Se questo è un angelo

di Billie Edith Sebster
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 . 1 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 . 1 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Prima che cominciate a leggere, una premessina ina ina ina... non ho idea di dove tutto questo andrà a finire, quindi non abbiate grandi aspettative. L'ambientazione si sta rivelando molto difficile da descrivere, è un lavoro estremamente minuzioso e pieno di piccolezze importanti... quindi i tempi di pubblicazione saranno abbastanza lenti, spero non vi dispiaccia.

Ultima cosa poi vi lascio andare avanti: non sforzatevi di andare in fondo. È pesante anche per me a tratti. Volevo solo scrivere qualcosa, questo ne è uscito.

Bacioni, ci vediamo giù :)

 

-Se questo è un angelo

 

1938 – Köln

 

– Ehi, Winchester, passami un'altra pinta. – ordinò l'uomo con i baffi scompostamente seduto al bancone del pub, dando una lieve spintarella al bicchiere vuoto davanti a sé. Questo slittò sul legno con un suono cristallino scivolando a pochi centimetri dalla mano di Dean, che lo prese e lo porse a Benny.

Si voltò roteando gli occhi, facendo il verso di Herr Meier che pronunciava in modo scorretto il suo cognome, trasformando la W in una spaventosa V e lasciando la R chissà dove, suscitando la risata dell'amico ancora intento a servire il cliente.

– C'è poco da ridere, detesto il loro accento. Sembra che si esprimano a latrati. – replicò Dean sottovoce, facendo un breve cenno a tutte le persone presenti nel locale.

– Perchè, hai sentito la loro iot* tedesca in “Benjamin”? La differenza è che io non ci troppo caso, sono buffi. – replicò il ragazzo, riprendendo a pulire le tazzine da caffè accatastate nel lavandino.

– Sì, certo, quanto possono essere buffi dei putti che tracannano birra dalla mattina alla sera alternandola solo ai sigari. Odio questo posto. – borbottò in risposta, passando lo straccio umido sul bancone per scostare le briciole. Sentì Benny ridere e si concesse un sorrisetto sghembo, voltando leggermente la testa nella sua direzione per sghignazzare senza farsi vedere da Herr Meier.

– A che ora stacchi? – chiese il biondo, dirigendosi verso i tavoli per pulirne un paio che si erano liberati.

– Alle tre, perché? –

– Intendi dire che tra mezz'ora vai via e mi lasci qui da solo? Con questi matti? Fratello, è un colpo basso. – brontolò, imbronciato.

– Andiamo, mica è così male. Te lo dice uno che se ne intende, il fascino germanico è inquietante solo all'inizio. Datti tempo, Vinchesteh, nel giro di un altro anno smetterai di lamentarti. –

– Sono qui da sette anni, di tempo me ne sono dato a sufficienza. – Benny scoppiò in una risata e lo trascinò per un gomito davanti alla montagna spaventosa di bicchieri e tazze da lavare che si era installata nel lavandino, e che lui aveva già iniziato a smontare con poca convinzione. Dean lo seguì roteando platealmente gli occhi, lasciandosi condurre alla sua occupazione per le successive due ore.

– E questo che significa, scusa? Eravamo d'accordo che li lavavi tu! – protestò, lanciandogli in faccia il canovaccio umido.

– Nossignore, il fascino dello straniero già ce l'hai, ma da queste parti le donne vogliono un tipo che sappia sopportare il dolore fisico e psicologico, e visto che la metti tanto sul personale puoi iniziare l'addestramento qui: al lavabo. – un paio di sonore pacche sulla spalla lo fecero sobbalzare, ma ciò non gli impedì di lanciare un'occhiataccia all'amico, che si stava già dileguando verso il retro.

– Figlio di puttana.

– Ti ho sentito!

Rise di nuovo, cacciando le mani sotto al getto d'acqua aspettando che si scaldasse, poi iniziò la sua faticosa scalata sezionando le stoviglie e lavandole pazientemente fra un'imprecazione e l'altra, contento che pochi tedeschi potessero comprendere sia l'inglese, sia la sua creatività.

Quando Benny andò via, ne approfittò per smollare quell'ingrato compito ad una frustratissima Jo, la quale non fece altro che fulminarlo velenosa, e passò fra i tavoli a ritirare le ordinazioni e a rassettare dove i clienti lasciavano libero. Era sicuramente meglio che starsene dietro al bancone in balia dei bicchieri da birra, con i quali era in pessimi rapporti lavorativi da quando si era incastrato la mano in uno di essi e Charlie l'aveva fotografato, e inoltre andare in giro per il locale gli consentiva di afferrare stralci di conversazione ed interagire con le persone, sperando di acquistare più familiarità con il tedesco. In un qualche modo, funzionava.

– Sei stato lasciato a te stesso? – chiese la ragazza con i capelli rossi, quando gli furono regalati dieci minuti di pausa e potè fermarsi a chiacchierare.

– Per favore. – esordì Dean melodrammatico, lasciandosi cadere su una sedia. – Sono disposto a prendere il traghetto* senza alcuna lamentela se ce ne torniamo a Lawrence. –

Charlie staccò gli occhi dall'interno del bicchiere del frullato (ma sul serio, quale tonto in un bar tedesco va ad ordinare un frullato?! In autunno, per giunta.) al quale aveva rivolto discreta attenzione fino a quel momento, e li alzò al cielo.

– Nah, tu ami questo posto, non raccontare balle, Winchester. La verità è che come tutti gli altri uomini del mondo, non sopporti lavorare. – disse la ragazza, portando le labbra al bordo del bicchiere e prendendone un sorso in tutta tranquillità. Dean la fissò indignato.

– Charlie, vai a farti misurare la vista, vuoi? Non è che io lo odio, vedi, io detesto questo lavoro. Davvero, che ci guadagno? Solo, non me la sento di dirlo ad Hellen.

– Che razza di uomo sei, scusa? – lo schernì la rossa, abbandonandosi contro lo schienale della sedia.

– Con lei c'è poco da scherzare, sarebbe capace di cambiarmi la desinenza, se la prendessi in un brutto momento. Il problema è che con i tempi che corrono la paga non è così buona, finché ho questo lavoro mi conviene tenermelo stretto.

Charlie annuì apprensiva, con sguardo un po' assente. – Mh.

– E vai a capirlo come funzionano i marchi e i pfennig...

Charlie alzò le mani in segno di resa. – Su questo non posso biasimarti, da quando ho viaggiato negli Stati Uniti non riesco più a riabituarmi. – ammise, con sguardo sognante e nostalgico. – Insomma, che intendi fare? Vuoi lagnarti su quanto lavorare in un pub sia odioso o cercarti un altro lavoro? – chiese, dando un colpetto al gomito dell'amico. Questo sorrise sornione, alzando un sopracciglio e sporgendosi sul tavolo, assicurandosi che Jo non fosse nei paraggi.

– Pensi sul serio che io sia così privo di risorse? – Charlie spostò lo sguardo, sbuffando leggermente.

– Posso essere diretta, o devo fare le gentile?

– Nah, sii crudele.

– Se non fosse stato per me saresti tornato indietro a nuoto, Dean. Altro che cercarti un lavoro!– Scoppiarono entrambi a ridere, mentre il ragazzo tentava di mantenere un cipiglio serio e quantomeno offeso con scarsi risultati.

– Dovrai ricrederti, mia cara. – Si alzò, facendo roteare lo straccio in una mano e circumnavigando il tavolo. – Forse ho già trovato qualcosa che potrebbe rendere la mia permanenza qui migliore di quanto non sia. – buttò lì con una punta di sarcasmo nella voce, e le sferrò una frustata al braccio facendola saltare sulla sedia con un gridolino di sorpresa e dolore. – Arschloch*! – si lamentò, massaggiandosi la pelle bianca, senza smettere di ridere. – Sono colpita, non l'avrei mai detto. E sentiamo, quale azienda di pompe funebri vorrebbe renderti parte degli affari di famiglia? – chiese, sequestrandogli lo straccio con lo sguardo di rimprovero che Dean era abituato a vedere sul viso di sua madre ogni volta che da bambino combinava un guaio.

– Spiritosa. E ridammi quell'affare, mi serve più tardi. In ogni caso, c'è un'officina appena fuori Colonia che posso raggiungere a piedi nel giro di mezz'ora. Se faccio una buona impressione potrebbero prendermi. – spiegò, con una punta d'orgoglio nella voce.

Charlie batté le mani entusiasta, tornando al suo frullato e sorseggiandone un altro po'.

Dean le fregò il bicchiere e ne prese un sorso a sua volta, le sue papille gustative abituate al sapore forte della birra sussultarono venendo inondate dalla sostanza vischiosa ed eccessivamente dolce. – Come fai a bere... – si bloccò.

Charlie non stava più ridendo. I suoi occhioni solitamente animati da un cipiglio birichino erano come incastrati in una specie di trance, appuntati su qualcosa alle spalle di Dean. Il ragazzo si voltò, e per poco non gli venne un colpo: la porta si stava chiudendo in quel momento con il solito trillo acuto della campanella, mentre due uomini alti e dal portamento impassibile facevano il loro ingresso squadrando sospettosi l'ambiente circostante. Contro il verde scuro della divisa era in bella vista una spilla dorata, rappresentante un'aquila dalle ali spiegate e la testa voltata di lato.

La milizia.

– Cristo, giuro che li butto fuori a pedate. – asserì Dean, spingendo indietro la sedia per poter passare, la fermezza del suo sguardo che non prometteva nulla di buono. Charlie si sporse di lato e lo afferrò per un gomito. Smilza e mingherlina com'era, non la si sarebbe detta una persona forzuta, ma il biondo si ritrovò fermo nella morsa della sua mano prima che potesse ribellarsi. – Dean, lascia perdere, per piacere. – lo pregò, sperando di non aver attirato la loro attenzione. – Finiresti nei guai anche tu, siediti. Se non facciamo scemenze non mi noteranno.–

Dean fece passare lo sguardo da lei ai due agenti, indeciso se darle ascolto o scatenare il finimondo, ma col senno di poi decise che era meglio non fare niente e soprattutto, fare finta di niente. Charlie tolse il cappotto dallo schienale e lo rivoltò come un calzino, nascondendo la stella gialla ricucita sulla spalla sinistra, poi abbassò lo sguardo sperando di non essere stata vista.

I due erano al bancone, chiacchieravano smodatamente lanciando brevi occhiatine e cenni lascivi a Jo che risvegliarono di nuovo l'indomabile istinto fraterno di Dean. Dovette ricorrere a un notevole sforzo per non alzarsi e sfasciargli un tavolo sulla testa. La stessa bionda gli fece cenno di rimanere al suo posto.

Decise di ignorare la situazione ed attese dieci minuti che i due agenti uscissero, poi riprese la conversazione con Charlie: la ragazza sembrava aver improvvisamente ripreso a respirare, come se nell'ultimo quarto d'ora si fosse mantenuta in una specie di apnea.

– Hai sentito? – chiese lei, a bassissima voce. – La Cecoslovacchia ha dovuto passare a Hitler una sua parte. C'è stato questo trattato... Di Monaco mi pare, un mesetto fa, ma hanno reso ufficiale la cosa da poco. – ora stava veramente mormorando piano, sembrava preoccupata come Dean poche volte l'aveva vista. I suoi occhi vagavano persi lungo la superficie liscia del tavolo. – Le nostre libertà si limitano ogni giorno di più... Probabilmente da domani non potrò più venire qui. – disse piano. Dean la fissò intensamente, indeciso se essere triste o arrabbiato, o incazzato come una iena.

Capí cosa tormentasse la ragazza senza nemmeno pensarci troppo: Charlie era ebrea. La leggi razziali emanate dal Führer dovevano essere estremamente pesanti da sopportare, in una situazione simile lo stesso Dean non sarebbe riuscito a resistere a lungo. La sua amica non poteva prendere i mezzi pubblici, non poteva frequentare che negozi esclusivamente riservati agli ebrei, non poteva entrare in molti locali. Hellen, la proprietaria del "Paradies - Roadhouse", non era per nulla a favore di tali leggi, e sempre contenta di avere Charlie intorno, aveva un atteggiamento tollerante e materno. Purtroppo, sebbene nemmeno Hitler si sarebbe mai sognato di contrariare una forza della natura come quella donna, le cose non dipendevano da lei: era una delle persone più forti che conoscessero, e non solo era comunque impotente, ma stavano già cominciando a farle imporre le limitazioni richieste dalle leggi.

Tra i Winchester e la famiglia di Hellen, gli Harvelle, c'era grande affinità perchè erano tutti originari del Kansas: la provenienza in comune li aveva avvicinati nonostante fossero entrati in Germania con alcuni anni di distanza, e si erano ritrovati immediatamente. Charlie invece era tedesca di nascita, ma conosceva Dean perchè si erano incontrati negli US e avevano deciso di seguirla nella sua rimpatriata per stare con i genitori. Non senza parecchie difficoltà, aveva insegnato a lui e a suo fratello Sam il tedesco, e se c'era una cosa di cui Dean gli era grato era il fatto che parlasse un inglese perfetto, con tanto di pronuncia impeccabile. Quella ragazza era una creatura più unica che rara, e la considerava una sorella.

Per questo il sentirla così abbattuta tutt'a un tratto lo disturbava. Non era giusto.

-Quel führer è un figlio di puttana.- dichiarò, senza alzare troppo la voce: non era il caso di farsi impallinare come un tacchino sul posto di lavoro.

Charlie abbozzò un sorriso amaro. -Ciò non gli toglie il diritto di fare quello che vuole.- disse, amareggiata. A Dean fece male vedere quella ragazza costantemente spumeggiante e solare, così sconsolata.

-Ehi, Rossa...- mormorò, stringendole un polso. -Vedrai che andrà tutto bene. Nessuno ti farà del male, non finchè sarò in vita.- Charlie sorrise di più.

-Pensi che non sappia cavarmela? Grazie.-

-Ma figur...

-Winchester!- Jo lo chiamò da dietro il bancone, con le mani puntate sui fianchi ed un sopracciglio alzato.

-Se hai finito di cincischiare, ti conviene tornare qui!- esclamò, fissando Charlie con cipiglio irritato. Lei agitò la mano nella sua direzione, con un sorriso ingenuo stampato in faccia che suscitò nella bionda nient'altro che l'ennesima occhiataccia di stizza.

Dean le fece un cenno con la testa e si alzò, salutando l'amica con un buffetto sulla guancia. -Sai, sarebbe il caso di dirglielo che non stiamo insieme... - mormorò, prendendo il bicchiere vuoto e passando lo straccio sul tavolo.

-E rovinarci tutto il divertimento? Finchè sono qui vorrei spassarmela, grazie!- replicò Charlie, alzandosi ed infilandosi la giacca, lasciandola rivoltata. Dean si era improvvisamente bloccato, e la fissava interrogativo e confuso. -Intendi dire che vai da qualche parte?- chiese, corrugando la fronte.

Charlie si stava avvolgendo la sciarpa attorno al collo, ma alla domanda non si fermò.

-Senti,- disse, lasciandogli la mancia,- le cose potrebbero farsi pericolose, per me. Non dico che parto domani, ma devo prendere in considerazione l'idea di dovermi allontanare se... Beh...- i suoi movimenti rallentarono, il suo sguardo scivolò in basso. – Mi sono fatta fare un documento falso. È costato una fortuna ma perlomeno ho la minuscola garanzia di poterlo fare davvero.

Dean era basito, ma tentò ugualmente di mantenere l'autocontrollo. -Hai ragione, sarebbe la soluzione più sicura.- concordò, a malincuore. Charlie sorrise comprensiva e gli strinse una spalla. -ci vediamo domani, okay?-

Il ragazzo trovò estremamente faticoso annuire. D'un tratto il pensiero che l'amica potesse andarsene lasciandolo da solo in quella gabbia di matti, a scappare per potersi salvare la vita con la guerra dietro l'angolo sul punto di scoppiare lo terrorizzò.

Osservò con il cuore in gola i punti dove era stata cucita la stella di Davide, di un giallo brillante visibile a chilometri che sembrava gridare "Ehi, sono ebrea! Arrestatemi!".

Se guardava fuori dalla finestra, gli era possibile vedere altri agenti che pattugliavano le vie e fermavano i passanti per controllare le carte d'identità. Il pensiero gli annodò le viscere.

-Charlie, il mio turno finisce tra un po'. Vai nel retrobottega, leggi qualcosa, ma non uscire.- disse risoluto, guidandola dietro al bancone sotto lo sguardo severo e sospettoso di Jo.

- Cosa... Ehi, aspetta! Ma che fai?- protestò la ragazza, cercando inutilmente di opporre resistenza. La sospinse dolcemente fino all'anticamera dell'uscita posteriore, una stanza attaccata al locale caldaia dove c'erano un paio di panche per i soprabiti e gli oggetti del personale, le vecchie edizioni del quotidiano e qualche rivista. Sul tavolo nell'angolo, la radio era accesa, ma il volume completamente azzerato. Non faceva freddo, ed era anche abbastanza grande, Charlie avrebbe evitato lamentele.

-Non capisco...

-Non mi fido a lasciarti andare a casa da sola. È quasi buio, e...- sentì la voce morirgli in gola. Ingoiò quel blocco fastidioso e cercò le parole giuste per continuare, ma la ragazza lo fece per lui: -...E sono ebrea? - alzò un sopracciglio.

Dean socchiuse la porta dietro di sè, passandosi una mano sul viso. -Si, lo sei, e il sottoscritto è preoccupato. Ho sentito girare delle cose poco belle, quindi ti accompagnerò io a casa, ma non posso lasciare il turno. Aspetta che finisca, okay? Non ci vorrà molto.

-Scusa, ma non posso restare di la?- chiese Charlie, speranzosa.

-No, spiacente, già Hellen non fa restare troppo tempo gli stessi clienti perchè il sabato si affolla un sacco, in più stanno cominciando a farle pressioni. Avevi ragione.- gettò un'occhiata dallo spiraglio della porta, tanto per non dover guardare la sua amica in faccia.

-A che proposito?

Merda... Dean non voleva affrontare quella conversazione, ma era scontato che sarebbe accaduto, no?

-È già un po' che si fanno vedere in giro, l'SS intendo, ma dalla settimana prossima se ti vedono qui verrai arrestata. Hellen ha retto finchè poteva.- attese la sua reazione, ma Charlie non disse nulla, non subito. L'espressione sul viso pallido era indecifrabile, non sembrava affatto stupita, e nemmeno arrabbiata.

Era rassegnata, forse.

-D'accordo, ti aspetterò qui. Farò la brava. - mormorò, con uno sbuffo scocciato.

 

 

-Era ora! Sei in ritardo, Dean.- lo rimproverò Jo, trascinandolo in cucina per un gomito.

-E tu sei insopportabile, tanto per cambiare.- borbottò in risposta, lasciandosi caricare le braccia di vassoi con le pietanze ordinate.

-Dove l'hai portata?- mormorò lei, seguendolo fuori e passando la roba ad uno svogliatissimo Ash, che da un paio d'ore si malediceva senza alcun ritegno per essersi presentato al lavoro.

-Nell'anticamera. Le ho detto di aspettarmi lì, così la porto a casa. Non mi fido per nulla a lasciarla girare da sola. Adesso che hanno messo a tacere tua mamma, nemmeno questo è più un posto sicuro.- Jo sembrava preoccupata. Sistemò sul ripiano gli ultimi bicchieri che poco prima Dean le aveva affidato e che lei aveva ripulito in un quarto del tempo che lui avrebbe sprecato a lagnarsi, poi gettò un'occhiata verso la porta scura. – Vado a tenerle compagnia, mentre tu ti occupi anche del mio turno. – disse, senza dargli il tempo di controbattere.

– Te lo dirà anche lei, che non stiamo insieme! – le urlò dietro, facendola ridere mentre se la filava senza troppe cerimonie nel retrobottega.

– Ragazzi, qui dentro siete tutti uguali. – borbottò fra sé e sé, servendo una cliente che fissava di sbieco il suo parlottare concitato e sprezzante. – Lasciate tutto il lavoro a Dean, lui è un uomo giovane, forte e disponibile. Com'è che non sono ancora sposato?

Cacciò una pinta in mano alla signora che ringraziò con un danke inquieto e se la svignò lontano dal bancone, mentre Hellen faceva la sua comparsa dalla cucina.

– Non sei ancora sposato perché sei troppo piccolo, Dean. E hai troppo da lavorare, quindi muovi le chiappe! – lo rimbrottò, spedendolo di nuovo fra i tavoli con due vassoi stracarichi.

Muoversi in quel locale era come essere la palla bianca di un biliardo, costantemente spedito da una parte, per poi essere immediatamente trascinato dall'altra senza alcun ritegno.

La precedente domanda fu riformulata nella testa di Dean in uno scocciato “com'è che non sono ancora morto?”

Passò velocemente gli ordini ai rispettivi tavoli senza sprecare un secondo, sorridendo cordiale e rispondendo con il solito “Bitte schön” di protocollo sotto lo sguardo critico di Hellen.

– Ti stai sveltendo, ragazzo. Stare qui ti fa bene! – osservò, una volta che si era rifugiato dietro al bancone per l'ennesima volta nella serata.

– Mh, sento l'eco di un aumento. – suggerì, speranzoso, afferrando la seconda batteria di piatti e pietanze e sistemandoli lungo le braccia pregando la sua buona stella che non cadessero.

– Non ci sperare. – fu la risposta, e lo sospinse di nuovo fra sedie e tavoli, persone schiamazzanti e ragazzini che scorrazzavano minacciando di fargli rovinare sul pavimento tutta la roba che stava portando. Dovette ricorrere a molta della sua buona volontà per far suonare il rimprovero che lanciò loro nient'altro che un semplice ed amichevole ammonimento, ma si ripromise di essere più duro se gli fossero passato a meno di due metri di distanza. Raccolse anche gli ordini, li consegnò in cucina e combatté la tentazione di origliare le conversazioni fra Jo e Charlie, ma non gli parve molto cortese, specialmente tutt'ora che era ancora nel mirino di Hellen, quindi si limitò a servire da bere.

 

 

Dean poté dirsi tranquillo solo una volta che Charlie lo ebbe salutato e fu entrata chiudendo a doppia mandata la porta d'ingresso. Quando ciò accadde rimase impalato davanti alla veranda di casa sua, un piccolo villino nella campagna che costeggiava Colonia, con la sensazione di avere il sospiro di sollievo che avrebbe dovuto emettere fastidiosamente incastrato in gola, a cavallo dell'esofago e della trachea. Non riusciva né a deglutire, né a respirare. Attese che le luci del pian terreno si spegnessero e che l'unica finestra illuminata fosse quella della camera da letto di Charlie, che sarebbe probabilmente rimasta alzata a leggere tutta la notte, poi fece dietro front e se ne andò.

La ghiaia della strada male asfaltata produceva un debole scricchiolio sotto le scarpe, e l'unico suono che lo accompagnava oltre a quello dei suoi passi e al rombare sordo del sangue nelle orecchie, era il respiro del vento fra le spighe di grano alla sua destra.

Non riusciva a trattenersi dal girare la testa ogni dieci metri, per controllare che tutto fosse in ordine, silenzioso e tranquillo; se fosse accaduto qualcosa a Charlie, così come a Jo, non se lo sarebbe mai perdonato. Aveva una sorta di dovere fraterno nei loro confronti, quasi alla pari di quello che aveva con Sammy: erano tutti membri di una famiglia allargata, erano un branco unito e forte nonostante le incomprensioni e le ricorrenti litigate.

Lasciò vagare lo sguardo lungo il profilo ondulato del frumento che sibilava piegato sotto l'intemperanza dell'aria di ottobre, poi su fino al cielo che imbruniva dal quale occhieggiavano pallide le prime stelle. In un qualche modo, quel panorama gli trasmise tranquillità. A dividere le due parti di quella che avrebbe voluto restasse ferma nella sua mente come una fotografia, c'era una fila di case che sorgevano qua e la fra un appezzamento di terra e l'altro, le luci gialle delle finestre lo seguivano come gli occhi di animali notturni che si nascondevano timidi fra gli steli ondeggianti.

Nel suo divagare di pensieri (i quali comprendevano argomenti cupi come la guerra, o il fatto che il loro piano di stabilirsi in Germania per una vita migliore fosse andato a puttane), scorse la sagoma di una persona. Era immobile nel bel mezzo del campo, le spighe di grano le arrivavano ai gomiti e ne accarezzavano le maniche nel loro oscillare marino che la facevano sembrare ferma in mezzo ad un oceano il quale profumava di autunno e non di sale.

Dean si fermò per osservare meglio. Aguzzando la vista, riuscì a catalogare la corporatura come quella di un uomo, di altezza media e con le spalle larghe. Scavalcò il fosso e si avvicinò, sotto l'ordine di una zona remota del suo cervello che fino a quel momento non aveva quasi mai assecondato, e distinguendo ad ogni passo un dettaglio in più della figura misteriosa.

Avanzò piano, senza nessuna fretta, scostando con le mani fasci di spighe accarezzandone i grappoli di semi attaccati alla sommità, la vegetazione più fitta in basso che minacciava di farlo inciampare se non sollevava bene i piedi e quella in alto che strusciava con un sibilo sottile contro la pelle della giacca.

La prima cosa che pensò del tizio fu Diavolo, amico, non hai freddo?

La luce morente che sfumava da ovest faceva spiccare il ciano di una camicia immacolata e perfettamente stirata, tesa contro il corpo esile e slanciato; l'unica nota stonata del suo abbigliamento (o perlomeno di quello che il grano lasciava intravedere) erano le maniche arrotolate alla bell'e meglio sopra al gomito ed il colletto stropicciato.

La sua contemplazione proseguì verso l'alto, scivolando lungo l'angolatura pronunciata della mascella e del mento, delle labbra carnose forse un po' pallide e screpolate, del naso, la fronte leggermente corrugata, gli occhi assenti, i capelli neri più scompigliati che avesse mai visto mossi dal vento. Doveva avere ventitré o ventiquattro anni, qualche mese in più di lui in ogni caso. Le mani che poco prima erano abbandonate lungo i fianchi ed immerse nel frumento che li circondava si spostarono fino alle tasche e qui sparirono. Se si era accorto di lui, era bravo nel non darlo a vedere, perché la sua figura rilassata, eccetto quel breve movimento, non si era spostata di un centimetro.

Dean continuava a fissarlo.

È bello. realizzò fra sé e sé, con disarmante lucidità. Lasciò passare alcuni secondi, aspettandosi che il tizio dicesse qualcosa o che mostrasse segni di presenza mentale oltre che fisica, ma non successe niente.

Ma che vado a pensare. Si disse Dean, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso. È stupendo.

Ora che era lì, avrebbe almeno potuto dire qualcosa, ma non aveva molti argomenti con cui fare conversazione, specie perché aveva ciecamente ubbidito a quello che non era un pensiero compiuto degno del termine per arrivare fin da lui, quindi non aveva predisposto assolutamente nulla.

Non sono l'unico che si rilassa stando qui, vero*? – disse, in tedesco. Dean trasalì, colto alla sprovvista da quell'improvvisa domanda rivolta a lui.

Dovette avviare più volte la registrazione mentale che si era fatto della sua voce per realizzare

a. quanto la sua voce fosse effettivamente bella (tono basso, un po' roca), e

b. che nonostante la sintassi impeccabile, nel suo tedesco vibrava il tipico accento americano che aveva imparato a distinguere tra i membri del suo branco.

– Temo di no. – rispose Dean, in inglese, con un sorriso sornione ad increspargli le labbra mentre quello si voltava a fissarlo per la prima volta da quando era stato raggiunto. Nel suo sguardo lesse con una punta di divertimento lo sconcerto di essere stato preso in contropiede, ma subito dopo dovette concentrarsi su qualcos'altro per non rischiare di essere travolto dal mare di burrascose onde azzurre che aveva negli occhi.

Un azzurro così non può esistere in natura, andiamo. Avrebbe voluto dirgli. La nota sarcastica del suo stesso pensiero lo fece sogghignare brevemente.

– Beccato. – disse lo sconosciuto, con aria colpevole. – Pensavo di venire soltanto io qui. – mormorò, spostando il peso del corpo da un piede all'altro, cercando di scorgere le proprie scarpe in quella foresta che gli si avviluppava serpentina attorno alle gambe.

Dean continuava a guardarlo, rapito. Quel ragazzo nella sua mente era nient'altro che un viso, un corpo, un suono ed una voce in un insieme non identificato e privo di un nome, costituito solo da ciò che vedeva e dalle poche parole che gli aveva rivolto... allora perché si sentiva così ammaliato?

– Effettivamente non sono mai stato qui, ma ti dovrai ricredere. Qui nel senso del bel mezzo del campo. – disse, senza aspettarsi una reazione precisa, mentre la sua mente era troppo annebbiata per poter impedire alla sua bocca di sparare emerite cazzate come quella.

Si ritrovò a pensare che niente di tutto ciò aveva senso. Non sapeva dire cosa fosse successo, sia a livello di chimica che a livello di indisposizione cerebrale, sapeva solo che quel tizio era veramente molto bello, aveva una bella voce, e quell'alone di mistero che lo circondava come un'aura aveva su di lui un po' l'effetto che la luce ha sulle falene.

Era una sensazione tutta nuova, ma non lo spaventava per niente: se prima si sarebbe messo a sbavare senza troppe cerimonie dietro ad un bel culo o ad una quinta di reggiseno, lui gli aveva letteralmente prosciugato la bocca, spegnendo le percezioni del mondo che lo circondava. L'unica cosa che lo preoccupava era la velocità con cui tutto ciò stava succedendo: assolutamente illegittima, disumana.

Wie heißt du?* – si ritrovò a chiedere, la sua testa che si rifiutava di sopportare ancora quella voragine nel bel mezzo del particolareggiato schema mentale che si era fatto del ragazzo dalla vita in su.

Questi prese tempo, giocherellando distrattamente con una manciata di chicchi acerbi ancora verdi. – Castiel. Parla in inglese, se non ti dispiace, mi manca qualcuno con cui farlo.

– Dunque, Castiel, hai l'aria di stare gelando. Intendi stare qui finché non morirai assiderato o torni indietro? – domandò di getto, con tutte le cellule del suo corpo che trattenevano un ostinato con me che cercava di accodarsi alla frase.

Lui dovette rendersi conto in quel momento di non avere un abbigliamento consono ad una serata di ottobre, ed i suoi muscoli si irrigidirono sotto alle zanne del freddo. Si sfregò le mani sulle braccia, calando le maniche ancora arrotolate.

– Era già da questo pomeriggio che stavo fuori... non mi è venuto in mente che avrei potuto anche prendermi una giacca. – bofonchiò, sperando di non suonare come un povero sprovveduto. – In ogni caso, accetto il tuo invito. – dichiarò poi, voltandosi e cominciando a camminare agilmente contro la corrente del mare di grano, stringendosi nelle spalle.

– Hei, aspettami! – gli corse dietro Dean, rischiando di inciampare lungo disteso un passo sì e l'altro pure. Lo raggiunse non senza qualche difficoltà, affiancandosi alla sua sinistra.

Notò immediatamente come sembrava essersi improvvisamente conto di gelare, quindi continuando ad assecondare la zona del suo non-cervello di poco prima si tolse il giubbotto di pelle e glie lo gettò con noncuranza sulle spalle, restando a sua volta in maniche di camicia. Castiel sobbalzò della sorpresa, che a giudicare dalla sua espressione non doveva essere considerata “brutta”. Fece per borbottare qualcosa ma la voce non sembrava avere nessuna protesta troppo plausibile da usare contro lo sconosciuto, quindi si limitò ad indossarla meglio infilando le braccia nelle maniche e sorrise debolmente. – Grazie.

Dean scrollò le spalle. – Ma figurati. La prossima volta ricordati di prenderne una, comincia a fare freddo di sera. – disse, detestando il modo in cui l'apprensione nella sua voce somigliasse a quella di sua madre. Lo squadrò per vedere come un suo indumento si adattasse bene al corpo di Castiel. Sorrise.

– Cosa? – fece questi, notando la sua espressione a metà fra il sereno ed il divertito.

– Niente, è solo che la pelle ti sta niente male a... – oh, per l'amor del cielo, per quale ragione stava piegando la testa di lato in quel modo, spalancando gli occhi confuso come un cucciolo smarrito? Dean avrebbe voluto dirgli di smetterla, ma era giusto considerare un crimine privarsi di tale visione? – … anche se le maniche ti stanno un po' lunghe. A dire il vero sono lunghe anche a me. – sorrise di nuovo.

Castiel si squadrò dubbioso, con un sopracciglio alzato. – Tu dici?

Il biondo annuì con convinzione, riportando parte della concentrazione sul dove mettere i piedi per poter scavalcare il fosso senza rompersi una gamba.

– Da che parte devi andare? – chiese, gettando l'ennesima occhiata in direzione della casa di Charlie, che era rimasta tale e quale a poco prima.

Castiel guardò da una parte e dall'altra, seguendo con gli occhi il percorso che si estendeva ai suoi fianchi. – Di là, – disse – a metà strada tra il centro e dove siamo noi ora.– precisò, lasciando correre lo sguardo fino in fondo.

Dean esultò nella sua mente, e nemmeno era certo di saperne il perché. – Allora ti accompagno per un tratto di strada. Io abito nella casa bianca in fondo, accanto al Reno. Appena fuori Colonia.

Così si avviarono, in un silenzio rilassato come entrambi ne avevano avuti pochi nella loro vita, camminando spalla contro spalla in una muta e sconosciuta complicità.

– Tanto per sapere, che cosa ci facevi là in mezzo, a quest'ora, senza giacca e solo soletto? – La capacità di Dean di rincoglionirsi in determinate circostanze era veramente spiazzante, alle volte. Stavolta era chiaro che ogni tattica di abbordaggio imparata in ventidue anni di esistenza erano letteralmente sbriciolate ed inutilizzabili. Che poi, non doveva abbordare proprio nessuno, no? Insomma, voleva fare solo conversazione (con probabilmente l'unico essere umano di sesso maschile che ti abbia mai fatto sentire una stupida ragazzina – ehi! Con calma, è troppo presto per dirlo) cercando di ignorare i suoi conflitti interiori.

