativo proseguì: – I Valar sono davvero imperscrutabili… prima ti maledicono, poi ti mandano doni. Come un'Aquila gigante. O un frutto di Laurelin che quando è alto nel cielo mette in fuga i servi del Nemico. 

– O come un amico che credevi ti avesse dimenticato – aggiunse Nelyafinwë, e nell'attimo stesso in cui quelle parole sfuggirono dalle sue labbra seppe che erano quelle sbagliate.

Findekáno reagì come se avesse ricevuto un pugno in faccia.

– Questo credevi di me? – alzò la voce e si allontanò quanto più poteva, senza però fargli mancare l'appoggio. – Come hai potuto? – gli domandò incredulo. – Come potevi pensare questo, dopo che davanti al tuo Giuramento ho preso posizione contro il mio stesso padre?

Nelyafinwë non avrebbe mai dimenticato quel momento. A quell'epoca lui e il cugino non si frequentavano più da diverso tempo, ma quanto orgoglio aveva suscitato in lui il comportamento di Findekáno, sempre pronto a difendere le sue idee davanti a chiunque! Vederlo sostenere la partenza dei Noldor gli aveva fatto credere di essere nel giusto, nonostante il suo cuore gli suggerisse diversamente. Se anche Findekáno approvava quell'impresa, si era detto, forse non tutto era sbagliato e, in quel momento fatidico in cui veniva decisa la sorte di tutti, loro due venivano destinati a compiere grandi gesta insieme, di nuovo fianco a fianco.

– Ricordo i tuoi atti e le tue parole. – Nelyafinwë abbassò lo sguardo, assalito invece da un altro ricordo, quello della costa in fiamme, quello del tradimento. In un mormorio a malapena udibile, sussurrò: – Ma le navi…?

– Neanche per un momento ho creduto che tu avessi avuto a che fare con l'incendio delle navi. – Findekáno riusciva sempre a sorprenderlo con risposte di una semplicità disarmante.

Ma stavolta quell'innocenza lo fece sentire a disagio. Metteva in evidenza le sue colpe. Fuoco che brucia sull'acqua. Spalle voltate davanti alla follia.

– Non ho appiccato il fuoco io stesso, è vero… ma non ho fatto nulla per fermare mio padre! – esclamò, ammettendo il suo torto davanti a quell'irritante candore.

– Nelyo – cominciò il cugino, con un tono calmo e ragionevole che indisponeva Nelyafinwë ancor più delle grida, – come puoi fartene una colpa? Nessuno, nemmeno i Valar stessi, ha mai potuto distogliere Fëanáro dalle sue decisioni.

Poi, come parlando tre sé, aggiunse: – Spirito di Fuoco, che Eru lo perdoni.

Spirito di Fuoco. Suo padre, il più grande di tutti i Noldor. Suo padre, cenere incandescente dispersa nel vento.

Aveva ucciso, a causa sua. Aveva implorato la morte, a causa sua. Aveva rinunciato a ciò che aveva di più caro.

E adesso Findekáno si permetteva di pronunciare il suo nome. Si permetteva di averne pietà, di implorare per lui la compassione dell'Unico. Mettendolo di fronte a una cosa che lui non era in grado di fare.

Non voleva il perdono per suo padre! Non voleva il perdono per nessuno! L'odio finalmente tornò a divampare nel suo cuore, bruciando ogni emozione, ogni colpa, ogni rimorso, ogni vergogna. Così come il fuoco aveva divorato quelle navi maledette.

Si allontanò di scatto, lasciando la presa sul braccio del cugino. Fece qualche passo indietro, ma perse l'equilibrio. Inciampò. Allungò un braccio per attenuare l'impatto col terreno. Era il destro. Finì con la faccia nell'erba, fitte alla spalla e a ciò che rimaneva del polso.

Findekáno lo raggiunse per aiutarlo. Lui lo respinse in malo modo. Lo respinse urlando.

Il cugino allora gli voltò le spalle e si allontanò. Nelyafinwë lo sentì mormorare ancora: – Che Eru lo perdoni, per tutto questo.
 

-
 

Seduto per terra, al centro della radura, cercò di calmarsi facendo respiri profondi e concentrandosi sul paesaggio intorno a lui. Poco a poco riprese il contatto con la realtà. L'erba morbida sotto di sé, gli alberi che lo circondavano, la tenda con accanto i resti del focolare.

Lasciò che lo sguardo vagasse oltre la tenda, dove una leggera salita conduceva a una sorgente che dava origine a un piccolo ruscello. Più sopra, un sentiero si inoltrava tra gli alberi che coprivano le falde del monte fino al punto in cui emergeva la grigia roccia. Tornò poi a guardare innanzi a sé, dove il bosco lasciava spazio a un sentiero più ampio che scendeva verso il fondo della valle.

Infine, quando sentì di aver ripreso il controllo, guardò alla sua destra, nella direzione presa da Findekáno. Lo vide in un punto in cui gli alberi si aprivano su una piccola terrazza erbosa. Gli dava le spalle e guardava qualcosa ai suoi piedi.

Cercò di alzarsi. Ci riuscì a fatica, la testa gli girava, le gambe gli tremavano. Avanzò incerto fino a raggiungere il cugino. Gli appoggiò la mano su una spalla. Per reggersi, ma non solo. Per chiedergli nuovamente scusa. Per fargli capire che non voleva allontanarlo di nuovo.

Findekáno non si mosse e Nelyafinwë allora si portò al suo fianco e gli circondò le spalle con il braccio. Automatico arrivò quello del cugino attorno alla sua vita scarna. Così sorretto si concentrò sullo spettacolo che si apriva davanti ai suoi occhi.

Nella vallata sottostante un lago cristallino rifletteva il celeste abbagliante del cielo sereno. Le vette delle montagne che lo racchiudevano sembravano emergere da esso e contemporaneamente affondarvi, dando origine a un mondo speculare nitido e reale come quello vero.

Era uno spettacolo pieno di fascino. Rimasero a lungo immobili, in silenzio, come erano soliti fare un tempo, quando assistevano ai giochi cromatici prodotti dall'alternanza delle luci sui paesaggi di Valinor. Rimasero fianco a fianco finché il sole fece tutto il suo corso e cominciò a scendere dietro le montagne di fronte a loro, incendiando le cime all'orizzonte.

Infine il cugino osò rompere il silenzio, sfidando il pericolo che una nuova conversazione avrebbe potuto scatenare. Dopotutto era sempre stato lui, se non il più coraggioso, senz'altro il più avventato.

– È un bel posto, vero?

– Dove siamo? – domandò Nelyafinwë.

– A circa un giorno di viaggio a sud del Mistaringwë, volendo andare a piedi.

– Perché proprio qui?

– Perché qui il sole sorge ancora – rispose Findekáno. – Più a Nord il cielo è sempre coperto dalla nube oscura che conosci bene. Abbiamo pensato che la tua guarigione, se fosse stata possibile, sarebbe dovuta avvenire alla luce.

– È un bel posto – confermò Nelyafinwë, dopo un lungo momento.

– Già – annuì il cugino guardando il lago. Poi continuò, in tono più leggero: – Sembra quasi che oltre la superficie possa esistere davvero un mondo uguale al nostro… e magari ci siamo anche noi due, che stiamo guardando quassù chiedendoci la stessa cosa.

– Magari è un mondo in cui… – Nelyafinwë esitò, alla ricerca della parola per descrivere la morte degli Alberi e tutto il dramma che ne era seguito, – … in cui il crepuscolo non è mai calato – concluse. 

– Se non fosse calato il crepuscolo – disse Findekáno, – noi non saremmo affacciati su questo lago.

– Saremmo ancora in Aman – osservò Nelyafinwë.

– A ignorarci – concluse il cugino sottovoce, e strinse la presa attorno alla sua vita.

Ma Nelyafinwë si sciolse dall'abbraccio e si fece ricondurre al suo giaciglio, dove stette a lungo esausto e confuso.

 

 

*******

 

 

La comparsa del sole, gli aveva spiegato Findekáno, aveva ridefinito il concetto di scorrere del tempo. Il giorno, ora inteso come il periodo durante il quale Vása percorreva il suo corso nel cielo, e la notte si susseguivano a ritmi quasi frenetici, come a sottolineare l'urgenza della missione dei Noldor nella Terra di Mezzo.

Nelyafinwë vi faceva poco caso. Dal pomeriggio in cui, per la prima volta, aveva messo piede fuori dalla tenda, per lui i giorni erano cominciati a trascorrere identici. Mangiava ciò che gli preparava Findekáno, si vestiva con gli abiti che gli forniva, faceva gli esercizi fisici che gli imponeva e, quando calava il sole e gli veniva detto di riposare, riposava.

Non faceva più domande. Non aveva chiesto al cugino come fosse arrivato nell'Endor, né cosa fosse successo dal momento della sua cattura. Non aveva chiesto come stessero i suoi fratelli, o per quale motivo non si fossero ancora fatti vedere.

Aveva soppresso di proposito la propria volontà per riuscire a mantenere sedato l'odio che sempre minacciava di travolgerlo, pronto a esplodere contro sé stesso o, peggio, contro Findekáno. Era distaccato e mansueto, come lo era stato nella cella degli Orchi. Allora per allontanarsi dal dolore, adesso dalle conseguenze di quel dolore.

Ma quando arrivava la sera, quando, terminati tutti i suoi compiti, stava sdraiato nel suo giaciglio aspettando l'arrivo dell'incoscienza e degli incubi che essa portava con sé, allora aveva paura. E si disprezzava per questo. Avrebbe dovuto scacciare l'ombra del passato come si scaccia un insetto, con un noncurante gesto della mano, bruciare sulla pira del suo fuoco interiore i ricordi di tutto ciò che gli era stato inflitto per alimentare la sua determinazione nel perseguire il Giuramento.

Questo avrebbe fatto suo padre. Questo avrebbe voluto da lui. 

Invece giaceva al buio, preda di sentimenti contrastanti, che lo soffocavano, incapace di accettare l'aiuto che Findekáno cercava di dargli con parole di conforto o con gesti d'affetto.

Odiami, avrebbe voluto dirgli. Odiami per quello che ti ho fatto. Odiami per ciò che sono diventato. Odiami come io mi odio.

O forse avrebbe voluto dirgli: amami. Nonostante quello che ti ho fatto. Nonostante ciò che sono diventato. Amami ancora.

In quella tenda, di notte, quando tutti i suoi demoni tornavano ad assalirlo, non sopportava la presenza del cugino accanto a sé, e ancor meno ne sopportava l'assenza.

Findekáno, dopo aver fatto qualche vano tentativo di avvicinamento, aveva trovato il modo di risolvere anche questo dilemma. Una sera, invece di sdraiarsi accanto a lui, gli aveva consegnato un fagotto di stoffa blu scuro e l'aveva lasciato solo. 

Nelyafinwë ci aveva messo un attimo a capire di cosa si trattasse, poi aveva dispiegato il mantello e l'aveva stretto a sé. Aggrappato a quella stoffa rassicurante si era lasciato andare all'incoscienza.

Quando Findekáno era rientrato, lui era già affondato in un benevolo oblio privo di incubi.

In questo modo, una nuova consuetudine si era unita alle altre e un nuovo equilibrio era stato raggiunto.

 

______________

Note Finali:

01.
Il Sole
Vása (Heart of Fire, Cuore di Fuoco) è il nome dato dai Noldor al Sole. Gliel'ho fatto precisare a Findekáno, in modo del tutto superfluo ovviamente, perché poi durante la narrazione verrà chiamato semplicemente "il sole".

02.
Quenya - Sindarin
Mistaringwë: il lago Mithrim
Makalaurë (Kanafinwë, Káno): Maglor
Fëanáro: Fëanor

03.
Location
L'accampamento dei due cugini è sui Monti del Mithrim, catena montuosa che separa il Mithrim dal Dor-Lómin… notoriamente famosa per la presenza di ameni laghetti (sorry).

04.
Perché Maedhros ignora l'esistenza del sole?
È vero che quando il sole fece la sua comparsa, Fingolfin marciò fino alle porte di Angband, suonò le trombe e "Maedhros le udì tra i suoi tormenti e gridò forte, ma la sua voce si perdette negli echi del sasso." (Silmarillion, cap XIII - Il ritorno dei Noldor).
Ma io mi permetto di immaginare Thangorodrim avvolto in fumi ed esalazioni già da prima della comparsa dell'astro e, in ogni caso, all'arrivo di Fingolfin nella Terra di Mezzo, Maedhros è già appeso da diversi anni, quindi presumo che la sua capacità di percepire la realtà sia svanita da tempo (chissà cosa ha visto o non visto nei suoi deliri... e che significato gli abbia attribuito…).

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Capitolo 4
*** Findekáno ***


 

Capitolo Quarto - Findekáno


________
 

ATTENZIONE: Un breve cambio di punto di vista, da Nelyafinwë (Maedhros) a Findekáno (Fingon), è evidenziato in corsivo!

Come sempre:
Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

___________

 

 

Una notte si alzò un vento gelido. Le raffiche colpivano la tela della tenda che si gonfiava e sgonfiava con schiocchi sordi.

Nelyafinwë riemerse da sogni confusi. Si avvolse meglio nel mantello di Findekáno e stava per riprendere il suo riposo, quando notò che il cugino non era disteso accanto a lui.

Era seduto sul suo giaciglio e gli dava le spalle rivolto verso l'ingresso. Era a torso nudo, incurante del freddo; una cascata di capelli neri gli ricadeva sulla pallida schiena, lasciando intravedere nella penombra la forma scolpita dei suoi muscoli perfetti e la pelle liscia, priva di imperfezioni. Priva di cicatrici. Nelyafinwë si sentì assalire dal risentimento e temette l'arrivo dell'odio.

Poi Findekáno ebbe un leggero sussulto. Nelyafinwë pensò a un brivido di freddo, ma presto si accorse che era un singhiozzo trattenuto.

Suo cugino piangeva.

– Findekáno – sussurrò, mettendosi a sedere a sua volta. Ma il rumore del vento copriva ogni suono. Allungò allora la mano ad accarezzare i capelli dell'amico. Era in assoluto la prima volta da quando si era risvegliato, parecchi giorni addietro, che si lasciava andare a un gesto di tenerezza.

Findekáno trasalì al tocco, ma non si girò a guardarlo, anzi, borbottando parole di scusa, uscì dalla tenda e lo lasciò solo.

Quando Nelyafinwë lo raggiunse, poco dopo, lo trovò seduto presso la piccola terrazza erbosa affacciata sul lago; i lunghi capelli gli sferzavano il corpo in balia del vento. Gli si sedette accanto e coprì entrambi con il mantello che lo avvolgeva, debole riparo contro il freddo pungente.

La sua attenzione fu subito catturata dallo spettacolo che si apriva davanti a loro. Un luminoso disco brillava nel cielo limpido e buio, la sua argentea luce si rifletteva sulle acque del lago, increspate dal vento, come scintille su una tavola nera. Stelle generate dall'acqua.

Telperion. Non poteva che essere quella la sorgente di tale incanto. Dunque i Valar non avevano lasciato le cose a metà: un fiore di Telperion la notte, come un frutto di Laurelin di giorno.

Preso dalla meraviglia, quasi non si accorse delle parole che Findekáno pronunciò a voce così bassa da essere appena percepibili.

– A volte anche per me è difficile tenere a bada i miei demoni.

Si voltò verso di lui, e in quello sguardo, ancora umido di lacrime, Nelyafinwë vide una richiesta d'aiuto che non fu in grado di ignorare. Arrivassero pure l'odio, la vergogna, l'ira… li avrebbe affrontati e tenuti a bada, perché non poteva rifiutare all'amico un gesto di conforto, l'unico che gli aveva chiesto da quando l'aveva tirato giù da quel picco. La sua mano strinse quella del cugino. Era una presa forte, ormai non c'era più tremore nei suoi gesti, non c'era più debolezza nei suoi muscoli.

– È stato al primo sorgere di Rána, la luna, che siamo giunti nell'Endor – cominciò esitante il cugino.

Poi sembrò prendere coraggio e gli raccontò tutto.

 

-

 

Alla vista dell'incendio aveva temuto che Fëanáro e la sua schiera fossero stati attaccati, sconfitti e dati alle fiamme. Ma suo padre, Nolofinwë, aveva capito subito la realtà delle cose e aveva gridato il suo odio e la sua delusione contro il fratello. Il vento aveva disperso le sue grida e portato in risposta solo un ululato spezzato, simile a un'amara risata.

Findekáno non sapeva con certezza cosa avesse spinto il padre, secondogenito del Re, a partire per quell'impresa. Forse l'amore per lui, che sarebbe andato comunque. Forse la responsabilità verso il suo popolo, che sedotto dalle parole di Fëanáro bramava conquiste nella loro terra d'origine. Oppure semplicemente il tener fede alla parola data a suo fratello maggiore: "guida, io ti seguirò".

Sapeva però ciò che lo sosteneva in quel momento: l'orgoglio.

Stagliato contro l'orizzonte in fiamme, alto e fiero, mentre esortava il suo popolo a non cedere e a proseguire la marcia, lo si sarebbe difficilmente potuto distinguere dal quel fratellastro che diceva di odiare.

– Fëanáro si arroga il diritto di scegliere per tutti – li incitava, – vuole spingerci a rientrare a Valinor con il capo chino ad implorare il perdono delle Potenze. Ma io vi dico: noi non imploreremo nessuno, mai! Per una strada più lunga e più difficile arriveremo alla meta e, quando finalmente giungeremo, saranno lui e la sua schiera che si dovranno inchinare alle nostre gesta. Secondi per nascita, saremo primi per valore!

Lo seguirono tutti. Non uno decise di tornare.

Dapprima avevano percorso sentieri rocciosi che si inerpicavano tra le estreme cime montuose settentrionali. Un cammino infido, tra pietre acuminate che a tratti sbucavano dal ghiaccio scivoloso che le copriva. Poi il terreno si era fatto pianeggiante ed erano cominciate le tempeste di neve. Con corde si erano legati l'uno all'altro in una lunga fila, per timore di perdersi, perché il vento scagliava loro addosso cristalli di ghiaccio pungente e la visibilità si limitava a pochi passi innanzi a loro.

Soli e sperduti in un inferno cieco. La pelle del viso esposta bruciava e si crepava, i pesanti mantelli intrisi d'acqua gelida gravavano sulle loro spalle, le membra ghiacciate erano come fredde lame conficcate nel corpo, i piedi insensibili minacciavano di incespicare ad ogni passo. E ogni passo era più faticoso del precedente. 

Le soste, se possibile, erano peggiori delle marce. Difficilmente riuscivano ad ancorare le tende al suolo, spazzate dalla tempesta perenne. Il più delle volte restavano ammassati l'uno all'altro, tentando di ripararsi a vicenda dal vento, succhiando provviste congelate che diventavano via via più esigue. Riposavano in piedi, sorretti dai compagni. Alla ripresa del cammino, molti di coloro che erano stati ai margini del gruppo non ripartivano più. 

Suo padre, uno dei pochi a non essere legato, andava su e giù lungo la colonna a spronare il suo popolo, infondere conforto, accertarsi che nessuno fosse lasciato indietro. E quando lui era impegnato a condurre la schiera, Findekáno prendeva il suo posto e presto a lui si aggiunsero i figli di Arafinwë, Findaráto, il primogenito, e l'irriducibile Artanis.

Fu un viaggio interminabile, in una bufera di ghiaccio.

Quando finirono le provviste macellarono i pochi cavalli ancora vivi.

La tempesta calò improvvisamente quando il ghiaccio non poggiò più sulla terraferma, ma sul mare. Erano giunti al confine di Aman. Il cielo, finalmente limpido, era adorno di tutte le stelle di Varda. Il silenzio regnava assoluto. Sembrava che Eru stesso trattenesse il fiato per assistere all'impresa dei Noldor.

Nolofinwë ordinò di rimuovere le corde e di abbandonare carichi pesanti che ancora avessero con loro. Armature, scudi, altri oggetti personali, tutto doveva essere lasciato indietro. Che conservassero soltanto i mantelli per proteggersi dal freddo, la spada per difendersi e il poco cibo rimasto per sostenersi. Poi si mise alla testa della colonna e avanzò sul ghiaccio.