Castiel scrollò le spalle. – Pensavo, a dire il vero.

– Lo fai spesso?

– A volte penso troppo, sì. Pensavo, secondo te dove saremo di qui a quattro anni? È un importante quesito che la gente si pone spesso, no?

Dean rise sommessamente. Quanto era strano quel tizio? Abbastanza da fargli girare la testa senza che gli dispiacesse ammetterlo. – Personalmente cerco di evitarmi questa domanda. Non mi piace farmi troppe illusioni. – Stavolta fu il moro a sorridere, anche se sul suo viso aleggiava un'espressione vagamente confusa.

– Perlomeno, di essere ancora vivi. – osservò, fissando l'asfalto. – Per quanto può sembrare pessimistico, è una cosa che ci si chiede.

– Quindi pensi anche tu che ci sarà una guerra? – Dean sperò di ottenere una risposta diversa da quella che si aspettava, ma da che mondo è mondo non gliene andava dritta una da quel punto di vista.

– Spero nel contrario. Ma come hai detto tu, è meglio non illudersi.

 

Rimasero in silenzio con quel grave argomento che ronzava nell'aria, le considerazioni più critiche fatte meticolosamente tacere.

Dean si guardò una manciata di secondi attorno. Ormai era calato un buio nero che invischiava le cose troppo lontane perché potessero essere visibili a tale distanza. La luna illuminava la strada, loro due, qualche casa e poco altro.

– Da quanto tempo vivi qui? – chiese ad un certo punto Castiel, la nota di curiosità che colorava la sua voce.

Il biondo rifletté. – Sette anni, io e la mia famiglia veniamo da Lawrence, nel Kansas. E tu?

– Io sono nato a Pontiac, Illinois, ma i miei genitori sono di queste parti, quindi ci siamo sempre un po' mossi. All'inizio venivamo qui solo in vacanza, ma da una quindicina d'anni ci siamo stabiliti definitivamente. Sono stati loro ad andarsene per primi, in extremis. – rispose, come se fosse una cosa banale e indegna di nota. Dean avrebbe voluto sapere ogni cosa,ogni dettaglio su quel ragazzo, quindi anche il fatto che fosse nato in una cittadina che non conosceva era frutto di interesse.

– Pontiac, eh? Non ci sono mai stato. – rifletté, corrugando la fronte. Avrebbe voluto chiedere sui genitori, ma sarebbe sembrato invasivo. – Me la farai vedere, un giorno? – domandò, sorridendo ingenuamente.

Castiel lo osservò con attenzione, le domande che si davano battaglia nella sua testa, cercando rifugio negli occhi verdi di quel ragazzo capitato lì per caso, del quale stava indossando la giacca e respirando il suo odore rimasto impregnato nella pelle. Inspirò profondamente ma senza emettere alcun suono, inebriandosi in quella fragranza così nuova e piacevole che gli annebbiava il cervello.

– Non è nulla di speciale. Ma se ti fa piacere, allora sì. – rispose sereno, studiando il sorriso dell'altro con vivo interesse.

– Nemmeno Lawrence è nulla di troppo eclatante, ma è tranquilla. Si sta bene, lì. – fece una breve pausa, soppesando le parole. – Cavolo, vedrai che ti piacerà. – okay, questo non era esattamente soppesare le parole, quella frase aveva preso vita nella sua testa e se n'era uscita allegramente dalle sue labbra senza permesso, e ora voleva seppellirsi dall'imbarazzo.

Dio, lui era un ragazzo, anzi, praticamente un uomo, e stava facendo progetti di vita con un altro uomo, che per giunta a malapena conosceva. E il bello era che non gli suonava nemmeno strano. Si sentiva a suo agio, sarebbe stato un peccato interrompere quella chiacchierata così, perché il parere comune lo giudicava sbagliato. A lui non sembrava minimamente sbagliato, nemmeno il fatto che quel Castiel avesse un effetto così catastrofico sul suo cervello, distruggendo quelle poche certezze che aveva avuto fino a quel momento.

Chi se ne frega. Pensò prontamente.

– Ne sono convinto. – replicò Castiel con entusiasta partecipazione. – Se sei qui da sette anni, devo dedurre che abbiano già iniziato a soprannominarti Amerikaner, vero? – ridacchiò, fissando distrattamente l'asfalto scorrere sotto di lui.

Dean scoppiò a ridere. – Ci puoi giurare! Al bar dove lavoro mi urlano dietro o così, o storpiando tremendamente il mio cognome. Mi vengono i brividi. – confermò, con il sorriso che ancora gli deformava il volto.

Inaspettatamente, Castiel si levò la sua giacca con un movimento rapido delle spalle e glie la porse, fissandolo con i suoi occhioni da cucciolo smarrito.

– Puoi tenerla, non ho freddo. – si schernì il biondo, respingendo l'offerta, restando ancora più interdetto nel vederlo bloccarsi sul posto.

– Hai detto di avere i brividi, se vuoi te la restituisco. – spiegò cautamente. – Non ho più così freddo. – Dean, poco più avanti, cercò di comprendere il senso della frase, riavvolgendo il nastro della conversazione (rigorosamente incisa nella sua memoria) fino a quando aveva pronunciato quelle testuali parole. Quando afferrò, si concesse una breve risata, un'alzata di occhi al cielo, un respiro addolcito. Gli prese la giacca dalla mano.

– Era una battuta. Il sentire la gente del posto storpiare il mio nome, quello mi fa venire i brividi. – e standogli davanti, così vicino che poteva sentirlo respirare piano come se avesse paura di sprecare aria, gli gettò di nuovo la giacca di pelle sulle spalle, facendogli infilare agilmente le braccia nelle maniche e tirando su la lampo. Una pacca sul gomito, e ripresero a camminare, nuovamente in silenzio.

Impiegarono un altro quarto d'ora per arrivare a quella che era una bella casa, non troppo diversa da quella di Charlie e delle altre del circondario, ma con i muri di mattoni rossi e qualche albero in più nel giardino. Durante quel lasso di tempo Dean ebbe modo di arricchire il suo schema mentale con qualche altra informazione, come il fatto che Castiel aveva due fratelli, Gabriel e Michael, un fratellastro di nome Balthazar, arruolato nell'esercito britannico, ed una cugina tedesca dalla parte della madre, Anna. Gli spiegò che i suoi genitori ed il suo patrigno erano iscritti al partito nazista, e che desideravano ardentemente la sua partecipazione in tale contesto, disdegnando la tenacia nel rifiutarsi ostentata dal figlio. Dean capì immediatamente che quel ragazzo aveva ideali molto chiari: ciò che stava succedendo nella loro realtà era un autentico casino, tutto sarebbe sfociato in una guerra e che non vedeva il motivo di imporre regole così rigide, pensieri così penalizzanti nei confronti di persone innocenti che avevano scelto di credere in qualcosa. Gli aveva detto che se la sua famiglia avesse continuato a pressarlo, se ne sarebbe andato, probabilmente in Svizzera, o in Inghilterra insieme al suo fratellastro col nome strano, forse sarebbe entrato nell'esercito, o avrebbe provato a studiare a Oxford. C'erano cose di cui era incondizionatamente certo, come la teoria di Einstein secondo cui l'umanità fosse decisamente troppo stupida, l'esistenza di Dio nonostante negli ultimi tempi non si stesse scomodando più di tanto a salvare quei poveri bastardi che sulla terra erano a tanto così dall'ammazzarsi a vicenda. Era certo del suo desiderio di andarsene. Arrivato a quel punto, Dean lo aveva fissato corrugando la fronte a chiedere una spiegazione, e Castiel aveva sorriso mestamente alzando le spalle come se anche quella non fosse una cosa importante.

– Chi ha idee diverse dagli altri non fa mai una bella fine. – aveva detto, frugandosi in tasca ed estraendo un pacchetto di sigarette ed un accendino. Aveva lasciato la fiamma danzare davanti all'estremità per qualche secondo, proteggendola con una mano dall'aria fredda, finché la carta non si era arrossata sgretolandosi in briciole nere sull'asfalto. Poi era rimasto zitto, e Dean gli aveva raccontato di suo fratello Sam, di quanto quel ragazzino fosse insopportabile e saccente, ma di quanto gli volesse bene, dei suoi genitori che non erano iscritti al partito, ma mantenevano un profilo basso per non cacciarsi nei guai, di Jo, di Hellen e di Charlie, di quanto Lawrence gli mancasse. Era strano come confidarsi con lui gli riuscisse facile, ma non ne era nemmeno dispiaciuto.

– Io lavoro al Paradies Roadhouse, in GoethenStrasse. Se ti va di parlare, passa a fare un saluto. – Borbottò timidamente, sperando che il buio nascondesse le gote arrossate.

Castiel meditò in silenzio, considerando attentamente la proposta ricevuta. – Non ci sono mai stato. Se la mia compagnia ti ha fatto piacere, cercherò di farmi vivo. – disse, con un sorriso sghembo che gli sollevava solo l'angolo destro della bocca. Il cuore di Dean ebbe un inaspettato balzo contro le costole.

– Allora ci vediamo, – disse il moro una volta che fu sulla soglia di casa sua. – ragazzo di cui non so nemmeno il nome. – sorrise divertito, gustando quell'espressione imbarazzata sul viso dell'interlocutore.

– Sono Dean Winchester.

Rimase impassibile, come se nella sua mente stesse associando il nome al viso del ragazzo, ai suoi occhi verdi, ai capelli biondo scuro, alle lentiggini sul naso.

– Lieto di averti conosciuto, Dean Winchester. – si congedò, sparendo dietro alla porta d'ingresso.

Dean osservò impietrito ogni suo movimento, incapace di decifrare il sorriso un po' strafottente che gli era spuntato sulle labbra.

Maledizione, articolò a fatica nella mente, proseguendo lemme lemme per la sua strada, se perdessi la testa per un ragazzo, sarei nei guai. Dovette fermarsi di colpo a piedi pari, la schiena improvvisamente rigida, le orecchie che gli fischiavano per il battito del suo cuore che tuonava come un tamburo. Il peggio era che aveva assistito alla sua rovina senza avere il coraggio di fare niente, era stato tutto talmente veloce e imprevedibile che non aveva nemmeno preso in considerazione l'idea di contrastarla. Non era neppure sicuro di poter dare un nome a quell'accozzaglia indistinta di sensazioni che aveva provato nell'ultima mezz'ora, ma forse sotto sotto sapeva benissimo cos'era ed ammetterlo era solo più doloroso che rinnegarlo.

Si voltò verso la casa di Castiel, probabilmente intravide la sua figura da lontano affacciata ad una finestra, come se lo stesse seguendo con lo sguardo. Alzò un braccio e lo agitò in quella direzione, ricevendo una risposta immediata che gli scaldò subito il cuore.

Oh, bene, sono fottuto sul serio. Ma se era veramente fottuto, allora perché si sentiva così... felice?

 

 

 

 

NOTA D'AUTRICE

 

Come si dice in queste circostanze?

Buonsalvino (?) a tutti! Nuovo account EFP, nuova long, nuova possibilità che uno dei miei scritti resti incompiuto, spero sarete pazienti. Sono un tipo incoerente.

Parliamo un po' della storia, visto che non mi ritrovo nulla di meglio da fare (cara, forse dovresti... non so, studiare francese? Latino? Naaah) … mi sono messa avanti di un paio di capitoli, ma non aspettatevi che aggiorni fra 'na settimana perché preferisco scriverne almeno un altro, altrimenti rimarrò indietro (di nuovo) e beh, no grazie.

Personalmente sono abbastanza soddisfatta dell'inizio, mi scuso per l'OOC, ma quando questi due decidono di uscire un po' dagli schemi, chi sono io per rimetterli in riga? Chuck? No, nemmeno lui c'è propriamente riuscito...

l'idea che Dean potesse avere il classico colpo di fulmine è una cosa che mi ha sempre allettata, e mi sembrava giusto l'occasione per dargli un po' da arrovellarsi, perché dai, sarai un Winchester ma Castiel è Castiel, non c'è lagna che tenga, mio caro.

Forse non sono del tutto sicura di come sia esteso il capitolo, non vorrei aver affrettato troppo le cose...

ehm, veniamo alle note:

* iot: la J tedesca, visto che i nostri deutschen Freunde amano complicare sempre le cose, ecco che partono di buon grado dall'alfabeto.

** il traghetto: visto che in questo contesto storico gli aerei avevano solo scopo militare e non per viaggi transatlantici, ho dovuto modificare la fobia di Dean, diciamo che ho fatto una sorta molto vaga di parallelismo(?)

***Arschloch: questa non la sapevo nemmeno io, ho dovuto invocare il traduttore perché sono una persona pigra e non avevo voglia di prendere il dizionario (scusatemi, topolini miei). Concisamente, vuol dire stronzo (sperando che almeno sulle parolacce googletrad. Sia attendibile)

****Le mie conoscenze linguistiche non si estendono fin qui, ancora chiedo scusa.

***** un innocente “come ti chiami”, volevo che Dean tentasse di fare bella figura. Poor guy.

 

Se ho scordato qualcosa, ditemelo :3

io direi di avervi rotto le scatole a sufficenza, se siete arrivati in fondo già meritate un premio.

Mi piacerebbe sapere che ne pensate, visto che il periodo storico in cui l'ho ambientata è sia delicato, sia difficile da descrivere, perlomeno da sapere se ho scritto delle emerite idiozie oppure (no)...

recensite, recensite!

Ciao ciao, Lovely Idjits!!

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Castiel si spostò dalla finestra, dopo aver ricambiato il saluto ricevuto; sentiva la testa talmente leggera che per alcuni secondi ebbe la tetra sensazione che si sarebbe potuta staccare dal corpo e volare via come una nuvola.

Non si era mai sentito così, specie perché aveva validi motivi per provare inquietudine con tutto quello che stava accadendo. Ora che la sua mente era occupata da qualcos'altro (okay, qualcun altro...), la sensazione di potersi finalmente disfare di tutta quell'ansia che gli gravava addosso era allettante in modo assurdo. Ed allo stesso tempo tutto ciò gli suggeriva che se si fosse lasciato distrarre, l'avrebbero preso.

Sarebbe stato scoperto, i suoi genitori non avrebbero fatto nulla per aiutarlo, gli avrebbero fatto del male. Non riusciva nemmeno ad immaginarsi che cosa gli sarebbe accaduto, e non si sentiva in vena di indagare a fondo. Sapeva cosa succedeva là fuori, che quelli come lui venivano arrestati e portati a Dachau, o Birkenau, Sobibor, o anche in Polonia, nei campi di lavoro.

Tutto ciò lo aveva costretto a vivere nell'angoscia, nel terrore, relegato in casa e mai nello stesso posto per periodi troppo lunghi. Cercava di conoscere meno persone possibili, le fissava da lontano vivere una vita normale e con la leggerezza di non doversi nascondere da sé stessi e dagli altri dipinta sui volti. Ma quella sera, si era sbloccato qualcosa. Era come se dopo anni che manteneva una posizione scomoda incastrato in uno spazio troppo piccolo per lui, fosse riuscito a trovare un modo migliore per adattarsi meglio al perimetro invalicabile di quell'area, semplicemente uscendone di poco.

Cavoli, quel Dean era davvero particolare. Aveva degli occhi verdi come non ne aveva mai visti, un sorriso schietto, le spalle larghe, la postura un po' scorretta che gliele incurvava leggermente. Aveva conquistato un tremendo ascendente su di lui in poco più di una mezz'ora, semplicemente mostrandosi preoccupato che potesse crepare per ipotermia (ma solo perché la sua testa costantemente fra le nuvole non poteva ricordargli di prendersi una giacca durante i suoi pellegrinaggi di riflessione). La sua vicinanza lo aveva stordito, lo sfiorarsi delle loro spalle trasmesso quelle che sembravano scariche elettriche propagatesi nel suo corpo.

In trenta minuti.

Trenta, stramaledetti, minuti.

Merda.

Merda, voleva davvero rivederlo. Nessuno ci aveva messo così poco per catturare la sua attenzione, nessuno lo aveva mai fatto sentire così al sicuro, né tanto meno aveva allontanato le sue paranoie semplicemente sorridendo. Si appoggiò allo stipite della porta della sua stanza, traendo un sospiro rilassato. Era tanto che non stendeva i suoi muscoli in quel modo, concedendosi una breve tregua da tutto quello scappare frenetico e spossante.

Il bello era che avrebbe dovuto sentirsi in pericolo, l'aver conosciuto Dean Winchester avrebbe dovuto farlo sentire peggio di prima, con la guardia abbassata, avrebbe dovuto sentire il marciare ritmico della Gestapo nelle orecchie. Invece stava bene.

Procedette strascicando i piedi verso il bagno, dove si affacciò allo specchio con titubanza.

Castiel lo fissava di rimando con occhi stranamente (bè, non era nemmeno così strano) luminosi, le gote arrossate, e la giacca di pelle ancora sulle spalle. Non era esattamente il suo stile, e forse non gli era abbondante solo nelle maniche, ma gli bastò inspirare per sentire di nuovo quel profumo di pelle e... Dean. Accidenti, ma che gli stava succedendo? Nel momento in cui si erano trovati così vicini, la seconda volta che gliel'aveva messa, aveva sentito il suo, di profumo. Un misto particolare di birra e dopobarba, gli aveva dato un capogiro. Se la sfilò contrariato piegandola accuratamente, sotto sotto felice di avere un pretesto per tornare a vedere Dean, la appoggiò sul bordo del lavandino e si tolse i vestiti.

Si osservò con occhio critico allo specchio, studiando attentamente le forme del suo corpo, soffermandosi su qualche particolare. Poi fissò il riflesso dei suoi occhi, corrugando la fronte con serietà. Ascoltò attentamente se i suoi genitori erano in casa o meno, e quando a rispondergli fu solo il silenzio, prese un sospiro e si disse con severità: – Mi chiamo Castiel Novak, sono un omosessuale, e forse mi prenderanno. Ma oggi non mi importa.

Inaspettatamente, sorrise.

 

Quelle parole erano una ridondanza costante del suo cervello, aveva considerato tutto ciò solo un effetto collaterale di essere Castiel e nient'altro da quando ne aveva avuto conferma. Per quanto ricordava della sua adolescenza, ci si era messo d'impegno per farsi piacere le ragazze, la loro femminilità fatta di curve, colori ed anche sapori, ma ogni suo sforzo era sempre stato vano. Ricordava di aver avuto una storia con una certa April, ma non era durata molto, neppure un paio di mesi. Era bella, era davvero bella, ma bella in un modo che in Castiel non smuoveva nulla né a livello emotivo né a livello fisico, e visto che era un tipo selettivo e che odiava le perdite di tempo, aveva parlato chiaramente con la giovane dei sentimenti che avrebbe dovuto provare, ma che non provava.

Guardandosi attorno aveva notato che mentre gli altri maschi, vedendo una coppia, si davano di gomito fissando invidiosi e con pochi riguardi il sedere della ragazza, lui si ritrovava a guardare quello del ragazzo. Molto semplice.

Era stato facile da capire, e non se n'era nemmeno vergognato, ma senza che nessuno fosse presente per dargli dritte al riguardo, era stato abbastanza intelligente da capire che tenere la bocca chiusa sarebbe stato d'aiuto. Durante quegli anni, specie intorno ai sedici o diciassette, era stato difficile per lui quando nei pub che frequentava se non aveva nulla da fare vedeva due fidanzati scambiarsi effusioni: tutto ciò gli faceva venire un'incredibile sensazione di solitudine, sentiva che mantenere quel segreto esigeva un prezzo molto alto e che doveva pagare in cambio dell'integrità. E da allora in poi, vivere aveva cominciato a fare male. Non passò troppo tempo che oltre a fare male, faceva anche paura.

Per un periodo aveva deciso di lasciarsi andare perché quel senso di ansia che lo soffocava era diventato davvero insopportabile; era stato a letto con due ragazzi, aveva bevuto un po', poi loro erano stati presi ed aveva capito che era il caso di fermarsi.

Le SS che camminavano impettite per le vie nei giri di perlustrazione non lo degnavano di uno sguardo, ma Castiel aveva sempre il terrore che potessero percepire la sua paura, squadrarlo con sospetto in attesa che commettesse un passo falso. Fino a quel momento, oltre agli altri dei quali ricordava a malapena i nomi, c'era stato solamente Zac, e non la si poteva considerare nemmeno una storia vera e propria, perché il ragazzo aveva ceduto sotto la pressione di tutte quelle consapevolezze e del sentirsi sbagliato prima che Castiel potesse effettivamente provare qualcosa per lui. Era sparito senza lasciare tracce di sé, a Castiel non era nemmeno mancato.

Ora, gli mancava Dean. E non lo conosceva nemmeno.

 

Un'altra delle certezze che Castiel aveva, era quanto gli piacesse il profumo del grano. Poteva sembrare una cosa alquanto banale, strana, o addirittura idiota, ma era così. Per questo quando sentiva a l'irrefrenabile bisogno di estraniarsi e di rimanere per conto suo in balia dei pensieri e delle paure, si recava in quel campo. Sentire le spighe lambirgli la pelle procurandogli un po' di solletico, pungendogli delicatamente l'epidermide.

Aveva quell'odore asciutto, delicato, gli piaceva pensare che gli intorpidisse i sensi lasciando che una calma pacifica lo avvolgesse quando più ne aveva bisogno.

 

***

 

Inciso: Castiel era, e si sentiva, tante cose, e allo stesso tempo niente. Era un ragazzo come tanti sotto molti punti di vista. Adorava i libri, ascoltare la radio, non sopportava i suoi genitori, gli piacevano la birra, la musica classica e le sigarette leggere. Nessuno l'avrebbe notato, non per quello che vedeva da fuori. Castiel amava ridere, ma aveva troppa paura per poterlo fare. Si limitava a ridere dentro, sperando che la gente non sapesse che oltre alla birra, le sigarette leggere, la musica classica, i libri e la radio, gli piacevano anche il grano, l'America, e gli piacevano gli uomini. Semplice, e per certi versi, bellissimo come Dean Winchester.

 

***

 

Il giorno dopo, precisamente alle cinque del mattino, stava ripercorrendo a ritroso la stessa strada di quelle che poi non erano nemmeno tante ore prima, con la ghiaia che scricchiolava e crepitava sotto i piedi, e le stelle che impallidendo si rifugiavano nell'oscurità mentre a est l'orizzonte schiariva. L'alba era un'altra delle cose che gli piacevano, ma ormai la dava per scontata. Era abituato a vederla tutti i giorni, era la cornice della costante che la sua vita era diventata. E andava bene così.

Quelle stesse stelle ogni tanto cominciavano a ballonzolare tremule spostandosi dalla loro sede, salendo verso l'alto oppure precipitando verso il basso.

Era ubriaco. Sentiva il suo corpo in balia di onde invisibili che lo facevano barcollare ogni cinque o sei passi oppure emettere una breve risata tra sé e sé, nonostante non avesse molto da ricordare per cui poter ridere. Le sue gambe si muovevano un po' incerte verso il solito posto imponendosi ad un ridicolo tentativo di comando da parte del cervello che lentamente ancora annegava nell'alcol, mentre rischiava di inciampare nelle lunghe spighe aggrovigliate attorno alle sue caviglie. Arrivato a destinazione, si sentiva sufficientemente lucido da rimanere in piedi, come la sera prima. Il suo subconscio corrotto dalla birra e dal Whisky (o da una strana mescolanza dei due) era stupidamente convinto di poter incontrare qualcuno lì, e visto che non si ritrovava di meglio da fare se non esasperare il po' di buonsenso messo a tacere dalla sbornia, aveva ceduto alla bizzarra coalizione tra le gambe e quella speranza.

Il problema era, neanche a dirlo, che non aveva la più pallida idea di chi stesse aspettando. Si sentiva leggermente a disagio, ma forse era solo un effetto collaterale di tutto quello che aveva ingurgitato al pub. Perché sì, era entrato in casa, poi era uscito di nuovo e si era chiuso in un qualche bar notturno a bere, per il semplice motivo che era un po' che non lo faceva e ne sentiva il bisogno.

Ogni tanto gli capitava.

Guardandosi i vestiti, in un breve moto di curiosità verso lo stato in cui era messo, si accorse che oltre al suo cappotto, sotto indossava anche un giubbotto di pelle scura e leggermente logora alle estremità. Ora, se fosse stato appena più lucido, si sarebbe chiesto a. per quale ragione si fosse messo due giacche quando sì, c'era freddo, ma non così tanto, e b. da quando in qua lui aveva una giacca di pelle. Insomma, era un indumento che da quelle parti non aveva mai visto.

Dovette attendere almeno un'ora di confusi pellegrinaggi prima di sentirsi un po' più sobrio, più fisicamente che mentalmente, perché altrimenti non avrebbe mai notato la persona che si era bloccata in mezzo alla strada esattamente davanti a lui, solo molti metri più in là.

Per una qualche ragione, Castiel si sbracciò da quella parte, con talmente tanta energia ed entusiasmo che barcollò all'indietro e cadde pesantemente su un soffice e puntuto letto di grano. Gli steli e le spighe scricchiolarono sotto il suo peso, sollevando polvere e foglie spezzate.

Sentì dei passi avvicinarsi, sentì la terra tremare sotto la sua schiena man mano che si avvicinavano e nel bordo frangiato delle spighe comparve a fatica un volto.

– Dean! – esclamò esaltato, improvvisamente ricordandosi da dove quella giacca di pelle saltasse fuori. Si ritrovò a ridacchiare come un bambino mentre l'altro lo guardava intensamente, un po' confuso. – Perso il conto delle pinte? – chiese, allungando una mano che Castiel non afferrò. Invece, quello spalancò le braccia come fossero ali e rise di nuovo, incurante del fatto che lo avrebbero potuto sentire anche da lontano. Se c'è una cosa che l'alcol lo aiutava a fare, era scacciare via le preoccupazioni, e finché poteva decise di approfittarne. La fase due poteva arrivare da un momento all'altro.

– Ci puoi giurare, Dean. – ripeté, mentre quello che sperava fosse un accenno di sobrietà tornava a seppellirsi nella sua mente.

Il Winchester rise a sua volta, afferrandogli i polsi per aiutarlo ad alzarsi, ma Castiel oppose resistenza. – Sei messo malino, avanti alzati!

– Ma sono appena arrivato! – protestò, scansando le sue mani e respirando forte, cercando il viso dell'altro con lo sguardo.

– Non prenderla sul personale, ma sei troppo brillo per avere una minima idea di quello che hai fatto nelle ultime tre ore, dubito che sapresti stabilire da quanto ti trovi nel bel mezzo del nulla. – disse arrendevole quest'ultimo, accoccolandosi a gambe incrociate accanto a lui. Visto che quel fattone non poteva raggiungerlo in piedi, sarebbe stato lui ad andare in basso, no?

– Come faccio a non prenderla sul personale? – riuscì ad articolare, masticandosi almeno un paio di volte la lingua, il che rese le sue parole ancora più stentate.

– Quindi sai quando sei arrivato?

Castiel ci pensò, corrugando la fronte per lo sforzo. – Non è che ce l'abbia presente.

– Vedo.

– Ma ricordo che stavano cadendo delle stelle. – completa, fermamente convinto.

Dean lo fissa, indugiando con lo sguardo sulle sue gote rosse e sugli occhi lucidi, il volto contratto in un sorriso spontaneo e liberatorio. – E dove cadevano? – chiese, come se si stesse rivolgendo ad un bambino bisognoso di credere nella magia. Castiel fece spallucce, sollevando un po' la testa e puntellandosi sui gomiti per vedere qualcosa oltre il grano, confidando che la sua testa avesse smesso di turbinare come una barca senza remi tra i flutti di una tempesta.

– Un po' lì, qualcuna là, un paio verso l'alto... penso non fossero certe di dove andare, quindi hanno preso una direzione qualunque. – disse, con una faccia innocente che somigliava veramente a quella di un bambino. – Un po' come me. – borbottò infine.

– Sei la stella di un ubriaco o semplicemente un ubriaco? – ridacchiò Dean, smettendo di guardare l'orizzonte e concentrandosi sul suo viso e sulle sue spalle mentre si lasciava cadere per terra.

– Sono Dio. – annunciò quello solennemente, tornando spalmato al suolo come se fosse stato un divano, ascoltando il religioso silenzio che l'altro gli stava regalando. La sua mente vi nuotò un pochino in mezzo, cercando di ricordarsi bene come si costruisse una frase grammaticalmente sensata (a quanto pare, se n'era appena dimenticato). – Presumo che le stelle che sono cadute, siano finite sul fondo del mare. Siamo in Florida, eh? Ho sempre voluto visitarla. Deve fare caldo lì. – rimuginò, la sua bocca che parlava a ruota libera senza consultare il cervello.

– Se lo dici tu... vedo che nonostante tu abbia più alcol che sangue in corpo, ti sei ricordato di prendere un cappotto! – disse Dean, tirandogli il bavero, e catturando inaspettatamente il suo sguardo quando le sue dita vennero a contatto con la pelle morbida e calda sotto all'orecchio.

– Sì, Dean, e non so come io abbia fatto, ma ho anche la tua giacca. Penso che da sobrio non me la sarei … ricordata. – strascicando le ultime parole, si mise seduto.

Cominciò a togliersi il suo soprabito, aggrovigliandosi scompostamente nelle maniche e non riuscendo a non ridere per la situazione in cui era, poi quando si fu disfatto del primo impedimento, si tolse anche il giubbotto di pelle. Essendogli largo, fu più facile e la testa girò meno di prima. Quando si voltò a porgerla a Dean, notò che lo stava guardando in una sorta di paralisi.

I suoi occhi verdi vagavano in giro sul suo corpo spudoratamente, soffermandosi sui capelli neri più arruffati che mai e sparati in ogni direzione del creato, gli occhi lucidi, la camicia stropicciata sbottonata in alto e mezza aperta che lasciava in bella vista il profilo delle clavicole, la pelle che trasmetteva calore alla vicinanza. Osservandolo bene, con i vestiti scompostamente tirati contro il corpo, notò quanto il suo fisico fosse scolpito.

Combattè contro l'impulso di giocherellare con i bottoni della camicia.

Dean dovette sforzarsi molto per riuscire a mettere in fila una frase udibile, sogghignando malizioso. – Ti sei dato alla pazza gioia, eh? –. Castiel tornò al suo letto di grano, piegando le ginocchia in modo che fossero mezze accavallate su quelle del biondo, la testa che continuava a girare e la lingua sciolta senza freni.

– Non saprei... non mi hanno arrestato, quindi penso di no. Inoltre, sto cominciando a ricordare qualcosa, se mi fossi dato alla pazza gioia come dici tu sarebbe la prima cosa che mi verrebbe in mente. È incredibile che io posso fare supposizioni, vero?

– Intanto non è posso, ma possa. E poi perché avrebbero dovuto arrestarti? – domandò, corrugando la fronte. Castiel, sdraiato di fianco a lui, lo fissava dal basso all'alto con un sorrisetto sghembo, a metà fra l'assonnato ed il divertito. Senza nemmeno pensarci, alzò una mano e scostò i capelli biondi dalla fronte di Dean, che non smise di fissarlo per un secondo, senza essere intenzionato a lasciargli decifrare il suo sguardo (anche se Castiel non sembrava essere in grado di decifrare nemmeno il comune alfabeto, in quel momento).

– Suvvia, non sarai mica così tremendo! – Scherzò allora il Winchester, dandogli una lieve gomitata nel fianco che non sortì alcun effetto.

– Macché, guarda che me la cavo, dolcezza. – sbuffò leggermente senza nemmeno tentare di fermarsi, sorridendo al cielo. – Nessun ragazzo si è mai lamentato. – (il che, a. era vero, b. se non fosse stato sbronzo gli avrebbe ricordato che quelli che non si erano lamentati, erano finiti molto male e c. qualcuno, probabilmente, aveva fatto la spia).

Ops.

Accidenti a lui. Adesso era in un casino tremendo senza nemmeno saperlo, probabilmente una piccola parte del suo cervello se ne era resa conto ma quella intorpidita e con la maggioranza dei neuroni accantonò il pensiero dove non potesse raggiungerlo.

Dean lo fissava, impassibile, indecifrabile. Non sembrava turbato, e lo guardava negli occhi.

Castiel non sapeva nemmeno lui quello che diceva, quindi andava bene lasciarsi andare completamente. Entro l'indomani lo avrebbero preso, non era un male godersi le ultime ore di libertà. Fase due in assetto di decollo.

– Avvertimi solo quando avrai intenzione di chiamare la Gestapo, così mi preparerò psicologicamente. – disse, distaccato e freddo più che mai , giocherellando con uno stelo ma senza smettere di guardarlo. Dean sembrava stesse per dire qualcosa, ma lo fermò stuzzicandolo con la spiga, facendola scivolare distrattamente dietro il suo orecchio. – Ma prima che io finisca in un qualche fottuto campo di lavoro, aspettando che mi ammazzino o che mi taglino le palle – (un dieci e lode per la schiettezza, Novak.) – voglio che ti lasci guardare bene. – e lo fece Lo fissò intensamente fotografando con gli occhi ogni singolo centimetro del viso di quel ragazzo, del suo collo, delle sue spalle e del suo torace, e di tutto quello che non era nascosto dal grano intorno a loro. Smise improvvisamente di sentirsi brillo ed allegro, l'alcol circolò come un fiume in piena e le parole cominciarono pian piano a sgorgare fuori dalla sua bocca.

– Sono davvero ubriaco. Non sono Dio. – disse, con una vaga nota di vergogna nel tono di voce. Dean restò immobile, come se stesse bloccando un impulso.

– Chissà cosa pensi. Che non sono Dio e che sono, non lo so, peccaminoso, o qualunque cosa voialtri pensate che noi siamo. Osceno, ma che ne so. Andate a fanculo. – storse la bocca, il sapore della birra che gli faceva dire quelle cose gli inondò le papille gustative.

Se prima si sentiva contento e compagnia bella, sbronzo e felice, ora era tremendamente amareggiato.

– Castiel, io...