Fu un percorso tortuoso, perennemente alla ricerca dei punti dove il ghiaccio era abbastanza spesso da sorreggere il loro peso. Nel silenzio assoluto si udivano solo gli scricchiolii sinistri sotto i loro piedi stanchi e gelidi. Durante le soste non si riunivano in più di quattro o cinque, per evitare un carico eccessivo. Quando la carne di cavallo finì, rimasero digiuni. Molti caddero, stremati dalla fame e dalla fatica.

Infine, contro ogni speranza, arrivarono a vedere nuovamente la terra. Davanti alla costa incombevano imponenti montagne di ghiaccio, enormi blocchi rimasti intrappolati tra gli scogli e immobilizzati dal mare congelato. Ma dietro di essi si intravedeva inequivocabile la nuda roccia grigia di vette fatte di pietra: erano giunti nell'Endor.

Affamati e allo stremo delle forze, credettero di essere finalmente in salvo, a un passo dalla meta, mentre percorrevano strette gole tra quei picchi di ghiaccio. Ma la temperatura meno rigida aveva reso la lastra sotto i loro piedi più sottile e i blocchi che incombevano sulle loro teste meno saldi. Alcuni di essi si staccarono, piombando su di loro, fracassando il fragile strato congelato e trascinando nell'acqua ciò che trovavano sul loro cammino.

Parecchi altri compagni morirono il tal modo, prima che la schiera finalmente si mettesse in salvo sulla solida roccia.

 

-

 

– Tra questi, Elenwë, la moglie di mio fratello – disse Findekáno dopo una lunga pausa.

L'eterea Elenwë, dai capelli dorati, della stirpe dei Vanyar. Nelyafinwë se la ricordava bene.

– Turukáno e la sua famiglia erano lontani davanti a me quando un blocco di ghiaccio li ha travolti, spaccando la lastra sotto di loro e trascinandoli in acqua. Mio fratello è riemerso quasi subito con la figlia tra le braccia. L'ha consegnata nelle mani di alcuni attendenti ed è tornato sott'acqua, alla ricerca di Elenwë.

La voce di Findekáno si ridusse a un sussurro quasi impercettibile, nel vento che soffiava imperterrito. – Non sono riuscito a raggiungerlo, Nelyo… correvo… ma slittavo… inciampavo…

Per un attimo sembrò non riuscire a dire altro, poi continuò: – Mio padre invece ha mantenuto la calma… quando ha perso l'equilibrio ha sfruttato il ghiaccio… è scivolato fino alla breccia e appena mio fratello è emerso per respirare lui l'ha afferrato per le spalle e l'ha trascinato fuori, con una forza sorprendente. Turukáno ha tentato di divincolarsi, ma era ormai prossimo al congelamento, e gli arti non gli rispondevano più. 

Nelyafinwë sentì il cugino rabbrividire contro la sua spalla. Senza pensarci, aprì la mano e la ruotò leggermente per cambiare la presa su quella dell'amico. Ora le loro dita erano intrecciate.

– Quando sono arrivato, pochi istanti dopo, il ghiaccio si era già richiuso. Ho cercato di estrarre la spada per infrangerlo, ma mio padre mi ha fermato. Stringeva ancora mio fratello con una mano, ma con l'altra mi bloccava il polso in una presa ferrea. Scuoteva la testa: non c'era più nulla da fare. Lo sguardo di Turukáno… non lo dimenticherò mai. Due occhi vuoti in un corpo disabitato, come se il suo spirito avesse già raggiunto la moglie a Mandos.

Findekáno tacque a lungo, lasciandolo disarmato ad affrontare nuovi sensi di colpa. Finora si era sentito responsabile dell'abbandono dell'amico più caro, del tradimento nei suoi confronti per non essersi opposto all'incendio delle navi. Ora scopriva che forse avrebbe potuto evitare qualcosa di molto simile a un altro fratricidio.

Ancora non arrivava a comprendere che nulla avrebbe potuto fermare Fëanáro nella sua corsa inarrestabile verso l'autodistruzione.

Ma il cugino non aveva ancora concluso il suo racconto, sembrava anzi che tutto il suo parlare non fosse altro che una lunga premessa per arrivare a quello che gli importava di più.

– Non avevo capito veramente cosa stava provando mio fratello in quel momento – disse. – Non l'ho davvero capito finché non sono stato su quel picco, con arco e freccia tra le mani, pronto ad ucciderti.

Findekáno cercò il suo sguardo, come se avesse bisogno di una conferma. Poi proseguì: – Solo quando ho rischiato di perderti irrimediabilmente, ho capito cosa ha provato mio fratello quando ha realizzato che avrebbe trascorso il resto della sua vita immortale da solo.

Il cugino abbassò gli occhi sulle loro mani, strette l'una nell'altra. – La mia colpa non è solo quella di essere sopravvissuto al ghiaccio. È quella di averti qui con me, ora.

Nelyafinwë restò senza parole, la mente confusa che arrancava nel tentativo di interpretare l'affermazione dell'amico. Findekáno, in un momento di fragilità, gli aveva confessato i sentimenti che provava per lui? O gli aveva semplicemente detto che l'amicizia che li aveva sempre legati era sopravvissuta al ghiaccio e all'abbandono intatta fino a quel giorno? O aveva frainteso tutto?

Una cosa però l'aveva capita senza pericolo di sbagliarsi, e cioè che le domande rischiavano di portare soltanto a incomprensioni maggiori. Così, prima ancora di rendersene conto, decise di comportarsi come avrebbe fatto il Nelyafinwë di Valinor, Maitimo incorrotto, come aveva sempre agito prima di trasformarsi in quell'essere arido e vuoto.

Scoprì, con sorpresa, che era meno difficile di quanto si aspettasse.

Sfilò la mano da quella di Findekáno e gli circondò le spalle. Lo attrasse a sé e gli fece appoggiare la testa sul proprio petto, come era accaduto sul dorso dell'Aquila, ma a parti invertite. Tentò di cingerlo anche con l'altro braccio, ma senza la mano con cui fare presa ottenne uno scarso risultato. Questa volta dominò la frustrazione senza difficoltà. Dominò la repulsione di sé stesso nel vedere la pelle immacolata di Findekáno contro il proprio petto grottesco. E, quando si chinò per posargli un leggero bacio sulla testa, dominò la risposta involontaria del proprio corpo al profumo dei suoi capelli.

Non aveva parole per consolarlo. Non ne aveva neppure per sé stesso. Sperò che trovasse conforto nel suo abbraccio goffo e nell'udire il battito forte del suo cuore.

Dopo tutto, se batteva ancora, era solo per merito suo.

 

__________

 

Note Finali:

01.
La Luna
Rána (Wayward, il Caparbio) nome Quenya dato dai Noldor alla Luna. Vale la stessa considerazione fatta per Vása.

02.
Quenya - Sindarin
Nolofinwë: Fingolfin
Turukáno: Turgon
Findaráto: Finrod
Artanis: Galadriel
Arafinwë: Finarfin

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Capitolo 5
*** Makalaurë ***


 

Capitolo Quinto - Makalaurë



___________
 

Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

___________

 

 

Quando l'alba comparve alle loro spalle, il vento era cessato e il mattino si preannunciava limpido e fresco. I due cugini non si erano mossi. Nelyafinwë si stava accorgendo di una cosa sconcertante: il conforto tanto agognato lo riceveva solo ora, nel darlo a sua volta.

Findekáno ruppe il silenzio borbottando qualcosa di incomprensibile contro il suo petto.

– Come? – mugugnò Nelyafinwë, il volto chino sugli scuri capelli dell'amico, la mente che affondava per la prima volta nella piacevole assenza di angosciosi pensieri.

– Ho detto: oggi viene Káno. – Il cugino alzò la voce, ma non fece alcun gesto per divincolarsi dall'abbraccio.

– Cosa? – Nelyafinwë riemerse dolorosamente alla realtà.

Makalaurë! Non era pronto per un incontro con il fratello! Cosa avrebbe dovuto fare? Cosa avrebbe dovuto dire? Non sapeva neppure cosa provare nei suoi confronti. Il fratello lo aveva abbandonato di proposito alla tortura… o lo aveva creduto morto?

Non era certo di voler conoscere la risposta.

Si staccò bruscamente da Findekáno e si alzò portandosi via il mantello.

– Perché non mi hai avvertito? Per tutti i Valar! Non sono pronto! Devo ancora… – ma non sapeva nemmeno lui cosa doveva ancora fare. Prese a muoversi di qua e di là, tentando invano di formulare un pensiero coerente.

– Lo vedi perché non ti ho avvertito – sentenziò Findekáno, alzandosi a sua volta e accennando al suo errare frenetico.

Nelyafinwë si bloccò nel momento stesso in cui il suo sguardo cadde sul cugino. Era strano vederlo così, a torso nudo, nella luce cristallina dell'alba, con i capelli in disordine invece che accuratamente intrecciati, gli occhi velati dalla stanchezza e un sorriso disarmante che gli illuminava il viso.

No, lo corresse quella parte di sé che faceva di tutto per ignorare, non era strano. Era favoloso. Nelyafinwë chiuse gli occhi per allontanarsi da quella visione e trasse un profondo respiro. Gli mancava solo di indugiare in questo genere di pensieri per dare il colpo di grazia alla sua già scarsa capacità di raziocinio. Purtroppo, quando li riaprì, la visione era ancora lì dove l'aveva lasciata.

– E quando dovrebbe arrivare? – chiese, cercando di recuperare un minimo di controllo.

Findekáno gli fece cenno di tacere portandosi un dito alle labbra. Si sentiva distintamente uno scalpitio di zoccoli in avvicinamento.

– Ora, direi – rispose il cugino, puntualizzando l'ovvio.

Nelyafinwë non fece quasi in tempo a voltarsi in direzione della tenda, che un cavallo irruppe nella radura. Lo montava un Elda vestito con una tunica azzurra adorna di elaborati ricami blu scuri, pantaloni indaco e stivali al ginocchio. Al fianco gli pendeva una spada lunga, leggermente ricurva. Gli scuri capelli ondulati gli ricadevano morbidi sulle spalle. I raffinati tratti del viso erano tesi in ansiosa preoccupazione. Con un movimento leggiadro smontò da cavallo e si diresse verso l'ingresso della tenda, ma quando li vide si bloccò, e i suoi occhi si spalancarono in un'espressione di immenso stupore.

– Per Eru, Manwë e tutti gli stramaledetti Valar! – esclamò, dando sfogo alla propria incredulità e al proprio sollievo con imprecazioni che Nelyafinwë non gli aveva mai sentito pronunciare, e gli corse incontro con l'evidente intenzione di abbracciarlo.

Nelyafinwë non riuscì a trattenersi dal fare un passo indietro. Il fratello allora si fermò, incerto, e fece una cosa sorprendente: si rivolse a Findekáno, come per chiedergli consiglio. Makalaurë che chiedeva un consiglio al giovane, impulsivo, scriteriato cuginetto era uno spettacolo al quale Nelyafinwë non avrebbe mai creduto di poter assistere.

Evidentemente erano cambiate parecchie cose durante la sua assenza.

L'intervento di Findekáno non si fece attendere. – Andiamo a sederci – disse. – Parleremo più comodi.

Li condusse oltre la tenda, su per il pendio, presso la sorgente. Qui emergevano dal terreno alcune grosse pietre bianche, levigate, sulle quali i due fratelli si sedettero uno di fronte all'altro. Findekáno invece si ritirò. – Vado a prendere qualcosa per colazione... – disse, – e i nostri vestiti – aggiunse, senza il minimo imbarazzo.

Nelyafinwë realizzò solo in quel momento lo stato in cui li aveva sorpresi il fratello al suo arrivo. Mezzi nudi e scarmigliati, con i volti stanchi di chi non aveva chiuso occhio per tutta la notte, e sguardi che, in parte, tradivano una rinnovata complicità. Una situazione piuttosto equivoca, in effetti.

Ma Makalaurë sembrava non farci caso; la sua attenzione, ora che la sorpresa per averlo trovato in salute veniva meno, era tutta presa dalle tracce che la prigionia aveva lasciato su di lui. Il suo sguardo indugiava sul volto segnato, sui solchi profondi che gli deturpavano il petto, sul polso su cui si tendeva sottile la pelle ricucita. Sembrava domandarsi chi fosse quell'essere che differiva tanto dal fratello da vederne rinnegato persino il nome. Sembrava vedesse, rispecchiata in quei segni dolorosi, tutta la propria colpa.

Nelyafinwë, a disagio, si chiuse addosso il mantello e capì che se non avesse detto qualcosa sarebbero rimasti in silenzio fino al ritorno di Findekáno.

– Makalaurë – cominciò allora, vincendo il proprio imbarazzo. Cominciò col nome con cui era solita chiamarlo sua madre e con cui lo chiamava anche lui, per l'affetto particolare che lo legava al suo primo fratello. Affetto che era sopravvissuto intatto all'arrivo dei cinque successivi, e che ancora dimorava in un angolo del suo cuore ferito.

Ma altre parole non riuscì a pronunciarle.

– Russandol... – sussurrò il fratello di rimando. E i suoi occhi si riempirono di lacrime.

Nelyafinwë non riuscì a evitare di chiedersi a cosa fossero dovute. Se al sollievo nel trovarlo guarito… o piuttosto al rimorso per averlo abbandonato.

– Raccontami quello che è successo – domandò allora. Non perché volesse realmente sapere, ma perché voleva nascondere la sua incapacità di gestire la situazione, e far passare il tempo nell'attesa del ritorno di Findekáno, senza il quale temeva di non riuscire a dominarsi. 

Makalaurë chinò il capo, come arrendendosi di fronte a un condanna attesa così a lungo, che quando arriva è più simile a un sollievo che a una pena.

– Non ti abbiamo visto tornare – cominciò, – e neppure abbiamo visto la cosiddetta delegazione del Nemico.

Raccontare era il suo lavoro, in un certo senso, e più parlava più sembrava trarre coraggio dal suono forte della propria voce. Rialzò la testa e i suoi occhi tornarono a fissarsi in quelli del fratello.

– Abbiamo pensato che ti avesse ucciso, come nostro padre. Ma poco tempo dopo è arrivato un messaggero. Portava un'offerta. La tua vita in cambio di ogni nostra pretesa sul territorio. 

– Non avrebbe mai mantenuto la parola – intervenne Nelyafinwë.

– Ovviamente – proseguì il fratello. – L'abbiamo ricacciato da dove era venuto e siamo tornati all'accampamento per decidere come procedere. È stato un disastro, Russandol! Chi voleva partire subito ad affrontare il Nemico a viso aperto, come se la follia di nostro padre non avesse dimostrato quanto impraticabile fosse quella strada! Chi voleva addentrarsi di nascosto nelle sue terre e tentare un'azione furtiva… chi sosteneva che avremmo dovuto prima fortificare la nostra posizione e cercare nuovi alleati tra gli abitanti di questi luoghi, per avere un esercito abbastanza grande da spazzarlo via in modo definitivo…

Mentre Makalaurë proseguiva col suo racconto, Findekáno tornò, in silenzio. Si era infilato una casacca celeste, aveva legato i capelli in una semplice coda e portava un vassoio di legno ricolmo di frutta. Lo appoggiò tra loro, poi gli tese una maglia. Nelyafinwë si liberò del mantello e, sorprendendo per primo sé stesso, lasciò che il cugino lo aiutasse a infilarsela. Il sorriso radioso che questo gesto spontaneo accese sul viso di Findekáno, lo scombussolò al punto che faticò a tornare a rivolgere la sua piena attenzione alle parole del fratello.

– L'azione furtiva mi sembrava l'idea con più probabilità di successo – stava dicendo Makalaurë, – ho mandato allora degli esploratori. Ma pochi sono tornati e quei pochi non avevano trovato traccia di te. Il tempo passava e, mentre io non sapevo che altro fare, una serie di eventi eccezionali ci ha gettato in una confusione ancora peggiore: la comparsa di Rána e di Vása e, subito dopo, l'arrivo di Nolofinwë e della sua gente…

Si interruppe per un attimo, come se ancora faticasse a credere a ciò di cui era stato testimone.

– Avresti dovuto vederli… pallidi, emaciati, morti di fame… ma che sguardo, Russandol, che portamento! Parevano evasi dalle Aule di Mandos buttandone giù la porta! E tutti loro vedrebbero con piacere le teste dei figli di Fëanáro in cima a una picca, in mancanza di quella del padre…

Lanciò un'occhiata a Findekáno che sedeva poco distante.

– Tutti eccetto i presenti – si corresse.

– Non contarci troppo – disse il cugino, – a me interessa soltanto di uno.

Findekáno sostenne lo sguardo di Makalaurë senza cedere. Si leggeva la verità nei suoi occhi: sarebbe passato sopra a qualunque cosa per quell'uno. L'aveva già fatto, in effetti.

Alla fine fu il fratello a chinare il capo, riconoscendo la superiorità di chi aveva compiuto l'impresa impossibile. Davvero le cose erano cambiate durante la sua assenza!

Makalaurë proseguì: – Ho spostato l'accampamento a sud del lago, per evitare scontri. Poi, finalmente, alcuni esploratori sono tornati portando notizie su di te… e su altre cose che ti dirò dopo. Ma erano notizie contrastanti: alcune dicevano che eri evaso, altre che eri morto, altre che ti avevano condotto sulle montagne per un ultimo supplizio.

– Infine è arrivato lui – continuò, indicando Findekáno, – a chiedere di te… anzi a insultarci perché non avevamo ancora fatto niente. – Makalaurë alzò la voce: – Ti rendi conto? È venuto da solo, nel nostro campo, a insultare i figli di Fëanáro…

– Falla breve, Káno – lo interruppe il cugino, – ho solo usato un linguaggio appropriato alla situazione.

– Ci ha dato dei codardi! – urlò il fratello.

– Appropriato – disse Nelyafinwë, quasi tra sé.

– Non è vero! – esclamò Makalaurë alzandosi di scatto. – Confusi… indecisi… senza una guida… e sì, sì, anche spaventati. Ma non da Moringotto o dai suoi servi...

Si sedette nuovamente e affondò il viso tra le mani, i gomiti appoggiati sulle ginocchia. Quando rialzò il capo sembrava aver ripreso il controllo di sé.

– Nella nostra vita non abbiamo mai fatto altro che seguire Fëanáro, nostro padre, il nostro mentore, senza mai un dubbio. E quando non c'era lui… c'eri tu, Russandol. A dirci cosa era giusto fare… il primo di noi per nascita, per doti, per saggezza…

Di nuovo si volse a Findekáno, alzando la voce.

– Se non fosse stato per me, ti avrebbero tagliato la gola!

– Vorrei che ci avessero provato! – gli gridò dietro il cugino.

– Lo lasciammo andare illeso – proseguì il fratello con più calma, – io però avevo riconosciuto nel suo sguardo quel… quella scintilla che gli viene quando prende quelle folli decisioni da cui non torna più indietro. 

Sì, Nelyafinwë la conosceva bene quella scintilla. Makalaurë era davvero un acuto osservatore. 

– Allora l'ho seguito. Ma al confine con le montagne l'oscurità si è fatta impenetrabile. Né luna, né stelle, neppure il sole riusciva ad attraversare quella coltre. Ho perso le sue tracce.

Si interruppe, per un attimo incapace di continuare.

– Perdonami Russandol! Avrei voluto accompagnarlo… ho pensato che fosse la mia opportunità di redenzione…

– Abbiamo fatto tutti una gran quantità di errori da quando siamo partiti – mormorò Nelyafinwë. Era un'assoluzione? Non lo sapeva nemmeno lui.

– Non mi restava altro da fare che dargli fiducia – continuò Makalaurë. – Sono tornato ad allestire questo campo, sperando contro ogni previsione che lui riuscisse nell'impresa. E, con l'aiuto di Manwë, ce l'ha fatta!

– La fai sembrare semplice adesso – lo aggredì Findekáno, con un impeto eccessivo, anche per uno impulsivo come lui.

Nelyafinwë ricordò discussioni che emergevano dagli incubi.

– Non pensavi che ce l'avrei fatta – disse piano. Era un'affermazione, non una domanda.

– No – rispose sinceramente Makalaurë. – A vederti ridotto in quello stato ho creduto che non ne saresti mai venuto fuori. Ma lui continuava ad aver fiducia e… aveva ragione, anche questa volta.

Makalaurë non seppe più trattenersi. Gli si gettò al collo e lo strinse in un abbraccio forte.

– Russandol…

Nelyafinwë esitò.

Makalaurë, il più vicino e il più caro tra tutti i suoi fratelli. Intrappolato anche lui in situazioni che ancora non aveva la capacità di gestire. La paura, la violenza, il rimorso, la sofferenza e, sopra a tutto, ciò che esula dalla capacità di comprensione di un Immortale: il lutto.

Era sembrato facile, era sembrato giusto innalzare lo stendardo dell'orgoglio e della vendetta davanti ai propri simili, in Aman, davanti ai Valar stessi… e forse lo era stato. Ma l'orgoglio e la vendetta portavano con sé conseguenze a cui una vita di eterna beatitudine non li aveva preparati.

Ricambiò l'abbraccio di Makalaurë, e per un attimo fu come se tra loro nulla fosse cambiato.

Poi, da sopra la spalla del fratello, vide il moncherino all'estremità del proprio braccio. Allora, improvvisa, si ripresentò la commiserazione per sé stesso, segnale che a breve sarebbe arrivato l'odio a spazzarla via. 

Findekáno dovette intuirlo perché li interruppe prima che la situazione potesse diventare pericolosa.

– Káno – disse, con calma, – dicevi che gli esploratori hanno portato anche altre notizie.

Makalaurë lasciò la presa sul fratello. Si asciugò distrattamente gli occhi col dorso di una mano, la sua attenzione già tutta su quello che stava per dire.

– Sì – annuì, tornando a sedersi, – abbiamo scoperto chi è il Re dei Quendi che popolano queste terre. – Fece una pausa, come per darsi la forza di continuare, poi concluse: – Elwë, che la sua gente chiama Mantogrigio. Thingol, nella loro lingua.

Nelyafinwë capì a chi si stava riferendo nello stesso istante in cui vide il cugino impallidire. – Elwë, che fu re dei Teleri prima di suo fratello Olwë – sussurrò.

Calò il silenzio. E il gelo del rimorso. Tolde sporche di sangue. Gli occhi di un Elda che muore.

– Non lo dovrà mai sapere – disse Findekáno esprimendo il pensiero di tutti. Ma tutti e tre sapevano che non sarebbe stato così, e sentirono l'ombra della Maledizione che si allungava su di loro, come un brivido freddo che si insinua sotto pelle.

– Cosa facciamo? – chiese Makalaurë a Nelyafinwë, ormai tornato di diritto suo punto di riferimento quale fratello maggiore e, a tutti gli effetti, Re.

Poi, vedendo che lui tardava a rispondere, esclamò: – Devi tornare immediatamente al campo!

E si alzò con impeto, come volesse afferrarlo e trascinarlo via in quel preciso istante. Findekáno si tese, ma rimase seduto, Nelyafinwë invece non ebbe reazione alcuna. Restò in silenzio per un lungo momento, poi disse soltanto: – Non sono pronto.

– Come? – esclamò il fratello, sbalordito, e di nuovo tornò a rivolgersi a Findekáno con sguardo interrogativo. Il cugino scosse appena la testa, chiaramente per dissuaderlo dal proseguire su quella strada.

Ma Makalaurë non ne volle sapere e parlò di nuovo a Nelyafinwë: – Non capisco… non hai sentito quello che ti ho detto? Stiamo rischiando un altro scontro fratricida sulle rive del Mistaringwë… a Sud c'è il regno di un sovrano a cui abbiamo ammazzato i consanguinei, e a Nord quello di uno che non avrà pace finché non ci avrà sterminati fino all'ultimo Noldo. E in tutto questo, i nostri fratelli sono completamente ingestibili e io… io non sono stato capace di prendere il posto di nostro padre… il tuo posto.

Prese fiato, poi concluse, – tu devi tornare Russandol! Ora. Con me.

– Makalaurë – disse Nelyafinwë, cercando di racimolare tutte le energie necessarie per pronunciare il suo discorso più lungo da dopo la prigionia. – Tu davvero non capisci. Sono debole. Sono tormentato dagli incubi. Faccio fatica a formulare pensieri coerenti, e soprattutto non riesco a tenere sotto controllo il mio odio. Così come sono non vi sarei di nessun aiuto. Al contrario, sarei un problema.

– Ma cosa stai dicendo? – il fratello era incredulo. – Tu hai il dovere di tornare, di assumere il ruolo di Re dei Noldor che ti spetta di diritto e, quando il tempo verrà, di condurci alla vittoria sul Nemico. Magari non scenderai in battaglia direttamente – proseguì, lanciando un rapido sguardo al braccio mutilato, – ma prenderai le decisioni…

Nelyafinwë non lo ascoltava più. Solo poco tempo prima, confortando il cugino e traendo conforto dalla sua presenza, si era illuso di poter tornare ad essere sé stesso, ma ora veniva nuovamente messo davanti ai propri limiti. Bastò l'accenno alla sua menomazione per farlo esplodere.

– Basta! – gridò alzandosi di scatto e dando una spinta al fratello che lo fronteggiava.

L'aveva fatto automaticamente, con la mano sinistra, muovendo il braccio destro nella direzione opposta per bilanciare il corpo e imprimere maggior spinta al colpo. Era un movimento fluido, preciso, efficace. Era un chiaro segnale del fatto che il suo corpo stava interiorizzando la mancanza della mano destra creando nuove soluzioni. Ma lui non vi fece caso.

Makalaurë venne colto di sorpresa, indietreggiò rischiando di inciampare, ma all'ultimo riprese l'equilibro. Findekáno ne approfittò per inserirsi tra i due. Nelyafinwë se lo trovò davanti: il suo sguardo non tradiva paura, il suo viso era chiaro e disteso, le braccia protese per tenerlo lontano e insieme, se solo avesse voluto, ne era certo, per accoglierlo.

Ebbe paura di ferirlo.

Si voltò e se ne andò senza dire niente. Prima di essere troppo distante, li sentì scambiarsi ancora qualche parola.

– Devi dargli più tempo.

– Non ne abbiamo, Findo. Curvo sicuramente sospetta qualcosa, e Tyelko un giorno di questi mi metterà alle calcagna quel suo dannato cane…

– Ha bisogno di più tempo.

 

 

__________

 

Note Finali:

01.
Quenya - Sindarin
Makalaurë (Kanafinwë, Káno): Maglor
Curvo (Curufinwë): Curufin
Tyelko (Tyelkormo): Celegorm

 

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Capitolo 6
*** L'abisso ***


 

Capitolo Sesto - L'abisso


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Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

________

 

 

Nelyafinwë aveva camminato a lungo, cercando di allontanare da sé paura e odio. Cercando di ritornare a quello stato di passività emotiva che lo metteva al sicuro da scoppi d'ira.

Aveva imboccato il sentiero che, oltrepassata la sorgente, risaliva la montagna. Era impervio e a tratti interrotto dalla nuda roccia che sbucava dal terreno, rendendo necessarie delle brevi arrampicate. Non aveva avuto difficoltà ad affrontarle. La presa con la mano sinistra era forte e sicura, la spinta delle gambe agile e scattante, il braccio destro forniva appoggi stabili sul gomito o sul moncherino ormai completamente sanato.

Il suo corpo gli gridava a gran voce che era guarito, che era pronto per accettare di nuovo il dominio della mente, che nulla gli era precluso. Ma lui non lo ascoltava.

Era arrivato in cima e si era affacciato sulla vallata adiacente a quella del lago. Il terreno digradava dolcemente per un breve tratto, poi si interrompeva all'improvviso sull'orlo di un baratro. 

Come attratto da una forza irresistibile, era sceso fino al bordo del precipizio. Dietro di lui il sole calante incendiava le vette, ma la vallata ai suoi piedi era già immersa nell'ombra. Nelyafinwë, sul ciglio del burrone, vedeva sotto di sé una voragine nera e ne subiva il fascino oscuro.

Quanto aveva pregato, appeso, perché la catena si spezzasse e lo facesse precipitare nell'abisso, ponendo fine ad ogni cosa. Alle sofferenze, ai rimorsi, allo stesso Giuramento.

E adesso nessuna catena lo vincolava. Era libero di rinunciare a tutto. Perché il ricordo del dolore lo faceva soffrire più del dolore stesso. Il ricordo del fallimento lo umiliava più del fallimento stesso. Non c'era una sola cosa, nella sua vita, che riuscisse ad aver cara al punto da farlo decidere di andare avanti. Non la responsabilità verso i fratelli. Non il ruolo di Re che doveva assumere. Neppure il Giuramento che doveva perseguire.

Nel suo futuro il buio, nella sua mente il vuoto, nel suo cuore l'odio.

Si protese sul baratro. Sarebbe riuscito là dove Findekáno, con la sua freccia mai scoccata, aveva fallito. Non ci sarebbero state Aquile o altri interventi divini questa volta, nulla avrebbe potuto dissuaderlo dal fare l'ultimo passo che lo separava dalla fine.

Nulla, tranne le parole che udì, pronunciate alle proprie spalle, dalla voce chiara e decisa del cugino.

– Se lo farai, non esiterò un solo istante a venirti dietro.

Nelyafinwë si voltò lentamente. La figura di Findekáno si stagliava contro il tramonto. Il viso era in ombra ma gli occhi sembravano brillare nel buio. Era la scintilla di cui parlava Makalaurë: la determinazione quando supera i limiti della follia. Il cugino avrebbe tenuto fede alle parole dette, e non c'era in tutta Arda certezza più vera di quella.

Nelyafinwë esalò il fiato che non si era accorto di trattenere. Fece un passo verso di lui. Si accorse che stava tremando.

– Tu mi sei caro fin dal primo giorno in cui ti ho incontrato – riprese il cugino con lo stesso tono deciso, ma senza tentare di avvicinarsi, – poi, col tempo, i miei sentimenti sono cresciuti, trasformandosi in qualcosa di più profondo… e questo, per me, sarebbe già stato un motivo sufficiente per venirti a cercare fin oltre i confini del mondo.

Nelyafinwë sentì la testa che gli girava. Fece un altro passo verso il cugino, per sicurezza, per mettere un po' più di distanza tra sé e la fine. Gli sembrava che tutto intorno a lui fosse diventato irreale. Tutto tranne quegli occhi piantati nei suoi, e quella voce che pronunciava parole che si riversavano come acqua fresca nel suo cuore arido.

– Ma da quando mi hai dimostrato che il mio sentimento è corrisposto – proseguì il cugino più lentamente, come se stesse cercando le parole più adatte, – ci considero legati l'uno all'altro come da una promessa di… come da una promessa indissolubile.

– Io ti ho dimostrato... – balbettò Nelyafinwë, – … quando?

– "Chiamami Maitimo" – gli ricordò il cugino.

Dunque, quel giorno, sulla scogliera, Findekáno aveva capito.

Sentì il sangue che gli affluiva al viso e benedisse il crepuscolo che stava calando. Ebbe paura che l'imbarazzo suscitasse la vergogna. E che arrivasse l'odio, a scacciarla. Invece arrivò la mano di Findekáno a stringere la sua, e la voce calda del cugino che lo richiamava alla realtà.

– Non sei solo, Maitimo, ad affrontare tutto questo. Non sei mai stato solo. Nemmeno su quella spiaggia in fiamme. Nemmeno sul quel picco.

Quelle parole… quel nome pronunciato dalle sue labbra… solo adesso che li udiva si accorgeva di quanto li avesse desiderati, di quanto disperatamente ne avesse avuto bisogno. Erano come una carezza che leniva la sofferenza dell'anima. Pregò che non smettesse. Non smettere più Findekáno.

– Torniamo all'accampamento prima che faccia buio – disse invece il cugino, e strinse la presa sulla sua mano tirandolo dolcemente verso di sé, per allontanarlo dal baratro e da ciò che esso evocava.

Si incamminarono sulla via del ritorno. Fianco a fianco, senza fretta, ripercorsero il sentiero che conduceva alla radura. E Findekáno dimostrò ancora una volta di aver capito esattamente ciò di cui lui aveva bisogno, perché per tutto il tragitto non tacque un solo istante!

Gli raccontò di come aveva convinto Makalaurë ad aspettare ancora prima di rivelare ai fratelli che lui era vivo, e libero, per evitare che l'intero branco dei figli di Fëanáro salisse alla radura per trascinarselo via, pronto o non pronto che fosse. Gli raccontò del giorno in cui era partito alla sua ricerca, di come aveva tentato di ingannare suo padre, dicendogli che andava a trovare i cugini per cercare di sedare i dissidi, e di come suo padre aveva finto di crederci, sapendo che non avrebbe potuto fare nulla per fermarlo. Gli raccontò molte cose, evitando con abilità gli argomenti che più avrebbero potuto ferirlo.

Cullato dalla sua voce, Nelyafinwë ebbe l'impressione di trovarsi dentro a un sogno. Il primo sogno che non fosse un incubo da quando aveva lasciato Aman. Le parole di Findekáno lo trascinavano fuori dalla disperazione che lo attanagliava, così come il suo canto l'aveva trascinato fuori dall'oscurità, su quel picco.

Se non fosse stato soggetto alla Condanna avrebbe creduto che la benedizione dei Valar scendesse infine su di lui, usando come tramite la voce del cugino.

Ma forse la realtà era più semplice, ed era sempre la stessa, nonostante lui non avesse mai voluto realmente ammetterla: Nelyafinwë tornava a sentirsi vivo nel momento in cui accettava la presenza di Findekáno accanto a sé.
 

-
 

Quando arrivarono alla radura si era fatto quasi buio. L'aria era permeata dai rumori sommessi degli animali notturni e dal debole fruscio delle foglie nel vento lieve. Le prime stelle facevano la loro comparsa nel cielo terso. La tenda, scura e silenziosa, col focolare spento poco lontano, sembrava vegliare in attesa del loro ritorno.

Casa, pensò irrazionalmente Nelyafinwë, che aveva abitato per centinaia di anni in un palazzo di pietra di raffinata bellezza, in una terra d'incanto. E il suo sguardo si posò con tenerezza sul cugino, che già si chinava per accendere il fuoco.

Si sedettero uno di fianco all'altro, davanti alle fiamme nascenti. Findekáno, che non aveva chiuso bocca per tutto il tragitto, sembrava ora restio a cominciare il discorso.

– Forse è meglio mangiare qualcosa, prima – disse.

– Non ho fame – rispose Nelyafinwë, e si rese conto che non stava mentendo, pur non avendo preso cibo dalla sera precedente. Galleggiava in uno stato di irrealtà, pervaso dalla consapevolezza che non ci sarebbero state incomprensioni tra loro quella sera, e voleva approfittare di quel momento per sapere… tutto.

– Vorrei che ci parlassimo sinceramente, come facevamo una volta – disse.

Il cugino lo guardò dubbioso, come indeciso tra due direzioni da prendere. Infine domandò: – Sinceramente... o come facevamo una volta?

– Qual è la differenza? – chiese Nelyafinwë, sorpreso.

– "Sinceramente" è quando due persone si dicono la verità… "come facevamo una volta" è quando due persone evitano certi argomenti per non essere costretti a mentire. 

Findekáno aveva dunque deciso di mettere le cose in chiaro, anzi, secondo il suo stile, aveva lanciato una vera e propria sfida. Ora toccava solo a lui decidere se accettarla o meno. Nelyafinwë mise insieme tutto il suo coraggio e si dichiarò pronto alla sincerità.

Allora il cugino cominciò e, come sempre, andò dritto al punto.

– Ricordi quel giorno sulla scogliera?

E come avrebbe potuto dimenticarlo? Quel giorno tutta la sua vita, che già riteneva abbastanza complicata, era precipitata nella confusione più totale.

Per Findekáno evidentemente valeva l'esatto contrario perché disse: – È stato uno dei momenti più belli della mia vita. 

Allo sguardo incredulo di Nelyafinwë, continuò: – Mi avevi letteralmente trascinato fuori dall'ennesimo guaio, e stavo cercando di recuperare il controllo del mio corpo... quando mi sono accorto che tu stavi perdendo il controllo del tuo.

– Avevo solo il battito un po' accelerato – minimizzò Nelyafinwë, rinnegando senza pudore la promessa fatta solo pochi istanti prima riguardo alla sincerità. 

Findekáno non gliela lasciò passare: – Sì, battito accelerato… – alla luce tremula delle fiamme il cugino sembrò abbassare per un attimo lo sguardo sui suoi fianchi, –  se preferisci chiamarlo così…

Nelyafinwë sentì il volto avvampare. No, decisamente non era preparato per quel tipo di confronto.

– Stavi perdendo il controllo – ribadì imperterrito il cugino, – e quando ho aperto gli occhi… beh… non c'era bisogno di leggerti nel pensiero per capire cosa si agitava nel tuo cuore.

Nelyafinwë non riuscì a negarlo, e non certo per un improvviso ritorno alla sincerità, ma perché d'un tratto aveva letteralmente perso l'uso della parola.

Findekáno sospirò: – Quando mi hai regalato il tuo nome… ero così felice che non sono stato capace di dire altro che sciocchezze…

A quell'affermazione palesemente falsa, Nelyafinwë ritrovò la voce: – Non mi sembrava che stessi anche tu… perdendo il controllo.

– Perché io ho avuto molti anni per imparare – rispose all'istante il cugino.

– Imparare cosa?

– A resisterti.

– Per tutti i Valar, ma da quando…? – riuscì a domandare Nelyafinwë.

– Dalla prima volta che ti ho visto.

– Ma eri poco più di un bambino!

– Sì. Sì lo ero – ammise Findekáno. – E mi hai colpito come la più bella tra tutte le meraviglie di Valinor. Certo non era difficile ammirarti, tutti lo facevano. Il primogenito del grande Fëanáro. Così alto, così straordinariamente bello, capelli di fiamma, lineamenti perfetti, corpo scolpito, portamento fiero…

– Basta, ti prego! – Nelyafinwë sapeva che molti lo consideravano in questi termini e, alla lunga, aveva imparato ad abituarcisi. Ma pronunciate da Findekáno, quelle parole di una banalità trita facevano un effetto del tutto diverso. Quasi… appagante. Vergognosamente appagante, in effetti. Dovette sforzarsi per prestare attenzione al discorso del cugino.

– Ma a me piacevano di più altre cose – stava dicendo Findekáno, – mi piaceva il tuo sguardo assorto sui libri, e come si illuminava quando mi vedevi arrivare, e come rispondevi sempre paziente alle mie innumerevoli domande, per quanto assurde e infantili ti dovessero sembrare. Mi piaceva quando alla fine di un pomeriggio passato insieme mi riaccompagnavi a casa, e non mi tenevi la mano, come si fa con i bambini, ma camminavi al mio fianco, altissimo, adeguando il tuo passo al mio, e mi parlavi come fossi un tuo pari.

Nelyafinwë ricordava tutto di quei giorni e anche degli anni successivi, quando Findekáno era cresciuto e la loro amicizia era diventata qualcosa di esclusivo. Ricordava ogni momento passato con l'amico. Ma non riusciva a individuare l'istante in cui gli sguardi ammirati del cugino si erano trasformati in qualcos'altro.

Findekáno prevenne la sua domanda: – Ovviamente il desiderio di… ehm… perdermi tra le tue braccia… è arrivato molto più avanti, e abbastanza gradualmente. Per questo ho imparato a dominarlo. O, perlomeno, a tenerlo nascosto.

E senza dubbio c'era riuscito! Nelyafinwë non aveva mai sospettato che il cugino avesse nutrito per lui sentimenti che andassero oltre l'amicizia, per quanto profonda. Se è per questo, anche ora faticava a crederlo vero. 

Findekáno in un istanze spazzò via ogni dubbio: – Quel giorno, sulla scogliera, ho davvero pensato che tutto fosse cambiato, che i Valar avessero finalmente ascoltato le mie preghiere e che a breve ci saremmo promessi anche… ehm … fisicamente, suggellando così la nostra unione.

Più inequivocabile di questo.

Com'era possibile che a Findekáno sembrasse sempre tutto così semplice? Com'era possibile che fosse capace di dire cose del genere senza mostrare il minimo imbarazzo?

– Come puoi dire certe cose? – esclamò incredulo.