– Sì, andatevene a fanculo, – lo interruppe violentemente – siete solo degli stronzi stereotipati. In sto cazzo di mondo non si può fare niente, nemmeno amare una persona senza che ti guardino male, o che ti facciano notare che è sbagliato. Poi dicono che è la religione, o Dio, o chissenefrega. Beh, io ho sempre creduto in Dio, ma se ci penso un po' su mi viene da chiedermi “Quello là prima mi fa omosessuale e poi mi fa perseguitare”. Un premio per la coerenza, non ti pare? – Dean lo fissava, la sua espressione era leggermente mutata e sotto a quel velo di stupore ed indecifrabilità ora c'era quasi... divertimento?

O solo altro sgomento mischiato a profondo disgusto. Si concentrò per qualche secondo sul sui viso, mentre le sue guance si coloravano leggermente di rosso e le pupille si dilatavano. Poco importava, ora che Castiel aveva iniziato il suo sproloquio lo doveva anche finire. Se non gli fosse interessato, poteva andarsene, lui avrebbe continuato comunque.

– O, mah, sarà una malattia? Sono malato, secondo te, Dean? Io non mi sento malato. Mi sento ubriaco fradicio, qualcosa di piuttosto vicino ad un essere con poteri mistici, ma insomma, non sono malato. Soffro allo stesso modo. – biascicò, percependo la sua voce acquisire quella nota gracchiante tipica di uno che ha alzato il gomito.

– E vuoi saperla una cosa? Sei veramente bello, e abbi il coraggio di ammettere che quando te lo dice una ragazza non è ugualmente sincera. Cazzo, sei stupendo, perché solo una donna può dirtelo? Perché io non posso? Ti trovo stupendo e lo devo tenere per me perché sono malato e la mia parola vi può contaminare tutti?! – ora la sua voce si stava alzando pericolosamente, quasi urlava, ma ormai vabè. Con un doloroso colpo di reni si tirò su a sedere, inginocchiandosi alla stessa altezza di Dean che aveva gli occhi tristi e quasi commossi seppur asciutti, e cercò di regolarizzare quel respiro affannato che la sua corsa di parole si lasciava dietro. Da ubriaco diceva spesso cose che avrebbe dovuto custodire gelosamente, ma mai nulla di così profondo. Si era appena messo a nudo come non aveva mai fatto con nessun altro, le cose non potevano andare peggio di così. La birra ed il Wiskhey che gli turbinavano come uno tsunami nel corpo pretesero un'altra spiaggia da sommergere, proseguendo la loro inarrestabile corsa.

– Ovviamente. – sbottò, la testa che pulsava. – Certo, perché è bello nascondersi per tutta la vita. Ebbene, sono arcistufo! Se devo passare la mia esistenza a scappare da quello che sono, piuttosto mi appendo per il collo. Sono fiero di me stesso, e non sarà quel figlio di puttana di Hitler a mettermi in riga! – dovette riprendere fiato per quasi un minuto, doveva aver gesticolato parecchio perché il braccio destro gli faceva male. Abbassò gli occhi sul punto dolente e scoprì che Dean lo aveva afferrato e lo guardava con una malinconia infinita negli occhi, ma c'era qualcosa di bello che mandò il cervello di Castiel in tilt definitivo. La stretta era calda nonostante il freddo dell'alba e la camicia che separava le loro pelli, ma il contatto visivo era diverso. Quello era ardente.

Castiel ebbe come una scossa. – Mollami. – disse, bruscamente, e fece per alzarsi, ma le gambe lo reggevano a stento e la testa girava.

Non ancora del tutto certo di come, si tirò su trattenendo il respiro per la fatica, le cose intorno a lui ballonzolavano e si sdoppiavano come in un qualche incubo che gli era capitato di avere.

– Castiel. – la voce di Dean era estremamente pacata, tanto che per un attimo il moro temette il peggio. Forse stava per mollargli un ceffone, ne aveva tutta l'aria. Mosse un paio di passi incerti verso la parte sbagliata, avvertendo a malapena la presenza dell'altro molto vicino a lui, si passò una mano fra i capelli al limite dell'esasperazione. – Castiel, hai appena sparato delle stronzate a dir poco abissali. – dichiarò pragmatico. Quando riuscì a voltarsi senza cadere, i due Dean che continuavano a raddoppiare e ad incrociarsi lo osservavano a braccia conserte, estremamente divertiti.

–Cosa? – farfugliò in risposta, compiendo un enorme sforzo per reggersi in piedi e per la prima volta senza niente da controbattere.

–Pensi davvero che chiamerei la Gestapo? – il suo sguardo mutò pericolosamente i qualcosa di molto simile alla delusione. – Senti, capisco che non ci conosciamo molto, ma hai veramente una così bassa impressione delle persone? Di me? –

Castiel avrebbe veramente voluto rispondere, scusarsi, o fare qualsiasi altra cosa che non fosse cadere come un sacco di patate vittima dell'alcol.

 

 

Qualcosa come mezz'ora dopo, durante la quale era rimasto cosciente abbastanza a lungo da ricordarsi un Dean per nulla scocciato che lo trascinava verso casa, era abbracciato alla tazza del gabinetto con indosso solamente i pantaloni (aveva resistito fino alla porta del bagno). In una situazione diversa, si sarebbe quantomeno ricordato che aveva un ospite (nemmeno un ospite qualsiasi, insomma!) e lo avrebbe lasciato andare via. Dato che però le circostanze gli impedivano di fare qualsiasi cosa che non fosse vomitare corpo e anima, non se ne curò. Andò avanti almeno un'ora con la testa quasi completamente nascosta oltre il bordo, ma quando il suo stomaco suonò tristemente vuoto, si aggrappò al lavandino e si issò a fatica con le gambe che tremavano pericolosamente. Senza nemmeno pensare a quello che faceva si cacciò in bocca una dose generosa di dentifricio e, dopo aver masticato con aria un tantino perplessa, sputò la schiuma sotto di sé e si affrettò a prendere un sorso d'acqua. Il tutto nel più assoluto silenzio, quasi dimentico del fatto che Dean lo stesse guardando.

Okay, dalle mani di quale scultore greco sei nato? Dovette lottare con unghie e denti per tenere a freno la domanda, perché un qualunque essere umano di fronte a quel ben di Dio se la sarebbe posta ed era abbastanza certo del fatto che pochi avrebbero avuto sufficiente autocontrollo da non farla.

Aveva un bel fisico non troppo scolpito, la pelle chiara e liscia, i muscoli ancora tesi e, malgrado non credeva avrebbe mai pensato una cosa simile nei confronti di un altro uomo, davvero un gran bel fondoschiena; dorso, spalle, clavicole, ogni centimetro trasmetteva senso di equilibrio e forza, ma c'era qualcosa, forse nella postura che aveva adottato sino a quel momento, che tradiva insicurezza, quasi tensione angosciata. Le mani, fino a quel momento spasmodicamente aggrappate al bordo del lavandino, si rilassarono, ed il sangue riprese a circolare nelle nocche.

– Sì.

A Dean quasi venne un infarto. Non si aspettava che parlasse, né che si sedesse di fianco a lui contro la parete e la testa fra le mani, la spalla sinistra nuda premuta contro la sua.

– Cosa?

– Ho veramente una così bassa impressione delle persone.

– Oh. Quello.

– Già. Vorrei negare il fatto che valga anche per te, ma mentirei.

Silenzio, qualche secondo.

Un respiro. Due. Tre.

– Per quale ragione?

Castiel si girò verso di lui, con un sopracciglio alzato e la classica espressione “ma che domande fai?!”, ma durò appena un paio di secondi. Le sue labbra (perfette) si stirarono in un sorrisetto ironico.

– Il mondo mi odia. – spiegò, ridacchiando a causa del po' di alcol che ancora gli circolava in corpo.

– Il mondo è stupido, allora. Come si fa ad odiarti? – la finta indignazione di Dean lo fece ridere di più.

– Questo mica devi chiederlo a me. – un paio di secondi di pausa. – Comincia a farmi male la testa. Tra dieci minuti desidererò di essere morto.

– Certo che l'alcol ti fa uno strano effetto. Non ho mai sentito nessuno sclerare così tanto in vita mia, nemmeno mio padre. –

Castiel scrollò le spalle, ma sembrava vagamente compiaciuto. – Devo essere sincero, sei l'unico essere umano a saperlo, oltre alle persone che ho menzionato prima e che potrebbero essere già state prese. –

– Mmmh, devo aspettarmi qualcosa?

– Ehi, solo perché sono omosessuale non significa che devo essere per forza una puttana. In ogni caso erano tre, e non penso abbiano fatto una fine molto felice.

– Ma nessuno di loro ha fatto il tuo nome... devi essere veramente bravo.

Castiel non poté fare a meno di ridere. Quel Dean non era solo bello, ma anche perspicace.

– Sì, o quello, o nemmeno gliel'hanno chiesto, ma anche se lo avessero fatto sarebbero andati poco lontano: non ho mai dato il mio vero nome. Comunque ringrazio la mia buona stella, finché ne ho una. Più che altro quando ho saputo cosa stava accadendo ho cominciato ad avere veramente paura, mi sono nascosto ed ho viaggiato un po', prima di fermarmi qui. Sai, per far perdere le mie tracce nel caso qualcuno mi stesse seguendo. Questa casa penso appartenesse a mio nonno, mi aveva lasciato le chiavi. –

Dean annuì. – I tuoi genitori dove abitano?

– L'ultima volta che li ho visti, erano a Dusseldorf, ma conoscendo mia madre possono essersi benissimo trasferiti sei o sette volte.

– Perlomeno non ci vivi assieme. I miei sono tipi a posto, ma certi giorni vorrei veramente andarmene.

–Vattene davvero, no? – La voce di Castiel, roca e gentile, lo faceva suonare talmente ovvio e scontato che per un secondo Dean si diede dell'emerito coglione per non averlo già fatto. Poi però disse: – Non è così semplice. La verità è che è molto difficile avere a che fare con mio padre, e lui e Sammy non vanno affatto d'accordo. Se me ne andassi, lascerei solo mio fratello, e non potrei... prendermi cura di lui, ecco.

Castiel fece cenno di aver capitoc con un sorriso addolcito, lasciò che il silenzio calasse di nuovo intorno a loro. – Dunque, Cas. Come va la testa? – lo interruppe Dean.

Castiel rimase in silenzio per valutare la situazione, ascoltando quello che somigliava in modo inquietante al rombo del mare intrappolato in una conchiglia provenire da dentro il cranio. Cominciava a sentire il dolore stringergli le tempie e gli occhi tremavano come se stessero per ribaltarsi, ma sapeva tenere duro.

– Non siamo ancora in alto mare. Gira solo un po', ma presto avrò un male atroce, con tutto quello che devo aver bevuto. – si fissarono per una manciata di secondi, le spalle che ancora erano premute l'una contro l'altra ebbero una specie di fremito.

Dean avrebbe tanto voluto essere in grado di delineare qualcosa di Castiel che non fosse il profilo morbido ed accennato degli addominali, come ad esempio il carattere. Se era veramente un ragazzo spaventato e maniaco della circospezione e delle precisioni, in quel momento non lo sembrava affatto, non con i pantaloni stropicciati ed il torso nudo, non con una quantità spaventosamente indefinita di alcol che ancora gli saettava nelle vene, non con tutto quello che gli aveva detto.

– Allora... – lo stuzzicò, pungolandogli l'avambraccio con un dito – sono veramente così bello?

Castiel, che fino a quel momento di riflessione del biondo aveva socchiuso gli occhi sperando che il mal di testa non lo travolgesse come un treno, sbarrò le palpebre.

Prese qualche secondo per rispondere, soppesando accuratamente le parole da usare e gettando la spugna quando tutto ciò peggiorò solo il suo precario stato fisico.

– Ci puoi giurare.

Dean sogghignò, sperando di non sembrare soddisfatto com'era in realtà.

– Davvero?

Castiel si voltò verso di lui, era talmente vicino che ogni screziatura blu nei suoi occhi sembrava brillare di luce propria, e lo osservò attentamente.

– Sei bellissimo.

– Non lo dici solo perché sei ancora mezzo sbronzo?

– Ti dirò, da ubriaco sono più sincero del normale.

– E nemmeno Hitler ti costringerà a dire il contrario?

La sua espressione fremette, ma di qualcosa di diverso dalla paura, alla quale Dean non seppe dare un nome. Gli ci volle qualche secondo per rendersi conto che i loro nasi si stavano sfiorando, e quasi mezzo minuto per costringersi a mantenere la calma.

– Prima mi hai chiamato Cas. Lo sai che nessuno mi ha mai chiamato così? – borbottò con la voce incrinata dal torpore.

Dean assaporò quel contatto lievissimo finché non si spezzò e la testa di Castiel non scivolò contro il suo collo, strofinando i capelli scompigliati come un cucciolo bisognoso di coccole. Lasciò che si appoggiasse a lui e non riuscì a non trovarlo adorabile.

– E come ti chiamavano? Cassie? – chiese sarcastico, girandosi appena per incastrare l'angolo della mascella contro la testa dell'altro e stare più comodo, inspirando a pieni polmoni quel profumo che si sentiva nonostante una lieve traccia d'alcol e di fumo. Rimasero così per diversi minuti, finché Castiel non rispose.

– Bingo.

Dean ebbe un sussulto.

– Stai scherzando? – chiese, scostandosi.

– Ehi, eri meno sorpreso di sapere che sono frocio!

Il biondo non lo ascoltò, e si mise a ridere sconsideratamente. – Credimi, – disse, cercando di respirare. – Se mai dovessi chiamarti così, avrai il mio consenso di darmi il pizzicotto più doloroso del tuo repertorio. – si riavvicinò a lui e accostò la bocca al suo orecchio. – Ti svelo un segreto: non li sopporto.

Castiel trasalì al suono di quella voce roca che vibrava contro la sua pelle, sentendo per qualche secondo i pantaloni stringere sul cavallo.

Ehi, non ti ci mettere anche tu. Avrebbe voluto ordinare. Seppellì l'esaltazione donatagli dall'alcol e appoggiò la testa al muro, al cui contatto l'emicrania si sprigionò come un'onda sismica.

– Benvenuto nel Club. I miei fratelli me li hanno fatti detestare.

Breve pausa, qualche minuto di silenzio.

Pensò che probabilmente era il caso farsi una doccia, quindi chiese gentilmente a Dean se voleva tornare a casa o preferiva aspettarlo per chiacchierare ancora un po', ma lui si limitò ad osservarlo assorto, come se a malapena lo avesse sentito.

– Dean?

Si riscosse quasi violentemente.

– Oh, scusa. Se ti fa piacere, resto ad aspettarti.

Kein Problem.

Si alzò stando mezzo aggrappato al muro, poi diede una mano al ragazzo per fare lo stesso. Una volta in piedi, Castiel barcollò paurosamente fino a crollare letteralmente addosso a Dean. – Cas! Attento a dove svieni, potresti mietere la popolazione! – esclamò, non riuscendo a reprimere un mezzo sorriso.

– Bella popolazione degna del nome, ci sei solo tu.

– Già, ma io sono stupendo. Testuali parole.

Lo aiutò a rimettersi in piedi, sorreggendolo quasi di peso, mentre quello brontolava di non denigrare la sua poeticità da ubriaco, somigliando spaventosamente a suo zio Bobby in uno dei suoi burberi soliloqui post-whiskey.

– No, non la sto denigrando. Considerati fortunato, noialtri comuni mortali non affrontiamo le sbronze con tutta questa notevole capacità retorica. Pensi di farcela?

Castiel saggiò la stabilità delle sue gambe, ignorando il prorompente mal di testa che cominciava a trapanargli il cranio, e dopo qualche secondo di indecisione annuì.

– Perfetto, se hai bisogno di me chiama.

– So farmele da solo, le seghe. – grugnì l'altro, cominciando ad armeggiare con la fibbia della cintura senza nemmeno attendere che Dean se ne fosse andato. Alzò un secondo lo sguardo, incontrando quello pietrificato e colpevole del ragazzo.

– Ma che ti salta in mente...?

– A me proprio nulla, sono un rintronato sincero, e ho visto come mi fissi. – alzò gli occhi al soffitto, come se sperasse di leggervi il resto della frase che si era appena dimenticato. – Qualcosa mi dice che non sono l'unico a nascondere qualcosa.

Dean deglutì talmente forte che ebbe veramente paura di poter essere sentito. Castiel sembrava fare a malapena caso a lui, ma per un eterno secondo temette di dover dare spiegazioni. Cosa avrebbe detto?

Sì, insomma, pensavo di essere il solito scemo che dopo una vita a sbavare dietro alle ragazze si ritrova perso di un quasi perfetto sconosciuto che ho incontrato la sera prima e che ha appena assistito nello scaricamento del porto di Alcolandia. Una cosa normale, non ti pare?!

Fortunatamente per lui, non disse nulla di tutto ciò.

– Tu da ubriaco sei veramente strano.

Castiel ridacchiò.

– dico sul serio, un attimo sembri perfettamente normale, l'attimo dopo vaneggi.

– E' difficile essere me. – borbottò l'altro, sorridendo soddisfatto quando la cintura scivolò fuori dai passanti. – Dammi dieci minuti, se non mi rompo l'osso del collo.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


La concezione che Castiel da ubriaco aveva dei dieci minuti era di dubbia affidabilità. Dean si ritrovò a contemplare l'ipotesi dopo un quarto d'ora d'attesa seduto sul divano, a guardarsi attorno inebetito senza avere la benché minima idea sul daffarsi.

Sì insomma, lui non era il tipo che quando andava a casa di uno sconosciuto faceva tanto caso all'arredamento, di solito aveva altre cose a cui prestare attenzione.

Questa volta non analizzare i dettagli significava dover fissare una parete per parecchi minuti, cosa che non aveva molta voglia di fare, e comunque fu immediatamente così smanioso di dare un'occhiata in giro che la prospettiva fu scartata immediatamente.

Lì per lì tentennò un po': era comunque in casa d'altri, e se era vero che sia sua mamma che Ellen avevano calcato la mano sulla storia delle buone maniere ( il che era fin troppo vero), ebbe la decenza di pensarci.

Sì, come no, per un lasso di tempo vergognosamente breve.

Non senza lanciare occhiate alla tromba delle scale per controllare che Castiel non lo cogliesse sul fatto (o che non cogliesse un gradino e piombasse di sotto con un uso piuttosto anticonvenzionale delle scale), abbandonò il divano e percorse il perimetro del salotto, affacciandosi nelle altre stanze per avere un'idea approssimativa della geografia domestica senza dover per forza andare ovunque.

Il salotto era ampio e spazioso, i mobili stracolmi di libri e fotografie. Alcune erano particolarmente vecchie, una mostrava una coppia sposata molto giovane: la donna aveva un viso grazioso incorniciato dai capelli biondi ed un velo di morbido pizzo bianco, l'uomo invece era poco più alto, i capelli scuri erano accuratamente tirati indietro, gli occhi luminosi ed allegri, il braccio intorno la vita della moglie. Per un attimo Dean temette che si trattasse di Cas, la somiglianza era davvero troppo sconcertante, ma guardando meglio notò che il giovane nella foto aveva lineamenti troppo spigolosi perché potesse trattarsi di lui. Non avrebbe nemmeno avuto senso.

Proseguendo lungo le cornici, notò che molte di esse ritraevano i bambini che dovevano essere Castiel ed i suoi fratelli da piccoli. Una in particolare mostrava un uomo sulla sessantina in poltrona, con in braccio un ragazzino che doveva essere appunto lui intento a sorreggere sulle ginocchia un enorme atlante geografico. Il nonno guardava nell'obbiettivo, e sorrideva, il piccolo Castiel sembrava molto irritato dal fatto che non gli fossero più concesse attenzioni e cercava di richiamarlo tirandogli il cravattino, additando un punto imprecisato dell'America settentrionale.

Quella dopo, ritraeva lo stesso bambino sulla scalinata d'ingresso di un edificio che sembrava essere una scuola. Aveva un sorriso che andava da orecchio a orecchio, gli occhi lucidi per l'emozione e sembrava sul punto di esclamare: “Le foto falle dopo, voglio entrare!”.

Dean sorrise. L'immaginarsi la vita del ragazzo basandosi su quelle figure gli faceva pensare ad uno di quei bambini insolitamente tranquilli ai quali l'idea di imparare allettava più di una torta al cioccolato. Del Castiel adulto conosceva una versione spaventata e piena di segreti, incredibilmente sola segregata nell'autoimposizione del silenzio. Doveva essere stato davvero male per aver subito tale cambiamento.

E non era il solo, di cambiamenti: il piccolo Cas era un ragazzetto smilzo, decisamente diverso per portamento e corporatura al fratello Gabriel, alto e con le spalle larghe già a quindici anni (per quanto Dean potesse intuire).

A proposito di Mr. Comatoso... andava bene che da fatti si avesse una concezione un po' sfasata del tempo, ma ormai i dieci minuti si erano quasi triplicati.

Dean si sporse su per le scale.

– Castiel? Va tutto bene? – tese l'orecchio, ma non gli giunse nemmeno un suono attutito.

– Ehi, sto salendo! – annunciò, facendosi strada verso il piano di sopra. Gli si presentò un corridoio che dava su sei stanze, due per ogni lato, e terminava con un'ampia finestra. La luce dell'alba entrava timidamente fra le tende bianche, gettando flebili ombre sul pavimento.

Dean passò in rassegna gli spifferi sotto le stanze chiuse, cercando quello che emanava la luce di una lampada accesa. Una volta giunto davanti all'ultima sulla sinistra, attese qualche secondo. Quello era forse uno dei luoghi più intimi di Castiel, se doveva proprio entrarvi, lo avrebbe fatto con discrezione. Ascoltò attentamente, sperando di udire qualcosa oltre il legno della porta, ma ci fu solo silenzio. Bussò leggermente, sperando che qualcuno dall'interno rispondesse, ma non gli giunse altro che opprimente mutismo.

Forse il ragazzo si era addormentato. O forse era caduto, ma probabilmente lo avrebbe sentito, inoltre pensare al peggio gli dava una fastidiosissima sensazione di ansia che preferì evitare.

Bussò di nuovo, più energicamente, ma quando non ottenne nuovamente risposta, decise di farsi avanti.

– Castiel, va tutto bene?

Sgusciò all'interno ignorando il fastidioso cigolare di cardini, sentendo la sensazione opprimente di essere un intruso nella vita di qualcun altro. Per certi versi era così: la stanza del ragazzo parlava di lui, di come nonostante cercasse di nascondere sé stesso si lasciasse dietro una sottile scia di briciole di pane, sperando che qualcuno le notasse e, invece che gettarle agli uccelli, le tenesse con sé. Parlava di come amasse leggere, ma anche di come non sapesse decidere quale argomento lo interessasse davvero poiché in giro ce n'erano almeno sei o sette aperti. Le foto appese al muro senza un ordine meditato, un paio sul pavimento dove la puntina non era stata attaccata bene, l'armadio semiaperto, le coperte del letto stropicciate, la radio spenta ma spinta sino al bordo della scrivania come se la tenesse accanto a sé mentre la ascoltava per sentire meglio.

Penne e fogli sparpagliati intorno, una camicia spiegazzata sulla sedia, le bretelle distrattamente appese alla maniglia della finestra dischiusa. E in mezzo a quel trambusto, dove la scia di briciole finiva, Castiel era seduto con la schiena contro il letto, le gambe incrociate sul pavimento, a dargli le spalle.

Quando lo udì entrare, non ebbe nemmeno una movenza, rimase immobile al suo posto senza dare segno di averlo sentito. Poi, Dean si avvicinò incerto, e si accorse subito che stava tremando. Circumnavigò il letto con passo più deciso, chiamandolo un paio di volte senza avere nessuna risposta, si inginocchiò accanto a lui e lo scosse un po'.

Finalmente, il suo corpo ebbe un singulto e si voltò di scatto, mostrando gli occhi rossi, le gote di un pallore mortale, le palpebre spalancate all'inverosimile.

– Mi prenderanno. Mi prenderanno, e mi faranno del male. – disse, precipitosamente fino ad incespicare nelle sue stesse parole. Aveva il respiro accelerato, le nocche bianche strette sulle ginocchia.

– Cosa? Ma di che parli? – Dean si ritrovò un po' perplesso. Nell'attendere risposta vide il panico affiorare negli occhi turchesi di Castiel come un cadavere che emergeva dall'acqua, rendendoli contaminati da un sentimento che, Dean era sicuro, aveva cercato di reprimere troppo a lungo.

– I Nazisti, mi arresteranno, che cosa ho fatto. Santo cielo, cosa diamine ho fatto? – cercò di staccare la presa convulsa delle mani, ma le sue braccia tremavano così violentemente che rinunciò quasi subito. Voltò la testa di lato e fece vagare lo sguardo spaesato intorno a sé come se non riconoscesse nulla di quello che lo circondava, evitando il contatto visivo con il ragazzo vicino a lui.

– Cas, ascoltami. – Disse Dean, sperando di ricatturare la sua attenzione.

– Morirò di sicuro, no, no, no, io - che cosa ho fatto, se fossi stato normale non mi avrebbero preso.

– Castiel, voglio che tu mi guardi, e mi ascolti. – Dean non avrebbe voluto sbottare in quel modo, ma riuscì a richiamarlo verso di sé. – Intanto calmati. Sei ancora ubriaco, il mal di testa ti sta giocando un brutto scherzo. Non ti hanno preso, Cas, sei qui con me.

Il moro lo fissò confuso. – No... no, non sono ubriaco, ho solo male alla testa. Le stelle non volano più in direzioni assurde, e ho appena realizzato cosa ho fatto. Se fossi come i miei genitori mi avevano detto di essere, sarei ancora con loro, e non mi avrebbero preso. – stabilì, con risolutezza così inamovibile da convincere Dean che non era la sbronza a farlo parlare stavolta: si trovava nel bel mezzo di un attacco di panico. Il respiro affannato, il tremore delle spalle, lo stesso ragazzo che prima sembrava inarrestabile nelle sue idee e decisioni, ora era fragile, indifeso, scoperto.

Dean si spostò in modo da riuscire a guardarlo in faccia, piazzandosi davanti a lui e prendendogli il viso con le mani, in modo che volente o nolente, lo guardasse dritto negli occhi. Constatò quanto il suo cuore battesse forte premendo il palmo contro la vena del collo: una serie di ritmiche pulsazioni si susseguiva con velocità allarmante, tanto che il biondo se ne sentì quasi contagiato, e cominciò ad avere paura per lui.

– Cas. Cerca di calmarti. – disse, con imperturbabile tranquillità . – Tu, Castiel, tu non morirai. Adesso, fai un respiro profondo, e apri bene gli occhi. – il ragazzo deglutì e, dopo aver tenuto le palpebre serrate con forza per qualche secondo, le spalancò con poca convinzione, rivelando all'interno tutte le lacrime che volevano uscire e riversarsi all'esterno. Il cuore parve rallentare, ma fu una sensazione che Dean non era pronto a dare per ovvia. Non era un medico, e non sapeva esattamente come fare in quei casi, ma perlomeno sembrava sulla strada giusta. Castiel sembrava calmarsi, nel sentirlo parlare.

Lo fissò per qualche istante. – Guardami, guarda me, e nient'altro. Sei qui con me, Cas, non ti hanno preso, e non lo faranno nemmeno.

– Non puoi esserne certo. – obbiettò l'altro con voce rotta.

– In effetti no, ma adesso, adesso Cas, io sto parlando di ora, sei con me, nella tua stanza, e sei al sicuro. Non è successo niente, tu stai prendendo abbastanza male la sbornia, è una cosa che capita, e va tutto bene.

– Sono al sicuro. – ripetè Castiel, come se cercasse di trovare il senso della frase nella sua sintassi. La sua espressione si raddubbiò leggermente, piegò la testa di lato come un cucciolo smarrito.

– Con te, sono al sicuro. – collegò. Dean annuì leggermente.

– E se...

Nein, niente se.

– Ma...

– Niente ma.

Castiel rimase zitto.

– Non devi avere paura, e non devi nemmeno fartene una colpa se sei così. Tu sei perfetto perché sei tu e basta, e se i tuoi genitori ti volevano in modo diverso, che si fottano. Non hanno saputo riconoscere la loro fortuna a vederti crescere ogni giorno per diventare la persona che sei oggi, e non mi serve dire di conoscerti abbastanza da averne le prove. Lo so e basta.

Avrebbe voluto aggiungere altro, dire qualcosa in più sol fatto che i Nazisti non lo avessero preso, perché aveva ancora gli occhi lucidi ed il suo cuore batteva decisamente troppo forte, ma non ne ebbe modo. Prima che potesse rendersi conto di quello che stava per accadere (avrebbe potuto intuirlo, ecco), successe una cosa incredibile. Castiel sgusciò via dalla sua presa e lo baciò.

Il contatto fu incredibilmente casto, sebbene l'avesse attratto a sé quasi con violenza, come se in quel brevissimo lasso di tempo avesse improvvisamente deciso che no, non gli avrebbe fatto del male. Lo allontanò altrettanto bruscamente, quasi ad attribuirgliene la colpa, e lo fissò esterrefatto. Dean, dal canto suo, non ci aveva capito nulla. Si sentiva il viso in fiamme, la testa leggera, il torace troppo stretto per contenere il cuore in balia di pulsazioni frenetiche ed irregolari.

– Castiel... – balbettò, più incredulo dell'altro. Il ragazzo continuava a fissarlo senza avere la più pallida idea di cosa fare, bloccato al suo posto con ancora le mani sulle spalle di Dean e la tremenda sensazione che il panico stesse per incombere di nuovo su di lui. E adesso? Lo avrebbe consegnato? Gli avrebbe lanciato un paio di insulti intimandogli di non farsi più vedere? O se ne sarebbe andato via senza dire una parola?

Dean continuava a fissarlo basito, il che era anche peggio. Poi, con lentezza quasi preoccupante, gli cinse le spalle e lo abbracciò, pianissimo, costringendolo a staccarsi dal telaio del letto e abbandonarsi in avanti contro il suo torace ampio.

– Va tutto bene.– mormorò, vicino alla sua tempia. Castiel sentì la vibrazione di quelle parole nel petto contro la sua guancia, lasciando andare un piccolo sospiro. Quell'ulteriore shock gli aveva soltanto peggiorato l'emicrania, che ora era un martellare sregolato e pulsante dentro alla sua testa..

– Non lascerò che ti prendano. – proseguì, lentamente, come se stesse contemplando l'ipotesi mentre la esponeva. Non che avesse bisogno di una vera contemplazione, il suo istinto gli diceva che era giusto, e che Castiel aveva bisogno di qualcuno su cui contare. Chissà quanti anni erano che gestiva quell'ansia da solo, che prendeva scelte che avrebbero condizionato la sua vita senza chiedere consiglio o ausilio a nessuno perché aumentava sensibilmente il rischio di venire scoperto.

Dean pensò. In qualche assurdo modo, tutto ciò era quasi peggio che essere un ebreo. Era una ragione addirittura minore per essere considerato un criminale, e non si avevano marchi da portare sul braccio, non si avevano volti, né nomi, non si aveva nessun segno per cui essere contraddistinti, e l'apparenza era l'unica cosa a cui affidarsi. La pressione del sentirsi chiusi nel proprio corpo e doverlo modellare sotto gli sguardi altrui doveva essere tremenda. Il biondo sentì una fitta al cuore, il bisogno di prendere quel fardello e liberare le spalle di Castiel anche solo per pochi attimi. Voleva vederlo respirare, sentirlo pensare parole tranquille, bisbigli assonnati, e non urla angosciate che echeggiavano nel perimetro in cui stava schiacciando la sua anima.

– Castiel. – ammetterlo a sé stesso gli costava un bel po', ma gli tremava la voce per il nervosismo. Il moro sollevò un po' la testa, scontrando la fronte con il suo mento.

– Ahi. – borbottò, cercando di sdrammatizzare ed allontanare il senso di colpa dopo ciò che aveva fatto.

– Cas, baciami di nuovo. – avrebbe voluto che le sue parole suonassero con meno chiarezza, così da potergli chiedere di ripetere e sentirlo assaggiare meglio quella frase.

Il bacio di Castiel aveva il sapore della disperazione e del sollievo, le sue labbra lo sfiorarono con gentilezza, timore e Dean amò quel tocco, percependo appena le viscere contorcersi ed il cuore pulsare forte, mentre la sua bocca acquisì lentamente il ritmo dettato da quella dell'altro. Un ritmo che si fece quasi subito famelico e passionale, finché il biondo non si staccò,fissandolo con occhi lucidi.

– Ebbene, – riuscì a dire, con le palpitazioni forsennate che gli faticavano la parola – adesso siamo nella merda in due. Non provare a lagnarti. – Castiel, inaspettatamente, sorrise.

Fu probabilmente la prima volta che lo faceva con genuina sincerità.

 

Dean se ne andò, neanche a dirlo, quando fu assolutamente certo che Castiel non avrebbe tentato di appendersi per il collo per davvero in sua assenza. Il ragazzo sembrava più tranquillo, quasi sereno, e gli fece promettere che sarebbe passato al pub nel pomeriggio giusto come ulteriore garanzia di avere avuto successo con i suoi “metodi improvvisati per far smaltire gli attacchi di panico altrui”.

Sulla strada per il bar si ritrovò a correre come un forsennato rischiando di incespicare più di una volta. Quel tonto di Cas lo avrebbe fatto arrivare con il peggiore ritardo della sua vita, il che avrebbe dato ad Ellen una scusa sufficiente per lavargli la bocca con il sapone, ma non per licenziarlo. Lei e sua mamma erano davvero troppo simili.

Stava passando di fronte a casa del ragazzo più che per altro per passare a vedere come stava Charlie, che alla buon'ora si alzava anche lei per aiutare i suoi genitori, ma il suo cervello, subdolamente contro di lui da un paio di giorni, continuava a dirgli che non era solo per l'amica che si trovava da quelle parti. La fortuna aveva girato per lui, quella volta.

Nonostante avesse la testa completamente da un'altra parte, riuscì a non sbagliare strada, facendo irruzione al Paradies ritardando di tre ore abbondanti con i capelli completamente sparati dalla corsa, il fiatone e le gambe doloranti. Non fece in tempo a dire “buongiorno”, che Ellen lo aveva già afferrato per la collottola e lo stava trascinando di peso dietro al bancone con un diavolo per capello.