– Beh – rispose il cugino, con la sua disarmante sincerità, – non è questo il normale corso dell'amore?

Amore. Una parola mai ammessa neppure nei suoi sogni più segreti. Sentirla così, pronunciata ad alta voce, riferita a loro due, sapeva di scandalo, di indecenza. Peggio: di aberrazione.

No. Sapeva di verità.

Nelyafinwë chinò il capo, per la prima volta davvero a disagio non più per l'anomalia del sentimento che non poteva fare a meno di provare (non doveva essere poi così anomalo, se anche il cugino ne era avvinto), ma per il ricordo di come aveva reagito alla sua scoperta.

Da vigliacco, volendo attenersi alla sincerità. 

– Le cose sono andate diversamente, non è così? – mormorò, con lo sguardo fisso sulle fiamme che ora si innalzavano vivaci nel centro del focolare. 

– Già – disse il cugino. – Ho capito che avresti avuto bisogno di tempo per abituarti all'idea. Forse tutto il tempo che ci avevo messo io. Ma non avevo dubbi che presto o tardi…

Nelyafinwë tornò a guardarlo, incuriosito: – Hai mai avuto un dubbio, Findekáno… intendo, in tutta la tua vita?

Il cugino sembrò pensarci sopra seriamente. – In effetti… no – rispose. E Nelyafinwë sorrise.

Eru in Arda! Non riusciva nemmeno a ricordarsi quand'era stata l'ultima volta che aveva sorriso! Per un attimo l'impressione di trovarsi in un sogno crebbe al livello di certezza, poi il pensiero di ciò che aveva fatto lo fece ritornare alla realtà.

– Ti ho tenuto lontano di proposito – disse, sottovoce.

– L'avevo capito.

– E poi l'esilio mi ha costretto…

– Lo so – lo interruppe il cugino. – Però a quel punto la mia pazienza si è esaurita e sono venuto a Formenos a cercarti.

– Cosa? – le sorprese non finivano mai quella notte? Findekáno era venuto fino alla dimora di Fëanáro nel suo esilio? – Sei venuto a Formenos? Non ne ho mai saputo niente!

– Ho incontrato Káno. È un acuto osservatore e ti conosce meglio di chiunque altro. Si era accorto dei nostri sentimenti.

– Mio fratello pensa… – balbettò sconvolto Nelyafinwë.

– Sincerità, Maitimo! – esclamò il cugino, esasperato.

Nelyafinwë si schiarì la gola. – Mio fratello sa… che nutro per te… dei sentimenti… d'amore? – come poteva essere così difficile mettere in fila poche parole?

– Sì, campione di retorica, tuo fratello sa che mi ami – Findekáno aveva il dono della sintesi, non c'è che dire.

– E cosa ti ha detto?

– Se non ricordo male, l'ha chiamato incesto.

– Senza dubbio – ammise Nelyafinwë, – questo è un modo corretto di vedere le cose... anche se tralascia alcuni aspetti.

– Già – puntualizzò il cugino, – ci sarebbe anche quell'altro piccolo particolare – e con la mano fece un gesto vago, che sembrava includere entrambi i loro corpi e sottolinearne le somiglianze.

Nelyafinwë si sforzò di non sorridere, ma con scarsi risultati: la conversazione stava prendendo una piega inaspettata.

Findekáno gli rispose con un sogghigno. I suoi occhi, illuminati dal fuoco che danzava davanti a loro, brillavano di allegria repressa e di qualcos'altro, che assomigliava vagamente a… malizia?

Non ebbe tempo di indagare, perché dal marasma dei suoi pensieri ne emerse uno chiaro, che espresse subito ad alta voce: – Tu non puoi esserti fatto fermare da Makalaurë.

– No, ovviamente – il tono di Findekáno era quasi offeso. – Mi ha fermato qualcun altro.

– Mio padre? – Nelyafinwë raggelò e squadrò il cugino da capo a piedi, come per accertarsi che fosse ancora tutto intero.

– Nooo... – esalò Findekáno con un lampo di terrore negli occhi, – nostro nonno, il Re. Ci ha sentiti discutere… ci gridavamo addosso, in verità… non gli è stato difficile capire di cosa stavamo parlando.

Ecco. Se suo nonno aveva saputo, allora anche suo padre aveva saputo. Finwë, Re dei Noldor, aveva amato il suo primogenito Curufinwë Fëanáro di un amore assoluto. Al punto che quando Fëanáro era stato condannato all'esilio aveva scelto di seguirlo. Dubitava fossero esistiti segreti tra loro.

Da piccolo Nelyafinwë aveva creduto che lo stesso amore che legava il nonno al suo primogenito dovesse naturalmente legare il padre a lui. Col tempo aveva capito che le cose stavano diversamente: per ricevere l'amore di Fëanáro bisognava corrispondere alle sue aspettative, laddove l'amore di Finwë si riversava su Fëanáro a prescindere da tutto ciò che aveva fatto.

Si apprestò cupamente ad ascoltare il seguito, conscio di aver tradito l'ennesima aspettativa.

Invece il cugino era pronto a stupirlo ancora una volta.

– Il nonno ha rimandato Káno nelle sue stanze – disse – e mi ha portato in giardino. Ero un po' a disagio, a dire il vero. Mi ha fatto sedere vicino alla fontana… hai presente quella...

– Findo, maledizione, vieni al dunque, ti diverti proprio a torturarmi? – sbottò Nelyafinwë.

E l'uso di questo termine, tortura, così terribilmente significativo per lui, uscito spontaneamente dalle sue labbra in un contesto quasi scherzoso, fu il segnale inconfutabile che in quella notte sospesa nell'irrealtà tutti i suoi demoni interiori si erano placati.

– Un pochino sì – lo sorprese Findekáno, con un sorriso inequivocabile.

Nessun dubbio: questa volta era proprio malizia quella che gli brillava in fondo agli occhi. Un brivido gli percorse la colonna vertebrale, lasciando un delizioso formicolio lungo il cammino. Grazie a Eru, Findekáno non lo notò. O finse di non notarlo… da quello che stava scoprendo, erano molte le cose che il cugino gli aveva tenuto nascoste. 

– Vai avanti, per tutte le Potenze di Arda Corrotta! – esclamò, – e smettila di sorridere in quel modo – aggiunse, prima di accorgersi, con orrore, che lui stesso aveva il medesimo sorriso dipinto sul volto.

Findekáno, con un visibile sforzo, obbedì. – Il nonno mi ha ricordato che lui ha soggiornato in Aman per diverso tempo prima di tornare nell'Endor a proporre l'esodo al suo popolo. E che quindi lui, più di altri, ha avuto modo di conoscere i Valar e il loro pensiero. Mi ha detto che le Potenze hanno un giudizio su tutto, una risposta per tutto… tranne che sull'amore. Non riescono a comprendere come un sentimento che può legare indissolubilmente due spiriti nella felicità più completa, possa anche far soffrire come poche altre cose al mondo… e così si sono arresi a considerare l'amore un mistero della natura dei Figli di Eru. 

A parte il fatto che questo confermava l'idea di Fëanáro, condivisa per lo più anche dai suoi figli, che le Potenze erano ben lontane dal conoscere il significato di ogni cosa, come invece lasciavano intendere, Nelyafinwë non vedeva come potesse avere a che fare con la loro situazione.

Non fece in tempo a dar voce alle proprie perplessità, che Findekáno concluse: – E così mi ha detto: "dunque non lasciare che qualcuno si permetta di giudicare una cosa su cui nemmeno i Valar osano dare un giudizio".

– Ha detto questo?

– Parola per parola – confermò il cugino. E dopo una breve pausa aggiunse: – Però poi mi ha anche detto che il nostro amore avrebbe avuto maggiori probabilità di sopravvivere, se Fëanáro non mi avesse tagliato la gola trovandomi in casa sua a parlare di incesto col suo primogenito.

A Nelyafinwë sfuggì una risata, tinta di malinconia. Anche il ricordo del padre lo feriva meno quella notte in equilibrio tra il sogno e la realtà. – Allora alla fine anche il Valoroso si è fatto spaventare da qualcosa! – esclamò.

Findekáno tornò improvvisamente serio. – No, Maitimo, mio amato –  rispose, e il cuore di Nelyafinwë fece un balzo all'udire quelle parole, – rassicurato dalle parole del Re e convinto di avere, se non la benedizione, almeno il consenso dei Valar, ho pensato di aspettare tempi migliori. La fine dell'esilio. Il tuo ritorno a Tirion. Avevamo un'eternità davanti a noi per essere felici. 

Tacque a lungo, poi concluse, quasi in un sussurro: – Mi sbagliavo.

Nelyafinwë abbassò lo sguardo sulla sua mano e sul moncherino. – Sì – convenne, e non riuscì a dire altro.

E in un attimo l'ombra della Maledizione ricadde su di loro. La spensieratezza che il ricordo del Reame Beato aveva suscitato nei loro cuori fu spazzata via come da un colpo di vento gelido. L'incanto di quella sera si infranse sotto il peso della Condanna. La realtà irruppe crudele, ricacciando il sogno nel mondo che gli competeva.

Stettero ancora vicini per qualche momento, sperando invano che il solo fatto di stare insieme potesse bastare a rievocare quell'effimero stato di grazia, fosse solo un brandello di felicità, un frammento di gioia già usata. Ma la magia sembrava svanita per sempre e, come a conferma di ciò, arrivarono grigie nubi a coprire la volta celeste.

Improvvisamente si resero conto che del fuoco non rimanevano che poche braci tra le ceneri. Sentirono il freddo e una cappa di stanchezza li avvolse, come fosse calata da quel cielo spento.

Alla fine il cugino si alzò e disse: – Devi mangiare qualcosa.

E Nelyafinwë ricominciò a fare come gli veniva detto.

 

 

*******

 

 

I giorni ripresero a scorrere veloci e uguali. I ritmi scanditi dai riti consueti: i pasti, gli esercizi, il riposo. 

Quella giornata particolare, cominciata nel conforto dell'abbraccio e terminata con la scoperta di un amore corrisposto, svanì come un bagliore fugace di speranza sull'orizzonte di un futuro incerto, come una stella solitaria nel cielo deserto che si dissolve al sopraggiungere di un'alba livida.

Nelyafinwë aveva recuperato perfettamente la padronanza del corpo. Riusciva, con la mano sinistra, a gestire senza problemi i compiti quotidiani: mangiare, vestirsi, lavarsi, e con un minimo di impegno ad affrontare con ottimi risultati anche quelli più complicati, come lo scrivere.

Il suo fisico, non potendosi esprimere con la parte mancante, aveva ri-predisposto le sue funzioni per utilizzare al meglio quello che gli restava.

Gliel'aveva fatto notare Findekáno, un pomeriggio.

– Come credi di essere sopravvissuto alla tortura così a lungo? – gli aveva chiesto. – Come credi di essere sopravvissuto su quel picco al dolore e alla fame?

Aveva già una risposta, il cugino: – Il tuo corpo si adatta. Il tuo fisico perfetto è creato per superare qualsiasi lesione… è il tuo spirito di fuoco che lo alimenta, Fëanárion.

Ma per lui tutto questo non aveva importanza. Perso tra i sentieri del passato non trovava una via per affrontare il futuro. Anzi, la via era davanti ai suoi occhi: guerra. E proprio qui stava il problema. Aveva già fallito una volta in quel campo. Aveva condotto degli Eldar alla morte e lui stesso a un destino anche peggiore. E a quel tempo era stato un guerriero integro. Aveva avuto due mani, uno spirito saldo, una mente lucida, un corpo perfetto

Ora era mutilato, lo spirito corrotto, la mente confusa, il corpo segnato.

Findekáno sempre più spesso gli ripeteva: – Nelyo, sei pronto. Devi prendere una decisione.

Nelyo.

Non l'aveva più chiamato Maitimo. Sembrava che il cugino distinguesse, forse inconsciamente, i due ruoli. Nelyo era il suo amico, cugino, erede di Fëanáro, Re. Maitimo era qualcosa di molto di più. Qualcosa che, adesso se ne rendeva conto, avrebbe forse potuto esistere nel Reame Beato, ma che qui non faceva altro che aggiungere ulteriore sofferenza al loro destino maledetto.

Findekáno rispettava il suo silenzio, ma si capiva che fremeva d'impazienza in attesa del momento giusto per spingerlo a un confronto definitivo.

E quel momento arrivò.

 

 

_____________________________________

 

Note Finali

01.
Quenya - Sindarin
Makalaurë (Kanafinwë, Káno): Maglor
Curufinwë Fëanáro: Fëanor
Fëanárion: figlio di Fëanáro

02.
Le parole di Finwë sulla concezione dei Valar riguardo l'amore sono un'interpretazione piuttosto fedele di quanto detto in: Laws and Costumes among the Eldar, HoME vol. 10.

03.
"Suggellando così la nostra unione"
Le parole di Findekáno si riferiscono al fatto che tra gli Eldar il matrimonio era sancito dal primo rapporto sessuale tra i due coniugi (Laws and Costumes among the Eldar, HoME vol. 10).

 

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Capitolo 7
*** Il duello ***


 

Capitolo Settimo - Il duello


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Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

________

 

 

Era un mattino grigio, il cielo coperto da nuvole basse, a tratti spazzate da un vento teso. Nelyafinwë era presso la sorgente, con gesti consueti si lavava prima di affrontare l'ormai agevole compito di vestirsi. Indifferente al freddo che aggrediva la sua pelle, come era indifferente al monotono ripetersi delle giornate sempre uguali.

Si stava chinando per raccogliere la camicia da una delle pietre su cui l'aveva abbandonata, quando lo raggiunse la voce di Findekáno.

– Nelyo! – c'era urgenza nel suo grido.

Si voltò di scatto e si vide arrivare addosso un oggetto lanciato dal cugino. In un unico movimento fluido e rapido, slittò alla sua destra per evitarlo e lo afferrò al volo con la mano sinistra. Era una spada ancora nel suo fodero. A pochi passi da lui, Findekáno sguainò la sua.

I due cugini si fronteggiavano.

Il Ben fatto, più alto e possente, lingue di fuoco nei capelli e occhi che scrutavano nell'abisso come se ancora lo vedesse aprirsi sotto di sé. Volto severo segnato da cicatrici che si facevano più evidenti sul torace e davano l'idea di proseguire altrettanto penose sulla parte del corpo coperta dai pantaloni. In una mano stringeva la spada, l'altra era solo un ricordo.

E il Valoroso, più basso e più snello, capelli come ala di corvo sciolti a coprire le spalle nude, occhi di chi non si arrende mai. Tenacia dura come il ghiaccio che l'aveva temprata. 

Orgogliosi principi Noldor, legati da parentela a mezzo del sangue e da un'amicizia imperitura che sfidava il destino. Ora erano solo due avversari.

Nelyafinwë non ebbe il tempo di chiedersi il significato di quel gesto: senza un cenno Findekáno si scagliò all'attacco. Lui alzò la spada per difendersi e il fendente incise il fodero. Il cugino lo incalzò e lui scartò di lato. Appena in tempo per non finire sotto la sua lama. 

– Sei impazzito? – gli gridò. – Mi vuoi forse uccidere?

– Solo se me lo permetterai! – urlò l'altro, partendo nuovamente all'attacco.

Nelyafinwë balzò su una delle grosse pietre evitando l'assalto di Findekáno che, sbilanciato, finì con i piedi nel ruscello. Poi approfittò dell'attimo di esitazione del cugino per bloccare l'arma tra un piede e la roccia ed estrarre la spada dal fodero. Riuscì a rispondere a un nuovo assalto, portato però con tanto impeto che pur non sfondando la sua guardia lo scaraventò a terra. Stringeva ancora la spada, ma era in una posizione di netto svantaggio.

– Va bene, hai vinto contro un monco… valoroso! – gridò. Pensava che quell'assurdità sarebbe finita lì, ma Findekáno si lanciò su di lui con l'arma protesa. Nelyafinwë rotolò di lato. La lama del cugino si conficcò nel terreno a poca distanza dal suo viso.

Faceva sul serio, quel folle.

Recuperò la posizione eretta nello stesso istante in cui Findekáno strappò la spada dalla morsa del terreno.

Di nuovo faccia a faccia. E di nuovo l'assalto del cugino, senza tregua. Nelyafinwë si trovò costretto a parare a destra, poi a sinistra in rapida successione. Tentò di uscire dalla linea di attacco, l'avversario non glielo permise, intuendo la sua mossa gli tagliò la fuga con un fendente obliquo. Che lui parò.

Ma la cosa si faceva sempre più difficile, gli serviva una concentrazione estrema per governare il braccio sinistro a quella velocità, e questo gli impediva di escogitare una tattica vincente. Si limitava a parare e tirare qualche colpo vergognosamente prevedibile.

Infine si decise a provare un affondo. Pessima idea. Findekáno scartò di lato quel tanto che bastava per evitare la lama, si avvitò su sé stesso e lo raggiunse al viso con una gomitata. Sentì in bocca il sapore del sangue.

– Allora, vuoi combattere, si o no? – gli urlò il cugino partendo nuovamente all'attacco: parata, affondo, nuova parata e in fine il suo contrattacco. Debole e prevedibile.

Altra pausa. Per riprendere fiato. Avevano raggiunto il centro della radura. Le nuvole si erano addensate, una cappa scura copriva il cielo. Un tuono squarciò l'aria, cominciarono a cadere grosse gocce rade.

– Sei lento! – lo provocò il cugino.

Aveva ragione, era lento. Era goffo, era inutile. Perseguire il Giuramento significava guerra, e lui non era più in grado di combatterla. Tutta questa sofferenza, questa morte, questa rinuncia… tutto era stato vano.

"Le imprese che compiremo saranno materia di canto fino agli ultimi giorni di Arda" aveva urlato suo padre in faccia a Námo e alla sua Maledizione. Soltanto questo restava ai Noldor in esilio. Ma a lui questo era negato. A lui non restava che attendere la fine, passivo, come se ancora fosse appeso alla roccia, soffrendo invece che la tortura del corpo, quella di vedere cadere gli amici al posto suo.

Condannato a vivere.

Findekáno non gli diede il tempo di indugiare su tali pensieri, recuperato il fiato portò un attacco di tale potenza da sfondare la sua guardia. La lama gli tracciò una ferita diagonale sul petto. Il sangue che ne affiorò fu trascinato via dalla pioggia che ora cadeva sostenuta, in sottili rivoli rosati. Sarebbe diventata un'altra cicatrice tra le tante. Simboli del suo fallimento.

Non riuscì a sopportarlo. Come un fiume in piena che nella sua corsa inarrestabile travolge tutto ciò che incontra, arrivò infine l'odio tanto atteso ad annullare ogni pensiero. E con lui l'ira, che lo accecò.

Si trovò a duellare con gli incubi.

Il Marinaio con gli occhi vuoti e il sangue che gli ruscellava dall'addome (forte sciabolata da sinistra a destra), suo padre che ridendo gli porgeva una torcia su un mare già in fiamme (spada sopra la testa e fendente dall'alto), suo fratello che l'aveva abbandonato alla tortura (finta a sinistra e attacco a destra), il Nero Nemico che gli sussurrava parole ingannevoli (rotazione su sé stesso e fendente diagonale).

Una furia di terribile eleganza. Un succedersi di movimenti prossimi alla perfezione. La spada disegnava traiettorie letali a una velocità che l'occhio non riusciva a seguire. Il braccio destro, lungi dall'essere un peso, bilanciava il corpo con movimenti precisi infondendogli equilibrio e potenza.

Non ci volle molto perché l'arma del cugino volasse alta nel cielo, per atterrare lontano sull'erba fradicia con uno schiocco sonoro.

Nelyafinwë si preparò a sferrare il colpo definitivo. Portò la spada sopra la testa con un gesto fluido, pronto a calarla in un affondo letale.

– Maitimo! – Il grido perforò l'aria e squarciò la nebbia che avvolgeva la sua mente.

Findekáno.

Deviò il colpo all'ultimo istante, e tale era la recuperata padronanza del suo corpo, che non avrebbe inflitto nemmeno un graffio, se il cugino non avesse d'istinto alzato le braccia per proteggersi. La lama gli incise l'avambraccio destro dal polso al gomito.

Findekáno crollò a terra.

Nelyafinwë tornò alla realtà e vide il cugino inerme, accasciato sotto la pioggia incessante, stringersi il braccio insanguinato. Si lasciò cadere al suo fianco cercando di sorreggerlo e nel contempo di verificare l'entità del danno.

– È solo un graffio… – ansimò il cugino, a corto di fiato.

Per una volta non stava minimizzando, grazie a Eru! La ferita era davvero superficiale.

Prese tra le braccia l'amico e lo strinse a sé. Una stretta feroce, nella quale confluirono la rabbia e il sollievo, e forse anche altre pulsioni che trovava sempre più difficile reprimere. La pelle bagnata e l'assenza della mano complottavano per fargli perdere la presa. Allora strinse più forte. Findekáno gli rispose con una stretta altrettanto violenta, quasi fosse una prova di forza nella quale non voleva avere la meno.

Lo scroscio assordante dell'acqua, il martellare del cuore del cugino che batteva contro il suo, il volto affondato nei suoi capelli fradici. Lacrime miste a pioggia.

– Perché questa follia? Avrei potuto ucciderti, dannazione! – gridò, per sovrastare il rumore.

– Sì – confermò Findekáno. – Avresti potuto uccidermi, e ti assicuro che io me la cavo piuttosto bene con la spada.

Nelyafinwë lasciò la presa e si scostò quanto bastava per guardarlo in viso. Gli occhi di Findekáno brillavano di trionfo.

– Ora non potrai più dire di non essere pronto – concluse il cugino.

Dunque era qui che voleva arrivare. Credeva alla sua capacità di recupero al punto da scommetterci la vita.

Ma non si trattava soltanto di una questione di abilità con la spada, purtroppo. Se era vero che aveva recuperato il dominio sul corpo, aveva anche dimostrato che quello sulla mente era ben lontano dall'essere raggiunto.

– Findekáno – cominciò, cercando le parole giuste per spiegarsi, – tutto questo odio che mi divora…

– Tutto questo odio, Nelyo, è un'arma. La più letale che possiedi – disse il cugino. – Devi solo imparare a indirizzarla al bersaglio giusto.

Nelyafinwë scosse la testa, – e se non ne fossi capace? Se un giorno dovesse prendere il sopravvento?

– Non potrà mai accadere – disse Findekáno guardandolo dritto negli occhi, – perché ci sarò sempre io, al tuo fianco, per impedirlo.

Findekáno il Valoroso aveva affrontato l'orrore del Ghiaccio Stridente, aveva varcato da solo il confine dell'oscura terra del Nemico ed era riuscito a strapparlo da un destino di sofferenza imperitura.

Come si poteva non credergli?
 

-
 

Recuperate le spade corsero alla tenda, al riparo dalla pioggia incessante.

Findekáno continuava a sfoggiare la sua espressione di trionfo, nonostante il braccio non smettesse di sanguinare. Come spesso gli accadeva, sfogava la sua eccitazione parlando: accampava scuse per la sconfitta, pretendeva la rivincita, programmava allenamenti…

Era difficile non farsi travolgere dal suo entusiasmo! L'esito del duello, l'esaltazione del combattimento, ma soprattutto la fiducia che il cugino aveva dimostrato di riporre in lui e nel loro futuro, lo portavano, se non proprio a condividere la sua euforia, a sentirsi più incline alla speranza di quanto non fosse mai stato.

Si sforzò di pensare a ciò che andava fatto. Cercò dei teli per asciugarsi e delle bende, quindi richiamò Findekáno alla realtà e si fece aiutare a fasciargli la ferita al braccio. Avevano a disposizione due mani sinistre per quel compito, ma una si dimostrò molto più abile dell'altra. Più veloce, più precisa. La mano che aveva inflitto quella ferita con spietata efficacia, ora eseguiva gesti delicati con estrema perizia.

Nelyafinwë si arrese all'evidenza e accettò finalmente ciò che il suo corpo tentava di comunicargli da giorni: era guarito.

Abbassò lo sguardo sul proprio torace per mettere alla prova quella nuova consapevolezza. Il taglio inflittogli dal cugino, arrossato ma sottile, non sanguinava più. I profondi solchi delle cicatrici che si intersecavano sul suo petto erano ancora lì, dove sarebbero sempre stati, a rovinare quella perfezione che era all'origine del suo nome. Solo che ora, non riuscendo più a negare a sé stesso il proprio valore, non li vedeva più come gli indelebili marchi del fallimento, ma come orgogliose testimonianze di sopravvivenza.

Si sfilò i pantaloni fradici e osservò le tracce della tortura evidenti sulle sue cosce, ormai tornate nel pieno vigore muscolare, e vide che l'effetto era lo stesso. Era finito il tempo della commiserazione. Cominciava quello del riscatto.

Avvertì lo sguardo del cugino sul suo corpo nudo, percepì la vicinanza di quel fisico perfetto, incorrotto (desiderato, anche, gli suggerì quell'angolo della mente che lui si imponeva di ignorare), e scoprì che tutto questo non suscitava più in lui il disgusto si sé, né la vergogna, o l'invidia…

– Ti fai ammirare, ben fatto?

La voce di Findekáno lo strappò dalle proprie meditazioni. Il cugino gli stava di fronte già perfettamente vestito, con i capelli umidi sciolti sulle spalle, e gli porgeva degli abiti puliti. Sorrideva ironico, ma nei suoi occhi si leggeva una tale ammirazione che lui si affrettò a indossare i vestiti, intuendo la risposta imbarazzante che presto avrebbe dato il suo corpo a quello sguardo appassionato.

Si sedettero poi uno davanti all'altro sui rispettivi giacigli, affamati ed esausti, l'euforia che pian piano calava. Dato che la pioggia non accennava a diminuire, decisero di mangiare qualcosa di freddo in tenda.

Mentre guardava Findekáno che affettava il pane e la carne salata e glieli porgeva dentro una ciotola di legno, si trovò a pensare a come, durante quei numerosi giorni trascorsi insieme, lui si fosse sempre affidato al cugino in tutto e per tutto, come se questo conoscesse a memoria la procedura per il recupero del Noldo reduce dalla tortura.

Invece sicuramente dubbi ne aveva avuti anche lui. Forse era andato per tentativi, confidando di fare la cosa giusta, cercando di evitare i disastri. Con pazienza e fiducia. E con la sua incrollabile speranza.

Senza dubbio quel gesto estremo, di sfidarlo con la spada, che dopo tante conquiste poteva portare al fallimento definitivo, era stato a lungo meditato e infine messo in pratica come ultima risorsa. L'azzardo finale. 

– Sei un folle – gli disse, d'un tratto, come aveva già fatto mille altre volte in una vita passata, perduta per sempre.

Findekáno sollevò lo sguardo, incerto, interrompendosi a metà di un boccone.

– … ma forse solo un folle può strapparne un altro dalle braccia della follia – aggiunse Nelyafinwë.

Il cugino deglutì.

– Nelyo – cominciò, – non smetterai mai di considerarmi un ragazzino? Sapevo esattamente quello che stavo facendo.

Sembrava crederci davvero, ma poco dopo ammise: – Avevo un unico timore.

– Avevi paura di rimanere ucciso? – domandò Nelyafinwë, tremando ancora al pensiero di quanto vicini fossero stati a quella terribile conclusione.

Findekáno scosse il capo. – No, avevo paura che fossi tu a uccidere me. – Tacque un istante, poi disse: – Credo non ci sia modo di sfuggire alla follia se si è costretti ad uccidere il proprio… amico più caro.

Nelyafinwë lo rivide, in piedi su quella roccia, tendere l'arco.

E poi lo vide ancora, coperto di sangue, gli occhi spiritati, accanirsi contro il suo polso. E lo immaginò vegliare accanto al suo giaciglio, esausto, mentre tentava di sfamarlo, o medicava le sue ferite, o lo teneva tra le braccia per impedire qualche gesto autolesionista. Oppure, semplicemente, pregava Eru di non fargli perdere, un'altra volta, colui che amava.

Findekáno.

Quante cose doveva fare ancora il cugino da solo? Quanto peso doveva portare sulle spalle? Quante responsabilità? Basta, pensò Nelyafinwë. Basta, valoroso amico che hai fatto onore al tuo soprannome andando molto oltre i tuoi doveri. Ora è il mio turno. 

Era giunto il momento di riprendere il pieno possesso di ciò che restava della sua vita. Doveva assumere il ruolo che gli spettava quale erede di suo padre e trovare una soluzione per tutti. Makalaurë aveva ragione: non c'era più tempo.

Aveva bisogno di riflettere.

– Devo fare due passi – disse al cugino.

Findekáno lanciò un'occhiata perplessa all'ingresso della tenda, che non riusciva a bloccare del tutto la pioggia battente.

– Come vuoi – rispose, appoggiando a terra la propria ciotola e cominciando ad alzarsi.

– Da solo – precisò Nelyafinwë, cercando di sembrare più deciso di quanto non fosse in realtà.

Findekáno si bloccò e lo guardò sospettoso.

– Non preoccuparti, non intendo fare pazzie – lo prevenne Nelyafinwë, intuendo i suoi timori, – devo solo riuscire a pensare con chiarezza alla situazione.

– Lo so, Maitimo – disse il cugino tornando a sedersi. – Ho atteso a lungo questo momento. Tuttavia ora che è arrivato… –  Lasciò la frase in sospeso. Si sdraiò sulla schiena, incrociò le mani dietro la testa e chiuse gli occhi. Non intendeva dire altro.

Findekáno lo stava lasciando andare. Aveva esaurito il suo compito. Gli aveva riconsegnato sé stesso.

Nelyafinwë gli lanciò un'ultima occhiata, poi si coprì con un mantello, alzò il cappuccio e uscì sotto la pioggia, consapevole che se avesse esitato un altro istante avrebbe finito per compiere qualche gesto inopportuno, come, per esempio, raggiungere Findekáno nel suo giaciglio e… e allora avrebbe potuto dire addio tanto ai ragionamenti quanto all'assunzione di responsabilità!
 

-
 

Si incamminò lungo il sentiero che risaliva il monte. Sotto l'acqua scrosciante il terreno risultava fangoso e le rocce scivolose. Raggiungere il valico fu più lungo e più difficile della volta precedente. Meglio così. Aveva bisogno di tempo per schiarirsi le idee. Per far sedimentare l'eccitazione dovuta al duello e alla nuova consapevolezza di sé che esso aveva generato.

Quando arrivò sull'altro versante, la sua mente era sgombra. Paura, senso di colpa, rabbia, odio, tutto ciò che l'aveva affollata dal giorno del suo risveglio era, se non scomparso, confinato in un angolo per lasciare spazio allo scorrere fluido dei pensieri. Non più confusi, ma chiari.

Avvolto dal suono della pioggia che batteva sul suo cappuccio un ritmo serrato, si portò volutamente sull'orlo del precipizio reso sdrucciolevole dall'acqua che scendeva copiosa dalle pendici, e sfidò sé stesso a guardarci dentro. Non sentì più l'impulso di fare l'ultimo passo, e nemmeno sentì quello di arretrare. Restò fermo, con lo sguardo fisso tra le ombre, il cuore che batteva regolare, il respiro calmo e profondo.

Non provava paura. Sembrava che il suo spirito avesse respinto i suoi demoni, o piuttosto che avesse imparato a conviverci.

Si trovò a chiedersi con quali demoni avesse dovuto convivere il padre.

Fëanáro, il più grande tra i Noldor, a cui il destino aveva conferito doti eccezionali e anche la forza di perseguirle, ma che, in cambio, aveva sottoposto a prove durissime. L'abbandono da parte della madre, la decisione del padre, unica nel suo genere, di formare una nuova famiglia, e più tardi l'omicidio dello stesso amatissimo padre, e il furto delle opere in cui aveva riposto parte del suo spirito.

Di quanto di tutto ciò si era ritenuto responsabile? Quando accusava il destino, o i Valar, o il Nemico, accusava in parte anche sé stesso nel profondo del suo cuore?

Per la prima volta vide suo padre sotto una luce diversa e scoprì che ora riusciva a comprenderlo. Forse perché adesso, anche lui, aveva sperimentato il furore come unico mezzo per sopravvivere a sé stesso. 

Allora alzò il viso incontro alla pioggia e lasciò che l'acqua gli scorresse sul volto, come lacrime che non sarebbe più riuscito a versare. Comprendeva, Nelyafinwë, ma non perdonava.

Come avrebbe potuto perdonare, quando liberamente aveva scelto di seguirlo sulla sua strada, liberamente aveva scelto di assassinare innocenti, di tradire gli amici. Liberamente, e per ben due volte, aveva vincolato sé stesso con parole di morte.

Perdonare il padre significava perdonare sé stesso, e Nelyafinwë non sarebbe mai stato in grado di farlo.

Rimase immobile sotto l'acqua, finché la pioggia si ridusse a una leggera acquerugiola e poi cessò del tutto. Allora si passò la mano sul viso per allontanarne le ultime gocce, mentre il suo pensiero si spostava dal padre alla straordinaria eredità che questo aveva lasciato al mondo: eleganti grafemi, gemme sublimi, invenzioni ineguagliabili. Terre da conquistare. La possibilità di scegliere il proprio destino, fosse pure dannato. 

Ciò che aveva lasciato ai suoi figli, invece, era una cosa sola: il Giuramento. Recuperare i Silmarilli a costo della Tenebra Eterna. Perseguitare chi osava impossessarsene. 

E lui era il primo dei suoi figli. L'erede. Qual era dunque il suo compito?

Assumere il ruolo di Re? Mettersi a capo dei Noldor che, divisi da discordie, marchiati dalla Condanna, indugiavano incerti in una terra straniera i cui abitanti li avrebbero presto considerati ostili? Riunire il suo popolo, infondergli speranza e proteggerlo da un Nemico la cui potenza appariva insormontabile? Findekáno e Makalaurë la pensavano così.

Ma come poteva unire, guidare e proteggere i Noldor, quando la minaccia più grande che gravava su tutti loro, peggiore persino di Moringotto stesso, era il Giuramento che marchiava lui e i suoi fratelli, e che li vincolava a un destino di sangue finché non fosse stato adempiuto?

Lui aveva ereditato dal padre il titolo di Re, è vero. Ma aveva anche ereditato il fardello del Giuramento. E le due cose non potevano convivere. La prima implicava mettere la salvezza del suo popolo davanti ad ogni cosa, necessitava saggezza. L'altra implicava vendetta, si nutriva di odio, causava la morte di coloro con cui sarebbe venuto in contatto.

Un ruolo escludeva l'altro. 

Quando Nelyafinwë arrivò a comprendere questo, la decisione da prendere, dolorosa ma necessaria, si delineò chiara nella sua mente. Più che una scelta, era una conseguenza inevitabile.

Abbassò il cappuccio sulle spalle e scosse la testa per liberare i capelli dall'acqua e i pensieri dai dubbi.

Il cielo cominciava a riaprirsi, macchie di sgargiante celeste irrompevano tra lembi di sottili nubi biancastre. Il sole spuntò alle sue spalle, riaccendendo la natura lavata di colori vivaci.

Nelyafinwë lanciò un'ultima occhiata al fondo del baratro, dove la luce faticava ad arrivare. Forse sarebbe arrivato il momento di arrendersi all'abisso, ma non prima di aver fatto tutto quello che ci si attendeva da lui.

Si voltò deciso. In pochi agili passi era al valico e di nuovo sulla via della radura.

 

 

__________

 

Note Finali:

01.
Quenya - Sindarin
Makalaurë (Kanafinwë, Káno): Maglor
Fëanáro: Fëanor
 

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Capitolo 8
*** La decisione ***



Capitolo Ottavo - La decisione


________
 

Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

________

 

 

Tornò alla radura con la consapevolezza di aver preso la decisione giusta. 

Aveva ben chiaro come avrebbe dovuto comunicarla ai fratelli, prevedeva le reazioni che avrebbero avuto, e sapeva quali argomenti avrebbe portato a sostegno della propria tesi. Era certo di riuscire a condurre le cose in modo tale da indurli ad accettare ciò che aveva deciso, perché era l'unica via per raggiungere il loro scopo. 

Non era dei suoi fratelli che si preoccupava. Era Findekáno che temeva di non riuscire a convincere.

A lui, la sua decisione non sarebbe piaciuta, e per più di un motivo. E in quanto a convincere il cugino con argomentazioni razionali era fuori discussione, non ricordava di esserci mai riuscito in tanti anni di amicizia. Nonostante ciò, continuava a ripetere dentro di sé le parole con cui avrebbe cercato di fargli accettare la sua visione delle cose, nel poco tempo che avevano ancora da trascorrere insieme.

Ma quando uscì dal bosco scoprì che non sarebbe stato possibile: Findekáno lo aspettava seduto presso la sorgente, con Makalaurë al suo fianco. Il tempo che avevano da passare insieme sembrava essersi esaurito ancora prima di cominciare.

Alzando lo sguardo sulla radura, tuttavia, notò le borse dei rifornimenti appoggiate presso la tenda e un unico cavallo che brucava mansueto, segnali che Makalaurë non era venuto con l'intenzione di portarlo via, per il momento. Pensò che avrebbe avuto l'occasione di spiegarsi con il cugino più tardi e, aggrappandosi a questo misero alibi, avanzò deciso.

I due Eldar, vedendolo arrivare, si erano alzati e avevano fatto qualche passo per andargli incontro. 

Nelyafinwë diede un veloce abbraccio al fratello e, portatosi di fronte al cugino, indugiò per un attimo in quello che sperava fosse uno sguardo rassicurante, col sospetto vago di non sapere chi dei due fosse, in realtà, quello che doveva essere rassicurato. Poi li precedette ai massi bianchi e andò a sedersi.

Occuparono gli stessi posti del lontano giorno in cui lui aveva dichiarato di non essere pronto a tornare. Ma se allora era stato una figura china e fragile tra gli altri, adesso li dominava. Il carisma e l'autorevolezza che in Aman già si potevano intuire nel primogenito di Fëanáro, ora, temprati dalla sofferenza, plasmati dalla consapevolezza del proprio destino, erano giunti a completa maturazione e relegavano gli altri due, nobili Principi Noldorin nel pieno del loro splendore, a mere figure di sfondo.

– Non so se Findekáno ti ha spiegato – disse al fratello.

– È stato un po' vago – rispose Makalaurë, lanciando una rapida occhiata al braccio del cugino, la cui fasciatura emergeva dalla manica della casacca.

– Allora ti basti sapere che sono pronto a tornare. – Quello che Findekáno aveva scelto di rivelare o di tenere per sé, a lui andava bene. Adesso era tempo di comunicare ciò che andava fatto.

– Ecco come stanno le cose – cominciò, senza indugiare oltre. – È necessaria prima di tutto una riconciliazione tra i Noldor. Abbiamo abbandonato i nostri consanguinei a un destino atroce, e loro hanno dimostrato a noi e al mondo intero il loro valore.

Si interruppe per un attimo, spostando lo sguardo sul cugino, e la sua voce si ammorbidì un poco.

– Inoltre uno di loro, nonostante il torto subìto, ha rischiato la vita… più volte… per salvare me, figlio e complice di colui che l'ha costretto al ghiaccio. 

Tornò a guardare il fratello e continuò risoluto: – I nostri debiti nei loro confronti sono incalcolabili. Eppure dobbiamo trovare il modo di pagarli. Non solo per una questione di giustizia, ma anche per un fatto di pura e semplice necessità. Loro sono superiori a noi per numero, sono audaci combattenti e, dopo essere sopravvissuti all'attraversata, temono ben poco. Sono alleati indispensabili per la sconfitta del Nero Nemico.

Makalaurë annuì, con l'espressione seria e attenta che da sempre lo caratterizzava quando ascoltava i discorsi del fratello maggiore.

– In più – proseguì Nelyafinwë, – i Noldor devono stare uniti in previsione del giorno in cui Elwë verrà a sapere del… dei fatti di Alqualondë. È fondamentale stringere alleanza coi figli di Arafinwë, che forse riceveranno maggiore considerazione da questo sovrano a causa della loro parentela. Dobbiamo assolutamente evitare di sprecare le nostre esigue risorse in lotte tra Quendi.

– Sì – ammise Makalaurë. – La tua analisi è chiara… è la soluzione che non riesco a vedere.