– Si può sapere dove diavolo sei stato?! – Dean sapeva che avrebbe voluto sbraitare col rischio di rompere i vetri (tanto avrebbe fatto ripulire tutto a lui), ma lei ebbe lo stesso la correttezza di sibilarglielo sottovoce.

– Posso ricordarti, razza di screanzato, che non solo dovevi aprire tu oggi, ma che sei addirittura sparito senza dire niente a nessuno?! Ci siamo preoccupati da morire, tuo padre stava per chiamare la polizia!

Se l'avesse fatto e mi avessero anche trovato, sarebbe stata una tragedia. Pensò il ragazzo, ricordandosi dell'angoscia di Castiel e della sua sclerata in stato di sbornia.

– Mi dispiace. Non era mia intenzione... – borbottò in un bisbiglio, assumendo l'aria più colpevole che gli riuscisse.

L'espressione irata di Ellen si addlcì. – ci hai spaventati. Cosa ti è successo? –

– Ho avuto un imprevisto, nulla di grave. Un amico aveva bisogno e l'ho aiutato. – il che non era nemmeno una bugia. Castiel era un amico (anche se dopo quello che era successo sembrava un termine un po' triste con cui definirlo), e aveva avuto bisogno di lui. Non doveva per forza dire che si erano baciati due volte, che il ragazzo aveva esposto la parte più segreta di sé senza nemmeno conoscerlo da così tanto tempo, no?

– E non potevi fare una telefonata per avvisare? – lo rimbrottò la donna, puntando le mani sui fianchi.

– Veramente non ci ho pensato... – Dean si massaggiò la nuca, preparandosi al resto dell'interrogatorio mettendo a disposizione qualche monosillabo e scusa stentata. Inaspettatamente finì lì, con Ellen che gli lanciava lo straccio indicando i boccali già usati nel lavandino, una carezza sulla guancia ed uno scappellotto. – Vado a chiamare i tuoi genitori per dire loro che sei arrivato tutto d'un pezzo. Non sparire di nuovo.

E con questo, Dean si mise all'opera, cominciando a lavare distrattamente le poche stoviglie già ammontate nel lavandino ripensando alle labbra di Castiel.

 

 

Ore 13:40

– Ma ti ha dato di volta il cervello?! – tuonò Sam, che nonostante fosse più piccolo di lui di quattro anni, quasi lo superava in altezza. Aveva le braccia conserte sul tavolo e lo fissava col suo cipiglio da professorino tipico di tutti i sapientoni, il rimprovero e la preoccupazione dipinti in faccia.

– Sammy, sul serio. Ho evitato per un pelo il predicozzo di Ellen, e mi sto preparando per quello del Generale Winchester. Vuoi veramente mettermi alla prova adesso? – minimizzò Dean, passandogli il piatto di uova che Jo gli aveva portato dalle cucine. Sam scosse la testa, ma non disse niente prima di aver preso un paio di bocconi, rimanendo pensieroso.

– Mi sono spaventato a morte. Pensavo... –

– Pensavi?

– Ma che ne so. Che avessi combinato una delle tue bravate. – disse infine, mettendosi in bocca un'altra forchettata sotto lo sguardo incredulo del fratello.

Dean scoppiò a ridere. – Oh, certo, come se fossi un criminale. A volte quello più grande sembri tu. E finisci quelle uova, Jo sta cercando di fare bella figura.

Anche Sam sorrise. – Certo.

– In ogni caso, non sono sparito per così tanto, no?

– Insomma, dovevi essere qui alle sei e sei arrivato alle nove e mezza! Abbastanza da far stare in pensiero la mamma e mandare nei matti papà. – riferì il più piccolo, prendendo un sorso d'acqua. Dean si irrigidì, fissandolo attentamente scostarsi i capelli castani dalla fronte come se non avesse detto nulla di importante.

– Cosa ha detto papà? – chiese, improvvisamente serio.

Sam posò cautamente la forchetta sul piatto vuoto, ringraziando Jo che dalle cucine era comparsa per sparecchiare il tavolo. – Ha cominciato ad urlare quando nessuno ti trovava da nessuna parte. È stato comunque gestibile.

– Non se l'è presa con te, vero?

– Perchè avrebbe dovuto? Non si parlava mica di Lawrence. – bofonchiò il più piccolo, distogliendo lo sguardo quando percepì il fratello scattare sugli attenti di nuovo.

– Non avrete mica litigato di nuovo per quello? – chiese Dean, riempiendo il boccale ad un cliente. – Non dovresti sempre ostinarti a parlarne.

– Ho appena detto di no. – Sam si agitò sulla sedia, appoggiando una guancia alla mano ed il braccio sul tavolo. – Ho diciannove anni, Dean. Prima o poi dovrò andarmene.

– Ma non devi farlo adesso. E soprattutto, non per forza nel Kansas. Che senso avrebbe avuto venire fin qui?

– Esatto! – sbottò il minore, alzandosi dalla sedia per confrontare il fratello faccia a faccia. – Non ha senso essere qui. Non capisci che è da qui che la guerra comincerà?

– Sam, non ci sarà una guerra.

– No, ovviamente.

– Infatti. Non ci sarà. – contestualizzò Dean scandendo le parole, per evitare fraintendimenti. – E smettila di assillare papà con questa storia. Lo hai sentito, la prossima volta ti butta fuori a pedate.

– Forse è anche meglio, avrei una scusa per tornare a Lawrence!

– Non se ne parla! – esclamò il biondo, facendo girare qualche persona nel locale. Da lì in poi abbassò la voce. – La famiglia resta unita, Sammy. Non con tutto quello che sta... – si bloccò alla fine della frase, dando le spalle al fratello per appoggiarsi al banco.

– Allora lo credi anche tu! – Sam fece il giro e lo raggiunse. Senza curarsi che lo vedessero.

– No, non lo credo. Non lo spero. – si corresse l'altro, incrociando le braccia sul petto con espressione grave, senza cercare lo sguardo del piccolo.

– Non capisco questa tua smania di tornare negli States.

– E' semplice, Dean. – spiegò, con voce tranquilla, stringendogli la spalla. – Voglio tornare a casa. Qui non mi sento a casa, nemmeno dopo tanti anni. A Lawrence c'è la mia, la nostra infanzia. E comunque, non ti ha mai insospettito il fatto che papà abbia insistito fino alla pazzia per andarsene da là, così, senza nessuna vera ragione? –

Dean ci riflettè. Il fatto di venire in Germania per cercare una vita migliore in un paese che a pochi anni da un conflitto non avrebbe sollevato altro polverone gli era sempre sembrato un incentivo sufficiente. Laddove c'era una rifioritura, poteva esserci una possibilità di vita migliore, aveva detto John.

Non che in Kansas se la passassero male. Anzi. Proprio per questo più volte Sam aveva espresso a Dean i suoi dubbi riguardo a quella che sembrava a tutti gli effetti una fuga. Da qualcosa o qualcuno che fosse, quei sospetti erano sempre e solo rimasti fra di loro.

– Ne abbiamo già parlato, e no, non ne ho idea.

Sam si grattò il mento, pensoso. Era una ragazzo alto e dinoccolato, con un'indomabile zazzera di capelli castani e gli occhi verdi tipici dei Winchester, ma a vederlo non gli avresti dato più di diciotto anni. Il suo viso era ancora quello delicato e pieno di espressioni di un ragazzino.

– Potremmo...

– No. Toglitelo dalla testa. Ti ci spedisce con un calcio nelle palle, nel Kansas, se provi a chiederglielo. Lo hai sentito, no? Non vuole saperne nulla.

Sam scosse il capo. – Partirò senza dirglielo.

– Ho detto – Dean gli si mise davanti e lo afferrò per le spalle, fissandolo dritto negli occhi. – che tu non vai da nessuna parte. Tutto questa testardaggine è esattamente da te, ma ora più che mai dobbiamo restare uniti, sono stufo di ripetertelo. Dannazione, ma che mai dovrai fare di così importante a Lawren... oh. – di nuovo, si bloccò sul finire della frase. Osservò attentamente lo sguardo di Sam scivolare sul pavimento e le gote arrossire leggermente.

– Non è solo perché qui non ti piace. C'è un secondo fine. – Constatò Dean, cominciando a sorridere. – Di la verità, Samantha.... – oddio, quando lo chiamava Samantha voleva sempre dire che ci andavano in ballo i sentimenti, e Sam odiava quando il fratello assumeva quell'espressione da pazzoide di chi ti ha appena letto l'anima. – è per Jessica, non è così?

Il minore rimase stupidamente in silenzio, senza riuscire ad emettere un suono.

– Porca puttana! – esclamò il biondo sbattendo un pugno sul bancone.

– Dean modera il linguaggio! – esclamò Ellen dall'altro capo del bancone, dove stava svolgendo le sue mansioni.

– Sì, come ti pare. Tornando a te, io lo sapevo che non poteva essere solo una cotta infantile! Cacchio, sono un fottuto genio.

Ma fu una voce diversa da quella di Sam a giungergli all'orecchio, stavolta.

– Su questo non ho dubbi.

Entrambi i fratelli si girarono, e le loro espressioni agli occhi di Castiel erano così contrastanti che il ragazzo dovette sforzarsi di non ridere. Sam lo fissava con curiosità e confusione. Dean era arrossito fino alla punta delle orecchie ed aveva sbarrato gli occhi (quei meravigliosi e vividi occhi verdi...) come se non si aspettasse di vederlo comparire così presto.

Il più piccolo fece vagare lo sguardo dal fratello al nuovo arrivato, che non sembravano molto propensi alla considerazione del mondo esterno, e diede un colpo di tosse.

– Oh, sì... ehm... Sammy, questo è Cas. È imputabile a lui il mio spaventoso ritardo di stamattina. – il ragazzo abbassò gli occhi, imbarazzato. – Ciao Dean. È un piacere conoscerti Sam, e chiedo scusa per quello che ho combinato...

– Ma figurati, sono contento di averti aiutato. –

Sam strinse con poca convinzione la mano a Castiel, fissandolo di sottecchi con malcelato interesse, poi per un motivo che Dean decise di non indagare, decise che era il momento di dileguarsi.

– Io e te non abbiamo finito. Dobbiamo chiedere a papà di quella storia. – e senza attendere proteste dal maggiore, si infilò la giacca ed uscì salutando Ellen e Jo.

– Dean, io... – cominciò Cas, ma un irato – Mi spieghi cosa ci fai qui?! – lo interruppe facendo girare altre persone verso di loro.

Il biondo uscì di volata da dietro al bancone e afferratolo per un braccio lo trascinò nel retrobottega, per non dover urlare di nuovo di fronte ai clienti. Castiel si lasciò guidare rischiando di sbattere contro l'angolo, ma lo schivò e per poco Dean non se lo ritrovò in braccio. Chiuse la porta dietro di sé più piano che potesse, conducendolo nel cortiletto esterno dopo il locale caldaia.

– Dunque, ti potrei ricordare che fino a otto ore fa eri in balia di una sbornia di proporzioni colossali e che stai ancora uno schifo? Perché sei uscito così presto? – Chiese, cercando di non sembrare troppo brusco.

– Tu mi hai detto di venire di pomeriggio. – ribattè Cas, piegando di nuovo la testa di lato, dando segnale di essere alquanto confuso.

– Non così presto! Avrai un mal di testa pazzesco, ora dovresti essere a casa a riposarti. Accidenti a me che ti ho detto di... umpf!! –

E di nuovo, di nuovo, Castiel lo zittì con un bacio. Quando lo lasciò andare, Dean era più rosso di prima. – E piantala di fare questo! Mi fai sentire una ragazzina.

Il moro rise, passandosi la lingua sulle labbra per umettarle. – Sì, ho mal di testa, ma visto che potevo camminare ho deciso di farmi vedere subito... non dirmi che non sei contento. –

Oddio, adesso era veramente molto vicino, lo fissava un po' malizioso, ma in fondo ai suoi occhi c'era anche serietà e dubbio.

– Sei un adorabile stronzetto. E ripeto. Dovresti tornare a casa e dormire. Perché sei pallido come un cadavere, hai ancora gli occhi rossi e stai tremando.

Castiel si imbronciò all'improvviso, e divenne la cosa più adorabile che Dean avesse mai visto. Lo fissò arricciare le labbra stizzito ed abbassare lo sguardo, riempire le guance d'aria e corrugare la fronte. Era ancora un mistero come quel ragazzo fosse riuscito a conquistarlo, e per quanto gli seccasse ammetterlo, cominciava veramente a comportarsi come una ragazzina adolescente. Diavolo, non poteva arrossire così di fronte a Sam, quel ragazzo era un sensitivo della malora ed avrebbe potuto percepire tutto ciò ad occhi chiusi. Doveva darsi un contegno.

Ma che contegno è contegno, insomma, chissenefrega. Lo afferrò per il bavero del trench e fece collidere le loro labbra in un bacio famelico, fatto di morsi e lingue calde che si avvinghiavano l'una all'altra e di gemiti, respiri mancati, battiti del cuore saltati, i loro corpi premuti l'uno sull'altro. Le labbra di Castiel avevano lo stesso sapore di qualche ora prima, i suoi respiri lo stesso ritmo, e Dean si innamorò di tutto questo più di prima. Il moro sembrava baciarlo come se si conoscessero da tempo, come se sapesse come morderlo, come stringerlo a sé, delicatamente, con dolcezza e decisione.

Il biondo dovette staccarsi controvoglia. – Ora, fila a casa, e prenditi tre giorni di letargo.

– ma...

– Niente ma. Detesto fare la mammina apprensiva, ma sei un termosifone e mi dispiace doverlo dire, ma mi distrarresti dal lavoro.

Castiel scoppiò a ridere, ma non fece lamentele e si avviò sulla strada di casa

 

 

 

 

BUONASERA A TUTTI

ebbene, sono tornata sulla long perché strano a dirsi, ho esaurito le idee e le ispirazioni per le flashfic. Dovrete avere pazienza.

Intanto non ho più capitoli preparati quindi la prossima pubblicazione sarà un po' in là, e in ogni caso devo inventarmi qualcosa perché ho perso la scaletta che mi ero fatta per tenere la storia sulla “”””””linea narrativa””””””” giusta.

Bacionissimi!

Recensite!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


1940, novembre – Varsavia (Polonia)

 

Dean osservò i corpi cadere durante la corsa, scivolare al suolo grattando il marciapiede duro contro la pelle. I proiettili arrossarono le camicie inamidate, il tonfo sordo delle ossa che rovinavano per terra riempì il silenzio buio. Il primo agente della Gestapo, quello che aveva buttato giù la porta, si guardò intorno soddisfatto, giocherellando con il cane della pistola esibendo un ghignoinfantile, da dietro le tende poteva vederlo bene. L'uomo udì lo scalpiccio alle sue spalle e si voltò. Il ragazzino, che come un topo che scappa dal gatto correva lungo la parete alla ricerca di un anfratto ombroso nel quale rifugiarsi, fu illuminato dalla torcia.

Il secondo agente si fece avanti, e con glaciale noncuranza sparò l'ultimo colpo. Il bimbo, che era in procinto di scalare la grondaia e appiattirsi dietro un davanzale, mollò la presa sul ferro e cadde di schianto al suolo, accompagnato dal rumore di ossa frantumate.

Dean perse ogni concezione della realtà. Mantenne un'espressione apatica, troppo sconvolto per poter dire qualcosa, guardandoli rimontare tutti e sette sulla macchina con cui erano arrivati e sgommare via, passando sui cadaveri come foglie morte in mezzo alla strada.

Charlie era rannicchiata contro il suo petto, le mani sul viso, le lacrime sgorgavano fuori prive di ritegno. Non piangeva forte, aveva emesso un urlo che il ragazzo le aveva soffocato nella bocca, poi aveva solo preso a singhiozzare. Piccole scosse le sollevavano le spalle, il corpo minuto sembrava rimpicciolirsi ogni secondo.

Dean rivide l'intera scena almeno due volte nella propria mente: le SS che comparivano, ora di cena e niente fuori posto erano le circostanze più improbabili che li portassero nel Ghetto, erano smontati, avevano fatto irruzione nella casa di fronte e costretto quelle quattro persone a scendere. Ordinato loro di correre, avevano atteso che si fossero allontanati qualche metro prima di impallinarli come pernici. Il bambino era stato l'unico ad aver preso una direzione diversa.

 

 

Attese un'ora prima di andarsene. I genitori di Charlie gli strinsero le mani colmi di gratitudine, gli carezzarono le guance e si raccomandarono che avrebbe fatto attenzione nel tornare indietro. Dean abbracciò la sua amica e le baciò più volte la fronte, convincendosi che non avrebbe pianto per darle un po' di supporto. Poi infilò la giacca sistemando la fascia bianca con la stella di Davide, calò sulla fronte il cappello della Polizia Ebrea del Ghetto e uscì. L'aria sapeva ancora di sangue. I corpi piegati erano lì dove il marciapiede di ciottoli sconnessi li aveva accolti come una tomba, nessuno che ancora aveva avuto il coraggio di accendere le luci e guardare fuori. Lui era l'unica forma vivente che, ancora degna del nome, si muoveva con le mani al muro per non dover dare nell'occhio.

Mantenne il passo deciso, un portamento normale come se sapesse esattamente quale fosse la sua mansione.

Percorse il perimetro del muro di cinta, squadrando guardingo il filo spinato che sorrideva in riccioli spinosi pronto ad azzannare chi entrasse nelle sue spire, e si presentò al cancello d'ingresso. L'agente, sugli attenti accanto alla porta, lo guardò storcendo il naso e sorridendo beffardo.

– Non è un po' presto per andare a puttane?

– Non è mai troppo presto, e nemmeno troppo tardi. Heil Hitler. – rispose Dean, completamente neutrale. Il tizio sfoderò un tintinnante anello di chiavi e lo lasciò passare. La ferrovia, che divideva il posto in due parti, se attraversata portava alle fabbriche ed alla seconda zona residenziale. Il guaio di passarla era che i Tedeschi avevano la precedenza, quindi bisognava attendere in coda che il viavai di treni cessasse, anche per quattro ore dietro fila. L'unico momento della giornata in cui i mezzi erano completamente assenti era dopo le dieci di coprifuoco, e dal momento che le fabbriche chiudevano, nessuno oltrepassava mai a tale ora.

Quello chiamato il Grande Ghetto, dove la polizia Ebrea ed i proprietari delle fabbriche risiedevano, era decisamente un postaccio, ma molto più abitabile del Piccolo Ghetto. Le strade, senza persone morte ad interromperne un profilo già di per sé sconnesso, erano sporche e bagnate della recente pioggia. La differenza era che i muri non recavano macchie di sangue, e le persone che vi abitavano non soffrivano così tanto la fame da dover rubare agli altri in pieno giorno, e tutti avevano un lavoro assicurato. C'erano alcuni pub, e le case erano più spaziose ed accoglienti, con acqua calda e materassi puliti. Molte avevano addirittura quattro o cinque piccole stanze, Dean le aveva viste.

Attraversò tramite la via principale tutta la zona ricca, che di dimensioni raddoppiava quella povera ma conteneva un quinto delle persone di quest'ultima, e raggiunto il cancello che dava sullo spiazzo dove tutti erano stati riuniti, riprese a costeggiare il muro.

Dovette camminare lungo un intero lato prima di raggiungere la porta secondaria. Minuti intensi, durante i quali il suo cuore galoppava nel petto in preda all'ansia e all'adrenalina (che Dean aveva imparato, erano l'accoppiata peggiore di tutti i tempi). La suddetta porta era una pesante lastra di metallo chiodato e rinforzato, di dimensioni tanto piccole che Sam avrebbe dovuto abbassare la testa per non sbattere la fronte sulle travi di mattoni.

Attese una manciata di secondi prima di procedere. Se qualcosa fosse andato storto? Anche se erano già tante volte che lo faceva, ognuna era come la prima. Bussò tre volte. Attese una pausa, contando fino a cinque. Poi altre due volte. Altri cinque secondi. Un ultimo battito. Immediatamente, il clangore ferreo lo fece sobbalzare e d'istinto si tuffò di lato, dietro alla parete, con palpitazioni velocissime e sonore come tamburi.

– Dean-o? Sei tu? – Il ragazzo sentì sciogliersi le membra. Si fece avanti e saltò al collo di Benny, stringendolo con foga. L'altro ricambiò la stretta, mollando il fucile nell'erba e tenendolo contro di sé.

– E' andata, anche oggi. Ce l'hai fatta, Dean-o. – disse, prendendolo per le spalle e scuotendolo leggermente. Il biondo lo fissò nella sua divisa verde da SS, l'elmetto sulla testa e l'aquila appuntata sul petto. Il peggior farabutto della terra. Gli sorrise e lo abbracciò di nuovo.

– Charlie? Stanno tutti bene? Sei passato dai Verhagen?

Dean dovette deglutire più di una volta per poter rispondere in modo comprensibile.

– I Verhagen stanno bene, gli ho passato il tuo messaggio. Hanno tutti un permesso di lavoro, quindi sono salvi. Charlie è okay. Abbiamo assistito ad uno sterminio, un plotone di sette è arrivato e ha fatto fuori un'intera famiglia. – buttò, tutto d'un fiato. Benny si tolse il cappello e lo gettò al suolo, pestandolo.

– Che merda. Senza motivo, immagino.

– Così sembra.

Rimasero in silenzio, senza avere molto altro da dirsi. Dopo il muro, Varsavia era addormentata in una calma pacifica, le ombre inghiottivano ogni buco e non c'era nemmeno un cane a strisciare per la fame. Tutto un altro mondo, specie da quando erano arrivati i tedeschi.

– Sammy?

– E' ancora a Lawrence, ma perlomeno è al sicuro. Sai... sta per sposarsi.

Benny fischiò. – Eccolo il tuo ragazzo! – Dean si concesse una risata, facendo piccole nuvolette con boccate d'aria. Si guardò attorno, ma nessuno l'avrebbe visto.

– E voi quando intendete andarvene?

– Mamma è preoccupata perché il viaggio è lungo, e dobbiamo muoverci un bel po' prima di lasciare la Germania.

Benny si grattò la testa, gettando un'altra occhiata al suo cappello come se gli intimasse con lo sguardo di non muoversi da lì. – Per te arrivare fin qui in Polonia non è stato difficile...

– Ho un documento falso, e costano un occhio della testa. – lo interruppe subito.

– E i tuoi non sono iscritti al partito, vero?

Dean si sedette contro al muro, strappandosi la stella di Davide dal braccio e cacciandosela in tasca. – No. Questo potrebbe fregarci.

– Ma almeno avete i biglietti, non possono dirvi nulla! Il traghetto non ha particolari restrizioni, fate armi e bagagli! A Charlie ci penso io, come sempre, no?

Il ragazzo più giovane si strinse nel cappotto, appoggiando indietro la testa. Chiuse gli occhi ed assaporò l'aria umida, satura di pioggia.

– Abbiamo solo sei biglietti.

Benny parve confuso. Fece un rapido calcolo, contando i Winchester e gli Harvelle, interrogandosi su quale fosse il problema. Sulle prime dovette davvero scervellarsi, poi sentì la verità colpirlo come un pizzicotto.

– Amico...

– Io senza Castiel non vado da nessuna parte. Perciò è inutile discuterne.

Benny sbuffò, passandosi una mano fra i capelli radi. – Gli amici vanno e vengono, Dean, non è così importante. È in gamba, se la caverà, no?

– E' importante, lui verrà con me. Non mi importa a quale costo. – Cominciò subito a scaldarsi. Avevano già avuto quella conversazione, e più di una volta era stato tentato di dirgli la verità. Sul punto di farlo, però, si ritraeva nel suo guscio. Lui doveva proteggere Cas, e Cas doveva proteggere lui. L'omosessualità era un crimine non solo secondo i tedeschi, ma secondo tutti. Nessuno avrebbe capito.

Nemmeno un brav'uomo doppiogiochista come Benny.

Quella volta, fu diverso.

– Dean, ragiona. È intelligente, e di persone ne conoscerai tante! Dannazione, ti comporti come se stessimo parlando di tua moglie!

Il ragazzo digrignò i denti. – Taci. Non sai niente.

– No, infatti. Perché non mi illumini?

Dean avvampò, e non per il freddo. Si strofinò le mani l'una contro l'altra, le dita intirizzite presero qualche attimo di calore che però si spense subito.

– Gliel'ho promesso.

Benny alzò un sopracciglio. – Come, scusa?

– Gli ho promesso che lo avrei portato a Lawrence. Che lo avrei portato in America. – mormorò, sorridendo a quel bel ricordo. Il profumo del grano, che in un mare giallo e croccante inondava la pianura nascondendoli in flutti sussurranti, gli salì alle narici.

Nemmeno Lawrence è nulla di troppo eclatante, ma è tranquilla... Cavolo, vedrai che ti piacerà!

Ricordava di aver detto quelle parole ed aver sorriso imbarazzato, perché lui e Cas si erano appena conosciuti e lui lo invitava a fare progetti porgendogli il suo giubbotto per scaldarsi. Ricordava di essergli andato vicino come per baciarlo e invece gli aveva sollevato la zip.

Benny interruppe il flusso di ricordi con una risata di scherno.

– Certo, come una di quelle coppiette felici. – lo fissò, in attesa della negazione. Dean invece non si mosse.

– Felici... sì, siamo felici. – disse, più rivolto a sé stesso che all'amico. – Spaventati. Ma anche molto felici. È paradossale.

L'altro lo fissava, gli occhi sbarrati.

– Sei serio?

– Come non mai. – improvvisamente Dean capì come doveva essersi sentito Cas la mattina che aveva sputato il rospo. Quella in cui si erano baciati la prima volta. Avvertì lo stesso panico pompargli nelle vene. I muscoli si tesero, ma si costrinse a rimanere impassibile.

– Amico... tu? Un succhiacazzi?

Dean non rispose.

– Non posso crederci. – asserì, e gli diede le spalle, mostrando il fucile che aveva raccolto e si era appeso alla schiena. Il biondo ebbe seriamente paura che glielo avrebbe scaricato nelle budella.

– L'hai presa peggio di me.

– Figlio di puttana.

– Ricordo di non essermi mai fatto un problema al riguardo.

– Stupido idiota. Cretino! Quando pensavi di dirmelo, quando non sarei più stato in grado di aiutarvi?! – Sbraitò, incurante del baccano che la sua voce provocava echeggiando nella via.

Dean, finalmente, sollevò la testa.

– Pensavo ci avresti consegnati. Me e Cas.

Benny lo fissava come si sgrida un bambino che ha raccontato una frottola. – La cosa non mi fa piacere, Dean-o, ma sei il mio migliore amico. Non potrei mai farti del male, o arrecarti dolore. Troveremo una soluzione.

Dean si prese la testa fra le mani, versò qualche lacrima. – Lo amo troppo. Non sopporterei che gli venga fatto del male.

– Lo so.

 

 

Due ore dopo, Dean era sul treno diretto a Francoforte. Le ruote sferragliavano sotto di lui e il paesaggio scorreva veloce fuori dal finestrino. Nello stesso scompartimento, c'erano una donna anziana e due bambini, tutti e tre ebrei. I piccoli dormivano profondamente, uno sdraiato accanto alla madre e l'altro accanto a Dean, con la testa vicino alla sua mano. Il ragazzo non aveva potuto fare a meno di notare quanto pallidi e magri fossero.

Si sfilò la giacca e la stese sopra a uno dei due, facendo attenzione che fosse ben coperto sino al mento, poi tirò giù la borsa dalla retina sulla sua testa e sfilò altri due maglioni. Uno lo usò per coprire l'altro ragazzino, si accoccolò sotto il calore di quella coperta improvvisata, e l'altro lo porse alla donna, che lo aveva fissato tutto il tempo con sguardo esterrefatto. Lo prese timidamente e se lo stese sulle ginocchia, con gli occhi lucidi.

– Perchè fa questo?

– Siamo in guerra. Quel poco che abbiamo, dobbiamo dividercelo, no?

Lei sorrise, ogni sua ruga che trasudava gratitudine.

– Deve aver avuto un buon insegnante, ragazzo.

Dean pensò a Castiel, ai suoi libri, ai suoi occhi, alle sue labbra. Ma pensò anche a Charlie, chiusa nel Ghetto, a Benny, costretto a rischiare ogni giorno la sua vita, a suo fratello che voleva sposarsi, a un domani che nemmeno era certo di avere.

– Ne ho tanti, sa?

 

 

 

Angolo dei ritardatari

ciao a tutti!! scusatemi il tremendo buco nero che si è creato fra un capitolo e l'altro ma me la sono presa più comoda del previsto.

Come avrete notato, questo capitolo è molto più breve degli altri, è come un trampolino che ci catapulterà nel vivo e, ahimè, anche nell'angst della storia.

Ho in mente tante cose per questa storia, e fra Primo Levi, Anna Frank, la Ladra dei Libri e il Pianista mi sto mettendo in pari con gli avvenimenti storici.

Scusatemi per la crudeltà dell'inizio. Ma si sa, siamo in guerra.

Un bacione a tutti!!

YALA

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Castiel dovette leggere la stessa frase tre volte di seguito. Quando giunse a tale conclusione, e che non era sufficientemente concentrato sulla lettura da afferrare al volo il significato di ciò che aveva sotto agli occhi, posò il libro sulle ginocchia e trasse un profondo respiro. Nel giro di cinque minuti, aveva guardato l'orologio in tutto almeno dodici volte, e il risultato sempre deludente lo portava ad spostare l'attenzione dal libro alle lancette come de non sapesse cosa lo attraesse di più.

Doveva calmarsi. Dean sarebbe tornato presto, in un'ora sarebbe andato a prenderlo in stazione come al solito e gli avrebbe chiesto come stava Charlie. Quella ragazza gli stava talmente tanto a cuore che persino lui provava una sorta di amore fraterno verso di lei. Aveva avuto modo di conoscerla, due anni fa, ed era stato un incontro particolare.

Lui aveva sorriso amichevolmente, lei lo aveva stritolato in un abbraccio che per poco lo uccideva. Gli era piaciuta sin da subito.

Dunque, il ragazzo aveva cose in più delle quali preoccuparsi, come se quelle che già aveva non fossero più che sufficienti: era sommerso in un denso mare di inquietudine che se non lo annegava, si limitava a spingerlo a destra ed a sinistra con i suoi flutti vertiginosi.

Riprese il libro e rilesse la frase, concentrandosi sulle parole: Fai della Morte la tua certezza; sia la morte che la vita diventeranno più dolci... “Tante grazie, Shakespeare”.

Esattamente ciò di cui Cas necessitava di pensare. Perlomeno, le parole avevano smesso di danzare forsennatamente sulla pagina. Chiuse di scatto il libro, massaggiandosi le tempie.

Da quando suo nonno James gli aveva lasciato quella casa, aveva sempre vissuto per conto suo, ma solo da quando stava con Dean si era accorto di quanto il suono del vuoto fosse profondo, denso di pensieri e, se non stava attento a come lo ascoltava, claustrofobico. In quel momento era come se l'aria lo stesse premendo in una piccola porzione di spazio, lì sul divano, come se tentasse di sommergerlo e chiuderlo in gabbia.

Ripose il libro nello scaffale, facendo attenzione che fosse nel posto giusto, in ordine cronologico con gli altri dello stesso autore, e sistemò quello che Dean, come suo solito, lasciava nell'angolo della terza mensola, posato sulla copertina, con il Samulet infilato dentro. Il cordino nero sbucava dalle pagine, pendendo giù tirato dal peso del ciondolo logorato dagli anni. Ripensò ad un pomeriggio di qualche mese prima.

 

Non mi abituerò mai al fatto che a te non piaccia leggere. – Cas lo fissò con finto rimprovero, Macbeth in mano con il dito infilato fra le pagine e l'immancabile sopracciglio alzato.

Non è che non mi piace. – si giustificò il biondo per l'ennesima volta, sedendosi accanto a lui. – Solo che non lo faccio tanto spesso. È mio fratello il topo di biblioteca. – Castiel rise a quell'ostinata obiezione. Dean si era accoccolato con la fronte sulla sua spalla, richiedendo le attenzioni del compagno.

E' così bello, leggere. – Spiegò quest'ultimo, accogliendolo con un braccio intorno alla vita. – Per me che ho sempre dovuto nascondermi, i libri sono una fonte di ispirazione. È dove vado quando niente di tutto ciò che c'è qui mi piace, o quando mi annoio, quando ho bisogno di sapere che esistono altri posti in cui esplorare, cose da vedere. –

Dean ascoltò le sue parole, il modo in cui le lettere sfuggivano dalla sua bocca in una litania bassa, sognante, finché le ultime non scemarono in un vento leggero sussurrato fra i suoi capelli.

Ne hai uno preferito?

Cas dovette pensarci qualche secondo. – Conosci Hans Christian Andersen?

Dean rimase in silenzio, scuotendo leggermente la testa.

E' un autore danese, ha scritto tantissime fiabe. Sono cresciuto ascoltando mio nonno che me le leggeva, quando per le feste venivamo qui. Aspetta un secondo. – senza alcun preavviso, scattò in piedi, ribaltando Dean che finì sul divano con un grugnito contrariato.

Ehi! – protestò, stravaccandosi con la testa sul bracciolo e fissando Castiel che nel pieno di un'epifania si metteva a cercare fra i libri del salotto. Gli piaceva vederlo così trepidante, emozionato come un bambino finalmente felice di potersi dilungare su qualcosa che amava col cuore. I suoi occhi azzurri saettavano fra dorsi e titoli, spessori, ordini e cronologie, finché le dita che accarezzavano tutto quel sapere non si fermarono su una copertina verde scuro.

Eccolo. – ritornò verso il divano e gli fece alzare la schiena, poi invitandolo ad appoggiare la testa sulle sue gambe.

Vuoi leggermi una fiaba?

Esatto.

Il bacio della buonanotte è incluso? – Castiel rise sommessamente, sfogliandolo alla ricerca del titolo che gli interessava. – Tu rilassati. Lascia fare a me.

Dean obbedì e si sistemò meglio sui cuscini, attendendo che il moro cominciasse.