– Cederò il titolo di Re dei Noldor a Nolofinwë, fratellastro di nostro padre.

– Non ho capito – disse Makalaurë, interdetto. E in effetti come poteva capire, un Fëanárion, quell'affermazione? Lui stesso, nel pronunciare quelle parole, ne sentiva il sapore blasfemo sulla lingua. 

– Abdicherò in favore di colui che è uscito vittorioso da quell'inferno di ghiaccio, trascinandosi appresso coloro che noi abbiamo abbandonato – ripeté, con calma. 

– Ma Russandol… – cominciò il fratello.

Nelyafinwë interruppe la sua protesta sul nascere. – Cosa abbiamo giurato Makalaurë, lo ricordi? Abbiamo giurato di essere buoni sovrani per i Noldor in esilio? O abbiamo giurato di strappare i Silmarilli dalle mani del Nero Nemico a qualsiasi costo? Noi dobbiamo perseguire il Giuramento... e se per farlo saremo costretti a inchinarci, allora ci inchineremo.

All'udire queste parole Makalaurë si alzò di scatto, come per opporsi al concetto stesso di inchinarsi, e non preoccupandosi più di dominare la sua voce possente, cominciò con fervore a elencare una serie di obiezioni. Findekáno, figlio del futuro Re, rimase invece a testa bassa e ad occhi chiusi, come chi avesse ricevuto da sostenere un peso superiore alle proprie capacità.

– Nessuno di noi accamperà più pretese al trono, la signoria passerà a lui e ai suoi discendenti – concluse Nelyafinwë imperterrito, chiudendo le orecchie alle proteste veementi del fratello e il cuore a quelle silenziose del cugino.

Vedendo che le sue parole cadevano nel vuoto, Makalaurë tentò l'argomento finale.

– Nostro padre…

Allora Nelyafinwë si alzò a sua volta. Sovrastava il fratello per altezza e prestanza fisica. Ma era il fuoco che bruciava in fondo ai suoi occhi a renderlo spaventoso, riflesso di ciò che aveva alimentato lo spirito del padre… o forse di quello che bruciava nelle segrete di Angamando.

– Nostro padre è morto – disse, con voce che non ammetteva repliche, – sono io adesso che prendo le decisioni. E ti dirò di più: la sua strategia di andare avanti da soli, rinunciando a validi alleati, si è rivelata a dir poco fallace.

Avvicinò il viso a quello del fratello. In piena luce sul suo volto severo spiccavano evidenti le cicatrici, testimonianze di tormenti atroci e prove inconfutabili a sostegno di ciò che aveva appena detto.

Di fronte a un avversario talmente superiore, Makalaurë sembrò cercare un bersaglio più alla sua portata su cui sfogare la sua rabbia. Si rivolse al cugino, che ancora sedeva silenzioso con la testa tra le mani, i gomiti appoggiati sulle ginocchia.

– E a te va bene così, vero? – gridò, fuori si sé. – Non saresti mai entrato nella linea di successione con tanti eredi prima di te! L'hai plagiato in tutti questi giorni in cui è stato fragile, l'hai plagiato con il tuo attaccamento… innaturale!

Nelyafinwë vide Findekáno alzare lo sguardo non sul fratello che lo accusava, ma su di lui, in attesa forse di un suo scatto d'ira che, questa volta, non sembrava intenzionato a frenare.

Lui tuttavia mantenne la calma e continuò a fissare Makalaurë, impassibile. Forte dell'esperienza di tutta una vita passata a sedare dissidi tra fratelli, sapeva come comportarsi con ciascuno di loro. Con Makalaurë bisognava attendere. Dargli il tempo di ragionare e di arrivare da solo alle conclusioni.

Infatti, dopo qualche istante, il fratello abbassò lo sguardo e si passò una mano sul viso. 

– Perdonatemi – disse. – Perdonami Findo, non so cosa mi è preso – ripeté, chinandosi a stringere una spalla del cugino. – Ciò che hai fatto merita di essere cantato nelle Ere a venire, e io te ne sarò eternamente debitore.

Si sedette di nuovo, scuotendo il capo, come incredulo di fronte al suo stesso comportamento. Sembrava sfinito dalla stanchezza. Prossimo alla resa.

– Sei scusato – gli disse Nelyafinwë, sedendosi a sua volta. Una reazione del genere da parte del suo fratello più pacato e ragionevole lo preoccupò: se anche Makalaurë era giunto a un tale livello di tensione, forse la sua guarigione era davvero arrivata troppo tardi. Cercò allora di rassicurarlo con spiegazioni che normalmente non sarebbero state necessarie, perché il fratello non mancava certo di acume e i due figli maggiori di Fëanáro si capivano al punto che le parole risultavano spesso superflue.

– Makalaurë, ascolta – cominciò, – se io fossi il sovrano, il popolo di Nolofinwë sarebbe comunque fedele a lui soltanto, e così pure la gente di Arafinwë. Crescerebbero discordie che sfocerebbero in ribellioni, finiremmo per combatterci tra di noi al suono delle risate del Nemico. Cedendogli la signoria estinguiamo un debito, ci creiamo un alleato e sediamo i conflitti. Gli diamo quello che desidera, per ottenere ciò che vogliamo.

Makalaurë sembrò meditare a lungo su quell'ultima frase, che ricordava il modo di ragionare di Fëanáro pur portando a un risultato che il padre non avrebbe mai potuto accettare. Infine disse: – Capisco la tua decisione… e ammetto che probabilmente è l'unica percorribile. Ma non hai considerato un fattore cruciale: alcuni tra i nostri fratelli non saranno mai d'accordo. Saranno costretti ad accettare il tuo volere per forza, ma i contrasti tra le nostre due schiere si acuiranno, piuttosto che sedarsi.

Nelyafinwë l'aveva considerato, invece.

– Per questo motivo – rispose, – una volta sistemate le cose lasceremo queste terre e ce ne andremo a Est. Costruiremo le nostre fortezze lontano dalla gente di Nolofinwë, così da evitare gli attriti e da poter stringere d'assedio il Nemico da tutti i lati possibili.

Questa volta fu Findekáno a reagire. Nelyafinwë se lo aspettava, ma scoprì di non essere pronto. Il cugino sollevò di scatto la testa e lo colpì con uno sguardo che gli trafisse il cuore. Conteneva tutto il vuoto dell'abbandono.

Si impose di non reagire. Di rimanere impassibile a quella reazione silenziosa come poco prima aveva fatto alla reazione aggressiva del fratello. Rimasero un momento a guardarsi, poi Findekáno chinò leggermente il capo, come per accettare. O piuttosto, per cedere. Infine si alzò in silenzio e si diresse verso la tenda.

Nelyafinwë si trovò a combattere contro ogni fibra del suo corpo pronta a scattare per corrergli dietro. Avrebbe voluto prenderlo tra le braccia e promettergli che la lontananza non avrebbe mai cambiato quello che c'era tra loro. Avrebbe voluto molto di più, in realtà. Ma adesso era di nuovo in grado di tenere i propri istinti sotto controllo, di anteporre la cosa giusta da fare ai propri desideri. 

Restò quindi a rassicurare Makalaurë, a spiegargli come avrebbe voluto gestire le cose, ad elencargli ciò di cui avrebbe avuto bisogno. Pergamene, inventari, mappe, rapporti. In ultimo, senza sapere bene perché, gli chiese anche un oggetto strettamente personale.

Infine, riferendosi agli altri fratelli, disse: – Me li condurrai qui domani mattina. Farò accettare loro la mia decisione.

– È davvero quello che vuoi, Russandol? – Makalaurë lanciò un rapido sguardo in direzione della tenda.

– Sì – mentì Nelyafinwë. E il fratello finse di non accorgersene. 

 

-

 

Accompagnò Makalaurë al suo cavallo e, appena lo vide sparire lungo il sentiero che scendeva a valle, si avviò verso la tenda, dentro la quale aveva ripiegato Findekáno.

La reazione del cugino l'aveva davvero colto di sorpresa. Si era aspettato il solito torrente di parole, magari gridate con astio o tinte di sarcasmo, alle quali avrebbe ribattuto punto per punto. Si era preparato ad affrontare Findekáno arrabbiato, deluso perfino… ma non era pronto per lo sguardo che gli aveva rivolto poco prima. 

Smarrito.

Tutta la sua determinazione a fare la cosa giusta si era dissolta davanti a quell'espressione mai vista prima sul volto dell'amico. Ed ora aveva paura di affrontare di nuovo quello sguardo. Aveva paura di non riuscire a dire quello che doveva.

Consapevole di passare per codardo, si sedette sul prato appena fuori dalla tenda.

– Findo – chiamò.

La risposta arrivò dopo qualche momento, secca, quasi riluttante.

– Sì.

– Scusami – disse, – avrei dovuto parlarne prima con te.

– Già.

Cadde il silenzio.

Quando Nelyafinwë cominciò a pensare che il cugino non avrebbe detto altro, ed era sul punto di partire con il discorso che si era preparato con tanta cura, Findekáno parlò di nuovo e, come sempre, andò dritto al punto: – Hai trovato proprio una soluzione perfetta. Risolve in un colpo solo i problemi politici e quelli personali.

– Cosa intendi dire? – domandò Nelyafinwë, che aveva capito benissimo il significato di quelle parole, ma voleva prendere tempo per elaborare una risposta adeguata.

Findekáno non glielo concesse: – Che tra tutte le cose che sei stato costretto ad imparare da quando hai lasciato Aman, non hai trovato il coraggio di affrontare quello che c'è tra noi due. Come dimostra il fatto che te ne stai seduto lì fuori, invece di guardarmi in faccia, mentre mi lasci.

– Mentre… cosa? – esclamò Nelyafinwë. Forse non sapeva più nemmeno lui quello che stava cercando di fare, ma di certo non lo stava lasciando, dato che non erano mai stati legati.

O lo erano stati?

Il fatto che non avessero mai condiviso l'unione fisica, contava più del fatto che in cent'anni di amicizia non erano riusciti a stare un solo giorno senza vedersi? Contava più del fatto che, tra tutte le sofferenze che aveva dovuto sopportare, la peggiore era stata veder bruciare quelle navi maledette? Più del fatto che l'amico aveva sfidato il destino per salvarlo?

L'abbraccio che è in grado di concepire la vita, tra gemiti e sospiri, sotto un lenzuolo di seta, lega forse più dell'abbraccio che restituisce la vita, tra urla e lacrime, sotto una pioggia di sangue? 

Non era difficile dare una risposta a queste domande. Non più, ormai. Il difficile era comprendere come gestirlo, questo legame. Già sarebbe stato complicato in Aman, figuriamoci ora, nel caos che li circondava, sotto la cappa della Condanna, in una terra ostile. E quello che più lo irritava era che Findekáno faceva sembrare tutto così semplice, così… naturale!

A dispetto della razionalità che si era riproposto, sbottò ironico: – E cosa ti aspettavi, Fin? Doni di fidanzamento e cerimonie in grande stile?

– A-ha… idiota. Lo trovi divertente? – la voce di Findekáno usciva dalla tenda affilata come la lama di un coltello. – Mi aspettavo di essermi almeno guadagnato il diritto di esprimere un'opinione, prima che tu prendessi decisioni irrevocabili… soprattutto se quelle decisioni coinvolgono me direttamente.

Su questo non poteva certo dargli torto. Per un attimo ebbe la strana sensazione che i ruoli si fossero invertiti: Findekáno diceva parole sensate mentre lui brancolava nell'incertezza. Cercò di riprendere il controllo della conversazione.

– Ascolta, Findo – disse, sforzandosi di mantenere un tono ragionevole, – tuo padre presto sarà Re e forse un giorno lo sarai anche tu, dato che abbiamo imparato che l'immortalità non è più un concetto su cui possiamo fare affidamento… Non hai pensato che tu sei l'unico, ormai, che può dargli un erede?

La risposta arrivò immediata: – No. Non ci ho pensato. E non intendo farlo nemmeno adesso!

– Tu non pensi mai, Findekáno! – esclamò, esasperato, perdendo nuovamente il filo del discorso.

– Per fortuna tua! Altrimenti saresti ancora appeso a quella roccia ad implorare la morte!

– Non cambiare argomento – ribatté Nelyafinwë, nonostante non potesse negare che l'argomento in questione aveva una sua indubbia validità, – e cerca di comportarti razionalmente, per una volta!

– Detto da uno che parla al vento seduto nell'erba fradicia… – commentò Findekáno. – E comunque fammi capire: mi stai dicendo che hai recuperato così bene il tuo autocontrollo, da riuscire a reprimere i sentimenti che provi per me al punto da vedermi legato a un'altra persona?

Mai. Pensò Nelyafinwë. – Sì – disse, ad alta voce.

Era un'unica sillaba, come poteva fare così male? Ma almeno chiudeva il discorso una volta per tutte.

Si sbagliava: l'ingresso della tenda si aprì quel tanto che bastava per lasciar passare qualcosa scagliatogli addosso dal cugino.

– Tu dormi ancora avvinghiato al mio mantello! Abbiamo già smesso di essere sinceri, mio Re-ancora-per-poco?

Nelyafinwë, guardando il mantello che gli era caduto in grembo, fu messo brutalmente di fronte all'innegabile verità: le sue ridicole menzogne non potevano ingannare Findekáno, nemmeno se pronunciate al riparo dalla sua vista.

E in ogni caso il riparo venne presto a mancare, perché il cugino uscì e gli si mise davanti in ginocchio, una posizione che annullava ogni differenza di altezza. Nelyafinwë tentò di sfuggire al suo sguardo, ma Findekáno gli afferrò il mento con forza e lo costrinse a guardarlo negli occhi.

Poi si protese verso di lui. I loro visi quasi si toccavano. Per un istante Nelyafinwë ebbe la certezza che l'avrebbe baciato. Fremette di terrore e di desiderio.

Invece il cugino parlò: – Tu riesci a tenere sotto controllo la follia perché ci sono io. Io sono il tuo unico appiglio alla realtà, così come tu sei stato il mio unico appiglio per uscire vivo da quell'inferno di ghiaccio.

Lo lasciò andare e si ritrasse un poco.

– E tu lo sai. Sai cosa provi per me. E, quanto è vero Eru, sai che io provo lo stesso per te. 

Nelyafinwë rimase in silenzio, immobile, come fosse incatenato ai suoi occhi. 

Findekáno continuò: – Siamo intrappolati nel destino che ci siamo scelti, vittime, sì, ma anche artefici di atti spaventosi, di cui non ci saremmo mai ritenuti capaci… Al di là del mare potevamo essere qualsiasi cosa… ora saremo solo guerrieri… – la sua voce si ridusse a un sussurro, – ora saremo solo assassini.

Per un attimo Nelyafinwë vide di nuovo quello sguardo smarrito negli occhi del cugino.

– Findo – mormorò, – se potessi tornare indietro…

Se potessi tornare indietro, voleva dirgli, non ti allontanerei di nuovo. Se potessi tornare indietro riempirei di gioia il poco tempo che ci restava prima del disastro… ma il cugino lo interruppe.

– Non voglio tornare indietro! – gridò furioso.

– Allora cosa vuoi, Fin? Ti devo la vita… ti devo tutto… – E tutto gli avrebbe dato pur di non vedere più quell'espressione sul suo volto, pur di non esserne la causa. – Ti giuro… – cominciò, ma ancora una volta il cugino non lo lasciò finire.

– Per tutti i Valar, Maitimo, non parlarmi di giuramenti! Non voglio altri giuramenti da te! – esclamò. – Voglio soltanto che non neghi più la realtà di quello che c'è tra noi.

Nelyafinwë abbassò lo sguardo sul mantello che teneva tra le braccia. Lo stesso mantello che aveva artigliato mentre il cugino gli amputava la mano, lo stesso che aveva coperto ciò che rimaneva del suo corpo mentre veniva portato in salvo, lo stesso dentro il quale affondava il viso alla ricerca dell'odore di Findekáno tutte le notti in cui si svegliava, madido di sudore, con un urlo strozzato in gola, convinto di trovarsi ancora nella cella ad attendere il dolore.

Chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro. 

Era stato costretto a riconoscere che il suo corpo era uscito da quell'inferno non solo guarito, ma addirittura rinforzato. Era arrivato a comprendere qual era il suo dovere nei confronti del suo popolo. Ora, seduto nell'erba ancora bagnata, col mantello di Findekáno sulle ginocchia, il sole tiepido del pomeriggio che gli scaldava il viso, raggiunse l'ultima consapevolezza.

Realizzò che ciò che gli dava la forza di rimanere ancorato alla sua natura di Elda e di non trasformarsi in una copia del loro Nemico, divorato dall'odio e dal rancore, era soltanto la presenza accanto a sé della persona che gli stava di fronte.

– Sì – annuì, tornando a guardare l'amico dritto negli occhi senza più incertezze. – Hai ragione Findekáno.

Non c'era altro da dire. Invece, senza saperne il motivo, aggiunse: – È l'unica cosa che ci rimane.

– È l'unica cosa che ci rimane – confermò Findekáno, mentre nel suo sguardo tornava, pian piano, a splendere la fiducia. Quando si alzò aveva di nuovo l'aria di chi crede di poter sfidare il mondo intero da solo.

Nelyafinwë lo osservò mentre si allontanava.

La salvezza del suo corpo la doveva al cugino. La salvezza della sua mente la doveva al cugino. La salvezza della sua anima, se mai fosse stata possibile, sarebbe stata anch'essa merito suo.

Si sentiva leggero come se un peso di cui finora aveva ignorato l'esistenza gli fosse stato tolto di dosso. E improvvisamente non ebbe più dubbi su come avrebbe dovuto comportarsi l'indomani.

 

 

__________

 

Note Finali:

01.
Quenya - Sindarin:
Makalaurë (Kanafinwë, Káno): Maglor
Elwë: Thingol
Nolofinwë: Fingolfin
Arafinwë: Finarfin
Angamando: Angband

02.
A proposito di "doni di fidanzamento" e altro
Al momento del fidanzamento era usanza degli Eldar scambiarsi anelli d'argento che venivano poi sostituiti da anelli d'oro il giorno del matrimonio, che avveniva almeno un anno dopo.
Prima del matrimonio la madre della sposa e il padre dello sposo, tra i Noldor, usavano donare rispettivamente allo sposo e alla sposa un gioiello (come fa Galadriel, in vece di sua figlia Celebrian, madre di Arwen, quando dona l'Elessar ad Aragorn).
La cerimonia di matrimonio, anche se faceva parte della tradizione (soprattutto ai tempi del Reame Beato), non era strettamente necessaria dato che, come già accennato, il matrimonio veniva sancito dal primo rapporto sessuale tra la coppia.
(Laws and Costumes among the Eldar, HoME vol. 10. pag 207-208)

03.
"tu sei l'unico che può dargli un erede"
Nelyafinwë si riferisce al fatto che Turgon, l'altro figlio maschio di Fingolfin ancora in vita, è rimasto vedovo con solo una figlia femmina.

 

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Capitolo 9
*** I figli di Fëanáro ***


 

Capitolo Nono - I figli di Fëanáro


________
 

Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

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La mattina seguente, per la prima volta dal giorno del suo risveglio, Nelyafinwë chiese al cugino un aiuto per vestirsi.

Nella speranza che servisse a recitare meglio il ruolo che doveva interpretare, aveva scelto di indossare un abito elaborato, portatogli da Makalaurë diversi giorni prima, quando era convinto che sarebbe rientrato al loro accampamento al più presto. Aveva lacci da stringere, bottoni da allacciare e degli stivali al ginocchio che da solo non sarebbe mai riuscito a infilarsi. Findekáno tentò anche di intrecciargli i capelli, ma erano ancora troppo corti e alla fine si accontentò di legarglieli in una semplice coda dietro la nuca.

Quando uscirono all'aperto, il sole cominciava a spuntare da dietro le vette e lambiva la radura con tiepidi raggi obliqui. L'azzurro intenso del cielo non contemplava nemmeno l'idea di una nuvola, l'aria era fresca e pungente, l'erba ancora bagnata dal temporale del giorno precedente.

Si misero al lavoro per allestire il campo per l'incontro con i fratelli, compito che ricadde per lo più sulle spalle del cugino, il quale vi si dedicò insolitamente silenzioso.

Quando ebbero finito, Findekáno recuperò ciò che mancava per completare l'abbigliamento di Nelyafinwë e gli si avvicinò.

Anche lui indossava abiti più ricercati di quelli che era solito portare nel loro piccolo accampamento: una camicia celeste scuro, che ben si intonava con il colore dei suoi occhi, e pantaloni blu notte, aderenti, che terminavano infilati in stivali di pelle. Persino i suoi capelli erano diversi dal solito; li portava sciolti, come un mantello d'ombra sulle spalle. 

Findekáno lo aiutò a infilare i parabracci in cuoio, decorati dallo stemma di Fëanáro in rilievo, gli fece indossare la casacca di un pregiato tessuto rosso scuro adorno di ricami dorati, gli strinse poi in vita la cintura alla quale era agganciata la sua spada lunga, e gli fissò sulle spalle il mantello bruno. Infine, con sua grande sorpresa, estrasse da un sacchetto di stoffa la fascetta di rame con cui Nelyafinwë era solito cingersi la fronte nelle occasioni ufficiali, a corte, quale principe ereditario della Casa di Finwë.

Quando gliela sistemò sul capo, i loro sguardi si incontrarono.

– Sei pronto – gli disse il cugino, con un sorriso incoraggiante. E proprio in quel momento, in lontananza, si udì debole ma distinto lo scalpitio di molti cavalli in avvicinamento.

All'udire quel suono Nelyafinwë venne assalito da un'ondata di panico improvviso. Tutto a un tratto, a dispetto della giornata luminosa, dei suoi vestiti ricercati, della presenza rassicurante del cugino accanto a sé, si ritrovò ad essere ancora appeso nelle tenebre, nudo, disperato, ferito, solo. 

Nel suo futuro vide solo morte, ed ebbe la chiara percezione che tutto sarebbe stato inutile.

Doveva trovare subito qualcosa a cui aggrapparsi, per non affondare nella disperazione.

Ebbene... c'era Findekáno, a non più di una spanna da lui, con quello sguardo che tracimava ammirazione, quell'espressione fiduciosa, quel sorriso disarmante… Gli sembrò di non avere alternative. Afferrò il mento del cugino, si chinò su di lui e lo baciò sulle labbra.

Findekáno reagì come se non stesse aspettando che quello, da giorni. Gli si aggrappò al bavero della casacca e lo tirò a sé con forza, facendo aderire i loro corpi. Sopraffatto dall'entusiasmo della risposta, Nelyafinwë esitò, incerto su come procedere, ma il cugino dimostrò di sapere benissimo dove voleva arrivare, perché inclinò leggermente il capo per agevolare il contatto e schiuse le labbra contro le sue, in un chiaro invito.

Tipico di Findekáno, trasformare sempre tutto in una sfida! Nelyafinwë si riscosse e la accettò. Col braccio destro gli circondò la vita, bloccandolo contro il proprio corpo. Gli fece scivolare la mano lungo il collo fino a raggiungergli la nuca. Affondò le dita nei suoi capelli sciolti e lo trasse a sé, forzando le loro labbra a un contatto più pressante. Ormai senza freni, assecondò la provocazione del cugino e quando arrivò a sentire il suo sapore sulla lingua non seppe dire se il gemito che udì fosse scaturito dalla sua gola o da quella di Findekáno.

Nel mondo reale, intanto, il rumore degli zoccoli sullo sterrato si faceva sempre più vicino. 

Basta così, pensò confusamente Nelyafinwë.

Invece chiuse gli occhi, nel tentativo di escludere dalla sua percezione tutto ciò che non fosse lui e il cugino. Il bacio si fece più profondo e il controllo della mente meno saldo. Ora lo investivano emozioni a ondate, come sospinte dall'eccitazione crescente. Ammirazione, amore, desiderio, speranza, fiducia. Non era difficile capire a chi appartenessero. O a chi fossero dirette. 

Il terreno vibrava sotto i loro piedi adesso; Nelyafinwë realizzò vagamente che entro pochi secondi i cavalli avrebbero fatto irruzione nella radura.

Basta così, pensò ancora, debolmente. E per darsi la forza di interrompere, evocò la terribile visione dei suoi fratelli che lo trovavano impegnato in un bacio appassionato col figlio di Nolofinwë.

Non abbastanza terribile, evidentemente, perché non riuscì comunque a staccarsi dal cugino.

Fu Findekáno a tirarsi indietro.

– Vuoi farci ammazzare? – ansimò. – Di tutti i dannati momenti…

Con un'unica mossa si sciolse dalla sua presa e gli scivolò alle spalle, proprio nell'attimo in cui Makalaurë, primo tra i fratelli, faceva il suo ingresso nella radura. 

Nelyafinwë si passò una mano sul viso per riprendere il contatto con la realtà, e si trovò inaspettatamente lucido a fronteggiare la situazione. Il suo istinto gli aveva detto il vero: tramite quel contatto, tutta la determinazione e tutta la sicurezza di Findekáno sembravano essersi trasferite a lui; di quel breve momento di oscura disperazione non era rimasto neppure il ricordo. Nel vedere i fratelli, orgogliosi e impazienti, che irrompevano nella radura e scendevano dai loro imponenti destrieri, capì che sarebbe stato in grado di dargli l'immagine di sé che lui aveva deciso.

Li affrontò fiero, come si affronta un nemico in battaglia, alzando il viso contro la luce che evidenziava le cicatrici che lo percorrevano. Celò il braccio destro sotto le pieghe del mantello e offrì loro la figura perfetta da cui aveva preso il nome. Confinò i propri timori dietro un'espressione risoluta e mostrò loro occhi che rifulgevano di ardore e del fuoco che aveva abitato lo spirito del padre.

Ed eccoli che avanzavano, i formidabili figli di Fëanáro, alti, nobili, lucenti nelle loro cotte di maglia, con grigi sguardi affilati, allenati a registrare i minimi dettagli, armati di spade forgiate nelle Terre Immortali e di scudi decorati con lo stemma della loro casata.

Eppure lui non si sentiva per nulla intimidito, perché nonostante tutto quello a cui era stato sottoposto, o forse proprio a causa di quello, era ancora il primo tra loro. I suoi fratelli erano determinati, certo, ma non come lui, che era sopravvissuto alla tortura. Erano letali, ma non come lui, che era alimentato dall'odio inestinguibile. Erano un branco di belve feroci pronte a scattare. Inarrestabili sotto una guida capace, ora ancor più pericolose perché lasciate a sé stesse.

Sarebbe stato lui la nuova guida? L'avrebbe scoperto entro breve.

I primi che gli si avvicinarono furono gli Ambarussa. Scostando con forza i maggiori che intralciavano loro la via, i gemelli gli si gettarono addosso con le lacrime agli occhi. Se lo aspettava dai più giovani, ma ne fu ugualmente commosso. Mantenne il controllo e distribuì parole di conforto e baci su quelle chiome così simili alla sua. Poi li allontanò con dolcezza.

Dopo arrivò Tyelkormo. Splendido, incontenibile, selvaggio, travolgente. Non si leggeva né rimorso né senso di colpa nei suoi occhi chiari. Lui era certamente tra quelli che avevano spinto per l'azione immediata contro il Nemico. Incapace di accettare l'onta della sconfitta, ancor più che la prigionia del fratello, la rinuncia alla battaglia, più che il fallimento dell'impresa. Lo strinse in un abbraccio breve, ma dalla presa forte.

– Bentornato Russa. Le cose si facevano complicate senza di te. – Lo disse con un ghigno feroce, ma evitò di proposito di guardare verso Makalaurë.

Poi lasciò il posto a Carnistir, che si stava avvicinando cauto, come se dovesse affrontare un giudizio di cui conosceva già la sentenza. Ciocche di capelli neri gli ricadevano sul viso arrossato. Borbottò parole che potevano essere di scusa e chinò il capo di fronte a lui, se per nascondere il proprio disagio o in segno di rispetto verso il Re, Nelyafinwë non poteva saperlo.

Ed ecco infine la prova più difficile da affrontare: Curufinwë, che portava il nome di suo padre, che gli somigliava nell'aspetto, nel portamento, nel modo di esprimersi. Era Fëanáro in tutto e per tutto. Tranne che per lo sguardo: nel fuoco dell'orgoglio non si annidava il seme della follia. Ancora.

Quante cose in sospeso tra loro! Il figlio destinato a succedere al padre e quello che ne incarnava tutte le aspettative. Il primogenito e il preferito.

Il fratello gli si avvicinò lentamente, con lo sguardo fisso nei suoi occhi, per nulla distratto dai segni incisi sul suo viso. Come Fëanáro anche lui era capace di leggere nel profondo dell'animo. Sembrò trovarci qualcosa che lo convinse, perché dopo un lungo istante il piccolo padre abbassò la testa davanti all'erede. 

Makalaurë venne per ultimo. Lo abbracciò forte, poi lo prese per le spalle e lo squadrò da capo a piedi. Il suo volto esprimeva piena approvazione.

Davanti al suo fratello più caro Nelyafinwë si concesse un momento di debolezza. – Starai al mio fianco? – gli domandò, sottovoce.

– Russandol – gli rispose il fratello, stringendo la presa, – se c'è una cosa che ho imparato da tutto questo, è che non smetterò mai più di stare al tuo fianco.

Nelyafinwë annuì. Era ora di andare in scena.
 

-
 

Li condusse presso la sorgente, dove lui e il cugino avevano allestito un grande piano d'appoggio ricavato dal tronco di un albero caduto, e rivestito poi da un lenzuolo che faceva le veci di una tovaglia, sul quale erano già disposti una brocca d'acqua e diversi bicchieri. Le pietre bianche e alcune sedie da campo lo circondavano.  

– Vuoi davvero far sedere qui i rampolli della dinastia di Finwë? – gli aveva chiesto Findekáno guardando ciò che, solo con molta fantasia, si sarebbe potuto paragonare a un tavolo contornato da seggi. – Non saranno certo a loro agio.

– È proprio quello che non voglio – gli aveva risposto, – che si sentano a loro agio.

Mentre li guardava accomodarsi su quelle dure pietre, Nelyafinwë fu certo di aver raggiunto lo scopo. Lui rimase in piedi e fece la sua prima mossa.

– Findekáno! – chiamò.

Il cugino uscì dalla tenda dove si era rifugiato, secondo i piani, e lo raggiunse con passo sicuro. Il suo atteggiamento non tradiva la minima incertezza. Bisognava dargliene atto, pochi sarebbero stati coloro che avrebbero reagito con altrettanta disinvoltura ai sette sguardi che lo scrutavano, non tutti benevoli.

Nelyafinwë gli fece posto al suo fianco e dichiarò: – Findekáno mi ha liberato dalla prigionia, riuscendo da solo in ciò che nessuno aveva avuto neppure il coraggio di immaginare.

Il suo sguardo si posò su ciascuno di essi, grave, finché tutti dovettero abbassare gli occhi di fronte alla propria mancanza.

Lo addolorava suscitare in loro il senso di colpa, ma lo riteneva indispensabile per attenuare il loro orgoglio, e quella sensazione di invulnerabilità tipica dei figli di Fëanáro, che nemmeno la morte del padre era riuscita a cancellare completamente.

Bisognava che percepissero la necessità di alleati per accettare ciò che stava per dire.

Nelyafinwë fece sedere il cugino accanto a sé e, restando lui in piedi, comunicò loro la decisione di cedere il titolo di Re al fratellastro del padre. Lo fece con le stesse parole usate con Makalaurë il giorno precedente e, come si aspettava, ottenne la stessa reazione di sgomento e rabbia. 

Voci incredule, sconvolte, cominciarono a sovrapporsi le une sulle altre.

– Di cosa stai parlando?

– Non dici sul serio!

– Sei fuori di senno?

Finché quella di Curufinwë, bassa e gelida, emerse sulle altre mettendo in parole ciò che molti pensavano: – Dovevi condurci alla vendetta – disse, – ma lasciando a quello il titolo di nostro padre, ci condurrai solo all'umiliazione. – Anche lui, come Fëanáro, non pronunciava volentieri il nome di Nolofinwë.

– Alcune rinunce sono necessarie, o credevi forse non ci fosse un prezzo da pagare per la nostra ribellione? – intervenne inaspettatamente Makalaurë, memore forse dell'addio che aveva dovuto dare a sua moglie, lasciata in Aman senza nemmeno il figlio che tanto avevano desiderato. 

– E tu a cosa hai rinunciato Russandol? – esclamò Carnistir alzandosi, rosso in viso, e i suoi occhi dardeggiarono tra lui e Findekáno, che sedeva impassibile al suo fianco.

Allora Nelyafinwë si piegò in avanti con un gesto che era solito fare il padre al tavolo dei concili. Si protendeva in avanti verso gli astanti e poggiava entrambe le mani aperte sul piano per catturare l'attenzione di tutti prima di cominciare a parlare. Lo fece anche lui, e così facendo rivelò il braccio destro e il moncherino che lo terminava.

– A molto – rispose.

Alla vista della sua mutilazione, i fratelli reagirono nei modi più diversi. Gli Ambarussa spalancarono gli occhi, colmi di sgomento, il più piccolo chinandosi appena verso il gemello, mentre l'altro gli offriva inconsciamente un braccio per sorreggerlo. Tyelkormo ebbe un sussulto e si afferrò il polso destro con l'altra mano, quasi volesse verificare di essere ancora integro. Carnistir voltò la testa, come non sopportando la vista del moncherino, e tornò a sedersi. Curufinwë inarcò un angolo della bocca, con l'atteggiamento di chi trova finalmente una conferma alle proprie supposizioni.

In ogni caso, tutte le proteste cessarono, lasciando a Nelyafinwë la possibilità di continuare.

E lui continuò. Parlò come era solito fare in Valinor, con autorevolezza, con l'accurata scelta dei vocaboli, col tono sicuro di chi possiede la verità. Spiegò nei dettagli ciò che aveva intenzione di fare e i motivi che l'avevano condotto a tali decisioni.

Nel profondo del cuore di ognuno dei suoi fratelli, la fiducia che riponevano in lui si era radicata in anni e anni di vita in comune, anni che Nelyafinwë aveva passato ad ascoltare, a comprendere, ad aiutare. Era una fiducia ormai quasi inconscia, pari a quella che avevano avuto nel padre, se non per certi aspetti superiore, perché Nelyafinwë era sempre stato lì per loro quando avevano avuto bisogno di lui. Non li aveva mai abbandonati.

I suoi fratelli erano abituati a fidarsi di lui. E questo lui lo sapeva. E intendeva avvantaggiarsene.

Senza dubbio Carnistir non condivideva la scelta che vedeva disonorata la casa di Fëanáro, e Curufinwë la considerava un vero e proprio tradimento, ma né l'uno né l'altro osarono mostrarsi in disaccordo. Tyelkormo, con la sua indole selvaggia, aveva bisogno solo di un nuovo capobranco, e sembrava avesse accettato Nelyafinwë come tale. Gli Ambarussa avevano sempre guardato a lui come a un sostituto del padre, e spesso anche della madre, e per loro seguirlo era una cosa del tutto naturale. Makalaurë, che per diverso tempo aveva faticosamente assunto le funzioni di Re, gli aveva già garantito il suo supporto.

La decisione di Nelyafinwë finì per essere accettata, seppur malvolentieri, prima ancora che il mattino volgesse al termine. E dopo una breve interruzione per un pranzo veloce, poterono dedicarsi ai risvolti operativi. Nelyafinwë aveva fatto portare da Makalaurë quelle poche mappe di cui disponevano, per fare ipotesi sul loro prossimo trasferimento, e pergamene su cui mettere per iscritto i suoi ordini. Inoltre assegnò compiti a ciascuno dei fratelli, perché desiderava accompagnare con doni la sua abdicazione, a riparare almeno per le cose materiali le perdite subite dal popolo di Nolofinwë a causa loro.

Nel complesso fu una lunga giornata, a tratti tesa, ma bastava uno sguardo o un movimento appena accennato del braccio destro, per ricordare a tutti ciò che lui era. Il maggiore, l'erede. Ma non solo. Era colui che aveva affrontato l'orrore e ne era uscito vivo, che era tornato dalle tenebre per condurli al compimento del Giuramento.

Quando calò la sera, tutto era stato pianificato. I suoi fratelli ripresero le cavalcature e partirono per tornare al loro campo. Nelyafinwë si augurò di averli riempiti di incarichi a sufficienza da togliere loro il tempo di ripensare a ciò che effettivamente stavano facendo.

Makalaurë fu l'ultimo a congedarsi da lui.

– Ti ho portato quello che mi hai chiesto – disse a voce bassa, in modo che Findekáno, poco distante, non potesse sentire.

Estrasse da una tasca della sopravveste un pacchetto di velluto nero chiuso da un nastro del medesimo colore e guardò il fratello, in attesa.

Nelyafinwë restò in silenzio.

– Se è come penso… – cominciò allora il fratello. 

– È come pensi – confermò lui, categorico.

Makalaurë sospirò, e gli consegnò l'oggetto che Nelyafinwë fece subito sparire all'interno della casacca.

– Allora torno a prenderti domani mattina – disse, salendo a cavallo. Poi aggiunse, con un mezzo sorriso: – Non troppo presto.

 

 

__________

 

Note Finali:

01.
Quenya - Sindarin
Makalaurë (Kanafinwë, Káno): Maglor
Fëanáro (Curufinwë sr): Fëanor
Nolofinwë: Fingolfin
Tyelkormo: Celegorm
Curufinwë (jr): Curufin
Carnistir: Caranthir
Ambarussa: Amrod e Amras

02. 
Amrod e Amras
Riguardo ai gemelli mi attengo alla versione del Silmarillion, che li vuole ancora entrambi vivi (a questo punto della storia).

 

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Capitolo 10
*** Tenn'Ambar-metta ***




Capitolo Decimo - Tenn'Ambar-metta


________
 

Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

________

 

 

Findekáno lo raggiunse nel momento stesso in cui Makalaurë sparì dalla loro vista. 

– Se ne sono andati? – chiese, lasciando trasparire l'apprensione che aveva abilmente celato per tutto il giorno. – Eru santissimo… mettete il terrore addosso quando siete tutti insieme!

– Non dirlo a me – rispose Nelyafinwë, rendendosi conto solo in quel momento di quanto avesse temuto fallire, – per un attimo ho avuto paura che volessero sfidarmi uno ad uno, per rivendicare il loro diritto al trono. Non so quanto potrà durare, ma sembra che il mio discorso li abbia convinti per ora… non credi?

– Come? – Findekáno lo stava guardando con aria distratta.

– Il mio discorso, Findo… come ti è sembrato?

– Scusa – rispose il cugino, che non aveva per niente l'aria dispiaciuta, – temo di non averci prestato molta attenzione… stavo ancora pensando al... discorso che abbiamo lasciato in sospeso questa mattina.

Difficile non capire l'allusione, visto che anche lui aveva dovuto faticare non poco per togliersi quel bacio dalla mente. In ogni caso, adesso era giunto il momento di chiarire anche quel punto.

– A questo proposito… – cominciò.

– No, ti prego, non dire niente! – lo interruppe subito Findekáno.

– Come? – domandò Nelyafinwë, colto di sorpresa.

– So già cosa stai per dirmi! Che è una cosa senza futuro… che non fa che aggiungere altra pena alla nostra condizione dannata...

– Fin…

– Che sarebbe un disastro se le nostre famiglie...

– Fin.

– So tutto, Maitimo, ma non voglio rovinarmi gli ultimi momenti che abbiamo…

– Findekáno, taci per una volta! Non avevo intenzione di dirti nulla di simile.

– Ah… no?

– Vieni – disse, e prendendolo per mano lo condusse alla terrazza che dava sul lago. Il sole era appena sceso dietro i monti e il cielo incendiato di porpora si rifletteva nello specchio d'acqua cristallino. Ma sopra le loro teste cominciavano già ad apparire le prime stelle, silenti testimoni della venuta dei loro avi nel mondo.

Per un attimo Nelyafinwë si chiese se vegliassero su di loro anche adesso, sugli Eldar che tornavano nella loro terra d'origine. Se portassero la benedizione di Varda Elentári su di loro anche ora, sui dannati, sugli assassini, sui traditori. O se non fossero altro che fredde luci distanti, impassibili.