 

– “C'erano una volta venticinque soldati di stagno, tutti fratelli tra loro perché erano nati da un vecchio cucchiaio di stagno. Tenevano il fucile in mano, e lo sguardo fisso in avanti, nella bella uniforme rossa e blu. La prima cosa che sentirono in questo mondo, quando il coperchio della scatola in cui erano venne sollevata, fu l'esclamazione: «Soldatini di stagno!» gridata da un bambino che batteva le mani; li aveva ricevuti perché era il suo compleanno, e li allineò sul tavolo. I soldatini si assomigliavano in ogni particolare, solo l'ultimo era un po' diverso: aveva una gamba sola perché era stato fuso per ultimo e non c'era stato stagno a sufficienza! Comunque stava ben dritto sulla sua unica gamba come gli altri sulle loro due gambe e proprio lui ebbe una strana sorte.” –

 

Dean avrebbe voluto chiudere gli occhi, ma non ci riuscì. Invece, li tenne sbarrati, stregato completamente da quel suono così dolce e sereno che era la voce di Castiel, l'enfasi che metteva nel leggere gli avvenimenti rendeva l'ascolto un balsamo per il suo udito, come se con quelle poche parole venisse trasportato in un posto lontano. Le immagini cominciarono ad accendersi intorno a lui, mentre si immaginava le sventurate sorti di quel povero soldatino di stagno con una gamba sola e tanto innamorato, mentre l'acqua del temporale lo portava via e soccombeva ai pericoli portati da chi era più grande di lui. La serenità fu affiancata da una tagliente malinconia, per come il coraggioso soldatino attendesse tenacemente il ritorno dalla sua ballerina, e per come entrambi finirono fra le fiamme lasciandosi dietro un lustrino ed un cuore di stagno.

Allora? Che ne pensi?

Dean lo fissò, senza riuscire a dire nulla.

Ti senti bene?

Sai, mi ricordi un po' il soldatino. Perché anche tu sei sempre stato in balia di forze più grandi di te, e hai sempre tenuto duro, non ti sei mai arreso. –

Cas lo accarezzò sulla guancia con un mezzo sorriso, stendendosi vicino a lui in modo che potesse appoggiare la testa al suo ventre, stavolta. Pensò che forse aveva ragione, ma un altro cupo pensiero sopraggiunse nella sua mente e percepì il suo cuore perdere un paio di battiti.

Questo fa di te la mia ballerina, per caso? – Dean gli diede un pizzicotto nel fianco, e Castiel sussultò.

Se ci tieni tanto, allora sì. – l'espressione di Cas mutò in un batter d'occhio, così velocemente che il ragazzo credette di esserselo immaginato.

Finchè quel bambino capriccioso di Hitler non ci getta entrambi nel forno. – commentò acido. Si pentì subito di averlo fatto, perché anche Dean smise di sorridere e lo strinse con più bisogno a sé. – Non devi aver paura Cas. Potrebbe esserci un finale diverso. Deve esserci. – Castiel annuì poco convinto, cercando qualcosa con cui tenere il segno del libro, finché Dean con una serie di scomodi contorsionismi non si sfilò la collana. – Mettici questo, così non devi piegare la pagina. – Cas lo prese fra le dita, osservando il ciondolo.

Ma... cos'è?

E' un Samulet. Sammy me lo regalò tanti natali fa, quello in cui nostro padre era al lavoro e questo era destinato a lui. Mio fratello non lo ha mai perdonato per non esserci stato.

Castiel lo fece dondolare davanti al viso, come se cercasse di ipnotizzarsi per non dover pensare ad altri argomenti cupi. – E posso usarlo come segnalibro?

A-ha. Basta che me lo restituisci, ci tengo molto.

Castiel lo infilò accuratamente fra le pagine dopo averlo rigirato fra le dita, appoggiò il libro sul tavolino di fronte a loro, e si rilassò usando entrambe le braccia per tenere Dean stretto a sé contro il suo petto. Il biondo si fece tutt'altro che pregare e strofinò la guancia inspirando il profumo della camicia del compagno. Rimasero così per parecchi minuti, immersi nel loro silenzio.

Era passato più di un anno e mezzo da quel giorno d'autunno in cui, per pura casualità, era incappato nello strano tizio con la testa fra le nuvole che era Cas, e ogni giorno era come quello: inaspettato, piacevole, particolare. Il doversi nascondere, fare le cose di nascosto, il dover pianificare tutto per incontrarsi senza far insospettire nessuno non era solo spaventoso: era eccitante. Il ragazzo dagli occhi blu aveva dato una svolta alla sua esistenza, e sia nel bene che nel male lo aveva cambiato. Sapeva tirare fuori il meglio di lui, con nessuno era mai stato così rilassato in vita sua anche per le poche ore che potevano passare insieme. Aveva estrapolato da quel tipetto tutto lentiggini e sbruffonaggine una dolcezza infinita, che nemmeno lui era certo di avere.

Ti amo, Cas. – biascicò, con la faccia premuta sul suo sterno. Il moro si mosse un po', tirandosi a sedere per l'ennesima volta e invitandolo verso di sé.

Con le mani sulla sua nuca e le gambe incrociate attorno al suo corpo, lo baciò lentamente come se fosse l'ultima volta che poteva toccarlo. Dean piegò la testa di lato e rispose, schiudendo le labbra per approfondire il contatto.

 

 

Quel piacevole flusso di pensieri e ricordi fu interrotto così improvvisamente che Castiel sentì lo stomaco piombare verso il basso. Dei pugni percuotevano la porta d'ingresso, ormai chissà da quanto tempo, e sembravano niente affatto amichevoli. Il ragazzo scattò in piedi con il cuore a mille, e incespicando nei suoi stessi passi si precipitò ad aprire.

Un paio di poliziotti tedeschi lo fissavano a metà fra il torvo e il divertito, uno alto e magro, l'altro basso e anche più esile e raggrinzito, se possibile. Quest'ultimo prese parola:

– Buonasera, signor... – si sporse di lato per dare un'altra occhiata al campanello con un sopracciglio alzato. – Novak. Lei non è di queste parti, giusto?

Castiel decise che per nessuna ragione al mondo si sarebbe scomposto, e si sforzò di mantenere parvenze sicure nonostante avesse i battiti martellanti nel petto. – Effettivamente no. A cosa devo la visita? – Dannazione, fa che non mi tremi la voce...

– Tutti gli ebrei e gli oppositori morali e politici devono essere portati via. Chiunque li nasconda in casa propria è colpevole di tradimento al Führer. Il nostro è solo un controllo.

Cas annuì sommessamente. – Accomodatevi. Cercate pure, ma sappiate che in casa mia non troverete nulla.

I due passarono, scostandolo in malo modo come se tutto fosse di loro proprietà, e cominciarono a ficcanasare in giro. Castiel li seguiva ovunque, sperando con ogni cellula del suo corpo che in giro non ci fossero prove per incriminare la presenza di Dean. Ma da quando in qua Cas ha fortuna?

Il pian terreno fu lasciato con scarsi risultati, e nel seminterrato non trovarono altro che polvere e il vino di suo nonno, ma fu più avanti che Castiel si ritrovò più di una volta con le spalle al muro.

– Questo chi è? – il più alto dei due, che si era messo spudoratamente a curiosare fra le sue cose, alzò davanti a lui una foto di Dean. Quella che Cas teneva con sè quando partiva per andare a trovare Charlie stando via per giornate intere e consecutive, quella che lo inteneriva sempre perché era mezzo immerso nella neve imbacuccato come se venisse dritto dalla scandinavia, con il naso arrossato ed un sorriso smagliante. Castiel era nella foto, di fianco a lui in procinto di mettere un piede in fallo e sparire sotto alla coltre bianca, quindi stava ridendo spontaneamente quasi più di Dean, mentre tenendosi per mano, cercavano di non trascinarsi a vicenda di sotto. Charlie aveva scattato quella foto, ed era anche l'unica persona al mondo che sapesse di loro due.

– Ehm... mio fratello. – improvvisò. L'agente corrugò la fronte.

– Non vi somigliate affatto.

– Sì, insomma, fratellastro, ecco. Vive qui con me da quando è iniziata la guerra.

Altra prova incriminante. Il letto, a due piazze, era completamente disfatto, ad indicare chiaramente che due persone vi avevano dormito. Castiel sentì il mondo sgretolarsi sulle sue spalle, dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà perché non gli si inumidissero gli occhi e non cedesse all'ondata di panico.

Il tutto peggiorò quando l'agente parve notare quel dettaglio.

– E ci vivete solo voi qui? – Fece un breve cenno alle coperte stropicciate.

– Ehm... no, ecco... qui dormono lui e la sua fidanzata. Si sono trasferiti entrambi. – disse, sapendo di non essere suonato troppo convinto. Il poliziotto guardò il suo compare, che aveva aperto i libri spostandoli dalla scrivania, mosso gli armadi per vedere se c'erano passaggi nascosti e bussato su ogni asse del pavimento, e si fissarono per un minuto.

– Non ho trovato ninnoli da donna in giro. Dove sono adesso?

Castiel non aveva mai dovuto mentire, o perlomeno mai in situazioni così rischiose, semplicemente perché era così bravo a nascondersi che era ormai invisibile per chiunque gli stesse intorno. E raccontare balle non era sempre stato il suo forte. Quella volta non c'era solo in ballo la sua vita, ma anche quella di Dean, e doveva stare attento. Pensò velocemente, sperando di non insospettirli.

– Sono partiti stamattina presto per andare a trovare i nonni di lei, ma non hanno sistemato, a quanto pare. Non ero salito a vedere, non ancora. – disse, con noncuranza.

I poliziotti non parvero convinti. – Castiel Novak, giusto? Ho lavorato agli elenchi per un po' – borbottò sospettosamente il piccoletto, strofinandosi il mento mentre apriva un'altra stanza. – E un nome particolare come il tuo me lo ricorderei. Non sei iscritto al partito o sbaglio? Come mai? – la sua voce si faceva sempre più aggressiva e ringhiata mentre lo tempestava di domande, alle quali Castiel doveva rispondere con bugie di ogni sorta per salvarsi la pelle senza lasciar trapelare l'ansia che gli strizzava i polmoni come una mano gigante attorno alla gabbia toracica.

– No, in effetti non sono iscritto.

– Questo ti mette in posizione critica, ragazzino. Nascondi qualcosa?

– No, certo che no! – replicò, troppo precipitosamente. Si ricompose subito e spiegò con l'espressione più rilassata e gioviale del suo repertorio. – Visto che sospettavo una guerra ho preferito attendere a iscrivermi perché volevo terminare gli studi da medico, in modo da essere al massimo dell'efficienza se fossi stato mandato al fronte. Un anello debole compromette l'intera catena, e non vorrei essere io quello che la spezzerà. –

La cosa divertente era che Cas assolutamente non avrebbe mai fatto il medico. Lui era uno scrittore, inventava storie, non curava i malati e, di sicuro, non i soldati feriti di Hitler. Comunque, entrambi parvero essersela bevuta.

– E dove compi i tuoi studi?

Oddio, e adesso che faccio?! Cas sentì il pavimento mancargli sotto ai piedi. Non conosceva nessunissima università che avesse facoltà di medicina, non si era mai interessato alla cosa, e adesso un argomento banale come quello lo avrebbe rovinato. Avrebbe distrutto l'unica cosa bella che gli fosse mai successa, e sarebbe rimasto a guardarla sfaldarsi e dilaniarsi in un bagno di sangue.

Fortunatamente, uno spirito d'improvvisazione che nemmeno lui sapeva di avere, prese parola al posto suo: – A Berlino, ma sono tornato oggi. Con tutto quello che sta succedendo, preferisco procedere per conto mio. Il mio fratellastro mi aiuta.

Dopodiché, procedettero nella loro ricerca con gli stessi rigorosi criteri, spostavano i mobili, bussavano sulle assi di legno, controllavano negli armadi. Quando non ebbero più anfratti in cui guardare, decisero di levare le tende e lasciare Cas alle sue occupazioni, procedendo a passo di marcia e con sguardi cupi e pensierosi giù per le scale.

– Non nasconderai nessun ebreo, ragazzino – Commentò uno dei due, – Ma non pensare che io creda esattamente a tutto quello che ci hai detto. – dopodiché tallonò il compagno, montarono sulla macchina e sgommarono via.

Cas chiuse la porta. Il suo cuore batteva troppo forte perché potesse sentirlo, o forse era solo spento e non sarebbe mai più tornato a funzionare. Le mani gli tremavano incontrollabilmente, la gravità lo trascinò sul pavimento in preda a scossoni convulsi.

Li avevano presi. Sarebbero tornati, avrebbero cercato di nuovo, li avrebbero seguiti.

Riuscì a barcollare fino alla stanza sua e di Dean, dove si buttò sul letto e inspirò il profumo del compagno dalle lenzuola, piangendo sommessamente. Diavolo, stava andando tutto così bene fra di loro, era ovvio che sarebbe successo qualcosa di brutto a macchiare il loro quadretto, come una maledetta virgola fuori posto che pregiudica tutta la frase. Ora erano in un pericolo mortale per colpa sua, perché era un fottuto codardo incapace di mentire come si deve, anche per salvare il ragazzo che amava.

Si passò una mano fra i capelli, sul viso sudato. La stanza era in disordine, le assi del pavimento segnate dove avevano spostato il guardaroba, i libri per terra, il materasso spostato. In tutto il trambusto mancava solamente una cosa: la loro fotografia. Quella non c'era.

Cas incassò lentamente il colpo, mentre il suo cervello collegava ipotesi e fatti, parole e azioni, e le sue mani si muovevano febbrilmente sul comodino, sotto la lampada, nel cassetto, dietro alla radio.

Magari era caduta, era scivolata via.

Ribaltò l'intera camera, cercò ovunque, setacciò palmo a palmo ogni centimetro, la testa pesante e la paura che montava come acqua bollente dentro di lui, ma sin dall'inizio sapeva cosa era successo, sapeva perfettamente qual'era il punto: la Gestapo aveva le loro facce, il suo nome, e molti sospetti.

 

 

Dean amava viaggiare, probabilmente se avesse potuto guidare uno dei gioiellini che riparava all'officina dove lo avevano assunto, si sarebbe divertito come un matto. Spesso fantasticava di prendere Cas, suo fratello, qualche spicciolo, il libro di Andersen e girare in lungo e in largo a caccia dell'orizzonte più lontano. Privi di responsabilità e costrizioni.

Da quando suo padre aveva intimato a Sam di andarsene, dopo una furiosa litigata, e lui aveva raggiunto la sua Jessica e le sue aspirazioni, non lo aveva più sentito. Riteneva che stesse bene, il ragazzo era in gamba, ma era comunque il piccolo Sammy, e preoccuparsi per lui faceva parte dei suoi istinti.

Scese dal treno che era l'unico passeggero, in una stazione fumante e grigia di locomotive nere, le nebbia che si incrostava nel metallo delle pensiline e le luci che minacciavano di fulminarsi ogni cinque minuti. Quel posto era a più di mezz'ora da Colonia, ma c'era di buono che non ci girava mai nessuno e il l'unico controllore era quello sul treno che arrivava. I macchinisti scendevano, si davano il cambio, e la banchina restava vuota nel suo gelo grigio e irrespirabile.

Percorse un breve tratto verso l'ingresso, osservando le pesanti locomotive che strisciavano via arrancando sulle ruote intrappolate dalla brina, mentre prendeva velocità e minacciava di fargli volare via il cappello. Si tolse l'indumento e lo cacciò nella tasca interna del cappotto spesso e pesante, per poi infilarsi il suo basco imbottito fino alle orecchie.

Uscì dalla stazione e si inoltrò nella campagna circostante completamente innevata: l'inverno sembrava essere decisamente in anticipo sulla tabella di marcia, e la coltre pallida gli arrivava quasi al ginocchio. Nella penombra della sera, riconobbe una figura inerpicarsi alla meglio in tutto quell'impedimento ghiacciato, riuscendo comunque a correre con discreta rapidità. Anzi, Castiel sembrava scappare come rincorso da una qualche belva feroce tanto si avvicinava in fretta, e quando fu più vicino, Dean potè leggergli l'angoscia sul suo viso.

Prima che riuscisse fargli domande, o anche solo fermarlo, il ragazzo gli saltò al collo facendo finire entrambi nella neve, affondando fino al terreno duro e ghiacciato, avvinghiati in un abbraccio.

– Gesù Cas... Amore, sono contento di vederti, ma così imbacuccato pesi un accidente! – lo aiutò a sollevarsi un po', abbastanza da ritrovarselo a cavalcioni sul petto, e Cas lo baciò come nel suo flashback, smanioso di ritrovare il calore e la sicurezza che quelle lebbra gli infondevano, con disperazione e bisogno. Dean si issò sui gomiti e aprì la bocca entusiasta.

– Castiel, sei rossissimo... – constatò appena si separarono. – perché correvi così tanto? Sembri sconvolto!

Cas riuscì a rimettersi in piedi, e lo aiutò a fare altrettanto.

– Siamo dei sospettati. – rivelò, con la voce rotta. – Era questione di tempo, Dean. Sono venuti a casa e hanno iniziato a rovistare, fare domande. Hanno preso la nostra foto, e hanno detto che non si fidavano di me. –

Dean sentì i muscoli della propria faccia gelarsi, poi mutare dall'incredulità alla paura, alla confusione, alla rabbia.

Gli occhi si inumidirono subito, dovette tenere duro per qualche secondo per non lasciarsi scappare una lacrima, ma alla fine la goccia salata e calda si staccò dalle sue ciglia e scivolò sulla guancia. Le braccia abbandonate lungo i fianchi come se non sapesse come usarle si sollevarono lentamente e attrassero Castiel in un abbraccio caldo.

– Ne usciremo, okay? Troveremo una soluzione. Insieme. – mormorò, contro il suo collo, passandogli le mani sulla schiena mentre lui gli accarezzava la nuca.

– Era questione di tempo. – ripetè Cas, più volte, come una lenta cantilena incastrata nella sua voce, ormai le uniche parole sensate che riusciva a pronunciare.

– Era questione di tempo...

 

 

 

HEEEY a tutti!

Come state? Sarete sorpresi di vedermi aggiornare così presto ma avevo questo capitolo pronto e non ho saputo aspettare eheh. È stato angoscioso scriverlo, ho immaginato la scena nella mia testa così tante volte che ho dovuto metterla giù prima che me ne venisse un'altra magari peggiore (anche se peggio di così...)

Spero tanto che nonostante tutto vi piaccia, questa storia è tanto difficile da scrivere quanto è divertente! (non sono sadica, è che mi piacciono tutti gli intrecci eccetera... ve ne arriveranno delle belle!!)

vostra YALA!

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Le cose degenerarono con lentezza quasi esasperante. La guerra avanzava a falcate ampie ed ogni mattino nuovo i fronti si spostavano vertiginosamente sulla cartina come rivoli di olio, intanto che l'Intesa dava battaglia sfrenata alla Germania sempre più persone venivano crudelmente trascinate fuori dalle loro abitazioni e messi in sudici vagoni merci diretti nei campi di lavoro o di sterminio.

Per qualche tempo, Dean continuò a fingersi un membro della Polizia Ebrea di Varsavia per accertarsi che nonostante tutto Charlie stesse bene, mentre sia lui che Cas, per quanto sembrasse sospetto, si iscrissero al partito nazista. Cominciarono a partecipare a tutti gli eventi della della comunità, dalle manifestazioni in piazza in onore di Hitler agli incontri con i sostenitori del Fuhrer, brindando in onore dell'uomo che li stava condannando all'inferno fingendo immensa gratitudine.

Ovviamente, la famiglia notò il radicale cambiamento nell'atteggiamento del figlio, e per quanto cercassero di scoprire dov'era il problema (perché era evidente che qualcosa non andava), lui restava muto come una tomba, reagendo sgarbatamente ai loro tentativi di aiuto.

La situazione gli andava stretta. Ormai le occasioni in cui lui e Cas potevano vedersi era durante le assemblee cittadine e da soli solo per un paio d'ore per settimana. Tuttavia, ringraziavano il cielo che ancora non fossero stati chiamati al fronte: una piccolissima percentuale degli uomini iscritti al partito venivano fatti rimanere come guardie dei Ghetti e membri della Gestapo.

Fu quello il destino del maggiore dei Winchester.  Il regalo del suo compleanno il gennaio successivo, quando la neve, il ghiaccio ed il freddo rendevano insostenibile stare troppo all'aperto, fu un'aquila d'oro da appuntare sulla nuova tenuta: cappotto nero, lungo, guanti di pelle, pistola, elmetto, frusta frangiata, divisa verde militare. Solo toccare tutto ciò gli faceva male al petto.

Decisamente, il compleanno peggiore della sua vita. Prestò giuramento nella piazza grande di Colonia, insieme ad altri quattordici novellini come lui, sotto lo sguardo degli abitanti disse che avrebbe messo tutto il suo impegno e contributo nell'aiutare a trasformare il mondo in un mondo Ariano e pulito, il mondo di Adolf Hitler. Con il braccio alzato, la mano verso il cielo, le lacrime che incastrate dov'erano dietro le palpebre gli bruciavano gli occhi, promise la lealtà e la moralità nazista, promise il popolo prima della sua vita, promise il sangue prima dell'amore. Giurò l'obbedienza incondizionata e che ne sarebbe stato orgoglioso. Ma non c'era nulla di orgoglioso nell'essere uno dei cani del diavolo, uno dei bastardi  mandato a prendere le anime destinate all'inferno. Il peso della pistola e della frusta erano insostenibili.

Nella folla, Castiel lo osservava atterrito, il volto pallido e gli occhi lucidi, condividendo silenziosamente il suo dolore. Non applaudì. Non disse una parola. Semplicemente, si unì  a Dean nel ritorno verso casa, camminando fianco a fianco, le spalle che si toccavano. Attesero di essere usciti dalla città per prendersi per mano e proseguirono così in un silenzio morto, senza avere nulla da dirsi. Quello per cui si sarebbe dovuto parlare era davanti ai loro occhi, nelle persone, nelle strade, in quella stupida divisa. Non c'era nulla da dire che non fosse già evidente, quindi rimasero zitti.

Cas lo spogliò delle nuove vesti, gli tolse il titolo, il compito, la coltre di pioggia mista a giuramenti costretti che aveva addosso, gli baciò il viso così tante volte che si sarebbe sentito stupido a contarle tutte.

A Dean vedere quel verde scuro e polveroso, la svastica rossa, procurava fitte lancinanti al cuore. Da una parte era una buona copertura, giusto perché per forza di cose non era stato mandato al fronte e quindi lo avrebbero solo tenuto d'occhio più da vicino. Se si sarebbe comportato bene, come ci si aspettava da un agente in erba e dedito alla salvaguardia della purezza del suo paese, avrebbero lasciato in pace sia lui che Castiel. Ed era l'unica cosa che gli interessava, che Cas e la sua famiglia stessero bene. Non c'era altro fine che lo avrebbe portato a fare il doppiogiochista come Benny: se quello era il prezzo che gli toccava pagare per ottenere la tanto agognata sicurezza, allora si sarebbe rimboccato le maniche.

Tuttavia, il suo subconscio, che più che mai sembrava essere contro di lui portandolo a fare scomodi quesiti circa l'utilità dell'intera situazione, non faceva altro che sottolineare le incertezze riguardo al genere di compiti che in veste di poliziotto gli avrebbero fatto fare.

Ovviamente, era una profonda stilettata tutte le volte. Come se il chiodo che già aveva fisso in testa  venisse spinto in profondità, le domande e la paura persistevano con insistenza e l'orrore lo corrodeva.

In quei panni, garantire l'innocenza di Castiel e far scemare tutti i dubbi per quanto concerneva la sua ambiguità sarebbe stato facile, gli bastava un mandato di perquisizione, far finta di curiosare in giro come già era accaduto e portare un rapporto in bianco sulla scrivania del capo. Ma se avesse calcato troppo la mano, i medesimi dubbi si sarebbero ritorti contro lui stesso e i suoi genitori. Le cose erano incredibilmente delicate, la precisione richiesta millimetrica, e visto che si trattava di giocare di psicologia, anche difficili; Dean aveva sempre trovato complesse le persone e difficili da capire, quindi figurarsi come sarebbe stato ingannarle era un modo tutt'altro che divertente per passare le lunghe ore di ronda notturna che fino a quel momento gli erano state imposte.

Alasteir, il capoufficio a Colonia, sembrava averlo preso in simpatia.

– Sembri un ragazzo sveglio. – gli disse, il giorno di metà in cui i soliti quindici erano stati chiamati a colloquio per ricevere un grado nel sistema ed una ricollocazione sulla mappa. – Penso che saresti sprecato, al fronte. E comunque, conosco tuo padre, so in che direzione circola il sangue di voi Winchester. La cocciutaggine è roba vostra, e se ti riempono le palle di piombo come agli altri bravi soldatini in Russia o in Francia, non ci servirai a un granché. – seduto alla scrivania, il mento alto e gli occhietti scintillanti di sottile malignità, continuava a studiare ogni suo centimetro alla ricerca di un probabile tassello storto nel mosaico, ma visto che Dean lo fissava con implacabile indifferenza rinunciò e si concentrò sulle scartoffie sparpagliate davanti a sé. – Dunque, che progetti hai per questa tua permanenza nelle nostre squadre, Dean?

Il ragazzo non riflettè nemmeno, rispose semplicemente un – Servire il mio Paese – con voce piatta e meccanica, come un copione ripetuto troppe volte alla stessa maniera.

– Di certo, non posso tenerti a fare la ronda in questo buco per il resto della guerra. Avresti la stoffa per il campo. Dachau, Mathausen... Auschwitz, a te la scelta. Basta che fai qualcosa. – Alzò appena lo sguardo, celando un ghigno sotto i baffi studiando il cambiamento della sua espressione. Dean tentò con ogni cellula del suo corpo di rimanere impassibile, ma qualcosa, forse un movimento impercettibile della mandibola, lo tradì e Alasteir potè ridere di gusto. – Che hai? Cambiato idea? –

il Winchester non si scompose. – Ho la mia famiglia qui.

– E allora? I tuoi lavorano, sapranno mantenersi da soli e avranno una bocca in meno da sfamare. Altre complicazioni?

Castiel... Si sentì subito in colpa per aver pensato a Cas, perché non era una complicazione, bensì l'uomo che amava. Ciò non toglieva che col senno di poi essere un agente della Gestapo dove non poteva proteggerlo sarebbe servito a ben poco.

Riflettè velocemente sulla situazione, cercando di non dare a vedere il panico e l'ansia che gli montavano in petto, ignorando lo sguardo indagatore di Alasteir.

– Quanto tempo ho per pensarci?

L'uomo, magrissimo nella divisa smessa di un suo precedente superiore, si appoggiò alla scrivania con fare diplomatico, come se fosse stato pronto ad intavolare una serie di proposte tra cui avrebbe dovuto farlo scegliere. Per qualche attimo, Dean si sentì rassicurato dalle probabili opzioni che forse gli avrebbe esposto, ma sin dalla prima parola che gli rivolse, capì di aver fatto un tremendo buco nell'acqua.

– Temo che tu abbia capito male. L'unica cosa a cui devi pensare ora è a salutare la tua famiglia, perché lunedì prossimo verrai trasferito in uno dei campi che ti ho elencato, e sì, potrai sceglierlo tu. È l'unica cosa che potrai decidere. Ti stavo prendendo un po' in giro.

Dean avrebbe preferito che la terra gli si aprisse sotto i piedi e lo inghiottisse senza dargli il tempo di emettere un lamento, piuttosto che venire costretto ad una tragedia simile. Abbandonare tutto e andare in quell'inferno era la cosa che più lo aveva tormentato, la prospettiva di venire mandato lontano da casa, dai suoi genitori e da Castiel gli era gravata sullo stomaco come un macigno incandescente sul punto di sciogliersi e squagliargli organi interni, ossa, e tutto il resto. Ora che quella preoccupazione si era materializzata, lì concreta come un ceffone in pieno viso, si sentiva attonito, incredulo. Quasi incapace di crederci. Aveva pensato talmente tanto che sarebbe accaduto che si era quasi convinto del contrario.

E ora, la sensazione era quella di avere un bambino illuso e spaventato al posto di sé stessi, guardarsi in uno specchio e capire quanto si è stupidi e fregati nel proprio piccolo vestito fatto di carne che ritrae solo dolore, tristezza e rabbia.

Diede un paio di risposte monosillabiche, si congedò svogliatamente sotto lo sguardo sempre indagatore di Alasteir e, con il cuore ancora martellante, si incamminò verso casa.

Una parte di lui insisteva che la prima persona da cui doveva andare era Castiel, ma il buonsenso replicava che se ne avesse parlato con lui, il giovane avrebbe obbiettato fino alla nausea che dovevano trovare una soluzione, e scappare o nascondersi che fosse, non era il piano migliore date le circostanze.

Fu solamente nel salotto di casa, ancora vuoto perché i suoi genitori erano al lavoro uno all'officina e una al Paradies con Hellen, che riuscì a sedersi e riflettere con calma.

Perdere il controllo delle tumultuose emozioni che si davano battaglia nella sua testa era controproducente, quindi dovette costringersi ad una calma ed un controllo forzati mentre combatteva l'impulso fisico di camminare freneticamente avanti ed indietro.

Dovettero passare quasi due ore prima che trovasse una soluzione che gli consentisse il successo.

Sapeva che, per le emergenze, i suoi genitori tenevano nascosti nella gamba cava di una sedia tre biglietti del traghetto, che sarebbero rimasti validi fino alla fine dell'anno, di sola andata verso gli Stati Uniti. Il piano si delineò lentamente nella sua testa, semplice e pericoloso, ma era molto meglio di tutte le altre possibilità che al momento aveva. L'unica cosa che gli serviva, era un complice dall'altra parte.

Velocemente, tirò fuori carta e penna, e come se pensasse da settimane intere al genere di discorso che voleva fare, le parole sgorgarono dall'inchiostro senza che nemmeno avesse bisogno di soppesarle troppo.

 

 

Caro Sammy,

spero che tu stia bene, e che lì da voi le cose siano migliori che qua. Non ti racconterò tutte le vicende politiche che di questi giorni sono sulla bocca di tutti, lo saprete anche voi da che parte tira il vento sotto il naso di Hitler.

Mi dispiace anche di non essere stato presente al tuo matrimonio: so quanto ci tenevate, sia tu che Jess (a proposito, salutamela tantissimo), ma i biglietti della nave costano un occhio della testa e ne sono avanzati solamente tre.

Mettiti comodo, fratellino, perché dovrò raccontarti un po' di cose. Probabilmente, la tua opinione su di me cambierà radicalmente leggendo queste parole, ma spero comunque che non cancelli gli anni che abbiamo passato sostenendoci a vicenda e che tu possa aiutarmi nonostante tutto.

Sai che non sono bravo con i sentimentalismi, sei tu che ti chiami Samantha o no? Ma sarò diretto: sono praticamente due anni che io e Castiel stiamo insieme. In una coppia. Sì, insomma, hai capito, no? Tipo tu e Jess, o mamma e papà, solo che noi non siamo sposati e se lo diciamo alle persone sbagliate finiamo fucilati neanche avessimo sputato in faccia a Hitler. Probabilmente so cosa stai pensando, e ti avverto che non mi importa. Potrete dire quello che volete, ma io amo Cas come poche persone ho avuto l'onore di amare in vita mia, e queste persone siete tu, mamma e papà. Non penso che qualcuno mi abbia mai stravolto l'esistenza come ha fatto lui, e sento il bisogno di proteggerlo.

Piccola premessa, io non potrò venire negli USA. Una pattuglia di ispezione ha trovato un paio di prove che incriminavano la nostra relazione, e per dissipare i dubbi abbiamo dovuto iscriverci al partito nazista. Essendo gli ultimi arrivati, non ci hanno mandati al fronte, ma io mi ritrovo incastrato a fare la guardia in un campo di lavoro, mentre Cas non è stato ancora collocato. Con il senno di poi, disertare sarebbe molto peggio che restare qui, vi metterei tutti in pericolo e non abbiamo bisogno di altri problemi. Quindi finché non si calmeranno le acque, io farò il mio lavoro, da bravo soldatino, mentre il mio biglietto lo prenderà Cas. L'unica cosa che ti chiedo, Sammy, è di accoglierlo con il rispetto che merita. Non dategli nessuna colpa, è un ragazzo stupendo e nonostante questo schifo di guerra ha reso la mia vita migliore di quello che sperassi. Ti prego di essere comprensivo, e far sì che si senta a suo agio.

Ne ha viste tante, ha passato la sua vita a nascondersi e da quando l'ho conosciuto condividere tutto ciò con me gli ha permesso di respirare veramente per la prima volta da anni. Non chiedermi come sia successo, fra di noi intendo. Non lo so nemmeno io, ho dovuto fare i conti con una realtà nuova e che prima non avevo mai considerato. È difficile, ma Castiel rende tutto più bello.

Oddio, mi sento una ragazzina in piena crisi ormonale, non riesco a credere di aver detto tutto quanto. Sero che tu capisca e che voglia aiutarci, e se non vuoi farlo per lui, fallo per me. Non sopporterei che accadesse qualcosa a nessuno dei due.

Non preoccuparti per il sottoscritto, starò bene. Appena otterrò un congedo mi farò vivo. So che dalle vostre parti le cose sono un po' meglio che qui, quindi ti prego, non rifiutare di aiutarmi. Se voglio garantire un futuro degno di questo nome sia a me che a lui, dovrò fare questo sacrificio, e chiederti di impedirgli di tornare indietro. È testardo come un mulo, e di certo ci proverà.

Prometto che non ti metterò più i bigodini di mamma mentre dormi.

A presto,

Dean

 

p.s: i nostri genitori non sanno nulla. Ti prego non lasciarti scappare tutto questo, sai bene quanto tradizionalista sa essere nostro padre, e dovrete essere uniti più che mai. A litigare sul destino del mio ragazzo non caverete un ragno dal buco. Sappi solo che amo quell'uomo e non permetterò nemmeno a papà di fargli del male.

 

 

Non la rilesse nemmeno. Passò la lingua sulla parte adesiva della busta, incollò un paio di francobolli e la infilò nella tasca del cappotto nuovo, quello nero da poliziotto, così appena sarebbe uscito l'avrebbe imbucata. Decise che a Castiel non avrebbe detto nulla, se non all'ultimo momento, quando ogni protesta sarebbe girata a vuoto nello spazio fra loro e non avrebbe avuto altra scelta se non salire sulla nave e mettersi in salvo.

Sapeva quanto terribile quel giorno sarebbe stato.

Ma del resto, anche Dean, con quel lavoro stabile, sarebbe stato in salvo. Gli bastava restare un po' nell'ombra, non dare nell'occhio, fare con discrezione quello che gli veniva detto e tutto sarebbe filato liscio.

Questione di mesi, purtroppo forse anche degli anni, ma alla fine valeva la pena aspettare. Avrebbe atteso tutta la vita.

Aveva quel sentore acido ma gustoso, che continuava a persistere in ogni cellula del suo corpo come se qualcuno gli avesse marchiato a fuoco quella consapevolezza nella mente. Era con Castiel che voleva passare il resto della sua vita. Era quello giusto. Non avrebbe permesso a nessuno di separarli. Non per troppo tempo.

Deciso a non piangere, quella sera spiegò il piano ai suoi genitori, che rimasero in un silenzio assorto durante tutto il suo discorso. Disse loro del nuovo incarico e dell'importanza che Cas andasse con loro, inventandosi una qualsiasi scusa patetica, abbastanza semplice da far sì che se la bevessero. Loro non ebbero argomenti con cui obbiettare, e decisero che sarebbero partiti una settimana dopo il primo giorno di lavoro di Dean.

 

 

Castiel sapeva che probabilmente aveva esagerato, ma l'idea che Dean dovesse andare in un campo di concentramento per mantenere l'integrità delle loro bugie lo turbava. Non avrebbe dovuto arrabbiarsi con lui e urlargli che se avesse puntato di più i piedi, sarebbe sceso ad un compromesso equo con quell'Alasteir.

Quei pensieri turbolenti lo distrassero dal cammino e per poco non mise un piede in fallo nella neve. Sentì il suo corpo cadere di peso sul manto soffice e, con le mani che affondarono completamente nel freddo gelido, avvertì il terreno duro e ghiacciato sui polpastrelli e sulle ginocchia doloranti.

Riuscì a rimettersi in piedi a fatica, si pulì le mani sul cappotto ed incassò la testa nelle spalle per il freddo. Inspirò a pieni polmoni. Decisamente, una passeggiata per sentirsi meglio non era proprio come quella che stava facendo. Le mani erano rosse per la temperatura che negli ultimi giorni era precipitata sotto lo zero.

– Fanculo. – borbottò, passandosele sulla faccia.

– Fanculo la guerra, Hitler, la Gestapo e gli esseri umani per essere così propensi a prendere decisioni rovinose. – Completò Dean, che probabilmente lo aveva seguito fino a quel momento. Aveva il viso rosso, che fosse per la litigata o per il freddo Cas non sapeva stabilirlo. Probabilmente per entrambi, anche se il biondo non sembrava più arrabbiato con lui. I suoi occhi trasudavano tanta tristezza chiusa nelle iridi verdi, le ciglia erano ancora bagnate e la fronte un po' corrugata, ma era tutto qui. Sembrava solo triste. Non arrabbiato.

– Fanculo il mondo. – Gli andò dietro, porgendogli la mano, che Dean prese fra le sue guantate di lana e strofinò per farla tornare calda.

– Oh, mi piace questo gioco. Dunque, fanculo anche il fottuto sistema e la mente chiusa delle persone. – in un qualche modo, riuscì a strappargli un sorriso. Lo circondò con un braccio.

– Scusami per poco fa, Dean. – disse, lasciandosi abbracciare.

– Fanculo le tue scuse, avevi perfettamente ragione. Sono solo un codardo. – soffiò, con una corposa nuvoletta di fumo bianco. Cas si scostò un po' bruscamente. – Dean Winchester, tu sei tutt'altro che un codardo. E anche se lo fossi, ti amerei comunque.

Dean lo osservò con malinconia infinita, troppa perché potesse essere contenuta in quel volto bellissimo. Gli occhi di Cas erano ancora un po' lucidi, ma erano sempre così blu, di un blu che lo spiazzava ed ammaliava, lo incatenava in uno sguardo indagatore ed interessato, denso di una curiosità infantile e dolcissima.

I loro visi si avvicinarono finché le loro labbra non si decisero ad incontrarsi. Avevano lo stesso sapore del primo giorno, della prima volta. Ed esattamente come la prima volta assunsero subito un ritmo più bisognoso, più passionale, finché le lingue non scivolarono l'una sull'altra riscaldandoli come un fuoco interiore.

– Ti amo, okay? Non ti lascerò mai da solo. Non per davvero. – gli disse Dean una volta che si fu allontanato.

 

 

Cas era a Varsavia quando accadde. Dean era partito da qualche giorno, sentiva la sua mancanza come si sente un sasso nella scarpa, un qualcosa di fastidioso e che si vorrebbe togliere, ma che nel suo caso doveva rimanere lì fin quando il tempo non l'avrebbe tolto.

Visto che era rimasto lui, si era auto incaricato di passare a trovare Charlie ed aggiornarla sul putiferio che si stava scatenando intorno al ghetto, dove le notizie arrivavano incerte e ritardatarie e le persone ignare di tutto vivevano in un costipato terrore.

– Dunque quell'imbranato si è fatto intortare e lo hanno spedito a Dachau? – chiese la ragazza, alzando un sopracciglio con aria minacciosa. Cas rise appena, cercando di calmare i suoi bollenti spiriti. – Anche io la pensavo così, ma alla fin fine non ha avuto molta scelta. Sai perfettamente che fine fa chi si ribella o non accetta il posto che gli è stato dato. – Rispose, dandole un buffetto sulla guancia pallida.

La ragazza si ritrasse scherzosamente. – Dorothy la penserebbe come me, comunque. –

Castiel si girò ad osservarla con cipiglio sorpreso. – Ma tu guarda, nel giro di dieci minuti avrai nominato questa Dorothy almeno ventidue volte, mia cara. – la punzecchiò, sentendo l'irrefrenabile bisogno di farsi due risate.

– Lasciami in pace. È solo... più speciale del previsto.

– Anche Dean era più speciale del previsto, sai?

Charlie si stinse nelle spalle. Stava per dire qualcosa, di importante anche e forse, ma successe tutto così in fretta che Cas ebbe problemi a catalogare ogni avvenimento come separato dagli altri. Prima, il suono della sirena, il richiamo nello spiazzo di raccolta davanti all'ingresso. Gente che spingeva, donne che urlavano, bambini che piangevano. Gli uomini imprecavano e chiedevano informazioni ai vicini, i cani della Gestapo che abbaiavano feroci ai lati del muro balzavano in avanti pronti ad attaccare chiunque tentasse la fuga in quel chiasso infernale. Charlie fu veloce ed afferrò la mano del ragazzo, e si strinsero insieme decisi a non perdersi di vista per nulla al mondo.

– Che diamine sta... – Provò a farsi sentire senza alcun successo e Charlie scosse la testa aggrappandosi al suo braccio mentre la folla minacciava di trascinarla via nei suoi flutti potenti e mossi dalla paura.

Un agente, con appuntate al petto diverse spille che indicavano l'alto grado nella polizia nazista, si arrampicò su un soppalco e, in un tedesco talmente aggressivo da far venire i brividi a Castiel, gridò: – Uomini a destra! Donne e mocciosi a sinistra! –

la paura era tale che il compito fu svolto in meno di un minuto, e Castiel sentì le dita sottili della ragazza abbandonargli il braccio. Fu come perdere il proprio salvagente in mezzo al mare. Si sentì sopraffatto e non potè fare altro che seguire gli uomini sul lato destro della piazza. Il corridoio in mezzo ai due gruppi fu allargato dal passaggio dei cani, che latrarono producendo lo stesso suono di una motocicletta, mostrando i canini sino alle gengive e fissandoli con gli occhi pieni di ferocia animalesca. Tutti si ritrassero, e nello spazio gremito di gente confusa e spaventata si aprì un varco abbastanza grande da far passare un carro armato. Le cose ripresero ad andare veloci subito dopo, e in un qualche modo Cas si ritrovò a marciare in strada con gli altri, le braccia abbandonate lungo i fianchi come se non sapesse cosa farne. Guardò qualche coraggioso (o forse stupido) tentare la fuga tra una guardia e l'altra, ma un solo sparo metteva a tacere lo scalpiccio concitato di questi seccandoli al suolo. Il sangue scivolava raggrumando la polvere dell'asfalto e impregnando quel po' di neve che era rimasta sulle strade, rendendola macchiata di omicidio.

Tra spintoni ed ordini tuonati in tedesco, fu questione di minuti. Tutti gli uomini vennero stipati in quelli che erano appena cinque vagoni bestiame (come fossero arrivati alla stazione, Cas preferì non domandarselo) e chiusi a chiave.

Lo stavano portando via.

C'era stato un malinteso, ma loro non potevano sapere... loro non sapevano nulla.

Sentì il panico montare e montare nel suo petto, soffocarlo, stringerlo in artigli gelidi e incandescenti, sentì il sangue circolare impazzito ed il respiro morirgli in gola. Le urla attorno a lui appartenevano ai suoi incubi, e sentirle così vicine, così vere, così disperate e infelici lo uccideva.

Nomi esclamati, lacrime versate, Castiel venne sbattuto contro la parete di legno marcio e come cercò un appiglio percepì le schegge penetrargli la carne. Corpi premuti assieme, la paura serpeggiava solo per il contatto fisico con tutte quelle persone.

E loro non sapevano. Nulla, non sapevano, ma Cas era certo, quei treni partivano pieni e tornavano vuoti. Alla fine la sua paura era vera come una pugnalata, vera com'è vero che sarebbe morto e voleva Dean accanto a sé a dirgli che sarebbe andato tutto bene, che se la sarebbero cavata come sempre.

E allora, allora basta. Se erano i suoi ultimi giorni, li avrebbe vissuti da onesto.

Per colpa delle bugie, Dean era costretto a fare del male a delle perone. Per colpa delle bugie, lui era stato deportato su un treno sudicio e sovrappopolato. Cercò il proprio braccio destro in quella mescolanza di corpi affamati e assetati, impauriti e stanchi dopo ore di viaggio. Strappò la fascia con la stella e la gettò via. Attese l'arrivo con le lacrime agli occhi, come tutti gli altri.

 

 

All'arrivo, fu anche più caotico, a ognuno venne chiesta la propria età, e in base ad essa li colpivano con la canna del fucile la spalla destra o sinistra a seconda di dove si dovesse procedere. Castiel ricevette una portentosa botta dritta sul gomito, e venne spedito in un gruppetto di altri ragazzi e uomini fra i quindici e sessant'anni. Da altri treni scesero altri prigionieri, che confusi brancolarono nel buio della sera aggregandosi sconclusionatamente alla propria combriccola.

Cosa ci faranno adesso? – chiese una voce acerba dietro di lui in francese. Un ragazzo di circa diciassette anni lo fissava con gli occhi grigi aperti e spaventati, le lacrime seccate sulla faccia creavano una sottilissima patina traslucida che gli conferiva un viso innocente e quasi angelico. Cas sapeva veramente poco di francese, ma qualche parola ancora la masticava, quindi rispose con uno sconsolato “Je ne sais pas.

Je m'appelle Samandriel. – disse il ragazzino, finendogli praticamente in braccio dopo essere stato urtato da un tizio tutto muscoli spaventato tanto quanto loro.

Castiel. Moi, je suis Castiel. – si strinsero la mano e furono subito separati. Di nuovo, vennero condotti in posti sconosciuti, obbligati a marciare in file di tre attraverso alti cancelli intricati di filo spinato e fango misto a neve e sangue, probabilmente.

Il locale che li ospitò era freddo e l'acqua gli inzuppava i piedi. Furono costretti a spogliarsi e abbandonare i loro vestiti sul pavimento, mentre un getto d'acqua fredda li investì, bagnandoli fino al midollo. Castiel obbedì ad ogni ordine che gli venne abbaiato, seguendo la folla impaurita e cercando di non lasciarsi condizionare dal pessimismo altrui perché il suo gli era già sufficiente. Era come svegliarsi da un incubo e scoprire che il vero incubo era la realtà.

Un tizio ebreo, lì già da tempo probabilmente, gli passò le forbici fra i capelli, lasciandoglieli corti e ruvidi alla militare, e non appena finito lo spintonò via verso una fila di bancate. Attese il suo turno quasi due ore, in preda ad un panico sottile sul punto di esplodere.

Quando giunse di fronte al tedesco in divisa, gli venne lanciata una divisa a strisce, logora e smessa, e prima che potesse mettersela gli venne preso il braccio e tatuato un numero con l'ago e l'inchiostro. Il processo fu brutale e doloroso, il sangue sgorgò fai buchi lasciati sulla pelle macchiando il pigiama che aveva in grembo come un veleno.

Dopodichè, una serie di pezzi di stoffa gli furono messi di fronte, e una scheda sporca accanto ad essi, che mostrava il significato di ciascuno. Cas li esaminò tutti, ma non aveva dubbi su quale avrebbe scelto. Indicò il triangolino scucito e rammendato alle bene meglio di colore rosa pallido. Si beccò un'occhiata di assoluto disprezzo dall'agente, che lo appuntò con una graffetta e lo fece passare oltre per vestirsi.

Fu un attimo: Castiel Novak, americano residente a Colonia, appassionato di letteratura e musica classica, divenne il deportato numero 27450021, accusato di atti immorali e omosessualità, senza un nome e senza una storia. Solo un involucro di carne da macello pronto a lavorare finché le malattie, il freddo, gli stenti o la fatica non lo avrebbero ucciso.

Fissò con la fronte corrugata il triangolino rosa prima di mettersi in marcia con gli altri.

 

 

Decise che ne sarebbe stato orgoglioso per il resto della sua vita.

 

 

 

 

 

 

 

BUONASERA A TUTTI, so che mi odiate, grazie tante.

La domanda è... mi odiate perché il capitolo è insopportabilmente angst o perché è insopportabilmente in ritardo? Okay, avete ragione, non inventerò scusanti a caso, sappiate solo che sono stata in vacanza e non avevo il pc.

Nonostante tutto, spero che questo capitolo vi piaccia, è stato molto doloroso da scrivere. Come sempre, commenti e critiche venite a me e siate tutti accettati, avete il diritto di mangiarmi la faccia.

Vostra, YALA.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 . 1 ***


Mi è dispiaciuto così tanto vedervi tristi e sconvolti per gli accadimenti dell'ultimo capitolo che, da brava persona quale sono (seeee.) mi sono messa lì e ne ho scritto un altro, soprattutto per farmi perdonare del ritardo scorso. Amatemi (no, non lo fate).

Ci vediamo dopo! 

Oh, giusto per puntualizzarlo prima che cominciate a leggere, d'ora in poi alcuni capitoli saranno più brevi, e ospiteranno brevi flashback nei quali racconterò la vita di Dean e Cas prima che venissero separati.

Invece che mettere tutto in un ordine strettamente cronologico, mi è sembrato originale svolgere gli albori della loro storia in ricordi, in più sottocapitoli intitolati “memorie del paradiso, dall'inferno” . Vi devo avvertire che nemmeno questi flash saranno in ordine di tempo, ma si ricollegheranno alle circostanze correnti. Io ... spero di non aver fatto un casino. Scusatemi in anticipo.

Yala

 

 

 

Memorie del paradiso, dall'inferno

Sottocapitolo 1

 

 

Prima di vedere Castiel, Dean aveva avvertito un freddo talmente pungente che quando si trasformò in un caldo tepore temette per qualche secondo di essere morto. La stanza in cui si trovava era buia e gelida, completamente avvolta dalla brina, e sentiva urla lontane traspirare dalle tende bianche leggermente mosse dalla corrente che filtrava dentro.

Non riusciva a percepire il suo corpo, era quasi come se il ghiaccio si fosse infilato nelle sue vene e avesse paralizzato le cellule una per una, costringendole all'immobilità graduale, sempre più pesante e claustrofobica. Fu allora che si svegliò.

Aveva una mano sulla spalla, che lo stringeva con preoccupazione. Sentiva il viso imperlato, la maglietta attaccata al corpo sudato, le dita tremanti. Ora avvertiva sulla pelle un tepore gradevole, e il sollievo del movimento era un piacere che non pensava avrebbe mai sentito di nuovo.

Era stato solo un incubo. Era a casa, al sicuro. Ancora scosso, ma al sicuro.

Seguì il profilo i quel braccio fino alla spalla, poi, il collo ed infine il viso. Qui gli occhi di Castiel lo attraversarono come un dardo, colmi di apprensione.

Dean? – lo chiamò dolcemente. – Cosa è successo? Hai avuto un incubo? –

il biondo si puntellò sui gomiti e scostò le coperte. – Io... sì, non mi ricordo nulla ma sì. – si passò una mano sul viso spolto, le dita tra i capelli li sollevarono in una buffa acconciatura a riccio che sollevarono gli angoli della bocca di Cas.

Ero di sotto a leggere, quando hai urlato. Mi sono spaventato tantissimo.

Attesero alcuni minuti che il ragazzo si calmasse

Dean si sfilò la maglietta, mentre il freddo cominciava di nuovo a stuzzicargli la pelle umida, e sentì subito i polmoni espandersi al sentore di aria fresca. – Grazie, di avermi svegliato. – disse, appallottolando distrattamente l'indumento e gettandolo ai piedi del letto. Cas seguì i suoi movimenti con fin troppa attenzione. Osservò il muscolo della spalla guizzare nervoso, ancora teso per lo spavento, e rilassarsi subito dopo come se si fosse riaddormentato sotto una coperta di pelle liscia. Il cervello si spense per qualche secondo, in cui si dimenticò quasi il suo nome.

L'ultima volta che la vicinanza così stretta di Dean gli aveva dato un capogiro avevano quasi finito per farlo. Il ricordo affiorò nella sua mente, una bolla d'aria ormai scoppiata e liberatasi come una fragranza. Si erano bloccati solo perché per Dean sarebbe stata la prima volta con un altro uomo, e lo scendere a patti con un'improvvisa e scomoda inesperienza lo aveva messo alle strette. Castiel invece, non aveva bei ricordi riguardo al sesso. Era stato usato come un oggetto su cui sfogare frustrazione frustrazione altrui di chi viveva lo stesso suo incubo, come se lui non fosse stato nello stesso casino e non provasse le stesse cose. Erano d'accordo che fino al momento giusto, non si sarebbero mossi. E quello, per quanto Dean fosse bello, attraente e vicino a lui, non era il momento in questione.

Per questo Cas si sentì completamente paralizzato ed impotente quando il ragazzo si voltò verso di lui e lo travolse con un bacio così passionale e, va detto, fuori luogo, che lo lasciò spiazzato. Sulle prime i suoi muscoli, completamente scollegati dal cervello spentosi di nuovo nel giro di cinque minuti, si rifiutarono di collaborare. Dean lo spinse giù contro il materasso e si sedette a cavalcioni sul suo bacino, in balia di un'intraprendenza così nuova e piacevole che non gli passò minimamente per la testa di ritrarsi ad essa, e finalmente ricevette una risposta alla sua richiesta. La bocca di Castiel si aprì lasciando che le loro lingue ingaggiassero una lotta per la supremazia, le labbra si muovevano con foga l'e une contro le altre e le mani viaggiavano sui corpi a sondare e saggiare. Il moro gli cinse la vita, stringendolo a sé con forza per sentire il gonfiore nei pantaloni dell'altro farsi sempre più esigente.

Quando si separarono, Dean aveva le labbra pulsanti ma ancora affamante, e si avventò sul suo collo mormorando il suo nome come una litania, lasciando baci soffici ed umidi in una linea invisibile tracciata dall'orecchio alla clavicola. Qui, lasciò il primo morso.

Dean... – mugolò Castiel, serrando le dita sulle sue spalle nude per il dolore.

Shh, Cas, ti amo, shh... – queste ed altre parole apparentemente senza senso uscirono dalla gola del biondo, roche e sconnesse e piene di significato mentre lo baciava e accarezzava e affondava il bacino contro quello del compagno, che rispondeva sollevandosi a creare attrito fra i due corpi tesi ed eccitati. Lo morse di nuovo,con più decisione, per marchiarlo con un segno purpureo che urlava il suo nome come a voler indicare che quella persona gli apparteneva dalla testa ai piedi, con ogni oscuro e complesso anfratto della sua mente.

Senza alcuna esitazione e ormai sulla stessa lunghezza d'onda, Castiel gli sfilò i pantaloni, mentre Dean provvedeva a slacciargli la camicia e mettere a nudo il suo corpo accaldato, per poi accanirsi sulla cintura. L'operazione richiese parecchi secondi, mentre le loro eccitazioni sfregavano l'una contro l'altra e le mani vagavano spudoratamente su ogni centimetro di pelle.

Fu in quel momento che Dean si bloccò. Il suo cuore era in un tumulto così inarrestabile ed estasiante da farlo sembrare sotto l'effetto di una droga, le dita cingevano i fianchi affusolati ma definiti di Cas come se fossero fatte per incastrarsi alla perfezione. Dovette temporeggiare qualche secondo, in cui lo contemplò in adorazione. Incorniciato dalle lenzuola sfatte, con i capelli completamente stravolti e le guance rosse, le pupille dilatate quasi ad inghiottire l'azzurro magnetico delle iridi, i muscoli tesi ed il respiro affannoso erano solo piccoli dettagli, ma Castiel era bellissimo ed era lì con lui, per lui. Alla fine, il desiderio aveva vinto su tutte le insicurezze, le circostanze, le loro storie completamente diverse erano note di una composizione non ancora terminata, ma che esigeva di essere suonata per essere dunque completata.

In un attimo, con un poderoso colpo di reni, le posizioni si ribaltarono e Castiel continuò dove Dean aveva lasciato, torturando la pelle con l'orecchio teso a cogliere ogni sospiro rauco del ragazzo, passando la lingua, assaggiando, massaggiando i pettorali e gli addominali scultorei del compagno.

Cas... – emise un gemito a dir poco erotico percependo il tocco dell'altro vicino alle cosce, il bacino fremette bisognoso.

Cas, ho un po' paura. – confessò, tra un mugolio e l'altro. Il moro non avrebbe voluto fermarsi, ma in totale rispetto nei confronti di Dean alzò la testa e risalì lungo il suo corpo.

Possiamo smettere, se non vuoi. – la sua voce aveva un suono così rauco, profondo e sensuale che il biondo si sentì invadere dall'eccitazione come se fosse stata completamente rinnovata.

No, ti prego, vai avanti. – riuscì ad articolare, spingendo ancora il bacino contro quello del compagno e premendoli insieme. L'erezione di Castiel fu una risposta immediata all'incentivo, e il moro riprese da dove aveva lasciato in sospeso.

Solo... sii clemente, è come essere tornato vergine.

Ssh... andrà tutto bene.

Dean attese quei secondi ebbro ed ubriaco di Castiel. Aveva sempre desiderato il ragazzo dal punto di vista sentimentale, ma quello fisico era una faccenda molto diversa, ed era spaventato, non lo negava.

Ora che si era lasciato andare, ora che aveva messo completamente da parte tutti i principi morali che era sempre stato costretto a dare per scontati, si sentiva come mai prima di allora. Cas era così gentile e passionale allo stesso tempo, così innamorato ed euforico che lo lasciò condurre il gioco senza neanche avergli fatto spiegare le regole prima. Si lasciò manovrare e muovere abilmente come argilla malleabile nelle sue mani, in balia di ansiti e pulsazioni cardiache in accelerazione, e del suo corpo che gridava di essere toccato e bramato. L'espressione assorta e adorante sul viso dell'altro gli infuse così tanta sicurezza che gli andò incontro mentre affondava in lui.

Fu più doloroso di quello che si era aspettato, ma ci badò talmente poco che fu come non aver sofferto per nulla, perché oltre a quello sentiva un piacere talmente puro, sommo e giusto... gli riuscì praticamente naturale assecondare i movimenti dettati da Cas, che ansimava ritmicamente, unendosi del tutto a lui in quella danza. E quando raggiunse il culmine, e buttò la testa all'indietro, sfinito e con ogni muscolo dolorante, potè giurare di aver avuto tutto ciò che gli serviva in quella vita. Non si era mai sentito amato da qualcuno quanto lo amava Castiel, e se fino a quel momento aveva avuto tante occasioni per farsi un'idea lineare, chiara e stereotipata del sesso, allora non aveva mai conosciuto l'amore,e non era mai stato a conoscenza di cosa fare l'amore con qualcuno di cui si è persi e ricambiati significasse.

Significava unirsi completamente ad una persona, spogliarsi della propria impolverata maschera e mettere a nudo le proprie ferite, lasciarsele leccare da una lingua che non era la propria e che donava il sollievo di un balsamo, mettere mente e corpo nelle mani chi aveva il potere ed il privilegio di portarli via da tutto ciò che era dolorosamente e crudelmente ingiusto.

Dean guardò Castiel, steso su un fianco con la testa rifugiata in un suo abbraccio, e Castiel guardò Dean. Non c'era nessuna malizia, nessun pensiero sospeso che nuotava fra di loro in attesa che qualcuno lo respirasse in una frase pronunciata con la voce. Semplicemente, agganciarono i loro occhi gli uni negli altri ed attesero qualcosa. Che venissero bombardati, o che venissero arrestati, che le calamità peggiori si abbattessero su di loro travolgendo ogni cosa, che il mondo si spaccasse a metà e che l'oblio bevesse tutto quanto in un sorso di pure catastrofi; a loro non importava. Forse attendevano tutto ciò per pura vanità, sfidando chiunque a rovinare qualcosa di così perfetto che non avrebbe trasceso un minuto del tempo che avevano a disposizione.

O forse non ci pensavano e basta. Dean pensava solo a quanto Castiel fosse bello, onesto, curioso ed intelligente. Pensava a quanto la sua tenera ingenuità coronasse ogni cosa che lo riguardava, dalle screziature celestiali dei suoi occhi ai cupi pensieri che gli stessi nascondevano quando lo si lasciava pensare troppo a ciò che sarebbe potuto andare storto.

 

 

 

 

15 febbraio 1941 – Dachau, Konzentrazionslager

 

Dean scivolò lentamente lungo la colonna portante e la spallata che urtò con violenza le assi di legno lo destarono velocemente. La prima cosa che la sua pelle subì, tagliente come un coltello, fu il gelo assurdo della landa desolata in cui si trovava. La seconda, fu il dolore fisico di una sirena che urlava nel buio portandolo allo stadio massimo che la pelle d'oca potesse avere, costringendolo a mettersi una mano sull'orecchio destro per proteggerlo dalla fonte di quell'interminabile supplizio.

Riuscì a tirare la cinghia che gli divideva in diagonale il petto e trascinare il fucile davanti a sé facendolo scivolare giù dalla spalla, sporgendosi dal parapetto della torretta di controllo con ancora il peggior stato di confusione degli ultimi giorni sfuriare dentro alla sua testa.

Osservò il perimetro recintato dove, proprio sotto di lui, un deportato stava recidendo servendosi di un attrezzo non identificato i sottili nodi metallici che tenevano insieme i cirri di filo spinato. Dean si sentì sprofondare.

Ormai aveva quasi finito, e se fosse riuscito ad evadere, di sicuro lo avrebbero perso nella tundra di neve che si estendeva per miglia attorno a loro. Sarebbe morto assiderato nel giro di pochi giorni, la neve sarebbe penetrata come spilli di gelido inverno nelle sue ossa e l'avrebbe soffocato mentre al campo, altri dieci, o venti, sarebbero stati fatti fuori.

Il ragazzo imbracciò il fucile, lo puntò sotto di sé, tremante. Morirà comunque, cercò di convincersi, ma per quanto la logica di tale pensiero fosse inconfutabile, sentiva di non voler, non poter uccidere a sangue freddo quello che aveva tutta l'aria di essere un bambino costretto a crescere troppo in fretta e diventare uomo per assicurarsi un futuro da vivo. Così come non avrebbe potuto uccidere nessun altro essere umano con la stessa crudeltà e freddezza.

Ma doveva. Perchè non c'era altro modo. Perché di quei tempi, sembrava che la guerra la si potesse combattere solo con altra guerra, il sangue asciugato con altro sangue. I tagli e le ferite guariti con un ferro ardente.

Lo sparo che scaricò contro la schiena scheletrica del bambino risuonò secco e cattivo, quasi un latrato inferocito ma privo di qualunque vero sentimento.

Le membra cedettero all'istante, la colonna vertebrale echeggiò nel suo rompersi invasa dai proiettili di piombo, e la morte lo avvolse in nuove fasce prima di prenderlo via con sé.

Dean ebbe uno spasimo, si scrollò l'arma di dosso senza nemmeno controllare che la sicura fosse inserita. L'orrore si dipinse rapidamente sul suo volto, e per poco non si mise a piangere, rannicchiato sul legno gonfio di umidità sotto di sé.

Non riusciva a capacitarsi di come le cose si ribaltassero rapidamente, di come la sua mente fosse ancora ostinata a regalargli attimi di serenità mentre il degrado che lo circondava si accaniva per rubargli quel po' di bello che i suoi ricordi gli regalavano.

Un attimo prima stava sognando probabilmente uno dei più bei momenti della sua intera vita. Il profumo di Cas era così nitido, vivo, il calore così piacevole che si era illuso fosse tutto vero. E il successivo, giusto meno di un secondo più tardi, era stato costretto a uccidere quello che avrebbe potuto spacciare per un cugino, o un fratello minore.

Si aggrappò al parapetto stringendo le mani con forza spasmodica al bordo, con il tremendo sentore dello stomaco in subbuglio pronto a restituire il magro pasto di poche ore prima. Trattenne tutto quanto dentro con determinata ostinazione, cercando di concentrarsi sulla simmetrica continuità della Largerstrasse. Era appunto una larga strada completamente infangata, costellata dalle impronte profonde di chi tutti i giorni i detenuti del lager attraversavano incespicando come una massa di corpi privati della loro anima e volontà, in file ordinate più per menefreghismo e remissività che per vero e proprio rispetto dei loro aguzzini. Camminavano stancamente fuori guidati da un sentiero battuto verso uno dei molteplici cantieri di ampliamento, dove per parecchie ore al giorno lavoravano e Dean non li vedeva tornare.

La scena peggiore era sempre quando gli ultimi della lunga fila si lasciavano alle spalle il pesante cancello di ferro e il fango era ancora fresco di nuove impronte e cadaveri di chi cedeva e cadeva pesantemente morto, rischiando di aggrapparsi e far cadere qualcun altro che c'era nella fila dietro.

E chi inciampava, veniva ammazzato. Quindi sì, nella strada grande, chi moriva era chi aveva mollato e chi era stato l'ultimo appiglio di chi aveva mollato. Solo perché quell'ultimo briciolo infinitesimamente piccolo di umanità rimasto nei loro grigi volti era il desiderio di avere qualcuno accanto nell'ultimo viaggio, qualcosa di caldo e ancora vivo da stringere.

Dalla sua postazione poteva vedere stagliate contro la neve le parole in ferro nero “Arbeit Macht Frei”. Il lavoro rende liberi.

Letteralmente. La gente moriva, da quelle parti, per sfruttamento ed eccessivi lavori forzati. E visto che di luce non se ne vedeva più, l'unico modo per ottenere un'agognata libertà, sembrava perdere la vita.

Quei cancelli erano le Porte dell'Inferno, chiamate così sia dai detenuti che dai detentori. Era probabilmente una delle poche cose che li accomunava. Forse l'unica. Tutti, lì dentro, che fossero di religioni e credi diversi, riconoscevano quanto infernale il lager fosse, e d'improvviso ognuno abbandonava la propria idea di averno, che fosse il vivere con la suocera o un luogo infuocato e pieno di roventi catene, ed associava la parola all'ingresso del Campo. SS o condannati, non c'era differenza alcuna.

Dean era lì da appena una settimana, ma gli erano bastate poche ore e un paio di occhi funzionanti per capire da che parte girasse quel mondo di sfruttamento e torture.

La vera guerra non la si combatteva al fronte con le armi. La si combatteva nei Lager, con le proprie braccia e con il sangue della fronte.

 

 

 

Il mattino dopo, appena pochissime ore più tardi, la consueta parata di volti cinerei, infreddoliti e quasi impassibili di fronte alle intemperie (in realtà avevano solo capito che lamentarsi portava a botte destinate alla tumefazione), sfilò sotto di lui. Tenne ben stretto il fucile nonostante gli tremassero le mani e gli occhi minacciassero di piangere, attendendo che gli ultimi piedi si scrostassero dal pantano e che gli ultimi corpi venissero rimossi dal camminamento, poi ne osservò un altro gruppo sostanzioso farsi strada sconclusionatamente in preda al panico.

Nuovi arrivati. Altra carne da martoriare e far lavorare finché ogni osso non si fosse rotto, ma questi erano ancora vigili e si muovevano con una certa varietà di gesti. Separati in gruppi e assegnati a ciascun Block, vennero sistemati nel grande spiazzo di fronte alle baracche, e lo spettacolo iniziò.

Nel Konzentrazionslager di Dachau era rispettabile tradizione che i deportati venissero accolti con le consuete venticinque bastonate, e Dean era certo che mai nella sua vita aveva visto e udito nulla di più abominevole ed animalesco. Nulla di più lontano dall'umano.

Certe guardie speciali, scelte fra i detenuti con accuse di criminalità violenta, venivano messi su quel piedistallo di potere che seguiva appena le SS, e dato loro il diritto di accanirsi sugli altri deportati come meglio credevano: se con violenza grossolana o sottile astuzia erano loro a decidere quali pedine muovere.

Ogni gruppo venne disposto in una fila ordinata, chi era dietro non poteva assistere al supplizio finché non fosse arrivato il proprio turno.

E le urla esplosero. Furono una bomba di echi rotti, spezzati, voci di chi implorava la morte o la libertà, poi i rumori della percossa, del bastone contro la carne che suscitavano quelle grida isteriche e piene di panico, dolore, crollarono al suolo come temporali estivi.