Scoprì che non gli importava. Quello era un luogo che aveva significato molto per loro, in quei giorni trascorsi insieme a riprendersi dalle sofferenze: era il luogo dove le loro vite avevano cominciato a ricongiungersi e per questo l'aveva scelto per chiedere all'amico ciò che gli stava più a cuore. La protezione dei Valar non aveva più per lui la minima importanza, se mai ne aveva avuta.

Abbandonò la mano del cugino ed estrasse il pacchetto che gli aveva consegnato Makalaurë. Si schiarì la gola. Dopo aver trattato tutto il giorno con i fratelli, questo momento se l'era immaginato più semplice.

– Findekáno – cominciò, – questo dono dovrebbe essere accompagnato da promesse di devozione, da giuramenti di fedeltà… ma io a un Giuramento sono già vincolato…

Il cugino aprì la bocca per ribattere.

– No, lasciami finire – lo fermò Nelyafinwë. 

Poi trasse un profondo respiro, nel vano tentativo di inalare coraggio misto ad aria, e riprese: – Findekáno, non c'è più nulla in me di quello che c'era prima della prigionia. Non sono che un guscio vuoto, che racchiude soltanto odio, sete di vendetta e rancore. L'unica cosa che mi è rimasta… l'unica cosa che ti posso ancora promettere… è che in questo mio cuore lacerato e corrotto non ci sarà mai posto per altri che per te.

Un nodo gli serrò la gola, e cominciò a inciampare nelle sue stesse parole: – Se per te potesse bastare… questa misera promessa… se per te potesse bastare, allora… 

Incapace di aggiungere altro, tese la mano porgendogli il dono che essa conteneva.

Findekáno lo guardò per un lungo istante. Nelyafinwë sentì il suo cuore che si fermava e si chiese vagamente se avrebbe mai ripreso a battere. Non che la cosa gli importasse, in quel momento.

Ma alla fine il cugino accettò il pacchetto e lo aprì.

Scintille di smeraldo scaturirono tra le sue dita, come schegge di luce di Laurelin filtrate dalle foglie dei boschi di Aman. La morbida stoffa nera conteneva la gemma che aveva recuperato lo stesso Findekáno dal fondo del mare il giorno in cui Nelyafinwë si era reso conto della natura dei propri sentimenti. Ora era incastonata in un pendaglio di un'eleganza sorprendente, semplice e raffinato in pari misura, agganciato a una sottile catena argentea. Un'opera in cui si riconosceva chiaramente la mano di Fëanáro: arte e tecnica fuse insieme per la creazione del sublime.

– Maitimo... – sussurrò Findekáno, e tornò ad alzare lo sguardo su di lui.

– Maitimo – ripeté, come se faticasse ad accedere alla sua inesauribile riserva di parole.

Alla fine, però, trovò quella giusta.

– Sì – disse, e si passò la catena attorno al collo chiudendone il fermaglio con mani decise. La pietra gli si appoggiò sotto la gola, tra i bordi aperti della bella camicia celeste, decorati da ricami d'argento.

Il gesto aveva un che di definitivo, che trapassò il cuore di Nelyafinwë come una spada di gioia.

E il suo primo pensiero, quando la mente riprese funzionare di nuovo, non fu quello di aver agito da folle, da irresponsabile, contro la tradizione o, peggio, contro il volere del padre. Ma fu che ora avrebbe preso il suo… compagno tra le braccia e l'avrebbe baciato di nuovo, e che tutto il resto poteva anche venire ingoiato dal Vuoto in quel preciso istante, per quello che gli importava.

Si chinò sul cugino, certo di leggere nei suoi occhi lo stesso desiderio.

Invece Findekáno chiese: – Come l'hai avuta?

A Nelyafinwë servì un momento per tornare a concentrarsi su qualcosa che non fossero le labbra del cugino.

– Me l'ha data mio padre poco prima di… di partire per la sua ultima battaglia – rispose.

E con il pensiero tornò per un attimo alla tenda nell'accampamento sul Mistaringwë, a Fëanáro, già rivestito della sua armatura, che prendeva il pacchetto nero da uno scrigno e glielo porgeva. – Questa ti appartiene – gli aveva detto, con quello sguardo che scavava nel profondo, – se non sbaglio è merito tuo se non è andata perduta. – E allora lui si era chiesto quanto sapesse il padre di ciò che era accaduto su quella scogliera... e quanto sapesse di ciò che era accaduto nel suo cuore.

– No, intendo, come fa ad essere qui adesso? – insistette il cugino.  – Te l'ha portata Káno?

– Gliel'ho chiesta ieri – confermò Nelyafinwë.

– Ieri? – esclamò Findekáno incredulo. – Quando mi dicevi che avrei dovuto sposarmi per assicurare un erede a mio padre, avevi già pensato di… prometterti a me?

– Beh, diciamo che contavo su di te…

Findekáno esitò. – Messa così… – disse, con aria vagamente lusingata, – lo sai che potrai sempre contare su di me...

– Contavo sulla tua totale incapacità di fare la cosa più ragionevole – precisò Nelyafinwë.

– Sì… ecco… – borbottò il cugino, – anche su quella potrai sempre contare.

– Altre domande? – chiese Nelyafinwë, allungando la mano a accarezzare il viso del compagno, senza più curarsi di mascherare la propria impazienza. Findekáno ricambiò la carezza, le sue dita indugiarono teneramente su uno dei solchi che gli percorrevano la guancia, il suo sguardo indecifrabile.

Nelyafinwë credette di indovinare i suoi pensieri. – Non è rimasto molto di quella "straordinaria bellezza", vero?

– In realtà, stavo pensando proprio al contrario – lo stupì il cugino, – questi segni sul viso… questa nuova luce negli occhi… ti fanno sembrare decisamente… pericoloso. – Si alzò sulle punte dei piedi, mentre la sua mano gli scivolava dietro la nuca, – e come tu ben sai io...

– Tu ami il pericolo – ebbe appena il tempo di dire Nelyafinwë, prima che le sue labbra fossero coperte da quelle del cugino.

Nessuno sarebbe arrivato a interromperli, questa volta, e si presero tutto il tempo per assaporare quel momento a lungo desiderato. Non era più una sfida, ma un trionfo di entrambi. Presto scivolarono uno tra le braccia dell'altro e i loro corpi aderirono come se fossero stati modellati a quello scopo. Nelyafinwë sentì tutto il suo essere gioire di quel contatto, come quel lontano giorno sulla scogliera. Ora però non c'era più il terrore dell'ignoto, ma la certezza di essere ricambiato.

E allora tutto risplendette nella sua mente. Il cupo odio, la rabbia bruciante, la paura e il rimorso vennero spazzati via come le ombre dal mattino che avanza. E per una volta ci fu posto solo per l'amore e il desiderio.

Dopo un tempo che poteva essere un attimo o una vita intera, per come Nelyafinwë riusciva a tenere conto del suo scorrere, quando le dita di Findekáno, trovato un varco per insinuarsi sotto la sua camicia, gli accarezzavano la pelle nuda mandando brividi lungo tutto il suo corpo e la mano di Nelyafinwë, scesa lungo la schiena del cugino, forzava insieme i loro bacini, Findekáno si staccò per respirare.

– Aspetta, aspetta… – ansimò, – così finiremo per… non riuscire più a fermarci.

Nelyafinwë impiegò qualche istante per riprendersi dal distacco e qualcuno in più per afferrare il significato di quelle parole. "Non fermarsi", da un punto di vista strettamente spirituale, sarebbe stato il suggello definitivo di ciò che la pietra simboleggiava, il realizzarsi del suo desiderio più intimo. Ma, d'altra parte, sul piano fisico significava qualcosa di completamente nuovo e, nonostante il suo corpo mostrasse un entusiasmo, per così dire, molto concreto, si trovò impreparato.

– Non ho mai desiderato tanto qualcosa, Fin, ma temo di non aver mai pensato a come… voglio dire, a come...

Allora Findekáno, il Valoroso, avvicinò le labbra al suo orecchio e sussurrò: – Non ti preoccupare, Maitimo, io ho avuto moltissimo tempo per pensare al come… lascia fare a me.

E Nelyafinwë, sperando in cuor suo di riuscire a eguagliare la temerarietà del suo amante, lasciò fare a lui.

 

-

 

L'alba li trovò addormentati.

Nelyafinwë riemerse da uno splendido sogno, per trovarsi dentro a uno ancora migliore. Disteso su un fianco sopra il suo mantello, sentiva il cugino accoccolato contro la sua schiena, pelle contro pelle, il suo viso che gli premeva sul collo. Le braccia forti di Findekáno lo avvolgevano, una mano era chiusa attorno al suo polso reciso, l'altra aperta sul suo petto.

Tutto sembrava dire: sei con me. Non ti accadrà più nulla.

Cosa avrebbe dato per poter rimanere così per sempre. Ma l'orizzonte stava già tingendosi di rosa e il cinguettio insistente degli uccelli annunciava che il giorno sarebbe presto arrivato, implacabile.

Si divincolò delicatamente dall'abbraccio, prese i suoi pantaloni dal mucchio di vestiti che giacevano in disordine sull'erba accanto a loro e li indossò. Poi si chinò sul cugino e gli spostò una ciocca di capelli che gli ricadeva sul viso.

– Ehi – sussurrò, – non possiamo più indugiare.

– Mmm… – Findekáno non accennò a muoversi.

Nelyafinwë gli posò un leggero bacio sulla bocca. Come aveva previsto, il cugino rispose all'istante, con entusiasmo.

– Forse hai ragione, dopotutto – mormorò contro le sue labbra, – basta indugiare.

Nelyafinwë soppresse una risata e lo allontanò con decisione.

– Non c'è tempo – disse, porgendogli i suoi vestiti.

– Non ho bisogno di molto tempo…

– Fin.

– Va bene, va bene – cedette Findekáno, infilandosi i pantaloni, – mi sembrava un bel modo per…

Il cugino esitò. Le parole "dirsi addio" rimasero in sospeso tra loro, come una minaccia silenziosa.

– … per cominciare la giornata – riuscì a concludere Findekáno, ma ormai il danno era fatto e a Nelyafinwë tornarono in mente, inopportune, le parole della Condanna.

– "A un'infausta fine volgeranno tutte le cose che essi ben cominciano" – mormorò.

Ma Findekáno non era tipo da lasciarsi abbattere così facilmente.

Findekáno era il tipo che usciva vivo dalla presa del ghiaccio, che scalava i picchi dell'inferno, che mozzava la mano del suo amato per sottrarlo al Nemico, che trasformava un pazzo tremante in un condottiero implacabile.

Il cugino agitò una mano davanti a sé in un gesto vago, come se la Sorte dei Noldor fosse un granello di polvere che minacciava di finirgli negli occhi e non un macigno che gravava sulle spalle della loro stirpe pesante quanto il destino.

Poi gli si parò davanti e disse, tutto d'un fiato: – Questo è quello che dicono Loro, ma io credo che noi Noldor torneremo alleati, terremo il Nemico sotto assedio, e quando avremo recuperato forze sufficienti sferreremo l'attacco decisivo. Spediremo Moringotto in catene ad Aman... e che i Valar se lo tengano stavolta… voi rientrerete in possesso delle vostre dannate gemme per farne Eru solo sa che cosa, e noi abiteremo questa terra meravigliosa in pace – gettò un breve sguardo al lago sotto di loro, specchio nel quale il mondo si rinnovava, capovolto. – Sarà casa nostra, Maitimo.

Nelyafinwë lo guardò. Fossero quegli occhi accesi di determinazione, fosse la gemma che brillava come un cuore di smeraldo sul suo petto nudo, o il ricordo della notte che avevano appena condiviso, sembrava che il cugino irradiasse speranza da tutto il suo essere.

Findekáno letteralmente emanava ciò di cui lui era privo.

– Non… – cominciò.

Non lasciarmi mai, avrebbe voluto dirgli, non so cosa accadrebbe di me se ti perdessi. Serrò le labbra per impedirsi di pronunciare parole pericolose, oltreché patetiche, parole che avrebbero rischiato di vincolare Findekáno al suo destino in modo ancor più irrevocabile di quanto già non fosse. 

Ma il cugino, come se gli avesse letto nel pensiero, gli prese il viso tra le mani e gli piantò quegli occhi di cielo dritti nei suoi, come volesse aver la certezza che nemmeno una sillaba di ciò che stava per dire andasse perduta nell'aria del mattino. 

– Non intendo farlo, Maitimo – gli disse, con quieta solennità. – Quando abiterai nelle terre dell'Est, sarai un pensiero che mai mi abbandona. Quando scenderai in guerra contro il Nero Nemico, sarò il guerriero che combatte al tuo fianco. E se un giorno dovessimo perire in battaglia e alloggiare come ombre nella dimora di Mandos, io sarò lo spirito che attende con te.

Il cugino abbassò le mani, accarezzandogli il viso segnato, ma non distolse lo sguardo dal suo. 

Nelyafinwë riconobbe nei suoi occhi quella scintilla di folle determinazione e capì che Findekáno non aveva ancora finito. Trattenne il respiro, non sapendo cos'altro aspettarsi, più di quelle parole che lo terrorizzavano e lo confortavano in egual misura.

– Maitimo, se anche tu fossi costretto alla Tenebra Eterna a causa del tuo Giuramento, io rinuncerò alla nuova vita e rimarrò con te… nell'oscurità… fino alla fine del mondo.

Nelyafinwë scosse debolmente la testa. – Non puoi dire certe cose – esalò, atterrito.

– Perché no? Solo a Fëanáro e ai suoi figli è concesso fare giuramenti? – domandò Findekáno, con un lampo di sfida negli occhi.

E, come per dissipare ogni possibile dubbio, ribadì: – Tenn'Ambar-metta, Maitimo.

Lui e il cugino erano legati da sempre. Da quando gli Alberi risplendevano in Aman e il futuro non era altro che una promessa di felicità. Il loro legame aveva resistito al tradimento, all'abbandono, alla sofferenza, alla tortura, alla follia, all'odio, alla disperazione. Era un legame che andava contro la tradizione, contro il volere dei loro famigliari, forse persino contro le leggi di natura. Ma non c'era forza in tutta Arda, né fuori da essa, che potesse infrangerlo.

Nelyafinwë cercò la mano del cugino con la propria. In un soffio appena percettibile confermò la verità.

– Tenn'Ambar-metta, Findekáno.

 

-

 

Lasciarono che il sole si levasse oltre le vette orientali, prima di alzarsi. Si lavarono alla sorgente, mangiarono qualcosa e si vestirono con abiti adatti al viaggio. Poi smontarono il campo e impacchettarono tutto.

Makalaurë arrivò come promesso in tarda mattinata, con tre cavalli al seguito. Salutò Nelyafinwë con uno sbrigativo cenno del capo e si diresse deciso verso il cugino, che stava in disparte intento a rivestirsi delle sue armi: la spada a un fianco, il fodero ormai vuoto del pugnale all'altro, arco e faretra di traverso sulle spalle. La gemma verde brillava sul suo petto nella luce del mattino, e lo sguardo del fratello sembrava attratto da essa.

All'avvicinarsi di Makalaurë, Findekáno si chiuse il colletto della camicia e lo apostrofò: – Se sei venuto a dirmi ancora quanto ritieni inappropriato…

– Sono venuto a dirti che mi sbagliavo – lo interruppe Makalaurë, riuscendo in un'impresa in cui pochi avevano successo: lasciare Findekáno senza parole.

– Ho sempre reputato Russandol il migliore di tutti noi, e sempre mi sono chiesto cosa ci trovasse in te, per quale motivo cercasse l'amicizia di un ragazzino, figlio di uno zio inviso… – Makalaurë spostò a disagio il peso da un piede all'altro, poi riuscì a concludere: – Ora so che non c'è persona in tutta Arda che meriterebbe più di te di stare al suo fianco. Sarai come un fratello per me, Findekáno.

Il cugino restò solo un istante a bocca aperta, di fronte a quella dichiarazione chiaramente inaspettata, poi abbracciò l'altro con trasporto. Colto di sorpresa, Makalaurë non poté fare a meno di contraccambiare l'abbraccio.

Findekáno ne approfittò per sussurrargli qualcosa all'orecchio, qualcosa che assomigliava a una raccomandazione. Nelyafinwë non riuscì a coglierne le parole, ma vide il fratello annuire con enfasi.

Poi, senza dire altro, i tre caricarono le borse sul dorso dei cavalli e, montando a loro volta, lasciarono la radura.

Cavalcarono insieme verso Nord, discendendo le pendici dei monti, e giunsero presto al punto in cui le loro strade divergevano. I figli di Fëanáro avrebbero proseguito dritto per raggiungere il loro accampamento, mentre Findekáno avrebbe piegato a sinistra, mantenendosi radente alla catena montuosa, per aggirare il lago e giungere da ovest al campo di Nolofinwë.

Era il momento del distacco. Al loro prossimo incontro tutto sarebbe stato diverso tra loro, ci sarebbero stati ruoli da interpretare, copioni da seguire, compiti da svolgere. Presto Findekáno sarebbe stato l'erede del Re e lui il condottiero degli Spodestati.

Nelyafinwë non trovava le parole per separarsi dal cugino. Cosa poteva esser detto, ancora, dopo tutto quello che c'era stato tra loro? Dopo il riscatto, la guarigione, la rinascita, la condivisione. L'amore.

A giudicare da come si attardava a guardarsi attorno senza motivo, sembrava che Findekáno fosse preso dallo stesso dilemma. Il silenzio si prolungò al punto da diventare imbarazzante. Makalaurë cominciò a canticchiare tra sé.

Alla fine, come sempre, fu il cugino a fare la prima mossa. Fece avvicinare il suo cavallo a quello di Nelyafinwë, rovistò brevemente in una borsa e si protese verso di lui porgendogli un involto blu.

Un incrocio di sguardi, un leggero sfiorarsi delle dita al passaggio dell'oggetto, l'accenno di un sorriso d'intesa. 

Non c'era bisogno di parole, dopotutto.

Findekáno spronò il suo destriero e si diresse verso Ovest, lungo le pendici dei monti. 

I due figli maggiori di Fëanáro lo guardarono allontanarsi nella sua corsa sfrenata, finché non fu nient'altro che lampi di luce quando il sole colpiva le sue trecce dorate, sferzate dal vento. Una svolta lo nascose presto alla loro vista

Nelyafinwë indugiò per un attimo con lo sguardo sul mantello che stringeva nella mano. Poi lo ripose in una sacca e si lanciò al galoppo nella pianura davanti a sé, seguito da Makalaurë.

No davvero.

Non c'era più bisogno di parole.

Le uniche che contavano, le custodiva nel cuore come il più prezioso dei tesori.

"Tenn'Ambar-metta, Maitimo."

 

 

__________

Note Finali:


01.
Quenya - Sindarin
Makalaurë (Kanafinwë, Káno): Maglor
Fëanáro: Fëanor
Tenn'Ambar-metta: "Fino alla fine del mondo"

02.
Chiaramente mi attengo alla versione in cui Fingon "non ebbe né figli, né moglie" (HoME vol. 12, nota 35 di "The Shibboleth of Fëanor")

03.
Inizialmente, la Pietra Verde che Fëanor dà a Maedhros, e che poi Maedhros regala a Fingon, era concepita per essere nient'altro che quell'Elessar che Galadriel dona ad Aragorn ne Il Signore degli Anelli (HoME vol. 11, nota 97 di "The Later Quenta Silmarillion"). Più tardi, però, Tolkien darà all'Elessar un'origine diversa (anche più di una, in realtà).

04.
Inutile precisare che NON ritengo affatto che il legame tra Fingon e Maedhros sia "contro le leggi di natura", è il pov di Maedhros che tende ancora a considerare anomalo un tipo di rapporto di cui non conosceva l'esistenza (ma non durerà molto!).

05.
Per la cronaca, io non credo che Fingon credesse davvero alle parole che dice a Maedhros riguardo alla sconfitta di Morgoth e al recupero dei Silmaril… semplicemente era la cosa giusta da dire in quel momento e l'ha detta. (Non è così impulsivo come crede Maedhros, sa quando è meglio dire la verità e quando… evitare) 

06.
GRAZIE per aver letto!

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