Le voci crepitavano, i bastoni tuonavano. Il cielo diventava più grigio, i pensieri più neri, la paura più spessa e la crudeltà più mostruosa che mai. L'aria assunse il fetore di sangue e angoscia, fu come respirare un veleno che avrebbe contaminato e ucciso ogni cosa nel raggio di miglia.

Il peggio: non erano uno alla volta. Erano tanti, tutti assieme. Donne, uomini, ragazzini, bambini. Voci diverse, ritmi e singhiozzi più o meno serrati. Ma stesso dolore e stesso destino.

Dean si tappò le orecchie e, contro la parete di legno, cominciò a piangere, e a urlare, perché se doveva gridare anche lui per sovrastare quel frastuono, e allora cosa gliene importava, lo avrebbe fatto fino a farsi sanguinare la gola e sputare le proprie corde vocali. Il panico si riversò nelle sue vene e capì che, condannato o meno, quello era l'inferno, e nessuno era veramente salvo fra le sue mura affilate come rasoi.

 

 

Il giorno più brutto avvenne qualche settimana più tardi.

Capitava di tanto in tanto che le SS lontane da casa ricevessero posta, nulla di sospetto nella lettera di una moglie in pensiero o qualche parente che voleva congratularsi per l'importante nuovo incarico di un loro congiunto.

Per questo Dean quando notò la calligrafia accurata di Sam sulla carta non ne fu sorpreso. Ciononostante, ebbe un fremito. Il francobollo fortunatamente era tedesco: ciò significava che suo fratello aveva evitato qualsiasi cosa fosse di stampo americano perché dall'estero la posta veniva controllata ed era soggetta a ficcanasamenti della peggior specie.

La aprì con dita tremanti, cominciò a leggerla con il cuore in tumulto.

Giunto alla fine, desiderò non averlo mai fatto.

 

 

Caro Dean,

è un vero piacere avere tue notizie, io e Jess cominciavamo a temere il peggio e non sapevamo come agire se fosse accaduto qualcosa a qualcuno di voi.

Mi sento davvero sollevato nel sapere che stai bene.

Arrivo subito alle questioni importanti... e no, non pensare che ti avrei mai voltato le spalle, perché se ti è veramente passato per il tuo cervellino un'ipotesi così demenziale sono disposto a tornare lì a nuoto solo per darti una sberla in piena faccia.

Appena ho letto di te e Cas, la prima cosa che ho pensato è che fosse un po'... inusuale. Poi ho pensato “Diamine! Lo sapevo!”

insomma, dovreste cercare di essere un po' più discreti, perché gli sguardi a cuore che vi lanciate lasciano poco all'immaginazione. Sappi che la cosa non mi da fastidio, anzi: sono contento per te, perché da come descrivi il vostro rapporto si direbbe che tu abbia trovato la persona con cui passerai il resto della tua vita. Vi auguro il meglio davvero.

Ovviamente non lo dirò a mamma e papà, so come è fatto lui ed è meglio non rischiare, ma Jess è mia moglie e con lei non posso permettermi di avere segreti: la pensa esattamente come me, il che dimostra che al mondo ci sono persone e persone, e che non tutti sono vostri nemici.

Ora... vorrei non dovertelo dire, perché è chiaro che qualcosa è andato storto, e penso anche di sapere come (mi sono documentato un po').

Dean, mi rincresce tantissimo, so che non sarà facile. Ma Cas qui non c'è.

Sul serio, non è mai arrivato. I nostri genitori sono sani e salvi, un po' scossi dal viaggio e papà non sembra essere per niente contento di essere di nuovo nel Kansas, ma di Cas nemmeno l'ombra.

Mamma ha detto che non si è presentato il giorno della partenza, e nessuno ha avuto sue notizie da una settimana prima: precisamente sette giorni addietro, il Ghetto di Varsavia è stato completamente epurato, vuotato, gli abitanti caricati sui vagoni bestiame e portati nei Lager. So che Charlie viveva lì da qualche anno, e che tu e Castiel facevate a turni nei fine settimana per andare a trovarla.

Sai che non mi piace saltare a conclusioni, ma qui si tratta di fare due più due. E mi dispiace così tanto. Davvero, mi sento male al pensiero.

Dean, i numeri e le date non mentono. Cas si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato, ed è stato portato via.

Non so come prenderai la cosa, ma te ne prego, non fare stupidate. Castiel è molto forte, e ce la farà. Sa che lo stai aspettando. Non smettere mai di aspettarlo.

 

Dean non avrebbe smesso. Nemmeno con il peggior peso gravato su tutto il suo corpo. Non gli avrebbe permesso di schiacciarlo, mai.

Ora si sentiva di nuovo quel bambino fatto di carne da torturare, e veniva martoriato così profondamente che morì dissanguato dalle sue stesse lacrime.

Poi si alzò, bruciò la lettera. E per la prima volta in vita sua, si mise a pregare.

 

 

 

 

NOTA D'AUTRICE IN LACRIME

Premessa: ho PIANTO. Questo capitolo è stato una tortura quasi quanto il precedente.

In primis, perché quella del flashback è stata in assoluto la prima scena a rating arancio che io abbia mai scritto, quindi pace e amore, io ci ho provato.

In secondo luogo, tra la lettera, gli orrori del campo, la morte, le urla... non è stato bello nemmeno per me. Ma spero che sia all'altezza del resto della storia.

Dunque-unque-unque-unque.... è l'una di notte e la mia schiena è paralizzata, amatemi perché vi ho aggiornati in fretta delle solite catastrofi...

buona notte a me, e buona lettura a voi ehehhe

 

grazie a tutti quelli che continuano a recensire, mettere nelle preferite barra seguite barra ricordate eccetera, prima o poi risponderò a tutti quanti...

 

vostra, YALA

(che tecnicamente ho reimpostato il nome nel mio super pseudonimo, ma l'editor di EFP non me lo cambia, santa ciabatta)

In attesa, vostra Billie (Sebster)

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Castiel nutriva poche speranze: solo il cancello d'ingresso del campo di Mauthausen, nero e contorto come fabbricato di ossa rotte e carbonizzate, gli aveva fatto tremare le gambe, la mente ed il cuore, scrollando via molti dei buoni propositi che si era fissato come piccoli promemoria nella testa.

Sin dal primo giorno, furono ben presto cambiati con altri, speranze che al di fuori di quell'osseo perimetro sarebbero sembrati nient'altro sogni di chi non sapeva apprezzare ciò che già possedeva.

Cibo. Acqua. Riposo. Erano tre costanti della vita del deportato medio, i tre pensieri fissi che galleggiavano nelle loro teste come l'unico vocabolario che fosse rimasto intatto durante la transizioni che li aveva portati da essere umani a creature senza anima né voglia di vivere.

Il problema lo si aggirava fin quando non ci si rendeva conto che i deportati, nella loro specie così scartata ed appallottolata come un foglio pronto per essere bruciato, non avevano nulla.

Solo il pigiama a righe, il loro numero e e una fame così violenta e pungente da assumere una presenza quasi concreta, una voragine nello stomaco che si contorceva attorno al vuoto di cui era piena. Venivano derubati del loro nome, della loro dignità con la stessa facilità con la quale si rubano le caramelle ad un bambino.

Ebbene, lì erano tutti bambini. Castiel lo realizzò fin da subito, una realtà così prepotente da afferrarlo per il colletto e scuoterlo forte. Erano bambini nel buio, disperatamente allungavano le braccia alla ricerca di una mano che li guidasse fuori da quel nero vischioso, troppo terrorizzati per piangere e assillati dalle proprie domande che non facevano altro se non sommarsi l'una all'altra nelle loro teste.

Erano piccoli quando li rasavano in tutto il corpo, impotenti sotto gli ordini ringhiati e nelle loro file ancora disordinate. Inesperti nell'allinearsi come un plotone ben addestrato.

– File da cinque, un braccio di distanza. – un ufficiale si fece strada avendo cura di non farsi toccare, come temendo di contrarre la misteriosa malattia che li aveva tutti condotti lì. Alcuni eseguirono subito, altri si guardarono attorno spaesati stringendosi nelle spalle, cercando di comprendere guardando i movimenti altrui lenti ed impacciati.

Un uomo, un ebreo dal viso scarno, si mise in testa al gruppo ed urlò in più lingue lo stesso ordine, prima in inglese poi in cieco ed in polacco. L'operazione assunse subito un ritmo più serrato, e tutti si mossero al loro posto con la testa bassa e le braccia abbandonate lungo i fianchi come se non avessero più idea di come usarle.

L'ufficiale contrasse il labbro inferiore e fissò l'uomo con superiorità.

Warst du Lehrer? [eri un insegnante?]– chiese lentamente, come a saggiare la stupidità dell'interlocutore. Questi non si scompose e lo fissò coraggiosamente negli occhi, con il mento alto ed il petto gonfio, senza ostentare alcuna paura.

Ja. Aber man braucht nicht einen Lehrer zu sein, wenn man weiss wie den leuten sprechen. – [Sì, ma non si ha bisogno di essere un insegnante se si sa come parlare alle persone].

Castiel osservò la scena con le viscere contratte in una morsa d'ansia: l'SS continuava a fissare il prigioniero con un labbro arricciato, un sorrisetto indifferente a contrargli le guance e gli occhi ridotti a fessure maligne.

Il primo ceffone colpì l'ebreo all'orecchio, con il suono agghiacciante della carne percossa. Il secondo centrò il suo viso con maggiore precisione, e l'impatto gli fece voltare la testa in uno scatto scomposto. L'uomo aveva l'aria di chi procedesse a passi distesi verso la vecchiaia, quindi non ci volle molto perché le ginocchia cominciassero a tremare minacciando di farlo cadere al suolo freddo. L'aguzzino parve rendersene conto e storse una smorfia soddisfatta. Lo aggirò con passo flemmatico, guardandosi attorno come ad assaporare la tensione che serpeggiava fra i presenti, e una volta che gli fu dietro, un colpo ben assestato di manganello frantumò le ginocchia al detenuto. Questi cadde pesantemente battendo la spalla sul selciato duro dello spiazzo in cui erano tutti stati radunati. Se non avesse fatto così freddo, probabilmente si sarebbe sollevata una nuvola di polvere, ma il gelo era tale da bloccare ogni cosa al suo posto. Stessa sorte che fecero gli occhi di Castiel.

Era paralizzato da una velenosa miscela di terrore, rabbia, disgusto, angoscia, odio, tutti così abbondanti in quantità da sentirli salire lentamente come una marea, finché non se ne sentì sopraffatto. Il respiro morì nella sua gola, i suoni divennero più ovattati e densi. Avrebbe voluto piangere, ma non lo fece perché i suoi occhi erano incastrati in quell'angolatura che gli consentiva di abbracciare la scena con lo sguardo senza che avesse modo di sfuggirvi.

Ich denke dass, du nicht verstanden hast. Im Konzentrazionslager bist du nur einen Häftlinge. Und jetzt bist du auch gestorben. – [Penso che tu non abbia capito. Nel Lager, sei solo un Häftlinge. E adesso, sei anche morto.]

Il suo tono faceva suonare quei ringhi quasi gutturali come una specie di beffa, e la rabbia nel corpo di Castiel moltiplicò sensibilmente. Avrebbe voluto fare un passo avanti e prendere a pugni quell'essere disgustoso che tutto si poteva definire tranne che un essere umano. Purtroppo, la paura ed il freddo lo avevano gelato lì, nella sua fila, a sottolineare l'impotenza e l'inferiorità di tutti i presenti.

Guardò quella che ai suoi occhi era solo una bestia mostrare i denti come se fossero state zanne pronte ad avventarsi su quello che ormai non era altro che un pezzo di carne percossa e tumefatta, sanguinante ma ancora troppo gonfia d'orgoglio per strisciare e chiedere pietà e perdono. L'ebreo sollevò il capo e, fra rivoli di sangue e lacrime, riuscì a contrarre la mascella per sputare direttamente sugli scarponi immacolati della guardia.

Questi parve essere travolto da un'ondata d'ira che gli fece salire il sangue alla faccia rendendolo spaventosamente somigliante ad un vulcano sul punto di eruttare e distruggere tutto quanto avesse la sfortuna di ritrovarsi sotto le sue pendici.

Castiel temette che avrebbe fatto aprire il fuoco su tutti loro. Invece ebbe cura di svuotare la giberna della pistola sul pover'uomo che ormai soccombeva senza via d'uscita, continuando a sparare anche dopo che il corpo si era afflosciato esangue e senza vita sul selciato, sorridendo ai lievi tremiti che percorrevano i muscoli ogni qualvolta che una pallottola si faceva strada nella carne; nutrendosi del suo stesso sadismo.

Completata l'opera, lanciò la pistola a uno dei deportati con il triangolino verde, che se la strinse al petto con espressione soddisfatta e cominciò la conta del primo mattino.

Castiel aveva abbastanza idea di chi fossero, nonostante fosse lì da nemmeno ventiquattro ore. Li chiamavano Kapo, o Kapò. Deportati come tutti gli altri cani affamati costretti in quella prigione di Lavori forzati e stenti infernali, erano quelli che mantenevano l'ordine, gli unici tramiti che intercorrevano fra le SS e i detenuti. Prigionieri a causa di sentenze penali che li accusavano di violenza verso il prossimo e dei crimini più svariati, erano ritenuti quelli più adatti a sporcarsi le mani se c'era qualcuno da punire, fustigare o uccidere, perché rispetto agli altri ritrovavano un piacere quasi orgasmico nell'arrecare dolore fisico a chi sembrava averne bisogno.

Le SS non si vedevano quasi mai. Perlomeno, non all'interno del campo, perché quando il lavoro li portava fuori a costruire manualmente la ferrovia, li assistevano nel transito dal cantiere ai cancelli. Solo perché i Kapò nutrivano la stessa fame schiacciante di libertà di chi ancora si ricordava che c'era un mondo esterno in cui avere dei diritti, e quindi potevano avere improvvisamente voglia di darsela a gambe. Per quanto sarebbero potuti durare.

Gli altri momenti in cui erano nei paraggi, consistevano nell'appello di mattina e sera. Al resto, in cambio di favoritismi, cibo in più e il diritto a prevalere sugli altri, pensavano i Kapò dal triangolino verde.

Erano come i demoni dell'inferno, intrappolati nella loro stessa dimora ed annoiati al punto da versare sangue vivo e ancora caldo pur di avere un giocattolo in più su cui sfogarsi.

 

 

Sin da subito, a Castiel fu chiaro che, nonostante fossero tutti sulla stessa nave che colava a picco in un oceano di ghiaccio, esistevano le discriminazioni anche in un campo di lavoro.

Nella sua baracca, o Block, abitavano contemporaneamente quasi duemila persone. In un dormitorio che poteva ospitarne, a seconda del numero di brande, appena un centinaio, ne venivano costretti più di trecentocinquanta, al punto che metà di essi dormivano per terra, mentre gli altri si dividevano un letto in due oppure in tre.

Il primo segno di astio giunse già dalle prime ore: era usanza dei nuovi arrivati essere squadrati con ribrezzo ed odio da chi fosse lì da più tempo, perché poteva significare solo una cosa: meno spazio, razioni più piccole, file più lunghe per i bagni e un numero decisamente inferiore di utilità come ciotole, cucchiai, piccoli chiodi e scarpe decenti.

Inoltre, i novellini, erano sempre quelli che commettevano più casini, perché goffi ed inesperti per quanto concernesse le basi del comportamento da Lager, gli orari e gli itinerari. Qualcuno finiva sempre per perdersi, o fissare negli occhi con quella che il più delle volte veniva interpretata come sfida i Kapò, o arrivava in ritardo all'appello dato per fuggitivo o disperso.

Insomma, in ogni caso, qualsivoglia fosse la ragione, se qualcuno arrivava due minuti dopo lasciando la propria fila con l'aspetto di una bocca priva di un dente, altre due o quattro file da cinque venivano fatte camminare avanti con le spalle alle SS armate e fucilate alla schiena. Cas ebbe l'onore di assistere a quella scena una sola volta, e gli fu sufficiente. Il terrore di essere scelto come vittima sacrificale dell'idiozia di un ritardatario o di un codardo che aveva tentato la fuga era niente a confronto qualsiasi cosa avesse mai provato in vita sua.

Era un sentimento intollerabile, quello di ascoltare la ritmica conta procedere in una cantilena annoiata finché per qualche ragione non veniva saltato un numero. A quel punto era come percepire la paura prendere un corpo ed una tangibilità talmente densa e voluminosa che non c'era nulla di più tremendo che avvertire il proprio corpo compresso sotto un tale macigno.

L'unico modo per adattarsi era trovare un veterano dall'aria abbastanza affranta da lasciarsi seguire senza aver nulla da controbattere ed imitarlo in ogni meccanico gesto che veniva compiuto nell'arco dell'interminabile giornata.

Castiel ricevette personalmente molte batoste, sin dalle prime settimane. Il triangolino di stoffa logora e rosa appuntato sul suo petto era un segnale d'allarme che teneva istintivamente lontano chiunque, e riceveva sguardi a mezza via tra il frastornati ed il disgustati. Questo, da chi era stato trasferito con lui. I deportati che da più tempo si trovavano lì, i corpi privi di vita degni del nome che si trascinavano stancamente da una parte all'altra del campo senza mostrare alcuna emozione sui volti cinerei, si limitavano a lanciargli lunghe occhiate sofferenti. Nonostante tutto, Cas non credeva sarebbe mai riuscito a parlare con qualcuno, anche solo per farsi spiegare come funzionavano le cose in quel postaccio. Invece, rimase sorpreso.

Kevin era un ragazzetto basso e smilzo, dal profilo asiatico e gli occhi scuri pieni di un contrastante misto di curiosità e rancore, che spesso si alternavano prevalendo l'uno sull'altra a seconda del giorno e di come si svegliava. La cosa che gli disse in tedesco, la sputò tra un affanno e l'altro aiutandolo a portare sulla spalla una trave metallica che avrebbe raggiunto le altre sulla ferrovia in costruzione.

– Seriamente, non capisco come a te possano piacere gli uomini. –

se non fosse stata una pessima idea cominciare una scazzottata lì, sotto la pioggia scrosciante, con una gamba di fango e neve vecchia a limitare il novanta per cento dei movimenti e le scarpe che gli procuravano vesciche sanguinanti, Castiel non si sarebbe tirato indietro. Qualche secondo dopo valutò l'idea di scansarsi da sotto la trave e guardarlo affondare nel pantano sotto il peso del metallo che avrebbe ugualmente tentato di trasportare da solo, ma riflettendo appurò che in entrambe le circostanze avrebbero fatto fuori sia lui che quel ragazzino petulante.

– E io non capisco come a te possano piacere le donne, quindi siamo pari marmocchio. – si limitò a replicare, arrancando lungo la ferrovia e raggiungendo il punto dove avrebbero dovuto incastrare il carico.

– Guarda che parlo sul serio. E in ogni caso, ho quasi diciotto anni ed ero in una delle classi avanzate, nella mia scuola. – esclamò indignato il ragazzo, cercando di stare al suo passo senza inciampare o scivolare.

– Oh davvero? Allora perché mi suoni incredibilmente stupido? – Castiel strinse i denti e serrò un paio di volte le palpebre. Era fradicio fino al midollo, la schiena era uno sconclusionato concerto di fitte lancinanti, le ginocchia gonfie non trovavano riparo dai tagli del freddo sotto alla logora divisa e le scarpe gli facevano un male assassino. La sera prima, quando le aveva tolte, le vesciche si erano scrostate e avevano cominciato a sanguinare, quindi aveva dovuto tagliare le maniche troppo lunghe per ricavare bendaggi di fortuna che sperava avrebbero impedito il sopraggiungere di un'infezione, ma che non alleviavano affatto il dolore.

Posò al suolo il componente di rotaia e cominciò subito a ripercorrere la strada a ritroso per andare a prendere un altro pezzo. Controllò lo stato delle sue mani, e quando le trovò piene di calli, tagli e rosse per il freddo, distolse immediatamente lo sguardo.

Kevin lo raggiunse allungando il passo.

– Non sono uno stupido. – asserì contrariato dalla precedente osservazione di Castiel.

– Allora evita di fare domande stupide. – il moro gli lanciò un'occhiata velenosa, con la pazienza già agli sgoccioli. Se doveva andare orgoglioso del suo essere, avrebbe protetto quella dignità con unghie e denti, anche da un moccioso irritante come quello lì.

– Mica ti sto attaccando. Solo, guarda che è strano. Insomma, sei l'unico nel nostro Block, o perlomeno nel dormitorio, la gente può pensare che tu ti faccia idee strane e...

– Ehi, imbecille, frena un secondo. – Castiel gli mise una mano sulla spalla e lo costrinse a voltarsi con un brusco strattone, guardandolo dall'alto in basso.

Kevin, dal canto suo, si sentì subito in soggezione. Aveva inquadrato quel tizio perché sembrava mite e coraggioso, ma vedere la rabbia traboccare da quegli occhi innaturalmente blu lo metteva a disagio.

– Chiariamo subito una cosa, ragazzino. Solo perché sono omosessuale non significa che io voglia saltare addosso ad ogni uomo che mi passa accanto, e il fatto che tu o chiunque altro l'abbia pensato è deprecabile ed offensivo nei mie confronti. Io non voglio problemi e se pensi che qui ognuno combatta insieme agli altri, hai ragione fino ad un certo punto perché quando la mannaia calerà sul tuo collo io ci potrò fare ben poco. Quindi, se fino a quel momento voi avere una mano su cui contare evita di dire emerite stronzate, perché sono capace di mollarti qui nel fango a trascinarteli da solo i pezzi della rotaia, sono stato chiaro?

Il ragazzo annuì spaventato, al che Castiel lo spinse lontano da sé e proseguì la marcia verso il prossimo componente metallico, le mani e le spalle che piangevano al solo pensiero di dover trasportare altri duecento chili con la forza di muscoli che si indebolivano ogni giorno di più.

 

 

Quella sera, che per precisare era il crepuscolo di un giorno abbastanza indefinito tra febbraio e marzo, il ragazzo asiatico lo avvicinò con ostentata titubanza, torturandosi le unghie già rotte e sanguinanti e con il capo chino.

– Signore, io...

– Ho un nome. – borbottò Cas, sedendosi contro la parete e tenendosi le ginocchia ancora sanguinanti da una caduta di quel pomeriggio strette al petto. Se ci ripensava sentiva i postumi della paura pungolargli lo stomaco: era un bene che non lo avessero visto, o gli avrebbero sparato.

– Oh. Io sono Kevin. Tu sei...?

– Castiel. E ora lasciami in pace. – Kevin per tutta risposta, si ritagliò un quadratino di spazio sufficientemente grande da contenere il suo corpo magro e si accomodò accanto a lui.

– Okay, Castiel-e-ora-lasciami-in-pace. Sappi solo che volevo scusarmi per oggi, alla ferrovia. Sono stato privo di tatto. Ti accetto comunque, se vorrai essere mio amico.

Cas gli rivolse uno sguardo stupito e si strinse ancora di più nelle spalle, profondamente a disagio. Non aveva mai parlato con nessuno della sua omosessualità, e farlo con qualcuno al di fuori di Dean gli lasciava una sensazione di vuoto tremendamente simile ad una voragine pronta a risucchiare tutto.

Dean. Quel pensiero lo attraversò come un fulmine. Se da una parte ricordarlo gli scaldava il cuore e lo aiutava a combattere più testardamente, dall'altra lo trascinava in un abisso senza fondo di triste nostalgia che minacciava di ancorarlo alla sua disperazione.

Abbandonò la testa contro le ginocchia e lasciò un sospiro.

Se fossi qui sarebbe tutto più facile da sopportare.

– Va tutto bene?

Di nuovo, la prospettiva di mollargli un pugno sul naso si affacciò nella sua mente come una speranza di miglioramento delle tragiche condizioni. Magari dopo.

– No. Solo... mi manca casa. Tutto qui.

Kevin appoggiò la testa alla parete di legno dietro di sé. – A chi lo dici. Mia mamma è stata presa come noi, ma non so dove sia, e ho paura che lei... – la sua voce si incrinò di botto, tanto che Castiel alzò il capo per controllare che non stesse per mettersi a frignare.

In effetti, aveva gli occhi rossi e gonfi, lucidi come una patina d'acqua.

– No... no, io non piangerò, se credi che lo stia per fare. – lo rimbeccò subito, prima che il moro potesse fare domande. – Ho promesso che l'avrei fatto solo il giorno in cui l'avrei rivista. Io non ho mai infranto una promessa, e questa è la più importante di tutte. Non la romperò. – ingoiò il magone che aveva in fondo alla gola e si strofinò le mani sugli avambracci per scacciare un po' del freddo. Se le persone intorno a loro stavano ascoltando, non diedero segno di essere interessati alla questione.

– E tu? Hai qualcuno da cui tornare, immagino. I tuoi genitori, dei fratelli... –

Castiel attese qualche momento, in cui gli ultimi due anni gli passarono davanti agli occhi in un vortice di calore, voci, sorrisi. Dean fece capolino nella sua mente e lo salutò con la sua solita espressione sghemba, le labbra carnose e così buone si sollevarono da una parte, le lentiggini che occhieggiavano dagli zigomi vennero nascoste da un lieve rossore che gli tinse il viso.

– Sì, certo. – mormorò, l'ombra di un sorriso che gli increspava la bocca screpolata.

– Mio marito.

 

 

 

 

 

Angolo della desperescion....

dunque ciao a tutti intanto. Ebbene, ecco il nuovo capitolo, spero che come al solito sia all'altezza degli altri perché mannaggia è stato molto difficile da scrivere.

Soprattutto le parti in tedesco, quindi se qualcuno ha più esperienza di me è libero di bocciarmi e fare tutte le correzioni del caso, sappiate che mi sono impegnata eheheh...

scusate se vi ho lasciati in sospeso con quelle due parole, ma ahimè un po' di sana spannung serve sempre.

Grazie a tutti quelli che recensiscono e leggono, il mio lavoro quando viene apprezzato mi rende felice e più sicura!!

ciao ciao!

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 . 1 ***


*Schiva pomodori, mattoni, bombe incendiarie e John Cena* ehi…… come state…..

okay, va bene, odiatemi quanto vi pare, mi odio anche io, lanciatemi tutto quello che volete, John Cena incluso se vi piace l'idea, so che me lo merito.

Mi dispiace veramente veramente veramente tanto per l'attesa, ma in verità tra la scuola e il fatto che questa ff è piuttosto difficile da scrivere mi sono un po' bloccata (sì, certo, facendomi venire la brillante idea di scriverne un'altra, complimenti Billie, sul serio) e… okay, sono patetica, la smetto.

Ma so come farmi perdonare (circa). In questo capitolo ci sarà una piccola sorpresina, chiamiamolo un ingresso in scena che oddio non posso dirvi altro, ci vediamo di sotto (tenetevi un po' di pomodori da parte, non si sa mai).

Billie Edith

 

Dean non si era mai posto problemi teologici in vita sua, un po' perché non pensava di averne bisogno, un po' perché non era mai stato tentato dall'idea di affidare la poca fede che aveva in qualcuno che non sapeva nemmeno se esistesse o meno.

Di una cosa, però, era abbastanza certo, e le settimane passate come agente della Gestapo rafforzarono di buon grado tale tesi: sapeva che da qualche parte un Dio esisteva, solo che non si fidava di Lui.

E perché avrebbe dovuto? La sua famiglia era dall'altra parte del globo, forse non avrebbe mai più rivisto Charlie, il suo migliore amico aveva smesso di farsi sentire, ogni giorno c'era il rischio che una nazione a casaccio decidesse di avere troppi esplosivi nel proprio arsenale e che quindi era cosa buona e giusta abbandonarli sulle loro teste.

E c'era Castiel. Non aveva dubbi: sarebbe sopravvissuto. L'avrebbe rivisto, sarebbero morti insieme, in un campo di concentramento o sotto una pioggia di proiettili o fra sessantacinque anni in un pensionato, non gliene fregava nulla.

Per questo non si fidava di Dio: il Grande Capo si era preso il disturbo di creare gli esseri umani come si dispongono i pezzi degli scacchi su una scacchiera, poi li aveva abbandonati in autogestione godendosi lo spettacolo del mondo che andava a puttane da sopra una nuvola. Grazie tante, ne era capace anche lui.

 

 

Ebbene, aveva pregato.

Costantemente. Non perché pensava Cas ne avesse bisogno. Cas poteva farcela, credeva in lui, non aveva alcun dubbio. Sapeva quanto fosse forte, quanto bene le sue apparenze timide ed impacciate, il suo modo di osservare e non partecipare celassero un carattere tenace e determinato.

Era lui quello che non ce l'avrebbe fatta. Perché da quando Castiel era piombato nella sua vita, troppo spaventato per accorgersi di aver veramente fatto la differenza per qualcuno, aveva capito che si può programmare la propria esistenza minuto per minuto, ma il fato, il destino o una di quelle stronzate lì, avrebbe fatto succedere qualcosa solo per il gusto di stravolgere tutto. Prenderla bene o male al riguardo era un fatto puramente personale.

Aveva sempre saputo che Cas era importante per lui come nemmeno Sam lo era stato perché era diverso, ma riusciva a riconoscere la pienezza di quel sentimento, quanto colmo e completo lo facesse sentire solo da quando erano stati separati. Il vuoto lasciato era una voragine che risucchiava tutto, e prima o poi sarebbe stato inghiottito per intero, lo sapeva bene.

 

 

 

Sottocapitolo 2

memorie del paradiso, dall'inferno

 

Dean ricordava che la sera prima, andando a letto, aveva notato il cielo scuro e plumbeo sopra alla campagna fioccare timidamente. Niente di particolare insomma, solo una debole e fine pioggerellina che scendeva con una certa flemma fino a sciogliersi sul selciato davanti a casa, senza lasciar segno di esserci stata se non una sottile coltre di umidità.

Quando il mattino dopo si svegliò ( tardi in modo vergognoso, perché di domenica aveva il legale diritto di ogni lavoratore a ignorare sistematicamente il proprio capo), uno spesso e compatto blocco di neve si era accumulato davanti alla porta a causa delle sferzate di vento che di notte avevano frustato la zona senza sosta, e ne rimase piacevolmente sorpreso.

Dopo averla spalata via tutta, operazione che richiese quasi due ore di olio di gomiti suoi e di Sammy, riuscì a liberarsi da ogni impegno e si diresse verso i campi che abbracciavano Colonia. Ovviamente, la neve depositatasi sulle strade non era ancora stata spazzata via. Qualcuno si era alzato di buon grado alle sette per liberare il proprio vialetto di casa, o davanti alle vetrine degli empori, ma il silenzio bianco e sonnacchioso che regnava ancora alle nove era così piacevole che era come se nessuno volesse disturbarlo.

Inoltre, a Dean era sempre piaciuto andare in giro affondando i piedi nella neve fresca e farinosa, sentirla comprimersi e scricchiolare sotto al suo peso. Era uno dei suoni dell'inverno.

Castiel lo stava aspettando seduto sotto alla veranda di casa sua, aveva una sigaretta fra le dita che, rimasta ignorata per parecchi minuti, si era consumata finendo in una macchia sporca di cenere sui gradini ghiacciati. Il suo sguardo era perso nel vuoto, guardava davanti a sé senza veramente soffermarsi su dettagli particolari. Dean sapeva ormai riconoscere quando Cas era bloccato in una spirale tortuosa di pensieri, leggeva queste cose sul suo viso come un libro aperto. Ciononostante, lasciò che si desse il tempo per districarsi da qualsiasi problema a cui stesse facendo fronte nella sua testa e si sedette accanto a lui in attesa.

Era incredibile, se lo ripeteva in continuazione.

Quel ragazzo aveva passato così tanto tempo a vivere in un mondo costruito dentro di sé che ancora faticava ad essere presente anche nella realtà. Dean, dal canto suo, sapeva pazientare.

Il moro si mosse appena riconoscendo la sua presenza e appoggiò la testa alla sua spalla.

Sono scivolato sul ghiaccio. – Annunciò con voce falsamente afflitta.

L'altro emise una piccola risata, stringendosi a lui. – Attento a non impegnarti troppo, eh?

E in più – proseguì Castiel, raggomitolandosi contro il torace del compagno, cosa che lo fece somigliare tremendamente a un gattino infreddolito, – ho imprecato in francese.

Non aspettandosi un'uscita del genere, Dean scoppiò in una risata liberatoria. – Non posso crederci, quando finirai di stupirmi? – ma Cas continuò come se nulla fosse, impegnandosi al massimo per non ridere anche lui. – Io nemmeno mi ricordavo come si impreca in francese! Mi sono quasi spaventato, chissà quante altre cose so che non so di sapere.

Dean si ribaltò all'indietro dal gran che rideva, tenendosi la pancia con le mani. Gli ci vollero un paio di minuti per riprendersi, ma quando smise l'ombra di un sorrido rilassato e soddisfatto gli increspava le labbra.– Potresti essere un angelo e non saperlo… – commentò pensieroso.

Castiel arrossì e si strinse nelle spalle. – Ora esageri. Tanto per cominciare non scivolerei sul ghiaccio, se lo fossi. – Dichiarò, stringendosi nel pesante cappotto invernale. – In secondo luogo, quale glorioso angelo va a perdere la testa per un essere umano?

Dean incrociò le braccia, assolutamente contrariato. – Se l'essere umano in questione sono io, anche l'angelo sfigato di turno, credimi.

Cas inarcò le sopracciglia, sfregandosi le mani sugli avambracci per tenersi al caldo. – Non lo biasimerei.

Però, quanto siamo lusinghieri oggi, eh?

Continuarono così a chiacchierare per parecchi minuti, mezzi stravaccati sulla veranda nonostante fosse ancora umida per la neve, e Dean continuava a guardarlo. Come se tutto quello che aveva davanti gli bastasse per essere felice e dimenticarsi che la fuori la guerra continuava ad imperversare.

I suoi occhi erano così verdi e calmi, e distanti ma vicini perché sembrava che la sua mente viaggiasse miglia all'ora mentre tutto quello a cui pensava era seduto lì.

Non aveva mai provato nulla del genere, ne era sicuro.

Ma lo faceva stare bene, quindi che male c'era?

Rimasero a fissarsi per qualche istante, indecisi se rimanere ancora accoccolati sulla veranda fra strati e strati di vestiti, occasionalmente portando fuori una bevanda calda, un libro e una coperta (ora erano alle fiabe dei fratelli Grimm, e Dean non avrebbe mai pensato che quella roba potesse attrarlo così tanto), oppure andare a fare una passeggiata fino in città.

Qualsiasi decisione stessero per prendere, dovettero cambiare i loro piani. Sentirono la neve smuoversi in lontananza, dove nel frattempo era stata spalata via quasi tutta, e scorsero un furgoncino verde scuro accostarsi al bordo della strada qualche metro più in là.

Scattarono in piedi con la reattività di due molle, pronti a mettere in scena un piano che più di una volta avevano ripassato insieme in caso di necessità, ma con il cuore che batteva a mille. Sebbene sapessero precisamente quale fosse la montatura e le loro battute, la risposta ad ogni domanda che sarebbe stata posta, l'ansia cominciò a farsi strada fra gli indumenti invernali e a pungere più del freddo.

Il primo uomo che ne scese era non troppo alto e magro come un giunco, l'aspetto severo della mandibola squadrata perdeva importanza a causa del colorito pallido e malaticcio del viso. Qualche sparuta ciocca color paglia spuntava da sotto il berretto verde con appuntata la spilla d'oro delle SS, e questo bastava a renderlo spaventoso ed autoritario. Si avvicinò con passo di marcia, impettito come un gallo, i suoi tre uomini che gli trottavano alle spalle rendevano la presenza se possibile più minacciosa.

Dean Winchester? – chiese il primo, squadrandolo torvo. Il ragazzo fece un passo avanti, cercando di non tradire tutta la paura che gli circolava impazzita come un bolide nel corpo.

Sono io.

Mi hanno detto che potevo trovarti qui. Ho un messaggio per te. – disse semplicemente, riducendo gli occhietti malvagi a due fessure scintillanti. Gli porse una lettera bianca, l'unica nota di colore era la ceralacca vermiglia come una goccia di sangue sulla neve.

Lei chi è?

Comandante Luogotenente Alastair. Non ti serve sapere altro. Chiamami Capo, se preferisci.

Dean lo fulminò con lo sguardo. Avrebbe voluto avvicinarsi a Castiel, prenderlo per mano e rientrare in casa, per aspettare il mattino seguente ad aprire la busta. Ovviamente non poteva, ed era chiaro che Alastair volesse vederlo aprirla proprio lì, in quell'istante.

Strappò malamente la chiusura ed estrasse il foglio accuratamente piegato. Il breve testo battuto a macchina non poteva essere più chiaro di così:

 

Io, Fergus Crowley, Capo di stato Maggiore del Deutscher Heer, ex Keiser dello stesso durante la Erster Weltkrieg, in data tre Gennaio 1941 dichiaro formalmente che Dean Winchester, figlio di John Winchester e della consorte Mary Campbell Winchester, è formalmente tenuto a svolgere il compito di guardia scelta nel corpo della Gestapo di vostra onorificenza Adolf Hitler. Pertanto, lo consiglio intimamente al comandante luogotenente Inspektor der Sicherheitspolizei und SD R. K. Alastair della Polizia Segreta come omaggio e favore personale nei confronti della famiglia Winchester, di Hitler e della Nazione tutta.

Cordiali saluti,

Fergus Crowley

Berlin, dritten Januar 1941

 

La prima volta, Dean la lesse a parole alterne per lo sconcerto. La seconda volta, a causa della paura si sentì sprofondare nel suolo come se fosse stato fatto di sabbie mobili. La terza, ringraziò il Signore, gli angeli e gli apostoli ovunque essi fossero che Castiel lo conoscesse abbastanza bene dal tenergli saldamente una spalla prima che l'impulso di avventarsi sugli agenti lo sopraffacesse del tutto.

--Chi è Fergus Crowley? – domandò, con le braccia ancora tremanti per un misto di sensazioni che ormai non era più in grado di distinguere.

Il primo del gruppetto esibì un ghigno, godendosi la scena che, dal suo canto, doveva essere parecchio divertente. – Non ti conviene saperlo.

Dean sentì la rabbia infuriare nel suo torace. – Mi conviene eccome, questo maledetto bastardo mi vuole nella polizia privata di Hitler!

In futuro non l'avrebbe mai ammesso perché Dean era decisamente un tipo troppo orgoglioso per farlo, ma davvero non si aspettava che quel tizio scattasse in avanti così velocemente e gli bloccasse un braccio dietro alla schiena fino a schiacciarlo al suolo e che, in tutta l'operazione, avrebbe subito impotente.

Provò con qualche violento strattone, scalciò e ne gridò di ogni fra parolacce in tedesco e insulti in inglese dei più fantasiosi che gli venissero in mente, ma alla vista della canna metallica si fermò di botto. Il cane emise un sottile clangore metallico abbassandosi, il grilletto era visibilmente a metà percorso.

Cercò allora di voltare la testa di lato nonostante fosse metà immersa nella poltiglia disgustosa di neve e fango, e con la coda dell'occhio riuscì ad intravedere Castiel, il volto cinereo deformato dalla rabbia e dalla paura, venire bloccato per le braccia da due agenti, mentre un terzo lo teneva sotto tiro con la sua arma.

Tentò di scuotersi il peso di Alastair di dosso, ma l'unico risultato fu un ginocchio premuto fra le scapole. Emise un gemito contrariato nell'immobilizzarsi completamente, come un animale feroce su cui hanno fatto effetto dei sedativi.

Ti conviene fare il bravo, eh Dean-o? – L'ufficiale si era chinato in avanti e gli bisbigliava direttamente nell'orecchio quelle parole, che suonavano quasi come una cantilena canzonatoria. La canna gelida era sempre schiacciata contro la sua tempia, ne percepiva un lento respiro uscire dalla sua bocca.

Chi è Crowley? Cosa vuole da me? – Riuscì ad articolare Dean, sputando una boccata di fango. La pressione alla schiena aumentò.

Fidati, – sibilò Alastair – Crowley è uno che vive con un piede all'Inferno, è un pesce di quelli grossi. Se raccomanda a qualcuno come me un ragazzino come te ha le sue valide ragioni. Non ne hai la più pallida idea.

Dean cercò di muoversi, sperando di coglierlo impreparato, ma a quanto pareva, l'addestramento militare impartitogli dal padre non gli era granché d'aiuto. – Che diavolo sai, tu? L'hai letta? Figlio di puttana…

Il comandante rise piano. – Il vapore è un trucchetto che ho imparato ad usare da bambino, non avrei mai pensato che sarebbe tornato utile. In ogni caso, non ti conviene sapere quello che so io.

Dean rimase in silenzio. Alzò di nuovo lo sguardo su Castiel, che aveva cessato di dibattersi e si limitava a fissare in cagnesco i due agenti, quasi come se stesse per ucciderli.

Non lo aveva mai visto veramente arrabbiato, ma era sicuro come di poche altre cose che un Cas incazzato a bestia era certamente l'ultima cosa che quei gradassi avrebbero voluto avere nella loro giornata. Abbassò gli occhi sulla lettera, caduta poco lontano: si stava lentamente inzuppando.

Ci devo pensare. – decretò, sperando che bastasse a farlo alzare da terra. Ovviamente si sbagliava. Il ginocchio del comandante affondò nella sua schiena e percepì un paio di vertebre scricchiolare sotto tutto quel peso. Emise un gemito soffocato di dolore, completamente impotente nella sua posizione di svantaggio. – Temo che tu non abbia altra scelta.

Dean cercò di respirare, ma tra il freddo che penetrava nei vestiti come spilli ghiacciati e l'ossuta articolazione di Alastair incuneata fra le scapole ebbe parecchie difficoltà. Il lato destro della faccia era ormai insensibile.

Perchè mai dovevano volere qualcosa da lui? Cosa c'entrava la sua famiglia?

Suo padre aveva combattuto la Grande Guerra, aveva passato mesi intrappolato in una trincea in attesa di conquistare avamposti che si erano sempre rivelati trappole di iprite e bombe chimiche. Ma effettivamente, non aveva mai detto di aver combattuto per gli inglesi, e se l'ex Keiser diceva che era un favore per lui si insinuò nel ragazzo l'idea che ci fosse qualcosa che John Winchester non gli aveva mai detto a proposito della bandiera sotto cui aveva marciato trent'anni prima.

Avrebbe chiesto al diretto interessato spiegazioni esaurienti, anche se quello si fosse rifiutato gliele avrebbe cavate fuori con ogni mezzo necessario. Che genere di favore doveva al Keiser? E soprattutto, la polizia segreta di Hitler non veniva scelta a caso, si doveva passare attraverso livelli di ammissione interminabili. Con lui era bastata davvero solamente una lettera? Un richiamo all'ultimo conflitto mondiale?

Allo stesso tempo, riflettè su quali benefici avrebbe potuto portare a lui e a Castiel, alla situazione in generale, il diventare parte della Gestapo Locale. Da una posizione così alta, non avrebbero mai sospettato nulla, anche con la storia della foto e della perquisizione…

Okay. Va bene. Ma voglio parlare con Crowley.

Alastiari, finalmente, si scansò di dosso, e l'aria che riprese a circolare nei suoi polmoni fu come un balsamo per la gola lasciata a secco.

Si alzò a fatica, cercando di darsi giù tutta la neve sporca che aveva addosso, con scarsi risultati siccome era ormai tutta impregnata nei vestiti.

Come ti pare, Winchester. Sei un tipo tenace comunque, proprio come tuo padre. – Alastair estrasse un sigaro dalla tasca, se lo mise fra le labbra e lo accese. Perse qualche secondo a fissarlo da dietro la cortina di fumo che usciva dalle sue narici mentre fumava, poi con passo di marcia prese e se ne andò.

 

 

 

John Winchester era un tipo cupo sotto molti punti di vista. Amava la moglie e i suoi figli, teneva alla famiglia più di qualsiasi altra cosa e aveva saputo dimostrarlo egregiamente, ma le occasioni in cui Dean e Sam lo avevano visto sorridere apertamente erano poche. In più, non parlava mai molto di sé. Quando si toccava l'argomento, quando qualcuno che non lo conosceva insisteva nell'udire un qualche aneddoto della Grande Guerra, si limitava sempre a fare un gesto con la mano e rifugiarsi nella sua testa chiudendo fuori tutto e tutti.

Insistere con lui equivaleva a diventare suo nemico. John non aveva mai amato le persone petulanti, come il disordine e la confusione. Non amava nulla che gli ricordasse la guerra, ma aveva comunque insistito perché i suoi figli apprendessero il mestiere delle armi.

Li aveva istruiti sul combattimento corpo a corpo, aveva insegnato loro come usare una pistola e un fucile, così come le tecniche di sopravvivenza basilari in ambienti ostili.

Era silenzioso. Gli piaceva passare del tempo da solo. Dean, per certi versi, lo capiva.

Doveva pur trovare il silenzio di cui aveva bisogno, di tanto in tanto.

Anche Dean in quel momento era da solo. Gli aveva dato un ceffone, la guancia formicolava ancora. Quelli di suo padre erano belli potenti, aveva mani grandi forgiate dal dolore di un'adolescenza mai portata a compimento, era stato un ragazzo costretto a diventare adulto con una baionetta in mano.

Il dolore era improvviso, inevitabile ed acuto. Tutt'ora, incessante. Tuttavia, non aveva versato una lacrima. Parte dell'addestramento impartitogli prevedeva l'essere in grado di non esprimere emozioni, in quanto chi ci è nemico può usarle contro di noi. In particolare, le lacrime erano chiaro segnale di debolezza.

Si passò una mano sullo zigomo, ma la ritrasse immediatamente quando la pelle formicolò.

Come si era aspettato, non l'aveva presa bene. Senza girarci troppo attorno, aveva riferito della lettera, di Alastair e chiesto chi fosse Crowley.

Suo padre, dopo qualche teso secondo di glaciale silenzio, si era alzato così bruscamente da ribaltare la sedia, Mary aveva gridato spaventata ma ciò non aveva impedito al marito di raggiungere il figlio con un paio di ampie falcate e mollargli una sonora sberla in pieno viso. Come gli era stato insegnato, Dean non si mosse e non reagì, si limitò a guardarlo quanto più male gli fosse possibile.

Non devi pormi mai più questa domanda. Hai capito, Dean?

Perchè?

Non sono affari tuoi. Cose che non ho voglia di riesumare.

Ma…

Niente ma! La prossima volta che me lo chiederai non sarò così clemente.

Dean aveva protestato, aveva cercato di farlo ragionare, ma l'unica cosa che gli aveva cavato era stata “Crowley non è affatto una brava persona. È un demone e devi stargli lontano, Dean, non accetterai mai la sua proposta!” e per quanto il figlio insistesse di non avere scelta, era inamovibile. Ormai era chiaro che si sarebbe dovuto arrangiare.

 

Castiel immaginava di dover attendere un po' prima che il compagno tornasse, perché aveva ascoltato abbastanza bene i racconti di Dean sul padre per sapere che certi argomenti erano ben lontani dall'essere un piacevole oggetto di discussione in casa Winchester.

Specie se si trattava del passato del padre.

Non essendo affatto in vena di rimuginare sulla storia dell'agente e supponendo che Dean non sarebbe stato affatto di buon umore decise che probabilmente sarebbe stato carino da parte sua tentare di rendere più leggera la giornata.

A trovare il libro giusto ci mise più di quanto avesse programmato, perché sua nonna aveva la mania di occultare i volumi di ricette con più cura di quanta ce ne mettesse per nascondere i risparmi o i denti d'oro (non che qualcuno fosse mai andato a cercare questi ultimi, comunque). Alla fine, lo scovò dentro al barattolo dove di solito tenevano lo zucchero, e senza stare a porsi troppe domande su come diavolo la vecchia megera avesse avuto la brillante idea di metterlo proprio lì, si rimboccò le maniche.

 

 

Dopo quasi mezz'ora seduto sotto al portico di casa a pensare, Dean stabilì che la cosa migliore era accettare che Alastair lo prendesse sotto la sua ala, tenendosi comunque a debita distanza da quel Crowley nonostante morisse dalla voglia di sapere cos'era successo fra lui e suo padre. Si avviò flemmatico verso casa di Castiel, attento a non essere seguito e guardandosi attorno per assicurarsi che non ci fossero agenti in giro. Si sentì più tranquillo solo una volta che ebbe intravisto la casa del compagno a ridosso della via che si addentrava sempre di più verso la campagna.

Guardando bene dove metteva i piedi per non scivolare sul ghiaccio, entrò dalla porta sul retro (che ormai era pattuito restasse aperta per lui, con l'eventuale chiave sotto allo zerbino) e subito sentì il cervello annebbiarsi per qualche secondo.

Ora, se c'era una cosa di cui Dean era veramente molto esperto, salvo macchine e donne e Castiel, erano le crostate. Avrebbe saputo riconoscerne una da dieci e lode in mezzo secondo, ma quella il cui profumo attraversava tutto il pian terreno doveva essere veramente una meraviglia del creato, perché sentì lo stomaco, fino a quel momento chiuso a causa della litigata col padre, emettere un brontolio affamato decisamente inequivocabile.

Si tolse le scarpe inciampando nei lacci per la fretta e si precipitò in cucina. Lo spettacolo che gli si parò davanti lo lasciò mezzo basito, completamente indeciso se ridere oppure intervenire.

La stanza era in balia del peggior caos avesse mai visto in vita sua, nemmeno Benny era in grado di mettere tale soqquadro nel retrobottega del pub, ma la cosa che più pareva in disordine era Castiel: infarinato dalla testa ai piedi, aveva la camicia mezza fuori dai pantaloni e macchiata di marmellata ai mirtilli, le maniche arrotolate fin sopra al gomito erano irrimediabilmente sporche come il resto degli indumenti. Sotto al viso cosparso in diversi punti di farina, si intravedevano le gote arrossate per la concentrazione, e i capelli non erano mai stati più scompigliati di così.

Non si era nemmeno accorto dell'ingresso di Dean, ed era tutto intento a spostare quella che sì, era decisamente una crostata a dir poco sensazionale anche solo da guardare, dalla teglia al piatto. Con un ultimo misurato gesto la fece delicatamente scivolare da una superficie all'altra e, cogliendolo un po' alla sprovvista, appallottolò la carta da forno e la gettò alle sue spalle con noncuranza, alzando i pugni trionfante.

Oma* resusciterà dalla tomba per congratularsi con me, lo sento.-- asserì, spostando finalmente lo sguardo su Dean, che era talmente indeciso se lasciarsi distrarre dal dolce o dalle braccia toniche e definite di Castiel che aveva semplicemente aperto la bocca in adorazione di entrambe le cose.

Tu… Quella… Oh mio Dio e apostoli del cielo se questo è un sogno non svegliatemi. – dichiarò Dean, avvicinandosi al tavolo per osservare la crostata da vicino.

Vuoi dire che ti è piaciuta?

Che razza di domanda è, certo che sì! – gli gettò le braccia al collo senza interrompere la sua opera contemplativa, che fosse del compagno o della crostata non aveva nemmeno più tanta importanza.

Cas rispose all'abbraccio stringendolo per i fianchi e sorrise divertito. – Dovrebbe essersi raffreddata abbastanza da poterla mangiare, prendo un coltello.

Tesoro, se devo essere del tutto onesto penso che mi sentirei in colpa a mangiarla. – il biondo era veramente ammirato, più di quanto in realtà lasciasse vedere.

Dici sul serio?

Certo che no, prendi il coltello.

Castiel eseguì scuotendo la testa. Tagliò il dolce con precisione millimetrica ed offrì a Dean la prima fetta, praticamente imboccandolo come si fa con i bambini.

Questi roteò gli occhi. Era assolutamente, con tutto il rispetto per Mary ed Hellen, la crostata ai mirtilli più buona che avesse mai mangiato. La pasta era morbida e friabile e la marmellata era ancora un po' tiepida, quindi il calore scacciò quel po' di freddo che gli era rimasto addosso e sciolse tutta la tensione.

Non ti offendi se ho un orgasmo qui e ora, vero?

Questo fu davvero troppo, Cas scoppiò a ridere, gli prese il viso fra le mani e lo baciò.

Se mi rendi partecipe della cosa, prometto che chiuderò un occhio.

 

 

 

 

Note d'autrice che si sente molto in colpa ma sa di meritarselo:

e niente, spero che anche questo capitolo vi piaccia e che non mi odiate veramente tanto.

Insomma, perdonatemi ve ne prego.

Spero che la sorpresina di Crowley sia stata gradita, non dovrete attendere ancora molto per incontrarlo, e la parte fluffosa alla fine ci voleva, anche se Castiel Pasticcere è una cosa ormai scontata ho questa mania e dovevo infilarla per forza da qualche parte (sì, insomma, scusate l'eccesso di mediocrità).

Bacioni a tutti

Billie Edith

*Oma = Nonna

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Salve a tutti, discepoli!

So che probabilmente mi davate già per morta e onestamente nemmeno io sono del tutto certa di potermi definire viva, ma ho deciso di sfruttare le ore della notte, trasformarmi in un gufo iperattivo e con la sola compagnia della mia candela salva-anime propinarvi un nuovo capitolo. Oggi sarà un breve, ma non disperate! (per ora…) perché da qui in poi le cose si faranno più movimentate…

Billie Edith

 

 

– Tuo… che cosa?

Kevin stava guardando Castiel con uno sguardo che non tradiva altro che ingenua perplessità.

Quest'ultimo non si scomodò a rispondere. Aveva troppo male alla schiena (o a qualsiasi altra parte del corpo che fosse ancora abbastanza attiva da mandare impulsi nervosi al cervello) per sostenere una conversazione degna della sua definizione.

– Ma due uomini possono sposarsi? – insistette il ragazzino. Castiel, già pentito di aver fatto cenno a quella storia, si raggomitolò incurvando le spalle e chiudendo gli occhi, sperando che Kevin afferrasse l'antifona e lo lasciasse in pace. Quando mai aveva ragione?

--Allora? Non mi rispondi?

– No.

Uno sbuffo d'aria lo colpì sull'orecchio, segno che l'altro aveva appeno emesso un esagerato verso di stizza. – Con questo tuo ermetismo non giungerai da nessuna parte. – Cercò di contrattaccare, ma ciò servì solo a rendere Castiel ancora più infastidito.

– Forse l'obbiettivo è proprio quello. – Sbottò, più forte di quanto avesse voluto. Qualcuno, che già da prima stava origliando assistendo di sottecchi alla scena, si voltò a guardarlo con sorpresa.

– Non ho intenzione di raccontarti ogni singolo dettaglio della mia vita con lui. È una cosa che abbiamo fatto in segreto, tra di noi. Ci basta essere gli unici a saperlo.– replicò in tono piatto, lanciandogli un'occhiata indifferente.

Kevin si fissa le mani. – Scusami per l'invadenza.

Non parlarono più per il resto della serata. Ognuno riprese a farsi gli affari propri, ad ascoltare aneddoti di veterani della prima guerra mondiale o a cercare di prendere sonno ignorando i crampi allo stomaco.

Non ebbero mai più dei veri e propri dialoghi. Si parlavano a monosillabi e fraseggiavano con piccoli gesti. Castiel, ad esempio, quando notava che la razione di cibo del ragazzino era più scarsa della sua, senza farsi notare dalle guardie ne travasava un po' dalla sua scodella. Kevin, in cambio, molto più gracile e veloce, gli aveva dato un cucchiaio rubato ad un deportato polacco.

All'inizio, quella cosa dei furti non aveva affatto convinto il giovane americano, che si limitava ad assistere in silenzio ad un episodio ogni tanto, persone che si fregavano vicendevolmente piccoli oggetti come posate arrugginite, chiodi o pezzi di spago. Ma gli era bastata una settimana scarsa per apprendere che era uno dei pochi modi per garantirsi le poche cose di cui necessitavano, senza sentirsi in colpa al riguardo.

La regola numero uno era che l'egoismo, in un campo di concentramento, salvava più vite dell'eroismo.

Nel giro di un mese si era appropriato di un minuscolo cubetto di sapone all'acido fenico, una forchetta con i denti spezzati, il laccio di una scarpa ed un pezzo di cuoio di scarto dalle pelletterie che usava come prevenzione per i calli ai talloni. Il cucchiaio gli fu dato da Kevin quando Oliver (francese, lo superava di una testa in altezza) gli aveva rubato l'unica posata che aveva preso.

Il ragazzino aveva smesso di rompergli le scatole. Condividevano la branda e, occasionalmente, un quadratino di pavimento, scaldandosi a vicenda in inverno. All'inizio Kevin era sembrato molto restio a dormire così appresso a Castiel: gli omosessuali non erano comunque ben visti da nessuno. Ma quando aveva capito quanto il giovane dagli occhi azzurri fosse innocuo, si era visto costretto a fidarsi di lui.

Le cose procedettero stranamente monotone per alcuni mesi. Non per questo, fu tutto meno doloroso.

La mancanza di Dean lo corrodeva come il fuoco e, nonostante per certi momenti fosse in grado di accantonare il pensiero, la sua assenza lo colpiva come un pugno nello stomaco.

Dopo un anno, Castiel aveva alle spalle nessun tentativo di fuga, ventisei fustigazioni, otto minacce di morte, cinque pezzi di posate fra quelle che aveva rubato e quelle che si era fatto rubare e almeno quindici chili in meno. Poteva contarsi le costole, le sue braccia avevano mantenuto tono muscolare solo grazie ai lavori forzati e tutte le assi di rotaie che aveva portato su e giù per la piana spoglia che circondava il Konzentrationslager.

Aveva scoperto che, se possibile, l'estate in quell'inferno era peggio dell'inverno.

Il caldo afoso portava ad una violenta spossatezza, attirava insetti e le loro malattie, e le notti erano insonni a causa di tutti i corpi caldi ammassati l'uno contro l'altro. Verso luglio, per fortuna, non ci fu più bisogno di montare la ferrovia, e vennero mandati alle fonderie. Trasportare incudini, sicuramente, richiedeva maggiore sforzo, ma essendo tutti spediti su camion esterni non erano ustionanti come il metallo e scottature sanguinanti sulle mani guarirono relativamente in fretta.

Cambiò, in quattrocento giorni, almeno dieci paia di scarpe. Se non avesse usato lo spago per tenere insieme la suola probabilmente sarebbero state di più, e comunque doveva arrangiarsi perché altre non potevano averne. Nonostante il numero di morti fosse quasi pari a quello dei nuovi arrivati, il vestiario scarseggiava sempre, e quindi dovevano aver cura di lavare il proprio con assiduità. Mentre nei mesi freddi era una tortura dover indossare la camicia ed i pantaloni ancora umidi, in estate era sempre un giorno particolarmente migliore degli altri, perché riuscivano a stare freschi per un'oretta o due.

A causa di ciò, proprio quando credeva che dopo una breve epidemia di tifo niente di più piccolo di un proiettile l'avrebbe abbattuto, Castiel si prese probabilmente il peggior raffreddore di tutta la sua vita.

Il KB, letto Ka-Be e acronimo di Krankenbau, era probabilmente l'unico luogo in tutto il Lager in cui un detenuto si augurasse di finire, anche a costo di scorticarsi una mano a morsi.

Intanto, era molto meno affollata, tanto che c'era un letto ciascuno e comunque uno o due avanzavano sempre. Poi, chi alloggiava nel KB riceveva sempre una razione più abbondante di cibo e d'inverno era riscaldato. Castiel vi passò quasi cinque giorni. La sua permanenza nell'infermeria lo esonerò per una settimana dai lavori forzati.

In un qualche modo, però, chi usciva dal KB era sempre il primo preso di mira dai Kapò, e lui non fu da meno. Prese più bastonate e frustate in quel mese successivo che in tutto il resto del soggiorno.

 

Il mattino del tre marzo preannunciava una giornata carica di pioggia. Il cielo plumbeo era solcato da strascichi di nuvole dense e nere, l'aria era fredda e nell'erba rinsecchita intorno alle baracche si posava ancora un sottilissimo strato di brina. Quell'anno, l'inverno si stava protraendo a fatica accavallandosi alla primavera, rabbuiandola di nubi cariche di pioggia e rendendo ghiacciati i pavimenti dei Block.

La sveglia fu prima del solito. Quando due Kapò fecero letteralmente irruzione nella baracca, armati di manganello, menando fendenti per svegliare tutti gli Haftlinge, Castiel fu uno dei primi ad alzarsi. Il suo sonno, nonostante la spossatezza prostrante che lo portava ad essere stanco morto ogni sera, era comunque vigile e leggero. Aveva imparato a non allungare troppo il tempo di reazione ai comandi dei superiori.

Capì immediatamente che qualcosa non andava. Era notte fonda, forse nemmeno l'una, e l'alba non si era ancora affacciata all'orizzonte. Il buio era lacerato dai fari delle torrette di guardia agli angoli della piazza nord. L'ombra dei cancelli e del filo spinato era agghiacciante, si proiettavano sull'asfalto sporco come una serie di sbilenchi ed affamati sorrisi.

Si guardò alle spalle, mentre procedeva speditamente verso l'area aperta, alla ricerca di Kevin, ma il ragazzino era sparito. Ebbe un debole moto di preoccupazione mosso da puro egoismo, perché se gli fosse successo qualcosa o li avessero separati, trovare qualcuno disposto a condividere le nottate gelide con lui si sarebbe dimostrata un'impresa. Avrebbe dovuto cercare un altro triangolino rosa, ma nella sua baracca era probabilmente l'unico, e non gli era consentito cambiarla.

Giunsero nello spiazzo spoglio, una lieve brezza muoveva la polvere contro un ammasso sudicio al centro, dove tutti i fasci di luce bianca convergevano. C'era un SS.

Non li si vedeva tanto spesso, quindi significava che la cosa era grave. Furono messi in file, le solite cinque schiere di fantasmi bianchi ed infreddoliti, i volti cinerei tutti proiettati verso quell'agglomerato di indumenti insanguinati.

Comparvero altrettanti agenti, di fronte a ciascuna, imbracciando il fucile. Il sesto, che stava in mezzo, era in piedi di fianco al mucchietto, in attesa del silenzio. Quando il cicaleccio confuso ed assonnato si spense impiegando appena in una manciata di secondi, gli sferrò un calcio. Se si aspettava di vedere brandelli di stoffa sporca volare in tutte le direzioni, Castiel ebbe la tetra sorpresa di udire un rumore cupo e scricchiolante. Il corpo rotolò di lato e le braccia di spalancarono ai lati del busto, cadendo flaccide sul selciato. Uno schizzo scuro si rovesciò fuori da uno squarcio sulla tempia destra, impregnandosi fra le fughe delle mattonelle, nei capelli radi, nella terra.

Il ragazzo ebbe un conato di vomito, ma si trattenne. Dopo più di un anno, non si era ancora abituato all'odore del sangue ed alla vista di un cadavere così scompostamente abbandonato al suolo.

Cominciò a provare una paura cieca nell'esatto istante in cui capì come mai fossero stati sbattuti giù dal letto così all'improvviso, perché quel corpo fosse riverso per terra con una scarica di proiettili nel cranio e cosa facessero lì i sei agenti.

Quello al centro spiegò brevemente gli accadimenti dell'ultima ora: il detenuto 3620250 aveva tentato di scappare, ma rimanendo impigliato nel filo spinato, aveva perso tempo, e il faro lo aveva illuminato. Cosa gli fosse successo poi, era evidente, ed il resto ancora da concludersi. Fece un breve cenno agli altri cinque, che si voltarono verso le rispettive file e si misero a vagare fra i deportati.

Ognuno ne avrebbe scelti due.

Castiel sentì i suoi occhi bruciare mentre i passi si facevano man mano più vicini. Ad un certo punto si fermarono, qualche secondo di movimento, un uomo verso i sessanta incespicò sui suoi stessi piedi nel venir buttato fuori dalla fila, poi altro silenzio.

Il sangue gli rombava nelle orecchie, ora stava veramente piangendo, le lacrime erano calde e sapevano di paura, il loro sapore era pungente e salato sulle sue labbra spaccate, la testa faceva male e tutto quello a cui pensava era Dean, Dean, Dean, ditegli che lo amo, Dio ti prego salva Dean, non mi importa se fai ammazzare me, ti prego di salvare lui perché merita di vivere ed è tutta colpa mia per qualsiasi cosa gli sia successa, ti prego salva Dean ovunque egli sia, io sto per morire e mi va bene ma salva Dean.

Il ritmico passeggiare dell'SS si bloccò accanto a lui. Il suo cuore perse almeno due battiti.

Silenzio, guardava per terra. Aspettava di sentire una violenta scossa al braccio, di venire sgraziatamente scaraventato avanti con gli altri. L'SS non diceva nulla, e nemmeno Castiel, ma sapeva che stava fissando lui, probabilmente ghignando in direzione del suo volto piegato dal terrore, emaciato e scavato.

– Castiel? – poco meno di un bisbiglio, ma lo sentì chiaramente.

Altro silenzio. Castiel sollevò lentamente la testa, il cuore in un tumulto insopportabile. Incrociò un paio di occhi color tempesta sormontati da sopracciglia cespugliose. Erano spaventati quanto lo erano i suoi, ma cosa più incredibile, li riconobbe.

– Benny? – Passarono un paio di secondi a fissarsi attoniti. Poi accadde qualcosa di incredibilmente veloce, tanto che il giovane americano non seppe nemmeno seguire tutti i passaggi.

Benny sorrise malevolo, come se finalmente si stesse disfando di qualcosa di sgradevole e ripugnante, lo afferrò per le spalle, lo buttò fuori dalla fila e gli ordinò con un ringhio di marciare avanti. Castiel quasi cadde carponi, ma obbedì troppo terrorizzato ed arrabbiato per protestare. Poi, di nuovo, la voce di Benny lo raggiunse.

– Torna indietro! – latrò, facendo tremare i presenti.

Si sentì afferrare per un braccio e trascinare di peso al suo posto. – Oggi è il tuo giorno fortunato, razza di verme. – e piazzandosi di fronte a lui lo fece retrocedere fino al punto dove era pochi attimi fa. Appena prima di spostarsi gli prese la mano e gli mise dentro qualcosa. Si fissarono per un altro paio di istanti, Castiel ancora con il viso inondato di lacrime, Benny che in una muta preghiera di scuse gli serrava le dita attorno al gomito in una stretta docile ed amichevole.

Poi proseguì e scelse qualcuno in fondo alla fila.

Castiel strinse ciò che Benny gli aveva dato senza abbassare lo sguardo nemmeno una volta. Erano costretti a guardare, assistere impotenti all'esecuzione.

I dieci prescelti vennero allineati su una linea bianca a un paio di metri dalla prima fila, e fu ordinato loro di correre. Se fossero arrivati alla linea successiva senza cadere, avrebbero avuto il diritto di continuare a vivere.

Immediatamente, si lanciarono in avanti, Cas poteva vedere le loro membra (o quello che ne restava) contrarsi in un ultimo sforzo. Corsero per qualche metro, poi cominciarono gli spari, colpi assordanti che echeggiavano nel buio come spettri irrequieti, e uno dopo l'altro si accasciarono al suolo accompagnati da schizzi di sangue, tremendi gemiti e singhiozzi.

C'era un motivo se nessuno dei detenuti era certo dell'esistenza della Linea Successiva.

Benny, fra gli agenti inginocchiati e con ancora il fucile sottobraccio, si alzò e scaricò i bossoli vuoti, voltandosi verso di lui. Gli lanciò uno sguardo carico di tristezza ed angoscia, lo sguardo di chi ha desiderato di essere dall'altra parte della canna. Caricò l'arma in spalla e, con un ultimo cenno, se ne andò.

 

 

Castiel attese che tutti fossero tornati a dormire per allentare la presa su quello che scoprì essere un minuscolo involucro di carta.

Lo aprì il più silenziosamente possibile, scoprendo un messaggio scritto in una calligrafia che riconobbe all'istante. In quell'istante comprese quanto tutto fosse programmato, quanto Benny avesse rischiato per fargli arrivare quel messaggio e quanto fossero stati, anche se per una volta sola, dannatamente fortunati.

Diceva semplicemente “Sto arrivando.”

E occultato fra le pieghe di carta, c'era uno spesso anello d'argento, che portava le iniziali D. W

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